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L’autore

Massimo Centini, antropologo, ha lavorato con varie


università italiane e istituzioni museali europee. Tra le
attività più recenti vanta la collaborazione nella sezione
“Arte etnografica” del Museo Civico di Scienze Naturali di
Bergamo. Attualmente è docente di Antropologia culturale
presso la Fondazione Università Popolare di Torino e
insegna Storia della criminologia ai corsi organizzati dal
MUA (Movimento Universitario Altoatesino) di Bolzano. Ha
collaborato con TuttoScienze de La Stampa, Avvenire e Radio
Rai.
Massimo Centini

I SACRI CRIMINI
Delitti, scandali e crudeltà tra le mura di santa madre Chiesa

PIEMME
I SACRI CRIMINI
Introduzione
Quando la Chiesa diventa una scena del crimine

L’oggetto di questa inchiesta che abbraccia un arco temporale


piuttosto ampio - dall’attualità recentissima a ritroso fino al
IX secolo - riguarda molti uomini e donne di santa romana
Chiesa. Non tutti, certamente. Generalizzare non sarebbe
giusto. Uomini e donne, esseri umani in carne e ossa,
appunto, che si sono macchiati di atti ignominiosi nei quali la
fede ha avuto una sua collocazione centrale o marginale e, in
alcuni casi, persino ribaltata, assumendo il volto della
superstizione, dell’abuso, della violenza. Talvolta la chiesa
stessa, intesa come luogo di culto, è diventata scena del
crimine.
Seguendo un’impostazione il più possibile obiettiva,
investigativa e storica, questo lungo viaggio narrativo
raccoglie vicende e figure il cui centro di gravità è stato la
Chiesa ma, come si vedrà, riguarda cose, persone e gruppi, e
non la Chiesa tutta. Questo va detto per onestà intellettuale e
per non essere fraintesi.
Si tratta di fatti che riguardano un passato lontano - i
tempi delle crociate o della lotta contro i dissidenti religiosi,
ad esempio - ma anche l’attualità; eventi che hanno visto
come vittime o carnefici uomini di Dio, la cui vita è stata
segnata da esperienze criminali di violenza e malvagità.
Si leggeranno le storie di coloro che hanno commesso
misfatti e omicidi all’ombra della croce, spesso avvalendosi di
quello stesso simbolo per meglio portare a segno i propri
spietati progetti e le proprie perversioni.
Qualcuno potrà osservare che nel corso della storia vi sono
stati casi in cui gli artefici di sofferenze e massacri
«credevano di essere nel giusto»... Si tratta di guardare le
cose posizionandole nella cultura del tempo: anche così, però,
è innegabile che vi siano stati eventi in cui la fede non poteva
essere usata come paravento dietro il quale celare
prevaricazioni, abusi e sopraffazioni.
Tutta l’inchiesta si fonda su molteplici fonti affastellate
negli archivi di un passato che non può essere dimenticato,
anche perché di tanto in tanto riemerge.
Con la consapevolezza della necessità di circoscrivere i
singoli casi nel loro tempo e in relazione alle personalità dei
soggetti coinvolti, questa inchiesta rifugge le
generalizzazioni, ma resta ferma su una rigorosa
ricostruzione dei singoli casi. Ciò anche quando si tratta di
vicende che potrebbero dare spazio al coinvolgimento di
intere comunità, come nel caso della pedofilia.
Nel raccogliere gli argomenti si è cercato di riferirsi
sempre a fonti e dati verificabili, escludendo i commenti,
poiché l’obiettività può venir meno se a dominare sono le
emozioni, le ideologie e i preconcetti. Il lettore troverà quindi
dei fatti circostanziati, che pongono vicende di ampio respiro
accanto ad altre meno note o semisconosciute, tutte narrate
con partecipazione e pathos, ma sempre appoggiandosi sui
materiali storici.
Vi sono stati uomini della Chiesa che hanno commesso
azioni immorali e delittuose, rese ancora più gravi se si
considera la loro posizione in seno al cristianesimo.
Naturalmente si tratta di una percentuale, piccola, ma
diventata importante per l’eco che ha determinato.
Parlandone con onestà intellettuale e cercando di slacciarsi
dai ceppi dei luoghi comuni e della retorica, si è tentato di
offrire un piccolo contributo all’altare della verità. Certi che,
parafrasando il quarto evangelista, la verità rende liberi.
UN CADAVERE IN CHIESAI
l corpo di Elisa Claps

Il ritrovamento del cadavere di una ragazzina di cui da tempo


non si avevano più notizie è l’epilogo più tragico nel caso di
scomparsa di un minore. Ma l’evento di cui ci occupiamo si
ammanta di toni ulteriormente inquietanti se osserviamo il
luogo in cui è avvenuto il ritrovamento: il sottotetto di una
chiesa.
Siamo a Potenza e la vittima è Elisa Claps.
Nata nel 1977 era come svanita il 12 settembre 1993: sono
trascorsi diciassette anni - 17 marzo 2010 - prima che i suoi
resti fossero rinvenuti nel corso di alcuni interventi di
manutenzione nella canonica della chiesa della Santissima
Trinità di Potenza.
Ritorniamo al 12 settembre 1993, una domenica: Elisa
Claps, una ragazza tranquilla, devota cattolica, che cantava
nel coro della parrocchia e studentessa al terzo anno di liceo
scientifico, usciva di casa per l’ultima volta. Era con un’amica
e avrebbe dovuto assistere alla messa, quindi fare ritorno in
famiglia per l’ora di pranzo. Da quel momento non è stato
possibile reperire tracce per cercare di capire dove Elisa sia
andata.
Le indagini consentono di stabilire che avrebbe dovuto
incontrare un amico, il quale aveva un regalo per lei:
riconoscimento per aver brillantemente superato gli esami di
riparazione. Gli inquirenti stabiliranno che la persona
incontrata era Danilo Restivo: forse l’ultimo a vederla 1.
I sospetti si orientarono sul giovane perché la sua
ricostruzione degli spostamenti non convinceva gli
investigatori. C’era un fatto, certamente molto significativo,
che non giocava a favore del sospettato: nelle ore successive
alla scomparsa di Elisa, Restivo si era fatto curare una ferita
alla mano nel locale pronto soccorso: la lacerazione -
affermava il ferito - era stata determinata da una caduta nel
cantiere che si trovava nei pressi della Santissima Trinità.
In seguito si disse che quella ferita era riconducibile a
un’arma da taglio; inoltre i vestiti risultavano macchiati di
sangue: comunque nessuno sollevò alcun sospetto e Restivo
rientrò a casa; quindi si spostò a Napoli dove avrebbe dovuto
sostenere un esame nella locale università.
L’uomo dichiarò sì di aver incontrato la Claps, con la quale
si intrattenne a parlare per breve tempo: in tale occasione la
ragazza gli avrebbe detto di essere spaventata da un
misterioso individuo che l’aveva importunata mentre si
accingeva a recarsi alla messa.
Le indagini e le dichiarazioni dei testimoni non
contribuirono a sollevare i sospetti su Restivo: si disse che
avesse la strana abitudine di tagliare ciocche di capelli alle
ragazze servendosi di un paio di forbici che portava con sé;
alcune amiche della vittima asserirono che avesse corteggiato
la giovane studentessa, senza però ottenere riscontro.
A guardare in direzione dell’uomo come a una persona
coinvolta nella scomparsa di Elisa, la madre della ragazza, che
ha continuato a sostenere la necessità di concentrare le
indagini intorno a quell’incontro tra la figlia e il sospettato,
avvenuto appunto nei pressi della chiesa. Inoltre, per la
donna l’edificio sacro avrebbe dovuto essere esplorato con la
massima attenzione, poiché secondo il suo parere - peraltro
corretto - era il centro di gravità della tragica vicenda.
Quella chiesa rientrava prepotentemente in scena quasi
diciassette anni dopo, quando, nel corso di alcuni interventi
resisi necessari a seguito di infiltrazioni d’acqua, i resti di
Elisa sono stati ritrovati.
In quel momento i familiari hanno avuto la conferma che i
loro sospetti non erano infondati: Elisa non si era allontanata,
ma era scomparsa nel luogo in cui era stata vista da alcuni
testimoni e quindi non si era mossa da un’area ristretta.
Dopo una serie di intoppi nel meccanismo giudiziario, con
un passaggio del caso dalla Procura di Potenza a quella di
Salerno, e una notevole attenzione da parte dei mass media,
gli inquirenti fornirono la ricostruzione dei fatti che
assegnava a Danilo Restivo una posizione nell’impianto
accusatorio.
Osserviamo sinteticamente i punti salienti emersi dal
rinvenimento dei resti:

• 17 marzo 2010: rinvenimento dei resti occultati al fondo


del sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, da
parte di alcuni operari impegnati nell’opera di
ristrutturazione al fine di eliminare delle infiltrazioni
d’acqua2;
• sul luogo rinvenimento di alcuni oggetti appartenuti
alla vittima: orologio, occhiali, orecchini, sandali;
• le condizioni del reggiseno e dei jeans hanno indotto gli
inquirenti a ipotizzare che la ragazza sia stata vittima di
un’aggressione a sfondo sessuale.

I giornali e le televisioni insistono sulla problematicità


della «scena del crimine»: ci si domanda se l’omicidio sia
avvenuto in quel luogo, oppure se il corpo sia stato portato
nel sottotetto solo quando la ragazza era già cadavere. In tal
caso, da più parti si levano domande sulle modalità adottate
dall’assassino per trasferire il corpo senza vita di Elisa fino al
punto in cui sarà ritrovato dopo tanti anni.
Non mancano ipotesi di connivenza o omertà da parte di
qualcuno, addirittura tra i membri della parrocchia.
Il 26 marzo 2010, pochi giorni dopo il ritrovamento del
cadavere, un quotidiano italiano pubblica alcune notizie
scioccanti: «Sono giorni in cui, a Potenza, la vergogna rischia
di pesare più della pena. La ferita della città, lo scandalo
dell’omicidio di Elisa Claps e dei troppi silenzi e depistaggi
seguiti in diciassette anni, comincia a sfiorare il cuore della
comunità, a toccare anche le voci più umili, perfino i suoi
pastori. Almeno tre persone sapevano»... Si fanno i nomi di un
viceparroco e di due donne e ci si chiede perché avessero
taciuto: «Pura omertà o colpevole indifferenza? Due mesi fa,
le due donne avevano scorto un teschio e altri resti umani:
proprio lì, nel sottotetto della trecentesca chiesa della
Trinità».
Per gli inquirenti il silenzio non fu determinato da omertà:
le donne pensarono che quei resti facessero parte di un rito
satanico e ne furono molto spaventate. Non immaginarono
che potessero esserci legami con la ragazza scomparsa. Una
tesi che però non ha mai convinto le persone più vicine alla
vittima. Emblematiche le parole del fratello di Elisa, Gildo
Claps: «A dolore si aggiunge indignazione. Chiedo alla
comunità cattolica di Potenza di interrogarsi, di farsi un
esame di coscienza. Vogliamo che tutta la verità venga scritta,
anche sui colpevoli dell’oblio, dell’omertà»3.
Pochi mesi dopo il ritrovamento dei resti di Elisa Claps, il
19 maggio, Danilo Restivo, che nel frattempo si era trasferito
in Inghilterra, venne fermato dalla polizia con l’accusa di aver
ucciso - nel 2002 - una sua vicina di casa a Bournemouth,
Heather Barnett.
Parallelamente la perizia medico-legale effettuata sul
luogo del ritrovamento dei resti della Claps rivelava materiale
organico che consentì l’estrazione del dna di due individui di
sesso maschile: «Due dna diversi tra loro sono stati estratti da
residui di sperma isolati su un materasso che era nel
sottotetto. Un terzo codice genetico è stato isolato dai residui
di liquido seminale individuati in uno strofinaccio
sequestrato nei locali del centro culturale Newman, che ha
sede nei locali della canonica sottostanti al sottotetto. Uno dei
due dna provenienti dal materasso è sovrapponibile a quello
dello strofinaccio, quindi apparterrebbero alla stessa persona.
L’altra traccia di dna proveniente dal materasso,
evidentemente, ricondurrebbe a un altro individuo» 4.
Un dato è certo: la ragazza è stata uccisa con arma da
taglio o punta, usata dall’assassino per colpire tredici volte la
vittima. Un numero rilevante di colpi, indicante che chi ha
ucciso Elisa ha infierito sul corpo, soprattutto in direzione
dell’area del torace, determinando la morte della vittima per
dissanguamento.
Vi è poi un ulteriore aspetto particolarmente inquietante:
nel 1996, nel vano del sottotetto della Santissima Trinità,
furono effettuate alcune opere di manutenzione, ma in
quell’occasione nessuno ebbe modo di vedere i resti di Elisa.
Possibile? È un punto particolarmente critico della tragica
vicenda, che certamente ha il ruolo di alimentare ulteriori
domande, quasi sempre senza risposta, favorendo nuovi
sospetti.
I periti sono convinti che la ragazza fosse viva quando
giunse nel luogo in cui poi trovò la morte: infatti, sotto le sue
scarpe sono state rinvenute particelle del pavimento del
sottotetto, sul quale evidentemente appoggiò più volte i piedi.
Non mancano tracce molto singolari: per esempio il
bottone di un abito che è stato definito «cardinalizio»,
repertoriato sulla scena del crimine.
La condanna di Restivo però non ha posto la parola fine
sulla tragica fine di Elisa Claps: sono soprattutto le modalità
di ritrovamento del cadavere e la presunta omertà che ha
consentito per tanto tempo di occultare i resti della vittima, a
essere oggetto di attenzione giudiziaria ’. Se il corpo fosse
stato scoperto prima, alcuni reati concorrenti attribuiti
all’assassino non sarebbero stati prescritti. Infatti, il cadavere
della ragazza, quando è stato rinvenuto, non era
completamente coperto poiché parte del materiale usato per
occultarlo era stato spostato: una rimozione che deve aver
consentito la visione del corpo, ma nessuno ne ha fatto
parola. Perché?

NOTE
1. J. Tobias, Sangue sull’altare. Il caso Elisa Claps: storia di un efferato
omicidio e della difficile ricerca della verità, Milano 2012.
2. Di fatto l’elemento scatenante fu l’infiltrazione d’acqua: quindi,
senza quell’opera di restauro forse ancora oggi la sorte di Elisa
Claps continuerebbe a essere un mistero.
3. «la Repubblica», 26 marzo 2010.
4. «la Repubblica», 6 luglio 2010.
5. F. Sciarelli - G. Claps, Per Elisa. Il caso Claps: 18 anni di depistaggi, silenzi
e omissioni, Milano 2011.
SANGUE SULLA CHIESA D’AFRICA
Le suore aguzzine del Ruanda

Facciamo fatica a credere, qui in Occidente, dove per molti


aspetti siamo in una sorta di paradiso terrestre, che in alcuni
Paesi del mondo l’orrore sia una presenza quotidiana,
inimmaginabile, con vicende riconducibili alle più brutali
sceneggiature delle pellicole splatter 1.
Il mondo occidentale ha preso coscienza di un’espressione
di questo orrore, quando anche da noi sono giunte le notizie
relative alla sanguinosa “guerra etnica” tra gli hutu e i tutsi
in Ruanda2: ma la maggioranza di noi ne ha saputo poco. Di
quando in quando siamo rimasti storditi momentaneamente
dai numeri relative alle vittime di quella guerra, ma poi,
anche questa tragedia, come tante altre, ci è scivolata
addosso, mentre le varie istanze della quotidianità ci
costringevano a guardare in altra direzione.
Le vicende che hanno espresso parossisticamente l’odio tra
i due gruppi hanno radici nella società ruandese e presentano
aspetti complessi non affrontabili in queste pagine3: qui ci
limitiamo a osservare questo dramma considerando il
coinvolgimento nei massacri di due suore... Un fatto che
vorremmo fosse scaturito dalla volontà di demonizzare la
Chiesa da parte di certi mass media, ma che invece è
purtroppo frutto di una terribile realtà. Per trovare conferme
dobbiamo entrare nelle aule di un tribunale. Un tribunale
molto lontano dai luoghi dei genocidi: a Bruxelles.
Qui, nel maggio 2011, si è celebrato il processo contro
quattro imputati (un docente universitario, un politico e due
suore) ritenuti in modo diverso colpevoli di aver contribuito
al massacro che, tra l’aprile e il luglio 1994, ha insanguinato
quel piccolo fazzoletto di terra africana in cui migliaia di
persone furono uccise, nella quasi totalità con armi bianche e
poi gettate nelle fosse comuni.
Il processo è stata un’occasione per rievocare fatti
tremendi, che hanno contribuito a portare brutalmente sul
piano della realtà le notizie che conoscevamo parzialmente e
che potevamo credere fossero distorte e inquinate da
motivazioni ideologiche. Nel tribunale di Bruxelles le voci dei
testimoni, molti segnati da cicatrici che ne hanno devastato
per sempre il corpo, hanno cancellato di colpo ogni possibile
incertezza, dimostrando l’attualità degli immortali versi di
Salvatore Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della
fionda / uomo del mio tempo»...
Mentre il professore e il politico, allora ministro, sono stati
accusati di aver pianificato e in alcuni casi partecipato alle
stragi che insanguinarono le strade di Bufare, una città al
centro del Ruanda, per suor Gertrude e suor Maria, le accuse
sono di altro genere.
Le due religiose, del convento benedettino di Sovu a sei
chilometri da Butare, ebbero un ruolo che il tribunale ha
ritenuto rilevante nel massacro di migliaia di ruandesi che
persero la vita tra il 22 aprile e il 6 maggio 1994.
Il pubblico ministero Alain Winants iniziò la sua
requisitoria affermando: «I fuggiaschi tutsi, dalle colline
circostanti, erano accorsi al monastero convinti di trovarvi
protezione e rifugio. Sulla sua porta d’ingresso avrebbe
dovuto invece essere iscritto il verso dantesco: Lasciate ogni
speranza, voi che entrate. Furono scacciati, affamati,
consegnati ai loro carnefici, assaliti, sterminati. Furono
bruciati vivi e sepolti vivi. Non ci fu limite all’orrore. Non ci
fu pietà, umanità, carità alcuna».
L’unico “gesto di misericordia”, ricordarono alcuni
testimoni, fu compiuto da un agente della polizia che, in
cambio di settemila franchi ruandesi, uccise alcune delle
vittime designate a fucilate, risparmiando così le sofferenze
procurate dal machete, arma con la quale fu fatta a pezzi la
maggioranza della gente.
Suor Gertrude era la madre superiora del monastero di
Sovu e suor Maria la sua assistente diretta: in pratica avevano
il controllo totale della gestione di quel luogo consacrato
all’accoglienza e all’assistenza dei bisognosi.
«I profughi cominciarono ad affollare il monastero tra il 17
e il 18 aprile. Ma il cancello, che era sempre stato aperto,
adesso era sprangato. Molti scavalcarono il muro di cinta e
allora Gertrude andò in città e tornò con un plotone di
soldati, che li fece sfollare quasi tutti verso il dispensario
gestito dalle suore, a un centinaio di metri dal convento.
Dentro le mura restarono soltanto i lavoranti del monastero
coi loro familiari venuti dal vicinato e i parenti di alcune
suore. Il 18, 19, 20, 21, i rifugiati non ebbero né da mangiare
né da bere sebbene il convento rigurgitasse di scorte (le suore
producevano la pasta in proprio)4.»
Il 22 aprile i miliziani, più simili a un’orda assetata di
sangue, diedero l’assalto al dispensario dove i fuggiaschi si
erano asserragliati immaginando forse di riuscire a sottrarsi
agli aguzzini. Non fu così. I morti furono migliaia. Un piccolo
gruppo cercò rifugio nel garage in cui solitamente era
parcheggiata l’autoambulanza: il capo dei miliziani pensò che
il modo migliore per farli uscire fosse dare fuoco all’edificio. I
testimoni dissero che la superiora e suor Maria fornirono la
benzina, portando le taniche con il combustibile. Il rogo
divampò in breve tempo e i disperati che uscivano dai garage
in fiamme venivano uccisi a colpi di machete.
Alla fine del massacro il capo dei miliziani andò nel
convento per lavarsi il sangue e concedersi una birra...
Poi le suore consegnarono anche i restanti tutsi scampati
che avevano trovato rifugio nelle sacre mura del convento.
Alla fine di quei giorni di follia le vittime furono circa
settemila. Scamparono al massacro solo i familiari delle suore
tutsi.
Riconosciute colpevoli dal tribunale di Bruxelles, l’8 giugno
2001, suor Gertrude è stata condannata a quindici anni di
spesso al parossismo.
2. Gli hutu costituiscono la principale etnia (85%) che occupa un’area
compresa tra il Ruanda e il Burundi; i tutsi, sono una minoranza e le
differenze con i primi non sono di carattere propriamente etnico,
ma soprattutto culturali e sociali. Gli hutu sono agricoltori e i tutsi
allevatori: quest’ultimi sono anche erroneamente definiti Watussi
per la loro altezza.
3. Per un primo approccio all’argomento: A. Milanese, Hutu contro Tutsi:
le radici del conflitto, Roma 1997.
4. «la Repubblica», 23 maggio 2001.
5. G. Petrucci, Le origini del male, in «Micromega», 30 giugno 2014.
6. V.L. Gaito, Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica, Roma
2014.
dell’inchiesta sulla strage del 4 maggio 1998 fu Fabio Croce
con il libro Delitto in Vaticano. La Verità. Come si può credere,
argomenta Croce7, che Tornay, il quale aveva detto a tutti che
avrebbe lasciato in pochi giorni un’arma, si sia suicidato per i
motivi esposti nella lettera? In realtà il giovane «non voleva
né poteva» commettere i due omicidi, ma divenne «un capro
espiatorio»: in altre parole, fu «suicidato» per coprire i veri
motivi dell’«esecuzione» del colonnello Estermann e di sua
moglie. Da qui le tesi che in qualche caso scivolano nel
complottismo, basandosi su illazioni difficili da verificare, in
altre però è evidente il riferimento a indizi che lasciano
qualche dubbio.
Manca di fondamento, per esempio la ventilata ipotesi che
Estermann fosse un agente della Stasi, il servizio segreto della
Germania Est; di un certo peso la scoperta, in fase di autopsia
di Tornay, di una «cisti subaracnoidea» che avrebbe
compromesso e deformato la parte del lobo frontale cerebrale
sinistro e quindi possibile causa di «allucinazioni e di altri
sintomi atti ad alterare il comportamento».
Comunque, nell’appartamento degli Estermann, la sera di
quel 4 maggio pare siano stati trovati quattro bicchieri
appena usati: un dettaglio smentito dalle indagini ma che, se
fosse autentico, rivelerebbe un misterioso quarto uomo,
presente alla strage e che si sarebbe allontanato dopo di essa.
C’era davvero un «quarto uomo»? Se sì, chi era? E perché
lasciò la scena del delitto: forse perché fu lui a compierlo?
Anche il movente della mancata onorificenza concessa a
Cédric Tornay perde consistenza se si considera che, in base a
un regolamento interno delle guardie svizzere, il giovane non
poteva ricevere riconoscimenti prima di dodici mesi dalla sua
ultima promozione, avvenuta in effetti nell’agosto del 1997.
Infine, la madre di Tornay ha avanzato perplessità
sull’intestazione dell’ultima lettera scritta dal figlio e non si è
mai arresa sostenendo la necessità di riscrivere la vicenda,
per scagionare Cédric e salvare quindi la sua immagine, nella
speranza di individuare i veri responsabili di quello che viene
ritenuto non un suicidio ma un omicidio.

NOTE
1. C.M. Richard, La guardia svizzera pontificia nel corso dei secoli, Milano
2005; D. Delcuratolo, Storia della guardia svizzera pontificia, Varese
2006.
2. Ansa, 7 maggio 1998.
3. «Le Matin», 8 maggio 1998.
4. Ansa, 6 maggio 1998.
5. Ansa, 4 luglio 2002.
6. J. Vergès - L. Brossollet, Assassinati in Vaticano, Milano 2002; F.
Sanvitale - A. Palmegiani, Sacro sangue. Storie di svizzeri, menzogne e
omicidi, Roma 2015.
7. F. Croce, Delitto in Vaticano. La Verità, Roma 1999.
Inoltre, in quel periodo, Tornay era stressato per la
separazione dei genitori e l’interruzione del suo rapporto
sentimentale con la fidanzata. Eventi che certamente ebbero
un peso rilevante e che furono aggravati dal difficile rapporto
con il suo comandante. Di fatto, per Tornay, l’ufficiale
divenne il “nemico” al quale attribuire l’origine delle sue
sofferenze psichiche e sociali. La precaria situazione crollò
quando il sottufficiale non fu inserito nell’elenco di quanti
sarebbero stati insigniti di un’onorificenza.
Forse aveva in mente di lasciare la Guardia svizzera? Pare
infatti che avesse intenzione, nei mesi estivi ormai prossimi,
di seguire un corso a Saint Maurice, per acquisire il titolo
necessario per svolgere servizi come guardia del corpo.
«Dopo aver trascorso alcuni anni presso il Santo Padre
quale Guardia svizzera pontificia, desidero tornare in
Svizzera. Avendo lavorato nella sicurezza, vorrei restare in
questo settore e credo che una professione di questo tipo
corrisponderebbe al mio attuale impegno presso il Vaticano»,
scriveva Cédric precisando che a partire dal 31 luglio 1998
avrebbe potuto lasciare in qualsiasi momento il Corpo, «con
un preavviso scritto di due mesi»; nel suo curriculum, Tornay
annotava: «Giovane tiratore a Saint Maurice dal 1991 al 1994»
e sotto la rubrica hobby: «sci, calcio, tiro con pistola e
fucile»3.
Il giovane vice-caporale, dissero le autorità vaticane
immediatamente dopo le tragiche morti, «pur se mancava
talvolta al regolamento, non dava segni di squilibrio» 4.
Tornay, che conosceva la residenza del colonello
Estermann, era un buon tiratore: due proiettili esplosi dalla
pistola d’ordinanza del vice-caporale - un soldato esercitato -
furono trovati nel corpo del comandante della Guardia, un
altro in quello della moglie mentre con l’ultimo Tornay si era
tolto la vita infilandosi la canna della pistola in bocca. Uno di
questi proiettili si conficcò nel soffitto con tracce di materiale
organico umano: dunque dopo aver colpito qualcuno.
Mancava però il quinto proiettile.
IL CASO ORLANDI
Una macchia oscura sul Vaticano

La scomparsa di Emanuela Orlandi fu un caso che fece molto


scalpore soprattutto per due aspetti: il primo determinato
dalle relazioni tra la misteriosa sparizione e il Vaticano e il
secondo dall’eco mediatica che l’evento produsse a più livelli
dell’opinione pubblica.
I fatti risalgono al 22 giugno 1983: la ragazzina, che allora
aveva quindici anni, era la quarta di cinque figli di Maria ed
Ercole Orlandi, un dipendente della Prefettura della Casa
Pontificia, frequentava il liceo scientifico e, nel pomeriggio
(dalle 16.00 alle 19.00), studiava pianoforte, flauto e canto
presso l’istituto «Tommaso Ludovico da Victoria», scuola
collegata al Pontificio Istituto di Musica Sacra.
Quel giorno Emanuela giunse all’istituto in ritardo. Le
cause saranno indicate dalla ragazza, intorno alle ore 19.00,
alla sorella sentita per telefono: l’incontro con il
rappresentante di una ditta di cosmetici, per la quale
intendeva lavorare come promotrice, si era protratto più del
previsto. La sorella comunque suggerì a Emanuela di parlarne
ai genitori prima di prendere qualunque decisione.
In seguito si apprese che l’azienda di cosmetici si avvaleva
solo di promotori di sesso femminile, inoltre, nello stesso
periodo, risultò che altre ragazze erano state avvicinate da un
uomo spacciatosi per rappresentante di quella ditta alle quali
proponeva di pubblicizzare cosmetici nel corso di sfilate di
moda 1.
Le tracce di Emanuela Orlandi si perdono dalla sua uscita
dall’istituto e dopo aver lasciato due compagne di corso. C’è
chi afferma di averla vista in compagnia di una ragazza mai
identificata e chi invece l’avrebbe osservata salire su una
grossa auto scura. Un vigile disse di averla vista parlare con
un uomo a bordo di una bmw. Da quel momento iniziò un
mistero che ancora oggi attende di essere risolto.
Il 23 giugno i genitori presentarono la denuncia per la
scomparsa della figlia: sapevano che Emanuela non si sarebbe
allontanata senza fornire indicazioni e quindi temevano il
peggio. I giornali iniziarono a trattare l’argomento che via via
assunse sempre maggiore rilevanza, anche in relazione agli
eventi che fecero seguito e alle illazioni susseguitesi.
Iniziarono a giungere le prime telefonate di persone che
credevano di avere notizie della ragazza scomparsa; il 25
giugno chiamò un giovane che disse di chiamarsi Pierluigi, il
quale affermò di aver incontrato, a Campo dei Fiori, una
ragazza che corrispondeva alla descrizione della Orlandi. Nel
corso di alcune telefonate fornì in effetti indicazioni che si
adattavano alle caratteristiche di Emanuela, ma Pierluigi,
rifiutò sempre di incontrarsi con i genitori.
Nei giorni successivi si fece sentire un’altra persona che
diceva di avere notizie: disse di chiamarsi Mario, ma le sue
informazioni erano alquanto frammentarie e ambigue,
vennero pertanto ritenute non attendibili.
Roma fu tappezzata di manifesti con la fotografia di
Emanuela nella speranza che qualcuno potesse avere notizie e
in tal caso la sensibilità di mettersi in contatto con i genitori.
Tra l’altro, ricordiamo che il 7 maggio dello stesso anno, a
Roma, era scomparsa un’altra ragazza, Mirella Gregori, della
quale non si avranno più notizie: anche lei sembrerebbe
svanita nel nulla.
La scomparsa di Emanuela, in breve tempo, si trasformò in
un giallo internazionale, che coinvolse il Vaticano, come
risulta chiaro dalle prime telefonate dei presunti rapitori che
si rivolgevano ai genitori e direttamente alla Santa Sede.
I primi contatti lasciarono intendere che la ragazzina fosse
trattenuta da un gruppo terroristico che chiedeva la
liberazione di Mehmet Ali Agca, il killer turco che aveva
sparato al papa.
Il 5 luglio 1983, era infatti giunta alla sala stampa vaticana
la telefonata di un misterioso individuo che aveva chiamato
in causa Ali Agca e chiesto l’attivazione di una linea diretta
con la Santa Sede, richiedendo inoltre la liberazione
dell’attentatore. Subito dopo chiamò la famiglia Orlandi,
facendo ascoltare la registrazione della voce di una ragazza
che poteva essere Emanuela: ma fu difficile stabilirlo con
certezza, poiché la registrazione ripeteva più volte la stessa
breve frase.
Pochi giorni dopo un uomo chiamò un’amica di Emanuela,
sostenendo che la ragazza era trattenuta e la sua sorte era
correlata alla liberazione di Ali Agca: lo scambio dei
prigionieri avrebbe dovuto essere effettuato non oltre venti
giorni; fu inoltre richiesta una linea telefonica diretta con
Agostino Casaroli, allora cardinale segretario di Stato. Un
aspetto inquietante attribuì una rilevante dose di veridicità a
quella telefonata: la ragazza a cui il presunto portavoce dei
rapitori si era rivolto, aveva dato, lo stesso giorno della
sparizione, il suo numero di telefono a Emanuela, che l’aveva
trascritto su un foglietto poi messo in una tasca dei pantaloni.
Mehmet Ali Agca, nel corso del processo che lo vedeva
imputato per l’attentato al Papa, affermò che la ragazza
sarebbe stata rapita da agenti bulgari e dal gruppo estremista
Lupi Grigi; disse anche, nel corso di altre udienze, di essere
costretto a inventare continuamente nuove versioni per
salvare la vita a Emanuela.
Venne anche recapitata una cassetta in cui erano incise le
grida di aiuto di una ragazza: ma si rivelò un falso, poiché le
voci erano state registrate da un film.
Malgrado le tante telefonate dei misteriosi personaggi, non
fu possibile giungere ad alcuna conclusione certa e
tantomeno avere elementi precisi che potessero confermare
se Emanuela fosse ancora viva.
Il legame con i Lupi Grigi non fu mai chiarito e solo in
tempi recenti, sarebbe stato ridimensionato dallo stesso Ali
vent’anni prima. Un caso?
Ed è anche un caso il fatto che il 13 maggio (1917) sia il
giorno dell’apparizione di Fatima, il cui terzo segreto è stato
posto in relazione all’attentato al pontefice?
Forse sì.
Dagli esami condotti sul cranio rinvenuto nella chiesa di
San Gregorio VII, non è stato possibile stabilire relazioni con
Emanuela Orlandi, di certo appartiene a una ragazza - tra i
quindici e i vent’anni - morta violentemente.
La scomparsa della giovane è stata correlata anche a un
altro episodio oscuro che ha sempre come teatro il Vaticano:
l’uccisione del domandante della Guardia svizzera Alois
Estermann e della moglie Gladys Meza Romero, il 4 maggio
1988, da parte del sottufficiale Cédric Tornay, che dopo il
duplice omicidio, si è tolto la vita. Le cause di quelle morti
sono rimaste un enigma colmo di domande4.
Come un tragico magnete sembrerebbe che la misteriosa
scomparsa di Emanuela Orlandi richiami «da vicino gli altri
misteri vaticani che hanno segnato il pontificato di Giovanni
Paolo II (...) Il caso Orlandi ha un pesante sovrappiù di
ambiguità. La scomparsa della quindicenne cittadina
vaticana, infatti, è un drammatico enigma segnato fin
dall’inizio dalla doppiezza. Avrebbe potuto essere davvero un
sequestro di persona con la regia della Stasi [servizi segreti ex
Germania dell’Est], finalizzato a ottenere la scarcerazione del
killer di piazza San Pietro» 5.
Per Pino Nicotri, che sostiene la stretta relazione tra la
scomparsa di Emanuela Orlandi e i fatti del 4 maggio 1988,
molte verità sarebbero state volutamente trasformate in
segreti da una sorta di Grande Fratello: «Il collegamento fra il
caso Orlandi e la strage vaticana del 4 maggio 1998, con
particolare riferimento a Alois Estermann, è una delle voci
più insistenti, oggi, all’interno delle mura leonine (...) Così, a
tanti anni di distanza (e come per i mandanti dell’attentato al
papa), resta il mistero impenetrabile di una ragazzina
quindicenne, cittadina vaticana, scomparsa per sempre. La
ed episodi mai confermati, determinando una
demonizzazione globale che non rende giustizia alla verità.
Quindi una valutazione super partes è obbligatoria, anche se
non facile, poiché la figura del prete-pedofilo, al di là delle
sue relazioni con l’ambito giuridico, sul piano emotivo
assume tonalità molto diverse da quelle rivestite dal pedofilo
laico. Infatti, davanti a un uomo di Dio che commette abusi
sessuali sui minori (ma naturalmente non solo), tendono a
venir meno quelle certezze che da sempre accompagnano
l’immagine del sacerdote. Crolla drammaticamente un patto
di fiducia antico come la Chiesa e si perdono i punti salienti
che hanno accompagnato da sempre il prete:
emblematicamente chiamato «padre», con tutte le
implicazioni che tale attribuzione determina nella psicologia
dell’uomo di fede e non.
A priori mettiamo in chiaro alcuni punti: gli abusi su
minori da parte di esponenti della Chiesa sono una realtà,
come confermato da tutta una serie di sentenze; una serie di
casi sono giunti all’opinione pubblica con ricostruzioni non
aderenti alla realtà dei fatti; spesso, non solo per quanto
concerne la pedofilia, l’opinione pubblica coglie solo l’enfasi
dei titoli dei giornali, tendendo a crearsi un’immagine
mentale non correlata all’effettiva entità dell’evento; è
innegabile che la pedofilia sia stata oggetto di sfruttamento
ideologico da parte degli avversari della Chiesa; è altrettanto
innegabile la dimostrata omertà da parte di alcuni membri
della Chiesa, che conoscevano la gravità del fenomeno
pedofilia tra gli ecclesiastici; mancanza di chiarezza sulle
effettive percentuali del fenomeno pedofilia tra i membri
della Chiesa: le percentuali spesso però non collimano, con
variabili significative tra i dati forniti sia dagli accusatori che
dai portavoce delle varie diocesi.
Chiariti questi punti, aggiungiamo che le “voci” degli abusi
su piccoli ospiti di collegi, orfanotrofi e altri complessi del
genere, si sono sempre sentite, anche se nella maggioranza
dei casi erano appunto “voci”, riportate da adulti che spesso
Tra le azioni atte a entrare concretamente nel problema da
parte della Chiesa, ricordiamo il simposio Verso la guarigione e
il rinnovamento, svoltosi a Roma nel febbraio 2012 presso la
Pontificia Università Gregoriana. In apertura dei lavori il
cardinale William Joseph Levada, prefetto emerito della
Congregazione per la dottrina della fede, affermava: «Nel
corso dell’ultimo decennio sono arrivati all’attenzione della
Congregazione per la dottrina della fede oltre 4.000 casi di
abusi sessuali compiuti da ecclesiastici su minori», ponendo
in evidenza il «drammatico aumento» del numero di abusi
sessuali su minorenni da parte di membri della Chiesa, tali
casi avrebbero di conseguenza «rivelato, da un lato,
l’inadeguatezza di una risposta esclusivamente canonica (o di
diritto canonico) a questa tragedia e, dall’altro, la necessità di
una risposta più complessa».
Una risposta che, già sei anni prima, era stata invocata
dalla bbc con il documentario Sex Crimes and the Vatican; un
programma che aveva il proprio focus su un ulteriore aspetto
della pedofilia tra i membri del clero: l’accusa di
atteggiamento omertoso della Chiesa nei confronti dei preti
colpevoli. Il documentario suscitò naturalmente molte
polemiche e fu proposto anche dalla nostra rete nazionale,
creando un vero e proprio caso che, come spesso succede in
Italia, virò sul piano politico con l’effetto di produrre ulteriori
contrasti. Comunque quel servizio ebbe sì il ruolo di mettere
in evidenza aspetti poco noti del fenomeno, anche se, va
detto, ne stravolse altri.
Un aspetto riguardava la segretezza che, al telespettatore
non addentro alle questioni del Diritto canonico, poteva
sembrare un modo per affossare le indagini. In realtà, come
chiarì Massimo Introvigne su «Avvenire», quotidiano della
Conferenza Episcopale Italiana, «la Chiesa ha anche un suo
diritto penale, che si occupa tra l’altro delle infrazioni
commesse da sacerdoti e delle relative sanzioni, dalla
sospensione a divinis alla scomunica. Queste pene non
c’entrano con lo Stato, anche se potrà capitare che un
sotto attenta osservazione e quindi questa tragica espressione
dell’umana malvagità dovrebbe essere contenuta? Le
percentuali, che si basano solo sulle denunce, spesso hanno
andamenti ambigui, in particolare quando vengono fagocitati
dagli organi di informazione, prima di opportune verifiche e
soprattutto quando mancano ancora le sentenze. Vanno però
anche considerati gli episodi che non verranno mai alla luce.
L’azione dei preti pedofili, come conseguenza secondaria
(la prima sono le condizioni delle vittime) ha infangato la
Chiesa, dando spunto a generalizzazioni non obiettive e anche
pericolose. Ricordiamo infatti il famoso anno dei «moti
anticlericali» che caratterizzò l’Italia in tempi non sospetti
(1907), quando la pedofilia non era ancora argomento da
dibattito mediatico come oggi.
Infatti, nei primi anni del xx secolo, furono portati alla
ribalta dalla stampa dell’epoca alcuni abusi sessuali da parte
di membri del clero che ebbero appunto come effetto una
serie di «moti anticlericali».
Nel 1904, nel collegio dei marinisti di Pallanza, il sacerdote
Eugène Borg venne accusato di «essersi abbandonato ad atti
libidinosi» nei confronti di due alunni quattordicenni, che lo
incolparono pubblicamente. Il collegio fu chiuso e il sacerdote
arrestato; i due giovani furono però sottoposti a una visita
medica che così refertava l’analisi: «Assenza di patologie
dipendenti da fatti della natura di quelli imputati al professor
Borg».
Il processo per direttissima stabiliva: «non farsi luogo a
procedere per difetto di querela»12.
Rimase però il sospetto... «l’opinione pubblica ne resta
sgomenta, tanto che in diverse città italiane si svolgono
comizi anticlericali che si protraggono a lungo, fino a
collegarsi ad altri simili dall’estate 1907» n.
Infatti, fu soprattutto il 1907 l’anno in cui si registrarono
alcuni casi di abusi sessuali su minori da parte di membri
della Chiesa che ebbero ampia eco.
Famoso lo «Scandalo Fumagalli» che portò in carcere don
UCCIDERE L'INNOCENZA
Lo scandalo degli abusi del clero statunitense

È uno degli angoli più oscuri della storia dell’uomo: quello in


cui si cela la pedofilia. Per noi, oggi, si tratta di un crimine
gravissimo, ma che non sempre è stato considerato tale: il
passato, anche non troppo lontano, è intessuto di storie di
abusi sui minori consumati in alcuni casi come un fatto
assolutamente normale, inserito nelle esperienze condivise
socialmente1.
Nella maggioranza dei casi, la pedofilia è considerata un
crimine e diversamente sanzionato nelle società2, in cui è
appunto ritenuta un reato molto grave non solo sul piano
eminentemente giuridico, ma anche su quello della morale,
soprattutto in ragione delle devastanti implicazioni che
determina sulla psiche delle giovanissime vittime.
In questo capitolo, in linea con l’impostazione del libro,
getteremo lo sguardo nel pozzo degli orrori che raccoglie gli
abusi sessuali perpetrati da esponenti del clero nei confronti
di minori. Non faremo un bieco elenco - quella forma di
gogna pericolosamente usata con troppa leggerezza in questa
nostra società ipermediatica - il cui ruolo è in effetti alquanto
limitato: ma vedremo dei dati significativi, che ci
consentiranno di effettuare alcune considerazioni e di farci
un’idea di questo drammatico fenomeno.
Siamo consapevoli che si tratta di un argomento
delicatissimo, spesso oggetto di strumentazioni ideologiche,
finalizzate ad attaccare la Chiesa in generale. A ciò si
aggiunga che la cassa di risonanza fornita dai mass media, se
da un lato ha contribuito a portare in luce un dramma reale,
dall’altro ha gettato in pasto all’opinione pubblica anche casi
UNA DISPERAZIONE SENZA VOCE
L’infanzia in catene di suor Diletta Pagliuca

L’8 giugno 1969, Maria Diletta Pagliuca, un’ex madre


superiora (aveva fatto parte dell’ordine monastico delle
Elisabettiane fino al 5 marzo 1945) e direttrice dell’Istituto
Santa Rita di Grottaferrata, in provincia di Roma - una
struttura gestita da religiose che accoglieva minorenni
disabili - veniva tratta in arresto con l’accusa di
maltrattamenti nei confronti degli ospiti che affollavano la
sua scuola-ricovero. Ma i magistrati sospettavano che le
violenze fossero all’origine anche della morte di alcuni dei
piccoli ospiti della struttura.
Si tratta di una vicenda che è ancora caratterizzata da
alcune ombre e che, a distanza di quasi mezzo secolo,
continua a far discutere: da un lato gli accusatori, che vedono
in questa donna un chiaro esempio di malvagità; dall’altro i
possibilisti, che invece ritengono si tratti di un macroscopico
errore giudiziario.
Dopo l’arresto della Pagliuca, gli italiani furono messi al
corrente di una storia orribile, che richiederà alcuni anni di
indagini e lascerà l’opinione pubblica disorientata. Per
arrivare a una sentenza sarà necessario attendere fino al 23
dicembre 1971.
Secondo la magistratura la Pagliuca fu colpevole dei
seguenti reati: maltrattamento dei piccoli ospiti dell’istituto,
che sarebbe all’origine della morte di alcuni di loro e di
lesioni gravi ad altri; truffa, per aver ottenuto da alcuni enti
pubblici l’affidamento di minorenni; sequestro di persona ai
danni di due ospiti dell’istituto.
Nello scandalo dell’ex suora, che provocò orrore e
gola a concorrenti senza scrupoli?
Ma sono passati tanti anni e le testimonianze delle vittime,
i feriti e i morti sembrano aver smentito definitivamente
questa ipotesi, lasciando comunque un’eco colma di
sofferenza che ci indigna e nello stesso tempo ci impone di
riflettere sulle condizioni in cui spesso vivevano categorie di
persone ai margini le cui voci non sono mai giunte alla
comunità civile.
E in qualche caso quando ci giunge è ormai troppo tardi. Si
pone in questa direzione il recente caso dell’orfanotrofio
cattolico di Smyllum Park, in Scozia, in cui è stata rinvenuta
una fossa comune contenente i resti di circa quattrocento tra
neonati e bambini deceduti tra il 1863 e il 1981, anno della
chiusura della struttura 4.
Il macabro ritrovamento è oggetto di indagini da parte
degli inquirenti e pertanto non vi è ancora una versione
definitiva dell’effettivo andamento dei fatti. Il caso ha delle
analogie con quello emerso alcuni mesi prima in Irlanda, dove
nell’ex orfanotrofio cattolico di Tuam, attivo tra il 1925 e il
1961, venne alla luce una fossa comune con i resti di
ottocento bambini: l’esame del dna ha indicato che in quel
cimitero i resti appartenevano a individui che avevano tra le
trentacinque settimane e i tre anni.
La scioccante scoperta di Smyllum Park è stata diffusa e
commentata nel programma File on Four della bbc Radio,
ricordando che nel periodo considerato l’orfanotrofio ospitò
quasi dodicimila bambini e che ufficialmente il cimitero
avrebbe dovuto contenere i resti di centocinquantotto
bambini.
Il rilevante numero di resti senza nome ci induce a pensare
che quella di seppellire i cadaveri dei piccoli privi di
riferimenti anagrafici fosse una prassi diffusa. Viene da
chiedersi perché: per quale motivo non lasciare traccia di un
decesso se tale evento era naturale?
Anche su questo aspetto le indagini dovranno proporre
una versione che possa fare chiarezza. Prima della scoperta
consentito dalla legge. Malgrado ciò non fu perseguito con
forza, almeno fino al XIX secolo.
Di certo, come sottolineato da chi ha studiato il
fenomeno4, la pratica della castrazione a fini musicali, che
ebbe certamente una funzione rilevante per le corali
ecclesiastiche, fu anche sorretta dall’ampio uso di questi
sfortunati artisti - quasi sempre loro malgrado, vista l’età a
cui furono sottoposti alla menomazione - da parte di autori
della musica barocca, che scrissero opere in cui era
espressamente previsto l’intervento di castrati. Di fatto è
impossibile immaginare la vita culturale del XVII-XVIII secolo
senza la presenza di cantanti con tali peculiarità: parte
integrante della musica di quel tempo.
Il virtuosismo dei castrati fu per il melodramma un
apporto di grande rilevanza, determinando una notevole
condizionante per gli sviluppi vocali e strumentali. A
spegnere la “passione” per i cantori evirati non fu,
paradossalmente, il prevalere dell’etica, ma il cambiamento
del gusto musicale che il Romanticismo spinse verso altre
direzioni sonore ed estetiche, accentuando, in particolare, la
netta contrapposizione tra i caratteri maschili e femminili.
Per fortuna, verrebbe da dire, cambiarono i gusti, così
finalmente fu chiuso uno dei periodi più oscuri della storia
della bellezza. Una bellezza che ebbe bisogno di rovinare la
vita a numerosi uomini, costretti a restare bambini nella voce
e a trascinarsi appresso per il resto delle loro esistenze il
pesante giogo di un’alterità molto condizionante, sul piano
sociale e affettivo.
Con la castrazione (effettuata tra gli otto e i dieci anni) si
determinava un arresto dello sviluppo del bambino, che
giunto alla pubertà non poteva sviluppare gli ormoni
maschili, tra i quali il più importante è il testosterone. In
questo modo si producevano alcune alterazioni, che
coinvolgevano lo sviluppo osseo e quello della laringe; al
soggetto che subiva tale menomazione veniva quindi negata
la possibilità di procreare, determinando anche cambiamenti
un’anomalia destinata a segnarli non solo nel fìsico, ma anche
profondamente nella psiche. Spesso furono costretti a
spostarsi continuamente per lavorare: da Napoli a Bologna, da
Firenze a Venezia, ma fu soprattutto Roma la “piazza”
migliore.
Clemente VIII (1592-1605) oltre a lodare la dolcezza e
l’armonia di quelle voci, affidò a Raffaello Raffaelli - cantante
evirato - l’incarico di organizzare una scuola con numerosi
“allievi”...
Si stima che, all’inizio del XVIII secolo, circa quattromila
ragazzi fossero stati castrati per essere indirizzati all’arte del
bel canto: ma solo alcuni ebbero modo di esibirsi davanti a
folle in delirio. La bravura di questi fenomeni canori era
totalmente determinata dalle performance vocali: a dominare
il virtuosismo del canto, mentre sul piano scenico ebbero
scarsissimi riconoscimenti, poiché considerati pessimi attori
e cantanti privi d’anima.
Ma come già indicato, solo a una piccola percentuale
toccarono gli onori di un Farinelli o di un Velluti, gli altri
dovevano accontentarsi di scritture mediocri, alcuni scelsero
la vita ecclesiastica8. Qualcuno era costretto a scendere molto
in basso; a Roma, all’inizio del XVIII secolo, vi era un bordello
nel quale si prostituivano gli evirati.
Amati soprattutto per il fascino ambiguo che li circondava,
i castrati ebbero stuoli di estimatori (non solo per il canto),
costituiti sia da donne che da uomini. La loro vita era segnata
dalla violenza e dal denaro, dall’erotismo e dalla
trasgressione: aspetti che lasciano trasparire analogie tra i
castrati e le odierne star della musica rock.
L’immaginario popolare accomunava i castrati agli angeli:
significativamente Alessandro Moreschi era conosciuto come
l’«Angelo di Roma».
I papi ebbero molto a cuore la sorte di quei bambini
cresciuti dalla voce angelica. Non è possibile sapere se
corrisponda al vero o se sia frutto della mitologia
l’affermazione: «Si castri meglio», rivolta da Innocenzo XI, nel
UNA DEPRAVATA CACCIA ALLE STREGHE
Il Signum Diaboli

Friedrich von Spee (1591-1653) era un gesuita alquanto


illuminato e, in fatto di eretici e di streghe, aveva un
atteggiamento in forte controtendenza rispetto a molti suoi
contemporanei, religiosi e laici. Riteneva infatti la caccia alle
streghe il risultato dell’opera di demonizzazione di un
sistema inquisitoriale atto a produrre colpevoli, dando vita a
un meccanismo volto a creare strumenti repressivi finalizzati
al controllo della società.
Per von Spee, il problema principale non era giungere alle
cause della caccia alle streghe, ma identificare il mezzo che
avrebbe potuto arrestarla. Così il gesuita tedesco affrontò la
questione raccogliendo le sue tesi e considerazioni nel libro
Cautio criminalis (1631) 1.
Allora fu certamente un’opera controcorrente che, pur
accettando la realtà del culto del diavolo, pone in chiaro un
aspetto condivisibile: «Che fossero però tutte streghe quelle
finite in carcere, questo non posso accettarlo»...
Von Spee si rivolgeva agli uomini di Chiesa e alle autorità
laiche perché prendessero coscienza dell’origine fantasiosa di
molte accuse: «La prima ragione è l’ignoranza e la
superstizione del volgo (...) la seconda è l’invidia e la
malvagità di quello stesso volgo».
Insomma fu una presa di posizione che puntava il dito
contro le pratiche basate sulla tortura, strumento
responsabile della “creazione” di molte streghe: «Le torture
comunemente usate sono durissime e provocano dolori
terribili. Ora, la natura del dolore nella maggior parte dei casi
è tale che, pur di evitarlo, si preferisce addirittura la morte.
C’è dunque il rischio che, per sfuggire alla sofferenza delle
torture, molte imputate confessino delitti che non hanno
commesso, o si attribuiscano la responsabilità di qualunque
crimine, magari suggerito dai torturatori o inventato da loro
stesse»2.
Inoltre l’autore avverte: «Molti di quelli che, nella loro
città o nei loro villaggi, fomentano con tanto ardore
l’inquisizione contro le streghe, credendo che non ne saranno
coinvolti, non si rendono conto che, se le torture si
estenderanno, i torturati dovranno pur denunciare qualcuno;
per cui, se i processi continueranno così, si giungerà
necessariamente a colpire anche la loro persona. Come ho già
detto, non si arriverà alla fine finché tutto non sarà ridotto in
cenere»3.
Nella Cautio criminalis, oltre a mettere in dubbio l’intera
impalcatura sulla quale si basava la metodologia dei giudici
impegnati nella lotta contro streghe ed eretici, si poneva
quindi in evidenza quanto la tortura potesse contribuire a
“creare la colpevole”: la quale spesso si dichiarava adepta del
demonio solo per mettere fine alla sofferenza a cui era
sottoposta.
Von Spee entrava poi nel merito del cosiddetto signum
diaboli (detto anche: punctum o stigma diabolicum): un segno
appunto, che si credeva fosse presente sul corpo delle streghe
e di fatto confermasse la loro appartenenza alla congrega
delle amanti e schiave di Satana.
La ricerca di quel segno fu anche un mezzo per entrare
nella più profonda intimità delle interrogate, secondo una
procedura dalla quale trasudava una forma di malcelata
depravazione, come si evince dalle parole di Von Spee, ma
soprattutto da quelle di altri autori certamente meno
illuminati del gesuita tedesco.
Indicative in tal senso le certezze di un “arrabbiato”
accusatore di eretici e streghe, Francesco Maria Guazzo (1570-
1640) che, nel suo trattato Compendium malefìcarum (1608), a
proposito del signum diaboli aveva idee piuttosto precise:
Ecco che la pungitura era l’unica strada percorribile per
arrivare all’ambito segno; Hopkins aveva anche istruito
alcune donne che formavano la squadra delle witch prickers
(pungitrici di streghe), specializzate nella ricerca di marchi
diabolici e braccio operativo di inquisitori e giudici che
assistevano allo scempio.
Non occorre entrare nel merito dei dettagli poiché è
immaginabile quale sofferenza producesse la ricerca quando
si soffermava sui genitali, l’ano e il seno. L’assenza di dolore -
come abbiamo già indicato - era una prova oggettiva: si
riteneva infatti che il diavolo determinasse l’insensibilità alle
povere sventurate, chiuse in un silenzio innaturale.
Von Spee nella sua presa di posizione poneva in evidenza
che la rasatura era spesso effettuata con metodi barbari: «Non
solo il capo e le ascelle, ma anche le parti intime, oppure allo
stesso scopo si bruciano i peli avvicinando una torcia» n.
Il gesuita inoltre sottolineava che a quella pratica erano
abbinati atteggiamenti con fini ben lontani dalla ricerca delle
verità: «Dileggi e toccamenti vergognosi di individui
sciagurati e dissoluti (...) infami libertini che cercano tutti i
pretesti per abbandonarsi alla soddisfazione delle loro
voglie»12.
Ma il coraggioso difensore della giustizia poneva in
evidenza ulteriori e inquietanti aspetti, invitando i giudici a
controllare non solo le imputate, ma anche gli incaricati
affiancati al boia, che praticavano la ricerca poiché «molti di
loro sono malvagi e loro stessi dediti a magia». Infatti
richiedeva che si controllasse «che il carnefice non usi allo
scopo oggetti a punta truccati, come esempio oggetti magici
(...) come i coltelli magici (...) il carnefice non deve conoscere
formule magiche»13.
Von Spee concludeva stigmatizzando che il signum diaboli
non poteva costituire la prova della colpevolezza per dare
così inizio alla tortura, al fine di giungere alla confessione. Lo
stesso autore, testimone di numerosi processi, non aveva
dubbi nell’affermare: «Io di marchi corporali non ne ho mai
visti e non ci crederò finché non li vedrò»14.
La perversa indagine condotta sui corpi delle imputate fu
per tanto tempo considerata il mezzo più idoneo per
accelerare l’indagine e trovare un elemento fisico con il quale
sorreggere l’impianto accusatorio, spesso alimentato da
testimoni che non erano in grado di portare alcuna prova
oggettiva a supporto delle loro dichiarazioni.
Il metodo di ricerca avvicinava pericolosamente l’indagine
corporale alla sfera sessuale: il signum diaboli era di fatto
anche un mezzo per effettuare morbose esplorazioni sul
corpo di donne inermi che, nella fantasia di accusatori e
giudici, si erano concesse ogni genere di trasgressione erotica
con demoni e altri adepti del culto satanico riunitisi al sabba:
incontro rituale spesso descritto dagli inquisitori con
connotazioni affini all’orgia pagana.

NOTE
1. Il libro affronta un’ampia serie di aspetti legati al presunto potere
delle streghe e agli strumenti messi in atto per reprimerli; Friedrich
von Spee si basava sulla sua lunga esperienza di confessore di donne
condannate a morte perché ritenute adepte del diavolo. Il gesuita
polemizzava in particolare sui metodi sanguinosi attuati
nell’Europa del XVI - XVII secolo e si spendeva con coraggio al fine di
fare cessare un’atrocità che, allora, era considerata la giusta norma
contro i nemici della Chiesa. Von Spee si appellava in particolare ai
magistrati e ai principi, con l’intento di sensibilizzarli sulla
necessità di mettere fine a pratiche barbariche e inutili.
2. F. Von Spee, Cautio criminalis, Questione XX; facciamo riferimento alla
traduzione italiana curata da A. Foa, Roma 1986, p. 117.
3. F. Von Spee, op. cit., Questione XV, p. 88.
4. F.M. Guazzo, Compendium maleficarum, Libro I, Cap. Vili.
5. F.M. Guazzo, op. cit., Libro I, Cap. VII.
6. Citato da R. Mandrou, Magistrats et sorciers en Trance au XVIIe siede,

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