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Smart city
Da Babilonia alla smart city èiltitolo di un libro recente di Cesare De Seta
(2017), che ho trovato sorprendente. Mi fa una certa impresione ritrovare la
cosiddetasmart city come un idealtipo di insediamento urbano, già inscritto
nel lungo corso della storia della civilizzazione, ultimo tassello diuna serie di
modelli dicittà storicamente documentati. Non viè dubbio che il tema abbia
suscitato una grande attenzione mediatica negliultimi dieci, quindici anni
(anche se la tendenza incomincia già a mostrare qualche segno di decelera
zione della crescita). Il puntoè non limitarsi ad aderire a una moda del mo
mento, ma mettere alla prova il senso e la qualità dell'innovazione rispetto
ai problemiereditati ealle pratiche urbanistiche più attuali. Anche in questo
caso, purtroppo, qualche perplessità sembra lecita. Lavicenda ame sembra
più semplice e meno rilevante di quanto sostiene larga parte della letteratura
dedicata. Il tema centrale è l'aspirazione verso alcuni valori urbani, che è
legittimac certamente non inedita: per l'umanodesiderio di creare evivere
una forma insediativa sempre più «safe, smart, sustainable, inclusive» (Gil
Garcia et al., 2o16; Angelakis et al., 2017; Allam, Newman, 2o18). II limite
èilcarattere puramente selfdeclaratory di questo orientamento (Allwinkle,
Cruickshank, 2011): quale cittànon vorrebbe essere intelligente, creativa,
attraente e cosi via. IIdato emergente è l'enorme sviluppo delle tecnologie
dell'informazione e comunicazione, del web e dell'intelligenza artificiale,
che sembranoin grado di offrire ai cittadini un complesso di servizi urbani,
originalio rinnovati. Queste opportunità hanno dato vita o rivitalizzato al
cunisettori di mercato, giustificando nuovi progetti e investimenti impren
ditoriali, tesi a intercettare la domanda potenziale, o meglio a moltiplicarla.
La tendenza appare chiara se si assume il punto di vista dell'operatore eco
nomico interessato alla commercializzazione di tecnologie smart (Hollands,
2008,2019; Cardullo, Kitchin, 2019; J. Clark, 2020). Qualche problema sor
ge se in discussione èilsenso del progetto dipubblico interesse, perché iri
sultati non sembrano sempre pari alle attese. IL'ereditàpiù solida ed evidente
si riduce in molti casi al potenziamento del mercato dialcuni servizi urbani
ealla creazione diqualche nuovo luogo oligarchico nel tessuto insediativo
(Anthopoulos, 2017; Caprotti, 2o18). In questo quadro, diventa ragionevole
la domanda: saranno in grado le nuove tecnologie di determinare un chiaro
progresso nella qualitàdella vita urbana? Se la risposta fosse affermativa, il
buon esito dovrebbe essere associato a qualche condizione di contesto, da
assumere dunque come un requisito vincolante ? Questa sequenza di fatti e
le domande conseguentisono alla base dell'interesse contingente, nel nuovo
secolo, per itemi della smart city edello smart urbanism: un cumulo di parolc
e di retoriche, forse eccessivo rispctto alle ragioni e ai risultati (come ogni
moda transitoria).
Castelli di sabbia. Che cosa ci hanno lasciato quasi due decenni di ampie
dissertazioni e più parzialisperimentazioni? Iprimi sviluppi importanti di
innovazionc tecnologica risalgono agli anni Novanta (Albino et al., 2015;
Anthopoulos, 2017). Le implicazioni di questi processi per la sociecà e
politica, edunque per la città, sono un tema in agenda dal nuovo secolo.
Colpisce l'eterogeneità cframmentazione dei riferinenti possbili. Posiamo
censire qualche modello pilota che dovrebbe diventare csenmplare, ma resta
singolareeastratto, dal contesto c dalle pratiche correnti. Nuovi csercizi di
immaginazione intorno alla città ideale del nostro futuro. Un insiemc di
micropratiche di laboratorio, generose e impegnate, ma solo locali, mentre
resta grande l'ìncertezza sulle possibilità di una diffusione fertile a larga sca
la. Il rinnovo di qualche illusione sul possibile approdo a una vera scienza
urbana,obiettivo sempre mancato, che ora sarebbe riabilitato da un insieme
di operazionie procedure tecnologiche, che peralero sono state ispirate da
domande elogiche di marketing. Intine, la consapevolezza che il tema della
Smartness non regge in autonomia, ma deve essere sempre integrato con al
tre prospertive: come sostenibilità, ccologia, resilienza o biopolitica - oltre
ai temi classici della tradizione urbanistica. Cone conseguenza, in questo
filone vedo nuove fondamenta possibili per una disciplina urbanisti
ca in perenne costruzionc; non vedo neppure il sostegno, più flessibile, ma
capace, di potenziali palafitte, per usare una merafora meno usuale, di ispi
razione popperiana (Pera, 1982b). Il timore è di trovarsi di fronte a meri
:sandcastles »:I'immagine che Cugurullo (2013b) ha adottato per rappre
sentare i duc principali casidi smart eco-city che fino a oggi sono considerati
esemplari: Songdo, in Corea del Sud, e Masdar City, Abu Dhabi (Shelton et
al.,2015; Karvonen et al, 2o18). delle
Perché castelli di sabbia? Per lo scarto imbarazzante fra il mondo
retoriche disciplinari e la sostanza delle azioni effettive. Le forme del discor
L'esperienza sembra
so propongono, all'apparenza, nuove visioni olistiche.territorio rispondono
dimostrare, invece, che le iniziative smart su cità e
in primo luogo a interessi tecnologici ed economici, mentre le questioni
ambientalie sociali restano secondarie, quando non si riducono a un velo
ideologico (Gibbs et al., 2013: Cugurullo, 2013b, 2016, 2018; Karvonen et
al., 2018; Lisdorf, 2o20). Nessuno nega l'interesse potenziale degli svilup
pi tecnologici, ma la divulgazionc non può dare per scontato un impatto
politologica
mirabile e influente, che qualunque riflessione sociologica e2018). Le im
(ma anche urbanistica) potrebbe mettere in dubbio (Sennett, oscillare fra
magini al futuro della città (o società) digitale continuano a un dubbio
rappresentazioni ipertecnologiche, dove alla tecnica siriconosce
primato, e vaghe utopie o suggestioni che promettono bencfici per tutti
in bilico fra i
in una società postpolitica. Molticontributi a me sembranoOffenhuber, Rat
due scenari (Morozov, 2014; Kitchin, 2014c, 2015, 2016; 2020c).
ti, 2014: Rarti, Matthew, 2o17; Greenficld, 2017; Allam, 202ob, dubita del
2018,
Da una parte si annuncia un futuro irenico (ma Sennett,
la qualità della vita in un ambiente artificiale efrictionless come Songdo):
dall'alero emerge l'incubo della società (o del capitalismo) della sorveglian
za (Betancourt, 2015; Zuhoff, 2019; Sadovski, 2020). La nuOva versione
smart (Barlow, Lévy-Bencheton, 2019) del sogno ricorrente della «good
city» (Fricdmann, 20oo; Amin, 2oo6) rischia di aprire la via, soltanto, aun
<business of utopia » (Cugurullo, 2013a; Marvin et al., 2o16; Valdez et al,
2o18).La realtà quotidiana delle sperimentazioni in corso non offre riscon
tripiù significativi delle micropratiche dei«living labs» (Concilio, Rizzo,
2o16; Karvonen, van Heur, 2017; Nilssen, 2019; Levenda, 2019), che pro
babilmente andranno incontro ai limiti già sperimentati da innumerevoli
esperimenti affini (basta pensare alle esperienze comunicative locali cele
brate da Forester e Innes, negli anniNovanta). Laconfusione fra raccolta di
big datae produzione di scienzaè una posizione francamcnte regressiva, che
non avrei immaginato di dover rilevare ancora una volta. Eppure Michacl
Batty non csita a farsi portavoce della tendenza che riprende fedelmente
aspirazioni di mezzo secolo fa, che lo sviluppo tecnologico renderebbe ora
fattibili. Le visioni tradizionali della città, architettoniche osociologiche.
dovrebbero essere integrate dai contributi robusti di una nuova «scienza
urbana » (Batty, zo1o, 2012a, 2o13a), che sarebbe finalmente a portata di
mano grazie a big data c smart city (l., 2012b, 2013b). Un nuovo potente
paradigma in sostanza sarebbe gà disponibile e consentirebbe di prevede
re, anzi di inventare il futuro delle cietà (Id., 2013b, 2018): che vuoto di
memorie e di spirito critico! Come ultima nota, sembra chiaro da molti
indizi che la smartnesspuò essere un requisito complementare della buona
urbanistica, ma certonon autosufficiente e neppure prioritario. Infatti negli
ultimi anni si sono moltiplicate le declinazioni di frontiera: dal lato della
sostenibilità(de Jong et al., 2o15; McLaren, Agyeman, 201; C. J. Martin et
al., 2o18; Colding, Barthel, 2o17; Colding et al., 2o18; Bibri, 2018), della
resilienza (Chandler, 2014; De Falco et al., 2o18; Bott et al., 2019) o della
eco-city (Jepson, Edwards, 20Io; Cugurullo, 2o16, 2018). Orientamenti che
trovo condivisibili, tanto più se accompagnati dalla cura delle relazioni con
i problemi tradizionali e irrisolti dell'urbanistica (che ho cercato di rap
presentare nei CAPP. 2 e 3). Temo che la tendenza smart potràessere letta,
fra qualche tempo, come una sorta di bolla speculativa, che è scaturita da
ragioni e progettidegni diattenzionc, di natura tecnologica ed economica,
ma ha trovato sviluppi urbani e urbanistici troppo banali, per impazienza,
leggerezza o strumentalità. Non basta lo sviluppo della tecnica, se è debole
I'idea dicittà, di progetto e dipolitica. Lo scarto, o il regresso, è evidente.
nel complesso, rispetto alle riflessioni e prospettive sulla «informational
city» che Manuel Castells aveva anticipato alle soglie del secolo (Castells,
1989, 1992, 1996, 1997, 2000).
4-5
Lacittà resiliente
wDon't call me resilient again» (Kaika, 2017). Mentre si moltiplicano le
esortazioni per una cittàsempre più smart, sostenibile e resiliente (ma si
rratta, in larga parte, di appelli edificanti, non corredati da misure specifiche
e azioni responsabili), Franca Kaika, geografa dell'Università di Amster
dam, ha sentito il bisogno di prendere le distanze dalle retoriche correnti.
Non vede ragioni per confidare in un cambio di paradigma rapido ed effi
cace, se è vero che il quadro istituzionale, politico e amministrativo, da tem
po è rimasto sostanzialmente immutato, e non sembra in grado di gestire
facilmente situazioni diemergenza che mettono in crisi o in discussione
I'ordine costituito. Nel frattempo cresce l'attenzione per inodi più critici
della resilienza, ma sembrano ancora insufficienti la riflessione critica e l'e
splorazione progettuale che potrebbero favorire la ricerca di soluzioni più
soddisfacenti. A quelle retoriche l'autrice riconosce una possibile funzione
immunizzAnte, come rimedio tentativo - nulla più che un placebo - per
rendere più tollerabili certe tensioni diffuse della vita urbana dei nostri
tempi, che a suo avviso nascono da condizioni irrisolte di disuguaglianza
edegrado. Condizioni che la retorica della resilienza può mediare, ma non
realmente mitigare (ibid.). Ilsuo intervento siconfigura dunque come
provocazione che non rinuncia a toni aspri, ma ha il merito di richiamare al
larealtà una deriva discorsiva che rischia di diventare futile e illusoria, oltre
che banalmente ripetitiva. Secondo alcune valutazioni, certe fasi sarebbe
ro otmai superate: la stagione innovativa della modernizzazione ecologica
(PAR. 4.6): lalunga consuerudine con le virtù ele speranze, troppo spesso
disattese, del paradigma della sostenibilità (PAR. 4.7); ma anche (questo è il
solo giudizio che mi sento di condividere) itemi emergenti della smart city e
dello smart urbanism (PAR. 4.4), che hanno esercitato una chiara influenza
sull'opinione pubblica negli anni più recenti. Ora la resilienza sarebbe la
nuova catchword in grado di arricchire o, secondo alcuni, addirittura sosti
(Davoudi
tuire le visioni guida che sono state celebrate negli ultimi decenni
et al., 2012), per accompagnarcifinalmente verso un futuro migliore. Sitrat
esortative, di fronte
ta di posizioni semplificantie in molticasi puramente
alle quali sembra giustificato il richiamoall'esercizio diragione edi spirito
critico, che è ilcontenuto positivo del messaggio di Kaika. Sarebbe un errore
intendere le sue considerazioni sui possibili effetti immunizzanti di certe
retoriche di moda come un avallo a qualche teoria cospirativa, fra quelle
Purtroppo ancora influentiin questa fase. Più plausibile èl'ipotesi che l'au
tricc condivida il rammarico di Roberto Esposito (2002, 2018, 2022): ogni
pratica immunizzante protegge, ma rischia di condizionare gli spazi di vita
ccertamente indebolisce i legami comunitari.
Un esercizio di ragione ci dovrebbe indurre a riflettere sui fattori
rialie simbolici che hanno contributo a creare un interesse crescente per il
tema della resilienza, negli anni del nuovo secolo. In discussione èla sostanza
del fenomeno, come esigenza e possibilità di spring (o bounce) back - cioè
di reazionee capacitàdi recupero - dopo disastri o crisi di origine narurale.
ma anche economica e sociale (Pelling, 2003; B. Walker, 2019; Van Bavel
et al., 202o; Santos et al., 2021). In discussione è l'originalità e l'autonomia
del tema di interesse: dobbiamo chiederci se si tratta di un complesso di
questioni che solo in tempi recenti hanno ricevuto l'attenzione necessaria,
oppure della riformulazione e declinazione solo in parte rinnovata di pro
blemi ben noti. Che per alcuni aspetti di metodo appartengono al dominio
dell'agire politico,come atti di reazione strategica, organizzativaogestionale,
difronte a cambiamenti esogeni e inattesi (Berkes et al., 2003; Boyd, Folke,
2012; Joseph, McGregor, 2020). Per oggetto e contenuti sostantivi, invece,
cmergono i nessi rilevanti con itemi della sostenibilità urbana eambientale:
fra i due filoni sono chiari gli elementi di sovrapposizione e forse di con
vergenza (Zhang, Li, 2018; Alibaai, 2018; Bott et al., 2019; Allam, 202ob.
2020c). ILa domanda di resilienza si può manifestare in contesti molto di
versi:città (Vale, Campanella, 2005; Otto-Zimmerman, 20I2; Meerov et al.
2016; Thomas, Da Cuhna, 2017); comunità e paesaggi (Coyle, Duany, 201:
Cräciun, Bostenaru Dan, 2014); sistemi ecologici e sociali (Holling, 1973:
B. Walker et al., 20o4; Walker, Salt, 2oo6; Folke et al., 200s;
Folke, 2006b;
Manyena, 2006). Grande è la varietà dei modi e degli strumenti con i quali
si può cercare di rispondere ai bisogni: tramite politiche di
sviluppo (Pickett et al., 2013; K. Brown, 2016; Kabisch et al., rigenerazione e
2018), piani
urbanistici o progetti urbani (Mander et al.,2006; Hemenway, 20Is: Jayeun.
2016; Yamagata, Sharifi, 2o18), strumenti di governane, gestione o
cazione (Lu, Stead, 2013; Erayden, Tasan-Kok, 2013; Masnavi et al.,pianifi 2019:
Pede, 2020). Digrado diverso puo essere l'influenza dei caratteri materiali
cculturali delcontesto, cioè dell'ecologia sociale nella
quale queste pratiche
dovrebbero prendere forma e avere luogo (Ungar, 20oI2; Stokols, 2o18). Non
è neppure scontato il paradigma secondo il quale il problema dovrebbe essere
trattato. L'approccio puòessere essenzialmente tecnologico, come una sorta
di ingegneria della crisi o delle rastormazioni (Hollnagel et al., 2006; Dias,
2019; Kasser, 2020). II trattamento della complessità può essere affidato a
una visione sistemica di nuova generazione (come giàè accaduto per la smart
city: PAR. 4.4), nonostante i deludenti tentativi di applicare modelli ciberne
ticí nel sociale e nella politica, negli anni Sessanta e Settanta, ma anche alla
città digiale in qucsta fase. Oppure l'approcciopuò cssere pragmatico, nel
solco della behavioural analysis, degli studi organizzativi e del policy mak
ing, che si ispiranoa modelli dirazionalità limitata (riprendendo nel settore
un filone consolidato di esperienze: Munro, 2oo9; Sunstein, 202o; Altman,
2020). Laprospettiva può essere declinata in forme cssenzialmente adatta
tive, alla ricerca della soluzione più facilmente compatibile con il problema
eil contesto (Evans, 2011; Folke, 2006a); oppure può csprimere una volontà
progettuale piùambiziosa ed esigente, che cerca di incidere sulle radici dei
problemiedi favorire trasformazioni positive (Yan, Galloway, 2017; Bott et
al,2019). La resilienza potrebbe dunque essere intesa, tecnicamente, come
un puro progetto tecnologico, un tentativo rinnovato di approccio sistemico
alla complessità, un mnetodo adattativo diproblem-solwing, oppure come art
and cnaft della risposta innovativa, se necessario radicale, a una situazione di
emergenza o quanto meno di cambiamento rilevante e inatteso. Ogni posi
zione può contare su un repertorio significativo di esperimenti edocumenti.
Si delinca un quadro variegato, incerto anche perché ricco di opzioni, che
mette in crisi il semplicismo delle retoriche. Infatti, l'orientamento oscilla fra
modelliobiettivamente divergenti: alcuni sono molto tradizionali (systems
view ecorrelati): potrebbero essere considerati obsoleti se non fosse per l'in
cognita del potenziale tecnologico ora adisposizione (sarà in grado di legit
timare nuove speranze?); altri alludono a esperienze ordinarie (di gestione
adattativao simili), tanto comunida giustificare qualche dubbio sulla natura
erilevanza dell' innovazione effettiva (non si tratterà soltanto di una revi
sione formale del linguaggio?); altri ancora richiamano nodi cruciali della
pratica progettuale che cerca di agire sulle cause dell'emergenza, nella realtà
dei contesti. Èsorprendente che interpretazioni profondamente diverse sia
no accostate, in modo apparentemente irriflessivo e talora confuso, sotto le
etichettegeneriche dell'urban resilience, resilient planningo affini. Ame pare
opportuno dare evidenza a quattroquestioni critiche, la prima ormai con
solidata, le altre ancora sottovalutate da una parte cospicua della letteratura.
4.6
Lacittà biofilica
La dimensione ambientale della pianificazione non è una scoperta recente
come irequisiti di smartness o resilienza della città edell'azione di governo.
Le radici sono lontane. Secondo Tom Daniels (planner dell' Universicà del
la Pennsylvania), risalgono alle soglie della modernità, quando si è posto il
problema di garantire a insediamentisempre più densi una dotazione mini
diverde urbano, grazice al progerto di parchiealle scenografie di «city
beautiful», dove il verde poteva diventare una componente utile per la qua
lità ambientale,oltre che un fattoreornamentale delle architetrure (Daniels.
2009). Nella stessa fase, i modelli della città giardino sono stati una risposta
originale alla ricerca di nuovi equilibri fra sviluppo insediativoc cura/valo
rizzazione del contesto naturale (Beevers, 1988; Buder, 1990), che ha influito
suiprogetti di new towns nel secondo Novecento (Hardy, 1991; A. Alexander,
2009), ma anche sulleesperienze di fine secolo del new urbanism (Stephen
son, 2002; Gillette, 2010) e delle greencities (Parsons, Schuyler, 2002). Dagli
anniVenti, negli Stati Uniti (la matrice di molte innovazioni), si è affermata
una corrente attiva e influente di cultura regionalista di orientamento cco
logico (guidata da personaggi come Henry Wright e Clarence Stein), che ha
sollevato iltema dell'impatto e della sostenibilitàdei comportamentiumani
rispetto al quadro ambientale (Parsons, 1994). Si èaperto cosi un filone di
analisi delle dinamiche edelle possibilità di regolazione degli ccosistemi ter
ritoriali, che ha avuto notevolisviluppi lungo tutto il secolo. Il corso degli
iha mostrato con grande evidenza la tensionc potenziale fra i processi
di crescita, demografica, economicac urbana, e la tutela delle risorse edella
qualità ambientale. Fa testo l'emozionante Design with Nature (1969) di lan
McHarg (architeto del paesaggio dell' Università della Pennsylvania), che
ha saputo testimoniare le criticitàemergentigrazie alle immagini prima an
cora delle parole (il libro, infatti, ha proposto un'efficace documentazione
fotografica, cosi eloquente da risuonare come una prova inconfutabile delle
responsabilitàambientalidi individuie società). Come ha osservato Lewis
Mumford nella prefazione, le patologie della crescita urbana erano ormai
evidenti; doveva crescere la consapevolezza dei problemi(come questione
dietica e di coscienza collettiva), ma le linee di indirizzo erano chiare: era
la concezione della natura che doveva cambiare, non più terra di conquista,
ma compagna di viaggio. Solo nel corso degli anni Settanta è stato possi
bile prendere atto delle prime, importanti politiche pubbliche di misura
contenimento degli impatti negativi della crescita economica e insediativa;
negli Stati Uniti a cura del governo federale, che si è preoccupato di contra
stare le situazioni più gravidi inquinamento, degrado o spreco delle risorse
naturali. Tuttavia, negli ultimi vent'anni del secolo la questione è rimasta
in bilico, fra istanze rifomiste e appelli alla cautela da parte di
importanti
portatoridi interesse, perch¿, come aveva spiegato Barry Commoner nel suo
noto The Closing Circle (1971), la cura dei valori ambientali ha sempre un
costo non irrisorio: richiede compensazioni e sacrifici su altri fronti. Non
è una sorpresa che, in quella fase, i temi della «smart growth» (T. Daniels,
2001; Downs, 200s) siano apparsi più influenti della pura tutela ambientale
agliocchi dell'opinione pubblica nordamericana. Secondo Daniels, solo nel
nuovo secolo sembra essersi affermata, sulla scena globale, una vera cultura
ecologica, sensibile alla gravità dei problemie orientata verso politiche final
mente sostenibili (un giudizio ottimistico, che ilcorso degli eventi successivi
ha in larga parte confutato). Si tratta dunque di una lunga storia, segnata da
alterne yicende: la ricostruzione di Daniels ha evidenziato almeno cingue
fasi distinte, che ho cercato rapidamente di rievocare nei passi precedenti.
Lo stesso autore nel 2003 hapubblicatoun vastoe accurato Environmen
tal Planning Handbook (riedito nel 2014 c nel 2o17), che puo essere consi
derato un modello per questo filone di saggistica. La funzione della pianifi
cazione ambientale èproteggerc emigliorare la qualità dell'ariae dell'acqua,
insieme alla dotazione di risorse naturali; ma anche sviluppare c curare arce
ed elementi verdinell'ambiente costruito, nonché la capacità di resilienza
dei sistemi insediativi di fronte a rischi di origine naturale. Su questi temi,
il testo ha offerto un contributo sistematico ed esauriente, documentando
analisi, misure e azioni per la conservazione di suolo, acqua cd energia; la
riduzione dell'cffetto serra e il trattamento del cambiamento climatico; il
ontrollo dell'inquinamento, la tutela della qualitàdi aria, acqua e della bio
diversità; la protezione delle aree non edificate (rurali, umide, forestali, della
vita animale); il contenimento, riuso e riciclo dei rifiuti; il controllo dello
sprawl insediativo e la sostenibilità delle nuove edificazioni; il rispetto di
principi di giustizia ambientale nella localizzazione di funzioni con effetti
collaterali nocivi o di impianti con rilevante impatto ambientale. Si tratta
di un vasto complesso di temi, ciascuno dei quali presuppone un grado non
banale di specializzazione tecnica. Può destare sorpresa il ritardo con ilquale
la disciplina urbanistica ha riconosciuto e affrontato quei problemi, ma la
spiegazione èsemplice: per la cultura americana, secondo Daniels, il land
use planningèstato generalmente inteso come «planning for development»
(T. Daniels, 2003, 3* ed. p. xxXIX). Solo quando i rischidi insostenibilità di
quella visione sono diventati più evidenti, la questione ambientale è entrata
nell'agenda politica. L'orientamentoè parso chiaro in linea di principio: non
basta l'azione del governo federale; ènecessario che anche le comunicà locali
si facciano carico dei problemi; non bastano strategie einterventi puramente
rimediali: sarebbe necessaria una capacità d'azione proattiva. Tuttavia, emer
ge un punto debole a mio avviso, che paradossalmente mette in crisi I'idea
stessa di pianificazione ambientale. Come è possibile che un testo scritto nel
nuovo secolo, e riedio solo pochi anni fa, assuma ancora come unico prin
cipio disciplinare un'idea razional-comprensiva del planning process? Perché
èquesto, ancora, il quadro di riferimento concettuale che l'autore ci ha pro
posto. La sapienza ambientale, oggettiva, ben documentata, e certamente
innovativa risperto alla tradizione urbanistica più influente, dovrebbe sem
plicemente essere integrata in una visione digoverno da tempoconsiderata
obsoleta, irrcalistica o mistificante. Non sitratta di un caso singolare. La
letteratura dell'environmental planning, di scuola americana, adota comu
nemente lo stesso modello. James Lcin (geograto dell'Università dell'Ohio)
ha scritto nel 2o03 un testo dedicato a una concezione integrata della piani
ficazione ambientale. Ebbene, inuovi temi di interesse (che confermano il
quadro tracciato da Daniels) dovrebbero convergere verso un'idea di plan
ning che si basa ancora su systems vietw, vIsione comprensiva, processo di de.
cisione razionale, cioè posizioni che la riflessione disciplinare ha posto in di.
scussione da più di mezzo secolo. Frederick Steiner (ccologo che ha operato
in diverse università statunitensi, in Pennsylvania come ultimo riferimento)
anche nel suocontributo più recente, dedicato al caso studio di Austin Tv
(Steiner, 20r8), riproduce fedelmente la stessa posizione: una solida compe
ambientale èinscritta in una visione banale del metodo razionale di
decisione, nel rispetto del modello geddesiano di survey-before-plan. D'altra
parte l'autoreèstato sempre fedele aquella impostazione: dalla concezione
preliminare di un «approccio ecologico alla pianificazione del territorio»
(Steiner, 1991, riedito nel 2008; pubblicato in Italia nel 1994) fino all'origi
nale reinterpretazione ecologica dei temi dell'urban design (Palazzo, Steiner.
2011), dove viene sostenuta un' improbabiletesi sul fondamento scientifico
dell'attività progettuale: posizione negata - con buone ragioni, amio avviso
(PARR. 2.5 e35) - dalle fonti più autorevoli della progettazione urbana. Il la
voro di Steiner simuove nel solco originale tracciato da McHarg, ma appare
più scolastico e conformista, e la tendenza merita qualche considerazione
Sembraun destino per la cultura urbanistica rimanere sempre un progetto
incompiuto, sia pure per limiti di segno opposto. La riflessione della plan
ning theory èdiventata sofisticata e innovativa, ma fatica a tradurre le sue
conquiste più originali in una capacità d'azione concreta, adeguata ai tempi
e aicontesti. D'altra parte, un filone come la pianificazione che si definisce
ambientale oecologica dispone di un vasto repertorio di indagini e tecniche
originali per obiettivi econtenuti, ma assume una concezione del planning
semplicistica eormai csposta acritiche radicali. Conciliare i contribuci più
fertili dei due settori sembra un'impresa ancora lontana dalla meta o neppure
in agenda.
Loscenario sembra in parte differente in Gran Bretagna. Nel 2o03, una
fonte autorevole come Yvonne Rydin (economista eplanner, allora alla Lon
don School of Economics, in seguito alla Bartlett School) ha pubblicato la
seconda edizione di un testo influente (edito per la prima volta nel 1993)
sulla concezione britannica dell'environmnental planning. Il libro, fin dal ti
tolo, è espressamente dedicato a quel tema (l'attributo ambientale non era
esplicitato nella prima edizione), ma in realtà offre una rappresentazione di
lungo periodo dell'evoluzione dell'intero sistema di pianificazione, nazio
nale eterritoriale. L'analisi mostra che solo nel corso degli anni Orcanta siè
consolidatoun settore specifico diregole, strumentied esperienze, teso ad
approfondire le questionidi interesse ambientale. Tuttavia, resta originale
e signiicativa l'idea dell'autrice di considerare l'orientamento ambientale
e