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LE COMUNITA RELIGIOSE NEL MEDIOEVO.

Giovanni Crisostomo (350/407) uno dei più celebri dottori della chiesa orientale, invita a scoprire il mondo
dei monasteri, dove i monaci vivono nella beatitudine del Paradiso, dicendo “Dovete vederlo coi vostri occhi”.
Egli già durante la Tarda Antichità delinea gli elementi di quella scelta di vita che plasmò la cristianità
medievale. E lo fa in una cultura in cui l’uomo percepiva se stesso come estraneo nel suo stesso mondo, a lui
ostile, e che lasciava solo una speranza, quella di vincere il mondo attraverso la fede nella Redenzione. Le sue
parole rivelano l’esistenza di persone che nella loro vita terrena erano ammesse nelle contrade del Paradiso e
che erano più vicine a Dio di tutti gli altri uomini. Essere vicini a Dio significava Redenzione. Perciò i monaci
rappresentano dei modelli e dei punti di riferimento per testimoniare che la speranza di Redenzione poteva
concretizzarsi. Il Paradiso dei monaci era raggiungibile attraverso l’anacoresi, ovvero l’abbandono del mondo
terreno. La vita di queste persone offriva agli altri uomini che rimanevano tra le cose terrene un orientamento
e mostrava loro un altro mondo irraggiungibile.
Radici storiche di questo mondo: in quei luoghi dove si avvertiva il bisogno di liberarsi dai legami terreni:
Egitto del III secolo, quando per uomini e donne non era più sufficiente condurre una vita ascetica dedicata
interamente a Dio e allo stesso tempo essere ancora parte integrante della famiglia e della comunità. Essi
desideravano recidere tutti i vincoli e perciò si ritirano nel deserto, allontanandosi dalle sponde del Nilo. Liberi
da occupazioni mondane e dagli interessi della Chiesa e dai doveri nei confronti delle guide della comunità
(vescovi). Conducono in grotte, capanne o rovine un’esistenza contemplativa, fatta di penitenze e
mortificazioni corporali, astinenza sessuale e lavoro manuale. Vestiti con una tonaca, volevano essere degli
“angeli sulla terra” seguendo una sola regola “Dovunque tu vada, immagina di avere di fronte Dio”: Antonio
(251/356), nelle Massime dei Padri, un’opera scritta nel V secolo per trasmettere ai posteri gli insegnamenti di
Antonio e degli altri padri. Antonio, dopo la morte dei genitori rinunciò a eredità paterna e seguì il precetto del
Vangelo di Mt “Se vuoi essere perfetto va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri”. E così rinunciò al suo
patrimonio e nel 275 si ritirò nel deserto del Basso Egitto vicino al Golfo di Suez. Rappresentò un modello per
questa nuova forma di vita eremitica. V. Vita, composta da Atanasio (patriarca di Alessandria).
Prima di Antonio ci furono già molte persone che cercarono rifugio in Dio e desideravano solitudine. Tra questi
vi fu anche il vero padre degli eremiti: Paolo di Tebe. Egli durante la persecuzione di Decio, tra 249 e il 251,
si ritirò nel deserto dell’Alto Egitto, dove visse 113 anni in un regime di stretta ascesi.
Presto attorno ad Antonio si radunarono uomini con le stesse aspirazioni che diedero vita a una colonia di
eremiti posta sotto la sua guida carismatica. Figure carismatiche simili comparvero, così, nei deserti egiziani e
in tutta l’Asia Minore, Siria e Palestina. Questi erano uomini e donne che fungevano da abba (padre) e amma
(madre) spirituali per schiere di eremiti. La maggior parte non viveva in completa solitudine, gli eremiti
avevano infatti bisogno di avere dei vicini, come si vede in Antonio “Se guadagniamo un fratello, guadagniamo
Dio”. Non erano comunità circoscritte dal punto di vista spaziale, ogni eremita viveva da solo, con uno o due
compagni magari, in un alloggio detto kellion (cella). Non avevano bisogno di una regola ben definita che
determinasse le modalità della loro convivenza. Bastava il dono dello Spirito Santo, contava soprattutto la
consapevolezza interiore di ciò che sia giusto, assieme a esortazioni e all’esempio degli abba e amma.
Attraverso questi potevano trovare un aiuto nella violenta battaglia che questi abitanti del deserto che ogni
giorno combattevano e per la quale dovevano allenarsi attraverso pratiche ascetiche e preghiera. Il
combattimento consisteva nell’allontanare i demoni che li assalivano, i quali rappresentavano dei tentativi di
ricacciarli nel mondo terreno messi in atto da concupiscenze corporali e spirituali.
I discendenti dei padri del deserto avrebbero trovato seguaci nelle foreste dell’Europa o sarebbero tornati ne
mondo per predicare e insegnare, cercando accordi coi rappresentanti della chiesa istituzionale, che venne
arricchita da uomini provenienti dalle loro fila o che fu semplicemente aggirata. Dando vita a diverse comunità
monastiche, diventando seguaci di uomini carismatici, lasciandosi guidare da precetti e regole scritte, litigando
su quale fosse la chiave per trovare la strada migliore verso la salvezza dell’anima.
Tale molteplicità tuttavia era già presente agli inizi della vita religiosa: agli inizi del IV secolo, in Egitto,
alcune persone scelsero di riunirsi in monasteri, e oltre agli eremiti, iniziarono a formarsi delle comunità di
monaci che vivevano assieme, i cenobi, dove tutti i beni erano in comune e singoli erano tenuti alla povertà.
In questo tempo si scrissero le prime regole monastiche. Nel IV e V secolo si iniziò a integrare tali comunità
religiose nella struttura istituzionale delle diocesi. In Nordafrica tra il IV e V secolo si posero le basi della
presenza, nella cerchia dei collaboratori del vescovo, dei canonici regolari, che vivevano assieme come i
monaci. In seguito comparvero anche in Europa delle comunità di asceti: nella Gallia del IV e V secolo vennero
formulati due principi basilari della vita monastica: 1. Comunità elastica da un lato, guidata in modo
carismatico, rifiutando ogni guadagno materiale; 2. Dall’altro un gruppo di persone ben organizzate e capaci
di ottenere successo economico. Alla fine del VI vennero importate d Irlanda alcune forme di vita monastica
che si lasciarono vincolare dagli interessi dei potenti di questo mondo.
La nascita delle comunità monastiche: attorno al 318/25 si sviluppò in modo chiaro un vivere monastico,
animato da persone ritirate dal mondo terreno, che lo fecero per vivere insieme unite da forti vincoli comunitari,
al fine di affrontare ogni pericolo che minacciava gli eremiti, guerrieri impegnati in uno sconto solitario con i
demoni.

• Egiziano Pacomio (292/346), con esperienza di vita eremitica diede vita al suo insediamento
monastico. Fu promotore di vita comunitaria (cenobitica) e i fondatore di una comunità basata su di
essa: il monastero di Tabennisi, vicino a Tebe, nell’Alto Egitto. Sua sorella Maria lo imita fondando
un monastero femminile, poiché fin dalle origini il cenobitismo fu un porto per persone di entrambi i
sessi alla ricerca di Dio. Poi seguirono altri 9 monasteri maschili e 2 femminili.
[cenobita: di κοινός «comune» e βίος «vita». – Luogo dove più monaci fanno vita comune, sottoposti
alla medesima regola; monastero + cenobitismo Forma di vita monastica caratterizzata dalla vita in
comune, con la condivisione del tempo del lavoro, della preghiera e della liturgia, e solitamente anche
dei pasti. Il c. si contrappone all'eremitismo. Il più grande teorico del c. fu Basilio di Cesarea (ca. 330-
379), che lo vide come ritorno alla comunità cristiana originaria].
Pacomio, attenendosi al Vangelo, scrisse una regola, detta Regole, per una vita organizzata sulla base
di un abate, cui era dovuta assoluta obbedienza, al fine di offrire un rifugio sicuro a coloro che erano
troppo deboli per condurre una vita eremitica ma che volevano vivere da asceti. Questa è la più antica
regola cenobitica tramandata. Idee fondamentali: povertà, contemplazione, castità: prese in prestito da
eremiti. Nella regola poi era fondamentale la vita comunitaria. Celle tutte sotto stesso tetto, si
mangiava insieme, si pregava insieme, e si lavorava insieme. La comunità viveva in un chiostro (dal
lat claustrum “ciò che è chiuso”). La vita era regolata. I gruppi di monaci e suore venivano suddivisi
ricollegandosi allegoricamente alle 12 tribù di Israele per essere organizzati. In questi primi monasteri
si lavorava duramente per poter adempiere, grazie ai proventi del raccolto, il comandamento della
carità verso il prossimo. Già all’epoca di Pacomio le entrate superavano le uscite: i patrimoni dei
cenobi crebbero molto. Il singolo monaco rimaneva povero ma la comunità diventava ricca e in tal
modo era nuovamente coinvolta negli affari terreni che invece voleva abbandonare.
• Se si osservano cenobitismo e vita eremitica ci si accorge che agli albori del monachesimo era presenti
in nuce tutti quegli elementi che nel corso del Medioevo sarebbero stati ripresi e adattati a nuove
circostante: 1. Da un lato c’erano i principi dell’organizzazione dei monasteri: stretta clausura, modello
di vita comune basato quotidianità vissuta in modo preciso fondata su lavoro fisico, povertà personale,
servizio divino, pasti, preghiere e riposo in comune e sull’autorità inappellabile della guida del
monastero + notevole forza economica che fuori dalle mura lo rendeva un elemento importante e
rispettato del mondo terreno. 2. Dall’altro vi erano gli elementi essenziali dell’eremitismo: una guida
carismatica che impartiva precetti comportamentali successivamente messi per iscritto,
interiorizzazione dei valori religiosi, mancanza di una regola scritta e di una chiara orgaizzazione,
comunità aperte dal punto di vista spaziale, con celle singole + disprezzo per il successo economico.
• Basilio Magno di Cesarea (330/379) altro Padre fondatore del cenobitismo. Per lui solo la vita
ascetica poteva condurre al vero cristianesimo. Scrisse regole in forma dialogica per la vita comunitaria
in monastero, in cui su necessità di rinunciare al mondo, come gli asceti, e di seguire gli insegnamenti
del Vangelo. Egli da vescovo seppe integrare il monachesimo nelle strutture organizzative della sua
diocesi. Così si inaugurava un nuovo capitolo della storia della vita religiosa: mentre le comunità
eremitiche e anche i monasteri di Pacomio erano sempre rimasti a distanza dalle gerarchie episcopali
-> le fondazioni monastiche di Basilio mostravano caratteristiche di altro genere. Coloro che
operavano nel mondo e che erano responsabili della crescita del cristianesimo (vescovi) vennero messi
in contatto con coloro che invece si erano lasciati alle spalle un simile mondo. Basilio cercò di
armonizzare queste differenti esigenze, affrontando un problema che non fu mai risolto in modo
definitivo.
• Concilio di Calcedonia 451: stabilì che ogni monastero fosse sottoposto alla giurisdizione del vescovo
del luogo. Anche le nuove fondazioni di comunità monastiche potevano avvenire solo dietro a una
espressa autorizzazione. Ma “il Paradiso dei monaci” era difficile da conciliare con l’erba campestre
di questo mondo.
• Alle soglie del V in Nordafrica trova organizzazione normativa la terza duratura forma di vita
religiosa dopo eremitismo e cenobitismo dei monaci, ovvero la vita in comune dei chierici.
Agostino (354/430), più grande dottore della chiesa tardo antico, subito dopo il battesimo a Milano
tornò a Tagaste, in Nordafrica, e lì insieme con amici, tra cui anche Alipio, aveva fondato una comunità
monastica di “servi di Dio”. Negli anni successivi si arriva a stesura di diverse regole, tutte divulgate
col titolo “Regola di Sant’Agostino”. Nel 391 Agostino viene consacrato sacerdote di Ippona, in Africa
settentrionale, e li fonda un altro monastero per altri confratelli laici. 395/7 viene nominato vescovo
della città, e intorno al 400 scrive anche per questa seconda comunità una breve regola: Praeceptum o
Regola per i servi di Dio. Nel frattempo anche la prima comunità ebbe una regola. Alipio, che era
rimasto a Tagaste e nel 394 divenne vescovo della città, aveva portato con sé da un viaggio a Betlemme
alcuni testi scritti per regolare la vita dei monasteri, che egli nel 395 trasformò in una regola:
Ordinamento del monastero, che fece approvare da Agostino che rimase il fondatore del monastero.
Di questa regola è sopravvissuta una redazione rivolta alle monache. In seguito lesse integrò con i
Praeceptum.
Il Praeceptum e Ordo monasterii: si differenziano per contenuto e funzione. L’Ordo impartiva delle
disposizioni severe e volte a regolare lo svolgimento della vita monastica, la povertà personale,
l’alimentazione, l’allontanamento dal monastero, e le correzioni di comportamenti inappropriati. Testo
dunque di natura disciplinare che serviva a formare la persona, per garantire così la sua salvezza in
Cristo. Il Praeceptum conteneva anche norme sulla vita quotidiana etc. ma riuniva tali modelli di
comportamento in un comandamento di carattere fondativo per la comunità, quello di “essere un cuore
solo e un’anima sola”, come i cristiani della chiesa delle origini che avevano tutto in comune. In primo
piano c’erano i sentimenti fraterni. Dalla testimonianza dello stesso Agostino si evince che egli, dopo
la sua nomina a vescovo, accrebbe questa comunità così organizzata con chierici della sua chiesa.
“Nessuno diceva sua propietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune. La
fama di Agostino come fondatore di un esemplare comunità di chierici non andò perduta, e a partire
dal XI condusse a una peculiare tipologia di vita monastica: la vita canonica, ovvero la vita secondo
una regola dei canonici, come erano chiamati i chierici residenti presso una chiesa episcopale.
A differenza della vita eremitica e monastica che sebbene in forme differenti riguardavano dei laici
che avevano oltrepassato il confine che li separava dalla vita religiosa e cercavano Dio nell’ascesi,
nella povertà e nella meditazione interiore, la vita canonica riguardava dei chierici che volevano
ritirarsi dal mondo in una comunità religiosa anche in questo caso basata su ascesi e povertà, ma che
potevano comunque operare ancora nel mondo attraverso la cura pastorale.

Primi monasteri in Europa:


finora Oriente e Nordafrica, in Occidente le comunità religiose sorsero diverso tempo dopo.

• In realtà Eusebio (283/371) vescovo di Vercelli, aveva già riunito i chierici della sua chiesa episcopale
in una sorta di comunità monastica molto presto, alcuni decenni prima di Agostino.
• In Europa occidentale si incontrarono per la prima volta esperienze ascetiche dalla seconda metà del
IV. Per esempio era possibile trovare in Italia comunità ascetiche fondate da donne di famiglie
aristocratiche sui loro possedimenti personali e modellate seguendo le vite dei Padri del Deserto
egiziani. Girolamo (331/420) padre della chiesa e traduttore della Bibbia in latino, fu importante per
lo sviluppo di queste esperienze religiose. Tra 382 e 385 egli offre una vivace descrizione della vita
ascetico-religiosa condotta dalle vergini sacre, vergini e vedove consacrate che abitavano a Roma e
che erano da lui sostenute. Girolamo era in contatto con alcune di loro, v. Marcella, che proveniva da
antica famiglia patrizia di Roma. Girolamo aveva sperimentato in prima persona l’eremitismo siriano
e scrisse anche una vita di paolo di Tebe.
• Gallia, Martino di Tours (316/397), dopo aver interrotto carriera militare si ritirò con una schiera di
seguaci nella solitudine delle foreste vicino Poiters. 375 viene eletto vescovo di Tours e fonda, oltre a
una comunità femminile, anche un monastero maschile a Marmoutiers, in cu si conduceva una vita
ancora dai caratteri fortemente eremitici seguendo esempio della chiesa delle origini. Il ruolo di
vescovo (che nella Gallia di quel tempo era ancora ricoperto da carismatici uomini di Dio, v. Martino
era chiamato vir dei) ben si adattava dal punto di vista istituzionale con la vita ascetica di un eremita
che rinunciava al mondo. I deserti dell’Oriente divennero così le foreste dell’Europa. Venerazione di
Martino iniziata già alla fine del V secolo, col primo re dei Franchi Clodoveo, che lo fece diventare
una sorta di santo del regno: si diffusero rapidamente monasteri che facevano riferimento a lui. Questi
monasteri di Martino erano rimasti a lungo in una forma disordinata di spontaneità religiosa
caratterizzata da monaci itineranti che lasciavano dietro di loro seguaci. 511 si tenne la prima
assemblea della chiesa del giovane Regno Franco a Orlans, e stabilì il criterio della permanenza in un
luogo per tutti i membri dei cenobi, che da quel momento si sarebbero potuti fondare col permesso del
vescovo.
• Nel V molti monasteri nella bassa Valle del Rodano e nelle isole Lerins (di fronte a Cannes)
trasformarono la dotta Provenza in una regione centrale per la vita monastica. Impo: nel monastero di
Lerins, fondato tra 405/10 da Onorato di Arlees, in cui esperienze eremitiche e cenobitiche erano state
unite in modo innovativo e portate in una forma di organizzazione stabile, sorse in contrasto coi
monasteri di Martino un mondo monastico alternativo che poi si estese a settentrione, nei territori
franco-burgundi sopra Lione. Lerins attirò soprattutto i ceti aristocratici della regione, ma anche quelli
della Gallia settentrionale. Grazie a una conduzione economica di tipo romano il monastero divenne
presto una comunità prospera: sviluppano quella modalità di evoluzione della vita monastica che nel
corso del Medioevo trasformò le comunità religiose in centri economici nevralgici, con ruolo impo
nella trasformazione del territorio e nella concentrazione del potere. Prendeva così forma un altro
modello di vita religiosa, diverso dalla faticosa strada che conduceva al deserto o ai boschi . Lerins fu
anche nutrice di molti futuri vescovi: Cesario di Arles (470/542), che fu monaco di Lerins e alla fine
del V secolo scrisse, quando fu arcivescovo di Arles, 2 regole importanti per le successive esperienze
monastiche. 1. Fu scritta per il monastero femminile di San Giovanni di Arles, guidato dalla sorella
Cesaria. Una delle più antiche regole femminili giunte fino a noi. Prescriveva a tutte le monache
l’obbligo di vivere come tra uguali e senza proprietà personali, e prescriveva anche la clausura in modo
severo.
• La regina franca Radegonda, pochi anni dopo, organizzò secondo le norme di Cesario il monastero di
Saint-Croix , da lei fondato nel 558 a Poiters. Ovviamente la fondatrice del monastero non si attenne
completamente ai precetti di Cesario: divenne una precorritrice di quei comportamenti che si
troveranno nei cenobi che ospitavano nobili e donne aristocratiche.
• Tra gli estensori di regole va ricordato Giovanni Cassiano (360/435), che dopo permanenza a
Betlemme e in Egitto, nel 415 fondò alcune comunità nella città portuale di Marsiglia, dando vita a un
monastero femminile e uno maschile: quest’ultimo grazie al patrocinio di San Vittore divenne una
delle comunità religiose più importanti. Cassiano mise per iscritto le linee guida della sua idea di
monachesimo in 2 opere: Istituzioni dei Cenobi e i Dialoghi coi Padri: entrambe tra i canali più impo
per la diffusione in Occidente dei concetti fondamentali dell’eremitismo egiziano. Il punto di partenza
era come in Agostino essere un “cuore solo e un’anima sola”. Tale regola di vita per lui era ormai
seguita in modo corretto solo dai monaci. Guidato dal modello dei Padri del Deserto era convinto che
solo discostandosi dalla chiesa istituzionale e dal mondo terreno (“fuggi dal vescovo e dalla donna”)
e vivendo in modo separato da società, si potesse giungere nel profondo della propria anima, unico
luogo in cui poter incontrare Dio. Per questo era fondamentale l’assistenza dei confratelli e introdusse
la liturgia delle ore (recita collettiva dei Slami).
• Altra precoce fioritura di comunità monastiche si ebbe in Irlanda, isola che a lungo rimase isolata dal
continente e che divenne cristiana grazie a missionario Patrizio (morto intorno al 496). L’isola si
popolò di monasteri. Da queste comunità proveniva l’èlite della chiesa irlandese e posero le
fondamenta della vita politica economica e culturale dell’Irlanda. La peculiarità di questi monasteri
era che essi costituivano veri e propri centri organizzativi della chiesa irlandese nel suo complesso.
Nei monasteri più grandi di solito abitava un abate o una badessa o un vescovo. La carica di abate
rimaneva nelle mani delle famiglie più abbienti, sulle cui proprietà sorgeva il monastero. L’abate
ricopriva la più alta carica giuridica e amministrativa nel monastero. Ma il vescovo aveva il compito
di consacrarlo, il quale era chiamato a ricoprire il suo incarico da un abate, che lo aveva scelto fra i
monaci. Questa variante del rapporto tra mondo dei monasteri e episcopato che caratterizzò fin
dall’inizio la vita religiosa parte dal presupposto che i monaci (specialmente se come in Irlanda erano
stati ordinati sacerdoti) potevano rendere a Dio un servizio migliore rispetto ai semplici funzionari
ecclesiastici. L’ascesi, vissuta molto severamente dagli irlandesi, trasmettevano un’immagine di
santità personale del monaco, considerato come vir dei. Questa forma monastica di carisma: risultava
molto superiore a quella della carica episcopale. In Irlanda infatti i monasteri divennero centri
nevralgici della cura pastorale. Tutto ciò rese l’isola la sede di una fiorente cultura libraria.
Monachesimo irlandese era inoltre caratterizzato dalla peculiare pratica ascetica dell’abbandono della
propria patria, nell’ambito del “Pellegrinaggio per Cristo”. Il primo e più significativo rappresentante
di questa scelta di vita fu Colombiano (540/615). Attorno al 590, assieme a 12 compagni provenienti
da monastero di Bangor, ottenne il sostegno dei sovrani e della nobiltà franca grazie alla carismatica
figura di uomo di dio. Così fondò il monastero di Annegrey e di Luxeuil e Fontaines. Per questi 3
monasteri Colombiano scrisse una nuova regola, basata soprattutto sulle penitenze, e prevedeva una
vita monastica vissuta secondo rigidi precetti irlandesi di castità e obbedienza, con lo scopo di imitare
Cristo sofferente. Le comunità monastiche erano tenute a dedicarsi alla preghiera. Colombiano scrisse
2 libri di penitenze, che stabilivano quali punizioni erano previste per le mancanze.
Una tale forma di devozione, dura e imposta dall’esterno con la sottomissione, era a quel tempo
attraente poiché i monasteri richiamavano molte persone appartenenti alla nobiltà ed erano, come
Lerins, dei vivai di futuri vescovi. Ai laici che sostenevano i monasteri si forniva la sicurezza che la
loro speranza nella salvezza dell’anima era stata ben riposta nelle preghiere dei monaci. Dopo le liti
con Teodorico II, che governava sulla regione burgunda del Regno Franco dal 596 al 613, e al quale
Colombiano rimproverava una vita immorale, il monaco venne esiliato. Si trasferì in Austraisa (parte
orientale del regno) a Metz, trovò ospitalità nella locale corte. Poco dopo si mise nuovamente in
cammino verso i territori degli Alemanni dove operò come missionario, poi giunse a corte lombarda
di Milano e fondò infine nel 612 il monastero di Bobbio (impo). Anche dopo morte di Colombiano la
sua concezione della vita monastica non venne meno. Nel Regno Franco sorsero molti monasteri
ispirati a suo esempio, con il sostegno o su diretta iniziativa di vescovi e nobiltà, così che nella Gallia
del VII si delineò uno degli elementi duraturi della vita religiosa medievale: lo stretto rapporto fra
monasteri e potere politico, una relazione che in seguito assumerà caratteri quasi simbiotici.
In questo secolo di conseguenza si moltiplicarono anche i monasteri che rimanevano dal punto di vista
del diritto di proprietà nelle mani di coloro (re, membri della nobiltà, vescovi, superiori di altri
monasteri) che li avevano fondati e dotati di risorse necessarie per la sopravvivenza. I possessori
potevano disporre del patrimonio del monastero liberamente, a patto che non se ne mettessero a
repentaglio le attività religiose. Il proprietario poteva anche donare o lasciare in eredità il monastero
così come poteva nominare l’abate. Simili fondazioni monastiche sono riconoscibili sin dal V secolo
e culminarono nel periodo carolingio. Vennero anche riconosciute ufficialmente da un sinodo dell’826
che dice che un monastero non deve essere sottratto all’autorità di colui che l’ha fondato.
Ispirati al modello irlandese del vescovo-monaco, i monasteri poterono liberarsi dal controllo del
vescovo locale e dalla sua prerogativa di insediare e consacrare l’abate (anche se così era stato disposto
nel Concilio di Calcedonia). Tali monasteri divennero così esenti. Al posto del vescovo subentrò la
diretta sottomissione al papato.
LA REGOLA DI BENEDETTO:
Anni novanta del VI: a Roma papa Gregorio Magno (590/604) compose un testo che fu importantissimo per
lo sviluppo del monachesimo occidentale, e riguarda le ORIGINI DELL’ESPERIENZA BENEDETTINA.
L’opera è in 4 libri “Dialoghi sulla vita e i miracoli dei padri italici”, con essa vuole dimostrare che anche
nella penisola italiana si era sviluppato un ascetismo che non aveva nulla da individuare a quello orientale.
Uno dei protagonisti: un abate del monastero di Montecassino, morto ormai da decenni: Benedetto da Nursia
o Norcia. Il papa non lo incontrò personalmente ma gli parlarono di lui persone che lo avevano conosciuto.
Gregorio vedeva in Benedetto una figura esemplare, dato che gli dedicò tutto il libro secondo dell’opera.
Dettagliato resoconto della vita e delle opere dell’abate, ma non può essere considerata una biografia in senso
moderno. Opera aveva scopo di trasmettere l’immagine ideale di un asceta e di una guida carismatica di una
comunità monastica. All’autore non interessa tanto il reale valore storico dei fatti, bensì la loro natura
esemplare. E’ una testimonianza dei doni divini dell’abate, della sua straordinaria capacità di comunicare
norme e valori.
All’inizio del testo c’è l’allontanamento di Benedetto dal mondo di Roma tardoantica, che ai suoi occhi era
corrotto “Vedendo che molti precipitavano nel vizio, ritrasse il piede col quale già stava entrando nel mondo”
(prologo). Questa decisione lo portò a abitare nella solitudine di una remota caverna di Subiaco, nelle pendici
degli Appennini per abitare “solo con se stesso sotto gli occhi di colui che dall’alto vede tutto”. Dopo qualche
tempo lasciò questa dimora (sopra la quale in seguito fu costruita l’abbazia di San Benedetto) per stabilirsi
nella valle e sperimentare una vita ascetica in forma comunitaria. Si fece carico della guida di un monastero
dove i suoi monaci tentarono di avvelenarlo e in seguito fondò diversi suoi monasteri. Infine andò a sud a
Monte Cassino dove assieme ad alcuni confratelli eresse il monastero sulle rovine dell’antico tempio pagano.
Il testo di Gregorio ha semplificato la vita di Benedetto, presentandola come un processo di gradale
Redenzione. Viene messo in risalto come Benedetto al fine di costruire la sua comunità, avesse ingaggiato una
lotta col diavolo e come, grazie ai suoi miracoli, rafforzò la stabilità interna del suo monastero facendolo anche
radicare nella società che lo circondava.
Il testo parla poi di un Regola scritta da Benedetto “esemplare per la descrizione e brillante per la forma”,
“questo sant’uomo ha insegnato esattamente come ha vissuto”.
Gregorio pose le basi per la venerazione di Benedetto che in seguito gli valse il titolo di “Padre dell’Occidente”
o come stabilì il papa nel 1964 di “Patrono d’Europa”: egli racconta che Benedetto toccò apice di sua ascesa
spirituale una notte, mentre stava pregando affacciato alla finestra, in cui si mostrò a lui una luce più luminosa
del giorno e comparve davanti ai suoi occhi “tutto i mondo, come raccolto sotto un unico raggio di sole”. In
quel momento: lo scopo della sua vita si espanse dalla grotta sino ad abbracciare il mondo interno. Egli morì
a Monte Cassino, sostenuto dai suoi discepoli, collocato in alto e con le mani protese verso il cielo.
Degno di nota è che tale impatto fu dovuto solo a un singolo testo! Le conoscenze su Benedetto dei
contemporanei di Gregorio, come anche le nostre, derivano unicamente da questo scritto, che è il nostro solo
testimone anche del fatto che quell’abate fosse davvero esistito. Se Gregorio non avesse composto il 2° libro
dei Dialoghi non avrebbe potuto svilupparsi alcun monachesimo benedettino. Perciò: dal punto di vista storico-
critico il testo diventa un problema. Cosa garantisce la sua affidabilità? Il panegirico di Benedetto rende oscuro
il suo soggetto in misura uguale a quanto lo idealizza. Gregorio non usa una cronologia basata sulla successione
di anni, perché non ne aveva bisogno. Perciò bisogna dedurre le date più impo della vita di Benedetto dalla
menzione di altri eventi o personaggi storici documentati. Così si arriva al 480 come data di nascita, al 529 per
la fondazione di Montecassino, al 547 per la morte.
Inoltre il testo di Gregorio su Benedetto non aveva dietro neppure una singola traccia materiale che potesse
testimoniare un qualche effetto istituzionale della vita del santo. Lo stesso Gregorio ricorda che il monastero
di Montecassino venne distrutto dai Longobardi probabilmente nel 577, quando un’ampia parte della
Campania fu saccheggiata dal duca Zotto, ma potrebbe anche essere collocata negli anni 80 del VI. Che i
monaci superstiti fuggirono a Roma lo apprendiamo da una tradizione molto più tarda e perciò incerta, ovvero
dalla Storia dei Longobardi di Diacono, scritta negli anni 80 del VIII. All’epoca della stesura dei Dialoghi non
esisteva più alcuna traccia tangibile del monachesimo benedettino.
Attorno al 613/14 ci si imbatte per la prima volta in una menzione dell’opera nel lontano Regno Franco. Nel
corso del VII si comprende che l’opera venne usata in modo sparso in gran parte dell’Europa meridionale e
occidentale. Dunque si prese presto familiarità con la vita di Benedetto, ma nonostante ciò si dovrà attendere
il primo decennio dell’VIII perché Benedetto trovi posto come un santo degno di venerazione in un testo scritto
indipendentemente dai Dialoghi. Venne menzionato in una voce del calendario di Villibrordo, missionario
della Northumbria e a lungo attivo in Frisia.
La regola di Benedetto:
Nel 625 Venerando, abate del monastero provenzale di Hauterive, scrisse al vescovo di Albi che la sua
comunità seguiva la regola sancti Benedicti abbatis Romensis (dell’abate romano Benedetto). Fu il testo della
regola che pose le premesse per la fama di Benedetto e per l’influenza del monachesimo benedettino.
Gregorio scrisse che la regola composta da Benedetto era permeata dallo spirito di discernimento (discretio).
Considerando il testo tramandato sotto il nome di Benedetto, la cui più antica testimonianza scritta giunta fino
a noi proviene da Inghilterra del VIII, seguita da una versione in alcuni punti diversa dall’originale, scritta su
ordine di Carlo Magno all’inizio del IX: allora questo scritto è veramente incentrato sul concetto di discretio.
Grazie al suo potere normativo, la guida ovvero l’abate, era tenuto a rispettare la giustizia. “Dirigere le anime
e porsi al servizio dei vari caratteri (…) Si deve conformare ed adattare a tutti”. “Deve seguire questo e altri
esempi di quella discrezione (discretio) che è la madre di tutte le virtù”. “Il suo comando e il suo insegnamento
devono permeare come il lievito della giustizia divina i cuori dei giovani”. Così l’abate diviene un ponte che
unisce l’immanenza del monastero e la trascendenza divina. Solo in virtù di questa doppia relazione l’abate
può essere ritenuto il vicario di Cristo nel monastero. Egli è responsabile nei confronti della comunità e allo
stesso tempo deve rendere conto delle sue azioni solamente a Dio.
La regola è un testo spirituale:

• Prologo “Ascolta, o figlio, i precetti del maestro e porgi l’orecchio del tuo cuore” è un ascolto interiore,
nell’anima. Sono parole rivolte a coloro che desiderano raggiungere la massima perfezione possibile
delle loro anime e tentano di integrarle nell’ordine divino.
• Ma la regole è un testo anche di carattere organizzativo: parte dal presupposto che individuo è ancora
imperfetto e perciò in pericolo e che una vita in monastero separato dal mondo offra le migliori
garanzie nella battaglia per il bene. Monastero in tal senso va inteso come “una scuola per il servizio
del signore” e rappresenta un laboratorio in cui con l’auto degli attrezzi delle opere buone l’anima è
formata per Dio. In questa scuola si insegna a desiderare l’amore per dio e per il prossimo, a evitare i
vizi morali quali l’orgoglio la pigrizia e la litigiosità.
• Oltre a ciò valgono anche alcune virtù monastiche proprie dell’ascesi: amare i digiuni, mortificare il
corpo, frenare i desideri carnali, esercitarsi nl silenzio, rinunciare a beni personali. Preghiera
comunitaria, celebrazione liturgica, pasti in comune e lavoro fisico: ritmo della vita. “Sono davvero
dei monaci se come i nostri padri e gli apostoli vivono del lavoro delle loro mani”: questa frase ha
potenziale rivoluzionario, poiché trasforma il lavoro manuale da un’attività che in antichità si addiceva
a uno schiavo, e quindi non a un uomo libero, in un’occupazione che contribuiva ad aprire le porte del
cielo. Lavoro è una forma di ascesi e perciò nobilitava ogni cristiano.
• La regola presenta tutte queste norme comportamentali in modo minuzioso e rivendica la persona
intera, interiore ed esteriore. Ma è anche un testo pragmatico, che permette di organizzare la vita
quotidiana. Nella forma di un ordinamento giuridico essa disciplina le varie pratiche della vita, cerca
di evitare allontanamenti dalla norma, stabilisce le condizioni per cui le colpe possono essere ammesse
ed espiate e prescrive misure punitive.
• La regola sottintende una comunità chiusa in se stessa, caratterizzata da una autarchia economica e
organizzativa, non intralciata da intromissioni delle autorità ecclesiastiche. Il vescovo veniva chiamato
in causa solo nel caso di eclatanti mancanze del sacerdote della comunità o di un declino morale del
cenobio tollerato dall’abate.
• Il testo della regola inoltre attinse dalla Regula magistri, un testo basato su un forte senso di ascesi e
disciplina, compilato attorno al 500. Inoltre si servì anche della “regola del nostro santo padre Basilio
(morto nel 379), unendo così il patrimonio culturale del monachesimo orientale e occidentale.
• Successo della regola dovuto all’eccellente qualità del contenuto, dovuto a sua volta dall’equilibri
umano della regola fra severità e mitezza. Il testo era un esempio di moderazione e armonia tra
esigenze spirituali con i limiti delle forze fisiche, così che il mondo ascetico del monastero fosse
sopportabile e potesse fungere non da carcere ma da luogo felice di liberazione.
N.B. Nonostante tutto: non si può dimostrare che questo affascinante testo sia identico a quello della regola
menzionata da Gregorio nei Dialoghi. L’affermazione di Gregorio che la regola di Benedetto è improntata alla
discretio non costituisce un carattere distintivo sufficiente, perché lo stesso ad esempio si sarebbe potuto dire
della regola di Cassiano. La regola può solo offrire informazioni sul modo di vivere del suo autore (dato che
insegnava per come viveva), ma non vale il contrario. Tuttavia: l’attribuzione a un certo Benedetto comparve
assai presto e presuppose come verità indiscussa che il Benedetto dei Dialoghi e quello della regola fossero la
stessa persona. Il fatto che questo Benedetto fosse chiamato da Venerando “l’abate romano” era, secondo la
testimonianza dei Dialoghi, un errore dal punto di vista storico. Tuttavia proprio l’orientamento della regola
verso Roma contribuì al suo successo in un contesto cronologico e geografico nel quale la sua ricezione poteva
trovare terreno fertile: nel Regno Franco. Alla corte merovingia del VII sorse un intreccio di relazioni di
fondatori e patroni di monasteri gallo-franchi che avevano interesse a sostenere la regola di Benedetto. Così la
regola di Benedetto accrebbe la sua autorevolezza e si offrì come un modo ideale per avvicinarsi a Roma. Un
crescente interesse per Roma e il suo monachesimo si riscontra anche in Inghilterra, in cui l’abate Benedetto
Biscop (29/690) si recò più volte a Roma per studiarvi la vita monastica e gli scritti. Imparò a conoscere la
regola di Benedetto a Lerins e la introdusse nei suoi monasteri.

La fase di scoperta della regola di Benedetto, durata fino al VII inoltrato, coincise con un’epoca del
monachesimo latino ricca di sviluppi. Intensa attività di fondazioni monastiche, specialmente da parte di
sovrani e alta nobiltà, v. monastero femminile di San Salvatore a Brescia nel 753 eretto da re longobardo
Desiderio. Caratteristici di questo periodo: sforzi missionari scaturiti da idea di peregrinatio che
originariamente caratterizzava il monachesimo irlandese, più tardi anche quello anglosassone. E si
concretizzarono nella fondazione di numerosi monasteri.
In quest’epoca di fioritura dei monasteri: la regola che stava formandosi sotto il nome di Benedetto iniziò la
sua carriera, all’inizio come parte delle cosiddette regole miste, ossia frutti della scelta selettiva di tradizioni
testuali di regole riconducibili a differenti autori, che dipendeva dalla scelta di ciascun abate. I precetti di
carattere normativo, che si possono definire regole monastiche, all’epoca non erano legati a testi ritenuti
inalterabili. A causa di ciò la regola di Benedetto subì un ampio processo di accostamento a quella di
Colombiano, il missionario irlandese che fondò i monasteri di Luxueil e Bobbio. Questo modo di procedere si
diffuse. 640 si stabilì che nell’abbazia di Fleury appena fondata si vivesse “secondo la regola del santissimo
benedetto e del signor Colombano”. Questa struttura normativa venne applicata anche a Lerins (sulla costa
della Provenza). Il fulcro di questa diffusione rimase in Gallia, dove fino alla metà del VII, quasi tutti i
monasteri furono influenzati anche dalla regola benedettina.
Questo panorama è completato dal fatto in quegli anni si compilarono anche nuove regole usando il testo di
benedetto. V. Donato, vescovo di Besancon dal 624 al 660, compilò una regola monastica femminile usando i
testi di Cesario di Arles, di Colombiano e della regola di Benedetto.
Nonostante ciò, all’inizio, non c’era nessun luogo, tra quelli menzionati nei Dialoghi, dove Benedetto fosse
ricordato: né a Subiaco né a Montecassino vi furono vite benedettine. Già dalla seconda metà del VII si iniziò
a credere che il corpo di Benedetto si trovasse nel monastero di Fleury: l’Italia sembrava aver dimenticato quel
modesto abate di provincia che nei Dialoghi era stato dipinto come modello dell’abate.
Nel 717 questa situazione subì brusco cambiamento. Come riferisce alla fine dell’VIII il monaco Paolo
Diacono nella Storia dei Longobardi: Petronace, illustre cittadino di Brescia, si recò prima a Roma e poi su
esortazione di papa Gregorio II alla fortezza di Cassino, “al santo corpo del beato padre Benedetto”. Lì si
imbatté in alcuni uomini semplici, che lo nominarono superiore. Dopo l’arrivo di altri monaci Petronace si
vide obbligato a condurre una vita comunitaria “sotto il giogo della santa regola e secondo i precetti del beato
Benedetto” e a rifondare il monastero. Tra di essi si trovava anche il testo di quella regola che si pensava che
Benedetto avesse scritto con le sue mani. Allora sorse un autentico monastero. Il merito va a Gregorio II che
cercava consapevolmente di ricollegarsi al pontificato del suo omonimo, e a tal fine voleva stabilire buone
relazioni con Regno Franco, per creare un contrappeso all’influenza politica e religiosa di Bisanzio.
Rapidamente arrivarono schiere di visitatori dal Regno Franco, soggiornavano discepoli e compagni del
monaco del Wessex Bonifacio- Winfried che Gregorio II aveva consacrato vescovo missionario. La regola
aveva trovato in Bonifacio un precoce sostenitore, che ebbe un’influenza sovraregionale. Nel 742/43 il sinodo
di riforma da lui presieduto stabilì che tutti i monasteri del Regno Franco dovessero adottare la regola
Benedetto come unico testo vincolante.
Tuttavia a Montecassino mancava ancora qualcosa: la salma di Benedetto. Papa Zaccaria offrì il suo aiuto
assieme a Carlomanno, fratello di Pipino che nel 751 era stato proclamato re dei Franchi grazie al sostegno di
papa Zaccaria e aveva emarginato il fratello inducendolo a trasferirsi a Montecassino. Nel 750/51 Zaccaria
diede a Carlomanno una lettera da portare nel Regno Franco. In essa si pregava di restituire la salma di
Benedetto che si credeva fosse nel monastero di Fleury. Non ebbe subito successo. Montecassino ricevette
prima solo alcune ossa.
Montecassino si immedesimò sempre più nel ruolo di un modello monastico. Carlo Magno fece una visita
all’abbazia durante la sua spedizione contro il ducato di Benevento nel 787 e lì chiese una copia della versione
della regola che papa Zaccaria aveva fatto portare a Montecassino.
Il secondo Benedetto e la riforma dei monasteri Franchi:
Nonostante tutto (v. decreto del 742/43) la diffusione e il riconoscimento della regola come un modello
normativo si diffusero più lentamente di quanto pensiamo. Sicuramente i Carolingi avevano interesse politico
a sostenere una regola unitaria per i loro monasteri ( per mantenere coesione nel Regno). E la regola di
Benedetto sembrava essere adatta grazie al suo equilibrio interno e alla sua presunta origine romana. Dal 789
le deliberazioni dei sinodi e delle diete imperiali: partirono dal presupposto che monachesimo fosse unicamente
benedettino. Alla dieta del 802 giunsero delegati dal Regno con lettere che informavano sull’impiego della
regola benedettina nei monasteri. Viste le loro mancanze: si prescrisse ai monasteri di seguire strettamente la
prassi liturgica secondo la regola di Benedetto. Le resistenze delle comunità monastiche furono forti. Le misure
prese nel 802 non furono prive di effetti: l’arcivescovo di Lione Leidrado fu protagonista di energici tentativi
di mettere in pratica la regola di Benedetto nella sua diocesi.
Ci fu un ampio successo sotto Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, che per tutelare l’integrità del regno
cercò di realizzare vaste riforme sul piano politico sociale ed ecclesiastico. Benedetto di Aniane (750/821)
uno dei suoi principali sostenitori: già nel tardo VIII riformò il cenobio di Aniane in una comunità strettamente
benedettina. Poi da Aniane inviò alcuni monaci per riformare altri monasteri nell’Aquitania e diede a queste
comunità la regola di Benedetto assieme ad alcune consuetudini e poi le visitò. Così si creò una rete non serrata
e non gerarchizzata di monasteri benedettini. Nel 814 Benedetto fu chiamato da Ludovico il Pio e nel 815/16
fondò col sostegno del re l’abbazia di Inden vicino ad Aquisgrana: che col tempo divenne un centro in cui si
formavano i monaci da inviare in altri monasteri che desideravano essere riformati secondo l’osservanza della
regola benedettina. La norma della regola benedettina secondo cui in ogni monastero ci deve essere una
consuetudine del luogo fu per Benedetto di Aniane la chiave per adottare una doppia prassi normativa, basata
sia sulla regola sia sulla consuetudine. Così, sulla base di una sola regola valida, si poté dar vita anche a una
sola consuetudine per tutto il Regno. Motto “una sola regola e una sola consuetudine”. E Inden divenne
modello di vita monastica.
Tre sinodi: 816, 817, 818/9: stabilirono che la vita monastica doveva essere condotta sol seguendo la regola
benedettina. Per metterla in pratica Benedetto di Aniane stese una serie di consuetudines che servissero da
modelli per implementare quanto stabilito. Tali disposizioni vennero diffuse in tutto il regno tramite i missi
del re. Benedetto cercò così in modo assai incisivo di garantire il proseguimento della sua riforma grazie al
potere dei sovrani franchi e all’efficacia dei loro provvedimenti legislativi, che erano volti alla fondazione e
alla preservazione di monasteri basati sulla regola benedettina.
Inoltre, ancora per l’ideale politico dell’unità del regno: nel 816 il sinodo di Aquisgrana realizzò un’ampia
riforma dei chierici dando loro, in parallelo ai monaci, uno specifico ordinamento (ordo canonicus). Si stabiliva
che il clero dovesse condurre una vita comunitaria, in uno spazio monastico chiuso, con mensa comune, e
dormitorio comune, in modo da pregare e lavorare insieme. Lo scopo di tale legislazione per i canonici era di
rendere monastico il clero del Regno ma con 2 importanti differenze. 1. Non cera obbligo di far parte per tutta
la vita della comunità; 2. Possesso dei beni personali rimase consentito.
Parallelamente ci furono tentativi di regolare la vita delle canonichesse, che vivevano in comune nei monasteri
ma non erano vincolate da uno stretto voto di povertà o alla promessa di rimanere a vita nella comunità. La
sinodo del 816 regolò la vita comune di queste donne. Vita quotidiana in comune, con l’obbligo di preghiera,
di consumare pasti e dormire in ambienti in comune. Erano tenute all’obbedienza nei confronti di una badessa,
ma potevano conservare beni personali, fare uso di servitori e avere stanze private all’interno della clausura.
Non è immediato capire la differenza fra monasteri femminili occupati da canonichesse e quelli occupati da
monache di osservanza benedettina. Confini erano fluidi. V. grande ondata di fondazione di monasteri
femminili dal IX al XI.
Tuttavia nel periodo che seguì immediatamente la sinodo di Aquisgrana e che vide la vita monastica in mortale
pericolo a causa della violenza degli invasori esterni: il canonicato maschile divenne rifugio in grado di
rimpiazzare la severità delle regole di molte comunità monastiche. Poiché le norme di Aquisgrana sui canonici
e le canonichesse furono considerate meno severe di quelle che regolavano la vita dei monaci e delle monache
-> a partire da XI sarebbero state oggetto di duri attacchi da parte dei riformatori della vita religiosa.
A quel tempo era molto difficile ricondurre a vivere sotto una stessa norma fondazioni religiose sparse su un
vasto territorio che oltretutto non avevano non erano basate su usanze comuni. V. Situazione dell’Inghilterra
anglosassone del X. Lì il vescovo di Winchester (909/984) insieme al re di risollevare il monachesimo dopo
le incursioni vichinghe. Nel 970 stabilì che tutti, anche i monasteri inglesi di recente fondazione, avrebbero
dovuto adottare un’unica cosuetudo, basata sulla regola benedettina e chiamata Regularis concordia.
La vita monastica della cristianità occidentale venne cambiata in modo duraturo dall’immersione nella politica
del Regno Franco. Grazie a ciò il monachesimo benedettino si impose su tutti i suoi concorrenti circa 300
anni dopo dai suoi inizi, narrati nei Dialoghi, e rimase in questa posizione per 250 anni. Ma questa politica
fece anche sì che il mondo monastico fosse legato in modo ancora più stretto a affari terreni e che dovesse
essere riconosciuto come erogatore di servizi e come uno dei detentori del potere! All’epoca di Carlo Magno
e Ludovico il Pio si sviluppò un monachesimo politico, o politicizzato.
Con Ludovico il Pio i monasteri erano da tempo diventati rilevanti centri economici e puti chiave della
creazione di infrastrutture. Le comunità godevano di ampi possedimenti terrieri, v. Fulda fondata nel 744
aveva, attorno all’800, proprietà fondiarie e celle monastiche localizzate, a sud, fino al Danubio. Questi
facoltosi monasteri erano un fenomeno che riguardava tutta l’Europa. V. In Italia: monasteri come Pomposa,
Farfa. Il monastero garantiva cure mediche e anche l’educazione di future generazioni di monaci. Inoltre erano
luoghi in cui si ospitavano personaggi importanti, come semplici pellegrini. Specialmente Carlo Magno
comprese come far sì che i monasteri contribuissero alle varie necessità del regno: approvvigionamento,
militari, educativo-politiche. La maggior parte di essi godeva dell’immunità, perciò erano protetti da soprusi
dei funzionari regi, e avevano pure ricevuto i diritti giurisdizionali sovrani. Molti erano stati donati dai nobili
ai sovrani: così ricevettero la protezione regia e il diritto alla libera scelta dell’abate, oltre ad essere dotati di
ricche proprietà terriere. Gli importo delle donazioni destinate a ogni monastero non erano sempre orientati
alla realizzazione dell’ideale monastico, bensì erano volti a scopi politici. Obbligo a dare vitto e alloggio al re
e a fornirgli un contingente militare reclutato tra i nobili legati al monastero. Abati furono sempre più in grado
di difendere loro interessi (spesso guidati da motivazioni politiche) alle sinodi del regno. Però erano anche
invischiati in battaglie e rivalità politiche.
Ciononostante questa struttura aveva nel complesso 2 aspetti. 1. Già Carlo Magno e successori si
preoccuparono di garantire devozione e disciplina nei monasteri. V. Lettere, capitolari, deliberazioni sinodali
con lo scopo di ricalcare che i monasteri erano (o almeno avrebbero dovuto essere) dei virtuosi luoghi in cui
mettersi in contatto con Dio. A quei tempi emerse con forza un precetto che i monasteri seguivano già da
tempo: pregare per la salvezza dell’imperatore e per la stabilità del regno.
Questo comportamento dei monaci verso Dio, che chi viveva fuori si aspettava, aveva un suo corrispettivo
all’interno delle comunità: la clericalizzazione dei monaci. V. nella regola di Benedetto si parlava ancora di 1
solo sacerdote per ogni comunità monastica. I monaci erano laici, ma a partire dal VIII e IX la situazione
cambiò. I membri delle comunità monastiche erano ormai anche prevalentemente sacerdoti. “l’ordinamento
sacerdotale era il coronamento e il completamento del cammino spirituale”.
Inoltre nel frattempo era emerso un istituto che serviva a proteggere un monastero da inopportune interferenze
sia a rappresentarlo durante un processo, sia ad amministrarne la giustizia: l’istituto dell’avvocazia, retto da un
laico nominato dal re. Anche questo provvedimento: pensato per liberare monastero da affari terreni e per
favorire l’impegno dei monaci nella sfera spirituale. Sin da principio però si palesò il pericolo che avvocati
cercassero, attraverso il loro potere, di controllare i monasteri. Questo divenne attuale in seguito, soprattutto
quando a partire dal IX l’avvocazia divenne ereditaria, così monastero non poteva più scegliere liberamente il
proprio avvocato.
L’intensità della dipendenza dei monasteri dai poteri mondani per la cui stabilità pregavano divenne evidente
più tardi, nella fase del declino dei Carolingi. Gli attacchi provenienti dall’esterno: Normanni Ungari
Saraceni ai quali regno franco oppose scarsa resistenza, iniziarono già nel IX secolo e durarono per buona
parte del secolo successivo. Ebbero conseguenze fatali per la cultura monastica centroeuropea: nella prima
metà del X Ungari distrussero molti monasteri lungo il corso del Danubio; 926 misero a fuoco San Gallo, già
nel 883 i Saraceni avevano distrutto l’abbazia di Montecassino; anche i Normanni lasciarono dietro di sé terra
bruciata. La maggior parte dei monasteri situati vicino alle coste atlantiche venne abbandonata, e molti
monasteri cercarono nuova sede più a est. Nessun tipo di atrocità bellica del Medioevo ebbe effetti così
devastanti sul monachesimo europeo come queste incursioni devastatrici.
L’indebolimento del potere regio centrale + conseguente indebolimento dell’ordine interno del regno ebbero
effetti devastanti sulla vita monastica, poiché condussero, soprattutto nel regno di Francia Occidentale, al
diffuso trasferimento di monasteri regi nelle mani della nobiltà e così alla frequente distruzione della disciplina
monastica, al saccheggio dei monasteri. Ciò he non riuscì ad annientare la forza devastatrice dei nemici esterni,
lo distrusse la rivalità privata e i saccheggi della nobiltà, in quel periodo di regressione quasi anarchica del
potere.
Conseguenza politica in Francia Occidentale: rinnovata frammentazione della vita monastica in una
molteplicità di consuetudines, per le quali ormai il monachesimo benedettino era una semplice etichetta. +
Pratica derivante da tradizione per cui i monasteri divenivano parte del patrimonio del loro fondatore e la
protezione degli interessi del monastero era posposta agli interessi terreni del Signore. Si poteva arrivare
persino all’appropriazione dell’ufficio dell’abate da parte di un ricco laico. V. 909 Sinodo di Trosly: non si
poteva più parlare di monasteri, ma di loro declino, la sinodo osservò che ormai nei monasteri vivevano degli
abati laici con le loro mogli, figli, vassalli.

LA FIORITURA DEI BENEDETTINI:


Sia nel Regno di Burgundia (fondato nel 888) che nel Regno Tedesco, sorto nel 911 dalla parte orientale del
Regno Franco: la vita monastica si stabilizzò dopo l’ascesa al trono di Ottone I nel 936, in modo più rapido
rispetto al Regno dei Franchi occidentali, politicamente frammentato.
Sotto Ottone I per designare lo status giuridico dei monasteri regi venne impiegato nuovamente il concetto di
libertà regia (v. già carolingi: comprendeva la protezione reale, l’immunità e la libera scelta dell’abate. La
protezione contro le brave di vescovi e nobili fu garantita da una decisione legale del 951: che diceva che i
monasteri regi non potevano essere donati a nessuno. Quei monasteri erano comunque tenuti a prestare servizi
al re: il sistema carolingio basato sulla reciprocità proseguì dunque senza alcuna soluzione di continuità, anche
se l’equilibrio fra le parti si sarebbe spostato.
Ottennero prestigio anche quei monasteri femminili sassoni, il cui status di fondazione di canonichesse o di
monasteri benedettini è difficile da valutare. Fondazioni vicine al re: la funzione si concretizza in 2 compiti:
1. Preghiere per il fondatore, ovvero il re e il regno; 2. Istruzione e mantenimento di alcune donne della famiglia
reale e dell’alta aristocrazia. Tali monasteri funsero anche da luoghi di sepoltura e incontro, diventando perciò
anche centri politici del regno. Qui la religiosità entrò in collisione con gli interessi del potere, v. come accadde
nel monastero della regina merovingia Radegonda.
Tuttavia all’epoca il monachesimo era ancora in declino anche in ampie parti del giovane regno Tedesco, v.
Baviera devastata dagli Ungari. Rinnovo delle esperienze di vita monastica basate su una regola venne
intrapreso nella prima metà del X dai vescovi. A tal fine la regione dell’Alta Lotaringia si mostrò un territorio
propizio. Qui Gozzelino, vescovo di Toul, all’inizio del X, fece occupare da un gruppo di uomini il monastero
di Saint-Evre, ubicato nella diocesi e lo pose sotto la guida del monastero di Fleury. Ciò ebbe impatto su un
ampio gruppo di uomini alla ricerca di salvezza che avevano contatti personali con Toul. Con l’aiuto del
vescovo di Metz nel 934 si fecero carico del cenobio di Gorze che stava cadendo in rovina. Abbazia di San
Massimiano a Treviri, allora posseduta dal duca di Lotaringia in qualità di abate laico, venne ricondotto a
autentica vita monastica. Ottone I rafforzò simili iniziative con una successiva riforma monastica: con cui
conferì la libertas regia a San Massimiano, Gorze, Sainte-Evre.
Nello stesso tempo ci fu ondata di fondazioni di monasteri femminili, anche esperienza religiosa delle monache
necessitava di un rinnovamento. Molti monasteri vennero fondati + cenobi femminili già esistenti furono
riformati e vi fu introdotta una stretta osservanza della regola di Benedetto. Il testo della regola di Benedetto
doveva essere nuovamente insegnato in ognuna di queste comunità. Il vescovo Gozzelino lo ottenne dal
monastero di Fleury che rispettava anche le consuetudini di Benedetto di Aniane. L’osservanza precisa di
queste norme: condusse a più stretto rispetto dei voti monastici (povertà personale, obbedienza e fedeltà al
monastero) a un rinnovamento della liturgia, a una ponderata ascesi etc. Questi aspetti di una rinnovata vita
monastica costituirono le vere fondamenta del movimento di riforma lotaringico, che partì dalla Lotaringia
(Metz Saint Arnoul) e poi in numerosi monasteri del regno Tedesco. Imposizione di riforma si basò sulla
coesione tra monasteri riformati e sulla sicurezza data da privilegi reali ed episcopali: così che si ebbe armonia
con politica ecclesiastica ottoniana, che tendeva a usare monasteri al servizio del regno.

CLUNY: la fondazione della libertà monastica: Risveglio della vita monastica sulla base della regola di
Benedetto e della sua messa in pratica ad opera di Benedetto di Aniane: avrebbe potuto risultare anche in
un’altra forma di libertà: ovvero avrebbe potuto dar vita a una forma di libertà non condizionata da alcun
genere di autorità vincolante esterne. L’autonomia terrena corrispondeva all’essenza della vita religiosa in
un carattere fondamentale: lasciare il mondo per andare incontro al volere di Dio e mirava a liberarsi dalle cose
terrene. In una regione quasi priva di governanti e al tempo di una degradazione della vita monastica ciò
divenne reale. Nel 910 sorse una tipologia di monachesimo benedettino che era libera da qualsiasi autorità
laica. In seguito si presentò come il centro della vita benedettina, tanto da mettere in ombra la stessa
Montecassino e riuscì a costruire nei 200 anni successivi la più grande congregazione monastica sviluppatasi
fino a quel tempo attorno a un monastero. Abbazia di Cluny. In Borgogna, la “luce del mondo”.
La libertà di Cluny fu stabilità sin dal principio per esplicita volontà del suo fondatore, il duca Guglielmo di
Aquitania. Nel diploma di fondazione egli affermò che aveva deciso di fondare il monastero spinto dall’amore
di Dio, oltre che dalla preoccupazione per la sua salvezza, includendo poi anche la salvezza dell’anima del suo
re. Stabilì che in futuro l’elezione dell’abate sarebbe stata autonoma (autocefala) secondo la Regola di San
Benedetto + nominò primo abate e decretò che monastero era fin da subito libero da qualsiasi autorità terrena
+ affidò monastero con tutto suo patrimonio agli apostoli Pietro e Paolo e pregò il papa, in qualità di futuro
protettore e difensore dell’abbazia, di scomunicare tutti coloro che avrebbero assalito i beni di Cluny.
Guglielmo era un uomo pio anche molto potente. Regnava incontrastato, come se fosse un re, su quasi tutta la
Francia meridionale. Nessuno era in grado di opporsi ai suoi provvedimenti. Tuttavia lasciò Cluny in
condizione di libertà che non era garantita da alcuna autorità: il papato si trovava in una delle sue più profonde
crisi, moralmente e politicamente logorato dalle lotte di potere della nobiltà romana. + I re carolingi erano
politicamente lontani da Cluny, un territorio di confine tra regno dei Franchi occidentali e il regno di Borgogna,
ma erano anche fiaccati dallo scontro con la nuova e forte dinastia dei Robertingi, dalla quale in seguito
sarebbero sorti i Capetingi (gli eredi più duraturi del trono franco occidentale/francese. Fin dall’inizio quindi
Cluny rischiò di essere accerchiata nella sua regione da un vuoto di potere, potendo stimolare l’avidità dei
poteri secolari che la circondavano.
Libertà senza protezione, usata in modo sapiente, offrì più opportunità di espansione rispetto a una protezione
senza libertà, essendoci dietro un’idea guida carismatica in grado di entusiasmare monaci e laici. Essa era
fissata nel diploma di fondazione, era “il rafforzamento della stabilità e dell’integrità della religione cattolica”.
L’abbazia lavorò su ciò e grazie a sapiente integrazione di aspetti organizzativi con quelli spirituali riuscì a
realizzare ciò che era sempre sembrato improbabile: trasformarsi rapidamente in una potenza mondiale
monastica dedita alla difesa della fede cristiana. Abbazia poté contare su classe dirigente adatta a progetto, che
rimase tale sino al XII inoltrato. I primi abati (scelti con attenzione) esercitarono loro incarico per periodi
insolitamente lunghi e disposero quindi del tempo necessario per perseguire obiettivi strategici di lungo
periodo.
L’abate che fondò la comunità, Berno, aveva considerevoli esperienze direttive, poiché quando fece ingresso
a Cluny era già stato abate di altri monasteri, anche se in modo abbastanza poco benedettino. Allo stesso tempo
Berno era stato a contatto con le idee di Benedetto di Aniane e con le sue riforme di spiritualità religiosa.
Aspetto della strategia cluniacense che se di per sé non era non era nuovo, venne perseguito con impareggiabile
coerenza dai Cluniacensi: sotto la supervisione dell’abate di Cluny svariati monasteri accomunati dal
medesimo spirito vennero riuniti assieme, potenziando così la loro forza spirituale e rendendo la comunità
inattaccabile, dato che era soggetta a tanti diversi centri poteri secolare. Questo buon inizio fu favorito dal fatto
che Berno proveniva da una famiglia nobile e che aveva buoni rapporti col duca di Aquitania e con famiglia
reale della Provenza e dell’Alta Borgogna. Tale rete di contatti col mondo della nobiltà e con grani poteri
secolari venne mantenuta anche in seguito.
Negli anni del discepolo e successore di Berno, Odone, si riconosce un meccanismo che verrà rafforzato in
seguito da abate Aimaro e che divenne elemento fondamentale per la protezione di Cluny. I nobili del luogo +
aristocratici di altre regioni: investirono risorse economiche considerevoli nell’abbazia attraverso loro
donazioni. E’ probabile che a quell’epoca di “cristianizzazione della nobiltà feudale, tali donazioni avvenissero
ancora con motivazioni pragmatiche: il genuino timore della dannazione eterna. Tali doni erano fatti ad
sepolturam, per assicurarsi una tomba nella terra consacrata del monastero e le preghiere della comunità
monastica, che avrebbero tutelato la memoria del donatore post morte.
Durante i successivi abati che ebbero un’influenza civilizzatrice sulla nobiltà: si rafforzò il legame tra Cluny e
i laici attraverso il consolidamento di una confraternita, finalizzata ancora alla memoria attraverso la preghiera,
che riuniva il monastero e i singoli fondatori o la famiglia del fondatore. Strategia di Maiolo per pacificare i
dintorni dell’abbazia: affittare la terra ricevuta in donazione, pretendendo canoni esigui, a dei nobili castellani
della regioni, così che avessero un forte interesse a tutelare Cluny. Inoltre i futuri membri del monastero (a
volte affidati alla comunità già da bambini) provenivano spesso dalla cerchia familiare di tali benefattori:
questo rapporto basato su reciproche donazioni creò una sorta di zona protettiva attorno a Cluny. Poiché Cluny
non apparteneva a nessuno tutti erano attenti affinché non cadesse sotto il controllo di uno di loro.
Questo meccanismo richiedeva una costante: credere al potere spirituale della preghiera dei Cluniacensi,
ovvero all’integrità personale di coloro che pregavano, che diventava il mezzo per ottenere la salvezza. Il
futuro mostra che Cluny fu all’altezza di questa aspettativa per secoli.
Abate Odone ottenne due diplomi importanti che rafforzarono la posizione giuridica dell’abbazia.

• 927 quando Rodolfo I, primo fra i re dei Franchi Occidentali, diede a Cluny un diploma in cui
confermava le disposizioni del duca Guglielmo relative alla fondazione dell’abbazia e le innalzava a
livello di immunità regie, rinunciando così a qualsiasi diritto di giurisdizione sull’abbazia.
• 931 papa Giovanni XI emanò una bolla in cui confermava sia l’affermazione che Cluny era stata
affidata ai principi degli apostoli sia la libertà da qualsiasi dominio secolare. Inoltre si dichiarava
l’’immunità di Cluny da qualsiasi interferenza esterna, una concessione fatta non dal re ma dal papa,
che diventata così il protettore del monastero. Il privilegio più importante garantito dal documento
papale fu il permesso di accogliere non solo monaci di altri cenobi, desiderosi di entrare a Cluny per
realizzare meglio i loro voti, ma anche di accorpare interi monasteri con lo scopo di riformarli!
Notevoli successi per Cluny sin da subito! I re di Borgogna nel 928/9 le donarono, per la salvezza delle loro
anime, una vecchissima abbazia risalente a inizio VII, che venne riformata e trasformata in priorato. Nel 930
Odone era diventato abate di Fleury, per realizzare anche lì una riforma della disciplina monastica. Poi Odone
andò in Italia, dove si impegnò per diffondere le idee della riforma monastica nei monasteri romani: Farfa,
Montecassino, senza tuttavia mostrare la volontà di annettere queste comunità a Cluny. L’abate Odone riteneva
che il rinnovamento degli ideali monastici intrapreso da Cluny fosse “l’inizio di una riforma complessiva della
Chiesa e del mondo”. L’indebolimento dell’autorità ecclesiastica da lui osservato (causato anche da abusi
eclatanti) ai suoi occhi era destinato ad avere “conseguenze fatali per le sorti del mondo intero”. Questa
preoccupazione trovava corrispondenza nel principio, attestato nella carta fondativa dell’abbazia, del sostegno
“alla stabilità e all’integrità della religione cattolica”. Così Cluny si assunse sin dal principio la responsabilità
non solo per la salvezza delle anime dei suoi monaci, ma anche per la salvezza dell’intera cristianità.
Cluny trovò duraturo sostegno nel papato che a partire dalla bolla del 931 descrive il monastero come “in
eterno soggetto alla Santa Romana chiesa”. Per questo la comunità godette della libertà garantita da Roma.
Dal 978, con privilegio di papa Benedetto VII, Cluny era incaricata della difesa e dell’ampliamento della chiesa
romana. Già nel X, tuttavia, Cluny cercò di guadagnarsi anche il favore dei vescovi e dei corrispondenti capitoli
delle cattedrali. Ma fu soprattutto l’esenzione dell’abbazia dalla giurisdizione del vescovo di Macon a
rappresentare un paso impo per l’espansione indipendente di Cluny. In quel secolo papa Gregorio V garantì
all’abbazia il diritto di scegliere liberamente il vescovo che avrebbe poi consacrato l’abate di Cluny (998) e
qualche decennio dopo papa Gregorio XIX liberò abbazia da ogni giurisdizione episcopale, un provvedimento
che fu difficile da mettere in pratica.
La chiesa cluniacense: un’unione di monasteri: Dopo 180 anni, il successo dell’idea-guida di Cluny (portare
a cristianesimo un rinnovamento guidato da abbazia) divenne evidente grazie al raggio di azione della rete di
cenobi cluniacensi. 998 prima lista di monasteri appartenenti a Cluny: 38 comunità; entro anno 1109 con abate
Ugo I l’influenza dell’abbazia si estese nella sua regione, in Italia, Lotaringia, Inghilterra, Normandia, Francia,
Aquitania, Provenza e Spagna: apice del consolidamento del potere dell’abbazia, sotto Ugo “il Grande”. Le
fondamenta erano già state gettate al tempo di Berno. Si consolidò la prassi di dar vita, assieme ai monasteri
da riformare, a una confraternita di preghiera volta a consolidare unione tra comunità. Sotto abate Odilone
(994/1049) questo modo di procedere venne perfezionato e esteso a monasteri associati a Cluny in modo
istituzionale. Così i cluniacensi si impossessarono di un mezzo di comunicazione già noto ma lo estesero al
punto che cambiò qualitativamente. Cluny divenne il centro della produzione dei “libri dei morti”, in cui
insieme a benefattori laici o religiosi (con anche papi imperatori re vescovi) erano annotati i nomi dei
confratelli cluniacensi deceduti: circa 48 mila monaci vissuti tra X e XII. Ciò unì la comunità in modo assai
stretto. In tal modo crebbe una comunità composta non solo da vivi che pregavano ma anche da morti per cui
si pregava. Era una comunità che sembrava dunque trascendere lo spazio e il tempo.
In un’area vastissima erano presenti monasteri con status diversi: grandi e prestigiose abbazie con alle spalle
una storia precedente all’ingresso della congregazione cluniacense; e piccole celle. Nella prima metà del XII
esistevano circa 700 comunità cluniacensi. Nonostante sforzi per avere procedure unitarie: questa molteplicità
era anche conseguenza di eventi contingenti, come fondazioni da parte di cluniacensi, riforme o annessioni di
altri monasteri e perciò non era il risultato di un processo lineare. Sotto abate Odilone, quando espansione
raggiunse Francia settentrionale, e Cluny nel 1027 ricevette, per la prima volta in 72 anni, un diploma regio
che confermava precedenti concessioni, tuttavia emersero le prime resistenze. Provenivano soprattutto da
episcopato francese ed erano dirette contro il potere monastico di Odilone, che era definito un re e che a detta
loro aveva sovvertito l’ordine voluto da Dio. Attacchi del genere però erano riflesso dell’attrattività di Cluny:
infatti fu proprio sotto questo abate che il numero dei monaci sotto controllo di Cluny raddoppiò + Cluny
integrò nella sua struttura l’abbazia di Moissac con le sue numerose dipendenze, facendo così ingresso
nell’Aquitania sudoccidentale. E così sotto Ugo si estese oltre la Francia, grazie al sostegno del papa e dei
religiosi.
Si creò così una coesione che si era basata su un legame tra Cluny che rappresentava la testa e le sue dipendenze
che ne costituivano le membra. La nuova definizione data a questa organizzazione fu Cluniacensis ecclesia.
Per norme che regolano diritti di proprietà: essa era soggetta all’autorità dell’abate di Cluny, come venne
affermato nel documento di papa Pascale II nel 1109. Sullo sfondo: idea di un grande monastero decentrato,
v. monaco doveva pronunciare voti unicamente a Cluny, il centro del sistema. Questa struttura si adattava bene
a quanto allora si conosceva sulla vita e regola di Benedetto: anch’essa presupponeva esistenza di un singolo
abate, e allegoricamente lo stesso benedetto abbracciò il mondo intero quando aveva visto “tutto il mondo
raccolto sotto un unico raggio di sole”.
Ma spesso comunità potenti, come antico monastero di Saint-Gilles in Provenza o San Cipriano a Poiters,
rifiutarono di diventare cluniacensi, scegliendo di conservare loro antichi privilegi e loro usanze o coltivando
più stretti rapporti con poteri locali e i loro interessi. Inoltre: struttura della congregazione basata da un lato su
suddivisione in abbazie dipendenti, dall’altro su priorati sottoposti direttamente a Cluny, era poco uniforme.
V. Privilegio di papa Pascale II del 1107: differenziava da una parte il diritto a governare direttamente (che
abate di Cluny possedeva verso i suoi priorati e che gli dava il diritto di creare e deporre i priori a suo
piacimento) e dall’altro il solo diritto all’ordinazione posseduto da Cluny verso le sue abbazie, che dovevano
solo far confermare da Cluny i loro abati, scelti in modo autocefalo. Ma tanto più grande diventava la comunità,
quanto più difficile era rendere efficace l’organizzazione del potere centrale detenuto da Cluny.
Il compito di prendersi cura di tutta la cristianità si attuava anche diffondendo quelle forme di vita comunitaria
che in virtù della loro forza spirituale rendevano credibile l’impatto di questo impegno per la cristianità e
potevano indurre altri cenobi a imitare il monachesimo cluniacense. E così Cluny divenne la più grande
esportatrice di un modello monastico sino a quel tempo.
Ordo cluniacensis: Le regole monastiche rappresentavano da sempre solo la base della vita comunitaria: nella
prassi di tuti i giorni si erano sviluppate consuetudini che acquisirono valore normativo per particolari aspetti
dell’organizzazione di un monastero. Tali consuetudini potevano essere trasmesse oralmente, ma a volte
venivano messe per iscritto, v. consuetudines, in modo da mettere a disposizione un modello di riferimento
per orientare la vita monastica. Benedetto di Aniane aveva già predisposto una grande raccolta di testi
consuetudinari, con obiettivo di garantire rispetto del corretto ordinamento monastico nelle comunità da
riformare. I Cluniacensi si basavano su norme di Benedetto di Aniane e le loro consuetudini circa la prassi
liturgica, l’ascesi, il lavoro etc divennero espressione del loro peculiare profilo monastico. Nel tempo diedero
vita a unno stile d vita cluniacense, a un ordo cluniacensis.
A Cluny la messa per iscritto delle consuetudini iniziò nel 990 con Maiolo con un testo successivamente
chiamato Consuetudines antiquores, che riguardava solo pratiche liturgiche. L’opera successiva abbracciava
anche questioni amministrative e tecniche: Liber tramitis (il libro della vita), al tempo di Ugo tale opera era
stata ancora rielaborata. Giovanni negli anni 20 del XI la porta in Italia a Farfa. Negli anni 70 del XI Bernardo,
un monaco di Cluny, realizzò nuova stesura delle consuetudini cluniacensi: mise per iscritti le effettive usanze
praticate nell’abbazia. Così egli voleva raccogliere in un volume la vera essenza normativa, in modo da
trasmettere a futuri monaci la conoscenza delle consuetudini dei cluniacensi di quel tempo. Dopo anno 1079
anche Ulrico, monaco di Cluny, iniziò sotto preghiera di Guglielmo (abate riformatore del monastero di Hirsau
nella Foresta Nera) a mettere per iscritto le consuetudini cluniacensi.
Inoltre importanti per la diffusione dell’Ordo cluniacensis furono i monaci che impararono le consuetudini di
Cluny e le diffusero o svilupparono ulteriormente: v. Guglielmo figlio do Volpiano, che fu per 13 anni monaco
a Cluny sotto Maiolo e fu chiamato nel 1000 a rinnovare abbazia di Fecamp in Normandia: regione di
espansione nuova per il mondo monastico. I Normanni dopo le devastazioni divennero ducato e lì sorse col
tempo una schiera di monasteri influenzati da spiritualità cluniacense. Normandia, a partire dal 1066, grazie a
successi militari e politici di Guglielmo il Conquistatore, divenne trampolino di lancio verso Inghilterra di un
monachesimo benedettino improntato sul modello cluniacense. Lì si portò a termine un profondo rinnovamento
della vita monastica. Guida e coordinatore di questo processo di riforma fu Lanfranco (1010/1089) originario
di Pavia, che nel 1070 fu promosso ad arcivescovo di Canterbury da Guglielmo in Conquistatore, che era
diventato re di Inghilterra. Normanni promossero ciò anche nell’Italia meridionale da loro occupata. Nel 1003
Guglielmo da Volpiano fondò anche in Piemonte un suo monastero: Fruttuaria. Dal 1012 al 1031 Guglielmo
assunse anche la guida dell’abbazia di Gorze presso Mtez, un evento che ebbe conseguenze significative per i
monasteri del regno Tedesco.
L’ampiezza del monachesimo cluniacense abbracciava anche l’ambito delle donne consacrate a Dio. Ne 1055
per la prima volta nella storia di Cluny si giunse alla fondazione di un monastero femminile. Venne istituito a
Marcigny, vicino Semur, a sud-ovest di Cluny: 99 donne appartenenti a nobiltà avrebbero dovuto vivere lì in
regime di stretta di clausura sotto la guida di una priora. Il patrocinato del monastero, a parte Maria e Martino
di Tours, fu assunto da Santa Agnese, la più antica martire e patrona di Roma, in continuità con Cluny che
poteva vantare Pietro e Paolo come patroni.

Una chiesa per il mondo: Cluny impressionò i suoi contemporanei. Papa Urbano II, lui stesso ex priore
dell’abbazia, nel 1097 definì i cluniacensi usando quel passo di Matteo, originariamente riferito a apostoli in
cui essi sono definiti “la luce del mondo”, Cluny illuminava la terra come un secondo sole. L’idea era che si
dovesse andare nel mondo per renderlo luminoso e nuovo. Tuttavia risplendeva all’esterno perché essa stessa
era un esempio tangibile dell’idea dalla quale era animata. Forti celebrazioni eucaristiche: Lo storico Rodolfo
il Glabro (morto nel 1047) che dedicò sue Storie a abate Odilone, descrisse la vita spirituale di Cluny secondo
la sua abilità dello scacciare i demoni. “Cluny ha il primato nel liberare le anime dal gioco dei demoni”. Cluny
impressionò anche Pier Damiani, che nel 1062 soggiornò nell’abbazia in qualità di legato papale. Lo colpì
“l’ordine della santa condotta della vita” dei monaci. Silenzio fatto di sforzi continui era un argine a negligenza
e alla debolezza di alcuni confratelli e li privava di occasioni per commettere mancanze. + Provvedimenti
contro instabilità dei monaci meno devoti, poiché grande carico di lavoro dell’impegnativa vita quotidiana dei
monaci assorbiva ogni momento del giorno e della notte. V. sotto abate Ugo I ciascun monaco doveva recitare
215 salmi al giorno, mentre nella regola benedettina ne erano prescritti solo 37. Commemorazioni per i morti.
La grandezza della fede cristiana poteva essere mostrata anche mediante la misericordia verso i bisognosi.
Cluny si occupava ogni giorno ci centinaia di poveri.
Sotto Ugo I il numero dei monaci dell’abbazia di Cluny salì a 300, perciò occorreva spazio, quindi nel 1088 si
iniziò a erigere una nuova chiesa, la terza. Conclusa, era di dimensioni monumentali: più grande edificio di
culto della cristianità occidentale. Era il simbolo materiale del Tempio del Signore.
Già attorno all’anno 1000 i cluniacensi iniziarono a celebrare il culto mariano: in Maria i monaci vedevano
rispecchiata la loro stessa verginità e credevano di attingervi la forza che li avrebbe fatti sollevare allo status
intermedio tra uomini e angeli. Questo modello possedeva potenziale politico: offriva una giustificazione
trascendente per la loro affermazione che i più puri avrebbero dovuto guidare la cristianità. Assumersi la
responsabilità di rendere il mondo luminoso e nuovo: creò la consapevolezza che la vera guida della chiesa
andava cercata nel mondo monastico, dove c’era la vera élite cristiana -> non facile da conciliare coi modelli
gerarchici della chiesa istituzionale. A causa di questo, o proprio per questo: i potenti del mondo si volsero
verso Cluny. Tutti i papi fino al XII supportarono Cluny, v. Gregorio VII 1080, riconobbe che essi superarono
tutti nel servizio divino e nello zelo spirituale; 1095 papa Urbano II consacrò di persona l’altare della nuova
chiesa. Rapporti stretti esistevano anche fra abati e re o imperatori tedeschi. Il loro rango era vicino a quello
dei pontefici. Dall’epoca di ottone I i rapporti ottimi fra Cluny e l’Impero non si interruppero più: consigli,
doni, incoraggiamenti spirituali. Ugo si dimostrò un aiuto e un mediatore affidabile per l’imperatore durante
la vicenda della Lotta per le investiture. Nelle chiese di Cluny si continuò a pregare per l’imperatore anche
quando era già stato scomunicato dal papa.
Nel cuore degli eventi: nel 1077 quando l’abate Ugo sedette tra Gregorio VII e Enrico IV a Canossa: emerse
tuttavia un simbolismo che rivelava come, a causa dei mutamenti causati dalla lotta per le investiture, l’epoca
di Cluny fosse destinata a giungere al termine. Cluny si considerava una ecclesia, una chiesa monastica che
abbracciava la cristianità e che doveva rendere i cristiani luminosi e nuovi. La suddivisione di questo mondo
tra clero e laici distrusse il fondamento sul quale Cluny poteva agire. + La chiesa romana stava sempre più
trasformandosi in una istituzione desiderosa di rivendicare monopolio dell’accesso alla salvezza: in futuro
quindi non ci sarebbe stato più posto per un’altra luce del mondo dotata di propria autorevolezza apostolica.
1097: il documento di Urbano II: uno degli ultimi grandi onori prima del declino. Le strutture profondamente
radicate cambiarono lentamente e ciò a Cluny divenne evidente in modo drammatico.
1122 si verificò uno scisma abbaziale quando abate Ponzio venne deposto e sostituito da anziano Ugo II, che
morì tre mesi dopo. Il successore fu Pietro (1122-1156) il Venerabile, Ponzio contestò l’elezione, ma nel
1126venne prese in custodia dal papa. Nonostante ciò Pietro si dimostrò uno dei più importanti abati di Cluny:
cercò di riformare abbazia e non senza successo, riuscì a ordinare su basi nuove le finanze e amministrazione
del monastero, scrisse libro sui miracoli per l’educazione dei monaci. Anch’egli nutrì un sentimento di
responsabilità per intero mondo cristiano. Sull’onda del successo della Prima Crociata fece tradurre il Corano,
con scopo di ricondurre la setta di Maometto in seno al cristianesimo. Così pose fine a una secolare tradizione
di ignoranza e pregiudizi nei confronti dell’Islam. Ebbe anche la magnanimità pastorale di offrire rifugio a
Cluny nel 1141 a un teologo e filosofo che la chiesa aveva condannato come eretico: Pietro Abelardo. Alla
morte nel 1156 Cluny non seppe trovare un successore del suo calibro.
Il monachesimo poté diventare Cluny: 1. Perché era indipendente dai potenti del mondo e allo stesso tempo
cercava di integrarli nel proprio sistema per perseguire i suoi scopi; 2. Perché era in grado di trasmettere con
ogni mezzo la consapevolezza di aver ottenuto il potere di servire la gloria e l’onore del Signore in modo libero
dal controllo di qualsiasi autorità di questo mondo: Cluny serviva solo Dio.
Monachesimo a servizio di re papi e vescovi: il Regno Tedesco non diede a Cluny molte opportunità per
espandersi: solo in Alta Lotaringia, Alsazia, e in Regno di Burgundia vi erano dei monasteri cluniacensi. Tali
fondazioni si trovavano in regioni svincolate da diretto potere regio. Rapporto speciale di abati con re tedeschi,
che da Ottone I nel IX a Lotario III nel XII erano stati anche imperatori, riguardava il riconoscimento di Cluny
nell’ordine universale della salvezza. La libertà di Cluny non deve essere confusa con la libertà dei monasteri
regi: né per quanto riguarda le relazioni col re, né le relazioni coi vescovi del Regno, che cercavano
costantemente di espandere il loro potere mediante l’aiuto di ulteriori monasteri, concessi loro in eredità dai
sovrani. A quel tempo la cessione di monasteri ai vescovi si snodò come una catena nella politica dei sovrani
germanici. Enrico II, ultimo imperatore della dinastia ottoniana, regnò dal 1002 al 1024, molto devoto a San
Benedetto e in giovane età sperimentò la vita monastica. Si fece promotore di un’attenta politica monastica:
creazione di un programma formativo secondo la regola benedettina, che portò a un rafforzamento del
monachesimo sotto autorità regia e che fu utile a stabilità del regno. Enrico favorì i monasteri regi già esistenti,
ne sottrasse altri all’autorità dei vescovi e dell’aristocrazia e li dotò del privilegio della libertà regia. E trasferì
pure 17 deboli monasteri regi ai vescovi, così che il bilancio complessivo del monachesimo regio venne
migliorato.
Il monastero di Gorze che era sempre rimasto un monastero episcopale della diocesi di Metz, sperimentò un
periodo di rinnovamento. Tra 1012 e 1031, su desiderio del vescovo di Metz, ne prese la guida Guglielmo da
Volpiano, un ex monaco cluniacense. In tal modo le consuetudini del suo Fruttuaria entrarono in vigore a
Gorze, che venne così influenzato da Cluny. Questa riforma restituì a Gorze una rinnovata fama.
In quegli anni sorse anche un secondo complesso monastico creato da un vescovo e destinato a estendere sua
influenza su ampie porzioni del regno. Annone II, arcivescovo di Colonia (1056-1075) diede all’abbazia di
Siegburg, fondata da lui a Colonia, le consuetudini dell’abbazia di Fruttuaria, con alcuni cambiamenti per
renderle più rigorose. Gli obiettivi riformatori così emersi erano sotto il segno dell’unione tra vescovo e
monastero che conduceva una vita orientata verso la regola benedettina. Si trattava di una pura riforma
monastica episcopale. Tuttavia il diritto alla libera scelta dell’abate, importante per indipendenza monastica,
non fu ridimensionato. Inoltre era in pipano piano il problema di come ridurre le interferenze della nobiltà
(come per i cluniacensi ma qui sono espressione degli interessi dei vescovi). Siegburg divenne fulcro di una
riforma monastica che si estese.
Accanto a questi sviluppi, che avvennero sotto la regia dei vescovi regi, i quali se ne servirono per rafforzare
propria posizione nei confronti del regno: prese forma un cambiamento fondamentale nel comportamento della
nobiltà riguardo a fondazioni monastiche. Solitamente aristocrazia, se voleva garantire protezione massima ai
monasteri che fondava, li cedeva al re. In un processo di emancipazione dal potere regio + scetticismo sulla
capacità che una simile libertà aveva di durare nel tempo: i nobili desiderosi di fondare un monastero si volsero
sempre più verso il papato. In tal modo sorse una forma di comunità monastica completamente nuova per il
regno Tedesco.
1059 abbazia di Hirsau, nella Foresta Nera settentrionale, viene rifondata sulle basi di nuova riforma
sviluppata a Gorze: e il suo abate Guglielmo diede vita a una forma di monachesimo cluniacense attraverso
adozione, con qualche modifica, delle consuetudini redatte per abbazia burgunda da monaco cluniacense
Ulrico: Constitutiones Hirsaugienses. Al centro del testo, che regolava vita dei monaci, c’era un rigido legame
liturgico. Mentre diverso dal modello di Cluny era l’introduzione dei conversi (fratres barbati) che in qualità
di confratelli laici svolgevano i lavori manuali, così che i monaci potessero concentrarsi sui loro doveri
liturgici. In questa comunità fondata da aristocrazia divenne basilare “la vera corona del monaco non è lavoro
manuale bensì il santo servizio al sacro altare”. Inoltre i monaci di Hirsau rifiutavano i bambini offerti dai
genitori: volevano come membri uomini maturi che entrassero con decisione libera. Fin da inizio donne
divennero parte rilevante della vita monastica di Hirsau: la comunità femminile venne poi spostata a Kentheim.
Da 1079 Hirsau: divenne guida di un ampio movimento di riforma, indipendente e animato da nobiltà, che
abbracciava 120 monasteri, principalmente nelle regioni meridionali del Regno Tedesco. Questa riforma ebbe
i suoi effetti anche sulla vita religiosa femminile: numerose fondazioni.
Nonostante influssi cluniacensi Hirsau fu molto influenzata dalle posizioni ideologiche del papato riformato,
all’epoca nel pieno della Lotta per le Investiture. Conte Adalberto II che rifondò il monastero lo affidò alla
santa sede, non più al re, e perciò il monastero era schierato con l’avversario di Enrico IV. Grazie a ciò:
riavvicinamento tra autonomia e aspirazioni religiose della nobiltà: indipendenza da potere monarchico +
monachesimo più libero ed efficace. Ciò implicava la rinuncia da parte del fondatore della comunità a
esercitare influenza diretta. Nel Formulario di Hirsau 1075 Aldeberto II rinuncia a ogni pretesa di rivendicare
il monastero come suo possesso personale + conferisce diritto a una piena libertà (libertà di scelta dell’abate e
dell’advocatus).
La forza di attrazione di queste comunità benedettine: Gorze Hirsau Siegburg, risiede nella loro incondizionata
volontà di raggiungere la perfezione cristiana attraverso adempimento spirituale della vocazione benedettina.
Tuttavia essi erano, come recita la Bibbia, “tra le persone”, coinvolti nelle correnti politiche e sociali del loro
tempo, attraverso le intercessioni per la salvezza del regno e dei loro fondatori e benefattori, attraverso il
sostegno alla crescita del potere episcopale, attraverso intervento a favore degli obiettivi riformatori del papato.
Insieme alle abbazie regie: hanno portato avanti l’antica tradizione del monachesimo politico o politicizzato.
Cluny era più immune dalle turbolenze quotidiane. Mentre questi monasteri non poterono dar vita a una
ecclesia come Cluny: essi dovevano scegliere se proteggere le loro risorse economiche e i loro privilegi
giuridici dalle dannose interferenze dei potenti di questo mondo o se essere sempre attenti a trovare un’autorità
che garantisse loro protezione e che non li opprimesse.

RITORNO NEL DESERTO:


XI secolo: improvvisa comparsa di una religiosità attratta da una vita condotta FUORI dalle tradizionali
comunità monastiche benedettine, nella totale rinuncia a tutto ciò che era legato al mondo terreno. Questa
nuova forma di esperienza religiosa era interessata alla libertà dai pericoli di questo mondo. Si tratta di una
vita eremitica. La possibilità di ritirarsi dalla comunità e isolarsi soli con se stessi e Dio in un eremo: già
presente fin da inizi del monachesimo benedettino. Regola di Benedetto: “gli anacoreti, e quindi gli eremiti,
erano istruiti dalla vita quotidiana del monastero e avevano imparato a combattere contro il Diavolo, essendo
bene preparati al duello”. V. è sottointesa l’immagine di Antonio minacciato dai demoni. Quindi eremitismo
in tal senso era un modello di vita solamente per chi era stato formato dalla vita monastica. Essi conducevano
vita eremitica vicino ai monasteri. Oppure un’esperienza femminile. Recluse, vivevano in una cella isolata dal
circostante monastero non abbandonandola più fino alla morte.
Punto di partenza di questo eremitismo: i Padri del Deserto. Abbandono irrevocabile di ogni cosa terrena e
possibilità di ritrovare sé stessi in uno spazio non contaminato da ciò che ha a che fare col mondo. Lì, in una
comunità di persone con stesse convinzioni, si seguiva la guida carismatica di un asceta e si trovava la via per
giungere a Dio. Cuore della vita religiosa: “nella dimora interiore dell’anima”, senza più vivere secondo forme
di comportamento rituali (volte a dare esteriormente l’impressione di una vita devota). Questo nuovo modo di
vivere: lontano dalle strutture istituzionali, anzi, poteva diventare anche sovversivo per le istituzioni e i
tradizionalisti.
Il tradizionale monachesimo cenobitico si trovò presto in una crisi sempre più grave. Imminente era una
rivoluzione: destinata a mettere in ombrai tentativi che fino ad allora, sotto il nome di riforma, avevano tentato
di promuovere dei cambiamenti in meglio della vita religiosa. Non si tratta più di un miglioramento delle
consuetudini già esistenti, bensì di UN NUOVO INIZIO, grazie al ritorno alle fondamenta dell’esperienza
religiosa comunitaria. Il nuovo eremetismo era una forma religiosa basata su ricerca, su sperimentazione.

• Spesso si cercò di far convivere diversi asceti desiderosi d vivere da soli: 1023 sorse, su ordine del
vescovo di Vic e dell’abate Oliba di Ripoll, un monastero sul monte catalano di Montserrat, abitato da
anacoreti.
• Piu spesso al principio di queste esperienze c’era un gruppo di uomini raccolto attorno a una
personalità carismatica. Avevano validità solo le parole e le azioni di questa guida, basate sui testi
rivelati come Vangeli, Atti degli apostoli o le Vite dei Padri del Deserto. A volte venivano messi per
iscritto. Oppure poteva essere adattata una regola (benedettina o di Agostino) o altri scritti normativi,
rafforzati da proprie consuetudini.
Primi movimenti eremitici: influenzati dai legami con tradizionale mondo monastico, ma furono in grado di
separarsene con modalità diverse. Poiché Al principio di ognuno vi era una personalità carismatica: vi fu forte
enfasi su elemento biografico.

• Primo esempio nella realtà italiana: Camaldoli, fondato da Romualdo (951-1027), in una zona
isolata dell’Appenino toscano. Su Romualdo siamo informati attraverso la sua Vita, scritta da Pier
Daminai (1006/1072), un eremita con idee simili a quelle di Romualdo. Romualdo, nato in una
famiglia nobile, entrò nell’abbazia benedettina di Sant’Apollinaire di Ravenna (972), ma la lasciò dopo
3 anni poiché nonostante fosse stata da poco riformata da abate Maiolo di Cluny, gli sembrava che
osservasse la regola in modo troppo poco severo Seguì il periodo di vita solitaria, che nel 978 lo
condusse sino ai Pirenei dove egli fondò la sua prima comunità di eremiti. Torna in Italia e negli anni
90 su pressione dell’imperatore Ottone III assunse carica di abate di Sant’Apollinaire, che depose dopo
1 anno per darsi a vita di pellegrinaggio senza meta. Vita caratterizzata da un’inquieta spinta verso
perfezione morale, ascesi e penitenza. Attorno all’anno 1000 iniziò a creare delle comunità eremitiche
in diversi luoghi dell’Italia centrale. Qualche anno prima della sua morte fondò la comunità di
Camaldoli: in cui si poteva entrare in comunicazione diretta con Dio. A tre miglia di distanza si trova
poi il monasterium, non dimora dei monaci, bensì luogo per accogliere ospiti, per curare eremiti
ammalati e per organizzare amministrazione della comunità + serviva per isolare dal mondo coloro
che vivevano in modo eremitico.
Camaldoli crebbe rapidamente sotto la guida di un priore generale fino a diventare centro di una
significativa unione di comunità eremitiche che all’inizio seguirono la regola di Benedetto, ma già tra
1076 e il 1081 ricevettero un ordinamento dalla penna del priore generale Rodolfo I. esso stabiliva il
peculiare sistema normativo della comunità + proteggere caratteri essenziali dell’eremitismo
camaldolesi : improntato alla povertà, rinunce ascetiche e alla separazione dal mondo e dai beni, in
modo che esso non decadesse in un monachesimo tradizionale, cenobitico. Verso la metà del XII
Camaldoli riformò monasteri benedettini italiani, e la sua fama crebbe enormemente garantendogli
stima da parte dei papi: ricevette una sua propria regola: Liber heremitice regule. Esso offrì opportunità
di propagare la nuova/vecchia esperienza religiosa dell’anacoresi, “l’eremitismo è la sola esperienza
religiosa che vince il mondo, che tiene a bada la carne, che sconfigge i demoni, che frena il vizio”.
Due ulteriori precoci esempi: del nobile fiorenti Giovanni Gualberto (1000/1073) e di Gunther von
Schwarzburg, della nobile famiglia turingia. 1. G. Gualberto era entrato come monaco nell’abbazia
benedettina di San Miniato ma la lasciò dopo poco. Nel 1073, assieme al altri monaci, fondò il
monastero di Vallombrosa, nella solitudine dei boschi a est di Firenze, dove secondo la regola di
Benedetto e alcune sue consuetudini. A differenza delle normali abbazie benedettine, questa
pretendeva la completa povertà non solo per i singoli monaci, ma anche per la comunità nel suo
complesso. Da Vallombrosa si sviluppò un’importante rete di monasteri, riconosciuta già da papa
Vittore II e ottenne la protezione papale. 2. Gunther nel 1008 si ritira nella foresta della Baviera per
vivere come un eremita. Attorno al 1011, assieme a schiera di seguaci, fondò la cella di Rinchnach,
ubicata nel deserto della foresta. Quando morì la cella andò all’abbazia di Niederaltaich.
Vivere secondo un proprio diritto: all’inizio del XI, quando monachesimo benedettino rappresentava ancora
l’avanguardia della vita religiosa, i seguaci dell’eremitismo non guardavano con disprezzo al monachesimo
tradizionale. Le forze insufficienti dei monaci e i rapporti troppo stretti col mondo non erano ancora interpretati
come debolezze dei monasteri. Questa situazione cambiò durante la successiva generazione. Già nella seconda
metà del XI e all’inizio del XII si sarebbe parlato in modo diverso: lo storico normanno e monaco benedettino
Orderico notò che ai suoi tempi ci si permetteva di additare i monaci come persone mondane e sovvertitori
della regola. + A causa della Riforma Gregoriana, la battaglia contro la simonia (compravendita cariche
religiose) e il Nicolaismo (pratica del matrimonio o del concubinato dei religiosi) e dei disordini causati dalla
Lotta per le Investiture: c’era uno sguardo più attento ai difetti presenti nella struttura istituzionale della chiesa.
Il riconoscimento di tali difetti acquisì dimensione fondamentale, perché allo stesso tempo le esigenze della
vita religiosa assunsero una nuova qualità che molte istituzioni ecclesiastiche non erano in grado di garantire:
cominciarono a sembrare deficitarie. Dubbi su capacità delle istituzioni di garantire salvezza + richiesta di
nuova religiosità più spirituale e interiore. La vita eremitica, nella solitudine con Dio, lontana dal mondo:
rappresentava un modello in forte contrasto col mondo dei monasteri. Perciò tale modello nuovo poteva essere
interpretato in senso anche negativo: come qualcosa di rivoluzionario, venendo combattuto dai poteri
tradizionali.

Si verificarono presto contrapposizioni. Da questo momento in poi: la scelta di dedicare la vita a Dio secondo
le nuove modalità metteva in luce il problema di coloro che trovavano propria strada in una posizione liminare,
ai confini dell’ortodossia.

• Ivo di Chartes (1040/1115), celebre vescovo canonista, venne informato che alcuni uomini
carismatici avevano cercato di convincere i monaci dell’abbazia benedettina di Coulombs a lasciare il
monastero per condurre una vita eremitica nei boschi, in quanto l’abbazia esigeva solo per arricchirsi
la decima. In una lettera a questi monaci Ivo criticò duramente tali affermazioni che paragonò al modo
di vivere dei Sarabaiti, ovvero alla volontà di abitare in spazi isolati secondo una propria regola,
lontano dal diritto della chiesa accettato. Rimproverò anche la pretesa di essere maestri senza mai
essere stati dei discepoli + affermò che tali monaci avevano tagliato i ponti con la chiesa istituzionale.
Ivo scrisse una lettere simile a un altro destinatario, Rainaldo, che stava valutando la possibilità di
darsi alla vita eremitica, sebbene prima avesse preso i voti in un monastero benedettino. Ivo aggiunse:
la vita solitaria era sottoposta solo all’arbitri del singolo. Rainaldo rispose: 1. Vita solitaria non è meno
degna di stima della vita cenobitica, dato che Dio è più felice di un servizio reso spontaneamente che
di uno reso sotto costrizione. 2. Gesù era salito da solo sul monte a pregare e perciò chi voleva essere
perfetto doveva seguire nudo Cristo nudo. Giocò la carta della convinzione interiore vs norma importa
da esterno. Nella seconda lettera Rainaldo accusa i monasteri di seguire formalmente le regole
monastiche (come i Farisei) ma non i precetti del Signore. Coloro che vivevano in antichi monasteri
erano avidi di ricchezze, perciò era impossibile combattere per la salvezza della propria anima. Perciò
era giustificato abbandonare il monastero anche se il monaco aveva fatto voto di rispettare la stabilitas
loci.
Questi erano i fronti schierati.
Tale contrapposizione riguardava anche il contrasto tra il vecchio e il nuovo, tra la tradizione e il suo rifiuto.
A seconda dei punti di vista la differenza consisteva nella contrapposizione tra il favorire l’ordine e
l’isolamento arbitrario, così come tra il vuoto formalismo farisaico e la pienezza interiore della devozione.
Quasi ovunque nei territori della chiesa latina, Terrasanta e in Italia, Francia: a partire da seconda metà dell’XI
fino a XII si formarono comunità eremitiche che accoglievano questa differenza rispetto alla tradizione.

• Grandmontini: Uno dei più grandi esponenti del nuovo stile di vita fu Stefano di Thiers (1044/1124)
che nella solitudine dei boschi, a partire dagli anni 70, radunò attorno a sé una schiera di giovani per
vivere assieme una vita di servizio a Dio, in completa povertà. Egli esortava i novizi a evitare i
monasteri poiché lì avrebbero trovato solo grandi edifici, pasti raffinati e ampie propietà terriere. Lui
invece offriva loro croce e povertà. Stefano proibì qualsiasi cosa non fosse assolutamente necessaria
per una vita essenziale. Poiché i suoi giovani erano dei morti benché ancora vivi sulla terra era loro
sufficiente un pezzetto di terra grande tanto quanto bastasse per seppellire loro cadavere. Alla luce del
fatto che i monaci benedettini avevano l’obbligo della povertà personale, ma i loro monasteri erano i
meglio provvisti, questi pii eremiti, che emergevano dalle foreste in tutta la loro umiltà e la loro fiducia
in Dio per mendicare solo al fine di preservare la loro vita nel momento di più grande pericolo,
dovettero fare molta impressione ai contemporanei. In futuro l’autenticità del modo di vivere dei
religiosi sarebbe stata valutata sulla base di simili manifestazioni di povertà. Stefano fu influenzato da
monaci greci, seguaci della regola di Basilio, che a quel tempo, dopo attacchi dei Saraceni in Sicilia e
Sardegna, vivevano ancora nell’Italia meridionale, rimasta fino a poco tempo prima sotto il dominio
bizantino. Stefano si era recato da loro che godevano della fama di condurre una vita eremitica
esemplare. Nel 1076 Stefano decise di abbandonare ogni cosa terrena volendosi ritirare in se stesso, e
fece qualcosa di altamente simbolico. Egli, un laico, se ne andò tutto solo nei boschi attorno a Limoges
e fece voto di seguire la sua nuova condotta di vita direttamente a Dio, senza che fosse presente un
chierico, un prelato, un abate. Agli occhi di Stefano era presente l’unica persona che contasse: Dio.
Questo atto fu l’inizio di una nuova teologia delle regole monastiche (un giuramenti prestato da un
laico, che però fu rispettato grazie all’ardore della sua fede). I suoi discepoli ricevevano le norme della
vita comunitaria direttamente dal maestro che disse loro che non esisteva altra regola all’infuori del
Vangelo di Cristo, poiché solo Cristo è la via per salire al regno dei cieli. Ed era stato Cristo a gettare
le basi del monachesimo. Quindi ogni regola successivamente composta da uomini rappresentava un
ramo, non una radice. Anche la regola di Benedetto era tale poiché era scaturita dal vangelo. Con tale
richiamo al fondamento del cristianesimo Stefano si era così accostato al nuovo originario della fede
cristiana ottenendo l’autentica norma della vita. Stefano però viveva in un ambiente dominato da vita
monastica e queste tesi crearono problemi: si vide costretto a lasciare ai suoi confratelli un testamento
spirituale con gli argomenti con cui potessero proteggere la loro identità da attacchi esterni. La chiesa
romana dopo un ispezione aveva dato il proprio riconoscimento all’esperienza religiosa promossa da
Stefano. La comunità di Stefano fece carriera dopo la sua morte. Essa si spostò insediandosi a
Grandmont, d cui prese il nome. I Grandmontini si diffusero in Francia e Inghilterra, e in penisola
iberica: 150 comunità. All’inizio erano molto stimati e sostenuti sia da regno francese che inglese.
Misero per iscritto l’insegnamento del loro maestro: “Libro della dottrina” e nella quarta generazione
si diedero pure una regola. Vivevano insieme in monasteri piccoli e modesti, con dormitorio e
refettorio in comune, ma distanti da regioni abitate. Lavoro manuale e amministrazione era nelle mani
dei monaci laici (conversi) mentre i monaci-preti si sarebbero dovuti dedicare solo al servizio divino.
• Ordine certosino: Negli anni in cui fu attivo Stefano di Thiers, in una remota valle vicino a Grenoble,
sorse una comunità che avrebbe esercitato, tra tutti i movimenti eremitici, la più forte influenza per
tutto il Medioevo, sviluppandosi in ogni regione della cristianità occidentale eclissando precedenti
tradizioni. Bruno di Colonia (1030/1101), ex guida della scuola della cattedrale di Reims: stabilì una
fondazione che in seguito prese nome di “Grande Chartreuse”. Bruno venne deposto a Reims intorno
a 1077 poiché era sostenitore della riforma di Gregorio VII, il papa della lotta per le investiture. Questo
accentuò il suo desiderio di una esperienza ascetica. Nel 1081 giunse coi suoi compagni all’abbazia
lotaringia di Molesme, ma si accorse che quel luogo era inadatto alla sua vita ritirata. Forma di
esistenza ideale per lui era la solitudine vissuta quotidianamente. In tal modo pensava di poter
armonizzare vita eremitica e cenobitica. Così si avviò verso luogo più remoto, con condizioni di vita
più aspre. Nel 1084 lo trova nell’Auvergne. Qui la piccola comunità eresse per ogni suo componente
una cella a forma di piccola capanna, con una stanza per dormire, lavorare, pregare, e ambienti comuni
e una chiesa. A differenza di Camaldoli dove le case erano architettonicamente isolate le une dalle
altre, la Certosa (questa comunità venne chiamata così per la valle dove sorgeva) tutti gli ambienti
vennero uniti in un grande chiostro. “Celle attorno a un chiostro”. Nelle singole celle: condotta una
vita quotidiana isolata, silenzio assoluto, contemplazione, veglie notturne, digiuni e mortificazioni,
lavoro fisico e spirituale (copiatura dei manoscritti). Nelle stanze comuni si svolgevano le cerimonie
religiose comunitarie e preghiere corali. Nella solitudine si doveva cercare Dio nel profondo della
propria anima, nella comunità si doveva lodare la sua maestà. Questa organizzazione fu possibile
grazie al ridotto numero dei membri, che dovevano essere 12. Per un simile modello di esperienza
religiosa non esisteva una regola a quel tempo. Nel complesso ci si ispirò alla regola di Benedetto, agli
scritti dei Padri del Deserto o di Girolamo. Per quel momento come nel caso di Stefano contavano solo
le parole carismatiche e la condotta di Bruno. Ancora una volta la vita monastica secondo una regola
aveva perso il suo monopolio. Nel 1090 sorsero per la prima volta dei problemi: Bruno venne chiamato
al soglio pontificio, a Roma, da papa Urbano II (che era stato un suo allievo a Reims), da Roma si
trasferì in Calabria dove fondò un nuovo monastero. Dapprima la comunità si sfaldò ma poi si rimise
insieme a La Chartreuse. Bruno inviò solo una lettera edificatoria che rafforzava lo stile di vita
certosino e lodava e rinvigoriva la comunità per il suo zelo. Problema quindi dell’allontanamento del
carismatico.
Bastarono pochi anni di guida carismatica per dare inizio a nuova esperienza religiosa, che potè
proseguire anche senza suo fondatore. Seguendo il modello della Grande Certosa si formarono
comunità certosine anche in altre regioni. Ad esse vennero inviati alcuni eremiti e conversi provenienti
dalla valle alpina per educare i nuovi monasteri. Guigo (1086/1136) la quarta guida della Grande
Certosa dopo Bruno, si vide costretto a rispondere alle richieste del vescovo di Grenoble e delle nuove
comunità che lo esortavano a comporre una descrizione per iscritto delle consuetudini praticate,
approvate nel 1133 da Innocenzo II. Così si creò un insieme di norme che rappresentarono la base del
nascente ordine certosino.
Entrambe le comunità: i Certosini e i Grandmontini: 1. Mostrarono quale effetto poteva avere una forza
carismatica iniziale, 2. Mostrarono anche quanti sforzi fossero necessari affinché entusiasmo iniziale si
consolidasse. La distanza dalle istituzioni, che caratterizzava inizialmente queste nuove forme di religiosità e
che le portò a scontrarsi con ordinamento tradizionale della vita monastica: liberò potenziale creativo e
comportò insicurezze.
• Altro sviluppo eremitico sotto guida di Stefano di Obazine (1085/1156), prete di Bourges, che decide
poi si seguire povero e nudo Cristo povero. Sua vita ascetica attrasse giovani, coi quali iniziò a
condurre una vita comunitaria. Col permesso del vescovo eresse un monastero a Obazine, a patto che
i suoi occupanti seguissero i precetti tramandati dai Padri. Questo comandamento gli permise di
stabilire una prassi di vita pienamente basata su carisma della guida della comunità. “E poiché non si
è accolta alcuna legge prestabilita di alcun ordine, al posto della legge valgono le disposizioni del
maestro – disposizioni che insegnano umiltà, obbedienza, povertà, disciplina e amore (…) questa legge
venne in pratica e non si preoccupò delle tradizioni farisaiche”. = consapevole rinuncia a una
pedissequa obbedienza ai tradizionali regolamenti della vita monastica. Anche qui: fonte dl modello è
figura carismatica scelta da Dio per questo scopo. Se Stefano, come Bruno, avessero deciso di lasciare
la comunità: la comunità avrebbe corso rischio di disintegrarsi. E all’epoca erano consapevoli di queste
criticità. Le norme personificate dalla guida carismatica dovevano trovare un supporto transpersonale
che garantisse la sopravvivenza della comunità… in tal modo: necessità di aderire a precetti definiti e
inalterabili (ciò che era stato polemicamente definito tradizione farisaica).
Predicazioni carismatiche e movimenti religiosi: eremitismo non ebbe luogo nelle piazze, evitavano di
soffermarsi tra le persone. Così, all’inizio, in virtù di loro innovative scelte di vita, vennero visti come dei
rivali, per quello che riguarda la corretta forma di esperienza religiosa, solo da coloro che si sentivano chiamati
in causa da loro, ovvero i monasteri tradizionali, i cui membri spesso se ne andavano per unirsi a eremiti. MA
LA SITUAZIONE CAMBIO: quando alcuni eremiti dotati di forte carisma non rimasero più isolati, bensì
lasciarono i deserti dei boschi per realizzare, vagando di terra in terra, il messaggio evangelico, secondo
esempio degli apostoli. La consapevolezza di svolgere una missione apostolica era qualcosa che già era
considerato proprio dell’eremitismo. Ma a cavallo tra XI e XII il numero di questi predicatori itineranti
aumentò e mutò anche la qualità del loro comportamenti apostolico. Avevano nuvo pubblico più ampio, con
persone di tutti i ceti dato che in quel periodo c’era bisogno di persone che indicassero le strade per la salvezza.
Alcuni di questi lo fecero: additando gli abusi del clero e delle istituzioni ecclesiastiche come ostacoli alla
salvezza. Inoltre iniziarono a presentare il loro modello di vita in pubblico e a indicare il Paradiso come un
obiettivo raggiungibile da ogni cristiano! Ciò poteva essere provocatorio.
I 4 predicatori più illustri: Bernardo di Tiron, Vitale di Savigny, Roberto d Arbrissel, e Norberto di Xanten.
Tutti hanno un elemento in comune che li contraddistingue: prima di rinunciare al mondo ebbero carriera nel
clero e furono preti + posero tutti fine ai loro giorni di predicatori itineranti, tornando ad aderire a forme di
istituzionalità ecclesiastica diventando fondatori di monasteri.

• Bernardo di Tiron (1046/1117), dopo essere stato monaco benedettino, priore, si ritirò in una colonia
di eremiti nel bosco di Craon e poi divenne predicatore itinerante e nel 1109 ricevette un pezzo di terra
a Tiron, ovest di Parigi, e fondò col sostegno del vescovo Ivo di Chartres, un monastero benedettino
che diventò un grande centro di unione di comunità monastiche.
• Vitale di Savigny (1060/1122) originario della Normandia, nel 1093 si ritira ella foresta di Craon e
diviene capo di un gruppo di eremiti. Tuttavia ritornò diverse volte nel mondo per fondare insediamenti
eremitici in altre regioni: importanti luoghi di ritiro e per predicare al popolo. I suoi discorsi colpivano
le persone per la loro onestà, per lo zelo e incorruttibile capacità di giudizio. Egli on rifiutò di entrare
nelle principali questioni politiche del suo tempo e tentò di mettere pace nella guerra fratricida tra
Enrico I, re di Inghilterra e duca di Normandia, e Roberto Cosciacorta. Anch’egli ricevette un pezzo
di terra su cui nel 1113 fondò l’abbazia di Savigny.
• Roberto di Arbrissel (1045/1116) la sua vita è la più spettacolare tra gli eremiti che andarono nella
foresta di Craon. Figlio di un prete, consacrato anch’egli sacerdote, nel 1076 subentro al padre nella
parrocchia di Arbrissel in Bretagna e qui fece sue prime esperienze di predicatore. Poi si trasferì a
Parigi e poi venne richiamato a Rennes, per diventare vescovo. Roberto si era trasformato da membro
colluso di un sistema corrotto in un difensore della riforma ecclesiastica e da vescovo combattè contro
Nicolaismo. 1095 vita ritirata nell’ascesi nei boschi di Craon, dove si guadagnò la fama di zelota
dell’abnegazione e penitenza e di bravo predicatore e di carismatico. 1096: incontra papa Urbano II
che gli fece tenere una predica e si accorse che “lo Spirito Santo in persona aveva aperto la bocca di
Roberto” e ricevette dal papa il permesso di predicare. Fase di predicazioni, raccogliendo attorno a sé
grandi quantità di persone, soprattutto donne attirare da suo messaggio. Ma questa grande vicinanza
al sesso femminile e la critica al clero generarono delle reazioni. Ci fu uno scambio epistolare dove
maestro lo rimprovera e lo invita a rientrare nelle consuetudini della chiesa. 1100 il Concilio di Poiters,
che si tenne alla presenza di 2 legati del papa Pascale II, esortò Roberto a dare una forma di stabilità
al seguito di uomini e donne che lo accompagnava nelle sue disordinate peregrinazioni. Avrebbe
dovuto stabilirli in una comunità. Anno dopo Roberto fonda un monastero maschile e femminile su un
terreno detto Fontevraud e ne affidò la guida generale a una nobil-donna: Petronilla. Ella possedeva
autorità sui membri maschili e femminili della comunità, onorata come madre spirituale. Una simile
importanza data alla componente femminile che indicava una stima per l’indipendenza delle donne, si
fondava su personale modello di vita di Roberto. Roberto poi decise di istituzionalizzare quella che
era divenuta una vita monastica e perciò scrisse per Fontevraud delle costituzioni che facessero le veci
di una regola e che vennero approvate da papa Callisto II.
• Norberto di Xanten (1080/1134) la sua vita subì svolte più brusche. Vevniva da famiglia nobile,
furono significativi i suoi legami politici con cui ebbe accesso all’arcivescovo Federico I di Colonia e
stabilì contatti con corte del regno tedesco, accompagnando Enrico V a Roma per la sua incoronazione
nel 1111. Dopo essere quasi colpito da un fulmine, nel 1115 ebbe cambiamento di vita. Il chierico così
he stava iniziando una brillante carriera lasciò il precedente modo di vivere e decise di condurre una
vita di penitenze. Si volse verso esercizi ascetici sempre più duri in u eremo che aveva eretto vicino a
Xanten, esortava alla penitenza e alla riforma. Ma queste attività generarono diffidenza. 1118 sinodo
lo accusò di predicare fuori dai confini della sua diocesi e gli rivolse rimproveri solitamente destinati
a eretici. Perché indossava delle vesti fatte con pelli di pecora e capra? Perché era ancora coinvolto
negli affari terreni? L’accusa di ipocrisia era nell’aria. Norberto si difese chiamando in causa i doveri
di sacerdote e il modello di Giovanni Battista. Esito di queste accuse è sconosciuto ma rivela l’effettiva
posizione di confine in cui si trovavano questi predicatori itineranti: v. caso di Pietro di Bruis, un
sacerdote proveniente da Alpi francesi e che predicò l’ideale di una chiesa puramente spirituale e
rinunciò in modo radicale a quasi tutta la simbologia sacramentale e rituale della chiesa istituzionale.
Nel 1119 venne dichiarato eretico ma continuò a predicare e venne linciato da una folla esaltata.
Norberto così rinunciò a prebenda e alla sua cella nell’abbazia di Siegburg, e compì un viaggio con i
piedi nudi e abiti penitenti con solo Cristo come guida e nel 1118 incontrò papa Gelasio II che
riconobbe in lui lo spirito di Dio. Dopo aver perso i suoi confratelli nel 1119 trova un nuovo compagno
Ugo di Fosses che fu importante nel raccogliere eredità di Norberto e si diresse con lui in Francia
settentrionale. Anche Norberto fu accerchiato da schiere di persone per sentire le sue predicazioni. Era
inevitabile che il successo di tali insegnamenti destasse invidia e inimicizie. Ma Norberto non si lasciò
intimorire e distolse molti dagli errori. Autunno 1119 sua vita subisce altra svolta importante: Norberto
su richiesta di papa Callisto II venne posto sotto tutela del vescovo di Laon, Bartolomeo che aveva il
compito di far insediare Norberto in quale luogo. Gli affidò la guida di una comunità di canonici della
sua città, ma Norberto seppe evitare questo incarico imponendo a canonici vite troppo onerose, che
fossero guidate solamente dal vangelo e da atti degli apostoli, pretendendo che fossero degli imitatori
di Cristo. Nel 1120 Bartolomeo affidò a Norberto un terreno chiamato Premontre, a est di Laon, in
modo che potesse erigere lì un doppio monastero. Questo progetto si realizzò sotto forma di una nuova
comunità di uomini e donne, di laici e chierici. Nei primi tempi a Premontre (come con la comunità
di Stefano di Obazine) si respirava piena fiducia nella guida carismatica di Norberto, v. attestato che
quando Norberto partiva per un viaggi di predicazione i demoni entravano nel monastero. Norberto
inoltre chiarì ai confratelli che la comunità avrebbe dovuto osservare rigorosamente la regola di
Agostino nella sua forma più severa: Ordo monasterii. Come Stefano di Obazine ammise che i precetti
apostolici ed evangelici non potevano essere perseguiti nel lungo periodo senza un ordinamento scritto,
senza una regola. Norberto riuscì a costruire una unione di monasteri giuridicamente plasmata secondo
la sua volontà. Da essa sorse in seguito l’Ordine dei Premostratensi.
Il ritorno nelle istituzioni della chiesa: tutte le biografie degli eremiti (quelli isolati come quelli nel mondo)
sono permeate dall’inquietudine di trovare strade ancora migliori per giungere alla salvezza. Il modello della
vita religiosa non era infatti più dato in modo incontrovertibile da regole fisse, da formule dogmatiche: lo si
doveva cercare in se stessi (un io individuale la cui manifestazione esterna era il “fuoco ardente”. Tuttavia la
comparsa di queste figure carismatiche alla ricerca di Dio: produsse l’effetto, in un tempo caratterizzato da
strutture ecclesiastiche irrigidite, di far incontrare 2 diverse interpretazioni del modo di praticare la fede
cristiana e di contrapporle in modo irreconciliabile. Si iniziò a dubitare della possibilità della chiesa di
trasmettere la salvezza. Le persone che cercavano di giungere alla “realizzazione del cristianesimo” non
vivevano ritirate dal mondo nascondersi, perché la loro vita era testimonianza. + poiché compivano viaggi di
predicazione e erano dotate di carisma: inevitabilmente determinarono il formarsi di comunità che
condividevano gli stessi ideali. Ma questa conseguenza non deve essere necessariamente connessa alle figure
ascetiche che ne divennero i modelli: molti di loro (lo abbiamo visto nelle biografie) volevano rinunciare ai
loro compiti di guida delle comunità. Primo passo: si rinunciava solo per se stessi a ogni legame col mondo
terreno per ritirarsi nella solitudine o dedicarsi a pellegrinaggio, per essere più vicini a Dio. Secondo: dar vita
a un movimento collettivo religioso, esso comportava la responsabilità per molte anime, attraverso la verità
trasmessa non da regole ma dalle parole e dall’esempio della loro guida carismatica. Terzo: trasformare ciò
che era iniziato come movimento religioso in una forma istituzionale con precisi regolamenti scritti. Max
Weber parla di “quotidianizzazione del carisma” ma noon è azzeccatissimo, perché i caratteri della
quotidianizzazione non sono da ricercarsi soprattutto nel carattere del dominio carismatico. La particolare
straordinarietà dei movimenti religiosi guidati da una figura carismatica aveva spesso relegato il modello della
vita consacrata a Dio in una posizione marginale. Dalla prospettiva della chiesa istituzionale questi movimenti
rappresentavano una potenziale minaccia, perché avrebbero potuto anteporre le loro particolari finalità alle
esigenze della chiesa. Questi movimenti erano molto produttivi nel diffondere le idee guida del rinnovamento
della chiesa. Di conseguenza vi furono vescovi e papi che sostennero l’istituzionalizzazione di simili comunità.
V. Bruno si rivolse a Ugo vescovo di Grenoble per chiedergli aiuto e consiglio e ricevette supporto e terreno
dove erigere la sua Certosa; Norberto ottenne dal papa il permesso di predicare etc.
Ciò mostra gli sforzi da parte di molti vescovi e papi al fine di salvaguardare questi liberi zeloti della fede,
fintanto che si tenevano lontani dal professare dottrine eretiche. In tal senso si seguì una sorta di modello: 1.
Si cercò di legittimare l’azione della guida carismatica della comunità 2. Si offrì aiuto per ricercare un luogo
dove proseguire la loro esperienza religiosa in un cenobio, seguendo una vita comunitaria. = La chiesa
istituzionale appare come una sostenitrice dei movimenti che in linea di principio avrebbero potuto
rappresentare una minaccia strutturale per essa! La quotidianizzazione del carisma fu così sostenuta dalla
sovranità di una istanza superiore che seppe integrare la straordinarietà istituzionale degli eremiti e dei
predicatori nell’istituzionalità della chiesa tradizionale. + si avvertì necessità di assicurare la sopravvivenza
della comunità dopo l’uscita di scena della guida carismatica attraverso un’organizzazione basata su
fondamenti giuridici transpersonali come accadde per Certosini, Grandmontini, Premostratensi.

I CANONICI REGOLARI
Eccetto Norberto e la sua comunità: i gruppi eremitici in precedenza 1) o erano collegati con la vita monastica
(nella misura in cui aveva plasmato le prime fasi del loro sviluppo) 2) o si percepivano come movimenti
orientati specialmente verso laici, sebbene le loro guide appartenessero perlopiù al clero. Nonostante ciò: ci fu
già all’inizio del XI UN RINNOVAMENTO RELIGIOSO quando alcuni chierici sparsi in tutta Europa
iniziarono a radunarsi insieme per condurre vita in comune o a trasformare case canonicali in claustrali, che
dalla Tarda Antichità erano state conosciute solo nell’ambito del monachesimo. Da ciò: emerse idea-guida di
regolare il modo di vivere del clero (vita canonica) seguendo le norme stabilite ad Aquisgrana nell’816,
concentrandosi su comandamento di una stretta povertà personale, ubbidienza, e di una scansione regolata
della vita quotidiana + obbligo digiuno e silenzio, in modo speculare a quanto si esigeva dai monaci. Da metà
del XI queste aspirazioni erano condivise anche da ambienti riformatori della curia romana. Obiettivo: creare
comunità seguendo modello degli apostoli e dei primi cristiani vivendo secondo ideali apostolici. Primo gruppo
che tentò di realizzare tale modello di vota: 1039 4 chierici si ritirarono dal mondo nella chiesa di San Rufo.
In opposizione ai canonici secolari che seguivano per lo più la tradizione di Aquisgrana si parlò di CANONICI
REGOLARI: v. enorme potenziale ecclesiastico e politico dietro il risveglio di questo ideale apostolico. A tal
fine c’era bisogno, come si sa, di persone animate dal sacro fuoco che mettesse la loro fede prima di ogni
mondanità, di ogni potere terreno, di ogni ricchezza. La chiesa istituzionale necessitava di zeloti intenzionati
a riformare la vita cristiana dal basso. Proprio tale necessità: condusse al desiderio di vedere integrati
nuovamente dell’istituzionalità della chiesa quelle comunità guidate in modo carismatico e poste sotto molti
aspetti alle soglie dell’eterodossia. Qui sta l’utilità del nascente movimento di ridefinizione dei chierici. Questi
potevano diventare strumenti preziosi della riforma ecclesiastica. Una simile opzione poteva essere adottata
solo se seguita rigidamente e con zelo: v. Sinodo Lateranense del 1059, tenuta da papa Niccolò II, rimproverò
lo stile di vita rilassato delle comunità di chierici e canonichesse, criticando possesso di beni personali + le
antiche norme riguardanti la vita dei canonici, stilate ad Aquisgrana vennero duramente criticate. + vennero
invece sostenuti i tentativi dei chierici di riunirsi in comunità che prendessero come esempio la vita apostolica
della chiesa delle origini, i cui menri “avevano un cuore solo e un’anima sola” Atti degli apostoli. Si credeva
quindi di potere creare un rinnovato ceto clericale, le cui pietà e integrità morale legittimassero la chiesa nei
tentativi di conseguire l’indipendenza. Tale sforzo ebbe successo: le fondamenta dello sviluppo dei canonici
regolari si spostarono sui capitoli delle cattedrali e su fondazioni di recente creazione. In molti casi ci fu anche
l’appoggio dei vescovi: v. Ivo di Chartes o Anselmo, vescovo di Lucca. Nel regno Tedesco invece la spinta
per nuove fondazioni venne dalla nobiltà, alla ricerca dell’indipendenza e lieta di affidare gli insediamenti
monastici al papa piuttosto che al re. Ma ancora nel XI l’iniziativa proveniva spesso dai chierici, riguardo ai
quali però abbiamo poche informazioni e che non sempre erano figure carismatiche.
Dappertutto in Europa nacquero comunità di chierici che conducevano una vita simile a quella che prima era
tipica solo dei monaci. Esse non erano affatto al confine tra ortodossia ed eresia, ma tra le forze reazionarie
ostili alle riforme & le avanguardie del nuovo. Anche movimento dei chierici quindi fu caratterizzato dapprima
da ricerca della strada migliore, portando dietro però il pericolo di una ricaduta verso il vecchio.

• Uno dei protagonisti della riforma ecclesiastica: vescovo Altmann di Passavia (1065/1091), sostenitore
del papato e di sua attività riformatrice, alleato di Gregorio VII. Egli mise in atto un esperimento:
fondò nella città di cui era vescovo intorno a 1067/73 un monastero sotto patrocinato di San Nicola e
lo popolò di canonici regolari. Così si posero basi per una storia che ebbe successo. Contribuì alla
fondazione del monastero di Rottenbuch che fu dal punto di vista giuridico un modello per molte
comunità e godette della libertas romana e funse da esempio di una istituzione della chiesa universale
libera dai vincoli delle chiese proprietarie. Dal 1078 Altmann non potè più fare ingresso nella città di
cui era vescovo: contrasti tra lui e maggior parte del clero non ancora riformato. + lui era
all’avanguardia nel fronte che si opponeva a re Enrico IV. Ma non rinunciò a creare nuove comunità
per il clero regolare. Non riuscì solo a trasformare il capitolo della sua cattedrale in una fondazione di
canonici regolari.
• Pietra miliare nello sviluppo dei canonici regolari: posta da papa Urbano II. Per la comunità di
Rottenbuch scrisse un diploma fuori dalle norme, che diventò un modello per le altre fondazioni. Esso
regolava la vita comunitaria dei chierici (la vita canonica) allo stesso modo della vita monastica: citava
forma originaria del cristianesimo.+ la loro vita canonica era stata da Cristo come medicina
dell’umanità per salvarla dalla dannazione: cura animarum, cura pastorale.
• Emerge dalle fonti papali: una formula che ceca di definire meglio il modello di vita dei canonici
regolari: essi vennero esortati a vivere secondo la regola di Agostino. Ma solo in alcuni si riesce a
rintracciare un effettivo adattamento di quella regola che era stata scritta per la vita comunitaria dei
chierici, ovvero la Regola di Agostino. N.b. sulla autenticità dei Praeceprum non si dubitava: tuttavia
si pensava che anche Ordo monasterii fosse stata scritta da Agostino. Il movimento dei canonici a
partire da XII si divide in 2 fazioni: 1. Il vecchio ordine considerava il Paeceptum il testo normativo;
2. Mentre il nuovo ordine seguiva il più severo Ordo monasterii. Tuttavia non si arrivò mai a unione
vasta.
La chiesa romana vinse la battaglia per la sua libertà. Cesura importante sotto il profilo simbolico fu Il
Concordato di Worms del 1122 che pose fine alla Lotta per le Investiture. Questo accordo fra papa e
imperatore fu una tappa importante per gli sforzi riformatori messi in atto nel regno Tedesco: da quel
momento in poi le fondazioni di canonici regolari non dovettero più considerarsi alla stregua di rifugi,
bensì potevano ricollocarsi in una nuova linea politica della Chiesa.
Ciò si rispecchiò anche nelle fondazioni delle canonichesse. Secondo Concilio Lateranense del 1139: parlò
dello stile di vita degno di disprezzo adottato da molte comunità femminili, di non vivere secondo alcuna
regola riconosciuta. La Sinodo di Reims del 1148 con papa Eugenio III pretese che tali donne,
canonichesse, che vivevano in clausura irregolare, piena di lussi, accettassero la regola di benedetto o
quella di Agostino: fino al 1311 si pretese l’adozione di una regola monastica.
Per i canonici regolari invece: questa nuova situazione ecclesiastica stabilita da concordato di Worms si
mostrò fruttuosa. V. una realizzazione esemplare dell’ideale apostolico riuscì a Corrado I, arcivescovo di
Salisburgo (1106/1147). Ogni cosa dipendeva dallo zelo riformatore posseduto dai detentori dell’incarico
episcopale: e Corrado lo possedette senza alcuna interruzione. Egli ricevette da Enrico IV i temporalia
dell’arcivescovado di Salisburgo + gli spiritualia, ovvero i diritti spirituali. Egli inziò subito a adottare
misure di largo respiro per realizzare le idee fondamentali della Riforma ecclesiastica nella sua diocesi
(libertà delle istituzioni ecclesiastiche da intromissioni di laici + miglioramento della cura pastorale) E i
monasteri gli sembravano dei punti focali promettenti per i suoi sforzi. Egli si rivolse: alle comunità
monastiche (benedettine e cistercensi) e alle fondazioni religiose in cui si trovavano delle comunità di
chierici, poiché da loro dipendeva conseguimento del suo obiettivo di una migliore cura pastorale. Nel
1122 straformò il capitolo della sua cattedrale in una comunità di canonici regolari.

I CISTERCENSI: la collegialità al posto della gerarchia


Il cammino di Roberto: un’altra comunità emerse dallo stesso ceppo eremitico, che influenzò profondamente
il mondo dei monasteri grazie a sua organizzazione innovativa: Cistercensi. In un prato chiamato Cistercium,
in mezzo a un’ampia foresta a sud di Digione, un luogo di terrore e desolata solitudine + poco attraente e
inaccessibile per gli uomini del mondo: un gruppo di 21 monaci che lasciarono il monastero di Molesme (nord
Borgogna) guidati da loro abate Roberto (1028/1111) fondarono nel 1098 una comunità chiamata “monastero
nuovo”. Da lì sorgerà la più grande comunità monastica che la cristianità aveva visto sino a quel momento e
la Regola di Benedetto avrebbe conosciuto una attualità tale da mettere in ombra il modello benedettino di
Cluny.
A differenza di Cluny, che nel suo diploma di fondazione ricevette la libertà da qualsiasi dominio secolare e
così le migliori opportunità per svilupparsi + a differenza delle nuove fondazioni che ebbero successo grazie a
aiuto dei rappresentanti della chiesa istituzionale: la comunità dei cistercensi in un primo momento non potè
vantare di alcun supporto. Contava solo su una certa benevolenza verso Roberto da parte della nobiltà della
regione per legami di parentela. Mentre la fondazione venne considerata una violazione della legge. Il gruppo
creato da Roberto poteva essere soggetto a stesse accuse che Ivo di Chartres rivolse ai monaci che si
allontanarono per abitare in solitudine. (v. Sarabaiti: esempio del peggio tipo di monaci). Inoltre qui anche il
capo della comunità monastica era tra coloro che abbandonarono il monastero. “monastero nuovo”:
comprendeva sia la separazione dal vecchio ordinamento sia il desiderio di andare verso il nuovo. V. Già
nell’Exordium Parvum. Il programma dei Cistercensi era comprensibile solo nella prospettiva di una rinuncia
all’uomo vecchio e di un cammino verso l’uomo nuovo. I monaci di Citeaux misero precocemente per iscritto
la storia dei loro esordi in 2 testi: Exordium parvum, Exordium Cistercii: in essi giustificavano le ragioni per
un nuovo inizio.

• Storico Oderico Vitale scrisse sulla nascita di Citeaux. Egli riporta parole di Roberto prima di
abbandonare monastero di Molesme: egli spigò ai confratelli che sebbene professarono di seguire
la Regola di Benedetto non la osservavano però interamente, dato che non usavano loro mani per
lavorare, come invece fecero i Padri Antonio Macario etc. inoltre ricordò le vite dei padri egiziani.
Mentre la ricchezza dei monaci di Molesme, tratta dalle decime, era abbondante. Quindi dovevano
seguire completamente la regola di Benedetto guadagnandosi nutrimento e vestiti attraverso loro
lavoro personale, abbandonando abiti lussuosi, rinunciando ai proventi delle decime. Ma la
maggior parte dei monaci di Molesme rifiuto questa prospettiva. V. Simile disputa sulle decime e
sul comportamento: fu discussa da Ivo di Chartres e Rinaldo + sintomatico delle riforme
dell’epoche, orientate verso un ideale di povertà. Nella comunità di Molesme si arrivò a
contrapposizioni aspre.
Roberto e una schiera di monaci dunque si allontanarono da Molesme e si stabilirono con aiuto della nobiltà
borgognana in un luogo detto Cistercium, in cui dal 1098 vissero in solitudine e come riporta Oderico
stabilirono “di seguire la Regola di Benedetto totalmente alla lettera, come gli Ebrei la legge di Mosè”.
La rinuncia di Roberto a sua carica e comunità non fu la prima: nel 1044 divenne monaco del monastero a
Ttoyes e lì nel 1053 venne nominato priore, e nel 1068 venne scelto come abate ma nel 1071 lasciò l’incarico
poiché non riuscì a spingere i suoi monaci a una stretta osservanza della regola. Nel 1073/74 diene guida di un
gruppo di eremiti e col permesso del papa fonda nel 1075 l’abbazia di Molesme. All’inizio la vita era
caratterizzata da duro lavoro e intensa ascesi ma dopo il 1080: la ricchezza dell’abbazia crebbe tantissimo
grazie a donazioni e trasferimenti di parrocchie che includevano le decime. Monastero divenne grande
proprietario terriero e fondò priorati e fattorie. Una parte della comunità, ignorando le proprie origini
eremitiche guardava a Cluny come al modello migliore di vita monastica. In quel periodo arrivò a Molesme
Bruno di Colonia coi compagni e Roberto gli mise a disposizione una proprietà dove poter condurre una vita
eremitica. Ma Bruno non vi trovò quella separazione del mondo che cercava. I monaci di Molesme che non
mutarono le loro inclinazioni eremitiche: lasciarono il monastero sotto guida di Guerin, futuro vescovo di Sion,
nel 1094 e fondarono comunità di Aulups. Allora Roberto, in disaccordo con crescente ricchezza del
monastero, lasciò Molesme e si ritirò anch’egli verso Aulups. Ma poi dietro ordine papale dovette ritornarvi
poiché ci furono tensioni.
Roberto fu animato fino a tarda età da un’incessante irrequietezza che lo spingeva alla ricerca della strada
migliore per la salvezza divina e per Roberto tutto ciò faceva parte del suo voto di adempiere alla regola di
Benedetto. 1099 un’assemblea radunata da arcivescovo Ugo, con approvazione di papa Urbano II, stabilì di
richiamare Roberto dalla sua nuova fondazione e di ordinargli di tornare a suo vecchio ruolo a Molesme, poiché
i monaci senza guida avevano perso motivazione, mentre ai compagni di Roberto venne consentito di restare
a Citeaux. Roberto si sottomise e tornò a Molesme, la maggior parte di sua comunità lo seguì mentre alcuni,
delusi, rimasero nella solitudine della foresta, disposti a svolgere lavori manuali e a vivere nell’ascesi e povertà.
Già il legato Ugo ai tempi dell’assemblea, definì “monastero nuovo” la fondazione dei Citeaux, riconoscendo
così la sua identità di comunità indipendente.
Ottobre 1100 con bolla Desiderium quod: Pascale II riconobbe la comunità come un’abbazia sotto la guida di
Alberico (1050/1109), ex priore di Molesme e successore di Roberto a Citeaux, che la prese sotto la protezione
papale e la liberò da ogni forma di dipendenza nei confronti di Molesme. La nuova fondazione ricevette
riconoscimento giuridico da più alta istituzione. Così Citeaux divenne un’abbazia dotata di privilegi papali che
poteva godere della benevolenza della nobiltà locale e di quella dei vescovi. Così, dopo un inizio problematico
nell’illegalità, ricevette uno status legale riconosciuto. Costruì una combinazione di norme di comportamento
che fece proprie in modo credibile come nessun’altra comunità: principio della rigorosa povertà + osservanza
della Regola di Benedetto.
La misura della regola pura: a Citeaux si avverò lo scopo di seguire alla lettera la regola di Benedetto. In
uno dei primi testi scritti dai cistercensi: Exordium parvum, sottolineavano che la correttezza della regola era
la misura della loro vita e che rinunciavano a tutto ciò che non vi era menzionato: decime, parrocchie, villaggi,
servi. Analogamente a Stefano di Thiers, con la cui successiva congregazione di Grandmont entrarono in
concorrenza: i cistercensi “poveri assieme a Cristo povero” disprezzavano le ricchezze di questo mondo e
rinunciavano a ogni ornamento delle loro chiese. A differenza dei Grandmontini i Cistercensi non fondarono
questo stile di vita sul vangelo, ma sulla regola di Benedetto, che per i primi rappresentò un ramo e non la
radice dell’insegnamento di Cristo.
In opposizione ai Grandmontini, fautori di un’esperienza religiosa essenzialmente più rigida, i cistercensi
decisero di accettare beni, vigne, prati e boschi ceduti dai loro benefattori. Per amministrarli scelsero dei
conversi (laici legati alla comunità). Grazie a esperienza di Molesme sapevano che ciò avrebbe potuto portare
a grande prosperità e al sospetto che la loro energia spirituale potesse venir meno. Ma loro nell’exordium
parvum dicono che “la disciplina monastica non venne meno”. Ma unione di frugalità e economia efficiente
avrebbe portato dopo 1 secolo a una notevole ricchezza i cui effetti potevano oscurare la loro purezza, come
osservò papa Innocenzo III.
Tuttavia nei primi tempi: cistercensi tennero insieme 2 ideali che ai membri degli altri ordini religiosi
risultavano inconciliabili. Povertà e stretta osservanza della regola di Benedetto. Vivere in condizione di
povertà volontaria aveva anche valore simbolico: imitazione di Cristo solo sul monte. Questa ritirata da
strutture istituzionali a motivo della povertà fu ancora interpretato come una “vita secondo una legge auto-
imposta”. Problema di quel tempo delle regole monastiche tacciate di formalismo e farisaici intrecci di parole:
questo veniva risolto o dandosi regole proprie richiamandosi a norme primordiali (vangelo chiesa origini padri
del deserto) oppure si accettavano le norme introdotte in tempi più tardi. Al contrario: i cistercensi risolsero
questa contraddizione. Anch’essi davano massima importanza a osservanza del voto di povertà (poveri assieme
a Cristo povero), tuttavia per realizzare simile condotta di vita fecero proprio quello che veniva rimproverato
ai monasteri tradizionali: obbedivano a una regola ereditata, come gli ebrei alla legge di Mosè. I cistercensi
ritenevano di aver trovato il modello della povertà enunciato nella regola di Benedetto: si doveva seguire in
modo puro la regola e non sovraccaricarla di innumerevoli consuetudini e usi, come accadde nei monasteri
benedettini cluniacensi. Essi unirono così i riferimenti di 2 ambiti simbolici la cui contraddittorietà accese gli
ingegni di quell’epoca: trasformarono la fazione dell’osservanza della regola nella garante dell’altra, ovvero
della povertà che disprezzava il mondo. Attraente: legava l’assenza di misura della ricerca della salvezza
guidata dalla povertà con la misura di un ordinamento stabile. Si armonizzava l’energia religiosa
potenzialmente eversiva con una stabilità secondo criteri istituzionali, senza dover abbandonare l’una per
l’altra. I cistercensi così non erano visti come innovatori volontaristici (uno dei maggiori rimproveri rivolti ai
movimenti eremitici) bensì come autentici seguaci e custodi della verità tramandata.
Per essere credibili anche nella prassi: differenziarono la loro osservanza della Regola da quella degli altri
monasteri benedettini in modo da formulare una propria identità. 1. Autorappresentazione simbolica:
architettura dei monasteri e delle loro chiese, chiuse a tutti i laici provenienti dall’esterno, assenza di ornamenti
delle chiese + assenza della torre con al suo posto piccole torrette poste sul tetto. Colore nuovo dell’abito
monastico che si allontanò dal classico nero dei monaci benedettini: bianco-grigio: bianco purezza del corpo
o perché non trovarono stoffa più economica di quella. 2. Notevole sfida: ambizione di realizzare idea-guida
di una fedeltà assoluta alla regola non può nascondere il fatto che la piccola abbazia all’inizio dovette
combattere per difendere sua stessa esistenza.
La Carta della Carità e l’invenzione dell’ordine: a differenza di altri monasteri e congregazioni, i
Cistercensi, dopo la partenza di Roberto, non possedevano alcuna figura carismatica che influenzasse loro
esordio, nella cui parola e agire potessero trovare ispirazione. Tuttavia ciò si rivelò un vantaggio: essi misero
rapidamente per iscritto in modo comunitario le modalità con cui intendevano provvedere affinché in futuro
fosse assicurata osservanza della Regola di Benedetto. Citeaux diede vita a diverse comunità, che in seguito
vennero chiamate abbazie primarie: La Fertè 1113, Pontigny 114, Clairvaux 1115, Morimond 1115. Ma la
regola di Benedetto non era concepita per delle congregazioni, bensì per un singolo monastero. Ma il fatto che
nonostante ciò potesse fungere come guida normativa generale: permise a una grande di unione di monasteri
di percepirsi come un’unica comunità situata in più luoghi diversi.
Sotto terzo abate Stefano Harding (1059/1134), originario di Molesme, scrissero a partire dal 1115 un testo la
cui autorevolezza fu illimitata e sarebbe stato in grado di adattare regola di Benedetto a una famiglia di
monasteri: composero Carta della Carità, un testo che nessuna organizzazione monastica aveva mai posseduto
fino a quel momento e può essere intesto come il primo documento costituzionale del medioevo. Già nel 1119
la Carta della Carità ricevette approvazione papale di Callisto II. In essa c’era scritto che ogni vescovo del
luogo, prima della fondazione di un’abbazia cistercense nella sua diocesi, doveva dare il suo benestare affinché
fosse evitata qualsiasi disputa tra vescovi e monaci. Questa norma pose basi per successiva indipendenza dei
monasteri cistercensi dal controllo e dalla giurisdizione episcopale. Nel prologo è racchiuso il cuore del
programma cistercense: solo nelle norme degli eremiti vallombrosiani si trova, un paio di anni prima, una
simile tematizzazione dell’amore fraterno tra coloro che vivono lontani: Stefano Harding potè conoscere
questo testo durante un viaggio in Italia.
Al posto di un solo fondatore carismatico: i cistercensi diedero vita a un testo dal contenuto esauriente che era
l’emanazione della volontà di una comunità che si dava delle norme. In questo testo: il gruppo di monaci
racchiuse tutta l’influenza che altrimenti era posta nella persona della guida carismatica. Testo era incarnazione
dell’ideale carismatico. Testo che ebbe potenziale visionario: parlava di comunità di monaci sparse nel mondo
e così coglieva un possibile sviluppo del monachesimo che si verificò.
Dal punto di vista contenutistico la Carta racchiudeva l’intero fabbisogno di regolamenti di una comunità di
abbazie dotate di un’identità propria. 1) Abbazia-madre di Citeaux: non era autorizzata a imporre dei gravami
sui monasteri-figli e tuttavia era responsabile delle loro anime. Citeaux rifiutava ogni inasprimento del
predominio gerarchico o giuridico-patrimoniale del monastero centrale. 2) uniformità del modello di vita e
unanimità dello spirito. In primo piano venne posta la Regola di Benedetto, da osservare alla lettera, secondo
l’esempio di Citeaux. Le usanze, i riti e ritmi della preghiera: dovevano essere gli stessi in ogni abbazia. Testi
letterari di istruzione volti a tale fine, v. libro delle consuetudini. 3) poi tratta dei rapporto delle abbazie fra di
loro. 4) si stabilì la creazione di un organo che rappresentò un’innovazione: il capitolo generale, assemblea
annuale di tutti abati, considerati rappresentanti di monasteri e aventi tutti pari dignità. Compito più impo:
provvedere alla salvezza delle anime di tut4ti i monaci e così prendere dei provvedimenti qualora ci fosse
qualcosa da migliorare o da incoraggiare. Così cistercensi possedevano la flessibilità per reagire a nuove
esigenze o devianze e di mantenere ciò che doveva essere salvaguardato. Tali norme, orientate verso il futuro
dovevano essere adattabili a nuove circostanze senza abbandonare i propri principi basilari. Quindi ulteriore
compito del capitolo: punire abati che violavano norme condivise o la regola. 5) nessuna carica direttiva poteva
essere assegnata a chi non era cistercense: vecchio mondo unitario del monachesimo era venuto meno.
L’assenza di una testa al corpo dei Cistercensi: rese necessario compensare questa mancanza con l’insieme
delle altre membra. Il corpo si lasciava comandare solo col consenso di ogni sua parte. Carta Caritatis
rappresentò una costituzione in grado di assicurare convivenza di tutte le comunità cistercensi. Era il capitolo
generale che rappresentava la comunità. La gerarchia e la sottomissione: vennero rimpiazzate da stretti legami
dell’amore reciproco e dell’unanimità. Gli atti legislativi: misure adottate in seguito a discussioni, erano delle
definizioni e non dei decreti calati dall’alto. Ciò aprì la strada a una istituzionalizzazione della vita religiosa
che fosse autonoma e strettamente differenziata da altre congregazioni religiose. I cistercensi hanno fondato
l’ordine inteso come una forma di organizzazione religiosa, come lo intendiamo anche oggi.
A differenza delle precedenti congregazione religiose (v. cluniacensi) che erano sottoposte alla guida di una
singola persona, legittimata dal carisma del suo ruolo e dai suoi diritti patrimoniali: per i cistercensi valevano
solo la collaborazione collegiale di tutte le abbazie, non erano in un rapporto di diretta dipendenza dal
monastero madre. La salvaguardia dei principi era data attraverso un prassi detta visitationes condotte in modo
meticoloso, anche a Citeaux. Inoltre per garantire alle abbazie libertà: rifiutarono advocati e restrinsero il
campo degli interventi episcopali. Non si appoggiarono alle entrate derivanti da affitti o dalle prestazioni dei
lavoratori salariati. Economicamente: si concentravano sulle loro stesse forze e si affidarono ai conversi che
avevano il compito di assicurare il nutrimento delle rispettive comunità lavorando in fattorie esterne.
Gli inizi dell’ordine Cistercense, da secondo decennio fino a metà del XII, furono influenzati da un uomo che
portò a giovane ordine molto prestigio. Persino i Francescani lo misero alla pari di Agostino e Benedetto e
ricondussero a lui l’insieme di norme di Citeaux, mentre Dante lo fece diventare la sua guida in Paradiso:
Bernardo di Chiaravalle (1090/1153), figlio di un nobile della Borgogna settentrionale, visse secondo rigida
ascesi, nel 1113 fece suo ingresso a Citeaux assieme a 30 parenti e compagni permettendo a comunità un
notevole passo avanti. Bernardo verso la fine della sua vita come “la chimera del secolo”. Non fu chierico ma
nemmeno laico. Il mondo lo considerava la coscienza politica del suo tempo, il predicatore della Crociata, il
persecutore degli eretici, il geniale esponente della teologia, l’ispiratore dei pontefici. I suoi oppositori erano i
più illustri intellettuali del suo tempo: Pietro Abelardo, Gilberto di Poiters. Bernardo fu la personificazione
dell’ordine cistercense, incarnazione di un modello di vita che era attraente perché era in armonia col suo
tempo e rispondeva alle reali necessità dei suoi contemporanei. La forza simbolica di Bernardo condusse a
fondazioni di altre comunità e questa forza impedì anche l’Ordine nella sua crescita impetuosa esplodesse.
Funse da punto di riferimento per l’identità del suo ordine, grazie a scritti e pistole. V. Sui gradi dell’umiltà e
dell’orgoglio: opera didattica per i monaci; Apologia: difese le idee-guida di Citeaux. L’Ordine, già dopo due
decenni dalla fondazione di Citeaux, conobbe una crescita esplosiva.
Metodo di espansione dei cistercensi era semplice ma efficace: quando un monastero aveva raggiunto
dimensioni tali da poter inviare 12 confratelli e un abate poteva dar vita a nuova comunità, con approvazione
del capitolo generale. Fondazione del nuovo cenobio: in luogo isolato + riconoscimento da parte del vescovo
della Carta Caritatis + dopo che comunità era stata dotata di proprietà fondiarie sufficienti dalla nobiltà locale
he però non avrebbe avuto alcun diritto di controllare avvocazia. Nel 1147: si unirono ai Cistercensi il gruppo
di monasteri di Stefano di Obazine, forte di 7 comunità e la congregazione fondata da Vitale di Savigny, forte
di 32. Verso la metà del XII ordine abbracciava più di 340 abbazie, 11 mila membri e un secolo dopo le cifre
vennero raddoppiate. Espansione dei cistercensi riguardava tutta la cristianità latina. L’Ordine nei suoi primi
anni era molto riluttante ad accettare le donne: era ancora legato ai principi degli eremiti che rifiutavano
nettamente le comunità femminili (Certosini Grandmontini) eccetto Norberto di Xanten: comunità di
Fontevraud o Stefano di Obazine. Nonostante ciò: c’erano delle comunità femminili unite in modo più o meno
stretto ai cistercensi. Negli anni 2° del XII vicino a Citaux venne fondato il monastero femminile di le Tart con
aiuto di abate Stefano Harding . ma fino a 1200 non si riesce a trovare alcun legame istituzionale con l’ordine.
A inizio del XIII posizione cambiò: i monasteri cistercensi femminili entrarono nell’ordine.
IL SUCCESSO DEL MODELLO CISTERCENSE
In breve tempo altri gruppi religiosi fecero propri principi fondamentali dell’innovativa struttura dell’ordine
cistercense e questo getta luce sulla flessibilità di tali strumenti organizzativi.

• Al primo posto ci sono quei monaci che nel 1142 entrarono in una fratellanza di preghiera coi
cistercensi per evitare una situazione di concorrenza che avrebbe potuto portare a sottrarsi
reciprocamente dei potenziali membri: i Premostratensi. Sotto la guida carismatica di Norberto di
Xanten dopo il 1120 era sorta a partire dal monastero d Premonte un’unione di vecchio stile. I
monasteri di questa comunità avevano un modello di vita molto severo. Si presentarono come
un’alternativa della vita canonica al concetto monastico dei cistercensi. All’inizio questa unione
si presentava come un’entità unica e Norberto vi aveva assunto un ruolo pari quasi a quello del
vescovo ma dopo che egli partì nel 1126 essa si vide costretta a orientarsi in modo nuovo. Anche
se Norberto continuò a interessarsi delle sorti della comunità e sebbene stabilisse un modello di
vita comune per i chierici: i suoi discepoli erano comunque rimasti senza una guida e dovettero
temere lo scioglimento del gruppo o l’intromissione dei vescovi. Il modello cistercense fu
fondamentale per compensare la perdita di una guida attraverso la creazione di testi statuari validi
in modo transpersonale, di istanze e organi specifici, di un capitolo generale. Tutto ciò garantì il
proseguimento dell’esperienza premostratense. Il reale fondatore di questo ordine fu Ugo di Fosses
che accompagnò a lungo Norberto nei suoi viaggi di predicazione. Norberto lo nominò abate di
Premonte quando ci fu la minaccia dello scioglimento. Poco dopo anche altri monasteri ricevettero
un abate e così si costituirono in comunità indipendenti. Furono in grado di riunirsi assieme in
modo nuovo. I monasteri costituivano nel complesso una singola unità e la Regola doveva essere
seguita da tutti in ugual modo. Così da un’unione di comunità sviluppatasi attorno a Norberto di
Xanten nacque l’ordine Premostratense, un soggetto giuridico autonomo, la cui esistenza venne
riconosciuta da papa Innocenzo II nel 1131, che garantì anche la protezione papale. Si tentò da
subito di ingrandire la comunità grazie a acquisizione di monasteri già esistenti e grazie a nuove
fondazioni. Nella seconda metà del XII l’ordine abbracciava 200 abbazie. I vescovi favorevoli alla
Riforma ecclesiastica sostennero le fondazioni maschili, in modo da integrarle nelle loro strutture
episcopali. Nei primi tempi i Premostratensi erano agli occhi dei contemporanei ancora degli
eremiti orientati verso una vita contemplativa separata dal mondo ma già nel 1123 venne conferita
loro la giurisdizione su alcune parrocchie. I Premostratensi crebbero così con un impulso diverso
a seconda della regione, nell’adempimento dei loro compiti pastorali. Cambiarono rapidamente
per quanto riguarda l’atteggiamento verso le comunità femminili: lo stesso doppio monastero di
Premonte già alla fine degli anni 30 del XII venne sciolto e la comunità femminile venne spostata
a Fontanelles. In Francia l’avversione verso i monasteri femminile crebbe al punto che tra 1154 e
il 1176 si arrivò a un provvedimento del capitolo generale che proibiva di accogliere nell’ordine
le donne. Ma questa norma, a causa della pressione di moltissime donne aspiranti monache, non
potè essere messa in pratica, così che negli statuti riformatori del 1236 le donne erano nuovamente
oggetto di regolari norme legislative.
I monasteri premostratensi come quelli cistercensi erano diffusi in tutta la cristianità occidentale,
compresa la Terrasanta, con concentrazioni più rilevanti nella parte settentrionale e nordorientale
della Francia. Chiaramente ogni programma di conseguire l’uniformità in tutti i monasteri si
mostrò difficile da mettere in pratica. Le divergenze si sentirono soprattutto tra i monasteri che
sentivano di appartenere a Premonte e quelli che erano stati fondati a partire da Magdeburgo ed
erano riuniti in una circaria sassone. Rimase sempre un certo gradi di diversità. Ma si dovette
riconoscere che proprio la tolleranza di un tale spettro di variazioni permetteva di stemperare le
possibili tensioni sorte nell’ordine.
• Con altrettanta velocità il modello cistercense fu adottato anche dalla congregazione dei canonici
di Arrouaise. Fondata nelle Fiandre nel 1090, questa comunità viveva secondo Ordo novus e alla
sua cerchia appartenevano già 19 comunità. Già nel 1129/32 è attestato un capitolo generale che
si fece carico della supervisione della prassi delle visitationes. A partire dalla fine del XII si
consolidò la posizione centrale dell’abate di Arrouaise che godeva del diritto di compiere
visitationes dovunque e di confermare tutte le elezioni degli abati: il che gli conferì una posizione
di notevole superiorità che l’abate di Citeaux non conobbe mai.
• Inglese Gilberto di Sempringham (1083/1189) negli anni trenta del XII iniziò a costruire nella sua
città dell’Inghilterra centrale una comunità religiosa orientata alla salvezza dell’anima delle donne
e si ispirò molto presto alla struttura organizzativa cistercense. Lo stimolo per questa iniziativa fu
proprio il rifiuto dell’ordine cistercense di farsi carico della cura delle donne. Nel 1147 Gilberto
cercò di deporre il fardello di guida carismatica e chiese al capitolo generale dei cistercensi di
accogliere le sue comunità. A differenza di Stano di Obazine e della congregazione di Savigny,
non ebbe successo. In seguito a ciò: introdusse modifiche nella struttura organizzativa: le comunità
femminili vennero trasformate in monasteri doppi accogliendo dei chierici a cui prescrisse la
Regola di Agostino, mentre le donne dovevano vivere secondo quella di Benedetto. A questi
monasteri diede statuti redatti da lui stesso, influenzati da Carta Caritatis cistercense. La struttura
dell’ordine tuttavia era orientata in senso più centralizzato. Grazie ai controllori inviati da abate di
Sempiringham le singole comunità potevano essere riunite sotto la rigida guida della direzione
dell’ordine. Verso la fine del XII questo ordine, l’unico a essere fondato in Inghilterra, aveva
undici monasteri.
• I Certosini, le cui comunità all’inizio non avevano alcun legame fisso di natura istituzionale, nel
1140/41 organizzarono il loro primo capitolo generale, inteso come un momento di incontro dei
priori di tutte le loro comunità. Dal 1155 si svolsero regolarmente, con cadenza annuale. Nel
capitolo del 1155: sia le singole comunità che i vescovi dovevano rinunciare a ogni pretesa sui
diritti particolari a favore del capitolo: così i Certosini si erano uniti in un ordine. Assemblea
ricopriva posizione preminente. Il capitolo centrale venne sempre più egemonizzato dalla Grande
Certosa quale madre e nutrice delle altre comunità. Né Citeaux né Premonte conobbero una
posizione tanto egemonica. Al potere assoluto di intervento detenuto dal capitolo generale si diede
un fondamento spirituale, caratterizzandolo come un organo che faceva le funzioni di Dio. E i
certosini emanarono in continuazione provvedimenti correttivi, espansero e migliorarono loro
struttura normativa.
Di fronte a un tale successo e tali rapidi sviluppi del principio organizzativo che caratterizzava i cistercensi
non si può dimentare che spesso promettenti inizi di trasformazione di ordine subivano poi una stagnazione
durante il loro consolidamento. Questo accadde soprattutto coi canonici regolari, che non raggiunsero mai, con
eccezione dei Premostratensi e dell’Ordine di Arrouaise, un’estensione transregionale.
Gli esempi appena presentati di una rapida adozione del modello cistercense devono essere completati
dall’esame di 3 peculiari sviluppi strutturali, nei quali ad esso si unirono sia aspetti vecchi che nuovissimi. Ciò
testimonia ancora la forza di penetrazione e la capacità di adattamento delle strutture inventate dai Cistercensi.
Queste possibilità di strutturazione si mostrarono nella trasformazione della vecchia congregazione di
Cluny in un ordine; nel consolidamento costituzionale degli ordini religiosi militari (Templari); nella
costruzione degli ordini ospitalieri.

• Anche vecchie congregazioni, dotate di una coesione basata sui diritti di proprietà, nel corso del XII e
XIII si trasformarono secondo il modello cistercense. Questo avvenne alla luce di grandi difficoltà di
assimilazione. L’antica e ancora potente congregazione di Cluny, la Cluniacensis ecclesia, nel 1200 si
trasformò in un ordine: Ordo Cluniacensis. In quell’anno si tenne per la prima volta un capitolo
generale cui parteciparono le guide delle abbazie e dei priorati sottoposti a Cluny. Durante questa
assemblea venne emanato, sotto egida di abate Ugo V di Cluny, un nuovo corpus statuario, che diede
nuova costituzione alla congregazione. I capitoli generali rappresentano la più alta istanza giudiziaria
e assieme all’abate anche legislativa + prassi delle visitationes venne regolata con nuovi criteri: abate
di Cluny mantenne suo diritto universale di compiere visitationes, ma nella pratica il suo posto venne
effettuato dai camerarii. Il cambiamento più impo degli ordinamenti cluniacensi riguardo la prassi
delle visitationes: introdotta la bolla di riforma con cui papa Gregorio IX nel 1233 cercò di migliorare,
contro volere della maggioranza dei monaci, l’organizzazione ancora troppo inefficiente dell’Ordine.
Da quel momento i camerarii delle province vennero sostituiti dai visitatori che cambiavano nel corso
del tempo e che erano scelti anno per anno dal capitolo generale, indipendentemente da abate di Cluny.
I cluniacensi inoltre furono costretti ad adattare con fatica il loro vecchio ordinamento centralistico-
monarchico a forme di organizzazione più adatte alle circostanze del tempo. Risultato: un compresso
che condusse a specifiche strutture in cui il capitolo generale entrò in competizione con abate di Cluny
per la pretesa di rappresentare l’ordine. Alla signoria verticale del capo sopra le membra non si
rinunciò mai veramente.
• Probabilmente già dal 1118 a Gerusalemme (conquistata dai cristiani durante Prima Crociata) viveva
sul Monte del tempio un gruppo di Cavalieri, sottoposti al patriarca latino della Città Santa con la
promessa di vivere in modo strettamente monastico e di servire Cristo offrendo protezione ai pellegrini
in cammino verso i luoghi dei Vangeli. Nel 1129 questi cavalieri, che in virtù della loro residenza
furono detti Templari, ottennero su richiesta della loro guida Ugo di Payns, una regola alla sinodo
svoltasi nella città francese di Troyes. Questa regola successivamente, il cui testo era stato preso in
buona parte dalla regola di Benedetto, fissava in 72 paragrafi le forme spirituali della vita comunitaria
e le caratteristiche del servizio a Dio, le preghiere e la prassi del silenzio. Era permesso possedere terra
e servi della gleba mentre i tornei cavallereschi e i passatempo erano proibiti. Questa regola fu il
risultato redazionale che coinvolse anche Bernardo di Chiaravalle. Il documento incontrò lo
scetticismo del cistercense Bernardo ma anche di molti ecclesiastici che svolgevano incarichi di
prestigio. Il fatto che sotto al vecchio concetto del Cavaliere di Cristo non fosse compreso più solo il
monaco, ma che il suo combattimento contro il male potesse essere adattato allo scontro armato contro
chi turbava la pace cristiana e contro i nemici della fede, era una nozione comune. Già dai tempi di
Agostino si era legittimata la “guerra giusta”. A quel tempo ormai si era giunti alla spiritualizzazione
delle norme di comportamento cavalleresche con adozione di rituali quali la benedizione della spada.
Ma completamente nuovo era il legame onnicomprensivo tra modello di vita monastico e quello
militare. Ciò richiese una spiegazione trascendentale, che offrisse di più rispetto al prologo della loro
regola: poiché scontri armati e morti oltrepassavano non solo i più estremi confini del monachesimo,
ma anche una vita religiosa attiva come quella dei canonici regolari. Salvare un’anima e uccidere un
corpo prima di averne salvato l’anima sembravano contrapposti nettamente. Bernardo di Chiaravalle
cercò di legittimare un simile comportamento con uno scritto del 1136/37 “Sulla lode della nuova
cavalleria”: sullo sfondo di una classe di cavalieri malvagi egli lodò quei cavalieri che combattevano
per Cristo e li assolse da ogni colpa “la morte che si soffre o si causa per Cristo non porta con sé
nessun peccato”. Bernardo poi si volge a ritrarre lo stile di vita morale dei Templari e usa la frase “un
cuor solo un’anima sola”. I cavalieri erano corazzati dentro con la fede e fuori col ferro. Poi giunse
alla motivazione più profonda, legata alla storia della salvezza: i cavalieri entravano in battaglia con
prudenza con la stessa calma con la quale i veri Israeliti andavano a combattere. Così come Cristo
aveva scacciato in preda all’ira i mercanti dal tempio, i cavalieri erano diventati i nuovo custodi del
tempio. Esi erano agnelli e leoni allo stesso tempo. Poco dopo questo scritto, nel 1139: papa Innocenzo
II concesse ai templari un ampio privilegio in cui li pose sotto la sua protezione e confermò le loro
proprietà. Li vincolò ai voti di povertà, obbedienza e castità così come a rimanere nell’ordine per tutta
la vita e diede loro la possibilità di adattare regola alle circostanze per mezzo di un capitolo generale.
La loro guida era il maestro dell’ordine, il quale, fino al 1200 era rappresentato da un siniscalco. Le
singole comunità erano guidate da un comandante. C’era un capitolo centrale a cui erano sottoposti i
capitoli delle varie province. Ordine, nel suo insieme, era suddiviso in 3 gruppi di componenti:
confratelli che combattevano come cavalieri, confratelli preti incaricati di pregare, confratelli servitori
che svolgevano i lavori manuali. Le loro imprese militari in Terrasanta furono cruciali.
• In parallelo ai Templari erano sorti diversi altri ordini cavallereschi simili in Terrasanta. Peculiarità:
nell’ambito della loro vocazione principale all’amore verso il prossimo, si dedicavano anche a attività
caritatevoli quali la cura dei malati e a gestione degli ospedali. A queste congregazioni appartenevano:
l’Ordine di San Lazzaro, sorto nel 1110 a Gerusalemme, i cui componenti erano lebbrosi che
combattevano e si occupavano anche della cura di altre persone con la loro stessa malattia; gli
Ospitalieri (o Giovanniti), costituiti nella Gerusalemme del secondo decennio del XII, prima come
comunità dedita alla cura dei malati, poi con anche un ramo militare; Ordine Teutonico, fondato a Acri
nel 1198 come ordine cavalleresco. Dopo la fine del dominio cristiano in Terrasanta l’ordine Teutonico
a partire da primo decennio del XIV stabilì nell’attuale Polonia il suo centro a Marienburg, in Prussia.
Trovo nuova vocazione nella lotta contro i Prussiani, ancora pagani. Gli Ospitalieri dopo loro partenza
da Terrasanta svilupparono un loro dominio sull’isola di Rodi, che divenne un bastione contro Impero
Ottomano.
• Nel Medioevo le malattie potevano rendere le persone inermi in un modo oggi impensabile. Per motivi
allora incomprensibili le epidemie (ritenute una punizione divina) o l’ergotismo (il fuoco di
Sant’Antonio) colpivano intere regioni. L’individuo che sentiva su di sé i sintomi della lebbra, sapeva
che la malattia lo avrebbe reso per il resto dei suoi giorni un emarginato. Colui che subiva un incidente
grave tale da renderlo invalido era costretto a mendicare. La malattia significava per la maggior parte
delle persone un’asocialità coatta, e la povertà non c’era nulla che potesse stimolare l’amore cristiano
per il prossimo in modo più fondamentale di tali infermità: bisognava avere a che fare non solo con le
anime ma anche coi corpi, poiché nel Vangelo secondo Matteo Cristo afferma “io ho avuto fame e mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo
e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Seguendo questo
comandamento di caritas, di amore per il prossimo, già durante Alto medioevo molti monasteri
avevano creato il ruolo dell’elemosiniere, che doveva occuparsi anche della gestione di un ospedale
per gli estranei. Tuttavia, allorché la popolazione nel XII crebbe, queste forme di assistenza non
bastarono più + nelle città l’aumento della popolazione implicò una più netta separazione tra ricchi e
la grande massa di cittadini, che dovevano tirare avanti col minimo necessario e perciò erano privi di
difese contro qualsiasi malattia: ciò condusse a una rivalutazione quasi rivoluzionaria della caritas
cristiana. Essa venne portata avanti soprattutto da laici animati dalla misericordia e preoccupati per la
salvezza della loro anima. Fondarono case in cui i malati vennero curati, erano confortati dal punto di
vista spirituale. Per tale obiettivo c’era bisogno oltre che del denaro anche di un radicamento nelle
strutture istituzionali della chiesa. La chiesa poteva nominare preti necessari, delimitare gli spazi
destinati a ciò etc. dopo che già gli ordini cavallereschi avevano svolto una notevole attività
riconducibile alla cura dei malati: anche il papato si fece carico del compito di fornire, attraverso la
creazione di un modello giuridico, le necessarie fondamenta per le attività di servizio ai malati. Anche
in tal caso tale modello giuridico poteva essere solo la fondazione di un ordine. Protagonista decisivo
fu papa Innocenzo III che nel 1198 riconobbe un ospedale fondato poco prima a Montpellier da un
laico di nome Guido e dedicato allo Spirito Santo e lo rese esente da autorità del vescovo locale. Il
papa permise che sacerdoti esterni prestassero servizio nell’ospedale o obbligò la comunità di laici che
gestivano la struttura a pronunciare un voto simile a quello dei monaci: promisero di servire i poveri
e gli ammalati e di prendersi cura di loro con amore. In tal modo ospedale divenne istituzione religiosa
della chiesa. Nel 1201 Innocenzo III donò a Guido la chiesa di Santa Maria in Saxia, non lontano dal
Vaticano, assieme al vicino ospedale degli Inglesi e Innocenzo emanò un privilegio solenne per questa
comunità con cui stabiliva che fosse posta alle dirette dipendenze della Santa Sede. L’idea guida: dare
ospitalità a coloro che ne avevano bisogno e tale hospitalitas era posta alla pari con quelle opere buona
in base alle quali Dio giudicherà i buoni e i malvagi. Dopo morte di Guido: le comunità vennero
riunite in un singolo ordine, la cui sede fu spostata a Roma e il cui vertice divenne anche la guida
dell’ospedale romano. Con questo Ordine dello Spirito Santo Innocenzo III aveva creato primo ordine
papale!
Da forme più o meno spontanee di ospitalità a ordine ospedaliero compiuto: Ordine di Sant’Antonio,
che si occupava della cura di tutti coloro che erano gravemente ammalati a causa dell’avvelenamento
da segale cornuta, un fungo. Dato che non si sapeva su questa malattia non si sapeva nemmeno come
proteggersi da essa. Si aveva impressione di ardere dall’interno: si parlava infatti di un sacro fuoco.
Nel priorato benedettino di San Didierde-la-Motte (oggi Sant’Antonio Abate) si radunò a partire da
XI una grande schiera di pellegrini, tra cui molti avevano contratto l’avvelenamento da segale cornuta
e avevano risposto la salvezza in un pellegrinaggio in questo luogo. Nel 1096 dieci laici si riunirono
lì in una Confraternita di Sant’Antonio, col fine di aiutare coloro che avessero bisogno, il numero dei
confratelli crebbe. La comunità ebbe successo: riuscì a guarire grazie a buona cura degli ammalati. Da
questo momento non si parlò più di fuoco sacro ma di fuoco di Sant’Antonio, il luogo di cura diede il
nome della malattia. Tuttavia solo nel 1209 i Benedettini vennero costretti in nome del papa a
permettere l’erezione di una chiesa della congregazione. Da quel momento: processo di
istituzionalizzazione fu rapido. 1247 riconoscimento dell’ordine come indipendente e doveva vivere
secondo la regola di Agostino. Successo di questo ordine: nel fatto che un’organizzazione religiosa
svolgeva, all’interno della vita religiosa, il compito dell’hospitalitas in modo così perfetto da divenire
indispensabile.
MOLTEPLICITA E CONCORRENZA
Forma dell’Ordine cistercense: molteplicità d scopi, di modi di comprendere una comunità organizzata, di
modalità per trattare con strutture gerarchiche e con partecipazione collegiale. Portò nell’ambito della vita
religiosa un rafforzamento istituzionale e una stabilizzazione + strutture procedurali regolate.
Già sotto i pontificati di Ale III (1159/1181) e Innocenzo III (1198/1216): duri rimproveri ai cistercensi
diventati ricchi e accusati di inclinazioni verso beni materiali: il Quarto Concilio Lateranense nel 1215 mise in
primo piano il fatto che essi erano stati gli inventori di questo nuovo tipo di strutture costituzionali. Partendo
da pratiche organizzative cistercensi: il Concilio sviluppò una norma giuridica del diritto ecclesiastico comune
+ prescrisse anche per monasteri e fondazioni canonicali non unite in ordini un capitolo regionale di tutti
prelati, secondo il modello dell’ordine cistercense. Questa norma: riguardò soprattutto comunità dei
Benedettini e dei Canonici regolari che non facevano parte di nessuna congregazione. Sotto Onorio III, nel
1219 e 1225: un provvedimento analogo indirizzato a abbazie benedettine volto a far sì che ci fossero
visitationes + divisione in province.
Questi casi di istituzionalizzazioni di ordini: resero evidente anche un processo di reciproco isolamento. Statuti
degli ordini valevano solo a interno delle comunità, il capitolo generale vincolante solo per coloro che ne
facevano parte, cariche più importanti ricoperte solo dai loro membri. Da i differenti modi di intendere la vita
religiosa, che con eremitismo si volsero alla ricerca della strada migliore per giungere a salvezza: era nata una
divisione del mondo monastico in tanti segmenti organizzativi incompatibili tra loro. Considerando tale
diversità: era possibile solo ricondurre le comunità monastiche a quelle 3 tipologie che erano state articolate
durante il Secondo Concilio Lateranense del 1139: monaci (vita monastica), canonici (regolari, vita
canonica) e eremiti (vita eremitica), i quali avevano trovano il loro modello normativo nelle regole di
Benedetto, Agostino e Basilio le tre regulae principales. Questi:
• nel periodo in cui i nuovi movimenti religiosi non avevano ancora un forma definita, ovvero nella
seconda metà del XI e a inizio XII: la loro polemica era volta a differenziarsi da vecchie esperienze
monastiche ritenute irrigidite nelle apparenze esteriori.
• Poi durante XII ci fu scontro concorrenziale su quale fosse la forma di vita religiosa più attraente e si
combatté, nei coevi scritti polemici, una battaglia tra diverse forme istituzionalizzate di vita monastica
per stabilire quale fosse l’esperienza religiosa più severa.
Una tale divisione così conflittuale: ebbe effetto inquietante su osservatori contemporanei poiché vi era il
rischio che si perdesse un comune fondamento ordinativo. V. il premostratense Anselmo di Havelberg nel
1145 riassunse questo disagio diffuso dicendo che molti dei suoi contemporanei si chiedevano come ci fossero
tante novità nella chiesa, come mai fossero nati tanti ordini: chi non disprezza la religione cristiana? Anselmo
argomentò con vigore contro questo scetticismo, si appellò a Spirito Santo che dava vita alla chiesa che
distribuiva i suoi doni in molti modi. Lo spirito li distribuiva a uomini con modalità diverse. Si cercò quindi di
dare fondamenta ontologiche a questa molteplicità: la differenza è intesa come i mattoni dell’unità, fintanto
che unità si lascia comprendere solo attraverso segni complementari del diverso.
Nessuno seppe presentare questa situazione in modo più magistrale del cistercense Ottone vescovo Frisinga.
Dotato di cultura elevata, si basò su insegnamento che Agostino aveva dato nella Citta di Dio per esplorare lo
svolgimento della storia della salvezza. Quando arrivò a parlare dei suoi tempi anch’egli descrisse le diverse
forme dei modelli di vita religiosa, per poi tratteggiare un loro ritratto collettivo. “A causa della quantità dei
nostri peccati e a causa della maleodorante abbondanza di colpe che caratterizza questa epoca inquieta,
crediamo che il mondo non potrebbe durare a lungo se non fosse salvaguardato dai meriti dei santi (religiosi),
i veri cittadini della citta di Dio”. Nessun testimone seppe riferire in modo più toccante l’utilità dei religiosi
per la salvezza dell’intera umanità. V. pretesa cluniacense di farsi carico di responsabilità spirituale di rendere
il mondo nuovo e luminoso, quindi della pretesa di una singola congregazione religiosa, modello per tutte le
altre: mentre qui, a metà del XII, era la molteplicità del mondo monastico a essere considerata un garante della
salvezza del mondo. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti”.
Accanto a concetto teologico di una città di Dio con molti posti: vi era un interesse pragmatico a fissare tale
molteplicità in strutture maneggiabili. L’ampio spettro delle congregazioni religiose può essere anche
compreso come il risultato di un arbitrio eccessivo e la Curio Romana cercò di mettere dei paletti a tale arbitrio.
Nel 1215 il Quarto Concilio Lateranense emanò la seguente disposizione: affinché enorme molteplicità di
modelli di vita religiosa non crei confusione nella Chiesa di Dio, è proibito a chiunque fondare una nuova
religio. Chi vuole farlo deve aderire a una già approvata. Così l’unica alternativa era tra Regola di Benedetto
e quella di Agostino + dovevano essere formulati anche degli statuti speciali e delle istituzioni particolari per
esprimere le peculiarità dei singoli monasteri, congregazioni, ordini. Questa struttura ebbe importanza per
molte comunità che sorsero in seguito: i Domenicani, o molte congregazioni eremitiche, ma si dimostrò anche
problematica. Conseguenza: col passare degli anni avrebbe rivelato che questa struttura normativa nei fatti
rimase permeabile. Ma comunque diede al papato uno strumento per controllare o incanalare iniziative volte
alla fondazione di nuovi monasteri o ordini.

LE STRUTTURE DI BASE DELLA VITA RELIGIOSA DURANTE IL MEDIOEVO


Nella cultura medievale la vita religiosa era considerata un ambito differente rispetto a tutte le altre forme di
vita cristiana. Già nei primi tempi si svilupparono 2 formule volte a definire un’esistenza così diversa come
un’alternativa alla vita orientata verso il mondo.

• Da un lato Agostino (354/430) sviluppa schema basato sulla Bibbia e costituito da 3 tipologie di
uomini: Noè corrisponde al clero, Giobbe ai laici e Daniele ai religiosi che come lui non si
mescolavano al trambusto del genere umano, bensì servivano Dio senza avere altre occupazioni.
• Dall’altro vi era Ambrogio di Milano (339/397) che fu tra i primi a distinguere tra comandamenti e
consigli del Nuovo Testamento. Fu questa differenza che portò all’accettazione di una bipartizione dei
cristiani in base a cui da una parte vi erano coloro che si limitavano a seguire i comandamenti del
Vangelo e quindi laici e chierici, dall’altra colo che in base a un voto facevano propri anche i consigli
del Vangelo, ovvero sceglievano di vivere nell’obbedienza, castità e povertà. L’obbedienza
comportava l’imitazione di Cristo, che si era sottomesso incondizionatamente al volere del Padre, e in
tal modo significava volgersi a Dio con un amore illimitato. La castità era la vittoria sul corpo, visto
come la tomba dell’anima e la povertà era concepita come disprezzo simbolico di tutto ciò che è
terreno. Le regole degli ordini del medioevo centrale (v. Grandmontini e Francescani) e il diritto
ecclesiastico del XIII ritennero che seguire questi consigli evangelici costituisse un elemento
irrinunciabile della vita religiosa.
Il mondo dei monasteri e degli ordini si fece così definire in modo univoco da tali concetti e arrivò a possedere
identità comune. Vita religiosa venne intesa come un’esistenza comune condotta in modo regolato e
comunitario volta a condurre le anime all’incontro con Dio. In tal modo presentò un modello che in linea di
principio era perseguibile da tutti ma che poteva essere raggiunto solo da pochi virtuosi della fede. Per
realizzare questo modello di vita: monasteri e ordini si sottoposero a un processo di istituzionalizzazione.
Nonostante il loro aspetto di istituzioni totali la loro peculiarità risiedeva proprio nel superamento dei confini
sistematici. Le comunità religiose però non si esaurivano nella loro struttura istituzionale per 2 motivi.

• La vita monastica, per quanto istituzionalizzata, ordinata e organizzata, rimaneva qualcosa che
trascendeva le istituzioni. L’aspirazione di questa esperienza di vita a condurre anima verso un
incontro privo di mediazioni con Dio sfuggiva a ogni tentativo di istituzionalizzazione, poiché questo
incontro doveva sempre essere conseguito di nuovo, in modo unico e individuale, su impulso di un
desiderio interiore. La dedizione di un’anima a Dio non poteva essere imposta coercitivamente da una
organizzazione esterna. Tale processo doveva essere guidato dal principio del libero arbitrio, poiché
esso era fondato sull’amore del cuore.
• Poiché la funzione del sistema monastico consisteva nel condurre l’anima verso Dio alla ricerca della
perfezione, la finalità della vita religiosa non era posta nell’esistenza terrena. Per questo: alla vita di
questo mondo veniva attribuito un carattere transitorio. In tal senso la vita religiosa significava anche
vita in uno stato di transizione, dove la comunità monastica era una temporanea stazione di passaggio
del singolo, collocata tra terra e cielo. La Regola di Benedetto parla in tal senso di “scuola per il
servizio divino” e di una officina. Il valore della comunità religiosa non era contenuto in se stessa,
essendo solo uno strumento per raggiungere un più alto fine.
La fiducia che i singoli membri di una comunità monastica avevano nel suo carattere trascendente e transitorio,
per cui comunità assolveva una funzione pragmatica in vista di obiettivi collocati nell’aldilà, contribuì in modo
essenziale a mantenere stabili le comunità nel corso delle generazioni e epoche.
Il singolo e la comunità: essere un religioso o una religiosa significava rendere immanente la trascendenza di
Dio nel proprio animo e predisporre nell’anima attraverso amore e obbedienza un’abitazione per Dio. Per
questo scopo: abbandono del mondo terreno e sottomissione, rinunciando a propria volontà, alle severe regole
di una vita monastica comunitaria. Il monastero divenne, come era previsto nella Regola di Benedetto una casa
di Dio. Tuttavia esso non bastava da solo per assicurare la salvezza dell’anima “l’abito non fa il monaco”,
nonostante poi si cercasse sempre di conferire un significato simbolico all’aspetto esterno della veste monastica
e al suo colore, v. nero descrive un monaco addolorato per la morte di Cristo e perciò vive in contemplazione,
il bianco invece un monaco che gioisce per la Resurrezione di Cristo e quindi un canonico regolare che conduce
una vita attiva.
Costruire una casa nell’interiorità delle persone che funga da Tempio del Signore, da monastero dell’anima:
così dicevano i teorici delle esperienze religiose monastiche normate da una regola. Dopo aver edificato una
simile casa, la necessaria conversione verso l’interiorità poteva essere compiuta solo a patto che l’anima
cercasse “di uscire dal corpo attraverso gli occhi, le orecchie e gli altri sensi e smettesse di gioire per cose
terrene”. Dio non sarebbe entrato laddove “le pareti fossero danneggiate e i muri bucati”. Persone potevano
costruire una relazione con Dio solo se loro anima non era soggetta alle impressioni dei sensi del corpo e se
non si perdeva nelle cose esteriori. Era necessario un estraniamento dal mondo incondizionato.
“Entrando in un monastero il monaco offre una pelle in cambio di una pelle e tutto ciò che ha per la sua anima,
mentre depone l’uomo vecchio e prende su di sé l’uomo nuovo – entrando in una nuova forma di esistenza”.
Così Pietro Cellense, abate di Moutier-la-Celle mostra i confini tra monastero e mondo. Affinché individuo
potesse superarli era necessaria una conversione integrale del cuore a Dio. Tale conversione era raggiunta
attraverso castità, tolleranza, digiuno, silenzio, contemplazione, umiltà. Questi erano i fondamenti del modello
ascetico che pretendeva la persona nella sua interezza: erano norme che richiedevano la sottomissione al volere
di Dio e allo stesso tempo si doveva obbedire a Dio non per paura, bensì per amore, seguendo l’esempio di
Cristo stesso, che fu obbediente al suo amato Padre fino alla morte. La disobbedienza invece era una sorta di
idolatria criminale: era come erigere degli idoli nel proprio cuore, in quanto la disobbedienza a Dio significava
ricadere nel mondo, che era stato vinto. Così un religioso diveniva un ribelle nei confronti della virtù e della
verità.
Obbedienza: significa prima di tutto essere sottomessi a Dio, poi al superiore del monastero o dell’ordine. Il
fondamento di ciò si trova già nell’assioma benedettino in base a cui il proprio superiore agisce in
rappresentanza di Dio. Questa frase la si ritrova anche in altre regole come in quella di Agostino: essa a sua
volta vincolava i superiori e poneva limiti all’obbligo dell’obbedienza. V. Bernardo di Chiaravalle ha esposto
che nessun monaco aveva preso i voti basandosi sul volere dell’abate, bensì solamente sulla regola. Perciò
abate poteva sì dare ordini duri e difficili da sopportare, ma in nessun modo poteva comandare qualcosa che
andasse contro la regola, e quindi contro Dio. E l’obbedienza richiedeva soprattutto l’accettazione interiore dei
principi fondamentali, così che dovesse sussistere ancora una volta il volere individuale nella forma della
propensione all’obbedienza.
Fin da inizi del monachesimo era usuale diventare membri di una comunità monastica fin da bambini,
attraverso l’affidamento da parte dei genitori. Con un lungo processo i bambini sarebbero stato abituati alle
consuetudini della comunità e avrebbero sviluppato una propensione interiore a accettarle. Ma dal XII divenne
abituale entrare nel monastero solo da adulti. Età minima variava tra i 14 e i 20. Così il noviziato, inteso come
iniziazione alla vita del monastero, acquistò rilevanza. Esso doveva essere un processo sostenibile, volto alla
purificazione dal peccato e dalla vita condotta fino a quel momento. La conclusione di questo poteva essere
una cerimonia solenne di professione, che assumeva valore simbolico di secondo battesimo. Diventare monaco
era interpretato come l’inizio di un martirio, ma anche come la morte nei confronti del mondo, così che presso
i benedettini c’era l’usanza di, dopo la professione, coprire interamente la testa del nuovo monaco col suo
cappuccio per tre giorni.
I protagonisti dello spirito riformatore da sempre si sforzarono di conferire una durata temporale attraverso
istruzioni orali e i cosiddetti scritti parenetici, ovvero esortativi. Tuttavia un anonimo autore del XII riconobbe
il problema di una tale parenesi, esortando i monaci “A che cosa servono questi scritti di esortazione, se tu non
li leggi e non li comprendi dentro te stesso? Mostrando così i criteri coi quali si poteva misurare
interiorizzazione delle norme monastiche: la coscienza (conscientia) era intesa come cordis scientia, come
sapienza del cuore. Soprattutto nei periodi di riforma, come nel XII, i religiosi erano invitati ad accettare la
propria coscienza come un accompagnatore, a incontrare se stessi nel proprio intimo e ad avere come partner
solo Dio, che guarda nei cuori. Sebbene sia possibile nascondere il proprio comportamento da chi lo osserva
dall’esterno, non è possibile farlo con se stessi. “Os conoscere te stesso” “Se segui la tua coscienza, allora sei
vincolato da una legge che tu stesso hai scritto”, i monaci erano affidati al proprio giudizio e non a quello degli
altri, poiché avere confidenza con propria coscienza assicurava che nessuno conoscesse un religioso meglio di
se stesso. Una tale relazione con se stessi permetteva di accedere a una trascendenza che concludeva con Dio.
Nel suo cuore spirituale era totalmente individualistica e illimitatamente emotiva, perciò anche radicale e anti-
istituzionale. Allo stesso però era strangolata, dal punto di vista istituzionale, dalle forme della vita monastica.
In tal modo si sublimavano la religiosità vissuta individualmente e la vita secondo una regola che aveva assunto
la veste di una razionalità pratica. La vita comunitaria del monastero richiese con severità di orientare la propria
esistenza a qualcosa di più grande.
Si sperava che il monastero potesse essere armonioso come l’arpa di Davide: a patto che le singole corde, i
religiosi, agissero insieme per raggiungere l’obiettivo di una melodia bene seguita. Partendo dal presupposto
che la vita communis si fosse già realizzata nella Chiesa delle origini di Gerusalemme, Agostino aveva adottato
per sua comunità il motto tratto da Atti degli apostoli “un cuore solo e un’anima sola”. Completamento e amore
reciproco erano i pilastri portanti della comunità. Questa funzione della comunità monastica è semplificata
dall’osservazione che la durata delle pratiche spirituali, liturgiche e degli esercizi ascetici, tra cui il lavoro
manuale occupava una posizione di rilievo: arginava la fragilità dei fratelli più negligenti, oltre a eliminare la
possibilità di peccare. Il rigido ordinamento della vita monastica era così inteso anche come una barriera
protettiva contro la propensione al peccato. Rafforzava il singolo anche grazie alla pressione esterna. Bernardo
di Chiaravalle localizzò la protezione dalla propensione al peccato nella schiera dei molti che nel cenobio
combattevano allo stesso modo, con l’aiuto dei quali il singolo poteva respingere gli attacchi del male. Si
trovava in pericolo solo colui che cadeva vittima del peccato di considerarsi autosufficiente. Inoltre ciascuno
nel monastero subiva la morte ma la affrontava in compagnia dei suoi confratelli. Il monastero circondava il
morente e si fondeva con lui come un corpo solo. E dopo la morte il legame non aveva fine, era reso eterno
mediante l’inclusione del nome del defunto nei libri dei morti del monastero. L’inconfondibile identità di un
monaco defunto continuava a vivere nel suo nome messo per iscritto, poiché si pregava esplicitamente, citando
quel nome, per la sua anima individuale e per la sua salvezza.
Le comunità religiose garantivano l’allontanamento dalla mutabilità del mondo terreno e lo esprimevano anche
simbolicamente. Quando donne e uomini vivevano in un monastero si sottoponevano a un ritmo giornaliero
sempre uguale e alla continua ripetizione quotidiana di messe e preghiere, di sonno e veglie, di lavoro e pasti:
vivevano in una circolarità temporale che rompeva il corso del tempo mondano e lo innalzava, tanto da rendere
presente sulla terra in modo simbolico l’eternità atemporale della vita futura. V. Capitulum culparum:
un’assemblea durante la quale si riconoscevano i propri peccati davanti alla comunità che allo stesso tempo
prefigurava il Giudizio Universale. V. Quattro angoli del chiostro (spazio monastico in cui si svolgono attività
contemplative, letture bisbigliate) erano paragonati allegoricamente dal canonico regolare Ugo di Fouilly: al
disprezzo della propria persona e del mondo, all’amore per il prossimo e per Dio: allora una persona che
camminava lì dentro abbandonava qualsiasi senso di spazialità terrena, e iniziava simbolicamente a muoversi
in una trascendenza circolare delle virtù fondamentali.
Per queste esperienze: necessario uno spazio monastico en delimitato, che escludesse mondo secolare con una
chiara differenziazione fra dentro e fuori. Chiostro era punto centrale, attorno a cui erano disposte tutte le
stanze che rappresentavano la totalità dello spazio claustrale, ovvero separato dal mondo. La conformazione
dei monasteri variava a seconda degli scopi delle differenti esperienze di vita comunitaria. Così, da
organizzazione complessiva del dormitorio comune, tipico delle comunità benedettine, si opponevano la
separazione delle certose in appartamenti, guidata da principi eremitici, o le celle dei Domenicani. Però erano
tutti simili rispetto a essenza della loro funzione spirituale e simbolica, come accadeva nel chiostro, nel
refettorio o nella biblioteca. L’architettura della chiesa era straordinariamente diversificata alla luce delle
specifiche esigenze delle diverse osservanze. Essa poteva essere chiusa, come per i primi cistercensi, per chi
non apparteneva alla comunità. Mentre per mendicanti dediti alla predicazione essa appariva accogliente,
ampia, aperta alle offerte pastorali, alle sepolture. Gli edifici delle chiese potevano essere intesi o come un
manifesti simbolico della Gerusalemme celeste o potevano venire interpretati come l’espressione dell’umiltà
e della rinuncia alle ricchezze terrene (cistercensi).
I monasteri e il diritto: il monastero era un luogo pensato per i deboli, che non potevano ancora affrontare
con successo il duello col male nel mondo esterno, non protetto. “Prendi questa semplice regola come un inizio
e portala a compimento con l’aiuto di Cristo. In seguito tu potrai, sotto la protezione di Dio, innalzarti alle
vette della conoscenza e delle virtù” ultime parole della regola di Benedetto. Alla luce delle caratteristiche
transitorie della vita religiosa che qui risultano evidenti, solo un ordinamento razionale e regolato in modo
istituzionale poteva realizzare le radicali richieste di un simile tipo di esistenza. Già Weber aveva notato il
paradosso esistenze tra le ambizioni di un asceta che cerca la salvezza in nu monastero e le prestazioni razionali
del monachesimo, che egli risolveva affermando che ascesi era diventata oggetto di un’impresa metodica. I
concetti di prestazioni razionali e impresa metodica sono le chiavi per comprendere le prestazioni organizzative
raggiunte dai monasteri. Si parla di razionalità metodica quando c’è un trattamento ponderato e obiettivo delle
proprie azioni e quando i comportamenti sociali si svolgono secondo dei progetti che fanno comprendere le
premesse le modalità e i fini di tali comportamenti. I monasteri medievali svolsero in una tale razionalità, in
modo da mantenere il senso del loro stile di vita estraneo al mondo all’interno di una forma necessariamente
istituzionale.
Al conseguimento della stabilità, così come alla sua difesa, portarono molteplici istanze. Si trattava
dell’ineludibile impulso interiore della coscienza individuale, che poteva essere acuito da efficacia dei testi
parenetici, ma anche di personalità carismatiche, che formulavano un’idea-guida e la fissavano attraverso loro
azioni e modello di vita (fungevano da regola vivente). Tuttavia si trattava anche di dar vita a una struttura
giuridica che per mezzo di una regola fondativa, di consuetudini tramandate a voce e norme scritte rendesse
possibili diverse decisioni giuridiche e misure ammnistrative, protocolli e per mezzo del richiamo al diritto
ecclesiastico generale desse una struttura a ordinamenti pratici delle comunità etc. Ogni forma di diritto in
vigore nei monasteri o negli ordini era inserita nella gerarchia delle fonti giuridiche della chiesa. Le leggi
supreme erano quelle di Dio, di fronte alle quali quelle della chiesa e dei papi erano più piccole e ancora più
piccole erano quelle delle regole scritte dai Padri fondatori del monachesimo come Agostino, Benedetto.
Fin da albori dei monasteri gli organi della chiesa istituzionale tentarono sempre di intervenire nelle strutture
interne delle comunità religiose. Ciò accadde per mezzo delle sinodi universali o particolari /v. Calcedonia
451, la sinodo Lateranense 1059 etc). ma anche i singoli papi cercarono fin da principio di estendere la loro
protezione e anche la loro autorità sui monasteri. Questo poteva avvenire nella forma di privilegi individuali,
che garantissero l’esenzione dall’autorità del vescovo (v. Bobbio 628) concedendo la protezione papale o
considerando un monastero una propria comunità (Cluny all’inizio del X), confermando proprietà e diritti
giuridici (come la libera scelta dell’abate) o approvando nuove congregazioni, i loro documenti fondativi, le
loro regole, o erigendo nuovi gruppi. Altra strategia: distribuzione delle litterae de gratia con cui a partire dal
XIII i papi iniziarono a confermare in modo sommario tutti i diritti, le indulgenze, le proprietà. Oppure
emanavano delle bolle o dei mandati di riforma.
Gli interventi della Curia romana negli affari interni delle comunità religiose si rafforzarono parallelamente
alla crescita del potere papale a seguito della Riforma ecclesiastica del XI e XII e dell’accentramento del potere
della chiesa nella Curia di Roma. Da qui: amministrazione curiale cercò di strutturare i principali contenuti
dell’attività comunicativa tra papato e diversi ordini religiosi per mezzo di norme e definizioni concettuali
unitarie.
Nel lasso di tempo che va da 1247 al 1264: ben 5 ordini (francescani camaldolesi eremitani domenicani e
cluniacensi) avevano ottenuto i loro procuratori, attraverso i quali potevano rappresentare i loro interessi presso
la cancelleria papale. E si sviluppò anche l’istituto del cardinale protettore ce aveva il ruolo di collegamento e
mediazione tra papato e singoli ordini. Nonostante ciò: dal XIII la maggior parte degli ordini imparò come
resistere a ingerenze troppo pervasive del papato (cluniacensi), a modificare gli interventi papali
(premostratensi), o a respingerli (certosini).
Le congregazioni religiose erano in ogni caso sempre legati almeno in linea di principio allo ius commune
della Chiesa, che guadagnò importanza soprattutto nel corso della formazione dottrinale del diritto
ecclesiastico, a partire dalla Concordia discordantium canonum di Graziano 1140. Questa opera divenne la
principale compilazione del diritto ecclesiastico. Culmine della prima fase di questo sviluppo: Liber extra, una
raccolta di decreti papali promulgata da Gregorio IX nl 1234. Per la prima volta presentava in modo sistematico
tutte le materie giuridiche che riguardavano in special modo il mondo religioso. Contenutisticamente:
rappresentava una struttura legislativa, il modello di un esauriente catalogo dei procedimenti normativi che
regolavano il comportamento dei religiosi. Riguardava ad esempio la povertà, il consumo di carne, modalità
di ingresso dei monaci, misure punitive. Sebbene lo studio del diritto ecclesiastico fosse malvisto in molti
ordini alla luce della sua redditività assai mondana, si poteva trovare il modo di aggirare parzialmente la
severità di tali divieti attraverso le dispense papali.
La formazione del diritto proprio, quindi la creazione di uno ius particolare: fu invece fin da inizi un campo in
cui le comunità religiose avevano una vasta autonomia. Nel XIII: molteplicità di diritti particolari all’interno
di vita religiosa. La vita religiosa, come nessun’altra esperienza di vita, fu legata sin da principio a ordinamenti
messi per iscritto. Ci si affidò a parola scritta che aveva la capacità di trasmettere la memoria attraverso il
tempo e lo spazio. Capacità degli scritti di preservare in modo autentico la tradizione e questa preservazione
del sapere avveniva in epoche in cui l’alfabetizzazione dell’Europa era quasi precipitata a zero. Più importante
prodotto del processo di messa per iscritto che caratterizzò la vita religiosa furono le regole, le consuetudini e
gli statui. In questi testi divennero visibili i fondamenti della struttura normativa di una comunità, se pur in
modo diverso. I certosini ad esempio non possedevano alcuna regola, i Grandmontini non possedevano
costituziones, i Cluniacensi fino al XII non ebbero a disposizione degli statuti che regolassero la loro
costituzione. Osservando lo sviluppo: fino all’Alto medioevo vennero prodotte prevalentemente regole, seguì
poi un’epoca di consuetudines, e a partire dal XII dominarono gli statuti.

• Solitamente una regola era composta da un singolo autore per dare alla sua comunità una
testimonianza vincolante del corretto modo di vivere. Analogamente una regola già esistente poteva
essere introdotta da un singolo nella sua comunità, v. Norberto con regola di Agostino. In un primo
momento le regole non avevano bisogno dell’approvazione di una superiore autorità ecclesiastica. Ma
già dal Medioevo Centrale ciò mutò venne reso più incisivo con Quarto Concilio Lateranense. Le
nuove regole dovevano ormai essere approvate dal papato (v. San Francesco). In un primo momento
inoltre la stessa regola poteva essere adottata anche da altri monasteri che non avevano alcun legame
giuridico-istituzionale tra loro. Così la regola di Agostino, alla luce delle sue norme di carattere
generale, divenne a partire dal XII/XIII persino una sorta di regola jolly per molte nuove
congregazioni. Accanto a ciò si svilupparono per la prima volta regole specifiche per i singoli ordini,
che determinarono fortemente le loro identità, e per questo non erano mutuabili da altre congregazioni:
v. Templari, Grandmontini, Camaldolesi, Francesco. Dal punto di vista contenutistico la regola
toccava tutti gli aspetti più impo della vita dei religiosi, quindi comportamento, doveri riguardo a
preghiera e liturgia, disciplina, finanze, vestiti, cibo, alloggi. Sullo sfondo c’era il pensiero che una
regola fosse un testo sacro e perciò intoccabile, che si fondasse sul Vangelo, e che fosse stata data da
Dio stesso.
• Le consuetudini erano delle usanze messe in pratica per un certo tempo e in tal modo già approvate
dalla forza della prassi consuetudinaria. Perciò le loro diverse versioni non avevano un autore nel vero
senso del termine e i testi non avevano bisogno dell’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Erano
però in grado di essere trasmessi a altre comunità. In questi casi i testi potevano essere modificati, per
adattarsi a nuove esigenze. Esse offrirono dei completamenti e delle interpretazioni alle regole.
Trattarono le interazioni e le pratiche di vita, le forme della preghiera comune e della liturgia etc. erano
anche indirizzate verso il sistema organizzativo dei compiti, il reclutamento di future generazioni e il
rispetto della disciplina. Anche i testi delle consuetudini non potevano essere modificati, poiché
registravano delle usanze già fissate. Ciò che si faceva aveva validità poiché lo si era sempre fatto.
Tuttavia alcune avevano una funzione più descrittiva, altre più direttiva. Così si può distinguere tra
testi che erano destinati esclusivamente a altre comunità, non appartenenti a stessa congregazione (v.
consuetudini di Ulrico di Cluny per Hirsau) & quelli che avevano lo scopo d assicurare e continuare
un legame vincolante con alcune usanze attraverso la loro testualità.
• Gli statuti erano redatti col consenso di tutta la comunità. Classico esempio: Carta Caritatis dei
cistercensi o le constitutiones dei Domenicani. La redazione degli statuti era effettuata dal fondatore
stesso della comunità. Inoltre, in virtù della loro elaborazione attraverso il consenso della comunità
valevano anche per i superiori di un monastero o ordine. Generalmente non erano mutuabili dai
monasteri, congregazioni, oppure ordini estranei alla comunità che li aveva elaborati. Dal punto di
vista giuridico rappresentavano un simbolo identitario decisivo per la comunità religiosa, dato che
erano stati creati dalla comunità stessa in modo da avere valore normativo lì e solo lì. All’interno di
una congregazione o di un ordine: gli statuti dovevano valere per tutte le comunità. Essi riguardavano
tuti ambiti della vita comunitaria, ma trattavano con particolare attenzione le strutture organizzative.
Per preghiera e liturgia: spesso venivano scritte opere con una tematizzazione specifica. Gli statuti
potevano essere modificati, integrati, abrogati o riscritti in qualunque momento (eccezione: Carta
Caritatis che veniva paragonata a una regola). Inoltre gli statuti rappresentavano la messa per iscritto
di norme che avrebbero dovuto avere una funzione di guida a partire dal momento della loro
pubblicazione.
Le forme istituzionali: Il testo normativo aveva posizione basilare, la comunità si costituiva su di esso come
un compagine radicata nel presente ma anche orientata verso il futuro. In tal modo il testo non aveva solo una
funzione strumentale, ma anche simbolica, v. parole iniziali della Carta Caritatis dei cistercensi: posero,
nell’ambito della regola di Benedetto, delle basi normative rivolte verso il futuro, che avrebbero dovuto avere
una validità universale.
Dagli inizi della vita religiosa, le norme primordiali della vita comunitaria potevano essere legate a parole o a
operato di una figura carismatica. Questa fu la seconda tipologia di fondazione di comunità religiose. In questo
caso non un testo ma una persona era la personificazione dell’idea-guida. Tutte queste personalità carismatiche
(Bruno, Roberto, Norberto, Francesco) posizionarono la loro autorità oltre i coinvolgimenti della vita
quotidiana. Questi carismatici potevano adottare atteggiamenti rivoluzionari, che andavano contro la
tradizione. Stefano di Thiers considerata tutte le regole esistenti rami e foglie e esortava i seguaci a tornare alle
radici, al Vangelo. I confini delle norme personificate erano dati dalla stessa caducità del corpo. Stefano di
Obazine infatti assoggettò in tempo i suoi seguaci all’autorità della legge scritta. E per questo Norberto rifiutò
l’intenzione dei seguaci di seguire solamente la sua parola. La comunità di Norberto alla fine accettò la regola
do Agostino, e così via. Tali fatti giocarono un ruolo impo nella formazione di un elevato numero di comunità
religiose medievali, ma non si lasciano spiegare completamente dal modello weberiano della transizione da
un’autorità carismatica alla quotidianizzazione del carisma. Erano più complesse: lo stesso carismatico
promuoveva una diminuzione della forza carismatica a vantaggio della formazione di una forza legittimante
razionale. In tal modo il fondatore carismatico perdeva la sua caducità e il potere normativo della sua memoria
era inserito in modo durevole in apparato di fondamenti legittimanti.
Il successo nella formazione di una comunità religiosa divenne evidente attraverso la sopravvivenza oltre la
fase iniziale, il perdurare degli scopi istituzionali che comunità si era prefissata, il funzionamento delle sue
autorità. La formazione di congregazioni religiose non si concluse con l’atto della fondazione, bensì si svolse
durante una lunga fase successiva in cui ci furono riforme e correzioni. Il mondo dei religiosi: ebbe ruolo guida
nella strutturazione razionale di comunità organizzate.
All’abate di un monastero la Regola di Benedetto configura compiti che richiedevano soprattutto l’arte pratica
della capacità di analizzare razionalmente la vita quotidiana. Ovvero la capacità di esercitare la discretio: abilità
di saper giudicare in modo ponderato. In base alla regola adottata dalla comunità: l’abate era eletto non dalla
maggioranza numerica dei suoi componenti, bensì dalla parte più sana. E successivamente era dotato di poteri
quasi assoluti. Alla luce della carica simbolica di intoccabilità dell’abate: i principali riformatori del mondo
religioso orientati in senso eremitico a partire da XI rifiutarono di assumere il titolo di abate nelle loro
comunità. Al posto di questo preferirono la definizione di prior, priorissa (priore), magister.
All’interno delle comunità c’erano diversi detentori di incarichi affinché tutto funzionasse senza problemi. A
partire da IX: la definizione di priore prese a rimpiazzare quella attestata nella regola di praepositus per indicare
il vicario dell’abate. Cellario: responsabile amministrazione economica; camerario della cura del monastero,
maestro dei novizi, l’hospitarius per accoglienza degli ospiti, elemosiniere, bibliotecario, infirmiarius etc.
Da una parte abbiamo congregazioni monastiche (forma più antica di unione) che dal punto di vista del diritto
patrimoniale erano sottoposte a una singola persona, al superiore della comunità centrale, v. Cluny, dal X fino
al XII. Il suo abate esercitava un’autorità monarchica non solo sui monaci sottoposti direttamente a lui, ma
anche sulle altre comunità che gli appartenevano. Grande monastero trans-regionale. Dall’altra (nuova
tipologia di comunità) c’erano raggruppamenti di monasteri accorpati dal punto di vista istituzionale,
organizzati su basi comunitarie e si rappresentavano come un’entità trans-personale. Per queste strutture si può
usare il termine di ordine, che definisce una forma nuova di vita religiosa, comparsa solo nel XII.
Nel complesso bisogna differenziare tra quelle congregazioni che consideravano le proprie comunità, integrate
nell’insieme, come singole entità autonome (cistercensi, certosini, premostratensi) e quelle congregazioni che
consideravano le proprie comunità solamente come succursali di una struttura onnicomprensiva.
Il capitolo generale, che si riuniva 1 volta all’anno, era l’organo rappresentativo di un ordine. Era formato da
superiori di singole comunità o da chi guidava le province. Compito assemblee: mantenere stabili i rispettivi
ordini nelle questioni spirituali e temporali attraverso misure giudiziarie, amministrative, riformatrici.
La coesione degli ordini era strutturata in modo verticale o orizzontale ed era sorretta da una rete capillare di
visitationes. 1. Verticale: sistema di filiazione composto da comunità-madri e comunità-figlie, nel quale i
visitatori provenienti dall’alto svolgevano loro attività rivolti verso il basso. Esempio: cistercensi, le cui
centinaia di abbazie si erano espanse a macchia d’olio partendo da Citeaux. 2. Modello orizzontale: l’area di
espansione di un ordine, che abbracciava tutta la cristianità latina quantomeno, era suddivisa in province dotate
di superiori, v. Premostratensi, Cluniacensi.
Costruire il proprio passato: per stabilire propria identità e assicurarsi un riconoscimento legittimante da
parte del mondo esterno, tuttavia, non bastavano un’interiorizzazione degli ideali di vita e un’organizzazione
ben funzionante in tutti gli ambiti. Il rafforzamento istituzionale richiedeva una spiegazione simbolica, garante
del fatto che il modello di ita religiosa adottato adempisse a ciò che legittimava il cuore della sua esistenza: la
sua alterità rispetto ai legami secolari del mondo. In un testo del ministro generale dei Francescani,
Bonaventura, si chiarisce l’origine problematica dal punto di vista ontologico: egli elencò i 5 motivi a causa
dei quali una comunità religiosa o un ordine col tempo è destinato necessariamente a declinare. 1. Per il numero
dei membri, che non sono più facilmente guidabili come agli inizi. 2. Per la scomparsa o indebolimento della
prima generazione: e quindi per la diminuzione della forza originaria. 3. Per via della sonnolenza nelle
generazioni successive, che possono tramandare solo ciò che hanno imparato in modo imperfetto. 4. Per
introduzione di usanze scorrette. 5. Per frequente immischiarsi negli affari mondani.
Le comunità religiose davano vita a racconti che narravano la loro stessa storia, con valore fondativo. Ci si
richiamava a stria dei singoli monasteri per mezzo della redazione delle cronache del cartulario o tramite
racconti parzialmente fantastici della fondazione. Oppure incisiva era la tecnica con cui le vicende di una
comunità o di un ordine erano inserite direttamente nello svolgimento della storia della salvezza: v.
Camaldolesi si mostravano consapevoli della loro rilevanza trascendente quando, nel XII, fecero iniziare la
loro regola: il testo presentava una serie scelta di eremiti esemplari, che partiva da Mosè, poi Davide, Elia,
Eliseo, Giovanni Battista, Cristo, Padri del deserto, Benedetto e si chiudeva con Romualdo, il loro fondatore.
Ciascuno di loro scelse una vita di solitudine, prova del guadagno che si poteva ottenere scegliendo
un’esistenza eremitica.
Importanza dunque delle storie fondative per fugare ogni dubbio sulla stabilità e la legittimità delle istituzioni
religiose.
La comunità religiosa e il mondo: le comunità si percepivano come istituzioni collocate fra cielo e terra. Da
unione di una fede interiorizzata e di una perfetta organizzazione della vita: i religiosi acquistarono la forza di
dare un impulso decisivo, che andasse oltre la ristrettezza degli spazi monastici, al mondo nel quale viviamo e
seppero trarre anche ispirazione da esso. I religiosi: offrivano anche la promessa di un investimento sicuro, sia
in termini di pietà che in termini più mondani, quanto concerne l’economia e la politica.
Fino a Alto medioevo i nobili fondarono monasteri sulle loro proprietà, per sfruttare la coltivazione della terra
e per creare punti di appoggio del loro potere. Più tardi, a partire da XI, la nobiltà iniziò a strutturarsi sulla base
di gruppi agnatizi di famiglie e i monasteri rappresentarono anche delle concentrazioni simboliche di sovranità,
poiché fungevano da luoghi di sepoltura per i membri della famiglia nobiliare. La nobiltà tuttavia fondava
monasteri anche per ottenere un vantaggio per l’anima dei singoli benefattori che andasse oltre la morte, grazie
alle preghiere dei monaci. I re sostenevano i monasteri per assicurarsi che si implorasse per la salvezza del
regno e del popolo. I benefattori delle comunità: pervasi dal timore della dannazione fornivano i monasteri di
buone basi materiali + si preoccupavano affinché entrassero persone virtuose per quanto riguarda la fede.
Monasteri riformati come Gorze Cluny Hirsau avevano la fama di essere dei buoni luoghi per investire.
Fino a medioevo centrale inoltrato: la nobiltà era la sola che promuovesse le fondazioni di comunità religiose,
ma a partire dal XIII col fiorire delle città, nuove classi di mercanti e artigiani svolsero questo ruolo. Mettendo
in comune loro risorse spesso resero possibile la fondazione e il mantenimento, nelle loro città, di comunità di
frati mendicanti, alle quali davano in proprietà o in usufrutto un patrimonio costituito terre, vigne, vivai di
pesci. Inoltre donavano cera, arredi liturgici, dipinti per l’altare. In questo ambito era essenziale organizzare
delle strutture di commemorazione durature, per assicurare il ricordo perpetuo del benefattore. Soprattutto i
monasteri femminili cittadini divennero spesso autentici e complessi spazi di comunicazione tra e comunità
religiose e il mondo esterno.
Una comunità religiosa era anche un luogo dotato di muri che tenevano fuori, spesso con fatica, i pericoli del
mondo (rappresentati da immagine apocalittica di Babilonia). Il potere del monastero di plasmare il mondo
che lo circonda era controbilanciato dal coinvolgimento in strutture storiche dell’ambiente sociale, politico,
economico. E ciò poteva recare non solo vantaggi a una comunità religiosa, ma anche condurla a una
dipendenza istituzionalmente condizionata dalle autorità secolari: attraverso assunzione della guida del
monastero da parte dei laici, o attraverso la sottomissione patrimoniale della comunità a una estraneo, che
disponeva a suo piacimento dei beni del monastero, attraverso autorità esercitata da advocatus. Inoltre i
monasteri dovettero affrontare gli attacchi ai loro beni da parte di coloro che avrebbero dovuto proteggerli.
Mondo della nobiltà e mondo del monachesimo potevano entrare in una relazione simbiotica ma erano
comunque in contraddizione sotto 2 aspetti. 1. La vita comunitaria dei monasteri serviva a garantire la salvezza
di tutti coloro che ne facevano parte, allo stesso modo. Le differenze di rango non giocavano alcun ruolo e
mettere in risalto i propri meriti erra considerato una manifestazione di superbia, il peccato peggiore di tutti.
Mentre il ceto sociale dei nobili si fondava su un’aperta competizione per conseguire un rango elevato e una
certa fama. 2. Il potere e l’autorità dei nobili si fondavano sul possesso personale di beni, che andavano
accresciuti. Invece la povertà, l’umiltà e la modestia erano essenziali per la vita religiosa.
Dalla Tarda Antichità fino a Medioevo centrale inoltrato: le comunità religiose erano composte soprattutto da
nobili. Nonostante nella maggior parte dei casi il motivo che spingeva a entrare nei monasteri fosse il
raggiungimento della salvezza, tuttavia in molti casi i motivi erano pragmatici: occupare dei posti in un
monastero garantiva a una famiglia nobile di poter influenzare la politica del monastero + monasteri si
occupavano del mantenimento delle figlie, figli non primogeniti e portatori di disabilità. I membri della nobiltà
conducevano una vita che si avvicinava a quella consona alla loro posizione sociale quanto più lo permettevano
le norme delle regole. A Cluny fu sempre più presente la presenza nobiliare e per questo i pasti erano sontuosi
per gli standard monastici, cosa che divenne oggetto di rimproveri. A Cluny, come nelle fondazioni dei
canonici la presenza dei servi era comune. Il lavoro manuale (un elemento essenziale del monachesimo
benedettino) era malvisto nei monasteri cluniacensi. I monasteri che si ispiravano a ideali riformatori, v.
cistercensi, cercarono di tornare a originario precetto dell’uguaglianza. Promettevano annullamento delle
differenze di ceto come una forma di comportamento ascetico. Gli ordini riformatori volevano accogliere
persone che possedevano un alto grado di responsabilità personale e perciò permettevano solamente l’ingresso
di adulti nelle comunità. Ma in tal modo attirarono uomini e donne che avevano già avuto esperienza lunga col
mondo esterno, conservando il ricordo della divisione in ceti. Ciò era pericoloso per una vita basata
sull’uguaglianza. V. caso di Cesario: l’umiltà derivante dalla conversio si era tramutata in superbia e aveva
trasformato un uomo timorato di Dio in un ribelle contro le virtù monastiche e la verità. I parenti dei monaci
appartenenti a famiglie nobili durante le visite usavano il veleno dell’adulazione ed esternavano il loro
rincrescimento per le condizioni di vita presenti nel monastero. I monasteri nobiliari sono presenti anche nel
Basso Medioevo (sopratttto nella forma di comunità benedettine, specialmente femminili) e gli ambienti
riformatori cercarono sempre di bloccare sia gli eccessi nello stile di vita sia le limitazioni agli ingressi di
persone non nobili. La nascita degli ordini mendicanti e la loro integrazione nelle strutture cittadine
comportarono una cesura nella storia sociale delle comunità monastiche. Di solito nei conventi degli ordini
mendicanti erano presenti dei rappresentanti di tutti i ceti. Specialmente annuncio francescano non si
preoccupava dei confini tra ceti e un tale messaggio poteva essere accettato da chi voleva adottare un nuovo
stile di vita. Così nacquero le Beghine e altri gruppi di uomini e donne caratterizzati da uno stato semireligioso,
provenienti da tutti i ceti. Ed erano pronti a trascurare un’origine illustre a favore del servizio per il prossimo:
Elisabetta di Turingia ne fu un esempio.
Temporalia: per poter mantenere lo status di una comunità separata dal mondo la vita monastica pose come
principio base il conseguimento dell’autarchia materiale. I Grandmontini, che vivevano in condizione di
solitudine e assoluta povertà, non potevano possedere bestiame, riscuotere decime e potevano possedere solo
la terra necessaria alla sepoltura. In casi di estrema necessità era consentito loro di mendicare, ma raggiunto il
cibo sufficiente per un giorno dovevano smettere. Coloro che “erano morti per il mondo” non dovevano più
immischiarsi nelle strutture della vita secolare. I seguaci di Francesco dovevano lavorare, in modo da
procurarsi il necessario per vivere e solo quando era indispensabile potevano chiedere l’elemosina. I monasteri
di osservanza benedettina e le fondazioni dei canonici regolari possedettero delle proprietà comunitarie
costituite da possedimenti terrieri. Il voto di povertà valeva solo per i singoli. Già da inizi del Medioevo i
monasteri, soprattutto grazie a donazioni e a trasferimenti di proprietà erano diventati proprietari di enormi
latifondi. Questi non potevano più essere coltivati direttamente dai monaci, bensì dovevano essere affidati al
lavoro di servi e braccianti salariati oppure dovevano essere dati in affitto, come fecero i cluniacensi. I nuovi
movimenti riformatori, del XI e XII, tipo i cistercensi, criticarono soprattutto questo aspetto del monachesimo
benedettino e rinfacciarono a abbazie tradizionali di condurre una vita sontuosa e di vivere di entrate del lavoro
altrui. I cistercensi, dotati sin da subito di ampie proprietà fondiarie, ne trassero le conseguenze e fecero
diventare il loro lavoro manuale una vera e propria norma. Il lavoro purifica i cuori e disciplina il corpo.
Tuttavia presso i monaci della successiva generazione il lavoro manuale divenne perlopiù solo una formalità,
un gesto simbolico. Le attività produttive erano solte dai conversi, i confratelli laici, che appartenevano alla
famiglia del monastero. Anche se organizzazione economica e tecnica dei cistercensi fu costruita in modo
ottimale, i monasteri orientati verso attività agricole conobbero una profonda crisi quando alla fine del
Medioevo Centrale, si affermò in tutta Europa una forma di economia nuova, basata su circolazione del denaro.
E così le comunità ubicate nelle campagne, specialmente se avevano basato le proprie entrate sugli affitti,
dovettero combattere contro una situazione difficile a causa del divario fra moneta e generi di prima necessità,
sempre più cari, e i proventi degli affitti rimasti invariati. V. i protocolli delle visitationes dei cluniacensi del
XIII e XIV testimoniano centinaia di casi di monasteri pesantemente indebitati. nonostante ciò le prestazioni
tecniche volte a migliorare le rendite di proprietà agricole dei monasteri erano straordinarie. Molte comunità
ebbero successo nella coltivazione del grano, nella viticoltura, nella frutticoltura. Tra le abilità tecniche molto
utili sviluppate dai monaci si annoverano le competenze costruttive e nell’ambito dell’idraulica e delle attività
minerarie. V. importanza della canalizzazione delle acque per il funzionamento di attività del monastero, anche
per attività minerarie. Quasi tutte le maggiori abbazie situate vicino al mare cercarono di assicurarsi un ruolo
nella gestione delle saline. Ancora una volta furono i cistercensi a fungere da promotori di una nuova e lucrosa
tecnica estrattiva. La tecnica permetteva di plasmare il mondo e il richiamo alla Genesi: “riempite la terra;
soggiogatela” fornì la legittimazione di queste attività. Inoltre intervenendo nelle questioni del mondo i
religiosi scorgevano la possibilità di vincerlo.
Alla ricerca di Dio verso la conoscenza del mondo: i religiosi alla ricerca di Dio indagavano e interrogavano
le scienze mondane per poter trovare la chiave dell’ordine della Creazione. Tramandavano e realizzavano testi
per porre un freno all’oblio e per preservare la conoscenza per i posteri. Tastavano i confini della conoscenza
razionale attraverso tecnica della dialettica scolastica. Durante tutto medioevo lo studio dei testi scritti sarebbe
stato unito alla vita religiosa da speciali legami. Cassiodoro, un senatore romano a alto funzionario di corte
sotto re goto di Teodorico, si ritirò da occupazioni politiche all’età di 55 anni e sperimentò una conversio a
una vita orientata in senso religioso e fondò monastero di Vivarium a Squillace. Li stabilì che monaci avessero
dovere di servire Dio correggendo, migliorando, redigendo raccolte di estratti di opere scritte da autori cristiani
e pagani. Si impegnò a garantire presenza della cultura pagana nella teologia cristiana. Una simile esperienza
di vide nelle opere di Agostino, in cui giustificava l’uso da parte dei cristiani della sapienza pagana all’interno
delle verità della fede. Cassiodoro chiarì questo progetto in Institutiones: che invitavano a studiare la Bibbia e
fornivano una introduzione alle dottrine divine e umane.
Il rapporto coi testi era per i monaci una premessa decisiva, poiché conduceva a corretto adempimento del
servizio divino. La regola di Benedetto testimonia già l’importanza dei libri. Un approccio progredito e
produttivo ai testi che trasmettevano informazioni su Dio e sul mondo si sviluppo a partire dal VII nei monasteri
irlandesi e poi anglosassoni. Da li venne portato nel Regno Franco, dove i monasteri, soprattutto durante la
riforma culturale carolingia, che era preoccupata di stabilire il corretto testo biblico, divennero i detentori di
un monopolio quasi assoluto sulla produzione di opere scritte. Allora si sviluppò immagine di un ascetismo
monastico fondato su scrittura dei libri. A quel tempo si diffuse anche la creazione di scriptoria monastici e di
scuole incluse nei cenobi, che erano aperte in modo limitato, anche ad alunni esterni a comunità. Questa
tradizione di scuole monastiche orientate a formazione di futuri monaci e aperte al mondo e spesso in grado di
influenzarlo si mantenne non senza incorrere in qualche critica per secoli. Ebbero un ruolo parziale ma
importante sotto profilo organizzativo nella formazione delle università (v. San Vittore a Parigi) tuttavia le
scuole monastiche si ridussero a servire da scuola di preparazione per chi desiderava compiere studi più elevati.
Le elite degli ordini religiosi si erano già da tempo spostate nelle grandi università dove incontrarono dapprima
forti resistenze da parte del clero secolare che insegnava lì. Presto però fondarono delle loro case di studio o
nel caso dei frati mendicanti dei propri studia generalia, scuole superiori paragonabili a università e dedicate a
teologia.
E’ difficile tuttavia formulare affermazioni generali su interessi educativi sviluppati da mondo monastico: si
presentavano delle materie di insegnamento e dei metodi diversi. I movimenti riformatori che considerarono
sempre le pratiche ascetiche come la forma essenziale di rafforzamento spirituale erano distanti da quelli che
oggi potremmo chiamare l’intellighenzia ed erano assai inclini a bollare la sete di conoscenza come ina
curiosità peccaminosa. Per questi riformatori era sufficiente giungere attraverso la contemplazione interiore a
una consapevolezza della presenza di Dio di natura mistica. Comunque per ogni monaco valeva la regola che
ogni nozione estranea all’ambito religioso doveva avere come scopo ultimo il conseguimento di una sapienza
orientata in senso spirituale. Contemplando le cose terrene, visibili, si affina la capacità di discernimento delle
cose invisibili pertinenti a ordinamento divino, così che la ricerca delle presenze simboliche del divino nel
cosmo immanente diventava più attraente. Una tale percezione delle attività educative era intesa dai medievali
sia come barriera protettiva contro il pericolo di rimanere invischiati nella meschinità dei legami terreni, sia
come la possibilità di sfuggire dalla cattiveria del mondo. V. domenicano Vincenzo di Beauvais “tanto che
l’uomo non può essere strappato a questa situazione se non attraverso un’educazione costellata dalla fatica, dal
dolore e dal timore?”. L’educazione quindi aveva ruolo centrale per le persone che vivevano nei monasteri,
era una delle strade che poteva condurre alla salvezza dell’anima. Il sistema mutato dall’antichità, delle 7 arti
liberali mostrava il cammino da afre. Per mezzo di questo curriculum educativo si passava da discipline basilari
del trivium (grammatica retorica dialettica) che permettevano la comprensione dei testi sacri, al quadrivium
(aritmetica geometria musica astronomia) che facevano riconoscere l’ordine armonioso del creato. Gli sforzi
per conseguire questa educazione, ricettiva, basata sulla lettura, e anche riflessiva, attraverso la meditazione,
valevano sia per uomini che per donne dediti alla vita religiosa. Le donne giunsero ai vertici della comunità
erudita del loro tempo, v. Ildegarda di Bingen. Grazie a spinta del mondo monastico verso erudizione: si potè
riflettere sulla creaturalità dell’uomo, che conduceva a Dio, e sul peccato originale. Ciò condusse a alla
conclusione che uomini erano dipendenti dalla grazie salvatrice di Dio e dalla fede, fonte della speranza.
Monaci cercavano di ottenere qualche cognizione anche sulla somiglianza degli uomini a Dio, la quale aveva
conferito loro la capacità di ragionare. La capacità della ragione di riconoscere la verità poteva essere vista
come una possibilità per liberarsi dalle miserevoli condizioni della vita terrena + doveva anche essere conciliata
con la fede. Alla luce di Aristotele si dovette discutere di nuovo il rapporto tra uomo e Dio: Tommaso
spingendosi oltre Agostino mostrò la strada per un incontro fruttuoso tra ragione umana e fede trascendente in
senso metafisico.
I religiosi influenzarono il concetto che gli uomini ebbero del rapporto reciproco fra individuo e comunità.
Insegnarono a Europa la pianificazione razionale, la codificazione normativa, la divisione del lavoro,
l’efficienza economica. Trasmisero l’importanza di un rapporto responsabile coi beni posseduti e promossero
la povertà. Aprirono la strada anche alla formazione dello Stato. I monasteri medievali erano dei laboratori di
innovazione che gettarono le fondamenta della modernità.

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