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UN CAFFÈ PER IL PARTIGIANO

Era passata da poco la mezzanotte quando mio nonno sentì battere forte al portone di sotto. Si alzò
imprecando e scese di malavoglia le scale, attraversò il piccolo locale ingombro di tavoli e sedie,
dove ancora emanava una debole luce il camino nell’angolo, ed aprì. Succedeva spesso che
qualche comitiva di ubriaconi, poco soddisfatta di quello che riusciva a trovare in giro dopo la
chiusura dell’osteria, provava ad impietosirlo per farsi dare un ultimo goccetto di quello buono.
L’osteria di mio nonno si trovava non lontano dal paese lungo la strada verso Chiusa Pesio. Non
era però un posto isolato, c’erano altre cascine intorno quasi a farle la guardia. Si chiamava
Tripoli, un nome che oggi suona strano, ma che allora evocava immediatamente le conquiste colo-
niali italiane in Nord Africa. Era assiduamente frequentata da tutti gli uomini dei dintorni, tanto
che Tripoli era diventato il soprannome di mio nonno e dei suoi due figli, che i vecchi ricordano
ancora oggi.
Sulla porta, con uno sguardo stravolto, stretto in una mantella sdrucita che lo copriva a malapena,
c’era suo figlio Berto. Mio nonno lo fissò a bocca aperta senza riuscire a parlare. Non si aspettava
il suo ritorno così presto. Sapeva che era in montagna, sotto la Bisalta, insieme con il fratello
Giovanni e gli altri giovani del paese che erano partiti insieme a lui due mesi prima per unirsi alle
formazioni partigiane che si stavano organizzando. Perché era di nuovo qui? Temette il peggio,
che avesse dovuto fuggire, precipitarsi verso casa per salvarsi. Sapeva che i tedeschi avevano cir-
condato l’entrata della valle e preparavano a breve un rastrellamento.
Berto, ancora senza fiato, non riusciva a parlare. Mio nonno, sorreggendolo per un braccio, lo ac-
compagnò verso la tavola più vicina sulla quale c’era una bottiglia di vino rosso e quattro o cinque
bicchieri, alcuni dei quali ancora mezzi pieni. Ne afferrò uno, quello meno sporco, e con un rapido
movimento lo riempì del suo buon vino fatto in casa e glielo porse.
«Bevi, bevi, un po’ di dolcetto ti tira subito su» disse in piemontese marcando le parole con l’in-
confondibile accento di Pianfei. Erano le sane consuetudini contadine ereditate da generazioni e
generazioni che ogni uomo di allora avrebbe approvato: non c’è niente di meglio del buon vino
per rimettersi a posto. Un gesto che probabilmente al giorno d’oggi pochi approverebbero.
Berto ne bevve rapido un bicchiere e subito, spingendolo in avanti, fece capire che ne voleva un
altro. L’effetto miracoloso della bevanda venne subito: riprese colore e smise a poco a poco di
tremare.
Mio nonno continuava a guardarlo in silenzio, ma dai suoi occhi pieni di ansia si capiva che era
preparato ad aspettarsi il peggio. Siccome Berto continuava a tenere lo sguardo fisso sul bicchiere
senza dire nulla, non ce la fece più e chiese in fretta: «E Giovanni?». Berto alzò la testa e lo
guardò con un debole sorriso come se volesse in questo modo, senza tante parole, rassicurarlo.
«Tutto bene» disse infine.
«E allora? Berto, non ci capisco niente, perché sei qui? Sei scappato?»
Berto continuava a scuotere la testa come se non riuscisse a trovare le parole per spiegarsi. Quasi
che il piemontese non bastasse disse allora in italiano: «E’ un po’ complicato, papà, sono successe
brutte cose. Ho chiesto aiuto a mamma che è in cielo, ma non è bastato».
Venne fuori che c’era stata l’esecuzione sommaria di una spia e l’incarico di farla fuori era stato
dato proprio a Berto, che aveva provveduto, e solo dopo, di fronte al cadavere mitragliato dal suo
Sten, era stato preso dall’orrore di quello che aveva fatto, ne aveva sentito il peso come se fosse
lui ad essere colpevole. Era allora fuggito verso il solo luogo in cui poteva sperare un aiuto: l’oste-
ria Tripoli dove avrebbe ritrovato suo padre.
«Non ce la faccio più» ripeté più volte Berto ritornando al suo piemontese, che gli era di sicuro
più familiare. Guardava fisso a terra come se si vergognasse di mostrarsi così debole. Mio nonno
vide intera,in quel momento, tutta la immatura giovinezza del figlio che gli stava di fronte. Era il
più piccolo dei due ed aveva compiuto da poco diciannove anni. Ricordò il suo entusiasmo

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quando il fratello, più aggiornato di lui su quello che stava accadendo in Italia, gli aveva proposto
di salire in montagna con i partigiani. Si accorse di quanto quella scelta fosse stata avventata.
Berto viveva ancora tra i suoi sogni di ragazzo con l’entusiasmo di chi si butta in avanti senza
pensare bene a ciò che fa. Appoggiò un braccio sulle sue spalle cingendogliele forte.
«Dai, adesso vediamo insieme, non ti preoccupare» sussurrò vicino al suo orecchio. Il suono pro-
fondo, quasi cupo, delle vocali piemontesi, come una magia, bastò a infondere in Berto una nuova
sicurezza. Guardò il padre con un intenso sguardo pieno di speranza. Poi disse con sicurezza come
se volessi fargli capire che non aveva paura: «Sta tranquillo papà, in montagna ci torno presto,
puoi giurarci».
«Vuoi che ti preparo la tua stanza?» chiese mio nonno.
«Grazie, dormirei un poco volentieri. Non ce la faccio più, tanto che ho corso».
Mio nonno, sorridendo, gli dette un bonario buffetto sulla guancia, come faceva quando era bam-
bino.
«Riposati per bene, che domani ne riparliamo e decidiamo insieme, senza tante storie, che cosa è
meglio che fai». Mentre diceva questo, si incamminò verso la porta più interna da dove si saliva
alle stanze da letto.
«Papà, posso chiederti un’altra cosa?». Berto lo guardava come se si vergognasse un poco per la
richiesta che stava per fare.
«È una vita che non bevo più un buon caffè vero. Su in montagna non se ne trova proprio. Me ne
faresti uno?». Gli occhi di Berto luccicavano mentre lo chiedeva e si capiva bene come, nonos-
tante i suoi affanni, questo desiderio gli girasse in testa da un bel pezzo.
Mio nonno ammiccò, girandosi dall’altra parte. «Berto, ma che mi chiedi? Non se ne trova mica.
Siamo in guerra».
Berto rise. Capiva il gioco che il padre stava giocando. Il caffè vero, durante la guerra , era diven -
tato una rarità ed era sempre meglio tenerselo per sé che far sapere in giro che se ne aveva.

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«Dai papà, sono sicuro che ne hai un poco!» commentò Berto indicando la cassapanca nell’an-
golo. «E lo tieni ben nascosto, a disposizione per i clienti speciali».
Anche mio nonno rise. «Berto, mi conosci troppo bene. È difficile che mi manchi. Piace tanto an-
che a me». Mentre prendeva da sotto la madia un pacchetto ben avvolto in carta di giornale
spiegò: «L’ho trovato alla borsa nera, giù a Cuneo. Per fortuna noi abbiamo sempre qualcosa da
dare in cambio».
Iniziò a prepararlo. A Berto pareva che il padre stesse officiando un rito. Il movimento del cucchi-
aio carico di polvere scura che si muoveva lentamente dal pacchetto alla caffettiera gli faceva pre-
gustare il piacere insostituibile che stava per ritrovare dopo tanto tempo.
Quando infine venne appoggiata la tazzina fumante sulla tavola, vedendo che era una sola venne
spontaneo a Berto domandare: «E tu non ne prendi?».
Il padre rise mentre glielo versava. «Ci mancherebbe solo questo. Poi non dormirei più. Bevilo
volentieri tu e non sentirti in colpa».
Il profumo delizioso già stava riempiendo la stanza ed evocava pensieri di pace e di tranquillità,
un mondo di ieri che i brutti anni della guerra avevano cancellato.
Berto iniziò a sorseggiarlo piano, gustandolo lentamente. Pensava a come basti poco, in fondo, per
rendere davvero felice una persona. Gli accampamenti in montagna, le lunghe guardie notturne al
freddo e la violenza come ritmo di ogni giornata gli sembravano in quel momento tanto lontani.
«Allora io intanto salgo a prepararti il letto». Mio nonno si incamminò verso la scala, ma mentre
passava davanti alla finestra che dava sulla strada si bloccò. Berto lo vide trasalire e cambiare
espressione.
«Ci sono di nuovo! Madosca!» imprecò ad alta voce con uno sguardo furente. E poi come se vo-
lesse farsi capire meglio, al figlio che lo guardava esterrefatto spiegò: «Quelli delle brigate nere,
bastardi. Si sono piazzati nella scuola elementare. Erano già venuti qui una settimana fa».

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Nel frattempo, anche Berto si era accostato alla finestra ed osservava la fila di luci che si stavano
avvicinando lungo la strada.
Capì subito che la situazione era davvero brutta. Rischiava di essere scoperto e sapeva bene che
cosa facevano quelli delle brigate nere ai partigiani catturati. Era come ipnotizzato da quei fanali,
come se si trovasse di fronte agli occhi minacciosi di un serpente pronto a saltargli alla gola.
Mio nonno già aveva capito che cosa occorreva e lo spingeva verso la porta.
«Vieni vieni. Andiamo al pozzo, che lì non ti trovano. Già l’aveva usato Deto un mese fa».
Il pozzo si trovava poco lontano, accanto alla stalla in cui mio nonno teneva le mucche da cui ri -
cavava il latte che gli serviva. Berto si calò rapidamente abbrancandosi alla grossa corda che vi
pendeva dentro.
Sulla tavola, solitaria, restò quasi piena la tazzina fumante.
Non passò molto che dall’angolo dietro la casa si sentì un autocarro che svoltava. Arrivò sotto
l’osteria e si bloccò. Si sentivano voci secche e adirate, ordini impartiti in fretta. Poco dopo mio
nonno vide fermarsi un auto con quattro persone in divisa nera. Capì subito che quelli erano gli
ufficiali del comando. Si sporse fuori dall’uscio, facendosi vedere da loro e si preparò ad af-
frontarli. Tre erano facce sconosciute, ma uno lo riconobbe subito: lo aveva già incrociato in
paese e ricordava che qualche volta era venuto all’osteria in borghese per bere un goccetto con gli
amici. Il suo nome era Furio, così almeno aveva sentito che gli altri lo chiamavano.
Si accorse che anche l’altro lo aveva visto e si stava muovendo verso di lui. Non diceva nulla e
batteva nervosamente la mano sul fodero della rivoltella che gli pendeva su un fianco. Quando gli
fu vicino, si voltò e urlò ad alta voce rivolto verso i suoi uomini fermi accanto all’autocarro, come
se volesse farsi sentire anche da quanti si trovavano nelle case: «Circondate tutto qui intorno e non
lasciate uscire nessuno». Mio nonno capì che stavano eseguendo un piano ben preciso. Ma che
cosa stavano cercando? Gli fu subito chiaro che ogni parola di troppo avrebbe potuto essere letale
e decise allora di muoversi per primo.

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«Ho sentito i rumori e mi sono alzato per vedere. Posso esservi utile?»
Vide che l’altro lo studiava per bene con uno sguardo carico di diffidenza prima di rispondere,.
«Voi siete il padrone qui?» L’accento delle sue parole rivelò che il comandante non era di quelle
parti. Probabilmente era giunto da un’altra regione, quasi sicuramente da una zona del Lazio o di
quei paraggi.
«Sì, questa è la mia osteria». Non riuscì a nascondere una lieve sfumatura ironica nel modo in cui
lo disse. Gli era chiaro che l’altro lo sapeva benissimo e stava fingendo di non esserci mai stato.
Indicò intorno. «Le altre sono case contadine. Povera gente per bene».
Il comandante Furio sbuffò sonoramente e con un ghigno sarcastico disse: «Lasciatelo decidere a
noi quanto sono per bene. Ci sono tanti banditi qui in giro, come quelli che sono in montagna».
Mio nonno chinò il capo e non disse nulla.
«Accompagnatemi nelle vostra osteria. Con voi voglio parlare subito. Di questa gente per bene si
occuperanno i miei uomini».
A queste parole un brivido freddo passò lungo la schiena del nonno. Forse sapevano qualcosa ed
era proprio lui che stavano cercando? Sapeva bene che c’erano spie dappertutto e che bastava una
parola di troppo detta da qualche ubriacone che parlava troppo alle persone sbagliate per rov-
inarlo.
Indicò al comandante la porta principale dell’osteria e fece strada all’interno verso il tavolo più vi-
cino. In quel mentre non riusciva a non pensare al povero Berto, solo in fondo al pozzo con il ter-
rore di essere scoperto. Cercò di mantenersi calmo e di non dare a vedere l’angoscia che lo stava
divorando.
Il comandante si lasciò cadere pesantemente su una sedia e appoggiandosi con le mani al ripiano
si allungò verso mio nonno rimasto in piedi davanti a lui. Con un sorrisino forzato tornò a
ripetere: «Bene, noi dobbiamo proprio parlare».

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Immobile, il nonno aspettava che l’altro parlasse, ma il silenzio si prolungò a lungo. Intanto, Fu-
rio continuava a fissarlo.
Con un gesto improvviso si lasciò andare indietro sullo schienale e come se volesse tagliar corto
con un tono sbrigativo disse: «Parliamoci subito chiaro, allora. Questa è probabilmente l’osteria
più frequentata dei dintorni. Vero?».
Mio nonno assentì con un cenno del capo.
«E voi vedete ogni giorno gente che passa, gente che viene, si riposa». Mio nonno assentì di
nuovo. «E parla».
A questo punto mio nonno si rilassò un poco. Stava iniziando a capire dove l’altro voleva andare a
parare. Sicuramente, di lì ad un attimo, sarebbe arrivata la sua proposta. Ed infatti, come se la cosa
fosse quasi scontata, il comandante concluse: «Potreste esserci molto utile».
Mio nonno si schermì. Con una leggera alzata delle spalle commentò: «Ma per che cosa? Noi qui
abbiamo tanto da fare». Il comandante lo guardò di sottecchi: «Ed ascoltate molto. Dite la verità».
Mio nonno si schermì di nuovo in modo ancora più deciso, come se queste ultime parole fossero
state soltanto una battuta scherzosa.
«Non stiamo mica ad ascoltare quello che si dice. E chi ne avrebbe il tempo? Si va, si viene,
siamo sempre impegnati in cucina».
Anche il comandante rise, come se volesse stare anche lui al gioco. Si alzò e mentre si incammi-
nava verso la porta aggiunse: «Voi pensateci, che poi ne riparliamo. Pensateci molto per bene,
potrebbe convenire anche a voi». Dicendo questo si era voltato e come se notasse solo in quel mo-
mento la cosa, chiese seccamente: «Ma quella tazza, laggiù su quel tavolo, è ancora fumante! Chi
c’era qui prima?». Si avvicinò al tavolo e la prese.
«Sì, è ancora bella calda». La avvicinò al naso ed odorò il liquido denso e scuro. «Caffè! Questo è
vero caffè! Che profumo», esclamò estasiato. Buttò uno sguardo sornione verso il nonno. E voi
come fate ad averlo? C’è la guerra».

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Mio nonno capì che doveva subito dire qualcosa, distrarre la sua attenzione. Con un cenno noncu-
rante disse: «Sapete bene che chi fa il mio mestiere certe cose le trova» .
«Alla borsa nera» completò il comandante, come se la cosa fosse assolutamente scontata.
«Dove si riesce».
«Ma sapete che andate contro la legge?». Il tono mutò di colpo, si fece nuovamente duro, quasi
minaccioso. Ma mio nonno non si lasciò intimorire. Conosceva troppo bene il gusto che certa
gente provava nello scandire domande ed ordini perentori, imitando a volte senza volerlo il tono
altezzoso del capo supremo nei suoi discorsi, quelli che tutti da anni erano costretti ad ascoltare
nelle piazze d’Italia.
Con un po’ di audacia, cercò di risvegliare i modi scherzosi di prima.
«Che cosa volete che sia un po’ di caffè, tutti ne tengono in casa un pochino». Ammiccò e con
aria complice aggiunse: «Ma il dolcetto della mia cantina, quello sì che è di prima scelta. Ve lo
posso assicurare, perché lo faccio io con l’uva delle mie vigne». In realtà, sapeva benissimo che il
comandante già era ben informato su questo, pensando alle tante bottiglie che riempivano la
tavola quando brindava con i suoi amici.
Il comandante minimizzò, come se la cosa lo imbarazzasse: «Certo, certo, lo assaggerò un’altra
volta». Con un gesto brusco che non ammetteva repliche sottolineò la sua sottintesa minaccia:
«Sarà tanto meglio se noi ci rivedremo molto spesso, d’ora in poi».
Mio nonno finse di non aver capito e, come se la cosa fosse scontata si limitò a dire: «Ma certo, è
naturale, venite pure quando volete». Sbiancò vedendo lo sguardo del comandante bloccarsi,
come per un’idea improvvisa, e la sua mano avvicinarsi di nuovo alla tazzina. La sfiorò ripetuta-
mente con un dito e poi chiese: «Ma chi la stava bevendo un attimo prima che io arrivassi? Mi
avete detto che voi vi siete alzato al nostro arrivo».
Cercando di assumere un’aria tranquilla e innocente, subito mio nonno rispose: «Io, naturalmente.
Perché me lo chiedete?»

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«Perché non ne sarei più tanto sicuro. A questa ora della notte...».
Un’improvvisa raffica di mitraglia interruppe la sua frase. Si sentì chiaramente un rapido affollarsi
di gente nello spiazzo che divideva l’osteria dalle altre cascine. Una voce di donna invocava pietà.
Mio nonno pensò subito a Berto. Che lo avessero trovato e fatto prigioniero o peggio ancora che
la sventagliata di mitra fosse stata sparata proprio nel pozzo dove lui si nascondeva?
Tutto questo gli parve così sicuro che, quando il comandante si alzò in fretta ed uscì di corsa, nep-
pure se ne accorse. Si lasciò cadere su una sedia, incapace di far nulla. Sentiva però le voci au-
mentare, le urla degli uomini delle brigate nere si sovrapponevano ai colpi sordi contro qualcuno
che veniva trascinato. L’autocarro venne messo in moto.
Gli occhi pieni di lacrime di mio nonno, fissi sulla parete bianca della sala, era come se lo
vedessero: Berto picchiato, costretto a salire, portato via per essere interrogato e fucilato.
Quando sentì il rombo del motore allontanarsi, si riscosse. Si alzò faticosamente, incamminandosi
lento verso il pozzo. In quella trentina di passi c’era il suo destino.
Accostando la testa al bordo del pozzo, chiamò, sicuro che nessuno avrebbe risposto.
Ed invece, ecco la sua voce, quella di Berto, che chiedeva: «Papà, papà, posso uscire?».
Si abbracciarono come naufraghi salvi a riva. Sembrava tutto impossibile.
Mentre si avviavano stretti l’uno all’altro verso la porta dell’osteria, sentirono qualcuno dei vicini
che diceva: «Hanno trovato Deto nel fienile e l’hanno portato via».
«Bastardi!» esclamarono insieme mio nonno e Berto con un medesimo pensiero in testa.
Tutto ciò era durato pochissimo, anche se pareva fosse passato un tempo infinito da quando Berto
era sceso nel pozzo. Se ne accorsero dal fatto che la tazzina rimasta sul tavolo, anche se poco, an -
cora intiepidiva.
Berto si avvicinò e la prese. Era come se stesse officiando un rito e in quel breve gesto vi fosse
tutto il senso della tragedia storica che stavano vivendo.

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La alzò e, dopo aver bevuto con un secco sorso quello che rimaneva, gettandola con un gesto vio-
lento, sussurrò piano: «Non passerete!».

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