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VV.

1-51

Qui sulle aride pendici

del terribile vulcano

distruttore, il Vesuvio,

che non sono rallegrate da nessun albero né fiore,

tu spargi i tuoi rami solitari,

o profumata Ginestra,

felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista

abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate

che circondano la città (Roma)

che un tempo fu dominatrice degli esseri umani,

e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso

testimonino e ricordino a chi passa

il grande impero perduto.

Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante

di luoghi tristi e abbandonati dal mondo,

e sempre compagna di grandezze decadute.


Questi terreni, cosparsi

di ceneri sterili, e ricoperti

dalla lava solidificata,

che risuona sotto i passi del viandante;

dove si annida e si contorce sotto al sole

il serpente, e dove il coniglio torna

all’abituale tana tra le caverne;

furono città ricche e campi coltivati,

biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono

di muggiti delle mandrie;

furono giardini e ville sontuose,

un gradito rifugio

per l’ozio dei potenti; e furono città famose

che il vulcano indomabile, eruttando

dalla bocca di fuoco torrenti di lava

distrusse insieme con i loro abitanti.

Ora qui intorno

la rovina avvolge tutto,

là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi

compiangendo le miserie altrui, verso il cielo

emani un profumo assai dolce,

che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti

si rechi chi è solito esaltare ed elogiare

la nostra umana condizione, e veda

quanto la natura benigna si preoccupa

dell’uomo. E in maniera opportuna

potrà anche valutare

la potenza del genere umano,

che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta,

con una scossa impercettibile distrugge in parte

in un solo momento, è può con moti

poco meno lievi all’improvviso

annientare del tutto.


VV. 52-86

Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa,

secolo superbo e stolto,

che hai abbandonato la strada segnata

sin qui dal pensiero rinascimentale,

e tornato sui tuoi passi,

ti vanti del tuo procedere all’indietro,

e lo chiami addirittura progresso.

Tutti gli ingegni,

di cui una sorte malvagia ti ha reso padre,

sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile,

benché a volte, tra di loro,

si facciano beffe di te. Io non

verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna;

ma piuttosto avrò mostrato chiaramente

il disprezzo nei tuoi confronti

che è rinchiuso nel mio cuore:

benché io sappia che all’oblio

è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo.

Di questo male, che sarà in comune

tra me e te, finora ne rido molto.

Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi

che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero)

in virtù del quale soltanto risorgemmo

in parte dalla barbarie, e per cui solo

si può crescere in civilizzazione, che da sola guida

i destini dei popoli verso il meglio.

Perciò ti ha infastidito la verità

sulla sorte amara e sul mondo infelice

che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo,

vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero

che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi,

chiami vile chi segue quella via,

e definisci magnanimo solo chi,

astuto o stolto, illudendo sé stesso o gli altri,

esalta fin sopra le stelle la condizione umana.


VV. 87-157

Un uomo di umile condizione e salute cagionevole,

che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti,

non definisce né reputa se stesso

ricco di beni o di vigore fisico,

e non ostenta ridicolmente

tra la gente la sua vita lussuosa

o il suo bell’aspetto;

ma senza vergogna si mostra privo

di forza fisica e di beni materiali, e chiama

apertamente le cose col loro nome, e stima

le sue cose in modo aderente alla verità.

Non penso che sia un essere

magnanimo, ma sciocco chi,

nato per morire, nutrito di sofferenze,

afferma: “Sono stato creato per essere felice”,

e di nauseante orgoglio

riempie i suoi scritti, promettendo in terra,

a quei popoli che un’onda di

un mare tempesta,

una pestilenza, un terremoto

possono distruggere in modo che

ne sopravviva a stento il ricordo,

un destino esaltante e straordinarie

felicità, che il cielo stesso ignora.

Nobile spirito è quello

che ha il coraggio di sollevare

i propri occhi mortali contro

il destino comune, e che con parole oneste,

senza nulla togliere alla verità,

confessa il male che ci è stato assegnato,

e la nostra insignificante e fragile condizione;

quello che si mostra coraggioso e forte

nella sofferenza, e che non aggiunge

alle sue sciagure

né gli odi né le ire fraterne,

più gravi ancora di ogni altro danno,

dando la responsabilità all’uomo del suo dolore,

ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile (la natura),

che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta.
Chiama nemica costei (la natura); e pensando

di essere, com’è vero,

unita e schierata contro di lei,

la società umana

ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro

e tutti li stringe in un abbraccio

con vera partecipazione, offrendo

ed aspettando un valido e rapido aiuto

nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze

della comune lotta. E crede che

sia cosa stolta armarsi e porre insidie

per contrastare un proprio simile,

così come sarebbe stupido,

in un campo di battaglia circondato dai nemici,

nel momento più feroce dell’assalto,

dimenticando i nemici, aprire

aspre ostilità contro i proprio compagni

e disseminare la fuga o tirare colpi di spada

tra i propri guerrieri.

Quando considerazioni di questo tipo

saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo;

e quel terrore che per primo

unì gli uomini contro la natura malvagia

in una catena di solidarietà,

sarà ricondotto in parte

a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine

degli esseri umani

e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice

che non l’ottusa fiducia,

sulle cui fondamenta la mentalità del popolo

è solita star in equilibrio come può stare

chi ha il proprio fondamento nell’errore.


158-201

Spesso siedo nottetempo su questi luoghi,

che, deserti, la lava solidificata,

e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore

marrone scuro; e sul triste paesaggio,

sotto un cielo terso e pulitissimo

vedo risplendere le stelle nel cielo,

alle quali il mare, da lontano, fa da specchio,

e tutto il mondo brilla di scintille

per l’universo sereno.

E fissando con gli occhi quelle luci,

che a loro paiono solo dei puntini,

e invece sono talmente grandi, che in realtà

terra e mare sono solo un punto al loro

cospetto; alle quali non solo l’uomo,

ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla,

è del tutto sconosciuto; e quando ammiro

quelle lontane e infinite costellazioni di stelle,

che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo,

non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle,

infinite per numero e per mole,

insieme col sole dorato

o sono sconosciute o appaiono come

loro sembrano alla Terra, e cioè

un punto di luce fioca; allora come appari

al mio pensiero, o stirpe umana?

E ricordando il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza

il suolo vulcanico che io calpesto;

e d’altra parte (ricordando) che ti reputi padrona

e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte

ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei)

del mondo siano scesi su questo oscuro

granello di sabbia, che ha nome Terra,

per causa tua, e su come spesso abbiano conversato

piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando)

che perfino la presente età, che per conoscenza

e costume civile sembra essere così superiore alle età precedenti,

insulta i saggi, raccontando di nuovo

sogni già derisi in passato;

che sentimento o che pensiero, o umanità infelice,

assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti?

Non so se prevale il riso o la pietà.


VV. 202-236

Come un piccolo frutto cadendo dall’albero,

che nell’autunno inoltrato la maturazione

fa precipitare a terra senza altra forza,

schiaccia, annienta e sommerge

in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche,

scavati nel terreno molle

con gran lavoro, e le gallerie

e le riserve di cibo che con lunga fatica

le infaticabili formiche in gara tra loro hanno

raccolto con previdenza nella stagione estiva;

così, piombando dall’alto,

dalle viscere rumorose del vulcano

scagliate in alto verso il cielo,

le tenebre

fatte di cenere, pomice e sasso,

mescolate ai bollenti ruscelli,

oppure un’immensa piena

di massi liquefatti

di metalli e di sabbia infuocata,

che scende furiosa tra l’erba,

lungo il fianco del monte

sconvolse, distrusse e ricoprì

in pochi attimi

le città che il mare bagnava

sulla costa: così ora su quelle città pascola


la capra, e nuove città

sorgono all’esterno della colata, a cui fanno

da sgabello le città sepolte, e l’alto monte

quasi calpesta col suo piede le mura crollate.

La natura non nutre per il genere

umano maggiore stima o cura

che per la formica: e se la strage

avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche),

ciò avviene d’altra solo perché

la stirpe degli uomini è meno feconda.

VV. 237-296

Sono passati ben mille e ottocento

anni da quando scomparirono, sepolti

dalla forza della lava infuocata, le affollate città

e il contadino intento a lavorare

nei vigneti, che la terra arida e bruciata,

nutre a fatica in questi campi,

alza tuttora lo sguardo

sospettoso verso la cima del vulcano

portatore di morte, che per nulla resa più mite,

ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia

una strage a lui (il contadino), ai suoi figli

e ai loro miseri averi.

E spesso

il poverello sul tetto

della sua rustica casa, trascorrendo

insonne tutta la notte all’aperto,

e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso

il procedere del temuto ribollire, che cola

dalle inesauribili viscere

sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende

la marina di Capri

e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.

E se lo vede avvicinarsi, o se sente

per caso gorgogliare in fermento

nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli,


sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto

delle loro cose possono prendere e, in fuggendo,

vede da lontano la quotidiana

abitazione, e il modesto campo,

che costituì per lui l’unica difesa alla fame,

preda della colata incandescente

che avanza con mille crepitii, e inesorabile

si stende per sempre sopra quelli (campo e casa).

Alla luce del sole torna,

dopo un oblio secolare, l’estinta

Pompei, come uno scheletro

sepolto, che dalla terra viene all’aperto

per desiderio di ricchezza o pietà;

e dal foro deserto

dritto in mezzo alle fila

dei colonnati diroccati il pellegrino

contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma)

e il pennacchio di fumo,

che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei).

E nell’orrore della notte oscura

per i teatri abbandonati,

per i templi crollati e le case

devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli,

come una fiaccola misteriosa

che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti,

corre il bagliore della lava assassina,

che da lontano in mezzo all’ombra

rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno.

Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere

che egli chiama antiche, e del susseguirsi

delle generazioni umane,

la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede

per un cammino così lungo che ella pare

immobile. Nel frattempo, crollano i governi,

passano le genti e le culture: ella non se ne accorge:

e l’uomo pretende il diritto all’eternità.


VV. 297-317

E tu, flessibile ginestra,

che con i tuoi cespugli odorosi

adorni queste campagne desertificate,

anche tu presto soccomberai alla potenza

crudele della lava in eruzione,

che ritornando ai luoghi

già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami

il suo mantello avido di morte. E piegherai

sotto la colata mortale senza opporre resistenza

il tuo capo innocente:

ma senza averlo piegato fino a quel momento,

con suppliche inutili e codarde

al futuro oppressore; e senza averlo alzato

con forsennato orgoglio contro le stelle,

né sul deserto, dove

tu sei nata e hai dimora

non per scelta ma per gioco del caso;

ma più saggia, e tanto

meno debole ed insensata dell’uomo, poiché

non hai mai creduto che la tua specie

fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.

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