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A quasi cinquant’anni dalla sua scomparsa don Lorenzo Milani, prete degli
ultimi e straordinario italiano, tante volte rievocato ma spesso frainteso, non
smette di interrogarci. Eraldo Affinati ne ha raccolto la sfida esistenziale,
ancora aperta e drammaticamente incompiuta, ripercorrendo le strade della sua
avventura breve e fulminante: Firenze, dove nacque da una ricca e colta famiglia con
madre di origine ebraica, frequentò il seminario e morì fra le braccia dei suoi scolari;
Milano, luogo della formazione e della fallita vocazione pittorica; Montespertoli,
sullo sfondo della Gigliola, la prestigiosa villa padronale; Castiglioncello, sede delle
mitiche vacanze estive; San Donato di Calenzano, che vide il giovane viceparroco in
azione nella prima scuola popolare da lui fondata; Barbiana, “penitenziario
ecclesiastico”, in uno sperduto borgo dell’Appennino toscano, incredibile teatro della
sua rivoluzione.
Ma in questo libro, frutto di indagini e perlustrazioni appassionate, tese a
legittimare la scrittura che ne consegue, non troveremo soltanto la storia dell’uomo
con le testimonianze di chi lo frequentò. Affinati ha cercato l’eredità spirituale di don
Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro
alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di
villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell’istruzione africana, ai teppisti
berlinesi, frantumi della storia europea; dagli adolescenti arabi, frenetici e istintivi,
agli italiani di Ellis Island, quando gli immigrati eravamo noi; dalle suore di Pechino
e Benares, pronte ad accogliere i più sfortunati, ai piccoli rapinatori messicani, ai
renitenti alla leva russi, ai ragazzi di Hiroshima, fino ai preti romani, che sembrano
aver dimenticato, per fortuna non tutti, la severa lezione impartita dal priore.
L’autore
Respiri l’aria di Santa Croce, alle spalle della nobile residenza dei Milani, e
ritrovi Vasco Pratolini, nato dieci anni prima di Lorenzo in condizioni molto
diverse dalle sue.
“Le nostre strade puzzano se ci passate: puzza di concia e di stallaggio”
scriveva Valerio, il diarista del Quartiere, che abitava in via de’ Pepi. Come
ha spiegato Fabrizio Borghini in un bel reportage sul ragazzo che volle
gettare alle ortiche la sua matrice preziosa, Lorenzo Milani. Gli anni del
privilegio, sarebbe legittimo chiedersi quali rapporti potessero esserci fra
chi nasceva nei villini qui intorno e chi abitava nelle topaie descritte da
Pratolini. Forse nessuno, eppure non è detto che Lorenzo non abbia gettato
uno sguardo dall’altra parte della barricata.
L’avesse fatto, quella via Pál col fiore marcio nel vaso gli sarebbe
rimasta dentro per sempre come la memoria di uno schiaffo ricevuto in
pieno viso. Ma anche se ciò non fosse accaduto, nel caso in cui Lorenzino
non avesse neppure varcato la soglia di Santa Croce, l’infanzia stessa di
Pratolini, a pugni chiusi nelle tasche rotte, coi nonni poveri, le tristi camere
ammobiliate, gli spazi angusti della città ingobbita dove i giovani troppo
sensibili cercano invano le risposte in grado di placare il loro furore,
comunque lo avrebbe marchiato a fuoco. Perché, di questo sei convinto, noi
non siamo fatti solo delle cose che tocchiamo e vediamo, ma soprattutto di
quelle che non possiamo dominare; anzi, forse è proprio l’incontrollabile,
l’incoercibile, ciò che vive, lavora, prospera e muore a nostra insaputa, a
modificarci davvero. A segnarci con un dito di sangue sulla fronte.
Barbiana, intesa come Sorella Povertà, era sempre stata dietro l’angolo
di casa, anche se tutti facevano finta di non vederla. Mentre Lorenzo
entrava nel seminario del Cestello, in San Frediano, Pratolini, gonfaloniere
stanco, sorprendente goldoniano novecentesco, acquarellista di piazza e fine
dicitore, andava intonando, proprio in questi paraggi, il suo mirabile canto.
Nel 1945, quando il secondogenito di Albano diventava “ostiario lettore”,
Pratolini pubblicava Il quartiere. Volle essere invisibile, fra i suoi Maciste, i
suoi operai, le sue donnine dalle sottane al vento. Uno che si mette sempre
in mezzo al gruppo, confuso nella folla. E mostra un fiuto straordinario per i
dettagli che aggiungono verità alle descrizioni degli interni.
Come dobbiamo usare i pezzi di pan secco?
“Ammolliti nell’acqua e sbriciolati, con un po’ di sale e d’aceto.”
Basta questo per farti compiere il salto dallo scarabocchio al quadro.
Valerio, personaggio icona di Pratolini, impara cosa significa lottare solo
quando, storicamente, è troppo tardi per riuscirci, come accadrà a molti ex
scolari di don Lorenzo, sindacalisti impegnati sul campo delle operazioni, e
accompagna Marisa sistemata alla bell’e meglio nel carretto, allo stesso
modo di Alfio Mosca con Padron ’Ntoni in un finale strepitoso: quello dei
Malavoglia.
La frontiera del quartiere, sbirciata come un fondale all’inizio del
romanzo, stava là dove comincia via Aretina, “coi suoi orti e la sua strada
ferrata, le prime case borghesi, e i villini” e ancora oggi Firenze sembra
sfilacciarsi su verso i primi monti.
Lì ti dirigi, in mezzo al disordine confuso della nuova città, quasi
straniera rispetto a quella che hai appena evocato. Avanzi passo passo con
la testa in subbuglio. È il lavoro che da sempre più t’appassiona: cercare i
rapporti. Scoprire i nessi. Ricucire gli strappi. Mettere in relazione libri e
destini. Uomini e avventure. Sai bene che sarebbe patetica soltanto la
pretesa di voler conoscere la legge che governa i casi, ma di questa illusione
ti nutri.
Seduto sul cassone di un magazzino, accanto al distributore della Q8,
lasci scorrere sul piccolo schermo le foto che hai appena scattato in via
Gramsci: le balaustre alle finestre, le inferriate al pianterreno, il cartello del
divieto d’accesso. E ripensi alla possibilità di scrivere qualcosa sul priore.
Ammesso e non concesso che riuscissi a buttar giù un testo che ti
soddisfa, saresti pronto a fronteggiare le critiche, i rimbrotti, gli scetticismi
di quanti lo conobbero davvero e se lo tengono stretto come se fosse un
tesoro, guai a chi glielo tocca? Vagli a spiegare che i beni non spesi perdono
valore, i tarli distruggono il legno pregiato, ciò che pensi sia solo tuo non è
di nessuno! Non sarebbe meglio comporre un bel romanzo, con il quale non
devi rendere conto a chicchessia, non hai problemi di date da verificare,
frasi da citare, nomi da scegliere, tesi da condividere o contestare?
Ancora una volta ti senti spinto a cercare i luoghi dell’esperienza: dove
trascorse e in quale modo svanì. Tutti, prima di andarsene, lasciano a terra
almeno un pezzo di legno annerito. Tu lo potresti raccogliere, poi te lo
porteresti in giro come se fosse un trofeo.
Attraversi una periferia scalcinata di palazzi a tre piani, supermercati con
parcheggio sotterraneo, officine e ringhiere, laboratori e magazzini, gente
che esce dai negozi con aria distratta e frettolosa. Ingorghi al semaforo, cani
che devono fare i bisogni, mendicanti agli ingressi delle banche. I turisti che
stamattina affollavano l’atrio della stazione sono scomparsi. Qui non si
sente più parlare inglese. Un pensionato è seduto sotto la pensilina: quando
l’autobus arriva sale a fatica, rischiando di cadere in braccio al primo
passeggero.
È come se questa gente ti richiamasse, in una maniera nemmeno troppo
misteriosa, verso l’autore di Lettera a una professoressa. Ti ci porta in
carrozza.
Siamo noi la realtà.
Sul serio? Da ragazzo i professori mi dicevano il contrario.
Ma quando mai?
Ricordo Roman Jakobson e il suo libro Il realismo nell’arte.
Di cosa stai parlando?
Ciò che noi consideriamo vero, può essere finto.
«O bischero!» esclama il pensionato mentre si prepara a scendere alla
prossima fermata.
Voi non potete saperlo, ma erano cose da perderci la testa.
Torni indietro seguendo il filo dei tuoi pensieri. Quando arrivi in piazza
Beccaria ti sembra di riconoscere negli adolescenti di oggi con la lingua
bucata dai piercing i vecchi ragazzi di Pratolini: quelli dei Pratoni della
Zecca coi loro giochi di carte, la zecchinetta e il sette e mezzo, le monete
fatte saltare sull’unghia. È un attimo. Subito la visione s’annebbia.
«Aspettate! Non andate via!»
Nonostante i tuoi richiami, spariscono all’improvviso. Staranno cenando
con uva e fichi sui gradini della chiesa, sotto il cielo più bello del mondo.
Alle elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia cristiana aveva ottenuto
la maggioranza assoluta. La posizione che avrebbero dovuto assumere i
preti, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di enunciarla: pareva ovvia.
Lorenzo invece si schiera dall’altra parte della barricata, spalla a spalla con
Pipetta, il giovane comunista di San Donato di Calenzano; eppure nel
momento in cui glielo scrive, in una lettera che, diciamolo a voce alta, è un
gioiello della letteratura italiana, annuncia il suo tradimento:
Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche
parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco,
ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel
giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e
puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu
non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò.
Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degna d’un
sacerdote di Cristo: “Beati i... fame e sete”.
L’ultima insidia da evitare è proprio questa: convincersi che don Milani non
sia servito a niente. Che sia inutilizzabile. Al contrario, tu pensi che il
quadro appena descritto rappresenti il semplice “succedersi delle stagioni”,
come direbbe il poeta, e il priore continui a esistere trasfigurato in altre
esperienze. Sarebbe dunque vano chiederci cosa farebbe oggi don Lorenzo
Milani e in quale modo potremmo noi spendere il dono prezioso che ci ha
lasciato. Nel mondo c’è già chi, senza averlo mai conosciuto, né sapere
niente di lui, segue il suo esempio.
Tu le hai viste, queste persone. E vuoi raccontarle.
Accendere il fuoco
Gambia, 2012
Scrivi queste note dalla casa di campagna della famiglia Milani, nella tenuta
La Gigliola, appena fuori Montespertoli, a poche decine di chilometri da
Firenze. La villa fu venduta dopo la morte di Lorenzo, ma resta ancora lì,
con tutta la sua forza evocatrice.
Ci sei arrivato al volante della tua nuova Audi A1, duemila turbodiesel,
nera metallizzata, equipaggiamento sportline, comprensivo di impianto
stereofonico Bose, dal quale hai ascoltato la nona sinfonia di Beethoven
eseguita dalla Filarmonica di Berlino, come fossero la scenografia e la
colonna sonora del mondo che lo straordinario personaggio di cui ti stai
occupando avrebbe voluto distruggere. Giunto davanti al cancello che
ancora oggi delimita la proprietà trasformata in un agriturismo a cento euro
a notte, avresti potuto essere uno dei tanti tedeschi che vengono qui a
respirare l’aria della sera e sorseggiare un buon vinello dimenticando il
freddo e la foschia di Hannover o Amburgo.
Quest’automobile, progettata negli uffici di Ingolstadt e assemblata a
Bruxelles, assomiglia molto agli splendidi stivaletti di pelle indossati una
volta da Adele Corradi, la professoressa che affiancò don Milani a Barbiana
negli ultimi anni della sua vita facendo lezione ai ragazzi insieme a lui.
Come racconta lei stessa in Non so se don Lorenzo, i vispi scolari la presero
in giro per il costoso acquisto, finché il parroco non li zittì: “Non aggiunse
altro e fu chiaro che ero giustificata. In quel momento gli ho proprio voluto
bene. Perché non mi lasciava in pace. Mi metteva nella pace”.
Si tratta di un dettaglio lancinante, da porre insieme al gusto del tartufo
che, secondo Adele, Lorenzo conservò negli anni poveri perché, come ha
scritto sempre lei, “nel palato era rimasto borghese”. Nessuno di noi può
dimenticare completamente se stesso. È la memoria del felino che resta
nelle movenze del gatto. Sono le conchiglie sulla battigia dopo una
mareggiata. Il rigore militare nel cipiglio marziale di sant’Ignazio.
Ti alzi e vai alla finestra: hai parcheggiato vicino alla ninfa senza braccia
di fronte alla vecchia casa padronale; esiste una foto del 15 luglio 1942 che
ritrae Lorenzo, accanto alla sorella Elena, intento a dipingere nei suoi
pressi: è rimasto tutto com’era, compresa la biblioteca paterna. Ti viene in
mente la stanzetta all’ultimo piano dell’appartamento cittadino con le
mattonelle color sale e pepe in cui sei cresciuto tu. Senza libri, a parte
l’elenco telefonico. E senza favole. Ognuno ha i suoi condizionamenti. È
tutta una catena.
Credi forse che sia stato facile per lui scrollarsi di dosso questo mantello
prezioso? Sei passato in mezzo allo splendore della campagna toscana, ogni
tanto vedevi scorrere ai tuoi lati un esploso di tetti che annunciava questo o
quel paese: da lontano sembravano struggenti, piccoli paradisi di legno e
cipressi, eppure chissà quanti grovigli isterici prosperavano dentro quelle
mura domestiche, e quali orribili solitudini si stavano formando, allo stesso
modo di cellule tumorali destinate prima o poi a distruggere il nucleo
familiare.
Hai guidato quasi in trance nello scrutinio mentale delle centinaia di
lettere scritte da Lorenzo Milani, perfino le minute che non vennero spedite
e forse dovevano diventare articoli di giornale, ad esempio quella del 30
marzo 1956, intestata a Giampaolo Meucci, l’amico magistrato, dal titolo
Università e pecore, in cui il giovane parroco prefigura l’eterna storia degli
umiliati e degli offesi ritraendoli nel contadino Adolfo e in suo figlio
Adriano, analfabeti costretti a vivere senza luce elettrica nella tenuta del
signorino e a lavorare come muli per mantenere lui e la sua schiatta. Per
trecent’anni era andata così, coi primi a sgobbare nei poderi e gli altri “a far
l’assistente universitario volontario cioè non pagato e vivere nei laboratori e
nelle biblioteche là dove l’uomo somiglia davvero a colui che l’ha creato
che è sola mente e solo sapere”.
La matrice epistolare del furore espressivo da cui prese alimento don
Lorenzo è un tema cruciale per stabilire le condizioni di possibilità della sua
etica. Se egli non avesse avuto un interlocutore cui rivolgersi, ogni pensiero
sarebbe risultato sterile. D’altro canto, nessuna tesi poteva nascere in lui
priva del riscontro dell’esperienza diretta. Non ci ha lasciato trattati
teologici (gli bastavano i dieci comandamenti, insieme all’eucarestia e alla
confessione), ma una sapienza del fare scuola, qui e ora, cogliendo nella
passione pedagogica del maestro l’essenza più autentica del cristianesimo,
inteso quale racconto di sguardi che, incrociandosi, si prendono cura l’uno
dell’altro.
Questo grande scrittore italiano, uno dei più misteriosi fra quelli che si
sono nascosti dietro il proprio talento per cause di forza maggiore, ha
negato se stesso con pervicacia degna dell’ultimo Tolstoj che,
singolarmente contrapposto alla nobile tradizione del canone artistico, verso
la fine della sua esistenza preferiva identificarsi nel mugiko di Jàsnaja
Poljàna, per il quale aveva composto qualche raccontino di pronto uso,
piuttosto che nei creatori di opere immortali cui il pubblico dei seguaci e
ammiratori lo accomunava.
Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla
settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a
cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa.
Giri da una stanza all’altra della vecchia casa finché non ti siedi in
soggiorno di fronte al camino. I mobili saranno stati sostituiti, i quadri
rimpiazzati, le poltrone rivestite, ma la scenografia non dev’essere molto
cambiata da quella che, nell’autunno del 1943, illustrò il colpo di teatro che
ti accingi a rivivere. Erano tempi di guerra: chi andava partigiano, chi
veniva deportato in Germania, chi si metteva coi fascisti, chi si nascondeva.
Paolo Milani Comparetti, cugino di Lorenzo, ufficiale a bordo della
corazzata Roma colpita dai tedeschi il 9 settembre, all’indomani
dell’armistizio, era affogato al largo dell’isola dell’Asinara, insieme a tutto
l’equipaggio.
Ti siedi al centro della sala dove il giovane comunicò al padre e alla
madre la sua decisione di farsi prete. Pare che, dopo averlo appreso, la
signora Alice scoppiasse in un pianto dirotto. Gli altri familiari lo avranno
guardato come se fosse matto. Pochi anni dopo in questo stesso grande
salone Lorenzo organizzò il primo doposcuola per i ragazzini del paese,
secondo il sistema che in seguito farà suo: lui in mezzo, i bambini ai lati,
con un testo da leggere o una mappa da consultare.
Lasci passare la mano sul tavolo che diventerà quello, spoglio ed
essenziale, della stanzetta di Calenzano e poi di Barbiana, ma in origine,
come vedi, era questo legno signorile, sotto i fregi e gli stemmi, sopra ai
tappeti, accanto alle maioliche, ai marmi, al magnifico camino che ancora
troneggia incontrastato.
In fondo alla sala ecco la libreria chiusa a chiave. Avvicinandoti al vetro,
puoi leggere i titoli dei volumi inglesi, francesi e tedeschi: polizieschi di
Edgar Wallace, memorie di Bernard-René Jordan de Launay, manuali di
chimica e botanica, trattati scientifici, atlanti e guide. Gli scaffali ai quali si
può accedere comprendono giornali, riviste e testi scolastici con foglietti
scritti a mano, forse dai ragazzi della famiglia, per appuntarsi i brani latini
da tradurre. Le ultime lettere di Jacopo Ortis in versione francese con una
dedica speciale: “À notre ami, Albano Milani”. Un catalogo sul Settecento
italiano reca sul frontespizio alcuni versi del Parini tratti dal Vespro e
copiati in bella calligrafia con la penna stilografica: “Del caro amico tuo
voli a le porte / alcun de’ nuncj tuoi; quivi deponga / la tessera beata”.
Hai l’impressione di procedere nel fondo di un burrone, quasi che la
frana del tempo ti avesse fatto piovere addosso i detriti di un’epoca
trascorsa e non più recuperabile: così accadrà alla libreria di don Ferrante i
cui volumi, nelle pagine finali dei Promessi sposi, finiranno dispersi lungo i
muriccioli dopo che il loro proprietario era morto contagiato dalla peste,
“come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”. Sfogliando le
pagine dei testi presenti nella biblioteca dei Milani è come se rovistassi nel
cestino dove Lorenzo buttò tutte le carte che gli parvero fuorvianti. Brutte
copie di una vita sbagliata. Coccarde lanciate dal finestrino. Ti piace
vagabondare sulla pista che lui scartò ritenendola falsa e che pure i suoi
genitori gli avevano predisposto. Vuoi far tuo il peso di questa decisione
radicale. Giri nelle stanze di Lorenzo bambino, trasformate in Bed and
Breakfast, con gli asciugamani piegati ai bordi del letto e le saponette
profumate. Vorresti risentire le sue grida. Apri le imposte. Il silenzio della
campagna toscana è rotto soltanto dal frinire delle cicale. Ma nel tuo cuore
senti la musica giusta.
La citazione pariniana non smette di rullarti dentro alla stregua di un
tamburo. Chiunque l’abbia vergata, alludendo all’accettazione di un invito a
festa presentato al nobile parassita, di cui il grande poeta nel suo testo si fa
beffa, non poteva supporre la valenza metaforica che, tanti anni dopo, quei
versi avrebbero avuto. Lorenzo li rigettò come se fossero una sostanza
vischiosa. Tutta la sua vita sarà una contrapposizione netta alla condotta
imbelle del giovin signore, simbolico rappresentante di una classe di oziosi
nullafacenti alla quale il secondogenito dei Milani sapeva di appartenere.
L’arca di Marzahn
Berlino, 2013
Scendi giù per via Asmara, fra ville, ghiaia, fiori e giardini, senza riuscire a
toglierti dalla testa il Pierino contro cui hanno puntato gli strali di don
Milani in Lettera a una professoressa:
Pierino non veniva mai respinto. Passava sempre, anche senza studiare.
Sarebbe dovuto diventare un professore. Questo era, ed è ancora oggi, il
destino di tutti i Milani, in senso lato: cattedratici, scienziati, eruditi,
mantenuti dai loro stessi inservienti. Gente che non si sporca le mani. Quelli
che prima lavorano gratis facendo gli assistenti universitari e poi salgono in
cattedra, come se fosse un podio, quindi si sposano e tirano su altri figli
uguali a loro.
Più Pierini che mai.
Davanti all’Hotel Miramare fronteggi una visione. Non sei mai stato
prima in questo posto, eppure l’hai presente. Anzi, meglio: lo conosci a
menadito. Potresti orientarti senza alcun supporto informativo. La striscia di
sabbia, le rocce, i gabbiotti degli stabilimenti balneari. Te lo ricordi a
memoria. Come si spiega?
Te lo dico io: è il set del film Il sorpasso di Dino Risi, uno dei tuoi
preferiti. Impossibile dimenticare la scena girata proprio qui: Vittorio
Gassman, gradasso dal cuore buono, che si addormenta ubriaco sulla
spiaggia e si risveglia coi bagnanti indaffarati sotto gli ombrelloni. Si alza
in piedi guardandosi intorno meravigliato, la bocca impastata, alla ricerca di
Jean Louis Trintignant, il giovane amico timido, e lo ritrova, poco più in là,
a parlare con Catherine Spaak, la figlia ormai grandicella. Alla fine i
tracotanti sopravvivono. I timidi muoiono sul serio, giù dalla scarpata.
Uno dei capolavori della nostra commedia degli anni Sessanta che
vedesti in un cinema di Paliano, in provincia di Frosinone, quando avevi
l’età di Pierino. All’inizio non ti fece molta impressione, poi centellinasti
più volte la pellicola, sequenza dopo sequenza, quasi sovrapponendola alla
tua stessa gioventù, tanto che molte scene le potresti recitare a memoria.
Cammini fra i detriti: pezzi d’Italia si mischiano, calcinacci dei mattini
di giugno, fra le disperate solitudini di quando non avevi ancora cominciato
a leggere e non sapevi nemmeno chi fossi. E prima c’era stato questo
vecchio scoglio etrusco dove un bambino troppo sensibile cercava di
trovare il significato della vita che i suoi genitori gli avevano offerto su un
piatto d’argento.
Il circolo nautico. La pineta appena dietro. Le terrazzine con cabine in
muratura. Le signore abbronzate continuano a restare sotto il sole come
lucertole senza temere per la loro pelle martoriata dai raggi ultravioletti. I
giovani giganti espongono i muscoli al vento addomesticato dell’insenatura.
I vecchi leggono il giornale, gli ultimi che lo fanno ancora dispiegando i
paginoni.
Questa, ti chiedi, sarebbe stata la spiaggia di don Milani? La stessa
persona che, tanti anni dopo, assumendo il punto di vista del concorrente
più debole, avrebbe scritto alla professoressa:
Per contentare lei basta sapere vendere la merce. Non star mai zitti.
Riempire i vuoti di parole vuote. Ripetere i giudizi del Sapegno con la
faccia d’uno che i testi se li è letti sull’originale.
Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra diseguali.
E poi?
Non tentare di salvare gli amici vecchi. Se gli riparli anche una volta
sola sei sempre come prima.
Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di
creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza
perché non si può far scuola senza una fede sicura. [...]
È inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Ai
partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima
d’esser pronta, prima d’esser matura, prima d’esser laureata, prima
d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente
senza nemmeno accorgertene.
Il sole scende lento dietro gli stabilimenti di Rosignano Solvay coi soffioni
all’orizzonte. Il venditore senegalese torna all’attacco. E tu gli compri un
paio di calzini. Cotone doppio. Col tacco rinforzato e l’elastico sanitario.
Cosa vuoi di più?
L’ultimo maestro
Marocco, 2007
Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una
classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero
di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E
siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare
evidente che Dio non ci chiede di più.
Dovevi venire qui per capire il tavolo sporco di Barbiana. La pioggia che il
maestro si prendeva restando fermo davanti alla casa del ragazzo da
trascinare a tutti i costi a scuola, convincendo suo padre e sua madre a
lasciarlo andare. Forse la chiave sta in una distinzione che il priore farà,
nella lettera del 17 luglio 1957 indirizzata a don Ezio Palombo, che gli
aveva chiesto un consiglio sul problema dell’elemosina, fra l’offerta ai
lebbrosi dell’isola di Maimaimai e quella a favore del disoccupato pratese:
quest’ultimo lo vedi, gli altri te li dimentichi. Perché di loro non puoi dire,
come del tuo vicino: “È il Signore che me l’ha fatto venire all’uscio”. Poco
più oltre:
Il cristiano agisce per amore di Dio e ama il prossimo solo per interiore
obbligo. Il filantropo invece ama il prossimo e basta [...]. In altre parole: al
cristiano l’elemosina ottiene la sua efficacia nell’attimo che parte dal
portafoglio; al filantropo solo nell’attimo che arriva a quell’altro
portafoglio.
La prima volta in cui hai pensato di scrivere un libro su don Milani è stato
proprio in Cina, in piazza Tienanmen, davanti alla salma imbalsamata di
Mao. Avevi fatto una fila lunga ore all’unico scopo di poter dare
un’occhiata alla faccia gonfia del Grande Timoniere. Vecchi contadini erano
giunti da chissà quali villaggi sperduti per rendere l’estremo omaggio
all’idolo incontrastato della loro giovinezza. Procedevano caracollanti, coi
bottoni della divisa grigia chiusi fin sul collo. Assomigliavano a manichini.
A stento trattenevano le lacrime. Guardandoli, ti venne in mente Pipetta, il
comunista di Calenzano. “Qui tramonta il Sol dell’Avvenire” ti venne da
dire quasi a voce alta. D’improvviso la Falce e il Martello e tutte le
Bandiere Rosse del ventesimo secolo ti apparvero distanti, come i capricci
di scale e arcate con catene riprodotti nelle acqueforti di Giovanni Battista
Piranesi, quasi fossero anch’essi simboli di un mondo perduto.
Giovani con le braccia tatuate giocano assorti alle macchinette
mangiasoldi. Ecco dove rischiano di andare a finire anche i tuoi ripetenti.
L’occhio del priore restò sempre incollato su quelli così:
Ti pare di sentirli: “Chi, noi? Stai scherzando? Noi siamo degli scarti.
Abbiamo lo stesso valore del due di coppe a briscola. Facciamo zero punti”.
Ma lui, in quella stessa pagina, insiste:
Sono loro che han fatto di me quel prete dal quale vanno volentieri a
scuola, del quale si fidano più che dei loro capi politici, per il quale fanno
qualsiasi sacrificio, dal quale si confessano a ogni peccato senza aspettare
che sia festa. Io non ero così e perciò non potrò mai dimenticare quel che
ho avuto da loro.
La domenica non c’è nessuno davanti al liceo Berchet. Appoggi la testa sul
cancello e scruti il cortile interno coi canestri da basket, gli scatoloni
ammucchiati, le panchine spoglie. Ci dev’essere un guardiano che abita qui
con la famiglia.
Lorenzo aveva imparato a leggere e scrivere a casa. Non ebbe mai un
buon rapporto con le istituzioni scolastiche. In terza ginnasio non era andato
oltre la sufficienza, solo in cultura militare aveva preso sette. I docenti del
regio liceo Chiabrera di Savona, dove trascorse un paio d’anni affidato alle
cure di zia Beatrice Rigutini, soprannominata Bea, nella speranza che
potesse guarire dai suoi problemi di salute, lo avevano rimandato a ottobre
con “tre” in italiano e “quattro” in latino. Diede gli esami di riparazione in
questo stabile. Nell’anno scolastico 1939-40, mentre le truppe hitleriane
d’intesa con quelle staliniane si spartivano la Polonia, Lorenzo rischiò di
abbandonare gli studi.
Qualche mese dopo tentò di passare in terza liceo: ce la fece soltanto
grazie al tema d’italiano. I ragazzi presero quasi tutti il diploma in fretta e
furia perché c’era altro a cui pensare. Lorenzo non volle iscriversi
all’università.
«E cosa vuoi fare?» gli chiese il dottor Albano.
«Il pittore» rispose lui.
Addio, addio, vita!
New York, 2010
Gli emigranti che, agli inizi del Novecento, dopo aver attraversato l’Oceano
Atlantico, sbarcavano a New York, non conoscevano la lingua inglese.
Cominciavano a studiarla nelle aule del Lower East Side, più simili a
bettole e magazzini che a vere e proprie scuole. Sono appena stato a Ellis
Island, il famoso isolotto che fungeva da punto di primo smistamento dei
nuovi arrivati. Ho fotografato il vecchio cartellone scritto in un italiano
ancora incerto:
“Il governo degli Stati Uniti e le scuole pubbliche aiutano i nostri Amici
Stranieri che fanno Applicazione per Ottenere CITTADINANZA AMERICANA
ed imparare la nostra lingua ed i principi del nostro Governo per prepararsi
a essere buoni cittadini. Il Governo fornisce gratis i libri di testo. Iscrivetevi
subito. Venite a Scuola.”
Fai gli scaloni di Palazzo Medici a due a due: vuoi anticipare gli eventi.
Temi forse che possano sfuggirti? In poche sale semivuote sono esposti i
quadri che Lorenzo dipinse dai diciotto ai vent’anni: una bella occasione
per capire chi fosse poco prima di spiccare il grande salto. Nell’estate del
1941 frequentò lo studio fiorentino del pittore tedesco Hans Joachim
Staude, in via delle Campora, presso cui il padre, dietro consiglio di Giorgio
Pasquali, lo aveva indirizzato. Era la stagione dell’inquietudine ma non
dell’inconsapevolezza, vista l’energia fantastica di cui il ragazzo disponeva.
Hai letto l’intervista che Staude, ormai anziano, concesse a Neera Fallaci
nel 1973, tre mesi prima di morire, nel padiglione dell’ospedale dov’era
ricoverato e ti sei appuntato la sua frase lapidaria: “Non ho mai creduto,
neanche per un momento, che la pittura fosse la strada di Lorenzo Milani:
mai”.
Il giovane pronipote del grande umanista Comparetti aveva trascorso
l’estate della dichiarazione di guerra ad Arolo di Leggiuno, sul lago
Maggiore, dove gli Staude avevano una residenza. S’era messo accanto al
maestro, padre di Angela, che poi sarebbe diventata la moglie di Tiziano
Terzani, spostando il cavalletto per seguirlo, senza mostrare nessun tratto di
originalità. Gli andava dietro come un segugio, evitando di prendere
qualsiasi iniziativa. Voleva imparare i rudimenti del mestiere, ma non aveva
il sacro fuoco. Leggeva Gabriele D’Annunzio. Era uno sportivo.
S’impratichiva coi colori. Abbozzava disegni. Giocava agli scacchi.
Discuteva della Divina Commedia.
Una foto lo ritrae appoggiato al ponte sul Lambro ad Agliate, frazione di
Carate Brianza. Ai piedi porta i sandali presenti in alcune sue opere. È una
delle immagini più lancinanti che di lui conserviamo: i pantaloni corti, la
camicetta bianca, i folti capelli neri, le braccia piegate all’indietro. Sullo
sfondo si vedono case lungo l’argine molto simili a quelle che dipingeva.
Colpiscono lo sguardo concentrato, attento, l’aria aristocratica da giovane
rampollo quale in tutti i sensi egli era. Siamo alla vigilia del passo cruciale.
Di lì a poco il ragazzo getterà nel pozzo i sandali, i pantaloncini, la
camicetta, uscendo dall’incantesimo. Ecco perché il rigore e la serietà
dell’espressione sembrano l’avanguardia di una rivoluzione spirituale.
Eppure quando scriveva agli amici si mostrava allegro e spensierato. La
lettera, scherzosa, spedita a Oreste del Buono il “35 luglio 1941 (non è
vero, ma che ci posso fare?)” , proprio da Arolo, lo dimostra appieno:
Sputo per terra, dico che sono un coglione, che sono un troia, che sono
un ferrari [un compagno di scuola che Lorenzo considerava superficiale].
Mi piacerebbe fare dei grandi affreschi pieni d’angeli biondi, ma sciare è
molto più bello, anche pattinare a rotelle è più bello, anche cascare dietro il
palazzo di Giustizia è più bello, molto più bello e avere degli amici accanto
è 7 volte e mezzo più bello.
Vedi la mia giacca blu? Più che un vestito, è un’armatura. Una specie di
armadio a cassettoni, tipo quelli che arredavano la tenuta della Gigliola, a
Montespertoli, dove sei già andato. Io ci sto dentro a fatica, quasi fossi
recluso. Mi sono messo dietro le sbarre da solo. Anche le altre giacche dei
quadri, indossate dagli amici, sembrano simili alla mia, tranne lo
spolverino di Oreste del Buono, assai più morbido sopra la camicetta
azzurra: dipende dal fatto che lui, già a quel tempo, era uno scrittore
dichiarato, non come me, sotto mentite spoglie. Noi eravamo tutti borghesi,
questo non c’è nemmeno bisogno che te lo dica, cresciuti nelle bomboniere,
al riparo dalle intemperie. Le esperienze avute assomigliavano ai microbi
osservati sotto il vetrino del microscopio. Non ci toccavano sul serio.
Scivolavano sulla nostra pelle. Poco tempo dopo tutto sarebbe cambiato.
Oreste avrebbe conosciuto i Lager tedeschi. Saverio la Resistenza. Io sarei
diventato un altro uomo. Ma quando stavamo insieme al liceo Berchet,
eravamo dei ragazzini. La cravatta color prugna è schiacciata, non si
riconosce neppure il nodo, pare una macchia. La camicia biancastra ha
una consistenza speciale: più simile a uno straccio di cucina che a un
tessuto di sartoria. Le spalle sembrano i confini degli stati africani, definiti
dall’uomo europeo senza tener conto dei fiumi, delle montagne, dei deserti:
frutto del righello. L’impressione prevalente è che il soggetto del quadro sia
un manichino addobbato dalla vetrinista. Così almeno mi sentivo. E la
parete dietro di me, come la definiresti? Semplice carta regalo, plastica,
cellofan, ciò che ho sempre odiato, la prigione da cui volevo fuggire
quando iniziai a dipingere, anche se ancora non lo sapevo. Il mondo dei
salotti milanesi, con le cameriere, le istitutrici, le lezioni private, i
cioccolatini: tutto quello contro cui mi sono sempre schierato. In questo
autoritratto non ho gambe, non ho braccia, sembro un pupazzo colorato.
Non esiste azione. Il tempo resta fermo. Non sarebbe neppure concepibile
avere un pensiero. La mia faccia è tutto un programma. Leggermente
inclinata sul lato sinistro, esprime una stupefazione infinita. Se tu riuscissi
a spiegare il trasalimento che io non sono riuscito a rappresentare, perché
ero troppo giovane e inesperto e avevo imboccato un sentiero sbagliato, mi
faresti un favore. Credi che quegli occhi grandi con le pupille dilatate siano
soltanto la conseguenza della mia ingenua infatuazione per Vincent Van
Gogh? Cosa sto fissando se non il niente che sentivo intorno a me? Magari
avessi avuto l’ebetudine dei personaggi di Samuel Beckett! Vuoi sapere la
verità? Non potevo essere nemmeno l’uomo di paglia di Thomas Eliot,
ammesso e non concesso che avessi letto La terra desolata. Ero solo un
Pierino inquieto. In quelle condizioni, avrei potuto andare avanti ancora
per molto? Dimmelo tu. Il fatto che non ci fosse scelta a me pare evidente
nei capelli dritti sulla testa, come se avessi appena incrociato un fantasma.
Inutilmente ho cercato di ricomporre i frantumi della tensione
adolescenziale che stavo vivendo nel disegno garbato delle gote, che
sembra fatto da Elena, la mia sorellina, nella stessa fattura del naso,
perfetto come potrebbe essere quello di un santino. Del resto io i nasi li
sapevo fare solo così, nonostante quelli che avevo visto a Brera: guarda gli
altri ritratti e renditene conto da solo. Non è bastata la confezione a
puntino per allontanare il turbamento testimoniato dalle macchie rosse che
mi cospargono il viso, come schizzi di una ferita sulle guance, sulla fronte,
perfino sul mento. Proprio io che, lo sanno tutti, non potevo sopportare la
vista del sangue. Le orecchie sembrano posticce, appena riattaccate,
neanche fossero quelle di un clown bianco, che non fa ridere ma trasmette
solo malinconia. Diciamola chiara: ero sull’orlo di una crisi isterica. Fossi
rimasto ancora qualche tempo vicino a Staude, sarei impazzito. Lui mi
diceva di pensare all’essenziale. Togliere il superfluo. Cercare l’unità. Lo
presi alla lettera e, dopo averlo fatto, non sulle tele, bensì nella vita, glielo
comunicai anche a brutto muso, nel mio stile. Tutta colpa tua, sparai a
bruciapelo. Lui mi guardò come se di fronte avesse uno psicopatico. Ma io
sapevo bene quello che stavo facendo, chissà, forse perfino quando, fra
l’inverno 1941 e la primavera del 1942, lo ha precisato Sandra Gesualdi,
figlia del mio scolaro preferito, nel catalogo della mostra che stai visitando,
dipinsi l’autoritratto. Tale consapevolezza si desume dall’espressione delle
labbra, piegate in un debole sorriso, appena accennato, qualche frazione di
secondo prima che si manifestasse. Non so se fosse proprio autoironico.
Certo indicava la potenza della scelta che, di lì a poco, avrei compiuto.
Ti torna in mente una frase che don Lorenzo scrisse a sua madre, il 29
agosto 1949, da San Donato di Calenzano:
Io son sereno solo quando son sempre “intonato” con ogni evenienza.
Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d’altrui che
possa accadere. Io smisi di fare il pittore solo per questo.
Noi preti siamo attratti da questi anelli di congiunzione più che da tanti
anelli che son già dentro e non giovano più né a noi per rivedere le nostre
posizioni né a quelli di fuori per esser attratti a entrare.
Vai al finestrone a dare un’occhiata giù, verso via Cavour dove, davanti
alla prefettura, il giovane Lorenzo nel 1943 incontrò don Raffaele Bensi,
che in seguito sarebbe diventato il suo direttore spirituale e ne avrebbe
accolto le prime confessioni. A proposito di raccordi: è davvero un caso il
fatto che questa mostra sia aperta proprio qui? Dovresti considerarla
un’inframettenza? Il cigolio della catena? Lo sbattere della finestra in una
notte insonne – sei sempre in attesa che sbatta di nuovo –, immagine che
Osip Brick usava per farti capire cosa fosse il ritmo poetico? Tutta la ricerca
del ragazzo inquieto è tesa a superare la frammentazione: il tarlo del
Novecento.
Tra lui e chi lo ascolta, o lo conosce, o lo frequenta, o lo legge, scrisse
Michele Ranchetti, non c’è mediazione. Don Milani non cita mai nessuno.
Chi si avvicina alla sua figura, ha l’impressione che non ci siano fonti da
recuperare. È come se il soggetto del quadro appena visto si apprestasse a
fare il vuoto intorno a sé, legittimato soltanto dalla risposta che saprà dare
alla chiamata pronta a raggiungerlo. Lingua sacra e lingua profana
s’identificano. Non c’è interpretazione, ma presenza. Convertirsi significa
trasferire se stessi in un’altra dimensione.
Siamo di fronte a un profeta.
Prendere o lasciare.
Nello sguardo interrogativo dell’autoritratto ferve la vita dell’uomo
adulto, destinato al fallimento, secondo il modello cristologico originario
dell’adozione. Anche Ranchetti frequentò il liceo Berchet e conobbe il
priore. Sempre lui, nella risonanza del vecchio amico, affermò che
diventare padre vuol dire disporsi ad accettare il rischio di essere usati e
gettati via dai figli che fuggiranno in cerca di altri mondi. Il maestro annulla
per questo la singolarità dell’artista: è l’impiegato della stessa tradizione
che deve trasmettere ma, nel momento in cui lo fa, modifica, seppure
impercettibilmente, il passato che non sta mai fermo. Al contrario, appena
noi interpelliamo gli antenati, cambia. Limitarsi a richiamare l’attenzione su
di sé potrebbe compromettere la piena comprensione di ciò che
rappresentiamo gli uni per gli altri.
È la scienza dei rapporti, visibili o insindacabili, fra le azioni umane.
Come se Lorenzo cercasse l’unità spirituale in grado di comporre le tensioni
contrastanti che finora lo avevano lacerato. Quando diventerà prete, tenderà
a favorire nei suoi scolari il medesimo processo associativo, capace di
mettere insieme spunti anche diversi; è questa la ragione per cui faceva in
modo di mandarli all’estero: dovevano uscire dall’ambiente angusto nel
quale erano vissuti. Distribuiva le carte affinché gli alunni potessero fare al
più presto il loro gioco sottraendosi allo schema didattico che avevano
conosciuto. Scrive Adele Corradi:
“Non gli ho mai chiesto nulla sulla sua conversione. Mi limitavo a
registrare nella memoria quello che lui diceva. Capitava infatti che
raccontasse di momenti in cui era avvenuto come un ‘incontro’: la lettura
del libro Il ponte di San Luis Rey, la scoperta del tendine di Achille mentre
sezionava un cadavere (faceva il pittore e ‘un pittore deve conoscere
l’anatomia’), la visita al convento di Monte Oliveto Maggiore (‘chi ci
pensava più agli affreschi... sentendo il canto dei monaci’).”
La storia la disegna Dio e non noi e l’unica cosa cui ambisco è di capire
il suo disegno man mano che egli lo svolge, non ambisco a levargli il lapis
di mano e pretendere di diventare un autore della storia.
Di’ la verità, non mi riconosci più, vero? Guarda che sono sempre io,
quello dell’autoritratto, anche se non sembra perché lui era più grande di
me e poi aveva i capelli neri mentre i miei sono biondi. Questa è la
cosiddetta libertà artistica in cui ho rischiato di affogare. Ne avevo avuta
perfino troppa, io, di libertà! Cosa mi è successo? In quel momento non lo
sapevo. Stavo con gli occhi chiusi, avrebbe scritto Federico Tozzi. La
gamba sembra finta, è peggio del tronco che incombe dietro. Rigida come
non dovrebbe essere. Venuta male. La mano destra resta sul piede, come se
dovesse proteggere il tendine, diresti tu che vuoi fare l’interprete. Ma
proprio a questa smania di voler dare una spiegazione a ogni cosa mi
apprestavo a rinunciare. Avevo bisogno di entrare in azione. Farmi largo
nel campo delle infinite possibilità. Scegliere questo invece di quello. Basta
coi bambini seduti sul muretto! Basta coi ragazzi in abiti invernali adagiati
sui pigmenti a impasto di olio magro! Basta con gli scolaretti vestiti alla
marinara che seguono una signora bionda con cappellino scuro! Basta coi
fiori gialli su fondo blu! Basta con le bottiglie arancioni! Basta coi vasi a
due fiori! Basta con le trecce di mia sorella e il tailleur bianco che indossa
Ghita Vogel, figlia di Henry, amica sin dai tempi della Gigliola! E basta
anche coi pretini rossi di fronte al cardinale all’interno della chiesa! Come
dirò a don Auro Giubbolini, compagno di seminario, è vero che
m’interessavo di liturgia, ad esempio avrei voluto sapere quale rapporto ci
potesse essere tra un affresco e i fedeli raccolti in preghiera, ne parlavo
spesso con Carla Sborgia in quelle lettere finora non ritrovate, qualcuno
sostiene che siano state distrutte, ma se la pittura avesse come fine solo la
bellezza sarebbe ben poca cosa. Da quel momento in poi non ho voluto più
sapere niente di stucchi, gesso, colla e pastelli.
Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è
costretto a tenersela.
E così, nel momento in cui il ragazzo accosciato nella pineta aprirà gli
occhi rialzandosi in piedi, la sua vita non sarà più quella di prima.
Tutta la sapienza imparata a Brera e Firenze tornerà, tanti anni dopo,
trasfigurata nei mosaici di vetro che abbelliscono la chiesa di Sant’Andrea,
fra i quali spicca il Santo Scolaro, iniziato nel settembre del 1961.
Un fraticello con l’aureola sta leggendo il Vangelo. La testa è nascosta
dalla copertina del libro sacro. La corona del rosario scende lungo il saio.
Alcune nuvolette galleggiano nel cielo azzurro. Sul prato splendono fiori
rossi. I disegni preparatori furono di don Lorenzo, ma alla realizzazione
parteciparono i ragazzi e le ragazze di Barbiana, secondo il modello
dell’arte collettiva che troverà nella Lettera a una professoressa una
compiuta applicazione.
Entri nella chiesetta e siedi in una delle ultime panche. Poco prima, là fuori,
sui marciapiedi, c’era notevole ressa: gruppi di turisti affluivano verso il
battistero leccando gelati. Qui invece sembra tutto fermo, silenzioso. Fissi
l’altare dove don Lorenzo celebrò la sua prima messa: “Era trasfigurato”
disse don Bensi in una celebre intervista concessa a padre Nazareno
Fabbretti nel 1970.
“Pensavo: e adesso dove me lo mandano questo ragazzo? Se me lo
mandano accanto a un parroco che non lo capisce, son dolori. [...] Don
Lorenzo mi apparve trasparente e duro, come un diamante. Doveva subito
ferirsi e ferire.”
Passa qualche minuto e si avvicina un giovane dall’aria stralunata. Con
tanto posto a disposizione, decide di mettersi proprio accanto a te. Basta
un’occhiata per capire che non sta bene. È sfasato, ha l’aria tesa, si muove a
scatti. Nel suo volto spicca un occhio finto, il destro. Appena mostri di
considerarlo, comincia a parlare, come se non aspettasse altro. Si chiama
Arrigo, viene da Agrigento, abita con la sorella e la madre, è in cura
all’Ospedale degli Innocenti.
«Ti sembro pazzo?»
«Cosa hai fatto all’occhio?»
«Colpa della calce viva che mi è entrata nell’orbita da piccolo, quando
lavoravo nei cantieri. Conosci la mia città?»
Sì, gli rispondi, l’hai visitata una volta per scrivere un capitolo su Luigi
Pirandello. Racconti ciò che ricordi di quel giorno: il grande piazzale della
villa Kaos, il guardiano semiaddormentato, i cactus in giardino, Porto
Empedocle là sotto, davanti al “greco mar”. Arrigo ci andava da piccolo, a
girare in bicicletta.
In seguito emigrò in Germania, a Bonn. Conosce meglio il tedesco
dell’inglese. Parlate della Germania, di Berlino.
«Ti sembro pazzo?» ripete.
Afferma che da ragazzo era una grande promessa calcistica. Portava il
numero quattro: centrocampista. Ma poi precisa che con lui il centravanti
non segnava mai, quindi forse si è sbagliato, perché, se così fosse, il suo
ruolo avrebbe dovuto essere quello del centrale: “stopper”, come si diceva
una volta. Il vecchio numero cinque.
Sin dal primo istante che l’hai visto, ti è sembrato un segnale inviato dal
priore. A pensar questo, il pazzo potresti essere considerato tu. Come se lui
ti dicesse:
Va bene, stai facendo il tuo gioco, ma guarda che io non sono più dove
mi cerchi. Sarebbe come se tu pretendessi di ritrovare me nelle tracce che
ho lasciato: quelle sono soltanto orme, semplici indizi della mia presenza,
non più vive del ricordo da cui sono scaturite, come ben sai, molte
scempiaggini, insieme a poche verità. Vuoi un consiglio? Guarda avanti.
Studia pure le mappe, consulta i dizionari, controlla le cronologie, verifica
le fonti, insegui le testimonianze, annusa gli odori, ma non t’illudere di
poter conoscere in questo modo la vita che ho trascorso, i pensieri che ho
avuto, i sogni che ho fatto. I materiali che hai fra le mani considerali carta
straccia. Fuochi fatui. Mute nel fogliame. Voci enciclopediche. Insomma
anch’io sono diventato obsoleto, allo stesso modo dei vocaboli di cui mi
prendevo gioco, fossero il treno da caccia col quale partiva don Rodrigo o
l’apparecchio visto da Fra Cristoforo. Se è vero, come ho dichiarato e
quasi tutti quelli che si sono occupati di me hanno ripetuto, che Barbiana è
finita per sempre, scomparsa in via definitiva con la morte del sottoscritto,
e potrà eventualmente rinascere soltanto dentro quattro pareti domestiche
dove il padre di famiglia insegna l’alfabeto ai figli piccoli, è altrettanto
indubbio che lo spirito dal quale prese vigore ha già trovato nuove forme in
cui esprimersi. Ciò che tu stai evocando, sullo spunto della mia biografia,
appartiene piuttosto a te. Assumiti dunque le responsabilità che ti
competono. Decidi, a tuo rischio e pericolo, in quali altri luoghi i semi che
ho distribuito possono essere fioriti. E poi vai a raccoglierli. Ma non tenerli
per te. Distribuiscili in giro. Anche se sarete in pochi a conservarli, va bene
lo stesso. Noi all’inizio eravamo in sei. I conti si faranno dopo. O già sono
stati fatti? Non ti scervellare. Pensa a scrivere.
Arrigo ti chiede di uscire, ha bisogno di fumare una sigaretta. Tornate
indietro verso piazza della Santissima Annunziata nei cui pressi, da quello
che hai intuito, dovrebbe esserci la sua ASL . Ha litigato col fratello, non
parla più nemmeno col padre. Dorme pochissimo. Per riuscirci deve
prendere i farmaci, ma non vorrebbe. Ti chiede per quale squadra tifi. Glielo
dici: sei giallorosso. E cos’altro potresti essere, visto che hai lasciato il
cuore all’Esquilino? Vi mettete di nuovo a sedere sotto le grandi finestre
con le inferriate di Palazzo Grifoni. Secondo lui il prossimo anno i tuoi
beniamini andranno in Champions League.
Intorno continuano a girare frotte di turisti e numerosi venditori
ambulanti. Cerchi di calmarlo, perché trema mentre fuma. Gli spieghi che, a
tuo giudizio, dovrebbe tornare in Sicilia. Scuote la testa.
«Lì mi vogliono morto.»
Pensi a Marcello, un bambino che all’inizio non sapeva nemmeno
parlare. Lentamente, grazie alle attenzioni del priore, cominciò a migliorare.
Ci sono foto che ritraggono il piccolo impegnato a giocare insieme a don
Lorenzo, l’unico capace di non perdere la pazienza con lui.
«Ti sembro pazzo?»
«No, non lo sei, però devi prendere le medicine che ti danno.»
Vorresti capire dov’è in questo momento sua madre. Forse, insieme alla
sorella, lo starà cercando nelle strade adiacenti. Arrigo ti chiede perché sei
venuto a Firenze. Gli racconti del libro che stai scrivendo. Ti ascolta
assorto, poi si fa il segno della croce e si tocca le parti basse. Estrae dalla
tasca una medaglietta e la bacia. Getta il mozzicone e accende un’altra
sigaretta. Mentre lo guardi, non dimentichi la ragione che ti ha spinto fin
qui.
Quando arrivò davanti al letto del prete appena deceduto, Lorenzo dichiarò:
«Io prenderò il suo posto».
Era il 4 giugno 1943. Passò una settimana e ricevette la cresima nella
pieve di San Pietro in Mercato, a Montespertoli, dal cardinale Elia Dalla
Costa, lo stesso che, quattro anni dopo, lo consacrò sacerdote nel Duomo.
“Si prese un’indigestione di Gesù Cristo” affermò don Bensi. L’8
settembre, nelle stesse ore in cui Badoglio firma l’armistizio, lui entra in
seminario, dove tu stai andando.
Arrigo ti saluta con un grido: «Forza Roma!».
Superi la folla e ti dirigi verso il fiume, ma quando arrivi in prossimità
del Ponte Vecchio, scantoni in borgo Santi Apostoli perché vuoi evitare la
calca dei visitatori con gli smartphone stretti nel pugno, tesi a immortalare
colonne, baci, sculture, sorrisi, tatuaggi e capitelli. Pensi che, dopo essere
entrate nell’iPhone, le immagini gireranno come schegge per innumerevoli
anni sugli schermi dei computer, negli studi o nei soggiorni a cui, fra poco,
faranno ritorno. Diventeranno sterpaglia fantastica dispersa nell’etere o
chissà in quali altri pertugi informatici, come prima accadeva per le stampe
che ammuffivano in cantina.
Cammini rasente i vecchi palazzi dietro ai parapetti del fiume quasi
dovessi proteggerti da un attacco aereo, in un gioco a rimpiattino fra le
ipotesi che formuli e l’impianto sintattico che dovrebbe rappresentarle
quando dovrai scriverle.
Lorenzo diventò cristiano in tempo di guerra. Uno degli episodi che
raccontava più spesso gli accadde non distante dal luogo in cui ti trovi.
Aveva preso l’abitudine di dipingere nei vicoli vicino a piazza Pitti. Ogni
tanto si fermava per consumare il suo spuntino. Una signora affacciata alla
finestra, senza nascondere la propria irritazione, esclamò:
«Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri!»
Il ragazzo si sentì percorso da un brivido di cocente vergogna per quel
rimprovero destinato a entrare nella leggenda edificante della sua
conversione. Questa è una delle tante ragioni per cui don Lorenzo Milani è
diventato, a poco a poco, inavvicinabile. Come lo tocchi, ti bruci. La sua
esistenza assomiglia a un materiale incandescente. Così abbiamo lasciato
che a parlare di lui siano i politici, gli eruditi, i polemisti, chi non lo
conosce, chi lo fraintende o, peggio ancora, chi lo beatifica: gli incensatori.
D’altro canto le mezze misure sembrano non funzionare con don Lorenzo: o
lo attacchi, o lo difendi, o lo insulti, o lo innalzi sull’altare.
Pier Paolo Pasolini, le cui poesie il maestro di Barbiana leggeva ai suoi
ragazzi, nel 1973, recensendo sul “Tempo” l’edizione delle lettere che il
priore spediva alla madre, in un articolo poi raccolto in Scritti corsari si
contrappose con una certa veemenza a questa specie di santino:
“Certo, la decisione di ignorare la guerra e il fascismo era, da parte del
novizio, un invasato e intrasgredibile partito preso. La tragedia è sulla
nazione italiana, spaventosa, senza speranza; e il giovane Lorenzo, dentro la
cima del seminario, è tutto un impeto di serafico buon umore.”
Attraversi l’Arno dal ponte alla Carraia e ti chiedi: in quale luogo si
trovava il poeta di Casarsa, inflessibile giudice delle altrui supposte
amnesie, nello stesso anno in cui Lorenzo scopriva il Vangelo? La risposta
scende su di te come una scudisciata: a Weimar, sotto le alture del Lager di
Buchenwald dove, nell’estate del 1942, mentre i forni crematori lavoravano
a pieno ritmo, aveva partecipato ai “Ludi Juveniles”, gare letterarie fra i
giovani dell’Asse organizzate dai nazisti. In rappresentanza del GUF di
Bologna c’era proprio il ventenne Pier Paolo Pasolini, che su quelle
giornate trascorse a discutere di letteratura coi camerati spagnoli, tedeschi e
francesi pubblicò un celebre articolo, Cultura italiana e cultura europea a
Weimar.
Due anni prima Beppe Fenoglio, seduto sui banchi del liceo Govone di
Alba, chiamato a scrivere il consueto tema ministeriale di elogio della
Marcia su Roma, aveva consegnato il foglio in bianco. Nemmeno il
venerato professor Pietro Chiodi, consapevole del rischio che stava
correndo il suo scolaro preferito, era riuscito a evitare quell’impuntatura.
Tre destini di giovani coetanei: Pasolini era nato il 5 marzo 1922, quattro
giorni dopo Fenoglio, rispetto al quale mostrò spesso un atteggiamento
quasi sprezzante. Lorenzo Milani aveva solo un anno meno di loro. Alla
medesima età, nel momento cruciale, questi paladini italiani, che
appartenevano alla generazione dei tuoi padri, avevano fatto scelte molto
diverse che certificano o falsificano, secondo le interpretazioni che ne
vogliamo dare, l’intransigenza etica da cui in seguito furono tutti, in forme
dissimili, animati.
Sorridi dentro di te a causa dell’ingenua indignazione adolescenziale
che, poco fa, non sei riuscito a trattenere. Un tempo su questi moti
sentimentali, crucci emotivi, interrogazioni e mulinelli del pensiero, ci
costruivi il pomeriggio: era una fuga dalla solitudine. Ricordi quasi fosse
ieri il modo in cui ti accanivi contro il fascismo giovanile di Elio Vittorini,
Roberto Rossellini o Mario Alicata che, come tanti altri, si trasformarono in
comunisti in quattro e quattr’otto. Riandavi spesso con la mente a tuo
nonno, fucilato dai nazisti. A vent’anni abbiamo tutti bisogno di eroi, prima
ancora che di uomini.
Oggi le vite spezzate dei tre grandi destini appena evocati ti sembrano
simili al carcame dell’asino grigio divorato dai cani sulla sciara dove Rosso
Malpelo conduceva Ranocchio per istruirlo. Pier Paolo pugnalato dagli
stessi giovani infelici che amava. Beppe divorato dal male: a tuo modesto
avviso, resta sul podio della medaglia d’oro. Lorenzo – consumato
anzitempo da un linfogranuloma –, capace di illuminare, ancora una volta,
il Bel Paese: quello di Vico e Romagnosi, Cattaneo e De Sanctis,
Machiavelli e Campanella, multidisciplinare e fuori dagli specialismi,
filologico e conoscitivo. La terra nascosta dei monaci ribelli, degli
scienziati fatti passare per pazzi, dei liberi spiriti incompresi: Savonarola,
Galileo, Sarpi. Eterna perdente e mai veramente nata. Bruno, Tasso,
Campana. Sentieri che si perdono nel bosco. E poi rispuntano luminosi.
Lorenzo restò in seminario quattro anni, evitando le retate contro gli ebrei,
scansando i bombardamenti, superando la fame e il freddo. La Liberazione
vera e propria la visse a Montespertoli, rifugiato in campagna insieme alla
famiglia, che pure riuscì a cavarsela in quei tempi pericolosi. Al referendum
del 2 giugno 1946, spalleggiato da Bensi e Facibeni, votò Repubblica. In
quell’estate il padre gli aveva spedito due suoi saggi su Il castello e Il
processo di Kafka. La risposta di Lorenzo si concentra soprattutto sulle
istruzioni date dallo scrittore all’amico Max Brod, relative alla distruzione
dell’opera dopo la morte: da una parte è un’ulteriore conferma della strada
scelta dal novizio, dall’altra un’implicita indicazione per Albano, che
sarebbe morto nel marzo dell’anno successivo.
La stagione trascorsa entro le mura che hai davanti fu difficile ma al
tempo stesso esaltante. Le lettere spedite alla madre tra il 1943 e il 1944 lo
testimoniano:
Cara mamma,
stamani son finiti gli esercizi. I quali consistono in star zitti per 4 giorni
e sentire 16 prediche. Lo stare zitti sottoscriverei a seguitarlo tutto l’anno
col vantaggio di non dire sciocchezze, ma le prediche per ora mi bastano...
Si ha sempre l’impressione d’essere al manicomio.
Michele Gesualdi, nel sito della Fondazione Don Lorenzo Milani, riporta un
dialogo fra il priore e un vecchio comunista senza Dio che ci aiuta ad
apprezzare una così ostinata coerenza.
L’attivista politico gli disse: “Se io fossi in lei andrei dal vescovo e gli
direi, tenga, questo è il collare, lo metta al cane”.
Don Lorenzo rispose: “Ma io sono un cane, un cane fedele alla mia
chiesa e ubbidiente al mio vescovo”.
Da tale determinazione nasce lo spirito pedagogico. Se come sacerdote
occorre conformarsi alla volontà dei superiori, in quanto confessori
bisognerà disporsi all’assoluzione del penitente, secondo l’indimenticabile
lezione di padre Bellandi, uno dei migliori insegnanti negli anni del
seminario, peraltro citata nella “Lettera aperta a un predicatore” in
Esperienze pastorali. La stessa attitudine di comprensione preliminare deve
avere il maestro nei confronti dello scolaro negligente che va sempre
aiutato, soprattutto quando sbaglia, cercando di essere amici e maestri
insieme. Condividere la rabbia e le malinconie dei propri studenti e
incarnare il limite che essi non devono superare.
C’è un punto in cui l’educatore accetta la propria impotenza, esce dal
tribunale della storia e torna alla lavagna chinando il capo. Fu in seminario
che Lorenzo cominciò a capire come si dovrebbe sentire chi insegna agli
adolescenti difficili: un po’ sconfitto, un po’ vittorioso. Non significa forse
questo essere padri?
Suor Teresa
Benares, 2003
Se quel qualcuno avesse almeno una dottrina più bella della nostra,
starei zitto. Ma la dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza
amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane.
Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti,
un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio.
E io dovrei farmi battere da così poco? Io che ho una dottrina che pare
fatta apposta per incendiare un cuore di giovane. Una dottrina che per
secoli ha portato migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti.
Il fatto resta e cioè che son compromesso col governo e col Baffi. Al
governo gli ho dato il voto. Ho proibito dall’altare di dare il voto a altri.
Ho proibito di leggere i giornali che lo criticano. E il governo che io ho
così sorretto, non platonicamente, ma in concreto, il governo s’è lasciato
legare mani e piedi dal Baffi e da quelli con lui.
Il governo s’è alleato col Faraone contro Babilonia. L’ha stimato
prudenza. Ed io ho taciuto. Non mi son fatto buttar nel pozzo, come
Geremia. Anzi ho avuto onore dal governo e aiuto d’ogni genere.
Ecco qual è il muro che mi impedisce di andare incontro al povero e
additargli la Croce. Se lo facessi suonerebbe come un orribile scherno.
Cosa intendeva il priore con povertà? Non solo quella economica, bensì
la mancanza delle parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza.
Chi non sa esprimersi non può nemmeno pensare, vivrà sempre nel
degrado, rischiando il cinismo, la volgarità, l’egoismo, l’indifferenza. Il
cristianesimo di don Milani s’identifica con la sua missione pedagogica:
fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le loro esistenze affinché
possano dare nuovi e buoni frutti. Per un religioso significa accompagnare
e partecipare alla creazione di Dio. Per chi non crede vuol dire realizzare
appieno la propria umanità favorendo quella altrui. Si può essere “povero
di spirito”, nell’accezione strettamente evangelica, conquistando la
dimensione integrale del pensiero-azione, mai sconnesso, né frantumato:
giudici dei propri istinti, responsabili dei propri sogni, consapevoli del
marchio a fuoco che Caino ha lasciato nei nostri cuori, ma pronti ad
affrontarlo in noi e nel prossimo come una pietra dello scandalo. Una
dimensione inadeguata alla conoscenza esclusivamente intellettuale che
sedimenta l’illusione di poter attingere ai tesori della sapienza, della
bellezza, perfino della sanità, senza bruciarsi davvero le mani. Un’ipotesi
vale l’altra.
Resti con Maresco qualche minuto mentre Aldo va a comprare i panini col
prosciutto. Si vede che con la mente il vecchio orfano sta tornando a quegli
anni lontani. Vorresti strappare la sua memoria dalla corteccia cerebrale
prima che si disperda. Sei destinato alla sconfitta. Non riuscirai mai a
sapere ciò che brami.
Facciamo un solo esempio. L’uomo che hai di fronte, al tempo in cui era
emigrato a Milano, andava a lezione di matematica da Carla Sborgia, la
mitica fidanzata di Lorenzo! Te lo dice lui stesso, come se niente fosse,
davanti alla macchina prima di tornare a Calenzano.
Tu sei l’assetato nel deserto. Il vecchio scolaro lascia cadere solo poche
gocce.
«Com’era?»
«Chi?»
«La professoressa.»
«Brava.»
«E poi?»
«Simpatica.»
Subito cambia discorso. Ti racconta di un maniscalco, bestemmiatore
come pochi, che abitava in una casa là dietro, col quale don Lorenzo fece
amicizia. Una delle vecchie storie che fanno parte della Leggenda Aurea.
L’operaio parlava volentieri con il giovane prete, senza riuscire a trattenere
qualche imprecazione. Secondo don Lorenzo era il più cattolico di tutti,
altrimenti non se la sarebbe presa così tanto con Nostro Signore.
Maresco sogghigna soddisfatto. E Carla Sborgia resta avvolta nel
mistero.
Città degli angeli
Città del Messico, 2010
Così, avrebbe detto Günther Anders – che don Lorenzo ben conosceva in
quanto appassionato lettore, insieme ai suoi ragazzi, del carteggio da lui
intrecciato con Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima –, i terreni diventano
sacri: per iniziativa di un uomo solo, aggiungi tu, anche pensando a José
Luis Corzo che su questo tema nei libri dedicati al priore ha ben riflettuto.
Dopo la morte di don Daniele Pugi, avvenuta il 12 settembre 1954,
sarebbe stato logico che il giovane cappellano fosse chiamato a sostituirlo: i
parrocchiani gli volevano bene, la sua scuola era diventata un punto di
riferimento essenziale per tutto il comprensorio. Ma il vicario generale
dell’arcidiocesi fiorentina, monsignor Mario Tirapani, con l’approvazione
del cardinale Elia Dalla Costa, decise altrimenti. Quella testa calda, che già
in seminario aveva fatto parlare di sé, andava messa da parte, dove non
potesse nuocere. In mezzo alle galline.
Il 7 dicembre don Milani arrivò quassù insieme a Giulia Lastrucci e Eda
Pelegatti, madre e figlia, che erano già state le governanti del prete a
Calenzano e non avevano voluto abbandonarlo. Due donne indimenticabili,
oggi sepolte accanto a lui. Chi dava da mangiare a tutti quando arrivavano
fin qui? Chi andava a riprendere quelli che scappavano nei boschi? Chi
sapeva davvero ciò che accadeva lì dalla mattina alla sera?
Superi il ponticello di fronte alla Casa del Prosciutto, talmente stretto da
costringere la municipalità a prevedere un semaforo che possa alternare i
sensi di marcia per le automobili. Svolti a destra e premi sul pedale
dell’acceleratore. Piove. Si vede poco. È molto umido. Pur essendo il primo
pomeriggio, sembra già notte. Ti sei lasciato dietro in un battibaleno la
piazza di Vicchio, con la statua di Giotto, la strada comunale, la sbarra del
passaggio a livello.
Guidi verso le pendici appenniniche. Da qui Barbiana è a un tiro di
schioppo, ma un tempo la strada asfaltata in salita che hai appena imboccato
non esisteva. Il colle era isolato, senza acqua corrente, né luce elettrica, né
telefono. In certi tratti ancora adesso si va su in prima. All’altezza di
Padiluvo, due o tre case che ospitavano una pluriclasse elementare, dalla
prima alla quinta, frequentata un giorno sì e l’altro no dai bambini cresciuti
nei paraggi, la foschia si dirada. In questo punto preciso il priore disse una
volta a Adele Corradi:
Quasi a conferma, subito dopo una curva, compare il cielo inatteso del
Mugello: una pelle scorticata fra i monti rossicci che ad Anna Maria Ortese,
venuta il giorno di Natale del 1958, sfruttando un passaggio che le diedero
gli amici di Calenzano, fece pensare alla Russia. Quando per la prima volta
si trovò di fronte quel prete di cui aveva tanto sentito parlare, restò
sconcertata:
“L’impressione che dava, malgrado la bontà del viso, un po’ attento, ma
solo un poco, e fermo come niente lo potesse abbassare, era di disprezzo.
Non per me, e per nessuno in particolare, ma per qualcosa che a me e a
molti altri era ignoto.”
Caro Marcello,
ieri ho trattato male quei poveri ragazzi, ma cinque minuti dopo m’ero
già accorto d’aver sbagliato destinatari.
I ragazzi son dei poveri ingannati. La colpa è vostra. I ragazzi di qui
sono stati unanimi in questo giudizio. Quella non è una scuola, è una
pubblica piazza. Ognuno tira per la sua strada disinteressandosi del
prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un
errore. La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo
nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i
mezzi della democrazia.
Non tutti gli ex scolari del priore infatti lo ricordano con simpatia: questo
rappresenta il prezzo da pagare per chi fa sul serio. Illudersi di poter piacere
a chiunque è umano. Credere nella mediazione incessante anche. Ma arriva
il momento in cui devi accettare le scorie, prenderti in carico le perfidie,
mettere in conto le infedeltà. Così comincia il vero viaggio. Altrimenti fai
soltanto turismo culturale.
Torni fuori, in mezzo al gruppetto in attesa. Osservi il pergolato dove si
teneva lezione i giorni di bel tempo, la piscina fatta costruire a uso dei
piccoli montanari; dai un’occhiata alla zona esterna, visiti le tombe, percorri
il cosiddetto “viale della Costituzione”, coi cartelloni che illustrano i
principali articoli; arrivi fino al ponte di Luciano, attraversato tutte le
mattine da un bambino che camminava un’ora e mezza nel bosco pur di
sedersi accanto ai compagni.
Cose viste e riviste, lette e rilette. Trucioli di utopie che appassionarono
più d’una generazione. Ricordi la sorpresa di Pietro Ingrao per l’attacco
che, come tutti quelli che si presentavano, anche lui ricevette dai ragazzi
manovrati dal maestro; la mortificazione subita da Gigi Ghirotti, grande
giornalista e amico di Mario Rigoni Stern che gli aveva dedicato Storia di
Tönle, vittima poi dello stesso male che fu fatale al priore, quando venne
accusato di essere un venduto; la stupefazione di Giorgio Bocca, salito fin
qui dopo la morte di don Lorenzo per trasmettere la notizia che Lettera a
una professoressa aveva vinto un premio letterario. Ripensi alla piena
sintonia con Erich Fromm, che avrebbe voluto incontrarlo; Ignazio Silone,
che ritrovava i suoi cafoni nei volti dei poveri mugellesi; Elémire Zolla,
pronto a sottolineare il rapporto fra il parroco di Sant’Andrea e quello
rievocato da Silvio D’Arzo in Casa d’altri.
A Barbiana non c’era un tempo-scuola. Tutto si legava dentro la vita del
maestro e dei suoi piccoli allievi. Non bisogna credere che fosse una
semplice didattica. Si trattava piuttosto di un nuovo modo di vivere, nel
segno dell’unità spirituale prima ancora che nel sogno del riscatto sociale.
Don Lorenzo non si neutralizzava negli altri ma richiamava su di sé
l’attenzione. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando
lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt; sperimentare,
finché possibile, una vita nascosta, secondo il modello del falegname di
Nazareth, come Charles de Foucauld, una cui foto aveva attaccato alla
parete di Barbiana, lo esaltava. Era come se ci dicesse: guardate cosa sto
facendo di me stesso! Provateci anche voi. Non chinate la testa ma guardate
in faccia il vostro interlocutore.
Appena arrivò, liberò il contadino del prete, abituato a versare in
canonica il grano, l’olio, le patate, la legna e le castagne, dalla sua
condizione di mezzadro: «Tu prenderai l’ottanta per cento di quanto
raccogli. A me darai ciò che ti resta».
Il beneficiato fu il primo a considerarlo pazzo, senza intuire che il
benefattore con lui s’arricchiva.
Come aveva fatto a Calenzano, andò a cercarsi gli allievi nelle spelonche
dove abitavano. Convinse i genitori a farli venire in canonica a studiare.
All’inizio ideò un doposcuola serale aperto agli adulti. In seguito si
concentrò sui più piccoli. Portò le bombole col gas. Superò la diffidenza dei
primi tempi, quando non si capiva perché un prete così, un intellettuale,
fosse stato spedito lassù. Girarono voci di una sua presunta omosessualità.
Vecchie storie di poveracci in malafede. False insinuazioni di cui don
Lorenzo era ben consapevole; basta leggere una delle sue ultime
filastrocche, Orfano (dedicata ai preti novelli), compresa in “Perché mi hai
chiamato?”: con potenza espressiva di icastico rilievo, dopo aver evocato il
sentimento filiale fra l’educatore cristiano e il bambino abbandonato,
immagina che quest’ultimo trattenga a stento in sé lo stupido pettegolezzo:
Rammenta l’uso dei gas da parte italiana nella guerra contro l’Etiopia.
Spiega che ubbidire non è una virtù, visto che a Norimberga e
Gerusalemme erano stati giustamente condannati proprio i più solerti
esecutori delle stragi naziste. Definisce il duplice impegno dell’educatore:
formare il senso della legalità e la coscienza politica, il che significa stare
sempre sul filo del rasoio. Cioè essere un profeta:
Indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare
domani e che noi vediamo solo in confuso.
Combattere, con l’arma del voto, le leggi ingiuste. Addestrare alla pace.
Preparare al futuro.
Parole che suscitarono reazioni d’ogni tipo. Arrivarono insulti, offese,
encomi, minacce, applausi. Aldo Capitini, che ben conosceva l’autore e,
cinque anni prima, gli aveva fatto visita a Barbiana, avrebbe voluto
promuovere una manifestazione di solidarietà, ma don Milani lo fermò
prima che ciò accadesse.
Giunsero anche vere richieste di comprensione, sincere e profonde
domande sul senso che dobbiamo dare alla nostra vita, come la lettera di
Nadia Neri, che hai già avuto modo di citare, alla quale stava rispondendo
Carla (14 anni) perché don Lorenzo sembrava non potesse nemmeno alzarsi
dalla brandina. In uno sforzo estremo ci riuscì e scrisse:
Sulle rive del Volga, dove nel 1943 i cannoni fecero scempio dei corpi, gira
la ruota di un piccolo luna park, patetico nella sua lirica frenesia. Le luci
estive impreziosiscono i greti. Alcuni ragazzi fanno il bagno. Io, appoggiato
alle transenne che delimitano le giostre, lascio scorrere dentro di me le
schegge di qualche vecchia fonte storica.
“Se non prendo Groznyj” confidò Adolf Hitler ai suoi generali, in piedi
davanti alle mappe insieme a lui nella tana di Rastenburg, il bunker di
comando in terra prussiana, “ho perso la guerra.” I timori del Führer si
avverarono perché Stalin bloccò l’avanzata nazista nella città alla quale
aveva dato il proprio nome. Le armate tedesche, imprigionate nelle macerie,
non conquistarono mai i pozzi petroliferi del Caucaso.
Tanti anni dopo Groznyj è diventata il fronte interno più pericoloso della
Federazione russa guidata da Vladimir Putin. L’obiezione di coscienza, pur
essendo prevista dalla nuova Costituzione, spesso non viene riconosciuta,
specie se a farne richiesta sono le truppe di stanza in Cecenia.
Stalingrado, ribattezzata Volgograd da Nikita Chruščëv nel settembre del
1961, con le sue piazze vuote, i suoi edifici sovietici, il suo vecchio
panificio conservato come fosse un sito archeologico, è ancora una retrovia
di guerra. Stamattina sono stato nel cimitero di Rossoš, ho toccato gli
elmetti bucati dei soldati posti uno accanto all’altro sui tumuli, mi sono
fatto fotografare davanti alle tombe dei russi, dei tedeschi, cercando invano
quelle degli italiani. Ho visto le ossa dei morti appena dissotterrate perché
bisognose di una nuova sistemazione. Una donna stava riordinando il
materiale chissà quante volte trafugato. Accanto ai poveri resti umani,
c’erano reperti bellici: gavette arrugginite, pettini, rasoi, pugnali, cucchiai,
documenti, specchietti, bossoli, cinture, fibbie, borracce.
Un giovane tassista con gli occhialetti da intellettuale, Saša, al volante
della sua Fiat 131 beige, mi ha portato fino al Don. Giunto di fronte
all’imbarcadero dei traghetti, nei pressi delle trincee alpine, ho pensato alla
Julia. Abbiamo vagato nella steppa fino a smarrirci negli impervi sentieri
dell’antica madre Russia. Nella desolazione infinita ogni tanto spuntava
qualche vecchia che, pulendosi le mani con lo strofinaccio attaccato alla
gonna, ci indicava la giusta via. Finché, dopo diverse ore, siamo tornati
indietro.
Il tempo di fare una sosta in albergo, mangiare un panino e sono di
nuovo in corsa sulla Strada degli Eroi. Le ragazze di Volgograd, come
quelle riprese da François Truffaut, misurano il globo terrestre in ogni
direzione, ripristinando equilibri e armonie.
Mi dirigo verso l’altura del Mamajev Kurgan, punto cruciale della
battaglia, dove spicca la gigantesca statua di una donna che stringe la spada
chiamando a raccolta il popolo. Lì si riuniscono i soldati in licenza dalla
Cecenia. Ivan, l’obiettore, è uno di loro.
Sono io a definirlo così. Il giovane sta accanto a Igor, in visita al
monumento di cui tante volte avrà sentito parlare. Si è tolto la camicia
mimetica. Resta a petto nudo nel crepuscolo. Al collo porta una cordicella
con la croce ortodossa. Cresciuto in qualche campagna nella sterminata
terra russa, ha frequentato un corso di meccanica a Mosca. Fa caldo. È una
bella giornata di luglio. Il cielo comincia a rosseggiare sulla splendida
vincitrice.
Perché Ivan decise di arruolarsi? Doveva trovare subito un lavoro in
modo da non tornare a mani vuote dai genitori che avevano fatto non pochi
sacrifici per pagare i suoi studi. Ma questo non basta a spiegare la scelta
militare. Bisogna pensare alla febbre dell’adolescenza: il pulsare
dell’energia, la necessità di trovare un ordine allo scopo di placare la furia
del desiderio. Ci sarà qualcuno che, prima o poi, mi dovrà dire cosa dovrò
fare. Una volta, passeggiando nel parco Gorki, vide la festa dei
paracadutisti: i loro tatuaggi, insieme alle strisce azzurre delle magliette
aderenti sugli addominali scolpiti come bassorilievi, furono importanti
quasi quanto i rubli promessi in busta paga.
Gli chiedo se posso fotografarlo. Certo, lascia intendere a gesti. Si mette
accanto al suo amico come avrebbe fatto Bazarov con Arkadij, in Padri e
figli di Turgenev, anche se lui non è proprio un nichilista. Se diserterà, o
chiederà di essere dispensato dal servizio attivo, non lo farà in quanto
contrario all’autorità costituita, né per partito preso, ma solo in virtù dello
sguardo che sto cercando di fissare nel mio obiettivo. Una storia di laghi
ghiacciati non distanti dalla linea ferroviaria che attraversa il grande Paese
in cui è cresciuto: dalla finestra della cucina li ha visti sin da bambino come
ovatta in mezzo al bosco. Si sentiva soltanto l’abbaiare dei cani. Di notte, il
fischio della locomotiva. Il rantolare degli animali. La tosse secca del
nonno.
È questa la ragione per cui Ivan non potrà assomigliare alla statua del
combattente dietro di lui, quella specie di energumeno col mitra e le ali,
metà angelo metà guerriero, coi capelli spettinati di bronzo fuso, piantato
come una quercia di marmo nello stagno dei caduti. Non potrà mai essere
così indistruttibile nel leggendario tramonto di Volgograd. Rifiuterà di
uccidere i civili. I vecchi indifesi. Le donne e i bambini. Quelli non sono
banditi, penserà, nemmeno terroristi.
Entrare in una casa diroccata, a Groznyj, via Derbentskaya, per fare un
solo esempio, alla ricerca dei nemici, vedere le mutilazioni subite dagli
occupanti, lo strazio causato dai grossi calibri, le teste mozzate, quella non è
guerra. Cosa ha a che fare tutto questo con la decisione di spedire in
Cecenia l’esercito nazionale per impedire che l’ennesimo tassello si stacchi
dal sempre precario mosaico russo?
Ecco perché Ivan, seduto accanto a Igor nella scalinata gloriosa del
Mamajev Kurgan, diventerà antimilitarista. Affronterà la cella. Si appellerà
all’articolo 59.3 della Costituzione. Si lascerà andare a fondo nell’esistenza
come i sassi che lanciava da piccolo nei laghi vicino a casa. Vedrà coi suoi
occhi il prezzo della vittoria. Perderà per sempre il sorriso che ora mi
regala.
Il giorno glorioso
Firenze
Quanto sarebbe importante che uno spunto come questo tornasse a essere
posto al centro della riflessione sulla verifica della cosiddetta “qualità
scolastica”!
Sin dal primo giorno trascorso lassù, domenica 2 settembre 1963, festa
di san Michele, quando si trovò di fronte quel tipo che lei si aspettava
rustico e invece sembrava uscito da un salotto, ebbe l’impressione che gli
scolaretti al suo fianco recitassero una specie di breviario:
Adele vide coi suoi occhi che il prete di Barbiana stava facendo la vera
rivoluzione, non quelle fallite nel sangue del Novecento, che avrebbero
voluto cambiare i popoli tutti interi e finirono per assoggettarli quasi più di
quanto già non fossero, ma l’unica possibile, qui e ora, nel momento in cui
io, tu, lei, lui, noi, voi, loro decidiamo di assumere la responsabilità dello
sguardo altrui. Una disposizione pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale, ciò
che distingue l’uomo dall’animale.
Rispettare i codici non è stato, non è mai sufficiente a evitare le peggiori
nefandezze. Osservare i precetti etici non basta perché essi variano secondo
il momento storico e il luogo geografico. Essere ligi alla comunità cui
apparteniamo, in sé non vuol dire niente. Bisogna uscire dal mansionario.
Tenere presente il contesto in cui operiamo. Questo non ci trasformerà in
individui felici che corrono festosi verso il Sol dell’Avvenire. Non
diventeremo né santi, né eroi. E nemmeno ricchi possidenti. Al contrario,
dobbiamo sapere che lungo il percorso ci saranno momenti difficili, ci
faremo anche male. Nessuno che adotti questi criteri di comportamento può
sentirsi a posto. Tutti siamo pronti a contrapporci se veniamo colpiti, si
chiama legittima difesa, ma quanti fra noi sarebbero disposti a intervenire
se vedessero oltraggiato un principio in cui credono?
“Ascolti, bambina piccola piccola, nata ieri...”
Il priore si rivolgeva così a questa sua coetanea che adesso risponde
sicura alle mie sollecitazioni. Era andata a Barbiana incuriosita da un’amica
che le aveva parlato di quel prete capace di inventarsi una scuola tutta sua.
Adele insegnava in un istituto statale e trovava anche il tempo di aiutare
don Lorenzo. A lei l’espressione “tempo pieno” calza a pennello. Voleva
sapere come si fa a insegnare l’italiano. Ha imparato in quale modo
bisognerebbe vivere. Come quella volta che invitò le sue scolare su a
Barbiana per farle parlare del ballo che avrebbero voluto fare. Il priore,
dopo averle riunite, partì subito carico a mille, stroncando da par suo
l’iniziativa. Era, prima ancora che una predica di vecchio stampo, un modo
per renderle consapevoli di ciò che stavano facendo. La discussione che ne
seguì venne registrata e oggi possiamo leggerla in Don Lorenzo Milani.
Una lezione alla scuola di Barbiana.
Adele è svelta, concisa. Ha un sorriso dolcissimo e una notevole carica
umana. Capisce tutto al volo. Mentre discuti con lei, ritrovi, nelle sue
parole, molto di quello che ti ha colpito nel libro.
Gli scolari, sotto la guida del maestro, scrutavano le stelle. C’era da
svegliarsi presto per vedere Saturno con il telescopio. Adele dormiva nella
stanza dell’Eda. Non era ancora spuntata l’alba che Lorenzo,
incredibilmente arzillo, da sotto gridava: «Chi non si alza per vedere le
stelle non ama né la scuola né i ragazzi!».
Era vietato “far salotto” sprecando il tempo a disposizione.
Non voglio farmi condizionare dalla gente che mi gira intorno, come
certo è costretto a fare padre Balducci.
Caro Gosto,
ricevi tutto l’affetto ansioso e orgoglioso che un maestro può spedire a
uno scolaro che è in missione nel mondo a far del bene. Non mancare di
scrivere spesso e nutritamente ai tuoi per compensarli del sacrificio che
hanno fatto, e se appena t’avanza qualche soldo faglielo avere.
Caro Francuccio, profitto del fatto che stasera sto meglio per scriverti
io. Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso
ritornare al mio mondo e sabato far dire a Rino [ragazzo su cui il priore
aveva fatto grande affidamento, ma che a un tratto abbandonò la scuola per
tornare a fare la vita di paese, comparendo a Barbiana solo il sabato. Don
Lorenzo ne fu molto amareggiato]: “Il priore non riceve perché sta
ascoltando un disco”. Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo
anche scrivere sulla porta “I don’t care più”, ma invece me ne care ancora
molto, tanto più che domenica mattina quando avevo deciso di chiudere
ogni bottega (scolastica e parrocchiale), Dio m’ha mandato Ferruccio e
Enzo e una fila d’altri ragazzi di San Donato come per dire che devo
seguitare a amare le creature giorno per giorno come fanno le maestre e le
puttane. Stasera sono arrivate le bozze, 33 pagine delle nostre. Non sono
molte, ma sono già impaginate e quindi non ci dovrebbe voler molto. Un
abbraccio, tuo Lorenzo.
Questa storia delle maestre e delle puttane l’aveva recitata a memoria
dall’opera che stava andando in tipografia:
T’incammini verso l’ultima stazione del tuo viaggio sulle tracce di don
Milani. Un percorso che hai compiuto fuori e dentro te stesso ma che, come
spesso ti capita, solo ora comprendi fino a che punto fosse già stabilito.
Dovevi eseguire un compito che ti era stato assegnato nel momento stesso
in cui avveniva la combinazione chimica o cellulare, di queste cose non
t’intendi quindi non potresti meglio dire, da cui saresti scaturito. Certo è che
ognuno di noi s’interseca e s’impasta non solo con gli altri, ma deriva, lo
sappia o lo nasconda, lo intuisca o lo rimuova, dagli incroci e dalle
congiunzioni di una legge primaria sulla quale sarebbe pretestuoso
soffermarci troppo a indagare. Così ora tu senti che dietro questo libro
hanno pulsato come vene sotto sforzo il candore strozzato di tuo padre
abbandonato dal suo e di tua madre brava a scrivere i temi ma che riuscì a
ottenere soltanto la licenza elementare.
Lettera a una professoressa era il libro corale per anni soltanto
vagheggiato e adesso pronto per essere distribuito. L’arte collettiva di cui il
priore fantasticava insieme all’amico architetto Giovanni Michelucci. Il
manifesto contro la timidezza dei poveri. La lavagna dei montanari. Il
rendiconto da consegnare ai padroni. Il promemoria dei signorini. Un
segnale per i genitori, invitati a organizzarsi. Un richiamo per gli insegnanti
i quali, come l’interlocutrice principale, vorrebbero ancora oggi potersi
scegliere gli studenti migliori, che non danno problemi, quasi fossero
medici tesi a curare i sani, invece dei malati, o ingegneri capaci di
progettare soltanto su terreni sicuri.
Scarti le macchine parcheggiate in sosta vietata, rientri veloce sui
marciapiedi, superi a passo svelto le persone davanti a te, come se avessi un
impegno improrogabile da assolvere. Un affare decisivo da sbrigare. Una
missione dietro le linee nemiche da portare a compimento. Così in effetti
stai vivendo la giornata del capitolo conclusivo. Eppure con chiunque ti
confidassi, non riusciresti a spiegare la forza da cui prendi alimento.
Quante volte abbiamo letto Lettera a una professoressa? Un testo di cui
dovremmo saper tutto, ma che troppo spesso viene archiviato prima ancora
di essere compreso. Nominato senza citare la fonte. Sono pagine introiettate
nella coscienza comune che riemergono ogni tanto, qua e là, come speroni
di roccia, durante qualche discorso ufficiale di pedagoghi, politici e perfino
letterati. Macchie di petrolio in mare aperto. Corpi estranei.
Negli anni in cui tu stavi crescendo, passando dalle scuole medie alle
superiori, molte sue parti sono state gridate, sbranate, svilite, magnificate,
fraintese, dalla generazione dei tuoi fratelli maggiori. Le ascoltavi come
un’eco flebile venir su dalla casa in cui abitavi, in via Napoleone III , nel
quartiere Esquilino a Roma, dove transitavano i cortei degli anni Settanta,
mentre tu, che volevi fare lo scrittore, leggevi Conrad e Dostoevskij.
Oggi queste frasi hanno perso la carica eversiva che potevano avere un
tempo. Vengono rimasticate da chi le ha vissute sulla propria pelle come un
vecchio chewing gum e riprese dai più giovani alla maniera di nuovi adesivi
da attaccare al serbatoio del motorino. Chi avrebbe detto che, tanti anni
dopo, avresti aperto anche tu questo fascicolo impolverato? Don Milani
continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro
fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un
sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. Una tensione che stenta a
sciogliersi. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse
possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione.
Maestro, scrittore, politico, educatore.
Innanzitutto era un prete. Credeva in Gesù Cristo. Pensava che un
giorno, chissà quando, chissà come, tutti risorgeremo.
Vuoi vedere coi tuoi occhi il luogo preciso in cui morì. Correndo verso la
casa della madre che, dopo essergli stata sempre vicina, soprattutto quando
non lo capiva e neppure lo condivideva, infine lo accolse, cerchi altre
definizioni che potrebbero meglio rappresentare il testo finale. Ne deriva
una specie di monologo interiore che presto assume la forma dello
zibaldone.
Consuntivo delle occasioni sprecate: i libri che Gianni non leggerà mai,
le lettere che non riuscirà a scrivere.
Dove i sedicenni fanno scuola ai più piccoli.
Senza l’ossessione del tempo scandito dalle otto alle quattordici. Né la
bidella che entra per leggere le circolari: domani assemblea. Sottotesto: non
si viene a scuola. Tutti contenti: studenti e professori. Così l’ipocrisia
trionfa.
Il priore sognava un’altra scuola.
Il maestro guarda negli occhi chi lo ascolta. Dice cose in cui crede, non
quelle che convengono a lui o a chissà chi, fossero la Chiesa, il partito, il
programma da svolgere o i test da superare.
Un posto dove il problema di uno diventa quello di tutti.
Il registro delle presenze e delle assenze non c’è. Le note disciplinari
sarebbero inconcepibili.
Si fanno soltanto domande legittime, non quelle, a tradimento, che non si
dovrebbero porre.
Senza trappole. Senza inganni. Senza classi. Senza voti.
Uno a uno.
Esisterà mai una scuola così? Forse no, ma almeno lasciatecela
immaginare.
Perché è chiaro che se io, docente di ruolo, sono quello che giudica, ho
sempre il coltello dalla parte del manico. Nascondo le carte che estraggo
all’improvviso per metterti alla prova e, segretamente, farti vedere quanto
sono bravo. Vincerò di sicuro. E tu perderai sempre.
Il segreto è quello di Pulcinella: le lingue sono i poveri a crearle e poi le
rinnovano all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non
parla come loro. O per bocciare gli studenti. O per sfruttare gli operai. Noi
qui ’un si fa trabocchetti mettendo nei questionari, antesignani dei test a
risposta multipla, in stile quiz della patente, più difficoltà di quelle che ci
sono nella vita, anche perché saper dire “gufi, ciottoli e ventagli” non serve
per imparare a chiedere dov’è il gabinetto.
Ti posso dire come bisogna essere a scuola, non certo cosa fare in aula.
Ti do uno stimolo. Tu t’immedesimi in ciò che ho sognato, poi devi agire di
testa tua. Da ragazzo sei riuscito a sopravvivere per anni l’intero
pomeriggio da solo a casa pensando a Robinson Crusoe. Ora potresti
realizzare una scuola a tempo pieno simile a quella preconizzata da me:
due insegnanti, marito e moglie, che avessero una casa aperta a tutti e
senza orario.
Sei quasi arrivato in prossimità dello stabile, che riconosci già da lontano
avendolo visto in fotografia su Google. Abib è rimasto qualche isolato più
indietro. Alla tua sinistra c’è un negozio di attrezzi ginnici: Universo Sport,
running e altro. Pare che ormai, a tutti noi, interessi la cultura fisica. Per
allontanare il dolore, la vecchiaia, la morte, usiamo le creme idratanti.
Mettiamo la testa sott’acqua senza pensare a ciò che inevitabilmente
accadrà. Corriamo almeno quaranta minuti, mattino, pomeriggio o sera, un
giorno sì, un giorno no, per recuperare e non affaticare troppo i muscoli.
Fare in modo che l’acido lattico si riassorba. Abbiamo bisogno delle
endorfine pronte a scatenarsi quando, dopo la doccia, ci mettiamo in
poltrona a bere il succo di frutta per reintegrare i sali minerali.
L’edificio, evidentemente ristrutturato, si distingue subito: a due piani,
sobrio, elegante in mezzo alle altre più recenti palazzine. Ti avvicini.
Fotografi la targa fatta apporre dal Comune. Annoti due o tre pensieri.
«Era questa la casa?» ti chiede Abib passando oltre.
Gli fai cenno di sì e lo saluti con la mano. Vai, vai! Porta in salvo tutti
noi!
In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna,
nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’essere
fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il
meglio dell’umanità.
Il ricco signorino si preparava a entrare nel Regno dei Cieli. Ma ciò che
davvero sembrava stargli a cuore era dimostrare a quei ragazzi che si
trattava di un’impresa compiuta a caro prezzo.
Al cardinale Florit glielo aveva detto in faccia, qualche giorno prima di
ricevere la sua famigerata lettera, in ospedale:
“Lo sapete, eminenza, che differenza c’è fra me e lei? Io sono avanti di
cinquant’anni.”
I miei preti
Roma, 2014
Me ne vado in giro per Roma alla ricerca di una nuova sede della Penny
Wirton, la nostra scuola di lingua italiana per immigrati.
Per sei anni siamo stati ospiti dei gesuiti nella chiesa di San Saba,
all’Aventino, i quali, grazie a padre Stefano, ci hanno concesso l’uso di
quattro grandi locali al pianterreno dell’edificio dove abitano. Ora
dobbiamo sloggiare perché questi ambienti verranno ristrutturati, in vista
della loro trasformazione in un “filosofato”. Così mi dice padre Massimo, il
nuovo parroco. Sopra di lui il ritratto fotografico di Papa Francesco sorride
ironico; poche settimane prima si era espresso così: “A cosa servono alla
Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo
e i rifugiati sono la carne di Cristo”. È lo stesso pontefice che, nel discorso
del 19 maggio 2014, rivolto al mondo della scuola, ha citato don Milani
come modello essenziale.
Inforco lo scooter e mi dirigo subito verso le chiese adiacenti: la prima è
Santa Prisca. Un mendicante seduto all’ingresso indica il parroco. Don
Antonio ha l’aria indaffarata, gli occhialetti da miope, lo sguardo franco.
Gli espongo la nostra necessità logistica: due ore di pomeriggio, martedì e
mercoledì. Mi risponde che non è possibile. Hanno già molte attività in
corso d’opera. Ringrazio e passo oltre. È il turno della chiesa di Santa
Marcella. Nel sotterraneo dell’edificio c’è un grande ambiente vuoto, ma
padre Rafael non lo ritiene adatto allo scopo. Passano i giorni e l’emergenza
cresce. Dove sistemerò tutti i ragazzi che vengono da noi? Una volontaria
mi mette in rapporto con don Guido, titolare della chiesa di San Gregorio
Barbarigo al Laurentino, vicino alla fermata della metropolitana. Arrivo
dieci minuti prima dell’appuntamento. Ne approfitto per dare un’occhiata al
palazzo diocesano: due piani di aule attrezzate con banchi, lavagne e sedie.
Scendo, attraverso il piazzale ed entro in canonica. Il cappellano mi
presenta al parroco: giovane, tracagnotto. Gli regalo una copia di un mio
libro su Dietrich Bonhoeffer. Mi bastano pochi secondi per capire che sto
perdendo tempo. Don Guido ritiene sia preferibile soprassedere alla nostra
richiesta. «Faccio un’opera di discernimento» dice. «Sono già in
programma tante iniziative: yoga per anziani, corsi di danza, musica,
ginnastica, lezioni di inglese; senza pensare al catechismo.» Più o meno la
medesima risposta che, qualche mese fa, mi diede fra Corrado, economo
francescano di via del Serafico, qua vicino. Uguale a quella di don Mario,
che dirige le operazioni nella chiesa del Buon Pastore alla Montagnola.
Quando esco scambio due chiacchiere col fioraio bengalese.
«Da dove vieni?»
«Dacca.»
«Ti piacerebbe imparare l’italiano?»
«Io no parlo beni. Voio scrive.»
Proseguo verso via del Gazometro dove c’è la chiesa di San Benedetto.
Don Fabio mi accompagna nella sua biblioteca col sigaro in bocca. Nella
stanza accanto, tre donne stanno preparando i volantini per la prossima
recita. Lui fuma e ascolta. Ormai conosco il copione a memoria. Ma il
risultato non cambia. Stavolta però il parroco mi fa un’offerta preziosa.
Nello scantinato ci sono degli ambienti da ripulire.
«Se li ristrutturate» dichiara, «potrei darveli in comodato d’uso per uno o
due anni.»
Andiamo a vederli. Due vecchie aule dalle pareti scalcinate e tanta
umidità. A occhio, per renderle agibili ci vorrebbero migliaia di euro.
«Bisognerebbe fare anche una bella derattizzazione» aggiunge il
religioso.
Grazie ad alcuni amici riesco a contattare i passionisti. Ci convocano
nella loro sede prestigiosa accanto a Villa Celimontana. Uno stabile antico
di lunghi corridoi ricoperti di quadri, sale immense, aule deserte. Arriva don
Andrea, smilzo, educato, gentilissimo. Ascolta con attenzione quello che gli
chiediamo: un locale per insegnare l’italiano ai ragazzi stranieri, senza
pagare affitti, sia chiaro. Noi lo facciamo gratis. Poche ore a settimana. La
sua risposta è molto circostanziata, ma ho dimenticato le frasi principali.
Ricordo soltanto un concetto:
“Dobbiamo mantenere la privacy e rispettare gli equilibri.”
A due passi da lì, appena dopo l’ingresso del giardino pubblico, il
Comune, per commemorare il naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di
Lampedusa nel quale morirono 366 persone, oltre a venti dispersi mai
ritrovati, ha posto una targa: “Largo Vittime di Tutte le Migrazioni”.
Ho capito che le case generalizie degli ordini religiosi sono inadatte a
ospitarci. Ho visitato quelle dei comboniani, dei giuseppini, dei trinitaristi.
Residenze di lusso. Prati fioriti con innaffiatoi automatici. Centralinisti
efficienti pronti a smistare le chiamate. Cancelli, feritoie, fortini.
Sono stato anche dai salesiani, ma don Giorgio, al Testaccio, mi ha
dirottato dalle suore della Divina Provvidenza, le cui case tuttavia, sparse
nel territorio urbano, avrebbero bisogno di opere di consolidamento. Suor
Giuseppina, sia benedetta l’anima sua, ha mostrato attenzione alle nostre
necessità. Purtroppo lo spazio didattico disponibile, in piazza Monte San
Gennaro, a Montesacro, è troppo piccolo per noi.
Decido di afferrare il toro per le corna. Mi rivolgo al vescovo di Roma
centro, Matteo Zuppi: alto, segaligno, simpaticissimo, il quale vuole
risolvere il nostro problema. È del 1957: un anno più giovane di me. Mi dà
appuntamento davanti alla chiesa di Sant’Andrea, vicino a piazza Navona.
Entriamo in una stanzetta e cominciano le telefonate. Prima i marianisti di
viale Manzoni: niente. Poi i verbiti della Piramide: zero carbonella. Il dito
del vescovo scorre veloce sui contatti del cellulare. Le chiamate si
moltiplicano. Mentre lui parla, ogni tanto spunta qualcuno a cercarlo. Fa il
giro di tutte le parrocchie sotto la sua giurisdizione. Fra un rifiuto e l’altro
mi sorride. Gli batto una mano sulla spalla.
Alla fine tiriamo su la rete con due pesciolini: la chiesa di San Vito
all’Esquilino, nei cui pressi sono nato e cresciuto e la chiesa di Madonna ai
Monti, alla Suburra, dove mio padre, negli anni di guerra, andava a
mangiare “dar bujaccaro”.
Parto in tromba con la sua benedizione. Don Pasquale, in via Carlo
Alberto, vorrebbe tanto aiutarci ma la stanza di cui dispone è davvero
minuscola. Inoltre lui deve accudire la sua vecchia madre che peraltro ha gli
stessi anni della mia, chissà magari si saranno perfino incontrate al mercato
di piazza Vittorio all’aperto quando erano più giovani, quindi non viene
fuori niente. Ormai ci ho fatto il callo. Così quando arrivo di fronte a don
Francesco, l’ultimo dei miei preti, dalle parti di via dei Serpenti, prima
ancora di esprimermi, gli chiedo quali siano stati i suoi punti di riferimento.
Lui risponde secco:
«Paolo VI .»
«E poi?»
«Te ne dovrei citare due.»
«Coraggio.»
«Don Primo Mazzolari e don Milani.»
A quel punto, anche se l’ambiente di cui dispone mi sembra inadeguato e
non potremo usufruirne, lo abbraccio riconoscente. Amo credere che il
priore, nascosto dietro di noi, lasci scorrere i titoli di coda.
Bibliografia
www.librimondadori.it
COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: NADIA MORELLI | RITRATTO DI DON MILANI FOTO © OLYCOM
«L’AUTORE» || FOTO © GILIOLA CHISTÈ