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CARATTERI GENERALI

1. Un fenomeno universale

Homo monaticus: convinzione che sia UNIVERSALE la RICERCA DELL’IO profondo e dell’ASSOLUTO, da

realizzare con l’ASCESI; molte società si ispirano al fenomeno socio-religioso del monachesimo. Perciò ne

esistono molti: monaci evangelizzati, battezzatori, oranti, sapienti, penitenti, missionari, predicatori e

persino guerrieri; con varie forme: misticismo asociale, filantropia organizzata, raccoglimento solipsistico,

comunità oziose e contemplative improntate sul lavoro attivo o sullo studio, più o meno impegno

ecclesiale.

Eppure emerge e compare anche uno statuto: un gruppo che si è staccato dal gruppo sociale avendo come

scopo primario della sua condizione non quello di offrire un servizio agli altri, ma di perseguire il PROPRIO

PERFEZIONAMENTO, applicandosi a: 1) esercizi spirituali; 2) pratiche ascetiche. Questo implica che essi

siano in qualche modo una élites, fuori dal gruppo oppure, a volte, contro il gruppo. nonostante siano

previsti dei RITI di CONSACRAZIONE o “PROFESSIONE”, mantengono un CARATTERE LAICO; questo stesso

statuto li distingue da ogni figura religiosa. Tuttavia, poiché sono portatori del sacro, da un lato tendono ad

assumere privilegi e funzioni dell’ORDINE SACERDOTALE, dall’altro quest’ultimo ha sempre cercato di

sottometterli o integrarli a sé.

La SEPARAZIONE dalla SOCIETA’  SOLITUDINE INDIVIDUALE

La separazione del mondo si può tradurre in due modi:

1) EREMITA/ANACORETISMO  che può essere STABILE oppure ERRANTE, quest’ultimo è molto

spesso anche mendicante (peregrinatio);

2) COMUNITA’/CENOBITISMO  lontane dall’aggregato sociale, spesso in CLAUSTRAZIONE (clausura);

l’organizzazione comunitaria si può affidare ad una regola, scritta o presa dalla tradizione, e

governata da un capo a cui gli altri sono legati da rapporti di autorità, prestigio e maestranza.

3) FORME AFFINI O INTERMEDIE

2. Ascetismo e monachesimo

L’ASCESI ha un ruolo essenziale: è il RIFIUTO della “realtà com’è” e riversa la personalità ad una

DIMENSIONE DIVERSA, più alta e perfetta. Essa tende a combaciare, dunque, con il monachesimo; in effetti

sembra rifarsi all’idea cristiana di VISIONE DUALISTICA ANIMA, che aspira alla perfezione e CORPO, che
ostacola il cammino. In questi termini l’ascesi è un complesso di esercizi suscitati dallo sforzo ordinato delle

VOLONTA’ per dominare le pulsioni passionali, per questo esistono molte forme di ascesi: stiliti, acemeti,

ascesi mortificatoria, ascesi mistica, ascesi estetica.

Anche il mondo PAGANO apprezzò le pratiche ascetiche:

- Santuari della Grecia (astinenza e digiuno)

- Culti egiziani, siriaci e persiani (anche mutilazione)

- Pitagorismo, neopitagorismo, platonismo e neoplatonismo, stoicismo, epicureismo

- Il nuovo testamento nei vangeli sinottici esortano alle virtù, la sofferenza per Dio e la rinuncia, il

combattimento spirituale, la lotta alla carne, al sangue e al male

- Antichi scrittori cristiani come Clemente e Origene; vi è una componente ascetica della dottrina

evangelica: contemplazione come pratica cristiana, la verginità, il digiuno, l’austerità corporale

- Scritti monastici: la Vita di Antonio, Storia Lausiaca, Historia monachorum; rimandano all’ascesi per

la perfezione, contro i bisogni del corpo e le passioni dell’animo, eroismo penitenziario.

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Insomma, la severità degli antichi costumi monastici è attestata anche dalle prime REGOLE (Agostino,

Benedetto) che esaltano il loro fondamento ascetico: viene impressa la più dura rinuncia, quella

ANACORETICA, cioè l’abbandono completo della famiglia e il distacco della società:

3. Fuga dal mondo

Il RIFIUTO è del CONTESTO CULTURALE, che appare come il complesso di forze ostili e resistenze da cui

sottrarsi. Il più complesso è quello del Buddismo, poiché il distacco richiesto è mentale, non importa che ci

si stacchi materialmente: diventare un ARHAT, cioè un uomo DEGNO, che ha conseguito lo stadio più alto

del NIRVANA, la condizione di beatitudine che segue all’estinzione del desiderio.

Il SENTIRSI STRANIERI DEL MONDO fu sentimento proprio degli antichi cristiani: nel MONACHESIMO si

tramutò in REALE ABBANDONO della società e RIFIUTO DELL’INTEGRAZIONE SOCIALE, ricerca della

SOLITUDINE. Si devono a san Gerolamo le espressioni più insistenti di questo ideale della XENITEIA

MONASTICA: moncao, dal greco “monos”  obbligo della Solitudine. La SEPARAZIONE è fondamentale,

ineludibile obbligo del monaco. Un’idea che c’è anche nella Bibbia: Giovanni Battista, Elia, Eliseo, Abramo;
ad es. nella Genesi: lasciare la terra e migrare verso la terra promessa ad Abramo. FAMIGLIA, PATRIA E

SOCIETA’ NON sono VALORI ASSOLUTI e DURATURI: diviene un’istanza antisecolare; il monaco è conscio

della propria diversità dall’insieme del popolo cristiano.

Spesso legato all’ATTESA APOCALITTICO, della seconda venuta di Cristo (parousia): CONTEMPTUS MUNDI è

legato al FINIS MUNDI, elementi cari anche alla cultura classica, Seneca il Vecchio e Lucrezio. Alla

descrizione del senescente e prossimo alla fine gli scrittori monastici invitarono a fuggirne le seduzioni e gli

impegni.

4. Le motivazioni

Alle fondamenta dell’espressione monastica, in qualunque contesto, un motivo appare comune a tutte le

tradizioni: l’ASPIRAZIONE a favorire una particolare relazione con l’ALDILA’ dell’Uomo, come sia concepito,

Dio, divino, assoluto, trascendente, mondo degli spiriti. I mezzi per ottenere questo rapporto spirituale

sono diversi: la PREGHIERA, la MEDITAZIONE, l’ILLUMINAZIONE, il NIRVANA, l’ESTASI, la TRANCE. A volte

legati anche a “chiamate”, il fine ultimo rimane l’IMITAZIONE CHRISTI, la volontà di seguire l’insegnamento

di Cristo (sequela Christi), che è modello supremo di vita virtuosa. Nel proposito monastico è totalizzante il

legame appunto tra sequela di Cristo e RIFIUTO DEL MONDO.

Nel proposito monastico e totalizzante l'idea del rifiuto del mondo e della sequela di Cristo, ovvero

quel farsi partecipe con la sofferenza dei patimenti di Cristo. Per questo esistono i tre voti: povertà,

castità e obbedienza, ai quali si aggiunge il vivere sociale nelle e delle comunità monastiche che

quindi si traduce in un aspirazione alla vita comunitaria e alla fraternità. Oltre ovviamente alle altre

motivazioni religiose ve ne sono altre che variano al variare del contesto sociale del momento

storico e vengono influenzate certamente dal tipo di civiltà e cultura: ad esempio il monachesimo

Cristiano preso forma tra il III e il IV secolo In momenti di grande trasformazione della società

antica, e per motivi di carattere politico economico e sociale: gli anacoreti cristiani erano infatti

spesso debitori insolventi, curiali inadempienti, fuorilegge, perseguitati politici e dei ricercati.

Spesso la miseria, la violenza, la convenienza sociale hanno spinto e alimentato il monachesimo:

masse che scappavano alla fame, alle guerre o anche monacazioni forzate come è stato in un

certo senso il monachesimo femminile in uso nella aristocrazia Europea.

Il cenobio è sempre stato connesso all'idea di rifugio e all'idea di eremo monastico che accoglie I
naufraghi della nave in balia del mondo mortale daremo monastico ha Infatti un porto sicuro Nobile

tranquillo porto della vita una sorta di Locus amoenus

5 il cenobio come rifugio → monastero stato storicamente un'effettiva riparo da emergenze

avverse o dai drammi storici erano quindi degli sbarramenti nelle prime regole monastiche che

opponevano all'ingresso del cenobio come ad esempio nella regola di San Benedetto quella dei

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Santi padri si cercava di capire se il postulante era veramente alla ricerca di Dio anche perché la

radicalità dei mutamenti della vita e l'irreversibilità erano delle richieste della condizione monastica

punto monastero non è un'alternativa alle difficoltà esterne anche se non pochi monasteri svolgere

funzioni di asilo per gli oppressi e i profughi Ad esempio la storia monastica della Sicilia e della

Sardegna si intrecciarono di sicuro con le vicende dei profughi dell'Africa vandala, Ovviamente

alcune comunità si aprirono ad accogliere profughi di vario tipo due punti uomini stanchi

soverchiati dalle difficoltà della società e minacciati.

il monastero è stato anche luogo di relegazione forzata è vera cattività: spesso ospita sovrani

deposti virgola dignitari di corte esautorati, vescovi estromessi, eclesiastici incolpati di varie

mancanze gravi; è stato spesso un'opportuna soluzione di compromesso politico rispetto al

carcere alla morte per personaggi noti o accompagnata accompagnati dal favore del Popolo. così

ad esempio i sovrani merovingi se funzionavano i monasteri per poi utilizzarli per relegare per

stare scomodi o familiare I ribelli: erano delle vere e proprie condanne.

la storia ecclesiastica registra anche episodi di personaggi celebri che dopo essersi scontrati col

potere politico nelle lotte tra le chiese, pagano con la realizzazione forzata: più volte un monastero

si assunse il carico di accogliere il teologo bollato di blasfemia.

6. L’ammissione: anche quella monastica spesso assume le forme dell' iniziazione: si sviluppa per

gradi e viene contenuta in una durata prefissata, concepita come periodo di noviziato, inaugurato

concluso da cerimonia che si ispirano ad un simbolismo nuziale: è l'annuncio della trasformazione

in un uomo “ nuovo”.

Rita tripartito:
a. separazione, cioè il distacco dalla vita che ha finora vissuto

b. liminità, periodo della preparazione, in cui vive al confine tra vecchio e nuovo, ed è il vero

periodo di prova che saggia la degnità alla aggregazione

c. rito di ingresso, sancisce il definitivo passaggio alla nuova condizione ed identità: in

questa fase vi è anche la spoliazione delle antiche vesti e la vestizione dell'abito monastico, i

giuramenti, le promesse solenni e altri riti.

il primo monachesimo Cristiano considerava la conversione come nuovo battesimo, ovvero un

identica finalità spirituale: Come il battesimo, la professione monastica Segna una metanoia, cioè

una conversione integrale, che realizza la rinascita escatologica( dottrina che riguarda i destini

ultimi dell'umanità e del singolo) del neofita. Essa Cancella il passato e i suoi peccati, apre il futuro

destino della salvezza: è una nuova illuminazione, nascere e insieme morire, morire al mondo e

alle sue seduzioni per vivere in eterno, e morte e insieme resurrezione.

pacomio → fondatore del cenobitismo cristiano elaborò norme perentorie per l'ammissione nelle

comunità:

a. essere di condizione libera

b. facoltà di rinunciare a famiglia e patrimonio

c. non entrasse per paura o perché avesse commesso un crimine

d. doveva attendere fuori dalla comunità per qualche giorno, al fine di imparare le preghiere e

conformarsi agli usi del monastero

Sant'Agostino→ compose la prima regola monastica dell'Occidente ma non prevedeva nessuna

prova, voleva solo che la comunità rimanesse unità e continuasse a rinforzare gli ideali ascetici.

primo monachesimo provenzale → molto legato a quello egiziano, riproporre la questione

dell'accesso e del suo regolamento: e furono le regole del Corpus delle regole dei Santi padri.

regole italiane → VI sec., del Maestro e di San Benedetto. la missione prova uno sviluppo e fu

organizzata secondo una disciplina minuziosa e solennizzata con un rito finale: si consolidò il

principio fondamentale del voto monastico: stabilità e perennità. le porte sono perennemente

serrate così che i fratelli possano rimanere chiusi dentro con Dio. non ci sono più attese fuori ma

solo ostilità e minacce al postulante che viene avvertito con le parole dei “Proverbi”. non è per
impedire l'accesso ma per cacciare il diavolo che lo indurrà a fuggire. il maestro, agito per un

bisogno culturale di disciplinare per intero l'accesso al monastero; questo perché conosce le

esperienze precedenti: pacomio, agostino, basilio, i santi padri. e dunque per delle istanze

storiche.

San Benedetto ereditò dal maestro la sensibilità per la completezza del disegno, ne condivise

l'orrore per le vocazioni a tempo e per gli abiti abbandonati; Inoltre viste le mutate condizioni sociali

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dopo il conflitto Goto-bizantino e non vuole rendere il monastero Rifugio dei fuggiaschi. furono

quindi aggiunte prescrizioni riguardo alla stabilità e alla devoluzione dei beni al monastero che

costituirono l'assicurazione della continuità del monastero stesso.

con Benedetto hanno un posto importante anche la ritualità e i momenti cerimoniali: il rito della

professione diviene solenne occasione di vita comunitaria, ma su tutti, però, spiccano le virtù

monastiche: pazienza, obbedienza e umiltà. San Benedetto da a questi motivi coerenza,

rendendoli fondamento del nuovo Codice morale e spirituale del Monaco, che prese il nome di

regola benedettina. quando va coi limiti regionali essa influenza tutte le altre.

[ complessivamente, nel corso dei secoli la proliferazione degli istituti religiosi e il crescere del

soggettivismo asettico e legalista, portò alla moltiplicazione dei rituali di professione con simbolismi

sempre più ricercati e sempre più complicati]

Specie e forme della condizione monastica

1.le specie monastiche

eremitismo e cenobitismo sono le due forme principali. la forma originaria, e caratteristica primaria

del monachesimo universale, è L’asceta ( solo, celibe, libero da ogni coinvolgimento nella

società, anacoretismo = xeniteia). Il monaco è colui che impronta la sua vita

all'unità, consacrando la interamente al servizio di Dio; non ha l'anima “ doppia” ma ha un unico

cuore virgola Evita la molteplicità e la dispersione poiché tende ad unirsi all’uno originario ( dottrina

platonica e neoplatonica). egli è celibe poiché, rinunciando alla famiglia, non ha preoccupazioni

quotidiane e dunque sicura tale assenza ( amerimnia). da qui la rinuncia (apotaxis), cioè la
pratica delle forme ascetiche.

i primi teorici della vita monastica ( Basilio in particolare) indicarono le origini di questa dottrina

nella sacra scrittura, nel Vecchio Testamento è nel Nuovo Testamento.

a. da Geremia ( 16,1- 4) Basilio forza l'idea di non prendere moglie e di non avere figli

b. San Paolo nella “ prima lettera ai Corinzi” esalta il celibato che mantiene liberi da

preoccupazioni, cioè amerimnoi: È l'ideale ascetico e monastico della castità

c. “ Atti degli Apostoli” virgola prima forma cenobitica nasce con il cristianesimo, in cui i primi

cristiani dopo la morte di Gesù misero insieme i beni e vissero assieme

d. Sant'Agostino e San gerolamo, e Cassiano sostennero l'anacoretismo: il più importante è

il modello gerosolimitano virgola poi degenerato gradualmente ( solo nel Medioevo verrà ripreso).

così dal Maestro e San Benedetto i tipi di monaci divennero 4:

1. anacoreti

2. cenobiti

3. girovaghi

4. sarabaiti

I primi due legittimi, i secondi Due condannabili e detestabili poiché classe di monaci indegni e di

impostori sempre in giro a lucrare favori ea Fare elemosina, Sono peregrini condannati dai due

legislatori. sono i cenobiti ad avere per i due legislatori il primato: gli anacoreti sono un genere

altissimo, culmine della ascesi ma quasi inattingibile per la sua difficoltà e i suoi rischi.

da pacomio a San Benedetto si attraversa una complessa evoluzione istituzionale ed ideologica,

in cui si precisano i modelli e i fondamenti:

• la condanna di ogni monastero non regolare

• l'accettazione del modello eremitico ma la sua reale rimozione

• il primato della vita cenobitica, con la sua stabilità

• l'irrevocabilità del voto monastico

In opposizione a tali modelli resteranno forme di ascetismo solitario, spontaneo e carismatico.

2. L’eremitismo → Componente perenne del monachesimo di tutte le religioni virgola esso è

dialetticamente opposto al bisogno di koinonia, vita comunitaria; nasce infatti dal bisogno di
sentirsi liberi e soli per un “ perfezionamento”. diviene sempre più forte Tanto più si irrigidisce

l'esperienza monastica convenzionale: spesso per la corruzione dei costumi, la pigrizia spirituale e

lo smarrimento degli ideali. dall'altra parte gli Eremiti sono allertati dai rischi della solitudine, dagli

eccessi di orgoglio e dal fanatismo ascetico ai quali li conduce La solitudine.

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nella storia religiosa dell'Europa Ci sono stati momenti nei quali l'inquietudine sociale e l'ansia di

Rinnovamento spirituale hanno portato all’eremitismo: ad esempio nel nel secolo XI e XII, di una

crisi dell'economia feudale è una fioritura dell'economia invece cittadina, che mette in crisi la

forma cenobitica. anche l'Italia ha avuto grandi figure di Eremiti: San Romualdo e Bruno, anche

San Francesco prevede per i suoi confratelli questa possibilità.

anche i modelli orientali esercitano un'attrazione crescente: penitente, asceta, deprezzamento

delle realtà esistenti, visione teocentrica virgola escatologia apocalittica ed ascetismo spinto.

anche Sì però aiutano e soccorrono viaggiatori, poveri, reclusi eccetera. Perché ho spesso

l'esperienza individuale a breve durata, anche perché più appare Santo e venerabile, più attira

devoti e aspiranti. Spesso quindi da vita ad una nuova esperienza monastica cenobitica, così

associano forme di eremitismo a quelle cenobitiche.

alcune comunità prevedono la compresenza di monache che dimorano e lavorano insieme e di

solitari che vivono in completa segregazione, eccettuati i pasti in comune: una fondazione

eremitica che si è tramutata nell'ordine monastico dei certosini, e che ha segnato per secoli la

storia del monachesimo europeo, fu la Chartreuse fondata da San Bruno: si cerca di tutelare le

esigenze di solitudine e libertà spirituale, pur mantenendo i principi di stabilità e sottomissione al

priore, del cenobito. il monaco certosino dispone di una cella individuale nella quale resta chiuso

l'intera giornata: legge, studia, medita, Prega ed esce solo per l'ufficio divino. fu una riforma del

costume monastico, orientata alla riconquista di una religiosità personale: un colloquio e in contatto

con il divino.

anche nei secoli successivi, nel secolo XIV e nel rinascimento, l'eremitismo si mantenne

vivace; scompariranno, invece, a partire dal XVI secolo nelle regioni passate al protestantesimo,
Anche a causa delle istanze dell'età moderna e della civiltà industriale, del razionalismo, del

pragmatismo, del legalismo giuridico e dei nuovi assetti territoriali; senza dimenticare la sfiducia

della stessa chiesa, che fino dall'antichità, attraverso i concili provinciali intervenne per limitare la

libertà degli Eremiti. quando non lo vietarono, posero forti impedimenti Con controlli giuridici

dell'autorità ecclesiastica. dovevano essere chieste autorizzazioni ai Vescovi della diocesi, Senza

la quale rimaneva sotto la giurisdizione civile, considerato perciò sbandato e asociale: anche per

questo sembrava definitivamente scomparso, fino al Concilio Vaticano II che ne ha dato di nuovo

vita.

3. Il cenobitismo → Tendenza costante Ad accentuare le forme comunitarie

la compressione dell'individuo dentro il comportamento regolare è il fondamento del cenobitismo:

La scelta è concentrato su se stesso, ma accetta l'onere della vita in comune per evitare pericoli e

rigori che la solitudine può procurargli. Si è però spesso corso rischio anche della sclerosi

conformista, che Tendeva a privare il monaco di ogni autonomia, chiuso nelle regole minuziose e

costanti. Gli elementi immancabili della vita cenobitica sono tre:

1. il monastero, nel quale la comunità abbia residenza stabile

2. la regola, che ne costituisce la legge

3. labate, che lo governa e amministra

non sempre questi tre elementi sono compresenti con efficacia o interagiscono allo stesso

modo: e se appaiono saldamente costituiti nel primo esperimento storicamente accertato: quello di

pacomio (347) → Una scrittura rigorosa, divisa in gruppi di 30-40 a seconda dei

Mestieri, monasteri erano infatti raggruppati in strutture simili ad un villaggio ed in ciascuno

sovrintendeva un superiore il lavoro e la preghiera. vi era una gerarchia vera e propria, con un

superiore generale che visitava con frequenza i monasteri e ne riceveva, in agosto, i capi per

averne Il rendiconto.

Basilio ( 379) → critico il modello di pacomio proprio per il suo autoritarismo e per il ruolo

prioritario del lavoro rispetto alla vita contemplativa. il suo monastero su, invece, ridotto: fondato

sull'idea di fratellanza e del mutuo soccorso, il superiore è Infatti padre è direttore delle coscienze

e ha il compito di temperare la sua autorità.


I primi protagonisti del cenobitismo occidentale, nonostante guardassero i modelli orientali e

Pacomiani, non stilarono norme specifiche ne alcune regole. Per una certa riluttanza ad accettare

l'idea del legislatore, delle norme e dei precetti, ma piuttosto ci si attendeva da lui delle garanzie

soprannaturali; Infatti norma Suprema del monaco, l'unica vera regola della sua vita, è la sacra

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scrittura. così sant'agostino, nel costruire il suo monastero di ippona, assegna la regola degli

apostoli e quando lo lascio, diede ai suoi monaci una raccolta di precetti che non erano leggi ma

un libellus, uno specchio in cui rifrange la luce divina.

Bibbia e Tradizione, sono dunque Le Due fonti da cui attinge il monaco per trovare i modelli

supremi di condotta da perseguire: bisogna rifarsi Inoltre agli esempi della vita monastica degli

antichi padri e legislatori. tuttavia l'istituto monastico sia andata trasformando, dopo Agostino e le

regole dei santi padri, e ai veri monaci cioè i cenobiti sono imposte molte regole:

• vivere concordi nella medesima dimora

• ubbidire alle disposizioni

• ubbidire a due autorità: regola e Abate.

2. Benedetto e il Maestro

Come risulta dal confronto, le due regole coincidono in maniera significativa sia nei contenuti sia nella

struttura: nella parte iniziale, dal prologo al capitolo 7, la coincidenza della Regola Benedicti è letterale,

parola per parola; solo gli ultimi 6 capitoli, dal 68 al 73, non trovano riscontro nella Regola Magistri.

Quest’ultima, pervenuta anonima e chiamata così dalla formula che introduce i capitoli, è stata dimenticata

per secoli e quando è stata riscoperta fu considerata il prolisso e tardivo rifacimento di un imitatore a

quella benedettina. Ma alla fine degli anni Trenta alcuni studiosi capirono di dover rovesciare il rapporto

tradizionalmente accettato e considerare la Regola Magistri come fonte primaria della Regola Benedicti.

La controversia che ne derivò fu enorme, perché significava fare violenza ad una tradizione millenaria che

aveva considerato Benedetto un legislatore originale e rivoluzionario, creatore ex nihilo di un nuovo ordine

religioso. Specialmente negli ultimi decenni, però, si sono affievolite nel dibattito le contrapposizioni più

aspre: l’iniziale disputa è andata allargandosi a una sempre più ampia e puntuale riconsiderazione della
storia del primo monachesimo, del formarsi di un deposito di norme, di precetti, di saggezza legislativa che

arriva a Benedetto passando dal Maestri, ma anche da tante altre fonti (dai testi orientali, dalla tradizione

agostiniana, dalle precedenti regole occidentali). Benedetto, dunque, come tutti i padri del monachesimo

antico, era consapevole di essere erede del passato e custode di un patrimonio comune da conservare e

trasmettere: ed è per questo che la sua sintesi sapiente fu apprezzata e si diffusa ampiamente fino a

diventare il grande codice monastico dell’Europa carolingia.

Riabilitata come fonte di Benedetto, la Regula Magistri, la più ampia (quasi 3 volte la benedettina) e la più

sistematica delle regole latine: ritenuta opera di un legislatore geniale, che avrebbe operato nell’Italia

centrale, in una zona di influenza romana, nel primo triennio del VI secolo. Ebbe scarsissima circolazione,

ma la sua influenza fu egualmente enorme attraverso quella benedettina.

La Regula Benedicti fu redatta qualche decennio dopo, intorno alla metà del VI secolo, da un oscuro asceta,

che solo mezzo secolo più tardi il papa Gregorio Magno avrebbe ricordato per celebrarne la santità

taumaturgica. Le regola non fu scritta di getto, ma fu il risultato di una elaborazione progressiva, il frutto

della concreta sperimentazione, dell’esperienza vissuta di una persona che ebbe a scontrarsi con le

difficoltà e le esigenze della realtà quotidiana. Essa consta di un prologo e 73 capitoli: vi si distinguono 3

grandi blocchi, che sembrano derivare da 3 momenti diversi della redazione, corrispondenti a 3 periodi

individuabili nell’esperienza cenobitica e nell’itinerario spirituale dell’autore:

1. Prologo + cap. fino a 7= ripresa del Maestro, ovvero ascesi individuale, ragioni del primato

cenobitico, monastero come scuola che educa al servizio di Dio, pratica delle virtù cristiana,

dell’obbedienza, del silenzio, dell’umiltà.

2. Capitoli 8 a 66, si tratta dei diversi istituti monastici: l’ufficio divini, la preghiera, il codice

penitenziale, attività ed emergenze della giornata monastica, i responsabili preposti, l’accesso al

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monastero e le forme di reclutamento. Il legislatore fu più attento alla crescita spirituale dei fratelli

che alle occupazioni concrete e agli adempimenti delle opere giornaliere, più compreso dell’alto

compito pastorale dell’abate, responsabile di fronte a Dio delle loro anime, che degli aspetti pratici

della direzione.
3. Cap. 67 – 72, l’autore appare voler porre i fondamenti spirituali della prassi cenobitica in una

prospettiva rinnovata e voler guardare con maggiore interesse del passato ai rapporti orizzontali tra

fratelli con l’applicazione costante della carità. Si fa sentire l’influenza di Agostino e del suo

concetto di cenobio. L’ultimo capitolo (73) è una postilla sul fine dell’opera: fornire non un’opera di

alta dottrina spirituale né una summa legislativa, ma solo una regula minima, un primo strumento

per avviarsi alla vita monastica.

Non sembra che essa fosse destinata ad un solo monastero; al contrario in più punti il legislatore appare

volersi rivolgere a più comunità e riferirsi a luoghi diversi. Essa vuole dettare norme di vita per i fratelli he

vogliono viver in comunità. Vi è poi una consapevolezza del legislatore nei confronti dei fratelli “deboli” di

spirito e della decadenza dei loro costumi rispetto agli antichi costumi, che si traduce in una costante

tendenza a mitigare gli obblighi e le fatiche della giornata monastica. Sia rispetto al Maestro sia alle regole

antiche, sono diventati più brevi i tempi della preghiera comune e degli adempimenti liturgici, è allungato il

periodo estivo, che accorcia l’ufficio notturno, è meno severo il regime dei digiuni. Anche il complesso di

pene per reprimere e correggere infrazioni (uso di bastone e sferza) è complessivamente meno puntiglioso

e fiscale, più misericordioso e più improntato sul comprendere l’errore più che recuperare gli erranti.

3. Dopo Benedetto

La regola benedettina si diffuse lentamente, ma progressivamente, e nel corso dei secoli, muovendo dalle

piccole comunità della Sabina, finì con l’introdursi nei monasteri di quasi tutta Europa occidentale per

restarvi, per circa seicento anni, l’unico codice concretamente applicato. Agli inizi del IX secolo Benedetto di

Aniane riunì le regole in due grandi opere: Codex Regularum e la Concordia Regularum, nelle quali dimostrò

la congruenza del codice benedettino con le altre regole e il suo primato spirituale.

Nei secoli successivi la Curia romana si oppose alla proliferazione delle regole e a privilegiare le più antiche

e autorevoli. Il concilio Lateranense del 1139 indicava nelle regole di Benedetto, Agostino e Basilio le più

giuste; un successivo concilio, il IV, nel 1215, imponeva che le nuove fondazioni scegliessero quelle di

Benedetto e Agostino, mentre sotto quella di Basilio si tentò di riunire tutti i monasteri dell’Italia

meridionale. Gli Ordini mendicanti che nascevano erano tenuti ad assumere una delle regole antiche, ma

restavano tuttavia liberi di determinare le norme da preporre alla vita pratica. Furono, poi, approvate altre

regole, tra cui la francescana e la carmelitana che però furono riconsiderato come Consitutiones o Instituta,
non vere e proprie regole.

Nel 1900 Leone XIII sancì la prassi secondo cui era la Santa Sede ad approvare i nuovi Ordini con voti

solenni, mentre le fondazioni di voti semplici erano sottoposte all’approvazione dell’ordinario diocesano. La

norma comprendeva anche le modifiche che si apportavano nelle Costituzioni che dovevano essere

sottoposte a Roma o all’autorità diocesana: scomparivano così le ultime tracce dell’autonomia degli antichi

monasteri che venivano definitivamente sottoposti alla gerarchia ecclesiastica.

SPAZIO E TEMPO

1. Lo spazio fuori del monastero

Il monachesimo è un fenomeno sociale profondamente radicato nel territorio: luoghi scelti con cura dai

monaci dove edificarli; abbazie diventate punti di riferimento e segno di connotazione di località. Ancor

prima il rapporto dei monaci con lo spazio si configura nel rifiuto dei luoghi abitati, una città “altra”,

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utopica. La fuga dal mondo è il principio a fondamento dell’utopia progettuale monastica, ma nel frattempo

il monachesimo ha creato modelli edilizi e ha insegnato tecniche di insediamento rimaste vitali nei secoli.

Il mezzo più “economico” per realizzare il distacco dal mondo è la clausura, cioè l’adozione di uno spazio

chiuso, nel quale la solitudine e la segregazione sono date dall’assenza di “finestre” sul mondo, di tramiti

diretti di comunicazione con l’esterno. Il suo opposto figurativo è il deserto, lo spazio aperto, immenso, nel

quale solitudine e segregazione sono imposte dall’assenza di altri abitatori. Nella cultura del primo

monachesimo, nella quale lo spazio è carico di valenza religiose, il deserto è il paesaggio più ricco di

simbologia: in virtù di una doppia eredità, è da un alto (ellenismo) il luogo propizio per la quiete solitaria

nella quale si realizza lo stato dell’animo necessario alla contemplazione; dall’altro (idea egiziana e dei

Semiti) si rifà alla credenza dualistica e stimolata dall’episodio del Vangelo in cui Gesù viene tentato nel

deserto, Satana ha qui, nella desolazione degli spazi inabitati, il suo soggiorno abituale e regna su di essi.

Per questo, per combattere contro Satana, il monaco vi prenderà dimora. Secondo l’altro concetto, mistico

e idealista, il deserto è anche il luogo degli incontri con il divino: ad esso il monaco si accosta con la

meditazione, anche perché è il luogo delle teofanie, cioè dove Dio si è rivelato al popolo eletto (Mosè nel

deserto del Sinai; Davide che fuggì dalle insidie di Saul nel deserto; il Battista, che impartì il battesimo a
Gesù e vide lo Spirito Santo scendere su di lui; Gesù che nel deserto moltiplicò pani e pesci), sono questi i

grandi personaggi che prefigurano la condizione monastica e annunziano i carismi dell’eremo.

Anche nella prima letteratura dell’Occidente il paesaggio monastico è caratterizzato dal deserto orientale:

l’horror secreti e la vastitas eremi caratterizzano i monasteri ed in particolare le isolette del litorale

mediterraneo occidentale, luoghi squallidi e selvaggi. La Regula quattuor Patrum esorta gli asceti che

abitano solitari a convertirsi alla vita del cenobio per sfuggire alla desolazione del deserto e alla minaccia

delle fiere. Ma anche nell’Occidente i monaci sono per definizione coloro che vivono solitari nello squallore

del deserto.

Anche il mare ha questo aspetto ambivalente: rappresentazione della vita dell’uomo come una navigazione

per cui l’asceterio è il porto della salvezza, il mondo esterno è il mare come elemento nemico, nei cui gorghi

il naufrago rischia la vita, come l’uomo, nei vortici del peccato, la salute dell’anima. Come esso mugghia

tempestoso infrangendosi sugli argini del porto, così Satana latra minaccioso, respinto dalla santità

dell’eremo. Ma il mare viene anche raffigurato come elemento di protezione, che isola e protegge

l’insediamento monastico dalle insidie esterne: infatti, fin dalle origini nel monachesimo occidentale le

piccole isole disseminate nel Mediterraneo furono luogo privilegiato di ascesi.

In una tale scelta, che avrà lunga vita, operava la suggestione dei modelli orientali: solitudine insulare come

deserto egiziano o palestinese, distaccato dalla società. Nel contempo assicurava vantaggi concreti come

una maggiore autonomia; le stesse ragioni presiedevano alla scelta delle cime montuose, che per secoli

sono stati luoghi deputati dei monasteri. Ma resisteva anche il significato simbolico, legato ad ogni realtà

che dal suolo si ergesse verso l’alto: la scala o la colonna.

Con gli Ordini mendicanti, i luoghi della solitudine non furono più privilegiati. L’abbazia abbandona la

campagna ed entra nella città, poiché le nuove idealità della vita religiosa e i programmi di apostolato e di

attività caritative spingono i frati a cercare il contatto con plebi cittadine. La “città monastica” come

realizzazione della fuga entra in crisi e la nuova utopia religiosa cerca i luoghi del radicamento della “città

secolare”. Il distacco da questa viene ottenuto con la prassi della clausura, l’architettura monastica urbana

v attenuando la sua rilevanza simbolica e affida sempre meno alle forme la proiezione nello spazio dei suoi

programmi ideali.

2. Lo spazio strutturato
Lo spazio è dunque, della vita monastica, la struttura e la forma; di fatti esistono numerose leggende di

fondazione in luoghi diabolici, che i demoni abbandonano, dopo aver cercato di resistere, messi in fuga

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dalla santità dei fondatori. Il caso più celebre è quello dell’abbazia di Montecassino, che san Benedetto

edificò sull’acropoli di Casinum, dove sorgevano il tempio e l’ara di Apollo. Da Pacomio in poi, ma

soprattutto dai primi testi europei a Benedetto, le regole antiche testimoniano il formarsi di una nuova

coscienza dello spazio e di una sua originale strutturazione, finalizzata alle esigenze del gruppo sociale.

Il monastero pacomiano, recintato da un muro e accessibile solo attraverso la portineria, aveva al centro

una sala per le funzioni e un refettorio comune, mentre i monaci, raggruppati in decurie a seconda dei

mestieri esercitati, abitavano in case comuni. Forma tipica del monachesimo palestinese era la laura,

costituita da un complesso di celle singole, disposte l’una accanto all’altra intorno ad un nucleo centrale,

dove sorgeva la chiesa. Anche nell’Occidente i primi agglomerati monastici furono formati da cellulae

rudimentali, il cui elemento coagulante era lo spazio riservato alla preghiera e alle pratiche ascetiche

comuni. La struttura abitativa della laura assegnava a ciascun monaco una cella di legno o scavata nella

roccia. Tipici del primo monachesimo celtico furono i piccoli edifici di legno; nell’Italia meridionale spesso i

monaci si insediarono in grotte rupestri, secondo un costume di derivazione orientale.

Benedetto ha avuto in mente una struttura centrica, subordinata a un piano razionale e organizzata ad

unum; l’officina nella quale si mettono in opera gli adempimenti religiosi e morali del monaco è costituita

dal recinto del monastero e dalla stabilità nella comunità, due concetti che, secondo Benedetto, sono la

sintesi dei concetti spazio-temporali che presiedettero la vita monastica e indicano le tre dimensioni che ne

stanno a fondamento: il gruppo aggregato, congregatio, lo spazio chiuso che lo individualizza, claustra

monasterii, e una temporalità propria, stabilitas, che proietta il tempo degli uomini in quello dell’eternità.

Una delle novità del cenobio benedettino, che con più evidenza di altre rappresenta, anche nella struttura

abitativa, il passaggio dalle forme del primo monachesimo (ispirato ai modelli orientali) al cenobitismo

medievale, è il dormitorio comune, che comporta l’eliminazione delle celle vicine ma separate, nelle quali,

secondo l’uso dei primi cenobiti d’Egitto, i monaci lavoravano, meditavano e pregavano fino all’ora del

pasto comune.
Nel corso del VI secolo il dormitorio comune si stabilizzò sia in Oriente che in Occidente: fu forse

l’innovazione di più ampia portata tra quelle che modificarono le strutture conventuali e i costumi

monastici, poiché vennero toccati sia gli aspetti pratici dell’organizzazione sia il concetto stesso della vita

monastica, che si allontanò dai primi ideali di solitudine e di raccoglimento, privilegiando invece

l’aggregazione e lo spirito comunitario.

Il monastero di Benedetto, come tende a chiudersi e selezionare gli ammessi, così tende a strutturarsi in

modo da aprirsi all’esterno il meno possibile e a fare di sé un cosmo autosufficiente e dove sia realizzata

una società funzionale e autonoma (acqua, mulino, orto…). Questa immagine di un monastero nel quale

l’autosufficienza produttiva è legittimata come fondamento e garanzia dell’ascesi e della prassi monastica,

era stata designata già dal Maestro, che si rifece alle grandi abbazie medievali di Lorsch e Fulda.

Ma già nei secoli VIII e IX l’impianto planimetrico delle abbazie benedettine superstiti presenta una

concezione unitaria e centrica, nella quale una tipologia costante è il chiostro quadrangolare, chiuso

all’interno di arcate e attorno al quale si dispongono gli altri edifici. L’abbazia che si standardizza a partire

dal secolo XI è un complesso architettonico isolato dalla vita urbana, circondato da un muro perimetrale e

caratterizzato da alcuni elementi costruttivi costanti, ad esempio il chiostro.

Le crisi del cenobitismo benedettino, che si verificarono nei secoli altomedievali e che spingevano verso la

dimensione eremitica, comportarono grandi trasformazioni architettoniche. Dolo la Chartreuse di san

Bruno (1084) i monasteri certosini contaminarono il cenobitismo e l’eremitica: ritornarono in auge le celle

singole, tutte uguali, accostate, mentre l’impianto unitario sopravviveva mediante il chiostro, nel quale

sboccavano gli spazi comuni, il coro, la sala capitolare, il refettorio. A partire dal secolo successivo i

Cistercensi, sull’esempio di san Bernardo e nel quadro della rivoluzione dell’arte gotica astratta e

razionalizzante, riempirono l’Europa di abbazie quasi identiche, concepite come forma di città contadine,

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con il monastero al centro e le grange (cioè le fattorie) tutt’intorno, e il cui carattere architettonico

primario era la riduzione di ogni forma alla pura essenza strutturale.

3. L’organizzazione del tempo

Il problema di quanto l’attesa della vita eterna condizioni la vita terrena è primario per il monaco cristiano,
per il quale il breve percorso dell’esistenza è solo una peregrinatio, un cammino di compimento e una

prova passeggera in attesa della Gerusalemme celeste. In ogni antropologia monastica la temporalità

terrena viene subordinata al tempo eterno, e nelle varie religioni la giornata del monaco privilegia quindi gli

spazi dedicati alla preghiera e al servizio della divinità. I fondatori degli ordini hanno in genere organizzato il

tempo, sia per inscrivervi gli adempimenti liturgici, sia per eliminare le tentazioni connesse al tempo vuoto;

gli impegni irrinunciabili rimangono comunque l’applicazione spirituale, la preghiera, la contemplazione e la

meditazione. Il lavoro e l’esercizio di attività economiche e produttive, anche se importanti, non sono mai

stati teorizzati come la ragion d’essere della collettività conventuale. Il lavoro è ammesso o come necessità

imposta dai bisogni di sussistenza o come strumento utile a combattere l’ozio. È l’eredità di una ideologia

complessivamente negativa, derivata dalla tradizione giudaica e da quella greco-latina, che esaltavano la

vita contemplativa e il primato dell’otium come applicazione intellettuale, rispetto a quelle economiche. La

Bibbia in questo senso offriva orientamenti diversi e si prestava a legittimare anche ideali contrapposti, dai

quali si ricavavano anche due opposte concezioni della vita monastica: da un lato quella che l’assimilava al

bios anghelikos, alla vita degli angeli, attribuendo ai monaci su questa terra una relazione privilegiata con

Dio, e dall’altro quella che impegnava il monaco alle esperienze più dure della condizione umana, al

sacrificio, alla contrizione perenne. La prima comportava la totale dedizione del monaco alla vacatio Deo e

rifiutava il lavoro come incompatibile, la seconda ne faceva un impegno ineludibile e la includeva tra gli

strumenti dell’ascesi e dell’affinamento spirituale.

Le soluzioni più diverse si affrontarono nei primi secoli. Il lavoro era un aspetto essenziale dei monasteri

pacomiani, nei quali i monaci, raggruppati a seconda dei mestieri esercitati, producevano merci destinate

non solo al fabbisogno interno, ma anche alla vendita. Le comunità divennero spesso ricche e potenti, ma

l’accumulazione fondiaria e capitalistica e la pianificazione economica che ne derivava minacciarono gli

ideali monastici e suscitarono opposizione. Al contrario, il modello di un monachesimo sprezzante del

lavoro e rivolto alla spiritualità pura fu proprio della setta dei Messaliani o Euchiti, condannati a

Costantinopoli nel 426 e poi a Efeso nel 431. In tutto il monachesimo orientale fu vivo l’esicasmo, cioè la

tendenza a vedere nella hesychìa (il riposo, quiete sia esteriore che interiore) uno degli scopi della rinunzia

monastica. L’orientamento più equilibrato e diffuso fu quello di Basilio, che scorse i rischi insiti nel

radicalismo messaliano e ammise sia il lavoro artigianale sia quello agricolo, senza però mettere in dubbio il
primato della theorìa, cioè della vita spirituale, riaspetto alla praxìs, a vita attiva e lavorativa. Di fatto i

monaci basiliani furono, in tutto l’oriente bizantino-slavo, spesso attive fucine di mestieri e di arti.

In Occidente la forte presenza aristocratica probabilmente condizionò l’atteggiamento nei confronti del

lavoro manuale e pesò sull’organizzazione del cenobio e la distruzione dei carichi lavorativi. Per i più anziani

il lavoro principale era la preghiera, mentre per i giovani veniva concesso di fare al massimo il copista.

Anche perché la presenza di personaggi di estrazione sociale assai alta, assicurava con le loro ricchezze il

sostentamento della comunità. Anche nel monastero agostiniano di Ippona trovarono residenza elementi

delle classi elevate e della burocrazia imperiale.

Naturalmente, quanto più ci si allontanava sia dal piccolo asceterio di impianto e consuetudini

anacoretiche, sia dalla comunità aristocratica, nella quale l’asceta di rango si trasferiva con i servi e gli

scrivani a ricercare un’ascesi non dissimile dall’otium classico, tanto più le esigenze della vita quotidiana nel

cenobio imponevano il lavoro organizzato. Ma da Agostino a Cassiano al Maestro restarono fermi la

discriminazione tra i diversi tipi di lavoro e il rifiuto delle attività incompatibili, quelle che alienano lo spirito

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e compromettono il distacco dell’asceta dalle cose del mondo. il Maestro, ad esempio, propone di dare in

amministrazione a un laico i fondi di cui il cenobio è proprietario.

4. Ora et labora

In questa formula è sintetizzato il capitolo 48 della regola benedettina, che propone in tema di lavoro

monastico l’essenza stessa della regola. Benedetto supera le preclusioni del Maestro per quanto riguarda il

lavoro agricolo e lo indica anch’esso come attività legittima e importante, necessaria perché il monaco non

sia insidiato dall’otiositas, inimica animae, anche se non preminente nell’organizzazione conventuale.

Impone l’opera nei campi solo se lo richiedono le esigenze del luogo e della povertà, e sempre con misura.

Permanente è invece l’obbligo al servizio settimanale da parte di tutti, a turno, e comprende la cucina, il

refettorio, le pulizie, la manutenzione del cenobio.

Naturalmente, quello manuale non fu l’unico tipo di lavoro ammesso e praticato nei monasteri: il

monastero medievale produsse la figura dell’intellettuale-artista, cioè dell’artista (pittore, scultore,

architetto, orafo, miniaturista) che avesse cultura teologica e biblica. L’arte figurativa romanica è sempre
portatrice di un messaggio dottrinale: le illustrazioni di manoscritti teologici o esegetici mostrano spesso

non solo l’equivalenza dell’immagine con il contenuto dello scritto, ma la meditata adesione della struttura

figurativa alla struttura dell’opera scritta, al suo messaggio, alla sua ideologia. Lo stesso vale per i cicli

iconografici di sculture che adornano le facciate o i portali, o per le pitture murali, o per il decoro degli

oggetti liturgici, che mostrano il medesimo rapporto tra resa artistica e pensiero teologico.

Nel tardo Medioevo, quando fiorirono i primi centri universitari, anche dai monasteri uscirono grandi dotti;

e anche quando il predicatore fu considerato un mestiere da retribuire, dalle comunità benedettine

uscirono oratori famosi e richiesti, e anche la predicazione fu collocata tra le attività più prestigiose del

monaco. Propria dei monaci e di crescente importanza fu anche l’attività educativa, anche se per gli antichi

monasteri non abbiamo notizia di pratiche istituzionalizzate di insegnamento. Sappiamo però che ai

fanciulli destinati fin dalla tenera età alla vita monastica (gli oblati) si insegnava a leggere, si davano da

leggere libri sacri e si forniva una buona istruzione religiosa, musica, astronomia e matematica. Nei secoli

successivi, quando il disgregarsi della vita urbana e la ruralizzazione crescente sottrassero alla scuola

pubblica allievi e insegnanti e ne causarono la fine, crebbe l’azione scolastica dei monaci, anche a ragazzi

non destinati alla monacazione: ad esempio nel VI secolo la scuola e la biblioteca del Vivarium di Squillace,

in Calabria, voluta da Cassiodoro. Più tardi, non pochi fra gli Ordini religiosi suscitati dalla Controriforma

cattolica ebbero come loro finalità specifica quella di attendere all’istruzione giovanile.

Ma più di ogni altra, dalle origini e per più secoli, fino all’invenzione della stampa, mansione principale dei

monaci fu la trascrizione dei testi, sentita come un lavoro alternativo a quello fisico, che impegnava l’abilità

manuale e nel contempo partecipava dell’attività dello spirito. Diviene attività consueta delle monache del

monastero fondato ad Arles da Cesario; Cassiodoro insegna ai monaci che il monaco-scriba è colui che ha

più certa vittoria sul diavolo. Fu soprattutto la trascrizione della Sacra Scrittura a occupare gli spazi più vasti

nella produzione libraria, divenendo sempre più lavoro intellettuale e critico, praticato dai monaci dotti,

antiquari, che con la scritturazione del testo coniugavano la lettura e la riflessione, e per tale via si

istruivano nella parola del Signore. Alla Bibbia si accompagnavano i commentari, il corredo di libri liturgici,

qualche testo di diritto canonico e civile, e numerosissimo scritti dei Padri della Chiesa; ma anche testi

profani, classici latini e greci, che i dotti dell’età umanistica andranno riscoprendo con ammirazione nei

monasteri di tutta l’Europa e, soprattutto, nei grandi monasteri italiani.


Accanto al tempo della fatica, vi è quello dello spirito: la liturgia monastica, nata da quella ecclesiastica, si

ispira alla tradizione dei primi padri, ma si elabora, si precisa e si arricchisce, fino a divenire un sistema

complesso che rispetta le partizioni della giornata, delle stagioni, dell’anno e le esigenze del lavoro. L’ufficio

liturgico è una parte dell’attività spirituale del monaco, la quale comprende anche la meditazione e la

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lettura (a questa nel monachesimo agostiniano le vengono attribuite tre ore, nello stesso orario, per tutto

l’anno, dalle dodici alle quindici); il Maestro e Benedetto variano l’orario a seconda delle stagioni; né

Pacomio né Cassiano stabiliscono quante ore dedicargli. I testi da leggere sono sempre la Scrittura, i Padri

della Chiesa, scritti di edificazione cristiana. La lettura è o di gruppo o personale, ad alta voce, ma anche

mentalmente.

In definitiva, la storia dei monaci e del modo con cui essi hanno organizzato il loro tempo è la storia dei

rapporti fra liturgia, lavoro e lectio divina. La questione del lavoro ha posto problemi diversi nel tempo e

nello spazio, a seconda delle situazioni culturali nelle quali la comunità ha operato, del suo assetto

territoriale (urbano o rurale), del grado e della forma di sviluppo economico della società (feudale, liberale,

industrializzato, socialista, capitalistico). Preoccupazione costante di tutti gli antichi legislatori nello

scandire i temi delle giornate fu quello di armonizzare le ore dell’opus manuum con quelle dell’opus Dei.

In realtà, raramente e difficilmente è stato rispettato l’equilibrio previsto dalla regola benedettina fra le

varie parti della giornata. Cistercensi e Cluniacensi si scontrarono a lungo sul ruolo dell’opus Dei: i primi

difendevano l’interpretazione letterale della regola, mentre i secondi riservarono un ruolo enormemente

più importante del lavoro. Generalmente, il lavoro manuale è stato più insistentemente prescritto in tempi

di ristrettezze come necessario per la sussistenza del cenobio e tutte le volte che i tentativi di riforma

monastica predicarono il ritorno alla vita evangelica e agli ideali di povertà. È stato negletto e rifiutato nelle

poche in cui è stata maggiore l’accumulazione della ricchezza, più forte il processo di clericalizzazione, più

invadenti il ruolo e la presenza della nobiltà nei monasteri. Non sempre però, da quando prese a svilupparsi

l’economia monetaria, un’economia naturale fondata sul lavoro manuale fu sufficiente a soddisfare le

necessità dei singoli monasteri e delle congregazioni monastiche, né sempre fu possibile conciliare il lavoro

con i servizi richiesti ai monaci nelle città.


5. Altri impieghi del tempo quotidiano

Attorno ai tre tempi “forti” (lavoro, liturgia e lettura) si dispongono le altre parti della giornata, dedicate al

sonno, ai pasti, alle altre incombenze e necessità. In esse trovano posto ed espressione i caratteri

individuali del monaco, le sue inclinazioni, le virtù, le trasgressioni.

Il monachesimo fece propria l’interpretazione spiritualistica del messaggio di Cristo e pose tra le sue

condanne più convinte la fisicità, il ripudio della carne, delle sue esigenze, dei suoi piaceri. Cibo e sonno,

bisogni fondamentali dell’uomo, sono stati sempre, prima ancora che nelle regole cenobitiche, al centro

dell’attenzione dei maestri di ascetismo, che della loro privazione o limitazione hanno fatto strumenti di

ascesi e mortificazione. Veglie prolungate e digiuni estenuanti sono i più frequenti. Nel Maestro e in

Benedetto le norme relative al riposo, improntate a saggia moderazione, sono collegate alle stagioni, alla

recita dell’ufficio divino, alle esigenze lavorative. La distribuzione delle ore di sonno seguiva il ritmo

naturale, e punto di riferimento era il canto del gallo, all’alba; le consuetudini improntate a maggior rigore

prevedevano liturgie notturne.

Anche del cibo in tutte le società monastiche è stato rilevato il rapporto con la pratica ascetica, ne sono

stati condannati gli eccessi e la ricercatezza, sottolineata l’associazione all’erotismo e alla sessualità. D’altra

parte, come in ogni comunità, anche in quella monastica il pasto concorre a stabilire il vincolo sociale e

riveste un forte valore simbolico, che hanno contribuito al formarsi di una semantica e di una scenografia

conviviale: il convivio con i suoi modelli di comportamenti improntati alla moderazione e alla compostezza,

ha contribuito alla formalizzazione di un galateo della tavola.

Naturalmente, anche il regime alimentare ha seguito gli usi, i bisogni, i mutamenti propri del contesto. Ad

esempio per i primi padri del deserto, ai quali le antiche scritture attribuiscono digiuni feroci, non è lecito

parlare di prescrizioni alimentari. Il monachesimo cristiano, invece, radicalizzò l’atteggiamento assunto dal

primo cristianesimo, che nella sua avversione per ogni solleticazione dei sensi aveva catalogato fra i

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peccatori perniciosi quello della gola, prima tentazione dell’uomo nell’Eden di Adamo ed Eva. Cassiano,

nell’elaborazione di una teoria della necessaria concatenazione dei vizi e delle virtù, colloca le tentazioni

della gola al sommo della scala dei vizi non solo perché il piacere del cibo è inseparabile dall’eccitazione
sessuale, ma anche perché alla golosità si legano altre colpe: l’ira, la cupidigia di denaro, la superbia.

Le regole monastiche hanno sempre dedicato una trattativa specifica alla dieta. I cereali e i vegetali,

simbolo di frugalità e carichi di significati esoterici (fave di Pitagora, età dell’oro coi suoi frutti), furono

sacralizzati dal cristianesimo (pane, vino, olio) e dunque al centro della dieta monastica. Non ammessa è la

carne. Benedetto prevede due pasti al giorno, con due pietanze cotte per pasto, e una terza di frutta o

verdure, accompagnate da una libbra di pane al giorno e da un poco di vino. Il pasto è unico in tempo di

quaresima, gli orari sono stabiliti con equilibrio, così come il digiuno. È un regime austero ma non durissimo

che non ammette le rinunzie disumane del primo monachesimo egizio-siriano. Alcune regole sono più

severe mentre altre meno, ma in tutte la virtù della temperanza e l’imperativo del digiuno sono stati

associati alla pietà monastica, fino a che la Chiesa non ha quasi interamente soppresso tali pratiche.

Per contro, tra gli aspetti che gli avversari hanno più spesso fatto oggetto di accuse e irrisione, è appunto la

ghiottoneria dei monaci, oppure ad esempio i costumi lussuosi del monachesimo aristocratico di Cluny: uso

della carne, pesci pregiati, cuochi esperti, salse raffinate, mille leccornie e vini nobili. Più tardi, nella

letteratura satirica dei riformati protestanti, l’immagine più spesso ricorrente sarà quella del monaco

grasso, ghiottone e fornicatore. Anche nel campo della morale sessuale il fondamento ascetico del

monachesimo portò ad accettare e irrigidire le condanne proprie del primo cristianesimo, esaltando nel

celibato il principio stesso della condizione monastica e nella castità una virtù irrinunciabile. Alla base di

questa etica fortemente sessuofobica stavano l’antico ideale filosofico del dominio di sé, dello spirito che

trionfa sul corpo e lo domina, e l’autorità della Scrittura. I più rigorosi furono i padri latini, che più degli

orientali si trovarono a difendere gli ideali di verginità e castità, contro la sodomia e la lussuria, e gli autori

delle antiche regole che misero in guardia contro i pericoli della concupiscenza e a mortificarne gli istinti.

Giovanni Cassiano, fondatore di monasteri a Marsiglia nei primi decenni del V secolo, raccomandava che

due monaci, specialmente se giovani, non si appartassero mai e per nessun motivo; l’uso del dormitorio

comune, che nel corso del VI secolo subentrò alle celle vicine ma separate dei primi monaci, si stabilizzò

sotto la spinta di preoccupazioni disciplinari e morali, in modo da stabilizzare la salvaguardia della castità.

La vita quotidiana di Cluny sembra essere caratterizzata da una vera e propria ossessione, per cui la

sorveglianza era severissima e le punizioni umilianti.

I segni dell’appartenenza
1. L’abito

Sempre e dovunque i monaci hanno curato il loro abbigliamento, che nell’universo dei codici visuali resta

tra i mezzi più forti e immediati per indicare la funzione o l’appartenenza sociale. Ogni particolare è stato

commesso di simboleggiare l’alterità del monaco rispetto al mondo. nel cristianesimo, mentre per secoli

nessun abito religioso contrassegnò il clero secolare, al quale furono i concili tardomedievali a dare le prime

prescrizioni e solo quello di Trento impose l’uso di vesti appropriate, l’abito monastico invece si affermò fin

dalle origini, con un duplice e ovvio significato: il rifiuto del secolo e la consacrazione a Dio da un lato e

dall’altro l’appartenenza ad una diversa condizione. Persino nei primi episodi di vita solitaria l’adozione di

una veste di particolare umiltà appariva un obbligo: la pelle di capra usata da Antonio e i suoi discepoli. E

anche gli eremiti più tardi divenne usanza che ricevessero le vesti da un padre spirituale. Ma l’abito

monastico fu di prammatica nelle comunità cenobitiche; così, la regola pacomiana allude ad una foggia

propria dei monaci, della quale il primo esempio si riteneva fosse la pelle di capra con una cintura di cuoio,

indossata da Elia e Giovanni Battista, precursori del monachesimo cristiano secondo l’interpretazione

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patristica. Basilio non indica fogge particolari, ma raccomanda che l’abbigliamento sia semplice e povero,

conforme ai modelli biblici.

Nell’Occidente Cassiano, agli inizi del V secolo, trova l’esemplare di veste negli archetipi biblici della vita

ascetica, da Elia a Eliseo, da Giovanni Battista a Gesù, e di ciascuno indica il significato morale e religiosi,

istituendo uno stringente rapporto tra la condotta spirituale, interior cultus, degli asceti e il loro

abbigliamento, exterior ornatus. Prima di lui Sulpicio Severo aveva indicato nel pallium, il mantello corto dei

filosofi, l’indumento proprio degli asceti. La veste monastica poteva diventare anche uno strumento di

mortificazione fisica, un vero e proprio cilicio, come la veste di peli di cammello che si diffuse tra i discepoli

del santo Martino.

La regola benedettina dedica il capitolo 55 alle vesti: il corredo è costituito dalla veste fornita di cappuccio

(cuculla), da un camicione che si indossava sotto la veste, a coprire immediatamente il corpo (tunica), dai

femoralia, non dissimili dalle odierne mutande, dallo scapulare, forse una veste corta e stretta più adatta

alle ore di lavoro, dai pedules, fasce in cui avvolgere i piedi, e dalle caligae, le calzature. Il bracile, ossia il
cinturone al quale appendere ai fianchi coltelli e strumenti di lavoro, le tabulae e il graphium, cioè le

tavolette cerate su cui scrivere e lo stilo acuminato, completano il corredo. Un corredo povero nel quale il

vestiario fosse segno distintivo della condizione monastica e insieme uno strumento di umiltà.

Anche se non vi fossero indicazioni sul colore, lungo i secoli si impose la veste lunga di colore nero. La

diffuse a poco a poco nell’Occidente il costume benedettino. Per gli Ordini mendicanti sempre veste lunga

ma di altro colore; per i Domenicani fu di lana bianca; san Francesco volle tuniche di materia vile e,

all’occorrenza, rappezzata con tela di sacco; gli Agostiniani ebbero abito nero, con maniche larghe e lunghe

cinture. Quando si moltiplicarono le confraternite religiose anche l’abito si specializzò ulteriormente:

particolari diversi distingueranno le varie confraternite e le loro ramificazioni. Più volte quindi la curia

pontificia imporrà di non confondere fogge e colori e vieterà a famiglie religiose di prendere dei colori.

L’abito dovrà essere portato sempre, pena la scomunica. Molto meno sappiamo sulle prime fogge dell’abito

femminile. I primi legislatori latini prescrivono che le vesti siano di colore semplice, mai brillanti, ma sempre

di tinta neutra.

Semplicità e povertà furono i caratteri comuni e propri delle vesti monastiche, anche per le alte gerarchie.

L’abate non indossa abiti fastosi né ornamenti di potere; infatti nell’iconografia monastica, le prerogative

del fondatore sono rese ponendogli in mano o il libro o la verga. Nella realtà l’abbigliamento del monaco è

sempre stato causa di contestazioni e polemiche, e nei periodi di crisi dell’istituzione ne ha costituito uno

degli aspetti più indicativi: ad esempio la stoffa a righe fu nel Medioevo la stoffa del diavolo, degli esclusi

dal corpo sociale, degli Ebrei, dei buffoni, degli eretici e delle prostitute.

Una più marcata tendenza al lusso si ebbe nell’età barocca, quando lo spirito del tempo sembrò trionfare

anche nel costume monastico, con l’adozione di tessuti e ornamenti più pregiati e la profusione delle

insegne. Il fasto raggiunse vertici impensati soprattutto nelle congregazioni femminili: specialmente nei

monasteri dell’Italia settentrionale e della Francia suore di famiglia nobile introdussero mode lussuose e

raffinate. Fu il momento dell’opposizione più violenta alla tradizione. Però, i secoli successivi al Seicento

barocco procedettero a eliminare il lusso e a ritornare ad una maggiore sobrietà.

Ai giorni nostri, dopo il concilio Vaticano II, i vari abiti religiosi non sono né obbligatori né sempre

opportuno. La funzione e la forte valenza simbolica permangono nelle solennità e nei cerimoniali. Nel rito

della professione è sempre previsto che il neoprofesso dismetta le sue vesti e indossi quelle monastiche. I
primi legislatori cristiani indicarono nel cambiamento la definitiva volontà di rompere con il passato a

aderire al nuovo modo di vivere: per Cassiano è rinuncia al possesso mondano; per Basilio è distintivo di

povertà; per il Maestro e Benedetto il monaco apostata non deve portare con sé nulla che appartenga al

monastero.

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Fu anche causa di lotte per il prestigio: i Cistercensi orgogliosi dei loro abiti poveri criticavano i Cluniacensi

con le loro vesti ricche, mentre i Benedettini di Cassino ne negavano la legittimità. Asperrime furono le liti

tra “riformati” e “non riformati”, sull’autenticità e l’esclusività dei rispettivi abbigliamenti.

2. Il linguaggio

Il vocabolario monastico nelle lingue moderne discende da quello formatosi nell’Occidente latino in parte

per derivazione dall’Oriente, in parte per creazione propria. Nell’Oriente egiziano, palestinese e siriaco le

prime testimonianze non sono delle prime generazioni, estranee alla creazione letterario, ma dalle

successive, in cui i discepoli trascrissero le ultime parole degli anziani (“padri del deserto”), nelle quali c’è

l’eco dei discorsi improvvisati dall’asceta su sollecitazione di discepoli e visitatori.

In Occidente il periodo di più vivace e originale creazione è tra la metà del IV secolo e la metà del VI, dalle

prime notizie di viaggiatori, pellegrini ed esuli ai grandi testi legislativi. I pellegrini, infatti, che si mossero

spesso in Medio Oriente, appresero e riportarono le pratiche di vita conosciute nei viaggi. Così da sempre si

seguirono gli scritti e i canoni dei generi letterari antichi, che educavano alla paideia.

Con questo vocabolario della pedagogia e della predicazione, si intreccia quello della comunità e della sua

prassi. Ricchissimo è il lessico, in particolare quello liturgico, che la sua base nella lingua liturgica che la

Chiesa romana aveva preso a creare a partire dal IV secolo, emancipandosi dalla tradizione greca. Ancora

più ricco è il vocabolario relativo agli oggetti.

Più sobria e sorvegliata, la regola benedettina, come fu il punto di arrivo di un lungo travaglio normativo e

dottrinale, così fu redatta in una lingua che, alla metà del VI secolo, dopo due secoli di esperienze

monastiche, si era piegata a esprimere le istanze spirituali non meno che le esigenze pragmatiche del

cenobitismo occidentale. Il linguaggio monastico che si venne formando fu una koinè sincronicamente

definita a un livello alto nei grandi teorici e testimoni del monachesimo antico. L’elemento più imponente e
riconoscibile è la massa di neologismi di carattere lessicologico suscitata dalle nuove esigenze sia della

prassi sia della spiritualità monastica: i nomi delle istituzioni monastiche, della gerarchia, delle strutture

conventuali, degli oggetti e degli adempimenti delle pratiche, ma anche delle aspirazioni, delle virtù, dei

vizi. Non fu né rapido né precoce.

Per un lungo periodo non c’è nemmeno un nome unico per indicare il monaco né la regola, è soltanto nel VI

secolo che “regola”, ad esempio, assume il significato tecnico che designa.

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