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Dipartimento di

SCIENZE UMANE E SOCIALI

Corso di laurea in
Scienze psicologiche

Classe n. L-24

L’impatto dell’Intelligenza Emotiva nei processi di Influenza Sociale

Candidato: Relatore:
Davide Masi Chiar.mo Prof. Angelo Compare
Matricola n.
1070727

Correlatore:
Dott.ssa Denise Campana

Anno Accademico
2021/2022

1
Sommario
INTRODUZIONE ....................................................................................................................... 3

CAPITOLO 1: IN EQUILIBRIO SUL FILO DELLE EMOZIONI ...................................... 4

1.1 EMOZIONI: IL MOTORE DELL’ESISTENZA................................................................ 4

1.2. L’INTELLIGENZA EMOTIVA: UN CUORE INSTABILE ............................................ 8

1.3 INTELLIGENZA SOCIALE ............................................................................................ 13

CAPITOLO 2: LA CAPACITA’ DI ORIENTARE STATI EMOZIONALI ...................... 18

2.1 IMPRESSION MANAGEMENT E FACIAL MIMICRY ............................................... 18

2.2 ZEBRE O CAMELEONTI SOCIALI? ............................................................................. 22

2.3 LA FIGURA DEL MANIPOLATORE EMOTIVO ......................................................... 25

CAPITOLO 3: IL RUOLO DELL’EMPATIA ...................................................................... 27

3.1 I CIRCUITI NEURALI DELL’EMPATIA ...................................................................... 28

3.2 LA TRIADE OSCURA DELL’EMPATIA ...................................................................... 30

CONCLUSIONI ........................................................................................................................ 33

BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................................... 35

2
INTRODUZIONE

La mia tesi è stata concepita in concomitanza con la fine della lettura di un libro
illuminante come: “Intelligenza emotiva. Cos'è e come può renderci felici”
(Goleman,1995). Ciò che più mi ha appassionato sfogliando le pagine, è stata la facilità
e l’immediatezza con cui Daniel Goleman riesce a tradurre costrutti scientifici nella
praticità e semplicità delle azioni di tutti i giorni. Con lo stesso spirito ho approcciato il
mio lavoro sull’Intelligenza Emotiva (IE), fin dal principio ispirato, nella scrittura e
negli argomenti, dal suo bestseller. Il mio obiettivo è quello di chiarire gli effetti
dell’intelligenza emotiva sulla quotidianità, a partire da quando ci interfacciamo con una
commessa quando andiamo a fare la spesa, passando per quando dobbiamo presentarci
ad un datore di lavoro, fino ad approfondire il ruolo che gioca l’IE nelle relazioni più
durature. Nel farlo ho diviso il mio lavoro in tre capitoli.

Il primo, dedicato alla spiegazione del costrutto Intelligenza Emotiva, vuole


approfondire l’importanza delle emozioni e il loro utilizzo nell’economia sociale che
caratterizza noi e gli altri. Ho quindi successivamente deciso di riservare uno spazio
all’intelligenza sociale, bussola dei nostri comportamenti interpersonali e condizione
necessaria per esercitare processi di influenza.

Il secondo capitolo, infatti, approfondisce diversi tipi di influenza sociale, tutti


concatenati ma differenziati tra di loro a seconda dell’uso che si fa dell’intelligenza
emotiva e sociale. I temi che affronterò sono l’ “Impression management”, letteralmente
gestione delle impressioni, il “camaleontismo sociale”, un esempio di Self-Impression
management legato al fenomeno del “facial mimicry”, e infine un argomento che
riprenderò alla fine del terzo capitolo, la figura del manipolatore emotivo.

Il terzo e ultimo capitolo invece, riprenderà l’intelligenza emotiva e sociale nella sua
abilità cardine, l’empatia. Costante accompagnatrice nelle nostre relazioni, l’empatia è
determinante nello stabilire se avremo una connessione sana o malata con le altre
persone, ci permette di percepire e condividere l’esperienza soggettiva altrui e
coerentemente ci spinge ad agire in funzione dei sentimenti ed emozioni esperiti.

3
CAPITOLO 1: IN EQUILIBRIO SUL FILO DELLE EMOZIONI

Ho pensato al mondo emotivo come un organismo incessantemente in movimento,


nutrito dalle emozioni, fonte di sostentamento inesauribile, regolato dall’intelligenza
emotiva, che, come un cuore, pompa il ritmo delle emozioni e ne regola l’espressione,
ed infine magistralmente coordinato dall’intelligenza sociale che ci permette di agire
con saggezza e rispetto nelle relazioni umane.

1.1 EMOZIONI: IL MOTORE DELL’ESISTENZA

“Le Emozioni sono cavalli selvaggi.

Non sono le spiegazioni che ci fanno avanzare, è la volontà di proseguire.”

(Coelho, 1990)

Il tema delle emozioni è stato per lungo tempo materia di discussione: prima a partire
dai filosofi, impegnati nel districarsi tra i concetti di mente, anima, passione e ragione1,
fino ad arrivare alle più moderne figure di antropologi, scienziati, psicologi e persino
matematici (vedi Imre Toth2). Ma anche i più “umili” cantanti, scrittori e poeti si sono
cimentati nel tentativo di dare un senso alle farfalle nello stomaco, ai brividi da pelle

1 Per un approfondimento sul dibattito che ha impegnato diversi umanisti e non solo a
proposito delle emozioni, consiglio la lettura del primo capitolo di: Emilio Gattico, S. B.
Emozioni e conoscenza. 2020.

2 “Siamo esseri umani: Ogni lettura è un’interpretazione e ogni interpretazione è una


manipolazione del testo. Anche solo citare una data proposizione e non un’altra è un intervento
soggettivo, emotivo, se vogliamo.” Toth, Imre. Matematica Ed Emozioni. Roma: Di Renzo,
2004.

4
d’oca o a sensazioni come “stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me”
(Emozioni, Battisti, 1970).
A mio avviso però, niente come l’estratto sopra riportato a firma Paulo Coehlo, riesce a
restituire il valore motivazionale, evolutivo e mi viene da dire quasi viscerale che
appartiene alle emozioni. Quest’ultime sono vere e proprie spinte ad agire, come la
radice stessa della parola emozione suggerisce (dal latino exmovere: «movimento da» o
«motivazione al movimento»). Nell’espressione “emozione come cavalli selvaggi”
risiede la supremazia della mente emozionale, tanto più disponibile in situazioni di
pericolo ed emergenza, di quella razionale, maggiormente dedicata alla funzione
riflessiva. Come ci ricorda Goleman (1995), esistono due modalità di conoscenza,
appunto suddivise in mente razionale e mente emozionale, quest’ultima situata nella
parte più primitiva del cervello, il tronco cerebrale. A conferma del fatto che esisteva un
cervello emozionale molto prima di quello razionale, vi è la spiegazione scientifica che
vede la neocorteccia come sede del cervello pensante, milioni di anni successiva
all’evoluzione dei centri emozionali derivanti dal tronco cerebrale.
Riassumendo, è importante ribadire quanto le emozioni in ogni nostra scelta quotidiana
abbiano un ruolo decisivo, e dialoghino con la mente razionale in un delicato equilibrio
mediato dalle caratteristiche di temperamento e personalità individuali. Davanti ad una
scelta di vita importante, una persona prevalentemente razionale potrebbe stilare una
lista di pro e contro, e solo dopo averla completata, prendere l’iniziativa, a differenza di
una persona più emotiva che probabilmente si abbandonerebbe maggiormente alle
sensazioni ed all’istinto. Entrambi però, davanti ad un orso, in alta montagna, in preda
all’emozione della paura, si affiderebbero al sistema simpatico di attacco-fuga,
primitivo ma funzionale, ed escogiterebbero una strategia di difesa coadiuvati
dall’esperienza della mente razionale. Paul Ekman (1934-), psicologo e antropologo,
celebre per i suoi lavori sul riconoscimento delle emozioni attraverso la lettura delle
espressioni facciali, ci ricorda quanto le emozioni, essendo attivate da bisogni specifici
primari quali la fame, la sessualità e l’aggressività, abbiano un valore adattivo
necessario per la sopravvivenza.

Ritengo che la canonica definizione di emozioni come “processi a rapida insorgenza e


di breve durata che si verificano a seguito di uno stimolo, che può essere interno o

5
esterno e che provoca cambiamenti a livello fisiologico, comportamentale e cognitivo”3
sia estremamente puntuale e completa perché cattura tutte le caratteristiche di un
costrutto complesso e multidimensionale supervisionato dalla diade lobi prefrontali-
amigdala, sedi di gran parte dei circuiti interessati a una reazione emotiva. Tuttavia,
intendere l’emozione come «la qualità dinamica e cromatica della nostra esistenza»
(Anolli, 2002), aggiunge intensità ad un costrutto che si muove, si modifica, e dà un
significato profondo alla nostra vita colorandola di mille sfumature. In questo senso mi
piace immaginare la nostra vita come una tela pronta ad essere affrescata dalla
tavolozza di colori rappresentata dalle diverse emozioni. Diversi autori e studiosi si
sono confrontati sull’identificazione delle cosidette emozioni primarie, che, come ci
suggerisce Ekman (1977), sono caratterizzate da specifici pattern mimici universali e
innati, riconoscibili anche nel neonato, giungendo ad identificare gioia, sorpresa,
collera, tristezza, disgusto e paura. Altre emozioni come vergogna, senso di colpa,
invidia e orgoglio sono solo alcune delle numerose emozioni secondarie, legate
all’apprendimento e all’esperienza personale e fortemente correlate alle norme culturali.
Da non sottovalutare infatti vi è quindi il discorso legato alla cultura di appartenenza
che si esplicita nelle regole di esibizione (display rules). Esse determinano le modalità
di manifestazione delle emozioni nelle diverse culture. Un bambino giapponese,
appartenente ad una cultura collettivista, e un bambino italiano, cresciuto con gli
insegnamenti di una cultura individualista, di fronte allo svolgimento di un rito funebre
dedicato ad una persona conosciuta, reagirebbero in modo diverso avvalendosi di uno
spettro di display rules, che va dall’accentuazione dell’emozione, passando per
l’attenuazione, l’inibizione della stessa o perfino il mascheramento. In questo modo la
cultura e le regole sociali apprese impattano in maniera significativa nel controllo delle
proprie espressioni emozionali condizionano il nostro modo di reagire in pubblico.
Non sarà il focus del mio lavoro, ma è giusto riconoscere, parlando di emozioni,
l’esistenza di diverse correnti di pensiero che si sono misurate nel dibattito circa le
emozioni, la loro definizione, le caratteristiche la loro provenienza, il loro sviluppo e i
circuiti neurali associati4. In particolare è corretto distinguere:

3 Bonanni, Silvia. Emozioni e conoscenza, 2020, p.136.


4 Per un ottimo riassunto delle principali teorie contemporanee sulle emozioni rimando alla
lettura del Capitolo 2 di Emilio Gattico, S. B. Emozioni e conoscenza. 2020.

6
• Le teorie evoluzionistiche: ispirate ai lavori di Darwin (1809-1882) circa
l’interpretazione delle emozioni in chiave evolutiva, sostengono la connessione
delle emozioni a scopi universali legati alla sopravvivenza della specie, e
ritrovano in Robert Plutchik, Silvan Tomkins, Caroll Izard, e soprattutto Paul
Ekman, valorosi seguaci della teoria innatista delle espressioni facciali, e tutti
più o meno d’accordo nell’attribuire a felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera
e interesse, il valore di emozioni primarie. In sintesi, le emozioni hanno una
funzione adattiva, sono innate, universali, ereditate dalla specie e un numero
limitato di esse sono considerate primarie.
• Le teorie costruttiviste: in contrapposizione alla teoria evoluzionista, grazie al
contributo di James R. Averill, Rom Harrè, Catherine Lutz, George Mandler, le
emozioni vengono interpretate come “prodotti eminentemente sociali e
culturali, ovvero risposte apprese per regolare le interazioni tra individui
piuttosto che necessari per la sopravvivenza” (Bonanni, 2020, p.121). Le
emozioni, quindi, servono per comunicare con il mondo, sono legate
all’apprendimento e, essendo prevalentemente costrutti sociali culturalmente
determinati, hanno come scopo quello relazionale, di creare e stabilire rapporti
con gli altri.
• Le teorie cognitiviste: i vari Stanley Schachter, Jerome Singer, Magda Arnold,
Richard S. Lazarus, Klaus Scherer non dimenticano il retaggio evoluzionistico
delle emozioni ma favoriscono un punto di vista che centralizzi i processi
valutazione e di elaborazione mentale dell’informazione all’interno del processo
causale che spiega l’emozione. I cognitivisti attribuiscono ai processi cognitivi
un’importanza inedita nella spiegazione dell’esperienza emotiva che per alcuni,
è l’esito di un’attivazione fisiologica prima e di un processo di attribuzione
causale poi (teorie attivazionali-cognitive), e per altri l’emozione è essa stessa
frutto di processi di valutazione dello stimolo emotigeno stesso (teorie
dell’appraisal).

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Per cercare di controllare quei “cavalli selvaggi” che sono le emozioni, è chiaro
l’obbligo di non sottovalutarle sin dalla nascita grazie alla collaborazione dei caregiver,
fino all’età adulta dove diventano significative quelle capacità di conoscenza,
comprensione e regolazione emotiva, che andrò ad approfondire nel paragrafo
successivo concernente un concetto relativamente nuovo, l’intelligenza emotiva.

1.2. L’INTELLIGENZA EMOTIVA: UN CUORE INSTABILE

Oggi dobbiamo ringraziare Howard Gardner (1943), psicologo ed esponente di


prim’ordine nella sua rivoluzione copernicana5, se possiamo parlare di intelligenza al
plurale, in termini più democratici, slegandoci dalla limitatezza offerta dal QI
(Wechsler, 1955) come unico predittore della sola e unica intelligenza, quella scolastica,
troppo spesso considerata come naturale conseguenza di successi e insuccessi nella vita.
Dedicando la sua vita all’indagine di nuove forme di intelligenza, Gardner è riuscito ad
imprimere un’accelerata significativa nello sviluppo di un costrutto, l’intelligenza, fin
troppo statico e rimasto ancorato agli inquadramenti teorici classici risalenti ai primi test
psicometrici di inizio secolo (Binet & Simon, 1905). Grazie a Formae mentis, Gardner
(1983), sfodera una critica costruttiva alla nozione comune di intelligenza, alimentata
dai test tradizionalmente utilizzati nelle scuole per orientarci nelle scelte future, e basata
sul singolo concetto standard di QI, troppo vincolante nella definizione di intelligenza.
L’invito da parte dello studioso è di aprire la mente, dimenticarsi dell’unitarietà
associata all’intelligenza, e iniziare a rivalutarla scomponendola in più sottocategorie.
Gardner (1983) ne distingue 7 associando alle seguenti abilità umane: linguistica,
musicale, logico-matematica, spaziale, corpo-reo-cinestetica, personale e interpersonale,
le rispettive intelligenze. Da qui l’importanza di restituire all’intelligenza un rinnovato
valore, ampliando la gamma di talenti e donando alla pedagogia un insegnamento
prezioso, quello di affiancare i giovani, sin dai primi “vagiti scolastici”,
nell’identificazione delle competenze e talenti più affini alle loro personalità.

5
Mi riferisco al cambio di prospettiva che ha condotto, teorizzando l’esistenza di sette intelligenze
diverse, opponendosi al pensiero comune che considerava la sola intelligenza scolastica.

8
Secondo Goleman (1995) probabilmente il limite dell’approccio gardneriano risiede nel
suo approccio cognitivo, che “lascia inesplorato, forse non intenzionalmente, il mare di
emozioni che rende la vita interiore e le relazioni umane così complesse” (p.74). In uno
scambio tra i due emerge l’ammissione di Gardner di aver enfatizzato il pensiero e la
cognizione parlando di emozioni, ossia sulla consapevolezza dei propri processi
mentali.
Goleman con Intelligenza emotiva. Cos'è e come può renderci felici (1995) amplierà la
definizione di intelligenza intrapersonale e interpersonale di Gardner, ottenendo un
notevole riscontro mediatico nella ridefinzione del costrutto di intelligenza emotiva.
Prima di approfondire la ricerca di Goleman, è giusto rendere merito a chi ha teorizzato
per la prima volta il modello di intelligenza emotiva. Si tratta di Peter Salovey e John D.
Mayer, che nel 1990, propongono una definzione di intelligenza emotiva (IE) come un
insieme di abilità cognitive coinvolte nell’identificazione, comprensione, utilizzo e
autoregolazione delle emozioni. I due parlano già di emozioni come strumenti per
motivarsi, pianificare e raggiungere obiettivi nella vita e dimostrano l’esistenza di una
correlazione tra IE e benessere psico-fisico. Più nel dettaglio, se nel 1990 era stata
richiamata l’attenzione sull’intelligenza emotiva, come novità contro le classiche teorie
sull’intelligenza che concepivano emozione e pensiero agli opposti, nel corso degli anni
questo modello si è perfezionato grazie al contributo di numerosi studiosi arrivando a
stilare sette principi per la teorizzazione dell’intelligenza emotiva (Caruso, Mayer &
Salovey, 2016):
1. L’intelligenza emotiva è una abilità mentale: le persone intelligenti
emotivamente riescono a percepire le emozioni con accuratezza, a comprenderle
e a gestirle (sia le proprie che le altrui).
2. L’intelligenza emotiva è misurabile al meglio intesa come abilità: l’IE è un
costrutto difficile da operazionalizzare e considerarlo come abilità, facilita la sua
misurabilità.
3. L’intelligenza nel risolvere problem solving non corrisponde ad un’intelligenza
nei comportamenti: vi è una netta distinzione tra intelligenza e comportamento.
Non sempre una persona con un’alta capacità analitica riesce a tradurre la sua
intelligenza all’interno dei suoi comportamenti, complici fattori quali la
personalità, il contesto sociale o altre variabili che lo ostacolano. I test

9
d’intelligenza tendono a misurare il potenziale più che la performance
comportamentale tipica.
4. L’area di problem solving coinvolta nel contenuto di un test deve essere
chiaramente specificata come presupposto per la misurazione delle abilità
mentali.
5. I Test validi hanno un argomento ben definito che sollecita determinate abilità
mentali: in particolare è importante dedurre quali abilità mentali le persone
impieghino nella risoluzione di problem solving riguardanti l’intelligenza
emotiva.
6. L’intelligenza emotiva è un’intelligenza “ampia”(broad intelligence): il
concetto di “broad intelligence” emerge dal modello a tre strati di John Carroll
(1993), ampliato da McGrew (2009). In questo modello gerarchico, al vertice
troviamo l’intelligenza generale (g) e di seguito, negli strati successivi, una serie
di “broad intelligences” con un numero che varia da 8 a 15. Le “broad
intelligences” si dividono in sottoclassi e un esempio di “broad intelligence”, la
“comprehension-knowledge”, simile all’intelligenza verbale, include specifiche
abilità di comprensione del vocabolario e cultura generale.
7. L’intelligenza emotiva è un tipo di Broad intelligence focalizzata su processi
d’informazione caldi: le persone usano le cosidette “hot intelligences” per
gestire ed elaborare cosa importa maggiormente loro: accettazione sociale,
coerenza d’identità e benessere emotivo, ovvero quelle operazione che
sollecitano emozioni, sentimenti e stati d’animo.

Un argomento così recente e già discusso come l’intelligenza emotiva, nella sua
difficoltà a venir operazionalizzato e misurato, trova il suo punto debole (Day, A. L. ,
2004). A causa di una mancata definzione univoca che attribuisca all’IE un giusto
collocamento, il dibattito sulla materia è aperto ed è fondamentale non trascurare
l’opinione di Daniel Goleman (1995).
Egli riconosce nell’intelligenza emotiva, una risorsa fondamentale, che si può
sviluppare per tutta la vita, caratterizzata da capacità di automotivazione, di
perseguimento degli obiettivi nonostante le frustrazioni, di controllo dei propri stati
d’animo come la sofferenza (quando ci annebbia il cervello e non ci fa pensare ad altro),

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di essere empatici e speranzosi6. La chiave è sviluppare un’attitudine emozionale (meta-
abilità) che ci permetta di servirci delle nostre capacità al meglio per superare travagli e
momenti delicati della vita a cui l’intelligenza puramente accademica non ci prepara.
Goleman, riferendosi ad un lavoro non pubblicato di Jack Block (1995) che
confrontava, in uno studio longitudinale di circa cento soggetti di entrambi i sessi entro
i 25 anni, due tipi di individui teorici puri, quello con un elevato QI e quello con ottime
capacità emozionali, ci informa dei vantaggi che gli uomini e le donne dotati di grande
intelligenza emotiva disponevano. Oltre ad una vita emotiva ricca e appropriata, gli
uomini erano socialmente equilibrati e con grandi capacità di dedizione nei confronti
delle altre persone, mentre le donne tendevano a ricercare un equilibrio sociale che
permetteva loro di risultare sicure di sé nell’espressione dei loro sentimenti e raramente
a disagio.
Goleman suggerisce la presenza di 5 competenze personali emotive nel definire la
struttura della sua intelligenza emotiva. Le competenze emotive determinano il modo in
cui controlliamo noi stessi e sono il risultato della combinazione tra cognizione ed
emozione. Saarni (1999) ha sviluppato per prima il significato di competenza emotiva,
attribuendole quell’insieme di abilità pratiche necessarie per essere auto-efficaci (self-
efficacy7), includendo tre specifiche aree di regolazione emotiva: l’espressione come
capacità di manifestare esternamente gli stati emotivi, la comprensione come capacità di
capire la causa dell’origine dell’emozione e la regolazione come capacità vera e propria
di gestione dell’emozione. Goleman (2000) quindi divide i 5 nuclei in consapevolezza
di sé, padronanza di sé, motivazione, empatia ed abilità sociali.

Nella consapevolezza di sè sta la capacità di percepire i messaggi provenienti dal nostro


archivio interiore di memorie emotive ed è formata da consapevolezza emotiva,
valutazione di sé e fiducia in se stessi. La prima nasce dalla capacità di sintonizzarsi sul
flusso di sentimenti costantemente presente in ciascuno di noi e dal riconoscimento di

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Goleman parla di ottimismo come fattore motivante: essere ottimisti è un atteggiamento che proibisce
di sprofondare nel tunnel della depressione di fronte a situazioni complicate. “Gli ottimisti attribuiscono
il fallimento a dettagli che possono essere modificati in modo da garantirsi buoni risultati nei futuri
tentativi, mentre i pessimisti si assumono di persona la colpa dell’insuccesso […]” (p.151)
7
Goleman (1999) interpreta la self-efficacy come “la convinzione di avere il controllo sugli eventi della
propria vita e di poter accettare le sfide nel momento in cui esse si presentano” (p.154).

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come le emozioni siano cruciali nei nostri processi di pensiero e di azione.
L’autovalutazione accurata o valutazione di sé sta nel riconoscimento dei propri punti di
forza e debolezza, dalla capacità di apprendere dall’esperienza e dalla non scontata
apertura ad un feedback onesto da parte di colleghi o colleghi. In un mondo
iperspecializzato e complesso dove regna il sapere dei tuttologi e dei tecnici, avere una
mente aperta al confronto e al cambiamento appare una strategia insolita ma
estremamente funzionale. Coloro che cercano un feedback onesto sono solitamente
insividui capaci di prestazioni superiore e in continuo rinnovamento alla ricerca di
perfezionarsi. Infine la fiducia in sé stessi si può spiegare in termini di sicurezza in sé,
difesa di opinioni impopolari ma ritenute corrette e capacità di prendere decisioni
sensate sotto pressione.

La padronanza di sé o autocontrollo emotivo è il sistema che risponde in situazione di


emergenza emotiva dove il sistema limbico e l’amigdala vengono chiamati in causa.
L’autocontrollo emotivo subentra quindi nel tentativo di mantenere la chiarezza mentale
nonostante la pressione. Quando la paura gela il cervello, mandando la mente
emozionale in agitazione, l’autocontrollo e il dominio dei sentimenti impulsivi e
angosciosi ci aiuta a rimanere concentrati sul problema evitando così quei “sequestri”
emozionali che comportano lo scatenamento dell’amigadala e la mancata attivazione dei
processi neocorticali che mantengono l’equilibrio delle risposte emozionali. Per
sviluppare un’ottima padronanza del sé è importante anche maturare doti di fidatezza,
coscienziosità, adattabilità e innovazione, importanti nel costruire individui che
agiscono eticamente, affidabili e flessibili di fronte all’inatteso8.

La motivazione risiede nel riuscire ad entrare nel flusso, quella sensazione di massima
ispirazione che porta gli individui a lavorare, a creare, a performare al loro meglio. In
questo momento le emozioni agiscono in armonia e permettono all’individuo di esperire
un’emozione di gioia spontanea dove si dimenticano ansie, paure e preoccupazione per
dedicarsi totalmente alla realizzazione del compito. Il flusso rappresenta probabilmente

8
Consiglio la lettura de: “i sette saperi necessari all’educazione del futuro” di E. Morin (1999) dove il
concetto di aspettarsi l’incertezza e l’inatteso vengono ripresi brillantemente all’interno di
un’epistemologia e un approccio alla vita che rispetti la complessità.

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la spinta alla realizzazione più importante che esista perché garantisce prestazioni di
massimo livello dove il puro piacere dell’atto in sé è sufficiente come motivatore. In
questo caso è impossibile non citare Mihaly Csikszentmihalyi (1975) che definisce una
teoria del flow dove il flusso è “uno stato psicologico soggettivo di massima positività e
gratificazione, che può essere vissuto durante lo svolgimento di attività e che
corrisponde alla completa immersione nel compito”. Ovviamente non basta il flusso per
spingerci ad intraprendere o a portare a termine un impegno. Anche qualità come
l’iniziativa e l’ottimismo sono elementi essenziali soprattutto se abbinati ad una
costrante dose di impegno, inteso come volontà di perseguire un obiettivo puù ampio di
quello personale o della sola organizzazione.

L’empatia rappresenta una capacità fondamentale alla base delle competenze sociali,
che si fonda sull’autoconsapevolezza, e che ci permette di “sentire dentro” (dal greco
empatheia) e di entrare in connessione con le emozioni degli altri. Attraverso
l’attenzione agli indizi emotivi e ad una capacità di ascolto sensibili e proattiva, si
possono cogliere dettagli, toni della voce, microespressioni facciali che rivelano molto
più di quanto le parole possano fare.

Infine le abilità sociali consistono nella capacità di interagire bene con gli altri e creare
relazioni soddisfacenti e di qualità. Esse ci consentono di “plasmare un’interazione, di
trovarsi bene nelle relazioni intime, di mobilitare, ispirare, persuadere e influenzare gli
altrim mettendoli nel contempo a proprio agio” (Goleman, 1995, p.189-190).

Queste ultime due categorie, empatia e abilità sociali verranno approfondite di seguito
nei prossimi paragrafi dove affronterò l’intelligenza sociale e la sua centralità nella
quotidianità.

1.3 INTELLIGENZA SOCIALE

L’intelligenza sociale rientra nella definizione di intelligenza emotiva dal momento in


cui le modalità di regolazione delle emozioni vengono utilizzate per agire nel contesto

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sociale per creare relazioni sane e positive. È grazie alle cosidette soft skills (empatia,
autenticità, flessibilità, ascolto interessato) che riusciamo a potenziare un’intelligenza,
quella sociale, particolarmente decisiva nello scandire ogni azione sociale in cui siamo
coinvolti e aiutandoci a risolvere problemi di natura interpersonale. Comunicazione con
gli altri, creazione, cura e mantenimento delle relazioni e gestione dei conflitti sono solo
alcuni dei temi con cui si interfaccia l’intelligenza sociale, forza ordinatrice del caos
emotivo e sociale della una società moderna.
Thorndike (1920) coniò la definizione di intelligenza sociale come abilità di gestire
uomini e donne, ragazzi e ragazze agendo con saggezza nelle relazione umane. Da
questa definizione standard, se ne sono alternate diverse a partire da concettualizzazioni
che valorizzassero l’intelligenza sociale come risorsa di cui poter disporre nel repertorio
coinvolto nella politica sociale di tutti i giorni, fino ad arrivare a quelle più svilenti che
liquidavano l’intelligenza sociale ad un “intelligenza generale applicate a situazioni
sociali” (Wechsler, 1958, p.75).
È essenziale anche tener conto del considerevole contributo che Daniel Goleman ha
fornito con il suo libro sull’intelligenza sociale (2006) in cui ha proposto un modello
che centralizasse il ruolo di due grandi categorie quali la consapevolezza sociale e le
abilità sociali.
Per consapevolezza sociale Goleman si riferisce a quelle capacità di afferrare situazioni
sociali complesse e comprensione di sentimenti e pensieri. In questo insieme vengono
comprese empatia primaria, sintonia, attenzione empatica e cognizione sociale:

• L’empatia primaria è collegata alla via bassa9 e quindi agisce in maniera veloce
e automatica catturando indizi non verbali come sguardo ed espressioni fugaci
attraverso i neuroni specchio. È la capacità immediata di percepire le emozioni
altrui e il test di lettura della mente ideato da Simon Baron-Cohen aiuta a

9
La via bassa opera in automatico e velocemente al di fuori della nostra consapevolezza mentre la via
alta richiede sforzo e un intento cosciente per riflettere attentamente su ciò che vediamo. Operano in
maniera complementare e ci forniscono una percezione integrata che ci permette di scegliere nel
miglior modo possibile a seconda della situazione. I due modi di reagire agli stimoli del cervello, via alta
e via bassa sono state oggetto di studio di Joseph Le Doux nel suo libro: the emotional brain: the
mysterious underpinnings of emotional life (1996).

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misurare punteggi di empatia primaria attraverso la lettura di immagini
attraverso lo sguardo10.

• La sintonia è un’attenzione più continuativa rispetto all’empatia che stabilisce la


nostra completa attenzione verso l’altra persona cercando di capire chi abbiamo
davanti attraverso un ascolto autentico ed un atteggiamento spontaneo. Nella
cultura del dire, dell’affermare, è importante riservare uno spazio ad un ascolto
umile e realmente interessato. Shein (2014) descrive l’umile ricerca di
informazioni intesa come l’arte di indurre l’interlocutore ad aprirsi e a costruire
una relazione fondata sulla curiosità e sull’interesse per l’altra persona,
presupposto principale per costruire rapporti sinceri e sani che stimolino fiducia.
Ascoltare sintonizzandoci con l’altra persona e con il suo stato d’animo è quello
che fanno i venditori di alto livello e i client manager, che preferiscono appunto
un rapporto che si costruisca sulla fiducia nei loro suggerimenti piuttosto che
minare la propria credibilità solo per vendere.

• L’attenzione empatica invece è un tipo di attenzione che si ottiene dalla somma


di empatia primaria e comprensione esplicita di ciò che l’altra persona sente e
pensa. In questo modo i circuiti della neocorteccia, sintonizzati sulla via alta si
integrano al meglio con quelli della via bassa attivati dall’empatia primaria.
Questo è il tipo di empatia più intelligente perché ci rende consapevoli delle
intenzioni di chi abbiamo di fronte, preparandoci nel miglior modo al confronto
sociale.
• Infine, la cognizione sociale, l’ultimo aspetto della consapevolezza
interpersonale fa riferimento alla conoscenza del funzionamento effettivo del
mondo sociale, preparandoci ad ogni situazione sociale. È quel tipo di
perspicacia sociale che appena entrati in un gruppo nuovo, ci suggerisce i ruoli
all’interno dello stesso e come inserirci senza ferire le diverse sensibilità
personali, comprendendo le regole non scritte che governano il sistema interno

10
Simon Baron Cohen, The Essential Difference:

Men, Women, and the Extreme Male Brain, Allen Lane, London 2003

15
di quel determinato gruppo. La cognizione sociale racchiude i tre elementi sopra
citati, che la arrichiscono.

Prima di parlare di quelle che Goleman definisce abilità sociali correttamente divisibili
in sincronia, presentazione di sé, influenza e sollecitudine, vorrei trattare le quattro
componenti che Hatch e Gardner (1998) identificano parlando di intelligenza
interpersonale:
• Capacità di organizzare i gruppi: consiste nell’abilità di un leader di coordinare
gli sforzi di una rete di individui.
• Capacità di negoziare soluzioni: corrisponde al talento del mediatore, capace di
prevenire conflitti o risolvere quelli già presenti.
• Capacità di stabilire legami personali: dove l’empatia ha un ruolo essenziale.
• Capacità di analisi della situazione sociale: in sostanza, è quella che Goleman
defnisce cognizione sociale, quindi la capacità di riconoscere sentimenti,
motivazioni e preocuppazioni altrui.

Ciò detto, le abilità sociali, che ci permettono di trattare con efficacia con gli altri ed
evitare situazioni di inettitudine sociale, richiedono la maturità di due capacità
fondamentali nella gestione delle emozioni come l’autocontrollo e l’empatia, di cui
abbiamo i primi segni a due anni di vita.

Ritornando alla suddivisione di Goleman, la sincronia (anch’essa residente nella via


bassa) è quella capacità di creare una sintonizzazione emotiva speciale con l’altra
persona ed è opposta alla dissemia (dal greco dys, difficoltà, e semese, segnale), intesa
come incapacità di leggere e interpretare i segnali impliciti e non provenienti dall’altro.
L’individuo dissemico è socialmente incompetente difettando negli elementi costruttivi
fondamentali di un’interazione come l’errore nell’invio di messaggi emozionali ai
coetanei. La sincronia riflette la profondità di legame tra due partner o tra una madre ed
un neonato, la connessione che riesce a stabilire un interlocutore con il suo pubblico o
ancora, l’intesa tra due amici di vecchia data che reincontrandosi, si capiscono con uno
sguardo.

16
L’influenza, un tema intrigante e da cui si possono trarre numerose considerazioni11,
viene intesa dallo psicologo statunitense come il talento di modellare costruttivamente
l’esito di un’interazione usando tatto e autocontrollo. Chi sa esercitare influenza,
utilizza le qualità della consapevolezza sociale a suo vantaggio riuscendo a combinare
con abilità empatia, cognizione sociale e autocontrollo oltre ovviamente all’uso
dell’attenzione empatica. Esercitare influenza sugli altri significa trascinare le emozioni
altrui e quindi, servendosi del contagio emotivo, determinare il registro emozionale di
un’interazione.
La presentazione di sé è un altro argomento strettamente legato all’influenza sociale in
quanto ritrova nel carisma uno degli aspetti centrali. Nel carisma si celano due capacità
di regolazione emotiva, il controllo e il mascheramento delle emozioni, considerate il
segreto del sapersi presentare. In questo modo le persone carismatiche appaiono sicure
nei più disparati contesti sociali, in cui possono offrire un lato della propria personalità
affascinante nella sua solidità.
I grandi oratori sono ottimi “presentatori di loro stessi” in quanto hanno la capacità di
dirigere gli altri emotivamente (contagio emotivo) invitando gli altri a sincronizzarsi
emotivamente con lui. La potenza comunicativa sta nella sicurezza visiva che
trasmettono: il tono della voce, la postura, la naturalezza nell’esporre e un linguaggio
non verbale attento sono solo alcune delle caratteristiche che un leader deve possedere
per poter essere efficace nella sua presentazione.
Per concludere, la sollecitudine è il passo successivo all’empatia e quindi si traduce
nella disponibilità pratica all’aiuto. La sollecitudine riflette il grado di sensibilità di una
persona. Se i manipolatori emotivi sono abili nell’esercitare influenza e presentazione di
sé, quello in cui sono estremamente carenti è proprio questa qualità in cui denotano tutta
la loro mancanza di empatia.

11
Amplierò il tema dell’influenza sociale nei paragrafi successivi.

17
CAPITOLO 2: LA CAPACITA’ DI ORIENTARE STATI
EMOZIONALI

Come abbiamo detto, intelligenza emotiva e intelligenza sociale sono due fattori
estremamente significativi nella gestione ed espressione delle emozioni con noi stessi e
con gli altri. Le emozioni, per definizione, sono contagiose e, il contagio emotivo, che
agisce tramite i circuiti della via bassa, ci permette di poter “infettare” emotivamente
chiunque. Di conseguenza, stabilire il registro emozionale di una conversazione intima,
di un convegno, di un intervento in pubblico, significa poter trascinare le emozioni
altrui, comportarsi da leader e quindi poter esercitare influenza sociale.
In questo capitolo vedremo diverse forme di influenza: la presentazione di sé
(Impression Management), precedentemente affrontata in termini di abilità sociale, il
camaleontismo sociale, una forma di conformismo, strettamente legata al tema
dell’approvazione sociale, ed infine la figura del manipolatore emotivo, cinico e privo di
empatia.

2.1 IMPRESSION MANAGEMENT E FACIAL MIMICRY

Sono d’accordo con le motivazioni che sostengono il detto comune: “stare bene da soli
è il primo passo per stare bene con gli altri” ma spesso, pensando agli uomini come
animali sociali, costantemente alla ricerca di conferme attraverso il rispecchiamento
della propria immagine sugli altri, trovo nella tesi contraria altrettanta verità, ovvero che
il soddisfacimento dei bisogni legati alle relazioni con gli altri, siano condizione
necessaria per stare bene con noi stessi, con le nostre ansie sociali e con le
preoccupazioni su come appariamo e ci presentiamo. Goffman (1959), a proposito,
direbbe che il benessere psicologico dell’interprete (l’attore che sta mettendo in scena
una performance) è fondamentalmente legato al suo sé sociale.
All’interno di quel teatro continuativo che è la vita, ciò che definisce una situazione
sono le percezioni degli attori e del pubblico in ordine ai ruoli più appropriati per quella
situazione (Shein, 2010). Sia quando ci troviamo ad un primo, sia quando dobbiamo
raccomandare un nostro amico ad un datore di lavoro, o ancora, nel momento in cui

18
dobbiamo vendere un prodotto o pubblicizzarci ad uno sponsor, operiamo processi di
impression management o self impression management cercando di lasciare, a chi di
dovere, una buona impressione o la migliore versione di noi stessi.
L’Impression management, letteralmente gestione dell’impressione, è un processo
attraverso cui gli individui si sforzano di controllare o influenzare le percezioni degli
altri. Questo, in particolare, riferito al concetto di self impression management,
rappresenta l’autopresentazione e quindi la percezione che vogliamo dare di noi stessi in
funzione dei nostri obiettivi.
George Herbart Mead (1863-1931), fondatore della scuola sociologica di Chicago e
ambasciatore del pensiero interazionista simbolico, nei suoi scritti, ed in particolare
nella sua opera: “Mind, self, and society” (1934), affronta l’argomento della costruzione
di un’identità sociale attraverso l’assunzione di diversi ruoli sociali. Nella sua teoria dei
ruoli, afferma che ci sono tanti sé quanti sono i ruoli sociali che interpretiamo e dichiara
l’esistenza di un “io”, inteso come risposta dell’organismo agli atteggiamenti altrui, e un
“me”, che riflette l’insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri che un individuo
assume. Attraverso questa teorizzazione, Mead lascia in eredità un grosso contributo
alla psicologia sociale soprattutto in tema di quello che poi, i suoi successori,
chiameranno impression management. A raccogliere questo lascito, Erving Goffman
(1922-1982), sociologo di fama internazionale e uno dei principali esponenti della
corrente interazionista simbolica, grazie al successo del suo libro: “The presentation of
Self in Everyday Life” (1959) ha il merito di aver introdotto il costrutto dell’Impression
management che definisce come «il modo in cui ogni persona cerca di controllare ed
influenzare l'impressione del sé che lascia negli altri, a seconda della situazione».
Goffman si serve di un approccio drammaturgico comparando momenti di vita
quotidiana ad atti teatrali in cui gli individui sono attori e pubblico al tempo stesso. È
interessante notare come l’autore, servendosi della metafora teatrale, riesca a esporre
perfettamente il parallelo tra la vita e il teatro, ricalcando una linea sottilissima che
divide il reale dal recitato. L’interazione è vista come una performance modellata
dall’ambiente e dal pubblico, costruita per fornire agli altri impressioni che siano in
sintonia con gli obiettivi dell’attore. L’attore sul palco di fronte al pubblico si esibisce
quindi in uno spettacolo, una performance, risultante dalla commistione di due elementi:
il ruolo sociale assunto dall’attore e un certo grado di spontaneità. Quest’ultima

19
consente la realizzazione del “vero noi” e rende credibile l’immagine che presentiamo,
che altrimenti risulterebbe troppo artificiosa. Goffman citando l’esempio dei camerieri
di un hotel in cui aveva svolto la sua ricerca, fa riferimento al diverso comportamento
che adottano le persone quando performano sul palco (in questo caso i camerieri si
mostrano deferenti e discreti) o nel backstage quando le luci si spengono (i camerieri
assumono un modo di fare più informale e irrispettoso). In questo senso estende
l’analisi drammaturgica dividendo la vita sociale in spazi, regioni tra palcoscenico e
retroscena, tra formalità e informalità, tra recitato e vero, tra regole di etichetta e
semplicità.
Esplorando il vocabolario di Goffman, l’autopresentazione (presentation of self) vede
come primo passo la creazione di un “front”, una facciata, un’immagine di noi stessi
superficiale, legata alle apparenze e ai modi. Più nel dettaglio le tre unità che
costituiscono il fronte sociale sono ambiente (workspace ad esempio), aspetto (attributi
della persona più facilmente accessibili come l’età e la provenienza) e maniera (i modi,
gli atteggiamenti). Nella costruzione di un “self” convincente il secondo aspetto è quello
che Goffman chiama “dramatic realization”, ovvero quell’insieme di tecniche di
gestione dell’impressione come il controllo e la comunicazione di informazioni coerenti
con il ruolo assunto e che sostengano la credibilità stessa dell’attore. Connessa alla
dramatic realisation, “l’idealisation” è la tendenza di offrire al pubblico un’impressione
idealizzata del fronte dove accettiamo di interiorizzare i valori ritenuti esemplari dalla
società.
Di seguito, troviamo il mantenimento del controllo espressivo (“maintenance of
expressive control”) e la “misrepresentation” (travisamento), due modalità di controllo
della percezione che il pubblico ha di noi attraverso la manipolazione dell’ambiguità dei
segni12 a cui attribuiamo il significato che più ci confà. La “mistification”
(mistificazione), invece, è uno dei modi per mantenere una distanza tra sé stessi e il
pubblico. Infine, vi è l’autenticità, che come già detto in precedenza, salva l’immagine
del fronte, che altrimenti si rivelerebbe completamente artificioso. Nel giusto
bilanciamento tra realtà ed artificio sta l’espressione sociale dell’individuo nella politica
sociale di tutti i giorni. Destreggiarsi sapientemente tra i ruoli che richiede la società a

12
Goffman utilizza il termine “sign” per indicare i segnali che il pubblico interpreta come qualcosa di
significativo ma che spesso sono solo gesti insignificanti.

20
seconda del contesto, e il nostro vero io, richiede una spiccata intelligenza sociale. È
l’arte del compromesso: quanto siamo disposti a sacrificare una parte di noi per
assecondare le pressanti richieste sociali?

Il costrutto di “facial mimicry” (mimica facciale), che mi limiterò ad accennare, è stato


esaustivamente esposto e approfondito in “Facial mimicry in social settings” (Likowski,
Muhlberger, Sebt, & Weyers, 2015). Ho deciso di fare riferimento a questo argomento,
visto e considerato il suo legame con l’intelligenza emotiva soprattutto per quanto
riguarda il contagio emotivo, particolarmente implicato nei meccanismi di reazioni
facciali che possono essere congruenti o incongruenti, a seconda dei fattori sociali
contestuali. Inoltre Chartrand & Bargh (1999), esponendo il fenomeno del
camaleontismo sociale (a cui mi dedicherò nel prossimo paragrafo), approfondisce il
discorso del “mimicry” (imitazione) in relazione alla sua teoria sul legame percezione-
comportamento secondo cui la percezione è legata al comportamento a causa di un
sistema rappresentazionale comune. Come diretta conseguenza, la probabilità che si
verifichi un certo comportamento è direttamente proporzionale alla mera osservazione
di quel comportamento mostrato da un’altra persona.
Con questo articolo (Likowski et al. 2015), gli psicologi sociali, interessati all’influenza
delle situazioni sociali sul comportamento sociale, possono arricchire la propria analisi
integrando il seguente concetto: le reazioni muscolari facciali dipendono dal contesto
sociale in cui si trova l’individuo. Il termine “facial mimicry” si riferisce alle attivazioni
muscolari facciali congruenti in risposta a un’espressione facciale emotiva. Ad esempio
quando gli individui reagiscono ad una faccia felice, attivano in maniera non
intenzionale lo Zygomaticus major, un muscolo che, sollevando gli angoli della bocca,
forma un sorriso. Quindi il facial mimicry ha luogo nelle persone che possono percepire
ed imitare i comportamenti, agendo in maniera automatica come un riflesso. Liwoski et
al. (2015), a proposito di interazione sociale, sostengono la tesi per cui diversi contesti
sociali richiedano segnali facciali diversi. Inoltre, la mimica facciale promuove

21
l’affiliazione e svolge un ruolo importante nel mantenimento di relazioni sociali positive
agendo da colla sociale, che lega insieme gli individui13.

2.2 ZEBRE O CAMELEONTI SOCIALI?

Ogni volta che ci immergiamo in una sitazione sociale, conosciuta o meno, ci serviamo
di un’identità sociale più o meno fedele a noi stessi, costruita per proteggerci e renderci
meno vulnerabili agli occhi indiscreti esterni. Sviluppando la nostra identità sociale,
quindi, le nostre fragilità, insicurezze e paure vengono nascoste dalla formazione di un
sé sociale più spavaldo e sicuro di sé. In questo modo ci sentiamo maggiormente tutelati
da situazioni socialmente minacciose come i giudizi altrui, la paura di venir rifiutati o la
solitudine. Mark Snyder (1964-), psicologo sociale presso la Minnesota University, ci
propone una scelta nella nostra affermazione nel teatro sociale. Infatti, possiamo essere
camaleonti o zebre sociali, distinguendo i primi, profondamente infelici e alla continua
ricerca di approvazione sociale, dai secondi, molto più rispettosi delle proprie emozioni
nel loro comportamento coerente con il proprio sistema di valori, desideri e obiettivi. È
chiaro che dobbiamo considerare l’asserzione dello scienziato come una dicotomica
provocazione in quanto il nostro sé sociale è multiforme e si inserisce nel continuum,
che vede camaleonti e zebre sociali agli estremi, in maniera dinamica.

Quando Goleman (1995) parla di brillantezza nei rapporti interpersonali, lo fa


descrivendo individui socialmente competenti nel leggere le reazioni e i sentimenti degli
altri, che per definizione sono dei leader. Essi posseggono capacità interpersonali che si
basano sull’intelligenza emotiva, come l’automonitoraggio dell’espressione delle loro
emozioni o la capacità di sincronizzarsi con le persone che li circondano. Nel momento
in cui queste capacità non sono conformi ai propri sentimenti e stati emotivi, il rischio è
quello di ottenere una popolarità fine a sé stessa e diventare quelli che Snyder (1981)

13
Likowski et al. parlando di colla sociale citano il lavoro di Lakin, JL, Jefferis, VE, Cheng, CM e Chartrand,
TL (2003). L'effetto camaleonte come collante sociale: prove del significato evolutivo del mimetismo
inconscio. J. Comportamento non verbale.

22
definisce camaleonti sociali, ovvero dei “veri campioni nel fare una buona impressione”
(Goleman, 1995, p.199).

Chartrand e Bargh (1999) hanno studiato il fenomeno del camaleontismo sociale,


definendolo come “quel meccanismo inconscio di imitazione di posture, modi,
espressioni facciali e altri comportamenti del partner con cui stiamo interagendo”. Nel
film Zelig di Woody Allen, il protagonista è l’esempio perfetto di camaleonte sociale. Il
suo comportamento cambia per adattarsi alle norme e valori del gruppo con cui è
coinvolto, fino a modificare il suo aspetto a livello psicosomatico, diventando
letteralmente uno specchio che restituisce l’immagine proiettata degli altri. I due
studiosi con la loro teoria del legame percezione-comportamento, hanno stabilito
l’esistenza di un effetto automatico, non intenzionale e passivo della percezione sul
comportamento. La mera percezione del comportamento dell’altro automaticamente
incrementa la probabilità di emettere lo stesso. Un ruolo di rilievo in questo
procedimento è rappresentato dai neuroni specchio, una classe di neuroni che si attiva
sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva compiuta da altri.

Nei tre esperimenti di Chartrand e Bargh (1999), la teoria percezione-comportamento ha


trovato le sue conferme empiriche:

1. Nel primo i partecipanti erano divisi in coppie composte da un complice, a cui


veniva richiesto di emettere determinate espressioni facciali, e un ignaro, il
partecipante, che tendeva ad imitarlo nei gesti e nel non verbale, all’interno della
conversazione con il complice.

2. Il secondo esperimento invece, dimostrava che l’imitazione delle posture, gesti


ed espressioni facciali da parte del complice, aumentava i livelli di simpatia e
fluidità nell’interazione.

3. Infine il terzo esperimento stabiliva la correlazione positiva tra atteggiamento


empatico ed imitazione dell’altro all’interno dell’interazione.

Le conclusioni dell’esperimento hanno portato alla conferma dell’effetto camaleonte


come fenomeno psicologico sociale di rilievo e comunemente presente all’interno di
ogni conversazione, o più in generale interazione sociale.

23
L’imitazione di comportamenti e atteggiamenti delle persone intorno a noi diventa
problematico quando è un processo cosciente atto al mero conformismo. Il problema
che contraddistingue i camaleonti sociali è il mancato riconoscimento di propri
sentimenti, che li porta, come un camaleonte cambia colore in base al microambiente in
cui si trova, a mimetizzarsi nei diversi contesti sociali per paura di non essere accettati.
Questi individui sono molto abili socialmente, soprattutto nel self impression
management, riuscendo a suscitare ammirazione e stima ai più ma mancando nella
creazioni di relazioni intime stabili e continuative. Il mancato ascolto di sé stessi, delle
proprie esigenze e sentimenti, porta i camaleonti sociali alla creazione di un volto
pubblico profondamente condizionato da ciò che gli altri desiderano e si aspettano da
lui. La conseguenza più netta è la creazione di un solco che divide il sé pubblico dal sé
privato, dove il primo, basato completamente su principi di omologazione e
approvazione sociale, annulla il secondo, per nulla autentico e in armonia con i propri
sentimenti.

Contrapposto alla figura del camaleonte sociale, vi è quella del talento sociale, che a
differenza del camaleonte sociale, fa corrispondere al suo volto pubblico un senso di
tranquillità interiore, dettato da una completa consonanza tra i suoi comportamenti e i
suoi sentimenti. Il talento sociale non è altro che il leader, un individuo emotivamente
competente e dotato di un’acutezza sociale che gli permette di “armeggiare” le proprie
abilità sociali come meglio crede. L’influenza che esercita il leader è sincera, positiva:
quando un vero leader ascolta, consiglia, critica, motiva, guida, lo fa nell’interesse della
collettività e in linea con il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Il leader è colui che
riesce ad innescare emozioni positive che ci spingono a conseguire ottimi risulati. Egli
ha la capacità di saper padroneggiare l’arte sociale della motivazione. Ci riesce a
scuotere quando non abbiamo la forza neanche per muoverci accedendo il nostro fuoco
e risvegliando risorse personali che non sapevamo di avere. È un ispiratore, una figura
di riferimento, una luce nei periodi di annebbiamento personale. Un buon leader non è
solamente autoconsapevole emotivamente, ma è consapevole delle capacità di ciascun
suo subordinato riuscendo a toccare i tasti giusti nelle situazioni più difficili. Saper
gestire con intelligenza le persone significa quindi essere consapevoli che, in preda al
contagio emotivo, ogni leader può migliorare o peggiorare la situazione.

24
In sintesi, ciò che rende un individuo un leader, prima di ogni abilità sociale e di ogni
altra cosa, è la conoscenza di sé e l’autoconsapevolezza delle proprie emozioni, che gli
permette solo in un secondo momento di poter essere d’aiuto per altri.

Conseguentemente la promozione nella creazione di leadership intelligenti


emotivamente, oltre ad essere un ulteriore fattore a sostegno della centralità dell’IE
nella nostra vita, rappresenta un’attività preziosa per organizzare la società di domani
intorno a leader consapevoli e preparati.

2.3 LA FIGURA DEL MANIPOLATORE EMOTIVO

Un esempio di coloro che usano l’intelligenza emotiva esclusivamente a loro vantaggio


dimenticandosi dei bisogni e diritti dell’altro è identificabile nei manipolatori emotivi,
individui con una spiccata IE ma poco rispettosi delle emozioni altrui e di conseguenza
poco empatici.Le forme di influenza sociale, tipicamente non sono coercitive e lasciano
uno spazio di libertà e scelta al destinatario. Tuttavia, la manipolazione emotiva è un
tipo di influenza sociale che assume una connotazione fortemente negativa
caratterizzata da toni svalutativi di ricatto, rimprovero, derisione, disprezzo. I
manipolatori si nascondono nel camaleontismo adottando diversi camuffamenti a
seconda del contesto sociale in cui si trovano. Inoltre, presentano disturbi di personalità,
anche in comorbidità, come il disturbo antisociale di personalità, il disturbo borderline
di personalità e il disturbo narcisistico di personalità. Il manipolatore emotivo, per
natura, necessita di una vittima da sopraffare e su cui mantenere una posizione di potere
e controllo. La vittima d’altronde, asseconda in maniera inconsapevole il gioco malato
del manipolatore emotivo, idealizzandolo e cercando costantemente il suo consenso.
Prestando il fianco in questo modo non fa altro che alimentare le tendenze manipolatrici
del manipolatore, che, privo di empatia e risonanza interna, persevera nel suo
comportamento fino a portare all’esaurimento la vittima.

Lo studio di questa figura ha destato un notevole interesse a livello psicologico e un


discreto riscontro nella ricerca scientifica, particolarmente incentrata sul fenomeno del

25
“gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica in cui l’aggressore,
gradualmente, porta la vittima a dubitare di se stessa fino addirittura a compromettere il
suo esame di realtà. Il manipolatore emotivo esercita un’influenza impressionante
tramite l’utlizzo di tecniche di abuso emotivo elaborate.

Il contributo di Cantelmi, T., Pensavalli, M., & Serafini, P. (2021) è prezioso per
analizzare il fenomeno del gaslighting all’interno di legami complementari asimettrici.
Gli autori fanno riferimento ad una pubblicazione di Taverniers (2001) per spiegare le
tecniche di abuso emotivo e psicologico messe in atto dal maniolatore sulla vittima. Tra
queste individua:

• Tecniche comportamentali: tattiche di isolamento sulla vittima e uso di


insistenza fisica e psicologica per controllarla. Altre strategie di manipolazione
comportamentale si basano sull’impiego di rinforzi positivi dove viene elogiata
la vittima, e negativi, dove alla stessa vengono evitate situazioni di disagio come
premio per aver ubbidito. Ai rinforzi vengono alternate punizioni e
comportamenti definiti come addestramento traumatico, manifesti di ira e
violenza verbale per intimidire la vittima.

• Tecniche cognitive: fanno riferimento a distorsioni nella comunicazione, che


appare ambigua e passivo-aggressiva, attraverso l’utilizzo di bugie e diverse
forme di inganno. Esempi di queste tecniche sono il rifiuto della comunicazione
diretta con risposte evasive, la deformazione del linguaggio (il messaggio è vago
e impreciso) servendosi di un tono di rimprovero e l’adozione di uno stile
sarcastico, di derisione e disprezzo al fine di confondere e destabilizzre l’altro.
Svilire e denudare di ogni certezza la vittima è l’obiettivo più o meno
consapevole del mittente dell’abuso.

• Tecniche di tipo emozionale: il ricatto emotivo è la tattica più utilizzata e


provoca nella vittima sentimenti di paura, ansia e smarrimento. Il manipolatore
sa dove colpire perché conosce i punti deboli della vittima, nel suo bisogno di
approvazione, nel suo bisogno di evitare il conflitto, nella sua estrema generosità
nel fare di tutto per non veder soffrire la persona amata.

26
Nonostante la mostruosità delle azioni che portano il manipolatore emotivo a
comportarsi senza rimorso né attenzione alle emozioni degli altri, è corretto sottolineare
come essi agiscano sospinti da un profondo vuoto emotivo interiore. Per colmare
un’interiorità instabile, si trova a proiettare tutte le sue insicurezze sull’altro arrivando,
in un certo senso, a vivere la vita della vittima.

CAPITOLO 3: IL RUOLO DELL’EMPATIA

Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il
cammino che ho percorso io. […]

Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca.

Ho scelto di dedicare l’ultimo capitolo ad un approfonfimento sull’empatia, che, come


ho cercato di spiegare nei paragrafi e capitoli precedenti, entra in gioco in moltissime
situazioni diverse a partire da quelle concernenti la vita professionali fino ad arrivare
alla vita privata. Alla base di ogni connessione sana e requisito indispensabile per un
rapporto umano continuativo nel tempo, l’empatia ha assunto diversi significati nel
corso del tempo. Già nell’antica Grecia l’empatia (come precedentemente chiarito, da
empatheia, “sentire dentro”) rappresentava quel sentimento di unione tra i coristi dei
canti epici ed il loro pubblico nella messa in scena a teatro. La linea di continuità tra
antichità e modernità è tracciata da Robert Visher che, in pieno Romanticismo, pensa
all’empatia come la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della
natura. Più concretamente Visher, esperto di arti figurative, parla di simpatia estetica e
quindi di partecipazione al dolore, come nel caso di uno spettatore dinnanzi ad un
quadro struggente. Oggi gli psicologi sono prevalentemente allineati con la
teorizzazione di E.B. Titchener che, negli anni Venti dello scorso secolo, si separa dalla
concezione classica a sostegno dell’equazione empatia=simpatia. In questo modo
l’empatia veniva interpretata come una compassione senza condivisione e senza quella

27
sensazione fisica di sofferenza che proviamo quando osserviamo qualcun altro provare
quella sensazione, e che ci spinge ad agire. Al contrario Titchener affianca al termine
empatia quello di mimetismo motorio, conferendo all’esperienza empatica maggiore
partecipazione ed anticipando le più recenti teorie sulla “facial mimicry” per cui
assumiamo inconsapevolmente posture o imitiamo espressioni facciali congruenti al
nostro partner di interazione.

3.1 I CIRCUITI NEURALI DELL’EMPATIA

Oltre a sottolineare l’importanza dell’empatia all’interno dell’economia sociale, mi


piacerebbe anche dare spazio al funzionamento neuronale alla base di questa incredibile
abilità sociale. Per generare una risposta empatica, non bastano i sopra più volte citati
mimica e contagio emotivo, ma sono necessarie due qualità: l’autoconsapevolezza e la
disinzione tra sé e gli altri. Goleman (1995), a proposito dell’autoconsapevolezza,
afferma che “quanto più aperti siamo verso le nostre emozioni, tanto più abili saremo
nel leggere i sentimenti altrui (p.164)”. Effettivamente, senza queste due qualità,
l’osservatore reagirebbe alle emozioni degli altri in maniera egocentrica, sprofondando
in un stato di angoscia o ebbrezza a seconda dell’emozione che osserva. Parafrasando,
senza una netta distinzione tra sé e gli altri, vivrebbe l’emozione dell’altro in prima
persona in preda ad un esagerato trasporto emotivo.

I circuiti neurali elicitati dall’empatia sono diversi e gli studi neuroscientifici che ne
parlano appartengono ad una scienza piuttosto recente, la neuroscienza sociale.
Goleman (1995) cita gli studi condotti da Leslie Brothers14 su delle scimmie rhesus a
dimostrazione dell’esistenza di un percorso corteccia visiva-amigdala responsabile
dell’attivazione emozionale. Brothers, però, ha il merito di identificare in questa risposta
emozionale l’esistenza di neuroni specifici nella corteccia visiva, che si attivano in
risposta a determinate espressioni facciali o gesti particolari. Inoltre, in un esperimento

14
Leslie Brother nel 1989 con un articolo pubblicato sull’american journal of psychiatry: “A biological
perpective on empathy” illustra la sua ricerca condotta su delle scimmie per verificare l’esistenza di una
comunicazione emozionale.

28
dove la connessione tra amigdala e corteccia veniva chirurgicamente rimossa, le
scimmie in questione si comportavano in maniera emozionalmente impropria, ad
esempio scappando se altre scimmie tentavano un approccio amichevole. Con ciò, si
conferma la tesi per cui l’empatia è prima di tutto una premessa biologica consentendo a
primati non umani in principio, e a noi di conseugenza, un buon inserimento ed
adattamento sociale.

Di fattura cronologicamente più attuale, ho trovato un articolo scientifico di Lamn &


Singer (2015), molto valido nel riassumere quelle che negli anni sono state le maggiori
ricerche sulla neuroscienza sociale dell’empatia. Principalmente, gli studi si sono
soffermati sull’osservazione del dolori negli altri come presupposto per stimolare
risposte empatiche. Attraverso misurazioni del dolore su soggetti che lo esperivano
direttamente e su individui che lo osservavano sugli altri, sono state individuate le
principali aree del cervello coinvolte. Insula interiore (AI), corteccia cingolata anteriore
(ACC), tronco encefalico e cervelletto sono le principali. Queste osservazioni
confermano la teoria per cui vengono attivati gli stessi circuiti cerebrali denotando una
sovrapposizione tra le regioni cerebrali che rispondono alle esperienze di dolore in
prima persona e la percezione del dolore vicaria.

L’empatia però non è solo un processo bottom-up guidato dai sensi in maniera
automatica e attivato da rappresentazioni condivise inconsapevoli. Certamente l’ausilio
di mimica e contagio emotivo rendono le risposte empatiche automatiche e legate alla
teoria percezione-comportamento (Chartrand & Bargh, 1999). Tuttavia, un ruolo
significativo nell’empatia va riconosciuto anche ad attenzione ed inibizione, ovvero
quei processi cognitivi che completano la risposta empatica, articolandola non solo su
modelli bottom-up ma anche su quelli top-down. Se i processi bottom-up riguardano
una combinazione diretta tra percezione ed azione, quelli top-down si affidano alla
cognizione, considerando fattori come valutazione contestuale e controllo. In questo
senso si deve tener conto del ruolo che gioca la valutazione contestuale nel determinare
la risposta neurale e comportamentale dell’empatizzante. Utilizzando tecniche moderne
di neuroimaging sono state individuate le strutture neurali elicitate ovvero la corteccia
orbitofrontale mediale (OFC) e la giunzione temporo-parietale destra (rTPJ). Se il
contributo dell’OFC consiste nella rivalutazione della valenza avversiva o meno dello
stimolo presentato, la giunzione temporo-parietale destra è associata alla distinzione tra

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il sé e gli altri unita alla consapevolezza di sé. Numerosi studi neuroimaging attestano
l’importanza della rTPJ nella distinzione tra i segnali ambientali con quelli derivanti da
azioni auto-prodotte. La TPJ è una corteccia associativa che integra informazioni
derivanti dalla porzione laterale e posteriore del talamo ed è connessa alla corteccia
prefrontale ed ai lobi temporali. Queste caratteristiche anatomiche consentono
l’integrazione multisensoriale delle informazioni relative alle sensazioni corporee,
permettendo una migliore consapevolezza corporea di sé.

In sintesi, i ricercatori dell’empatia avranno ancora spazio di manovra in futuro per


lavorare su una materia recente come le neuroscienze sociali. In particolare, di spiccato
interesse potranno essere ulteriori approfondimenti riguardanti l’influenza che i processi
di informazione bottom-up e top-down hanno sullo sviluppo dell’empatia, andando a
sviscerare tutti i meccanismi neurali alla base di concetti correlati come la compassione,
il contagio emotivo e la comprensione. Inoltre, i neuroscienzati potranno lavorare su
altre temi connessi come quello della relazione tra differenze individuali nell’empatia e
comportamento prosociale oppure come i tratti di personalità condizionano la risposta
empatica. Insomma, a delle domande ancora senza risposta seguiranno altri quesiti
intriganti su un argomento in continua evoluzione nella sua comprensione e applicazioni
concrete sulla vita di tutti i giorni.

3.2 LA TRIADE OSCURA DELL’EMPATIA

Nel corso del mio lavoro ho più volte evidenziato i benefici dell’empatia all’interno di
connessioni sane, che comportano tra gli altri, un senso di benessere emotivo e
reciproca attenzione ai sentimenti, condizioni determinanti nella relazione. Essendo
l’empatia presupposto primario per la socievolezza, essa assume un valore adattivo e
primario per la sopravvivenza, data la nostra fama di animali sociali. Di conseguenza,
pensare alle nostre interazioni e relazioni sociali senza questa cruciale risorsa, diventa
problematico sotto tutti i punti di vista. Coloro che mancano di tale abilità non sono in
grado di sintonizzarsi e di distinguere ciò che sono le proprie sensazioni da quelle della
persona che si ha di fronte, generando così un sentimento di indifferenza verso le

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emozioni altrui, tale da poter ignorare completamente la sofferenza e il dolore che
l’altro può provare.

Goleman (2006) considera l’empatia come principale inibitore della crudeltà umana,
essenziale nel trattare l’altro con umanità e non come uno strumento per raggiungere un
fine. Chi è privo di empatia è probabilmente inquadrabile in quella che gli psicologi
comunemente intendono come “Triade Oscura” ovvero quella macrocategoria
contenente tre tipi psicologici diversi accomunati da freddezza emotiva, doppiezza
sociale ed egocentrismo.

I primi, i narcisisti sono guidati da una grande ambizione e da sogni di gloria che li
rendono in costante bisogno di una sfida stimolante. All’interno di questo cluster, si
possono dividere i narcisisti sani da quelli patologici, ed entrambi hanno una
predispozione naturale a diventare dei leader.

I narcisisti sani riescono a concentrare tutta la loro grande fiducia in sé stessi e nelle
proprie capacità, allo scopo di perseguire gli obiettivi preposti. Più nello specifico questi
individui, leader ambiziosi e sicuri di sé, uniscono alla loro mission, fatta di sfide
rischiose ma potenzialmente remunerative, una capacità di autoriflessione e apertura al
feedback degli altri. Da questo punto di vista si differenziano dai leader non sani nel
momento in cui considerano l’opinione esterna una possible opinione valida e
costruttiva, dimostrando discreti livelli di empatia.

I narcisisti non sani, al contrario, sono leader particolarmente affascinanti e in grado di


costruire una community di seguaci molto fedele. Abili nell’offrire prospettive
irresistibili e nel gratificare chi li sostiene nella loro corsa spietata verso il successo,
queste persone rispecchiano il classico stereotipo del narcisista, indifferente alle
necessità e sentimenti degli altri, e determinato a ottenere il successo, senza rimorsi né
rimpianti. Tendenzialmente, la premessa della poca empatia risiede in una mancanza di
autostima che invece non caratterizza il narcisista sano. I narcisisti malati credono di
essere vittime di complotti in continuazione e tendono quindi ad isolarsi insieme ai loro
adepti, creando un’ideologia forte e divisiva per difendersi da tutti gli oppositori o
presunti tali. Acceccati da vanità e grandiosità, agiscono con poca lucidità nei momenti
decisivi, ascoltando solo la propria verità e conducendo al fallimento sé stessi e tutti
coloro che decidono di seguirli.

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Ritornando alla Triade Oscura, i narcisisti si distinguono, oltre che per la loro vanità ed
egocentrismo, per la presenza di bias cognitivi particolarmente evidenti, soprattutto nei
processi attributivi. Per esempio, essi operano distorsioni a favore del sé con tendenze
all’autoaccrescimento per comportamenti desiderabili e all’autoprotezione per quelli
indesiderabili. La tendenza ad invocare cause situazionali per sé e cause disposizionali
per gli altri, si traduce in una necessità di attribuire il merito personale per i propri
successi e la colpa agli altri per i propri fallimenti. Automaticamente si crea quindi un
circolo vizioso in cui si accettano in modo acritico le lodi ma si accolgono le critiche
con scetticismo o attribuendole ad un pregiudizio. Queste distorsioni, volte
all’autoaccrescimento, sono interconnesse con il tema dell’impression management, un
processo che, con i narcisisti, propende per l’espressione di un sé ideale molto diverso
da quello reale15.

I machiavellici, i secondi, ispirati alla figura del principe egoista e senza scrupoli di
Machiavelli, adottano un atteggiamento cinico nei confronti della vita. Sono dei
calcolatori senza moralità improntati all’inganno. La massima “il fine giustifica i mezzi”
riassume perfettamente il loro comportamento sociale. Ogni interazione è guidata da un
secondo fine e in ogni relazione non c’è nessun interesse a stabilire legami emotivi
duraturi nel tempo. Il machiavellico è una persona, che a differenza del narcisista, non si
sforza di far colpo e non vive in funzione dell’adorazione altrui, ma che, tuttavia,
riscuote lo stesso risultato, suscitando comunque grande interesse e fascino attraverso
una sicurezza di sé e una disinvoltura invidabili. A livello empatico, rispetto agli altri
terzi della triade oscura, riescono a comprendere le emozioni e i pensieri degli altri per
poi riutilizzarle a loro vantaggio. La freddezza emotiva dei machiavellici sta
nell’incapacità di elaborare le proprie emozioni, elementi estranei all’interno del loro
mondo razionale e matematico. Quindi, se da una parte i machiavellici si dimostrano
acuti osservatori e scaltri esperti di cognizione sociale, dall’altra controbilanciano con
un’aridità emozionale interna che li rende inconsapevoli e cechi emotivamente.

15
La teoria della discrepanza del sé vede l’esistenza separata di un sé ideale ed un sé normativo dove
l’autostima viene determinata dalla misura in cui l’individuo si focalizza sulla discrepanza (sé ideale e sé
normativo). HIGGINS, E. T., (1987). Self-discrepancy: A theory relating self and affect., Psychological
Review, 94, pp. 319-340.

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Infine, la triade oscura viene conclusa dagli psicopatici, forse al vertice di una piramide
che li considera i più pericolosi, e potenzialmente distruttivi per le persone che hanno
intorno. Sono caratterizzati da una completa assenza di empatia che comporta una totale
indifferenza al dolore emotivo altrui. Molteplici studi di neuroimaging confermano
l’esistenza di deficit a livello dell’amigdala e dell’area prefrontale, addette a registrare
ed interpretare le emozioni. Non provano alcun tipo di ansia, sono immuni allo stress e a
situazioni che manderebbero chiunque in panico. Queste pecularietà li rendono
estremamente temibili nella loro imprevedibilità, conseguenza diretta della noncuranza
davanti a intimidazioni o avvertimenti di punzioni che perdono il loro potere deterrente
dal momento in cui paura e senso di colpa non hanno più peso. È per questo motivo che
molti criminali psicopatici sono imperturbabili sotto pressione e indifferenti a qualsiasi
tipo di sanzione che la legge impone.

Chiaramente la notizia più preoccupante arriva dal fatto che il principale inibitore di
crudeltà umana sia completamente spento. Gli psicopatici non applicano alcun freno
interiore ai propri impulsi aggressivi e crudeli e, non possedendo doti empatiche,
potrebbero teoricamente reiterare le loro azioni perfide con distacco e disinteresse.

In conclusione, possiamo dire che la presenza dell’empatia è premessa fondamentale


nell’espressione delle emozioni sociali (orgoglio, imbarazzo e colpa). I membri della
Triade Oscura per lo più agiscono inconsapevoli di queste emozioni, comportandosi con
sconsideratezza sociale che causa loro sentimenti di disapprovazione da parte delle
persone. È come se smarrisero la loro bussola sociale senza però trovarsi disorientati.
Queste emozioni infatti assumono un altro valore e perdono il loro potere rendendo
queste tre categorie poco inclini a provare senso di colpa dopo aver agito un torto o
vergogna a seguito di una battuta infelice e fuori luogo.

CONCLUSIONI

Tra disastri naturali causati dal cambiamento climatico, pandemie, guerre, in una
modernità caratterizzata da precarietà anche a livello sociale dove i rapporti cambiano

33
velocemente e, a volte, irrimediabilmente, è di primaria importanza sottolineare
l’esigenza di formare un’intelligenza emotiva solida, che ci prepari alle sfide dei
prossimi anni.

La formazione di persone competenti emotivamente è un obiettivo di primaria


importanza per poterci sedere al tavolo del futuro con coscienziosità e saggezza, qualità
fondamentali per poter discutere le problematiche che nei prossimi anni dovremo
affrontare. Costruire individui che sappiano agire con empatia è fondamentale in un
mondo che corre rapidamente, esaltato da motivazioni egoistiche e di successo. Il
capitalismo ci insegna a produrre, a farlo velocemente, a non guardarci indietro, ad
offrire la bella faccia, a difenderci dietro questa, a salvarci prima degli altri, a
prevaricare, a lasciare indietro i più “deboli” all’interno della catena, della giungla
sociale. È facile, di conseguenza, cadere nei tranelli sociali che ci impongono l’adozione
di un’identità poco coerente con la nostra personalità ma chiaramente in accordo con ciò
che la società pretende da noi. Il rischio è quello di perderci all’interno di mille
maschere, offrendo un volto camaleontico, poco autentico ma al sicuro dalle mille ansie
e pretese sociali.

Cambiare prospettiva significa accogliere un’epistemologia della complessità che non


sia riduzionista, e che premi le idee, la creatività, le differenze, l’unicità. Accettare la
diversità e farne una risorsa, essere consapevoli delle proprie emozioni e viverle con
coraggio, agire con saggezza, essere empatici, usare la scaltrezza sociale a vantaggio
della collettività, diventare leader intelligenti emotivamente.

Queste sono le sfide del futuro, a noi la scelta !

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