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Enzo Raffaelli, Andrea Castagnotto, Ernesto Brunetta,

1918. L’ULTIMO ANNO DELLA GRANDE GUERRA


Il 1918 è stato l’ultimo, cruciale, anno della Grande Guerra. Dopo la disastrosa rotta Daniele Ceschin, Stefano Gambarotto, Benito Buosi, Livio Vanzetto,
di Caporetto, il teatro del conflitto cambia in modo repentino. In poche ore si sposta Francesco Scattolin, Roberto Tessari
dalle desolate pietraie del Carso alle campagne del Veneto. La linea del Piave divie-
ne l’ultimo baluardo contro un avversario che, due anni prima, ci eravamo illusi di
ridurre all’impotenza in pochi giorni. Un intero mondo viene investito da questo
cataclisma e la sua quotidianità sconvolta è costretta a cercare nuovi equlibri. Il Ve-
neto diventa terra di profughi e di persone in fuga, luogo nel quale si combatte e si
costruiscono difese munitissime, là dove prima erano campi e opifici. Le città e i paesi
sono «invasi» dai militari che impogono le loro esigenze e con i quali, una popolazio-
ne impreparata si deve confrontare giorno per giorno. Tutto diventa funzionale alle
esigenze della guerra mentre si combattono battaglie epiche, destinate a diventare
altrettanti, fondamentali, capitoli della nostra storia nazionale. Poi, a guerra finita, la
ricostruzione di quanto è andato perduto con i suoi tristemente «abituali» scandali.
Da ultima matura l'esigenza di conservare il ricordo di ciò che è accaduto, una me-
moria che tante tracce di sè ha lasciato nei nostri territori. L’ultimo anno della

a cura di
Steno Zanandrea

Da vendersi esclusivamente in abbinamento a uno dei seguenti quotidiani:


La Tribuna di Treviso
(Dir. Resp. Alessandro Moser - Reg. Trib. di TV n. 407 del 30/01/1978)
Il Mattino di Padova
(Dir. Resp. Omar Monestier - Reg. Trib. PD n. 568 del 11/11/1977)
La Nuova Venezia e Mestre
(Dir. Resp. Antonello Francica - Reg. Trib. di VE n. 1398 del 20/09/2001)

Supplemento al numero odierno € 7,90 + il prezzo del quotidiano


La linea della memoria
volume 12
1918: L'ultimo anno della Grande Guerra
Il volume contiene gli atti del convegno: «La linea della memoria. La provin-
cia di Treviso durante l’ultimo anno di guerra. Economia – politica – società.
Venerdì 14 novembre 2008, ore 9.00 – 18.30, Palazzo della Provincia di
Treviso – Sala Marton

1 edizione 2011

copyright © 2011

ISTRIT
Via Sant'Ambrogio in Fiera, 60
31100 - TREVISO
email: ist.risorgimento.tv@email.it
email: istitutorisorgimentotv@interfree.it

Grafica, impaginazione, fotorestauro


Stefano Gambarotto

Le immagini fotografiche che illustrano il presente volume, ove non diversamen-


te indicato, sono state tratte da: Servizi Fotografici dell'Esercito Italiano (SFEI);
Archivio Istrit (ISTRIT); Museo del Risorgimento di Treviso (MRT); Museo del 55
Reggimento Fanteria (M55F); Museo Centrale del Risorgimento (MCR). L'editore
ha effettuato ogni possibile tentativo di individuare altri soggetti titolari di copyright
ed è comunque a disposizione degli eventuali aventi diritto.

ISBN 978-88-96032-15-2
1918
L'ultimo anno della

a cura di
Steno Zanandrea

con scritti di
Enzo Raffaelli - Andrea Castagnotto - Ernesto Brunetta
Daniele Ceschin - Stefano Gambarotto - Benito Buosi
Livio Vanzetto - Francesco Scattolin - Roberto Tessari

Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano


- Comitato di Treviso -
2011
1918. Sentinelle italiane e inglesi a Nervesa della Battaglia. ISTRIT

25 giugno 1919. Il 113 Fanteria al «Castello di Nervesa». ISTRIT


GRANDE GUERRA: ULTIMO ATTO

1° novembre 1917, giovedì. L’illustre abate Luigi Bailo, con vibrante ri-
chiamo ad anni critici della nostra storia moderna, lancia un appello pieno
di amor patrio al sindaco avvocato Zaccaria Bricito. Deplorando infatti «con
profondo disgusto» che nel «penoso momento attuale... signori della Giunta
abbandonano il posto», scrive:

Mi permetto di darle questo consiglio: come in casi simili nel 1797, nel
1798, nel 1809, nel 1813, nel 1848, nel 1866 costituisca sotto la sua presiden-
za... un Comitato di ordine e direzione presso il Municipio stesso, composto
di cittadini forti e coraggiosi, energici e saggi, i quali suppliscano ai bisogni
del momento dolorosi ai quali possiamo andare incontro. S’intende di perso-
ne disposte a restare sul luogo fino al momento che Ella giudicherà oppor-
tuno... Sono indicati e ne avrebbero il dovere di far parte di esso Comitato,
primi di tutti coi signori assessori coraggiosi e devoti al dovere, che restano,
tutti coloro che hanno firmato il manifesto a stampa, affisso ed a mano del
30 ottobre Concittadini. Restiamo tutti etc. etc. e altri che Sua Signoria saprà
trovare, tra i quali, se crede di metter me pure, mi metta, e per quello che potrò
fare, darò esempio co’ miei ottantadue anni di attività consigliare, e di energia
effettiva.

Pur richiamando alla memoria infatti i momenti dell’ultimo secolo (invero


con qualche largheggio), che videro a Treviso bensì più o meno repentini cam-
bi di regime, ma sempre attenuati o mediati da una costante presenza ‛civile’
in grado di farvi fronte, l’annoso bibliotecario il due novembre è costretto a
rivedere al ribasso un tale impeto di generosità, ed al sindaco, che vuole af-
frettare l’abbandono della città, replica di essere «deliberato di restare finché
è possibile, e se è possibile partire ultimo cogli ultimi». Bando al titanismo,
un sano realismo s’imponeva. Come un fulmine a ciel sereno, il disastro di
Caporetto di una settimana prima, che costringerà le divisioni italiane ad
abbandonare, precipitosamente, le postazioni sul Carso ed a ritirarsi sul Ta-
gliamento prima di attestarsi, arretrando ulteriormente, sul Piave, getterà nel
terrore un’intera popolazione destinata, coll’incalzare dell’esodo friulano, al
rapido profugato, e determinerà il nostro pio protagonista, impossibilitato a
mettere in salvo in poche ore tutto il patrimonio di memorie e opere d’arte
pazientemente raccolte in quarant’anni, a maturare l’idea «di abbandonare
con fiducia alla protezione divina il tutto». Per fortuna dopo Caporetto, che
portava la guerra «sin sull’uscio di casa» – come si disse – vennero la resi-
stenza al Piave e poi la battaglia del Solstizio a ridare fiducia ai trevigiani.

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Ma ci vollero mesi e intanto l’ordinaria amministrazione in tempo di crisi,
colla civica giunta scappata a Pistoia (circostanza che Bailo ricorderà poi
sempre con palese esecrazione nei suoi scritti epistolari), veniva rassegnata
nelle mani di un commissario prefettizio, il ragioniere Agostino Battistel. Al-
tro che 1797! Altro che 1848! La nuova guerra, combattuta su un fronte che
facile ossimoro direbbe costantemente mutevole, con armi e tattiche nuove
(movimenti fittizi e ritorni, ed il ristagno in trincea), con un'imponenza di cui
i viventi di allora non ricordavano l'eguale, vedeva Treviso pienamente inve-
stita dall'urgenza militarista incurante delle ferite che tanto impatto recava
alle popolazioni civili. Pianificato per tempo subito dopo l’Unità, il sistema
difensivo che insiste sul confine italo-austriaco subisce ripensamenti ritardi
e ritrosie – specie di tipo economico – che peraltro non possono trascurare
la natura del terreno, pur ricco di difese naturali tali da interferire posi-
tivamente con apprestamenti razionali che investono ambiti naturali assai
diversificati: non solo la montagna, con il perno sul Grappa ed il compren-
sorio asiaghese, ma altresì la pianura veneta coi campi trincerati di Treviso,
Mestre ecc. nonché le difese di Venezia finalizzati a favorire ogni possibile
movimento ed evacuazione, come informa in misura abbastanza dettagliata
Andrea Castagnotto, nel secondo saggio di questo volume.
Ma a raccontare l’ultimo atto di questa vicenda non si può non muovere il
passo dalla tragedia di Caporetto; le ragioni della rotta sono efficacemente,
sia pure in sintesi, riferite, nel contributo dovuto alla penna di Enzo Raffaelli,
e si riassumono – detto qui alla buona – nella ritardata Bewußtwerdung da
parte del Comando supremo (leggi Cadorna), il cui Ufficio Situazione rite-
neva ancora a fine settembre del ’17, secondo una prospettiva pur sempre
presuntiva, di non dover escludere a priori la possibilità di una offensiva ne-
mica, ma stimava assai improbabile uno sfondamento sul fronte dell’Isonzo.
Il primo dei fiumi ungarettiani, il più immediato alla scarna scrittura di un
fante che nel 1916 vi si accoccola «come un beduino» ad attingervi la parola
essenziale, il fiume due volte infausto alla memoria dei veneti, è lì ad attestare
il naufragio di una strategia costata al nostro Paese, con le migliaia di vitti-
me, un cambiamento di vertice ed un ripensamento delle strategie belliche.

Sono essenzialmente tre gli attori che recitano l’ultimo atto dell’immane
tragedia che fu la Grande Guerra. Qui, nelle retrovie del gran teatro della
guerra guerreggiata, nuovi protagonisti salgono sulla ribalta, a sostituire al-
tri che invece si sono letteralmente volatilizzati: il ceto politico, per esempio,
sembra essersi messo al riparo dietro le quinte, mentre il vero protagonista
– il militare – si vede contendere la parte da un coro sempre più numeroso

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e più eloquente: i profughi, i fuggiaschi, i senza patria che nessuno vuole. È
un attore dal molteplice registro vocale, e ci parla con le parole degli oscuri
che non cercano gloria, in un linguaggio a volte approssimativo ma efficace:
vediamo nei diari come in un prisma dalle molte facce riflessi gli effetti e gli
aspetti più vari della guerra da cui fuggono, dove tutto subisce una amplifi-
cazione che solo la eccezionalità degli eventi giustifica. E poi c’è il nemico
invasore che desta risentimento ma anche speranza di riscatto.
Ma torniamo per un momento al militare. Invece la voce dei gravi fautori
della rotta isontina si fa ora muta e ci si interroga oggi (più che sulle respon-
sabilità degli irresponsabili, che sono state sviscerate le mille volte ed hanno
fatto scrivere migliaia di pagine ai protagonisti stessi ed ai loro giudici di ora
come di allora) sul malessere della milizia, sugli umori della truppa, sulle
tecniche di persuasione e di coercizione poste in atto dalle gerarchie militari
per dare effetto e sostanza a una scommessa di vittoria che aveva portato il
nostro Paese da una opzione iniziale di neutralismo convinto a un repentino
‛salto della quaglia’ maturato nello schieramento al fianco dell’Intesa, ita-
lica vocazione a sostenere sempre le sorti del favorito del momento. Ernesto
Brunetta non esita a riconoscere una rassegnazione di massa sulla quale
avrà avuto buon gioco l’annullamento delle coscienze mutuato da padre Ge-
melli ed ampiamente praticato da Cadorna per avere a disposizione oltreché
soldati-automi, indifferenziata ‛carne da macello’. Qualche dato statistico
fornito dal Brunetta richiama alla memoria sì il malcontento ma anche il suo
sfogo disorganizzato e sterile, mentre l’esautoramento del ‛generalissimo’
coincise con una fase di scelte politico-strategiche di tipo ‛anti-depressivo’
che il subentrato Diaz assecondò.

L’autentico protagonista di questo libro è però la gente comune, soprattut-


to le possibilità di reazione messe in moto da eventi tanto abnormi da confi-
gurare una sorta di tsunami umano: ne espone le ragioni e le vicende, anche
minute, Daniele Ceschin nel bel saggio Gli attori sociali nella provincia del
Piave, articolato in capitoli che sono insieme una scansione cronologica e
tematica. Lo studioso ci offre l’immagine dolente di un popolo in cammino,
divelto dalle terre cui era abbarbicato da generazioni, che richiama movi-
menti di portata storica e che, se suscitano in noi postume emozioni, ben altre
reazioni destarono sui contemporanei. Il paragone con movimenti analoghi
che in queste settimane del 2011 spingono a centinaia tunisini e libici dalla
sponda africana verso Lampedusa, porta per l’occidente, non può farci però
dimenticare che allora era un movimento tutto interno, di italiani verso altri
italiani. «Il 6 novembre Treviso si ritrova con le vie imbrattate di rifiuti, le

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strade ingombre di carri militari e di carretti dei profughi», ricorda Ceschin,
mentre tre giorni dopo è già una città fantasma, presidiata quasi solo dai
parroci urbani e da uno sparuto esercito di miserabili che non dispongono
di alcun mezzo per andarsene. Come in un perfetto sistema idraulico, per
un vaso che si vuota, uno si riempie. Segusino, Refrontolo, Cessalto... Villa
Spada, a Refrontolo, diventa sede di comando nemico: la contessa Maria è
presa in un tourbillon di cose che annota nel suo breve diario: la sera del 24
novembre «gran pranzo con 40 coperti... profusione di champagne, brindisi,
musica e... il rombo terrorizzante del cannone», come riporta Raffaelli. Con
l’invasione, l’arretramento della linea difensiva sul Piave, e, con effetto do-
mino, la seconda ondata di profughi, da Soligo, Sernaglia, Mosnigo, Cison,
Segusino, Valdobbiadene, Tarzo ecc. ecc., e con l’inoltrarsi della stagione
l’acuirsi della penuria di viveri e parallelamente il prevalere delle ostilità
sulla solidarietà.
Tutto ciò è rivissuto con forte empatia e carica emozionale dai Racconti
dell’invasione coordinati nella sorvegliata dinamica affabulatoria di Benito
Buosi: la guerra, le sue vicende, i comunicati ufficiali, sono sempre lì, tur-
bano, ossessionano e talvolta modificano sostanzialmente la vita dei civili
– come sappiamo da Ceschin –, ma Buosi ne registra la metabolizzazione,
e così piccole faccende non sono meno curiose dei grandi eventi che stanno
sconvolgendo queste terre e le loro genti. È un intero mondo in continuo mo-
vimento, incapace di trovare uno stabile assestamento. Il campionario è assai
variegato, come sono variegati l’estrazione sociale ed il grado di alfabetizza-
zione degli estensori di questi diari (sono poco meno di una quindicina quelli
messi a frutto). Ma non v’è dubbio che il racconto di ciascuno si attesta su un
limite ineludibile di verità storica che fa di questa eterogenea diaristica un
documento tale che non può essere disconosciuto.
E se comunque sul diario, sulla memoria si sovrappone pur sempre il filtro
della formulazione individuale (scelta delle cose da dire o da tacere, enfasi,
efficacia ecc., formazione culturale, prospettiva religiosa ecc.), il documento
amministrativo invece rappresenta quel limite di oggettività e di positività
che ne qualifica il dato sic et simpliciter come storico fino a prova di fal-
so. Il dato è così privilegiato da Stefano Gambarotto che nel suo articolato
contributo indaga i molteplici aspetti ‛materiali’ del rapporto civile-militare:
dalle requisizioni alla forza-lavoro, in un persistente conflitto nel conflitto, o
quanto meno una difficile convivenza: la guerra dell’acqua, la guerra della
legna, l’incetta dei bovini ecc. Aspetti noti sui quali Gambarotto fa il punto
con dovizia di citazioni documentarie.
Usciamo infine dall’emergenza bellica con i saggi di Vanzetto, Scattolin

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e Tessari. La guerra è ormai alle spalle, ma non mancherà di condizionare
gli orientamenti del Paese. Così il Grappa «baluardo d’Italia», luogo eletto
– con la Madonnina inaugurata nel 1901 dal futuro Pio X – a «simbolo della
fede e del cattolicesimo veneto», e in predicato di promozione – a guerra
finita - quale «simbolo del patriottismo e della nazione», fallisce, nel tra-
passo dal ‘biennio rosso’ al fascismo, l’obiettivo di «baluardo della pace».
La vittoria si portava pur dietro troppe ferite nel tessuto sociale e politico, e
a fascismo imperante prevarrà la retorica del ‘monumento ai caduti’, come
quello bellissimo di Treviso, in cui la Weltanschauung dello scultore Arturo
Stagliano sarà ben mascherata dalla esaltata interpretazione dell’ ‘eroe’ qua-
le piacque ad Augusto Vanzo.
Di ricordi, di segni ‘di guerra e di petà’ è costellato tutto il nostro
territorio, come emerge dalla puntuale ricognizione di Roberto Tessari, che
si muove con occhio esperto su tutte queste tracce e sulla loro valenza – oltre
che militare – civile ed emozionale: dalla ‘linea degli ossari’ ai parchi di
rimembranza, fino al ricordo privato e all’ex voto, che vivifica la memoria e
fa accapponare la pelle del turista che, sul far della sera, sosta, in religiosa
concentrazione, ad ascoltare la tromba del ‘Silenzio’ (cioè del rispetto) che
i caduti domandano dal sacrario di Asiago. Nudi nomi scolpiti nel libro di
bronzo…
Ma solo per un momento la commozione del Tessari può distoglierci dalla
considerazione che ogni guerra è – inevitabilmente – anche profitto. L’inda-
gine de La Riscossa sullo scandalo della lana, sulla speculazione perpetrata
localmente ai livelli più alti, ricostruita ora da Francesco Scattolin, ci rituffa
per un verso nella commedia ‘all’italiana’ (l’uomo di mondo, la segretaria
amante, il ladruncolo, l’impiegato, il cugino ecc. ecc.), per l’altro nel pecu-
lato e nel malaffare. 41 imputati, di cui 17 condannati a pene varie, mentre
il vero protagonista, commendator Arcangelo Cirmeni, uscirà praticamente
indenne, simulando una follia asseverata dal primario stesso del manicomio
provinciale… Strano malessere di un pubblico funzionario destinato colla
piaggeria a far carriera a fascismo dispiegato: sindaco di Vibo Valentia, poi
vice prefetto e uomo d’ordine, prodigatosi come pubblicista con scritti di os-
sequio al regime. E strana vicenda invece di un uomo – Guido Bergamo – che
fu eroe della Grande Guerra, medaglia d’oro al valor civile, deputato repub-
blicano, ma quasi subito zittito dal fascismo debordante e riemerso dopo l’ul-
timo conflitto, ma ormai consunto dalle radiazioni che lo portarono a morte
nel 1953, dopo una vita – non lunga – spesa nella scienza d’Ippocrate.

Steno Zanandrea

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1918: attraversamenti sul fiume Piave.
MCRR.
DA CAPORETTO AL PIAVE

Enzo Raffaelli

Alle origini di una sconfitta


Il maresciallo Hindenburg, in un suo libro autobiografico, scrive che la de-
cisione di agire contro l'Italia sull'Isonzo venne presa solo dopo l'esito dell'11ª
battaglia, con la quale il nostro esercito era giunto «all'orlo estremo» della
difesa di Trieste e gli austro-ungarici manifestarono il loro timore nell'esito di
un altro attacco. Scrive in proposito il generale Roberto Bencivenga1: «Pur-
troppo, era precisamente la sensazione di avere inflitto un così duro colpo
all'Austria, il motivo per il quale il generale Cadorna poté formarsi il pre-
concetto che una offensiva imponente degli Imperi Centrali contro la nostra
fronte non fosse da attendere sul finire dell'anno 1917».2 Il Comando supre-
mo riteneva che si fosse comunque riusciti ad insinuare nello stato maggiore
imperiale il dubbio di non essere in grado di resistere ad una successiva of-
fensiva. Per questi motivi, e in considerazione della stagione, una offensiva
importante sull'Isonzo, Cadorna la riteneva improbabile. A riprova del pen-
siero del generalissimo c'è quella piccola frase inserita in una lettera inviata
al comandante della 2ª armata, generale Capello, il 20 ottobre, pochi giorni
prima di Caporetto. Scrive Cadorna: «V.E. tenga presente che se nel venturo
anno si pronunciasse uno sforzo imponente degli Imperi centrali […]» Ciò
non significa che il Comando supremo escludesse del tutto la minaccia nemi-
ca, ma la considerava, al massimo, un'azione tattica locale. Con una direttiva
del 18 settembre, a fronte di notizie dei servizi di informazione,3 Cadorna
decide comunque di rinunciare «alle progettate operazioni offensive» e di
predisporre la difesa ad oltranza. I quei giorni il servizio informazioni della 1ª
armata, quella del Trentino, avvisava Udine, sede del Comando supremo, che
il nemico stava preparando una massiccia offensiva e non sul fronte trentino
nonostante tutti i trucchi messi in opera, compresa la visita dell'imperatore
Carlo su quel fronte. Erano giunte segnalazioni sullo spostamento di truppe
dal fronte trentino a quello dell'Isonzo; l'arrivo di una divisione bavarese nel
basso Trentino; la partenza della 12ª divisione tedesca dall'Alsazia per il fron-
te italiano e lo spostamento di una quindicina di divisioni austro-ungariche

1 R. Bencivenga, La sorpresa strategica di Caporetto, appendice a: Id., Saggio critico sulla


nostra guerra, Udine, 1997.
2 Ibidem, pag.15.
3 In una informativa del 14 settembre veniva scritto che la Germania e l'Austria avevano la
loro frontiera verso la Svizzera. Secondo gli informatori tale fatto poteva indicare l'intenzio-
ne di nascondere dei movimenti di truppe fuori del normale.
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dal fronte orientale a quello italiano. Alla luce di tutto ciò, verso la fine di set-
tembre, l'ufficio situazione del Comando supremo – finalmente – cominciava
a considerare che non si poteva escludere a priori la possibilità di un'offensiva
nemica, riteneva però il fronte dell'Isonzo escluso da gravi pericoli mentre in
Trentino potevano verificarsi attacchi a carattere dimostrativo. L'ottimismo
pervicace di Cadorna comincia a barcollare i primi giorni di ottobre quando le
notizie di un progettato attacco nemico giungono copiose. Scrive l'ufficio si-
tuazione: «[…] qualora giungessero sul medio Isonzo le forze segnalate […]
si potrebbe concludere per probabile l'offensiva sul medio Isonzo allo scopo
di riprendere in tutto o in parte l'altipiano della Bainsizza». L'aiuto tedesco
era comunque giudicato «molto limitato». Il 9 ottobre, con un telegramma al
Comando supremo, Capello,comandante della 2ª armata, avvisa che alcuni
disertori hanno confermato le notizie – già note e conclamate – di «un'offensi-
va sul fronte dell'armata» ed era accertata la presenza di truppe germaniche.4
Le notizie giungono ormai senza soluzione di continuità: sono segnalati uffi-
ciali osservatori d'artiglieria tedeschi nella conca di Plezzo, artiglierie e bom-
barde sul rovescio dello Sleme etc. C'è tutto per capire che l'offensiva sarebbe
partita tra Plezzo e Tolmino, settore del fronte tenuto dai Corpi IV e XXVII
dell'armata di Capello e notoriamente debole. Ma – scriverà Cadorna più tardi
– «Mancavano tutti quegli indizi che potevano indiscutibilmente assicurare
l'approssimarsi di una grande operazione». Il capo supremo riteneva gli «indi-
zi» insufficienti perché i movimenti di truppe, di artiglierie non erano vicini al
fronte ma nelle «retrovie lontane».5 Il 20 il Comando della 2ª armata comuni-
cava le notizie che un ufficiale disertore aveva informato che i tedeschi avreb-
bero sferrato l'attacco nella piana di Tolmino con obiettivo il massiccio del
Kolovrat.6 Il giorno dopo si presentarono alle nostre linee del Vodil altri due
ufficiali disertori che confermarono tutto aggiungendo che il fronte d'attacco
previsto spaziava da Tolmino al mare con inizio il 25. Il 22, una stazione radio
sullo Sleme intercettò notizie circa la data dell'inizio dell'offensiva: il tiro di
distruzione dei grossi calibri dell'artiglieria nemica sarebbe cominciato il 24
4 Le informazioni provenivano da un allievo ufficiale di nazionalità serba, di sentimenti
anti-austriaci, catturato la sera del 9. Riferisce che a Bischoflack vi sono numerosi comandi
e truppe tedesche presenti sin dal 18 settembre che lavorano alla costruzione di linee ferrate
normali e a scartamento ridotto (Decauville). Grandi quantitativi di uomini e treni carchi di
materiali e munizioni erano presenti nelle stazioni della linea Assling-Grahovo. Si veda lo
schizzo relativo alle linee ferroviarie citate per capire che le truppe e i materiali erano desti-
nati verso la testa di ponte di Tolmino.
5 Abbiamo appena visto lo sforzo che i tedeschi stavano compiendo per potenziare le linee
ferroviarie verso Tolmino. Fatto questo non ci voleva molto al trasferimento al fronte.
6 L'ufficiale riferisce che l'offensiva doveva già essere in corso, ma rimandata al 26 a causa
del maltempo.
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alle 2 di notte. Alla fine, al Comando supremo a Udine, ma anche a Cormons
sede di comando del generale Capello, tutti si convinsero che dall'altra parte
si faceva sul serio, molto sul serio. Si cercò allora di correre ai ripari, «ma la
sorpresa strategica era riuscita»1

Il piano d'attacco nemico era stato abbozzato già dopo la 10ª battaglia e
prevedeva un massiccio e vigoroso attacco dalla testa di ponte di Tolmino. Gli
austriaci volevano fare tutto da soli senza l'aiuto dell'alleato germanico. L'im-
peratore Carlo aveva chiesto ai tedeschi la sostituzione di alcune divisioni
austriache schierate sul fronte orientale con altrettante germaniche per rinfor-
zare il fronte d'attacco sull'Isonzo. I tedeschi, pur concordando per l'offensiva,
non accettarono la soluzione proposta: inviarono invece il generale Krafft
von Dellmensingen a fare una gita (così la chiamò lui stesso) sull'Isonzo per
verificare la possibilità di un'offensiva congiunta e risolutiva. Il generale,
esperto della guerra in montagna,2 condusse a termine la sua missione tra il
2 e il 6 settembre concludendo che l'offensiva su quell'arco di fronte aveva
buone probabilità di successo. Hindenburg approvò il piano contro l'Italia su-
perando qualche perplessità da parte di Ludendorff che preferiva attaccare in
Moldavia. Fu deciso di costituire un'armata – la 14ª - composta da sette divi-
sioni germaniche, selezionate tra le migliori per la guerra in terreno montano,
con un corredo di artiglieria di tutto rilievo, e otto austro-ungariche anch'esse
scelte tra le migliori. Al comando dell'unità fu designato il prussiano Otto von
Below, imposto dai tedeschi agli alleati che invece avevano un mente di affi-
dare il comando al generale Alfred Krauss; capo di Stato maggiore il generale
Krafft von Dellmensingen. Il piano austriaco prevedeva un'azione dalla testa
di ponte di Tolmino lungo lo Judrio sino a minacciare lo schieramento della
2ª armata italiana. La cosa non si presentava facile perché c'era il concreto
pericolo di un contrattacco sul fianco, qualora la rottura del fronte dalla parte
di Plezzo non fosse completa. Pensavano di aggirare la conca di Plezzo dalla
parte del monte Nero, scendendo a Ternova e superando l'Isonzo. Von Below
proponeva invece un obiettivo più vasto, assumendo come direttrice d'attacco
la linea montuosa a destra del Natisone. L'inconveniente del piano derivava
dal fatto che, perno su Tolmino, la conversione che doveva compiere l'ala
destra diveniva maggiore proprio quando il terreno diventava più montuoso
e difficile. «Krafft – Scrive Piero Pieri – apportò ai progetti in discussione
una modificazione geniale e per noi fatale: una mossa da Tolmino, lato nord,
1 Bencivenga, op.cit. pag.32
2 Nel 1915 il generale Krafft, ufficiale d'artiglieria, era stato inviato sul fronte delle Dolomi-
ti anche se la Germania non era ancora in guerra con l'Italia. Egli era considerato il maggior
esperto dell'esercito tedesco per la guerra in montagna.
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risalente l'Isonzo in modo da giungere più facilmente a Caporetto e alla stret-
ta di Saga, senza attraversare il fiume, non solo, ma da infilare senz'altro la
valle del Natisone all'ampia stretta di Staro Selo. In tal modo i due attacchi a
Tolmino e a Plezzo, nella prima concezione alquanto slegati, venivano stret-
tamente coordinati con un unico obiettivo, e la nostra ala sinistra presa in una
terribile morsa».3

E tra Plezzo e Tolmino si aprì una voragine


Il corso dell'Isonzo era controllato dagli italiani dalla conca di Plezzo,
dove il fiume sbocca dalle montagne, fino al mare con l'esclusione della testa
di ponte trincerata di Tolmino che aveva resistito a tutti gli attacchi dell'ago-
sto 1917. «Tra Plezzo e Tolmino c'è un triangolo sbilenco, di cui due lati
sono formati dall'Isonzo, che scorre prima per 8 chilometri da Plezzo verso
sud-ovest fino alla stretta di Saga (da cui si può arrivare al bacino del Taglia-
mento), poi piega verso sud-est verso Tolmino, passando per la cittadina di
Caporetto (30 chilometri). L'altro lato del triangolo è l'alta catena nord-sud
da Plezzo a Tolmino, con il monte Nero e il Merzli (circa 25 chilometri in
linea d'aria)».4 La linea del fronte seguiva la catena montuosa da Plezzo a
Tolmino, poi superava l'Isonzo con l'altopiano della Bainsizza e il Carso. Sul
primo tratto era schierato il IV corpo al comando del generale Alberto Ca-
vaciocchi (56 battaglioni e 450 pezzi di artiglieria). A Tolmino, di fronte alla
testa di ponte austriaca la 19ª divisione del XXVII corpo di Badoglio5. Alle
spalle dei due corpi in prima linea il VII corpo comandato dal generale Luigi
Bongiovanni.6 Dietro questo corpo,7 quasi più nulla fino a Udine, sede del
Comando supremo. Le riserve del Comando supremo erano dislocate ver-
so Palmanova tutte orientate verso la Bainsizza così come la maggioranza
delle forze italiane. In merito al nostro schieramento il generale Bencivenga
scrive: «Alla sera del 23 ottobre, lo schieramento delle nostre forze tradiva
la sorpresa strategia nella quale era caduto il nostro Comando supremo. Lo
schieramento infatti, non rispondeva a nessun disegno da parte nostra, né di-
fensivo né controffensivo. Basterebbe il semplice rilievo che la densità delle
forze sulla fronte Giulia andava crescendo da Plezzo al mare, cioè in ragione
inversa della forza naturale delle posizioni e del loro apprestamento difensivo
3 Piero Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965, pag.141.
4 Isnenghi – Rochat, La Grande Guerra 1914 – 1918, Firenze 2000 pag. 374.
5 Le altre 3 divisioni del XXVII erano sulla sinistra dell' Isonzo.
6 Il VII corpo, non ancora organicamente ben definito, al 24 ottobre era composto da una
trentina di smilzi battaglioni senza artiglieria.
7 Le scarse e disomogenee unità che presidiavano le retrovie non avevano apprestamenti
difensivi, erano praticamente accampate «perché il loro compito era di alimentare il combat-
timento sulla linea del fronte»(Rochat) e non predisposti alla difesa.
14
e nella ragguardevole proporzione di 1 a 4, per escludere che rispondesse alle
esigenze di difesa Plezzo – Tolmino8.
Il fronte d'attacco scelto dall'armata Austro-Germanica presentava il trac-
ciato di un saliente con il vertice al Monte Nero. Il vertice del saliente era for-
te mentre i lati vulnerabili: di fatto lo sfondamento di uno dei lati del saliente
avrebbe provocato l'aggiramento del vertice. I tratti più deboli del saliente
erano indicati dalla natura del terreno, a nord in corrispondenza della stretta di
Saga e del passo di Za Kraju; da est la breccia poteva essere individuata dalla
valle dell'Isonzo da Tolmino a Caporetto.
Nella notte del 24 ha inizio la preparazione d'artiglieria, con granate a gas,
che durerà quattro ore e un tiro di distruzione, con grossi calibri, breve – dure-
rà solo due ore –, ma di una violenza e una precisione devastanti9. L'attacco
nemico – scrive Piero Pieri:

al Rombon era respinto sanguinosamente, in conca di Plezzo, grazie a potenti emissio-


ni di gas, la prima linea era sfondata, e poscia anche la seconda, ma il nemico si fermava
di fronte alla terza linea antistante alla stretta di Saga; nella zona fra Krasij e Vrsic, l'at-
tacco era contenuto sulla linea di resistenza ad oltranza, e così pure al Monte Rosso, e di
fronte al Mrzli era fermato dalla retrostante linea del Pleka. In complesso dunque la testa
di ponte del Monte Nero aveva resistito tutta quanta. Ma in fondo valle e contro quasi
tutte le posizioni davanti alla testa di ponte di Tolmino, dove l'attacco tedesco condotto
da 4 grosse divisioni fu particolarmente violento, le difese degli esili reparti della 19ª di-
visione, non sostenuti dal tiro della nostra artiglieria, venivano su larghi tratti travolte: il
IV corpo era preso alle spalle, e il VII corpo in parte avviluppato, in parte ridotto ad agire
con contrattacchi slegati, tardivi di fronte a un nemico molto superiore di numero, e che

8 L'affermazione del Bencivenga circa lo schieramento italiano giudicato non adatto alla
controffensiva non trova conferma in diversi storici come Pieri, Caviglia, Rochat ecc. La
stessa relazione ufficiale italiana giudica lo schieramento italiano predisposto alla controf-
fensiva, è per questo motivo che il grosso dell'armata di Capello, comprese le 3 divisioni del
corpo di Badoglio gravitavano verso la Bainsizza.
9 L'artiglieria germanica, contrariamente alla nostra, ma anche a quella austriaca, non
faceva tiri di aggiustamento nei giorni precedenti l'attacco. Veniva sparata una sola granata
fumogena sull'obiettivo prestabilito, gli osservatori valutavano il risultato e, a tavolino, si
correggevano i dati di tiro. Prima dell'inizio dei tiri i dati venivano ancora corretti tenendo
conto, della velocità del vento, della vivacità delle polveri ecc. da ciò l'estrema precisione ed
efficacia dei tiri.
Nella lunga esperienza della guerra italo-austriaca i fanti drizzavano gli orecchi quando i tiri
di aggiustamento del nemico si facevano più frequenti, era il segno che presto ci sarebbe stato
un attacco. Vittorio Emanuele, che aveva il suo quartiere generale a Udine, poco distante dal
Comando supremo, girava da un posto all'altro del fronte, armato di binocolo e macchina
fotografica, per valutare i tiri di aggiustamento dell'artiglieria: e telefonare le sue impressioni
a Cadorna.
15
applicava con grande abilità la tattica dell'infiltrazione e dell'aggiramento, giungendo con
mitragliatrici alle spalle dei nostri, provocando disordine e scoramento i truppe, stanche,
nuove dei posti, non addestrate per nulla alla battaglia manovrata […]10

La 12ª divisione Slesiana risale il fondo valle dell'Isonzo di corsa, passa


in mezzo alle linee del XXVII Corpo senza che nessuno se ne avveda e, in
perfetto orario sulla tabella di marcia preventivata, alle tre del pomeriggio
le avanguardie sono alle prime case di Caporetto.11 All'inizio della battaglia
Caporetto – posizione strategica del nostro schieramento – era difesa solo da
due reggimenti a fronte dell'intera 34ª divisione che doveva esserci e invece
non c'era. «Orbene – scrive Bencivenga – questi due reggimenti,12 quando già
il nemico era da mezz'ora a Selisce, cioè a circa 4 chilometri in linea d'aria
da Caporetto, sono mandati: uno a Saga, l'altro a guarnire la posizione del
Volnik, la quale faceva sistema con quella del Monte Nero a protezione della
conca della Drezenca». Qualcuno si accorse che a Caporetto non c'era rimasto
nessuno e rimandò uno dei reggimenti indietro verso Selisce, lungo la sponda
sinistra dell'Isonzo. Così, quando i tedeschi corrono verso Caporetto lungo la
sponda destra del fiume, non ci sono reparti per tentare di sbarrargli il passo
e possono piombare sulle nostre posizioni di artiglieria schierata immedia-
tamente a est di Idersko. Di fronte a Tolmino le cose non andarono meglio:
dietro la 19ª del XXVII Corpo di Badoglio c'erano due brigate la Elba, del
VII e la Puglie del XVII. Ognuno dei Comandi in questione dette ordini alle
proprie unità senza coordinarsi con l'altro creando confusione e sovrapposi-
zioni. Il VII Corpo poi, che nelle intenzioni del Comando supremo e della 2ª
armata, avrebbe dovuto fungere da riserva tattica e tenere i collegamenti con
i due corpi avanzati (VIII e XVII) mancò completamente tale compito per
la lontananza di alcune unità e per uno schieramento errato. Ad aggravare la
situazione sulla sinistra della 2ª armata si aggiunse l'incredibile decisione di
abbandonare la stretta di Saga. Un primo ordine di abbandonate l'importante
posizione fu dato intorno alle 16 dal comandante interinale dell'armata. «A
quale criterio si ispirasse il generale Montuori, il quale per il comando che
rivestiva doveva essere in grado di rendersi conto delle conseguente strategi-
che che sarebbero derivate da tale abbandono, non si riesce a comprendere.
Per fortuna quest'ordine non arrivò a destinazione, ma più tardi, e cioè alle

10 Pieri, op. cit. pag 156.


11 Nel marasma e nella sorpresa generale, il generale Farisoglio, comandante di una delle
divisioni del IV Corpo venne catturato, unitamente al suo capo di Stato maggiore nell'abitato
di Caporetto mentre cercava di allontanarsi.
12 Erano della brigata «Foggia» che era formata da tre reggimenti anziché da due come la
generalità delle brigate di fanteria dell'esercito Italiano.
16
18, fu il comandante della 50ª divisione che di sua iniziativa diede l'ordine per
l'abbandono della stretta di Saga e per il ripiegamento sulla fronte M.Guarda,
Valle Uccea, Privi Hum, M. Stol.13 […] La sterra di Saga costituiva una del-
le porte più pericolose per noi […] la sua difesa doveva essere considerata
alla stregua dei forti di sbarramento, i quali non possono essere abbandonati
senza l'ordine esplicito del comando cui spetta la condotta delle operazio-
ni». L'abbandono frettoloso, inspiegabile tatticamente, della stretta di Saga
meravigliò lo stesso generale Krafft il quale osservò che per la difesa della
stretta, formata da una gola rocciosa larga quanto la strada, sarebbero bastati
un pugno di uomini e una sola mitragliatrice. Lo stesso generale tedesco non
finiva mai di meravigliarsi, ad esempio non riuscì mai a comprendere perché
gli italiani, alla vigilia dell'attacco, non avessero abbandonato le posizioni più
avanzate e vulnerabili.14 Il ritiro dalla stretta di Saga comportò la perdita di
tutte le truppe del IV Corpo, che dopo la distruzione del ponte di Caporetto
e di Serpenizza rimasero imbottigliate e senza via di fuga. Inoltre – come os-
serva Bencivenga – «aprì la porta al nemico per realizzare un grande successo
in campo strategico».15
A Udine – sede del Comando di Cadorna - occorrono delle ore perché ci
si renda conto della realtà che si stava delineando sul campo. Il colonnello
Gatti - aggregato al comando supremo in qualità di storico - nella pagina del
suo diario del 24 scrive che alle 18 (quando i tedeschi erano a Caporetto dalle
15 e l'intero IV era perduto) Cadorna, uscendo dal suo ufficio, lo chiama, «è
tranquillo, sorridente» e tra l'altro gli dice: «[…] non sappiamo con sicurezza
dove sono i nemici. Quindi non possiamo nemmeno inferire che cosa pos-
sano fare». Tuttavia – scrive Gatti – «è indiscutibile, che alle 18, il generale
Cadorna ha il pensiero diviso fra queste due possibilità: che il nemico faccia
un «bluff» davanti a Tolmino, e attacchi in un altro punto, per esempio nel
Carso, o che il nemico faccia sul serio davanti a Tolmino. Non è ben convinto
che si possa attaccare da Tolmino a Caporetto. «Ci sono tre catene in mano
nostra, dice: come fa a sboccare, sotto il tiro delle nostre artiglierie? Per esem-
pio pigliamo la conca di Tolmino: come fa ad andare contro la formidabile
posizione nostra […] se le nostre artiglierie dominano le strade di Volzana e
dell'Isonzo?». Il colonnello, tranquillizzato dal suo Capo che nulla di grave
poteva avvenire in quel che restava del giorno fatidico, subito dopo cena, va
a vedersi un film, torna al Comando intorno alle 22, lo trova «tutto illumi-
nato» e in gran fermento. Ci sono tutti, il vice di Cadorna generale Porro, i
13 Il comandante della divisione era il generale Giovanni Arrighi.
14 Krafft von Dellmensingen, Der Durchbruch am Isonzo, Berlino 1929 (ed. italiana: 1917.
Lo sfondamento dell'Isonzo, a cura di Gianni Pieropan, Milano 1981).
15 Bencivenga, op.cit. pag.82.
17
vari colonnelli della segreteria in piena agitazione. Gatti si avvicina con una
certa trepidazione a Porro e chiede come vanno le cose. Porro, in linea con il
ferreo ottimismo del suo capo, risponde: «non benissimo». Poi gli snocciola
i dati conosciuti della situazione. Altro che « non benissimo». Non ci sono
notizie della 43ª e 50ª divisione del IV Corpo, la perdita del Monte Piatto,
lo Jeza, il Globocak, forse 20.000 prigionieri, tutti i cannoni perduti. Scrive
Gatti, sbalordito dalle notizie: «Guardo in faccia tutti. Il nemico, approfittan-
do della nebbia, ha fatto fare ad alcuni suoi reparti 22 chilometri, per monti
difficilissimi. I nostri se li son visti arrivare alle spalle. Il IV Corpo non ha
resistito neanche un minuto. Il XXVII è stato anch'esso superato subito alla
sinistra. Anzi, il IV Corpo accusa il XXVII di aver permesso all'avversario
di filare dai ponti di Tolmino, per costone fino a Luico e Idersko, in modo da
essere sulla destra dell'Isonzo, e alle spalle dei nostri.[…] Il capo ha detto che
ritirerebbe tutto sul Tagliamento. La cosa è mostruosa e inconcepibile».16
Dunque, già dalla sera del 24 i giochi sembravano fatti. Il Comando supremo
ha mobilitato quasi tutte le riserve disponibili; il giorno dopo il Comando della 2ª
armata getta tutte le truppe che erano rimaste in inutili tentativi. La situazione or-
mai compromessa e già definita, le sorti della battaglia decise. Cadorna, che ave-
va previsto già alla sera del 24 la necessità si ritirarsi sulla linea del Tagliamento,
ordinava alle due armate 2ª e 3ª di predisporre per la rimessa in efficienza di quel-
la linea. Non si era in grado di tamponare la falla che si era creata per la rottura
del fronte, né si poteva pensare che truppe battute, avvilite, distrutte, delle quali lo
stesso Cadorna aveva espresso giudizi taglienti, potessero arginare il dilagare del
nemico. I generale si convince della ineluttabilità della manovra in ritirata e ordi-
na alla 3ª armata, poco coinvolta nei combattimenti e dunque integra, di trasferire
subito sul Piave le artiglierie di grosso calibro meno mobili e quindi d'intralcio
per il ripiegamento. Poco dopo aver preso tale decisione, che sembrava oggettiva-
mente inevitabile,17 cambia idea,18 o meglio cerca conferme sentendo il sostituto
16 A. Gatti, Caporetto, dal diario di guerra inedito, a cura di Alberto Monticone, Bologna
1964. Il diario di Gatti è stato recentemente ripubblicato, sempre dalla casa editrice il Mulino
di Bologna. Si noti come il Comando supremo, fin dal primo giorno, attribuisca la responsa-
bilità maggiore dell'accaduto al IV Corpo che «non ha resistito neanche un minuto», mentre
al XXVII di Badoglio, solo le accuse riferite dal generale Cavaciocchi, comandante del IV,
senza commento.
17 Lo stesso Capello al mattino del 25, prima di lasciare il Comando per essere ricoverato
all'ospedale di Padova, aveva consigliato a Cadorna, prima verbalmente poi per iscritto, di
ritirarsi sul Tagliamento per sottrarsi «allo stretto contatto e alla pressione nemica sotto la
protezione d'una strenua difesa di retroguardie». .
18 Dal diario del colonnello Gatti traspare con chiarezza che l'ipotesi di una ritirata dietro
il Tagliamento è vista, nella cerchia del comando supremo, come una immane tragedia.
Dopo aver combattuto, con risultati alterni, undici battaglie sull'Isonzo costate centinaia di
migliaia di uomini, aver conquistato il S.Michele, Gorizia, il Sabotino e la Baisizza e proprio
18
di Capello generale Montuori,19 il quale avalla senza riserve il pensiero del capo
sulla possibilità di resistere con il solo abbandono dell'altopiano della Bainsiz-
za. Dunque, è deciso: resistenza ad oltranza sulla linea Montemaggiore-Korada,
«fino all'ultimo uomo» – tuona il Generalissimo. Questo è il nuovo verbo: tutte le
riserve disponibili sono gettate nella fornace. La riserva è per definizione un'ali-
quota di forza alla mano di un comandante da utilizzare per contrastare azioni
di sorpresa da parte del nemico.»L'insieme di tali forze viene anche detto forze
libere, poiché sono svincolate da precisi compiti».20 Ma tali forze devono essere
alla mano, ossia impiegabili immediatamente in caso di bisogno e tutte, non a
spizzico come invece avvenne. Abbiamo già accennato al VII Corpo che era una
riserva solo nella testa di Cadorna – ammesso che abbia mai pensato realmente
nelle capacità d'intervento efficace di quel corpo d'armata - che era ancora in fase
di costituzione all'inizio della battaglia. A quel Corpo «mancava l'attributo essen-
ziale d'una riserva, ossia la mobilità».21 Le riserve della mastodontica 2ª armata,
erano sottostimate nel caso di una battaglia difensiva22. Ma il problema era che
le unità erano tutte orientate alla conca di Gorizia e alla Bainsizza e a protezione
degli sbocchi a sud della testa di ponte di Tolmino, non alla sinistra dell'armata,
già debole di per sé. Scrive il Pieri sulla dislocazione delle riserve:
Dunque riserve d'armata non rispondenti né per forza né per dislocazione alle esigen-
ze della difesa dal punto di vista tattico, e un comando d'armata troppo lontano e oberato,
per poter avere l'esatta e tempestiva sensazione del loro impiego. Non meno, e forse più
inadeguate le riserve del Comando supremo. Non già venti o ventidue divisioni, ma otto
o nove, oltre una sulla fronte trentina (114 battaglioni in tutto). Non solo, ma le riserve
erano dislocate in due nuclei, fra Cividale e Cormons l'uno, presso Palmanova l'altro, os-
sia troppo a sud e troppo vicino alle prime linee. Il che è quanto dire, non utili in campo
strategico. Così che la disposizione delle riserve del Comando supremo non valeva per

quando sembrava che con un altro sforzo saremmo arrivati a Lubjana, l'abbandono di tutto
doveva suonare bestemmia. Cadorna, nel mutare le proprie decisioni e tentare la difesa ad
oltranza, può essere stato condizionato psicologicamente dall'umore che percepiva tra i suoi
collaboratori.
Lo stesso giovane aspirante Acquaviva, - nel diario che segue – apprende la decisione del
ripiegamento come qualcosa di inaudito, da stentare a credere.
19 Montuori era il vice di Capello quando assunse il comando dell'armata ad interim. È
singolare che Montuori accettasse e condividesse la retromarcia di Cadorna circa la ritirata al
Tagliamento quando verosimilmente, poche ore prima, aveva condiviso con Capello l'ipotesi
contraria.
20 R. Busetto, Il Dizionario Militare, Bologna 2004.
21 P. Pieri, La Prima Guerra Mondiale 1914 –1918, Problemi di Storia Militare, Roma,1987,
pag. 261. (La prima edizione fu pubblicata a Torino nel 1947).
22 Un quinto della forza anziché la metà. La sottostima delle riserve tenute alla mano dal
comando dell'armata di Capello conferma l'ipotesi che non si prevedeva un attacco di quelle
proporzione sull'ala sinistra.
19
San Donà di Piave sconvolta dai cannoneggiamenti. Foto aerea dell'ottobre 1918. MCRR.
Ponte di Piave 1918. MCRR.
nulla a correggere la cattiva dislocazione di quelle della 2ª armata. Esse inoltre erano per
lo più inquadrate in brigate, e non in divisioni e Corpi d'armata, ed eran formate […] dalle
brigate logore, mandate nelle retrovie per ricostituirsi.

Quando Cadorna ordinò la resistenza fino all'ultimo uomo sulla linea Mon-
temaggiore-Korada era ormai troppo tardi, la linea stava per essere aggirata.
Alla sera del 26 le poche truppe appena giunte sgomberarono in fretta.23 Fu
solo nell'apprendere questa notizia che Cadorna decise la ritirata al Taglia-
mento. Tra un ordine, un contrordine, un ripensamento si sono perse 36 ore.
Già nel pomeriggio del 27 le avanguardie nemiche erano giunte a Cividale
scendendo per la strada principale del Pulfero. Nelle stesse ore il Comando
supremo lascia Udine e si trasferisce direttamente a Treviso, non dietro il Ta-
gliamento, come sarebbe stato logico per coordinare l'afflusso dell'esercito in
ritirata. L'ordine di ripiegamento assegna i ponti della Delizia alla 3ª armata,
ponti fino allora a disposizione della 2ª. Tale decisione costringe le truppe che
erano state più provate dai combattimenti ad una marcia obliqua nella pianura
friulana con il pericolo di essere attaccati sul fianco. Inoltre Montuori decide
di usare i corpi della Bainsizza per proteggere il fianco della 3ª in ritirata dal
Carso. Decisione discutibile in quanto a questo scopo erano già schierati i
reparti superstiti dell'VIII corpo per cui – scrive Pieri – «quattro corpi della
2ª armata venivano così trattenuti per garantire il deflusso di altrettanti Corpi
formanti la 3ª armata. Insomma un fiancheggiamento del fiancheggiamento».
Dopo un certo tempo Montuori si convince dell'errore e chiede al Comando
supremo a Treviso di consentire il passaggio dei tre Corpi sui ponti di Codroi-
po, ma da Treviso viene il veto: «È di supremo interesse condurre in salvo
almeno la 3ª Armata che si conserva salda ed efficiente»! Nella confusione
generale si inserisce l'episodio dei ponti di Codroipo difesi da un velo di trup-
pe dei resti dell'VIII Corpo. Le avanguardie nemiche, già alla sera del 29 sono
al Tagliamento. Il fiume non è guadabile a causa della piena, allora scendono
sulla sponda sinistra aggirando, con la solita tattica, la difesa dei ponti. Que-
sta situazione costringe in fretta e furia a far brillare le mine già predisposte.
Alle 13 del 30, quando con un gran boato saltano i ponti, interi Corpi sono
ancora sulla sinistra del fiume, il nemico cattura un gran numero di prigionieri
e ingente bottino. A quel punto non resta che ritirarsi dietro il Piave. Tutti i
ponti sul Piave furono fatti saltare. L'ultimo fu quello della Priula dove un
battaglione della brigata Sassari lo percorse al grido: Siamo gli ultimi!
23 Sulla caduta di Montemaggiore il Pieri registra il parere espresso dallo storico militare
Viktor Schemfil, allora comandante del battaglione di Kaiser-jäger che occupò la cima di
Montemaggiore, il quale asserisce che il ritiro degli italiani fu troppo frettoloso quando la
situazione non era ancora compromessa.
22
In pratica l'efficienza operativa del nostro esercito risultò quasi dimezzata.
Il successo di von Below e la rottura del fronte dell'armata tra Plezzo e Tol-
mino non era, di per sé, un fatto irreparabile. L'attaccante ha il vantaggio di
scegliere il punto e l'ora dell'attacco, di impiegare uomini e mezzi in misura
tale da surclassare e sorprendere il difensore: se gli stati maggiori pianificano
seriamente la probabilità del successo iniziale dell'attacco è molto probabile.
Sta a chi si difende predisporre le misure per contenere i danni dell'attacco e
porvi rimedio. Cosa che a Caporetto non avvenne.

Il nuovo fronte
A Refrontolo, proprio sopra il Piave, c'è una bella villa con il cancello
d'ingresso maestoso, Villa Antonietta, o Villa Spada dal nome della famiglia
che vi risiedeva. Fino al 1866 il proprietario della villa era un alto funzionario
imperiale come si può desumere dalla raccolta di documenti conservati nella
barchessa della villa stessa. Maria Spada, allora giovane donna, abitava la
villa di Refrontolo e dal 9 novembre 1917 fu costretta a condividere la casa,
divenuta sede di un comando, con i nemici.24
«[…] i primi ad arrivare furono due ufficiali austriaci a cavallo, poco dopo
mezzogiorno, entrarono nel giardino ed uno avvicinandosi alla porta mi chie-
se, con cortesia, parlando in francese, se avevo un uovo[…] Verranno gli au-
striaci? gli chiesi. «Sarà molto peggio, perché verranno i tedeschi.»». Dopo
alcune ore infatti entrarono a Villa Antonietta una ventina di ufficiali e 150
soldati con cavalli, biciclette e moto, al comando del capitano Korpim della
Breslavia. L'ufficiale – scrive Maria - «sarà famoso guerriero, ma non genti-
luomo […] Mi intimò di scacciarmi dal castello, se non alloggiavo tutti. Gli
invasori hanno scassinato ogni cosa, saccheggiato, portato via il fonografo, il
mandolino ecc. e sporcato tutto». Il giorno 11, domenica, giunge alla villa il
comandante del Corpo d'armata, barone von Stein. Il generale, «accompa-
gnato da principi e baroni» si comportò meglio del capitano e «tutti s'inchina-
rono a madama del castello».Martedì 20 novembre «Il comando supremo è
sempre in Villa Antonietta. Personaggi amanti del mangiare bene e molto;
gustato assaissimo il vino della Villa e specialmente le bottiglie.» Sono i gior-
ni in cui gli invasori preparano l'assalto finale al fronte italiano. L'ottimismo,
per non dire l'entusiasmo, di assestare all'Italia il colpo mortale viene perce-
pito anche nel piccolo mondo del paese. Scrive Maria Spada: «Refrontolo
sembra una capitale: automobili a migliaia, autocarri, cavalli, truppa e trup-
24 I brani che seguono sono ripresi dalle Memorie di Maria Spada conservate dal fratello
Gino e stampate nel 1992 in un opuscolo dal titolo Diario dell'invasione. Episodi di vita
quotidiana in un quadro di avvenimenti storici.
23
pa… sui cancelli sventola la bandiera bianca rossa nera. Grandi personaggi
sono arrivati a Villa Antonietta: generalissimo von Below, vincitore della Ru-
menia, comandante 14ª armata bavarese e Krafft von Dellmensingen, capo
dello Stato Maggiore». Padrone di casa sempre von Stein che si è insediato
nella camera migliore della villa. L'arrivo del comandante dell'armata però
scombussola tutto e Stein trasloca in altra camera meno importante. Il 24 no-
vembre giunge una delegazione con gli ambasciatori di Spagna, Svezia e
Norvegia in visita al fronte. Alla sera «gran pranzo con 40 coperti. Le pareti
adorne di pino intrecciato col colore germanico». Non mancarono «mandoli-
nisti e violinisti, appositamente fatti venire […] Ore 11 di notte. Profusione di
champagne, brindisi, musica e… il rombo terrorizzante del cannone». Mentre
a poca distanza i soldati, di entrambe le parti erano costretti a vivere (quando
andava bene) in condizioni estreme, al freddo, nel fango delle trincee, Villa
Antonietta era tutta una festa. Il 30 arriva anche l'arciduca Eugenio «precedu-
to da molti generali. Colazione riservata in salotto. Menu stampato su cartoli-
ne di Villa Antonietta. Impossibile averne una da serbare – lo stesso granduca
la ripose gelosamente». Per l'occasione alle pareti del salotto erano stati mes-
si quadri raffiguranti Venezia la cui conquista era giudicata imminente. Il 2
dicembre, dopo 22 giorni, «il Comando Supremo è ancora qui. Tutti si trova-
no molto bene. Non credevano però di trovare tanta resistenza sul Piave. Oh
se l'avessero invece trovata ai nostri confini! S'impadronirono di tanta, tanta
roba di tutti i generi. Al dire dei germanici, non ne possedevano tanta in tutta
la Germania quanta ne trovarono da Udine a qui.»25 Maria Spada, pur senza
possedere elementi concreti di giudizio, rileva, come tanti altri in quei giorni,
la contraddizione tra la rotta di Caporetto e la disperata resistenza sul Piave,
Grappa e altipiani. La constatazione, da parte dei tedeschi, che le cose erano
cambiate dopo la veloce galoppata dall'Isonzo al Piave, ha per conseguenza il
ritiro delle divisioni per inviarle sul fronte occidentale, dove i francesi attac-
cavano anche per ridurre la pressione nemica sul fronte italiano. Von Stein e
il suo comando lasciano la villa il 10 non prima di un ultimo banchetto in
onore di 30 ufficiali austriaci, nuovi inquilini della dimora. Alla proprietaria
di villa Antonietta era rimasta una camera, quella che era stata della madre,
che condivideva con le due domestiche. Il 23 dicembre, messa nella chiesetta
della villa. Alla cerimonia viene invitata, dall'aiutante del generale Bolzano,26
anche Maria Spada che annota: «Mi colpì profondamente l'atto di un capita-
no, dall'aspetto fiero. S'inginocchiò a pié dell'altare e ricevette la S. Comunio-
25 Si noti che l'ottimismo iniziale degli austro-germanici lascia il posto alla sorpresa nel
trovarsi davanti truppe che sul nuovo ed improvvisato fronte resistono strenuamente.
26 Il generale Bolzano troverà la morte sul Montello durante la Battaglia dei Solstizio,
combattuta dal 15 al 23 giugno 1918.
24
ne. Dietro a lui tutti i suoi soldati. Era il condottiero degli arditi comandante
della compagnia d'assalto, Conte della Scala, polacco, imparentato con la fa-
miglia imperiale germanica. « L'aiutante del generale Bolzano era un nobile
di buone maniere, barone Rudolf Feilitzsch, che spesso conversava con la
padrona di casa. Una delle cose che più angustiava Maria era la proibizione di
scrivere «in Italia» per avere notizie dei suoi cari. L'ufficiale, alla pressante
richiesta di Maria di poter inviare una lettera, pur confermando il divieto, ri-
spose: «Scriva Madama e mi consegni la lettera». Il 30 gennaio, scrive Maria,
«Per la prima volta dopo l'invasione ho visitato la mia santa Mamma, bene-
detta. Ho trovato la cappellina tenuta in ordine dalla custode, il camposanto
ricco di tombe di soldati germanici e austriaci. Pare impossibile, perfino nella
morte la Germania tiene l'Austria soggetta, sotto il suo comando: il soldato
germanico viene messo nella cassa, l'austriaco viene sepolto senza cassa.» 27
Il 1° febbraio, attraverso la Gazzetta del Veneto, giornale italiano stampato a
Udine, Maria legge finalmente una bella notizia: «Maria Spada Refrontolo
(Conegliano). I fratelli stanno bene». Il 14 febbraio la brigata di von Bolzano
lascia villa Antonietta per trasferirsi «in una casa dei coloni del farmacista a
Pieve di Soligo». La mobilia per la casa, appositamente ristrutturata «a spese
della brigata», proviene da Refrontolo con tanto di «protocollo con timbro
della brigata, la quale si obbliga a far riportare ogni oggetto qui in casa, alla
conclusione della pace». Il 23 marzo si presentò alla signora un colonnello
«che parlava in veneziano», voleva riportare indietro la mobilia finita a Pieve
di Soligo. Ma «la cosa si faceva un po' complicata dato il contratto fatto. Ci
spiegammo e se ne andò soddisfatto», chiosa la padrona di casa. La domenica
di Pasqua cadeva il 31 marzo e Maria non si risparmiò le Messe. Assistette
addirittura a tre, una dopo l'altra, celebrate dal parroco del paese e da due
cappellani, uno ungherese e l'altro greco cattolico. Gli italiani avevano dira-
dato l'intensità delle artiglierie, ma gli aerei continuavano a scaricare migliaia
di volantini propagandistici. Visto che le cannonate erano ormai rare il 13
aprile i soldati occupanti mettono in scena una gran festa con vari giochi (ten-
nis, albero della cuccagna, corse varie con premi), insomma non sembrava
che ci fosse la guerra: presente il comandante della brigata ospite della villa.
Lo stesso generale dal nome impronunciabile di Sypniewski, il due maggio,
si presenta alla signora Maria «in alta tenuta, con le decorazioni al collo e il
27 Nelle note di Maria Spada traspare un profondo astio verso i tedeschi mentre è più
tollerante nei confronti degli austriaci. Eppure sono proprio le truppe d'assalto austriache
al comando del polacco conte della Scala che devastano la sala da pranzo e rubano quadri
e suppellettili. Per quanto riguarda la sepoltura dei soldati caduti non credo che i tedeschi
abbiano imposto alcunché ai loro alleati, semplicemente le disposizioni erano diverse da un
esercito all'altro.
25
Venezia: la flotta austriaca viene consegnata all'Italia dopo l'armistizio. MCRR.

Artiglieria austriaca catturata in Trentino. MCRR.


Castelfranco Veneto: 17 marzo 1918. Soldati in inglesi. ISTRIT.

Castelfranco Veneto: 17 marzo 1918. Soldati francesi consumano il rancio. ISTRIT.


petto fregiato di medaglie e si congedò». Per la villa si trattava però solo del
cambio d'inquilini. Infatti la sera stessa arrivano i nuovi. Si trattava di una
brigata mista composta da austriaci, bosniaci, ungheresi e turchi dal rassicu-
rante nome di La feroce. Il colonnello che comanda quella brigata quasi inter-
nazionale si presenta come da etichetta pronunciando il suo nome: «colonnel-
lo Kirschhoffer», che come pronuncia faceva il paio con il generale appena
partito. Appena arrivati gli ungheresi «fecero venire a Refrontolo il cinema-
tografo a favore delle vedove e degli orfani di guerra». I film proiettati erano
tutti italiani e dunque comprensibili. Il 27 maggio Maria riceve una cartolina
dal fratello Gino. La posta arriva da Udine, ma la cartolina era stata spedita da
Roma il 12 dicembre dell'anno precedente. Il 9 giugno – scrive Maria Spada
– «Di giorno in giorno si aspetta la grande offensiva. Quest'ultimo comando
finisce di requisire ogni cosa, animali, biancheria ecc. considera i civili come
nemici». Il 14 giugno i segnali di quella che sarà la battaglia decisiva per gli
austro-ungarici sono numerosi: «carri, autocarri, truppa. È partito il comando
ed è giunto un ospedaletto da campo, con sacerdote e infermiere». Il giorno
dopo – annota Maria – «alle tre di notte mi sono svegliata di soprassalto. Tut-
to tremava per il bombardamento terribile». Ma, nella concitazione della bat-
taglia, qualcuno bussa alla porta con vigore. La padrona ordina alla cameriera
di aprire, di andare a vedere, la cameriera torna lestamente e dice: «un solda-
to armato di tutto punto, in via di raggiungere i suoi, porta una lettera che
deve rimanere soltanto nelle sue mani». «Mi vesto sgomenta temendo che mi
fosse intimato di lasciare la casa, recito un Ave Maria e leggo. Era del barone
Felitzsch che mi avvertiva che a causa dell'ordine improvviso di partire gli era
impossibile farmi avere la mobiglia che si trovava in Federa: la mandassi pure
a prendere essendo a mia disposizione […] Non potei fare a meno di pensare
che agire così in simili circostanze significava fare la guerra da gentiluomi-
ni». «Sabato 15 giugno. Gli austro- ungarici iniziano le loro offensive sul
Piave. Riescono a passare il fiume. Comincia lo stuolo dei prigionieri italiani
ricevuti dalla popolazione con improperi». Ma passano pochi giorni e le cose
cambiano. Il 17 «Aereoplani italiani, inglesi e francesi rompono i ponti che
gli austriaci gettano ininterrottamente sul Piave». Sabato 22 giugno: la batta-
glia è alla conclusione, il tentativo di sfondamento del fronte del Piave, del
Grappa e degli Altipiani è stato fermato. Gli austriaci, questa guerra l'hanno
ormai persa! A Refrontolo era tornata la brigata del generale Bolzano «meno
il povero generale perito sul Piave. Gli arditi italiani lo videro piombare nella
trincea gridando «vittoria, vittoria!» Gli intimarono di arrendersi, ma non ne
volle sapere e morì pugnalato. Anche il suo cameriere era morto. Gli portava
fino al di là del Piave il pranzo attraversando il fiume su una barchetta. Il pas-

28
saggio fu fatto bene per due giorni; il terzo giorno il cameriere partì triste di-
cendo che non sarebbe più ritornato. Quel giorno la barchetta fu colpita e si
capovolse con il cameriere e il pranzo». Lunedì 24 giugno: «Gli italiani re-
spingono gli austro-ungarici dal fronte del Piave. L'offensiva è fallita, comin-
cia la ritirata: e truppe, truppe, truppe si susseguono passando per Refronto-
lo». Nella confusione che seguì la ritirata non mancarono nel piccolo paese
devastazioni e saccheggi. Finalmente il 27 «venuto un nuovo comando e con
esso la quiete». Giovedì 4 luglio 1918: «Povera villa Antonietta. Il giardino è
ridotto a campo attendato: la casa quartiere è abitazione per un colonnello di
brigata e molti ufficiali, caserma per tutti i soldati: ne dormono in doppia fila
per terra e perfino dentro gli armadi dove in tempi migliori tenevo la bianche-
ria di famiglia».
20 luglio 1918: «Festa di S. Margherita patrona di Refrontolo. Povera tri-
ste sagra con lo spettro della fame davanti. Da otto mesi tutti i comandi hanno
sempre requisito ogni cosa. Le piantagioni sono distrutte dal passaggio dei
cavalli e dei soldati. Si vedono donne e ragazze con il sacco sulle spalle che
camminano, camminano sfidando bombe e granate, avanzano imperterrite
fino al Piave per raccogliere le spighe di frumento. Talvolta sono sorprese
dalle sentinelle e allora dopo aver sfidato la morte si buscano la prigione e il
sequestro di ogni cosa. Povere creature arrischiano la vita per provvedere ai
vecchi e ai bambini e purtroppo vecchi e bambini ne muoiono ogni giorno di
fame».28 Domenica 4 agosto: «Ero alla Messa delle 10 quando cominciarono
le granate. Tutti rimasero in chiesa. Ne caddero 6 vicino alle ville Uberti, Cor-
radini e Colles. Scoppiarono sul terreno senza arrecare danni. Non è giunto
nessun comando. Sembra strano vedere la casa vuota di soldati. L'aiutante
del generale Sypniewski di passaggio ha detto che il barone Felitzsch rimase
gravemente ferito nell'offensiva, ma salvo». Il 5 altre cannonate italiane sul
paese: 12 granate, con qualche danno, ma senza vittime. Quel giorno arriva in
villa un comando austriaco. Il 22 raid aereo con lancio di «biglietti scritti in
diverse lingue. Gli ufficiali austriaci sono indignati vedendo come si cerchi di
aizzare gli sloveni contro il governo austriaco».29 Il giorno dopo si fa vedere
anche un aereo francese che «volando bassissimo abbatté stamane su Pieve di
Soligo un aeroplano austriaco. I due piloti uccisi, un ufficiale aviatore con le

28 L'esercito austro-ungarico, negli ultimi mesi di guerra, viveva una drammatica situazio-
ne logistica: mancava di tutto, persino dei viveri per il sostentamento dei soldati. Il territorio
occupato era ormai stato saccheggiato, non c'era più niente da prendere. Maria Spada mette
bene in evidenza la situazione per quanto riguarda la popolazione civile che muore letteral-
mente di fame e di stenti.
29 La stessa cosa l'avevano fatta gli aerei austriaci nei confronti dei soldati italiani, specie
nel 1916 -17. Dunque niente di nuovo.
29
gambe spezzate». Il 30, sotto una temporale, in tarda serata, «giunse in Villa
Antonietta il comando della 12ª divisione di cavalleria appiedata30 comanda-
ta dal principe Max Eugenio Furstenberg, parente dell'imperatore d'Austria.
Stamane alle 11 il capo di stato maggiore venne a presentarsi. Il casato è turco
e si traduce Mano Nera. Parla italiano. È cognato del conte Nicolò Papadopoli
avendo sposato la sorella della contessa Elena. La villa fu messa in ordine
e sulla riva fu piantato il telegrafo Marconi». Il principe comandante della
divisione di cavalleria appiedata il 16 settembre parte per Vienna «per la ria-
pertura della Camera dei Signori. Il principe ogni mattina scendeva a cavallo,
in tenuta inappuntabile, fino al Piave e tornava a mezzogiorno tutto coperto
di fango». Il giorno 18 riflessione della padrona di casa: «[…] Hanno portato
via le carrozze. Il landau lo hanno totalmente distrutto: acquistato 40 anni fa
da mio padre, fatto mettere a nuovo dalla mamma vent'anni fa, chiuse il suo
servizio nobilmente trasportando la famiglia di mio fratello Gino al di là del
Piave il 31 ottobre dello scorso anno». Si avvicinano i giorni della battaglia
finale. Il 26 settembre «aerei italiani gettano biglietti raccomandando ai civili
di premunirsi contro il gas. Così per me e per i miei domestici ho fatto pre-
parare dei sacchetti con cenere, che imbevuti d'acqua si applicano alle narici
e alla bocca.»31
Giungono a Maria Spada, evidentemente mediante gli ospiti della villa,
notizie che fanno presagire la fine dell'immane conflitto: il 1° ottobre, la Bul-
garia, ormai stremata, ha chiesto l'armistizio. Il 6 «Gli imperi centrali chiedo-
no la pace lasciando arbitro il presidente degli stati Uniti». E però «secondo i
giornali», nota la Spada, «Wilson dichiara che per trattare la pace gli eserciti
nemici devono ritirarsi nei loro confini». Il giorno 13 a Refrontolo, prima li-
nea del fronte, la situazione è quasi idilliaca. Scrive Maria: «Clelia Uberti mi
offre un piccolo ramoscello di ulivo quale annuncio di pace. Qualche ufficiale
lo ha pure sul berretto. Dicono che Vienna sia tutta imbandierata». Giovedì
24 ottobre, giorno dell'inizio dell'offensiva italiana, una brevissima nota: «È
desiderio di tutti gli ufficiali e soldati di tornate alle loro case».
Si sta combattendo l'ultima battaglia, quella che porterà ufficialmente alla
fine della guerra. L'esito era scontato: la poderosa armata imperiale e regia
dell'impero si stava sfaldando. Nessuno aveva più voglia di combattere. Al-
cuni reggimenti ungheresi si erano ammutinati: gli ufficiali e i soldati chie-
30 L'ultimo anno di guerra l'esercito austro-ungarico aveva appiedata la quasi totalità delle
unità di cavalleria per mancanza di cavalli e foraggio. I soldati di cavalleria vennero impie-
gati come fanti.
31 Singolare il fatto che nella villa, con tutti i comandi che si erano avvicendati (anche in
quei giorni ce n'era uno), nessuno abbia munito la padrona di casa e il personale della villa
di maschere antigas.
30
devano di rientrare in patria per difenderne i confini. Eppure l'orgoglio di un
esercito pieno di tradizioni, anche gloriose, non mancò all'ultimo appello ren-
dendo vita dura a italiani, inglesi e francesi al passaggio del Piave, sul Grappa
e sugli Altipiani. Ma dietro quel velo di ufficiali e soldati che finivano la loro
guerra con dignità e valore, meritando l'unanime rispetto, non c'era più niente
e, una volta a Vittorio Veneto, linea di congiunzione delle due armate impe-
riali, rimaneva solo il vuoto. La situazione nella grande villa di Refrontolo è
surreale. Il pomeriggio di sabato 26, dalle 16 alle 18, nel giardino della villa
si esibisce la banda musicale militare quando «giunge improvvisamente a ca-
vallo il generale Sypniewski e s'intrattiene per circa un'ora con il colonnello
Serda. Questi mi chiese poi se avessi un luogo adatto per ripararmi nel caso ci
fosse battaglia. «Speriamo che non ci sia battaglia». Ed egli mi rispose: «chi
lo sa?»» E infatti battaglia vi fu ed ebbe inizio «alla mezzanotte tra il 26 e il
27 ottobre […] Nella notte il bombardamento divenne straordinariamente in-
tenso. Io e le mie donne ci alzammo e recitammo il rosario di 15 misteri. Alle
6,30 partì la divisione con il colonnello Serda […] Gli austriaci si difendeva-
no bene». 28 ottobre: «Stanotte non mi sono coricata. A centinaia le granate
passano a poca distanza dalla villa. Il loro sibilo e lo scoppio sono impressio-
nanti. Alcune cadono nella buca del castagneto vicino alla villa». Martedì 29
ottobre: «Refrontolo è tra due fuochi. Pioggia di granate italiane; i cannoni
austriaci dal tempietto rispondono. Gli austriaci si ritirano onoratamente. Da
due giorni i civili stanno nascosti nelle case. Oggi a mezzogiorno il sig. Ari-
stide Serra, vecchio veterano, viene a dirmi commosso che gli italiani hanno
passato il Piave e che fra poche ore saranno a Refrontolo. Sia ringraziato Dio!
[…] Alle 7 di sera […] sento un leggero fruscio. Entrano due soldati austriaci
disarmati, che più a gesti che a parole mi chiedono supplicanti un nascondi-
glio per darsi prigionieri; indico loro la cucina esterna. Rimango alzata tutta la
notte per ricevere gli italiani». Mercoledì 30 è l'ultima annotazione di Maria
Spada: «Stamani sono passati gli arditi. Dopo 94 ore di granate continue sono
salva. Una granata penetrando dalla finestra della rimessa aveva scavalcato 4
cassette di granate austriache e si era fermata inesplosa; un'altra aveva attra-
versato la bigattiera entrando da una finestra e uscendo da un'altra, uccidendo
due soldati e cadendo inesplosa in giardino; molte altre sono cadute nelle
vicinanze; una austriaca di piccolo calibro esplodendo aveva scalfito il muro
della villa dal lato di levante; un'altra aveva colpito un grosso albero. Ore 2
pomeridiane entrano in Villa Antonietta i bersaglieri con il generale Clerici
comandante della 5ª brigata. Espongo alla finestra il tricolore italiano!»

31
Donne impegnate nella costruzione di trincee. ISTRIT.
IL SISTEMA DIFENSIVO DEL VENETO E DEL FRIULI
DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Andrea Castagnotto

Considerazioni generali
Compiuta l'unificazione nazionale, nel 1870 fu nominato Ministro
della Guerra del nuovo Regno d'Italia il generale Cesare Ricotti Magnani
che intraprese in breve tempo una importante azione di rinnovamento dell'
esercito. Tra le tante scelte adottate fu deciso di procedere allo sviluppo
di una serie di fortificazioni ai confini del Regno e all'interno del territorio
nazionale dove fosse necessario. Negli anni precedenti si era anche provveduto
all'ampliamento delle piazzeforti di Pavia, Piacenza e Pizzoghetone e alle
fortificazioni di Bologna che aveva assunto una importante funzione strategica
dopo il trasferimento della capitale a Firenze e per il controllo dei collegamenti
da nord a sud della penisola.

Successivamente fu previsto:
1. un ulteriore potenziamento delle fortezze di Piacenza e di Bologna con
la costruzione dei relativi campi trincerati predisposti attorno alle città
stesse;
2. la costruzione a Cremona di una testa di ponte per assicurare un ulteriore
passaggio sul fiume Po;
3. la costruzione di una nuova piazza d'armi a Guastalla e Reggio Emilia;
4. la chiusura con opere di sbarramento delle strade che attraversavano
l'Appennino;
5. la costruzione delle ferrovie La Spezia-Genova e Sarzana-Parma;
6. l' apertura di strade di arroccamento sull'Appennino per il collegamento
dei nuovi forti costruiti.

In questo periodo fu istituita una Commissione Permanente per la Difesa


dello Stato con il compito di dare un assetto razionale alle strutture di difesa
del nuovo Stato e che adeguò i risultati dei propri lavori alla mutata situazione
politica venutasi a creare con l' annessione al Regno d'Italia del Veneto, di
Roma e del Lazio. Pertanto oltre a quanto sopra riportato, si ipotizzò di for-
tificare anche la linea del confine in montagna, con la costruzione di idonee
strutture di difesa, chiamate forti, su tutte le strade che portavano e attraversa-

33
vano il confine stesso. Fu anche ipotizzato di proteggere la linea dell'Isonzo,
con la previsione di fortificare le città di Sacile e di Motta di Livenza. Molte
di queste proposte non vennero realizzate a causa della situazione economica
di allora e del deficit del bilancio statale sempre incombente. Anche la propo-
sta di fortificare la città di Roma, la capitale del Regno e sede della struttura
centrale dello Stato, fu momentaneamente sospesa. A partire dal 1876 i pro-
getti di difesa del territorio nazionale ripresero il loro iter procedimentale e si
provvide inizialmente alla costruzione dei forti a difesa della città di Roma.
Nel 1880 il Comitato di Stato Maggiore, iniziò ad elaborare un piano detta-
gliato delle località e delle opere interessate alla loro realizzazione. Per quan-
to riguarda il Nord Est del nostro Paese, furono ipotizzati degli sbarramenti
sulle principali strade che portavano oltre la frontiera con opere permanenti
in Cadore ed in Friuli. Si incominciò infatti a paventare il pericolo di un pos-
sibile conflitto con l' Austria (poi nostra alleata con la Germania all' interno
della Triplice Alleanza) e quindi della necessità di proteggere i nostri confini
con l' Austria stessa. Si propose anche la costruzione di alcuni forti a Mestre,
sulla terraferma veneziana, di due teste di ponte a Ponte della Priula e a Ponte
di Piave, il rafforzamento delle vecchie fortezze del cosiddetto «Quadrilate-
ro» (Verona, Peschiera, Mantova e Legnago) e di alcune opere in montagna
(verso il Trentino) e sul lato sinistro dell' Adige. Nel 1885 il nuovo Capo di
stato Maggiore dell' Esercito generale Enrico Cosenz, prese seriamente in
considerazione l'ipotesi di un conflitto con l' Austria provvedendo alla stesura
di un nuovo studio circa l' offensiva e la difensiva dell' Esercito a Nord Est.
Questo studio, articolato in più punti prevedeva:

1. la costituzione di un Corpo d'Armata Speciale operante in Friuli con il


compito di trattenere il più a lungo possibile il nemico, che era in questo
caso l'Impero austro-ungarico;
2. di effettuare lo schieramento principale delle forze di difesa italiane sul
Piave;
3. di costituire la principale linea difensiva che univa il Cadore, il Monte
Cavallo, il Bosco del Cansiglio, i Colli di Vittorio Veneto e Conegliano, il
Montello ed il Piave fino al mare. Sul Piave era prevista la realizzazione
di tre teste di ponte in località Ponte della Priula, Ponte di Piave e San
Donà di Piave;
4. la costruzione di fortificazioni nell'area dell' altopiano dei Sette Comuni
(Asiago) e della Valsugana;
5. l'avanzata in caso di guerra verso Vienna, attraverso il Trentino e Dob-
biaco.

34
Come evidenziato da numerosi studiosi in materia, il piano di Cosenz fis-
sava alcuni criteri importanti per la guerra contro l' Austria che saranno utiliz-
zati anche successivamente per molti anni.

I progetti dell'Austria
Anche l'Austria, da parte sua, aveva provveduto a fortificare fin dagli inizi
del 1800 alcune località del suo Impero ritenute essenziali ai fini della sicu-
rezza del Lombardo-Veneto. Nel 1832 fu potenziata la difesa di Verona, che
costituiva, come già detto, un angolo di una vasta area fortificata chiamata il
«Quadrilatero» e posta a difesa del fiume Mincio. Nel periodo 1835-1838 in
Alto Adige vennero costruite le opera di difesa di Fortezza per il controllo
del Brennero e della val Pusteria e successivamente le opere di sbarramento
a difesa della valle dell'Inn. Successivamente venne anche potenziata la piaz-
zaforte di Trento che era stata minacciata dai garibaldini nel 1866. A partire
poi dal 1896 e negli anni successivi si realizzarono alcune opere moderne di
fortificazione corazzate, situate negli Altopiani trentini di Vezzena, Lavarone
e Folgaria. È da ricordare che alcuni di quei forti progettati non vennero mai
realizzati per la presenza di contrasti e di diverse valutazioni sorti all'interno
del Governo austriaco ed in particolare tra il Ministro degli Esteri (contrario
alla loro realizzazione), il capo di Stato Maggiore dell' Esercito, alcuni ele-
menti della Corte imperiale e, inizialmente, anche il principe ereditario. Allo
scoppio del primo conflitto mondiale solo un terzo delle opere progettate in
Trentino vennero realizzate. Inoltre non vennero realizzate le opere difensive
del Pasubio, di Ala del Garda e il sistema difensivo di Trieste e di altre località
montane.

Le modifiche di Cadorna
Per quanto riguarda il Piave, nel 1911 il generale Cadorna futuro Capo di
Stato Maggiore Generale, e in quel periodo solo comandante di Corpo d'Ar-
mata, fece alcune importanti osservazioni al progetto originario del Cosenz.
Tutte queste osservazioni furono successivamente utilizzate dal Cadorna nel
1916, quando dopo l'offensiva austriaca del Trentino poi fallita (la Strafexpe-
dition), fece iniziare i lavori di difesa della pianura veneta, la fortificazione
del Grappa, del Montello, del Piave ed i primi lavori di predisposizione del
Campo Trincerato di Treviso. Detti lavori furono completati in parte nel 1917
e poi nel successivo anno di guerra. Nell'ispezionare questi lavori, alla fine
del 1916, affermò infatti, come riportato in molte pubblicazioni relative a
quel periodo: «Il Grappa deve riuscire imprendibile. Deve essere fortissimo
da ogni parte, non soltanto verso occidente. Se dovesse avvenire qualche di-

35
sgrazia all' Italia, io qui verrò a piantarmi … Laggiù l'Altopiano di Asiago
e le Melette, qui il Grappa, a destra il Monte Tomba e il Monfenera, poi il
Montello ed il Piave. In caso di disgrazia, ripeto, questa è la linea che occu-
peremo». Del progetto originario il Cadorna ritenne opportuno eliminare le
tre teste di ponte previste oltre il Piave, ridimensionare le linee di difesa che
secondo i progetti originari avrebbero dovuto far perno sul Cansiglio, spo-
standole sul Grappa e sul Montello. Rimase valida, potenziandola, l' idea di
procedere alla difesa di Treviso e di altre città della pianura veneta. I concetti
che ispirarono a livello teorico le decisioni di fortificare la linea del Piave e la
pianura trevigiana e veneta sono dettagliatamente elencate nel capitolo XIII
del volume La guerra alla fronte italiana di Luigi Cadorna (Milano 1922),
riportate integralmente nei documenti del volume V della Relazione Ufficiale
sulla partecipazione dell'Esercito Italiano alla grande guerra ed al quale si
rinvia per una migliore e più dettagliata conoscenza dell' argomento.

Le difese in montagna
Per quanto riguarda la difesa del fronte montano tra il Veneto ed il Trentino
e tra la Lombardia e il Trentino, si decise nel 1909 di fortificare anche la linea
che va dallo Stelvio al Monte Grappa, passando per l' Altopiano di Asiago e
per terminare fino al Cadore. Il progetto iniziale subì delle modifiche poiché
i lavori di fortificazione del fronte montano risultarono molto più vasti di
quelli preventivati. Nel 1914 quasi tutti i forti previsti erano stati costruiti, di
molti si raggiunse la definitiva costruzione solo nell' imminenza della guerra.
Il 6 dicembre 1914 tutte le opere costruite erano pronte per aprire il fuoco.
Restavano incompiute quelle del Monte Toraro (che non verrà costruita), del
Monte Campomolon (che entrerà in guerra non ultimata) e del Monte Ritte,
che verrà collaudata solo il 14 agosto del 1915. L'obiettivo principale delle
opere realizzate al confine era quello di trattenere un eventuale esercito inva-
sore, permettere all' esercito una volta mobilitato di raggiungere la linea del
confine e di funzionare da caposaldo per una successiva controffensiva.

Il Campo Trincerato del Tagliamento


Negli anni precedenti la prima guerra mondiale fu progettato e realizzato
anche il sistema difensivo del Friuli, predisposto lungo il fiume Tagliamento, da
cui il nome «linea del Tagliamento» o «Campo Trincerato del Tagliamento».
Tale progetto prendeva in considerazione l'ipotesi di un eventuale attacco
austriaco dalla parte ad est del confine dello Stato (Carnia e Isonzo) ed anche
in questo caso le fortificazioni progettate avevano il compito di ritardare
il più possibile (con la presenza del Corpo d' Armata speciale) l' avanzata

36
del nemico e permettere al grosso dell' esercito di raggiungere la zona di
invasione, fino alla successiva controffensiva. La linea del Tagliamento era
divisa in tre settori:

• l' Alto Tagliamento (a nord di Osoppo, lungo la valle di Ampezzo e il canale


del Ferro);
• il Medio Tagliamento (tra Udine, Tarcento, Osoppo e San Daniele);
• il Basso Tagliamento (nella pianura Friulana).

I lavori di allestimento del Campo Trincerato del Tagliamento furono interrotti


con l'inizio della prima guerra mondiale e non furono mai totalmente ripresi. I
forti furono disarmati e le batterie furono utilizzate, con altro materiale, sul
fronte dell' Isonzo. Nei primi tre anni di guerra elementi del sistema difensivo
furono utilizzati anche come depositi, caserme per le truppe ed altro. Nei giorni
convulsi di Caporetto, furono fatti dei tentativi per un suo riattivamento, ma
essi non portarono a risultati concreti. A questo proposito occorre ricordare
i fatti della testa di ponte del Monte Ragogna sul Medio Tagliamento e del
ponte di Pinzano con la eroica resistenza e distruzione della Brigata di Fanteria
«Bologna», utilizzata per tentare di fermare in condizioni estreme l'invasione
austro-tedesca. Parti della linea del Tagliamento furono poi utilizzati anche nella
seconda guerra mondiale e durante la guerra fredda fino agli anni immediatamente
successivi alla caduta del muro di Berlino, come linea difensiva di arresto in
caso di invasione da parte di Paesi del Patto di Varsavia.

Il sistema difensivo della pianura veneta


Il complesso difensivo presente nella pianura veneta alla data del giugno
del 1918, appena prima della Battaglia del Solstizio e nel quale era anche
inserito il Campo Trincerato di Treviso risultava costituito, nelle sue linee
essenziali, da otto sistemi difensivi di diverse estensioni e con differenti loca-
lizzazioni e funzioni. Questi sistemi erano così denominati:

• 1°, 2° e 3° sistema difensivo;


• sistema difensivo del Musone;
• sistema difensivo del Brenta;
• sistema difensivo del Bacchiglione;
• sistema difensivo Lessini-Adige-Po;
• sistema difensivo Mincio-Po.

Il 1° sistema difensivo correva ininterrottamente da Piz Umbrail, al confine

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italo-svizzero nel Gruppo del Bernina delle Alpi Retiche, al mare (o meglio
dallo Stelvio al mare) seguendo sul terreno il tracciato dello schieramento
più avanzato dell' Esercito. Il 2° sistema difensivo appoggiava la sua estre-
mità sinistra alla sponda orientale del Lago di Garda e da qui seguiva quasi
parallelamente, a distanza quasi mai superiore ai due chilometri, l'andamento
della linea arretrata del 1° sistema difensivo fino al mare. Il 3° sistema di-
fensivo si appoggiava anch'esso sul Lago di Garda e si sviluppava lungo le
pendici settentrionali dei Monti Lessini per poi proseguire a sud sulla linea
Schio-Thiene-Marostica-Montebelluna. Dopo aver incrociato la linea ferro-
viaria proveniente dalla Valle del Piave, si spostava ad est congiungendosi
con il Campo Trincerato di Treviso del quale faceva parte. Gli altri cinque
sistemi difensivi (Musone, Brenta, Bacchiglione, Adige, Mincio) non segui-
vano la numerazione dei tre precedenti, ma traevano la loro denominazione
dall' ostacolo fluviale al quale ognuno si appoggiava «potenziandone il livello
del valore impeditivo» (vedi la Relazione Ufficiale indicata in bibliografia).
L'andamento delle linee difensive ubicate nel territorio trevigiano, più o meno
parallele al corso del fiume Piave e il loro fronte difensivo rivolto ad est, ne
indicavano lo scopo che era quello di arginare e logorare fino all' esaurimen-
to, attraverso una serie di resistenze prolungate nel tempo e nello spazio, una
eventuale offensiva austriaca che avesse assunto vaste proporzioni come nel
caso della battaglia di Caporetto.
Tra i cinque sistemi difensivi, quello del Bacchiglione era il più articolato
perché interessava e si collegava, oltre a numerose località del Veneto, so-
pratutto le città di Vicenza e Padova difese dai rispettivi campi trincerati e le
difese della laguna e della città di Venezia. Il sistema Mincio-Po era l'ultimo
dei sistemi difensivi predisposti nella pianura veneta ed era considerato come
l'ultima difesa da opporre agli austriaci nel caso che essi avessero superato
tutte le altre linee difensive predisposte nella pianura e che fossero riusciti a
penetrare ulteriormente nel territorio del Veneto. A completamento di quanto
sopra riportato è interessante ricordare che era previsto nelle estreme circo-
stanze anche l'allagamento del territorio compreso fra il corso terminale del
Mincio e la laguna di Chioggia, lungo tutta la sponda nord dell'Adige, me-
diante opere di deviazione, apertura di varchi e tagli degli argini. Per la totale
inondazione di questo vasto territorio, sarebbero occorsi circa venti giorni,
ma già al decimo giorno dall'inizio dei lavori di allagamento, sarebbe stato
raggiunto un notevole contrasto alla eventuale discesa degli austriaci.
Ulteriori misure sarebbero inoltre state adottate per il controllo delle opere
di deviazione e dei varchi prodotti e per mantenere emerse momentaneamente
alcune strade utili per il passaggio delle nostre truppe.

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Il Campo Trincerato di Treviso
Per quanto riguarda il Campo Trincerato di Treviso occorre rilevare innan-
zitutto la sua complessità dovuta alla posizione di sbarramento che la città e la
provincia di Treviso assumono essendo esse collocate al centro dell'area posta
a cavallo tra la pianura veneta e quella friulana e di un incrocio di importanti
comunicazioni stradali e ferroviarie, tutte ubicate all'interno dell'area stessa.
Si può inoltre osservare che fra i Campi Trincerati ubicati nella pianura vene-
ta, quello di Treviso assume una importanza particolare sia perchè esso era il
più immediatamente vicino alla linea del fronte (distanza massima di 15-20
chilometri), sia perché di estensione superiore a quella degli altri Campi. Dal
punto di vista della costruzione, esso era formato da una rete fitta ed intricata
di trincee, camminamenti, postazioni protette per artiglierie e armi automa-
tiche, ricoveri ed ostacoli passivi che costituivano nel loro insieme un unico
grande ostacolo nel quale sarebbe stato difficile entrarvi, ma altrettanto diffi-
cile uscirvi se entrati. Inoltre esso era stato realizzato sfruttando al massimo
la presenza di ostacoli naturali già presenti sul territorio, quali fiumi, canali,
piccoli insediamenti di edifici, abitazioni, ecc. Schematizzando per quanto
possibile, il Campo Trincerato di Treviso era costituito da una triplice linea
difensiva predisposta in senso circolare attorno alla città e si appoggiava su
due lati al fiume Sile, mentre la più esterna delle linee aveva un raggio di nove
chilometri. Mediante ulteriori linee di difesa, il Campo era poi collegato con
gli altri sistemi difensivi presenti nelle vicinanze (Musone-Brenta-Bacchi-
glione) e con le linee di difesa parallele al fronte del Piave.
Le funzioni alle quali il Campo Trincerato di Treviso doveva assolvere
erano molteplici e tra queste ricordiamo quelle più importanti:

• difendere la città di Treviso;


• bloccare le due importanti direttrici di eventuale arrivo degli austriaci (strada
Pontebbana da Conegliano e strada Callalta da Oderzo-Motta di Livenza);
• permettere in caso di arretramento del fronte (come poi avvenne a fine ot-
tobre del 1917 sull'Isonzo) ai reparti ed alle truppe in ritirata di trovarvi un
valido punto di appoggio.

Nel novembre del 1917 il Campo Trincerato di Treviso non aveva ancora
raggiunto un elevato grado di preparazione, né di completezza. I primi lavori
si concentrarono sulla parte più limitrofa al fronte, per poi proseguire in pro-
fondità nella parte restante della campagna trevigiana anche con raccordi tra-
sversali tra le linee di difesa in base a previsioni di sfondamento del nemico.
Si crearono di conseguenza dei compartimenti stagni che avrebbero dovuto

39
Fortificazione austriaca colpita dal fuoco italiano. ISTRIT.

Fortificazione austriaca colpita dal fuoco italiano. ISTRIT.


Treviso colpita dalle bombe austriache. ISTRIT
circoscrivere e contenere gli effetti di una eventuale rottura delle linee più
avanzate del fronte. Gli avvenimenti conseguenti alla rotta di Caporetto ed i
successivi fatti del giugno del 1918, confermarono pienamente la validità dei
presupposti teorici che avevano determinato la costruzione del Campo Trin-
cerato di Treviso. Esso infatti non fu interessato dalla limitata occupazione del
territorio oltre il Piave da parte degli austriaci durante la cosiddetta «Battaglia
del Solstizio», che furono fermati invece ai margini delle sue prime linee di-
fensive. Nonostante questo, il generale Caviglia, lamentandosi con il duca d'
Aosta, Comandante della Terza Armata, sostenne che tutto quel groviglio di
trincee, camminamenti e reticolati (alludendo ai lavori del Campo Trincerato
di Treviso, ma anche degli altri in costruzione nella pianura veneta) intralcia-
va più il nostro esercito che quello nemico. È da rilevare, a questo proposito
che il Campo Trincerato di Padova era costruito come quello di Treviso, a
triplice linea di trinceramenti e che i lavori iniziarono immediatamente dopo
la ritirata del nostro Esercito dopo i fatti di Caporetto. Da ultimo, è da rileva-
re che in caso di necessità l'occupazione materiale del Campo Trincerato di
Treviso veniva affidata alle Armate posizionate sul Piave, in particolare alla
Terza Armata, che difendevano la zona del Montello e del Basso Piave, con
lo scopo di migliorare e sfruttare con la massima economia di forze l'organiz-
zazione difensiva già in essere sul territorio.

Il Monte Grappa
Nella predisposizione delle linee di difesa costruite nella pianura veneta,
il punto di cerniera o di contatto tra il settore di montagna e quello di pianura
era costituito dal Monte Grappa, ubicato in posizione ideale per costituire un
valido ostacolo naturale alla eventuale avanzata degli austriaci e controllare
nel medesimo tempo l'Altopiano di Asiago e, alle spalle, il fronte del Piave.
Cadorna nel 1916 decise quindi di abbandonare tutte le progettate difese a
sinistra del Piave e di realizzarle sulla riva destra del fiume. In estrema sintesi
i lavori di difesa realizzati sul Monte Grappa, che doveva fare sistema anche
con l'Altopiano di Asiago, a partire dal 1916 e fino al 1918 furono i seguenti:

• costruzione di strade che potessero permettere l'afflusso costante di truppe e


materiali dalla pianura veneta alla vetta del monte;
• costruzione di impianti di teleferiche per i rifornimenti rapidi in montagna.
Furono messi in funzione circa ottanta impianti per un totale di 150 chilo-
metri di percorso;
• predisposizione di grandi impianti di sollevamento di acqua con la realizzazio-
ne di reti di distribuzione in tubazioni e adeguati serbatoi di contenimento;

42
• costruzione di impianti elettrici per la illuminazione in quota delle gallerie
e delle opere in caverna;
• predisposizione su tutto il monte di una fitta rete di posti di sbarramento
avanzati, di linee di reticolati e di capisaldi circondati da ulteriori linee di
reticolati;
• costruzione in vetta della galleria chiamata «Vittorio Emanuele III».

Dall'interno della galleria si era in grado di colpire attraverso numerose


diramazioni laterali tutte le posizioni austriache della zona. Essa venne re-
alizzata tra il gennaio ed il giugno del 1918 da unità del genio militare e da
600 lavoratori militarizzati che lavorarono ininterrottamente giorno e notte,
senza tregua e con ogni mezzo a disposizione. All'interno delle diramazioni
erano ubicate postazioni di artiglieria e di mitragliatrici, posti di osservazione,
depositi di munizioni e di materiali vari, dormitori per 1500 persone, gruppi
elettrogeni, serbatoi d'acqua, depositi di viveri e quant'altro necessario per
sopravvivere anche in caso di attacco e di impossibilità di uscita dalla galleria.
Tutte queste opere di difesa, definite «montane» erano poi integrate con altre
simili definite «di pianura» che dovevano servire nel caso di sfondamento
degli austriaci oltre le linee del Monte Grappa. Particolare attenzione e cura
dovevano poi essere date al tratto più debole della linea difensiva del Monte
Grappa formata dal costone del Monte Pallone, Monte Tomba e Monfenera
che poteva essere aggirata dal Piave mettendo in difficoltà l'intero sistema del
Grappa stesso. Perdendo il Grappa si sarebbero perdute la linea del Piave, le
città di Treviso e di Venezia e la linea del Bacchiglione e con esse gran parte
del Veneto. Nel novembre del 1917 quando la cima fu occupata dalle truppe
italiane per costituirvi i primi elementi di difesa, delle opere sopra indicate solo
una minima parte era stata realizzata e molte di quelle programmate furono
realizzate solo successivamente sotto l'incalzare del nemico e in condizioni di
estremo disagio. Su questo punto si rilevano le dichiarazioni fatte dal generale
Clemente Assum, comandante della Brigata di Fanteria «Trapani» che fu tra i
primi a salire sul Monte Grappa dopo la ritirata di Caporetto, che contrastava-
no con quelle del generale Cadorna e di altri, che, al contrario, affermavano la
completa fortificazione del massiccio fin dal novembre del 1917.

Il Montello
Anche il Montello, situato lungo la riva destra del Piave a metà circa tra
il Grappa ed il mare, secondo il generale Cadorna doveva essere adeguata-
mente fortificato, poiché esso avrebbe dovuto diventare (come dichiarato dal
generale Cadorna) «l'appoggio maggiore e centrale delle linea difensiva». In

43
questo senso fu deciso di predisporre su di esso e attorno ad esso le seguenti
opere di difesa:

1. una difesa ad oltranza prevista con un gruppo di fortificazioni costruite


sulla quota più elevata;
2. congiunzione con linee di trincea delle fortificazioni del Montello con il
Campo Trincerato di Treviso;
3. attivazione di due nuclei di artiglieria, uno a nord-ovest e l'altro a sud-est da
convergere a oriente del Montello e se necessario sulla sua sommità;
4. costruzione di una linea di difesa tra il Montello e Montebelluna sulla qua-
le ripiegare in caso di sfondamento del fronte e ripartire per rioccupare la
cima del colle anche con l'aiuto delle artiglierie di cui al punto precedente.

Nelle vicinanze fu anche fortificata la estremità orientale dei Colli solani,


presso Cornuda e Onigo, in collegamento con le fortificazioni del Montello,
da un lato, e con quelle di Monfenera e del Monte Tomba alla estremità del
Monte Grappa che porta al Piave di Pederobba.

Le difese di Venezia
A est dello schieramento difensivo situato trasversalmente nella pianura
veneta ed in particolare in quella trevigiana lungo il corso del Piave, era pre-
sente la Regia Marina che operava nella zona di Cavazuccherina (ora Jesolo),
alla foce della Piave Nuova, al Cavallino, in Laguna Nord e nella città di
Venezia. I compiti assegnati erano quelli di tenere il fianco destro della linea
di difesa che terminava sul mare, muovendosi in un territorio del tutto par-
ticolare essendo di tipologia mista (fluviale, di palude e lagunare), limitrofo
alla foce del Piave ed al mare Adriatico. C'è da premettere a questo punto che
la nostra Marina fin dall'inizio della guerra di Caporetto, aveva inizialmente
operato nella zona di Grado e di Monfalcone, a difesa di quel tratto di litorale,
a protezione del fianco destro della Terza Armata e per contenere eventuali
attacchi della flotta austriaca dal mare. In questo tratto del fronte essa aveva
utilizzato artiglierie di vario calibro per il bombardamento di obiettivi navali
e terrestri, pontoni armati facilmente trasportabili via acqua, motosiluranti ed
altro naviglio leggero idoneo per quel tratto particolare di fronte. La Marina
provvide anche a completare una rete di canali interni parallela alla costa,
per il trasporto da Venezia al fronte di materiali e mezzi. Dopo la dodicesima
battaglia dell'Isonzo e lo sfondamento del fronte a Caporetto, la Marina pro-
cedette allo sgombero ordinato da Monfalcone e Grado e ad organizzare una
linea sommaria di difesa, prima sul basso Tagliamento, poi sul fiume Limene,

44
utilizzando reparti di marinai e motoscafi armati. Ripiegati ulteriormente su
Caorle e poi su Venezia, i marinai disponibili furono inquadrati come normali
reparti di fanteria nel «Reggimento Marina» e gli artiglieri nel «Raggruppa-
mento di Artiglieria». Entrambi i reparti costituirono la «Brigata Marina» che
operò alla difesa del Basso Piave, di vaste zone della Laguna e della città di
Venezia. A questi reparti fu unito anche personale già presente a Venezia ed
altro proveniente da navi e basi della Marina dislocate nel territorio naziona-
le. Come batterie furono utilizzate anche quelle costiere di altre località del
Paese, che data la gravità del momento potevano essere temporaneamente
utilizzate per rafforzare le difese della città. Per la difesa di Venezia si rea-
lizzarono anche quattro linee di difesa trasversali alla Laguna nord di Vene-
zia, con andamento ovest – est contro eventuali provenienze dalla zona delle
bonifiche Questa difesa era completata da una ulteriore linea difensiva che
copriva Venezia sul lato orientale partendo da San Erasmo fino a Chioggia, at-
traverso il Lido, Malamocco, Alberoni, San Pietro in Volta e Pellestrina. Alla
difesa della città di Venezia partecipò anche la flotta navale insediata presso
l'Arsenale, che aveva il compito di impedire eventuali attacchi dal mare da
parte della flotta avversaria. La Marina provvide anche ad allagare la vasta
zona di pianura compresa fra la Piave Vecchia, il Sile e la Laguna che costi-
tuiva l'ultima ed estrema difesa prima di Venezia.

Il Campo Trincerato di Mestre


Sempre in merito alle difese di Venezia occorre ricordare anche la presenza
del Campo Trincerato di Mestre e della sua evoluzione, con la descrizione di
alcune premesse. L'esigenza di difendere la città di Venezia dalla terraferma
si manifestò in maniera urgente all'epoca della prima occupazione austriaca
del Veneto, subito dopo la caduta della Serenissima. Il progetto appena ab-
bozzato di costruire un forte in località Marghera fu ripreso dai francesi ed i
lavori di costruzione seguirono l'alternanza delle occupazioni francese ed au-
striaca del Veneto, fino al passaggio all'Austria avvenuto nel 1814. L'Austria
portò quindi a termine i lavori di costruzione del forte di Marghera poiché
esso era vitale per garantire la difesa di Venezia anche alle spalle della città.
Negli anni 1848-1849 il forte, occupato dagli insorti, fu utilizzato come base
logistica per le truppe rivoluzionarie che combattevano in Veneto e in Friuli.
Successivamente fu sottoposto ad assedio, pesantemente bombardato e quin-
di, dopo duri combattimenti, conquistato dagli austriaci previa evacuazione
degli occupanti avvenuta su autorizzazione del Governo Provvisorio. Caduta
Venezia e ritornati gli austriaci, il forte fu ricostruito e utilizzato all'interno
della difesa della città e della laguna congiuntamente ad altre opere realizzate

45
sul litorale e al Lido.A partire dal 1866 il forte passò sotto la giurisdizione
militare italiana e negli anni seguenti diventò il centro di una nuovo e più im-
portante sistema di difesa della città e delle zone contermini con lo scopo di
proteggere, oltre la città stessa, anche l'Arsenale, il porto marittimo e soprat-
tutto lo scalo di Mestre, essenziale per i collegamenti ferroviari tra il Veneto
e il resto del Paese. Nel quadro delle iniziative tese a migliorare la difesa del
Regno sopra riportate, si progettò di realizzare una rete di forti circostanti a
quello preesistente di Marghera. È da ricordare che i forti progettati inizial-
mente erano sei, ma per le consuete difficoltà economiche, quelli realizzati
furono solo tre.
Essi furono:

• il forte Tron, a sud ovest di Marghera sulla strada per Padova, terminato nel
1890;
• il forte Carpenedo, sulla strada per Treviso, terminato nel 1890;
• il forte Gazzera, sulla strada per Bassano e Trento, iniziato nel 1883.

Questi forti erano costruiti a forma poligonale, circondati da un fossato e


ubicati l'uno dall'altro e dal forte di Marghera ad una distanza variabile tra i
3.500 metri e i 4.500 metri. All'inizio del novecento i forti furono ulterior-
mente adeguati ai nuovi progressi tecnologici delle artiglierie e di conseguen-
ze fu necessario predisporre una nuova linea circolare di sette forti ubicata,
in senso circolare, più lontana da quella precedente. Questi forti erano ubicati
nelle zone di Tessera, Favero, Dese, Zelarino, Spinea e Oriago. Tutti i forti
furono terminati entro il 1913 ed erano muniti ciascuno di circa 20 cannoni
di medio calibro e di postazioni per fucilieri e mitragliatrici. Sui forti erano
ubicate delle «caponiere» (una specie di sporgenze protette ed armate) per
proteggere il forte da ogni suo lato. Non mancavano i magazzini, le polveriere
e quant'altro necessario per la sopravvivenza delle truppe presenti nel Campo
Trincerato. Riassumendo, la struttura completa del Campo Trincerato di Me-
stre era formata da:

• una linea esterna di robusti forti disposti a nord, a ovest e a sud di Mestre
costruiti all' inizio del secolo scorso;
• una seconda linea formata dai forti costruiti prima della fine dell'ottocento;
• il forte di Marghera, che manteneva il suo ruolo di difesa del ponte ferro-
viario che portava a Venezia, della stazione ferroviaria di Mestre e della
stazione marittima di S. Giuliano.
Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1915, il sistema difensivo di

46
Mestre era completo ed in piena efficienza. Tuttavia trasformatosi il conflitto
in guerra di trincea, gli Alti Comandi dell'Esercito, nel settembre dello stesso
anno, ordinarono lo smantellamento delle batterie di quel Campo Trincerato
ed il loro utilizzo sul fronte dell' Isonzo. Dopo Caporetto, i forti di Mestre co-
stituiranno la nuova retrovia del fronte ed opereranno come base logistica da
dove prelevare uomini, artiglierie e materiali da inviare sulle nuove linee di
difesa, ormai consolidate, del Piave. Dopo la prima guerra mondiale le strut-
ture persero di importanza strategica e furono utilizzate solo come caserme,
magazzini e polveriere fino all'abbandono totale a partire dagli anni ottanta
del secolo scorso.

La costruzione del sistema difensivo della pianura veneta


Alcune annotazioni infine sulle modalità e su coloro che realizzarono il
grande sistema di opere di difesa costruito su tutta la pianura veneta. Con
esclusione dei forti di cui abbiamo già parlato ed indicato le date di costruzio-
ne e che furono costruiti da imprese di costruzioni attraverso normali gare di
appalto, tutte le opere relative alle difesa in pianura, sul Montello e sul Monte
Grappa vennero realizzate a partire dal 1916 e terminarono di massima entro
il giugno del 1918. Esse furono progettate dal Comando Supremo dell'Eserci-
to che emanò a questo proposito numerose direttive tecniche da utilizzare
come guida pratica per la esecuzione dei lavori sulle aree di competenza delle
singole Armate, anche con gli adattamenti che le singole esigenze locali ri-
chiedevano. La organizzazione dei lavori faceva capo al Comando Generale
del Genio che utilizzava i Comandi del Genio delle singole Armate e dei Cor-
pi d'Armata da essi dipendenti. Venne creata una speciale Direzione dei Lavo-
ri di Difesa presso il Comando Supremo per la esecuzione di parte dei lavori
più impegnativi relativi al Montello, alle linee difensive del Piave e del Sile,
al Campo Trincerato di Treviso e alla eventuale inondazione delle zone di
bonifica. Per il coordinamento delle attività di difesa terrestre e costiera della
laguna di Venezia, si costituì inoltre una apposita Commissione mista Eserci-
to-Marina presso il Comando della Terza Armata che aveva sede a Mogliano
Veneto. Tutti i lavori, sulla scorta della documentazione finora acquisita, so-
prattutto in ambito locale e limitata al Trevigiano, furono eseguiti da gruppi
di lavoratori civili militarizzati ed alle dirette dipendenze dei Comandi del
Genio sopra indicati. Tali lavori di difesa, come si può chiaramente evincere
dal testo della presente relazione, si possono considerare di dimensioni note-
voli, sia per la loro estensione e caratteristiche, sia per il breve tempo utiliz-
zato per la loro realizzazione, vista anche la scarsità di mezzi tecnici a dispo-
sizione. Nulla si sa allo stato attuale dei costi, che si ritengono notevoli, sop-

47
portati per la predisposizione delle opere di difesa e per la loro rimozione ad
attività bellica terminata. Non si conosce nemmeno il numero dei lavoratori
utilizzati, stimato complessivamente in parecchie decine di migliaia. Per i
lavori vennero utilizzati soprattutto persone disoccupate o sotto occupate, ex
studenti, giovani in attesa di essere chiamati alle armi, di condizioni economi-
che precarie o ridotte, provenienti dai luoghi più disparati del Paese, dal cen-
tro e dal sud, ma anche dalla provincia di Treviso e da altre vicine, tutti spinti
dalla necessità di integrare in qualche modo i rispettivi magri bilanci fami-
gliari. Ivano Sartor nel suo libro La grande guerra nelle retrovie (Dosson
1988), riporta infatti la notizia della morte per paralisi di un giovane di Pesca-
ra , di anni 23, celibe, bracciante, occupato per lo scavo delle trincee nella
zona di Biancade di Roncade. Nei cantieri per il Campo Trincerato di Treviso
arrivarono anche minorenni dai 15 ai 17 anni, persone anziane ultrasessanten-
ni, piccoli pregiudicati, persone pericolose o senza una particolare qualifica
professionale. Ognuno doveva provvedere a portare con sé gli indumenti da
lavoro, diversi a seconda della stagione, la coperta e quanto necessario per la
consumazione dei pasti. I lavoratori dovevano anche presentarsi ai cantieri
con i propri «attrezzi da lavoro» che nel nostro caso erano il badile o il picco-
ne e sobbarcarsi inoltre le spese di viaggio. I comandi militari garantivano
solo il vitto, che era lo stesso dei soldati in trincea, e l'alloggio che veniva
trovato in edifici di fortuna (baraccamenti, fienili, casere di montagna, case
coloniche, ville, ecc.) requisiti a seconda delle esigenze locali e comunque
tutti ubicati nelle immediate vicinanze delle opere da realizzare. Le mansioni
erano le seguenti: muratori, fabbri, scalpellini e boscaioli. I documenti previ-
sti per l'arruolamento erano: il passaporto per l'interno, il certificato di buona
condotta (che doveva essere rifiutato ai pregiudicati e ai sovversivi più peri-
colosi) e un certificato rilasciato dal sanitario comunale in carta libera, atte-
stante che il lavoratore e la sua famiglia erano esenti da malattie infettive e
diffusive e della avvenuta vaccinazione antivaiolosa. Allo scopo di evitare
disordini o infiltrazioni da parte di pregiudicati o persone escluse da prece-
denti arruolamenti, le squadre degli operai dovevano viaggiare scortate dai
Carabinieri, fino all'arrivo a destinazione. Il compenso pattuito partiva da po-
che decine di centesimi di lire per ora , a seconda della categoria professiona-
le e dell'età, ma aumentava ulteriormente fino a qualche lira a seconda della
durata del lavoro e delle condizioni di disagio e di pericolosità nelle quali esso
si svolgeva, ad esempio in prossimità della prima linea o sotto il fuoco delle
artiglierie. I lavoratori erano divisi in squadre di 30-50 elementi e i capi squa-
dra erano scelti tra i migliori conoscitori dei luoghi o tra persone particolar-
mente esperte nei lavori da eseguire. Tutti i lavoratori, quasi sempre uniti in

48
centurie, erano diretti o coordinati da ufficiali del Genio Militare o da altri
ufficiali dell'Esercito. Un compito importante nel reclutamento dei lavoratori
per la costruzione delle opere di difesa, era svolto dai Comuni, che oltre a ri-
lasciare la documentazione richiesta e a provvedere alla compilazione degli
elenchi dei partenti, svolgevano anche la funzione di informazione ai poten-
ziali interessati e di divulgazione delle condizioni di arruolamento per i lavo-
ratori stessi. Un'altra attività svolta dai Comuni era quella di ente intermedia-
rio tra le esigenze dei lavoratori e le istituzioni militari o civili preposti alla
loro gestione che si esplicava essenzialmente in occasione di mancati paga-
menti dei compensi stabiliti, rientri in famiglia per pericolosità dei luoghi di
lavoro, per successivo accertamento della minor età dei lavoratori e per veri-
fica dei requisiti necessari per l'arruolamento. Sempre in materia di costruzio-
ne del Campo Trincerato di Treviso, riportiamo alcuni degli inconvenienti che
si verificarono durante la sua realizzazione. Fin dai primi mesi del 1917 emer-
se subito il grave problema dei furti di materiali che venivano utilizzati per la
costruzione del Campo Trincerato ed in particolare dei furti di legname. No-
nostante le lettere del comando del Presidio Militare di Treviso che invitava-
no i Sindaci dei Comuni interessati a vigilare affinché le opere costruite non
venissero danneggiate e che ricordavano anche che i danni causati non erano
perseguiti dalla normale legislazione civile, ma dal Codice Penale dell' Eser-
cito, i furti non diminuirono. Della questione furono interessati anche i parro-
ci invitati a fare ulteriore opera di persuasione verso i propri parrocchiani per
farli desistere da tale errato comportamento. Non mancarono inoltre le pole-
miche sulla individuazione dei tracciati utilizzati per la costruzione delle trin-
cee e delle altre opere di difesa che molto spesso tagliavano strade di accesso
ai fondi, campi coltivati, canali di irrigazione ed altre strutture dedicate alle
lavorazioni agricole. Ulteriori polemiche con relativi strascichi e contestazio-
ni che interessavano anche le competenze dei Comuni, furono originate dalle
requisizioni di edifici, terreni, carri ed animali utilizzati per i lavori di difesa
e dei relativi indennizzi, come pure per il taglio non giustificato di alberi e di
piante nelle campagne adiacenti ai lavori. Una ultima annotazione relativa al
parroco di Volpago del Montello che interessato a svolgere la propria missio-
ne anche in periodi difficili come quelli del tempo di guerra, aveva invitato gli
operai adibiti alla costruzione del Campo Trincerato ad astenersi dal lavoro
durante i giorni festivi. Ma la guerra prevede tempi, azioni e comportamenti
non dei tempi normali e per questo motivo egli fu sottoposto a stretta sorve-
glianza da parte della locale stazione dei Carabinieri.

49
Palloni aerostatici per la protezione di Venezia dagli attacchi aerei. ISTRIT
La basilica di San Marco con le protezioni anti-schegge.
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53
Cerimonia di consegna della medaglia alla brigata «Pisa». MCRR.

Cerimonia di consegna della medaglia alla brigata «Pavia». MCRR.


IL MORALE DEI SOLDATI NELLA I GUERRA MONDIALE

Ernesto Brunetta

Un esercito di leva esprime psicologie, immaginari, culture del popolo dal


quale viene. Ciò è un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni, quali si
imporrebbero se fossimo di fronte a un esercito di mestiere che è, per defini-
zione, un corpo separato che si dà una sua tradizione e una sua mentalità. Il
morale dell'esercito italiano nel corso della I guerra mondiale riflette dunque
senza residui il morale dei cittadini.
In qualsiasi paese e salvo casi particolarissimi,la gran parte dei cittadini è
naturalmente inclinata alla pace perché lo spirito di sopravvivenza fa aggio su
qualsiasi altra considerazione e dunque si preferisce vivere e non morire, spe-
cie se non è chiaro il motivo per il quale si dovrebbe farlo. In Italia, 50 anni di
tentativi di instillare nei cittadini una religione civica incentrata sul culto del
Re e della Patria, non avevano dato grandi risultati. O meglio, questi tentativi
avevano sostanzialmente funzionato nei confronti della piccola borghesia sia
urbana sia rurale che era venuta a poco a poco convincendosi di essere essa
l'erede del Risorgimento, concepito però (il Risorgimento) come una tappa di
un processo alla cui conclusione ci sarebbe dovuto essere l'ingresso del Paese
nel novero delle grandi potenze, se non addirittura la Terza Roma che ripren-
deva il suo cammino nel mondo. Era stata la letteratura in tutti i suoi diversi
livelli ad agire in questo senso.
Pesava intanto sulla nostra cultura la memoria di Roma e delle sue glorie,
pesavano gli Alfieri e il Foscolo, pesava una minore letteratura ottocentesca
che aveva trasformato Barletta o Fornovo in epici scontri, segno di un «an-
tico valor (che) negli italici cor / non è ancor spento», secondo la formula
petrarchesca, pesavano il Carducci convertito alla monarchia, il Pascoli della
grande proletaria, il D'Annunzio intento ad armar la prora e a salpare verso
il mondo. Pesavano le riviste fiorentine, il Papini del caldo bagno di sangue
che avrebbe favorito la coltivazione delle verdure, la mal digerita conoscenza
di Nietzsche, di Bergson, di Sorel, dell'irrazionalismo in generale al quale si
aggiungeva una lettura di Darwin in chiave sociale come violenta selezione
dei più forti a danno dei più deboli. Pesavano infine il futurismo e l'idea mari-
nettiana della guerra sola igiene del mondo. Con tutte le eccezioni del caso, è
evidente che gli intellettuali nelle loro varie gradazioni, vale a dire dai grandi
scrittori giù giù fino ai maestri elementari e ai ragionieri, erano imbevuti – e ci
sarebbe da meravigliarsi del contrario – di questa cultura. Costoro non erano
cattolici, dunque, perché si percepivano come eredi della tradizione masso-

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nica e anticlericale del Risorgimento, non erano socialisti perché rifiutavano
per consapevolezza di classe ogni egualitarismo, non erano liberali perché
avevano letto Oriani e quindi osteggiavano la timida «Italietta» giolittiana.
Chiusi in un limbo, aspettavano una guerra, non necessariamente quella con-
tro l'Austria pur etichettata da secolare nemico, bensì una guerra qualsiasi che
fosse lavacro, pulizia, sacrificio onde uscire migliori, una guerra che elevasse
di rango il Paese del quale essi avrebbero contribuito da classe dirigente.
A questo livello, dunque, il tentativo era riuscito; anzi, era andato oltre se
dalla religione civica si era passati al nazionalismo e al colonialismo, mentre
compariva sullo sfondo l'ombra dell'imperialismo. Non era però riuscito a
livello di classi subalterne perché una letteratura minore quale poteva essere
quella che aveva espresso «Cuore» o «Pinocchio» non aveva ottenuto i ri-
sultati che da essa ci si potevano attendere. Secondo inclinazioni personali,
situazioni sociali, appartenenza di classe, geografie e culture, le classi subal-
terne erano diventate socialiste o cattoliche o, senza appartenenze politiche,
badavano ai fatti loro, tra i quali la guerra certamente non c'era.
Bisogna però tenere conto di un fatto, cioè dell'abitudine alla sottomissione
che il popolo aveva maturato in secoli di servaggio; motivo per il quale, par-
ticolarmente nelle campagne, la sottomissione era la nota dominante come se
la società, così come era organata, fosse tale per natura, e quindi così si dove-
va accettare. Qualche sprazzo di tumultuosa rivolta rurale non era che l'inter-
faccia di un'abitudine all'obbedire connaturata all'indole di quanti nascevano
contadini nelle misere condizioni nelle quali i contadini vivevano. Per quanto
veicolati dalla scuola dell'obbligo – si deve però tener conto dell'elevato tasso
di evasione – e dal servizio militare, mi sembra evidente che questi messaggi,
vale a dire la religione civica impostata sul binomio Re e Patria, non arriva-
vano o, se arrivavano, non erano percepiti nella loro sostanza.
La premessa dunque ci induce a concludere che quando si aprì il dibatti-
to tra neutralisti e interventisti nell'inverno 1914-'15, gli interventisti erano
un'esigua minoranza a fronte di un'imponente maggioranza di neutralisti. Si
può dire altrettanto, d'altronde, per la Camera dei Deputati ancora dominata
dalla forte personalità del neutralista Giolitti e quindi a maggioranza inclinata
piuttosto alla neutralità che all'intervento.
Tutto ciò però è puramente teorico, dal momento che l'entrata in guerra
non venne naturalmente sottoposta a referendum e lo statuto consentiva al
Sovrano di dichiararla senza in sostanza doverla sottoporre al giudizio delle
Camere, assai improbabile essendo che i deputati liberali, pur se neutralisti,
avrebbero votato contro un patto (che fosse stato) firmato dal re. Più che il
numero, contò la capacità di mobilitazione delle piazze e fu la prima volta

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che la piazza, tradizionalmente teatro dei riti della sinistra, diventò piazza di
destra. Dalla parte dei neutralisti, la capacità di mobilitazione avrebbe dovuto
essere la dote portata alla causa dai socialisti che però erano molto più divisi
di quanto non si ami oggi affermare. La successiva formula Turatiana del «né
aderire né sabotare», figlia legittima del concetto di neutralità assoluta sul
quale essi si erano attestati fin da subito, era quanto di più vacuo si potesse
immaginare e non era certo in grado di agitare le folle. Era infatti una posizio-
ne passiva e attesistica che, oltre tutto, si staccava da quanto si veniva facendo
nel movimento socialista a livello internazionale. A quel livello, infatti, si
stava assistendo a una sorta di divisione che per comodità denominerò come
destra e sinistra, con quest'ultima che proclamò la necessità di trasformare la
guerra dei borghesi nella rivoluzione dei proletari e la prima che, al contrario,
ritenne di legittimarsi entrando nelle coalizioni di governo chiamate a diri-
gere i Paesi belligeranti. In altre parole, «né aderire, né sabotare» significava
nulla e dunque consentiva ogni personale presa di posizione.
La fazione interventistica si dimostrò invece in grado di mobilitare la piaz-
za, certamente usando e abusando di una bolsa retorica, ma riuscendoci per-
ché diede alla piccola borghesia un ruolo che mai in passato essa aveva avuto,
del quale riteneva di aver diritto e che prevedeva per il futuro, se è vero che
il «radioso maggio» fu in qualche maniera un'anticipazione del fascismo. E
Mussolini, che i fasci di combattimento era ancora lungi dal fondarli, su que-
sta carta giocò il suo futuro politico. Non c'è insomma da parte neutralista
niente che possa essere assimilato, per risonanza, al discorso che D'Annunzio
pronunciò sulla scogliera di Quarto in occasione dell'anniversario della par-
tenza dei Mille. In conclusione, da una parte c'era l'entusiasmo, di una mino-
ranza, ma entusiasmo, dall'altra c'era rassegnazione, di una maggioranza, ma
rassegnazione.
L'esercito entrò in guerra nelle medesime condizioni: il Corpo Ufficiali,
qualsiasi fossero le convinzioni personali di ciascuno, perché la guerra era il
suo mestiere, gli ufficiali di complemento, che erano i figli della piccola bor-
ghesia – si pensi solo alla raccolta di lettere curata dall'Omodeo, ma c'è anche
una ricca memorialistica di quanti dalla prova uscirono vivi – con l'entusia-
smo di chi spesso aveva dimostrato nelle piazze per l'intervento, la massa dei
soldati con la rassegnazione di chi sa di dover affrontare una disgrazia tra le
tante, inevitabili, che intervengono nel corso della vita dei poveri: capitavano
la fame, la malattia, le disgrazie, toccava ora la guerra. Per la quale, poco o
nulla c'era da fare, andava affrontata,sperando bene e confidando soprattutto
sul fatto che fosse breve e che, semmai, toccasse a un altro di dover morire.
La grande speranza – che si rivelerà essere piuttosto la grande illusione – era

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infatti la convinzione, propria anche di parte cospicua della classe dirigente,
che con l'intervento dell'Italia, il conflitto sarebbe stato breve, risolutivi da
una grande battaglia campale nel corso della quale il nostro esercito avrebbe
sconfitto un nemico già impegnato in altri fronti.
Come sempre accade, i generali avevano preparato la guerra precedente,
quasi ignorassero per esempio la capacità difensiva di una mitragliatrice ben
incavernata o non avessero fatto tesoro dell'esperienza maturata in quasi un
anno di guerra in corso, e dunque si erano preparati per una guerra offensiva
con grandi masse di uomini lanciate all'assalto secondo gli abituali moduli
ottocenteschi. Il generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore del nostro
esercito, in particolare aveva scritto un famoso libro sull'impiego delle fante-
rie, libro che era tutto un inno all'attacco frontale, a suo dire unico modo per
condurre una guerra offensiva qual era nei suoi disegni. E il libro di Cadorna
era libro di testo all'Accademia Militare, sicché l'idea dell'attacco frontale era
nel bagaglio intellettuale degli ufficiali a tutti i livelli della linea di comando.
Sarebbe stata comunque una guerra sanguinosa perché chi attacca subisce
comunque perdite maggiori di chi si difende, ma fu grave, essendo entrata
l'Italia in guerra nel 1915, cioè ripeto quasi un anno dopo lo scoppio del con-
flitto, che non si fosse tenuto conto di quanto era avvenuto negli altri fronti,
aggiustando il tiro a misura di quanto era successo sul fronte occidentale, più
omogeneo al nostro del fronte orientale.
La realtà perciò si rivelò peggiore di quanto si era pensato fosse, perché
Cadorna attaccò sul Carso quale unica via per raggiungere la sella di Lubia-
na e puntare verso Vienna, senza considerare la morfologia del massiccio e
il fatto che gli Austriaci, che sparavano dall'alto verso il basso, vi si erano
incavernati e si difendevano protetti laddove gli Italiani andavano all'attacco
mostrando il petto al nemico. Furono attacchi vani che si ripeterono per 11
volte – le battaglie dell'Isonzo, la cui dodicesima fu Caporetto – il cui unico
risultato fu la conquista di Gorizia nel 1916. Fu dunque guerra di posizione,
cioè trincee e sangue.
Forse oggi si fatica a rendersi conto del che cosa fosse una trincea, questo
solco scavato sul terreno, una ruga protetta dai sacchi di sabbia tra i quali si
aprivano le feritoie, con vista sui reticolati e la trincea nemica a metri, non
a chilometri di distanza. Basti dire che le deiezioni umane rimanevano sul
fondo della trincea e quindi i soldati non si muovevano propriamente sul fan-
go, bensì su uno strato di melma putrida bagnata dalle piogge d'autunno ed
essiccata dal sole dell'estate. Sul Carso poi il grande nemico era la sete perché
il massiccio è arido, non vi si trovano sorgenti e l'acqua doveva essere portata
dalle retrovie, ma, per il fuoco di interdizione del nemico, a volte non arrivava

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proprio. La trincea era poi, per ovvii motivi, un ricettacolo di malattie che con
buona probabilità si trasformavano in epidemie. Prescindendo dalla celebre
«spagnola» che colpì nel 1918 con falce egualitaria militari e civili, fin dal
1915 l'esercito fu sottoposto al pericolo del tifo, delle febbri, delle polmoniti e
di quant'altro potesse capitare all'organismo collocato in siffatte condizioni.
Naturalmente gli uomini in prima linea sfogavano la loro rabbia, quando
non trascendesse in atti più gravi dei quali ci occuperemo più sotto, imprecan-
do contro quanti essi ritenevano responsabili della loro situazione, dal Re al
governo al generalissimo Cadorna e via via lungo le erte scale delle gerarchie
militari fino al tenentino comandante di plottone che era accusato per lo meno
di essere stato interventista, com'era facile fosse se è vero l'assunto preceden-
te. Questo però è normale; è più interessante invece la rabbia che montò con-
tro tutti coloro che non combattevano in prima linea dagli addetti alla sanità
agli addetti alla sussistenza fino agli artiglieri, i cui cannoni erano postati un
po' più indietro e quel «un po' più indietro» era sufficiente per farli ritenere
imboscati. Il termine poi arretrava via via dalle linee e veniva affibbiato a
quanti la naja proprio non la facevano. Prima di tutto, quindi, quanti erano
stati esentati dal servizio e non importa fossero magari «handicappati» o ma-
lati gravi: per il trincerista erano stati tutti esentati perché figli di papà o per
opera di corruzione. Le imprecazioni continuavano poi contro i «pescecani»,
nome di gergo che indicava quanti lucravano sulle forniture di guerra ed era-
no quindi direttamente interessati, sempre a dire dei soldati, al proseguimento
della guerra medesima che si risolveva nello scambio ineguale e ingiusto tra
i guadagni loro e la pelle degli altri. Si estendeva infine agli operai che per
essere tali, e particolarmente gli specializzati, erano indispensabili in fabbrica
se si voleva continuare e potenziare la produzione bellica. Giuridicamente
costoro erano militarizzati, sottoposti quindi alla disciplina militare, nonché
al timore di un invio al fronte in caso di negligenza, ma i fanti questo non lo
sapevano e, se lo sapevano, interessava niente.
E qui si entra in un nodo fondamentale del discorso: per il motivo appena
esposto, la fanteria era costituita pressoché nella totalità da contadini e non
poteva essere diversamente perché l'Italia del 1915 era ancora un paese agricolo
e perché non erano richieste alcuna attitudine o competenza particolari per
morire in prima linea. A cose fatte, si constatò che il 95 % delle perdite subite
era dato dai fanti, cioè, pressoché meccanicamente, dai contadini. Io credo che
qui ci sia uno dei motivi del fallimento del biennio rosso successivo alla guerra,
dal momento che sia i contadini che gli operai protestarono e tumultuarono in
quel periodo, senza però mai trovare l'unità che sarebbe stata l'unica garanzia
di successo, anche perché la guerra aveva retoricamente acutizzato lo scontro

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città-campagna. Del quale invero si rese cosciente Gramsci quando scrisse il
suo libro sulla questione meridionale, ma era tardi e il fascismo si era ormai
saldamente insediato al potere anche contrapponendo il «ruralismo» alla
«pretesa» di egemonia della classe operaia.
Il resto naturalmente viene dopo: al momento c'è una massa di milioni di
uomini, rassegnati sì, ma non certamente entusiasti, che devono essere sotto-
posti a una disciplina sostitutiva delle motivazioni che non c'erano e che, va
detto preliminarmente, non si cercò assolutamente, in epoca cadorniana, di
indorare nella convinzione che la materia fosse così brutta che nessuno scal-
pello di scultore sarebbe riuscito a modellarla. Oggetto di indagine fu esatta-
mente il contrario: Cadorna infatti si giovò della consulenza di padre Ago-
stino Gemelli, medico e psicologo, futuro fondatore dell'università cattolica,
convinto che l'unico fattore utile per convincere gli uomini ad andare a morire
fosse l'annullamento delle coscienze, cioè un addestramento e una disciplina
formale (?) da osservarsi fino all'ossessione onde il soldato fosse trasformato
in un automa, obbedisse agli ordini cioè con una specie di riflesso condizio-
nato che li assimilava ai cani di Pavlov. Se ciò non fosse stato sufficiente, il
cordone di Carabinieri collocato nel retrofronte indicava che, arretrando, ci
si sarebbe trovati sotto le fucilerie esattamente come se si fosse andati avanti.
Non c'erano dunque molte alternative alla rassegnazione, se non ricorrere ad
amuleti, portafortuna, scaramanzia varia, preghiere alle Divinità che assume-
vano in quel contesto un aspetto superstizioso che non le distingueva sostan-
zialmente dalla recita di qualsiasi illusorio «monstre».
Naturalmente ci fu chi tentò di uscire dalla guerra, di trovare cioè una
qualche modalità che lo liberasse dall'incubo della trincea. La corruzione per
essere esonerati non era naturalmente solo un'invenzione di quanti invece in
trincea ci stavano, c'era invece ed era molto intrecciata ai meccanismi paren-
tali e amicali nel senso che eventuali parentele e amicizie venivano sfruttate,
se non per l'esonero, per essere tenuti lontano dal fronte. Giovanni Comisso
che va a a fare il telegrafista, per esempio, vede sempre il fronte da una certa
distanza e infatti il suo «Giorni di guerra», bello e utile per tanti altri versi,
non spiega nulla, nel senso che non dà testimonianza, della realtà della guerra
e della psicologia del soldato.
La prima forma di fuga è logicamente la renitenza, cioè il rifiuto di presen-
tarsi ai depositi dei reggimenti al momento della leva o del richiamo, dandosi
alla latitanza e più esattamente al bosco e alla montagna nelle regioni nelle
quali ciò era possibile. Il numero dei renitenti è difficilmente determinabile
perché molti dei supposti tali erano in realtà emigrati o comunque irreperibi-
li. Ciò detto, la cifra di 48.000 renitenti assunta con molte perplessità dagli

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storici non è in sé una cifra particolarmente rilevante – conferma semmai la
capacità nell'apparato repressivo dello stato – e comunque non si discosta, in
relazione alla popolazione, dalle cifre che si riscontrano in altri Paesi belli-
geranti.
Il numero più elevato dei tentativi di uscire dalla guerra si ebbe dunque
non prima, bensì durante la guerra, utilizzando le autorità politiche e militari
per contrastarli lo strumento del tribunale militare e confidando nell'efficacia
e nella ferocia degli articoli del codice militare di guerra, sicché al tirar delle
somme furono 400.000 le denunce presentate per fatti avvenuti nel periodo
bellico del quale furono protagonisti militari o militarizzati; ciò significa che
il 15% dei mobilitati venne denunciato per mancanze, negligenze, omissioni
del più vario genere. Nel numero rientrano anche i furti, i ritardi nel rientro
dalle licenze, gli atti di una disubbidienza spicciola e momentanea per i quali
spesso il ricorso alla denuncia era decisamente eccessivo e che quindi di per
sé rappresentano poco, ma 128.527 furono i processi per diserzione, la via
apparentemente più facile per uscire dalla guerra. Naturalmente, molte di que-
ste denunce erano presentate nei confronti di militari che si erano presentati in
ritardo ai reparti dopo le licenze ed ebbero quindi modesto seguito penale, ma
il numero resta e costituisce comunque una cifra molto elevata e della quale
sarebbe stolto non tener conto quando si parla del morale dei soldati durante
la guerra. Iniqua e priva di ogni riscontro in altri Paesi belligeranti, fu però la
decisione presa dal governo dopo Caporetto di interdire alla Croce Rossa l'in-
vio di pacchi-viveri ai nostri prigionieri in Austria. Certamente non mancaro-
no a Caporetto e nei giorni della rotta casi di soldati che si lasciarono catturare
facilmente nella convinzione – sulla quale più sottolineeremo – che la guerra
fosse finita o che comunque la prigionia fosse preferibile al pericolo di morire
che un qualsiasi tipo di resistenza avrebbe comportato. Ci furono e in questi
casi il darsi prigionieri equivaleva alla diserzione, ma la grande maggioranza
dei prigionieri era, per così dire, di tipo normale, non poteva cioè essere loro
imputata alcuna colpa, salvo non si volesse anticipare l'applicazione del me-
todo di Stalin nella II guerra, metodo per il quale ciascun prigionieri era col-
pevole perché la consegna era quella di morire sul posto, sicché i prigionieri
liberati transitarono direttamente dalla Germania alla Siberia senza soluzione
di continuità. La norma voluta dal governo Orlando si applicò naturalmente a
tutti i «Caporettisti» internati e ciò ne determinava l'iniquità; diventava però
immorale se si tiene conto, e ciò al governo italiano era noto, delle condizioni
di vita, cioè della fame, esistenti in Austria e che si riflettevano sulle condi-
zioni di vita dei prigionieri com'è naturale sia. Così, ci si avvicinò addirittura
all'atto criminoso, considerando che la fame fu all'origine di una serie di epi-

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Distribuzione di doni alla brigata «Como». MCRR.

Un posto di ristoro. MCRR.


Truppe a riposo. MCRR.
demie che aggravarono ulteriormente la vita dei nostri prigionieri.
Notevoli – 10.000 circa, ma non mancarono i casi di suicidio – le con-
danne per autolesionismo, cioè della pratica di procurarsi delle ferite o delle
malattie con spari attutiti da apposite fasciature onde evitare che i medici si
accorgessero che il colpo era stato sparato a bruciapelo o con sostanze para-
velenose (?) atte a procurare stati partologici.
La forma estrema di rifiuto della disciplina era evidentemente l'ammutina-
mento, determinato dal rifiuto di tornare in linea da parte di truppe stazionate
in quel momento nelle retrovie. Va detto preliminarmente che ammutinamenti
avvennero in misura maggiore o minore, clamorosi o soffocati sul nascere, in
tutti gli eserciti in campo, ma nell'esercito italiano essi ebbero una caratteri-
stica che è necessario mettere subito in evidenza a ulteriore illustrazione del
tipo di disciplina instaurato dalla gestione Cadorna. Era regola comune infatti
che i turni in trincea e i turni di riposo nelle retrovie si alternassero secondo
un calendario inteso a non deprimere eccessivamente il morale e la salute
fisica dei combattenti. Ciò però non sempre avvenne con puntualità e rispetto
delle esigenze dei reparti. È ovvio che esistessero situazioni di emergenza
nelle quali era impossibile rispettare le regole, ma, nel periodo Cadorna, si
andò oltre l'emergenza o si trasformò anche il normale in emergenziale, sic-
ché il mancato rispetto dei turni di riposo o dei tempi dei medesimi, divenne
pressoché la regola con grave disagio dei soldati. Tale fu il caso della brigata
Salerno nel 1916, tale fu il caso della brigata Catanzaro nel 1917. Infatti,
l'ammutinamento di aliquote di queste brigate – tra l'altro la Catanzaro era
reduce da un valoroso ciclo di combattimenti – venne dopo un ordine di ritor-
no anticipato in prima linea, prima del completamento del regolare turno di
riposo. La risposta all'ammutinamento non era l'individuazione e la punizione
dei colpevoli di aver fomentato l'ammutinamento medesimo, bensì il barbaro
sistema della decimazione. La quale decimazione altro non era che una va-
riante della rappresaglia per la quale veniva fucilato alla schiena un soldato su
dieci, seguendo il criterio del puro caso.
Altro motivo del malcontento dei soldati era la difficoltà a ottenere licenze,
sempre misurate con il bilancino del farmacista, di modesta estensione nel
tempo, spesso disdette all'ultimo momento, e, per i fanti-contadini sul cui nu-
mero ci siamo già intrattenuti, pesava essenzialmente la scarsa disponibilità di
licenze agricole in occasione dei momenti cruciali dell'annata agraria, quando
cioè sarebbe stata necessaria la presenza di braccia giovani sul podere. Nel
caso, ciò dipendeva da un'altra delle convinzioni proprie di Cadorna e cioè
che la costruzione del soldato-automa potesse essere scalfita da un ritorno, sia
pur temporaneo, alla vita civile e che, una volta rotta la costruzione, si potesse

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essere più facilmente prede dell'allettamento alla diserzione o comunque del
ritardato ritorno ai reparti.
Il concetto era presente fin dall'inizio della guerra e rientrava nell'ambito
della forma disciplinare che lo Stato Maggiore aveva fatto proprio, ma via via
che la guerra si inoltrava ed erano evidenti le stragi e i lutti che essa compor-
tava, maturò in Cadorna la convinzione che il basso morale e gli allettamenti
sovversivi che egli riteneva fossero presenti nel Paese e per i quali non poche
volte aveva protestato contro quella che egli riteneva fosse la debolezza dei
giovani, potessero inquinare il morale dei soldati in licenza. Naturalmente,
Cadorna era altrettanto convinto del basso morale dei soldati, ma, inquadrati,
essi erano domati o quanto meno domabili dalla disciplina di ferro della quale
si è detto, sciolti e spersi nel Paese erano di più difficile controllo. Assunto
ciò come vero, diventava assolutamente ovvio che fosse necessario concedere
il minor numero possibile di licenze, la richiesta delle quali quindi rientrò in
ogni protesta che in una forma o nell'altra fosse avvenuta nell'esercito.
Per il benessere del soldato nulla era previsto da Cadorna ed era logico che
così fosse se si tiene presente la presupposizione teorica – il soldato automa
– dalla quale si muoveva. Essa venne piuttosto lasciata all'iniziativa privata,
cioè alle signore che nelle città cucivano indumenti di lana per lenire il freddo
delle trincee, o all'iniziativa di qualche più avveduto cappellano militare. Fu
così che don Giovanni Micuzzi diede vita nelle retrovie del fronte alle «Case
del soldato», a spazi cioè ove i soldati in riposo avrebbero potuto trovare mo-
menti di distrazione con recite, proiezioni di film, viveri di conforto e carta e
penna per scrivere a casa con maggiore agio di come ciò avvenisse in barac-
ca. Di suo, lo Stato mise in circolazione molto alcool e istituì bordelli per mi-
litari. I superalcolici servivano «ad adiuvandum» di quanto la trasformazione
in automi non avesse ottenuto e dunque la distribuzione di essi precedeva
ogni attacco, così che un qualche grado di euforia alcolica spingesse i fanti
fuori dalle trincee sotto il fuoco nemico. I bordelli invece erano regolamen-
tati direttamente dalla burocrazia militare e se ne prevedeva l'istituzione nei
paesi di retrovia onde maschilisticamente allietassero il riposo del guerriero
attraverso ragazze arruolate nella rete dei bordelli civili. Per ragioni igieni-
che, era invece fortemente contrastato l'esercizio libero, cioè senza permessi
e autorizzazioni, della «professione» che, proprio per esser tale, era affidata a
collaudate professioniste.
Il presupposto dal quale siamo partiti era che il servizio di leva o il richia-
mo alle armi – nel corso del conflitto si richiamarono tutte le classi dal 1878
al 1900, anche se quest'ultima non ebbe il tempo di partecipare alla guerra
– coinvolgono direttamente tutto il popolo. Non è quindi improprio, era d'al-

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tronde uno dei pensieri ricorrenti di Cadorna, timoroso com'era del crollo del
fronte interno, esaminare quale fosse il morale del popolo nel corso del con-
flitto. Diciamo subito che il morale del popolo era basso se non altro perché la
guerra, e dunque lo stillicidio delle perdite, continuava nel tempo e sembrava
non aver fine. Era però un popolo di contadini e dunque le variazioni del mo-
rale, scosso anche dal fatto che non si registravano vittorie delle quali essere
fieri, dipendevano molto da ciò che in qualsiasi modo rientrasse nell'ambito
dei loro interessi diretti. Lo Stato aveva in realtà provveduto a garantire un
sussidio alle famiglie dei combattenti, ma l'esiguità delle somme – 60 centesi-
mi al giorno, in sostanza sufficiente per il pane e il latte e qualche volta per il
baccalà, pesce allora dei poveri – innescò la miccia di non poche proteste che
già nel 1916 erano trascese a volte in tumulti. Ancora nulla di preoccupante
invero, finché le proteste si limitavano ad assembramenti davanti ai municipii
dei paesi, ma via via esse aumentarono in quantità e in intensità. Intendo per
intensità che l'originaria richiesta di aumento dei sussidi a poco a poco sbiadì
per essere sostituita da altre e più pericolose parole d'ordine. Si chiese la pace
innanzi tutto e questo non poteva non preoccupare il governo di un Paese
impegnato nella prima guerra totale nella storia, si chiese il blocco dei fitti
agrari – che infatti venne concesso come misura straordinaria e temporanea –
si cominciò a chiedere, ed era la richiesta più pesante e più grave, che la terra
fosse data in proprietà ai co1ntadini, come premio per quanto essi stavano
facendo in guerra. L'errore del governo, al quale sarebbe semmai spettato di
presentare al Parlamento un eventuale provvedimento del genere, consistet-
te nel rimanere assente e muto, lasciando però trapelare l'idea che alla fine
qualcosa si sarebbe fatto in proposito. Non ci fu dunque alcuna disposizione
o promessa di divisione delle terre, ma l'idea venne lasciata correre per le
trincee come qualcosa di più di un'eventualità e convinse i fanti-contadini che
ciò sarebbe avvenuto. Si creò quindi un gigantesco equivoco, fonte di tutte le
posteriori iniziative di occupazione delle terre che si ebbero nel 1919-'20.
L'anno di svolta fu il 1917 e non solo in Italia. La stanchezza s'era ovun-
que trasformata in prostrazione e la prostrazione aveva innescato un circuito
del quale non era chiara la trasmissione dal popolo ai soldati o dai soldati al
popolo. Gli ammutinamenti contro la strategia del generale Nivelle in Fran-
cia, sono forse gli episodi più clamorosi di questo disagio, ma va detto che,
in quell'anno, anche le classi dirigenti si stavano rendendo conto di quan-
to profondo fosse il peso che gravava sulle masse popolari. Fu l'imperatore
Carlo d'Austria, succeduto a Francesco Giuseppe morto l'anno precedente –
l'Austria era notoriamente l'anello debole degli Imperi centrali – a prendere
l'iniziativa e a servirsi del cugino Sisto di Borbone per un giro delle capitali

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europee onde verificare le possibilità di una pace di compromesso. Non se ne
fece nulla, ma il significato del gesto rimase e non manca di importanza in
sede storica. Ben più autorevole e soprattutto palese e quindi a conoscenza
di tutti, fu l'allocuzione del pontefice Benedetto XV che conteneva la cele-
bre definizione della guerra come «inutile strage», non a caso bollata come
disfattista dai governi di tutti i Paesi belligeranti di confessione cattolica. In
Italia, si levò però anche una voce laica: il deputato socialista Claudio Treves,
intervenendo alle Camere, dichiarò «Non più un inverno in trincea», anche se
non era chiaro che cosa avrebbero fatto lui medesimo e il suo partito nel caso
si fosse trascorso un altro inverno in trincea, come poi di fatto accadde.
Accanto ai tumulti agrari cui si è fatto cenno, maturò oltre e, più esatta-
mente, favorito anche da queste dichiarazioni, i fatti di Torino dell'agosto,
quando, in seguito a una crisi nel rifornimento di pane ai forni della città, il
tumulto annonario, inevitabile in siffatti frangenti, si trasformò in una specie
di rivolta, nella quale, alla richiesta di pane, si associò la richiesta della pace,
e per sedare la quale si dovette ricorrere ai reggimenti di cavalleria, tenuti
di guarnigione nelle città proprio per il mantenimento dell'ordine pubblico,
nonché alla brigata Sassari che, secondo il vecchio schema in uso in Italia fin
dall'Unità, essendo formata da fanti sardi, si riteneva, e così infatti fu nono-
stante gli appelli del sardo Gramsci, non avrebbe solidarizzato con gli insorti.
Va poi ricordato che la rivolta era stata preceduta dalla visita a Torino di una
delegazione di rivoluzionari russi – menscevichi peraltro e non bolscevichi
– e quindi si capisce quali preoccupazioni di ordine interno e internazionale
nutrisse il governo italiano in quel 1917.
Che tutto ciò giocasse anche sul morale dei soldati al fronte, non c'è dub-
bio, dal momento che la medesima stanchezza presente nel popolo era pre-
sente anche nell'esercito, ma da questa constatazione muovere per affermare
che il disastro di Caporetto sia stato dovuto a una sorta di sciopero militare
attuato da combattenti consapevolmente orientati in questo senso, costituisce
un indebito e ingiustificabile salto logico. Caporetto fu una sconfitta militare
come altre ce ne furono in tutti i fronti di guerra, né più né meno grave, dovuta
essenzialmente all'applicazione da parte del maresciallo von Below e delle
truppe tedesche inviate sul fronte italiano di una nuova tattica di infiltrazione
alla quale i nostri soldati non erano stati addestrati. Vi si aggiungono la pessi-
ma idea di Cadorna di non dislocare una riserva mobile in profondità, la sotto-
valutazione di Capello di quanto fosse decisivo passare da uno schieramento
offensivo a uno difensivo da parte della sua II armata, l'errore di Badoglio di
ritardare il tiro delle artiglierie alle sue dipendenze, ed è chiaro che la scon-
fitta si può e si deve spiegare in termini puramente militari. Poi, ma solo poi,

67
influirono ed ebbero il loro peso anche motivazioni riconducibili al morale
dell'esercito e del Paese. Ebbe peso soprattutto la convinzione propria di mol-
ti soldati che quella sconfitta segnasse la fine della guerra e si potesse quindi
tornare a casa, convinzione a sua volta determinata dalla grande stanchezza
che era comune, va ripetuto, a tutti gli eserciti e a tutti i popoli.
Caporetto segnò al fine di una fase della guerra italiana e l'inizio di una fase
nuova. Il vecchio Boselli venne sostituito a capo del governo dal più giovane
Vittorio Emanuele Orlando, che, come ministro dell'Interno, aveva spiegato
molta energia nella repressione dei moti di Torino; Cadorna venne, invero
garbatamente, quasi convincendolo che si trattava di una promozione, man-
dato a Parigi come rappresentante italiano nel Consiglio Militare Interalleato,
un organo del tutto formale e privo di poteri, e sostituito da Armando Diaz.
Il quale Diaz era tutt'altro che un grande stratega, ma era dotato di un buon
senso tutto napoletano che gli faceva comprendere che, se si voleva (fosse vo-
luto) continuare la guerra. e vincerla, era necessario per prima cosa migliorare
le condizioni morali e il trattamento materiale dei combattenti. Diaz fu anche
favorito da due fatti che vanno assunti come una specie di precondizioni, pri-
ma ancora cioè che egli cominciasse a operare nel suo nuovo ruolo.
La prima era di carattere esclusivamente militare: a Caporetto era stata
travolta la II Armata; le altre, dislocate su altri settori del fronte, si erano
ritirate dietro la linea del Piave in buon ordine, mantenendo intatto il loro
potenziale. D'altronde, con metodi che eufemisticamente potremmo definire
spicci, su quella medesima linea il generale Andrea Graziani era riuscito in
qualche modo a ricomporre in unità organiche gli sbandati e i dispersi che
riuscirono ad arrivare fin lì. La seconda toccò invece più propriamente il mo-
rale dei cittadini dal momento che l'invasione del Friuli e di parte del Vene-
to agì come una frustata dalla quale era necessario difendersi anche perché,
parte era realtà, parte era fantasia, si diffuse nell'immaginario collettivo l'idea
dell'austriaco saccheggiatore, dell'austriaco stupratore, dell'austriaco barbaro,
sulla quale idea ci si soffermava poi attraverso il racconto dei profughi che,
a loro volta, qualcosa avevano visto e qualcosa dicevano di aver visto. In
altre parole, ci fu una reazione popolare che, in questa occasione, diede vita
a un patriottismo sufficientemente diffuso. D'altro canto, il governo dispose,
tramite il ministro delle finanze Francesco Saverio Nitti, l'accensione di una
polizza sulla vita di ogni combattente, provvedimento che faceva pensare alle
famiglie dei combattenti che finalmente il governo in qualche maniera si sta-
va occupando della loro sorte.
In tutto ciò Diaz non c'entrava, ma, una volta assunto il comando, egli fece
la sua parte, cominciando con il capovolgere la strategia di Cadorna. Diaz

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attribuiva infatti la situazione dell'esercito al dispendio di vite umane cau-
sato dalla concezione «offensivistica» del suo predecessore e, una volta che
l'esercito si fu arrestato sulla linea del Piave, decise di mantenerne a oltranza
l'assetto difensivo, meno dispendioso di sangue, ove a oltranza s'intendeva
finché non si fossero presentate occasioni più che favorevoli per una ripresa
offensiva. Tanto è vero che nell'ottobre 1918 furono le insistenze degli alleati
a spingerlo alla battaglia di Vittorio Veneto, e quindi sollecitazioni di carattere
politico, dal momento che egli riteneva che l'offensiva finale si sarebbe do-
vuta sferrare nella primavera 1919, per la quale offensiva si sarebbe avvalso
della classe 1900 che infatti non andò in linea a diciotto anni com'era capitato
alle classi immediatamente precedenti.
Queste furono grandi scelte; poi Diaz pensò a una serie di provvedimenti
spiccioli ma altrettanto necessari per migliorare il mondo dei soldati. Gli aiuti
americani che cominciavano ad affluire massicci nel Paese, consentirono in-
tanto di migliorare la qualità del rancio che era provvedimento di non poco
conto per un esercito abituato alla monotonia della carne e brodo da sempre
dominante, con il pane, nel pasto dei soldati. Vennero così meno alcuni motivi
di malcontento legati alla distribuzione e al consumo del rancio medesimo
che migliori linee di comunicazione consentivano pervenisse alle prime linee
con puntualità.
Lo schieramento difensivo che rendeva inutile il barbaro uso delle decima-
zioni – che era un dato oggettivo legato alla tattica diversa posta in essere dal
Comando Supremo – fece sì che Diaz fosse ritenuto dai soldati colui che le
decimazioni le aveva abolite mentre in realtà erano solo entrate in sonno, ma
il fatto che colpì fu che non vi si ricorse più. Si fece strada inoltre l'idea che
si dovesse e si potesse motivare i soldati, cioè rendendoli più consapevoli del
motivo per il quale stavano combattendo, e questa idea contrassegnò positi-
vamente la gestione Diaz.
A tal fine si nominarono nei reparti gli ufficiali P, precisamente con questo
compito motivatorio. Se è vero quanto abbiamo affermato in premessa, non
mancavano certamente ufficiali entusiasti, molti mutilati e quindi persuasivi
a vista, di questa mansione che ebbe, va sottolineato, una sua efficacia anche
se non misurabile in termini quantitativi.
Altra importante iniziativa fu la diffusione dei giornali di trincea, natural-
mente alcuni meglio riusciti, altri meno, ma, stante la presenza dei molti intel-
lettuali interventisti ora sotto le armi, di norma ben confezionati – ricordo «La
tradotta» – che avevano lo scopo di esaltare lo spirito di corpo delle unità alle
quali ciascuno di essi faceva riferimento, nella convinzione che la guerra non
si risolveva in duelli individuali, bensì procedeva per reparti organici ai quali

69
Due soldati in un momento di tempo libero
andava instillata l'idea della collettività come modo più utile per affrontare il
combattimento.
Ultimo, ma non per ultimo, dei provvedimenti fu la costituzione del Cor-
po degli Arditi, che non era una novità – già nel 1916 il maggiore Baseggio
aveva organizzato tali reparti all'interno di unità di maggiori dimensioni – ma
che nell'ultimo anno di guerra vennero tolti alle unità, e chiamati a dare vita a
un corpo autonomo che diede vita a intere divisioni. Gli arditi erano volontari
che venivano sottratti alla monotonia e ai pericoli della vita di trincea per
essere utilizzati nelle azioni più pericolose ove l'obbedienza doveva essere
quanto meno accompagnata da quella consapevolezza che conduce a un co-
raggio più vivo e più sentito. Mario Isnenghi insiste su questo punto e credo
abbia perfettamente ragione, anche se la battaglia finale e la vittoria non si
dovette certamente solo all'impiego della I divisione d'assalto nel forzamento
del Piave verso Moriago.

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Scalata alla «cuccagna» durante un momento di riposo. MCRR.
Merlettaie al lavoro
GLI ATTORI SOCIALI NELLA PROVINCIA DEL PIAVE
(1917-1918)

Daniele Ceschin

Senza la rotta di Caporetto, quella di Treviso non sarebbe diventata la


«provincia della Vittoria» e il Piave il fiume «sacro alla Patria». Di più, tanti
piccoli paesi posti alla destra e alla sinistra del Piave non si sarebbero tra-
sformati in una «terra di nessuno», non sarebbero stati sgomberati, distrutti
e ricostruiti; altri non sarebbero stati teatro delle offensive e controffensive
dell'ultimo anno di guerra che ne avrebbero modificato perfino il nome. Ma
le vicende militari – che vanno analizzate, studiate e ovviamente decostruite
quando sconfinano nella retorica patriottica coeva e successiva – non devono
far passare in secondo piano gli attori sociali – in gran parte civili, ovvero la
popolazione invasa, i profughi e gli internati – che tra il 1917 e il 1918 subi-
scono le conseguenze dirette dello spostamento del fronte dall'Isonzo e dal
Carso, al Piave e al Grappa. Solitamente utilizzo la categoria di «attore socia-
le» in senso estensivo, riferendomi ad esempio anche ai soldati, ai prigionieri,
ai disertori e così via, ma qui la userò in particolare rispetto alla popolazione
civile, accennando ad alcuni aspetti e nodi tematici che interessano le due
parti della provincia che si ritrovano separate dalla nuova linea del fronte.

L'esodo
La ritirata dell'esercito italiano dopo Caporetto comporta un impatto trau-
matico sulla popolazione civile posta di fronte ad una scelta in cui motiva-
zioni individuali e collettive s'intersecano. Spesso i civili sono spettatori che
assistono a scene del tutto inedite e che possono indurli a prendere una de-
cisione in un senso piuttosto che in un altro. Ma poi, chi parte e chi rimane?
E con quali mezzi? E con quali prospettive o speranze? A partire non sono
solamente i borghesi, le persone facoltose, i possidenti, ma anche gli artigiani,
gli operai, i contadini e i mezzadri. Che poi l'esito positivo della fuga, il pro-
fugato oltre il Piave, venga raggiunto prevalentemente da coloro che abitano
nei centri posti lungo le principali vie di comunicazione, che hanno potuto
mettersi in marcia con un certo anticipo oppure affrontare il viaggio in treno
piuttosto che a piedi, è un'altra questione. Se dunque il profugato come esito
ha un carattere di classe, l'esodo come scelta ha un carattere di massa. Questo
è uno dei nodi centrali dell'intera vicenda che interessa i civili del Friuli e del

75
Veneto dopo Caporetto1. Poi, ovviamente, ci sono le scelte in controtendenza,
il desiderio di rimanere comunque a difendere la proprietà o ad assistere delle
persone care, ma anche la mancata percezione del pericolo.
Innanzitutto, la fuga viene immaginata individualmente, discussa in fami-
glia, esclusa categoricamente, ma comunque quasi sempre preparata, anche
da coloro che, fino all'ultimo, sono intenzionati a rimanere. In molti casi è
la mancanza di notizie dei propri famigliari a indurre la popolazione a re-
stare piuttosto che a fuggire. Tra il partire e il restare, un grosso peso gioca
quindi anche la casualità. Nel dubbio, si rimane, anche perché la separazione
riguarderebbe, nella maggior parte dei casi persone anziane, malate o non
autosufficienti. Il ritardare di poco la partenza o il ritornare indietro in cerca
dei parenti che si sono attardati oppure dei bambini smarriti – una circostanza
molto comune che provocava in qualche caso la disperazione delle madri che,
disperate, risalgono a ritroso la colonna2 – significa perdere la possibilità di
porsi in salvo e di attraversare i fiumi prima che i ponti vengano distrutti. Un
grosso peso nella decisione è dovuta alla maggiore disponibilità di mezzi e di
denaro per gli abitanti delle città, oltre che alla fortuna di trovarsi lungo la più
importante direttrice stradale e ferroviaria, anche se non in tutti i casi questo
costituisce un vantaggio. Si fugge o si è tentati a farlo innanzitutto per paura.
Nei giorni immediatamente successivi a Caporetto, di fronte alla visione del-
la disfatta militare, «la fantasia è piena delle barbarie tedesche nel Belgio»3.
Una presenza costante, questa della violenza, che è nota attraverso la propa-
ganda di guerra e che alimenta timori fino a quel momento sconosciuti. Anche
le false notizie di quei giorni di guerra hanno una certa importanza nella scelta
se partire oppure no4.
In alcuni casi i sindaci consigliano che in previsione di un ordine di sgom-
bero siano in via precauzionale allontanati le donne e i bambini. Le separazio-
ni famigliari interessano in particolare gli anziani che intendevano comunque
restare5 e la ritrosia della popolazione a partire emerge molto chiaramente ed
1 Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra,
Laterza, Roma-Bari 2006.
2 Attilio Baradel, Nei solchi dell'odio, Cassa di Risparmio della Marca Trevigiana, Treviso
1988 [1925], pp. 30-31.
3 Libro storico parrocchiale di Bressa redatto da don Francesco Lucis, riportato in Lucio
Fabi, Giacomo Viola, «Una vera Babilonia...». 1914-1918. Grande guerra ed invasione au-
stro-tedesca nei diari dei parroci friulani, Edizioni della Laguna, Monfalcone 1993, p. 94.
4 Sul peso delle notizie e dei racconti, veri o tenuti per veri sull'immaginario collettivo, cfr.
Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Donzelli,
Roma 1994, pp. 79-108. Per il caso italiano, rimando a Giovanna Procacci, Dalla rassegna-
zione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Bulzoni, Roma
1999, pp. 339-346.
5 Amerigo Clocchiatti, Cammina frut, Vangelista, Milano 1972, p. 8.
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è attribuibile alla volontà di non abbandonare al nemico i propri averi. Anche
nei paesi rivieraschi del Piave i civili non vogliono saperne di andarsene sen-
za portare con sé beni, animali e raccolti, un atteggiamento comprensibile tra
le classi rurali, convinte che il nemico non si fermi e che il suo sia solamente
«un passaggio»6.
La fuga delle classi dirigenti rappresenta senza dubbio uno degli aspet-
ti più controversi dei giorni immediatamente successivi alla rotta. Fuga di
sindaci, assessori e consiglieri comunali, ma anche di impiegati pubblici, di
figure di riferimento come possono essere i maestri elementari e i medici con-
dotti, oppure ancora i segretari comunali, il cui compito è quello di porre in
salvo se stessi come rappresentanti legittimi del potere locale e, se possibile,
le carte d'archivio, sulle quali tale potere è fondato. Il funzionario pubblico
si sente il depositario di un potere che deve conservare e difendere di fronte
all'invasione nemica; l'unico modo per farlo è quello di seguire l'esercito in
ritirata. D'altra parte, se sono le autorità civili a dare «l'esempio della fuga»,
la scelta di partire risulta in qualche modo indotta anche nella popolazione
civile7. Va da sé, che la partenza precipitosa delle classi dirigenti e dei notabili
viene immediatamente percepita da chi ha intenzione di rimanere – per scelta,
necessità o impossibilità a scappare – come un segno distintivo di classe.
Il nodo centrale è dato dal fatto che, interrotta la catena di comando, le
amministrazioni locali nella maggior parte dei casi hanno ravvisato gli estremi
non per sottrarsi alle proprie responsabilità, ma per decidere in proprio un
comportamento da assumere rispetto alla loro carica e, se vogliamo, anche
rispetto al loro ruolo morale. Un comportamento non previsto da alcun
manuale del caso e che implica una scelta ben precisa. È meglio rimanere e
difendere la popolazione rimasta che non vuole saperne di partire o che non
può comunque muoversi, oppure abbandonare in fretta il proprio comune,
salvare gli atti più importanti e seguire, accompagnare, aprire la strada ai propri
concittadini profughi? Si trattava di una scelta non facile e irreversibile, che
impegna i singoli amministratori, ma anche le loro famiglie, quindi centinaia
di persone.
Eppure, di fronte all'esodo delle autorità civili, quelle religiose, nella mag-
gior parte dei casi, sono indotte a rimanere accanto alle loro comunità. L'au-
toinvestitura dei parroci si pone di fatto in linea di continuità con le forme di
«supplenza cattolica» operanti fin dall'inizio della guerra e che ora acquistano
una legittimazione nuova e maggiormente vincolante. Questo fatto darà luo-
6 Giovanni Dal Poz, L'invasione. Diario di un profugo, Tipografia Cartoleria Luigi Guin,
Noale 1937, p. 5.
7 Cesco Tomaselli, Gli «ultimi» di Caporetto. Racconti del tempo dell'invasione, Paolo
Gaspari Editore, Udine 1997 [1931], p. 69.
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go a molte polemiche durante l'ultimo anno di guerra, in particolare da parte
della componente politica del profugato, che accuserà i parroci e i cappellani
rimasti in territorio invaso di collaborare attivamente con le truppe occupanti
e di essere, in una parola, degli austriacanti al servizio del nemico. In questo
momento per molti parroci il problema della scelta, o solamente del dubbio
tra il restare o il partire non si pone nemmeno. In assenza di direttive, i par-
roci si limitano ad osservare quanto prescrive loro il diritto canonico, ovvero
l'obbligo di residenza anche nel caso in cui nella parrocchia rimangano poche
persone. È quindi comprensibile lo stupore dei sacerdoti di fronte alla fuga
degli amministratori comunali. Così padre Giovanni Simonato, economo spi-
rituale di Colbertaldo:

Veramente grave e difficile era ad un tempo la nostra condizione. Da una parte certi
signori che avevano sempre gridato «Viva la guerra», insistendo presso i loro dipendenti
sulla necessità e sul dovere che tutti avevano di cooperare con tutte le forze al nostro trionfo,
assoggettandoci, se fosse d'uopo, anche a sacrifici i più gravosi per una causa tanto nobile,
noi li avevamo veduti misteriosamente scomparire dai nostri paesi. Ove si erano rifugiati? È
facile immaginarlo, oltre il Piave. Niente di male, anzi…, ma perché essi non si curarono di
far presente anche ai dipendenti il pericolo grave che sovrastava? Perché anzi spargere e far
spargere artificiosamente la voce che essi non ci avrebbero abbandonato, che sarebbero ri-
masti con noi fino all'ultima ora? Perché cercare di persuadere il popolo che il miglior partito
era rimanere al suo posto?8

Nel suo diario, il parroco di Farra di Soligo, don Desiderio Calderer, elenca
impietosamente tutti i notabili che alla notizia della rotta militare hanno
passato il Piave senza dare notizia della loro partenza ai compaesani;
s'interroga anche lui sulla fuga dei siori:

Sono partite per Milano tutte le autorità e tra queste: il conte Carlo Brandolini, sindaco; il
cav. Pietro Savoini, assessore; il dott. Ugo Cecconi, medico condotto; il sig. Giovan Battista
Savoini, maestro; il sig. Rigamonti Oceano, esattore; i sigg. Umberto e Amedeo Vedovati,
possidenti; il sig. Bortolomiol Giuseppe, direttore del forno; il sig. Domenico Narduzzo del
fu Giuseppe; Maioli Riccardo, daziere, con la famiglia; Ferruccio Modenese, ufficiale posta-
le; il dott. Adriano Scudo, segretario comunale; Spagnol Ruggero, albergatore e presidente
della Congregazione di Carità; il sig. Granata Enea, direttore della filanda […]9.

8 Giovanni Simonato, Una pagina di storia dell'invasione austro-germanica (10 novembre


1917-30 ottobre 1918), Terra Ferma, Vicenza 2007, p. 18. Si tratta della ristampa anastatica
della 2a edizione (Longo & Zoppelli, Treviso 1922); la 1a era stata del 1920, la 5a del 1935.
9 Diario di don Desiderio Calderer, citato in Gustavo Corni, L'anno dell'invasione 1917-
1918, in Due villaggi della collina trevigiana. Vidor e Colbertaldo, IV, L'età contemporanea.
78
In alcune delle sue pagine più belle, Ardengo Soffici descrive in questo modo
il passaggio dei profughi, in gran parte friulani, attraverso i primi comuni oltre
il Piave, sulla vecchia strada napoleonica, tra Spresiano e Villorba:

C'incontriamo con turbe di profughi che han passato il Piave e s'irradiano per questa pia-
nura.Chi ha potuto salvare una vacca, un asino, un porco se lo conduce in compagnia come un
membro della famiglia; quasi tutti traggon con sé qualche cosa, una cesta, un carretto ricolmo
d'ogni cosa un po', una gabbia, un sacco, un fiasco di vino, un fagottello di biancheria. Carri
di fieno vengono innanzi, su cui troneggiano in confuso, spose, vecchi, mobilia, e bambini
che ridono o dormono avvolti in coltroni e scialli. Per chilometri, il torrente umano sfila vici-
no a noi. È tutto il Friuli e mezzo il Veneto ormai che arrivano e passano. Migliaia, decine di
migliaia, centinaia di migliaia di visi emergono dal grigiume amorfo della interminabile fila e
si precisano nei nostri occhi. Visi fiorenti, visi emaciati, stanchi, giovanili, aggrondati, riden-
ti, irritati, appassionati, muti, oscuri, desolati; visi di pianto, di paura o d'indifferenza10.

Parole e immagini comuni anche a buona parte della memorialistica e della


letteratura di guerra11. Del resto, così si presenta Ponte della Priula il 29 ottobre:

Un'enorme confusione regnava negli uffici della scuola bombardieri ivi accampati, così
pure negli alberghi e case, le strade erano ingombre di fuggiaschi dei paesi del Friuli ormai
invaso, di carri carichi di masserizie tirati da cavalli, buoi, ed anche a mano, di uomini, don-
ne, bambini, stanchi, disperati, spauriti che nella confusione avevano smarrito i famigliari, di
soldati sbandati o fuggiti dagli ospedali, sfiniti, affamati, di camion carichi di uomini, mate-
riali e soldati. Gli ultimi treni che passavano per la stazione erano affollati di profughi, molti
dei quali, non trovando posto, erano saliti sopra il coperto dei vagoni12.
Secoli XIX-XX, a cura di Danilo Gasparini, Comune di Vidor, Cornuda 1990, p. 535.
10 Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della seconda Armata, Vallec-
chi, Firenze 19303 (ed. orig. 1919), pp. 234-235.
11 Angelo Manaresi, Ricordi di Guerra 1915-1918, a cura di Roberto Mezzacasa, Nordpress,
Chiari (Bs) 2000, p. 97: «La immensa marea che traboccava di qua dal Piave in cerca di
salvezza dava veramente l'impressione di un intero popolo in fuga di fronte all'invasore».
Un'infermiera della Croce Rossa ricorda così gli abitanti dei comuni che nei primi giorni di
novembre si ritrovano a ridosso delle linee del Piave e del Grappa: «Quel fermento di gente
impaurita, sferzata da precipitosa fuga, incosciente del domani che la attendeva, rappresenta-
va il terrore. […]. Giornate di novembre fredde, piovose aumentavano l'abbattimento del po-
polo veneto. Quella fuga verso l'ignoto di donne discinte, con bimbi seminudi piagnucolanti
e stanchi; quei carretti con poche masserizie, trainati tutt'al più da una mucca non avezza al
giogo, scortati da qualche vecchio curvo dagli anni e ancor più dai malanni, incuoteva una
pietà senza pari. Indescrivibile baraonda quella fiumana di popolo disorganizzata!». Ada An-
dreina Bianchi, Il mio soggiorno al fronte 1917-1918, in La Valcavàsia dal Novembre 1917
alla ricostruzione, a cura di Silvio Reato, Tipolitografia Battagin, S. Zenone degli Ezzelini
(Tv) 1987, p. 29.
12 Carlo Giardini, Dal taccuino delle mie memorie. Sulla sponda sinistra della Piave fra
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Treviso diventa il primo e provvisorio luogo di ricovero per migliaia di
fuggiaschi che cominciano ad affluirvi la sera del 28 ottobre. Come annota
Antonietta Giacomelli, i profughi arrivano con ogni mezzo, carri, automobili
militari e «i treni passano pieni di grappoli umani»13. Famiglie intere, ma tra
loro anche decine e decine di bambini soli che sono stati smarriti dai genitori
e che vengono momentaneamente ricoverati presso la Casa degli Esposti14:

Alla stazione di Treviso […] che miserando spettacolo di profughi friulani da dovere
con difficoltà trattenere le lacrime!… Uomini pochi, donne molte, fanciulli e bambini più
ancora; stanchi, pallidi, smunti, smarriti: altri sonnecchiavano seduti sui loro fardelli, pochi
parlavano, nessuno rideva. Non ebbi l'animo di rivolgere a nessuno una domanda, sì triste era
lo spettacolo. Tanto è stata dolorosa l'impressione riportata, che dissi tra me e me: piuttosto
morire sotto le macerie della propria casa, che esporsi a tanta tribolazione15.

Intanto, su iniziativa di padre Agostino Gemelli, padre Giovanni Semeria


e don Giovanni Minozzi, il 30 ottobre si decide di dare vita ad un Comitato –
animato dalla stessa Giacomelli, dai fratelli Luigi e Giuseppe Corazzin e da
don Costa dell'Opera Bonomelli – per l'assistenza ai profughi di passaggio che
continuano ad aumentare, al punto che «la città è riboccante di profughi»16.
A questi cominciano ad unirsi numerosi trevigiani presi dal panico alla vista

gli invasori. Fatti storici anno 1917-1918, Associazione Valdo Futura, Valdobbiadene (Tv)
1997, pp. 3-5. La confusione indescrivibile sulla riva destra del Piave, nei pressi di quella
che, al di là delle decisioni militari, è ormai da tutti percepita come la nuova linea del fronte,
come pure le condizioni dei profughi all'interno dei convogli ferroviari, ci vengono restituite
da un numero impressionante di fonti; si veda almeno la testimonianza del tenente Nicola
Tonini, riportata in Massimiliano Pavan, Profughi ovunque dai lontani monti. Da ļa Grapa
fin dó in Secilia, Canova, Treviso 1987, p. 32: «I treni rigurgitavano di profughi: i vagoni era-
no tramutati in accampamenti zingareschi: sacchi, valige, coperte, involti, cestoni; e vecchi
e bambini, donne d'ogni età e condizione, pigiati insieme in confusa promiscuità; un vociare
senza tregua, un tramestio continuo, un gridìo incessante; povera umanità spaventata, vissuta
fino allora nella pace ordinata delle case che aveva dovuto abbandonare da un'ora all'altra e
se ne andava verso non si sa dove».
13 Antonietta Giacomelli, Vigilie (1914-1918), Bemporad, Firenze 1918, p. 176.
14 Giovanni Minozzi, Ricordi di guerra, vol. II, Tipografia Orfanotrofio Maschile, Amatrice
1956-1959, p. 16: «Si presentavano i casi più aggrovigliati e penosi: figli senza genitori, spo-
se senza mariti, vecchi sciancati, malati cascanti, signore e signori senza nulla, scalzi quasi
tutti e mezzo nudi».
15 Lodovico Ciganotto, L'Invasione Austro-Ungarica a Motta di Livenza e nei Dintorni.
Diario. 2 Novembre 1917-4 Novembre 1918, Tipografia Carlo Pezzutti, Motta di Livenza
1922, p. 9-10.
16 Lettera del vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin a papa Benedetto XV, 31 ottobre
1917, pubblicata in I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, vol. II, a cura di
Antonio Scottà, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1991, p. 270.
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degli sfollati e dei soldati sbandati, in particolare coloro che hanno la possi-
bilità di spostarsi e che rivestono cariche pubbliche, gli stessi che poche ore
prima avevano firmato un manifesto che invitava la popolazione alla calma e
alla fiducia e soprattutto a non abbandonare la città17. Il 6 novembre Treviso
si ritrova con le vie imbrattate di rifiuti, le strade ingombre di carri militari e
di carretti dei profughi, i negozi quasi tutti chiusi; alla stazione la ressa conti-
nua a causa delle persone che cercano di partire e delle spedizioni di pacchi,
bauli, materassi, sacconi18; secondo Tito Garzoni, quello dei profughi che
vagano per la città era uno «spettacolo impressionante»19. L'8 novembre di-
venta impossibile l'inoltro dei profughi attraverso la ferrovia, sia per le neces-
sità militari, sia per l'eccessivo ingombro dovuto ai profughi trevigiani della
destra Piave e si rende quindi necessario intensificare le partenze attraverso i
barconi sul Sile20; è ancora la Giacomelli, molto attiva a Treviso in quei giorni
nell'assistere i fuggiaschi di passaggio, a descrivere le colonne interminabili
che sostano lungo le rive del fiume fino al porto di S. Ambrogio di Fiera21. Il
9 novembre la città – la stessa nella quale fino a qualche giorno prima si pote-
vano ancora trovare luoghi dove la guerra era estranea o almeno vissuta come
fosse un lontano altrove22 – si presenta praticamente deserta, quasi tutti i bor-
ghesi sono fuggiti; tra loro tutti gli amministratori e persino il personale delle
cucine economiche23. Al loro posto sono rimasti solo il prefetto, il vescovo, i
17 Giacomelli, Vigilie cit., p. 182.
18 Ivi, pp. 186-187.
19 Tito Garzoni, Diario Trevigiano. Dal novembre 1917 al novembre 1918, Tipografia Li-
breria Emiliana, Venezia 1936, p. 29.
20 I profughi giunti a Treviso con mezzi diversi da quelli ferroviari vengono concentrati
presso il quartiere popolare di Fiera e da lì, attraverso dei burchi che possono trasportare al
massimo 200 persone, raggiungono Chioggia. Il 5 novembre presso il porto di Sant'Ambro-
gio di Fiera vengono messi a disposizione 8 burchi per 1.600 persone, il giorno successivo
10 burchi per 2.000 persone e quello dopo ancora, 12 burchi per 2.400 persone; non possono
comunque essere trasportati più di 2800 profughi al giorno, perché non sarebbe poi possibile
operare il successivo sgombero da Chioggia attraverso la ferrovia; Archivio di Stato di Tre-
viso (AST), Gabinetto di prefettura, b. 24, Intendenza Generale dell'Esercito - Direzione dei
Trasporti a prefetto di Treviso, 3 novembre 1917.
21 Giacomelli, Vigilie cit., pp. 191-192.
22 Livio Fantina, Le trincee dell'immaginario. Spettacoli e spettatori nella grande guerra,
Cierre, Verona 1998.
23 L'idea della fuga delle classi dirigenti e del loro «tradimento» trova dei riscontri, per la
verità abbastanza deboli, anche nella canzone popolare; si veda L'undici novembre del '17 in
Canti del Grappa. Il canto popolare nella tradizione orale della pedemontana del Grappa, a
cura di Gabriele Vardanega, Danilo Zanetti Editore, Caerano S. Marco (Tv) 1999, p. 238: «E
l'undici novembre / del'ano diciasete / si vedevano i borghesi / scapar via; Veder ste signorine
/ con le sotane strete / facevano i passi corti /ma più in freta; Veder le nostre mame / coi lor
cari bambini / corevano spaventate / spaventate dalla paura / perché tiravan giusto / giù in
pianura; Veder le nostre case / che andavano giù per tera / alora ci siamo acorti / di questa
81
Profughi in fuga. MCRR.

Distribuzione del rancio ai profughi. MCRR.


Bambini che giocano al soldato sotto lo sguardo di un ufficiale a cavallo. MCRR.

Donne alla fontana. MCRR.


parroci urbani, pochi negozianti e qualche centinaio di poveri, oltre ai malati
intrasportabili ricoverati ancora presso l'Ospedale24. L'arrivo dei profughi da
oltre il Piave è cessato e i pochi treni che giungono da Mestre sono vuoti o
carichi solo di truppe. Nella vicina Roncade il 20 novembre affluiscono 4.900
profughi provenienti da Zenson, S. Biagio di Callalta, Fossalta di Piave e Mu-
sile; nel loro caso si tratta di una breve sosta in attesa di prendere la via per
altre regioni d'Italia. Dieci giorni dopo il centro urbano versa in condizioni
desolanti:

Facemmo un giro per la città. Era la vista più curiosa al mondo vedere un città grossa di
circa ottantamila abitanti interamente abbandonata dai civili ma piena di soldati; non c'erano
negozi aperti, nessun ristorante, nessun caffè. Lontano dal centro della città dalla stazione a
porta Mazzini e la Piazza dei Signori, dove c'era la prefettura o il municipio, le strade erano
completamente vuote con tutte le porte e le finestre inchiodate e sbarrate. Le autorità militari
avevano fatto il meglio, perché molti dei trevigiani fuggiti avevano lasciato dietro ogni cosa
e le case erano state svaligiate, molte cose prese, mobili e finestre rotti25.

L'invasione
In poche ore vengono occupati dall'esercito tedesco e da quello austro-
ungarico tutti i 46 comuni della provincia di Treviso posti sulla riva sinistra
del Piave26. Il vescovo di Ceneda, mons. Eugenio Beccegato, rimasto in sede
come la maggior parte del suo clero, registra così la situazione d'incertezza di
quelle prime settimane:

Fin dai primi giorni del passato novembre furono sospesi tutti i mezzi di trasporto e di co-
municazione, cosicché da un mese noi siamo all'oscuro di tutto ciò che succede nel mondo. Il

guera; Veder ste signorine / con le sotane strete / che andavano gridando / con la forsa del
municipio / voliamo la bandiera / del'armistizio».
24 Archivio centrale dello Stato (ACS), Copialettere, prefetto di Treviso a Vittorio Emanuele
Orlando, 9 novembre 1917.
25 Lucrezia Camera, Porta Mazzini. L'ultimo anno della Grande Guerra a Treviso nel diario
di un'infermiera volontaria italo-americana, Istresco, Treviso 2010, p. 16.
26 Si tratta dei comuni di Cappella Maggiore, Cessalto, Chiarano, Cimadolmo, Cison di
Valmarino, Codognè, Colle Umberto, Conegliano, Cordignano, Farra di Soligo, Follina, Fon-
tanelle, Fregona, Gaiarine, Godega di Sant'Urbano, Gorgo al Monticano, Mansuè, Mareno
di Piave, Meduna di Livenza, Miane, Moriago, Motta di Livenza, Oderzo, Ormelle, Orsago,
Pieve di Soligo, Ponte di Piave, Portobuffolè, Refrontolo, Revine Lago, Salgareda, S. Fior, S.
Pietro di Feletto, S. Polo di Piave, S. Vendemiano, Santa Lucia di Piave, Sarmede, Segusino,
Sernaglia, Susegana, Tarzo, Valdobbiadene, Vazzola, Vidor, Vittorio Veneto, Zenson di Pia-
ve. Per le molte tematiche relative ai comuni invasi e occupati, rimando a Daniele Ceschin,
Sernaglia nell'anno della fame. Storia e memoria della Grande Guerra, Edizioni DBS, Seren
del Grappa 2008.
84
giorno 8, alle ore 10, entrarono in Vittorio le prime truppe austriache, seguirono le tedesche,
poi le austriache, poi le tedesche nuovamente, e tuttora continua il passaggio. Precedettero i
saccheggi diurni e notturni delle truppe sbandate, poi le requisizioni di tutto! Lo spettacolo è
desolante! In pochi giorni, da uno Stato economico floridissimo, che aveva del favoloso, per
la straordinaria abbondanza del raccolto, queste popolazioni sono passate nella più desolante
miseria e lo spettro della fame è alle porte di migliaia e migliaia di famiglie dell'intera diocesi
[…]. I benestanti sono quasi tutti passati alla destra del Piave, lasciando in balia del saccheg-
gio le loro case e le loro robe27.

L'impatto con la popolazione della provincia di Treviso nei giorni in cui gli
italiani si assestano sulla linea del Piave rende bene l'idea dello spaesamento.
Così a Vittorio il 9 novembre:

Ne abbiamo già di tutte le razze, che momenti terribili sono questi per noi. Pure nell'altra
casa hanno voluto rovistare da pertutto e hanno preso d'ogni sorta d'oggetti, chi può parlare?
portassero via anche la casa noi dobbiamo fare silenzio, non vi sono Comandi di sorta, sono
questi come evasi dalle carceri. Questa sera abbiamo dovuto apparecchiare i letti per loro,
mi faceva rabbrividire al pensiero di vedere nei nostri stessi letti, quegli stessi che abbiamo
sempre odiato. Siamo circondati da tutta questa gente barbara che prospettiva abbiamo, è
come un sogno, ma assai triste28.

Lo stesso giorno arrivano a Refrontolo le prime avanguardie austriache; ce


ne dà conto Maria Spada nel suo diario dell'anno dell'invasione:

I primi ad arrivare furono due ufficiali austriaci a cavallo, poco dopo mezzogiorno; entra-
rono nel giardino ed uno avvicinandosi alla porta mi chiese, con cortesia, parlando in fran-
cese, se avevo un uovo. Glielo feci portare, ma non lo bevve; vidi che porse l'uovo all'altro.
«Verranno gli Austriaci?» gli chiesi. «Sarà molto peggio, perché verranno i Tedeschi»29.

Paure confermate dal contegno dei soldati giunti sul fronte a ridosso del
Grappa, in questo caso a Segusino: «I primi arrivati furono i germanici, esseri
superbi, crudeli, devastatori, facevano ogni sorta di male, si diedero subito
con pazza gioia al saccheggio di guerra, compiuto in un modo sì scandaloso e
crudele, che credo i demoni dell'inferno, non avrebbero fatto di più»30.
27 Lettera del vescovo Eugenio Beccegato sulla situazione della diocesi di Ceneda, 1° dicem-
bre 1917, pubblicata in I vescovi veneti cit., p. 429.
28 Bianca Brustolon, Vittorio '17-'18. Un diario, a cura di Aldo Toffoli, De Bastiani, Vittorio
Veneto 1989, pp. 18-19.
29 Maria Spada, Diario dell'invasione, Tipse, Vittorio Veneto 1999 [1934], p. 5.
30 Clelia Jäger Verri, Anno dell'invasione nemica a Segusino dal 10 novembre 1917 al 30
ottobre 1918, in Un popolo in esilio. Segusino 1917-1918, a cura di Lucio Puttin, Centro
85
Dopo Caporetto il timore della «barbarie» del nemico rimanda al peso,
certamente non trascurabile, della pubblicistica e della letteratura di guerra
intorno al tema della violenza esercitata dalle truppe tedesche in Belgio e in
alcuni dipartimenti della Francia durante i primi mesi del conflitto. Nella me-
moria dell'invasione e nelle relazioni dell'immediato dopoguerra sono molto
frequenti i riferimenti alla maggiore violenza dei tedeschi rispetto alle varie
etnie dell'esercito austro-ungarico:

Le truppe che si dimostrarono più civili, furono le czeche, le polacche, le austriache. Gli
ungheresi si dimostrarono – salve onorevoli eccezioni – degni figli di Attila; i croati, i bosnia-
ci, veri zingari. Trovai in certi ufficiali, specialmente ungheresi, un gran desiderio d'imparare
la lingua italiana, e stima per la nostra coltura31.

Comunque i comportamenti non sempre sono lineari, come dimostra la


testimonianza di Attilio Baradel sulle truppe acquartierate a Cessalto, che
cerca di misurare l'umanità dei singoli di fronte alla realtà della guerra:

Vidi dei soldati […] difendere le famiglie dalle prepotenze di qualche loro camerata esal-
tato. Ne vidi altri aiutare, spontaneamente, e con visibile amore, i vecchi contadini e le donne
o gli artigiani nei loro umili lavori o soccorrerli con slancio nelle loro difficoltà, ogni volta
che lo potevano fare e portando in aiuto anche qualche piccolo arnese da lavoro. M'accad-
de di vederne, varie volte […] difendere famiglie assalite da gruppi d'altri soldati focosi e
malintenzionati; li vidi esporsi al pericolo, durante i bombardamenti, offrendo alle donne, ai
bambini e in genere ai civili, i loro nei ricoveri costruiti per il proprio riparo. Li vidi dividere
il loro misero rancio con le famiglie più indigenti, togliere qualche cosa dalle loro poverissi-
me gavette per darla a qualche bambino che li guardava mentre mangiavano32.

«Son prussiani e tanto basta! Ricordai i lanzichenecchi descritti dal


Manzoni»33, sottolinea Angelina Casagrande di Conegliano, mentre Giuseppe
Schiratti, di Pieve di Soligo, enfatizza le differenze tra tedeschi e austriaci:

La differenza fra i soldati dell'uno e dell'altro impero saltava agli occhi. I primi [i tede-

stampa della Cassa di Risparmio della Marca Trevigiana, Treviso 1983, p. 33.
31 ACS, Ministero della Guerra, Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto
delle genti commesse dal nemico (Commissione d'inchiesta), b. 5, fasc. 67, s/fasc. 6, relazio-
ne di don Luigi De Nardi alla Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle
genti commesse dal nemico, 27 gennaio 1919.
32 Baradel, Nei solchi dell'odio cit., pp. 71-72.
33 Angelina Casagrande, Sotto il tallone tedesco. Note personali d'una spettatrice dell'inva-
sione straniera. 9 novembre 1917-29 ottobre 1918, Stabilimento Grafico U. Bortoli, Venezia
1920, p. 8.
86
schi] ben nutriti, ben vestiti arroganti, senza pietà né rispetto alcuno; gli altri [gli austriaci]
sporchi, laceri, smagriti dalle privazioni, stanchi e disgustati della guerra interminabile. Una
parte delle truppe che prese stanza nei dintorni della Pieve non era di religione cristiana, ma
perfino i bosniaci maomettani si comportavano più umanamente dei Germanici. Lasciavano
in pace le ragazze, si mostravano rispettosi con i vecchi. Sarebbero stati anche pietosi, se non
li avesse costretti il bisogno; il loro rancio era talmente ridotto che, per saziarsi, frugavano
dappertutto, racimolando il poco che i loro alleati avevano lasciato indietro34.

Nei comuni abbandonati dalle autorità si formano comitati spontanei e


provvisori, inizialmente riconosciuti dai comandi nemici, per la salvaguardia
di coloro che erano rimasti e la tutela dei beni dei profughi. In seguito viene
ripristinata una forma di ordinamento municipale secondo la legge italiana,
con la nomina da parte dei comandi di distretto dei consigli comunali. In
alcuni paesi vengono nominate delle vere rappresentanze, in altri solo il sin-
daco e gli assessori; tra questi sono scelti in prevalenza i maestri e i sacerdoti
che devono fare i conti, con la violenza del nemico – in particolare contro le
donne – e con la fame.

I profughi del Piave


Una delle conseguenze immediate dell'occupazione austro-tedesca è lo
sgombero dei comuni che – dal Feltrino al Basso Piave – sono venuti a tro-
varsi sulla nuova linea del fronte per una fascia variabile dai due ai quattro
chilometri. Si tratta fin da subito di un'operazione complessa, condizionata
dalla disponibilità degli abitanti di spostarsi all'interno della zona invasa e
aggravata dalle difficoltà logistiche dei comuni ospitanti. Ha così inizio una
seconda ondata di profughi, questa volta verso l'interno, diretta verso quelle
zone, la parte occidentale della provincia di Treviso e il Friuli, che costi-
tuiscono le retrovie dell'esercito di occupazione. Se il profugato nelle zone
invase raggiunge dimensioni non paragonabili a quello oltre il Piave, risulta
difficile quantificare in termini numerici la portata di questo nuovo esodo,
poiché si tratta di gruppi di centinaia di persone che, almeno nei primi mesi
del 1918, si spostano continuamente di comune in comune, lasciando poche
tracce del loro passaggio, se non nei diari dei parroci friulani, secondo i quali
i profughi del Piave sono i più bisognosi tra i civili35. Se i dati possono quindi
essere solamente indicativi per i comuni sgombrati, tuttavia all'interno della

34 Giuseppe Schiratti, Un anno d'invasione nemica. Pieve di Soligo 1917-1918, Industrie


Grafiche, Pieve di Soligo 1958, p. 14.
35 Si veda, ad esempio, quanto annota don Pietro Foramitti, parroco di Moruzzo, nel suo li-
bro storico parrocchiale redatto durante il periodo dell'occupazione e riportato in Fabi, Viola,
«Una vera Babilonia...» cit., p. 52.
87
zona occupata possiamo quantificare una presenza di circa 55.000 profughi,
il 6,2% della popolazione rimasta.
I profughi del Quartier del Piave, evacuati in gran parte nel dicembre 1917,
dopo aver sostato a Soligo – «passano a frotte, a piedi, su carri, su carriole,
donne, vecchi, bambini, tutti istupiditi, inebetiti, accasciati: sembrano invocare
la morte»36 – risalgono la vallata verso i comuni del Vittoriese:

Soligo brulicava di profughi. Le vie, le piazze, le case erano letteralmente gremite di


gente. La commissione addetta per procurare loro l'alloggio, era occupatissima e imbroglia-
tissima a mantenere un cert'ordine, almeno relativo. Chi arrivava e chi partiva. A ciascuna
famiglia veniva assegnata una stanza, e se questa era abbastanza spaziosa, doveansi collocare
più famiglie37.

La popolazione di Mosnigo era destinata a Tarzo. Verso le ore 5 ant. del 14 Dicembre i
carri cominciarono a schierarsi lungo la strada con poca roba, con pochissimi viveri e con la
popolazione divenuta stupida ed insensata, e fu una fortuna, perché così non poté compren-
dere la gravità tutta, il peso grande dello sgombero con le sue conseguenze. Ci vollero sei
ore per giungere a Solighetto, tratto di strada che si fa comodamente in due ore a piedi. Quivi
giunti dovemmo fermarci parte nei campi e parte nel piazzale della Chiesa. Cercai a Solighet-
to e poi a Soligo dai Comandi di avere un carro, prima promesso, per ritornare a Mosnigo a
prendere qualche oggetto fra i migliori in Chiesa ed i registri parrocchiali e mi fu negato38.

A Sernaglia l'ordine di sgombero arriva il 10 dicembre e i suoi profughi,


assieme a quelli di Mosnigo e di Guia, passano per Follina e lungo la valle
del Soligo durante tutto il mese di dicembre, anche il giorno di Natale: «Sono
povere popolazioni costrette a fuggire le loro case colpite da raffiche di
cannonate, avendo magari lasciato sotto alle macerie dei congiunti. Povera
gente che attraverso il fango, in mezzo a colonne interminabili di nemici,
alla ventura, fuggendo alla morte violenta, [vanno] incontro alla morte lenta
d'inedia»39.
A Cison di Valmarino, in una casa rimasta sfitta, si trasferisce il parroco di
Sernaglia, don Bacchetti, accompagnato da Maria De Goudron che conosce
il tedesco e funge da interprete. Qui lo raggiungono una cinquantina di serna-
gliesi. Tarzo diventa uno dei paesi più importanti per il ricovero dei profughi.
36 Giovanni Pasin, Soligo e la sua storia, Libreria Emiliana Editrice, Venezia 1928, p. 89.
37 Simonato, Una pagina di storia dell'invasione austro-germanica cit., pp. 110-111.
38 Relazione del parroco di Mosnigo, don Angelo Frare, in La Piana Eroica. Nel V Anni-
versario della Battaglia della Sernaglia XXVI-XXIX Ottobre MCMXVIII, Longo & Zoppelli,
Treviso 1923, p. 27.
39 Cronaca giornaliera di guerra del Rev. Gioachino M. Rossetto, pubblicata in La Grande
Guerra nella Val Mareno, a cura di Damiano Cesca, De Bastiani, Vittorio Veneto 2004, p. 44.
88
Il parroco locale sottolinea come gli abitanti di Moriago, Mosnigo, Sernaglia
e Fontigo arrivino intorno alla metà di dicembre «sfiniti ed intirizziti»:

È naturale che l'arrivo di questi ospiti non poteva tornare gradito ai nostri già assillati dal-
la fame. Dove metterli? Come alloggiarli? Come sostenerli? E se si fossero per necessità dati
al brutto sistema di arrangiarsi? I parroci delle rispettive comunità stabilirono d'accordo un
modus vivendi che, se non risolveva del tutto il problema, consentiva almeno di tirare avanti
in attesa di tempi migliori. Don Frare, oltre ai suoi di Mosnigo, assumeva la cura annonaria e
protettiva dei 3.000 profughi provenienti da una decina di parrocchie da Quero a Falzè40.

A Revine Lago ne vengono concentrati provvisoriamente circa 5.000 pro-


venienti da Segusino, Valdobbiadene, S. Pietro di Barbozza, Vidor e Moriago,
con evidenti difficoltà nella distribuzione dei viveri e nell'assegnazione degli
alloggi, motivi che sono alla base delle proteste dei residenti che lamentano
danneggiamenti ai loro boschi e vigneti. Molti di questi sfollati nelle prime
settimane del 1918 si trasferiscono in altre località ancora più lontane dal
fronte come Fregona, Colle Umberto e in comuni friulani oltre il Livenza e il
Tagliamento.
Nella maggior parte dei casi gli sfollati dalla linea del Piave vanno ad
occupare le case abbandonate dai profughi friulani. Sono costretti a vivere di
espedienti, confidando nella pubblica carità e nella solidarietà della popola-
zione, poiché le autorità militari e civili, nella maggior parte dei casi, non si
interessano a loro, al punto che non possono contare sul vitto gratuito e l'uni-
co genere loro dispensato è il sale. Nel comune di S. Michele al Tagliamento,
i circa 3.000 profughi del Piave finiscono per aggravare una situazione già
critica poiché sono giunti senza provviste e mezzi di sostentamento. Con le
requisizioni di grano e bestiame, ha inizio per questi «nuovi pezzenti creati
dalla guerra» il periodo della fame e lo spettacolo di profughi che chiedono la
carità diventa sempre più frequente41. A S. Daniele i civili del Piave sono tra i
più denutriti e macilenti, fanno pena alla vista e si spostano di paese in paese,
a piccoli gruppi, chiedendo l'elemosina42:

Durante la stagione estiva, giunsero a Carpacco 69 profughi del Piave. […] Qualche fa-
miglia se ne tornò via, appena qui giunti gli Italiani. Altre si fermarono fino a Febbraio 1919.

40 Citato in Innocente Azzalini, Giorgio Visentin, Da Mosnigo a Tarzo nell'anno dell'inva-


sione 1917-1918. Diario di don Angelo Frare, De Bastiani, Vittorio Veneto 2002, p. 11.
41 Costante Chimenton, S. Michele di Piave e la sua nuova chiesa, Tipografia Editrice Tre-
vigiana, Treviso 1929, p. 175.
42 [Paolo Sclabi], Memoria friulana. Un anno di schiavitù sotto i barbari durante la conflagra-
zione europea (1914-1918), Tipo Lit. Giuseppe Tabacco, S. Daniele del Friuli 1924, pp. 37-38.
89
Corvée di donne che trasportano ghiaia. MCRR.
Vennero soccorse dalla carità pubblica. Si fece per loro una colletta di granoturco. Ecco i
cognomi delle famiglie: Giardini, Camilli, Bressan, Lorenzoni, Gobbato, Corradini, Brunelli,
De Boni. La famiglia De Boni era da Falzè di Piave. Invece quella del Brunelli era da Col S.
Martino. Quasi tutti erano di Sernaglia, o di Miane. Soltanto i Giardini erano da Valdob[b]
iadene. Gente generalmente religiosa. I Giardini e i Camilli venivano quotidianamente alla
Comunione. Erano queste due famiglie benestanti, istruite, educate43.

A Gemona, dove sono rimasti 7.500 abitanti, tra la fine di gennaio e l'inizio di
febbraio arrivano 1.936 profughi del Piave, in prevalenza donne e bambini,
che portano con loro solo poche masserizie44. L'amministrazione comunale
si è opposta all'invio di un numero così alto di profughi a cui avrebbe dovuto
provvedere, ma per un po' di tempo è possibile fornire loro un po' di granoturco
razionato. I comandi militari, inoltre, cominciano a creare discordia tra la
popolazione locale e i profughi e tra questi e le autorità comunali. Il periodo più
difficile inizia ad aprile, quando viene sospesa la distribuzione di granoturco
alla popolazione bisognosa; molti profughi, in particolare donne ed anziani,
si nutrono ormai di soli erbaggi; solamente per qualche settimana possono
usufruire della «broda» della cucina economica, ma neanche loro vengono
risparmiati dalle requisizioni. Nella vicina Venzone la situazione alimentare
dei profughi del Piave appare migliore45. In generale, però, ogni famiglia
viene colpita da lutti e la morte di bambini in tenera età è superiore rispetto al
resto della popolazione. Se, causa la denutrizione, la mortalità tra i profughi
raggiunge il 6%, tra i bambini tale indice arriva al 15%.

Dopo ste prime desgrazhie i todeschi i ne à fat partir da Fontigo e i ne à mandà su par
Corbanese, Tarzh e dopo a Prarturlon, 'ntel Furlan. Coi bò se era partidi tute e dó le fameje,
quela de me barba e quela nostra de tre fradèi, dó sorelle e me mare. Me pare a l'era al fronte in
Francia. Su par Tarzh sen stadi 'na quindesina de dì, ingrumadi su par le case piene de profughi,
che i vegnea dó qua del Piave, dopo par ordine del comando sen partidi par Praturlon. Là i ne à
més su 'na casa granda de contadin e se patìa la fan: mi che vee zhinque ani 'ndée a carità e porte
a casa ogni tant 'na s-ciantinèa de farineta e co quela se fea 'na polentina. Da la dó me nono al
vea tentà pì òlte 'ndar su a Fontigo, ma l'ultima òlta che l'à proà no l'è pì tornà in drio, i l'à trovà
mòrt da fan, drio a un fòs. Nol gh'in podèa pì sta via de casa46.
43 Don Giuseppe Sant, parroco di Carpacco, in Fabi, Viola, «Una vera Babilonia...» cit., p. 239.
44 Relazioni della Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti
commesse dal nemico, VI, Documenti raccolti nelle provincie invase, Bestetti & Tumminelli,
Milano-Roma 1922, pp. 548-550.
45 Testimonianza di Pasqua Mariotto (Raccolta 1988, parte inedita).
46 Testimonianza di Ermenegildo Mariotto, riportata in Innocente Azzalini, Giorgio Visen-
tin, Piave. Le ferite della Grande Guerra. Novembre 1917 - Ottobre 1918, De Bastiani, Vit-
torio Veneto 2004, p. 299.
92
I profughi del Piave trovano dunque ricovero in paesi dove i comportamenti
individuali e collettivi non sono più codificati, dove le ragioni della
sopravvivenza prevalgono su quelle della solidarietà47. Ospiti poco graditi
dalle amministrazioni locali che spesso giungono a chiederne l'allontanamento
e addirittura l'internamento in Austria nelle cosiddette «città di legno»,
potenziali concorrenti agli occhi della popolazione civile, questi profughi
vivono la condizione di veri e propri marginali:

La popolazione del Friuli, così gentile nei primi mesi, si stancò, in tante località della
presenza dei profughi. Dopo la battaglia del giugno li tollerò quali concorrenti nel consumare
le poche provvigioni rimaste; dopo l'armistizio trattò i profughi quali ospiti poco graditi, che
volentieri si sarebbero veduti allontanare. L'atmosfera non era più pacifica come quando
il nemico calpestava il suolo della patria. Era necessario mutare ambiente: diventò questa
la persuasione di tutti, quando, sull'aria di una canzone popolare, si cominciò a ripetere, in
qualche paese, il ritornello: «Via i tedescat e via i profugat!»48.

Ma non è migliore la situazione nel Vittoriese. Nel diario di Caterina Arri-


goni, profuga di Valdobbiadene, gli accenni alle condizioni del profugato sono
molto rari, ma a tratti emerge quello che è uno stato d'animo a lungo represso
per la velata ostilità della popolazione locale: «Dopo la prima esplosione di
pietà, i profughi sono venuti a noia, a disprezzo, a ribrezzo quasi. E questa
parola, invece di essere sinonimo di inenarrabile angoscia, ha preso quasi un
significato d'infamia»49. Altri profughi di Valdobbiadene ospitati a Cappella
Maggiore si lamentano perché il parroco locale, don Beniamino Tonon, nella
distribuzione dei generi alimentari favorisce i suoi fedeli. Sorte analoga tocca
a quelli di Segusino che devono vincere la diffidenza della popolazione:

A Fregona inospitale ed egoista i miei profughi furono imposti dal Comando, che in qual-
che famiglia dovette usare anche le minaccie perché fosse concesso loro un giaciglio stret-
tissimo e senza fieno, od una stalla immonda ed umida. Fu detto anche che non conveniva
seppellire i profughi nel cimitero, e che si provvedessero un campo50.

47 Testimonianza di Angelina Soldan (Raccolta 1988, parte inedita).


48 Chimenton, S. Michele di Piave, cit., p. 243. In controtendenza la testimonianza di Ange-
lo Rasera (Raccolta 1988, parte inedita).
49 Cara Pierina. Dal diario di Caterina Arrigoni, a cura di Giancarlo Follador e Giorgio
Iori, Graphic Group, Feltre 1994, p. 129.
50 Relazione dei fatti avvenuti durante l'invasione compilata dal vicario parrocchiale di
Segusino don Antonio Riva, in Un popolo in esilio cit., p. 63. Il grosso della popolazione di
Segusino abbandona il paese il 1° dicembre 1917 diretta verso il Vittoriese, mentre altre 500
persone partono due settimane dopo per raggiungere la Carnia. Il primo gruppo di profughi è
guidato dal sindaco Beniamino Verri, dalla moglie Clelia Jäger e dall'unico sacerdote rimasto
93
A Fregona, che ospita complessivamente oltre 1300 profughi, in gran parte
provenienti da Segusino, ma anche da Alano di Piave, Vas, Valdobbiadene,
Vidor51, la mortalità è altissima, pari al 10%. La maggior parte dei profughi
di San Pietro di Barbozza trascorre l'anno dell'invasione tra il Vittoriese e il
Friuli, a Spilimbergo, S. Daniele e Gemona52. Comune anche qui è l'ostilità
della popolazione locale che li percepisce come degli intrusi solo alla ricerca
di cibo. Lo stesso accade a Tarzo:

Dovevo difendere i profughi dal nemico e dagli abitanti; mi trovavo spesso tra l'incudine
ed il martello. Ben lo si comprende che il profugo non portava vantaggi, ma solo danni, ma
è ben vero che in generale eravamo poco compatiti benché io mi possa chiamare fortunato:
ebbi dei veri amici e per primo il parroco, troppo oggi dimenticato, e gli abitanti avevano
qualche riguardo verso i profughi perché capivano che io ero alle loro difese e terminavano
col dire che con me era inutile parlare perché sostenevo a spada tratta i profughi: e chi doveva
sostenerli e difenderli? Il male grande era che Tarzo era troppo vicino al fronte, era centro
di divisioni in riposo o di passaggio, sprovvisto di tutto. Fin da principio dovetti sostenere il
peso di molte famiglie che non avevano neppure una palanca per pagare la fattura e la legna
pel pane […]53.

È evidente che i parroci continuano ad assolvere un ruolo centrale per


le comunità rimaste in territorio invaso anche quando queste sono costrette
a spostarsi. I sacerdoti diventano degli interlocutori privilegiati, dei punti
di riferimento non solo dal punto di vista religioso e morale. Sono loro a
mediare con i comandi occupanti, a intervenire per denunciare le tristi
condizioni materiali dei civili, a tenere i contatti con i parrocchiani dispersi
in varie località del Friuli attraverso la «Gazzetta del Veneto», il quotidiano
fatto stampare a Udine dalle autorità austro-ungariche. Sono compiti facilitati
dalla conoscenza del latino – poche persone parlano il tedesco – che permette
ai parroci di comunicare direttamente con i cappellani militari.

La fame
Fin dai primi giorni dell'occupazione, una delle maggiori preoccupazioni
della popolazione è quella di nascondere le derrate alimentari – ad esempio il
in parrocchia, don Antonio Riva: una parte viene concentrata a Tarzo, mentre circa 1100 sfol-
lati proseguono verso Fregona dove rimarranno fino alla conclusione della guerra.
51 Oscar De Zorzi, L'anno d'invasione a Fregona (8 novembre 1917 - 29 ottobre 1918, in «Il
Flaminio», maggio 1990, n. 5, pp. 63-85;
52 In proposito si vedano le testimonianze raccolte da Giorgio Iori, 1917: guerra, invasione,
profugato, in San Pietro di Barbozza attraverso sette secoli di storia, II, a cura di Giancarlo
Follador, Pro Loco San Pietro di Barbozza, Feltre 1996, pp. 258-263.
53 Relazione del parroco di Mosnigo, don Angelo Frare, in La Piana Eroica cit., p. 27.
94
granoturco viene occultato nelle condotte fumarie dei camini54 – e di sottrarle
alle requisizioni, rese odiose dal fatto che sui buoni non vengono annotate
le quantità esatte; in molti casi si tratta di carta straccia. Lo sperpero delle
risorse operato dai tedeschi nelle prime settimane di occupazione, cozza con
la situazione alimentare che con il trascorrere dei mesi diventa insostenibile:

[…] il grano fu dato in parte ai cavalli, in parte distrutto e in parte spedito all'interno; a noi
sacerdoti imploranti pietà per le popolazioni affamate, veniva risposto: «È la guerra. Non è
necessario che la popolazione civile viva, è meglio che muoiano cento civili piuttosto che un
cavallo!»; il comandante di Farra di Soligo a una donna che chiedeva un po' di pane per i figli
affamati rispondeva: «A voi, italiani, basta che lasciamo gli occhi per piangere»; che ancora
al Natale del 1917, donne e vecchi si rubavano i radicchi per i campi; innumerevoli furono le
vittime della fame a Pieve di Soligo, a Farra, Rolle, Miane, Combai, Revine, Tarzo, Vittorio
Veneto e Fregona; le genti del Piave e del Cadore, in modo particolare, sembravano piuttosto
larve ambulanti che figure umane55.

Con il trascorrere dei giorni la vita si faceva sempre più difficoltosa: a causa della man-
canza di cibo, cresceva la fame. Non si trovava niente da acquistare; tutto era stato razziato
dagli Austriaci; bisognava andare alla ricerca di qualcosa che era rimasto nascosto in qualche
casa o di erbe e frutti. Perciò, di giorno in giorno, i nostri corpi diventavano sempre più ma-
gri. A tal proposito è doveroso ricordare che in quel periodo a Cison morirono per fame oltre
700 persone, delle quali 50 circa erano di Sernaglia. La lotta, quindi, per la sopravvivenza era
tremenda vi erano alcuni che per sfamarsi andavano a caccia di «pantegane», qualche altro
raccoglieva i fagioli interi mal digeriti dai soldati austriaci e li mangiava direttamente. Altri,
come mio padre, scaricavano dai camion e dai carri i sacchi di farina degli Austriaci per poter
raccogliere dal cassone qualche «branca» di farina mista a polvere. Questa, messa a cuocere
nell'acqua, dava origine ad una specie di «pinza», che, rapprendendosi, diventava dura come
un sasso; ma, non essendoci altro, veniva mangiata con avidità. Una volta mio padre sottrasse
delle «tripàde» dal macello, però, scoperto, venne inseguito da due soldati armati; allora si
diede alla fuga attraverso i campi, ma, accortosi di avere gli inseguitori alle spalle, si fermò
e, voltatosi, gettò loro le budella in faccia, in questo modo riuscì a proseguire la fuga, senza
essere raggiunto, verso i boschi delle Fratte, dove si nascose, salvandosi miracolosamente da
una sicura morte56.

54 Testimonianza di Cesira De Mari (Raccolta 1988, parte inedita).


55 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 48, relazione dell'economo spirituale di Pieve
di Soligo, don Carlo De Nardi, alla Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto
delle genti commesse dal nemico, 9 gennaio 1919.
56 Giuseppe Marchi, Memoria, pubblicata in La Grande Guerra nella Val Mareno cit., pp.
146-147.
95
Anche i profughi del Piave alloggiati a Cison devono poi trasferirsi in
Friuli. Coloro che rimangono sono obbligati a lavorare nei campi oppure im-
piegati nella sistemazione delle strade:

Con amarezza ricordo che ogni giorno le truppe austriache rastrellavano 10-15 bambini
da portare sulla strada che da Cison conduce a Mura; ci consegnavano una mazza molto
pesante e ci obbligavano a spaccare pietre per sei-dieci ore, al fine di ottenere ghiaia per
risistemare la strada continuamente dissestata dal passaggio di truppe ed armamenti diretti
al fronte sul Piave. La sera ci davano come paga un mestolo di minestrone di crauti andati a
male, che le truppe si rifiutavano di mangiare57.

Per i profughi del Piave la fame è un pensiero costante e la ricerca di cibo


per sopravvivere una pratica quotidiana. Così per Maria Fedato, sfollata da
Falzè:

A Sarmede eravamo in una famiglia grande che ci ha trattato abbastanza bene, solo che
non c'era da mangiare. Per questo andavamo «a carità», anche mio papà e mia mamma. In
certe famiglie dove non potevano vedere i profughi ci davano sorgo, tanti invece ci davano
magari una fetta di polenta. Quello che soprattutto mi ricordo è che si andava tanto in giro
per trovare da mangiare.
La famiglia che ci ospitava, qualcosa, anche latte quando c'era, ce ne dava, ma il ricordo
principale è che andavo sempre in giro, in cerca di mangiare58.

Per i bambini profughi, essere costretti a chiedere la carità è una cosa tre-
menda; spesso sono gli unici che riescono a portare a casa un po' di farina, del
pane o degli ortaggi riuscendo ad impietosire la popolazione locale o qualche
soldato59. Altri praticano il furto campestre; comune è la sottrazione di patate
crude nei campi.

Io mi ero abituato a camminare «a quattro gambe», guardando sempre per terra, sperando
di trovare qualcosa da mangiare; andavamo nei prati sotto il Castello ad esplorare le piante di
fico; tiravamo giù anche i frutti piccoli verdi, li portavamo a casa e li cucinavamo; mangiava-
mo anche erba. Una volta io e la mia povera mamma, dopo essere rimasti senza mangiare da
alcuni giorni, andammo nelle Fratte a «Bas a Cison» a cercare qualche castagna per calmare
i dolori della fame: ne trovammo pochissime; c'erano anche molti altri disperati come noi
che ne cercavano. Ci imbattemmo in un gruppo di «tedeschi» che ci condussero in un posto
ove ve n'erano molte e ci ordinarono di raccoglierle. Lavorammo tutto il giorno ad aprire i
57 Ivi, p. 148.
58 Testimonianza di Maria Fedato, riportata in Pavan, L'ultimo anno della prima guerra cit., p. 25.
59 Testimonianza di Angelina Soldan (Raccolta 1988, parte inedita).
96
ricci spinosi con le mani nude; nonostante le ferite alle mani, tuttavia eravamo contenti di
quel piccolo tesoro; però a sera, quando facemmo cenno di andarcene, i soldati ci fermarono
e ci presero impietosamente tutte le castagne; mia madre allora scoppiò in lacrime per la
disperazione60.

Nella previsione di un altro inverno di guerra, viene proibita la raccolta


di patate e di cereali non ancora maturi. In seguito tale divieto è esteso per
tutelare la vendemmia che si preannuncia molto scarsa per quantità e pessima
per qualità. Un problema per le autorità è il furto campestre, sia da parte dei
soldati – che spesso distruggono il raccolto senza motivo e con grave danno
per il loro stesso esercito – che da parte della popolazione. Per combatterlo
si rende necessaria la nomina da parte dei comuni di guardie campestri
(feldhüter) che devono vigilare i raccolti e consegnare i trasgressori alla
vicina gendarmeria. Spesso quest'opera di sorveglianza può essere svolta
o integrata anche dai proprietari dei fondi che però, analogamente alle
guardie, non possono essere armati, ma dotati solo di bastone.
A Follina, il parroco padre Anacleto Milani ottiene dal comando tedesco
di disporre di una dozzina di mucche – che restano ai legittimi proprietari
– per assicurare il latte ai bambini sotto i tre anni, ai malati e agli anziani
del paese61. Ma le requisizioni del bestiame avvengono fin dal dicembre
del 1917: il consumo settimanale di carne viene fissato a 250 grammi. Alla
popolazione anche il vino viene somministrato in via eccezionale, solo per
ragioni sanitarie, e la sua vendita nelle osterie, nelle trattorie e negli esercizi
pubblici è proibita. A febbraio manca la farina e la situazione peggiora nei
mesi successivi:

Son più di 20 giorni che non si distribuisce un briciolo di farina, e non si sa come la
popolazione riesca a star zitta. Giriamo dappertutto cercando di carpire qualche cosa ai
soldati ma si è costretti a privarsi di tutto. Non esiste più l'acquisto con denaro, nessuno sa
che farne del denaro, specie poi della nuova carta moneta messa in circolazione; è tornato in
uso il baratto62.

60 Marchi, Memoria cit., p. 148.


61 Cronaca giornaliera di guerra del Rev. Gioachino M. Rossetto cit., pp. 33-34. Per i pro-
fughi del Piave è fondamentale poter trattenere qualche mucca per il fabbisogno quotidiano;
così nella testimonianza di Secondo Fregolent (Raccolta 1988, parte inedita), che ricorda
come la sua famiglia fosse partita da Falzè con due mucche, poi conservate fino quasi al
termine dell'occupazione.
62 Antonietta Calcinoni, Diario di guerra (6 novembre 1917 - 31 ottobre 1918), in Enrico
Dall'Anese, Paolo Martorel, Gli anni della Grande Guerra nel Quartier del Piave, Nuova
Stampa 3, Pieve di Soligo 1988, p. 59.
97
Ancora il parroco di Follina, nelle vesti anche di sindaco, sente l'esigenza
di rivolgere un appello al comando austriaco:

Le mortalità si succedono in proporzione spaventosa e non sono più i soliti lattanti che
privati già del latte, senza aver alcun surrogato, che muoiono di inedia, non sono più i soliti
vecchi che affranti dal dolore e dalle privazioni, cessano di vivere: sono gli uomini maturi,
sono le giovani ventenni che da due mesi e più non cibandosi che di erba (bestiarum more)
hanno esaurito la resistenza fisica e muoiono, muoiono63.

I più coraggiosi – sarebbe il caso di dire le più coraggiose, trattandosi in


prevalenza di donne64 – riescono a raggiungere il Veneto orientale e a procu-
rarsi qualcosa da mangiare, ma il viaggio presenta molte insidie:

Veder con questo pessimo tempo (e strade spaventose), donne, fanciulle, ragazzetti, perfin
da Longarone e altri paesi di montagna, che si recano quasi fin a Caorle, a piedi poveri per
aquistare del grano per non morire di fame, e dopo tante fatiche e patimenti disaggi, hanno il
cuore questi maledetti di prenderglielo e di più metterli in prigione per giorni e giorni! Non
è questa una barbarità? Inumani barbari invasori! Anche giorni fa gliela presero la farina ad
una donna vicino la Meduna e questa disperata s'annegò nella Meduna stessa65.

In tutti i comuni invasi la mortalità a causa della fame raggiunge cifre


altissime, che aumentano ancora di più tra i profughi del Piave. Si registra-
no complessivamente 150 morti a S. Pietro di Feletto, 99 a Susegana, 427 a
Tarzo (in gran parte sfollati provenienti da altri paesi), addirittura 484 a Val-
dobbiadene. Nel Quartier del Piave i morti sono complessivamente 933, di
cui 817 per fame e 116 per cause belliche (bombardamenti). I morti per fame
sono 182 a Pieve di Soligo, 173 a Sernaglia, 161 a Moriago, 127 a Refrontolo,
117 a Vidor e 61 a Farra (dove si registra però il numero più alto di morti per
cause belliche, 36). Questi numeri testimoniano le condizioni materiali della
popolazione nell'ultimo anno di guerra.
La questione alimentare è strettamente legata al lavoro che i civili sono
costretti a compiere per le truppe di occupazione. In generale, per i lavori
militari in zona di guerra viene ampiamente utilizzata la manodopera fem-
minile e minorile, mentre quella maschile viene in parte deportata all'interno

63 Cronaca giornaliera di guerra del Rev. Gioachino M. Rossetto cit., p. 108.


64 Testimonianza di Secondo Fregolent (Raccolta 1988, parte inedita), che ricorda un epi-
sodio relativo a sua madre Maria Bernardi, costretta a barattare le poche cose di valore che
possiede, tra cui le lenzuola, per ottenere del cibo. Si veda anche la testimonianza di Giovanni
Bertazzon (Raccolta 1988).
65 Brustolon, Vittorio '17-'18 cit., p. 116.
98
dell'Impero. Il lavoro dei bambini non è ovviamente retribuito:

Avevo circa nove anni ed assieme a mio fratello Luigi andavo a lavorare su una strada fatta
costruire dagli austriaci; dovevamo rompere sassi per la massicciata, in cambio ci davano da
mangiare, solo a mezzogiorno: una ciotola di zuppa con crauti e una pagnottina da dividere
in quattro66.

Nelle province occupate le scuole rimangono chiuse dal novembre 1917


all'aprile 1918. In seguito viene ordinata la riapertura delle elementari
reclutando i maestri rimasti, ma utilizzando per l'insegnamento soprattutto il
clero. In realtà si tratta di una forma velata di controllo della popolazione e
di sfruttamento del lavoro dei bambini. Viene vietato l'uso dei quaderni sulla
cui copertina è riprodotta la cartina dell'Italia con i confini naturali fino al
Brennero e al Carnaro; a Feltre il comando distrettuale fa strappare dai testi
scolastici le pagine sulle guerre d'indipendenza. Si ritiene inoltre opportuno
dare ai maestri elementari delle direttive in materia scolastica, per insegnare
ai bambini il rispetto nei confronti dell'autorità germanica, per evitare ogni
forma di discussione politica o militare, e per dare l'idea che le sorti della
guerra sono ormai segnate in favore degli eserciti occupanti.
Le misure di controllo da parte delle autorità militari sono dirette ad accertare
che fra i civili non si nascondano sbandati o disertori dell'esercito italiano,
registrati dalle autorità del luogo come loro amministrati e opportunamente
provvisti di falsi documenti d'identità. Numerosi soldati infatti, ospitati e
nascosti inizialmente presso le famiglie, vengono poi denunciati come figli,
parenti, dipendenti o coloni; la loro presenza è comunque tollerata per l'utilità
nei lavori bellici ed agricoli. Le autorità militari impediscono che vi siano
rapporti fra i prigionieri italiani e la popolazione locale. Uno dei modi che
spesso le autorità militari austro-ungariche utilizzano per verificare lo spirito
pubblico, è quello di ripristinare il servizio postale invitando la popolazione
civile a scrivere ai parenti residenti tanto nei territori invasi, quanto nelle
altre province italiane. Una volta raccolte, le lettere vengono aperte, lette
attentamente e quindi distrutte.
Le case signorili dei notabili vengono saccheggiate. È il caso del palazzo
dei conti Brandolini a Cison di Valmarino dal quale sono asportate le opere
d'arte, gli atti dell'archivio e la biblioteca, e di quello dei Lucheschi a Colle
Umberto che viene incendiato a più riprese. Ma è la sottrazione delle campane
a diventare una scena abituale nei paesi invasi; molte vanno in frantumi nel
momento stesso in cui vengono calate dai campanili. La requisizione delle

66 Testimonianza di Secondo Fregolent (Raccolta 1988).


99
campane delle chiese incrina il rapporto tra la popolazione e gli occupanti.
Antonietta Calcinoni, maestra elementare a Follina nell'anno dell'invasione
ce lo documenta nel suo diario67:

Tutti gli occhi della popolazione sono rivolti verso il campanile dopo il barbaro sta spo-
gliando il paese della sua dote. Le campane rappresentano un simbolo sacro, è il vincolo di
unione fra gli abitanti di un paese. È il bronzo che dà il segno degli avvenimenti lieti e tristi
della nostra vita, e ogni individuo affezionato oggi non può vedere operata l'opera vandalica
senza provarne una forte stretta al cuore. S'odono delle poverissime donne del popolo dire
che sacrificherebbero volentieri anche l'ultima camicia, anche l'anello di sposa, purché fosse-
ro lasciate le campane. Non si calano con le corde le nostre campane, ma si fanno precipitare
e nel cadere sopra i sassi si spezzano! Il bronzo ha uno squillo lungo, lamentevole, sembra il
grido acuto che muore in un lamento lungo di un ferito a morte68.

Stupri di guerra
I crimini compiuti dagli eserciti tedesco e austro-ungarico nei territori
italiani occupati dopo Caporetto costituiscono un caso di studi. Innanzitut-
to si collocano cronologicamente nell'ultimo anno di guerra, in una fase in
cui gli atti di crudeltà avvenuti sugli altri fronti sono cosa risaputa da tempo
attraverso la propaganda e, in qualche modo, sono stati quasi «esorcizzati»
e ritenuti impossibili in caso d'invasione. In secondo luogo la violenza del
nemico segue delle dinamiche strettamente legate al modo inatteso con cui
avviene la rottura del fronte nell'ottobre 1917, all'atteggiamento delle trup-
pe che sferrano l'offensiva e che per prime vengono a contatto con i civili
del Friuli e del Veneto, alla necessità di arrivare nei mesi successivi ad una
sorta di modus vivendi con la popolazione. Inoltre, il fatto che la conclusione
dell'occupazione coinciderà con la fine della guerra – e di una guerra vittorio-
sa – costituisce paradossalmente un problema ulteriore per la raccolta delle
testimonianze di persone che o desiderano dimenticare la terribile parentesi
dell'invasione oppure, quando al contrario vogliono raccontarla, si trovano a
farlo in un contesto politico e sociale completamente stravolto. È chiaro che
ciò che sopravvive di quell'anno decisivo per i civili occupati, risente di reti-
cenze individuali e resistenze collettive, che influiscono non poco anche sulle
politiche della memoria della Grande Guerra.
Alle testimonianze raccolte nell'immediato dopoguerra viene data una par-
tizione cronologica che, già da sola, fornisce anche una prima chiave di lettu-
ra degli eventi: «Dei primi giorni dell'invasione si parla come dei giorni del

67 Calcinoni, Diario di guerra cit., pp. 32-76.


68 Ivi, p. 58.
100
terrore; i lunghi mesi che seguirono sono chiamati il periodo delle violenze si-
stematiche e legalizzate; i giorni della ritirata dell'esercito nemico […], sono
chiamati i giorni delle ultime vendette»69. In effetti, il maggior numero di
delitti contro la persona si registra nelle primissime settimane di occupazione,
in particolare fino alla metà di novembre del 1917, ed è provocato soprattutto
dalle truppe tedesche che, a differenza di quelle austro-ungariche, non hanno
alcun interesse ad amministrare i territori invasi e a normalizzare i rapporti
tra esercito e civili. Si tenga poi conto del fatto che numerose violenze av-
vengono nella primissima fase di avanzata dei reparti, con le truppe ancora
in movimento, e quindi tali delitti difficilmente possono essere perseguiti per
l'impossibilità d'individuare i veri responsabili. Un bando bilingue emanato
già il 28 ottobre 1917 dal Comando supremo tedesco, stabilisce la condan-
na a morte dei civili che aiutano i militari italiani oppure recano danno alle
truppe germaniche e a quelle loro alleate. Viene di fatto applicato il codice
penale militare, con l'obbligo per i militari italiani di consegnarsi entro venti-
quattro ore dall'affissione del proclama per ricevere un trattamento conforme
alla legislazione sui prigionieri di guerra; in caso contrario è prevista la fuci-
lazione, misura estesa anche ai civili che fossero stati trovati in possesso di
armi70. Tale Bekanntmachung, nella sostanza, viene periodicamente reiterata
nei mesi successivi.
È proprio in quei primissimi giorni che la violenza dispiegata dai militari
raggiunge livelli inauditi, con ferimenti, omicidi e stupri che si contarono a
centinaia. Con la giustificazione di ricercare prigionieri italiani, molti soldati
entrano nelle case e minacciano i civili con le armi. Durante questa fase non
siamo di fronte ad episodi provocati o anche solamente indotti da un ordine o
da un piano prestabilito; più semplicemente sono le dinamiche dell'avanzata
militare e la rapidità con cui avviene, che creano le condizioni per compiere
tali atti. Siamo, quindi, al di fuori di uno schema preordinato o premeditato,
anche perché non vi sono i presupposti per lanciare una campagna di violenza
sui civili di vaste proporzioni. Certo, la documentazione sembra dimostrarci
esattamente il contrario, ad esempio osservando la dimensione della violenza
sulle donne e quella in generale sui civili occupati, che raggiunge un livello
davvero impressionante, sia in termini quantitativi, sia dal punto di vista della
ferocia nei confronti delle vittime71. Le testimonianze raccolte dalla Commis-
69 Relazioni della Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle gen-
ti commesse dal nemico, IV, L'occupazione delle provincie invase, Bestetti & Tumminelli,
Milano-Roma 1922, p. 132.
70 Relazioni della Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti
commesse dal nemico, V, Legislazione e amministrazione del nemico nelle terre invase (do-
cumenti), t. I, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma 1922, pp. 159-161.
71 Si pensi al numero elevatissimo dei civili uccisi dai soldati o morti in seguito alla violen-
101
sione d'inchiesta concordano nell'attribuire ai tedeschi il maggior numero di
atti compiuti contro i civili e anche nella memoria locale il generale clima di
violenza dei primi giorni dell'occupazione viene quasi sempre ricondotto alla
«barbarie» delle truppe germaniche.
Dopo la prima ondata di violenze ed in seguito al passaggio del potere mi-
litare dal Comando germanico a quello austro-ungarico, gli atti di crudeltà nei
confronti della popolazione diminuiscono considerevolmente. Da parte delle
autorità occupanti c'è infatti la preoccupazione che il contegno in particolare
degli ufficiali possa incrinare la fiducia dei civili e dunque i comandanti di
tappa in qualche caso vengono invitati ad intervenire con rigore e severità
verso gli autori di violenze di qualsiasi tipo. Un'Istruzione sul contegno delle
truppe e dei comandi nel territorio italiano invaso, emanata dal Comando
della 1a Armata dell'Isonzo ancora nei primi giorni dell'occupazione in pre-
visione anche di un ulteriore spostamento della linea del fronte oltre il Piave,
stabilisce che entrando nei paesi debbano essere convocate le persone più
autorevoli e consegnati loro i manifesti contenenti le istruzioni per la popola-
zione. Secondo le autorità austriache è necessaria una propaganda illuminata.
Fino a quel momento, per l'incompetenza degli ufficiali e delle truppe si sono
eseguite requisizioni con sistemi arbitrari, ma questo non deve ripetersi. Sola-
mente nei confronti dei civili sorpresi a compiere atti di sabotaggio, spionag-
gio e propaganda sovversiva si dovrebbe operare con severità e con il ricorso
a rappresaglie come l'imposizione di contributi o la cattura di ostaggi72. Un
vademecum per le truppe della 5a Armata austro-ungarica stabilisce però che
lo stato di guerra giustifica il «diritto di difesa per necessità di guerra» e detta
quali devono essere i comportamenti:

Risparmiare la popolazione bene intenzionata e quella pacifica nel territorio nemico; usa-
re severità verso la popolazione infida ed ostile. I contadini per lo più sono pacifici anche
in Italia: perciò risparmiarli. Gl'intellettuali, gli operai, i professionisti ecc. per lo più ostili
in Italia siano ricacciati dalle truppe più che sia possibile contemporaneamente al nemico.
Gli elementi specialmente pericolosi, anche del territorio proprio, son elencati nel libro nero
posseduto dagli alti comandi. Ricercare attivamente tali elementi, e consegnarli, una volta
presi73.
za militare durante l'occupazione – vengono accertate 553 vittime per atti di crudeltà – oppu-
re alle persone morte per cause collegate direttamente o indirettamente alla guerra che sono
complessivamente 24.597, di cui 12.649 per insufficienza di cure sanitarie, 9.797 per fame,
961 durante l'esodo dei profughi dopo Caporetto; Relazioni della Reale Commissione d'in-
chiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, IV, cit., pp. 181-185.
72 Relazioni della Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti
commesse dal nemico, V, Legislazione e amministrazione cit., pp. 333-337.
73 Ivi, p. 340.
102
Il Comando supremo austriaco fissa in seguito diversi divieti che riguar-
dano la popolazione circa quegli atti che possono essere interpretati come
mezzi d'intesa con l'esercito italiano: abbandonare la località senza lo speciale
permesso rilasciato da un comando militare, suonare le campane, accendere
fuochi e stendere biancheria all'aperto, salire su tetti e campanili, chiamare
a voce alta e cantare, andare o fermarsi all'aperto in gruppi di più di due
persone, danneggiare strade, ponti, ferrovie, telegrafi, telefoni, contamina-
re fontane e corsi d'acqua, nascondere o distruggere viveri, ospitare soldati
italiani e persone estranee; corrispondere per iscritto in qualsiasi modo con
altri civili74. Per chi nasconde in casa militari italiani, minaccia con le armi le
truppe occupanti o viene sorpreso a compiere atti di sabotaggio o di saccheg-
gio, è prevista la fucilazione. Numerosi sono gli attentati e i danni compiuti
dai civili nei confronti delle linee ferroviarie che mettono in comunicazione i
centri delle retrovie con il fronte; non a caso, chi viene sorpreso senza auto-
rizzazione nelle vicinanze della ferrovia è passibile di arresto.
Le violenze contro i civili continuano a lungo, se ancora il 20 agosto 1918
il Comando dell'11a Armata biasima in una circolare riservata «un contegno
brutale e provocante verso i borghesi indifesi» da parte degli ufficiali austria-
ci75; dopo numerose proteste e denunce, i comandanti di tappa vengono quin-
di invitati ad agire con rigore e severità per punire ogni eccesso, in quanto non
si può spingere la popolazione all'esasperazione.
Particolarmente duro è il trattamento riservato ai prigionieri di guerra tratte-
nuti in numerose località delle retrovie o della zona di operazioni e adibiti a
compiti di manovalanza militare spesso molti pericolosi. Nei loro confronti
non si abbattono solamente la fame, gli stenti e le malattie che colpiscono an-
che il resto della popolazione, ma anche le pene corporali inflitte dalle truppe.
Molti di loro vengono infatti percossi, torturati e puniti tramite il «palo»:

I prigionieri italiani che si trovavano a Cordignano venivano trattati barbaramente e sot-


toposti a fatiche gravissime con ferrea disciplina (come quella del palo) che gli legavano i
piedi e le mani al di dietro la schiena e quindi li sospendevano dal suolo, lasciandogli solo la
punta dei piedi per terra, tenendoli due ore, e fino a quando non diventavano paonazzi o che
andavano in isvenimento per dolori alle braccia e alla vita. Quando li scioglievano per farli
riprendere dallo svenimento gli gettavano un secchio d'acqua addosso76.

74 Ivi, pp. 162-164.


75 Ivi, p. 341.
76 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 7, relazione della Legione territoriale dei Carabinieri
Reali di Verona, Allegato 1 relativo al Comune di Cordignano, 3 febbraio 1919.
103
Quello nei confronti dei prigionieri è un atteggiamento volutamente puni-
tivo per il loro status di combattenti, ma sarà durante la ritirata dell'esercito
austro-ungarico, anche dopo l'annuncio dell'armistizio, che la violenza si ab-
batte particolarmente su di loro.
Per quanto riguarda le tipologie è necessario distinguere tra gli atti com-
piuti in conseguenza delle rapine e, più in generale, delle requisizioni nei
confronti della popolazione, dagli episodi di violenza intenzionale e gratuita.
Nella prima categoria rientrano tutta una serie di delitti connessi a qualsiasi
regime di occupazione militare, durante il quale reati come ferimenti e omi-
cidi costituiscono il prolungamento di altri atti. Quasi ovunque le violenze
sono la risposta o la spropositata reazione a forme di resistenza contro quei
soldati che entravano nelle abitazioni per compiere furti e saccheggi oppure
per operare quelle requisizioni che da un certo momento in poi vengono di
fatto legalizzate. Opporsi fisicamente a tali soprusi oppure anche solo prote-
stare contro un atteggiamento considerato iniquo, è sufficiente per scatenare
una rappresaglia sui civili inermi. A questi episodi se ne affiancano altri che
rimandano a forme di violenza gratuita che sfuggono, come tipologia, a qual-
siasi tentativo di classificazione.
La serialità degli episodi potrebbe far pensare ad una precisa strategia dei
comandi oppure alla volontà di esercitare la violenza solamente per raffor-
zare le gerarchie che necessariamente sono venute a crearsi tra occupanti e
occupati. A parte i casi citati, però, le autorità militari non impartiscono di-
sposizioni se non compatibili con le esigenze belliche. Piuttosto, risulta più
plausibile la motivazione che rimanda ad una specificità dell'organizzazione
interna degli eserciti, tanto durante il primo periodo dell'occupazione, che nei
mesi successivi, nonostante le esigenze militari impongano un atteggiamento
diverso. Le tipologie illustrate non esauriscono certamente l'ampia gamma di
episodi registrati nell'ultimo anno della Grande Guerra nei territori occupati,
ma possono fornire un quadro sui meccanismi della violenza contro i civili.
La cornice in cui s'inseriscono tali episodi è quella di un sistematico sfrutta-
mento di un territorio che deve fornire tutte le risorse necessarie per le truppe.
Decisamente atipiche sono invece le modalità degli stupri di guerra.

[…] ogni mattina avevo in casa mia 10, 20, 30 donne a riferirmi di essere state soggette a
spaventi ed a paure ed oltraggi durante la notte; fucili, revolver, bastoni, coltelli appuntati
ed io allora correre ogni giorno dal Comando per protestare. La notte era più tremenda del
giorno: la poco gradita visita delle soldatesche con le relative rapine avveniva di notte in
generale. Le dirò che le donne coi bambini erano fuggite alle Rive sopra Col S. Martino
per evitare il tiro delle granate, ma quando i germanici perdettero la speranza di passare il

104
Piave, si dispersero per le rive ed avvennero violenze innominabili, allora io diedi ordine alle
famiglie di far ritorno tutti in casa e morire piuttosto sotto le granate77.

Le testimonianze e la documentazione raccolte dalla Reale Commissio-


ne d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico,
costituiscono indubbiamente una delle fonti più importanti – se non la più
importante – per ricostruire la dimensione della violenza esercitata da parte
delle truppe austro-germaniche nei confronti della popolazione civile. È però
necessario premettere che questa Commissione d'inchiesta viene istituita nel
novembre 1918 con il chiaro intento di stabilire l'ammontare dei danni arre-
cati dalle truppe durante l'anno d'invasione e, in quanto tali, le violenze sulle
persone – omicidi, ferimenti, stupri, deportazioni – sono derubricate a puro
fatto statistico, dando per assodato che comunque gli atti compiuti contro il
diritto delle genti e a dispetto delle convenzioni internazionali, siano da attri-
buire semplicemente alla brutalità del nemico.
La violenza nei confronti delle donne, i tentativi di stupro e gli stupri real-
mente consumati, insomma tutti quelli che la Commissione d'inchiesta qua-
lifica genericamente ed in maniera semplicistica e fuorviante come «delitti
contro l'onore femminile», sono un elemento quasi sempre presente nelle re-
lazioni delle autorità civili e religiose, chiamate ad accertare «se nelle terre
invase la soldatesca nemica si sia abbandonata a violenze contro le persone
con uccisioni e ferimenti di cittadini inermi e con stupri di ragazze e di donne
maritate, specificando i fatti e le singole responsabilità»78.
Il lavoro della Commissione, comunque, anche per l'estrema delicatezza
dell'argomento, non porta ad un elenco completo degli stupri commessi, ma
si limita alla raccolta di numerose testimonianze – alcune delle quali molto
significative – e alla suddivisione delle violenze in diverse categorie: gli stu-
pri accompagnati da omicidio o ferimento, quelli compiuti con la minaccia
delle armi, le violenze compiute nei confronti di donne anziane, bambine ed
inferme, i semplici atti di depravazione da parte delle truppe d'occupazione.

77 Relazione del parroco di Mosnigo, don Angelo Frare, in La Piana Eroica cit., p. 26. Si
veda anche ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 48, relazione di don Angelo Frare alla
Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico,
21 gennaio 1919: «Posso garantire di violenze fatte a giovani ed a donne maritate da parte
della soldatesca germanica nel primo mese d'invasione».
78 Antonio Gibelli, Guerra e violenze sessuali: il caso veneto e friulano, in La memoria
della grande guerra nelle Dolomiti, Paolo Gaspari Editore, Udine 2001, pp. 195-206; Da-
niele Ceschin, «L'estremo oltraggio»: la violenza alle donne in Friuli e in Veneto durante
l'occupazione austro-germanica (1917-1918), in La violenza contro la popolazione civile
nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, a cura di Bruna Bianchi, Unicopli, Mi-
lano 2006, pp. 165-184.
105
Sull'uscio di casa con una bimba. MCRR.
Profughi in piazza. MCRR.

Tra le rovine di Padova dopo un bombardamento. MCRR.


Al di là delle difficoltà oggettive nella raccolta delle testimonianze – ammi-
nistrazioni sfollate dopo Caporetto, problemi burocratici, ritorno dei mariti
dal fronte – le lacune del lavoro della Commissione sono sostanzialmente
imputabili al fatto che la maggior parte delle donne vittime di violenza non
denuncerà l'atto subìto, sia per pudore personale, sia per mantenere al riparo
da pettegolezzi la propria famiglia o la propria comunità. Su quest'atteggia-
mento di reticenza pesa senza dubbio anche il fatto che gli interrogatori ven-
gono compiuti esclusivamente da uomini, in gran parte ufficiali e sottufficiali,
e dunque molte donne che inizialmente hanno trovato la forza di raccontare ai
famigliari e a persone di fiducia la violenza subìta, in un secondo momento si
rifiutano di deporre davanti ai commissari e di formalizzare una denuncia, che
non solo non avrà avuto alcun seguito, ma che per le vittime si tradurrebbe
in una nuova sofferenza. È da notare come, sia questa prospettiva di genere,
sia la consapevolezza che il racconto della violenza possa essere causa per la
donna di altro dolore, non vengono quasi mai considerate come giustificazio-
ni di questa reticenza. Infatti, sindaci, commissari prefettizi e parroci nelle
loro relazioni fanno riferimento quasi sempre ad un codice morale che riflette
i valori e le priorità della comunità locale. Quindi, secondo quest'ottica, il pu-
dore porta all'omertà e le donne violentate tacciono l'offesa subita, soprattutto
perché, dopo essere stata vissuta come un oltraggio, tale offesa viene percepi-
ta come un'»onta» da cancellare o comunque da nascondere in ogni modo.
È significativo il caso di Sernaglia, dove «vennero stuprate ragazze ed anche
donne maritate, ma non è possibile precisare fatti e responsabilità poiché i
danneggiati o per pudore o per naturale riservatezza non parlano»79. Ne de-
riva che le stesse autorità locali, si limitano a riferire che sono a conoscenza
di stupri e di tentativi di stupro avvenuti nel loro comune, ma non corredano
la denuncia con altri elementi celandosi dietro la ritrosia delle vittime. Alcu-
ni parroci, oltre a minimizzare la portata degli stupri commessi, registrano
«la violenza della subdola seduzione che purtroppo conseguì i suoi pessimi
intenti ingannando le incaute col miraggio di un buon trattamento, nel vitto
negli alimenti: in queste opere di demoralizzazione si distinsero li soldati, e
specialmente gli Ufficiali e sotto Ufficiali Ungheresi»80. Altri ancora si limita-
no a denunciare che i soldati si sono abbandonati a violenze, ma hanno anche

79 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 48, relazione di Francesco Pillonetto alla


Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico,
10 luglio 1919.
80 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 43, relazione di don Gio.Batta Cesa alla Reale
Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, 12
gennaio 1919.
108
abusato «della debolezza di alcune donne maritate»81. In questo senso, anche
le donne rimaste incinte in seguito a stupro, vengono quasi ritenute colpevoli
della violenza subita.

Tentativi di stupro ne furono tanti, specialmente nei primi giorni dell'invasione, da parte
delle truppe germaniche e bosniache. Durante l'anno si ripeterono, specialmente verso povere
donne costrette dalla fame a portarsi presso certi comandi per offrire biancheria e gioielli allo
scopo di avere un pezzo di pane od un po' di farina. Era allora che brutali ufficiali conduce-
vano le malcapitate in stanze chiuse col pretesto di contrattare, e poi con la forza volevano
costringerle ad azioni turpi. Ad eterno obbrobrio del perfido e brutale nemico, per l'onore del-
le nostre imperterrite donne, siamo lieti di affermare che, salvo qualche rara eccezione, tutte
con grida ed urli, saltando anche dalle finestre, adoperando unghie e denti, seppero sottrarsi
agli artigli dei turpi assalitori82.

Le violenze sulle donne compiute nella zona invasa sfuggono a qualsiasi


tentativo di quantificazione. Da un esame attento di tutta la documentazione,
gli stupri denunciati alla Commissione risultano essere 165, per i quali siamo
a conoscenza delle generalità della vittima e delle circostanze in cui è avve-
nuta la violenza; a questi sono da aggiungere altri 570 casi di cui la Commis-
sione reca notizia senza fornire però ulteriori indicazioni. L'osservazione è
banale, ma i casi di stupro sono molto più numerosi di quelli denunciati alle
autorità e alla Commissione d'inchiesta e non è raro il caso in cui una donna
subisce più di uno stupro in tempi diversi; dunque questi dati vanno abbon-
dantemente corretti per difetto. È indiscutibile che il maggior numero dei casi
di violenza si registri durante la prima fase dell'invasione, e in particolare
nella prima metà di novembre del '17, quando i reparti degli eserciti tedesco e
austro-ungarico sono ancora impegnati nell'azione di sfondamento delle linee
italiane e di riposizionamento dopo l'arresto al Piave.
Le testimonianze raccolte dalla Commissione d'inchiesta concordano
nell'attribuire ai tedeschi il maggior numero di stupri e anche nella memoria
locale il generale clima di violenza dei primi giorni dell'occupazione viene
quasi sempre ricondotto, come detto, alla «barbarie» delle truppe germaniche.
Ciononostante, numerosi episodi di stupro vengono commessi anche dalle
truppe inquadrate nell'esercito austro-ungarico e, condannato a parole, ogni

81 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 4, fasc. 59, relazione di don Vittorio Maura alla Reale
Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, 15
gennaio 1919.
82 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 49, relazione di don Apollonio Piazza alla
Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico,
18 dicembre 1918.
109
atto di violenza continua a rimanere impunito. Gli stupri sono più frequenti
in campagna che in città, ed anche nelle aree rurali le abitazioni prese di mira
risultano quelle più isolate. La violenza sulle donne è favorita dal fatto che gli
abitanti sono costretti a tenere aperta la porta di casa. Anche per questo motivo
la sede municipale diventa spesso il luogo di rifugio per le donne spaventate
dalla brutalità delle truppe occupanti e dalla possibilità che sia usata violenza
nei loro confronti. Le uniche zone franche rimangono la chiesa e l'abitazione
del parroco, dove numerose donne si rifugiano soprattutto durante le prime
settimane dell'occupazione; ma non mancano casi di violenza compiuti anche
all'interno delle canoniche. Vittime di un numero rilevante di stupri sono le
cosiddette profughe del Piave. Si tratta di donne che appartengono alla parte
più debole della popolazione e particolarmente martoriate dalla fame e dal-
le malattie. Numerose violenze vengono commesse anche nei confronti di
donne che dai paesi di montagna si recano a piedi verso la pianura friulana
per acquistare generi alimentari e che essendo spesso da sole, risultano più
facilmente esposte. Vittime di soprusi, di tentativi di violenza e di stupri sono
anche le donne ricoverate negli ospedali.
Comunemente però i soldati e gli ufficiali tentano le violenze nelle case,
dopo esservi penetrati colla forza, e cercano di riuscire nel loro intento minac-
ciando le vittime con le armi; in altri casi i soldati si presentano con la scusa
di cercare gli uomini abili al lavoro oppure per requisire generi alimentari.
In ogni caso la violenza è sempre premeditata ed esercitata da gruppi più o
meno numerosi di soldati, in media da 4 o 5 persone, ma alcune testimonianze
riportano la presenza di addirittura 15 o 20 militari che servono ovviamente
per controllare meglio i famigliari delle vittime e impedire ogni forma di re-
sistenza83.
Nella maggior parte dei casi la violenza avviene in presenza di altre per-
sone, i genitori, qualche volta il marito, quasi sempre i figli, ma spesso anche
persone estranee che si trovano nella casa della vittima per caso o perché,
per vincere il timore di soprusi o di altre forme di violenza fisica, durante
l'anno dell'occupazione è usuale che due o tre famiglie vicine si riuniscano in
uno stesso luogo, anche se ciò era formalmente proibito dai comandi militari
locali84. La fuga di quelle che nelle relazioni viene icasticamente definita la
«vittima predestinata» – fuga tentata solamente dalle ragazze più giovani e,
aspetto da sottolineare, dalle donne che non hanno figli85 – nella maggior par-
83 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 4, fasc. 52, testimonianza di L.M.
84 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 1, fasc. 5, testimonianza di E.B.
85 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 49, relazione di don Antonio Fiaretto alla
Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico,
23 dicembre 1918.
110
te dei casi provoca la reazione dei soldati contro coloro che sono rimasti in
casa, che si traduce nell'esplosione di colpi di rivoltella in aria e contro i muri
come intimidazione, nella minaccia di uccidere un famigliare, ma talvolta
nell'abuso verso altre donne che non sono riuscite a fuggire, anche anziane o
inferme1. Quando il tentativo di violenza non riesce, le reazioni più frequenti
sono l'incendio della casa oppure la sottrazione di generi alimentari e animali
domestici2.
In generale, anche la violenza alle donne non è da attribuirsi ad un piano
preordinato da parte dei Comandi degli eserciti d'occupazione, né alla volon-
tà di utilizzare quella che è stata definita «l'arma sessuale» come strumento
di guerra in un quadro che rimanda ad una questione di superiorità razziale,
come pure la propaganda italiana dell'ultimo anno di guerra cerca di dimo-
strare, associando semplicisticamente lo stupro alla barbarie di cui il nemico,
per sua natura, è portatore. Comunque, nel caso specifico degli stupri, il loro
numero elevato è da attribuire in primo luogo alla scarsa efficacia della giu-
stizia militare dei Comandi di occupazione ed alla sostanziale impunità di cui
possono godere soldati e ufficiali che si rendono colpevoli di questo come di
altri tipi di reato. Da un diario sottratto ad un soldato catturato durante l'of-
fensiva del giugno 1918, si evince infatti che molti stupri vengono compiuti
nell'assoluta certezza di riuscire impuniti, soprattutto quando del gruppo fan-
no parte anche ufficiali o sottufficiali.
Un elemento da tenere in considerazione è quello della tipologia della vio-
lenza sessuale, che ha tutte le caratteristiche della serialità ma che, allo stesso
tempo, è da considerarsi episodica. Vale a dire che gli stupri commessi sono
numerosi, ma i singoli casi non risultano collegati fra loro. La violenza è se-
riale e continua, ma isolata, assomiglia maggiormente ad una violenza privata
che ad una violenza sistematica di tipo militare. Nel quadro generale dell'oc-
cupazione lo stupro venne considerato dalle autorità militari un reato minore,
percepito sì come un crimine terribile, ma sostanzialmente paragonabile ad
altri delitti contro la persona, soprattutto se non è seguito dall'uccisione della
vittima – ma si registrano ben 53 episodi di omicidio seguiti alla violenza –
o di qualche suo famigliare. In sostanza, il trauma subìto dalla donna, tanto
1 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 2, verbale d'interrogatorio di Vladimiro Dogan, 16
gennaio 1919.
2 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 1, fasc. 3, s/fasc. 3.1, testimonianza di A.C.: «Pre-
metto che atti di violenza e tentativi di violenza carnale ne furono commessi specie nel pri-
mo periodo dell'occupazione dai germanici. Molte ragazze dovettero di notte per sfuggire i
soldati, gettarsi dalle finestre e nascondersi nei campi. Io stessa attesto che nella notte del 1°
Dicembre 1917 in presenza della famiglia (mamma sorelle e zia) fui schiaffeggiata e minac-
ciata di morte col fucile per essermi sottratta a certe loro insistenze. Si vendicarono poi col
portarci via un asino, un carro, del vino e grano».
111
fisico che psicologico, non viene tenuto in alcun conto.
Nell'immediato dopoguerra, nei territori già occupati la tutela della cosiddetta
moralità pubblica, della pace e dell'ordine delle famiglie, vengono considerate
una necessità sociale. Poiché i bambini nati da violenza, per la loro pseudo-
legittimità, non possono essere accolti nei brefotrofi, è naturale che il fenomeno
dei cosiddetti «figli della guerra», che di per sé costituisce un problema non
solo per le donne che hanno subìto violenza, deve essere risolto in maniera
rapida fornendo assistenza alle gestanti e ai loro figli.
Per iniziativa di don Celso Costantini, nel dicembre 1918 viene fondato a Por-
togruaro un istituto denominato «Ospizio dei figli della guerra» con lo scopo
di accogliere i bambini delle terre liberate – ma successivamente anche delle
terre redente – concepiti durante l'anno dell'occupazione; ma nello statuto, per
ovvie ragioni di carattere sociale, si specifica che sarà stata data la preferenza
ai bambini «nati durante la guerra nelle terre liberate»3. Si tratta di quelli che
in maniera ambigua vengono classificati come «incolpevoli figli della colpa,
che non avevano diritto di nascere ma avevano diritto di vivere»4. Una delle
priorità è infatti quella di evitare che i bambini siano a loro volta vittime di
violenza all'interno della famiglia o addirittura uccisi dalla madre o dal mari-
to, come qualche misteriosa scomparsa – è il caso di Cison – può far supporre:
«Qualche ragazza e 6 o 7 coniugate stuprate da soldati Germanici, Austriaci,
Ungheresi anche con violenza. In due rimase e si vede il frutto; nelle altre o
esiste solo il dubbio e sospetto, ovv. fu fatto sparire. (Come?...)»5.
Un tema, questo dell'infanticidio, largamente rimosso e che lascia pochis-
simi indizi, se non nelle fonti giudiziarie che, in questo senso, forniscono
degli elementi molto precisi, anche se non aiutano a chiarire fino in fondo il
confine tra la morte naturale e quella provocata accidentalmente o volontaria-
mente. L'aborto e la soppressione fisica del bambino appena nato con il suc-
cessivo occultamento del corpo, rimangono delle opzioni entrambe terribili,
3 L'Ospizio dei figli della guerra sarà eretto ad ente morale con R.d. 10 agosto 1919, n.
1508, assumendo la denominazione di «Istituto S. Filippo Neri per la prima infanzia». Fino
ad allora l'Ospizio viene sostenuto con l'assistenza del Segretariato generale per gli affari
civili del Comando supremo, del Ministero per le terre liberate, delle Amministrazioni pro-
vinciali e della carità pubblica. L'Istituto di Portogruaro, poi trasferito a Castions di Zoppola,
accoglierà complessivamente 353 «figli della guerra»; Celso Costantini, Foglie secche. Espe-
rienze e memorie di un vecchio prete, Tipografia Artistica, Roma 1948, pp. 327-333; Andrea
Falcomer, Gli «orfani dei vivi». Madri e figli della guerra e della violenza nell attività
dell Istituto San Filippo Neri (1918-1947), in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista
telematica di studi sulla memoria femminile», 2009, n. 10, pp. 76-93.
4 Opera d'assistenza per i figli della guerra, Tipografia Libreria Emiliana, Venezia 1921, p. 7.
5 ACS, Commissione d'inchiesta, b. 3, fasc. 49, relazione di don Carlo Tomio alla Reale
Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, 11
marzo 1919.
112
soprattutto per il contesto in cui possono maturare – la paura della puerpera
di fronte al giudizio della comunità o della famiglia, il ritorno del marito dal
fronte – e che aggiungono comunque violenza alla violenza. In definitiva,
gli stupri, con tutto ciò che ne consegue in termini di trauma per le vittime
e di rapporti interpersonali all'interno delle famiglie interessate, rimangono
degli episodi consegnati alla dimensione privata della guerra ai civili, quella
dimensione che, come tale, nell'immediato dopoguerra non avrà alcuna forma
di riconoscimento e di comprensione.

Treviso resistente
Per dirla con Jay Winter, durante la guerra gli spazi urbani vengono «na-
zionalizzati», ovvero perdono progressivamente le loro caratteristiche locali
assumendo i tratti militari, economici, culturali del conflitto che svolge, in
questo senso, una funzione omologante. Anche le città venete sono percorse
all'improvviso da migliaia di persone provenienti dal resto d'Italia: soldati,
certo, ma anche tutto quel sottobosco composto di personale dei servizi logi-
stici, operai militarizzati, medici e crocerossine, cappellani e giornalisti che
arrivano per vedere sostenere, curare, raccontare la guerra «da vicino». Si
modificano i luoghi della sociabilità urbana per la presenza di caserme, ospe-
dali militari, case del soldato, postriboli, magazzini. Le città, tanto i centri
storici che i quartieri periferici, «lavorano» esclusivamente in funzione dello
sforzo bellico. Da questo punto di vista Treviso è immersa nel conflitto fin
dal maggio del '15, poiché rientra come il resto del Veneto nella cosiddetta
«zona di guerra», quella porzione d'Italia in cui le autorità militari hanno la
preminenza su quelle civili6; inoltre, ha vissuto la paura di essere occupata
già nel maggio-giugno del '16, quando l'offensiva austro-ungarica si era ab-
battuta sull'Altopiano di Asiago e migliaia di profughi si erano riversati nella
pianura veneta.
Come abbiamo visto, dopo la rotta militare Treviso è tappa obbligata per
migliaia di soldati sbandati e di civili in fuga dal Carso e dal Friuli. Dentro le
mura di una città «riboccante di profughi», funziona il Comitato per la pre-
parazione civile che assiste spezzoni di famiglie, «figli senza genitori, spose
senza mariti, vecchi sciancati, malati cascanti, signore e signori senza nulla,
scalzi quasi tutti e mezzo nudi». Altri fuggiaschi vengono condotti a Fiera per
essere imbarcati verso Chioggia e, qualche giorno dopo, il famigerato gene-
6 La cosiddetta «zona di guerra» nel 1915 comprendeva le province di Udine, Belluno,
Treviso, Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Ferrara, Mantova, Brescia, Sondrio, oltre alle
isole e ad alcuni comuni del litorale Adriatico dove vennero create delle piazze marittime.
Nel corso del 1917, e in particolare dopo Caporetto, tale zona venne estesa a quasi tutta l'Ita-
lia settentrionale.
113
rale Andrea Graziani reprime il disordine tra le truppe con esecuzioni somma-
rie7. I luoghi delle «cartoline illustrate» della Treviso borghese, dopo la con-
citazione dei primi giorni di novembre, diventano improvvisamente deserti e
muti: anche migliaia di trevigiani se ne sono andati, a cominciare da coloro
che rivestono cariche pubbliche, gli stessi che hanno invitato la popolazione
alla calma e a non abbandonare la città. Rimangono al loro posto solamente il
«vescovo del Montello», Andrea Giacinto Longhin, e l'umanità di marginali
che emerge dal suggestivo affresco che ci ha fornito Livio Fantina: questuanti
e vagabondi, ladri e prostitute, ma anche la Treviso popolare dei quartieri fuo-
ri dalle mura, che non può certo lucrare sulla guerra che qui si vede, si sente,
si tocca8. Nel giugno del '18, prima di diventare il capoluogo della «provin-
cia della vittoria», la città vive un ultimo sussulto, con le sue vie percorse dai
feriti nella battaglia del Solstizio e con il rischio di venire travolta dall'ultima
offensiva dell'Austria-Ungheria.
Tornando alle vicende immediatamente successive a Caporetto, a Treviso i
funzionari rientrano in sede in seguito ad una circolare del Comando supremo
del 15 novembre, ma gli uffici funzionano molto irregolarmente, in particola-
re i servizi di stato civile ed anagrafico. Le difficoltà quotidiane con la città se-
mideserta, i molti negozi chiusi, le necessità di carattere militare, impongono
anche a queste categorie di impiegati una serie di restrizioni al loro normale
tenore di vita. Lo stesso accade a Padova, Vicenza e Venezia dove i funzionari
civili chiedono ripetutamente al Governo di essere tutelati e in qualche modo
indennizzati in conseguenza dei maggiori disagi derivanti dal loro obbligo di
residenza. Nei mesi successivi il Ministero dell'Interno si mantiene sempre
contrario ad uno sgombero prudenziale, come del resto il Comando supremo,
che lo considerava del tutto inutile in quanto la popolazione che potrebbe
permetterselo e che non ha particolari obblighi di residenza parte già quoti-
dianamente in modo spontaneo e alla spicciolata, oppure si allontanerebbe
solo se costretta da un pericolo imminente: «Neppure gli abitanti dei territori
già invasi i quali si sono rifugiati nei territori immediatamente retrostanti, si
lasciano indurre ad abbandonare la nuova residenza provvisoria e ne preferi-
scono i disagi e i pericoli al trasferimento nell'interno del paese, pur di rima-
nere meno lontani dai loro Comuni d'origine»9.
Sfollati, sgomberati, profughi

7 Marco Pluviano, Irene Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima guerra mondiale,
Paolo Gaspari Editore, Udine 2004, pp. 185-192.
8 Livio Fantina, Grande Guerra a Treviso: l'ultimo anno, in Venezia, Treviso e Padova
nella Grande Guerra, Istresco, Treviso 2008, pp. 59-141.
9 ACS, Guerra europea, b. 74 bis, fasc. 19.2bis.11, Armando Diaz a Vittorio Emanuele
Orlando, 5 aprile 1918.
114
Fin dalla metà di novembre del 1917 le autorità militari ordinano l'imme-
diata evacuazione dei comuni ancora non occupati, in particolare di Pede-
robba, Cavaso, Possagno, Monfumo, Cornuda, Crocetta Trevigiana, Arcade,
Nervesa, Spresiano, Maserada e Zenson di Piave, quasi tutti paesi rivieraschi
del Piave; oltre a questi, all'inizio devono essere sgomberati anche altri comu-
ni del distretto di Asolo, cioè Castelcucco, Paderno, Crespano Veneto, Borso,
Fonte, S. Zenone degli Ezzelini, ma il prefetto convince i comandi militari a
concedere il permesso di rimanere, a loro rischio e pericolo, alle persone che
lo desiderano10. Comincia dunque un secondo esodo, questa volta forzato,
ma non dissimile nelle forme da quello della zona già invasa11. Sui profughi
della riva destra del Piave, la lettura di Gaetano Pietra, anche se un po' troppo
schematica, è sostanzialmente corretta:

Da prima si allontanarono i paurosi e più che altro le classi elevate. La classe dei contadi-
ni non si allontanò: fu invitata ad allontanarsi verso la fine di novembre per lasciare alloggio
alle nostre truppe, ma si ritirò di pochi chilometri verso Treviso, avendo trovato ospitalità
presso altre famiglie di contadini. La classe operaia invece si allontanò quasi in massa e fu
inviata con treni speciali in varie località interne dell'Italia12.

Nella maggior parte dei casi i profughi partono scaglionati utilizzando la


ferrovia, ma non mancano coloro che si allontanano con mezzi propri, spe-
rando di trovare un temporaneo ricovero nelle zone considerate fuori perico-
lo13. Un problema che investe anche i parroci ai quali, per quanto riguarda la
10 Le incursioni aeree dei mesi successivi rendono giustificabile il provvedimento di par-
ziale sgombero anche per Treviso, Montebelluna e Castelfranco. Tra l'aprile e il maggio del
1918 vengono sgomberati i comuni di Asolo, Castelcucco, e ancora Monfumo, ma devono
abbandonare le loro case anche alcune famiglie di Povegliano, Merlengo, Arcade, Selva di
Volpago. Dopo l'offensiva del giugno viene disposto l'arretramento della popolazione di Vol-
pago, Caerano S. Marco, Povegliano, Villorba, Ponzano, Breda, S. Biagio, Carbonera, Mo-
nastier e Roncade; ASTv, Gabinetto di prefettura, b. 29, fasc. «Comuni sgombrati», Prefetto
di Treviso a Commissario Generale dell'Emigrazione, 26 agosto 1918.
11 Sui civili sgomberati dall'Asolano e dal Montebellunese, cfr. Benito Buosi, Dietro le
linee del Grappa e del Montello, in Il Veneto e Treviso tra Settecento e Novecento. XVII Ciclo
di conferenze, Comune di Treviso, Treviso 2001, pp. 47-68 (ora anche in Storie della Grande
Guerra, a cura di Stefano Gambarotto, Istrit, Treviso 2009, pp. 5-62).
12 Gaetano Pietra, Gli esodi in Italia durante la guerra mondiale (1915-1918), Tipografia
Failli, Roma 1938, p. 21.
13 Si veda, ad esempio, la testimonianza di Attilia Barbon Pedrina, profuga di Spresiano,
riportata in Giuliano Simionato, Spresiano. Profilo storico di un comune, Marini, Villorba
1990, p. 501: «[…] mio padre scavò una buca dietro la casa e vi seppellì assieme alla mac-
china da cucire la dote che mia sorella stava preparando, perché aveva espresso il desiderio di
farsi suora. Salimmo […] su di un carro coperto dove avevano trovato posto coperte, qualche
indumento e alcune stoviglie. Dietro al carro trainato dai nostri due buoi era legata la mucca
115
diocesi di Treviso, il vescovo Longhin ha ordinato di rimanere entro i limiti
della parrocchia o comunque della diocesi, diversamente invece da quanto
viene disposto dai vescovi di Padova e di Vicenza14. Per la presenza della
stazione ferroviaria, Montebelluna diventa un luogo di passaggio obbligato,
sia per i profughi provenienti dal Cadore e dalla Val Brenta che devono se-
guire la linea Montebelluna-Castelfranco-Vicenza-Verona, sia per quelli del
medio Tagliamento che vengono inoltrati sulla linea Susegana-Montebellu-
na-Castelfranco-Padova; quelli del basso Tagliamento invece passano per la
linea Motta-Treviso-Mestre-Padova e quelli della provincia di Treviso ven-
gono imbarcati a Sant'Ambrogio di Fiera, scendono il Sile e poi arrivano fino
a Chioggia.
A partire dal 10 novembre 1917, a Montebelluna vengono sgombrate le
località Montello, Pederiva, la parte superiore di Biadene e quella orientale
di Rive e Mercato Vecchio, compresa anche la parte superiore di Caonada,
le località di Pieve e di Guarda15. Dei circa 138.000 profughi della pro-
vincia di Treviso quelli del distretto di Montebelluna ammontano a 26.775,
circa il 53% della popolazione dei comuni interessati16; solo il distretto di
Treviso, in termini numerici, conterà più profughi. Di questi, circa 5.000
rimangono in provincia di Treviso durante tutto il 1918, in gran parte nella
Castellana; altri 1.300 vengono ricoverati nel Padovano. Per tutti gli altri
si prospetta un trasferimento molto più lungo in altre province d'Italia. Al
di fuori del Veneto, se si esclude la provincia di Milano che ospiterà quasi
2.000 profughi, le due province in cui vengono inviate il numero maggio-
re di persone del distretto di Montebelluna sono Campobasso e Catania
dove troveranno ricovero quasi 1.000 profughi. Poi, nell'ordine, seguono le
province di Alessandria, Bari, Torino, Genova, Palermo, Teramo, Bergamo,
Pavia, Firenze. Nell'aprile del 1918 nella metà della provincia di Trevi-
so non invasa sarebbero stati ricoverati circa 40.000 profughi; nell'agosto
che ci fornì il latte durante tutto il lungo viaggio». In questa maniera arrivano fino a Firenze
e poi trovano finalmente un ricovero in provincia di Siena.
14 Lettera del vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin al card. Pietro Gasparri, 18
novembre 1917, pubblicata in I vescovi veneti cit., pp. 273-274.
15 Nel diario del cappellano della parrocchia di Montebelluna i tratti della «Caporetto in-
terna» sono del tutto evidenti; si veda Antonio Dal Colle, Diario di guerra durante l'Offen-
siva sul Piave, a cura di Paolo Asolan e Gianna Galzignato, Grafiche Antiga, Cornuda 1997,
pp. 32-33: «Le famiglie di S. Gaetano ne sono piene, in qualche famiglia ci sono 20, 30 e più
profughi. Anche gli eroi di Montebelluna che in 8 giorni doveano portarsi a casa Trieste in
saccoccia se ne sono andati in fretta. Forse si saranno fermati a Napoli, oppure sono ancora
a gambe levate. I palazzi di Pieve chiusi, chiusi i negozi, le botteghe. I soldati non trovano
più da mangiare».
16 Ministero per le Terre Liberate, Censimento dei profughi di guerra, Tipografia del Mi-
nistero dell'Interno, Roma 1919, p. 222.
116
successivo sarebbero scesi a quasi 25.000, 19.000 dei quali ricoverati nel
distretto di Castelfranco. Il loro peso su questi comuni è comunque enorme,
basti pensare ai problemi annonari, al contingentamento dei generi alimen-
tari, al fatto che molti paesi vedono quasi raddoppiata la popolazione dopo
l'arrivo dei profughi, con evidenti problemi di ordine pubblico, ma anche di
gestione dell'emergenza alimentare e sanitaria. Un esodo in massa delle po-
polazioni rurali, dovuto ad un eventuale sgombero totale dei comuni lungo
la riva destra del Piave, risulterebbe deleterio anche per le colture agricole.
Sarebbe più auspicabile, invece, spostare di nuovo i profughi ospitati nella
metà della provincia non invasa, in modo da rendere possibile, in caso di
necessità, l'esodo completo dai comuni lungo il Piave17. Ma esistono anche
altre ragioni legate allo stato d'animo di questi profughi e al loro rapporto
con la popolazione locale. Ad esempio, quelli di Pederobba, circa un mi-
gliaio, sono concentrati a Bessica e costituiscono «una pericolosa riunione
di gente malcontenta, bisognosa, avvilita moralmente e materialmente»18.
Protestano perché sono stati costretti ad abbandonare nel loro comune le
provviste e il bestiame e per le condizioni in cui versano, essendo alloggiati
in stalle e in edifici al pianterreno; a ciò si aggiunge anche il risentimento
nei confronti delle truppe italiane che hanno operato spogliazioni nel comu-
ne sgombrato. Portavoce delle lamentele nei confronti del governo e delle
autorità militari è il parroco che esercita un forte ascendente nei confronti
dei suoi parrocchiani, diversamente dagli amministratori, invisi agli stessi
profughi perché colpevoli di non occuparsi dei loro bisogni. Il possibile
trasferimento di queste persone – a lungo rinviato perché desiderano essere
inviate in località rurali dove possono trovare facilmente un impiego essen-
do in gran parte agricoltori19 – sarebbe gradito anche dalla popolazione di
Bessica:

La popolazione indigena di Bessica non è però molto favorevole alla permanenza in quel-
la borgata dei profughi, e sarebbe più lieta di avere truppe; ma forse vi è in questo desiderio
un sentimento egoistico e di guadagno. E' fuor di luogo però che la presenza dei profughi
in quella località, ove tengono un contegno ed un linguaggio di malcontento permanente, e
serpeggia tra di loro un vivo fermento contro il Governo e le Autorità tutte, influisce molto
sinistramente sulle nostre truppe, che indirettamente subiscono una morale depressione20.
17 ACS, Comando Supremo, Segretariato generale per gli affari civili (Sgac), b. 785, pre-
fetto di Treviso a presidente del Consiglio, 24 aprile 1918.
18 Ivi, Comando della 4a Armata a Segretariato generale per gli affari civili, 28 gennaio
1918.
19 ACS, Copialettere, prefetto di Treviso a ministero dell'Interno, 28 maggio 1918.
20 ACS, Sgac, b. 785, Commissario di P.S. a Comando supremo - Servizio informazioni
della 4a Armata, 23 gennaio 1918.
117
Una situazione analoga interessa i circa 1.600 profughi di Possagno sgom-
brati tra il 13 e il 16 novembre, ricoverati provvisoriamente presso le fami-
glie contadine di Ca' Rainati, una frazione di S. Zenone degli Ezzelini, e poi
inviati nel giugno successivo nelle province di Palermo e di Trapani; il loro
trasferimento in Sicilia verrà motivato con la necessità di liberare i locali dei
fabbricati rurali per permettere la coltivazione dei bachi da seta, ma in realtà
nella decisione avranno un peso anche le esigenze dei reparti della 4a Armata
dislocati nella pedemontana del Grappa21.
Dunque nel Montebellunese e nella Castellana trovano temporaneo ricove-
ro molti profughi provenienti dai comuni che sono venuti a trovarsi a ridosso
della linea del fronte, in particolare dalla pedemontana del Grappa, dall'Aso-
lano e dalla stessa zona del Montello, in particolare Arcade, Nervesa, Giave-
ra, Volpago, Crocetta, Cornuda e Pederobba. In tutti questi casi si tratta di un
arretramento temporaneo anche nel tentativo di limitare gli effetti di uno sra-
dicamento della popolazione dai quei paesi. Questa situazione comporta però
la tendenza a ritornare periodicamente nei comuni di residenza per cercare di
mettere in salvo i propri beni abbandonati durante lo sgombero improvviso;
un problema di ordine pubblico che giustifica un ulteriore allontanamento dei
profughi, anche in vista di una possibile offensiva nemica che potrebbe river-
sare nelle retrovie del fronte italiano una nuova ondata di fuggiaschi, come
temono tanto il Comando supremo che quello della 65a Divisione francese
che operava in quella zona22.
Nel frattempo anche in molti dei comuni limitrofi a Treviso – soprattutto a
Monastier, S. Biagio di Callalta, Roncade e Casier – si sono raccolti numerosi
profughi provenienti in gran parte dai paesi della destra del Piave, ospitati
in maniera provvisoria presso abitazioni private, stalle e fienili. Le difficoltà
logistiche, aggravate in questo caso dalle esigenze militari, impongo che
almeno una parte di questi profughi – in tutto erano 7.624 – sia entro breve
tempo trasferita all'interno del Regno, dove peraltro quasi nessuno vuole
andare per le continue voci che arrivano circa i problemi alimentari. Per
alcune settimane, comunque, questi profughi continuano a rimanere a ridosso
della prima linea, a stretto contatto con i reparti militari, e molti di loro – in

21 Massimiliano Pavan, Profughi ovunque dai lontani monti... Da la Grapa fin dó in Seci-
lia, Canova, Treviso 1987, pp. 36-81.
22 ACS, Copialettere, prefetto di Treviso a ministero dell'Interno, 21 dicembre 1917. Nel
dicembre del '17, soltanto nel comune di Asolo sono alloggiati provvisoriamente circa 800
profughi, in gran parte provenienti da Cavaso, Cornuda e Onigo; Archivio storico della Curia
vescovile di Treviso (ASCVT), Fondo Chimenton, b. 50, fasc. «Asolo», don Angelo Brugno-
li al vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin, 28 dicembre 1917.
118
particolare numerose donne – vengono impiegati nei cantieri istituiti per la
lavorazione dei materiali da trincea.
Ma il 27 dicembre il Comando del XIII Corpo d'Armata ordina che tutto
il territorio di sua competenza posto alla sinistra del Sile sia sgombrato dai
circa 6.000 profughi che vi rimangono. Tra il 5 e il 12 gennaio vengono
inoltrate verso l'interno, nonostante la loro riluttanza, 2.800 persone; e per
costringere gli altri a partire, le autorità militari cessano la distribuzione dei
viveri23. Dal 9 gennaio al 21 marzo saranno allontanate dai paesi a ridosso
della zona d'operazioni circa 1.700 persone, in gran parte provenienti da
Musile, Monastier, Arcade, Spresiano e Falzè di Trevignano. Dal 21 marzo
al 29 maggio è la volta di altre 5.545 persone, in gran parte già sfollate dai
comuni rivieraschi del Piave e che erano provvisoriamente residenti nella
pedemontana del Grappa e nella Castellana. Nonostante interessi persone già
profughe, questo trasferimento – dettato anche da necessità di ordine sanitario
in quanto molti di questi profughi dimorano da mesi in stalle e fienili in
condizioni che potrebbero facilitare la diffusione di malattie infettive – viene
accettato di buon grado. Tra questi, vi sono anche 895 profughi dei comuni
di Fonte, Paderno, Fietta, Crespano, Borso, S. Zenone degli Ezzelini, Pove,
Romano, Mussolente e Bassano partiti da Cassola in due scaglioni, il 24 e 26
aprile. Il loro sarà un viaggio molto lungo. Dopo lo smistamento avvenuto a
Castellammare di Stabia, 325 vengono inviati in provincia di Lecce, quasi la
metà a Gallipoli, gli altri suddivisi tra i comuni di Scorrano, Tricase, Galatone,
Squinzano, Casarano, Nardò24; l'altro contingente viene invece indirizzato a
Celano (L'Aquila), dove i profughi saranno bene accolti dalla popolazione
ed alloggiati in abitazioni già predisposte da tempo25. Se infatti coloro che
sono stati destinati nel Salento vengono «condotti come pecore randage»,
quelli ospitati a Celano «ebbero per ciascuna famiglia casa propria in legno,
arnesi da cucina e materasso e due lenzuola per ciascuno; L. 1.25 od 1.50
giornaliere di sussidio e facilitazioni per impiegarsi», sebbene sia «nominale
più che effettivo l'organico per il collocamento dei profughi»26. Altre 9.418
persone saranno allontanate dal 3 al 24 giugno, anche se la prefettura ne aveva
previsto lo sgombero di 21.22127. Oltre ai profughi dei comuni rivieraschi

23 AST, Gabinetto di prefettura, b. 29, fasc. «Comuni sgombrati», relazione del Commis-
sario prefettizio per la zona del XIII Corpo d'Armata, [febbraio 1918].
24 ASCVT, Fondo Chimenton, b. 50, fasc. «Asolo», don Angelo Brugnoli al vescovo di
Treviso Andrea Giacinto Longhin, 24 maggio 1918.
25 ACS, Copialettere, sottoprefetto di Avezzano a ministero dell'Interno, 29 aprile 1918.
26 Diario di padre Giovanni D'Ambrosi, citato in Pavan, Profughi ovunque dai lontani
monti cit., p. 76.
27 ACS, Guerra europea, b. 74 bis, fasc. 19.2bis.11, «Relazione sui criteri seguiti negli
sgombri di popolazione dopo il ripiegamento fino alla battaglia del Piave», 18 luglio 1918. Al
119
del Piave e della zona del Montello, questa misura interesserà anche quelli di
Possagno partiti il 3 e 6 giugno in due scaglioni di 800 ciascuno; destinati a
Palermo dove sarebbero dovuti rimanere uniti, verranno tuttavia suddivisi tra
vari comuni anche della provincia di Trapani, come Castellammare del Golfo,
Alcamo, Calatafimi, Salemi e Ninfa28.

Disfattisti e internati
Nella Destra Piave la situazione sociale, a cominciare da Treviso città, è
dunque ben diversa dalla zona invasa, nonostante una parte dei comuni siano
sgomberati e di fatto diventati zona di operazioni, mentre altri risultano essere
immediata retrovia e caratterizzati dalla problematica convivenza tra militari
e civili che sono in gran parte sfollati. Uno degli aspetti ancora poco tematiz-
zati è quello della repressione del disfattismo che avviene o attraverso la mi-
sura dell'internamento oppure attraverso l'applicazione del cosiddetto decreto
Sacchi, approvato nell'ottobre del 1917 (4 ottobre 1917, n. 1561) sull'onda
dei fatti di Torino dell'agosto precedente. Gli internamenti si concentrano in
particolare in tre momenti: i primi mesi di guerra, l'estate del 1917 all'altezza
dei fatti di Torino e le settimane successive a Caporetto. Durante la prima fase
gli internamenti costituiscono quasi sempre un provvedimento preventivo, un
provvedimento di pubblica sicurezza basato sulla potenziale capacità di una
persona di arrecare danno alle operazioni militari e all'interno di tutta la zona
di guerra. Il provvedimento viene preso dal Comando supremo, non ci sono
né istruttorie né processi, quindi nemmeno revisioni. Le categorie di soggetti
colpiti dalla misura dell'internamento sono sostanzialmente tre: gli abitanti
delle zone occupate29; i residenti in zona di guerra che possono nuocere alla
sicurezza militare; le persone al di fuori della zona di guerra nei cui confronti
non è possibile intervenire per via giudiziaria e in questo caso il provvedi-
mento veniva deciso dalle autorità di Pubblica sicurezza. In queste categorie
provvedimento di sgombero sono interessati i comuni di Casale sul Sile, Roncade, Monastier,
S. Biagio di Callalta, Breda di Piave, Carbonera, Maserada, Villorba, Povegliano Volpago,
Montebelluna, Caerano S. Marco, Maser e Loria.
28 Pavan, Profughi ovunque dai lontani monti cit., p. 97.
29 Si veda Camillo Medeot, Storie di preti isontini internati nel 1915, Quaderni di Inizia-
tiva Isontina, Gorizia 1969; maggiormente articolata la sintesi di Sara Milocco e Giorgio
Milocco, «Fratelli d'Italia». Gli internamenti degli italiani nelle «terre liberate» durante la
grande guerra, Paolo Gaspari Editore, Udine 2002, che rappresenta uno studio approfondito
sugli internati provenienti dal distretto di Cervignano. Ma si vedano anche Giovanna Procac-
ci, L'internamento di civili in Italia durante la prima guerra mondiale. Normativa e conflitti
di competenza, in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria
femminile», 2006, n. 5-6, pp. 33-66; Matteo Ermacora, Le donne internate in Italia durante
la Grande Guerra. Esperienze, scritture e memorie, in «DEP. Deportate, esuli, profughe.
Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 2007, n. 7, pp. 1-32.
120
possiamo individuare diverse tipologie come socialisti, anarchici, clericali,
che rimandano però ad altri soggetti: amministratori locali, segretari comuna-
li, sindacalisti, segretari di partiti contrari alla guerra, parroci; e, ancora, pa-
cifisti, antimilitaristi, renitenti, disertori, spie vere o presunte, austriacanti30.
In questo quadro non sono secondarie nemmeno altre categorie sociali che
s'intrecciano con quelle ricordate e che vengono considerate potenzialmen-
te pericolose: operai militarizzati, contrabbandieri, prostitute, mendicanti e
marginali.
Dopo Caporetto la misura dell'internamento viene proposta e adottata nei
confronti di numerosi sacerdoti del Veneto che ora si trovano a ridosso della
nuova linea del fronte e che sono accusati di deprimere lo spirito pubblico
durante le prediche domenicali, seminando il panico con notizie allarman-
ti, chiedendo la pace ed esaltando i soldati austro-ungarici. Il loro contatto
con le popolazioni rurali, sulle quali ha presa solo la parola del prete, spesso
costituisce un motivo per procedere con gli internamenti. Tra i sacerdoti del
Trevigiano proposti per l'internamento è da segnalare don Carlo Noè, vicario
a S. Elena di Lughignano, che ha posto in rilievo, esagerandoli, i danni della
ritirata, riuscendo così a creare nell'animo della popolazione «un pericoloso
desiderio di pace a qualunque costo». Nel novembre 1917, dopo la messa,
avrebbe poi trattenuto solo le madri e le mogli dei soldati «esortandole a far
comprendere ai rispettivi figli e mariti che la guerra ormai doveva finire».
Non vi sono prove di questo episodio, ma viene ugualmente richiesto l'inter-
namento «per troncare la sua opera nefasta»31. Denunce simili sono a carico
dei parroci di Cendon e Casier, responsabili di aver depresso il sentimento
patrio della popolazione e di aver diffuso notizie allarmanti. Chi viene invece
allontanato è il parroco di Paese, don Attilio Andreatti, internato a Firenze nel
gennaio del 1918 per aver invocato la pace e aver imprudentemente affermato
quanto valorosi siano i tedeschi e che se gli italiani avessero ascoltato il papa
non sarebbe avvenuta la rotta di Caporetto32.
L'alto numero di segnalazioni e di proposte d'internamento e le misure poi

30 Sugli aspetti repressivi nei confronti degli oppositori della guerra, rimandiamo a Gio-
vanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella
grande guerra, Bulzoni, Roma 1999; Ead., La società come una caserma. La svolta repres-
siva nell'Italia della Grande Guerra, in «Contemporanea», VIII (2005), n. 3, pp. 423-445;
Ead., Osservazioni sulla continuità della legislazione sull'ordine pubblico tra fine Ottocento,
prima guerra mondiale e fascismo, in Militarizzazione e nazionalizzazione nella storia d'Ita-
lia, a cura di Piero Del Negro, Nicola Labanca, Alessandra Staderini, Unicopli, Milano 2005,
pp. 83-96.
31 ACS, Sgac, b. 345, fasc. «Carlo Noè», Comando CCRR del Comando del XIII Corpo
d'Armata, 26 novembre 1917.
32 ACS, Sgac, b. 342, fasc. «Attilio Andreatti».
121
effettivamente adottate dopo Caporetto, inducono però in seguito le autorità
militari a procedere con una certa prudenza. Nei primi mesi del '18 l'allon-
tanamento di parroci ha assunto infatti proporzioni allarmanti, al punto che
i vescovi di Treviso e di Padova chiedono a Diaz di intervenire. In effetti,
nell'aprile il capo dell'esercito inviterà i comandi alla cautela per le ripercus-
sioni che l'allontanamento dei sacerdoti potrebbero avere sullo spirito pub-
blico delle popolazioni locali. Si precisa che l'internamento è una «misura di
polizia militare» e che prima di prenderla è necessario compiere delle verifi-
che, tranne nel caso in cui si configurano dei reati. Le informazioni raccolte
devono essere controllate interrogando le autorità locali, quelle di pubblica
sicurezza e i vescovi dei sacerdoti sospettati. Si confida anche nella gerarchia
ecclesiastica e nei suoi richiami: i trasferimenti imposti dal vescovo potreb-
bero essere infatti meno sgraditi e più utili perché non provocano pericolose
reazioni e agitazioni; gli internamenti, al contrario, rischiano di produrre l'ef-
fetto opposto a quello voluto33.
La svolta imposta con il decreto Sacchi è evidente, in quanto si va a colpire
«chiunque con qualsiasi mezzo commette o istiga a commettere un fatto che
può deprimere lo spirito pubblico o altrimenti diminuire la resistenza del paese
o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione
interna od internazionale dello Stato». Nel 1918 su 56 processi celebrati
dal Tribunale di Treviso ben 35 riguardano reati commessi in violazione di
tale decreto. In generale le pene comminate sono minime (pochi giorni di
reclusione e ammende pecuniarie), ma è necessario sottolineare quanto poco
basti per essere condannati, quasi sempre una frase fuori posto pronunciata in
presenza di un ufficiale, oppure di un cittadino pronto a trasformarsi in uno
zelante delatore.
Così nel gennaio 1918 il medico condotto di Trevignano, Leonida Carraro,
viene condannato ad un mese di reclusione e ad un'ammenda di 100 lire per
aver espresso «la convinzione che presto il Paese sarebbe stato invaso dai
nemici che forse arriverebbero fino al Po; che egli aveva sempre avuto il
timore che le cose andassero a finire così; che egli era sempre stato neutralista
e che non si sarebbe aspettato una vittoria italiana ma che però non credeva che
l'invasione avvenisse così e che i nostri soldati si fossero così vigliaccamente
ritirati […]»34. Un'ostessa di Treviso, Anna Gobbato, viene condannata a
33 ACS, Sgac, b. 742, Armando Diaz ai Comandi delle Armate e ai Comandi dei Corpi
d'Armata, 25 aprile 1918.
34 Questa e le prossime citazioni sono tratte dalle sentenze rinvenute presso il Tribunale
di Treviso da Paola Bruttocao, che qui ringrazio per avermene fatto avere copia. Una ricerca
su questo aspetto del controllo politico sui civili sarebbe auspicabile anche in chiave di una
storia sociale della popolazione in guerra.
122
sei giorni di reclusione e ad un'ammenda di 15 lire per aver detto: «Vada a
remengo il Governo e chi lo protegge. Se venissero i tedeschi si starebbe
meglio». Il parroco di Volpago, don Luigi Panizzolo, viene processato
ma poi assolto per aver istigato gli operai militarizzati a non lavorare nei
giorni festivi. Un muratore e un contadino di Roncade vengono condannati
rispettivamente a tre e a due mesi di reclusione per aver detto: «I signori hanno
portato via la borsa e la pelle, ed hanno lasciato qui la terra. Faremo i conti un
giorno con loro ed io sarò il primo ad andar contro di loro». E ancora: «Dopo
questa guerra dobbiamo fare la guerra civile». Tre contadini di Zero Branco
vengono condannati ad un mese di reclusione per aver intonato una canzone
disfattista e lo stesso avviene nei confronti di due contadini di Altivole. È
evidente che con il decreto Sacchi siamo di fronte a un tornante decisivo che
si fonda sull'indeterminatezza del reato, che lascia mano libera alle autorità di
pubblica sicurezza e che aggrava, grazie alla sinergia tra la giustizia militare
e quella ordinaria, la posizione dei soggetti accusati di antipatriottismo e di
disfattismo.

123
Il sottoportico dei Buranelli a Treviso. ISTRIT.
1915-1917. FRA CIVILI E MILITARI
IN UNA PROVINCIA LACERATA DALLA GUERRA

Stefano Gambarotto

Lo stato di guerra
Con lo scoppio delle ostilità Treviso è stata dichiarata zona di guerra. La
provincia diviene pertanto soggetta a tutte le limitazioni che tale stato com-
porta, ivi comprese quelle sulla circolazione. Lo spirito delle norme che la
disciplinano è quello di non pregiudicare la libertà di movimento delle po-
polazioni finché non sia «indispensabile a tutelare la sicurezza militare e ad
eliminare tutto ciò che costituisce ingombro, senza dubbio dannoso ai servizi
e ai movimenti delle truppe». Esse si fanno più restrittive man mano che ci
si avvicina alla zona di combattimento. Le esigenze di sicurezza obbligano
comunque i cittadini che si spostano da un paese all'altro ad essere sempre
identificabili. A questo fine, qualora ne siano richiesti, essi possono esibire
una tipologia molto ampia di documenti d'identità, della quale fanno parte
«passaporti per l'interno, libretti ferroviari, tessere postali di riconoscimento,
permessi di porto d'armi ecc.» Meno permissive sono invece le disposizioni
relative ai mezzi di trasporto. È proibito servirsi dell'automobile o della mo-
tocicletta, considerati mezzi veloci, il cui uso è riservato ai militari. Può essere
consentito ai civili previa autorizzazione, concessa solo «per gravi ed ecce-
zionali interessi». Alle persone sospette è così impedito di muoversi rapida-
mente. Viaggiare con mezzi tradizionali, come il treno, il cavallo, la bicicletta
oppure spostarsi a piedi, è invece consentito a tutti. Nel frattempo, una dispo-
sizione del comando supremo ha proibito le telefonate interurbane nelle zone
di guerra. Le linee telefoniche interurbane Treviso-Venezia, Treviso-Padova,
Treviso-Montebelluna, Montebelluna-Valdobbiadene, Montebelluna-Feltre e
Montebelluna-Asolo sono riservate all'uso militare. Si tratta soltanto di alcuni
esempi pescati a caso fra quel complesso e disarticolato insieme di divieti
e costrizioni calati dall'alto che saldandosi con l'occupazione del territorio
realizzata da soldati e lavoratori militarizzati, interviene a modificare l'intero
assetto del vivere sociale, producendo radicali cambi di abitudini e mentalità.
Sono le inevitabili conseguenze della guerra in corso che divengono anche
fonti di insofferenza. Nel comune sentire allora, i più ovvi terminali del ri-
sentimento popolare diventano i militari, lo stato e le élite dominanti, ovvero
l'insieme delle forze che hanno strappato gli uomini alle famiglie, imposto la
guerra e i suoi sacrifici e che ora stanno traendo da essa vantaggi personali
senza accollarsene i rischi.

125
Requisizioni e razionamenti
Requisizioni e razionamenti sono un altro aspetto della vita quotidiana del
periodo bellico. Fra il 1915 e il 1917 entrano in vigore una serie di provve-
dimenti destinati al controllo della produzione e dell'impiego di beni ritenuti
importanti per gli sforzi militari del Paese. Sostanze come i grassi animali
divengono all'improvviso importantissime perché dalla loro lavorazione si
ottiene la glicerina, ingrediente fondamentale nella produzione di molti degli
esplosivi allora conosciuti. Un decreto del 1916 dispone la «requisizione del
grasso bovino ed ovino fresco colato (sego)». A Padova si insedia la «Sotto-
commissione Militare Requisizione Grassi», competente anche per le zone di
Treviso e Belluno. I macellai e i colatori del territorio vengono precettati e
obbligati «a denunciare al locale comando di stazione dei RR carabinieri la
quantità – di grasso – da essi prodotta». Il commercio privato di tale sostan-
za viene proibito. Alle amministrazioni locali spetta l'obbligo di trasmettere
ogni mese agli uffici padovani la «statistica dei capi di bestiame macellati in
comune».

Razionamento pelli bovine ed equine


Nel dicembre del 1916, un altro decreto dà il via al «Censimento delle pelli
bovine ed equine». Il passo successivo è la requisizione delle lane. Il prov-
vedimento che la impone viene adottato ad aprile del 1917. Se per i grassi è
competente Padova, la «Commissione requisizione Lane» si insedia invece a
Verona. Per la provincia di Treviso i centri di raccolta inizialmente individua-
ti sono tre: Verona, Vicenza e Legnano. Ben presto però, gli uffici veronesi
della commissione nomineranno «raccoglitore principale il signor Vittorio
Fano» la cui ditta è ubicata all'interno delle mura cittadine in «via S. France-
sco 10».

Convivere con i militari


Convivere con i militari insomma è tutt'altro che semplice. Fin da prima
dello scoppio delle ostilità era previsto che ampi lavori difensivi dovesse-
ro essere realizzati nel territorio della Marca. Piste di atterraggio ed este-
si sistemi di trincee avrebbero dovuto mutare l'aspetto del paesaggio rurale
trevigiano. La costruzione di queste strutture produrrà un notevole impatto
sulla vita delle popolazioni residenti poiché, com'è facilmente immaginabile,
le necessità di natura militare che guidano la mano dei loro progettisti, ben
difficilmente possono accordarsi con quelle sociali ed economiche dei civili.
Quando al chiuso di un comando si tracciano linee sulle carte topografiche,
è impossibile immaginare che esse si trasformeranno in altrettanti solchi sul

126
terreno, destinati a deviare strade, ad interrompere canali irrigui e strade e
ad impedire l'accesso alle coltivazioni. La trasformazione fisica del paesag-
gio rurale che si realizzò con l'avvio dei cantieri per lo scavo di trincee e la
costruzione di postazioni in cemento armato, inflisse al territorio profonde
ferite che ostacolarono il movimento della popolazione lungo le strade, rese-
ro problematica la coltivazione di campi, alterarono il regime delle acque e
richiesero l'abbattimento in gran quantità di piante e alberi da frutto. Ciò su-
scitò notevole malcontento soprattutto fra i contadini. Fino al momento in cui
la rotta di Caporetto non sposta il fronte alle porte della città, la popolazione
delle campagne non sembra cogliere in pieno la reale utilità del gigantesco
sistema di fortificazioni che con le sue braccia ha contribuito a costruire. I
cantieri del campo trincerato hanno rappresentato per tutti una buona occa-
sione d'impiego. Per alcuni invece, quegli stessi cantieri si sono trasformati
in un'allettante e inesauribile scorta di materiali da rubare durante la notte. Il
problema ha raggiunto una tale gravità che il 22 marzo del 1917, il Comando
del Presidio Militare di Treviso si rivolge ai sindaci di tutti i comuni interes-
sati dai lavori avvertendo che chi sarà sorpreso a rubare nei cantieri verrà
giudicato dalla giustizia militare e non da quella civile, poiché ha arrecato
danni ad opere destinate alla difesa nazionale. I lavori per la realizzazione del
«Campo trincerato di Treviso» iniziano nel 1916. Quello che i militari pro-
gettano di costruire è un esteso e fitto sistema di trincee che dovrà circondare
la città, sviluppandosi attraverso il territorio dei comuni di Quinto, Paese, Vil-
lorba, Ponzano Veneto, Breda di Piave, Carbonera, Melma (l'odierna Silea) e
San Biagio di Callalta. L'opera dovrà poi collegarsi con le altre difese della
pianura veneta.

Cantieri militari: la forza lavoro


La partenza dei cantieri militari ridurrà significativamente i bisogni dei di-
soccupati trevigiani che non sono ancora sotto le armi. Se nel 1915 i senza la-
voro bussavano inferociti alle porte dei municipi in cerca di un'occupazione,
a metà del 1916 sembra quasi impossibile trovare braccia da impiegare. La
ricerca di operai civili da avviare ai lavori militari diviene addirittura osses-
siva, con periodiche circolari inviate dalla prefettura ai sindaci del territorio.
Attraverso di esse si fa leva sui sentimenti patriottici degli amministratori,
spronandoli a svolgere attività di propaganda e reclutamento tra i propri cit-
tadini. Durante l'inverno del 1917, si chiederà ai sindaci di concentrare le
proprie attenzioni sugli sfollati. Nel «…reclutamento operai borghesi – scrive
la prefettura in un telegramma del 28 dicembre – siano esortati attivamente
profughi guerra a voler reclutarsi «. Ai primi cittadini viene anche ricordato,

127
affinché la loro opera di convincimento sia più efficace, che «…occorre far
presente a detti profughi che oltre a corresponsione paghe loro lavoro verrà
mantenuto sino a disposizione contraria sussidio spettante alla famiglia». I
lavoratori che sceglievano di mettersi al servizio dell'esercito erano costituiti
soprattutto da persone riformate alla prima visita di leva, poi i minorenni, di
età compresa fra i quindici e i diciassette anni, ammessi al lavoro purché au-
torizzati dal padre e accompagnati da un parente e adulti fino a sessant'anni,
non più soggetti ad obblighi militari. Una delle destinazioni è il massiccio del
Grappa.

Requisizioni di case e terreni


Una massa di persone che deve essere alloggiata e rifocillata tanto a Ca-
stagnole quanto in tutti i paesi di ognuno degli otto comuni dove si aprono
i cantieri. Il problema dell'alloggiamento dei lavoratori militarizzati e della
truppa è sinonimo di requisizioni, con buona pace dei molti cittadini che si
vedono costretti a cedere, loro malgrado, immobili e terreni per gli accam-
pamenti. Il Genio militare apre in città un ufficio per la gestione di tutte le
pratiche relative. La sede è collocata poco fuori da porta San Tommaso (al-
lora porta Mazzini), nell'allora Villa Sullan. Un passaggio della lettera del
18 luglio del 1917, con la quale si invitano i cittadini a presentarsi per avere
liquidate le proprie spettanze, è interessante perché lascia intravedere quale
fosse il clima, tutt'altro che cordiale e collaborativo, dei rapporti fra militari e
civili. Vi si legge infatti che se gli interessati non si presenteranno a riscuotere
il dovuto entro i termini stabiliti, «la […] liquidazione dovrà rimandarsi ad
epoca molto lontana, non potendo questo ufficio subordinare a tali pratiche
amministrative altre più importanti attribuzioni alle quali deve attendere».
L'edificio o il terreno può rimanere occupato a tempo indeterminato e per
alcuni cittadini fu effettivamente difficile rientrare in possesso della propria
dimora anche anni dopo la fine della guerra.

Requisizioni di carri e cavalli


Naturalmente l'esercito non requisisce solo immobili e terreni. Quando i
militari requisivano carri e cavalli, all'interessato non rimaneva in mano al-
tro che un foglio di carta quale unico titolo del suo credito. Ciò dava spesso
adito ad accese controversie che obbligavano i sindaci ad intervenire presso
i diversi comandi per tutelare i loro amministrati. Accadeva a volte che il po-
tere di requisizione degenerasse in vero e proprio abuso, accendendo ancora
di più gli animi. Eloquente a tale proposito è una lettera trasmessa dal sin-
daco di Paese, Perotto, all'Ufficio provinciale del Genio Militare di Treviso.

128
«Con sommo rincrescimento – si legge – quest'amministrazione deve rendere
noto alla S.V. illustrissima che vi furono e vi sono continui reclami sul conto
dell'assistente dall'Olio per i suoi modi inurbani e prepotenti nel requisire
carri, cavalli e carrozze privati, questi ultimi per fare i propri comodi e inte-
ressi. Ringraziando anticipatamente perché sia posto fine una buona volta a
tali soprusi per evitare che i buoni e patriottici cittadini rimangano disgustati
ed inaspriti. Prima di addivenire ad una determinazione, pregasi di rivolgersi
a chi di dovere». Di fronte ai soprusi, non si può che ricorrere al Municipio.
Laddove il sindaco era stato sostituito da un commissario prefettizio, non
legato al territorio e quindi meno sensibile alle lamentele della popolazione,
le possibilità di poter far valere i propri diritti si riducevano in modo consi-
stente.

Materiali da costruzioni: la ghiaia


Con lo scoppio delle conflitto, la città di Treviso si ritrova ad essere il
maggiore nodo ferroviario militare della guerra. Attraverso il capoluogo della
Marca passano le più importanti linee che conducono al fronte: la Mestre-
Treviso-Pordenone-Casarsa-Udine e la Treviso-Motta di Livenza-San Vito al
Tagliamento. Nel solo periodo 23 maggio – fine giugno 1915, vi transitano
ben 7000 convogli diretti alle zone di combattimento. Treni che trasportano
un'intera generazione di giovani soldati. Intanto però, le strutture ferroviarie
cittadine sono divenute insufficienti. Per i lavori di ampliamento servono ma-
teriali da costruzione che devono esser reperiti in siti sufficientemente prossi-
mi al cantiere. Così, il 2 marzo 1917, Il Comando della Divisione Territoriale
Militare di Padova, autorizza l'occupazione per due anni di terreni ubicati nel
paese di Postioma «per i lavori di impianto di un binario» che dovrà colle-
gare la stazione locale, situata sulla linea Montebelluna-Treviso, ad una cava
destinata al «…riscavo di ghiaia occorrente per l'ampliamento della stazione
di Treviso Porta Cavour (Santi Quaranta)». Una nuova occasione di lavoro
per i pochi disoccupati ancora rimasti, prodotta dall'economia artificiale di
guerra. Il binario che porta alla cava corre sopra ai terreni della parrocchia,
di due privati e dell'Ospedale civile. La cava di Postioma peraltro, non sarà
la sola nel territorio di Paese, da cui verrà prelevata ghiaia per uso militare e
tanto la posa dei binari quanto l'attività estrattiva saranno punteggiati da uno
stillicidio di incidenti.

La guerra dell'acqua
Altra fondamentale risorsa per un territorio che vive di agricoltura è l'ac-
qua. La gestione dell'acqua derivata dal Piave è consorziata e i contadini del-

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le singole frazioni di ogni comune interessato possono prelevarla dai canali
di irrigazione rispettando turni fissati dai municipi in accordo con apposite
commissioni di cittadini, presenti in ogni paese. La guerra in corso somma
alle ordinarie esigenze dell'agricoltura quelle preponderanti della macchina
militare, facendo perdere al delicato meccanismo gestionale di un bene tanto
prezioso, il suo precario equilibrio. Già nel 1916, i comuni che fanno parte del
consorzio «Brentella» debbono fare i conti con questa situazione. A giugno,
il prezioso liquido viene improvvisamente a mancare nei canali irrigui. La
distribuzione procede a singhiozzo per poi interrompersi del tutto. Con la fila
dei propri amministrati che premono alle porte dei comuni, i sindaci chiedono
di sapere che cosa sta accadendo e quanto tempo sarà necessario perché le
situazione torni alla normalità. La presidenza del Brentella comunica che per
esigenze belliche, al consorzio manca ben la metà del personale normalmen-
te addetto alla manutenzione delle opere irrigue. La presidenza non ha altra
soluzione che chiedere all'esercito l'esonero temporaneo dal servizio militare
degli operai necessari. Un anno più tardi il problema è destinato a ripresentar-
si in modo ancora più grave. Nel 1917 infatti, non solo manca la mano d'opera
necessaria ai lavori lungo la rete dei canali, perché gli operai sono sotto le
armi, ma entrano in campo anche le necessità dell'esercito che, impegnato
nelle opere di fortificazione della pianura, ha bisogno di grandi quantità d'ac-
qua. Il solo modo per procurarla è quello di ridurre l'irrigazione dei campi. Da
una nota che scrive in giugno il sindaco di Paese Michele Perotto si apprende
infatti che «Per lavori urgenti del genio militare è indispensabile che l'acqua
corra tutta per il canale principale per la durata di almeno sei ore continua-
tive al mattino, togliendo tre ore all'orario [di prelievo per irrigazione n.d.r.]
di Porcellengo e tre all'orario di Sovernigo. Pregasi di attenersi strettamente
a quest'ordine altrimenti sarò costretto di sospendere l'irrigazione mediante i
RR. CC.». L'acqua serve inoltre ad alimentare gli accampamenti delle truppe
acquartierate intorno alla città. Per questo motivo l'Ufficio idrico della IV
Armata, intima al sindaco «di voler disporre un servizio di vigilanza […] ac-
ciocché nessuno senza ordine di questo ufficio, apra o chiuda, le diramazioni
del canale principale verso località che non accantonino truppe nazionali od
alleate. Prego inoltre di voler disporre che gli abitanti delle vicinanze del ca-
nale non ritardino [in alcun modo] il corso dell'acqua». Dopo i furti di legna-
me ai cantieri del campo trincerato, comincia così la guerra dell'acqua, che
vede da un parte i militari chiedere la problematica sorveglianza di chilometri
di canali e dall'altra la popolazione inferocita che cerca ogni possibile sotter-
fugio per procurarsi ciò di cui abbisogna. La crisi dell'acqua nel 1917 dunque,
non giunge inattesa. Già in maggio infatti, sulla scorta di quanto accaduto

130
l'anno precedente, la presidenza del Brentella ha messo sull'avviso i comuni
consorziati, avvertendo che a metà giugno, vi sarebbe stata «una quantità
d'acqua insufficiente». Ciò si deve al fatto che sono «state asportate tutte le
roste ultimamente costruite per alimentare i canali di derivazione». È neces-
sario quindi fabbricarne di nuove e procedere allo scavo di ulteriori canali. A
questo punto però, ecco ripresentarsi lo stesso problema già emerso nell'estate
del 1916: «per l'avvenuto richiamo sotto le armi di gran parte dei Brentel-
lieri, si renderà impossibile la costruzione delle roste e con i soli escavi si
potrà tutt'al più portare la Brentella ad un metro di altezza al ponte canale di
Onigo», cioè ben sessanta centimetri al di sotto della normale portata estiva.
Il consorzio fa quindi sapere che la realizzazione delle nuove derivazioni sarà
tutt'altro che agevole. «…Anche agli escavi, - recita la circolare trasmessa ai
sindaci - data la mancanza quasi assoluta di mano d'opera e l'impossibilità di
trovare in Pederobba e dintorni un conveniente numero di operai, sarà diffi-
cile provvedere e ad ogni modo, non potranno venire eseguiti con la necessa-
ria sollecitudine». Rispetto a quanto accaduto nel 1916, quest'anno c'è infatti
una spiacevole novità. L'esercito ha rifiutato la proroga dell'esonero concesso
al personale del Brentella addetto alla manutenzione delle opere irrigue. Il
consorzio Brentella ha presentato ricorso contro la decisione dei militari, ma
nel frattempo non può far altro che chiedere ai comuni che ne fanno parte, di
attivarsi per reperire i 150 operai necessari. Ma nessuno è in grado di trovare
gli uomini richiesti.

La guerra della legna


Ghiaia e acqua non sono però i soli materiali necessari ai cantieri militari.
Il legname è un'altra fondamentale risorsa necessaria alla realizzazione di for-
tificazioni e baracche. Durante i mesi invernali poi, il suo consumo aumenta,
poiché la legna viene impiegata anche come combustibile. Sul finire del 1917,
dopo che il disastro di Caporetto ha trasformato le campagne in un gigantesco
accampamento, ai civili il taglio di ogni pianta è stato proibito. Nonostante
ciò, nel trevigiano la disponibilità di tale materiale si sta facendo ovviamen-
te scarsa tanto che le autorità militari, per far fronte alla bisogna, iniziano
l'abbattimento del bosco della «Mesola» nel delta del Po, stabilendo che una
notevole parte del legname prodotto nel Polesine dovrà essere impiegata pro-
prio a Treviso e nei comuni della provincia. Non si tratta di forniture gratuite;
le amministrazioni che vorranno avvalersene, dovranno pagarle attingendo ai
loro asfittici bilanci. L'impiego della poca legna ancora disponibile sul terri-
torio dà quindi il via a nuove accese controversie perché i militari, nonostante
i massicci abbattimenti iniziati a ottobre nel Polesine, si sono ben guardati

131
Un carro di profughi. MCRR.
dall'interrompere le requisizioni ai danni dei privati. Ancora a fine dicembre
del '17 ad esempio, alcune tonnellate di legname vengono prelevate da terreni
privati nel paese di Castagnole. Presso la proprietà di Antonio Severino, i sol-
dati recidono 62 piante di acacia del peso medio di 25 chili l'una per un totale
di circa un tonnellata e mezza di legna. Le proteste del nuovo sindaco di Paese
Quaglia, assediato dalle lamentele dei cittadini, sono l'inevitabile conseguen-
za di una situazione difficile da gestire. Il 26 dicembre, egli scrive al comando
militare che, acquartierato a Castagnole, ha dato luogo ai tagli, una lettera dai
toni accesi. «Non sarà cosa nuova a cotesto on.le comando la conoscenza dei
danni arrecati alle proprietà di questi comunisti da soldati sia di passaggio
sia in permanenza. Tali sono rilevantissimi, specie nei legnami, pei quali oltre
che provvedere per i bisogni della difesa nazionale, si fa un vero vandalismo. E
mentre per le popolazioni borghesi un avviso del generale Graziani proibisce
il taglio della legna di qualunque specie, per i soldati è permesso qualunque
taglio, anche capriccioso, è cosa veramente deplorevole perché da una parte
si spreca e dall'altra si patisce, riducendo la popolazione al punto di non
poter farsi da mangiare per mancanza di legna. È un fatto questo veramente
deplorevole, che si estende anche sulla paglia e sul granoturco cinquantino».
Da quanto si legge, pare di capire che in quei mesi si fossero verificati episodi
di requisizioni condotte in modo arbitrario e senza rilasciare agli interessati
la documentazione prescritta per il risarcimento. «Prego perciò cotesto on.le
comando – conclude Quaglia – a voler proibire assolutamente i vandalismi e
provocare dei sopralluoghi, con preavviso, per rilevare i danni sofferti dalla
popolazione, rilasciando ai danneggiati almeno un buono dal quale risulti le
materie requisite ed il valore giusto e reale delle stesse. Confido nella solerzia
attiva e vigilante di cotesto on.le comando affinché voglia essere d'appoggio
alle popolazioni e tutelare in modo che le requisizioni vengono eseguite nelle
forme volute dalle disposizioni regolamentari non arbitrarie». Alla lettera di
Quaglia, il comando militare di Castagnole risponde negando ogni cosa. Il
sindaco viene accusato di esagerazione e di scorrettezza e di avere lanciato
accuse false, senza prima approfondire la realtà dei fatti, prestando attenzione
alle parole di «persone le quali tentano di sfruttare le condizioni attuali per
trarne illeciti lucri». Al sindaco viene ricordato che «la legna occorrente per
gli usi miliari di preleva a Treviso» e che se qualche abuso si è verificato o
si verificherà, i cittadini sono obbligati ad «impedire: il taglio di piante, per
fare legna, il prelevamento di foraggio, e di paglia senza un buono rilascia-
to dal Comando dal quale i militari di truppa appartengono». Al comune,
anzi, viene intimato di rendere noto tale obbligo ai propri amministrati «con
i mezzi reputati più acconci». I rapporti tra l'apparato militare di guerra e

134
la società civile, che prima erano complessi ed affrontati con reciproca ma
rispettosa sopportazione, ora si sono fatti improvvisamente molto tesi. Nel
frattempo è infatti intervenuto l'infausto episodio di Caporetto che ha portato
il conflitto e le esigenze feroci del campo di battaglia, sull'uscio di casa dei
trevigiani. Le difficoltà nel mantenere l'ordine e la disorganizzazione seguita
alla ritirata, con i soldati che scorrazzano senza controllo per le campagne,
furono certamente all'origine di molti episodi oscuri. Le accuse del sindaco
Quaglia possono forse essere esagerate nella forma ma certamente non sono
infondate nella sostanza. Fuori luogo al contrario - nel caso di specie - appare
la negazione di ogni responsabilità da parte dei militari, che si spinge fino al
punto di lasciar intendere che la colpa dei presunti abusi ricadrebbe sugli stes-
si abitanti del paese, che nulla avrebbero fatto per opporsi ad essi… In realtà,
quello tra militari e civili è divenuto ormai un rapporto altamente problemati-
co all'interno del quale, i primi sono visti dai secondi come un corpo estraneo
che – simile ad un parassita – si è insediato nel territorio, piantando ovunque
i propri gangli e succhiandone le energie vitali. Questo tipo di percezione è
ingigantita nel sentire comune, dalle richieste tra virgolette «inquietanti» che
i militari inviano a ciò che resta della pubblica amministrazione. In quel di-
cembre 1917, mentre è in pieno corso lo scontro sul legname e sul foraggio,
lo stesso comando di Castagnole torna a rivolgersi al municipio per conoscere
«con tutta urgenza» una serie di informazioni sulla località che lo ospita. I
militari vogliono sapere, per scopi che è facile immaginare, le «quantità di:
vino, grano, paglia, foraggio, bestiame, bestiame da macello, cavalli, muli,
asini, carri a due ed a quattro ruote, legna, pozzi, granoturco, disponibili
ora in paese, compresi i generi occorrenti per la popolazione civile…». Dal-
la risposta del comune si apprende così che a Castagnole vi sarebbero 885
abitanti. Mancherebbero invece del tutto il bestiame, il grano, la paglia, e i
foraggi…

Il razionamento del cibo


Di un vero e proprio tentativo di razionamento generalizzato delle risorse
alimentari, attuato e pianificato a livello centrale, non si può parlare fino al
marzo del 1917. È a quell'epoca infatti che il Commissariato Generale per i
Consumi emana le prime direttive sull'argomento. A Treviso, il prefetto Barde-
sono decide di introdurre il razionamento del grano e delle farine derivate, che
diviene obbligatorio il 20 settembre 1917. La nuova misura coglie però impre-
parati molti amministratori locali e ciò obbliga l'alto funzionario, su pressione
dei sindaci che lamentano «la mancanza di alcuni elementi di preparazione» a
sospendere l'efficacia del provvedimento fino al successivo 19 novembre.

135
I foraggi
Nell'aprile del 1917, la Commissione per l'incetta di bovini e foraggi del
presidio militare di Treviso ordina la precettazione del foraggio verde. Il rac-
colto di fieno della precedente stagione è stato scarso e poiché le risorse su
cui l'amministrazione militare può fare affidamento sono molto ridotte, viene
disposto che a partire dal «I° maggio siano alimentati i quadrupedi territo-
riali con foraggio verde, sia [che si tratti di] erbe primaverili, (trifoglio rosso
ecc.) che di erbe mediche appena falciate. Il provvedimento è della massima
urgenza…». La commissione chiede ai comuni di collaborare all'individua-
zione di appezzamenti di trifoglio o di erba medica di dimensioni tali da non
arrecare danno ai contadini che ne hanno bisogno per alimentare il bestiame.
Si intendono infatti requisire solo pochi ettari di foraggio in ogni comune.

La commissione per l'incetta di bovini e foraggi


L'11 marzo 1917 la Commissione per l'incetta di bovini e foraggi è a Paese,
infatti, per procedere alla requisizione dei bovini. Dalle stalle di 44 famiglie
locali vengono prelevati 46 capi di bestiame: 39 vacche, 4 buoi e 3 vitelli, per
un quantitativo totale di carne, accertato dalla commissione, pari a 182 quin-
tali. Una statistica compilata dal municipio, sempre su richiesta dei militari,
aveva accertato che a gennaio - a Paese e nelle sue frazioni - vi era un totale
di 341 bovini. Il numero totale dei capi di bestiame saliva a 370, includendo
in esso anche ovini e suini.

Il risentimento popolare
Nel comune sentire, lo Stato e le sue classi dirigenti hanno deciso la parte-
cipazione ad una guerra che ora la gente del trevigiano ritiene di essere stata
lasciata a combattere da sola, mentre chi può ne trae vantaggi. La partenza
dei contadini per il fronte, la latitanza di molti proprietari fondiari, pronti a
darsi alla fuga, e l'occupazione delle campagne da parte dei militari hanno
squilibrato il secolare rapporto che legava queste popolazioni alla terra. Tutto
ciò, unito alle asprezze della vita quotidiana, ha prodotto un clima di profonda
sfiducia nei confronti di ogni funzione pubblica, generando il risentimento dei
contadini – come aveva scritto il prefetto Vitelli – «contro i signori ed i possi-
denti ed ogni altra personalità influente». È forse per cercare di dimostrate il
contrario che, nell'ottobre del 1917, viene trasmessa ai sindaci una circolare,
a firma del prefetto, con la quale egli chiede di conoscere se nei loro comuni
siano morti in battaglia o siano rimasti feriti soldati «appartenenti a classi ab-
bienti o dirigenti». Anche la borghesia ha bisogno dei suoi eroi per dimostrare
che non sta disertando la lotta. Mancano pochi giorni al disastro di Caporetto

136
e nel momento in cui la circolare arriverà a destinazione, molti dei rappresen-
tanti della borghesia locale avranno già abbandonato la provincia.

La chiesa
Del tutto diverso è invece l'atteggiamento nei confronti della Chiesa, an-
che prima che le pubbliche amministrazioni della provincia si sgretolino sotto
la pressione degli eventi di Caporetto. Le funzioni dello Stato, disciplinate da
leggi e regolamenti, si esplicano entro limiti oltre i quali nessun funzionario
può spingersi. Il diritto a una pensione o a un sussidio si ha solo in presenza di
ben definiti requisiti in mancanza dei quali esso non sussiste. Non c'è spazio
per le mezze misure e il pietismo e a nulla vale invocare la drammaticità di
questo o quel caso. Lo Stato insomma è un meccanismo con limiti materiali e
normativi che, una volta raggiunti, lasciano il cittadino bisognoso in balia di
se stesso. Inoltre, poiché lo Stato è percepito come una macchina che si ali-
menta con le risorse della collettività, esso deve fare ciò per cui esiste, senza
che nessuna particolare gratitudine gli sia dovuta. La Chiesa invece vive per
occuparsi di questioni spirituali e apparentemente non sarebbe tenuta a farsi
carico dei problemi materiali del popolo. Proprio in questo sta la sua forza.
Le frequenti incursioni che, durante il periodo bellico, essa compie in affari
di natura temporale, fino quasi a sostituirsi alla pubblica amministrazione, le
fanno acquisire un credito enorme che potrà spendere tanto in città quanto
nelle campagne della provincia. La sua porta è sempre aperta per chiunque
e ognuno ha diritto a una parola di conforto. Nell'aiuto che presta, essa pare
in grado di superare i limiti umani, di risorse e di legge che frenano l'azione
dello Stato. Ma soprattutto, la Chiesa offre ciò che ha da dare senza nulla
pretendere in cambio. Non ci sono tasse da sborsare o servizi da prestare.
Nell'assistere le famiglie dei trevigiani al fronte non va dunque dimenticata
l'attività dell'Ufficio Cattolico del Lavoro che si sviluppa in parallelo a quella
delle pubbliche amministrazioni, fin quasi a sostituirla. Il Comune e l'Ufficio
Cattolico del Lavoro finiscono coll'essere visti come soggetti che operano su
un piano di parità e portatori di funzioni intercambiabili. Ciò è testimoniato
ad esempio dal fatto che spesso i popolani, quando chiedono un sussidio o
una pensione si rivolgono a queste due in contemporanea, presentando le me-
desime istanze e credendo probabilmente che questo aumenti le chances che
la propria pratica vada a buon fine.

Il comune
Gli uffici comunali – come abbiamo visto – sono spesso l'unica istanza a
cui un cittadino può appellarsi contro i soprusi dei militari, ma sono anche la

137
prima risorsa sul territorio cui chiedere aiuti, informazioni e l'avvio di molte
pratiche. Anche dopo Caporetto, pur se a mezzo servizio e magari commissa-
riati, essi continuano a funzionare. È attraverso gli uffici dei comuni che chi
aspira ad un posto nei cantieri militari dove passare per ottenere il lavoro ed è
sempre a questi che ci si deve rivolgere per avere tutela in caso di controversia
nel pagamento di quanto dovuto da parte dell'esercito. Il passaggio in comune
è necessario anche a chi voglia ottenere il sussidio in denaro che spetta alle fa-
miglie dei richiamati. Tale sussidio infatti non viene concesso a chiunque ma
solo a chi dimostri condizioni di bisogno estreme, mediante certificazioni che
solo la pubblica amministrazione locale può rilasciare. Il municipio è inoltre
l'autorità territoriale cui viene trasmessa la comunicazione del decesso di un
militare e alla quale spetta di informare i parenti. Spesso, in tale compito, il
sindaco si avvale però dell'aiuto dei sacerdoti del territorio. Non è infrequente
infatti, trovare sulle comunicazioni di morte in arrivo dall'esercito, note ma-
noscritte con cui il primo cittadino segnala di aver partecipato della dolorosa
notizia il prete del paese presso il quale il soldato defunto abitava. Il comune
è spesso anche la sola fonte di informazioni sulla sorte di militari e civili di
cui si sono perse le tracce. È però nei rapporti tendenti ad ottenere particolari
concessioni dall'esercito, che l'apporto dell'amministrazione comunale diven-
ta fondamentale. Licenze, esoneri, pensioni, sussidi e avvicinamenti a casa,
rientrano ormai fra le pratiche di routine che il sindaco si trova a dover gestire
quasi quotidianamente. A lui i parenti si rivolgono perché contatti i diversi
comandi miliari di appartenenza dei propri congiunti, sollecitando la conces-
sione di permessi che consentano loro di rientrare a casa. È la richiesta più
comune, quasi sempre motivata con la necessità di dover sbrigare importanti
affari personali, legati a successioni ereditarie, malattia o morte di membri
del gruppo familiare e compravendite di terreni. Legato al lavoro della terra
è anche lo spinoso problema delle licenze agricole che, con l'inasprirsi del
conflitto verranno concesse con sempre minore generosità. Se la vede infat-
ti negare Abramo N., che nel marzo del 1917 si rivolge al sindaco Quaglia
proclamandosi «inabile alle fatiche di guerra» e sottolineando come «le at-
tuali condizioni della famiglia reclamano la mia presenza per poter meglio
provvedere alla produzione dei campi». La norma è però molto restrittiva e
concede tali permessi solo a chi non abbia alcun parente di età compresa fra i
16 e i 65 anni che possa coltivare la terra in questione. Purtroppo per Abramo
N., la legge considera «famiglia colonica non solo i parenti diretti ma; tutti
quelli che lavorano insieme gli stessi fondi. Nella casa vostra invece – gli
scrive il sindaco Quaglia al momento di respingere la sua domanda – esistono
uomini validi tra i 16 e i 65 anni che lavorano gli stessi poderi». Altra istanza

138
frequentemente presentata era quella tesa ad ottenere il cosiddetto avvicina-
mento ad un reparto più prossimo alla casa natia, che avrebbe consentito di
allontanarsi da ogni rischio. Riteneva di avervi diritto anche Domenico M. di
Postioma che, dopo quindici mesi trascorsi al fronte e «passati in zona dope-
razione», chiede al sindaco di poter usufruire dei benefici previsti – da una
circolare del Ministero della Guerra – che sembra accordare ai padri di quattro
figli il trasferimento ad una località vicina al paese di origine. Per averlo egli
invoca le condizioni «non troppo floride, anzi miserrime della famiglia» ed il
fatto che «altri militari suoi compagni anno potuto ottenere diessere mandati
coladimanda al proprio distretto». Come apprenderà a sue spese, Domenico
M. non ha diritto a tale beneficio. Egli è infatti nato nel 1880 mentre l'avvici-
namento è riservato solo ai padri di quattro figli appartenenti alle classi 1876,
1877 e 1878, oppure ai padri di 4 figli «riconosciuti permanentemente ina-
bili alle fatiche di guerra». «Dunque, - gli scrive il sindaco Perotto - voi che
siete della classe 1880, non avete diritto al suddetto trasferimento, a meno
che non siate riconosciuto permanentemente inabile alle fatiche di guerra».
Particolarmente ambito era infine l'esonero dal servizio di prima linea che
un'altra circolare del Ministero della Guerra accordava a chi avesse avuto, per
esempio, due fratelli morti in guerra. È la condizione in cui si trova Giovanni
Z., il terzo di cinque figli, due dei quali già caduti in battaglia, Cesare, il 23
maggio 1917, col 59 fanteria e Pietro, il 4 settembre 1917, col 213 fanteria.
Anche la sua domanda viene però respinta. Giovanni Z. si è infatti sposato
e, secondo una più stretta interpretazione della norma, costituisce ormai una
famiglia a sé.

139
Donne al lavoro per realizzare trincee. MCRR.

Donne al lavoro per realizzare trincee. MCRR.


Donne al lavoro per realizzare trincee. MCRR.

Donne al lavoro per realizzare trincee. MCRR.


Arditi. MCRR
RACCONTI DELL'INVASIONE 1917-1918 1
Benito Buosi

Erano nove anni che gli Achei assediavano Troia:


spesso avevano bisogno di viveri o animali o donne,
e allora lasciavano l'assedio e andavano a procurarsi
quel che volevano saccheggiando le città vicine.

Alessandro Baricco, Omero, Iliade.

«Arrivederci, signori, tra cinque giorni o a primavera»


Nei giorni della rotta ci sarà stato qualcuno ansioso di leggere per sapere
cosa stava succedendo? E disposto a crederci sul serio? Dalle parti di Udine
no, di sicuro. Bastava guardarsi attorno per capire. Ma di qua del Livenza,
1 Hanno dato voce al titolo soprattutto le donne e gli uomini che hanno scritto i diari elencati in appendice. Tra le
memorie sull'invasione nel trevigiano, questi tredici testi sono stati preferiti ad altri perché presentano una sincronia
tra eventi e narrazione che dona loro una più affidabile genuinità. Questa simultaneità che si ripete ogni giorno,
questo scrivere in diretta (o quasi) li hanno protetti dagli aggiustamenti o dalle manipolazioni che i ricordi subi-
scono inevitabilmente nel tempo, per innocente fisiologia o per convenienza. I diari postumi hanno patito invece
l'esposizione al 'dopo'. Non hanno potuto sottrarsi all'epica che accompagna ogni guerra vittoriosa e portano i segni
di giudizi maturati nel clima infuocato del dopoguerra e delle successive svolte politiche e istituzionali. Queste scrit-
ture private invece, compilate senza forzature trionfalistiche e soprattutto senza mire editoriali, hanno fatto cogliere
meglio la verità del momento, la verità delle opinioni prima ancora che la verità degli avvenimenti. I tredici testi-
moni oculari sono stati interrogati in primo luogo sulla disposizione mentale con cui hanno vissuto gli eventi nella
loro prossimità. Per questo il sincronismo delle loro 'deposizioni' ha meritato l'ascolto più attento. In fondo, sui fatti
nudi e crudi, le notizie non sono mai mancate, anche se non hanno avuto un'ampia circolazione. Basti considerare
quella corposa fonte ufficiale costituita dagli atti della Commissione d'Inchiesta Mortara, nominata con insolita (e
interessata) sollecitudine dal governo Orlando fin dalla settimana seguente la firma dell'armistizio (D.L.15 novembre
1918, n.1711); atti prontamente pubblicati l'anno dopo, in sei volumi. Con giusta enfasi, una studiosa della Shoa
come Annette Wieviorka annuncia ora, per quella tragedia europea, l'avvento di una 'era del testimone' (è il titolo di
un suo libro di qualche anno fa). Si dovrebbe poterlo dire ancora anche per la Grande Guerra, che fin troppo a lungo
ha parlato solo con la voce delle armi. È vero che l'impresa pionieristica di Rovereto ha già più di vent'anni, ma la
cura di raccogliere fonti popolari dovrebbe continuare senza sosta, per continuar a dare spazio alla soggettività delle
esperienze di uomini e donne, almeno finché la sorgente non darà segni di esaurimento. Mentre i testimoni soprav-
vissuti ai lager hanno l'ansiosa ambizione di dare in extremis un contributo personale alla storia della tragedia ebrai-
ca, i nostri tredici testimoni, ormai scomparsi, non avevano pretese del genere quando scrivevano appartati nella loro
insidiata intimità. Siamo noi posteri che usiamo le loro annotazioni per scrutarne gli umori, le reazioni, le opinioni
e i pregiudizi còlti in un momento di svolta drammatica della guerra, quando la doppia sciagura sofferta dai civili,
tra sconfitta e invasione, ha scompaginato abitudini e affetti, attese e convinzioni. Non traggano in dubbio certe date
di pubblicazione, alcune anche molto lontane dal tempo della guerra, con titoli quasi sempre editoriali. Ciò semmai
dimostra l'inesausta attenzione con cui ricercatori ed editori locali corrispondono, con i toni della storia sociale,
all'interesse popolare che la Grande Guerra continua a riscuotere nei paesi dei territori invasi. Il ristretto numero dei
diari non può dar loro alcun valore di campione rappresentativo. Non c'era d'altronde intenzione di costruirne uno
su queste basi. Semmai, se si considera che operai e contadini (cioè la stragrande maggioranza della popolazione di
allora) non usavano affidare alla penna i propri affanni, si potrà almeno concludere che i diari considerati sono un
prodotto tipologicamente significativo degli ambienti sociali che hanno confidenza con la scrittura: donne di buona
famiglia, insegnanti, possidenti, uomini di chiesa. La selezione effettuata rispetta casualmente la copertura geogra-
fica delle terre invase, anche se con squilibrata distribuzione. Gli autori dei diari vivono e scrivono dislocati in punti
di osservazione diversi e lontani tra loro sul territorio della Sinistra Piave: due nell'opitergino, quattro a Conegliano
e dintorni, due a Vittorio, tre sulle colline del pedemonte, due in transito forzato tra Valdobbiadene e il vittoriese.
(Per non intralciare troppo la lettura, le citazioni dai tredici diari portano tra parentesi solo il nome dell'autore e il
numero di pagina).
143
finché non cominciarono ad arrivare i primi profughi, chi aveva pratica di
lettura sperava di trovare sui giornali quelle buone notizie che potessero
confortarlo a restare.
E il Gazzettino cercava in qualche modo di compierla questa missione di
dare fiducia. Per provare a rincuorare i suoi lettori doveva però abbondare con
le notizie che venivano da lontano. I tedeschi «le pigliano di santa ragione in
Francia e in Belgio: come potranno durare a lungo?». Gli americani stanno
preparandosi a scendere in campo. Lo sforzo austro-ungarico di questi giorni
non potrà salvare «dalla finale rovina gli imperi barbarici».2
Venerdì 2 novembre, Giorno dei Morti, Cadorna ha annunciato il
ripiegamento sul Tagliamento ma il giornale assicura prontamente che da qui
«si preparerà la rivincita».
Nell'atroce dubbio che neppure al Tagliamento si riesca a tenere, i Brustolon
hanno deciso di partire. Da sabato sera, dopo aver sotterrato la biancheria,
hanno pronte le valigie. Purtroppo Pietro, il vecchio padre ammalato, è
tormentato dalla febbre e non riesce a lasciare il letto.
Il camion non può perdere l'ultimo appuntamento al ponte della Priula e
martedì 6 novembre parte caricando solo gli Albrizzio, lasciando i Brustolon
angosciati nella loro casa, a Vittorio (non ancora Veneto). La casa si trova a
pochi passi dall'Aquila Nera,3 l'albergo di fronte a piazza Salsa che la famiglia
aveva gestito e abitato fino a pochi anni prima, e che ora si chiama Stella
d'oro.
Da venerdì 2, la trentenne figlia Bianca comincia a tenere un diario, per
corrispondere idealmente con fratello, sorella e nipoti, già partiti da qualche
giorno. Le servirà da pro-memoria per poter raccontare meglio, quando si
ritroveranno in famiglia, sani e salvi. «Queste mie memorie le tengo sempre
come corazza al petto; dove potrei nasconderle per essere certa che nessuno
me le rapisca?». (Brustolon, 122). È fiduciosa che a Natale sarà tutto finito.
La festa della Natività le porta nuovi simboli salvifici, come giorno di duplice
liberazione. Non andrà così. E scrivere ogni giorno diventerà a volte un peso
insostenibile.

2 In questo delicato periodo, il giornale veneziano rinuncia alle notizie fresche che può inviare il suo corrispon-
dente dal fronte E.M.Baroni e preferisce attingere commenti dai più autorevoli quotidiani nazionali. Le notizie dalla
prima linea le dà, in accorta sintesi, soltanto il bollettino ufficiale del Comando Supremo, pubblicato ogni giorno in
apertura di prima pagina. Grazie alla guerra Il Gazzettino, il più interventista tra i giornali veneti, aveva quintuplicato
la sua normale tiratura di trentamila copie. M.DE MARCO, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia, Marsilio,
1976, p.43.
3 L'insegna, mutuata dalla tradizione alberghiera tedesca, è scesa lungo la secolare strada di Alemagna di cui Serra-
valle e Ceneda hanno sempre costituito una tappa di primaria importanza. Il nome torna curiosamente attuale proprio
nei giorni che affliggono i Brustolon. Il 1° novembre 1917 Otto von Below, generale in capo della XIV Armata,
artefice dello sfondamento di Caporetto, viene insignito del titolo di Cavaliere dell'Ordine Supremo dell'Aquila Nera
di Prussia.

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A Valdobbiadene, in casa del notaio Renato Arrigoni, c'è ancora qualche
incertezza. La baraonda di quei giorni, con le strade intasate dai profughi
friulani, non trattiene l'anziano notaio dalla decisione di recarsi direttamente
a Treviso per avere notizie più precise dall'amico e compaesano comm.
Giovanni Dalla Favera che, come presidente della Deputazione Provinciale,
è una fonte sicura.
Arrigoni passa quasi tutta la giornata di mercoledì 7 novembre tra code e
ritardi, prima sul tram per Montebelluna e poi sul treno per Treviso. Infine
riceve dall'amico rassicurazioni decisive: lui stesso ha lasciato la moglie a
casa, a Valdobbiadene. La posizione del paese, così defilata, è una garanzia di
sicurezza.1 L'autorevole presidente gli raccomanda di dare esempio di calma
e compostezza. Gli affida, anzi, un manifesto da affiggere a Valdobbiadene. È
un appello, che porta la sua firma, per esortare la cittadinanza alla tranquillità
e alla fiducia.
Infatti, l'indomani, dopo la chiusura di banca, telegrafo e ufficio postale,
tocca al 56°Fanteria e ai Carabinieri lasciare il paese. Perfino «i buoni
affezionati domestici» preferiscono mettersi in salvo.
Il commiato del capitano del 7° bersaglieri, alloggiato in casa Arrigoni, è
abbastanza ottimista: «Arrivederci, signori, tra cinque giorni o a primavera».
(Arrigoni, 21).
Dal 31 ottobre, dopo che la cognata Pierina e le tre nipotine sono partite
per Milano, Caterina Arrigoni tiene un diario, scritto sui fogli protocollo che
il padre usa in ufficio, rivolgendosi direttamente a Pierina, come anticipando
quel racconto quotidiano che vorrebbe confidarle a quattr'occhi, quando si
ritroveranno assieme. La sera papà Renato ribatte in bella sull'Underwood
dello studio.2 Nel '18, alla vigilia di Pasqua: «Ho riletto quest'oggi, una gran
parte di questo eterno, monotono diario, Pierina mia. M'accorgo che esso non
dà nemmeno a me, che l'ho vissuto e scritto, una pallida idea della realtà».
Ma continuerà e non se ne pentirà. Mercoledì 30 ottobre: «Giunta a casa corro
al nascondiglio dove tenni celato per tanti mesi questi manoscritti. Il primo
volume, nascosto nel doppio fondo di un vaso da fiori bellamente esposto in
mezzo a tanti altri, ha sofferto per le infiltrazioni d'acqua; è però leggibile.

1 Non è chiaro il senso di questa rassicurazione, se è vero che il Piave dovrà essere sul serio l'estrema linea di
resistenza. Chi vive in collina potrebbe essere risparmiato solo in una immaginaria rievocazione di quelle antiche in-
vasioni di passaggio, che scorrevano in pianura lungo la storica via Ongaresca, che porta dritta al passo di Lovadina.
Tant'è che la moglie di Dalla Favera (che ha già perso un figlio al fronte), sorpresa a Valdobbiadene dall'arrivo degli
invasori, rimarrà separata dal marito fino alla fine della guerra.
2 La famiglia Arrigoni si ricorda per varie ascendenze illustri. Il nonno omonimo era stato, in anni napoleonici, di-
rettore del «Monitor di Treviso» (unico giornale del dipartimento del Tagliamento), intraprendendo anche una buona
carriera nella pubblica amministrazione, continuata in epoca austriaca, quando viene insignito della Corona di Ferro.
Sembra che il prozio Arrigo sia stato autore della prima traduzione italiana del codice napoleonico. R.BINOTTO, Per-
sonaggi illustri della Marca Trevigiana, Treviso, Fondazione Cassamarca, 1996, p. 23.
145
Invece i quadernetti della seconda parte, nascosti nel tetto di un capanno
verde, sono in condizioni perfettissime». (Arrigoni, 120, 221).
Anche Giambattista Pivetta abita a Valdobbiadene, a pochi passi dagli
Arrigoni. Agiato possidente terriero, presidente della Congregazione di Carità
e giudice conciliatore, con i suoi 56 anni si trova appena entro i limiti d'età
richiesti dall'ultimo appello di Cadorna che convoca tutti gli uomini validi a
Susegana per martedì 6, non si capisce bene a quale scopo.
La confusione è tale che la mobilitazione riesce solo in parte. I primi arrivati
vengono fatti andare oltre Piave, gli altri, forse la maggioranza, tornano a
casa. A casa torna anche Pivetta, non si sa se più sollevato per l'esonero o più
deluso per la frustrazione dello zelo con il quale era partito a piedi, alle tre di
notte, per non mancare alla chiamata.
Possiamo conoscere le successive traversie di questa famiglia grazie
alla disciplinata costanza della figlia Maria Egizia. Ha nove anni, dovrebbe
frequentare la quarta elementare, ma le scuole sono chiuse e la madre
saggiamente la terrà in esercizio facendole scrivere il racconto della loro
vita raminga. Quanto ci sarà della piccola, nella genuinità delle sue precoci
emozioni, e quanto del 'dettato' dell'apprensiva mamma Filomena?

«Voci diverse, orribili, demoralizzanti in Città, che vengono i bulgari, i


turchi, uccidono, violano ragazze, infilzano bambini ecc. ecc.». Invece, al
primo contatto con gli invasori, a Vittorio si sentono sollevati da un incubo.
«8 novembre: giovedì. […] Ore 11 i tedeschi entrano in Vittorio!!! […] Gli
invasori sono Ungheresi, czechi in grandissimo numero; sono anche begli
uomini, bei giovanotti, cortesi, che ci salutano e sorridono. Io scambio qualche
parola in tedesco con qualcheduno – Osservo che molti sono addirittura
ragazzi, visi proprio infantili». (Di Ceva, 16-17). A Valdobbiadene:

Il giorno 10 novembre 1917 alle ore dieci, dalla strada di San Pietro di Barbozza, cominciarono ad
arrivare a Valdobbiadene le prime avanguardie tedesche.[…] Dapprima li guardavamo passare mezzi
nascosti, dietro le persiane, ma poi facendoci più arditi finimmo coll'andare sull'uscio di casa per vederli
meglio. Qualcuno di loro ci guardava e salutava, e mi ricordo che un tale ridendo, mandò un bacio sulla
punta delle dita all'Adelia (la nostra ragazza di servizio). (Pivetta, 2).

Nella stessa mattinata:

Vedo un gruppetto che tenta di aprire la farmacia. Lo raggiungo. Sono due medici austriaci che
vogliono disinfettanti, oggetti di medicazione, iniezioni di canfora e di morfina. Hanno modi cortesi
ed accettano la limitata quantità di medicinali che offro loro, dichiarando che il resto m'occorre per

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la popolazione. […] Mi chiede se sono contenta. Faccio un segno di desolata rassegnazione ed egli
tristemente esclama: Madame c'est la guerre! Quindi stende un buono degli oggetti ricevuti, constatando
con un indefinibile sorriso ironico la partenza dei medici, dei farmacisti e degli uomini validi, che
hanno lasciato indietro le donne. Egli servirà la popolazione ammalata, se è necessario anche di notte.
(Arrigoni, 21-22).

L'8 novembre a Motta è andata diversamente. L'abbattimento dei ponti sul


Livenza e sul Monticano e la distruzione dei magazzini alimentari («Duemila
quintali di frumento del Governo –offerto dapprima a chi lo volesse – furono
gettati nella Livenza») hanno scatenato la rabbia degli invasori affamati «in
maggioranza slavi». «Ad alcuni ufficiali feci garbatamente lagnanza che i
loro soldati si lasciano andare alla rapina e alla violenza. «Est bellum!» mi
rispose un primo tenente che si qualificò per professore di latino a Vienna».
(Ciganotto, 15, 19).
Il giorno dopo, 9 novembre, viene occupata Conegliano e i 'tedeschi'
vanno subito a caccia di cibo. «Un soldato boemo assicura che al momento
della breccia di Tolmino, le loro truppe erano agli estremi di viveri». (Della
Barba, 54). Prendono fuoco – non si capisce perché – i due alberghi della
città, il Leon d'Oro e il Posta. Le fiamme del Posta investono anche la vicina
canonica di S.Rocco.
«I primi ad entrare a Colbertaldo furono i germanici, anzi, dirò meglio, la
feccia dei germanici, giacché si seppe positivamente che quelle compagnie
d'assalto e della morte, erano state formate quasi esclusivamente con degli
elementi della peggior specie, ladri, assassini, gente da galera, capaci di
qualsiasi misfatto».3
Ma anche a Vittorio e a Valdobbiadene le prime buone impressioni,
travisamenti della speranza, svaniscono presto, cancellate dal comportamento
delle truppe che, a differenza delle prime dirette al Piave, si fermano per
acquartierarsi in paese.
L'inaspettata impresa di attraversare il Friuli in due settimane incontrando
scarsa resistenza e raggiungendo posizioni tanto avanzate e fuori programma,
ha acceso negli increduli conquistatori un'euforia e una baldanza senza misura.
Poi, questo repentino spostamento del fronte di cento chilometri ha messo in
difficoltà i collegamenti, su un terreno reso disagevole dalle piogge continue
e su una rete viaria intasata da mezzi militari e civili in fuga.
La balda sicurezza di avere Venezia e Milano a portata di mano sfrena ogni

3 Così G. SIMONATO, Una pagina di storia dell'invasione Austro-Germanica, Vittorio, Longo e Zoppelli, 1920. Il
settimanale Il Gazzettino Illustrato ne ripubblicò il testo in 12 puntate, dal 16 maggio al 28 agosto 1921, con il titolo
Gli orrori dell'invasione tedesca narrati dal rev. Giovanni Simonato dei padri Camilliani, già parroco di Colbertal-
do, testimonio oculare. Il brano citato è tratto dal n. 3 del 30 maggio-6 giugno 1921.
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licenza. Aie, stie, porcili, stalle e cantine diventano i nuovi e più immediati
obiettivi strategici delle truppe di Below e di Boroevic. Insomma, come
sempre, gli eserciti di occupazione provvedono senza scrupoli a vettovagliarsi
in loco.
Del resto, dopo la rotta, è toccato anche ai nostri di farlo, durante il tragitto
di «ripiegamento». Stato di necessità e «allegria di naufragi». Sfuggiti alle
tremende sofferenze della trincea e ai massacri degli assalti allo scoperto, i
vinti scoprono l'enorme sollievo di perdere la guerra per vincere la pace.4
Così, anche la loro improvvisa e inaspettata liberazione dalle regole della
disciplina si nutre a spese dei civili. I quali si trovano ad abitare come in
un'altra terra di nessuno, una zona franca esente dalle regole che governano la
vita in caserma e al fronte.
La licenza poi si può travestire di alibi pertinenti: «prendiamo noi prima
che prendano i nemici che stanno per arrivare». Un astuto atto di sabotaggio
a danno dell'invasore che incalza più che una vigliacca offesa ai beni inermi
dei friulani in fuga.
Guarda con occhio indulgente e comprensivo il capitano Attilio Frescura,
mentre si trova a Tarcento il 28 ottobre:

I soldati, inzuppati d'acqua, affamati scorati abbrutiti girano per le case da cui la gente scappa, e
saccheggiano. Ne passano alcuni trascinando un maialetto che strilla, o una vacca muggente, o una
capra stupida e ostinata, o carichi di salami inverosimili, o di formaggi con dei sigari che escono dalle
tasche gonfie della più strana preda. Qualcuno ha un ombrello, qualche altro ha indossato un pastrano
da borghese, sull'abito bagnato. Uno, buffissimo, s'è messo un cappello duro e, sopra il suo bravo
numero, come i coscritti. E canta, ubriaco:
Cadorna può cantar l'addio mia bella addio
la pace separata la voglio fare io!
bim, bum, bon
al rombo del cannon!» .5

Duri altri commenti di ufficiali sorpresi ad assistere a questi atti di teppismo


dei loro soldati. Ma alla fine, si può anche chiudere un occhio. Valentino Coda,

4 Di recente è venuto un riconoscimento inatteso alle ragioni che possono spiegare Caporetto, per quanto fossero
provate le nostre truppe dopo 29 mesi di guerra. Merita citarlo per la fonte da cui proviene, data la scarsa considera-
zione solitamente dimostrata da parte inglese verso l'impegno italiano nel conflitto. «La media di un'offensiva ogni
tre mesi, tra il maggio 1915 e l'agosto del 1917, fu più alta di quella richiesta agli eserciti britannico e francese sul
fronte occidentale, e le conseguenze furono più logoranti; il fuoco di artiglieria sul terreno roccioso, causò il 70%
di perdite in più per ogni colpo sparato su terreno più facile della Francia o del Belgio». J.KEEGAN, La prima guerra
mondiale, Roma, Carocci, 2000, p. 390.
5 A. FRESCURA, Diario di un imboscato, Milano, Mursia, 1999, p.264.
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ufficiale di brigata della II Armata., in ritirata tra Palmanova e Codroipo il 30
ottobre:

Gruppi di soldati dispersi si danno al saccheggio; vuotano gli zaini e i tascapani per impinzarsi di
sigarette, di scatole di carne, di biancheria, di tutto quello che stuzzica la loro avidità semicosciente. In
questi uomini curvi sino a ieri sotto il giogo della disciplina, docili, fedeli, pronti al sacrificio, il bruto
comincia a svegliarsi; e le nostre intimazioni non basterebbero a far cessare l'invereconda cuccagna se
non fossero suffragate da una scarica di nervate sulle spalle dei riottosi. Ingrossi piuttosto il bottino degli
austriaci! Noi non possiamo vedere i nostri soldati abbassarsi al livello di predoni. Come è vero che tutte
le cose umane sono relative! Pochi chilometri più oltre ci fermiamo per raccogliere dei sacchi di caffè
sventrati che versano nel fango il loro prezioso contenuto. La tentazione è troppo forte, e facciamo una
eccezione alla regola; ne facciamo una seconda in favore di una bella macchina da scrivere, che il mio
dattilografo scopre con un grido di gioia in un fosso. Preso l'aire, a tutti verrebbe la fregola di prendere,
ma lo spazio a bordo essendo limitato, risolviamo di imbarcare solamente un centinaio di scatole di
carne conservata, che aiuteranno a risolvere per qualche giorno l'arduo problema della mensa.6

E per liberarsi di una refurtiva troppo ingombrante, si può anche improvvisare


un piccolo commercio volante per monetizzare in fretta. «Un gruppo di tre o
quattro soldati m'offerse in vendita una forma di formaggio».7
A Motta, giunti ormai a pochi chilometri dal Piave, «I nostri man mano
che passano e sgombrano, caricano su autocarri e asportano quanto più
possono e quanto di meglio trovano nelle botteghe e nei magazzini dei grandi
commercianti fuggiti e nelle case private abbandonate. Ciò che è loro inutile o
che non possono portar seco, lo gettano sulle strade invitando il popolo rimasto
ad approfittarne, «ché domani, dicono, verranno i tedeschi e si porteranno via
tutto»». (Ciganotto, 15).
Il caos fa perdere la testa a tutti, tutti impegnati in una gara frenetica di
accaparramento insensato. Rimpinzarsi è un atto euforizzante. Quando si
stappa un'effervescenza dimenticata, gli effetti diventano irrefrenabili.
Si noti la serena naturalezza con cui viene ricordato un esproprio
«amico».

Nei pressi di Conegliano, riprendiamo lo stradone, e prima di sera, facciamo tappa alle prime case
della cittadina. Quasi tutte le case e le varie villette sono abbandonate. Con altri colleghi, prendiamo
possesso d'una grande villa, circondata da un vasto parco. Tutto è in ordine, e a noi, non resta che
prendere possesso dei morbidi letti; il Colonnello alloggia in una stanzetta che, dalla toilette, doveva

6 V. CODA, Dalla Bainsizza al Piave all'indomani di Caporetto, Milano, Sonzogno, 1919, pp.74-75.
7 A. BARADEL, Nei solchi dell'odio, Treviso, Cassamarca, 1988, p.13. L'autore è di Cessalto e l'episodio ricordato
risale a quando era diciassettenne ricevitore daziario a Forgaria, paese che si trova presso il ponte di Cornino, dove
un reparto bosniaco attraversò per primo il Tagliamento, nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1917.
149
La piazza di Valdobbiadene. ISTRIT.
Comando improvvisato sotto un ponte. ISTRIT.
essere quella d'una figlia del proprietario. In un grande garage, vi è un'auto Fiat, e due carrozze; l'auto
non ha benzina, altrimenti l'avremmo portata con noi. Nello scantinato vi sono numerose bottiglie di
vino,e vari quintali di mele, che al mattino distribuiamo ai soldati. Non ci par vero d'aver dormito in un
letto. Ci allontaniamo al mattino, col cruccio di lasciare tanta bella roba agli austriaci .

Chi scrive è un bresciano, aspirante ufficiale, della mitica classe 1899. Non
ha dalla sua neppure le ragioni dell'umano risarcimento di chi è appena uscito
dalle trincee. Non ha ancora avuto il tempo di sparare un colpo.8
Dopo che i nostri in ritirata sono passati oltre il Piave, tocca ai civili fare
altrettanto prima che arrivi il nemico. In quelle poche ore sospese nell'ansia,
tra l'ultimo passaggio dei nostri e l'arrivo dei conquistatori, si scatena un
frettoloso e silenzioso attivismo furtivo dei 'borghesi', come vengono chiamati
dai diaristi i concittadini che approfittano della pausa per far man bassa nelle
case abbandonate da chi si è messo in salvo oltre Piave.
È un movimento che si svolge di giorno e di notte, soprattutto in città.
Vittorio, mercoledì 7 novembre: «Cominciò il saccheggio per parte dei
borghesi, poveri negozi, meglio sarebbe stato che i proprietari non fossero
allontanati da qui; la notte la fanno giorno poiché è continuamente passaggio,
e per noi è un continuo tremolio credendo siano già i nemici». (Brustolon,
17). Non lontano, lo stesso giorno, «Io discendo ore 6.30 dal Castello e vedo
donne, fanciulle con carrette, cesti colmi d'ogni ben-di-dio; di notte hanno
sfondato negozio Bosetto ecc…, quindi il saccheggio è generale. Infamie
senza nome! A Serravalle si è fatto ancora di peggio». «Ho visto uscire dal
palazzo Luccheschi di Serravalle donne e fanciulli con mobili rubati!!». (Di
Ceva, 16, 71). «In via Re Umberto scorsi una gran folla vociante di fronte al
negozio Borsetto. Non sapendo cosa stesse succedendo mi avvicinai e notai
con stupore che le porte del negozio erano state abbattute, e che la gente
usciva con le braccia cariche di bottiglie e di dolciumi. Per la gran ressa, le
bottiglie cadevano spesso di mano a coloro che se n'erano impossessati, e si
rompevano sul selciato».9 Idem a Conegliano, sempre il 7 novembre.
8 E.A.ROSA, Un anno con l'Armata del Grappa, Brescia, Tip.Apollonio, 1982, pp.36-37. Lo stato di guerra nor-
malizza la prepotenza anche nell'Italia libera. Numerosi casi di appropriazioni indebite da parte di soldati italiani
e inglesi (oggetto anche di proteste scritte da parte delle vittime) si trovano segnalati, per esempio, nel diario di
A. DAL COLLE, cappellano a Montebelluna, Diario di Guerra durante l'Offensiva sul Piave, a cura di P.ASOLAN e
G.GALZIGNATO, Cornuda, Antiga, 1997. Sul punto anche B. BUOSI, Dietro le linee del Grappa e del Montello, in
AA.VV., Il fronte della Marca Trevigiana, Treviso, Istrit e Provincia di Treviso, 2008, pp.97-100. Invece, scendendo
lungo il Piave, troviamo, dalle parti di Fagarè, un Adolfo Omodeo occupato a rimettere in sesto una postazione d'ar-
tiglieria. Scriveva alla moglie il 17 novembre '17: «Buona gente i veneti, a differenza dei friulani. Anche in questi
momenti difficili serbano una serenità meravigliosa e una grande cordialità verso i soldati, che pure non sono troppo
riguardosi, e si considerano un po' padroni del territorio. Dell'ospitalità di questa povera gente serberò sempre un
ricordo commosso». A. OMODEO, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi, 1963, p.236. E anche secondo Mario Isnenghi
questi episodi non avrebbero lasciato tracce sgradevoli nella memoria collettiva.
9 I. TOMASIN, L'anno di Vittorio Veneto. 1917-1918, Cittadella, Rebellato, 1966, p.24. Sulla prima pagina del ma-
noscritto si legge: «Isidoro Tomasin barbiere. Un anno di vita sotto il dominio austro-germanico. La prima versione

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Comincia il saccheggio in città, ove affluiscono, a frotte, contadini dai dintorni, specie donne. La
popolazione cittadina, in gran parte, emula l'azione delle campagne. Il movimento si protrae fin nella
notte. Non c'è più ombra di agenti che sorveglino e tutelino. Siamo in piena anarchia. […] C'è per l'aria
un movimento morboso, che fa sparire ogni ombra di pudore. […] Si vedono donne, ferme davanti a
qualche negozio, che stimolano i passanti, anche soldati, ad abbatterne le porte. […] Nella pazza fretta
del compito, si veggono per le strade, dispersi, oggetti di salmeria ed altro, come pezzi di lardo, di
formaggio, ecc. Si vedono portar via tessuti di ogni specie, qualche materasso, coperte di lana, ed altri
oggetti molti. […] Don Sebastiano Dall'Anese, si affanna a spogliare le donne di tutto quanto stanno
portando via. (Della Barba, 4-5).

A Valdobbiadene, anche dopo l'arrivo degli invasori:

Continua il saccheggio delle case private e dei negozi, non solo di commestibili ma di tutti i generi.
È un saccheggio organizzato metodicamente e non lascia intatta casa alcuna. Con dolorosa sorpresa
constatiamo che osa prendervi parte anche qualche borghese. Molti però lo fanno per venire in aiuto al
negoziante, e li vediamo far la spola tra la casa del proprietario e la bottega. Ma parecchi, purtroppo, si
dirigono ai borghi coi grembiuli o con ceste cariche di merce. (Arrigoni, 25).

Non solo cose di cui ci si può sfamare, ma anche oggetti che possono far
sempre comodo. Una rapacità pronta a cogliere al volo l'occasione buona,
che nella plateale esecuzione prende anche l'aspetto di una sfida impunibile,
di un accanimento rancoroso, di una voglia di vendetta contro chi ha potuto
mettersi in salvo, contro chi magari inneggiò alla guerra e poi ha tagliato la
corda quando la guerra è entrata in casa. «Avvilimento generale, esasperazioni
ed ansie. Dappertutto si corre all'impazzata chiedendo notizie, e salutando gli
ultimi partenti, contro i quali, da taluni, si insolentisce gridando loro, con aria
di sarcasmo: Vanno alla conquista di Trieste…». (Della Barba, 4).

Una guerra fuori posto


Nel corso del 1917, le alterne fortune della guerra sui vari fronti europei
erano andate afflosciando l'ottimismo delle previsioni che circolavano
inizialmente sulla possibilità di una imminente conclusione del conflitto.
Le perdite umane avevano raggiunto cifre impressionanti da ambo le parti
e il logoramento morale oltre che materiale delle forze in campo poteva
giustificare la speranza di una conclusione per esaurimento. Ragioni d'ordine
logistico facevano propendere per un esito favorevole all'Intesa, in relazione
al blocco navale che danneggiava il flusso di rifornimenti anche alimentari
alle popolazioni delle potenze austro-tedesche e soprattutto in seguito alla

di questa storia la scrissi nell'anno 1921».


153
decisione presa dagli Stati Uniti di entrare in guerra.10
Ma dopo i contrastanti risultati ottenuti tra Asiago e Isonzo in maggio-
giugno, anche la stampa più entusiasta aveva moderato i toni. E tuttavia ciò
che gli autori dei nostri diari non supponevano minimamente era proprio
l'eventualità di uno sfondamento delle linee di confine e di un'invasione che
dilaga fino al Piave.
La sorpresa ha più a che fare con questa inammissibile eventualità che con
la difettosa organizzazione delle notizie in quei giorni a cavallo tra ottobre e
novembre. Le reticenze dei comandi militari e le comprensibili indecisioni
delle spaurite amministrazioni comunali erano state sopraffatte dall'eloquente
spettacolo dei nostri soldati in confusa ritirata, mescolati ai profughi friulani in
disperata fuga. Questa verità esplicita aveva fatto rapidamente giustizia di ogni
astuzia diplomatica, di ogni riserbo tattico e inoltre smontava la consolidata
convinzione che la guerra, fossilizzata lungo l'Isonzo, fosse definitivamente
confinata a ridosso di quei territori imperial-regi sui quali prima o poi avrebbe
dovuto senz'altro sventolare la bandiera italiana.
La guerra di posizione, insomma, aveva potuto legittimare l'idea che per
il conflitto a fuoco esistesse un luogo apposito, ben distinto e lontano dal
mondo abitato dai civili, ai quali poteva sembrare già un carico sufficiente
aver dato alla leva i figli migliori e sottoscritto i prestiti nazionali a sostegno
dell'impegno bellico.11
L'immobilismo della guerra di posizione aveva potuto almeno allontanare lo
spettro della guerra totale, nelle forme con cui si era presentata prepotentemente
nei primi mesi del conflitto, come una guerra del tutto diversa da quelle
già note, ora combattuta per terra, per mare e perfino per aria, con enorme

10 Ancora priva di effetti pratici sul terreno, tuttavia. La dichiarazione di guerra alla Germania da parte degli USA
porta la data del 6 aprile 1917, ma, a parte gli aiuti per mare (in un momento critico per la micidiale offensiva dei
sommergibili tedeschi), le prime truppe americane sbarcarono in Francia tre mesi dopo. E la vera e propria entrata
in azione si ebbe soltanto nella primavera del 1918.
11 Nel febbraio 1917 era stato lanciato il 4°Prestito di Guerra, che da queste parti sembra non abbia avuto calo-
rosa accoglienza, malgrado la Gazzetta del Contadino si industriasse a presentare l'adesione nei modi più suadenti.
«Affermano il falso quei cattivi cittadini che, specialmente nelle campagne, vanno dicendo che il denaro dato al
Governo serve a prolungare la guerra. No, no; il denaro è invece necessario a raggiungere più presto la vittoria. […]
Ogni casa di campagna abbia, conservata in un quadro, la cartella del Prestito. Così accanto all'immagine sacra che
attesta la vostra fede religiosa, accanto al ritratto del Re che fa prova della vostra italianità, si troverà la cartella del
Prestito a dimostrare il vostro patriottismo, il vostro contributo a favore della pace vittoriosa». In: la Gazzetta del
Contadino del 18 febbraio 1917. Andrà crescendo invece il tributo di vite umane al fronte. Alla fine del 1917 erano
quasi tremila i soldati caduti appartenenti a famiglie trevigiane residenti nei 47 comuni della Sinistra Piave. A guerra
conclusa risulteranno 4.387 (di cui 10% in prigionia): per il 31.9% provenienti dall'opitergino, per il 28.3% dal co-
neglianese, per il 25.1% dal vittoriese, per il 14.6% dal valdobbiadenese. Il totale corrisponde al 48.3% dei caduti
della provincia di Treviso, i quali furono complessivamente 9.086. Vanno poi aggiunti i 247 deceduti nel 1918 (di
cui 116 della Sinistra Piave). Ho calcolato questi dati numerici sugli elenchi nominativi forniti da una fonte ufficiale
come l'Albo d'Oro: Ministero della Guerra, Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918, vol.XXVI, Roma,
Vecchioni e Guadagno, 1964.

154
impiego di masse combattenti, appoggiate da armamenti mai visti prima.12
Ma che, soprattutto, si svolgeva ora senza esclusione di colpi. Le popolazioni
civili, pur disarmate e inermi e del tutto impreparate a sostenere queste prove
sconosciute e inattese, vi erano coinvolte pienamente, non più come bersaglio
incidentale, ma come fossero masse combattenti a fianco dei soldati in armi.
L'invasione del Belgio neutrale, i bombardamenti degli Zeppelin sulle città
inglesi erano altrettante prove cruente di questa provocata partecipazione
totale allo scontro bellico, senza distinzioni di ruoli tra persone in divisa e
persone in borghese. Nessuno poteva sottrarsi alla violenza dello scontro.13
Una guerra totale, per i mezzi impiegati e per gli attori in campo, attivi o
passivi che fossero.
L'Isonzo, segnando plasticamente la separazione tra il mondo della guerra
e il mondo della società, aveva almeno tenuto a bada l'incubo di un tale
coinvolgimento. Ma quando la guerra lascia le trincee, tutti sono in ballo,
12 I diaristi non fanno mostra di accorgersene. Anzi, si meravigliano che gli invasori usino ridicoli mezzi di for-
tuna. Come quando li vedono togliere gli ombrelli ai civili per ripararsi dalla pioggia o spingere carrozzini da bam-
bini per portar via la roba. E nelle colonne in marcia: «In maggioranza carri poco dissimili da quelli degli zingari,
autocarri con ruote di ferro pesantissimi e pochi in paragone di quelli di cui disponevano i nostri». (Ciganotto, 51).
L'unica novità che li colpisce davvero è l'aereo, non per i contenuti tecnici del mezzo o per la novità del suo impiego
offensivo quanto per l'ardimento dei piloti e la grandiosità della scena offerta dai duellanti in volo. La maestra di
Campolongo, che vive in aperta campagna, può assistere con infantile allegria al volteggiar degli aerei che si dànno
la caccia. Il Caproni «sembrava ancor più bello illuminato dai raggi del sol nascente, solcava il cielo impavido, con
lentezza quasi sfidando gli schrapnells che tutto l'attorniava. Era magnifico!». (Casagrande, 16).
13 Un precedente, lontano nel tempo e nello spazio, si può trovare nella Guerra civile americana, la quale però ha
nella sua stessa specificità le ragioni del coinvolgimento totale. Viene da qui il primo esempio di abbattimento e fu-
sione delle campane per ricavarne proiettili. Una pratica che ripetuta in Veneto, recherà profonda offesa al sentimen-
to religioso dei nostri contadini. Un'esperienza diretta di coinvolgimento totale l'avevano già conosciuta gli abitanti
di Treviso, colpiti dalla prima incursione aerea nella notte del 19 aprile 1916, con 10 morti e numerosi feriti. Furono
31 le incursioni con oltre 1500 bombe sganciate sulla città, provocando complessivamente 48 vittime. La prassi
della guerra totale fu teorizzata poi, a cose fatte, nel 1935, dal capo di stato maggiore tedesco Erich Ludendorff.
Deprecando questo genere di coinvolgimenti, c'è chi, come Franco Cardini, ha 'nostalgia' per le guerre di antico regi-
me, perché ancora prive di quella micidiale potenza di fuoco che gli sviluppi tecnici sapranno in seguito approntare,
con l'aggravante di procurare effetti fuori controllo. F. CARDINI, Quell' antica festa crudele. Guerra e cultura della
guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano, Mondadori, 1997, pp.441-443. Incalza Roger Caillois:
«Non c'è più campo di battaglia ben definito. Era una zona circoscritta, paragonabile alla lizza, all'arena, al campo
da gioco. Questo recinto destinato alla violenza almeno lasciava intorno a sé tutto un mondo governato da leggi più
clementi». Ora invece «La battaglia diventa faccenda di massa […] Così viene colpito il più debole. […] Sempre più
spesso la guerra viene condotta di notte e con il massacro reciproco di popolazioni disarmate, il cui lavoro permette
l'approvvigionamento dei combattenti». R. CAILLOIS, L'uomo e il sacro, Milano, Bollati Boringhieri, 2001, p. 168.
Sono solo cambiate le regole oppure armi sempre più potenti hanno preso la mano ad utenti senza scrupoli? Strac-
ciato il galateo, l'antica nobiltà è stata traviata dalla moderna perversità meccanica dei mezzi oppure è l'estensione
dei fini, l'ampliamento degli obiettivi a pretendere un potenziamento dei mezzi? Non più solo limitate rettifiche di
confini, nuovi campi di colore sulle mappe del mondo ma veri e propri scontri di culture se non di civiltà. E più si
caricano i conflitti di significati universali, più vengono indottrinate le nazioni e messe in campo, schierate le società
(perché con gli eserciti di massa prendano parte attiva allo scontro), più i cosiddetti civili si trovano esposti a subirne
gli effetti. I conflitti allora non sono più regolamentati e concordati tra élites guerriere, come ricorda Cardini, ma
lotte di popolo tra nazioni. La guerra totale diventa guerra civile. Non a caso il contemporaneo sviluppo delle teorie
giuridiche sui diritti dei civili non ha sortito effetti pratici. La convenzione dell'Aja del 1907 non riuscì a sancire più
che sanzioni pecuniarie e nel 1919, a Versailles, il trattato di pace si occupò significativamente di crimini di guerra,
non di crimini contro l'umanità. B. BIANCHI, I civili: vittime innocenti o bersagli legittimi?, in La violenza contro
la popolazione civile nella Grande Guerra, a cura di B.BIANCHI, Milano, Unicopli, 2006, pp. 74-82. E. TRAVERSO, A
ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 77-79, 91-92.
155
senza scampo. Con qualche paradossale conseguenza. Che, per esempio, il
primo civile caduto a Valdobbiadene, Luigia Orsolina, sia stato colpito dalla
scheggia di una granata dell'artiglieria italiana. (Pivetta, 4). E che la stessa
sorte sia toccata di nuovo a una donna, Rosa Zanin, a Pieve di Soligo, per un
colpo sparato dal Montello.14 E qualche mese più tardi anche all'arciprete di
Conegliano, mons. Sebastiano Dall'Anese, sorpreso nel sonno.
Ora l'invasione traccia anche per i civili un nuovo fronte. Tutto diverso
però da quello dei combattenti. La prima linea si materializza disponendosi
lungo le sponde di un altro fiume (e prelude – sbollite le prime scalmane
austriache di arrivare subito al Po – a una nuova guerra di posizione). Per
i civili invasi invece questo nuovo fronte diventa anche un tratto interiore.
Sono costretti a mescolarsi al nemico, sorprenderlo a rovistare per casa,
insopportabilmente invadente mentre viola l'intimità dei luoghi più cari e più
intimi, mentre maneggia gli oggetti d'uso più personale.
In questo primo contatto fisico con i conquistatori il furto della biancheria
e l'occupazione della camera da letto sono sofferti come una profanazione
intollerabile.
Chi vive in trincea non possiede questa ottica ravvicinata (e il problema
della biancheria è rinviato). Per i combattenti in prima linea il nemico è un
punto sul terreno da prendere a cannonate, una sagoma in corsa da colpire
mentre si inquadra nel mirino. La distanza dona un anonimato bilaterale,
cancella ogni identità personale. Il bersaglio perde consistenza umana.15
Col nemico in casa invece l'ottica cambia letteralmente, il punto di vista dei
civili è un altro. Ai civili capita spesso di parlare col nemico (è in particolare
il caso di una polemica Bianca Brustolon), di intrattenere dei rapporti anche
amichevoli, con gesti di compassionevole solidarietà (è il caso della famiglia
Pivetta).

14 In questo caso però, chi ricorda l'episodio a distanza di quarant'anni, non può trattenersi dal caricarlo di una pietà
interessatamente motivata secondo senno del poi. La scheggia italiana ha colpito la vittima «senza dilaniare il fragile
corpo adolescente […] la trovarono distesa, serena, come in un sonno infantile. […] Pochi giorni prima aveva chie-
sto al Signore questa morte piuttosto che essere violentata dai tedeschi». G. SCHIRATTI, Un anno d'invasione nemica.
Pieve di Soligo 1917-1918, Pieve di Soligo, Industrie Grafiche, 1958, p. 13.
15 Perfino al fronte sparare può diventare un gesto difficile, se il bersaglio si anima di umanità. Lo ammette Emilio
Lussu, quando gli capita l'occasione di poter ammazzare comodamente un giovanissimo ufficiale austriaco, sorpreso
in un momento di rilassato riposo. «Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa
certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un
uomo! […] Tirare così, a pochi passi, su un uomo…come su un cinghiale!». E. LUSSU, Un anno sull'altipiano,Torino,
Einaudi, 1964, p. 137. Le distanze ravvicinate, inoltre, favoriscono complicità e incontri. Durante il tacito armistizio
di una Pasqua sul Merzli, due «nemici» si riconoscono per aver lavorato assieme in una fabbrica in Boemia, e si
corrono incautamente incontro per un abbraccio amico sulla terra di nessuno. C. SALSA, Trincee, Milano, Mursia, pp.
158-159. Dove le trincee opposte sono separate da pochi metri, i loro abitanti riescono ad allacciare contatti pacifici,
scambiandosi qualche parola e perfino qualche piccolo dono. Se dalla parte degli austriaci scarseggia il cibo, agli
italiani mancano le sigarette. Ne nasce un baratto fraterno, che rinvia la durezza dello scontro. L. FABI, Gente di
trincea. La grande guerra sul Carso e sull'Isonzo, Milano, Mursia, 1994, pp. 195-200.

156
Alla sorpresa per l'inaspettata invasione segue la scoperta che il nemico
è affamato e anche straccione. Non ci sono soltanto prepotenza e violenza.
L'incuria di sé, il sudiciume, la totale mancanza d'igiene, l'ostentata e spregiativa
esibizione dei propri bisogni corporali sono altrettante manifestazioni
che sconcertano, urtano con una idea più elegante della guerra, come se la
promiscuità della trincea potesse essere compatibile con la pulizia e il decoro,
o nella bislacca idea che le trincee nemiche siano diverse (e peggiori) da
quelle italiane.
«I bosniaci hanno fatto gran cambio di biancheria sostituendo la propria
con quella lasciata in deposito dal 56° fanteria, ammucchiando quella sudicia
sotto le finestre della nostra cucina. Pensa, Pierina, ho innondato i davanzali
di petrolio». (Arrigoni, 30). È quest'aria di trincea che entra in città che fa
ribrezzo, che segna il confine, che scava un solco tra la guerra e la società.
Che è poi un altro modo di esprimere il proprio rifiuto a farsi coinvolgere nel
conflitto come attori primari ancorché vittime. Bianca Brustolon scrive che
prima dell'invasione in casa «regnava l'allegria, e la pace». (Brustolon, 25).
Dopo lo sconcerto del primo impatto, ci si chiede come sia potuto accadere
tutto ciò, come un nemico tanto mal messo sia potuto arrivare al Piave quando
ci si aspettava di arrivare noi a Vienna. Un nemico così poco rispettabile, così
vulnerabile nella sua precipitosa necessità di soddisfare bisogni primari in tutta
fretta. «Alle 11 i primi che avanzano sono tutti Bosniaci dalle faccie smunte e
macilenti, maledetti!». «Pur oggi arrivarono molti Bosniaci, stanchi affamati,
tutte le età, vecchi che fanno pietà». «Questa truppa non so comprendere
come possa andare al fronte che non sono capaci di reggersi in piedi, quando
passano di quà sono tanto macilenti, esausti sembrerebbero diretti a riposo».
(Brustolon, 17-18, 29, 121). «Poco dopo ecco gli austriaci in lunga schiera,
magri, stracchi, sfiniti, male equipaggiati e intenti a masticare pomi, noci,
castagne».16 «Affamati, scalcinati, depressi, come li vediamo accattar per le
case, quale spirito bellico possono avere!». (Arrigoni, 90). «Non ho ancora
visto un soldato Austriaco con un pezzo di pane, non ho ancora visto passare
un solo carro della sussistenza». «Per un bel po' i malati e i feriti in questa
nostra chiesa giacquero sulle pietre sopra un braccio di fieno, pressoché
ignudi. Arrivato quest'esercito, nudo sudicio, smunto da una prolungata fame,
pieno di livore, in una regione ricchissima e abbondante di ogni ben di Dio si
abbandonò al delitto, alla violenza e alla predoneria». (Ciganotto, 26, 70). A
gennaio «I germanici ridotti nell'impossibilità di devastare nuove terre lasciano
il fronte, vengono gli affamati, pezzenti, rozzi austriaci». (Casagrande, 11).17
16 Così mons. Camillo Fassetta, canonico e storico, insegnante al Seminario di Ceneda. C. FASSETTA, L'invasione
Tedesca e La Battaglia di Vittorio, Vittorio, Longo e Zoppelli, 1923, p.12.
17 A Pieve di Soligo la grande casa contadina dei Todesco, in borgo Stolfi, presso il guado del fiume, viene tutta
157
Cresce il dubbio che l'impresa possa essere proprio tutta merito di
un esercito così mal ridotto. D'altronde non è possibile valutare l'effetto
provocato nell'opinione pubblica (quella parte della popolazione che legge e
si informa e quella che ne è toccata di rimbalzo) dal famoso bollettino n.887
sulla «mancata resistenza». È il primo bollettino che Cadorna, il 28 ottobre, il
giorno dopo la partenza da Udine, ha dettato a Treviso da palazzo Revedin, in
Borgo Cavour, dove ha stabilito la nuova sede del Comando.
Il Gazzettino, il più diffuso quotidiano locale, non l'ha pubblicato se non
il giorno dopo, nella seconda versione che ha smorzato un po' i toni. Solo la
Gazzetta Trevisana, uscendo in edizione straordinaria nel pomeriggio del 28
ottobre, si è sottratta all'edulcorazione degli emendamenti governativi. Ma
per la modesta tiratura di questo giornale, con una diffusione probabilmente
limitata ai centri maggiori, lo scoop non avrà forse avuto una grande risonanza
tra i pochi lettori della provincia.18
I diari non fanno cenno al bollettino ma lo spettacolo di qualche episodio di
diserzione non aiuta. A Valdobbiadene, il 5 novembre: «I carabinieri, baionette
in canna, inquadrano gruppi di soldati sbandati, senza berretto, senza zaino,
disarmati. Ad ogni tram li accompagnano al Comando di Treviso» (Arrigoni,
16).

Una precipitosa ritirata del nostro esercito – che per valore aveva meritatamente riscosso
l'ammirazione del mondo intero – annullava in pochi giorni la guerra di due anni, e dava la patria in
braccio alla desolazione, abbandonando questi fiorenti e ricchi paesi in preda al nemico. La defezione,
dicono, di reparti della seconda Armata! È stata la causa di tanto disastro: ritirata, che per il modo, per
la precipitosità, per le perdite in uomini e in materiale, non ha riscontro, credo, nella storia del mondo.
Tutto considerato, tutto calcolato e ponderato: Digitus Dei est hic. (Ciganotto, 10).

E, poi, le voci più varie corrono in fretta. «Un soldato istriano dice del
tradimento di Tolmino. Ufficiali nemici, vestiti di uniforme italiana, e parlanti
perfettamente la nostra lingua, si sarebbero infiltrati nelle nostre file, mettendo
in scompiglio il campo, già predisposto indisciplinato». (Della Barba, 7-8).
Prende piede il dubbio peggiore su Caporetto.
occupata dagli invasori. «Gli uomini erano quasi tutti vecchi, sporchi, con le barbe lunghe, indossavano abiti rotti,
fumavano la pipa e tra loro parlavano piano piano; qualcuno passando, mi accarezzava la testa e mi diceva sorri-
dendo «kinder», ma la mamma non voleva che accadesse e quando se ne accorgeva mi portava subito in casa».
Dai ricordi di Elisabetta Todesco, raccolti da Giuliano Bottani, direttore del Museo Storico della Grande Guerra di
Maserada sul Piave.
18 L'andamento della guerra ebbe ripercussioni gravi sulla vita della stampa locale, sia in termini di autonomia di
giudizio che in termini materiali con la riduzione della foliazione. A maggior ragione, a cavallo di ottobre-novembre,
l'invasione pregiudicò la regolarità della diffusione dei giornali in provincia. Con il numero dell'1 novembre 1917
la Gazzetta Trevisana sospese le pubblicazioni (riprese nel 1919). Eppure, fidandoci della testimonianza di Caterina
Arrigoni, il 5 novembre a Valdobbiadene i giornali arrivavano ancora. Nello stesso giorno in cui gli Austriaci occu-
pavano Cortina e attraversavano il Tagliamento a Codroipo e a Latisana.

158
Quanto ci narra il signor Brunoro finisce di atterrirci e disorientarci in questo caos di notizie che
corrono sulla nostra disfatta. Un suo colono, giunto qui dall'altipiano della Bainsizza, narra che il proprio
sergente, un socialista, il 17 ottobre gli disse: Sta' allegro, fra otto giorni saremo tutti in Italia, a casa.-
Come! Che dici mai? – Tu ricordati le mie parole e vedrai! Ma allora non i gas asfissianti insostenibili,
bensì un tradimento preparato da lunga mano ha causato il disastro? (Arrigoni, 17)

Col tempo il dubbio diventa convinzione. Bianca Brustolon annota il 25


febbraio 1918:

Oggi dissi a uno di Vienna: sa lei perché sono venuti in Italia loro? Lui pronto; perchè forza nostre
armi: stia tranquillo le dissi io; che se hanno veduto paesi italiani lo fu perché ci hanno tradito ; altrimenti
mai mai voi avreste calpestato terra Italiana.
E il 2 aprile:

Se i traditori avessero sapute le conseguenze d'un'invasione, che avessero fatto egualmente questo?
[…] Alcuni prigionieri italiani mi dissero che Cadorna è stato il traditore, sarà vero questo? Veramente
il bollettino del 6 era firmato Generale Diaz. (Brustolon, 86, 104, 160).

D'altra parte le prime impressioni su Caporetto sono mediate dai racconti


dei soldati in ritirata e le versioni che si accavallano sono così poco concordi
da non deporre affatto a favore di sentimenti patriottici. «Qui il 29 cominciano
a giungere militari, soli, a capannelli, randagi, sbandati, inconsci; anzi
qualcuno osa vantarsi: «per merito nostro saranno i capi costretti alla pace»,
infelice!».19
Per il parroco di Salgareda, don Pietro Sartor, alla convinzione che a
Caporetto siano stati dei traditori ad aprire la strada al nemico, si aggiunge
la prova del teorema tutto cattolico che alla origine prima ci sia la camorra,
che si annida nelle file della Massoneria, il nemico assoluto della Chiesa. La
truppa sarebbe dunque esente da colpe, preferendo il parroco collocare in alto
le responsabilità del disastro.20
I dubbi sulla lealtà e sullo spirito combattivo dei nostri soldati tornano
più brucianti nel giro di qualche settimana. La battaglia d'arresto sul Piave
ha avuto costi altissimi, soprattutto alle pendici orientali del Grappa, dove si
era concentrato lo sforzo nemico. La nostra resistenza ha avuto successo ma
è costata molti prigionieri, che gli invasori fanno sfilare più volte per le strade
di Vittorio per moltiplicare la misura del bottino, demoralizzare le vittime e
19 FASSETTA, L'invasione Tedesca, cit., p.7.
20 R. TOFFOLI, «Piovan» di una chiesa distrutta. Memorie di guerra di don Pietro Sartor, 1917-1918. A cura
dell'Amministrazione Comunale di Salgareda. Salgareda, Marpress, 2007, p.111. Ma, seguendo una voce che corre
tra i parrocchiani, si sente un'altra musica: «Sborai de Taliani, boni da gnent! I va in guera, sti sfondrai, e no i xe boni
de respinger i Todeschi! Cesare Borin el me gavea dito che in novembre nol sarìa pi sta sul Carso». p.88.
159
aumentare lo sconforto nella gente che assiste allo spettacolo. Sconforto della
pietà ma anche della delusione e del dubbio.

Sono andata a trovare i miei amati zii, con questa combinazione ho veduto tanti prigionieri nostri,
sfiniti, macilenti. Dissero che furono fatti prigionieri sul Grappa il giorno 15 [dicembre], se vero
questo fanno compassione, caso contrario pagheranno il loro capriccio a caro prezzo […]. Prigionieri
nostri soliti li fanno girare per tutte le vie, li fanno stancare per poi poveri s'ammalino, quanti e quanti
se preferito darsi prigionieri ora saranno pentiti, ma troppo tardi.[…] Prima i nostri prigionieri mi
faccevano compassione ora mi sono venuti odiosi poiché diversi hanno il coraggio di dire che hanno
oltrepassato il Piave questi; e che vadino pur avanti; questi non hanno amor patrio, né amore alla
famiglia parlando in tale modo mi ripugnano, più ancora confermano d'aversi dato loro prigionieri.
(Brustolon, 49-51, 52).

Nel maggio molti prigionieri italiani vengono inopinatamente trasferiti


da Toblach a Vittorio. «Anche Pia narra del raccapriccio destato dai poveri
prigionieri scesi da Toblac, i quali muoiono di fame e se possono si gettano
avidamente sulle ossa scarnate e mezze putrefatte abbandonate in qualche
fosso, sui rifiuti degli immondezzai e dei secchiai. Al loro avvilimento fisico
si eguaglia quello morale, tanto più che qualche donna, ormai esasperata dalla
fame, rinfaccia loro il tradimento». (Arrigoni, 144).
Qualche settimana dopo, nei giorni dell'infelice inizio della battaglia del
Solstizio, la scena si ripete a Refrontolo. «Comincia lo stuolo dei prigionieri
italiani ricevuti dalla popolazione con improperi» (Spada, 91). «So che
son passate colonne intere di prigionieri italiani. Vengono dal Montello
inneggiando alla prigionia. Chiedono vino, domandano alberghi per ristorarsi.
Disgraziati!». (Casagrande, 14). Circolano subito voci di un nuovo cedimento
delle truppe italiane. «Tutto questo ha prodotto nel popolo una costernazione
nell'intero senso della parola: ma insieme ha provocato degli scatti di ira e
di sdegno vivacissimi contro i nostri soldati, che, secondo lui o tradiscono o
sono vili. – «Sono sette mesi che noi sopportiamo sofferenze e maltrattamenti
incredibili: ed essi in sette mesi non sono stati capaci di preparare una buona
difesa». (Ciganotto, 157-158).21
21 Reazioni comprensibili queste, nel clima di sfiducia esasperato dalla durezza della vita quotidiana che fa cresce-
re l'ansia per l'attesa della liberazione. Invece un proposito ben più calcolato ispirava il comportamento governativo,
altrettanto sospettoso verso il contegno dei nostri prigionieri. Centellinare gli aiuti nei campi di concentramento era
una forma di punizione a distanza e poteva essere un modo efficace di ottenere indirettamente al fronte un effetto
deterrente contro possibili tentazioni di diserzione. Questo atteggiamento si inasprì dopo Caporetto, quando altri
300mila prigionieri andarono ad affollare i campi di concentramento austriaci e tedeschi. Si è calcolato che 100mila
ne siano morti di stenti, anche a seguito della crisi annonaria dell'Impero, che non poteva non aggravare il già pre-
cario regime alimentare dei prigionieri. A differenza degli alleati dell'Intesa, l'Italia si distinse per una sostanziale
indifferenza verso la sorte dei propri prigionieri, grazie alla perfetta sintonia tra le vedute punitive del Comando
Supremo e l' intransigente ostilità manifestata dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino. G. PROCACCI, Soldati e pri-

160
E il nemico non manca di speculare su questa sfiducia. «Un Ufficiale dei
mitraglieri mi disse: «Quando nostri soldati andare all'assalto cridano: 'via le
armi' e soldati Italiani alzare subito le mani»». (Rossetto, 58).
I diari riflettono questo miscuglio di sentimenti popolari contraddittori.
C'è fiducia e sfiducia assieme sulla capacità del nostro esercito di ripassare il
Piave. Come tutte le convinzioni che si muovono sull'onda delle emozioni,
speranza e rassegnazione si alternano. C'è allo stesso tempo voglia di pace e
voglia di guerra.
Per un verso è un fatto che la dura resistenza al Piave ha impedito che
l'invasione dilagasse fino agli ambiziosi traguardi del Po e oltre. La ritrovata
tempra combattiva dell'esercito italiano ridà sicurezza contro le mortificazioni
della spavalderia con cui, durante i primi giorni, gli invasori schernivano i
civili annunciando l'imminente occupazione di Treviso, di Venezia, di Milano,
di Roma infine, per liberare il papa prigioniero. Aiutano la speranza anche le
strampalate novità raccontate dagli invasori. «I tedeschi hanno narrato che i
nostri alleati dal Montello, con un sistema di specchi, vedono tutto ciò che
fanno gli austriaci. Non basta! Una nuova macchina raccoglie tutti i loro
discorsi». (Arrigoni, 108).
E dunque dà conforto che gli invasori siano costretti a segnare il passo, a
rinfoderare la loro baldanza. Ma c'è anche un risvolto di pene che si prolungano
con il peso dell'occupazione. È una contraddizione insostenibile se non viene
subito il contrattacco dei nostri, se continua a tardare il giorno della riscossa e
della liberazione. Senza questa rimonta si precipita nella solita attesa indotta
dalla guerra di posizione, che ora si è semplicemente spostata da un fiume ad
un altro. Ma l'Isonzo doveva essere un preludio di vittoria, mentre il Piave ora
è il suo contrario, poiché segna il confine che contiene e chiude il territorio
dominato dall'invasore.
Se potevano esserci stati segni di cedimento alla stanchezza, un logoramento
della fiducia per una guerra che doveva essere lampo e invece da oltre due
anni miete vittime ovunque senza risultati conclusivi, ora, al contrario, la
guerra è necessario continuarla senza sosta poiché è diventata vitale guerra
di liberazione. Lo è per i civili invasi, lo è anche per i figli al fronte, che ora
hanno un movente in più per combatterla sul serio, sapendo le loro famiglie
in mano al nemico, senza notizie sulle condizioni in cui si trovano. In questo
ripiegamento individualistico svaniscono le prospettive espansionistiche
o semplicemente irredentistiche che avevano scaldato le piazze trevigiane
nel «maggio radioso». Lo stato di occupati cambia tutto nelle attese e nelle
prospettive. La pace è un bene supremo. Ma non adesso, col nemico in casa.

gionieri italiani nella Grande guerra, Milano, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 177-182, 209-239.
161
Piccoli profughi veneti accolti a Roma dalla Croce Rossa. ISTRIT.
Mentre al di là del nuovo fronte, sulla Destra Piave, gli argomenti pacifisti
possono ancora aver corso e il cappellano di Montebelluna può continuar
a tuonare contro la guerra e chi l'ha voluta,22 i preti dei territori invasi
accantonano il messaggio di papa Benedetto XV contro «l'inutile strage».23
Mai quanto in occasioni come queste sentimenti pacifisti sarebbero apparsi
stonati, fuori luogo, rischiando la reazione di sentimenti anticlericali.
La condizione d'invaso è una condizione di solitudine, quanto più sono
affollati, caoticamente intasati paesi e contrade. Le crescenti privazioni
materiali non logorano più delle sofferenze morali, che tengono la gente in
stato d'angoscia permanente. «Ogni giorno passa meno sento il desiderio di
scrivere, sono esausta. Mi sforzo contro volontà per avere un altro momento
un diario di questi angosciosi giorni». «Lo scrivere è venuto noioso, pesante,
poiché non si realizano mai i miei sogni, i miei desideri». «Vorrei scrivere
a lungo specialmente dell'impressione che subisco ogni giorno col vedere
nuove distruzioni, non ho voglia di farlo, poiché questa và completamente
mancandomi; volentieri tralascerei di scrivere le memorie dolorose, è mamma
che me lo impone di continuare». (Brustolon, 131, 155, 162).
Mancano notizie dei famigliari lontani, mancano notizie sicure
sull'andamento della guerra, mancano regole di una ordinata vita sociale.
Oltre allo spavento dei primi giorni dell'invasione l'angoscia provocata dalla
pressione psicologica degli invasori quando irridono sulla facilità con cui
hanno avuto la vittoria e quando scherniscono i civili impauriti chiedendo
loro notizie sulle strade che portano ai nuovi più ambiziosi traguardi. Tutto
ciò non fa che aumentare il disorientamento e il panico.
«Due giorni fa uno di questi ci disse: tre giorni Marco Plas otto giorni Rome
Pape; con questo voleva dire che in tre giorni saranno in Piazza S. Marco, in
otto a Roma dal Papa». (Brustolon, 26). Un ufficiale austriaco «calcola che il
Piave sarà passato in quarantott'ore, poiché ormai l'esercito italiano non è più
riorganizzabile. Forse al Po ci sarà una certa resistenza: non più di quindici
giorni. Poi sarà affare di pochi dì giungere a Roma. Chiede quanti chilometri
dista da qui. – Circa settecento – rispondo – dicendo la prima cifra che mi
viene in bocca». (Arrigoni, 22).

22 DAL COLLE, Diario di Guerra, cit., pp. 59, 81, 107.


23 Solo padre Lodovico Ciganotto si permette un rabbuffo, tra il polemico e l'ironico, rivolto a Sonnino. «Quando
il nostro Ministro degli Esteri proclamava in Parlamento! (in risposta! Alla Nota diplomatica del S. Padre) l'inviola-
bilità «delle nostre frontiere, segnava l'ora e il momento –ironia delle cose – in cui il nemico, sfondate le nostre linee,
varcava baldanzoso i vecchi confini della patria: Digitus Dei est hic, tanto evidente quanto vero è il fatto doloroso!».
(Ciganotto, pp. 10-11). E altrettanto fa, per rapido inciso, mons. Emilio Di Ceva: «Italia, Italia! Che non volesti
ascoltare la voce del Vicario di Cristo «tal giudicio incomincia per te !»». (Di Ceva, p. 24).

164
È opinione comune tra gli invasori che breve sarà la loro sosta qui a Motta, e che si recheranno
ben presto a svernare a Venezia, a Padova, e…più in là. È ridicolo, ma insieme umiliante molto sentirsi
chiedere da tanti idioti quanto disti ancora…Roma, dove si propongono d'andare, a seconda dell'umore,
altri a fucilare il Re, altri ad impiccare il Papa.»Inebriate, per non dire pazze di una strepitosa, sì, ma
facile vittoria, dopo una breve sosta sulla Piave, si ripromettevano di raggiungere Venezia (Venezia!
Alta e bassa forza impazzivano al solo nome), poi una passeggiata militare al Po, e là o la pace separata,
o a…Roma. Tante volte ci sentimmo chiedere ingenuamente: Quanto disti Roma da qui? Pare strano,
pare pazzesco, pure è questa la verità. (Ciganotto, 28, 71).

A Follina invece (dove il XV Corpo d'Armata austriaco si è insediato nella


casa nativa di Jacopo Bernardi): «Altri, sempre soldati, sono convinti di dover
andare a Roma, perché gli Italiani hanno ammazzato il Papa ed essi devono
vendicare il grave delitto». (Rossetto, 50).
In mancanza di notizie attendibili non resta che osservare il movimento
delle truppe. Se ne arrivano di fresche dalla parte del Friuli vuol dire che il
nemico ta preparando un'offensiva e c'è pericolo che riesca a passare il Piave.
Se tornano dal Piave truppe malconce e immusonite segno che l'attacco è
fallito e allora bisogna prepararsi ad altre requisizioni e altri soprusi che
serviranno a sfamare gli sconfitti e a rinfrancarne il morale.
Tra dicembre e gennaio sgomenta tutti la notizia che gli Austriaci,
fiaccati dall'andamento della guerra, dalle divisioni in seno alla coalizione
e soprattutto dalla carestia interna che provoca reazioni popolari anche a
Vienna, starebbero trattando per una pace separata che metta presto fine alla
guerra. Una conclusione che congelerebbe però i confini allo stato attuale,
cioè al Piave, lasciando quindi agli invasori i territori occupati.24
24 Nel corso del 1917 si erano effettivamente svolti segreti contatti diplomatici promossi da Carlo I d'Asburgo per
cercar di convincere inglesi e francesi ad una pace separata, ma senza successo. Il tentativo era stato inutilmente
ripreso in dicembre su iniziativa inglese. Comunque i timori di una annessione austriaca del Veneto erano infondati
poiché tale ipotesi non rientrava nel quadro delle trattative, per quanto potesse essere verosimile la ratifica di una
situazione di fatto. Caporetto aveva apparentemente rafforzato l'Austria, pur a prezzo di una ribadita subalternità
all'alleato tedesco, ma era la situazione interna del paese che stava rapidamente precipitando, in contrasto coi suc-
cessi militari. A metà gennaio 1918 una riduzione del 15% nella razione dei cereali destinati alla popolazione civile
aveva provocato uno sciopero degli operai della Daimler, che si era esteso poi a Vienna e a Budapest, andando oltre
gli aspetti annonari e assumendo risvolti anche politici, pericolosi per la stessa stabilità del governo. L. VALIANI, La
dissoluzione dell'Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 360-365 e P. FIALA, 1918. Il Piave, Milano,
Mursia, 1987, pp.28-31, 35-37. Gran parte dei mezzi di trasporto ferroviari disponibili erano stati impegnati per le
nuove necessità di rifornimento alle truppe sul fronte del Piave e del Grappa, provocando per alcuni mesi una forte
riduzione degli approvvigionamenti alimentari alla popolazione civile in patria. H. HEISS, «La morte dell'Aquila
bicipite». Aspetti politici, militari e sociali dell'ultimo anno di guerra in Austria, in Al di qua e al di là del Piave.
L'ultimo anno della Grande Guerra, a cura di G. BERTI – P. DEL NEGRO, Milano, Angeli, 2001, p. 125. Secondo Paolo
Macry, ad aggravare la situazione molto contribuì l'inefficienza dovuta sia all'ipertrofia burocratica che afflisse l'or-
ganizzazione logistica sia a una eccessiva e contraddittoria produzione normativa. Dai diari si ha conferma di ciò an-
che per gli atti dell'amministrazione nei territori occupati. P. MACRY, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell'Europa
del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 103-111. Ma non si tratta solo di deficienze riscontrate nella parte più
debole dell'Impero. Secondo fonti ufficiali, più di mezzo milione di civili sarebbero morti in Germania durante gli
ultimi due anni di guerra a causa del blocco economico dell'Intesa. La violenza contro la popolazione cit., p. 458.
165
Tra le molte notizie, figlie della speranza, che circolano liberamente senza
possibilità di verifica c'è però anche questa.

Alle Basse, come qui, come nel Cadore, come oltre il Tagliamento, corre insistentemente la voce
popolare che, se prima di sei mesi dalla loro venuta, gli austriaci non riusciranno a passare il Piave, si
ritireranno pacificamente. Quindi tutti si rallegrano. Ormai è questione di tre sole settimane. Come sarà
nata questa strana credenza, articolo di fede per il popolo? Anzi, molti non si peritano di sostenere che
questo è uno dei patti del tradimento conchiuso a Caporetto. (Arrigoni, 131).

Nell'oppressione quotidiana di una occupazione che era stata inizialmente


ritenuta un incidente presto risanabile (una reiterazione delle promesse del
1915 di una rapida vittoria), e che invece si prolunga oltre ogni previsione,
non mancano gli umani sbandamenti. Il disorientamento e l'infiacchimento del
morale debilitano la saldezza dei nervi e delle convinzioni. A Vittorio: «Vedo
il prof. Giusti che va elemosinando polenta da De Mori; ha la casa invasa;
è disposto a cedere Trento e Trieste, purché la si finisca. È tutto dire!». (Di
Ceva, 50). «Purtroppo è antipatriottico il dirlo, ma eravamo giunti a desiderare
che gli Austriaci se ne andassero al di là del Piave per essere allontanati dalla
guerra!» (Pivetta, 4). A Conegliano: «In luoghi di campagna ci si diverte.
Si balla allegramente. Il suonatore d'armonica, intascato il denaro, ripiglia il
ballo, e grida: «viva l'Austria»». «Qualche donna, che raccoglie merce gettata
da soldati, grida «viva i germanici»». «Notizie certe recano che i tedeschi
non possono passare il Piave. C'è chi piange al pensare che quei barbari non
possono andare avanti, tanto per liberarseli dai piedi». (Della Barba, 7, 9, 10).
A Godega S. Urbano: «Non ne possiamo più, mi ripetevano gli abitanti, siamo
ammalati, non ci sono medicamenti, non lenzuola, non animali, è meglio che
passino il Piave, l'Italia non si cura di noi».25
Le voci che corrono circa un tunnel che i tedeschi starebbero costruendo
sotto il fiume fanno crescere le apprensioni. Così come l'imponente e insolito
ammassamento di uomini e mezzi a cui si assiste ai primi di giugno, preludio
alla battaglia del Solstizio, che dovrebbe essere l'ultima e disperata carta in
mano alle potenze centrali per vincere la partita sul fronte italiano.

A tu per tu con il nemico


L'ottica ravvicinata, che costringe a guardare il nemico in faccia, fa scoprire
ai civili una varietà di fisionomie che aumenta lo sconcerto dell'invasione,
l'imbarazzo e il peso dell'estranea presenza. Anzi, l'estraneità si fa anche più

25 Sac. P. MICHIELI, I miei 356 giorni di prigionia, in Diari dell'invasione. Godega, Bibano, Pianzano, a cura di I.
AZZALINI E G. VISENTIN. Vittorio V., De Bastiani, 2002, p. 68.

166
forte per queste connotazioni fisiche, così diverse da quelle che sono famigliari
in paese.
Allora nel giudizio s'impone l'uso delle categorie del Bello e del Brutto, che
si combinano poi d'istinto con quelle sensorialmente contigue del Buono e del
Cattivo, associando tra loro affinità positive e negative. Così la disumanità dei
comportamenti ha a che fare con la «disumanità» dell'aspetto. L'insofferenza
soggettiva verso l'invasore si misura anche secondo questi criteri di sensibilità
estetica. E nella graduazione è di grande aiuto la composizione multinazionale
e multietnica dell'esercito austro-ungarico.
L'avvicendamento al fronte di formazioni diverse, che lasciano ai rincalzi
gli accantonamenti in paese per recarsi sulla linea del fuoco, permette di
ampliare la conoscenza fisiognomica del nemico, per cui la cronaca quotidiana
dei diari può anche stabilire una graduatoria di «merito» tra i diversi autori
delle violenze e dei soprusi, dividendoli tra i rispettivi paesi di provenienza,
vera o supposta che sia, ai quali vengono assegnati a occhio, non essendo
così facile il riconoscimento di berretti, divise e mostrine. Ne scaturisce per
comparazione una classifica caratteriologica dalla quale risulterebbe che i
tedeschi sono peggiori degli austriaci, gli ungheresi sono peggiori dei boemi,
che i turchi e i bosniaci sono forse i peggiori di tutti. E gli 'czechi' i migliori.
«Tutti questi tedeschi sono così brutti, che l'eccezione fa meraviglia. E se
ne vedi uno di discreto, se non è bosniaco, parla triestino». (Arrigoni, 201).
«Faccie orrende e non meno orribili favelle».»Tutti, soldati e ufficiali, sono
unanimi nel dire che gli ungheresi sono «bestie crudeli». Sarà vero: ma io
sono d'avviso che, fatte poche eccezioni specialmente per i boemi, sono tutti
eguali». «Civiltà austro-teutonica, dirà qualcuno. Non so: Ripeterò ancora una
volta che vi hanno molti e molti punti di contatto tra l'Austria e la Turchia»
(Ciganotto, 22, 83, 214). «I Cechi-Slovacchi e gli Ungheresi lottano tra loro. I
Boemi con i Cechi sono tutti con noi. I Bosniaci si battono per chi li paga; gli
Slavi tentano un doppio giuoco per salvare il poi». (Dal Cin, 90).
«Si dice male, ma molto male degli ungheresi, mentre si dice molto bene
dei boemi che simpatizzano vivamente con l'Italia per la comunanza delle
aspirazioni». «Passano, passano: sono i figli della Croazia, della Boemia, della
Carinzia, alcuni vecchi, curvi, occhio spento, inebetito con barba, ti guardano
anche e salutano i feroci bosniaci ceffi da briganti, ammazzano con il revolver
i temporali». (Di Ceva, 216, 277).

Continua il passaggio interminabile di stirpi diverse, di varie nazionalità: agili istriani, robusti
trentini, carnioli, boemi, moravi, slovacchi di larghe spalle, dalmati bruni, flosci transilvani, croati goffi
e poi col beretto a fez, brutti, sucidi, dall'aspetto selvaggio bosniaci, erzegovini. Cavalli stecchiti, di

167
cui si contano tutte le costole, si trascinano a stento; qualcuno d'essi cade per via, due rantoli e muore.
Carretti trainati a tiro due, forniti d'archetti, di sopra una tela stirata ed entravi un graduato; poco
bagaglio, pochissime vettovaglie; alcune mucche, che mugghiano per fame, languono d'inedia.26

Questi zingari hanno il vero tipo che si attribuisce alla loro razza: occhi a mandorla vellutati, ciglia
e capelli color ebano lunghi, lucenti e folti, denti bianchissimi. In complesso sono brutti assai. Possiamo
proprio dire d'esserci trovati a contatto, peggio, in casa, con le razze più disparate e meno omogenee
ai nostri sentimenti: bosniaci, germanici, magiari, zigani. Però, fra tutti, i peggiori, i meno civili, sono
sempre quelli della Kultur. […] Quanto ai cavallereschi ungheresi del Risorgimento, lasciamoli ai poeti.
Questi sono falsi come gli austriaci e spavaldi come i germanici, cioè hanno i vizi dei due, senza le
qualità.[…] Triestini, romeni e boemi cercano di affratellarsi alla popolazione, ma evidentemente sono
i più spiati, i più malvisti ed i più conculcati dai diversi commilitoni. Spiccatissimo l'odio fra ungheresi
e boemi. Quando parlano con noi, i triestini non mancano di rinfacciarci Caporetto. (Arrigoni, 72, 136,
145).

Questi nuovi padroni, Austro-Ungarici, composti di più cinquine di nazioni non hanno quella serietà
che si riteneva: sono dediti al mangiare come i Tedeschi: e più di questi spasimanti nel suonare, cantare,
ballare, donnaggiuoli, per il che lasceranno rampolli di tutte le razze. Sono lazzeroni nel vestire: la
camicia arriva alla metà della vita, fanno schiffo anche nel lavarsi: chi vede gli oggetti di cucina, non
ha certo stomaco mangiare dei loro cibi. Essi biasimano la cucina italiana, e questo è un giudizio falso:
della loro cucina dico che non è conforme ai buoni gustai o a persone civili. (Possamai, 160-162).

Agli 'ospiti' vengono affibbiati in dialetto nomignoli allusivi, come much


a Miane o patatuc a Follina. La stranezza delle fogge, l'impronta marcata
dei lineamenti, la brutalità dei modi rinverdiscono le impressioni riportate ai
tempi delle letture scolastiche sulle scorrerie dei barbari selvaggi che hanno
abbattuto l'impero romano e sulle bande mercenarie che ne hanno ripetuto poi
le prodezze. Affiora un sedimento culturale rappreso da lunga data, che vede
a Oriente la fonte delle secolari minacce per la civiltà europea e nei turchi-
musulmani la personificazione particolarmente crudele di tale minaccia alla
Cristianità.27 «Ricordai i lanzichenecchi descritti dal Manzoni». (Casagrande,
8). «Sono stanca, oppressa, qui non v'è un fine, si spera un po' si dispera poi;
mai pentita d'essere rimasta fra i barbari, così almeno potrò io pure parlarne
dei discendenti d'Attila». (Brustolon, 36). «Attila passava e distruggeva, questi
si fermano e consumano tutto quello che possono». (Carpenè, 192).
I religiosi, meglio provvisti di manuali di consultazione, vanno a rileggersi

26 FASSETTA, L'Invasione Tedesca, cit., p. 13.


27 Nella iconografia dello scontro di civiltà con cui si continua a contrapporre Occidente e Islam, si è ora rivalutata
e mitizzata la figura del padre cappuccino Marco d'Aviano, presente nel 1683 sulle mura di Vienna assediata dai
turchi. Il suo nome è andato così diffondendosi nell'odonomastica locale.

168
la storia delle invasioni barbariche, traendone certificazioni sicure sulla
continuità secolare che hanno certi popoli ad invadere, saccheggiare, stuprare,
secondo attitudine propria della loro natura.

Leggo il libro IV del «De Bello gallico» dove Cesare descrive i costumi dei Germanici per i quali
latrocinio nullam habet infamiam. […] Mons. Cima atterrito ricorda il sacco di Roma: ricorsi storici!
[…] Si ripete quanto narrò la storia sulla guerra di Carlo VIII in Italia, chiamata guerra del gesso,
perché con il gesso segnava le abitazioni destinate per loro: così a Ceneda!. (Di Ceva, pp.35, 40, 45).

Ho letto la storia delle invasioni dei barbari in Italia (terra classica per questo riguardo): ma era
pallida l'idea che mi facevo delle devastazioni e dei delitti che commettevano. Solo ora posso formarmi
un'idea approssimativamente vera, paragonando ciò che commette impunito l'esercito d'una nazione
civile, con quanto deve aver compiuto un esercito barbaresco, di tanti secoli fa, ma della stessa razza.
(Ciganotto, 34).

Ma potrebbe anche esserci un disegno superiore che governa tutto questo.


«Attila disse di essere il flagellum Dei per punire i delitti del mondo civile
di allora: in questo senso anche questi remoti ma legittimi suoi discendenti
possono aver ragione». «La Divina Provvidenza ha permesso che sin da tempi
remoti i barbari invadessero l'Europa e vi stanziassero a punizione, correzione
e rinsavimento di quei popoli civili che dicendosi savi diventarono pazzi. Ora
questi stessi popoli non temono più Iddio: Temano almeno la forza bruta dei
loro confinanti». (Ciganotto, 72, 129).
Gli uomini di chiesa declinano poi sveltamente le diversità nazionali in
chiave religiosa: i luterani, i protestanti sono per definizione persone violente.
«Dall'incrocio diavolo e scimmia nacque il tedesco». (Di Ceva, 175). Tra gli
invasori che parlano tedesco si vorrebbe tener fuori, distinguere se non proprio
salvare, quelli di fede cattolica. «Col cambiamento dalla Germania all'Austria
il parroco di Refrontolo Don Carlo Ceschin ha chiesto e ottenuto di riprendere
le funzioni religiose». (Spada, 14). Anche se poi, con stupito disappunto,
tocca riconoscere che alla prova dei fatti differenze sostanziali non ce ne
sono.28 Sgomento per atti di vandalismo contro oggetti di culto: «L'infamia
sacrilega fu consumata da soldati dell'Imperial Regio Esercito della nazione
di S. Maestà Apostolica!!». (Di Ceva, 186). «Questo era l'esercito della
«Sacra Maestà Cattolicissima» Carlo, Imperatore d'Austria e d'Ungheria!».29
«Avranno le maledizioni di tutti l'Austria e il suo Imperatore! Cosa importa la
28 Invece, la 'Reale Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico', presie-
duta dal giurista Ludovico Mortara, sulla base delle testimonianze raccolte, imputava le maggiori responsabilità alle
truppe tedesche.
29 TOFFOLI, «Piovan» di una chiesa, cit., p. 140. Nel 2004 papa Giovanni Paolo II firmerà il decreto di beatificazione
di Carlo I d'Asburgo.
169
sua religione? Se viene fatto tutto in suo nome!». (Carpenè, 218).
Saltano poi subito all'occhio dei nostri scrittori le rivalità che esistono tra
le varie nazionalità e soprattutto la spaccatura netta tra tedeschi ed austriaci.
L'ostilità dei primi verso i secondi si manifesta di continuo, ad ogni contatto,
prontamente ricambiata ma sempre soccombente.
«Mentre i gendarmi aspettavano lo zio, nacque tra loro il solito diverbio.
Essi dicevano: Germanici ladri, rubato tutto, austriaci no, italiani buoni oh!
buoni. Germanici mangiare, bere, austriaci tanta fame. E noi dobbiamo
convenire che c'è molto di vero in quello che dicono». (Arrigoni, 75). «Austria
e Germania non si guardano in faccia […] Ladra e prepotente la Germania
e affamata l'Austria! […] I germanici mangiano tutto il giorno del buono e
del meglio; gli austriaci quasi tutti pane fatto di solo sorgoturco. L'Austria è
la schiava della prepotenza germanica. (Carpenè, 173, 182, 192). «Soldati
germanici, piuttosto che cedere il passo ad austriaci, nelle cantine levano i tappi
dalle botti, disperdono il vino […] Continuano le risse fra truppe austriache e
germaniche. Si ebbero tre morti e cinque feriti». (Della Barba, 7, 11). «In tutte
le case si mettono soldati, però dove ci sono austriaci non vogliono prendere
alloggio i germanici e viceversa. […] I Germanici disprezzano ed odiano gli
Austriaci più degli italiani stessi. Affermano che quando essi si ritireranno da
questo settore per andare a combattere in Francia gli italiani riconquisteranno
presto la loro terra». (Rossetto, 30, 44). «Giungono i germanici, ben pasciuti,
oltracotanti, dispettosi; si credono i soli vincitori. Gli austriaci sono per loro
una nullità; peggio ancora, un bagaglio, un imbarazzo. Li ritengono di nessuna
mente direttiva, zoppicanti in perizia e privi di bellico valore, solo carne da
macello».30 «Pare impossibile, perfino nella morte la Germania tiene l'Austria
soggetta, sotto il suo comando: il soldato germanico viene messo nella cassa
– l'austriaco viene sepolto senza cassa». (Spada, 90).
Anche dal fronte arrivano voci che confermano questa rottura. «Si parla
che molti Austriaci vollevano darsi prigionieri, e che i Germanici le abbiano
fatto fuoco; si odiano accanitamente».(Brustolon, 64). «Un ufficiale triestino
ha narrato ad un nostro amico che giorni fa, a Feltre, fu distrutta un'intera
divisione austriaca. Questa aveva chiesto di ritirarsi, ma i germanici ne
l'impedirono. In seguito a questo sterminio gli altri austriaci si ribellarono e
si batterono contro i germanici, con molti morti d'ambo i lati. Notizie orribili,
ma che ci fanno tanto piacere». (Arrigoni, 91).
La notizia rimbalza anche in Seminario. «Si conferma la voce che sotto
il monte Tomba un reggimento austriaco obbligato dai germanici a resistere
e a combattere venne decimato dai nostri; allora gli austriaci superstiti si
30 FASSETTA, L'Invasione Tedesca cit., p. 18.
170
rivoltarono contro i germanici e spararono su di loro! I cari alleati!!». «Un
disertore italiano fucilato e finito con la baionetta a Fregona dai germanici!
Gli austriaci per farla ai germanici fecero all'infelice imponenti funerali a
Fregona». (Di Ceva, 100). «Le truppe germaniche hanno sofferto perdite
grandissime, specie nell'alto fronte, da loro stessi confessate. Qualche ufficiale
austriaco si frega le mani». (Della Barba, 13).
La propaganda aerea italiana sfrutta subito queste crepe, cercando di
allargarle. In aprile «Da aeroplani italiani cartelli con caricature germanici
ed austriaci: quelli grassi, lucidi, questi magri, allampanati, con la scritta:
«Austriaci! Il germano vi tradisce!». (Di Ceva, 152).

La giornata è discreta. Mentre siamo all'aperto, vediamo un foglietto volteggiare in aria.


Attraversiamo di corsa i viottoli fra i campi. L'abbiamo in mano. È una caricatura. Rappresenta un
germanico ben pasciuto, che spinge a forza, in avanti, un austriaco macilento e sotto il motto: Soldati
austro-ungarici, il militarismo prussiano è la vostra rovina. Più tardi ce ne portano un'altra, nella
quale il proletario italiano, spingendo una enorme palla, stende la mano al proletario austriaco caduto,
dicendogli: Non te, fratello, voglio schiacciare, non te ma il militarismo germanico che dietro a te si
nasconde. (Arrigoni, 125).

Le speranze alimentano le illusioni più fantasiose sulle conseguenze possibili


di questi contrasti. «Si va dicendo che divisioni germaniche marciano su Udine
per impedire che gli austriaci facciano alleanza con l'Intesa contro la Germania!
Gli austriaci con noi!...Sembra una fiaba!...». (Di Ceva, 158-159).
L'ostilità tedesca verso l'alleato è autentica e marca con forza la posizione
subalterna in cui si trovano le truppe austriache sul fronte italiano. La
Germania è accorsa di malavoglia a sostenere l'Austria debilitata. L'offensiva
vittoriosa di Caporetto è frutto dell'impegno tedesco.31 Ma c'è anche dell'altro,
che viene da lontano, che circola nello spirito dell'ufficialità, nella sua cultura
militare e cetuale dove è sempre presente lo spirito egemonico dei prussiani,
la storica rivalità tra Hohenzollern e Asburgo. Come nella truppa, oltre alla
spinta che viene dall'alto, scatta la superiorità istintiva, affiorano i pregiudizi
caratteriali che quelli del Nord hanno verso i meridionali. Ogni popolo ha i
suoi: inferiori, fiacchi, inaffidabili.
«Due Germanici venuti qui da noi oggi, ci dissero che loro venuti in Italia,
perché Austria niente forza, e una volta noi ritornare Francia, Austria niente
31 Questi contrasti tra tedeschi ed austriaci non sono solo risse occasionali tra gente brilla e manesca. Il diario
di Otto von Below presenta numerose prove del dissenso profondo esistente tra comandi tedeschi e comandi au-
striaci circa la conduzione della guerra sul fronte italiano. Vi si leggono ripetuti giudizi di incompetenza e perfino
di vigliaccheria nei riguardi degli alleati austriaci. Del resto, la direzione delle operazioni in Veneto resta sempre
saldamente in mano tedesca. F. FADINI, Caporetto dalla parte del vincitore, Firenze, Vallecchi, 1974, pp. 405-407,
413-414, 421.
171
buona tenere fronte Piave, così ritornare Italiani». (Brustolon, 30). Gli stessi
concetti a Follina. «I Germanici disprezzano ed odiano gli Austriaci più degli
italiani stessi. Affermano che quando essi si ritireranno da questo settore per
andare a combattere in Francia, gli italiani riconquisteranno presto la loro
terra». (Rossetto, 44).
D'altra parte è tutto l'impero che vacilla e la sua multinazionalità non ha
più cemento che basti a tenerlo saldo e unito.32
Le ripercussioni che provoca tutto ciò negli animi dei civili sono delle più
diverse. E i diari, che non sono prodotti di sistemazioni coerenti e compatte,
ne dànno, nella freschezza della compilazione, testimonianze continue e
contraddittorie.
Ebbene, la somatizzazione del conflitto, quest'anno passato nel corpo a corpo
col nemico tra maledizioni e speranze, violenze e illusioni con qualche spunto
di vicendevole compassione, distinguendo impressionisticamente tra malvagi
e pietosi, tra gentilezza e brutalità, ha un po' rimaneggiato le sublimi idealità
del «maggio radioso». Soprattutto durante i primi mesi dell'occupazione, le
gerarchie di giudizio stabilite secondo il grado di bontà dei rapporti avuti
con l'uno o l'altro degli invasori di turno, hanno scombussolato le geometrie
politiche sulle quali si era retto l'intervento. Inclinando ora lo scontro bellico
verso la personalizzazione dei singoli casi umani, ne vengono spoliticizzate
le motivazioni ufficiali, scaricato il peso ideologico. Subentra un più ambiguo
complesso di sentimenti che segna un certo distacco tra la pratica della vita
quotidiana e le parole dell'alta politica. «È ben triste e doloroso che per il
capriccio di pochi uomini di governo, due popoli che potrebbero amarsi e
vivere in perfetto accordo di vicinanza, vengano spinti l'uno contro l'altro
per uccidersi a vicenda, nei modi più barbari e senza quasi capire il perché».
(Pivetta, 22). Così la penna obbediente di Maria Egizia trascrive la protesta di
mamma Filomena, moglie di un interventista.33
Un colonnello ungherese «in tutti i diversi paesi in cui fu, capì che gli
italiani non vogliono e non vollero la guerra. Io gliel'ho confermato; si
mostrò compiacentissimo». Salvo invocare al Solstizio «Italiani, liberateci
da quest'incubo, perché siamo stanchissimi e quasi esauriti». (Carpenè, 205,
220). Non è sempre stato così, lungo tutto l'arco dell'anno dell'invasione. Il
32 Secondo Istvan Bibó ciò sarebbe la conseguenza della rinuncia degli Asburgo a promuovere l'unità tedesca,
obiettivo fatto proprio invece dai prussiani. Preferendo ripiegare su una acrobatica e innaturale aggregazione italo-
danubian-balcanica, l'Austria avrebbe deciso la propria inevitabile sorte. I. BIBÓ, Isteria tedesca, paura francese,
insicurezza italiana, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 77-79.
33 È solo uno dei casi, così frequenti, di ripensamenti tardivi? Secondo Eric Leed «la ferita esentava automati-
camente la vittima da qualsiasi obbligazione morale, diventando una fonte di innocenza, un mezzo tramite il quale
molti si sentivano sollevati da qualsiasi responsabilità circa gli stessi eventi che avevano causato la loro sofferenza».
E.J. LEED, La legge della violenza e il linguaggio della guerra, in La Grande Guerra. Esperienza, memoria, imma-
gini, a cura di D. LEONI – C. ZADRA, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 21-22.

172
protrarsi dell'occupazione e l'inasprirsi delle condizioni di sopravvivenza per
gli uni e gli altri hanno esasperato l'ostilità delle contrapposizioni e riacceso
un certo spirito patriottico, nella forma però della guerra di liberazione. Del
Veneto stavolta, non già di Trento e Trieste. Non più una rivendicazione di
territori, ora più che mai lontani , ma un ritorno della propria terra in seno alla
patria, come approdo alla libertà dalla miseria. «Vorrei rimanere in letargo
fino alla venuta dei nostri Italiani». «Com'è lunga l'attesa per chi aspetta la
liberazione, e sollevarsi da queste pesanti catene». (Brustolon, 44, 171).
È una successione di scontri e di (relative) simpatie, di patriottismo
ritrattato o deluso, che storpia il quadro politico in cui la guerra era stata
concepita e che alla guerra aveva conferito quel significato strategico che
nel '15 aveva infiammato le piazze, se non proprio le campagne. La guerra
era stata dichiarata solo all'Austria perché l'entusiasmante missione mirava
a piantare il tricolore su quelle terre che fino all'ultimo sforzo diplomatico
l'Austria si era rifiutata di cedere. Allora si trattava di saldare finalmente un
conto rimasto in sospeso fin dal 1866, quando l'unità nazionale aveva dovuto
arrestarsi ad un confine ritenuto iniquo oltre che insufficiente a garantire la
sicurezza del Paese. È sulla base di argomenti di questo genere che il prefetto
Vitelli aveva potuto assicurare il governo sulle convinzioni interventiste dei
trevigiani.34
Malgrado queste premesse chiare, intelligibili e anche puntellate da
precedenti storici precisi (che non avevano tuttavia impedito all'Italia di far
parte della Triplice per più di trent'anni, in un legame di alleanza proprio
con Germania e Austria che aveva costretto spesso il governo a scoraggiare
le aspirazioni irredentistiche anche con l'impiego delle forze di pubblica
sicurezza nelle manifestazioni di piazza), ora le 'simpatie' popolari parteggiano
istintivamente per i più deboli, vanno agli Austriaci piuttosto che ai Tedeschi,
vanno a chi aveva occupato il Veneto per cinquant'anni piuttosto che alla
Germania, la quale invece del Veneto aveva propiziato l'annessione all'Italia.
Eppure l'Italia è in guerra con la Germania da appena quattordici mesi,
soltanto dall'agosto 1916, indottavi dalle insistenti pressioni degli alleati più
che per una libera scelta (e ciò non mancherà di pesare, dopo la pace, al
tavolo delle spartizioni). Facile gioco hanno dunque gli ufficiali tedeschi,
in un futile palleggiamento di responsabilità che i civili non sono certo in
grado di reggere, quando rinfacciano alla gente, a proprio sgravio, questo atto
unilateralmente ostile dell'Italia, di cui gli italiani devono dunque portare il
34 Secondo il prefetto di Treviso «queste popolazioni, pur senza soverchio entusiasmo, sono favorevoli ad una
guerra contro l'Austria […] come una crisi necessaria ed inevitabile per il raggiungimento delle alte finalità pa-
triottiche, particolarmente care a questa regione dove è sempre vivo l'amaro ricordo della dominazione austriaca».
Dalla relazione del 24 maggio 1915, pubblicata in B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp.
358-359.
173
peso. «Con ira, con compiacenza feroce, con cachinno crudele mi son sentito
ripetere: Ben vi sta: la guerra l'avete voluta voi: noi vogliamo la pace!...».
(Ciganotto, 23).35

Strategie di sopravvivenza
L'ingorda frenesia con cui gli invasori riescono a saziare all'istante una
fame arretrata, dura giusto il tempo di accorgersi che il Piave è un osso duro
e che l'imprevista resistenza italiana sta allontanando il programma di altre e
più abbondanti dispense da saccheggiare al di là del fiume. Un miraggio che
era stato alimentato dagli stessi alti comandi, sull'onda della facile conquista
del Friuli, anche per rendere appetitosi ai subalterni i nuovi e più avanzati
obiettivi militari.36
«Al loro arrivo, uomini e bestie, erano macilenti e sfiniti dalla fame.
Trovandosi d'un tratto gettati in questo che essi dissero «il paradiso
dell'abbondanza», si diedero sfrenatamente alla crapula, facendo di tutto
uno sciupio insensato». (Ciganotto, 88).37 Lo scialo durato un paio di mesi,
35 Ai contadini di Salgareda che non vogliono abbandonare il paese, il loro parroco spiega: «Sentite! Li abbiamo
traditi alleandoci con i loro nemici poi sono Tedeschi, gente dura, e mio nonno mi narrava spesso quanti maltratta-
menti avevano usato a lui. Siamo nemici di guerra e allora come volete che ci trattino bene?». TOFFOLI, «Piovàn»
di una chiesa cit., p. 94. Nella lunga e movimentata vigilia di guerra, la battagliera stampa nazionalista era andata
affiancando alle rivendicazioni irredentiste, tipiche della tradizione democratica, una dura polemica contro la Ger-
mania, accusata di voler subdolamente impadronirsi dell'Italia usando i canali finanziari degli istituti di credito
controllati da personaggi tedeschi. L'aggressività di questa campagna aveva contagiato anche la stampa locale. Nella
primavera del 1915 il quotidiano La Provincia di Treviso non esitava a bollare i neutralisti come traditori della patria,
prendendo a bersaglio preferito il deputato di Montebelluna Pietro Bertolini, più volte ministro di punta nei governi
Giolitti. Bertolini era accusato (infondatamente) di trescare con esponenti diplomatici tedeschi per evitare l'entrata
in guerra dell'Italia. In maggio Bertolini era sfuggito a un tentativo di linciaggio su di un tram romano. Difficile che
i nostri diaristi, tutti buoni lettori, siano rimasti indifferenti a questa campagna tedescofoba se perfino gli amici più
vicini a Bertolini ne erano rimasti negativamente impressionati. Per completare il quadro occorre dire che la stampa
diocesana, sia di Treviso che di Vittorio, aveva sostenuto posizioni, diciamo così, giolittiane, ripiegando poi, dopo il
24 maggio, su una linea di disciplina patriottica. Come lo stesso Bertolini, d'altronde.
36 L'offensiva di giugno sarà considerata risolutiva anche per i vantaggi annonari che il successo avrebbe procurato.
La fiducia nell'esito positivo veniva trasmessa alle truppe nel modo più direttamente comprensibile. «Alcuni dei
miei uomini avevano bisogno di scarpe, perciò mi rivolsi al tenente. Egli però mi disse: «Aspetti solo due giorni, poi
saremo a Treviso, lì ci saranno scarpe a sufficienza». G.BIEDERMANN, Il Veneto invaso. Ricordi di guerra di un arti-
gliere austriaco, Treviso, Istresco, 2008, p.148. Pochi giorni dopo la battaglia del Solstizio: «Continua ad arrivare
truppa che chiede quanto dista Treviso. Quando li informiamo che Treviso si trova venti chilometri dopo il Piave, i
poveretti rispondono: -Ma noi passato il Piave! Buono Piave! Non riuscivamo a spiegarci tale insistente risposta che
ci sembrava incomprensibile. Ma borghesi venuti dal Tagliamento ci assicurano che, nelle vicinanze di detto fiume,
numerose tabelle ostentano dei grandi: Piave. Poveri soldati, come vengono ingannati!». (Arrigoni, 170).
37 La fertilità delle campagne venete e l'abbondanza dei raccolti sono un topos di vecchia data, che ora l'orgoglio
enfatizza per l'occasione rinfacciandolo alla fame degli invasori. In realtà la mietitura del 1917 fu la più magra degli
ultimi anni. E ciò malgrado le insistenti esortazioni ai contadini da parte delle autorità e delle associazioni agricole
a fare largo uso delle semine marzoline, per poter recuperare le semine mancate nel piovoso autunno 1916. La poli-
tica degli ammassi obbligatori e del contingentamento dei consumi, condotta con particolare attenzione proprio nel
corso del 1917, non dovrebbe aver lasciato, in libera disponibilità delle famiglie, molto più dello stretto necessario
(sotterfugi a parte). E poi, per la consistenza di càneve e granèr bisognerebbe distinguere, per esempio, tra le prov-
viste che può aver accumulato una grande azienda padronale di pianura e quelle di un piccolo coltivatore di collina.
Piuttosto, il 'tempismo' di Caporetto potrebbe aver sottratto al drenaggio dei controlli gli ultimi prodotti dell'anno,
cioè polenta e vino.

174
con la spensieratezza di chi è solo di passaggio, prima che l'offensiva venga
ufficialmente sospesa (e i tedeschi tornino a occuparsi del fronte francese), si
rovescia allora in un pesante contrappasso per l'imprevidente invasore.
Episodi estremi non mancano, in un senso e nell'altro, e i diari li riferiscono
rappresentando, tra sdegno e stupore, l'assillo quotidiano del cibo, per uomini
e animali. «A S. Andrea un porcello e 7 pitte mangiati in 3 persone». (Di
Ceva, 35). «Il parroco di Ogliano racconta: - Ieri sera due soldati, accasermati
vicino alla canonica, si sono mangiati un maiale rispettabile. Questi stessi
soldati dichiarano di aver mangiato in Lavonia sterco di cavallo bollito».
«Mangiavano ore ed ore di seguito, a crepapelle, esigendo vino a tutto andare.
Qui sono ancora incapaci di comprendere come costoro potessero ingozzare
una quantità così formidabile di carne, cotta nelle caldaie di grasso, senza
restar colpiti da un accidente». (Arrigoni, 64, 116). A Susegana una scena
bruegeliana: «Al pianoterra delle grandi cantine del conte Collalto, giacciono,
affogati nel vino, parecchi soldati germanici». A Conegliano, il giorno di
Natale: «I germanici si mostrano divoratori classici. In mezzo ai fumi del vino,
in soli quattro, si mangiano un maiale di oltre un quintale in 24 ore». (Della
Barba, 11, 13). Invece gli Arrigoni passano la vigilia di Natale cenando a base
di «fagioli con lasagne non condite, una scatola di tonno di marca italiana
dimenticata dai germanici e susine cotte», che è comunque un gran bel pranzo
a confronto di quelli che li aspettano. «La carne di ciuco è un po' duretta e
filosa, ma in umido ricorda vagamente il vitello tonné. Il grasso è buono, con
un certo odorino di pesce. Si mantiene giallo e limpido, né si rapprende come
il sego. Quanto ai gatti, la grande maggioranza ha già finito onoratamente, uso
lepre, ma senza salmì». «Oggi una giovinetta di agiata condizione venne a
pregare la zia di un po' di sorgo rosso per farsi la polenta. Ormai cominciamo
a disputarci un cibo adatto agli animali e foglie, credute immangiabili, sono
ricercate avidamente». «Il rancio [dei prigionieri] è spesso a base di trifoglio!
Ne abbiamo mangiato anche noi in primavera e, come le ortiche, non è né
gustoso né nutriente». (Arrigoni, 73, 111, 140, 177). «Il giorno di Pasqua
del 1918 ci fu menù d'eccezione: minestra di crauti marci e carne di cavallo
rognoso con polenta di sorgo. Tutte cose che ci procurarono uno spaventoso
riscaldo intestinale».38
Le cronache dell'anno nuovo portano infatti episodi di famelica
disperazione. A fine gennaio, a Motta: «Si presentarono in casa di mio padre
due soldati chiedendo una fetta di polenta, in altri tempi tanto disprezzata e
derisa insieme a quelli che la mangiano. Non ce n'era. Girarono lo sguardo,
38 «Il giorno di Pasqua del 1918 ci fu menù d'eccezione: minestra di crauti marci e carne di cavallo rognoso con
polenta di sorgo. Tutte cose che ci procurarono uno spaventoso riscaldo intestinale». I. TOMASIN, L'anno di Vittorio
cit., p. 28.
175
e: – Dateci almeno quel gatto, dissero. Fecero compassione: – Pigliatevelo.
Detto fatto: e se n'andarono contenti come una pasqua». (Ciganotto, 92). «La
fame prende anche soldati e ufficiali; hanno coraggio di mangiare i fichi crudi
e li alessano insieme con l'uva od altro». (Carpenè, 225). A Conegliano, in
giugno: «Non si trovano più cani, né gatti. I germanici preferirono mangiare i
cani». (Della Barba, 27), e gli austriaci non esitano a barattare un cavallo per
un coniglio. «Anche oggi, il rancio dei soldati consisteva in mezza gamella
di farina gialla cotta in molta acqua. Talora la farina è bianca. E alla sera the
o caffè, se c'è. E la mezza pagnotta distribuita ogni due giorni viene divorata
acida, nera, ripugnante». Alla vigilia della battaglia del Solstizio: «Negli
ultimi giorni furono sequestrate le poche mucche ancora esistenti a Miane
e dintorni. Sono state macellate sulla piazza, caricate sui camions e spedite
al fronte, ove i soldati si rifiutavano di combattere, se prima non veniva dato
loro da mangiare». (Arrigoni, 97, 111, 156).
Con il ritorno della buona stagione ci si sfama direttamente sui campi.
«Ogni mattina un centinaio di soldati col sacco in spalla percorrono tutte le
campagne a raccogliere ortiche, prima quelle matte, ora quelle pungenti con
i guanti. E poi hanno il coraggio di dire che nuotano nell'abbondanza! Una
piccola fetta di pinza di sorgo la pagano 2 corone, pur di mangiare qualche
cosa». (Carpenè, 211-212). «Soldati piangono dalla fame e vanno per i campi
a sradicare agli selvatici: ne ho visti!» (Di Ceva, 158). «Da tempo i militari
si nutrono di zuppe a base vegetale, mettendo nella pentola le intere piante di
fagiolini, i frutti di gelso ed altri erbaggi e mescolandovi dei susini in barile, in
mancanza dei quali vi pongono dello zucchero». (Della Barba, 33). «Mentre
scrivo, gli zigani, in una mastella da stalla, hanno cotto galline, carne, una
testa di maiale con i denti e tutto stanno sbranando, senza pane né posate.
Durante tutto il giorno masticano topinambur crudi e castagne d'ippocastano».
«Appena il granoturco cominciò a segnare la pannocchia, i soldati iniziarono
a raccoglierlo. Ora poi è una frenesia. In ogni casa ne cuocciono grandi
marmitte, bollendo insieme fagiolini, zucchini e quel po' di uva americana e
clinton sfuggita alla peronospora». (Arrigoni, 76, 188). Il 29 ottobre, quando
ormai le sorti della guerra stanno precipitando, un gruppo di soldati ungheresi
in ritirata dal Piave si rifugia nel mulino Casagrande, presso Conegliano (tra
Sarano e Campolongo, dove le acque del Crevada si mescolano con quelle
del Monticano). «Tolsero dapprima la farina da tutte le fessure del molino poi
scoparono il pavimento, infine si cibarono di crusca e di granoturco crudo, o
abbrustolito nelle gavette. Non crederei se non avessi visto coi miei occhi! Gli
ufficiali rimasero digiuni». (Casagrande, 21).
Se questi casi ci dicono delle estreme difficoltà di approvvigionamento

176
patite dalle truppe di occupazione durante il 1918, i diari portano una
documentazione impressionante delle condizioni in cui a maggior ragione
versavano le popolazioni civili. Neppure quando i numerosi interventi ad
integrazione della rete viaria avevano rimesso in efficienza le comunicazioni
da est a ovest l'autorità militare poté provvedere a sfamare soldati e civili
assieme. In un anno terribile, in cui, nella Sinistra Piave, la densità della
popolazione presente (tra civili, militari, profughi e prigionieri) si moltiplicò
più volte, il progressivo declino delle risorse locali non venne mai compensato,
se non in modo saltuario e in quantità insufficienti, da un ordinato afflusso
di risorse proprie dalle retrovie dell'impero. È l'impossibilità di disporre
di risorse aggiuntive che ha sancito il fallimento della pur improvvisata e
incerta politica annonaria condotta nei territori occupati.39 Il bluff dei buoni
di risarcimento e della nuova moneta senza credito, l'obbligo dei conferimenti
e le misure di razionamento disposti dopo le requisizioni spietate, l'utopia
del mercato libero dove domanda ed offerta non si incontrano mai: tutte
prove, teoricamente ordinatrici, fallite per questa impossibile quadratura del
cerchio di cui le prime vittime furono i civili e soprattutto i profughi, costretti
ad abbandonare i propri paesi in fretta e furia, portandosi dietro appena un
qualche fagotto. È tra di loro che si conterà il maggior numero di decessi per
gli stenti e le malattie.40
Le speranze che in primavera si concentrano sul nuovo raccolto vengono
frustrate dall'urgenza dei bisogni, che urtano con i tempi pazienti della natura.
39 Tra chi non si è perso d'animo e ha saputo destreggiarsi nella sciagura, emerge un giovane e combattivo prete
cadorino, parroco di S. Giustina a Serravalle. Incalzando di continuo il Comando Militare, egli riuscì ad ottenere da
ogni fornitura in arrivo una parte da destinare allo spaccio popolare aperto pochi giorni prima del Natale '17. Da 800
«clienti» iniziali lo spaccio ne conterà fino a 3mila, distribuendo carne e farina per tutto il periodo dell'occupazione.
D.A. PIAZZA, Relazione sull'opera da me svolta a S. Giustina di Serravalle -Vittorio- durante il periodo d'occupazio-
ne nemica, Vittorio, Stab. Tip. Bigontina, 1919.
40 Daniele Ceschin calcola che siano state 55mila le persone allontanate dalla zona del fronte e avviate ad est. D.
CESCHIN, Sernaglia nell'anno della fame, Com. Sernaglia della Battaglia, DBS, 2008, p.32. Tale calcolo considera
però l'intero territorio veneto occupato. Limitandoci alla popolazione dei comuni trevigiani disposti lungo la riva
sinistra del Piave, secondo i calcoli, sempre difettosi, che fanno capo al V Censimento della popolazione (10 giugno
1911), i residenti allontanati ammonterebbero a meno della metà: a 24.844 unità, secondo fasulla precisione. Gli
stessi paesi avevano visto, un mese prima, un altro esodo in direzione opposta. Secondo l'unica fonte ufficiale esi-
stente sul movimento dei profughi verso l'Italia libera (che Ceschin vorrebbe più correttamente definire 'rifugiati'),
44.857 persone si erano messe in salvo oltre il fiume, cioè un abitante su cinque della Sinistra Piave trevigiana. Ma
gli 11 comuni rivieraschi, i più vicini alla salvezza, avevano toccato le percentuali di esodo più elevate (46.7%),
superando a Vidor, Sernaglia, Susegana, Ponte di Piave anche il 50-60% della popolazione. In MINISTERO PER
LE TERRE LIBERATE, Censimento dei profughi di guerra. Ottobre 1918, Roma, 1919, pp. 221-222. Nei nove
comuni rivieraschi sull'altra sponda, l'esodo, volontario o forzato, riguarderà i quattro quinti della popolazione. E un
abitante su tre (93.520) nell'intera Destra Piave trevigiana. Anche se spinte ai decimali, queste sono cifre che posso-
no dare solo un primo ordine di grandezza del fenomeno. Infatti, tra la data di rilevazione del censimento del 1911
e il momento in cui ebbe inizio l'esodo dei profughi, intercorrono sei anni durante i quali la popolazione è cresciuta
secondo movimento naturale. Inoltre un numero imprecisato di emigranti temporanei (rilevati nel 1911 in 27.842
unità, di cui 15.419 nella Destra Piave e 12.423 nella Sinistra Piave) dovette rimpatriare nel 1914, allo scoppio della
guerra europea. E tra gli assenti, nel 1917, vanno calcolati gli uomini al fronte e i caduti (v. nota 13). Circa i decessi
tra i profughi internati nelle retrovie trevigiane e friulane, alcune cifre impressionanti vengono fornite da Ceschin
in ID, Sernaglia cit., pp. 42-43.
177
Allora si raccoglie la frutta acerba, si taglia il frumento ancora verde, si rovina
la stagione lasciando pascolare i cavalli ovunque, purché riescano a reggersi
in piedi. Indispensabili mezzi di mobilità e di trasporto, i cavalli vanno nutriti
non meno degli uomini, a qualunque costo. Neanche loro sfuggiranno tuttavia
alla morìa per inedia, denutrizione, avidità suicida.
«Le nostre colline sono divenute il pascolo, con questa rigida stagione
hanno il coraggio di mandare tutte le bestie a provedersi, dico questo poiché
nutrono i cavalli con la paglia, e quanti tutti i dì ne muoiono per le vie sfiniti
affamati». (Brustolon, 90). «I cavalli ungheresi e austriaci muoiono di fame;
mangiano canne, vanno al pascolo dappertutto, anche nei frumenti […] Quei
poveri cavalli muoiono proprio di fame; i soldati danno loro perfino le canne
gargane e tagliano le gaggie […] Pei nostri campi tutti i cavalli con la rogna
e che cadono in terra dalla debolezza». (Carpenè, 196, 199, 206). «Stamane,
in un campo qui vicino, morirono quattro cavalli per aver mangiato spagna
bagnata. La padrona impulsivamente esclama: -Ma non vedete? Se fate
così, vi morranno tutti! -Vi spiace, mamma? Ridono i triestini di guardia-
Ci credete così grulli? Ma non sapete che senza cavalli non si fa la guerra e
che questo è un modo come un altro per farla finita? Senza aggiungere che,
quando i cavalli sono morti, noi li mangiamo; ma se vivono loro, moriamo
noi!». (Arrigoni, 137-140).
Chi riesce a cavarsela meglio, malgrado tutto, sembra sia chi è rimasto a
vivere sulla propria terra. «Di quella piccola, anzi esigua porzione di frumento
che i produttori hanno potuto con rischi e pericoli sottrarre alla rapina, per
usufruirne devono servirsi dei macinini da caffè o pestarla comunque in un
bossolo di granata, e ciò con penose cautele: guai se si sapesse che qualcuno
ha del frumento!». (Ciganotto, 194-195). E anche tra i cittadini rimasti sbarca
in qualche modo il lunario chi è riuscito a salvare dalle razzìe del denaro
contante, degli oggetti preziosi, che risulteranno utilissimi anche quando,
mentre arriva l'estate, la penuria estrema rimette in corso il baratto. Ma nel
circuito del mercato nero – sempre fiorente in queste occasioni – chi baratta
spesso rivende, a caro prezzo. «Con il denaro nulla si trova, il Comando dice
che noi non abbiamo bisogno perché tutti, o la maggior parte dei contadini
portano generi in cambio alle mense; e a noi questi nulla danno con il denaro;
anche questo, aiuta alla nostra rovina». (Brustolon, 124). «Ieri, proprio per
caso, papà seppe che il Comando distribuiva farina in cambio di oro. Vi
corse difilato, lietissimo di avere in tasca due marenghi e mezzo. Gli venne
rilasciato un buono col quale poté ottenere 97 chili di farina mescolata però in
forte proporzione a punte di torsolo macinate insieme». (Arrigoni, 168).
Nell'accanito lavoro di spoliazione che non avrà tregua fino alla conclusione

178
del conflitto, non c'è però solo la caccia al cibo. Le case, abbandonate od
occupate, vengono saccheggiate di tutto quanto possa avere un qualche valore
d'uso, anche se non immediato. Biancheria, mobili, abbigliamento, posateria,
oggetti d'arredamento. Materiale anche ingombrante, che ha bisogno di un
minimo di organizzazione collettiva per essere trasportato e inoltrato in patria.
Ai diari sfugge, in un primo tempo, questo aspetto preordinato nella razzìa,
attribuendo a un incomprensibile spirito vandalico di elementi facinorosi (che
pure non mancano, naturalmente) l'accanimento a rovinare e ad asportare
anche ciò che non serve alle immediate esigenze di sostentamento.

I soldati abbrancano qualunque cosa che cada loro tra mani: libri, carte, specchi, oggettini di lusso,
ninnoli, ecc., tutta roba a loro inutile, che poi gettano nei cortili, nelle strade, nei fossi». «Il sacco di
Roma ha durato cinque giorni, ed è passato alla storia: il Sacco di Motta ha durato ben quaranta giorni,
e questo era il tempo utile durante il quale tutti potevano dedicarvisi autorizzati. […] Alle truppe fu
a preferenza data mano libera nella campagna e nei piccoli paesi, mentre l'ufficialità e le Autorità
riservavano per sé la città, i palazzi, le botteghe e i magazzini. Il bottino fatto da questa veniva poi altro
diviso e distribuito alle truppe, altro inviato in Austria. (Ciganotto, 22, 66-67).

«Ora v'è qui il Comando di Divisione: da noi chiamato Comando dei ladri
poiché partono per tempo al mattino, con 8 e anche 10 carri e vi ritornano
alla sera carichi d'ogni ben di Dio, tutto rubato e requisito: non ho veduto
Germanico che levi da tasca una corona per pagare». (Brustolon, 26). «Le
automobili vengono caricate di ogni cosa: mobili, cristallerie, perfino gli abiti
della sposa e dei bambini, la cassa dello scheletro su cui studiava il professor
Tita, la vasca da bagno». (Arrigoni, 33). «Entrano nella mia abitazione (casa
Buffonelli), soldati per portar via cordoni elettrici, lampadari, pomoli d'ottone,
campanelli, ecc». (Della Barba, 40).
Ci sono direttive che vengono dall'alto e da lontano che autorizzano e
proteggono questo sistematico prelievo di materiale utile al funzionamento
dell'industria nazionale. Per cui risulterà inutile e senza risultato qualunque
protesta venga fatta ai comandi per ottenere soddisfazione. Infatti, non si
tratta delle intemperanze isolate di qualche briccone scapestrato. «La Chiesa
di S. Rocco è diventata il deposito generale di oggetti di rame e di altri metalli
rapinati». «Nel palazzo Montalban Gritti stanno immagazzinando circa 150
camions di tessuti in genere, rubati in città, e nei paesi contermini». «Partono
incessantemente treni, con grandi quantità di animali bovini ed ovini, per la
Germania». (Della Barba, 13-15).
Non sfuggono alle depredazioni neppure famiglie altolocate, che per il
pregio della loro dimora, per la collocazione sociale, per una certa simmetria

179
di ceto con il corpo degli ufficiali pur godono di una qualche deferenza da
parte degli illustri ospiti che vivono in casa, con i quali si stabiliscono dei
rapporti di formale ossequio.
A Refrontolo, villa Antonietta, residenza dei nobili Spada, viene subito
occupata, fin dall'11 novembre, dal Comando del III Corpo d'Armata
bavarese. Il generale barone Hermann von Stein vi prende alloggio per un
mese, sistemandosi direttamente nella camera della padrona di casa, alla
quale tocca traslocare nelle stanze della servitù.41
Riverita in tutte le occasioni in cui vi si tengono cene importanti, capita
alla padrona di casa di scoprire, dopo la partenza degli ospiti, la sparizione
di qualche oggetto di valore, una spada antica, un quadro. Malgrado la
comprensione amichevole che le dimostrano gli ufficiali dai quali va a
lagnarsi, non riesce tuttavia a ricuperare il maltolto.
È del 16 dicembre 1917 la stesura a Vienna di un accordo tra Germania e
Austria-Ungheria per la ripartizione del bottino di guerra. L'accordo prevedeva
una minuziosa caratura tra i due alleati secondo le merceologie del prelievo
dai territori italiani invasi, in funzione delle diverse necessità dell'economia
nelle rispettive patrie. Per esempio, mentre per i generi alimentari era prevista
una sostanziale parità di trattamento tra le due parti (tranne che per il mais
riconosciuto di spettanza austriaca in rapporto di 4 a 1 e per il vino esattamente
il contrario), per i mezzi di trasporto come autocarri e vetture il rapporto di
2 a 1 a favore della Germania ne sanciva la primazìa tecnica, industriale e
produttiva. Riconoscimento confermato con la totale attribuzione ai tedeschi
di metalli come piombo e zinco.42 La Germania mantenne questi diritti di
partecipazione allo sfruttamento economico del Veneto anche dopo il ritiro
delle sue truppe dal fronte italiano, che avvenne gradualmente tra la fine di
dicembre e la metà di febbraio, e in certe località anche in seguito.
I diari dimostrano lo scarso rispetto degli accordi nella ripartizione dei
generi alimentari, consumati avidamente in loco e all'istante dal primo
fortunato arrivato. Mentre per i prodotti solidi chi scrive assiste a scene di
contrasti violenti tra alleati per il possesso della refurtiva.

41 Villa Antonietta è situata in posizione dominante sulle colline di Refrontolo, paese che si trova a metà strada
tra la linea del fronte sul Piave e la sede del Comando della VI Armata a Vittorio. Punto strategico, si presta bene ad
ospitare incontri ad alto livello. Il diario di Maria Spada (p.84) riferisce di un incontro di von Below con Stein e il
capo di stato maggiore Konrad Kraft von Dellmensingen il 22 novembre 1917 e di nuovo il 30 novembre alla presen-
za dell'Arciduca Eugenio. Anche la casa di un altro dei nostri diaristi diventa sede di comando e può godere di onori
simili. In casa Carpenè, sui colli di Scomigo, tra Vittorio e Conegliano, si tiene un banchetto in onore dell'Arciduca
Giuseppe d'Asburgo, in visita il 30 gennaio 1918, e di nuovo il 7 aprile.
42 C. HORVATH-MEYERHOFER, L'Amministrazione militare austro-ungarica nei territori italiani occupati dall'otto-
bre 1917 al novembre 1918, Udine, 1985, pp. 12-20. Le requisizioni dei materiali oggetto dell'accordo erano tuttavia
già in corso al momento della firma. Una prima notificazione alla popolazione porta la data del 3 dicembre 1917
(Arrigoni, 56), ribadita poi il 14 marzo 1918 (Rossetto, 72).

180
«Oggi vennero a portarci via due carri di fieno; prima vennero i Germanici
per caricare un carro e siamo ricorsi all'Austria. L'Austria fugò i Germanici
e poi essa invece di un carro, ne caricò due. Alla sera tornano i germanici
e non si può impedire nemmeno con le guardie austriache il carico di altro
fieno». (Carpenè, 184). «Ho sentito ieri da ufficiali austriaci che alla frontiera
furono fermati camions germanici con refurtiva italiana e che la roba invece
fu spedita a Vienna». (Di Ceva, 66).
I nostri scrittori sono tra i fortunati che, per censo o per condizione, riescono
a superare meglio le difficoltà della sopravvivenza fisica.
Bianca Brustolon vive tappata in casa, frastornata dai rumori continui
del traffico militare e da quelli delle diverse lingue che le tocca ascoltare
dalla bocca degli indesiderati ospiti che occupano le stanze migliori. Bada
ai genitori indisposti, esce di rado per visite devote e inorridisce a trovare
i viali scassati dal passaggio incessante dei pesanti mezzi degli invasori e
ancor più inorridisce a trovare marciapiedi divelti e muriccioli diroccati per
ricuperare materiale da impiegare nel consolidamento del fondo stradale. Di
rado fa menzione di strettezze alimentari. I Brustolon sono riusciti a mettere
in salvo qualche somma, qualche oggetto prezioso, con cui sono in grado di
fronteggiare le difficoltà della sopravvivenza.

Con il denaro nulla si può più avere , ora dobbiamo pensare di privarsi di biancheria vestiti ed altro
pur d'arrivare alla meta, poiché sarebbe doloroso morire di fame quando s'aprossima il dì agognato della
liberazione. […] I speculatori ritirano oro e argento per grano turco; sono andata io pure con persona
conoscente per fare aquisti, invece hanno già sospeso, v'è l'ordine d'andare dal Sindaco; esso incaricato
di raccogliere in scritto la quantità di questo e poi loro farebbero conti. Noi non ci andremo poiché
certo saressimo gabate. […] Sono andata con persona amica acquistare farina per argento; quante,
quante umiliazioni. […] Siamo a settembre quando veranno a liberarci? Pazienza ancora! Ma guai ci
lasciassero ancor dei mesi, la fame, la fame, quante vittime farebbe. (Brustolon, 125, 149-150, 162,
182).

Valentino Carpenè, consigliere comunale, agiato possidente con vaste


proprietà terriere sui colli di Scomigo, dopo aver messo in salvo oltre Piave la
famiglia (moglie e cinque figli, riparati nel salernitano), preferisce rimanere a
custodia del patrimonio, nell'illusione di poter meglio proteggerlo di persona.
Il suo diario registra giorno per giorno lo stillicidio delle depredazioni, ma
anche la tenace fierezza con cui disputerà senza sosta il bottino agli invasori.
Nello stesso giorno della fine del conflitto scriverà al figlio maggiore: «Ci
hanno portato via tutto quello che hanno potuto; se non fossero stati cacciati,
dopo averci spogliato, ci avrebbero fatto morire di fame». (Carpenè, 169).

181
Profughi in fuga dopo la rotta di Caporetto. MCRR.

Profughi che sostano in un paese. MCRR.


Altre immagini relative alla triste condizione dei profughi. MCRR.
Eugenio Della Barba ha i figli al fronte. È rimasto a casa con la moglie
«allo scopo di sorvegliare e possibilmente salvare alcunché del ben di Dio,
contenuto in quattro case in città e in sei campagne site in Collalbrigo, Ramera,
Monticella e Cimetta». A partire dal 1° marzo – data in cui il Comando austriaco
gli impone di sostituire mons. Sebastiano Dall'Anese nell'incarico di reggere
l'amministrazione comunale – il suo diario è soprattutto una registrazione
degli spiacevoli impegni da cui è assorbito nella nuova e sgradita funzione
di pseudo-sindaco, privo di mezzi e di risorse per poter fronteggiare il rapido
decadimento della vita cittadina, cui tocca assistere impotente, prendendo
nota delle cose peggiori.43
Non si lamenta delle proprie condizioni materiali, malgrado il ruolo
pubblico non sia servito ad assicurargli un trattamento di riguardo. Alla
data del 18 maggio scrive: «Il peso del mio corpo è scemato di oltre 29
chilogrammi e soffro di vertigini». Si lamenta piuttosto della «solitudine del
potere»: beccato dalle donne del popolo, osteggiato dai coloni, coartato dalle
autorità militari, tradito dai colleghi del municipio. Ma chiude il diario fiero
dello zelo con cui ha portato a termine l'incarico, presentando soddisfatto una
contabilità in ordine e in attivo, in sottintesa polemica con la prima breve
gestione Dall'Anese.
Non si lamentano neppure i religiosi. Mons. Emilio Di Ceva insegna lettere
al Seminario di Ceneda e dà anche qualche mal pagata lezione privata. Le due
corone che prende all'ora servirebbero appena ad acquistare un litro di latte.
Fortunatamente non si trova nella necessità di provvedere da sé al proprio
sostentamento. La cucina della Curia e quella dell'ospedale militare tedesco,
che in Seminario ha preso il posto di quello italiano che vi si era stabilito
dall'agosto 1915, funzionano a dovere. «I soldati in cucina ci danno la carne:
sono buoni e pieni di attenzione». (Di Ceva, 35 ). Egli si trova poi al centro
di una fitta rete di visite e contatti da tutta la diocesi. Scritto in una spezzata
tessitura stenografica, il suo diario ce ne dà una vivace rappresentazione,
brulicante di personaggi, di episodi, un brusìo di notizie le più disparate
43 La desolazione del centro urbano di Conegliano è ben documentata da alcune immagini scattate dal servizio
fotografico austriaco: strade deserte, case abbandonate. «Conegliano è un piccolo Belgio», scrive ad un amico in Se-
minario il parroco di S. Martino don Vincenzo Botteon, l'apprezzato studioso del Cima. Della Barba riporta, alla data
del 16 dicembre 1917, i risultati di un censimento della popolazione disposto dal Comando militare austriaco. Dalle
cifre esposte, divise per frazione, risulta che il centro urbano si è spopolato di almeno due terzi rispetto al censimento
dei presenti nel 1911: 2393 abitanti su 7433. Il che significa che l'87% dei profughi coneglianesi risiedevano in città.
Questo può spiegare il vuoto documentato dalle immagini e anche l'accanimento vandalico contro gli edifici disabi-
tati. Senza dimenticare che la città è stata a lungo bersaglio dell'artiglieria italiana. A Ceneda e Serravalle invece, il
profugato segna cifre minori. Secondo il censimento ministeriale citato, hanno lasciato Vittorio 3487 abitanti (15,9
% della popolazione residente nel 1911), mentre a Conegliano se ne contano un migliaio in più: 4395 abitanti, pari
al 33.8% della popolazione residente nel 1911. Inoltre alla Commissione d'inchiesta sui danni di guerra subiti dalle
abitazioni civili, istituita nel 1919, a Conegliano risultarono 35 gli edifici demoliti mentre a Ceneda non ne risultò
alcuno. Ma danneggiati rispettivamente 900 edifici a Conegliano e 2029 a Ceneda (più 762 a Serravalle).

184
sulla guerra e sulle violenze che circolano di bocca in bocca, incontrollate
e incontrollabili. («In tèmp de guèra ghe n'é pi bae che tèra», affermava un
proverbio locale che sarebbe piaciuto a Marc Bloch).
Ne possiamo anche trarre ripetute testimonianze su quanto possa aiutare
la deferente solidarietà prestata da suore e preti. «Le suore di Pieve di Soligo
portarono viveri, grano, molto pollame ecc…per più mesi». «Viene a pranzo
don Giuseppe Tommasella di Fontanelle e porta biava, un cappone e la
lingua di un manzo». «Viene il chierico Piovesana da Codognè e ci porta
70 uova». (Di Ceva, 127, 128, 170). Una condizione privilegiata che non
manca di provocare qualche risentimento tra la gente. «Il popolino, le donne
specialmente, contro i preti del Seminario perché hanno di tutto». (Di Ceva,
217).
Sono altri, piuttosto, i bisogni che gli riesce più difficile soddisfare. Mons.
Di Ceva è un accanito fumatore ma si vede che può contare su una rete di
buoni amici.

Compro 4 pacchetti di tabacco turco finissimo biondo-oro da Checco Caramel a 3 corone. […]
Altre 15 corone per 100 sigarette da Toni Fabris. […] Vado dalla Rizza [è la padrona dell'Osteria della
Provvidenza, provvidenziale base di appoggio]: tre pacchetti tabacco turco biondo oro per L.10. […]
Un pacchetto trinciato turco 10 lire venete (8 corone austriache). Altri tre pacchetti da Dino Schiavazzo
per 10 corone. Finalmente![…] Il Vescovo, per mezzo di don Domenico, ha avuto venti pacchi di
tabacco a 18 centesimi il pacco (i soldati poi vogliono 4 corone). Il colonnello disse a don Domenico:
Al Vescovo non si deve negare nulla! Mi sono io pure raccomandato…. (Di Ceva, 72, 111, 207, 224).

Anche il francescano padre Lodovico Ciganotto può evitare la pena di


doversi dare alla caccia del vitto quotidiano. Dal 23 novembre, al refettorio
della Basilica della Madonna dei Miracoli, a Motta, viene associata la cucina
dell'ospedale militare.

Da oggi gli ufficiali dell'ospedale (808) stabiliscono la loro mensa in convento, e precisamente nel
nostro refettorio. In compenso vogliono che si faccia mensa comune, dietro una certa somministrazione
di alcuni generi da parte nostra. Capo cucina è una donna di Lubiana che parla discretamente l'italiano.
Ritengo che dalla fondazione del convento questa sia la prima volta che una donna fa la cucina per i
Religiosi. (Ciganotto, 39).

Anche i Pivetta e gli Arrigoni, le due famiglie di Valdobbiadene costrette ad


allontanarsi dalla linea del fronte e lasciare beni e paese seguendo la colonna
dei nuovi profughi che ora vanno verso est, senza indicazioni precise, lungo
la pedemontana che porta a Vittorio.

185
A quelli di Valdobbiadene era toccato sgomberare il 4 e 5 dicembre, a
Segusino già l'1 e ai paesi del medio Piave qualche giorno prima. Sfumata
l'occasione di passare il fiume di slancio, gli invasori stavano attrezzandosi
per una nuova guerra di posizione, anche se non proprio in trincea secondo
stile carsico. C'è dunque bisogno di campo libero per i movimenti di truppe
e di mezzi.
L'ordine di sgombero faceva intendere che fosse cosa di pochi giorni. I
nuovi profughi avevano dovuto abbandonare tutto in fretta e furia, portandosi
dietro solo qualche misero fagotto. Con il vantaggio per l'invasore di intasare
meno le strade con carri e masserizie e di lasciar libere le case al saccheggio
più comodo.
Renato Arrigoni, ostinatamente preoccupato di non abbandonare l'archivio
dei suoi rogiti, riesce ad ottenere la disponibilità di un camion, sul quale carica
le tre casse di documenti e le due figlie. La famiglia lascia l'antico palazzotto
in piazza Maggiore, di fronte al municipio, con la mira di farsi ospitare a
Vittorio dai parenti Lucheschi (il notaio è vedovo recente di una Lucheschi).
Ma a Serravalle trovano il palazzo occupato dal comando di tappa e dagli
uffici che rilasciano i nuovi documenti di riconoscimento e vengono a sapere
che la villa che la nobile famiglia abita a Colle Umberto è stata incendiata.44
Gli tocca ripiegare presso altri parenti, i Pampanini (Giovanni ha sposato
la sorella del notaio di Valdobbiadene), che abitano in una villa sui colli di
Confin, sopra Cozzuolo.45 La casa ha tre grandi piani e già ospita una famiglia
di profughi ed ospiterà presto anche un gruppo di 15 soldati tedeschi.
Il giro d'orizzonte delle osservazioni di Caterina Arrigoni scorre sulla
corona delle colline del vittoriese. Per rivedere i compaesani si impegna in
lunghe trasferte a piedi, a Cappella, a Pieve, a Tarzo, a Colle Umberto, bene
accolta ovunque da quei profughi che trova assai male in quartiere.
Il suo è tra i diari il più ricco di notizie e di riflessioni. E mette in evidenza
quanto sia stata diversa l'esperienza del profugato considerando la condizione
dei contadini, meno provvisti di contanti, che hanno dovuto lasciare tutto in
paese e sono ridotti a vivere di espedienti.
Arrigoni non ha fatto in tempo a ritirare tutti i suoi depositi prima che la banca
chiudesse i battenti. Ha potuto avere un prestito da don Francesco, il cappellano
di Valdobbiadene, e con i contanti al mercato nero non hanno conosciuto davvero
la fame (ma il notaio confessa di aver perso 25 chili di peso).

44 I Lucheschi si erano rifugiati in Romagna, a Cesena, dove il nobile Giacomo avrà recapito anche come commis-
sario prefettizio di Colle Umberto, mentre il sindaco, magg. Tarlazzi, era stato internato a Linz.
45 È curioso che casa Pampanini, prima della guerra, fosse stata invece meta prediletta per le baldorie di una
famosa compagnia di buontemponi, chiamata appunto 'cozzolesca'. Se ne leggono le gesta in M. ULLIANA, Vecchio
tinello, Vittorio V., De Bastiani, 2001, pp. 61-62.

186
«I contadini, minacciati negli animali che rimangono loro, preferiscono
macellarli nascostamente e venderne la carne, dopo essersi assicurati il vitto
per qualche tempo. Alcuni sono venuti ad offrirci grossi pezzi, a prezzi
ragionevoli. Approfittando dell'insperata fortuna, ne saliamo ed affumichiamo
parecchi chili». Ai primi di gennaio Caterina annota:

Nelle ultime settimane abbiamo avuto l'insperato rinforzo di un chilo di sego che una volta
gettavamo, ma oggi, sapientemente manipolato dalla zia, serve da burro margarinato. Il pane poi! Pensa
che in tutto il mese abbiamo avuto due volte un pezzo di pagnotta militare. […] Ormai molti vivono
quasi esclusivamente di sorgo rosso con cui fanno una specie di pinza. Ne ho assaggiata una anch'io,
cotta come la polenta. È dolciastra, ma meno disgustosa della polenta di granoturco di cui crusca e punte
di torsoli macinati compongono la massima parte. Ne ho parlato con lo zio Tita che mi ha sconsigliato
di usare il sorgorosso, perché è di difficilissima digestione. Aggiunse: Ti sarai accorta da te, passando
per certe vie, come le feci umane sono insanguinate. Qui si usava per l'alimentazione dei maiali, ma con
l'attenzione che fosse a giorni alterni. (Arrigoni, 69, 84, 174).

Più agitato il trasloco dei Pivetta. La signora Filomena detesta i cambiamenti.


Per lei è una pena insopportabile dover abbandonare la casa dove la famiglia
ha potuto godere per tre settimane della protezione di un simpatico ufficiale
bosniaco.
Per la fretta della partenza, Giambattitsta non ha potuto andare a Saccol
dai suoi coloni per chiudere i conti dell'annata e procurarsi del contante. Ha
dovuto accontentarsi anche lui di un prestito di don Francesco.
Grazie alle premure di un polizaio amico, i Pivetta riescono a salire su di
un camion per il viaggio verso Follina, Revine («paesello ch'io non avevo mai
sentito nominare») e infine a Tarzo, dove si stabiliranno fino alla fine della
guerra. «Il viaggio fu buono, ma quanto triste! Incominciammo ben presto
a raggiungere per via frotte di compaesani che portavano la loro roba sulle
spalle, o trascinandola su di un carretto a mano. Alcuni che ci ravvisavano,
ci salutavano sorridendo ma altri, mossi dall'invidia perché eravamo in
macchina, ci gridavano dietro delle invettive». (Pivetta, 12).
Il profugato dei Pivetta come ce lo racconta la piccola Maria Egizia, è
un'esperienza eccezionale, del tutto fuori del comune. La disponibilità di
contante di cui gode la famiglia (al prestito del cappellano se ne è aggiunto
più tardi un altro ottenuto dal fratello del notaio Arrigoni, medico a Colle
Umberto) aiuta a trovare ovunque una buona accoglienza. «Il babbo ha potuto
finalmente scambiare i sette metri di tela bianca con dieci chili di farina gialla
e cinque di fagioli, un valore complessivo di circa cento lire mentre la tela, al
momento dell'acquisto non è costata nemmeno otto. Ma ora i prezzi sono alle

187
stelle, non c'è più regola in nulla». (Pivetta, 41). Giambattista parla bene il
tedesco e ciò gli favorisce conoscenze ed appoggi presso i comandi militari,
procurandogli, negli ultimi mesi dell'occupazione, anche un impiego da
interprete presso gli uffici di Corbanese e di Tarzo.
Quando la penuria si farà sentire di più e verranno a mancare le distribuzioni
amiche della cucina militare (avendo i Pivetta rifiutato un trasferimento in
Friuli), al padre toccherà fare lunghi giri a piedi, nell'udinese e nelle basse,
per procurare del cibo.

Allora, per quanto l'impresa fosse poco adatta a lui, per la lunghezza dei percorsi e la mancanza di
mezzi di trasporto, pensò di associarsi a qualcuno per andare in cerca di grano, ma non gli fu possibile
trovare nessuno disposto ad andare con lui, tutti si rifiutavano forse temendo che la presenza di un
«signore» facesse rialzare i prezzi. In maggio: «Egli ed i suoi compagni si sono spinti fino a Pasiano
Schiavonesco ed hanno avuto la fortuna di trovare il grano che cercavano in quantità sufficiente; con sei
monetine d'oro il babbo ha potuto avere 80 chili di farina bianca, un sacchetto di 5 Kg.di piselli secchi
e una trentina di chili di farina gialla. Diversi chili di bianca ha dovuto cederli però ai suoi compagni di
viaggio, meno fortunati di lui. (Pivetta, 24, 41).

La vicenda dei Pivetta avrà un tragico epilogo. La piccola scrittrice morirà


di spagnola pochi giorni dopo la liberazione, seguita dalla madre nel giro di
pochi mesi. La sorella di Maria Egizia, Fanny, che ha curato la pubblicazione
del diario, ricorda che il padre «non ha potuto mai perdonarsi, finché è vissuto,
di non essere partito in tempo, come tanti altri, al di là del Piave, verso la
salvezza». (Pivetta, 64).

Paesaggio con rovine


I primi piani sui misfatti degli invasori e sulle sofferenze degli invasi
occupano quasi tutte le pagine dei diari, in particolare di quelli indirizzati
all'ambiente dei parenti, scritti come pro-memoria a sostegno del racconto
che gli autori si sono proposti di ripetere a voce, dopo la guerra, quando si
saranno ricomposte le famiglie divise da Caporetto.
Essi sono lo specchio di un paesaggio fisico e umano che nel giro di pochi
mesi si è profondamente dissestato: caduta l'autorità pubblica riconosciuta,
disarmate le gerarchie sociali, allentati i vincoli del controllo sociale, installata
un'autorità straniera e in divisa – incomprensibile nella lingua e nelle intenzioni
– menomata la possidenza agraria, bistrattate le colture, imposta in casa
un'affollata convivenza con truppe d'occupazione che si dànno il cambio nelle
prepotenze e nelle violenze, e con l'intrusione di intere famiglie di profughi,
trevigiani sì ma ugualmente sconosciuti ed estranei, con cui dover spartire le

188
già magre risorse disponibili. E tutto ciò nel caos che governa le immediate
retrovie del fronte, con il trambusto continuo di uomini e di mezzi e con gli
effetti mortali del 'fuoco amico'.
Dopo il terremoto demografico che ha colpito tutti i paesi, privandoli
prima delle forze più giovani destinate al fronte e poi delle molte famiglie
che hanno potuto fuggire oltre Piave, si sono aggiunti questi altri fattori
di disgregazione che hanno disperso riferimenti identitari, stravolto la
fisionomia delle comunità, sbiadito le fattezze della patria.46 Caduti
l'esercito e le istituzioni di governo, si è anche inceppato quel plebiscito
quotidiano che per Ernest Renan è la prova vivente della nazione. Se nelle
mire un po' sadiche delle classi dirigenti la guerra doveva essere anche
l'occasione propizia per cementare una coscienza nazionale (coronando
l'ambizione semi-secolare di far crescere con l'Unità lo stato e la nazione),
pochi mesi d'invasione avevano scosso la tenuta di tale programma. Non
è un caso che, tra i nostri diaristi, solo le due insegnanti, tenendo fede alla
loro missione educativa, esprimano richiami ideali di questo tipo.47 Mentre
il ruolo carismatico dei parroci si svolge su un piano diverso, a protezione
delle anime e dei corpi, non a salvaguardia dell'unità nazionale.
Viene anzi dai religiosi la voce più critica verso le cause prime, verso
l'ipocrisia dei ceti preminenti e la debolezza delle autorità civili che non
hanno mantenuto il loro posto. Sono deplorazioni magari anche interessate,
che valgono ad esaltare il ruolo svolto dalla Chiesa nei territori occupati,
ma che colpiscono nel segno e che legittimamente pronunciano coloro che
l'occupazione l'hanno sofferta fino in fondo, presi di mira più di ogni altro,
sia nei sospetti che nelle strumentalizzazioni, da parte dei comandi militari
austriaci e tedeschi (e, nei territori liberi, da parte dei comandi italiani).

Veramente grave e difficile era ad un tempo la nostra posizione. Da una parte certi signori che
avevano sempre gridato «Viva la guerra», insistendo presso i loro dipendenti sulla necessità e sul
dovere che tutti avevano di cooperare con tutte le forze al nostro trionfo, assoggettandosi, se fosse
d'uopo, anche a sacrifici i più gravosi per una causa tanto nobile; noi li avevamo veduti misteriosamente
scomparire dai nostri paesi. Ove si erano rifugiati? È facile immaginarlo, oltre il Piave. Niente di
male, anzi…ma perché essi non si curarono di far presente anche ai dipendenti il pericolo grave che
sovrastava? Perché anzi spargere e far spargere artificiosamente la voce che essi non ci avrebbero
46 Sbiadite proprio in quei lineamenti primigeni tratteggiati da Silvio Lanaro (al riparo da usi imperialistici). ««Pa-
tria» […] è il luogo fisico dove l'ambiente e il paesaggio – costruiti o modificati dalla vita activa delle generazioni
– svolgono una funzione primaria di protezione e rassicurazione esistenziale, e dove una cultura non semplicemente
verbale produce affinità, consonanze, parentele ideali e morali». S. LANARO, Patria. Circumnavigazione di un'idea
controversa,Venezia, Marsilio, 1996, p.15.
47 Invece Caterina Arrigoni ha uno scatto di orgoglio 'nazionale' quando lo sente umiliato dagli austriaci perché
fanno gran uso del telegrafo. «Qual pena vedere una scoperta così genialmente italiana al servizio dei nostri nemici».
(Arrigoni, 84). Grandezza della patria, anche senza ricuperare un ettaro dalle terre «irredente».
189
abbandonato, che sarebbero rimasti con noi fino all'ultima ora? Perché cercare di persuadere il popolo
che miglior partito era rimanere al suo posto? 48

Il Regio Commissario consegna al Vescovo magazzino Comunale: patate, grano, legna per i poveri
e poi fugge con B. Rossi; delle autorità comunali non resta che l'ing. Trojer il quale invita e prega il
vescovo ad accettare presidenza Opere pie, ospedali, ecc…[…] Incontro la maestra De Faveri, la quale
mi dice che il Regio Commissario di Vittorio aveva in saccoccia l'ordine ufficiale di far sgomberare
Vittorio, ma che non si è sentito in caso di assumersi la tremenda responsabilità (forse avrà secretamente
avvertito i Signori di Vittorio, autorità ecc…, altrimenti – mi domando io – come si spiega l'unanimità
quasi contemporanea della fuga delle autorità, dei Signori di Vittorio?). (Di Ceva, 15, 66-67).

I dubbi sull'efficienza del nostro esercito, il prolungarsi dell'occupazione,


la lontananza dei propri cari, il logoramento del corpo e della mente incrinano
anche i sentimenti patriottici.
In un primo tempo a Renato Arrigoni «ripugna come una vigliaccheria
abbandonare il suo paese in un momento così critico in cui tutti i rimasti
appuntano gli sguardi su di lui». Vorrebbe mettere in salvo le figlie e
rimanere a Valdobbiadene. «Ma, naturalmente, noi rifiutiamo di separarci
da lui. Del resto la partenza ci ripugna per le stesse ragioni». Cinque mesi
dopo però la fermezza cede alla lusinga di poter riparare nell'Italia libera,
attraverso la Svizzera, grazie ai buoni uffici della Croce Rossa e del Vaticano.
Valdobbiadene, Cozzuolo, Colle Umberto non sono più 'patria'?

Qualcuno non sa perdonare all'autorità civile di non aver provveduto in tempo al nostro sgombero,
anzi d'aver fatto appello al nostro patriottismo per ridurci a rimanere tranquilli. E pensare che sarebbe
bastata una parola, perché noi avessimo potuto metterci in salvo. Perché hanno sgomberato i paesi
lontani dalla linea del fuoco e non noi, sotto il Grappa? […] Papà era rimasto per aiutare i paesani,
per tutelare le sue carte e quel po' di roba. La prima ragione cessa d' aver valore dal momento che tutti
i nostri sono dispersi. Per la seconda ha un'idea e spera di poter combinare bene. Per la terza…non
abbiamo più che un doloroso sorriso. (Arrigoni, 20, 88, 118).

Dietro i primi piani scattati sui fatti (di cui abbiamo approfittato anche
noi), i diaristi avvertono con preoccupazione certe dissonanze nello sfondo
del racconto primario, scorgono le crepe che si sono improvvisamente aperte
nella compattezza della compagine sociale.
Se ne dà valutazioni di tono morale. Ci si sorprende come di una mancata
solidarietà collettiva di fronte a una sciagura comune, che avrebbe dovuto
semmai rinsaldare i legami popolari, cementarli nell'unità di fronte al nemico.

48 SIMONATO, Gli orrori dell'invasione cit., in Il Gazzettino Illustrato, n.1 del 16 maggio 1921.

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Neppure si immagina che la guerra persa, mettendo in fuga i padroni, possa
apparire come insperata occasione di giustizia, liberazione dai vecchi rapporti
di forza. Quando il sociale prende il sopravvento sul politico, l'individuo sulla
nazione. Il saccheggio compiuto dai compaesani nelle case abbandonate da
chi è riuscito a mettersi in salvo (cosa che si ripeterà alla fine della guerra,
nelle poche ore sospese tra la partenza degli ultimi invasori e l'arrivo dei
primi italiani) non viene neppure inteso come reato comune. Sarebbe stato
meglio, commenta pacatamente Bianca Brustolon, che i proprietari non se ne
fossero andati. Il tutto viene ricondotto a eccessi individuali, isolate perdite di
senno, non già a spie di un malessere antico.
Il ripiegamento sul proprio particolare, la difesa degli interessi di casa
prendono il sopravvento quando la tragedia è troppo grande e si dispera che
sia possibile porvi rimedio.49
Lo aveva già notato il prefetto di Treviso Vitelli quando, qualche mese
prima di Caporetto, commentando al governo lo stato dello spirito pubblico
segnalava:

Una latente e, direi quasi silenziosa agitazione della campagna che non sembra sia da ritenersi del
tutto tranquillante. Un primo sintomo di tale stato di cose apparve in conseguenza del concorso quasi
negativo dato dalla campagna al quarto prestito nazionale, al quale, nonostante l'opera di propaganda
e l'esempio delle persone più influenti e facoltose, i piccoli proprietari ed affittuali resistettero
assolutamente, astenendosi dal partecipare alle sottoscrizioni, non tanto perché non fossero convinti
del buon impiego dei loro risparmi, quanto perché fermi nel credere, per una elementare concezione,
che il concorso al prestito delle classi superiori non fosse diretto che ad assicurare la continuazione
della guerra. […] E per le stesse ragioni vedono ora con poca simpatia le offerte di oro allo Stato,
non potendo allontanarsi dalla credenza più accessibile alla loro mentalità, che cioè le classi dirigenti,
interessate come sono, tutto facciano perché la guerra continui.50

Le progressive crescenti misure di restrizione dei consumi, che si erano


succedute nel corso del 1917 con l'adozione dei calmieri e degli ammassi

49 Nei giorni in cui infuria la battaglia del Solstizio, una contadina di Piavon scrive: «I pensieri grandi gli ano
tutti, ma specialmente chi a una casa e materiali da conservare, sono ancor più grandi, perche granate si fermano da
vanti, e passano di dietro di più cadono a destra e sinistra, siche se avesce solo la vita da salvare avrei abbastanza;
ma questo non basta e mi troverei molto dispiacente d'essere rimasta qui solo per salvare qualche cosa e non per
altro figuratevi il mio essere quanto sofrirei di non poter conservare la nostra roba.». (Cunegonda Bozzetto Roman,
pp. 59-60). «Non siamo scappati da Sarmede. Mio papà voleva partire e ha detto «Gènia – diceva a mia madre – è
meglio che prendiamo su (avevamo due bestie) un carretto con le stanghe, attacchiamo una bestia, carichiamo su due
materassi e così andiamo via tutta la famiglia. Eh – ha detto mia madre – lasciare qua la casa, la roba!». Così non
ha voluto partire…ma abbiamo passato, quando mi penso, per carità!». Ricordo di Clotilde Masutti, in C. PAVAN, In
fuga dai tedeschi. L'invasione del 1917 nel racconto dei testimoni, Treviso, 2004, pp. 41-42.
50 Relazione del prefetto Nunzio Vitelli al Ministro dell'Interno V.E. Orlando in data 24 maggio 1917. La citazione
è dal testo rinvenuto e pubblicato da G. NETTO, in ID, 1917-1977, dall'Isonzo al Piave, da Treviso a Pistoia, Comune
di Treviso, 1977, pp. 42-43.
191
obbligatori, avevano rafforzato l'avversione alla guerra. Una caduta della
tensione patriottica, una stanchezza per la guerra che si manifesterà anche
dopo Caporetto, nel fatalismo, nella rassegnata remissività con cui vengono
accolti gli invasori, che annuncia già una disposizione all'adattamento, nella
nota capacità di arrangiarsi anche nelle situazioni difficili che hanno fatto
dei veneti gli emigranti più efficienti. Se c'è rivolta ora, è per difendere il
proprio.
«Apprendo che taluni contadini accolgono i primi soldati col cappello in
mano, facendone gli onori di casa». (Della Barba, 6). «Mi sono recato spesso
in paese: è uno smarrimento, è la confusione delle menti: per farsene un'idea,
nessuno, dirò così, conosce più nessuno. Un po' più di calma si conserva
dalla popolazione rurale, forse perché pensa di aver meno da perdere che
i ricchi». (Ciganotto, 12). «Ed ecco sull'imbrunire che arrivano le prime
pattuglie d'avanguardia germaniche…Una sfilata ordinata che fischietta
l'inno della Nazione. Una sfilata che passa come andare a una parata. E sul
buio alcune donne ignoranti del popolo che sventolano il fazzoletto! Io fremo
d'indignazione». (Calcinoni, 34).

Me lo ricordo come fosse adesso, quando sono arrivati i tedeschi. I primi arrivati in paese erano
quelli grandi, polacchi mi sembra. Noi eravamo sulle finestre lungo la strada e, mentre i soldati
venivano avanti, le donne lasciavano cadere frutti e fiori, sembrava che stesse per arrivare chissà chi. Ai
primi arrivati abbiamo fatto come un benvenuto, perché poverini mi par di vederli, con questo zaino, a
piedi…e allora il paese ha pensato di accoglierli bene.51

«Cittadini a gara nel trattare i nuovi inquilini». (Di Ceva, 18). «Molti
cittadini avevano steso alle finestre delle case lenzuola e coperte, in segno di
sottomissione».52
Se l'occupazione non segna certo la fine della guerra, sembra però abbattere
l'ordine costituito, imporre un sistema a suo modo egualitario, che accorcia le
distanze, che fa pagare i danni della guerra a tutti, senza preferenze gerarchiche.
Spezzata dall'invasione l'unità della nazione, emergono le divisioni sociali.
Caduti i vincoli d'autorità, l'occupazione straniera si rovescia illusoriamente
in una utopica conquista di libertà, prescrivendo le regole note, i tradizionali

51 Ricordo di Regina Tittonel da Campea (Miane), in PAVAN, In fuga dai tedeschi cit., p. 54. Rimarca Giovanna
Procacci «le innumerevoli espressioni di soddisfazione per la sconfitta italiana, testimoniate da prefetti, militari
e privati cittadini dopo la disfatta. Nel Veronese, nel Mantovano e nel Padovano –scriveva Diaz ad Orlando – i
contadini «affermano che non desiderano altro che l'occupazione austriaca, perché così la guerra sarebbe finita e
perché 'sanno' che gli austriaci trattano bene le popolazioni, specialmente i contadini, cosicché eventualmente si
vendicherebbero solo sui signori, che della guerra sono gli unici responsabili»». G. PROCACCI, Dalla rassegnazione
alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999, p. 132.
52 TOMASIN, L'anno di Vittorio cit., p.13.
192
codici di comportamento. E libera rivendicazioni insoddisfatte, offre occasioni
di rivincita. In un'aria da «libera uscita», che assomiglia a quella di Caporetto,
si inserisce una piccola, incruenta guerra civile, che si esprime in esplicite
manifestazioni di rancore verso i ricchi. Emblematico il caso di Eugenio Della
Barba, che si trova d'un tratto ad impersonare insieme proprietà terriera e
autorità pubblica quando, nominato sindaco di Conegliano, nel nuovo duplice
ruolo fa da bersaglio unificato di proteste di ogni tipo.

Redarguisco giovinastri colti nel demolire pavimenti e scale, e ne ricevo contumelie e minacce da
coloro che dovrebbero esercitare verso i figli una azione correttiva. C'è odio addirittura per tutto ciò che
costituisce autorità […] In calce ad avvisi al pubblico, emessi dal Sindaco, compaiono, scritti a lapis
copiativo, dei motti, come i seguenti, coll'aggiunta di qualche sconcia vignetta: «Morte al sindaco»
«Alla gogna il sindaco». […] Il peso del mio corpo è scemato di oltre 29 chilogrammi e soffro di
vertigini. Qualche donna del popolo, vedendomi, esclama, con altre «Guarda come è ancora grasso il
nostro sindaco!». […] Certo Sanson di Collalbrigo, e donne parecchie imprecano contro il Sindaco, che
non provvede a porgere cibi alla popolazione! (Della Barba, 20, 23, 24, 27).

Al misconoscimento dell'autorità, che sottende allo scherno, si accompagna


il rancore sociale.

Molti contadini si mostrano irritati perché i padroni sono partiti, senza avere fatto loro i conti. […] Il
mio colono, che mi rifiutò qualunque aiuto, l'ho pregato di voler abitare e sorvegliare la casa. […] Vengo
informato che la mia casa sta spogliandosi completamente, col concorso di gente del contado. […] Un
contadino di Costa, trovandomi con mia moglie, mi grida in faccia: Cossa fatu qua, in campagna. Va
a casa toa. Viva l'Austria, abbasso l'Italian…quel fiol de un can. […] I nostri contadini son matti. C'è
chi giustifica la brutalità delle orde barbare occupanti, coll'affermare che gli italiani hanno commesso
identici peccati. Hanno i signori pagato denaro per fare la guerra. L'Italia ha tolto i benefici ai preti, ai
vescovi e perfino al Papa (!). (Della Barba, 13, 8, 10, 9).

«Alcuni padroni scrivono d'oltre Piave ai domestici e affittuali perché diano


aria alle camere, ai palazzi, alle case. Altro che aria! Se ne accorgeranno al
loro ritorno». (Di Ceva, 236).
Oltre ai rancori vecchi e nuovi c'è l'illusione, la speranza che questa libertà
sia per sempre e dia diritto anche a una forma di usucapione. «Fra taluni
contadini si sta pensando alla divisione delle terre, calcolando sul permanente
allontanamento dei padroni». (Della Barba, 34). «Oggi papà disse ad una
contadina: -Di chi è questa bella fattoria? –Era dei Giuriati. – Come era?
L'hanno venduta? –No, no. –Sono morti allora? –No, ma hanno passato il Piave
e così hanno perso il diritto alle case, ai campi, alla loro roba». (Arrigoni, 98).

193
«Il comandante conferma essere vero che contadini del luogo s'informano se
proprio la proprietà dei campi dovrà passare a loro, anche se qualche padrone
è rimasto qui». (Della Barba, 36).
Sfilacciato il tessuto connettivo della comunità, una popolazione debilitata
dalle molte assenze di vivi e di morti, fatta di vecchi, donne e bambini e
caricata dall'intrusione delle più numerose presenze forestiere, si acuisce
l'impulso a ritrarsi nelle soluzioni individuali, a protezione degli egoismi
famigliari. Ne fanno le spese anche i profughi.

-Come ti chiami?- Chiedo a una bimbetta cinquenne. –Mi vergogno a dirlo –mormora confusa- ho
un nome brutto, brutto. –E via, coraggio, di chi sei? – Son dei profughi – confessa in un sussurro, tutta
vergognosa. Il male che mi ha fatto questa parola, in bocca a quell'esserino! Perché (vedi Pierina) non è
una parola gettata a caso, priva di senso. È la realtà. Dopo la prima esplosione di pietà, i profughi sono
venuti a noia, a disprezzo, a ribrezzo quasi. (Arrigoni, 129).

Quando gli Arrigoni, padre e figlia, arrivano a piedi a Cappella Maggiore,


dove si è concentrata la maggior parte dei profughi di Valdobbiadene, trovano
che

La popolazione si mostra piuttosto ostile verso i nostri poveretti, tanto più che la difterite fa strage
in mezzo ai nostri bambini. […] I cappellesi rinfacciano ai nostri la mancanza di pulizia. Ma i profughi
vivono nelle case abbandonate dai bosniaci, dormono in quindici e più per cameretta, sdraiati per terra
e fortunati quelli che hanno portato con sé delle coperte. […] L'accusa assurda per eccellenza, fatta ai
nostri, è di far crescere i prezzi, poiché pagano. La colpa non è dei paesani di sfruttare tanta miseria.
No! La colpa è di essere vittime. (Arrigoni, 87).

«I profughi sono malvisti dovunque, pare che ci facciano una colpa di


aver abbandonato il paese, quasicché non fosse stato un ordine al quale
era giocoforza ubbidire! Oh se si mettessero un po' nei nostri panni,
comprenderebbero quanto siamo disgraziati e certamente ci dimostrerebbero
più comprensione! E se un altro momento dovessero loro pure andare via,
profughi come noi?». (Pivetta, 26).53
A Fregona, dove si sono fermati un migliaio di profughi da Segusino. «A
Fregona inospitale ed egoista i miei profughi furono imposti dal Comando,
che in qualche famiglia dovette usare anche le minaccie perché fosse concesso
loro un giaciglio strettissimo e senza fieno, od una stalla immonda ed umida.
53 Anche nella Destra Piave c'è insofferenza verso i nuovi arrivati. I termini che da queste parti vengono usati
per definire i profughi non saranno proprio tutti storpiati per ignoranza lessicale. «Profughi-Profàni-Pròfani-Profù-
mi-Profui-Pròcani-Scròffoli-Pròfori-Pròtuli-Pèrfori-Scroccoi. Una povera vecchia profuga si presentò alla suora
dell'Osp. E disse: Signora, sono una povera scroffa, mi faccia carità». In DAL COLLE, Diario di Guerra, cit., p. 134.

194
Fu detto anche che non conveniva seppellire i profughi nel cimitero, e che si
provvedessero un campo».54
Se si volta le spalle ai compaesani, si guarda come a un vero e proprio
tradimento qualsiasi contatto che non sia ostile all'invasore. L'egoismo
individualistico alimenta comportamenti equivoci. Impossibile dimostrare
quanto si tratti di autentica simpatia politica piuttosto che di meschini
opportunismi. Certi episodi sembrerebbero rientrare nella casistica dei
rancori personali, di chi, spalleggiando l'invasore, ritiene di poter ottenere più
facilmente consumare la propria vendetta.

Un condannato per assassinio giù a San Giacomo, uscito di pena dopo 15 anni, adesso fa la spia
denunciando ai tedeschi le case dei saccheggiatori. L'austriacante Colussi di San Giacomo gavazza
nell'abbondanza, persino una vacca per il latte di sua famiglia; a lui si attribuiscono le responsabilità
delle requisizioni a San Giacomo, vendetta, come per esempio da F. Nardari, perquisizioni in canonica
e dalle Benedettine. (Di Ceva, 83, 203).

Sono abituali le vendette fra borghesi e contadini. Un tale manda in casa


d'altri i soldati a rubare, o a scoprire roba nascosta. Si assiste a qualche scena
fra donne, accusantesi a vicenda di essere colpevoli di requisizioni, facendo i
nomi delle case. (Della Barba, 19).

Le nostre guardie Municipali hanno avuto il coraggio di condurre qui graduati Austriaci e pure
Gendarmi per scegliere la mobilia che le andava più bene. Sono venuti espressamente da noi soli; prima
hanno voluto entrare nella nostra casa di là, e per il primo la guardia nostra italiana andò nella camera di
mamma levò le coperte per vedere se v'erano materassi di lana […] la stessa guardia mi costrinse aprire
il salotto, io non volleva, e lui mi disse: lenguazza vorala dir che sti mobili i e soi? In quel momento lo
avrei ucciso tanto ero agitatissima. […] L'infami traditori fanno più male a noi quelli stessi del paese
che quasi i nemici […] Veranno i fratelli in breve, verrà la giustizia ci rivendicheranno. (Brustolon,
66-68).55

Se il rapporto col nemico è talmente ravvicinato da farsi perfino intimo,


scatta la censura morale, con l'aggravante del tradimento. «Le civette cenedesi
scandalose trescano con lo straniero; si avvicinano ad essi per accendere
una sigaretta, parlare, sorrisi, moine, saluti ed… appuntamenti!». (Di Ceva,
93). «Ma intanto qualche «sottanina» sembra ormai familiarizzarsi coi baldi
conquistatori». (Della Barba, 8). I parroci sono i più suscettibili verso questi
54 Archivio di Stato di Treviso, Prefettura, Gabinetto, b.29. Anche in Un popolo in esilio, Segusino 1917-1918, a
cura di L. PUTTIN, Treviso, Cassa di Risparmio della Marca Trivigiana,1983, p. 63.
55 Il caso riferito dimostra l'efficacia dell'appoggio collaborazionista. I Brustolon si erano premurati di custodire la
mobilia degli Albrizzio, la famiglia con cui avrebbero dovuto partire. Soltanto malevoli conoscenze locali potevano
aver suggerito una simile perquisizione a colpo sicuro.
195
comportamenti, e a qualcuno tocca anche pagare le conseguenze del proprio
zelo.

Siamo al ventotto gennaio 1918 e le cose vanno di male in peggio. La domenica precedente , il
parroco di Cavalier di Gorgo al Monticano don Luigi Cappello, vedendo in parrocchia, certi disordini
e gravi pericoli d'immoralità, predicando alla messa ultima, ebbe a dire: «È indegno, oltre che contro
la fede e il buon costume, che voi ragazze abbiate a ballare con chi domani ha il dovere e che, quindi,
può uccidervi il padre, il fratello, il fidanzato!» Parole franche, severe, un po' imprudenti, se si vuole,
dati i tempi. Fatto sta che le solite «fraschette», le più cinciallegre, forse per accattivarsi la simpatia dei
militari e avere così agevolazioni, riferiscono, con molte frange, le parole «esecrande» (!) del parroco
agli ufficiali austriaci, sospettosi di tutto.

Il parroco viene arrestato e internato in Friuli, a Palazzolo dello Stella.

Sull'atrio [del Comando Militare Austriaco di Chiarano] scorgo, sedute su due poltroncine,
due svergognate di Cavalier, le quali, tutte sorrisetti e ciccì e coccò, fanno le svenevoli con due tre
ufficialetti. Dò loro un'occhiataccia molto, ma molto diversa da quella che Cristo, attraversando il
cortile del palazzo dei sommi sacerdoti Anna e Caifa, rivolse a Pietro. Le avrei sbranate. […] Ci sono,
in quella famiglia, quattro belle giovinette, una delle quali attira le simpatie del Colonnello, che le offre
spesso un caffè con latte e biscottini. Per uscire di casa e andare alle sacre funzioni, in chiesa, tutti
hanno bisogno di permesso, ma costei può girare a suo piacimento senza alcun permesso. Il Piave…
mormora e come! Le lingue sacrileghe che non mancano mai, mi dicono di cotte e di crude sul conto
di quella tizia, senza però farsi scoprire perché quella bella frescona riferisce tutto al suo spasimante e
allora sono guai.56

È un terreno scivoloso, questo. L'ombrosa ipersensibilità di chi ha cura


d'anime forse non aiuta a discernere quanto nella condotta delle giovani
parrocchiane sia incosciente leggerezza o semplici scambi di curiosità tra
coetanei (visto che i giovani paesani sono tutti al fronte). Certo che le foto
di gruppo, scattate in quieti angoli campestri, generalmente non mostrano
«musi lunghi» da costrizione. Comunque, un'ipotesi fuori discussione è la
sincerità dei sentimenti. Relazioni stabili, poi, sono doppiamente scandalose
e ripugnanti alla morale comune. L'occhio severo non si ferma alle ragazze
di paese, a quelle che si conoscono di persona e sulle quali è più facile la
reprimenda se la loro condotta non è più che irreprensibile. La stessa durezza
del giudizio morale si applica a quelle che fanno il mestiere, alle donne che
vengono da fuori, seguendo abitualmente il movimento delle truppe.
Per quanto si dica che si tratta del più antico mestiere del mondo, a quanto
56 TOFFOLI, «Piovan» di una chiesa cit., pp. 199, 193, 300.

196
pare non smette mai di sorprendere quando capita di vederlo all'opera.
Neppure quando, come durante un'invasione, l'enorme domanda di sesso (per
poter dimenticare la vicinanza della trincea e la lontananza da casa) non può
che comportare l'allestimento, spontaneo o programmato, di un'assistenza
che sia proporzionata alle dimensioni del nuovo mercato.57 «Incontro Pierino
Balliana con un sacchetto sotto il mantello per raccogliere un po' di grano da
macinare; egli mi dice che vicino a casa sua si è aperta una casa di tolleranza:
due donne cenedesi e una forestiera!». (Di Ceva, 47).
In primavera arrivano a Vittorio rinforzi dalla patria lontana. Sono le
kellerine, impiegate e attendenti tutto fare. Riservate alla cura degli ufficiali,
non entrano in concorrenza con le prestatrici libere. «Quante «Kellerine» in
città piovute dall'Austria!». (Di Ceva, 151). «L'Austria cioè questo comando
ha qui occupate come impiegate, e servizi varii circa 700 delle loro Sig.ne
Austriache così hanno potuto tutte indossare vestiti e biancheria italiana
poiché i loro propri sono di carta». (Brustolon, 174). «Le requisizioni di
biancheria, specialmente femminile, hanno ripreso con nuova intensità per
opera degli austriaci. Sfido io! Con tutte quelle donne che vennero a deliziar
Vittorio! Queste, ormai, passano ostentando spudoratamente vesti, cappelli e
pellicce delle nostre signore». (Arrigoni, 96).
Non sembra comunque che ci siano soltanto delle professioniste, soltanto
amore a pagamento. Ma lo sdegno colpisce anche le civettuole.

Musica in piazza per la vittoria sul Piave. Un Ufficiale che parla italiano va invitando le signorine
ad uscire facendo loro credere che sono obbligate ad andare; qualche minchiona ci crede. Poche si sono
fatte vedere e sono oggetto dello scherno e del disprezzo della popolazione e di quelle altre che giurarono
di non muoversi neanche se i gendarmi le andassero a pigliare. Pazienza vedere una signorina la cui
madre è tedesca ed ha quindi nelle vene un sangue che non potrà mai ardere di quella passione ardente
che mi strugge il cuore per la mia adorata terra, ma delle altre vere italiane…oh che vergogna![…] In

57 Lo stesso vale nell'Italia libera. Mentre l'attenzione prestata ai rapporti tra soldati e prostitute da parte dei
comandi militari punta a scongiurare o almeno a limitare i danni che potrebbero venirne alla salute e all'efficienza
dei combattenti, la preoccupazione dei religiosi è vòlta ai più ampi effetti morali provocati dalla diffusione del mal-
costume anche nei più piccoli paesi. Si pensa al contagio delle anime prima ancora che a quello dei corpi. Quindi
da un lato i comandi militari cercano di dare un'organizzazione di controllo alla prostituzione, combattendo quella
clandestina, che è la più pericolosa, mentre i religiosi non fanno differenze, anzi, cercano di arginare, anche con
successo, l'apertura di case di tolleranza per l'esercito. I vescovi veneti lo fanno ufficialmente, rivolgendo un appello
in questo senso, nell'estate del '18, al presidente del Consiglio Orlando. I risultati tuttavia sono controversi. A. Gia-
cinto Longhin, il vescovo di Treviso, si rammarica con il collega di Vicenza. «Sono amareggiato al sommo, perché
in questi giorni, oltre a nuove vessazioni contro i poveri preti, mi si impiantano qua e là case di tolleranza in paesi
di campagna. Ero ricorso a S:A. il duca d'Aosta per impedire quella che si voleva aprire qui vicino a Lancenigo e
vi riuscii, ma ecco una fioritura di questi velenosi funghi quasi a vendetta di quel primo tentativo non riuscito». I
vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. SCOTTÀ, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1991, vol. 2, p. 292. Anche i politici talvolta dànno una mano ai parroci. Il prevosto di Montebelluna è grato all'on.
Bertolini per il suo efficace intervento: «Grazie al suo validissimo patrocinio la «cosa» prese un'altra piega ed il
pericolo sembra scongiurato». Archivio Bertolini, Montebelluna.
197
paese c'è un gran numero di Ufficiali eleganti ed azzimati nella loro uniforme stretta e corta; cercano il
piacere, ma solo qualche sciocca si vede passeggiare con loro. E di queste senza carattere e senza amore
per i nostri, non merita spendere il tempo per occuparsene. (Calcinoni, 38, 44).

Un velo di compassione invece quando si tratta di uno scambio per la


sopravvivenza, cui tocca sottostare.

Ci sono cinque casinò. L'abitudine dei bagni di sole è già cominciata e gli ufficiali non si peritano di
mostrarsi in costume adamitico. E peggio, le loro tedesche non bastano a distrarli. Le povere villanelle
adolescenti, che scendono dal Cadore a cambiare burro e formaggio contro farina, molte volte ottengono
lo scambio a prezzo dell'onore.[…] Grandi programmi annunciano a Vittorio una settimana di feste in
onore di Carlo, con teatro, cinematografo, musica. L'entrata è di cinque corone per gli ufficiali, una
per la truppa, una e mezza per i borghesi. Se poi, oltre alle tedeschine, altre quattro poco di buono
v'interverranno, ci sarà certo pronta la fotografia a coglierle, onde dimostrare come il pubblico italiano,
in liete riunioni, manifesti la propria soddisfazione per l'attuale, felice stato di cose. Purtroppo, ci sono
delle ragazze, rare, che non sanno difendersi dagli omaggi dell'ufficialità, con la scusa che hanno paura
del peggio o della fame. – Ma torneranno gli italiani – dicono le amiche – e vi segneremo noi, a dito,
ai nostri. (Arrigoni, 141, 125).

Anche l'amore vero fa scandalo in paese. La sincerità dei sentimenti non


basta. È il dubbio che insidia la felicità di Maria, diciottenne infermiera
all'ospedale militare di Combai. Maria si confida con la sorella:

Ogi è il primo giorno della primavera e il mio cuore pulsa e batte d'amore. Le violete che aprono
sula nefe mi fano teneresa e sospirar d'amor. Temo d'eserme invaghita del mio tenentino. Quando lo
vedo il mio cuore sospira starei ore e ore con lui e quando finisco il mio turno non vedo lora di tornare
e tante volte mi fermo ancora e lui mi tiene dai suoi soldati e dagli ofiziali suoi amici. Temo d'eser tuta
per lui, non ho che ochi per quel mio adorato tenentino prodigo sempre a salvar le vite umane e chino
sui corpi sempre l'intiero giorno ed io con lui. À 33 ani mi ha deto ieri e non ha nemeno la fidanzata.
Che possa isperar? Che sia un tormento? Che sia legittimo sperar d'amore per un nemico? Cosa poso
fare sorella mia? 58

58 PAGOS, La strada de la fan e la Prima Guerra Mondiale, Pieve di Soligo, Dieci, 2007, p. 61.

198
I diari (bibliografia)

• Caterina Arrigoni, Cara Pierina, a cura di Giancarlo Follador e Giorgio


Iori. Valdobbiadene, Banca Popolare «C.Piva», 1994, in 4°, pp. 235.
• Cunegonda Bozzetto-Roman, Diario della paura e della fame nell'anno
di occupazione 1917-1918, a cura di Mario Bernardi. Oderzo, Libreria
Ed.Opitergina, 2007, in 8°, pp. 75.
• Bianca Brustolon, Vittorio '17 -'18. Un diario, a cura di Aldo Toffoli. Vittorio
V., De Bastiani, 1989, in16°, pp. 223.
• Antonietta Calcinoni, Diario di guerra: 6 novembre 1917- 31 ottobre 1918, in
Enrico Dall'Anese e Paolo Martorel, Gli anni della Grande Guerra nel Quartier
del Piave, Pieve di Soligo, Nuova Stampa 3, 1988, in 8°, pp. 32-76.
• Valentino Carpenè, Le dolorose note dell'invasione, in Conegliano.Un anno
di dominazione straniera, a cura di Innocente.Azzalini e GiorgioVisentin.
Vittorio V., De Bastiani, 2007, in 8°, pp. 169-232.
• Angelina Casagrande, Sotto il tallone tedesco. Note personali d'una
spettatrice dell'invasione straniera. 9 novembre 1917 – 29 ottobre 1918.
Con prefazione di Adolfo Vital. Venezia, Stab.Graf.Bortoli,1920, in16°,
pp.24. (parzialmente ristampato in Conegliano. Un anno di dominazione
straniera, a cura di I.Azzalini e G.Visentin. Vittorio V., De Bastiani, 2007,
in 8°, pp. 235-254).
• Lodovico Ciganotto, L'invasione Austro-Ungarica a Motta di Livenza e nei
dintorni, Motta di L., Tip.C.Pezzutti, 1922, in 8°, pp. 242.
• Enrico Dall'Anese-Paolo Martorel, Notizie di vita quotidiana tratte dal
diario della signora Maria Spada Scarpis, in Gli anni della Grande Guerra
nel Quartier del Piave, Pieve di Soligo, Nuova Stampa 3, 1988, in 8°, pp.82-
95. (ora, con tagli e modifiche, anche Maria Spada, Diario dell'invasione,
Vittorio V., Tipse, 2007, in 16°, pp. 35.
• Eugenio Della Barba, Vita vera. Conegliano Veneto. Un anno di dominazione
straniera. 9 novembre 1917 - 31 ottobre 1918. Milano, Arti Grafiche di
Conegliano,1919, in 8°, pp.48. (ristampato in Conegliano. Un anno di
dominazione straniera, a cura di I.Azzalini e G.Visentin. Vittorio V., De
Bastiani, 2007, in 8°, pp. 49-127)
• Emilio Di Ceva, Diario di guerra 1917-18. L'anno dell'invasione nemica
nel vittoriese, a cura di mons.Basilio Sartori.Vittorio V., Ed.Sinistra Piave
Servizi,1992, in 8°, pp. 302.
• Maria Egizia Pivetta, Un anno nei paesi invasi. Diario di una bimba, a cura
di Fanny Pivetta Pilato, Bigolino Tip.Arte Stampa, 1970, in 8°, pp. 63
• Gottardo Possamai, L'invasione a Pianzano, in Diari dell'invasione.

199
Godega, Bibano, Pianzano, a cura di I.Azzalini e G.Visentin. Vittorio V.,
De Bastiani, 2002, in 8°, pp. 129-166.
• Gioachino M.Rossetto, Cronaca giornaliera di guerra. Follina 1917-1918,
in La Grande Guerra nella Val Mareno, a cura di Damiano Cesca. Vittorio
V., De Bastiani, 2004, in 8°, pp. 21-142.

200
Profughi che abbandonano le proprie case. ISTRIT.
Sui roccioni del Grappa. MCRR
UNA MEMORIA NAZIONALPOPOLARE PER IL MONTE
GRAPPA «BALUARDO D'ITALIA» (1918-1921)

Livio Vanzetto

Premessa
Mi sono occupato più volte della costruzione della memoria sul Grappa.
Lo farò anche in questa occasione, cercando di approfondire l'analisi di un
periodo interessante e poco indagato – l'immediato dopoguerra dal 1918 al
1921 – durante il quale attorno al Grappa, già «baluardo della Patria» in armi,
si cercò di radicare una memoria della Grande Guerra che, in quanto condivisa
sia dalle classi dirigenti laiche che dalle masse popolari cattoliche, potesse
funzionare da «baluardo della pace»: un tentativo originale di superamento
di storiche divisioni che, in quel particolare contesto, avrebbe potuto in teoria
risultare vincente e prezioso per la democrazia ma il cui fallimento contribuì
invece a facilitare la vittoria del fascismo; il quale, negli anni trenta, finì per
imporre anche a Cima Grappa la propria visione univoca e autoritaria del
recente passato.
Il tema di studio così individuato richiede qualche informazione preliminare
su alcuni aspetti della storia del Grappa abbastanza noti e dei quali mi sono
già occupato in precedenti pubblicazioni59, ma che mi sembra ugualmente
necessario riproporre qui in sintesi.
Nel 1899, in vista del Giubileo, il Grappa fu scelto dai vescovi veneti quale
Monte Sacro regionale. Sulla sua cima venne eretto un sacello sormontato
dalla famosa Madonnina, inaugurata e benedetta il 4 agosto 1901 dal cardinale
Sarto, il futuro Pio X: un'iniziativa di successo che conferì al Grappa un ruolo
di prima grandezza, a livello simbolico, per i cattolici veneti. Da allora in poi,
ogni anno ai primi di agosto, venne organizzato un grandioso pellegrinaggio
di fedeli che salivano a piedi dai paesi della Pedemontana fino alla cima del
monte in onore della Madonnina; ogni anno, tranne che nel 1918, quando il
Grappa assunse il ruolo, per le note vicende belliche, di luogo simbolico della
resistenza nazionale.
Dunque, il Grappa, luogo simbolo della fede e del cattolicesimo veneto,
diventa nel 1918 anche il luogo simbolo del patriottismo e della nazione.
Religione e patria erano rimaste a lungo separate e conflittuali nella storia

59 Rinvio a queste mie pubblicazioni anche per una più dettagliata indicazione delle fonti utilizzate per la presente
relazione: Monte Grappa in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Later-
za, Bari 1996; Guida storica ai monumenti di Cima Grappa, Istresco, Treviso 2001; Cima Grappa, luogo conteso
dalle memorie (con Amerigo Manesso), Istresco, Treviso 2001.
203
dell'Italia postunitaria. Volle ricordarlo, proprio a Cima Grappa, il vescovo di
Treviso mons. Mantiero nel 1938, quando, nel suo discorso per il Ventennale
della vittoria, accennò al fatto che gran parte della classe dirigente liberale
aveva sorriso «scettica e beffarda quando il futuro Pio X portò quassù la
Madonnina, perchè allora l'Italia religiosamente e politicamente attraversava
uno dei momenti più oscuri e minacciosi».60
Il conflitto Stato-Chiesa, già in parte risolto con il patto Gentiloni (1913),
fu quasi del tutto superato, di fatto, grazie alla collaborazione instauratasi
nel corso della Grande Guerra, come è stato detto anche in una relazione
presentata a questo convegno.
Proprio il Grappa, anzi, costituisce il luogo privilegiato, a livello simbolico
oltrechè fattuale, del processo di riavvicinamento e di sintesi tra sentimenti
religiosi e patriottici; e ciò anche grazie al concorso casuale di due circostanze
favorevoli: il «ferimento» della Madonnina e la nomina a comandante della
IV Armata di un grande creatore di miti come il generale Gaetano Giardino,
per intenderci il regista occulto, assieme a Vittorio Emanuele Orlando,
dell'operazione «Canzone del Grappa».61
La Madonna, abbattuta e danneggiata da una granata austriaca il 14
gennaio 1918, fu raccolta e portata nel duomo di Crespano dove divenne
subito oggetto di devozione per i tanti soldati presenti in zona oltre che per
le genti della Pedemontana. Giardino colse subito l'importanza strategica di
questo moto spontaneo di devozione popolare tanto da fare della Madonnina
– come lui stesso scrisse – «il maggior presidio morale al valore, alla serenità,
al sacrificio dei combattenti».62 «Simbolo e sorgente di nuove speranze e
di indomito coraggio per i soldati e le popolazioni, usbergo ai nostri eroici
difensori, baluardo d'Italia», così la definiva una tempestiva pubblicazione
ecclesiastica del maggio 1918.63 Non a caso il generale Giardino – uno che
evidentemente non si sarebbe mai domandato di quante divisioni potesse
disporre il Papa – era solito fare affermazioni di questo tipo: «La guerra non si
fa solamente e neppure prevalentemente con le macchine, siano pure possenti.
E quella visione della Madonnina del Grappa valeva molte batterie».64 E così il
Comandante finì per arruolare anche la Madonnina nella sua IV Armata, tanto
da farne imprimere l'immagine sulle cartoline postali distribuite ai soldati e
sulla stessa medaglia commemorativa dell'Armata.
Dopo la guerra, però, l'unità di intenti tra religione e patria, tra masse
60 Archivio Diocesano di Treviso, fondo Archivi dei vescovi, vescovo Mantiero, B.9 «Prediche, discorsi, conferen-
ze», discorso dattiloscritto datato «4 agosto Monte Grappa 1938».
61 Livio Vanzetto, Guida...cit., pp. 88-91.
62 Ibidem, p. 44.
63 La Madonnina del Grappa. Ricordi lieti e tristi, Tip. Seminario, Padova 1918.
64 La frase venne ricordata da mons. Mantiero nel discorso citato alla nota 2.
204
popolari e classi dirigenti, raggiunta anche grazie all'azione consapevole di
Giardino, si incrinò pericolosamente nel corso del «biennio rosso» ( o, se si
preferisce, «bianco», almeno nel Veneto centrale). Proprio in quei momenti
critici, il Grappa assunse il ruolo di luogo privilegiato per un interessante
tentativo di riappacificazione nazionale: da «baluardo bellico» a «baluardo
della pace». E forse – come vedremo - il sentimento patriottico, grazie alla
religione, avrebbe ancora potuto, nel 1921, mettere radici nella coscienza
popolare se avesse trovato un terreno fertile, una base materiale adatta
sulla quale impiantarsi e crescere. Trovò invece solo la vuota ritualità delle
celebrazioni ufficiali nella quale il fascismo – e la stessa Chiesa -. finirono per
imbalsamarlo.

L'uso politico della grande guerra durante il «biennio rosso»


Tra 1919 e 1920, la memoria della guerra appena conclusa appare
ancora estremamente fluida e conflittuale; divisa in almeno tre diverse
rappresentazioni: quella socialista, quella cattolica e quella nazionalfascista.
I socialisti, coerentemente con la loro scelta neutralista del 1915, ricordano
il conflitto come la «guerra di lor signori», una scelta imposta dalla borghesia
nel proprio interesse e contro la volontà dei lavoratori. In quest'ottica, la
responsabilità della morte in battaglia di tanti proletari viene attribuita non
tanto al nemico quanto alle classi dirigenti interventiste, indegne perciò di
rimanere al potere.
Una visione negativa della guerra serpeggia anche nell'immaginario di
molti ex combattenti cattolici di estrazione popolare, i fanti-contadini. Non
a caso, alcune lapidi comparse nei primi anni postbellici nei sagrati delle
chiese del Trevigiano citano l' «inutile strage» di Benedetto XV e parlano
di «guerra barbara» e di «orrendo massacro».1 Si tratta di una reazione
istintiva, spontanea, non alimentata dalla gerarchia ecclesiastica e che ben
presto viene riassorbita dalla dirigenza del movimento cattolico e del PPI che
mira invece ad una valorizzazione dei sacrifici compiuti dalle classi popolari
in termini di maggiore giustizia sociale e di riconquista cristiana della società:
i fanti-contadini hanno combattuto e sofferto, molti sono caduti; e tutto questo
conferisce loro il diritto di pretendere riforme economiche, sociali e morali
che garantiscano migliori condizioni di vita.
Si tratta, a ben guardare, di un ragionamento molto simile, a parte la
variante anticlericale, a quello implicito nella linea d'azione postbellica dei
repubblicani sociali dell'interventista Guido Bergamo, particolarmente forti
1 Per la lapide di Pederobba (TV), si veda Emilio Spagnolo, Cronaca ecclesiastica durante l'episcopato di A.G.
Longhin, Bertato, Abbazia Pisani 1986, pp. 41-43; si veda anche, nella piazza del paese, il monumento ai caduti di
Piombino Dese (provincia di PD, diocesi di Treviso).
205
in provincia di Treviso, soprattutto nel Montebellunese.2
Nazionalisti e fascisti, invece, seguono un altro ragionamento, propongono
un diverso uso pubblico della guerra: tutte le classi sociali hanno contribuito
allo sforzo bellico e tutte hanno quindi diritto a un riconoscimento e a un
risarcimento. Dovrà perciò essere la Patria-Nazione – quel corpo mistico nel
quale si riconoscono e si dissolvono i singoli individui – a trarre vantaggio
dalla vittoria. L'Italia, la «grande proletaria» tra le nazioni, ha il diritto di
assumere nel mondo quel ruolo-guida che le compete dopo la Grande Guerra:
una linea di pensiero e d'azione che porterà fatalmente alla costruzione del
mito della «vittoria mutilata», alla ricerca di un «posto al sole» e infine al
secondo conflitto mondiale combattuto contro gli ingrati ex alleati.
Queste, in estrema sintesi, le memorie divise e conflittuali che contribuiscono
ad alimentare lo scontro sociale, le manifestazioni di piazza, le lotte delle
leghe bianche e rosse contro i proprietari terrieri nell'immediato dopoguerra.
Nel clima infuocato di quei mesi non c'è spazio per celebrazioni popolari
della guerra, per tributi pubblici di onore ai combattenti e all'esercito; non
c'è spazio nemmeno per riti unitari di commemorazione dei caduti: ciascuna
parte sceglie modalità diverse per ricordare e celebrare i propri morti. Tutto
questo si verifica puntualmente anche in provincia di Treviso, che pure era
stato il teatro principale dei combattimenti nell'ultimo anno di guerra.
Il comune capoluogo, ancora amministrato dai liberalmoderati eletti nel
1914, decide, ad esempio, di non celebrare il 4 novembre 19193 per paura di
disordini e contestazioni, in linea con le indicazioni pervenute dal governo
centrale di Roma. E anche a Vittorio Veneto ci si limita a una cerimonia
commemorativa per pochi, organizzata nello spazio protetto del Teatro Sociale
di Ceneda, invece che in piazza.4 In effetti, il clima è teso.
Il Lavoratore, il settimanale dei socialisti trevigiani, nell'editoriale del
primo numero uscito dopo la sospensione bellica il 4 ottobre 1919 aveva
scritto: «Con l'assassinio di milioni e milioni di creature umane, le borghesie
di tutti i paesi tentarono di arrestare la marcia irresistibile dei lavoratori
verso la redenzione».5 Qualche settimana dopo, così proseguiva il giornale:
«[I 15.000 caduti in guerra trevigiani] furono tratti da questa provincia a
morire per la patria matrigna»;6 «ma i reduci delle trincee, come seppero
[...] difendere la patria di lor signori, sapranno contro la patria di lor signori
difendere i propri diritti».7
2 Si veda il mio L'anomalia laica, Cierre, Verona 1993.
3 «La Gazzetta Trevisana», n.264, 4 novembre 1919.
4 «La Gazzetta Trevisana», n.259, 30 ottobre 1919.
5 «Il Lavoratore», n.1, 4 ottobre 1919.
6 «Il Lavoratore», n.4, 25 ottobre 1919.
7 «Il Lavoratore», n.1, 3 gennaio 1920.
206
Non si intravvedevano vie d'uscita democratiche da questa situazione di
scontro frontale. Il laboratorio del Grappa dimostrerà invece, tra 1920 e 1921,
che qualche possibilità esisteva; quello che mancava, probabilmente, era la
volontà di perseguirla fino in fondo.

Il laboratorio politico del monte Grappa


La novità e l'importanza strategica della collaborazione tra Religione e
Patria, tra Chiesa e Stato instauratasi sul Grappa, auspice Giardino, negli ultimi
mesi di guerra fu immediatamente colta dalla gerarchia ecclesiastica veneta.
Appare significativo, ad esempio, il fatto che il vescovo di Padova Pellizzo
salisse sulla cima del «baluardo della Patria» l'11 novembre 1918, appena una
settimana dopo la fine delle ostilità, per celebrare un rito di ringraziamento per
la vittoria e in onore dei caduti.8
Le vecchie classi dirigenti liberali invece, ancora condizionate dai postumi
culturali del conflitto Stato-Chiesa, non intuirono subito l'importanza dei
cambiamenti intervenuti. E così, solo all'ultimo momento i sindaci prebellici
dei comuni della Pedemontana affiancarono l'iniziativa autonoma dei parroci
di Crespano e Borso che, già ai primi di luglio del 1919, avevano dato impulso
all'annuale pellegrinaggio del 4 agosto facendo pubblicare un manifesto
– titolato Avviso Sacro - che costituiva già un buon esempio di equilibrata
interrelazione del codice linguistico-simbolico religioso con quello patriottico:
«la festa deve assumere il duplice carattere e di solenne manifestazione di
gratitudine alla Gran Madre del Redentore […] e di pubblico attestato di
riconoscenza alle valorose truppe della IV Armata».9
Il tardivo manifesto dei sindaci, invece, invitava le popolazioni cattoliche
del Pedemonte a essere presenti per «accrescere importanza e significato
alla cerimonia che sarà di riconoscenza e insieme di fede negli immancabili
destini della Patria»; lasciando con ciò chiaramente trasparire l'intento di
usare strumentalmente la religione a fini patriottici. Colpisce in maniera
negativa anche il fatto che il manifesto laico fosse prosaicamente firmato
dal «Comitato pro interessi dei Comuni del Grappa», tempestivamente
costituitosi nell'intento, nemmeno troppo velato, di sfruttare il nascente
mito del Monte Sacro alla Patria per ricavarne benefici economici;10 non a
caso, era stato proprio questo Comitato ad avviare, nel febbraio 1919, le
pratiche per aggiungere l'appellativo «del Grappa» al nome dei comuni di
Crespano, Paderno e Borso, battendo sul tempo la stessa Bassano. Dopo la
8 L.Vanzetto, Monte Grappa...cit., p. 368.
9 Questo manifesto e quello citato nelle righe successive sono conservati in originale nell'Archivio del Comune di
Crespano del Grappa; sono stati riprodotti integralmente in L.Vanzetto, A.Manesso, Cima Grappa luogo...cit., p. 93.
10 Si vedano, in proposito, anche le osservazioni di Paolo Pozzato, E Bassano andò alla guerra...1915-1918,
Attilio Fraccaro editore, Bassano del Grappa 2010, pp. 347-351.
207
modesta cerimonia di inizio agosto, nessun'altra celebrazione significativa fu
organizzata a Cima Grappa per tutto il 1919; e ciò in linea con la tendenza
generale rilevabile nel resto del Paese. Nella primavera del 1920, però, la classe
dirigente liberale bassanese promosse un'iniziativa in controtendenza: l'avvio
di un ambizioso tentativo laico di costruzione di una memoria patriottica del
Grappa di stampo nazionalpopolare. La vicenda merita di essere analizzata nei
dettagli.11 Il 21 aprile 1920, un'assemblea di notabili bassanesi procedette alla
nomina di un Comitato ristretto incaricato di organizzare una grandiosa festa
patriottica al ponte di San Lorenzo, sulla Strada Cadorna, nella ricorrenza del
15 giugno 1920, secondo anniversario dell'offensiva austriaca del 1918 la cui
penetrazione in profondità era stata fermata appunto al ponte di San Lorenzo.
Ottenuta l'adesione di importanti autorità tra cui il generale Giardino, il
Comitato inviò una delegazione a Roma per invitare ufficialmente il governo
alla celebrazione. Si trattava – come sottolinearono gli organizzatori – della
prima cerimonia patriottica ufficiale indirizzata al grande pubblico promossa
in Italia dopo la fine della guerra. Con grande disappunto dei bassanesi, però, il
ministro degli interni Nitti rifiutò di far intervenire all'evento un rappresentante
del governo, consigliò un rinvio e, di fatto, boicottò l'iniziativa; lo stesso re
Vittorio Emanuele III, pur manifestando apprezzamento, fece sapere che non
avrebbe potuto essere presente. Insufficienti erano anche le risorse economiche
a disposizione del Comitato, visto che ben pochi «Enti e comuni risposero alle
richieste di finanziamento»12 e che il generale De Bono, comandante militare
territorialmente competente, rifiutò di concedere gli autocarri richiesti per salire
a Cima Grappa, proponendo una curiosa alternativa: «allo scopo di agevolare
in qualche modo i passeggeri che si recheranno sul Grappa, potrei mettere a
disposizione del Comitato un centinaio di muli a basto. Prego comunicarmi
al riguardo una risposta in modo che i quadrupedi possano per tempo essere
fatti affluire a Bassano».13 Ovviamente non se ne fece nulla; la manifestazione
fu rinviata dapprima al 25 luglio e infine a domenica 1 agosto, guarda caso
giusto in concomitanza con l'annuale pellegrinaggio religioso al Sacello di Pio
X. Quel giorno a ponte San Lorenzo venne inaugurata la «colonna romana»
donata dalla capitale; erano presenti, oltre al generale Giardino e ad un gruppo
di notabili della zona, solo i militari comandati e una sparuta rappresentanza
di escursionisti bassanesi.
Numerose altre comitive popolari che provenivano a piedi dai paesi
della pedemontana ignorarono ponte San Lorenzo e salirono direttamente a
11 Tutte le principali informazioni su questa iniziativa sono tratte dal volumetto, uscito quasi clandestinamente nel
1927, di A. Marzarotto, La colonna romana sul Grappa. Ricordi storici, Tipografia Silvestrini, Bassano 1927.
12 Ibidem, p.13.
13 Ivi.
208
Cima Grappa, dove si ritrovarono almeno 5.000 persone e dove finirono per
convergere, dopo lo scoprimento della colonna, anche le autorità bassanesi.
Il fallimento della cerimonia laica apparve chiaro a tutti. Lo riconobbe,
qualche anno dopo (nel 1926), lo stesso generale Giardino nel discorso
pronunciato a Cima Grappa per l'inaugurazione di una prima parte dell'Ossario:
«Innalzammo a Ponte San Lorenzo la colonna venuta da Roma […]; salimmo
da Bassano tra l'indifferenza dei più, tra il sorriso dei sovversivi. Eravamo in
pochi, ma non dubitammo mai e ripetemmo sicuri: non prevarranno».14
Il clima ostile è ben rappresentato anche dai giornali dell'epoca. Perfino la
moderata Provincia di Vicenza aveva contribuito al boicottaggio dell'iniziativa
bassanese.15 Ma ben più espliciti e duri erano stati gli attacchi del settimanale
socialista El Visentin: «È incominciata la gazzarra patriottica per la festa del
Grappa. Alti gallonati di ogni risma parteciperanno a questa orgia militarista,
osannando ancora una volta al valor militare e alla guerra che, chiamata da
prima guerra di Liberazione, divenne poi la più grande infamia della storia […]
Lavoratori di Bassano! Facciamo sentire pure in questa occasione la nostra
avversione all'indegna reclame patriottico-militarista che si sta inscenando
lassù tra quei monti che sono la tomba di migliaia di vite».16 Nonostante
l'esito modesto, il tentativo laico di creare una memoria patriottica popolare
ancorata al Grappa ottenne una certa risonanza anche a livello nazionale,
tanto che Mussolini lo esaltò quale primo esempio, assieme all'Ortigara,
«dell'inizio della riscossa [in Italia] del sentimento patriottico».17 Tuttavia,
nessuno poteva illudersi: era chiaro che la folla raccoltasi a Cima Grappa in
quella prima domenica di agosto del 1920 era accorsa per motivi religiosi più
che patriottici. A livello nazionale, lo sforzo, sia pure tardivo, di creare una
memoria condivisa attorno alla Vittoria e all'esercito prese un certo vigore con
il ritorno al potere di Giolitti, tanto che il 4 novembre 1920 si tenne a Roma
la prima vera cerimonia ufficiale di omaggio all'esercito, con una imponente
sfilata in piazza Venezia.18 Nel Veneto, fu soprattutto sul Grappa che, nel
corso del 1921, prese consistenza un tentativo originale e promettente di uso
pubblico della grande guerra a fini di integrazione nazionale. Le elite locali,
coadiuvate da una parte della classe dirigente nazionale, si impegnarono a
fondo per trasformare il Sacro Monte nel luogo ideale di fondazione di un'
Italia nuova, nella quale potessero finalmente riconoscersi anche quei ceti

14 Ibidem, p.60.
15 «La Provincia di Vicenza», 28 luglio 1920.
16 «El Visentin», 24 luglio 1920; si veda anche il numero successivo del 31 luglio.
17 Ibidem, p.13; si veda anche Scritti e discorsi di Benito Mussolini, III, La Rivoluzione fascista, Hoepli, Milano
1934, p. 108, discorso di Trieste del 20 settembre 1920.
18 Marco Mondini, Dopo la grande guerra, Comitato per la storia di Bassano, Bassano del Grappa 2004, pp.
100-103.
209
sociali, in particolare i contadini cattolici veneti, che storicamente erano rimasti
estranei all'idea di patria. Il climax fu raggiunto il 4 agosto 1921. In quella
giornata memorabile, la statua della Madonnina patrona dei combattenti, già
ferita e profuga, fu riportata al suo posto in Cima Grappa. Si trattò di una
grandiosa cerimonia di riappacificazione nazionale, religiosa e patriottica
insieme; studiata nei minimi particolari sul piano organizzativo, fu preceduta
da una settimana preparatoria di pellegrinaggi, prediche e riti organizzati dalla
chiesa locale per le popolazioni rurali dei paesi pedemontani.19 La necessità di
un' unità di intenti tra Fede e Nazione, soprattutto per affrontare il futuro, fu
sottolineata da tutti gli oratori intervenuti, in particolare dal vescovo di campo
mons. Bartolomasi, dal generale Giardino, da Vittorio Emanuele Orlando e
soprattutto dal vescovo di Padova mons. Pellizzo che dichiarò: «[Oggi] la
Fede di Cristo ha mirabilmente uniti e fusi due potenti amori: Religione e
Patria».20 Quel giorno a Cima Grappa erano presenti oltre 30.000 persone,
una folla composta in buona parte da contadini. Erano saliti alle prime luci
dell'alba dai paesi dell'alta pianura per onorare la Madonnina e per ricordare
i caduti. Indubbiamente però i contadini bianchi erano stati attratti anche
dalla presenza del loro leader più amato e prestigioso: Giuseppe Corazzin,
fondatore e guida indiscussa delle leghe del Trevigiano, reduce e mutilato
di guerra insignito di medaglia d'argento, fratello di un caduto in guerra,
nonché promotore e presidente di quell'Unione Reduci cattolici che all'epoca,
nella Marca trevigiana, contava molti più iscritti della stessa Associazione
Nazionale Combattenti.21 Nel corso del suo intervento, Corazzin auspicò la
riconciliazione nazionale e la cessazione degli scontri fratricidi, in nome di
quella solidarietà e unità d'intenti disvelata nell'ultimo anno di guerra dalla
dedizione e dall'eroismo di tanti soldati-contadini.22 L' obiettivo indicato
da Corazzin avrebbe forse potuto essere raggiunto se i sacrifici del popolo
delle campagne avessero trovato riconoscimento e risarcimento grazie a una
politica di maggiore giustizia sociale. Al di là dei riti e della retorica ufficiali,
le riforme sociali avrebbero creato una solida base per trasformare il Grappa
nel luogo simbolico di un'unità e di un'identità nazionali fatte proprie anche dai
ceti più umili. Rovinò tutto il fascismo, alleato degli agrari contro le conquiste
politiche, sindacali ed economiche dei contadini veneti, risospinti a colpi di
manganello nel limbo di un mondo separato, subalterno, fortemente carente
di senso dello Stato.
19 Ricordo della festa religiosa e patriottica per la solenne ricollocazione della Madonna sul Grappa, 4 agosto
1921, Tip. Seminario, Padova 1922, p. 41 e p. 43.
20 Ibidem, p. 92.
21 Ufficio Provinciale Opera Nazionale Combattenti, Relazione (sull'opera svolta nel biennio 1920-1921),Treviso
1922, pp. 6-7.
22 Ricordo della festa...cit., pp. 70-71.
210
Vedetta sul Grappa. MCRR.

Rincalzi in arrivo a Cima Grappa. MCRR.


Un operaio al lavoro. ISTRIT.
LO SCANDALO DELLA RICOSTRUZIONE.
GUIDO BERGAMO E LA RISCOSSA

Francesco Scattolin

La «Grande Guerra» oltre un immane sacrificio umano fu un costo econo-


mico eccezionale; per l'Italia una spesa di 148 miliardi di lire, «somma doppia
a quella delle spese complessive dello Stato fra il 1861 (data dell'unificazione
nazionale) e il 1913».23 A questa spesa va aggiunto l'onere della ricostruzione
ambientale, edilizia, oltre naturalmente l'onere relativo all'assistenza in gene-
rale (pensioni ai superstiti, assistenza, risarcimento ai profughi). La provincia
di Treviso, avendo sopportato la tragedia del fronte sul Piave per tutto un in-
tero anno (ottobre 1917 – ottobre 1918), ebbe un particolare carico di lutti e di
rovine. Paesi come Zenson, Nervesa, Spresiano, Pederobba, Crocetta e Cava-
so furono completamente distrutti. In Treviso città di 2.200 case d'abitazione,
alla fine del conflitto, ne rimanevano agibili solo 340.24 Dei 250.000 profughi
friulani e veneti dopo la rotta di Caporetto, oltre 44.000 provenivano dalla
provincia di Treviso. A questi profughi si devono aggiungere altri del Veneto
non invaso, profughi per decisione volontaria o per ordinanze di sgombero
dettate da necessità militari. Complessivamente si raggiunge la cifra di oltre
600.000 civili, profughi da 322 comuni invasi o sgomberati.25
Il governo Orlando aveva dovuto istituire un Alto Commissariato per i
profughi, presieduto da Luigi Luzzatti. Il Commissariato diviene, subito dopo
la conclusione della guerra, Ministero per le Terre Liberate, inizialmente af-
fidato all'on. Cesare Nava, popolare (gennaio 1919), essendo presidente del
Consiglio Francesco Nitti.
Il 19 dicembre 1919 il ministro delle Terre Liberate Cesare Nava, in un
discorso alla Camera dei deputati, circa i danni provocati dalla guerra da poco
conclusa, riferisce che in una zona di 10.000 kmq si ebbe la completa di-
struzione di edifici, strade, ponti. Per la ricostruzione era stato formato un
comitato governativo con rappresentanti del Ministero dell'Interno, del Teso-
ro, dei Lavori Pubblici e della Guerra, comitato del quale facevano parte 85
ingegneri, 67 geometri, oltre a 195 assistenti sociali, per una spesa iniziale
di 96 milioni di lire. Contratti erano già avviati con 173 cooperative per la
ricostruzione. Quest'ultimo dato venne duramente contestato dagli onorevoli

23 D. Mack-Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Laterza ed., Bari 1962, p. 487.
24 S. Gambarotto – E. Raffaelli, In fuga da Caporetto, Istrit, Treviso 2007, p. 156.
25 D. Ceschin, Le lettere dei profughi di Caporetto ne Il fronte della Marca Trevigiana,
Istrit, Treviso 2008, pp. 131-132. M. Altarui, Treviso combattente, Cassa di Risparmio della
Marca Trivigiana 1978, pp. 72-76.
213
socialisti Tonello e Ciriani («Falso, cooperative di padroni!»). Per l'assistenza
diretta ai profughi erano già stati erogati, a detta sempre del ministro Nava,
103 milioni, oltre a indumenti, letterecci, arnesi per l'agricoltura.26 Subentrato
alla presidenza del Consiglio Giovanni Giolitti (quinto e ultimo ministero del-
lo stesso) sino all'aprile del '21, il dicastero per le Terre Liberate passa all'on.
Raineri. Nell'aprile del '21 si svolgono le elezioni politiche generali. Lo scan-
dalo che verrà detto «della lana» scoppia nell'aprile 1920 sotto la presiden-
za Nitti e cioè immediatamente prima dell'ultima presidenza Giolitti (giugno
1920 – luglio 1921). Con Giolitti ministro per le Terre Liberate è l'on. Raineri.
Il Ministero aveva organizzato a Conegliano, a Trento, a Cornuda (Treviso) e
a S. Donà di Piave dei centri di raccolta di suppellettili, di vestiti, di lana grez-
za da distribuire ai profughi vittime dei saccheggi e delle distruzioni operate.
Un ispettorato generale per coordinare questi centri era stato istituito a Castel-
franco Veneto, in provincia di Treviso. A Roma, in via Flavia, sempre il Mi-
nistero delle Terre Liberate aveva predisposto un grande magazzino centrale
per rifornire periodicamente il magazzino di Castelfranco il quale funzionava
da centro direzionale per le terre venete. Lo scandalo prende l'avvio da un
articolo «I nodi al pettine» comparso sul settimanale repubblicano di Treviso
La Riscossa,27 in un numero dell'aprile 1920. In questo articolo si denunciano
funzionari del Ministero per le Terre Liberate, funzionari che avevano operato
illegali vendite di capi di vestiario, di biancheria, di lana destinati ai profughi
indigenti, e sottratti ai centri di raccolta del Ministero. Gli onorevoli Guido
Bergamo e Cosattini, repubblicani, presentano una interrogazione parlamen-
tare richiedendo una commissione parlamentare d'inchiesta. Una denuncia
era stata presentata all'autorità giudiziaria. La Riscossa del 29 maggio 1920
riporta l'interrogazione parlamentare. Oltre alla commissione d'inchiesta par-
lamentare i deputati repubblicani chiedono l'arresto di due prefetti (Treviso e
Venezia), del sottosegretario Velluti e di due alti funzionari del Ministero per
le Terre Liberate, Arcangelo Cirmeni responsabile del Centro di Castelfranco
e Giovanni Moro responsabile del Centro di Conegliano.28 I parlamentari del
partito popolare (cattolico) si schierano a difesa del ministro Nava, deputato
popolare e titolare del Ministero,mentre si parla di una sottrazione di mer-
ce dai magazzini governativi per un valore di oltre 100 milioni di lire. Che
le denunce dei deputati repubblicani e del settimanale La Riscossa abbiano

26 Archivio di Stato di Treviso (d'ora in poi: AST), Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 14.
27 La Riscossa, settimanale fondato dal repubblicano Guido Bergamo a Treviso nel 1914,
sospeso per l'entrata in guerra nel '15 dell'Italia e la partenza dei fratelli Bergamo per il fronte,
riprende le pubblicazioni all'inizio del 1920. Ved. L. Vanzetto, L'anomalia laica, Cierre 1994,
pp. 29-30.
28 I. Bizzi, Lotte nella Marca, Ed. Vangelista, Milano 1974, p. 67.
214
sollevato un grande dibattito e un vasto allarme anche nell'opinione pubblica
è testimoniato in particolare dai telegrammi allarmati che Nitti, ancora presi-
dente del Consiglio, invia al prefetto di Treviso alla fine del maggio 1920 per
conoscere subito i risultati delle prime indagini giudiziarie.1
Il ministro Raineri, subentrato a Nava nel giugno 1920 (ministero Giolitti)
aveva nello stesso mese ordinato la sospensione di qualsiasi operazione dai
magazzini di Castelfranco2 e il prefetto di Treviso aveva espresso in un co-
municato al governo la preoccupazione per la campagna de La Riscossa.3 Lo
scandalo coinvolge funzionari e commercianti anche al di fori della provin-
cia di Treviso. Un rapporto dei carabinieri della compagnia di Mestre, agli
atti nell'archivio della prefettura trevigiana,4 informa: un notevole deposito
di coperte di lana (per quintali 148) è stato rinvenuto a Mestre in via Carduc-
ci, in un «maneggio» affittato da tale Alberto Pellizzaro. Da Villa Rinaldi in
Castelfranco risulta che il 10 aprile sono state spedite a Milano, da Ferrari
Mario e Edmondo Basanesi, balle di lana per oltre 3.000 kg e dagli stessi altre
balle nei giorni 11-12 aprile. Il rapporto dei carabinieri asserisce ancora che
il delegato governativo del Ministero Terre Liberate di Conegliano, Giovan-
ni Moro, ha venduto circa 200 quintali di lana, prelevati dall'Ispettorato di
Castelfranco, al commerciante veneziano Sinigaglia, con l'autorizzazione del
magazziniere Acoleo, di Castelfranco. La Riscossa in definitiva non aveva
fatto altro che render pubbliche le ruberie già note ai regi carabinieri. Insieme
alle prime mosse dell'apparato statale iniziano anche le pressioni nei confron-
ti dell'ambiente repubblicano.
La Riscossa del 15.5.1920 in seconda pagina scrive di un ingegner Scia-
raffa del Ministero Terre Liberate che, in una stanza dell'Ufficio tecnico in
Borgo Cavour a Treviso, ai repubblicani ing. Arcani e Carlo Mojoli, mutilato
di guerra e profugo, aveva fatto «offerte ripetute di favori da parte del comm.
Cirmeni purché la Riscossa avesse risparmiato la signorina Gobessi alla quale
il comm. Cirmeni era molto attaccato».
Il 29.5.1920 la Riscossa riporta i nominativi della Commissione d'inchiesta
varata a Roma: si tratta di 16 funzionari statali, del Ministero dell'Interno, dei
Lavori pubblici, delle Ferrovie, del Tesoro, delle Terre Liberate, della Polizia
di Stato e di un professore d'Istituto tecnico.5
1 AST, Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 44.
2 AST, Prefettura, Archivio di Gabinetto, b. 44.
3 AST, Prefettura, Archivio di Gabinetto, protocollo n. 644.
4 AST, Prefettura, Archivio di Gabinetto, n. 391/3 del 22.4.1920.
5 La Riscossa 29.5.1920, p. 1:
- Sbrocca dr. Aurelio – Vice direttore gen. Ministero dell'Interno – Roma
- Padula dr. Riccardo – Consigliere di Prefettura – Roma
- Zanon Antonio – Ispettore Ministero dell'Interno
215
A pag. 2 sempre della Riscossa del 29.5.1920 si riporta l'interrogazione
parlamentare dell'on. Bergamo riguardante le donazioni del Cirmeni a fun-
zionari e impiegati (letti, materassi, coperte, tovaglie ecc.). Si chiede inoltre
se Cirmeni è stato corretto nella vendita e nella distribuzione della lana del
magazzino di Castelfranco; se l'8 aprile il cav. Moro (incaricato a Conegliano
del Ministero Terre Liberate) abbia spedito al magazzino Pellizzaro di Mestre
e assegnato a certo Luigi Vianelli qui tali 26 di balle di lana; se il ministro
non ritiene opportune perquisizioni a Venezia – Abbazia della Misericordia in
casa della signora Moro , sorella del cav. Moro, fiduciario del comm. Cirme-
ni, e in casa di una amante del cav. Moro e di un fotografo, Vianelli, in campo
S. Bartolomio.
La risposta all'interrogazione dell'on. Bergamo affidata al sottosegretario
Dello Sbarba è quanto mai generica:sarà fatta ampia e rigorosa inchiesta subi-
to e una denuncia alla magistratura per Cirmeni, Pironti e il cav. Moro.
La Riscossa del 5 giugno riporta la notizia che la Federazione repubblicana
di Treviso intende costituirsi parte civile.
Sopraggiungono in giugno le dimissioni del governo Nitti e la Riscossa che
denuncia come svaniti i milioni promessi al Veneto disastrato dalla guerra,
riporta ben cinque nuove interrogazioni parlamentari dell'on. Bergamo sulle
elezioni in Trentino (da poco annesso all'Italia), su un ponte dell'Adige non
ricostruito, sulla spesa per la ricostruzione di un paese trentino (Brentonico),
sui consorzi di recupero dei materiali bellici.
Il tema del recupero dei rottami e del materiale bellico disperso apre un al-
tro fronte di malversazioni che coinvolge anche le alte sfere militari. Dai nu-
meri della Riscossa di ottobre 1920 apprendiamo che un generale del Genio
militare, Maglietta, è arrestato per la vendita a privati di materiali dismessi,
vendita effettuata da ufficiali del Genio. Lo stesso generale Badoglio è incri-

- Fiori prof. comm. Annibale – professore Istituto tecnico – Roma


- Crispo Antonio – direttore capo Ministero Lavori Pubblici
- Righi avv. Erminio – avventizio Ministero Terre Liberate
- Volpe Prignano comm. Ernesto – capo sezione Ministero del Tesoro
- Archetti Luigi – servizio ragioneria, segretario Ferrovie dello Stato
- Crispo Milazzo Eugenio – magazziniere Ministero Terre Liberate
- Rossi Dino – vice segretario Pubblica Sicurezza – Roma
- Scarpa Antonio – segretario di I° Ferrovie dello Stato – Frascati
- Chinigò Francesco – segretario principale Ferrovie dello Stato – Servizio ragioneria
- Berardi Vincenzo – segretario Ferrovie dello Stato – Roma
- Lo Cascio avv. Bernardo – ragioneria Ministero Terre Liberate
- Cacciari Jolanda – dattilografa Ministero Terre Liberate
- Monarchia Pietro – magazziniere Ministero Terre Liberate.
I primi undici inquirenti figureranno poi tra gli imputati.
216
minato per certi appalti a ditte private incaricate della distruzione di quintali
di razzi e polveri esplosive. E intanto la polemica monta sul costo dei lavori
di ricostruzione del Veneto.
Sul decreto di abolizione del prezzo politico del pane cade il 12 giugno
1920 il governo Nitti e nei giorni seguenti si forma il quinto governo Giolitti
nel quale l'on. Raineri, cattolico, è il nuovo ministro per le Terre Liberate.
Quest'ultimo governo Giolitti durerà appena un anno, sino all'aprile 1921,
quando si terranno le nuove elezioni politiche e successivamente sarà nomi-
nato il governo Bonomi.
La campagna contro le ruberie della burocrazia statale e dei vari uomini
d'affari è condotta praticamente solo dai repubblicani, dal momento che i po-
polari sono appunto titolari del Ministero Terre Liberate e i socialisti temono
la concorrenza repubblicana soprattutto nella zona del Piave.
La procura del Re comunque si attiva e scattano i primi arresti: il cav. Ar-
cangelo Cirmeni (anni 44) , ispettore del Ministero dell'Interno, direttore dei
magazzini di Castelfranco, è arrestato il 14 maggio 1920 insieme all'amante,
segretaria e cassiera presso gli stessi magazzini, la maestra Anna Gobessi
(anni 27) da Udine. Arrestati sono anche Luigi Acoleo (anni 21), magazzinie-
re a Castelfranco, poi posto in libertà provvisoria, e Matteo Pironti, ispettore
del Ministero Terre Liberate, distaccato a Castelfranco. Il Pironti uscirà presto
di scena per suicidio,6 nel giugno 1921.
La Riscossa del 3 luglio 1920 riporta un nuovo discorso dell'on. Bergamo
alla Camera, contro i Consorzi di recupero dei rottami bellici e contro la cric-
ca formatasi attorno al commendator Cirmeni. Ci sono in quei giorni manife-
stazioni politiche di protesta a Treviso per il carovita e per gli scandali denun-
ciati. A sostituire il Cirmeni alla direzione dei magazzini di Castelfranco sarà
chiamato il 30 settembre il capitano dei cavalleggeri di Saluzzo, Ansaloni.
Il 21 agosto 1920 la Riscossa annuncia che il giudice istruttore Agosti ha
rinviato a giudizio 42 imputati, tra cui 18 alti funzionari ministeriali, con l'ac-
cusa di peculato e ricettazione. Gli imputati sono in realtà 42, per il suicidio
di Pironti.7
6 Riscossa 21.8.1920, p. 2.
7 Riscossa 21.8.1920. Imputati a giudizio:
- Cirmeni comm. Arcangelo – ispettore Ministero Terre Liberate – Castelfranco
- Gobessi Anna – segretaria comm. Cirmeni – Castelfranco
- Pironti Matteo – ispettore Ministero Terre Liberate – Castelfranco
- Acoleo Luigi – magazziniere Min. Terre Liberate – Castelfranco
- Castagna avv. Giancarlo – delegato di Cornuda – Minist. Terre Liberate
- Franceschetti Alfredo – capostazione Castelfranco
- Sivilotti Antonio – commerciante Castelfranco
- Nardei Modesto – commerciante Montebelluna
217
Il collegio di difesa dei profughi derubati s'era già costituito (Riscossa 5
giugno 1920) ed era così composto: avv. Silvio Armellini di Conegliano, avv.
Gianpaolo Fontebasso di Treviso, avv. Renzo Ascoli di Venezia, avv. Mario
Bergamo di Bologna (fratello dell'on. Guido), avv. Antonio Bondi di Forlì e
avv. Giovanni Ronzani di Vicenza.
Gli avv. Bergamo e Ronzani sono repubblicani e tra repubblicani e socia-
listi sorge una polemica perché l'avv. Boscolo di Treviso, socialista, accetta
invece la difesa del principale imputato, il Cirmeni.
- Sonetti Giuseppe – ragioniere impiegato Minist. Terre Liberate
- Tozzoli Alfonso – impiegato a Castelfranco Minist. Terre Liberate
- Sbrocca comm. Aurelio – funzionario Minist. Terre Liberate (dir. gen. serv. Amm.ivi)
- Padula cav. Riccardo – consigliere Prefettura – Roma, distaccato al Minist. Terre Liberate
- Archetti cav. Luigi – funzionario Ministero Terre Liberate
- Fiori comm. Annibale – professore Istituto tecmico Roma
- Crispo Milazzo cav. Eugenio Antonio – magazziniere Ministero Terre Liberate
- Lo Cascio cav. Fedinando – impiegato del Ministero Terre Liberate
- Moro cav. Giovanni – delegato di Conegliano Minist. Terre Liberate
- Molin Giuseppe – impegato a Conegliano Minist. Terre Liberate
- Vianelli Luigi – cugino cav. Moro, Conegliano, Ministero Terre Liberate
- Sinigaglia Giuseppe – commerciante – Venezia
- Berretta Bortolo – commerciante – Venezia
- Bassanesi Alfredo – negoziante – Milano
- Bastianello Giuseppe – negoziante – Venezia
- Lanfrè Attilio – vice commissario prefettizio – S. Donà di P.
- Donadelli Domenico – tenente aviatore – S. Donà di P.
- Greco Vincenzo – commerciante – Brescia
- Munari Mario – commerciante – Venezia
- Murer Eugenio – commerciante – S. Donà di P.
- Berti cav. Giuseppe – ispettore Ministero Terre Liberate – Trento
- Secchi Silvio – sarto – Conegliano
- Scagliarini Callisto – delegato Minist. Terre Liberate – S. Donà di P.
- Rossi Nove Raffaele – negoziante
- Gobessi Carlo – fratello di Gobessi Anna – impiegato, Castelfranco V.
- Volpe Prignano comm. Ernesto – del Minist. Terre Liberate
- Rossi cav. Dino – funzionario Ministero Terre Liberate
- Righi cav. Erminio – del Ministero Terre Liberate
- Filipponi Ernesto – del Ministero Terre Liberate
- Ferrari Mario – commerciante – Milano
- Scarpa cav. Antonio – direzione generale Ferrovie dello Stato
- Zanon comm. Antonio – ispettore Ministero Interno
- Germani Carlo – commerciante – S. Donà di P.
- Bassanesi Edmondo – commerciante – Milano
- Crispo comm. Antonio – capo divisione Minist. Lavori Pubblici, dirigente Min. Terre Libe-
rate (capo di gabinetto)

218
Il danno per la merce rubata e venduta è valutato (Riscossa del 7.8.1920)
in 10 milioni per quanto concerne la lana, i letterecci, i casalinghi.
Il giornale azzarda anche l'utile personale ottenuto dal gruppetto di Ca-
stelfranco (il direttore Cirmeni, la segretaria Gobessi, il capostazione Fran-
ceschetti) e rincara i sospetti su altre speculazioni per acquisti e vendite di
rottami metallici, di residuati bellici. Oltre alle polemiche sull'avvocato Bo-
scolo altre polemiche corrono per la città di Treviso tanto che sotto le finestre
del carcere mandamentale (allora contiguo a piazza Duomo) si raccolgono in
alcune sere gruppi di cittadini con urla e schiamazzi contro gli imputati im-
prigionati. Si parla di rei che dovrebbero espiare e di salvataggi preparati per
i colpevoli (Riscossa 9 ottobre 1920).
Il 15 maggio 1921 si tengono le elezioni politiche generali. Elezioni molto
importanti sotto il profilo storico perché Giolitti nel blocco nazional-costitu-
zionale permette l'elezione alla Camera, per la prima volta, di trentacinque
fascisti tra i quali Benito Mussolini. Sul totale di 534 seggi 122 sono attribuiti
ai socialisti, 15 ai comunisti da poco costituitisi in partito (gennaio 1921) –
insieme nella precedente legislatura erano 156 –, 107 ai popolari cattolici (in
precedenza erano 100), 7 ai repubblicani, 8 alle minoranze etniche, 275 al
blocco nazionale comprendente anche i 35 fascisti.8
La Riscossa nei numeri di febbraio-novembre 1921 dà spazio alle vicende
dello scandalo della lana. L'istruttoria del processo è iniziata in aprile. Nel
giornale prosegue inoltre la denuncia dei mancati risarcimenti ai veneti per i
danni bellici, la denuncia per la grave disoccupazione, per le irregolarità re-
lative alle forniture allo Stato e alla bonifica dei territori devastati dalla guer-
ra. Si vanno precisando le responsabilità degli accusati del processo per lo
scandalo della lana. L'imputato principale è il cav. Arcangelo Cirmeni, a. 44,
ispettore del Ministero dell'Interno, distaccato a Castelfranco come ispettore
per il Ministero per le Terre Liberate, arrestato il 14 maggio 1920 insieme alla
segretaria-cassiera Anna Gobessi di anni 27. Imputati importanti sono Luigi
Acoleo di anni 21, magazziniere dell'Ispettorato Terre Liberate sempre a Ca-
stelfranco e il negoziante Antonio Sivilotti di a. 49 da Castelfranco, entrambi
in libertà provvisoria. Il danno accertato ammonta per quanto riguarda il Cir-
meni a 100.000 lire e così per Acoleo e Sivilotti; 54.000 lire per la Gobessi
alla quale si imputa inoltre di aver percepito lo stipendio di maestra mentre
svolgeva le funzioni, retribuite, di segretaria-cassiera presso l'Ispettorato di
Castelfranco.
Oggetto del peculato non è soltanto la lana grezza stipata nei magazzini di

8 L. Salvatorelli—G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, ed. Mondadori, 1970, vol.
I, p. 190.
219
Castelfranco, ma lo sono anche indumenti, scarpe, biancheria, mobili per casa,
suppellettili domestiche di proprietà dello Stato od offerte spontaneamente da
privati per le popolazioni danneggiate dalla guerra, per i tanti profughi.
Dalla Riscossa del 23 aprile 1921 apprendiamo: l'ispettore del Ministero
Terre Liberate Arcangelo Cirmeni con il collega Matteo Pironti (poi suicida)
e il magazziniere Luigi Acoleo sono accusati di aver trasferito 25 quintali di
lana da materassi al proprio domicilio, parte a mezzo carri, parte per ferrovia
in accordo col capostazione di Castelfranco Alfredo Franceschetti, rifornendo
inoltre il commerciante Antonio Sivilotti. Allo stesso capostazione France-
schetti era stata venduta una parte cospicua della lana (20 quintali). Carlo
Gobessi è accusato di ricettazione continuata per la lana da materassi (18
quintali) sottratta ai magazzini da parte della sorella Anna, dagli ispettori mi-
nisteriali Cirmeni e Pironti, dal magazziniere Luigi Acoleo. Con questi ultimi
è imputato anche un impiegato del Ministero delle Finanze, il ragionier Giu-
seppe Sonetti da Castelfranco, il quale ha venduto servizi da tè in porcellana,
abiti regalati dal soccorso americano, macchinette tritacarne (sic!).
Alfonso Tozzoli impiegato all'Ispettorato Terre Liberate di Castelfranco,
d'accordo con Cirmeni, Pironti e Acoleo, aveva sottratto dai magazzini scar-
pe, cappotti, pelli, persino servizi in porcellana; Aurelio Sbrocca, Riccardo
Padula, Luigi Archetti, Eugenio Crispo, Ferdinando Lo Cascio e il professore
di istituto tecnico romano Annibale Fiori, in accordo con gli ispettori ministe-
riali e il magazziniere di Castelfranco, avevano sottratto vestiario, letterecci,
scarpe, servizi in porcellana, una bicicletta per un danno valutato di oltre
15.000 lire.
Altri addetti al Ministero Terre Liberate, distaccati nel Veneto, avevano
sollecitato gli ispettori Cirmeni e Pironti per ottenere, sempre dai magazzi-
nieri di Castelfranco, lenzuola, coperte, asciugamani, biancheria da inviare
ai propri domicili in Roma. Si tratta di Antonio Crispo, di Ernesto Volpe Pri-
gnano, di Dino Rossi, di Erminio Righi, di Ernesto Filipponi tutti dipendenti,
funzionari del Ministero Terre Liberate.
Lo scandalo delle ruberie si complica per ulteriori avvenimenti.
Nel numero della Riscossa del 4 giugno 1921 apprendiamo del suicidio
dell'ispettore Pironti, ma la notizia messa in rilievo è per Cirmeni: «Cirmeni
è pazzo? Cirmeni dunque si salverà?» Sì, afferma un intervento addirittura di
Giolitti in favore dell'ispettore Cirmeni.
L'11 giugno 1921 la Riscossa in seconda pagine scrive: «È venuto da noi
il signor dottore dei matti Zanon Dal Bo direttore dell'Ospedale psichiatrico
a protestare perché domandammo se fosse vero che il Cirmeni, ispettore ge-
nerale del Ministero Terre Liberate, il ladro emerito... è stato veduto in gita

220
di piacere a Venezia. Il sig. dottore dei matti che ha dichiarato il Cirmeni
pericoloso a sé e agli altri doveva, invece di protestare, rispondere. E non ha
risposto».
Il clima politico dei mesi aprile-luglio del '21 è quanto mai torbido. Il fa-
scismo sta scatenando spedizioni squadristiche un po' ovunque, a Viterbo, a
Sarzana, a Carrara, a Venezia e il 13-14 luglio si ha a Treviso l'assalto alle sedi
repubblicane di via Manin, alla sede del Piave giornale cattolico, al quartiere
operaio della Fiera. Intanto a Roma la Commissione parlamentare d'inchiesta
per lo scandalo della lanadomanda inutilmente l'arresto dei due prefetti per la
gestione dei sussidi ai veneti e denuncia un ex sottosegretario di Stato (Vellu-
ti) per appropriazione di beni destinati ai profughi.9
In questo clima procede a Treviso l'istruttoria del processo per la lana con
l'assenza del principale imputato, il Cirmeni, ricoverato all'ospedale psichia-
trico.10 La Riscossa denuncia i privilegi di alcuni detenuti, specialmente della
Gobessi divenuta una 'dama di compagnia' della moglie del direttore delle
carceri.11 Negli interrogatori i commercianti imputati «cadono dalla luna»,
tutti avevano pensato «ad un traffico lecito e permesso... anche quando gua-
dagnavano il 100%, … anche quando ritiravano quietanze fittizie o facevano
pagamenti ad personam o dichiaravano di operare per conto terzi».12
Il clima in tribunale (il processo inizia nell'agosto '21), secondo i resoconti
della Riscossa, è confuso e rissoso e si insinua che alcuni avvocati difensori
veneti abbiano avuto interesse nel commercio della lana. In questo ambiente
surriscaldato due fascisti padovani sono processati a Treviso e condannati a
un mese di reclusione per possesso di armi. L'avvocato difensore dei due è
il romano Mancusi, difensore anche del Cirmeni. È in questi giorni (13-14
luglio) che avviene la nota spedizione fascista contro Treviso e la Riscossa
è costretta ad uscire in edizione ridotta nei giorni 16-17 luglio, riportando
la consueta 'cagnara' del corpo di difesa degli imputati contro i commissari
d'inchiesta. Un momento importante del processo si vive il 19 agosto con la
deposizione dell'ex ministro Cesare Nava il quale assicura che i collabora-
tori del Ministero per le Terre Liberate «erano perle di galantuomini» e che
Cirmeni e soci «erano autorizzati a vendere tutto, lana compresa... poiché i
profughi ne avevano avuto esageratamente...». Ma nessun decreto permette-
va la vednita del materiale... «S.E. Nava complice necessario delle malefatte
della sua gestione deve darci querela. Non è lecito lasciar truffare i veneti e
poi insultarli».13
9 La Riscossa, 16 giugno 1921, p. 2.
10 La Riscossa, 25.6.1921, p. 2.
11 La Riscossa, 2.7.1921, p. 3.
12 La Riscossa, 2.7.1921, p. 3.
13 La Riscossa, 20.8.1921, p. 2.
221
Contro le dichiarazioni di Nava esce una lettera di Cirmeni risalente al 14
febbraio 1920, diretta al Ministero per le Terre Liberate, lettera nella quale si
rilevava che «i magazzini scarseggiano di lana»14 e che si dovevano respinge-
re molte richieste come quelle di alcune insegnanti che scrivono invece a La
Riscossa il 27 agosto proprio per denunciare la mancata concessione di lana
e di un letto qualsiasi.
Si avviano intanto losche manovre, tentativi di correzione: un certo inge-
gner Sciaraffin del Ministero Terre Liberate avvicina l'ing. Arcani e il rag.
Moioli, dirigenti repubblicani, con proposte dal parte del Cirmeni, proposte
naturalmente respinte, ma che la Riscossa non esplicita.15 Offerta vantaggiosa
di quintali di bronzo è avanzata, sempre dall'ing. Sciaraffin a nome di Cirme-
ni, alla fonderia di Rino Ronfini, altro noto dirigente repubblicano.
Una fase importante del processo è rappresentata dalla requisitoria dell'ing.
Ignazio Lodato che rappresenta l'avvocatura erariale.16 La merce nei magaz-
zini di Castelfranco era destinata solo ai profughi e agli abitanti danneggiati
dalla guerra. Nessun diritto in proposito era riservato agli impiegati mini-
steriali di Roma, neppure in rapporto ai magazzini romani situati sulla via
Flavia. Era stato stabilito per la lana un massimo di 15 kg a persona ed era
stato proibito ogni commercio. La lana doveva esser ceduta ai profughi ad un
prezzo politico.
L'avvocato dello Stato accenna agli interventi de La Riscossa del 10 e
17 aprile 1920, elogia la Commissione d'inchiesta, afferma che la Gobessi,
segretaria-cassiera e fidanzata del Cirmeni, ha sottratto 2.400 kg di lana di
cui 1.800 sono stati spediti al fratello Carlo. Acoleo Luigi, il magazziniere di
Castelfranco, insieme al locale commerciante Antonio Sivilotti, ha sottratto
2.500 kg di lana venduti poi in parte allo stesso Sivilotti, in parte a Modesto
Nardei commerciante di Montebelluna.
L'avv. Giancarlo Castagna è accusato di complicità in peculato con Acoleo
e con Pironti, l'ispettore ministeriale poi suicida.
Ad Alfredo Franceschetti, capostazione di Castelfranco, si imputano 2.000
kg di lana sottratti in combutta col cav. Pironti (doveva essere lana... destinata
ai ferrovieri profughi!).
Al cav. Riccardo Padula, capo divisione presso il Ministero Terre Liberate,
si imputano prelievi dolosi sia dai magazzini di Castelfranco che dai magaz-
zini romani di via Flavia.
A Raffaele Rossi Nove negoziante di Belluno si imputa, per il prelievo di
crine, il reato di truffa poiché tale prelievo era stato fatto a nome e per conto
14 La Riscossa, 3.9.1921, p. 2.
15 La Riscossa, 3.9.1921, p. 2.
16 La Riscossa, 10.9.1921, p. 2.
222
del Consorzio granario di Belluno.
A Giancarlo Castagna, avvocato, si imputa la sottrazione di 7.000 kg di
lana, sottrazione eseguita a nome e per conto dei comuni della zona pede-
montana di cui il Castagna si diceva rappresentante. Il segretario comunale di
Miane (Treviso) dichiara che la lana non è mai arrivata.
Al cav. Giovanni Moro, delegato del Ministero Terre Liberate a Coneglia-
no, unitamente al cugino Luigi Vianelli, al sottoposto impiegato del Ministero
Giuseppe Molin, al magazziniere Luigi Acoleo, al ragionier Giuseppe Sonetti
del Ministero delle Finanze e ai commercianti veneziani Giuseppe Siniga-
glia e Bortolo Berretta, si imputa la sottrazione di ben 39.000 kg di lana e di
10.000 coperte, poi venduti alla ditta Bassanesi di Milano.
Correi con il cav. Moro sono indicati Silvio Secchi, sarto di Conegliano, e
Giuseppe Bastianello, veneziano, che acquistarono dal Moro oltre 15.000 kg
di lana.
Da una successiva udienza apprendiamo che Callisto Scagliarini, delega-
to del Ministerro Terre Liberate a S. Donà di Piave, ha venduto ai profughi
18.000 kg di lana e 1.200 lenzuola ad un prezzo superiore a quanto stabilito
dal Ministero. L'affare per Scagliarini consisteva nell'acquistare la lana a lire
5 il kg e rivenderla a lire 11. In questa transazione commerciale aiutano lo
Scagliarini Carlo Germani e Erugenio Murer, commercianti di S. Donà.
Attilio Lanfrè già vice commissario prefettizio al comune di S. Donà di
Piave, e Domenico Donadelli pure di S. Donà, ex tenente aviatore, richiedono
lana a nome di profughi che non ne avevano fatto richiesta e la rivendono, per
un totale di 3.600 kg, ad un tal Vincenzo Greco di Brescia, che a sua volta è
imputato di ricettazione.
Il cav. Cesare Berti, ispettore trentino del Ministero Terre Liberate, ha sot-
tratto 9.000 kg di lana e, in combutta con Moro delegato del Ministero a Co-
negliano, un vagone di letterecci. L'ispettore trentino, in accordo con Luigi
Vianelli (cugino del delegato ministeriale Luigi Moro) spedisce da Trento a
Conegliano 10.000 coperte poi smistate a Mestre a Monza tramite Umberto
Fortis agente della ditta Rino Cesana di Venezia.
Il commerciante milanese Mario Ferrari, insieme al delegato ministeriale
cav. Giovanni Mro, acquista da Callisto Scagliarini delegato ministeriale a S.
Donà, 5.800 kg di lana.
Il giro commerciale si rivela turbinoso e complesso, la ruberia imponente,
oltre 100.000 kg di lana.
Commenta Antonio Pellegrini su La Riscossa: «Non tutti i commendatori
sono ladri ma tutti i grandi ladri sono commendatori».17 Gli imputati si difen-

17 La Riscossa, 17.9.1921, p. 2. Dei 43 imputati cinque si fregiano del titolo di commenda-


223
dono prevalentemente sostenendo la propria buona fede nella convinzione che
si fosse trattato di normali transazioni commerciali o assicurando l'intenzione
di trasferire ai comuni disastrati i vari lotti di merce. L'ispettore ministeriale
a Trento, cav. Giuseppe Berti, si difende affermando che l'intenzione propria
era di aiutare, coi proventi della lana, i legionari fiumani di D'Annunzio!
Il processo a Treviso, iniziato nell'agosto '21, è seguito anche dal Gazzetti-
no di Venezia che ogni giorno ha un'ampia pagina di cronaca trevigiana.
Riportiamo da La Riscossa le richieste avanzate dal pubblico ministero
cav. Zanni:18
• Pironti Matteo – ispettore Ministero Terre Liberate – azione penale estinta
per decesso (suicidio);
• Fiori Annibale, Lo Cascio Ferdinando, Crispo Antonio, Volpe Prignano
Ernesto, Rossi Dino, Righi Erminio, Filipponi Ernesto, Scarpa Antonio da
assolvere perché i fatti loro attribuiti non costituiscono reato;
• Sonetti Giuseppe, Tozzoli Alfonso, Archetti Luigi, Crispo Milazzo Euge-
nio, Zanon Antonio, Rossi Nove Raffaele da assolvere per insufficienza di
prove;
• Acoleo Luigi e Molin Giuseppe da assolvere per insufficienza di prove solo
in rapporto al reato di correità in peculato.
Totale: 15 imputati da assolvere , 2 da assolvere parzialmente ma da con-
dannare per peculato. Per altri 27 imputati il pubblico ministero avanza le
richieste di pena:
• Gobessi Anna (segretaria centro di Castelfranco): reclusione 3 anni e 6 mesi
– multa lire 1.400 – interdizione perpetua dai pubblici uffici;
• Acoleo Luigi (magazziniere): reclusione 4 anni e 10 mesi – multa lire 5.833
– interdizione perpetua;
• Sivilotti comm. Antonio (commerciante di Castelfranco): reclusione 2 anni
e 11 mesi – multa lire 1.600 – interdizione 2 anni;
• Castagna Giancarlo (avvocato Ministero Terre Liberate – Cornuda – latitan-
te): reclusione 3 anni e 11 mesi – multa lire 2.500 – interdizione perpetua;
• Nardei Modesto (commerciante – Montebelluna): reclusione 1 anno e 2
mesi – multa lire 800 – interdizione 1 anno;
• Franceschetti Alfredo (capostazione di Castelfranco): reclusione 11 mesi e
20 giorni – multa lire 291 – interdizione 1 anno;
• Gobessi Carlo (Castelfranco – fratello di Anna Gobessi): reclusione 3 anni
e 6 mesi – multa lire 900 – interdizione perpetua;
• Sbrocca comm. Aurelio (funzionario Ministero Terre Liberate): reclusione

tore, sette del titolo di cavaliere.


18 La Riscossa, 17.9.1921, p. 2.
224
11 mesi e 20 giorni – multa lire 291 – interdizione 1 anno;
• Padula cav. Riccardo (consigliere di prefettura – Roma): reclusione 11 mesi
e 20 giorni – multa lire 291 – interdizione 1 anno;
• Moro Giovanni (delegato Ministero Terre Liberate – Conegliano): reclusio-
ne 8 anni e 2 mesi – multa lire 9.000 – interdizione perpetua;
• Molin Giuseppe (impiegato di Conegliano – Ministero Terre Liberate): re-
clusione 3 anni e 6 mesi – multa lire 1.400 – interdizione perpetua;
• Vianelli Luigi (cugino di Moro) : reclusione 4 anni e 8 mesi – multa lire
3000 – interdizione perpetua;
• Sinigaglia Giuseppe e Berretta Bortolo (commercianti di Venezia): reclu-
sione 4 anni e 8 mesi - multa lire 6.000 – interdizione perpetua;
• Ferrari Mario (commerciante di Milano): reclusione 2 anni e 4 mesi – multa
lire 3.000 – interdizione 3 anni;
• Bassanesi Alfredo (commerciante di Milano): reclusione 2 anni e 11 mesi –
multa lire 2.916 – interdizione 3 anni;
• Bassanesi Eduardo (commerciante di Milano): reclusione 2 anni e 6 mesi –
multa lire 4.000 – interdizione 3 anni;
• Bastianello Giuseppe (commerciante di Venezia) : reclusione 1 anno e 7
mesi – multa lire 1.500;
• Scagliarini Callisto (funzionario Ministero Terre Liberate – delegato Cone-
gliano): reclusione 6 anni – multa lire 6.000 – interdizione perpetua;
• Lanfrè Attilio (vice commissario prefettizio S. Donà di P.): reclusione 1
anno e 6 mesi – multa lire 700;
• Donadelli Domenico (aviatore S. Donà): reclusione 2 anni e 14 mesi – mul-
ta lire 1.400;
• Greco vincenzo (commerciante di Brescia): reclusione 1 anno e 3 mesi –
multa lire 700;
• Munari Mario (commerciante di Venezia): reclusione 4 anni e 8 mesi – mul-
ta lire 3.000;
• Murer Eugenio (commerciante S. Donà di P.): reclusione 2 anni – multa lire
1.500;
• Germani Carlo (commerciante S. Donà di P.): reclusione 1 anno e 6 mesi –
multa lire 700;
• Berti Giuseppe (ispettore Ministero Terre Liberate – Trento): reclusione 2
anni e 11 mesi – multa lire 1500;
• ecchi Silvio (sarto di Conegliano): reclusione 1 anno e 4 mesi – multa lire
800.

225
Il Gazzettino del 14 settembre dà conto dell'inizio delle arringhe difensive,
riportandole diligentemente con le reazioni del pubblico e dei colleghi av-
vocati. Il cronista sottolinea ripetutamente i consensi che l'arringa difensiva
ottiene nel pubblico presente e tra i colleghi avvocati della difesa.
«Tre ore di eloquenza (quantunque l'avv. Petagna... fosse sofferente)».19
«Poderosa arringa (avv. Pagani Cesa); vivamente complimentato dai nu-
merosi colleghi della difesa»,20 «Valoroso difensore», «unanimi manifesta-
zioni di simpatia» per l'avv. Pietro Cigala difensore del commerciante Bortolo
Berretta.21
«La folla dei cittadini con attenzione profonda, con senso di deferente de-
vozione ha seguito la magnifica orazione della quale solo il prof. Marciano
(difensore del milanese commerciante Bassanesi) ha il segreto e in cui la
stringente energia dell'argomento e il valore decisivo dell'esposizione giuridi-
ca sono accoppiate a quella sovrana dignità di eloquio che dà maggior effetto
di persuasione e di commozione».22 Altro che D'annunzio! Il tema ricorrente
della difesa è la buona fede dei commercianti di lana (difesa di Berretta, Ba-
stianello, Munari).
Oltre a mettere in rilievo l'importanza amministrativa dei vari importanti
burocrati e le eventuali benemerenze che hanno giustificato i titoli di cavalie-
re o commendatore, si esibiscono lettere di encomio del ministro Nava (im-
putato Archetti), vicende personali di sacrificio, di studio, di lavoro (Archet-
ti, Gobessi) ovvero la modestia dell'imputato quale mero esecutore d'ordini
(Acoleo magazziniere).
Naturalmente il patriottismo spunta in ogni angolo. Sono i giorni nei quali
transita per le ferrovie del Veneto e dell'Italia il feretro del Milite Ignoto diret-
to al Vittoriano di Roma. E patriottismo si spende per la difesa di Berti ispet-
tore trentino del Ministero e volontario di guerra. Ma l'avv. Bellelli, difensore
di Berti, aggiunge anche la non procedibilità penale per il proprio assistito
in quanto Berti, trentino, all'epoca dei commerci illeciti di lana sarebbe sta-
to ancora formalmente cittadino austriaco!23 Cosa avrebbero detto i patrioti
Battisti e Filzi?
Il patriottismo nei confronti dei profughi di Caporetto serve anche per la
difesa del cav. Scarpa Antonio, segretario della direzione generale delle ferro-
vie e ufficialmente profugo in quanto presente, a suo tempo, nella zona d'in-
vasione. E profugo, quindi in diritto di avere la lana, viene indicato dall'avv.

19 Gazzettino, 14 ottobre 1921, p. 4.


20 Gazzettino, 5 ottobre 1921, p. 4.
21 Gazzettino, 2 ottobre 1921, p. 4.
22 Gazzettino, 30 ottobre 1921, p. 4.
23 Gazzettino, 30 settembre 1921, p. 4.
226
Boscolo il comm. Antonio Zanon la cui famiglia era fuggita da Belluno in
seguito all'invasione austriaca.24 Quando poi la colpa è difficilmente conte-
stabile in sogetti per i quali è impossibile la qualifica di profugo o di com-
merciante in buona fede, si ricorre all'inattendibilità delle dichiarazioni rese a
suo tempo da quel comm. Cirmeni, principale responsabile del magazzino di
Castelfranco, alto burocrate del Ministero e ora giudicato pazzo.
Sulla pazzia del Cirmeni si arrocca l'avv. Cleanto Boscolo di Treviso di-
fendendo il cav. Riccardo Padula consigliere di prefettura a Roma, imputato
di sottrazione di lana sia dai magazzini di Castelfranco che dai magazzini di
via Flavia a Roma.25
Il Cirmeni è ripudiato da tutti. Il 30 ottobre l'arringa difensiva dell'avv.
Mancusi per il comm. Aurelio Sbrocca, alto funzionario del Ministero Terre
Liberate, si basa sugli aspri rapporti tra Sbrocca e Cirmeni. Il Gazzettino vir-
goletta in proposito la perorazione finale dell'avv. Mancusi, esempio di mo-
numentale retorica:26 «Voi assolvendo porrete un tardivo riparo ad uno strazio
senza nome, ad un inaudito martirio che colpì con la tragicità del fato greco
un funzionario di gran nome che aveva dato tanto contributo al risorgimento
di queste terre benedette dal Cielo, sorriso della natura, fatte ubertose dalla
volontà dei suoi figli. Sia la vostra parola, o giudici, legittima integrazione e
sacra tutela della dignità dell'uomo che ha lasciato brandelli di carne sui ro-
veti laceranti del calvario patito col sorriso del martire... affermi in cospetto
di tutti la specchiata onestà travolta per un momento dalla ragione politica del
funzionario incorrotto, del cittadino probo e del padre esemplare la cui vita è
stata santificata dal dovere e dal dolore».
Il Gazzettino continua a seguire le orazioni difensive con sperticati elogi:
si tratta di «sovrana dignità di eloquio», di «valore decisivo dell'esposizione
giuridica»; la folla astante segue le orazioni con «deferente devozione». E
meno male che «l'aridità delle cause... non consente esercitazioni oratorie...»
Si arriva al punto di affermare che il passaggio in ferrovia della salma del
Milite Ignoto diretta, in quei giorni, al Vittoriano... darebbe, ad una eventuale

24 Gazzettino, 24 settembre 1921, p. 4.


25 La Riscossa, 11 giugno 1921, p. 2. – Sulla pazzia del Cirmeni indicato come pericoloso
a sé e agli altri la stessa Riscossa riporta parte di un articolo del prof. Pellicani comparso al-
lora su La Voce sanitaria, organo della Federazione italiana medici psichiatrici: «Nell'opera
manca anche uno qualsiasi di quei violenti stati emotivi con le rispettive attenuanti di imputa-
bilità di cui agli art. 49-50-51 C.P. trattandosi di reati che, ovviamente, non involgono alcuna
minorante passionale – sono lunghi reati compiuti anche per mesi, per anni, freddi logici ben
predisposti e ben condotti da individui che nei meandri sociali hanno saputo conquistare dei
posti avanzati».
26 Gazzettino, 30 ottobre 1921, p. 4.
227
condanna degli imputati, il significato di una «ingiusta vendetta».27 Il patriot-
tismo, come dicono gli inglesi, è sempre l'ultimo rifugio delle canaglie.
La sentenza del tribunale di Treviso viene pronunciata alle ore 16 del 12
novembre 1921.
il principale imputato, il comm. Cirmeni, responsabile del centro di Castel-
franco, non figura né tra i condannati né tra gli assolti, essendo stato estraneo
al processo per asserita infermità mentale.
Dei 41 imputati 20 sono assolti perché il fatto non costituisce reato e 4
per insufficienza di prove relativamente alla correità in peculato. Diciassette
subiscono le seguenti condanne per peculato:
• Gobessi Anna: 1 anno e 2 mesi di reclusione – multa lire 1.000 – interdizio-
ne dai pubblici uffici per 5 mesi;
• Acoleo Luigi: 4 anni, 5 mesi e 10 giorni di reclusione – interdizione perpe-
tua;
• Sivilotti Antonio: 1 anno e 2 mesi – 700 lire di multa – interdizione per 6
mesi;
• Castagna Giancarlo: 3 anni e 9 mesi – 1.000 lire di multa – interdizione
perpetua;
• Moro Giovanni:28 7 anni di reclusione – 7.000 lire di multa – interdizione
perpetua;
• Molin Giuseppe: 3 anni di reclusione – 1.400 lire di multa – interdizione
perpetua;
• Vianelli Luigi: 3 anni e 5 mesi di reclusione – 1.100 lire di multa – interdi-
zione perpetua;
• Sinigaglia Giuseppe: 2 nni e 9 mesi di reclusione – lire 1.400 di multa – in-
terdizione perpetua;
• Berretta Bortolo: 2 anni e 2 mesi di reclusione – lire 350 di multa – interdi-
zione perpetua;
• Ferrari Mario, Bassanesi Alfredo, Bassanesi Edmondo: multa di lire 1.000
per incauto acquisto continuato;
• Bastianello Giuseppe: multa di lire 700;
• Murer Eugenio: multa di lire 500 per incauto acquisto continuato;
• Scagliarini Callisto: 4 anni e 1 mese di reclusione – multa di lire 3.500 –
interdizione perpetua;
• Donadelli Domenico: 1 anno e 3 mesi di reclusione – lire 1.600 di multa;
• Munari Mario: 1 anno e 9 mesi di reclusione – lire 1.100 di multa – interdi-
zione perpetua.

27 Gazzettino, 30 ottobre 1921, p. 4.


28 La Riscossa, 8 aprile 1922, p. 4: Il cav. Moro a Vienna sotto il falso nome di Nino Ramharter.
228
Per tutti i condannati c'è il pagamento delle spese processuali e la rifusione
in solido per i reati comuni. In contumacia sono condannati: Moro Giovan-
ni, Castagna Giancarlo, Molin Giuseppe, Vianelli Luigi, mentre è assolto,
sempre in contumacia il cav. Berti Cesare. Scarcerati perché assolti Sonetti
Giuseppe (impiegato del Ministero Terre Liberate) e Lanfrè Attilio (commis-
sario prefettizio di S. Donà di P.); Berretta Bortolo e Gobessi Anna per aver
scontata la pena. Ma pare che la maestra Gobessi avesse passato tutto il tempo
della detenzione prima del processo presso il reparto dozzinanti dell'Ospedale
civile di Treviso e non in carcere.
Le vicende del processo ai ladri di lana, che per tutta l'estate del '21 ave-
vano tenuto in ebollizione stampa ed opinione pubblica trevigiane, sembrano
perdere interesse man mano che ci si avvia alla sua conclusione (12 novembre
1921). La polemica politica è quasi totalmente sostenuta dai repubblicani, dal
momento che i socialisti sono da sempre, nel trevigiano, in concorrenza coi
repubblicani a hanno l'avv. Cleanto Boscolo, dirigente socialista, quale avvo-
cato difensore del principale imputato, il Cirmeni.
La stessa Riscossa è distratta da altri scandali, quelli del recupero dei ma-
teriali bellici e dei metalli pregiati nelle campagne trevigiane devastate dalla
guerra.
E sempre la Riscossa ha un desolato commento già nel numero del 10
settembre 1921 a firma di Antonio Pellegrini: «Sono i topolini di campagna
quelli caduti nella trappola: i sorci di città, i maggiori e i più veri ladri girano
ancora ossequiati e indisturbati le strade d'Italia. Qualcuno continua magari a
coprire delle cariche di fiducia nell'amministrazione del Paese... Questa è pur-
troppo l'Italia d'oggi: dei Savoia, della burocrazia e della plutocrazia... Non
tutti i commendatori sono ladri, ma tutti i grandi ladri sono commendatori».

229
Il sacrario militare italiano di Cima Grappa. Archivio Tessari.

Il cimitero militare austro-ungarico di Cittadella. Archivio Tessari.


SEGNI DI GUERRA E DI PIETA'. NOVANT'ANNI
DI LUTTO E MEMORIA DELLA GRANDE GUERRA

Roberto Tessari

In prevalenza il mio intervento prenderà in considerazione il territorio del-


la Marca Trevigiana, però ci saranno alcuni emblematici riferimenti a segni e
siti rilevati nelle vicine provincie di Belluno e Vicenza.
Per siti intendiamo tutti quei segni della guerra – sopravissuti alle ingiurie
del tempo e degli uomini – che sono ricondotti a determinati luoghi nel ter-
ritorio.

1) Un censimento in crescita
Di giorno in giorno aumenta il numero dei siti relativi alla Grande Guerra
che vengono censiti. Nel 2002 nella ricerca titolata: La valorizzazione dei
giacimenti culturali legati ai luoghi della Prima Guerra Mondiale nelle Pro-
vince di Bl, Tv, e Vi, classificai per gruppi tematici, oltre 1500 siti di cui circa
350 nella sola provincia di Treviso. Già nel 2005 consegnando un'ulteriore
ricerca nell'ambito del Piano Territoriale Turistico, questi 350 siti sono di-
ventati più di 500, e continuano a crescere. Ad esempio, la quarantina di siti
inizialmente censiti sul Montello, sono diventati oltre 110 nella mappa Il
Montello: luoghi ed itinerari della Grande Guerra.29 Un altro esempio: un
appassionato ricercatore, attraverso una metodica e costante ricerca, in questi
ultimi cinque anni ha rinvenuto e censito oltre 150 fra epigrafi, graffiti e fregi
che ancora oggi sussistono nel massiccio del Grappa. Questi e tanti altri siti
raccontano ancora oggi – a novant'anni di distanza – il turbine della guerra
che per un solo anno spazza il nostro territorio, ma è sufficiente perché la li-
nea degli ossari, come la chiama il poeta Andrea Zanzotto, passi anche da noi
con una traccia indelebile.

Nella terra si frantumano e disperdono corpi provenienti da tanti paesi; la


Marca Trevigiana diventa un crogiuolo in cui la guerra fonde lingue e culture.
Nel solo ex cimitero di guerra austro ungarico di Follina c'erano Caduti di 12
differenti nazionalità.30 La nostra terra è grembo per tante giovani vite, da
tutta Europa: un'Unione Europa che ante litteram viene fatta dai morti.
Con un solo anno di guerra la Marca Trevigiana, comprese le aree
immediatamente finitime, conquista purtroppo – per numero e internazionalità
29 Mappa elaborata per la Guida del Montello nella Grande Guerra, di Tessari R. e altri
(2008 -2009), pubblicata in 3 volumi da Gaspari editore di Udine.
30 Il cimitero austro ungarico di Follina di R. Tessari, CSC ed. 2005
231
Pederobba. Il sacrario militare francese. Archivio Tessari.

Quero. L'ossario germanico. Archivio Tessari.


Fagarè della Battaglia. Ieri e Oggi. Archivio Tessari.
di cimiteri e sacrari – il primato fra tutti i territori italiani dove si è combattuto
nella Grande Guerra, come si evince dalla seguente tabella.

Sacrari e Cimiteri Località


n° 5 Sacrari Italiani Cima Grappa, Nervesa, Fagarè, S.
Lucia, Feltre
n° 3 Sacrari Austro-ungarici Cima Grappa, Cittadella, Feltre

n° 1 Sacrario Tedesco Quero

n° 1 Sacrario Francese Pederobba

n° 2 Cimiteri Inglesi Giavera, Tezze

n°50 Cimiteri Austro-ungarici Dismessi


n°10 Cimiteri Italiani Dismessi

La linea degli ossari ricalca la linea dei combattimenti, luoghi di scontri


cruenti: Grappa, Salaroli, Valderoa, Tomba, Nervesa della Battaglia, Moriago
della Battaglia, Sernaglia della Battaglia, l'Isola dei Morti, le Grave di Pa-
padopoli, il Molino della Sega, Fagarè della Battaglia … Sono i cosiddetti
campi dell'onore, dove la lotta fu più cruenta e aspra, segnata da innumerevoli
atti di valore, per lo più sconosciuti, ma ben testimoniati dalle 59 medaglie
d'oro assegnate in un solo anno di guerra nella Marca Trevigiana. A 90 anni
di distanza l'occhio attento coglie ancora le ferite del territorio lasciate dalla
guerra: resti di trincee, gallerie, bunkers, caposaldi. E poi la miriade di crateri
che trasformarono in superficie lunare prati e pascoli. È quasi incredibile la
quantità di proietti che fu impiegata. Un solo esempio: il comune di Alano31
negli anni '20 si vide costretto – a causa delle lamentele di contadini e malgari
– a richiamare ufficialmente l'impresa che aveva l'appalto per la bonifica del
territorio dagli ordigni inesplosi. Era necessario fare più attenzione, far bril-
lare gli ordigni in giorni prestabiliti, lontano da potenziali presenze di perso-
ne e animali [...il brillamento di un ordigno aveva provocato l'uccisione di 10
pecore, spesso altri brillamenti avevano grandemente spaventato contadini
e malgari, fatto esplodere vetri, danneggiato fabbricati...] l'impresa doveva
dare preavvisi più consistenti, più sonori della trombetta e del grido «la bru-
sa», ma soprattutto trasportare gli ordigni in luoghi isolati. L'impresa rispose
che già faceva tutto il possibile, aveva avuto già dieci feriti fra i propri operai,
il non fare i brillamenti in loco non solo era molto pericoloso, ma soprattutto

31 In: Alano: la memoria e l'immagine di una comunità, vol 3° a cura di G. Follador.


234
era quasi impossibile, vista la quantità d'ordigni inesplosi: nella sola zona
Salaroli – Valderoa ve ne erano diecimila quintali. Sono numeri così grandi
da sembrare inattendibili, ma non c'è nessuno zero di troppo1. La «normaliz-
zazione» succeduta alla guerra portò – soprattutto per motivi economici – a
una progressiva cancellazione delle tracce belliche, in particolare quelle che
maggiormente ostacolavano la ripresa delle attività produttive: ecco quindi
la bonifica dei campi da buche di granate, trincee e residuati, la demolizione
di bunkers e gallerie, la riconversione di fabbricati. Fu cancellata inoltre la
maggior parte dei segni della presenza nemica, cosa comprensibile in quanto
testimonianza della vergogna dell'occupazione. Per la parte italiana – a par-
te i segni sopravvissuti perché appartati e poco visibili o di troppo difficile
eliminazione come i bunkers vicino ad abitazioni e strade trafficate – furono
salvati, a volte anche rimodellandoli, quelli che erano funzionali a una lettura
didascalica e/o celebrativa degli eventi: Galleria Vittorio Emanuele a cima
Grappa, alcune case-caposaldo sul Montello, e bunker trasformati in cantina
o sacello, pareti intonacate con scritte ottative a Fagarè della Battaglia. Alcuni
siti vengono recuperati trovando significato e valorizzazione proprio per il
loro particolare legame con eventi della Grande Guerra: è il caso dell'Oste-
ria al Cippo degli Arditi; altri – seppur inventati per esigenze filmiche come
l'ospedaletto ARC a Campagnole di Sopra nel Montello – assurgono a luogo
e momento emblematico del racconto della guerra.

2) Cippi, fregi, lapidi.


Nel territorio ci sono ancora anche altri segni minori rispetto ai manufatti
bellici, ma non per questo meno importanti e proprio in questi ultimi anni
oggetto di crescente interesse.2 Sono cippi, fregi, lapidi. A torto considerata
un'arte minore, la scrittura su cippi, fregi e lapidi non solo rappresenta tempi
e culture diverse: dall'uso o meno del latino, dal fraseggiare retorico e ridon-
dante: «colui che è morto per la patria/vissuto è assai» o dall'amara autoi-
ronia «cantina Hedrich – costruita con molta fatica e per necessità causa
la grande paura della eroica morte» (così per una galleria in val Grama, ad
ovest dell'abitato di Laghi, Vicenza). Sempre in tema di nascondersi sottoterra
c'è una scritta a Treschè Conca che alcuni ritengono ispirata da Carlo Emilio
1 Basti pensare che nella battaglia per Gorizia (4 - 16 agosto del '16) nei 35 Km. dal Saboti-
no al mare gli italiani spararono 41.153 colpi al giorno e nell'undicesima battaglia dell'Isonzo
(18 - 24 agosto '17) su un fronte di 16 km e mezzo le artiglierie spararono una media di
168.988 colpi al giorno. E c'erano i proietti delle bombarde da 400 mm che pesavano 285 kg.
(di cui 115 di esplosivo) e i proietti più pesanti (obici da 420 mm.) arrivavano a 1.000 kg.
2 Vedasi il convegno tenutosi a Cortina nel luglio 2008 Dalle rovine al parco diverti-
menti? Conservazione e restauro del paesaggio della Grande Guerra: metodologia, finalità,
competenze.
235
Vallonara (VI). Anche un barattolo di vernice può conservare la storia. Archivio Tessari.
Ra Stua (Cortina): lapide a ricordo di soldati bosniaci travolti da una valanga. Archivio Tessari.

Monte Valderoa: fregi del 5° Alpini. Archivio Tessari.


Gadda, che nel giugno 1916 comandava una Sezione mitragliatrici in questi
luoghi: «non per viltà sotterra mi nascondo / ma per serbarmi all'ora del
cimento».3 Un'altra iscrizione curiosa è quella di monte Cornone, sopra Val-
stagna, dove un ignoto geniere è riuscito a trasformare in sberleffo anche l'in-
combente presenza delle granate. Incontriamo anche la pietà di commilitoni e
sottoposti, ma anche del nemico che, ammirato dal valore dimostrato, dà ono-
revole sepoltura al capitano Stefanino Curti, M.O.V.M. e sul legno della croce
scrive: Hier ruht ein tapferer italiener (Qui giace un valoroso italiano).

Incontriamo poi segni insoliti che testimoniano una situazione particolare


come la propria conversione. Ma le epigrafi di gran lunga più numerose sono
quelle a testimonianza della presenza propria e dei commilitoni, magari con
l'urgenza anche di affermare IO C'ERO. E così tanti soldati diventano writers
ante litteram.

3) Tracce di carta.
V'è poi – per noi posteri – una narrazione della guerra che non è segnata
sulla terra o scalpellata sulla pietra, ma è tracciata nella carta dei manifesti,
delle cartoline, dei Giornali di Trincea. In particolare, i Giornali di Trincea
ora li possiamo leggere non solo come racconto di storie ed occasione di
svago, ma anche analizzarli nella loro funzione di arma di propaganda e di
condizionamento del comportamento dei soldati. Citerò 2 casi.
Il primo riguarda Hemingway. Hemingway fu ferito nella notte dell'8
luglio1918 al Buso del Burato nei pressi di Fossalta. Era una notte in cui gli
austriaci erano nervosi e non risparmiavano le granate a shrapnels. L'arrivo
dell'Americano che distribuiva cioccolata e sigarette deve aver provocato
un assembramento sospetto a cui gli austriaci risposero prontamente. È
stata fatta anche l'ipotesi che Hemingway, affascinato dal paginone del
disegnatore Rubino Spettacoli Pirotecnici sul Piave (in La Tradotta del 6
giugno 1918), abbia pensato di emulare il fantaccino che nel disegno fa il
pediluvio sul Piave. Impressionante è anche la coincidenza fra la postazione
per mitragliatrice riportata nel disegno e la foto del posto dove fu ferito, fatta
da Hemingway al suo ritorno a Fossalta nel 1922.4 Un particolare curioso
è rappresentato nel disegno di Rubino da un ranocchio in frac che dirige un
3 Gadda effettivamente fu presente in zona. L'imputazione a Gadda mi pare, però, poco
accettabile, visto che la data riportata è «Giugno 1918», epoca in cui Gadda era già da mesi
in prigionia, dopo esser stato catturato il 25 ottobre 1917 mentre cercava fortunosamente di
passare in destra Isonzo a Caporetto.
4 Il viaggio darà luogo al racconto «Visita di un reduce al vecchio fronte».

238
concerto di rane canterine. Con ogni probabilità è una garbata presa in giro
del maestro Toscanini che salito sul monte Santo appena espugnato (24 agosto
1917), imbattutosi per caso – almeno così dicono le cronache del tempo – in
una banda reggimentale, realizzò un concerto di inni patriottici tra l'infuriare
del bombardamento. Fu un concerto che gli fece guadagnare la Medaglia
d'Argento al Valore.
Il secondo caso riguarda il Cap. Eligio Porcu. Sulla presa 9 del Montello,
presso Casa Cavalli, all'ombra di due piante, una di olmo ed una di noce,
una stele in pietra ricorda il luogo dove, il 16 giugno 1918, si tolse la vita la
M.O.V.M. Cap. Eligio Porcu del 45° fanteria. Era il secondo giorno di lotta,
il giovane capitano sardo – già decorato di medaglia d'argento per il valo-
re dimostrato sul monte Valderoa nel dicembre 1917 – ha portato più volte
all'assalto la sua compagnia ed ora resiste strenuamente alle schiere nemi-
che soverchianti. Ferito alla gamba ed accerchiato, preferisce togliersi la vita
piuttosto che cadere prigioniero.
C'è un «mandante morale» di questo suicidio; ed è un giornale di trincea:
San Marco, il giornale dell'VIII Corpo d'Armata, proprio il Corpo che presi-
dia il tratto del Montello in cui ora combatte da due giorni il Cap. Porcu. Il
giornale San Marco è un «bel» giornale di guerra; bella carta, disegni raffi-
nati ed eleganti; ma è anche cattivo e torvo, non allegro e spassoso come La
Tradotta. In trincea sta ancora circolando il nr. 1 del 24 maggio. In seconda
pagina v'è la lettera Il sogno della mamma. Agghiacciante!

4) Dedicazioni votive e coinvolgimento simboli religiosi


Fin dai primi anni di guerra la religiosità popolare porta ad iniziative de-
vozionali tendenti a impetrare la protezione della Madonna e/o dei Santi per
se stessi o per i parenti e i compaesani al fronte.
Ecco, dunque, le medagliette individuali, che testimoniano consacrazioni
personali, vedasi la medaglietta trovata sui resti di un caduto austro ungarico
a Follina: REGINA SACRI SCAPULARIS, ORA PRO NOBIS
Sul retro l'effigie del Sacro Cuore di Gesù.
Va ricordato che durante la grande Guerra la devozione al Sacro Cuore si
intensificò moltissimo, con la distribuzione di milioni di immagini in cui il
Sacro Cuore veniva a simboleggiare il sacrificio dei caduti.
Vi è poi la dedicazione di luoghi devozionali o la realizzazione di ex voto
per grazia ricevuta.
Un esempio di dedicazione di cappella è rappresentato da una grotta dedi-
cata alla Madonna in località Mina, tra Colfosco e il fiume.
Fu approntata nel 1916 con lo scopo di invocare dalla Vergine la protezio-

239
Col Marcon (Vidor): la croce in ferro che oggi sostituisce quella in legno messa dai
tedeschi per onorare il capitano Stefanino Curti. Archivio Tessari.
Erinnerung: Val di Landro: a ricordo di una batteria di mortai da 30,5. Archivio Tessari.

Fregio inglese sul monte Zovetto (Vi). Archivio Tessari.


«Spettacoli Pirotecnici». ''La Tradotta'', giornale di trincea della 3ª Armata. Archivio Tessari.
Il «San Marco». Giornale dell'8° Corpo d'Armata. Archivio Tessari.
ne per i soldati del paese che combattono sulle montagne e sul Carso.
Ironia della sorte: gli austriaci, arrivati al Piave, tolgono la Madonna e in
questa grotta e nelle grotte vicine, piazzano una batteria da campagna i cui
obici sparano e subito vengono nascosti in grotta, al riparo dalla artiglieria
italiana. Questa batteria svolgerà nella battaglia finale un ruolo fondamentale
nell'impedire agli italiani di forzare il Piave all'altezza di Nervesa.

Per quanto riguarda gli ex voto, ricordiamo in particolare i quadri per grazia
ricevuta di due superstiti dell'affondamento del piroscafo Principe Umberto:
quello di Francesco Frezza da Vidor e quello di Giulio Muraro da Mogliano
Veneto, che fu esposto alla mostra dell'ISTRIT a Cà da Noal (2008).
Nella chiesa di Santa Maria di Lago, c'è un quadro con 7 soldati, che ve-
niva interpretato – pure dal poeta Andrea Zanzotto, nipote del pittore – come
una sorta di pre-voto.
In realtà, da alcuni particolari siamo arrivati alla quasi certezza che quei
soldati sono – anche in virtù delle mostrine bianco azzurre – soldati del 55°
fanteria, Brigata Marche. E il quadro dovrebbe raffigurare 7 militari dell'8a
Compagnia travolti da una valanga a Cima Cady, e tutti salvatisi.

Circa il coinvolgimento dei simboli religiosi, esso inizia già durante la


guerra. Il generale Giardino celebra la Madonnina del Grappa come la Pri-
ma Mutilata d'Italia, dopo che nell'inverno del 1918, un proiettile austriaco
colpì la statua, facendola cadere dal basamento e mutilandola. Un'altra statua
della Madonna, quella di Caorera vicino a Vas, venne requisita dagli austriaci
in quanto – essendo di bronzo – sarebbe servita per fare cannoni. Ma lungo
la strada per Belluno, si spezzò un'asse delle ruote e si ruppe il polso sini-
stro della statua. Intimoriti dall'evento, i requisitori la lasciarono sul posto,
dove fu ritrovata alla fine della guerra dai soldati italiani. Anche Mosnigo, nel
Quartier del Piave, ebbe la statua dell'Addolorata con 14 ferite, diventando
così partecipe e testimone – come ebbe a scrivere il settimanale diocesano –
dei dolori e delle pene sopportati dagli abitanti del paese, profughi a Tarzo. A
Posina c'è il «Cristo con le stellette». Di lui così scrisse un reduce nell'imme-
diato dopoguerra:

«non so se Posina abbia un monumento ai Caduti; ma il monumento vero e proprio


è sull'imbocco della strada che porta sul monte Majo. Il Crocefisso, che malgrado i
tormenti della guerra, è rimasto là a benedire chi andava e chi tornava. Un soldato, viste
le ferite riportate dal Crocefisso, lo volle onorare uguagliandolo ai fanti valorosi: attaccò
sul costato del Redentore il nastrino di guerra. Così io lo vidi nel 1917.»

244
Poi ci sono il Cristo mutilato di Arsiero e quello di Laghi, e Santi di edicole
votive, come il Sant'Antonio di Fossalta di Piave – il Capitel de la Orsola – le
cui medagliette e statuine andavano a ruba fra i soldati; una di queste statuette
portafortuna verrà citata anche da Hemingway in Addio alle armi.
Nell'immediato dopoguerra si accentua il coinvolgimento dei simboli re-
ligiosi: di Cristo, della Madonna, dei Santi vengono sottolineate mutilazioni
e ferite. In questa maniera viene veicolato un messaggio ben preciso: se sono
stati mutilati anche loro, sarà più facile ri-accogliere in seno alle famiglie e
nella società civile la marea di mutilati e invalidi prodotti dalla guerra.

5) Elaborazione del lutto.


È l'ora anche di elaborare il lutto. Nel saggio Lutto e Melanconia, Freud
afferma che «[...] il lutto non melanconico riconosce la realtà della perdita e
alla fine si distacca dallo scomparso. Il Melanconico no, a meno che non in-
tervenga qualche elemento di mediazione che aiuti ad identificare la perdita
e a fissarne i limiti».
Apporre una lapide sul luogo dove un figlio, un fratello è caduto, visitare i
cimiteri di guerra, leggere i nomi dei caduti, toccare i nomi incisi e le sculture,
servono per evitare la melanconia distruttiva, per passare attraverso il lutto,
per staccarsi dai morti e ricominciare a vivere. Il rito è uno strumento che
serve tanto a scordare quanto a ricordare, e i Monumenti ai Caduti, con la loro
rappresentazione materiale dei nomi di coloro che abbiamo perduto, sono lì
per aiutare nell'arte necessaria del dimenticare. Questo rito di passaggio trova
espressione in tante «forme linguistiche» legate al tempo, alla cultura e al
cambiamento nel regime politico. È impossibile – in questo momento – fare
un'analisi con esempi delle tante forme linguistiche. Riporto solo due casi:
un'iscrizione che il prof. Giacomel attribuisce ad Ungaretti, fissata all'ingres-
so della galleria del Castelletto,5 e il confronto fra due scultori: Giovanni
Possamai di Solighetto e Antonio Morera. Il Possamai è uno che la guerra
l'ha fatta davvero, anche se antimilitarista. Le sue opere sono per lo più rea-
lizzate nell'immediato dopoguerra, negli stessi luoghi e negli stessi tempi in
cui squadre di militari della Polizia Mortuaria recuperano – dentro le trincee
sconvolte, sotto le macerie dei paesi, fra sassi e sabbia del fiume – corpi ma-
cerati dal sole e scarniti dall'acqua e dal vento. Queste inquietudini e questo
pathos si impossessano del Possamai scultore e lui reagisce immortalando i
suoi eroi nello spasmo dell'attacco, nervosi e febbrili, scattanti e tormentati:
ogni muscolo, ogni grammo di carne funzionale al gorgo vorace della guer-
ra. Il particolare del monumento alle Forze Armate del Morera, inaugurato

5 Vedasi: Arrivederci.Aufwiedersehen Cortina di P. Giacomel, Regole d'Ampezzo 1997.


245
Ex voto del superstite Giulio Muraro scampato al siluramento della «Principe Umberto»

«Regina Scapularis»: Follina, cimitero austro-ungarico, fronte e retro di


medaglietta devozionale trovata sui resti di un Caduto. Archivio Tessari.
La Madonnina del Grappa.
a Conegliano l'8 novembre 1925, alla presenza del gen. Diaz e del re, è ben
diverso: l'esperienza della guerra si è ormai sedimentata; il regime inizia ad
alimentare, in vista di nuove grandi imprese, il Mito della Grande Guerra e
del Sacrificio. L'artista avverte il vento di tempi nuovi annunciati da Taddeini,
estetologo del Regime Fascista:

la morte eroicizzata dall'arte non verrà più rappresentata come una caduta, ma come un
dovere di successione. L'arte può compiere miracoli. I morti non sono più morti.

Così nasce l'eroe: ben piantato, muscoli da palestra, corpo da antico roma-
no, pronto a ricostruire l'impero.

Altra forma per celebrare i Caduti sono i viali e parchi della rimembran-
za. Analogamente a quanto veniva fatto nelle altre nazioni europee per l'ela-
borazione del lutto, oltre al recupero delle salme nei cimiteri militari e alla
costruzione di Monumenti ai Caduti, anche in Italia maturò l'idea di onorare
i caduti legandoli al mito della natura, della pianta sempre verde e rifiorente,
della selva simbolo della forza primordiale. Dario Lupi, sottosegretario alla
Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, lanciò l'idea dei viali e par-
chi della Rimembranza.6 Dopo un anno i comitati costituiti nelle scuole erano
più di mille e i viali e parchi realizzati oltre 5.000. A volte non erano viali
e parchi realizzati appositamente, ma adattamenti di realtà preesistenti con
l'apposizione del nome di un caduto per ogni pianta.

6) cimiteri e sacrari
Più ci si allontana dalla fine della guerra più si modifica il lutto e il modo,
dunque, di ricordare i Caduti. Pian piano i 3.000 cimiteri di guerra vengono
sostituiti dalla maestosità dei Sacrari. Nel Sacrario/Ossario devono arrivare
solo le ossa, scarnificate da qualsiasi rimasuglio di pelle e di carne. È una nuo-
va, seconda sepoltura in cui, simbolicamente, si privano i Caduti dei propri
connotati. Nel Sacrario – a differenza per esempio dei cimiteri militari inglesi
– non ci possono essere più delle persone, volti, gente comune: ognuno con
il proprio percorso di difficoltà, entusiasmi, paure, cadute e riscatti eroici. La
triste e tremenda realtà della guerra viene trasfigurata in fornace di purifica-
zione in cui una impressionante litania di nomi senza volto e senza storia,
diventa una macchina possente ed eroica: la razza italica che rinnova l'impero
di Roma ed entra nei cieli eterni della gloria. I monumenti ai caduti, da opere
sobrie e coinvolgenti che raccontano eventi ed eroismi concreti, diventano,
6 Dario Lupi, Parchi e viali della rimembranza 1923, Bemporad ed.
248
con il progredire del regime, monumenti sempre più trionfali, celebrativi di
un'idea astratta di eroe e di virtù della razza italica. Si arriva così a una forma
linguistica che realizza quanto detto da Mussolini: «un popolo che deifica i
suoi Caduti è un popolo che non può essere battuto».
Un concetto questo ben diverso da quello attuato con semplicità e con la
saggezza del motto ONORARE I MORTI PENSANDO AI VIVI che negli anni
successivi alla Grande Guerra ispirò tante Amministrazioni Locali a realizza-
re Scuole ed Asili come il Miglior Monumento che i Caduti potessero avere.

Un cenno, infine, alle lapidi che furono fatte sparire, soprattutto dopo l'8
settembre 1943, in quanto troppo offensive per i tedeschi.
Sul lato sud della stazione di Nervesa una targa voluta dalla 97a Compa-
gnia del 44° Genio Zappatori aveva ripreso a piè pari la scritta in calce ad una
cartolina:7

combattere tu devi o soldato d'Italia. Per non subir lo sprezzo della tua donna violata, per
non veder nella tua casa crescere il bastardo, figlio della tua donna e del tedesco.

A Pianzano, finita la guerra, il parroco Possamai fece affiggere una lapide


all'ingresso della chiesa, che oltre a dare del Barbari ai Germanici e Barbarini
agli austro ungarici, fra l'altro ricordava:

[...] QUALI DISCENDENTI DI ATTILA


BORIOSI DISSERO
ITALIANI FARETE LE UNGHIE LUNGHE!
PER PANE MANGERETE SASSI!
IN SACILE GIA' CE NE SONO MACINATI
E POI NON VI CHIAMEREMO
CRUDELI – FEROCI – INFAMI?

Sono tutte lapidi che scompaiono con la 2a guerra mondiale, in particolare


quella di Pianzano prima viene nascosta dalle suore e poi se ne perdono per
sempre le tracce. Una lapide, con un tenore simile, fu nascosta nel sottoscala
di un campanile e solo un anno fa è stata riportata alla luce e apposta – sul lato
meno visibile – del Monumento ai Caduti.

7 cartolina di G. Mazzoni, commissionata dalla 3a Armata


249
Santa Maria di Lago: ex voto di alcuni soldati del 55° fanteria sfuggiti a una valanga.
I «Caimani del Piave». Scultura di Giovanni Possamai. Archivio Tessari.

«La difesa del fiume». Scultura di Giovanni Possamai. Archivio Tessari.


7) Un'esperienza conclusa.
Con lo sfumarsi nella nebbia del tempo degli eventi bellici e dei relativi
odi, diventano sempre più frequenti gli episodi di incontro fra ex nemici con,
in particolare, la celebrazione di riconciliazioni e restituzioni. Con il distacco
temporale, dovuto al progressivo crescere degli anni dalla fine della guerra,
si verificano interessanti casi di resituzione: è il caso del piedino di Gesù
Bambino riportato al Sacello di Cima grappa, o del Candelabro da Budapest
di cui racconta il poeta Andrea Zanzotto in un articolo sul Corriere della
Sera del 9 settembre 1988. La restituzione dei simboli diventa emblema della
cristallizzazione, cioè dell'elaborazione in 'esperienza conclusa' delle vicende
di guerra. Questa esperienza conclusa della guerra si evidenzia anche in pri-
mo luogo nella proliferazione di Musei e Collezioni: 4 anni fa nella Marca o
poco più in là dei confini provinciali (cioè a Bassano, Alano e Vas) contai 21
realtà, fra musei e collezioni, che almeno in parte facevano riferimento alla
Grande Guerra. Oggi ne andrebbero aggiunti altri 6. In secondo luogo sono
nate e si stanno sviluppando realtà di tipo nuovo come i Musei all'Aperto, le
Trincee Didattiche, i Sentieri Storici e della Pace. Queste nuove modalità di
rivisitare e raccontare la guerra sono molto interessanti in quanto propongono
un percorso alternativo al monumento tradizionale inteso come Memoriale e
Luogo di celebrazione del 'rito' come si può riscontrare anche nelle recenti,
grosse ed impegnative realizzazioni di: il Monumento al Soldato d'Italia8 a
Pederobba e il Monumento/Cripta9 a Follina. Musei all'Aperto, Trincee Di-
dattiche, Sentieri Storici e della Pace vanno oltre la liturgia della celebrazio-
ne, sono forte stimolo a meditare e a far memoria; impegnano a ripercorrere
e coltivare i luoghi della memoria. Attraverso i luoghi della memoria acqui-
siamo una coscienza maggiore sulla realtà della guerra: guardiamo al passato
per promuovere da esso azioni verso il futuro, trasmettendo al futuro i valori
acquisiti.

8 Opera di G. Aricò (1988).


9 Opera dell'architetto Paolo Portoghesi (2008).
252
Il sacrario di Fagarè della Battaglia. Archivio Tessari.

Il sacrario del Montello. Archivio Tessari.


Lagazuoi, oggi (a sinistra) ed allora. Archivio Tessari.

Crocetta del Montello: museo della Grande Guerra e del ‘900. Archivio Tessari.
INDICE

Enzo Raffaelli
Da Caporetto al Piave .................................................................................11

Andrea Castagnotto
Il sistema difensivo del Veneto e del Friuli durante la
prima guerra mondiale ............................................................................. 33

Ernesto Brunetta
Il morale dei soldati nella prima guerra mondiale .................................... 55

Daniele Ceschin
Gli attori sociali nella provincia del Piave ............................................... 75

Stefano Gambarotto
1915-1917. Fra civili e militari in una provincia lacerata dalla guerra.............. 125

BenitoBuosi
Racconti dell'invasione 1917-1918 .......................................................... 143

Livio Vanzetto
Una memoria nazionalpopolare per il Monte Grappa
«baluardo d'Italia» (1918-1921)............................................................... 203

Francesco Scattolin
Lo scandalo della ricostruzione. Guido Bergamo e «La Riscossa».......... 214

Roberto Tessari
Segni di guerra e di pietà. novant'anni di lutto e
memoria della grande guerra ....................................................... 231
maggio 2011

stampato da
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ISBN 978-88-96032-15-2
Enzo Raffaelli, Andrea Castagnotto, Ernesto Brunetta,

1918. L’ULTIMO ANNO DELLA GRANDE GUERRA


Il 1918 è stato l’ultimo, cruciale, anno della Grande Guerra. Dopo la disastrosa rotta Daniele Ceschin, Stefano Gambarotto, Benito Buosi, Livio Vanzetto,
di Caporetto, il teatro del conflitto cambia in modo repentino. In poche ore si sposta Francesco Scattolin, Roberto Tessari
dalle desolate pietraie del Carso alle campagne del Veneto. La linea del Piave divie-
ne l’ultimo baluardo contro un avversario che, due anni prima, ci eravamo illusi di
ridurre all’impotenza in pochi giorni. Un intero mondo viene investito da questo
cataclisma e la sua quotidianità sconvolta è costretta a cercare nuovi equlibri. Il Ve-
neto diventa terra di profughi e di persone in fuga, luogo nel quale si combatte e si
costruiscono difese munitissime, là dove prima erano campi e opifici. Le città e i paesi
sono «invasi» dai militari che impogono le loro esigenze e con i quali, una popolazio-
ne impreparata si deve confrontare giorno per giorno. Tutto diventa funzionale alle
esigenze della guerra mentre si combattono battaglie epiche, destinate a diventare
altrettanti, fondamentali, capitoli della nostra storia nazionale. Poi, a guerra finita, la
ricostruzione di quanto è andato perduto con i suoi tristemente «abituali» scandali.
Da ultima matura l'esigenza di conservare il ricordo di ciò che è accaduto, una me-
moria che tante tracce di sè ha lasciato nei nostri territori. L’ultimo anno della

a cura di
Steno Zanandrea

Da vendersi esclusivamente in abbinamento a uno dei seguenti quotidiani:


La Tribuna di Treviso
(Dir. Resp. Alessandro Moser - Reg. Trib. di TV n. 407 del 30/01/1978)
Il Mattino di Padova
(Dir. Resp. Omar Monestier - Reg. Trib. PD n. 568 del 11/11/1977)
La Nuova Venezia e Mestre
(Dir. Resp. Antonello Francica - Reg. Trib. di VE n. 1398 del 20/09/2001)

Supplemento al numero odierno € 7,90 + il prezzo del quotidiano

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