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Il libro

A quasi cinquant’anni dalla sua scomparsa don Lorenzo Milani, prete degli
ultimi e straordinario italiano, tante volte rievocato ma spesso frainteso, non
smette di interrogarci. Eraldo Affinati ne ha raccolto la sfida esistenziale,
ancora aperta e drammaticamente incompiuta, ripercorrendo le strade della sua
avventura breve e fulminante: Firenze, dove nacque da una ricca e colta famiglia con
madre di origine ebraica, frequentò il seminario e morì fra le braccia dei suoi scolari;
Milano, luogo della formazione e della fallita vocazione pittorica; Montespertoli,
sullo sfondo della Gigliola, la prestigiosa villa padronale; Castiglioncello, sede delle
mitiche vacanze estive; San Donato di Calenzano, che vide il giovane viceparroco in
azione nella prima scuola popolare da lui fondata; Barbiana, “penitenziario
ecclesiastico”, in uno sperduto borgo dell’Appennino toscano, incredibile teatro della
sua rivoluzione.
Ma in questo libro, frutto di indagini e perlustrazioni appassionate, tese a
legittimare la scrittura che ne consegue, non troveremo soltanto la storia dell’uomo
con le testimonianze di chi lo frequentò. Affinati ha cercato l’eredità spirituale di don
Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro
alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di
villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell’istruzione africana, ai teppisti
berlinesi, frantumi della storia europea; dagli adolescenti arabi, frenetici e istintivi,
agli italiani di Ellis Island, quando gli immigrati eravamo noi; dalle suore di Pechino
e Benares, pronte ad accogliere i più sfortunati, ai piccoli rapinatori messicani, ai
renitenti alla leva russi, ai ragazzi di Hiroshima, fino ai preti romani, che sembrano
aver dimenticato, per fortuna non tutti, la severa lezione impartita dal priore.
L’autore

Eraldo Affinati è nato a Roma nel 1956. Ha pubblicato


Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj (Marietti, 1992,
Mondadori, 1998); Soldati del 1956 (Marco Nardi, 1993,
Mondadori, 1997); Bandiera bianca (Mondadori, 1995,
Leonardo, 1996); Patto giurato. La poesia di Milo De
Angelis (Tracce, 1996); Campo del sangue (Mondadori,
1997); Uomini pericolosi (Mondadori, 1998); Il nemico
negli occhi (Mondadori, 2001); Un teologo contro Hitler.
Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer (Mondadori, 2002); Secoli di gioventù
(Mondadori, 2004); Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori (Fandango,
2006); La Città dei Ragazzi (Mondadori, 2008); Berlin (Rizzoli, 2009); Peregrin
d’amore. Sotto il cielo degli scrittori d’Italia (Mondadori, 2010); L’11 settembre di
Eddy il ribelle (Gallucci, 2011); Elogio del ripetente (Mondadori, 2013); Vita di vita
(Mondadori, 2014). Ha curato l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern,
Storie dall’Altipiano, nei Meridiani Mondadori (2003). È autore, insieme alla moglie
Anna Luce Lenzi, di Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della
scuola Penny Wirton (Il Margine, vol. 1, 2011, vol. 2, 2015).
Eraldo Affinati

L’UOMO DEL FUTURO


Sulle strade di don Lorenzo Milani
L’uomo del futuro
Una pietra sullo strapiombo

Certi libri ti crescono dentro prima che tu li riconosca. All’inizio si


presentano camuffati da emozioni destinate a perdersi, poi lentamente
conquistano uno spazio stabile e aderiscono alla tua vita, finché non puoi
fare a meno di prenderne atto. Allora è come se riempissi un foglio già
pronto scrivendo sotto dettatura. Credo sia andata così anche con queste
pagine su don Lorenzo Milani: dieci capitoli, composti in seconda persona,
a partire dai luoghi più rappresentativi della sua esistenza, intervallati da
altrettante risonanze recuperate dai miei diari di viaggio intorno al mondo.
Eppure c’è stato un momento che, a posteriori, considero decisivo: il giorno
in cui la presenza di don Milani mi sembrò talmente forte da risultare
ineludibile.
Quell’anno, non essendo commissario agli esami di Stato, avevamo
anticipato le vacanze estive. Eravamo partiti in macchina da Roma.
Superata Firenze, uscimmo a Barberino del Mugello deviando verso
Barbiana. Fu una scelta improvvisa ma, come spesso mi capita, allo stesso
tempo lungamente premeditata. Giunti sul piazzale della canonica,
sentimmo le voci di altri visitatori all’interno della chiesa. Senza entrare,
preferimmo recarci subito alla tomba del priore, dove regnava il silenzio.
L’impressione che ancora oggi ne conservo è quella di una pietra sullo
strapiombo. Appena ci avvicinammo, squillò il cellulare.
Era un redattore del Tg2, edizione nazionale. Avrebbero gradito un mio
commento a una notizia diffusa dall’ANSA : dai primi risultati degli esami di
maturità si evinceva che il numero delle lodi era più alto al Sud che al Nord.
La normativa allora vigente prevedeva che i migliori ricevessero un premio
in denaro.
«Professore, sarebbe disposto a fare una dichiarazione? Potremmo
registrare il suo intervento entro un paio d’ore, in modo da trasmetterlo nel
telegiornale della sera. Ci dica dove si trova e noi le inviamo una troupe.»
Osservando la foto di don Lorenzo Milani sulla lapide, venne spontaneo
chiederci cosa avrebbe detto lui.
«Forse una parolaccia» suggerì mia moglie.
Non son chi fui
Firenze

Lorenzo Milani nacque a Firenze il 27 maggio 1923, in via Principe


Eugenio 9. Oggi è via Antonio Gramsci 25. Dalla stazione di Santa Maria
Novella avrai impiegato circa venti minuti a piedi per raggiungere lo
stabile.
E adesso, cos’hai intenzione di fare?
Per capirlo, accendi gli interruttori della cantina interiore: ci sono tante
scartoffie accumulate nel tempo. La solitudine atroce dei pomeriggi vuoti
trascorsi da bambino. Occasioni perdute. Poesie buttate nel cestino. I
gettoni che infilavi negli autoscontri insieme a quelli che mettevi nei
telefoni delle cabine pubbliche. L’ultima volta che ti sei confessato avevi
tredici anni: andasti a farlo di proposito nella basilica di Santa Maria
Maggiore, all’Esquilino, dove eri stato battezzato. Vecchi jeans che non
indosserai più. Biciclette arrugginite. La giacca di velluto nero
dell’adolescenza stregata. Una Honda Hornet senza forcelle. Guerra e pace
letto per quarantotto ore di seguito.
Fino a che punto siamo padroni di quel che facciamo?
Pascal pensava che si potesse credere in Dio anche soltanto
scommettendo sulla sua esistenza, ma si trattava di una provocazione. La
luce cade sempre dall’alto, come sapeva sant’Agostino.
I pipistrelli volano via.
Chi li ha scacciati? Saranno state le facce dei tuoi duemila studenti che
adesso, di fronte a questa residenza di lusso, girano intorno a te come in un
vortice lungo trent’anni. Ciao Roby! Continui a giocare a pallone? Miriam,
è vero che sei diventata madre di tre figli? Proprio tu, sempre zitta zitta
seduta accanto al finestrone? Alex, che fine hai fatto? Davide, vieni qui,
batti il cinque! Dove abita Romoletto?
Vuoi scrivere ancora sul prete di Barbiana? Dopo tutto quello che è stato
detto? Articoli. Libri. Comizi. Conferenze. Polemiche. Strumentalizzazioni.
Perché caricarsi sulle spalle una soma così pesante? Dovresti leggere
moltissimi testi: passi. Annotarli, prendere appunti: va bene. Visitare un
sacco di posti: d’accordo. Vedere cose e persone: certo. Confessare la tua
insufficienza: ovvio. Non sei mica un esperto. Né, con tutta la buona
volontà, potresti diventarlo. Il tempo stringe. Lui scomparve nel 1967,
quando tu frequentavi le scuole medie. Ti resta in mente una frase che disse
il fruttivendolo ai banchi di piazza Vittorio, dove stavi accompagnando tua
madre a fare la spesa:
«Hai visto, Robbè, er prete de li poveri se n’è annato.»
E quello, probabilmente suo fratello, gli rispose:
«Embè? Morto un papa, se ne fa ’n’artro.»

Attraversi la circonvallazione e ti metti a sedere sotto il piedistallo della


statua di Giuseppe Mazzini, un’opera di Antonio Berti, scultore di basse
committenze, per osservare meglio l’edificio.
Assomiglia a un fortino blindato con le inferriate alle finestre. Una pista
ciclabile passa di fianco al marciapiede. Le automobili sono parcheggiate
fra gli alberi. Il sogno dei boulevard, ai quali evidentemente si richiamava il
piano urbanistico di Giuseppe Poggi, che avrebbe dovuto trasformare la
città, allora capitale d’Italia, in una nuova Parigi, continua a essere l’incubo
dei fiorentini imprigionati nel traffico.
La palazzina verso cui sei rivolto, elegante e distinta in mezzo agli
antichi villini di questa zona un tempo esclusiva, non ha niente che possa
attirarti, se non appunto l’aria da antica dimora lussuosa che il guard-rail,
dieci metri più in là, rende sventata e patetica. La porticina del numero
civico annotato sul tuo diario, posta accanto al passo carrabile del garage
privato, sembra l’uscita secondaria di un museo chiuso per ristrutturazione.
Chissà, forse il vecchio patriota morto esule nella sua terra che vigila
sopra di te, visto di profilo col cappello e il pastrano girato sulla spalla
sinistra, sta sussurrando fra il rombo dei motorini alcune parole dai Doveri
dell’uomo:
“Venga il regno di Dio sulla terra, siccome è nel cielo: sia questa, o
fratelli miei, meglio intesa e applicata che non fu per l’addietro, la vostra
parola di fede, la vostra preghiera: ripetetela e operate perché si verifichi.”
In quella casa nessuno si sarebbe definito religioso. Ma ricchi sì, lo erano
davvero. Albano Milani, padre di Lorenzo, possedeva un patrimonio
immobiliare non indifferente, ereditato in quanto primogenito di una grande
famiglia italiana: questa dimora preziosa in città, contigua a quella del
fratello Giorgio; una tenuta con vari terreni nella campagna di
Montespertoli; una villa sul mare a Castiglioncello.
Ancora più significativa si presentava la radice culturale. Alzi lo sguardo
timoroso verso il grande repubblicano come pensando: altro che Dio e
popolo!
Il bisnonno paterno, Domenico Comparetti, che fece in tempo a farsi
fotografare col piccolo Lorenzo davanti al giardino di casa, romano di
Trastevere, filologo, papirista, epigrafista, nonché senatore del Regno
d’Italia, aveva sposato Elena Raffalovich, ebrea di Odessa, una singolare
figura di pedagogista seguace di Friedrich Wilhelm August Fröbel, i cui
“giardini d’infanzia” volle sperimentare anche a Venezia. I due coniugi, con
caratteri e sensibilità non proprio in sintonia, si separarono presto. Il signor
Comparetti, non avendo avuto discendenti maschi, volle che il suo nome
passasse ai nipoti. E così fu.
Sotto ai tuoi piedi ci sono due fari piantati nell’erba che dovrebbero
accendersi appena verrà buio per illuminare il volto del padre della patria.
Le macchine procedono in fila su entrambi i sensi di marcia. Più lontano,
verso piazzale Donatello, vedi una gru in azione. Il cielo si tinge di scuro. Il
posteggiatore arabo ti chiede se hai da accendere. Arif? Ahmed? Mohamed?
Tutte le finestre dello stabile sono chiuse. Potresti essere un geometra
impegnato a compiere dei rilievi. Scorri i titoli mazziniani di Wikipedia
sullo smartphone: la nuova concezione romantica della storia, la tempesta
del dubbio, la critica al marxismo, la Carboneria, la Giovine Italia, la
Repubblica Romana, la spedizione di Sapri...
Poi torni a Domenico ed Elena, i quali ebbero una sola figlia, Laura
Comparetti, donna colta e appassionata di poesia, che si sposò con Luigi
Adriano Milani, numismatico veronese, studioso di storia antica, nonché
allievo del futuro suocero. Fu lui a scoprire una meravigliosa statua greca,
del 530 avanti Cristo, il cosiddetto “Apollo Milani”, dal nome del donatore.
Oggi tutti lo possono ammirare, insieme ad altri reperti, nella sezione attica
del Museo Archeologico a due passi da qui, di cui peraltro proprio il nonno
di Lorenzo fu direttore; ma per molti anni il Kouros dalle gambe spezzate e
lo sguardo lieto, come potrebbe essere quello delle faccine che corredano i
nostri sms, rallegrò il salone al pianterreno del palazzo di fronte a te.
Luigi Adriano e Laura ebbero quattro bambini, fra i quali Albano, futuro
padre del nostro, laureato in chimica ma con attitudine anche umanistica,
interessato ai motori così come alla musica classica, che si unì ad Alice
Weiss, nata a Trieste nel 1895, sotto l’impero austro-ungarico, da Emilio,
ebreo boemo, commerciante di carbone, amico di Italo Svevo. La ragazza,
prima della Grande Guerra, aveva preso lezioni di lingua inglese da James
Joyce. Suo cugino, Edoardo, allievo di Sigmund Freud, costretto a emigrare
negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali, era stato lo psicanalista di
Umberto Saba.
Se l’Italia fosse una macchina, questi sarebbero alcuni dei suoi
ingranaggi scoperti, vero Giuseppe? Ti aspettavi che sarebbe andata così?
Almeno sulla carta, i valori di libertà, uguaglianza e fraternità per i quali ti
battesti avrebbero dovuto essere assicurati. Ma sino a che punto ciò è
accaduto? La famiglia d’origine nel Vecchio Continente, per non dire
altrove, resta fondamentale. Poi, certo, conta il talento, ma da solo non
basta. Anzi, non vale una cicca. Don Lorenzo ha speso parole, tirato fuori
energie, sputato sangue. Si è messo in gioco bruciandosi le mani. Molti lo
hanno amato, sentendo nel suo gesto una radicalità contagiosa. Altrettanti
gli sono andati contro, credendo che fosse spinto da una forma di
esibizionismo interiore. È morto “nel fuoco della controversia” per usare
un’espressione di Mario Luzi. E ancora oggi continua a dividere.
Albano e Alice si sposarono nel 1919 col rito civile, facendo battezzare i
figli solo nel 1933 per evitare i rischi del nascente antisemitismo fascista:
Adriano, il primogenito, che diventò uno dei più importanti neuropsichiatri
infantili italiani, specializzato nella riabilitazione dei bambini con paralisi
cerebrale; Lorenzo e infine Elena, scomparsa a Pisa nel 2010, dopo essere
stata, insieme alla madre, molto vicina al fratello prete.
Crescere in un contesto come questo significa essere un predestinato. Per
contrapporsi a tale origine bisogna compiere, innanzitutto dentro se stessi,
una rivoluzione. Lacerare i tessuti. Frantumare i bicchieri e, perché no,
impugnare la sciabola. Se non rovesci i banchi del tempio sarà difficile
soltanto immaginare di poter guardare negli occhi chi non è come te. Se la
tua stoffa è speciale, come di certo era quella del fratello minore, nel
momento in cui alzi uno steccato, senza scassinare i lucchetti ricevuti per
chiuderlo, potresti sentire la voglia di sputare sul tappeto rosso che ti hanno
messo sotto i piedi.

Respiri l’aria di Santa Croce, alle spalle della nobile residenza dei Milani, e
ritrovi Vasco Pratolini, nato dieci anni prima di Lorenzo in condizioni molto
diverse dalle sue.
“Le nostre strade puzzano se ci passate: puzza di concia e di stallaggio”
scriveva Valerio, il diarista del Quartiere, che abitava in via de’ Pepi. Come
ha spiegato Fabrizio Borghini in un bel reportage sul ragazzo che volle
gettare alle ortiche la sua matrice preziosa, Lorenzo Milani. Gli anni del
privilegio, sarebbe legittimo chiedersi quali rapporti potessero esserci fra
chi nasceva nei villini qui intorno e chi abitava nelle topaie descritte da
Pratolini. Forse nessuno, eppure non è detto che Lorenzo non abbia gettato
uno sguardo dall’altra parte della barricata.
L’avesse fatto, quella via Pál col fiore marcio nel vaso gli sarebbe
rimasta dentro per sempre come la memoria di uno schiaffo ricevuto in
pieno viso. Ma anche se ciò non fosse accaduto, nel caso in cui Lorenzino
non avesse neppure varcato la soglia di Santa Croce, l’infanzia stessa di
Pratolini, a pugni chiusi nelle tasche rotte, coi nonni poveri, le tristi camere
ammobiliate, gli spazi angusti della città ingobbita dove i giovani troppo
sensibili cercano invano le risposte in grado di placare il loro furore,
comunque lo avrebbe marchiato a fuoco. Perché, di questo sei convinto, noi
non siamo fatti solo delle cose che tocchiamo e vediamo, ma soprattutto di
quelle che non possiamo dominare; anzi, forse è proprio l’incontrollabile,
l’incoercibile, ciò che vive, lavora, prospera e muore a nostra insaputa, a
modificarci davvero. A segnarci con un dito di sangue sulla fronte.
Barbiana, intesa come Sorella Povertà, era sempre stata dietro l’angolo
di casa, anche se tutti facevano finta di non vederla. Mentre Lorenzo
entrava nel seminario del Cestello, in San Frediano, Pratolini, gonfaloniere
stanco, sorprendente goldoniano novecentesco, acquarellista di piazza e fine
dicitore, andava intonando, proprio in questi paraggi, il suo mirabile canto.
Nel 1945, quando il secondogenito di Albano diventava “ostiario lettore”,
Pratolini pubblicava Il quartiere. Volle essere invisibile, fra i suoi Maciste, i
suoi operai, le sue donnine dalle sottane al vento. Uno che si mette sempre
in mezzo al gruppo, confuso nella folla. E mostra un fiuto straordinario per i
dettagli che aggiungono verità alle descrizioni degli interni.
Come dobbiamo usare i pezzi di pan secco?
“Ammolliti nell’acqua e sbriciolati, con un po’ di sale e d’aceto.”
Basta questo per farti compiere il salto dallo scarabocchio al quadro.
Valerio, personaggio icona di Pratolini, impara cosa significa lottare solo
quando, storicamente, è troppo tardi per riuscirci, come accadrà a molti ex
scolari di don Lorenzo, sindacalisti impegnati sul campo delle operazioni, e
accompagna Marisa sistemata alla bell’e meglio nel carretto, allo stesso
modo di Alfio Mosca con Padron ’Ntoni in un finale strepitoso: quello dei
Malavoglia.
La frontiera del quartiere, sbirciata come un fondale all’inizio del
romanzo, stava là dove comincia via Aretina, “coi suoi orti e la sua strada
ferrata, le prime case borghesi, e i villini” e ancora oggi Firenze sembra
sfilacciarsi su verso i primi monti.
Lì ti dirigi, in mezzo al disordine confuso della nuova città, quasi
straniera rispetto a quella che hai appena evocato. Avanzi passo passo con
la testa in subbuglio. È il lavoro che da sempre più t’appassiona: cercare i
rapporti. Scoprire i nessi. Ricucire gli strappi. Mettere in relazione libri e
destini. Uomini e avventure. Sai bene che sarebbe patetica soltanto la
pretesa di voler conoscere la legge che governa i casi, ma di questa illusione
ti nutri.
Seduto sul cassone di un magazzino, accanto al distributore della Q8,
lasci scorrere sul piccolo schermo le foto che hai appena scattato in via
Gramsci: le balaustre alle finestre, le inferriate al pianterreno, il cartello del
divieto d’accesso. E ripensi alla possibilità di scrivere qualcosa sul priore.
Ammesso e non concesso che riuscissi a buttar giù un testo che ti
soddisfa, saresti pronto a fronteggiare le critiche, i rimbrotti, gli scetticismi
di quanti lo conobbero davvero e se lo tengono stretto come se fosse un
tesoro, guai a chi glielo tocca? Vagli a spiegare che i beni non spesi perdono
valore, i tarli distruggono il legno pregiato, ciò che pensi sia solo tuo non è
di nessuno! Non sarebbe meglio comporre un bel romanzo, con il quale non
devi rendere conto a chicchessia, non hai problemi di date da verificare,
frasi da citare, nomi da scegliere, tesi da condividere o contestare?
Ancora una volta ti senti spinto a cercare i luoghi dell’esperienza: dove
trascorse e in quale modo svanì. Tutti, prima di andarsene, lasciano a terra
almeno un pezzo di legno annerito. Tu lo potresti raccogliere, poi te lo
porteresti in giro come se fosse un trofeo.
Attraversi una periferia scalcinata di palazzi a tre piani, supermercati con
parcheggio sotterraneo, officine e ringhiere, laboratori e magazzini, gente
che esce dai negozi con aria distratta e frettolosa. Ingorghi al semaforo, cani
che devono fare i bisogni, mendicanti agli ingressi delle banche. I turisti che
stamattina affollavano l’atrio della stazione sono scomparsi. Qui non si
sente più parlare inglese. Un pensionato è seduto sotto la pensilina: quando
l’autobus arriva sale a fatica, rischiando di cadere in braccio al primo
passeggero.
È come se questa gente ti richiamasse, in una maniera nemmeno troppo
misteriosa, verso l’autore di Lettera a una professoressa. Ti ci porta in
carrozza.
Siamo noi la realtà.
Sul serio? Da ragazzo i professori mi dicevano il contrario.
Ma quando mai?
Ricordo Roman Jakobson e il suo libro Il realismo nell’arte.
Di cosa stai parlando?
Ciò che noi consideriamo vero, può essere finto.
«O bischero!» esclama il pensionato mentre si prepara a scendere alla
prossima fermata.
Voi non potete saperlo, ma erano cose da perderci la testa.
Torni indietro seguendo il filo dei tuoi pensieri. Quando arrivi in piazza
Beccaria ti sembra di riconoscere negli adolescenti di oggi con la lingua
bucata dai piercing i vecchi ragazzi di Pratolini: quelli dei Pratoni della
Zecca coi loro giochi di carte, la zecchinetta e il sette e mezzo, le monete
fatte saltare sull’unghia. È un attimo. Subito la visione s’annebbia.
«Aspettate! Non andate via!»
Nonostante i tuoi richiami, spariscono all’improvviso. Staranno cenando
con uva e fichi sui gradini della chiesa, sotto il cielo più bello del mondo.
Alle elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia cristiana aveva ottenuto
la maggioranza assoluta. La posizione che avrebbero dovuto assumere i
preti, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di enunciarla: pareva ovvia.
Lorenzo invece si schiera dall’altra parte della barricata, spalla a spalla con
Pipetta, il giovane comunista di San Donato di Calenzano; eppure nel
momento in cui glielo scrive, in una lettera che, diciamolo a voce alta, è un
gioiello della letteratura italiana, annuncia il suo tradimento:
Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche
parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco,
ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel
giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e
puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu
non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degna d’un
sacerdote di Cristo: “Beati i... fame e sete”.

Ancora un paio di isolati ed ecco, sei di nuovo in via Gramsci, con le


torrette di cemento armato, la corrente impetuosa delle automobili,
l’orizzonte di gas e metano che diventa un livido blu verso le sette di sera.
Una donna suona al citofono e scompare furtiva dentro al portone.
Il figliolo di Albano si contrappose al lusso di questa antica residenza.
Bisogna partire da qui. Come lo fece e quanto gli costò?
Giacomo Devoto, i cui vocabolari hanno sfogliato generazioni di
studenti, un anno dopo la sua morte, nel giugno 1968, scrisse sulla
“Nazione” una nota riconoscente ma singolarmente perfida che, quando la
leggesti, ti colpì come un sasso lanciato dal cavalcavia:
“Don Milani rovesciò tutta una tradizione familiare, rese irriconoscibile
la sua ascendenza, in tutto salvo in un particolare: la singolare natura di
minoranza, di eccezione. Nonostante la volontà di cancellazione e
trasformazione, non seppe ridursi all’anonimato di un prete di campagna
purchessia. Non seppe nemmeno rinunciare a giudicare. Se il giudizio fu
tante volte perentorio, è perché un’aristocrazia intellettuale si è immersa,
ma non annullata, in un’aristocrazia morale. In lui, che volle e fece il bene,
se ci fu una vittima, fu la carità.”
Consulti il Devoto-Oli cercando una spiegazione che possa renderti
plausibile la stilettata. Scarti la prima accezione del termine carità, in
riferimento alle virtù teologali: chi, in tutta coscienza, potrebbe negare a
don Milani il tentativo di aver cercato “l’amore a Dio come bene supremo e
al prossimo per amore di Dio”? Allo stesso modo la sua esistenza ti sembra
il modello di carità intesa nel senso della “compassione affettuosa,
commiserazione, pietà, aiuto al povero, assistenza al prossimo” cui ci
rimanda la seconda accezione.
E allora, a quale carità pensava il professor Devoto negandola al
signorino di via Principe Eugenio?
Forse quella indicata nella terza chiave interpretativa: “amore, devozione
verso i famigliari e la patria” che Ugo Foscolo plasticamente rappresentò in
un verso del sonetto giovanile Non son chi fui: “Furor di gloria, e carità di
figlio”.
Il professor Devoto non fa prigionieri.
Ma come credere che l’indipendenza di giudizio, l’assunzione di
responsabilità nell’operare una scelta di rottura nei confronti del proprio
mondo sociale e familiare, possa essere ridotta a semplice “aristocrazia
morale” e non venga percepita invece, in senso pieno paolino, alla stregua
di un procedere oltre le nostre stesse convinzioni, accettando la mancanza
di riscontro dell’azione in cui ci impegniamo anche da parte di chi è più
vicino a noi?
Non si capisce l’impronta apocalittica di don Lorenzo, la sua tensione
ansiosa, il suo linguaggio scurrile, non si possono intendere certe
intemperanze, senza considerare la zavorra originaria del Pierino che lui
voleva togliersi di dosso, quasi fosse un marchio infamante, una vergogna
indicibile.
È lì, in quel punto preciso, che dovrai fissare il tuo sguardo: sulle
scarpette bianche che indossa un giovanissimo Lorenzo fotografato accanto
a Giorgio Pasquali, grande filologo amico di famiglia, seduto sul praticello
durante una vacanza alpina, lui che chiederà di venire seppellito con gli
scarponi da montagna. I poveri li avrete sempre con voi, per l’appunto.
S’è fatto tardi ormai in via Antonio Gramsci. Il traffico diminuisce. I
faretti sull’erba illuminano il volto di Giuseppe Mazzini. Hai quasi
l’impressione che sia lui, imprevedibilmente alleato col filosofo sardo, a
impostare la predica. Come è possibile? Due mangiapreti che fanno
comunella?
Noi siamo già nell’Inferno preconizzato da don Milani, pare che dicano.
Ascoltali.

Il Dio-denaro ha vinto. I motori imperano nella testa dei ragazzi. La


pornografia è entrata nella loro esperienza quotidiana. La deflagrazione
del desiderio è compiuta. La politica è corrotta. La scuola è sfasciata. Gli
scolari non sono più capaci di stare attenti. La donna viene massacrata. I
poveri perdono. Il consumo trionfa. La moda ci guida. Il turista ha preso il
posto del viaggiatore. Chi va su Google non legge più se non in modo
estemporaneo e frammentario. La durata della dimensione estetica è
compromessa. Il cinema è stato soppiantato dall’home-video, così come le
biblioteche dall’e-book. Le lingue nazionali sono in crisi. La ricreazione ha
avuto la meglio sullo studio. Il campionato di calcio è diventato un
rollerball televisivo. Il doping contamina lo sport. La droga è consumata da
molte persone. I giornali li comprano in pochi. La Chiesa è stata
compromessa dalla pedofilia. I giovani bestemmiano, bevono e si
ubriacano. I borghesi comandano. Gli operai vogliono diventare come loro.
Le utopie si sono trasformate in flagelli. Le campagne si spopolano perché i
contadini se ne vanno lasciando il posto agli immigrati, che raccolgono i
frutti della terra per pochi euro, puliscono le stalle e danno da mangiare al
bestiame. La Costituzione sembra lettera morta. Cristo è uno slogan di
Papa Francesco. La scrittura assomiglia alla pubblicità. La letteratura è
fantasy, giallo e discorso. Il numero ha vinto sulla qualità. I canoni
sembrano stravolti. Gli stili sono scomparsi. Le gerarchie irriconoscibili. I
sindacati non più all’altezza. La coscienza civile è una favola a cui soltanto
pochi vecchietti paiono ancora disposti a credere. Perfino il celebre motto
“I care” è inutilizzabile dopo essere stato svenduto al Partito democratico.

L’ultima insidia da evitare è proprio questa: convincersi che don Milani non
sia servito a niente. Che sia inutilizzabile. Al contrario, tu pensi che il
quadro appena descritto rappresenti il semplice “succedersi delle stagioni”,
come direbbe il poeta, e il priore continui a esistere trasfigurato in altre
esperienze. Sarebbe dunque vano chiederci cosa farebbe oggi don Lorenzo
Milani e in quale modo potremmo noi spendere il dono prezioso che ci ha
lasciato. Nel mondo c’è già chi, senza averlo mai conosciuto, né sapere
niente di lui, segue il suo esempio.
Tu le hai viste, queste persone. E vuoi raccontarle.
Accendere il fuoco
Gambia, 2012

I maschi indossano pantaloncini corti della Diadora e magliette del


Barcellona. Appena mi vedono restano ipnotizzati di fronte alla mia pelle
bianca. Le femmine hanno vesti multicolori; i doppi orecchini che
esibiscono sul lobo e sui padiglioni auricolari le fanno assomigliare a
bamboline. Vado oltre gli ultimi banchi e gli allievi mi seguono con lo
sguardo torcendo il busto. Appena il maestro li richiama, si rimettono in
posizione.
Vista da dietro, la scolaresca torna a essere una schiera di nuche rivolta
in direzione della lavagna. Deludere le loro aspettative, sprecare i talenti di
cui dispongono, inaridire le fonti del sapere che questi bambini
rappresentano, sarebbe peccato mortale. Stanno seduti ai banchi mezzi
scassati ma pochi hanno penne o matite per scrivere. Recitano se stessi in
bella copia: ciò che dovrebbero essere, se tutto andasse per il verso giusto.
L’aula è un grande ambiente con il pavimento in terra battuta, una vetrata
ai lati, le sedie rosse e blu distribuite intorno ai tavoli, a metà fra sala da
ballo, garage e ripostiglio. Dalla porta d’ingresso sbuca una mucca, incerta
sul da farsi. Il bambino con la scritta “Torres” disegnata sulla maglietta
corre subito a scacciarla via. Batte sulla groppa, grida e strepita finché
l’animale retrocede e lui riprende il suo posto dietro al banco.
Sono arrivato stanchissimo, perché anche stanotte abbiamo dormito fuori
sulla brandina per il caldo. Ogni tanto mi svegliavo, le stelle parevano
cadermi addosso: una griglia luminosa degna di miglior causa, avrei potuto
dire, pensando alla povertà del villaggio in cui mi trovavo, ma la natura è
cieca, non conosce distinzioni sociali. Lo splendore del cielo africano
dispensa le sue meraviglie a chiunque. Io mi sentivo un intruso: ladro di una
bellezza che non meritavo.
Il maestro distribuisce il manuale di lingua inglese. Gli scolari lo fissano
attenti, pronti a rispondere alle domande che fra poco farà. Diversi
sfogliano il quaderno cercando la pagina dove prendere appunti. È un gioco
di teste in movimento. Una macchina di nervi in tensione. La squadra delle
prodezze. In un cartello attaccato alla parete c’è l’elenco degli iscritti, le
materie, l’orario dei docenti. In un altro si leggono alcune avvertenze sulle
norme igieniche da osservare. Prima dell’entrata, in un bugigattolo pieno di
carte, arnesi da lavoro e fogli sparsi, ho visto l’ufficio del preside.
È una delle tante scuole disperse ai margini della foresta, di qua dal
fiume che irriga il più piccolo Paese africano, inserito come una spada
dentro il fodero del Senegal. I maestri vivono con le loro famiglie nelle
stesse capanne di paglia e argilla dove abitano tutti. Arrivano da Banjul, la
capitale, o da Dakar, retribuiti dai governi locali, oppure, nel migliore dei
casi, da fondazioni europee. Bastano pochi dollari per farli partire. Quello
che ho conosciuto io si chiama Alì, è un ragazzo alto, snello, snodato.
Assomiglia a Barak Obama da giovane. Potrebbe essere un pugile, o un
corridore.
Mangio seduto accanto a lui raschiando il riso con le mani dentro la
grande ciotola posta a terra, insieme alla moglie col figlio ancora in fasce.
Saranno le sei del pomeriggio: l’ora della cena perché poi la luce
d’improvviso scompare e ogni azione diventa più difficile. Manca
l’elettricità. I pannelli solari della Comunità europea funzionano poco. Non
c’è l’acqua corrente. L’economia del villaggio dipende dai pozzi, distanti
mezzo chilometro dalle prime abitazioni. Bisogna caricare le damigiane sul
carretto trainato dagli asini e fare la spola dalla mattina alla sera per
soddisfare le varie necessità. Con questi recipienti di plastica, che a noi
servono per trasportare il vino o il carburante, qui ci si lava, si mangia, si fa
tutto.
Il maestro cerca di parlare inglese coi suoi allievi. Conosce anche
l’idioma locale, il polar: si legge “pular” ed è bello sentirlo declamare dai
più piccoli che per farlo aprono la bocca come se dovessero formare una
bolla di sapone.
Alì insegna i verbi, i nomi, costruisce le frasi, detta e corregge. Resterà a
Sare Gubu un anno intero. La mattina sta a scuola. Il pomeriggio va a
trovare i suoi studenti per controllare se fanno gli esercizi. S’intrattiene coi
familiari. Prega nella moschea. Offre consigli. Se c’è da scrivere un
documento ufficiale, l’imam si rivolge a lui. È un ingranaggio essenziale
nella vita della comunità, senza rivestire alcuna carica politica o religiosa.
I bambini nati nelle capanne ai margini del deserto dovranno percorrere
una strada molto più lunga rispetto a quella della maggior parte dei loro
coetanei che abitano in altre zone del mondo. Sono destinati a raggiungere
traguardi intermedi, appesantiti da un ritardo cronico. Imparare a leggere e
scrivere sarebbe già tanto. Non pochi apprezzano i campionati di calcio che
si svolgono nel Vecchio Continente. Guardano le partite della Premier
League, della Bundesliga o della Serie A dai televisori satellitari montati
alla bell’e meglio nei cortili dove la notte vengono ammassate le capre e
sperano di poter diventare un giorno Samuel Eto’o, Drogba, Balotelli,
chissà come, chissà quando.
Osservo il neonato attaccato al seno della moglie di Alì: forse lui ce la
farà a lasciarsi dietro la miseria, perché è il figlio del maestro. Un
privilegiato. La donna potrebbe essere una mia allieva di seconda superiore.
Si alza per prendere qualcosa e, con gesto naturale, senza nemmeno
guardarmi, mi mette il piccolo in braccio.
È un batuffolo d’umanità spumeggiante, un groviglio di cartilagini in
formazione, il nucleo germinale del tempo, non soltanto suo, anche mio, di
tutti noi. Attraverso di lui ripartiamo, ci rimettiamo in moto. Avanti,
ragazzi! Accarezzando il cranio lucido come una palla da biliardo di questo
individuo della mia specie, ho l’impressione di toccare la matrice
dell’insegnamento, il suo senso più compiuto e profondo: consegnare il
testimone. Rinnovare la tradizione. Accendere il fuoco. Baciare il futuro.
Accettare la morte. Alì mi sorride mentre le ombre tropicali implacabili già
ci sommergono, come se avesse intuito ciò che penso.
Il giovin signore
Montespertoli

Scrivi queste note dalla casa di campagna della famiglia Milani, nella tenuta
La Gigliola, appena fuori Montespertoli, a poche decine di chilometri da
Firenze. La villa fu venduta dopo la morte di Lorenzo, ma resta ancora lì,
con tutta la sua forza evocatrice.
Ci sei arrivato al volante della tua nuova Audi A1, duemila turbodiesel,
nera metallizzata, equipaggiamento sportline, comprensivo di impianto
stereofonico Bose, dal quale hai ascoltato la nona sinfonia di Beethoven
eseguita dalla Filarmonica di Berlino, come fossero la scenografia e la
colonna sonora del mondo che lo straordinario personaggio di cui ti stai
occupando avrebbe voluto distruggere. Giunto davanti al cancello che
ancora oggi delimita la proprietà trasformata in un agriturismo a cento euro
a notte, avresti potuto essere uno dei tanti tedeschi che vengono qui a
respirare l’aria della sera e sorseggiare un buon vinello dimenticando il
freddo e la foschia di Hannover o Amburgo.
Quest’automobile, progettata negli uffici di Ingolstadt e assemblata a
Bruxelles, assomiglia molto agli splendidi stivaletti di pelle indossati una
volta da Adele Corradi, la professoressa che affiancò don Milani a Barbiana
negli ultimi anni della sua vita facendo lezione ai ragazzi insieme a lui.
Come racconta lei stessa in Non so se don Lorenzo, i vispi scolari la presero
in giro per il costoso acquisto, finché il parroco non li zittì: “Non aggiunse
altro e fu chiaro che ero giustificata. In quel momento gli ho proprio voluto
bene. Perché non mi lasciava in pace. Mi metteva nella pace”.
Si tratta di un dettaglio lancinante, da porre insieme al gusto del tartufo
che, secondo Adele, Lorenzo conservò negli anni poveri perché, come ha
scritto sempre lei, “nel palato era rimasto borghese”. Nessuno di noi può
dimenticare completamente se stesso. È la memoria del felino che resta
nelle movenze del gatto. Sono le conchiglie sulla battigia dopo una
mareggiata. Il rigore militare nel cipiglio marziale di sant’Ignazio.
Ti alzi e vai alla finestra: hai parcheggiato vicino alla ninfa senza braccia
di fronte alla vecchia casa padronale; esiste una foto del 15 luglio 1942 che
ritrae Lorenzo, accanto alla sorella Elena, intento a dipingere nei suoi
pressi: è rimasto tutto com’era, compresa la biblioteca paterna. Ti viene in
mente la stanzetta all’ultimo piano dell’appartamento cittadino con le
mattonelle color sale e pepe in cui sei cresciuto tu. Senza libri, a parte
l’elenco telefonico. E senza favole. Ognuno ha i suoi condizionamenti. È
tutta una catena.
Credi forse che sia stato facile per lui scrollarsi di dosso questo mantello
prezioso? Sei passato in mezzo allo splendore della campagna toscana, ogni
tanto vedevi scorrere ai tuoi lati un esploso di tetti che annunciava questo o
quel paese: da lontano sembravano struggenti, piccoli paradisi di legno e
cipressi, eppure chissà quanti grovigli isterici prosperavano dentro quelle
mura domestiche, e quali orribili solitudini si stavano formando, allo stesso
modo di cellule tumorali destinate prima o poi a distruggere il nucleo
familiare.
Hai guidato quasi in trance nello scrutinio mentale delle centinaia di
lettere scritte da Lorenzo Milani, perfino le minute che non vennero spedite
e forse dovevano diventare articoli di giornale, ad esempio quella del 30
marzo 1956, intestata a Giampaolo Meucci, l’amico magistrato, dal titolo
Università e pecore, in cui il giovane parroco prefigura l’eterna storia degli
umiliati e degli offesi ritraendoli nel contadino Adolfo e in suo figlio
Adriano, analfabeti costretti a vivere senza luce elettrica nella tenuta del
signorino e a lavorare come muli per mantenere lui e la sua schiatta. Per
trecent’anni era andata così, coi primi a sgobbare nei poderi e gli altri “a far
l’assistente universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e
nelle biblioteche là dove l’uomo somiglia davvero a colui che l’ha creato
che è sola mente e solo sapere”.
La matrice epistolare del furore espressivo da cui prese alimento don
Lorenzo è un tema cruciale per stabilire le condizioni di possibilità della sua
etica. Se egli non avesse avuto un interlocutore cui rivolgersi, ogni pensiero
sarebbe risultato sterile. D’altro canto, nessuna tesi poteva nascere in lui
priva del riscontro dell’esperienza diretta. Non ci ha lasciato trattati
teologici (gli bastavano i dieci comandamenti, insieme all’eucarestia e alla
confessione), ma una sapienza del fare scuola, qui e ora, cogliendo nella
passione pedagogica del maestro l’essenza più autentica del cristianesimo,
inteso quale racconto di sguardi che, incrociandosi, si prendono cura l’uno
dell’altro.
Questo grande scrittore italiano, uno dei più misteriosi fra quelli che si
sono nascosti dietro il proprio talento per cause di forza maggiore, ha
negato se stesso con pervicacia degna dell’ultimo Tolstoj che,
singolarmente contrapposto alla nobile tradizione del canone artistico, verso
la fine della sua esistenza preferiva identificarsi nel mugiko di Jàsnaja
Poljàna, per il quale aveva composto qualche raccontino di pronto uso,
piuttosto che nei creatori di opere immortali cui il pubblico dei seguaci e
ammiratori lo accomunava.

Ad aprirti il cancello è stata Cristina, la giovane rumena che gestisce


l’agriturismo, Adolfo di oggi, cittadina della nuova Europa. Pratica, gentile,
svelta. Dopo che le hai spiegato la ragione per cui sei venuto qui, ti ha
consegnato le chiavi dell’appartamento vicino alla cappella sconsacrata,
senza rendersi conto del regalo che ti stava facendo. Per questa ragione non
smetterai mai di ringraziarla.
Secondo la leggenda, in quella stanzetta spoglia il signorino, per giunta
ebreo, si sarebbe convertito. Dici leggenda perché non hai mai creduto nelle
illuminazioni liriche, pensi che senza l’esercizio quotidiano nessuna
predisposizione si realizzerebbe, dietro ogni carisma immagini sempre un
gruppo di schiavi; tuttavia sai benissimo che la lettera spedita a Oreste del
Buono, compagno di classe al liceo Berchet di Milano, nell’estate del 1942,
è vera e contiene un’affermazione in molti sensi rivelatrice:

Ho trovato un vecchio messale qui a Gigliola, in una cappellina di


proprietà della mia famiglia. Ho letto la Messa. Ma sai che è più
interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?...

Quando scrisse queste righe Lorenzo aveva diciannove anni. Stamattina


hai fatto colazione dentro la Torre, come si chiama la cappellina. L’hanno
trasformata nella reception dell’albergo, anche se l’atmosfera domestica
continua a regnare sovrana. Il computer vicino alla libreria sembra un
intruso. Le sedie, i tavoli e i quadri sono in stile antico. Mentre Cristina,
dopo averti sistemato a tavola, è rientrata in cucina, tu, inzuppando i biscotti
nel caffellatte, ti sei messo in ascolto delle voci che filtrano dai muri della
vecchia cappella. Credi di poterle intendere così:

Pirandello, cioè la frantumazione dell’identità, come dire: la poetica del


Novecento. L’idea che niente possa avere senso o che tutto possa averlo,
indifferentemente. Pensare se stessi in uno schema linguistico, cioè
convenzionale, facendo saltare in aria l’unicità dei fondamenti, quali essi
siano. Affidarsi alla potenza insondabile dei nessi analogici, delle sinestesie
improvvise, essendo disposti a ritrovare così le fedi perdute, al punto che la
divinità, intesa in senso lato, scacciata via a calci nel sedere dal portone
principale dell’analisi logica, potrebbe rientrare in ogni momento dalla
finestrella poetica lasciata socchiusa. Premiare l’inquietudine, la fantasia,
lo smarrimento e, perché no, l’azzardo, la sfida, il delirio. Trasformare
l’artista in un profeta, la legge in un equilibrio prospettico della società
organizzata, le parole in ordigni speciali caricati a salve per sottrarli al
dominio della tribù. Sprofondare nell’inconscio elevando i suoi miasmi a
superiore dignità percettiva. Propugnare la libertà assoluta, convinti della
forza magmatica dell’energia psicofisica. Credere che ogni via percorsa,
qualsiasi precetto, convincimento o proclama, rappresenti un conforto, una
medicina per lenire l’inevitabile solitudine umana. Sentimenti, passioni,
vocazioni sono aree semantiche in disuso. Ogni atto, al di fuori della sua
flagranza, è da ritenersi il frutto della visione di chi lo riporta. Chi pensa di
stringere la verità, sia pure soltanto sua, in un pugno, si ritrova sempre a
mani vuote, insomma è un illuso.
Contro questo noi, spiriti saldi della Torre alla Gigliola, infiltrati nelle
segrete sin dal tempo degli Acciaiuoli, primi feudatari della contrada,
insieme ai vermi, alle formiche, ai pipistrelli, ai rondinotti, nei secoli
abbiamo combattuto. Siamo scesi in campo coi nostri familiari,
matrimonio, famiglia e codici, ma eravamo costretti a fare tutto da soli
perché essi erano stati privati della voce necessaria a difendersi, relegati
nella maschera vuota dell’uomo senza qualità, irriconoscibili manichini di
paglia, inetti, isterici, inutilmente raziocinanti, pronti semmai a farsi
stranieri, professionisti dell’atto gratuito, dettando le basi per uomini e
donne irriconoscibili, come piccoli grumi di desideri irrisolti svuotati della
loro identità, resi cinici dal progresso, disillusi dalla vittoria del numero sul
valore, pronti a consegnarsi armi e bagagli alla società di oggi.
Di volta in volta ostacolati, respinti, scacciati, derisi, siamo rimasti
nascosti per anni. Ci tenevamo dentro il cuore, come la biglia nella tasca
del bambino, il sogno di una vita compiuta, in cui l’azione non sia un arto
spezzato, la scheggia di un colpo tirato a caso, ma scaturisca dal pensiero
che l’ha voluta, senza sapere a chi consegnarlo, affinché ne facesse buon
uso, sin quando, per nostra fortuna, non vedemmo un ragazzo magro,
curioso, intraprendente, angelo dalle fossette scavate nelle guance,
simpatico ma già cocciutello, gentile e scontroso allo stesso tempo, carico
di futuro, che voleva fare il pittore e cincischiava coi pennelli fra gli antichi
paramenti abbandonati nella polvere accumulata sugli inginocchiatoi di
legno scalfito. Allora pensammo che avremmo potuto insufflargli l’antidoto
dell’integrità omerica, affinché il veleno del disinganno, scendendo sul suo
collo, non intossicasse anche lui.

Quando Cristina è rientrata per sparecchiare la tavola, stavi osservando i


diplomi incorniciati alle pareti: quello della Cattedra ambulante di
agricoltura per i prodotti esposti dalla fattoria La Gigliola alla mostra
comunale di Montespertoli nel 1927; quello di benemerenza conferito al
Signor Milani, dottore Albano, per il concorso interpoderale per la Battaglia
del Grano indetto nell’annata 1928-29; la medaglia d’argento ottenuta dalla
medesima azienda agricola dalla Commissione provinciale granaria il 15
ottobre 1928 per il concorso della semina a righe e sarchiatura; la medaglia
d’oro dell’Opera nazionale dopolavoro rilasciata dal podestà il 26 settembre
1937...
Erano gli anni del fascismo: Benito Mussolini in canottiera tagliava il
grano davanti alle cineprese. Pio XI , all’indomani dei Patti Lateranensi,
l’aveva definito “l’uomo della Provvidenza”. L’Italia rimirava se stessa
dalla Libia all’Albania, preparandosi a estendere il proprio dominio nel
Corno d’Africa, cercando un posto al sole fra le grandi nazioni europee. Gli
emigranti partivano per le Americhe. In Germania cominciava la caccia agli
ebrei. Fleming inventava la penicillina. Gli italiani cantavano Faccetta
nera. Tuo nonno, minatore stufo del regime, s’innamorava di un’altra donna
in Belgio prima che la moglie non l’obbligasse a rientrare per mantenere la
famiglia. Tua madre andava a servizio nelle campagne romagnole. Tuo
padre quindicenne dormiva per terra in un retrobottega della capitale.
In un cantuccio, rovistando tra certi fogli accartocciati, hai sbirciato il
nome del nonno di Lorenzo, l’archeologo Luigi Adriani, in calce a uno
schema urbanistico. Disegni, progetti, abbozzi, riproduzioni. Scartoffie
passate indenni chissà come attraverso le mani dei diversi proprietari della
tenuta, fino a quella di oggi che tu non hai neppure conosciuto: una signora
che riscuote i proventi degli affitti, delle vendite degli olii, dei vini, senza
spostarsi da casa. Cristina sbriga ogni cosa con l’aiuto di una giovane
filippina.
«La padrona lasci tuti così. Questa casa di vechio Milani. Tu sai, vero?»
Mentre lei ti mostra il miele al tiglio, le marmellate di fichi, i cantucci da
offrire ai turisti, sprofondi in un vortice: per mesi non hai fatto altro che
pensare a don Milani, alla sua vita “singolare, irripetibile, misteriosa,
fulminante”, come l’ha definita David Maria Turoldo. Pareva inseguissi un
fantasma che sempre ti sfuggiva. Ma tu non demordevi. Capivi che la
sostanza dell’uomo di cui ti stavi occupando non avresti mai potuto
rappresentarla in una definizione, un concetto, uno schema. Del resto, per
comprendere il luogo da cui muove uno scolaro, come ben sai, non basta
sottoporlo ai test d’ingresso che si fanno all’inizio dell’anno scolastico.
L’ideale sarebbe trascorrere insieme a lui un intero pomeriggio.
Alla Gigliola senti di aver trovato una delle stazioni di partenza di
Lorenzo: l’origine della tensione che susciterà lo sconcerto di monsignor
Mario Tirapani, insegnante di Sacre Scritture al seminario, di fronte a
quello studente un po’ troppo saputello che osava contestarlo, il medesimo
religioso che, molti anni dopo, nelle vesti di vicario generale
dell’arcidiocesi, lo fece trasferire nella chiesetta sperduta di Barbiana. Qui è
anche la causa profonda dell’indignazione sociale alla quale cercò di
opporsi in tutti i modi, fino all’ultimo, il cardinale Ermenegildo Florit, nel
tentativo di frenare l’irruenza del giovane prete minato dalla malattia.
Avevi letto i libri, preso atto delle biografie, consultato gli archivi, scorso
gli elenchi di titoli, interrogato i testimoni; ma se non fossi venuto a
Montespertoli, se non avessi visto questi poderi, sentito questo profumo di
fiori, fotografato il cipresso al quale Laura Milani, la nonna letterata, dedicò
perfino una poesia, non avresti capito il viaggio intrapreso da don Lorenzo
verso le strade storte, i tetti sfondati, il fango rappreso, le porte rotte, le
stanze fredde, i sandali bucati, la vita senza parole, le croste sui ginocchi dei
bambini balbuzienti. Avresti potuto crederlo, come molti ancora fanno,
diretto in chissà quali lidi, collocando il suo sdegno nei registri della
militanza politica, dove pure egli si mosse, o dell’eresia religiosa, che
invece mai lo tentò. Critico e contestatore, ma ubbidientissimo, come
scriverà lui stesso il 10 ottobre 1958 a Padre Reginaldo Santilli:

Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla
settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a
cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa.

Per un po’ di tempo ti sei cullato nell’idea di raggiungere Barbiana a piedi


da Roma con qualche tuo studente, meglio se di quelli più indisciplinati e
riottosi; ne avevi perfino individuati un paio e loro ti avevano anche detto di
sì, al punto che, giorno dopo giorno, era diventato quasi un refrain tra voi
richiamare quella promessa con la muta complicità dell’intera classe che
quatta quatta vi teneva bordone:
«Allora, sei pronto? Ti stai preparando? Faremo trenta chilometri ogni
mattina, il passo dell’esercito napoleonico, dedicando il pomeriggio alla
spiegazione delle lettere di don Milani. D’accordo? Non è che mi darete
buca, eh?»
«Ma quale buca, professó, noi semo nati pronti! Voi annà a visità la
tomba de ’sto prete che ce stai a ddì? Vabbè. T’accompagnamo. ’O famo
’st’estate tutti ’nzieme!»
Furono entrambi bocciati, non da te ma dai tuoi colleghi, dopo una
votazione a maggioranza, e ci mancò poco che non incendiassero la scuola
per protesta. Dopo aver perso i contatti, hai deciso di partire da solo. Sei
andato e tornato più di una volta per esplorare i luoghi “de ’sto prete”, come
lo chiamavano loro, i nostri ragazzi di Barbiana.
Adesso che sei arrivato, ti gira la testa dall’emozione. Poche ore fa
camminavi lungo il viale alberato immaginando Lorenzo e Adriano quando
vi sfrecciavano in bicicletta. Rispetto ai loro coetanei di Montespertoli, era
come se appartenessero a un altro mondo. Avevano il massimo: istitutrici
tedesche, professori privati, libri, giochi, cuochi, cameriere, servitù.
Potevano scorrazzare dovunque volessero, ridendo e scherzando, sulla
strada dei vitigni, vicino alla chiesa, per i vicoli del paese. Ma soprattutto
dentro la villa: il loro regno.
Tutti sapevano chi erano: i signorini. Borghesi di Firenze. Padroni. Che
fossero anche ebrei, in pochi lo tenevano a mente: primo fra tutti il parroco
di San Pietro in Montorio, don Vincenzo Viviani, una pasta d’uomo, il
quale, dopo gli iniziali sentori d’antisemitismo, consigliò il signor Albano e
la signora Alice di sposarsi anche in chiesa, per mettere fine ai pettegolezzi.
La cerimonia avvenne il 29 giugno 1933 (tre mesi prima in Germania Adolf
Hitler aveva assunto i pieni poteri), nella chiesetta che hai appena visitato,
cinquecento metri dalla Gigliola, un gioiellino dove Lorenzo, quello stesso
giorno, venne battezzato insieme al fratello e alla sorella. Un paio d’anni
dopo, però, fu solo lui a chiedere di fare, nella medesima parrocchia, la
prima comunione. La famiglia, come sempre, volle soddisfare quella
stramba richiesta.
Il ragazzino, stando alle testimonianze dei bambini di allora, sin da
piccolo sentì l’imbarazzo della condizione che gli era toccata in sorte. Una
rosa contornata di spine: tu l’afferri, non puoi far altro, ma ti pungi. Gli
dispiaceva che il fattore mandasse via i suoi compagni di gioco, quindi
pretese di farli entrare nella tenuta. Quello che mangiavano lui, il fratello e
la sorella, doveva spettare anche a loro. Ecco perché il discorso della
conversione improvvisa, sulla via di Damasco, non regge.
Nel campo da tennis adiacente all’edificio principale, si accende in te la
luce di Giorgio Bassani. La stessa poetica dello scrittore ferrarese, il
cancello che separa, la lente che scherma, il muro che divide, una finestra
da cui la gente osserva, capace di innescare il sentimento di mortificazione
tipico di tutti i suoi personaggi, sembra attiva nella tenuta dei Milani, come
se da un momento all’altro, dietro la rete, oltre il boschetto rivolto verso
l’entrata, potesse sbucare l’affascinante Micol che tende la mano ai ragazzi
di fuori come fece con il narratore del Giardino dei Finzi Contini.
Qui però scatta la differenza essenziale: nel campo da tennis della
Gigliola il padroncino faceva giocare a pallone i suoi compagni, figli di
contadini: smontava le reti e organizzava le partite. Cosa importava se le
linee di gesso si cancellavano a furia di venire calpestate! Quando invece
erano lui e il fratello a impugnare le racchette e la pallina finiva nel bosco,
guai se qualche ragazzino del paese s’azzardava ad andarla a riprendere!
Lorenzo ha voluto aprire i cancelli facendo entrare tutti, è uscito dal
ghetto dell’aristocrazia, ha respirato l’aria di montagna della vita senza reti
di salvataggio, al punto che, nell’agosto 1947, dopo essere stato ordinato
sacerdote, quando tornerà a Montespertoli, dove resterà in via provvisoria
come cappellano per un mese e mezzo, la gente non si stupirà più di tanto
nel ritrovare il signorino in abiti talari.
Solo una donna, ricorda Fabrizio Borghini, vedendolo d’inverno tutto
raggrinzito nella tonaca sull’uscio di casa, gli dirà:
“Signorino, s’ammalerà con codesti sandali col freddo che c’è fuori”, ma
lui risponderà pronto:
“Lo sa quanto ha patito più di me Nostro Signore...”
Insomma era come se in fondo tutti avessero sempre saputo che quello
sarebbe stato il suo destino. Eppure, quanta fatica per aderirvi! E come fu
difficile mantenere il percorso scelto!

Giri da una stanza all’altra della vecchia casa finché non ti siedi in
soggiorno di fronte al camino. I mobili saranno stati sostituiti, i quadri
rimpiazzati, le poltrone rivestite, ma la scenografia non dev’essere molto
cambiata da quella che, nell’autunno del 1943, illustrò il colpo di teatro che
ti accingi a rivivere. Erano tempi di guerra: chi andava partigiano, chi
veniva deportato in Germania, chi si metteva coi fascisti, chi si nascondeva.
Paolo Milani Comparetti, cugino di Lorenzo, ufficiale a bordo della
corazzata Roma colpita dai tedeschi il 9 settembre, all’indomani
dell’armistizio, era affogato al largo dell’isola dell’Asinara, insieme a tutto
l’equipaggio.
Ti siedi al centro della sala dove il giovane comunicò al padre e alla
madre la sua decisione di farsi prete. Pare che, dopo averlo appreso, la
signora Alice scoppiasse in un pianto dirotto. Gli altri familiari lo avranno
guardato come se fosse matto. Pochi anni dopo in questo stesso grande
salone Lorenzo organizzò il primo doposcuola per i ragazzini del paese,
secondo il sistema che in seguito farà suo: lui in mezzo, i bambini ai lati,
con un testo da leggere o una mappa da consultare.
Lasci passare la mano sul tavolo che diventerà quello, spoglio ed
essenziale, della stanzetta di Calenzano e poi di Barbiana, ma in origine,
come vedi, era questo legno signorile, sotto i fregi e gli stemmi, sopra ai
tappeti, accanto alle maioliche, ai marmi, al magnifico camino che ancora
troneggia incontrastato.
In fondo alla sala ecco la libreria chiusa a chiave. Avvicinandoti al vetro,
puoi leggere i titoli dei volumi inglesi, francesi e tedeschi: polizieschi di
Edgar Wallace, memorie di Bernard-René Jordan de Launay, manuali di
chimica e botanica, trattati scientifici, atlanti e guide. Gli scaffali ai quali si
può accedere comprendono giornali, riviste e testi scolastici con foglietti
scritti a mano, forse dai ragazzi della famiglia, per appuntarsi i brani latini
da tradurre. Le ultime lettere di Jacopo Ortis in versione francese con una
dedica speciale: “À notre ami, Albano Milani”. Un catalogo sul Settecento
italiano reca sul frontespizio alcuni versi del Parini tratti dal Vespro e
copiati in bella calligrafia con la penna stilografica: “Del caro amico tuo
voli a le porte / alcun de’ nuncj tuoi; quivi deponga / la tessera beata”.
Hai l’impressione di procedere nel fondo di un burrone, quasi che la
frana del tempo ti avesse fatto piovere addosso i detriti di un’epoca
trascorsa e non più recuperabile: così accadrà alla libreria di don Ferrante i
cui volumi, nelle pagine finali dei Promessi sposi, finiranno dispersi lungo i
muriccioli dopo che il loro proprietario era morto contagiato dalla peste,
“come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”. Sfogliando le
pagine dei testi presenti nella biblioteca dei Milani è come se rovistassi nel
cestino dove Lorenzo buttò tutte le carte che gli parvero fuorvianti. Brutte
copie di una vita sbagliata. Coccarde lanciate dal finestrino. Ti piace
vagabondare sulla pista che lui scartò ritenendola falsa e che pure i suoi
genitori gli avevano predisposto. Vuoi far tuo il peso di questa decisione
radicale. Giri nelle stanze di Lorenzo bambino, trasformate in Bed and
Breakfast, con gli asciugamani piegati ai bordi del letto e le saponette
profumate. Vorresti risentire le sue grida. Apri le imposte. Il silenzio della
campagna toscana è rotto soltanto dal frinire delle cicale. Ma nel tuo cuore
senti la musica giusta.
La citazione pariniana non smette di rullarti dentro alla stregua di un
tamburo. Chiunque l’abbia vergata, alludendo all’accettazione di un invito a
festa presentato al nobile parassita, di cui il grande poeta nel suo testo si fa
beffa, non poteva supporre la valenza metaforica che, tanti anni dopo, quei
versi avrebbero avuto. Lorenzo li rigettò come se fossero una sostanza
vischiosa. Tutta la sua vita sarà una contrapposizione netta alla condotta
imbelle del giovin signore, simbolico rappresentante di una classe di oziosi
nullafacenti alla quale il secondogenito dei Milani sapeva di appartenere.
L’arca di Marzahn
Berlino, 2013

Si chiama Manfred, così mi hanno detto, né io posso chiedergli altro, visto


che non parlo il tedesco. A volte una pacca sulle spalle è più importante di
qualsiasi dichiarazione. Basta vederlo in faccia per intuire la sua storia.
Avrà sedici anni, l’età classica dei frantumi interiori, dei cicloni travolgenti,
delle trottole impazzite. Sul braccio sinistro si è fatto tatuare un coltello
dalla lama seghettata. Indossa una maglietta con un teschio al quale hanno
inforcato un paio di occhiali da sole verde pisello. Sotto compare una
scritta: “Only makes me stranger”.
Chi lo vede scappa. Attraversa la strada per non incrociarlo. È una
materia infetta. Quelli come lui sono considerati scarti di lavorazione.
Unghie tagliate. Pezzi difettosi. Lebbrosi spirituali.
L’educatrice lo ha definito un naziskin. Esserlo qui, a Hellersdorf-
Marzahn, nel fondo della ex Berlino Est, coi palazzi alti schierati come
giganti di pietra del vecchio comunismo prussiano, aggiunge legna al fuoco
delle domande che credo lui rivolga innanzitutto a se stesso: come devo
agire per capire chi sono? Quali prove sarò chiamato a superare? Meglio
fingere di essere ciò che non sarò mai o accettare il dolore che sento quando
mi guardo allo specchio? Fino a che punto potrò trovare un rapporto tra lo
sfacelo da cui provengo e l’energia da cui ricavo alimento?
È la festa della gioventù spezzata. Il marchio a fuoco degli spiriti
inquieti. La risposta in brutta copia delle generazioni cresciute sulla cenere
dei sogni di rinnovamento. Insomma il mio mondo: il punto preciso in cui
poso lo sguardo quando spiego.
Sua madre è una giovane prostituta di Lichtenberg. Ogni giorno va e
viene dalla casa in cui esercita la professione, un magazzino dismesso dalle
parti di Frankfurter Allee, allo squallido pianoterra di Kottbusser Straße,
dove abita insieme al figlio. Le parole che si scambiano la mattina a
colazione potrebbero diventare un argomento di studio nelle tesi di
dottorato delle facoltà di scienze della formazione. Il padre nessuno lo
conosce, dev’essere mediorientale, a giudicare dal colore della pelle di
Manfred che, nonostante tutta la buona volontà che lui ci mette per
contraffarla, non corrisponde ai criteri della razza ariana.
Ci hanno dato un pallone piuttosto sgonfio, quindi possiamo solo fare
qualche passaggio e tirare in porta. Il mio compagno, sebbene sia estate,
porta gli stivali con la suola a carrarmato, non proprio l’ideale per divertirsi:
appena tocca la sfera, questa schizza verso direzioni imprevedibili. Ci
guardiamo costernati. Corro a riprenderla e gliela rilancio cercando di
accorciare i tempi morti.
L’Arca, o meglio Die Arche, è un’associazione fondata da un pastore
metodista, Bernd Siggelkow, tesa al recupero dei ragazzi difficili.
Adolescenti cresciuti nel vuoto. Li fanno stare qui dalla mattina alla sera per
sottrarli alle insidie del quartiere. Al primo piano c’è la palestra. Al secondo
una sala ritrovo in stile discoteca. Al terzo qualche aula scolastica. Molti di
questi ragazzi sono figli di coppie giovanissime che non riescono a educarli
nel modo giusto. Ma chi può dire qual è il modo giusto? Il mestiere di
genitore è sempre spericolato. Anche nella Germania del Terzo Millennio,
locomotiva della nuova Europa. Specie se non frequenti più la scuola, rifiuti
l’apprendistato e hai avuto problemi di tossicodipendenza, come Manfred.
Palleggiando insieme a lui, mi viene in mente Michel De Certeau,
gesuita francese, uno dei più grandi saggisti del Novecento, secondo il
quale ogni incontro umano è un colpo alle nostre certezze. Solo se, come
fecero al tramonto verso casa i discepoli di Emmaus, ci lasciamo
sorprendere da chi non conosciamo, potremo cominciare a capire qualcosa
di noi stessi e degli altri. In caso contrario, chiudendoci a riccio per paura,
egoismo, debolezza o ideologia, non potremo evitare la sterilità, la
solitudine, l’impotenza. Educare significa ferirsi. Bruciarsi le mani. Andare
diritto dove sai che ti fa male.
In questa vecchia scuola riadattata grazie a donazioni di privati e
finanziamenti di squadre sportive arrivano adolescenti in crisi, pronti a
colpire chiunque li avvicini. Manfred si esprime a mugugni. È già tanto che
abbia accettato di trascorrere un paio d’ore insieme a me. Il professore
italiano. L’incontro con lo straniero, da intendere in maniera estesa come
colui che ci fa sentire, insieme all’irriducibilità dell’altro, l’insufficienza
delle nostre convinzioni, è sempre una sfida. L’insegnante dovrebbe essere
“l’uomo del faccia a faccia”. Vorrei poter dire a Manfred: guardami! Io
sono pronto a scendere nella fossa insieme a te.
Nel momento in cui il maestro decide di mettersi in gioco, assumendo il
rischio dell’esposizione, avanza verso un territorio impervio e viene
condotto là dove non voleva. La tensione conseguente, lasciava intendere
De Certeau, è l’essenza del cristianesimo. Possiamo anche provare a
pensare Dio secondo categorie razionali, a loro volta fondate su schemi
logico-linguistici, ma la fatica che ci verrebbe richiesta, i tesori di
intelligenza e cultura che dovremmo spendere per raggiungere un semplice
stadio di disponibilità all’ascolto, non sarebbero proporzionali ai risultati: il
gioco non varrebbe la candela. Meglio gettarsi a corpo morto nella mischia.
Il che non significa rinunciare a pensare. O lasciarsi guidare dall’emozione
in sé. Vuol dire soltanto orientare di giustezza le nostre percezioni
psicofisiche, distribuendo in modo efficace le risorse di cui disponiamo.
Scendiamo alla mensa, nel grande salone. L’odore di verdure bollite mi
riporta indietro nell’infanzia, quando trascorrevo i mesi estivi in colonia. La
cuoca, un donnone danubiano, ci serve crauti e patate con qualche pezzo di
maiale sparso intorno. Gertrude fa l’interprete. È stata lei a invitarmi in
questa struttura. Manfred ride con gli occhi. Sembra più sciolto rispetto a
qualche ora fa. Mi chiede notizie di Eros Ramazzotti. Gli rispondo
mischiando Cinecittà e il Festival di Sanremo, la nazionale cantanti e una
terra promessa. Non so cosa capisca ma alla fine sembra contento. Digita
sul cellulare il mio numero. Magari mi chiamerà un giorno. Viene al
cancello per salutarmi. «Adios, papa!»
Pantera nera
Castiglioncello

Scendi giù per via Asmara, fra ville, ghiaia, fiori e giardini, senza riuscire a
toglierti dalla testa il Pierino contro cui hanno puntato gli strali di don
Milani in Lettera a una professoressa:

I cromosomi del dottore sono potenti. Pierino sapeva già scrivere a 5


anni. Non ha avuto bisogno di far la prima. Entra a seconda a 6 anni.
Parla come un libro stampato. Già segnato anche lui, ma questa volta col
marchio della razza pregiata.

Chi era questo Pierino se non lo stesso Lorenzo quando da piccolo


veniva qui a fare i bagni, prendere il sole, andare in canoa con il fratello, la
sorella e i cugini? Le fotografie che lo ritraggono insieme agli amichetti di
quelle lunghissime e probabilmente incantevoli estati ci mostrano la cecità
dell’infanzia ancora inconsapevole gettata nel mondo come una carta da
gioco per fare punti in una gara di corsa le cui regole sono nascoste agli
stessi concorrenti, che pure si impegnano, in un modo o nell’altro, per
disputarla. Chi si accinge a scattare sulla linea della partenza. Chi è
posizionato più avanti. Chi resta indietro. Il giudice con una mano impugna
la pistola, con l’altra si porta il megafono alla bocca e grida: “Ai vostri
posti!”.
Gli atleti sono pronti a dare il meglio. Ma, quando raggiungono il
traguardo, nessuno può dire con precisione se ognuno di loro ha compiuto
davvero lo stesso percorso. Ci sarà chi ha fatto i classici cento metri. Chi ha
imboccato una scorciatoia. Chi è rimasto al palo. Chi ha avuto una spinta
non autorizzata. Chi non avrebbe dovuto partecipare. Chi ha abbandonato.
Pierino era bravo, ma rispetto agli altri ha goduto di un vantaggio
innegabile: tutti l’hanno visto, eppure dalla tabella ufficiale non risulta.
Molti come lui arrivano primi e ricevono la medaglia. La giustizia non è di
questo mondo. Si spera che da tale mistero possa nascere, se non la
misericordia di Dio, almeno uno sconto alla pena che, a parere di alcuni,
comunque dovremo espiare per le negligenze, le indifferenze, le omissioni
da noi commesse in quelle che il priore definirà, per se stesso, “le tenebre
dell’errore”, anche se forse Lorenzo non si sentì mai, nemmeno da
bambino, un semplice turista con casa al mare.
Mentre ti avvicini sempre di più alla via Aurelia, a stento trattieni la tua
ansia in mezzo alle ville blindate. Se ti fermassi lungo la cinta muraria, i
cani da guardia abbaierebbero. Hai l’impressione di procedere all’interno di
un percorso obbligato: guai a scantonare. Potresti finire in una zona
interdetta dove diventerebbe illegale stazionare. È il trionfo del diritto di
proprietà, il cui spirito sembra inciso perfino nella corteccia degli alberi.
Non vedi poliziotti privati ma è come se ci fossero.
Alzi lo sguardo oltre le piante e i fiori. Cielo azzurro. Uccelli che volano
in lontananza. Come è stato possibile che esseri della nostra specie abbiano
trasformato la macchia mediterranea in un condominio fortificato?
Castiglioncello è posta alla massima distanza possibile da Calenzano e
Barbiana, le prime scuole organizzate dal giovane prete. Una lontananza
spirituale che bisogna toccare con mano per riuscire a capire.
Domenico Comparetti, il famoso bisnonno senatore, alla fine del
diciannovesimo secolo aveva scoperto questo angolo di paradiso, così
almeno parve ai pittori che vi si stabilirono, durante un viaggio in calesse
verso Roma. Altri tempi. Se n’era innamorato e, come spesso gli capitava,
aveva aderito senza riserva al proprio desiderio comprandosi una residenza
non troppo lontana dal mare.
Il nonno archeologo, Luigi Adriano Milani, di cui hai appena ammirato
certi disegni o abbozzi abbandonati quasi fossero cartacce nel maniero di
Montespertoli, come sovrintendente alle antichità e agli scavi della regione
era stato il fondatore del Museo etrusco. Bloccò i trafugamenti di tombe e
reperti che stavano avvenendo a mani basse durante i lavori di sistemazione
urbanistica ordinati, a partire dalla linea ferroviaria sino all’interno, dal
vecchio magnate locale, il barone genovese Lazzaro Patrone.
La villa Il Ginepro, in via della Torre, era stata lasciata in eredità ad
Albano Milani, mentre al fratello Giorgio era andato l’attiguo immobile Bel
Verde. Anche Elisa e Piero, altri zii di Lorenzo, ricevettero delle proprietà
nei dintorni; insomma Castiglioncello era diventato quasi un feudo dei
Milani, cosicché quando il futuro priore di Barbiana durante il fascismo,
che non aveva tardato a ratificare questi blasoni, scendeva sugli scogli
indossando la sua camicetta immacolata, se avesse voluto, avrebbe potuto
anche credersi il piccolo principe di quel promontorio. I villeggianti coi
quali divideva il tempo della vacanza appartenevano alle famiglie
benestanti della migliore aristocrazia italiana: Birindelli, D’Amico, Ginori-
Conti, Pirandello, Pavolini, Spadolini, Ferrero, Trapani, Cangini...
Nelle vene del bambino scorreva il sangue del capostipite.
Come liquidò i beni economici lo sappiamo: lo fece in un batter
d’occhio, in favore della sorella, anche se poi ci furono numerose beghe
burocratiche da risolvere. Ma in quale modo cancellò il patrimonio
emozionale ricevuto in sorte nelle lunghe estati di Castiglioncello, questo
possiamo soltanto provare a immaginarlo.
La memoria della sabbia fra le dita dei piedi, i refoli di vento che
penetravano tra le foglie del giardinetto, il rumore del cancello quando
entravano gli ospiti, i calzini bianchi da cambiare ogni giorno perché si
sporcavano subito: cosa ne fece di tutto ciò?
Lo diede in pasto ai cani.
Lo gettò nella pattumiera.
Lo bruciò scottandosi le dita.
Ti dirigi verso la costa, superando il traffico della via consolare. Quasi a
ogni passo, senti la necessità di scrivere sul taccuino questo o quel
dettaglio, come se temessi di dimenticarlo. Una vocetta s’interpone fra te e
la tua mania classificatoria. Dice così: non ti affannare. Tanto, perderai
tutto.
L’opera è un sogno d’onnipotenza. I linguaggi sono foglie secche che
presto cadranno a terra. La scienza richiama intorno a sé un groviglio di
ipotesi. Le profezie assomigliano a congetture retoriche. Cosa potrebbe
restare se non ciò che gli altri hanno pensato di noi? Poi anche quello si
scioglierà, sabbia nell’acqua. Sarà inevitabile, senza possibilità di appello,
come il sole quando sorge o scende.
“Solo tre cose contano” scrive san Paolo: “fede, speranza, amore.” Con
lo scarto icastico finale: “La più grande di tutte è l’amore”.
Ma se questo amore te lo devi andare a prendere nella tana dei vermi? Se
ti mortifica? Se ti fa piangere? Se ti fa sanguinare?
Ti piace fissare gli angoli spogli dei cortili interni, le briciole di pane
secco sbeccuzzate dai piccioni. Vorresti conoscere il buio dei magazzini
dismessi vicino ai grandi raccordi metropolitani. Restare una notte intera a
fissare il rametto spezzato ai lati della tangenziale. Il tempo è un predone
invisibile che sbrana le sue vittime senza fare rumore. Una ragazza guida lo
scooter con la testa piegata sul cellulare appoggiato sulla spalla. Per poco
non ti viene addosso.
La casa di Pierino, l’alter ego di don Lorenzo, era qui. È la tipica villa in
muratura, coi balconi, le terrazze, i giochi dei bambini. Un emblema della
famiglia benestante. Chi erano i suoi genitori? Lasciamo che, sempre da
Lettera a una professoressa, ce lo dica Gianni, il figlio del contadino:

Il dottore e sua moglie sono gente in gamba. Leggono, viaggiano,


ricevono gli amici, giocano col bambino, hanno tempo di stargli dietro, ci
sanno anche fare. La casa è piena di libri e di cultura. A cinque anni io
maneggiavo la pala con maestria. Pierino il lapis.

Pierino non veniva mai respinto. Passava sempre, anche senza studiare.
Sarebbe dovuto diventare un professore. Questo era, ed è ancora oggi, il
destino di tutti i Milani, in senso lato: cattedratici, scienziati, eruditi,
mantenuti dai loro stessi inservienti. Gente che non si sporca le mani. Quelli
che prima lavorano gratis facendo gli assistenti universitari e poi salgono in
cattedra, come se fosse un podio, quindi si sposano e tirano su altri figli
uguali a loro.
Più Pierini che mai.
Davanti all’Hotel Miramare fronteggi una visione. Non sei mai stato
prima in questo posto, eppure l’hai presente. Anzi, meglio: lo conosci a
menadito. Potresti orientarti senza alcun supporto informativo. La striscia di
sabbia, le rocce, i gabbiotti degli stabilimenti balneari. Te lo ricordi a
memoria. Come si spiega?
Te lo dico io: è il set del film Il sorpasso di Dino Risi, uno dei tuoi
preferiti. Impossibile dimenticare la scena girata proprio qui: Vittorio
Gassman, gradasso dal cuore buono, che si addormenta ubriaco sulla
spiaggia e si risveglia coi bagnanti indaffarati sotto gli ombrelloni. Si alza
in piedi guardandosi intorno meravigliato, la bocca impastata, alla ricerca di
Jean Louis Trintignant, il giovane amico timido, e lo ritrova, poco più in là,
a parlare con Catherine Spaak, la figlia ormai grandicella. Alla fine i
tracotanti sopravvivono. I timidi muoiono sul serio, giù dalla scarpata.
Uno dei capolavori della nostra commedia degli anni Sessanta che
vedesti in un cinema di Paliano, in provincia di Frosinone, quando avevi
l’età di Pierino. All’inizio non ti fece molta impressione, poi centellinasti
più volte la pellicola, sequenza dopo sequenza, quasi sovrapponendola alla
tua stessa gioventù, tanto che molte scene le potresti recitare a memoria.
Cammini fra i detriti: pezzi d’Italia si mischiano, calcinacci dei mattini
di giugno, fra le disperate solitudini di quando non avevi ancora cominciato
a leggere e non sapevi nemmeno chi fossi. E prima c’era stato questo
vecchio scoglio etrusco dove un bambino troppo sensibile cercava di
trovare il significato della vita che i suoi genitori gli avevano offerto su un
piatto d’argento.
Il circolo nautico. La pineta appena dietro. Le terrazzine con cabine in
muratura. Le signore abbronzate continuano a restare sotto il sole come
lucertole senza temere per la loro pelle martoriata dai raggi ultravioletti. I
giovani giganti espongono i muscoli al vento addomesticato dell’insenatura.
I vecchi leggono il giornale, gli ultimi che lo fanno ancora dispiegando i
paginoni.
Questa, ti chiedi, sarebbe stata la spiaggia di don Milani? La stessa
persona che, tanti anni dopo, assumendo il punto di vista del concorrente
più debole, avrebbe scritto alla professoressa:

Per contentare lei basta sapere vendere la merce. Non star mai zitti.
Riempire i vuoti di parole vuote. Ripetere i giudizi del Sapegno con la
faccia d’uno che i testi se li è letti sull’originale.

Tu la chiami “finzione pedagogica”. Far finta di insegnare. Far finta di


ascoltare. Il teatrino didattico con la lavagna, il registro, i voti, i giudizi, le
assenze, le note, la campanella. Io prendo un contenuto della tradizione, che
sta alle mie spalle, te lo consegno come se fosse un pacco postale e tu me lo
devi restituire nella medesima forma con cui te l’ho trasmesso. Se non ci
riesci ti metto un’insufficienza e poi magari ti boccio.
Così ragionava la mitica professoressa. Non era cattiva. Aveva paura di
uscire allo scoperto. Temeva di essere colpita. Recitava il suo ruolo,
chiudendosi in se stessa, inattaccabile come il gheriglio dentro la noce.
Arrivi fino al lungomare intitolato ad Alberto Sordi, che poco oltre aveva
una delle sue ville, incrociando il venditore senegalese pieno di orologi e
asciugamani. Dall’altro lato sorge la Torre Medicea e la casa dei Milani. Da
queste parti ci doveva essere il grande piazzone a cui alluse Francesca,
cuginetta poi emigrata negli Stati Uniti, nel libro di Fabrizio Borghini, dove
giocavano i bambini delle famiglie dei villeggianti: “Si facevano delle
guerre simulate alle quali partecipava anche Adriano che era più grande di
noi. Lui si faceva chiamare Numa mentre Lorenzo aveva assunto il nome di
battaglia Pantera nera”.
Quasi non riesci a renderti conto di come il tempo abbia spazzato via
tutto. Eppure la terra è la stessa. I pini marittimi sono sempre uguali. Il mare
batte sulla scogliera. Molti di questi bagnanti non hanno nemmeno sentito
nominare don Lorenzo Milani.
Lettera a una professoressa è un libro sull’educazione. Come si fa ad
aiutare un ragazzo che cresce? Come si fa a guidarlo?
Secondo Kant ciò di cui non si può fare esperienza potrebbe essere Dio:
il noumeno. Per un cristiano l’incontro con la divinità si compie nella
relazione umana. Gli otto studenti (“Altri nostri compagni ci hanno aiutato
la domenica”) più don Lorenzo affrontano un’opera corale. Resta
fondamentale che il priore consideri il testo frutto di un coro, non di una
voce unica. Un uomo, da solo, non ha peso.
Stiamo parlando della scuola dell’obbligo. Che non può bocciare. La
lettera è destinata a una professoressa che respingeva i suoi alunni, ma
prima di tutto li intimidiva.

La timidezza dei poveri è un mistero più antico.

Negli anni Trenta il retroterra castiglioncellese era il regno della pellagra,


del paludismo, della tubercolosi. Le contadine venivano a servizio dai ricchi
in quella stazione balneare così poco distante dalle loro misere case, oppure
vendevano i prodotti della terra ai ricchi sdraiati al sole. Esistono fotografie
di donne con le vesti stracciate che camminano lungo il fiume verso la
costa, recando sulla testa grandi recipienti con frutta e verdura, pollame e
pesce fresco. A due passi, sui giardini nei pressi della spiaggia, Lorenzino
sorrideva guardando l’obiettivo, immortalato insieme a un gruppo di amici,
tutti con la maglietta bianca. Normalmente i soggiorni marini duravano
quattro mesi. Un esercito di servitori provenienti dalle colline circostanti di
Nibbiaia, Gabbro, Castelnuovo della Misericordia, si occupava di garantire
il massimo comfort ai proprietari: giardinieri, marinai, lavandaie, cuoche,
cameriere.
Camminando sotto i pini intuisci cosa significasse per Lorenzo tornare
da queste parti. Lo fece in diverse occasioni, una famosa, nell’agosto del
1949, per mostrare il mare ai ragazzi di Calenzano, che non l’avevano mai
visto. In seguito compì la stessa gita coi mugellesi. Ogni volta, come
confida in certe lettere a sua madre, faticava a controllare il tumulto
interiore.
A Barbiana i montanari vengono sistemati nelle pluriclassi. Nel libro a
parlare per primo è un ragazzo di undici anni che, dopo le elementari, non
sarebbe potuto andare a fare la scuola media né a Vicchio, né tantomeno a
Borgo, i due centri più vicini al paese dove viveva.

Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si


faceva scuola e si mangiava.

I sedicenni insegnavano ai più piccoli. Chi era senza basi, lento o


svogliato, si sentiva il preferito. Niente ricreazione.

Perché il lavoro è peggio.

Il problema di uno diventa quello di tutti. Bisogna avanzare insieme.


Non perdere nessuno. Aspettare i ritardatari. Come se avessimo di fronte
una montagna da scalare. Il maestro è la guida. Gli alunni lo seguono. Ma
se la vetta non viene conquistata, il voto dobbiamo metterlo anche al capo
della carovana.
Su certe frasi potresti restare per ore.

Erano ridotti a desiderare l’officina.

Ti vengono in mente i tuoi scolari dell’istituto professionale: non vedono


l’ora di andare a lavorare dalla mattina alla sera. Quando li vai a trovare, si
imbarazzano se tu senti che certi loro colleghi dicono le parolacce, come se
volessero preservare il vecchio professore dalla volgarità della vita. Questa
premura ti commuove. È la prova di quel che loro hanno perduto: una
quintessenza inesprimibile di cui tuttavia dimostrano di essere consapevoli.
Nei viali fioriti di Castiglioncello le frasi di don Milani sembrano cariche
esplosive:

Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno [i ragazzi


difficili]. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che
cura i sani e respinge i malati.

L’abbiamo letta e ascoltata troppe volte per poterla ripetere. È diventata


quasi impronunciabile. Le palme, i ginepri, la pineta, il profumo del mare
sembrano restituirti l’ambiente di quegli anni lontani, coi veglioni, le cene,
le feste da ballo e gli spettacolini che venivano messi in scena nella
magnifica località balneare. Sul lungomare avresti potuto incrociare Ettore
Petrolini. C’erano Medardo Rosso, Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli,
Achille Campanile, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Arturo Toscanini.
Luigi Pirandello prendeva il caffè ai tavolini della piazzetta con Marta
Abba.
Citare don Milani nel luogo dove lui trascorse l’infanzia produce lo
stesso effetto che potrebbe fare la pietra raschiata sul vetro.

La scuola ha un problema. I ragazzi che perde.

Bocciare è come sparare a un coniglio. Forse era un ragazzo, forse una


lepre. Si vedrà a comodo.

Affermazioni che oggi assomigliano a slogan consunti, messaggi


elettorali, etichette ideologiche, mentre quando vennero pronunciate per la
prima volta erano fulmini, dinamite. Su queste parole è cresciuta una
vegetazione incontrollata. Era necessario venire qui per tirarle nuovamente
a lucido.

Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra diseguali.

Siedi stordito sulla panchina e ti viene in mente la mamma di Pierino.


Chi altri poteva essere se non quella di Lorenzo? Lui, poco prima di
salutarci tutti, così la evoca:

Se si prende da sola la mamma di Pierino non è una belva. È soltanto


poco generosa. Ha chiuso gli occhi sui figlioli degli altri. Non ha proibito a
Pierino di frequentare pierini come lui. Lei stessa e il suo marito si
circondano di intellettuali. Dunque non vogliono cambiare.

Alice Weiss, la madre di Lorenzo, è stata la persona più importante nella


vita del priore: lo testimoniano le centinaia e centinaia di lettere che si
scrissero quasi ogni giorno, secondo un ritmo implacabile che non venne
mai meno. Ecco perché queste parole scavano dentro la ferita con il
coltellino. Tirano fuori il sangue. Ti fanno capire tutto.
Se è vero, come è vero, che i nodi intrecciati passano da una generazione
all’altra e ci vuole tempo per riuscire a scioglierli, arriva il momento in cui
un individuo decide di interrompere la catena, spezzare la soluzione di
continuità, aprire la finestra per far entrare aria nuova.
Esiste sempre un primo uomo al mondo, il cacciatore che s’inoltra nella
foresta proibita, il principe fenicio che oltrepassa le colonne d’Ercole dove
vigilano severi i leones dell’inesprimibile, il figlio che raccoglie dentro di
sé il coraggio necessario per guardare in faccia suo padre e sua madre.
Dalla lettera a Giampaolo Meucci, l’amico magistrato, scritta da
Barbiana il 2 marzo 1955:

Cosa aspetti a chiuderti a ogni altra attività e scrivere un trattatello


elementare economicissimo e limpidissimo di diritto? Vuoi tu che i poveri
regnino presto? Vuoi che regnino bene? Scrivi dunque o un libro per loro o
un giornale per loro oppure fatti apostolo fra i tuoi compagni laureati
cattolici per dare vita a una grandiosa scuola popolare a Firenze. Non
come un dono da fare ai poveri, ma come un debito da pagare e un dono da
ricevere. Non per insegnare, ma solo per dare i mezzi tecnici necessari
(cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili
ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale
che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della
sperequazione culturale di cui son vittime.
In don Milani è caratteristico questo voler mandare a monte la partita. Lo
scatto improvviso. L’alzata di spalle. L’insofferenza di chi non ha più tempo
da perdere. Bisogna agire in fretta. Non lasciarsi irretire dall’indecisione,
dal pensiero che frulla su se stesso. Non come farebbe l’uomo istintivo,
privo di guida razionale, ma nella consapevolezza delle infinite
elucubrazioni che ci hanno preceduto. Tentativi di coprirsi le spalle per
evitare i rischi della caduta. Ricerca inesausta di assicurazioni, non tanto
contro gli errori (che vanno evitati con la massima buona volontà), quanto
rispetto all’idea di perfezione e autosufficienza (che, al contrario, ci
inaridisce).

Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l’hai pagato


caro. Deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente
tutta eguale. Perché non vieni via?

D’improvviso sembriamo essere diventati tutti Pierini. Allora, priore,


dicci quello che dovremmo fare. Ti ascoltiamo.

Lascia l’università, le cariche, i partiti. Mettiti subito a insegnare. La


lingua solo e null’altro.

E poi?

Fai strada ai poveri, senza farti strada. Smetti di leggere, sparisci. È


l’ultima missione della tua classe.

È un programma di combattimento, in singolare sintonia con l’auspicio


formulato da Dietrich Bonhoeffer nei confronti della stessa classe sociale.
Leggiamo quanto scrisse il grande teologo al nipote Hans Walter
Schleicher, dopo la sua chiamata al servizio militare del 10 ottobre 1942:
“Tu hai ricevuto in dote ben precise concezioni fondamentali della vita.
Tu sai – forse in certa misura inconsapevolmente, ma qui ora non conta –
quali beni superiori siano una buona vita familiare, dei buoni genitori, il
diritto, la verità, l’umanità e l’istruzione, la tradizione. Tu hai praticato
personalmente la musica per anni e negli ultimi anni hai letto molti libri:
tutto questo non è scorso su di te senza lasciare tracce – e infine tu sai anche
in certo modo cosa sono la Bibbia, il Paternostro e la musica sacra; da tutto
questo però tu hai ricevuto un’immagine della Germania che in te non potrà
mai più perdersi del tutto...
Ma è chiaro e lo sai anche da solo che per questo motivo incombono su
di te dei conflitti, non soltanto con ciò che è per sua natura volgare e sulla
cui portata avrai da spaventarti le prossime settimane, ma già
semplicemente per il fatto che tu, precisamente perché vieni da una simile
famiglia, sei diverso dalla maggior parte delle altre persone, diverso fin
nelle più piccole esteriorità. Per questo è importante che ciò che uno ha in
più degli altri – e tu hai qualcosa in più! – lo interpreti non come un merito,
bensì come un dono, e metta a disposizione degli altri se stesso, insieme a
tutto quello che ha e che voglia loro bene nonostante il loro essere diversi.”

Don Milani frantumerà lo smalto di Castiglioncello.

Non tentare di salvare gli amici vecchi. Se gli riparli anche una volta
sola sei sempre come prima.

In realtà lui tornerà spesso a parlare con Pierino. Ma lo farà chiedendo ai


suoi genitori aiuti economici e sociali in favore dei più disagiati. Per trovare
alloggio ad alcuni scolari di Barbiana in gita a Milano si rivolgerà a
Luciano e Francesca Ichino, coi quali intreccerà una sequenza epistolare di
notevole interesse. Una testimonianza preziosa è quella rintracciabile sul
sito di Pietro Ichino, che incontrò il priore da bambino:
“Mi ricordo la volta in cui volle segnarmi come con un marchio a fuoco.
Credo che fosse nel 1960; era venuto a trovarci, eravamo tutti – lui, i miei
genitori, le mie sorelle e io – nel bel soggiorno della nostra casa di via
Giotto; e lui, a bruciapelo, mi disse, facendo un gesto circolare per indicare
tutto quel benessere: ‘per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai
diciotto anni incomincia a essere peccato, se non restituisci tutto’. Credo
che fu in quel momento che si decise il fatto che io non andassi a lavorare
nello studio di mio padre, ma al sindacato.”
A chi si rivolgeva il priore, parlando al figlio della buona borghesia
milanese, futuro economista e uomo politico, se non al Pierino che lui
stesso fu?
Ma le parole che ancora oggi ci stringono il cuore le indirizzò a Nadia
Neri, una studentessa napoletana, il 7 gennaio 1966 quando, spossato dal
male, scrisse di getto due memorabili paginette con questo finale:

Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di
creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza
perché non si può far scuola senza una fede sicura. [...]
È inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Ai
partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima
d’esser pronta, prima d’esser matura, prima d’esser laureata, prima
d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente
senza nemmeno accorgertene.

Il sole scende lento dietro gli stabilimenti di Rosignano Solvay coi soffioni
all’orizzonte. Il venditore senegalese torna all’attacco. E tu gli compri un
paio di calzini. Cotone doppio. Col tacco rinforzato e l’elastico sanitario.
Cosa vuoi di più?
L’ultimo maestro
Marocco, 2007

Chiedo a Omar e Faris dove hanno imparato a leggere e scrivere in arabo


prima di emigrare in Italia. Alzano lo sguardo verso un promontorio arido e
selvaggio sulla cui cima spicca una costruzione sbilenca che sembra sul
punto di crollare.
«Vieni» mi dicono, «ti ci portiamo.»
Salgo sulla vecchia Renault 18 e lentamente raggiungiamo la collinetta. I
due studenti sono elettrizzati, felici di mostrare al professore, venuto a
conoscere le loro storie, la scuola elementare che frequentarono da piccoli.
Arriviamo davanti a un ex fortino francese sforacchiato dai proiettili, al
tempo in cui il Marocco conquistò l’indipendenza: nel 1956. Sul portoncino
semidistrutto ci aspetta Sharif. Vive qui da solo. È un imam cieco che,
appena sente le voci, ride coi denti guasti. Capisce tutto al volo, prima
ancora di ascoltare il racconto di quelli che, verosimilmente, sono i suoi ex
allievi. Ci abbraccia festoso, invitandoci dentro.
Non vuole farsi aiutare. Ha memorizzato la posizione degli oggetti.
Stende un telo in terra, prende la caraffa del tè, distribuisce i quattro
bicchierini riempiendoli fino all’orlo. Non so come faccia. I suoi occhi sono
bianchi. In compenso la voce roca è meravigliosa. Afferma che io ho letto il
Corano nella mia lingua ed è vero. Sa che sono un suo collega, anche se
nessuno gliel’ha detto. Mentre Omar gli parla, Faris traduce per me.
Abbiamo tante cose da raccontare.
Sharif vuole sapere come si vive in Italia. Chiede se ci sono moschee. Se
c’è lavoro. Quanto si guadagna. S’informa sulla Città dei Ragazzi. Sembra
molto interessato alla figura di monsignor John Patrick Carroll-Abbing, il
fondatore della celebre comunità d’accoglienza che ospita i due giovani. Poi
si rivolge direttamente a me: quali materie insegno? Credo in Dio? Sono
sposato? Ho figli?
Va diritto al sodo. Sembra un condensato d’umanità vitale. Per anni e
anni ha avuto la responsabilità di formare i giovani della piana
semidesertica intorno a Khouribga, nota in tutto il mondo per la presenza di
fosfati nel sottosuolo. Fino a vent’anni fa lo faceva insieme ad altri maestri,
nel distretto di Oued Zem. In seguito alla massiccia emigrazione, le aule si
sono svuotate. La succursale in cui siamo ha smesso di funzionare ormai da
diverso tempo. Inoltre la moglie di Sharif è morta e lui ha litigato coi figli,
ne ha quattro, uno di loro lavora a Padova.
Omar mi dice tutto questo a pezzi e bocconi, mentre il vecchio maestro
prepara il tappetino per la preghiera. Ci mettiamo in ginocchio accanto a lui
che comincia a recitare una sura. Non capisco il significato delle parole, ma
ne recepisco la devozione. Non avevo mai visto Faris così concentrato, a
occhi chiusi, la testa china sul petto. Più volte pieghiamo il busto fin quasi a
toccare terra. La voce di Sharif fa pensare allo scroscio del ruscello, al
sospiro di un mago. Dalla finestrella le luci del crepuscolo filtrano come
schegge di un cielo spezzato. È la via dell’eternità. Il passo segreto degli
spiriti religiosi.
Quando ci rimettiamo a sedere non siamo più gli stessi, come se
avessimo condiviso una particella di speranza, la sapienza del cosmo, il
pane della carità. Non parliamo. Ci guardiamo l’un l’altro; l’imam non può
farlo, ma avverte la nostra presenza. Chissà, forse potrebbe perfino ripetere
nella sua lingua quello che io, osservandolo, sto formulando nella mia.

Maestro si nasce o si diventa? Direi tutt’e due. All’università, quando


studiavo lettere, non pensavo che avrei fatto l’insegnante, ma la prima volta
che entrai in un’aula scolastica, avrò avuto vent’anni, non ero ancora
laureato, si trattava di una supplenza, capii d’istinto, guardando i ragazzi,
che quello sarebbe stato il mio mestiere. Sentivo uno spazio magnetico fra
me e loro: lo stesso che percepisco ancora adesso, più di trent’anni dopo.
Era qualcosa di profondo, legato alla mia solitudine di adolescente, che
riconoscevo, di volta in volta, nell’insofferenza, nella rabbia, nella
malinconia degli studenti. Come se rivedessi me stesso in loro. C’erano
ferite da risanare. Persone da rimettere in piedi. Lacrime da asciugare. Se
fossi riuscito a fare questo, pensai, avrei affermato un principio di umanità
sul quale altri avrebbero potuto costruire.
Ma cosa succede quando un maestro resta da solo? Questo mi chiedo
guardando Sharif. È stato il ginnasta dell’adolescenza. Il timoniere degli
scalmanati. L’artista dei tempi morti. Il giudice senza codici. Per decenni,
giorno dopo giorno ha lasciato che nella sua coscienza impavida s’incidesse
il colpo a vuoto del quindicenne, la mortificazione dell’energia sprecata,
l’avventura di chi ricomincia da capo, trattenendo dentro di sé il clamore
emotivo del successo e l’amarezza velenosa della sconfitta, come se fossero
carte false di un gioco molto più grande che lui non poteva dominare ma a
cui, ne fosse consapevole oppure no, partecipava con tutta la forza
disponibile.
Cosa farà quest’uomo dei dolori, profeta senza tempo, nocchiero
confinato sul molo, quando fra dieci minuti ce ne andremo? Me lo
immagino dirigersi con lentezza alla lavagna a scrivere una lettera, un
numero, a fare un disegno, a illustrare uno schema, sostenuto dal Dio svelto
dell’infanzia e dell’adolescenza che non ha mai dimenticato, unico pegno di
una scommessa spesso perduta in partenza. Eccolo mentre si alza e ci
accompagna alla macchina, titubante e fragile, ma deciso nell’alzare il
braccio dell’addio.
Il sorriso di Omar e Faris, quando rientriamo nell’abitacolo, sembra aver
assorbito il commiato del vecchio. È ciò che l’insegnante lascia nei suoi
scolari. Dallo specchietto retrovisore, imboccando la via del ritorno,
raccolgo anch’io il saluto di Sharif: una pietra preziosa nell’estremo
bagliore del tramonto. Solo in quel momento mi rendo conto che lui, prima
ancora di conoscermi, mi aveva consegnato il testimone della giovinezza
che i due ragazzi rappresentano.
Nel mondo delle creazioni esclusive
Milano

Il 4 ottobre 1941 Lorenzo aveva fatto domanda d’iscrizione all’Accademia


di Brera. Lo esclami, fra te e te, in piazza della Repubblica, nel punto in cui
c’era lo studio che Oreste del Buono definì “troppo bello perfino per
appartenere a un pittore vero”.
Te lo immagini, questo ragazzo della buona borghesia italiana che decide
di diventare un artista, lo dice in famiglia e subito viene accontentato. I
genitori liberano le sterpaglie di fronte al desiderio espresso. Gli affittano i
locali dove può esercitare le sue doti, provare i colori, abbozzare i disegni.
Non lo possono sapere, ma stanno creando i presupposti affinché, in un
futuro nemmeno troppo lontano, la consapevolezza del privilegio ottenuto
si trasformi in una sostanza vischiosa provocando, di fronte ai ragazzini più
poveri, il disprezzo per la classe sociale da cui lui proviene.
È una domenica vuota di inizio giugno, umida e piovosa. Hai pernottato
in un alberghetto con le stanze piccolissime, poco più che sgabuzzini. Sei
pronto a entrare in azione.
Albano Milani si era trasferito nella capitale lombarda insieme a tutta la
famiglia nei primi anni Trenta, per motivi di lavoro. Il crollo di Wall Street,
dall’altra parte dell’Atlantico, aveva gettato un’ombra lunga sulle
magnifiche sorti e progressive del nostro Paese che, pochi anni prima, si era
consegnato al regime fascista con la tipica incoscienza della nazione ancora
troppo giovane e immatura per capire cosa ciò significasse. La situazione
economica continuava a essere florida, tuttavia non si poteva restare con le
mani in mano a vivere di rendita. Perfino i Milani dovevano mettersi a
lavorare. La palazzina di via Principe Eugenio era stata venduta. Le altre
residenze vennero conservate nel patrimonio immobiliare: soprattutto quella
di Montespertoli, che produceva ricchezza.
Sei qui a consumarti nell’illusione di poter rivivere la densità della
giovinezza del priore, al tempo in cui lui non aveva ancora trovato se stesso.
Ti consideri un cultore dei momenti cruciali che presiedono alle scelte
importanti: per questo fai l’insegnante. Vorresti capire cosa c’è dietro la
singolarità di una vita. Perché uno diventa questo, l’altro diventa quello.
Fino a che punto contano le matrici sociali e le combinazioni chimiche dei
talenti, delle predisposizioni genetiche. Ti piacerebbe sondare
l’imprevedibilità dei rapporti, delle coincidenze. Potresti anche accettare
una zona di mistero nel destino dell’uomo, ma non prima di averla
attraversata con il corpo, come se soltanto nel fuoco dell’esplosione vitale
potessi certificare, scrivendo, la tua presenza, la tua legittimità in questo
mondo.
Pensi al lungo viale di marmo che porta alla stazione Centrale come allo
scenario dei suoi frequenti ritorni a Firenze, fino all’ultimo, definitivo, nella
primavera del 1943. Saverio Tutino, carissimo amico della gioventù
ambrosiana, lo accompagnò al binario, aiutandolo a trasportare i quadri
rimasti. Era la fine di una stagione, perché Lorenzo aveva già deciso di farsi
prete.
Vuoi rivivere gli anni precedenti: il passato rimosso, all’epoca in cui il
ragazzo giocava a tennis sul campo della società sportiva “Forza e
coraggio”, in via Gallura 8, vicino a Porta Romana, oppure si allenava nei
parchi sotto casa con l’intenzione di irrobustirsi. Correva, avrebbe voluto
praticare l’atletica leggera ma, a differenza del fratello Adriano che
primeggiava nello sport come cavallerizzo e sciatore, Lorenzo era
deboluccio e tuttavia non demordeva. La cocciutaggine del carattere e la
strenua volontà lo sostenevano.
Milano resterà sempre un polo importante, soprattutto per i legami
sociali, che egli riuscirà a utilizzare in favore dei più poveri. Da Barbiana
scriverà lettere accorate alla famiglia Ichino, a Elena e Franco Brambilla,
chiedendo denaro e permessi per i suoi studenti, che diverse volte
visiteranno la città: i rapporti con questi amici erano di lunga data,
risalivano al tempo in cui lui stesso abitava accanto a loro.

Il tuo sguardo è rivolto verso viale Ferdinando di Savoia. I grattacieli


aprono uno scorcio urbano di vetro e cemento armato. Le piccole aiuole
verdi poste di fronte sembrano resti di un’altra vecchia città, pateticamente
sorpassata dalla nuova che, vittoriosa, ha preso il largo. Hai l’impressione di
vivere nel sogno della metropoli europea del Terzo Millennio, così come la
potrebbe progettare il più diligente fra tutti gli architetti modernisti.
“Agata Christie, investigazioni” leggi su un cartello pubblicitario. Due o
tre corridori in tuta elastica fanno footing approfittando della solitudine
festiva. Le ultime biciclette da noleggiare sono agganciate ai sostegni di
ferro come farfalle malate.

Siamo tutti morti e resuscitati, caro Lorenzo. Vorresti dirglielo in faccia, se


mai ti potesse ascoltare, mentre fai il giro della piazza. Stai cercando di
parlare a un fantasma. Non è più la sua Italia. Ma forse fatichi anche tu a
sentirla tua: da queste parti ci venivi da giovane, quando lavoravi all’ufficio
stampa della Renault. Non potevi sapere che un giorno saresti tornato qui
apposta per comporre questo capitolo: Roma-Milano, andata e ritorno.
Senza vedere amici, persone. Senza dire niente a nessuno. Senza combinare
appuntamenti. Fai sempre così quando cominci un nuovo libro: diventi un
agente segreto.
Ti affacci in piazza San Gioachimo. La vecchia chiesa, accanto alle
architetture vertiginose dell’Unicredit, assomiglia a un reperto. La
conchiglia preziosa da conservare sul comodino. Passa il tram numero 33,
arancione e scassato, diretto al capolinea di viale Lunigiana. Polvere di
Luciano Bianciardi che, il 5 gennaio 1959, recensì Esperienze pastorali su
“Il Nazionale” mostrando di avere, nonostante la differente visione del
mondo, una notevole congenialità con quel prete: “Un moralismo che noi
non accettiamo nei suoi fondamenti dottrinari, ma che tuttavia auspichiamo
di veder emergere fra chi accetta la dottrina cristiana, e con il quale siamo
certi di poter discutere con reciproco frutto”.
Nel vortice urbano dei nuovi palazzi inclinati sulla strada come
sentinelle esauste dopo il turno di notte, quindi sul punto di crollare,
trasformi la letteratura in carta copiativa dei sentimenti che provi qui e ora.
Ti vengono in mente i versi di Delio Tessa: “Pissatoj di temp andaa, / alla
bonna, sul canton, / nient pretes e invernisaa / con ona man de godron; /
senza lussi e senza gioeugh /de idraulica, ma a loeugh!” (Pisciatoi dei tempi
andati, /alla buona, sul cantone, / niente pretese e verniciati /con una mano
di catrame; senza lussi e senza giochi / di idraulica, ma al posto giusto).
Riapri gli occhi e, come un bambino, sillabi ciò che leggi sui grandi
cartelloni: «Estée Lauder. Revitalizing Supreme. La Crème Anti-Age ad
azione globale».

Lorenzo morì a poco più di quarant’anni facendo lezione ai ragazzi fino


all’ultimo giorno. Cosa ne sarà di noi? Andremo tutti in pasto ai vermi.
Completi il giro della piazza. Fantastichi su dove potesse essere ubicato il
suo studio: al numero 26? Al numero 28? Se lo volessi davvero sapere, non
tarderesti a ottenere l’informazione, specie oggi, che tutti sanno tutto.
Superi transenne, passi carrabili e cartelli di “Affittasi”, col verso delle
gracchie che ricordi di aver sentito così forte soltanto a Mosca, quando
cercavi lo spirito di Lev Tolstoj, il più grande fra i maestri scrittori.
Era qui che Lorenzo ritrasse Tiziana, la ragazza dai capelli rossi
conosciuta nelle aule dell’Accademia di Brera. Pare non fosse la sola a
scendere negli scantinati per fare da modella al giovane fiorentino. Magari
ci veniva anche Carla Sborgia, da molti indicata, a torto o ragione, quale sua
fidanzata. Una sirena dell’ambulanza si perde lontano come il miagolio di
un gatto imprigionato nel fosso. La medesima sensazione che provasti a
Castel Pulci, di fronte al manicomio dove morì Dino Campana, un altro
eroe dell’Appennino tosco-emiliano.
Milano non la riconosci più! Sembra una città tedesca, bombardata e
ricostruita. Cos’è successo?
Te lo rivela, a pezzi e bocconi, il cinese al semaforo:
«Deveto trafico, no machine, tuto femo.»
Adesso capisci. È l’ultima domenica ecologica proclamata a chiare
lettere sui manifesti stradali. Ecco perché non circola anima viva. Al tempo
di Lorenzo, piazza della Repubblica si chiamava piazza Fiume. Non sai
neppure se gli stabili sono gli stessi del secolo scorso. Alcune modelle
filiformi, provenienti da qualche villaggio ucraino o siberiano, stanno per
essere fotografate sullo sfondo della stazione. L’inserviente giapponese apre
l’ombrello dietro le ragazze per fare un po’ di scena. I pensionati si fermano
a guardare. I mendicanti procedono oltre. Le badanti vanno a fare i turni. I
passerotti saltellano rigidi sui marciapiedi ancora bagnati.
Torni indietro all’albergo, perché ti sei dimenticato i numeri civici delle
strade in cui abitò don Milani. Te li eri appuntati in un taccuino rimasto
dentro la tasca dello zaino. I tempi morti come questo ti fanno pensare che
noi siamo fatti non soltanto di ossa e carne – le azioni di rilievo, i gesti che
contano, le imprese memorabili – ma anche di nervi e cartilagini, i
fraintendimenti, gli equivoci, le distrazioni. Don Lorenzo aveva mischiato
tutto:

Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo.

Non sarebbe mai diventato un narratore. Per scrivere un romanzo


bisogna diluire, differire, dilatare. Lui invece sceglieva la via più diretta, a
costo di semplificare. È stato uno straordinario scrittore di lettere, nella più
pura tradizione letteraria italiana, pensando a Jacopo Ortis. Le indirizzava a
tutti, alla maniera di Moses Herzog, il quale fra i suoi destinatari contempla
anche Dio, nel capolavoro di Saul Bellow, forse il confronto più suggestivo
fra quelli tentati da Giorgio Pecorini in Don Milani! Chi era costui?
Tempo pieno a oltranza: questo era il suo credo pedagogico. La vita è un
motore sempre acceso, chissà, forse perfino quando lo spegni. Ecco perché
ridurre in senso precettistico la polemica contro la ricreazione, presente in
Esperienze pastorali, significa fraintendere il libro. La parrocchia non
dovrebbe essere un’agenzia di servizi, pensava don Lorenzo, quindi
nemmeno la Chiesa. Se così fosse, sarebbe “una bestemmia del tempo”.
Imbocchi via Turati inoltrandoti nei quartieri di Pierino. Appena
oltrepassi gli archi delle Mura Nuove, edificate dopo l’assedio di Federico
Barbarossa (che quest’anno hai spiegato con appunti estemporanei ai tuoi
Gianni, ripetenti dell’istituto professionale), sei già in via Spiga, fra le
boutique, alcune chiuse, altre sorprendentemente aperte. A stento trattieni la
risonanza manzoniana – a pochi passi c’è la casa dello scrittore – che ti
sembra alimentare il tuo cammino.
Le vetrine di Bikkembergs e Pakerson sono precipitate qui da chissà
quale altrove. Punteggiano le recinzioni medioevali, come astronavi di
plastica nei deserti della storia.
Quando arrivi davanti all’istituto comprensivo statale Rossari-
Castiglioni, all’incrocio con via Borgospesso, hai la sensazione di una
violenta lacerazione interiore fra i negozi d’alta moda sparsi tutt’intorno,
Filippi, Botticelli, Sermoneta, Pratesi, e l’ingresso antico, dall’aura
ottocentesca, con il tricolore che s’affloscia logoro sullo stemma “Scuola
elementare. Repubblica italiana”, dove don Lorenzo Milani frequentò la
quinta. Mancano soltanto Pinocchio e i due carabinieri per comporre il
ritratto di un Paese lontano, perduto per sempre laggiù nella scarpata, fra i
vecchi cartelloni di Niccolò Machiavelli, il bacio di Francesco Hayez e i
cappelli piumati che Baldassare Verazzi calca sulla testa dei suoi eroi
antiaustriaci.
Il cancello d’entrata dà sul negozio di Roberto Cavalli. Perlustri l’intero
edificio. Sul portone in via Santo Spirito c’è il dépliant semistrappato di
un’iniziativa didattica coi piccoli allievi che intervistano i giornalisti del
“Corriere della Sera”.
Come in un flash della memoria, ripensi a quello che succedeva quando
gli inviati dei principali giornali, insieme a personaggi d’ogni risma,
salivano a Barbiana per documentare l’attività di quello strano prete: quasi
sempre tornavano indietro mortificati e affranti. I piccoli allievi, sotto la
regia neppure troppo occulta del maestro, mostravano un’implacabile
severità di giudizio che talvolta disorientava gli ospiti giunti fin lassù con
intenzioni benevole. Perfino Pietro Ingrao, che pure in teoria avrebbe
dovuto riscuotere consensi indifferenziati tra le famiglie dei piccoli
montanari, sentì la forza tagliente dell’interlocutore in abito talare che,
specie all’inizio, parve considerarlo, in quanto politico comunista, non
esattamente al di sopra dei sospetti.
Le guardie giurate stazionano all’ingresso dei negozi posti accanto alla
vecchia scuola: Dolce e Gabbana, Pollini e Tod’s. Sono giovani arabi o
africani rivestiti come manichini con giacca, cravatta e pantaloni attillati.
Credi di sapere da dove vengono, se non loro, i genitori: villaggi senza
acqua corrente né luce elettrica, la sera fa buio alle sei e il capofamiglia,
prima che tutto diventi scuro, raduna donne e bambini per mangiare seduti a
terra intorno alla grande ciotola di riso. Non ti sei mai sentito così vicino a
queste malinconiche sentinelle del mercato contemporaneo. Quasi
ammettessero, in fantastico accordo coi migliori esegeti di don Lorenzo:
siamo noi i ragazzi di Barbiana! Ci hanno infilato i giubbotti della Fay, le
mutande di Armani, difficile non sentirci maschere in uno spettacolo
teatrale.
Mentre scendi giù verso via Senato, vorresti chiedergli: a chi state
facendo la guardia? Loro ti risponderebbero: al mondo delle creazioni
esclusive.
Percorri la strada che faceva Lorenzo da bambino per tornare a casa: via
San Damiano, corso Monforte. Lo accompagnava di sicuro una tata. Palazzi
aviti, stucchi, bassorilievi, balconi, bandiere. La prefettura, l’agenzia del
demanio. La tua direzione è via del Conservatorio 26. In questa zona ricca,
elegante, all’incrocio con via Pietro Mascagni, abitavano i Milani. Il piccolo
alunno correva verso il portone. Potrebbe aver avuto perfino i pattini, nel
sogno guasto della sua mitica infanzia. Fermati! Non attraversare! Stai
attento! Così gli avranno detto quando lui camminava svelto anticipando le
sue guide.
Ti metti a sedere su una panchina vicino al fioraio bengalese col quale
scambi qualche sorriso. Vorresti chiedergli se da bambino, a Dacca, ha
avuto il tempo di giocare davanti al palazzo del governo di Louis Khan,
oppure quel capolavoro architettonico è rimasto misterioso ai suoi occhi,
come la casa delle fate. Passa l’autobus: fai appena in tempo a osservare
l’immagine della pubblicità con l’ultimo film: Into Darkness. Due ucraine
stanno aspettando il taxi: le senti chiacchierare. Quanti mondi transitano
uno accanto all’altro senza riuscire a vedersi, a parlarsi, almeno a farsi ciao
con la mano!
Era questo che il priore non sopportava: avrebbe voluto portare il
Paradiso in terra, anche se sapeva benissimo che era impossibile: “Non si
può amare tutti gli uomini” scrisse sempre a Nadia Neri. E aggiunse:

Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una
classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero
di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E
siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare
evidente che Dio non ci chiede di più.

Dovevi venire qui per capire il tavolo sporco di Barbiana. La pioggia che il
maestro si prendeva restando fermo davanti alla casa del ragazzo da
trascinare a tutti i costi a scuola, convincendo suo padre e sua madre a
lasciarlo andare. Forse la chiave sta in una distinzione che il priore farà,
nella lettera del 17 luglio 1957 indirizzata a don Ezio Palombo, che gli
aveva chiesto un consiglio sul problema dell’elemosina, fra l’offerta ai
lebbrosi dell’isola di Maimaimai e quella a favore del disoccupato pratese:
quest’ultimo lo vedi, gli altri te li dimentichi. Perché di loro non puoi dire,
come del tuo vicino: “È il Signore che me l’ha fatto venire all’uscio”. Poco
più oltre:
Il cristiano agisce per amore di Dio e ama il prossimo solo per interiore
obbligo. Il filantropo invece ama il prossimo e basta [...]. In altre parole: al
cristiano l’elemosina ottiene la sua efficacia nell’attimo che parte dal
portafoglio; al filantropo solo nell’attimo che arriva a quell’altro
portafoglio.

Così a Lorenzo decidi di perdonargli tutto: le intemperanze, le


insofferenze, la rabbia, gli scarti d’umore.
È sufficiente un altro quarto d’ora di cammino per arrivare in via
Fiamma 15, la seconda residenza dei Milani: un palazzo in cortina di fronte
a una schiera di biciclette da noleggio. Mangi un panino in un bar: te lo
serve una ragazza con gli occhi a mandorla. Ripensi ai missionari cinesi i
quali, secondo don Lorenzo, avrebbero dovuto evangelizzare il nuovo
mondo. Così leggiamo nella pagina iniziale di Esperienze pastorali:

Questo lavoro è dedicato ai Missionari Cinesi del Vicariato Apostolico


d’Etruria, perché contemplando i ruderi del nostro campanile e
domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi, abbiano dalla
nostra stessa confessione esauriente risposta.
Lui solo vogliano dunque ringraziare della nostra giusta condanna che
ad essi ha dato occasione di eterna salvezza.
Se dunque da questa umile opera potranno per il loro ministero trovare
ammaestramento, non manchino di pregare in cinese il Cristo
misericordioso perché dei nostri errori, di cui siamo stati a un tempo
vittime ed autori, voglia misericordiosamente abbreviarci la pena.

La prima volta in cui hai pensato di scrivere un libro su don Milani è stato
proprio in Cina, in piazza Tienanmen, davanti alla salma imbalsamata di
Mao. Avevi fatto una fila lunga ore all’unico scopo di poter dare
un’occhiata alla faccia gonfia del Grande Timoniere. Vecchi contadini erano
giunti da chissà quali villaggi sperduti per rendere l’estremo omaggio
all’idolo incontrastato della loro giovinezza. Procedevano caracollanti, coi
bottoni della divisa grigia chiusi fin sul collo. Assomigliavano a manichini.
A stento trattenevano le lacrime. Guardandoli, ti venne in mente Pipetta, il
comunista di Calenzano. “Qui tramonta il Sol dell’Avvenire” ti venne da
dire quasi a voce alta. D’improvviso la Falce e il Martello e tutte le
Bandiere Rosse del ventesimo secolo ti apparvero distanti, come i capricci
di scale e arcate con catene riprodotti nelle acqueforti di Giovanni Battista
Piranesi, quasi fossero anch’essi simboli di un mondo perduto.
Giovani con le braccia tatuate giocano assorti alle macchinette
mangiasoldi. Ecco dove rischiano di andare a finire anche i tuoi ripetenti.
L’occhio del priore restò sempre incollato su quelli così:

Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno


insegnato a vivere.

Ti pare di sentirli: “Chi, noi? Stai scherzando? Noi siamo degli scarti.
Abbiamo lo stesso valore del due di coppe a briscola. Facciamo zero punti”.
Ma lui, in quella stessa pagina, insiste:

Sono loro che han fatto di me quel prete dal quale vanno volentieri a
scuola, del quale si fidano più che dei loro capi politici, per il quale fanno
qualsiasi sacrificio, dal quale si confessano a ogni peccato senza aspettare
che sia festa. Io non ero così e perciò non potrò mai dimenticare quel che
ho avuto da loro.

Era la stagione di Calenzano. Molti anni prima, da ragazzo, per andare a


scuola imboccava questa strada, arrivava fino in corso XXII Marzo,
superava Porta Vittoria, transitava sotto il nuovissimo Palazzo di Giustizia,
che proprio a quel tempo Giovanni Piacentini aveva ultimato. Con la
cartella sottobraccio, si dirigeva al liceo Berchet, in via della Commenda,
uno dei cuori dell’intelligenza italiana.
Lo stesso percorso che stai facendo tu. Segui le tracce. Annusi gli odori.
Parli coi morti. Seduto a un tavolino vuoto del “Punto Break”, in via
Freguglia, osservi i finestroni del tribunale deserto, con il cinguettio degli
uccelli, la noia dei guardiani spaparanzati all’interno. Pagheresti oro per
trascorrere le ore notturne là dentro.
Torni a riflettere sul vecchio mito novecentesco: l’uguaglianza delle
posizioni di partenza. Mao o non Mao, è rimasto tutto irrisolto: Romoletto,
il tuo studente peggiore, se fosse nato a Firenze, in via Principe Eugenio,
invece che nei palazzi del Serpentone, a Corviale, una borgata romana,
sarebbe uno dei migliori: si vede da come organizza la frase. Continua a
commettere errori ortografici, sbaglia i congiuntivi, dispone di un lessico
limitato, ma quel senso plastico della sintassi che, nonostante ciò, sfoggia
nel tema, non gliel’hai insegnato tu. È una dote genetica, come il dribbling
nel calcio. Gli occhi azzurri del neonato. Se Romoletto avesse potuto
svilupparla, avrebbe avuto a sua disposizione uno strumento inventivo di
prim’ordine.
Don Lorenzo ripropose la grande questione con radicalità ben superiore
alla semplice promessa politica, in quanto sin dall’inizio, contrariamente a
quello che pensa la maggioranza dei suoi detrattori, quasi sempre accecati
da una posizione precostituita, non si illuse mai nemmeno per un istante di
poter soltanto immaginare la realizzazione di tale assunto: a nessun livello,
né scolastico, né tantomeno sociale. Ciò che davvero contava per lui,
quando dava tutto ai poveri, era far nascere in chi fosse stato favorito, dalla
sorte o dalla propria intraprendenza, la consapevolezza del vantaggio di cui
godeva. Gli bastò conficcare questa spina nel fianco dei signorini.
È stato lo stesso Pietro Ichino ormai grande, che il priore non vedeva
l’ora di portare a Barbiana (“Quando avremo la gioia di mettere la tuta a
Pietro?” domandava scherzoso a sua madre Francesca in una lettera del 23
giugno 1963) a dichiararlo con ammirevole onestà intellettuale in un
articolo pubblicato il 18 aprile 2014 sul “Corriere della Sera”:
“Non ho ancora finito di restituire, e non finirò mai. Perché ‘Pierino’ di
Lettera a una professoressa ero allora, e ‘Pierino’ sono rimasto tutta la vita;
non ho mai cercato privilegi, ma i privilegi hanno sempre cercato me,
perché alla loro radice sta tutto quello che ho avuto in sorte nei primi
vent’anni. Così, per quanto io cerchi di sdebitarmi, l’obbligo di restituzione
derivante da quell’avviso di don Lorenzo di cinquant’anni fa non è mai
estinto; anzi, aumenta in continuazione.”

La domenica non c’è nessuno davanti al liceo Berchet. Appoggi la testa sul
cancello e scruti il cortile interno coi canestri da basket, gli scatoloni
ammucchiati, le panchine spoglie. Ci dev’essere un guardiano che abita qui
con la famiglia.
Lorenzo aveva imparato a leggere e scrivere a casa. Non ebbe mai un
buon rapporto con le istituzioni scolastiche. In terza ginnasio non era andato
oltre la sufficienza, solo in cultura militare aveva preso sette. I docenti del
regio liceo Chiabrera di Savona, dove trascorse un paio d’anni affidato alle
cure di zia Beatrice Rigutini, soprannominata Bea, nella speranza che
potesse guarire dai suoi problemi di salute, lo avevano rimandato a ottobre
con “tre” in italiano e “quattro” in latino. Diede gli esami di riparazione in
questo stabile. Nell’anno scolastico 1939-40, mentre le truppe hitleriane
d’intesa con quelle staliniane si spartivano la Polonia, Lorenzo rischiò di
abbandonare gli studi.
Qualche mese dopo tentò di passare in terza liceo: ce la fece soltanto
grazie al tema d’italiano. I ragazzi presero quasi tutti il diploma in fretta e
furia perché c’era altro a cui pensare. Lorenzo non volle iscriversi
all’università.
«E cosa vuoi fare?» gli chiese il dottor Albano.
«Il pittore» rispose lui.
Addio, addio, vita!
New York, 2010

Gli emigranti che, agli inizi del Novecento, dopo aver attraversato l’Oceano
Atlantico, sbarcavano a New York, non conoscevano la lingua inglese.
Cominciavano a studiarla nelle aule del Lower East Side, più simili a
bettole e magazzini che a vere e proprie scuole. Sono appena stato a Ellis
Island, il famoso isolotto che fungeva da punto di primo smistamento dei
nuovi arrivati. Ho fotografato il vecchio cartellone scritto in un italiano
ancora incerto:
“Il governo degli Stati Uniti e le scuole pubbliche aiutano i nostri Amici
Stranieri che fanno Applicazione per Ottenere CITTADINANZA AMERICANA
ed imparare la nostra lingua ed i principi del nostro Governo per prepararsi
a essere buoni cittadini. Il Governo fornisce gratis i libri di testo. Iscrivetevi
subito. Venite a Scuola.”

Me ne vado in giro per Little Italy. Nel museo dell’immigrazione ho


comprato una cartolina in cui si vede una schiera di bambini seduti davanti
alla lavagna in Mottstreet. “I won’t to speak english. I must try a good job.
The names of my parents are Pasquale (father) and Assuntina (mother).”
Siciliani, calabresi, napoletani. Se non fosse per i vestiti, sarebbero uguali,
in tutto e per tutto, ai miei studenti arabi, slavi, africani, ai quali insegno
l’italiano. “Io vengo da Egito. Devi imparare taliano. Io voio fare pizetaio,
bezinaio, mecanico.” Così dicono e scrivono, proprio come facevamo noi
un secolo fa.
La stradina che un tempo ospitava l’aula scolastica è un susseguirsi di
saracinesche chiuse, garage, negozietti cinesi, qualche pizzeria col neon
tricolore. Downtown sembra sempre la stessa col fumo che esce dalle
fogne, l’odore di pesce marcio, gli obesi con la bottiglia di birra nel tascone
dei jeans, gli uomini riuniti a convegno all’angolo delle strade. Così me la
ricordavo quando venni qui la prima volta, da ragazzo, vagheggiando chissà
quali avventure. E così adesso la ritrovo.
“Ma questa non è la Sicilia” spiega Arthur Miller in Uno sguardo dal
ponte, “è Red Hook; quella specie di bassoporto di Brooklyn, che dal ponte
va verso l’Atlantico: ed è la gola di New York, che inghiotte tutto il
tonnellaggio del mondo. Ormai siamo tutti americani, tutti civili. Ci
mettiamo d’accordo, trattiamo; e io non ho più bisogno di tenere una pistola
nel cassetto della scrivania.”
“Where liberty is my country” c’era scritto all’entrata di Ellis Island.
Firmato Beniamino Franklin. A ognuno deve essere data la medesima
opportunità.
Come dimenticare quelli che non ce l’hanno fatta? Con l’iPhone avevo
immortalato sulle pareti del museo all’aperto una lista di falliti:
Affinati Amedeo, Ferentino (1920-30).
Affinati Felice, Morolo (1904-22).
Affinati Gaspare, Ferentino (1913-22).
Affinati Giovanni, Morolo (1909-23).
Affinati Giuseppe, Morolo (1901-23).

Ciociari pazzi. Miei antenati. Partirono e, passati diversi anni, tornarono


indietro con le pive nel sacco. Morirono di vecchiaia sotto il pergolato di
qualche orto alle pendici dei Monti Aurunci. L’America per loro restò un
sogno.
Monto sull’underground quasi in trance, mischiandomi alla folla. Ogni
tanto consulto un taccuino dove ho copiato a penna alcune citazioni: “Tutto
un popolo di nevrotici che lottano per impedirsi di essere sani” scriveva nel
1963 Amiri Baraka in Dutchman attribuendo questa riflessione al giovane
Clay.
Molto tempo dopo, Don De Lillo, nella prima parte di Libra,
immaginando l’adolescenza di Lee Harvey Oswald, il futuro assassino di
John Fitzgerald Kennedy, aggiungeva:
“Quello era l’anno in cui prendeva la metropolitana fino ai margini della
città, duecento miglia di binari. Gli piaceva stare nella prima fila della
carrozza anteriore, le mani premute contro il vetro. Il treno fendeva
l’oscurità. La gente stava sulle banchine, gli occhi fissi nel nulla, uno
sguardo diventato ormai un’abitudine.”
Riemergo che sta facendo buio. Le voci mi ronzano dentro. Quella di
Emanuel Carnevali:
“È New York, ti dico / una città che vive / di lavoro / per uomini più forti
di me; / di doveri / per una coscienza diversa / dalla mia”. Un altro che
tornò indietro senza aver concluso un bel nulla. Però aveva talento.
Oppure questo sussurro, proveniente da Città di Dio di Edgar Lawrence
Doctorow:
“È sottile, intelligente, sofisticata e di una bellezza che ti toglie il fiato. E
luccica e sfavilla come luccicano e sfavillano tutte le cose che si possono
rompere”.
Isaac Singer, in Ombre sull’Hudson, ci fa capire cosa vuol dire essere
profughi:
“La via era affollata di bambini. Gli addetti alla nettezza urbana
facevano rotolare bidoni verso camion che trituravano la spazzatura.
Portoricani – seminudi, in camicie multicolori, con facce che parlavano di
innumerevoli guerre, secoli di incroci razziali, atti primordiali di violenza,
un dolore senza limiti che lo scorrere di generazioni non poteva cancellare –
sedevano su soglie o portichetti.”
Arrivo dove finisce l’isola. Da una parte sfrecciano le automobili,
dall’altra si sente lo sciabordio dell’acqua. “La sera i pazienti puntavano lo
sguardo, oltre il fiume, sullo zuccherificio Jack Frost, e se là c’era una nave
che scaricava, avevano l’impressione che potesse recare qualche notizia
speciale per loro, annunciare la liberazione. Ma non arriverà mai nessuno.”
Tutto mi parla di te, Malcolm Lowry, qui, sotto la sopraelevata: la sirena
dei rimorchiatori, lo stridio dei gabbiani, il foglio dei giornali accartocciati
sulla panchina, la scritta in rosso fosforescente PEPSI COLA , laggiù, sulla
costa di Brooklyn. Tutto mi parla di te qui sull’East River, sotto i casermoni
del Bellevue Hospital, nella cui ala psichiatrica ambientasti i cartoni
preparatori di Caustico lunare. Tutto mi parla di te, anche se ogni cosa è
cambiata, il mondo non è più come il tuo ma continua a rotolare e così farà
dopo di noi. Morte quotidiana. Ma quel vagabondo che poco fa lanciava
pane secco agli uccelli appoggiati sulla ringhiera, dimmi, Malcolm, eri tu?
Perché non mi hai detto niente?
“Addio, addio, vita!”
Autoritratto con orecchie rosse
Firenze

Fai gli scaloni di Palazzo Medici a due a due: vuoi anticipare gli eventi.
Temi forse che possano sfuggirti? In poche sale semivuote sono esposti i
quadri che Lorenzo dipinse dai diciotto ai vent’anni: una bella occasione
per capire chi fosse poco prima di spiccare il grande salto. Nell’estate del
1941 frequentò lo studio fiorentino del pittore tedesco Hans Joachim
Staude, in via delle Campora, presso cui il padre, dietro consiglio di Giorgio
Pasquali, lo aveva indirizzato. Era la stagione dell’inquietudine ma non
dell’inconsapevolezza, vista l’energia fantastica di cui il ragazzo disponeva.
Hai letto l’intervista che Staude, ormai anziano, concesse a Neera Fallaci
nel 1973, tre mesi prima di morire, nel padiglione dell’ospedale dov’era
ricoverato e ti sei appuntato la sua frase lapidaria: “Non ho mai creduto,
neanche per un momento, che la pittura fosse la strada di Lorenzo Milani:
mai”.
Il giovane pronipote del grande umanista Comparetti aveva trascorso
l’estate della dichiarazione di guerra ad Arolo di Leggiuno, sul lago
Maggiore, dove gli Staude avevano una residenza. S’era messo accanto al
maestro, padre di Angela, che poi sarebbe diventata la moglie di Tiziano
Terzani, spostando il cavalletto per seguirlo, senza mostrare nessun tratto di
originalità. Gli andava dietro come un segugio, evitando di prendere
qualsiasi iniziativa. Voleva imparare i rudimenti del mestiere, ma non aveva
il sacro fuoco. Leggeva Gabriele D’Annunzio. Era uno sportivo.
S’impratichiva coi colori. Abbozzava disegni. Giocava agli scacchi.
Discuteva della Divina Commedia.
Una foto lo ritrae appoggiato al ponte sul Lambro ad Agliate, frazione di
Carate Brianza. Ai piedi porta i sandali presenti in alcune sue opere. È una
delle immagini più lancinanti che di lui conserviamo: i pantaloni corti, la
camicetta bianca, i folti capelli neri, le braccia piegate all’indietro. Sullo
sfondo si vedono case lungo l’argine molto simili a quelle che dipingeva.
Colpiscono lo sguardo concentrato, attento, l’aria aristocratica da giovane
rampollo quale in tutti i sensi egli era. Siamo alla vigilia del passo cruciale.
Di lì a poco il ragazzo getterà nel pozzo i sandali, i pantaloncini, la
camicetta, uscendo dall’incantesimo. Ecco perché il rigore e la serietà
dell’espressione sembrano l’avanguardia di una rivoluzione spirituale.
Eppure quando scriveva agli amici si mostrava allegro e spensierato. La
lettera, scherzosa, spedita a Oreste del Buono il “35 luglio 1941 (non è
vero, ma che ci posso fare?)” , proprio da Arolo, lo dimostra appieno:

Sputo per terra, dico che sono un coglione, che sono un troia, che sono
un ferrari [un compagno di scuola che Lorenzo considerava superficiale].
Mi piacerebbe fare dei grandi affreschi pieni d’angeli biondi, ma sciare è
molto più bello, anche pattinare a rotelle è più bello, anche cascare dietro il
palazzo di Giustizia è più bello, molto più bello e avere degli amici accanto
è 7 volte e mezzo più bello.

Questa mostra ti appare come il trionfo dell’adolescenza. Lorenzo, coi


pennelli fra le dita, avanza cieco nel labirinto e non trova l’uscita.
Cincischia come se gli mancasse qualcosa. I soggetti che sceglie di
rappresentare sono quanto di più convenzionale potremmo immaginare.
Posti uno accanto all’altro sembrano cartoni di uno spettacolo andato a
monte. Appunti di ciò che poteva essere e non è stato. Provini dimenticati.
Brutte copie di un’esistenza in cerca di se stessa.
Le pareti di case isolate nella campagna.
I cespugli spinosi.
I cipressi dietro i muri rossastri.
Le barche tirate a riva sullo sfondo del tramonto.
Le rocce quasi scolpite dentro la vernice scrostata.
Gli alberi scossi dal vento.
Le brocche di rame.
La mano sospesa.
La testa sul libro.
I volti pensierosi dei giovani compagni.
Che ne faremo di tutto questo?
E tu, dimmi, chi sei?
Dove vuoi andare?
Cosa stai cercando?
L’autoritratto dalle orecchie rosse ti risponde così:

Vedi la mia giacca blu? Più che un vestito, è un’armatura. Una specie di
armadio a cassettoni, tipo quelli che arredavano la tenuta della Gigliola, a
Montespertoli, dove sei già andato. Io ci sto dentro a fatica, quasi fossi
recluso. Mi sono messo dietro le sbarre da solo. Anche le altre giacche dei
quadri, indossate dagli amici, sembrano simili alla mia, tranne lo
spolverino di Oreste del Buono, assai più morbido sopra la camicetta
azzurra: dipende dal fatto che lui, già a quel tempo, era uno scrittore
dichiarato, non come me, sotto mentite spoglie. Noi eravamo tutti borghesi,
questo non c’è nemmeno bisogno che te lo dica, cresciuti nelle bomboniere,
al riparo dalle intemperie. Le esperienze avute assomigliavano ai microbi
osservati sotto il vetrino del microscopio. Non ci toccavano sul serio.
Scivolavano sulla nostra pelle. Poco tempo dopo tutto sarebbe cambiato.
Oreste avrebbe conosciuto i Lager tedeschi. Saverio la Resistenza. Io sarei
diventato un altro uomo. Ma quando stavamo insieme al liceo Berchet,
eravamo dei ragazzini. La cravatta color prugna è schiacciata, non si
riconosce neppure il nodo, pare una macchia. La camicia biancastra ha
una consistenza speciale: più simile a uno straccio di cucina che a un
tessuto di sartoria. Le spalle sembrano i confini degli stati africani, definiti
dall’uomo europeo senza tener conto dei fiumi, delle montagne, dei deserti:
frutto del righello. L’impressione prevalente è che il soggetto del quadro sia
un manichino addobbato dalla vetrinista. Così almeno mi sentivo. E la
parete dietro di me, come la definiresti? Semplice carta regalo, plastica,
cellofan, ciò che ho sempre odiato, la prigione da cui volevo fuggire
quando iniziai a dipingere, anche se ancora non lo sapevo. Il mondo dei
salotti milanesi, con le cameriere, le istitutrici, le lezioni private, i
cioccolatini: tutto quello contro cui mi sono sempre schierato. In questo
autoritratto non ho gambe, non ho braccia, sembro un pupazzo colorato.
Non esiste azione. Il tempo resta fermo. Non sarebbe neppure concepibile
avere un pensiero. La mia faccia è tutto un programma. Leggermente
inclinata sul lato sinistro, esprime una stupefazione infinita. Se tu riuscissi
a spiegare il trasalimento che io non sono riuscito a rappresentare, perché
ero troppo giovane e inesperto e avevo imboccato un sentiero sbagliato, mi
faresti un favore. Credi che quegli occhi grandi con le pupille dilatate siano
soltanto la conseguenza della mia ingenua infatuazione per Vincent Van
Gogh? Cosa sto fissando se non il niente che sentivo intorno a me? Magari
avessi avuto l’ebetudine dei personaggi di Samuel Beckett! Vuoi sapere la
verità? Non potevo essere nemmeno l’uomo di paglia di Thomas Eliot,
ammesso e non concesso che avessi letto La terra desolata. Ero solo un
Pierino inquieto. In quelle condizioni, avrei potuto andare avanti ancora
per molto? Dimmelo tu. Il fatto che non ci fosse scelta a me pare evidente
nei capelli dritti sulla testa, come se avessi appena incrociato un fantasma.
Inutilmente ho cercato di ricomporre i frantumi della tensione
adolescenziale che stavo vivendo nel disegno garbato delle gote, che
sembra fatto da Elena, la mia sorellina, nella stessa fattura del naso,
perfetto come potrebbe essere quello di un santino. Del resto io i nasi li
sapevo fare solo così, nonostante quelli che avevo visto a Brera: guarda gli
altri ritratti e renditene conto da solo. Non è bastata la confezione a
puntino per allontanare il turbamento testimoniato dalle macchie rosse che
mi cospargono il viso, come schizzi di una ferita sulle guance, sulla fronte,
perfino sul mento. Proprio io che, lo sanno tutti, non potevo sopportare la
vista del sangue. Le orecchie sembrano posticce, appena riattaccate,
neanche fossero quelle di un clown bianco, che non fa ridere ma trasmette
solo malinconia. Diciamola chiara: ero sull’orlo di una crisi isterica. Fossi
rimasto ancora qualche tempo vicino a Staude, sarei impazzito. Lui mi
diceva di pensare all’essenziale. Togliere il superfluo. Cercare l’unità. Lo
presi alla lettera e, dopo averlo fatto, non sulle tele, bensì nella vita, glielo
comunicai anche a brutto muso, nel mio stile. Tutta colpa tua, sparai a
bruciapelo. Lui mi guardò come se di fronte avesse uno psicopatico. Ma io
sapevo bene quello che stavo facendo, chissà, forse perfino quando, fra
l’inverno 1941 e la primavera del 1942, lo ha precisato Sandra Gesualdi,
figlia del mio scolaro preferito, nel catalogo della mostra che stai visitando,
dipinsi l’autoritratto. Tale consapevolezza si desume dall’espressione delle
labbra, piegate in un debole sorriso, appena accennato, qualche frazione di
secondo prima che si manifestasse. Non so se fosse proprio autoironico.
Certo indicava la potenza della scelta che, di lì a poco, avrei compiuto.

Ti torna in mente una frase che don Lorenzo scrisse a sua madre, il 29
agosto 1949, da San Donato di Calenzano:
Io son sereno solo quando son sempre “intonato” con ogni evenienza.
Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d’altrui che
possa accadere. Io smisi di fare il pittore solo per questo.

Circa un anno dopo, sempre alla madre, aggiunse:

Noi preti siamo attratti da questi anelli di congiunzione più che da tanti
anelli che son già dentro e non giovano più né a noi per rivedere le nostre
posizioni né a quelli di fuori per esser attratti a entrare.

Vai al finestrone a dare un’occhiata giù, verso via Cavour dove, davanti
alla prefettura, il giovane Lorenzo nel 1943 incontrò don Raffaele Bensi,
che in seguito sarebbe diventato il suo direttore spirituale e ne avrebbe
accolto le prime confessioni. A proposito di raccordi: è davvero un caso il
fatto che questa mostra sia aperta proprio qui? Dovresti considerarla
un’inframettenza? Il cigolio della catena? Lo sbattere della finestra in una
notte insonne – sei sempre in attesa che sbatta di nuovo –, immagine che
Osip Brick usava per farti capire cosa fosse il ritmo poetico? Tutta la ricerca
del ragazzo inquieto è tesa a superare la frammentazione: il tarlo del
Novecento.
Tra lui e chi lo ascolta, o lo conosce, o lo frequenta, o lo legge, scrisse
Michele Ranchetti, non c’è mediazione. Don Milani non cita mai nessuno.
Chi si avvicina alla sua figura, ha l’impressione che non ci siano fonti da
recuperare. È come se il soggetto del quadro appena visto si apprestasse a
fare il vuoto intorno a sé, legittimato soltanto dalla risposta che saprà dare
alla chiamata pronta a raggiungerlo. Lingua sacra e lingua profana
s’identificano. Non c’è interpretazione, ma presenza. Convertirsi significa
trasferire se stessi in un’altra dimensione.
Siamo di fronte a un profeta.
Prendere o lasciare.
Nello sguardo interrogativo dell’autoritratto ferve la vita dell’uomo
adulto, destinato al fallimento, secondo il modello cristologico originario
dell’adozione. Anche Ranchetti frequentò il liceo Berchet e conobbe il
priore. Sempre lui, nella risonanza del vecchio amico, affermò che
diventare padre vuol dire disporsi ad accettare il rischio di essere usati e
gettati via dai figli che fuggiranno in cerca di altri mondi. Il maestro annulla
per questo la singolarità dell’artista: è l’impiegato della stessa tradizione
che deve trasmettere ma, nel momento in cui lo fa, modifica, seppure
impercettibilmente, il passato che non sta mai fermo. Al contrario, appena
noi interpelliamo gli antenati, cambia. Limitarsi a richiamare l’attenzione su
di sé potrebbe compromettere la piena comprensione di ciò che
rappresentiamo gli uni per gli altri.
È la scienza dei rapporti, visibili o insindacabili, fra le azioni umane.
Come se Lorenzo cercasse l’unità spirituale in grado di comporre le tensioni
contrastanti che finora lo avevano lacerato. Quando diventerà prete, tenderà
a favorire nei suoi scolari il medesimo processo associativo, capace di
mettere insieme spunti anche diversi; è questa la ragione per cui faceva in
modo di mandarli all’estero: dovevano uscire dall’ambiente angusto nel
quale erano vissuti. Distribuiva le carte affinché gli alunni potessero fare al
più presto il loro gioco sottraendosi allo schema didattico che avevano
conosciuto. Scrive Adele Corradi:
“Non gli ho mai chiesto nulla sulla sua conversione. Mi limitavo a
registrare nella memoria quello che lui diceva. Capitava infatti che
raccontasse di momenti in cui era avvenuto come un ‘incontro’: la lettura
del libro Il ponte di San Luis Rey, la scoperta del tendine di Achille mentre
sezionava un cadavere (faceva il pittore e ‘un pittore deve conoscere
l’anatomia’), la visita al convento di Monte Oliveto Maggiore (‘chi ci
pensava più agli affreschi... sentendo il canto dei monaci’).”

Sono tre piste importanti. Ti sei riletto il romanzo di Thornton Wilder,


cercando di assumere il punto di vista del signorino. Ricordi la trama
mentre, dopo aver osservato la strada sottostante, torni in sala. La
sorvegliante potrebbe essere una tua studentessa del quinto anno. Avrà forse
un contratto trimestrale. Anche alla cassa parevano tutti giovani.
Era il più bel ponte del Perù, costruito dagli indios con liane
indistruttibili, eppure venerdì 20 luglio 1714, secondo la rievocazione dello
scrittore, a mezzogiorno in punto, si spezzò precipitando nell’abisso cinque
persone. Caso, fatalità, incuria? Frate Ginepro, monaco francescano da anni
impegnato nella missione sudamericana, essendo persuaso che la teologia
sia una scienza esatta, vuole dimostrare il contrario, per questo si chiede chi
fossero le vittime e, dopo aver ricostruito le loro esistenze, scrive un
“memoriale dell’incidente”.
Il frate, il quale tuttavia finirà sul rogo come eretico, crede che la
tragedia andina sia un mero “Atto di Dio”:
“Offriva lo spunto per un laboratorio perfetto. Qui, almeno, l’uomo
poteva sorprendere le Sue intenzioni allo stato puro.”
Meno convinto appare Wilder che nell’introduzione ci consegna, con
implacabile resa stilistica, il referto di uno stallo conoscitivo:
“Alcuni sostengono che per gli dèi siamo come le mosche uccise dai
bambini nei giorni d’estate; altri, invece, dicono che nemmeno i passeri
perdono una piuma se non è il dito di Dio a farla cadere.”
“Lisbonne est abimée, et l’on danse à Paris” chiosava Voltaire nel suo
poema dedicato alla capitale lusitana distrutta dal sisma. Mentre in
quest’ultimo testo conservò una residua speranza, nel Candide, composto
qualche anno dopo, rinunciò a qualsiasi illusione lasciando a Leibniz, suo
bersaglio polemico, quella di credere che il nostro potesse essere il migliore
dei mondi possibili. Così non la pensava nemmeno Heinrich von Kleist
descrivendo in Il terremoto nel Cile, prima ancora che le devastazioni
telluriche, la miserabile strumentalizzazione umana della cosiddetta
provvidenza celeste.
Ma, per tornare allo scrittore americano, egli fa ricadere il peso
dell’interpretazione religiosa interamente sulle spalle della Badessa che,
nella pagina finale, pensa:
“Presto moriremo e ogni ricordo di quei cinque lascerà la Terra, e noi
stessi saremo amati per qualche tempo ancora e poi dimenticati. Ma l’amore
sarà bastato; e tutti gli impulsi dell’amore ritornano all’amore da cui sono
venuti. Nemmeno i ricordi sono necessari all’amore. C’è una terra dei vivi e
una terra dei morti, e il ponte è l’amore, la sola sopravvivenza, il solo
significato.”
Sosti davanti al disegno numero 31. Titolo: Tendine d’Achille, senza
data, presumibilmente 1941. Lorenzo usò la matita per bozza ripassata a
carboncino su carta gialla spessa di uso comune. Sul catalogo leggi: “Studio
anatomico della gamba con descrizione di muscoli e tendini tra cui ‘tendine
d’Achille’ e ‘tibiale anteriore’. Presente una linea netta che parrebbe un
chiodo a fermare i tendini. Sul retro un quadratino.”
La qualità vitale da cui il “piè veloce” attinge forza atletica, risiede nella
regione che ne causerà la morte. Paride, secondo il vecchio mito di Stazio,
scaglierà la sua freccia esattamente lì, dove sapeva che Achille era
vulnerabile.
Provi a riassumere le possibili intuizioni del giovane Lorenzo: Dio non
ci pensa mai uno per uno, ma sempre tutti insieme. Vano sarebbe tentare di
scoprire la ragione che presiede al complesso movimento umano: chi muore
anzitempo, chi soffre quando secondo noi non dovrebbe, chi vince senza
merito. Come potremmo definire una qualità che, nello stile di Achille,
nell’istante in cui ci premia, sentenzia la nostra condanna? Eppure tutto
serve, anche se non ce ne rendiamo conto o non riusciremmo ad
ammetterlo.
La seconda epigrafe posta in esergo a Esperienze pastorali, dopo la
dedica ai missionari cinesi, sarà, citando san Paolo:

I rami sono stati recisi affinché tu fossi innestato.


Per la loro incredulità son stati recisi.
Tu dunque stai saldo nella fede.

Osservi quello che viene considerato l’ultimo quadro di Lorenzo, il


Ragazzo accosciato (già Ragazzo nella pineta), composto con ogni
probabilità nell’estate 1943, poco prima che il pittore imboccasse un’altra
strada, secondo l’espressione che José Luis Corzo evidenzia nella lettera
spedita dal priore a don Antonio Arfanotti il 20 maggio del 1959:

La storia la disegna Dio e non noi e l’unica cosa cui ambisco è di capire
il suo disegno man mano che egli lo svolge, non ambisco a levargli il lapis
di mano e pretendere di diventare un autore della storia.

Il ragazzo, dai capelli biondastri e il volto indecifrabile, seduto a terra


alla luce del tramonto, indossa maglietta e calzoni corti e poggia pensieroso
il mento sul palmo della mano che protegge il ginocchio. Con la destra si
copre il piede. L’altra gamba è ripiegata a sostegno. Un tronco d’albero
leggermente inclinato, appena dietro di lui, emerge dal fondo scuro della
vegetazione.
È l’addio a una fase della vita, l’istante cruciale prima della partenza
definitiva, senza ritorno. Le ombre sembrano striature nel terreno.
L’atmosfera assorta del luogo potrebbe essere quella di Castiglioncello,
oppure la tenuta della Gigliola.

Di’ la verità, non mi riconosci più, vero? Guarda che sono sempre io,
quello dell’autoritratto, anche se non sembra perché lui era più grande di
me e poi aveva i capelli neri mentre i miei sono biondi. Questa è la
cosiddetta libertà artistica in cui ho rischiato di affogare. Ne avevo avuta
perfino troppa, io, di libertà! Cosa mi è successo? In quel momento non lo
sapevo. Stavo con gli occhi chiusi, avrebbe scritto Federico Tozzi. La
gamba sembra finta, è peggio del tronco che incombe dietro. Rigida come
non dovrebbe essere. Venuta male. La mano destra resta sul piede, come se
dovesse proteggere il tendine, diresti tu che vuoi fare l’interprete. Ma
proprio a questa smania di voler dare una spiegazione a ogni cosa mi
apprestavo a rinunciare. Avevo bisogno di entrare in azione. Farmi largo
nel campo delle infinite possibilità. Scegliere questo invece di quello. Basta
coi bambini seduti sul muretto! Basta coi ragazzi in abiti invernali adagiati
sui pigmenti a impasto di olio magro! Basta con gli scolaretti vestiti alla
marinara che seguono una signora bionda con cappellino scuro! Basta coi
fiori gialli su fondo blu! Basta con le bottiglie arancioni! Basta coi vasi a
due fiori! Basta con le trecce di mia sorella e il tailleur bianco che indossa
Ghita Vogel, figlia di Henry, amica sin dai tempi della Gigliola! E basta
anche coi pretini rossi di fronte al cardinale all’interno della chiesa! Come
dirò a don Auro Giubbolini, compagno di seminario, è vero che
m’interessavo di liturgia, ad esempio avrei voluto sapere quale rapporto ci
potesse essere tra un affresco e i fedeli raccolti in preghiera, ne parlavo
spesso con Carla Sborgia in quelle lettere finora non ritrovate, qualcuno
sostiene che siano state distrutte, ma se la pittura avesse come fine solo la
bellezza sarebbe ben poca cosa. Da quel momento in poi non ho voluto più
sapere niente di stucchi, gesso, colla e pastelli.

A proposito di libertà, è illuminante quello che Lorenzo avrebbe scritto alla


madre dal seminario del Cestello il 14 marzo 1944, pochi mesi dopo aver
dipinto l’ultimo quadro:

Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è
costretto a tenersela.
E così, nel momento in cui il ragazzo accosciato nella pineta aprirà gli
occhi rialzandosi in piedi, la sua vita non sarà più quella di prima.
Tutta la sapienza imparata a Brera e Firenze tornerà, tanti anni dopo,
trasfigurata nei mosaici di vetro che abbelliscono la chiesa di Sant’Andrea,
fra i quali spicca il Santo Scolaro, iniziato nel settembre del 1961.
Un fraticello con l’aureola sta leggendo il Vangelo. La testa è nascosta
dalla copertina del libro sacro. La corona del rosario scende lungo il saio.
Alcune nuvolette galleggiano nel cielo azzurro. Sul prato splendono fiori
rossi. I disegni preparatori furono di don Lorenzo, ma alla realizzazione
parteciparono i ragazzi e le ragazze di Barbiana, secondo il modello
dell’arte collettiva che troverà nella Lettera a una professoressa una
compiuta applicazione.

Scendi in strada pensando a una vecchia confessione di Thomas Edward


Lawrence che ti colpì come una freccia quando, tanti anni fa, per la prima
volta la leggesti riportata da Silvio D’Arzo nel saggio che gli dedicò
quand’era ancora quasi un ragazzo. Il colonnello Lawrence, colui che aveva
guidato il popolo arabo alla riscossa contro i turchi nelle sabbia del deserto.
Sofisticato come pochi. “Antico studente di Oxford, innamorato di
medioevo e di gotico e di vecchi castelli e rovine.”
Ti sei fatto fotografare davanti alla sua moto, una Brought Superior
esposta a Londra nella vetrina in fondo all’ingresso dell’Imperial War
Museum, in sella a cui l’aviere Ross, come si faceva chiamare negli ultimi
anni, si schiantò scivolando in una dannata curva nel Dorset.
Se per assurdo questo aristocratico avventuriero fosse stato costretto a
scegliere fra una cattedrale del XV secolo e, proprio ai suoi piedi, sull’erba,
una bambina che gioca a palla, non avrebbe esitato neppure un istante.
Scrive Silvio D’Arzo:
“Per salvare la bambina che gioca, distruggerebbe senz’altro la chiesa.”
Con ogni probabilità Lorenzo restò colpito dalla forza evocativa della
cappella di Nôtre-Dame-du-Haut, il capolavoro che Le Corbusier realizzò a
Ronchamp alla metà degli anni Cinquanta e, ancor più, dal convento della
Tourette, ultimato nel 1960. Del resto, non era stata proprio la Certosa del
Galluzzo a incidersi per sempre nella percezione del giovane artista
svizzero quando, appena ventenne, compì il suo primo viaggio in Italia?
Ogni volta che in automobile transiti accanto alla chiesa dell’autostrada
del Sole, finita tre anni prima della morte di don Milani, risenti la scossa di
Le Corbusier. Giovanni Michelucci, che progettò l’edificio religioso posto
accanto al nastro d’asfalto, assorbe come un’eco la forza del grande
architetto. Michelucci era amico del priore, aveva Esperienze pastorali sul
comodino e ci meditava sopra da anni, “uomo umilissimo, autodidatta”,
secondo la definizione di Lorenzo, che lo teneva in grande stima, al punto
che avrebbe dovuto essere lui a scrivere l’introduzione alla Lettera a una
professoressa. Lo fece, ma il testo risultò troppo difficile e quindi venne
scartato.
Continui a tracciare linee di congiunzioni, punti di incontro, possibili
riscontri, come in una febbre analogica.
Lorenzo, in un articolo del 15 dicembre 1950, pubblicato su “Adesso”, la
rivista di don Primo Mazzolari, aveva mostrato una singolare sintonia con
l’opinione di Thomas Edward Lawrence, accennando all’occupazione
abusiva di un palazzetto vuoto:

Ci sono entrati i poveri (senza permesso). [...] Il grande affresco


dell’ingresso che per il suo gran valore storico ed artistico è riprodotto
anche sul Venturi (vol. VII), ha una macchia d’unto proprio sul viso. E quei
ragazzi, quando tornano dal lavoro ci appoggiano le bici sguaiatamente.
L’han tutto sfregacciato. [...] Il prete, quando passa per l’Acqua Santa, ride
di gioia e manda sempre un furtivo grazie al Padre dei Cieli.

Questo, ti viene da aggiungere, non gli impedirà di accompagnare i suoi


scolari nella cappella degli Scrovegni a Padova affinché conoscessero le
meraviglie di Giotto. L’importante è non stonare.
Le biglie scheggiate
Pechino, 2010

Esco la mattina presto dal Bamboo Garden Hotel come se dovessi


concludere chissà quali affari, mentre voglio soltanto visitare Pechino a
piedi. La pioggia battente caduta nei giorni scorsi ha trasformato Gulou
Xidajie in una gigantesca pozzanghera che il sole di questa giornata cerca
invano di asciugare. I ragazzetti svegli sono già davanti allo schermo del
computer nelle locande in stile provenzale ai margini degli orti infangati.
L’ultima stella scompare timida tra le campane di Zhonglou, nemmeno
avesse il terrore del cielo azzurro elettrico che spunta frenetico sui cantieri
già attivi.
Sulla Cina posso dire di aver consultato solo qualche voce
d’enciclopedia. Interpreto il mondo secondo un trittico antiquato:
Gerusalemme-Atene-Roma; tutt’al più potrei aggiungere un altrettanto
obsoleto binomio, pensando agli scrittori che ho letto con passione
superiore alla norma: New York-Mosca. È il mio totem al quale devo
ammettere di essere affezionato. Perché rinunciarvi? Anche se, putacaso,
decidessi di accantonarlo, magari solo tatticamente, sarebbe ormai troppo
tardi, ho da tempo superato la cinquantina.
In pratica non so niente. Procedo leggero fra acque, erbe, isole e
maschere di draghi galleggianti. Intorno a me regna la calma dei giorni
morti. Quando salti le lezioni per non andare a scuola. A Di’anmem Xidaje
torna il caos. I tram non sono soltanto affollati: straripano.
Continuo a scendere verso sud. Xichang’an Jie. Xinwenhua. Viali
immensi. Strutture di metallo. Una serie di palazzi in stile Novecento: come
se gli architetti del ventesimo secolo si fossero dati appuntamento qui.
Sembra un convegno di spettri: Van der Rohe, Le Corbusier, Khan... Ci
sono tutti, morti e risorti. Il sole, con l’avanzare della giornata, cresce
trionfante sugli archi, sul vetro e sul cemento armato. Se potesse parlare
forse direbbe: perché vi affannate tanto? Lo sapete, oppure no, che non
arriverete da nessuna parte? Vi rendete conto che io, sorriso degli dèi,
semplice composto di idrogeno ed elio, comunque mi vogliate definire,
vincerò sempre? I cinesi citano l’Europa come noi la Grecia: con la
differenza che Roma sentiva di avere una radice in comune con Atene,
mentre New York, rispetto a Pechino, sembra trapassata: è uno scheletro
sbriciolato. Il Terzo Millennio rappresenta la fine degli stili, quali voci
originali; contano soprattutto i nessi, le associazioni, i rapporti. Lo spazio
orientale non è prospettico, ma circolare. Cade la gerarchia, vince la febbre.
Questa città ha la temperatura alta.
Poi ecco, in mezzo alla selva urbana, una croce cristiana. È la chiesa del
Sud, costruita alla metà del 1600 sul sito della casa del gesuita Matteo
Ricci, uno dei primi viaggiatori occidentali. Osservo il crocevia di
Xuanwumen Dongdajie come se fosse la radura di un bosco. Transenne,
semafori. L’edificio è posto accanto a una vecchia stazione di autobus.
Arrivo all’ora di pranzo. Una suora con scarpe da ginnastica Adidas mi
comunica che i cancelli riapriranno alle 14.00. Dice di chiamarsi Mary.
Biascica qualche parola italiana perché ha studiato alla Pontificia Università
Salesiana di Roma. Riesco non so come a farle capire che mi piacerebbe
dare un’occhiata all’interno. Alla chiesa, sì, ma anche alle attività che vi si
svolgono. Mi consiglia di ripassare fra poco. Dall’altra parte della strada c’è
un grande magazzino. Scendo al sotterraneo dove bevo un caffè da
Starbuck’s. Linee di cucina nostrana. Italian Life! Matteo Ricci era di
Macerata.
Torno indietro ed entro nel convento. Avessi l’iPad, farei una bella
inquadratura: il canestro da basket sullo sfondo dei cantieri edili. I simboli
cattolici sono esotici: la statua della Madonna qui provoca lo stesso effetto
del grande Buddha di via Ferruccio, dietro gli Orti di Mecenate, nella
capitale italiana. Fuori è tutto scrostato. Il parcheggio sembra la discarica
del quartiere. Un disabile con l’uniforme comunista alza il cartello stradale,
per scherzo, come se non volesse farmi entrare. Lo prendo sottobraccio.
Appena vede suor Mary, si mette a gridare di felicità.
Andiamo in un’aula ricavata nella canonica dove un gruppo di piccoli
allievi sta facendo il doposcuola. Le maestre sono tutte volontarie.
Giovanissime, con le treccine e gli occhialetti, stanno chine sui quaderni,
testa a testa insieme ai loro studenti: quelli incapaci di tenere il passo della
grande macchina alla conquista del pianeta. Le formichine che hanno perso
la fila giusta. Le monete fuori corso. Le biglie scheggiate. È una festa di
attenzioni spasmodiche, rovelli degni di miglior causa, concentrazioni
perdute. Gli alunni “certificati” sono stati uno dei materiali della mia vita.
Entravo in classe e loro immediatamente mi folgoravano, come stanno
facendo ora questi ragazzi sbilenchi, dall’altra parte del mondo.
Esco carico a mille. Passo davanti a piazza Tienanmen. Mi perdo nel
viavai. Diverse graziose fanciulle mi fermano: «Where are you from?». Una
dice: «My name is Gabriella», e poi m’invita a vedere un Picture Show.
Quando me ne vado, non ci resta male. Potrebbe essere una commessa di
profumeria.
Cammino ancora per molto finché non trovo le insegne di una fermata
della metropolitana: Dengshikou. I pendolari mi spintonano, hanno fretta di
tornare a casa. Aspetto qualche minuto. Si avvicina un bambino. Undici
anni al massimo. I capelli tagliati cortissimi e lo zainetto incollato alla
schiena gli danno un’aria da soldatino. Forse sta uscendo da scuola. Il suo
inglese elementare, uguale a quello di cui dispongo io, è perfetto.
C’intendiamo al volo. Mi sento subito a posto insieme a lui. Calamite che si
attraggono. Mio padre senza padre. Tutto ritorna. Come le Sears Towers a
Pechino.
Grazie a questo gentile accompagnatore capisco che devo dirigermi
verso Tiantongyuan e cambiare a una fermata intermedia. «You take number
2!» esclama lui. «Ok!» rispondo. La mia piccola guida succhia una
caramella colorata e, prima di andarsene, aspetta qualche secondo per
controllare se ho capito.
Ferirsi e ferire
Firenze

La chiesa di San Michele Visdomini, meglio conosciuta come San


Michelino, in fondo a via dei Servi, è stata per lungo tempo la casa di don
Raffaele Bensi, una delle figure più rappresentative del vibrante e
appassionato e controverso cattolicesimo fiorentino pre e post-conciliare:
quello di padre Ernesto Balducci, lungimirante pacifista nella crisi della
modernità; don Giulio Facibeni, salvatore dei più deboli nell’Opera della
Divina Provvidenza Madonnina del Grappa; Giorgio La Pira, sindaco con le
mani in pasta nelle vicende politiche del suo tempo, secondo l’impulso
dossettiano. Non si capisce sino in fondo don Milani, ci ha spiegato Alberto
Melloni in un breve saggio molto incisivo, se lo estrapoliamo come un fiore
selvatico da questo contesto storico.
Le spoglie di don Bensi, scomparso nel 1985, furono traslate proprio qui.
Esercitò l’insegnamento della religione nelle scuole: molti ne ricordano
ancora il grande carisma pedagogico. Lorenzo, dopo averlo incontrato in
via Cavour, andò da lui a confidarsi. Questi, come per verificare la serietà
delle sue intenzioni, lo spinse verso don Mario Lupori, che tuttavia suscitò
lo sconcerto dello straordinario apprendista cristiano. Di fronte alle
pressanti richieste di spiegazioni su presumibili nodi dottrinali,
l’interlocutore non si dimostrò all’altezza. Il discepolo, spazientito, tornò
allora in via dei Servi deciso a ottenere ascolto da don Bensi in persona.
Avrebbe voluto essere ricevuto subito, ma il sacerdote in quel momento
aveva altro da fare: doveva raggiungere il capezzale di un giovane prete,
suo ex allievo, appena deceduto. Si chiamava don Dario Rossi e abitava
fuori città, a Marignolle. Lorenzo si offrì di accompagnare il sacerdote e,
durante il tragitto, aprì a lui tutto il suo cuore. Non saprai mai cosa gli disse,
ma puoi immaginare la foga del ragazzo e perfino la reazione ammirata del
parroco il quale, pochi anni dopo, il 10 settembre 1952, gli indirizzò alcune
note di grande acutezza:
“Tu non hai come noi pesi di tradizione, di tentativi non riusciti, di
scetticismi accumulati: tu sei nuovo, senza radici, e per la spinta verso il
domani, tu hai più intatta forza di noi e sicurezza di sguardo. Rinascere ogni
giorno e vedere la vita ogni giorno come se in quello stesso mattino fosse
cominciata, sarebbe l’istanza di fondo del cristianesimo, ma di fatto la
tradizione – che è pur grande cosa – attenua la virtù della speranza. E tu ti
trovi per questo in condizione di vantaggio.”

Entri nella chiesetta e siedi in una delle ultime panche. Poco prima, là fuori,
sui marciapiedi, c’era notevole ressa: gruppi di turisti affluivano verso il
battistero leccando gelati. Qui invece sembra tutto fermo, silenzioso. Fissi
l’altare dove don Lorenzo celebrò la sua prima messa: “Era trasfigurato”
disse don Bensi in una celebre intervista concessa a padre Nazareno
Fabbretti nel 1970.
“Pensavo: e adesso dove me lo mandano questo ragazzo? Se me lo
mandano accanto a un parroco che non lo capisce, son dolori. [...] Don
Lorenzo mi apparve trasparente e duro, come un diamante. Doveva subito
ferirsi e ferire.”
Passa qualche minuto e si avvicina un giovane dall’aria stralunata. Con
tanto posto a disposizione, decide di mettersi proprio accanto a te. Basta
un’occhiata per capire che non sta bene. È sfasato, ha l’aria tesa, si muove a
scatti. Nel suo volto spicca un occhio finto, il destro. Appena mostri di
considerarlo, comincia a parlare, come se non aspettasse altro. Si chiama
Arrigo, viene da Agrigento, abita con la sorella e la madre, è in cura
all’Ospedale degli Innocenti.
«Ti sembro pazzo?»
«Cosa hai fatto all’occhio?»
«Colpa della calce viva che mi è entrata nell’orbita da piccolo, quando
lavoravo nei cantieri. Conosci la mia città?»
Sì, gli rispondi, l’hai visitata una volta per scrivere un capitolo su Luigi
Pirandello. Racconti ciò che ricordi di quel giorno: il grande piazzale della
villa Kaos, il guardiano semiaddormentato, i cactus in giardino, Porto
Empedocle là sotto, davanti al “greco mar”. Arrigo ci andava da piccolo, a
girare in bicicletta.
In seguito emigrò in Germania, a Bonn. Conosce meglio il tedesco
dell’inglese. Parlate della Germania, di Berlino.
«Ti sembro pazzo?» ripete.
Afferma che da ragazzo era una grande promessa calcistica. Portava il
numero quattro: centrocampista. Ma poi precisa che con lui il centravanti
non segnava mai, quindi forse si è sbagliato, perché, se così fosse, il suo
ruolo avrebbe dovuto essere quello del centrale: “stopper”, come si diceva
una volta. Il vecchio numero cinque.
Sin dal primo istante che l’hai visto, ti è sembrato un segnale inviato dal
priore. A pensar questo, il pazzo potresti essere considerato tu. Come se lui
ti dicesse:

Va bene, stai facendo il tuo gioco, ma guarda che io non sono più dove
mi cerchi. Sarebbe come se tu pretendessi di ritrovare me nelle tracce che
ho lasciato: quelle sono soltanto orme, semplici indizi della mia presenza,
non più vive del ricordo da cui sono scaturite, come ben sai, molte
scempiaggini, insieme a poche verità. Vuoi un consiglio? Guarda avanti.
Studia pure le mappe, consulta i dizionari, controlla le cronologie, verifica
le fonti, insegui le testimonianze, annusa gli odori, ma non t’illudere di
poter conoscere in questo modo la vita che ho trascorso, i pensieri che ho
avuto, i sogni che ho fatto. I materiali che hai fra le mani considerali carta
straccia. Fuochi fatui. Mute nel fogliame. Voci enciclopediche. Insomma
anch’io sono diventato obsoleto, allo stesso modo dei vocaboli di cui mi
prendevo gioco, fossero il treno da caccia col quale partiva don Rodrigo o
l’apparecchio visto da Fra Cristoforo. Se è vero, come ho dichiarato e
quasi tutti quelli che si sono occupati di me hanno ripetuto, che Barbiana è
finita per sempre, scomparsa in via definitiva con la morte del sottoscritto,
e potrà eventualmente rinascere soltanto dentro quattro pareti domestiche
dove il padre di famiglia insegna l’alfabeto ai figli piccoli, è altrettanto
indubbio che lo spirito dal quale prese vigore ha già trovato nuove forme in
cui esprimersi. Ciò che tu stai evocando, sullo spunto della mia biografia,
appartiene piuttosto a te. Assumiti dunque le responsabilità che ti
competono. Decidi, a tuo rischio e pericolo, in quali altri luoghi i semi che
ho distribuito possono essere fioriti. E poi vai a raccoglierli. Ma non tenerli
per te. Distribuiscili in giro. Anche se sarete in pochi a conservarli, va bene
lo stesso. Noi all’inizio eravamo in sei. I conti si faranno dopo. O già sono
stati fatti? Non ti scervellare. Pensa a scrivere.
Arrigo ti chiede di uscire, ha bisogno di fumare una sigaretta. Tornate
indietro verso piazza della Santissima Annunziata nei cui pressi, da quello
che hai intuito, dovrebbe esserci la sua ASL . Ha litigato col fratello, non
parla più nemmeno col padre. Dorme pochissimo. Per riuscirci deve
prendere i farmaci, ma non vorrebbe. Ti chiede per quale squadra tifi. Glielo
dici: sei giallorosso. E cos’altro potresti essere, visto che hai lasciato il
cuore all’Esquilino? Vi mettete di nuovo a sedere sotto le grandi finestre
con le inferriate di Palazzo Grifoni. Secondo lui il prossimo anno i tuoi
beniamini andranno in Champions League.
Intorno continuano a girare frotte di turisti e numerosi venditori
ambulanti. Cerchi di calmarlo, perché trema mentre fuma. Gli spieghi che, a
tuo giudizio, dovrebbe tornare in Sicilia. Scuote la testa.
«Lì mi vogliono morto.»
Pensi a Marcello, un bambino che all’inizio non sapeva nemmeno
parlare. Lentamente, grazie alle attenzioni del priore, cominciò a migliorare.
Ci sono foto che ritraggono il piccolo impegnato a giocare insieme a don
Lorenzo, l’unico capace di non perdere la pazienza con lui.
«Ti sembro pazzo?»
«No, non lo sei, però devi prendere le medicine che ti danno.»
Vorresti capire dov’è in questo momento sua madre. Forse, insieme alla
sorella, lo starà cercando nelle strade adiacenti. Arrigo ti chiede perché sei
venuto a Firenze. Gli racconti del libro che stai scrivendo. Ti ascolta
assorto, poi si fa il segno della croce e si tocca le parti basse. Estrae dalla
tasca una medaglietta e la bacia. Getta il mozzicone e accende un’altra
sigaretta. Mentre lo guardi, non dimentichi la ragione che ti ha spinto fin
qui.

Quando arrivò davanti al letto del prete appena deceduto, Lorenzo dichiarò:
«Io prenderò il suo posto».
Era il 4 giugno 1943. Passò una settimana e ricevette la cresima nella
pieve di San Pietro in Mercato, a Montespertoli, dal cardinale Elia Dalla
Costa, lo stesso che, quattro anni dopo, lo consacrò sacerdote nel Duomo.
“Si prese un’indigestione di Gesù Cristo” affermò don Bensi. L’8
settembre, nelle stesse ore in cui Badoglio firma l’armistizio, lui entra in
seminario, dove tu stai andando.
Arrigo ti saluta con un grido: «Forza Roma!».
Superi la folla e ti dirigi verso il fiume, ma quando arrivi in prossimità
del Ponte Vecchio, scantoni in borgo Santi Apostoli perché vuoi evitare la
calca dei visitatori con gli smartphone stretti nel pugno, tesi a immortalare
colonne, baci, sculture, sorrisi, tatuaggi e capitelli. Pensi che, dopo essere
entrate nell’iPhone, le immagini gireranno come schegge per innumerevoli
anni sugli schermi dei computer, negli studi o nei soggiorni a cui, fra poco,
faranno ritorno. Diventeranno sterpaglia fantastica dispersa nell’etere o
chissà in quali altri pertugi informatici, come prima accadeva per le stampe
che ammuffivano in cantina.
Cammini rasente i vecchi palazzi dietro ai parapetti del fiume quasi
dovessi proteggerti da un attacco aereo, in un gioco a rimpiattino fra le
ipotesi che formuli e l’impianto sintattico che dovrebbe rappresentarle
quando dovrai scriverle.
Lorenzo diventò cristiano in tempo di guerra. Uno degli episodi che
raccontava più spesso gli accadde non distante dal luogo in cui ti trovi.
Aveva preso l’abitudine di dipingere nei vicoli vicino a piazza Pitti. Ogni
tanto si fermava per consumare il suo spuntino. Una signora affacciata alla
finestra, senza nascondere la propria irritazione, esclamò:
«Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri!»
Il ragazzo si sentì percorso da un brivido di cocente vergogna per quel
rimprovero destinato a entrare nella leggenda edificante della sua
conversione. Questa è una delle tante ragioni per cui don Lorenzo Milani è
diventato, a poco a poco, inavvicinabile. Come lo tocchi, ti bruci. La sua
esistenza assomiglia a un materiale incandescente. Così abbiamo lasciato
che a parlare di lui siano i politici, gli eruditi, i polemisti, chi non lo
conosce, chi lo fraintende o, peggio ancora, chi lo beatifica: gli incensatori.
D’altro canto le mezze misure sembrano non funzionare con don Lorenzo: o
lo attacchi, o lo difendi, o lo insulti, o lo innalzi sull’altare.
Pier Paolo Pasolini, le cui poesie il maestro di Barbiana leggeva ai suoi
ragazzi, nel 1973, recensendo sul “Tempo” l’edizione delle lettere che il
priore spediva alla madre, in un articolo poi raccolto in Scritti corsari si
contrappose con una certa veemenza a questa specie di santino:
“Certo, la decisione di ignorare la guerra e il fascismo era, da parte del
novizio, un invasato e intrasgredibile partito preso. La tragedia è sulla
nazione italiana, spaventosa, senza speranza; e il giovane Lorenzo, dentro la
cima del seminario, è tutto un impeto di serafico buon umore.”
Attraversi l’Arno dal ponte alla Carraia e ti chiedi: in quale luogo si
trovava il poeta di Casarsa, inflessibile giudice delle altrui supposte
amnesie, nello stesso anno in cui Lorenzo scopriva il Vangelo? La risposta
scende su di te come una scudisciata: a Weimar, sotto le alture del Lager di
Buchenwald dove, nell’estate del 1942, mentre i forni crematori lavoravano
a pieno ritmo, aveva partecipato ai “Ludi Juveniles”, gare letterarie fra i
giovani dell’Asse organizzate dai nazisti. In rappresentanza del GUF di
Bologna c’era proprio il ventenne Pier Paolo Pasolini, che su quelle
giornate trascorse a discutere di letteratura coi camerati spagnoli, tedeschi e
francesi pubblicò un celebre articolo, Cultura italiana e cultura europea a
Weimar.
Due anni prima Beppe Fenoglio, seduto sui banchi del liceo Govone di
Alba, chiamato a scrivere il consueto tema ministeriale di elogio della
Marcia su Roma, aveva consegnato il foglio in bianco. Nemmeno il
venerato professor Pietro Chiodi, consapevole del rischio che stava
correndo il suo scolaro preferito, era riuscito a evitare quell’impuntatura.
Tre destini di giovani coetanei: Pasolini era nato il 5 marzo 1922, quattro
giorni dopo Fenoglio, rispetto al quale mostrò spesso un atteggiamento
quasi sprezzante. Lorenzo Milani aveva solo un anno meno di loro. Alla
medesima età, nel momento cruciale, questi paladini italiani, che
appartenevano alla generazione dei tuoi padri, avevano fatto scelte molto
diverse che certificano o falsificano, secondo le interpretazioni che ne
vogliamo dare, l’intransigenza etica da cui in seguito furono tutti, in forme
dissimili, animati.
Sorridi dentro di te a causa dell’ingenua indignazione adolescenziale
che, poco fa, non sei riuscito a trattenere. Un tempo su questi moti
sentimentali, crucci emotivi, interrogazioni e mulinelli del pensiero, ci
costruivi il pomeriggio: era una fuga dalla solitudine. Ricordi quasi fosse
ieri il modo in cui ti accanivi contro il fascismo giovanile di Elio Vittorini,
Roberto Rossellini o Mario Alicata che, come tanti altri, si trasformarono in
comunisti in quattro e quattr’otto. Riandavi spesso con la mente a tuo
nonno, fucilato dai nazisti. A vent’anni abbiamo tutti bisogno di eroi, prima
ancora che di uomini.
Oggi le vite spezzate dei tre grandi destini appena evocati ti sembrano
simili al carcame dell’asino grigio divorato dai cani sulla sciara dove Rosso
Malpelo conduceva Ranocchio per istruirlo. Pier Paolo pugnalato dagli
stessi giovani infelici che amava. Beppe divorato dal male: a tuo modesto
avviso, resta sul podio della medaglia d’oro. Lorenzo – consumato
anzitempo da un linfogranuloma –, capace di illuminare, ancora una volta,
il Bel Paese: quello di Vico e Romagnosi, Cattaneo e De Sanctis,
Machiavelli e Campanella, multidisciplinare e fuori dagli specialismi,
filologico e conoscitivo. La terra nascosta dei monaci ribelli, degli
scienziati fatti passare per pazzi, dei liberi spiriti incompresi: Savonarola,
Galileo, Sarpi. Eterna perdente e mai veramente nata. Bruno, Tasso,
Campana. Sentieri che si perdono nel bosco. E poi rispuntano luminosi.

Quando arrivi di fronte al Cestello, il vecchio seminario in Oltrarno,


all’inizio quasi non riesci a capacitarti che quella specie di triste reclusorio
fluviale, di spalle a San Frediano, il quartiere di Pratolini, altro ex fascista,
potesse essere un luogo d’elezione delle anime rivolte a Dio. A giudicare
dalle inferriate al primo piano e dalla carta cerata posta a copertura di
alcune finestre più in alto, assomiglia semmai alla casa degli spiriti. La crisi
delle vocazioni religiose ha trasformato questi edifici, un tempo prestigiosi,
in residenze abbandonate, allo stesso modo di quanto è accaduto alle
caserme che, dopo la fine della leva militare obbligatoria, assomigliano a
magazzini dismessi.
D’istinto volti la testa verso l’Arno e quasi ti rinfranchi nel vedere le
ragazze sui greti impegnate a prendere il sole. Bionde, presumibilmente
nordiche, snelle. Stanno tutte in fila lungo gli argini da qui alle Cascine,
dove i seminaristi negli anni Quaranta andavano a raccogliere erbe per
l’insalata. L’edificio ocra di fronte a te è un vecchio arnese scassato. Una
casa Husher in procinto di crollare. Giri intorno alla decrepita fortezza
lasciando che le parole di don Bensi tornino a ronzare come mosconi nelle
tue orecchie:
“In seminario cozzò immediatamente contro metodi e mentalità che non
avrebbe mai potuto accettare. Furono spesso conflitti paurosi che lo
laceravano fino allo spasimo. Allora correva da me. Si confessava in genere
il lunedì: ma spesso mi cercava anche due o tre volte la settimana. Quando
era costretto a ingoiare rospi che non riusciva a mandar giù, mi chiedeva
aiuto.”

Lorenzo restò in seminario quattro anni, evitando le retate contro gli ebrei,
scansando i bombardamenti, superando la fame e il freddo. La Liberazione
vera e propria la visse a Montespertoli, rifugiato in campagna insieme alla
famiglia, che pure riuscì a cavarsela in quei tempi pericolosi. Al referendum
del 2 giugno 1946, spalleggiato da Bensi e Facibeni, votò Repubblica. In
quell’estate il padre gli aveva spedito due suoi saggi su Il castello e Il
processo di Kafka. La risposta di Lorenzo si concentra soprattutto sulle
istruzioni date dallo scrittore all’amico Max Brod, relative alla distruzione
dell’opera dopo la morte: da una parte è un’ulteriore conferma della strada
scelta dal novizio, dall’altra un’implicita indicazione per Albano, che
sarebbe morto nel marzo dell’anno successivo.
La stagione trascorsa entro le mura che hai davanti fu difficile ma al
tempo stesso esaltante. Le lettere spedite alla madre tra il 1943 e il 1944 lo
testimoniano:

Cara mamma,
stamani son finiti gli esercizi. I quali consistono in star zitti per 4 giorni
e sentire 16 prediche. Lo stare zitti sottoscriverei a seguitarlo tutto l’anno
col vantaggio di non dire sciocchezze, ma le prediche per ora mi bastano...
Si ha sempre l’impressione d’essere al manicomio.

Qualche mese più tardi precisa:

Prima di morire mi voglio prendere anche questa libertà di dir Messa.


Se ti dicono: “Oh il suo povero figliolo non può neanche andare al
cinematografo, o prender moglie o prendere il sole e deve avere delle
buffissime gambe bianche”. Gli devi dire: “No, non è che non può, non
vuole. Non è libero di non volere?”.

Lorenzo in seminario, oltre ad attirare dissenso, si fece tanti amici:


Renzo Rossi, Bruno Borghi, che diventeranno preti operai, al fianco dei
diseredati, ma quello con cui si confidò di più fu Bruno Brandani, al quale il
9 marzo 1950 scriverà una lettera d’importanza capitale sugli anni trascorsi
al Cestello:

Vorrei che non si parlasse di cose spirituali. Mi farebbero tornare a gola


lo sdegno per l’immensa frode del seminario [...].
Ma che dovevo trovarmi a 27 anni, dall’altare banditore di vangelo
altissimo e dentro equilibrista disperato solo intento a non fare peccati
troppo grossi? [...]
Ho provato a esaminare l’istintiva repulsione che sento oggi per ogni
discorsino ben fatto, per gli argomenti spirituali e “formativi”, per quel
mondo in cui le porcherie si chiamano finemente mancanza contro la SS.
Purità, la vigliaccheria Tiepidezza, l’odio Poca Carità, la bestemmia
pratica Un attimo di Aridità spirituale [...].
Tu lo sai che a Dio ci credo e che credo anche a tutto il resto compreso
la SS. Purità e la S. Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora che questi nomi non
son più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma sofferenti
cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare sia pure da d. Bensi o
Bartoletti o p. Lombardi o chi si sia. Ci credo da me come so che ci credi te
e tutti gli altri compagni che ci viviamo dentro tragicamente.

Il rettore del seminario, monsignor Giulio Lorini, che seguì Lorenzo


perfino a Barbiana e andò a salutarlo nei giorni prima della scomparsa,
conosceva e dentro di sé capiva perfettamente il tumulto interiore del
novizio, a differenza di Mario Tirapani, vicario generale della diocesi
fiorentina, col quale Lorenzo si scontrò spesso e che diventò il principale
responsabile dell’esilio nel Mugello. Ma non poteva farci niente.

Prosegui lungo l’Arno, lasciandoti dietro le spalle il seminario abbandonato,


nemmeno fosse la Fortezza Bastiani in attesa dei turchi che non arrivano.
Cosa significa trasformare un bambino in un uomo? Vuol dire mettere in
funzione l’essere umano. Condurlo alla maggiore età, non anagrafica, bensì
spirituale. Si tratta di un compito da realizzare innanzitutto con se stessi,
prima che coi propri figli o scolari o, ancora più centralmente, col nostro
prossimo. Quale potrebbe essere la molla capace di spingerci a farlo? Provi
a rispondere secondo lo spirito che, così tu almeno vorresti, ti sta
trasmettendo don Milani: lo si fa per amore dell’uomo.
Vuoi capire cosa c’è dentro tale espressione.
Credere in un fondamento dell’energia vitale da cui tutti prendiamo
forza. Sul nome che molti di noi hanno scelto di dare a questa base, cioè
Dio, sono cresciute sterpaglie in grande numero, spine, fiori veri, fiori finti,
si è accumulata polvere, insieme alle preghiere ci sono bestemmie, tesi e
antitesi, equivoci e malintesi, medaglie, santini, retoriche, infamie, superbie,
bontà e nequizie.
Incroci una giovane madre che spinge la carrozzina da cui emergono gli
occhietti vispi di un piccolo esploratore. Lei discute al cellulare con
un’amica. Lui ti guarda fisso, alla maniera di chi è giunto a un limite
invalicabile. Nel momento in cui lo stai superando, ti regala un sorriso
disarmante. È uno di quei paggetti che, nei quadri del Settecento, ne
combinano di tutti i colori: scoprono le vesti di Venere perché vogliono
vedere cosa c’è sotto, stuzzicano i baffi di Marte, alcuni, ancora più
impertinenti, fanno la pipì tra le nuvole...
Appena è passato, riprendi il ragionamento.
Nessuno può riuscire a nominare con leggerezza quel fondamento, è
terreno minato, se lo attraversi potresti esplodere, oppure uno sconosciuto
potrebbe abbracciarti senza motivo apparente. Allora forse è meglio trovare
un’altra definizione, usiamo il linguaggio per questo, evitando però di
trafficare con la nostra intelligenza. Restiamo svegli ma non troppo in
soggezione con gli strumenti conoscitivi di cui disponiamo per non
sprofondare nell’ebbrezza lirico-concettuale.
Don Milani sperimentò al Cestello quello che sarebbe stato il suo futuro
rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, riuscendo a trasformarsi in men
che non si dica in un ribelle rispettosissimo, in grado di gettare scompiglio
nella comunità che lo accoglieva senza tuttavia mai tradire un solo principio
su cui questa si fondava. Poteva entusiasmarsi per il calore umano di don
Facibeni, che volle accanto a sé come padre spirituale nella settimana di
esercizi prima dell’ordinazione sacerdotale. Ancor di più si commuoveva
per il moto di comprensione che Auro Giubbolini, compagno di corso,
mostrò una volta nei confronti di un povero bestemmiatore, ascoltando le
sue disavventure come avrebbe fatto un amico, senza illudersi di poter
convertirlo, ma limitandosi a stargli accanto per tranquillizzarlo.
Lorenzo, con il suo spirito indipendente, la sua volontà interpretativa, il
suo atteggiamento umanistico propenso all’analisi critica, non poteva essere
uno studente modello per i crismi dell’epoca preconciliare. Creava tensione
nei sacerdoti incaricati di insegnare dottrina ai futuri preti. I testi sacri
avrebbe voluto leggerli per davvero, senza dover passare dalle formulette
imparate a memoria. Tuttavia, anche soffrendo, rispetto a ciò che non
capiva o forse neppure ammetteva, chinò sempre la testa di fronte alla legge
di Pietro.

Michele Gesualdi, nel sito della Fondazione Don Lorenzo Milani, riporta un
dialogo fra il priore e un vecchio comunista senza Dio che ci aiuta ad
apprezzare una così ostinata coerenza.
L’attivista politico gli disse: “Se io fossi in lei andrei dal vescovo e gli
direi, tenga, questo è il collare, lo metta al cane”.
Don Lorenzo rispose: “Ma io sono un cane, un cane fedele alla mia
chiesa e ubbidiente al mio vescovo”.
Da tale determinazione nasce lo spirito pedagogico. Se come sacerdote
occorre conformarsi alla volontà dei superiori, in quanto confessori
bisognerà disporsi all’assoluzione del penitente, secondo l’indimenticabile
lezione di padre Bellandi, uno dei migliori insegnanti negli anni del
seminario, peraltro citata nella “Lettera aperta a un predicatore” in
Esperienze pastorali. La stessa attitudine di comprensione preliminare deve
avere il maestro nei confronti dello scolaro negligente che va sempre
aiutato, soprattutto quando sbaglia, cercando di essere amici e maestri
insieme. Condividere la rabbia e le malinconie dei propri studenti e
incarnare il limite che essi non devono superare.
C’è un punto in cui l’educatore accetta la propria impotenza, esce dal
tribunale della storia e torna alla lavagna chinando il capo. Fu in seminario
che Lorenzo cominciò a capire come si dovrebbe sentire chi insegna agli
adolescenti difficili: un po’ sconfitto, un po’ vittorioso. Non significa forse
questo essere padri?
Suor Teresa
Benares, 2003

Nell’intrico di biciclette e motocicli ho l’impressione di stare dentro un


frullatore. Babu pedala vigoroso piegando il busto per scansare chi gli viene
incontro: auto, mucche, uomini. Non so come possa trascinarsi dietro il mio
peso con il suo risciò mezzo scassato. È un ragazzino di notevole
intraprendenza: ha l’indirizzo mail senza possedere il computer, controlla la
posta al call center, biascica qualche parola in tutte le lingue, per
guadagnare gli spiccioli necessari a mangiare gli basta portare gli sterpi sui
ghat dove vengono bruciati i cadaveri. Non ha mai frequentato la scuola,
ma conosce i fondamenti della vita. Sa perfino dove abita il vescovo. Ieri è
stato lui a darmi il suo numero di telefono. Il reverendo Patrick Paul
D’Souza parlava italiano. Abbiamo fissato un appuntamento. E ora eccoci
qua.
Il mio accompagnatore resta fuori. Io vengo ammesso all’interno: ho
ancora nel naso gli odori della strada, negli occhi la polvere, sento vibrare il
corpo per il trambusto metropolitano, il sudore si sta appena asciugando.
Sarà per questo che a stento trattengo la meraviglia quando vedo il giardino,
curato quasi come un orto botanico.
Il cancello si chiude dietro di me e sprofondo nel silenzio. Non più
clacson, né grida, né clamori. È una specie d’imprevista beatitudine, come
quando torno a casa dopo sei ore di lezione. Perfino il cielo sembra
finalmente chiaro, senza veli. Un guardiano mi conduce alla porta d’entrata
dove, come l’antico possidente della terra promessa, il vescovo mi accoglie
con un sorriso stampato sulle labbra. Quello che ci siamo detti in circa
un’ora di colloquio l’ho dimenticato. Se faccio uno sforzo della memoria,
ripesco osservazioni sociali sulla povertà endemica indiana, percentuali
statistiche sul numero di cattolici presenti nel Paese, confronti sulle tante
pratiche richieste dalla religione induista e le poche, essenziali, scarne
devozioni previste dalla Santa Chiesa.
Con Babu torniamo felici in mezzo alla calca, sparati a mille verso la
città sacra. Forse scriverò un reportage per un giornale. Tutti mi guardano
come fossi un oggetto prezioso. Lui non fa avvicinare nessun mendicante. È
Kim di Kipling, ovvio, ma potrebbe essere anche Davide con la fionda
attaccata alla cintura. Tutti avremmo voluto un figlio così: leggero come
una foglia, temprato nel fuoco della passione conquistatrice; ma i suoi
genitori, che hanno avuto questa fortuna, chissà dove sono. Persi nei
liquami del Gange, come holy man, il cadavere galleggiante che un paio di
giorni fa Rama mi ha indicato dalla barca, oltre i lumicini che gli facevano
compagnia.
La prossima tappa ci conduce sulla riva del fiume. Babu si allontana a
sbrigare i suoi affari mentre io busso alla porta del nuovo indirizzo. In realtà
non sono solo, in India è difficile esserlo, perché un gruppo di bambini mi
ha intercettato lungo il percorso e ora andiamo in gruppo verso la casa di
Madre Teresa. Quando una suora apre la porta, i piccoli la riconoscono e lei
distribuisce caramelle estraendole dal tascone. È una ragazza stupenda che
potrebbe figurare sulla copertina del “National Geographic”. Vederla
imboccare l’anziano paralitico disteso nel tappetino fa una certa
impressione.
Un gioco di mucose irritate, denti storti, occhi strabici: così percepisco la
schiera di astanti, chi in carrozzina, chi semisdraiato sulla sedia, chi mezzo
addormentato. Una vecchia signora tutta piegata a sinistra si sporge dal
seggiolone come un pachiderma in procinto di uscire dallo stagno. C’è chi
la rimette in sesto e le versa il cibo nel piatto. Ancora più in là vedo un
uomo microscopico, seguito da una specie di nocchiero dal cranio
maculato. Non posso evitare di sentire le voci: urla, gorgogli, singulti.
Prima di sorpassarli, incrocio uno sguardo. Un pappagallo, non il viso di
una ragazzina: il becco al posto del naso, gli occhi cresciuti non si sa come
in un profilo impossibile, la torsione del corpo proteso. Dev’essere la sua
maniera per dirmi ciao. Le metto la mano sul capo: sembra di accarezzare
una superficie oleosa. Trema aprendo e chiudendo la bocca nella ragnatela
di saliva. Mi piego per stare alla sua altezza. Vorrei riuscire a dirle qualcosa,
ma la gola è chiusa in un groppo, non esce fuori niente.
Andiamo in una sala non troppo luminosa dove, riuniti intorno al tavolo,
stanno pranzando i cerebrolesi. Girano la testa e mi osservano curiosi:
alcuni sorridono, altri restano immobili, certi osservano le crepe del muro
come se io non fossi neppure entrato in stanza. Quante volte li ho descritti?
Come se, in tutti questi anni, avessi voluto rispondere alle difficili domande
che ancora oggi mi rivolgono. Storie di libero arbitrio, caso e destino,
natura e cultura. Antiche questioni complicate che da tempo ho smesso di
affrontare.
Raschiano nei piatti: la vecchia signora, l’uomo microscopico, il
nocchiero dal cranio maculato. Sono ingobbiti con la faccia dentro la
minestra. La bambina ogni tanto si blocca, alla maniera di chi è assorto in
un pensiero profondo, quindi riprende a succhiare nel cucchiaio, come se
nulla fosse accaduto.
Vado a sedermi nell’angolo in cucina, quasi fosse un regno nascosto
dove possono accadere i miracoli, fra i pentoloni ancora fumanti, i rifiuti
che devono essere portati in cortile, le posate sparse sul grande tavolo. Sul
tagliere restano ancora i pezzi di sedano e carota usati dalla cuoca per fare il
minestrone. La suora mi consegna un foglietto in cui ci sono le poesie della
bambina. Versi dettati non so come a chi ha avuto la pazienza di raccoglierli
e comporli in un testo unico. Traduco le parole direttamente dall’inglese
sillabandole piano dentro di me come una preghiera:

Perché i cadaveri bruciano? Il sole li ha incendiati.


Perché noi siamo piccoli? Il mondo deve accoglierci tutti.
Perché Haroun ha perso una gamba? Gliel’ho mangiata io.
Perché i gatti non dormono? Lo fanno con un occhio solo.
Perché le donne piangono? Devono dare acqua alla terra.
L’ottavo sacramento
San Donato di Calenzano

Come si fa a distinguere il buono dal cattivo maestro? Basta vedere gli


occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti. Scendi
dall’autobus che dalla stazione di Santa Maria Novella ti ha portato a Sesto
Fiorentino. All’altezza del cimitero, attraversi la strada e, proprio
all’ingresso dell’Esselunga, eccolo lì, Aldo Bozzolini, il più piccolo fra gli
allievi del priore: era solo un bambino quando, lunedì 6 dicembre 1954, il
giovane prete si presentò in canonica, fradicio di pioggia, con l’Eda e Giulia
Pelegatti, le uniche a seguirlo in quel luogo ingrato, tanto si erano
affezionate al viceparroco nei sette anni da lui trascorsi a Calenzano.
Finora avevi visto Aldo soltanto in qualche foto: con gli occhiali, sul
tavolaccio accanto ad Agostino, Giancarlo, Silvano, Michele, Francuccio e
Carlo, i primissimi scolari; appoggiato coi gomiti sul loggione della Scala
di Milano, durante una gita; in piedi insieme agli altri allo zoo di Roma.
Quasi sessant’anni dopo, ce l’hai davanti in carne e ossa e subito vorresti
sapere vita, morte e miracoli non solo di don Milani, ma, se possibile, di
tutti: ancora una volta stenti ad accettare la lezione che invece il priore
silenziosamente ti impartisce.

L’esistenza di un essere umano è irripetibile e non comunicabile, se non per


approssimazione. Così come non si può davvero tradurre una poesia, anche
le azioni delle persone sono destinate a essere fraintese. Si ricomincia
sempre da capo. A ogni passaggio di testimone perdiamo qualcosa
d’essenziale. Meglio rinunciare in partenza all’idea di poter scoprire i
segreti di chi incrociamo. Il linguaggio, con le sue griglie e i suoi
trabocchetti, le sue cento variabili e le sue false piste, ci condurrà comunque
altrove: noi, nel migliore dei casi, non potremo che andargli dietro come
cani scodinzolanti.
E allora perché non smetti di scrutare questo nuovo amico il quale, fra
l’altro, ha perso da poco la moglie e già dovresti ringraziarlo del fatto che,
con gentilezza superiore alla norma, si sia messo a tua disposizione? Cosa
credi ti possa rivelare? Non vuoi ammettere che ogni cosa finisce in
polvere? No, altrimenti non potresti trovare la forza né di scrivere, né di
insegnare.
Mentre sorseggi il cappuccino insieme ad Aldo, senti la presenza del
priore, come se lui ti dicesse: trattalo con il massimo del garbo, è uno di
quelli a cui ho voluto più bene che a Dio, non te lo dimenticare.
Diplomatosi perito industriale nel 1968 ed esonerato dal servizio militare,
impiegò i mesi corrispondenti alla leva come volontario nella
ristrutturazione di due case-famiglia. Buon sangue non mente. Aldo lavora
nel settore della distribuzione automatica, che gli ha dato anche
l’opportunità di depositare un brevetto. Per questo l’hanno soprannominato
“il Caffeaio”. Vedovo, dopo quarant’anni di matrimonio, ha due figli.
Come vi siete conosciuti?
Avevi composto una premessa a un suo libro di memorie, Barbiana o
dell’inclusione. Era intitolata L’uguaglianza delle posizioni di partenza. Per
rinfrescarti la memoria, te la sei appena risfogliata:

“Tutti coloro che si sentono attratti dal carisma pedagogico di don


Lorenzo Milani e ne percepiscono, magari per esperienza diretta, ancora
oggi la sconcertante attualità, dovrebbero leggere questo libro: l’ha
composto uno dei suoi primissimi scolari, ormai adulto, con lo stesso
impegno commovente e la medesima bella solerzia esecutiva che
presumibilmente aveva da bambino quando sbucava rapido sotto il famoso
tavolo di legno dove il maestro spiegava, come l’ultimo fantaccino in coda
alla truppa.
Sul priore di Barbiana ne abbiamo ascoltate tante in questi anni e altre di
sicuro ne verranno dette in futuro perché quelli come lui non scompaiono
facilmente andandosene via per sempre. Uomini di tale potenza esistenziale
s’incidono come stelle fisse negli occhi di chi li conosce e li tiene vivi a
nostro vantaggio, nei più innumerevoli modi: non quali biglie preziose da
stringere in un pugno chiuso, neppure fossero segreti, bensì alla maniera di
programmi da svolgere, proclami da sillabare, doni da condividere, per
consentirci di uscire dall’indifferenza, superare l’isolamento e diventare
persone responsabili. Interpreto così lo stesso titolo del racconto che avete
fra le mani: includere, cioè conquistare una coralità. Chi resta fuori dal
consorzio sociale, confinato in un angusto nucleo umano ma anche negli
studioli delle accademie specializzate, rischia di atrofizzarsi come una
pianta senza acqua. Inutilmente molti scrittori del Novecento hanno voluto
convincerci del contrario mitizzando l’artista che vive da solo contro tutti
allo scopo di comunicare chissà quale rivelazione.
Ecco perché non c’è da restare sorpresi registrando, nella parte iniziale
del libro, l’assenza del grande protagonista. È proprio questa la novità: il
prete spunta improvviso a Sant’Andrea, inviato quasi per punizione dalla
diocesi in quel desolato borgo montano dell’Appennino meno ridente, e
interrompe per pochi attimi i lavori delle famiglie impegnate a zappare la
terra, raccogliere il grano, sistemare i covoni. La continua alacrità del
villaggio non conosce soste. Bisogna andare a prendere l’acqua alla fonte,
sbucciare le castagne, cuocere la polenta. Se avanza tempo, la sera i vecchi
giocano a carte davanti al fuoco del camino mentre le mamme rammendano
i calzini. Tutt’al più qualcuno può leggere ad alta voce ‘l’Unità’
commentando le notizie del giorno. E i bambini? Giocano con la fionda.
Uccidono le bisce. Oppure vanno giù al fosso a far dighe.
Don Milani compie una rivoluzione in questo piccolo mondo. Invece di
stilare progetti, si rimbocca le maniche e cerca di tamponare la ferita
interiore che ha visto. È la sua prima vera scoperta, quasi l’essenza del
cristianesimo. Una voce sembra bisbigliare nel nostro orecchio: non perdere
altro tempo, muoviti con le risorse di cui disponi, lascia a terra il bagaglio,
fatti avanti come sei, non come potresti essere. Due tuniche sono troppe: ne
basta una. Quando finalmente il maestro si toglie il basco, la sciarpa e la
mantella, pronuncia poche parole. Entra piuttosto in azione consegnando
agli alunni la carta geografica della Palestina da colorare con gli acquerelli.
I ragazzi gli vanno subito dietro perché avvertono la sua autenticità. Si
rendono conto che il maestro fa sul serio. È la forza della vera vocazione:
non importano i metodi, non contano le valutazioni. Docimologie, tecniche
didattiche, livelli di apprendimento, obiettivi da raggiungere: queste cose
sono importanti, certo, ma non avrebbero nessun valore se prima di tutto
non si realizzasse l’incontro umano fra me e te. Qui e ora. Con le nostre
semplici carte sporche e consunte.
Aldo Bozzolini ha avuto una simpatica intuizione: intrecciare i suoi
ricordi alle lettere che il priore spediva alla madre. Nei brani epistolari
sentiamo scorrere l’energia del giovane educatore che sperimenta il brivido
della vita comunitaria, ma decifriamo anche la crescita inesorabile
dell’allievo che, pur continuando a restare se stesso, intravede cosa c’è oltre
il groviglio nebbioso del Mugello. I viaggi in Italia e all’estero sembrano
propaggini dello spirito critico appena acquisito. L’alleanza istintiva fra
l’insegnante e le famiglie dei bambini (‘Se torni a casa e dici che ti ha dato
un nocchino, io te ne do due. Capito?’) è il segno incontrovertibile di un
lavoro che si sta facendo insieme per il ‘bene comune’. Si tratta di
un’esperienza intensa, senza cattedra, senza registro e senza voti, nella
quale alcune figure, apparentemente marginali, come il professor Agostino
Ammannati, che la domenica sale in canonica a leggere I promessi sposi, o
l’Eda, pronta a spalmare la marmellata sulle fette di pane, diventano
decisive per definire lo scenario.
Il lettore troverà in queste pagine gli aneddoti giusti: come si costruisce
un piccolo motore elettrico; come si illustra la Seconda guerra mondiale
sulle pareti dell’aula; come si trasforma una lezione di disegno in una
riflessione sul globo terracqueo. Assisterà alla dimostrazione sul campo
dell’assioma sempre valido: ‘alunno bocciato=insegnante incapace’. Si
renderà conto della differenza abissale che passa tra i ‘Pierini’, leggeri come
farfalle, e i poveracci costretti a saltare con le zavorre ai piedi. Ma
soprattutto capirà quante domande dobbiamo ancora rivolgere alla famosa
professoressa cui idealmente parlavano i compagni di Bozzolini. Oggi i
ragazzi di Barbiana vengono dall’Afghanistan, dalla Nigeria, dal mondo
slavo. Hanno alle spalle detriti, macerie e relitti, eppure quando ridono
sembrano aver dimenticato tutto. L’esempio di Barbiana torna a imporsi in
chiave multiculturale per favorire una vera integrazione, che dovrebbe
combattere anche la fragilità degli adolescenti italiani spesso inebriati dai
miti del successo, della bellezza e della sanità. Del resto la presenza dei
giovani migranti rende ancora più incandescente la grande questione
sollevata dal priore con radicalità ben superiore alla semplice promessa
politica: l’uguaglianza delle posizioni di partenza. Soltanto se non
smetteremo di sentire come una spina dolorosa questo problema irrisolto
potremo dire a noi stessi di non aver tradito lo spirito di don Milani.”
Quando scrivesti questa nota avevi letto poco o niente del grande
personaggio di cui ora stai seguendo le tracce. Tuttavia era come se già lo
conoscessi. Nelle aule scolastiche, in qualche cortile, in certi consigli di
classe, sembra essersi nascosta una sua quintessenza: accettata o contestata.
Stai parlando di un carattere italiano. E non dovresti mai dimenticare gli
equivoci interpretativi e le strumentalizzazioni politiche che il priore di
Barbiana ha subito e continua a suscitare.
Da una parte, lo si è considerato il padre dell’egualitarismo
indifferenziato di marca sessantottina: non potrebbe esserci malinteso più
grave, considerando quanto volesse accendere in ogni ragazzo un fuoco e
una passione individuali; dall’altra, lo si è tirato per la tonaca prima qui, a
giustificare un solidarismo di facciata, come se il motto “I care” fosse il
suono del vecchio pifferaio, proprio Lorenzo che, lo scrisse a Pipetta, la
rivoluzione, se l’avesse fatta, l’avrebbe immediatamente tradita; poi là, a
legittimare il medesimo rinnovamento conciliare, purtroppo ancora in via di
realizzazione che, incarnato ante litteram da quello spericolato maestro di
frontiera, l’aveva costretto all’esilio di Barbiana.

Aldo ti accompagna in auto a San Donato di Calenzano, sui poggi


dell’Appenino toscano, secondo l’immagine ricorrente nelle biografie del
priore, dove il 3 ottobre 1947 il sacerdote appena consacrato venne
assegnato in qualità di viceparroco, in appoggio all’anziano Daniele Pugi,
buono come il pane, il quale non esitò neppure un istante ad accettare quel
pretino “che nessuno vuole: un ragazzo d’una famiglia mezza ebrea” (così
l’aveva presentato il famigerato monsignor Tirapani).
Giunti sul promontorio, davanti al sagrato della chiesa, vi aspettano
Maresco Ballini e Mario Rosi, due fra i più attivi ex scolari di Calenzano,
vecchie scolte della fortezza scalcinata.
Perché dici questo?
Tante volte lo hai pensato, lo hai scritto: l’esperienza, una frazione di
secondo dopo essere consumata, si riduce alla visione di chi la riporta. Il
testimone avrà sempre la peggio contro l’insidia del tempo: lui lo sa e reca
in viso il segno della battaglia perduta. Tuttavia proprio questo conferisce
alle sue parole la miseria e la nobiltà che stai inseguendo.
Nel chiostro c’è il pozzo dove i ragazzi gettarono gli attrezzi sportivi e i
giocattoli: non contro la ricreazione, mettono subito le mani avanti Maresco
e Mario, ma allo scopo di sottolineare che c’è un momento per la scuola e
uno per il gioco. Se confondessimo le due dimensioni, bestemmieremmo il
tempo.
Una scena ideale per lo schermo, quella dei palloni e delle racchette da
ping pong che sprofondano: infatti è presente nell’adattamento televisivo di
Andrea e Antonio Frazzi, con Sergio Castellitto nel ruolo principale, andato
in onda su Rai 1 nel 1997, oggi visibile su You Tube.
Entrate in canonica e vi mettete a sedere. Questa è stata la prima scuola.
Un tavolo, poche sedie, la cartina della Palestina ancora attaccata alla
parete, stampata in una tipografia di Karlsruhe, leggi, per una casa editrice
di Kassel: in questa città ci sei andato una volta a visitare la rassegna
artistica biennale “Documenta”. Quanto di più distante possa esserci dalla
poetica del priore: le installazioni pseudocreative, frutto marcio della
cultura novecentesca, in cui l’arbitrio è stato incoronato. Il priore
localizzava su quella carta i luoghi del Vangelo seguendo con il dito gli
spostamenti a piedi di Gesù. Nasce da lì il tentativo di un catechismo
storico, prima scritto e poi ripudiato.
Mario, coi capelli bianchi e i grandi occhiali da sole appoggiati sul
tavolo, sembra taciturno, ma interviene sempre puntuale per precisare un
concetto, richiamare una data, quasi temesse l’approssimazione, il disguido,
il refuso. Sarebbe l’intellettuale del gruppo, perché quando conobbe il
priore aveva fatto già l’Avviamento. Era impiegato. Copiò a macchina
alcune parti di Esperienze pastorali, enciclopedia antropologica di San
Donato che, nonostante la partecipe introduzione di monsignor Giuseppe
D’Avack, arcivescovo di Camerino, e l’imprimatur del cardinale Elia Dalla
Costa, non tardò a essere ritirata dal commercio per ordine del Sant’Uffizio.
Solo nell’aprile del 2014 il testo è stato riabilitato.
In quel libro ritroviamo lo sguardo del prete che, prima di agire-
predicare, cerca innanzitutto di capire chi ha di fronte. Grafici, dati
statistici, cartine, fotografie si susseguono a ritmo incessante. Documenti
alla mano, lo scrittore non parla a vanvera. Vuole sapere chi fa la
comunione e chi no, quanti vanno a messa, in quale modo avvengono le
processioni, come ci si fidanza e come ci si sposa, perché si abortisce,
perché si convive. È interessato alle consuetudini funerarie. Arriva perfino a
indagare sul numero dei letti all’interno delle case, stanza per stanza, un
particolare che attirò l’attenzione di Luigi Einaudi, ammiratore dell’opera in
una lettera pubblicata su “Paese Sera” il 5 marzo 1959. L’angustia degli
spazi, la promiscuità, le restrizioni, con ogni probabilità sconvolsero
Lorenzo, cresciuto nella tenuta di Gigliola.
Ai suoi occhi, San Donato di Calenzano avrebbe potuto anche essere
l’Africa. Quella pieve millenaria rappresentò per il giovane viceparroco ciò
che il Brasile fu per Claude Lévi-Strauss o la Nuova Guinea per Bronislaw
Malinowski: l’altrove primordiale che poi riconobbe dentro se stesso.
Come si fa a diventare uomini? La risposta prende forma nella Scuola
Popolare: pupilla dell’occhio destro, ottavo sacramento, secondo le
immagini coniate dal priore. I concorrenti degli educatori a quel tempo si
chiamavano televisione, cinema, ballo, biliardo, gioco, bar, sport. Sparute,
quasi insignificanti avanguardie di quello che sarebbe venuto dopo. Al
nuovo prete furono sufficienti pochi mesi per battere, in un colpo solo, tutti
gli avversari. Sin dai primi giorni andò a cercarsi i ragazzi uno per uno.
Gianfranco Baldassini stava armeggiando davanti a casa sulla sua bicicletta
e lui, come se fosse sulle rive del lago Tiberiade, gli disse: “Cosa fai lì,
vieni con noi alla chiesa che c’è tanto da fare”. In seguito gli fece guidare
spesso la Fiat 1100 nera della madre per andare a trovare malati e vecchi
infermi.
«Quando incontrasti il priore, eri credente?» chiedi a bruciapelo a Mario,
come se volessi stanarlo.
Risponde diretto: «Credevo nelle regole, ma Lorenzo Milani mi ha fatto
credere nell’uomo».
«In che modo?»
«Lui partiva sempre da un’esperienza personale del ragazzo. Ci metteva
dentro tutto.»
Maresco voleva fare il ciclista, non aveva il padre. L’antico signorino lo
prese sotto la sua ala protettiva. Parlò con lo zio, Antonio Facchini, detto
Tonino, in pochi giorni fondò un’associazione ciclistica, scelse anche i
colori sociali delle maglie. Una volta, dopo averlo confessato, predisse:
“Vai caro, oggi vinci!”, e così accadde davvero.
Sessantaquattro anni dopo, mica uno scherzo, osservi l’ex orfano, alto
come una pertica, lucido e attivo. Di nuovo hai l’impressione che il priore ti
avverta: attento a ciò che scrivi. A ciò che pensi. A ciò che dici. Questo
ragazzo, oggi ottuagenario, è stato figlio mio!
I due amici, accanto ad Aldo, ti parlano di don Lorenzo come se fosse un
intoccabile. Chissà quante volte hanno raccontato ad altri le cose che ora
stanno dicendo a te. Le recitano come un rosario. Guai a contraddirli! In
presenza loro, solo pronunciare il nome dell’uomo che vi ha riuniti, peraltro
così spesso abusato, sembra rischioso. Il venerdì, dicono, era il giorno delle
conferenze, dedicato agli ospiti. Un pilota temerario era riuscito a passare
col suo aereo sotto le arcate? Don Milani lo invitava a parlare coi ragazzi, i
quali si dovevano preparare, perché avrebbero dovuto fare le domande.
Vennero astronomi a spiegar le stelle, camionisti a dire come funziona un
motore, musicisti a suonare, veterinari a risolvere i problemi dei contadini
con gli animali. Arrivò perfino Ettore Bernabei, a quel tempo direttore del
“Mattino”, a difendersi dagli adolescenti che l’attaccavano in quanto sul suo
giornale non metteva in evidenza lo sfruttamento minorile.
Il maestro voleva far scattare una scintilla. Ci avrebbe pensato lui ad
accendere il fuoco. I soldi necessari se li faceva dare dalla zia prediletta,
Silvia Just. I programmi ministeriali, con l’aiuto di un vero maestro statale,
si riuscivano a portare avanti. Veniva l’ispettore scolastico: faceva le
domande, ascoltava le risposte, riempiva il verbale e spediva a casa il
diploma.
A Calenzano don Lorenzo compie la sua educazione politica. Non resta
certo con le mani in tasca e la coscienza immacolata. Chiamato a battere la
grancassa per la Democrazia cristiana contro il Fronte popolare, presto si
rende conto dell’inganno nel quale è caduto, visto che, dopo la vittoria delle
tonache sulle camicie rosse, nelle elezioni del 18 aprile 1948, i poveri,
invece di migliorare, sprofondano nell’abisso. I sindacalisti licenziati per
rappresaglia, le famiglie senza acqua corrente, i vertici ecclesiastici che se
l’intendono con la Confindustria.
Pochi anni dopo, un decreto dei vescovi della Regione Toscana invita a
non votare per quei partiti favorevoli a sopprimere l’insegnamento religioso
dalle scuole pubbliche, che promuovono il matrimonio civile e vorrebbero
introdurre il divorzio in Italia. Don Milani spinge i suoi parrocchiani a
votare secondo coscienza, scegliendo fra i democristiani migliori.
Immediatamente il cardinale Elia Dalla Costa lo richiama. È l’inizio di una
lunga controversia che porterà, secondo l’espressione usata dell’amico
magistrato Gian Paolo Meucci, al “penitenziario ecclesiastico” del Mugello.
Ma cosa avrebbe potuto fare don Milani di fronte alla liquidazione della
Fonderia Pignone che, nonostante l’appoggio del sindaco La Pira, stava
rischiando di gettare sul lastrico centinaia di operai? E con che cuore si
poteva opporre alle bandiere rosse sventolanti sul feretro di Libero, operaio
morto sul lavoro? Assai meglio aiutare la vedova, come subito fece.
La sua straordinaria, folgorante equidistanza, facile da formulare oggi
ma assai rara a quei tempi, resta scolpita nelle pagine di Esperienze
pastorali.
Da una parte, ripensando a Mauro, povero tessitore licenziato dal
lanificio pratese Baffi:

Se quel qualcuno avesse almeno una dottrina più bella della nostra,
starei zitto. Ma la dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza
amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane.
Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti,
un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio.
E io dovrei farmi battere da così poco? Io che ho una dottrina che pare
fatta apposta per incendiare un cuore di giovane. Una dottrina che per
secoli ha portato migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti.

Dall’altra, con uguale, stringente persuasione stilistica:

Il fatto resta e cioè che son compromesso col governo e col Baffi. Al
governo gli ho dato il voto. Ho proibito dall’altare di dare il voto a altri.
Ho proibito di leggere i giornali che lo criticano. E il governo che io ho
così sorretto, non platonicamente, ma in concreto, il governo s’è lasciato
legare mani e piedi dal Baffi e da quelli con lui.
Il governo s’è alleato col Faraone contro Babilonia. L’ha stimato
prudenza. Ed io ho taciuto. Non mi son fatto buttar nel pozzo, come
Geremia. Anzi ho avuto onore dal governo e aiuto d’ogni genere.
Ecco qual è il muro che mi impedisce di andare incontro al povero e
additargli la Croce. Se lo facessi suonerebbe come un orribile scherno.

Stretto fra l’incudine dell’Azione cattolica e il martello della Stella rossa,


don Lorenzo si getta nel mucchio lasciandosi dietro tutti. Essere prete gli
serve da pedana di lancio. La Chiesa, col suo armamentario, lo affascina
come un vestito di gala col quale saltare sulle pozzanghere. Insopportabile
per lui era osservare i giovani sfuggiti dalla parrocchia per andare in
sezione.

Abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi


eucaristici di Franco.

Cominciò così a pubblicare qualche articolo su “Adesso”, la rivista di


don Mazzolari. Il primo, del 15 novembre 1949, è il racconto di una
raccomandazione fatta da don Lorenzo per un ragazzo, disoccupato, presso
un industriale che accetta di aiutare il giovane solo perché presentato da un
prete. Il secondo, a distanza di un anno, è un’altra riflessione sui poveri.
Una rivista evangelica strumentalizzò l’articolo pubblicandolo con tagli
senza l’autorizzazione dell’autore, che diffidò la direttrice. Don Mazzolari
consigliò la regola rosminiana: “adorare, tacere, soffrire”. Meglio “entrare
nella zona del silenzio”, gli avrebbe scritto in seguito, quando don Lorenzo
si rivolse a lui non soddisfatto della sua recensione poco esaltante di
Esperienze pastorali. Non era certo la miope stroncatura del gesuita padre
Angelo Perego, che uscì su “Civiltà cattolica” il 20 settembre 1958
(risarcita solo il 21 novembre 1970 sulla stessa rivista dall’encomio solenne
di Giuseppe De Rosa); tuttavia fu sufficiente a provocare la stupenda
risposta di don Lorenzo, firmata con lo pseudonimo di Benito Ferrini, che
apparve su “Adesso” il 18 ottobre 1958. Titolo emblematico: Ho aperto gli
occhi. Uno dei pezzi forti della frantumata ma resistente opera del priore.
Dove si capisce cosa significa insegnare quello che in seguito molti
chiameranno lo “spirito critico”:
“A un certo punto leggere la prima pagina di un giornale (quella che
prima saltavamo sempre) diventò troppo meglio che leggere quelle dello
sport (che prima erano state l’unica nostra lettura), ci diventò come
incontrare un branco immenso e fitto fitto di vecchi amici, luoghi, persone,
date, vocaboli, radici, era tutto un brulichio di roba viva, un intrecciarsi di
cose diverse che ricascavano tutte lì insieme, era la lingua insomma, quella
di cui ci aveva parlato tante volte don Lorenzo, la famosa chiave per tutti gli
usci, come diceva lui.”
Uscite fuori, sul sagrato, dove compare don Alfredo, parroco di Calenzano,
che vi saluta frettoloso perché fra poco dovrà assistere una donna in fin di
vita. Vedendoti insieme ai due ex allievi, capisce al volo la ragione della tua
presenza nella sua parrocchia. Gli si legge in faccia il pensiero: “Ancora
lui!”.
Mentre state parlottando, arriva il postino. Nemmeno il tempo di
sistemare la moto sul cavalletto e consegnare il giornale locale che già
sbirciamo in prima pagina un titolo: Don Milani...
La lingua batte dove il dente duole. Vi salutate. Mario va a casa a
pranzare. Tu, Aldo e Maresco andate alla Chiusa, la chiesetta che il priore
ricostruì con l’aiuto dei paesani lavorando insieme a loro sul torrente del
Marina, i calzoni ripiegati sui polpacci, il cappello per ripararsi dal sole. Un
tabernacolo in via delle Ginestre, sperduto nel cunicolo, con le finestrelle al
piano terra protette dalle inferriate, devi proprio sapere dov’è se vuoi
localizzarlo, sotto l’autostrada del Sole che sembra appartenere a un altro
mondo ma unì l’Italia.
Il priore fece trasportare in questo edificio, ancora in ristrutturazione
nella zona laterale, il campanile e una finestra che appartenevano alla tenuta
di Montespertoli. Contempli le parti della Gigliola innestate nel tempietto ai
margini della stradina come se fossero polmoni artificiali appena trapiantati
nel corpo di un altro uomo.
Scendi un poco dietro ai ponteggi. Il fogliame ti avvolge. Senti una
vocina che recita:

Cosa intendeva il priore con povertà? Non solo quella economica, bensì
la mancanza delle parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza.
Chi non sa esprimersi non può nemmeno pensare, vivrà sempre nel
degrado, rischiando il cinismo, la volgarità, l’egoismo, l’indifferenza. Il
cristianesimo di don Milani s’identifica con la sua missione pedagogica:
fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le loro esistenze affinché
possano dare nuovi e buoni frutti. Per un religioso significa accompagnare
e partecipare alla creazione di Dio. Per chi non crede vuol dire realizzare
appieno la propria umanità favorendo quella altrui. Si può essere “povero
di spirito”, nell’accezione strettamente evangelica, conquistando la
dimensione integrale del pensiero-azione, mai sconnesso, né frantumato:
giudici dei propri istinti, responsabili dei propri sogni, consapevoli del
marchio a fuoco che Caino ha lasciato nei nostri cuori, ma pronti ad
affrontarlo in noi e nel prossimo come una pietra dello scandalo. Una
dimensione inadeguata alla conoscenza esclusivamente intellettuale che
sedimenta l’illusione di poter attingere ai tesori della sapienza, della
bellezza, perfino della sanità, senza bruciarsi davvero le mani. Un’ipotesi
vale l’altra.

Resti con Maresco qualche minuto mentre Aldo va a comprare i panini col
prosciutto. Si vede che con la mente il vecchio orfano sta tornando a quegli
anni lontani. Vorresti strappare la sua memoria dalla corteccia cerebrale
prima che si disperda. Sei destinato alla sconfitta. Non riuscirai mai a
sapere ciò che brami.
Facciamo un solo esempio. L’uomo che hai di fronte, al tempo in cui era
emigrato a Milano, andava a lezione di matematica da Carla Sborgia, la
mitica fidanzata di Lorenzo! Te lo dice lui stesso, come se niente fosse,
davanti alla macchina prima di tornare a Calenzano.
Tu sei l’assetato nel deserto. Il vecchio scolaro lascia cadere solo poche
gocce.
«Com’era?»
«Chi?»
«La professoressa.»
«Brava.»
«E poi?»
«Simpatica.»
Subito cambia discorso. Ti racconta di un maniscalco, bestemmiatore
come pochi, che abitava in una casa là dietro, col quale don Lorenzo fece
amicizia. Una delle vecchie storie che fanno parte della Leggenda Aurea.
L’operaio parlava volentieri con il giovane prete, senza riuscire a trattenere
qualche imprecazione. Secondo don Lorenzo era il più cattolico di tutti,
altrimenti non se la sarebbe presa così tanto con Nostro Signore.
Maresco sogghigna soddisfatto. E Carla Sborgia resta avvolta nel
mistero.
Città degli angeli
Città del Messico, 2010

Siamo sull’Insurgentes, la strada più lunga, insieme al Paseo della Riforma.


Davanti a noi brillano le insegne della farmacia Sant’Isidoro. Di fianco c’è
un grande negozio di mobili. Poco più in là uno Starbuck’s coffy e il
magazzino della Nike. Accanto al mio albergo un distributore della Shell
con la squadra degli inservienti schierati all’ingresso per dirottare le auto
verso i rifornimenti.
Ramiro arriva puntuale. È un prete non ancora trentenne impegnato nel
recupero dei niños de rua, i ragazzi difficili, quelli che o non vogliono
crescere o lo fanno male. Colombiano, nero come la pece, si è formato sulle
opere di san Leonardo Murialdo. Andiamo ad accogliere Pedro, adolescente
senza fissa dimora, proveniente dal contado, destinato a una casa
d’accoglienza gestita dalla congregazione dei giuseppini, nello storico
quartiere di Xochimilco. Prendiamo una serie di mezzi: un trenino, un
autobus disarticolato che schizza velocissimo sui grandi curvoni, col rischio
di catapultare i passeggeri, un pesero, vale a dire un pulmino-taxi collettivo,
infine la metropolitana.
Le facce della gente mi ricordano ciò che scrisse Johann Baptist Metz,
teologo tedesco, il quale rintracciava i tratti del sacro nei volti degli andini.
Bambini fanno le evoluzioni ai semafori: ginnasti, acrobati, venditori,
giocolieri. Le donne sono piccole, spesso obese, rattrappite. Ogni tanto
spunta dal nulla qualche giovane fata. Gli autisti dei mezzi pubblici
azionano la grossa cloche del cambio con gesti ampi e lenti, come se
rimestassero in un pentolone. La porta di accesso resta aperta anche durante
la marcia. La città è bassa, sgranata, polverosa, arida, con scorci a volte
equatoriali negli arbusti secchi ai lati delle nuove costruzioni in cemento.
Trionfa un senso di fatalismo, sconforto, malinconia e allegria insieme,
come se la fiesta fosse sempre sull’orlo del baratro.
Con Ramiro parliamo di Giuseppe. Lui, attraverso i Vangeli, ne declina
la celeste paternità. Io gli racconto la Fuga in Egitto di Giovambattista
Tiepolo. Una volta, a Stoccarda, vidi quel quadro. Mi restò in testa il
disegno dell’asino, l’unico sveglio.
Intorno a noi palpita un popolo di sconfitti che è riuscito a trovare le
ragioni per sopravvivere, nonostante tutto. Penso a Octavio Paz, alla sua
concezione del carattere messicano basata sulla corrida. La interpreto a
modo mio: il torero sarebbe lo spagnolo, il toro il popolo indigeno. Il
carnefice e la vittima hanno fatto l’amore, i meticci sono i figli dello stupro.
Il picador è quello che prepara l’animale alla morte: un personaggio
intermedio, una sorta di cerimoniere. Gli spagnoli hanno ucciso gli indios
imponendo loro la religione cristiana. Sarà questo il motivo
dell’avvilimento sudamericano?
Ramiro mi dice che la Madonna di Guadalupe ha salvato il pueblo dalla
prostrazione apparendo all’umile Juan Diego.
Resta il sentimento di un’amputazione. Violenza e fragilità, innocenza e
ingiustizia, sopruso e abbattimento. Penso anche a Sam Peckinpah e alla sua
passione messicana: la via di fuga dei rapinatori, degli uomini disillusi, dei
cowboy che hanno deciso di cambiare vita, dei pistoleri pentiti, degli
ergastolani, dei reduci.
Ramiro si concentra su san Paolo. Mi impartisce una lezione teologica
sulla carità. Siamo così infervorati nella discussione che quando arriviamo
nella stazione autobus del Norte, rischiamo di perderci Pedro. È lui ad
avvicinarsi. Piccolo, scuro, timidissimo, con la borsa a tracolla. Ramiro lo
abbraccia. Io sono frastornato, anche perché questo terminal gigantesco mi
pare di conoscerlo. Dove posso averlo visto? Raccolgo dentro di me la
risposta come una scheggia incandescente: Sal Paradiso, nel finale di Sulla
strada, riparte da qui per raggiungere New York!
Ce ne andiamo in giro tutti e tre come randagi. Ramiro ci porta nella
grande piazza dello Zocalo dove hanno montato un impianto di pattinaggio
su ghiaccio: surreale. La chiesa e i palazzi antistanti sono sbilenchi perché
Città del Messico sta sprofondando nel terreno paludoso. Torna la vecchia
storia di Cortez, il quale prosciugò la laguna e costruì sul terrapieno. Il
Tempio Maggiore è ciò che resta della civiltà azteca: un vuoto lancinante di
morte secolare. Pedro non sta più nella pelle. Gira da una parte all’altra,
felice e trasognato.
Pranziamo alla Casa de los Azulejos, da Sanborn’s, fra preziose
mattonelle e splendide ringhiere, in un palazzo del sedicesimo secolo. Io e
Ramirez bacalau; Pedrito, come già l’ho soprannominato, chicken and
fries. All’uscita saliamo sulla Torre Latinoamericana, il grattacielo dal quale
si vede tutta la città. Immediato il confronto con l’Empire State Building:
come mettere uno accanto all’altro un granatiere in divisa e un ragazzaccio
coi calzoni rattoppati, entrambi altissimi e visionari. 2300 metri di altitudine
non sono uno scherzo: lo percepisci nel cielo azzurro di vetro trasparente.
Certi palazzi sembrano astronauti posti di fianco alle vecchie chiese
coloniali. Vedendola dall’alto, in mezzo alla foresta di cartelloni
pubblicitari, ho la sensazione di una metropoli trasfigurata in cielo. Quasi
stesse per prendere il volo. Questa è la vera città degli angeli! Lo smog
intasa l’ambiente: molti tossiscono, io ho la gola secca, Pedro mal di pancia.
Credo abbia esagerato con le patatine fritte.
Finalmente arriviamo a Xochimilco. Attraversiamo i mercati di frutta e
verdura sistemati in grandi cortili interni dove intere famiglie mangiano,
guardano la televisione, vivono in mezzo ai banchi. Il cielo azzurro,
tropicale, scalda le pareti. Visitiamo i canali a bordo di chiatte per turisti.
Nella cattedrale di San Bernardino da Siena ci aspettano alcune suore che
prendono in consegna Pedrito. Solo dopo averlo salutato, Ramiro mi
confida che è un tossicodipendente. Ha partecipato anche a un paio di
rapine a mano armata dalle parti di Vera Cruz.
«Chi?» dico incredulo. «Quel bambino che mi ha appena dato il bacetto
sulla guancia?»
«Sì» conferma il giuseppino. «Proprio lui.»
Tempo pieno
Barbiana

A Barbiana ci sono andati tutti. I capitani scalzi, i condottieri senza regni, i


semplici curiosi. Chi ha voluto raccogliere da terra un impossibile testimone
da consegnare ai più giovani. Chi ha cercato di trovare il consenso che da
solo non riusciva a ottenere. Chi ha sperato di conoscere se stesso. Negli
anni è diventata un luogo di culto. Liana Fiorani ha riunito in un grosso
volume le dediche che ogni anno i pellegrini in visita alla tomba di don
Lorenzo lasciano sui quaderni del cimitero: una lunga scia di riconoscenza e
devozione per molte persone che, ognuna a suo modo, vogliono
testimoniare una presenza, come se fra queste rocce fosse celata la
promessa, purtroppo spesso non mantenuta, di un’altra Italia.
Giri la chiave dell’accensione e parti. L’autostrada del Sole ti accoglie,
ancora una volta, nella sua aria di latte, alberi e cielo. Se il tuo Paese avesse
un cuore, lo sentiresti pulsare nel pulviscolo dorato che lega Orte a Orvieto
e poi diventa più denso e azzurro ad Arezzo e San Giovanni in Valdarno, in
prossimità dell’uscita verso la dorsale appenninica. Procedendo lungo il
corso del fiume, ripensi alla Firenze-Bologna, il tratto inaugurato alla fine
del 1960, quel prodigio architettonico di ponti e gallerie spinto fin quasi ai
limiti dell’illusione ottica, che divise in due il regno alato del priore: di qua
Calenzano, di là Barbiana.

Otteniamo qualcosa da noi stessi solo accettando le condizioni in cui ci


troviamo. Ciò non significa rinunciare ad agire. C’è una frontiera spirituale
che non va oltrepassata. Fin quando scegliamo fra questo o quel passo da
compiere, alla ricerca del nostro cammino, non tanto per star meglio,
quanto per non sentirci in dissonanza, tutto è lecito. Ma se bisogna
“brigare” pur di restare a San Donato di Calenzano, allora no, sarebbe come
sottrarsi alla volontà di Dio che ci ha voluti lì dove siamo.
Cara Mamma,
Bisogna che tu tenti di capire che un S. Donato brigato, oggi non mi
vuol dir nulla e domani non sarà che un continuo tormento interiore, e
leticare esteriore coi preti. Non te le posso spiegare tutte perché ci vuol
troppo, ma ti assicuro che senza questa premessa fondamentale dell’essere
nel posto in cui ci han messo le circostanze e non in quello che s’è scelto
non è possibile impostare religiosamente nulla: dalle decisioni più grosse
fino ai più piccoli particolari della vita interiore e esteriore di ogni giorno.

Così, avrebbe detto Günther Anders – che don Lorenzo ben conosceva in
quanto appassionato lettore, insieme ai suoi ragazzi, del carteggio da lui
intrecciato con Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima –, i terreni diventano
sacri: per iniziativa di un uomo solo, aggiungi tu, anche pensando a José
Luis Corzo che su questo tema nei libri dedicati al priore ha ben riflettuto.
Dopo la morte di don Daniele Pugi, avvenuta il 12 settembre 1954,
sarebbe stato logico che il giovane cappellano fosse chiamato a sostituirlo: i
parrocchiani gli volevano bene, la sua scuola era diventata un punto di
riferimento essenziale per tutto il comprensorio. Ma il vicario generale
dell’arcidiocesi fiorentina, monsignor Mario Tirapani, con l’approvazione
del cardinale Elia Dalla Costa, decise altrimenti. Quella testa calda, che già
in seminario aveva fatto parlare di sé, andava messa da parte, dove non
potesse nuocere. In mezzo alle galline.
Il 7 dicembre don Milani arrivò quassù insieme a Giulia Lastrucci e Eda
Pelegatti, madre e figlia, che erano già state le governanti del prete a
Calenzano e non avevano voluto abbandonarlo. Due donne indimenticabili,
oggi sepolte accanto a lui. Chi dava da mangiare a tutti quando arrivavano
fin qui? Chi andava a riprendere quelli che scappavano nei boschi? Chi
sapeva davvero ciò che accadeva lì dalla mattina alla sera?
Superi il ponticello di fronte alla Casa del Prosciutto, talmente stretto da
costringere la municipalità a prevedere un semaforo che possa alternare i
sensi di marcia per le automobili. Svolti a destra e premi sul pedale
dell’acceleratore. Piove. Si vede poco. È molto umido. Pur essendo il primo
pomeriggio, sembra già notte. Ti sei lasciato dietro in un battibaleno la
piazza di Vicchio, con la statua di Giotto, la strada comunale, la sbarra del
passaggio a livello.
Guidi verso le pendici appenniniche. Da qui Barbiana è a un tiro di
schioppo, ma un tempo la strada asfaltata in salita che hai appena imboccato
non esisteva. Il colle era isolato, senza acqua corrente, né luce elettrica, né
telefono. In certi tratti ancora adesso si va su in prima. All’altezza di
Padiluvo, due o tre case che ospitavano una pluriclasse elementare, dalla
prima alla quinta, frequentata un giorno sì e l’altro no dai bambini cresciuti
nei paraggi, la foschia si dirada. In questo punto preciso il priore disse una
volta a Adele Corradi:

Così sarà quando arriveremo in Paradiso. Lasceremo giù tutta la nebbia


e tutto il grigio rimarrà dietro di noi.

Quasi a conferma, subito dopo una curva, compare il cielo inatteso del
Mugello: una pelle scorticata fra i monti rossicci che ad Anna Maria Ortese,
venuta il giorno di Natale del 1958, sfruttando un passaggio che le diedero
gli amici di Calenzano, fece pensare alla Russia. Quando per la prima volta
si trovò di fronte quel prete di cui aveva tanto sentito parlare, restò
sconcertata:
“L’impressione che dava, malgrado la bontà del viso, un po’ attento, ma
solo un poco, e fermo come niente lo potesse abbassare, era di disprezzo.
Non per me, e per nessuno in particolare, ma per qualcosa che a me e a
molti altri era ignoto.”

Hanno costruito degli agriturismi qui intorno ma l’ambiente resta spoglio e


per niente ospitale. Eppure le vecchie case dei contadini sono state
ristrutturate. Gli orti di fianco ai portoni sembrano puliti. I fiori sempre
ordinati. Solo il fango che s’attacca agli stivali è rimasto lo stesso. Arrivi in
cima al cucuzzolo ed ecco spunta il campanile di Sant’Andrea. Scendi
piano verso l’antica pieve sfruttando il viottolo di fortuna.
Parcheggi davanti alla canonica sotto gli occhi di un gruppo di
scalmanati: mezzi scout, mezzi ragazzi dell’oratorio. Il prete che li
accompagna pare uno di loro. Giocano, gridano, fanno chiasso, come se
fosse l’ultima ora di scuola. Entri in chiesa dove, fra zaini e borse, ne vedi
altri accampati sotto la vetrata del Santo Scolaro, di cui per la prima volta
ammiri l’originale. Alcune intrepide fanciulle sono salite sul pulpito a
recitare per scherzo una piccola scena. Quando ti vedono, scendono.
Ti viene in mente la reazione stizzita che ebbe una volta il priore, a
Vicchio, dov’era stato invitato insieme ai suoi scolari per vedere Roma città
aperta. Gli studenti delle medie fecero una gazzarra tale da disturbare la
proiezione. Lorenzo intervenne a muso duro. Il giorno dopo scrisse
direttamente al professore che aveva organizzato l’incontro, Marcello
Inghilesi:

Caro Marcello,
ieri ho trattato male quei poveri ragazzi, ma cinque minuti dopo m’ero
già accorto d’aver sbagliato destinatari.
I ragazzi son dei poveri ingannati. La colpa è vostra. I ragazzi di qui
sono stati unanimi in questo giudizio. Quella non è una scuola, è una
pubblica piazza. Ognuno tira per la sua strada disinteressandosi del
prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un
errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo
nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i
mezzi della democrazia.

Il professor Agostino Ammannati, docente del liceo Cicognini di Prato,


nonché nipote di Giulia Lastrucci, il quale nel tempo libero saliva a
Barbiana per fare scuola insieme al priore, invitato a commentare questo
passo da Neera Fallaci, dichiarò:
“Don Lorenzo diceva: ‘i ragazzi con me hanno sempre torto!’. Non
credeva agli spontaneismi in educazione; non credeva affatto che un
ragazzo potesse essere abbandonato alle sue tendenze, ai suoi impulsi
naturali. Per lui un ragazzo era come una vite che va innestata e potata e
curata e sostenuta perché possa dare il prodotto migliore.”

Non tutti gli ex scolari del priore infatti lo ricordano con simpatia: questo
rappresenta il prezzo da pagare per chi fa sul serio. Illudersi di poter piacere
a chiunque è umano. Credere nella mediazione incessante anche. Ma arriva
il momento in cui devi accettare le scorie, prenderti in carico le perfidie,
mettere in conto le infedeltà. Così comincia il vero viaggio. Altrimenti fai
soltanto turismo culturale.
Torni fuori, in mezzo al gruppetto in attesa. Osservi il pergolato dove si
teneva lezione i giorni di bel tempo, la piscina fatta costruire a uso dei
piccoli montanari; dai un’occhiata alla zona esterna, visiti le tombe, percorri
il cosiddetto “viale della Costituzione”, coi cartelloni che illustrano i
principali articoli; arrivi fino al ponte di Luciano, attraversato tutte le
mattine da un bambino che camminava un’ora e mezza nel bosco pur di
sedersi accanto ai compagni.
Cose viste e riviste, lette e rilette. Trucioli di utopie che appassionarono
più d’una generazione. Ricordi la sorpresa di Pietro Ingrao per l’attacco
che, come tutti quelli che si presentavano, anche lui ricevette dai ragazzi
manovrati dal maestro; la mortificazione subita da Gigi Ghirotti, grande
giornalista e amico di Mario Rigoni Stern che gli aveva dedicato Storia di
Tönle, vittima poi dello stesso male che fu fatale al priore, quando venne
accusato di essere un venduto; la stupefazione di Giorgio Bocca, salito fin
qui dopo la morte di don Lorenzo per trasmettere la notizia che Lettera a
una professoressa aveva vinto un premio letterario. Ripensi alla piena
sintonia con Erich Fromm, che avrebbe voluto incontrarlo; Ignazio Silone,
che ritrovava i suoi cafoni nei volti dei poveri mugellesi; Elémire Zolla,
pronto a sottolineare il rapporto fra il parroco di Sant’Andrea e quello
rievocato da Silvio D’Arzo in Casa d’altri.
A Barbiana non c’era un tempo-scuola. Tutto si legava dentro la vita del
maestro e dei suoi piccoli allievi. Non bisogna credere che fosse una
semplice didattica. Si trattava piuttosto di un nuovo modo di vivere, nel
segno dell’unità spirituale prima ancora che nel sogno del riscatto sociale.
Don Lorenzo non si neutralizzava negli altri ma richiamava su di sé
l’attenzione. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando
lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt; sperimentare,
finché possibile, una vita nascosta, secondo il modello del falegname di
Nazareth, come Charles de Foucauld, una cui foto aveva attaccato alla
parete di Barbiana, lo esaltava. Era come se ci dicesse: guardate cosa sto
facendo di me stesso! Provateci anche voi. Non chinate la testa ma guardate
in faccia il vostro interlocutore.
Appena arrivò, liberò il contadino del prete, abituato a versare in
canonica il grano, l’olio, le patate, la legna e le castagne, dalla sua
condizione di mezzadro: «Tu prenderai l’ottanta per cento di quanto
raccogli. A me darai ciò che ti resta».
Il beneficiato fu il primo a considerarlo pazzo, senza intuire che il
benefattore con lui s’arricchiva.
Come aveva fatto a Calenzano, andò a cercarsi gli allievi nelle spelonche
dove abitavano. Convinse i genitori a farli venire in canonica a studiare.
All’inizio ideò un doposcuola serale aperto agli adulti. In seguito si
concentrò sui più piccoli. Portò le bombole col gas. Superò la diffidenza dei
primi tempi, quando non si capiva perché un prete così, un intellettuale,
fosse stato spedito lassù. Girarono voci di una sua presunta omosessualità.
Vecchie storie di poveracci in malafede. False insinuazioni di cui don
Lorenzo era ben consapevole; basta leggere una delle sue ultime
filastrocche, Orfano (dedicata ai preti novelli), compresa in “Perché mi hai
chiamato?”: con potenza espressiva di icastico rilievo, dopo aver evocato il
sentimento filiale fra l’educatore cristiano e il bambino abbandonato,
immagina che quest’ultimo trattenga a stento in sé lo stupido pettegolezzo:

Il ragazzo alza gli occhi.


Ogni lacrima si rasciuga nei suoi
come succhiata dall’aridità dell’anima.
La risposta sale dal cuore
verso le labbra.
Non le passa.
Resta lì,
dietro un sorriso
chiusa,
ignota al prete
ancora più tragica:
“Finocchio.”

Lorenzo, invece di scoraggiarsi e perdere forza, rianimò quelle povere


case che sembravano piantate come accette sulla scoscesa. Intensificò la
scrittura spedendo più di una lettera al giorno. Era anche un modo di
respirare.

Risali su verso il piazzale, dove i bambini dipingevano, leggevano,


esploravano, parlavano. Gli scout sono entrati in chiesa. Annalisa,
volontaria insieme alla sorella Anna, che li ha appena messi in riga, recita
davanti all’altare tutta la storia.
«Sono nata nel 1954, non l’ho mai conosciuto, eppure mi sono
innamorata di don Lorenzo Milani, ci ho perso proprio la testa, come lui la
perdeva per quelli come voi, e adesso vi spiego perché. Tu quante ore passi
a scuola la mattina?»
L’interpellato, intimidito, risponde:
«Quattro, a volte cinque.»
«E quanto tempo impieghi a fare i compiti?»
Mugugni, sorrisini di circostanza.
«Quante vacanze fai d’estate?»
«Due, tre mesi.»
Lei, a voce alta, scandendo bene le parole, come un’attrice:
«Qui si studiava e si faceva scuola sempre, senza ricreazione, dalla
mattina alla sera, tre-cen-to-ses-santa-cin-que-gior-ni all’anno! Quelli
bisestili anche di più.»
Seduto di fianco a lei, osservi i ragazzi che l’ascoltano: il panorama della
tua vita d’insegnante. Un paesaggio irto di ostacoli. Fuochi che si
accendono e spengono. Valli lussureggianti e cespugli spinosi.
Poi torni con la mente a don Milani. La matrice epistolare della sua
tensione espressiva dava forma all’esperienza compiuta. Sicché la
letteratura, uscita dal portone principale, scacciata via come un ospite
sgradito, rientrava dalla finestra, quale schermo e cassa di risonanza,
pensiero ad alta voce di fronte all’interlocutore. Si spiegano così veemenze,
intemperanze, cadute di stile.
Stile? Cosa vuol dire averne uno?
Ambizione? Un semplice vestito di gala.
Amor proprio? Tempo perso.
Desideri? Acqua salata, più ne bevi, più cresce la sete.
Scrivere lettere senza ricopiare in bella significa tracciare un segno rosso
sull’opera quale oggetto intoccabile di valore acquisito. La rappresentazione
plastica di una potenza in atto, a perdere, concentrata sull’azione e tuttavia
come un faro che l’orienta. Sempre a mezzo metro rispetto agli eventi,
senza filosofie, né troppe mediazioni, riuscendo a preservare una
concentrazione di fondo.
Il nucleo delle missive spedite a Giampaolo Meucci, l’amico magistrato,
è importante proprio per questo: in quella del 2 marzo 1955 il priore spiega
a modo suo la necessità di insegnare la lingua ai montanari per consentirgli
di trasmetterci ciò che Dio ha nascosto nel cuore dei più deboli, dei più
fragili, dei più indifesi. Noi abbiamo gli strumenti; loro, i poveri di spirito,
hanno i veri contenuti. Potrebbero raccontare molto più di quel che
crediamo, ma non sanno esprimersi. La cosa fondamentale comunque è
un’altra: se stappi la loro bottiglia, bevi anche tu. E stai davvero meglio. Se
invece, dopo avergliela rubata, la tieni chiusa, per timore di vederla
esaurire, non credere di potertela scolare da solo: se lo facessi, ti
strozzeresti – e sarebbe giusto.
Annalisa ha finito la sua lezione. Chiede ai ragazzi se hanno domande.
Peggio che andar di notte. In compenso si alza in piedi il prete che li ha
accompagnati per annunciare la messa. Quella simpatica masnada si
ricompone, come accettando un incantesimo. Misteri di chissà quale
associazione parrocchiale.
Esci. Fai il giro dell’edificio.
Entri nella scuola, ancora più piccola, se possibile, dei due locali di
Calenzano. Una sola stanza accanto alla grande cucina. Un paio di tavoli, i
libri, l’astrolabio, le cartine geografiche, il mappamondo, gli schemi di
storia, i grafici delle statistiche, la scritta “I care”, opposta al motto fascista
“me ne frego”, la macchina per scrivere Olivetti, la poesia del piccolo
cubano: “El niño / que no estudia / no es buen / revolucionario”.
Scendete giù a piano terra dove c’era l’officina: il tornio, la sega, la
morsa, la fotografia di don Eugenio Facibeni. Nella stanza accanto si sente
la messa. Risalite la scaletta, chiudete la porticina alle vostre spalle. C’è il
figlio di Michele Gesualdi. Un buon odore di caffè proviene dalla cucina, il
regno di Eda Pelegatti.
Esperienze pastorali venne concluso qui, pubblicato nell’aprile del 1958.
Era la diagnosi, amaramente consapevole, di una sconfitta comunicativa. La
pratica cristiana si avviava a essere poco più che un costume: le processioni,
i battesimi, i matrimoni, rischiavano di perdere tutto il valore sacramentale.
Don Lorenzo, nella sua intuizione pre-conciliare, prima lo registra, quindi
lo denuncia. Capisce con singolare acutezza ciò che oggi Papa Francesco
dichiara apertamente: la Chiesa deve rinnovare il linguaggio. In caso
contrario, continuerà a parlare solo a quelli dell’Azione cattolica. D’altro
canto, dovrebbe mantenere una presenza lungimirante rispetto ai processi
storici. Il priore avanza in questo precario equilibrio.
I lontani sono lontani perché i preti hanno voluto immischiarsi nelle
cose terrene e ci hanno perso la serenità di giudizio.

Il destinatario di queste poche righe del 1958 era Gaetano Carcano. È


l’inizio di una lunga serie di clamorose iniziative. Ricordi la lettera diretta a
Nicola Pistelli, direttore del settimanale della sinistra cattolica fiorentina,
“Politica”, l’8 agosto 1959, di certo una delle più significative. S’intitola Un
muro di foglie e di incenso: avrebbe dovuto essere un articolo, ma poi non
venne mai pubblicato.
Don Lorenzo se la prende con quei vescovi che, privi di veri rapporti con
la realtà quotidiana, intrecciano legami imbarazzanti col potere politico,
magari franchista (è il caso del cardinal Rufini), oppure gollista (erano i
tempi della rivolta algerina), o economico-finanziario (la Fiat). Soprattutto
intende legittimare le osservazioni di un prete qualsiasi, come si presentava
egli stesso, nei confronti dei vertici ecclesiastici. Non una critica dei
sacramenti, di fronte ai quali il sacerdote si deve mettere in ginocchio. Chi
vede il male, ovunque si annidi, ha l’obbligo di intervenire.

Un prigioniero bisogna aiutarlo e liberarlo, e tanto più quando è


prigioniero il nostro padre. Se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli
dissolveremo il muro di incenso Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi.
Ci toccherà rispondergli di sequestro di persona. Dopo tutto quel che
abbiamo patito in questo mondo ci ritroveremo nell’Altro becchi e
bastonati.

Ecco perché quelli di Barbiana saranno tempi di lotta, culminati


addirittura in un processo.
Tutto comincia il 12 febbraio 1965, quando i cappellani militari toscani
in congedo, nell’anniversario della conciliazione tra Chiesa e Stato, riuniti a
convegno presso l’istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico
a Firenze, votano un ordine del giorno, ripreso dalla “Nazione”, nel quale,
dopo aver reso omaggio ai caduti per l’Italia, scrivono:
“Consideriamo un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta
‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano
dell’amore, è espressione di viltà.”
Oggi un’affermazione del genere non sarebbe nemmeno degna di essere
presa in considerazione ma, alla distanza, ci induce a riflettere su come
eravamo. Furono gli ex scolari di Calenzano che portarono a don Milani la
notizia di quella dichiarazione. Il priore rispose pubblicamente il 23
febbraio con una celebre lettera che venne stampata in mille copie.
Il testo è lucidissimo nel denunciare l’uso strumentale della patria
attraverso una fulminea disamina della storia italiana. Liricamente sostenuto
dallo sdegno che la nota dei cappellani aveva suscitato a Barbiana.
Magnifico nell’assunzione del punto di vista basso degli scolari. Gagliardo
nel tenere la testa alta di fronte all’ottusità di quei poveri preti, impugnando,
prima ancora che il Vangelo, l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”.
Certo affrettato nel definire nobile il sistema socialista che in quegli anni si
macchiava nei gulag di crimini contro la stessa umanità che il priore
difendeva. Ma supremo nel prendere le parti degli obiettori, molti dei quali,
incarcerati nelle fortezze militari di Gaeta e Peschiera del Garda, si
identificarono nelle parole del maestro.

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste


divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora
vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere
il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori
dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

La pubblicazione della lettera ai cappellani militari su “Rinascita” il 6


marzo, grazie all’iniziativa del direttore Luca Pavolini, antico amico delle
vacanze estive a Castiglioncello, diede fuoco alle polveri. Un gruppo di ex
combattenti, citando D’Annunzio ed esaltando il fante italiano, denuncia
don Milani per apologia di reato. I tribunali entrano in azione. Scatta il
battage mediatico. Il misero antro di Barbiana comincia a diventar pubblico.
Incroci i ragazzi dell’oratorio mentre escono dalla chiesa e si apprestano
a imboccare il sentiero che li condurrà giù nel piazzale dove l’autista del
bus con wi-fi a bordo li sta aspettando. Non vedono l’ora di tornare a casa.
Non perché ciò che hanno ascoltato e visto non abbia suscitato il loro
interesse. Sono pesci nella corrente del tempo: per assecondare il flusso,
basta un impercettibile movimento della coda.
Il 18 ottobre il priore, già malato, compone quello che, a giudizio di
molti, resta il suo scritto più intenso: la Lettera ai giudici. Ancora una volta
si schiera coi ragazzi “sdegnati e appassionati”. Informa che soltanto venti
su centoventi cappellani avevano firmato il manifesto, redatto dal
presidente, don Alberto Cambi. Chiarisce che l’accusa di viltà nei confronti
degli obiettori non era mai stata formulata, neanche nelle sentenze emesse
contro di loro. Racconta, con lancinante apertura autobiografica, la sua
attività scolastica:

Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime.

Esprime profondo rispetto per tutti i caduti in ogni conflitto bellico.


Smonta il mito della Grande Guerra ricordando le posizioni socialiste di
Cesare Battisti che mai e poi mai avrebbe vantato diritti su Merano e
Bolzano:

Non avrebbe mosso un passo di là da Salorno per lo stessissimo motivo


per cui quattro anni prima aveva obiettato alla presenza degli austriaci di
qua da Salorno e s’era buttato disertore.

Rammenta l’uso dei gas da parte italiana nella guerra contro l’Etiopia.
Spiega che ubbidire non è una virtù, visto che a Norimberga e
Gerusalemme erano stati giustamente condannati proprio i più solerti
esecutori delle stragi naziste. Definisce il duplice impegno dell’educatore:
formare il senso della legalità e la coscienza politica, il che significa stare
sempre sul filo del rasoio. Cioè essere un profeta:

Indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare
domani e che noi vediamo solo in confuso.

Combattere, con l’arma del voto, le leggi ingiuste. Addestrare alla pace.
Preparare al futuro.
Parole che suscitarono reazioni d’ogni tipo. Arrivarono insulti, offese,
encomi, minacce, applausi. Aldo Capitini, che ben conosceva l’autore e,
cinque anni prima, gli aveva fatto visita a Barbiana, avrebbe voluto
promuovere una manifestazione di solidarietà, ma don Milani lo fermò
prima che ciò accadesse.
Giunsero anche vere richieste di comprensione, sincere e profonde
domande sul senso che dobbiamo dare alla nostra vita, come la lettera di
Nadia Neri, che hai già avuto modo di citare, alla quale stava rispondendo
Carla (14 anni) perché don Lorenzo sembrava non potesse nemmeno alzarsi
dalla brandina. In uno sforzo estremo ci riuscì e scrisse:

Se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto e smettere di


leggere e di studiare e occuparsi solo di far scuola ai ragazzi dell’età
dell’obbligo e non un anno di più, oppure agli adulti, ma non una parola di
più dell’eguaglianza e l’eguaglianza in questo momento dev’essere sulla
terza media. Tutto il di più è privilegio.

Nel tumulto storico-politico furono pochi coloro che evidenziarono il


valore artistico di quelle pagine: fra questi vuoi ricordare la madre, sempre
rispettosa della scelta religiosa di Lorenzo, che certo non condivideva,
essendo lei sostanzialmente agnostica, ma capace, in varie interviste
concesse dopo la morte del priore, di cogliere nella Lettera ai giudici il
punto espressivo più alto raggiunto dal figlio.
In quale altro testo di quegli anni potremmo ritrovare un controllo
stilistico così potente del sentimento partecipativo realizzato sul campo vivo
delle operazioni? Dove collocare la concisione strenua degli enunciati, il
cartello folgorante della passione spirituale, il ritmo percussivo dell’epistola
tesa a raccogliere una fiaccola appena caduta a terra, se non nei registri
della migliore letteratura italiana? Erano gli anni di Paolo Volponi, Italo
Calvino, Dino Buzzati, Leonardo Sciascia... Incredibilmente il maestro di
Barbiana, con le suole sporche di fango, nella sua stessa ritrosia
antiaccademica, ti piace crederlo, anche se nessuno in quel momento
l’avrebbe mai detto, ma forse neppure oggi oserebbe pensarlo, prendeva
posto accanto a loro.
Il verdetto arrivò il 15 febbraio 1966: assoluzione piena per entrambi gli
imputati, Luca Pavolini e don Lorenzo Milani. Il 28 ottobre 1967 ci fu il
processo d’appello: il direttore di “Rinascita” venne condannato a cinque
mesi e dieci giorni e amnistiato in Cassazione. Anche il priore subì la
condanna, ma il reato fu considerato estinto perché lui era già morto da
quattro mesi.
Il prezzo della vittoria
Volgograd, 2002

Sulle rive del Volga, dove nel 1943 i cannoni fecero scempio dei corpi, gira
la ruota di un piccolo luna park, patetico nella sua lirica frenesia. Le luci
estive impreziosiscono i greti. Alcuni ragazzi fanno il bagno. Io, appoggiato
alle transenne che delimitano le giostre, lascio scorrere dentro di me le
schegge di qualche vecchia fonte storica.
“Se non prendo Groznyj” confidò Adolf Hitler ai suoi generali, in piedi
davanti alle mappe insieme a lui nella tana di Rastenburg, il bunker di
comando in terra prussiana, “ho perso la guerra.” I timori del Führer si
avverarono perché Stalin bloccò l’avanzata nazista nella città alla quale
aveva dato il proprio nome. Le armate tedesche, imprigionate nelle macerie,
non conquistarono mai i pozzi petroliferi del Caucaso.
Tanti anni dopo Groznyj è diventata il fronte interno più pericoloso della
Federazione russa guidata da Vladimir Putin. L’obiezione di coscienza, pur
essendo prevista dalla nuova Costituzione, spesso non viene riconosciuta,
specie se a farne richiesta sono le truppe di stanza in Cecenia.
Stalingrado, ribattezzata Volgograd da Nikita Chruščëv nel settembre del
1961, con le sue piazze vuote, i suoi edifici sovietici, il suo vecchio
panificio conservato come fosse un sito archeologico, è ancora una retrovia
di guerra. Stamattina sono stato nel cimitero di Rossoš, ho toccato gli
elmetti bucati dei soldati posti uno accanto all’altro sui tumuli, mi sono
fatto fotografare davanti alle tombe dei russi, dei tedeschi, cercando invano
quelle degli italiani. Ho visto le ossa dei morti appena dissotterrate perché
bisognose di una nuova sistemazione. Una donna stava riordinando il
materiale chissà quante volte trafugato. Accanto ai poveri resti umani,
c’erano reperti bellici: gavette arrugginite, pettini, rasoi, pugnali, cucchiai,
documenti, specchietti, bossoli, cinture, fibbie, borracce.
Un giovane tassista con gli occhialetti da intellettuale, Saša, al volante
della sua Fiat 131 beige, mi ha portato fino al Don. Giunto di fronte
all’imbarcadero dei traghetti, nei pressi delle trincee alpine, ho pensato alla
Julia. Abbiamo vagato nella steppa fino a smarrirci negli impervi sentieri
dell’antica madre Russia. Nella desolazione infinita ogni tanto spuntava
qualche vecchia che, pulendosi le mani con lo strofinaccio attaccato alla
gonna, ci indicava la giusta via. Finché, dopo diverse ore, siamo tornati
indietro.
Il tempo di fare una sosta in albergo, mangiare un panino e sono di
nuovo in corsa sulla Strada degli Eroi. Le ragazze di Volgograd, come
quelle riprese da François Truffaut, misurano il globo terrestre in ogni
direzione, ripristinando equilibri e armonie.
Mi dirigo verso l’altura del Mamajev Kurgan, punto cruciale della
battaglia, dove spicca la gigantesca statua di una donna che stringe la spada
chiamando a raccolta il popolo. Lì si riuniscono i soldati in licenza dalla
Cecenia. Ivan, l’obiettore, è uno di loro.
Sono io a definirlo così. Il giovane sta accanto a Igor, in visita al
monumento di cui tante volte avrà sentito parlare. Si è tolto la camicia
mimetica. Resta a petto nudo nel crepuscolo. Al collo porta una cordicella
con la croce ortodossa. Cresciuto in qualche campagna nella sterminata
terra russa, ha frequentato un corso di meccanica a Mosca. Fa caldo. È una
bella giornata di luglio. Il cielo comincia a rosseggiare sulla splendida
vincitrice.
Perché Ivan decise di arruolarsi? Doveva trovare subito un lavoro in
modo da non tornare a mani vuote dai genitori che avevano fatto non pochi
sacrifici per pagare i suoi studi. Ma questo non basta a spiegare la scelta
militare. Bisogna pensare alla febbre dell’adolescenza: il pulsare
dell’energia, la necessità di trovare un ordine allo scopo di placare la furia
del desiderio. Ci sarà qualcuno che, prima o poi, mi dovrà dire cosa dovrò
fare. Una volta, passeggiando nel parco Gorki, vide la festa dei
paracadutisti: i loro tatuaggi, insieme alle strisce azzurre delle magliette
aderenti sugli addominali scolpiti come bassorilievi, furono importanti
quasi quanto i rubli promessi in busta paga.
Gli chiedo se posso fotografarlo. Certo, lascia intendere a gesti. Si mette
accanto al suo amico come avrebbe fatto Bazarov con Arkadij, in Padri e
figli di Turgenev, anche se lui non è proprio un nichilista. Se diserterà, o
chiederà di essere dispensato dal servizio attivo, non lo farà in quanto
contrario all’autorità costituita, né per partito preso, ma solo in virtù dello
sguardo che sto cercando di fissare nel mio obiettivo. Una storia di laghi
ghiacciati non distanti dalla linea ferroviaria che attraversa il grande Paese
in cui è cresciuto: dalla finestra della cucina li ha visti sin da bambino come
ovatta in mezzo al bosco. Si sentiva soltanto l’abbaiare dei cani. Di notte, il
fischio della locomotiva. Il rantolare degli animali. La tosse secca del
nonno.
È questa la ragione per cui Ivan non potrà assomigliare alla statua del
combattente dietro di lui, quella specie di energumeno col mitra e le ali,
metà angelo metà guerriero, coi capelli spettinati di bronzo fuso, piantato
come una quercia di marmo nello stagno dei caduti. Non potrà mai essere
così indistruttibile nel leggendario tramonto di Volgograd. Rifiuterà di
uccidere i civili. I vecchi indifesi. Le donne e i bambini. Quelli non sono
banditi, penserà, nemmeno terroristi.
Entrare in una casa diroccata, a Groznyj, via Derbentskaya, per fare un
solo esempio, alla ricerca dei nemici, vedere le mutilazioni subite dagli
occupanti, lo strazio causato dai grossi calibri, le teste mozzate, quella non è
guerra. Cosa ha a che fare tutto questo con la decisione di spedire in
Cecenia l’esercito nazionale per impedire che l’ennesimo tassello si stacchi
dal sempre precario mosaico russo?
Ecco perché Ivan, seduto accanto a Igor nella scalinata gloriosa del
Mamajev Kurgan, diventerà antimilitarista. Affronterà la cella. Si appellerà
all’articolo 59.3 della Costituzione. Si lascerà andare a fondo nell’esistenza
come i sassi che lanciava da piccolo nei laghi vicino a casa. Vedrà coi suoi
occhi il prezzo della vittoria. Perderà per sempre il sorriso che ora mi
regala.
Il giorno glorioso
Firenze

Pioviggina in piazza Ferrucci, davanti all’edicola che sta in fondo a via


Michelangelo, ma sotto al grande albero, dove sei arrivato camminando a
piedi dalla stazione senza fermarti neppure un attimo, ti puoi riparare con
tranquillità in attesa di Adele Corradi. Quando le inviasti la mail
all’indirizzo di cui disponevi, non avresti scommesso un euro sulla
possibilità di realizzare l’incontro a cui invece sei diretto.
Infili il K-way e rileggi la nota biografica composta da lei stessa:
“Sono nata a Firenze nel 1924 e per tutta la vita lavorativa sono stata
insegnante di lettere nella scuola media. Sono andata in pensione a
sessantasette anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla
destinataria della Lettera a una professoressa. I rimproveri che i ragazzi di
Barbiana rivolgono a quell’insegnante me li meritavo tutti. Per questo non
c’è parola della Lettera che non sottoscriverei. L’incontro con la scuola di
Barbiana e con don Milani ha scavato un solco nella mia vita. Mi son vista
come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come
persona.”
Vi siete dati appuntamento proprio qui. È stata lei a insistere per volerti
venire a prendere. Tu sei arrivato in anticipo. C’era il rischio di farla
aspettare, inoltre devi tenere a bada una specie di marasma emotivo. Pensi
forse che stare vicino a don Lorenzo negli ultimi quattro anni della sua vita,
come ha fatto Adele, abbia provocato un’osmosi tale da trasferire l’essenza
dell’uno nello spirito dell’altra, fino al punto di superare i limiti della vita?
Anche se ciò fosse vero, e sarebbe tutto da dimostrare, come credi possibile
che una terza persona, per di più esterna, quale sei tu, possa riuscire, se non
a raccogliere, a percepire tale incredibile lascito?
Rispondi d’istinto, quasi schiacciando il pulsante interiore dei tuoi
vent’anni: la letteratura serve a questo, altrimenti non avrebbe senso né
leggere, né scrivere.
Adele spunta alla guida della sua Fiat 126: sì, non potrebbe essere altri
che lei, con quella macchinetta accostata a due passi dal marciapiede, la
carrozzeria visibilmente reduce da cento avventure, così come l’intrepida
proprietaria! Piccola, magra, scattante, dimostra vent’anni di meno. Siede al
volante, che sembra troppo grande, come fosse un uccellino sui rami. Ha
solo bisogno degli auricolari, per questa ragione ti consiglia di parlare al
microfono. Così fai, neanche aveste di fronte una telecamera. Chissà,
magari qualcuno vi sta filmando sul serio! La frizione subisce il peggior
trattamento possibile mentre salite scoppiettando verso i colli dove Galilei
aveva il suo osservatorio, alle cui pendici abita, insieme alla sorella, questa
simpaticissima novantenne dal sorriso accattivante che di sicuro affascinò il
priore, nato solo un anno prima di lei.
Glielo dici subito, senza troppi preamboli: fra i tanti libri che hai
recentemente letto su don Milani, il suo lo consideri uno dei più belli.
Fresco, vivace, lontano da qualsiasi agiografia, ci consegna il ritratto, vero
più del vero e fantastico al pari di una leggenda, di un uomo concreto, in
carne e ossa, con tutte le sue idiosincrasie, le sue passioni, i suoi sbalzi di
umore anche urticanti. Non meno significativo è ciò che apprendiamo
sull’autrice: dapprima attirata come un fiore sul miele da quel prete di cui
aveva tanto sentito parlare, quando arriva di fronte a lui, non solo conquista
in un batter d’occhio la sua fiducia, e tutti coloro che lo conobbero sanno
quanto non fosse facile ottenerla, ma riesce addirittura a tenergli testa in più
di un’occasione, pronta a rimbrottarlo facendo notare ciò che a suo avviso
non funzionava, o a tenere il muso nel momento in cui il priore
s’intestardiva.
Adele ti spiega che, prima di salire lassù, non avrebbe mai saputo come
fare a mettere insieme i ricordi che numerose persone, fra cui José Luis
Corzo, uno dei maggiori esperti di don Milani, nonché fondatore a
Salamanca di una scuola ispirata ai suoi principi, gli chiedevano. È stata la
scrittura collettiva, mito degli anni Sessanta, a farle capire che, per riuscire
a esprimere bene quello che abbiamo dentro, occorre tagliare via tutto il
superfluo. Lavorare in sottrazione e non per accumulo. Lev Tolstoj, Gustav
Flaubert ed Ernest Hemingway sarebbero stati d’accordo, anche se poi
ognuno ha interpretato in modo diverso il medesimo assioma: il russo
inventa un mondo tutto suo esemplato sul nostro, il francese siede sul
cristallo di rocca, l’americano punta sul ritmo.
Questi sono grandi scrittori. Cosa pensasse di loro don Milani lo confidò
una volta a Giorgio Pecorini, in margine a una lettura che stava facendo,
insieme ai ragazzi più piccoli, dei Promessi sposi:

I grandi scrittori sono immortali, si dice, e la cosa come al solito è vera


solo per le categorie privilegiate. Il fatto è che dopo solo 100 anni essi son
già morti per le categorie più umili (appunto gli operai adulti e i ragazzi
che non seguiteranno gli studi). Dopo 200 anni son morti anche per i
ginnasiali. Dopo 600 anni se si chiamano Dante vivono a stento (con più
note che testo) per i figli di papà nei licei.

Quando le chiedi chi assemblasse sul tavolaccio ai piedi del Monte


Giove i fatidici bigliettini consegnati dai ragazzi, l’energica maestrina
strizza gli occhi come a dire:
“Che domanda è mai questa?”
Una frazione di secondo dopo precisa:
«Però lo stile degli scolari è stato importante. Se in quelle pagine non ci
fossero dentro loro, il libro che noi oggi leggiamo, Lettera a una
professoressa, sarebbe un altro.»
Da una lettera di don Milani a Mario Lodi nel 1963:

L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente


quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi
stessi.

Scendete dall’auto parcheggiata a memoria, strettissima accanto al muretto,


per non intralciare il traffico. Si tratta di un gesto compiuto mille volte: a
forza di farlo sarà diventato parte di lei. Adele si è sempre spostata in
macchina. Nel 1963 fece la spola per un anno intero dalla scuola media di
Castelfiorentino, dov’era stata assegnata dopo essere finalmente entrata in
ruolo, a Barbiana. Ottanta chilometri, prima di tornare, ogni sera, in questa
casa. Peggio di un autista di professione. Quando venne trasferita a Borgo
San Lorenzo, doveva comunque percorrere quindici chilometri per
raggiungere il Monte Giove. Soltanto allora affittò una stanza nell’abitato di
Padiluvo. Andava a mangiare dai genitori di Carlo Carotti.
Accanto al cancelletto invaso dai fiori c’è una porticina dove v’infilate
rapidi. Non riesci a capacitarti di stare andando a casa della maggiore
collaboratrice di don Milani, negli anni finali, quando lui era già malato, col
viso gonfio a causa delle medicine che doveva assumere per combattere il
terribile morbo di Hodgkin. Le ultime lettere del priore, specie quelle dirette
alla madre, fanno spesso riferimento a lei, la persona che, più di ogni altra,
gli fu vicina quando faceva scuola. E tu sai bene cosa significa affiancare un
professore mentre spiega: è come vedere il funzionamento di un motore a
ingranaggi scoperti. Si ammira la potenza, nel momento in cui si scatena,
ma si notano anche le combustioni anomale. A stare davanti ai ragazzi, se lo
si fa sul serio, si mostra la forza insieme alla debolezza, il carisma e la
vulnerabilità, la spinta affettiva e il timore di non farcela.
Ti siedi al tavolo. Saluti la sorella che vi porta da bere e subito esce per
lasciarvi soli. Sorseggi l’amarena mischiata con l’acqua. L’ambiente,
avrebbe detto il maestro, è borghese al cento per cento. Sia fuori, nelle
suppellettili, sia dentro gli animi. La professoressa apparteneva alla stessa
classe sociale del modello che aveva scelto, sebbene non conoscesse la
prosperità aristocratica dei Milani. Ma qualcosa in lei, ancora oggi, va oltre
l’estrazione originaria. Ed è la dimensione più importante. A pelle
percepisci in Adele, prima ancora di sentirla parlare, la sua consuetudine coi
ragazzi insieme ai quali ha trascorso l’intera esistenza.
Non si può entrare in aula ogni mattina, anno dopo anno, fare l’appello,
discutere e scherzare coi bambini o adolescenti che abbiamo di fronte,
spiegare l’analisi logica a Peppino, leggere un verso dell’Infinito a Marina,
consultare l’atlante storico insieme alla prima C e alla terza F, correggere i
componimenti di Marco sottolineando gli errori con la penna rossa,
richiamare Giorgio a una maggiore attenzione, convocare i genitori di Elena
per sapere la ragione delle sue innumerevoli assenze, star male dopo aver
litigato con Claudio, essere felice se Gianluca ti dice di aver letto il libro da
te consigliato, senza che di tutto questo non restino i segni, cicatrici o
rossori, avventure e trionfi, vittorie e sconfitte, sul tuo viso.
A quale eventuale sapienza alludi?
Guardi Adele e trovi le risposte, indicibili come segreti, preziose al pari
delle parole d’ordine che ti fanno entrare dentro il suo castello interiore.
L’abitudine al contraddittorio, la dimestichezza con la promiscuità, la
pratica dell’errore, la conoscenza del talento, l’esperienza dello sperpero, il
costume della timidezza, la maschera della tracotanza, la confidenza nei
confronti della fragilità, la speranza nell’essere umano.
Il priore sembrava il timoniere di una barca diretta verso l’ignoto.
L’inquieta e curiosa professoressa, non più giovanissima, già trentanovenne,
voleva sapere quale fosse la direzione. Subito percepì che don Lorenzo,
come educatore, andava “oltre l’efficacia”, per usare l’espressione che José
Louis Corzo in La parola agli ultimi sottolineò a partire da un brano di
Esperienze pastorali:

Si cerca l’efficacia prima che la giustizia. Il progresso della scienza e il


benessere di tutti prima di avere assicurato a ogni singolo la dignità
d’uomo.

Quanto sarebbe importante che uno spunto come questo tornasse a essere
posto al centro della riflessione sulla verifica della cosiddetta “qualità
scolastica”!
Sin dal primo giorno trascorso lassù, domenica 2 settembre 1963, festa
di san Michele, quando si trovò di fronte quel tipo che lei si aspettava
rustico e invece sembrava uscito da un salotto, ebbe l’impressione che gli
scolaretti al suo fianco recitassero una specie di breviario:

Stiamo andando oltre le colonne d’Ercole poste a guardia dello stretto di


Gibilterra. Vogliamo superare le frontiere perché sappiamo che, di qui a
poco, verranno abbattute. Ci stiamo preparando a imparare le lingue. Ma
prima di tutto dobbiamo conoscere la nostra: l’italiano. Questa è
l’avanguardia del mondo che verrà: multietnico, privo di dogane, coi
bianchi e coi neri, coi gialli e coi rossi, tutti mischiati, senza illuderci che
non si litighi più. Noi, nati in mezzo al fango, nella promiscuità con gli
animali, cresciuti sugli speroni di roccia, a due passi dalla storia che si
svolgeva là sotto ma non aveva mai scalfito i nostri padri e i nostri nonni,
stiamo prendendo il largo. Vogliamo essere protagonisti. Non più
comprimari. Né mezze calzette. Ci stiamo appassionando alla vita: prima di
venire qui, nemmeno sapevamo cosa fosse. Abbiamo capito che le
enciclopedie, i dischi, le pellicole, gli spettacoli, i quadri, le canzoni, le
statue, le poesie, l’astrolabio, le cartine geografiche, sono strumenti
necessari a farci uscire dal fosso, fuochi per illuminare la notte, chiavi per
aprire i portoni dei signori dove noi non entreremmo mai se non per
lavorare a cottimo. Ma se ci limitassimo a tenerci dentro tutta la cultura
che ci è stata appena trasmessa, se non la redistribuissimo, se restassimo
incantati a contemplarla, commetteremmo quello che il nostro maestro
considera il peggiore dei peccati: l’egoismo. I tavoli e le sedie per studiare
ce li siamo costruiti con le nostre mani, come quella di ferro, con la seduta
di mogano sulla quale il sindaco La Pira, lo scrive Aldo Bozzolini, uno di
noi, quando venne a trovarci, dondolava i piedi senza toccar terra. Qui
siamo tutti in partenza. Andremo a Londra, Milano, Stoccarda, Algeri,
Tripoli, Marsiglia. Visiteremo le industrie, assisteremo ai migliori concerti,
leggeremo libri, faremo il giornale, diventeremo adulti...

Adele vide coi suoi occhi che il prete di Barbiana stava facendo la vera
rivoluzione, non quelle fallite nel sangue del Novecento, che avrebbero
voluto cambiare i popoli tutti interi e finirono per assoggettarli quasi più di
quanto già non fossero, ma l’unica possibile, qui e ora, nel momento in cui
io, tu, lei, lui, noi, voi, loro decidiamo di assumere la responsabilità dello
sguardo altrui. Una disposizione pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale, ciò
che distingue l’uomo dall’animale.
Rispettare i codici non è stato, non è mai sufficiente a evitare le peggiori
nefandezze. Osservare i precetti etici non basta perché essi variano secondo
il momento storico e il luogo geografico. Essere ligi alla comunità cui
apparteniamo, in sé non vuol dire niente. Bisogna uscire dal mansionario.
Tenere presente il contesto in cui operiamo. Questo non ci trasformerà in
individui felici che corrono festosi verso il Sol dell’Avvenire. Non
diventeremo né santi, né eroi. E nemmeno ricchi possidenti. Al contrario,
dobbiamo sapere che lungo il percorso ci saranno momenti difficili, ci
faremo anche male. Nessuno che adotti questi criteri di comportamento può
sentirsi a posto. Tutti siamo pronti a contrapporci se veniamo colpiti, si
chiama legittima difesa, ma quanti fra noi sarebbero disposti a intervenire
se vedessero oltraggiato un principio in cui credono?
“Ascolti, bambina piccola piccola, nata ieri...”
Il priore si rivolgeva così a questa sua coetanea che adesso risponde
sicura alle mie sollecitazioni. Era andata a Barbiana incuriosita da un’amica
che le aveva parlato di quel prete capace di inventarsi una scuola tutta sua.
Adele insegnava in un istituto statale e trovava anche il tempo di aiutare
don Lorenzo. A lei l’espressione “tempo pieno” calza a pennello. Voleva
sapere come si fa a insegnare l’italiano. Ha imparato in quale modo
bisognerebbe vivere. Come quella volta che invitò le sue scolare su a
Barbiana per farle parlare del ballo che avrebbero voluto fare. Il priore,
dopo averle riunite, partì subito carico a mille, stroncando da par suo
l’iniziativa. Era, prima ancora che una predica di vecchio stampo, un modo
per renderle consapevoli di ciò che stavano facendo. La discussione che ne
seguì venne registrata e oggi possiamo leggerla in Don Lorenzo Milani.
Una lezione alla scuola di Barbiana.
Adele è svelta, concisa. Ha un sorriso dolcissimo e una notevole carica
umana. Capisce tutto al volo. Mentre discuti con lei, ritrovi, nelle sue
parole, molto di quello che ti ha colpito nel libro.
Gli scolari, sotto la guida del maestro, scrutavano le stelle. C’era da
svegliarsi presto per vedere Saturno con il telescopio. Adele dormiva nella
stanza dell’Eda. Non era ancora spuntata l’alba che Lorenzo,
incredibilmente arzillo, da sotto gridava: «Chi non si alza per vedere le
stelle non ama né la scuola né i ragazzi!».
Era vietato “far salotto” sprecando il tempo a disposizione.

Non voglio farmi condizionare dalla gente che mi gira intorno, come
certo è costretto a fare padre Balducci.

Il priore si sentiva animato da un puntiglio documentario. Negli spinaci


c’è più ferro che nelle bietole. Sarà vero? Adele ne era convinta. Don
Lorenzo consulta un libro e scopre che è falso. Tutte storie, comprese quelle
di Braccio di Ferro, inventate da una ditta che vendeva spinaci.
La tensione sperimentale del maestro era profondamente legata alla
volontà di non tradire le attese dei piccoli montanari, i quali non avrebbero
mai tollerato chi avesse voluto renderli cinici di fronte alla realtà, ad
esempio dimostrando che se ne potrebbe fare a meno. Al contrario, ogni
dichiarazione andava provata. Le azioni sarebbero dovute scaturire da un
programma esistenziale, non avrebbero mai dovuto essere frutto di un
impulso fine a se stesso. Le parole – scritte o orali – se non erano
legittimate, come secrezioni dell’esperienza, agli occhi del maestro così
come dei suoi allievi, rischiavano di diventare sterili, vane, vuote, inutili,
pericolose.
Adele racconta la vita quotidiana con l’Eda. I rimbrotti, le gelosie, i
contrasti, le litigate, le antipatie. Certe riflessioni restano illuminanti: una
volta don Bensi chiese al suo allievo se la sera, prima di andare a dormire,
si ricordava di farsi l’esame di coscienza. E lui rispose che non aveva tempo
perché doveva occuparsi della coscienza dei ragazzi.
«“A furia di esami di coscienza” borbottò poi “trasformano in cura di sé
perfino il Cristianesimo!”»
Alcuni bambini, mentre lui faceva la rassegna stampa, una delle
operazioni fondamentali della giornata, si distraevano. Paolino addirittura,
invece di ascoltare il maestro, guidava un motorino immaginario. Adele
glielo fece notare. Lui disse:
“Io sono qui come un contadino. Un contadino non può avere fretta che
una pera maturi.”
E se fosse arrivato un maestro più bravo capace di togliergli tutti i
ragazzi?
“Farei alle fucilate! I ragazzi son miei. Bravo o ciuco, se me li portasse
via, farei alle fucilate!”
Indimenticabili erano i suoi giudizi categorici e taglienti sulle persone
che venivano in visita: come quello, rivelatore, nei confronti di
un’insegnante bravissima a far lezione e in tutto il resto, così da suscitare
l’ammirazione di Adele pronta a chiedere a Lorenzo la ragione di tali
straordinarie doti.
“Non vuol bene a nessuno!” rispose lui di botto.
Ripassi insieme all’autrice le cose che già sai. Ma tu sei venuto per
conoscere lei. Capire fino a che punto sia stata marchiata a fuoco, come i
ragazzi:
«Ci sono state le mogli, ci son stati i figlioli, il mondo a remare contro,
ma qualcosa dentro gli è rimasto a tutti. Me ne accorgo ogni volta che ne
incontro uno.»
Pensi ad Agostino Burberi, un altro piccolino diventato adulto che hai
incrociato all’isola d’Elba, durante un festival al quale entrambi eravate
stati invitati. Tu a parlare dell’insegnamento dell’italiano ai ragazzi
stranieri. Lui a rievocare, ancora una volta, il suo maestro. Nella celebre
fotografia del 1956, in visita allo zoo di Roma, è il primo a sinistra, coi
pantaloni corti, la giacchetta elegante delle grandi occasioni, la testa
leggermente inclinata in avanti per ripararsi dal sole e non chiudere gli
occhi di fronte all’obiettivo. Più di cinquant’anni dopo gli hai stretto la
mano sul traghetto in partenza da Piombino entrando subito in confidenza.
Chiedevi dei viaggi che lui, soprannominato Gosto, fece in Germania,
inviato da don Lorenzo. Quando andarono in autostop in Francia e da lì a
Stoccarda a trovare Michele. Il futuro sindacalista della CISL rispondeva
secco, staresti quasi per dire burbero, alle tue domande, come se intendesse
restituirti la nudità dell’esperienza, senza belletti, un po’ perché l’ultima
cosa che desiderava era quella di contribuire a trasfigurare l’immagine del
priore, già fin troppo usata da tutti quelli che si sono occupati di lui, un po’
perché è il suo carattere e quello non si cambia. Gli scrisse il priore il 9
gennaio 1964, quando lui era andato a Milano:

Caro Gosto,
ricevi tutto l’affetto ansioso e orgoglioso che un maestro può spedire a
uno scolaro che è in missione nel mondo a far del bene. Non mancare di
scrivere spesso e nutritamente ai tuoi per compensarli del sacrificio che
hanno fatto, e se appena t’avanza qualche soldo faglielo avere.

Conoscere la stessa persona, ormai quasi anziano, ti fece una certa


impressione. Ricordi il modo in cui dialogava con gli sconosciuti, fossero
inservienti del ristorante dove cenaste insieme, o passanti ai quali chiedere
un’informazione: probabile frutto della mano che don Lorenzo aveva
poggiato sulle sue spalle quando era bambino e veniva da una famiglia che
certo non nuotava nell’oro. Scrisse il priore a Michele Gesualdi il 15
dicembre 1963:

Gosto senza di me era un pastorello scontroso e umiliato che avrebbe


imitato da schiavo le usanze del mondo. Ora è vivace, battagliero, sicuro di
sé.

Sembrava di ritrovare, dentro l’uomo adulto che ti parlava, il ragazzino


avvolto nel cappottone più grande di lui, impegnato a seguire il maestro
insieme ai suoi amici nelle campagne proprio dietro alla scuola. A un certo
punto, visto che tu insistevi nel chiedere notizie, te lo disse apertamente,
senza troppi giri di parole:
«Noi siamo gelosi di lui!»
In quel momento gli hai voluto bene, perché stava dicendo la verità.
Per comprendere tale dichiarazione, bisogna distinguere fra i primi sei
scolari di Barbiana, Aldo, Giancarlo, Agostino, Michele, Carlo e Silvano,
così come ancora oggi li riconosci nella foto scattata sul loggione della
Scala, paragonabili a piccoli monaci, pronti a vivere ventiquattr’ore al
giorno insieme al nuovo parroco, una figura mai vista, a metà fra babbo e
maestro, e quelli che vennero dopo, nel momento in cui nacque una scuola
professionale e giunsero a Barbiana anche molti adolescenti esterni, che
avevano frequentato gli istituti statali, essendone stati respinti, e quindi
erano, per così dire, scolarizzati. Già infettati, come diresti tu, dal
conformismo didattico che purtroppo affligge gran parte dell’istruzione
pubblica, quel meccanismo teatrale che, se da una parte è quasi impossibile
evitare, dall’altra difficilmente permette un autentico incontro fra professore
e scolaro.
Gli ultimi arrivati nel rifugio mugellese erano tutt’altro che stinchi di
santo. Al contrario, misero a dura prova la fragile comunità di Barbiana.
Qualcuno rappresentò un ostacolo insormontabile, causando perenni litigi.
Il priore, con le forze fisiche che ormai andavano scemando, dapprima ci
stette male, poi se ne fece una ragione. Michele Gesualdi gli diede, come
sappiamo, filo da torcere. Dalla Germania criticò il priore e la sua scuola.
La risposta di Lorenzo, commovente, non coglie solo il valore
dell’esperienza educativa, ma definisce lo statuto della paternità e perfino il
senso profondo dell’azione cristiana:

È meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è


segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è
il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così
grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di
quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso.
[...]
La scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo
scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la
scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice
soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle.
Fino a che punto questa convinzione, espressa in un sentimento nuovo,
fra amarezza, disincanto e suprema accettazione, fosse incisa nella carne del
prete te lo conferma Adele, poco prima del commiato, accennando agli
ultimi tempi, difficili e tribolati non soltanto a causa del male che
imperterrito lo consumava. Ci furono alunni che lo accusarono. Non come
avrebbero potuto fare i suoi primi figlioli, pronti a firmare in calce alle loro
dichiarazioni. Nel gruppo di quelli venuti dopo, qualcuno lanciò il sasso e
nascose la mano. A vederli oggi, ritratti accanto a lui insieme agli altri, non
sembrano reali.
Era dunque questo “il giorno glorioso”? Tutta l’energia spesa, la forza
incanalata, la bellezza a stento trattenuta, tesori di lungimiranza, talenti
sparsi al vento, promesse di gioventù e patti stipulati col sangue, si
riducevano infine alla pozzanghera invasa dai moscerini, ai cunicoli
percorsi dai topi, al dolce trasformato in veleno?
“Se qualcuno non vi accoglie e non ascolta le vostre parole, uscite da
quella casa o da quella città e scuotete via la polvere dai vostri piedi” scrive
Matteo.
Don Lorenzo si tenne tutto dentro: favole e ingiurie. Felicità e amarezze.
Soddisfazioni e pene. Sapeva che per sciogliere certi nodi non basta una
generazione. Ognuno di noi vede e può agire soltanto su un breve segmento
della lunga catena umana.
The game is over
Hiroshima, 2005

Li chiamano “hibakusha”, che vuol dire sopravvissuto. Sono gli ultimi


protagonisti del disastro nucleare ancora in grado di raccontarci cosa
accadde a Hiroshima il 6 agosto 1945. Okamoto Toshiyuki è uno di loro.
Quel giorno fatale stava per entrare all’interno dell’edificio scolastico. Non
capisco la sua lingua, ma dai gesti che compie posso decifrare il lampo, il
fuoco, la pioggia radioattiva. Lo guardo indicare sul grande schermo con la
penna luminosa i ponti saltati, i palazzi distrutti, gli uomini ridotti in cenere,
le bottiglie deformate, le tazze fuse, le teste nere, gli intestini scoppiati, le
ustioni fatali, le case liquefatte, i templi rasi al suolo, gli animali
agonizzanti, la terra avvelenata.
Più di ogni altro dettaglio mi colpisce la voce di questo vecchietto, allo
stesso tempo fragile e forte, coi capelli bianchi e gli occhiali spessi: roca,
come se provenisse da una caverna inaccessibile dove albergano i peggiori
istinti della nostra specie, quasi ne avesse assorbito una particolare
quintessenza. Günther Anders sostenne che certi eventi estremi possono
essere dominati soltanto da categorie religiose, per quanto negative, e le
vittime sono affette, per così dire, dalla qualità satanica del delitto. Fra
qualche anno Okamoto non ci sarà più e noi potremo soltanto immaginare
ciò che lui ha realmente vissuto.
Nella sala della Rimembranza c’è la testimonianza più toccante: un
video con fotografie di vittime che scompaiono all’improvviso lasciando
posto ad altre immagini destinate a loro volta all’oblio. Uomini, donne,
anziani, bambini, adolescenti, ricchi, poveri, civili, soldati, contadini,
allegri, tristi, malinconici, sorridenti, coi nomi accanto che scorrono come
su un rullo: Kubo, Satoshi, Tomi, Ise, Yurito, Kenzo, Asahiko, Mitsuno,
Hiroaki. Centinaia di migliaia di vittime accertate, ma sono poche rispetto a
quelle scomparse di cui non si è riusciti a ritrovare l’identità.
Torno frastornato in albergo, al Grand Intelligent Hotel. Sgranocchio un
biscotto. Appunto qualche riga sul quaderno. Mi affaccio alla finestra di
fronte al fiume. Osservo le biciclette degli studenti che stanno uscendo da
scuola con la divisa blu. Signore in procinto di varcare il ponte protette
dall’ombrellino che le ripara dal sole. Un pattinatore attraversa di corsa le
strisce pedonali. I tram, veri personaggi di questa città di plastica che ha
l’età di un uomo, compaiono agli angoli delle strade come balocchi in cerca
di bambini con cui giocare.
Il tempo di sciacquarmi la faccia, bere un bicchier d’acqua e scendo di
nuovo, non riesco a stare fermo. Il sole continua a picchiare implacabile.
Risalgo sul tram diretto verso l’ipocentro: numero due. Il biglietto costa
centocinquanta yen. Il conducente annuncia al microfono il nome delle
stazioni. Matoba-cho. Hatchobori. Kamiya-cho-higashi. Kamiya-cho-nishi.
Ho ancora negli occhi il film di Alain Resnais, Hiroshima mon amour,
visto e rivisto decine di volte prima di venire in Giappone, così quando
giungo sotto l’arcata Hondori, teatro di una celebre sequenza mobile, con la
voce fuori campo che recita un testo di Marguerite Duras, Tu non hai
ancora visto niente a Hiroshima, scendo di scatto, come se volessi toccare
con mano il corpo dell’emozione che sto provando.
Subito l’immagine cinematografica stampata nella mia mente svanisce.
Vanno via l’asfalto lucido di pioggia, le luci fosforescenti nella lunga
galleria, le saracinesche abbassate dei negozi, le insegne scintillanti nel
buio. Si disinnesca la carica lirica delle strade vuote, sbiancate sotto le
nuvole gonfie. Mi ritrovo di colpo in mezzo a una calca spaventosa di gente
che entra ed esce dalle rivendite di abbigliamento firmato, dagli outlet
sportivi, dai cinema multisala, dai mercatini che espongono paccottiglia
d’ogni tipo, comprese le riproduzioni in plastica del memoriale della Pace.
Bande di ragazzine in calzamaglia sciamano sotto l’arcata con gridolini di
gioia, mentre certi loro coetanei che indossano giubbotti di pelle in stile
Elvis Presley attraversano la strada con fare strafottente.
Quasi per sfuggire alla ressa mi rifugio in una sala giochi. È una cava di
slot machine, videopoker, roulette elettroniche, simulatori di corse
automobilistiche, partite di pallone, viaggi aerei, battaglie interstellari. Il
tintinnio delle monete che escono dalle macchinette punteggia come uno
stridulo falsetto il mio stralunato sopralluogo. Cosa cerco? Non lo so
nemmeno io. Forse il nome che manca all’appello. Il regno di un tempo
perso. La bambina di Hiroshima cantata in una poesia di Nazim Hikmet.
Come potrei sfuggire a questo adolescente alla guida di un bombardiere
strategico? Ha lo sguardo fisso sullo schermo, le cuffie attaccate alle
orecchie quasi fossero ventose, i capelli neri lunghi e lisci che gli arrivano
fin sulle spalle, le mani strette sulla cloche, il corpo che vibra, e sembra
pronto a sganciare i micidiali ordigni di cui pare essere equipaggiato sulla
sterminata distesa urbana sottostante, potrebbe essere una Los Angeles dei
tempi nostri. Basta che schiacci il pulsante e sarà fatta. Vola alto scansando
senza difficoltà una debolissima contraerea.
È isolato da tutti, nessuno fa caso alla sua energia a stento trattenuta, alle
labbra socchiuse, al sudore che gli sta imperlando la fronte. È un fascio di
nervi. Piegato su se stesso, sta per azionare il dispositivo. Deve solo arrivare
al centro del bersaglio. Se non ci riuscirà, avrà perso. A scuola gli avranno
spiegato chissà quante volte chi era Thomas Ferebee, uno degli aviatori
della missione atomica statunitense che quella mattina fatale, osservando il
reticolo di strade, fiumi, case, accarezzò il pomello del puntatore M-9B
Norden, prima di esclamare sicuro nell’interfono: “Ho il ponte”. Ma in
questo istante di certo non ci sta pensando, infervorato com’è di fronte al
simulatore.
Conquisto un’impercettibile distanza fisica, alle sue spalle, nel momento
in cui sullo schermo esplode un bagliore e passa la scritta: “The game is
over”.
L’uomo del futuro
Firenze

Sei davanti ai cancelli dell’istituto di istruzione superiore Benvenuto


Cellini, in via Masaccio 8, dove negli anni Sessanta venivano a fare gli
esami per il diploma di avviamento industriale gli scolari che il priore aveva
preparato come privatisti. Furono proprio quelli che furono bocciati a
spingerlo a scrivere Lettera a una professoressa.
Sbirci il cortile interno pieno di scooter parcheggiati sotto gli alberi. Dai
finestroni con le inferriate al piano terra si vedono le aule coi laboratori.
Là dietro c’è Campo di Marte. All’altra estremità della strada la casa
materna dove Lorenzo si trasferì il 25 aprile 1967, ormai prossimo alla
dipartita. Poche settimane prima aveva scritto a Franco Gesualdi una pagina
suprema, in cui lo sconforto e l’entusiasmo si mischiano in modo
inestricabile:

Caro Francuccio, profitto del fatto che stasera sto meglio per scriverti
io. Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso
ritornare al mio mondo e sabato far dire a Rino [ragazzo su cui il priore
aveva fatto grande affidamento, ma che a un tratto abbandonò la scuola per
tornare a fare la vita di paese, comparendo a Barbiana solo il sabato. Don
Lorenzo ne fu molto amareggiato]: “Il priore non riceve perché sta
ascoltando un disco”. Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo
anche scrivere sulla porta “I don’t care più”, ma invece me ne care ancora
molto, tanto più che domenica mattina quando avevo deciso di chiudere
ogni bottega (scolastica e parrocchiale), Dio m’ha mandato Ferruccio e
Enzo e una fila d’altri ragazzi di San Donato come per dire che devo
seguitare a amare le creature giorno per giorno come fanno le maestre e le
puttane. Stasera sono arrivate le bozze, 33 pagine delle nostre. Non sono
molte, ma sono già impaginate e quindi non ci dovrebbe voler molto. Un
abbraccio, tuo Lorenzo.
Questa storia delle maestre e delle puttane l’aveva recitata a memoria
dall’opera che stava andando in tipografia:

Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle


creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una
famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là
dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto esser sicuri di non aver
cacciato nessuno con le nostre mani.

T’incammini verso l’ultima stazione del tuo viaggio sulle tracce di don
Milani. Un percorso che hai compiuto fuori e dentro te stesso ma che, come
spesso ti capita, solo ora comprendi fino a che punto fosse già stabilito.
Dovevi eseguire un compito che ti era stato assegnato nel momento stesso
in cui avveniva la combinazione chimica o cellulare, di queste cose non
t’intendi quindi non potresti meglio dire, da cui saresti scaturito. Certo è che
ognuno di noi s’interseca e s’impasta non solo con gli altri, ma deriva, lo
sappia o lo nasconda, lo intuisca o lo rimuova, dagli incroci e dalle
congiunzioni di una legge primaria sulla quale sarebbe pretestuoso
soffermarci troppo a indagare. Così ora tu senti che dietro questo libro
hanno pulsato come vene sotto sforzo il candore strozzato di tuo padre
abbandonato dal suo e di tua madre brava a scrivere i temi ma che riuscì a
ottenere soltanto la licenza elementare.
Lettera a una professoressa era il libro corale per anni soltanto
vagheggiato e adesso pronto per essere distribuito. L’arte collettiva di cui il
priore fantasticava insieme all’amico architetto Giovanni Michelucci. Il
manifesto contro la timidezza dei poveri. La lavagna dei montanari. Il
rendiconto da consegnare ai padroni. Il promemoria dei signorini. Un
segnale per i genitori, invitati a organizzarsi. Un richiamo per gli insegnanti
i quali, come l’interlocutrice principale, vorrebbero ancora oggi potersi
scegliere gli studenti migliori, che non danno problemi, quasi fossero
medici tesi a curare i sani, invece dei malati, o ingegneri capaci di
progettare soltanto su terreni sicuri.
Scarti le macchine parcheggiate in sosta vietata, rientri veloce sui
marciapiedi, superi a passo svelto le persone davanti a te, come se avessi un
impegno improrogabile da assolvere. Un affare decisivo da sbrigare. Una
missione dietro le linee nemiche da portare a compimento. Così in effetti
stai vivendo la giornata del capitolo conclusivo. Eppure con chiunque ti
confidassi, non riusciresti a spiegare la forza da cui prendi alimento.
Quante volte abbiamo letto Lettera a una professoressa? Un testo di cui
dovremmo saper tutto, ma che troppo spesso viene archiviato prima ancora
di essere compreso. Nominato senza citare la fonte. Sono pagine introiettate
nella coscienza comune che riemergono ogni tanto, qua e là, come speroni
di roccia, durante qualche discorso ufficiale di pedagoghi, politici e perfino
letterati. Macchie di petrolio in mare aperto. Corpi estranei.
Negli anni in cui tu stavi crescendo, passando dalle scuole medie alle
superiori, molte sue parti sono state gridate, sbranate, svilite, magnificate,
fraintese, dalla generazione dei tuoi fratelli maggiori. Le ascoltavi come
un’eco flebile venir su dalla casa in cui abitavi, in via Napoleone III , nel
quartiere Esquilino a Roma, dove transitavano i cortei degli anni Settanta,
mentre tu, che volevi fare lo scrittore, leggevi Conrad e Dostoevskij.

Il sapere serve solo per darlo.


Scuola di Servizio Sociale contro Scuola di Servizio dell’Io.

Oggi queste frasi hanno perso la carica eversiva che potevano avere un
tempo. Vengono rimasticate da chi le ha vissute sulla propria pelle come un
vecchio chewing gum e riprese dai più giovani alla maniera di nuovi adesivi
da attaccare al serbatoio del motorino. Chi avrebbe detto che, tanti anni
dopo, avresti aperto anche tu questo fascicolo impolverato? Don Milani
continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro
fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un
sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. Una tensione che stenta a
sciogliersi. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse
possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione.
Maestro, scrittore, politico, educatore.
Innanzitutto era un prete. Credeva in Gesù Cristo. Pensava che un
giorno, chissà quando, chissà come, tutti risorgeremo.
Vuoi vedere coi tuoi occhi il luogo preciso in cui morì. Correndo verso la
casa della madre che, dopo essergli stata sempre vicina, soprattutto quando
non lo capiva e neppure lo condivideva, infine lo accolse, cerchi altre
definizioni che potrebbero meglio rappresentare il testo finale. Ne deriva
una specie di monologo interiore che presto assume la forma dello
zibaldone.
Consuntivo delle occasioni sprecate: i libri che Gianni non leggerà mai,
le lettere che non riuscirà a scrivere.
Dove i sedicenni fanno scuola ai più piccoli.
Senza l’ossessione del tempo scandito dalle otto alle quattordici. Né la
bidella che entra per leggere le circolari: domani assemblea. Sottotesto: non
si viene a scuola. Tutti contenti: studenti e professori. Così l’ipocrisia
trionfa.
Il priore sognava un’altra scuola.
Il maestro guarda negli occhi chi lo ascolta. Dice cose in cui crede, non
quelle che convengono a lui o a chissà chi, fossero la Chiesa, il partito, il
programma da svolgere o i test da superare.
Un posto dove il problema di uno diventa quello di tutti.
Il registro delle presenze e delle assenze non c’è. Le note disciplinari
sarebbero inconcepibili.
Si fanno soltanto domande legittime, non quelle, a tradimento, che non si
dovrebbero porre.
Senza trappole. Senza inganni. Senza classi. Senza voti.
Uno a uno.
Esisterà mai una scuola così? Forse no, ma almeno lasciatecela
immaginare.
Perché è chiaro che se io, docente di ruolo, sono quello che giudica, ho
sempre il coltello dalla parte del manico. Nascondo le carte che estraggo
all’improvviso per metterti alla prova e, segretamente, farti vedere quanto
sono bravo. Vincerò di sicuro. E tu perderai sempre.
Il segreto è quello di Pulcinella: le lingue sono i poveri a crearle e poi le
rinnovano all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non
parla come loro. O per bocciare gli studenti. O per sfruttare gli operai. Noi
qui ’un si fa trabocchetti mettendo nei questionari, antesignani dei test a
risposta multipla, in stile quiz della patente, più difficoltà di quelle che ci
sono nella vita, anche perché saper dire “gufi, ciottoli e ventagli” non serve
per imparare a chiedere dov’è il gabinetto.

«Chi stai cercando?»


A parlare, facendoti uscire dall’incantamento, è un giovane che
assomiglia in modo impressionante a Mario Balotelli. Ma lui non gioca a
pallone. Col cranio rasato, il fisico asciutto, gli occhioni sgranati, porta una
grossa borsa a tracolla piena di volantini. Suona ai citofoni e si fa aprire.
Qualcuno lo manda a quel paese. Non si demoralizza. Ha una pazienza
speciale, temprata negli anni. Entra nei portoni di chi gli apre e distribuisce
i foglietti nelle cassette postali: due o tre in ogni buca, tanto per abbondare.
Sta percorrendo la tua stessa via, quindi fate insieme un po’ di cammino.
Entra ed esce dagli androni, poi ti raggiunge, anche perché ogni tre o
quattro isolati ti fermi a prendere appunti.
Scriveva Michel De Certeau a proposito dell’educatore:
“Egli farà entrare la propria scomparsa nell’impostazione pedagogica,
come una via che anche chi viene educato deve seguire per superare la
paura che lo trattiene sulla soglia della sua esistenza da adulto. E forse
anche, senza aver bisogno di difendere lui stesso con la fuga, con
l’irrigidimento o con gli artifici di una finta familiarità, si troverà più
semplicemente in sintonia con i suoi allievi, più umile, meno costretto a
nascondere i propri limiti. Renderà tangibile la lezione che il suo equilibrio
affettivo e la sua libera accettazione devono dare, segreto di cui gli
adolescenti hanno più bisogno di qualsiasi altra cosa. Mostrerà, proprio
mentre lo impara, che è mortale e, in quanto tale, membro della stessa
storia.”
Forse ti ha visto mentre ti avvicinavi a un numero civico per leggerlo
meglio, devi andare fino al 208, molto ma molto più in là rispetto a dove vi
trovate in questo momento. Osservandolo, ripensi alla famigliola congolese
che, negli ultimi tempi, si recò in visita a Barbiana. I bambini con gli
zuccotti e i cappellini per ripararsi dal freddo facevano tenerezza, sparuta
avanguardia dei tanti che sarebbero venuti dopo.
«La casa di don Milani!»
Ti guarda disorientato. Si chiama Abib, è senegalese. Abita a Signa e
tutti i giorni viene a Firenze a guadagnarsi il pane. In poche battute gli
racconti chi era la persona di cui ti stai occupando. Fa sì con la testa.
«Maestro! Capito.»
Vorresti dirgli molto di più. Spiegargli il libro a cui teneva tanto, al punto
che quando Vittorio Zani, il titolare della Libreria Editrice Fiorentina
incaricato di pubblicarlo, forse intimorito dagli spunti polemici presenti,
parve rinserrarsi in un atteggiamento di prudente attesa, il priore non esitò a
prendere carta e penna con l’intenzione di spronarlo a far presto. Sapeva di
non potersi permettere il lusso di un rinvio. Era una lotta contro il tempo.
La scuola che ha fatto Abib in Africa, cento chilometri da Dakar,
nell’entroterra arido coi sentieri di polvere rossa e le capanne di paglia, non
dev’essere stata così diversa da quella dei ragazzi di Barbiana, ma questo
tuo nuovo amico non ha avuto un maestro in grado di fargli comprendere
che solo la lingua ci rende sovrani. Capi di noi stessi più di quanto
potrebbero essere un imprenditore o un farmacista.
È venuto in Italia con lo stesso spirito che spingeva a Londra gli
adolescenti di Monte Giove. Così come i piccoli emigranti barbianesi
scaricavano i camion nei sotterranei della City, imparando il cockney,
dialetto dei poveri, al posto dell’inglese, lui distribuisce la pubblicità che gli
hanno dato e abbozza qualche battuta in fiorentino, ma finché non
frequenterà una vera scuola, non riuscirà mai a sciacquare i suoi panni
nell’Arno e fra dieci anni lo ritroverai ancora in via Masaccio coi volantini
in borsa e lo sguardo solo un po’ più appannato.
Il priore morì lunedì 26 giugno 1967, accudito dai suoi allievi. L’ultimo
a sostenerlo fu Michele, orfano inquieto, studente difficile, secondo alcuni
uomo intrattabile: gli spirò fra le braccia, ridotto a un cencio. Considerate le
sofferenze patite, si trattò di una liberazione. Più volte aveva chiesto al
fratello medico di non essere tenuto vivo per forza, ma questi gli aveva
risposto che non avrebbe mai potuto esaudire tale richiesta.
Aldo Bozzolini non dimenticò quei giorni lontani. Molti anni dopo,
quando ormai adulto vegliò insieme ai figli al capezzale della moglie
malata, sentiva di essere preparato al grande colpo, come se sin da giovane
sapesse cosa significa perdere la persona più cara. Il priore avrebbe potuto
assumere del personale specializzato, capace di assisterlo con una
preparazione specifica. Preferì far fare le nottate ai suoi ragazzi per
mostrare loro come finisce la vita. Ne ricavò una dedizione assoluta e
spassionata di cui volle lasciare testimonianza negli strazianti bigliettini,
vergati a penna su fogli volanti perché la lingua gonfia e screpolata gli
impediva di parlare, come le due righe scritte a don Bensi:

Io non ho fatto a nessuno quello che fanno a me e passo la notte tutta ad


ammirarli.
Era stata l’ultima grande lezione di verità e consapevolezza rivolta non
solo ai giovani che volle riuniti intorno al letto, ma anche a se stesso per
incarnare sino in fondo l’imitazione di Cristo gettando via il proprio corpo,
in pasto agli sguardi di chi amava, insieme al suo tempo mortale, come se
fosse una carcassa di cui non aveva più bisogno. In questa lucida scelta di
radicale umanesimo non volle trattenere nemmeno una punta di fantastico,
superstite vitalismo che lasciò sconcertati alcuni dei suoi fedeli.
Non stai pensando tanto al famoso “blocco continentale”, come venne
chiamato il divieto di fargli visita da lui imposto a chi vantava un titolo di
studio superiore alla terza media, decisione presa all’ospedale di Careggi, il
25 gennaio 1966, dopo aver letto la lettera del cardinale Florit, che lo
accusava di scarsa carità pastorale, quanto a certe sue impuntature, come
quella che coinvolse Fioretta Mazzei, scacciata dalla stanza solo perché, in
omaggio alle buone consuetudini della classe sociale a cui apparteneva,
aveva salutato il fratello Adriano interrompendo i ragazzi che stavano
spiegando le tavole statistiche a corredo di Lettera a una professoressa.
Per andare a prendere i dati della popolazione scolastica il priore aveva
mandato a Roma Giancarlo Pessina, detto Tranquillo, ragazzo di bottega,
timido e piagnucolone, che raccontò così al maestro – che poi ne riferì in
una lettera a Edoardo e Mauro – la sua trasferta in via Agostino De Pretis,
dietro la basilica di Santa Maria Maggiore:
“Prima mi hanno scambiato per un meccanico che aggiusta le macchine
per scrivere, poi, quando hanno sentito quello che volevo, si sono fatti in
quattro per aiutarmi.”
Il priore era fiero di lui, soprattutto nel momento in cui lo vide tenere
testa a due professori di statistica venuti su a Barbiana a discutere del
materiale acquisito in dieci mesi di lavoro, interpellando pedagogisti,
giornalisti, sindacalisti, assessori e parroci.
“Venga a godersi lo spettacolo di Tranquillo che si mangia gli statistici
come panini” disse a Adele Corradi.
“Tranquillo, tranquillissimo, stava facendo lezione con un tono umile,
sereno, senza accorgersi che lo guardavamo, e quei due poveri professori
universitari si profondevano in scuse: ‘Ma noi ti stiamo facendo perdere
tempo. Non riusciamo a esservi di nessun aiuto. Non potrebbe esser che la
cosa stia così e così?’. E lui tranquillissimo gli faceva notare che era
l’ennesima corbelleria che dicevano.”
Oltrepassi tintorie, bar, condomini, società d’assicurazione, garage,
piccoli empori. Via Masaccio sembra non finire mai. Sarà questo il
capolinea dei tuoi viaggi sulle strade di don Lorenzo Milani. All’orizzonte
si vedono gli Appennini azzurri nel cielo velato. Il signorino tornò a casa da
quelle contrade, costretto a lasciare l’umanità infangata che aveva scelto e,
pure, non esitò a trascinarsi dietro nei salotti buoni con le posate d’argento e
i bicchieri di cristallo custoditi nella credenza. Ad assistere Lorenzo, al
solito, c’era Eda, oltremodo necessaria, vista la processione di gente che
presto cominciò a venire per rendere omaggio al prete. Un mese prima della
morte comparve anche il cardinale Florit, che nel suo diario rievocò
l’evento:
“Alle 9.30 mi recai in casa di don Milani. Sembra grave. Stenta molto a
parlare. Malgrado tutto l’ho baciato alla fine. Due suoi allievi non si sono
mossi, mi hanno guardato di malocchio e così una religiosa calasanziana
che dice di essere del cenacolo Balducci e una nevrastenica professoressa di
Borgo San Lorenzo (alias Adele Corradi).”
Lettera a una professoressa apparve in libreria circa un mese prima del
decesso. Il malato riuscì a vedere la copertina, sfogliare il volume, come
aveva fatto soltanto con Esperienze pastorali, che però era stato ritirato dal
commercio. Ora avrebbe voluto assistere alla reazione del pubblico, che
sperava potesse alzare un po’ di polvere. Pare che perfino Carla Sborgia,
tornata apposta a Firenze dopo essere stata chiamata dall’antico compagno
di Brera, chinandosi a salutarlo chiese come avrebbe potuto essergli utile. E
lui, pensando alla promozione del libro, ebbe la forza di sussurrarle in un
orecchio: “Fate baccano”.
Avrebbe voluto che tutti sapessero cosa c’era scritto. Al primo posto la
gerarchia delle urgenze: a un quindicenne che ci sta scappando di mano per
andare in officina, molto prima della lingua del Monti è meglio spiegare il
contratto dei metalmeccanici. Educazione fisica non è soltanto imparare a
giocare a pallacanestro, ma anche essere capaci di arrampicarsi su una
quercia. A che serve studiare il latino in Mugello se perfino a Cambridge e
Oxford lo stanno abolendo? La scuola della professoressa a cui viene
recapitata la lettera punisce i poveri e insuperbisce i Pierini. Ai primi sottrae
la cultura, ai secondi la conoscenza della realtà.
Indro Montanelli sosteneva che il priore nutrisse un complesso
d’inferiorità nei confronti del proletariato. Tale sentimento scaturiva in lui
dall’origine privilegiata che gli rendeva insopportabile osservare
l’assimilazione dei religiosi al trionfante orizzonte mercantile.
“Anche loro propongono ai ragazzi il Dio Quattrino.”
Cosa erano diventati i parroci? Amministratori di pubblici servizi
spirituali. Contabili dell’anima. Esegeti di piccoli bilanci interiori:
peccatucci, fioretti e buoni propositi. Consolatori di povere vecchiette.
Controllori della grazia (come dirà nel 2013 Papa Francesco, Evangelii
Gaudium). Predicatori di bazzecole. Impiegati della Ditta. Se uno non
insegna a leggere, anche il Vangelo non può essere inteso.
Abib sta facendo propaganda per una nuova palestra che, se non hai
capito male, dovrebbe aprire da queste parti. Un centro fitness a Firenze
Rifredi, dotato di ogni tipo di attrezzatura con piscina, sauna, area relax,
bilancieri collegati agli schermi del computer, corsi cardiovascolari, di
tonificazione, attività per il corpo e la mente. Hanno pensato perfino ai
vortici acquatici! Nel foglietto c’è una grande foto con un uomo e una
donna in costume da bagno che si sorridono mentre fanno gli esercizi al
quadro svedese. La struttura si dovrebbe chiamare “Ego”.
Abib ti chiede cosa voglia dire. Fai il mimo perché non trovi le parole
giuste per spiegarglielo. Ti batti la mano sul petto, provi qualche smorfia,
cincischi, poi ti vergogni di arrivare al dunque e quindi rinunci. Insiste:
«Cosa sono le docce solari?»
Tagli corto. Gli dici che lui non ne ha bisogno.
Era un libro contro la selezione dei ragazzi, ma non per appiattirli tutti
allo stesso modo, come non pochi ancora oggi ritengono, bensì per metterli
sulla medesima linea di partenza e poi cercare, in ognuno di loro, un fuoco
da far divampare. Il campionario delle disuguaglianze. Contro l’ossessione
della campanella. L’incubo dei programmi. La psicosi dei voti.
Si trattava anche di un romanzo, nel senso più profondo: intensificazione
dell’esistenza. Non un genere letterario. Non un prontuario. Men che mai
un metodo. Senti ancora oggi, la musichetta che suona da una riga all’altra:

Ti posso dire come bisogna essere a scuola, non certo cosa fare in aula.
Ti do uno stimolo. Tu t’immedesimi in ciò che ho sognato, poi devi agire di
testa tua. Da ragazzo sei riuscito a sopravvivere per anni l’intero
pomeriggio da solo a casa pensando a Robinson Crusoe. Ora potresti
realizzare una scuola a tempo pieno simile a quella preconizzata da me:
due insegnanti, marito e moglie, che avessero una casa aperta a tutti e
senza orario.

Per questo Barbiana bisognava chiuderla. Non era esportabile. Sarebbe


potuta risorgere sotto mentite spoglie in altre forme, con nuove parole.
Come poi è successo davvero.
Comunisti, preti, sindacalisti: imperativi trasformati in manifesti
stracciati sui muretti. Il linguaggio non sta mai fermo, è l’acqua del fiume
che scorre: sembra sempre uguale. Sembra. Dunque noi, per non travisarlo,
dovremmo superare l’interpretazione letterale di don Milani. Cogliere il suo
midollo spinale. Lo potremmo fare solo a partire da oggi. Coi fumi delle
vecchie battaglie ormai spenti. Nel nuovo mondo che ci aspetta.

La scuola costa poco, un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro


regalato, quattro ragazzi più grandi a insegnare, un conferenziere ogni
tanto a dire cose nuove gratis.

Sei quasi arrivato in prossimità dello stabile, che riconosci già da lontano
avendolo visto in fotografia su Google. Abib è rimasto qualche isolato più
indietro. Alla tua sinistra c’è un negozio di attrezzi ginnici: Universo Sport,
running e altro. Pare che ormai, a tutti noi, interessi la cultura fisica. Per
allontanare il dolore, la vecchiaia, la morte, usiamo le creme idratanti.
Mettiamo la testa sott’acqua senza pensare a ciò che inevitabilmente
accadrà. Corriamo almeno quaranta minuti, mattino, pomeriggio o sera, un
giorno sì, un giorno no, per recuperare e non affaticare troppo i muscoli.
Fare in modo che l’acido lattico si riassorba. Abbiamo bisogno delle
endorfine pronte a scatenarsi quando, dopo la doccia, ci mettiamo in
poltrona a bere il succo di frutta per reintegrare i sali minerali.
L’edificio, evidentemente ristrutturato, si distingue subito: a due piani,
sobrio, elegante in mezzo alle altre più recenti palazzine. Ti avvicini.
Fotografi la targa fatta apporre dal Comune. Annoti due o tre pensieri.
«Era questa la casa?» ti chiede Abib passando oltre.
Gli fai cenno di sì e lo saluti con la mano. Vai, vai! Porta in salvo tutti
noi!
In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna,
nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere
fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il
meglio dell’umanità.

Ernesto Balducci, nella sua ultima lettura di Lettera a una professoressa


isolò una frase, a pagina tredici:

Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi.

Poi nel 1992 scrisse:


“Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio
Oriente, Barbiana è una comunità musulmana, Barbiana è nell’America
latina. Le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il
mondo fossimo noi.”

Due giorni prima di spirare, don Lorenzo, secondo la testimonianza di Eda


Pelagatti, avvisò i suoi scolari:

Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa


nella cruna di un ago.

Il ricco signorino si preparava a entrare nel Regno dei Cieli. Ma ciò che
davvero sembrava stargli a cuore era dimostrare a quei ragazzi che si
trattava di un’impresa compiuta a caro prezzo.
Al cardinale Florit glielo aveva detto in faccia, qualche giorno prima di
ricevere la sua famigerata lettera, in ospedale:
“Lo sapete, eminenza, che differenza c’è fra me e lei? Io sono avanti di
cinquant’anni.”
I miei preti
Roma, 2014

Me ne vado in giro per Roma alla ricerca di una nuova sede della Penny
Wirton, la nostra scuola di lingua italiana per immigrati.
Per sei anni siamo stati ospiti dei gesuiti nella chiesa di San Saba,
all’Aventino, i quali, grazie a padre Stefano, ci hanno concesso l’uso di
quattro grandi locali al pianterreno dell’edificio dove abitano. Ora
dobbiamo sloggiare perché questi ambienti verranno ristrutturati, in vista
della loro trasformazione in un “filosofato”. Così mi dice padre Massimo, il
nuovo parroco. Sopra di lui il ritratto fotografico di Papa Francesco sorride
ironico; poche settimane prima si era espresso così: “A cosa servono alla
Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo
e i rifugiati sono la carne di Cristo”. È lo stesso pontefice che, nel discorso
del 19 maggio 2014, rivolto al mondo della scuola, ha citato don Milani
come modello essenziale.
Inforco lo scooter e mi dirigo subito verso le chiese adiacenti: la prima è
Santa Prisca. Un mendicante seduto all’ingresso indica il parroco. Don
Antonio ha l’aria indaffarata, gli occhialetti da miope, lo sguardo franco.
Gli espongo la nostra necessità logistica: due ore di pomeriggio, martedì e
mercoledì. Mi risponde che non è possibile. Hanno già molte attività in
corso d’opera. Ringrazio e passo oltre. È il turno della chiesa di Santa
Marcella. Nel sotterraneo dell’edificio c’è un grande ambiente vuoto, ma
padre Rafael non lo ritiene adatto allo scopo. Passano i giorni e l’emergenza
cresce. Dove sistemerò tutti i ragazzi che vengono da noi? Una volontaria
mi mette in rapporto con don Guido, titolare della chiesa di San Gregorio
Barbarigo al Laurentino, vicino alla fermata della metropolitana. Arrivo
dieci minuti prima dell’appuntamento. Ne approfitto per dare un’occhiata al
palazzo diocesano: due piani di aule attrezzate con banchi, lavagne e sedie.
Scendo, attraverso il piazzale ed entro in canonica. Il cappellano mi
presenta al parroco: giovane, tracagnotto. Gli regalo una copia di un mio
libro su Dietrich Bonhoeffer. Mi bastano pochi secondi per capire che sto
perdendo tempo. Don Guido ritiene sia preferibile soprassedere alla nostra
richiesta. «Faccio un’opera di discernimento» dice. «Sono già in
programma tante iniziative: yoga per anziani, corsi di danza, musica,
ginnastica, lezioni di inglese; senza pensare al catechismo.» Più o meno la
medesima risposta che, qualche mese fa, mi diede fra Corrado, economo
francescano di via del Serafico, qua vicino. Uguale a quella di don Mario,
che dirige le operazioni nella chiesa del Buon Pastore alla Montagnola.
Quando esco scambio due chiacchiere col fioraio bengalese.
«Da dove vieni?»
«Dacca.»
«Ti piacerebbe imparare l’italiano?»
«Io no parlo beni. Voio scrive.»
Proseguo verso via del Gazometro dove c’è la chiesa di San Benedetto.
Don Fabio mi accompagna nella sua biblioteca col sigaro in bocca. Nella
stanza accanto, tre donne stanno preparando i volantini per la prossima
recita. Lui fuma e ascolta. Ormai conosco il copione a memoria. Ma il
risultato non cambia. Stavolta però il parroco mi fa un’offerta preziosa.
Nello scantinato ci sono degli ambienti da ripulire.
«Se li ristrutturate» dichiara, «potrei darveli in comodato d’uso per uno o
due anni.»
Andiamo a vederli. Due vecchie aule dalle pareti scalcinate e tanta
umidità. A occhio, per renderle agibili ci vorrebbero migliaia di euro.
«Bisognerebbe fare anche una bella derattizzazione» aggiunge il
religioso.
Grazie ad alcuni amici riesco a contattare i passionisti. Ci convocano
nella loro sede prestigiosa accanto a Villa Celimontana. Uno stabile antico
di lunghi corridoi ricoperti di quadri, sale immense, aule deserte. Arriva don
Andrea, smilzo, educato, gentilissimo. Ascolta con attenzione quello che gli
chiediamo: un locale per insegnare l’italiano ai ragazzi stranieri, senza
pagare affitti, sia chiaro. Noi lo facciamo gratis. Poche ore a settimana. La
sua risposta è molto circostanziata, ma ho dimenticato le frasi principali.
Ricordo soltanto un concetto:
“Dobbiamo mantenere la privacy e rispettare gli equilibri.”
A due passi da lì, appena dopo l’ingresso del giardino pubblico, il
Comune, per commemorare il naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di
Lampedusa nel quale morirono 366 persone, oltre a venti dispersi mai
ritrovati, ha posto una targa: “Largo Vittime di Tutte le Migrazioni”.
Ho capito che le case generalizie degli ordini religiosi sono inadatte a
ospitarci. Ho visitato quelle dei comboniani, dei giuseppini, dei trinitaristi.
Residenze di lusso. Prati fioriti con innaffiatoi automatici. Centralinisti
efficienti pronti a smistare le chiamate. Cancelli, feritoie, fortini.
Sono stato anche dai salesiani, ma don Giorgio, al Testaccio, mi ha
dirottato dalle suore della Divina Provvidenza, le cui case tuttavia, sparse
nel territorio urbano, avrebbero bisogno di opere di consolidamento. Suor
Giuseppina, sia benedetta l’anima sua, ha mostrato attenzione alle nostre
necessità. Purtroppo lo spazio didattico disponibile, in piazza Monte San
Gennaro, a Montesacro, è troppo piccolo per noi.
Decido di afferrare il toro per le corna. Mi rivolgo al vescovo di Roma
centro, Matteo Zuppi: alto, segaligno, simpaticissimo, il quale vuole
risolvere il nostro problema. È del 1957: un anno più giovane di me. Mi dà
appuntamento davanti alla chiesa di Sant’Andrea, vicino a piazza Navona.
Entriamo in una stanzetta e cominciano le telefonate. Prima i marianisti di
viale Manzoni: niente. Poi i verbiti della Piramide: zero carbonella. Il dito
del vescovo scorre veloce sui contatti del cellulare. Le chiamate si
moltiplicano. Mentre lui parla, ogni tanto spunta qualcuno a cercarlo. Fa il
giro di tutte le parrocchie sotto la sua giurisdizione. Fra un rifiuto e l’altro
mi sorride. Gli batto una mano sulla spalla.
Alla fine tiriamo su la rete con due pesciolini: la chiesa di San Vito
all’Esquilino, nei cui pressi sono nato e cresciuto e la chiesa di Madonna ai
Monti, alla Suburra, dove mio padre, negli anni di guerra, andava a
mangiare “dar bujaccaro”.
Parto in tromba con la sua benedizione. Don Pasquale, in via Carlo
Alberto, vorrebbe tanto aiutarci ma la stanza di cui dispone è davvero
minuscola. Inoltre lui deve accudire la sua vecchia madre che peraltro ha gli
stessi anni della mia, chissà magari si saranno perfino incontrate al mercato
di piazza Vittorio all’aperto quando erano più giovani, quindi non viene
fuori niente. Ormai ci ho fatto il callo. Così quando arrivo di fronte a don
Francesco, l’ultimo dei miei preti, dalle parti di via dei Serpenti, prima
ancora di esprimermi, gli chiedo quali siano stati i suoi punti di riferimento.
Lui risponde secco:
«Paolo VI .»
«E poi?»
«Te ne dovrei citare due.»
«Coraggio.»
«Don Primo Mazzolari e don Milani.»
A quel punto, anche se l’ambiente di cui dispone mi sembra inadeguato e
non potremo usufruirne, lo abbraccio riconoscente. Amo credere che il
priore, nascosto dietro di noi, lasci scorrere i titoli di coda.
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L’uomo del futuro


di Eraldo Affinati
© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Ebook ISBN 9788852070860

COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: NADIA MORELLI | RITRATTO DI DON MILANI FOTO © OLYCOM
«L’AUTORE» || FOTO © GILIOLA CHISTÈ

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