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Isole

Un arcipelago semiotico

a cura di
Franciscu Sedda

MELTEMI
PROGETTO
ISOLE
Progetto di ricerca “Isole” finanziato dalla Fondazione di Sardegna
e dalla Regione Autonoma della Sardegna - l.r. 7/2007

Meltemi editore
www.meltemieditore.it
redazione@meltemieditore.it

Collana: Biblioteca / Semiotica, n. 5


Isbn: 9788855190954

© 2019 – MELTEMI PRESS SRL


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Indice

9 Il pianeta delle isole


Franciscu Sedda

59 Cause e ragioni delle isole deserte


Gilles Deleuze

67 Genealogia insulare.
Dai poemi omerici alla cartografia medievale
Tarcisio Lancioni

125 Le isole del Grande Mediterraneo del XVI secolo


Fernand Braudel

157 Isole ai confini. Dalle terre leggendarie alle utopie


Isabella Pezzini

171 La forma dell’isola (che non c’è).


Letteratura, immaginario, passioni
Omar Calabrese

191 Insulomania.
La diversità delle isole, il carattere degli isolani
Predrag Matvejević
203 Isole di terra, di mare e dell’anima.
Fra memorie individuali e pratiche sociali
Maria Pia Pozzato

223 Studiando il nostro mondo di isole.


Fondamenti, storie, prospettive
Godfrey Baldacchino

257 Insularizzazioni.
Per una teoria delle capsule, delle isole e delle serre
Peter Sloterdijk

267 Perché l’isola non viene mai trovata


Umberto Eco

291 Fonti dei testi

295 Gli autori

297 Avvertenze e ringraziamenti


Agli isolani, e agli insulomani
Franciscu Sedda
Il pianeta delle isole

Credo nelle isole,


perché esse sole inventano il mare

Serge Pey

1. Le isole, o il mondo a 360 gradi

Ci sono volute delle isole di plastica per rendere eviden-


te, tangibile, l’impatto che l’uomo sta avendo sull’ambiente.
Non sono bastati il buco nell’ozono, la desertificazione, lo
scioglimento dei ghiacci, l’instabilità climatica, gli eventi me-
tereologici estremi e inattesi.
Si può dire che sono queste isole di plastica il vero sim-
bolo dell’Antropocene, il segno dell’ingresso in una nuova
era planetaria e della consapevolezza di esservi entrati. Lo
sono perché sono di plastica, dunque portano inscritta la
traccia “creatrice” dell’uomo, e perché questa plastica è fatta
dei nostri rifiuti, dei nostri scarti, e dunque testimonia di un
modo di vita quotidiano e del prolungato rifiuto di vederne
le conseguenze globali. Lo sono perché sono isole e in quan-
to tali rimandano, anche se inconsapevolmente, a potenti
idee di soggettività, di modello del mondo, di autocoscienza.
Insomma, sono un’immagine archetipica in cui specchiarsi,
attraverso cui riconoscere chi siamo, cosa stiamo producen-
do, in quale mondo stiamo scegliendo di abitare.
Mentre persino i piccoli atolli oceanici sommersi dall’ac-
qua o i grandi iceberg alla deriva sembravano ancora trop-
po naturali e troppo distanti per toccarci, scollegabili come
sono dalla nostra potenza trasformativa, così non è per le
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garbage islands che proliferano nel mondo e nella comunica-


zione sul mondo. E il fatto che questi accumuli d’immondezza
per altri versi siano definiti come chiazze, vortici, poltiglia o che
la loro stessa esistenza appaia profondamente intrecciata con il
racconto mediatico su di esse nulla toglie alla forza evocativa
dell’“isola”. Anzi, il loro statuto polimorfo, instabile, inafferra-
bile, proteso fra realtà e immaginazione, aumenta se possibile
il valore della loro definizione in quanto “isole”, dato che ci
riporta alle radici mitiche delle isole, alla loro indistinzione con
il mare, al loro continuo fluttuare, al loro venir intraviste e subi-
to perdute; e ancora, pare rinnovare il loro statuto utopico, di
creazione umana, di presenza immaginaria, di fantasma politico
che traccia i lineamenti di una società a venire, che oggi assume
tuttavia un valore distopico, se non apocalittico.
Uno dei più importanti oracoli greci vaticinava il futuro
dall’isola fluttuante di Delos. Le odierne isole di plastica,
fluttuanti, sfuggenti, onnipresenti paiono essere esse stesse
l’oracolo che ci parla, o che abbiamo immaginato per poter
parlare a noi stessi, a tutti, di ciò che sta accadendo e che
altrimenti non avremmo modo e coraggio di dire.
E sono sempre isole quelle che incontriamo quando ci
rivolgiamo alle grandi crisi umanitarie del presente, quelle
che condensano in sé il groviglio di clima, guerra, povertà,
speranza, razzismo, disuguaglianze, solidarietà. Che si chia-
mino Lampedusa o Nauru, Lesbo o Malta. Si potrebbe anzi
dire che i grandi flussi umani che scuotono il globo sono essi
stessi causa di nuove forme di insularizzazione. Dai lager li-
bici ai barconi degli scafisti, dalle navi delle ONG agli Stati
con i porti più o meno chiusi. È uno strano arcipelago quello
che si disegna nel Mediterraneo, fra Africa, Medio Oriente,
Europa. Un arcipelago che ci ricorda che l’insularità non è
necessariamente sinonimo di isolanità e che la prima è più un
effetto che un dato: un effetto che a volte può salvare ed altre
volte uccidere. Un arcipelago che ci ricorda che ci possono
essere isole e navi più aperte di interi Stati o continenti, che
il confine è un costrutto semiopolitico prima ancora che spa-
ziale, in quanto tale soggetto a livelli differenti di (im)perme-
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abilità, portatore di una radicale carica di novità, distruttiva


o creativa che sia. Per questo oggi le isole e le insularizzazioni
sono terreno di contesa, campo di battaglia, luogo in cui si
misura la radicalità delle nuove politiche populiste quanto la
capacità di risponder loro efficacemente, dove si fanno ma-
nifesti gli umori xenofobi un tempo latenti così come potenti
gesti di disobbedienza civile che si pensava non fossero più
necessari. Luoghi da cui si ricreano forme di scrittura di sé
e del mondo, come ha fatto il profugo curdo Behrouz Bo-
ochani imprigionato dall’Australia sull’isola di Nauru, che
ha scritto della sua condizione via Whatsapp, grazie ad un
cellulare “clandestino”. Fatto che riporta alla mente altre
storie isolane: dalle lettere dal carcere di Antonio Gramsci
alle pagine scritte sulla carta igienica da Bobby Sands.
E ancora è da complessi rapporti fra isole e continenti
che possiamo intravvedere alcune dinamiche geopolitiche
sensibili. Come nel caso della Brexit, con la Gran Bretagna
che vuole tornare a farsi isola-Stato, abbandonando l’arcipe-
lago Europa. Un movimento di separazione-ricreazione che
oltre ad ottenere come primo effetto uno stallo che rende
percepibili quanto siano complesse e fitte le trame dell’inter-
dipendenza economica, giuridica, culturale contemporanea,
attiva altri meccanismi d’insularizzazione-arcipelagizzazione:
l’europeista Scozia vede infatti legittimata l’opzione di un
secondo referendum d’indipendenza che la svincolerebbe
dallo UK per restare legata alla UE; l’Irlanda si trova al bivio
fra lo spettro di nuove violenze a nord del Border o il sogno
di una riunificazione politica dell’isola verde.
Dall’altro capo del mondo un’ipotesi di legge sull’estra-
dizione, e le conseguenti manifestazioni con centinaia di mi-
gliaia di persone per le strade, ha riacceso i riflettori sul rap-
porto fra il gigante cinese e l’isola di Hong Kong, ma ancor
di più sulla precaria ma finora ineludibile territorialità dei
diritti umani, sui complessi accomodamenti fra giurisdizioni
che consentono l’ambigua convivenza di modelli economici,
sociali, politici apparentemente incompatibili, sull’esisten-
za di isole che sono città-Stato, che mentre richiamano alla
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mente conoscenze che parevano rinchiuse nei libri di scuola


dall’altro solleticano l’immaginazione di politologi, futurologi,
sindaci delle grandi metropoli del globo, che si sentono più
vicini fra di loro che con i rispettivi hinterland. Ecco dunque
che le tensioni fra i continenti e le isole, fra un’organizzazione
sovrastatale e uno Stato, fra uno Stato e un’entità sub-statale o
quasi-statuale, ci riportano sulla disunità del mondo odierno.
O forse, ancor meglio, sulla sua complessa, eterogenea unità,
in cui globale e locale non sono mai realmente separabili, in
cui il mosaico e la rete, il caos e le sfere (e le sfere nelle sfere…)
continuamente convivono e confliggono.
E chi le isole non ce le ha? Se le crea. Come negli Emirati
Arabi, dove la costruzione di isole artificiali da un lato ri-
manda in profondità alla Jazīrat al-ʿArab, quella che noi chia-
miamo “penisola arabica” ma che più alla lettera è “l’isola
degli arabi” (come ci ricorda anche Al Jazeera, il nome del
network oggi globale nato e cresciuto in Qatar, che significa
appunto L’isola), mentre dall’altro lato traduce in pratica il
miraggio dell’oasi e serve a comunicare globalmente un’idea
di potenza e prestigio socio-culturale che altrimenti non ver-
rebbe riconosciuto. E così ecco isole che ospitano alberghi
fantasmagorici, isole che ospitano musei internazionali, isole
che insieme compongo la sagoma del mondo e canali che
sembrano poter trasformare il deserto stesso in un arcipela-
go. Progetti faraonici, a volte catastrofici, che sembrano tut-
tavia fatti apposta per ricordare quanto l’utopia dell’isola sia
potente, attraente, necessaria. Un’isola tutta per sé. Possibil-
mente “esclusiva”, come gli atolli per dar pace (e appetibilità
via Instagram) agli odierni influencer o come le grandi navi
da crociera, mondi in miniatura, isole in movimento fra altre
isole, concretizzazione massificata dell’utopia dell’isola per
i propri comodi e a propria misura, epurata dalle violenze
e dalle ingiustizie del mondo. Sogno innocente, forse per-
sino ineludibile, che Banksy proprio a Venezia ha provato
a mandare ironicamente in frantumi dipingendo un quadro
in cui la nave da crociera straborda, invade altre isole men-
tre perde il suo stesso confine, e viene contemporaneamente
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smembrata in altri quadri-frammenti. Che però, come in un


gioco infinito, sono pur sempre altre isole di senso.
Intanto, da tutt’altra parte del globo, non smettiamo di tro-
vare nelle isole tracce per (ri)pensare la nostra storia biologica,
la nostra storia come specie, come specie fra le specie, come
parte del pianeta e del cosmo. Dopo la scoperta dell’Homo
floresiensis sull’isola di Flores, sempre nelle Filippine, più a
nord, sull’isola di Luzon sono state trovate di recente una
manciata di ossa che sembrano offrire a noi umani un nuovo
rebus, dato che l’Uomo di Luzon (dal 2019 ufficialmente ac-
colto nell’ingarbugliato cespuglio delle specie ominine come
Homo luzonensis) sembra avere i denti da Homo e i piedi da
australopiteco. L’uomo è dunque uscito dall’Africa prima di
quanto immaginassimo? Ci fu un’ondata precedente a quella
finora ritenuta più antica che 2 milioni di anni fa portò in Asia
gli antenati dell’Homo erectus? O queste ossa ci parlano, an-
cor più radicalmente che in passato, della capacità delle isole
di costituire nicchie ecologiche che aumentando la casualità e
la pressione adattativa generano imprevedibile diversità? Le
risposte sono di là da venire. Il punto è che sono delle isole che
ci interrogano e, ancora una volta, ci sorprendono.
Abbiamo voluto dare, attraverso una carrellata di esem-
pi1, la profondità del rapporto fra le isole e il mondo, fra le

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Ognuno di questi, ovviamente, rimanda a letture di cui non sempre è fa-
cile tenere traccia, presi come siamo da una comunicazione sempre più fram-
mentaria e sovrabbondante. Per alcuni approfondimenti o rimandi: per due
approcci all’Antropocene si vedano Latour (2017) e Lewis, Maslin (2018);
sulle isole di plastica come mitologia contemporanea si veda anche il nostro
intervento non accademico del 29 settembre 2018 dal titolo The Garbage
Island(s) su doppiozero.com, per una critica semiotica della comunicazione
giornalistica sulle isole di plastica, cfr. Traini (2018); per un’analisi semiotica
delle Pelagie (Lampedusa, Linosa, Lampione), prese fra migrazioni, turismo,
ambientalismo, cfr. Cosenza 2011; su Behrouz Boochani (2018) si veda anche
l’intervista di Cristina Taglietti, “Urla da un altro sud” (Corriere della Sera - La
Lettura, 30 giugno 2019); ; sull’Europa come arcipelago, cfr. Cacciari 1997; su
Singapore come archetipo delle future città-stato, cfr. Khanna 2017; sull’ide-
ologia di futuro e legittimazione che accompagna le isole degli Emirati Arabi
ci permettiamo di rimandare ad alcuni nostri lavori (Sedda 2007 e 2012, pp .
94-95 e cap. 6.); sulla vicenda dell’Homo luzonensis si veda l’articolo di Telmo
Pievani, “Il cugino degli Hobbit” (Corriere della Sera - La Lettura, 5 maggio
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isole e il pianeta. Certo, guardare il mondo dalle isole è pur


sempre un punto di vista. Un punto di vista che cercheremo di
scandagliare con l’aiuto dei saggi raccolti in questo volume e
attraverso questa introduzione, che di quei saggi e di altri lavo-
ri, cerca di far tesoro. Un punto di vista fra gli altri, dicevamo.
Eppure esso ci appare privilegiato. Le isole sono oggi più che
mai un luogo da cui guardare il pianeta a 360 gradi.

2. I sensi dell’isola, il senso delle isole

Se si vuole cogliere la profondità e la complessità dell’es-


sere-isola e della condizione d’isolanità bisogna articolare
con maggiore chiarezza lo sterminato materiale che la realtà
geografica, storica, linguistica, immaginaria ci ha lasciato in
eredità e che continuamente produce. Bisogna in altri termi-
ni, attraverso l’analisi dei frammenti di un discorso isolano,
individuare dei vettori di significazione che come una busso-
la consentano di orientarci in esso.
Vedremo dunque che l’opposizione fra l’isola e il mare è
solo la prima distinzione che consente di donare senso alle
isole proprio mentre le tira fuori da quello statuto indefinito,
informe, precario che vorrebbe l’isola sempre sul punto di
essere risucchiata dall’acqua o di confondersi con le corren-
ti2. A questa prima relazione ne seguiranno altre, altrettanto
fondanti ma portatrici di altre possibilità di senso, dense di
valori politico-sociali: quella che mette in tensione l’isola con
il continente, quella che mette in correlazione l’isola con le
altre isole. Vedremo poi come vi sia un’ultima e peculiare

2019) e la bella frase conclusiva: “Sulla Terra ci sono tantissime isole e altre
sorprese ci attendono”.
2
Va ricordato, con Pezzini, che l’opposizione isola/mare a determinate
condizioni rimanda ancor più in profondità all’opposizione cosmologica ter-
ra/acqua e dunque al gioco di elementi (terra, acqua, aria, fuoco) che Greimas
(Greimas 1976; Greimas, Courtès 1979) invitava a considerare quasi degli
“universali” nella strutturazione semantica dei discorsi (certamente in quelli
europei).

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