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MASSIMO MILA

L’ARTE DI BÉLA BARTÓK


A cura di Piero Gelli

saggi
M A SSIM O M ILA

L’ARTE DI BÉLA BARTÓK

A cura di Piero Gelli


Proprietà letteraria riservata
© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-58-66246-5

Prima edizione digitale BUR Saggi novembre 2013

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu


Premessa

Massimo Mila aveva molte e devote predilezioni, e


queste immancabilmente, lungo l’arco della sua vita
così attiva, si componevano in saggi o in corsi di le-
zioni universitarie: glielo permetteva la costanza e il
rigore con cui affrontava di volta in volta l’ascolto e
lo studio del suo oggetto, che non subiva nel tempo
dinieghi o segni di stanchezza, ripensamenti, ancor
meno quelli legati all’aura del tempo, che spesso sta-
bilisce, in base a pseudoideologie o avanguardismi di
moda, la fortuna o il tramonto di un autore.
A Verdi è rimasto fedele, anche nei periodi di ri-
dimensionamenti o controversie, così a Wagner, mai
sottostando a un’opposizione che per un secolo li ha
contrapposti come inconciliabili; così per Mozart,
per Brahms, per Beethoven. Preceduti o seguiti da
una mole incommensurabile di studi per rassegne o
riviste, di articoli di critica militante per quotidiani
(«l’Unità», «La Stampa»), di scritti per vari program-
mi di sala, o radiofonici, tutti i suoi libri, anche quelli
non dedicati alla musica, conservano una caratteristi-
ca, una qualità, un touch si direbbe oggi, che li rende
unici: una profondità di sentimento, al di là dei giu-
dizi che talvolta si possono anche non condividere,
e una levità di scrittura che sembra sfidare il tempo;
sembrano scritti non oggi, ma appena ieri, nei canoni
cioè di una lingua capace ancora di coniugare stile e
comunicazione, espressività e rigore critico. Si pensi,
ad esempio, alla sua Breve storia della musica, ancora
in vita, ancora un best-seller nel suo campo, dalla pri-
ma edizione, del 1946 fino ai nostri giorni: di fatto,
per le sue peculiarità narrative, così rare in ambito
critico e accademico italiano, le sue attualizzazioni
sempre motivate e tese a far conoscere a un pubblico
più vasto un’arte che i «capomastri» della filosofia
idealista, Croce e Gentile – l’uno in un modo, igno-
randola, l’altro, più fattualmente eliminandola dalla
cultura scolastica – avevano resa elitaria, è diventata
un manuale insostituibile, un breviario di piacevolis-
sima consultazione.
Per quanto riguarda il suo secolo, il Novecento,
Mila ha prescelto, tra i tanti che ammirava e segui-
va, tre autori a lui congeniali, seppur così distanti tra
loro: il primo è Stravinskij, da cui è nato il saggio
paramonografico, Compagno Strawinsky (per cui ri-
mando all’edizione BUR del 2012, e alla mia prefa-
zione), con quel titolo provocatorio e quasi irrisorio
per chi sa quanto poco compagno fosse il composi-
tore, grande sì, grandissimo, ma snob e aristocratico.
Il secondo è Bruno Maderna, al quale lo studioso ha
dedicato un saggio, Maderna musicista europeo, che
pubblicato nel 1976, è stato poi riproposto in edi-
zione accresciuta nel 1999, a cura di Ulrich Mosch
(sempre per le edizioni Einaudi). Infine, Béla Bartòk,
musicista ancora tra i meno ascoltati e rappresentati
in Italia, mentre all’estero, in Germania e in Francia è
frequentemente eseguito. A parte la Musica per archi,
percussione e celesta e il tardo Concerto per orchestra,
è difficile da noi ascoltare altro: rare anche le rap-
presentazioni dell’unica sua opera, il capolavoro Il
castello del Principe Barbablù, e pochi pianisti hanno
il coraggio di eseguire, anche parzialmente i mirabili
Mikrokosmos, in riferimento ai quali Edoardo San-
guineti per amore ha titolato una delle sue ultime
raccolte poetiche (I Mikrokosmos, Feltrinelli, 2004).
A questo punto, è interessante chiedersi, quale fosse
il legame di questi tre musicisti così eterogenei, estra-
nei se non ostili l’uno all’altro (Stravinskij per esem-
pio aveva o per lo meno ostentava un certo sprezzo
per le ricerche etnomusicologiche di Bartòk). Io cre-
do che vada cercato in una loro identità costante, una
coerenza di percorso nella diversità: una continua
sperimentazione ancorata sempre ai dati della realtà
e alla sua mutevolezza. Insomma l’«apostata» Stra-
vinskij, il fido Darmstadtiano Maderna, l’ungherese
Bartòk e la sua terza via sono e per sempre sentiti da
Mila come suoi «compagni di strada».
Ma stavolta Francesco Colombo potrà più in det-
taglio e per conoscenza diretta del testo chiarire i
rapporti tra Massimo Mila e il suo compositore. La-
scio quindi la parola a lui, finissimo critico e direttore
d’orchestra, che ha mirabilmente curato e prefato la
prima edizione di questo saggio, apparso postumo,
per la prima volta nel 1996.

Piero Gelli
Prefazione

L’arte di Béla Bartók è il titolo del corso monografi-


co che Massimo Mila tenne all’Università degli Studi
di Torino nell’anno accademico 1960-61. Mila aveva
l’abitudine di raccogliere in dispense il testo delle sue
lezioni: in questo caso si tratta di 160 cartelle dattilo-
scritte, le stesse che formano, con qualche emenda-
mento, il contenuto del presente volume.
Gli interventi del curatore discendono dalla natura
e dalla destinazione dello scritto di Mila, nel quale si
rinvengono talvolta ripetizioni di vocaboli, effetti non
cercati di assonanza o di allitterazione, qualche mi-
nima corrività di stesura. Tutte cose che ben si com-
prendono in una traccia didattica, e alle quali Mila
stesso avrebbe posto rimedio laddove L’arte di Béla
Bartók avesse visto la luce senza patire un ritardo di
oltre trent’anni.
Sono dettagli inessenziali all’interno di una prosa
che ha la nitidezza, l’eleganza semplice, il timbro evo-
cativo tipici del suo autore: e da parte nostra s’è ope-
rato solo quando indispensabile, con la più sorveglia-
ta discrezione; talché possiamo dire questo un libro
interamente «di Mila», né uno fra i meno importanti
o meno belli.
In sintesi, le ragioni della sua attualità paiono due.
Da un lato, il mero ovviare a un vuoto sconcertante
nell’editoria musicale italiana, che su Béla Bartók, a
cinquant’anni dalla morte del compositore unghere-
se, offre pochissimo per non dir nulla: non una mono-
grafia critica, solamente una serie di contributi occa-
sionali. Questo libro di Mila non colma interamente
la lacuna quanto agli aspetti biografici, cui è antepo-
sta l’analisi delle opere; ma è il primo volume che si
pubblichi da noi, dove il percorso creativo di Bartók
venga seguito momento per momento, e interpretato
in una visione di sintesi.
Dall’altro lato, e veniamo ai meriti specifici, è pos-
sibile che dal 1961 in qui la ricerca internazionale su
Bartók abbia approfondito alcuni aspetti filologici
e lessicali (per fare un solo esempio: Mila confessa
tranquillamente di non aver mai potuto ascoltare la
giovanile Sinfonia-Kossuth, che oggi è a disposizione
di chiunque in diverse incisioni discografiche). E tut-
tavia la forza delle intuizioni critiche di Mila, la sua
capacità di cogliere i caratteri fondamentali dell’ar-
te di Bartók, di sottrarli a un contesto episodico per
renderli chiarissimi al lettore, infine di riconoscerne i
nessi, i collegamenti, le interazioni, rimangono straor-
dinarie.
C’è da notare come in Italia Bartók sia stato in-
truppato, per opera della critica e della musicologia
orientate in senso ideologico, nell’esercito dei musi-
cisti «impegnati socialmente», con l’esito che la com-
plessità della sua figura e del suo linguaggio è risultata
impoverita. Il luogo comune è resistito per tutti gli
anni Sessanta e Settanta, sì che taluni interventi saggi-
stici di quel periodo paiono oggi preistoria rispetto a
un testo sgombro di pregiudizi come quello di Mila,
che cronologicamente li precede.
«Impegno sociale» a parte, resta vero che ciascuno
dei lati onde è sfaccettato il prisma-Bartók riflette una
luce particolare, con una colorazione ogni volta diver-
sa: qual è il Bartók «autentico», fra i molti?
È l’indagatore e il custode del canto popolare
ungherese, di certi ritmi bulgari o di certi stacchi di
danza romeni, sulla scia delle scuole musicali nazio-
nali di fine Ottocento? O il suscitatore degli incu-
bi dell’anima, dei brividi e dei misteri che abitano
la notte e dei quali la sua musica coglie, ancor più
che l’immagine, il riverbero, l’alone azzurrino, una
parvenza fantasmatica? O ancora lo sperimentatore
di suoni, e dell’energia cinetica che possono sprigio-
nare, astratti da qualsiasi correlato rappresentativo,
regolati solo da un’intrinseca norma che li dispone
a creare una struttura? O piuttosto l’evocatore del-
la violenza musicale svelata alla tastiera dell’Allegro
Barbaro o dilagante nell’orchestra immensa dei ca-
polavori espressionistici, dal Mandarino prodigioso al
Principe scolpito nel legno?
Bartók è naturalmente tutto questo e molto altro
(«tardo romantico», «impressionista», «espressioni-
sta», per un breve periodo «neo-classico»: ogni for-
mula contiene una parte di verità); ma come connet-
tere gli aspetti, come risolvere le contraddizioni? E
come, per esempio, far coincidere il Bartók engagé
che restituisce al proprio popolo il patrimonio musi-
cale più antico, attraverso migliaia di ore passate nelle
campagne, eppoi in studio, a catalogare le melodie
contadine ricavandone un elemento essenziale al pro-
prio idioma; e il Bartók che si immerge in solitudine
nel grembo e nel freddo della notte? E ancora: quale
rapporto stabilire fra il Bartók che afferma la vitalità
panica della natura, nelle sue più esplicite manifesta-
zioni (nel ciclo pianistico Im Freien o nella Cantata
profana); e il Bartók degli ultimi Quartetti, che sem-
bra da tutto sciogliersi e penetrare nel ritmo nascosto
della materia, nelle sue invisibili concatenazioni, nelle
leggi del suo espandersi?
Il lettore di questo volume incontrerà cento di si-
mili problemi critici e si troverà, all’ultima pagina, a
possedere la «chiave» di tutto, a riconoscere la com-
plessità davvero singolare dell’arte di Bartók ma an-
che la sua coerenza e i princìpi della sua unità. Ciò
che più lo lascerà sorpreso, è il fatto che Mila allenta i
nodi e integra gli aspetti «inconciliabili» con tale sem-
plicità, con una parola così limpida, che tutto sembra
comporsi con la massima naturalezza, quasi non pos-
sa essere altrimenti. L’equazione è in ultimo risolta: e
non v’è traccia di fatica.
Insieme con l’intelligenza e la profondità analiti-
ca di Mila, è il suo stile inconfondibile a conquistare
un tale esito. Certe definizioni restano memorabili e,
da sole, innescano nella psiche di chi legge un pro-
cesso autonomo che proietta il particolare sulla sca-
la dell’intera arte di Bartók, in essa ritrovando il suo
senso più compiuto.
Così quando si annunciano, nel Secondo Quartet-
to, le tendenze future: «L’imperio del ritmo piega le
figure tematiche in vortici, ne determina le cadute e
le riprese: è la materia che si azzuffa con se stessa».
Così nella descrizione delle battute iniziali dell’Ada-
gio, nella Musica per archi, percussione e celesta: dove
un’unica nota ribattuta sullo xilofono irradia i sussur-
ri, le fosforescenze immateriali della notte. Quello è
per Mila «un appello da altri mondi, quasi un segnale
Morse di lontani pianeti».
Forse le pagine più belle di questo volume si tro-
vano all’inizio e alla fine, quando Mila riconosce nel-
la malattia sofferta del piccolo Béla, tale da togliergli
persino l’abbraccio della mamma, le avvisaglie di
certe immagini allucinate che appariranno nella sua
musica: «Chi potrà mai esplorare i fantasmi che po-
polarono, nella notte dell’inconsapevolezza infanti-
le, il buio di quella solitudine?» Eppoi quando l’ulti-
ma fase creativa di Bartók, il periodo «americano», il
più discusso e soggetto a critiche da chi vi riconosca
un allentamento dell’impegno linguistico, viene po-
sta sotto il segno di una sofferta e pacificante matu-
rità, sotto lo sguardo lungo di chi abbia attraversato
ogni tempesta e tutto comprenda in un’unica grande
e rasserenata sintesi.
«Ripeness is all», la maturità è tutto. Mila cita per
Bartók l’exergo shakeasperiano che Cesare Pavese
aveva apposto all’ultima sua raccolta poetica, Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi. Il Bartók di Massimo Mi-
la è soprattutto questo: l’artista che continuamente
cerca la propria via, nel nostro secolo spietato: un
«compagno di strada» per l’uomo moderno, che gli
è vicino nel duro apprendimento del mestiere di vi-
vere, che «ha condiviso le sue illusioni e le sue spe-
ranze, che ha fatto i suoi stessi errori, che ha subito le
sue stesse delusioni e disfatte».
Guardando a «questo» Bartók, Mila orienta anche
le proprie predilezioni musicali, a volte inclinando in
modo molto personale verso talune opere (i Quartetti
sopra ogni altra) rispetto a partiture che, forse, meri-
terebbero eguale generosità nel giudizio (Il Castello
di Barbablù, Il Principe scolpito nel legno). Egli divina
sempre, ed è questa la bussola che lo guida, i momenti
di ricerca, di sfida, di novità voluta e perseguita, più
che non i risultati acquisiti. È una tensione continua,
artistica ed etica, dove si profila, con nettezza sempre
maggiore lungo le pagine del libro, l’umanesimo di
Béla Bartók, la sua volontà senza posa di dare nuove
risposte ai mille quesiti della musica contemporanea,
e soprattutto a ciò che essa significhi per l’uomo del
Novecento. In questa attitudine umanistica troviamo
un ritratto convincente e affascinante del composito-
re ungherese, ma anche, com’è inevitabile ogni volta
che lo storico di razza si concentri su una figura a lui
particolarmente cara, un involontario, segreto autori-
tratto di Massimo Mila.

Francesco M. Colombo

Varano Borghi, 1 agosto 1995.


Introduzione
Il fenomeno delle scuole musicali nazionali

La produzione del compositore ungherese contem-


poraneo Béla Bartók (1881-1945) va collocata indub-
biamente nella prospettiva di quel movimento musi-
cale ottocentesco che è la fioritura di scuole nazio-
nali in numerosi paesi europei, e soprattutto in quei
paesi che in passato erano rimasti al margine della
grande produzione musicale, fornita principalmente
dall’Italia, dalla Germania e dalla Francia, e in misura
minore dall’Inghilterra e dalla Spagna. Vedremo nel
corso della nostra trattazione che l’arte di Bartók è
ben lungi dall’esaurirsi nel fenomeno dell’ispirazione
nazionale, come non vi si esaurisce l’arte di Chopin,
che a questo fenomeno dà l’avvio in campo musicale;
e tuttavia non si saprebbe prescinderne nella sua illu-
strazione e nel suo collocamento storico.
Il fenomeno delle scuole musicali nazionali è tipi-
camente romantico e ottocentesco, strettamente col-
legato al fenomeno politico che vede l’affermazione
della coscienza nazionale presso popoli che fino allora
erano vissuti divisi, oppure interamente inglobati in
imperi sopra-nazionali, principalmente quello austro-
ungarico governato dagli Absburgo. Come accade
di tutti i fenomeni del Romanticismo, anche questo
spinge le sue radici nel Settecento. Se Chopin (1810-
49) è l’antesignano dell’ispirazione nazionale in musi-
ca, la prima spinta all’interesse per le manifestazioni
di spontanea creatività artistica d’origine popolare, e
perciò inevitabilmente a colore nazionale, va ricercata
nel pensiero di Rousseau. Nel 1779 questo interesse
per la creatività artistica popolare si concreta nella
pubblicazione delle Stimmen der Völker in Liedern
(Voci dei popoli nei loro canti) di Johann Gottfried
Herder. Nella Prefazione si cita il detto di Montaigne:
«La poesia popolare, tutta Natura quale essa è, pos-
siede ingegnosità e pregi che le permettono di ugua-
gliare la bellezza della più perfetta poesia d’arte». Poe-
sia popolare viene definita la grande poesia greca, e
si scorge in Omero «der größte Volksdichter», il più
grande poeta popolare. Così Herder descrive la poe-
sia dei Greci: «Essa viveva nell’orecchio del popolo,
sulle labbra e sull’arpa dei cantori girovaghi: cantava
la storia, la cronaca, i misteri, i miracoli e i segni; era
il fiore della qualità di un popolo, della sua lingua e
della sua terra, delle sue occupazioni e dei suoi pre-
giudizi, delle sue passioni e delle sue norme, della sua
musica e della sua anima».
Questo riconoscimento della dignità artistica ri-
scontrabile nel canto popolare è il punto di partenza
di quel movimento che, nell’Ottocento, condurrà i
musicisti delle nazioni in lotta per conquistare la pro-
pria libertà culturale e politica a ripiegarsi con affetto
sulle canzoni dei singoli paesi, a raccoglierle con deli-
catezza, come fiori di campo, e a cercare di trarne un
partito artistico: sia con un pericoloso trapianto negli
schemi e nelle forme della grande musica dotta, sia,
più accortamente, cercando di estrarne le leggi d’un
linguaggio musicale specificamente nazionale.
Per un minimo d’informazione sui particola-
ri aspetti assunti nei vari paesi europei da questo
movimento, che ha scarsa portata in Italia, come in
Germania, cioè nei paesi che principalmente ave-
vano contribuito alla costituzione del grande patri-
monio musicale europeo, rinvio al capitolo XX, Le
scuole nazionali, della mia Breve storia della musica
(ed. Einaudi). L’Ungheria era stata toccata di striscio
dal movimento musicale dell’ispirazione nazionale,
nell’Ottocento, grazie all’apparizione di Franz Liszt
(1811-86). Questi era nato in Ungheria, si potrebbe
dire per caso: fanciullo fu portato a Vienna, quindi la
sua carriera trionfale di pianista, di direttore d’orche-
stra e di compositore si svolse attraverso tutta l’Euro-
pa, con sedi principali in Francia (Parigi), in Germa-
nia (Weimar), e più tardi in Italia (Roma). Non pare
che abbia mai appreso a parlare l’ungherese. Tuttavia
non smentì mai la propria origine, e quando le sue
tournées di virtuoso lo portarono a Budapest, accettò
le manifestazioni d’entusiasmo patriottico che gli ven-
nero tributate, cittadinanze onorarie, spade d’onore,
allusioni più o meno aperte al bisogno d’indipenden-
za politica che l’Ungheria andava maturando sotto il
governo viennese. Vestì il costume nazionale, e infine
s’interessò vivamente alla più vistosa e appariscente
delle manifestazioni musicali del suo paese d’origi-
ne: i canti e soprattutto le danze zigane, di cui diede
quelle smaglianti elaborazioni pianistiche che sono le
diciannove Rapsodie ungheresi. Tali danze e canti, e
i costumi di quel bizzarro popolo nomade, che non è
una prerogativa ungherese, ma che colà aveva partico-
lare diffusione e aveva sviluppato in maniera più visto-
sa i propri caratteri, Liszt li descrisse in un libro: Des
bohêmiens et de leur musique en Hongrie (1861).
Si suole far colpa a Liszt di avere scambiato la
pittoresca musica degli Zigani per autentica musica
nazionale ungherese, mentre invece si tratta di ma-
nifestazioni musicali solo in parte spontanee, e in
larga parte, invece, artificiosamente commercializza-
te, d’un popolo nomade, che non è più ungherese di
quanto sia spagnolo o italiano o francese. E in verità
il titolo sbrigativo delle Rapsodie ungheresi accreditò
l’equivoco. Un’attenta lettura del libro di Liszt mo-
strerebbe probabilmente ch’egli era al corrente del
reale stato di cose; e il titolo stesso del suo libro evita
di definire «ungherese» la musica dei bohêmiens, cioè
degli Zingari, attivi in Ungheria.
Certo è che l’Ungheria era per molti aspetti il pae-
se predestinato a portare alle estreme conseguenze il
fenomeno ottocentesco dell’ispirazione nazionale in
musica, e a sottoporlo a un rigoroso controllo scien-
tifico. Dapprima brillò la vernice pittoresca di questo
falso canto popolare che è la musica degli Zigani, su
cui proiettarono una luce vivissima i contributi artisti-
ci di Liszt e di Brahms (Danze ungheresi per pianofor-
te a quattro mani, tosto diffuse in ogni sorta di trascri-
zioni strumentali; Zigeuner-Lieder op. 103 e 112 per
quattro voci e pianoforte; op. 104 e 110 per voci so-
le). Poi, grattato via questo smalto, si scoprì che sotto
esistevano strati profondi di melos popolare, nascosti
nelle pieghe della popolazione contadina, e serbanti
intatte, come del fossili, le caratteristiche d’un’anti-
ca pratica musicale scomparsa, risalente alla liturgia
bizantina e perfino alle peculiarità etniche delle orde
magiare provenienti dall’Asia e insediatesi nella pia-
nura danubiana ai tempi delle invasioni mongoliche.
Se si considera che l’interesse d’una musica popolare
è tanto maggiore quanto più essa si presenta diversa e
distinta dalla musica d’arte del paese in cui fiorisce,
e non soltanto un suo sottoprodotto di cui impieghi
interamente le leggi, la grammatica e la sintassi, è fa-
cile comprendere quale situazione privilegiata avreb-
bero creato ogni giorno alla musica ungherese que-
sti strati profondi di una natura segreta annidati nel
costume patriarcale delle campagne, rimasto a lungo
quasi intatto dalle influenze deformatrici del progres-
so tecnico e civile.
Capitolo primo
L’infanzia (1881-1893)

Béla Bartók nasce il 25 marzo 1881 a Nagyszentmiklós


(cioè, San Michele maggiore), nella provincia di To-
rontal, appartenente alla Transilvania sud-occidenta-
le: allora questa regione faceva parte dell’Ungheria
meridionale, oggi della Romania. Punto d’incrocio
di varie frontiere etniche, vi si parlavano l’ungherese,
il romeno, il serbo, il tedesco. Oltre alle circostanze
geografiche, si ponga mente anche alle circostanze
cronologiche della nascita di Bartók. Egli è un tipi-
co artista di quella generazione dell’80 che ha creato
l’aspetto dell’arte moderna. Per non parlare d’altre
discipline (Picasso e Braque), si pensi che fra il 1880
e il 1885 nascono i seguenti musicisti: Bloch, Pizzetti,
Malipiero, Casella, Stravinskij, Kodály, Szymanowski,
Webern, Alban Berg. Nel 1874 era nato Schönberg
e nel 1875 Ravel. Spesso accade che gli artisti rap-
presentativi di un’epoca nascano a distanza così rav-
vicinata, come una fungaia, esercitando poi un’azione
incalcolabile quando il loro talento giunge a maturità.
Per non citare il celebre 1685 che vede la nascita di
Bach, di Händel e di Domenico Scarlatti, si pensi
che la maggior parte dei grandi musicisti romanti-
ci vede la luce nel giro di quattro anni: tra il 1809
e il 1813 nascono Mendelssohn, Schumann, Chopin,
Liszt, Verdi e Wagner.
L’ambiente in cui si svolgerà l’infanzia di Bartók è
quello d’una famiglia di piccolo-borghesi colti: mae-
stra elementare la madre, professore e poi direttore
della Scuola statale di Agricoltura il padre. Entram-
bi dotati d’inclinazione musicale: la madre suonava
il pianoforte e sarà la prima maestra del bambino;
il padre suonava pure lui il pianoforte, ma apprese il
violoncello per poterlo suonare in una orchestra di
dilettanti da lui organizzata. Seguiva a sua volta le or-
me paterne, ché già il nonno di Béla Bartók aveva pa-
lesato un vivo gusto per la musica d’assieme: pure lui
aveva suonato il violoncello in complessi da camera e
aveva fama di buon conoscitore della teoria musicale.
Gli anni dell’infanzia e i rapporti famigliari sono
spesso importanti nella determinazione del carattere
e nel futuro sviluppo delle facoltà artistiche: le biogra-
fie di Mozart e di Beethoven fanno testo in proposito.
Ci sono artisti che troveranno se stessi nell’aspra rea-
zione a un ambiente famigliare ostile; altri crescono
fin dai primi anni in un clima propizio. Nonostante le
condizioni delicate di salute, nonostante la morte pre-
matura del padre e le costanti strettezze finanziarie
che ne seguirono, l’infanzia di Bartók cresce nel tepo-
re di serra d’un vigile e illuminato affetto famigliare.
La sua intelligenza musicale, spiata con ansia nelle sue
prime manifestazioni, si sviluppò senza contrasti con
l’agevole scioltezza di un meccanismo entro un bagno
d’olio lubrificante. Per tutta la vita Bartók serberà le
tracce benefiche della intelligente tenerezza onde fu
circondata la sua infanzia: nel suo carattere e nel suo
tenore di vita l’altezza incontrollabile e spregiudica-
ta del genio si accompagna in insolito connubio con
il culto delle piccole virtù borghesi: linda decenza e
onorabilità dei modi, ordine meticoloso, cauta am-
ministrazione delle modeste risorse economiche. In-
corruttibile e incapace di compromessi con il rigore
cristallino della propria coscienza, Bartók non sarà
tuttavia mai un «ribelle» per partito preso. Fu un uo-
mo libero, ma uomo d’ordine, piuttosto che un sov-
vertitore, forse per l’intimo accordo con l’ambiente
favorevole in cui maturò la sua giovinezza.
La salute è il punto nero dell’infanzia di Bartók.
Nato sano e robustissimo, a tre mesi, in conseguen-
za d’una vaccinazione contro il vaiolo, gli si svilup-
pò un orribile eczema che continuò a deturparlo fino
all’età di cinque anni, senza altra tregua che quando
aveva malattie con febbre: passata la febbre, ritornava
il brutto eczema tormentoso che, togliendogli perfi-
no la gioia di abbracciare la mamma, spegneva in lui
la lieta spontaneità delle manifestazioni affettuose.
Crebbe mingherlino e malaticcio sotto il peso d’una
umiliazione psicologica che lo spingeva a nascondersi
e a isolarsi.
Sulla funzione dell’infanzia come serbatoio d’im-
pressioni che si accumulano a formare nell’adulto
l’inconscio tessuto dell’anima, la letteratura odierna
ci ha resi edotti con ricchezza esauriente di particola-
ri. «L’arte moderna, – annotava Pavese nel suo Dia-
rio, – è un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne
è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire,
nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’in-
fanzia.» Dalla persuasione che «la volontà dell’adul-
to» è «condizionata dalle centomila decisioni prese
via via dal bambino in stato d’irresponsabilità», e che
«in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbi-
to ingenuamente», discende naturale la conclusione:
«ecco perché l’infanzia e la giovinezza sono il vivaio
perenne».
Ora nel caso di Bartók dovremo tener presente
che accanto alla felice armonia degli affetti famiglia-
ri, la sua prima infanzia conobbe il trauma psichico
di quell’umiliante sfigurazione che lo segregava dalla
compagnia e dai giochi dei coetanei, lo privava delle
carezze materne, poneva una barriera disumana tra
lui e il mondo esterno. Chi potrà mai esplorare i fan-
tasmi che popolarono, nella notte dell’inconsapevo-
lezza infantile, il buio di quella solitudine? Chi po-
trebbe misurare la portata delle conseguenze che eb-
be, in quell’anima non ancor pervenuta alla luce della
coscienza, la repressione crudele dei naturali istinti
d’affetto e di socievolezza? Ma invece di germogliare
in una nevrosi dell’uomo adulto, tutto ciò defluirà per
segrete vie sotterranee negli esiti dell’espressione arti-
stica, e fornirà a quest’uomo così chiaro, così puro, co-
sì saldamente ancorato alla terraferma della ragione,
la fonte misteriosa di quelle visioni allucinate, di quei
brividi immateriali che fremono nella sua musica, si-
mili a una divinazione ultrasensibile di misteri cosmi-
ci: momenti in cui l’ispirazione artistica esce dal vigile
controllo del raziocinio e s’invola in zone precluse alla
normale esperienza dei sensi. Scarti e impennate della
fantasia di cui non ci si saprebbe render ragione con
la sola testimonianza della vita «diurna» di Bartók.
Ci soccorrerà allora il ricordo della dolorosa infermi-
tà infantile – il «ragno nero» che gli rodeva il volto,
come a un personaggio dell’omonimo racconto di
Gotthelf!1 – e delle conseguenze psichiche da essa ac-
cumulate nella tenebra dell’inconscio. Rintracceremo
nell’infanzia – per usare ancora parole di Pavese – «i

1
Jeremaias Gotthelf, Il ragno nero, a cura di Massimo Mila, Minuzia-
no, Milano 1945.
segni dell’orrore adulto». Ma d’un orrore che si libera
interamente in intuizione artistica, lasciando all’uomo
il privilegio d’un saldo equilibrio spirituale.
Sui primi anni della vita di Bartók siamo informati
da un singolare documento che dà un’idea dell’armo-
niosa rete di affetti casalinghi in cui egli fu educato.
Quand’ebbe quarant’anni, ed era ormai un artista
celebre, e da molto tempo aveva famiglia propria e
per forza di cose viveva lontano dalla vecchia mam-
ma, questa, che confortava la propria solitudine rian-
dando col pensiero ai tempi in cui allevava quel figlio
prediletto, prese a mettere in carta questi ricordi sotto
forma di lettere domenicali al nipote: al figlio, cioè,
di Béla Bartók, per narrargli l’infanzia e la giovinezza di
suo padre. Sappiamo così che il bimbo crebbe soli-
tario e pensoso, più portato allo studio che ai giochi,
travagliato da frequenti infermità. Guarito a cinque
anni dall’orribile erpete che lo aveva fino allora segre-
gato dai giochi e dalle compagnie dei suoi coetanei,
si profilò la minaccia d’un incurvamento della spina
dorsale, che l’avrebbe obbligato a starsene a lungo
disteso. Fortunatamente si trattava di una diagnosi
sbagliata. A sei anni poté perciò entrare nella scuola
elementare di Nagyszentmiklós, dove si distinse fra
gli allievi migliori. Non faceva però più del dovuto, e
non mostrava velleità di emulazione. Era un bambino
giudizioso e assorto, dai lunghi silenzi, che bastava a
se stesso: non di rado pareva assente da tutto ciò che
aveva intorno.
Nel 1885 nacque la sorella Elisabetta. Il 25 marzo
1886, giorno del suo compleanno, la madre gli diede la
prima lezione di pianoforte, incoraggiata dalle prove
di sensibilità musicale che il bambino aveva manife-
stato. A questo studio si applicò con grande diligenza
e con smania di imparare sempre qualcosa di nuovo.
Un biografo afferma – ma non se ne trova conferma
nelle lettere della madre – che quando si credeva solo
o non ascoltato, si compiaceva a lungo nella ricerca di
strani ritmi ostinati e di accordi dissonanti; più volte
redarguito dalla madre, ricominciava alla prima occa-
sione. A sette anni gli provarono l’orecchio musicale e
si scoprì che aveva il senso assoluto dell’intonazione:
riconosceva, cioè, senza alcun punto di riferimento,
qualunque nota venisse toccata sul pianoforte.
La morte del padre (1888) tolse all’educazione del
fanciullo ogni influenza maschile, e allontanò anche
molte belle occasioni musicali: la prima orchestra che
ebbe modo di ascoltare il futuro autore del Concerto
per orchestra fu quella di dilettanti in cui suonava suo
padre. Si riuniva nella sala d’un albergo sotto la dire-
zione d’uno zingaro istruito: la prima volta che Bartók
li sentì, suonavano la Sinfonia della Semiramide.
Nel 1889 la madre di Bartók si fece trasferire nel-
la scuola di Nagyszöllos, in Rutenia, sul limite della
pianura al piedi dei monti Maramaros. Nuovi canti,
così, saranno risuonati all’orecchio attento del bam-
bino. Venne a stare con loro la sorella della madre,
Irma: altra sottana intorno a quell’unico maschietto,
che cresceva tranquillo e assennato, alieno dai rumo-
rosi spassi dei suoi coetanei. In una delle sue lettere la
madre si rallegra d’essere riuscita a educare suo figlio
alla modestia, «anche se è possibile che questa qualità
sia dannosa nella vita; ma d’altra parte la mancanza
di modestia rende la gente antipatica, e io non volevo
avere un figlio che fosse antipatico». Questa modestia
che la signora si compiace d’avere inculcato al figlio,
magari a danno delle sue attitudini al successo, è il
rispetto dell’altrui persona e dei diritti del prossimo,
ossia quel senso dell’umana convivenza, quell’innata
misura di civiltà che non si scompagna mai dalla vita
di Bartók e – strano a dirsi – nemmeno dalla sua arte,
che pur conosce scatenamenti dionisiaci di sfrenata
violenza. Ma la tracotanza arrogante, la hybris ossia
la trasgressione, l’invasione dell’altrui diritto, sono
estranee allo stile di Bartók. Vita e arte sono governa-
te in lui da un interiore principio di socialità, per cui
la cellula individuale – alfa e omega del suo universo
artistico – si integra e si coordina nel riconoscimento
delle altre individualità.
Intorno al 1890 Bartók comincia a «comporre», o
più esattamente a improvvisare sul pianoforte Valzer
e altri ballabili. Un certo Altdörfer, organista di So-
pron, di passaggio per Nagyszöllos, è il primo a pre-
sagire per il fanciullo un grande avvenire musicale.
La vocazione si determina, ed è bene accolta nell’am-
biente famigliare. A dieci anni la madre conduce Béla
a Pest, per farlo esaminare da un professore del Con-
servatorio; questi se ne entusiasma e vorrebbe farlo
iscrivere subito, ma la madre preferisce ch’egli con-
tinui ancora le scuole regolari. Per la musica andrà a
lezione da un certo Koresch, o Kersch, a Nagyvarad.
Il 1° aprile 1892 si ha la sua prima esibizione pub-
blica come pianista, a Nagyszöllos. Nel programma
figuravano, tra l’altro, il primo tempo della Wald-
stein-Sonate op. 53 (l’Aurora) di Beethoven, e una
composizione dello stesso undicenne concertista, in-
titolata Il corso del Danubio. È andata perduta, ma
da quel che se ne sa, sembra prefigurare profetica-
mente il destino artistico di Bartók, così strettamente
legato agli spiriti della sua terra. Con una successione
di danze caratteristiche – Polke, Czardás, Valzer egli
aveva cercato di seguire il corso del Danubio dalla
Foresta Nera al Mar Nero. Il pensiero corre subito
alla Moldava di Smetana, l’esempio più illustre di quel
nazionalismo musicale che non scende ancor molto
a fondo nell’esplorazione del patrimonio etnofonico,
ma si sofferma piuttosto in una specie di fase geogra-
fica, idoleggiando con affetto gli aspetti stessi della
patria, i fiumi, le montagne, i boschi. È quasi escluso
che Bartók potesse averne conoscenza nell’originale
– non c’erano radio né dischi, allora, e le grandi or-
chestre non s’incontravano a ogni passo nella provin-
cia ungherese – ma potrebbe darsi ch’egli ne cono-
scesse una trascrizione pianistica.
Nel 1892 la famiglia Bartók si trasferì a Beszterce,
cittadina della Transilvania settentrionale, con po-
polazione di lingua prevalentemente tedesca. Ecco
apparire nella vita di Bartók i primi risentimenti na-
zionalistici: qui avrebbe dovuto iscriversi alla prima
classe ginnasiale, ma non lo fece per non dover fre-
quentare una scuola tedesca. Qui ebbe occasione di
praticare la musica da camera insieme all’ingegnere
forestale Schönherr, buon dilettante di violino: suo-
navano tra l’altro la Sonata a Kreutzer di Beethoven.
Nell’estate 1893 troviamo Bartók a Nagyvarad, in
casa dello zio materno Lajos Voit. Qui il bambino si
sottrasse per un poco al regime patriarcale della sua
famiglia: lo zio lo conduceva, insieme ai suoi quattro
figli maschi e alle due femmine, a far lunghe escur-
sioni a piedi nella campagna: il suo fisico si irrobustì,
nacque in lui l’amore per la natura e per la vita girova-
ga, e si sviluppò quell’interesse per le scienze naturali
che non doveva più abbandonarlo. Qui cominciò la
raccolta e la classificazione di piante e d’insetti. An-
no lieto e benefico, il 1893 a Nagyvarad, dove Bartók
visse una volta tanto in maniera conforme alla sua età.
Capitolo secondo
La giovinezza (1894-1903)

È probabile che il desiderio di condurre il figlio in un


centro cittadino importante, dove esistessero occasio-
ni frequenti di musica, tenesse non piccola parte nei
passi intrapresi dalla madre di Bartók per ottenere un
trasferimento: passi che si conclusero nel 1894 col tra-
sloco della famiglia a Posonio (Pozsony in ungherese;
in tedesco Pressburg; oggi Bratislava). Tra le città di
provincia ungheresi, Posonio era quella di più intensa
vita musicale: concerti sinfonici, spettacoli d’opera,
visite frequenti di virtuosi, pratica diffusa della mu-
sica da camera nelle famiglie colte. Pur continuando
a frequentare il ginnasio, Bartók venne affidato per il
pianoforte e l’armonia a un maestro di nome illustre,
László Erkel, figlio di quel Ferenc Erkel (1810-1893)
che era stato il maggiore operista ungherese dell’Ot-
tocento, autore dell’inno nazionale e di canzoni po-
polareggianti. Ma László Erkel era un didatta seve-
ramente classico e imponeva all’allievo di esercitarsi
nello stile dei grandi maestri. Sembra invece che an-
che a Posonio, Bartók proseguisse la sua strana abitu-
dine di sedere per ore al pianoforte cercando nuove
armonie attraverso le dissonanze. Faceva musica da
camera insieme all’ispettore scolastico, buon dilettan-
te di violoncello, e non era mai stanco di leggere musi-
ca nuova. Frequentava la stagione d’opera e i concerti
e – secondo quanto egli stesso scrive intorno al 1921
in un breve schizzo autobiografico per una rivista – in
questo periodo che giunge fino ai diciotto anni acqui-
stò familiarità con la letteratura musicale da Bach a
Brahms, ma di Wagner conosceva soltanto le prime
opere, fino al Tannhäuser.
Sulla formazione musicale di Bartók in quest’epo-
ca esercitò forte efficacia l’amicizia col giovane Ernö
von Dohnányi, di quattro anni maggiore di lui, figlio
del regens chori nel duomo di Posonio ed egli stes-
so organista in quella chiesa. Precocemente dotato,
Dohnányi diede a Bartók quelle conoscenze che gli
vietava la pedanteria classicheggiante di László Erkel,
e soprattutto gli trasmise la propria ammirazione per
il classico sonatismo di Brahms. Questo autore, insie-
me al giovanile Quintetto op. 1 di Dohnányi, è il mo-
dello delle composizioni di Bartók in questo periodo.
Nel 1896 Dohnányi, conseguita la licenza liceale, si
trasferì a Budapest per continuarvi gli studi musicali,
e Bartók gli subentrò nell’incarico di organista al duo-
mo di Posonio, incarico di cui era gelosissimo. Nel
1897 scrisse una Sonata per pianoforte, che è lecito
supporre ligia allo stile brahmsiano, e l’anno seguente
condusse a termine un Quartetto con pianoforte, che
venne eseguito a Posonio.
Ormai anche l’orizzonte artistico di questa città
cominciava a parergli ristretto. Erkel non aveva più
nulla da insegnargli e gli consigliava di recarsi a Vien-
na, per terminare gli studi superiori di pianoforte
e di composizione. Bartók vi si recò con la mamma e
sostenne un’audizione, con esito eccellente: gli offri-
rono d’iscriverlo al Conservatorio di Vienna con ogni
sorta di borse di studio e di agevolazioni, ma i Bartók
preferirono sospendere la loro decisione. E l’anno do-
po, 1899, conseguita la licenza liceale Bartók seguì il
consiglio di Dohnányi e lo raggiunse nell’Accademia
di Musica Ferenc Liszt di Budapest.
Determinò questa decisione l’entusiasmo naziona-
listico di cui erano preda in quel tempo tanto Bartók
quanto Dohnányi. Il peso del dominio absburgico era
mal tollerato dagli Ungheresi e dava luogo a crescenti
manifestazioni d’irredentismo. Si escogitavano anni-
versari e celebrazioni d’ogni specie per alimentare la
fiamma dell’indipendenza nazionale. Si celebrava al-
lora il cinquantesimo anniversario delle gloriose quan-
to sfortunate insurrezioni del 1848 e 1849. Poco pri-
ma, nel 1896, s’era tenuta la grande esposizione detta
del Millennio, in quanto si attribuiva al leggendario
condottiero e principe Arpad, vissuto a cavallo tra il
IX e il X secolo, la fondazione della nazione unghere-
se. In quest’occasione la frenesia nazionalistica aveva
toccato punte d’infatuazione non scevra da aspetti
grotteschi, come quando si vollero teorizzare le forme
coniche d’una cervellotica architettura ungherese, ri-
conducendole alla tenda, abitazione tipica delle tribù
nomadi da cui la nazione aveva tratto origine. Ma gli
attriti col governo viennese erano reali e brucianti. La
gioventù cresceva in un clima simile a quello che pro-
dusse gli Oberdan e i Battisti. Era diventato uso dei
giovani vestire con ostentazione il pittoresco costume
nazionale, non precisamente conforme alla sobrietà
del contemporaneo abbigliamento maschile; e Bartók
si pavoneggiava nelle moderne strade di Budapest in
farsetto e stivaloni. Le vicende storiche in cui fu poi
coinvolta la sua vita recarono a Bartók larga materia
di riflessione sulle follie del nazionalismo, ed egli se
ne ravvide, evolvendo verso una concezione di nobi-
le umanesimo democratico, superiore alle materiali
delimitazioni delle frontiere e del sangue. Ma quel-
le generose intemperanze giovanili diedero la spinta
provvidenziale verso l’esplorazione del proprio popo-
lo e del suo costume musicale: essa aprirà all’arte di
Bartók un orizzonte originale e presterà al suo spirito
una concretezza storica radicata nella tradizione.
A diciotto anni, dunque, ecco Bartók trasferirsi a
Budapest, sulle orme di Dohnányi, per dedicarsi al
perfezionamento degli studi musicali. Per i primi me-
si si stabilìsce con lui la zia Irma. La salute di Bartók
continua a essere delicata: nel febbraio 1899, ancora
a Posonio, si erano manifestati fenomeni di emottisi.
Le lettere che puntualmente scrive alla madre da Bu-
dapest ci manifestano la sua sobrietà, la sua misura, la
sua timidezza. «Io fino adesso non ho bevuto nessuna
bevanda alcolica qui a Budapest, sebbene più volte
me n’abbiano offerte.»
Invece fa scorpacciate di musica. In una lettera si
propone di ascoltare quattro opere e tre concerti alla
settimana. Ha l’ansia della scoperta di Wagner, del
Wagner maggiore, dopo il Lohengrin. Nella biblio-
teca dell’Accademia studia la partitura dell’Oro del
Reno e ne descrive alla madre, ammirato e sbigottito,
«la quantità stragrande di strumenti». Lo interessano
anche i concerti dei maggiori virtuosi: lo appassiona
la creazione di suoni nuovi, la possibilità offerta dalla
tecnica trascendentale di estendere l’invenzione crea-
tiva al fatto fisico del suono. Del violinista Kubelik
ammira «la tecnica stupenda» (lettera alla madre, 16
gennaio 1900): «Suona a note flautate come un altro
in maniera normale; si potrebbe spesso credere di
sentire non uno, ma due o tre violini...» Di questa fra-
se bisognerà ricordarsi, quando Bartók scriverà, negli
ultimi anni della sua vita, una Sonata per violino solo.
E dall’ammirazione giovanile per i virtuosi di violi-
no germoglierà un giorno la magia sonora dei Quar-
tetti con quel loro uso stregonesco dei flautati e dei
glissando. Dopo avere ascoltato il pianista Emil von
Sauer osserva: «Talvolta ha raggiunto effetti di colore
tali come se non suonasse il pianoforte». Ecco ancora
il futuro impegno del virtuosismo trascendentale co-
me mezzo per la creazione del suono.
Due erano principalmente i maestri di Bartók nel-
l’Accademia Nazionale Ferenc Liszt, quello di piano-
forte, Istvan Thoman, e quello di composizione, Gio-
vanni Koessler, ché l’insegnante di orchestrazione e
lettura di partiture, Francesco Saverio Szabo, esonerò
Bartók dall’obbligo di frequentare le lezioni, conside-
rata la sua sorprendente bravura. Thoman e Koessler
furono un poco il buono e il cattivo genio degli ultimi
studi di Bartók. Il primo lo aiutava amorevolmente
a farsi strada nella vita musicale, e probabilmente
simpatizzava con le sue idee nazionalistiche e con la
curiosità per le espressioni musicali più recenti; forse
già per l’interesse verso uno stile di musica nazionale
ungherese. Koessler, invece, cugino di Max Reger, era
infeudato alla musica tedesca, e riuscì a instillare nel
giovane un’antipatia per Bach, da cui l’uomo maturo
impiegò molto tempo a liberarsi. Sospinto dal proprio
entusiasmo patriottico, Bartók veniva riscoprendo la
musica di Liszt, ossia i valori artistici ch’essa racchiu-
de sotto la vernice talvolta perfino ciarlatanesca del
virtuosismo, e questo lo allontanava a poco a poco dal
culto brahmsiano che gli aveva comunicato Dohnányi,
e che era approvato dal Koessler. Com’è noto, Liszt e
Brahms guidano, nella seconda metà dell’Ottocento,
due ali divergenti del Romanticismo musicale tede-
sco: Liszt (e Wagner), alla testa della scuola di Wei-
mar, o «giovane scuola tedesca», propugna l’abban-
dono del sinfonismo e della Forma-Sonata in favore
della libertà formale del Poema Sinfonico, con le sue
suggestive tendenze descrittive; Brahms invece, fede-
le all’insegnamento schumanniano, cerca di costrin-
gere il fervore dell’ispirazione romantica nel quadro
rigoroso della forma sinfonica tradizionale. Liszt sta
rapidamente soppiantando Brahms nell’animo del
giovane Bartók.
Nell’autunno 1900 una pleurite mette in pericolo
la vita stessa di Bartók. La madre non esita a condur-
lo in convalescenza a Merano, fino al 1° aprile 1901,
e, dopo aver trascorso l’estate a Posonio in una villa
di amici, Bartók ritorna a Budapest completamente
ristabilìto. Il 21 ottobre 1901 suona la Sonata in Si
minore di Liszt, oggetto di studio assiduo negli ultimi
due anni, al primo concerto della stagione dell’Acca-
demia, riscuotendo generale approvazione. Un gior-
nale rileva la sua «tecnica d’acciaio molto sviluppa-
ta», e, osservando che era stato gravemente malato,
assicura che ora, perfettamente ristabilito, «tuona
sul pianoforte come un piccolo Giove». Si profila in
quest’epoca la futura carriera pianistica di Bartók. Un
nuovo concerto, il 18 dicembre 1902, con la Sonata in
Fa diesis minore di Schumann, riscuote uno splendi-
do successo.
Frattanto prosegue l’allontanamento dalle posi-
zioni classicamente brahmsiane di Dohnányi e della
scuola. Dopo Wagner e Liszt, Bartók ha ora scoper-
to il loro prosecutore nei tempi moderni, Richard
Strauss: ha fatto una trascrizione pianistica della gi-
gantesca partitura orchestrale di Vita d’eroe, il più
recente Poema Sinfonico straussiano, e si esibisce in
questo spettacoloso tour de force. Avrà ancora occa-
sione di sentirlo Eduard Hanslick, il vecchio critico
musicale brahmsiano, teorico del Bello musicale, ed
ecco il suo giudizio che qualcuno riferì a Bartók e
ch’egli s’affrettò a scrivere alla madre: «In ogni caso
dev’essere proprio un musicista geniale; peccato che
si sciupi così con Strauss».
Completata la conoscenza dell’ultimo Wagner nel
1900, Bartók si era infatti buttato alla scoperta entu-
siastica di Strauss che allora, atteggiato a rivoluziona-
rio, faceva rumore con l’audacia delle sue pletoriche
partiture. La prima esecuzione a Budapest di Così par-
lò Zaratustra, nel 1902, aveva colpito Bartók «come
un colpo di fulmine»: così egli si esprime nella propria
Autobiografia. Questa emozione artistica riaccese in
lui l’entusiasmo per la composizione. Nascono rapida-
mente: uno Scherzo per orchestra (1902), Quattro Canti
per voce e pianoforte (1902), una Sonata per violino e
pianoforte (1903), Quattro pezzi per pianoforte (1903),
e la grande Sinfonia-Kossuth (1903), il più importante
di questi lavori giovanili che Bartók non accolse poi
nella numerazione delle proprie opere.

Lo Scherzo per orchestra è rimasto inedito, ma fu


eseguito a Budapest il 29 febbraio 1904 nei saggi di
composizione degli allievi dell’Accademia. Le sue ar-
tificiose dissonanze attirarono a Bartók il biasimo del
professor Koessler.
I Quattro Canti sono la prima composizione di
Bartók che sia stata pubblicata, subito seguiti dai
Quattro pezzi per pianoforte. Queste prime composi-
zioni di Bartók che ci sia dato esaminare appartengo-
no al periodo ch’egli, nell’Autobiografia, pone sotto
il segno della rivelazione straussiana. Tuttavia è so-
prattutto un colorito superficialmente lisztiano, più
zigano che ungherese, quello che colpisce tanto nei
Quattro Canti quanto nei Quattro pezzi. Facciamo
qui la conoscenza d’un repertorio di vocaboli armo-
nici, ritmici e melodici, che per alcuni anni abiteran-
no costantemente la fantasia del compositore, quasi
immagini araldiche di un’Ungheria cavalleresca e
feudale, e che troveranno la loro sistemazione più fe-
lice nella Rapsodia op. 1 (1904). L’arpeggio è un po-
co il protagonista di questo primo stile bartókiano a
tendenza nazionalistica, ed è in particolare il deus ex
machina del primo dei Quattro pezzi per pianoforte,
un vasto Studio per mano sinistra sola. È tutto un re-
pertorio di vocaboli musicali pseudo-ungheresi, che
non sono realmente inventati dall’artista, ma piut-
tosto trovati nel senso comune della parola: erano
cioè nell’aria, in quell’ambiente ungherese dove an-
cora stavan sospese le vibrazioni magniloquenti delle
Rapsodie di Liszt, prolungate dagli Erkel e da altri
compositori minori. Ma Bartók se ne impadronisce
con tanta fede che, nella sua bocca, rendono un suo-
no schietto e fresco.
Occorre tuttavia segnalare, nello Studio per mano
sinistra sola, anche la qualità brahmsiana del secondo
tema. E brahmsiano sarà stato, probabilmente, il «liri-
smo neoromantico» che Serge Moreux attribuisce alla
Sonata per violino e pianoforte, eseguita con successo
da Rudolf Fitzner nel 1904, ma rimasta inedita co-
me pure la più grande parte della principale fra que-
ste composizioni del 1903, la vasta e programmatica
Sinfonia-Kossuth. La più grande parte, poiché Bartók,
che non aveva tardato a convincersi dell’inconsisten-
za stilistica di questo suo primo successo, aveva tutta-
via salvato una delle dieci parti di cui era composto,
la Marcia funebre, e l’aveva egli stesso trascritta per
pianoforte, permettendone la pubblicazione. Con il
suo caratteristico ritmo iniziale da Rapsodia unghe-
rese, rientra in quel complesso di pensieri musicali
nazionalistici, che abbiamo detto di derivazione liszt-
erkeliana: il tutto disposto sui rintocchi d’un ritmo fu-
nebre scandito con persistenza lungo tutta la pagina,
in cui entrano evidenti ricordi d’eroismo beethove-
niano e wagneriano.
Il lutto che si celebra nella Marcia funebre è quello
della nazione ungherese: è il crollo di tutte le speran-
ze nelle vicende politiche del 1848-49, quando Lajos
Kossuth aveva guidato l’insurrezione contro l’odiato
dominio absburgico. Dopo aver liberato la capitale e
la più gran parte del paese, dichiarandovi decaduta la
dominazione absburgica, gli Ungheresi avevano do-
vuto cedere di fronte alle soverchianti forze russe che
l’Austria, impotente a domare l’insurrezione, aveva
ottenuto dal governo russo. Circondato d’ogni parte,
l’esercito ungherese si ridusse nella pianura di Vilagos,
dove il 18 agosto 1849 si arrese nelle mani di un gene-
rale russo. È questo il momento trattato dalla Marcia
funebre della Sinfonia-Kossuth: annichilito stupore del-
la disfatta, disperazione che impietra l’animo di fronte
al crollo delle speranze alimentate dai precedenti suc-
cessi, ricaduta nell’odiato servaggio, il paese devastato
e corso da soldatesche straniere, tra rovine fumanti.
Pare che le altre parti di questa composizione, de-
signata come Sinfonia, ma più tardi descritta dall’au-
tore stesso come Poema Sinfonico, recassero tracce
evidenti dell’influenza straussiana, soprattutto nello
strumentale, sicché Kodály poté argutamente lamen-
tare: «È tragico che l’inno dell’indipendenza unghere-
se debba suonare in lingua tedesca!». Egli intendeva
sottilmente la natura di un’arte veramente nazionale
e con la sua osservazione rilevava che la Sinfonia-Kos-
suth restava prigioniera d’uno stadio che potremmo
chiamare di propaganda: schietta, sincera e segnata
da un’entusiastica buona fede, ma propaganda. L’arte
può benissimo nutrirsi di una passione politica intera-
mente assimilata, ma non si manifesta altrimenti che
attraverso l’invenzione della forma e la creazione del
linguaggio.
Apriamo qui una parentesi per segnalare una pro-
va della «esemplarità» dell’arte di Bartók, di quel suo
investirsi, cioè, di quasi tutti i problemi che di volta
in volta assillarono le varie fasi dell’arte contempora-
nea. Molto tempo prima che s’inventasse la nozione
dell’engagement, l’arte di Bartók si svolse tutta quanta
sotto questo segno: sentì la necessità di stabilire un
rapporto diretto e vivo con le cose circostanti, di in-
serirsi nelle passioni degli uomini e di entrare nella
circolazione d’un ambiente sociale stancamente de-
terminato. A questa necessità soddisfece dapprima,
senza malizia, nel modo sbagliato, secondo la scorcia-
toia dell’esteriorità propagandistica e della subordi-
nazione entusiastica dell’arte a un fine esterno. Rico-
nosciuto l’errore, fu l’opera di tutta la vita di Bartók
attuare la soluzione valida ed esemplare del proble-
ma, con l’edificazione di un’arte che non si sequestra
dalla vita, ma al contrario se ne alimenta e tutto assi-
mila riducendolo sotto la propria categoria; e anziché
estraniarsi dalle lotte politiche e civili e dalla realtà
della vita moderna, le trasforma con studiosa alchimia
estetica in nuovi valori di stile. Errore e ravvedimento
entrambi preziosi: sono elementi di quella «presen-
za» di Bartók in tutte le questioni cruciali del nostro
tempo, per cui egli ci appare, prima ancora che come
grande artista, come un fratello maggiore, un compa-
gno di strada, che ha partecipato alle nostre ansie, ha
conosciuto i nostri dubbi e i nostri problemi, e col suo
esempio ci prende per mano e ci guida su per l’erta
faticata e sassosa che è il cammino dell’uomo nella
fase attuale della civiltà.
Naturalmente pochi badarono al sostanziale ger-
manesimo del linguaggio musicale di questa composi-
zione, e quand’essa fu eseguita a Budapest, il 13 gen-
naio 1904, ebbe accoglienze entusiastiche da parte
del pubblico ungherese, mentre invece in orchestra,
durante le prove, s’erano avute difficoltà e polemiche,
perché i numerosi strumentisti tedeschi che presta-
vano servizio nell’orchestra dei Filarmonici si erano
sentiti offesi dalla deformazione caricaturale dell’inno
nazionale austriaco (il solenne corale Gott erhalte, di
origine haydniana).
La Sinfonia-Kossuth stabilì la fama giovanile di
Bartók, e non solo nell’ambito nazionale: il grande
direttore wagneriano Hans Richter se ne interessò
e la eseguì a Manchester, in quello stesso 1904, in
presenza dell’autore. Questi infatti aveva comincia-
to a girare il mondo come concertista: a fine ottobre
aveva fatto un soggiorno a Berlino e a Vienna, dove
aveva suonato il Quinto Concerto di Beethoven. Ago-
sto e settembre del 1903 Bartók li aveva trascorsi a
Gmunden, in Austria, per ricevere lezioni di perfe-
zionamento da Dohnányi. Ma in realtà l’influenza di
questo amico, tenace assertore della tradizione sin-
fonica brahmsiana, sta perdendo terreno nell’animo
di Bartók sempre più interessato da un lato agli svi-
luppi del linguaggio musicale nel senso della direttiva
Wagner-Liszt-Strauss, e dall’altro toccato da un prin-
cipio di interesse per il vero canto ungherese, inda-
gato nella sua nascosta realtà contadina. Lo spingeva
in questo senso l’azione d’un musicista di un anno
più giovane di lui, Zoltán Kodály, che ben presto si
sostituirà a Dohnányi nella fiducia e nell’amicizia di
Bartók, e rimarrà per tutta la vita il fraterno compa-
gno di ogni battaglia artistica.
Capitolo terzo
Nazionalismo e pessimismo eroico (1904-1905)

Nel 1904, di ritorno dalla tournée pianistica che l’a-


veva trattenuto per qualche mese in Inghilterra e in
Germania, Bartók precisa la propria posizione di
compositore voltando decisamente le spalle al classi-
cismo brahmsiano e cercando una via propria, in se-
no alle tendenze musicali moderne, che presenti un
carattere nazionale. Nuovo studio, per così dire in
seconda istanza, della musica di Liszt. «Nel frattem-
po, – scrive Bartók nella propria Autobiografia, – si
dissolveva in me l’incanto Richard-Straussiano. Lo
studio più approfondito di Liszt [...] mi ha condotto
attraverso esteriorità meno simpatiche fino all’essen-
za delle cose: finalmente si aprì davanti a me la vera
importanza di questo maestro.» In realtà l’influenza
lisztiana e quella straussiana non sono incompatibili,
e unitamente alla giovanile passione wagneriana col-
locano nettamente Bartók nella tendenza musicale
del Romanticismo più progressivo e più spregiudi-
catamente aperto verso l’avvenire. Su questo tronco
della tendenza Wagner-Liszt-Strauss, radicato in un
amore mai smentito per la musica di Beethoven e di
Schumann, verrà ben presto a innestarsi la compo-
nente realmente nuova dell’arte di Bartók: l’esperien-
za del canto popolare.
Per il momento la lezione predominante di Liszt e
quella di Strauss si conciliano molto bene nella vasta
composizione da cui Bartók volle cominciare la nu-
merazione delle proprie opere: la Rapsodia op. 1. Ne
esistono due versioni: una originaria per pianoforte
solo; ed una per pianoforte e orchestra, entrata nel re-
pertorio che Bartók amava eseguire anche negli anni
maturi, quando la sua arte si era totalmente allontana-
ta da quello stile.
Il clima poetico è ancora quello della Sinfonia-
Kossuth. Il colore nazionale della tradizione liszt-er-
keliana domina incontrastato, salvo qualche occasio-
nale tributo d’ammirazione a Richard Strauss. È in
quest’ordine d’idee artistiche che Bartók intende ora
assicurarsi la piena padronanza dei mezzi musicali,
senza preoccuparsi per il momento dell’originalità. E
in questo intento limitato la Rapsodia op. 1 (1904) è
un successo: accettando un linguaggio preesistente, vi
si muove con sicurezza e con fervore di convinzione
che le conferisce vitalità. Nella produzione giovanile
dei maggiori artisti si verificano spesso casi di perfe-
zione raggiunta su un livello più basso di quello cui
l’artista sarà solito lavorare in seguito: perfezione rag-
giunta nella rinuncia a inventare interamente il pro-
prio linguaggio (Uccello di fuoco di Stravinskij; Primo
Quartetto di Hindemith; Salmo IX di Petrassi). Più
tardi, abbandonato quel terreno sicuro già da altri
esplorato, l’artista sembrerà compromettere la felicità
creativa dei suoi primi risultati, ma si tratterà di una
necessaria e momentanea incertezza.
La Rapsodia op. 1 è la perfezione del periodo na-
zionalistico di Bartók, perfezione raggiunta, se si
vuole, a buon mercato, con l’assimilazione d’un lin-
guaggio preesistente. Bartók non ha ancora scoperto
l’autentico canto popolare delle campagne ungheresi,
con la sua saporita rozzezza dialettale che aspetta solo
il tocco di un genio per assurgere a dignità di lingua.
L’immagine musicale della patria gli si configura nei
modi dotti e brillanti della tradizione liszt-erkeliana.
Nel tempo lento della Rapsodia trabocca il dolore
patetico, il lutto d’una nazione schiava. Siamo nell’or-
bita del pessimismo eroico da cui è nata la Marcia fu-
nebre della Sinfonia-Kossuth. Non siamo lontani dalla
toccante retorica giovanile della personificazione leo-
pardiana:

... Oh qual ti veggio,


formosissima donna! E questo è peggio,
che di catene ha carche ambo le braccia,
sì che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata.

Al tempo lento, laboriosamente sviluppato, non senza


un certo verboso virtuosismo, si sostituisce poi, con
bel trapasso graduale, un ritmo veloce di Czardás.
Nella giuntura tra le due sezioni s’inserisce una palese
reminiscenza dello straussiano Così parlò Zaratustra.
Se per l’elementare ebbrezza dinamica del movi-
mento ritmico la Rapsodia op. 1 si accosta all’ovvio
modello delle Rapsodie ungheresi di Liszt, nella con-
cezione generale dell’insieme si rivela piuttosto l’as-
siduo studio della Sonata in Si minore. Nonostante il
titolo, la composizione di Bartók si coordina intor-
no a un’idea prevalente (le quattro note della mesta
melodia iniziale, in cui pare concretarsi la vaga idea-
lizzazione della patria afflitta) e manifesta uno sforzo
verso l’unità formale.
Su quest’opera giovanile di Bartók il giudizio più
equilibrato resta quello di Kodály, che dopo avere ri-
levato come l’armonia manifesti l’influenza di Liszt nel
suo gusto per l’imprevisto di soluzioni sorprendenti,
enumera le qualità caratteristiche della composizio-
ne: «una predilezione per le grandi forme, un’abilità
d’amplificazione, come gusto per la ricchezza dei co-
lori e degli ornamenti, una musica con tante note, non
abbastanza concentrata e non priva di lungaggini, ma
giovane, fresca, gioiosa».
Avvenimento importante del 1905 è la partecipa-
zione di Bartók al Premio Rubinstein, di composi-
zione e di esecuzione pianistica, che si tenne a Parigi
nell’estate. Prima grande avventura internazionale,
che sarà tanto fertile d’esperienze e d’insegnamenti a
lunga scadenza, quanto avara di soddisfazioni imme-
diate. Il concorso di esecuzione fu vinto da Wilhelm
Backhaus, allora ventenne, seguito dal pianista vien-
nese Bruno Eisner. E il concorso di composizione, al
quale Bartók partecipava con la Rapsodia op. 1, oltre
che con la sua brahmsiana Sonata per violino e piano-
forte e con un Quintetto per pianoforte e archi scritto
pure nel 1904, non ebbe vincitori. Furono assegnati
diplomi d’onore, il primo dei quali, con dieci voti, an-
dò all’italiano Attilio Brugnoli (1880-1937), e il secon-
do a Bartók, con nove voti. Bartók ne fu indignato.
Il soggiorno a Parigi, con la scoperta dell’incan-
tevole «centro del mondo», della «divina città atea»,
com’egli la chiama nelle sue lettere, lo ripagò delle
amarezze provate per il concorso. Non sembra che
questo soggiorno gli abbia rivelato la presenza e l’im-
portanza della musica di Debussy, che ben presto sco-
prirà in patria, grazie all’amico Kodály. Certe lettere
in cui Bartók descrive le proprie esperienze nei locali
notturni di Parigi rivelano la straordinaria purezza
dell’uomo. In particolare è importante una lettera
all’allieva e amica Irma Jurkowics, dove alle descri-
zioni scherzose di «Paris la nuit» seguono ben presto
gravi confidenze sul proprio ideale artistico; e per la
prima volta si incontra la considerazione del valore
che presenta il canto popolare ungherese. Dopo ave-
re lamentato l’inferiorità della musica colta unghere-
se, nonostante la grande apparizione isolata di Liszt,
egli prosegue: «Ma se invece paragoniamo la musica
popolare ungherese a quella degli altri popoli, allora
è sorprendente come si possa formulare un giudizio
assai favorevole. La musica popolare degli altri paesi,
per quel che ne conosco, è molto inferiore alla nostra
in forma espressiva, ricchezza e varietà».
In seguito la lunga lettera trapassa ad altre confi-
denze d’ordine generale sulla vita e sul mondo. Bartók
vi fa professione di baldanzoso ateismo: «L’uomo ha
creato Dio [...]. Il corpo, ossia la materia, è eterno;
l’anima, cioè la forma del corpo, peritura». Sono pro-
positi ingenuamente audaci, ma vi si scorge il segno
di un’anima irrequieta e incapace di fermarsi all’appa-
renza delle cose; ansiosa, al contrario, di penetrarne
il segreto e di orientarsi verso una salda concezione
razionale del mondo.

Che Bartók non avesse percepito a Parigi la presenza


dell’arte matura di Debussy e di quella appena affer-
mata di Ravel, è confermato dalle sue immediate com-
posizioni. Non v’è traccia dell’impressionismo musica-
le nelle due Suites per orchestra, di cui, l’op. 3, risale al
1905, e l’altra, l’op. 4, cominciata nello scorcio dello
stesso anno, occupa il compositore fino al 1907.
La Prima Suite fu eseguita a Vienna il 29 novembre
1905, sotto la direzione di Loewe. In cinque movimen-
ti per grande orchestra, è una sorta di Sinfonia cre-
sciuta di un tempo per ridondante esuberanza d’idee.
Come la Rapsodia op. 1, non pretende a originalità di
linguaggio: è piuttosto uno studio per impadronirsi
a fondo d’un idioma preesistente, in questo caso con
particolare riferimento alla tecnica della grande or-
chestra. Il clima fondamentale è ancor quello del na-
zionalismo ungherese romantico, ampliato dall’espe-
rienza sinfonica di Brahms e di Strauss.
Non v’è ancora traccia dell’autentica musica po-
polare ungherese. Sebbene questo cruciale 1905 ab-
bia visto Bartók avvicinarsi per la prima volta, con la
compagnia e la guida di Kodály, alle fonti del vero
canto dei contadini magiari, non alterato dalla vernice
zigana, per il momento l’esperienza folcloristica non
incide sulla pratica del compositore. È ancora un’Un-
gheria in pittoresco costume nazionale e in stivaloni
rossi, quella che vien fuori dalla musica della Prima
Suite per orchestra. Quell’altra Ungheria, quella che
fatica sui campi in zoccoli e pantaloni unti e sbrin-
dellati, Bartók comincia appena ora a scoprirla, e il
compositore non vi s’interessa ancora.
Il colorito espressivo predominante nella Suite op. 3
non è di mestizia e di lutto, come nella Rapsodia op. 1,
ma piuttosto robustamente animoso. Nel primo tempo
(Allegro vivace) un cavalleresco tema zigano si elabora
in modi contrappuntisticamente grandiosi, che stanno
tra il Preludio dei Maestri Cantori e il Brahms accade-
mico della Fest-Ouverture e delle Variazioni sul Corale
di Sant’Antonio. Ne nasce una specie di pomposo inno
nazionale d’una nazione immaginaria, d’una sognata
patria ungherese che, senza volerlo, scimmiotta la tron-
fia solennità militare dell’odiata potenza absburgica.
Nel secondo tempo (Poco Adagio) la melodia in La
minore del corno inglese riconduce al colore cupo e
appassionato della Rapsodia op. 1. Da notare in que-
sto tempo un momento eccezionale per il suo valore
d’anticipazione nei riguardi del futuro sviluppo arti-
stico di Bartók: taciutasi l’appassionata e ondulante
melodia zigana esposta nei legni, da una lunga nota
dei contrabbassi si sviluppa un tremolo, un fremito
sonoro che a poco a poco si propaga per tutte le file
degli archi divisi, salendo come marea dai violoncel-
li alle viole, ai violini secondi e primi, e poi comu-
nicandosi ancora ai flauti. Su questo agitato sussur-
ro le trombe e poi i legni inseriscono brevi accenti
drammatici. È una pagina d’improvvisa originalità, di
cui ci dovremo ricordare quando nel Bartók maturo
incontreremo certe invenzioni di suoni nuovi e quel-
la produzione di allucinati fruscii strumentali, quella
sua esplorazione appassionata del mondo del rumore,
che un critico tedesco, il Doflein, ha sintetizzato nella
formula: «spiritualizzazione dell’elementare». Qui se
ne trova il primissimo germe.
Strauss affiora nel giro dei Valzer dello Scherzo in
Do maggiore, spigliato e schwungvoll, seppure non
immune da una certa ridondanza. Vale sempre il ri-
lievo di Kodály a proposito della verbosità giovanile
rilevata nella Rapsodia op. 1: «musica di tante note».
Una torrenziale abbondanza d’idee, e anche un cer-
to timore di non averle mai compiutamente espresse,
d’aver lasciato in ombra un particolare importante, di
non aver detto o chiarito, come avviene ai narratori
inesperti che ripetono tre o quattro volte il bon mot
finale di una barzelletta.
Segue un Moderato, di non grande rilievo, ma è da
notare il semplice fatto della sua presenza, intercalata
tra Scherzo e Finale: fin da allora Bartók si acconciava
male al taglio classico della Sinfonia in quattro tempi,
con l’inevitabile contiguità di due movimenti rapidi.
Preferendo alternare costantemente un tempo lento a
uno veloce, era già portato ad adombrare quella sua
forma di composizione concentrica, a numero dispa-
ri, tre o cinque, che verrà col tempo assumendo carat-
teri di organicità vegetale.
Il Finale (Molto vivace) è di nuovo documento di
prorompente fecondità giovanile, che ancora s’accon-
tenta d’un linguaggio musicale precostituito, e non
potendo o non volendo rompere quel guscio, se ne
prende la rivincita moltiplicando il numero e l’ener-
gia delle idee. Una ronda paesana di allegrezza san-
guigna e irresistibile si sviluppa quasi sfrontata sopra
un basso da banda di ballo pubblico, e nella chiusa
si combina contrappuntisticamente col solenne inno
del primo tempo, in uno sfarzo strepitoso di sonorità.

La composizione della Seconda Suite per orchestra


op. 4 (1905-1907) cadde in un’epoca in cui molte co-
se maturavano nell’animo del compositore. Non vi si
trova ancora traccia di influenze dell’impressionismo
francese, la cui rivelazione a opera di Kodály bisogne-
rà ritardare fino al 1907, ma v’è invece un mutamento
nel colore nazionale delle melodie: impallidisce il pit-
toresco piglio zigano della tradizione liszt-erkeliana, e
comincia a manifestarsi il contatto col canto popolare
dei contadini. È un’Ungheria più umile e reale che
comincia ad apparire in luogo della cavalleresca im-
magine araldica della nazione in cui si compiaceva il
patriottismo della Rapsodia e della Prima Suite.
Scrive Bartók nella propria Autobiografia, a pro-
posito di questo periodo: «Ho riconosciuto che le
canzoni ungheresi ritenute erroneamente popolari e
che in realtà erano canzoni d’autore in voga più o me-
no triviali, non offrivano molto d’interesse. Così nel
1905 ho cominciato ad indagare la musica ungherese
contadina, fino allora quasi del tutto sconosciuta. In
questo campo, a mia grande fortuna, ho trovato un
eccellente collaboratore in Zoltan Kodály, il quale,
grazie alla sua chiaroveggenza e al suo giudizio, mi
ha aiutato in tutti i settori della musica con parecchi
avvisi e consigli d’inestimabile valore».
Certo la Seconda Suite è ancora lontana da quell’as-
similazione completa del canto popolare che sarà per
Bartók una lenta conquista. Rispetto alla prima pre-
senta un carattere di moderazione che si manifesta sia
nell’organico orchestrale meno grandioso, sia nella
minore durata, e soprattutto nell’accento più riflessi-
vo e temperato. I tempi sono quattro: Comodo - Alle-
gro scherzando - Andante - Comodo.
Capitolo quarto
Canto popolare e musica moderna

Tipica opera di transizione, la Suite op. 4 conduce


Bartók fuori del nazionalismo cavalleresco e del pes-
simismo eroico della tradizione liszt-erkeliana. Nel
1906 la pubblicazione di venti Canti popolari unghe-
resi con accompagnamento di pianoforte, Prefazione
in comune di Bartók e Kodály, più che in sé è im-
portante come indice d’un mutamento di situazione.
L’arte, e la vita stessa di Bartók, si organizzano su due
direttive convergenti: scoperta dell’arte contempora-
nea e scoperta del canto popolare. Nella sua esisten-
za personale questo vuol dire, da una parte, sempre
più frequenti viaggi all’estero come virtuoso di pia-
noforte, con graduale ampliamento della sua rete di
relazioni e di conoscenze musicali; dall’altra, scorri-
bande estive nella campagna ungherese, in compa-
gnia di Kodály, alla ricerca dei tesori musicali sepolti
presso vecchi contadini scontrosi. Il 1906 lo vede in
tournée pianistica in Portogallo e in Spagna; poi, nel
ritorno, a Milano e a Venezia. A Madrid è ricevuto
dalla regina, che gli pone domande banali sull’Un-
gheria e Cecco Beppe, e si fa suonare una Czardás,
naturalmente con gran dispetto di Bartók. Questi rac-
conta in una lettera: «Difficilmente sarebbe stata così
gentile se avesse conosciuto la qualità repubblicana e
di odiatore degli Absburgo di chi le stava davanti».
L’estate, a Keresztur, Bartók si aggira tra pastori, por-
cari, serve e contadini, alla scoperta non soltanto di
vecchie canzoni, ma anche della vera qualità del suo
paese: la saggezza antica e la miseria presente. Poi a
mezzogiorno, tutto scamiciato e accaldato, si presen-
ta al pranzo all’inglese d’una elegantissima contessa
austriaca. Raccontando l’episodio commenta: «A me
piacciono le dissonanze».
Nel 1907 Bartók viene nominato professore di
pianoforte presso l’Accademia Nazionale di Musica
a Budapest, e per l’inaugurazione della nuova sede
viene eseguita la Suite op. 3, non per intero, ma so-
lo tre tempi. Nelle nuove composizioni di Bartók, a
partire dai Due Ritratti op. 5 per orchestra (1907), si
manifesta la trasformazione operata dalla conoscenza
sempre più estesa e approfondita del canto contadi-
no e dalla sua graduale assimilazione nel linguaggio
musicale del compositore. Ecco quanto ne scrive egli
stesso nell’Autobiografia:

Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di


decisiva importanza, perché esso m’ha reso possibile la li-
berazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino
allora in vigore. Infatti la più gran parte, e la più pregevole,
del materiale melodico raccolto si basava sugli antichi modi
ecclesiastici o greci, o perfino su scale più primitive (e pre-
cisamente pentatoniche); inoltre era irta delle formazioni
ritmiche più libere e più svariate, con cambiamenti di ritmo
per l’esecuzione ora in tempo rubato ora in tempo giusto. Mi
resi conto allora che i modi antichi ed ormai fuori uso nella
nostra musica d’autore non hanno perduto nulla della loro
vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoni-
che di tipo nuovo. L’impiego siffatto della scala diatonica ha
condotto alla liberazione del rigido esclusivismo delle scale
maggiore e minore ed ebbe per ultima conseguenza la possi-
bilità di impiegare ormai liberamente e indipendentemente
tutti e dodici i suoni della scala cromatica.

La riattivazione dei vecchi «modi» ecclesiastici anni-


dati nelle pieghe del canto popolare, come via d’uscita
dalla crisi dell’armonia romantica: questa l’intuizio-
ne storica del giovane musicista, ormai coinvolto nel
moto sempre più esteso d’insofferenza verso il peso
della grande tradizione ottocentesca. L’entusiasmo di
Bartók per la lezione artistica che viene scoprendo nel
canto popolare si manifesta in numerosi scritti e pub-
blicazioni. «Io sono convinto, – scriverà Bartók più
tardi in un articolo su La musica popolare e la nuova
musica ungherese, – che ognuna delle nostre melodie
popolari [...] è un vero modello della più alta perfezio-
ne artistica. Nel campo delle forme più semplici quelle
melodie sono per me capolavori nello stesso modo in
cui nel campo delle forme più grandi lo sono una Fuga
di Bach o una Sonata di Mozart. Quelle melodie sono
altrettanti paradigmi classici dell’espressione impareg-
giabilmente concisa, e priva di ogni elemento super-
fluo, d’un pensiero musicale.»
L’efficacia di questi esempi non tarda a manifestar-
si. Bartók ha appena ottenuto la nomina a professore
di pianoforte presso l’Accademia Nazionale di Buda-
pest, quando pubblica, come un fulmine a ciel sereno,
la meno accademica, la più sconvolgente e originale
delle sue composizioni di questi anni: le Bagattelle op.
6 per pianoforte (1908). Questi quattordici brevissimi
pezzi sono un gesto di rottura violenta e polemica con
cui Bartók si lascia per sempre alle spalle il costume
musicale dell’epoca, cioè la tradizione liszt-erkeliana
di derivazione ottocentesca. Subentra invece l’en-
tusiasmo per la doppia scoperta del canto popolare
autentico dei contadini ungheresi e della moderna
musica europea, in particolare dell’impressionismo
francese. Il buon genio di Bartók in queste rivelazioni
è Kodály, l’amico discreto e tenace che prende ormai
il posto del prestigioso Dohnányi nel suo orizzonte
spirituale: e questa sostituzione vuol dire lo sgambet-
to alla cultura germanica (Brahms, Wagner, Strauss, e
perfino Liszt per quanto aveva di tedesco), l’apertura
verso la nuova Europa musicale, post-wagneriana e
anti-wagneriana. Si ricordino le date dei principali la-
vori pianistici francesi di questo tempo. Di Debussy:
Estampes 1903; L’Isle joyeuse 1904; Images 1905 e
1907; Children’s Corner 1908; Préludes 1910. Di Ra-
vel: Miroir 1905; Gaspard de la nuit 1908. E nel 1909
a Vienna apparivano gli importanti Tre pezzi op. 11 di
Arnold Schönberg. È in questo rinnovamento totale
della scrittura pianistica, e attraverso il pianoforte,
della concezione musicale, che s’inseriscono le Ba-
gattelle op. 6.
Cominciano qui a manifestarsi i risultati di quella
sorprendente convergenza constatata da Bartók tra
gli indirizzi più avanzati della musica contemporanea
e le indicazioni offerte dalle leggi musicali implicite
nel vecchio canto contadino magiaro. Nella sua Au-
tobiografia Bartók ricorda l’entusiasmo di cui l’aveva
riempito questa scoperta:

Allorquando, su incitamento di Kodály, conobbi e comin-


ciai a studiare le composizioni di Debussy, sempre nel 1907,
m’accorsi, stupefatto, che pure nelle sue melodie hanno una
parte importante motivi pentatonici corrispondenti a quelli
della nostra musica popolare. Dobbiamo certamente attri-
buirli all’influsso pure d’una musica popolare dell’Europa
orientale, probabilmente quella russa. Nelle composizioni
di Igor Stravinskij si avvertono tendenze analoghe: sembra
quindi che la nostra epoca mostri correnti identiche anche
nei territori geograficamente più lontani gli uni dagli altri:
il rinfrescamento della musica d’autore con gli elementi di
quella musica contadina che le composizioni degli ultimi se-
coli hanno lasciata intatta.

Con le Bagattelle Bartók si allontana momentanea-


mente dalla grande orchestra, in cui s’era finora at-
tivamente esercitato, e per alcuni anni condurrà pre-
valentemente le proprie ricerche di nuovo linguaggio
musicale sul fidato terreno del pianoforte. Si potreb-
be quasi dire che gli anni dal 1908 al 1910 Bartók li
passi seduto al pianoforte a tormentare la tastiera, a
tentare combinazioni di suoni, a esplorare i sentieri
periferici dell’armonia, a vedere cosa succede se... Se,
per esempio, provo a sovrapporre due tonalità, come
nella prima delle Bagattelle, che per tutta la durata
delle sue diciotto battute reca quattro diesis alla mano
destra e quattro bemolli alla sinistra. O se m’impongo
l’uso d’una scala per toni interi, o d’una scala con un
intervallo variamente alterato. O se alle note di pas-
saggio attribuisco funzioni armoniche determinanti e
se, in breve, dell’eccezione armonica mi provo a fare
la regola.
Questo sono le Bagattelle: una frenesia di tentar vie
nuove e di sperimentare inediti aggregati sonori, se-
condo il gioco che fin dall’infanzia incatenava Bartók
alla tastiera, a tentare gli accordi più strani, a seguire
con l’orecchio intento le vibrazioni, lasciandole risuo-
nare dentro di sé. Quattordici pezzi brevi, nella cui
concisione Bartók dà l’addio alla ridondante retorica
compositiva, di stampo ottocentesco, dei suoi prece-
denti lavori orchestrali. Composizioni aforistiche, si
potrebbe dire, col termine generalmente riservato ai
lavori di Schönberg e di Webern. Pezzi talmente au-
daci che alcuni, più tardi, Bartók li ripudierà come
meri esperimenti, in una lettera al critico Edwin von
der Nüll: sono il primo, ottavo, nono, undicesimo e
tredicesimo. Nel 1939, preparando un’antologia della
propria produzione pianistica, vi accoglierà le Bagat-
telle nn. 2, 3, 5, 10 e 14. Chiara prova della coscienza
che Bartók aveva dei due piani paralleli sui quali si
svolgeva la sua produzione musicale: uno quasi eso-
terico, di sperimentazione, e uno di più aperta acces-
sibilità. Eppure, in tanto sovvertimento iconoclastico
dei valori tradizionali, si badi alla allusione beethove-
niana contenuta nel titolo di Bagattelle: testimonianza
del culto che Bartók, a differenza di molti contempo-
ranei, votava a quel maestro, e documento della duali-
stica compresenza che accomunava in Bartók l’uomo
d’ordine al rivoluzionario, il rispetto della tradizione
e il gusto della novità.
Della prima Bagattella abbiamo detto la scrittura
provocatoriamente bitonale. La seconda, che Bartók
giudicava una vera riuscita, e non solo un esperimen-
to da laboratorio, fa rimbalzare, Allegro giocoso e
Staccatissimo, sopra uno sfondo costante di seconde
maggiori, un tema angoloso e irrequieto, che sembra
una pallina di celluloide su zampilli d’acqua. Poi gli
manca uno dei sostegni, e allora la pallina cade pesan-
temente, con un grottesco tonfo d’ottava aumentata:
la pallina di celluloide è diventata improvvisamente
una pallina di piombo.
Di facile esecuzione e di buon effetto, la terza Ba-
gattella fa ripetere invariabilmente dalla mano destra,
«sempre leggero e legato», un disegno di cinque se-
microme (Sol - Si - Si bemolle - La - La bemolle), che
costituisce una specie di roteante nebbia sonora; sot-
to, la sinistra scandisce una lenta melodia modale, che
prima procede per gradi contigui, e poi si stira, come
per un grande sforzo, in uno scarto di settima.
Meno problematiche e audaci, la quarta e la quinta
Bagattella sono dichiarate trascrizioni di canti popo-
lari, rispettivamente ungherese e slovacco.
La sesta, breve pagina lenta in forma tripartita A B
A, mescola il Si maggiore e il Si minore in una grigia
melodia bitonale. Atmosfera simile a quella della pri-
ma, di lento ed evasivo sortilegio.
Bitonale pure la settima Bagattella, Allegretto ca-
priccioso: la melodia saltellante si può ascrivere al to-
no di Si maggiore, mentre a Do maggiore si ricondu-
ce l’ostinata figura d’accompagnamento della mano
destra. Quando la melodia scivola in Do maggiore,
l’accompagnamento si fa un dovere di non lasciarsi
acchiappare, e passa nel tono di Do diesis maggiore.
L’ottava Bagattella inizia con una catena di «ritardi
armonici», e in tutto il pezzo la singolarità delle armo-
nie dissonanti ha una giustificazione principalmente
fonica: la dissonanza è semplicemente un mezzo per
arricchire il suono, anzi per la creazione fisica del suo-
no. L’armonia, insomma, sta in funzione del timbro.
Puro disegno melodico all’unisono la nona Bagat-
tella.
La decima è la più importante e la più complessa.
Fu citata da Schönberg nel suo Trattato d’armonia per
esemplificare «l’attitudine delle dissonanze a legare
insieme i suoni». L’intervallo melodico di quarta la
domina da capo a fondo.
Saltellante e balzano il ritmo della undicesima Ba-
gattella, anch’essa armonicamente preziosa e ricerca-
tissima. La dodicesima comincia con una nota ripetu-
ta liberamente, al di fuori d’ogni misura, con frequen-
za sempre più stretta e precipitosa: manifestazione
precoce di quell’interesse per la materia che porterà
spesso Bartók a esplorare la frontiera del mondo fisi-
co del rumore, in cui il mondo civile dell’armonia e
della musica sta come avviluppato.
Le ultime due Bagattelle recano un titolo. Elle est
morte... per il Lento funebre della tredicesima: sin-
ghiozzanti sincopi dei bassi, bitonalmente indiffe-
renti, nella loro costanza, al dibattersi della pallida
e smarrita melodia, ma associati a essa nella comune
sollecitudine ritmica, che alterna agitazione affannosa
e mortale abbattimento. Cinque battute prima del-
la fine appare, nella melodia, là dove in ungherese è
apposta l’epigrafe «meghalt» (muore un’«idea fissa»,
cioè), una figura arpeggiata ascendente, formata da
tre intervalli di terza maggiore, che Bartók aveva ci-
tato in una lettera intima alla violinista Stefi Geyer, e
che più d’una volta impiega, in questi anni, con qual-
che significato allusivo, da riferire evidentemente a
vicende sentimentali.
L’ultima Bagattella, intitolata Ma mie qui danse, è lo
stesso Valzer sgangherato e sarcastico che costituisce il
secondo dei Due ritratti op. 5 per orchestra. Qui l’iro-
nia giustifica agevolmente l’acerbo sapore bitonale del-
la deformazione armonica; e vi torna, grottescamente
sfigurata, la suddetta idea fissa. Le ultime due Bagat-
telle introducono perciò, con tale allusione a segreti tu-
multi interiori, una nota più romanticamente personale
in questa raccolta tanto rigorosamente sperimentale.
Tra le opere che nel primo decennio del secolo tra-
sformano radicalmente il linguaggio musicale e apro-
no la strada a ciò che si chiama la «musica moderna»,
le Bagattelle op. 6 occupano un posto non discutibile,
accanto ai lavori pianistici di Debussy e di Ravel, ai
Tre pezzi di Schönberg, alle Sonate di Skrjabin e alle
Sonatine di Busoni. Nella stessa produzione di Bartók
altre composizioni di questo periodo – come i sem-
plici pezzi pianistici infantili – le superano per felice
raggiungimento d’una compiuta poesia; ma nessuna
le uguaglia, invece, come officina tecnica del compo-
sitore e in quanto a valore strategico di rigorosa in-
novazione lessicale. In un certo senso, secondo una
paradossale intuizione critica di Roman Vlad, nelle
Bagattelle Bartók ha per così dire anticipato la forma
rispetto a un contenuto che non esisteva ancora, in
lui, di tale modernità, e che ora dovrà attendere la
maturazione nell’animo suo, fino al congiungimento
nei capolavori dell’età matura.

In effetti, nessuna delle contemporanee composizio-


ni per pianoforte di Bartók raggiunge il radicalismo
moderno delle Bagattelle op. 6. Non le Due Elegie op.
8, l’una del 1908, l’altra del 1909, che Bartók stesso
riconosceva come una «ricaduta nell’ampollosità ro-
mantica». Di nuovo «musica di molte note», come
dettata da una specie di horror vacui che il composi-
tore aveva invece appreso a sfidare bravamente nella
concisione delle Bagattelle. Qui c’è il bisogno di far
difficile, la paura dello spazio bianco. E dal punto di
vista espressivo si retrocede ancora verso il pessimi-
smo eroico del nazionalismo patriottico. Tuttavia un
critico ungherese, il Molnar, definisce la seconda Ele-
gia, in La maggiore (mentre la prima è in Re minore)
«il Sancta Sanctorum della tristezza e delle estasi».
Sarebbe il compendio della fede e religiosità profana
di Bartók, l’immagine del dolore dell’uomo. Dal pes-
simismo nazionale si passerebbe qui al pessimismo
cosmico, in un anticipo di angoscia esistenziale. Ma
sembra principalmente un’ingenua manifestazione
del lato buio dell’anima di Bartók, delle sue crisi di
adolescenza.
Pure dense e sovraccariche si presentano le Tre
Burlesche op. 80, scritte rispettivamente nel novembre
1908, nel maggio 1911 e nel 1910. Vi opera la disso-
nanza in funzione di bizzarria, deformazione armonica
e tonale con intento caricaturale. Hieronymus Bosch,
non Rossini: un’allegoria non insita nella vita della Na-
tura, ma forzata da deformazioni. In fondo, manifesta-
zioni anche queste di pessimismo. Come ha scritto un
critico ungherese, vi si esplica il grottesco quale «sotto-
specie infernale del dolore»: derivativo d’un dolore che
non si può più sopportare. La prima reca il titolo Diver-
bio, ed è dedicata a Marta Ziegler, la giovanissima allie-
va di pianoforte all’Accademia, che Bartók sposerà nel
1909. Sono rapide, rabbiose frasi all’unisono, avventa-
te sulla tastiera. La seconda s’intitola Un poco brillo:
frequenti acciaccature che tormentano i suoni; impun-
tature ritmiche, fare vacillante ed euforia dell’ubria-
co. La terza non ha titolo, e si fonda principalmente
sulla dissonanza di seconda minore.
Ridondanti e sovraccariche pure le Due Danze ru-
mene op. 8a, scritte nel 1910, e da non confondere
con le fortunate Danze rumene del 1915. Virtuosisti-
che e chiaramente tonali, si fondano su temi d’inven-
zione, ma nello spirito del folklore. Presentano come
una voluta depauperazione espressiva: colgono più
aspetti di vita fisica che di vita del sentimento. Ritmo
motorio, tecnica pianistica quasi a percussione. Sono
costruite con gran cura formale, su schema ternario A
B A, con episodi inseriti a guisa di rondò. E la struttu-
ra A B A si ripete, in piccolo, all’interno di A.
Una scrittura più semplificata, ma non audace né ag-
gressiva, si osserva nelle Quattro Nenie, che col loro ca-
rattere di «lamento» completano questi studi d’espres-
sione e di caratterizzazione musicale attraverso il pia-
noforte. Fanno pensare ai Preludi lenti di Debussy,
come Canope, «très calme et doucement triste», o alle
Sarabande e alle Gymnopédies di Satie. Debussy, sia
ricordato incidentalmente, era stato a Budapest per
un concerto il 5 dicembre 1910.

Il panorama di questa produzione pianistica che occu-


pa quasi interamente gli anni di crisi e di transizione
dal 1908 al 1910, si completa, oltre che con gli Schizzi,
brevi pezzi nel genere scarno e conciso delle Bagattel-
le, ma di minore audacia di scrittura, con le raccolte
di pezzi pianistici per l’infanzia, e precisamente: Dieci
pezzi facili (giugno 1908), e l’importante raccolta Für
Kinder, due fascicoli di complessivi ottantacinque pez-
zi (ridotti a settantanove in una seconda edizione del
1939), interamente costituiti da elaborazioni pianisti-
che di canzoni ungheresi e slovacche.
La capacità di scrivere pezzi pianistici di facile ese-
cuzione tecnica per i bambini è un fatto raro nella
musica contemporanea. Generalmente l’arte moder-
na è difficile. Le parole facili e semplici sono state det-
te tutte da un pezzo. L’artista cerca l’originalità nella
complicazione. Abbiamo visto lo stesso Bartók, nel-
la prima fase della sua produzione, quella naziona-
listico-lisztiana, mostrare un tipico horror vacui per
la musica di poche note. Ciò che gli permette ora di
scrivere facile è la scoperta, e l’assimilazione, della
musica contadina ungherese. Essa gli fornisce non
solo un nuovo lessico, di vocaboli ritmici e melodici,
ma con la sua segreta struttura «modale» (cioè non
nei soli modi maggiore e minore, ma nella moltepli-
cità dei vecchi «modi» gregoriani e bizantini) addi-
rittura la possibilità d’una nuova grammatica e d’u-
na nuova sintassi musicale. Rinnovato il linguaggio,
tutte le parole sono di nuovo da dire per la prima
volta. Non occorre fare complicato.

La scoperta e il reimpiego (non già attraverso materia-


li citazioni, ma piuttosto come modello d’una nuova
musica) del canto popolare è per Bartók non soltanto
un fenomeno artistico, ma anche morale e civile. Si-
gnifica lo scampo dall’individualismo romantico e dal
solipsismo, la possibilità di ristabilire i contatti dell’ar-
tista con l’uomo, di riportare la musica nel circolo del-
le umane attività. Se per l’artista moderno riesce tanto
difficile comunicare con l’uomo, si può ben dire che la
più difficile comunicazione da stabilire, nel consorzio
umano, è quella dell’adulto con il bambino: quando
non si creda di risolvere tutto col ricorso a quel lin-
guaggio bamboleggiante – «il pappo e il dindi» di dan-
tesca memoria – che per lo più serve solo a ottenere
il risultato che i bambini guardino i grandi con occhi
sgranati dallo stupore, e si chiedano perché mai essi si
abbandonino a quelle sconvenienti sconcerie.
La produzione pianistica per i bambini è perciò,
in un certo senso, la prova suprema della socialità cui
il linguaggio di Bartók attinge attraverso l’intelligen-
te impiego della lezione implicita nel canto popolare.
Ristabilire un contatto pieno, normale e non artificio-
so, tra l’artista e il mondo esterno, nella sua porzione
di più difficile accesso: i bambini.
Facili d’esecuzione tecnica, i pezzi pianistici infan-
tili di Bartók spesso non lo sono affatto per concezio-
ne musicale e artistica. Egli ha riguardo all’imperizia
materiale dei piccoli esecutori, ma non li considera
come dei minorati, ai quali non sia lecito tenere di-
scorsi anche di grave impegno. Sono pezzi facili per
le dita, non sempre per il cervello. Bartók non temerà
mai di dire ai bambini parole musicalmente elevate, sì
che lo studio del pianoforte e della musica sia anche, e
soprattutto, una costante educazione e un affinamen-
to dell’anima e dell’intelligenza.
Questo criterio si manifesterà più tardi, in forma
severissima e rigorosa, nei sei fascicoli del Mikroko-
smos (1926-1937), ma già fin d’ora, nei Dieci pezzi
facili, del giugno 1908, si ha uno specchio non de-
formante né rimpicciolito di quello che era l’arte di
Bartók in questo periodo. Dopo una Dedica, pagina
introduttiva che nei suoi valori lunghi e lenti pare qua-
si una miniatura d’effetti parsifaliani, si ha un sempli-
ce Bauernlied, canto di contadini. Ma già il secondo
pezzo introduce nell’intimo animo del compositore.
Dopo averlo composto Bartók chiedeva a una amica
la traduzione tedesca del titolo ungherese ch’egli ave-
va immaginato, e fu molto contento della proposta di
Qualvolles Ringen, cioè qualcosa come «tormentoso
dibattersi»: infatti il pezzo consiste di una melodia
che pare contorcersi come una fiamma, quasi volesse
liberarsi del peso d’un pedante accompagnamento, si-
mile a un basso continuo armonicamente deformato.
E così il quarto, il settimo e il nono pezzo non temo-
no di schiudere ai piccoli esecutori i segreti più gelosi
e gli aspetti faustiani, inquieti, tormentosi dell’ani-
ma dell’artista. Gli altri invece mostrano lo specula-
re aspetto dell’anima di Bartók: sono dalla parte del
sole, della luce, della ritrovata serenità ed equilibrio
interiore nel contatto col canto popolare. Non più
scavare nel castello oscuro dell’anima, ma uscire nel
mondo, partecipare alla vita degli altri uomini, rea-
lizzarsi nel lavoro e nella collettività. Il quinto pezzo,
Sera al villaggio, e l’ultimo, Danza dell'orso, costitui-
scono quasi degli sbandamenti in seno al pittoresco
e al quadretto di genere, e come tali raggiunsero una
popolarità che non tardò a divenire fastidiosa per il
compositore. (Così come ormai, pervenuto a consa-
pevolezza dei problemi di linguaggio che si poneva-
no alla musica del suo tempo, gli pesava la fortuna
arrisa ai suoi lavori giovanili. In una lettera di questi
anni all’amica Etelka Freund scrive: «È triste trovarsi
di fronte a un pubblico che dovendo scegliere tra le
14 Bagattelle e la Suite op. 3 sceglie senza esitazioni
quest’ultima».)
Analoghi caratteri presenta l’ampia raccolta Für
Kinder, ove l’originalità è assicurata dal linguaggio
modale dei canti contadini, senza bisogno che il com-
positore si arrampichi sui vetri. Lingua nuova vuol
dire verginità di sentire. Il pericolo della banalità im-
plicito nella facilità di esecuzione è allontanato dalla
novità del linguaggio. Qui Bartók avanza nella diffi-
cile arte di realizzare pianisticamente, in espressioni
artistiche, i semplici documenti del canto popolare,
e non tarda ad avvedersi che ciò non significa affatto
«armonizzare» tali canti secondo le formule consue-
te di realizzazione d’un basso continuo. La struttura
«modale» delle melodie non consente formule d’ac-
compagnamento fondate sulla struttura tradizionale
della scala diatonica. Lo sforzo di presentare tali me-
lodie nel modo più adeguato alla loro natura costitui-
sce per Bartók un incalcolabile incentivo verso una
concezione musicale interamente nuova.
Dal punto di vista dei contenuti espressivi gli ot-
tantacinque pezzi Für Kinder, più affabilmente grade-
voli che quelli del futuro Mikrokosmos, e in qualche
raro caso non alieni nemmeno da occasionali cadute
nel pittoresco, si presentano come un vero e proprio
esperimento di educazione attraverso la musica. Sono
un compendio della vita dell’uomo in seno alla natura
e alla collettività. L’universo in formato tascabile, ad
usum infantis.
Quasi a riepilogo del periodo di esperienze gio-
vanili, dalla fase Wagner-Liszt-Strauss-Brahms alle
prime scoperte di Debussy e del canto popolare, tro-
viamo il Quartetto op. 7, scritto nel 1908, terminato il
27 gennaio 1909. È il primo di sei Quartetti che oc-
cupano una posizione predominante tanto nell’ope-
ra di Bartók quanto nella produzione quartettistica
contemporanea. Scaglionati lungo l’arco della sua
evoluzione stilistica, essi si presentano quasi come un
geloso diario lirico, al quale il compositore confida
le parole più alte e definitive, in questo senso simili
al ruolo svolto nella produzione beethoveniana dalle
Sonate per pianoforte. Ma a differenza delle Sonate di
Beethoven, che hanno per lo più una funzione pionie-
ristica di ricerca e di officina musicale, e anticipano le
soluzioni sinfoniche, i Quartetti di Bartók hanno una
funzione riepilogatrice, e salvo un’eccezione pongono
quasi sempre il sigillo definitivo a una serie d’espe-
rienze stilistiche condotte attraverso il pianoforte o
altri organici musicali.
Il Quartetto op. 7 si svolge in tre tempi: Lento - Al-
legretto - Allegro vivace. L’accostamento al Quartetto
è naturalmente un invito al contrappunto e a un ti-
po di scrittura lineare dove ognuna delle quattro voci
strumentali abbia una sua reale portata melodica. Ora
è estremamente significativo che Bartók, non poten-
do né volendo sottrarsi a questo invito, vi corrisponda
in maniera del tutto diversa da quella che ci si potreb-
be attendere, rivolgendosi a quello che è il maestro
sommo della scrittura contrappuntistica, e tra poco
verrà riproposto come modello a larghe correnti della
musica contemporanea, cioè a J. S. Bach.
Il modello al quale Bartók si rifà, accostandosi per
la prima volta alla scrittura quartettistica, è Beethoven,
e precisamente il Beethoven del terzo stile, quello, de-
gli ultimi cinque Quartetti e delle ultime Sonate per
pianoforte. C’è una palese, quasi ostentata analogia
di concezione polifonica tra il lento inizio fugato del
Primo Quartetto di Bartók e l’Adagio ma non troppo
e molto espressivo, con il quale comincia il Quartetto
in Do diesis minore op. 131 di Beethoven. L’alta pa-
rola proposta dall’ultimo stile di Beethoven era stata
praticamente sorvolata per quasi un secolo dallo svol-
gimento della musica romantica; questa discende in
massima parte dal sinfonismo di Beethoven, e in ge-
nere dal sonatismo del suo periodo giovanile e centra-
le. Le misteriose anticipazioni d’un nuovo linguaggio
musicale, non più fondato sull’opposizione dialettica
dei temi, ma piuttosto sopra lo sviluppo organico di
cellule embrionali secondo il principio della variazio-
ne libera, non erano ancora state raccolte nella storia
della musica: aspettavano come un conto in banca di
cui ci si fosse dimenticati di riscuotere gli interessi.
Li riscuote Bartók, che nel Primo Quartetto si acco-
sta come un Sigfrido a quella Brunilde addormentata
ch’era la polifonia libera fondata sulla variazione.
La restaurazione del contrappunto diventerà cer-
to il problema principale di tutta la musica dopo
Debussy, che aveva portato fino all’estremo limite
lo sfruttamento di risorse dell’accordo (e così, in al-
tri contesti storici, Strauss e Skrjabin). Prendendo il
modello della restaurazione contrappuntistica nello
stile rigoroso di Bach, con le sue Fughe ben quadrate
sopra rigidi segmenti tematici di soggetti e contro-
soggetti, si favorirà inevitabilmente la tendenza sem-
pre più diffusa tra i moderni a rifiutare di parlare
in persona prima, ma a manifestare se stessi attra-
verso il consapevole rifacimento di stili del passato:
donde il «ritorno a Bach», seguito da innumerevoli
altri «ritorni», a Mozart, a Čajkovskij, a Gounod, a
Pergolesi, a Scarlatti, per lo più inaugurati dalla sete
assimilatrice di Stravinskij. Bartók era costituzional-
mente incapace di questi artifici intellettuali. Incapa-
ce di parodia e di «musica al quadrato» (cioè ispirata
da stili preesistenti). Bartók parla sempre in perso-
na prima: egli è uno degli ultimi compositori la cui
espressione sia diretta, mai mediata attraverso la cul-
tura. Non conosce la malizia. Non dice bianco, am-
miccando, perché si capisca nero. Crede nelle cose
che dice, e nel proprio linguaggio musicale impegna
se stesso interamente. Perciò si presentava ora per
lui il problema di acquistare alla propria musica una
dimensione polifonica senza cadere nell’arcaismo di
Sarabande, Ciaccone, Passacaglie, Partite e Concerti
grossi. Per stabilire il proprio stile polifonico Bartók
non si rivolge artificiosamente a Bach o a Vivaldi, co-
me farà ben presto la tendenza neoclassica, che uti-
lizza la coscienza storicistica come un trasformatore
di corrente, facendo nascere l’invenzione musicale
dal mascheramento stilistico. Bartók non ama ma-
scherarsi e perciò cerca di riallacciarsi direttamente,
senza soluzione di continuità, alle ultime esperienze
di polifonia strumentale che siano ancora interior-
mente significanti, cariche di una portata espressiva
non estinta, non ancora definitivamente catalogata
negli archivi storici dello stile musicale. La polifo-
nia dell’ultimo Beethoven sarà il trampolino da cui
Bartók muoverà alla costituzione d’uno dei suoi con-
trassegni stilistici principali: quel contrappunto che
chiameremo germinale, o autointegrativo, fondato
sul lento volgersi di cellule musicali, simile al formi-
colio delle particelle costitutive della materia. Il len-
to fugato con cui inizia il Quartetto op. 7 è il punto
di partenza d’un cammino che quasi trent’anni dopo
troverà la più superba formulazione nel primo tem-
po della Musica per archi, percussione e celesta.
Nel Primo Quartetto si affaccia pure un altro dei pro-
blemi stilistici che occuperanno per tutta la vita il nostro
compositore: il problema della forma. Non essendo con-
ciso e aforistico come i pezzi per pianoforte (Bagattelle,
ecc.), il Quartetto impone il problema della sua costru-
zione: della forma, cioè, come unità interiore attraverso i
vari tempi di una vasta composizione. Molto per tempo
Bartók mira istintivamente a superare il tradizionale taglio
sonatistico in quattro tempi equilibrati (Allegro - Adagio
- Scherzo - Finale), per una unità più stretta, più organica
e meno artificiosa, meno culturale. È significativo che fin
dalla Suite op. 3 per orchestra, di cui il titolo sottolinea
la mancanza di pretese architettoniche unitarie, Bartók
avesse schivato lo schema sinfonico di quattro tempi,
aggiungendone uno. Ora egli è molto colpito dall’esem-
pio lisztiano nella Sonata in Si minore: una composizione
unica e unitaria, dove la diversità degli episodi non in-
frange la continuità del discorso. Questo senso della for-
ma organica si collega oscuramente con il principio del
contrappunto germinale: Bartók è alla ricerca d’uno stile
musicale dove si attui una specie di tematicità a rovescio,
e il tema non sia punto di partenza della composizione,
ma punto d’arrivo.
Nel Primo Quartetto al desiderio d’unità organica
si cerca di soddisfare secondo un criterio esteriore,
suggerito, appunto, dall’esempio della Sonata di Liszt:
esso è una composizione ciclica in tre movimenti, ma
dal primo al secondo si passa senza interruzione («at-
tacca» è prescritto alla fine del primo tempo), e fra
il secondo e il terzo è interposto una specie di cusci-
netto, una sezione intermedia di tempo Allegro, ma
liberissimo, e con funzione introduttiva. Inoltre se-
condo e terzo tempo sono quasi interamente generati
da un unico inciso tematico, che diventerà ostinato
fino all’ossessione.
Si ha così una disposizione di tempi a direzione uni-
ca, dal Lento iniziale, all’Allegretto, all’Allegro vivace,
contrariamente alla sapiente disposizione di equilibri
in uso nella Forma-Sonata. Sia detto una volta per
tutte che le indicazioni di tempo, come di misura, in
Bartók, sono d’una estrema mutevolezza e cambiano
con frequenza ogni poche battute, secondo un crite-
rio di elasticità agogica continuamente cangiante.
Si stabilisce una specie di contrasto tra il fugato del
primo tempo, un lento angoscioso marasma, simile,
tanto per intenderci, al clima straussiano di Morte e
trasfigurazione, e lo stile pure fugato, ma energico, di-
namico e scattante, del finale, dove fa capolino l’ispi-
razione popolare: in mezzo sta l’Allegretto, in stile
non fugato, con scrittura frequentemente all’uniso-
no, o per terze e seste: testimonia forse della presenza
brahmsiana nella formazione giovanile di Bartók, ma
armonicamente è già oltre, per l’impiego compiaciuto
della scala esatonale (per toni interi, senza semitoni),
che Bartók aveva scoperto tanto negli antichi fondi
segreti del canto popolare ungherese, quanto nelle
moderne formulazioni di Debussy.
Con la sua esagerazione degli accenti, con le sue
deformazioni melodiche, con le sue dissonanze ag-
gressive e i contrasti marcati, il finale può suggerire
l’impressione di un grottesco. Ma non un grottesco
satanico. V’è piuttosto la gioia fisica del movimen-
to, che buffoneggia dinoccolato su ritmi contadini.
Kodály, che aveva seguito da vicino la composizione e
che sapeva com’essa fosse nata dopo la convalescenza
e ripresa da una grave malattia, ci scorgeva una specie
di «retour à la vie». Egli scherzava pure sulla aboli-
zione delle «armature», cioè dei segni di accidente in
chiave, con la quale Bartók voleva segnalare polemi-
camente il proprio distacco dalla tonalità tradiziona-
le, per l’adozione d’un più libero e vasto giro di «mo-
di», suggerito dall’esperienza del canto popolare. La
libertà tonale del Quartetto op. 7 è dovuta all’estrema
autonomizzazione delle parti, tuttavia è ben lontana
dal rifiuto di centri tonali. Il Quartetto non si può dire
in La minore, ma piuttosto su La, maggiore e minore.
Il senso tonale si accentua nelle cadenze finali altri-
menti il discorso divaga modalmente.
La scrittura strumentale mostra alcuni primi e ti-
midi esperimenti in una via che Bartók percorrerà fi-
no in fondo: l’esplorazione del rumore e la creazione
del suono, di un timbro, cioè, diverso dalla tradizio-
nale voce quartettistica attraverso l’impiego di tutte le
risorse esecutive degli strumenti ad arco (alternanza
di staccato e legato, di pizzicato, di glissandi, tremoli,
esecuzione sul ponticello, ecc.). Sarà questa una delle
vie maestre dell’arte di Bartók: la creazione del suono
messa alla stessa stregua dell’invenzione melodica, ar-
monica e ritmica.
Capitolo quinto
L’Allegro Barbaro e Il Castello di Barbablù

Sorvoliamo su una composizione sinfonica del 1910,


le Due Immmagini op. 10, per orchestra, che fanno
riscontro ai Due Ritratti op. 5 e sono il tentativo di
estendere all’orchestra le conquiste pianistiche degli
anni immediatamente precedenti. Sono due pezzi Po-
co Adagio e Allegro, intitolati rispettivamente Fioritu-
ra e Danza al villaggio: il primo di carattere impressio-
nistico, il secondo un libero rondò folcloristico.
Il fatto che questa composizione del 1910 abbia
avuto la sua prima esecuzione a Budapest soltanto il
26 febbraio 1913 può dare la misura della crescente
ostilità con cui veniva accolta dal pubblico e dagli stessi
ambienti musicali l’evoluzione di Bartók verso un lin-
guaggio moderno, dopo la simpatia che invece aveva-
no riscosso i suoi lavori di genere tradizionale come la
Sinfonia-Kossuth e le due Suites per orchestra, op. 3 e
4. Ormai Bartók smentiva la promessa che i suoi inizi
parevano avere affacciato, di diventare ben presto «un
secondo Dohnányi», cioè un diligente e abile epigono
della scuola sinfonica tedesca, con un pizzico di nazio-
nalismo lisztiano. Ben presto il suo cammino artistico
si urtò in serie ostilità e difficoltà pratiche.
L’arte nuova, già per il solo fatto di esistere è con-
danna dell’arte vecchia. I professori dell’Accademia
Nazionale Ferenc Liszt di Budapest si sentivano im-
plicitamente minacciati dagli orizzonti che il loro gio-
vane collega andava tentando. Di più, oltre a questa
provocazione tacita che è contenuta in ogni appari-
zione artistica originale, Bartók non temeva di dir
pane al pane e si creava forti risentimenti scrivendo
articoli polemici e satirici contro i musicologi che stu-
diano la musica popolare ungherese seduti in un caffè
di Budapest ad ascoltare un’orchestrina zigana (Della
musica ungherese, 1911).
È questo il tempo in cui in ogni paese l’arte nuova
sta per organizzare una specie di fronte unico contro
l’inerzia del gusto retrivo. In Francia era nato il pri-
mo esempio di simili associazioni di difesa della mu-
sica moderna con la Société Nationale de Musique,
promossa nel 1871 da Saint-Saëns insieme con Lalo,
Bizet, César Franck, Dubois e altri. Seguirà sempre
in Francia la Société Internationale de Musique. In
Italia Casella darà vita, intorno al 1917, alla Società
Nazionale di Musica, poi Società Italiana di Musica
Moderna, poi ancora Corporazione delle Nuove Mu-
siche, con l’intervento di Gabriele D’Annunzio, di
Pizzetti e Malipiero. A Vienna nel 1918 Schönberg e
i suoi discepoli fonderanno il Musik-Verein für Pri-
vat-Aufführungen (Unione Musicale per esecuzioni
private), a Londra nel 1919 nascerà la British Music
Society, e infine nel 1923 a Salisburgo si porranno le
basi della Società Internazionale di Musica Contem-
poranea (SIMC), che agirà come principale organo di
questo fronte unico della musica moderna.
Di tale movimento prende coscienza Bartók in
questo tempo, e infatti nel 1911 fonderà, insieme a
Kodály, la Nuova Unione di Musica Ungherese, che
si sforzerà, con poco successo, di aprire il cammino
alla musica nuova e di agevolarne le esecuzioni. È in
questo tempo, insomma, che Bartók diventa, consa-
pevolmente, un «musicista moderno», apertamente
schierato nella polemica artistica a favore dell’arte
nuova. Una breve, ma sensazionale composizio-
ne pianistica sancisce, con un certo rumore anche
scandalistico, la sua presa di posizione. È l’Allegro
Barbaro, composto nel 1911, che gettò la costerna-
zione e lo scandalo nelle anime belle del tradizionale
mondo musicale di Budapest. Il titolo stesso parve
una provocazione, come un rifiuto della civiltà. E la
composizione manteneva tutte le minacce contenute
nel titolo. Barbaro è inteso nel senso di primitivo,
primigenio, primordiale, e perciò la composizione
viene ridotta quasi unicamente all’elemento prima-
rio della musica: il ritmo. Il pianoforte, lo strumento
delle effusioni romantiche e cantabili di Chopin e
di Schubert, viene trattato brutalmente come uno
strumento a percussione. A forza di scavare verso il
cuore della musica Bartók si trova a tu per tu con il
ritmo, come dovette accadere al primo uomo della
terra che abbia fatto la musica. In principio era il
ritmo, come diceva pure quel fior di romantico che
era Hans von Bülow.
Nel 1910 Debussy aveva pubblicato i Préludes cioè
la sua più nota raccolta pianistica. Ma Bartók, che ha
tanto appreso da Debussy nelle composizioni degli an-
ni precedenti, fino al 1910, qui è già oltre. Siamo già nei
pressi di quella Stimmung del dinamismo ritmico, che
produrrà il Sacre du Printemps di Stravinskij (1913) e la
Suite scita di Prokof’ev (1914). Il culto della barbarie
come reazione contro la superciviltà si manifesta nel
fanatismo ostinato della percussione. La musica ridotta
alla sua componente più elementare, il ritmo.
Ci sono nell’Allegro Barbaro elementi di folklore:
ma come punto di partenza; il punto d’arrivo è l’arte
moderna. Il folklore non si compiace di se stesso e
non è fine a se stesso, ma mezzo per giungere a una
originale formulazione di stile musicale moderno. La
scrittura è caratterizzata da una continua alternanza e
intercambiabilità di maggiore e minore, o più esatta-
mente di modo frigio e lidio; meglio ancora, è come
un compendio di tutti i modi gregoriani tendenti al
minore (frigio, dorico, eolio) e del lidio, con la sua
caratteristica quarta aumentata.
Tra le tante somiglianze che accostano Bartók a
Beethoven, e che egli non mancava di sottolineare, c’è
questa: entrambi compositori prevalentemente stru-
mentali, sono autori di una sola opera lirica, che non
conta tra i loro capolavori più schietti ma è prezio-
sa come una spia nell’interpretazione del loro lessico
musicale. L’opera di Bartók è Il Castello del Principe
Barbablù, scritta nel 1911, e giunta a rappresentazione
soltanto nel 1918, al Teatro dell’Opera di Budapest,
sotto la direzione dell’italiano Egisto Tango.
Come accade spesso che le composizioni di mag-
gior mole siano di stile meno avanzato e audace che
quelle più piccole, così anche Il Castello del Princi-
pe Barbablù non è certo allineato sulle posizioni che
Bartók aveva raggiunto coi brevi pezzi pianistici, qua-
li le Bagattelle o l’Allegro Barbaro. Sebbene il discorso
musicale sia già largamente nutrito di elementi desun-
ti dal canto contadino ungherese, tuttavia Il Castello
del Principe Barbablù si pone principalmente come
assimilazione e conquista delle indicazioni artistiche
fornite dall’impressionismo francese.
La scelta del soggetto è già di per sé significativa.
Dal letterato Béla Balász, suo amico, e più tardi di-
venuto assai noto come teorico marxista di estetica
cinematografica,1 Bartók si fece elaborare in un atto
una trama desunta da una commedia del poeta sim-
bolista belga Maurice Maeterlinck, di cui Debussy
aveva musicato il Pelléas et Mélisande. Questo era
stato rappresentato a Parigi nove anni prima (1902),
e cominciava a poco a poco a diffondersi. Siamo in
un’atmosfera letteraria di preziosità attardata, fin di
secolo. Religiosità vaga, senso del mistero e dell’in-
conoscibile, atmosfere evanescenti, creature che sem-
brano prive del libero arbitrio e che piegano sotto
il peso d’una fatalità imprecisata. Proprio in questi
anni, Petruška di Stravinskij distrugge tutto questo
clima di ricercato estetismo, di preziose sofferenze e
di languori simbolici. Del resto anche l’Allegro Bar-
baro è già oltre, appartiene già all’epoca moderna che
vuole la restaurazione d’una chiara visione del mon-
do, snebbiata e purgata dai vapori d’un misticismo
sentimentale. Ma con la laboriosa composizione del
Castello Bartók si attarda ancora su posizioni di gusto
che, nella musica pianistica, aveva già superate.
Il suo proposito è apertamente quello di creare un
equivalente ungherese della perfetta declamazione
melodica instaurata da Debussy nel Pelléas et Méli-
sande: creare un tipo di vocalità che calzi come un
guanto sulla pronuncia della lingua ungherese, che
senza sforzo si modelli sul suono delle parole e le ri-
vesta d’un naturale «recitar cantando», o «melodia
infinita». Nel Pelléas di Debussy egli trova soltanto
un esempio, non un modello imitabile. Le leggi e le
norme di questo «recitar cantando» ungherese egli le
distilla dalla canzone contadina ungherese, e precisa-
mente da quella sua forma più lirica e distesa, diver-

1
Cfr. Béla, Balász, Il film, Einaudi, Torino 1952.
sa dal ritmo ben marcato delle danze popolari, che
Bartók e Kodály definirono come lo stile «rubato»
della canzone ungherese.
Ma il canto popolare qui è soltanto il punto di
partenza, per un impiego del tutto impopolare.
L’opera è ricercata, preziosa e pervasa di raffinata
stanchezza; non ha nulla dell’energia e della vivacità
popolaresca.
Come s’è detto, Il Castello di Barbablù ha per noi
un valore principalmente ermeneutico; è una chiave
preziosa per comprendere il senso di certi strumentali
che Bartók viene impiegando con sempre maggiore
frequenza e coerenza. Come le Arie del Fidelio ci spie-
gano in chiarezza d’esempi verbali il senso dell’idea-
lismo eroico cui s’ispira la musica di Beethoven, così
le scene del Castello di Barbablù ci forniscono infor-
mazioni preziose sulla concezione del mondo, sul sen-
timento della natura e sull’intuizione dell’uomo che
alimentano i Quartetti di Bartók, i suoi Concerti per
pianoforte, per orchestra e per violino, e le altre sue
maggiori composizioni strumentali.
La vicenda è di considerevole staticità. Consiste
praticamente nell’apertura successiva di sette porte,
dietro cui si racchiudono altrettanti segreti del castel-
lo di Barbablù, nel quale questi ha or ora condotto
la sua giovane sposa Giuditta. Fino a un certo punto
non è difficile interpretare il senso simbolico di tale
vicenda. Il castello è l’anima di Barbablù, che, come
già Lohengrin, non vuole ammettere la sposa alla to-
tale conoscenza di se stesso, del proprio passato, del
proprio mondo interiore. E la sposa invece vuole tut-
to conoscere, tutto rinnovare, e così corre alla propria
rovina. Forse si allude poeticamente alla incomunica-
bilità delle anime anche in seno all’amore.
Comunque sia, quello che a noi importa è che l’ope-
ra consiste dunque praticamente nell’apertura di sette
porte su altrettanti segreti. Musicalmente ciò si manife-
sta in sette episodi di struttura sostanzialmente binaria,
nelle cui parti si estrinseca musicalmente la «cosa» stes-
sa che c’è dietro la porta, e la reazione che essa desta
nell’anima di Giuditta. In ognuno degli episodi s’insi-
nua una dissonanza stridula (un intervallo di seconda),
che simboleggia il sangue, presente in ognuna delle vi-
sioni dischiuse dalle sette porte. La prima è la camera
di tortura: trillo dei violini sotto un grido stridulo degli
ottoni; la dissonanza è affidata alle trombe con sordina.
La seconda porta si apre sulla sala d’armi: fanfara di
corni, trombe, oboi e clarinetti; nei corni la dissonan-
za del sangue. Sala del tesoro: estatico accordo perfetto
di trombe e tremolo d’archi; la dissonanza del sangue
muove irrequieta nei flauti, oboi e clarinetti. Il giardino
magico: sortilegio strumentale in un fremere e vibrare
misterioso di tremoli d’archi, con richiami di corno e
clarinetto. Le terre di Barbablù: scoppio potentissimo
di solenni accordi perfetti, a piena orchestra con rinfor-
zo d’organo (ovvio riferimento ai grandi accordi della
Cathédrale engloutie di Debussy). Poi il dramma pre-
cipita verso la conclusione. Barbablù, che dapprima ha
cercato di dissuadere Giuditta e di fermarla sulla china
della curiosità ormai la incalza verso l’inevitabile fine.
La sesta porta si apre su misteriose cisterne. Che è tutta
quell’acqua? «Lacrime, Giuditta, lacrime.» Dalla setti-
ma porta escono le tre precedenti spose di Barbablù:
la sposa del mattino, la sposa del giorno, la sposa della
sera. Giuditta sarà la sposa della notte, e anche lei dovrà
seguirle, parata a festa, per sempre, nella settima cella.
A questo punto, chi ci capisce ancora qualcosa
nel significato simbolico della vicenda, è bravo. Ma
chiara è l’indicazione che viene da questo sogget-
to su certi caratteri salienti dell’arte di Bartók, che
si verranno via via sviluppando. Bartók appartiene
a quella categoria di artisti romantici che diciamo
visionari – come Hölderlin, Lenau, Tieck, Novalis
– o veggenti –, voyant, come fu definito Rimbaud.
Di quelle creature che Nietzsche definisce gli Hin-
terweltler, cioè che cercano e vedono l’al di là del-
le cose, l’altra faccia che esse presentano non già ai
nostri sensi, ma alla nostra intuizione. La realtà se-
conda che sta dietro l’apparenza fenomenica. La vita
segreta della Natura. La musica del Romanticismo
già si era spinta su questa strada, rivendicando a sé
l’espressione dell’ineffabile, dell’inconoscibile, e po-
nendosi come un linguaggio capace di stabilire con-
tatti immediati tra l’uomo e le cose: sentite, queste,
non già come inerti, ma al contrario come permeate
di una universale e panica animazione.
Il soggetto del Castello di Barbablù indica chiara-
mente questa concezione, mentre la musica si accinge
ancora timidamente a rendere col sortilegio del tim-
bro strumentale i brividi, i fremiti, il brusio e le voci
segrete della natura animata. Il canto è affidato a un
melodizzare infinito, di natura modale, nutrito cioè
degli antichi modi – dorico, lidio, frigio, eolio e miso-
lidio – presenti nel canto popolare ungherese.

Quasi sulla scia del Castello di Barbablù vengono


i Quattro pezzi per orchestra op. 12 scritti nel 1912
ed eseguiti nel 1922, sotto la direzione di Dohnányi.
Comprendono un Preludio, uno Scherzo, un Intermez-
zo e una Marcia funebre. Sono di scrittura frondosa,
sovraccarica, ed esauriscono in certo senso la fase di
assimilazione dell’impressionismo francese.
Capitolo sesto
Verso la musica moderna

Forse anche per effetto della delusione di non vedere


accolto sulle scene Il Castello di Barbablù, lo sforzo
creativo di Bartók subisce una pausa. Egli si appli-
ca principalmente agli studi di musicologia popolare,
pubblicando libri e studi come Il folklore musicale
comparato, e Il dialetto musicale del popolo di Hun-
yad (1914). Un riflesso di queste occupazioni si ha nei
Quattro Canti popolari ungheresi per coro maschile a
quattro parti (1912): musica dove l’artista si ritira qua-
si in disparte di fronte alla creazione popolare. Con la
loro semplicità disadorna costituiscono un singolare
contrasto rispetto ai contemporanei Quattro Pezzi per
orchestra op. 12, così sovraccarichi di strumentazio-
ne e così esasperati nell’espressione: un lavacro, in un
certo senso. Il periodo dell’impressionismo alla fran-
cese, che ha avuto la sua punta più alta nel Castello
di Barbablù, sta per volgere al termine. C’è nell’arte
di Bartók una periodizzazione abbastanza evidente.
Abbiamo già visto il periodo dell’esperienza impres-
sionistica e del canto popolare. Ora Bartók si prepara
a procedere oltre.
Ma il 1913 è l’anno della massima siccità creativa.
Bartók compie un viaggio di studio nell’Africa setten-
trionale, va ad Algeri e si spinge a cercare testimo-
nianze di canto popolare nell’oasi di Biskra. Pubbli-
ca 371 melodie inedite nei Canti popolari rumeni del
distretto di Bihar. Unica composizione, diciamo così,
artistica, i diciotto pezzi facilissimi, per principianti,
intitolati La prima classe di pianoforte, e destinati a
essere inseriti nel metodo pianistico di un altro auto-
re. Contengono alcune inezie squisite, oscillanti tra la
levigata perfezione mozartiana e lo scabro gusto del
canto contadino.
Il 26 febbraio 1913 si ha l’esecuzione delle Due
Immagini op. 10 per orchestra a Budapest, una delle
poche occasioni in cui gli riesca di rompere il cerchio
d’ostilità che la tendenza moderna assunta dalla sua
arte gli va stringendo intorno.
Pure avviene in questi anni di silenzio, durante i
quali più d’una volta Bartók medita seriamente d’ab-
bandonare la composizione per dedicarsi esclusiva-
mente al lavoro scientifico della raccolta e studio del
canto popolare, una lenta trasformazione interiore.
Egli passa inavvertitamente dalla sfiducia al posses-
so maturo e sicuro d’un linguaggio nuovo. Secondo
una specie di inversione del procedimento romanti-
co, dove l’urgenza dei contenuti determina il rinno-
vamento del linguaggio, sembra quasi che in Bartók
la formulazione d’un nuovo linguaggio musicale, gra-
zie alle esperienze convergenti del canto popolare e
della nuova musica europea (per ora principalmente
l’impressionismo francese), determini i contenuti e
trasformi l’uomo. Nella disciplinata astensione d’una
castità creativa maturano le stagioni interiori dell’arti-
sta, finché verso il 1915 si ha la liberazione, senza un
motivo apparente. Come Leopardi uscito da una crisi
di aridità si apprestava alla creazione dei grandi idilli,
anche Bartók avrebbe potuto in questi anni far sue le
parole del Risorgimento:
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte.

Nel 1915 egli inizia la composizione del Secondo


Quartetto, e nel febbraio 1916 scrive la Suite op. 14
per pianoforte, dando inizio a quella fase creativa che
si potrebbe definire «del folklore inventato», e che
d’ora innanzi caratterizza tutta la sua arte.

La Suite op. 14 per pianoforte (1916), nei tempi Al-


legretto, Scherzo, Allegro molto, Sostenuto, è una del-
le composizioni pianistiche più fortunate di Bartók,
entrata abbastanza largamente nel repertorio con-
certistico e perfino nello studio scolastico. Non v’è
impiego di temi popolari, salvo che nel terzo tempo,
dove il compositore dichiarò esplicitamente d’aver
fatto uso di temi arabi da lui raccolti all’oasi di Biskra.
Ma interamente popolare è lo spirito della composi-
zione, almeno nei primi tre movimenti, in quanto la
formazione delle figure sonore è interamente gover-
nata dalle leggi che reggono il canto contadino un-
gherese. Si nota la mescolanza e contemporaneità di
modo maggiore e minore; l’uso di scale per toni interi,
la frequente alterazione del Si bemolle in Si naturale,
che dà luogo alla presenza del tritono. La dissonanza
è spesso impiegata (specialmente nello Scherzo) per
uno scopo non armonico, ma fonico, sonoro: sempli-
cemente per correggere e stimolare l’effetto dinamico.
Si noti la ricercatezza della articolazione formale.
Come sempre Bartók cerca di sottrarsi all’ordinamen-
to tradizionale di quattro movimenti. Qui i primi tre
sono disposti, per così dire, in un senso rettilineo e
ascendente, di sempre maggiore concitazione ago-
gica: dall’Allegretto si passa allo Scherzo, e infine al
parossismo frenetico dell’Allegro molto: una ridda di
delirante furia ritmica, praticamente una ripetizione
dell’Allegro Barbaro, questo tipo di toccata ritmica
in cui Bartók piega a conseguenze moderne (e per-
ciò barbariche) la concezione romantica della «cac-
cia selvaggia». Nella ripetizione ossessiva di brevi
cellule sembra appunto manifestarsi il terrore atavi-
co dell’uomo primitivo di fronte allo scatenarsi delle
forze naturali.
Ma giunto a questo punto di massima tensione,
l’arco dinamico della composizione si flette, e ai tre
tempi vivaci, concitati e irruenti segue una specie di
caduta nella più glaciale tristezza. Lente, gravi e do-
lorose armonie, nel Sostenuto, ci riconducono alla più
profonda vita interiore di Bartók, a un paesaggio di
desolazione dell’anima, staticamente rappreso in gra-
vi e stridenti accordi.

Nel 1914 Bartók lavora pure a un’altra composizione


teatrale, un balletto, questa volta, di cui gli ha anco-
ra fornito la trama lo scrittore Béla Balász. Si chiama
Il Principe scolpito nel legno, e fu finito nel febbraio
1915. Il soggetto fiabesco presenta qualche aggancio
con alcuni motivi della concezione artistica di Bartók,
principalmente con la sua intuizione della segreta
animazione della Natura, per cui essa non è esterna
all’uomo, ma è a esso organicamente collegata. Il gu-
sto di Bartók per la Natura, che lo portava ad amare
le montagne e il mare, a immergersi con voluttà nella
campagna, a cercare il sole, l’acqua, gli alberi, i prati,
era materiato d’una fede panica. S’interessava pro-
fondamente alle antiche credenze astrologiche circa
i legami misteriosi che riattaccherebbero i destini in-
dividuali alle costellazioni, e Balász ricorda una lunga
conversazione notturna su questo argomento, duran-
te una passeggiata al chiaro di luna.
Nella trama del Principe scolpito nel legno si ve-
dono l’acqua del ruscello e gli alberi del bosco che
sbarrano il passo al Principe verso la Principessa sor-
vegliata da una fata, poi lo consolano e lo proclamano
sovrano, poi sbarrano il passo alla Principessa verso
il Principe.
Musicalmente la partitura presenta un doppio in-
dirizzo: c’è un fare secco, nervoso, dinoccolato e bu-
rattinesco per i personaggi, e vi si scorge l’influenza
del recente Petruška di Stravinskij; invece è frondosa
e sovraccarica la parte evocativa delle forze naturali, e
sta, come gusto, tra Wagner e Debussy.

In questo periodo sono ancora separati i due poli su


cui riposa l’arte matura di Bartók: realismo popola-
re, e romanticismo visionario, magico. Per ora è quasi
come se essi dessero la vita a due musicisti paralleli:
quello d’arte, e quello popolare. Un gruppo di com-
posizioni per pianoforte elabora in questo periodo
le esperienze etnofoniche di Bartók. Sono: Quindici
Canti contadini ungheresi (1914-17), le Danze popolari
rumene d’Ungheria (1915), i Canti di Natale rumeni
(1915), e la Sonatina per pianoforte (1915).
Si tratta di lavori, per così dire, artigiani. Lavora
il compositore nel silenzio dell’uomo. Le tempeste
dell’anima vengono accantonate, nell’impegno pro-
fessionale di trovare una resa pianistica soddisfacente
a quelle idee musicali che sono nate sulla bocca dei
contadini, o su rustici strumenti. La vecchia armonia
tradizionale non si presta affatto ad «accompagnare»
tali canti. Essi non devono essere, per così dire, as-
sorbiti nelle armonie dell’accompagnamento e da esse
secondati, come con tanta arte Brahms armonizzava
le canzoni austriache, o Sinigaglia quelle piemontesi.
Queste melodie, che non sono state concepite all’in-
segna del maggiore e del minore, hanno bisogno inve-
ce d’una armonia dura e scabra che le metta in risalto,
come un piatto metallico: la melodia non deve venir-
ne assorbita, ma ribaltata.
È un’arte dell’economia e della sobrietà che Bartók
apprende nel trattamento artistico delle melodie po-
polari: un’arte del togliere e di raschiar via il super-
fluo. Questo lavoro naturalmente influisce sul com-
positore. Sebbene egli non raccolga melodie popolari
per servirsene nelle proprie composizioni, ma per un
compito scientifico, tuttavia l’influenza ch’esse eser-
citano sulla sua arte è ineluttabile come una specie
di malattia professionale, salvo che l’effetto ne è be-
nefico. Si produce in lui una specie di saturazione
involontaria dei modi melodici popolari. La sua ar-
te evolve verso una linearità essenziale, senza quelle
ostentazioni d’avanguardia che l’accompagnavano
nelle Bagattelle op. 6.
Una di queste composizioni d’ispirazione popolare
raggiungerà una rapida e larghissima popolarità: sono
le Danze rumene, cui la vivacità pittoresca dei ritmi
presta un fascino immediato. In trascrizioni diverse,
oltre che nella versione pianistica originale, incon-
treranno una fortuna paragonabile a quella, un po’
fastidiosa, che aveva arriso a certi pezzi giovanili di
Bartók, come la Danza dell’orso o Sera al villaggio.

La scissione della personalità artistica di Bartók in un


dualismo non ancora risolto si manifesta chiaramente
nel Secondo Quartetto op. 17 (1917), nei tempi Mo-
derato, Allegro capriccioso, Lento, che viene a riassu-
mere questo periodo di ricerche per la distillazione
d’un linguaggio musicale d’arte dagli insegnamenti
del canto popolare.
Le indicazioni dei movimenti – sia detto una volta
per tutte – sono per così dire provvisorie. Riguar-
dano l’inizio di ogni sezione, che poi trascorre at-
traverso ogni sorta di accelerazioni e decelerazioni,
secondo una mobilità sconosciuta alla musica di de-
rivazione classica.
Il Moderato si presenta formalmente come un Alle-
gro di Sonata, ma non ne ha mai, né come movimento
né come spirito, il carattere affermativo e sicuro. Ci
sono tre temi, e vi si riconoscono un’esposizione, uno
sviluppo e una ripresa, sia pure liberamente trattati.
Ma il senso generale del pezzo è di incertezza dubbio-
sa. Prevalgono le tipiche figure tematiche ricurve che
Bartók va sempre più coltivando, figure che sembra-
no girare su se stesse roteando, e spesso si incantano
in ripetizioni ostinate, si impuntano su vortici, rigiri,
mulinelli melodici, quasi imitando i giochi dell’acqua.
Mentre dunque il Moderato raccoglie le ascenden-
ze romantiche di Bartók, e si presenta appassionato,
anelante, smarrito, l’Allegro molto capriccioso, invece,
è uno Scherzo del genere Allegro Barbaro. Il ritmo è
la sostanza della composizione: una sostanza dura e
solida nella sua scabra concretezza: le sue avventure
bastano a incatenare l’attenzione, come fosse l’indi-
ce, la manifestazione di una vita. Non come segno o
trasfigurazione artistica, ma come il rumore è la realtà
immediata e diretta di un motore. L’imperio del rit-
mo piega le figure tematiche in vortici, ne determina
le cadute e le riprese: è la materia che si azzuffa con se
stessa, in un’imminente estrinsecazione sonora. Già si
avverte quella che sarà una delle tendenze più vistose
dei futuri Quartetti: l’impiego poetico del virtuosismo
strumentale per la creazione del suono, attraverso ogni
sorta d’effetti speciali di esecuzione. Ma in tanta liber-
tà, la concezione formale resta legata a un saldo crite-
rio strutturale. Nonostante la flessibile libertà del mo-
vimento e le stranezze timbriche, la composizione si
snoda su una chiara architettura: A B A C A B (C) A’.
Le due direttive principali dell’arte di Bartók – rea-
lismo contadino e delirio visionario – stanno duramen-
te a fronte, senza ancora integrarsi, come sostanze non
amalgamabili. Il Lento, analogamente all’ultimo mo-
vimento della Suite op. 14, segna la ricaduta nel ge-
lo della solitudine, dopo l’immersione nella socialità
attiva costituita dall’Allegro molto capriccioso. Ora di
nuovo lo stile si riavvicina alla ricercatezza armonica
dell’espressionismo. Scompare il predominio ritmico,
per lasciar luogo a una desolazione attonita: rotti sospi-
ri, fiochi lamenti, paralisi dell’anima. Una delle pagine
più ardue e solitarie di Bartók. Vien fatto di accostarla,
come significato espressivo, alla Marcia funebre della
Sinfonia-Kossuth, ormai tanto lontana nel suo pompo-
so stile cavalleresco. Ma questo Lento, così disadorno
e aspro nella sua disperazione, può ben essere inteso
come la marcia funebre del secolo XX.
Capitolo settimo
La fase espressionistica

Le vicende della prima guerra mondiale turbano


non poco l’animo del compositore. Nell’estate del
1916 la ritirata delle truppe austriache in Transil-
vania minacciò di travolgere la famiglia di Bartók,
moglie e bambino di pochi anni, che villeggiavano
in quei paesi prediletti dal compositore per la loro
ricchezza di autentici canti popolari. La produzione
artistica è forzatamente scarsa. Sono di questo pe-
riodo due gruppi di composizioni vocali, i Cinque
Canti op. 15 su poesie di Béla Balász, e i Cinque Can-
ti op. 16 su poesia di Endre Ady, poeta ungherese
della seconda metà dell’Ottocento: gli uni e gli altri
sorprendenti per il tono di accesa sensualità eroti-
ca. Del primo gruppo, infatti, Bartók non permise la
pubblicazione.
Del 1918 sono i Tre Studi per pianoforte op. 18:
uno di quegli esempi di preziosissimo «folklore in-
ventato», sulla cui direzione troveremo ben presto le
Improvvisazioni op. 20.
Terminata la guerra, con la sconfitta e lo smembra-
mento dell’impero austro-ungarico, dopo alcuni mesi
di caos si afferma in Ungheria la repubblica comu-
nista di Béla Kun (1919). L’esperimento dura poco
più di sei mesi, e sarà ben presto soffocato duramente
dalla restaurazione, che in realtà non riporta sul trono
di Budapest gli Absburgo, bensì la dittatura paterna-
listica dell’ammiraglio Horthy.
Durante l’esperimento rivoluzionario i musicisti
d’avanguardia sono schierati con le forze politiche
popolari. Insieme a Dohnányi, Kodály e Reinitz,
Bartók fa parte d’una specie di Direttorio musicale,
incaricato di rinnovare la vita musicale del paese. Con
tratto tipico del suo carattere adamantino, egli si di-
stingue a marciare contro corrente, cioè a sorvegliare
che i meriti politici non vengano scambiati per titoli
artistici. Il crollo del regime comunista, e forse più an-
cora le brutture, le inevitabili macchie e gli eccessi da
cui esso fu accompagnato, furono un’amara esperien-
za per Bartók, che perdette forse in quell’anno molte
illusioni, ma che tuttavia non verrà mai meno alla sua
salda fede democratica.
La restaurazione riportò al comando dell’Accade-
mia Nazionale Ferenc Liszt, e in genere della vita mu-
sicale ungherese i vecchi musicisti tradizionali e con-
servatori cui l’arte nuova di Bartók dava tanto fastidio;
principale fra essi il celebre virtuoso di violino Jeno
Hubay, autore d’un pezzo intitolato Zeffiretto che
aveva avuto molta fortuna presso i virtuosi di violino,
specialmente come numero per bis. Nelle punizioni
disciplinari che seguirono alla restaurazione, Bartók
se la cavò assai più a buon mercato che i colleghi, limi-
tandosi a chiedere un permesso scolastico di sei mesi,
che bastarono ad allontanare da lui ulteriori sanzio-
ni. Kodály fu sottoposto a un processo disciplinare,
Egisto Tango fu scacciato dal Teatro dell’Opera, e
Dohnányi, sospeso per un anno dall’insegnamento,
se ne andò sdegnosamente, sicuro che le sue doti di
pianista, di direttore e di compositore gli avrebbero
assicurato l’avvenire, sia in Europa che in America.
È su questo sfondo storico agitato e turbolento
che si staglia uno dei lavori più importanti di Bartók,
il balletto Il Mandarino meraviglioso,1 su soggetto di
Menyhért Lengyel. Siamo praticamente privi d’in-
formazioni sulla genesi del lavoro e sulle sue cause
occasionali. Ma l’atmosfera rivoluzionaria, di caotico
entusiasmo, è da tener presente, come un’ovvia spie-
gazione dei caratteri eccessivi, esasperati, che tanto
il soggetto quanto la partitura presentano. Trama e
ambiente contribuiscono a fare del Mandarino mera-
viglioso l’unica concezione «stracittadina» di quell’ar-
tista così aperto alla natura, alla campagna, alla leg-
genda rustica, che fu Béla Bartók. In una lurida stanza
di malaffare tre loschi figuri, trovandosi in bolletta,
ordinano a una ragazza che si trova con loro di ade-
scare uomini, per depredarli. Alla violenza musicale
delle pagine iniziali (che dipinge tanto la depravata
ferocia dei personaggi quanto, soprattutto, il caotico
frastuono della moderna metropoli) succede il primo
dei tre ondulati episodi melodici, fondati su una ca-
denza di clarinetto, che corrispondono alle tre «azio-
ni di adescamento» della ragazza.
Il primo a cascare nella rete è un vecchio cavaliere,
che presto si rende importuno con l’inconcludenza dei
suoi grotteschi lazzi amorosi: i tre furfanti saltano fuori
dal loro nascondiglio, e lo allontanano in malo modo.
Seconda azione di adescamento. Abbocca un gio-
vane timido e squattrinato, che non dispiacerebbe
alla ragazza, ma viene cacciato brutalmente dai tre
compari. Loro rimproveri alla ragazza e terza azione

1
Più propriamente, Il Mandarino incantato o prodigioso. Qui e più
avanti Mila si attiene alla traduzione-tradizione abitualmente in uso in
Italia. [N.d.C.]
di adescamento. Segnalato in orchestra da un tema
oscillante, d’accordi di quattro note, che suggerisce
vagamente, attraverso la deformazione modale pen-
tatonica, una reminiscenza di orientalismo oleografi-
co, si presenta il Mandarino, strano essere ripugnan-
te al quale la ragazza vorrebbe sottrarsi. Ma dai loro
nascondigli i tre furfanti le fanno cenni segreti per
incitarla a compiere il suo dovere. Inizia così, prima
tra brividi d’esitazione, poi sempre più audace, la
danza erotica di seduzione, seguita con spaventosa
fissità dallo strano cliente. Ma dopo essergli infine
caduta tra le braccia, la ragazza lotta per strapparsi a
lui, e vi riesce: il Mandarino la insegue come un for-
sennato, incespica, cade, si risolleva e infine la rag-
giunge. Questa caccia selvaggia, con le sue alterne
fasi nel disordine della stanza, è l’episodio conclusi-
vo della Suite che più tardi Bartók trasse dal balletto:
colossale fugato sopra un ostinato della percussione,
nella tensione d’un mostruoso crescendo, fa il paio
con il Sacre du Printemps come uno dei più impres-
sionanti effetti cataclismici della grande orchestra
moderna. Nessun dubbio che, insieme alla vertigine
recente dell’esasperazione espressionistica, sfiorata
in questi anni assai strettamente dall’ispirazione di
Bartók, affiora qui qualcosa del suo vecchio amore
giovanile per la rutilante magnificenza dell’orchestra
straussiana.
A strappare la ragazza dalle mani del Mandarino
balzano fuori i tre compari: lo derubano del denaro
e dei gioielli, poi decidono di ucciderlo, soffocandolo
sotto i guanciali. Ma non ci riescono. Lo trafiggono
tre volte con una vecchia spada arrugginita, e quel-
lo, pur vacillante ed esausto, non muore: continua a
fissare e cercare con bramosia la ragazza. Lo impic-
cano al lampadario, niente; il corpo del Mandarino
comincia a sfavillare d’una luce verde-azzurra, i suoi
occhi non si staccano dalla ragazza. E questa capisce
la ripugnante spiegazione del fenomeno: il Mandari-
no non può morire finché non avrà soddisfatto il desi-
derio che lo aveva spinto a lei. Solo allora le sue ferite
cominciano finalmente a sanguinare, ed egli muore
dopo una breve agonia.

All’età di ventiquattro anni Bartók si era recato a Pa-


rigi, per un concorso musicale, e una sera l’avevano
portato a vedere un tabarin. Di questa sensazionale
esperienza turistica scrisse un resoconto in una lettera
a un’amica ungherese, lettera commovente per l’in-
credibile innocenza e naturale purezza d’animo che
rivela, nel suo tono d’ostentata disinvoltura.

Certamente i giovanotti non dovrebbero scrivere queste cose


alle ragazze, ma io dei venerati costumi me ne faccio un baf-
fo, e le scriverò dunque che tante falene notturne, con faccia
e capelli dipinti, io non le avevo ancor mai viste tutte in una
volta. E come sono cordiali quelle signore! Si figuri che alcu-
ne mi hanno perfino rivolto la parola, e ci mancò poco che
mi avrebbero anche baciato! Ma noi, già prima d’entrare, ci
eravamo passati la parola d’ordine: «Silenzio a tutti i costi!»
Mi fu particolarmente facile obbedire, perché non sapevo
ancora una sillaba di francese.

Bartók restò sempre così: davanti alla luce fredda e


profonda dei suoi occhi, davanti al candore dei capelli,
alla curva nobilissima della fronte, la parola scurrile,
la barzelletta volgare gelavano sulle labbra del più im-
penitente mattacchione. Le labbra sottili, il pallore del
volto, rendono l’immagine d’un uomo disincarnato.
Come avvenne che questo asceta laico andasse a im-
battersi in un soggetto così scabroso, la cui apparenza
scandalosa rese difficile l’esistenza scenica del balletto?
Bartók era un uomo puro, che non vuol dire un
casto. Fu due volte innamorato, con una violenza da
collegiale, e tutte due le volte sposò la donna che ama-
va (il che, la seconda volta, non avvenne senza ovvie
complicazioni, e a prezzo d’una dura crisi interiore).
Normalissimo, conobbe e apprezzò la vita dei sensi
come un aspetto della natura, di quella Natura ch’egli
idolatrava in tutte le sue manifestazioni: alberi, acqua,
animali, montagne, campi, fiori, canzoni e leggende
contadine. Né la vita né l’arte di Bartók furono so-
verchiate dall’ossessione erotica, com’è il caso di tanti
artisti dell’Ottocento. Soprattutto nel suo mondo arti-
stico, l’amore tiene pochissimo posto. Ma quand’egli
vi si accosta, lo fa con quella colossale impudicizia di
cui soltanto i puri sono capaci. I Cinque canti op. 16
su poesie di Endre Ady contengono alcune delle più
sconvolgenti liriche amorose che la musica conosca.
I Cinque Canti op. 15 Bartók non li lasciò pubblicare
né divulgare, per timore che ne venisse frainteso l’ac-
ceso erotismo. Il Mandarino meraviglioso è appunto
questo: la realtà dell’istinto sessuale accettata per quel
che è, senza falsi pudori, e collocata al suo posto in
quella concezione naturalistica, venata di brivido de-
moniaco, che faceva intuire a Bartók la realtà segreta
dei fenomeni, l’al di là delle cose, oltre la loro normale
apparenza sensibile. L’allucinazione è il mezzo della
conoscenza di questo allarmante mistero che è l’ani-
mazione della Natura nei suoi aspetti reconditi. C’è
un aneddoto biografico che dice molto sulla potenza
visionaria a cui poteva giungere il sistema nervoso di
Bartók. Un giorno, durante le prove d’un concerto,
nel salire sul podio egli urtò contro uno dei contrab-
bassi: l’arco, appeso, venne a battere contro lo stru-
mento e oscillando si accese alcune volte d’un bagliore
così strano, che Bartók, impressionato, volle ripetere
il gesto più e più volte per osservare a lungo, come
abbacinato, quell’effetto. Sono questi sfavillamenti
misteriosi, questi aspetti stregati delle cose, che di-
vampano nell’abbacinante incandescenza della parti-
tura del Mandarino meraviglioso. Insieme alle Sonate
per violino e al Terzo e Quarto Quartetto, essa è la
punta più avanzata della produzione di Bartók verso
la magia dell’espressionismo, ma non rinuncia mai a
una dura consistenza dell’ossatura ritmica, né a un or-
dinamento totale dei suoni, sia pure nell’ambito d’una
scala modalmente arbitraria, che, componendosi d’un
tetracordo perfetto e d’un tritono disgiunti, copre un
ambito di un’ottava più un semitono. Espressionistica
è l’immediatezza con cui la carnale urgenza dei valori
umani riesce a trasferirsi, senza intermediari di sorta,
nella violenza sonora e nella dovizia dei mezzi timbri-
ci, e rende accettabile, o piuttosto, soggiogante questa
truce sublimazione dell’esasperazione sessuale, elevata
al rango d’una misteriosa forza della Natura. È appena
il caso di dire che Il Mandarino meraviglioso, con la
sua trama scabrosa e la sua musica sovversiva, non po-
té essere rappresentato nell’Ungheria dell’ammiraglio
Horthy, e soltanto sei anni dopo la sua composizione
giungerà a essere rappresentato a Colonia (1926). An-
cora una volta, perciò, l’ostilità esterna sembra chiu-
dere il cammino al compositore. Ancora una volta
Bartók, messa nel cassetto la fiammeggiante partitura
del Mandarino meraviglioso, si allontana scoraggiato
dalla composizione e medita di applicarsi unicamente
alle sue ricerche di folklore musicale. Unica composi-
zione del 1920 sono otto brevi pezzi pianistici, in cui si
attua pienamente la trasformazione del dialetto musi-
cale ungherese in linguaggio universale d’arte.
Il titolo delle Improvvisazioni op. 20 per pianofor-
te (1920) può forse essere considerato ironico, tanto
è invece calcolata la esattezza delle singole composi-
zioni e l’equilibrio della loro disposizione. Sono otto
pezzi dedotti da melodie popolari, citate in una spe-
cie di prefazione, insieme ai relativi testi poetici. Ma
non c’è nessun intento di «trascrizione». Lo scopo del
compositore è la creazione di otto pezzi pianistici mo-
derni, validi per sé e completamente autonomi dalla
fonte popolare che ne ha fornito la materia grezza.
Il primo pezzo sta a sé, come una specie di pream-
bolo. Poi il secondo, il quinto, e l’ottavo sono Allegri,
con ritmi di danze in tempo binario. Il terzo e il setti-
mo sono Adagi; il quarto e il sesto sono Scherzi. Si isti-
tuisce così un’architettura generale elaboratissima, se-
condo quel ritmo di alternanze espressive che Bartók
va continuamente cercando di sostituire al vecchio
ordinamento sonatistico. D’altra parte, sebbene il
linguaggio armonico avanzatissimo non permetta di
ricondurre questi pezzi al tradizionale sistema tonale,
tuttavia si riconosce in ognuno di essi una nota che
predomina sulle altre con funzione di centro tonale.
Ora questi centri tonali sono tre, stanno fra loro nel
rapporto di tonica, dominante e sottodominante, e
precisamente in questa distribuzione: la tonica per le
Improvvisazioni nn. 1, 2, 8; la sottodominante per i
nn. 3 e 7; la dominante per i nn. 4, 5, 6. Si crea così
una rete di rapporti incrociati tra la distribuzione dei
movimenti (Allegri-Adagi-Scherzi) e dei centri tonali,
per cui queste pretese Improvvisazioni sono studiosa-
mente saldate fra di loro in un gioco di sottile equili-
brio musicale.
Sono pezzi brevi, si potrebbe dire «aforistici», alla
maniera di Webern. Ma presentano una scrittura e
un tipo di composizione che rivela una specie di ana-
logia con la concezione classica del Choral-Vorspiel
o Preludio di Corale, in uso presso gli organisti del
tempo di Bach. Come avviene nei Preludi di Corale, si
presenta talvolta (nn. 3 e 4), in aggiunta alla melodia
popolare, un’idea esterna suggerita dalle parole. Il n.
5 è il cardine tonale, formale e agogico di tutta la rac-
colta. I nn. 3 e 7 (quest’ultimo dedicato «à la memoire
de Claude Debussy») sono i pezzi di maggior peso e
valore, e presentano una struttura assai ricercata, con
impiego di temi a specchio.
La produzione di Bartók continua a essere scar-
sa. Formato un «duo» con la violinista Jelly d’Aranyi,
scrive nel 1921 due Sonate per violino e pianoforte, le
prime composizioni cui egli accetti di apporre questo
titolo così impegnativo. Un’altra Sonata, per piano-
forte solo, scriverà nel 1926; una Sonata per due piano-
forti e percussione nel 1937, e una per violino solo nel
1944. Ma mai questa designazione sarà da intendere
come una adesione alla forma tradizionale; essa avrà
sempre un significato molto libero.
Nella Sonata per violino e pianoforte n. 1 (1921),
nei tempi Allegro appassionato, Adagio, Allegro, anco-
ra una volta i due aspetti della personalità artistica di
Bartók sono separati: il finale, col suo gusto barbari-
co dell’ostinato, con la ruvida energia del ritmo, con
la sua saporosa allegria di ronda popolare, si oppone
all’introversa meditazione dei primi due tempi. Qui
si ha invece il Bartók visionario e romantico, preda di
un lirismo assoluto che non ammette forme precosti-
tuite, e provoca ancora una volta una scrittura densa,
sovraccarica verticalmente come somma di aggregati
armonici. Il linguaggio sonoro vi è usato come emo-
zione pura, attraverso i veicoli del timbro, della dina-
mica e del ritmo, nella quasi indifferenza delle idee
tematiche. L’Allegro appassionato segna uno dei mas-
simi accostamenti di Bartók alla poetica dell’espres-
sione musicale di cui Schönberg e i suoi discepoli
venivano tracciando l’itinerario artistico nella vicina
Vienna, che certamente era ormai giunta a conoscen-
za del nostro compositore. L’Adagio manifesta anche
i residui d’influenza francese (Debussy), e dà luogo
nella sua parte centrale a un episodio di alto valore,
una specie di sommesso ritmo di marcia, misterioso e
oppresso.
Particolare curioso: in tutta la Sonata i due stru-
menti non si scambiano mai un tema, suonano sem-
pre cose diverse. Con il consueto radicalismo, Bartók
trae le sue conseguenze dalla diversità di natura dei
due strumenti e li tratta per quel che sono.
Sorvoliamo sulla seconda Sonata per violino e pia-
noforte (1922), in due soli tempi, non meno impor-
tante della precedente, in parte ancora rivolta verso
la scrittura sovraccarica d’un angoscioso espressioni-
smo, ma anche più aperta verso la chiarificazione del
canto popolare. Questo secondo elemento signoreg-
gia interamente l’unica composizione di Bartók nel
1923 e cioè la Tanzsuite, da lui scritta per soddisfare
a un’ordinazione dello Stato per la celebrazione del
cinquantesimo anniversario dell’unione di Buda e
Pest. (Nella stessa occasione Kodály scrisse il Psalmus
hungaricus per coro e orchestra.)
La Tanzsuite per orchestra (1923) si può accostare
alle Improvvisazioni op. 20. Lo stesso lavoro di nobi-
litazione artistica del dialetto musicale magiaro, che
là era condotto sul pianoforte, qui viene esteso all’or-
chestra. Dopo la grave immersione nelle profondità
più oscure dell’anima, attraverso i tempi espressioni-
stici delle sue due Sonate per violino, di nuovo una
composizione in cui opera esclusivamente l’artista nel
silenzio dell’uomo. Del resto l’occasione pubblica fe-
stiva esigeva appunto una certa spersonalizzazione, e
Bartók spiega la propria maestria orchestrale in una
sapiente e ricercata architettura di ritornelli popolari
su dinoccolati ritmi di danza.
Nessuna composizione nel 1924, se non cinque
piccoli pezzi per canto e pianoforte (Cinque scene di
villaggio), e nessuna, assolutamente, nel 1925. Sono
anni di crisi che preludono, secondo il ritmo creativo
di Bartók, alla grande ripresa del 1926. Egli è sempre
occupato nelle sue ricerche sul canto popolare; di più
l’attività concertistica lo occupa molto, permettendo-
gli tra l’altro di allontanarsi ogni tanto dall’Unghe-
ria e di prendere contatto con gli ambienti musicali
europei. La fecondità di questi contatti non tarderà
a rivelarsi. Nel chiuso ambiente ungherese l’arte di
Bartók rischiava di soffocare. Nel 1922 si era avuta
l’esecuzione a Budapest dei Quattro pezzi per orche-
stra composti nel 1912: dieci anni di ritardo, e per di
più l’esito non era stato affatto buono!
In quello stesso anno una tournée di concerti con-
duce Bartók da Londra a Parigi a Francoforte. A Pa-
rigi ebbe occasione di cenare in casa del musicologo
Henri Prunières, direttore della «Revue Musicale»,
insieme con Ravel, Stravinskij e col compositore po-
lacco Szymanowski.
Complicazioni private aggravavano in questi anni il
disagio dell’artista. Esse culminano nel 1923 col divor-
zio dalla prima moglie Marta Ziegler, decisione presa
non senza grave tormento di crisi interiore. Nell’au-
tunno 1923 egli contraeva un nuovo matrimonio con
l’allieva giovanissima Edith Pastori, e l’anno seguente
avrà da lei il figlio Pietro, mentre l’altro figlio, Béla,
rimase con la prima moglie, sposata nel 1909. Anche
in questo frangente Bartók agì con quella franchezza
radicale che gli era abituale. Conservò rapporti cor-
diali con la prima moglie, e la nuova felicità famigliare
fu per qualche anno ancora offuscata dall’ombra della
crisi attraversata. Per di più nel 1924 si annunciarono
per la prima volta i sintomi della malattia che un gior-
no avrebbe condotto Bartók alla tomba, la leucemia.
Ce n’era abbastanza per rallentare il ritmo creativo
del compositore, che nel 1925 si arresta del tutto. Per
di più il secondo matrimonio riporta Bartók e un’in-
tensa attività concertistica, quasi per riflesso e conse-
guenza di quella della moglie, anch’essa avviata con
successo verso la carriera pianistica. Nel 1924 e 1925
Bartók viaggia molto per concerti in Europa, e tra l’al-
tro ripetutamente in Italia. In questa lunga astinenza
creativa germoglia in realtà l’imminente maturità arti-
stica del compositore, che sta per dare la piena misura
delle proprie possibilità.
Capitolo ottavo
L’inserzione nell’arte contemporanea (1926)

Il 1926 è l’anno in cui Bartók sale a notorietà inter-


nazionale, affermando la propria arte attraverso un
gruppo di importanti composizioni pianistiche, desti-
nate alle varie occasioni delle proprie esibizioni con-
certistiche. È l’anno in cui l’arte di Bartók sale a mi-
sura europea. Egli evade dal provincialismo culturale
ungherese e attraverso i contatti sempre più frequenti
con gli ambienti musicali europei dell’epoca perviene
a una vera presa di coscienza della situazione musicale
contemporanea, e vi si inserisce in maniera definitiva.
Occorre perciò tener presente quali erano appun-
to le condizioni della musica in Europa in quel tem-
po. Per ovvie ragioni di contiguità geografica, Bartók
doveva essere abbastanza al corrente dell’indirizzo
atonale perseguito a Vienna da Schönberg e dai suoi
discepoli Berg e Webern; e più d’una volta abbiamo
visto Bartók sfiorare questa tendenza, più per una
naturale propensione espressionistica che non per
comunanza d’interessi musicali. La sincerità dell’im-
pegno espressivo, la tendenza allo scavo interiore, la
violenza e l’immediatezza del linguaggio sonoro che
tende a farsi esso stesso sentimento e passione, erano
tutti elementi che accostavano Bartók alla fase atonale
dell’espressionismo viennese. Intorno al 1923 l’inizio
della codificazione del metodo dodecafonico da parte
di Schönberg coincide con il periodo in cui Bartók,
riprendendo a viaggiare in Europa dopo l’isolamen-
to della guerra e del dopoguerra, prende conoscenza
delle altre tendenze musicali europee. La coincidenza
è decisiva: l’avversione di Bartók per ogni vincolo si-
stematico si combina con l’allargamento d’orizzonte
per allontanarlo sempre più dalla tentazione atonale.
Tentazione che cessa immediatamente di esser tale,
dacché l’atonalità cede il luogo alle ferree leggi della
dodecafonia.
Di quanto veniva intanto maturando nella musica
dell’Europa occidentale, Bartók aveva scoperto con ri-
tardo Debussy e Ravel, e probabilmente aveva un’idea
del primo Stravinskij, fino al Sacre du Printemps, come
appare più che probabile dalle partiture del Mandari-
no meraviglioso e del Principe scolpito nel legno. Ora
l’evasione dall’ambiente della Mitteleuropa lo porta
a conoscenza del cosiddetto fenomeno neoclassico,
promosso da Stravinskij con i lavori della sua secon-
da maniera: il «ritorno a Bach», come esortazione alla
restaurazione d’una scrittura lineare e contrappunti-
stica, seguito dai vari «ritorni» a musicisti del passato,
ora Pergolesi, ora Scarlatti, ora Mozart, e perfino We-
ber,Čajkovskij, Gounod e via dicendo.
Resosi conto del bivio in cui si trovava la musica
moderna, costretta a una scelta tra l’indirizzo atonale
dell’espressionismo e la conservazione tonale dell’og-
gettivismo neoclassico, Bartók sceglie senza esitazio-
ni la seconda soluzione. Per lui non ci sono dubbi in
proposito: una musica di ispirazione popolare non
può essere che tonale. La tonalità sarà allargata fin-
ché si vuole per mezzo del ricorso ai numerosi modi
antichi, ma la presenza d’un centro tonale è connessa
con l’idea stessa della musica popolare. Bartók non
scenderà in polemica coi musicisti atonali della scuola
viennese, che per tanti anni l’hanno attirato grazie a
evidenti analogie spirituali: egli non contesta ad altri
il diritto di scrivere atonale o dodecafonico, ma per
sé – musicista d’ispirazione eminentemente nazionale
e popolare – egli sceglie l’altra tendenza.
La quale, poi, aveva invece molti aspetti destinati
a dispiacergli e ben poco affini alla sua personalità.
La poetica del cosiddetto oggettivismo, che rifiuta
cioè alla musica la facoltà espressiva, non era certo
per piacere a quel legittimo erede del Romanticismo
che è Bartók. Il tono cinico e motteggiatore delle
parodie in cui spesso si riducevano i rifacimenti dei
vari «ritorni a...» non si addiceva per nulla a un arti-
sta come Bartók, abituato a parlare in persona prima
assumendo intere le proprie responsabilità stilistiche,
senza mascherarsi dietro le spoglie di grandi del pas-
sato. Tuttavia i lavori di questo fecondo anno 1926
segnano un passeggero accostamento di Bartók alla
tendenza neoclassica: accostamento passeggero e su-
perficiale, ché sotto le parvenze di quello stile non è
difficile rintracciare il vecchio Adamo, cioè l’artista
sincero e appassionato, che impegna tutto se stesso
nella forma musicale, e non si rassegna a nascondersi
dietro il paravento storicistico dell’arcaismo. Questi
lavori sono: una Sonata per pianoforte, un Concerto
per pianoforte e orchestra, e due raccolte di brevi pezzi
pianistici, intitolate l’una Im Freien (All’aria aperta) e
l’altra Nove piccoli pezzi per pianoforte. Come si vede,
è compresa tutta la gamma delle possibilità concerti-
stiche: dal grande pezzo da concerto solistico a quello
con orchestra, fino a composizioni più frammentarie,
a cui attingere magari perfino i bis.
Nel 1924 Stravinskij aveva scritto la sua Sonata per
pianoforte, di bachiana semplicità ed esattezza con-
trappuntistica, e non v’è dubbio ch’essa, col suo ta-
glio in tre tempi, sia stata presente a Bartók come un
modello. Nella Sonata (1926), in tre tempi (Allegro
moderato, Sostenuto pesante, Allegro molto), una vi-
gorosa e implacabile scrittura contrappuntistica sosti-
tuisce i densi grappoli o le ondate d’arpeggi che an-
cora caratterizzano l’espressionismo delle due Sonate
per violino. I piani si muovono in profondità, con una
specie di meccanica precisione. E tuttavia la Sonata di
Bartók appare più grossa, più spessa, più pietrosa che
la raffinata e quintessenziata distillazione stravinskia-
na. Soprattutto ne è assente ogni malizia storicistica
di arcaismo stilistico. Pur applicandosi al culto del-
la scrittura contrappuntistica, Bartók non cessa di
parlare in persona prima, e non per bocca di Bach o
di Händel. Anche nel volontario refoulement d’ogni
slancio appassionato, nell’impassibile regolarità dei
ritmi ostinati che sorreggono l’elaborata costruzione,
sembra di sentir pulsare l’ansito di ribellioni represse,
s’indovina la presenza d’un gran cuore, che si castiga
in una rigorosa disciplina costruttiva.
La sapiente architettura di questa Sonata, e in parti-
colare la densità di contrappunto del secondo tempo,
arricchita d’una preziosa sensibilità timbrica, stabilì
assai alta la fama di Bartók negli ambienti musicali
dell’epoca. È tipica musica per intenditore destinata
a muovere l’ammirazione e la stima dei colleghi: c’è
un grande sapere, una maestria matura che s’impone.
Noi che abbiamo seguito Bartók fin qui dalle sue ori-
gini romantiche, noi che conosciamo la sua alta tem-
peratura espressiva, gli scatti furibondi di gioia po-
polaresca e i deserti ghiacciati di desolazione di cui il
suo animo è capace, possiamo anche restare un poco
increduli di fronte a questo perfetto saggio di cubi-
smo musicale: queste rigorose prospettive in cemento
armato non ci fanno dimenticare l’artista generoso
delle Sonate per violino, del Mandarino meraviglioso,
del Secondo Quartetto.

Il Concerto per pianoforte e orchestra (1926), nei tempi


Allegro moderato - Allegro, Andante, Allegro molto, si
muove nello stesso senso della Sonata, accentuando
ancora il carattere provocante di percussione con cui
è brutalmente trattato lo strumento a tastiera. Gra-
gnuole di note s’avventano sulla tastiera, nell’intento
di magnificare la tecnica trascendentale del pianista.
Enormi accordi a grappolo trasformano la dissonanza
in un valore unicamente timbrico. Per altro la scrit-
tura del Concerto, come quella della Sonata, è severa-
mente contrappuntistica. Questi lavori segnano l’ac-
costamento di Bartók, attraverso la meditazione della
moderna esperienza neoclassica, a quel grande del
passato che gli era rimasto a lungo estraneo: J.S. Bach.
Egli stesso ne diede esplicita conferma, scrivendo nel
1928 al critico Edwin von der Nüll che gli aveva posto
alcune domande: «Nella mia giovinezza il mio ideale
di bellezza non era tanto la maniera di Mozart o Bach,
quanto quella di Beethoven». E aggiungeva: «Negli
ultimi anni mi sono interessato molto a musica anche
prebachiana, e credo che se ne possano scorgere le
tracce, per esempio nel Concerto per pianoforte e nei
Nove piccoli pezzi».
Il 1926, dunque, è l’anno della scoperta, o meglio
della assimilazione di Bach. Una scoperta mediata at-
traverso la moderna voga bachiana presso il neoclas-
sicismo contemporaneo. Uscito definitivamente dal
guscio nazionale, Bartók è diventato una forza della
musica contemporanea: viaggia di continuo, nei prin-
cipali centri europei è venuto in contatto con quanto
si va facendo da parte di Stravinskij, di Hindemith,
di Schönberg, di Block, di De Falla, Milhaud, Ho-
negger, Casella, Malipiero. La maggior parte di questi
compositori contemporanei pratica un culto operan-
te nei riguardi di Bach o magari di musicisti ancora
più antichi, dai quali essi traggono un alimento assai
simile a quello ch’egli ha trovato nel folklore musica-
le del suo paese. In fondo, Bach è il canto popolare
nazionale per Hindemith; Scarlatti lo è per Casella, il
gregoriano per Malipiero. La tendenza più diffusa è
quella che associa al sommo esempio di Bach la moda
del dinamismo ritmico, in cui i musicisti come Ho-
negger, Prokof’ev e altri hanno, sull’esempio portato
da Stravinskij col Sacre du Printemps, concretato l’en-
tusiasmo o l’oppressione della moderna civiltà mec-
canica: strepito di motori, sbuffar di locomotive, rit-
mi duri e angolosi di macchine d’officina, inesorabile
tempismo d’un vivere moderno regolato a bacchetta
dalle lancette dei cronometri e dalle esigenze precise
della tecnica.
A questa tendenza del neoclassicismo moderno si
avvicina ora Bartók, dopo l’assimilazione della gran-
de lezione bachiana. Che vuole dire: trapasso da una
musica sostanzialmente armonica, come quella che gli
abbiamo visto finora praticare, a una concezione de-
cisamente contrappuntistica. L’accordo, che Bartók
ha finora esplorato con fede inesauribile, cede il posto
alla contemporaneità di linee orizzontali, coinvolte nel-
la marcia inesorabile del ritmo: un contrappunto che
talvolta si vale di frammenti stessi del tema, combina-
to con se stesso, oppure di organici controsoggetti che
completano dialetticamente la formulazione del tema
principale; talaltra, e più spesso, è un contrappunto
esornativo, che al tema principale combina soltanto
degli elementi musicali astratti – frammenti di scale, o
d’arpeggi, ritmi puri d’una sola nota ripetuta, figurazio-
ni non melodiche – poiché suo scopo espressivo non è
altro che la gioia della linea in sé, il piacere dell’orga-
nizzazione polifonica su diversi piani strumentali.
È un gran bagno sterilizzatore, quello cui Bartók si
sottopone in quest’esperienza, per purificarsi definiti-
vamente da quell’enfasi romantica, da quelle ricadute
in un certo turgore iperteso, che contrassegnavano
le sue origini di schietto figlio del secolo. E siccome
questa fase della sua produzione coincise con le sue
prime importanti affermazioni all’estero e con i primi
scritti critici che in Europa si venissero pubblicando
su di lui (tra l’altro anche un libro, notevolissimo, del
tedesco von der Nüll), si formò allora la convinzione
che questa incarnazione neoclassica di Bartók fosse
il punto d’arrivo definitivo della sua arte. Oggi sap-
piamo benissimo che non è così. Il neoclassicismo fu
un bagno, come abbiamo detto, e in bagno non ci si
rimane stabilmente. Purificato per sempre dal pathos
lisztiano e dall’enfasi straussiana, Bartók ritornerà
ancora a interrogare le profondità più segrete della
propria anima e della natura, e lo farà con un linguag-
gio depurato, di cui l’esperienza bachiana, con la sua
lezione di economia dei mezzi espressivi, avrà centu-
plicato il mordente e l’efficacia. Mai più Bartók avrà
bisogno di moltiplicare le note, di calcare la mano sul
pennello: ora si servirà piuttosto di un bulino, che in-
cide e lascia il segno per sempre.
Del resto è da notare che né nella Sonata né nel
Concerto, nonostante l’adozione del contrappunti-
smo neoclassico, Bartók si piega alla finzione dell’ar-
caismo, cioè dell’imitazione di forme e locuzioni an-
tiche. Egli non scrive Partite, né Concerti grossi, né
Passacaglie, e non gli passa nemmeno per la testa di
parafrasare i Concerti brandeburghesi. Anche serven-
dosi d’un linguaggio fortemente contrappuntistico,
egli resta sempre un contemporaneo e parla in perso-
na prima. Forse soltanto in alcuni dei Nove pezzi per
pianoforte, sempre del 1926, possiamo vedere Bartók
indulgere a un dichiarato ricalco stilistico delle Inven-
zioni di Bach a due e a tre voci, e precisamente nei
primi quattro, intitolati Dialoghi. Ma l’altra composi-
zione pianistica del 1926, la Suite Im Freien (All’aria
aperta), costituisce per contro la grande rivincita del
Bartók romantico, espressionista e visionario, contro
la mortificazione neoclassica. Essa si svolge in cinque
sezioni: a) Con pifferi e tamburi; b) Barcarola; c) Mu-
settes; d) Musica della notte; e) Caccia maledetta.
Ritroviamo in questa composizione gli aspetti più
genuini del nostro compositore. Il fatto che siano cin-
que pezzi brevi allontana ogni preoccupazione archi-
tettonica e formale per concentrare nuovamente tutte
le virtù del compositore sulla intensità dell’espressione.
I cinque pezzi di All’aria aperta costituiscono il vange-
lo di quella che fu veramente la religione profonda di
Bartók: la Natura. Era un uomo, Bartók, di quelli che
vivono nelle città di pietra e di mattoni come in un
temporaneo esilio: la verità di se stesso la ritrovava
soltanto quando era in contatto con qualche cosa di
vero e di genuino, di naturale, cioè di non artefatto:
un albero, un lago, un fiore, un corso d’acqua, un filo
d’erba, una montagna. Già abbiamo detto come la
scoperta del canto popolare avesse significato per lui
il contatto con l’uomo. Fu pure il contatto con la Na-
tura, l’evasione dalle mura cittadine e il ritrovamento
delle verità antiche che stanno racchiuse dall’eternità
nel ritmo delle stagioni, nella vicenda della semina,
della maturazione, del fiore e del frutto. La Natura
non aveva segreti per lui, oppure invece ne aveva di
inesauribili, ed egli non si stancava di interrogarla.
Insieme con le canzoni popolari raccoglieva piante,
fiori, coccinelle, farfalle, insetti d’ogni sorta, che poi
catalogava e classificava studiosamente. In uno de-
gli ultimi anni della sua vita, quando s’era trasferito
definitivamente in America per sfuggire all’invasione
nazista, una delle sue prime lettere al figlio rimasto
in Europa descriveva gli strani insetti e calabroni che
la sera volteggiavano intorno alla lampada accesa,
«del tutto diversi, – dice, – da quelli che si trovano in
Europa. Si vede proprio che siamo in un altro con-
tinente!». Questo era il singolare modo di Bartók di
prendere contatto con la realtà americana.
Del suo attaccamento appassionato alla natura re-
stano documenti e testimonianze innumerevoli: da
quella conversazione, già ricordata, con il letterato Béla
Balász, durante una passeggiata notturna, conversazio-
ne che verteva sul rapporto magico che lega gli uomini
alle costellazioni, alle cartoline ch’egli spediva orgoglio-
samente ai famigliari per documentare le mete delle sue
escursioni estive: nell’estate del 1930, in villeggiatura a
Pontresina, era salito fino al Piz Languard, 3268 metri.
Aveva ormai cinquant’anni, ma in realtà era rinato, do-
po la prima giovinezza minata da gravissime malattie,
a una seconda fioritura, dovuta alla scoperta della Na-
tura, del canto popolare, della fraternità degli uomini,
cose che per lui facevan tutt’uno. Non dimentichiamo
il genio benefico che l’aveva letteralmente condotto
per mano, e guidato e sospinto in questa scoperta della
salute fisica e spirituale: il fratello d’arte Kodály.
I cinque pezzi di All’aria aperta sono dunque il
documento musicale più esplicito del naturismo bar-
tokiano. Nel loro ordine di successione evolvono,
per così dire, dall’esterno verso l’interno, dall’aspet-
to esteriore e pittoresco verso il nocciolo delle real-
tà più segrete. I primi tre pezzi ci mostrano, in un
certo senso, la Natura abitata dall’uomo: rudi ritmi
d’un’allegria di contadini nel primo pezzo, Con pifferi
e tamburi, e stilizzazioni artistico-storiche del paesag-
gio, radicate in una tradizione letteraria, la Barcarola e
le Musettes, la cui qualità di scrittura musicale preste-
rebbe però il destro a interminabili osservazioni. Ba-
sti osservare in breve che questa rivincita espressiva
dell’ispirazione di Bartók, in mezzo alla parentesi di
oggettivismo neoclassico rappresentata dalla Sonata
e dal Concerto per pianoforte, non implica affatto un
ritorno alla scrittura sovraccarica e un po’ torbida del
suo romanticismo giovanile: ormai il processo di puri-
ficazione stilistica è in corso, e con esso il trapasso da
una concezione prevalentemente armonica a una con-
trappuntistica, visibile in particolare nella Barcarola.
Il quarto pezzo, Musica della notte, è una delle
parole-chiave per comprendere l’arte di Bartók e la
sua concezione della Natura. Qui l’uomo è scompar-
so dalla scena, come assorbito in una identificazio-
ne panica con le cose. Non c’è più il punto di vista
esterno dell’uomo che guarda e interpreta la Natura,
e quindi ne trae il paesaggio, la Barcarola, in bre-
ve, il quadretto. Qui l’uomo è trasferito dentro la
Natura. Nell’interno della materia. Arriviamo a una
essenzialità cosmica, dove si percepisce realmente il
palpito, il respiro delle cose che l’uomo, nella sua
egocentrica presunzione, chiama inanimate. Invece,
abolito l’uomo, tutto si anima: lo stagno sospira, il
canneto fruscia, la pozzanghera emette un mono-
tono gorgoglio, gracidano le rane, i grilli stridono,
frulli d’ala passano per l’aria che vibra essa stessa
misteriosamente. Sono i suoni della notte, la musica
della Notte, nel cui seno si animano panteisticamen-
te tutte le cose. Aver tentato di cogliere questi fru-
scii, questi messaggi sonori d’un mondo che è al di là
della soglia dei nostri sensi, aver tentato di coglierli
e renderli sopra lo strumento più artificiale e mec-
canico che la musica possegga, il pianoforte, è un
ardimento che sfiora la pazzia. La scrittura sfrutta
tutte le possibilità di vibrazione e di preservazione
del suono d’una tastiera perfezionata e accumula
le dissonanze in un sovrapporsi di ornamenti che è
sempre stato abituale in Bartók, e di cui ora com-
prendiamo appieno il significato: quell’esuberanza
ornamentale della sua musica, quelle acciaccature,
quei gruppetti, quelle note di passaggio e quelle dis-
sonanze non risolte che si schiacciano addosso alle
note fondamentali, quegli esperimenti timbrici come
i glissandi di violino, o i larghi accordi pizzicati di
violoncello, o l’insistente ribattere di una nota sola
sulla tastiera del pianoforte o dello xilofono sono il
continuo interrogare di Bartók, la sua ansia di bussa-
re alla frontiera che divide il suono musicale dal ru-
more, l’arte, cioè, dalla Natura, nella quale egli anela
d’immergersi. La struttura del pezzo è ternaria, A B
A. I due estremi sono la vera e propria raccolta di
rumori notturni, macchie sonore stranamente oscil-
lanti ed evanescenti. A metà emerge invece, come
una fosforescenza, una strana melodia all’unisono,
quasi un ritmo di valzer: ma un valzer se fosse pos-
sibile osare un accostamento simile, gregoriano, che
ha qualcosa di spettrale nella sua nudità melodica.
Poi esso muore, riassorbito nei caotici rumori della
Notte, e la struttura ternaria, che è vecchia quanto
la musica stessa e di solito non risponde ad altro che
a una elementare esigenza di simmetria, sembra qui
adombrare il ritmo eterno con cui si svolge il ciclo
della vita: nascere, fiorire, morire. Oppure: deside-
rio, soddisfazione, sazietà. O ancora: caos, cosmo, e
decomposizione delle cose in seno alla notte intesa
come il grembo oscuro della Materia primordiale.
L’ultimo pezzo, Caccia maledetta, è un’esplosione
di quel selvaggio impeto demoniaco che parte dall’Al-
legro Barbaro, e che già abbiamo visto ripetersi nel
terzo tempo della Suite op. 14 e nel movimento cen-
trale del Secondo Quartetto. Se nei primi tre pezzi di
All’aria aperta abbiamo visto la Natura abitata e inter-
pretata dall’uomo, e nel quarto, invece, la Natura sola,
nel segreto più profondo della materia, qui invece la
Natura si popola di spiriti, emette forze che stanno al
di là d’ogni controllo umano. La tregenda della caccia
forzata si svolge serrata, atem-raubend come dicono i
tedeschi, cioè da levare il fiato, in una pazza corsa che
devasta la tastiera con l’incalzante avanzata del suo
martellato pianistico.
La Musica della notte della Suite All’aria aperta
rimarrà ormai per noi come una formula a indicare
un aspetto ben preciso dell’arte di Bartók, e cioè la
sua intuizione panica e visionaria dell’animazione del-
la Natura. Questo aspetto si pone nella storia della
musica come punto d’arrivo d’un lungo e graduale
accostamento tra la musica e il sentimento della Na-
tura, che parte dall’oggettivazione vignettistica delle
Quattro stagioni di Vivaldi e segna una graduale e
progressiva interpenetrazione, attraverso la Pastorale,
attraverso le Scene del bosco di Schumann (in partico-
lare L’uccello profeta), il wagneriano Mormorio della
foresta, per giungere fino alla scena dello stagno nel
Wozzeck, dove la Natura s’anima di spiriti maligni e
parla sinistramente allo spirito di quel visionario che
è il povero soldato Wozzeck, mentre non dice assolu-
tamente nulla al suo ottuso collega che è stato coman-
dato con lui a raccogliere legna sulla riva dello stagno
in un livido crepuscolo.
Di questa interpenetrazione fra l’uomo e la Na-
tura, di questa facoltà quasi medianica d’intuire le
voci della materia, di questa fede di Bartók nell’a-
nimazione delle cose, si potrebbero addurre prove
verbali esplicite, a cominciare dalle filosofeggianti
lettere giovanili in cui il musicista spiegava a qualche
amica il proprio baldanzoso credo materialistico. È
noto, inoltre, che fra i poeti ungheresi dell’Ottocen-
to Bartók prediligeva soprattutto Endre Ady, per la
lirica, e il concettoso Vörösmarty per il dramma di
pensiero. Ora in uno dei drammi più rinomati del
Vörösmarty, Csongor e Tünde, nomi di due creatu-
re favolose della mitologia magiara, specie di Deu-
calione e Pirra, c’è un monologo della Notte che il
critico Ernö Lendvai ha segnalato come un vero e
proprio commento alla Musica della notte contenuta
nella Suite All’aria aperta. Vi è consegnata in paro-
le proprio quella intuizione misteriosa della Natura,
della sua parabola del farsi cosmo, districandosi dal
grembo caotico della Notte, e poi rientrare con la
morte nell’oscurità del Nulla, che si coglie nelle note
e nella struttura formale di quel pezzo pianistico.

Vi furono l’oscurità e il Nulla, e ci fui io, la Notte solitaria e


deserta, silenziosa, non abitata da esseri; poi si alzò dal mio
grembo il Mondo, sorse il Tutto, nacquero la Luna e le Stelle
raminghe, si mosse la carne, una nuova forza agiva, lo spazio
e il tempo si popolarono, il cielo ebbe un sorriso dal profon-
do, la Terra si rivestì di fiori, la polvere cominciò a muoversi,
nacque l’uomo e continuò la specie.
Vi sono l’oscurità e il Nulla, e vi sono io, la Notte vestita di
lutto che fugge dalla luce; perisce il verme, il peso dei secoli
abbatte l’albero superbo; non c’è più l’uomo, come già non
fu; scompaiono la terra e il mare, i giorni si fondono e crol-
lano, la bellezza del mondo si converte in cenere; e dove fu
il principio, là vi sarà la fine... vi saranno l’oscurità e il Nulla;
vi sarò io, la Notte silenziosa e deserta, non abitata da esseri.

Penetrare nel seno oscuro della materia, al di là delle


apparenze sensibili della Natura, questo è in sostanza
il segreto dei brividi timbrici e dei lenti vortici di quel-
le meditazioni contrappuntistiche, in cui si assiste al
fenomeno d’una cellula di plasma musicale che pro-
tende a poco a poco all’intorno le sue ciglia vibratili
e si coordina lentamente, per un processo di segrete
concatenazioni in un organismo vitale.
In questa intuizione visionaria della Natura attra-
verso una specie di conoscenza mistica che va oltre i
comuni mezzi sensibili dell’apprendimento, Bartók si
poneva come ultimo prodotto di una ben definita ten-
denza romantica. Ne Le cose divine e la loro rivelazio-
ne, del 1798, il Jacobi si proponeva di «approfondire
la natura intesa come essere per sé stante, che nulla
presuppone al di fuori di sé, come propria causa, e
nulla al di fuori di sé produce, come proprio effet-
to, ma è essa stessa, insieme, causa ed effetto, mondo
e Dio, compiuta unità di entrambi». E nel delineare
la posizione dell’uomo tra natura e spirito, tra senso
e raziocinio egli abbozzava una descrizione di quei
«veggenti», di quegli Hinterweltler, secondo il voca-
bolo di Nietzsche, ai quali si schiude per una specie
di rivelazione l’aspetto segreto delle cose, e dei quali
Bartók fa parte.

Al di sopra del regno animale, così come al di sopra dell’in-


tero regno della natura comprendente gli esseri animati e
inanimati, s’innalza il regno degli spiriti [...] L’uomo, che
appartiene incontestabilmente al regno della natura e degli
animali, appartiene pure, con altrettanta sicurezza, al regno
degli spiriti ed è, secondo un’incisiva espressione universal-
mente nota, cittadino di due mondi, meravigliosamente col-
legati tra di loro, di un mondo visibile e di uno invisibile, di
un mondo sensibile e di uno soprasensibile. Di questa dupli-
ce cittadinanza egli ha la più intima coscienza. Consapevol-
mente egli è sospeso tra il mondo sensibile e naturale, da un
lato, e quello soprasensibile e soprannaturale, dall’altro. Sen-
te e sa di essere contemporaneamente inferiore e superiore
alla natura, e quella parte di sé che si eleva sopra la natura
egli chiama la parte migliore e più nobile, la sua ragione, la
sua libertà.

Cittadino di questi due mondi, Bartók amava immer-


gere la propria musica nella non-libertà della materia
per capirne la vita segreta in una specie d’essenzialità
cosmica, dove si percepisce il palpito, il respiro delle
cose così dette inanimate, che si animano non appena,
scesa la notte, l’uomo scompare.
Capitolo nono
I Grandi Quartetti

L’anno 1926, con la sua ricca produzione pianistica


a uso personale, per i propri concerti, segna l’inizio
d’un impetuoso allargamento d’orizzonti nella carrie-
ra di Bartók e nella sua notorietà mondiale. Esecuzio-
ni della Sonata e del Concerto lo portano in tournée
in vari luoghi: tra l’altro nel luglio 1927 suona il Con-
certo per pianoforte e orchestra a Francoforte sotto la
direzione di Furtwängler, di solito poco tenero ver-
so le composizioni contemporanee. L’11 dicembre si
imbarca a Cherbourg per la sua prima tournée negli
Stati Uniti, dove darà concerti a New York (con quel-
la Orchestra Filarmonica, diretta da Mengelberg), a
Filadelfia e altrove. Questa prima presa di contatto
con gli ambienti americani rivestirà un giorno parti-
colare importanza, quando le circostanze politiche
europee costringeranno Bartók a cercare asilo negli
Stati Uniti. Nel 1928 l’assegnazione del premio Coo-
lidge al Terzo Quartetto di Bartók, a pari merito con
la Serenata per cinque strumenti di Alfredo Casella,
viene a sancire l’inserzione di Bartók tra i protagonisti
del movimento musicale contemporaneo. (Il premio
veniva assegnato ogni anno dalla fondazione ameri-
cana della signora Elizabeth Sprague-Coolidge alla
composizione giudicata più importante e significativa
da una giuria estremamente qualificata.)
Scritto nel 1927, il Terzo Quartetto pone la curiosità
di vedere se Bartók avrebbe portato, in questa forma
consacrata alle manifestazioni più intime e più sincere
della sua sensibilità, la recente esperienza neoclassica
consumata nella Sonata e nel Concerto per pianoforte
e orchestra, o se sarebbe rimasto fedele a quelle accen-
sioni di tendenza, grosso modo, espressionistica, che
abbiamo visto affermarsi, lo stesso anno nella Suite
All’aria aperta. Sebbene dell’esperienza neoclassica vi
rimanga acquisito il gusto del contrappunto, e della
ostinata scrittura a canone, il Terzo Quartetto appar-
tiene alla tendenza soggettiva, romantica e visionaria
dell’arte di Bartók. La scrittura quartettistica resta
sempre per lui un invito alla confessione, all’appro-
fondimento dell’impegno espressivo.
Anche qui egli è assillato dal problema della forma
totale della composizione: come coordinare le singo-
le parti, escludendo il vecchio impianto sonatistico in
quattro movimenti in modo da ottenere la massima
omogeneità e organicità della composizione. Il Terzo
Quartetto ricorre alla drastica soluzione che Bartók
aveva già adottato una volta nella Seconda Sonata per
violino e pianoforte (1922): due soli movimenti di cui
il primo è un’introspettiva meditazione con carattere
tormentoso, di angoscia interiore, il secondo quasi un
Allegro di Sonata, con due temi, sviluppo e ripresa.
I due movimenti trapassano senza interruzione l’uno
nell’altro, ma per meglio chiudere, per sanzionare l’uni-
tà di queste due parti contrastanti, il compositore le
riproduce poi ancora, sempre senza interruzione, in
estensione ridotta, con una «ricapitolazione della pri-
ma parte» e una «coda». Abbiamo così, in sostanza,
quattro episodi che si succedono senza interruzione:
il primo è un movimento Moderato, sopra una cellula
tematica per così dire astratta, fondata su due inter-
valli, uno di quarta ascendente, l’altro di terza discen-
dente, con spunti di lento contrappunto germinale e
con invenzioni timbriche straordinarie, che suggeri-
scono effetti di Musica dalla notte; il secondo episo-
dio è un Allegro di chiara ispirazione popolare, dal
ritmo ben scandito, benché irregolare e mobilissimo,
con pittoreschi effetti di sonorità dovuti a glissando,
pizzicati, suoni armonici, ampi accordi di violoncello
simili a suono di chitarra. Poi la «ricapitolazione della
prima parte» reca una pausa di raccoglimento inte-
riore, in cui ogni senso di costruzione formale pare
disgregarsi nella intensità di rotti accenti espressivi,
di interiezioni isolate; infine la breve coda trascina il
pezzo alla conclusione in una ronda rapidissima di
suoni fantomatici e irreali.
Il primo tempo è una delle concezioni più dense e
difficili di Bartók, specie di sviluppo continuo fonda-
to sulla costante rigenerazione del discorso da un’uni-
ca cellula attraverso l’impegno del contrappunto.
L’estate del 1928 vede Bartók impiegato nella
composizione d’una delle opere destinate a essere in-
dicate come uno dei suoi capolavori, e cioè il Quarto
Quartetto dove gli esperimenti, i tentativi e le ricerche
effettuati nei Quartetti precedenti intorno alla siste-
mazione della forma totale giungono a soluzione sod-
disfacente con l’attuazione completa di ciò che viene
chiamata la «forma a ponte».
Esso si svolge nei tempi: Allegro, Prestissimo con
sordina, Non troppo lento, Allegretto pizzicato, Allegro
molto.
Giunge qui a un punto estremo un carattere che si
era manifestato progressivamente nei Quartetti pre-
cedenti, e cioè l’originalità, non solo delle idee musi-
cali, ma piuttosto della qualità stessa del suono: dicia-
mo pure, la stranezza del suono. Un ascoltatore non
avvertito, che avesse ad ascoltare il Terzo o il Quarto
Quartetto senza vederne l’esecuzione, probabilmen-
te avrebbe difficoltà a capire che si tratta, appunto,
d’un quartetto: forse non sospetterebbe che i deco-
rosi strumenti ad arco cui Haydn aveva insegnato ad
avviare la loro ordinata conversazione a quattro, siano
i produttori di così brutali scoppi di suono, sbuffi,
sibili, miagolii.
La necessità della «invenzione del suono» sta di-
ventando in questo periodo una delle convinzioni più
ferme e ossessionanti di Bartók. Ogni musicista s’in-
dustria, quando compone, a trovare nuove combina-
zioni di note, complessi inediti di melodia, armonia
e ritmo. Perché, invece, l’elemento suono dovrebbe
accettarlo supinamente dalla tradizione e dalle con-
suete possibilità fisiche degli strumenti, senza tentare
anche qui di approfondire, di scavare, in una paro-
la, di «creare» per ogni composizione i suoni che a
essa si addicono? Faceva parte dell’amore profondo
di Bartók per la Natura – amore ch’era bisogno im-
perioso di conoscenza – la sua curiosità irresistibile
pel mondo del rumore: la soglia che separa il suono
musicalmente organizzato, dalla realtà incondita dei
rumori naturali, egli tentò continuamente di varcar-
la, e meglio ancora di abbatterla. Certamente Bartók
rappresenta il punto più avanzato nella esplorazione
del mondo fisico del suono, prima che la musica mo-
derna faccia ricorso alla produzione elettronica del
suono stesso. Ma appunto dal costante impiego dei
mezzi fonici tradizionali, e magari i più severi e ap-
parentemente inadatti alla produzione del rumore,
come il pianoforte o il quartetto ad arco, i risultati
timbrici di Bartók conseguono una validità superiore
a quella degli effetti ottenuti con l’illimitata ampiezza
delle possibilità elettroniche.
Tale era già, nei suoi primi lavori pianistici, il signi-
ficato dell’abbondanza sorprendente di abbellimenti:
acciaccature, mordenti, ruotine ornamentali appicci-
cate a quelle principali. Tutto ciò non era dettato da
uno scopo esornativo, com’era il caso degli abbelli-
menti settecenteschi, ma dallo sforzo esasperato di
trasformare la natura della nota musicale, per darle la
ricchezza piena e confusa del rumore, appiccicando-
le attorno suoni secondari. Gli abbellimenti mirano a
intorbidare l’artificiale purezza della «nota» musicale,
fino a ottenere un aggregato sonoro che presenti la
naturalità grezza del rumore.
Quanto più il mezzo di produzione è paradossal-
mente classico e tradizionale, tanto più convince il ri-
sultato, proprio per effetto delle limitazioni affrontate
dal compositore, che invece di ricorrere a strumenti
già per loro natura pittoreschi, come arpe, celesta,
campanelli, gong, xilofoni e via dicendo, si serve spe-
cialmente del pianoforte o del Quartetto d’archi. Gli
effetti d’esecuzione in quest’ultimo caso potranno es-
sere di volta in volta l’alternanza del pizzicato, dello
staccato, e del legato, il rimbombo sonoro di larghi ac-
cordi pizzicati del violoncello, il fantomatico tremolio
di suoni sul ponticello, la brutale violenza di accordi
ottenuti col legno, l’uso alterno del vibrato e del non
vibrato su una stessa nota lungamente tenuta, e infine
– più vistoso fra tutti questi artifici timbrici – il glis-
sando degli archi, talvolta isolati, talvolta alterni, tal-
volta contemporanei, che produce un effetto di vero
e proprio miagolio, o di lamentoso sospiro. Il giova-
nile interesse di Bartók per il virtuosismo strumentale
trova ora la propria giustificazione in questo impiego
creativo del virtuosismo esecutivo a scopo di «inven-
tare il suono».
In quel magazzino di rumori che viene ospitato nei
Quartetti di Bartók e nelle altre composizioni della
sua fase matura, si manifesta in forma estrema uno
degli aspetti più profondi e interessanti della sua arte:
il lato visionario della sua psicologia, quella sua cer-
tezza istintiva che, al di là delle apparenze sensibili,
la realtà nasconda un nucleo essenziale più riposto e
genuino. Di qui l’ansia di penetrare al di là di questa
soglia, il continuo batterla, tempestarla di pugni per-
ché s’apra. E la volontà di aprire tutte le porte chiu-
se che, nell’unica opera teatrale di Bartók, conduce
la protagonista alla sua rovina. Qui, nei Quartetti, la
soglia che Bartók si sforza accanitamente di varcare
è appunto quella fra suono musicale e rumore. Il ru-
more come presenza acustica della Natura, il rumore
sentito come una chiave, un filo d’Arianna per pene-
trare nel cuore della Natura.
A questa ricca originalità della materia sonora
corrisponde nel Quarto Quartetto, come s’è detto,
una compiuta codificazione della forma, per ottene-
re quell’unità complessiva della composizione che a
Bartók stava tanto a cuore. È quella sua soluzione ca-
ratteristica che viene descritta come «forma a ponte»,
e che si potrebbe forse meglio definire come «forma
concentrica». Il numero dei tempi che compongono
il Quartetto diventa dispari, come già nel Primo e nel
Secondo Quartetto, ma sale a cinque (e così sarà pu-
re nel Quinto Quartetto e nel Concerto per orchestra).
Avviene così che il terzo tempo si trovi sepolto nel più
intimo centro della composizione, come un seme nel
frutto, e avvolto da due strati simmetrici di diversa
espressione: secondo e quarto tempo rapidi e leggeri,
in stile di Scherzo, se il terzo tempo era lento, com’è
il caso nel Quarto Quartetto; primo e quinto tempo
più estesi, sonatistici. Tale è appunto l’architettura
generale del Quarto Quartetto, che si costruisce tutto,
o sarebbe meglio dire, cresce tutto attorno al seme
riposto del terzo tempo, il Non troppo lento, in cui
a un largo canto del violoncello, quasi improvvisato-
rio, declamante, in un clima di malinconia pastorale,
segue un episodio di misteriosi rumori naturali, di fo-
sforescenze sonore, la cui ispirazione è paragonabile
a quella della Musica della notte nei pezzi pianistici di
All’aria aperta. Quindi ripresa del canto di violoncel-
lo, secondo uno schema di forma ternaria. Attorno a
questo nucleo riposto il secondo e quarto tempo con
carattere di Scherzo, entrambi contraddistinti da un
particolare esecutivo: l’uno, Prestissimo, è tutto da
eseguire con sordina; l’altro, Allegretto, è tutto piz-
zicato. Entrambi affermano ostinati schemi di forma
ternaria. Infine l’Allegro e l’Allegro molto stanno alla
superficie della composizione, come due strati sona-
tistici esterni.
È ovvio che, a seconda che il tempo centrale sia un
tempo lento, oppure uno scherzo rapidissimo, come
sarà nel Quinto Quartetto, l’intera portata espressiva
e stilistica della composizione resta rivoluzionata. So-
no le due facce dell’io di Bartók che prevalgono di
volta in volta: quella introspettiva ed espressionistica
portata alla ricerca visionaria della realtà segreta delle
cose e all’auscultazione interiore dei tumulti che av-
vengono nelle cellule della materia; e l’altra la serena
faccia realistica, alimentata dall’ispirazione popolare
e dal contatto attivo con la collettività, tanto concreta
quanto l’altra è impalpabile e penetrante.
Appunto per accostare due composizioni sim-
metriche, analoghe e antitetiche come il Quarto e il
Quinto Quartetto, salteremo ora momentaneamente
alcuni anni della vita di Bartók e alcune composizioni
importanti. Quarto e Quinto Quartetto si fronteggia-
no, a distanza di sei anni, come due attuazioni oppo-
ste della medesima concezione di «forma a ponte»:
l’uno con un tempo lento annidato nella posizione
centrale, l’altro, al contrario, con un tempo rapido a
carattere di Scherzo, e perciò due tempi lenti in secon-
da e quarta posizione.
I movimenti del Quinto Quartetto (1934) sono: Al-
legro, Adagio molto, Scherzo alla bulgarese, Andante,
Finale - Allegro vivace.
Ci si accorda generalmente a riconoscere nel Quin-
to Quartetto un carattere più estroverso e solare, in
confronto al Quarto, appunto per la presenza di uno
Scherzo nella posizione centrale, cioè nel terzo tempo,
che imprimerebbe a tutta la composizione un piglio
alacre, dinamico, incalzato da un’irresistibile tensio-
ne. Anche nei momenti di quiete si avverte l’urgenza
di un «interno impulso agogico che, – come scrive
Guido Turchi, – tutto travolge e consuma con furia
quasi barbarica». D’altra parte non ci si può nascon-
dere l’enorme portata e l’enorme peso espressivo del
quarto tempo, che è un Lento, e che sposta perciò
l’accento generale dai tre tempi dispari, di movimen-
to rapido, ai due tempi pari, di movimento lento.
Certo è che intorno al Quarto e al Quinto Quartetto
di Bartók si sono venute creando quasi due fazioni,
divise polemicamente intorno alle sorti e ai meriti del-
la musica contemporanea. Il Quarto Quartetto viene
considerato come una delle punte avanzate dello stile
di Bartók verso la tendenza dodecafonica ed è perciò
esaltato dai sostenitori di tale indirizzo. Nel Quinto
Quartetto si sogliono invece ravvisare tracce di una
restaurazione tonale. Se ne vuole quindi anche infe-
rire che il Quinto Quartetto manifesti piuttosto un
senso di partecipazione attiva alla vita multiforme del
mondo esterno anziché scavo introspettivo; tenga più
dell’azione che della contemplazione; indulga più a
una dinamica socialità che a lirica solitudine dell’ani-
ma. Ma potrebbe darsi che esso presenti semplice-
mente un compiuto e raggiunto equilibrio tra queste
diverse componenti dell’anima e dell’arte di Bartók,
spesso schierate finora a fronteggiarsi in due modi ir-
riconciliabili. Certo è che nella tematica del Quinto
Quartetto ha maggiore importanza l’ispirazione po-
polare che non l’artificiosa sottigliezza cromatica.
Nonostante il suo carattere incalzante e impetuo-
so, la struttura del Quinto Quartetto è elaboratissima e
unitaria, grazie a un gioco calcolato di simmetrie inter-
ne (per esempio, la forma a ponte viene attuata anche
all’interno del secondo e del quinto tempo, per mezzo
di uno schema formale corrispondente, press’a poco,
a: A B C B A). Il primo tempo si fonda principalmente
sul contrasto di due temi, di cui l’uno ha carattere di
insistenza ripetitiva, e l’altro invece ha carattere di flu-
ido scorrimento. Nell’Adagio molto si succedono or-
dinatamente sei brevi episodi simmetrici, e cioè un’in-
troduzione, un pallido canto di violino sopra sonorità
religiose di corale, un episodio di tremoli, pizzicati e
sussurri, genere Musica della notte, e un episodio di
lento contrappunto germinale, tardo-beethoveniano,
episodio che viene tosto ripetuto a specchio, cioè con
intervalli uguali ma rovesciati, poi si ha una brevissima
ripresa dell’episodio in stile di corale, e infine un breve
postludio, simmetrico all’introduzione.
Dopo il vivacissimo ed estroverso Scherzo alla bul-
garese, l’Andante non riprende l’elaborata simmetria
del secondo tempo; si direbbe quasi che a un certo
punto un drammatico episodio, costituito da una
specie di grido, un accento palleggiato in alto, ora da
questo ora da quello strumento, come un’invocazione
angosciosa, sopra il mareggiare tempestoso degli al-
tri strumenti, prenda il sopravvento e invada tutta la
composizione. È questa una delle concezioni più im-
pressionanti e drammatiche dell’arte di Bartók: come
un grido di aiuto in mezzo a una tempesta. Il Quinto
Quartetto fu scritto in realtà in uno dei momenti più
sereni della vita del compositore: il successo comin-
ciava ormai ad arridergli senza riserve nell’ambiente
musicale internazionale, e di riflesso imponeva perciò
la sua fama anche all’interno dell’Ungheria; le diffi-
denze e le ostilità del governo di restaurazione nei ri-
guardi di Bartók, partecipe della rivoluzione comuni-
sta nel 1919, si erano ormai dissipate di fronte alla sua
fama mondiale; la vita famigliare gli arrideva serena
nel secondo matrimonio; il lavoro e l’arte sua gli erano
larghi di soddisfazione. Eppure raramente Bartók ha
scritto un pezzo così turbato e presago come questo
Andante del Quinto Quartetto. E davvero v’è in esso
come il presagio di quanto infatti sarebbe di lì a poco
successo: si era nel 1934, e la minaccia nazista comin-
ciava appena ad allungare la sua ombra sull’Europa
centrale; ma era come se Bartók avesse già presente
tutto, gli orrori della tirannia e della guerra, la fuga,
l’esilio, l’abbandono delle sue più care abitudini di
vita e di lavoro, la tragedia che avrebbe colpito l’uma-
nità di lì a pochi anni.
Nell’ultimo tempo, molto esteso e di elaboratissima
costruzione, si resta sorpresi dall’inserzione di un epi-
sodio Allegretto con indifferenza, che reca una rozza
melodia da organetto meccanico. A rigore, sono le me-
desime note d’un altro episodio di questo stesso finale,
che qui ritornano, ma con valori ritmici raddoppiati, e
perciò stravolte nel loro senso musicale, in posizione
perfettamente simmetrica: costituiscono infatti l’ulti-
mo episodio prima della conclusione, così come prima
tali note erano apparse nel primo episodio dopo l’espo-
sizione. La deformazione caricaturale si richiama a
un’abitudine abbastanza diffusa presso certi com-
positori contemporanei, iniziata probabilmente da
Schönberg, che aveva infilato la zotica melodia della
canzone Du lieber Augustin nel ricercato cromatismo
del suo Secondo Quartetto (1907). Riferimenti, oggi si
direbbe, alla condizione alienata dell’uomo e dell’arte
nel mondo attuale. Nel Quartetto di Bartók quasi un
momento grottesco di attonita, dolorosa stupefazione
dell’anima, che emerge ottusa, istupidita, dall’agitazio-
ne incalzante del mondo esterno.
Capitolo decimo
La maturità artistica

Ritorniamo un poco indietro per considerare alcune


delle composizioni più importanti scritte da Bartók
tra il Quarto e il Quinto Quartetto, in quel perio-
do, cioè, dopo il 1930, che vede la piena espansione
delle sue tournées pianistiche: nel 1931 in Spagna,
in Germania, in Portogallo, a Salisburgo, a Ginevra,
dove assiste ad alcune sedute della Società delle Na-
zioni, e dove si intrattiene con Thomas Mann. Gli
uomini politici democratici lo deludono poco meno
di quanto lo avesse deluso un tempo la regina di Spa-
gna chiedendogli di suonarle una Czardás, cioè una
tipica danza di folklore ungherese contraffatto. Alla
Società delle Nazioni ciò che si apprezza soprattutto
di Bartók, e ciò che egli è sempre invitato a suonare,
sono le vecchie composizioni pittoresche come Sera
al villaggio, la Danza dell’orso. Nel 1932 fu forse ad
Alessandria d’Egitto (l’interesse per le ricerche di
folklore musicale si allargava ormai, per lui, a tutto il
bacino mediterraneo). Nel 1934, o poco oltre, otten-
ne finalmente la sospirata sospensione dall’insegna-
mento presso l’Accademia Musicale Ferenc Liszt, e
venne distaccato, conservando lo stipendio, presso
l’Accademia delle Scienze, senza altro compito che
di proseguire liberamente le sue ricerche scientifiche
sul canto popolare. Ciò gli consentirà naturalmente
maggiore libertà e mobilità per la sua attività con-
certistica.
La prima composizione importante che s’incontra
dopo il Quarto Quartetto è la Cantata profana (1930),
singolare composizione vocale e strumentale per te-
nore, baritono, coro e orchestra, nei tempi Molto mo-
derato, Andante, Moderato. Anch’essa, come l’ope-
ra Il Castello di Barbablù, dice qualcosa di esplicito
sugli ideali del compositore. L’apparenteremo in un
certo senso al balletto Il Mandarino meraviglioso, per
la violenza estrema, si potrebbe dire il radicalismo,
con cui si manifesta il culto di Bartók per la Natura.
Là essa era vista nell’istinto sessuale, qui invece essa
si oppone in un certo senso alla civiltà, e, nella civil-
tà, proprio a quell’istituto che ne è il fondamento più
sacro e indiscusso: la famiglia. Natura e libertà qui
sembrano fare tutt’uno, in una scelta di audacia qua-
si sconvolgente. Ma il clima di patetica commozione
raggiunto nel punto culminante, dove si oppongono
i due ordini di valori nemici (Natura e libertà da un
lato, affetti famigliari dall’altro), investe entrambe le
posizioni d’una partecipazione espressiva superiore
alla scelta ideologica.
L’aspetto predominante di Bartók è quello d’un
compositore strumentale. Dopo l’opera in un atto del
Castello di Barbablù, e i Cinque Canti sulle poesie di
Endre Ady, egli s’era accostato solo occasionalmen-
te alla voce umana, esclusivamente per trascrizioni
di melodie popolari. Acquista perciò un carattere
di singolarità la Cantata profana. A badare soltanto
agli aspetti esteriori, si rischierebbe di prenderla per
un pannello decorativo, per un’elaborazione pittore-
sca di leggenda popolare. Invece è qualche cosa di
estremamente profondo, che impegna la coscienza
dell’uomo: la Cantata profana è un credo, è la profes-
sione della fede laica e umanistica del compositore.
Titolo e forma sono scelti con accurata consapevolez-
za. La forma e la serrata tessitura contrappuntistica
della scrittura, che involge voci e orchestra in una sola
trama, rivelano lo studio delle Passioni o delle Canta-
te di Bach, opere sostanzialmente religiose. L’aggiun-
ta della specificazione «profana» sta a contraddire, o
piuttosto a correggere il carattere di religiosità impli-
cito nel titolo di Cantata.
Sotto il velo d’una trasparente allegoria, la Cantata
profana è un elogio della libertà che il democratico
Bartók oppone all’oppressione reazionaria del gover-
no del reggente Horthy. Ma a questa presa di posizio-
ne politica si mescola, e la sostanzia, la venerazione di
Bartók per la Natura, quel suo sentimento panico che
gli faceva scorgere nelle apparenze di questa terra,
nella vita delle piante e degli animali le testimonianze
d’una religione immanente, d’una santità, appunto,
profana, che fu la norma della sua vita.
Il testo della Cantata è stato apprestato dallo stes-
so musicista sulla scorta di canzoni popolari rumene
nelle quali è tramandata la leggenda dei Cervi incanta-
ti: tale il sottotitolo dell’opera. Un vecchio cacciatore
aveva nove figli, che non aveva educato a nessun lavo-
ro, né di contadini né d’artigiani, ma solo alla caccia.
Ogni giorno essi trascorrevano in frotta inseguendo la
selvaggina attraverso boschi e montagne. Un giorno
inseguirono un grosso cervo così a lungo, che finirono
per smarrirsi in luoghi sconosciuti e, varcato un certo
ponte, eccoli magicamente trasformati in nove cervi
di montagna.
Dopo averli attesi a lungo invano, il padre imbrac-
ciò il fucile e si recò a cercarli. Giunse al ponte, scorse
le tracce di grossi cervi e ben presto scoprì la frotta
dei nove animali. Pone un ginocchio a terra, imbrac-
cia il fucile e prende la mira, quando il più grosso dei
cervi – era il suo figlio maggiore – gli rivolge la parola.
«Caro padre», lo chiama, anzi, «caro babbino», e
l’appellativo è affettuoso.
Ma la sostanza del discorso non esprime affatto
nostalgia o rammarico per la mutata condizione. Al
contrario, le sue parole sono aspre, e pronunciate
con un crescendo di violenza impressionante. «Non
sparare», egli dice. Ma non dice mica: «Non sparare
perché siamo i tuoi figli». Dice semplicemente: «Non
sparare, perché se no noi ti caricheremo con le nostre
corna e ti schiacceremo di roccia in roccia, ti sfracel-
leremo di monte in monte, e ti faremo a pezzi sulla
pietra muschiosa».
La nuova natura ha interamente occupato l’animo
dei figli, colmando ogni loro vuoto, rivelando loro
l’ebbrezza d’una nuova condizione in contatto con le
realtà elementari dell’esistenza. Invano il padre cerca
di commuoverli e di richiamarli a casa, ricordando la
madre che li attende in pianto presso la tavola appa-
recchiata, con le candele accese e i bicchieri colmi di
vino. La risposta del gran cervo è definitiva: «Vacci tu
a casa, vacci tu dalla nostra cara mamma, ma noi non
ci andiamo. Non ci andiamo perché la nostra impal-
catura non passa più attraverso porte, ma solo tra i
monti si può portare: il nostro corpo non può più an-
dar vestito di panni, ma solo tra verdi foglie; il nostro
piede non può più calpestare la cenere del focolare,
ma solo le foglie secche; la nostra bocca non può più
bere a bicchieri, ma solo alle fonti».
La veste musicale data da Bartók a questa leggenda
la ripartisce in tre parti, la cui diversa natura si può
designare, grosso modo, come epica, drammatica e li-
rica. Nella prima parte il testo è narrativo, affidato alla
polifonia del coro. Vi si distinguono cinque episodi,
e cioè una breve introduzione strumentale, tre diver-
se strofe corali, e un brevissimo epilogo strumentale.
Introduzione e primo episodio corale sono come un
lento aprir di sipario, le nubi del tempo diradano a
poco a poco lasciando allo scoperto le incerte figure
di leggenda, la storia del padre cacciatore che non ad
altro che alla caccia aveva allevato i suoi figli. Da que-
sta brumosa indistinzione d’un paesaggio favoloso ci
riscuote il secondo episodio corale, la violenta e sel-
vaggia fuga della caccia: il feroce grido dei cacciatori
trascorre in imitazioni sempre più serrate, di voce in
voce e poi di strumento in strumento, particolarmen-
te nei corni, sopra un ostinato degli archi. Infine il
terzo episodio corale e il breve epilogo orchestrale
ritraggono nelle lente armonie d’un corale variato lo
stupore magico della metamorfosi cui vanno soggetti
i nove cacciatori smarriti.
Nella seconda parte – il padre che muove alla ricer-
ca dei figli, l’incontro, il dialogo con il figlio maggiore –
la sostanza della composizione si fa drammatica. Il
coro pronuncia solo i pochi versetti di collegamen-
to, come un historicus di oratorio, e poi baritono e
tenore impersonano rispettivamente, in discorso di-
retto, il padre e il figlio. La prima, violenta apostrofe
del figlio è una libera aria di tenore, come una pro-
gressione di dure frasi spezzate, ribadite da stizzose
repliche orchestrali. Tanto l’aria del tenore è aspra,
rettilinea, di brevi accenti spezzati e aggressivamente
ascendenti, altrettanto sono pateticamente ricurve le
ampie linee discendenti dell’aria di baritono con cui
il padre cerca invano di ricondurre i figli trasformati
all’affetto della madre. Per un attimo il coro abban-
dona il suo imparziale compito narrativo e s’inserisce
direttamente ad appoggiare la sua preghiera: «Andate
con lui, seguitelo». È un momento di grande e miste-
riosa commozione tanto più profonda quanto l’inten-
zione espressiva è appena sfiorata, senza insistenza: è
il duro costo della libertà, l’addio ai più dolci affetti,
la scelta irrevocabile d’una vita selvaggia. Sono ormai
di fronte due mondi, due nature che non potranno
più intendersi. Nell’epica impassibilità della narrazio-
ne trema appena un velo di pietà per il vecchio padre
abbandonato, sottolineata dall’intervento eccezionale
del coro. Ma il compositore non v’indulge: la pietà è
nelle cose in sé, nell’inesorabilità della situazione, e
non v’è bisogno d’insistervi, tanto più che il suo cuore
è dall’altra parte, con la libera ribellione dei figli. V’è
una sobrietà omerica nella compostezza con cui que-
sta musica sfiora le corde emotive.
L’ultima parte si salda senza interruzione alla se-
conda, dopo le ultime battute di dialogo e l’ultima
aria di tenore. È di nuovo il coro, che riprende la nar-
razione leggendaria dal principio: «C’era una volta un
cacciatore...». Le brume della leggenda si richiudono
sopra l’evidenza drammatica con cui era emerso, nel-
la parte centrale, il contrasto dei due solisti: è come
se un bassorilievo si fosse mutato, per un momento,
magicamente in figure a tutto tondo, che poi s’appiat-
tiscono di nuovo e si dissolvono nei piani di fondo.
Solo alla fine, quando il coro riferisce, rievocando, le
parole del cervo, la voce del tenore vi si associa bal-
zando in primo piano con un acuto giro melismatico.
Difficile situare la Cantata profana nella parola
stilistica del compositore e, perfino, nel panorama
della musica contemporanea. Unica ed eccezionale,
ha la semplicità di un’arte che non appartiene a nes-
sun tempo determinato, perché nasce classica. Solo
la convinzione profonda, un impegno che investe le
fibre più riposte della coscienza e carica di senso ogni
accento, ogni particolare, possono spiegare il segreto
della sua sobrietà.
Esteriormente, però, la Cantata profana si colloca
in un preciso momento della musica contemporanea,
che vede una rinascita dell’interesse per l’espressio-
ne corale. In origine, negli anni a cavallo della pri-
ma guerra mondiale, la musica moderna era stato un
fenomeno prevalentemente strumentale, quasi per
reazione alla diffusa vocalità dell’Ottocento. Casi di
persistente interesse nella scrittura vocale, e in parti-
colare corale, come quello di Pizzetti fra noi, o di Ho-
negger col Roi David (1921-23) e la Judith (1925), e
dello stesso Kodály, col Psalmus hungaricus del 1923,
erano rimasti qualcosa di eccezionale. Così come un
caso particolarissimo e per così dire locale è la coralità
de Les Noces di Stravinskij nel 1923. Invece fra il 1926
e il 1930 la musica europea produce un gruppo di
lavori corali e sinfonici importanti, che determinano
lo sviluppo futuro della musica e proseguiranno poi
nella vocazione corale di Petrassi e Dallapiccola, di
Webern e Nono. Il primo di questi lavori fu la sin-
golare Messa glagolitica (1926) del cecoslovacco Leoš
Janáček, seguito dallo Stabat Mater del polacco Szy-
manowski. Ma il più ricco di conseguenze fu proba-
bilmente la Sinfonia di Salmi di Stravinskij, che uscì
nel 1930, come la Cantata profana.

Del 1931 è il Secondo Concerto per pianoforte e or-


chestra, in tre tempi (Allegro, Adagio, Allegro molto),
che riprende un poco la tendenza neoclassica del
Concerto precedente, accentuandone però la violenza
barbarica e imprigionandola entro una rete fittissima
di corrispondenze tematiche e d’ingegnosi artifici
contrappuntistici. Le esigenze spaventose della par-
te solistica documentano il grado di virtuosismo cui
era pervenuta la tecnica pianistica di Bartók. Il tempo
lento alterna ripetutamente una frase di larghi accor-
di, a guisa di corale, con episodi più mossi e dramma-
tici. Ma l’elemento, fondamentalmente religioso, del-
la scrittura in stile di corale, per frasi melodiche lente
e solenni, armonizzate in ampi accordi, comincia qui
ad apparire nell’arte di Bartók e vi ritornerà in seguito
con crescente insistenza. Anticipando, l’avevamo già
segnalato nel Quinto Quartetto.
Riprendendo ora il corso del nostro esame dopo il
Quinto Quartetto (1934), ci troviamo di fronte al pe-
riodo della piena maturità dell’arte di Bartók, che dà
luogo, tra il 1936 e il 1940, a un gruppo d’autentici ca-
polavori, quali la Musica per archi, percussione e cele-
sta, la Sonata per due pianoforti e percussione (1937), il
Concerto per violino (1938), il fortunato Divertimento
per orchestra d’archi (1939) e il Sesto Quartetto (1939).
Non potendoli esaminare tutti, ci soffermeremo
su uno di essi a titolo d’esempio, la Musica per archi,
percussione e celesta (1936), nei tempi Andante tran-
quillo, Allegro, Adagio, Allegro molto.
Originata da un’ordinazione del direttore d’orche-
stra svizzero Paul Sacher, fondatore di un’orchestra
d’archi a Zurigo specializzata nell’esecuzione di musi-
ca moderna, questa composizione deve il suo organi-
co strumentale alla circostanza esterna della sua desti-
nazione. Ma della limitazione il compositore fece un
motivo d’ispirazione e di stimolo alla fantasia.
Eccezionalmente, la Musica per archi, percussione e
celesta non fa ricorso allo schema ternario o alla for-
ma a ponte; è una delle poche grandi composizioni di
Bartók in quattro tempi, con alternanza di movimen-
ti lenti e di movimenti rapidi. A eccezione dunque
dell’elemento formale a ponte, la Musica realizza for-
se la sintesi più compiuta e artisticamente persuasiva
dei vari elementi spirituali e tecnici che abbiamo visto
confluire nella concezione artistica di Bartók.
Il primo tempo (Andante tranquillo) è la formu-
lazione più alta di quel principio che abbiamo defi-
nito «contrappunto germinale» o cosmico, che ave-
vamo visto affacciarsi nel Lento del Primo Quartetto
(1908), e perfino già nel primo dei Due ritratti per
orchestra (1907), più tardi ritrovandolo parzialmente
in certi passi del Castello di Barbablù o della Cantata
profana. Nel primo dei Due ritratti, avevamo detto,
la prima intuizione di questo procedimento di con-
trappunto «autointegrativo», di derivazione assai
più beethoveniana che bachiana, era turbata dalla
mancanza di omogeneità timbrica: quando il germe
iniziale della composizione, dopo essere dilagato
attraverso le famiglie degli archi passava ai fiati, la
diversità di timbro sembrava rompere la trama del-
la sua biologica espansione. Qui, l’orchestra d’archi
addita al compositore la necessaria coerenza. Un te-
ma cromaticamente strisciante viene enunciato pia-
nissimo da una voce sola, poi, attraverso successive
entrate per intervalli di quinta si combina via via con
se stesso, ampliandosi come una macchia d’olio e in-
tensificandosi dinamicamente fino a un culmine si-
tuato a metà della composizione. Qui per un attimo
le voci si associano melodicamente all’unisono, poi
entrano nel processo inverso e rovesciato il tema, co-
minciano a dissociarsi per uscite successive e regre-
discono fino a rientrare in quell’indistinto brusio da
cui erano emerse.
È questa la formulazione più alta di un’intuizione
musicale che ha sempre abitato la fantasia di Bartók
e in cui si traduce il suo interesse appassionato per
la vita segreta della materia: il moto roteante delle
parti in questo contrappunto germinale sembra qua-
si un’anticipazione intuitiva di quella vita e mobilità
di neutroni e protoni in cui consiste l’apparente sta-
bilità dell’atomo. Il gusto di Bartók per la vita inte-
riore della materia lo apparenta in anticipo a certi
aspetti recentissimi dell’arte informale, oppure delle
modernissime scuole narrative, come l’«école du re-
gard» nel romanzo francese dei Robbe-Grillet, Bu-
tor, Nathalie Sarraute, dove si manifesta la tenden-
za dell’artista individuale a tuffarsi e sommergersi
nella materia. Si confronti, per un caso singolare di
coincidenza, questa recensione di Claude Ollier, nel-
la «Nouvelle Revue Française», a un romanzo del-
la «école du regard», L’herbe, di Claude Simon. «Il
racconto s’avvia da principio a tastoni, come nato
da qualche parola informe buttata sulla terra nuda;
brandelli di frasi raffazzonate formano una cellula
iniziale che cresce e si irrobustisce, prolifica, si in-
grandisce e infine nereggia sempre più sulle pagine
bianche. Insensibilmente quell’apparente disordine
si organizza, il lettore vi intravede dei secondi piani,
afferra un ritmo conduttore; la materia del romanzo,
autofecondatasi, germoglia e dirama le sue branche
in tutte le direzioni.» Parola per parola questa de-
scrizione si potrebbe applicare all’Andante tranquil-
lo della Musica per archi e in genere a quel tipo di
concezione musicale di Bartók che definiamo come
«contrappunto germinale» o «autointegrativo». La
sola differenza è che Bartók non cerca il seno profon-
do della materia per annientarvi la propria coscienza
d’uomo. Il materialismo di Bartók è un materialismo
umanistico che non esclude la fede nella vita dello
spirito, ma vede lo spirito anche in seno alla materia.
Spiritualizzazione della materia è appunto il termine
che abbiamo usato per indicare il senso del contrap-
punto germinale in Bartók e della sua appassionata
esplorazione alle soglie del rumore nelle varie Musi-
che della notte. Il materialismo di Bartók è il contra-
rio del cieco materialismo positivistico, ma è anche
il contrario dell’idealismo imbelle, che pretende di
negare la materia invece d’investirla e permearla. La
parola più alta dell’arte di Bartók è quella del Verbo
che dovette farsi carne per operare sulla terra e servi-
re all’uomo e salvarlo.
Il tema strisciante del fugato nell’Andante ricom-
pare a tratti in ognuno dei tre movimenti successivi, e
costituisce il cemento unificatore dell’intera composi-
zione, in cui entrano tutti i momenti poetici preferiti
dalla fantasia di Bartók. Il secondo tempo è un Alle-
gro di Sonata, tanto vigoroso quanto il primo tempo
è pieno di mistero cosmico. Vi sono tipici aspetti del
Bartók «barbaro», insieme con momenti più lievi,
quasi, di scherzo, con dinoccolate melodie d’origine
contadina. È il momento della «socialità» di Bartók, il
momento del ritrovato contatto con l’uomo nell’atti-
vità operosa e nella realtà popolare.
L’Adagio è una tipica Musica della notte. Comincia
con una nota ribattuta di xilofono, che suona qua-
si come un appello da altri mondi, quasi un segnale
Morse di lontani pianeti. Il timbro gioca il ruolo prin-
cipale, e a esso Bartók affida i brividi delle sue visioni
più allucinanti, i fruscii, i sussurri in cui si esplica la
vita segreta delle cose. La struttura formale, però, è
saldissima, secondo la concezione concentrica cara al
compositore: l’Adagio è in sei episodi, di cui il sesto fa
riscontro al primo, il quinto fa riscontro al secondo e
terzo, e il quarto funge da cardine centrale.
L’ultimo tempo si apre e si svolge come una lieta
rapsodia popolare (che utilizza il tema del fugato ini-
ziale rovesciandolo, e mutandolo in una scala lidia su
ritmo bulgaro), e poi termina con una ripresa della fu-
ga iniziale: ma il tema ha perduto il suo cromatismo
strisciante e si è diatonicamente rasserenato, il che per-
mette una conclusione positiva, quasi un riemergere
alla luce e alla realtà della terra, dopo quell’angosciosa
visita agli Inferi che sono il primo e il terzo tempo.

Un discorso analogo si dovrebbe rifare per la Sonata per


due pianoforti a percussione (1937), che Bartók scrisse
a uso proprio e della moglie. È come se i fantasmi po-
etici evocati nella Musica per archi non avessero ancora
esaurito la loro efficacia e sollecitassero la fantasia del
compositore, chiedendo altre sistemazioni. Il materia-
le timbrico fornisce l’elemento di novità, permettendo
curiosi scambi, quasi illusionistici, perché i due piano-
forti, che costituiscono la massa melodica e cantante, si
prestano a essere trattati essi stessi come percussione,
mentre per contro lo xilofono e perfino i timpani si as-
sumono a volte una funzione di guida melodica.
Il materiale tematico non è lontano da quello del-
la composizione precedente: nell’un caso e nell’altro
proviene dalla perfetta assimilazione del canto popo-
lare magiaro, che non conserva più nulla di esterior-
mente folcloristico, ma ha permeato di sé, dei propri
intervalli tipici, delle proprie leggi melodiche, l’orga-
nizzazione dei suoni. La Sonata è in tre tempi, di in-
stabile e cangiantissimo movimento, ma in sostanza
due tempi allegri con un Lento centrale.
Pure in tre tempi sono il Concerto per violino e il
Divertimento per archi, sui quali dobbiamo sorvolare,
ma che contano tra le più compiute e mature realiz-
zazioni dell’arte di Bartók. Ricorderemo pure di sfug-
gita la pubblicazione della grande raccolta pianistica
del Mikrokosmos (1937), sei fascicoli di esercizi e studi
per pianoforte in ordine progressivo di difficoltà, de-
stinati ad apprendere al fanciullo non solo la tecnica
strumentale, ma la musica stessa, in particolare la mu-
sica moderna, nelle sue formulazioni più intransigen-
ti. In confronto all’amenità della raccolta Für Kinder,
il Mikrokosmos appare assai più rigoroso e severo. In
pratica il suo scopo va ancora oltre all’apprendimento
stesso della musica, e quasi si pone come un tentativo
di educazione dell’uomo attraverso la musica, secon-
do una concezione che un tempo Bach aveva difeso.
Il Sesto Quartetto (1939) resta forse un poco in-
feriore alle sommità raggiunte nel quarto e nel quin-
to. È in quattro tempi, di strana e ricercata struttu-
ra. I tempi sono Vivace, Marcia, Burletta e Mesto; ma
ognuno di essi è preceduto da una specie di epigrafe,
il Mesto che appare nel primo tempo per viola sola,
poi a due voci, poi a tre, e nell’ultimo occupa tutto
il Quartetto d’archi, e non più un’epigrafe, un prelu-
dio a qualcos’altro, ma è esso stesso principio e fine.
Chiara perciò la visione pessimistica che sottostà a
questa struttura formale.
Bartók infatti aveva visto con angoscia la minaccia
nazista espandersi dalla Germania e affacciarsi sem-
pre più da vicino sul suo paese, fino all’inclusione di
esso nel blocco dell’asse Roma-Berlino. L’avversio-
ne di Bartók per la dittatura fu recisa e inesorabile.
Sempre più a malincuore si recava a dar concerti in
Italia, dove pure contava amicizie sincere e ammira-
tori senza riserve tra i musicisti del tempo, perché di-
sgustato dalla realtà che vedeva nel paese. Si accostò
strettamente, in questi anni, ad amici svizzeri, come il
direttore d’orchestra Paul Sacher e altri, ai quali affi-
dò copie autografe delle sue composizioni, nella tema
che dovessero andare smarrite nel corso degli eventi
ch’egli vedeva con affanno addensarsi sull’Europa, e
dai quali la Svizzera poteva sperare di essere rispar-
miata. Molte lettere di questo tempo esprimono l’ir-
riducibile avversione di Bartók alla dittatura. In una
specie di testamento, del 1940, lasciò scritto: «I miei
funerali avvengano nel modo più semplice possibile.
Se per caso dopo la mia morte si avesse l’intenzione
di chiamare col mio nome una via o collocare in luogo
pubblico una lapide commemorativa, il mio desiderio
è questo: finché a Budapest la ex piazza dell’Ottagono
e l’ex Körönd (piazza circolare) resteranno denomi-
nate col nome di quegli uomini da cui attualmente so-
no denominate, inoltre finché vi sia comunque in tut-
ta l’Ungheria piazza o strada denominata da quei due
uomini, in questo paese il nome mio non venga usato
a denominare né piazza né via né edificio pubblico,
né venga collocata per me una lapide commemorativa
in luogo pubblico». I due uomini che Bartók evitava
di nominare erano, naturalmente, Hitler e Mussolini.
Nella primavera del 1940, a guerra già iniziata in
Europa, una tournée di concerti in America fu come
una ricognizione del terreno per la prossima, inevi-
tabile conclusione: l’esilio. Prima che l’America en-
trasse in guerra e si chiudesse così ogni possibilità
di scampo, nell’ottobre del 1940 Bartók e la moglie
lasciarono Budapest, e con un avventuroso viag-
gio attraverso l’Italia e la Francia tra oscuramenti e
bombardamenti aerei, disguidi ferroviari, perdita dei
bagagli in Spagna, giunsero in Portogallo in tempo a
imbarcarsi su uno degli ultimi aerei di linea per l’A-
merica. Si stabilirono a New York, avendo Bartók
ottenuto un primo incarico provvisorio presso la Co-
lumbia University, che il 25 novembre gli conferiva il
dottorato honoris causa. Esisteva in quella Università
un fondo di melodie jugoslave inedite, lasciate da un
precedente ricercatore, e a Bartók toccò il compito di
studiarle, ordinarle, catalogarle e predisporne la pub-
blicazione. Comincia così l’ultimo periodo della vita e
dell’arte di Bartók, quello dell’esilio, da lui affrontato
con dolorosa consapevolezza di quel che lo attende-
va. «Questo viaggio, – scriveva il 14 ottobre all’amica
svizzera Müller-Widmann, – è in fin dei conti un salto
nell’incertezza da una certezza insopportabile.»
Capitolo undicesimo
L’esilio americano

I primi anni del soggiorno americano di Bartók ve-


dono un’interruzione dell’attività creativa, per ovvie
difficoltà di adattamento. A quasi sessant’anni d’età
l’artista, che in Europa era giunto alfine a una situa-
zione soddisfacente di riconoscimento del suo merito,
si vede costretto a ricominciare da capo l’esistenza,
nell’incertezza del domani, costretto a riprendere la
fatica dell’insegnamento, sia pubblico, alla Columbia
University, sia privato. Non si può dire che gli am-
bienti culturali americani abbiano peccato di trascu-
ratezza nei riguardi dell’immigrato; ma naturalmente
agli effetti delle pratiche burocratiche e per la massa
degli americani Bartók non era che uno fra i tanti pro-
fughi europei. Di più, la salute stessa del musicista
cominciava a essere gravemente compromessa. Le
frequenti febbri, ritenute di natura reumatica, erano
invece l’indice del male irrimediabile che l’avrebbe in
breve condotto alla fine: leucemia, cioè impoverimen-
to del sangue e carenza di globuli rossi. Le istituzioni
sociali americane gli assicurarono benefiche villeggia-
ture estive presso il lago Saranac, ma il resto dell’anno
nella caotica bolgia di New York non era certamente
salutare al suo fisico. Né gli piacevano certi aspetti
della vita americana, particolarmente l’ottimismo su-
perficiale del «keep smiling», la mentalità commer-
ciale e attivistica, la facilità comunicativa dei contatti
umani.
È impossibile dire quale sia stata la portata di que-
ste circostanze esterne sull’arte di Bartók, quand’egli,
nel 1943, ritornò alla composizione, avendo final-
mente assestato un poco la sua esistenza, e avendo
ricevuto una lusinghiera ordinazione della Fondazio-
ne Küsservitzky dell’Orchestra Sinfonica di Boston.
Certo è che gli ultimi lavori di Bartók, composti in
America, recano un’impronta comune di minore ra-
dicalismo stilistico: la modernità spinta, e quasi pro-
vocante delle composizioni scritte in Europa dopo il
1926 subisce una specie di temperamento. Si direbbe
che nelle nuove circostanze l’intransigenza adamanti-
na di Bartók si sia un poco smussata, e se non piegata
al compromesso, certo aperta a una maggiore com-
prensione verso le posizioni artistiche diverse dalla
sua. I caratteri espressivi delle composizioni si fanno
più espliciti, pur perdurando la rigorosa complessità
della struttura formale. Per contro il linguaggio ar-
monico si chiarifica; si mitiga l’asprezza delle disso-
nanze, i centri tonali riappaiono molto più evidenti
che nelle composizioni del recente passato. Perfino
nei riguardi del canto popolare magiaro, Bartók sem-
bra ora più conciliante verso quelle forme zigane
che un tempo aveva sempre ferocemente schernito,
e rigorosamente escluso dalla propria musica. L’esi-
lio sembra proporre un’altra visione, più larga e più
comprensiva, della patria ungherese. Anche gli Ziga-
ni, in fondo, sono Ungheria. Anche le loro vilipese
orchestrine che suonano nei caffè di Budapest fanno
parte dell’immagine di quella patria perduta, e nelle
composizioni americane di Bartók si direbbe talvol-
ta che il patetico melodizzare zigano trovi diritto di
cittadinanza accanto allo scabro formulario del canto
contadino.
Nella sua polemica contro la «canzone popolare da
caffè-concerto» Bartók era stato d’una severità cru-
dele. Intorno al nucleo dell’antica canzone contadina
magiara aveva elevato gli argini d’un classicismo in-
giusto, ma allora necessario per la conquista e la di-
fesa della propria ragion d’essere artistica. Ma dopo
tutto, anche questa era Ungheria: non solo il contadi-
no che suda sui campi in zoccoli e pantaloni sdruci-
ti, canticchiando una nenia bizantina tramandata per
lungo ordine di generazioni, ma anche lo zingaro in
pittoresco giubbetto e in stivaloni rossi, e il buon bor-
ghese che ne ascolta beato le rapsodie sulle terrazze
dei caffè di Budapest, ignaro che una catena di me-
stieranti della musica le hanno manipolate, sulla scia
di Liszt e di Brahms.
Furono la maturità e l’esilio a concedere a Bartók
l’ampiezza d’una più indulgente prospettiva. Dalla
fredda foresta in cemento armato di Broadway il ri-
cordo volava intenerito verso tutta la patria lontana: sì,
certo, le dure canzoni dei contadini nei lontani distretti
di Maramaros, di Csik, di Maros-Torda, di Komarom,
ma anche il virtuosismo strumentale zigano, con le sue
impurità, il suo imbastardimento urbano. Ripeness is
all. L’età matura capisce – anche se non le accetta –
le cose che l’età giovane combatte ciecamente, senza
capirle. Tutto era ugualmente caro, adesso, all’animo
dell’esule: l’Ungheria vecchia e l’Ungheria recente, la
campagna e la città, il contadino e l’operaio inurbato,
e, sì, magari anche il borghese, un tempo tanto stig-
matizzato per la sua infedeltà allo spirito dell’autentica
cultura nazionale.
Questo impeto di riconciliazione nella nostalgia
dell’esule, questa rievocazione intenerita d’una Un-
gheria intera, amata anche nei difetti, è il clima in cui
nasce la maggior parte dei lavori di Bartók in Ameri-
ca. Non è pensabile ch’egli abbia soggiaciuto a con-
siderazioni d’opportunità per adattarsi alla mentalità
del pubblico americano, oppure abbia voluto osten-
tare motivi polemici di reazione nei riguardi della do-
decafonia o d’altri movimenti musicali d’avanguardia.
La trasformazione è tutta interiore, avviene nel cuore
dell’uomo, sotto l’azione delle sue dolorose vicende
personali, travolte in quelle del mondo in guerra.

Il Concerto per orchestra (1943), nei tempi Andante non


troppo - Allegro vivace, Allegretto scherzando (Giuoco
delle coppie), Andante non troppo (Elegia), Allegret-
to (Intermezzo interrotto), Presto (Finale), ordinato a
Bartók dalla Fondazione Küssevitzky per l’Orchestra
Sinfonica di Boston, è il lavoro con cui Bartók, già mor-
to, dopo la guerra rifluì vittorioso sull’Europa e la con-
quistò fulmineamente. Tutti i tratti tipici della sua arte
si trovano in questo Concerto, a cominciare dalla forma
concentrica in cinque movimenti, come nel Quarto e
Quinto Quartetto. Nel terzo tempo, l’Elegia, sta il cuo-
re dell’opera: un canto intenso e appassionato, che sor-
ge da un lento contrappunto germinale dei bassi, tutto
avviluppato di brividi, di sussurri, di fosforescenze or-
chestrali. Una Musica della notte, e noi sappiamo ormai
che cosa significhi in Bartók questa concezione.
Attorno a questo seme dell’opera stanno, nel se-
condo e nel quarto movimento, due diverse espres-
sioni dell’umorismo di Bartók. Due Scherzi, di cui il
primo s’intitola Giuoco delle coppie, perché una carat-
teristica melodia saltellante ed elusiva viene esposta
successivamente da due fagotti, due oboi, due clari-
netti, due flauti, due trombe, in una specie di rassegna
degli strumenti a fiato, sopra un contrappunto stuzzi-
cante degli archi pizzicati. Non è da escludere il ricor-
do del Bolero di Ravel, e comunque si tenga presente
che si tratta d’un Concerto per orchestra, cioè d’un
pezzo destinato a esibire le possibilità d’una grande
orchestra sinfonica. A metà sorge un grave corale dei
fiati, poi il gioco delle coppie riprende, arricchito, sic-
ché il tempo si configura come uno Scherzo col suo
trio centrale.
L’umorismo di questo Scherzo è tagliente, bonaria-
mente grottesco, come per una scena di nanerottoli o
di gnomi burloni. Nel quarto movimento, invece, la Se-
renata interrotta, l’allegria è più aperta. Sono tre temi
inequivocabilmente popolari, il primo un po’ pungen-
te e bislacco nel ritmo disuguale, esposto in apertura
dall’oboe; il secondo un canto caldo e appassionato
esposto prima dalle viole, poi dai violini. Col suo sor-
prendente piglio patetico, quasi zigano, è la serenata
che il terzo tema viene a interrompere con un moti-
vetto discendente di un’allegria addirittura irriverente.
Motivo popolare anche questo, probabilmente della
regione sudetica. Esso ha un altro illustre precedente
sinfonico, poiché Šostakovič ne aveva fatto uno dei te-
mi principali della Sinfonia di Leningrado, volgendo-
ne l’ossessionante ripetizione a significare la brutale
e schiacciante pressione delle truppe germaniche. Se-
condo un racconto del figlio di Bartók, Pietro, il com-
positore ungherese avrebbe sentito per radio la Sinfo-
nia di Šostakovič, e avrebbe trovato tanto goffo quel
motivetto, da doversene liberare e quasi esorcizzare
con un impiego grottesco.
È tipico della forma concentrica di Bartók, che si
sia portati a descrivere l’opera cominciando dal tem-
po di mezzo, e risalendo poi – come dal centro di una
sfera verso la circonferenza – ai movimenti esterni. Il
primo, preceduto da una introduzione Andante non
troppo, piena di sospensione e di mistero, è carat-
terizzato dai rigidi movimenti tematici e culmina in
una fanfara contrappuntistica dei fiati. Il Presto finale
lega, come espressione generale, con la serenità del
quarto tempo e consiste in un vertiginoso e insisten-
te intreccio di danze popolaresche: conduce lontano
dalla tristezza elegiaca del terzo tempo e dalla severità
rigorosa del primo, in un’affermazione gioiosa dei va-
lori della vita.
Il sacro e il profano, il carattere e il caratteristico,
l’essenzialità della melodia contadina magiara e il pit-
toresco si conciliano nel Concerto per orchestra, uni-
ficati dalla Stimmung fondamentale del compositore,
che è la nostalgia dell’esule, lo spasimo intenerito del-
la rievocazione. Poi sarà, parallelamente al corso della
malattia che gli impoveriva il sangue, la progressiva
spogliazione dalle vestigia terrene, l’involarsi dell’arte
di Bartók verso una coraggiosa ascesi di sempre più
librata, immateriale castità, non dissimile dalla diafa-
na purezza di quel suo volto lavorato e polito come
un marmo dalle vicende dell’esistenza. Si estingue
l’elemento demoniaco che con tanta irruenza aveva
rumoreggiato un tempo nell’arte di Bartók, dall’Alle-
gro Barbaro alla Sonata per due pianoforti e percussio-
ne, dal Mandarino meraviglioso ai grandi Quartetti, e
sempre più vengono in luce certi valori di libera reli-
giosità, che già abbiamo cominciato ad avvertire nella
frequenza d’armonizzazioni in stile di corale.
Dopo le giovanili professioni di ateismo, Bartók
aveva poi aderito, lui nato di famiglia cattolica, a una
singolare setta protestante. Ne dava notizia egli stes-
so, in una lettera del 17 aprile 1942, a un altro esule
ungherese, il musicologo Otto Gombosi, che gli aveva
chiesto di tenere a battesimo la sua bambina. Metico-
loso e scrupoloso come sempre, aveva risposto: «Ac-
cetto molto volentieri di far da padrino, pur avendo le
mie opinioni personali sulla cerimonia del battesimo.
N .B . La mia religione (quella scelta da me è l’unitaria)
dice: il battesimo, sebbene sia molto raccomandabile,
non è indispensabilmente necessario». La setta uni-
taria era l’ala più spinta del protestantesimo in Un-
gheria. Vi era stata introdotta nella seconda metà del
Cinquecento dal saluzzese Giorgio Biandrata, e aveva
conquistato gran parte della Transilvania. Poi aveva
perso terreno e si è ridotta a un’esigua minoranza di
poche migliaia di credenti. Praticamente costituisce il
minimo di concessione al concetto di divinità, parten-
do da posizioni di rigoroso razionalismo.
Più che nell’ardua Sonata per violino solo (1944),
scritta per il violinista Yehudi Menuhin, e nella qua-
le sembra riaffiorare il ricordo e la conseguenza dei
giovanili entusiasmi di Bartók per i concerti di vir-
tuosi ascoltati a Budapest, tale progresso verso una
pensosa religiosità si manifesta negli ultimi due lavori
di Bartók, il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra
(1945), rimasto incompiuto per le ultime diciassette
battute e completato dal pianista ungherese Tibor
Serly, sulla scorta di abbozzi del compositore, e il
Concerto per viola, largamente incompiuto, anch’esso
finito e orchestrato da Tibor Serly.

Nel Terzo Concerto pianistico, nei tempi Allegretto,


Adagio religioso, Allegro vivace, l’arte di Bartók sem-
bra assurgere a una serena pacatezza di contempla-
zione suprema. Una semplice chiarezza strutturale e
tonale caratterizza questo lavoro. È istruttivo il con-
fronto con i due Concerti per pianoforte che aveva-
no preceduto quest’ultimo, nel 1926 e nel 1928: là
lo strumento solista, trattato brutalmente in manie-
ra percussiva, si ergeva ad antagonista della potente
e compatta massa orchestrale. Qui, niente di simile,
ogni idea di sfida, di competizione è esclusa. Il piano-
forte canta, propone, e l’orchestra raccoglie, sviluppa,
integra le proposte del solista. Lo spirito del Concerto
è ora quello di una collaborazione armoniosa, d’una
cosmica organicità che all’artista si è rivelata nella lu-
ce diffusa dell’estrema saggezza.
Tale il senso della religiosità a cui è fatto esplicito
riferimento nell’indicazione del secondo tempo: una
depurazione dei grumi troppo spessi della materia vi-
tale, una risoluzione dei nodi tumultuosi in cui s’ag-
grappa la turbolenza dell’uomo sospinto dalla pienez-
za delle sue energie, un posare stanco dall’affanno del
vivere, che se non è proprio assoluta certezza di pace
futura, è almeno distacco, acquisita convinzione della
vanità di tanto gioire, soffrire, sperare, lottare.
Sempre la rarefazione del segno si accompagna al-
la depurazione del sentire nei grandi esempi di arte
senile, che non esige necessariamente il grande nu-
mero d’anni, come nei casi classici di Tiziano e di
Verdi. La saggezza senile non è data dall’età, ma dal-
la prossimità della morte, e Mozart vi pervenne che
aveva appena varcato la soglia della trentina. È una
specie di misterioso preavviso che viene da chi sa do-
ve, una preparazione istintiva dell’anima che si di-
spone alla gran partenza. Bartók aveva sessantaquat-
tro anni quando vide schiudersi davanti alla propria
fantasia le ampie, spaziose schiarite di quegli accordi
solenni, prolungati a guisa d’organo, che sorreggo-
no le lente volute diatoniche dei suoi Adagi religiosi
nel Terzo Concerto per pianoforte e nel Concerto per
viola: come Brahms quando distillava con prodigiosa
alchimia l’omogeneo tessuto musicale del Quintetto
con clarinetto, delle Sonate per clarinetto e pianoforte
e dei Quattro canti gravi.
L’apertura sugli sconfinati orizzonti di un’acquisita
pace interiore, la saggezza di chi sa ormai lasciar cadere
tanti dei pretesti di gioia o di affanno, comunque di agi-
tazione che la vita intensamente vissuta presenta, tutto
ciò non va senza un attutirsi delle possibilità dramma-
tiche e dei più plastici risalti della forma artistica. È la
bellezza calma e riposata della pianura, che si sostitui-
sce a quella accidentata e drammatica della montagna.
E come già avvenne per Beethoven, anche per Bartók
si porrà il problema critico del rapporto di valore tra la
placata saggezza di queste ultime opere, così venerabili
per la nobiltà del loro messaggio quasi ultraterreno, e
la fervida drammaticità dei capolavori compresi fra Il
Mandarino meraviglioso e la Sonata per due pianoforti,
dove la vita pulsa con intensità inaudita, in una produ-
zione incessante d’innumerevoli forme sonore.
Ma questo passato non è interamente obliterato
negli ultimi lavori di Bartók. A metà d’ognuno dei
due Adagi religiosi s’apre un episodio più agitato, che
costituisce come una patetica ed emozionante rievo-
cazione di quei fremiti, di quelle agitazioni e di quei
tumulti della vita intensa che pulsavano nel Quarto e
Quinto Quartetto, o nella Musica per archi. L’episodio
è specialmente commovente nel Concerto per viola;
che in genere è d’una sfumatura più dolente che il
sereno Concerto per pianoforte. Lo strumento solista è
giunto, con una specie di rincorsa, a un alto lamento
lungamente sostenuto («piangendo», è indicato nella
parte); e sotto le ripetizioni della sua semplice, nu-
da invocazione si sviluppa un formicolio di suoni, un
tremolo d’archi, attraversato da brevi lampi, brividi
timbrici che guizzano più o meno acuti, ripetendo il
fenomeno di fosforescenza sonora tipico delle Musi-
che della notte.

Bartók moriva a New York il 26 settembre 1945. La


sua fama rifluiva sull’Europa negli anni seguenti, con
la conoscenza delle opere prodotte nell’esilio ame-
ricano e la riscoperta di quelle europee. Oggi la sua
presenza è meno sensibile negli indirizzi della musi-
ca contemporanea, ma la grandezza di questo artista
non sta tanto nell’avere aperto ad altri una via ch’essi
possano seguire, quanto nell’avere trovato per sé, pur
partecipando a tutte le tendenze e a tutti i tentativi
della musica moderna, una soluzione artisticamente
valida ai problemi odierni del linguaggio musicale: so-
luzione che non si potrà mai identificare con nessuno
dei due poli principali tra i quali si è svolta la vicenda
musicale dei nostri giorni, cioè il neoclassicismo to-
nale, da una parte, e l’espressionismo dodecafonico
dall’altra. Espressionista ma non dodecafonico, tona-
le ma non neoclassico, Bartók non si è mai trincerato
in problemi esclusivamente lessicali e tecnici. L’uomo
moderno lo sente vicino a sé come un compagno di
strada, che ha condiviso le sue illusioni e le sue spe-
ranze, che ha fatto i suoi stessi errori, che ha subito
le sue stesse delusioni e disfatte, che nell’arte non ha
mai cercato un rifugio o un’evasione, ma al contrario
un mezzo per stabilire il contatto col proprio simile e
testimoniare con aperta parola di uomo responsabile
delle proprie convinzioni.
Bibliografia

La gran parte degli scritti di Bartók o su Bartók pone in im-


barazzo il lettore italiano. Lo studioso è tenuto a conoscere la
lingua ungherese per accedere alla maggior parte delle pub-
blicazioni etnomusicologiche o critiche del compositore, per
affrontare l’epistolario nella sua completezza, e per raccoglie-
re i documenti che consentano un approccio scientifico alla
biografia e all’opera di Bartók. Una bibliografia che segnali
le fonti per una simile indagine si può ritrovare in calce alla
voce «Bartók, Béla», vergata dallo stesso Massimo Mila, nel
primo volume del Dizionario Universale della Musica e dei
Musicisti curato da Alberto Basso (Utet, Torino 1985).
In questa sede ci limitiamo a indicare alcuni contributi
utili al semplice appassionato, in lingua italiana o nelle lingue
più diffuse.

IN ITALIANO

I saggi di Massimo Mila, La natura e il mistero nell’arte di


Béla Bartók, in «La Rassegna Musicale», 1951 (poi amplia-
to in «Chigiana», XXII, 1965); il succitato articolo per il
Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti; e i saggi
bartokiani contenuti in AA.VV., La musica moderna, Fabbri,
Milano 1967-69.
B. Bartók, Scritti sulla musica popolare, a cura di D. Carpitel-
la, Boringhieri, Torino 1977.
– Lettere scelte, a cura di J. Demeny, Il Saggiatore, Milano
1969.
B. Rondi, Bartók, Petrignani, Roma 1950.
P. Mari, Béla Bartók, Sugarco, Milano 1969.
G. Adamo, Bartók al di là del folclore, in «Musica/Realtà»,
1982.
F. Masotti (a cura di), Bartók e la didattica musicale, Quader-
no 2 di «Musica/Realtà», Unicopli, Milano 1982.
E. Lendvai, La sezione aurea nelle strutture musicali bartokia-
ne, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», nn. 2 e 3, 1982.
S. Walsh, Bartók. La musica da camera, Rugginenti, Milano
1994.
F. Pulcini, Bartók, De Sono, Torino 1995.
C. Proietti, Il Microcosmos di Béla Bartók, Analisi, interpre-
tazioni, indicazioni didattiche ed esecuzione integrale, Edi-
zioni ETS, Pisa 2007.
M.G. Sità, Béla Bartók, L’Epos, Palermo 2008.
M. Bortolotto, Fogli Multicolori, Adelphi, Milano 2013.

IN LINGUA STRANIERA

E. Von Der Nüll, Béla Bartók, ein Betrag zur Morphologie der
neuen Musik, Halle 1930.
E. Haraszti, Béla Bartók. His Life and Works, Paris 1938.
H. Stevens, The Life and Music of Béla Bartók, New York
1953.
L. Lesznai, Béla Bartók. Sein Leben - seine Werke, Leipzig
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P. Citron, Bartók, Paris 1963.
E. Helm, Bartók, Hamburg 1965.
B. Szabolcsi, Béla Bartók, Leipzig 1968.
Y. Queffelc, Béla Bartók, Paris 1981.
Aa.Vv., Béla Bartók, in Musikkonzepte. 22, München 1981.
F. Spangemacher (a cura di), Béla Bartók: zu Leben und
Werk, in Musik der Zeit. Dokumentation und Studien. 2,
Bonn 1982.
J. Takacs, Erinnerungen an Béla Bartók, Wien-München
1982.
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G. Kroo, Bartók-Handbuch, Wien 1984.
D.E. Schneider, «Bartók and Stravinskij; Respect, Competi-
tion, Influence, and the hungarian Reaction to Modern-
ism in 1920s» in Bartók and his World, a cura di Peter
Laki, Princeton University Press, Princeton 1995.
C.S. Leafsted, Inside Bluebeard’s Castle, Oxford University
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P. Bartók, My father, Hormosassa, Florida, Bartók Records
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