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Smart city
Da Babilonia alla smart city èiltitolo di un libro recente di Cesare De Seta
(2017), che ho trovato sorprendente. Mi fa una certa impresione ritrovare la
cosiddetasmart city come un idealtipo di insediamento urbano, già inscritto
nel lungo corso della storia della civilizzazione, ultimo tassello diuna serie di
modelli dicittà storicamente documentati. Non viè dubbio che il tema abbia
suscitato una grande attenzione mediatica negliultimi dieci, quindici anni
(anche se la tendenza incomincia già a mostrare qualche segno di decelera
zione della crescita). Il puntoè non limitarsi ad aderire a una moda del mo
mento, ma mettere alla prova il senso e la qualità dell'innovazione rispetto
ai problemiereditati ealle pratiche urbanistiche più attuali. Anche in questo
caso, purtroppo, qualche perplessità sembra lecita. Lavicenda ame sembra
più semplice e meno rilevante di quanto sostiene larga parte della letteratura
dedicata. Il tema centrale è l'aspirazione verso alcuni valori urbani, che è
legittimac certamente non inedita: per l'umanodesiderio di creare evivere
una forma insediativa sempre più «safe, smart, sustainable, inclusive» (Gil
Garcia et al., 2o16; Angelakis et al., 2017; Allam, Newman, 2o18). II limite
èilcarattere puramente selfdeclaratory di questo orientamento (Allwinkle,
Cruickshank, 2011): quale cittànon vorrebbe essere intelligente, creativa,
attraente e cosi via. IIdato emergente è l'enorme sviluppo delle tecnologie
dell'informazione e comunicazione, del web e dell'intelligenza artificiale,
che sembranoin grado di offrire ai cittadini un complesso di servizi urbani,
originalio rinnovati. Queste opportunità hanno dato vita o rivitalizzato al
cunisettori di mercato, giustificando nuovi progetti e investimenti impren
ditoriali, tesi a intercettare la domanda potenziale, o meglio a moltiplicarla.
La tendenza appare chiara se si assume il punto di vista dell'operatore eco
nomico interessato alla commercializzazione di tecnologie smart (Hollands,
2008,2019; Cardullo, Kitchin, 2019; J. Clark, 2020). Qualche problema sor
ge se in discussione èilsenso del progetto dipubblico interesse, perché iri
sultati non sembrano sempre pari alle attese. IL'ereditàpiù solida ed evidente
si riduce in molti casi al potenziamento del mercato dialcuni servizi urbani
ealla creazione diqualche nuovo luogo oligarchico nel tessuto insediativo
(Anthopoulos, 2017; Caprotti, 2o18). In questo quadro, diventa ragionevole
la domanda: saranno in grado le nuove tecnologie di determinare un chiaro
progresso nella qualitàdella vita urbana? Se la risposta fosse affermativa, il
buon esito dovrebbe essere associato a qualche condizione di contesto, da
assumere dunque come un requisito vincolante ? Questa sequenza di fatti e
le domande conseguentisono alla base dell'interesse contingente, nel nuovo
secolo, per itemi della smart city edello smart urbanism: un cumulo di parolc
e di retoriche, forse eccessivo rispctto alle ragioni e ai risultati (come ogni
moda transitoria).

Smartness. Come qualità urbana, il concetto non assume un significato evi


denteecondiviso. Se il termine èassociato aqualche dispositivo tecnologico,
puòalludere alla capacità di risolvere brillantemente un problema tecnico,
grazie alla possibilitàdi un'efficace messa a punto o adattamento, e di una ri
sposta tempestiva ai bisogni dell'utente. Se si tratta di un'impresa economica,
entra in gioco la creatività e resilienza del soggetto, in grado di destreggiarsi
abilmente fra interessi concorrenziali e condizioni di incertezza del contesto.
Trasferire il tema alla scala urbana non è un'operazione ovvia. Infatti, la no
zione rischia di diventare un rompicapo per gli attori disciplinari. Molti testi
offrono una lista delle definizioni ricorrenti nella letteratura (Albino et al.,
e poco significanti: v2
2015; Dameri, 2017). Si tratta di elenchi interminabili puramente induttivo. I
na è la speranza di trovare una sintesi con un metodo
caratteri salienti, infatti, riguardano la dotazione tecnologica, la gestione in
umano e
telligente dell'informazionc, la sostenibilitàela sicurezza, ilcapitale
sociale, la capacità diapprendimento einnovazione, il potenziale di sviluppo
formazione di luoghi di cccel
economicoe la competitività di mercato, la
enumerazione dei requisiti in discussione diventa un esercizio
lenza. La pura
complicato dalla ma
senza fine. Può essere più utile riflettere sul passaggio
Olre a essere strumentalmente
trice tecnologica alla sfera sociale e urbana. qualità - delle
utile, una nuova tecnologia può contribuire a un progresso direquisiti per la
condizionie delle esperienze di vita - solo se valgono certi
attori implicati; ma anche la politica dovrebbe essere in grado
comunità egli intermediazionc, per favorire il
disvolgere una funzione utile di impulso c
può essere considerata smart se
buon esito del processo. In breve, una città cittadini smart, in un qua
prevede l'uso ditecnologie innovative da parte di vero che ognuno di
di smartnes. E
dro di governance che risponde a requisitidubbi
potrebbe suscitare molti e problemi, data la vaghezza o
questi concetti piùcomune nella
indeterminazione sostanziale, ma questo è l'orientamento
eraslazione: le presunte
letteratura. Retoricamente, si configura una forma di
qualità smart (non chiaramente precisate, peraltro) di diverse componenti
infrastrut
della realtà urbana (innovazione tecnologica, economia creativa,
ture intelligenti, vita urbana trendy) vengono magicamente estese ala clte
adottato, negi
intera. Si puóosservare che un meccanismo simile era stato
anni Novanta, peril concetto di sostenibilità: la città era considerata sostent
bile purché il principio potesse valere. al tempostesso, per economia, societa
e ambiente (PAR. 4-7). In questa fase. secondolarecnocrazia europea la citta e
Smart se cconomia, mobilità, ambiente, people, lwinge governance, ciot alme
no sei domini fondamcntali, rispondono a requisiti di smartness
tal., 2017; Peris-Ordiz et al., 2017; Gassman et al., 2019; mentre (Angekakis
Anthopou
los, zo17, suggerisce di aggiungere all'elenco anche i settoridelle infrastrut
ture e dei trasporti). Ame questa visione pare vaga o quasi tautologica,
questa è la versione ufficiale da tempo accettata dalle istituzioni culturali e
di governo (Giffinger et al, 2007; Caragliu et al., 2o11; Pelton, Singh, 2019).
Qualche autore si spinge a sottolincare l'interesse e il valore di una nuova
visione olistica della città (Zubizarreta et al., 2015; Mora et al.,2o17; Barlow.
Lévy-Bencheton,2019), come sc ora fosse possibile riabilitare il pensiero si
stemico, cibernetico orazional-comprensivo, dopo ilimiti e ifallimentidegli
anni Settanta, grazie alle tecnologie di nuova generazione (Goodspeed, 2o15:
Krivy, 2016; Balas et al., 2019; Zandbergen, Uitermark, 2020). Questi giudizi
non eludono alcune obiczioni. Non viè innovazione che, per le sue qualità,
possa superare ilimiti della tecnica moderna orilanciarne il mito (PAR. }.4).
L'estensione della smartness dal mondo tecnologico alle sfere della comunità
edella politica non è scontata, ma presuppone un complesso di condizioni
non banali - sociali, culturali, istituzionali epolitiche - prima che un poten
ziale tecnico innovativo possa diventare un fattore di cambiamento progres
sivo e generalizzato, in grado di portare benefici alla città intera e alle forme
della vita urbana (Hollands, 2oo8; Araya, 2015; Meijer, Rodriguez Bolivar,
2016; Karvonen et al., 2o18). L'ideologia smart tende a dare per scontata
una felice convergenza fra staro di natura, socialità, innovazione tecnologica,
funzioni di governo e benessere generale (Yigitcanlar, 2015; Lisdorf, 2020):
la stessa urbanistica moderna, più di un secolo fa era nata con una logicae una
comunicazione non dissimili. Ci vorrebbe piùmemoria, piùspirito critico,
più capacitàriflessiva, per dare il giusto peso a certe aspirazioni ricorrenti
(ma sempre incompiute).
Se si cerca di entrare nel merito, emergono alcuni temi e requisiti sulla
carta essenziali, che sono esposti peròa vari dilemmi e incertezze. Le nuove
tecnologie consentono, via sensori, telecomunicazioni e web, di produrre
una grande quantitàdi informazioni, un tempo inaccessibili. In questo mo
do prende forma una nuova «cittàdigitale >» (Laguerre, 200o6; Townsend,
2013; K. Scott, 2016; C. Smith et al., 2o16; Anthopolous, 2o17; Wu, 2018:
Halegoua, 2020), ma questo è solo un passaggio intermedio. Il potenziale
tecnologico, nelle manidi smart people, dovrebbe garantire un contriburo
avanzato diintelligenza di situazioni e problemi, e delle strategie e soluzioni
più opportune (Komninos, zo02, 2008; Deakin, AlWaer, zo11; Kar et al.
2017: Grant Kirwan, Fu, 202o). Grazie agli indirizzie alle azioni di uno
smart government, informazione e intelligenza potrebbero essere valorizzate
OBLEMI
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tramite forme adeguate d'azione cooperatíva fra una piuralitàdi soggetti.


pubblici eprivati (Rodriguez-Bolivar, z0Is;Gil-Garcia et al., 2o16: Bariow,
Lévy-Bencheton, 2o19). Questi presupposti possono ammettere due ulte
riori linee di sviluppo. Da una parte, un sistemna siffato sembra in grado
di creare «smart growth» giàobiettivo collaterale del new rbanism negli
anni Novanta: Lim, 2005; Grant, 2009), cioè di valorizzare risorse
umane e
infrastrutture intelligenti in un quadro dicoesionc esviluppo (Albino et al.,
2015; Araya, 2015; Angelakis et al., 2o17). Su un fronte diverso, più diviso e
potenzialmente conflittuale, il tema della partecipazione collettiva alle sceite
di comune interesse, con il sostegno delle nuove tecnologie, può portare a
esperienze meno ortodosse (come il caso noto di Barcellona: March, Ribera
Fumaz, 2014; Vives, 2018; C. Lynch, 2019); al limite, si possono creare le
condizioni per una «rebel city», dove si intrecciano mobilitazione dal bas
so, dirittoalla smartness e sviluppo della democrazia urbana (Harvey, 2003.
2012; Foth et al., 2o15; Cardullo, Kitchin, 2019; Charnock et al., 2019). In
questosenso, l'orientamento smart si configurerebbe come un'alternativa al
la pianificazione tradizionale (J. Evans et al., 2o16; Cowley, Caprotti, 2018).
Questo ambizioso scenario, in verità, presenta molte incognite. Vasti
giacimenti di big data non sono la garanzia di progressisignificativi della
conoscenza (Chandler, 2015) e qualunque ipotesi d'uso richicde cautela,
per ragioni pratiche ed etiche (Kitchin, zoi44, 2014b; Kitchin et al., 2o18;
Greenfield, zo17). Sulla diffusa banalità e sui possibili effeti perversi del
la comunicazione via web è ormai inutile soffermarsi (Bauman, 2014; Yar,
2014; Hindman, 2018). L' intelligenza artificiale offre dei servizi indubita
bili, ma resta uno strumento minore e incompleto rispetto all'intelligenza
collettiva che può nascere dalle interazioni sociali dirette (Lindblom, 196).
dalle prese di responsabilità collettiva da parte dei soggetti dell'interazione
(Webber, 1963, 1965), dalle matrici istiuzionali c culturali che valgono nel
contesto (Donolo, 1997). Le suggestionidella «smart governance», sull'in
sorgere della cooperazione per via tecnologica, possono essere interessanti,
ma abbiamo già osservato ilimiti dimolte sperimentazionicomunicative o
collaborative del planning (PAR. 3-3). Ame pare che il quadro, nel comples
so, resti troppo vago e allusivo. I punti fermi siriducono a una concezione
dell' urbanism che ora può contare su un'eccellente strumentazione tecno
logica e su basi informative un tempo impensabili (che non si traducono
però immediatamente in intelligenza collettiva). Grazie aquesti presupposti,
ora la politica puð sperare di rendere più influenied cfficaci le pratiche di
interazione e cooperazione fra molteplici attori. Si tratta però soltanto di
speranze. In sostanza, il discorso sembra chiaro se resta entro iconfini della
tecnologia. E ancora coerente e convinccnte quando il tema è il progetto
imprenditoriale che dovrebbe trovare sbocchi di mercato per nuovi servi
zi tecnologici. Diventa invece più incerto o confuso, quando si dovrebbc
ragionare sulla smartness urbana. Infatti la letteratura appare divisa su tre
fronti. Una parte si limita a illustrare le nuove potenzialità delle tecnologie
dell'informazione/comunicazione e dell'intelligenza artificiale (Geertman
et al.,2015; Rassia, Pardalos, 2017: Song et al., 2017; McClellan et al., zo18;
Inkinen et al., 2019): il discorso è solido e chiaro, anche se vale quel limi
te diincompletezza della tecnica che ho già segnalato nei PARR. 2.4 c 3.4; è
dunque diffcile anticipare giudizi sull'impatto sociale, culturale epolitico
delle innovazioni. Un secondo filone, più esiguo, assume la centralità del
progetto imprenditoriale: anche in questo caso, analisi e diagnosi Sono im
peccabili. I benefici attesi sembrano ben definiti per gli attori economici che
promuovono l'iniziativa. Più incerto o elusivo è il quadro dal punto di vista
dell'interesse pubblico (fra itesti già citati, forse il più interessante èJ. Clark,
2020). Esiste poi una terza, vasta corrente che dovrebbe approfondire itemi
dello smart urbanism, ma finisce per esprimere un atteggiamento critico, che
assume spesso caratteri sistematici e toni intlessibili. La maggior parte dei
contributimette serianmente in dubbio la specificità, la solidità e l'impatto
reale delle presunte innovazioni (Vanolo, 2014; Luque-Araya, Marvin, 2015;
Taylor Buck, While, 2015; Wig, 2015; Karvonen et al., 2018; Tomor et al.,
2019).Qualche speranza èaffidata all'intreccio possibile fra innovazione tec
nologica emovimenti insorgenti, che potrebbe essere la leva per lo sviluppo
di visionie pratiche alternative (nel senso di Harvey e altri, già anticipato). In
conclusione, resta però l'impressione che la galassia szart, in questo campo,
non sia altro che una formula accattivante, ma solo allusiva e in definitiva po
co fertile. Non bastano le retoriche, anche quando sono capaci di inventare
un nuovo linguaggio: infatti, qualche attore ha voluto coniare l'espressio
ne « smartivist » per designare gli agenti dell'innovazione in questo campo
(Barlow, Lévy-Bencheton, 2019), oppure il concetto di «smartmentality>»
(Vanolo, 2o14), per indicare la capacità della politica di orientare i compor
tamentiurbani verso l'uso più diffuso di certe opportunità tecnologiche (un
omaggio all'idea digovernmentality di Michel Foucault: Lemke, 2o12, 2019).
Sarebbe piùutile indagare con maggior rigore il senso e icaratteri peculiari
dell'innovazione declamata.

Castelli di sabbia. Che cosa ci hanno lasciato quasi due decenni di ampie
dissertazioni e più parzialisperimentazioni? Iprimi sviluppi importanti di
innovazionc tecnologica risalgono agli anni Novanta (Albino et al., 2015;
Anthopoulos, 2017). Le implicazioni di questi processi per la sociecà e
politica, edunque per la città, sono un tema in agenda dal nuovo secolo.
Colpisce l'eterogeneità cframmentazione dei riferinenti possbili. Posiamo
censire qualche modello pilota che dovrebbe diventare csenmplare, ma resta
singolareeastratto, dal contesto c dalle pratiche correnti. Nuovi csercizi di
immaginazione intorno alla città ideale del nostro futuro. Un insiemc di
micropratiche di laboratorio, generose e impegnate, ma solo locali, mentre
resta grande l'ìncertezza sulle possibilità di una diffusione fertile a larga sca
la. Il rinnovo di qualche illusione sul possibile approdo a una vera scienza
urbana,obiettivo sempre mancato, che ora sarebbe riabilitato da un insieme
di operazionie procedure tecnologiche, che peralero sono state ispirate da
domande elogiche di marketing. Intine, la consapevolezza che il tema della
Smartness non regge in autonomia, ma deve essere sempre integrato con al
tre prospertive: come sostenibilità, ccologia, resilienza o biopolitica - oltre
ai temi classici della tradizione urbanistica. Cone conseguenza, in questo
filone vedo nuove fondamenta possibili per una disciplina urbanisti
ca in perenne costruzionc; non vedo neppure il sostegno, più flessibile, ma
capace, di potenziali palafitte, per usare una merafora meno usuale, di ispi
razione popperiana (Pera, 1982b). Il timore è di trovarsi di fronte a meri
:sandcastles »:I'immagine che Cugurullo (2013b) ha adottato per rappre
sentare i duc principali casidi smart eco-city che fino a oggi sono considerati
esemplari: Songdo, in Corea del Sud, e Masdar City, Abu Dhabi (Shelton et
al.,2015; Karvonen et al, 2o18). delle
Perché castelli di sabbia? Per lo scarto imbarazzante fra il mondo
retoriche disciplinari e la sostanza delle azioni effettive. Le forme del discor
L'esperienza sembra
so propongono, all'apparenza, nuove visioni olistiche.territorio rispondono
dimostrare, invece, che le iniziative smart su cità e
in primo luogo a interessi tecnologici ed economici, mentre le questioni
ambientalie sociali restano secondarie, quando non si riducono a un velo
ideologico (Gibbs et al., 2013: Cugurullo, 2013b, 2016, 2018; Karvonen et
al., 2018; Lisdorf, 2o20). Nessuno nega l'interesse potenziale degli svilup
pi tecnologici, ma la divulgazionc non può dare per scontato un impatto
politologica
mirabile e influente, che qualunque riflessione sociologica e2018). Le im
(ma anche urbanistica) potrebbe mettere in dubbio (Sennett, oscillare fra
magini al futuro della città (o società) digitale continuano a un dubbio
rappresentazioni ipertecnologiche, dove alla tecnica siriconosce
primato, e vaghe utopie o suggestioni che promettono bencfici per tutti
in bilico fra i
in una società postpolitica. Molticontributi a me sembranoOffenhuber, Rat
due scenari (Morozov, 2014; Kitchin, 2014c, 2015, 2016; 2020c).
ti, 2014: Rarti, Matthew, 2o17; Greenficld, 2017; Allam, 202ob, dubita del
2018,
Da una parte si annuncia un futuro irenico (ma Sennett,
la qualità della vita in un ambiente artificiale efrictionless come Songdo):
dall'alero emerge l'incubo della società (o del capitalismo) della sorveglian
za (Betancourt, 2015; Zuhoff, 2019; Sadovski, 2020). La nuOva versione
smart (Barlow, Lévy-Bencheton, 2019) del sogno ricorrente della «good
city» (Fricdmann, 20oo; Amin, 2oo6) rischia di aprire la via, soltanto, aun
<business of utopia » (Cugurullo, 2013a; Marvin et al., 2o16; Valdez et al,
2o18).La realtà quotidiana delle sperimentazioni in corso non offre riscon
tripiù significativi delle micropratiche dei«living labs» (Concilio, Rizzo,
2o16; Karvonen, van Heur, 2017; Nilssen, 2019; Levenda, 2019), che pro
babilmente andranno incontro ai limiti già sperimentati da innumerevoli
esperimenti affini (basta pensare alle esperienze comunicative locali cele
brate da Forester e Innes, negli anniNovanta). Laconfusione fra raccolta di
big datae produzione di scienzaè una posizione francamcnte regressiva, che
non avrei immaginato di dover rilevare ancora una volta. Eppure Michacl
Batty non csita a farsi portavoce della tendenza che riprende fedelmente
aspirazioni di mezzo secolo fa, che lo sviluppo tecnologico renderebbe ora
fattibili. Le visioni tradizionali della città, architettoniche osociologiche.
dovrebbero essere integrate dai contributi robusti di una nuova «scienza
urbana » (Batty, zo1o, 2012a, 2o13a), che sarebbe finalmente a portata di
mano grazie a big data c smart city (l., 2012b, 2013b). Un nuovo potente
paradigma in sostanza sarebbe gà disponibile e consentirebbe di prevede
re, anzi di inventare il futuro delle cietà (Id., 2013b, 2018): che vuoto di
memorie e di spirito critico! Come ultima nota, sembra chiaro da molti
indizi che la smartnesspuò essere un requisito complementare della buona
urbanistica, ma certonon autosufficiente e neppure prioritario. Infatti negli
ultimi anni si sono moltiplicate le declinazioni di frontiera: dal lato della
sostenibilità(de Jong et al., 2o15; McLaren, Agyeman, 201; C. J. Martin et
al., 2o18; Colding, Barthel, 2o17; Colding et al., 2o18; Bibri, 2018), della
resilienza (Chandler, 2014; De Falco et al., 2o18; Bott et al., 2019) o della
eco-city (Jepson, Edwards, 20Io; Cugurullo, 2o16, 2018). Orientamenti che
trovo condivisibili, tanto più se accompagnati dalla cura delle relazioni con
i problemi tradizionali e irrisolti dell'urbanistica (che ho cercato di rap
presentare nei CAPP. 2 e 3). Temo che la tendenza smart potràessere letta,
fra qualche tempo, come una sorta di bolla speculativa, che è scaturita da
ragioni e progettidegni diattenzionc, di natura tecnologica ed economica,
ma ha trovato sviluppi urbani e urbanistici troppo banali, per impazienza,
leggerezza o strumentalità. Non basta lo sviluppo della tecnica, se è debole
I'idea dicittà, di progetto e dipolitica. Lo scarto, o il regresso, è evidente.
nel complesso, rispetto alle riflessioni e prospettive sulla «informational
city» che Manuel Castells aveva anticipato alle soglie del secolo (Castells,
1989, 1992, 1996, 1997, 2000).
4-5
Lacittà resiliente
wDon't call me resilient again» (Kaika, 2017). Mentre si moltiplicano le
esortazioni per una cittàsempre più smart, sostenibile e resiliente (ma si
rratta, in larga parte, di appelli edificanti, non corredati da misure specifiche
e azioni responsabili), Franca Kaika, geografa dell'Università di Amster
dam, ha sentito il bisogno di prendere le distanze dalle retoriche correnti.
Non vede ragioni per confidare in un cambio di paradigma rapido ed effi
cace, se è vero che il quadro istituzionale, politico e amministrativo, da tem
po è rimasto sostanzialmente immutato, e non sembra in grado di gestire
facilmente situazioni diemergenza che mettono in crisi o in discussione
I'ordine costituito. Nel frattempo cresce l'attenzione per inodi più critici
della resilienza, ma sembrano ancora insufficienti la riflessione critica e l'e
splorazione progettuale che potrebbero favorire la ricerca di soluzioni più
soddisfacenti. A quelle retoriche l'autrice riconosce una possibile funzione
immunizzAnte, come rimedio tentativo - nulla più che un placebo - per
rendere più tollerabili certe tensioni diffuse della vita urbana dei nostri
tempi, che a suo avviso nascono da condizioni irrisolte di disuguaglianza
edegrado. Condizioni che la retorica della resilienza può mediare, ma non
realmente mitigare (ibid.). Ilsuo intervento siconfigura dunque come
provocazione che non rinuncia a toni aspri, ma ha il merito di richiamare al
larealtà una deriva discorsiva che rischia di diventare futile e illusoria, oltre
che banalmente ripetitiva. Secondo alcune valutazioni, certe fasi sarebbe
ro otmai superate: la stagione innovativa della modernizzazione ecologica
(PAR. 4.6): lalunga consuerudine con le virtù ele speranze, troppo spesso
disattese, del paradigma della sostenibilità (PAR. 4.7); ma anche (questo è il
solo giudizio che mi sento di condividere) itemi emergenti della smart city e
dello smart urbanism (PAR. 4.4), che hanno esercitato una chiara influenza
sull'opinione pubblica negli anni più recenti. Ora la resilienza sarebbe la
nuova catchword in grado di arricchire o, secondo alcuni, addirittura sosti
(Davoudi
tuire le visioni guida che sono state celebrate negli ultimi decenni
et al., 2012), per accompagnarcifinalmente verso un futuro migliore. Sitrat
esortative, di fronte
ta di posizioni semplificantie in molticasi puramente
alle quali sembra giustificato il richiamoall'esercizio diragione edi spirito
critico, che è ilcontenuto positivo del messaggio di Kaika. Sarebbe un errore
intendere le sue considerazioni sui possibili effetti immunizzanti di certe
retoriche di moda come un avallo a qualche teoria cospirativa, fra quelle
Purtroppo ancora influentiin questa fase. Più plausibile èl'ipotesi che l'au
tricc condivida il rammarico di Roberto Esposito (2002, 2018, 2022): ogni
pratica immunizzante protegge, ma rischia di condizionare gli spazi di vita
ccertamente indebolisce i legami comunitari.
Un esercizio di ragione ci dovrebbe indurre a riflettere sui fattori
rialie simbolici che hanno contributo a creare un interesse crescente per il
tema della resilienza, negli anni del nuovo secolo. In discussione èla sostanza
del fenomeno, come esigenza e possibilità di spring (o bounce) back - cioè
di reazionee capacitàdi recupero - dopo disastri o crisi di origine narurale.
ma anche economica e sociale (Pelling, 2003; B. Walker, 2019; Van Bavel
et al., 202o; Santos et al., 2021). In discussione è l'originalità e l'autonomia
del tema di interesse: dobbiamo chiederci se si tratta di un complesso di
questioni che solo in tempi recenti hanno ricevuto l'attenzione necessaria,
oppure della riformulazione e declinazione solo in parte rinnovata di pro
blemi ben noti. Che per alcuni aspetti di metodo appartengono al dominio
dell'agire politico,come atti di reazione strategica, organizzativaogestionale,
difronte a cambiamenti esogeni e inattesi (Berkes et al., 2003; Boyd, Folke,
2012; Joseph, McGregor, 2020). Per oggetto e contenuti sostantivi, invece,
cmergono i nessi rilevanti con itemi della sostenibilità urbana eambientale:
fra i due filoni sono chiari gli elementi di sovrapposizione e forse di con
vergenza (Zhang, Li, 2018; Alibaai, 2018; Bott et al., 2019; Allam, 202ob.
2020c). ILa domanda di resilienza si può manifestare in contesti molto di
versi:città (Vale, Campanella, 2005; Otto-Zimmerman, 20I2; Meerov et al.
2016; Thomas, Da Cuhna, 2017); comunità e paesaggi (Coyle, Duany, 201:
Cräciun, Bostenaru Dan, 2014); sistemi ecologici e sociali (Holling, 1973:
B. Walker et al., 20o4; Walker, Salt, 2oo6; Folke et al., 200s;
Folke, 2006b;
Manyena, 2006). Grande è la varietà dei modi e degli strumenti con i quali
si può cercare di rispondere ai bisogni: tramite politiche di
sviluppo (Pickett et al., 2013; K. Brown, 2016; Kabisch et al., rigenerazione e
2018), piani
urbanistici o progetti urbani (Mander et al.,2006; Hemenway, 20Is: Jayeun.
2016; Yamagata, Sharifi, 2o18), strumenti di governane, gestione o
cazione (Lu, Stead, 2013; Erayden, Tasan-Kok, 2013; Masnavi et al.,pianifi 2019:
Pede, 2020). Digrado diverso puo essere l'influenza dei caratteri materiali
cculturali delcontesto, cioè dell'ecologia sociale nella
quale queste pratiche
dovrebbero prendere forma e avere luogo (Ungar, 20oI2; Stokols, 2o18). Non
è neppure scontato il paradigma secondo il quale il problema dovrebbe essere
trattato. L'approccio puòessere essenzialmente tecnologico, come una sorta
di ingegneria della crisi o delle rastormazioni (Hollnagel et al., 2006; Dias,
2019; Kasser, 2020). II trattamento della complessità può essere affidato a
una visione sistemica di nuova generazione (come giàè accaduto per la smart
city: PAR. 4.4), nonostante i deludenti tentativi di applicare modelli ciberne
ticí nel sociale e nella politica, negli anni Sessanta e Settanta, ma anche alla
città digiale in qucsta fase. Oppure l'approcciopuò cssere pragmatico, nel
solco della behavioural analysis, degli studi organizzativi e del policy mak
ing, che si ispiranoa modelli dirazionalità limitata (riprendendo nel settore
un filone consolidato di esperienze: Munro, 2oo9; Sunstein, 202o; Altman,
2020). Laprospettiva può essere declinata in forme cssenzialmente adatta
tive, alla ricerca della soluzione più facilmente compatibile con il problema
eil contesto (Evans, 2011; Folke, 2006a); oppure può csprimere una volontà
progettuale piùambiziosa ed esigente, che cerca di incidere sulle radici dei
problemiedi favorire trasformazioni positive (Yan, Galloway, 2017; Bott et
al,2019). La resilienza potrebbe dunque essere intesa, tecnicamente, come
un puro progetto tecnologico, un tentativo rinnovato di approccio sistemico
alla complessità, un mnetodo adattativo diproblem-solwing, oppure come art
and cnaft della risposta innovativa, se necessario radicale, a una situazione di
emergenza o quanto meno di cambiamento rilevante e inatteso. Ogni posi
zione può contare su un repertorio significativo di esperimenti edocumenti.
Si delinca un quadro variegato, incerto anche perché ricco di opzioni, che
mette in crisi il semplicismo delle retoriche. Infatti, l'orientamento oscilla fra
modelliobiettivamente divergenti: alcuni sono molto tradizionali (systems
view ecorrelati): potrebbero essere considerati obsoleti se non fosse per l'in
cognita del potenziale tecnologico ora adisposizione (sarà in grado di legit
timare nuove speranze?); altri alludono a esperienze ordinarie (di gestione
adattativao simili), tanto comunida giustificare qualche dubbio sulla natura
erilevanza dell' innovazione effettiva (non si tratterà soltanto di una revi
sione formale del linguaggio?); altri ancora richiamano nodi cruciali della
pratica progettuale che cerca di agire sulle cause dell'emergenza, nella realtà
dei contesti. Èsorprendente che interpretazioni profondamente diverse sia
no accostate, in modo apparentemente irriflessivo e talora confuso, sotto le
etichettegeneriche dell'urban resilience, resilient planningo affini. Ame pare
opportuno dare evidenza a quattroquestioni critiche, la prima ormai con
solidata, le altre ancora sottovalutate da una parte cospicua della letteratura.

Resiliente e sostenibile. Presentando la seconda edizione (201g) del loro


Sustainable Urban Planning, Bott, Grassl e Anders (architetti e urbanisti
dell' Università di Stoccarda) hanno osservato: quando abbiamo pubblicato
per la prima volta il volume (202) sembrava scontato che la sostenibilità
fosse un tema ormaimaturo e secondario, e che la resilienza fosse la nuova
questione di frontiera, degna di un impegno prioritario di ricerca c sperimen
tazione. Qucl giudizio, che gli autori non hanno mai condiviso, è stato messo
in discussione dalcorso degli eventinell'ultimo decennio (è impressionante
la rapidità con la quale certe mode ciclicamente continuano a emergere e
ad appassire). Questa sembra essere la concusione provvioria di un lungo
percorso evolucivo, chc ha mantenuto una cocrenza sostanziale yel coro del
tempo (Walker, Salt, 2oo6; Grove, 1o18). In origine, il concetto di resilien
csprimeva soltantouna proprictà fisica dei materiali, capaci di resistere
pressioni esternc. Neglianni Settanta, è diventato un requisito importate
per i sistemiecologici (Holling, 1973): in seguito, anche un carattere psico
logico dell'individuo, capace di rcagirc positivamente a situazioni di stress,
nclla vita quotidiana o all'interno diun'organizzazionc (Maddi, Khoshaba,
L005;Weick, Sutcliffe, zoo7; Valikangas, 2o10; aJoseph,iltema
MeGregor, z020,
della forma
sideve un'osservazioncinteressante: inessi possibilicon
zione di «human capabilities» , Nussbaum, 2011). Segucndo quella linca,è
stato inevitabile prendere in considerazionc l'influenza del contesto, cioc
dell'ecologia sociale, sulle potenzialità dell'individuo in cvoluzione (Stokols,
2018). Di consegucnza, si è aperto un bivio (già sperimentato in altrce situa
zioni): la via del sistema o quella dell'attore. Da un lato, è parso utile appro
fondire le dinamiche dei sistemiccologici esociali (B. Walker et al., 2004:
Schoon, 2oo6; Folkeet al.,2005; Folke, 20o6a), con una cura speciale per
le possibilità di regolazione e controllo dei fattori di perturbazione (gene
ralmente esterni, ma in qualche caso anche endogeni, se le criticità sono di
natura cconomicae sociale piuttosto che naturale). Dall'altro, è emersa la
necessità di reinterpretare il primato dell'artore, delle sue azioni c intera
zioni, in condizioni dirischio o incertezza crescenti: iltema di interesse è la
riformulazione diruoli, responsabilità, capacità cpossibilità d'azione in un
contesto altamente problematico. Sitratta dunque disviluppare una visio
ne non organica, né sistemica, bensi ancora pluralistica c interattiva, in un
quadro più complesso, date le dinamiche accelerate e il grado più elevato
di interconnessione e rischio delle pratiche contcmporance. Nel corso del
tempo, la prospettiva è diventata più aperta ed estesa (Davoudi et al., 2012):
la finalità (del sistemao dell'individuo) non è soltanto il ripristino di uno
stato di cquilibrio anteccdente, ma la possibilitàdiuna trasformazione di
structura. Quella apertura, naturalmente, ha sollevato nuoviproblemi: quale
potere guida le trasformazioni, verso quali obiettivi, per quali ragioni? Cre
scono le difficoltà del quadro. Nelle interpretazioni ed esperienze migliori, il
resilience thinking puòessere inteso come una risposta intellettuale, tentativa,
alle difficoltà di un processo complesso di evoluzione o trasformazion
Nelcorso degli eventi, èparsa sempre piùchiara la convergenza sostan
ziale conitemidella sostenibilità urbana eambientale. Questa è sempre stata
una nozionc ispirata da una condizione distress ambientale o sociale, e dall'e
sigenza conscguente di una mediazione: di fronte ai rischi di dissipazione
delle risorsc, naturali e umane, necessarie alle generazioni future, e al trade
of inevitabile fra istanze dicrescita e di cura.Come intendo
documentare
nel PAR. 4.7, il principio di sostenibilità èfondato sulla ricerca di un punto di
equilibrioo di compromesso fra impulsi verso il cambiamento etutela dell'i
dencità, che diventa un problema rilevante per il sistema come per singoli at
tori. La resilienza non sarebbe altro che una risorsa, individuale o di sistema,
utile per affrontare il problema. In un primo tempo, la nozione di resilient
city ha assunto una valenza essenzialmente analitica: i caratteri salienti erano
una rapprcsentazione, più accurata rispetto alle immagini tradizionali, delle
condizioni ambientali e sociali di vulnerabilità e rischio, che si manifestano
nel contesto urbano. Il modo di trattarei problemi era un'esigenza annun
ciata più che una competenza tecnica ben definita erealmente sperimentata
(Vale, Campanella, 20os; Otto-Zimmerman, 2o12; Singh et al., 2015). In
seguito, è diventato piùchiaroil nesso fra volontà diresilienza ecapacità di
governance dei problemi: le buonc intenzioni richiedono strumenti adeguati
eazioni pertinenti (Coaffee et al, 2009; Goldstein, 2012; Boyd, Folke, 212;
Olsson et al., 2o15). Quella prospettiva ha confermato il legame essenziale fra
resilienza ce sostenibilità. Per Chandler (2014), infatti, il concetto di resilien
za allude a una nuova arte di governo della complessità. Per Alibaai (2018,
pp. 3-4), icapisaldi della sostenibilità non sono soltanto i tre principi cano
nici - «economic prosperity, social equity, cnvironmental integrity >»
ènecessario tenere conto anchedel tema cruciale della governance. Lidea di
resilienza tende amettere in luce una particolare famiglia di requisiti che po
trebbero esere funzionali alla capacità di governarei problemi emergenti di
sostenibilità. In questo senso, il tema della resilienza dovrebbe essere inteso
come una linea di sviluppo parziale cntro il paradigma più generale della so
stenibilità. Questa èla conclusione logica di Bott et al. (2o19), che condivido.
L'intreccio fra idue temi diventa più evidente alla luce di alcuni fattori
è
critici emergentiin qucsta fase. La questione del cambiamento climatico
unponte naturale fra i due mondi. Rappresenta una delle sfide più serie agli
obiettivi di sostenibilicà, se la politica c la società hanno il coraggio di uno
sguardo lungo, capace di spingersi oltre gli interessi più immediati (Prasad et
al, 2009: Pelling, 2o1o; Zolnikoy, 2019; Fressoz, Locher, 2020). Èdiventato
urbana,
una delle minacce più inguietantiper la capacità di resilienza
se intesa come possibilità di anticipare rischi e soluzioni, risperto a una de
riva destinata ad aggravarsinel tempo(Giddens, 2009; Calthorpe, 20n). A
questa matrice comune è possibile associare una varietà di interessi sempre
piùattuali (P. Newman et al., 20o9: Jabareen, 2015): sul fronte delle energie
pulite come del trattamento di catastrofi naturali (la cui geografia c tempora
litàsembrano mutare rapidamente, anche in relazione alle nuove condizioni
climatiche). Si forma dunque un'area importante di interessi comuni, dove
sOtenibilitàc resilienza diventano istanze che è difficile distingucre; cosi
come sono strettamcnteintrecciate le pratichc conseguenti(Shaw, Sharma
2011; Deppish, zo17: Sharma, Chandrakanta, 2019). Non ha senso la Con
trapposizionc dei temi; l'integrazione è una necessità, che dovrebbe diven.
tare uno stato di fatto.

Eccezionale o ordinario. Ifenomeni cclatanti di resilicnza erano associati a


cventistraordinari, non previsti (anche se non tutti imprevedibili) edi gran
de portata, per la forza dell'impatto cl'entità delle conseguenze. Il ciclone e
il terremoto sono due casi esemplari. Possono colpire in modo drammatico,
preavviso limitato. La possibilità di risposta, purtroppo, sembra cor
centrata sul post-trauma: sono qucsti icasinei quali la capacità di resilienza
di un sistema e di una popolazione possono fare la differenza (Lahoud et
al., 2o10). Il cambiamento climatico è un evento che appare straordinario
rispetto alle consuctudini, ma purtroppo sta assumendo forme diffusee
cumulative. Questo significa che in linca di principio il fenomeno non si
presta soltanto a iniziative ex post. Una politica e una società lungimiranti
dovrebbero essere in grado, progressivamente, di anticipare i tempi e i pro
blemi, limitando alle radici ifattori di vario ordinc che possono
contribuire
all'aggravamento della situazione. In questo senso, trova conferma un'idea
già csposta: il centro dell'attenzione dovrebbe slittare dalla concezione ri
mediale della resilicnza verso il paradigma della sostenibilità, che tende a
anticipare omitigareiproblemi insorgenti, per quanto possibile. Esiste però
una vasta famiglia di problemi, che non presentano alcun carattere
straordi
nario, eppure da qualche temposembrano essere diventati materia possibile
di resilienza. La nozione ha perso i connotati
eccczionali, o meglio ne ha ac
quisiti altri, complementari; è diventata cioè un requisito auspicabile anche
per le pratiche correnti. In qucsto modo, francamente, ha perso gran parte
dell'interesse originario e del presunto valore innovativo. Infatti, è difficile
distinguere questicomportamenti resilicnti (di un individuo, una comunità
o una città) da forme ben note di
razionalità contingente o limitata, e in
generale dalle teorie comportamentisticheorientate alla ricerca disoluzioni
soddisfacenti. Nonèmarginale lo scarto fra le due concezioni della resilien
za. La natura cccezionale del fenomeno giustificava uno stato
d'eccezione:
quindi proccdure specialidi decisione, organizzazione e azione, che avreb
berodovuto fare fronte all'emergenza (Agamben, 2oo3). Se prevale invece
la concezione ordinaria, devono valere regole e procedure di routine: il tenm
principale sarà il funzionamento cfficiente della macchina amministrativa e
la ricerca di prestazioni soddisfacenti, secondo normali principi di raziona
lità limitata. In un caso, la sfida è la gestione del rischio e la risposta a even
ti carastrofici. Nell'altro, siamo alle prese con la gestione dell'ordinario cil
sembra destinato aperdere specificità e rilevanza. Èdifficile capire
come le due realtà possano essere contuse, o quantomeno trattate entro un
comune quadro concettuale. Mi pare un limite di parte della letteratura la
sottovalutazione di questa divergenza.
Etica della resilienza. Se di fenomeni eccezionali si tratta, il problema del
trattamento non assume solo una dimensione tecnica. Infatti, nel caso di
grandi rischi o catastrofi, ènecessario prendere in esame alcune questioni
di natura etica. Lo stato di eccezione rappresenta uno strappo rispetto alla
norma, che probabilmente pone dei dilemmie comunque richiede giustifi
cazioni. Una letteratura specializzata affronta iproblemi di etica dei grandi
rischie dei disastri (Asveld, Roeser, 2009; Zack, 2009; Mutter, 2o15). Tro
vo sorprendente che questa dimensione sia sostanzialmente ignorata dalle
riflessioni sulla resilienza, che dedicano una cura incccepibile ai problemi
del potere (chi decide) edel metodo (come si decide), prima di entrare nel
merito delle tecniche di soluzione. Sono generalmente trascurate, invece, le
ragioniegiustificazioni morali delle scelte. Eppure ogni strategia resiliente,
di fronte acriticità gravi, solleva dei dilemmi non banali. Sorgono problemi
evidenti di scelta delle priorità e dei criteri di redistribuzione, di fronte al
la molteplicità dei bisogni ealla competizione fra interesi (Goh, 2o21). La
resilienza rischia di diventare un bene oligarchico:non èadi_posizione di
tuti; se vale per qualcuno, può essere preclusa ad altri; spetta alla politica
stabilire l'ordine delle possibilità. Esiste anche una responsabilità politica e
amministrativa di preparazionc ex ante alle emergenze future, che è difficile
rispettare di fronte alle infinite urgenze più immediate. E necessario trovare
un punto di equilibrio fra misure rimediali a breve termine e azioni di pre
venzione destinate al lungo periodo. Enecessario scegliere fra orientamenti
etici concorrenti (G.Graham, 2o04; Sennett, 2o18): unalogica utilitaristica,
da tradurre in qualche modo in misure operative; la turela prioritaria dei
diritti individuali, di proprietà o d'impresa; oppure i principi rawlsiani di
cquità, che privilegiano i bisogni dei più deboli (il criterio verosimilmente
più opportuno, se èvero che idisastri, in generale, colpiscono più gravemente
isoggetti svantaggiati). Una questione che rimane in ombra èanche il nesso
fra orientamento resiliente e interessi e valori della società contemporanea,
con speciale riferimento alle tendenze neo-liberiste attualmente cosi diffuse
(PAR. 4.1). La rappresentazione che emerge dalla letteratura ègeneralmente
neutra: la capacità resiliente viene intesa come una proprietà di sistema, una
sorta di servomeccanismo in grado di rimettere in linea o rinnovare strut
ture eazionidopo un eventuale cffetto perturbante. Sono poche le vvoci che
esplorano le radici ideologiche ele implicazioni pratiche dell'agire resiliente
rispetto ai modelli della società neo-liberista. Secondo alcune analisi, la ca.
pacità di adattamentoo ditrasformazione strategica di soggetti osistemi re
silienti sarebbe una proprietàcoerente con lo spirito e la prassi di un sistema
sociale cheai principi del liberismo si ispira (Joseph, 2013). La stessa ideologia
che porta questo nome presenta caratteri resilienti: altrimentinon avrebbe
potuto sopravvivere nel lungo periodo nel mondooccidentale, nonostante
difficoltà ocontraddizioni evidenti (Schmidt, Thatcher, 2013)! La capacità
di resilienza consente anche di superare la rigidità del modello modernista
digovernance, grazie auna maggiore interazione epartecipazione dal bass0;
in questo modo potrebbe diventare uno strumento utile per rinnovare e ren
dere più efficace la cultura di governo del neo-liberismo (Chandler, 2o14).
Tuttavia, I'ipotesiche il concetto di resilienza presupponga una visione del
mondo cosi ideologicamente orientata non mi pare convincente, perché la
nozione (come quella di tecnica o di sistema: PAR. 3.4) sembra destinata a
rimanere incompleta, fino aquando non sono precisate le condizioni conte
stuali di potere, finalità, vincoli e ragioni. Si tratta comunque di vocie discus
sioni isolate. E un dato sorprendente, ma la maggior parte dei contributi di
riflessione sul tema della resilienza urbana ignora totalmente la dimensione
etica e politica dei problemi. Questo èun altro limite, a mio avviso, di una
letteratura troppo concentrata sulle questioni metodologiche o sulla retorica
delle buone intenzioni.

Adattativo o proattivo. Tuttavia, se il fenomeno assume caratteri ordinari,


l'attenzione per il metodo, la tecnica el'implementazione assume una fun
zione giustamente rilevante. L'orientamento piùcomune, nella letteratura,
privilegia una visione adattariva: la resilienza è intesa come la capacità del
sistema o del soggetto di resistere a pressioni esogene grazie a forme op
portune di correzione e aggiustamento di regole e strutture, procedure e
comportamenti (Boyd, Folke, 2012). II tema non ècertamente inedito; se
fosse solo questa la sostanza, sarebbe ditficile comprendere la portata inno
vativa e il valore paradigmatico della nozione di resilienza. Quale sarebbe
la specificità dell'idealtipo dicittà resiliente, se la pratica richiama soltanto
esperienze correnti di bebavioral analysis erazionalità limitara? Solo un f
lone minoritario della letteratura cerca di esplorare una visione alternativa
(K.Brown, z016; Yan, Galloway, z017: Bott et al.,2019). In gioco sarebbe
loslittamento da una volontà puramente adartaiva aun esercizio proattivo
di progettualità. La posta non sarebbe solo contrastare irischi incombenti
grazie amisure di protezionc, recupero ecautela, ma tentare di prevenire le
minacce future, agendo sulle cause dei fenomeni mediante progetti di anti
rionee trasformazione. Impegno
re arduo in pratica, nella generalità deiconcettualmente
casi. Il dubbio è:ragionevole,
seppu
abbiamo bisogno
Aella nozione di resilienza per rappresentare questo
sembra spontancamente convergere verso il dominio orientamento?
Che
della pianificazione
oprogettazione sostenibile: un altro campo ampiamente sperimentato, del
quale sono note da tempo aspirazioni, limiti e difficoltà (PAR. 4.7). Le ri
Áessioni sul resilicnt planning (Lu, Stead, 2013; Erayden, Tasan-Kok, 2o13)
ofrono qualche nuovo contributo? Temo di no. Forse è vano il tentativo di
estendere il campo d'azione di un'idea che sembra legittimamente legata a
due condizioni speciali: il trattamento di situazioni catastrofiche e la cura
delle capacità adartative.
In conclusione, sia detto con ironia, la sorte del
concettoa me pare fran
camente tragica. Da un lato, sembra destinato a confluire nell'alveo più este
so e consolidato della sostenibilità urbana e ambientale (il tema cruciale che
da trent'anni - nonostante alterne vicende e ripetute oscillazioni - conserva
un'indubbia attualità). Se non ècircoscritta a eventi eccezionali, la nozione
di resilienza richiama visionicomportamentistiche già familiari. Oppure ri
cade nella sfera delle migliori intenzioni progettuali, senza offrire però un
chiaro contributo di originalità ed cfficacia. In ogni caso, I'utilità della no
zione a me sembra alquanto limitata. Probabilmente, come nel caso della
smart city, si tratta solo di una moda transitoria, che potrà essere superata
senza troppi rimpianti.

4.6
Lacittà biofilica
La dimensione ambientale della pianificazione non è una scoperta recente
come irequisiti di smartness o resilienza della città edell'azione di governo.
Le radici sono lontane. Secondo Tom Daniels (planner dell' Universicà del
la Pennsylvania), risalgono alle soglie della modernità, quando si è posto il
problema di garantire a insediamentisempre più densi una dotazione mini
diverde urbano, grazice al progerto di parchiealle scenografie di «city
beautiful», dove il verde poteva diventare una componente utile per la qua
lità ambientale,oltre che un fattoreornamentale delle architetrure (Daniels.
2009). Nella stessa fase, i modelli della città giardino sono stati una risposta
originale alla ricerca di nuovi equilibri fra sviluppo insediativoc cura/valo
rizzazione del contesto naturale (Beevers, 1988; Buder, 1990), che ha influito
suiprogetti di new towns nel secondo Novecento (Hardy, 1991; A. Alexander,
2009), ma anche sulleesperienze di fine secolo del new urbanism (Stephen
son, 2002; Gillette, 2010) e delle greencities (Parsons, Schuyler, 2002). Dagli
anniVenti, negli Stati Uniti (la matrice di molte innovazioni), si è affermata
una corrente attiva e influente di cultura regionalista di orientamento cco
logico (guidata da personaggi come Henry Wright e Clarence Stein), che ha
sollevato iltema dell'impatto e della sostenibilitàdei comportamentiumani
rispetto al quadro ambientale (Parsons, 1994). Si èaperto cosi un filone di
analisi delle dinamiche edelle possibilità di regolazione degli ccosistemi ter
ritoriali, che ha avuto notevolisviluppi lungo tutto il secolo. Il corso degli
iha mostrato con grande evidenza la tensionc potenziale fra i processi
di crescita, demografica, economicac urbana, e la tutela delle risorse edella
qualità ambientale. Fa testo l'emozionante Design with Nature (1969) di lan
McHarg (architeto del paesaggio dell' Università della Pennsylvania), che
ha saputo testimoniare le criticitàemergentigrazie alle immagini prima an
cora delle parole (il libro, infatti, ha proposto un'efficace documentazione
fotografica, cosi eloquente da risuonare come una prova inconfutabile delle
responsabilitàambientalidi individuie società). Come ha osservato Lewis
Mumford nella prefazione, le patologie della crescita urbana erano ormai
evidenti; doveva crescere la consapevolezza dei problemi(come questione
dietica e di coscienza collettiva), ma le linee di indirizzo erano chiare: era
la concezione della natura che doveva cambiare, non più terra di conquista,
ma compagna di viaggio. Solo nel corso degli anni Settanta è stato possi
bile prendere atto delle prime, importanti politiche pubbliche di misura
contenimento degli impatti negativi della crescita economica e insediativa;
negli Stati Uniti a cura del governo federale, che si è preoccupato di contra
stare le situazioni più gravidi inquinamento, degrado o spreco delle risorse
naturali. Tuttavia, negli ultimi vent'anni del secolo la questione è rimasta
in bilico, fra istanze rifomiste e appelli alla cautela da parte di
importanti
portatoridi interesse, perch¿, come aveva spiegato Barry Commoner nel suo
noto The Closing Circle (1971), la cura dei valori ambientali ha sempre un
costo non irrisorio: richiede compensazioni e sacrifici su altri fronti. Non
è una sorpresa che, in quella fase, i temi della «smart growth» (T. Daniels,
2001; Downs, 200s) siano apparsi più influenti della pura tutela ambientale
agliocchi dell'opinione pubblica nordamericana. Secondo Daniels, solo nel
nuovo secolo sembra essersi affermata, sulla scena globale, una vera cultura
ecologica, sensibile alla gravità dei problemie orientata verso politiche final
mente sostenibili (un giudizio ottimistico, che ilcorso degli eventi successivi
ha in larga parte confutato). Si tratta dunque di una lunga storia, segnata da
alterne yicende: la ricostruzione di Daniels ha evidenziato almeno cingue
fasi distinte, che ho cercato rapidamente di rievocare nei passi precedenti.
Lo stesso autore nel 2003 hapubblicatoun vastoe accurato Environmen
tal Planning Handbook (riedito nel 2014 c nel 2o17), che puo essere consi
derato un modello per questo filone di saggistica. La funzione della pianifi
cazione ambientale èproteggerc emigliorare la qualità dell'ariae dell'acqua,
insieme alla dotazione di risorse naturali; ma anche sviluppare c curare arce
ed elementi verdinell'ambiente costruito, nonché la capacità di resilienza
dei sistemi insediativi di fronte a rischi di origine naturale. Su questi temi,
il testo ha offerto un contributo sistematico ed esauriente, documentando
analisi, misure e azioni per la conservazione di suolo, acqua cd energia; la
riduzione dell'cffetto serra e il trattamento del cambiamento climatico; il
ontrollo dell'inquinamento, la tutela della qualitàdi aria, acqua e della bio
diversità; la protezione delle aree non edificate (rurali, umide, forestali, della
vita animale); il contenimento, riuso e riciclo dei rifiuti; il controllo dello
sprawl insediativo e la sostenibilità delle nuove edificazioni; il rispetto di
principi di giustizia ambientale nella localizzazione di funzioni con effetti
collaterali nocivi o di impianti con rilevante impatto ambientale. Si tratta
di un vasto complesso di temi, ciascuno dei quali presuppone un grado non
banale di specializzazione tecnica. Può destare sorpresa il ritardo con ilquale
la disciplina urbanistica ha riconosciuto e affrontato quei problemi, ma la
spiegazione èsemplice: per la cultura americana, secondo Daniels, il land
use planningèstato generalmente inteso come «planning for development»
(T. Daniels, 2003, 3* ed. p. xxXIX). Solo quando i rischidi insostenibilità di
quella visione sono diventati più evidenti, la questione ambientale è entrata
nell'agenda politica. L'orientamentoè parso chiaro in linea di principio: non
basta l'azione del governo federale; ènecessario che anche le comunicà locali
si facciano carico dei problemi; non bastano strategie einterventi puramente
rimediali: sarebbe necessaria una capacità d'azione proattiva. Tuttavia, emer
ge un punto debole a mio avviso, che paradossalmente mette in crisi I'idea
stessa di pianificazione ambientale. Come è possibile che un testo scritto nel
nuovo secolo, e riedio solo pochi anni fa, assuma ancora come unico prin
cipio disciplinare un'idea razional-comprensiva del planning process? Perché
èquesto, ancora, il quadro di riferimento concettuale che l'autore ci ha pro
posto. La sapienza ambientale, oggettiva, ben documentata, e certamente
innovativa risperto alla tradizione urbanistica più influente, dovrebbe sem
plicemente essere integrata in una visione digoverno da tempoconsiderata
obsoleta, irrcalistica o mistificante. Non sitratta di un caso singolare. La
letteratura dell'environmental planning, di scuola americana, adota comu
nemente lo stesso modello. James Lcin (geograto dell'Università dell'Ohio)
ha scritto nel 2o03 un testo dedicato a una concezione integrata della piani
ficazione ambientale. Ebbene, inuovi temi di interesse (che confermano il
quadro tracciato da Daniels) dovrebbero convergere verso un'idea di plan
ning che si basa ancora su systems vietw, vIsione comprensiva, processo di de.
cisione razionale, cioè posizioni che la riflessione disciplinare ha posto in di.
scussione da più di mezzo secolo. Frederick Steiner (ccologo che ha operato
in diverse università statunitensi, in Pennsylvania come ultimo riferimento)
anche nel suocontributo più recente, dedicato al caso studio di Austin Tv
(Steiner, 20r8), riproduce fedelmente la stessa posizione: una solida compe
ambientale èinscritta in una visione banale del metodo razionale di
decisione, nel rispetto del modello geddesiano di survey-before-plan. D'altra
parte l'autoreèstato sempre fedele aquella impostazione: dalla concezione
preliminare di un «approccio ecologico alla pianificazione del territorio»
(Steiner, 1991, riedito nel 2008; pubblicato in Italia nel 1994) fino all'origi
nale reinterpretazione ecologica dei temi dell'urban design (Palazzo, Steiner.
2011), dove viene sostenuta un' improbabiletesi sul fondamento scientifico
dell'attività progettuale: posizione negata - con buone ragioni, amio avviso
(PARR. 2.5 e35) - dalle fonti più autorevoli della progettazione urbana. Il la
voro di Steiner simuove nel solco originale tracciato da McHarg, ma appare
più scolastico e conformista, e la tendenza merita qualche considerazione
Sembraun destino per la cultura urbanistica rimanere sempre un progetto
incompiuto, sia pure per limiti di segno opposto. La riflessione della plan
ning theory èdiventata sofisticata e innovativa, ma fatica a tradurre le sue
conquiste più originali in una capacità d'azione concreta, adeguata ai tempi
e aicontesti. D'altra parte, un filone come la pianificazione che si definisce
ambientale oecologica dispone di un vasto repertorio di indagini e tecniche
originali per obiettivi econtenuti, ma assume una concezione del planning
semplicistica eormai csposta acritiche radicali. Conciliare i contribuci più
fertili dei due settori sembra un'impresa ancora lontana dalla meta o neppure
in agenda.
Loscenario sembra in parte differente in Gran Bretagna. Nel 2o03, una
fonte autorevole come Yvonne Rydin (economista eplanner, allora alla Lon
don School of Economics, in seguito alla Bartlett School) ha pubblicato la
seconda edizione di un testo influente (edito per la prima volta nel 1993)
sulla concezione britannica dell'environmnental planning. Il libro, fin dal ti
tolo, è espressamente dedicato a quel tema (l'attributo ambientale non era
esplicitato nella prima edizione), ma in realtà offre una rappresentazione di
lungo periodo dell'evoluzione dell'intero sistema di pianificazione, nazio
nale eterritoriale. L'analisi mostra che solo nel corso degli anni Orcanta siè
consolidatoun settore specifico diregole, strumentied esperienze, teso ad
approfondire le questionidi interesse ambientale. Tuttavia, resta originale
e signiicativa l'idea dell'autrice di considerare l'orientamento ambientale
e

non come un ramo specialistico della pianiticazione urbanistica, bensi co


me un requisito essenziale che dovrebbe valere per qualunque idea c prati
ca di planning. Come istituzione, dunque, la pianificazione non dovrebbe
mai prescindere dai valori ambientali e da obiettivi ecologici. Quale sarà il
paradigma disciplinare in grado di sostenere la volontà di integrazione? La
visione di Rydin è meno semplicistica di quclla più diffusa negli Srati Uniti.
Tuttavia, non è immune da critiche: infatti, I'autrice mostra di essere troppo
condizionata da alcune tendenze contingenti, come la cosiddetta terza via
proclamata da Tony Blair c, in termini più specifici, la concezione del «col
laborative planning» celebrata da Patsy Healey (un'ideologia assolutamente
in linea con lo spirito del tempo, ma altrettanto caduca). Resta il fatto che
in Gran Bretagna, e in generale in Europa, non sembra emergere un movi
mento affinc a qucllo nordamericano. Anzi, la tendenza più comune sem
bra affidare la questione ambientale astrumcnti di politiche piuttosto che a
qualche modello di pianificazione (Fischer, Black, 1995; Fischer, Hajer, 1999:
Rydin, 1999: Hajer, 20o:). IIquadro appare dunque diviso e incompiuto.
Le posizionidi Danicls, Lein, Steiner e altri planners statunitensi sembrano
troppo semplicistiche;quelle di Rydin troppo compiacentirispetto all'indi
rizzopolitico del momento: in ogni caso sembra tuttora aperto il problema
di ripensare, in modo concreto, pertinente cd efficace, una pianificazione
cocrente con i requisiti ccologicie ambientali. In un quadro che rischia di
rimancre troppo immnobile e insoddisfacente, chiediamociquali potrebbero
essere le lince di sviluppo di interesse potenziale.
Dal progetto ecologico verso eco-city. Il primo passo, secondo l'orientamento
inaugurato da McHarg, è stato dedicare qualche cura alle relazioni fra uo
mo e ambiente in contesti urbani specifici, con l'intento di approfondire il
quadro analitico c ditrarre dall'analisi indirizzi pertinenti d'azione, quanto
meno nell'ambito di progetti mirati per arec ben definite. L'approccio di
Steiner (1991) rappresenta bene la tendenza. Il fatto nuovo, nel corso del
tempo,è stato iltentativo di estendere quella visione all' intero insediamen
to urbano, da intendere come un organismo vivente (una vecchia metafora,
che ora sarebbe possibile declinare tecnicamente con un rigore un tempo
impensabile), del quale è possibile indagare metabolismo, ciclo dei consu
mi, impronta ecologica ealtri temi salienti della «urban ccology» (Alberti,
2008; P. Verma et al, 2020). L'immagine emergente della eco-city esprime
chiaramente quella volontà. Sitratta di un movimento parallelo ad altre ten
denze di moda (dalla smart city alla città resiliente), rispetto alle quali pro
babilmente dispone di ragioni piùsolide e meglio radicate nella tradizione
disciplinare. Il punto fermo è la centralità riconosciuta ad alcuni temi ecolo
gici: come si riproduce l'organismo urbano, da dove trac le risorse necessa
rie, come smaltisce iresidui, quale è l'impatto sul contesto, quale il grado d:
sostenibilità del processo (P. Newman,1999; Gandy, 2004; Flannery, Smith
2011; Chrysoulakis et al., 2014; Newman, Zeferi, 2017; Mandal, Byrd, 2o17)
Le declinazioni possono essere diverse. In alcuni casi (per esempio, Wong.
Yuen, 201), la dimensione ecologica dei problemi urbani divental'interesse
prevalente, dinatura scientifica e tecnica, e l'indagine intenzionalmente si
arresta alle soglie delle implicazionieconomiche e sociali, che sarcbbero af
fidate aun quadro diriferimento distinto epiù complesso, iparadigmi della
sostenibilitàterritorialee ambientale (PAR. 4-7). Alri contributi invece (R.
White, 2oo2; Tang, 2013) hanno messo in dubbio la possibilità eutilità di se
parare le sfere della ecologia e della sostenibilità: la pianificazione ecologica
non puòevitare di misurarsicon la difficile convivenza fra esigenze di qualità
ambientale cdi sviluppo produttivo. In questo sens0, tende aconvergere con
il filone, parallelo, del «green urbanism » (Beatley 2000, 20o9). Cambia il
linguaggio, in un quadro mobileelargamente contingente, ma la sostanza è
comune: sitratta diprogettare forme urbane piùcompatte (anche se quel
tipo di insediamento è meno familiare per alcune culture, per esempio in
larga parte degli Stati Uniti), multifunzionali, sicure, vivibili, con un'ampia
dotazione di trasporti pubblici earee verdi, un grado clevato di controllo di
inquinamento e rischi naturali, il rispetto di principi di giustizia ambientale,
un'adeguata capacitàdi riciclo e autosostenibilità. Un complesso di temi in
sostanza già evocatidai principalicontributi di environmental planning, che
ho segnalato nei passi precedenti. Si configura quindi un'area con confini
sfumati e un intreccio disovrapposizioni: questi caratteri sembrano indica
re che la fase evolutiva nonèancora compiuta. Infatti,
molteplici sono gli
aspetti che restano vaghi. Edavvero possibile estendere integralmente questa
visione a una realtà urbana complessa, oppure il campo di applicazione sarà
presumibilmente circoscritto alla scala del quartiere o di aree specifiche (eco
communities: McCright, Clark, 2006; Leibold, Chase, 2017), proprio come
accade ai progeti del new urbanism? Osi rischia di non superare lo stadio
dei progetti esemplari, come certe iniziative di Stato in Cina (Liu et al. 2017;
Zhang, 2o19) o icastelli di sabbia illustrati da Federico Cugurullo (PAR. 4.5)?
Gli strumentidella pianificazione sono in grado offrire soluzioni
ed efficienti, oppure la materia può essere trattata più agevolmente
funzionali
mediante
politiche mirate di settore? Possiamo contare, pragmaticamente, sull'utilità
dimisure specifiche afavore dell'ambiente, oppure (scenario disapprovato da
Robert Goodin, 1992) sarebbe necessario aderire all ideologia ambientalista.
nella totalitàdelle sue manifestazioni e pretese? Questi temi dovrebbero di
ventare una componente ineludibile dell'agenda pubblica edel senso comu
ne, ma resta incerta la visione esperimentale la ricerca degli strumentiidonei
per realizzare il programma. Con un duplice rischio: cercare la via d'uscita
in unaconcczione tecnicistica o tecnocratica del
problema (che non ha mai
funzionato, come hanno giàdimostrato altri filoni e progettidi planning):
oppure limitarsia una scelta dicampo ideologica, esortativa, edificante, ma
sempre incompiuta. La tesi della modernizzazione ecologica ha rappresentato
un rentativo di sintesi le
fra due tendenze: come speranza, che si è rivelata
illusoria, che la soluzionedelle criticitàambientali dei sistemi
resse essere affidata soltanto ai progressi delle tecnologie e insediativi po
mercato (M. Smith, 2011; Boehnert, 2018). Ilpassaggio dalleall'intenzioni
efficienza del
alle
pratiche non sembra ancora scontato.

La natura in citta. Non rappresenta un'alternativa


convincente neppure il
programma cheesalta le qualitàdella natura, come un valore precostituito e
indipendente dai processi antropici (tesi severamcnte confutata da Latour,
1991, 1999), e ne asSume come obiettivo primario la conservazione e fruizio
ne. Nel futuro auspicato, non dovrebbe essere più necessario andare altrove
alla ricerca di ambientinaturali diqualità, per colmare una
mancanza ormai
cronica,che pesa sulla condizionc urbana e sulla qualità della vita moder
na - ha sostenuto ripetutamente Tim Beatley (planner dell'Università della
Virginia; Beatley, 1995, 2004, 2011, 2016). Una città sana, sostenibile, resi
liente, dovrebbe assicurare ai suoi abitanti relazioni continue e
immediate
con la natura, in una molteplicitàdi forme: grazie alla protezione delle aree
naturali intercluse nell'insediamento urbano, ma anche alla generazione
di nuove opportunità ovunque sia possibile, negli spazi edificati e persino
all'interno degli edifici. Perché potenziare le possibilità di relazioni agevoli
e continuative fra uomo e natura èuna garanzia di beneficisicuri, materiali
epsicologici, per tutti gli abitanti; senza trascurare il fatto che investimenti
destinati alla cura e allo sviluppo di spazi ed esperienze di «natura in cità >»
assicurano certamente un alto rendimento. La posta sarebbe la capacità di
felice convivenza fra molteplici ccosistemi e la possibilità, per ciascuno, di
trarre beneficio dalle mutue relazioni. Per designare la città che è in grado
di rispondere a queste esigenze, Beatley ha ripreso una nozione già evocara
da Eric Fromm - I'idea di biofilia (Fromm, 1964) - che voleva indicare il
rispetto per ogni forma divita e la cura dei rapporti di connessionee co
evoluzione fra molteplici ecosistemi. I tema merita attenzione, tanto è vero
che ho scelto questa espressione come titolo del paragrafo (anche perché
formule come eco-city ogreen city tendono ad assumere un significato tecnico
più restrittivo, eppure restano ampiamente vaghe). Devo notare però che
l'interpretazione di Beatley a me pare francamente riduttiva. Se la cictà è un
complesso di ecosistemi, privilegiare esclusivamente le relazioni fra uomo,
natura e forme di vita animali, come tema principale di interesse, signifca
lasciare in ombra troppe qucstioni influenti. Un esempio. Beatley apprez
za qualunque intervento capace di aumentare la dotazione di verde urbano,
ovunque ubicato (siano tetti, balconi o interni); pertanto plaude al «bosco
verticale >»> di Milano (Bcatley, 2o16, p. 166). Non si preoccupa però delle
condizioni di vita della vegetazione, costretta in un ambiente artificiale (e ri
dotta amera risorsa), ma neppure degli alticosti di gestione di quella famiglia
di edifici,accessibili solo per alcune fasce sociali: immaginare che il model.
lo possa valere come soluzione gencralizzata sarebbe una mossa impruden
te. Eppure l'autore non ignora l'esistenza di un problema di equità sociale
nell'uso della città bioflica (ivi,cap. 1s). Il punto è che si limita a esaltare
le opportunità dirinaturalizzazione della cittàsenza entrare nel merito dei
problemidegli ccosistemi attivi nel contesto (in primo luogo, le varie arti
colazioni dell'ecosistema umano, probabilmente una pluralità di ccologie
sociali,con diverse criticità e possibilità). Potremmo ricordare che Campos
Venuti, nei suoi piani urbanistici degli anni Novanta, aveva giàevidenziato
ilpossibile contributo positivo del verde di iniziativa privata (da incentivare
a fianco di quello pubblico), ma quclla era una misura parziale che si inseriva
in una visione di sistema, nelle intenzioni integrale, giustamente equilibrata
eriformista (Campos Venuti, 1991, 1995). Invece Beatley del contesto proprio
non si occupa: infatti, il suo testo illustra sommariamente una lunga schiera
di interventi potenzialmente virtuosi, estrapolati dalle condizioni urbane di
pertinenza come se quelle fossero un fattore irrilevante (Beatley, 2016, parte
III). L'analisi è più esauricnte per una decina dicasi metropolitani (Singap0
re, San Francisco, Birmingham, Oslo, Wellington e altri)che fanno parte di
una rete di «città biofiliche» (uno dei tantinetworks che sono nati
intorno a
innovazioni potenzialidelle politiche odei progetti urbani: de Leeuw, Simos,
2017, cap. 1), ma la prospettiva resta comunque monotematica: in discussione
sempre il rapporto fra una figura astratta di abitante (che in realtà sembra
alludere al profilo di cetisociali benestanti) c le forme crescenti di «natura
in città ».D'altra parte, questo èil punto di approdo di un'idea di greencity,
green urbanism, già esplorata dallo stesso Beatley (20oo, 2009), che non of
fre risposte a molti problemi emergenti; anzi sembra legittimare una visione
idilliaca di « serene urbanism» (Tabb, 2018), che appare davvero lontana dai
processi reali. Ritengo invece che sarebbe necessaria una documentazione e
riflessione più significativa sulle possibilità cffettive di convivenza tra forme
di vita diverse, esuiproblemi conseguenti di sostenibilità ed equità delle con
dizioniurbane. Questo significa dedicare maggiore attenzione all'impatto
delle azioni politiche sulla vita in città, ealle dimensioni sociali dell'ecologia
(gli ultimi due temiche vorrei richiamare all'attenzione).
Salute e biopolitica. Una città ecologica o meglio bioflica ètendenzialmen
re sana. Non sono mancati programmi mirati per la crcazione di «healthy
cities», un altro ramoemergente (dalla fine deglianni Ottanta) delle nuove
nolitiche di welfare esostenibilità in Europa, sotto l'impulso della Health
iWorld Organizazion, che ha promosso iniziative analoghe anche in altre parti
del mondo (Takano, 2003; Barton et al., 200;). Di questi progetti sono chia
rida tempo meriti, potenzialitàelimiti. Da un lato, sono strumenti utili per
aumentare l'interese ela sensibilità verso temitroppo marginali nell'agenda
politica, nonostante le prove indiscuse di attualità crilevanza. In questo sen
so, possono favorire nel medio termine innovazioni significative dell'azione
pubblica. Peraltro, il modello dell'esperienza, sempre il medesimo in una va
rictà di settori, evidenzia alcunilimiti non contingenti. Si tratta soltanto di
esperienze pilota, che forse concedono troppo spazio apreoccupazioni buro
cratiche e metodologiche, ma fanno fatica a trasformarsi in buone pratiche.
Anzi,nel breve periodo si creanocircuiti autoreferenziali - le retidelle città
implicate - che rischiano di diventarc esperienze fini ase stesse, per un perio
do troppo esteso, invece di svolgere una funzione (giustamente) transitoria e
strumentale: dovrebbero esaurirsiquanto prima, per trasformarsi in pratiche
ordinarie piùavanzate. Inoltre, si corre il rischio di impostare il tema in modi
discutibili o fuorvianti, fino a creare nuovi casi di wicked problems. Proprio
l'esperienza delle healthy cities offre un buon esempio. Se cerchiamo di im
maginare tutti i fenomeni urbani che sono correlati con le questioni della
salute pubblica, e di sviluppare in modo coordinato tutti i campi d'azione
potenzialmente associati al tema, il quadro di riferimento diventa illimitato
e intrattabile, come hanno dimostrato molti tentativi volonterosi, ma im
prudentio inconcludenti. L'approccio vorrebbe essere «olistico, integrato.
intersettoriale»,capace di restituire una visione comprensiva del problema.
La realtà resta molto più frammentata c contingente (Otgaar et al., 20iI; de
Leeuw, Simos, 2017; D'Onofrio, Trusiani, 2o18). Sarcbbe probabilmente più
ragionevole rovesciare il problema, seguendo isuggerimenti di Wildavsky
(PAR. 3.6): prendere le mosse dai problemi e dalle politiche già in agenda, e
compiere una verifica, più rigorosa dell'usuale, dell'impatto di ogni filone
di esperienze sul tema della salute urbana, e sulla possibilità di conseguire
tangibili progressi grazie a qualche innovazionc o riforma mirata. In effetti,
questa prospettiva ha preso forza in molti contesti, sia pure in tempi piutto
sto lunghi. Iprogrammi pilota sono stati rinnovari per molti cicli, ma negli
ultimidieci, quindici anni è parsa sempre piùchiara l'esigenza di verificare
cmigliorare icontributi alla bealthy city da parte dell'urban planning (che
non ha dimenticato le sue radici sanitarie: Corburn, 20o9) e dialcune po
litiche mirate (Barton et al., 2011; Rydin, 2012). Sembra dunque in corso il
passaggio dal progetto speciale alle praticheordinaric. Siamo forse pii vii
ni alla visione pragmatica auspicata da Wildavsky. Possiamo prendere atto.
finalmente, che il successo di un progetto speciale si misura con la capacita
di una metamorfosi in azioni diroutine. Naturalmente, tuttiiproblemj Don
sono risolti. La stagione della sperimentazione alimenta spesso illusioni o
ingenuità, destinate asvanire nel tempo. Potremmo già rallegrarci se, dopo
quasi quarant'anni diprove ediscussioni, fosse possibile constatare qualche
progresso, parziale, ma concreto e non effimero.
Resta un'obiezione di fondo, che merita attenzione. Non corriamo il
rischio di sopravvalutare le dimensioni metodologiche e tecniche di una
famiglia di problemi che hanno radici piùprofonde - forse in parte intrat
tabili- nelle ecologie sociali e politiche reali, che si sono formate e si ripro
ducono in un contesto urbano? Tim Beatley pensa con emozione alla città
in cuiogni abitante possa ascoltare il cinguettio degli uccelli, ma non si in
terroga sulle condizioni urbane che possono ostacolare la sua visione, né sui
modi eventuali per modificarle per quanto necessario. Le rappresentazioni
degli ecologi sono per principio analitiche e descrittive; possono prefigurare
uno stato finale auspicabile, ma spesso debole risulta il contributo diretto
all'azione politica (come conferma ilsemplicismo delle idee di planning edi
governo nella letteratura citata poco sopra). Sembra mancare un riferimento
significativo non solo alla critica dell'esistente, ma alla politica della buona
vita. Eppure qualche contributo di riflessione sarebbe disponibile. Una fon
te, originale e inquieta, è ancora una volta Michel Foucault, che alle soglic
degli anniOttanta ha esplorato il tema della biopolitica. Va bene amare la vita
cprendersi cura della salute, come testimoniano le buone intenzioni degli
ecologi, ma come funziona il «governo dei viventi» (Foucault, 2012; Lemm,
Vatter, 2014;Mills, 2o18)? E la politica,quando in modo pervasivo si occupa
della salute pubblica, non rischia di invadereo quanto meno condizionare
oltremisura la sfera di autonomia e responsabilità del singolo soggetto (Fou
cault, 2001, 2004)?Queste domande non hanno nulla ache fare con le far
neticazionidelle conspiracy theories (Sunstein, 2014b; Di Cesar, 2021), che
in questa fase hanno trovato facile esca in alcuni grandi eventi(dalle elezioni
presidenzialinegli StatiUniti alla pandemia). Gli adeptisi proclamano pala
dinidel dubbio c del pensiero critico (rispetto a posizioni dominanti che sa
rebbero sempre ottuse ocorrotte), ma poi si limitano areplicare ciecamente
fonti inverosimilieargomenti inconsistenti (Butter, Knight, z020; Uscinski,
2020). Sul rigore e sulla legittimità delle questioni poste da Foucault non
vi puòessere alcun dubbio. Isuoi contributi ci aiutano a riflettere su alcuni
nodi che i discorsi ambientalisti tendono a eludere. Le forme di governo di
questiprocessi sono molteplici e tutte presentano qualche problema, non
meramente tecnico. La politica puòscegliere la via prescrittiva. La cittàdella
ealute e della buona vita può essere definita per via normativa; il
rischio è
codificare i modelli di comportamento virtuosi e ridurre le anomalie a fe
nomeni di scarto (come le figure marginali, perché emarginate, che
Eoucault ha studiato: il folle, il prigioniero, il malato). Il passo puòproprio
essere
associato a una visioneorganicista: l'opzione comunitaria non sarebbe una
scelta autonoma degli individui, disposti a mettere in comune idee ed espe
rienze perchéconvinti del valore della cooperazione (Esposito, 1998), ma un
presupposto originario, che dipenderebbe da una condizione insuperabile
di appartenenza a una entità unitaria e precostituita, che dovrebbe prevalere
su qualunque istanza individuale (con
buona pace per ogni visione liberale
del mondo). La propensioneolistica di larga parte del pensiero ecologista in
qualche caso sembra ammettere una lettura organicista. Il passo successivo
èla strategia della immunizzazione (Id., 2002, 2022): per limitare i pericoli
dicontagio, si può cercare diespellere ogni fonte di rischio potenziale, odi
convertirla in antidoto; anche se la scelta può imporre dei limiti alla libertà
del soggetto e alle sue possibilitàdi sviluppo. Questo atteggiamento potreb
be indurre, ancorauna volta, a fare della diversitàuno stigma: peccato che la
città sia il luogo della incertezza edella serendipity (Hannerz, 198o; Ferraro,
1990), dove l'aria che si respira - come ha osservato Weber (1921) rievocando
le esperienzemedioevali - dovrebbe rendereisoggetti più liberi. La conclu
sione èche le visioni edificanti degli ecologi lasciano in ombra troppe que
stioniimportanti. Possiamo riconoscere anche un fronte più positivo (meno
interessante agliocchi di Foucault): alludo aquelle posizioni disciplinari che
confidano nella possibilità di superare i dilemmi della politica, rispetto ai
temiecologici e ambientali, grazie a un contributo piùrilevante di parteci
pazione e deliberazione collettiva (G. Smith, 20o3; Ganguly, 2016; rinvio
al PAR. 4.10). Questo orientamento pratico sembra in inca con la tesi di
Esposito (2004, 2018): l'alternativa a un' idca di biopolitica costrittiva (per
T'individuo) dipende dalla possibilità di nuove esperienze in comune (co
me scelta condivisa, piuttosto che subordinazione a una realtà organica). Se
questa prospettiva sembra virtuosa, ma poco verosimile, èsempre possibile
ripiegare sulla versione negoziale della «environmental dispute resolution »>
praticata da Lawrence Susskind e altri professionisti del settore (Bacow,
Wheeler, 1984; Susskind,Cruikshank, 1987). In ogni caso, una conclusione
sembra obbligata: i dilemmiin gioco non hannouna portata solo politica e
ieppure tecnica. Sollevano questionidi etica c giustizia ambientale che sono
oggetto di molte riflessioni (R. J. Berry, 1993: Pachlke, 2003: Attfield,
2018, 2021; Pellow, 2o18; Chan, 2019): questi contributi, però, restano senza
legami rilevanti, all'apparenza, con molte interpretazioni disciplinari della
città ecologica o biofilica (fra le eccezioni, Frumkin, 2016).
Ecologia: politica esoiale. Questa parentesi foucaultiana ci aiuta a ribadire a
dimensione non naturalistica e neppure astrattamente umana, bensi sociale
e politica della questionc ecologica. Che pertanto non dovrebbe essere af.
frontata come uno specialismo scientificoc tecnico indipendente (secondo la
concezione dell'ecologia urbana come nuova scienza autonoma), bensi come
un costrutto sociale, sul quale la politica ha la possibilità di incidere in modi
influenti. Il pensiero ccologico ha riscoperto la politica quando ha dovuto
prendere atto dei limiti di un'elaborazionc puramente analitica. La fondazio
ne scientifica non consente dieludere i nodi normativi e le responsabilità de
cisionali. Per questo ènato il flone della «ecologia politica » (Perreault et al.,
2013). Iproblemi interni di assetto elegittimazione disciplinare francamente
mi lasciano indifferente, ma fanno cmergere alcune questioni salienti. La co
noscenza dei problemi ambientali non puo prescindere da una visione critica
delle causee dei processi, che gencralmente sono cconomici, sociali, culturali;
mentre le possibilità di intervento sono politicamente determinate. Perciò
l'ecologia deve farsi politica, e riconoscere che le sue analisie proposte non
possono valere per un'idea astratta di individuo, ma devono essere concepite
per una comunità effettiva di pratiche - «the actually existing political eco
logy» - che presenta caratteri differenziati eproblemi relazionali (T. Forsyth,
2003). Infatti, le politiche ambicntali distribuiscono costi e benefici di varia
entità fra categorie diverse di attori; talvolta ne modificano irapportidi forza;
possono contribuire a creare identità emergenti (nel mondo produttivo oltre
che nell'attivismo sociale),; affrontano contraddizioni palesi, ma spesso crea
no nuovi problemi come effetti perversi, non intenzionali,ma dannosi: perciò
non regge la narrazione lineare ed edificante della «modernizzazione ecolo
gica >» (Robbins, 2o04, riedito nel 2012). E un errore intendere la natura solo
come una risorsa, da usare nei modi piùefficienti, mentre si tratta di una com
poncnte essenziale (in parte incontrollabile) della comunitàpolitica. Ogni
concezionetecnocratica delle questioni ambientali non solo non è risolutiva,
ma può contribuire alla deriva postpolitica che èun problema emergente del
la società contemporanea (Swyngedouw, 2009, 2010, 2011b, 2013; M. Smith,
2011). Se si imbocca questa via (che trova una rappresentazione esauriente in
Perreault et al., 2o1s), sorge il problema della costituzione sociale delle comu
nità in azione. Le visioni più influenti attribuiscono un ruolo centrale a attori
emovimenti capaci di mobilitazione sociale e attivismo ambientalista: penso
aAndré Gorz (1977) in Francia (le cui posizioni hanno dato vita aun filone di
riflessioni: Lascoumes, 1994; Roussopoulos, r994; Ferry, 2021) oppure a Mur
ray Bookchin (1974, 1982, 1993) negli Stati Uniti; si vedano anche Heynen,
Swyngedouw (2003) eHeynenetal. (2006, con contributi dello stesso Swynge
douw). IIrischio (che vale anche per le concezioni del planningdi Sandercock
dell'ulcimo Friedmann:ritornerò sul tema nel PAR. 4.9) èsopravvalutarc la
rappresentatività, continuitàe perspicacia di alcuni movimenti insorgenti, e
legare le sorti della questione ambientale alla condivisione di una particolare
visione ideologica della società e delle sue capacità di autogoverno. In Italia
spicca il contributo di Alberto Magnaghi (Magnaghi, z020 offre la versione
più csauriente), che concepisce le ecologie sociali come sistemi locali coesi e
autosostenibili, capaci di condividere e nutrire la coscienza del luogo e una
capacità di autogoverno, consapevole ecorale, rispetto alle sfide ambientali,
produttive e disviluppo. I rischio, in questo caso, nasce dal carattere utopico
dei presupposti fondamentali: I'idea irenica di locale («l'inferno siamo noi»,
pensava invece lo straniero di Camus, 1942) ela presunzione di una coscienza
collertiva, che potrebbe essere un'eredità premoderna (come se, prima della
società capitalistica, non vi fose traccia di pratiche dissipative) oforse uno
stato nascente, purtroppo assai fragile e incerto. Questa non ècerto un'utopia
concreta (Palermo, 20Iza). Trovo più convincente la visione proposta da John
Barry (filosofo della politica della Qucen's University di Belfast) che non si
limita a prendere le distanze dalla teoria della modernizzazione ecologica e
dalla fede nell'attivismo ambientalista, ma prefigura uno scenario di «green
republicanism» come condizione necessaria per un cambiamento culturale e
istituzionale ecologicamente orientato: secondo un'idea di libertà
tonomia responsabile, e di cooperazione civica come esercizio di intelligenza
collettiva che non è data, ma si può formare attraverso la sperimentazione e
l'apprendimento sociale (J. Barry, 1999, 20o8; Fremaux, 2019; Audier, 2020).
In conclusione, ilquadro non mi pare certamente unitario e offre di
verse visioniche considero discutibili. Non mi convincono il semplicismo
tecnoburocratico dell'environmental planning di scuola americana, c nep
pure la versione esortativa, astratta e in fondo minimalista, del «biophilic
urbanism» diTim Beatley.Occorre molta cautela prima di riabilitare una
concezione neo-organicista dell'insediamento urbano, fondata soltanto
sul sostegno della nuova scienza ecologica. Un approccio ecologico sembra
non solo opportun0, ma necessario; non può ignorare però le dimensioni
socialie politiche che svolgono comunque un ruolo costituente. Potrebbe
essere insufficiente fare conto soltanto sulla forza dei movimenti insor
genti oppure affidarsi alle capacità di controllo della biopolitica. Sembra
necessario volgere lo sguardo ai temi effertividella sostenibilità delle con
dizioni urbane edell'abitare: una delle prime immagini che ha scandito il
rinnovamento dell'idea di città,più di trent'annifa; forse la sola in grado
di reggere al corso dei tempi. Questa non può essere però solo una visione
utopica. Dovremmo esplorare le possibilità di trasformare l'idea in una
«ecologia cffettivamente esistente:

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