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RIASSUNTO - Mastroberti - La transizione dall'antico al nuovo diritto nel Regno di

Napoli
OMICIDIO DI CARMINA
CALABRIA NEL DECENNIO FRANCESE
DIRITTO DI PREDARE (CONSIGLIO DELLE PREDE MARITTIME) TESTA DI MEDUSA (e legge unificatrice)
Codice napoleonico e regno di napoli
Corte suprema di Giustizia di Napoli
Da giudice di pace a giudice unico
DIBATTIMENTO E LIBERO CONVINCIMENTO DEL GIUDICE CONFISCHE E SEQUESTRI
Si può ricavare lo svolgimento di un processo criminale durante la seconda metà del ‘700 in 2 modi:
- Dalle pratiche criminali dell’epoca (tra cui quella di Tommaso Maria briganti)
- si può concentrare l’attenzione sui fascicoli processuali conservati nell’archivio di Stato di Napoli.
La seconda opzione è preferibile perché attraverso gli interrogatori, confessioni di colpevoli, relazioni di
periti viene restituita una fedele dimensione della procedura.
All’epoca tutto il processo era segreto e l’opinione pubblica era tagliata fuori: era sufficiente che il popolo
ne vedesse l’esito con la condanna dei colpevoli che assumeva caratteri spettacolari nel caso la pena di
morte. Dunque, analizzare un processo criminale può essere illuminante per comprendere l’andamento di
una giustizia penale molto diversa da quella che conosciamo oggi.

Omicidio di Carmina di LUCIA


Il fascicolo consiste in 207 documenti rilegati assieme a una descrizione dettagliata dei contenuti di essi. Il
processo fu avvocato dalla real camera (il più alto organo giudiziario del regno) e mai risoluto. La questione
è che nel sistema giudizio del regno la procedura criminale aveva una dimensione amministrativa
concentrandosi tutta nella fase in cui si Torio: l’istruttoria fu condotta da mastrodatti, sotto la guida del
governatore mentre l’organo giudicante competente svolse un ruolo passivo.
Il 24 ottobre del 1767 venne ritrovata a Giuliopoli una ragazza morta morta vicino a un pagliaio bruciato, la
quale era la giovane Carmina di Lucia. Il corpo giaceva a terra in parte bruciato e presentava una ferita alla
cura di circa 10 cm, il cranio fracassato, il labbro superiore ritagliato e il ventre tumefatto. La ragazza era
incinta senza essere sposata di un maschio di sei mesi.
Si possono notare tre aspetti caratterizzanti del processo di antico regime:
1) Il modello assolutistico: E tutto arrivava al ministero e tramite di esso il sovrano decideva tutto,
2) la promiscuità tra il potere giudiziario e il potere esecutivo, infatti è il ministro ad autorizzare la nuova
istruttoria,
3) l’istruttoria affidata a un subalterno, un mastrodatti.
Il funzionario incaricato Luigi Astuto, dopo l’autorizzazione da parte della segreteria di stato di grazia
giustizia, avrebbe compiuto tutti gli atti a cominciare dei fondamentali interrogatori su incarico di Pietro
Bargavan, marchese di Bonastella, e il nome di sua maestà. (ovviamente però non tutti i processi si
sviluppavano in questo modo, ma questo è un caso particolare in cui il tribunale non disponeva di tutti gli
elementi per poter giudicare e anche perché l’istruttoria costava abbastanza e era necessario ottenere i
fondi da parte del ministero)
Con riferimento a quest’omicidio, emerge che trascorse addirittura più di un anno perché la nuova
istruttoria si avviasse, in quanto i primi interrogatori risalgono al luglio del 1769. Dagli atti non si ricava il
motivo di questo ritardo ne è possibile immaginare il motivo. La spiegazione possibile è che gli interrogatori
formali e la stesura degli atti furono compiuti quando era stata già acquisita la verità mediante percorsi e
strumenti estranei al processo.
Infatti, è probabile che Mastrodatti avesse lavorato acquisendo delle deposizioni informali e solo quando
ottenne la confessione dei responsabili convocò i testimoni, i periti e colpevoli per la stesura degli
interrogatori formali e delle confessioni, in modo tale da presentare la documentazione all’udienza della
vicaria e alla segreteria di stato di grazia e giustizia.
Interrogatori:
Il funzionario incaricato Luigi Astuto procedeva sempre nello stesso modo chiedendo e ottenendo
l’autorizzazione al preside per la spedizione degli ordini di comparizione e per gli interrogatori.
Il 2 luglio 1769 fu convocato Rossello Mattia di Lucia, padre di Carmina, per la deposizione. Il verbale
interrogatorio consta di due parti: delitto in genere / diritto in specie (il primo riguarda il delitto, il secondo
il delinquente) * come descritto dal Briganti*:

- Si incominciava con la descrizione dei fatti, ossia il delitto in genere e Mattia raccontò che nelle feste di
Natale dell’anno precedente si è introdotto Luciano nella sua casa (un uomo al servizio del barone) per
accompagnare Giuseppe Malatesta (un suo parente), il quale aveva intenzione di sposarsi con Cecilia di
Lucia, altra sua figlia. E raccontò che nel settembre del 1767, la moglie gli disse che sua nuora (Irena fanti)
gli aveva detto che Carmina si tratteneva spesso con Luciano e siccome la vedeva con la pancia gonfia
sospettava di una sua gravidanza. Mattia non diede conto a questo sospetto, in quanto Carmina era per
propria di costituzione con una pancia pronunciata. Un giorno però Mattia tornando a casa scopri che
Carmina era sparita e Irina gli disse che la cognata era scappata con Luciano che l'aveva messa incinta.
Mattia sconvolto per l’offesa all’onore della famiglia, decise di inseguire la coppia e riportare a casa
Carmina, ma Irena lo fermò sostenendo che fosse inutile fare ciò in quanto era già noto che la figlia fosse
incinta e in più ci fu una forte pioggia che lo fermò.
Perciò, l'unica cosa che Mattia fece fu quella di rimproverare la nuora Irene che non aveva badato alla
cognata carmina. Successivamente Mattia viene a sapere che Luciano aveva riportato Carmina , la quale
vagava per la campagna. Mattia allora avrebbe voluto riportarla a casa ma la moglie la nuora e le figlie si
opposero.
Inoltre qualche giorno dopo Mattia richiede di dilazionare il pagamento di un tributo, ma l'esattore Pietro di
rienzo si oppose e questa opposizione fu interpretata come una cattiva reputazione caduta sulla famiglia a
causa di questa vicenda.
Il 24 ottobre, Mattia mentre era nella vigna con le figlie e la nuora, fu avvisato da rosa di Leonardo
Marranzano che in una sua terra a Giuliopoli veniva bruciato un pagliaio E Mattia si accorse che l’bruciava
anche sua figlia Carmina. Sconvolto dal dolore ritorno nella vigna dove comunico il fatto alla moglie e alle
figlie. Giunse notizia di ciò anche al governatore , il quale andò con Mattia presso il luogo del rogo (e
notando alcune legna, si giunse a conclusione che il rogo era di origine dolosa). Il maggiore indiziato era
Saverio Luciano, uomo impulsivo abituato a commettere atti efferati. Il movente era la gravidanza inattesa
della donna e i problemi che gli avrebbe creato in quanto uomo sposato.
Dei primi inquisitori che si occuparono del caso, non risulta che Luciano sia stato ritenuto responsabile: le
modalità di esecuzione del delitto li resero perplessi, in in quanto appariva commesso da più persone
proprio a causa delle armi diverse e di fortuna che furono usate.un quadro generale che contrastava con la
figura di Luciano, un armigero esperto che aveva Dimestichezza con le armi. Ad ogni modo, il movente lo
aveva anche la moglie di Luciano e tutti i componenti della famiglia di carmina per la vergogna di questa
gravidanza.
Nel fascicolo però nonostante risulti una corposa mole di persone ascoltate, non vi è traccia
dell’interrogatorio di saverio Luciano che avrebbe dovuto essere uno dei principali indagati assieme alla
moglie. Il processo dunque mostra diverse stranezze: l’istruttoria fu conclusa dopo ben due anni di fatti per
finire con la irrisolutezza della causa, E poi desta sospetti l’unicità e simmetricità delle confessioni, salvo
quella di Mattia: un apparato probatorio così perfetto da suscitare qualche dubbio in ordine all’attendibilità
della ricostruzione dell’inquisitore.
Confessioni:
La svolta dell’indagini si ebbe nell’estate del 1769 quando Astuto fu costretto a interrompere gli
interrogatori a causa dell’assenza di testimoni dell’Abruzzo e ottenne la confessione dei responsabili:
- La formale confessione di Irena Fanti venne resa il giorno 9 ottobre del 1769. Disse che la frequentazione
da parte di Luciano avveniva con il consenso dei suoi suoceri e che aveva visto amoreggiare la cognata con
Luciano e chi aveva avvisato la suocera, la quale l’aveva rimproverata.
- Irina seppe che la moglie di Luciano era venuto a sapere della gravidanza e si era rifiutata di assecondare il
marito che le chiedeva di trasportare Carmina in un altro luogo per farla partorire.
- Dopo la fuga di Carmine, Irena apprese che la ragazza era stata trasportata la moglie di Luciano a Pissi: una
scelta poco felice perché sapeva che in paese l' avrebbero accusata di non aver badato a Carmina.
Perciò Irene decise di dire tutto a i genitori e alle sorelle di Carmina, le quali decisero dapprima di andare
alla ricerca della ragazza, ma poi a causa della pioggia si decise di non fare nulla.
- Fondamentale nell’esito della vicenda, fu la reazione di parenti e vicini che cominciarono con insistenza a
rimproverare Irene, così da far nascere un odio contro Carmina.
- Dopo otto giorni Irena venne a sapere da Rosa di Maranzana che il Luciano aveva portato Carmina nel
pagliaio del
campo di grano d’India. Allora Irina incarico’ Filippo , Nipote di Carmela, di andare a vedere se
effettivamente la ragazza era nel pagliaio. Il quale disse che Carmina era assieme a Luciano e che Luciano si
era accorto di lui (del bambino Filippo,) e che lo aveva inseguito con una sciabola.
- Anche l’episodio del mancato finanziamento da parte dell’esattore, died il là per nuovi rimproveri Irena,
cosicché lei prese la decisione di uccidere Carmina nel pagliaio dove si trovava. La sera del 23 ottobre Irina
lascio Mattia e Francesca nella vigna e se torno in casa con la tinozza di vino. Parlo’ di questa idea con le
cognate Cecilia e Angela che erano a loro volta adirate con carmina. Loro erano d'accordo, ma prima di
partire si tirarono indietro e non ebbero il coraggio, Angela poi si fece convincere e accompagnò Irena.
Omicidio: Uscirono verso 00:00 portando con loro la legna per il fuoco e i carboni ardenti, e giunte
appiccarono il fuoco senza vedere se dietro vi fosse carmina, ma all'improvviso sentirono la sua voce che
gridava e a quel punto Irina prese una sagliocca di legno che Mattia utilizzava per ribattere i pali e mentre
carmina cercava le sue scarpe le piombò addosso assieme con Angela

Movente: dunque il movente fu la riprovazione sociale che ricade su irena, Si può definire perciò un delitto
d'onore scaturito dalle accuse ricaduta su Irena a seguito della gravidanza di carmina.
Requisiti di validità delle confessioni:
L' illuminato Briganti sosteneva che le confessioni dovessero essere spontanee e non frutto di tortura , ma
la prassi era ben lontana da tutto ciò. Nel caso di Carmina di Lucia, le confessioni furono ripetute il giorno
17 ottobre del 1769 davanti all' udienza della vicaria criminale in cui le rie furono costrette a giurare sulle
loro confessioni sotto tormenti.
- Cesare Beccaria nell’opera ‘dei delitti e delle pene’ condanna la prassi delle torture e quella della pena di
morte,
- anche Francesco Pagano nella sua opera ‘i principi di diritto penale ‘si schierò contro la tortura.
Vista la portata dell’evidenza delle prove, dopo la convalida delle confessioni, il tribunale chiese al sovrano
di essere autorizzato a procedere ad modum belli et horas nei confronti della sola Irene ossia nel tempo di
ventiquattr’ore senza garanzie per l’imputato e senza possibilità di ricorrere in appello.
Questo è uno dei segni dell’assolutismo: bastava un rescritto del sovrano per trasformare la procedura
ordinaria ad modum belli e per horas.
Successivamente il tribunale invio alla segreteria di grazia giustizia la richiesta di convalida delle confessioni
che fu concessa e che imponeva di mandare il processo alla camera di Santa Chiara nel caso in cui si fosse
proceduto con condanna morte. Seguendo la procedura ad modum belli et horas erano state concesse
all’imputata 24 e per la difesa. Successivamente la regia udienza emanava un altro decreto con il quale a
seguito delle 5 cause di nullità eccepita dall’avvocato dei poveri, dichiarava nullitates non obstare. Infine, la
Regia Udienza comunicava di aver condannato Angela di Lucia alla penitenza e rimetteva il suo processo
alla gran Corte della vicaria per la revisione

Calabria nel decennio francese (CAP II)


Nel 1960 Umberto Caldora pubblicava il volume Calabria napoleonica col quale studiò approfonditamente
la realtà calabrese durante il decennio francese, mettendone in luce le condizioni sociali e culturali, i
problemi legati all' introduzione della legislazione napoleonica i conflitti che scatenarono.
Opera che ricalca le due opere più importanti sul decennio francese: quella di Jacques Rambaud sul biennio
giuseppino e quella di Angela Valente sul regno murattiano.
In Calabria la il brigantaggio assunse dimensioni tali da sottrarre gran parte del territorio al controllo del
governo ed a costituire una seria minaccia per esso.
La partecipata e sofferta descrizione delle condizioni della Calabria all’inizio del XIX secolo, descritta da
Umberto Caldora è particolarmente significativa: il periodo che va dal 1800 al 1806 è uno dei più tristi per il
regno infatti dopo la Barbara esecuzione dei repubblicani compromise l’immagine dei Borbone e E la
dichiarazione dello stato di guerra avvenuta il 31 luglio del 1206 all’arrivo dei francesi non fece altro che
conclamare una situazione di fatto già esistente che si sarebbe trascinata per tutto il decennio anche oltre
caratterizzato la storia della Calabria come una serie di guerre, insurrezione e anarchia. La dichiarazione lo
stato di guerra era stata preceduta dalla battaglia di Maida, dove gli inglesi sperimentarono per la prima
volta con successo la difesa doppia fila che si rivelò determinante la battaglia di Waterloo: è proprio grazie
a questa vittoria che gli inglesi riuscirono a rifornire i briganti delle armi occorrenti per scatenare la
ribellione.
La guerra ebbe poi un altro momento significativo con il giusto processo a cui fu sottoposto il marchese
Rodio, brigadiere borbonico catturato dei francesi mentre stava per organizzare resistenza, fu prima assolto
e poi riprocessato da una commissione straordinaria e condannato a morte. (fino a inizio pag 39. )
Prede marittime nel regno di Napoli (CAP III) – PAG. 47
La corsa e la pirateria hanno caratterizzato la storia del Mediterraneo e delle sue popolazioni in modo
simile a quanto il brigantaggio ha fatto per le popolazioni di terra. Il fenomeno si intensificò in età moderna
ma è stato fortemente presente fin dall’alto medioevo: Fu un effetto della caduta dell’Impero Romano
d'occidente e della conseguente assenza di un forte centro di controllo nel Mediterraneo. L’avvento di
Carlo al trono apri una nuova fase: Carlo tentò di arginare la pirateria saracena armando una flotta per il
controllo del mare (a partire dal 1739 sette navi napoletane solcato il mare per combattere catturare navi
corsare catturandone diverse)
Carlo chiudeva con la sublime Porta un trattato di pace navigazione e commercio che avrebbe dovuto
scongiurare gli attacchi pirateschi e corsari a navi e coste del mezzogiorno.
In questo periodo molte potenze, tra cui la Francia, si dotarono di apparati giuridici interni in grado di
rendere legittime le prede marittima con l’ordinanza di navigazione del 1681.a Napoli invece gli strumenti
giuridici erano ancora quelli del diritto romano e Carlo intervenne in materia:
- creando un sistema di controllo statale sulle assicurazioni marittime con l’istituzione della reale
compagnia delle assicurazioni marittime

- E con la creazione del supremo magistrato del commercio (un organo con vastissime competenze tra le
quali anche quella di decidere in appello sulle assicurazioni marittime e sulle prede marittime).
- Altri importanti interventi riguardarono la marina e furono compresi in un’ordinanza del 1759 curata da
Giovanni battista Iannucci: rappresentava una prima sistemazione della materia in vista della preparazione
di un codice sul modello dell’ordinanza. L’idea fu di Carlo ma un progetto di codice marittimo fu stilato dal
marchese Michele de Iorio su incarico di Ferdinando Quarto nel 1779: il progetto che non fu mai provato
era formato da alcune disposizioni nuove, Da disposizione dell’ordinanza francese del 1681, da norme
prese dal consolato del mare e dal diritto romano.
La legge n. 2 considerava buona presa tutti i vascelli che appartenevano i nemici comandati dai pirati, la
legge n. 3 considerava buona presa anche un vascello che combatteva e sotto una bandiera differente da
quello dello Stato che l’aveva la commissione o erano considerati buona presa anche i vascelli senza carte
polizze di carico, le disposizioni n. 4 e 5 stabilivano che le mercanzie di amici che si trovassero sul vascello
nemico non dovessero costituire buona preda, ma i mercanti avrebbero avuto pagare l’ammiraglio una
somma per l’accomodamento (sei mercanti non volevano pagare questo prezzo l’ammiraglio poteva
rimandare il vascello nel luogo dell’armamento), la legge n. 11 stabiliva che ogni lasciata avrebbe dovuto
abbassare le pile dopo l’ordine impartito dalla marina borbonica.
L’abate Ferdinando Galiani, nel periodo in cui de Iorio completava il suo progetto, dava alle stampe l’opera
dei doveri dei principi neutrali verso i principi guerreggianti e di questi versi principi neutrali, nel quale
esprimeva una condanna contro la pirateria e la corsa.
Il primo ad affrontare direttamente il problema fu il danese Martin hubner nel 1759 che sostiene il
legittimità sulla base del diritto naturale della prassi di arrogarsi il diritto di giudicare della validità di cattura
delle navi o merci appartenenti ai cittadini di uno Stato straniero.
Gli organi giudiziari interni per la decisione sulle prime marittime comparvero all’inizio del XV secolo in
Francia in Inghilterra e poi si diffusero ma mano in tutta Europa. Nel XVII secolo si consolidò il principio che
nessuno apriva poteva passare legittimamente in proprietà del catturante senza la pronuncia di un giudice
competente, il quale era un giudice interno, salvo eccezioni concordate tra gli Stati mediante trattati.
Il diritto applicato da questi organi interni era un diritto riconosciuto internazionalmente come il consolato
del mare, tuttavia se vi erano norme interne queste dovevano avere la prevalenza. La Francia fu la prima
nazione (prima e più di ogni altra nazione europea) a dotarsi di un diritto interno per la soluzione di
controversie sulle schede marittime. L’ordinanza di Francesco I e Enrico III disposero la confisca delle merci
amiche e trovati a bordo di navi nemiche e ordinarono la cattura di navi appartenenti ad un neutrale o
privato, se carica merci nemiche (in tal modo si andava a sconfessare un antico principio riconosciuto dal
consolato del mare per cui il diritto di priorità era limitato alle cose strettamente appartenenti al nemico).
Successivamente sistema dell’ordinanza del 1681 fu rimesso in piedi da Napoleone dopo la pace dei mari
stipulata ad Amiens, con un regolamento che affidò il compito di decidere le controversie in prima istanza
agli ufficiali di ammiragliato (nei porti francesi) e ai consoli (nei porti neutrali) e in grado in appello ad un
consiglio delle prede composto da un consigliere di Stato, da otto membri e un procuratore generale.
Questo sistema fu adottato durante tutto il periodo napoleonico e costituì il modello di riferimento per la
giurisdizione sulle pieghe marittime per gli Stati governati dei napoleonidi, come il regno di Napoli.
Cap3Pag56
Con l’aumento progressivo delle risorse destinate alla macchina, il sistema di difesa attiva avviato da Carlo e
poi continuato da Ferdinando Quarto ebbe risultati fino alla crisi del 1799 quando la flotta perse molte navi
e comandanti. Il regno poi attraverso una fase di crisi con la prima restaurazione borbonica E nel contempo
lo scenario internazionale cambiava rapidamente: il Mediterraneo divenne luogo di scontro tra tre potenze
Inghilterra Francia e la sublime Porta (E poi fu l’Inghilterra a prevalere).
Le reggenze di Algeri, Tunisi e di Tripoli – da dove partivano le principali incursioni brigantesche – furono
infatti impegnate dal 1802 al 1806 nella cosiddetta 1° guerra barbaresca condotta dagli Stati Uniti che si
concluse nel 1806 con la vittoria americana e determinò un forte indebolimento della potenza navale
saracena. Poco prima che si chiudesse tale guerra, l'Inghilterra, con la vittoria a Trafalgar, assestava un
colpo ferale e irrimediabile alla Francia. Dopo le pesantissime perdite subite dalla flotta franco-spagnola,
comandata da Villeneuve, la Francia dovette ripiegare sulla guerriglia di corsa che Napoleone incoraggiò,
avvalendosi di eccellenti capitani come Giuseppe Bavastro. Ma l’esplosione della guerra corsara nel
Mediterraneo avvenne con il Decreto di Berlino del 21 novembre 1806 con il quale Napoleone dichiarò il
blocco continentale nei confronti delle navi inglesi e in questo scenario qualunque nave, mercantile e non,
poteva essere legittimamente predata, in spregio evidente ad antiche e consolidate norme di diritto
internazionale e con grave nocumento per il commercio.
È chiaro che in questo contesto il giudizio sulla legittimità delle prede e sulle conseguenze giuridiche
dell'atto di predazione diventava dunque centrale, per questo vennero introdotti tribunali specifici durante
il decennio francese sia nel Regno di Napoli, in mano ai Napoleonidi, sia in Sicilia. Per il Mezzogiorno
continentale la creazione di un sistema amministrativo e giudiziario interno per la regolazione della corsa e
per la verifica della legittimità delle prede deve ascriversi a Giuseppe Bonaparte. Divenuto nel 1806 re di
Napoli per volere di Napoleone, egli stabilì un vero e proprio codice della predazione marittima, composto
da 101 articoli, con la L 12 ott. 1807, e istituì, con decreto del 31 agosto dello stesso anno, un organo
apposito per la risoluzione delle controversie
relative alle prede marittime, il Consiglio delle Prede Marittime. È interessante notare che la L. del 12
ottobre 1807 sopravvisse al Decennio e ebbe piena ed effettiva vigenza, in tutte le sue parti, fino alla fine
del Regno.
Il Decreto per lo stabilimento di un Consiglio delle Prede Marittime del 31 agosto 1807 creava nella Capitale
un organo amministrativo-giudiziario con competenza speciale ed esclusiva sulle controversie aventi ad
oggetto la «legittimità delle prede marittime». Il decreto, con riguardo alla sua competenza, non specificava
altro ed in particolare non offriva una definizione di “preda marittima" cosicché l'espressione poteva
estendersi dalle navi alle merci, all'equipaggio e agli schiavi: insomma á tutto ciò che veniva predato in
mare. L'atto predatorio poteva non essere illecito qualora ricorressero alcuni requisiti - stabiliti con il
successivo decreto del 12 ottobre 1807 - in virtù dei quali la preda poteva ritenersi legittima e dunque
sequestrabile e confiscabile dal governo. Il Consiglio era presieduto da un Consigliere di Stato e composto
da quattro giudici: «il più anziano tra tutti i capitani di vascello della marina di guerra, appartenenti al
dipartimento di Napoli, inclusa la classe degli ufiziali aggregati del corpo; il più anziano tra i consiglieri
d'intendenza di Napoli; il più anziano tra i membri componenti il corpo della città di Napoli; il più anziano
tra i commissari principali di marina impegnati nel dipartimento di Napoli». Il secondo sostituto del
tribunale di appello di Napoli avrebbe esercitato le funzioni di procuratore regio. La presidenza e la
composizione inquadrano l'organo come amministrativo e non prettamente giudiziario: a conferma di ciò si
può considerare anche la collocazione dello stesso all'interno degli Almanacchi reali del Decennio, laddove
lo troviamo nella sezione denominata Dipartimento Guerra e Marina*. Inoltre il decreto del 24 ottobre
1809 stabilì che l’appello contro le sentenze del Consiglio delle Prede Marittime fosse portato al Consiglio di
Stato.
Il decreto stabiliva le norme procedurali. Allorché una nave da guerra o corsara faceva una preda, questa
sarebbe stata condotta in uno dei porti del Regno dove il primo ufficiale di amministrazione di marina (o, in
mancanza, quello del porto più vicino) avrebbe compiuto l'istruttoria, applicando a bordo i sigilli,
conducendo l’esame testimoniale e facendo l'inventario delle carte trovate a bordo con l’assistenza del
primo commesso di dogana e di un procuratore dell'equipaggio predatore. Avrebbe dovuto poi occuparsi di
osservare scrupolosamente tutte le prescrizioni del Tribunale di Salute per il tempo della contumacia49.
Trascorsi dieci giorni senza che vi fosse stato «richiamo», si avviava il giudizio per la legittimità della preda
con un rapporto fatto dall’ufficiale di amministrazione di marina all’ufficiale di marina in comando. Si
costituiva dunque un tribunale formato dai due ufficiali, di amministrazione e di comando, e dal capitano
del porto (o da chi ne faceva le funzioni) che a maggioranza avrebbe deciso sulla legittimità della preda50.
Trascorsi altri dieci giorni, l’ufficiale di marina incaricato del processo avrebbe quindi inviato «copia della
decisione ragionata al segretario del Consiglio delle prede marittime, nella quale sarà fatta menzione di non
esservi stato richiamo, e si procederà alla vendita»3I. Nel caso di «richiamo» o se la sentenza non avesse
dichiarato la legittimità della preda, la causa passava al Consiglio delle prede marittime2, il cui giudizio Sarà
reso su di semplici memorie le quali saranno dal segretario comunicate rispettivamente a ciascheduna delle
parti, ed ai loro difensori, i quali saranno obbligati di giustificare la legalità delle loro facoltà. Le conclusioni
del procuratore regio saranno sempre date in iscritto. Il giudizio sarà immancabilmente terminato tra lo
spazio di tre mesi, da cominciare dal giorno, nel quale le carte sono state rimesse al segretario di detto
Consiglio. L'articolo 12 rimetteva, quindi, tutti i processi relativi alle prede marittime non definitivamente
giudicati alla competenza del Consiglio“. Pronunciata la sentenza, essa sarebbe stata spedita al Ministero
della Giustizia, il quale avrebbe dovuto trasmetterla all’ufficiale di marina in comando per le operazioni
conseguenti5s che avrebbero dovuto svolgersi «col concorso dell’intervento dell’ufiziale d'amministrazione
della marina, del primo ufiziale di dogana, e di un procuratore degli equipaggi predatori»". Gli articoli 16, 17
e 18 disciplinavano la vendita
delle prede e le liquidazioni". Se le prede fossero state condotte in porti stranieri i commissari delle
relazioni commerciali avrebbero seguito la vicenda, conformandosi
ai trattati internazionali esistenti con la nazione nella quale risiedevano e svolgendo se possibile, le funzioni
che il decreto assegnava all’ufficiale della amministrazione di marina dei parti del Regno8, relazionandosi
con il Consiglio delle Prede Marittime e con il Ministero di Giustizia e concorrendo all’esecuzione della
sentenza60. Per tutto il decennio francese – e anche durante la Restaurazione – il presidente del Consiglio
delle Prede Marittime fu il Consigliere di Stato Giuseppe Carta. Nel 1810 troviamo la seguente
composizione: Giuseppe Carta, Consigliere di Stato, presidente, Antonio Rossi, relatore del Consiglio di
Stato, Giacinto Bellitti, giudice della Corte di Appello di Napoli, Principe Capece Zurlo, membro del corpo
municipale di Napoli, Carlo Lostanges, Capitano di Vascello, Antonio Isouard, sotto- Ispettore di marina,
Raffaele Stabile, Consigliere di Intendenza di Napoli, Alessio d Azzia, sostituto procuratore regio presso la
Corte d’Appello di Napoli, procuratore regio di Consiglio, Michele Procida, segretario.
Pag 59 la legge del 12 ottobre 1807 può considerarsi come un vero e proprio codice delle prede marittime
che fu il primo che il regno abbia conosciuto e che lo costituì come stato corsaro. Questa legge regolava
tutti gli aspetti della guerra corsara (come la definizione di prede marittime, la concessione delle patenti di
corsa, i regolamenti per l’esercizio e la corsa, le modalità di pagamento dei riscatti, lo scarico delle merci e
liquidazione delle stesse, ripartizione dei ricavi). I primi tre articoli individuavano le prede legittime e quelle
buone:
- Prede legittime sono le imbarcazioni appartenenti ai nemici del regno o comandati da pirati o senza
commissioni di alcuna altra potenza
- Buona preda è qualunque imbarcazione che combatte battendo una bandiera differente da quella della
potenza della quale la commissione e saranno buone prede anche le imbarcazioni assieme a loro carico che
si dichiarano neutrali senza adeguata giustificazione.
Neutralità: Sulla neutralità bisogna ricordare Caterina seconda di Russia che aveva dato vita alla lega dei
neutri nel 1781 e la prova della neutralità era particolarmente ardua: non bastava il passaporto concesso da
potenze neutrali se i proprietari di bastimenti non si fossero naturalizzati come cittadini dello stato neutrale
E non vi avessero trasferito il loro domicilio prima della dichiarazione di guerra, non bastava inoltre che gli
capitano i proprietari del bastimento fossero cittadini della nazione neutrale se la nave fosse stata
comunque costruita in un territorio nemico, a meno che il trasferimento della nave non fosse avvenuto con
un documento precedente alla nascita dell’ostilità.

Potevano essere confiscate le merci di contrabbando destinate al nemico e potevano essere restituite nel
caso in cui le merci non eccedessero i tre quarti del valore dell’intero carico. Era obbligatoria la patente
rilasciata dal Ministro della marina per un periodo da 6 ai 24 mesi. Inoltre, ogni corsaro doveva essere
assicurato per 1000 ducati ogni 100 tonn. di portata.
C A S O: Una vicenda particolarmente rilevante in proposito è quella conservata presso l’archivio di Stato di
Napoli: venne catturata la nave ottomana Immacolata da parte di corsari siciliani. Il bastimento era stato
noleggiato dallo stesso capitano ed era provvisto di una licenza inglese per il viaggio e il carico consistente
in spirito di vino e prima di tartaro. Questa licenza che poteva compromettere la sicurezza
dell’imbarcazione nelle acque napoletane infestate dai corsari francesi fu diligentemente nascosta a bordo
la nave. L’abbordaggio avviene alle un alle 11 della sera e i corsari decisero prima di portare i bastimenti a
Palermo e poi cambiarono piano e difficile imbarcare i piccoli battelli appartenenti al proprio bastimento.
L’equipaggio della Immacolata fu costretto dunque a abbandonare la nave. Quest’ultima approdò a
Palermo e fu sequestrata come preda corsara, si scatenarono delle proteste e la questione si risolse solo
con la decisione del supremo magistrato del commercio che annullo la decisione del tribunale della plebe
marittima e dichiarò l’illegittimità dell’autorità. Questa vicenda è importante perché è un testimone della
grande insicurezza che ai tempi comportava circolare in mare.
Testa di medusa e legge unificatrice del 16 giugno 1997 (pag. 67)
Nel 1917 Giovanni Curis presentò la sua opera usi civici, proprietà collettive e latifondi nell’Italia centrale e
nell’Emilia E scriveva che il legislatore ha pensato di risolvere il problema delle province ex pontificie e
nell’Emilia con le leggi del 1888 e 1894 e si tentò di sconfiggere il fallimento di queste leggi con nuovi
progetti di legge, ma davanti a questi sembra che sia stata messa in permanenza la testa di medusa come
dice Curis.
La legge 16 giugno 1917 regola la materia degli usi civici, assimilando alla napoletana categoria legislativa
degli usi civici una serie di fattispecie che nel restante territorio italiano avevano avuto una diversa
denominazione e natura (pensionatico, cussorge, ademprivi, servitù, vicinie, etc. ). Più che di unificazione si
trattava di assimilazione e semplificazione che sacrificò le specificità di alcuni diritti (ad esempio
partecipanze e regole) che di civico avevano ben poco.
La dottrina tentò di inquadrare l’istituto nel nostro ordinamento: uso civico, secondo il Trifone, a
conclusione della sua argomentazione, consiste in un diritto di godimento, ma con struttura non di diritto di
credito, ma di diritto reale.
In particolare, l’uso civico ha i caratteri di:
- perpetuità (salvo che esso non sia suscettibile di soppressione e sia soppresso e liquidato, ossia convertito
in altro
diritto)
- e imprescrittibilità (non gli nuoce il non esercizio, anche se prolungato).
- Inalienabilità (così come inalienabile la qualità di civis, essa non è neppure una qualità disponibile in
quanto
costituisce uno status)
Una sorta di mostro a 2 teste: una privatistica e l’altra pubblicistica connessa alla natura di civis
Il problema degli usi civici nasce nel momento in cui ciò che era un comportamento viene incatenato nelle
maglie della legge, così l’emersione degli usi civici avviene tra l’11o il XII secolo in concomitanza di alcuni
fenomeni storici particolarmente rilevanti quali la formazione di forti monarchie, il rifiorire delle città e
l’attività dei giuristi.
È al regno di Napoli che bisogna guardare per individuare una prima disciplina moderna degli usi civici, che
anticipa la legge unificatrice. Il primo atto fu la legge del 2 agosto 1806 che rappresentò una vera e propria
svolta. Sono dunque da ricordare i primi due articoli in quanto il 1° recita che la feudalità con tutte le sue
attribuzioni resta abolita, mentre il 2° che tutte le città le terre e castelli saranno governate secondo la
legge comune del regno e abolita qualunque differenza.
Tale legge è ancora oggi vigente, nonostante molte autorevoli voci abbiano insistito per una nuova
disciplina, per esempio in un convegno sugli usi civici in Cassazione nell’89 si è chiesta da più parti una
riforma della disciplina, ma la realtà è che in tutto questo tempo il monopolio della materia è stato in mano
alla giurisprudenza che ha potuto decidere con una certa libertà proprio grazie a questa carenza nella legge.
Quindi la testa di medusa di cui parlava Curis è ancora viva. (FINE PAG 90)

Pag. 91 CODICE NAPOLEONICO NEL REGNO DI NAPOLI


Gli storici del diritto hanno affrontato alcuni aspetti importanti dell’epoca quale quello dell’impatto della
legislazione straniera francese a Napoli dove il terreno per la semina dei codici e delle grandi riforme era già
stato arato diciamo da importanti illuministi, però allora purtroppo le migliori teste pensanti del meridione
subirono il patibolo e quindi la rivoluzione sarebbe entrata nel regno di lì a qualche anno nel febbraio 1806
quando l’esercito francese occupò il mezzogiorno e il nuovo re Giuseppe Bonaparte diede inizio alle grandi
riforme con i pilastri del nuovo sistema: l’amministrazione civile e in particolare i codici (primo fra tutti
quello napoleonico che fu la prima vera codificazione moderna che abolì tutto il vecchio diritto fatto di
consuetudini, diritti locali, diritto romano e finalmente introdusse un corpo normativo completo di diritto
civile e non integrabile da altre norme)

Questo codice napoleonico fu il codice della borghesia (che era stata la classe sociale che aveva guidato la
rivoluzione) in quanto stabiliva il principio di uguaglianza, difendeva la proprietà, laicizzava lo stato civile,
introduceva addirittura il divorzio. E impostava tutto il diritto di famiglia sul potere assoluto del Pater (sia
sui figli e sulla moglie).
con il nuovo re di Napoli Giuseppe Bonaparte inizia una nuova fase della storia napoletana e quindi coloro
che prima avevano subito la repressione ad opera dei Borboni vedevano finalmente la possibilità di
partecipare a una fase molto importante della storia: finalmente gli esiliati potevano tornare in patria,
potevano mettersi a disposizione del governo e avviare un vasto programma di riforme. In questo scenario
la figura dell’arcivescovo di Taranto (che si chiamava Capecelato) occupò una posizione molto importante.
Pag. 139 Da giudice di pace a giudice unico
Dopo la Rivoluzione francese, il giudice di pace rappresenta la prima forma di giudice monocratico. Per gli
illuministi, il giudice monocratico non era sufficientemente garantista contro eventuali decisioni arbitrarie
perché tutto il giudizio era accentrato nelle sue mani. Si cercò di rimediare in qualche modo con una legge
del 1790 che lo associò a 2 assessori per garantire la collegialità e attenuare l’arbitrarietà. Inoltre, per
garantire la democraticità dell’istituto, fu prevista l’elezione popolare del giudice che rimaneva in carica per
2 anni ed era rieleggibile. Considerando che la carica era onoraria e aveva funzioni molto ampie (come
cause di polizia giudiziaria), questo sistema finiva per essere ‘un gigante dai piedi d’argilla’ perché non
erano molto preparati giuridicamente, nonostante i compiti molto ampi. Niccola Niccolini un giurista fu
incaricato di creare un manuale ad uso dei giudici di pace per istruirli in materia, ma, per quanto fosse ben
fatto, non risolse il problema. La Cassazione fu sommersa di dubbi di chi non sapeva come risolvere i vari
casi.
Ci furono così fatte delle modifiche legislative che smembrarono la figura del giudice in 2 diversi organi
giudicanti:
- Giudici conciliatori avevano limitate funzioni di conciliazioni a lvl comunale
- Giudici di circondario caricati di enorme lavoro
Dopo il giudice di circondario, furono introdotte negli stati italiani varie altre figure di giudici (tipo giudici di
mandamento), comunque la tendenza generale in Europa era per il giudice unico e dopo vari dibattiti si
giunse alla legge di modifica dell’ordinamento giudiziario del 1912 che introdusse la figura del giudice
unico. Dopodiché si verificò una vera e propria rivolta degli avvocati: mentre all’inizio si credeva in questa
riforma che dovesse restare in vigore per qualche anno, l’ostilità si scatenò negli ordini forensi quando la
riforma dimostrò che la vita del giudice unico avrebbe avuto una durata non di pochi anni in quanto
sembrava essere una figura poco garantista questa del giudice unico, al contrario della collegialità di origine
illuministica (questa fu detta la “la guerra degli avvocati”) .

Pag. 153 CORTE SUPREMA DI GIUSITIZIA DI NAPOLI


Fu molto criticata nell’800 da magistrati e avvocati che non sopportavano quel controllo di legittimità che
operava appunto la Corte.
Ci furono vari dibattiti in argomento, e il protagonista in assoluto fu GASPARE CAPONE, un noto giurista che
elaborò un sistema teorico, un teorema contro la Cassazione. Il motivo di tutta questa protesta era che i
“forensi avevano perso autonomia nell’interpretazione della legge. Quella Cassazione era poco giudiziaria e
molto POLITICA, eliminava sentenze e non rispettava la legge.
Una legge del 1817 migliorò leggermente le cose, stabilendo in caso di sentenza penale un rinvio alla Gran
corte più vicia a quella che aveva emanato la sentenza, mentre per le sentenze civili il rinvio era alla Gran
corte di NAPOLI, che quindi assumeva un ruolo più importante rispetto alle altre Gran corti.
Era previsto anche il caso del DUBBIO DI LEGGE, per cui in caso di disaccordo tra le corti interveniva il
governo per interpretare la legge oggetto di discussione.
Per quanto riguarda il problema della conoscibilità delle sentenze della cassazione: come potevano
magistrati e avv. Del regno conoscere le sentenze della cassazione all’epoca?
La stessa legge del 1817 prevedeva la pubblicazione di quelle sentenze. Ogni sentenza era preceduta da
un’analisi a cura di Nicola Niccolini per la parte civile che fu chiamata SUPPLIMENTO alla collezione delle
leggi.
Ma solo nel 1821 il “Supplimento” non venne più pubblicato, forse perché troppo costoso o più
probabilmente per motivi politici, perché non si voleva che dispositivi e motivi di sentenze penali fossero
conosciuti per ragioni di ordine pubblico.
Ma Niccolini pubblicò testi e raccolte con tutto il materiale ormai conosciuto.
I grandi raccoglitori di sentenze “setacciavano il fiume della giurisprudenza come cercatori d’oro”, dice il
Prof. Mastroberti.
Si possono individuare 3 fasi della CASSAZIONE NAPOLETANA:
1) Fase della cassazione politica: la fase più significativa perché vi siedono giuristi di rilievo, tra cui lo stesso
Niccolini come
avvocato generale, e diventa strumento di difesa della legittimità contro gli arbitri dei giudici;
2) Fase del lasciar fare in cui spesso la Corte entrava anche nel merito delle sentenze e fu criticata, ma
lavorò moltissimo
guardando le statistiche dell’epoca, purtroppo i giudici che la componevano non erano di qualità
3) Fase della Cassazione nazionale in cui proprio il Niccolini diventa Presidente della Corte Suprema e si
apre un periodo di sentenze pregevoli e finalmente circoscrive la sua giurisdizione senza entrare nel merito
delle cause, come era accaduto
in passato.
In conclusione, possiamo dire che la storia della suprema corte è come una nave in mezzo al mare in
tempesta, in cui essa ha resistito a tutti gli attacchi e ha costituito una speranza di LEGALITA’ nel mare
dell’arbitrio.

Pag. 187 dibattimento e libero convincimento del giudice


Nel 1840 un avv. Giuseppe Poerio difendeva un uomo accusato di omicidio premeditato dalla moglie,
dinanzi alla Gran Corte Criminale di Avellino. Nonostante la sua difesa, l’uomo fu condannato a morte e poi
graziato con l’ergastolo dal Re.
Il dibattimento pubblico era una novità all’epoca e costituiva in pratica uno spettacolo, raccontato sui
giornali anche a puntate. Era una giustizia garantista, che assicurava la possibilità di difendersi in un
pubblico.
D’altra parte, sussisteva però il problema di un gran numero di carcerati e per smaltire tali giudizi occorreva
un tipo di giustizia sommaria, senza dibattimento.
Il decreto 9 febbraio 1817 rappresenta il vero statuto della legislazione processualpenalistica napoletana.
Distingueva tre classi di giudicabili:
1) Erano compresi gli imputati di reati punibili con la morte o ergastolo, gli imputati di reati di setta o
sottoposti alla cognizione di commissioni speciali
2) Sono compresi gli imputati di reati punibili con la reclusione, escluso il furto la falsa testimonianza (questi
sono posti in libertà dopo la presentazione di remissione da parte degli offesi
3) Comprende tutti gli altri detenuti che sarebbero stati giudicati sommariamente e quindi senza
dibattimento e condannati alla pena corrispondente per loro reato, salvo il caso in cui non volessero essere
giudicati con le forme giudiziarie vigenti.
Per i reati di Stato venivano istituite due commissioni supreme: una che risiedeva a Napoli e l’altra a
Palermo composte da sei giudici di cui quattro civili, un procuratore generale e un avvocato. Inoltre in ogni
capoluogo di provincia ci sarebbe stata una commissione militare, la quale avrebbe giudicato gli stessi reati
delle commissioni su prima solo quando vi fosse stata flagranza di reato.
Le decisioni delle commissioni supreme militari erano inappellabili ed erano eseguite immediatamente.
Queste furono istituite per reati di stato come contro la sicurezza. Il processo era inquisitorio e senza
dibattimento.
Il dibattimento fu la riforma più osteggiata durante l’800 borbonico sia sul piano politico sia su quello della
prassi giudiziaria, infatti se analizziamo i dati statistici le cause con dibattimento furono circa 40.000 contro
le 177.000 decise senza dibattimento. Dunque appena il 18% aveva visto svolgersi un’udienza
dibattimentale. Senza contare le giurisdizioni eccezionali come quella della commissione suprema per i
reati di Stato.

CONFISCHE E SEQUESTRI (PAG.206)


I beni sequestrati e confiscati diventavano parte del demanio statale cioè diventavano beni dello Stato. In
età moderna è stato criticato l’istituto della confisca dei beni in relazione all’affermazione del principio
della personalità della responsabilità penale e dell’idea della proprietà come qualcosa di intangibile anche
da parte dello Stato; al contrario di quanto avveniva in precedenza dove la confisca era una pena ordinaria
in particolare per il reato di lesa maestà. Anche gli illuministi ripudiarono questo istituto della confisca in
quanto le confische fanno soffrire all’innocente le pene del reo, come diceva C. Beccaria (una famiglia ad
esempio poteva rimanere sul lastrico senza una casa per crimini commessi dal capo famiglia, un’ evidente
ingiustizia).
Con il codice penale borbonico fu abolita la confisca (a eccezione per i reati contro la sicurezza interna che
erano cmq puniti con la confisca) e si preoccupò di tutelare i beni del condannato permettendo alla famiglia
di acquisire a titolo derivativo tramite eredità i beni del condannato, ma una volta che quest’ultimo espiava
la pena i beni venivano restituiti e dunque il diritto era restituito a pieno. Anche gli oggetti sequestrati
erano restituiti.

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