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CORSO DI SCRITTURA DI ELENA VARVELLO

(tratto da http://hounlibrointesta.style.it/category/il-corso-di-scrittura) lezione 1

VEDERE UNA STORIA di Elena Varvello


una mattina qualunque potrebbe essere inverno, e diciamo che stia nevicando, che nevichi da un paio di giorni, intensamente. Nevica, e c un grande, profondo silenzio. Io sono qui, in una piccola stanza disordinata, davanti allo schermo del mio computer. Aspetto, non faccio nientaltro. Guardo lo schermo, ogni tanto bevo un sorso di caff ormai freddo. Se qualcuno entrasse, in questo momento, mi lancerebbe uno sguardo perplesso, probabilmente penserebbe che sto perdendo il mio tempo. Eppure, so che sta per accadere qualcosa, ed di questo che mi piacerebbe parlarvi, oggi: appena ne avr le forze, appena avr visto tutto ci che c da vedere, comincer a scrivere, ecco cosa sta per succedere. A cosa mi riferisco? Cosho in mente? Non una storia, non ancora, n tantomeno una scaletta (nei confronti delle quali, comunque, ho sempre nutrito scarsa fiducia, per ragioni che riguardano soltanto me), piuttosto unimmagine. Una visione, direi niente di mistico, non preoccupatevi. Semplicemente, in questa piccola stanza disordinata, a un certo punto vedo, con maggior nitidezza, qualcuno: un uomo e una donna, seduti in macchina, di notte, nel buio. Alla loro sinistra c un campo di granturco. Tutto comincia da qui. Li vedo da qualche giorno, anche se non so ancora cosa stiano per fare, coshanno appena fatto n cosa faranno, di l a poco. Ma adesso come se fossi accanto a loro, su quella strada, nel buio, alla mia sinistra il campo di granturco. A un certo punto luomo tira gi il finestrino, appoggia il gomito sulla portiera. Dice qualcosa alla donna, e io mi metto in ascolto. La scrittura , ancora e sempre, un grande mistero (accade misteriosamente, non importa se hai gi pubblicato un libro, non importa se non ci sei ancora riuscito: qualcosa il cui mistero non si esaurisce, un gesto che bisogna imparare ogni volta daccapo, con dedizione, con sacrificio), ma ho capito che, almeno per quanto mi riguarda, comincia proprio cos: devi vedere qualcosa, o qualcuno. Lo devi vedere nitidamente. br Una donna appoggiata al frigorifero in una cucina, ad esempio. Ti domandi cosa ci faccia, in quella cucina, cosa stia aspettando. Forse aspetta che suo figlio ritorni a casa, forse gi molto tardi. Guardala meglio. Vedi? Spegne la luce, si avvicina alla finestra, scosta la tenda, scruta la strada deserta. Ha indosso una vestaglia di spugna. Forse non ha nessun altro al mondo, soltanto suo figlio. Ora puoi cominciare a raccontarne la storia. Potrebbe diventare un racconto di poche pagine, o magari potrebbe essere linizio di un lungo romanzo, chiss. Oppure un ragazzo che cammina in un bosco, un pomeriggio destate, poi si siede su un tronco caduto. Guardalo meglio. Respira affannosamente. Cosha in mano? Un coltello? Una grossa pietra? Una vecchia fotografia di suo padre? Da dove viene, dove sta andando? O ancora, una bambina che cerca di prendere sonno, mentre i suoi genitori litigano furiosamente, al piano di sotto. Guardala: si copre la faccia con il lenzuolo, ha paura. Non te ne andare, rimani accanto al suo letto. Ci siete soltanto voi due. Tornando allimmagine delluomo e della donna seduti in macchina, di notte, accanto al campo di granturco, nella mia piccola stanza disordinata, dopo aver bevuto un altro sorso di caff, mi domando: cosa ci sono venuti a fare? Cosa stanno per fare? Cosa sta per succedere? Cosa si stanno dicendo? La visione prende corpo e profondit e movimento, ed in questo modo che comincia la storia. La lorostoria. cos che lavoro. Tutto quello che devo fare, a questo punto, star loro accanto, e seguirli, quando lui rimetter in moto.

Un tempo non la pensavo cos. Un tempo, dicevo a me stessa: Mi devo far venire unidea, perch non ho uno straccio di idea?. Mi arrovellavo intorno alle idee, aspettando che ne arrivasse almeno una. Eppure, la parola idea viene dal greco idin, che vuol dire vedere. , voil, questo il segreto. Quindi, se non riuscite a iniziare una storia, se state dicendo a voi stessi: Perch non ho uno straccio didea?, questo il mio suggerimento, personalissimo, certo, e quindi parziale: chiudete gli occhi e cercate di vedere qualcosa, o, meglio ancora, qualcuno. Cercate di vederlo davvero. Cercate di vedere perfino che cosa ha indosso un pigiama, un abito elegante, un paio di ciabatte: per ciascuno di questi dettagli, la vostra storia prender una direzione diversa e dov, che luce c in quel momento, che tempo fa (Flaubert faceva cos: metteva ai piedi di uno scrivano, niente di pi che una comparsa in Madame Bovary, un paio di ciabatte di pezza). Chiedetevi cosha in mente di fare, oppure di cosa ha paura, cosa desidera, e poi stategli dietro, stategli accanto. Vedere qualcuno, guardarlo con attenzione significa cominciare a prendersene cura, averlo a cuore, e scrivere anche questo (forse soprattutto questo): avere a cuore la sorte dei nostri personaggi. Sentirli, e sentire con loro. La compassione: da qui che si parte, ed questo, secondo me, lunico modo per andare avanti, per non arrendersi dopo un paio di pagine. Ciascuno di noi vede cose diverse, ossessionato da visioni diverse. Per questo ciascuno di noi scriver la sua storia. Quindi, nelle vostre stanze, ovunque voi siate, provate a chiudere gli occhi. Poi, certo, ci sarebbero molte altre cose da aggiungere, molti altri aspetti da prendere in considerazione, ma per intanto, se la cosa non vi sembra troppo strana, provateci. Buona visione.

lezione 2

UN POLLO CHE CAMMINA ALLINDIETRO


di Elena Varvello Alcuni anni fa (stavo scrivendo i racconti che avrebbero poi fatto parte della raccolta Leconomia delle cose) mi capitata una cosa curiosa, che vorrei provare a raccontarvi. Uno strano processo di comprensione, potrei chiamarlo cos, che non aveva a che fare con elementi tecnici della scrittura, n con il senso di uno dei racconti a cui mi stavo dedicando, quanto piuttosto con il senso profondo del gesto che stavo compiendo (gesto che, comunque, lho gi detto, rimane per me misterioso, e il cui mistero si alimenta, cresce ogni volta, di pagina in pagina). Avevo letto la trascrizione di alcuni interventi pubblici di Flannery OConnor, una sublime e (passatemi la ripetizione del termine) misteriosa scrittrice del Sud degli Stati Uniti, malata di Lupus Eritematoso e morta a trentanove anni, autrice di racconti bellissimi, la cui infanzia fu segnata da un clamoroso quanto inconsueto successo: allet di sei anni, intorno al 1930, la piccola Flannery aveva insegnato a un pollo a camminare allindietro e gli inviati di unimportante rivista lavevano filmata allopera, un filmato che in seguito fece il giro di tutto il paese. Di s, diceva: Quello fu il mio grande momento; ci che accaduto dopo stato solo un anticlimax. Pi avanti negli anni, prese ad amare molto i pavoni, li allev e ne descrisse il carattere e i comportamenti, ma questa unaltra storia. Gli interventi pubblici a cui mi riferisco componevano, e compongono ancora, per nostra fortuna, un libretto smilzo ma dimpagabile valore, dal titolo Nel territorio del diavolo (Flannery era una cattolica praticante, grande lettrice di Tommaso dAquino, e, dal

suo punto di vista, il mondo doveva essere considerato appunto il territorio del diavolo, il luogo in cui il male si manifesta ingaggiando con noi una battaglia). Ammetto che, allora, parecchie cose mi sfuggirono. C un tempo per tutto, no? Be, si dice cos. Ma una frase mi colp molto, ed intorno a questa, a partire da questa, che mi piacerebbe ragionare un momento. Flannery sosteneva (permettetemi di andare a memoria, e perdonate le inesattezze) che, quando scriviamo, perdiamo i capelli, ci si guastano i denti, ci ritroviamo con la schiena a pezzi. Scrivere unesperienza fisicamente dolorosa e provante, insomma. Si riferiva alla scrittura di romanzi, in cui mi sarei cimentata solo un paio di anni pi tardi, scrivendo La luce perfetta del giorno, ma le sue parole risuonarono da qualche parte dentro di me con unurgenza profonda e una verit cristallina.br In quel periodo, mi stava capitando una cosa analoga, e cos rubo poche righe per raccontarla: soffrivo di un violento mal di denti che mi costringeva a inghiottire un buon numero di antidolorifici. Compariva improvvisamente e improvvisamente spariva, permettendomi di tirare il fiato e dormire tutta una notte di fila. La notte seguente, per, lavrei trascorsa seduta sul divano, la testa fra le mani. Dovevo fissare un appuntamento con il dentista, e cos feci, alla fine: telefonai e lo fissai. Ma, il giorno prima, chiamai per disdire. Che ci crediate o no, non potevo sopportare di perdere un intero pomeriggio di lavoro, era questo il punto (anche se non ne parlavo con nessuno, non avevo il coraggio di dirlo a nessuno: mi avrebbero guardata con una legittima espressione dincredulit stampata in faccia). Cos, fissai un altro appuntamento e poi disdissi anche quello. And avanti in questo modo per un bel pezzo. Mimpegnavo nella ricerca di scuse plausibili con la segretaria del dentista, e tenevo sul comodino la mia confezione di antidolorifici. Ma continuavo a scrivere, e questo mi dava sollievo (anche qui, che ci crediate o meno vi assicuro che and esattamente cos). Potete capire, quindi, che effetto mi fecero le parole di Flannery OConnor. Diceva qualcosa che mi toccava profondamente, qualcosa di concreto che mi riguardava, o almeno che riguardava il mio corpo in quel periodo. O, potremmo anche pensarla cos, condividevo con lei unesperienza della quale non parlavo a nessuno, sulla quale mantenevo il pi assoluto riserbo una tipica conversazione di quel periodo: Hai ancora male? Perch non vai dal dentista? Coshai in quella testa?, Ma no, non ce n bisogno, mi passato, te lassicuro.) E allora capii questo il processo di cui vi accennavo allinizio che la scrittura non era solo questione di talento, n solo, o meglio dire meno che mai, una questione di tecnica (riguardo al ruolo delle tecniche e al significato dellespressione stessa, tecniche di scrittura, mi piacerebbe parlare unaltra volta, per dire ci che ne penso). No. Era, ed , questione di tenacia e di dedizione. Dedizione e tenacia assolute. Capii che era questo ci che avrebbe fatto la differenza: quanto tempo ero disposta a dedicare alla scrittura, e insieme quanto tempo ero disposta a sottrarre a tutto il resto, a tutte le cose piacevoli che avrei potuto fare, perfino alla mia famiglia, perfino alla mia salute anche se, certo, non si trattava di un problema serio, per carit, non voglio drammatizzare questioni trascurabili, le piccole sofferenze di ogni giorno. Prendete quello che vi dico come un esempio banale, soltanto unombra, un accenno della capacit di dedizione e tenacia che alcune persone dimostrano nel corso della loro vita. Lessi pi avanti che Flannery aveva scritto i suoi ultimi racconti, forse addirittura un intero romanzo, sdraiata a letto, gonfia a causa del cortisone, distrutta dal dolore. Pagine, comunque e nonostante tutto, luminose e lucidissime. Pagine splendide.

Mi sono chiesta molto spesso se avrei la forza di comportarmi come lei, se, trovandomi in una situazione simile, non scaglierei piuttosto a terra il mio computer, non mi abbandonerei a un dolore che fa ammutolire, non chiuderei per sempre i taccuini, nascondendoli da qualche parte. Non lo so, dico davvero. Non riesco a spingermi fino a quel punto, e, certo, spero che non mi capiti mai una cosa del genere (sono sicura che anche lei non lavrebbe voluto). Dedizione, tenacia e frustrazione come compagna di viaggio: questioni centrali spero di riuscire a parlare della frustrazione che va di pari passo con la scrittura, una volta di queste. Se simpara a fare i conti con la frustrazione, accidenti, si imparata una cosa importante. Per quanto riguarda invece i miei poveri denti, e la mia schiena metteteci pure quella be, meglio lasciar perdere. Niente dimportante, comunque. In fondo, scrivere un libro riuscire a scriverlo, riuscire a finirlo come insegnare a un pollo a camminare allindietro. Non ridete, vi prego. Quando ce la fai, hai la sensazione che tutto ci che accadr in seguito sar un anticlimax, perci il resto, ve lo assicuro le bugie, gli appuntamenti mancati, i dentisti, i dolori alla schiena, le notti insonni non ha grande importanza. Dico, riuscite a immaginarvelo, un pollo che, a un vostro segnale, comincia a camminare allindietro?

lezione 3

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI FRUSTRAZIONE


di Elena Varvello La frustrazione (sto per inoltrarmi in un territorio complicato, un bosco fitto da cui alcuni si tengono cautamente a distanza, e di cui, in fondo, non si parla mai, o mai abbastanza, quando si parla di scrittura), be, la frustrazione una compagna di viaggio. Ve lo dicevo gi lultima volta. Ve lo accennavo, insomma. Questa per me, ormai, una verit inconfutabile. Un fatto, semplicemente. Le cose stanno cos. Certo, una compagna di viaggio per ciascuno di noi, qualsiasi cosa noi si stia provando a fare, in qualsiasi mestiere noi ci si stia cimentando, e chi non lo sa? Ma oggi vorrei parlarvi di un aspetto specifico della questione, un aspetto che riguarda tutti coloro che trascorrono ore seduti davanti allo schermo di un computer o davanti alla pagina bianca di un taccuino, con una penna in mano. Nessuno escluso, mi pare. Quindi, proviamo a prenderla in modo diverso. Insomma, diciamola tutta, ho in mente di scrivere una breve, brevissima apologia della frustrazione come buona compagna di viaggio della scrittura. Una compagna di viaggio indispensabile, che dovremmo ricordarci pi spesso, o ricordarci tout court, di ringraziare. Un territorio complicato, vi dicevo, perch parliamoci chiaro questa una di quelle cose, uno di quegli stati danimo, da cui vorremmo scappare, di cui, se solo potessimo, faremmo qualsiasi cosa per liberarci. Tendiamo a pensare che non sia affatto una buona compagna di viaggio, no, piuttosto un peso di cui sarebbe meglio disfarsi. Almeno, io lho sempre pensata cos, prima dimbattermi nella scrittura o prima dimbattermi nella scrittura in modo diverso. Vi racconto un piccolo aneddoto. Molti, molti anni fa, studiavo canto (ho fatto anche questo). Dopo un po, lasciai perdere tutto. A pensarci bene, credo di poter dire che smisi per due ragioni. La prima: ero terribilmente timida e ogni esibizione pubblica mi

spaventava moltissimo; la seconda, e, mi sembra, la pi rilevante: non reggevo la frustrazione. S, cos. Intendo dire che credevo che le cose dovessero essere semplici, credevo che sarei riuscita a raggiungere un buon risultato in fretta e senza fatica, senza lavorare duramente, perch, insomma, ero brava, no?, o almeno abbastanza brava, e cos qualsiasi intoppo, qualsiasi passaggio su cui dovevo restare di pi, su cui dovevo impegnarmi di pi, mi sprofondava in un senso di frustrazione opprimente. Risultato: la fuga. br Abbandonai il campo, feci esattamente questo. Credo di poter dire, alla luce di ci che mi accaduto in seguito, che and cos perch doveva andare cos meglio cos, almeno per me ma vi assicuro che, negli anni successivi, ne soffrii, e parecchio. Unoccasione mancata. Ed ecco, guardatemi ventanni pi tardi, intenta a scrivere una, seppur breve, apologia della frustrazione quel senso dinutilit e di aspettative destinate a non realizzarsi come buona compagna di viaggio della scrittura. Come con Flannery OConnor, per, devo ringraziare qualcuno. Un altro incontro, uno di quelli che cambiano radicalmente il tuo modo di guardare alle cose laddove, per radicalmente non dovete pensare a una folgorazione improvvisa, quanto piuttosto a una sorta di smottamento, una specie dinfiltrazione. Gustave Flaubert. Gi, proprio lui. Non tanto lautore di romanzi e racconti come non ricordare i Tre racconti, e uno dei personaggi principali del libro, la domestica Felicit: se non lavete mai letto, accettate questo consiglio quanto piuttosto lautore di un meraviglioso e struggente epistolario. Lettere, insomma, che, nel marasma che regna fra i miei libri e sui miei scaffali, devo aver imprestato a qualcuno (a proposito: se la persona a cui lo imprestai stesse per caso leggendo queste mie povere righe, per favore, mi faccia sapere che fine ha fatto il mio buon Flaubert, se gode di buona salute ed amato quanto merita). In una delle lettere, Flaubert raccontava daver passato tre giorni a riflettere su una virgola (sulla necessit dusare o meno una virgola) e di non esserne venuto a capo. Di non esserne ancoravenuto a capo. Tre giorni. Per una virgola. Conseguenza immediata di tutto ci: un profondo senso di frustrazione e la messa in discussione del proprio talento. Reazione eccessiva, direte voi. Non so, forse. Gli scrittori sono strane creature. Posso solo dire che io lo capii, e, in qualche modo, imparai la lezione. Comunque, alla fine Flaubert prese una decisione, perch riusc a concludere il libro a cui stava lavorando in quel periodo; devo quindi dedurne che risolse il problema. Pubblic Madame Bovary un paio danni pi tardi. Tempo ben speso, direi. Non c giorno (non ne trascorre nemmeno uno, statene certi) che io non mi senta in parte o del tutto cos: limitata, disillusa o intimamente delusa nel rileggere quel poco che ho scritto, per di pi con grande fatica. Frustrata, appunto. Ma che le cose buone non si raggiungono facilmente, ed questo ci che mi ha insegnato Flaubert. No, cara, mi ha detto, non funziona cos. Devi impararlo, e impararlo il pi in fretta possibile. Devi imparare non solo ad accettare la cosa perch comunque non potrai farci niente, non potrai mica farla sparire a comando ma anche a vederla come una risorsa, una buona compagna di viaggio, appunto, dal momento che, se la saprai mettere a frutto, la frustrazione ti obbligher a non dare niente per scontato, ti spinger a stare sulle tue pagine tutto il tempo che sar necessario (tre giorni per una virgola, ad esempio), a tornare indietro e, a volte, addirittura a buttar via ci che hai fatto e a incominciare daccapo. Ti render umile, e questo va bene, giusto cos. importante. Se non riuscirai ad accettarla, invece e, in un certo senso, perfino ad amarla come una parte

irrinunciabile del tuo lavoro alla fine non potrai far altro che mollare, non potrai fare altro che lasciar perdere tutto. O scrivere cose che avresti potuto scrivere meglio. In entrambi i casi, unaltra occasione mancata. Forse vi sembrer che io mi stia tenendo alla larga da questioni che, allapparenza, hanno pi direttamente a che fare con la scrittura, questioni tecniche, come gi vi dicevo. Ci arriveremo. solo che mi sembrava importante partire da qui. Talento e tecnica, certo, ma soprattutto tenacia, dedizione, tempo e capacit di mettere a frutto la frustrazione. Ecco perch ho pensato dintitolare questa mia brevissima apologia Di cosa parliamo quando parliamo di frustrazione. Spero che Raymond Carver non se la prenda, ovunque lui sia. Come scrisse nel bellissimo racconto di cui mi sono permessa di storpiare il titolo: Capite cosa vi sto dicendo?.

lezione 4

La semplicit non semplice


di Elena Varvello E cos, eccoci arrivati. Voglio dire, eccoci arrivati l dove saremmo dovuti arrivare, prima o poi: la pagina. Le pagine che vorremmo scrivere o che stiamo provando a scrivere. Il fatto daver trovato una storia, daverla vista, e di provare a raccontarla scrivendo. Perch, s, certo, la dedizione e la tenacia: ammettiamo che quelle ci siano. Perfetto. E certo, la visione, e la frustrazione come buona compagna di viaggio: ammettiamo daverci ragionato su, o daverla addirittura sempre pensata cos. Ma poi resta il fatto che le nostre storie ci chiedono di essere scritte, e cio tradotte in parole. Ci chiedono di prendere forma sulla pagina, una parola dopo laltra, dallinizio alla fine. Un lungo lavoro. Quindi, anche se, da un certo punto di vista, ho limpressione davere gi affrontato le questioni pi importanti, davervi gi detto tutto ci che di veramente significativo ho imparato nel corso del tempo, prover a fare un passo avanti e a parlarvi di qualcosa che ha a che fare non tanto con il narrare (e con tutte le qualit che il narrare ci chiede, con tutte quelle qualit che dobbiamo affinare) ma con lo scrivere come gesto estremamente concreto, che ha a che fare con le parole che usiamo, quelle e non altre. Sapete, la prima cosa che ho scritto, dopo aver pubblicato un paio di raccolte di poesia, stata un racconto. Sintitolava La corsa. In un certo senso, un racconto baciato dalla fortuna, perch devo confessarvi lo scrissi in un paio di giorni. Un sabato e una domenica di primavera del 2004. La domenica sera, prima di cena, il racconto era finito non nella sua forma definitiva, certo, ma di questo sar pi interessante parlare quando, e se, affronteremo la questione spinosa e appassionante della riscrittura. br Un racconto breve, brevissimo: cinque o sei cartelle. Ricordo esattamente da dove veniva, da quale visione nasceva, ma questaspetto, ora, non interessante. Quello di cui mi piacerebbe parlarvi, invece, ci a cui pensai una volta terminato il racconto, mentre preparavo la cena (ho un marito e due bambini, e per loro, per i bambini, il fatto che prepari la cena molto pi importante del fatto che riesca o non riesca a finire un racconto, o addirittura un intero romanzo). Insomma, mentre preparavo la cena pensai a una cosa di cui avevo sentito parlare decine e decine di volte, e di cui io stessa avevo parlato molto spesso, senza per sapere veramente di cosa stavo parlando (capita, non

trovate anche voi? Si va un po in automatico, diciamo cos, e invece la scrittura una questione di esperienza). Pensai a ci che viene chiamato il patto con il lettore, la sospensione dellincredulit. Il fatto che un lettore decida di credere a quello che gli stiamo raccontando. Pensai che forse il mio racconto avrebbe potuto trovare qualche lettore, almeno uno, uno soltanto, e che con lui, o con lei, io avrei dovuto stringere un patto. Stringere un patto con qualcuno che, molto probabilmente, non avrei mai incontrato (a dire la verit, il giorno dopo, rileggendo il racconto, pensai che non lavrebbe mai trovato, un lettore, perch non era buono, andava riscritto daccapo, ma questo ha a che fare con la frustrazione come buona compagna di viaggio, e ve ne ho gi parlato in abbondanza). Allora, pelando patate o lavando insalata, non ricordo con esattezza (comunque sia, non deve essere stata una cena entusiasmante) mi dissi che la possibilit di stringere un patto con un lettore, la possibilit che lui, o lei, sospendesse la sua incredulit, dipendeva da una cosa che chiamer autorevolezza, e che lautorevolezza aveva a che fare con due caratteristiche: la chiarezza e la semplicit. Pensai cio che, nel raccontare la mia storia, avrei dovuto essere il pi chiara possibile e il pi semplice possibile. E qui mi sento in dovere di puntualizzare. Chiara, non banale o superficiale. Semplice, non semplicistica o elementare. Intendo dire che la questione non era colpire qualcuno con belle e ridondanti frasi a effetto (frasi che, comunque, e per fortuna, non ero stata in grado di scrivere), ma tendergli la mano e fargli capire da subito queste due cose: nel raccontare la storia che volevo raccontargli e che aveva a che fare con il come, allora, vedevo il mondo, o un certo aspetto del mondo sarei stata chiara, e sarei stata semplice, e questo perch sapevo cosa stavo dicendo e non avevo bisogno di belle e ridondanti frasi a effetto. Il punto era traghettare la mia storia fino al luogo in cui lui, o lei, lavrebbe letta, e dirgli: puoi fidarti di me. Dirgli: vedi?, mi devi credere, mi tutto chiaro, ed cos semplice. Ci che conta non sono un paio di frasi a effetto di cui potrei compiacermi per un istante. Ci che conta che vorrei che tu ascoltassi la mia storia, e forse lascolterai perch intuirai che so quello che faccio proprio perch lo so fare con chiarezza e con semplicit. Non ho bisogno di truccare le carte, non ho bisogno di trucchi (qualche tempo dopo, lessi un saggio di Raymond Carver, chiaro e semplice, appunto, pubblicato dalla Minimum Fax, intitolato Niente trucchi da quattro soldi. Be, non siamo mai i primi a pensare una cosa). Non sto dicendo che ci che raccontiamo debba essere chiaro e semplice. No, non dico questo, anzi. Sto parlando del come decidiamo di raccontare una storia. Sto parlando delle parole che decidiamo di usare ( e non uso il verbo decidere a caso). Voglio dire che dietro la chiarezza e sotto la semplicit si muove comunque una corrente oscura e impetuosa (il mistero che una buona storia porta con s, il suo senso pi autentico e pi nascosto). Sto dicendo che la semplicit sempre e solo apparente. Sto dicendo che non bisogna mai, MAI, truccare le carte. Sto dicendo che non servono a niente le belle frasi a effetto, e che, comunque, ci portano poco lontano. La chiarezza e la semplicit hanno a che fare con il rigore, e con il ricordarsi che stiamo scrivendo perch almeno un lettore abbia voglia di leggerci. Perch si fidi di noi. Scrivere non questione di autocompiacimento o di bello stile. Non si tratta, per come la vedo io, di dimostrare quanto si bravi se poi qualcuno penser che, s, siamo bravi, lo penser per un insieme di cose: la forza della storia che gli stiamo raccontando, la vividezza dei nostri personaggi, lautenticit delle cose che i personaggi si dicono, la musica e la potenza della nostra voce. Ma di questo parleremo unaltra volta, magari. Uno dei racconti pi belli che abbia mai letto di Goffredo Parise, ed contenuto

nei Sillabari. Sintitola Paura. Provate a leggerlo. Oppure provate a leggere Neve fresca, di Tobias Wolff, nella raccolta Proprio quella notte. Sapete come comincia? Comincia cos: Subito dopo Natale, mi padre mi port a sciare sul Monte Baker. Chiaro e semplice, quindi, per quanto mi riguarda, autorevole. Una voce di cui mi posso fidare, una voce che posso seguire fino alla fine. Giuseppe Pontiggia diceva che la semplicit non un punto di partenza, piuttosto un punto darrivo. Come dire che la semplicit non semplice, insomma, e che ci a cui noi ci affidiamo, in prima istanza, sono sempre le belle frasi a effetto, quelle con qui speriamo di colpire il lettore. La semplicit non semplice: un bel paradosso. Ecco ci a cui pensai quella sera, mentre preparavo la cena. Ed ecco perch, la mattina dopo, rileggendo il racconto, mi dissi che avrei dovuto riscriverlo. Comunque, dopo aver messo a letto i bambini provai a parlarne con mio marito ( un uomo dotato dinfinita pazienza, visto che riesce ancora ad avere a che fare con me). Come spesso accade, per, prima di essere dette certe cose hanno bisogno di essere pensate molto, molto a lungo. Non so che impressione gli fece la mia piccola ma per me, allora, sconcertante scoperta. Pu darsi che abbia annuito. Pu darsi che mi abbia risposto: Ne parliamo domani. Oppure, pu darsi che io non sia stata chiara abbastanza, cos come pu darsi che oggi, con voi, non sia stata chiara abbastanza, e anche questo sarebbe un bel paradosso, no?

lezione 5

Il colore dellerba ancora una cosa sulla semplicit


di Elena Varvello

Volete sapere una cosa? Continuo a riflettere sulla semplicit, continuo a riflettere sulla chiarezza. Gi, proprio cos. da una settimana che, in fondo, in un modo o nellaltro, non faccio che pensarci e ripensarci. La semplicit non semplice, il valore della chiarezza e tutto quello di cui vi ho parlato nel corso del mio ultimo, breve ragionamento sulla scrittura (o meglio, sul mio modo di vedere la scrittura). Insomma, credo abbiate capito che questa una questione di primaria importanza, per me, e magari proprio per questo che ho la sensazione di dover aggiungere ancora qualcosa, di dovermi soffermare ancora un momento e, nello stesso tempo, quanto mi piacerebbe poterne parlare con voi, quanto mi piacerebbe poter sentire che ne pensate, poter ascoltare la vostra voce. Sarebbe bello, davvero. Sar che oggi una giornata un po strana, un po troppo silenziosa (e io sono abituata al silenzio, figuratevi un po). Insomma, abbiate pazienza. Comunque, visto che continuo a rimuginarci sopra, tanto vale che provi ad aggiungere ancora un tassello, ripartendo da qui per poi spingermi oltre. Un breve aneddoto, una piccola storia che racconto spesso alle persone con le quali ho modo di riflettere sulla scrittura. Un altro degli insegnamenti che, nel corso del tempo, ho ricevuto. Proviamoci: abbandoniamo Flaubert e il suo interrogarsi su di una virgola, abbandoniamo la Francia e spostiamoci in Russia. Andiamo avanti di qualche decennio. Guardate: c un uomo che sta scrivendo una lettera (di nuovo una lettera). Sta scrivendo a una donna che gli ha inviato un racconto. un uomo molto paziente e molto gentile, che risponde con puntualit

alle lettere che riceve e tenta di leggere tutto ci che i suoi lettori gli inviano. E la donna gli ha appunto inviato un racconto, del quale come giusto che sia, permettetemi di aggiungere non rimasta alcuna traccia. Dalla risposta delluomo, per, possibile dedurre alcune cose, ed ecco quello che ci interessa: il racconto della donna comincia con una lunga descrizione dellarrivo della primavera, un paio di pagine, forse addirittura tre pagine intere. Pagine evidentemente colme di dettagli inutili, di svolazzi ridondanti, di presunte belle immagini e di presunte belle frasi sullo sbocciare dei fiori e sul cielo che si fa sempre pi terso e suoi profumi e sugli uccellini nei nidi e sullo spuntare delle prime, turgide gemme.br Luomo ha letto il racconto, lha letto con attenzione, e ora sta scrivendo alla donna dalla cui penna quel racconto uscito. chino sul suo scrittoio. Ci pensa un po su, poi scrive una cosa del genere: Cara Signora, ho letto con molto piacere il vostro racconto, e lho trovato davvero interessante (probabilmente, anzi di certo, sta mentendo, ma, come vi ho detto poco fa, un uomo molto gentile). Se posso permettermi, per, vi vorrei dare un consiglio, che spero non prendiate come un segno di arroganza da parte mia. Intendo dire che le prime tre pagine potrebbero essere riassunte in ununica frase, e la frase potrebbe essere: Lerba era gi verde. Tutti noi capiremmo che vi state riferendo alla primavera, credetemi. Inoltre, la nostra attenzione non in grado di trattenere tutti i bei (bugia) particolari su cui voi vi soffermate. Il punto che non possiamo trattenere tutto, mia cara, e molto presto la nostra misura colma. Lerba era gi verde, quindi. Come vi dicevo, il mio solo un piccolo suggerimento. Per il resto, il vostro racconto davvero apprezzabile (e qui, di nuovo, unaltra bugia). Con grande stima e rispetto, il vostro Anton. Gi, perch luomo chino sullo scrittoio proprio lui: Anton Cechov a proposito, se vi piacciono i racconti, se volete provare a scrivere racconti o se gi lo state facendo, leggete i suoi, leggeteli tutti. Difficilmente potreste trovare un maestro migliore. Ed qui che volevo arrivare, questo il senso del breve aneddoto che desideravo raccontarvi, prima di archiviare la questione una volta per tutte: tre pagine grondanti autocompiacimento e bello stile riassunte in una semplice frase. Anzi, in una frase semplice, sarebbe meglio dire. Semplice e chiara. Lerba era gi verde. Lerba era gi verde. A proposito, vi ricordate Tobias Wolff? Prima di Natale, mio padre mi port a sciare sul Monte Baker. Unaltra frase semplice e chiara. Torniamo un attimo indietro, torniamo alle parole di Cechov, chino sul suo scrittoio, intento a scrivere una lettera giunta fino a noi, per nostra fortuna, riguardo a un racconto di cui, sempre per nostra fortuna, nessuno serba memoria. La settimana scorsa vi parlavo di autorevolezza, vi parlavo del patto che dobbiamo stipulare con i nostri lettori, chiunque essi siano, dovunque essi siano. Un patto che li porti a sospendere la loro pi che legittima incredulit (che poi la nostra, quando leggiamo). Per farla breve, mettevo in relazione lautorevolezza di uno scrittore con la sua capacit di essere semplice e chiaro. Non banale, n semplicistico, ma semplice e chiaro. Be, Cechov fa un passo in pi, si spinge oltre, aggiunge un tassello, dicevo, ed per questo che, se vi va, vorrei che provassimo a seguirlo, solo un istante. La nostra attenzione non pu trattenere ogni cosa, scrive alla donna che gli ha inviato il racconto, perch molto presto la misura colma. Tre pagine ridondanti per descrivere larrivo della primavera: no, proprio no, non va bene. Una decina di righe del genere e ci siamo gi persi, ce ne siamo gi andati da unaltra parte. Per quanti uccellini e fiori e

boccioli e cieli tersi e profumi e dettagli e aggettivi e sfumature possiamo far spazio dentro di noi? Come potete immaginare, sono perfettamente daccordo con lui (anche se, certo, ci sono molte, meravigliose eccezioni, e anche se, certo, stiamo parlando di un racconto, cio di una storia che si dipana nello spazio di poche, pochissime pagine). Ma vedete, questo ha a che fare con un altro punto per me essenziale, unaltra parola su cui vorrei soffermarmi un momento. Questa parola necessit. La necessit. qui che volevo arrivare. Musica per le mie orecchie. come se Cechov, chino sul suo scrittoio, si voltasse per un istante verso di noi (immaginate una certa penombra, una candela poggiata sullo scrittoio, e, fuori, la neve) e ci chiedesse: Lo sapete o no, cos davvero necessario, quando scrivete? Ci avete mai pensato? Oppure: Siete sicuri che tutto quello che scrivete sia necessario? Siete sicuri che tutto questo non possa essere detto in una sola, semplice frase? Non permettere alla lingua di oltrepassare il pensiero, diceva. Be, aveva ragione. In altri termini, cerca di capire cos necessario. Ricorda che le parole hanno un peso. Ricorda che c una parola giusta per ogni cosa, e questa parola lunica che sia davvero necessaria. Non dimenticartelo mai, quando scrivi. Non permettere alla lingua di oltrepassare il pensiero, appunto. Cechov, e anche lo scrivere poesie (per quanto velleitaria e acerba io fossi, in quel periodo; ragazzi, era il secolo scorso) me lhanno insegnato. Cos, molto spesso, seduta davanti al mio computer, mi ritrovo a pensare alla frase che lui sugger a quella donna. Mentre scrivevo La luce perfetta del giorno me lo ripetevo in continuazione. Lerba era gi verde, lerba era gi verde. Non una parola di pi. Fermati qui. Non una parola di pi. Non una parola di pi. E ora sapete che faccio? Faccio finta di parlarne con voi, in questa silenziosa serata di aprile. Eccomi qui, ditemi tutto.
Lezione 6
CHI SEI? COSA di Elena Varvello VUOI DIRMI? IL MISTERO DEI PERSONAGGI

Flannery OConnor ha detto una cosa, un giorno. Una cosa bellissima, e vera. Ha detto: Chiedere a uno scrittore come si scrive, come chiedere a un pesce come si nuota. Provateci, e non otterrete risposta. Insomma, che pi fai una cosa e meno riesci a parlarne, non trovate anche voi? difficile. E oggi sono qui, uno splendido pomeriggio primaverile, e mi sento esattamente cos. Un pesce che nuota in profondit (bene o male, non questa la cosa che conta, e comunque ciascuno di noi nuota a modo suo). Nello stesso tempo, vorrei provare a parlarvi di quel che significa immaginare e poi dare vita a un personaggio, un personaggio di cui si racconter la storia. Vorrei provare a parlarvi di quale tipo di esperienza si tratti, per me, e non so proprio da dove incominciare. Allora, sapete che faccio? Riemergo in superficie, sperando di riuscire a dirvi qualcosa. Qualcosa che possa essere interessante. Un punto di vista diverso. Perci, provo a partire da una domanda, una domanda diretta e legittima che spesso (no, sempre) mi viene rivolta: Come si costruisce un personaggio? Come si fa?. Una domanda a cui dovrei saper rispondere, dopo tutti questi anni. La risposta potrebbe essere semplice. Anzi, da un certo punto di vista, lo . Perch un personaggio sempre una mescolanza di

tratti somatici e dettagli e atteggiamenti e gusti e abitudini in cui ci siamo imbattuti, nel corso del tempo. Persone che abbiamo conosciuto, e che trasformiamo, o trasfiguriamo. Rubiamo e poi mescoliamo: la faccia di qualcuno sul corpo di un altro, ad esempio. Un certo modo di dire e certe preferenze culinarie o musicali o letterarie. Labitudine di una vecchia amica di arrotolarsi una ciocca di capelli intorno a un dito e lodio di unaltra per gli scarafaggi. Metteteli insieme. Una combinazione. Una mescolanza, appunto. Va bene. La risposta potrebbe essere: Fate una scheda del personaggio, una specie di carta didentit. Che poi significa: dategli un nome e unet, una fisionomia e un indirizzo, scriveteci sopra cosa gli piace e cosa detesta, scriveteci sopra come si chiamano i suoi genitori. La risposta potrebbe essere: Dovete sapere tutto di lui, o di lei, prima ancora dincominciare a scrivere, altrimenti come potreste raccontarne la storia?. Quindi, prendete un foglietto e appuntateci sopra che musica ascolta e che libri o programmi televisivi gli o le piacciono. Perfetto. Fatelo per ciascun personaggio, poi procuratevi uno schedario, o, pi semplicemente, una scatola, in cui raccoglierete le schede, le carte didentit. Daccordo, semplice. Ci procuriamo lo schedario, o la scatola. Rubiamo e combiniamo e appuntiamo su fogli bianchi ci che abbiamo rubato e combinato. Benissimo. La risposta potrebbe essere semplice (anzi, lo ) per non la mia. Non dico che tutto questo sia inutile, perch certamente non cos, molti scrittori lo fanno, per moltissimi scrittori un passo necessario. Dico semplicemente che per me le cose funzionano in modo diverso. Ammetto di essermi procurata la scatola. Mi sono anche procurata piccoli foglietti bianchi, per la scatola rimasta vuota e, a dire la verit, non so neppure che fine abbia fatto ma questo dipende dal disordine che regna nel luogo in cui scrivo, e dal fatto che alcune cose, fra cui quella scatola, sembrano scomparire senza che io me ne accorga, senza che io possa far nulla. No. La mia risposta un po diversa. Quando ho cominciato a scrivere La luce perfetta del giorno (cos come quando ho cominciato a scrivere ciascun racconto de Leconomia delle cose, e ciascun racconto che abbia mai pubblicato su rivista o in antologia, negli ultimi anni), di Matilde sapevo pochissimo. Lavevo vista, questo s vi ricordate quello che scrissi la prima volta, parlando di visione? Lavevo vista in piedi, in un tardo pomeriggio di ottobre, accanto alla sua macchina, di fronte a un bosco, nella luce morente, nel vento che le scompigliava i capelli. Lavevo sentita parlare, lavevo sentita dire alcune cose al marito (quindi sapevo che era sposata, almeno questo). Lavevo sentita lamentarsi e tentare di fargli capire che quel posto non le piaceva, non le piaceva per niente. Tutto qui. Non sapevo da dove venisse, n che adorasse il gelato al cioccolato, n che suo padre si fosse tolto la vita quando lei aveva appena nove anni. Non sapevo perch quel posto, Croci, non le piacesse. probabile che non sapessi neppure che, sul sedile posteriore di quella macchina, stesse dormendo sua figlia. Pi tardi, quella bambina avrebbe avuto un nome: Monica. Pi tardi, anche lei avrebbe avuto una storia, la sua. Quello che voglio dire che, per me, Matilde rappresentava un mistero. questa la parola chiave: mistero. Da un certo punto di vista, Matilde era un mistero. Un po paradossale, direi, perch, nel contempo, la vedevo distintamente, come se fossi stata a un passo da lei, appoggiata alla portiera della sua macchina, e quella scena mi si presentava chiarissima davanti agli occhi. La macchina, il bosco, la

luce morente, il vento, una certa inquietudine, le sue parole. Un giorno dopo laltro, sempre la stessa scena. Una di quelle che ormai ci sono abituata hanno il potere di ossessionarmi (come quella delluomo e della donna accanto al campo di granturco, di notte, vi ricordate?, o come quella dellincendio nel campo di granturco, che infatti ritorna cos spesso neLa luce perfetta del giorno). Insomma, per farla breve, di lei sapevo poco, pochissimo, per intuivo che quella donna era importante, anzi intuivo che sarebbe stata importante, per me. Avevo limpressione che mi stesse dicendo qualcosa. Che avrebbe voluto dirmi qualcosa. Che avrebbe voluto che scoprissi qualcosa di lei, e che quello che avrei scoperto avrebbe avuto a che fare con me. Quindi non potevo far altro che scoprire chi fosse, e lunico modo era provare a raccontarne la storia partendo proprio da quel momento, da quella scena, da quel tardo pomeriggio di ottobre. Un passo dopo laltro, una pagina dopo laltra. Senza certezze. Un lavoro archeologico. Un lavoro di scavo. Ogni cosa che venivo a sapere di lei, si depositava dentro di me talmente in profondit da rendere inutili scatole e schede e foglietti bianchi. Ogni cosa che venivo a sapere di lei era legata indissolubilmente alla sua storia la storia che stavo scrivendo nel senso che la determinava, certo, la condizionava, ma soprattutto nel senso che ne era determinata. Non poteva essere diversamente. Come scoprire qualcosa del mondo, qualcosa che ci sempre stato davanti agli occhi ma di cui non abbiamo mai saputo il nome. Una volta che vieni a saperlo, una volta che qualcuno te lo dice, quel nome entra a far parte di te, no? Perci, due domande, in realt: chi sei? Cosa vuoi dirmi? Il mistero legato ai personaggi. Ricordatevi questa parola. Perch non finita qui. Almeno, non credo.

Lezione 7

CHI SEI? COSA VUOI DIRMI? ANCORA UNA COSA SUL MISTERO DEI PERSONAGGI di Elena Varvello

Chi sei? Cosa vuoi dirmi? Lultima volta siamo arrivati fin qui. Ci siamo spinti fin qui. Due domande e la parola mistero. Il mistero legato ai personaggi e le domande che rivolgiamo loro o che, dal mio punto di vista, dovremmo rivolgergli nel momento in cui cominciamo a vederli e poi mentre ne raccontiamo la storia. La donna che si aggira per la cucina in attesa del ritorno del figlio, ad esempio. La coppia seduta in macchina, nel buio, accanto al campo di granturco. Il ragazzino che cammina nel bosco. Ciascun personaggio. Chi siete? Cosa volete dirmi? in queste domande che si annida il loro mistero, e, per me, il senso stesso della scrittura, la sua meraviglia. E allora vorrei cercare di spiegarvi cosa intendo, con la parola mistero. Proviamo a fare cos. Prendiamo un quadro di Hopper. Gas. Ve lo ricordate? Un uomo sta trafficando accanto a una pompa di benzina, al tramonto. Ha indosso un paio di pantaloni, una camicia bianca, un gilet e una cravatta scura. il gestore della stazione di servizio, o un dipendente. Davanti a lui, un edificio che pare una chiesa in miniatura. Dentro ledificio le luci sono accese. Alle spalle delluomo, la

strada, e, al di l della strada, oltre una striscia derba secca, il bosco. Il bosco si perde nelloscurit. Al centro della tela, esattamente al centro, fra il bosco e la costruzione che pare una chiesa, luomo col gilet e la cravatta. Potrebbe essere linizio di un racconto e qui permettetemi una brevissima digressione, perch, ogni volta che mimbatto in quel quadro, mi accade una cosa curiosa: sento arrivare una macchina. La sento davvero. Una macchina che si fermer alla stazione di servizio. Alla guida c un ragazzo. Luomo col gilet e la cravatta sta per chiudere e andarsene a casa. Probabilmente ha una moglie che lo sta aspettando, ed ora di cena. Ma arriva quella macchina, il tramonto, non c nessun altro, in giro, e luomo pensa: Va bene, lultimo cliente e poi me ne vado. Il ragazzo scende dalla macchina, chiude la portiera e ci si appoggia. Il pieno, dice. Mastica vistosamente una gomma. Porta un paio di occhiali da sole. Al tramonto. Ed ecco, avete un racconto. Linizio di un racconto. Comunque, non era di questo che volevo parlarvi. Il mistero, dicevo. Pensando al quadro di Hopper mi chiedo sempre: chi luomo col gilet e la cravatta? E chi quel ragazzo con un paio di occhiali da sole, che immagino scendere dalla macchina masticando una gomma? Non mi sto riferendo a quello che potreste leggere sulle loro ipotetiche carte didentit. Non sto parlando delle schede dei personaggi. Vi ho gi detto come la penso a questo proposito. No. Sto parlando di quello che Flannery OConnor s, ancora lei . Perdonatemi, ma che mi ha insegnato un sacco di cose, e di queste cose mi piace molto parlare con voi chiama il mistero della nostra posizione sulla terra. Il mistero della personalit. Difficile? S, in un certo senso. Allora proviamo a semplificare le cose, e poi vi prometto che passer ad altro. Per prima sentite cosa dice Flannery, la scrittrice che, da bambina, ha insegnato a un pollo a camminare allindietro: Il racconto coinvolge una persona in quanto persona particolare, partecipe dellumana condizione e insieme di una specifica situazione umana. Ne ho prestati alcuni a una signora di campagna e lei me li ha restituiti dicendo Be, s, questi racconti ti fanno proprio vedere come si comporta certa gente, e io ho pensato che avesse ragione: quando si scrivono racconti, bisogna accontentarsi di cominciare proprio di l, facendo vedere come si comporta davvero certa gente, come si comporta a dispetto di tutto. Il tipico problema dello scrittore di racconti come far s che lazione descritta riveli quanto pi possibile del mistero dellesistenza. Ecco qui. Una persona particolare tutti i nostri personaggi: la donna che si aggira per la cucina, la coppia ferma in macchina accanto al campo di granturco, il ragazzino che cammina nel bosco, luomo con il gilet e la cravatta, ciascuno dei personaggi di cui avete scritto o scriverete. La condizione umana, di cui tutti loro partecipano, e questo evidente, e insieme una specifica situazione umana quella in cui sono coinvolti, nel corso della storia che stiamo scrivendo o che scriveremo, una situazione unica e irripetibile. Come si comporta davvero certa gente, a dispetto di tutto. qui che, per me, si annida il mistero della scrittura e quindi dei personaggi. Nella parola davvero. Nelle parole a dispetto di tutto. Non come si comporta in generale la gente, perch questo non cinteressa lasciamo il problema ai sociologi, oppure ai filosofi ma come si comporta davvero certa gente. Le domande chi sei?, cosa vuoi dirmi? le domande che pongo ai miei personaggi hanno proprio a che fare con questo. E ne portano altre. Cosa farai? Come ti cambier ci che farai? Perch attraverso le azioni che compiranno che saremo in grado di rivelare, per quanto possibile, il loro mistero. Nel nostro racconto immaginario, che potremmo intitolare Benzina, luomo col gilet e la cravatta si trover a dover fare qualcosa supponiamo che il ragazzo con gli occhiali da sole abbia intenzione di rubare il denaro che c nella cassa e in questo qualcosa, qualcosa che luomo col gilet non aveva previsto n tantomeno voluto, si annida il mistero della sua personalit della sua individualit. Il mistero della sua posizione su questa terra. E la stessa cosa vale per il ragazzo che mastica gomma e

porta un paio di occhiali da sole e al quale continuo a pensare, quando guardo quel quadro. In ci che far racchiuso un mistero. Il suo, e quindi, in fondo, se saremo bravi, anche il nostro. Chi siamo? Cosa faremo? Pare un po complicato, per non lo , credetemi. molto pi semplice e umile di quanto sembri. il cuore del nostro mestiere. una questione desperienza. ci con cui abbiamo a che fare ogni giorno, ogni volta che ci sediamo e cominciamo a scrivere. Perch, al centro di tutto, al centro di ogni storia, cos come nel quadro, ci sono i nostri personaggi e il modo in cui si comportano davvero. Provate a leggere un racconto di Carver che sintitola Mirino. Provate a leggere i racconti di Cechov. Quelle che poniamo ai nostri personaggi sono domande alle quali possiamo rispondere soltanto scrivendo, cio raccontando una storia, la loro. Perci, provate a vedere un personaggio chiudete gli occhi e tutto il resto, le cose di cui abbiamo gi parlato poi provate a chiedergli: chi sei?, cosa vuoi dirmi?, cosa farai adesso? Provate a chiederglielo fino in fondo. Onestamente. Profondamente. Non preoccupatevi se la risposta non arriver subito, non preoccupatevi nemmeno se tarder molto a venire. Certe cose richiedono tempo. Pazienza, perseveranza e tenacia. Un buon orecchio, uno sguardo attento. Alla fine, se avrete visto davvero e se avrete domandato davvero, se avrete lasciato i vostri personaggi liberi di comportarsi a modo loro e se li avrete ascoltati, il vostro racconto, o il vostro romanzo, saranno le risposte pi belle e inesauribili. Una volta mio padre mi disse: La cosa pi triste che nessuno racconter mai una vita come la mia. Allepoca, non seppi rispondergli. Me ne restai l a guardarlo. Non capii nemmeno cosa volesse dire. Sul serio. Adesso lo so. La vita di mio padre, come quella di ciascuno di noi, come quella dei nostri personaggi, porta con s il suo mistero, e qualcuno deve provare a raccontarlo prima che si perda per sempre. Ci tenevo a dirvi queste cose. Ci tenevo proprio. Ma vi prometto che la prossima volta ce ne andremo da unaltra parte. Cominciamo un altro piccolo viaggio, che dite?

Lezione 8
SCRIVERE di Elena Varvello UN RACCONTO, COSTRUIRE UN MURO

E cos, alla fine, abbiamo il nostro personaggio. Labbiamo visto chiaramente, in un particolare momento della sua esistenza (non voglio ripetermi, ma non riesco a non insistere su questo: limportanza di una visione specifica e concreta come motore narrativo, una singola scena che pu accendere la miccia di una storia). Labbiamo visto in una camera da letto, per esempio, mentre apre larmadio e guarda i suoi vestiti e poi fa sbattere le grucce luna contro laltra, o in una cucina, un pomeriggio destate, o in una stazione di servizio, al tramonto. Labbiamo visto mettere su il caff o scostare una tendina e fissare la strada, una notte, in attesa del ritorno di qualcuno. Labbiamo visto accompagnare il figlio a scuola o aspettare una telefonata seduto sul divano. Non importa. Ciascuno di voi pensi al proprio personaggio, alla propria scena. Perch, comunque, questo solo linizio. Eh, s, linizio di un racconto, magari. Potrebbe anche trattarsi dellinizio di un romanzo, certo, ma ho limpressione che sia meglio partire dal racconto. Non perch scrivere racconti sia pi facile che

scrivere romanzi; chi sostiene una cosa del genere non ha mai davvero scritto un racconto, temo, o, perlomeno, non ha vissuto quellesperienza con lintensit e la profondit e la consapevolezza con cui andrebbe vissuta. Perdonate la banalit, e il paragone forse inopportuno, ma pensate davvero che correre i cento metri sia pi semplice che correre la maratona? Che possa essere cos solo perch simpiega una manciata di secondi? una questione di resistenza e di tenuta, questo certo. Resistenza e tenuta da un lato, ma scatto e pura potenza dallaltro. Questo solo per sgombrare il campo da giudizi affrettati, che tendono a semplificare ci che semplice non . Quindi, immaginiamo che ci che abbiamo visto la scena molto concreta in cui imprigionato il nostro personaggio sia linizio di un racconto. Non ci resta altro che scrivere, no? Perci accendiamo il computer o prendiamo penna e taccuino e incominciamo. Adesso immaginiamo che sia passato un po di tempo un paio di ore o un paio di giorni e che noi si sia scritta la nostra prima scena, ad esempio quella che ha per protagonista una donna che sta passando laspirapolvere in casa sua, un pomeriggio (rubo questa visione a Raymond Carver, sperando che non si offenda, ovunque lui sia. Ma perch dovrebbe offendersi per cos poco, poi, non lo so). Bene. Adesso dobbiamo andare avanti. Ma come? E qui sta il punto. S, proprio qui. Perch spesso, ahim, non riusciamo ad andare avanti. Come se, atleti che corrono i cento metri, conoscessimo lo scatto, sapessimo molto bene come si fa a partire nel modo giusto, ma ci fermassimo dopo un paio di falcate perch qualcuno ha cancellato le linee che separano una corsia dallaltra; come se fosse calata una nebbia fittissima e improvvisa, che cimpedisce di vedere oltre il nostro naso. Conoscete questa sensazione? Io s, io la conosco. Scatti, e poi non riesci pi a capire dove andare. Non si tratta del panico generato dalla pagina bianca. No, evidente. Quella unaltra cosa ugualmente frustrante, ma la frustrazione la nostra buona compagna di viaggio, vi ricordate? Insomma, abbiamo un inizio ma non sappiamo come proseguire. Molto spesso, pi di quanto pensiate, mi sento dire questa cosa: Sono partito bene, per poi mi sono annoiato e ho lasciato perdere. Molto spesso, mi sento dire: Mi annoio, tutto qui, e sinceramente non riesco a capire il perch. Che devo fare?. Credo che questa cosa della noia sia la conseguenza diretta e inevitabile della mancanza di visione, una visione nitida e pi o meno ossessiva (letteralmente, una visione che torna a ossessionarci, che non ci molla, non ci lascia andare). Una mancanza di visione o un difetto di visione, direbbe Joseph Conrad. Un po come se avessimo preso a scrivere la prima cosa che ci venuta in mente, quel mattino, quel pomeriggio o quella sera. Qualcosa che non avevamo visto bene, unimmagine confusa. Questo un problema. Perch vero, cos rischiamo di annoiarci. Rischiamo di annoiarci perch cimporta poco o nulla di ci che abbiamo scritto, perch quel personaggio che abbiamo buttato gi non ha niente da dirci e noi non abbiamo niente da chiedergli. Perch non porta con s neppure un briciolo di verit, neppure un grammo durgenza. Allora, dico io, molto meglio smettere e ricominciare daccapo. Anzi, meglio aspettare di vedere qualcosa e poi ricominciare. A naso, direi che, in una situazione del genere, lostinazione pu rivelarsi una perdita di tempo anche se poi, per quanto riguarda la scrittura, niente mai sul serio e fino in fondo e soltanto una perdita di tempo. Ma se questo non fosse il nostro caso? Ammettiamo davere visto una scena chiaramente, nitidamente, e che quella visione la donna che passa laspirapolvere in casa sua, un pomeriggio ci stia ossessionando da un po. E allora perch cala la nebbia? Sto per dire una cosa che forse vi sembrer banale, ma il punto che, probabilmente, tendiamo ad aspettarci troppo, e troppo presto. Troppo da noi stessi o troppo dal racconto che abbiamo appena cominciato a scrivere. Tendiamo a dimenticare che un racconto innanzitutto una storia, e che una storia e qui arriva ci che potr sembrarvi banale tale se succede qualcosa. Questo qualcosa va costruito, e costruire faticoso e non sempre entusiasmante non noioso, no, ma non sempre entusiasmante questo s.

Permettete che spenda una parola su questa cosa dellaspettarci troppo da noi stessi, troppo e troppo presto. Permettete che vi spieghi cosa intendo. Provo a dirla in questo modo: soprattutto quando siamo allinizio, pensiamo che la scrittura debba venir bene, bene e subito, per giunta. Fra le altre cose, ci hanno detto labbiamo letto o sentito che lincipit di un racconto deve essere fulminante, e, rileggendo il nostro, magari abbiamo dovuto constatare che non lo . Come potremmo proseguire, accidenti? Dimentichiamo che scrivere significa riscrivere. Dimentichiamo che tutti, o quasi tutti, gli incipit che amiamo sono stati riscritti pi e pi volte, e, molto spesso, quando il loro autore era arrivato alla fine del racconto o del romanzo. O forse siamo troppo concentrati sul linguaggio, sullo stile, sulla bella scrittura, e questo ci spinge, troppo presto, appunto, a confrontarci con i nostri limiti ma, tenetelo a mente, chi non ne ha? E qui torniamo a ci che vi ho detto un po di tempo fa riguardo alla pazienza, riguardo alla tenacia. Abbiate pazienza e andate avanti con tenacia. Non importa se il vostro incipit non sar fulminante: c tempo, tutto il tempo, per tornare indietro e riscriverlo. Ora vi tocca costruire. Ricordate che un racconto innanzitutto una storia, e una storia tale se accade qualcosa. Torniamo alla donna che passa laspirapolvere, un pomeriggio (forse, a un certo punto sar opportuno che diate a questo pomeriggio una connotazione pi precisa: estate o inverno? Nevica, splende il sole o tira vento? Ma di questi, che non sono affatto dettagli, parleremo unaltra volta). Ora, quello che dovete chiedervi : cosa accade, adesso? Cosa pu accadere? questa la domanda a cui dovete rispondere una domanda che porta con s quelle di cui vi parlavo laltra volta, le domande intorno al vostro personaggio: chi sei? Cosa vuoi dirmi? Cosa farai? Chiedetevelo. Chiedetevi che cosa pu accadere. Qualcuno suona il campanello? Se cos, di chi si tratta? Oppure la donna vede qualcosa dalla finestra? Se cos, di che si tratta? A questo punto, molto probabilmente, un altro personaggio far la sua comparsa. A questo punto, lui o lei e la donna si diranno qualcosa. Perci, ecco unaltra domanda: che si diranno? Il vostro orizzonte vi potr sembrare, da principio, molto, molto ristretto, ma un bene che sia cos, credetemi. Un passo dopo laltro, unazione dopo laltra spegnere laspirapolvere, andare a rispondere al citofono, aprire la porta una battuta di dialogo dopo laltra. Dovete costruire una storia, questo quel che dovete fare. E ricordatevi che ogni cosa che scrivete deve portare avanti la vostra storia, come se fosse un mattone che si aggiunge ad altri mattoni mentre tirate su un muro. Un lavoro molto umile. Lintonaco e la tinta e i fregi e la tappezzeria: tutto questo verr pi avanti. Non semplice tirare su quel muro. A volte pu diventare addirittura doloroso, o perlomeno sconfortante. Pu volerci molto tempo. puro artigianato. Ci vogliono pazienza e forza nelle braccia. Le prime volte, il muro potrebbe essere sbilenco. Non importa. Se ne potr tirare su un altro, e poi un altro ancora. Tirate su quel muro ogni mattone un passo avanti, ogni parola un nuovo tassello in un disegno che si va componendo e dite la verit: non serve altro, per il momento. Verit: e questo adesso che centra? Centra eccome, ma lasciate che ci pensi ancora un po. Certe cose non sono mica facili da dire. Non sono facili per nessuno, figuratevi per me.

Lezione 9
UN VENDITORE di Elena Varvello DI BIBBIE, IN UN FIENILE ABBANDONATO

da un paio di settimane che limmagine del muro lidea, cio, che scrivere un racconto sia come costruire un muro mi accompagna. La sensazione che ci sia qualcosa di adeguato, nellimmagine che vi ho proposto lultima volta, e, nello stesso tempo, qualcosa di terribilmente claustrofobico. Un racconto

riuscito, un bel racconto, tuttaltro che un muro, accidenti: piuttosto, un paesaggio, inquadrato da una finestra, vero, e a volte una finestra molto piccola, ma pur sempre un paesaggio. Ci rifletto su ma poi dico a me stessa: Be, per funziona. Perch funziona, credo, se dellimmagine del muro conserviamo lidea del manufatto, quel posare un mattone sopra laltro, con pazienza, e soprattutto lidea della solidit. Quindi, quando pensate a un bel racconto, cercate di tenere a mente entrambe le cose: la solidit di un muro e tutto il tempo che ci si impiega a tirarlo su e, insieme, lapertura e la vastit di un paesaggio, seppure inquadrato da una finestra molto piccola. Comunque, lultima volta, partendo dallidea del muro, ero arrivata a parlare di verit, ed da qui che mi pare giusto ripartire. Vi dicevo: Tirate su quel muro, mattone dopo mattone, e dite la verit. Non serve altro, per il momento. Verit. Cosa significa? Per quale ragione lho tirata in ballo? Di cosa sto parlando, e, soprattutto, cosa centra, la verit, con il fatto di scrivere un racconto? Come sempre, la faccenda molto complicata e, nello stesso tempo, estremamente semplice. Dipende dal punto di osservazione, direi. Quindi, cerchiamo di prenderla come una questione semplice, e facciamo un passo indietro. Scrivere un racconto significa, per me, vedere innanzi tutto un personaggio, qualcuno che sta facendo qualcosa una donna che sta passando laspirapolvere, dicevamo laltra volta. Se la visione sufficientemente tenace se, cio, ci si ripresenta davanti agli occhi, se in qualche modo torna a ossessionarci allora quella giusta: possiamo incominciare a lavorare. E lavoriamo ponendoci domande: cosa succede, adesso?, cosa deve accadere a questa donna?, cosa le capiter? Ciascuna risposta un mattone, dal momento che stiamo costruendo il nostro muro. Ma, badate bene, ho scritto cosa deve accadere a questa donna?, non cosa pu accadere a questa donna?. Ecco, questo il punto. Questo il cuore del problema. Perch, ed evidente, siamo di fronte a un bel problema. Potrei riassumerlo cos: ma come, siamo noi a tirare su quel muro, siamo noi a decidere che cosa fare, e allora cosa centra il dovere? Non sarebbe molto pi sensato parlare di possibilit? Non sarebbe molto meglio pensare a cosa pu accadere a quella donna? Certo, a rigor di logica cos. Siamo noi a scegliere i mattoni, siamo noi a scegliere come e quando posarli luno sullaltro. Insomma, quella donna un nostro personaggio, nelle nostre mani, e allora di che stiamo parlando? Stiamo parlando di verit. Verit narrativa, chiaramente, ma comunque verit. Certo, a una prima occhiata, quella visione la donna che sta passando laspirapolvere quanto di pi aperto noi si possa immaginare. Abbiamo davanti un bel ventaglio di possibilit, nel senso che a quella donna potrebbero accadere molte cose. Qualcuno potrebbe bussare alla porta. Potrebbe ricevere una telefonata inaspettata, o magari una raccomandata, o un mazzo di fiori. Potrebbe sentirsi male, e tentare di raggiungere il telefono. Oppure potrebbe affacciarsi alla finestra e vedere qualcosa di strano nel giardino dei vicini. Insomma, scegliamo una di queste possibilit magari la prima che ci viene in mente e che pare funzionare e andiamo avanti. No. Secondo me, non cos. O, almeno, non esattamente cos. A questo proposito, lasciate che vi racconti una cosa. Lasciate che, per un attimo, io ritorni alla mia ma, a questo punto, spero nostra amata Flannery OConnor. Immaginatela intenta a scrivere un racconto che sintitola Brava gente di campagna, mentre un pavone passa davanti alla sua finestra. Immaginate che sia partita dalla visione di una ragazza, una certa Joy, che ha perso una gamba quandera bambina e che, da allora, stata costretta a portare una protesi. Una gamba di legno, insomma. A un certo punto, compare sulla scena un venditore ambulante di Bibbie. Il ragazzo bussa alla porta, cerca di vendere una Bibbia alla madre di Joy, poi invita la ragazza a fare una passeggiata con lui, il giorno dopo. Joy accetta. I due raggiungono un fienile abbandonato, e, nel fienile, il ragazzo la

seduce. Alla fine, dopo averla baciata, le porta via la protesi. La infila nella sua valigia e se ne va di corsa. Il racconto si conclude cos, con Joy che, rimasta nel fienile, comprende qualcosa, riguardo a se stessa, che non aveva mai capito. Sapete cosha scritto Flannery a proposito di questo racconto? Sentite un po: Non sapevo che il ragazzo le avrebbe portato via la protesi. Non lo sapevo finch non accaduto. A quel punto, mi sono resa conto che era inevitabile. Benissimo, questo il suo punto di vista. Noi potremmo obiettare che cerano altri finali possibili. Ce nerano uninfinit. Molto altro sarebbe potuto accadere. Ed ecco qui: no, ci dice Flannery, le cose non vanno in questo modo. Quel finale era davvero inevitabile, credetemi, ci dice. E quindi torniamo al punto di partenza. La verit. Per quanto mi riguarda, il fatto che il venditore di Bibbie porti via la gamba di legno di Joy inevitabile semplicemente perch la verit. Ha a che fare con la verit. Ha a che fare con il senso di quel racconto e col carattere di Joy. Con ci che Joy deve imparare. Una lezione crudele, brutale, ma pur sempre una lezione. Perci non sarebbe potuta andare altrimenti. Sto parlando di verit narrativa, quella che custodita nel cuore di ogni storia, nel carattere e nella personalit di ogni personaggio. Detta cos, la verit assomiglia, in qualche modo, al destino dei nostri personaggi. Potremmo metterla cos. A un certo punto, ti accorgi che un certo accadimento un certo sviluppo narrativo, un certo gesto, un certo dialogo lunico possibile, e dunque non puoi far altro che imboccare quel sentiero. Tutto il resto sarebbe una menzogna, permettetemi di usare questo termine. Tutto il resto sarebbe, nel caso pi fortunato, unapprossimazione, un puro tentativo. Non devi scegliere fra due mattoni equivalenti: comprendi che ce n uno solo, e diventa meravigliosamente chiaro che devi usare quello. Magari, anzi molto probabilmente, non lo sai fin dal principio, ed per questo che ti poni le domande di cui parlavo prima cosa deve accadere? ma a un certo punto lo capisci. E allora hai limpressione che tutto il resto tutti gli altri mattoni non avrebbero senso, sarebbero scelte casuali, appunto. Approssimative. Perfetto. E adesso? Vedete, a volte ho limpressione che, pur tentando la via della semplicit, io non ci riesca proprio, a essere semplice. Come se non potessi fare altro che mettermi nei guai e parlarvi di questioni che, apparentemente, non vi servono granch. Ma il fatto che non c niente di pi importante, per conto mio, del rendersi conto di certe cose. E non c nessuno, proprio nessuno, che possa insegnarcele davvero, una volta per tutte. Devi imparare ad ascoltare. Devi prendere il tuo lavoro molto, molto seriamente. Soltanto cos, in quel fienile abbandonato, Joy imparer la sua lezione, vedendo la sua gamba di legno scomparire col venditore di Bibbie. Soltanto cos, leggendo quel racconto leggetelo, vedrete che ne sar valsa la pena potremo sentire che tutto ci che Flannery racconta vero. Perci mi chiedo: che cosa c di meglio? Poi, sarebbe molto interessante ragionare su ci che si dicono quei due, in quel fienile abbandonato. Le voci e le parole dei nostri personaggi. Ah, i dialoghi, ragazzi. Che meraviglia. Che ne dite, ripartiamo da qui?

Lezione 10

IL BAMBINO CON LE MANI IN TASCA LE VOCI DEI NOSTRI PERSONAGGI di Elena Varvello una cosa che mi capita spesso. Anzi, molto spesso, dovrei dire. Unesperienza personale che mi sembra significativo raccontarvi, tanto per incominciare a ragionare intorno al dialogo, o meglio, intorno

alle voci e alle parole dei nostri personaggi. Una cosa che accade molto spesso, vi dicevo, quando comincio a lavorare in un laboratorio di scrittura. Ricevo molti racconti brevi, magari scritti a partire da un mio suggerimento, e alcuni sono belli, davvero, ed un piacere leggerli lo faccio ormai da pi di dieci anni, e continuo a farlo con autentico piacere. Soltanto che, nel corso del tempo, mi sono accorta di una cosa: anche nei racconti pi belli, allinizio i personaggi tendono a restare muti. Pensano moltissimo a volte troppo, devo essere sincera osservano tutto ci che li circonda, sognano e ricordano, per non parlano, o parlano a fatica magari si scambiano appena un paio di battute, parole che paiono casuali, o, nei casi peggiori, addirittura inessenziali. Sapete cosa faccio, normalmente? Domando: Com che questi personaggi non hanno niente da dirsi? Non ci sono battute di dialogo, qui. La risposta ha questo sapore: Non volevo farli parlare. stata una mia scelta. Questa, il pi delle volte, una bugia. Il pi delle volte, la risposta autentica sarebbe: Non sono capace, non so scrivere un dialogo. Proprio non mi riesce, per quanto io ci provi. Perch cos, ve lassicuro e infatti, alla fine la cosa viene fuori, ed questo il momento in cui si pu iniziare a lavorare veramente. Non che io non lo capisca. Lo capisco eccome. C stato un tempo in cui, anche per me, le cose andavano in questo modo. Non ci riuscivo, punto e basta. Avevo limpressione che, ogni volta che aprivano bocca, i miei personaggi dicessero cose sbagliate nel modo sbagliato. Cos, facevo in modo che non parlassero affatto al massimo, mi concedevo qualche discorso indiretto, ma, anche quello, lo vivevo con enorme sofferenza. Questo, capite bene, incideva pesantemente sulle storie che provavo a raccontare perch si arriva sempre, sempre, al momento in cui necessario un dialogo, e girarci intorno faticoso, e, quasi sempre, improduttivo. Mi ritrovavo in una situazione analoga a quella di chi, avendo paura di imboccare un sentiero che gli pare troppo ripido, ne imbocca un altro, costringendosi, per, a cambiare meta. Camminare si cammina, certo, e come no?, solo che non si pi diretti nel luogo in cui si sarebbe voluti andare originariamente. Da un certo punto di vista credo dipendesse dal fatto che ero convinta di non saperlo fare. Per, a essere onesta, cera qualcosaltro, anche se lho capito solo in seguito, dopo averci pensato a lungo. Il fatto , credetemi, che non sapevo esattamente cosa i miei personaggi avrebbero dovuto dire. Non rimanevano muti soltanto perch ero convinta di non riuscire a costruire un dialogo gi, perch anche un dialogo si costruisce, come un piccolo muro, potremmo dire, allinterno di quello spazio pi ampio che un racconto, o addirittura un romanzo. Rimanevano muti perch non sapevo cosa avrebbero dovuto dire veramente. E adesso, mi chiedevo, cosa gli dovrei far dire? Non ne avevo proprio idea. La prima battuta, soprattutto, era difficile. Terribilmente difficile, ve lassicuro. La prima volta in cui, chi avrebbe avuto la pazienza di leggere quel racconto, avrebbe sentito la voce del mio personaggio, avrebbe potuto ascoltare le sue parole. Ogni volta, ci sbattevo la testa, e non ne venivo a capo. Sapete cos successo, poi? successo che mi sono resa conto di una cosa molto semplice: non sapevo cosa avrebbero dovuto dire perch, semplicemente, non avevo avuto la pazienza di ascoltarli. Insomma, la domanda che mi ponevo era sbagliata. Non cosa gli/le dovrei far dire?, ma cosa vuole dire?: era questo ci che mi sarei dovuta chiedere. Chiedersi che cosa vuole dire un personaggio, quali parole vuole pronunciare, significa anche chiedersi quale posto occupa e dovr occupare nel racconto che stiamo scrivendo, cosa desidera, cosa vuole, di cosa ha paura, da cosa sta scappando. Insomma, significa chiedersi quale sia davvero la sua storia. E, nello stesso tempo, vuol dire dargli credito, considerarlo una persona, non solo un personaggio. Prendete la donna che passa laspirapolvere in casa sua, un pomeriggio. Immaginate che qualcuno suoni alla porta. Immaginate che sia un bambino, ad esempio il figlio dei vicini. Provate a vedervelo cos, in piedi, sulla porta. Cercate di vederlo, come sempre.

Ehi, gli dice la donna. Che c? Va tutto bene?, perch il bambino tiene le mani in tasca e fissa con ostinazione il pavimento. Ecco, qui comincia il dialogo. Credo proprio che un dialogo del genere, in una situazione del genere, sarebbe necessario. Potrebbe rivelare molte cose e, nello stesso tempo, nasconderne altre che verrebbero scoperte solo in seguito. Quindi, chiudete gli occhi. Guardate quel bambino. Guardate come fissa il pavimento. Poi fate in modo che alzi un po la testa, senza rivolgere lo sguardo alla donna, come se avesse paura di farlo, o come se si vergognasse. E ora state ad ascoltarlo. Cosa dice? A un certo punto, ho cominciato a pensare che questo fosse uno dei momenti pi entusiasmanti dello scrivere narrativa: stare ad ascoltare i personaggi, quelli che ci ossessionano davvero, comprendere ci che hanno bisogno di dire e anche ci che non vogliono dire perch un dialogo non fatto solo di battute; fatto anche di silenzi, di posture, di gesti, movimenti pi o meno accennati. fatto di sguardi, rivelazioni e reticenze. Questo un gran momento, sul serio: il momento in cui quel bambino che ha suonato alla porta alza un po la testa e, le mani sempre affondate nelle tasche, apre bocca per dire ci che vuole dire. O ci che deve dire. una cosa naturale, pensatela cos. Una cosa che richiede innanzi tutto un buon orecchio, e la capacit di vivere dentro una storia nel momento stesso in cui la si sta scrivendo. Per ora, lasciamolo quel bambino in piedi sulla porta, con le mani in tasca, e lasciamo quella donna in attesa di una sua risposta. Come se avessimo scattato una fotografia. Lasciamoli cos soltanto per un po, e andiamo a fare altro.

Lezione 11

IL BAMBINO CON LE MANI IN TASCA ANCORA LE VOCI DEI NOSTRI PERSONAGGI di Elena Varvello Ancora alcune cose a proposito delle parole e delle voci dei nostri personaggi in questo modo che preferisco immaginare i dialoghi, come un intreccio di voci e di parole. Vi dicevo dellimportanza dellascolto, della necessit, quando si scrive, di sviluppare un buon orecchio oddio, quando si scrive tutti i sensi dovrebbero essere allertati. Vi dicevo di quanto sia importante, dal mio punto di vista, considerare i personaggi non solo creature letterarie, descritte e raccontate sulla pagina (perch, certo, lo sono), ma persone in carne e ossa, fino al punto di vivere la loro storia vivere dentro la loro storia mentre la si scrive. Il momento in cui i nostri personaggi iniziano a parlare semplicemente magnifico, per quanto mi riguarda, un momento che aspetto con enorme impazienza, anche se so lo so per esperienza che pu fare paura. Credo, ma la mia soltanto unipotesi, badate bene (non riesco neppure a formularla con chiarezza), che possa far paura perch come se fosse unimmersione nella storia, la sua definitiva trasformazione in qualche cosa che non accade solo e soltanto sulla pagina, ma che davvero prende vita. Qualcosa che possiamo controllare solo in parte (anche se questo, ovviamente, non vero, nel senso che il controllo che noi esercitiamo, o che dovremmo esercitare, su ci che stiamo scrivendo non minore nel momento in cui scriviamo un dialogo). Per me, per, cos: di fronte a un buon dialogo

provo unacuta sensazione di realt, come se lautore di quella storia si fosse messo da parte per un po, lasciando tutto lo spazio ai personaggi, lasciando loro il palcoscenico, e loro sono uomini e donne e bambini in carne e ossa, e vogliono parlare, lo chiedono con forza. Un banco di prova, insomma. Questo significa che, quando non riesco a dare voce ai personaggi, quando proprio non ce la faccio, quando non li sento e capita, credetemi di solito arrivo a interrogarmi addirittura sulla necessit di quella storia. Arrivo a pormi domande feroci riguardo alla sua autenticit. In questo senso vi dicevo che le voci e le parole dei nostri personaggi sono un banco di prova eccezionale. E adesso permettetemi alcune considerazioni pi specifiche. Pi pratiche, direi. Ricordate il bambino di cui vi parlavo la volta precedente? Il bambino con le mani in tasca, che ha suonato il campanello e ora fissa il pavimento? La donna che stava passando laspirapolvere ha aperto la porta e, vedendolo cos, gli ha domandato se andasse tutto bene. Pensiamo a questo istante come al primo, vero banco di prova del nostro racconto immaginario accidenti, un giorno o laltro mi toccher scriverlo davvero. Ora, ricordatevi che in un racconto (ma lo stesso varrebbe nel caso in cui ci fossimo cimentati con la scrittura di un romanzo) ogni cosa, ogni singola cosa, deve portare avanti lazione. Intendo dire che un dialogo non un momento statico, anche se chi vi coinvolto dovesse trovarsi, per esempio, seduto intorno a un tavolo, ma un luogo narrativo grazie a cui la storia procede in maniera pi o meno percettibile, grazie a cui il racconto si spinge un po pi avanti. Vi sembrer banale, ma trovo sia importante sottolinearlo ancora e ancora: i dialoghi non sono chiacchierate senza scopo, non lo sono mai (anche nel momento in cui lo sembrano; pensate a quel magnifico racconto di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo damore). Quando scriviamo un dialogo dobbiamo sempre, sempre ricordarci che stiamo facendo accadere qualche cosa di significativo, e che, proprio attraverso il nostro dialogo, la storia si sta muovendo avanti. Insomma, il bambino con le mani in tasca dovr dire qualcosa che abbia il potere di mantenere dinamico il racconto, che riesca a spingerlo in avanti sto provando a immaginare cosa, ma, vedete un po che frustrazione, per quanto mi sforzi, non mi viene in mente nulla di sensato. Quindi, per ora, meglio lasciar perdere. Ricordate che un buon dialogo non fatto soltanto di parole, ma anche di sguardi, di movimenti magari quasi impercettibili, di pause che dovrebbero essere sempre significative. Provo a farvi un esempio (senza alcuna ambizione letteraria, sintende: stiamo parlando di ben altro). Provate ad ascoltare: Devo venire alla festa?, chiese lei. Certo, disse lui. Una semplice domanda, e una risposta che pare colma di entusiasmo. Bene, tutto qui. Ora, per, proviamo un po ad aggiungere un dettaglio (in realt, come vedrete, sto pensando a tutto meno che a un dettaglio): Devo venire alla festa?, chiese lei. Certo, disse lui, fissando il posacenere. Non vi pare che qualcosa sia cambiato? Non vi pare che quel fissare il posacenere indichi qualcosa di significativo, senza che, per questo, la battuta di lui debba cambiare di una virgola? E ancora: Devo venire alla festa?, chiese lei. Lui rimase un istante in silenzio, poi, fissando il posacenere, rispose: Certo.

Un altro cambiamento, no? Come se, mano a mano, stessimo scivolando in una zona ambigua, in cui una semplice risposta smette di esser tale. Ecco, tutto questo dialogo (non solo le battute che i personaggi si scambiano, appunto, ma anche, e forse soprattutto, il modo in cui lo fanno). Sempre dal mio punto di vista, chiaro, un dialogo non deve necessariamente funzionare seguendo un percorso logico, e questo un altro aspetto rilevante. Voglio dire che se un personaggio pone una domanda, chi dovrebbe rispondergli pu anche dire altro, se ci ha un senso, se una cosa del genere ha un significato nello sviluppo del racconto. Il fatto che dica altro potrebbe spingere in avanti la storia pi ancora del fatto che risponda esattamente, puntualmente. possibile, cio, attraverso un dialogo, creare piccole cesure, strappi nel tessuto compatto del racconto. Ricordatevi poi che state facendo parlare persone in carne e ossa (le state ascoltando, dicevamo), quindi, soprattutto nei dialoghi, abbandonate, sempre che la cosa non sia, per qualche ragione interna al racconto, necessaria e irrinunciabile, ogni velleit letteraria, ogni tensione verso il bello stile, ogni ridondanza. Non abbiate paura della semplicit, non abbiate paura delle sporcature e nemmeno delle storture della lingua. Darete cos, sul serio, unimpressione di realt. E di autenticit. La cosa importante sempre non simulare una stortura, non forzare la mano, non eccedere (rischiando, cos, di trasformare i personaggi in macchiette) ma tenere a mente un effetto di naturalezza. Ultima cosa, anche se ce ne sarebbero ancora cos tante: ricordate che, proprio come noi, non sempre i nostri personaggi dicono tutto ci che vorrebbero davvero dire. Qualche volta mentono, qualche volta omettono o tralasciano volutamente qualcosa dimportante. Se questo porta avanti la nostra storia, va benissimo. Un dialogo si costruisce per parole, per silenzi e reticenze. Quindi, cosa in procinto di dire il nostro bambino fermo sulla porta? E cosa gli risponder la donna? Come potremo mettere in movimento la fotografia che abbiamo scattato loro lultima volta? Non so. In questo momento proprio non lo so. Per, statene certi, ci penser su, e forse, prima o poi, riuscir a sentire qualche cosa. Anche perch, come capita con i personaggi che ci hanno fatto visita, un piccolo e misterioso dolore il fatto di doverli abbandonare. Ci dispiace. Ma magari potrebbero parlare a voi. Magari. Sarebbe bello, che ne dite?

Lezione 12

MARITO E di Elena Varvello

MOGLIE

IN

ALTALENA

LUSO

DEI

DETTAGLI

Ancora alcune cose Lo ammetto, anche se lavrete gi capito: per quanto mi riguarda, la scrittura una questione di dettagli. Un buon orecchio, occhi bene aperti e la capacit di scegliere, di riconoscere i dettagli giusti. Un dato di fatto, una regola non scritta e indiscutibile: io la vedo in questo modo. Sar che vengo dal racconto. Sar che, prima ancora, ho impiegato molti anni a leggere e a tentare di scrivere poesie, versi di scarso valore, come gi vi ho detto, confessandolo senza vergogna ma questo, adesso, non ha molta importanza. Comunque sia, ecco quello che ho imparato, scrivendo racconti e leggendo poesie: la scrittura una questione di dettagli. Sentite cosa dice Philip Roth in Pastorale Americana: Il dettaglio, limmensit del dettaglio, la forza del dettaglio, il peso del dettaglio: la ricca sconfinatezza del dettaglio che ti circonda

nella tua giovane vita come i due metri di terra che saranno pressati sulla tua tomba quando sarai morto. Bene, sottoscrivo. Sulla forza e sul peso del dettaglio, sulla capacit che i dettagli hanno di rendere vivida una storia, di renderla presente e chiara e nitida agli occhi di un lettore, non credo che sia il caso di aggiungere qualcosa. Potrei soltanto fare danno. Piuttosto, limmensit del dettaglio a interessarmi, quella che Roth definisce la ricca sconfinatezza del dettaglio. esattamente su questo che vorrei soffermarmi per un po, se avete voglia. Insomma, il dettaglio una cosa minuta, no?, un particolare. Quante volte abbiamo usato lespressione solo un dettaglio, riferendoci a qualcosa di accessorio, qualcosa che avremmo potuto, senza alcun problema, senza perdere niente dimportante, non considerare? E allora perch tirare in ballo limmensit, perch tirare in ballo la sconfinatezza? Come sempre, non so se sar in grado di spiegarvi cosa intendo. Vedete, qualsiasi considerazione riguardo alla scrittura ha a che fare con lesperienza, e questo tipo di esperienza la si matura e la si affina in solitudine anche se si tratta, diciamolo, di una solitudine fittizia: chi scrive circondato da persone (ne addirittura popolato), e, anche nei momenti in cui non scrive, comunque circondato dagli autori che ama, o che magari non ama cos tanto ma che hanno pur sempre, ciascuno, qualcosa da insegnargli. Proprio per questo, perch si tratta di esperienza, cos difficile parlarne vi ricordate la storia del pesce di Flannery OConnor? Chiedere a uno scrittore come scrive, come chiedere a un pesce come si nuota. Anche su questo, sottoscrivo. Proviamo a dirlo senza tanti giri di parole, allora. Mettiamola cos: immaginate che io stia scrivendo un racconto breve, pi o meno della lunghezza di otto o nove pagine. Immaginate una storia qualunque (potremmo tornare alla vicenda del bambino con le mani in tasca che abbiamo abbandonato ormai due settimane fa, con grande dispiacere). Immaginate che io sappia perfettamente cosa deve accadere e quindi come andr a finire il mio racconto. E ora immaginate di essere al mio posto: potreste avere, di questo racconto, due visioni. La prima: una visione dinterezza, chiamiamola cos, che vi spingerebbe a considerarlo come una creatura completa, che parte dalla testa (lincipit) e arriva fino ai piedi (il finale). La seconda: una visione parziale, che vi spingerebbe a pendere in considerazione e dunque a lavorare su parti isolate del racconto. Nuclei, potremmo dire. La pagina sarebbe il primo. Il paragrafo, il secondo. La frase, il terzo. Ogni singola parola, lultimo. Un lavoro di scomposizione, insomma, sempre tenendo come sfondo il racconto nella sua interezza, lo sviluppo complessivo della storia, dallincipit al finale. La pagina. Il paragrafo. La frase. La parola. In fondo, cos che si lavora. Parola dopo parola. Frase dopo frase. Paragrafo dopo paragrafo. Pagina dopo pagina. Bene. qui che ritorniamo a Roth. qui che ritorniamo allimportanza del dettaglio. Limmensit e la sconfinatezza del dettaglio. Proprio lavorando sulle parole che compongono una frase, cio sul nucleo pi piccolo, pi elementare, del nostro racconto. Vorrei farvi un esempio, se me lo permettere. Un brano tratto da Rock Island Line, di David Rodhes. Ascoltate: I vecchi si ricordano di Della e Wilson Montgomery come se fosse stato appena domenica scorsa che, dopo la frugale cena parrocchiale, erano saliti sulla loro Chevrolet grigia e, innestata la retromarcia, erano partiti in direzione della loro casa di campagna, con Della che agitava la mano dal finestrino e Wilson curvo sul volante, che teneva con entrambe le mani. Riescono come se fosse ieri a ricordare di essere passati in macchina dalla casa di arenaria dei Montgomery e di averli visti seduti sullaltalena sotto la veranda, Wilson che la dondolava lentamente e coscienziosamente, avanti e indietro, Della sorridente, i piccoli piedi che sfioravano appena il suolo quando laltalena tornava indietro, simili a due diligenti, tranquilli bambini.

La cena parrocchiale frugale: perfetto, in fondo non si tratta che di un aggettivo. La Chevrolet grigia, semplicemente un altro aggettivo, se non fosse che, a questo punto, pare essere grigia (e frugale) la vita stessa dei coniugi Montgomery. La parte per il tutto (mi chiedo cosa sarebbe accaduto se la macchina fosse stata azzurra, o verde, o rossa, che ne so). Wilson, curvo sul volante, lo tiene con entrambe le mani, ed ecco che luomo alla guida prende corpo: senza che venga specificato, tendiamo, a me capita cos, a immaginare una persona di una certa et che ha perso la sicurezza e la baldanza di un tempo. Tutti dettagli, questi, che rendono la scena vivida e presente. Proviamo a toglierli, e vediamo un po cosa succede: I vecchi si ricordano di Della e Wilson Montgomery come se fosse stato appena domenica scorsa che, dopo la cena parrocchiale, erano saliti sulla loro Chevrolet e, innestata la retromarcia, erano partiti in direzione della loro casa di campagna, con Della che agitava la mano dal finestrino e Wilson curvo sul volante. Sarebbe un altro mondo, no? Avremmo addirittura unaltra scena, e soprattutto altri personaggi. Ma poco pi avanti che Rodhes ha davvero, davvero qualcosa da insegnarci, nel momento in cui racconta di Wilson che spinge laltalena coscienziosamente. Perch lavverbio ci dice qualcosa di pi, qualcosa di molto significativo sul carattere di Wilson e sul rapporto fra lui e sua moglie, cos come qualcosa di pi ci dice il sorriso di Della, che immagino garbato, e il fatto che i suoi piedi sfiorino appena il suolo ( seduta composta, le mani giunte in grembo). Come due diligenti, tranquilli bambini: una similitudine che chiude la partita. Di nuovo, proviamo a togliere qualcosa: Riescono come se fosse ieri a ricordare di essere passati in macchina dalla casa di arenaria dei Montgomery e di averli visti seduti sullaltalena sotto la veranda, Wilson che la dondolava lentamente, avanti e indietro, e Della, i piedi che sfioravano appena il suolo quando laltalena tornava indietro. Non c altro da aggiungere, non trovate anche voi? Nel brano di Rodhes, Della e Wilson sono presenti in carne e ossa, ma non solo: ci sono due caratteri, e c un intero matrimonio. Tutto questo in poche righe. Tutto questo in un paio di aggettivi, in un avverbio e una similitudine. Ecco a cosa penso quando penso a ci che scrive Philip Roth. Dettagli. Immensit. Sconfinatezza. Prendete queste mie parole come linizio di qualcosa, e permettetemi di rifletterci sopra ancora un po. Fate finta che adesso abbia voglia di uscire in giardino. Fate finta che abbia unaltalena. Fate finta che mi ci sieda sopra e che sorrida, pensando a cosa dire ancora riguardo a ci che penso dei dettagli. C un bel sole, oggi: se avessi unaltalena, lo farei, sul serio.

Lezione 13
MARITO E MOGLIE di Elena Varvello IN ALTALENA ANCORA SULLUSO DEI DETTAGLI

Coscienziosamente. Ricordate?

Stavamo parlando di dettagli. Vi dicevo: a mio parere, la scrittura una questione di dettagli. Dicevo: una cosa che si apprende lavorando, una questione di esperienza, come tutto ci che riguarda la scrittura. Dicevo: per me, funziona in questo modo. Ecco perch, probabilmente, impiego cos tanto tempo a scrivere (sono molto lenta; mi ci sono voluti quattro anni per finire La luce perfetta del giorno, e tre per lavorare su Leconomia delle cose. Ma, forse ve ne accennavo durante una delle nostre precedenti chiacchierate, credo sul serio che la lentezza sia un valore). Sapete cosa? Mi piacerebbe provare a raccontarvi come la scrittura accade, nel mio caso, come se voi foste qui, mentre lavoro, e io potessi parlarvene perch poi dovreste voler essere qui, in questo studio, con le tazze di caff ormai freddo sulla scrivania e un posacenere stracolmo e mucchi di carta dappertutto e libri aperti e bollette da pagare, io proprio non lo so. Mettiamola cos: faccio affidamento su una vostra possibile curiosit, la stessa che io nutro nei confronti di moltissimi scrittori, che vorrei davvero poter osservare al lavoro. Quindi, proviamoci, e speriamo che la cosa non vi annoi troppo. Vedete, parlavo dellaccadere della scrittura, ma non intendevo riferirmi a un accadimento improvviso, incontrollabile o, peggio ancora, casuale. No. La scrittura accade nel tempo, per stratificazioni successive. E questo ha a che fare coi dettagli, con la scelta dei dettagli giusti, quelli che rendono, o dovrebbero rendere, una storia vivida e nitida e molto pi profonda di quanto non appaia a una prima, superficiale occhiata. La verit che, quando si scrive, molte cose accadono simultaneamente. E molti aspetti devono essere controllati (concedetemi luso di questo verbo, nel parlare di un gesto, quello del narrare, che pare invece voler sfuggire a qualsiasi forma di controllo). Innanzi tutto, stiamo dando vita a un mondo. Piccolo o grande, non importa. Che prenda la forma di un romanzo o quella di un racconto breve, non importa. Stiamo disegnando un mondo, stiamo costruendo unarchitettura, e dobbiamo preoccuparci della sua solidit, della sua leggibilit e coerenza. Una storia un organismo che deve respirare, camminare sulle proprie gambe e arrivare al proprio naturale compimento. Be, non una cosa facile. Non lo per nulla. Per me, la prima fase del lavoro. Vedere i personaggi, vedere cosa sta accadendo loro e cosa accadr in seguito, sentirli parlare e farli muovere e mi riferisco anche ai gesti pi minuti: andare a guardare fuori dalla finestra, aprire un barattolo di marmellata, rifare il letto la mattina: ciascuno di questi gesti deve essere pensato e soppesato e costruito, messo in scena. Come tessere la trama di un tappeto, insomma, in modo che il disegno al quale avevamo pensato sia visibile. Possono presentarsi problemi di tessitura, problemi strutturali, problemi di solidit, ed addirittura possibile scoprire che la casa non sta in piedi e che lunica cosa che rimane da fare buttarla gi. Possiamo chiamare questa fase prima stesura. Un lavoro fisico, muscolare, di grande resistenza (quante volte, in momenti come questi, ci chiediamo: Ma chi me lha fatto fare? Chi avr mai bisogno di ci che sto scrivendo? Perch non occupo il mio tempo in un altro modo? Non sarebbe meglio mollare tutto e fare qualcosaltro?. Non so a voi, ma a me capita di chiedermelo). Si tratta di tirare su un muro, vi dicevo qualche tempo fa, un muro che stia in piedi, che non cada nel momento in cui cinfilerete un chiodo per appendere un bel quadro, immaginando che i dettagli siano quel quadro. Questa una fase molto dura, che, di solito, non sopporta grandi raffinatezze o voli pindarici, ma che cimpone di essere solidi, concentrati e soprattutto di non mollare. Cos, alla fine, un gesto dopo laltro, una battuta di dialogo dopo laltra, una descrizione dopo laltra, abbiamo la nostra casa. Ho la mia casa, e mi pare che stia in piedi, e che il vento non la far cadere (oddio, questo discorso mi ricorda troppo da vicino la fiaba dei Tre porcellini che ho letto ai miei figli fino a non poterne pi, ma forse davvero cos, a pensarci bene: dobbiamo fare come il porcellino saggio, e costruire una casa di mattoni).

La prima stesura finita, e la storia tutta l, in quelle pagine, dieci o cento o trecento che siano. Ma questa soltanto la prima fase, perch, a questo punto, ne comincia unaltra, una fase che si chiama riscrittura. Se foste qui, in questo studio, potreste capire quando comincia questa cosa che abbiamo chiamato riscrittura semplicemente avendo la pazienza di guardarmi. Istanti durante i quali il mio sguardo se ne va per conto suo, di solito verso la finestra, pause frequenti durante le quali sento il bisogno di alzarmi e fare altro, tipo giocare con il cane, che ne so, lunghi momenti di apparente inattivit. Bene, proprio qui che accade il coscienziosamente. Perch, vedete, ve lo posso assicurare, davvero molto, molto probabile che quellavverbio non sia venuto subito e che, allinizio, il signor Montgomery si limitasse a spingere laltalena sotto il portico. qui che la macchina di Della e Wilson diventa grigia, un dettaglio a cui molto probabile che Rodhes non abbia dato peso, durante la scrittura del suo romanzo. Qui la cena diventa frugale, e i coniugi Wilson diventano due bambini. Chiaramente, sto forzando le cose, le sto semplificando e schematizzando un po. Quello che intendo dire che, per quanto mi riguarda, nel momento della riscrittura che arriva la riflessione sui dettagli, sul coscienziosamente. Mentre costruisco la casa, di solito mi dico: Ok, qui dovr proprio lavorare sui dettagli. Questo fiume (o questo giardino, questa camera, questa macchina, questo gesto) deve essere raccontato meglio, con maggior intensit, con maggior profondit. Lo far dopo. Appunti non scritti (non li scrivo semplicemente perch tendo a ricordarmene benissimo, e ho imparato a non farmi sconti). Mentre costruisco, di solito non ho la forza necessaria, e tutte le mie energie sono impegnate con mattoni e calce, o nel lavoro di telaio. Ma poi il coscienziosamentedeve arrivare. E deve arrivare lauto grigia. Lincipit de La luce perfetta del giorno, ad esempio, il frutto di tutte queste stratificazioni. cos che nato quel lembo di cielo spoglio allorizzonte. Sul serio, sono convinta che la riscrittura sia un momento importantissimo, fondamentale. Il momento in cui si d profondit alla propria storia, anche e soprattutto attraverso la scelta dei dettagli, in cui le si d spessore e visibilit. E anche il momento della bellezza (se cos possiamo chiamarla, e non sto parlando della mia scrittura, ovvio, ma della scrittura in generale, dei libri che ho pi amato). Forse, per, per questa ragione che non conservo le mie prime stesure. Mai. Non conservo nulla, lavoro sempre su ci che ho scritto in precedenza, stratificando ancora e ancora. Perch tanto ormai lo so, cosa arriva prima e cosa arriva dopo, e, alla fine, mi piace che rimanga solo quelcoscienziosamente, quel grigio. Come se volessi dimenticare tutti i mattoni e la calce, almeno fino a quando non mi toccher usarli di nuovo. Non sto dicendo che sia giusto cos, non lo sto dicendo affatto. Da un certo punto di vista, invece, molto bello conservare. Anzi, in fondo quello che mi preme dirvi, o ricordarvi, che non dovete aver paura dei vostri muri spogli, perch poi, pi avanti, verranno i quadri. di altre cose che bisogna aver paura (i trucchi, le cose gratuite, lo scrivere storie in cui non si crede fino in fondo, per esempio). Quello che mi preme dirvi, che, anche parlando di dettagli, necessario, davvero necessario, saper guardare attentamente. Vedere bene, e il pi lontano possibile. Avere cura del proprio lavoro, crederci fino in fondo e darsi tempo. Ragazzi, quando si scrive il tempo tutto.

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