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NEAL BARRETT JR.

ALDAIR IN ALBION
(Aldair in Albion, 1977)
NEAL BARRETT E LA FANTASY DEI «SEMIUMANI»
Questo primo volume della tetralogia che Barrett ha dedicato a Aldair,serve ad inquadrare il contesto nel
quale si svolgono le avventure che ve-dono come protagonista Aldair appunto ed i suoi compagni.Il
pianeta è la Terra di un lontanissimo futuro, dalla quale però gli uo-mini sono scomparsi. Al loro posto
invece, vediamo che a popolare i varicontinenti sono delle razze di semiumani, ossia degli uomini che
hanno - umanizzate - le caratteristiche tipiche di diverse specie di animali che dasempre hanno abitato
la Terra.
La prima osservazione da fare è quella che tutte queste specie sono con-vinte di essere sin dalle origini la
razza dominante del pianeta, tant'è chesi attribuiscono il nome di uomini in perfetta buona fede. Il loro
grado diciviltà è paragonabile a quello che è dato di riscontrare sulla Terra nelperiodo dell'Impero
Romano ed infatti, con una similitudine che non è ca-suale, constatiamo che i nomi dei vari popoli nei
quali sono divisi, rispon-dono a quelli di Rhemiani, Tarconii, Venicii, Nicieani, Vikoniani, Stygiani,eccetera.
La stessa organizzazione sociale nella quale sono inseriti, è molto simileall'Impero Romano al momento
della sua massima espansione, ed infatti le Legioni Rhemiane hanno in pratica sottomesso tutto il
pianeta, fatta ecce-zione per l'Impero Nicieano, e pochi altri popoli che comunque riconosco-no e temono
la potenza di Rhemia.
Aldair, quando hanno inizio le avventure narrate in questo romanzo, è
uno dei tanti abitanti di questo singolare contesto sociale che ci presental'autore, osserva rigidamente le
regole che dominano la vita di ogni gior-no e, soprattutto, obbedisce ai dettami che gli provengono dalla
Vera Fedenella quale è stato allevato.
D'un tratto però, in seguito ad un caso fortuito susseguente ad una pale-se ingiustizia di cui è stato prima
spettatore e poi parte in causa, diventaun fuorilegge, braccato dalla sua gente, e costretto a fuggire per
salvarsila vita. In breve tempo, tutto quello in cui aveva sempre creduto viene adessere completamente
rovesciato, sino al punto che si trova ad avere comeamici coloro che erano sempre stati dei feroci ed
irriducibili nemici suoi edella sua gente.
In tal modo, da una fuga, hanno inizio le sue avventure che lo vedrannoattraversare in pratica tutto il
pianeta alla ricerca spasmodica di una ri-sposta all'interrogativo proibito: «Chi, o che cosa, ha creato
quelle im-mense città delle quali rimangono solo delle rovine?».Ma a questo interrogativo non è certo
facile dare una risposta ancheperché, gli stessi ostacoli che gli erano stati posti dai sacerdoti della
suagente quando era dovuto scappare precipitosamente, gli vengono oppostianche dai preti di Niciea
dove è approdato dopo una serie di peripezie alseguito dell'Aghijr Tharrinn, fratello del Re, il quale
sembra essere moltoaddentro a conoscenze tanto antiche quanto pericolose.In questo primo volume, il
viaggio di Aldair si concluderà nell'Isola deiMorti, Albion, posto sacro e vietato a chiunque. Cosa troverà
su questa i-sola è una sorpresa che non vi voglio anticipare, anche per non privarvidel piacere di scoprirla
da voi.
Neal Barrett è un autore estremamente interessante, e questa tetralogianel campo dell'heroic fantasy ci
rivela come sia altrettanto bravo in questocampo quanto lo è in quello della fantascienza dove volumi
come Stress Pattern hanno ricevuto un plauso entusiastico da parte degli appassionati.Così come è
caratteristica sua propria, anche nell'affrontare il tema del-la fantasia eroica - che nella sua eccezione
più comune è assai disimpe-gnata - Barrett cura molto l'introspezione psicologica dei personaggi
chevengono esaminati e raffigurati a tutto tondo. Ogni figura presente nelnarrato è delineata
tipologicamente con una cura oserei dire certosina,ma è proprio questo scendere sino alla radice dei
sentimenti che ha valsoall'autore tanti consensi anche da parte della critica specializzata ameri-cana che
non è certo proclive ad attribuire meriti là dove non ci sono.Emblematica di questo approfondimento
psicologico, è la frase che Bar-rett pone in bocca ad Aldair: «Questo è il peccato commesso contro di
noi.Non ci hanno concesso un'anima che sia solo nostra...», mentre ancora più
belle e profonde di significato sono le frasi poste a conclusione di questoprimo volume del ciclo che
comunque non riporto per non svelare quelloche troverà il nostro protagonista sulla temuta isola di
Albion.Il romanzo è scritto bene, e si vede che l'autore conosce il suo mestiere:la Terra del futuro che fa
da sfondo alla vicenda è raffigurata minuziosa-mente sin nei minimi particolari, così come
minuziosamente sono delineatele caratteristiche dei molti personaggi che vi si muovono.Ma non
perdiamo altro tempo. Voltate pagina, e venite con me a Siliumper assistere alla passeggiata dalla quale
avranno inizio le avventure diAldair dei Venicii...
Gianni Pilo
PROLOGO
«È mia convinzione che non sia nostro destino conoscere in anticipo ciò
che la vita ha in serbo per noi da un momento all'altro, e credo che nellostabilire così il Creatore abbia
dato prova di grande saggezza. Perché, seavessi visto in anticipo il giorno in cui il mio mondo avrebbe
cominciato acambiare, avrei certamente detto che quello era un giorno propizio pernuovi inizi. Non avrei
certo potuto immaginare che invece da quel momen-to in poi il bianco sarebbe diventato nero, e il nero
bianco. Né avrei potutoprevedere che il mio stesso popolo si sarebbe rivoltato contro di me, e chenemici
e stranieri sarebbero stati i miei soli compagni. Non c'era nulla chepotesse rivelarmi come ciò che fino ad
allora avevo dato per certo si sa-rebbe rivelato falso, e che mi sarei ridotto a fidarmi soltanto di cose
chenon avevo mai né sognato né remotamente immaginato. Solo il Creatoreaveva cognizione di ciò che
sarebbe successo...»
Aldair, già dei Venicii, a bordo del libero vascello Ahzir al'Rhaz
UNO
Non amo le città, come non le ama alcuno dei Venicii. Se non fosse per il legame d'onore che avevo
stretto con la mia famiglia, me ne sarei andato da Silium senza neppure voltarmi indietro. Silium è una
città di strade strette che oscurano il sole, e di piccole case addossate l'una all'altra. Respirare è
impossibile, e l'acqua è disgustosa. Non è il luogo adatto per un uomo nato, come me, nelle ampie
vallate degli Eubironi.
Tuttavia, a molti piace il tipo di vita che si conduce qui, e non si sentirebbero a loro agio senza il puzzo
dei loro consimili. Si tratta di gente stramba, a mio modo di vedere, che si sente inquieta e nervosa
quando non è in presenza di amici. Quando una persona del genere si sente sola, ne cerca un'altra.
Quando sono due, ne cercano una terza. E raggiungono il massimo della felicità quando tutte le persone
che conoscono sono attruppate insieme in un locale il più piccolo possibile. Si tratta di un comporta-
mento al di fuori della mia comprensione. Andandomene da Silium, avrei tuttavia sentito la mancanza
dell'Università e di Mastro Levitinus. Era stato per me un ottimo insegnante, studio all'Università, anche
se non sono in grado di dire che cosa me ne farò delle nozioni che sto accumulando. Una volta ritornato
al nord, riprenderò i miei doveri di uomo: questi li conosco già bene, e posso portarli a termine come
qualsiasi altro. Per tenere i nostri nemici lontani dalle mura occorrono occhi acuti e frecce sicure: penso
proprio che i predoni non si farebbero impressionare molto dalla mia conoscenza della storia e dalla
capacità di fare le somme a mente. Tuttavia, è desiderio di mia madre e dei miei zii che io resti a Silium
per imparare tutto ciò che posso. Secondo loro, questo porterà onore e rispetto al clan, e forse hanno
ragione. Ieri era l'inizio della seconda settimana d'estate, e il calore che aveva arrostito la città dall'alba
al tramonto aveva raggiunto l'apice nel pomeriggio. Era un calore umido, vischioso, che faceva sciogliere
il midollo delle ossa: non c'era sufficiente refrigerio in tutta Silium per tenerlo lontano. Verso
mezzanotte, tuttavia, si verificò un piccolo miracolo. Dal sud cominciarono a rotolare scure nubi di
tempesta, e in breve rovesciarono su di noi le loro benedizioni. Fu una pioggia fitta, che durò per tutta la
notte; appena prima dell'alba le nubi si allontanarono lasciando Silium a luccicare sotto i raggi del sole
nascente.
La pioggia aveva momentaneamente lavato la città, che appariva un po'
meno tetra del solito. Dalla Porta Alta il mio sguardo, scivolando attraverso un mare di tetti appuntiti e
di tegole gialle, riusciva a cogliere la bianca cupola di San Bellium e le guglie dell'Università. Al di là, si
vedevano le torri di pietra e le mura che circondavano la città per proteggerla da nemici che ormai non
esistevano più. Ancor più lontano, si stendeva il verde e il bruno dei prati e dei campi coltivati, ancora
brillanti per l'umidità. Silium non è la Capitale dell'impero, e non è grande neppure come Culivia, che
sorge in riva al mare e fa sfoggio di un porto. Tuttavia, chi come me viene da nord degli Eubironi, a
portata di odore dagli stygiani, può essere scusato se pensa che Silium sia una città anche troppo grande
per i suoi gusti.
Dunque, come dicevo, il mattino era abbastanza bello, almeno per quanto potete aspettarvi da una
città. Annunciava una giornata eccellente per concedersi una buona bevuta di birra e andare a nuotare
nel fiume che scorre al di là delle porte. Oppure, semplicemente per curiosare nelle botteghe e scoprire
cose interessanti che non mi sarei potuto permettere di comprare. Ovviamente, non avrei fatto né l'una
né l'altra, perché mi trovavo a Silium a spese dei miei, i quali non avevano certo fatto sacrifici solo per
darmi modo di divertirmi. Perciò, lasciai alle mie spalle il Quartiere, girai attorno alla Porta Alta, e tagliai
per la Via d'Oro, dove la strada svolta bruscamente e comincia a serpeggiare come un fiume contorto
verso le mura grigie dell'Università.
Era ancora presto, ma ero partito in anticipo di proposito, con l'obbiettivo di mettere qualcosa nel mio
stomaco vuoto nella Via delle Taverne prima di entrare in classe. Studiare non è un'occupazione faticosa
come quelle che in genere riempiono le giornate su al nord, ma noi Venicii siamo abituati a mangiar
bene, e questa è un'usanza difficile da cancellare. Qualche mercante era già in istrada. Un apprendista
assonnato strusciava la scopa davanti alla bottega del suo padrone, e dai forni veniva un buon profumo
di pane appena cotto, che si mescolava all'odore della pioggia caduta di fresco. La moglie di un bottaio
gridava qualcosa al marito dalla finestra, e l'uomo brontolava senza neppure alzare gli occhi dal suo
lavoro. All'incrocio con la Via dei Contadini, due schiavi cygnani sudavano per spingere un carretto a
mano su per la strada in salita. Il carro era carico di grosse balle di tessuto, e chiaramente pesava troppo
per le loro forze. Il padrone, però, la pensava diversamente, e malediva ad alta voce gli schiavi,
battendoli sulle gambe e sulle spalle con una verga. Gli schiavi gemevano rumorosamente. Uno di essi
cominciò a tremare, roteando gli occhi acquosi. L'altro scosse stolidamente la testa e urinò lungo una
gamba. Il padrone, pensai, è ancora più stupido di loro. Soltanto un idiota batte gli schiavi proprio sui
muscoli che lavorano. Inoltre, le creature non erano ancora tosate, e si avvicinava ormai il pieno
dell'estate. Ancora un mese, e quella pesante coltre di lana li avrebbe fatti morire soffocati. Dopo di che,
l'imbecille con la frusta in mano si sarebbe messo a urlare che i cygnani preferiscono morire piuttosto
che lavorare.
Mio padre diceva che il padrone si riconosce dai suoi schiavi, e anch'io la penso così. Quel tizio lì aveva il
muso corto e la testa piatta dei Belatovi, ed orecchie che gli pendevano lungo il collo. Il suo pelo
corporeo era macchiato qua e là di nero, e ricoperto da una lercia tunica azzurrina. Anche quest'ultima
lo segnalava come un Belatovi, dato che tutti i componenti di questa tribù un tempo erano mugnai, ed
erano ancora orgogliosi di questo, anche se non capisco perché.
Voltata la schiena allo spettacolo, mi incamminai di nuovo lungo la Via d'Oro, e mi venne in mente
Mastro Theon. Due inverni fa, aveva scritto un articolo affermando che anche gli schiavi, come gli
uomini liberi, erano figli della Chiesa, ed avevano diritto alle benedizioni del Creatore ed al passaggio in
Albion. Il documento fece venire le convulsioni ai Buoni Padri, e giunse sino a Rhemia stessa. Dalla città,
a quanto si dice, venne subito un'acida lettera in cui si sottolineava a Mastro Theon la saggezza di
attenersi alle questioni di erudizione secolare, lasciando gli argomenti religiosi a chi era in grado di
comprenderli. E si aggiungeva che se avesse continuato a cacciare il muso dove non doveva, si sarebbe
fatto in modo di accorciarglielo in maniera definitiva. La Chiesa era gelosa delle sue strade, e non era
saggio porsi di traverso al suo cammino. So per certo che alcuni studiosi stanno ancora dibattendo le
argomentazioni di Mastro Theon, ma sono sciocchi a farlo. Chi mai può
dire se il Creatore elargisce davvero le proprie benedizioni a tutte le creature indistintamente? E che
utile può venire dal dibattere i pro e i contro della schiavitù? È chiaro che il Creatore non ha solidi motivi
per opporsi ad essa, dato che è un uso praticato universalmente e senza contrasti soprannaturali.
Percorsa la Via d'Oro, arrivai rapidamente alla Piazza dei Ciabattini e imboccai la Via delle Taverne,
preparandomi a una breve sosta lungo la strada. A metà della stretta Via della Pietra Verde c'è la
bottega di Mastro Chelsium, sotto l'insegna dell'Orcio Riparato. E nella bottega c'era (almeno così
speravo) la giovane figlia Illycia, già occupata con le faccende quotidiane. Per la verità, era più probabile
che stesse dormendo ancora nella sua stanza al secondo piano: Illycia non ha molto in simpatia le prime
ore del mattino. Tuttavia, è ancora bene sveglia molto dopo il calar del sole... quando uno studente
dovrebbe leggere i suoi libri, o riguadagnare una notte di sonno. Ma, se non avessi pensato io ad
occupare il suo tempo, sarebbe stato ben felice di farlo qualcun altro. Al riguardo non mi facevo alcuna
illusione. Le femmine sono creature incostanti, per non dir peggio. Di fronte a una vetrina, mi fermai per
specchiarmi. La mia figura non era male, ma nemmeno imponente. I miei abiti non erano più nuovi, ma
ben tagliati. Mi segnalavano subito come un provinciale: ma io non mi vergogno del sangue dei Venicii.
Indossavo braghe ampie fermate alle caviglie, secondo il costume del Nord, stivali di pelle di stygiano, e
una blusa senza maniche. La blusa era intessuta a losanghe con i colori rosso e azzurro del mio Clan. Una
spilla di bronzo recante un sigillo di smalto fermava intorno al collo un mantello di lana, e nella cintura
era infilata una daga di ferro. Quando arrivai a Silium mi dissero che gli studenti non dovevano curarsi
delle armi, ma l'idea mi parve ridicola. Un'arma ben tagliente apre la pancia alla persona istruita come
all'ignorante. Inoltre, la daga era un regalo di mio padre, e lui si sarebbe rivoltato nella tomba se l'avessi
lasciata a casa per obbedire ai dettami delle moda.
Mi alzai in punta dei piedi davanti allo specchio. Ma in verità non ne avevo bisogno: ero già di tutta la
testa più alto della maggioranza degli abitanti del sud che mi circondavano, che peraltro la vita comoda
aveva reso grassi e mollicci. Il mio corpo era coperto da un bel manto di pelo biancoargento. Qua e là si
vedeva ancora la pelle rosea della gioventù, ma al riguardo non c'era nulla che potessi fare. I miei occhi
erano ravvicinati, così
come dovevano essere, al di sopra di un muso della lunghezza giusta. I lunghi peli sulle guance mi
stavano crescendo folti come ci si deve aspettare da un uomo che conta diciassette estati, e non avevo
bisogno (come fanno molti) di comprarmi peli d'orso posticci da applicarmi con la colla al posto di quelli
che non c'erano. Alcuni studenti del terzo anno se ne adornano, per sembrare più virili di quanto non
siano: ma si tratta più che altro di una moda goliardica.
Diedi un'ultima occhiata a me stesso, mi tolsi una pagliuzza dall'orecchio, e mi inoltrai a passo atletico
(almeno, così supponevo) lungo la Via della Pietra Verde. Di Illycia, ovviamente, non c'era nemmeno
l'ombra. Da una finestra, una delle sue sorelle più giovani mi lanciò un'occhiata e fece una risatina. La
cosa mi urtò i nervi, e mi allontanai rapidamente dalla sua vista.
Una delle poche cose che mi piacciono di Silium è il Mercato. Anche noi al nord li abbiamo,
naturalmente, come tutti i popoli civilizzati. Però, le povere fiere degli Eubironi sembrano una ben
misera cosa al confronto del mercato di Silium. Da noi si tengono un solo giorno la settimana, e in
genere le merci sono ordinarie e poco interessanti. La mattina è l'ora migliore per godersi lo spettacolo,
quando il sole comincia a illuminare il giorno, e risuona più fresca ai sensi, la ricca collezione di suoni,
odori e colori che anima il mercato. Grandi teloni color ambra, azzurro, arancione e bruno, riparano dal
sole le merci esposte sui banchi. I venditori gridano a squarciagola per attirare l'attenzione di chi passa,
e li ho visti più di una volta litigare sanguinosamente per conquistarsi un cliente ben vestito. In giro si
può vedere gente d'ogni sorta: contadini dallo sguardo ebete accanto a schiavi pidocchiosi, ricchi
mercanti a cavallo e Padri della Chie-sa avvolti nelle loro tonache nere. L'odore delle spezie, del pane,
dell'urina disseccata, si mescola con quello delle verdure fresche, del sudore dei cavalli e dei corpi non
lavati. Onnipresente, poi, c'è la sporcizia che rimane dagli affari del giorno prima. Le immondizie
invadono il mercato, e non basta certo una notte di pioggia per lavarle via.
Quel giorno non avevo tempo per ammirare le nuove merci, per cui tagliai diritto attraverso il labirinto
invece di percorrerne la viuzze. Ero molto irritato con me stesso. Il sole era già troppo alto, e temevo che
la mia infelice commedia sotto le finestre di Illycia mi sarebbe costata la colazione mattutina; nel qual
caso, mi sarei davvero meritato, per la mia stupidaggine, di cominciare la giornata a pancia vuota.
All'estremità opposta della piazza si era radunata una piccola folla. Mi fermai, mormorando una
bestemmia. L'assembramento non sembrava motivato da niente di preciso. Cittadini che non avevano
nulla di meglio da fare bloccavano la strada per vedere quel che c'era da vedere. Mi feci largo attraverso
la gente, tenendo una mano ben stretta attorno alla mia borsa. La curiosità è una delle caratteristiche
principali degli abitanti di Silium. Malgrado i commerci e i rapporti con ogni parte del mondo, sono tutti
curiosi come bambini. Si mettono in fila contro il muro per osservare due gatti che copulano, o le
evoluzioni di una trottola. Ogni distrazione, per loro, è sorprendente. E poiché mi trovavo ormai
immerso nella folla, senza possibilità di farmi strada se non molto lentamente, spinsi lo sguardo al di
sopra della schiera di teste per vedere che cosa stava attirando l'attenzione generale.
Guardai, e poi guardai di nuovo, stavolta sorpreso anch'io. Una volta tanto, c'era qualcosa degno
d'attenzione. Una pattuglia rhemiana aveva catturato un guerriero stygiano. Era chiuso in una gabbia di
ferro posta sopra un carretto; le sbarre erano così spesse che avrebbero fermato un esercito. Pensai che
i Rhemiani lo stessero portando in parata attraverso le Province meridionali dell'Impero per mostrare la
sollecitudine con cui il governo si prendeva cura della sicurezza dei cittadini. Al pensiero, mi venne da
ridere. Quello stygiano doveva essere ubriaco o addormentato, per farsi catturare vivo dai Rhemiani. Gli
Stygiani non erano una novità, per me. Sin dall'inizio dei ricordi della mia gente, essi calavano
periodicamente, urlando, dalle foreste sulle pendici dei Lauvectii, ed erano nemici a sangue degli
Eubironi. Tuttavia, nelle regioni meridionali come Silium erano uno spettacolo raro, e molto
probabilmente in tutta quella folla io ero il solo ad averne già visto uno. Quanto agli altri, non sembrava
ricavassero molto piacere dallo spettacolo. La folla, in genere rumorosa e ciarliera, era stranamente
silenziosa. Tutti guardavano senza dire nulla, e nessuno osava avvicinarsi troppo alla creatura. Quanto
allo stygiano, non prestava attenzione ad alcuno. Per ciò che lo riguardava, avremmo anche potuto non
esserci. Stava appoggiato contro una parete della gabbia, le braccia incrociate, gli occhi fissi verso un
punto imprecisato al di là delle mura di Silium. Era enorme, anche per la sua razza. Il corpo lungo e agile
era coperto da una folta pelliccia grigia, ma anche quell'ammasso di pelame non poteva nascondere le
potenti masse muscolari che sì flettevano sotto la pelle. Gli abiti erano laceri; tuttavia, su una manica
vidi una fascetta gialla. Si trattava dunque di un personaggio importante. Un capo o sotto-capo del suo
Clan. I Rhemiani probabilmente non se ne erano accorti, o non gliene importava nulla.
Anche la gente intorno, che non aveva mai avuto a che fare con gli Stygiani e non ne sapeva nulla, aveva
tuttavia intuito la forza rabbiosa di quel bruto. Quanto a me, non mi facevo certamente ingannare dal
suo atteggiamento in apparenza docile. Senza rendermene conto, ero arrivato ormai in prima fila fra gli
spettatori, e potevo vederlo bene. Gli Stygiani sono furbi e astuti, oltre che ottimi combattenti. Sono
pericolosi in qualsiasi ora del giorno, anche se il loro elemento abituale è la notte. Sono a loro agio in
particolare nelle fitte foreste di querce dei Lauvectii, e quando si confondono fra i tronchi è impossibile
individuarli.
Qualcuno parlò dietro di me e la voce mi risvegliò dalle meditazioni. Ormai, ero a pochissima distanza
dalla gabbia, e potevo sentire l'odore della creatura. Per qualche minuto, evidentemente, mi ero del
tutto perso dietro i miei pensieri, dimenticando le cose che avevo da fare, la lezione che dovevo
ascoltare, la pancia vuota che dovevo riempire.
E a questo punto accadde un'altra cosa strana. Non so spiegare perché
decisi di fare ciò che feci. Semplicemente, avanzai di un passo, e parlai direttamente allo stygiano nella
sua lingua.
« C'reef. Mahr a shinn, Stygyaar... »
Le orecchie pelose della creatura si rizzarono. Si volse lentamente verso di me, e mi fissò al di là del suo
muso appuntito. La folla all'intorno mi aveva sentito, naturalmente, e tutti si scostavano, lanciando
grandi occhiate piene di meraviglia.
Lo stygiano ghignò, scoprendo zanne affilate come rasoi, e una lunga lingua. «Bene», mi rispose.
«L'arrosto viene a parlare direttamente con chi se lo mangerà».
«Non oggi», replicai. «Oggi mangerai ferro, guerriero».
Lo stygiano rise, emettendo quel suono particolare che tante volte avevo udito risuonare lungo i margini
della foresta. Sembrava un colpo di tosse più che una risata, ed era inconfondibile.
«Giusto», mi fece. «Potrei fare proprio quello, e prima che il giorno termini». Mi fissò di nuovo, e mi
accorsi che aveva notato i rozzi stivali fatti con la pelle dei suoi simili.
«Tu parli la Vera Lingua. Dai vestiti, sembri uno del nord».
«Degli Eubironi».
«Ah...»
«Aldair. Del Clan dei Venicii. Presso il fiume Rheinus».
Lo stygiano annuì. «Conosco il luogo. Mi ricorderò di fare una visita ai Venicii appena possibile».
«Ti daranno il benvenuto», dissi. «Ma vieni armato. E porta altri guerrieri. I Venicii hanno bisogno di
molte buone pellicce per riscaldarsi nelle notti d'inverno».
La faccia magra si rannuvolò per un momento, poi la bocca si aprì in un nuovo ghigno. «Ben detto, Aldair
dei venicii. È probabile tuttavia che non avrai tu la mia pelliccia. I tuoi fratelli, qui, hanno già fatto dei
progetti al riguardo».
«Allora», suggerii, «forse andrai a impreziosire la parete di un salotto rhemiano. Oppure scalderai il
pavimento di una stanza da letto».
«Forse», annuì lo stygiano. La sua lunga coda frustò l'aria per scacciare una mosca. «Oppure, forse, il dio
dei boschi e dei torrenti aprirà queste sbarre per me. Anche se non lo ha ancora fatto, poiché temo di
essere troppo a sud perché le mie preghiere possano raggiungerlo. Sempre che gli dèi esistano»,
aggiunse con aria cupa, «e che ascoltino le preghiere».
«Forse certi lo fanno», dissi. «Anche se secondo me gli dèi stygiani non sono fra questi».
A questo punto mi fermai. Una delle sentinelle rhemiane di guardia alla gabbia aveva notato la
conversazione. Girò rapidamente attorno al carretto, con un fiero cipiglio dipinto sul volto.
«Tu», fece, puntandomi il dito. «Mi sbaglio, ragazzo, o stai tentando di parlare a questo mostro?»
Aprii la bocca per rispondere, ma un solerte spettatore mi precedette.
«Sicuro che gli ha parlato. E quell'orrore gli ha anche risposto!»
Il soldato fissò il cittadino, e poi me. «È vero?»
Feci cenno di sì. «Ho parlato allo stygiano».
«E perché?»
«Non lo so», risposi onestamente. «L'ho fatto, e basta».
Il soldato ruminò un istante sulla cosa. «E lui ti ha compreso?»
«Certamente. Gli ho parlato nella sua lingua».
Si alzò un sopracciglio. «E tu la conosci?»
«Sì».
L'uomo sì grattò il petto, meditando. Era basso, probabilmente un rhemiano puro sangue. Aveva il
torace coperto da una corazza di bronzo dipinto, e un elmetto coperto di bassorilievi, in gran parte
smozzicati. Una corta tunica gli arrivava sopra il ginocchio, ed era armato del robusto gladio dei soldati
di fanteria. Era un veterano di molte guerre, perché potevo vedere che le gambe erano curve e coperte
di cicatrici.
«Non mi piace questa faccenda», disse alla fine. Si inclinò un poco l'elmetto sulla testa. «Non mi sembra
una cosa corretta che i cittadini rhemiani parlino con le bestie».
«Soldato», risposi, certo mentre parlavo di avere perso un'ottima occasione per tenere la bocca chiusa,
«per i cittadini di Rhemia dovrebbe essere ancor meno corretto permettere che i loro cugini vengano
fatti arrosto dalle bestie in questione nelle foreste dei Lauvectii. Eppure è proprio quello che succede».
Gli occhi del militare si strinsero. «Che cosa vuoi dire con questo?»
«Che siccome le Legioni rhemiane si fanno vedere piuttosto di rado al nord, gli Eubironi debbono
difendersi da soli, e hanno imparato a farlo nel modo migliore».
Il soldato si irrigidì, mentre un flusso di sangue gli saliva al volto. «Ascolta...» cominciò, poi cambiò idea.
Intanto, un circolo di nullafacenti si era radunato all'intorno, nella convinzione che lo spettacolo da noi
offerto fosse migliore della contemplazione del prigioniero in gabbia.
«Tornate alle vostre faccende», gridò bruscamente il soldato agli spettatori, «sempre ammesso che
abbiate qualcosa da fare!» Poi afferrò l'elsa della sua spada e mi fissò negli occhi. «Ascolta bene», mi
fece. «Guai a te se fai rivedere il tuo muso qui in giro un'altra volta. Capito?»
Non risposi, mi voltai e cominciai ad attraversare la folla, che mi fece largo immediatamente, come si
conviene a una persona che parla con le bestie.
Soltanto molto tempo dopo mi resi conto che il soldato aveva ragione. In effetti, io avevo fatto una cosa
assolutamente insolita, per quelle parti. E
anche dopo essermi reso conto di questo non riuscii a capire perché lo avevo fatto. Di certo, mai prima
nella mia vita avevo parlato a faccia a faccia con uno stygiano. Pochi lo hanno fatto, e sono tornati vivi
per raccontarlo. Tuttavia, al nord tutti conosciamo la loro lingua, che è stata laboriosamente ricostruita
attraverso gli anni, grazie ai pochi Stygiani che siamo riusciti a catturare vivi. Pensiamo sia saggio essere
in grado in parlare ai nostri nemici, anche se l'occasione si presenta raramente. In genere, uccidiamo i
loro razziatori non appena li vediamo, e togliamo loro la pelliccia... mentre gli Stygiani uccidono quanti
più possibile dei nostri, e spesso arrostiscono e mangiano quelli che riescono a catturare. Questo genere
di rapporti non sono i migliori per intavolare piacevoli conversazioni. Tuttavia, io avevo parlato a quel
particolare stygiano. Perché? Non avevo nulla di speciale da dire a quella bestia. E dubito fortemente
che essa avesse qualcosa da dirmi.
Un pensiero improvviso mi fece scoppiare a ridere. Per il Creatore! Silium era dunque un posto tanto
orribile che un Eubirone e uno Stygiano non trovavano nessuno per far conversazione, se non l'un
l'altro?
DUE
A quel che si dice, tutti quanti dovremo pagare per i nostri peccati. Per il mio, io pagai due volte. In
primo luogo, il mio stomaco rimase vuoto per tutto il giorno. Poi, dopo la lezione, Mastro Levitinus mi
chiese di rimanere mentre gli altri se ne andavano. Dovevamo discutere - mi disse - circa la condotta di
quegli studenti che erano troppo indaffarati per entrare in tempo in classe. Fu così che mi trovai seduto
su uno scomodo sgabello in un'anticamera gelida fuori dell'appartamento del mio insegnante. E fu così
che, mentre aspettavo, ebbi modo di ascoltare una conversazione che non era destinata alle mie
orecchie.
La porta non era ben chiusa, e le voci troppo alte per poter essere ignorate. Una, mi avvidi subito, era
quella di Mastro Levitinus stesso. L'altra era quella di Flaviun Sellenus. Ed era quest'ultima voce - mi
accorsi con sorpresa - che gridava di più. La cosa era sorprendente, perché Flaviun non era nulla più che
uno studente, e il suo tono non era certo quello con cui un discepolo deve rivolgersi al suo maestro.
Riuscii a cogliere soltanto alcuni frammenti del dialogo, perché non vol-li mettermi espressamente ad
origliare. Mastro Levitinus stava rimproverando Falviun per la scarsa attenzione durante le lezioni, per la
deliberata violazione delle regole interne dell'Università, e per una dozzina di altre mancanze che ora
non ricordo. Flaviun negava vivacemente ogni cosa, insisteva che era oggetto di una persecuzione per
motivi che non conosceva, e gridava sempre di più. Levitinus ad un certo punto gli disse chiaramente
che un'altra alzata d'ingegno da parte sua ne avrebbe determinato l'espulsione dall'Università. Ci fu uno
scambio di battute aspre, e poi la porta si aprì bruscamente lasciando passare Flaviun Sellenus, che mi
superò rapidamente, ma non tanto da non riconoscermi e da non manifestare sorpresa per la mia
presenza.
Inutile dirlo, dopo il litigio Mastro Livitinus sorvolò rapidamente sui miei peccati, al confronto men che
veniali. Uscii dalla sua stanza pochi istanti dopo esserci entrato. Ma mi vergognavo di avergli causato
anch'io un fastidio, sia pur minimo. Lo vidi molto scosso per il suo scontro con Flaviun, e potevo capirne
la ragione. È triste ammetterlo, ma nell'Università c'erano studenti e studenti. Con ciò voglio dire che il
denaro fa sentire la sua voce nei templi del sapere come nella piazza del mercato. Non era certo Mastro
Levitinus a volere una situazione del genere, ma esisteva, e al riguardo non si poteva far nulla.
Certamente, d'altra parte, una istituzione del genere non avrebbe potuto sopravvivere soltanto grazie a
rette come quella che pagava Aldair dei Venicii. Chi aveva più denaro contribuiva in misura maggiore... e
aveva maggiori privilegi, o almeno pensava di averne diritto.
Fra questi, Flaviun Sellenus. Per quanto fosse piccolo, ignorante e presuntuoso, tuttavia era figlio di un
mercante ricchissimo, e sfruttava appieno le relazioni del padre, nonché i vantaggi derivanti dalla piena
cittadinanza rhemiana di cui godeva la sua famiglia. In realtà, era un provinciale come me. Ma l'oro fa
splendere adeguatamente le foglie di qualsiasi albero genealogico. Cosicché, Mastro Levitinus aveva
tutti i motivi per essere preoccupato a causa del suo alterco, anche se aveva detto a Flaviun molto meno
di quanto questi si meritasse. Certo, la faccenda sarebbe stata molto meno spinosa se il litigio fosse
avvenuto con uno come Aldair, con rame invece che argento nella borsa, e con alle spalle nessuna
famiglia di cui valesse la pena di parlare.
A questo punto, sarei potuto andare nella solita taverna degli studenti, la Penna d'Oca, a riempire il mio
ventre esacerbato dall'astinenza. Ma ero certo che vi avrei trovato Flaviun Sellenus intento a raccontare
a voce al-tissima la propria sconcia versione su quanto era accaduto nello studio di Mastro Levitinus. E
avrebbe trovato un folto e grato uditorio, perché offre vino generosamente a chiunque sia disposto ad
ascoltarlo. Io, invece, non mi sentivo in grado di sopportare neppure il suono della sua voce. Perciò
tornai verso il Quartiere seguendo la strada più lunga, mi fermai a mangiare in un posto dove non ero
mai stato prima, e passai la notte a digerire il mio sbaglio.
Non fu la migliore delle mie giornate.
«La storia», diceva Mastro Levitinus, «non deve essere considerata semplicemente una cronaca del
passato. Non è una registrazione di cose morte, come sembrano pensare alcuni di voi, o un arido
resoconto di eventi accaduti tanto tempo fa. La storia è la vicenda vivente delle genti. Anche noi, in
questo momento, stiamo facendo la storia». Si interruppe, e ci gratificò di un pallido sorriso. «E se voi,
studenti di oggi, non vorrete che gli studenti del futuro si addormentino quando giungeranno al capitolo
che vi riguarda, dovrete darvi da fare per renderlo interessante». Gli studenti risero approvando. Alcuni
per abitudine, altri - come me - perché avevano genuino rispetto per Mastro Levitinus. Era un ottimo
insegnante, e sapeva davvero come infondere vita alla storia. Quando descriveva un'antica battaglia, si
potevano sentir cozzare le armi e udire le grida dei vinti e dei vincitori. Grazie alle sue parole, la Lega
Hermiana marciava di nuovo, e i Sovrani Dorati sedevano ancora sui loro troni. Le torri della città di
Alticus splendevano nel sole, e i vagiti del nascente Impero Rhemiano scuotevano la terra.
«Noi siamo andati molto avanti e abbiamo appreso molto», riprese a dire Levitinus. «Ma il nostro è
soltanto un piccolo inizio». Allargò le corte braccia sulla cattedra. «Ciascuno di noi, nei pochi anni che
restiamo sulla terra, potrà sperimentare soltanto un secondo del vastissimo arco della storia. Più di
tanto, è al di là della nostra comprensione. Duecento anni? Cinquecento?» Levitinus scosse la testa. «Se,
in realtà, non siamo in grado di immaginare pienamente intervalli di tempo di questo genere, come
potremo impadronirci dell'intero arco della storia registrata: tremila anni?» Fece una pausa e ci fissò
tutti negli occhi. «Eppure un intervallo di tempo del genere in realtà non è altro che la vita di trenta
uomini poco più longevidella media... » Si fermò un attimo perché digerissimo l'affermazione.
«Trenta uomini. Non poi tanti. In quest'aula, così piccola, siete di più. Così, è pur vero che, in un certo
senso, la storia appartiene al passato. Ma non dimenticate mai che la storia vive. Che tutti gli anni
trascorsi non sono altro che un batter d'occhio del tempo. Che trenta uomini potrebbero raccontarvi
tutte le cose successe...»
«Mastro Levitinus?»
Riconobbi la voce ancor prima di voltarmi a guardare. Flaviun Sellenus, naturalmente. Che cosa aveva in
mente, adesso? Fare ammenda del suo comportamento del giorno prima? Avevo forti dubbi al riguardo.
Mastro Levitinus esitò un attimo, poi gli diede il permesso di parlare.
«Lei ha detto che la storia cominciò tremila anni fa, Maestro. Prima di ciò, dunque, si stendeva la
Tenebra?»
Fissai Levitinus. Il vecchio insegnante non si era fatto trarre in inganno dalla domanda. Era un quesito
velenoso, ma lui lo sapeva bene.
«Così ci dice la Chiesa», rispose pacatamente Levitinus.
Flaviun fece mostra d'essere confuso (ma io, almeno, non mi feci turlupinare dalla sua domanda).
«Io però non ho certo rivolto la domanda alla Chiesa, Maestro», disse.
«Lo so, giovane studente. Questo l'ho capito».
«Sappiamo che l'Uomo venne creato in Albion, che peccò agli occhi del Creatore, e venne esiliato nel
mondo», fece Flaviun citando le Scritture.
«È così», disse Levitinus.
«L'Uomo in Albion, dunque, fa parte della Tenebra?»
Levitinus rispose senza esitazione. «Questa è una domanda che va posta a un esponente della Chiesa,
Flaviun Sellenus. Questa è un'Università, non un seminario teologico».
Alcuni degli studenti risero.
«Allora...» Flaviun, recitando la parte dello studente modello, fece finta di cercare le parole. «Allora, la
teologia finisce, e la storia comincia, nel giorno - nell'ora, se vogliamo - in cui L'Uomo venne
bandito da Albion...»
Levitinus fissò il soffitto. «Dato che la Chiesa vive tuttora, direi che la teologia non terminò con
quell'evento. La teologia e la storia si muovono attraverso le ere, fianco a fianco».
Buona risposta, pensai.
«Possiamo dunque cominciare a parlare di storia, dopo la Tenebra?»
Chiese Flaviun. «Dal punto di vista della Chiesa, dopo di allora, non interpretiamo più le Scritture, ma
registriamo fatti».
«Penso di sì», disse Levitinus. Stava cercando di reprimere la sua irritazione. «Ma veniamo al punto,
Flaviun. Immagino che lei abbia una domanda precisa in mente».
«Maestro», fece Flaviun in una scimmiottatura di rispetto, «perdoni la mia ignoranza. Io sto solo
cercando di imparare» .
«Ne sono lieto», disse asciutto Levitinus. «Sfortunatamente, oggi ci è
rimasto poco tempo per imparare qualcosa. L'apprendimento lo riprenderemo domani», e indicò la
grossa clessidra sulla cattedra.
«Una sola domanda, allora», fece Flaviun, «o forse due». E proseguì
senza aspettare il permesso di Levitinus. «Innanzitutto, quale fu il primo evento dopo l'inizio della
storia? E in secondo luogo, quando apparveroper la prima volta le fiamme azzurre su Albion? »
Mi rizzai di scatto sul banco, mentre molti facevano lo stesso. Un silenzio carico di tensione scese sulla
classe. Guardai Levitinus. Era pallido, palesemente sconvolto. Flaviun aveva teso la sua trappola con
molta scaltrezza. Anche il vecchio insegnante non se ne era accorto. Flaviun sapeva bene che era
proibita anche la sola menzione delle fiamme azzurre che un tempo circolavano su Albion. Gli stessi
Padri della Chiesa ne parlavano fra di loro bisbigliando, se pure ne parlavano. Nominandole, Flaviun
aveva commesso una grave eresia. Ma, in un certo senso, era senza colpa. Un Maestro è responsabile
dei suoi discepoli, e Flaviun era riuscito a far pesare in pieno questa responsabilità sulle spalle del suo
insegnante. Il meccanismo della trappola era semplice. Era proibito parlare delle fiamme azzurre. Ma il
piccolo, infame mestatore, aveva spinto Levitinus ad ammettere che tutti gli eventi situati al di fuori
della Tenebra appartenevano alla storia, e il Maestro non aveva posto limiti a questa affermazione. Di
conseguenza, aveva in un certo senso autorizzato Flaviun a menzionare ciò che non doveva essere
menzionato. Levitinus cercò di mantenere la calma. «Basta così per oggi», cominciò.
«Quello che è stato detto qui non verrà più ripetuto. Né dentro né fuori di quest'aula. Noi...»
« No, Mastro Levitinus, non finirà così!», gridò Flaviun. Era in piedi, gli occhi infiammati d'ira. «Io sono
uno studente che paga, signore. Con tutto il rispetto, le ricordo che un maestro è obbligato a rispondere
alle domande dei suoi allievi!»
Levitinus divenne di brace. «Giovanotto, ti ricordo che...»
«Lei ha ammesso o no che erano legittime tutte le discussioni relative ad eventi nel campo della
storia?», lo interruppe Flaviun.
«La tua domanda...»
«La mia domanda era corretta. È stata posta sotto le istruzioni e la guida di un maestro. Io ho chiesto
delle fiamme azzurre, signore! Sull'isola di Albion! E vorrei una risposta!»
«Non ne hai alcun diritto, Flaviun Sellenus!» La mascella di Levitinus tremava visibilmente.
«Ne ho tutti i diritti, invece», rispose Flaviun con un sorrisetto malevolo.
«È stato il mio stesso Maestro ad autorizzarmi a parlare di questo evento, che si è verificato in tempi
storici. Ci sono molti testimoni in grado di confermarlo». Il cuore mi si fece di ghiaccio, a queste parole.
Le pupille di Levitinus si dilatarono. Era così, dunque. Flaviun si era già messo d'accordo con i suoi
testimoni. E su una materia del genere, c'era una sola istituzione che sarebbe stata interessata ad
ascoltare testimonianze.
«Ripeto la mia domanda», continuò Flaviun. «Quando vennero viste per la prima volta le fiamme
azzurre su Albion, signore?»
Levitinus lo fissò senza dir parola.
«Sostiene forse che si tratta di una questione riguardante soltanto la Chiesa?», fece Flaviun. Poi scosse
la testa: «No, signore. Lei stesso poco fa ha affermato che si tratta di una questione appartenente alla
storia, perché si è verificata dopo le Tenebre. E nel caso non volesse rispondere a quella domanda, ne ho
un'altra: perché le fiamme azzurre non circolano più su Albion? Perché, Mastro Levitinus? Non si son più
viste fiamme azzurre da quanto tempo? Cento anni? Duecento anni?» Flaviun scoppiò a ridere. «Le vite
di due uomini longevi, no? Il Creatore ci ha dunque dimenticati? Possiamo tornare ad Albion, signore? Di
certo...»
«Fuori di qui!», gridò Levitinus. Il suo volto era nero di rabbia. «Non sei più uno studente di questa
Università!»
«Lo sono ancora, signore», rispose Flaviun freddamente.
Levitinus gli puntò contro un dito tremante. «Non in quest'aula, né in alcun'altra».
«Parlavamo delle fiamme azzurre, Mastro Levitinus. Come Studioso Anziano, lei...»
«Flaviun Sellenus». Le mani di Levitinus erano strette ai bordi della cattedra. «Non me ne importa un
accidente delle tue fiamme azzurre. Né di quanti santi possano stare a testa in giù sulla... sulla punta di
una penna. Né
se ci sia più oro sull'altare di San Bellium o nelle tasche di tuo padre! Né... né...»
Io guardavo, troppo pieno d'orrore per muovermi. Pochi momenti prima, Levitinus era stato un uomo
severo e autorevole, un maestro che aveva fat-to moltissimo per aprire la mia mente al mondo che mi
circondava. Ora, stavo assistendo a qualcosa che non avrei mai più potuto dimenticare. Guardai negli
occhi di Levitinus e lo vidi diventare improvvisamente vecchio, decrepito. Le forze che lo avevano
sempre animato stavano fuggendo da lui, e lo lasciavano come un sacco vuoto che si affloscia sotto il
suo stesso peso. Era come se solo in quel momento egli si fosse reso conto che qualcosa di terribile era
successo. Che lui aveva perso il controllo del suo mondo, e di ciò che lo animava. Era sorpreso di ciò,
eppure al contempo in un certo modo non lo era. E quando si alzò per uscire dall'aula, passando davanti
a noi, non si volse né a destra né a sinistra. Aveva lasciato dietro di sé la sua grandezza e la sua anima, e
non era nulla più che un vecchio avvolto in una tunica gualcita.
«Flaviun. Flaviun Sellenus».
Li avevo raggiunti nella taverna della Penna d'Oca. Attorno a Flaviun c'era un folto gruppo di studenti.
Era nel favore di tutti: aveva abbattuto un gigante, ed era sopravvissuto per raccontare l'impresa.
Sentendosi chiamare, sì volse verso di me, e atteggiò il volto a sorpresa.
«Bene. Il nostro buon Mastro Mucchio di Fieno. Bevi un po' di vino con noi?» Mi lanciò un sorriso
accattivante, e procedette a ispezionarmi con lo sguardo dalla testa ai piedi. Si comportava come se lo
stupisse il solo fatto che io potessi camminare sulla terra. La cosa sembrò divertire molto gli altri
studenti.
«Flaviun», gli risposi, «non mi unirei con te neppure per bere un bicchier d'acqua nel deserto».
«Ed io, mio caro, non ti inviterei a berlo», mi rispose girando gli occhi. Feci un passo verso di lui. «Sei un
codardo», dissi. «Nulla di più e nulla di meno. Nella tua borsa non c'è oro sufficiente a farti raggiungere il
peso di un uomo vero».
«Ah, sì?»
«Sei un codardo e un debole. Prova a rispondere a me delle tue azioni, se osi».
Flaviun aggrottò la fronte. «Che cosa vuoi da me?»
«Ti sfido. Rispondi a me con le armi di quello che hai fatto. Sempre che tu sappia distinguere la punta di
una spada dall'elsa».
Flaviun tirò indietro la testa e si mise a ridere. Gli studenti all'interno, però, guardavano senza mutare
espressione. I sorrisi erano caduti loro dal volto, e si erano scostati da Sellenus.
Flaviun li fissò con occhi irritati. «Andiamo, andiamo», fece. «Non penserete che quest'idiota dica sul
serio?» Poi gli passò un lampo di divertimento nello sguardo. «Bene, Mastro Aldair di dovunque tu sia.
Vuoi soddisfazione?» Fece finta di mettersi in guardia, assumendo una posizione grottesca, e simulò il
grido del guerriero. «In questo caso, scelgo come arma i forconi da letame a venti passi. Senza dubbio tu
sei abituato a manovrarli!»
Gli fui addosso prima che potesse fare una mossa. Gli diedi un violento manrovescio su una guancia, poi
sull'altra. I colpi lo fecero barcollare. Vidi le lacrime spuntargli negli occhi, e le punte delle orecchie che si
facevano rosse.
«Questa è la mia sfida, piccola bestia», gli dissi. «Se ne hai il coraggio, raccoglila». Mi voltai e me ne
andai senza girarmi indietro. Due Padri avvolti nelle loro tuniche brune mi sbarravano il passo, ma girai
loro intorno senza guardarli. Un mercante mi si levò in fretta davanti, lanciandomi un insulto alle spalle.
Non gli prestai attenzione.
La rabbia mi accecava a tal punto che quasi non vedevo la strada sotto i miei stivali. Quel piccolo
bastardo - pensavo - non l'aveva finita con le sue porcherie. Conoscevo bene la gente come lui. Un
semplice assaggio del potere non era sufficiente. Aveva umiliato chi era migliore di lui, e non si sarebbe
fermato lì. Però che altro poteva fare? Niente di serio, pensai. I tempi, in fondo, non erano barbari fino
al punto che uno Studioso di fama dovesse preoccuparsi di uno studente vendicativo. Anche se
quest'ultimo aveva molto oro nella borsa. La stessa Chiesa avrebbe riconosciuto che Flaviun aveva torto.
Non avevo dubbi che le gerarchie ecclesiastiche sarebbero venute a conoscenza dell'incidente, se già
non erano state informate. Camminavo automaticamente, un passo dopo l'altro. Speravo di poter
essere certo delle mie conclusioni.
Il sole era scivolato dietro le mura della città, e il Mercato era diviso nettamente in una zona d'ombra e
una di luce. Lo stygiano era ancora nella sua gabbia d'acciaio. La sua presenza era ormai nota in tutta la
città, e quasi tutti gli abitanti avevano potuto ammirare la Bestia del Nord. Di fronte alla gabbia
rimanevano ormai pochi spettatori. Le guardie rhemiane della mattina erano state rimpiazzate da un
trio di mercenari tarconiani. Erano bruti colossali, come tutti i Tarconii: due volte l'altezza e quattro
volte il peso di qualsiasi altro guerriero imperiale. Erano buoni combattenti, ma più muscoli che cervello,
e la gente come loro non mi piaceva troppo. Uno rimase a fissarmi mentre gli passavo davanti; un
mostro con la pelliccia nera e lucida, macchiata qua e là di bianco. Scosse le corna dipinte e fece
tintinnare gli anelli che portava infilati nel naso.
Mangiai poco, e non dormii per nulla. Nella mente non mi si presentò
neppure una volta l'immagine di Illycia.
Ad un certo punto della notte mi alzai, spalancai la finestra e mi sporsi dal balcone, scrutando nel buio
del vicolo al di sotto. Non si vedeva nulla. Invece di avere stelle e fronde verdi da contemplare, non
c'erano che mattoni e ciottoli bagnati In ore come quelle sentivo dolorosamente la mancanza di mia
madre, dei miei amici e cugini, e della vita selvaggia negli Eubironi. La nostra non era un'esistenza facile,
ma il pericolo e la violenza ti venivano incontro in forme ben note, facilmente riconoscibili per quello
che erano...
TRE
Trovai Illycia che mi stava aspettando fuori della porta di casa, la mattina dopo. Più che sorpreso, ne fui
stupefatto. In passato, ero sempre stato io a cercarla, giocando al gioco del corteggiamento che piace
tanto alle donne. Per di più, trovarla alzata prima di mezzogiorno era certamente un evento
straordinario. In un altro momento, la cosa mi avrebbe fatto un enorme piacere. Ma quella mattina la
mia testa era piena di pensieri più gravi.
«Vai in aula questa mattina, Aldair?», mi chiese, sorridendo e inclinando un po' la testa di lato.
«Sono uno studente universitario», risposi. «È abbastanza logico che la mattina vada a sentire le lezioni,
Illycia».
Le sopracciglia si aggrottarono alla risposta brusca, e ne fui immediatamente dispiaciuto. «Scusami,
Illycia», le dissi toccandole un braccio. Non ho dormito bene, e ho molte preoccupazioni».
«Capisco, Aldair».
«Vuoi fare un po' di strada con me, allora? A meno che tu non debba andare da un'altra parte». Il volto
le si illuminò e il naso si tinse di rosa. Poi si riprese, e si diede un contegno. «Per la verità devo appunto
fare qualche spesetta. Potrei accompagnarti fino al Mercato».
«Bene», dissi. «Ne sarei tanto felice, Illycia».
Come al solito, sapeva tutto quello che era successo in città, e mi informò subito delle «cosa terribile»
accaduta durante la notte. Feci finta di non averla già sentita raccontare tre volte prima di colazione:
una dal vecchio che gestiva la mia locanda e due dalle cameriere. Una di queste era così
scossa dall'evento che per poco non rovesciò sulla tavola il vassoio con i biscotti e il miele. Ogni volta la
storia mi era stata raccontata in versioni diverse, e anche quella di Illycia conteneva alcuni arricchimenti.
Dunque, durante la notte il guerriero stygiano era riuscito a scappare. Secondo una versione, aveva
ucciso un soldato rhemiano. Secondo un'altra, ne aveva uccisi due e ferito un mercenario tarconiano. Si
diceva poi che avesse mangiato un bambino, o addirittura divorato un'intera famiglia. Secondo alcune
voci, un altro stygiano aveva scalato le mura per aiutarlo a fuggire. Da lì era nato il timore che dieci,
venti, cento di quelle creature scorrazzassero libere per tutta Silium. La verità, io lo sapevo, doveva
trovarsi nascosta sotto tutta questa massa di dicerie, ben celata alla vista. Probabilmente il mostro era
davvero riuscito a scappare. E se per far ciò avesse dovuto ridurre al silenzio una guardia, non avrebbe
avuto difficoltà a farlo. A parte questo, una volta fuggito non era certo suo desiderio attirare
l'attenzione. Di sicuro, perciò, non aveva perso tempo a divorare metà dei bambini di Silium, o a
smembrare la Legione rhemiana.
«Mi sembra scandaloso», disse Illycia.
«Che cosa?»
«Beh, il fatto che lo abbiano lasciato andar via così...»
«Nessuno lo ha lasciato andar via di proposito, Illycia».
«Sai che cosa voglio dire...»
«È scappato, semplicemente. E il fatto non mi sorprende troppo», la interruppi. «Qui nessuno sa niente
degli Stygiani. Se i Rhemiani avessero perso un po' del loro tempo prezioso a studiare a fondo le
province che si sono dimostrati così ansiosi di conquistare, oggi avrebbero un'idea più precisa di ciò che
hanno contro. Ma ai Governatori rhemiani l'unica cosa che interessa sapere è se i raccolti sono stati
buoni come quelli dell'anno passato. Non perdono tempo per contare i Venicii morti per difendere i loro
stessi confini, né si chiedono se anche gli Stygiani hanno un cervello nel cranio, come chiunque altro».
«Aldair!» Illycia aveva gli occhi spalancati, e dava rapide occhiate all'intorno. «Non devi parlare così... »
«Perché no? È vero!»
«Sì... forse. Ma se qualcuno ti sentisse...»
«Non ho detto nulla che già non si sappia», feci seccamente. Poi accelerai il passo verso la Porta Reale e
il Mercato. Non c'era nulla da vedere nel posto dove durante la notte era accaduto il fattaccio. Anche la
gabbia vuota dello stygiano era stata portata via. Tuttavia, quello era stato il teatro dell'evento, e sul
luogo c'era un mucchio di gente intenta a raccontarsi l'un l'altro l'accaduto.
«Mi vengono i brividi solo a pensarci», disse Illycia, e rabbrividì contro di me in modo molto
convincente. Poi raggrinzì la punta del nasino. Quella piccola, tenera appendice era una delle
caratteristiche più incantevoli di Illycia. Mi aveva fatto quasi diventare matto, quando la scorsi per la
prima volta incontrandola nella strada. La seguii fino alla bottega del padre, e dovettero passare tre
giorni prima che raccogliessi coraggio sufficiente per rivolgerle la parola. Oggi, a pensarci, mi sembra
ridicolo, anche se probabilmente rifarei la stessa cosa.
«Aldair», mi disse, come casualmente, «devi... devi proprio andare in aula, oggi?»
Dal tono della voce mi resi conto che c'era qualcosa che non andava; mi fermai e la fissai. I suoi piccoli
occhi neri erano diventati all'improvviso liquidi. Intorno ai lati della bocca c'era una curva molto
particolare. Sentii che aveva luogo una certa, ben nota reazione fisica, e provai l'impulso di strangolarla
sul posto. Non si era mai comportata così prima, e per cominciare sceglieva proprio quella mattina! Le
donne sono sempre prontissime a capire quando gli uomini hanno le difese abbassate. Non lasciano mai
nulla al caso.
«Illycia», le feci. «Sai che non posso mancare alle lezioni».
«Beh...» Alzò una spalla e si ispezionò le unghie. «Se non vuoi, Aldair...»
«Lo sai che voglio. È tanto di quel tempo che aspetto di...»
Aggrottò le sopracciglia. «Che cosa aspetti, Aldair?»
«Niente», dissi. «Niente d'importante, Illycia».
«Sono sorpresa che tu voglia andare a lezione», disse lei, guardando le mura della città. «Voglio dire...
proprio stamattina».
«Perché?» La scrutai attentamente. «Perché non dovrei andare?»
«Lo sai. Dopo tutto quello che è successo ieri. All'Università». Mi fermai e la presi per le spalle,
facendola voltare verso di me. «Era questo, dunque, il pensiero che ti frullava per la testa! Bene. Che si
diceva in giro di quello che è successo, Illycia?»
«Non ne so molto».
«Ci scommetto...»
«Come?»
«Niente. Che cosa hai sentito dire?»
«Solo che Mastro... Mastro...»
«Levitinus».
«Che Mastro Levitinus ha detto certe cose contro la Chiesa».
«Ma non è affatto vero, Illycia».
«E poi che ha colpito uno studente quasi a morte, e ha parlato in una strana lingua!»
Sospirai e scossi la testa. «Tutto sbagliato. Non è stata nemmeno colpa di Mastro Levitinus. Illycia, non
devi credere a tutto quello che senti dire, anche se è interessante».
Mi fissò con uno sguardo strano. «E tu pensi che io lo faccia?»
«No. Certo che no».
«Bene, stai certo che non lo faccio. Aldair...»
«Sì...»
«Raccontami. Voglio dire, riferiscimi quello che è realmente successo». Si morse il labbro nervosamente.
«Tu c'eri, non è vero?»
Certe volte io sono lento di comprendonio, ma alla fine le cose le capisco. Questa, dunque, era la
spiegazione vera della mia improvvisa desiderabilità da parte di Illycia. Voleva un resoconto di prima
mano da parte di un testimone oculare.
«Devo andare, ora, Illycia», le risposi. «Farò tardi».
«Aldair...»
Staccai la sua mano dal mio braccio. «Sarai lieta di sapere, Illycia, che intendo recarmi da Mastro
Levitinus subito dopo la lezione. Gli offrirò i miei servigi, se ne avrà bisogno. E lui sarà felice di
apprendere che tu e gli altri concittadini siete preoccupati per la sua situazione». Illycia mi fissò, poi la
punta rosata della sua lingua passò nervosamente sulle labbra strette.
«Spero proprio che tu non vada da Mastro Levitinus, Aldair».
«No? E perché mai?»
«Ma davvero non sai ancora nulla, Aldair?»
« Illycia... »
«Mi fai male, Aldair! Insomma! È stato... preso... dalla Chiesa. Il tuo caro Mastro Levitinus è un eretico!
Ha peccato contro il Creatore!»
Le lasciai il braccio e mi buttai di corsa attraverso il Mercato.
«Aldair, ascoltami!» la sentii gridare dietro di me. «Hai davvero colpito Flaviun Sellenus? E poi... e poi hai
inciso il Segno sulla sua schiena? Davvero?»
Maledetti! Maledetti tutti! Lo avevo temuto, ma non mi sarei mai aspettato che Flaviun Sellenus
sarebbe arrivato fino a quel punto. Il denaro, certo. Argento a sufficienza, a quel che sembrava, avrebbe
comprato tutta la basilica di San Bellium e una intera Legione di Santi Padri!
Mi fermai davanti all'ingresso dell'Università. Ora che ero lì, che cosa avrei dovuto fare? Entrare in aula?
Sarebbe stata un'ipocrisia, con Mastro Levitinus che languiva in una cella da qualche parte. Andare alla
Penna d'Oca? Lì sicuramente avrei trovato qualcuno in grado di raccontarmi le cose con maggiori
dettagli. Ma... e se avessi incontrato di nuovo Flaviun?
Stavolta, non sarei stato capace di trattenermi. Sicuramente gli avrei infilato una lama tra le costole, e
mi avrebbero mandato a raggiungere Levitinus. Gli uffici della Facoltà, forse...
«Giovane Studente Aldair...»
Mi voltai, allarmato. E rimasi di sasso. Lo riconobbi immediatamente. Uno dei Padri dalla tunica di lino.
Per poco non lo avevo travolto, dopo aver messo a terra Flaviun.
«Aldair...» Il suo sorriso era rassicurante, e sentii il colore tornarmi sulle guance. Si era reso conto
immediatamente della mia paura. «Perché quell'espressione allarmata, fratello?» Si fece più vicino a me
e si fermò. «I tuoi giovani peccati sono dunque così gravi?»
«Siamo tutti peccatori, Padre», risposi, e mi accorsi che la mia voce era strozzata.
Il Padre rise. «Non citare le Scritture proprio a me, Aldair. Anche se il Creatore sa che me ne gioverei
anch'io».
«Padre. Non volevo...»
«No, no, certo che no. Intanto, io sono Padre Tinius».
Automaticamente, mi feci sul petto il segno del cerchio. «Sono... Sono onorato, Padre».
Il volto di Tinius si fece serio. «Beh, non esserlo. Io sono un servo del Creatore, come te. E uno dei servi
più umili, quanto a questo. Hai un momento da dedicarmi, Aldair?»
Mi chiesi che cosa mai volesse la Chiesa da me. «Volentieri, Padre», risposi. «Ma ora ho lezione, e...»
«Lo so, lo so», fece Tinius, con un gesto della mano. «Ma la lezione può
aspettare, no? L'anima viene prima della mente, Aldair, e io non ti porterò
via molto tempo».
Il Padre ammiccò verso di me, come se entrambi dividessimo un certo segreto. Poi cominciò a
camminare rapidamente, e non potei far altro che seguirlo, anche se quella faccenda non mi piaceva
affatto. Tinius non mi aveva detto come conosceva il mio nome, ma io sapevo già la risposta a quella
domanda. Aveva assistito al mio scontro con Flaviun, rendendosi conto che all'origine c'era la situazione
creatasi con Mastro Levitinus. Dietro tutto ciò c'era ancora una volta la mano di quel maledetto figlio di
papà, ci avrei scommesso. San Bellium è una montagna di grigia pietra lavorata. I suoi altissimi soffitti a
volta scompaiono nella penombra, e il suo interno è ancora più
oppressivo dell'esterno. Non vi ero mai entrato prima, anche se non intendevo rivelare la cosa a Padre
Tinius. La stanza nella quale mi condusse il religioso era piccola, ed arredata soltanto con una scrivania e
due sedie. La luce vi penetrava attraverso una feritoia sulla parete, larga poco più del palmo di una
mano. Soltanto i raggi di sole più vigorosi e determinati riuscivano a entrare, squarciando l'oscurità
dell'ambiente. Era una stanza adattissima alla personalità e l'aspetto di Padre Tinius. Come molti altri
della sua specie, sembrava che fosse nato nell'angolo più
buio della Chiesa, dove era sempre vissuto e da dove esitava ad allontanarsi. Era un fatto, questo, che mi
aveva sempre sconcertato: i Santi Padri che lodavano l'opera del Creatore sembravano evitare con odio
la bellezza del suo giorno.
Tinius era un uomo pallido e magro. Doveva essere ancora giovane, ma la pelliccia gli si stava già
diradando. Il suo muso era così sottile che le vene erano chiaramente visibili sotto la pelle. Secondo l'uso
degli ecclesiastici, si era strappato i peli dalle guance, il che aggiungeva pallore ai suoi lineamenti. I
piccoli occhi rosa brillavano come fiammelle dalla cima del suo cranio, e sulle orecchie non c'era quasi
peluria.
Si accomodò su una delle sedie e mi rivolse un pigro sorriso. «Non ti farò perdere tempo. Aldair», mi
disse. «Ti ho fatto venire qui per parlare del tuo docente. Mastro Levitinus. Tu sei un ragazzo
intelligente, e senza dubbio l'avevi già capito». Non risposi né sì né no. Tinius sostenne il mio sguardo
per un secondo.
«Tu eri presente alla lezione di Mastro Levitinus ieri mattina».
«Sì, Padre».
«E sei informato, Aldair, che Mastro Levitinus è stato preso in custodia dalla Chiesa?»
Cercai di non rivelare le mie emozioni. «Sì, Padre. L'ho sentito dire». Preso in custodia pensai. Io avrei
usato un'espressione diversa.
«E che cos'altro hai sentito dire?»
«Soltanto che Mastro Levitinus è stato accusato di eresia», risposi. «Ma si tratta di chiacchiere di strada,
Padre. Io non so...»
Tinius scosse la testa. «Una lingua sciolta è il peggior peccato». Sorrise.
«So bene, Aldair, che per i nostri bravi concittadini Mastro Levitinus è
ormai già squartato e bruciato. Ma non è affatto così, ovviamente. Siamo perfettamente consapevoli»,
aggiunse in tono solenne, «che certe persone dipingono la Chiesa come intenta a frugare sotto i letti e i
tappeti alla ricerca di eretici. Ma non è così: ti assicuro che abbiamo cose ben più importanti da fare».
Tinius si passò la mano sul mento in atteggiamento pensieroso, poi inclinò il busto verso di me. «Voglio
dirti una cosa, giovane Aldair. I Padri sono mortali come ogni altro uomo, e soggetti agli stessi errori. Lo
capisci, questo?»
«Io... Sì, Padre».
«E ti dirò ancora (ma solo per te, bada bene), che nella Chiesa stessa ci sono persone troppo... zelanti,
diciamo così, le quali», alzò gli occhi al soffitto, poi li riportò su di me, «le quali sono propense a scorgere
demoni là
dove dimorano soltanto degli innocui folletti». Si interruppe per sorridere alle sue stesse parole. «Temo
che questo sia quanto è successo nel caso di Mastro Levitinus. Ciò che abbiamo di fronte non è altro, a
mio parere, che un modesto e sfortunato incidente gonfiato fino a fargli assumere proporzioni
eccessive. Un incidente fra un maestro e il suo allievo. Un incidente nel quale, secondo me, Mastro
Levitinus è del tutto privo di colpe». Al suono di queste parole mi raddrizzai su me stesso.
«Sì», aggiunse Tinius annuendo con convinzione. «Io di tutta la vicenda so già molto più di quanto tu
non immagini, giovane Aldair. Tu non sei il primo studente con il quale ho parlato questa mattina, e non
sarai l'ultimo. E ti assicuro che sono perfettamente in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, se
capisci ciò che intendo dire».
«Sì, Padre», risposi, «e ne sono molto sollevato».
«Bene». Si appoggiò all'indietro e incrociò le dita. «Dunque... A quanto mi è stato riferito, Mastro
Levitinus nel corso della lezione di ieri ha menzionato un certo argomento che la Chiesa considera sacro
e del quale ha proibito la menzione. È vero?»
Esitai prima di rispondere. «Sì, Padre, in un certo senso è vero, ma...»
Tinius alzò una mano. «So già quello che vorresti aggiungere, ragazzo. Lascia che sia io a condurre
l'interrogatorio, Aldair.. Aspetta. Vedrai che ho capito perfettamente la situazione».
«Sì, Padre».
«Perfetto. Lo studente Flaviun Sellenus ha ammesso apertamente, dietro domanda specifica, di avere
anche lui menzionato quel tale argomento. Ma ha aggiunto di averlo fatto soltanto dopo che Mastro
Levitinus aveva affermato che esso ricadeva nel campo di interesse degli studi accademici. È
così?»
«Padre...» Non mi importava più di mantenere un contegno. «Flaviun è
un mentitore e un codardo! Lui stesso ha fatto in modo che le cose sem-brassero quelle che sono state
riportate!»
Tinius emise un sospiro e fece un gesto d'impazienza. «Per favore, Aldair!» Depose le mani a palme in
giù sulla scrivania. «Mastro Levitinus ha effettivamente affermato - in un modo o nell'altro - che quel
tale argomento ricadeva all'interno dei confini della storia?»
«Sì, in un certo senso, ma...»
«Bene. E ha detto?» - Tinius si fece il segno del cerchio - «cito: 'Non me ne importa un accidente delle
tue fiamme azzurre. Né di quanti santi possano stare a testa in giù sulla punta di una penna', fine della
citazione?» E
mi fissò diritto negli occhi.
Che cosa potevo rispondere? Senza dubbio altri testimoni gli avevano già confermato la cosa. «Sì,
Padre», dissi a voce bassa. «Questa frase è stata pronunciata». Tinius scoppiò in una risata così
improvvisa che sobbalzai sulla sedia.
«Bene, ragazzo», fece. «Rilassati. Smettila di guardarmi così, per favore. Queste erano le domande che
dovevo farti. Adesso, la parte ufficiale dell'interrogatorio è finita». Si appoggiò all'indietro e mi sorrise.
«Ora sono molto ansioso di venire alla parte che conta, Aldair. Che cosa è successo realmente, in aula?
Dimmelo così come tu l'hai visto e sentito». Nei suoi occhi c'era uno sguardo d'intesa che non era mai
comparso prima, e sorrisi a me stesso.
«Voglio sapere tutto», aggiunse Tinius. «In particolare la parte alla quale ho assistito anch'io, e che non
posso negare mi sia piaciuta. Quando hai messo al posto suo quel riccone presuntuoso di Flaviun
Sellenus!» Il sorriso scomparve all'improvviso dal suo volto. «Sarebbe ora», disse cupamente, «che certa
gente imparasse che le benedizioni del Creatore non possono essere comprate con una manciata
d'oro!»
QUATTRO
Mancava ancora un'ora a mezzogiorno.
Ma non me la sentivo di entrare in aula. L'assenza alle lezioni me l'avrebbero fatta pagare duramente, lo
sapevo. Il vecchio Mastro Pelian non era comprensivo come Levitinus. Mi avrebbe costretto a copiare
appunti fino a quando non mi sarebbero venuti i crampi alle mani. Nella sua libreria, conserva una serie
di registri freschi e puliti proprio per questo. Gli studenti più ricchi, come Flaviun Sellenus, potevano
sostituire questo tipo di lavoro assegnato per punizione con una multa. Ma io avevo troppo poco rame
nella mia borsa.
Fuori della caverna di San Bellium il sole sembrava più caldo e luminoso del solito. Mi fermai per un
momento e mi lasciai avvolgere dai suoi raggi. Poi, fui colto dall'impulso improvviso di correre giù per i
gradini di pietra e immergermi nella folla chiassosa del Mercato, perdendomi in quel mare di movimenti
e colori. Laggiù c'era la vita, mentre nell'ammasso di pietre dietro di me sentivo soltanto la morte.
Mi venne fatto di pensare che vivevamo in un mondo davvero strano. Lo stesso pensiero mi era venuto
poco prima, davanti a Tinius. La Chiesa definiva se stessa come la luce che illumina l'anima umana, la
sentinella della sua vita sulla terra. Eppure, per quanto potevo vedere io, dentro San Bellium non
c'erano che tenebra e il gelo della morte. La gioia, il calore e l'allegria erano davanti a me, nel Mercato.
Dove mercanti incarogniti litigavano ad alta voce per mezzo centesimo corroso, e le puttane di città
vendevano merce che non si trovava sui banchi. Come poteva essere una cosa simile? Ecco una
domanda, mi dissi, che non avrebbe trovato facile risposta né in chiesa, né in un'aula universitaria. Per
un attimo, pensai di fare una capatina alla Penna d'Oca. Poi mi dissi che a quest'ora avrei trovato ben
pochi studenti, e certamente nessuno di quelli che mi sarebbe piaciuto incontrare. Allora decisi di fare
una passeggiata alla ricerca di Illycia. Quella mattina aveva risvegliato i miei desideri, e poi li aveva
raffreddati altrettanto repentinamente. Ma succede sempre così con i sensi degli uomini: basta
l'ammiccare di un occhio femminile e il corpo ci tradisce, spingendoci a dimenticare tutti i difetti di lei.
Illycia aveva una lingua troppo sciolta e un'anima non precisamente sensibile. Ma in lei c'era molto
calore e molta comprensione, sempre che non si provasse ad andare troppo in fondo.
Allontanandomi dalla chiesa, mi inoltrai fra i banchi del mercato affollati di gente che osservava le merci
scadenti e i vegetali avvizziti. Pensavo. Avevo detto le cose giuste? Avevo risposto alle domande in modo
da aiutare Mastro Levitinus? Decisi che avevo fatto del mio meglio, sempre che ciò contasse qualcosa. E
Padre Tinius sembrava una persona abbastanza decente, per essere un ecclesiastico. Tutto sommato, mi
aveva offerto la possibilità di parlare francamente, dicendo ciò che pensavo. Evidentemente, c'erano
Padri buoni e Padri cattivi, come c'erano commercianti onesti, e ladri.
D'altra parte, sapevo che quegli ecclesiastici che si erano spinti fino alle Province settentrionali erano di
pasta più forte dei pallidi Padri di Silium. Rischiavano la loro vita come chiunque altro, e non chiedevano
favori speciali. Quelli che non resistevano alla dura vita della frontiera, partivano presto per altri luoghi.
Un teatrino di burattini stava dando spettacolo al centro del Mercato, e mi fermai un attimo ad
osservare. La storia era molto semplice. Una pattuglia di eroici guerrieri rhemiani respingeva un esercito
invasore che andava all'assalto delle mura di carta. I cittadini grati, compresa una vergine di piacevole
aspetto, acclamavano i coraggiosi legionari. Uno dei nemici, notai, era un ridicolo stygiano mangiato
dalle tarme: tutto faceva, fuorché
paura. Magari fosse così davvero, mi dissi. Alla fine, soldati, vergine, mercanti si strinsero tutti la mano e
fecero la riverenza al colto pubblico. Quello spettacolo, pensai, sembrava il riflesso della vita. Siamo
sempre tutti appesi a un filo, e dobbiamo obbedire alla volontà di qualcun altro. Le Chiese fanno
danzare la gente al loro ritmo solenne, e i Maestri cercano di insegnare monotone nozioni che nessuno
metterà mai in pratica. Ciascuno è al contempo marionetta e burattinaio. Persino uno schiavo può
gridare un ordine a un cavallo, o schiacciare una mosca, o tirare un calcio a un ciottolo per la strada. Non
c'è dunque alcuno che sia veramente libero? Dovunque siamo, siamo sempre sotto l'ombra dell'ala di un
padrone. Senza dubbio, questo è il vero ordinamento delle cose. Se il Creatore avesse avuto in mente un
diverso disegno, non avrebbe fatto il mondo così com'è. Al di fuori delle porte della città, un contingente
di soldati rhemiani stava facendo addestramento al tiro con l'arco. O, per meglio dire, faceva finta di
farlo. Mi augurai sinceramente che quella gagliarda truppa di arcieri non dovesse mai incontrare un
nemico più pericoloso di una lepre, o sa-rebbero stati guai seri. Avrei voluto trasportarli per magia ai
margini della foresta dei Lauvectii per un giorno: avrebbero visto che cosa voleva dire tirare sul serio con
l'arco. I Rhemiani sono buoni soldati, nel senso che hanno un rigido senso della disciplina che li rende
imbattibili quando i loro nemici si comportano nel modo dovuto. Quando si schierano in battaglia, non
c'è modo di fermare il solido muro di scudi e spade che formano mentre avanzano. Però, non sanno
distinguere la punta di una freccia dalla coda.
Mi comprai una focaccia e un po' di miele da un venditore ambulante. C'era un'asta di schiavi poco più
in là, ma la merce in vendita non sembrava di grande qualità: alcuni Cygnani stolidi e spauriti che
sembravano a malapena forti abbastanza da mettere un piede avanti all'altro. Il sole si abbassava,
allungando le ombre, e il grigio spettro di San Bellium scuriva ormai la piazza. Rabbrividii, e mi spostai
alla luce. Era mai possibile sfuggire al gelido riflesso della Chiesa? Sembrava di no, e mi domandai se un
pensiero come il mio fosse sufficiente per condannare un uomo alla dannazione eterna. Gli ecclesiastici
ci ammoniscono da sempre che agli occhi del Creatore c'è poca differenza fra intenzioni e azioni. In tal
caso, forse la mia anima non sarebbe mai ritornata ad Albion. Comunque, non sarebbe rimasta priva di
compagnia.
Quando ero ancora molto giovane, e avevo imparato da poco a camminare, in casa nostra viveva un
uomo molto vecchio. Mio padre era ancora vivo, e più tardi appresi che il vecchio era il padre di mio
padre. Aveva ben poco da fare oltre che bere birra d'orzo e parlare, e dedicava la maggior parte del suo
tempo alle due cose. Una volta, ricordo, parlò di Albion. Ci disse di come nelle giornate chiare il suo
profilo fosse visibile dal tetto di uno dei tanti templi che punteggiano la spiaggia. Per lui - dichiarò -
sembrava un'isola come tutte le altre abitate degli uomini: e se c'erano anime vaganti sulle sue spiagge,
la lontananza non poteva permettere di distinguerle. Tuttavia, aggiunse di avere scorto, un giorno,
qualcosa di simile a una luce azzurra che risplendeva nel cielo al di sopra di Albion. Ammise però che
quando le notti erano quiete e calde, e la birra fresca abbastanza, vedeva in cielo luci di ogni foggia e
colore, azzurro compreso. Non udii più nulla sull'argomento, perché mio padre interruppe a questo
punto i ricordi del vecchio, e mandò a letto me insieme con i miei fratelli e cugini. Un giorno o l'altro farò
un viaggio fino alla costa, salirò sul tetto di un tempio e vedrò di persona se il vecchio aveva detto il
vero. Forse Flaviun Sellenus aveva ragione. Le luci misteriose non appaiono più da tempo agli uomini, e
può darsi che ciò sia segno che il Creatore ha perdonato i nostri peccati. O forse è vero il contrario. Forse
non manda più le fiamme azzurre a risplendere nel cielo perché è ormai totalmente disgustato dalla
razza umana, e non vuole avere più nulla a che fare con noi. Decisione che non avrei potuto non
comprendere.
Un suono lacerò i miei pensieri, e mi girai attorno per vedere che cosa fosse. Da qualche parte qualcuno
stava gridando, e scandagliai con gli occhi la piazza del Mercato per scoprire la fonte delle grida.
Finalmente i miei occhi si posarono su San Bellium. Una morsa di gelo mi afferrò la base dello stomaco.
Sulle scalinate della chiesa si era raccolta una folla di gente, che dalla strada arrivava fino all'alta facciata
dell'edificio. Mi mossi attraverso la piazza, e cominciai a farmi largo fra la torma.
«Che cosa è successo?», chiesi a uno dei presenti.
L'uomo mi gratificò di una gomitata e un'occhiataccia. «E che ne so?», rispose. «Io sono lontano quanto
te».
«Pare ci sia una Dichiarazione», fece una donna dietro di noi.
«Una Dichiarazione?» La donna vide la mia espressione interrogativa e aggiunse qualcos'altro, ma ormai
la folla mi aveva spinto lontano da lei. Quando arrivai sul fronte dell'assembramento, potei vedere la
Dichiarazione al di sopra delle teste di chi era ancora davanti a me. Una lunga pergamena giallastra
attaccata con delle puntine su un battente del grande portale. Di nuovo la sensazione di gelo mi invase il
ventre. Qualcuno mi tirò rudemente per la tunica.
«Hai una bella faccia tosta, Aldair!»
«Che cosa?» Mi girai, allontanando la mano che mi aveva afferrato il vestito. Riconobbi il volto che mi
fissava furente d'ira trattenuta: era quello di uno studente che era stato abbastanza mio amico, e non
apparteneva ai cortigiani di Flaviun.
«Che cos'hai Dherius?», gli chiesi. «Fatti in là, voglio vedere che cosa sta succedendo».
«Ah! Come se non sapesse già quello che c'è scritto su quel foglio!», sibilò un altro studente.
«Certo che lo sa», ringhiò Dherius. «È lui che ha aiutato i Santi Padri a scriverlo!»
Feci correre lo sguardo dall'uno all'altro. «Ma, Dherius...», cominciai a dire.
« Ma, Dherius... », mi scimmiottò lo studente. «Non fingere con noi, Aldair. Con Flaviun Sellenus hai
messo su una bella commedia, ma la verità
è scritta lì, nero su bianco, sulla Dichiarazione. È la tua mano che ha assassinato Mastro Levitinus. Il
nome di Flaviun non compare su quel pezzodi carta: solo il tuo, Aldair dei Venicii» .
Li sentii mandarmi una serie di maledizioni, e mi resi conto che alle loro voci furenti se ne erano
aggiunte altre, mentre alcune mani cominciavano a levarsi. Ma ormai avevo occhi soltanto per un'altra
figura: la familiare immagine, magra e solenne, di un prete fermo di fronte alla porta principale, tetro
come San Bellium stesso.
E all'improvviso mi trovai solo, dopo aver scavalcato con un balzo la folla ferma sugli ultimi gradini, della
scalinata. Solo con le mani strette attorno a un collo pallido e ossuto. Tinius cadde a terra insieme con
me; le sue mani artigliarono l'aria e gli occhi gli si spalancarono per la sorpresa e il dolore. Le mie dita
rafforzarono la stretta, finché non arrivarono a toccarsi l'un l'altra. La faccia davanti alla mia divenne
scarlatta, ma non allentai la morsa. Poi all'improvviso il mio corpo si fece insensibile, e udii la mia stessa
voce che gridava disperatamente. Il cielo oscillò. Qualcosa di duro mi penetrò nel fianco. Un soldato era
chino sul corpo di Tinius, mentre un'altro si apprestava a darmi un secondo calcio nelle costole.
«Lo conosco, questo dannato», gridò. Mi puntò un indice addosso e poi si rivolse alla folla. «Parla con gli
Stygiani. Nella loro lingua!»
Dalla folla si levò un mormorio cupo.
«E quel diavolo gli ha anche risposto!», aggiunse il soldato.
«Eretico!», gridò qualcuno, mentre la folla cominciava a ondeggiare.
«Eretico!»
« Eretico! »
Sentii delle mani che mi afferravano le caviglie. Scalciai senza guardare, e udii un gemito di dolore
abbastanza soddisfacente. Mi alzai in piedi, la spada in pugno e il dolore al fianco già dimenticato. Il
rhemiano sollevò la sua lama. La sentii sibilare accanto a me, feci un passo di lato, affondai la mia spada
e lo colsi nel ventre. Il soldato barcollò indietro, si piegò sulle ginocchia, e io mi voltai, cominciando a
correre giù per le scale, con la spada levata. La folla mi si ritrasse davanti, aprendomi un varco. Per i
buoni cittadini il divertimento è divertimento, ma nessuno di loro aveva voglia per questo di buscarsi un
colpo di spada.
Dietro di me sentii un clamore di voci e uno sferragliare di armature, ma non mi voltai per guardare.
Istintivamente - per un momento - mi misi a correre verso la mia abitazione. Poi mi fermai, e presi la
direzione opposta, correndo a caso prima in una strada, poi in un'altra. Sapevano chi ero, e quindi la
strada verso la mia stanza era di certo già bloccata. Potevo dare un addio definitivo ai miei poveri
possedimenti.
Dove andare, allora? Mi fermai in un cortile per riprendere fiato. In città
non c'erano posti sicuri. Nessuno, a Silium, si sarebbe arrischiato a darmi un rifugio. Dunque, dovevo
uscire dalle mura. Ma davanti a me c'erano ancora almeno quattro ore di luce, prima del tramonto.
CINQUE
Smettila di correre, mi dissi. Smettila di correre, e comincia a pensare. Il mio era precisamente il
comportamento che porta le lepri in padella, quando sono inseguite dai cacciatori. Corrono a perdifiato,
finché la paura, e non l'abilità degli inseguitori, le mette a terra.
Perciò mi sedetti in un angolino coperto, e cominciai a pensare alla scena che doveva essersi svolta
davanti a San Bellium dopo la mia fuga. I soldati rhemiani hanno modi particolari di fare le cose. Non
sono migliori degli altri, ma hanno ordine, disciplina e addestramento. Sono tre fattori importanti, che
hanno permesso a Rhemia di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto. Perciò ero certo che da
qualche parte, nei manuali d'istruzione dell'esercito rhemiano, dovesse esserci una procedura speciale
per far cadere nella rete i fuggitivi come me. E doveva essere una procedura ordinata e sistematica.
Perciò, i soldati dovevano essere partiti dalla piazza. Avevano suddiviso la città in quadrati. Stavano
setacciando uno per uno questi quadrati, procedendo per cerchi sempre più ampi, mentre il fuggitivo
vagava per la scacchiera. E, prima o poi...
Naturalmente, una serie di pattuglie a cavallo stavano già facendo il giro delle mura per catturarmi,
casomai fossi riuscito a raggiungerle o avessi tentato di discenderle. Anche se, probabilmente, non si
aspettavano che sarei riuscito ad arrivarci. Su di loro avevo un certo vantaggio, e per ora ero al di fuori
del cerchio entro il quale erano arrivate le ricerche. Però, se mi mettevo a correre, prima o poi sarei
stato catturato. Se restavo dov'ero, mi avrebbero raggiunto lo stesso. Di certo, non avrebbero smesso di
cercarmi prima di aver metodicamente rovesciato tutte le pietre di tutta Silium. Tornai sui miei passi. Il
cuore aveva ripreso a battermi in modo ordinato. Forse, avevo trovato la risposta al mio problema.
Fuggire davanti ai Rhemiani era inutile. Nella fuga, c'era solo la morte. Se volevo la vita, l'avrei trovata
dentro i loro ranghi. Non al di fuori del circolo che si allargava sempre di più, ma al suo interno.
Le gemme azzurre e rosse dalla mia blusa non andavano bene. Averle addosso era come accendere un
fuoco e gridare per segnalare la mia posizione. Rovesciato all'indentro, tuttavia, l'indumento mostrava al
mondo un tessuto anonimo dallo scialbo colore grigio. Lo stesso ragionamento, ovviamente, si applicava
al mio mantello. All'interno era di colore più scuro, e inoltre poteva essere appeso alle spalle in modo
diverso da quello che usavo abitualmente. I pantaloni di stoffa grezza, stretti alle caviglie, costituivano
un problema più grave. Vedendoli, ogni bambino di Silium si sarebbe reso conto che ero originario delle
regioni settentrionali. Perciò me li levai, me li avvolsi intorno alla vita come una cintura, e alla fine
risultavo rivestito di una passabile imitazione delle corte tuniche indossate dai Rhemiani. L'aspetto era
decente, e inoltre lo spessore dei pantaloni intorno alla vita aggiungeva rotondità alla mia figura,
facendomi sembrare più grasso di quanto in realtà non fossi.
Gli stivali di pelle di stygiano erano il problema più serio. La cosa migliore sarebbe stata seppellirli in un
vicolo. In tutta Silium non ce n'era un paio uguale. Tuttavia, non riuscii a farlo. Un uomo deve coltivare il
proprio onore: altrimenti, che senso avrebbe la vita? Lo stygiano cui era appartenuta quella pelle lo
avevo ucciso io stesso all'età di quattordici anni. Gli scorridori avevano rotto la resistenza dei difensori
alle mura, ed erano entrati nel villaggio, sciamando fra le case. Io ero lì, con cinque tra fratelli e cugini
più piccoli. Colsi il mostro in pieno petto proprio mentre varcava la soglia, e stava già pregustando tutta
quella bella carne tenera davanti a lui.
Erano dunque stivali di sangue. Il mio primo ucciso. E intorno allo stivale destro portavo la punta di
freccia che aveva compiuto il lavoro, infilata in una fettuccia rossa e azzurra. No, quegli stivali non
meritavano di finire seppelliti in una fogna meridionale.
Perciò, me li levai e li portai appesi alle spalle, uno sotto ogni braccio, coperti dal mantello. Mi tolsi
anche una calza e la nascosi sotto la cintura. Andare a piedi nudi poteva attirare l'attenzione, e
provocare domande. Ma un piede nudo e uno no poteva sembrare frutto di uno stato di necessità.
Almeno, così speravo. Tagliai una robusta canna da usare come bastone, e sollevai un poco il mio piede
"zoppo". Così forse non sembravo esattamente un nativo di Silium, ma portavo una rassomiglianza
ancor più vaga con il fuggitivo Aldair dei Venicii.
Dopo un ultimo, rapido esame del mio abbigliamento, uscii dal cortile deserto e imboccai nuovamente la
strada, diretto verso il cerchio delle truppe rhemiane che mi stavano cercando.
Non ho mai passato una giornata più lunga.
Per il Creatore, pensai ad un certo momento: che anche il sole abbia deciso di mettersi contro di me?
Sono certo che, per farmi dispetto, è rimasto in cielo almeno un'ora più del solito. Trascorsi tutto il
pomeriggio a passeggiare in lungo e in largo per il Mercato, ispezionando ogni banco e ogni negozio.
Tutto ciò, con il timore continuo di imbattermi in Flaviun Sellenus o in qualche altro collega di Università
in grado di riconoscermi nonostante il sommario travestimento. Caduta la notte, mi parve inutile
continuare a recitare la parte dello zoppo: una parte che l'indolenzimento dei muscoli dovuto alla lunga
immobilità aveva portato dolorosamente alla mia condizione reale. Mi ritrovavo con il problema di
nascondermi. Posti realmente sicuri non ce n'erano. Mi sistemai sulla tettoia di un negozio di fornaio,
poco lontano dalla piazza. Da lì potevo scrutare l'andirivieni delle truppe rhemiane, e farmi un'idea del
loro modo di procedere. Chiaramente, i soldati non erano più molto entusiasti della caccia all'eretico. La
notte, dal loro punto di vista, poteva essere impiegata molto più utilmente ubriacandosi o andando a
puttane. Non c'era gloria nell'infilare torce accese in buchi fetidi e ispezionare cantine ammuffite. I preti
volevano questo Aldair: perché non passavano loro la notte in piedi a cercarlo?
Non che mi illudessi di essere al sicuro. Lo zelo delle ricerche era molto diminuito, ma non per questo le
ispezioni erano cessate. Ai soldati rhemiani non piacciono i civili che infilano spade nella pancia dei loro
commilitoni. Io, immobile, osservavo l'ingresso del forno e cercavo di ignorare il profumo di pane che
saliva fino a me. Quando le stelle furono alte, e la sentinella delle mura ebbe chiamato l'ora terza,
scivolai dal tetto e, cercando di nascondermi fra le ombre, attraversai la piazza fino ad arrivare alle
mura, abbastanza lontano dalla porta d'ingresso. Il muro era antico, maltrattato e corroso dal tempo,
pieno di buchi e asperità che fornivano appoggi eccellenti a piedi agili come i miei. Era un muro che
avrebbe tenuto a bada i nemici soltanto se munito di guardie, con armi e macchine da guerra. Ma in
tempo di pace non si poteva vigilare ogni palmo della sua struttura. Non ebbi difficoltà a discenderlo e,
una volta fuori, mi buttai per i campi fin quando non raggiunsi una macchia di biancospini. Lì mi sdraiai a
terra e mi avvolsi nel mantello. Lanciai uno sguardo alle luci gialle e lontane di Silium, e ai riverberi
rossastri dei fuochi da campo delle truppe rhemiane fuori delle mura. Non avrei sentito la mancanza di
quella città, e nessuno dei suoi abitanti si sarebbe addolorato gran che per la mia scomparsa. Il padrone
della mia locanda avrebbe trovato rapidamente un nuovo ospite per la stanza che avevo lasciato (con il
mio bagaglio dentro), imponendo affitti esosi ad un altro poveraccio. Illycia avrebbe trovato un altro
caposcarico come me, ben felice di accarezzarle la doppia fila di morbidi capezzoli sul pancino rosa. E
forse avrebbe tirato tanto la corda con qualche malcapitato da fargli perdere la testa fino a tirarle su a
forza la coda, scoprendo altre delizie che io avevo soltanto sognato. Dopo di che, suo padre si sarebbe
liberato, con comprensibile gioia, di un'altra figlia convolata a giuste nozze.
Mi sarebbe mancato Mastro Levitinus. Silenziosamente, rivolsi il pensiero al mio insegnante,
promettendo di non dimenticarlo. Senza dubbio -pensai - la tua testa è ora infilata in una picca davanti
all'ingresso di SanBellium. Ma giuro che se sarà in mio potere, un giorno ritornerò a Siliume sullo stesso
posto di testa ne metterò un'altra...
Seduto sotto l'ampia chioma di una quercia, aspettavo che i raggi del sole mattutino arrivassero fino a
me. Ai miei piedi scorreva un fresco ruscelletto. Al di là, presso un filare di olmi, c'era la fattoria dalla
quale avevo poco prima rubato la fetta di pane secco e le patate cotte, ancora coperte di cenere calda,
che avevano costituito il mio pasto.
Non rubavo mai molto. Sapevo bene che non vale la pena di rischiare per procurarsi più cibo. Inoltre,
non volevo lasciare dietro di me una catena di indizi che i soldati avrebbero potuto risalire.
Perciò, nei tre giorni successivi alla mia fuga da Silium, mi ero mantenuto leggero. Fino a questa mattina,
almeno. Perché, nella scossa fattoria in cui avevo rubato pane e patate, avevo preso anche un arco da
cacciatore con una faretra piena di frecce. Portandolo via, mi ero detto che forse il suo possesso per me
avrebbe significato la vita, mentre il contadino avrebbe potuto facilmente farne a meno. Malgrado ciò
pensai che se l'uomo certo non avrebbe sentito la mancanza di qualche patata e un po' di pane, la
perdita dell'arco gli sarebbe invece pesata. Perciò, al suo posto lasciai mo-nete sufficienti a ripagarlo,
anche se il denaro mi sarebbe certamente stato utile al mio ritorno nel mondo civile. Forse, però, quel
pagamento avrebbe convinto l'uomo a non denunciare il furto (anche se non potevo essere sicuro della
cosa), evitando di far sospettare a qualcuno che ero passato di li. Comunque, misi da parte quanto
avanzava del pane e delle patate, e mi alzai seguendo la corrente del ruscello che portava lontano dalla
fattoria. Un giorno, vidi che la corrente si allargava e finiva per riversarsi in un fiume. Mi fermai sulla
riva, e in meno di un'ora vidi passare nove battelli mercantili i quali tutti, eccetto due, scendevano lungo
la corrente. Il fiume era azzurro e pigro, e in esso si rispecchiava il cielo. Lungo le sue rive crescevano
fitte macchie di salici che piegavano le chiome fino a toccare l'acqua. La vista della corrente e delle
barche mi fece prendere una decisione. Anche se conoscevo poco quella parte del paese, sapevo di aver
camminato verso occidente, in direzione della costa. Si era trattato di una scelta puramente casuale.
Decisi di trasformarla in una meta deliberata. La notte prima di quella in cui arrivai al fiume, corsi un
rischio pericoloso ma necessario. Mi fermai a una taverna lontana dalla strada principale, mi feci versare
un boccale di vino e portare carta e penna. Dopo di che buttai giù il resoconto di quanto mi era accaduto
a Silium, pregando mia madre di perdonarmi per aver portato vergogna su di lei. Consegnai la lettera al
locandiere, pagandogli una mancia perché il suo garzone la portasse il giorno dopo al villaggio più vicino.
Sapevo che sarebbe arrivata a destinazione entro una settimana, perché il servizio postale organizzato
dai Rhemiani è molto efficiente. Non pensavo che in seguito alla mia vicenda la mia famiglia avrebbe
avuto particolari fastidi. Vivere in provincia comporta anche qualche vantaggio. La Gaullia, gli Eubironi, e
Trientius fanno parte dell'Impero ormai da cent'anni, ma Rhemia non si è mai fatta sentire laggiù altro
che con promesse non mantenute. Le sue Legioni hanno grossi problemi da affrontare molto più vicino a
casa. I terribili Nicieani sono una minaccia costante, anche se in genere non abbandonano troppo
facilmente le loro regioni sulle coste del Mar Meridionale. Inoltre, sorgono guai in continuazione lungo
gli stessi confini di Rhemia, con le lotte intestine fra gli uomini politici, e con sacche di ribellione che ogni
tanto esplodono e minacciano la sicurezza dell'Impero. Sempre lungo i confini, ci sono zone in cui si
riesce a stento a controllare i Bataavi e a respingere i corsari Vikonen. Perciò, se i Rhemiani offrono poco
aiuto alle Province lontane, d'altra parte non pongono neppure problemi. Forse, un giorno, un cavaliere
arri-verà dalle mie parti per chiedere dove abita un certo Aldair. Ma nessuna Legione si spingerà al suo
seguito, così a nord. E se per caso lo facesse, i soldati presto desidererebbero di essere rimasti a casa. I
Venicii hanno il costume di difendere i loro consanguinei. E non varrebbe la pena di rischiare una
ribellione in piena regola per la testa di un ragazzo vagabondo. Rimasi per un po' a sonnecchiare, e
quando mi svegliai il sole era già alto. Quando passò un lungo treno di barche che scendeva pigramente
verso il mare, saltai sull'ultima chiatta e mi stesi sul dorso, cercando di riposare ancora un poco. Il carico
era costituito quasi interamente da legname e vasellame. Nelle chiatte non c'era nessuno: l'equipaggio
era tutto sulla barca di testa, l'unica munita di vela, troppo lontana perché qualcuno potesse accorgersi
della presenza di un passeggero clandestino. Quando il sole fu vicino al tramonto, le barche vennero
accostate a riva, e il battello di testa si staccò, continuando a discendere il fiume. Evidentemente,
pensai, sarebbe venuto qualcuno a prendersi cura del carico, forse la mattina dopo.
Notai che il fiume si stava allargando notevolmente, il che, in base alle mie nozioni di geografia,
significava che ci stavamo avvicinando al mare. Mi pareva già di sentire l'odore del sale nell'aria (avevo
sentito dire che l'odore salmastro è molto particolare), ma forse era soltanto la mia immaginazione. Al
calar della notte, scesi a terra e cominciai a camminare lungo la riva del fiume. Davanti a me vedevo una
serie di luci, che potevano essere quelle di un gruppo di barche ancorate in un porto. In tal caso doveva
essere vicina una città, e lì sarebbe stato più difficile che in campagna rubare un po' di cibo. Inoltre, non
c'è villaggio dell'Impero in cui non siano di stanza diversi soldati Rhemiani.
Perciò, fame o no, decisi di aspettare che tutta la città dormisse. Alle banchine erano legate molte
piccole imbarcazioni, che dondolavano lentamente nella risacca. Ne scelsi una, e mi sdraiai nel
sottoponte, nascosto alla vista dalla spiaggia. Il cielo brillava di gelide stelle. Pensavo al futuro. Avrei
mangiato qualcosa, avrei cercato di dormire... e poi? In realtà, non avevo alcuna idea di dove fossi.
Sapevo soltanto che il mare doveva essere vicino.
Mi chiesi se da quel punto della costa sarebbe stata visibile Albion. Doveva esserci un punto della riva
dal quale l'Isola Tenebrosa era lontana soltanto poche leghe. Forse, quello in cui mi trovavo era lo stesso
villaggio che mio nonno aveva visitato tanti anni prima.
Fissai per un attimo le stelle, poi chiusi gli occhi.
E se davvero fossi riuscito a scorgere Albion - mi chiesi - che cosa avrei visto? Le anime dei morti? Il
nonno aveva detto che l'isola era troppo lontana per poterle distinguere; ma io sono dotato di una vista
eccellente. Oppure avrei visto le luci azzurre nel cielo?
No. Non ci sono più luci azzurre.
Aprii gli occhi, certo di essermi appisolato per un paio di minuti almeno. Cominciai a levarmi a sedere,
ma m'immobilizzai subito.
Qualcosa si muoveva lungo la spiaggia.
Due forme. Tre. Scivolavano da un'ombra all'altra, come se fossero parte della notte stessa. Ed io sapevo
che nessuna creatura al mondo è capace di muoversi in quel modo, se non gli Stygiani!
«Per gli occhi del Creatore», mormorai, e strinsi la mano intorno all'elsa della mia spada. Che cosa mai
potevano fare degli Stygiani lungo le più
remote coste occidentali della Gaullia?
SEI
Feci un movimento quasi impercettibile. Senza rumore. Solo per sistemare meglio le mie gambe. Ma fu
abbastanza. Una forma nera fu sopra di me, incredibilmente veloce, prima che la mia mano potesse
estrarre la spada dall'elsa. Un alito caldissimo mi avvolse la faccia, e due occhi di brace bruciarono nei
miei. La luce delle stelle si rifletté su una lunga lama affilata, diretta contro il mio petto.
«Khairi, fermo!»
La lama smise di scendere.
«Fermarmi? E perché?»
Cercai di muovermi. Un lungo braccio peloso inchiodò, senza sforzo apparente, le mie spalle alle tavole
del ponte. Una seconda forma si stagliò accanto alla prima. «Ah, avevo visto bene. Fratello, io conosco
questo individuo».
Gli occhi del primo stygiano brillarono, mentre una morsa d'acciaio si strinse intorno alla mia gola. «Lo
conoscerai meglio, Rheif, quando sarà
scuoiato e macellato a dovere».
«No». Lo sguardo dell'altro si abbassò su di me. Occhi di notte infissi in un muso grigio. Denti bianchi
come fantasmi. «Porta sfortuna mangiare qualcuno con cui si è parlato, Khairi».
«E allora non parlargli», grugnì Khairi.
La forma scura chiamata Rheif si chinò sulle ginocchia. «Bene, piccolo guerriero. Ci incontriamo di
nuovo».
«Hai un aspetto differente, stygiano», gli risposi. «Mi parevi più bello quando eri in gabbia».
Rheif rise brevemente. «Mi risultava difficile muovermi bene fra le sbarre. I miei fratelli hanno fatto in
modo che stessi più comodo».
«Rheif», lo interruppe Khairi, «smettila di parlare, in modo che possa tagliargli la gola. Non abbiamo
tempo da perdere in chiacchiere».
«No». Rheif scosse la testa, gli occhi rossi sempre fissi su di me. «Mi è
apparso in sogno. Vorrei sapere perché».
«Sognare un arrosto è una cosa normale», disse Khairi. «Che c'è di strano?»
«Non era un sogno che riguardava il cibo».
«Ma questo è un bel pezzo di char'desh. Come altro vuoi che ti appaia in sogno?»
«Forse hai ragione. Ma forse, invece si è trattato di un sogno divino». Khairi guardò prima me, con gli
occhi pieni di meraviglia, poi Rheif.
«Un sogno divino riguardante un arrosto?»
«Khairi. Vai a far la guardia con Whoris».
«Ma non c'è tempo...»
«Khairi».
Khairi emise un brontolio di disapprovazione. «E di questo che ne facciamo?»
«Lascia stare quell'uomo. Dubiti che io sia capace di tenerlo a bada da solo?»
Khairi sbarrò gli occhi. « Uomo? Lo hai chiamato uomo?»
«Vai, fratello. Non aspetterai a lungo».
Khairi scosse la testa pelosa e allentò la stretta, poi passò davanti a Rheif brontolando, e si diresse verso
la riva.
Mi sedetti, massaggiandomi il collo.
«Spero che terrai le mani lontane da quel pezzetto di ferro che porti alla cintura, e che presumo sia
un'arma», disse lo stygiano.
«In questo momento non mi sento di spirito bellicoso», assicurai. «Stai pur tranquillo: sei perfettamente
al sicuro».
Lo stygiano alzò un sopracciglio. «Sono lieto di sentirlo. Avevo un forte timore che la mia vita fosse in
pericolo».
Fissò per un attimo le scure acque del fiume, poi riportò gli occhi su di me. «Che cosa stai facendo da
queste parti, Venicii? Trovo il nostro nuovo incontro una cosa molto strana».
«E per me rivederti è una cosa più strana ancora. Questa non è certo la strada che porta alle foreste dei
Lauvectii».
«Non porta neppure verso gli Eubironi, però». Lasciò in sospeso la domanda. Non mi sembrò necessario
rispondergli. Tanto, prima o poi mi avrebbero ucciso ugualmente. Ero sorpreso quanto lo stygiano
chiamato Khairi che quest'altro avesse voluto parlarmi.... anche se forse non mi sarei dovuto stupire
troppo.
Perché un secondo incontro doveva essere considerato più strano del primo?
«Ho lasciato le mura di Silium con una certa fretta», feci. «Non so se a quella brava gente sarebbe
piaciuto di più avere la mia pelle o la tua». Lo stygiano mi rivolse uno sguardo interrogativo, e io gli
raccontai brevemente quello che mi era successo, mettendolo a parte dei miei guai. Talvolta è difficile
interpretare le espressioni di quelle creature. Tuttavia, quando ebbi finito di raccontare, scoppiò in una
inequivocabile risata.
«Dunque, siamo entrambi fuggiaschi cui stanno dando la caccia», esclamò, «e nessuno di noi due è
particolarmente ansioso di incontrare i soldati rhemiani».
«Così sembra».
«E che cosa stavi facendo su questa barca, Venicii? Pensavi di rubarla?»
«No», risposi. «Stavo solo dormendo. Troppo profondamente, a quel che sembra. Volevo aspettare che
fosse notte fonda, e poi scendere in città per trovare un po' di cibo».
«E poi?»
«Un fuggiasco non è un viaggiatore come tutti gli altri, stygiano. Anche tu dovresti saperlo. Di rado è
sicuro di quello che farà l'indomani».
«Vero», annuì. Si grattò il muso e mi guardò con aria pensosa. «Venicii, sei capace di far andare questa
barca dove vuoi tu? Conosci l'arte di navigare?»
La sua domanda mi stupì. «E perché mai dovrei conoscerla?»
Emise un sospiro. «Debbo ricordarti che sono io a fare le domande, e tu a dare le risposte?»
«Non so niente di barche. Quando ero al Nord ho attraversato qualche fiumiciattolo da una riva all'altra.
Ma questo è un tipo di barca del tutto diverso. Ha dei teloni di stoffa che servono a catturare il vento, e
per adoperarli bisogna imparare una tecnica speciale, come per qualsiasi altra cosa. Penso di poterla
imparare, al bisogno. I Venicii riescono a fare tutto quello cui pongono mente. Tuttavia, non ho né il
tempo né il desiderio di imparare il mestiere di navigante». Lo stygiano guardò al di sopra della mia
testa, e annusò l'aria. «Tu no, forse», disse. «Ma io sì».
Lo fissai per un momento. «Sì? E perché?»
«Perché non ho voglia di finire scuoiato. Solo per questo». I suoi occhi scarlatti si appuntarono nei miei.
«Ci sono Rhemiani tutto intorno, Venicii. Tanti. Troppi. Sfortunatamente, noi tre abbiamo provocato
qualche apprensione nella zona. Sanno che siamo qui intorno. Non ci hanno cercato ancora lungo il
fiume perché pensano che gli Stygiani temano l'acqua».
«E non è vero?»
«Sì, è vero. Ma più che di una paura, si tratta di una idiosincrasia. Che non è certo più forte
dell'avversione a venire trasformati in scendiletti. Spero comunque che i Rhemiani non sospettino che
potremmo navigare lungo il fiume».
Scossi la testa a queste parole. «Anch'io, se me lo dicessero, non ci crederei».
«Bene». Lo stygiano si produsse in un largo sorriso. «Allora lo faremo. E tu verrai con noi, Venicii».
«Che cosa!», esclamai. «E perché?»
«Perché potresti risultarmi utile». Mi guardò con aria divertita. «Preferisci forse morire? Subito? Khairi
sarebbe felice di esaudire questo tuo desiderio».
«Non ho molta fretta al riguardo», risposi, guardandolo fisso negli occhi.
«Anche se non dubito che prima o poi mi ucciderete comunque».
«Beh», mi rispose in tono allegro, «poi è sempre meglio che prima, non è vero?»
«Rheif, non mi piace questa cosa», brontolò Whoris. «Non è naturale» .
«Calma fratello», fece Rheif sommessamente. «La tua voce si muove rapida sull'acqua. Non ci sono né
alberi né colline per ostacolarla».
«Né per nascondercisi dietro in caso di bisogno», aggiunse Whoris.
«O per arrampicarcisi su nel caso l'acqua volesse sommergerci. Il che, senza dubbio, accadrà», disse
Khairi.
Rheif non rispose. Sedeva davanti ai due, che si trovavano ai remi ai lati della barca. Io ero a poppa, e
manovravo il piccolo timone. Era la prima volta, da un quarto d'ora, che qualcuno parlava. Nessuno
aveva osato far altro che respirare mentre passavamo davanti alla città che Rheif aveva udito i soldati
chiamare Erdantii. L'informazione confermava una cosa che avevo già sospettato, cioè che Rheif parlava
rhemiano bene quanto me. I suoi catturatori certamente non lo avevano immaginato. Di sicuro non si
trattava di uno stygiano come tutti gli altri. Le luci della città erano ormai ben dietro di noi, ma non c'era
tempo per riposare. Lungo le rive si vedevano bagliori di torce che andavano e venivano, e di tanto in
tanto giungeva il cozzo delle armature, e l'eco degli ordini scambiati nella notte. Non eravamo stati
dimenticati. C'erano nubi verso sud e a occidente. Sino ad ora, la luna era stata così
gentile da rimanere coperta dietro di esse. Speravo fortemente che continuasse a farlo. Avevamo già
troppi nemici contro di noi, senza che nei loro ranghi si arruolassero anche gli elementi naturali.
«Questo è un lavoro da schiavi», protestò Khairi. «Fai remare il cha-r'desh, se proprio vuoi che
qualcuno remi, Rheif. È più adatto di noi a lavori come questo».
«L'arrosto, come dici tu, ha da fare», rispose Rheif pazientemente. «Sta manovrando l'arnese che serve
per guidare la barca, in modo che possiamo restare sempre nel mezzo del fiume».
«Non è stata una cosa saggia portarcelo appresso», fece Khairi. «E
nemmeno una cosa decente. Hai visto i suoi stivali? Anch'io conosco i Venicii, e non certo per aver
conversato con loro. Potrebbero essere fatti con la pelle di mio fratello. O di un mio cugino».
«E tu, Khairi, potresti aver arrostito suo zio su nei Lauvectii», sospirò
Rheif. «Così siete pari. Adesso stai zitto e rema».
«Stygiano», dissi io, «so bene che la cosa per te sarà di nessuna importanza, data la dimestichezza che
voialtri avete con l'acqua. Ma hai notato come le rive del fiume si allontanino sempre di più, e la
corrente si faccia più turbolenta?»
Rheif mi guardò senza dar segni di preoccupazione. «E allora?» fece. «È
importante?»
«Prova ad assaggiare l'acqua», gli risposi.
«Perché?»
«Prova».
Lo fece. La sputò subito, e mi guardò con occhi grifagni. «È salata», disse, come se fosse colpa mia.
«Già. È salata perché stiamo ormai uscendo dal fiume. È per questo che le rive si allontanano e le onde
sono più alte. Siamo alla foce, e il fiume si sta gettando in mare aperto».
«In mare!» Khairi gemette e scosse la testa.
«Zitto», fece Rheif. Si voltò verso di me e mi gettò un'occhiata severa.
«Venicii, io non voglio che questa barca vada a finire nel mare». Risi. «E dove mai pensavi che finissero i
fiumi, stygiano?»
«Sapevo bene che doveva esserci un mare da qualche parte, ovviamente», rispose in tono
meditabondo. «Solo, non immaginavo che fosse così
vicino». Frugò la riva con occhi che vedevano anche di notte. «È un po'
che non si vede segno dei Rhemiani. Né torce, né le loro grida da idioti, che ci hanno fatto capire
dov'erano. Fai andare la barca più vicino a riva, verso destra. E poi seguita a costeggiare la terra. Se
dovremo inoltrarci nel mare, per un certo tratto, lo faremo. Ma dovremo sempre sapere dove ci
troviamo, ed essere in grado di arrivare a terra in qualsiasi momento». Scossi la testa. «Remare nel
fiume è una cosa», spiegai. «Nel mare, a quanto ne so io, la faccenda è del tutto diversa. I tuoi fratelli ce
la stanno già mettendo tutta. Quando saremo in mare, probabilmente non saranno neppure capaci di
mantenere la giusta direzione».
Rheif alzò il muso e annusò l'aria. «Si sta levando il vento. Quando saremo in mare, sarà senza dubbio
più forte. In tal caso, Venicii, tu potrai alzare quella cosa di tessuto in cima al palo e catturare con essa la
brezza, in modo che Khairi e Whoris non debbano più remare». E fece un gesto con la mano. Voleva
dire: se hai qualche altro stupido problema, fammelo sapere e te lo risolverò in un batter d'occhio. Era
pura follia, ovviamente. Ma è inutile mettersi a discutere con uno stygiano.
Manovrai il timone e mi portai più vicino a riva. Per i due Stygiani, la fatica al remo risultò minore, ma
non di molto. Whoris era abbastanza concentrato, ma Khairi brontolava continuamente.
Nessuno negli Eubironi ci crederebbe mai se lo raccontassi, pensavo. In questo momento, su al nord,
mia madre, i miei fratelli e i miei cugini stanno dormendo nei loro letti. E tutti, senza dubbio, sono
convinti che il giovane Aldair sia immerso nei suoi studi a Silium. Invece, lui aveva attaccato un Padre
della Chiesa; ferito e forse ucciso un soldato rhemiano sui gradini di San Bellium; è ricercato in tutta la
regione per aggressione ed eresia... ed ora guida verso il mare una barca piena di guerrieri stygiani.
Molto probabilmente, mi dissi, non era questo che il mio povero padre aveva sognato per suo figlio.
«Siamo abbastanza vicini», fece Rheif. «Qui è buio come nelle foreste dei Lauvectii». Sorrise. «Riesco
appena a distinguere la riva, il che significa che i Rhemiani, se ci sono, non sono in grado di vedere nulla,
dato che non hanno gli occhi degli Stygiani».
Pochi istanti dopo, il mare reclamò i diritti del più forte sull'acqua del fiume, e dovetti avvicinarmi
ancora di più alla terra, altrimenti Khairi e Whoris non sarebbero più stati in grado di remare.
Davanti a noi, nel buio, si stagliava il profilo di un grande promontorio: un immenso dito di roccia che si
spingeva a metà dell'estuario del fiume. E
per la prima volta, potemmo scorgere le onde marine, crestate di spuma, che battevano contro la terra,
«Bene, ecco una cosa che non mi sarei mai sognato di vedere», annunciò Rheif.
Gli lanciai uno sguardo interrogativo. «Ed ora che si fa, capitano?»
Rheif ricambiò lo sguardo con un ghigno. «Ora», disse, «dovrai catturare il vento con la tela. Finché i
miei due prodi guerrieri ai remi sono ancora vivi».
Come ho già detto, gli Stygiani sentono soltanto quello che vogliono sentire. «Ti ho già detto», spiegai
pazientemente, «che non so nulla dell'arte del navigare».
«Imparerai», rispose Rheif con voce cupa. «E in fretta. Se non ricordo male, mi hai anche detto che i
Venicii riescono sempre a fare tutto quello cui pongono mente».
«Rheif», interruppe Khairi. «Non mi sento bene. C'è qualcosa che nonva» .
Rheif fece un gesto con la mano. «È che non ti piace il mare, fratello. Non piace neanche a me. Però,
dovrai sopportarlo per un altro po'. E quando prenderemo terra, più a nord, i Rhemiani non avranno la
più pallida idea di dove siamo finiti».
«No». Khairi si voltò verso di lui e scosse la testa, in atteggiamento ostinato. «Non è il mare, Rheif. È
qualcos'altro». Le sue narici erano dilatate, mentre le orecchie pendevano piatte lungo il cranio. «C'è
qualcosa che non va. Sai che io i guai li avverto prima che vengano...»
«Khairi...»
«Rheif, guarda!» Whoris si era alzato a metà e stava puntando il dito. Io non vidi nulla, ma Rheif lanciò
una bestemmia. «Ai remi, presto. Remate più in fretta che potete».
«È impossibile andare più veloci», gemette Khairi. «Se almeno fossimo...»
Qualcosa sibilò attraverso l'aria. Khairi emise un gemito, e io vidi un ra-pido lampo argenteo mentre un
giavellotto trapassava da parte a parte il corpo dello stygiano. Khairi si toccò il petto con un'espressione
sorpresa, scivolò lentamente fuori della barca, e scomparve.
Sulle acque del fiume echeggiarono grida selvagge, e la luna scelse proprio quel momento per fare
capolino fra le nubi. Mi voltai e vidi che dietro di noi, vicine sin quasi a toccarci, c'erano due lunghe
barche cariche di guerrieri. I loro remi tingevano di bianco il filo della corrente.
SETTE
«Tarconii!» grugnì Rheif, e balzò attraverso il ponte per prendere il posto di Khairi ai remi. Vidi che aveva
ragione. Le corporature immense dei mercenari si stagliavano chiaramente sulla nave inseguitrice. I
raggi della luna ricamavano strane figure sulle loro corazze, e facevano, scintillare la punta delle corna e
le lame affilate delle loro armi.
«È stato un colpo fortunato quello che ha ucciso il povero Khairi», gridò
Rheif al di sopra della spalla. «Non sono così bravi col giavellotto!»
«Sono bravi abbastanza», risposi, ma Rheif non mi udì. I Tarconii gridavano, battevano con le spade sugli
scudi, ed erano sempre più vicini. Mi inchinai, mentre un'altra lancia mi sibilava sul capo.
«Non riusciremo mai a fuggire, con questa specie di tartaruga di mare», gridai allo stygiano. «Questo è
certo».
«E allora moriremo provandoci», fece Rheif. «Oppure... Ehi, che stai facendo, Venicii?»
Mi accorsi della sua espressione meravigliata, e gli risi in faccia. Mi ero chinato sul fondo della barca e
avevo tirato fuori l'arco e le frecce. «Stai tranquillo, non sono destinate a te. Se avessi voluto, ti avrei
potuto piantare dieci frecce nella schiena, mentre eri curvo sul remo! Purtroppo, attualmente c'è
qualcuno che le merita più di te, anche se mi costa ammetterlo». Presi una freccia e tesi la corda
dell'arco. Un altro giavellotto mi fischiò
accanto e fini in acqua, a pochi palmi di distanza dal remo di Whoris.
«Sei capace di colpire qualcosa con quel giocattolo?», chiese Rheif gravemente.
«Come pensi che mi sia guadagnati i miei stivali, stygiano?»
«Stai spingendo troppo, Venicii!»
«E tu stai spingendo troppo poco. Il remo, voglio dire. Datti da fare, o ci prenderanno». Presi la mira,
alzai un poco la freccia, e lasciai andare la corda. L'arco vibrò.
Un grido si levò dalla barca più vicina. Un'ombra enorme schiaffeggiò
l'aria, scivolò lentamente lungo la fiancata, e scomparve in acqua.
«Per gli dèi dei boschi!» Rheif guardava stupefatto al di sopra della propria spalla, la bocca spalancata.
«Se non l'avessi visto io stesso non ci avrei creduto!»
«Non sei tu che devi credere o non credere», risposi. «Sono i Tarconii che si devono convincere».
Incoccai un'altra freccia. La prima barca aveva rallentato il suo ritmo, mentre i Tarconii stavano
discutendo fra loro, evidentemente a proposito del mio colpo andato a segno. Chiaramente, erano privi
di un ufficiale che prendesse decisioni rapide, e questa indubbiamente per noi era una fortuna. Se ci
fosse stato un rhemiano a bordo, non avrebbe permesso che la velocità diminuisse, anche se fossi
riuscito ad abbattere metà dei rematori. Scagliai un'altra freccia, e la udii distintamente colpire il legno,
a un palmo dal bersaglio che avevo scelto. Per i Tarconii, tuttavia, era giunta comunque abbastanza
vicina, perché tutti si abbassarono sotto la fiancata. Provai di nuovo, e udii la freccia tintinnare su
un'armatura di metallo.
«Cerca di colpire i rematori, se ci riesci», disse Rheif col fiato grosso.
«Sono loro che finiranno per ucciderci, se continueranno a mantenere questo ritmo!»
Scossi la testa. «Ci sono sei rematori per barca, tre su ogni lato. Poi c'è
un uomo al timone, e solo due uomini che lanciano i giavellotti». Mirai, e vidi la freccia fare un arco al di
sopra dell'acqua. Un tarconio gettò la sua arma e cadde sul fondo della barca.
Risi nel vento. «Visto, stygiano? Adesso un rematore deve prendere il suo posto, e scommetto che non
c'è nessuno a bordo che sia troppo ansioso di farlo».
La seconda barca si era ormai affiancata alla prima. Due guerrieri scagliarono contemporaneamente il
giavellotto. Il primo ci passò sopra e cadde in acqua. Il secondo si infilò con gran fracasso nella tavola di
legno che mi separava dallo stygiano. Piovvero schegge tutto intorno, la barca vibrò, e pregai che la
punta non fosse riuscita ad aprire una falla nello scafo. Feci partire due frecce in rapida successione.
Nessuna delle due arrivò a segno, ma servirono a scoraggiare momentaneamente i mercenari.
La terra ormai era lontana, e i marosi scuotevano la barca come un turacciolo. Rheif e Whoris perdevano
tre lunghezze rispetto agli inseguitori per ognuna che ne percorrevano. Misurai la distanza fra la nostra
barca e quelle dei Tarconii. Gli scafi dei mercenari, agili e sottili, sembravano sof-frire il mare meno del
nostro. Avevo già visto vascelli del genere. Non erano di origine rhemiana né tantomeno tarconiana. La
loro forma era ricavata da quella delle navi dei Vikonen dell'estremo nord, che erano considerati i
migliori marinai del mondo: pari, se non superiori, ai Nicieani del Mar Meridionale. Ed ora quelle navi
stavano guadagnando terreno su di noi, accorciando le distanze ad ogni colpo di remo.
«Le cose... sembrano diventate... stranamente quiete», ansimò Rheif.
«Hanno imparato la lezione», risposi. «I guerrieri si tengono bassi e non ci perdono di vista. Lasciano che
i rematori lavorino per loro. I Tarconii non sono famosi per la loro intelligenza, ma in questo caso hanno
indovinato la tattica giusta. Aspetteranno di esserci sopra, prima di mostrare di nuovo il muso. E allora
sarà la fine».
Rheif non rispose, e per qualche istante potei sentire l'ansimare del respiro dello stygiano, e il debole
sciabordio dei nostri remi contro la strapotenza del mare. Non avevamo alcuna speranza di tener lontani
gli inseguitori. Ancora qualche minuto, e...
«Ti sono rimaste delle frecce, Venicii?»
«Quattro».
«Non le sprecare, allora, quando sarà il momento».
«Puoi contarci, stygiano».
«Che razza di fine... per me», sospirò Rheif. «Faticare sul mare... come uno... schiavo, mentre un Venicii
mi tiene i Tarconii lontani dalla schiena. Non è la morte da guerriero che avevo immaginato...»
«Piantala con i peana mortuari, e rema», gli feci. «Non sei ancora cadavere». Rheif emise una risata
cupa. «La tua follia è grande come la tua bravura di arciere, Venicii. Come ti chiami? Mi hai detto il tuo
nome una volta, a Silium, ma... l'ho dimenticato».
«Aldair».
«Già, ricordo. Un nome strano, ma non per la tua gente, suppongo. Sai che non posso... pronunciarlo. Se
lo facessi, e chiamassi per nome... un nemico... non sarebbe una cosa... decente».
I Tarconii erano ormai vicinissimi. Potevo sentire lo scricchiolare delle tavole delle loro barche, e
l'ansimare dei rematori. Con rabbia improvvisa, mi resi conto che non avevano fretta. Stavano
semplicemente giocando con noi, in attesa di coglierci come un frutto maturo.
«Non sarai disonorato a lungo, anche se pronunciassi il mio nome», risposi cupamente, e feci partire una
freccia all'indirizzo di un tarconiano troppo curioso. Il dardo si conficcò sul bordo della fiancata.
«Non potete remare più in fretta?»
«Per la verità, si fatica... un po' di meno», fece Rheif. «Per qualche ragione, lontano dalla riva il mare
sembra più calmo. Ma non siamo certo in grado di gareggiare con le onde, Venicii, se è questo che
intendi».
«So bene che state facendo del Vostro meglio», risposi, e mi voltai per guardare gli inseguitori.
«Venicii!» gridò Rheif. «Ti avevo detto che la nostra fine era vicina! Glidèi del mare hanno deciso di non
aspettare i Tarconii! »
Mi girai, e per un istante il mio cuore cessò di battere, poi riprese a ritmo serrato. Lo stygiano aveva
ragione. Un'immensa nube bianca e gelida stava scivolando verso di noi sul mare... una silenziosa coltre
grigiastra che già
inviava sottili tentacoli nella nostra direzione.
Rheif si appoggiò al remo e cominciò a cantare la sua canzone di morte. La sua voce mi riportò in me.
«Remate!» gridai. Mi chinai in avanti e tirai un pugno sulla schiena dello stygiano. «Accidenti a te, non
fermarti proprio ora».
«È inutile sfidare gli dèi», disse Rheif. Anche Whoris si era fermato. Immobile come una statua, aveva gli
occhi fissi davanti a sé, e aspettava la morte.
Dietro di noi, i Tarconii avevano ripreso in pieno l'attività. Una pioggia di giavellotti cominciò a cadere
intorno alla barca. Rheif sobbalzò, e riprese a battere l'acqua con il remo.
«Punta verso quella cosa», gli dissi. «Entriamoci dentro, e riusciremo a tornare a casa, stygiano».
«Nella casa dei nostri antenati, vuoi dire...»
«Quella cosa lì non ha nulla a che fare con gli dèi», risposi.
«Non è altro che nebbia. La stessa che ristagna nelle valli fra le nostre montagne, o aleggia sulle paludi.
Permette alle lepri di sfuggire ai cacciatori, amico mio, e anche a noi recherà lo stesso servizio!»
Feci partire una freccia. Poi un'altra. La prima andò a segno, ed ebbi la soddisfazione di vedere un
immenso tarconio, chiuso nella sua corazza a scaglie dorate, fissarmi stupito per un istante, e poi cadere
in mare con un dardo infilato sotto l'occhio sinistro.
La nebbia allungò le sue dita tentacolari per accoglierci, e quindi ci ingoiò, come fra due mascelle gelide.
Goccioline gelate si appiccicarono alla mia faccia. Rheif, in perfetto silenzio, cambiò il ritmo della
rematura non appena fummo fuori della vista degli inseguitori, ed io assecondai la virata con il timone,
piegando tutto a destra.
Lasciai incoccata nell'arco la mia ultima freccia. Rheif e Whoris si appoggiarono ansimanti ai remi, e tutti
rimanemmo ad ascoltare facendo meno rumore possibile. Era una sensazione stranissima. Come
fluttuare in una grande nube, alta sulla terra. Vista e udito non servivano più a nulla. Niente era
avvertibile, al di fuori del gelido respiro della nebbia che ci aveva avviluppati con le sue lunghe dita
grigie.
Dopo un po', lo stygiano si mosse verso di me, mi toccò lievemente, e puntò un dito. Osservai, e vidi una
forma scura scivolare senza un suono attraverso il biancore. Una nave fantasma con una ciurma
d'ombre. C'era, e poi non c'era più. Lasciai andare un respiro. Era passata così vicina che avrei potuto
toccarla spingendo fuori il mio arco. Pochi secondi dopo, passò
anche l'altra barca, più lontana e quasi invisibile.
«Sarà bene che ci spingiamo quanto più possibile a nord», sussurrai.
«Ma in silenzio. Potrebbero tornare indietro, e inoltre, se non facciamo nulla, la corrente finirà per
riportarci a riva».
Rheif annuì. Si voltò per toccare Whoris, ma si girò subito verso di me, con il volto cupo. «Whoris non c'è
più,» mi annunciò. «Il suo remo è macchiato di sangue, e c'è sangue su tutto il banco. Molto sangue,
Venicii. È
stato colpito da un giavellotto, ma ha continuato a remare finché ha potuto, senza dirmi nulla».
«Era un guerriero», feci, «ed è morto ridendo in faccia ai suoi nemici». È la frase con la quale i Venicii
salutano i morti in battaglia. Rheif non lo sapeva, ma capì lo stesso che avevo onorato il gesto del
fratello.
«Grazie per quello che hai detto», fece alla fine. «Penso che non sia più
vergogna per me chiamarti col tuo nome, ormai. Perché, malgrado ciò che c'è sempre stato fra le nostre
due razze, sarà difficile per me d'ora in poi considerarti un nemico. Vieni, Aldair dei Venicii. Dovrai
macchiarti nuovamente le mani di buon sangue stygiano, perché toccherà anche a te sederti al remo...»
Dopo aver trascorso metà della notte in mare, compresi che non c'era alcuna speranza di capire dove ci
trovavamo. Nel mezzo del nulla, è impossibile individuare le direzioni. È impossibile tener conto dei
continui mutamenti della corrente che influenzavano la nostra rotta. Potevamo essere a miglia dalla
costa, oppure a ridosso del bagnasciuga.
«Per ora, non è importante sapere dove siamo», disse Rheif. «Nessuno può vederci, e questa già è una
fortuna insperata. Tuttavia, nella foresta la nebbia si alza nelle prime ore del mattino, ed è probabile che
sul mare succeda la stessa cosa. Mi auguro che il sole-padre ci trovi in un posto opportuno, quando i
suoi raggi denuderanno nuovamente le acque del mare...»
Cercammo di dormire a turno, anche se dopo qualche ora dovemmo ammettere che nessuno dei due
era riuscito a chiudere occhio.
«Rheif», dissi alla fine. «Mi sembra di scorgere una certa luminosità in mezzo alla nebbia».
Lo stygiano annuì. «Evidentemente, il sole l'ha toccata». Annusò l'aria, e raggrinzì la punta del naso. «C'è
una brezza. Si sta appena levando». Strappò un pelo dal suo mantello e lo fece cadere. Scese verso il
fondo della barca con una leggera angolatura rispetto alla verticale. «È ancora leggera», disse Rheif, «ma
presto rinforzerà». Mi guardò, ed annuii. Durante tutta la notte non avevamo avuto segno dei Tarconii,
ma questo non voleva dire che non potessero essere vicini. Se fossero stati in vista una volta levatasi la
nebbia, non ci saremmo trovati in condizioni migliori della notte prima. Allora, in poco tempo ci avevano
quasi raggiunti, e non c'era motivo per credere che ora saremmo riusciti a fuggire. Cercai di ingegnarmi
come meglio potevo, nel massimo silenzio, con le tele e il sartiame che costituivano la velatura della
barca: tutte cose che mi erano perfettamente sconosciute. Rheif era fermo a guardarmi. «È stata una
lunga notte», disse. «Non me ne ricordo una più lunga».
«Il giorno, invece, potrebbe essere considerevolmente più corto», feci io,
«se non riusciremo ad imparare all'istante l'arte della navigazione. Sciaguratamente, ho paura che non
avremo molto tempo per mettere alla prova la nostra abilità».
Rheif emise una risatina tirata, e guardò verso il mare mentre io cercavo di capire le funzioni di un pezzo
di corda che sembrava importante ma che, per quanto vedevo, non serviva a niente in particolare.
«Abbiamo bisogno di una bandiera, Aldair», fece Rheif solennemente.
«Non mi pare corretto alzare le vele senza averne una».
Non alzai gli occhi dal mio lavoro. «Secondo me, la tua pelliccia andrebbe benissimo», dissi.
«Prenderebbe il vento e garrirebbe in modo molto soddisfacente».
«Non scherzare su cose del genere», fece Rheif nervosamente. «I Tarconii potrebbero sentirti».
«Oh, sono certo che l'idea è già venuta anche a loro...»
«Hmmmph. Sarebbe proprio una splendida vista. La mia pelliccia che si agita al vento, e la tua dolce
testolina rosa infilata in cima all'albero maestro. Proprio...»
Lo interruppi. La nebbia stava scomparendo rapidamente. Dinanzi a noi apparve una larga chiazza di
mare azzurro-verde. Poi un'altra.
«Inutile parlare a bassa voce, ormai», feci. «Aiutami a mettere insieme questa maledetta roba. Ho
lasciato per ultima la parte più rumorosa del lavoro». Malgrado ciò, mi mordevo la punta della lingua,
mentre Rheif tirava le corde al modo che gli avevo detto, e gli anelli di ottone cigolavano salendo su per
l'albero e spiegando la vela.
«Non mi sembra un gran che», disse Rheif in tono cupo. «Pende giù
come un sacco floscio».
«Ancora per poco», lo rassicurai. «Si sta alzando il vento.»
La nebbia si diradava ormai molto rapidamente, la luce aumentava, e intorno avevamo sempre più mare
aperto. Presi posto a poppa della barca, cercando di far finta di sapere ciò che si doveva fare.
All'improvviso, la cortina di nebbia si divise in due, e fece irrompere i raggi del sole.
«Eccoli là!» gridò Rheif. Strinsi gli occhi nella luce, e scorsi i due vascelli dei Tarconii. Erano diverse
centinaia di metri più a sud, l'uno vicino all'altro. Anche loro ci scorsero, e cominciarono a battere sugli
scudi e a lanciare grida selvagge.
«Aldair», disse Rheif solennemente, «fa' qualcosa».
«Ci sto provando». Il gran telone grigio pendeva immobile, come biancheria appesa ad asciugare. C'era
un po' di vento, ma la vela non faceva alcuno sforzo per catturarlo. I Tarconii si misero ai remi e
cominciarono a battere l'acqua.
«Non capisco che cosa sta succedendo», feci.
«Forse non hai sistemato bene le vele».
«Per forza, dato che non funzionano», risposi. «Vuoi provare tu?»
«No, grazie», disse Rheif. «Gli Stygiani non sanno niente di quest'arte».
«Mentre i Venicii, com'è noto, sono nati sull'acqua», risposi in tono cupo. «Non capisco...»
Guardai verso il mare, e il mio stomaco si contorse. I Tarconii avevano già dimezzato la distanza che ci
separava.
«Pensi che sia meglio cominciare a remare?», suggerì Rheif.
«Sarebbe inutile».
Qualche giavellotto cominciò a cadere nei nostri paraggi.
«Allora, abbiamo passato una lunga notte inutilmente».
Non risposi nulla.
«Ti rimane soltanto una freccia?» chiese Rheif.
«Sì».
«Temo che non sarà sufficiente», annunciò lo stygiano.
Lo guardai, e scossi la testa. La spuma si alzava intorno alle fiancate delle barche alla nostra caccia,
mentre la vela continuava a pendere inerte. Lasciai cadere le corde, e afferrai l'arco.
Bene, ormai siamo alla fine, pensai. E una fine vale l'altra, quando laconclusione è la morte. Dietro di
me, lo stygiano aveva tratto dalla cintura una lunga spada dall'aspetto terribile. Incoccai la mia ultima
freccia, e attesi. E, all'improvviso, i Tarconii smisero di battere sugli scudi. Le due barche rallentarono,
poi si fermarono del tutto. Rivolsi a Rheif uno sguardo interrogativo. Lui mi fissò, e scosse la testa. Non si
sentivano più grida sul mare. Poi i timonieri invertirono la rotta, e i rematori ripresero a battere l'acqua.
I due vascelli sembravano fare a gara per vedere chi si allontanava più in fretta.
«C'è qualcosa di molto strano in tutto ciò», fece Rheif. «Mi pare difficile che la nostra vista abbia
instillato un tale terrore nei loro cuori».
«Qualcosa però l'ha fatto», risposi io. Come Rheif, ero più che meravigliato per l'improvvisa fuga dei
Tarconii. Alzai lo sguardo e fissai la vela, che continuava a pendere inerte, senza far nulla. La brezza la
faceva oscillare lievemente, come una camicia bagnata. Abbassai lo sguardo e lo spinsi verso il banco di
nebbia, lontano alla nostra destra. Il sole lo aveva ormai quasi del tutto cancellato, e... Sbarrai gli occhi, e
mi afferrai alla fiancata. Una lama gelida mi si piantò
alla base della spina dorsale. Non c'era bisogno che qualcuno mi dicesse il nome di ciò su cui si erano
posati i miei occhi. Rupi grigie ricoperte di fogliame nero e smorto. Il sole alto nel cielo, ma nessuna luce
che riuscisse a toccare la desolata linea della spiaggia...
Albion, certamente. E distante non più di una lega...
OTTO
«Ecco la risposta, dunque», feci, incapace di staccare gli occhi da quel panorama desolato. «I Tarconii ci
hanno lasciati andare perché non volevano offendere i morti». Rheif studiò l'isola oscura. «Ho sentito
parlare di questa Albion. Non mi sembra un posto piacevole, anche se diversamente da te io non ne ho
paura». Mi voltai a guardarlo. «Non è vergogna temere Albion, Rheif. Non è la stessa cosa della paura in
battaglia, e non fa perdere l'onore. Inoltre, è meglio che tu non irrida il Creatore mentre siamo così
vicino al suo regno: Senza dubbio ha un udito piuttosto fine».
Rheif aggrottò le sopracciglia, e si massaggiò la folta pelliccia grigia sopra il petto. «Aldair», disse alla
fine, «non voglio essere irrispettoso: ma quella è l'isola dei tuoi morti, non dei miei».
«Come?», lo fissai. «Che cosa vuoi dire?»
«Semplicemente», rispose Rheif tirando su col naso, «che è molto difficile che ci siano anime di Stygiani
a razzolare su quella spiaggia». Certe volte, gli Stygiani sanno essere molto irritanti. Senza considerare i
loro altri innumerevoli difetti, basterebbe questo a farne nemici di sangue degli Eubironi.
«In un certo senso, hai ragione», risposi. «Gli Stygiani sono idolatri, e quindi esiliati da Albion. Alcuni
però dicono che il Creatore è misericordioso, ed occasionalmente permette a qualche pagano
particolarmente meritevole di calpestare le sue spiagge. Non è però una cosa a cui credano in molti.
Anzi, come opinione è piuttosto impopolare. Per parte mia, io non la condivido affatto!»
Rheif sorrise, mostrando i denti. «Io non intendevo dire che noi ci sentiamo esiliati da qualcosa, Aldair.
Volevo solo dire che gli Stygiani defunti non si sognerebbero mai di dividere l'aldilà con il char'desh.
Sarebbe ridicolo e indecente». Sentii il sangue salirmi alla faccia. Conoscevo il termine, ovviamente.
Khairi, l'amico di Rheif, l'aveva usato spesso il giorno prima. Non è una traduzione del termine che indica
la mia razza, o i Venicii, o qualche altra cosa del genere. Significa semplicemente carne da fare arrosto.
«Vedo che ti sei offeso», sospirò Rheif. Allargò le lunghe braccia. «Non dovevi».
«No. So che non intendevi offendermi».
«E poi, quello che ho detto è logico, Aldair».
«No che non è logico. C'è un solo Creatore. È lui il responsabile della nascita di tutte le creature».
«Allora, ha fatto anche gli Stygiani?»
«Naturalmente».
«In questo caso, spiegami perché li ha esiliati da Albion».
«Come...?» Lo fissai, sconvolto.
«Ho detto...»
«Ho sentito benissimo quello che hai detto. E c'è una semplice, logica risposta. Gli Stygiani sono pagani
idolatri. Non sono figli della Chiesa».
«Ma se fossimo figli della Chiesa, le nostre anime passerebbero in Albion?»
«Certo».
Rheif ghignò e scosse la testa. «Aldair. Dimmi la verità. Che cosa pensi che farebbero i tuoi Buoni Padri
se io entrassi in quella bella cattedrale di San Bellium, che potevo ammirare così bene dalla mia gabbia,
e dicessi che non voglio più essere 'idolatra'? Che voglio unirmi ai fedeli che vedo entrare ogni mattina
per la funzione? E supponi che io porti con me un centinaio di guerrieri, femmine e cuccioli?»
Fissai Rheif, sempre più sconvolto dalla sue parole. Un'orda di Stygiani dentro San Bellium? Era quanto
meno un pensiero terrificante. Anzi, osceno. Tutti sapevano che gli Stygiani non hanno alcun desiderio di
unirsi alla Chiesa. E poi, capivo bene quello che Rheif stava cercando di fare. Aveva preso le mie parole,
e le aveva ritorte contro di me: un gioco nel quale gli Stygiani sono maestri. Siccome io avevo detto che
il Creatore ha dato vita a tutte le cose, lui ne ha dedotto che tutte le anime, indistintamente, avevano
diritto al passaggio in Albion. Un ottimo sillogismo: se non fosse per il fatto che, ovviamente, non tutte
le anime hanno lo stesso peso di fronte al Creatore. Era la stessa argomentazione che aveva messo in
pericolo il collo di Mastro Theon. Ma non aveva senso discutere di religione con uno stygiano, che in
proposito non ne sa nulla. Chiaramente, io non condividevo tutti gli insegnamenti della Chiesa; ma ci
sono alcune verità fondamentali che persino un individuo accusato di eresia può condividere con i Buoni
Padri.
«Risparmiati di pensarci su», fece Rheif. «Stai pur tranquillo che non ho alcuna intenzione di marciare su
Silium per incontrarvi il tuo Creatore».
«Ci ragioneremo meglio inseguito», gli promisi, anche se non avevo alcuna intenzione di tornare
sull'argomento.
«Non ce ne sarà alcun bisogno», mi assicurò. «Vedi, temo che gli Stygiani e... la tua gente non andranno
mai d'accordo, neppure dopo morti. Anche nell'aldilà continueranno a combattersi, proprio come ora».
«No. Non ci sono battaglie in Albion».
Rheif torse il naso e spalancò un occhio color della brace. «Niente battaglie? E la gente che cosa fa?»
«Ci sono altre cose da fare, oltre alla lotta».
Rheif lanciò un'occhiata sospettosa ad Albion. «Non per gli Stygiani, sicuramente».
«Per esempio, c'è lo sport del remo», suggerii.
«Non mi diverte molto», rispose Rheif cupamente.
«Forse il Creatore mette a disposizione degli sportivi trapassati delle piccole barche...»
Rheif mi lanciò uno sguardo di disgusto e mi voltò le spalle.
Per un po', il mare continuò a portarci pericolosamente vicini alle coste di Albion. Rheif non si curava
troppo della cosa; al punto che si sdraiò sul tetto della piccola cabina di cui era munita l'imbarcazione, e
cominciò a sonnecchiare al sole. Io ero scandalizzato dal suo atteggiamento. Lo stygiano, tuttavia,
ribatté che, siccome tutto dipende dalla volontà del Creatore, le nostre azioni contavano ben poco. E se
il Creatore aveva deciso di farci naufragare contro le scogliere della sua isola, c'era poco da fare; né io né
lui saremmo stati in grado di opporci alla sua volontà. In un certo senso, aveva ragione. Remare, in
acque così turbolente, sarebbe stato inutile. Le correnti erano capricciose e senza dubbio indifferenti
alla nostra sorte, e ci spingevano di qua e di là senza ragione. Così, l'unica cosa che potessi fare era
tentare ancora una volta di sciogliere l'enigma costituito dall'intrico di corde e teli, e impadronirmi
dell'arte della navigazione prima che Albion ci attirasse a sé, o un'onda più alta delle altre ci facesse
rovesciare colandoci a picco. L'ombra dell'isola tenebrosa mi metteva pesantemente a disagio, ed ero
ansioso di allontanarmi. Certe volte, mi sembrava di udire i gemiti delle anime dei morti portati dal
vento. Tuttavia, l'arte della vela continuava ad eludermi. Non riuscivo a immaginare perché
l'armamentario di bordo fosse disposto nel modo in cui era. Supponiamo - mi chiesi - che uno non
voglia andare nella direzione in cui soffia il vento. Deve rinunciare al suo proposito? Deve aspettare che
soffi un vento che vada nella direzione giusta per portarlo a destinazione? Chiaramente - decisi - non
poteva essere così. Ben poche persone si dedicherebbero a un'arte così poco affidabile. Di certo c'era
qualcosa che mi sfuggiva.
Una volta, in seguito a una serie di miei tentativi pressoché a casaccio, la grande vela balzò in vita e si
gonfiò improvvisamente d'aria. La lunga sbarra orizzontale che reggeva la vela alla base dell'albero ruotò
improvvisamente intorno a un'estremità e spazzò via Rheif dal tetto della cabina, fa-cendolo quasi
cadere in acqua, la barca sobbalzò, e si inclinò paurosamente. All'ultimo momento, liberai la corda
giusta e il battello si rimise diritto. Ancora un attimo e ci saremmo rovesciati in mare.
Rheif, pallido sotto la pelliccia e coperto di spruzzi d'acqua salata, mi avvertì solennemente di sperare
che io non facessi di nuovo niente di simile. Alla fine, una corrente più rapida delle altre afferrò la barca
e cominciò a portarla lontano da Albion. Poco prima del tramonto, l'isola tenebrosa era soltanto
un'ombra scura sull'orizzonte occidentale. Dopo un po' ci ritrovammo verso la costa dalla quale eravamo
partiti, e non appena fu buio, ci parve di scorgere terra e di vedere le deboli luci di una città, o di un'altra
barca.
«Ho una gran sete, Aldair», mi annunciò Rheif. Il sole era scomparso, e le prime stelle occhieggiavano
nel cielo verso oriente.
«Non ne dubito», dissi.
«E ho anche molta fame».
Lo guardai.
«Mi piacerebbe una bella lepre, Aldair, o un galletto arrosto», aggiunse sobriamente.
«In mare non troverai né l'una né l'altro», lo informai. «Perché non cerchi di prendere un pesce?
Sarebbe una cosa utile». Rheif guardò con scarso interesse le acque nere come l'inchiostro. «Mai preso
un pesce fino ad ora».
«Mi sembra il momento migliore per cominciare».
L'idea crebbe a poco a poco nella mente di Rheif, e alla fine parve interessarlo. Trovò una corda sottile
sul fondo della barca, e mi chiese di piegare la punta della mia ultima freccia, in modo da trasformarla in
un amo. Protestai vivacemente, affermando che in futuro avremmo potuto rimpiangere quell'ultima
freccia. Alla fine, accettai di sacrificare al suo posto il fermaglio che allacciava il mio mantello.
«Impossibile prendere pesci», annunciò a questo punto Rheif. «Non abbiamo esca, e mi risulta che i
pesci la considerino un accessorio indispensabile».
«Non guardare me», feci.
«Dubito che i pesci ti gradirebbero. Inoltre, sei troppo grosso per la bisogna». Dopo varie lamentazioni,
si fabbricò un'esca finta con un ciuffo dei propri peli e un filo di tessuto tolto dalla giacca. Me la mostrò,
e sembrava molto orgoglioso della sua abilità. Più tardi qualcosa abboccò all'a-mo, ma quando lo
stygiano cercò di portare a bordo la preda, tirò troppo forte e la lenza improvvisata si spezzò in due.
«Che schifo di corda», mormorò. «Doveva essere un pesce grossissimo, Aldair. Ne sono sicuro dal modo
in cui tirava».
«Non lo sapremo mai, risposi».
La brezza notturna era lieve, e ciò mi convinse a riprovare la difficilissima arte della vela. Inizialmente
Rheif si oppose con tutte le forze, ma finì
per convincersi quando gli ricordai che la nostra unica speranza di trovare del cibo stava nel ritorno sulla
terraferma.
Stavolta fui molto più cauto, ricordandomi l'incidente che mi aveva indotto a desistere. Ricordavo anche
un'altra cosa. Quando quella brezza improvvisa per poco non ci aveva rovesciati presso Albion, il vento
non soffiava dalle nostre spalle. Veniva da destra, da sud-est, ci aveva colti e fatti girare in circolo,
spingendoci quasi contro il vento stesso. Era una considerazione interessante: il vento poteva essere
fatto lavorare per noi, se si trovava il modo di indurlo a collaborare, invece di lottargli contro. Mentre
Rheif dormiva, cominciai con pazienza a fare esperimenti, provando prima una cosa, e poi un'altra.
Imparai che l'arte della vela consisteva essenzialmente nell'abilità di catturare il vento ad una certa
angolatura particolare, manovrando nel contempo il piccolo timone sul retro della barca. Anche quando
il vento non soffiava esattamente da dietro, ci si poteva muovere nella direzione voluta semplicemente
facendo un percorso a zig zag sull'acqua, invece di voler proseguire per forza in linea retta. Quando la
prima consistente brezza mattutina cominciò a gonfiare la nostra vela, quasi mi dimenticai di essere
stanco, assetato e affamato. Cominciai a dirigere la barca rapidamente sul mare e, osservando le onde
verdi trasformarsi in spuma sotto la mia chiglia, provai una sensazione di libertà
quale non avevo mai provato prima.
Lì nel mare aperto - pensavo - un uomo poteva finalmente troncare gli infiniti legami che
ineluttabilmente lo legavano agli altri. Pensai ai burattini di legno sulla piazza del Mercato, a Silium, e
risi. Non tirerete mai più i miei fili, burattinai! Non mi importa più nulla di voi, chiunque siate, compreso
l'Altissimo Padre della Chiesa e l'Imperatore. Aldair dei Venicii è libero, ha la sua barca con una vela che
cattura il vento... in qualsiasi direzione soffi!
«Penso che ora vorrai essere chiamato capitano», disse Rheif, quando si svegliò e vide quello che ero
riuscito a fare.
«Mi sembra giusto. Quanto meno, dovresti chiamarmi Mastro delle Vele». Rheif cominciò a brontolare
fra sé. «A questo punto, non può capitarmi niente di peggio. Mi è già successo tutto. I miei fratelli sono
morti, sono arrivato al punto di chiamare un Venicii per nome, e il mio prigioniero è
Mastro delle Vele. Che altro potrebbe succedermi?» Mi guardò con la bocca spalancata. «Dove giudichi
opportuno concludere il nostro viaggio?
Sempre che sia una domanda lecita per un semplice passeggero».
«Pensavo di andare verso sud. Là, in lontananza, puoi vedere la costa. Dopo Albion, naturalmente, c'è
solo il Termine del Mondo, che ormai non deve essere lontano. Ma a sud potremo prendere terra senza
pericoli, durante la notte, e cercare cibo e acqua». Rheif mi guardò. «Siamo entrambi nativi del nord,
Aldair. E tu ci stai portando sempre più lontano da casa. Che cosa può esserci di buono, per noi, al sud?»
«In primo luogo», spiegai, «l'assenza di soldati rhemiani e di vascelli tarconiani. Le coste settentrionali
sono piene di città, porti e navi. Il fiume lungo il quale siamo discesi non è grande, e ci avvisterebbero
facilmente. E poi, anche se riuscissimo a prendere terra da qualche parte senza essere visti, dubito che
riusciremo a farci strada per tutto il continente, o quasi, fino alle province settentrionali, e più oltre
ancora, fino alle tue terre. Io potrei, forse. Ma da queste parti non hanno mai visto uno stygiano,
anche se ne hanno sentito parlare. Dubito che saresti il benvenuto». Rheif rimase in silenzio per un
lungo momento. Scrutò la linea di costa, in lontananza, si grattò accuratamente, poi mi diede uno
sguardo imbarazzato. «Quello che hai detto è veramente straordinario, Aldair», fece in tono solenne.
«Perché mai un Venicii dovrebbe preoccuparsi se uno stygiano riesce o no a tornare a casa?»
«Hai ragione», ammisi, «ho detto veramente una cosa fuori dell'ordinario».
«Siamo sempre stati nemici».
«Vero».
«Non abbiamo nulla in comune».
«Non è vero. Per esempio, noi dividiamo la fame, la sete e una taglia sulle nostre teste».
«Tuttavia», ragionò Rheif, «malgrado il fatto che il nostro sangue dovrebbe ribollire al solo pensiero, è
possibile che siamo temporaneamente utili l'uno all'altro».
«Temo che sarà così per un bel pezzo. Non credo che rivedremo le nostre case molto presto, Rheif. E,
parlando per me, anche se intendo tornare al nord prima o poi, attualmente non ho molta fretta di
farmici vedere». Rheif apparve sorpreso. «No? E che cosa vorresti fare, invece?»
«Cogliere l'occasione che il destino mi offre, e vedere ciò che c'è da vedere».
«Andando a sud».
«Sì. Per il momento, almeno».
Rheif sprofondò nel silenzio, e io mi concentrai sulle onde. Pensavo al nord dov'era la mia casa, e al sud,
dov'erano le terre che non avevo mai visto prima. Strano, mi dissi. Il mio successo nell'impadronirmi
dell'arte della vela mi aveva fatto nascere nel cervello sogni di libertà: ma in effetti, l'idea di
avventurarmi così lontano da casa sorprendeva me almeno quanto Rheif. Il pensiero mi era venuto solo
un istante prima di manifestarlo ad alta voce. Non era poi un desiderio così fuori del comune, in fondo.
Di certo, non era la prima volta che il mare aveva acceso la fantasia e lo spirito di avventura di un
giovane.
Più tardi, però, mi sdraiai sul fondo della barca e mi misi a guardare le stelle. Erano bianche e fredde,
come milioni di schegge di ghiaccio incastonate nel cielo nero. Ed un altro pensiero si affacciò alla mia
mente. Scivolò nella mia coscienza silenzioso come un uccello notturno che torna al suo nido, e mi rizzai
in piedi, meravigliato che fosse lì, chiaro e netto. Ungiorno, diceva il pensiero, alzerò nuovamente la
vela verso Albion. Di più: nella mia mente, vidi con lucidità me stesso mentre camminavo sulla spiaggia
proibita.
Quel pensiero mi procurò un brivido di gelo, e tramutò il mio sangue in ghiaccio. Perché mai avrei
dovuto fare una cosa simile? Nessun uomo sano di mente avrebbe mai desiderato di metter piede, da
vivo, in un posto simile!
Eppure, io sapevo con ferrea certezza che sarebbe stato così. E mi chiesi se, in fondo, ero davvero
riuscito a sfuggire all'invisibile burattinaio. Se davvero, nella trama dell'esistenza, non c'era ancora un
filo destinato a me, e a me soltanto.
Perché persino i nostri pensieri, talvolta, si presentano alla mente senza che noi li abbiamo chiamati né
sollecitati, e ci incatenano a un destino che, da soli, non avremmo mai voluto tracciare per noi stessi...
NOVE
Quando uscii dalla macchia di vegetazione che copriva la bassa collinetta, scorsi la debole luce del fuoco
schermato con cura; mi fermai un istante al riparo, quindi uscii all'aperto.
«Mi pareva avessimo deciso che accendere un fuoco non sarebbe stato prudente».
Rheif mi fissò, con gli occhi resi ancor più rossi dai bagliori delle fiamme. «È vero, non è prudente»,
ammise. Si tolse qualcosa che era rimasto incastrato fra i denti aguzzi, e si pulì il muso con il dorso della
mano.
«Tuttavia», aggiunse facendomi segno di sedere, «non è cosa degna di persone civili mangiare la carne
cruda. Solo i barbari lo fanno. Ti ho messo da parte una lepre arrosto. È ancora calda. Tu che cos'hai?»
Lasciai cadere il mio bottino, e frugai allegramente fra le braci, dove la lepre era conservata, avvolta in
foghe d'alloro. La carne emanava un buon profumo, e dopo il primo boccone, il mio stomaco cominciò
gradevolmente a liberarsi della sensazione di vuoto. La mia razza non ama la carne quanto gli Stygiani,
che di rado mangiano altro, se pure lo fanno. Noi ci nutriamo soprattutto di frumento, verdure e frutta,
e preferiamo queste cose. Tuttavia, un buon arrosto di lepre, pollo o pesce ci è gradito nelle occasioni
speciali. Divorai la carne calda fino all'osso, e non chiesi allo stygiano come aveva fatto a catturare due
bei leprotti grassi, al buio e senza armi né trappole. Non ero troppo sicuro di volerlo sapere.
«Io non ho trovato gran che», gli dissi indicando il mio bottino. «Qui intorno non ci sono molti posti dove
rubare. Sull'altro lato della collina c'è
una fattoria, ma è deserta. Per l'esattezza, l'hanno bruciata. Ho portato via due otri. Se ci andiamo piano
ciascuno potrà fornirci acqua per due giorni». Allungai la mano. «Ho anche colto una manciata di cipolle
selvatiche. Non sono male. Ero così affamato che ne ho mangiate un paio mentre erano ancora
attaccate a terra. E intanto tu facevi festa su una lepre arrosto». Rheif guardò con aria sbigottita le
cipolle, e poi voltò il naso dall'altra parte.
«Piante», disse. «Voialtri mangiate sempre piante e cose che nascono dal fango. Non è cibo adatto per
uno come te, Aldair».
Lo ignorai, e cominciai con ostentazione a mangiare alternativamente un po' di lepre e un po' di cipolle.
«Stavo pensando ad una cosa», fece lo stygiano mentre attizzava il fuoco. «Io non condivido la tua
grande passione per l'acqua, e mi pare che se per caso la barca si rovesciasse mentre viaggiamo per
mare, moriremmo in uno dei modi più sgradevoli che io riesca ad immaginare».
«Vero».
«Invece, sulla terra, saremo sempre sicuri di aver suolo ben saldo sotto le scarpe».
«E molti nemici sulla nostra strada», aggiunsi.
«Senza dubbio. Ma uno stygiano sa come affrontare i suoi nemici, sulla terra».
«Rheif», feci, chinandomi verso di lui, «che cosa stai cercando di dirmi?
Che non vuoi continuare il nostro viaggio? Che vuoi tentare di arrivare al nord a piedi?» Scossi la testa.
«Così, non riusciremmo mai a raggiungere le nostre case».
«Questo non puoi affermarlo con sicurezza».
«Devi comunque ammettere che è molto improbabile che ci riusciamo. È
una cosa che sai anche tu».
«Ma a me le barche non piacciono», fece Rheif, ostinato.
«Davvero? Debbo ricordarti che è la tua barca? Che sei stato tu ad avere per primo l'idea di
trasformarci in marinai? Io mi ero sdraiato sul ponte solo per dormire, quando tu mi hai catturato».
Rheif fece un gesto d'impazienza. «Sai anche tu che io avevo intenzione soltanto di procurarmi un mezzo
di fuga momentaneo, e nulla di più. Non mi è mai venuto in mente di praticare l'arte marinara come
professione stabile».
«Ma noi stiamo facendo proprio quello che volevi tu», feci io. «Siamo in fuga».
«Sì. Nella direzione sbagliata».
Scossi la testa; mi allontanai dal fuoco e mi avvolsi nel mantello fino alle orecchie.
«Ciascuno deve fare ciò che gli piace di più», dissi sbadigliando. «Frugherò castelli e ville in cerca della
tua pelliccia, quando tornerò dall'aver visto il mondo. Ma non ti annoierò con il racconto delle mie
avventure, dato che dubito ti interesserebbero, nella tua nuova veste di scendiletto». Rheif rimase in
silenzio. Ma qualche tempo più tardi mi svegliò, e mi chiese che genere di cose potevamo aspettarci di
vedere, in giro per il mondo.
«Rheif», risposi con la voce impastata di sonno, «come posso saperlo?
Non ci sono ancora stato».
«Sì, ma tu hai studiato all'Università», insistette lui. «Devi aver imparato qualcosa, su quanto c'è nel
mondo».
«È vero. Ho imparato una cosa. Ho imparato che è meglio accontentarsi di quello che si ha, senza andare
alla ricerca di nuove conoscenze». Rheif abbassò la mascella in segno di delusione.
«Va bene», gli feci, alzandomi a sedere. «C'era una mappa, ricordo, nello studio di Mastro Pelian. A
nessuno era permesso di toccarla, ma si poteva osservarla a una certa distanza, e prendere appunti».
«E allora?»
«Per la maggior parte, segnava i confini dell'Impero Rhemiano. In rosso. Buona parte del mondo è
rossa».
«Stygia no», fece Rheif cupamente.
«No. Stygia no. E c'erano altre aree ancora non conquistate». Chiusi per un attimo gli occhi, cercando di
ricordare. «C'è una grande estensione di territorio, proprio a sud della zona in cui ci troviamo ora. È la
terra natale dei Tarconii. Ci gireremo attorno, e poi ci dirigeremo verso est, attraverso lo stretto
passaggio che divide questo continente da quello che si trova sotto di esso. Poi, saremo nel Mar
Meridionale».
«E che cosa c'è nel Mar Meridionale».
«Sulle sue coste settentrionali», gli dissi, «ci sono le terre in cui siamo ora, e le regioni che conosciamo».
«E a sud? Tu hai parlato di un altro...»
«Continente? È una terra oscura, e ne so molto poco. So che appartiene ai Nicieani, che sembra siano
un'altra razza, diversa da te, da me, dai Tarconii o dagli schiavi Cygnani. Pare che la loro pelle sia verde e
brillante, e scagliosa come un'armatura. Vivono in una regione piena di sabbia e priva d'acqua, e non
possono essere conquistati, neppure dalle Legioni rhemiane. Tutto ciò potrebbe essere vero, ma
potrebbe anche non esserlo. C'erano poche
informazioni su
Niciea sulla mappa, e io non ho mai parlato con nessuno che abbia mai realmente visto un nicieano.
Può darsi che quanti hanno avuto a che fare con questa razza non abbiano piacere a parlarne». Rheif mi
fissò, con gli occhi rossi che brillavano nei riflessi del fuoco.
«Aldair», disse alla fine, «ora capisco che cosa intendevi parlando di cercare l'avventura e vedere cose
nuove in paesi nuovi. Tu vuoi che noi navighiamo al di là di un lembo di terra nel quale vivono i Tarconii,
di cui certo conservi un vivido ricordo. Poi vuoi dirigerti, nella nostra piccola barca, nel Mar Meridionale
(sempre che a quel punto siamo ancora vivi): un mare che su una sponda è governato dai Rhemiani, e
dall'altra da certe terribili creature verdi con la pelle simile a scaglie corazzate». Scosse la testa. «Ho
sentito parlare di queste creature anch'io, e non sono del tutto sicuro che esistano. Penso di no, ma non
ho il minimo desiderio di accertarmene». Mi lanciò un'occhiata di disgusto, e si girò verso il fuoco. «Se
non sarò più qui domattina, parti pure sulla tua barca senza aspettarmi, Aldair...»
Nei quattro giorni successivi la costa rimase identica, e fummo favoriti da mare calmo e venti propizi. Io
mi divertivo, mentre Rheif brontolava che di giorno in giorno ci allontanavamo dalle foreste del nord e
dai ruscelli gelati che le attraversavano, e che - secondo lui - erano le uniche distese d'acqua adatte a un
uomo. Non avemmo alcun problema per trovare posti in cui accamparci di notte. Le poche città costiere
che avvistammo nella nostra rotta erano piccole, e facilmente superabili. Qualche volta incrociammo
alcuni battelli, in gran parte dediti alla pesca lungo le coste. Una volta incrociammo addirittura una flotta
di tozzi e panciuti pescherecci. Ciascuno alzava larghe vele gialle con dipinte su le figure di diversi pesci.
A Rheif non piaceva l'idea di incontrare altri vascelli, ma gli assicurai che fino a quando ci tenevamo
abbastanza lontani da impedire di distinguere chi c'era a bordo della nostra barca, eravamo al sicuro.
Il quinto giorno superammo uno degli alti promontori rocciosi che apparivano con una certa frequenza
su quel tratto di costa. Non era differente dagli altri, ma subito dopo la sua punta ci si parò alla vista una
bianca città
scintillante. Era grande all'incirca quanto Silium, ma molto più bella di quel conglomerato di vicoli, cortili
e catapecchie che avevo abbandonato senza rimpianti. Le verdi pendici di una collina che si alzava subito
dietro il porto erano punteggiate di ville rosa, gialle e azzurre. Sui tetti coperti di tegole rosse
spuntavano ciuffi di fiori multicolori.
Malgrado la bellezza della città, un particolare gelò il nostro interesse. Chiaramente, in giro c'erano
numerosi soldati rhemiani. I loro vessilli dorati si agitavano nella brezza, e tra i molti vascelli ancorati nel
porto c'erano due enormi navi da guerra rhemiane: terrificanti forme scure con tanti banchi di remi che
non riuscii a contarli. Sul ponte di ciascuna di esse si levavano alte torri di legno irte di macchine da
guerra. Dalla prua spuntava un ariete scolpito in forma di squalo, e dalle fiancate potevo vedere i mec-
canismi di potenti catapulte e di baliste cariche di proiettili. Col cuore in gola, ci affrettammo a superare
il porto. Una delle grandi navi alzò le vele rosso sangue e si mosse poderosamente dietro di noi. Non mi
guardai indietro, mentre manovravo le vele, ma potevo quasi sentire l'ombra tenebrosa del mostro alle
nostre spalle, e il canto ritmico degli schiavi ai remi. Rheif si era rifugiato nella minuscola cabina della
nostra barca, e soltanto quando l'inseguimento ebbe termine uscì fuori a sgranchirsi le gambe. Né io né
lui parlammo del porto e della città bianca. Con una sensazione di gelo, tuttavia, dovemmo accettare il
fatto che non era semplice sfuggire al lungo braccio della giustizia rhemiana. Anche lì, su quella costa
che né
io né lui avevamo mai sentito nominare, i Rhemiani avevano costruito una città più bella di qualsiasi
altra avessimo mai visto.
La costa cominciò a piegare verso nord-ovest, e durante il giorno ebbi cura di mantenere la barca
quanto più in alto mare possibile. Decisi che ci trovavamo all'inizio della grande penisola che si gettava
attraverso il Mar Meridionale, e che era la terra dei mercenari tarconii. Di certo, era uh posto da evitare.
I Tarconii sono una razza molto strana, dotata di un temperamento complesso e mutevole. Un popolo in
gran misura cupo e taciturno, che si preoccupa soltanto di ciò che lo riguarda direttamente. Finché
rimasero soli, avevano badato alla loro terra, e non si erano avventurati oltre. Ma la loro statura
gigantesca e la forza immensa ne facevano dei grandi soldati. Sotto guida esperta, nessuno riusciva a
resistere al loro impeto: neppure le Legioni rhemiane, come i Rhemiani stessi ben sapevano. Se non
fossero stati così pigri e corti d'ingegno, avrebbero scalzato i loro stessi padroni dal dominio dell'Impero.
Ma, in realtà, non erano più intelligenti degli schiavi Cygnani, e non avevano alcun istinto di conquista.
Di conseguenza, i Rhemiani avevano cominciato ad allevarli come si fa con i bimbi piccoli, e a circondarli
di cose luccicanti: armature decorate, medaglie lucenti, pompose decorazioni. Ad alcuni dei loro capi più
importanti avevano anche concesso la cittadinanza, che spetta di diritto soltanto a chi nasce già come
cittadino rhemiano. La cosa aveva scandalizzato alcuni cittadini benpensanti: ma i Reggitori dell'Impero
sapevano bene ciò
che facevano. Un buon soldato deve sempre prestare la massima cura alle sue armi, e di conseguenza i
Tarconii, arma dell'Impero, ricevevano il massimo delle attenzioni.
DIECI
Alla fine la costa, sempre più aspra, cominciò nuovamente a piegare verso sud, e io assicurai Rheif che
non dovevamo essere lontani dagli stretti che conducono al Mar Meridionale. Dentro di me, tuttavia,
non ero così fiducioso. Evidentemente, il mondo doveva essere molto più grande di quanto avevo
immaginato. O, in alternativa, la mappa di Mastro Pelian non era del tutto accurata. Erano passati ben
sette giorni da quando avevamo oltrepassato la città bianca, e soltanto ora superavamo la grande
gibbosità
della penisola dei Tarconii. Sulla mappa, tutta questa distanza era rappresentata da un tratto non più
lungo dello spessore di un dito!
Rheif, dal canto suo, mi preoccupava.
Stava diventando un compagno di viaggio sempre meno piacevole. Rimaneva da solo a prua, scrutando
le onde. Quando, qualche rara volta, parlava, lo faceva a monosillabi, e la sua voce era una specie di
sordo ringhio che nasceva dal fondo della gola. Talvolta, quando eravamo accampati, sentivo lo sguardo
dello stygiano su di me, e una notte mi girai di scatto, per incontrare i suoi occhi di brace che si fissarono
nei miei. Quella volta mi girai subito, facendo finta di niente. Ma il sonno non venne facilmente. I
pensieri di Rheif mi erano abbastanza chiari. E presumo che non avrebbero dovuto sorprendermi. In
verità, eravamo due compagni molto strani e male assortiti. La nostra era un'amicizia davvero bizzarra:
due nemici naturali, legati solo dall'avere un avversario in comune. Quanto poteva essere sicuro un
legame come questo? I risentimenti ancestrali per il momento erano sopiti, ma da un momento all'altro
potevano infiammarsi di nuovo, all'improvviso. Nel tempo sufficiente per estrarre una spada. E gli
Stygiani non osservano le regole dell'onore, in battaglia. Se la cosa fosse successa, non avrei avuto
preavviso.
Anche se ci trovavamo di fronte alle terre dei Tarconii, sulle spiagge non avvistammo alcuna di queste
creature. Decisi che le loro città dovevano essere tutte edificate nell'entroterra. C'erano ben poche
attrattive su una costa così accidentata e squallida, e i Tarconii, probabilmente, da soli non erano in
grado di costruire porti. Le barche che, al nord, ci avevano inseguiti fin quasi ad Albion, erano di
fabbricazione rhemiana. I Tarconii erano stati istruiti per poterle manovrare, ma la loro progettazione e
costruzione era impresa ben al di là delle capacità dei loro cervelli. Tuttavia, usammo sempre la massima
prudenza quando, alla notte, ci accampavamo su quelle spiagge.
L'umore di Rheif migliorò molto due giorni più tardi, anche se per un motivo che quasi mi fece star male.
Avevo portato a riva la barca su un tratto di costa coperto di ciottoli, e avevo cominciato a preparare
l'accampamento. La spiaggia aveva ben poco da offrire, e in verità era uno dei posti peggiori su cui
eravamo sbarcati finora. Non c'era possibilità di nascondere o mimetizzare la barca e noi stessi:
chiunque fosse capitato di lì, ci avrebbe notati immediatamente. Tuttavia, gli occhi acuti di Rheif
avevano colto una traccia di verde tra le rupi scure che precipitavano verso il mare, e aveva proposto di
prender terra nei paraggi. Dove c'era verde doveva esserci acqua, e la possibilità consistente di
rinnovare le nostre riserve faceva dimenticare il pericolo, peraltro infinitesimale, che qualcuno ci
avvistasse. Non potei che dargli ragione. La nostra scorta d'acqua era ormai terminata. E anche il cibo, se
è per questo, era finito. La manciata di semi e bacche che, negli ultimi giorni, avevo trangugiato, mi
aveva portato ben pochi benefici oltre a quello di ricordarmi dolorosamente che possedevo uno
stomaco, e che il medesimo si stava rimpicciolendo fin quasi a scomparire. Tenni per me, tuttavia,
queste penose argomentazioni. Il cibo era un soggetto che non ardivo trattare con Rheif, per
comprensibili motivi. Avvistammo una sorgente a metà di un dirupo, in un posto molto difficile da
raggiungere. Caddi due volte durante l'arrampicata, per fortuna atterrando su un mucchio di alghe
secche. Rheif invece salì agevolmente, dedicandomi una risatina sardonica ogni volta che mi vedeva a
terra, coperto di lividi e graffi, con le mie tozze gambe allargate. Si offerse di riempire anche il mio otre e
di portarmelo giù, ma sarei morto di sete prima di accettare una cosa simile. Ero deciso a portare a
termine l'arrampicata, e lo feci. L'acqua era buona. Aveva un lieve sapore metallico, ma era fresca e
frizzante. Riempii entrambi gli otri, dopo aver mandato un insulto mentale allo stygiano, che se ne stava
andando a spasso per la cima della rupe, lasciandomi solo a fare il lavoro. Mentre gli otri si riempivano,
mi chiedevo come avrei potuto ridiscendere sulla spiaggia senza rompermi l'osso del collo.
Un sassolino mi colpì sulla spalla, e alzai gli occhi, per vedere Rheif che mi rivolgeva alcuni gesti eccitati.
Lo stomaco mi si strinse in un nodo.
Era successo quello che temevamo, mi dissi. Eravamo capitati proprio al centro di una tana di Tarconii.
Serrando i denti, mi arrampicai vicino allo stygiano muovendomi con il massimo silenzio che mi era
possibile, e feci anch'io capolino da dietro il masso sotto il quale era acquattato.
Ciò che vidi mi rassicurò e, nel medesimo tempo, mi sorprese.
«Schiavi», dissi. «Schiavi fuggiti, senza dubbio, visto che si trovano così
lontani da qualsiasi città o consesso civile».
Rheif osservava in silenzio i Cygnani, e non diceva nulla. Si trattava, in verità, di una miserabile
compagnia. Dovevano essere una dozzina, e avevano pagato ben cara la loro libertà. Erano magri e
sporchi, e avevano tentato di tosarsi da soli la pelliccia invernale usando pietre affilate. I loro sforzi
avevano lasciato macchie sanguinolente sulla loro epidermide, e piaghe che non si sarebbero
rimarginate tanto facilmente. Il loro unico riparo era costituito da una serie di corte gallerie scavate sul
fianco della collina, al di sotto della macchia di vegetazione che ne ornava il lato nascosto rispetto al
mare.
«Non ci daranno fastidio», dissi. «Di questo possiamo essere più che certi».
Cominciai a ridiscendere lungo la rupe, e poco dopo mi seguì anche lo stygiano.
Dopo il tramonto, trovai fra gli scogli qualche crostaceo. Sapevano di pesce ed erano morti da qualche
tempo, ma mangiai tutti quelli che riuscii a vedere. Rheif era sdraiato sulla spiaggia, e mi guardava. Non
faceva alcun tentativo di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Non appena fu buio, si girò su un
fianco e si addormentò. Poiché le notti ormai erano molto calde, non avevamo acceso alcun fuoco, tanto
più che non avremmo avuto nulla da cuocere. La notte era scesa da tre ore, quando aprii un occhio e
vidi Rheif scomparire nell'ombra della rupe. Pochi istanti dopo ricomparve sulla cima: una figura magra e
coperta di pelliccia, che avanzava curva nelle tenebre. Cercai di rimanere sveglio, ma prima che fosse
mattina chiusi nuovamente gli occhi.
All'alba, Rheif era di umore straordinariamente allegro. Lodò la mia perizia di marinaio, la mia abilità di
arciere, e un gran numero di altre qualità
che non avevo mai saputo di possedere. Non feci alcun tentativo di farmi confessare da lui i motivi della
sua improvvisa allegria. Non potevo condannarlo per quel che aveva fatto. Se fossi stato uno stygiano,
senza dubbio mi sarei comportato nello stesso modo. Ma non lo sono, per cui adesso era il mio turno di
mostrarmi scostante e malinconico....
«Il suo aspetto non mi piace per niente», disse Rheif in tono nervoso.
«Non mi sembra una cosa piacevole».
«Non lo è», ammisi. La scura massa di nubi di cui stavamo parlando era appena rotolata fuori dall'orlo
dell'orizzonte, e subito io avevo diretto la barca verso la riva. Ma la tempesta si muoveva ad una velocità
allarmante. Già aveva cancellato il sole, lasciandoci immersi in una calma grigia e gelida, come sul fondo
di una coppa opaca e dagli orli incredibilmente alti. Rheif mi diede un'occhiata interrogativa. «La costa
non è molto lontana».
«No. Ma la tempesta lo è ancora di meno», risposi. Poi mi voltai e mi concentrai sulle manovre.
I venti soffiavano in raffiche brevi e variabili nell'intensità e nella direzione, che mi confondevano e
rendevano difficile reggere il timone. Era difficile che una delle raffiche si mantenesse abbastanza
costante da riempire la vela. In basso, ad oriente, venne il rombo di un tuono, che rotolò attraverso il
cielo per un intero minuto. Il suo fragore era così distinto che mi parve quasi di poterne seguire il
percorso lungo l'orizzonte.
Subito dopo, la pioggia cominciò a chiazzare le onde con gocce dense e pesanti. Lampi accecanti
cancellarono la volta celeste, mentre i venti cominciarono a soffiare con un'intensità sempre più
allarmante. Ammainai la vela, e mi misi ai remi accanto a Rheif.
Ce la facemmo per un pelo. Sono sicuro che, se fossimo stati di soli venti metri più al largo, non
saremmo mai riusciti a raggiungere la riva. La tempesta imperversò per tutto il resto della giornata,
prima della notte ci fu un momento di calma, poi gli elementi si scatenarono di nuovo, e fino all'alba
fecero udire il loro lugubre ululato.
La caverna nella quale ci eravamo rifugiati era abbastanza lontana dalla spiaggia, e per fortuna era
coperta da una superficie di sabbia soffice e asciutta. Tuttavia, così forte era l'impeto dei venti che di
tanto in tanto gelide dita di pioggia venivano a raggiungerci anche nell'angolo più profondo del nostro
riparo.
L'umidità faceva puzzare la pelliccia di Rheif ancor più del solito: cosa che non avrei mai creduto
possibile. Ma sopportai anche questo, non avendo scelta. Inoltre, c'era un'altra preoccupazione che
realmente mi metteva a disagio: avevamo portato la barca abbastanza addentro fra le rocce per
ripararla dalla furia della tempesta? Non sarebbe stato molto consolante se, dopo tutto il nostro viaggio,
fossimo finiti come naufraghi sulle spiagge dei Tarconii.
«Non ho mai visto niente di simile», annunciò Rheif.
«Anche al nord ci sono tempeste», gli ricordai.
Scosse la testa con convinzione. «Non come questa, di certo. Non mi ricordo mai di essermi dovuto
rifugiare in una grotta per evitare di essere travolto da onde più alte della mia testa».
«Si dà il caso, stygiano, che tra le foreste dei Lauvectii non ci siano mari di alcun genere. Perché si dia la
presenza di onde, i mari risultano indispensabili». Rheif mi rivolse un'occhiata feroce, e si asciugò
l'umidità dal muso.
«Non credere che non lo sappia, Venicii. Non sono poi così ignorante, anche se non ho frequentato con
successo un'università rinomata, non ho guardato con attenzione una mappa su un muro, e non ho
imparato a contare sulle dita di tutte e due le mani». Dopo di che, mi voltò le spalle e si mise a fissare la
tempesta. Per tutta la notte, fu questa la sola conversazione che ci scambiammo; e probabilmente fu
molto meglio così.
Non c'era nulla da fare, se non attendere che venisse il mattino. Cercai di dormire, senza riuscirci. Passai
il tempo soprattutto pensando al cibo. Alla luce dei lampi, studiai le pareti della caverna. La natura vi
aveva tracciato disegni affascinanti. Sottili fasce orizzontali di colori diversi, nero, arancione e giallo, che
correvano lungo la volta come la trama di una coperta di lana. Le fasce erano perfettamente orizzontali,
tanto da sembrar tracciate da un arcano pittore con l'aiuto di un regolo. Per passare il tempo, cominciai
a contarle, notai quante volte si presentava ogni singolo colore, e affaticai oltre il lecito la mia vista.
Comunque, la cosa mi aiutò a far passare più in fretta quelle ore gelide...
All'alba, il cielo era grigio come il piombo. La tempesta si era allontanata da circa un'ora, ma eravamo
ancora sotto la sua ombra. Stiracchiammo i nostri muscoli intorpiditi, e cercammo di riportare un po' di
vita nelle nostre membra livide. Rhief volse uno sguardo all'interno sulla spiaggia e annusò con aria
disgustata.
«C'è un puzzo orribile dappertutto», annunciò.
La ragione la scoprimmo subito. La spiaggia era coperta di vegetali scuri e intricati e di mucchi di
materiale viscido e verdastro tratto dal fondo del mare. Il tutto attirava stormi di mosche e di altri
insetti. Mentre Rheif sacramentava sul puzzo, io corsi a controllare la barca. Era intatta, ma sepolta
sotto mucchi di porcherie immonde e fetide. Ci sarebbe voluta almeno mezza giornata per ripulirla e
rimetterla in ordine in modo tale da riprendere il mare. Non me la sentivo ancora di cominciare un
lavoro del genere. Invece, cominciai a passeggiare lungo la spiaggia, studiando gli strani oggetti che la
tempesta aveva gettato a riva. Decisi che, sotto le onde, doveva aprirsi un mondo diverso, pauroso e
affascinante. Dietro la nostra spiaggia si stendeva una colossale cortina di rupi mangiate dagli elementi:
un aspetto comune della costa, da quelle parti. In genere quelle formazioni erano abbastanza regolari, e
si stendevano a perdita d'occhio. In quel punto, tuttavia, una piccola sezione si era spostata in avanti e si
allungava sin quasi a toccare il mare. Le girai intorno, aspettandomi di vedere una spiaggia simile a
quella su cui ci trovavamo. Invece, mi trovai di fronte a un muro di roccia: ma una roccia completamente
diversa da quella che avevo alle spalle. Era alta quanto la mia testa, e pur essendo in molti tratti logora e
scavata, nel suo aspetto generale appariva stranamente levigata. Ne grattai la superficie, e vidi che le
mie dita stavano scoprendo una linea regolare: un solco diritto, orizzontale, poco profondo. Scrostai un
altro po' di fango, e misi alla luce un altro solco. Poi mi alzai in punta dei piedi e scrutai al di là del muro
di roccia. Vidi che c'era una distesa di altre mura simili; alcune più alte, alcune più basse, altre ridotte a
semplici rughe di pietra sopra la spiaggia.
La scoperta mi riempì di una strana, inattesa eccitazione. Avevo già incontrato formazioni del genere, al
nord; ma laggiù sono difficili da trovare, e tutt'altro che comuni. Non avrei mai immaginato che potesse
essercene un gruppo così folto come quello che avevo davanti.
Rheif non manifestò emozioni particolari.
«È soltanto un posto dove un tempo sorgeva una città», disse. «Se ne accorgerebbe anche un
bambino».
«Ma chiunque non sia un bambino si accorgerebbe in più di molte altre cose», ribattei, in tono seccato.
Trovavo il suo atteggiamento molto irritante. «Hai mai visto un muro di mattoni fatto in questo modo?»
aggiunsi, dando un calcio alla base del muro. «Le porzioni che se ne vedono sono straordinariamente
lisce e ben costruite, Rheif».
«Vero», ammise. «Ma non riesco a capire i motivi di tanto perfezionismo. Le levigature eccessive sono
superflue...»
«E sono sempre identici... » Stavo parlando a me stesso, senza prestare più attenzione allo stygiano.
«Tutti assolutamente identici» . Girovagai un poco fra le rovine, cercando di immaginare, con gli occhi
della mente, come poteva essere stata la città di cui vedevo le testimonianze. Quei mattoni mi
affascinavano. Erano tutti così uguali l'uno all'altro. Solo un re potrebbe richiedere, per i suoi palazzi,
una tale perfezione. Mi trovavo dunque tra le rovine di una reggia?
Di certo la città era molto antica. Tanto quanto bastava per incutere spavento, pensai. Povero Mastro
Levitinus. Quanti dei suoi ipotetici centenari avrebbero dovuto dipanare la loro vita per arrivare a chi
eresse questi edifici? E chi mai visse e morì fra queste mura? Certo non i Tarconii, che oggi dichiaravano
di possedere queste terre. A meno che i Tarconii non fossero stati grandemente civili un tempo,
subendo poi una singolare degenerazione. Non era soltanto l'età di quel posto che mi incuriosiva.
Potevo vedere che la città era stata costruita in un modo insolito, che non avevo mai conosciuto prima.
Almeno, così mi sembrava.
Cercai di ricostruire la forma e l'aspetto di ambienti e stanze dove non c'erano più né gli uni né le altre.
Provai a risistemare cortili e strade là dove avrebbero dovuto essere. Non riuscii a ricavare alcun ordine.
A quanto pareva, non c'era nulla che fosse là dove a lume di logica avrebbe dovuto essere. Era come
se... Mi fermai.
Un'ombra passò sopra la mia testa, e guardai in alto.
Sull'orlo della rupe, colsi il lampo di un movimento. Qualcosa era apparso per un attimo, si era fermato,
si era agitato un istante, e poi era scomparso alla mia vista con un piccolo grido. Con la coda dell'occhio,
scorsi un'ombra colorata, poi qualcosa colpì la striscia di sabbia proprio davanti a me.
Una pioggia di sabbia e pietriccio scese dall'orlo del dirupo. Poi vidi che Rheif mi aveva superato di un
balzo, e stava correndo in avanti, con un sorriso cupo sul muso grigio e una luce inquietante negli occhi.
UNDICI
Non era difficile leggere nei pensieri dello stygiano.
Il destino gli aveva gettato l'arrosto direttamente nella padella. Qualunque cosa fosse il bocconcino
appena avvistato, si trovava momentaneamente privo di sensi sull'orlo della rupe; era sufficiente
arrampicarsi fin lì, e prenderlo prima che tornasse in sé. Desiderai fervidamente di essere da qualche
altra parte... Rheif era già arrivato in cima. Aveva scalato la parete rapido come un uccello; i suoi piedi
avevano smosso soltanto la ghiaia più sottile. In alto, si fermò un istante per osservare la sua preda, poi
superò d'un balzo la breve distanza che lo separava da essa, e si chinò per scrutarla meglio. Rimase
fermo un attimo, poi si voltò in basso verso di me, rivolgendomi una specie di ghigno. Quindi il ghigno
scomparve, e lui balzò in piedi, mentre il ciglio della rupe cominciava a sgretolarsi e franare sotto il suo
peso. Rheif artigliò l'aria. Le sue dita trovarono uno spuntone di solida roccia, e si aggrapparono. Lo
stygiano rimase lì, a penzolare nel vuoto, con il suo pranzo stretto sotto l'altro braccio. La cima della
rupe era ormai fuori portata. Il salto fino alla spiaggia era tale da non far prevedere un esito senza danni
piuttosto gravi.
«Aldair», gridò lo stygiano, «hai intenzione di fare qualcosa per aiutarmi, o preferisci stare lì a
guardare?»
«Per il momento resto qui», risposi. «Non so esattamente che cosa posso fare».
La preda di Rheif stava tornando in vita. Emetteva gridolini e altri piccoli suoni dall'eco insolito e
inquietante. Non potevo vedere bene di che cosa si trattava, dato che era in parte coperta dal corpo
dello stygiano. Ciò che vedevo, tuttavia, mi turbò alquanto.
«Non posso resistere ancora a lungo», fece Rheif. «Sarebbe il caso che tu venissi qui sotto, prendessi al
volo questa cosa, e mi restituissi l'uso dell'altro braccio. Aldair... sei ancora lì? »
«Ci sono».
«E allora perché a me sembra che tu sia da un'altra parte?». Non risposi. Adesso potevo vedere meglio
la preda di Rheif. Era del tutto sveglia. Si dibatteva. Era verde. Verde?
Già, verde. Un colore del tutto inatteso, mi dissi. Che evocava qualche ricordo.
Ebbi l'impulso di dire subito a Rheif una certa cosa. Mi avvicinai alla base della rupe.
Tre suoni ronzanti mi ferirono i timpani.
Zip-zip-zip. Come api inferocite.
Tre frecce si conficcarono nel terreno, tracciando una piccola cancellata a due centimetri dai miei alluci.
In un certo senso, la cosa mi procurò sollievo. Ora non avevo più dubbi: sapevo esattamente che cosa
conveniva fare. Rimasi immobile come una statua, e non feci assolutamente nulla.
I tre arcieri comparsi all'improvviso in cima alla rupe erano versioni ingigantite della cosa che Rheif
stringeva sotto il braccio. Verdi, enormi e spaventosi.
Non era necessario averli visti prima per capire immediatamente che erano Nicieani.
«Le nostre avventure sono pervenute ad una triste fine, Aldair». Rheif mi gratificò di una triste occhiata
rossiccia, e scosse la testa con fare filosofico.
«Siamo ancora vivi», gli ricordai. Feci passare un dito sotto il collare di ferro che mi stringeva la gola. «E
se avessero voluto ucciderci, non si sarebbero presi la briga di regalarci questo anellino». Un lato del
muso di Rheif si torse in atteggiamento di disgusto. «Per te forse questa è vita», sibilò. «Per uno
stygiano, la morte è infinitamente più
desiderabile della schiavitù».
«Sono convinto che se tu menzionassi tale desiderio a una di quelle creature», gli suggerii, «non
resterebbe a lungo inascoltato».
«Talvolta sono tentato di farlo. Ma non sarebbe una cosa onorevole. Io sono un guerriero stygiano, un
capo fra la mia gente. Non sarebbe decente per me, Aldair, chiedere un favore a questi mostri, che
chiaramente appartengono all'ordine più infimo delle creature viventi». Non risposi. Per essere creature
d'infimo ordine, i Nicieani sembravano cavarsela piuttosto bene. Ciò che avevo potuto vedere mi aveva
impressionato non poco. L'accampamento era posto in una valletta asciutta e ben delimitata. Era
circondato da torrette di pietra vigilate, ed era in vista del mare. All'intorno, in un ordine che mi
sfuggiva, erano piantate circa venti tende bianche. Separata dalle altre c'era una tenda più grande, delle
dimensioni di una villetta di campagna. Il suo tessuto era ricamato in modo molto fine, e la struttura era
assai elaborata. Da un lato, sotto uno dei due pennoni, si levava persino una ciminiera di ottone. Su ogni
palo, garrivano al vento bandiere verdi ornate di occhi d'oro. Il colore di fondo della tenda era verde
pallido, e il motivo ornamentale più diffuso erano gli stessi occhi d'oro ricamati sulle bandiere.
Chiaramente, quella tenda (seppure si poteva chiamarla così), era destinata a un personaggio di alto
rango. La cosa sarebbe apparsa palesemente, anche senza la vista, intorno ad essa, giorno e notte, di
dodici arcieri nicie-ani in alta uniforme. Fino ad allora, tra i personaggi che avevo visto
nell'accampamento, non ne avevo scorto nessuno identificabile come il titolare di quel padiglione
superlativo. È pur vero che, magari, lo avevo visto già dieci volte e non lo avevo riconosciuto. Ai miei
occhi, quelle creature ributtanti sembravano tutte uguali.
Ne vidi due entrare in una delle tende più piccole, inchinandosi per oltrepassare la bassa apertura.
Indossavano comuni tuniche nicieane avvolte intorno alle loro viscide forme verdastre. Le tuniche erano
munite di cappucci, che potevano essere sollevati per riparare dal sole le teste piatte. Soltanto due volte
avevamo potuto vedere da vicino i Necieani. La prima volta quando eravamo stati catturati e portati al
campo per essere perquisiti e muniti di collare. E la seconda volta quando una guardia aveva portato un
secchio d'acqua e una ciotola di cibo presso l'alta roccia che ci forniva un po' d'ombra.
Il pensiero mi procura vergogna, ma è inutile nasconderlo: i Nicieani mi mettevano addosso una paura
tremenda. Erano creature che nessuno sognerebbe mai, neppure negli incubi più terrificanti... cose che
si stentava a credere generate dalla nostra stessa Terra.
I loro volti piatti, privi d'espressione, apparivano terribili proprio per la loro mancanza di lineamenti veri
e propri. Avevano, sì, occhi, orecchie, un naso e una bocca, ma se ne fossero stati privi sarebbe stato lo
stesso. Gli occhi erano scuri e senza palpebre, come piccole sferette nere lucenti, e il naso e la bocca
erano nulla più che due fori e un taglio. Per di più puzzavano. Al confronto, Rheif era un mazzo di rose.
Comunque, era qualcosa di diverso. Gli Stygiani puzzano perché sono Stygiani e temono l'acqua (anzi,
hanno una idiosincrasia per essa, direbbe Rheif). Per i Nicieani la cosa è differente. Il loro è un odore
dolciastro, secco, polveroso. È come se avessero trascorso tutta la loro esistenza in buchi sotto la roccia.
«Aldair, che cosa pensi che sia questa roba?» Rheif puntò un dito sospettoso alla ciotola di cibo messa a
terra fra di noi. «Sono ormai sul punto di morire di fame, ma non credo che riuscirò comunque a portare
alla bocca una sola goccia di questa broda». Annusai, con cautela.
Era una specie di minestrone grigiastro, denso e pieno di grumi neri. Presi un ramoscello, lo intinsi nella
ciotola, mescolai un po', e tirai fuori un pezzetto di materiale pescato nel mucchio. Lo misi sotto il naso
di Rheif. Gli occhi dello stygiano si spalancarono. Fece un salto indietro, come di fronte a uno spettro.
«Per tutti gli dèi... che cos'è? È proprio quello che sembra?»
«Temo di sì», feci. «È la gamba di un insetto. Uno scarafaggio, forse, o una cavalletta». Guardai Rheif.
«Quella roba lì dev'essere principalmente una zuppa di insetti».
«E.... e questo è quello che mangiano».
«Evidentemente. O è quello che danno da mangiare agli schiavi. Per la verità, sono abbastanza certo che
la mangino anche loro. Puzzano proprio come questa brodaglia».
Gli occhi di Rheif ruotarono per lo sconforto. «In tal caso, per noi è proprio finita, Aldair. In breve,
moriremo di fame. Prima è, meglio è, per quanto mi riguarda».
Infilai un dito nella zuppa e mi feci forza fino al punto di farmene cadere una goccia sulla lingua. «Non è
troppo cattiva», dissi. Il mio stomaco brontolò, a disagio. «Sempre, naturalmente, che ci si dimentichi
della materia prima». Rheif voltò la testa. «Non sarà cattiva per te. I Venicii, del resto, mangiano radici,
bacche, vegetali e altra spazzatura del genere. Ma non è adatta a uno stygiano». Incrociò le braccia
pelose e guardò con occhi malevoli la tenda verde. «Scegli pure la vita, se preferisci, Aldair. Mangia molti
grassi scarafaggi e diventa un robusto e felice schiavo nicieano». Fermai un dito a metà strada della mia
bocca.
«Un momento», feci. «Queste considerazioni sei pregato di tenertele per te, Rheif. E non dimenticare
che è stato il tuo insaziabile appetito a portarci in questa situazione!»
Rheif apparve profondamente scosso. «Aldair. Come potevo sapere che quella cosa sulla rupe era uno
dei loro bambini? Tutto poteva sembrarmi, fuori che il bambino di qualcuno!»
«Spero che loro ci credano», feci. «Quanto a me, ti ricordo che sono un Venicio, e nei miei riguardi puoi
risparmiarti le proteste di innocenza e di rispetto per gli infanti di qualsiasi genere».
«Le storie che raccontate su di noi al nord sono falsate da grossolane esagerazioni», ribatté Rheif. «Gli
Stygiani mangiano molto raramente i Venicii».
«Solo perché molto raramente ci facciamo catturare dormendo», aggiunsi. Quel pomeriggio, due soldati
avvolti in complicate uniformi da cerimo-nia ci presero e ci condussero al limitare del campo. Sopra una
lastra di pietra era stata sistemata una grossa tinozza di legno. La tinozza era piena d'acqua, e da essa si
sprigionava una nube di vapore.
Rheif mi guardò terrorizzato. «Aldair, senza dubbio vogliono annegarci!»
Cercai di soffocare la risata. «Non credo», dissi. «Non sarà così semplice». Con una spada alle reni, Rheif
entrò nella tinozza, e ululò orribilmente al contatto dell'acqua sulla pelle. Dapprincipio rifiutò
sdegnosamente il rozzo pezzo di sapone che gli veniva offerto, e lo prese soltanto quando un soldato gli
passò la lama della spada sotto la gola. Io aspettai il mio turno, e mi feci il bagno senza protestare. Era
un lusso davvero inatteso.
Rheif ispezionò con occhi sospettosi la tunica bianca che gli era stata consegnata al posto delle sue vesti.
«Non potrò più tornare al nord», disse.
«Se i miei fratelli mi vedessero così, mi scaccerebbero dal Clan e mi lapiderebbero».
«Penso di no», gli risposi. «Anzi, secondo me, diventeresti il più prezioso fra i guerrieri, perché i tuoi
nemici non potrebbero più avvertire la tua presenza via olfatto, se non nel momento preciso in cui salti
loro addosso...»
Di certo, ragionai, il bagno e i vestiti nuovi non potevano essere un trattamento riservato a tutti gli
schiavi appena catturati. Per qualche motivo, eravamo oggetto di speciali attenzioni.
Fra le altre cose, non eravamo stati confusi con gli altri schiavi del campo, e per di più non eravamo stati
posti al lavoro. Da un lato la cosa portava vantaggi, ma dall'altro mi preoccupava. Quando uno schiavo è
troppo ben trattato, sa che all'orizzonte c'è qualche guaio per lui.
Ne fui certo quando vennero a prenderci per condurci davanti alla grande tenda verde, dove ci fu detto
di aspettare finché non fossimo stati chiamati. Ci venne concesso di stare in piedi o di sedere per terra, a
nostra scelta, ma dietro raccomandazione di rimanere comunque puliti e presentabili. Dopo un poco
apparve un soldato. Ci squadrò per qualche istante, tornò
dentro, poi riemerse e ci parlò. «Fra poco sarete nell'aura dell'Aghiir», sibilò in un passabile rhemiano.
«Vi rivolgerete all'Aghiir dandogli del 'Signore'... Ciò, naturalmente, se l'Aghiir vi concederà di rivolgergli
la parola. In tal caso, vi renderà noto il suo desiderio. In caso contrario, non dirà nulla». Ci fissò di nuovo
con gli occhi come palline nere, poi ci spinse all'interno della tenda, davanti a sé.
La vista era troppo imponente per essere valutata con un solo sguardo. Ai miei occhi, la tenda dell'Aghiir
appariva come il magazzino di un mercante impazzito. Il terreno era coperto di tappeti intessuti nei
colori più diversi e sgargianti. Lampade di ogni forma e dimensione pendevano da catene di bronzo,
argento e oro, e mandavano raggi di luce da pannelli di vetro colorato. Sedie e tavoli di ogni foggia,
pesantemente intagliati, erano sparsi nell'ambiente in nessun ordine particolare, e paraventi di lacca
erano disposti qua e là per dividere lo spazio in piccole stanze isolate e corridoi che portavano chissà
dove. L'aria era resa pesante dall'odore denso e dolciastro dei Nicieani, e dai fumi di un incenso che
bruciava in turiboli istoriati. Un nicieano che somigliava a tutti gli altri Nicieani, sedeva su una sedia
finemente scolpita e poggiava i piedi su una pila di cuscini colorati. Indossava una tunica verde ricamata
con occhi d'oro. Ci studiò, prima l'uno e poi l'altro, quindi portò lo sguardo sul soldato che ci aveva
introdotti.
«Quale dei due è quello che ha salvato mio nipote?»
«Il più alto, Signore», rispose il soldato. «La creatura con la pelliccia più
folta».
La mascella di Rheif cadde per la sorpresa, ma lo stygiano si riprese subito, e si drizzò sulle spalle,
cercando di assumere un atteggiamento solenne.
«Qual è il tuo nome?», chiese il nicieano, accompagnando la domanda con un pigro gesto rivolto a Rheif
per invitarlo a rispondere.
«Rheif. Rheif di Stygia, Signore».
«Inginocchiati, dunque, Rheif».
Gli occhi dello stygiano si accesero d'ira repressa e ruotarono all'intorno. Sentii che ingoiava e stringeva i
denti. Tuttavia fece come gli era stato ordinato. Il nicieano si tolse dal collo una pesante collana d'oro.
Alla sua base pendeva una pietra rosso sangue, più grande di un uovo di gallina. Intorno all'allacciatura
c'erano altre pietre, più piccole. Allacciò la catena attorno al collo di Rheif, poi gli disse di alzarsi in piedi.
Quindi, senza più posare lo sguardo su Rheif, si rivolse al soldato.
«E con quale arto», chiese, «ha toccato il piccolo Dhar'jeem?»
Il soldato si inchinò. «In verità, con entrambi, Signore. Colui che è
chiamato Rheif ha usato entrambi gli arti per salvare il Personaggio. Anche se più tardi ne ha impiegato
uno soltanto per aggrapparsi al costone roccioso». L'Aghiir rivolse uno sguardo al soldato e lo congedò
con un gesto.
«Non importa», sospirò. «Non sarebbe giusto rimuovere entrambi gli arti superiori ad uno schiavo che ci
ha reso un prezioso servizio. E non sarebbe neppure una cosa pratica». Girò gli occhi, come ricordandosi
all'improvviso che Rheif era ancora presente.
«Non c'è motivo perché non sia tu stesso a decidere», fece. «Dimmi, schiavo: qual è l'arto che usi di
meno?»
DODICI
Qualche tempo dopo il nostro incontro, appresi che il nicieano nella tenda verde era davvero un
altissimo personaggio: per l'esattezza, il fratello dell'Imperatore di tutti i Nicieani.
A me e a Rheif vennero assegnati altri vestiti e una tenda solo per noi. Potevamo anche mangiare da
soli, senza essere obbligati a mescolarci con gli altri schiavi.
«Siamo stati fortunatissimi», dissi a Rheif. «Evidentemente ci hanno assegnati al seguito della Casa
Reale. Almeno, questo è quanto mi è parso di aver capito parlando con i soldati. Parlano tutti il
rhemiano in maniera pessima».
«Tu, forse, sarai fortunatissimo», fece Rheif in tono tetro. «Tu hai ancora tutte e due le braccia, con la
prospettiva di conservarle anche per il futuro. Mentre io fra poco ne perderò uno, sia pure a mia scelta
per graziosa concessione dell'Aghiir. Dopo di che non sarò più utile a nessuno. Gli Stygiani non hanno
alcuna compassione per gli storpi. Ed è giusto, perché
sono di peso al Clan».
Si toccò la catena d'oro che ornava il suo collo peloso, e scosse la testa con aria di meraviglia. «Non
capisco il modo di fare di questi Nicieani, Aldair. Prima mi ricompensano in modo principesco per il
servizio reso alla loro gente. Poi mi comunicano che dovrò perdere un braccio proprio per il gesto
compiuto in loro favore. Questa collana è bellissima ed ha certamente un valore incalcolabile: ma non
certo pari a quello di una delle mie braccia, almeno per me».
Eravamo sdraiati all'ombra della nostra tenda, guardando i Nicieani che si muovevano attraverso il
campo, intenti ad occupazioni spesso inesplicabili. Alle parole di Rheif, tuttavia, mi alzai e fissai lo
stygiano.
«E quale servizio mai hai reso ai Nicieani?» gli chiesi. «Non mi sembra di ricordare una circostanza del
genere».
Rheif mi guardò con aria di sorpresa. «È strano che proprio tu me lo chieda, Aldair, dato che sei stato
testimone oculare del mio atto eroico. Tu stesso mi hai visto salvare da sicura morte il nipote dell'Aghiir,
che a prezzo della mia vita ho raccolto mentre stava per precipitare dal ciglio di una rupe. Quel bimbo,
sai, un giorno erediterà l'Impero».
Scossi la testa, trovando difficile credere alle mie stesse orecchie. Naturalmente, avevo dimenticato la
straordinaria facilità con cui gli Stygiani ricordano soltanto le cose che vogliono ricordare, cancellando
tutte le altre.
«Rheif», feci, «è stata una bella fortuna che tu non abbia potuto portare a termine il... salvataggio del
Principe. Perdere un braccio certamente non è
una bella cosa: ma è sempre meglio che andare in giro più corto di tutta la testa...»
Più tardi, quella stessa mattina, un manipolo di arcieri si portò a passo di marcia al centro del campo, e
al comando di un ufficiale si fermò sull'attenti. L'ufficiale piantò una bandiera verde nel terreno, e si
mise anche lui sugli attenti davanti alla truppa schierata.
Pochi istanti dopo, all'intorno si era radunata una piccola folla, composta da Nicieani che non avevano
incarichi particolari da eseguire, e da qualche schiavo che coglieva l'occasione per fare una pausa nel suo
lavoro. Tutti si erano fermati in circolo attorno agli arcieri immobili, e presto all'interno di questo circolo
marciò un altro manipolo di soldati. Dopo uno scambio di saluti militari, i nuovi venuti se ne andarono,
lasciando indietro tre di loro. L'ufficiale al comando della truppa schierata rivolse alcune parole
separatamente a ciascuno dei tre militari, quindi ricambiò i loro saluti, e si mise di lato.
I tre soldati si tolsero tuniche, mostrine e decorazioni, e deposero ordinatamente il tutto per terra al
loro fianco. Poi si inginocchiarono, toccarono il suolo con la fronte e allargarono le braccia. L'ufficiale
estrasse una lunga spada ricurva, si portò accanto a loro e, a turno, tagliò a ciascuno la testa. Badò a
farlo nella posizione migliore: ma nonostante la sua cautela, dai colli tagliati sprizzarono imponenti
colonne di sangue che si riversarono sulla sabbia proiettando schizzi all'intorno, alcuni dei quali
andarono a macchiare la tunica dell'ufficiale.
Successivamente, apprendemmo che i tre sfortunati erano gli arcieri che ci avevano presi prigionieri.
Erano membri del corpo di guardia della Casa Reale, e il giovane Principe era affidato alla loro
sorveglianza, quando era scappato via fino ad arrivare al ciglio della rupe sul quale Rheif lo aveva
«salvato». Un soldato mi spiegò che l'Aghiir, il cui nome era Tharrin, li aveva perdonati per la loro
negligenza, in considerazione dei grandi servigi che precedentemente avevano compiuto per la Casa
Reale.
Tuttavia la legge nicieana prevede in casi del genere la rimozione di un membro, come alternativa alla
pena di morte (nella quale i nicieani non credono). Un comitato riunitosi appositamente per valutare il
caso, aveva deciso che la parte del corpo che i tre avrebbero dovuto perdere era la testa, in quanto sede
della ragione, cioè della facoltà il cui uso, nella circostanza in oggetto, era senza dubbio venuto meno ai
tre militari. A me e a Rheif non erano stati assegnati compiti particolari, per cui ci ritrovavamo spesso
senza niente da fare. Occasionalmente, lavoravamo nel campo insieme con gli altri schiavi assegnati alla
Casa Reale. Nel gruppo c'erano individui di tutte le razze: soldati rhemiani catturati in battaglia, cittadini
vari provenienti da ogni angolo dell'Impero, ed anche Cygnani e Tarconii. Questi ultimi, essendo
creature dalla forza immensa, erano tenuti sempre avvinti da pesanti catene e guardati a vista; tanto
che non potei fare a meno di pensare che non valeva certo la pena di tenerli schiavi. Parlai ad alcuni dei
nostri compagni di prigionia, e scoprii che non erano del tutto scontenti del loro destino. Tutti, certo,
avrebbero preferito la libertà, ma furono ugualmente concordi nel giudicare i Nicieani come padroni non
troppo severi, eccetto che nei casi di ribellione o di indisciplina. L'Alto Signore Tharrin, in particolare, era
un padrone giusto e generoso. Appresi anche che i Nicieani non mettevano in schiavitù i membri della
loro stessa razza, come invece, talvolta, facevano i rhemiani. Pochi giorni dopo aver assistito alla
cerimonia del perdono e dell'esecuzione dei tre arcieri, Rheif ed io venimmo condotti in una tenda
accanto al grande padiglione verde. Lì, uno schiavo di nome Linius, che un tempo era stato ufficiale
rhemiano ci interrogò a lungo a proposito della nostra vita, le nostre famiglie, il nostro ambiente e così
via. Volle che gli riferissimo nei minimi particolari soprattutto le circostanze in seguito alle quali ci
trovavamo là dove eravamo stati catturati. Uno scriba stenografava tutte le risposte all'interrogatorio.
Sembrava capace di scrivere con la stessa velocità
con la quale noi parlavamo.
Tutto ciò mi parve molto strano.
A chi mai poteva interessare - mi chiesi - da dove proveniva uno schiavo, o quali pensieri gli giravano per
la testa? In seguito, tuttavia, appresi che i Nicieani non sempre ragionano alla stessa maniera delle altre
razze dotate di intelligenza.
Una mattina, poco dopo l'alba, venne a prendermi un arciere che mi condusse fuori del campo, sino alla
collina che sorgeva ad una estremità
della valletta entro la quale erano state erette le tende. Sul fianco dell'altura erano stati faticosamente
intagliati dei gradini nella viva roccia, per cui l'ascesa fu rapida e facile. Quel lavoro mi parve un'inutile
perdita di tempo, anche se i Nicieani avevano a disposizione un gran numero di schiavi. Persino le
Legioni rhemiane non avrebbero richiesto un'opera del genere: e sì
che erano famose per la capacità di erigere una completa postazione difensiva al termine di un'intera
giornata di marcia. Qualsiasi cosa quelle creature stessero facendo lì, su quel tratto desolato del
territorio tarconio, di certo la loro permanenza era solo provvisoria, per cui il lavoro di intaglio sul fianco
della collina mi sembrava inesplicabile.
Trovai la risposta non appena giunto in cima. Quando fui in vetta e mi guardai intorno, venni travolto
dalla meraviglia. Le rovine che mi avevano tanto stupito sulla spiaggia, impallidivano di fronte allo
spettacolo che avevo davanti agli occhi. Davanti a me, infatti, si stendeva un'intera città. Il sole del
mattino ne abbracciava i muri diroccati e le guglie in rovina, accendendo tutto di fiamme rossastre. Per
un momento, mi sembrò di essere stato trasportato indietro nel tempo, e di assistere al rogo funebre di
quel luogo antichissimo. La sensazione però svanì subito, e lasciò il posto a un brivido di gelo.
Più di cento schiavi stavano lavorando fra le rovine, portando alla luce nuovi livelli della città. Quasi tutti
operavano sotto la guida di ufficiali nicieani, ma alcuni di essi erano diventati sufficientemente esperti in
un certo tipo di lavoro da ricevere il comando di una squadra, e guidare essi stessi l'attività dei
compagni. A coordinare il tutto era l'Alto Signore Tharrin in persona, e per la seconda volta mi trovai alla
sua presenza. Mentre l'arciere ed io ci avvicinavamo, vidi che il nicieano mi fissava negli occhi.
«Mi hanno riferito», fece quando fui di fronte a lui, «che nutrì un certo interesse per questo genere di
cose. È vero?»
Aprii la bocca, ma le parole stentavano a uscirne fuori. Finalmente, riuscii a tornare in me e a
rispondere. «Sì, Signore», feci. «È vero». Ecco un altro mistero, mi dissi. Perché mai il fratello
dell'Imperatore dei Nicieani si interessa a quello che io penso?
L'Alto Signore Tharrin lavorava sotto una larga tenda, per tre lati aperta al soffio dei venti. Tutt'intorno
c'erano confortevoli cuscini, e alcuni schiavi erano pronti a recargli bibite gelate ad ogni suo cenno.
Malgrado ciò, la tenda era in effetti il quartier generale di un cantiere. Carte e disegni erano stesi su
tavolini di legno, ed erano tenuti fermi da sassi e mattoni tratti dalle mura della città sepolta. In un lato,
c'erano pile di sacchi di tela grezza, ciascuno recante un'etichetta su cui erano vergati i minuti caratteri
della scrittura nicieana. Su altri tavolini erano sistemati oggetti e reperti di ogni forma e dimensione,
ancora incrostati di terra. La loro vista mi lasciò affascinato, ma non riuscii a identificare alcuno di quei
manufatti. Al centro della tenda, c'era un grande modello in scala delle rovine. Il plastico era sistemato
su un tavolo eretto evidentemente solo a quello scopo, ed occupava quasi un terzo dello spazio
disponibile.
«Ti interessa, ciò che vedi?» Alzai lo sguardo, meravigliato, e vidi gli occhi dell'Alto Signore Tharrin che si
fissarono nei miei.
«Mio Signore, non ho mai visto nulla di simile», risposi, dimenticando per un attimo la soggezione che
mi ispirava la figura del nicieano. «Quel plastico è eseguito in modo meraviglioso: sembra quasi di
vedere piccole figure che si aggirano tra gli edifici!»
Il nicieano sembrò compiaciuto dell'osservazione. La sua bocca simile a un taglio si curvò in un mezzo
sorriso. «È accurato sotto tutti i punti di vista», disse, dirigendosi verso il tavolo. «Guarda. Le sezioni
colorate in bianco indicano lo stato delle rovine nel momento in cui le abbiamo portate alla luce. E poi»
dicendo così strinse una sezione del modello e la sollevò in alto «qui sotto è rappresentato ciò che
abbiamo scoperto scavando ancora più a fondo».
Mi chinai sul tavolo e vidi che, sotto la sezione che il nicieano aveva rimosso, c'era un altro livello del
plastico. Si vedevano i resti di una stanza, e quanto rimaneva di un corridoio. Quest'area più profonda
della prima era dipinta in arancione.
«E ora», fece Tharrin, «c'è un altro pezzo da aggiungere a questo gioco a incastro. Il bianco è ciò che
vediamo, l'arancione ciò che abbiamo scoperto, e il nero ciò che non sappiamo, e siamo costretti a
immaginarci». Dicendo questo, prese da sotto il tavolo un pezzo di legno nero sagomato in modo
particolare, e lo appoggiò alla sezione bianca, che aveva rimesso al suo posto. Il pezzo si incastrò
perfettamente. Cercai di immaginare il tutto in un colore solo. Unendo mentalmente l'arancione al
bianco, e aggiungendo il tutto al nero, si formò l'immagine di un piccolo edificio.
«Mi accorgo che hai capito», fece Tharrin. «Naturalmente, la porzione che abbiamo ricostruito in nero è
soltanto frutto di congetture». Tolse il pezzo nero e lo mise da parte. «È difficile capire com'erano questi
edifici in base all'esame di quanto ne è rimasto. Ma abbiamo almeno la soddisfazione di provarci». Di
nuovo mi guardò, e i suoi occhi si fissarono nei miei. «Questo modello», disse, «sarà posto sotto la tua
responsabilità. Ti chiami Aldair, non è
vero? Puoi mantenere il tuo nome. È soddisfacente. Studierai il plastico fino a quando lo conoscerai
bene quanto lo conosco io. Mi accompagnerai fra le rovine e prenderai appunti. Non impiegherai molto
tempo per apprendere a parlare e a scrivere la lingua dei Nicieani. Non è una serie di zampe di gallina,
quali appaiono ai barbari: scoprirai che è una lingua semplice e armoniosa».
L'Alto Signore Tharrin si allacciò le mani dietro la schiena e si volse verso le rovine. «Questo lavoro ti
sarà di soddisfazione per il resto della tua vita, credo, e sarà degno delle tue capacità. Ho sempre
considerato un delitto sprecare l'intelligenza di un uomo, che sia libero o schiavo». Si volse verso di me,
e ancora una volta mi puntò gli occhi addosso.
«Dunque, Aldair», fece, «è ora che tu ti metta al lavoro, non ti sembra?»
TREDICI
Mi immersi subito nel lavoro, e ne rimasi affascinato. Tharrin lavorava per ore e ore, spesso fino a notte
fonda, quando un problema particolarmente difficile impegnava la sua mente. Ma lo schiavo non era da
meno del padrone. Se talvolta gli occhi mi si appesantivano, e sentivo il cervello avvolto da ragnatele,
facevo del mio meglio per nascondere la stanchezza. Il nicieano riteneva che il sonno fosse un'abitudine
deplorevole, che comportava la perdita di ore preziose. C'erano tante cose da fare, diceva sempre, e
tanto poco tempo per farle.
«Dormiremo tutti a sazietà nel Mondo di Poi», aggiungeva certe volte,
«anche se ti assicuro che io non intendo sperperare la vita eterna in un modo così idiota. E nessuno di
quelli che lavorano con me dovrà aspettarselo». Quest'ultima affermazione in un certo senso mi divertì,
anche se non permisi ad alcun sorriso di affiorare alle mie labbra. L'Alto Signore Thar-rin, nobile di
sangue, dava per scontato che tutti i membri della sua Casa, dipendenti, collaboratori e schiavi, lo
avrebbero accompagnato nell'aldilà. Non lo sfiorava pure il pensiero che, forse, le cose sarebbero potute
andare diversamente.
In un lampo, passarono due mesi. Le giornate si erano fatte più brevi, e dopo il tramonto aveva
cominciato a soffiare dal mare un venticello gelido. Tharrin risentì molto del cambiamento di clima, e
così gli altri Niceiani. Questa razza non tollera le basse temperature, e appresi che presto la spedizione
avrebbe fatto ritorno in patria, per riprendere il lavoro la primavera successiva. Sul posto, a vigilare le
rovine, sarebbe rimasta una guarnigione militare, e a quanto si diceva molti dei suoi membri ogni anno
morivano in seguito al clima troppo rigido, prima del ritorno delle navi. La disciplina nel campo era
perfetta, perché i membri della guarnigione sarebbero stati scelti dagli ufficiali fra i soldati meno solerti
e più riottosi. Quanto a me, scoprii che il mio più grande nemico era l'impazienza. Ero assorto
nell'enigma rappresentato dalle rovine, e spesso attraversavo crisi di nervosismo per l'esasperante
lentezza con cui procedevano i lavori. Rimasi sbigottito quando appresi che Tharrin si dedicava a questo
compito già da sette anni, e che preventivava almeno altre dieci stagioni di lavoro prima di poter
acquisire qualche conoscenza definitiva sulla misteriosa città. Il fatto che lui stesso fosse ormai in età
avanzata non preoccupava il nicieano. In qualche modo, era certo che avrebbe completato il suo
progetto di scavo. Questo era il suo desiderio: e chi mai poteva mettersi contro la sua volontà?
Vedevo molto di rado Rheif, ormai. Le poche ore che, di tanto in tanto, passavamo insieme erano per
me le meno piacevoli, perché lo stygiano era caduto in preda della più profonda fra le depressioni. Una
creatura come lui si incontrava di rado fuori delle sue foreste native, e nel campo nicieano
rappresentava una vera curiosità. Ironicamente, il giovane Principe Dhar'jeem era rimasto totalmente
incantato da Rheif. Il bimbo gridava di gioia ogni volta che il suo «salvatore» era presente, e piangeva di
preoccupazione quando non lo sapeva vicino. Di conseguenza lo stygiano venne nominato, con suo
grande orrore, accompagnatore permanente del Principe. Mi preoccupavo di celare con ogni cura il mio
pazzo divertimento ogni volta che vedevo Rheif uscire dal padiglione reale con in groppa il piccolo
nicieano che gridava di gioia. Le piccole mani di Dhar'jeem afferravano i lunghi peli che crescevano
attorno alle mascelle irte di denti dello stygia-no, e la sua corta coda verde frustava l'aria mentre Rheif
galoppava cupamente all'intorno finché il piccolo non si stancava del gioco. Per di più, lo stygiano aveva
deciso che la fonte ed origine di tutte le sue sventure ero io.
«Ecco dove ci ha portato la tua smania di vagabondare», mi accusò apertamente una volta facendo gli
occhi feroci. «Se avessimo abbandonato la barca quando io te lo suggerii, a quest'ora saremmo già a
casa». Poi sospirò e annusò l'aria. «Sono certo che ormai la prima neve ha coperto le foreste dei
Lauvectii. Alla mattina gli alberi sono gelati, e le sponde dei torrenti sono orlate di ghiaccio. Come vorrei
rivedere di nuovo queste cose».
«Rheif», cercai di rassicurarlo, «non rimarremo in eterno schiavi dei Nicieani». Alzò un sopracciglio e
fece mostra della più grande sorpresa. «Cosa?
Non riesco a credere di aver sentito bene, Aldair. Di certo non vorrai tornare fra i Venicii? Lo sanno tutti
che tu sei perfettamente felice di essere lo schiavo personale di Tharrin, di mangiare la sua zuppa di
scarafaggi, di annusargli i calcagni e riempire di pietre i suoi sacchi!»
Sentii il sangue montarmi alla testa. «Ascolta, stygiano», gli feci, «io sono uno schiavo come te, e faccio
quello che i Nicieani mi dicono di fare. E lo faccio perché voglio restare vivo, finché è possibile. Inoltre,
succede che io abbia interesse a sapere com'era il mondo prima di diventare lo schifo che è, e finché
rimango schiavo non c'è nulla di male se riempio le mie giornate con un'occupazione che trovo utile.
Non ho certo scelto la schiavitù come una professione. E non appena se ne presenterà la minima
occasione, stai pur certo che mi libererò di questo maledetto collare di ferro il più rapidamente
possibile!»
Vidi che Rheif era rimasto colpito dal mio sfogo. Si grattò la testa con aria meditabonda, ma non osò
guardarmi negli occhi.
«E poi», aggiunsi con una punta di cattiveria, «io sono impegnato in un lavoro importante, e non faccio
la balia asciutta per gli infanti nicieani...»
Forse quest'ultima osservazione non era necessaria. Ma non lo era neanche l'osservazione sul mio
comportamento che fece Rheif in risposta. Per più di una settimana, queste furono le uniche parole che
ci scambiammo.
Dall'incarico di Rheif nei confronti di Dhar'jeem era comunque venuta una cosa favorevole. Persino lo
stygiano era stato costretto ad ammetterlo. Le leggi nicieane sono ineluttabili e le sentenze, una volta
pronunciate, debbono essere eseguite ad ogni costo. E questo valeva anche per Rheif, condannato a
perdere un arto perché, pur non essendone autorizzato, avevo osato toccare la sacra persona del
Principe. La cosa, al punto in cui si era arrivati, sembrava ridicola: ma la legge è legge.
La sentenza riguardante Rheif non poteva essere annullata né riveduta, neppure dallo stesso Tharrin.
Tuttavia, scoprimmo che anche il rigido codice penale nicieano tollerava alcune flessibilità, come capita
in tutti i paesi, quando lo desiderano coloro che fanno le leggi. Rheif doveva perdere un arto: ma non
c'era alcun codicillo, della legge che statuisse in quale punto l'arto in questione dovesse essere separato
dal resto del corpo. Rheif, che attendeva con terrore l'evento, era certo che il punto prescelto sarebbe
stato all'altezza del gomito o della spalla. L'Alto Signore Tharrin, tuttavia, vedendo che il nipotino aveva
preso in grande simpatia lo stygiano, decise che non valeva la pena di rischiare una serie di bizze infantili
all'interno del padiglione reale. Per cui, dopo aver fissato il giorno in cui la sentenza doveva essere
eseguita, stabilì che il punto di separazione dell'arto dello stygiano dal resto del corpo dovesse essere
misurato all'altezza dell'ultima falange del dito mignolo della mano sinistra. Dopo di che la macchina
della giustizia si mosse celermente, e la sentenza venne eseguita con il massimo dello scrupolo e della
cura. La ferita, di rara perfezione chirurgica, venne fascinata ogni giorno dal medico personale di Tharrin.
Rheif dichiarò, dal canto suo, che non sentiva in maniera particolare la mancanza dell'ultimo centimetro
del suo dito mignolo, dato che fino ad allora non lo aveva trovato di grande utilità. Si vantò con me di
aver tratto, tutto sommato, il vantaggio maggiore dallo scambio, aggiungendo che era frequente per gli
Stygiani avere la meglio su altre razze per quanto riguardava le trattative commerciali. La catena d'oro
ornata di gemme sfavillanti che portava al collo poteva non valere un intero braccio: ma di certo valeva
molto di più di un inutilissimo pezzettino di carne tolto alla sua mano sinistra...
«Aldair», annunciò un giorno Tharrin; «partiremo da qui entro la prossima settimana, o al più tardi la
settimana seguente. Darai ordine a mio nome che gli scavi in corso vengano portati a termine il più
presto possibile, e che tutte le aree in cui si svolgono i lavori vengano sigillate con la massima cura per
proteggerle dagli agenti atmosferici».
Mentre l'Alto Signore pronunciava queste parole, si avvolgeva intorno alle spalle un pesante mantello, e
chinava la testa per evitare un soffio di vento gelido.
Nella tenda che fungeva da quartier generale veniva tenuto acceso notte e giorno un gran fuoco. Io non
ne sentivo la necessità, ma i Nicieani sono creature a sangue freddo, e risentivano in modo
estremamente negativo di temperature che Rheif ed io trovavamo invece stuzzicanti. Mi rendevo conto,
inoltre, che il clima e le lunghe ore di lavoro avevano chiesto un prezzo non indifferente al fisico di
Tharrin. Anche se la sua salute era buona, tuttavia l'età da tempo non era più giovane. Si stancava
facilmente, e spesso diventava irritabile e impaziente. Per di più, era un uomo orgoglioso e
incredibilmente ostinato, specie nei riguardi di se stesso: per cui non avrebbe ammesso mai, in alcun
modo, di avere dei limiti. Malgrado ciò, pur lamentandosi del fatto che le giornate più corte e la minor
luce rallentavano il lavoro, mi resi conto che in segreto accoglieva con sollievo l'idea della prossima
partenza sulle acque calde del Mar Meridionale.
«Ci daremo da fare», aggiunse, «in modo da non sprecare neppure un'ora nei prossimi giorni. C'è
moltissimo lavoro da compiere, sia dentro che fuori».
Stavamo serrando la tenda alla fine di una giornata faticosa, e il nicieano passava pigramente le mani
sulle carte e i disegni che coprivano il suo tavolo. Poi, all'improvviso, come se fosse stato colto da un
impulso che lui stesso non si aspettava, allungò la mano verso la sua caraffa di vino e ne versò
due coppe: una per sé e l'altra per me.
Fui profondamente toccato da questo gesto, perché non è certo cosa comune per un padrone versar da
bere al proprio schiavo. Alzò il liquido ambrato e lo guardò alla fiamma della lampada, poi volse gli occhi
su di me.
«Ti sei comportato molto bene, Aldair. Hai fatto più di quanto mi aspettassi».
«Ti sono grato di pensarlo, mio Signore».
Il nicieano rise sottovoce. «Non devi essermi grato. Non hai fatto il lavoro per compiacere me, anche se
io ne sono soddisfatto lo stesso. Hai lavorato con passione perché sei contento di ciò che fai, come lo
sono io». Fece una pausa. «Non è vero?»
«Mio Signore, ammetto senza difficoltà di essere molto curioso».
«Delle cose che riguardano l'antichità e la storia?»
«Sì, mio Signore».
«E anche delle cose di natura religiosa, forse?»
«In... in una certa misura, Signore». Tharrin sorrise. «E questa grande curiosità ti ha portato alla
condizione di schiavo, non è vero?»
L'osservazione mi stupì, e il nicieano si accorse del mio imbarazzo.
«Aldair, sai bene che io conosco la tua storia, così come l'hai raccontata a Linius. Ed anche se il mio
meritevole luogotenente è un po' troppo pignolo e non sa giudicare l'esatto valore delle cose, tuttavia sa
bene come condurre un interrogatorio. Tu sei stato scelto per questo lavoro al mio fianco perché, in
base all'interrogatorio di Linius, ho visto che non soltanto sai dare le giuste risposte, ma ti poni anche le
domande corrette. Non sono in molti ad avere questa capacità. In particolare fra i membri del tuo
popolo, credo. I Rhemiani non incoraggiano le novità nel campo del pensiero, a meno che esse non
servano ad allargare i confini del loro Impero». Si interruppe un attimo e scosse la testa. «Ma questo
non ha niente a che fare con te, né con le circostanze che ti hanno portato qui. Scherzavo soltanto a
metà, Aldair, quando dicevo che la sete di conoscenza ha finito per metterti al collo un anello di ferro. È
una battuta di cattivo gusto, lo ammetto, ma in essa c'è della verità: perché né la storia né la religione
trattano l'uomo con benevolenza. Il male e la menzogna hanno sempre aleggiato attorno a questi alti
pinnacoli del sapere, e tu non sei il primo ad esserne caduto vittima». Si interruppe ancora per bere un
sorso di vino. «Dimmi: credi ancora nella tua Chiesa, dopo il male che ti è venuto attraverso di essa?»
«Mio Signore», risposi con franchezza, «io credo che il mondo sia nato grazie all'opera di un Creatore.
Ma non sono più certo che la Chiesa serva sempre la volontà del Creatore, o parli in suo nome.»
Tharrin annuì. «Ben detto. C'è ancora speranza per te, come avevo immaginato. E la storia, Aldair? Ti
incuriosisce sempre? È un soggetto caro ad entrambi, ma che è ormai così strettamente intrecciato con
le necessità
del presente, da rendere quasi impossibile scoprire le verità del passato».
«L'obbiettivo giustifica gli sforzi, a mio modo di vedere», cominciai a dire. Poi mi accorsi che la foga della
conversazione mi attirava su terreni insicuri, e mi fermai. «Mio Signore», dissi, «non possiedo ancora
conoscenze sufficienti per affermare una cosa piuttosto che un'altra». Tharrin fece un gesto con la
mano. «Non vergognarti mai delle tue opinioni».
«Anche se non ho prove per sostenerle, mio Signore?»
Tharrin rise e versò dell'altro vino. «Una circostanza del genere non è
mai stata di ostacolo né agli ecclesiastici né agli studiosi, Aldair. Perché
dovrebbe trattenere un uomo che cerca sinceramente la verità?»
Ci pensai su un momento. La verità, a quanto pareva, non era tenuta in gran conto dalla maggioranza
delle persone. Spesso, era un ostacolo pericoloso sulla strada del potere, della ricchezza e di altre cose
care al cuore degli uomini. «Forse, Signore», dissi, «perché la verità non può essere trovata in questo
mondo...»
«E dove vorresti trovarla? Su un altro?»
«Forse, Signore, è l'ultimo dono concesso ai morti».
Tharrin mi fissò «La tua Chiesa ti insegna questo, Aldair?»
«No, per quanto io sappia, Signore. Almeno, non l'ho sentito dire da alcun ecclesiastico. Ma mi sembra
una cosa ragionevole, non è vero? Mi sembra che nella Vita di Poi debba esserci la verità. Altrimenti, a
che servirebbe morire e condurre la nostra anima ad Albion, per trovare che anche lì ci sono nuove cose
ignote da ricercare?»
Tharrin rimase silenzioso, con l'ombra di un sorriso che gli piegava la bocca. Rigirava una pietra fra le
dita, e la fissava come se stesse meditando. Poi sbatté le palpebre e alzò gli occhi verso gli ultimi raggi
del tramonto.
«L'isola di Albion, certo», disse infine, sempre guardando il sole morente. «Tu credi, come tutta la tua
gente, che le sue spiagge accolgano le anime dei morti?»
Annuii, ricordando con un brivido quelle coste grigie e gelide. «Penso di sì, Signore».
Tharrin alzò gli occhi. «Anche in Niciea conosciamo l'isola di Albion. Ti stupisce? È un luogo sacro anche
per noi, ma in un modo alquanto differente». Scosse la testa, con un gesto che non gli avevo mai visto
fare, e che sembrava esprimere qualcosa a mezzo tra divertimento e rassegnazione.
«Temo che la tua isola così settentrionale sia un po' troppo fredda perché
noi Nicieani possiamo considerarla un paradiso, Aldair. Secondo i nostri insegnamenti religiosi, chi
muore nella benedizione di Al Wajir è liberato dal peso delle sofferenze legate alla carne e viene
trasportato nel Mondo di Poi in un luogo caldo e assolato... Un luogo molto simile a Niciea, sospetto, ma
senza tasse né balzelli. I peccatori, invece, sono dannati alla sofferenza perpetua nel gelo di Albion».
Rimasi stupefatto alla rivelazione, e Therrin sorrise, stringendosi addosso il mantello.
«Il paradiso per un uomo è l'inferno per un altro, non è vero?» fece. «E a questo punto, che cosa mi dici
del tuo concetto di verità, Aldair? C'è forse una verità per la tua razza e una diversa per la mia? E una
terza, diversa ancora dalle altre due, per il tuo amico stygiano?» Si chinò in avanti, scostando la coppa
del vino. «No. In questo mondo, forse, di verità ce n'è poca, come dici tu, ma non credo che si debba per
forza morire per trovarne una fetta consistente. Là fuori», e indicò con un gesto le rovine, «c'è la verità
più concreta e inconfutabile che potrai mai reperire in questa vita». L'affermazione mi diede da pensare,
e Tharrin si accorse della mia espressione meditabonda.
«La Terra nasconde i suoi segreti, Aldair, e gli anni li coprono con un mantello che è difficile da sollevare,
come hai visto. Ma quando riesci a metterlo da parte, ciò che trovi è certo e reale. Le ere passate si
mostrano nude e senza vergogna agli occhi di chi sappia come guardarle. E sulla loro verità nessuno
storico è ancora intervenuto per correggere il passato e abbellire il tessuto del presente. Né si sono
affollati i preti per tingere gli anni dei loro colori, in modo che le loro divinità ne traggano vantaggio».
Mentre ascoltavo Tharrin, i miei occhi erano fissi sulle rovine della grande città. Era come se la vedessi
ora per la prima volta, con i raggi del tramonto che mandavano dal cielo ombre sanguigne a ricoprirla.
«Leggo nei tuoi pensieri», disse il nicieano. «Non è impresa difficile, perché rispecchiano i miei. Ti chiedi
com'era ai tempi del suo splendore, e quali creature ne calpestavano le vie...»
«E quali pensieri passavano nella loro mente», aggiunsi. «Sì, mio Signore: più giro intorno a questi
enigmi, più la mia testa si gonfia di meraviglia. Anche se ho già visto ciò che il tempo può fare alla pietra,
non è facile superare con l'immaginazione un abisso di così tanti anni». Fissai il nicieano.
«Quanti, mio Signore? È possibile dirlo? Quando è stata eretta quella città?
All'inizio della vita, forse? Subito dopo la Tenebra?»
La testa di Tharrin si alzò di scatto. «Come? Che vuoi dire?» Il colore di un momento prima era
scomparso, e la sua voce era gelida di disprezzo.
«Che puoi saperne tu della Tenebra», fece, guardandomi fisso, «e dell'inizio della vita?»
«Mio Signore...» Che cosa poteva aver provocato quell'improvviso accesso di collera? «Io... io pensavo...
Siccome quelle rovine sono così antiche, almeno a quanto mi sembra, io credevo che risalissero indietro
di tremila anni nel tempo... Voglio dire, di tutto il corso della storia, fino a quando l'uomo emerse dalla
Tenebra...»
Tharrin scoppiò in una risata roca.
«Qualsiasi cosa dicano gli idioti che allignano nella tua Chiesa, come in qualsiasi altra», fece, «essi non
sanno nulla di come sono trascorse le ere sulla Terra. Vedi: delle creature viventi hanno camminato su
quelle strade almeno cinquemila anni prima di quella Tenebra di cui tu vai cianciando.Questo, Aldair, io
lo so per certo! »
QUATTORDICI
Anche il volto privo di lineamenti di un nicieano tradisce le emozioni a un altro membro della stessa
razza, o a chi abbia imparato a comprendere queste creature. Mi accorsi subito che l'Alto Signore
Tharrin aveva detto più di quanto volesse dire, perché il colore aveva quasi del tutto abbandonato la sua
faccia, lasciandola di un pallore livido. Rigido come una pietra, il nicieano rimase a fissarmi per qualche
istante, poi allungò un braccio e mi afferrò in una morsa violenta.
«Non dirai ad alcuno una sola parola della nostra conversazione, Aldair», mi fece cupamente. «Non una
sola parola, capisci! Pena la tua vi-ta! »
«Mio Signore...»
Il nicieano recuperò di colpo il suo equilibrio. La luce selvaggia nei suoi occhi neri si spense, e fissò le dita
che ancora artigliavano il bavero del mio mantello. Si allontanò da me di scatto, come se la mia carne si
fosse trasformata in ferro incandescente, e corse fuori della tenda senza una parola, lasciandomi nella
semi-oscurità della sera, che si faceva sempre più
tenebrosa.
Ovviamente, quella notte non trovai riposo. Il volto dell'Aghiir Tharrin era sempre davanti a me.
Potendo, avrei volentieri cancellato quell'incidente dai miei ricordi. Tentai di esorcizzarlo,
convincendomi che tutto era dovuto al sovraffaticamento del nicieano, logorato dalle lunghe ore di
lavoro. Mi dissi, poi, che i suoi anni di studio dedicati alle ricerche sul passato avevano influito in modo
negativo sulla sua ragione. Che cos'altro avrei potuto pensare? Che in un momento di spossatezza, un
padrone aveva rivelato al suo schiavo che il mondo era edificato su fondamenta menzognere?
E quale poteva essere il motivo di una tale rivelazione?
Alla fine, verso l'alba, decisi di non pensare più all'accaduto. Cosa, però, più facile a dirsi che a farsi. Non
è troppo difficile ignorare ciò che un uomo dice con le parole. Più difficile è però, talvolta, metter da
parte ciò che dice con gli occhi.
Il mattino dopo, l'arciere che quotidianamente mi accompagnava sul luogo degli scavi non comparve. La
sua presenza non era ormai altro che una formalità, dato che abitualmente andavo su e giù per il campo
eseguendo gli ordini di Tharrin. Tuttavia, giudicai inopportuno muovermi senza attenderlo.
Aspettai per mezz'ora senza che venisse nessuno. Allora mi decisi a muovermi da solo e mi diressi verso
il padiglione reale per prendere ordini. Le guardie, ovviamente, non mi fecero passare, ma ormai mi
conoscevano e una di esse entrò dentro per chiedere informazioni. Poco dopo il luogotenente rhemiano
di Tharrin, Linius, fece capolino dalla tenda e mi disse bruscamente che il suo padrone non stava bene in
salute, e che io avrei dovuto portare avanti il lavoro in vece sua e agendo per suo nome, facendo tutto
ciò che era necessario fare per chiudere le operazioni nel modo dovuto. Linius aggiunse che tutta la
spedizione da quel momento era in attesa dei comodi dello schiavo venuto dal nord, per cui era
sperabile che avrei portato a termine il mio incarico con la massima celerità possibile, non essendoci
alcun motivo per rimanere un giorno di più in quel territorio desolato. Gli assicurai che avrei fatto del
mio meglio. Parlando, sorridevo a me stesso, al pensiero che Linius era da tanto tempo al servizio di
Tharrin che ormai si considerava anche lui un nicieano.
I Nicieani erano freddi, e anche Linius era freddo. Il massimo desiderio di quella povera creatura era un
bel rivestimento di scaglie verdi sulla pancia: dopo di che sarebbe stato compiutamente felice. Le
scaglie, e una lunga coda diritta invece di una coda corta e arricciata. Non mi sorprese la notizia che
Tharrin si era messo a letto. Aveva preteso troppo da se stesso, e malgrado la sua convinzione di essere
immune alle debolezze che affliggono i comuni mortali, non era meno vulnerabile di chiunque altro.
Mi chiedevo, tuttavia, quanto l'incidente dell'altra notte avesse contribuito al suo collasso. In misura
notevole, decisi. Quando un uomo è sotto stress, non sempre le sue facoltà mentali funzionano come
dovrebbero. Il ragionamento mi sembrava logico, e per il momento tranquillizzò in parte le mie
apprensioni, fornendo una spiegazione logica all'accaduto.
Scoprii dubito che le mie preoccupazioni dovevano avere un diverso obiettivo. Anche se ormai
conoscevo praticamente tutte le operazioni che venivano portate avanti fra le rovine, le colossali
dimensioni della responsabilità che mi era stata affidata non mi apparvero chiare fin quando non entrai
sotto la tenda-cantiere.
Avevo visto già centinaia di volte tutto quello che conteneva, ma ora ogni cosa mi sembrava totalmente
estranea. Fissai le centinaia di mappe e disegni, le pietre e i manufatti etichettati con cura, il complicato
plastico sul tavolo, che la sera prima avrei potuto smontare e rimontare ad occhi chiusi. Tutto mi
appariva ignoto, e complicato oltre ogni definizione!
Per gli occhi del Creatore! -mi dissi. - Non riuscirò mai a mettere ordi-ne in questo intrico!
Prima maledissi Tharrin, poi mi affrettai a pregare il cielo per una sua pronta e completa guarigione.
Il lavoro procedeva a passo di lumaca. Mi soffermavo a controllare e ricontrollare ogni cosa, e poi
controllavo di nuovo. Ero in quattro posti contemporaneamente, e mai dove c'era bisogno di me. Alla
fine del mio secondo giorno come Maestro delle Rovine (così mi aveva battezzato Rheif), ero già sicuro
di aver commesso almeno dodici errori gravissimi, ciascuno dei quali era suscettibile di farmi perdere la
testa. Gli ufficiali nicieani, dal canto loro, avevano avvertito il mio terrore e la mia insicurezza, e persino
gli schiavi addetti agli scavi ghignavano alle mie spalle. Tutto ciò mi faceva inferocire, ma non potevo dar
loro torto. Fra l'altro, al ritmo con il quale procedevano i lavori sotto la mia supervisione, non saremmo
potuti partire se non ad inverno inoltrato. Perciò, ad un certo punto mi fermai, raccolsi le idee ed
esaminai il problema con la massima freddezza possibile. La risposta era relativamente semplice.
Io esitavo perché, ogni volta, mi ponevo la medesima domanda: Che co-sa farebbe Tharrin in questo
caso? Come farebbe imballare questo reperto, come catalogherebbe quest'altro? Approverebbe o no il
modo in cui ho protetto il quadrante meridionale contro le intemperie?
Naturalmente, poiché non c'era Tharrin in giro che potesse rispondermi, mi trovavo da solo, io Aldair, di
fronte a tutte le mie esitazioni, i miei problemi, le mie domande senza risposta. E dovevo risolverli, che
mi piacesse o no.
Perciò, con un gigantesco sforzo di volontà, cominciai a pensare con la mia testa, e a decidere senza
chiedermi che cosa Tharrin avrebbe voluto che facessi. E il lavoro cominciò ad andare avanti più
rapidamente.... Il quarto giorno venni chiamato nel punto più profondo dello scavo, per esaminare
l'incastellatura protettiva eretta a difesa di un arco che appariva particolarmente delicato. In quel punto
i lavori di recupero erano appena all'inizio, e non ci misi molto tempo per studiare gli scavi esplorativi. La
procedura seguita era ormai ben collaudata. Veniva dapprima praticato un foro di piccolo diametro nel
terreno; se veniva alla luce qualcosa di promettente, il foro veniva gradualmente allargato. In quel punto
era stato scoperto un muro ben conservato: una parete larga circa tre metri di solido materiale grigio, di
origine chiaramente non naturale, ma che pareva formata grazie a un procedimento di fusione a blocchi.
Non appena vidi il muro, il suo aspetto mi parve stranamente familiare, anche se non lo avevo mai visto
prima. Passò qualche tempo prima che mi rendessi conto che non era il muro in sé a suscitare i miei
ricordi ma le striature che lo ornavano. Avevo già visto un segno del genere in precedenza: una serie di
strette fasce orizzontali di diversi colori. C'erano fasce molto simili nella caverna sulla spiaggia nella
quale io e Rheif avevamo trovato rifugio durante la tempesta. Per tutta una lunga miserabile notte, le
avevo esaminate alla luce intermittente dei lampi, cercando di dimenticare i gelidi e umidi spruzzi di
pioggia che mi stavano inzuppando fino all'osso. Non so dire perché questa seconda apparizione di uno
schema a fasce orizzontali colpì tanto il mio interesse. Forse fu grazie ad una delle osservazioni di
Tharrin, secondo cui chiunque, con una pala e un piccone, può tirar fuori oggetti da sotto terra: ma
soltanto chi esamina con intelligenza è
in grado di legare ciò che vede in un certo momento a ciò che aveva visto prima, traendone delle
conclusioni.
È questo - mi aveva spiegato il nicieano - il modo in cui viene messo assieme il gioco a incastro del
passato. Così, non appena ebbi qualche momento libero, presi un rotolo di pergamena e annotai
meticolosamente la larghezza, la successione e i colori delle bande orizzontali comparse sul muro
appena portato alla luce; più
tardi, feci lo stesso con le bande che si vedevano nella caverna. E nei pomeriggi, quando per qualche
istante lasciavo da parte il noioso lavoro di catalogatura dei reperti, tiravo fuori i due rotoli di
pergamena e li studiavo alla luce della lampada, cercando di trarre un significato da ciò che avevo visto,
e tracciavo appunti e osservazioni su foglietti di carta. Sono sicuro che, per tutto il tempo, sul fondo
della mia mente si agitava un'idea che non osavo far salire alla coscienza. E quando finalmente compresi
appieno ciò che avevo fra le mani, un brivido gelato corse lungo la mia spina dorsale, e mi sentii come se
un peso immenso mi avesse inchiodato alla sedia. Per poco non cedetti all'impulso di gettare tutto nel
fuoco, lì e allora. Ma mi accorsi che non ci sarei riuscito, come non sarei riuscito a impormi di non
respirare. Avevo trovato qualcosa. Da solo. Avevo tratto qualcosa dal nulla.
O il nulla da qualcosa, aggiunsi cupamente. Nella fredda luce del giorno, già non potevo credere che i
miei appunti avessero un significato. O, quanto meno, un significato fuori dell'ordinario. Era meglio
però, se volevo mantenere la testa attaccata alle spalle, che portassi avanti i compiti che mi erano stati
affidati. Quindi misi da parte i miei appunti e mi ripromisi di bruciarli tutti, fino all'ultimo foglietto, prima
di salpare alla volta di Niciea.
Otto giorni dopo aver ricevuto l'incarico, feci avvertire l'Aghiir Tharrin che gli scavi erano stati messi al
sicuro per l'inverno, e che tutti i reperti erano stati imballati e catalogati. Inoltre, che la sistemazione
nelle stive delle navi degli oggetti che avremmo portato con noi era stata condotta a termine, e i carichi
erano stati controllati.
L'Aghiir mi fece sapere che il semplice annuncio del completamento dei lavori non era sufficiente. Un
resoconto completo e particolareggiato del lavoro svolto dallo schiavo Aldair doveva essergli consegnato
prima dell'alba del giorno seguente. Evidentemente, pensai, l'Alto Signore Tharrin è sulla via della
completa guarigione. Costrinsi i miei occhi a rimanere aperti per un'altra notte, portando a termine
l'ultimo compito... anche se non so quali sciocchezze potevo aver buttato giù sulla pergamena nelle
ultime ore prima dell'alba. In anticipo sui raggi dell'aurora, esaminai ciò che restava nella tendacantiere
e la disposizione dei pochi oggetti rimasti. E, mentre ero solo, bruciai le carte che contenevano ciò che
avevo battezzato le Divagazioni Mentali di Aldair. Quando anche questa operazione fu terminata, emisi
un profondo sospiro di sollievo.
Pochi istanti più tardi, apparve il luogotenente Linius, che non cercò
neppure di dissimulare il suo disappunto alla constatazione che avevo portato a termine in tempo utile
anche l'ultimo incarico. Gli consegnai il fascio di fogli che contenevano il mio rapporto e lo vidi dirigersi
verso il padiglione reale. Poi mi misi a sedere sotto una roccia presso la cima del dirupo. Sentivo che la
mia schiena era accarezzata dai raggi del sole nascente, e pochi istanti più tardi ero immerso in un sonno
profondo...
Andavo alla deriva... ero solo su una piccola barca... una nebbia gelidami avviluppava in densi tentacoli
grigi... la nebbia si diradava all'improv-viso, ma non c'era il sole a darmi il benvenuto... il cielo era nero, e
scurenubi di tempesta formavano una minacciosa cortina verde all'orizzonte... ilrombo del tuono
percorreva il mare come l'eco di immensi tamburi lonta-ni... un'onda orlata di spuma sollevò in alto la
barca, e davanti a me sistagliò il malinconico profilo di Albion...
Conoscevo la paura, ma la sensazione che provavo ora aveva un nomeindefinibile... qualcosa di orrendo
e terribile era presso di me, ma si tene-va costantemente nascosto al mio sguardo... le anime, forse?... le
ombredei morti...?
Camminavo sulle spiagge di Albion... ma i miei piedi non avvertivano lasabbia, le mie orecchie non
percepivano alcun suono... i miei occhi sem-bravano velati da lenti del peggior vetro, e lo scuro mondo
all'intornosembrava ondeggiare davanti a me...
Un'immensa città sorse, e disparve... e per quanto non avessi potuto ve-derla chiaramente, né sapere
quale potesse essere il suo aspetto di frontealla luce del mondo, tuttavia ero certo che essa era stata
riscaldata dairaggi del sole molto prima che le rovine ritrovate sulle spiagge dei Tarco-nii avessero
cominciato ad andare in polvere...
Il gelo orrendo mi mordeva le ossa, e sentivo sulla mia carne il soffiodegli anni che passavano... corsi, ma
sulle spiagge di Albion i miei piedierano di ghiaccio... volti che non potevo distinguere si chinavano su di
mee mi guardavano cose che non voglio ricordare... voci che mi chiamavanocon un nome che non voglio
udire...
Quando mi svegliai il sole era già basso sull'orizzonte, e nell'aria si avvertiva il fresco del pomeriggio.
Avevo dormito per tutto il giorno senza che alcuno mi disturbasse: anche se, forse, avrei preferito essere
destato. Rabbrividii, mi alzai in piedi, mi avvolsi nel mantello, e cercai di scacciare dalla mia mente le
ultime ombre di quell'incubo orrendo. Il sudore della paura era ancora sulla mia pelle, come un velo
funebre.
All'intorno c'erano ben poche cose che potessero testimoniare che i nicieani in quel luogo avevano
posto un imponente accampamento. Le tende erano scomparse. Alcuni materiali dall'aspetto insolito
erano ancora sparsi qua e là. Vidi che la guarnigione invernale si era già acquartierata all'altra estremità
della valle, lontano dai commilitoni pronti per partire. Le due navi nicieane oscillavano pigramente nella
baia: grossi bestioni verdi che sembravano fatti a immagine dei loro costruttori, lucenti di scaglie dipinte
da prua a poppa, assetati di mare. Proprio mentre guardavo, vele di smeraldo ornate di occhi d'oro
fiorirono nel vento alla luce del sole morente. Mi voltai un'ultima volta verso le rovine dei Tarconii,
prima di scendere giù dal dirupo.
Lasciai che i miei occhi vagassero per qualche istante lungo i passaggi che mi erano ormai familiari, le
mura diroccate, le colonne troncate a metà. Avevo studiato quella città fino a conoscerla come nessun
altro. Ma, ora, non mi sembrava più la stessa.
QUINDICI
Dopo tre giorni di mare, la monotona costa dei Tarconii era ancora visibile alla nostra destra, ma i
marinai mi informarono che non sarebbe passato ancora molto tempo prima del passaggio attraverso gli
stretti che conducevano nel Mar Meridionale. Dopo di che, entro cinque giorni avremmo raggiunto il
porto della città reale di Chaarduz. Era un nome, questo, che avevo sentito pronunciare molte volte nel
campo nicieano. Una volta incontrammo una nave rhemiana diretta a nord. La sua vista mi allarmò,
perché ricordavo gli immensi vascelli neri all'ancora nel bianco porticciolo che io e Rheif avevamo
attraversato. Questa nave tuttavia incrociò a una rispettabile distanza; potemmo ugualmente vedere,
però, che era piena di guerrieri, e che i suoi ponti erano irti di terribili macchine da guerra. Potei quasi
figurarmi l'immenso ariete che sporgeva dalla prua mentre fracassava la fiancata del vascello nicieano,
spaccando il fasciame come un coltello penetra in un melone. I marinai si divertirono molto alle mie
paure. Non avevo bisogno di preoccuparmi - mi assicurarono - perché Niciea non nutriva altro che
disprezzo per quelle immense vasche da bagno per elefanti. I Rhemiani, inoltre, temevano il mare, e non
mandavano mai le loro navi lontano dalla costa. Erano come ragazzini che spingevano sul fiume
barchette-giocattolo legate con lo spago. Inoltre, quei tozzi navigli erano quasi immanovrabili: le agili
navi nicieane avrebbero potuto girare loro intorno più volte, prima che potessero modificare la velatura
in modo da compiere una virata. Infine - mi dissero ancora - i Rhemiani non possedevano il segreto della
piccola lancetta di metallo che punta sempre al nord, e permette ai naviganti di sapere sempre dove si
trovano, anche se le nubi velano le stelle. Io rimasi dubbioso alla notizia di questa lancetta magica che
conosce da sola le direzioni, ma tenni per me le mie perplessità.
Tuttavia, mi dissi, quello che mi avevano raccontato dei Rhemiani poteva ragionevolmente
corrispondere al vero. Di certo, le agili navi nicieane sembravano nate per il mare, e passai molte ore ad
osservare i marinai mentre svolgevano il loro lavoro. La loro abilità mi meravigliava moltissimo, perché
mi accorsi che avevano trovato sistemi estremamente ingegnosi per manovrare le vele, in modo che
fossero sempre pronte a raccogliere il minimo alito di vento. Studiai ciò che facevano, e posi molte
domande. I Nicieani erano orgogliosi delle loro capacità, al punto da perdere tempo persino con uno
schiavo, spiegandogli i numerosi e diversi motivi per cui i loro vascelli erano superiori a qualsiasi altro.
Nel nostro quarto giorno di navigazione l'Alto Signore Tharrin mi chiamò alla sua presenza. Rimasi
esterrefatto dall'aspetto del nicieano.
Lo trovai curvo su un braciere di bronzo in un angolo della sua cabina: una figura rinsecchita, che quasi si
perdeva nelle stoffe che l'avvolgevano. Anche il mantello di broccato che gli copriva le spalle sembrava
un peso troppo grande per un fisico tanto esile.
Di solito, la pelle scagliosa dei Nicieani è ben tesa sullo scheletro, mostrando solo qua e là qualche osso
prominente. La pelle di Tharrin pendeva invece floscia, e mostrava pieghe ripetute attorno agli occhi e di
traverso alla gola.
«Mi stai fissando, Aldair», fece il nicieano in tono burbero. «Non è un atteggiamento educato».
«Mio Signore...»
«Ti risparmierò una bugia. Ho l'aspetto di chi è sull'orlo della tomba».
«La malattia non è stata di poco conto...»
Tharrin sorrise amaro. «Non sei di consolazione per gli infermi, Aldair. È un bene che tu non abbia scelto
la professione di medico. Fra l'altro, la tua espressione in questo momento manderebbe nel Mondo di
Poi anche una persona che scoppia di salute».
Aprii la bocca per parlare. Con un gesto, l'Aghiir mi impose il silenzio.
«Siediti, smettila di penzolare come un'anima in pena e di chiederti che cosa devi dire a consolazione del
tuo padrone. Non puoi far nulla per consolarmi. Il caldo sole di Niciea mi scalderà le ossa e mi restituirà
la salute: nient'altro può farlo. Io...»
Si fermò all'improvviso, fissandomi con uno sguardo strano, come se non fosse del tutto sicuro di chi io
fossi.
«C'è qualcosa che non va, mio Signore?» gli chiesi.
Sostenne il mio sguardo per un altro momento, poi abbassò gli occhi e si scrutò il dorso delle mani.
«Sto qui a lamentarmi della mia salute, Aldair, perché c'è un'altra cosa che devo dirti, e non so come
fare a dirtela».
Alzò di nuovo gli occhi.
«Un padrone», proseguì, «non ha il diritto di esigere da uno schiavo la piena fedeltà. Tuttavia, è proprio
ciò che sto per chiederti, Aldair. Rispondimi. E pensaci bene prima di rispondere. Puoi darmi ciò che ti
chiedo?
Non è una cosa che posso pretendere, né che posso forzarti a darmi. È impossibile mettere un collare di
ferro intorno alla mente di un uomo. E anche se fosse possibile, dopo, l'uomo non ci sarebbe più utile».
Gli risposi immediatamente, perché invero non avevo alcuna esitazione nel concedergli ciò che mi
chiedeva.
«Sì, mio Signore. Hai la mia fedeltà».
«Pensaci bene. Mi hai risposto così non perché questo è ciò che io voglio sentirmi dire, ma perché
davvero...» Scosse la testa, e si colpì con un pugno il palmo dell'altra mano. «No, vedo che sei sincero. Ti
faccio torto, dubitando di te». Fissò la scrivania, poi portò gli occhi nuovamente su di me. «Certe volte,
però, la fedeltà deve essere messa a prova. Ti dico che la tua lo verrà fino all'estremo limite. Accetti
ancora?»
«Sì, mio Signore».
Annuì brevemente.
«Dunque, ho scelto bene». Si volse verso la porta della cabina. «Linius!»
La porta si aprì immediatamente. Un po' troppo, a quel che sembrava, secondo il giudizio dell'Aghiir
Tharrin.
«Sei molto rapido, luogotenente», fece in tono cupo.
«Per servirti, mio Signore». Linius piegò la testa fino a terra.
«Fai attenzione a come mi servi», avvertì Tharrin. Fece un gesto verso di me. «Hai certe istruzioni
riguardanti lo schiavo Aldair», disse.
«Mio Signore...»
«Bada che queste istruzioni vengano eseguite come le hai ricevute, alla lettera. Mi capisci, Linius?
Qualsiasi... indebita iniziativa... che tu possa escogitare per servire meglio i miei interessi, non verrà
tollerata». Linius rimase in silenzio.
Guardai prima l'uno, poi l'altro.
Di certo, avevo concesso volontariamente la mia fedeltà, e non avevo rimpianti. Ma tutta la vicenda
aveva eccitato la mia curiosità. Non mi rendevo conto degli eventi, ma capivo che c'erano in gioco
questioni di grande importanza. L'Aghiir Tharrin, di certo, non perdeva il suo tempo dietro semplici
trivialità.
Presto scoprii che avevo ragione.
Scoprii anche che la fedeltà è una cosa che può concedersi inizialmente con fiducia, ma in seguito con
rimpianto.
Linius mi condusse direttamente dalla cabina del suo padrone al ponte principale della nave, dove il
Capitano degli arcieri mi strappò di dosso la tunica e cominciò a frustarmi fino a quando non persi i
sensi. La frusta lavorò - così mi venne detto - finché il sangue sgorgato dalle prime ferite non raggiunse
le mie ginocchia: questo, a quanto sembra, è ciò che prescrive la legge nicieana in tali circostanze. Chi
me lo disse, aggiunse che, in questo caso, essere di bassa statura è un vantaggio: e non potei dargli
torto.
Non ricordo la fine dell'operazione, comunque. Prima che il capitano finisse la sua opera avevo già perso
i sensi, come ho detto, e quando mi risvegliai mi ritrovai disteso a pancia in giù nell'infermeria della
nave, dove Mastro Pharrios, medico personale dell'Aghiir, stava ricoprendo le mie ferite con pezze di
lino bianco imbevute di balsami emollienti. La mia schiena era un arcipelago di spasimi. Pharrios,
tuttavia, mi assicurò che la fustigazione non era stata violenta: anzi, il Capitano degli arcieri era stato
attento ad applicare la frusta solo lì dove avrebbe fatto meno danno. Per la prima volta da quando
avevo lasciato la cabina di Tharrin, ebbi un istante per raccogliere le idee. Il mio primo sentimento fu la
meraviglia, la sorpresa. Poi la rabbia spazzò via ogni altro sentimento dalla mia mente, e attenuò persino
il dolore della carne. Non avevo mai provato un odio così
grande. Avevo concesso la mia fedeltà all'Aghiir Tharrin, e lui mi aveva tradito, prima ancora che nelle
sue orecchie si spegnesse l'eco delle sue parole!
Giurai che avrei ucciso il nicieano.
Anche a costo della vita.
Prima o poi, ne avrei avuto la possibilità. Non subito, forse. Ma avrei saputo aspettare fino a cogliere
l'occasione giusta...
L'occasione si presentò molto prima di quanto immaginavo: meno di un'ora dopo, infatti, ero
nuovamente alla presenza dell'Alto Signore Tharrin. Lo fissai diritto negli occhi, e non dissi nulla.
Il mio volto era, all'improvviso, rosso di vergogna. Che cosa avevo spe-rato di leggere negli occhi del
nicieano? Dispiacere? Rimorso? No, quel mostro scaglioso aveva per me soltanto disprezzo! E mi aveva
fatto condurre davanti a lui proprio per mostrarmi apertamente quel disprezzo. Uno schiavo non poteva
osare di levar la mano sul suo padrone, non è
vero? Lo si poteva battere fino alla morte, e da parte sua non ci sarebbe stato neppure un gesto di
reazione. Bene, ecco uno schiavo che non avrebbe esitato, al momento giusto, a ricordarsi di essere
stato un uomo libero!
Tharrin distolse gli occhi da me, e si voltò verso Linius.
«Lasciaci, luogotenente», fece.
Linius mostrò sorpresa. «Mio Signore?»
Gli occhi del nicieano divennero gelidi. «Dovrò ripetere per due volte un ordine a uno schiavo?»
A Linius la cosa non parve opportuna. Conosceva il suo padrone, e leggeva bene nella sua mente.
Quando fu uscito, Tharrin si appoggiò all'indietro e mi fissò senza espressione.
«Bene, hai la tua possibilità, Aldair. Te l'ho concessa». Sapevo bene ciò che intendeva dire. Ma non mi
mossi.
«Perché esiti?» chiese. «Vedo un'ombra di sangue nei tuoi occhi. Di certo è il mio sangue».
«Ho del sangue anche sulla schiena», risposi gelido.
«Lo so. Uccideresti il tuo padrone, per questo?»
Sentii che nuovamente il volto mi si faceva di fiamma.
«Tu... Tu hai richiesto la mia fedeltà!»
« E tu me la neghi! » Il pugno di Tharrin batté violentemente sulla scrivania, per sottolineare queste
parole.
« Io la nego?»
«Sì, la neghi, Aldair! Ti avevo avvertito che la tua fedeltà sarebbe stata messa a dura prova!»
«È stata una prova indegna!»
«No». Tharrin scosse la testa. «Sei tu che non hai il coraggio di considerarla per ciò che è». Lottai per
tenere ferme le mani.
«C'è... una cosa... che si chiama... onore». Sentii che la mia voce tremava. «Io sono nato con un onore.
Non sono una cosa... da frustare... a piacimento!»
«Uno schiavo non ha onore», disse gelido Tharrin. Incrociò le mani davanti a sé.
«L'onore c'era, Alto Signore, prima della schiavitù. Non mi può essere tolto facilmente come la
libertà».
Tharrin alzò il mento, con espressione interrogativa. «Dunque», fece, «tu non approvi l'istituto della
schiavitù...»
«È una degradazione. L'uomo non è stato creato per...»
«Allora, fra i Venicii, non avete schiavi?»
«Noi...» Mi morsi le labbra. «Non è la stessa cosa».
Tharrin annuì. «Sì, certo. Quando lo schiavo sei tu, invece che un altro».
«I nostri schiavi sono Cygnani», dissi, senza gradire troppo la piega che stava prendendo la
conversazione. «Loro sono sempre stati schiavi. Sono nati per questo. Non conoscono altra condizione».
«E se ti dicessi che Niciea è convinta che i cittadini dell'Impero Rhemiano sono tutti nati per essere
schiavi...»
«Ma non è... non è la stessa cosa!»
« Mio Signore! » aggiunse seccamente Tharrin. «Stai dimenticando come devi rivolgerti a me» .
Di nuovo, lottai per rimanere fermo. Che cosa mi tratteneva dallo stringere fra le dita quella gola sottile
e scagliosa?
«Aldair...»
«Sì». Ingoiai bile. «Mio Signore...»
«Dunque». Tharrin si chinò verso di me. «Forse, a questo punto, possiamo tirare qualche conclusione.
Innanzitutto, la tua principale obiezione contro la schiavitù sta nel fatto di essere uno schiavo, non di
possederne tu stesso, o i tuoi simili. Altre conclusioni evidenti sono che qualsiasi creatura sulla Terra,
nobile o plebeo, può, in seguito alle circostanze, diventare schiavo o padrone nel corso della sua
esistenza... o entrambe le cose. Che non c'è alcuna legge naturale che marchi una certa creatura col
sigillo di schiavo o di padrone. Che solo il potere di una creatura sulle altre determina chi deve
servire e chi deve essere servito. Sarebbe bene che tu ricordassi sempre queste conclusioni...»
Non riuscivo quasi a credere alle mie orecchie. Che cosa stava dicendo l'Aghiir di Niciea? E quanti schiavi
possedeva quella degna persona? Mille? Duemila? Tre volte tanti?
«Mio Signore Tharrin...»
Un gesto del nicieano mi impose il silenzio. «Non parleremo più di questo», disse in tono meditabondo.
«Non è un argomento di cui ti devi occu-pare, anche se spero non dimenticherai mai ciò che ti ho
detto». Sentii che le mie mascelle si irrigidivano. «Mio Signore, è un argomento...»
«.... che non verrà più trattato».
Tharrin infilò le mani sotto un fascio di carte sulla scrivania, strinse qualcosa fra le dita, e l'alzò per
mostrarmelo.
Guardai l'oggetto, poi le mie mani corsero alla mia gola. Il collare di schiavo che mi stringeva il collo non
c'era più! Era davanti ai miei occhi, tra le mani del niecieano!
«Non mi pare che tu ne abbia sentito molto la mancanza», disse asciuttamente Tharrin. «Ti è stato tolto
mentre il mio eccellente medico si stava prendendo cura delle tue... necessità. No, non parlare, Aldair.
Adesso tocca a me parlare, e a te ascoltare. Un momento fa ti ho detto che tu mi hai negato la tua
fedeltà. Non era così. Non me l'hai negata. Né pensi di essere stato tradito. Non te ne sei reso conto tu
stesso? Non sei riuscito ad aggredirmi, proprio perché, nel profondo, non eri convinto che ci fosse
ragione sufficiente per farlo».
Tharrin fece una pausa, poi scosse stancamente la testa. «La fustigazione era un rituale che doveva
essere eseguito. Ci sono regole che anche i governanti non possono eludere, Aldair. Nessuno schiavo
nicieano può riguadagnare la libertà se non attraverso la frusta. Questa è la legge». Aggrottò la fronte, e
mi fissò con aria severa. «Ma, forse, un giorno non mi ringrazierai più per averti tolto il collare di ferro».
«Mio Signore», risposi, «non posso credere che accadrà mai una cosa simile».
Tharrin mi rivolse un sorriso tirato.
«Ciò che puoi o non puoi credere non cambierà la sostanza delle cose», disse. «Ci sono dei fatti che devi
conoscere».
Mi fece cenno di avvicinarmi, e lo feci, senza capire. Da una piega della tunica trasse una sciarpa verde
ornata di occhi d'oro. Rapidamente, mi strinse il tessuto intorno al collo, quindi si piegò un po' indietro
per osservarmi. Quel gesto sembrò sollevargli un grande peso dalle spalle. Nel suo corpo devastato non
era ancora tornata la forza di un tempo, ma gli occhi brillavano di una fiera determinazione.
«Hai scambiato il tuo collare con un altro, Aldair. Il ferro con la seta. In tutta sincerità, avrei dovuto
lasciare a te la scelta definitiva al riguardo: perché, ora, tu sei legato a me molto più strettamente di
quanto non possa esserlo qualsiasi schiavo».
Mi fece cenno di sedere, ma non mi lasciò tempo di formulare le domande che mi urgevano sulla lingua.
«Ciò che è fatto, è fatto», sospirò. «Non ho nulla da rimproverarmi, e del resto le mie azioni non
avevano scelta. Ti ho rivelato un segreto che finora ho condiviso con un'altra sola persona. Un segreto
terribile ed enormemente pericoloso, Aldair. Perché l'ho fatto, non lo so io stesso: ma c'è una ragione
per tutte le cose. Di ciò, ho una convinzione profonda. Un giorno, forse, su tutti questi argomenti saprò
di più e capirò di più. Oggi, so soltanto che quel che è successo, è successo. Ho raccontato a uno schiavo
che conoscevo appena una verità che fino ad oggi avevo vigilato con la mia stessa vita: che le rovine dei
Tarconii sono molto più antiche di quanto do-vrebbero essere... »
Scosse la testa e si chinò in avanti, stringendosi ancora di più il mantello intorno alla magra figura. «Non
ti rendi ben conto di ciò che questo significa... per ora. Un giorno capirai. Sappi, tuttavia, mio ex schiavo,
che ormai siamo legati in modo indissolubile. Legati come pochi uomini possono esserlo. Ciò che io ho
fatto è più che sufficiente per tenerci insieme. Ed ora, c'è un'altra cosa...»
Se all'improvviso la nave mi si fosse aperta sotto i piedi, facendomi precipitare negli abissi, non avrei
potuto provare una meraviglia più grande. L'Aghiir Tharrin aveva infilato una mano in un cassetto della
sua scrivania, e ne aveva tratto un fascio di fogli di pergamene, che ora stava agitando sotto i miei occhi.
Conoscevo bene quei fogli, ovviamente.
Erano i miei appunti, le mie annotazioni sparse...
Gli stessi fogli che avevo bruciato con le mie mani nella tenda-cantiere, prima della partenza...
SEDICI
Per un momento, la cabina di Tharrin rimase avvolta nel silenzio. Il tempo sembrava sospeso. Avvertivo
distintamente il battito del mio cuore, il ritmo affannoso del respiro. Era come se fossi una terza
persona, e stessi osservando la scena da una certa distanza. Ero parte dell'azione, e allo stesso tempo
non lo ero.
«Mio Signore», dissi infine, «ci sono molte cose che non capisco». Il nicieano mi fissò con i neri occhi
sporgenti. «Non mi aspetto che tu capisca. Neppure quando ti avrò detto le altre cose che devi sapere.
Gran parte di quello che so, non intendo rivelartelo. Anzi, saranno più le cose che rimarranno nascoste
di quelle che ti rivelerò: ma c'è un motivo per questo. Per ora, ti chiederò solo di accettare quello che ti
dico senza dubitarne. Questo, e la tua fedeltà. Come già ti ho detto, Aldair, non ti ho fatto un favore
rimpiazzando il tuo collare di ferro con una sciarpa di seta». Si interruppe per un momento. «Imparerai
presto il significato di quella sciarpa nicieana. Significa più di quanto tu credi. Ma, adesso, voglio da te la
conferma della tua fedeltà. Io posso comandare al tuo corpo, ma non alla tua mente».
«Sì, mio Signore, hai la mia fedeltà». Ancora una volta, fui sorpreso dalla rapidità della mia stessa
risposta.
«Il tuo stato di schiavitù è ormai alle tue spalle. Interamente».
«Sì, mio Signore».
«E le sue cicatrici sono sulla tua schiena. Non sono stato io a procurartele materialmente: ma è come se
la mia stessa mano avesse stretto la frusta. Questo non potrà essere facilmente dimenticato. O
perdonato». Fissai il nicieano negli occhi. Occhi gelidi. Lontani dal mio mondo. Occhi che nascondevano
pensieri quali io non avrei mai potuto immaginare né penetrare. La sua pelle lucida era coperta di
scaglie, come la cotta di maglia d'un bizzarro guerriero.
Quella pelle non aveva mai conosciuto alcun vero calore; tuttavia negli occhi di Tharrin c'era un fuoco
che temperava il gelo della sua apparenza. E, da quegli occhi, qualcosa si era distaccato e mi aveva
colpito, parlandomi... di che cosa? Non avrei saputo dirlo io stesso.
«Mio Signore», feci, «ero venuto deciso a ucciderti per quello che mi avevi fatto. Hai portato su di me la
vergogna: e questo non potevo sopportarlo. La gente del nord è piena d'orgoglio. Ora, il dolore sulla mia
schiena non è diminuito, ma la vergogna è scomparsa. Non so dirti perché questo sia accaduto. Ma ti
confermo che hai la mia fedeltà, e che te la concedo liberamente». Il nicieano mi studiò per un lungo
istante.
«Ti ringrazio per questo», disse infine. «Sappi che la sciarpa che porti al collo lega me quanto te. E io
non sono uso a considerare con leggerezza tali legami». Si interruppe di nuovo, quindi frugò fra le sue
carte fino a tirar fuori il voluminoso rapporto che avevo preparato in conclusione del lavoro di scavo
sulla costa dei Tarconii.
«E ora, Aldair», fece, «parleremo di questa lama affilata che tu stesso hai posto di traverso alle nostre
gole». Sorrise debolmente e fece un gesto per troncare sul nascere la mia domanda. «In superficie,
questo è un rapporto modello, frutto di un ottimo lavoro. Sembra che tu abbia delle intuizioni
straordinarie su una scienza di cui presumibilmente conosci molto poco. Qua e là ti confondi, e in altri
casi sorvoli con giovanile noncuranza su contraddizioni evidenti: ma anche quando sbagli, non lo fai mai
per pura superficialità. La tua catalogazione è eccellente, e la sintesi di un anno di lavoro è ottima».
L'Aghiir Tharrin emise un sospiro e scosse la testa. «Purtroppo, il Creatore non ha voluto che i tuoi meriti
si fermassero qui...» Mise da parte il rapporto e prese in mano il fascio di appunti che ero sicuro di aver
bruciato. «Veniamo a questo, ora. ' Teoria per calcolare l'età delle rovine deiTarconii' ,» disse
leggendo l'intestazione della prima pagina. «Come sei pervenuto a concepire... questo?»
«Sono soltanto deduzioni logiche, mio Signore».
«Logiche?»
«Certo. I sali minerali e i depositi metallici a quanto sembra si stratificano sulla pietra in una serie di
fasce regolari, disegnando uno schema simmetrico, che sembra quasi tracciato di proposito. Una guardia
che da diversi anni segue le spedizioni mi ha detto che in questa regione le stagioni delle piogge sono
altamente prevedibili. La stagione delle tempeste arriva con precisione inaudita. La tempesta che aveva
gettato me e Rheif sulla spiaggia, secondo la guardia, era un'anomalia: un fenomeno mai verificatosi in
tutti gli anni precedenti. Mi sono ricordato, dopo aver visto una serie di stratificazioni regolari nello
scavo, di aver già osservato una formazione identica nella caverna in cui io e lo stygiano avevamo
trovato riparo...»
«E che rapporto c'è fra le stratificazioni nello scavo e quelle nella caverna?», chiese Tharrin, anche se
avevo già affrontato l'argomento nei miei appunti.
«In entrambi i casi lo schema era uguale», spiegai, «come se le stagioni delle piogge, susseguendosi
l'una dopo l'altra, avessero lasciato una specie di firma del loro passaggio. Ci sono segni identici nelle
rovine, rimaste esposte per secoli all'azione delle intemperie, e sottoposte allo stesso tipo di
sedimentazione. Ovviamente, la caverna sulla spiaggia è molto più antica delle rovine. E questo ha reso
più semplici le osservazioni. Paragonando gli appunti presi nei due luoghi, ho potuto vedere fino a quale
altezza delle stratificazioni le fasce nella grotta si susseguivano da sole, e in quale punto cominciavano a
correre contemporaneamente a quelle delle rovine. Questo mi ha permesso di fare delle utili
comparazioni».
«Delle utili comparazioni», ripeté Tharrin. Le sue dita sottili continuavano a tamburellare sulla scrivania.
«Continua».
«Non c'è molto altro da dire, mio Signore. Per avere un'idea degli anni trascorsi, dovevo solo stabilire
quanto tempo aveva impiegato ciascuna fascia delle stratificazioni ad accumularsi. Ovviamente, ho
preso come base la valutazione cronologica che tu stesso mi hai fornito. Secondo le mie valutazioni, ogni
fascia ha impiegato circa duecento anni per stratificarsi. Le variazioni delle piogge all'interno dello
schema complessivo determinano la separazione tra fascia e fascia. Evidentemente, ci sono dei
fenomeni periodici che a intervalli regolari alterano il clima. Facendo i conti, ho visto che, in realtà, le
rovine debbono essere antiche di circa ottomila anni». Tharrin sostenne il mio sguardo. «Quanto
facilmente siamo disfatti...»
«Mio Signore», protestai, «io non intendevo in alcun modo contestare la valutazione dell'antichità delle
rovine che tu mi avevi dato. Nella mia mente non c'era alcuna presunzione del genere. Dimostrare
implica dubitare, ed io sono ben consapevole della mia ignoranza di questi argomenti. I calcoli che ho
fatto erano nulla più che una divagazione mentale. Tu non mi hai parlato delle prove in base alle quali
avevi anche tu stabilito un'età analoga per le rovine. E naturalmente io non ti ho chiesto nulla. Ma ero
certo che il tuo metodo fosse... analogo al mio».
«Ti sei sbagliato», fece seccamente Tharrin.
«Mio Signore...» Sentivo che la mia mente girava a vuoto. Erano accadute troppe cose, e troppo in
fretta, perché potessi comprenderle. Ero stato dannato, lodato, frustato e sollevato ad una condizione di
preminenza che per i Nicieani significava evidentemente molto, ma che a me non diceva nulla. Le mie
divagazioni mentali erano diventate all'improvviso questione di vita o di morte. Erano state bruciate...
ma esistevano ancora. L'Aghiir era seriamente preoccupato, ma non potevo capire perché.
«Mio Signore», dissi, «so che non avrei dovuto sprecare il mio, anzi il tuo, tempo in una cosa del
genere. Dopo che tu mi dicesti che questo argomento non doveva più essere discusso, non avrei dovuto
permettergli di affacciarsi ancora ai miei pensieri. Ma vorrei dire una cosa a mia discolpa. Quegli appunti
non erano destinati né a te né ad alcun altro. Io stesso li ho distrutti, o almeno così pensavo, e nessuno
più di me può essere rimasto sorpreso nel vederli! Capisco, però, ciò che può essere successo. Ero pieno
di sonno, quando decisi di bruciarli. Questo, evidentemente, mi ha reso di-sattento. Ho dato alle fiamme
fogli senza importanza, e inserito le mie divagazioni nel rapporto che avevo appena finito di preparare
per te. Se ti sono apparse presuntuose, se ti hanno offeso, io...»
«Maledizione, Aldair», esplose Tharrin. «Smettila di uggiolare come uno schiavo! Non hai capito ancora
nulla del problema. In gioco, ormai, c'è ben più di una presunta offesa nei miei confronti. Quello che tu
hai fatto, sia pure inconsapevolmente, ragazzo mio, mette in pericolo le nostre vite. E anche altre, oltre
alle nostre!»
Rimasi stupefatto a queste parole.
«Ma», feci, «qualunque sia il pericolo, mio Signore, non può ancora essersi concretizzato. Il mio
rapporto è ancora nelle tue mani, e così i miei appunti...»
Un gesto dell'Aghiir mi troncò le parole.
«Sì», fece il nicieano. «Nelle mie mani, e in quelle di qualcun altro». La verità mi colpì all'improvviso. «
Linius? »
«Linius. Il mio ottimo, fedele luogotenente Linius. È lui la lama posta di traverso alle nostre gole. Lui e i
suoi padroni. E anche se sono lieto del fatto che tu non abbia posto deliberatamente quast'arma nelle
sue mani, il risultato è lo stesso». Tharrin si massaggiò il palmo delle mani, con aria pensosa, quindi mi
fissò negli occhi. «Tu pensi che la Chiesa dei Rhemiani sia oppressiva, Aldair. Ma non conosci lo
sterminato potere che hanno in pugno i preti di Niciea. È vero: mio fratello governa, e tutti obbediscono
ai suoi ordini. Fino ad oggi ha tenuto efficacemente a bada i preti, e così ha fatto nostro padre, e il padre
di nostro padre. Ma i preti sono sempre più avidi di potere. Tengono i cittadini continuamente sull'orlo
del terrore, e frugano senza sosta in cerca dei germi dell'eresia». I suoi occhi si fecero ancor più scuri.
«Particolarmente, fra i membri della Casa Reale».
Sentii un morso gelido che mi afferrava alla schiena. Cominciavo a capire l'enormità di ciò che avevo
fatto... e perché l'Aghiir Tharrin avesse deciso di legarmi a sé.
«Linius, dunque», feci. «Linius e quei preti...»
Tharrin annuì. «E adesso, che cosa posso fare per liberare tanto me che te da questa minaccia? Oh,
certo, posso far tacere Linius per sempre. Ma come posso essere sicuro che, qui a bordo, non ci sia già
qualcuno che sa?
La forza dei preti sta proprio nelle migliaia di occhi e di orecchi comprati dal loro oro. Da tempo
conoscevo Linius per quello che era. E ho preferito avere un traditore certo accanto a me, piuttosto che
mille sconosciuti». Da uno degli oblò piovve un raggio di sole, che disegnò un circolo giallo-dorato sulla
scrivania di Tharrin. Seguendo il beccheggio della nave, il circolo oscillava. Attraversava le dita ossute del
nicieano, le pergamene ingiallite, quindi tornava indietro per disegnare un arco simmetrico in senso
opposto.
«Vedi come la luce del sole dà vita alle cose morte?» disse Tharrin. «Ti rendi conto, Aldair, di ciò che
significano queste tue carte? Inutile illudersi. Linius ha avuto il tempo necessario per leggerle e copiare
ciò che riteneva opportuno. Ed è una persona alla quale non sfugge mai niente, neppure le cose di più
infimo valore». Scosse cupamente la testa. «Sai che cosa hai fatto, Aldair? Hai dimostrato la falsità delle
Sacre Scritture nicieane, oltre che di quelle del tuo popolo. E questo, in seguito a quelle tue 'divagazioni
mentali', alle tue 'deduzioni logiche'. Non c'è mai stato nulla di più
sconvolgente di questo. Come potrai facilmente immaginare, i capi religiosi presteranno ben poca
attenzione alla tua logica. Agli occhi dei preti, le tue deduzioni non provano nulla. Anzi, provano che tu,
io e la Casa Realedi Niciea siamo in combutta con le forze del male e dell'eresia... »
Non riuscivo quasi a credere a ciò che diceva l'Aghiir Tharrin. Tuttavia, non potevo dubitarne. Mi
sembrava inconcepibile che un giovanotto nato fra i Venicii potesse far vacillare un impero con poche
frasi vergate in fretta... mentre tutte le Legioni di Rhemia non osavano affrontare le forze di Niciea.
Eppure, quando ricordavo il grigio spettro di San Bellium, il cuore gelido di Padre Tinius...
«Mio Signore», dissi all'improvviso. «Io non posso annullare ciò che ho fatto di male, anche se accetterei
qualsiasi cosa, se necessario. Ma la cono-scenza non è forse un'arma più potente della paura? Se i preti
di Niciea sanno come usare quest'arma, perché non ritorcerla contro di loro? A nessuno piace vivere
nella paura, mio Signore: né ai Nicieani né ai Rhemiani. Il mondo non è come sembra. Cinquemila anni
di storia ci sono stati nascosti. Anni che sono scomparsi, o sono stati spinti nel buio, per ragioni che non
riesco ad immaginare. Se quel passato potesse venire alla luce grazie alle prove di cui tu disponi, e con
l'aiuto delle mie scoperte...»
Tharrin si irrigidì sulla sedia. Per un momento sembrò impallidire sotto la sua pelle verde.
«Aldair», fece con voce roca, «tu non sai ciò che dici. Non capisci. Lastoria non deve venire alla luce.
Non ancora» .
«Mio Signore?»
«E di quali 'prove' da parte mia stai parlando?»
Scosse la testa.
«Non esistono prove, Aldair. Soltanto le tue 'divagazioni'. Io non possiedo prove, e non ne ho bisogno. Io
so. So, semplicemente. E di conseguenza, so anche che nulla potrebbe essere più mortale, per il
mondo, di quello che so. O, peggio ancora, di quello che posso immaginare sulla base di quello che so...»
DICIASSETTE
Non fu una cosa semplice, ma riuscii ugualmente a confinare la mia conversazione con Tharrin in un
angolo della mente. Ciò non vuol dire che l'argomento non fosse continuamente nei miei pensieri. Erano
state spalancate porte che non avrebbero mai più potuto essere richiuse. Era come se tutti gli eventi
della mia vita fossero stati registrati su uno spettrale foglio di pergamena. Quel foglio era ormai finito,
ed era stato sigillato per sempre. Una nuova pergamena era stata preparata, e le prime lettere su di essa
erano state vergate nel momento in cui avevo lasciato la cabina del nicieano. E, per quanto non fosse
un'idea razionale, ero certo che se avessi permesso alle poche conoscenze che possedevo di piantare
radici troppo profonde nella mia mente, i preti di Niciea sarebbero stati in grado di estrarre quei pensieri
dal mio cervello, ed io avrei di nuovo esposto l'Aghiir Tharrin ad un pericolo gravissimo. Avevo timore di
pensare a ciò che conoscevo, ed ero terrorizzato all'idea di ragionare su ciò che non conoscevo. Anche
se non comprendevo appieno il significato del mio nuovo stato sociale, gli altri me lo resero subito
chiaro. Tutti, a bordo del vascello nicieano, mi guardavano con nuovi occhi. Era come se il vecchio Aldair
fosse morto, per far nascere al suo posto una nuova creatura. Tutti, schiavi e uomini liberi, mi trattavano
con deferenza. Spesso, mentre passavo, udivo la parola rhadaz'meh, e in seguito appresi che
significava «mano del padrone». Potevo nuovamente portare armi; anzi, la cosa mi era richiesta
esplicitamente. Portavo perciò una delle strane spade ricurve dei Nicieani, una lama di ottima qualità
con un fodero di cuoio e di tela variopinta. Era di un metallo più leggero del ferro e più forte del bronzo,
temperato con un procedimento sconosciuto al resto del mondo. Mi meravigliai per la sua affilatura
incredibilmente tagliente che, secondo le assicurazioni dei Nicieani, poteva penetrare nelle corazze dei
Rhemiani e dei Tarconii come una falce nel grano maturo. Non dubitavo che è l'affermazione fosse vera.
La mia rozza tunica da schiavo venne sostituita da nuove vesti di lino. Sulla manica destra portavo una
banda trasversale verde, sulla quale era ricamato un occhio d'oro. Intorno al collo mi venne posta una
pesante collana d'oro ornata di pietre verdi, e l'Aghiir Tharrin mi fece dono di un anello d'argento
stranamente istoriato, che s'era tolto da un suo stesso dito. Era troppo largo per me, ma l'Orefice Reale
lo restrinse fino alla mia misura. Su una cosa insistetti: non volli indossare gli stivali nicieani, ma pretesi
che mi restituissero i miei. Potevo anche essere il rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin: ma ero anche e
tutt'ora un uomo del nord.
Nessuno fece obiezioni sulla straordinaria e subitanea promozione di cui aveva beneficiato uno schiavo
come me. Se l'Aghiir Tharrin, fratello dell'Azhaar stesso, avesse voluto ungere col sacro crisma uno dei
gabbiani pidocchiosi che seguivano la nave: bene, era un privilegio reale, e nessuno sarebbe stato tanto
ardito o tanto sciocco da esprimere parere contrario. I nobili che seguivano Tharrin notarono per la
prima volta la mia esistenza. Alcuni erano con me educati in modo freddo e distaccato; altri invece mi
dimostrarono un'esagerata amicizia, come se ci fossimo conosciuti da molti anni. Questi ultimi erano
quelli di cui mi fidavo di meno. Mi ero, ovviamente, guadagnato l'odio eterno del luogotenente Linius:
ma questo non era un fatto nuovo né insolito. Non ci eravamo mai stati simpatici, e la mia promozione
ad un rango superiore a quello dell'agente dei preti nicieani servì soltanto a infiammare un odio che
Linius durava evidente fatica a trattenere.
Il giorno dopo aver riguadagnato la libertà, cercai lo stygiano. Lo trovai nel sottoponte ombreggiato
riservato al seguito della Casa Reale.
«Questo umilissimo schiavo è onorato della tua presenza, giovane signore», disse Rheif in tono solenne,
ma senza dissimulare il lampo di ironia che gli accendeva gli occhi di brace.
«Sii più riguardoso», lo ammonii, «o non ti concederò di versarmi il vino e di servirmi le frittelle al
miele». Rheif rise, ma mi accorsi che una strana ruga solcava verticalmente la sua fronte.
«Sul serio, Aldair», mi fece, «che cosa significava tutto questo? Io sono del tutto incapace di
comprendere queste creature. Prima ti frustano fino a scorticarti la pelle dalla schiena, poi ti vedo
trascinare per i piedi sulle tavole del ponte. È finita per lui! , mi dico. E invece, eccoti davanti a me
conciato come un principe!»
«Non esagerare».
«Mica tanto, Aldair, se pensi che poco fa eri poco più di uno scarafaggio, che è la condizione di quanti
indossano questo abominevole collare». Volsi gli occhi al mare. «Che cosa dice la gente di me, Rheif?
Dalle chiacchiere della ciurma potremmo imparare qualcosa di utile». Lo stygiano atteggiò il volto a
meraviglia.
«Vuoi dire che anche tu non ti rendi conto di quello che sta succedendo?», fece, e scosse la testa,
grattandosi con la mano pelosa il muso grigio.
«Secondo me, Aldair, queste creature sono tutte preda della follia. Ci si stupisce del fatto che dividano lo
stesso pianeta con esseri razionali come gli Stygiani... e come il tuo popolo, naturalmente».
Il giovane Dhar'jeem giocava sul ponte poco lontano, legato a Rheif da una lunga catenella d'oro.
Quando il bimbo andava troppo lontano, o si avvicinava pericolosamente alle fiancate, Rheif tirava
cupamente la catena e lo faceva riavvicinare a sé. Al Principe il gioco sembrava piacere molto, e lo
ripeteva di continuo, con gridolini di gioia e grande vergogna dello stygiano.
«Nessuno degli altri schiavi si è mostrato troppo ansioso di dividere con me i suoi pensieri», fece Rheif
con un ghigno. «Mi accusano di guardarli con occhi affamati, il che non è del tutto incomprensibile da
parte di uno stygiano che si nutre di zuppa di cimici da più tempo di quanto non gli faccia piacere
ricordare. Tuttavia, ho udito alcune cose. Per esempio, che l'unico scopo nella vita dell'Aghiir Tharrin
consiste nel mettere insieme vecchie pietre, e che tu, fra tutti gli schiavi, sei stato abbastanza furbo da
capirlo subito e da fargli credere che condividevi lo stesso interesse. Alcuni degli schiavi che lavoravano
alle rovine sono molto arrabbiati per questo, dato che col tempo hanno acquisito una certa conoscenza
dell'argomento. Sono inferociti con loro stessi, perché non hanno pensato a portare a termine lo stesso
piano che a te è riuscito perfettamente». In un certo senso, queste informazioni mi diedero sollievo. Era
esattamente il tipo di storia che desideravo fosse divulgata in giro, e creduta. In essa c'era una quota di
verità sufficiente a favorirne l'accettazione. Mi resi conto, tuttavia, che l'opinione dei nobili e degli
schiavi non contava nulla. Se Linius aveva avuto davvero l'opportunità di leggere e di copiare le mie
tragiche annotazioni, i preti di Niciea avrebbero capito senza incertezze i motivi per cui uno schiavo era
diventato rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin.
«Dunque», fece Rheif in tono meditabondo, «vorrei sapere che cosa significa per te la tua nuova
condizione sociale, Aldair. Quali pensieri si agi-tano nella tua mente?»
Sapevo ciò che realmente intendeva chiedermi.
«Vuoi sapere se mi sono legato all'Aghiir Tharrin? Sì, Rheif... In un certo senso l'ho fatto. Anche se la
cosa non è avvenuta intenzionalmente, come tu ben sai. Tuttavia, la mia condizione potrà essere utile a
entrambi nel futuro... anche se di ciò non parlerò ad alcuno, se non a te».
«Mi sta già servendo bene, se è per questo», fece Rheif con voce cupa.
«Così, almeno, credono queste creature. Tutti sanno che noi due siamo compagni, e di conseguenza
attualmente mi viene concessa una razione più
abbondante di zuppa di cimici. È più carnosa, con meno zampe d'insetto che galleggiano nella brodaglia,
e a quanto ho capito questo è segno di particolare favore». Sorrisi di fronte al suo sconforto.
«Forse, in futuro, ci saranno benefici più grandi. Due schiavi hanno ben poche libertà di rivedere le loro
case, Rheif. Uno schiavo e un uomo libero potrebbero trovare la cosa meno difficile».
Lo stygiano rizzò le spalle, e i suoi occhi scarlatti brillarono. Volse lo sguardo sul mare, girandolo
istintivamente verso il lontanissimo nord.
«Non ho dimenticato la mia patria, Aldair», disse con una gelida determinazione nella voce. «E sono
molto felice di sentire che anche tu ricordi ancora la tua...»
Le onde verdi mutarono colore in un blu scintillante, e le snelle navi nicieane solcarono la spuma
attraverso gli stretti che conducevano al Mar Meridionale.
Un'enorme sentinella di pietra sorvegliava quelle acque. La montagna tenebrosa era butterata da rocce,
caverne, costoni e strutture artificiali che sporgevano dalle sue ruvide pendici come protuberanze sulla
pelle di una bestia immonda. Era una fortezza rhemiana, e nel porto che si apriva sotto di essa si
potevano vedere all'ancora numerose navi dalle vele rossosangue. Ai Nicieani, tuttavia, la fortezza non
fece grande impressione. Passarono sotto la sua mole, a così poca distanza da essere sfiorati dalla sua
ombra. Non era stato un puro atto di coraggio. Uno dei marinai mi disse che la loro rotta li lasciava bene
al di là della portata di tiro delle catapulte che armavano la fortezza: il pilota che guidava le navi aveva
già fatto il percorso più volte, e conosceva bene le distanze.
Le tozze navi rhemiane non tentarono neppure di inseguirci. Avrebbero fatto la figura della tartaruga
che insegue un delfino, e questo lo sapevano bene tanto i Nicieani quanto i Rhemiani.
Poche ore più tardi, quattro navi da guerra di Niciea ci vennero incontro per scortarci e formare un
convoglio che avrebbe proseguito in formazione per il resto del viaggio. Erano più grandi delle due navi
della spedizione dell'Aghiir Tharrin, e quasi altrettanto veloci. Erano bene armate, e dipinte su tutta la
chiglia con un motivo a scaglie verdi e oro. Quelle navi, mi dissero, erano chiamate «assassini del mare»,
e potevano tenere testa a qualsiasi naviglio rhemiano. Prima di prendere terra, avevo un compito da
portare a termine. Tharrin voleva conservare l'originale del rapporto relativo ai ritrovamenti della
spedizione, per cui doveva esserne approntata una copia da consegnare agli studiosi di Niciea. Questa
copia doveva essere abbreviata e adattata in modo particolare, e io dovetti aiutare Tharrin nel lavoro.
«Adesso», fece infine l'Aghiir, «è un documento abbastanza innocuo. Almeno spero. Tutto ciò che, nel
corso degli anni, ho scoperto di davvero importante, è chiuso nella mia memoria, e non può essere
affidato alla carta. L'Università mi tributerà le consuete cerimonie e benemerenze, a prescindere da
quello che c'è scritto su questi fogli». Rise amaramente. «E che altro potrebbero fare? Io sono il fratello
del Re, e ho un discreto potere anche da parte mia». Chiuse il rapporto e lo mise di lato, «Però, si
guarderanno bene dal leg-gerlo, Aldair: stanne sicuro. Sono un branco di idioti, per la maggior parte,
che hanno ottenuto la cattedra grazie al denaro o alle raccomandazioni. C'è
ancora qualche saggio, fra loro: ma sono tanto pochi da non contare nulla». Al solito, nella mia testa
turbinavano infinite domande. Sapevo bene, ormai, che non era opportuno manifestare i miei
interrogativi: ma la curiosità restava viva ugualmente. Comunque, l'Aghiir mi lasciava ben poco tempo
per abbandonarmi a meditazioni pericolose. C'era molto da fare prima di entrare in porto; e, ad essere
sinceri, io ero contento della possibilità di lavorare. All'alba di due giorni dopo, le vele dei vascelli nicilani
vennero ammainate e gli schiavi addetti ai remi - che in genere avevano poco da fare su quei veloci
scorridori delle onde - presero posto ai banchi e ci guidarono nell'azzurro porto di Chaarduz. Io ero già
desto da molto prima, dell'alba. Dritto sul ponte di maestra, vidi le dita dell'aurora tingere di rosa le
candide torri e le cupole sacre del cuore dell'Impero Nicieano.
DICIOTTO
Il porto brulicava di attività. Gli schiavi si davano da fare per scaricare le navi della spedizione, anche se
dopo tanti mesi lontano da casa a bordo c'era rimasto ben poco. La maggior parte del carico era
costituita dai manufatti e dai reperti raccolti fra le rovine dei Tarconii. E poiché la cura e salvaguardia di
questo materiale era mia responsabilità, fui occupato fino al mattino.
Vedendo il numero relativamente limitato di casse e sacchi nelle stive, gli schiavi si illusero
momentaneamente che per quel giorno la loro fatica sarebbe stata lieve. Ma dopo aver sollevato un
paio di quei colli, ed avere scoperto che quasi tutti erano pieni di pietre, cominciarono a levarsi le
lamentazioni. La frusta dei vigilanti fischiò più di una volta, quel giorno. La nave fu scaricata prima che il
mattino si trasformasse in mezzogiorno, ma la spedizione reale non sbarcò che a pomeriggio inoltrato.
La ragione dell'attesa la scoprii soltanto più tardi. Una scorta di cavalieri in scintillanti armature e
mantelli ricamati ci attendeva già schierata sulla banchina, quando la nave era entrata nel porto; e prima
ancora che gli ormeggi fossero ben fissati, l'ufficiale che la comandava (chiaramente di alto grado) era
già balzato a bordo e si era presentato a Tharrin, chiudendosi con lui nella sua cabina. Quando i due
Nicieani emersero, il sole sfolgorante aveva trasformato tanto la terra quanto il mare in
un'incandescente lastra d'ottone, ed aveva quasi abbrustolito tutti coloro che erano a bordo.
Tharrin non parlò a nessuno dopo l'incontro, ma era chiaro che l'ufficiale gli aveva recato cattive notizie.
Il volto dell'Aghiir era teso, e le forze che aveva riguadagnato durante l'ultima parte del viaggio
sembravano di nuovo scomparse. Più tardi seppi che non tutte le cose andavano per il verso giusto nella
Capitale, e che c'erano problemi anche in altre parti del territorio. Il Re non era venuto ad accogliere il
fratello, come ci si attendeva, perché aveva dovuto partire di corsa nove giorni prima, quando alcune
tribù ribelli, che per diversi anni avevano mantenuto la pace (con poche trasgressioni di scarso conto),
erano all'improvviso uscite dal deserto in grandi orde selvagge, saccheggiando i villaggi bruciando i
raccolti, massacrando le popolazioni. Per di più, si era verificato un incidente di cattivo auspicio, che
aveva gettato un'ombra cupa sulla missione del Re. Mentre l'esercito lasciava la città (così mi
raccontarono), un grande uccello grigio era caduto morto dal cielo, precipitando a soli pochi passi dal
sovrano. La cavalcatura del Re si era spaventata, e per poco non lo aveva disarcionato. Subito, per
Chaarduz avevano cominciato a correre infinite voci. Si diceva che l'uccello era di una razza mai vista
prima, che non aveva occhi e che era privo di sangue. In realtà, un volatile era davvero caduto dal cielo,
ma non era di genere ignoto, ed era provvisto tanto di occhi quanto di sangue. Ma, come mi disse un
ufficiale nicieano, al popolo non interessa la verità su un argomento, dato che la menzogna è sempre
molto più interessante. Se le chiacchiere erano il teatro degli oziosi - aggiunse - non c'era al mondo
palcoscenico più grande per tale rappresentazione della città di Chaarduz.
Fui lieto di lasciare la nave e di attraversare la capitale per trovarmi, alla fine, nella villa di Tharrin. Anche
nella luce incerta del crepuscolo, la maestosità della casa del mio padrone mi strabiliò. Occupava
un'intera collina, sormontante la città e il porto. A prima vista, pensai che si trattasse del palazzo reale, e
che l'Aghiir ne occupasse soltanto una parte. Ma non era così. La reggia copriva diverse colline
circostanti, e in alcuni punti toccava la proprietà di Tharrin, come quelle degli altri membri della famiglia
reale. Tutto il complesso era cintato da un alto muro comune, che offriva protezione e intimità ai
membri della corte. Gran parte delle proprietà reali erano coperte di giardini ornati di fontane e di altre
decorazioni che deliziavano grandemente l'occhio. Il palazzo, con le ville circostanti, era in se stesso una
città, in cui lavoravano più di tremila fra schiavi, soldati, artigiani, giardinieri e operai di ogni sorta: tutti
per servire poco più di tre dozzine di membri della famiglia reale.
I Nicieani sono strane creature, e i loro modi sono spesso bizzarri. Ma presto scoprii che le differenze
erano soltanto superficiali: nelle questioni di fondo, non sono diversi da tutte le altre razze.
In tutto il mondo esistono i poveri. Anzi: i poveri costituiscono la maggioranza del mondo. Essi esistono,
a quanto sembra, soltanto per far fronte alle esigenze della famiglia reale di Niciea, dei Reggitori
dell'Impero Rhemiano, e di coloro cui questi potenti concedono limitate porzioni di dominio e ricchezza.
È sempre stato così - ragionavo - ed era impossibile immaginare un diverso modo di vivere. C'erano i
padroni, e c'erano quanti li servivano: uomini liberi e schiavi. Questo, a quel che sembrava, era l'ordine
delle cose. Come per i burattini di legno nel mercato di Silium, così
era col mondo. Mai prima avevo messo in dubbio o contestato questo stato di cose. Ma, d'altra parte,
mai prima ero stato schiavo. E una condizione del genere, anche se vissuta per un breve periodo, finisce
col dare a un uomo una diversa prospettiva delle cose.
Nella casa dell'Aghiir Tharrin le donne abitavano un'ala a parte, secondo il costume nicieano. Avevano le
loro stanze, e non si vedevano mai. Poco dopo il mio arrivo, appresi un fatto al quale non avrei mai
creduto: le femmine nicieane non danno alla luce i figli con un parto normale, ma depongono uova,
come gli uccelli. Uno schiavo rhemiano mi informò che questo era un argomento che non veniva mai
menzionato, neppure fra gli stessi Nicieani. A quanto pareva, c'era una specie di proibizione religiosa o
di tabù legato al processo della nascita, anche se non capivo che cosa mai potesse giustificarlo.
Comunque, udii più di una battuta chiaramente oscena, in cui le uova e la loro fecondazione giocavano
un ruolo significativo. Con la mia sorpresa e piacere, anche Rheif venne alloggiato nella villa di Tharrin. È
infatti costume della nobiltà nicieana allevare i bambini in famiglie diverse da quella dei genitori. Lo
stesso Tharrin mi disse che questa tradizione era antica quanto Niciea, e risaliva al periodo in cui la
nazione era governata da famiglie rivali, che per salvaguardare le alleanze stabilite si scambiavano i figli
come ostaggi.
«Forse», aggiunse l'Aghiir in tono divertito, «in questo senso la tradizione non ha perduto del tutto il suo
valore. Anche se il regno è ormai riunito sotto una sola famiglia, ci sono molti cugini e nipoti che non
esiterebbero a dire qualche parola di troppo nella corte, se mio fratello non fosse il tutore dei loro
figli...»
Il Re aveva un solo erede, il giovane Dhar'jeem, ma anche se avesse avuto un secondo figlio, ugualmente
lo avrebbe affidato alla casa del fratello, e a nessun'altra. Tharrin non aveva alcuna ambizione nei
confronti del trono, e il Re sarebbe stato davvero sciocco se avesse agito in modo da alimentare in
qualche parente meno devoto indebiti sogni di potere. Anche se Rheif ed io eravamo alloggiati nello
stesso edificio, la proprietà era talmente larga e le nostre mansioni così pressanti che dovettero passare
due mesi prima che potessimo incontrarci per un breve momento. Mi parve di vedere lo stygiano in
forma e in buona salute, e glielo dissi. Ma gli Stygiani hanno in sommo spregio soprattutto due cose
nella vita: l'acqua e i complimenti.
«Non hai bisogno di fingere con me», mi rispose Rheif in tono amaro.
«Dovrebbe esserti chiaro che ho ormai poco da vivere su questo mondo. La mia salute sta declinando,
Aldair. Il giovane Principe è un nemico più
grande di qualsiasi altro io abbia mai affrontato in battaglia, e di certo prima o poi avrà la meglio su di
me...»
Non potei fare a meno di ridere. «L'arrosto divora chi voleva mangiarselo», dissi, «tanto per adattare
una frase che udii per la prima volta sulla piazza del Mercato di Silium, quando un certo stygiano chiuso
in gabbia...»
«Aldair...» Rheif si guardò con occhio preoccupato alle spalle. «Mi ricordo bene di quando fu
pronunciata quella frase. Non è necessario puntualizzare con me, o con qualsiasi altro, che la mia
relazione con il Principe Dhar'jeem è cominciata in un modo ben diverso da quello poi riferito dai
testimoni oculari. Anche se ti confesserò che l'Aghiir Tharrin - temo - si è reso conto benissimo sin
dall'inizio di quanto in realtà successe in cima a quella rupe, e ritenga che attualmente io sia punito in
modo esemplare per il crimine di aver avuto fame. Che, dal mio punto di vista, non è per nulla un
crimine».
I miei doveri mi tenevano molto occupato, e a stento mi accorgevo del passare dei giorni. Spesso
lavoravo fino a notte fonda, quando gli appunti cominciavano a ballarmi davanti agli occhi, e mi
addormentavo chino sulla mia scrivania, lasciando che l'olio della lampada bruciasse fino a consumarsi.
Lo scavo dei resti di antiche città - appresi - era soltanto una parte della scienza in cui mi ero gettato. La
chiave per penetrare nei segreti di una città morta si trova spesso non nelle sue strutture maggiori, ma
in infiniti piccoli reperti, note e informazioni raccolti col passare degli anni. Vedevo di rado l'Aghiir
Tharrin. Per quanto il mio padrone proclamasse la sua mancanza di interesse per «la politica e gli affari»,
dedicava ben poco tempo alle ricerche e quasi sempre era occupato in altre faccende. Quali queste
faccende potessero essere, potevo solo immaginarlo, anche se sapevo che spesso il nicieano si ritirava
per lungo tempo nel suo appartamento privato, e lasciava la villa in strane ore notturne. Quali
occupazioni potevano indurre un uomo ad abbandonare il suo letto nel cuore della notte?
Non potevo saperlo, e non era affar mio: ma conoscevo l'Aghiir Tharrin, e trovavo difficile mascherare la
mia curiosità.
Di tanto in tanto, mi arrivavano delle voci. Le chiacchiere sono sempre state di casa nelle corti reali.
Appresi che il Re era tornato e che i ribelli erano stati sconfitti, ma non senza gravissime perdite per le
forze reali e per il prestigio dello stesso sovrano. Si diceva che presto i ribelli avrebbero alzato
nuovamente la testa. Seppi che il Re era furibondo nei confronti del clero, perché i sacerdoti dai pulpiti
si erano dilungati in interpretazioni funeste del presagio derivante dall'uccello morto, insinuando che
l'accaduto doveva essere considerato come una profezia o un avvertimento inviato dagli dèi: e infatti
l'esercito aveva sofferto perdite gravissime per mano dei ribelli. I preti aggiungevano poi pienamente
l'assicurazione di levare sincere e solerti preghiere perché al supremo reggitore di Niciea venisse inviato
un presagio più propizio. Queste insinuazioni spargevano veleno tra il popolo, che è sempre pronto a
interpretare in modo negativo le parole ambigue: e il risultato era un'ulteriore perdita di prestigio da
parte del sovrano.
Venne una notte in cui mi trovai di fronte a un problema particolarmente difficile riguardante la
correlazione tra dati già raccolti in precedenza con informazioni ricavate dall'ultima campagna di scavi.
Poiché nel mio studio non disponevo di tutte le registrazioni sull'argomento, mi recai in un altro locale
adibito alla raccolta dei documenti, situato in un'ala diversa della villa e poco frequentato.
Tharrin lo aveva pomposamente battezzato «biblioteca», ma in realtà era una specie di deposito di
sgombero destinato a quel materiale per cui non avevamo trovato una collocazione ben precisa, e che
tuttavia non ci pareva il caso di distruggere.
C'ero già stato una sola volta, insieme con Tharrin, ma non mi parve ci fosse nulla in contrario ad andarci
nuovamente da solo. Il nicieano mi aveva concesso piena libertà nel portare avanti le mie mansioni, e
del resto la chiave di bronzo della «biblioteca» pendeva incustodita in una bacheca dello studio.
Così, aprii la porta massiccia, spinsi la lampada davanti a me e vidi l'Aghiir Tharrin seduto nella
penombra. Tharrin e un'altra figura. Mi fermai. Notai l'espressione stupita sul volto dell'Aghiir, e subito
indietreggiai nuovamente verso il corridoio.
«Aldair!» La voce del nicieano era secca, imperativa, ma non alta abbastanza da poter essere udita
all'esterno. «Avvicinati, presto, ragazzo, e chiudi quella porta dietro di te!»
«Mio Signore», cominciai, «io...»
«Lo so che non sapevi niente. Sono stato io a darti quella chiave e l'autorità per usarla. È stata la mia
mente ad oscurarsi». Diede uno sguardo al suo compagno, poi di nuovo a me. Non potei reprimere un
moto di sorpre-sa. Per il Creatore! Un cygnano! Uno schiavo, seduto a suo piacimento accanto
all'Aghiir Tharrin! E, per di più, con indosso una veste da uomo libero!
Il cygnano colse la mia espressione, e volse gli scuri, placidi occhi verso il nicieano. «È sorpreso di
vedermi, Signore. Forse tanto quanto lo sono io di vedere lui...» Il suo sguardo rimase puntato su
Tharrin, così come, del resto, la sua implicita domanda.
L'Aghiir lasciò che un lieve sorriso gli piegasse gli angoli della bocca.
«Un compagno di schiavitù, Aldair... Un ex schiavo, come te». Poi parlò al cygnano. «Stai pur tranquillo,
amico mio», disse. «Aldair è la persona di cui ti ho parlato».
Il cygnano annuì. Era un po' più grasso degli altri della sua razza. Il pelo era tosato al vivo per il caldo
clima di Niciea, e intorno al collo portava una catena d'oro di semplice fattura, ma molto massiccia.
Trovai difficile fronteggiare il suo sguardo. Maledizione, mi chiesi, madi che genere di cygnano si
tratta? Dai suoi occhi era assente l'espressione docile cui ero abituato... anzi, dubitavo che mai ci fosse
stata. Al suo posto, era presente una sensazione indefinibile...
«Aldair», fece Tharrin interrompendo i miei pensieri. «Non affollare di altri interrogativi la tua mente già
abbastanza curiosa. Ora hai un altro segreto da custodire... E questo è altrettanto mortale del primo». Si
passò
stancamente la mano sul volto e alzò il capo in rassegnazione. «Per il Creatore, Aldair... Finirai per
coinvolgerci tutti...»
DICIANNOVE
Non ero troppo ansioso di incontrare i preti di Niciea. Ma, come mi aveva spiegato l'Aghiir Tharrin, ben
difficilmente la cosa avrebbe potuto essere evitata.
«È una trappola, ovviamente», aveva aggiunto in tono cupo. «Ed anche ben congegnata. Mi aspettavo
che il tuo nome sarebbe stato portato alla loro attenzione. Linius ha svolto bene il suo lavoro. È per
questo che ti hanno dato il Qua'shar, la nostra Sacra Scrittura, ordinandoti di studiarne i principi. I
preti non si aspettano certo che tu la conosca già a menadito... Ma non è questo l'obiettivo della tua
convocazione al Tempio». Il nicieano mi aveva poi detto che questo era uno dei tanti sistemi usati dal
clero per acquisire potere e stringere la morsa sul popolo. Ufficialmente, Aastar il Creatore parlava ai
sacerdoti in sogno, e pronunciava i nomi di persone che dovevano essere onorate con «speciali
benedizioni e istruzioni». Queste persone potevano essere nobili, uomini liberi o schiavi: ma sempre, a
quel che sembrava, individui in possesso di informazioni di particolare valore o in grado di svolgere
speciali mansioni.
«Come, per esempio, quella di spiare la Casa Reale», aveva aggiunto l'Aghiir. «Sono sicuro che è stato
così che il mio fedele luogotenente Linius è andato ad aggiungersi ai loro ranghi. Tramite la paura, le
lusinghe o l'odore dell'oro... il mezzo non ha importanza. Stai attento a quegli individui, Aldair. Non ho
bisogno di ricordarti che non nutrono speciale amicizia nei confronti della mia famiglia».
«Si renderanno conto», avevo risposto, «che non so nulla di interessante. Su questo non avranno
dubbi».
«Non farai niente del genere!», era esploso Tharrin, stringendomi il braccio in una morsa. «Sappi, mio
giovane amico, che non si tratta di persone di cui ci si può prendere gioco facilmente. Sono maestri
dell'inganno e dell'astuzia, e se cercherai di gareggiare con loro su questo terreno, ti faranno a pezzi!»
Poi aveva tratto un sospiro, riprendendo a parlare in modo meno concitato. «Lo so che tu cerchi solo di
servirmi, Aldair; ma sta attento a come lo fai. I preti mi conoscono, e sanno che non includerei mai uno
sciocco nel mio seguito. Non pretendere d'esserlo. Loro non sperano di apprendere molte cose da te,
ma non si lasceranno sfuggire l'opportunità e tenteranno fino all'ultimo. Attraverso Linius sanno già
molte cose di te. Non sorprenderti per le cose che ti faranno capire». Il niceiano aveva fatto una pausa,
passandosi le lunghe dita sul volto.
«Ricorda, inoltre, che quel traditore ha passato loro un'arma da usare contro di noi. Può darsi che la
mettano in gioco subito, e può darsi che no. Ma loro conoscono la parte che hai avuto in questa vicenda,
e cercheranno un modo per usarti contro di me». Dopo un sorriso, aveva ripreso a parlare.
«Ma so che non ne troveranno nessuno, Aldair. Non è questo che mi preoccupa. Vedi, i preti hanno
anch'essi un punto debole: non sanno che la lealtà e l'amicizia possono essere fondate su una moneta
che vale più dell'oro...»
Continuai a ripassare mentalmente le parole dell'Aghiir. Aveva ragione, ovviamente. Recitare la parte
dello sciocco inconsapevole non avrebbe avuto altro risultato che focalizzare ulteriormente l'attenzione
su di me e sul mio padrone. Sarei stato naturale, perciò... non ostentatamente furbo. Coo-perativo, ma
non ansioso di parlare. Tuttavia, dormii molto poco la notte prima del mio appuntamento al Tempio. La
mattina, la mia mente era piena di cose che avrei dovuto accuratamente evitare... ed ero convinto che
sarei caduto in tutte le trappole.
Un cavallo mi aspettava nel cortile. Era un animale alto e slanciato, nero come il carbone e scintillante al
pari della seta nel sole del mattino. Pensai che era una splendida creatura, ma sul suo dorso mi sentivo
ridicolo. Ero sicuro che chiunque mi guardasse, rideva alla vista delle mie gambe corte e tozze, che
arrivavano a malapena a metà dei fianchi della mia cavalcatura. Avrei preferito uno dei piccoli e pelosi
pony dei Venicii, che potevano essere guidati con una leggerissima pressione del ginocchio o con un
movimento del corpo, lasciando le mani libere per usare l'arco. Tuttavia, quella bestia era un regalo
dell'Aghiir, un onore concessomi, e poco potevo fare se non arrampicarmi sulla schiena del gigante
come se stessi scalando una piccola collina, e sperare per il meglio. La strada che dalla villa conduceva al
cancello esterno si snodava tra alti cedri piantati generazioni prima per dare ombra ai viaggiatori reali.
Gli alberi riempivano l'aria del loro caratteristico odore pungente, e il sole filtrava tra le loro fronde,
cospargendo sul terreno monete di luce dorata. Mi stavo godendo la passeggiata, quando un suono
improvviso ruppe il silenzio. Mi rizzai all'erta sulla sella; la mia cavalcatura soffiò nervosamente, batté il
terreno con le zampe, e scartò di traverso alla strada. Tirai le redini e mi curvai a mormorare qualche
parola tranquillizzante nell'orecchio dell'animale. Di nuovo il rumore. Più forte, stavolta. Come una
grande bestia in preda alle sofferenze più atroci. Il mio cavallo balzò in avanti, ma stavolta ero pronto.
Portai l'animale via dalla strada conducendolo attraverso gli alberi fino alla radura adiacente. Il sole era
alto, e sotto i suoi raggi dovetti stringere gli occhi. Rallentando il cavallo, aguzzai l'orecchio. Subito dopo
una macchia d'alberi, la radura lasciava il posto a un tratto di terreno roccioso. Lì era stata costruita una
grande ruota, orizzontalmente al terreno. L'asse si infiggeva nel suolo, e al cerchione erano incatenati
una ventina di schiavi. Sapevo che lo scopo di quell'apparecchiatura era di trarre acqua fresca dai pozzi,
portandola sino alla villa in cima alla collina.
Prestai poca attenzione, però, alla ruota in se stessa. La fonte del rumore che mi aveva disturbato si
trovava alla mia destra. Uno schiavo era stato incatenato fra due pali, e i vigilanti nicieani lo stavano
frustando con selvaggia ferocia. La pelliccia sulla schiena era stata ormai squarciata e la carne viva era
aperta ai raggi del sole.
Non mi sorprese che le grida di dolore di quella creatura avessero fatto tremare gli alberi dalle radici alle
foghe. Non era uno schiavo ordinario, ma una creatura ancor più lontana da casa di quanto non lo
fossimo io e Rheif. Avevo già incontrato prima dei Vikoniani, nei porti del nord. Esseri grandi e tarchiati,
con ampio torace, muso corto e grosse pellicce color cinnamomo che li proteggevano dal gelo pungente
delle loro isole. Si spingevano sui nostri mari con le loro navi sottili per commerciare con i Venicii, e per
la maggior parte mantenevano relazioni pacifiche, perché
conveniva loro farlo. La loro vera vocazione, tuttavia, non era il commercio. Erano scorridori del mare,
pirati dall'audacia inaudita, ed è così che preferivano vivere. I Rhemiani davano loro la caccia di tanto in
tanto, quando le città costiere cercavano aiuto, e le navi esitavano a prendere il mare per paura. Ma i
Vikoniani non li temevano troppo, e non scappavano davanti a loro se non quando era assolutamente
necessario. Fermai il cavallo e rimasi ad osservare la scena. Il mio sguardo si appuntò su uno dei
tormentatori del vikoniano. Era l'ottimo luogotenente Linius, e non fui sorpreso di trovare anche la sua
mano sulla frusta. Portai avanti il cavallo, vincendone la sua resistenza, dopo che aveva percepito
l'odore del vikoniano. A nessun animale piace la vicinanza di quelle creature. Linius mi vide, e la sua
faccia si rannuvolò. Ma si riprese subito, sfoderando un sorriso di maniera. Guardai il vikoniano, che mi
ricambiò un'occhiata d'odio e con un ringhio profondo e gutturale.
«Che cosa succede, Linius?»
«Oh, si tratta di uno schiavo dell'Aghiir Tharrin», rispose il rhemiano. Batté il manico della frusta sul
palmo della mano e sorrise di nuovo. «Non ritiene necessario che i Nicieani abbiano acqua fresca. Lo
stiamo convincendo che la sua idea è del tutto sconveniente».
«Ti riuscirà difficile convincerlo quando sarà morto, Linius». Il sorriso del rhemiano si allargò
ulteriormente. Ma gli occhi tradivano i suoi veri sentimenti.
«Se sceglierà di non lavorare», rispose, «allora per lui sarà davvero la morte. Ma questa è una libera
scelta che si offre ad ogni schiavo».
«Ti prendo in parola per questo», feci, «dato che con la schiavitù hai molta maggiore dimestichezza di
quanta non ne abbia io».
Linius si irrigidì. «Io faccio il mio lavoro», disse bruscamente. «Che consiste nell'assicurarmi che gli ordini
del mio padrone vengano eseguiti con cura».
«Vedo che lo fai con molto piacere».
«Io faccio ciò che mi viene richiesto, Aldair. L'Aghiir Tharrin assegna i miei compiti, ed io li eseguo».
«È stato dunque l'Aghiir a ordinarti di frustare gli schiavi fino a quando non sono più in grado di
lavorare? È stato lui a ordinarti questo?»
Il pugno di Linius si strinse sulla frusta. «Aldair, questa non è cosa che ti riguardi».
«Non chiamarmi per nome», lo corressi. «Dimentichi qual è il tuo posto».
«E tu dimentichi il tuo!», si infiammò Linius. «Sei stato uno schiavo tu stesso».
«Lo sono stato. Ma oggi sono un uomo libero. Tu, no».
«Io sono il luogotenente dell'Aghiir Tharrin», fece Linius con la voce gonfia d'ira, e lanciò occhiate ai
presenti. Stava perdendo autorità e prestigio davanti ai loro occhi, e lo sapeva.
«Sei il luogotenente», dissi, «e sei lo schiavo».
Linius apri la bocca per parlare, ma poi si morse le labbra.
«Che cosa hai detto, schiavo?», chiesi.
«Io... io non ho detto nulla».
«Forse quell'altro schiavo ora ha idee diverse sul suo lavoro, Linius. Perché non te ne accerti? In questo
modo, potrai servire meglio il tuo padrone». Non guardai più il rhemiano, ma spronai il cavallo,
spingendolo quanto più vicino possibile al vikoniano. Poi mi fermai, mi chinai sul collo della cavalcatura,
e feci finta di parlare all'orecchio della bestia per tranquillizzarla.
«Stai attento», mormorai invece nella lingua dei Vikoniani. «Non dar segno di capire le mie parole,
pirata del mare, ma ascoltami bene. Il rhemiano godrebbe nell'ucciderti. E lo farà, se ti rifiuterai di
lavorare. Questo non è il tuo giorno, ma il suo. Cerca di restare vivo, e forse prima o poi sentirai ancora il
ghiaccio sulla tua pelliccia».
Poi mi mossi, dirigendomi nuovamente verso la strada ombreggiata dai cedri. Avrei fatto tardi al mio
appuntamento con i sacerdoti, ma ormai non potevo far nulla per rimediare.
Sentii gli occhi di Linius fissi sulla mia nuca fino a quando gli alberi non si richiusero dietro di me.
«Dunque, come è andata?»
Tharrin mi guardava da sopra la punta delle dita.
«Bene, penso, mio Signore. Ho seguito il tuo saggio consiglio».
«I nomi dei preti che ti hanno interrogato. Li ricordi?»
«Sì, mio Signore. Mi sarebbe stato difficile dimenticarli. Uno il peggiore dei due, si chiamava Rhazish.
L'altro, non altrettanto cattivo, si chiamava Chamrin».
Tharrin non disse nulla. Mi fece ripetere due volte il racconto del mio colloquio, ponendomi di tanto in
tanto qualche domanda.
«Non hanno spinto a fondo», disse infine. «E tu sei stato abile nelle risposte. È stato un primo tentativo,
ed è possibile che tu venga chiamato di nuovo». Scrollò le spalle. «Se accadrà, ci prepareremo. Parlami
adesso di quell'altra faccenda. Con Linius. Voglio sentirla da te, anche se so già
quello che è successo».
Fui certo di fissarlo bene negli occhi. «Mio Signore», dissi, «non era mia intenzione celartela. Solo, non
ho avuto il tempo di parlarne». Tharrin fece un gesto, come a cancellar via le mie scuse.
«Lo so, lo so, Aldair. Non ti rimprovero per questo. Linius si sta spingendo troppo in là. Sta cercando
delle prove di forza, e questo significa che c'è qualcosa nell'aria, non ti sembra?» Aggrottò la fronte. «È
come se... si esponesse di fronte ai miei occhi. E non oserebbe farlo se non avesse qualche buona
ragione per credere che non sarà punito per questo». Si batté un pugno sul palmo della mano. «E
avrebbe ragione, se non fossimo più in grado di amministrare le punizioni...»
Mi rizzai sulla sedia e lo fissai. Tharrin scosse le spalle.
«È un codardo, Aldair. Qualsiasi cosa si stia preparando, non la sta preparando lui. Non guardarti contro
il nemico che fa rumore, ragazzo, ma bada all'assassino silenzioso che scivola nella notte per infilarti una
lama nella schiena».
«Di che si tratta, allora?»
«E chi può saperlo? Il fratello di un re ha più nemici che amici».
«Se potessi rimanere per pochi momenti solo con Linius, lui finirebbe con l'essere felice di dirmi tutto
quello che c'è nel suo cuore...»
Tharrin scosse la testa.
«Se la tortura fosse una risposta, l'avrei già fatta eseguire. No. Lui ha già
mostrato la mano, e senza volere ci ha dato un avvertimento. Dobbiamo essergli grati per questo».
Si volse verso di me e mi gratificò di un sorriso amaro.
«Abbiamo avuto una conversazione, una volta, sulla nave. Te ne ricordi?
Parlammo della schiavitù, concludendo che la sua accettazione dipende in grande misura da chi è lo
schiavo, e chi è il padrone».
«La ricordo bene, mio Signore».
«E in effetti le tue azioni lo confermano, Aldair...»
Quella notte ci furono disordini in città. Una processione religiosa organizzata dai preti - a quanto
sembrava in osservanza di qualche oscuro evento menzionato nel Qua'shar -si snodò attraverso le
strade. I cittadini meno rispettabili di Chaarduz presero vantaggio dall'evento, e prima che la notte fosse
finita la processione si trasformò in una rivolta. Alcune persone vennero uccise: si trattava soprattutto di
gente che non aveva preso parte alle festività. Molti negozi vennero saccheggiati e dati alle fiamme. Al
mattino, i quartieri occidentali della città erano in rovina. Tharrin notò che i preti, come Linius,
cominciavano a ingaggiare prove di forza. Altre, certamente, ne sarebbero seguite.
La notte seguente cavalcai con il nicieano verso una località segreta fuori della città, quasi ai margini del
Grande Deserto. Altre figure nascoste da mantelli arrivarono in silenzio, e anche se i loro volti erano
coperti, la maestosità del portamento e l'eccellenza delle cavalcature ne tradiva l'origine. Sospettai che
fra di essi vi fosse lo stesso sovrano, ma non osai chiederlo. Avvertii che dietro quell'incontro c'erano
eventi di grande importanza. Certo, sarebbe stato molto più facile tenere la riunione nel palazzo. Ma,
chiaramente, nella stessa corte imperiale c'era qualcuno non degno di completa fiducia.
Due giorni dopo l'incontro, il Re proclamò una giornata di festa nazionale, motivandola con la ricorrenza
di un oscuro e lontano avvenimento della storia nicieana. Il sovrano apparve alla testa di una imponente
e variopinta parata che percorse tutta la città, mentre da grandi sacchi tolti alle Casse del Tesoro
nicieano veniva tratta una pioggia di monete che ricadevano sul popolo assiepato nelle strade. Nei
parchi pubblici ci furono distribuzioni gratuite di cibo e bibite, e venne reso noto che tutto ciò era un
dono personale del Re ai sudditi. I cittadini inneggiarono al loro nobile reggitore con voce altrettanto
alta di quella che avevano usato per i sacerdoti, e per il momento la città tornò
in pace. Nessuno, tuttavia, credeva che la quiete sarebbe durata a lungo. Il Re era riuscito a guadagnare
un po' di tempo, ma nulla di più. Il popolo di Chaarduz è noto per avere la memoria corta: e una volta
consumati tutti i cibi e le bevande, e spese tutte le monete, sarebbe tornato preda dell'inquietudine.
Ciascun cittadino sarebbe stato pronto ad ascoltare chiunque si offrisse per distrarlo da una vita
monotona, o si dichiarasse intenzionato a riempirne la pancia vuota.
VENTI
Mancava ancora un'ora all'alba quando Tharrin mandò nel mio alloggio Mehzaar, Capitano della sua
guardia personale, perché mi conducesse nei suoi quartieri. Ne fui sorpreso e preoccupato, perché non
era mai accaduta prima una cosa del genere. Inoltre, il fatto che avesse incaricato Mehzaar invece di un
semplice schiavo, indicava che in gioco c'erano cose importanti. Ebbi la conferma non appena entrai nel
piccolo studio dell'Aghiir. Il volto di Tharrin era cupo alla luce dell'unica candela poggiata sulla sua
scrivania.
«Siediti, Aldair», disse. «C'è del vino davanti a te. Versalo per entrambi». Non attese che i bicchieri
fossero colmi per venire al dunque. «Fuori del cancello principale c'è una delegazione di preti. Mehzaar
ritiene che uno di essi sia Ch'saam, terzo nella gerarchia ecclesiastica dopo Bhurzal stesso. In vista c'è
anche un distaccamento delle guardie armate del tempio, gli Huizim. Si tratta di una compagnia molto
imponente, e dovresti esserne lusingato, Aldair, perché sono tutti qui per vedere te». Mi feci cadere una
goccia di vino sulla tunica. «Me?»
Tharrin fece un gesto stanco. «Te, nel corpo», disse. «Ma me, ovviamente, nello spirito. Non sono
ancora pronti per venire a prendere il fratello del Re, ma è come se mi stessero dicendo che prima o poi
intendono farlo. Questo», e srotolò sul tavolo una lunga pergamena, «la dice lunga al riguardo. È firmata
da Bhurzal in persona, ed è piena di significati reconditi. In buona parte si tratta di vaneggiamenti in
linguaggio religioso, ma nella sua essenza dice che un certo Aldair dei Venicii, rhadaz'meh dell'Aghiir
Tharrin, è nuovamente richiesto» -Tharrin alzò un sopracciglio privo di peli - «'richiesto', capisci?
Significa, Aldair, che ti vogliono di nuovo. Permanentemente, stavolta. Dovrai testimoniare contro di me
per qualunque eresia essi abbiano in mente. E poi, immagino, trangugerai una qualche pozione che
segretamente avevi indosso e morirai, lasciando una nota per confessare il rimorso che provi nell'essere
stato complice dei miei crimini»
Il volto del nicieano si rannuvolò.
«Bene, stavolta sono andati troppo in là». Il suo pugno si abbatté sul tavolo. «Non lo permetterò! E, per
il Creatore, nemmeno il Re!»
Si volse verso di me e scosse la testa. «È stata una sciocchezza mandarti la prima volta», disse
cupamente. «Ma non avevo idea di fino a quale punto avrebbero osato spingersi...» Si alzò in piedi e
camminò a grandi passi fino all'altro lato della stanza. «Avrebbero potuto prenderti allora. Ma non
erano pronti, e devono aver pensato che comunque avrebbero potuto reclamarti quando lo avessero
desiderato». Le sue labbra si piegarono in un ghigno di determinazione. «Bene: non ti avranno. Che
siano maledetti!»
Tharrin sollevò la coppa di vino e la bevve d'un fiato, poi me la puntò
contro. «Vai nelle tue stanze e restaci fino a quando non ti manderò a chiamare. E non andare con
nessuno che non sia Mehzaar in persona. Sta cominciando, Aldair. Come aveva detto Nhidaaj. Sta
cominciando...»
Non conoscevo il nome che aveva pronunciato, ma qualcosa nel suo suono, e nel modo in cui Tharrin
l'aveva detto, portarono nella mia mente l'immagine dello schiavo cygnano, che non era uno schiavo.
Tornai nel mio alloggio come mi era stato ordinato, e fino al giorno dopo vidi soltanto Mehzaar. Il
Capitano tuttavia mi tenne bene informato. Nella città stavano accadendo molte cose. Lo stesso Bhurzal
aveva mandato emissari al Re chiedendogli di imporre all'Aghiir di consegnarmi al clero per nuovi «onori
e istruzioni». A quanto assicuravano i preti, ero richiesto soltanto per questioni religiose, che non
avevano nulla a che fare con gli interessi dei reggitori dell'Impero Nicieano. Di conseguenza, il fratello
del Re non aveva alcun diritto di interferire.
Si diceva che il Re avesse esercitato pressioni insistenti sul fratello, convinto che il clero si sarebbe
acquietato se la richiesta fosse stata esaudita. Il sovrano non voleva creare nuovi problemi, dato che la
situazione era già
molto pesante.
Tharrin, tuttavia, era rimasto sulle sue posizioni, affermando - secondo Mehzaar - che se io fossi stato
consegnato ai preti, la cosa avrebbe recato danno anziché aiuto alla famiglia reale. Il Re alla fine si era
convinto, poiché aveva molta fiducia nel giudizio del fratello. C'erano anche altre storie.
Infinite voci correvano per la città. Si diceva che il Creatore stesso era stato visto davanti ai cancelli del
palazzo, a mezzanotte, e aveva puntato un dito accusatore verso gli appartamenti reali. Una sentinella
nicieana l'aveva fissato in volto ed era diventata di pietra... Si diceva anche che il Re era diventato pazzo,
e aveva ordinato che tutte le chiese fossero bruciate e tutti i preti senza testa; secondo i preti era un
presagio che annunciava la morte del raccolto ancor prima della mietitura, e carestia per tutto l'anno
seguente...
I racconti del genere si moltiplicavano, e secondo l'acido commento di Mehzaar, pareva che la gente
credesse a tutti.
Io sapevo, tuttavia, che pur se gran parte di queste storie erano parto della fantasia, c'era un motivo per
la loro origine. La paura era in agguato nelle strade di Chaarduz, e avremmo visto cose molto più
terrificanti dei topi senza testa, prima che la settimana fosse finita.
Nessun membro della famiglia reale si allontanava ormai più dai padiglioni vigilati, e anche gli schiavi che
indossavano la verde livrea nicieana avevano timore di farsi vedere per le strade.
Nel tardo mattino seguente, alle guardie del Re venne fatto pervenire un proclama. Affermava che un
soldato che aveva preso parte alla spedizione nel territorio dei Tarconii aveva confessato ai preti del
Tempio di avere assistito a riti demoniaci celebrati a mezzanotte nelle parti più profonde della città
sepolta.
Impegnati in questi riti, e confusi insieme in modo vergognoso e immenzionabile, erano Aldair,
rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin, l'Aghiir stesso, e un barbaro stygiano di nome Rheif. Quest'ultimo, che
era stato nominato guardiano del giovane Principe Dhar'jeem, era stato visto divorare il fanciullo e
sostituirlo con un demonio. Questo demonio, che aveva assunto la fattezze del figlio del Re, avrebbe un
giorno governato Niciea, trascinando all'inferno chiunque avesse seguito il suo dominio.
«Dunque ci siamo», annunciò in tono gelido Tharrin. «Sono usciti allo scoperto e si sono dichiarati
contro il Re.... anche se ben pochi nella canaglia radunata qui sotto se ne rende conto, o se ne cura».
Avevo fatto osservare a Tharrin che a quanto pareva Bhurzal aveva impiegato ogni arma a sua
disposizione, eccetto quella che più temevamo.
«Per la verità, non mi attendevo che l'avrebbe usata», mi aveva risposto il nicieano. «O, quanto meno,
non direttamente. Il pericolo per noi, Aldair, non sta nel fatto che possano rendere pubblici i tuoi
appunti, quanto nel fatto che i preti sanno che essi esistono. Stai pur certo che, in quanto sta
succedendo, le tue annotazioni hanno giocato una parte. Ma lascia tempo a Bhurzal... È un pazzo, ma
non uno sciocco. Userà qualsiasi arma nella sua lotta contro la famiglia reale. Anche quella che sai... ma
forse non necessa-riamente nel modo che ti aspetti». Tharrin si interruppe e fissò il vino nella coppa.
«Mi ha fatto sapere che ha delle prove in mano. E me lo ha dimostrato».
«Che significa, mio Signore?» Ero sbalordito per questa ultima osservazione.
«Quel proclama, Aldair». Il nicieano sorrise amaramente. «Vedi, è una specie di piccolo gioco di doppi
sensi. C'è di tutto: riti demoniaci in una città ancestrale... pratiche immenzionabili... Sappiamo bene qual
è l'argomento 'immenzionabile' per questi preti, non è vero, Aldair? E lo sa anche Bhurzal. In un certo
senso, lui ed io ragioniamo in modo molto simile. Nessuno di noi due intende rivelare al pubblico la
consapevolezza di una
'storia perduta' del mondo. Ma per farlo abbiamo ragioni differenti. Molto differenti...»
Avrei voluto approfondire la questione, ma sapevo bene che era meglio non porre domande a Tharrin,
quando si toccavano certi argomenti. Tuttavia, non potevo fare a meno di considerare gli eventi con
meraviglia. Da quelle mie note, prese rubando le ore al sonno sulla costiera dei Tarconii, erano sorti
eventi straordinari. Grazie ad essi, ero stato elevato a un rango considerevole. Adesso, invece, alla luce
delle ultime vicende, sembrava che la questione non fosse poi così importante. Ma non potevo
dimenticare che Tharrin era entrato in contrasto con lo stesso sovrano per strapparmi alle mani di
Bhurzal. Lo aveva fatto soltanto perché provava affetto per me? Perché onorava il legame fra un
padrone e il suo rhadaz'meh? Forse. Ma non potevo dimenticare neppure che il nicieano una volta mi
aveva detto chiaramente che, in materia di città sepolte e anni perduti, sapeva molto di più di quanto
avesse intenzione di rivelare. Certamente, di questo ero convinto.
Più tardi, quello stesso giorno, incontrai nuovamente Tharrin, stavolta di ritorno da un colloquio con il
re.
«Dobbiamo aspettarci il peggio, Aldair», mi disse cupamente, «e tutto ciò che il peggio porta con sé.
Quando le cose precipiteranno, non potremo fare altro che maledire noi stessi. Noi, la Casa Reale di
niciea. E anche i reggitori dell'Impero Rhemiano. Perché ciò che oggi sta accadendo nel nostro paese,
potrebbe facilmente stritolare anche quel tuo mondo al di là del Mar Meridionale».
Queste parole mi diedero da pensare. Avevo visto i sistemi usati dai preti di Chaarduz per creare
disordine e portare sull'orlo della rivolta la grande città. Ma da qui a...
Tharrin percepì i miei interrogativi.
«Soffiano i venti del cambiamento, Aldair», disse in tono enigmatico. E
mi lasciò a meditare su quest'altra sentenza.
L'Aghiir e i nobili sembravano sempre impegnati in qualche incontro, anche se non so dire che cosa
uscisse mai dai loro conciliaboli. Mentre discutevano, tuttavia, i preti eccitarono un'altra rivolta
diffondendo la voce che era stato avvelenato il grano custodito nei depositi pubblici. Prima che l'esercito
potesse ristabilire l'ordine, le riserve di frumento di tre mesi erano state bruciate e gettate in mare.
Questa azione - da loro stessi effettuata - suscitò un tale furore nei rivoltosi, che appiccarono il fuoco a
tre navi da guerra ancorate nel porto. Un forte vento dal mare sollevò pezzetti di legno e di tela in
fiamme e li portò fino a Chaarduz, dando vita a dozzine di piccoli incendi in zone diverse e molto distanti
dalla città. Da un balcone della villa di Tharrin, Rheif ed io osservammo lo spettacolo nelle ultime ore del
pomeriggio. Nessuno dei due aveva molto da dire. Io avevo avuto una notte faticosa, ed ero assai
incerto sul destino che mi avrebbe portato l'alba dell'indomani.
«Aldair», fece infine lo stygiano. «Che cosa ne sarà di noi?»
«Come puoi pensare che io sappia rispondere a una simile domanda?»
gli chiesi.
«Fa caldo, qui, Aldair. Anche di notte non c'è vento. E quando c'è, anch'esso è incandescente. Al nord,
invece, in questa stagione di sicuro è già
caduta molta neve. Un bel manto di neve, con orme di lepre che lo chiazzano qua e là. Te lo immagini?»
«Certo. Me lo immagino».
«E bei gufi grassi che aspettano solo di essere buttati giù dagli alberi con una sassata precisa. E...»
«Rheif», lo interruppi, «si sta facendo tardi. È tempo di andare a dormire. Domani, forse, potremmo
rimpiangere di non aver riposato quando ci era possibile...»
«È già domani», annunciò lo stygiano. «E se tu avessi avuto sonno, Aldair, non ti sarebbe venuto il
desiderio di salire fino a questo balcone per vedere Chaarduz che brucia. Anche se devo ammettere che
si tratta di uno dei più splendidi incendi che io abbia mai avuto occasione di ammirare...»
VENTUNO
Come aveva notato Tharrin, l'Alto Sacerdote Bhurzal era un uomo astuto, che conosceva l'umore del
popolo. Molte persone erano perite negli incendi che avevano parzialmente distrutto i depositi reali di
grano e devastato numerosi edifici presso il porto. A mezzogiorno la piazza di fronte al Tempio era un
mare di verdi facce irate. Un grande grido di rabbia sorgeva dai cittadini di Chaarduz, e molti agitavano
laceri stracci gialli: il colore della morte, segno di lutto portato dai parenti di una vittima. Anche se i
morti non superavano il centinaio, presto i vessilli gialli furono migliaia, finché sembrava che ogni singola
persona, in città, dovesse lamentare la perdita di qualcuno. Così contagioso fu questo comportamento
che, presto, le mogli cominciarono a levare alti lamenti per il marito defunto; il quale marito, a sua volta,
piangeva sulla memoria dell'amata consorte, con cui mai più avrebbe diviso il letto coniugale. Bhurzal
sapeva che se, per un impulso improvviso, quella folla avesse deciso di avanzare, avrebbe sgretolato il
Tempio pietra su pietra, calpestando chiunque si fosse messo sul suo cammino. Di conseguenza, indossò
una gialla tunica di morte, e si presentò alla torma. Alzò le braccia al cielo, e l'ampia tunica si aprì
attorno alla sua magra figura, mentre i suoi occhi terribili sembravano fissare ciascuno degli astanti. La
folla si immobilizzò
e trattenne il respiro, perché ben di rado Bhurzal si faceva vedere alla gente comune. Quando fu sicuro
di aver catturato l'attenzione di tutti, cominciò a parlare. Disse che quanti erano morti la notte
precedente si erano guadagnati un posto speciale alla destra di Aastar il Creatore, perché, invero,
avevano sacrificato la vita per Lui. Chaarduz ululò la sua approvazione a queste parole, ma Bhurzal aveva
molte altre cose da dire, e alzò la mano imponendo il silenzio.
Nessuna di quelle anime benedette - spiegò - poteva ancora entrare nella gloria del Mondo di Poi. Per
loro, la strada era sbarrata. Erano stati commessi atti impuri contro il Creatore, e le porte del regno dei
beati erano serrate. E non si sarebbero più riaperte, se non quando questi atti - e i demoni che li
avevano perpetrati - fossero stati sottoposti al debito esorcismo purificatore. La gente non aveva
bisogno di ulteriori delucidazioni. Conoscevano l'identità dei demoni in questione, anche se Bhurzal si
era guardato bene dal nominarli.
Come un sol corpo, la turba distolse la sua ira dal Tempio, e si diresse verso il grande muro che
circondava le residenze reali...
«Non agirà», esplose Tharrin. «Non fa mai nulla. Nemmeno ora che quel maniaco ha dichiarato che suo
figlio è un demonio, e ha sollevato il popolo contro di lui!»
I suoi consiglieri, i nobili e gli alti ufficiali non dissero nulla. Rimasero a guardarsi le mani, o sbatterono le
palpebre alla luce del sole che penetrava sotto il portico, fissando le torri di Chaarduz. Molti di loro,
notai, avevano le tuniche macchiate dal proprio sangue. Nessuno, però, pensava che quelle ferite
fossero degne d'onore. Se le erano procurate respingendo il loro stesso popolo che quella mattina aveva
dato l'assalto alle mura, lasciando sotto di esse più di cinquecento tra morti e feriti.
Quel giorno, c'era pianto da entrambi i lati del muro.
«Tharrin», disse infine un cugino anziano: «forse il Re pensa che non ci sia nulla che lui possa fare. Oggi
mi ha detto: 'Come posso chiamare me stesso sovrano, e padre di Niciea, se uccido i miei figli?'»
«Dimentica che i suoi cosiddetti 'figli' hanno dato l'assalto al palazzo per massacrare il suo figlio vero»,
rispose Tharrin. Strinse l'impugnatura della spada ricurva che portava al fianco, e i suoi occhi scuri si
mossero in circolo, fulminando i presenti. «Io non intendo incitare all'eccidio dei Nicieani. È quel nido di
traditori che si nascondono nel Tempio, che vorrei passare a fil di spada».
Mi accorsi che molti trattenevano il respiro a queste parole, e diversi consiglieri si scambiarono occhiate
attraverso la stanza.
«Toglieresti la vita a un prete?», chiese il cugino che aveva già parlato.
«Sì, visto che lui vorrebbe togliere a me la mia», fece Tharrin. «E a te la tua, se è per questo».
«Io non ho intenzione di dannare la mia anima», rispose l'uomo.
«In tal caso, mio Signore, presto avrai modo di compiere la tua scelta». A parlare era stato un ufficiale
anziano e coperto di cicatrici, che per più di metà della sua vita aveva servito Niciea.
Il nobile cugino arrossì, e si volse verso il militare. «Non hai diritto di parlare in questo modo, Dhaarim!»
«Io ho combattuto e combatterò per te, mio Signore», rispose Dhaarim.
«Ho il diritto di morire sulle mura, tenendo lontana dalla tua gola la canaglia eccitata dai preti...»
«Basta così», interruppe Tharrin. Si era alzato di scatto dalla sua sedia dietro la scrivania, e con quel
movimento aveva rovesciato la coppa di denso vino scuro che stava bevendo. Vidi il liquido cremisi
allargarsi sul ripiano di legno, scivolare oltre l'orlo del tavolo, e spargersi sulle pietre del pavimento.
«Non siamo qui per questionare tra noi. Né per condannare le parole del Qua'shar, che tutti
consideriamo sacre. Ma io vi ricordo, signori, che non è
il nostro Creatore che sta sollevando il popolo contro il suo Re, e ci definisce dèmoni ed eretici. Sono
creature terrene, che stanno compiendo delitti infami nel nome di Aastar. E agiscono per la loro
gloria, non per la Sua!»
Gran parte dei presenti approvò con cenni vigorosi queste parole, e molti proclamarono a voce il loro
consenso. Tuttavia, anche se tutti convennero che qualcosa doveva esser fatto, che un'azione doveva
essere intrapresa senza indugio per allontanare il disastro, tuttavia la riunione finì senza nessuna
decisione concreta. Perché nessuno dei presenti aveva l'autorità del Re, e nessuno poteva trasformare
in fatti le proprie parole.
Ebbi ben poco tempo per meditare sul mio destino. L'immediato mi diede tanto da fare da non
consentirmi di pensare al futuro. L'assalto alle mura aveva insegnato una triste lezione: anche con un
esercito a disposizione, la famiglia reale era pericolosamente vulnerabile. Una turba di cittadini
disarmati poteva, se numerosa, sfondare le difese dei soldati. E, una volta svanita la forza militare, nulla
avrebbe impedito alla folla di accanirsi sul palazzo reale e sui possedimenti all'intorno, fino a ridurli ad
un cumulo di rovine.
Dietro le mura, il terrore era quasi uno spettro visibile. Ed io pensai che era strano come, fra tutti i
nemici da cui deve guardarsi un impero, quello che si trovava all'interno dei suoi confini era l'unico a
possedere veramente le chiavi della distruzione.
Molti di noi sapevano che il pericolo era in agguato all'interno stesso delle mura. Perché i preti avevano
fatto bene il loro lavoro, ed avevano gettato la scomunica su tutti quegli ufficiali e soldati che osavano
levare le mani sul popolo o sui sacerdoti di Aastar. Alcuni avevano già disertato, e si temeva che molti
altri si preparassero a tradire, rimanendo in silenzio nei loro ranghi, ma pronti al momento opportuno a
seguire gli ordini di Bhurzal. La famiglia reale, in tal caso, avrebbe dovuto guardarsi anche dai potenziali
assassini che dimoravano sotto il suo tetto. Tharrin stava trasformando la sua villa in una fortezza, e io lo
aiutavo nel lavoro. Molti nobili, tuttavia, erano troppo orgogliosi per prendere analoghe precauzioni.
Non era onorevole mostrare paura, dicevano: special-mente contro la canaglia in armi. Io sapevo,
tuttavia, che questa paura si annidava nel profondo dei loro cuori. Tharrin non aveva nessuna simpatia
per loro, e apertamente li definiva sciocchi.
Quella notte, nuovamente le strade furono in balia della folla. Ci furono nuovi incendi, e l'esercito non
poté impedire altro che una piccola parte delle distruzioni. Molti ufficiali e soldati fedeli al Re vennero
uccisi dalle guardie del tempio, gli Huizim dalla tunica nera. Ufficialmente, quelle truppe avevano
l'incarico di difendere gli edifici sacri: ma si sapeva che i compiti loro assegnati erano molto più vasti.
Ad un certo momento, durante i disordini, il luogotenente Linius scomparve. Quando Tharrin seppe la
cosa, espresse il suo disappunto per non aver fatto in tempo a sgozzare personalmente quel demonio.
Quanto a me, lo avrei volentieri sostituito nella bisogna, perché quel traditore aveva compiuto una dose
più che abbondante di misfatti.
Tre eventi importanti si verificarono quel giorno, prima del tramonto del sole. Ciascuno di essi lasciò un
segno nella storia di Niciea. All'alba, Bhurzal mostrò la sua forza lanciando una formale proscrizione
contro il Re e tutti i membri della sua famiglia, accusati di eresia e di numerosi altri crimini. Qualsiasi
cittadino, soldato o schiavo che avesse portato un nobile di fronte alla «giustizia» avrebbe ricevuto un
compenso soprannaturale equivalente a qualcosa di molto prossimo alla santità. E - aveva aggiunto
Bhurzal - ci sarebbero state anche considerevoli ricompense «terrene». A questo punto, il Re non aveva
altra scelta che l'azione. Dichiarò la chiusura dei templi e promulgò sentenza di morte contro tutti gli
ecclesiastici che avessero continuato a seguire le direttive di Bhurzal. Alcuni preti obbedirono, e chiesero
rifugio negli appartamenti reali. Riferirono che Bhurzal era ormai del tutto impazzito - se mai era stato
sano - e che molti dei suoi seguaci, anche i più prossimi, avevano paura di lui. Le azioni del Re
produssero un inatteso beneficio. I cittadini fedeli alla sua autorità, e che fino ad allora avevano temuto
di agire, uscirono allo scoperto e cominciarono a combattere al fianco dell'esercito imperiale. Le notizie
più gravi, tuttavia, dovevano ancora venire. Ci giunsero per bocca di un corriere il cui cavallo morì sotto
la sella appena giunto nel cortile. Al sud, i ribelli si erano sollevati di nuovo. Stavolta, non si trattava di
poche tribù isolate. L'intero deserto, a quel che sembrava, si era ribellato sotto la guida di un solo capo,
Fhazir dello Sha'fel.
Tharrin mi disse che si trattava di un ambizioso capitano in cerca di potere. Una bestia in sembianze
d'uomo.
«Ormai, non c'è più speranza», concluse tristemente il niceano. «Bhurzal ha giocato le sue carte Questo
era ciò che stava aspettando. Ora, è arrivato». Rimasi più che stupefatto a queste parole.
«Ma, mio Signore», feci, «è certo che sia opera dei preti? Non riesco a credere che...».
Tharrin mi interruppe con uno stanco gesto della mano.
«Ogni dubbio è impossibile, Aldair», disse. «Te lo garantisco. Saremmo dei pazzi, se ci illudessimo del
contrario. Le forze di Fhazir sono state comprate con l'oro del Tempio. E tu hai appena appreso una cosa
che lo stesso Bhurzal non vuole, o non può, ammettere nemmeno con se stesso: che facendo ciò ha
consegnato a quel mostro le chiavi di Chaarduz, e civorrà il diavolo in persona per costringerlo a
restituirle... » . Mehzaar, il Capitano delle guardie di Tharrin, mi diede un quadro esatto della
situazione più tardi quello stesso giorno, quando ci incontrammo sotto le mura. Io stavo cercando di
insegnare, senza troppa fortuna, la nobile arte del tiro con l'arco a un gruppo di civili fedeli alla famiglia
reale.
«È difficile riconoscere la città», mi disse il nicieano, grattandosi le scaglie al di sotto del suo elmo da
guerra di bronzo. «Io ci sono nato, Aldair, e ne conosco tutte le strade, tutti i vicoli, a palmo a palmo. Ma
ora, certe zone sono interamente scomparse, cancellate del tutto. La gente è diventata selvaggia. I vicini
sono l'uno contro l'altro, gli amici di tutta una vita si scannano a vicenda». Si appoggiò al muro e alzò gli
occhi verso la villa in cima alla collina. «Una parte della popolazione, come sai, si è ribellata alle
imposizioni del clero. Ma è troppo tardi, e sono troppo pochi: non riusciranno a impedire ciò che sta per
succedere. Sanno che hanno messo in gioco le loro vite per nulla: perché se l'esercito non riuscirà a
fermare Fhazir, lui ucciderà tutti, e raderà al suolo ciò che resta della capitale». Il Re lasciò nuovamente
la città per affrontare le forze ribelli, e ben poco ordine rimase a Chaarduz. I soldati che non erano partiti
per affrontare Fhazir - ed erano pochi quelli che il Re aveva potuto lasciare dietro di sé - presiedevano
ormai le mura delle residenze reali. Non potevamo inviare pattuglie a percorrere la città. Ormai, per le
strade spadroneggiavano i teppisti, e gli Huizim. E anche quegli assassini dalle tuniche nere,
apprendemmo, avevano il loro da fare.
«Devo ammettere che quando tu ti imbarchi per un'avventura, non fai le cose a metà», disse Rheif. I
suoi occhi di brace avevano di nuovo un barbaglio che parlava di terre lontane, e lo avvisai che se mi
avesse descritto di nuovo le distese innevate al nord, le tracce di lepre, e i gufi sui rami, non gli avrei più
rivolto la parola per tutto il resto della mia vita. Mi ribatté che tale minaccia era risibile, data l'esiguità
della vita che rimaneva a entrambi. Più tardi, quello stesso giorno, mi trovavo sulle mura con Tharrin,
quando un messaggero lo avvertì che la sua presenza era richiesta urgentemente nella villa. Cavalcai con
lui, perché, come rhadaz'meh, ero ormai sempre al suo fianco. Fui sorpreso quanto l'Aghiir nel vedere
Nhidaaj il cygnano che ci aspettava nel cortile.
Nhidaaj parve leggere l'espressione sul volto del suo padrone. «Ormai», disse in tono grave, «c'è ben
poca necessità di mantenere segrete certe cose. In ogni caso, l'informazione che porto non lo resterà
ancora molto a lungo».
Il cygnano parlò rapidamente, e le sue parole cancellarono il colore dal volto di Tharrin.
Lo schiavo che non era uno schiavo aveva molti occhi ed orecchi a Niciea. Una persona degna di fede,
che era appena ritornata dal deserto, gli aveva riferito che il Re era caduto in una trappola.
C'erano, è vero, forze ribelli al sud: ma erano soltanto esche destinate a far uscire l'esercito da
Chaarduz. Il vero attacco sarebbe venuto dall'est. Diecimila guerriglieri si avvicinavano rapidamente
seguendo la costa, guidati da Fhazir dello Sha'fel. Tutto ciò, mentre il Re dava la caccia ai fantasmi nel
deserto...
VENTIDUE
«Laggiù», disse Mehzaar puntando il dito. «Quella duna che ha la forma dell'ala di un uccello, proprio
davanti a quella cresta». Seguii la mano del nicieano, ma non vidi nulla. Né mi pareva impossibile vedere
altro che il nulla in quell'immensa distesa piena di sabbia. Guardai Mehzaar. Era immobile come una
pietra accanto a me. Solo i suoi occhi, neri come l'agata, erano visibili tra le pieghe della divisa da
deserto. Il sole era lontano alla nostra destra, già all'orizzonte. La sabbia era ancora calda sotto di noi,
ma una leggera brezza pomeridiana cominciava a sollevare mulinelli sulla cima delle dune più alte.
«Sono lì», aggiunse Mehzaar senza voltarsi. «Sono quattro. Forse più
indietro ce n'è un altro, rimasto a guardia dei cavalli».
«Come puoi essere sicuro che siano uomini di Fhazir? Non potrebbero essere viaggiatori dispersi,
mercanti?».
«Sono uomini di Fahzir», disse semplicemente il nicieano. I suoi occhi scuri catturarono per un momento
il mio sguardo. «Fhazir non è uno sciocco. Sa che non può far muovere diecimila uomini lungo la costa
fino alla città senza essere visto. E sa che noi avremmo fatto proprio ciò che stiamo facendo: mandare
pattuglie ad avvertire il Re perché torni indietro in tempo». Si sfregò pensieroso la mano sul mento. «È
per questo che gli uomini sono lì. Per fermarci».
«Il deserto è grande», dissi. «Potremmo aggirarli, senza farci vedere». Il nicieano sorrise stancamente.
«Questo, Aldair, è proprio ciò che loro vorrebbero che facessimo. In questo modo perderemmo tempo,
dissiperemo le nostre magre forze, consumeremmo l'acqua ed i cavalli. E poi, naturalmente,
incontreremmo altre pattuglie, dopo di questa». Scosse la testa, e guardò all'indietro, sopra la sua
spalla, i dieci guerrieri nicieani che in perfetto silenzio montavano a cavallo dietro di noi.
«Avrai modo di usare per il meglio quel tuo arco di cui sei tanto fiero, amico mio. Fa' in modo di non
sprecarne le frecce...».
I cavalieri di Fhazir ci videro subito, perché Mehzaar non aveva fatto alcun tentativo di celare l'attacco.
Ci dirigemmo verso il nemico, sulla sabbia compatta, divisi in due colonne: lancieri a destra, arcieri a
sinistra. Gli uomini di Fahzir aspettarono finché non fummo quasi loro addosso. Poi si lanciarono urlando
giù per la duna, con le lunghe tuniche che ondeggiavano nel vento, le armi scintillanti negli ultimi raggi
del sole al tramonto. Mehzaar fece fermare le colonne con un gesto della mano. I ribelli piegarono verso
sinistra, poi si gettarono di corsa verso le nostre forze, nell'intento di assalirci di fianco. Cercavano di
evitare gli arcieri, ovviamente; ma Mehzaar non si lasciò
sorprendere. I soldati nicieani rimasero piantati nel terreno, aspettando l'assalto senza muoversi.
Quando i ribelli furono a non più di trenta metri di distanza, il Capitano fece un nuovo segnale. Le due
colonne si voltarono verso sinistra, e i lancieri si misero rapidamente di Iato, lasciando il posto agli
arcieri. Gli archi vibrarono, scagliando dardi verso un bersaglio ormai abbastanza vicino. Tre ribelli
caddero sulla sabbia. I lancieri diedero di sprone ai cavalli, passarono davanti agli arcieri, e rapidamente
ebbero ragione degli ultimi due guerriglieri rimasti. In pochi minuti, era tutto finito.
«Prendete la loro acqua e le armi, e recuperate le frecce», ordinò Mehzaar. «Lasciate stare i cavalli. Non
abbiamo tempo di andarli a cercare...»
Quella notte non ci furono altri incontri. Cavalcammo rapidamente, approfittando delle ore più fresche.
Durante il giorno, con i raggi del sole cocenti sulle nostre teste, non avremmo potuto mantenere
quell'andatura. All'alba, un'altra pattuglia di ribelli ci avvistò, e stavolta le cose non furono altrettanto
facili. I guerriglieri a cavallo erano dodici, e ci assalirono da tutte le direzioni, offrendo un bersaglio
difficile per gli arcieri. Arrivarono loro addosso rapidamente, obbligandoli a estrarre le spade. In qualche
modo, mi accorsi del pericolo un secondo o due prima degli altri, e allontanai il mio cavallo dalla mischia
in cerca di spazio. Davanti a me si parò un ribelle seminudo. Incrociai la sua lama ricurva con la mia. Il
cozzo dell'acciaio sull'acciaio mi intorpidì le dita fino all'osso, e il colpo per poco non mi fece cadere a
terra. Era molto più forte di me, e lo sapeva. Nel braccio del mio nemico c'erano forza e peso sufficienti
a dividermi in due con un sol colpo, se mi fossi lasciato toccare. La sua lama mi fischiò
di nuovo all'orecchio, e io piantai gli speroni nella pancia del mio cavallo. La bestia scattò in avanti, e
presto fra me e il ribelle ci fu una larga striscia di sabbia.
Il guerrigliero era sempre dietro di me, ma non mi voltai a guardarlo. In pochi secondi avevo compiuto
un semicerchio attorno al nucleo della battaglia. Non aspettai più a lungo. Tirando selvaggiamente le
redini, feci fermare l'animale, e nello stesso tempo lo feci voltare su se stesso. Molto prima che il
movimento fosse finito, nelle mie mani c'era già un arco con la freccia incoccata. Negli occhi dell'uomo
di Fhazir ci fu appena il tempo per un lampo di sorpresa, prima che il mio dardo gli si piantasse al centro
del petto.
Un altro cavaliere ribelle si staccò dal mucchio, lasciando a terra un soldato nicieano. Trassi una nuova
freccia e lo inchiodai alla sua sella; quindi mi misi a trottare in circolo alla ricerca di altri bersagli. La lotta
finì soltanto quando tutti gli uomini di Fhazir furono morti.
«Sono buoni combattenti», disse Mehzaar, «anche se in gran parte senza disciplina. In genere, non
lottano fino all'ultimo sangue: la loro tattica con-siste nell'uccidere e ritirarsi». Scosse la testa
cupamente. «Ma questi sono diversi, Aldair. Non fuggono dopo aver vibrato il colpo, perché Fhazir ha
dato loro un compito particolare. Non ci sarebbe onore per loro se tornassero indietro vivi, senza aver
prima ucciso l'ultimo di noi. Se lo facessero, ci penserebbe Fhazir stesso a farli morire di mille morti». Mi
fissò negli occhi con uno sguardo inquisitivo. «Questo è ciò che abbiamo di fronte. Forse rimpiangerai,
rhadaz'meh, che l'Aghiir Tharrin ti abbia scelto per questo privilegio».
«Mehzaar», gli risposi, «io non rimpiango nulla».
Il Capitano annuì e si guardò le mani.
«Non intendevo dubitare di te. Gli uomini sanno che tu sei qui per ordine speciale dell'Aghiir, e lo so
anch'io. E so che tu puoi comportarti come vuoi. Tre dei nemici sono stati uccisi da te, e uno solo è stato
eliminato con una freccia. La prossima volta, anche i miei arcieri saranno così intelligenti da allontanarsi
in tempo dal campo di battaglia, come hai fatto tu. Anche se non ti confesseranno mai di aver preso
l'insegnamento da te». Mi guardò, e sorrise alla mia espressione. «Sì», aggiunse, «quando ti hanno visto
fuggire, hanno pensato che tu fossi un codardo. Ma ora si vergognano di aver dubitato di te. Se avessi
avuto fra i miei un altro 'codardo' come te, avrei più uomini in sella, ora...»
Due soldati nicieani erano stati uccisi nello scontro, e altri due feriti. Questi ultimi, ovviamente, per
Mehzaar contavano quanto i morti. C'era poco che si potesse fare per loro, e li lasciammo nel deserto
con un otre d'acqua. Lo rifiutarono, e per costringerli ad accettarlo Mehzaar dovette dire loro che era un
ordine. Lasciammo loro anche i cavalli, perché avevamo catturato quelli dei ribelli. Sapevamo,
naturalmente, che non avremmo rivisto mai più quei nostri compagni. I guerriglieri sarebbero stati loro
addosso non appena noi fossimo stati fuori di vista. Intorno a mezzogiorno incontrammo altri quattro
ribelli, e ne avemmo ragione rapidamente. Mehzaar aveva cambiato l'ordine di marcia, in modo che una
specie di mezzaluna protettiva formata dagli arcieri vigilava i fianchi dei lancieri che avanzavano. Un'ora
più tardi, fummo assaliti di nuovo.
Stavolta, i cavalieri erano otto. Erano guerrieri feroci, pronti a uccidere e preparati a morire. Quando la
battaglia fu terminata, solo cinque guerrieri nicieani rimanevano in sella. Lo stesso Mehzaar era stato
seriamente ferito. Lungo la sua coscia correva un profondo squarcio. La carne verde era aperta, e il
Capitano aveva perso molto sangue. Con il volto grigio come il piombo, il nicieano risalì a cavallo, e
partimmo nuovamente. Il sole era senza pietà. Se ci avessero assaliti un'altra volta, ero certo che non
sarei riuscito neppure a sollevare il mio arco. Non sudavo più, e sapevo che questo era un brutto segno.
La mia pelle bruciava, e non era più
protetta da alcun umidore. Non riuscivo a vedere bene, e mi sembrava che dietro ogni duna si
nascondessero orde di ribelli.
Dopo aver visto i primi caduti nei nostri ranghi, avevo cominciato a dare quasi per scontato che non
sarei tornato vivo da questa avventura. Questa consapevolezza non mi recava timore, ma soltanto
rabbia. E per tutti gli altri Nicieani era lo stesso. Ma perché mai, mi chiesi, ero così pronto a gettare via la
mia vita? Soltanto uno sciocco non si sarebbe reso conto, sin dall'inizio, che eravamo morti, che Fhazir
poteva giocare con noi come il gatto col topo, mandandoci incontro tante pattuglie quante voleva. Fino
ad allora si era soltanto divertito. Non importava se la nostra spedizione, invece che di un pugno di
uomini, fosse stata composta di cinquanta, cento soldati. Nessuno di noisarebbe mai riuscito a
raggiungere il Re. E nessuno se lo aspettava... Sentii gli occhi di Mehzaar su di me.
«Vedo che hai capito, Mastro Arciere».
«Ho capito. E tu lo sapevi fin dall'inizio».
«Lo sapevo. E lo sapeva anche il mio Signore Tharrin».
«Ma tu sei qui ugualmente».
«Sono qui», disse con voce stanca. «Anche l'impossibile deve essere tentato, rhadaz'meh. E la nostra
era un'impresa impossibile, ma non si poteva non compierla».
Mi rendevo conto. Ma questo non rendeva certo la morte più facile.
«Tu non sei un nicieano, anche se sei legato al mio Signore», fece Mehzaar. «Non sarebbe un disonore
per te, se tu tornassi. Anzi, se lo facessi ci renderesti un servizio. Devono essere avvertiti, al Palazzo, che
il Re non verrà».
«E che vantaggio porterebbe questa consapevolezza, Mehzaar? Nessuno, e tu lo sai bene».
Mehzaar rise, finché un accesso di tosse non lo costrinse a smettere.
«Uomo del nord», disse poi, «ti ho offerto la vita soltanto perché sapevo che non l'avresti accettata. Ho
avuto modo di conoscerti bene».
«Ti ringrazio per queste parole».
«Hai servito bene il tuo Signore», disse, e si chiuse nel silenzio. Non lo guardai, perché sapevo che il
dolore della sua ferita gli faceva torcere il volto. Non è decoroso fissare un guerriero in tali condizioni. Il
sole di bronzo brillava ancora come una fornace che consumava tutto, schiacciandoci contro la sabbia.
L'aria incandescente serrava i polmoni e rendeva penoso ogni singolo respiro. Sorrisi stancamente a me
stesso. Non è certo il panorama innevato del nord, che Rheif nomina sempre. Non ci sono turbinii di
ghiaccioli sui cespugli... né tracce di lepre da seguire... Udii un lieve suono dietro di me, l'inizio di un
sospiro, e mi voltai in tempo per vedere Mehzaar che scivolava giù dalla sella. Smontai immediatamente
per soccorrerlo, ma due soldati mi avevano preceduto. Era chiaro che per il Capitano dell'esercito di
Niciea non c'era più nulla da fare. Più tardi, nel pomeriggio, uno dei cavalli crollò ai piedi di una duna. Il
cavaliere ci seguì a piedi per un tratto, ma una volta, quando mi girai, non lo vidi più.
Il sole stava per tramontare, e pensai che sarebbe stato più piacevole morire nel fresco della notte
piuttosto che sotto il sole ardente. Giurai, perciò, che avrei tenuto duro. Mi sarei aggrappato alla vita,
finché non avrei visto le prime stelle brillare, e sentito il primo alito delle brezze notturne. Non sarebbe
andata così male, in fondo. Se fosse stata già notte. Se non ci fosse il sole, quel sole di bronzo...
Il mio cavallo si fermò all'improvviso, e così facendo mi distolse dalle mie meditazioni. Dietro di me, era
rimasto un solo nicieano. Il cielo era arancione, il deserto una distesa cremisi. Il soldato puntò una
mano, e io aguzzai gli occhi nella direzione indicata. Il terreno si sollevava verso la cresta di un'alta duna.
Sull'orlo, si allineavano i cavalieri di Fhazir, l'uno accanto all'altro, a perdita d'occhio. Scossi la testa e
sbattei le palpebre. Dovevano essere duecento guerrieri. O due volte tanti. Non mi fermai a contarli.
Mentre guardavamo, un guerriero si staccò dagli altri e scese lungo il fianco della duna verso di noi,
lasciando dietro di sé una lieve nube di sabbia.
«Forse viene a dirci che vogliono arrendersi», feci. Ma il nicieano non parve apprezzare la mia battuta.
Il cavaliere si fermò a una ventina di metri da noi, fece impennare il suo cavallo, gettò qualcosa a terra,
quindi tornò sul ciglio della duna, cavalcando con grande effetto. Guardai il nicieano, e il soldato
smontò, raccolse l'oggetto e me lo porse. Era un otre d'acqua, pieno fino al limite.
«Difficile da credere», dissi.
«Non del tutto», fece il nicieano. Mi prese l'otre, tolse il tappo e annusò
il contenuto. «Orina di cavallo», disse, e guardò con disprezzo verso la collina. «Sono uomini di Fhazir,
sicuramente...»
VENTITRÉ
La pattuglia nicieana mi trovò poco fuori della città. Ero a piedi: già tre cavalli mi erano morti sotto le
gambe, l'ultimo più di un giorno prima. Io stesso ero più morto che vivo: bruciato e incartapecorito dal
sole, ben diverso dal sano giovane delle Province settentrionali che ero stato non molto tempo prima.
Tuttavia non potevo lamentarmi: ero vivo, mentre tutta la mia strada era segnata dalle ossa dei miei
compagni, che avevo lasciato dietro di me.
Fu un caso fortunato l'aver incontrato soldati fedeli al Re, perché la capitale e le sue vie di accesso erano
diventate più pericolose dello stesso deserto. C'erano pochi ingressi sicuri, noti soltanto a chi aveva
combattuto nella battaglia per la città. Gran parte delle strade erano chiuse, o bloccate dalle rovine. Nei
quartieri occidentali divampavano ancora gli incendi, e il porto era inutilizzabile. L'aria stessa era ormai
permanentemente avvelenata dal sentore della morte. Alcuni dicevano che l'esercito di Fhazir era a
meno di un giorno di marcia dalla città. Secondo altri i ribelli si aggiravano già fra le case, ma pochi
credevano che ciò fosse vero. Tutta la zona a est del Palazzo Reale era stata abbandonata, e nessuno
osava avventurarvisi, salvo i razziatori e le bande di disertori. Questi uomini erano un pericolo per tutti,
perché non prestavano obbedienza a nessuno. Erano stati corrotti dai preti attraverso la promessa
dell'oro e il timore della dannazione: ma anche i preti, ormai, erano fuorilegge, e non potevano più
garantire protezione a nessuno. Il Re, ovviamente, aveva messo una taglia sulle loro teste.
Appena dentro le mura reali trovai una figura familiare: Dhaarim, l'anziano ufficiale che aveva
presenziato alle tante inutili riunioni sotto il portico dell'Aghiir Tharrin. Era seduto su un monticello di
detriti, e si stava togliendo un sasso dallo stivale. Il muro, un tempo candido, alle sue spalle, era annerito
dal fumo e vidi che quella barriera tante volte definita inattaccabile aveva ormai ampi squarci in diversi
punti. Soldati e schiavi lavoravano per riparare i danni prima della notte, perché Dhaarim si attendeva
presto nuovi guai.
«Fhazir avrà una bella delusione, dopo aver fatto tanta strada per arriva-re fin qui», mi fece in tono
amaro. «La buona gente di Chaarduz ha praticamente fatto a pezzi la città, e c'è ben poco ormai che
possa far gola persino a un predone del deserto». Mi studiò per un istante soprappensiero, poi emise un
breve sospiro. «Inutile che ti faccia domande, vero, ragazzo?
Il tuo silenzio parla da solo. Non sei riuscito a raggiungere il Re».
«Signore, a quel che ho capito, non siamo neppure riusciti ad avvicinarci a lui».
Dhaarim bestemmiò e si asciugò il palmo delle mani sulla tunica. «Avrei dovuto mandare un contingente
più forte. Forse più d'uno. Se un uomo, da solo...»
«Non sarebbe servito a nulla», l'interruppi. «Né un uomo, né mille». Gli raccontai rapidamente quello
che era accaduto. Mi ascoltò, e vidi che mentre parlavo la sua espressione si faceva sempre più desolata.
«Mehzaar era un bravo soldato».
«Lo era, Signore. Ha dato una straordinaria prova di sé». Dhaarim alzò gli occhi. «E gli altri?»
«Tutti morti. Tutti uomini pieni di coraggio. Uno è rimasto con me sin quasi alla città. L'altra notte,
abbiamo riposato insieme. Questa mattina, era scomparso. C'era rimasta ben poca acqua da dividere,
ma non ha portato via l'otre con sé. Si chiamava Thareesh, ed era un arciere, come me». Dhaarim annuì,
dopo l'incontro sul ciglio della duna, non ci hanno più
dato fastidio», feci, «anche se sentivamo che ci erano sempre intorno. Ho il sospetto che ci abbiano
lasciato vivere soltanto perché portassimo cattive notizie a Chaarduz». Guardai Dhaarim, poi girai gli
occhi all'intorno. «Signore», dissi, «dove posso trovare l'Aghiir Tharrin? Vorrei fare il mio rapporto.
Anche se non gli porto le notizie che sperava, tuttavia deve sapere quello che è accaduto».
Dhaarim mi fissò, con gli occhi velati.
«Già, ragazzo», fece. «Ovviamente tu non sai ancora».
«Che cosa? Che cosa non so?» Ma la mia era una domanda inutile. Avevo già capito, Dhaarim mi tese la
sua vecchia mano. La allontanai. Non volevo toccarla.
«Ha combattuto accanto a me sulle mura, l'altra notte», disse l'ufficiale.
«Lì. Proprio sopra di te. Non dovrei dirlo, Aldair, ma i cittadini di Niciea avevano ben pochi nobili che si
preoccupassero se le loro pance erano piene o vuote. È molto triste che abbiano ucciso proprio quello
che, fra tutti, li amava di più...»
Non piansi per l'Aghiir Tharrin. L'uomo che era stato mio padrone e mio amico aveva lasciato un vuoto
nel mio cuore. E non desideravo riempire quel vuoto...
Ero talmente stanco che non persi tempo neppure a liberarmi degli stracci fetidi che avevo indossato nel
deserto. Mi gettai sul mio letto e dormii fin dopo il tramonto del sole.
Le tubature che portavano l'acqua alle residenze reali erano state tagliate, ma la mossa era stata
prevista in anticipo, e prima di rimanere a secco, tutti i recipienti in grado di contenere acqua erano stati
riempiti fino all'orlo. Una provvista più che sufficiente, pensai cupamente, per il tempo che ci rimaneva a
disposizione. Mi lavai, e indossai i vestiti che portavo prima di diventare schiavo dei Nicieani, e che non
avevo portato più da allora. Mi sentii bene con indosso di nuovo la mia tunica a losanghe rosse e blu, il
mantello e i pantaloni stretti alle caviglie. Quale che fosse il mio destino - pensai - l'avrei affrontato
come un venicii; anche se era altamente improbabile che qualcuno, così lontano dalla mia patria,
avrebbe riconosciuto il mio abito per quello che era, o avrebbe avuto interesse per la mia provenienza.
Rheif sogghignò nel vedermi perché anche lui era ridiventato un guerriero. Tharrin, prima di salire sulle
mura, aveva restituito agli schiavi la libertà, e molti si erano schierati al suo fianco di loro volontà e
avevano combattuto con lui. Più di ogni altro elogio che si possa tributare all'Aghiir, conta il fatto che
ben pochi, pur avendone ormai pieno diritto, lo abbandonarono nel momento dell'estremo bisogno.
Tuttavia, in verità, poche altre scelte avevano, dato che avventurarsi fuori dalle mura reali era rischioso
quanto rimanere a difenderle.
«La battaglia è una grande livella», feci allo Stygiano. «Anche il nobile non vale nulla più di uno schiavo a
Chaarduz, oggi: tutti finiremo ugualmente sgozzati da Fhazir». Rheif fece gli occhiacci. «I tuoi eccellenti
nobili sono stati nobili fino all'ultimo, Aldair. Tu non ne sai nulla, perché si tratta di cose accadute
durante la tua assenza. Quei membri della famiglia reale che non hanno bevuto il veleno in coppe
d'argento hanno cercato di farsi strada tra la folla comprando la salvezza con l'oro. Il danaro è stato
accettato, ma ho forti dubbi poi che il popolo abbia osservato la sua parte dell'accordo».
«Temo che tu abbia ragione», ammisi.
Dai piani superiori della villa si poteva spingere lo sguardo al di là delle mura che difendevano le
residenze reali. Era una bella fortuna, pensai, che i cittadini di Chaarduz non potessero vedere ciò che
vedevo io in quel momento: vale a dire che ben pochi soldati rimanevano a presidio dei diversi
caposaldi. Dhaarim stava facendo del suo meglio, ma era un'impresa senza speranza. Inoltre, gran parte
dei soldati non vedeva più ragione di rischiare la vita per difendere palazzi vuoti e sale piene soltanto di
mobili e arredi. E chi poteva negare che avessero ragione? Quasi tutti quegli uomini sarebbero stati
pronti a dare la vita per il Re in battaglia. Ma tutti sapevamo che quanto ci attendeva era un ben diverso
tipo di lotta.
«Che ne sarà di noi, adesso?» fece Rheif, dando voce a una domanda che aleggiava in entrambe le
nostre menti. «Ti confesserò che non sono oltremodo ansioso di morire per Niciea».
«Neppure io. Ma che cosa possiamo fare, Rheif? Non c'è alcun posto dove andare, o almeno nessuno
che io conosca. Inutile dire che non sopravviveremmo a lungo nelle strade di Chaarduz». Rheif si grattò il
muso con aria pensosa.
«Tu sei riuscito a entrare nella città, dal deserto. Quindi si può anche uscirne».
«Sono entrato con la scorta di soldati che conoscevano i passaggi», gli ricordai. «Probabilmente, le
strade che ho seguito ormai sono state chiuse. No, non c'è speranza per noi nella città. E fuori c'è il
deserto. Ho provato a lottare contro il sole, e non voglio provarci di nuovo. A oriente c'è Fhazir con i suoi
ribelli. A nord, il mare. Che cosa preferisci, Rheif?
«Le mie preferenze sono tutte per i freddi venti di Stygia. Ma comincio a dubitare di poterli mai più
sentire sulla mia pelle...»
Il sole era tramontato quando un soldato mi raggiunse presso le mura per dirmi che era urgente che io
ritornassi nella villa. Gli chiesi perché, sapendo bene che nell'edificio non era rimasto nessuno che
potesse desiderare di vedermi. Il soldato non volle aggiungere nulla, ripetendomi soltanto che dovevo
seguirlo.
Mi portò in un'ala dell'edificio che non avevo mai visitato. Dal cortile centrale si apriva una specie di
lungo corridoio, senza porte né finestre, che si snodava interminabilmente e infine terminava
bruscamente davanti ad un portone massiccio, chiaramente destinato a tenere all'esterno gli estranei. Il
portone si aprì su di un piccolo patio circolare. Al suo centro, c'era una fontana rivestita di maioliche
policrome, all'uso nicieano. La fontana era silenziosa, ma la sua vasca era piena di acqua chiara. Il
cortiletto era pavimentato di pietre rosa e coperto da un verde pergolato che si intrecciava con le
strutture architettoniche, dando frescura e riparando alla vista. Era ormai quasi sera, ma potevo
immaginare l'aspetto del luogo nella piena luce del giorno, quando i raggi del sole filtravano tra le
fronde e proiettavano all'intorno silenziose ombre verdi. Il portone si chiuse piano dietro di me, e rimasi
solo. Mi sedetti su una panchina di pietra presso la fontana, e mi chiesi perché mai ero stato condotto
fin lì. Ero stranamente contento, tuttavia, come se stessi assorbendo in me una parte della pace che
aleggiava in quel luogo. Era difficile immaginare che al di fuori di quel santuario c'erano soltanto morte e
violenza.
«È bello qui, non è vero?»
Mi volsi al suono della voce, e mi alzai di scatto dalla panchina.
«No. Siediti, per favore. Io sono Shamma, Aldair. Tu non mi conosci, ma io conosco te. Sono la moglie
del tuo Signore, l'Aghiir Tharrin».
«Mia Signora...»
«Questo è sempre stato uno dei miei luoghi favoriti. Anche lui veniva qui... pur se non tanto spesso
quanto avrebbe desiderato. Diceva che in questo rifugio aveva l'impressione che il nostro mondo fosse
molto vicino ad un altro mondo, diverso. Che se avessimo potuto accordare la nostra mente ad un
diverso ritmo dell'esistenza, avremmo potuto trovare un passaggio segreto che ci avrebbe condotto in
quei territori che si vedono soltanto nei sogni. Non provi anche tu la stessa sensazione?»
«Mia Signora, in verità, la provo», le dissi. Ed era vero. C'era qualcosa, in quel luogo, che è impossibile a
descriversi. Un silenzio che non era silenzio. Se mai nel mondo esiste la magia - mi dissi - certo questo è
uno dei posti in cui la si può trovare.
Dalla voce di Lady Shamma, sapevo che doveva trovarsi da qualche parte dietro di me, nascosta da una
delle inferriate ricoperte di rampicanti che ornavano il patio. Ma non mi voltai per vederla.
«Devi sapere», mi disse, «che sto rompendo molte tradizioni assai radicate, parlandoti così. Un
comportamento del genere è proibito dalle nostre Sacre Scritture... Anche se, in tutta franchezza, ho
sempre rimpianto che fosse così. Gli uomini sono dunque così differenti dalle donne?» Rise piano, di un
riso toccato dall'amarezza. «Ma tante cose stanno ormai cambiando, oggi. Tutto il mondo sta
cambiando, Aldair».
«Lo diceva anche l'Aghiir Tharrin», le risposi.
«Davvero? Sì, sono certa di sì. Era una questione sempre viva nella sua mente». Rimase in silenzio per
un istante, poi riprese a parlare. «Aveva un alto concetto di te, Aldair».
«Ed io... mia Signora, io... io rimpiango di non averlo potuto conoscere meglio. È stato più che un
padrone per me. È stato un amico, che mi ha aperto gli occhi sul mondo che non avevo mai conosciuto
prima. Mia Signora, posso permettermi di dirti che condivido il tuo dolore? Che se mai qualcosa...»
«Ti prego», mi interruppe lei piano. «Non c'è più nulla da dire. Lui se ne è andato, ma non del tutto. Ed
io ho appreso la sopportazione, Aldair. A Niciea, è una cosa che le donne imparano molto presto».
Tacque, e per un momento pensai che se ne fosse andata. Mi parve di sentire delle grida fuori della villa,
presso le mura.
«Ora», disse infine, «ascoltami, Aldair. Il tempo è poco, e ho molte cose da dirti. Sappi che l'Aghiir
Tharrin riponeva grande fiducia in te. Più grande di quanto tu stesso immagini. Con te ha diviso molte
cose. Ti ha rivelato segreti. E altre cose non ti ha detto, pregandoti semplicemente di aver fede in lui. Io
so, dato che lui ti ha scelto, che sei degno della sua fiducia. So che tu sei ancora il suo rhadaz'meh,
anche se lui non è più qui ad esigere la tua lealtà».
«Mia Signora», le dissi, «di ciò, sii certa».
«Ascoltami, dunque», fece. «C'è una nave. È in mare, ora, ma non è lontana. Era stata fatta salpare da
Chaarduz dal tuo Signore, quando presagì
l'avvento della rovina. La nave è per te, Aldair. È partita nel giorno in cui iniziasti la tua spedizione nel
deserto, con l'istruzione di attendere il tuo ritorno». Una breve risata interruppe le parole di Lady
Shamma. «È quasi buio, ormai, ma non ho bisogno della luce per leggere la tua espressione, Aldair. Sì,
l'Aghiir sapeva che saresti ritornato. Non ti avrebbe mai fatto partire in una tale missione, se non ne
fosse stato certo. Sapeva, con sicurezza, che non sarebbe stato tuo destino perire tra le sabbie...»
La sera era calda, ma nel vento avvertii un brivido improvviso.
«Mia Signora», chiesi, «come poteva mai esserne certo?»
«Sappi che lo era, Aldair. Non posso dirti più di questo. Tu salperai con quella nave. Prenderai con te lo
stygiano, il figlio del Re... e un altro compagno. Quest'ultimo non mi è noto: ma questo è quanto l'Aghiir
mi ha detto di riferirti. La guardia che ti ha condotto qui si chiama Khyliir. Conosce la tua missione, e ti
farà da guida. E, Aldair», - la sua voce scese quasi ad un sussurro - «ora vengo alla parte più importante
della tua missione. C'è
un pacchetto. Proprio sotto la panchina su cui sei seduto. Prendilo, ti pre-go». Mi chinai, e la mia mano
toccò un soffice involto di cuoio. Era cucito con cura, e ricoperto da una sostanza lucida e cerea.
«L'ho preso, mia Signora».
«Ti viene affidato dall'Aghiir Tharrin. Dovrai darlo ad un'altra persona, e solo a quella».
«A chi, mia Signora?»
«Lo saprai».
Rimasi per un attimo sconcertato. «Mia Signora, lo saprò, forse, ma non riesco a immaginare come.
Forse l'Aghiir mi ha dato un indizio? Ho avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma non me l'ha detta?»
«No», rispose lei. «Se ci fossero state cose da dire, le avrebbe dette».
«E la nave? Dove ci porterà, mia Signora?»
Lady Shamma rimase in silenzio per un lungo momento. «Ho diviso la vita con lui, Aldair. I nostri giorni e
le nostre notti si sono intrecciati insieme come un filo di un solo colore. Ma questo è un segreto che non
ha voluto dividere neppure con me...»
VENTIQUATTRO
Lo trovai presso il quartiere degli schiavi. Nell'ombra della sera, la sua grande mole pelosa quasi faceva
piegare il tronco dell'albero cui era appoggiato. Mi fermai a una certa distanza da lui, perché sono un
uomo del nord, e so bene che non è prudente avvicinarsi troppo a un vikoniano senza avvisarlo prima
della tua presenza.
«Ci conosciamo già?», ringhiò il gigante. La sua grande testa piatta si alzò un poco, e il naso corto
annusò l'aria. «Sì, forse sì».
«Ci siamo già incontrati», feci io. «Quella volta, non eri altrettanto a tuo agio, se ricordo bene».
Il vikoniano emise un suono cupo con la gola. «Sei tu, dunque. Ma non sei un rhemiano, come
quell'altro».
«No. Sono un venicii».
Annuì. «Gente astuta nel commercio, e difficile da imbrogliare. Che cosa fai in questo posto miserabile,
venicii?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, e lo farò. Ma ora non c'è tempo. Una volta, ti dissi che per noi poteva
venire un giorno migliore. Forse, è oggi. Parto stanotte con una nave, e vorrei averti con me. Non posso
dirti nulla più di questo, e devo avere la tua risposta subito, sia che tu accetti, sia che rifiuti».
Gli occhi della creatura si strinsero.
«Prendi il mare? Hai una nave?»
Scosse la grande testa e si grattò lo stomaco.
«Non ho bisogno di tempo per risponderti. Qui non c'è altro che la morte, e non ho alcuna intenzione di
restare fermo ad aspettarla».
«Potresti incontrarla sul mare».
Mi diede uno sguardo fra il sorpreso e l'ironico.
«E pensi che la cosa mi spaventi, venicii? Io sono nato per questo...»
Il pensiero mi colpì qualche tempo più tardi, e mi procurò un brivido di gelo. « Prenderai con te lo
stygiano, il figlio del Re... e un altro compa-gno... » Era per questo che avevo cercato il vikoniano? O
era stato un impulso nato per intero nella mia mente?
C'erano troppe cose ancora non spiegate. Questa era una delle tante.
Sotto terra, l'aria era fredda e puzzava d'antico. Nel buio riuscivo a vedere soltanto il bagliore delle
torce, e l'ombra scura del soldato che Lady Shamma aveva chiamato Khyliir.
Il passaggio che avevamo imboccato cominciava alla base del muro di cinta stesso, e per un tratto
seguiva il perimetro della struttura, poi scendeva in basso. Mentre camminavamo, sentivo di trovarmi
sotto le strade di Chaarduz.
Rheif era dietro di me. Fra le braccia stringeva il giovane Principe, bene avvolto in coperte per difenderlo
dal gelo della notte. Dietro ancora veniva il gigantesco vikoniano, la cui mole era di non poco impaccio
nei punti più
stretti della galleria, o alle curve più ripide.
«Fermatevi», disse piano Khyliir. Io ero dietro di lui, e sentii il suo braccio che si poggiava sulla mia
spalla. «Fra pochi istanti usciremo fuori del tunnel, e non posso sapere che cosa ci aspetta all'aperto.
Nulla, spero; ma dobbiamo essere certi. Oltre l'uscita ci sono delle rocce, e la spiaggia. Non possiamo
rischiare di tenere la torcia accesa».
Annuii nel buio, e la torcia del soldato sibilò e si spense sul fondo umido della galleria.
La notte era calda e immobile, ma dal mare cominciava a levarsi una leggera brezza. Il vikoniano annusò
l'aria salmastra ed emise un ringhio di soddisfazione. Rheif cullò un poco Dhar'jeem, che stava
cominciando ad agitarsi, ed io silenziosamente pregai il Creatore che concedesse al bimbo un sonno
profondo.
Dal terreno roccioso potemmo vedere le torce accese nel porto e, più indietro, una macchia rosso-
sangue sormontata da una nube nera, che ci diceva come la città fosse ancora in fiamme. Da oriente,
venivano suoni inconsueti: grida concitate e il cozzo del metallo sul metallo. Scambiai uno sguardo con
Rheif. Dunque, Fhazir era arrivato. Non poteva essere alcun altro. Era nella città, e quei rumori lontani
rappresentavano i rintocchi funebri per Chaarduz.
Khyliir si mosse davanti a me.
«C'è un rischio», mi sussurrò, «ma non può essere evitato». Mise una mano sotto il mantello e ne trasse
una piccola candela, che accese. La più misera delle falene avrebbe trascurato con sdegno una fiammella
così esigua, ma a me parve come il sole che si affaccia all'orizzonte. Il vikoniano emise un ringhio cupo.
Khyliir guardò prima lui, poi me.
«Devo dare il segnale una volta soltanto», spiegò.
«Una volta potrebbe essere troppo», disse il gigante del nord, «se quei diavoli hanno anche solo mezzo
occhio fra tutti...»
Scossi la testa all'indirizzo della creatura, e il vikoniano tacque. Khyliir nascose la fiammella a
intermittenza con la mano. Uno... uno... tre... uno... Poi strinse lo stoppino con le dita e rimanemmo
circondati dal buio.
«E ora?» chiese Rheif.
«Ora aspettiamo».
Fu proprio lo stygiano, con i suoi occhi acuti abituati alla notte, che dopo aver atteso quella che ci parve
mezza eternità scorse per primo la macchia scura di un battello che si avvicinava alla spiaggia. C'erano
due uomini ai remi, che non fecero alcun tentativo di portare a riva la barca, ma ne fermarono il corso, e
attesero.
Khyliir mi rivolse un rapido sguardo, e scomparve nelle tenebre, silenzioso com'era venuto. Avevo
sempre pensato che sarebbe rimasto con noi, e mi chiesi a quale destino sarebbe andato incontro, nella
città morente. Ma non c'era più tempo per le domande, e senza parlare andammo incontro alla barca
che ci aspettava oscillando piano sulle onde.
Issata la lancia a bordo, il vascello nicieano non perse tempo ad osservare la fine di Chaarduz. Alzate le
vele nere, drizzò la prora verso est. Avrei voluto rimanere sul ponte, perché stavo subendo nuovamente
il fascino del mare. Un uomo dell'equipaggio, tuttavia, ci condusse di sotto e ci fece entrare in una
piccola cabina. La stanza mi ricordava quella che l'Aghiir Tharrin aveva occupato nella sua nave al ritorno
dal territorio dei Tarconii. Da allora, mi sembrava fosse trascorso un secolo. Una lampada ad olio di
vetro colorato pendeva dal soffitto, e gli oblò erano pesantemente schermati, perché la nave non
doveva rivelare la sua presenza con alcuna luce a bordo.
«Ah, finalmente siamo in mare!», esclamò il vikoniano.
Il gigante aveva adocchiato immediatamente il cibo e il vino serviti per noi sul tavolo, e le sue mani
enormi erano già strette intorno a quantità
considerevoli di entrambi.
«Mi auguro ce ne sia abbastanza per i tuoi bisogni», gli fece Rheif.
«Quanto a noi, non abbiamo molto appetito, né abbiamo le ossa gelate dopo quella piacevole
passeggiata lungo gallerie ammuffite». Il vikoniano si fermò, con i baffi gocciolanti di vino, e diede
un'occhiata inquisitiva a Rheif.
«Non avevo mai visto uno stygiano prima d'ora». Disse. «Almeno, con ancora la sua pelle addosso. Sei
una strana creatura, e dall'odore del tuo alito direi che non mangi troppo».
«Lo faccio», rispose Rheif con un sorriso che gli scoprì tutti i denti,
«soltanto quando posso».
Fece scostare la grande creatura e sedette anche lui a tavola, poggiando il giovane Principe sulle sue
ginocchia. Il nicieano si era svegliato, e si stava divertendo come un matto a tirare i ciuffi di pelliccia che
spuntavano dal torace di Rheif.
Risi, e mi unii a loro.
Avevamo quasi finito tutto ciò che si trovava sulla tavola, quando dietro di noi si aprì la porta della
cabina. Mi voltai, e i miei occhi incontrarono il placido sguardo scuro del cygnano che non era uno
schiavo. Per qualche ragione, non fui troppo sorpreso di trovarlo lì.
«Spero siate tutti comodi», disse sorridendo.
Sostenni il suo sguardo per un momento. «Sapevo che ci saremmo incontrati di nuovo», dissi.
«E anch'io, Aldair, ne ero convinto». Gli occhi neri, che brillavano in fondo alla curva del muso carnoso,
passarono da me agli altri. «Il mio nome è Nhidaaj. Conosco te, Rheif, ed ho sentito molte cose che ti
riguardano. Non ho mai conosciuto, però, il vostro compagno».
«Neanche noi», ringhiò Rheif. «È stato troppo occupato a riempirsi il ventre per dirci come si chiama».
Il vikoniano rise fragorosamente. «Io non so chi tu sia, signore, né perché io mi trovi a bordo. Ma non
sono infelice di trovarmi qui. Io sono Si-gnar di Haldring, e vengo dalla Vikonea cinta di ghiacci. Se in
questo viaggio c'è bisogno di qualcuno che sappia combattere e tenere il mare, sono a vostra
disposizione, perché in queste due cose eccello sopra ogni altro».
«Hai dimenticato il mangiare e il bere», disse Rheif.
Il cygnano sorrise e si sedette al tavolo.
«C'è abbondanza di cibo a bordo, e non soffriremo la fame... anche con appetiti formidabili come quello
del nostro amico».
«Nhidaaj», chiesi, «puoi dirci dove stiamo andando? Poche cose finora mi sono state rivelate, come
certamente saprai. Siamo lieti comunque», mi affrettai ad aggiungere, «che l'Aghiir Tharrin ci abbia
concesso una possibilità di sopravvivere. Pochi altri a Chaarduz hanno avuto altrettanto, temo». Il
cygnano mi guardò con aria pensosa.
«Devo chiedere a tutti voi di trattenere ancora per un poco la curiosità», disse infine. «Vi assicuro che
c'è un serio motivo per questo». Diedi uno sguardo a Signar e a Rheif. «Va bene», risposi. «Non esitiamo
a concedere la nostra fiducia a un amico dell'Aghiir».
È vero -pensavo intanto. - Ma non per questo cesseremo di chiederciquale sia la nostra meta.
«Bene», disse il cygnano alzandosi. «Il marinaio che vi ha portati qui vi condurrà alle vostre cabine.
Parleremo di nuovo domani mattina. Rheif: se vuoi, puoi affidare a me il piccolo Dhar'jeem, ora».
Lo stygiano mi rivolse un'occhiata interrogativa, e io annuii. Avevo fiducia istintiva nel cygnano. Un
uomo impara prima o poi aggiudicare gli altri, e negli occhi di quella creatura non riuscivo leggere alcuna
doppiezza. Rheif gli porse il piccolo, e subito il giovane Principe immerse le dita nella nuova pelliccia
pelosa che lo aveva accolto.
«Vedi», disse Nhidaaj allo stygiano, per rassicurarlo, «lui mi conosce. Siamo vecchi amici, Dhar'jeem ed
io».
E sia io che Rheif potevamo vedere che era proprio così.
Tuttavia, Rheif mi scoccò ugualmente un'occhiata interrogativa nel corridoio.
«Va tutto bene», gli dissi. «Ci si può fidare di lui. Non posso dire nulla di più».
Rheif aggrottò le sopracciglia e scoprì i denti.
«Lo so che ci si può fidare di lui, Aldair. So leggere negli occhi della gente bene quanto te. Però,
nessuno mi dice mai nulla», si lamentò. «Mi mantenete sempre all'oscuro».
«Non più di quanto lo sia io».
«Non posso crederci», fece. «È impossibile conoscere meno del proprio fato di Rheif lo Stygiano. Non so
neppure dove mi trovo».
«Sei sul Mar Meridionale. A oriente di Chaarduz».
Rheif fece gli occhiacci. «Non sono un ignorante, Aldair».
«Certe volte me lo chiedo...»
«Non chiedertelo: te lo assicuro. Ma i nomi 'Mar Meridionale' e 'Chaarduz' non significano niente per
me. Tutto ciò che so è che non ci sono più
nel cielo le stelle del nord, e non troverò mai impronte di lepre sul ponte di una nave. Non ci sono
foreste, né laghetti ghiacciati con le rive coperte di neve, né...»
Successe tutto in un lampo. Il marinaio che ci guidava scivolò dietro una paratia, e scomparve. Al suo
posto, si parò davanti a noi una nuova figura.
« Linius! » La parola mi si strozzò nella gola. Il rhemiano mi fissò per un istante e sorrise. «Aldair»,
disse, in tono gentile, «ho qualcosa per te...»
Per una frazione di secondo vidi la balestra al suo fianco. Poi l'arma vibrò, e partì un colpo. Rheif era già
davanti a me: una magra forma grigia, rapida come il fulmine.
Gridai.
Lo stygiano si irrigidì, poi parve accartocciarsi come un foglio di pergamena. La mia spada lampeggiò. Un
braccio grande quanto una piccola quercia mi spinse di lato, e mentre cercavo di rimanere in piedi alzai
lo sguardo e incontrai gli occhi di Linius. Sul suo volto vidi dipingersi un terrore indescrivibile.
Sospeso da terra, cominciò a scalciare freneticamente, appeso all'estremità del braccio possente di
Signar, che con la mano gli stringeva la gola. Poi le dita del gigante cominciarono a chiudersi, e non
credo che si siano fermate, prima di incontrare il palmo della mano...
VENTICINQUE
Il vascello nicieano solcava le acque azzurre, lasciandosi dietro una lunga scia di spuma bianca.
All'orizzonte, verso ovest, si profilavano tempeste, ma nessuna toccò la nave. Anzi, servirono a produrre
venti robusti che gonfiarono le nostre vele verdi.
Per i marinai, questo era un segno di buon auspicio. Quando da un grande evento di distruzione nasce
una circostanza favorevole - dicevano - ciò
significava che il Creatore Aastar aveva preso la parola per ripetere ai suoi figli le parole del Qua'shar
così come erano state scritte: là dove si leggeva che nel suo occhio d'oro non brillavano in verità né il
male né il bene, ma soltanto il puro riflesso verde dell'eternità.
Non feci commenti al riguardo, perché per il momento non mi sembrava che i fatti confermassero i
presagi. Altri potevano fissare una distesa d'acqua e trovarvi la verità. Io vedevo soltanto una gran
distesa di niente. Forse avrei dovuto essere già grato al destino. Rheif era ancora vivo. Per tre giorni e tre
notti era stato sull'orlo della morte, ma ora Nhidaaj mi assicurava che era molto migliorato, anche se
doveva passare ancora molto tempo prima di poter dire con certezza quale sarebbe stato il futuro dello
stygiano.
La ferita in se stessa non era seria. Il dardo era penetrato fra spalla e petto, ma non aveva reciso alcuna
delle grandi vene che, secondo Nhidaaj, fanno affluire il sangue in tutto il corpo. Il pericolo, diceva il
cygnano, non veniva dalla ferita, ma dal fatto che la punta dell'arma era infetta. Molti medici - mi aveva
spiegato - non conoscono bene l'argomento: era tuttavia certo che nelle cose immonde, nel suolo,
persino nell'aria, vi sono entità
che provocano un addensamento di veleni nel corpo.
Nhidaaj era una continua fonte di meraviglie.
Non avevo neppure sospettato che fosse un medico fino a quando non lo vidi curvo sul corpo di Rheif.
Né l'avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi la sua abilità. È difficile spezzare pregiudizi
durati tutta una vita. Nella mia esperienza, avevo sempre considerato i Cygnani come creature indolenti,
prive di intelligenza, capaci di eseguire soltanto i compiti più semplici. Come poteva entrare Nhidaaj in
questo quadro? Sembra-va un cygnano: lungo pelo bianco e arricciato dalla testa ai piedi, scuri occhi
placidi, volto quasi privo d'espressione. Eppure, era diverso da tutti quelli della sua razza che avevo
conosciuti. Nei suoi occhi c'era una luce che non avevo mai scorto prima nei Cygnani... né in qualsiasi
altra creatura, se è per questo. Dietro quel volto placido ardevano fiamme, e tutto, in Nhidaaj, sembrava
riverberare quella forza nascosta. Non aveva bisogno di incutere timore per esercitare il comando. La
sua sola presenza era sufficiente a conferirgli autorità. I Nicieani a bordo avevano grande rispetto per
quello schiavo che non era uno schiavo. E anche se tutti sapevano che la nave aveva preso il mare per
ordine di Lady Shamma, era chiaro che re-sponsabile del viaggio era Nhidaaj. Era lui che dava ordini alla
ciurma, e controllava la rotta sulle carte... anche se nessuno poteva affermare di aver mai udito un
ordine partire dalla sua viva voce.
Ogni volta che andavo a trovare Rheif avevo cura di stamparmi un bel sorriso sulla faccia, anche se era
doloroso vedere il mio vecchio amico nelle condizioni in cui si trovava ora. Il suo corpo snello e possente,
tutto legamenti e muscoli, sembrava essersi ripiegato su se stesso. La pelliccia grigia aveva perso la
lucentezza e pendeva in larghe pieghe attorno alle ossa robuste. Gli occhi rossi erano opachi, e
sembrava non vedessero più nulla.
«Ti trovo bene», mentii. «Senza dubbio fra un po' tornerai a cacciare le lepri fra le nevi del nord».
«Non sei molto bravo a raccontare favole, Aldair», fece lui in tono amaro. «So di essere vicino alla
morte, perché neppure il pensiero di un leprotto arrosto mi fa tornare l'appetito. Questo è un
bruttissimo segno per uno stygiano».
«Non significa nulla», lo rassicurai. «Nhidaaj stesso mi ha detto poco fa che non si aspetta che tu abbia
grande interesse per il cibo, finché sei in convalescenza».
«Può darsi», sospirò Rheif. «Ma non importa: tanto, quel poco cibo che potrei anche riuscire a mettermi
nello stomaco mi verrebbe sicuramente sottratto dal nostro bravo Signar, qui presente, prima ancora di
poterlo portare alla bocca. Questa specie di grosso bue, Aldair, sarebbe capace di strappare il boccone
alla madre morente, ne sono sicuro».
«Per il cielo, tu menti!», esplose Signar. L'enorme vikoniano si era mezzo sollevato dal suo sedile. Rheif
ghignò debolmente, e io risi con lui. Signar fece gesti minacciosi all'indirizzo di entrambi, quindi ripiombò
giù
sul robusto scranno che si portava dietro per la nave, dato che non c'erano altre sedie o sgabelli
abbastanza solidi da sostenere la sua mole. La porta della cabina si aprì, e Nhidaaj ci chiese di uscire nel
corridoio, avvertendoci che il suo paziente era ancora troppo debole per sopportare la presenza di
visitatori frivoli e rumorosi come noi. Rheif ghignò dietro le spalle del cygnano.
«Non mi pare che stia affatto bene», borbottò Signar, «malgrado quello che dice Nhidaaj».
«A me sembra che stia meglio», ribattei. «Anzi, per l'esattezza molto meglio».
Il vikoniano mi guardò, tirò su col naso e cambiò argomento. «Bisogna dire la verità», fece guardando il
sartiame e annusando l'aria. «Questi Nicieani costruiscono buone navi e le fanno correre bene. Ma non
possono ancora reggere il confronto con i Vikoniani, ovviamente».
«Sarebbero certamente lieti di sentirlo», risposi.
«No», fece volgendosi verso di me. «Lo affermo come un tributo, Aldair. Noi Vikoniani non siamo
abituati a elogiare alla leggera, ma siamo essenzialmente un popolo onesto. O, almeno, onesto quanto è
necessario. E, sopra ogni altra cosa, ammiriamo una bella nave e un buon marinaio». Si interruppe,
guardando le grandi vele verdi gonfie di vento. «Non ho mai avuto contesa con un nicieano, ma
scommetto che saprebbero metter su un buon combattimento. Nave contro nave, voglio dire. Sono
troppo piccoli e magri per una battaglia a corpo a corpo, o...»
Si fermò all'improvviso, scosse la testa e mi poggiò una mano sulla spalla.
«So che sei un suo grande amico. L'ho capito. Prima, non intendevo dire che... che non ce la farà. Io non
sono un medico. Sono del tutto ignorante di queste cose. E dovrei tenere la bocca chiusa il più a lungo
possibile». Non riuscii a guardarlo negli occhi. «Deve cavarsela, Signar». Mi afferrai al parapetto e fissai
le acque azzurre. «Io... non... permetterò... che... muoia!»
«Gli Stygiani sono duri e difficili da uccidere», fece Signar. «Questo è
ben noto».
«Ha preso lui il colpo che Linius aveva destinato a me. Può negarlo finché vuole. Io so che è così».
Guardai il vikoniano, senza vederlo bene attraverso gli occhi velati. «Sai che cosa ha detto, Signar?
'Aldair, è colpa tua se nella spalla ho un buco tanto grande da farci passare una quercia. Se non ti fossi
fermato come un coniglio in mezzo al corridoio, non sarei inciampato sui tuoi maledetti piedi'». Signar
rise e si grattò il mento. «Gli Stygiani sono famosi per essere grandi bugiardi».
«Lo sono. E sono anche furbi, e astuti, e spesso cadono in crisi di umor nero durante le quali è
impossibile vivergli vicino. Si lamentano per tutto quello che gli capita e sono rissosi per natura. Per di
più sono nemici naturali dei Venicii, sin dall'inizio del tempo. Sono sicuro che Rheif ha arrostito più di
una volta qualche mio lontano cugino. D'altra parte, senza dubbio gli stivali che indosso sono fatti con la
pelle tolta alla schiena di un suo parente». Fissai nuovamente il mare. «E questo stygiano, Signar, è
l'unico vero amico che io abbia mai avuto». Mi battei un pugno sul palmo della mano.
«Maledetto Linius! Malgrado tutte le precauzioni prese dall'Aghiir, la notizia di questa nave deve aver
raggiunto anche le sue piccole orecchie di traditore...»
«Non tradirà più nessuno».
«No, ma ha già fatto bene il suo lavoro, Signar...»
Quanto siamo sciocchi, pensai più tardi. Arranchiamo lungo la nostra strada nel nostro piccolo angolo di
mondo, e chiudiamo gli occhi di fronte a tutto quello che succede al di là della nostra porta di casa.
Eppure, il mondo è tanto grande. Una montagna e una vergine possono essere viste attraverso infiniti
occhi diversi. Un guerriero stygiano osserva il levarsi del giorno, e vede lo stesso sole che riscalda un
nobile rhemiano o rende incandescenti le scaglie verdi di un nicieano. E ciascuna di queste creature
vede la verità secondo il proprio modo, e trova falsi tutti gli altri. Come è
possibile, questo? Ha ragione uno solo, e torto gli altri? Ci sono molte verità, tutte autentiche? O forse
una sola verità, più grande di tutte le altre... Se ciò è vero, dove potrebbe mai trovarsi questa verità?
Forse è una pretesa eccessiva, quella di una verità unica, adatta a tutte le creature. Il Creatore non ci ha
resi tutti uguali. E senza dubbio sapeva ciò che faceva. Perché, allora, un uomo si aspetta che tutti gli
altri uomini debbano ragionare come lui?
Più ci pensavo, più l'idea di una verità unica mi sembrava improbabile.
Una parte dei miei interrogativi trovarono risposta il pomeriggio seguente, nella cabina di Nhidaaj il
cygnano...
«Ecco», fece puntando un dito in un punto presso il margine orientale della sua carta geografica.
«Questa è Xandropolis, la nostra destinazione. Col vento favorevole, Aldair, dovremmo essere in porto
prima della prossima notte». La mappa di Nhidaaj era ben diversa da quella che pendeva alla parete
dello studio di Mastro Pelian, a Silium. Le terre erano ben disegnate, e le città situate nel posto giusto.
Una rete di linee sottili la percorreva da un angolo all'altro, ed esse - mi venne spiegato - usate insieme
con le indicazioni della lancetta magica che puntava sempre verso il nord, aiutavano a capire in ogni
momento dove si trovava la nave. Vicino alle rotte più frequentate c'erano anche numeri che indicavano
la profondità delle acque, determinata calando sul fondo corde annodate a intervalli regolari. In questo
modo i marinai potevano prendere il largo nelle ore di marea favorevole senza incappare nelle secche.
«Xandropolis è un posto straordinario», mi disse il cygnano che non era schiavo ma medico, versandomi
una coppa di vino. «È il punto più lontano cui siano arrivate le conquiste tanto dell'Impero di Niciea,
quanto di quello di Rhemia. Tuttavia, nessuna delle due razze lo trova di grande interesse. È
troppo distante dalle due capitali per poter essere difeso, tuttavia entrambi gli Imperi lo rivendicano,
pur se nessuno intende sostenere le spese militari necessarie per tradurre in fatti la rivendicazione».
Nhidaaj sogghignò. «Vi si trovano tutte le razze, anche se non si mescolano fra loro, e si incontrano
soltanto per i commerci. I quali hanno luogo lungo un muro dipinto che si snoda attraverso tutta la
città».
Il cygnano sospirò e scosse la testa. «È un'immagine della follia umana, Aldair. Non c'è un posto simile,
credo, in tutto il mondo». Non feci commenti, ma continuai a fissare il vino rosso all'interno della mia
coppa. La mia faccia si ricompose tra gli ondeggiamenti del liquido, ed emerse per guardarmi: un muso
troppo lungo, e due occhi pieni d'amarezza.
«Nhidaaj». Mentre parlavo, continuavo a tenere gli occhi nella coppa.
«Certamente, non stiamo andando a Xandropolis per aprire commerci con i Rhemiani o con i Nicieani».
«No. Certo che no, Aldair».
«Posso sapere, allora, che cosa ci andiamo a fare?»
Nhidaaj mi guardò con aria pensierosa. Alla fine, si alzò e fece qualche passo sino all'altro lato della
cabina. «Aldair. Hai fiducia in me?»
«Eri un amico dell'Aghiir Tharrin...»
« No» . Si volse di scatto e mi fronteggiò. «No». Scosse la testa. «Ho chiesto se hai fiducia in me. E
non perché ero amico di qualcun altro». Alzai gli occhi, lo fissai nei suoi, tornai ad abbassare la testa.
«Sì», risposi. «Ho fiducia in te. Per te stesso». Ma nella mia mente c'erano anche altri pensieri.
«Però», aggiunsi, «la fiducia deve funzionare nei due sensi. Io ho fatto tutto ciò che mi è stato chiesto.
Non sono un ingrato. Né lo sono i miei compagni. Tuttavia, in piena onestà, avremmo anche potuto
trovare il modo di fuggire da Chaarduz in qualche altra maniera. E magari, se lo avessimo fatto, Rheif ora
non sarebbe così vicino alla morte...»
«Aldair». Il cygnano si sedette vicino a me e poggiò una mano sul tavo-lo. «Aldair. Quello che dici è
giusto. Tuttavia, ti chiedo di nuovo di aver fiducia ancora per un po'. Un po', non molto».
«Comunque, quale altra scelta avrei?»
«Ogni uomo ha le sue scelte».
«Non sempre è così a quanto pare».
«Sembra. Ma non è vero».
Risi. In modo molto amaro, evidentemente, perché Nhidaaj mi fissò con uno sguardo strano.
«Mi è venuta in mente una cosa che Rheif dice sempre», spiegai.
«E che cosa sarebbe?»
«Si lamenta: 'Nessuno mi dice niente. Tutti mi tengono all'oscuro di ogni cosa'. È vero, Nhidaaj».
«Sì. Sì, è vero, Aldair. O, almeno, in gran parte vero».
«Ci sono molte cose che l'Aghiir Tharrin non mi ha dette».
«E molte altre che ti ha rivelate».
«Ma è molto più quello che mi ha taciuto di quello che ha voluto dirmi», insistetti.
«Anche questo è vero. Ciò che sai è molto meno di ciò che non sai».
«E tu non puoi... o non vuoi... aggiungere nulla di nuovo».
«Soltanto molto poco, Aldair».
Gli voltai le spalle.
«Avrò fiducia in te», dissi. «D'accordo. Ma...»
«Aldair». Mi girai a guardarlo. «Tu non capisci...»
«No». Scossi la testa. «Certe volte, proprio non capisco».
«Sappi, allora, che posso dirti molto poco perché io stesso so molto poco». Lo fissai.
«Nhidaaj», dissi. «Ma tu e l'Aghiir Tharrin...»
«....conoscevamo molte cose che a te sono ancora ignote».
«È vero. E allora...»
Il cygnano alzò un braccio.
«Quello che saprai, Aldair, non ti potrà venire da me. Né il tuo Signore poteva dirti più di ciò che ti ha
detto. Qualcun altro, ti parlerà... »
VENTISEI
Come Nhidaaj aveva promesso, la nave nicieana giunse a destinazione prima del termine della notte
seguente. Per me, tuttavia, fu come se non fosse arrivata da alcuna parte. Il capitano gettò l'ancora in
una baia oscura, e il vascello, come alla partenza da Chaarduz, era privo di luci di qualsiasi genere. Se la
favolosa Xandropolis era da quelle parti, di certo non se ne vedeva traccia.
«Come hai rilevato tu stesso», mi spiegò Nhidaaj, «non siamo qui per portare merce al mercato. È più
saggio non richiamare l'attenzione su di noi». Altro non volle aggiungere.
Probabilmente aveva ragione, dato che eravamo a bordo di una nave imperiale, e non c'era modo di
sapere chi comandasse ora a Chaarduz: se il Re tornato dal deserto, o Fhazir. E anche se dubitavo che
notizie su quanto era accaduto potessero pervenire in quel remoto angolo del mondo in meno tempo di
quanto ne avevamo messo noi col nostro veloce battello, era comunque inutile contraddire il cygnano, o
rivolgergli altre domande. Tutto ciò faceva parte del mio nuovo modello di vita, pensai amaramente.
Molte cose che non avrei mai desiderato sapere mi erano invece spaventosamente chiare. Sapevo che
cosa voleva dire essere inseguiti da navi rhemiane e vascelli tarconii. Che cosa significava essere schiavi.
Avevo conosciuto la sete nel deserto. Visto morire i compagni migliori. Nessuna di queste preziose
esperienze mi era stata negata. Ma mi era proibito conoscere i misteri delle città morte, o i segreti che i
nobili nicieani dividevano con i medici cygnani. Il mio ruolo, che mi piacesse o no, era abbastanza chiaro.
Nhidaaj mi avrebbe tenuto per mano, e mostrato quale piede dovevo mettere davanti all'altro. E se
avessi fatto bene le mie addizioni, forse in premio mi avrebbero dato una ciambella. E ciò sarebbe
accaduto, senza dubbio, dopo la consegna da parte mia del misterioso pacchetto che custodivo all'ancor
più misterioso personaggio che lo aspettava. Nhidaaj non aveva mai menzionato questo argomento, ma
ero sicuro che era a conoscenza della mia missione. Inoltre, mi era stato promesso che il personaggio
sconosciuto che dovevo incontrare (chissà dove, chissà quando), avrebbe risposto a quegli interrogativi
cui né l'Aghiir Tharrin né Nhidaaj avevano voluto rispondere. Ci avrei creduto, decisi, quando l'avessi
visto succedere. Poi ebbi un attimo di pentimento. Stai esagerando, Aldair, mi dissi. Le cose non
vanno così male come pensi. Sembrano andar male. Tu hai ricevuto onori e fiducia. E né l'Aghiir Tharrin
né Nhidaaj ti hanno certo trattato come un bambino. Lady Shamma ti ha affidato qualcosa che
certamente è di somma importanza, e per farlo ha rotto una tradizione secolare. E se ci sono cose che
ancora non sai, di certo c'è anche un motivo valido per tenerti all'oscuro. Non è vero?
Senza dubbio. Ma era proprio necessario - continuavo a chiedermi - tutto quel mistero? Era
indispensabile, o erano gli uomini a renderlo tale?
A mezzanotte, una brezza calda spirò verso terra e il quarto di luna che pendeva in cielo venne velato da
un banco di nubi. Soltanto Nhidaaj ed io sbarcammo sulla spiaggia. Il nicieano aveva però con sé il
piccolo Dhar'jeem. Mi meravigliai della cosa, perché mi sembrava un gesto pericoloso, per noi come per
il fanciullo.
Dove eravamo diretti, e dove doveva essere condotto l'erede al trono di Niciea? Il cygnano non me lo
disse, e io non glielo chiesi. Desiderai avere al fianco il gigantesco Signar, su quella spiaggia oscura, ma
evidentemente la cosa non era possibile. Mi consolai pensando che il vikoniano avrebbe almeno badato
a che nulla di male accadesse a Rheif. Quanto tempo saremmo stati via, e che cosa sarebbe successo se
lo stygiano avesse avuto un peggioramento? Lo avevo chiesto al cygnano, che aveva risposto soltanto
alla seconda parte della domanda, assicurandomi che Rheif non sarebbe peggiorato. Non potevo far
altro che crederci. Le due figure che ci vennero incontro sulla spiaggia erano avvolte in mantelli neri.
Parlarono poco, e solo in sussurri, a Nhidaaj. Dalle loro forme slanciate, supposi che fossero Nicieani. Ci
diedero vesti e cavalli. Nella notte, nessuno avrebbe saputo trovare la differenza fra noi e quattro
predoni da strada. Lasciata la spiaggia, ci dirigemmo verso sud. Mentre galoppavo, vidi verso oriente un
fioco grappolo di luci. Questo, pensai, probabilmente sarà
tutto quello che vedrò della fantastica Xandropolis.
Il terreno all'intorno era fertile. Passammo davanti a una fitta macchia di palme, simili a quelle che
avevo visto a Chaarduz. La brezza leggera ne faceva frusciare i rami come fogli di carta. All'intorno si
vedevano anche campi di cotone. I fiocchi, pronti per essere colti, sembravano piccoli fantasmi
fosforescenti nelle tenebre. Una volta avvertii un denso profumo di olivo, e capii che eravamo passati
vicino al frantoio di una fattoria.
Finii per sonnecchiare sulla sella. Un venticello gelido, spazzando l'aria, mi fece riprendere in pieno i
sensi. Vidi che la terra era diventata arida. Il suolo sotto gli zoccoli del cavallo era duro e asciutto, solcato
da una ragna-tela di spaccature. I cavalli trovavano difficile l'andatura, e anche se sceglievamo
accuratamente la strada, inciampavano con frequenza. Qualche tempo dopo le nubi si diradarono e la
luna illuminò il panorama desolato. Rimasi sorpreso, perché mi accorsi che davanti a noi i raggi lunari si
riflettevano su una distesa d'acqua. Eppure, il mare lo avevamo lasciato alle nostre spalle.
«Non è lo stesso mare», mi spiegò Nhidaaj. «È un altro, più piccolo». Dopo qualche istante, aggiunse che
quel mare oggi era chiamato Memphir, anche se in altre epoche aveva portato un nome diverso. Una
volta era stato sia un mare che un fiume, ma il mare aveva ingoiato il fiume, il cui nome si era perduto.
Se tutto ciò era successo tanto tempo fa, mi chiesi, come faceva il cygnano a conoscere quegli eventi?
Ma mi pentii del pensiero nel momento stesso in cui si manifestò nella mia mente. D'altra parte, a bordo
della nave, Nhidaaj mi aveva informato che quella terra era incredibilmente antica. Più antica, persino,
delle rovine dei Tarconii. Non avevo perso il fascino per quel genere di cose. Solo che non potevo
trattenere il respiro per sempre, in attesa di risposte che non venivano mai. Il mio cervello era pieno fino
all'orlo di domande, e non poteva contenerne più. Forse, pensai, mi mancava la pazienza: ingrediente
indispensabile per condurre una vita da studioso. La curiosità c'era, sicuramente. Avevo diviso
l'eccitazione della scoperta con l'Aghiir Tharrin, ma dubitavo di poter eguagliare la diligenza, la
meticolosità e la dedizione al lavoro del nicieano. E quelle qualità - mi aveva detto lui stesso più di una
volta - erano più
preziose di qualsiasi altra. Il tempo sapeva conservare bene i suoi segreti, e non li porgeva certo con un
sorriso, soltanto perché un giovane dei Venicii era impaziente di trovare delle risposte.
Nhidaaj ci fece fermare poco prima dell'alba, mentre il sole stava già
versando argento fuso sul mare, a oriente, e tingeva il terreno di un bianco accecante. Dormimmo in
una capanna di mattoni rosa modellati con fango e paglia. La capanna era all'ombra di due palme che
riparavano dai raggi del sole ma non dal calore dell'aria. Il muro di mattoni rese tuttavia la giornata
sopportabile.
Quando mi svegliai era pomeriggio inoltrato. Avevo la gola secca e la schiena ardente. Andai dietro la
capanna per rinfrescarmi il capo con un po' d'acqua, e vidi che due dei cavalli mancavano. Corsi a
svegliare Nhida-aj per dargli la notizia, ma lui mi sorrise e mi informò che le nostre due guide se ne
erano già andate durante la notte. Perché? Ancora una volta, il cygnano non mi rispose.
Mangiammo pane duro e datteri freschi. Il vino era aspro, e aveva un lieve sentore d'olio.
«È ancora molto lontano», chiesi infine, «il posto dove dobbiamo andare?»
«No». Nhidaaj si asciugò il mento peloso. «Cavalcheremo ancora solo per parte della notte».
E quando il sole fu rosso-sangue sul filo dell'orizzonte, montammo a cavallo e partimmo. Le bestie erano
riluttanti, e dovetti spronare più volte il mio cavallo nelle costole, per costringerlo a incamminarsi.
Nhidaaj ci condusse verso est, in direzione del mare di bronzo; viaggiando, seguivamo le nostre stesse
lunghe ombre che si distendevano sul terreno spaccato. L'acqua splendeva di un color arancione
sanguigno, come le fiamme di un incendio. Il cielo era rosso, striato da lunghi fiocchi di nubi che
andavano verso occidente.
Nhidaaj ci fece fermare quando c'era ancora un po' di luce. Scrutò il mare per un momento, poi mi toccò
il braccio.
«Lì», fece, puntando la mano verso la distesa d'acqua. «Se guardi, vedrai qualcosa».
Attesi che i miei occhi si abituassero ai riflessi, poi vidi ciò che il cygnano stava indicando. Due forme
scure, lontane. Piccole isole, pensai in un primo momento. Poi vidi che le loro proporzioni erano troppo
regolari. Dissi a Nhidaaj che vedevo due forme, ma non potevo immaginare che cosa fossero.
«Ciò che vedi», mi spiegò, «è circa un terzo di quello che giace sotto le onde. Sono strutture fatte di
pietra, di forma triangolare, ma la cui base ha quattro lati come un quadrato». Mi guardò. «Sono le cose
più grandi che ci siano sulla Terra, Aldair. E le più antiche».
Cercai di figurarmi la parte nascosta sotto il mare. Dovevano essere immense, di sicuro. Non riuscivo a
immaginare come cose del genere potessero essere state costruite.
«Sono più antiche delle rovine dei Tarconii, dunque», feci. «Quanto più
antiche?»
Nhidaaj esitò. «Forse due volte più antiche. O ancora di più». Lo guardai meravigliato.
« Due volte più antiche?» Già una volta Tharrin aveva raddoppiato per me l'estensione della storia. Ora
Nhidaaj, con un'osservazione quasi casuale, aveva fatto lo stesso. Ma c'era, dunque, un inizio del
mondo?
«E a che cosa servivano? Lo sai?»
«No. Non di sicuro, almeno».
Questa osservazione generò un'altra domanda. «Dunque hai un'ipotesi, Nhidaaj...»
Il cygnano scrollò le spalle. «Niente più che un'ipotesi. E anche piuttosto fantastica».
Sorrise, poi si volse verso il suo cavallo, e puntò nuovamente verso sud. Io diedi un'ultima occhiata alle
forme nell'acqua, ma nel cielo non c'era più
luce, e non vidi nulla.
VENTISETTE
Molte cose dovrebbero essere raccontate...
Mi chiedo tuttavia se davvero sia meglio che io le narri così come sono successe, o se non sia preferibile
dimenticarle. D'altronde, non sono neppure certo di ciò che è realmente accaduto, e di ciò che invece
appartiene al mondo delle visioni e del sogno. Probabilmente, i due livelli si compenetrano. La stranezza
di quanto avvenne ancora mi sconvolge. Ma alla luce di quanto è accaduto dopo, ho compreso che i miei
vuoti di memoria non sono un puro incidente. È meglio, dunque, che io riferisca ciò che è successo, e ciò
che mi è parso succedesse, senza fare troppi sforzi per distinguere fra le due cose... Proseguimmo verso
sud-ovest. La notte era oscura, senza luna; ma in quelle regioni le stelle sono fitte e luminose. Viaggiare
dopo il tramonto è
il modo migliore per conoscere il deserto, come posso testimoniare dopo la mia spedizione da Chaarduz
verso il nulla, in cerca del Re. Mi chiedevo, quella notte, che cosa fosse mai successo all'Imperatore di
Niciea e alla sua capitale. Senza dubbio, Fhazier aveva saccheggiato la città e l'aveva rasa al suolo.
Certamente, come era costume dei barbari e dei predatori di ogni parte del mondo, aveva portato via
ogni minima cosa lucente e scintillante, o che avesse una parvenza di valore, e aveva distrutto tutto ciò
che non poteva trasportare o capire.
Non mi aspettavo certo di rivedere mai più intatte le mura rosate della villa di Tharrin. Né i giardini ben
curati e le fontane chiocciolanti. Fra tutte quelle meraviglie, ciò che mi feriva di più era il ricordo del
verde patio con la fontana rivestita di maiolica, in cui avevo udito la voce di Lady Shamma. Senza dubbio
la magia era svanita ormai da quel luogo. Fhazir non aveva certamente tollerato che il tempo, tra quelle
fronde verdi, si fermasse per guardarsi intorno...
Forse - pensavo - il Re era riuscito a radunare forze sufficienti per riconquistare il suo trono. O forse no.
In ogni caso, per il momento il suo erede Dhar'jeem era al sicuro. Cavalcava davanti a me, placidamente
addormentato fra le braccia di Nhidaaj, inconsapevole delle sciagure che incombevano sul regno del
padre. Che forse, ormai, era già diventato il suo regno.
Andammo avanti per non più di un'ora, prima che Nhidaaj desse di nuovo segno di fermarci. Scesi da
cavallo, mi grattai, mi guardai intorno e mi chiesi dove eravamo arrivati.
Quel posto mi sembrava l'immagine della desolazione. Un pozzo pieno di sabbia. Una palma e una
capanna di fango. Ben poche differenze dal luogo che avevamo lasciato poco prima.
È a questo punto che, nella mia mente, gli eventi cominciarono a snodarsi in modo disordinato.
Accaddero delle cose.
O, almeno, così mi parve.
Quando tornai dall'aver abbeverato i cavalli, vidi che Nhidaaj aveva acceso un piccolo fuoco. Un fuoco?
pensai.
E per quale motivo?
Avevamo cavalcato soltanto per un'ora, o poco più. Né noi né i cavalli avevamo ancora bisogno di
riposare. Non è troppo faticoso cavalcare attraverso il deserto, di notte. Non posi domande.
Bevvi la coppa di vino che mi venne offerta. Forse ne bevvi più d'una. Era un vino secco, con un profumo
vagamente muschiato. Migliore della maggior parte dei vini nicieani, che in genere sono troppo dolci.
Oggi, ripensandoci, sono sicuro che nella mia coppa non c'era soltanto vino...
Che fuoco strano.
Mai visto uno simile.
Certe volte, le sue fiamme brillano di un alone giallastro. Altre volte, sono ornate di striature verdi, o
diramano tentacoli dell'azzurro più lucente che io abbia mai ammirato.
È come se uno scrigno di gioielli si sia trasformato all'improvviso in un nido di fiamme...
C'è una città che sta bruciando in quel fuoco. È una vista atroce, ed è untormento per me sostenerla...
La città è stata divorata dalle fiamme. Non ne rimangono che le ceneri...Ma un'altra città è sorta, più
grande e maestosa della prima...
Nel cuore della seconda città, spunta un sole mai visto.È un sole bianco, accecante, terribile.
E questa volta, non ci sono ceneri.
Il fuoco s'è spento.
Una scintilla dell'incendio ha acceso la torcia, e la sua luce proietta ombre scure sulle pareti. Le pareti
sono asciutte e corrose, e emanano un disgustoso tanfo d'insetti. Gli affreschi sono tracciati in colori
sbiaditi dal tempo. Qualche colore è svanito del tutto, ma una traccia, come l'eco di un ricordo, si
aggrappa ancora alla parete corrosa. Macchie rosso bruno, sabbia, nero fuliggine.
I gradini portano verso il basso. Sempre più giù. Al centro, sono scavati profondamente, logorati da
un'eternità di passi. L'aria ha un forte odore di polvere.
Le cose sulle pareti hanno teste come quelle di creature d'incubo. Una ha un becco appuntito e affilato,
e gli occhi crudeli di un uccello da preda. Camminano rigide, come divinità cieche.
Ti aspettavo da tanto tempo, Aldair...
Chi sei? Ti conosco?
Credo di no. Ma io ti conosco bene...
È buio. Non riesco a vederti.
C'è una lampada. Toccala con la tua torcia...
Fiamme rosse.
Luci che danzano su una polla d'ambra.
Profumo di ciannamomo.
C'è una sedia.
Un trono, in verità. Incrostato d'oro e gemme azzurre, con i braccioli intagliati in forma di artigli
d'uccello. La creatura che mi sta parlando siede su di esso.
Si trova al di là della fiamma scarlatta, ed è avvolta in un mantello grigio come l'ombra.
Sotto il cappuccio, gli occhi sono dilatati, animati da lampi verdi e gialli. Le pupille scure sono appuntite
come semi di melone.
Il naso è piatto, e le orecchie sono nere e sottili come lame. Il manto è liscio come l'acqua.
Chi sei? Sei diverso da qualsiasi altra creatura che conosco. Noi siamo pochi. E tu non ci hai mai visto
perché non è nostra abitudinemescolarci alle cose del mondo, Aldair...
Tu vivi... qui? In questo luogo?
Qui. E in altri luoghi.
Quali altri luoghi?
Non abbiamo molto tempo, Aldair...
Tempo per che cosa?
Per dire tutte le cose che vorresti conoscere...
Non capisco. Tutti mi dicono che io devo sapere certe cose, e poi nessuno me le rivela. Non so mai
nulla di completo. Solo parti di cose, sfaccettature di eventi... Questo non è dovuto ad alcuna volontà
di ingannarti, amico mio. Diquesto puoi essere certo...
Va bene, d'accordo. Ma...
Gli uomini desiderano che tutti i segreti siano loro rivelati, e cadonopreda dell'ira e dell'impazienza
quando qualcuno conserva delle cono-scenze che essi stessi vorrebbero avere. Tuttavia, quando
ottengono certeconoscenze prima di essere abbastanza maturi per riceverle, levano altegrida contro
coloro che gliele hanno concesse, e sostengono che ciò che è
stato loro rivelato sono bugie, e nient'altro che bugie... Dunque, anche se dicono di volere la verità, in
effetti non la desiderano?
Non è affatto alla verità, che aspirano. Vogliono soltanto il loro como-do. Ti ricordi quando nel tuo animo
salì l'ira contro il suo Signore Thar-rin, perché egli non voleva usare le sue conoscenze per combattere i
pretidi Niciea?
Io pensavo...
...che la verità potesse liberare il popolo dalla paura. È una nobile idea,Aldair. Ma pensi ancora che sia
così? Che se anche alla gente venisse ri-velato che sono stati sottratti al mondo millenni di storia, e che il
nostropassato non è quello che sembra... pensi davvero che questa rivelazionemetterebbe fine alla
paura? No. Io ti dico che ci sono verità che il popolonon è ancora pronto ad ascoltare. Non ancora...
Ed io potrò conoscerle, queste verità?
Sì, Aldair. Tu sì...
E sarai tu a dirmele?
No. Perché non sono io il tuo maestro...
E chi, allora? Nhidaaj? Un altro?
Io sono il maestro di Nhidaaj. Il suo Signore. Proprio come Nhidaaj è
stato il maestro dell'Aghiir Tharrin. Ma non sarà lui il tuo maestro. Né loè stato il nicieano...
Che cosa hai detto? Che il cygnano è stato... il Maestro... del mio Signore? Dell'Aghiir Tharrin?
La parola maestro ha significati diversi da quelli che tu le attribuisci,Aldair...
Ma....
Ascoltami. Per te non accadrà come è accaduto per l'Aghiir Tharrin. Ate non verrà insegnato cosi come è
stato fatto con altri. Per certuni, anda-va bene. Per altri, no... E tu sei fra questi ultimi. Ancora! Devo
apprendere cose mai udite prima, ma non ho un maestro. Devo imparare, ma con cautela. Posso
conoscere delle cose, ma non per intero. Solo in parte, non è vero? È sempre stato così... Tu hai grande
ansia di accollarti il tuo fardello, Aldair. Ma sai, in veri-tà, verso che cosa tende il tuo desiderio?
Io... Io credo che nessun uomo debba aver paura della verità, quale che essa possa essere.
Può darsi che sia saggio, per un uomo, temere ciò che non può com-prendere...
Come posso avere una paura simile? Io non so ancora nulla! Di che cosa dovrei aver paura?
Presto saprai...
E tu come fai a sapere che io saprò? E anche se mi verranno... insegna-te... delle cose, come farò a
sapere che sono vere? Non so neppure se è ve-ro ciò che vedo!
Capisco...
Perfetto. E allora, che senso ha il mio agitarmi, il mio essere in cerca perenne di qualcosa?...
In seguito, mi dissero che ero tornato alla nave da solo. Non ricordo il mio viaggio di ritorno, ma è certo
che il cygnano non era più con noi, e neppure il Principe Dhar'jeem.
Non avevo dubbi sulla sicurezza dell'erede al trono di Niciea. Se un giorno qualcuno ricostituirà l'impero,
certamente sarà lui. E sono sicuro che governerà il suo popolo con saggezza. Nessuno me lo disse, ma
non avevo dubbi che in quel momento Nhidaaj stava curando l'educazione di un nuovo discepolo. Se era
così, Niciea non avrebbe potuto averne altro che bene.
Non avevo più con me il pacchetto che mi era stato affidato da Lady Shamma. Ma ero certo che si
trovava nelle mani di chi lo attendeva. Al suo posto, avevo un altro pacchetto. Più grande del primo,
conteneva una immensa fortuna in pietre preziose. C'erano solo gemme di ogni forma e dimensione, e
ciascuna di esse era tagliata e polita nel più squisito dei modi.
C'erano zaffiri il cui colore avrebbe fatto arrossire di vergogna le acque del mare; rubini rossi come il
sangue; diamanti la cui luce era gelida come quella dei cristalli di ghiaccio. C'erano anche molti smeraldi,
dato che quella gemma era la preferita dai Nicieani, per il suo colore verde. Nelle loro terre, aveva
valore più di ogni altra.
Nel pacchetto c'era un'altra cosa.
Una pergamena coperta di fitta scrittura, che affermava come un certo Aldair, della stirpe dei Venicii,
era stato designato quale unico proprietario di una certa nave, il cui aspetto era descritto con grande
minuzia e precisione. Il documento era firmato e sigillato dell'Aghiir Tharrin e, a conferma e
testimonianza, era apposta la firma di Lady Shamma. Non so per quale motivo mi era stato regalato un
tale tesoro, né perché
mi era stata affidata una bella e veloce nave nicieana.
Né so perché mai ero stato condotto nel deserto per bere vino drogato e parlare con creature ignote
che non mostravano mai la loro faccia al mondo. Che cosa mai dovevo cercare? Che cosa dovevo fare?
La creatura con gli occhi gialli mi aveva preannunciato che un giorno avrei saputo...
Ma quando, quando?
Il capitano della mia nave mi disse che sarebbe rimasto ai miei comandi per tutto il tempo che avessi
avuto bisogno di lui, nel nome dell'Aghiir Tharrin.
Era un uomo d'onore e un abile marinaio, ma mi accorsi che, al di là delle sue parole, ciò che desiderava
era qualcos'altro. Gli chiesi allora, di dirmi onestamente che cosa voleva fare. Mi spiegò che fino a
quando Niciea era nelle mani dei ribelli, si considerava obbligato a difendere il suo Re e, se possibile, ad
aiutarlo a porre ordine nel paese.
Rispettai il suo desiderio.
La notte scorsa salpammo per una baia a lui conosciuta, non lontana da Chaarduz. Dopo aver gettato
l'ancora, lui e una parte della ciurma ci lasciarono. Nominai Signar Capitano, con sua grande gioia.
Mi disse che ci sono posti in cui si poteva reclutare una buona ciurma, e i marinai nicieani rimasti con noi
accettarono di governare la nave fino a quando non avessimo assoldato i loro sostituti, in cambio di un
passaggio verso casa. Avevo detto loro che avremmo fatto rotta verso il nord, fuori del Mar Meridionale,
e sapevano che avremmo trovato un clima poco adatto alla loro struttura fisica. Così, partimmo.
Ma che cosa avremmo fatto, dopo aver superato la grande fortezza di roccia dei Rhemiani, ed aver
circumnavigato la terra dei Tarconii?
Non so dirlo, ma di una cosa ero certo: troppe cose mi erano accadute, in troppo poco tempo.
Di volta in volta ero stato studente, eretico, fuorilegge, schiavo e rhada-z'meh del fratello di un
imperatore.
Ora ero proprietario di una splendida nave, e ricco al di là di ogni speranza. Non ero più la stessa
persona di un tempo.
E non ero sicuro di quello che ero, e che sarei stato.
Sapevo che avrei dovuto cercare, e trovare.
Ma che cosa, che cosa?
VENTOTTO
Ancora una volta attraversammo senza incidenti gli stretti, e entrammo nel Grande Oceano.
Fino a quando il passaggio non fu compiuto, tuttavia, rimasi in preda all'ansia. Sapevo bene che
avremmo potuto facilmente battere in velocità le tozze navi rhemiane; ma non avrei mai osato
affrontare una di esse in battaglia, perché avevo ben pochi uomini da mettere alle armi. Inoltre, i
Rhemiani sapevano che erano scoppiati gravi disordini a Niciea, e temevo che avessero intenzione di
trarre vantaggio dalla cosa in ogni circostanza possibile.
«Stai tranquillo», mi rassicurava Signar. «Loro, in ogni caso, non possono sapere quale sia la nostra
forza, o la nostra debolezza. E io starò attento a non fornire il minimo indizio».
Non mi disse nulla di più, ma mentre parlava occhieggiava con disprezzo la grande rupe-fortezza che
incombeva su di noi, e mormorava qualche segreta maledizione nel profondo del suo enorme petto.
Non gli posi altre domande. Un Capitano deve essere libero di governare la sua nave come meglio
ritiene. Altrimenti, che Capitano sarebbe?
Il vikoniano non mi deluse. Quando passammo sotto l'ombra della montagna, ogni uomo era al posto di
combattimento. La ciurma addetta alle manovre si muoveva intorno come uno sciame d'api: ciascuno
fisso al suo compito, e pronto ad eseguire gli ordini.
Signar aveva dato strane disposizioni. L'equipaggio passava e ripassava sul ponte, e ad ogni passaggio
cambiava divisa e copricapo, trasportando oggetti da un punto all'altro della nave. Se avessi osservato
quell'andirivieni dagli spalti della fortezza rhemiana, di certo avrei avuto l'impressione che la nostra nave
fosse carica di uomini.
La ciurma si divertiva a queste manovre, e sarebbe andata avanti all'infinito, se Signar non l'avesse
richiamata all'ordine con uno o due dei suoi possenti ringhi.
Il vikoniano non aveva trascurato di mostrare ai nemici la potenza del nostro armamento: ogni scudo,
corazza, spada o arma di qualsiasi genere era stata posta bene in vista sul ponte.
Fuori del Mar Meridionale, le acque divennero più agitate e il vento più
freddo, dato che ormai andavamo incontro al pieno dell'autunno. La nave si dirigeva verso nord
tagliando i marosi. Si arrampicava sulla cresta di onde mostruose, quindi precipitava nell'avvallamento
fra un'onda e l'altra.
Sul fondo di quelle depressioni, non c'era altro che acqua: immense pareti liquide che ci circondavano
da ogni parte, più alte del nostro albero maestro.
Tuttavia, Signar e l'equipaggio erano tutt'altro che spaventati. Per conto mio, mi accontentavo di stare
accanto all'oblò della mia cabina, e fissare la scura linea della terra, lontana verso l'orizzonte.
Verso occidente non c'era altro che il vuoto più spaventoso, che si allungava sino all'infinito. E, al di là di
esso, un enorme punto interrogativo. Mi chiedevo che cosa potesse esserci al di là dell'ultimo limite
dell'infinito. Qualcosa di incognito? O l'oceano continuava a estendersi per leghe e leghe, oltre
l'inconoscibile?
«A quel che dicono, l'oceano precipita nel nulla», mi spiegò una volta Signar. «Presso il termine del
mondo c'è un immenso banco di nebbia, che nasce dall'abisso. Questa nebbia è velenosa, e chi la respira
muore, ma laggiù Vhinaar canta le sue canzoni e attira i marinai con la dolcezza della sua voce. Chi
l'ascolta dimentica che l'aria è irrespirabile, e si dirige entro la foschia, verso l'Orlo del Mondo. Inutile
dire che nessuno di essi si mostrerà più di nuovo, se non nelle Sale di Rhagnir».
«Rhagnir?»
«È una parola vikoniana. I Rhemiani hanno un termine analogo. Lo dicono: Inferno» . Signar scosse le
spalle.
«Una parola vale l'altra», aggiunse.
Fissai le acque grigie.
«E tu credi a questa leggenda?» gli chiesi. «Sei convinto che una nave, continuando a viaggiare verso
occidente, precipiti nel Rhagnir?»
Signar riempì il suo immenso torace di aria marina.
«Io sono un uomo che pensa secondo due menti, Aldair. È certo che conviene preoccuparsi delle cose
che riguardano gli Dèi, e non è saggio irridere ai loro avvertimenti. Ho conosciuto uomini che avevano
soltanto disprezzo per Rhagnir: ma nessuno di loro solca più i mari. Tuttavia, un vero uomo può
contemporaneamente onorare gli Dèi e mantenere l'indipendenza del proprio pensiero. Personalmente,
non credo che al mondo ci sia un posto in cui un vikoniano non possa arrivare se munito di una nave
solida e bene equipaggiata. Che siano i mari ghiacciati del nord, o il Grande Oceano stesso». Signar
parlava con convinzione e vero coraggio, ma io mi accorsi che di tanto in tanto lanciava uno sguardo
preoccupato dietro le spalle: come per assicurarsi che qualche dio maligno non stesse lì intorno ad
ascoltare quello che diceva. Facemmo una fermata sulla costa dei Tarconii, presso il desolato luogo delle
rovine, dove Tharrin aveva lasciato una guarnigione in attesa della primavera.
Ritenni che l'Aghiir non avrebbe avuto niente in contrario: lui non sarebbe mai tornato su quelle
spiagge, e non c'era motivo di lasciare tanti uomini da soli a fronteggiare un'inutile morte.
I Nicieani furono più che contenti di imbarcarsi con noi, anche quando appresero che avremmo fatto
vela per il nord, e che sarebbe trascorso molto tempo prima che tornassero a vedere il sole della loro
patria. Rheif mi sembrava molto migliorato, e non mi vergognavo di dire che per questo alzai più di una
volta le mie lodi al Creatore. Più di una volta si univa a noi sul ponte, e rifiutava altezzosamente le mani
di quanti desideravano sorreggerlo. Non che non ne avesse bisogno: ma gli Stygiani hanno un orgoglio
più duro del diamante, e contro di esso non c'era nulla da fare.
«Stai ridiventando il solito vecchio mostro», gli dissi una mattina. «E
non vedo come la cosa possa consolarti».
Mi gratificò di un ghigno ironico.
«Soltanto un venicii insulterebbe così un uomo ferito, che non è in grado di lottare», mi fece. Poi il
ghigno si spense, e i suoi lineamenti presero una piega di stanchezza. «In verità, Aldair, io ormai sono
poco più di uno scendiletto, pronto per essere steso a terra. Manca soltanto la concia, la rimozione di
qualche scheggia d'osso, e di un po' di carne». Cercai di sorridere alle sue parole, come facevo sempre.
Ma nel mio animo non potevo sopprimere un'ombra di inquietudine. Parlare lo stancava
tremendamente: il che, per uno stygiano, era una cosa del tutto fuori dell'ordinario. Perciò, il più delle
volte, lo lasciavo solo sul ponte, dando l'incarico ad un marinaio di sorvegliarlo e di provvedere a
qualsiasi sua necessità.
Lo stygiano sedeva per ore in perfetta immobilità, con gli occhi costantemente puntati verso nord.
Potevo immaginare benissimo i suoi pensieri. Che, del resto, non erano molto diversi dai miei...
Perdemmo di vista la costa soltanto una volta, quando arrivammo in prossimità del porto rhemiano
presso la città con le ville bianche e rosa arrampicate sulla collina. Non potevo dimenticare la nostra
avventura in quello stesso posto, quando l'immensa nave rhemiana, issante bandiere rosso-sangue, ci
inseguì
per ore e ore, mentre Rheif era sdraiato sul fondo della nostra piccola barca, e si rifiutava di guardare al
di là delle fiancate. Mi sembrava di ricordare un evento lontanissimo, accaduto in un'altra vita, diversa
da quella presente.
Signar mi disse di conoscere quel porto, e che il suo nome era Camelium. Un tempo, era oggetto di
continue scorrerie da parte dei Vikoniani: ma questo molto tempo fa, quando suo nonno era giovane. A
quell'epoca i Rhemiani non avevano ancora conquistato la Gaullia, ed erano confinati nella Penisola
Rhemiana e nelle terre prospicienti le coste orientali del Mar Meridionale.
«Non ci spingiamo più tanto a sud», si lamentò Signar, scuotendo la testa. «Le cose non vanno bene
come un tempo, per i Vikoniani. Anno dopo anno, i Rhemiani hanno portato le loro Legioni sempre più a
nord. Noi non li temiamo, stai pur certo: ma sono numerosi come le mosche, e dovunque volti gli occhi,
sei sicuro di trovarceli!»
«Questa è per l'appunto la forza di Rhemia», risposi. «Là dove arrivano le Legioni, presto seguono
funzionari e mercanti, e, con essi, i costumi e il modo di vivere dei Rhemiani. Dopo una o due
generazioni, i bambini del posto parlano rhemiano, e dimenticano la loro lingua nativa». Signar
mormorò una bestemmia.
«È vero», disse. «Hanno rubato tutto il mondo, e nessuno è riuscito a fermarli. Ma lascia che uno di essi
scorga un vikoniano con una cipolla che non gli appartiene, e vedrai una testa pelosa rotolare in mezzo
alla strada!»
Era il tramonto di un giorno grigio e gelido. Nubi color piombo incombevano pesanti sul cielo. Signar
condusse la nave all'ancora in una baia che sembrava abbastanza protetta. La cosa non era di generale
gradimento, dato che eravamo vicinissimi alle coste della Gaullia, densamente popolate: ma avevamo
finito le riserve d'acqua, e non c'era altro modo per procurarcela che scendere a terra e cercare una
sorgente. Il vento traeva suoni lamentosi fischiando attorno al sartiame; ma all'interno della cabina che
un tempo era stata occupata da Nhidaaj faceva abbastanza caldo. Un braciere di ferro teneva lontano il
gelo della notte, e proiettava un riflesso rosso cupo sulle scure pareti di legno. Le nostre coppe di rame
erano piene di vino, e contro le fiancate si sentiva l'urto ritmico della risacca.
Signar era stato a lungo silenzioso, stringendo la sua coppa nell'immensa mano pelosa. Alla fine,
tuttavia, i suoi occhi smisero di fissare i carboni ardenti e si alzarono per incontrare i miei. Sapevo già,
molto prima che alzasse la testa, che nella sua mente stava frullando qualcosa. Parlare è un'impresa
insolita e importante per i Vikoniani, e prima di affrontarla, meditano e pensano a lungo sulle parole che
intendono pronunciare.
«Ci sono alcune cose che debbono essere dette, Aldair», cominciò. «Mi pare che questo sia un momento
buono come qualsiasi altro». Rheif sollevò la testa e guardò prima lui, poi me, ma non disse nulla.
«Signar», gli risposi, «fra leali compagni non ci sono momenti migliori o peggiori per parlare».
Il vikoniano annuì, e si guardò le mani.
«È vero, Aldair», fece. «Ascoltami. Stiamo costantemente facendo vela verso il nord. Questo significa
che ogni giorno che passa corriamo di più il rischio di essere avvistati. In acque come queste non può
esserci nulla di più insolito di una nave nicieana, a parte il kraken o il serpente di mare. Fino ad ora
siamo stati fortunati, anche se ho forti dubbi che la nostra presenza non sia stata ancora segnalata. Per
quel che ne sappiamo, una nave da guerra rhemiana potrebbe già essere alla nostra caccia. Puoi esser
certo che i Rhemiani sarebbero molto curiosi di sapere che cosa facciamo da queste parti, così lontano
dal Mar Meridionale». Si interruppe per grattarsi il muso corto con la mano tozza e pelosa.
«Ciò che voglio dire, Aldair, è che è tempo di assegnare al nostro viaggio una destinazione precisa...»
« ...Una destinazione precisa... »
Qualcosa di strano mi stava succedendo, anche se non sapevo dire che cosa fosse.
Ascoltavo le parole di Signar.
Ma non le udivo.
Lui parlava.
Ma le sue parole non erano parole che io conoscessi.
Qualcosa...
«Aldair».
Alzai gli occhi.
C'era una creatura, davanti a me.
Cercai con tutte le mie forze di ricordarne il nome.
«Aldair. C'è qualcosa che non va?»
«No», risposi. «Va tutto bene». Ma non era vero.
« ...Una destinazione precisa... »
Guardai Rheif.
Rheif distolse gli occhi.
Guardai Signar.
Sì, Signar.
Ricordavo.
«Io... Dove vorresti che ci dirigessimo, Signar? Verso nord? Verso... casa?»
Sembrava una domanda innocente.
Ma Signar mi rivolse un lungo, penetrante sguardo interrogativo.
«Aldair, come tu sai, io sono un vikoniano. Quando mi trovo sul mare, non posso essere altro che felice.
Perciò, non è giusto che sia io a rispondere alla tua domanda sulla nostra destinazione. L'unica cosa che
non desidero, per il mio futuro, è la cattura da parte dei Rhemiani. Non te l'ho mai detto, ma fu così che
divenni schiavo dei Nicieani. Scappai dai remi di una nave da guerra rhemiana sulle coste del Mar
Meridionale, e nuotai a riva fino agli stretti. Scoprii però che una costa non è migliore dell'altra, e non ci
volle molto prima che io mi trovassi nuovamente nell'infelice condizione dello schiavo... solo che,
stavolta, i miei padroni erano i Nicieani». Sì, pensai. Ti capisco, Signor.
L'immagine si presentò terribilmente chiara nella mia mente. Un uomo che solleva, stanco, gli stivali nel
fango delle paludi del nord. Che cosa c'è di sbagliato in me...?
«Tutti noi abbiamo conosciuto il... il sapore della schiavitù» dissi, come parlando con la bocca di un altro.
«Sì. Tutti noi...»
«Aldair...»
«E poi...» Qualcosa. «E poi noi abbiamo soltanto uomini liberi su questa nave. Soltanto uomini... liberi.
Quando arriveremo a...»
«...Vhiborg», terminò Signar.
«Vhiborg. Non ci saranno più schiavi».
«Hai parlato come un vero vikoniano, Aldair».
Andava meglio.
I miei pensieri cominciavano a schiarirsi.
«E poi», feci, «si può fare in modo da rendere meno visibile la nave. Meno colorata. Senza ridurne... la
manovrabilità...»
«Certo. Si potrebbe ridipingerla, per esempio».
«E poi le vele. Hai già menzionato le vele, mi sembra...»
«E non soltanto quelle», fece Signar. «La chiglia ha un rivestimento adatto alle acque dei mari caldi. Al
nord, invece...»
Rheif scoppiò a ridere.
Una risata cupa, cavernosa, che si spezzò in una serie di colpi di tosse. Tutti e due tacemmo, e lo
fissammo in volto. La sua figura, un tempo possente, era distrutta; la pelle pendeva come un sacco
vuoto appeso alle ossa. Ma dal profondo delle orbite, gli occhi dello stygiano ardevano ancora come
rosse braci nella notte.
«Siete entrambi ottimi cacciatori», ci disse in tono irridente. «Avete preparato un grande festino, e già
acceso i fuochi per il banchetto. Vi manca soltanto la selvaggina da cucinare!»
« Rheif!» fece Signar, in tono aspro.
Lo stygiano lo fissò col suo sguardo inflessibile.
«Non ho paura di te, vikoniano», disse.
«Non è questo il momento. Verrà... più tardi... forse. Ma non ora...»
«No. Io parlerò. Ora».
Signar chinò gli occhi e si guardò le palme delle mani.
Scrutai prima l'uno, poi l'altro. Nessuno dei due volle sostenere il mio sguardo.
«Rheif. Signar», feci. «Di qualsiasi cosa si tratti, devo saperla. Come ho detto, fra compagni leali non c'è
nulla che debba essere passato sotto silenzio». Signar mi fissò con occhi addolorati.
«È questo che siamo, Aldair?» chiese. «Leali compagni?»
Le sue parole mi sbalordirono.
«Ne dubiti, Signar?» gli risposi. «Mi poni davvero una simile domanda?»
Il vikoniano si agitò a disagio sul suo sgabello.
«Un tempo», mi fece, «non te l'avrei certo posta...»
«E ora? Perché?»
«Aldair. Ascoltami. Tu non riesci a vederti. Ma i tuoi amici ti vedono, e pensano. Ci siamo accorti che un
cambiamento è sceso su di te. Non sei più quello che eri un tempo. Ti conoscevo per un uomo franco e
leale. Né
Rheif né io pensiamo che...»
«Aspetta». Mi alzai in piedi e li fronteggiai entrambi. «C'è qualcosa nella tua mente, vikoniano... e nella
tua, Rheif... qualcosa contro di me. Vi assicuro che io sono Aldair. Quello di sempre. Sono lo stesso Aldair
dei Venicii che è approdato sulle coste dei Tarconii con te, Rheif. E ha diviso con te la zuppa di scarafaggi
degli schiavi nicieani. Sono lo stesso Aldair che ti ha trovato presso la ruota dell'Aghiir Tharrin, Signar,
mentre digrignavi i denti sotto la frusta di Linius». Allargai le braccia. «Che cosa avete contro di me? Mi è
spuntata un'altra coda? Il mio muso è cresciuto di un palmo?
Ditemelo, in modo che possa sapere ciò che pensate di me!»
«Aldair», fece il vikoniano, «noi sappiamo bene...»
«Vieni al dunque, Signar. Per favore».
«Come vuoi». Il vikoniano alzò gli occhi. «Siamo salpati da Chaarduz per compiere una missione di
qualche genere. Al riguardo, non abbiamo posto domande. Siamo riusciti ad uscire dalla città con la
pelle ancora attaccata al corpo: e questo è stato già abbastanza. Poi ti abbiamo visto partire verso il
deserto con Nhidaaj e il giovane Principe. Sei tornato da solo. Non ti abbiamo fatto domande. Non ti
abbiamo chiesto neppure come mai uno splendido vascello, che già faceva parte della flotta nicieana,
ora appartenga a te. Né in seguito a quali circostanze tu ti ritrovi ricco al di là dei sogni di qualsiasi
uomo. Tutte queste sono circostanze piuttosto insolite. Ma su di esse non ti abbiamo chiesto nulla,
Aldair».
«Ci sono... ci sono cose che io stesso non comprendo, Signar». Il vikoniano annuì.
Senza troppa convinzione.
«Se mi sono mostrato un amico meno leale di quanto volevo», dissi,
«non è stata mia intenzione. Io...»
«Aldair». Signar scosse la testa enorme con fare interrogativo. «Tu nonsai ancora ciò che sto per dirti,
non è vero? Se tu non ci parli spesso, o non ci guardi nemmeno, questa per noi non è un'offesa.
Certe volte, gli occhi di un uomo sono puntati su qualche cosa di lontano, che soltanto lui può
vedere, e che non può comunicare agli altri. Questa è una cosa che capisco. Ma, mio caro amico, ciò che
abita nella tua mente ha ormai preso possesso di te. Ti ha reso cieco di fronte ai pericoli che corriamo.
Ciò che voglio dire, che io e Rheif stiamo da tempo cercando di dirti, è che tu non sei Al-dair. Sei un
estraneo che ha preso il suo posto. Noi non ti conosciamo. Ci stai portando a nord, verso Vhiborg. E poi?
Dove ci porterai, Aldair? Non ce lo hai mai detto. Non ci dici mai nulla. Forse presumi che noi
conosciamo già le tue intenzioni. Ma non è così. Che cosa potrò dire alla ciurma che ingaggerò? Che
diventeranno pirati? Mercanti? Pescatori? O dovrò
dire che un ricco ex-schiavo ha acquistato una bella nave, e desidera portarla attraverso i mari per il
proprio divertimento... anche se non si degna di comunicare neppure al proprio Capitano dove vuole
andare e che cosa vuole fare?»
«Signar...»
Di nuovo, eravamo allo stesso punto.
Volevo parlare.
Ma non potevo.
Signar aveva torto, e desideravo dirglielo. Io ero preoccupato per le stesse cose di cui il vikoniano mi
aveva fatto l'elenco. Io avevo a cuore il destino dei miei compagni, del mio equipaggio... Tuttavia...
Era proprio vero... o no?
Un brivido improvviso mi fece tremare tutto il corpo, e mi afferrai ai braccioli della sedia fino a farmi
dolere le dita.
Perché, all'improvviso, avevo capito che Signar aveva ragione. Io non ero me stesso, ma un altro.
Che cosa c'era di sbagliato in me?
Che cosa c'era di sbagliato in me?
Di nuovo, un velo si sollevò lentamente dal mio cervello. Sì.
C'erano cose che potevo condividere con i miei compagni.
Cose che non dovevo sopportare io da solo.
Cose che non capivo, che non avevo ancora scoperto, che erano molto al di là della mia comprensione.
Vai... cerca... trova, Aldair...
Trova CHE COSA?
Per gli occhi del Creatore, che cosa si pretendeva da me?
E poi:
Pace.
Silenzio...
....Silenzio che si rovescia su di me, come il caldo, confortevole abbraccio di un'onda marina.... Una porta
si era chiusa.
Adesso si apriva di nuovo, e potevo vedere... qualcosa.
«Aldair...»
Lo scuro volto di Signar sopra di me.
E Rheif:
«Sta bene, vikoniano. Lascialo stare».
Signar si volse verso di lui: «Sta bene, dici? Ma lo vedi? Guarda che faccia che ha...»
«Lo vedo».
«E allora...»
«Adesso, lui sa, Signar».
«Che cosa, sa?»
«Sa. Sa dove sta andando...»
Da qualche parte, da molto lontano, guardai Rheif.
La sua voce non era più la sua.
Per un momento, era appartenuta a un altro.
E per un breve, fugace secondo, vidi qualcosa nei suoi occhi. Un attimo: poi scomparve.
Ma non provavo più paura.
La porta era aperta. E Rheif aveva ragione. Adesso, a quanto pareva, sapevo dove stavo andando. E mi
rendevo conto di averlo sempre saputo...
VENTINOVE
È facile capire perché i Rhemiani non sono mai riusciti a chiudere il porto di Vhiborg. Innanzitutto, il
posto è difficile da raggiungere, perché non si trova sulla costa ma diverse miglia nell'entroterra. Ci si
arriva seguendo un canale profondo e stretto, affiancato da alte rupi che lo rendono estremamente
difendibile. Poi, è molto a nord, lontano dalle grandi vie di comunicazione. Proprio per questi motivi,
tuttavia, costituisce un punto di riferimento ideale per i Vikoniani, anche se fra le sue strutture brulicano
individui di tutte le razze: disertori rhemiani, mercenari tarconii, ed anche una piccola colonia di
Stygiani, che Rheif incontrò con immaginabile piacere. Avevamo molte cose da fare, e dovevamo farle in
fretta, perché la stagione era ormai avanzata. Molti marinai che frequentano questo porto preferiscono
non prendere il largo durante i mesi invernali, quando le acque sono più tumultuose e le rive sono
coperte di ghiaccio.
Si tratta di un comportamento ragionevole - mi diceva Signar - e certamente non potevo negarlo. Ma il
fatto non mi consolava. Dovevo partire al più presto: lo dissi al vikoniano, e lui non mi fece domande.
Perciò, facemmo i rifornimenti, reclutammo gli uomini di cui avevamo bisogno, e apportammo allo scafo
le modifiche richieste da Signar. Mantenni tutti gli impegni che avevo preso con i Nicieani rimasti fra noi.
Erano stati leali e avevano obbedito senza discutere; una gelida morte all'estremo nord non sarebbe
stata la giusta ricompensa per il loro comportamento. Guadagnarsi un passaggio verso il sud fu per loro
più facile di quanto avessimo immaginato. I corsari sono pronti ad ascoltare racconti di terre lontane
quanto lo sono a bere coppe di vino; le descrizioni dei ricchi porti sulle coste meridionali narrate dai
Nicieani trovarono orecchie aperte e spiriti pronti. Entro una settimana, due vascelli discesero il canale,
diretti verso il mare aperto. Su ciascuna nave c'era metà del mio equipaggio nicieano, e sono sicuro che
benedicevano ogni lega che li portava più vicini al loro ardente sole meridionale.
Intanto, Signar aveva operato meraviglie sulla nostra nave. Aveva introdotto alcune delle strutture più
importanti della marineria vikoniana nel progetto base realizzato dai Nicieani. Il nostro vascello era
adesso più forte e più veloce. Nessun'altra imbarcazione al mondo - mi assicurò Signar - avrebbe potuto
raggiungerci, e, se pure ci avesse raggiunti, non avrebbe potuto danneggiarci.
Non avemmo difficoltà a reclutare un equipaggio, perché praticamente tutti i marinai di Vhiborg
desideravano salpare con noi.
Devo dire che non assistetti a nessuno degli eventi che ebbero luogo a Vhiborg. Non mi mostrai mai sul
ponte, ma rimasi chiuso nella mia cabina finché non fummo di nuovo sul mare aperto.
Scelsi questo comportamento perché non mi sentivo più adatto alla compagnia degli uomini.
Signar aveva ragione: mi era successo qualcosa. Non ero più me stesso. Sono Aldair. Ma un Aldair
cambiato.
Sono parte di qualche cosa che si stende fra uno ieri dimenticato e un domani inconoscibile. Sono un
anello di una catena che non conosco. Un anello come l'Aghiir Tharrin, Nhidaaj, e la creatura con gli
occhi gialli, che non si confonde con il resto del mondo.
E che cos'altro diventerò? A quali eventi dovrò assistere? Che cosa devocercare?
Non so dirlo. So solo che devo andare avanti per la mia strada. E che non posso interrompere la mia
ricerca più di quanto non possa arrestare i battiti del mio cuore.
Il compito che mi è stato affidato mi rende fastidiosa, e talvolta paurosa, la compagnia degli altri uomini.
Certe volte, mi sembra che persino Rheif e Signar parlino in lingue che non comprendo.
Talvolta, mi pare che qualcosa della magia che aleggiava nel giardino di Lady Shamma abbia preso il
mare insieme con me. Spesso ho la sensazio-ne che il tempo non mi tenga più legato a questo mondo.
Strani pensieri si aprono facilmente la via nel mio cervello: e sono pensieri che non appartengono a me.
Infinite volte, mi sveglio in preda a sogni che non capisco.
Chi sono?
Che cosa mi sta succedendo?
Sono domande che non ho mai posto a nessuno.
Io sono soltanto Aldair dei Venicii.
Vengo da un angolino insignificante della Gaullia, che non ha mai rivestito interesse per alcuno. Solo
che, oggi, non sono più l'Aldair di un tempo...
«Dobbiamo dir loro qualcosa», ringhiò Signar. «E presto. Una ciurma ha i suoi diritti, Aldair». Lo guardai.
Signar. Il vikoniano. Candidi gabbiani tracciavano cerchi aerei in un cielo grigio.
«Che cosa vuoi che gli dica?» chiesi.
Signar si morse un labbro.
«Se davvero gli dici dove stai andando», fece, «non ti seguiranno più».
«E se non dico nulla, alla fine mi abbandoneranno lo stesso. Il dilemma è cornuto, Signar. Ma la risposta
è semplice. Non dirò nulla». Signar scosse la grande testa pelosa.
«I marinai non sono sciocchi, Aldair, anche se tu sembri pensare il contrario. Hanno occhi, sanno leggere
le onde e le correnti. Fra poco, sapranno anche loro. E sono gente superstiziosa, di questo puoi esser
sicuro. Non appena avranno capito dove li stai portando, non seguiranno più alcun ordine: né tuo, né
mio». Guardai il vikoniano con sorpresa.
«Certo, Aldair. Non obbediranno neppure a me. Ma io non li abbandonerò. Sono un marinaio come loro,
in fondo. Ricordi?»
«No. Tu non sei come loro».
«E invece sì. Sono più duro di tutti, più furbo di tutti, come deve essere un capo. Ma sono come loro.
Non vedo dèi e dèmoni spuntare sotto ogni onda: ma non arriverò mai al punto di ingannarli
deliberatamente».
«... Dovestiamo andando... »
«Non chiederò loro di seguirmi fino a... a quel posto», risposi a Signar,
«Andrò oltre, amico mio».
Il vikoniano mi rivolse uno sguardo sbigottito. «E dove hai intenzione di andare, allora? Potremmo dir
loro questo, almeno».
«... Dove stiamo andando... »
Mi avvolsi il mantello attorno al corpo per difendermi dal gelo, e fissai il mare.
«Non lo so, amico mio. Non lo so...»
Passò un lungo istante, quindi il vikoniano emise un lungo respiro. «Devi farlo per forza, Aldair?»
«Sì...»
«Ti credo. E so che lo farai. Non permetterò che né questa nave ne questo equipaggio ti impediscano di
fare fino in fondo quello che devi, amico mio».
Si allontanò senza guardarmi.
Capivo il suo spirito.
Ma già sapevo che...
TRENTA
...la mia cronaca sta per finire; e, finendo, si avvicina al suo inizio. Perché ora so di aver appena
cominciato il lavoro che mi è stato affidato. Ho aperto una porta, e ho visto ciò che c'era al di là.
Ho acquisito nuove conoscenze.
E ho appreso che la conoscenza è più preziosa dell'oro zecchino, e più
mortale delle Legioni di Rhemia.
Fra tutte le cose del mondo, è quella che deve essere pesata con la cura maggiore, e divisa con la
massima saggezza.
Tre creature soltanto hanno letto ciò che è vergato su questi fogli. Una è
Signar il Vikoniano. Un'altra è Thareesh, un arciere di Niciea che ancora vive, anche se l'avevo dato per
morto nel deserto. L'ultima è Rhalgorn, consanguineo di Rheif lo Stygiano, che brandisce una spada
antica quanto la storia, e possiede il dono della seconda vista.
Ma queste figure appartengono ad un'altra vicenda, che deve ancora cominciare. Mentre non ho
neppure finito quella che sto raccontando... Era già un'ora dopo l'alba, ma c'era poca luce sull'acqua. Il
cielo di piombo nascondeva il sole e incombeva sul mare gelido. Era una di quelle mattine in cui ogni
suono sembra soffocarsi sul nascere, e un uomo ha la tentazione di camminare con passi pesanti per
sentire il rumore dei suoi stivali.
Solo grazie al coraggio di Signar il nostro vascello si era avventurato su quelle acque. Che cosa avesse
detto la ciurma, non lo so. So soltanto che anche se tutti temevano l'isola più della morte stessa, e
sentivano il suo gelo attorno ai loro cuori, tuttavia temevano di più il vikoniano. Così, ancora una volta
mi trovai ai remi di una piccola barca al largo delle cupe scogliere di Albion. E, ancora una volta, non ero
solo.
Perché un uomo si aspettava così poco dai suoi amici? Forse perché conosce se stesso troppo bene, e
non riesce a capire per quale motivo qualcun altro debba sacrificarsi per lui.
Avevo appena accostato i remi agli scalmi, quando una figura alta e scarna scese lungo la fiancata e salì
sulla mia barca.
Non dissi nulla.
Lo stygiano mi guardò con aria solenne, e si strinse un mantello intorno alle spalle.
«Senza dubbio», fece, «se quella tetra isola che tanto brami è davvero popolata soltanto dalle anime dei
morti, la selvaggina sarà ancora abbondante, e ci saranno belle lepri grasse, pronte per essere prese».
Non riuscii a guardarlo negli occhi.
«Sì», risposi. «Certamente è così, Rheif...»
Alzai gli occhi per guardare il vikoniano appoggiato alla fiancata. Sapevo ciò che stava pensando. Persino
la semplice discesa fino alla mia barca aveva affaticato oltremisura lo stygiano. E tutti e due sapevamo
che non aveva più grande interesse per i leprotti, perché il dardo di Linius aveva liberato un veleno nel
suo corpo, e il suo stomaco non era in grado di trattenere più neppure il vino annacquato. I
miglioramenti mostrati durante il tragitto verso il nord erano stati effimeri. Signar ed io lo sapevamo
bene, anche se non ne parlavamo mai.
Anche Rheif lo sapeva. Ma lui era uno stygiano, e in vita e in morte i membri della sua razza sono
creature incredibilmente ostinate. Perciò non lo guardai, ma mi accigliai e mi morsi a sangue un labbro.
Rimasi taciturno, come se fosse grande fatica manovrare i remi nell'acqua di quel mare, che era calmo
come uno stagno.
Mi concentrai sulla voga, e in questo modo impedii alle lacrime di salirmi fino agli occhi.
Nel tardo pomeriggio le nubi si divisero, e il sole autunnale temperò il gelo. Avevamo preso terra presso
la foce di un piccolo fiume. La sua corrente non era forte, per cui decisi di risalirne il corso fino
all'entroterra. Il fiume era stato un suggerimento di Signar. Non volevo avere nulla a che fare con le
scogliere minacciose che Rheif ed io avevamo visto presso le coste dell'isola durante la nostra fuga dai
Tarconii. Perciò il vikoniano ci trovò un approdo meno difficile, proprio a nord del punto in cui il canale
fra Albion e la Gaullia si restringe.
Per un po' ci muovemmo tra fitti ciuffi di vegetazione. L'acqua era cupa, e l'odore di legno marcio era
molto forte. La nostra barca tagliava con la prora banchi di canne palustri, che si dividevano come grano
sotto la falce. Tutto intorno si vedeva una grande abbondanza di pesci e di uccelli. Grandi stormi di
aironi dalle lunghe gambe aspettavano quasi che fossimo loro addosso, prima di spalancare le ali e
prendere il volo. Le paludi attorno alla foce finirono, e il fiume si restrinse. Remai sotto l'ombra di grandi
querce, cariche di fogliame rosso e dorato. Le chiome degli alberi immensi si aprivano sopra le nostre
teste, e attraverso di esse i raggi del sole mandavano sottili lame di luce a riflettersi nell'acqua.
Su entrambe le rive la foresta era piena di selvaggina. Era così densa di vita che, ovunque poggiassimo lo
sguardo, coglievamo un movimento. Quelle creature non avevano più timore di noi di quanto ne
avessero i grandi stormi di uccelli marini. Si vedevano scoiattoli, castori, otarie a profusione. E tanti di
quei leprotti grassi quanti Rheif avrebbe potuto sognarne in un'intera vita di cacciatore.
C'erano caprioli, daini dagli occhi rotondi, e grandi cervi dalle immense corna ramificate. La loro vista mi
rallegrava, perché questo genere di selvaggina era divenuta scarsa in Gaullia negli ultimi tempi, anche
nelle regioni più a nord. E anche se la mia gente non consuma carne e solo carne, come gli Stygiani e i
Vikoniani, tuttavia un bell'arrosto di cervo nelle occasioni festive è sempre uno spettacolo invitante.
Prima del tramonto, portai a riva il piccolo scafo e accesi un fuoco. Non volevo che Rheif sentisse freddo,
e nell'aria correva un brivido di gelo.
Soltanto allora cominciai a rivolgere seriamente le mie attenzioni alla cacciagione. In quel luogo non
c'era bisogno di accorgimenti particolari per fare un buon bottino, e dopo essermi mosso di pochi passi
dal campo, grazie al mio arco e alle frecce uccisi un capriolo e varie lepri. Scuoiai rapidamente le mie
prede. Misi ad arrostire le lepri, ed esposi al fuoco la carne del capriolo, perché si affumicasse.
Né io né Rheif avevamo parlato molto durante il giorno. Lo stygiano non era più di temperamento
ciarliero, ed io avevo il mio daffare per ma-novrare la barca. Mi ringraziò per le lepri, e disse che erano
deliziose. Ma ne mangiò appena un boccone. La cosa mi rattristò, perché di ogni altro cibo, la lepre
arrosto era il suo favorito. Ma la toccò appena, limitandosi poi a guardare la carne con occhi tristi, come
quelli di un vecchio che vede passare una bella fanciulla, e si ricorda di gioie che ormai non può più
condividere. Se all'intorno c'erano dèmoni e anime di trapassati, per quel giorno non si fecero vedere, e
neppure durante la notte.
Strano, pensai.
Sul mare e nel porto di Vhiborg ero pieno di tremende paure. Ero diventato una persona diversa.
Differente dai miei compagni. I miei stessi pensieri sembravano appartenere a un altro Aldair. Ma, sopra
ogni cosa, ero un figlio della mia gente, e la Chiesa mi aveva instillato un sacro, insopprimibile terrore di
questo luogo. Tuttavia, nel momento stesso in cui poggiammo il piede su Albion, i miei terrori svanirono.
Come potevano ancora sussistere! mi chiesi. Infatti ormai, nel mio cuore non c'era che pace. Ero di
nuovo me stesso. Mi trovavo sull'isola in cui nessun uomo osava avventurarsi, e avevo visto che era un
luogo bellissimo, pieno di foreste e di selvaggina d'ogni sorta. Per quale motivo ero arrivato fin qui,
dunque?
Per un momento, mi chiesi se non ero stato un gigantesco sciocco. Forse, la strana creatura che avevo
visto nel deserto e che mi aveva spinto verso Albion, era soltanto un sogno. Un frutto della mia
immaginazione. Sapevo, tuttavia, che non poteva essere così.
Continuammo a risalire il fiume per tutto il secondo giorno e parte del terzo. Intorno a noi continuava a
snodarsi il medesimo scenario. Le acque ci portarono prima stabilmente verso sud, poi piegarono verso
occidente. Gli alberi si diradarono, e le sponde del fiume si fecero più alte. Non avevo la minima idea di
dove ci stessimo dirigendo, ma sapevo che il canale che divide la Gaullia da Albion si trovava nella
direzione del nostro viaggio, e mi sembrava che la nostra destinazione fosse quella giusta. Se si doveva
credere alle leggende, in quei cieli un tempo brillavano luci azzurre. Speravo di non vederle, e speravo di
non incontrare gli spiriti che si diceva dimorassero in quei luoghi.
«Non hai paura di questo posto, vero?», mi chiese Rheif, mentre camminavamo dopo aver lasciato la
barca.
«No», gli risposi. «Non ne ho paura. Anche se forse dovrei. Ma anche se questo posto appartiene
davvero ai morti, Rheif, evidentemente essi non si interessano gran che alle faccende dei vivi». Guardai
lo stygiano. «A te questa terra incute timore?»
Rheif sogghignò prima di rispondermi. «Niente mi fa più paura, Rheif. In qualche modo, sono oltre ogni
timore».
Non risposi, e mi misi a guardare all'intorno, come se qualcosa nella macchia di biancospini che avevamo
davanti mi interessasse molto.
«Ti dirò questo, tuttavia», continuò Rheif. «Di me ormai non è più rimasto quasi nulla, ma sono ancora
uno stygiano. E tu sai che noi possediamo dei sensi che non sono stati concessi alle altre razze. Io ho
udito i passi degli elfi dei boschi nel profondo dei lauvectii, e queste creature camminano in modo più
leggero dei ragni. Una volta sentii una musica strana emergere da una polla d'acqua, e in fondo ad essa
vidi un singolo occhio nero, anche se nessun altro dei guerrieri che erano con me riuscì a discernere
alcuna di queste cose. Ebbi una grande paura, quella volta, perché ero certo di trovarmi in presenza di
uno spirito di qualche sorta. Ti dico questo per farti capire che gli Stygiani non soltanto riescono a
percepire la lepre che trema in fondo a un cespuglio, o a contare le penne di un falco che circola alto nel
cielo. Essi riescono ad avvertire anche la presenza di qualsiasi creatura senza carne, di qualsiasi spirito o
demonio che si aggiri nei paraggi. Ed io non ho visto né percepito alcuna di queste creature su
quest'isola, Aldair, anche se su di essa abitano molti più esseri vivi di quanto tu possa immaginare.
Animali che tu non puoi sperare di scorgere con i tuoi sensi limitati, anche se di ciò non hai colpa».
Dopo aver detto questo, Rheif si appoggiò pesantemente contro un albero, come se fosse esausto per lo
sforzo. Era da molto tempo che non faceva un discorso così lungo. Dopo averlo ascoltato, anche se non
avevo alcuna paura per gli spiriti di Albion, tuttavia sobbalzavo ad ogni lepre che ci attraversava di corsa
il cammino. Le parole di Rheif non avevano calmato le mie inquietudini e i miei dubbi, perché gli Stygiani
sono grandi bugiardi, e sono sicuro che Rheif era davvero convinto che io gli credessi, quando diceva di
poter contare le penne di un falco in volo.
Più tardi, nel pomeriggio, arrivammo ad una grande rupe coperta d'erba. Si sollevava appena al di sopra
della cima degli alberi, e non era troppo ripida; potevo vedere, tuttavia, che si stendeva per miglia e
miglia, e non poteva essere evitata. La scalammo lentamente, e Rheif non mi parve troppo esausto per
lo sforzo, anche se ad un certo punto si appoggiò ad un grande albero e dichiarò solennemente che
quello era un ottimo posto per riposare qualche minuto. Mi spostai verso l'orlo della rupe e guardai giù.
Vidi l'addensarsi della foresta... e le ossa bianche di una città morta che spuntavano tra il fogliame rosso
e oro. Era stata una grande città.
Molte migliaia di persone dovevano averci vissuto, perché i suoi resti si allargavano a perdita d'occhio.
Grazie all'Aghiir Tharrin avevo acquistato una certa conoscenza di queste cose, e sapevo che c'era molto
più da vedere di quanto l'occhio non riuscisse a cogliere. E molte altre cose si erano perdute col tempo.
Il calore, il gelo e l'insulto degli anni aveva chiesto il loro prezzo. Anche la pietra più
dura, prima o poi diventa polvere.
Qualcosa, tuttavia, si poteva intuire.
Alcune delle grandi dita scheletriche che si levavano verso il cielo erano ancora due volte più alte delle
querce giganti che crescevano ai loro piedi. La loro imponenza mi strabiliò. Se quella città era antica
quanto le rovine dei Tarconii, molti dei suoi edifici, ai loro tempi dovevano essere quattro o cinque volte
più alti di quanto oggi non apparissero!
Non riuscivo ad immaginare l'aspetto di un posto del genere, ma doveva essere di certo la città più
imponente che fosse mai sorta sul nostro pianeta!
All'interno della città si spingeva una lingua di terra piatta, che scompariva verso sud-ovest. Era a non
più di un giorno di cammino da noi, e si snodava pigramente fra le rovine, come un fiume che si dirige
verso il mare. Forse un tempo lo era stato davvero, e quello che vedevo era soltanto il suo letto
disseccato. Rimasi fermo a guardare quella strana conformazione fino a che il sole non discese oltre
l'orlo dell'occidente. Desideravo grandemente di avere al fianco l'Aghiir Tharrin, con cui confrontare le
mie opinioni. E poi, come si sarebbe meravigliato anche lui, a quella vista! E quante cose i suoi occhi
esperti avrebbero saputo leggervi.
Dietro di me, Rheif annusò l'aria col naso grigio.
«È questo che sei venuto a cercare, Aldair?»
«Non lo so», gli risposi onestamente. «Di certo, non è quello che mi aspettavo di trovare». Rheif emise
un profondo sospiro.
Ti dirò una cosa», fece poi. «Io non so nulla dei fatti del passato, al contrario di te. Ma sono certo che
coloro che hanno ammucchiato tante case l'una in cima all'altra, non sono sicuramente le anime dei
morti». Il sole scomparve, e un brivido di gelo percorse la cima della grande rupe. Rheif aveva parlato
per entrambi, e aveva posto un problema che mi fece star sveglio per gran parte della notte.
Non erano state le anime dei morti a costruire la città sepolta lungo la costiera dei Tarconii, e neppure le
due antichissime strutture che spuntavano dal mare presso Xandropolis. E se non erano stati i morti, chi
mai aveva realizzato quelle meraviglie?
TRENTUNO
Quella mattina, discesi la rupe e mi inoltrai nella città. Dissi a Rheif che, pure se mi sarebbe piaciuto
godere della sua compagnia anche per quel giorno, tuttavia sarebbe stato meglio se lui fosse rimasto
vicino al nostro campo, tenendo gli occhi aperti: eravamo in una terra strana, e tutto poteva succedere.
Aggiunsi che se avessi avuto bisogno di lui, glielo avrei segnalato con una freccia fumogena.
Lo stygiano riconobbe che il mio consiglio era saggio, e promise che sarebbe stato attento a scorgere un
mio eventuale segnale di soccorso. Entrambi dicemmo queste cose come se fossero state vere; ma
sapevamo tutti e due che a Rheif ormai rimaneva a malapena la forza sufficiente per tenere ritto il suo
magro corpo. Gli lasciai cibo ed acqua a portata di mano, e andai incontro al mio destino.
Mentre scendevo, potevo sentire sulla nuca gli occhi del mio amico. Ma non mi voltai a guardarlo. C'è
poco che io possa dire della città. Un'intera vita di lavoro non sarebbe bastata per rivelarne i segreti,
coperti e custoditi dal tempo. La terra gelida e le radici delle querce giganti vigilavano la tomba in cui era
sepolta una vita lontanissima da noi. Camminai sotto alberi silenti, aprendomi la strada tra le felci
ancora umide per la rugiada del mattino. Seguii una linea di pietre squadrate e regolari, che finivano per
scomparire sotto una collinetta erbosa; immaginai che un tempo segnalassero una grande via di
comunicazione, che i miei stivali calpestavano senza riconoscere.
Verso mezzogiorno raggiunsi la riva di una palude d'acqua salmastra. Al suo centro si vedeva spuntare
una struttura in rovina, che emergeva appena dalle acque. La studiai per qualche minuto, poi mi
allontanai rapidamente. Non mi piaceva l'odore che aleggiava in quel luogo. Sapevo, poi, che le zone in
cui ristagnano le acque esalano miasmi che diffondono febbri perniciose. Tornai nella foresta. Mi riposai,
e mi misi a pensare. Là dove secondo i Buoni Padri della Chiesa dovevano albergare le anime dei morti,
c'erano soltanto le ossa sbiancate di un passato ignoto.
Un'importante scoperta, la mia. L'Aghiir Tharrin ne avrebbe convenuto. E così Nhidaaj.
E la creatura con gli occhi gialli? Che cosa ne avrebbe pensato? Mi aveva forse spinto fino ad Albion
proprio per farmi scoprire questo?
E poi, era stata proprio quella creatura, a spingermi a sbarcare sull'Iso-la dei Morti?
All'improvviso provai ira e vergogna verso me stesso. Dove mai avevo tratto l'idea che mi fosse stata
assegnata una parte misteriosa da recitare in un dramma oscuro e segreto?
Tutto ciò che mi era capitato ultimamente si intonava col sapore del vino drogato nella mia coppa, e col
fulgore di occhi gialli che scrutavano dall'ombra di un cappuccio nero... Sei destinato a una ricerca,
Aldair... Ci sono molte cose che devi fare,Aldair...
Bene, chiunque tirasse le fila di tutto ciò, aveva sprecato i suoi «terribili segreti», con Aldair dei Venicii.
Avevo scoperto una città morta. Sapevo che il Mondo di Poi, se pure esisteva, di certo non si trovata ad
Albion, che era un'isola come tutte le altre. Sapevo che il mondo reale è molto più antico di quanto
non sostenessero i Buoni Padri e i preti di Niciea. L'uomo aveva perduto una parte del suo passato.
Era una meraviglia così grande, questa consapevolezza? Se Silium e Culivia e Rhemia stessa crollassero in
rovina un giorno, non sorgerebbero forse altre città per prendere il loro posto?
All'improvviso, mi sentii molto stanco.
La mia patria, il mio posto, erano nel paese dei Venicii. Il mio destino vero era quello di assolvere le mie
mansioni di uomo, là dove gli uomini erano sempre troppo pochi. Vagare per il mondo alla ricerca di
strane avventure non mi avrebbe procurato alcun vantaggio. Tuttavia, decisi, doveva esserci una
qualche risposta a tutti i «tenebrosi segreti». È nella natura dell'uomo la ricerca della conoscenza. E, se
nessu-na conoscenza vera può venire alla luce, la tendenza naturale spinge a cre-dere che vi sia
comunque una conoscenza di qualsiasi genere. Così, i Buoni Padri e i preti di Niciea avevano finito per
assumere una statura superiore alle loro stesse figure, perché conoscevano «cose segrete», proibite agli
uomini comuni.
E l'Aghiir Tharrin, Nhidaaj e il suo misterioso amico?
I loro segreti, semplicemente, erano diversi dai segreti degli altri. In tutto ciò, non c'era nulla per me.
Io non avevo alcun desiderio di aggiungere una nuova religione o una nuova società segreta a quelle che
già infestavano il mondo. Non ero mai diventato un altro Aldair... Ero soltanto un Aldair ormai
convinto che nel mondo ci fosse qualcosa di più rispetto a quello che si vedeva in superficie...
Una scintilla di colore mi catturò l'occhio, e colsi il volo rapido e nervoso di un piccolo uccello rosso nel
fogliame al di sopra della mia testa. Era poco più grande di una cavalletta, e tuttavia sembrava che
considerasse l'immensa quercia interamente sua. Lo guardai muoversi da un ramo all'altro in brevi voli
ondeggianti. Fece diversi viaggi fino a terra, circondando il tronco per poi sparire nell'intrico dei rami.
Seguii per un po' il suo lavoro, poi mi dimenticai di lui e mi misi a studiare la porzione di rovine presso le
quali cresceva il grande albero. Era un manufatto dall'aspetto strano, piuttosto circolare che squadrato,
come molte altre delle strutture che avevo visto.
Avvicinandomi per esaminarlo meglio, vidi che era qualcosa di davvero insolito. Rotondo, più largo di un
uomo, alto quasi la metà. Era cavo, come un tubo, e verso la cima si piegava ad angolo retto. Non era
fatto di pietra, ma della sostanza grigia e resistente che tante volte avevo osservato fra le rovine dei
Tarconii. Era un materiale straordinariamente solido. Sulla struttura, che avevo davanti, gli anni avevano
lasciato soltanto scarse tracce. Girai attorno all'oggetto, chiedendomi che cosa potesse essere. Trovai
un'apertura, vi infilai la testa, e scrutai nel buio.
Subito mi ritrassi, con un grido di sorpresa.
Un soffio d'aria calda s'era innalzato dalla cavità centrale per venire incontro alla mia faccia!
Non mi ero potuto sbagliare. Un brivido mi corse lungo la schiena. Aria calda? Avevo già deciso che
quell'oggetto doveva essere un camino di qualche sorta. Una struttura del genere, connessa a
condutture sotterranee, avrebbe dovuto trarre aria fredda dal profondo della città. Ma non aria calda.
Come poteva esserci aria calda, lì sotto?
Trovai degli scalini di ferro infissi all'interno del tubo. Non esitai. Se lo avessi fatto, non sarei diventato
ciò che sono. Raccolsi diversi rami secchi che intendevo usare come torce, mi infilai nel tubo misterioso,
e cominciai a scendere.
Passò molto tempo prima che i miei stivali toccassero di nuovo il terreno solido. Questo era strano,
pensai. Il livello del suolo non poteva essere così
basso. Poi mi ricordai delle rovine dei Tarconii. Alcuni ambienti erano stati costruiti sotto la superficie.
Quei luoghi in genere erano invasi dall'acqua, e raramente vi si trovava qualcosa di interessante. Ma
quella in cui mi trovavo era una struttura sotterranea tutta particolare. Avevo misurato la distanza fra un
gradino e l'altro, e contato i gradini. Ero sceso a più di trenta metri sotto terra.
Una striscia del mio mantello mi servì da esca. L'avvolsi intorno all'estremità di un ramo e l'accesi con il
mio acciarino. La base del tubo era ingombra di detriti e di foghe. Lo strato di depositi poteva essere
spesso un metro, come cinquanta: impossibile dirlo. Molto probabilmente, tuttavia, doveva essere
piuttosto alto. Nel corso dei secoli, si accumula una quantità incredibile di materiale. Quanti secoli?
Cinquanta? Sessanta? Di più ancora?
Davanti a me c'era una porta rotonda, attraversata da sottili aperture. Era grande abbastanza da farvi
passare un uomo. L'aria calda veniva da lì. Un tempo, doveva essere munita di una maniglia di ferro, ma
al suo posto c'era oggi soltanto una macchia di ruggine. Infilai la lama della spada fra porta e stipite, e
feci forza. Si aprì senza difficoltà. Sentii che il soffio d'aria calda si faceva più forte. Mi inoltrai nello
stretto passaggio, avanzando per una ventina di metri. Alla fine, trovai un'altra porta, di materiale simile
alla pietra. L'aprii e, stavolta, trovai un passaggio in discesa. Lo percorsi per una decina di metri. La torcia
era prossima a spegnersi, e subito ne accesi un'altra. Decisi, a questo punto, di non spingermi troppo in
avanti nella mia esplorazione. L'idea di dover trovare la strada del ritorno al buio non era di mio
gradimento.
Mi trovavo in una stanza non troppo grande. Tutto all'intorno c'erano aperture dalle quali entrava aria.
La stanza era pulita. Sul pavimento, non una traccia di polvere. Non riuscivo a capire come ciò potesse
essere. Sembrava quasi che gli abitanti di quel luogo se ne fossero andati non più
tardi del giorno prima!
Quel pensiero - mi dissi - avrebbe dovuto mettermi molto a disagio. C'era una porta di metallo, ancora
intatta.
Era dipinta di grigio, come il resto della stanza. Si aprì facilmente, senza il minimo cigolio.
Mi fermai, trattenni il respiro, afferrai l'elsa della spada che portavo alla cintola.
Davanti a me, fisso sul mio volto, brillava un occhio rosso-sangue. Attesi, con il cuore in tumulto, finché
vidi che l'occhio non si muoveva, né mutava l'intensità del suo lucore.
Studiai la cosa con cautela.
Non era un occhio, ma una specie di piccolo sole fisso nella parete proprio davanti alla porta. Lo osservai
per lunghi momenti, e ne rimasi stupefatto. Era più brillante di qualsiasi gemma, e ardeva senza il più
lieve palpito. Era come un fuoco profondo e freddo, incredibilmente stabile, che bruciava senza mai
consumarsi. In tutto il mondo, non c'era una lampada simile.
All'improvviso, sentii freddo di nuovo.
Forse - pensai - i Buoni Padri avevano ragione. Chi altri, se non il Creatore stesso, poteva aver dato
origine a una cosa del genere?
Passai di corsa davanti al sole rosso, ed entrai in una sala vuota. Non c'era nulla: soltanto un altro sole
rosso infisso nella volta, davanti alla porta, e una stretta scalinata che portava verso l'alto. Alla fine dei
gradini trovai una porta che si apriva nel buio. La luce della mia torcia era soltanto un breve circolo di
chiarore intorno a me, e non potevo vedere nulla. Feci un passo. Poi un altro.
E rimasi di gelo, immobile. Sentii la mia voce che gridava di paura. Perché, all'improvviso, la stanza si era
riempita di luce. E in vista non c'erano torce né candele, e neppure i piccoli soli rossi. Ma c'era la luce, ed
era... lì.
Buio. Poi luce.
E, in quella luce, il mio vecchio mondo morì. Non potrà mai più essere lo stesso. Né io sarò mai più di
nuovo Aldair dei Venicii. D'ora in poi, sarò qualcun altro.
E nessuna creatura sulla Terra sarà più ciò che era prima...
EPILOGO
Ci ho pensato molto.
Ho meditato a lungo su ciò che dovevo dire, e sul modo migliore di raccontarlo a quanti leggeranno le
mie parole. Un anno fa, alla fine degli eventi che ho descritto, decisi che avrei narrato ogni cosa nei
minimi dettagli, anche se ciò avrebbe comportato l'ingresso delle mie personali emozioni nel racconto.
Ora sto finendo questa cronistoria sul ponte della mia nave, molto a sud del territorio dei Tarconii, oltre
gli stretti del Mar Meridionale. La piccola baia in cui siamo ancorati è rigogliosa di piante verdi e di
cespugli intrecciati. È la stessa regione in cui si trovano Chaarduz e l'Impero Nicieano: ma quei luoghi
sono molto a nord est rispetto a noi, e per quel che ci riguarda potrebbero essere in un altro mondo. Mi
sento come in un osservatorio isolato nel tempo e nello spazio, da cui posso analizzare meglio gli eventi
dell'anno appena trascorso. So che molte delle cose che potrei narrare non sarebbero capite. So anche
che la paura, la solitudine, il dolore che ho provato e provo non possono essere comunicati ad alcuno.
Chi leggerà queste pagine proverà delle emozioni, che saranno sue: non potrà mai condividere i miei
sentimenti. È per questo che ho raccontato, e racconterò, soltanto ciò che ho visto. Ciò che ho sentito,
ciò che ho provato e provo, non si rifletterà nei miei scritti.
E, anche così avrò molto da raccontare...
Quando la luce mi avvolse d'improvviso, vidi che mi trovavo in una sala immensa, che sembrava non
avere fine. Sotto i miei stivali, il pavimento era nero, duro, scintillante. A destra e a sinistra, le pareti
erano traforate da finestre grigie che parevano aprirsi sul nulla. Alla più lontana estremità
della sala, c'erano scaffali del vetro più trasparente che avessi mai visto, e all'interno di essi c'erano cose
disposte evidentemente perché potessero essere studiate. Come nella stanza più piccola da cui venivo,
non c'era polvere. Come una cosa del genere potesse essere, non so dirlo.
Le finestre grigie non davano sul vuoto. Quando mi fermavo davanti ad una di esse, mi apparivano figure
straordinarie.
Non erano le immagini che si possono ammirare in un quadro. Si muo-vevano, parlavano, emettevano
suoni, ed erano rappresentazioni fedeli di cose accadute in tempi remoti.
Man mano che le finestre prendevano vita, vidi rinascere piccoli pezzi di storia. Era come se spiassi da
dietro le spalle di qualcuno che era testimone diretto degli eventi. Non so come sia stato possibile
realizzare un simile miracolo: ma era una cosa tremenda e meravigliosa insieme. Riferirò soltanto di
alcune delle scene cui assistetti, perché davanti ai miei occhi trascorsero infinite immagini.
Vidi battaglie combattute in età lontanissime da guerrieri primitivi che non portavano armatura e
usavano armi rudimentali. Vidi popolazioni che vivevano presso il mare in rozze capanne di fango. Vidi
piccoli villaggi trasformarsi in grandi fortezze di pietra. Quei luoghi erano vigilati da uomini ricoperti di
vesti lacere, che si difendevano con scudi di legno e cuoio.
Poi sorsero centinaia di presidii di pietra, ciascuno dei quali dominava su una fetta di territorio,
confinante con analoghi territori tutto intorno. Quei piccoli regni mutavano spesso il Signore. Alla fine,
riconobbi i rossi pennoni della Lega Hectanica, e la Prima Confederazione delle Tribù. Sotto il dominio
dei Vertiginiani, quell'alleanza fu il seme da cui sorse l'Impero Rhemiano.
Poi vidi altre scene, che figuravano l'origine delle genti nicieane e vikoniane. La migrazione degli Stygiani
verso est. La riduzione dei Cygnani nel ruolo di schiavi. La vita semplice dei Tarconii.
Alcune delle finestre grigie non presero vita, e quindi non possono raccontare le storie che celavano. La
voce che accompagnava le vicende parlava in lingua rhemiana, ma con uno strano accento, e una
pronunzia che non avevo mai udito prima.
A metà della sala, vidi le prime immagini delle creature...
Ho detto all'inizio che avrei cercato di lasciare le mie emozioni fuori da questa cronaca. Cercherò di
attenermi al mio proposito, raccontando semplicemente ciò che ho visto. Ma non sarà una cosa facile.
Erano creature quali mai nessuno uomo ha osservato.
Alte. Quasi senza peli. Alcune con la pelle rosea, altre nera. Anche un cygnano con il vello appena tosato,
non sarebbe apparso così nudo e ripugnante!
I loro volti erano quasi privi di lineamenti. Per naso avevano una piccola escrescenza carnosa di forma
triangolare. Gli occhi erano accostati l'uno all'altro. Per bocca, una specie di taglio rossastro. Orecchie
piccole, e aderenti al cranio. Da dove veniva quell'orribile razza? Dov'era andata?
Non conoscevo la risposta a queste domande, ma presto capii che erano stati loro a costruire quel
posto miracoloso. Che la città sepolta nella foresta di Albion era loro. Molte delle finestre grigie
mostravano immagini difficili da comprendere. Le creature viaggiavano a bordo di strane macchine:
alcune aderenti al terreno, altre libere nel cielo. Entravano e uscivano da edifici così alti che la mente
non riesce a concepirli. Facevano centinaia di cose il cui significato era impossibile da penetrare.
....E poi, all'improvviso, ricordai.
Avevo già visto quelle immagini, in un sogno che non era stato un sogno. Immagini delineate su pareti
polverose, in un luogo in cui avevo parlato con una creatura dagli occhi risplendenti di pagliuzze gialle.
Vengo ora ad una parte della mia storia che è difficile da riferire. Perciò, mi limiterò a trascrivere le
parole così come mi vengono in mente, sperando di essere capito. Ancora una volta (anzi, più di prima)
non mi sarà facile mantenere la mia promessa di lasciar fuori i miei sentimenti, e di non colorare troppo
queste carte con le mie emozioni.
In una finestra, vidi le creature portare a terra le loro macchine alate, e depositare grandi file di piccole
capsule scintillanti in pozzi sotto la terra. Dove ciò accadesse, non lo so. Poteva essere una località
qualsiasi della Gaullia, o più a sud, nel cuore dell'Impero Rhemiano.
Per un lungo periodo le capsule rimasero lì, mentre le creature andavano e venivano intorno ad esse,
osservandole e studiandole. Poi, come se fosse stato dato un occulto segnale, le capsule si aprirono da
sole. All'interno c'erano corpi nudi. Immobili, come morti. E quegli esseri silenziosi erano creature come
me...
I corpi si sollevarono. Uscirono dalle loro bare lucenti. Sembravano semi-addormentati, non consapevoli
di dove si trovassero. Girarono intorno, senza far nulla, fino a che le creature senza peli non aprirono
altri contenitori depositati dalle macchine volanti. All'interno c'erano abiti e armi primitivi, e diversi altri
utensili adatti ad una razza appena nata.
La voce parlò, affermando che quello era un inizio. Parlò di «unità» che venivano depositate sulla collina
come prima fase di un'operazione più vasta. Da quelle parole, compresi che altre imprese del genere
venivano condotte altrove. Quando le creature senza peli se ne andarono a bordo delle macchine
volanti, i corpi presero rapidamente vita. Si radunarono sulla loro collina solitaria, indossarono le loro
vesti lacere, strinsero al petto le armi primitive. Si fissarono l'un l'altro per lunghi momenti, poi
finalmente uno del gruppo fece un gesto eccitato verso un'altra direzione. L'immagine scivolò
rapidamente attraverso l'aria per mostrare ciò che veniva indicato da quel gesto: un altro gruppo, su
una collina uguale. (Più tardi, appresi che questa era la spiegazione delle luci azzurre che si vedevano su
Albion. Si trattava di macchine volanti progettate allo scopo di riprendere immagini dall'alto e di
trasmetterle da un punto all'altro. Evidentemente, alcune di queste macchine hanno continuato a
funzionare da sole a lungo, anche dopo la fine dei loro padroni).
I due gruppi si studiarono, e parlarono fra loro. Alla fine, ciascuno risalì
le pendici della propria collina, e si nascose nei boschi, lontano dalla vista dell'altro.
Il mio cuore gridò di vergogna, per questo. Perché sapevo di aver assistito all'origine del mio mondo...
C'erano altre immagini.
Feci forza su me stesso e le guardai. Vidi molte cose che non avrei mai voluto sapere.
Vidi come la mia razza era stata «creata» dalle creature senza peli. Come nelle nostre menti erano stati
instillati concetti e comportamenti, con sistemi che non riuscivo a immaginare. Non descriverò lo
spettacolo di cose simili a me prigioniere in tubi di vetro e metallo. Ma, nei miei sogni, sarò
perseguitato in eterno da quelle scene.
Ci fu altro.
Molto altro.
Molto di più di quanto possa raccontare ora.
Dirò invece delle bacheche di vetro poste lungo l'estremità più lontana della sala, e che (come appresi)
rappresentavano l'inizio, e non la fine dello spettacolo.
In quelle bacheche trasparenti c'erano animali che sembravano vivi, ma non lo erano. Erano come
immobilizzati in un atteggiamento simile alla vita. O forse erano imitazioni degli animali veri, eseguite
tanto bene da sem-brare reali. Non so dirlo. Si poteva girare attorno alle bacheche, ed esaminare gli
animali da ogni lato.
C'era una creatura pelosa ferma a quattro zampe davanti a un fiume. Era immobile, nell'atto di trarre
dall'acqua un pesce multicolore. Tanto l'acqua che il pesce sembravano reali, e così la foresta che faceva
da sfondo alla scena.
Un'altra bacheca mostrava due animali snelli e pelosi accovacciati davanti a una scura foresta invernale.
Una creatura dilaniava i resti di un'altra della sua stessa specie, mentre la seconda alzava il muso grigio
come se stesse ululando verso il cielo. Persino il suo respiro gelato sembrava reale. C'erano piccole
creature verdi con lunghe code e pelli scagliose, immobili su una roccia riscaldata dal sole... E poi animali
ricoperti da un pelo bianco e lanoso, con occhi scuri e naso roseo.... Grandi bestie dal mantello pezzato e
lunghe corna che ruminavano placide fra l'erba alta. E, alla fine, mi trovai di fronte a me stesso.
Un animale grasso, dal corpo rotondo, con piccoli piedi muniti di unghie e una coda ricurva. Lungo muso.
Orecchie pendenti. Stavo rosicchiando un po' di grano dietro una staccionata. Vicino a me c'era una
femmina stesa a terra, che allattava i suoi cuccioli.
Sotto ogni bacheca c'era un nome.
Non c'era scritto né «Vikoniani», né «Stygiani», né «Nicieani». Non chiamavano quegli animali che
camminavano a quattro zampe né Cygnani, né Tarconii, né Rhemiani.
Avevano altri nomi.
Ma non li riporterò qui...
Basti dire che nessuna delle razze che popolano la Terra sono uomini di differenti stirpi, come abbiamo
sempre pensato di noi stessi. Siamo creature... artificiali.
Siamo derivate da animali, e ci sono state concesse, non so come, mani adatte a stringere strumenti al
posto di artigli e zoccoli. I nostri creatori ci hanno messi in movimento perché ripetessimo i loro trionfi e
le loro follie.
Non capisco quale divertimento possano aver tratto da questo. Ora so che cosa veramente significa il
termine « uomo» . E non voglio più essere chiamato con quel nome.
Venne fatta questa cosa terribile.
Venimmo creati per riempire le ore oziose degli uomini.
È una verità, questa, che non può essere mutata né negata. Perché venne fatto tutto questo, è una
cosa che non so comprendere interamente. Ma ciò che ho appreso grazie alle finestre grigie mi ha
condotto a risposte che forse non sono troppo lontane dalla verità.
So che, in un certo momento della sua storia, l'uomo finì per diffondersi su tutte le terre e su tutti i mari.
I territori che noi oggi occupiamo, un tempo erano i suoi. E così le terre che non abbiamo ancora
raggiunto, e la cui esistenza neppure sospettiamo.
So che, con il trascorrere dei secoli, il numero degli uomini decrebbe, e il tempo seppellì le loro città. Se
essi abbiano scelto deliberatamente di autodistruggersi, o di ridurre il loro numero in qualche modo,
questo non lo so.
Ma so che vissero fino alla loro vecchiaia, e quelli che rimasero si riunirono alla fine in Albion. Perché
fecero ciò che fecero?
Forse, stanchi della loro stessa vita, sognarono di crearne un'altra, e di divenire simili agli dèi.
Forse l'odio, o la vergogna per ciò che erano diventati, li spinse a creare una caricatura della loro razza, e
ad ispirare una commedia ridicola tratta dalla loro storia.
Se è così, questo fu il loro più grande peccato.
Mutarci, trasformarci in parodie di loro stessi, non fu sufficiente. Non se ne sono accontentati. Hanno
voluto plasmarci a loro immagine in ognimodo, instillando precisi schemi mentali nei nostri cervelli...
Capite l'immenso orrore racchiuso in questa considerazione?
Siamo come un cavallo portato su un campo d'erba verde, ma legato a una lunga corda, fissata a un
palo.
Possiamo andare dove vogliamo: ma solo fino al limite della corda, e non oltre.
Stiamo rivivendo le loro vite, ripetendo la loro storia.
Non abbiamo nulla che sia realmente nostro.
Questo è il peccato commesso contro di noi. Non ci hanno concesso u-n'anima, che sia solo nostra...
Nella città sepolta c'erano altre grandi sale nascoste sotto terra. Alcune erano intatte, altre avevano
ceduto al tempo ed erano ridotte in polvere.
Non le esplorai tutte, ma so che erano piene di cose straordinarie: tutte le meraviglie del passato
dell'Uomo.
Lasciai tutti quei tesori nella polvere, e portai via soltanto due cose. La prima è un gioiello antichissimo
che ora è sospeso sul mio petto. È
d'oro, finemente cesellato, e tempestato di gemme. Rappresenta l'immagine di una bestia tremenda,
reale o di fantasia. Ha il corpo a scaglie come un nicieano, le ali di un uccello, la testa di una creatura che
mi ricorda l'essere che incontrai nel deserto presso Xandropolis. Le sue zampe anteriori sono munite di
artigli, quelle posteriori di zoccoli bipartiti. Ha la testa munita di corna, e un alito di fiamma realizzato
con un getto di rubini. È davvero una bestia possente: e poiché anch'io sono un animale, ne porto
l'immagine con orgoglio. Ho fatto dipingere la sua figura sulle vele della mia nave, e sugli scudi dei miei
guerrieri.
L'altra cosa che ho sottratto ad Albion è una grande spada; anche questa, incrostata di gemme.
L'impugnatura è d'oro, modellata nella forma dell'animale da cui sono discesi gli Stygiani. Volevo
donarla a Rheif, ma lui non è mai riuscito a vederla. Oggi, pende dalla cintura di Rhalgorn, che è della sua
stessa stirpe. E il buon Rheif - un nemico che è divenuto il migliore dei compagni - giace sepolto nel
suolo di Albion, su una collina che domina la vista di una città morta.
Quante volte ho desiderato di aver potuto tornare in tempo per vederlo un'ultima volta, prima che i suoi
occhi si chiudessero nel grande sonno!
Ma non penso che sarebbe stato possibile.
Sono convinto che Rheif abbia aspettato, prima di morire, fino al momento stesso in cui sono scomparso
alla sua vista. Gli Stygiani sono una razza orgogliosa e ostinata, come ho avuto modo di apprendere
bene. Comunque, lui è con me ovunque io vada, perché il nome Ahzir al'Rhaz,
dipinto sulla prora della mia nave, significa, in nicieano, «il viaggiatore dell'estremo nord».
Conosco molte cose che non conoscevo prima.
Ho compreso le radici vere della paura che colse l'Aghiir Tharrin quando seppe che il segreto da lui
trovato fra le rovine dei Tarconii era finito nelle mani dei suoi nemici. Tharrin non stava proteggendo il
popolo di Niciea, né se stesso: ma altre persone impegnate nella missione cui aveva dedicato la vita.
Io so che ci sono altre persone. Ne ho incontrate alcune, e quando siamo l'uno di fronte all'altro, ci
riconosciamo a vicenda.
So che cosa voleva da me la creatura incontrata nel deserto. È un compito che incombe come una lama
sulla mia mente, e spesso mi chiedo perché
proprio io sia stato scelto per portarlo a termine.
Forse non vedrò la fine della mia missione: ma, comunque, deve essere portata avanti. Il destino
dell'Uomo è stato mantenuto in vita dalle bestie che lui ha creato. È un destino terribile, così come l'ho
visto io: noi siamo incatenati ai suoi trionfi e alle sue tragedie, perché questo è lo schema che è stato
impresso nelle nostre anime.
Questa catena dev'essere spezzata.
Se, al di sopra dell'Uomo, c'è un Creatore, dobbiamo trovarlo. E, attraverso Lui, dobbiamo trovare noi
stessi. Quale che sia il nostro destino, dev'essere nostro, e di nessun altro. Nel corpo, siamo bestie:
così per noi ha deciso il fato.
Ma non abbiamo bisogno del cuore degli uomini...
FINE
NEAL BARRETT JR.
LUNGO I MARI DEL FATO
(Aldair, Master Of Ships, 1977)
DI NUOVO I «SEMIUMANI»
Secondo appuntamento con Neal Barrett ed il suo affascinante mondopopolato dai «semiumani». Ero
certo che il primo volume del Ciclo di Al-dair vi sarebbe piaciuto e, a riprova di quanto ho appena detto,
ci sono levostre lettere, pervenuteci in gran quantità e tutte assai positive.Avrete certamente notato
come, nel proporvi romanzi ed autori, io cer-chi sempre di trovare qualche argomento completamente
nuovo o, al li-mite, trattato in maniera differente da quanto sia stato fatto in precedenza.Questo, stante
la grande quantità di carta che viene stampata nell'ambitodella narrativa di fantascienza, è sempre più
difficile.Difficile, ma non impossibile. Basta infatti - come dice l'amico RiccardoValla - aver voglia di
leggere quanto viene pubblicato in America, e si può
star certi che i testi interessanti saltano fuori: il guaio è che non siamo più
in molti a tenerci aggiornati sulla produzione fantascientifica d'oltreocea-no, e questo è anche uno dei
motivi per i quali la narrativa di SF nel no-stro Paese sta attraversando un momento non certo felice.Il
lettore di fantascienza italiano è un lettore sofisticato, sofisticato nelsenso positivo del termine s'intende.
Non è quindi assolutamente possibilepropinargli dei testi scadenti illustrandoglieli come dei capolavori o
giù dilì. Ho sempre detto e scritto che nutro una grande stima sia per l'intelli-genza che per la capacità di
giudizio dei nostri lettori, per cui ho semprerifuggito da presentazioni roboanti o da esaltazioni fuor di
luogo. Pensoche l'autonomia di giudizio sia una delle prerogative che vadano mag-giormente rispettate,
ed è proprio questo motivo a farmi desiderare che ilettori i quali si avvicinano ai libri che loro propongo,
si formino un'ideadel tutto personale e soprattutto scevra da influenze derivanti da più o me-no forbite
presentazioni.
Questo LUNGO I MARI DEL FATO arriva sull'onda dell'accoglienzapositiva che è stata riservata al primo
volume del Ciclo, ed è appunto perquesto che mi permetto delle lodi e degli apprezzamenti. Vi avevo
dettonella presentazione ad ALDAIR IN ALBION come la caratteristica princi-pale di questa saga sia
quella di snodarsi in un continuo «crescendo». In-fatti, contrariamente alla maggior parte dei cicli dove i
volumi successivisono sempre di livello inferiore al primo, in questo di Barrett si verificaesattamente il
contrario.
Penso infatti di trovarvi d'accordo con me quando affermo che, arrivatialla fine di ogni singolo volume,
desideriate immediatamente leggerequale sarà lo sviluppo delle avventure di Aldair su questa Terra del
futurocosi umanamente «disumana». E colgo qui l'occasione per rispondere aquanti di voi mi hanno
affettuosamente sollecitato a pubblicare di seguitotutti e quattro i volumi del Ciclo, facendo loro
presente che, in questacollana, i Cicli che sto portando avanti sono diversi, ed ognuno di essi hadiritto ad
una regolare programmazione. Perciò, senza far torto a nessu-no, ve li propongo in modo assolutamente
paritetico senza avvantaggiarequalcuno a scapito di altri. Abbiate quindi un po’ di pazienza.
D'altrocanto, maggiore è l'attesa, maggiore è il piacere che proverete nel leggerele successive avventure
di Aldair e dei suoi compagni.I quali, a questo punto, mi sembra opportuno vedere cosa stiano facen-do.
Li avevamo infatti lasciati sull'isola di Albion dove, all'amarezza cheAldair aveva provato nel venire a
conoscenza del fatto di essere solo deglianimali un tempo adattati dall'Uomo in forme «umanizzate», si
era ag-giunto il dolore per la perdita del suo amico stygiano, che gli era stato alfianco sin dall'inizio di
questa allucinante avventura.E proprio per onorare la memoria di questo suo amico, dopo aver la-sciato
sull'isola di Albion alcuni studiosi ad esaminare i molti manufatti i-vi lasciati dall'Uomo, Aldair torna tra i
boschi dei Lauvectii per dare noti-zia della morte dello stygiano ai suoi feroci congeneri. Ed un altro
stygia-no della stessa stirpe prende il posto dell'amico scomparso, per cui Barrettnon lascia vacante la
figura del coprotagonista della narrazione, figurache era già dal primo volume quanto mai indovinata e
ben delineata.Tornati per mare, dove sono stati costretti a fuggire dai Rhemiani che liinseguono per
liberare una nobile fanciulla del loro sangue rapita e tenutain ostaggio da Aldair, si trovano a dover
attraversare nuovi mari, nuoveterre, e soprattutto a dover fare la conoscenza di nuove genti del tutto
sco-nosciute.
Spinti da un'inestinguibile sete di sapere circa le motivazioni che hannodeterminato gli Uomini a crearli,
arrivano sino alla Grande Desolazionedove incontrano il popolo degli Avakhar, esseri stranissimi che
sono con-vinti di sognare la vita che stanno vivendo. Dopo aver creduto per un mo-mento di essere giunti
alla risposta ai loro interrogativi, riprendono la viache li riporta nell'Impero di Rhemia, dove hanno la
sorpresa di trovareuno degli studiosi che erano rimasti in Albion il quale, dopo aver uccisogli altri
colleghi, domina in pratica incontrastato su tutto il territorio.Aldair ed i suoi vengono catturati,
imprigionati, e pare proprio che nonsussista per loro alcuna possibilità di scampo, quand'ecco... Un
momento.Questa volta, senza accorgermene, stavo per dirvi la conclusione dell'av-ventura, e penso
quindi che non vi avrei di certo reso un buon servigio.Girate quindi pagina, e scoprite da voi in qual modo
- e a quale prezzo -Aldair sia riuscito a salvare la sua vita e quella dei suoi amici... Gianni Pilo
PROLOGO
«È strano, ma mi sembra soltanto ieri, quando mi trovavo in vetta aipinnacoli degli Avakhar e guardavo
un Sole rosso sangue immergersi neimari di Indrae. Eppure, da allora è passato molto tempo. Ho
attraversatola Grande Desolazione e sono sopravvissuto per raccontare la mia impre-sa. Ho catturato la
tremenda Sentinella dell'Uomo. Ho tradito la fiduciadel mio Signore, l'Aghiir, Tharrin, e ho liberato una
forza tragica e in-contenibile sul mondo.
Eppure, come sempre, nei grandi arazzi ci sono, intrecciati ai fili mae-stri, anche piccoli fili di poca
importanza. Ho dato più volte spettacolodella mia insipienza. La creatura più grande del mondo ha avuto
lasfrontatezza di orinare su di me. Ho vinto l'amore della dolce Corysia, enel farlo ho perduto un orecchio
splendido e perfettamente funzionante.Imprese grandi, e piccoli fatti. Ma ognuna ha il suo posto nello
schema;questo, almeno, il profeta degli Avakhar pretendeva che credessimo. E
forse è vero, anche se non posso prestar fede a tutto ciò che ho udito nelletorri di Indrae. È difficile infatti
prestar fede a creature che si schiaccianoi pidocchi con il becco, e sono convinte di non essere ancora
nate.Tuttavia, anche nelle altre specie viventi, non ho trovato soverchie trac-ce di saggezza. Ho visto
cose che nessuno sulla Terra avrebbe neppuresognato. Mi è stata elargita una sapienza che è più antica
della storiastessa. Mi sono trovato a faccia a faccia con il mio spettro. Eppure, datutte queste meraviglie,
non ho cavato una sola goccia di saggezza. E pos-so affermare con tutta onestà di non avere coraggio
bastevole per il com-pito pauroso che ancora mi aspetta...»
Aldair, già dei Venicii,
a bordo del libero vascello
Ahzir Al'Rhaz
UNO
Si sa che i Vikoniani non hanno paura di niente al mondo, fatta eccezione della pancia vuota. Io però so
per certo che c'è almeno un'altra cosa in grado di instillare il terrore nei loro cuori.
Fra le genti del Nord, è credenza di fede che un guerriero che perisca sulla terra asciutta sia dannata per
migliaia di anni a patire nei sette inferni di Rhagnir. Laggiù, l'anima soffre indicibilmente di nostalgia per
il mare lontano, mentre una brezza che porta il profumo delle onde misto a quello dei barili di birra,
tormenta ulteriormente lo spirito sventurato. Non c'è da stupirsi che i Vikoniani siano usi vender
carissima la loro pelle sulla terraferma, e siano maestri nell'arte del navigare. Per questo, anche se lo
sguardo di Signar-Haldring appariva indecifrabile, io vi leggevo un'inesprimibile contrarietà, nel corso
della nostra veglia notturna. Le troppe leghe di distanza che ci separavano dall'acqua salata lo
rendevano insopportabilmente infelice. Ma non aveva paura. Neppure lì, così vicino alle foreste dei
Lauvectii. Era, tuttavia, fortemente irritato con me. Perché era per opera mia che si trovava in un luogo
come quello, e più volte mi aveva detto chiaramente che la sua stima per me sarebbe molto diminuita
se al termine del nostro viaggio avremmo finito per incontrare la morte.
«Vecchio amico», feci, dopo essere rimasto a lungo accovacciato accanto a lui nel gelo e nel silenzio, «i
tuoi pensieri sono così tetri che farebbero morire di malinconia una vipera, se pure ce ne sono in un
luogo desolato come questo. Quasi quasi preferirei sentire i brontolii del tuo ventre, piuttosto che
indovinare ciò che ti passa dietro la fronte...»
Quando si volse verso di me, vidi le stelle luccicare nei suoi occhi neri e lucidi come l'agata. Quella notte,
il freddo morso dell'autunno era particolarmente profondo, e gocce di candida brina ornavano la punta
delle sue orecchie, ed erano sparse sul suo folto pelo naturale.
«Non hai torto, Aldair. In questo momento, i miei pensieri non inclinano verso la piacevolezza...»
«Ti dirò che la cosa non mi sorprende.»
Vidi il suo naso torcersi per l'irritazione.
«Che vuoi che ti risponda, allora?», fece. «Posso soltanto ripeterti ciò
che ti ho già detto. Questo non è un buon posto né per viverci né per viaggiarci. Non mi piace il colore di
questa terra. Detesto il suo odore. Puzza di carne putrida.»
«Ci devono essere delle carcasse di lepri appese a un albero, da qualche parte,» dissi. «Come ben sai, gli
Stygiani mangiano praticamente tutto ciò
che gli capita sotto mano, e hanno sempre fame. Ma se c'è un po' di carne che può essere messa da
parte, allora la appendono a un ramo, e ne fanno uso nei tempi di magra.»
Il Vikoniano torse il muso.
«Che abitudine disgustosa.»
«Sono d'accordo,» feci. «Ma per gli Stygiani l'aroma della carne in decomposizione è molto appetitoso.
Al mondo, i gusti cambiano secondo le genti. Rheif trovava rivoltante la mia passione per i vegetali crudi.
Erbaccia e radici, diceva. E quando fummo entrambi schiavi dei Nicieani, lo stomaco ci si ribellò di fronte
all'orrenda zuppa di scarafaggi, che invece loro trovano deliziosa.»
«I tuoi discorsi sul cibo sono interessanti, grugnì Signar «ma noto che hai evitato di menzionare le
creature che gli Stygiani trovano ancor più appetitose delle lepri...»
«Stai tranquillo che lo ricordo bene,» risposi. «Sono nato negli Eubironi, e nessuno conosce meglio di me
le abitudini alimentari degli Stygiani.»
«Certe volte, mi chiedo se non te ne sei dimenticato.»
Lo fissai negli occhi.
«Bene,» feci. «Dimmi quello che hai in mente.»
Dal profondo del petto dell'enorme guerriero sorse un cupo brontolio.
«Nella mia mente non c'è nulla che tu già non sappia, Aldair. Non puoi pretendere che tutti gli Stygiani
siano come era lui. Non ho dimenticato che Rheif è stato per noi più che un fratello. Ma le creature
nascoste fra quei tronchi non sono miei fratelli. Né tuoi. Sono diversi da lui.»
«Tutto è diverso da com'era prima, ormai,» risposi. Signar non replicò. Sapeva bene quanto me che
avevo detto il vero.
Davanti a noi, oltre la cima della nostra bassa collinetta, il terreno declinava dolcemente in una prateria
d'erba tenera e corta, verso i Lauvectii. La foresta non era di quelle che cominciano con alberi radi che
s'infoltiscono, o con chiazze di boscaglia sempre più fitta. Si alzava invece all'improvviso, come una
parete cupa e torreggiante di querce antichissime, così addos-sate le une alle altre che anche in pieno
giorno pochissimi raggi di sole riescono a filtrare fino alla base. Molte leggende si narrano sul rifugio
degli Stygiani. In massima parte si tratta di racconti privi di verità, perché ben poche creature fra quante
si sono avventurate fra quei tronchi sono poi tornate indietro a raccontare ciò
che avevano visto. Le Legioni Rhemiane, che avevano conquistato mezzo mondo, non volevano avere
nulla a che fare con quei posti. Il soldato dell'Impero di Rhemia è un avversario insuperabile fino a
quando il suo nemico si schiera nel modo previsto dalle strategie militari e combatte in modo civile; ma
non vale gran che quando è costretto a strisciare in sottoboschi umidi e ostili, senza neppure riuscire a
vedere chi deve combattere. Si dice che per gli Stygiani, dar la caccia ai legionari in assetto di guerra con
armatura e scudo, sia uno sport fra i più divertenti; trovano ammirevole, in particolare, il fatto che un
bel pezzo d'arrosto se ne vada in giro già rivestito della padella entro cui cuocerlo. Può darsi che una
battuta del genere circoli davvero fra di loro, ma ne dubito: gli Stygiani non hanno un gran senso
dell'umorismo, specie per ciò che riguarda la roba da mangiare. Personalmente, non mi pare che ci sia
bisogno di creare apposta delle leggende paurose intorno a quelle creature. Sono già di per sé feroci e
astute quanto basta per incutere il più folle terrore, e non potevo dar torto a Signar se si sentiva a
disagio, trovandosi così vicino al loro territorio. Questo non significa che non avesse coraggio: tuttavia,
una persona può abituarsi ad un certo tipo di pericolo, e sentirsi inquieta di fronte a un altro. Mentre
osservavo, una chiazza color perla si manifestò fra le nubi all'orizzonte. Dopo pochi istanti, mentre il Sole
si levava, divennero visibili le scure acque del fiume Rheinus che scorreva ai piedi della nostra collina e,
al di là di esse, la terra di Gaullia, ancora avvolta nelle tenebre. Poche volte fui più felice di vedere
un'alba, anche se il gelo mi mordeva le ossa. Il mio naso era ormai ghiacciato, e le orecchie non me le
sentivo più. Avrei volentieri barattato la mia pelliccia naturale di peli corti e sottili con il vello folto e
lungo di Signar. Almeno, fino a primavera.
Spingendo lo sguardo nella valle, cercai di vedere dove fosse andata a piantarsi la freccia che avevo
lanciato il giorno prima; ma il mattino avvolgeva ancora il paesaggio di una luce falsa. Soltanto gli
Stygiani hanno occhi sufficientemente acuti da frugare tra le ombre, distinguendole l'una dall'altra.
«Fra poco ci sarà luce piena,» grugnì Signar vicino a me. «Ci vedranno certamente, Aldair, se restiamo
fermi come sassi qui all'aperto.»
Cercai di mascherare un sorriso.
«Ci hanno già avvistati da un pezzo, amico mio,» gli risposi. «Probabilmente hanno seguito tutti i nostri
movimenti da quando abbiamo attraversato il fiume.»
Signar ringhiò, scoprendo i lunghi denti, aguzzi come pugnali.
«Li hai visti anche tu, allora.»
«Non ne ho bisogno per esser certo che loro hanno visto noi. È inevitabile. Sono Stygiani.»
Signar arricciò il naso e fiutò l'aria, alzando al vento il muso peloso.
«In tal caso,» fece, «siamo spacciati, a meno che non rinunciamo in fretta a questa follia, e torniamo al
fiume.»
«Ne abbiamo già parlato,» gli ricordai. «Dobbiamo proseguire fino in fondo.»
Un brontolio sordo dal profondo del suo petto mi fece capire chiaramente la sua opinione al riguardo.
Un momento prima non c'era nulla, a parte la scura cortina di tronchi e il fitto intrico di rami e cespugli.
E poi all'improvviso, lui era lì, magro e grigio contro la foresta. Signar ringhiò dietro di me.
«Va tutto bene,» dissi. «È venuto.»
«Già,» rispose lui. «Ma dietro a quello che vediamo, quanti altri ce ne saranno nascosti?»
Rimasi muto. Ritto in piedi, muovendomi lentamente in modo che la creatura potesse vedere bene
quello che stavo facendo, mi slacciai la cintura della spada e la feci cadere al suolo. Poi presi il fagotto
che avevo portato con me e cominciai a scendere lungo il fianco della collina. Come tante altre volte a
partire dal giorno in cui la mia vita era divenuta non più soltanto mia, sapevo di vivere un momento
verso il quale ero stato condotto da un destino ineluttabile. Anche Signar lo sapeva, perché conosceva i
posti in cui ero stato, e le cose che avevo visto. Ma sapere una cosa non ha per tutti lo stesso significato.
Gli Stygiani non cambiano mai. Sono le più orgogliose di tutte le creature, e sono ostinati come macigni.
Disprezzano tutto ciò che avviene nel mondo al di là dei Lauvectii, eppure, in fondo, sono curiosi come
fanciulli. La creatura che mi stava aspettando si appoggiava pigramente ad un tronco, con lo sguardo
rivolto a nord, come se non avesse la minima idea della mia presenza. Però, io sapevo bene che i suoi
scuri occhi rossi erano pun-tati su di me, e non feci l'errore di avvicinarmi troppo.
« R'tai. Mahr a shinn, Stygiaar. »
Ponderò le mie parole, studiandomi al di sopra del muso lungo e appuntito. Era snello e muscoloso. Una
pelliccia grigia come l'ombra copriva un fascio di muscoli duri e frementi, che si avvolgevano come un
mantello attorno a ogni centimetro della sua figura. Se il fatto che io parlassi la sua lingua lo aveva
sorpreso, era deciso a non mostrarlo.
«Sono Aldair, del Clan dei Venicii,» dissi.
«Interessante,» fece lo Stygiano. Aprì la bocca in una specie di sorriso di scherno, mostrando denti
aguzzi e lingua rossa. «Non sapevo che il char'desh avesse nomi.»
Conoscevo la parola, che significava carne da fare arrosto.
«Perché no, Stygiano?» gli risposi. «Se hanno nomi gli stivali, possono averne anche arrosti e contorni.»
Il sorriso svanì, e vidi guizzare i muscoli delle sue spalle. Non gli era certo sfuggito che le mie calzature
erano fatte con la pelle di un suo simile.
«Strane parole,» fece «per una creatura che viene disarmata nelle foreste dei Lauvectii. Sei stanco di
stare a questo mondo, piccolo guerriero?»
«Se qui è in pericolo la mia vita, lo è anche l'onore degli Stygiani.»
Si mise a ridere, emettendo quel suono strano, simile a colpi di tosse, che fra di loro passa come risata.
«Hai detto una stupidaggine, char'desh. Fra di loro gli Stygiani sono certo gelosi dell'onore, ma una
parola del genere non ha senso fra il nostro popolo e le creature di un'altra razza. Non sarebbe una cosa
decente.»
«Lo sarebbe, se riguardasse l'onore di un fratello guerriero caduto in terre lontane, senza alcuno della
sua gente accanto a lui per raccogliere le sue preghiere.»
Il viso dello Stygiano si contrasse per l'ira. «Che ne sai tu di queste cose? Mi disonori, parlandomi così!»
Lo fissai negli occhi, senza tremare.
«Stygiano, possiamo dimenticare per un attimo questa follia? Ho piantato una freccia nell'albero a cui ti
appoggi, prima che il Sole morisse, e ho atteso per tutta la notte in cima alla collina, come sai bene. La
freccia ora è
scomparsa, e così l'anello che avevo infilato in essa. Lo stesso anello che ora vedo al tuo dito. Se tu non
fossi della famiglia di Rheif non avresti diritto di portarlo, e non lo porteresti. Riportandotelo, ti ho reso
onore. Rheif è morto. Io stesso l'ho seppellito secondo le vostre usanze, con la spada in pugno e gli occhi
aperti verso i suoi nemici. Se avessi potuto, avrei ripor-tato anche gli anelli di Khairi e Whoris, i suoi
fratelli; ma loro sono morti molto tempo prima di lui, ed ora riposano in fondo al mare.»
Lo Stygiano scosse la testa. «Adesso sono certo che stai mentendo. Nessun Signore dei Lauvectii sarebbe
così sciocco da attraversare l'acqua.»
«Fu necessario. Non lo fecero di loro volontà.»
«Dì pure che non lo fecero affatto. Rheif e i suoi fratelli vennero catturati dai Legionari Rhemiani. È un
fatto che ben conosciamo.»
«Solo Rheif venne catturato. I fratelli riuscirono a liberarlo. Per una serie di eventi che non ti racconterò,
mi trovai con loro, tutti insieme inseguiti dai soldati di Rhemia. I fratelli di Rheif vennero uccisi, ma io e
lui ci avventurammo verso terre lontane, e soffrimmo molto. Diventammo amici, e fratelli. Io gli devo la
vita, perché lui ha dato la sua per me.»
Lo Stygiano rizzò la sua figura, e cominciò a leccarsi le labbra con aria meditabonda.
«È vero che hai riportato l'anello,» ammise infine con voce cupa. «Non ne so il motivo, e non credo a
nulla di ciò che mi hai detto. Anzi, sono convinto che le tue parole facciano parte di un piano per portare
la morte ad altri guerrieri.»
«Non trovo innaturale che uno Stygiano pensi al tradimento prima che all'onore,» gli risposi. «Quanto al
fatto che tu mi creda o no, non posso farci nulla. Ho restituito l'anello del tuo parente a colui che ne
aveva diritto. Lo vedo al tuo dito: e questo è un fatto la cui evidenza non può essere negata neppure da
uno Stygiano. Puoi rimanere in piedi tutto il giorno sotto un albero, a chiederti perché le pietre non
volano, come ho visto fare molte volte ai guerrieri della tua gente. Puoi prenderti gioco di me fingendo
che non esisto, o fingendo di non sapere che la gente degli Eubironi ha un nome e porta armi. Puoi fare
tutto quello che vuoi, o non fare nulla: ma la verità non potrai cambiarla.»
Se avessi avuto la minima speranza che una fuga veloce mi avrebbe potuto salvare la pelle, forse a
questo punto non avrei resistito e me la sarei data a gambe. I lineamenti degli stygiani non sono
rivelatori, ma spesso i movimenti della coda tradiscono le loro intenzioni. E la coda della creatura che mi
stava davanti si agitava in un modo tale da farmi rizzare ogni singolo pelo su tutto il corpo. La gente degli
Eubironi non è priva di coraggio. Abbiamo spesso vinto gli Stygiani in battaglia, e comunque da tempo
immemorabile li teniamo lontani dalle nostre terre. Ma nessuno di noi avrebbe la minima possibilità
in un combattimento a corpo a corpo contro uno di quei mostri. Gli Stygiani non sono né alti né massicci
come i Vikoniani, ma anche l'esemplare più alto della mia gente non arriverebbe a metà del petto di uno
qualunque di loro. Noi siamo bassi e con le gambe tozze, poco adatti alla corsa. Combattiamo meglio
quando siamo in gruppi di tre e più, con spade lunghe e affilate. O, meglio ancora, con arco e frecce: in
tutta la Gaullia non ci sono arcieri migliori di noi.
Comunque, in quel momento ero solo, e non avevo né spada né arco. Avevo soltanto una lingua
abbastanza abile, che tuttavia di fronte a quel truce guerriero cominciava a trovarsi a disagio.
Lo Stygiano si grattò il petto e mi fissò con aria interrogativa.
«È il discorso più lungo che io abbia mai udito,» fece. «È finito?»
«C'è ancora una cosa.»
«Hai ragione. C'è la tua partenza, finché sei in grado. Perché ho deciso che è ancora troppo presto,
stamattina, per uccidere.»
Cercai di ignorare l'osservazione.
«Come hai notato,» proseguii, «ho qualcosa con me. Era un regalo che avevo destinato a Rheif, ma lui
morì prima che potessi darglielo. Ora, è
tuo.»
Lo Stygiano mi fissò sbigottito.
«Mi prendi per sciocco?» fece. «Nulla che tu possa portare fra i Lauvectii sarebbe degno di uno
sguardo.»
«Senza dubbio,» annuii. «Siccome tu non vuoi guardarlo, ti dirò io che cos'è. È una spada. Una spada
quale tu non hai mai visto l'uguale. L'impugnatura è d'oro, ed è incrostata di gemme. Non c'è nulla di
simile al mondo. Con un colpo, può tagliare a metà una giovane quercia, o la più robusta delle
armature.»
Quello fu uno dei pochi momenti in cui vidi uno Stygiano rimanere senza parole.
«Non ho grande considerazione per quelli della tua razza,» fece alla fine.
«Non sarebbe una cosa decente. Tuttavia, fino ad oggi non sapevo che la pazzia fosse così rigogliosa
dalle parti degli Eubironi.»
Sorrisi, mio malgrado. Era orgoglioso, e ostinato e incoercibile come tutti quelli della sua gente. Mi
avrebbe ucciso in un attimo, senza pensarci su, se avesse pensato che la cosa sarebbe stata divertente.
Oppure, con la stessa facilità, mi avrebbe girato le spalle lasciandomi, senza voltarsi indietro, se un'ape,
volteggiando attorno a lui, gli avesse fatto venire voglia di seguirla. È così che sì comportano gli Stygiani.
Tuttavia, nei suoi occhi potevo vedere la stessa luce che c'era negli occhi di Rheif, e ricordai molte cose.
«Senza dubbio c'è pazzia fra gli Eubironi, perché oggi la pazzia è su tutto il mondo,» risposi. «Siamo in
un'epoca in cui giorno e notte si confondono, e il vero è falso. È anche un tempo in cui i nemici possono
essere amici... pur se questo non sei ancora pronto per crederlo.»
«Una cosa la credo: che ne ho avuto abbastanza di discorsi, per oggi.»
Drizzò le spalle, e poggiò con noncuranza una mano sul pomo della spada.
«Non voglio quella cosa. Attraversa il fiume, e riportala via con te. Il regalo che io ti faccio è la tua vita.
È un regalo d'infimo valore, e facendotelo non perdo l'onore.»
Non dissi nulla, mi girai e lo lasciai lì. Ma non presi con me la spada. Non mi aspettavo che avrebbe
mostrato interesse per l'oggetto, fino a quando io fossi stato vicino. Ma presto sarebbe venuto a
prenderla. È così
che si comportano gli Stygiani.
Tuttavia, avrei dato un pezzo d'argento per vedere la sua faccia, nel momento in cui, messa a nudo la
lama, avrebbe visto com'era incisa la gemma incastonata sull'elsa di quell'arma meravigliosa.
DUE
Nella Gaullia è abbastanza facile individuare gli stranieri e capire da dove vengono e che cosa fanno. Noi
non siamo come i nostri cugini Rhemiani, che sembrano provare un particolare piacere nel diventare
tutti uguali. Ci hanno conquistato ormai da molto tempo, ma noi siamo riusciti a conservare i nostri
costumi, per lo meno nelle cose che contano. Così, gli Aeduii conserveranno sempre l'aspetto dei
carrettieri, quale che sia oggi la loro occupazione. E per me la gente di Danuvvium, continuerà ad
emanare un chiaro sentore di pesce, anche se hanno dimenticato la loro attività tradizionale e il
caratteristico grembiulone giallo indossato dai loro padri. Per quasi tutte le genti della Gaullia è così. I
mercanti del sud continuano a radersi le setole dalle guance e tendono a ingrassare, mentre le femmine
della regione non si sentono completamente vestite se non si sono cosparse i seni con polveri colorate,
anche se nessuno a parte i mariti - presumibilmente - potrà ammirare tanta meraviglia. Abbiamo le
nostre tradizioni e i nostri costumi, e ci opponiamo ai cambiamenti come ad una pestilenza. Questo in
certi casi è un bene, ma in altri è un male. Dalla cultura di Rhemia, infatti, possono venire comodità e
benefici, se si è disposti a pagarne il prezzo relativo. A molti di noi, tuttavia, questo prezzo pare
eccessivo.
Chi capitasse nella città di Duroctium stenterebbe a credere che i conquistatori Rhemiani vi abbiano mai
messo piede: circostanza, in effetti, verificatasi molto di rado. Duroctium si trova vicina al fiume, e le
campagne circostanti sono una delle mete preferite per le scorrerie degli Stygiani. La gente non è né
grassa né pigra, e non giudica favorevolmente chi viceversa è entrambe le cose. Signar aveva accolto con
molto fastidio la mia decisione di visitare quel posto, anche perché si era rivelato stranamente pieno di
soldati. Gli assicurai che nessuno mi avrebbe riconosciuto, e che se qualcuno mi stava cercando,
memore dei miei burrascosi rapporti con le truppe imperiali, questo qualcuno era fornito della
descrizione di un guerriero del clan dei Venicii, ed il mio presente aspetto era completamente diverso.
Inoltre - aggiunsi - un presunto fuggiasco non sarebbe certo andato in giro con un gigante peloso al
fianco per attirare l'attenzione. Il Vikoniano emise un ringhio alla mia osservazione.
«Canaglia!», fece. «Vedrai come ti farà piacere la mia compagnia, quando una di quelle teste di pentola
ti punterà una spada sul fondoschiena!
Non mi piace la loro presenza qui così in forze, e non riesco a immaginare alcun motivo per frequentare
un posto schifoso come questo, se non per cercare proprio noi due.»
«Ciò che Rhemia sta cercando,» gli ricordai, «è una nave, la nostra nave. E si trova a cento leghe da
qui.»
«Forse. Ma forse no,» grugnì il gigante. Per un momento, le orecchie pelose gli spenzolarono lungo il
cranio, ed alzò il muso per fiutare l'aria. Un gesto che faceva sempre quando pensava che ci fosse un
pericolo imminente. Ma tutto ciò che si poteva vedere erano le massicce torri di Duroctium che si
alzavano sopra la cima degli alberi, e le mura grigie, rese ancora più cupe dal cielo autunnale.
«Non ho intenzione di fermarmi a lungo in città,» dissi. «Riprenderemo il viaggio per mezzogiorno, o
poco dopo.»
Signar ringhiò, e fece finta di badare ai nostri cavalli, che per la verità
non avevano bisogno di nulla, contenti di brucare l'erba stenta che cresceva ai piedi degli alberi.
Anche se non amo troppo la città, provai piacere nel percorrere nuovamente strade che mi erano
familiari, un tempo. Duroctium non è lontana dalla mia regione: tanto i Bituraii che i Venicii sono Clan
che popolano l'ampia vallata degli Eubironi, ed hanno molte cose in comune. Il mio semplice mantello di
lana e le brache pesanti erano identici agli indumenti indossati da tutti gli altri cittadini che affollavano le
strade anguste. Avevo lasciato la mia spada a Signar, insieme con i miei soliti abiti, che portavano i colori
e le insegne del mio Clan: entrambi avrebbero dato troppo nell'occhio.
La giornata era gelida, ma in Gaullia il freddo non ha mai fatto chiudere i mercati. Contadini e
commercianti esponevano le loro mercanzie in banchetti addossati ai due lati delle strade, tanto che al
centro c'era appena il posto per far passare due persone a fianco a fianco. I mercati hanno ovunque lo
stesso aspetto, persino fra i Nicieani, al di là del Mar Mediterraneo. Oltre al mercato c'è una strada
chiamata Porta d'Ambra, chissà per quale motivo. Si snoda fra le mura della città da un lato, e i quartieri
delle botteghe dall'altro. Sbuca in una piazzetta tradizionalmente dedicata alla compravendita degli
schiavi Cygnani. Non c'è bisogno di insegne per indicare la via verso il mercato degli schiavi: anche il più
insensibile dei nasi ne avvertirebbe il fetore a miglia di distanza. C'erano quattro bruti incatenati a pali di
fronte ad una stalla fetida. Le loro pesanti pellicce invernali,non tosate, erano spelate e luride.
Emettevano deboli belati e roteavano gli occhi. In mancanza di meglio da fare, defecavano per terra.
I miei sentimenti nei confronti dei Cygnani - e della schiavitù in generale - erano mutati
considerevolmente nel corso degli ultimi anni. Avevo portato anch'io la catena e il collare, e nulla più
che un'esperienza del genere è in grado di procurare vistose aperture mentali in materia. Essere a totale
disposizione di un'altra creatura, anche del più mite e benevolo dei padroni, è una cosa spaventosa.
Così, attraversai la piazza accelerando il passo, senza fare caso a dove andavo, e mi trovai in una strada
piena di soldati.
Nessuno di loro badò a me, perché erano tutti intenti a maltrattare un altro poveraccio. Un mercante,
senza dubbio, che aveva avuto la sfrontatezza di pretendere che i Rhemiani pagassero come tutti gli altri
le mercanzie acquistate. I soldati erano una dozzina, tutti a cavallo e fasciati da corazze e tuniche, con
sul capo elmi ornati di piume rosse. Poiché erano truppe di cavalleria, erano armati di lunghe spade e di
lance, invece che del corto e tozzo gladio adottato dalla fanteria.
Questo è tutto quello che mi ricordo di loro. Per la verità, se fra di essi ci fosse stato l'Imperatore in
persona, non me ne sarei accorto, perché avevo occhi soltanto per la ragazza.
Era lei, certamente, la ragione di una così forte concentrazione di truppe a Duroctium. Anch'io, se fosse
stata mia, l'avrei vigilata con altrettanta cura. Era una visione. Una pura delizia. Era Rhemiana, di alto
rango, molto più snella della media della sua gente. Profondi occhi neri si aprivano su un musetto
picchiettato di rosa. Il suo corpo era coperto da una finissima pelliccia ramata, ed era bene in vista
perché, malgrado il freddo, aveva scostato indietro il mantello. La sua tunica di seta verde che le
scendeva dalle spalle si gonfiava simmetricamente mentre scendeva verso il ventre, rivelando le curve
perfette delle due morbide file di seni. All'improvviso, sentii su di me lo sguardo di quella creatura
incredibile. Uno sguardo freddo, scostante, che mi fece rabbrividire ulteriormente malgrado il gelo del
mattino, perché rivelava che lei, la visione, aveva capito esattamente ciò che stavo pensando.
Arrossii e voltai le spalle, sentendomi profondamente sciocco. Tutte le donne sono dotate di potere
analogo. Possono far diventare l'uomo duro come una roccia o morbido come gelatina. E provano un
esecrabile piacere nell'esercitare entrambe queste arti.
Il vecchio Galiun è sempre stato uno dei miei zii favoriti, forse perché
gli piaceva dedicarsi alla pesca nei torrenti più solitari, mentre gli altri pensavano che l'occupazione
migliore per giovani e adulti, nelle giornate di buon tempo, fosse quella di badare ai campi. Lo vidi più
vecchio, ma non troppo. Quando aprì la porta e mi riconobbe, mi afferrò per un braccio, mi tirò dentro,
e mi strinse in un abbraccio vigoroso.
«Aldair, per gli occhi del Creatore, sei l'ultima persona al mondo che mi sarei aspettato di vedere!»
«È passato molto tempo, zio.»
Si scostò un poco, stringendo il mento nella mano e scuotendo la testa.
«È proprio vero. Non sei più un ragazzo. Aldair, pensavamo che tu fossi morto. Tua madre...»
«Le ho mandato una lettera, zio. Le è arrivata?»
«Sì, è arrivata,» annuì mio zio. «Ma che razza di lettera...» Mi lanciò
un'occhiata di disapprovazione. «Non era certo fatta per tranquillizzare una madre. Né il resto dei tuoi
parenti.»
Sapevo che aveva ragione.
«Zio, non potevo fare altro. Dopo tutto quello che era successo, sarebbe stata una follia per me tornare
a casa, e avrei causato guai a non finire al Clan. Mia madre sa che non ho commesso i delitti di cui sono
stato accu-sato. Nella lettera...»
Galiun ringhiò e alzò una mano.
«Aldair... neppure una dozzina di uomini, nell'arco di tutte le loro vite, avrebbero potuto perpetrare
tutte le infamie che ti sono state attribuite!»
«Sono venuti fin qui a cercarmi, allora. Da Silium.»
«Sono venuti. Un Padre della Chiesa e due enormi legionari. Hanno chiesto a tutti dov'eri, che cosa stavi
facendo, che tipo eri, e cose del genere. Nessuno gli ha detto nulla, naturalmente. E non l'avremmo
fatto neppure se l'avessimo saputo. Aldair...» Mi lanciò un'occhiata penetrante, alla maniera di un buon
parente. «Devi andare a trovare tua madre. Non si accontenterà del mio resoconto sul tuo aspetto e
sulla tua salute, se è questo che intendi chiedermi.»
Il cuore mi diede un tuffo. Aveva ragione, e anch'io non desideravo altro. La risposta che diedi mi costò
molto.
«Zio, non posso.»
Ma perché? Sei a Duroctium. Per casa tua bastano due giorni di viaggio...»
«Zio...»
Mi scrutò con attenzione, stringendo gli occhi. Poi si alzò, prese del vino e due ciotole e le mise sul
tavolo davanti a noi.
«Se hai dei problemi,» fece, «ricordati che hai anche una famiglia, e molti amici.»
«Non sono problemi del tipo che tu puoi immaginare, e che si possono risolvere facilmente. Ho un
destino che devo affrontare da solo.»
Galiun annuì, ma non disse nulla. Era un vecchio guerriero, conosceva la sofferenza, e aveva il senso
dell'onore. Forse non approvava le mie parole, ma riusciva a capirle.
Bevvi il vino in un sorso e mi alzai in piedi, afferrandogli le spalle.
«Dille che le voglio bene, zio. Che sarei andato da lei se avessi potuto. Dille che mi sono accadute tante
cose strane e terribili, che sono stato in terre lontane, e devo viaggiare più lontano ancora. E dille che,
qualsiasi cosa le abbiano raccontato, io non ho mai fatto nulla che possa portare disonore ai Venicii.»
Galiun scosse la testa. «Ragazzo mio, questo lei lo sa già. O pensi che crediamo ai Rhemiani, piuttosto
che a uno della nostra gente?»
Ci abbracciammo. Non dissi più nulla, e anche lui rimase muto. Fra noi non c'era bisogno di parole. E
questo pensiero mi confortò. Che cosa avrei potuto dirgli di più di quello che potevano comunicare uno
sguardo pro-fondo e una stretta vigorosa?
In distanza, sentii risuonare le campane della chiesa. Erano i rintocchi di metà mattina, che
simboleggiavano le preghiere dedicate ai morti di Albion. Avrei mai potuto raccontare a mio zio, ai miei
parenti, quello che sapevo, quello che avevo visto? Raccontare che avevo calpestato le spiagge desolate
di Albion, e non avevo incontrato alcun morto? Che laggiù non dimoravano le ombre dei trapassati, ma
che vi si celavano segreti e misteri ben più terribili?
L'Aghiir Tharrin aveva ragione: la verità è l'ultima cosa che gli uomini desiderino udire.
Mi allontanai dalla casa di Galiun inoltrandomi fra le strade, in direzione del Ponte Basso. Cercavo di
evitare l'affollamento del mercato e, soprattutto, la via in cui avevo incontrato i soldati Rhemiani. Avrei
dato molto per gettare un altro sguardo su quella fanciulla, ma non era tempo per dedicarsi a piaceri del
genere. Ero quasi arrivato alle porte, e stavo per uscire da Duroctium, quando un soldato mi fermò.
«Ehi, tu!»
Feci finta di non aver sentito, ma lui insistette. Mi voltai per fronteggiarlo, e vidi quattro militari armati
fino ai denti, invece di uno solo. Erano tutti a cavallo. Il più vicino avanzò fino a quando la punta della
sua lancia non fu a mezzo metro dal mio petto.
«Cittadino, hai le orecchie tappate? Mi hai costretto a sgolarmi prima di fermarti.»
«Signore, non mi ero accorto,» risposi. «È successo che da bambino sono caduto male, e dopo di allora
non ho più avuto tutto il cervello a posto. Almeno,' così dicono.»
Il soldato si chinò verso di me sulla sella, e stirò le labbra in un sorriso maligno.
«Non faccio fatica a crederti,» disse. «Nessuno che abbia un cervello come si deve vivrebbe in uno schifo
di paese come questo. E ora,» si raddrizzò, avvicinando la punta della lancia, «e ora, dimmi chi sei e dove
stai andando così di buon passo.»
«Cotus, mi chiamo. Vado a Visius. Abito lì.»
Il soldato aggrottò le sopracciglia.
«Visius... Mai sentito nominare.»
Lo gratificai della mia migliore versione di sorriso da idiota.
«È un paese piccolissimo. Insignificante...»
«Forse. O forse non esiste del tutto.»
«Certi dicono che è come se non esistesse, tanto è piccolo.»
«E che cosa fai in questo... come si chiama?... Visius?»
Dietro di lui, i suoi tre commilitoni spronarono i cavalli per farsi più vicini e sentire anche loro. Il posto
stava diventando un po' troppo affollato.
«Bifolco!» La lancia mi punse nello stomaco. «Ti ho fatto una domanda!»
«Sì, signore. Sono un contadino. Soltanto un contadino. E neppure tanto bravo. Se pianto grano, viene
su erba medica. E se pianto erba medica, viene su gramigna. Ma non so fare altro, non ho mai imparato
nulla.»
Due dei soldati appena avvicinatisi stavano ridendo. Il terzo no. Era un veterano tozzo, muscoloso, che
aveva combattuto molte battaglie nella sua vita, e si aspettava di combatterne altrettante.
«Stumbaucius,» disse con voce cupa, «chiedi un po' a questo pacifico contadino se indossa stivali da
guerriero anche quando semina i suoi imprevedibili vegetali. Mi piacerebbe sentire la sua risposta.»
Era una domanda eccellente, e mi insegnò una volta per tutte a non sottovalutare i Rhemiani. Per la
maggior parte, non si curano dei popoli conquistati, ma ce n'è sempre qualcuno che la sa più lunga degli
altri. Mi ero preso cura di lasciare la spada e cambiare abito, ma mi ero dimenticato dei miei stivali di
pelle di Stygiano. Una cosa rara, che dalle nostre parti indossa soltanto chi ha combattuto e ucciso uno
di quei mostri. Avevo poco tempo per rammaricarmi. Dietro di me, si sentiva uno scalpitare di cavalli al
passo: il resto del contingente, che sbucava dal fondo della strada, a poco più di un isolato di distanza.
Ben presto avrei avuto come spettatori un bel manipolo di legionari, tutti ansiosi di ascoltarmi mentre
raccontavo la mia storia.
La lancia del soldato era ancora ferma contro il mio stomaco, e feci rapidamente un bilancio della
situazione. Il veterano che aveva posto la domanda non mi avrebbe lasciato andar via "tanto facilmente.
Non sarebbe certo vissuto così a lungo fra mille pericoli, se avesse avuto l'abitudine di lasciare le cose a
metà, quando fiutava qualcosa di storto. Decisi di agire, prima che il soldato togliesse la lancia dalla mia
portata;(era anche lui un veterano, e certamente non sarebbe rimasto a lungo fermo con l'arma offerta
a un possibile nemico). Di scatto, mi spostai di lato di un mezzo passo, afferrai l'asta e diedi un vigoroso
strattone. Il sol-dato cadde a terra, e rimase a fissare stupefatto la sua sella vuota. Gli altri si
avvicinarono, ed io scagliai la lancia fra le gambe dei loro cavalli. Poi mi misi a correre.
Non verso le mura, né verso i vicoli della città. Sarei sfiato un folle se avessi avuto la pretesa di battere in
corsa la cavalleria rhemiana. Invece, puntai dritto verso il gruppo di cavalieri che stava venendo verso di
noi, gridando e urlando e agitando le braccia, per far innervosire i cavalli.
«Gli Stygiani!» urlai, schiaffeggiando con le mani quanti più cavalli possibile. «Gli Stygiani sono sulle
mura! Che il Creatore ci salvi!»
Il comandante della pattuglia rimase un attimo a fissarmi, poi il suo volto si fece grigio. Spronò il cavallo
in avanti, seguito dagli altri armati. Due soldati rimasero in dietro, per porsi ai lati della donna che avevo
già
scorto prima. Ma non erano pronti alla manovra, e reagirono con lentezza. Io fui più lesto di loro. Con un
balzo, saltai in sella dietro di lei, le tolsi di mano le redini, e spronai in avanti la bestia. Sia la donna che il
cavallo manifestarono rumorosamente la loro protesta, ma io li ignorai, dirigendomi verso le porte di
Duroctium il più rapidamente possibile. . TRE
Signar-Haldring aveva affrontato molte battaglie nella sua vita, e non aveva bisogno di spiegazioni per
capire al volo la situazione, quando il destino gliene preparava un'altra. La vista della gentildonna
furibonda che scalciava e urlava, facendo di tutto per sottrarsi alla mia stretta e gettarsi giù da un
cavallo che chiaramente non era mio, gli disse molto di più di quanto gli avrebbe comunicato un mio
lungo discorso.
Malgrado la sua mole, quando è necessario, il Vikoniano si muove rapidamente come il lampo. In un
attimo fu in groppa al suo enorme destriero, tirandosi dietro per le briglie il cavallo che io gli avevo
lasciato in custodia. Quando la donna lo vide, le sue grida raddoppiarono di intensità. Noi, al Nord,
abbiamo familiarità con i Vikoniani, che abitano le terre gelate al nostro settentrione; ma per una
fanciulla rhemiana la vista di uno di quei mostri pelosi deve essere quanto meno terrorizzante.
Signar la fissò con palese irritazione.
«Suppongo che tu abbia altri visitatori alle calcagna,» fece. «Capita, in genere, quando si rapiscono le
donne.»
«Una dozzina, più o meno,» risposi, facendo un cenno col mento al di sopra della mia spalla, indicando
la strada. «Saranno a un minuto da noi.»
«Mi par di capire che non ti sei fatto troppi amici in città.»
«Pare che sia un mio difetto.»
«Sembra anche a me.» Il Vikoniano spronò il suo cavallo, percorse un tratto di strada fino ai margini del
bosco, quindi corse indietro. «Sì, sono una dozzina. Sei sono davanti a noi, sotto la collina. Altri sei
stanno prendendoci alla larga, attraversando la brughiera...»
«... per tagliarci la strada,» finii. Senza altre parole, spronammo i cavalli, dirigendoci verso la foresta.
Avevamo avuto lo stesso pensiero. La strada che da Duroctium portava verso est attraversava regioni
pianeggianti e terreni scorrevoli: alla lunga, i Rhemiani avrebbero finito per raggiungerci, piombandoci
addosso. Tagliando attraverso i boschi e allontanandoci alla città, forse avremmo potuto lasciarli
indietro fino a raggiungere le colline e, superate queste, il mare.
Ovviamente, la prigioniera non era d'accordo con noi. Dovevo faticare per reggermi in sella e
contemporaneamente tenerla stretta mentre urlava, si agitava e scalciava.
«Smettila,» le dissi a un certo punto. «Cavalcare attraverso la foresta è
già abbastanza difficile, e dover tenere a bada una creatura urlante non agevola certo le cose.»
« Creatura!» La parola provocò una nuova esplosione di rabbia. «Lurido bifolco, perché mai dovrei
volerti aiutare? È la tua testa quello che voglio!»
«Ma se io ti lasciassi andare, tu potresti intercedere per me...»
«Sì, sì!» fece immediatamente, illuminandosi in volto. «Te lo prometto!»
«Molto divertente. Mi scuserai, spero, se non ti credo. Ho già avuto alcune probanti esperienze che mi
hanno chiarito il giusto valore da attribuire alle promesse dei Rhemiani.»
Seguì una nuova serie di calci, pugni e graffi, e una lunga sequela di insulti, in un linguaggio certamente
non appropriato per una fanciulla di tale giovane età e alto lignaggio.
Mentre la avvinghiavo ancora più strettamente, uscimmo dalla macchia in un piccolo spazio aperto. In
quel momento, una lancia si conficcò nel ventre del cavallo di Signar, facendo precipitare a terra il
Vikoniano. Questa piccola vittoria non giovò troppo ai sei Rhemiani che ci avevano raggiunti. Si erano
aspettati di trovarsi di fronte un singolo guerriero delle loro stesse dimensioni, essendo per di più loro a
cavallo e lui a piedi. Si trovarono invece al cospetto di un orrendo gigante peloso, che non sem-brava
curarsi minimamente di essere a cavallo, o a piedi, o arrampicato su un albero. Il suo ruggito esplose
come un tuono, e sembrò scuotere i tronchi che circondavano la radura. Con un solo colpo della sua
immensa ascia da guerra a due lame, aveva già messo fuori combattimento due cavalieri. I quattro
rimanenti tentarono di circondarlo, spaventati quasi come le loro cavalcature che recalcitravano
violentemente, non volendo avere nulla a che fare con quell'orrore irto di zanne e artigli.
La ragazza urlò. La feci cadere a terra e mi gettai nella mischia. Il Rhemiano più vicino voltò il cavallo
verso di me, stupito di vedermi. Alzò la spada, ma era già troppo tardi. Cadde con un breve grido, e
rimase immobile sul terreno. Il suo cavallo si impennò, quindi cominciò a galoppare nel folto della
foresta, in un turbinio di rami e di foglie.
Intanto, Signar aveva ferito un altro soldato, mettendolo fuori combattimento. Gli altri due avevano
imparato rapidamente il modo migliore di comportarsi con i Vikoniani, e badavano bene a tenersi al di
fuori della portata della sua ascia. Stava giocando con loro, ormai. Fingeva attacchi rapidi e ritirate
strategiche, si agitava a destra e sinistra, menava gran colpi con la sua ascia da guerra, come un
bambino che cerca di schiacciare una mosca.
«Venite, figlioli, giocate un po' con il vecchio Signar,» diceva in tono irridente. «Puntategli contro le
vostre piccole lance, e io vedrò di accorciarvele un altro po'.»
In quel momento udii dei rumori alla mia destra, e lanciai un richiamo.
«Signar!»
Il Vikoniano non mi udì, o non volle udirmi. Alle genti della sua razza accadono cose strane quando sono
nel pieno della battaglia. Il furore guerriero fa loro uno strano effetto, e li porta a condizioni del tutto
anormali.
«Signar! A me!» ripetei.
Il Vikoniano girò un occhio nella mia direzione.
«Attento,» gridai. «Stanno arrivando gli altri!» E feci un cenno verso il folto degli alberi.
«Vengano pure,» rispose il guerriero. «Il mio cavallo è morto, e non posso montare nessuno di questi
altri, che sono più piccoli di me.»
«Per un po', potrà sostenerti.»
Signar mi lanciò uno sguardo fermo e gelido.
«Non abbastanza,» mi rispose. «Lo sai bene anche tu.»
Un brivido mi corse lungo la schiena.
«Signar! Non possiamo rimanere qui!»
«Io posso.»
«Ma io non posso lasciarti qui.»
«Aldair. Tu devi, e lo sai. Hai una missione da compiere. Le volteresti le spalle, se ne andasse della tua
vita, o della mia? Vai, ora. Sbrigati.»
«Forse me ne andrei,» risposi con un ghigno, «se ci fosse un luogo dove andare. Ma, come puoi vedere,
non ce ne sono più.»
I legionari ci avevano raggiunto correndo attraverso i boschi, nelle zone dove i tronchi erano più radi, e
avevano radunato rinforzi lungo il cammino. Non potevo contarli, ma non ce n'era bisogno: erano
sicuramente molti di più di quanti ne avessimo bisogno.
La vista di una prima linea della cavalleria rhemiana in formazione da combattimento è uno spettacolo
strano e terribile. A una certa distanza, i soldati che la compongono non somigliano più ai tozzi e
prepotenti meridionali, stolidi e cafoni, che spadroneggiano sulle nostre terre e nelle nostre città, dopo
averle conquistate. Le loro armature, ben lustre e lucenti, scintillano anche sotto un cielo di piombo e,
ad un segnale, le lance si abbassano ad un angolo preciso, uguale per tutti e ben studiato, fra la selva
degli scudi accostati. In momenti come questi, si capisce come quei soldatacci brutali siano riusciti a
impadronirsi di quasi tutto il mondo conosciuto. È uno spettacolo, come ho detto, meraviglioso. Ma ci
sono certamente modi migliori di goderne. I Rhemiani ci erano ormai addosso, e potevamo fare ben
poco per fermarli. Signar e io ci scambiammo uno sguardo, senza pronunciare parola. Non c'era più nulla
da dire.
Non fu quella, tuttavia, la fine delle nostre avventure.
Ciò che accadde dopo, fu rapido e veloce. Fu un evento che di certo si è
verificato raramente nella storia del mondo, e cercherò di descriverlo quanto meglio possibile.
Dalla foresta si levò un ululato così cupo e profondo da far gelare il sangue nelle vene. Era l'incubo di
ogni bimbo del nord che si manifestava. Prima ancora che le vibrazioni di quel suono orrendo si fossero
spente nell'aria, un lampo grigio esplose inatteso tra le file dei Rhemiani. Un lampo armato di una lunga
spada, che fiammeggiava rapida e mortale, lasciando dietro di sé larghi fiotti di sangue.
Tre soldati caddero morti d'un colpo, e poi un altro: nessuno ebbe il tempo di vedere ciò che l'aveva
colpito. I guerrieri a cavallo rimasero subito fuori gioco: le loro bestie erano allenate a sostenere le
battaglie, ma non l'odore degli Stygiani. Il Signore dei Lauvectii che aveva fatto la sua apparizione in
mezzo a noi sapeva di emanare il tanfo della paura, e contava su quello. Prima che i cavalieri potessero
calmare le bestie, squarciò il ventre a due o tre cavalli, e decapitò un soldato. Quando, alla fine, i
Rhemiani si gettarono in gruppo su di lui, troppi anche per la sua forza, lo Stygiano spiccò un balzo
prodigioso, che lo portò ben al di sopra delle loro lance. Mi accorsi che cingeva al fianco la grande spada
di Albion: ma non l'aveva sguainata per quella battaglia.
Senza una parola, Signar si scostò per accoglierlo fra me e lui. Non provava certo uno sviscerato amore
per gli Stygiani: ma non era il momento di guardare per il sottile. I Rhemiani, sorpresi per l'inattesa piega
degli eventi, si stavano tuttavia riorganizzando. Volsi uno sguardo in direzione dello Stygiano.
«Sembra che, in un modo o nell'altro, tu finisca sempre per 'trovarti in una foresta che non ti
appartiene,» mi fece il Signore dei Lauvectii.
«Potrei dire la stessa cosa di te, Stygiaar,» risposi, «a meno che io mi trovi sulla sponda sbagliata del
fiume Rheinus. Comunque, non posso affermare che mi dispiaccia vederti in questi paraggi.»
Signar, da parte sua, emise un cupo brontolio, ma non disse nulla. Intanto, avevo contato i Rhemiani
rimasti in sella. Erano una quindicina, compresi i due sopravvissuti della prima pattuglia di inseguitori.
Ne avevamo abbattuti un buon numero, ma non abbastanza.
«Una bella lotta, la tua,» feci allo Stygiano. «Ma temo che l'unico risultato ottenuto sia quello di
procrastinare di poco una fine ineluttabile.»
«Dal char'desh non potevo aspettarmi parole diverse,» fece lui di rimando, torcendo il naso. «Per quel
che mi riguarda, non ho nessuna intenzione di morire in compagnia tua e di quella montagna pelosa.
Non sarebbe decente.»
Signar gli scoccò uno sguardo irritato. «Forse,» fece, «sarebbe decente riprendere questo piacevole
dialogo in un momento e un luogo più opportuni, davanti a un boccale di birra. Mi sembra che i nostri
amici stiano diventando irrequieti.»
Mi stavo chiedendo come avremmo potuto combinare quella simpatica riunione conviviale, quando una
macchia colorata mi attraversò la coda dell'occhio. Girai la testa, e vidi qualcosa che strisciava lungo il
terreno, facendo agitare l'erba alta, in direzione degli alberi. Gridai, rinfoderai la spada, e mi gettai
all'inseguimento. Mi vide venire, emise un lamento, e cercò di accelerare la sua marcia, condotta su
ginocchia squisite e graffiate.
«Ferma, ragazza. Puoi ancora esserci utile!»
Gridò e si alzò in piedi, affrontandomi, come al solito, a pugni e calci. Anche i Rhemiani la videro. Grida
di rabbia sorsero dai loro ranghi, e fecero l'atto di precipitarsi verso di me. Ma si fermarono subito,
quando videro che tenevo ben stretta la ragazza, con la lama della mia spada contro la sua gola.
«Soldati,» gridai. «Quale prezzo siete disposti a pagare per la nostra cattura?»
Uno di loro, a cavallo, si fece avanti di un poco. Era chiaramente il Capitano: un bravo soldato, che
probabilmente non era mai stato così infelice. Mi guardò con occhi gelidi, ma non disse nulla.
«Allora, che vogliamo fare?» gli chiesi.
«Lasciala andare. Non vi torceremo un capello.»
Risi.
«Signore: non penserai che io abbia tanto cervello quanto una rapa? Io non so chi ho fra le mani. Ma tu
lo sai bene.»
Cercò di rimanere impassibile, ma i suoi occhi lo tradivano.
«Se le fai del male...»
«Se le farò del male, non mi servirà più a nulla. E adesso, tornate là dove siete venuti, e in fretta. Non
sono così sciocco da non pensare che seguirete le nostre tracce: ma badate bene a non venire alla
portata del mio sguardo.»
Rimase immobile per un lungo tratto. Molti cupi pensieri ebbero modo di passare fra di noi.
«Mi aspetto di incontrarti di nuovo,» disse infine. «Quel giorno, sono sicuro, mi procurerà grande
piacere.» Dopo di che, mi gratificò di un rigido saluto, e voltò il cavallo.
In quel momento, sicuramente, lui era certo quanto me che la sua promessa aveva ben poche possibilità
di realizzarsi. In ogni caso, né io né lui avremmo mai potuto immaginare come quel famoso giorno
avrebbe finito per sorgere all'orizzonte.
QUATTRO
Era da poco passata l'alba, ed il giorno si annunciava sereno, con un cielo terso e pochi fiocchi di nuvole
verso il nord. Raggiunsi Signar in cima al promontorio che, come un dito di roccia, si allungava nel mare.
Lui si accorse della mia presenza al suo fianco, ma non distolse gli occhi dalle acque gelide e grigie.
«Non li vedo,» mi fece. «Ma arriveranno. C'è ancora tempo prima della marea.»
«Non ne dubito. Non c'è migliore nave della nostra, né migliore equipaggio. Non si fermerebbero
neppure di fronte a tutta la flotta rhemiana.»
Signar si volse verso di me, girando contro il vento le spalle possenti.
«Aldair,» disse, «Sappiamo che probabilmente i Rhemiani sanno che stiamo aspettando in qualche
punto della costa. Inoltre, sono a conoscenza della nostra nave, e tengono gli occhi aperti per avvistarla.
Ti sembra il caso di dare loro un motivo di accanimento in più nei nostri confronti?» E
dicendo così fece un cenno in direzione della ragazza, che era legata e distesa sotto un albero vicino a
noi. «Lo so che tu la consideri come l'ultima possibilità di salvezza per noi, se i soldati ci raggiungeranno
prima del nostro imbarco. Ma dai retta a me, amico mio: i Rhemiani faranno di tutto pur di impedirci di
portarla a bordo della nostra nave. Non sono stupidi e sanno bene che, una volta sul mare, l'avranno
definitivamente perduta.»
Non risposi. Non avevamo visto neppure una traccia delle truppe imperiali durante tutta la traversata,
durata molti giorni e molte notti, dalla Gaullia fino al mare. Sapevamo, tuttavia, che erano vicine. È
terribile sapere che il tuo nemico si trova poco lontano dal tuo accampamento nella notte, e lungo la tua
pista durante il giorno. È una cosa che rende i sonni inquieti e eccita il nervosismo. Tuttavia, le cose per
noi avrebbero potuto assumere anche una piega peggiore. Per esempio, nessuno di noi era stato ferito,
e inoltre eravamo riusciti a sopportarci a vicenda, il che in se stesso era una specie di miracolo. Signar si
rifiutava di rivolgere la parola allo Stygiano, ed emetteva sordi brontolii dal petto ogni volta che l'altro si
permetteva di fissarlo. Lo Stygiano, dal canto suo, trovava la cosa divertente, e l'ira di Signar si
accendeva sempre di più. Non parlerò poi della ragazza, se non per dire che era insopportabile, e
dedicava tutta se stessa a rendere la nostra esistenza ancor più miserabile di quanto già non fosse. Non
voleva né mangiare né bere, e più volte mi toccò di nutrirla a forza. Non parlava, né dava segno di
accorgersi della nostra presenza. In una sola occasione ottenni da lei una reazione di qualche tipo. Fu
quando si rifiutò di camminare o di montare sul suo cavallo, affermando che se doveva essere rapita,
avrei dovuto trascinarla di peso fino a dove era mia intenzione portarla. Le risposi che io non l'avrei
fatto, ma che forse lo Stygiano avrebbe acconsentito a prenderla in braccio. Dopo di ciò, non mi diede
altri problemi. Era terrorizzata da quella creatura, ed era certa che al termine del viaggio fosse sua
intenzione divorarla. Cosa che io stesso avevo motivo di sospettare.
Tutto sommato, nel corso della mia breve vita, avevo trascorso periodi migliori.
«C'è una cosa che vorrei chiederti,» fece Signar, facendo finta di scrutare l'oceano.
«Posso indovinarla. Lo Stygiano?»
Signar mormorò qualche parola indistinta.
«Per rispondere alla domanda che non mi hai posto: io stesso non so che dire, Signar. So solo che, fino
ad ora, è rimasto con noi e si è comportato tutto sommato bene.»
«Ma non ha detto che si sarebbe imbarcato con noi, vero?», fece il Vikoniano, con un tale accento di
speranza nella voce che fui costretto a sorridere mio malgrado.
«Signar,» risposi, «noi due abbiamo visto molte cose insieme. Siamo più
che compagni, perché dividiamo un segreto terribile, una cosa che lega la trama delle nostre vite.» Mi
interruppi e allungai una mano per toccargli il braccio. «Poiché conosci il segreto, e sai ciò che significa,
non ti meraviglierai se sono accadute, e continueranno ad accadere, cose che non possiamo
comprendere appieno. Dello Stygiano, non so che dirti. Non so che cosa agiti la sua mente. So solo che
io dovevo attraversare il fiume per riportargli la spada e l'anello. E l'ho fatto.»
Il Vikoniano mi lanciò uno sguardo penetrante.
«Nei boschi,» disse. «Nei boschi, quando i Rhemiani ci affrontarono: tu sapevi che anche lui era lì. Me ne
sono accorto...»
«No.» Scossi la testa. «Non lo sapevo. Non so spiegare bene le cose che conosco e quelle di cui sono
all'oscuro. È un fatto, questo, che tu, caro amico, non sei mai riuscito a digerire. Io non sono né un
profeta né un veggente: sono esattamente quello che tu vedi. Sono una scheggia di legno che galleggia
sul mare, senza nessuna direzione. La direzione giusta esiste, ma di rado è chiaramente visibile. Se lo
fosse,» ghignai, «andrei forse in giro così, cieco come una talpa, comportandomi ogni volta da quello
sciocco che sono? Per il Creatore, agirei ben diversamente!»
Signar scosse la testa e si passò una mano enorme sul muso peloso.
«Non so,» fece stancamente. «È chiaro che valgo di più come comandante di navi che come pensatore,
e sono lieto di lasciare a te il compito di cavare un senso dalle nostre peregrinazioni.»
«In tal caso, siamo in disperato bisogno di aiuto,» gli risposi in tono cu-po. «Se sono io l'unico serbatoio
di sapienza...»
Trovai lo Stygiano al centro di una macchia di alberi. E anche se sapeva che era lì e potevo scorgere la
sua figura snella e i suoi rossi occhi di uccisore, non era nulla più di un'ombra nell'ombra.
«Li vedi?», domandai.
«No. Ma ci sono. E negli ultimi giorni ne sono arrivati altri. Chissà come sono contenti del fatto che tu,
con grande abilità strategica, ci hai portati di fronte all'acqua, senza alcun posto dove rifugiarci.»
Gli Stygiani sono sempre gli stessi. Prestano orecchio soltanto a ciò che vogliono sentire, e ignorano
tutto il resto.
«Ti ho già spiegato perché siamo qui,» feci. « Abbiamo un posto in cui rifugiarci. Con la marea arriverà
la nostra nave, e ci prenderà a bordo. È un vascello magnifico, e porta un nome che onora un membro
della tua stirpe. Ahzir al'Rhaz significa Viaggiatore venuto dal Nord.»
Aprì le mascelle e mi fissò.
«E secondo te una cosa del genere è un rifugio?» Torse il naso in segno di disgusto. «Preferirei infilarmi
sterco nelle orecchie.»
«Ne deduco che non hai intenzione di seguirci.»
«Che cosa? Certo che no! Uno Stygiano non attraversa grandi pezzi d'acqua. Non è una cosa sensata. E
inoltre sarebbe molto poco decente.»
«Rheif, della tua stirpe, ha attraversato molti pezzi d'acqua,» gli ricordai.
«Questo lo dici tu. Ma io non l'ho visto, e ci credo poco. Vorrei farti notare, tuttavia, che Rheif e i suoi
fratelli sono tutti morti. Il che mi pare giustifichi alquanto l'atteggiamento prudente degli Stygiani nei
confronti dell'acqua.»
«Dunque, tornerai nei Lauvectii?»
«Certo. Mi rendo conto di aver fatto molto male a lasciarli.»
«E allora, perché l'hai fatto?»
Mi fissò. «Stai facendo un po' troppe domande, char'desh. »
«Ci sono troppe cose ancora in attesa di una risposta. Per esempio, come mai ti trovavi a passare dalle
parti di Duroctium, proprio mentre noi eravamo nei boschi alle prese con i Rhemiani?»
«Questi sono fatti miei, non tuoi.»
«Non eri alla mia ricerca, dunque.»
«Cercare te?» Mi fissò con occhi esterrefatti. «E quella montagna di lardo? Certo che no!»
«Bene.» Alzai lo sguardo, e lo fissai nelle sue pupille. «Abbiamo avuto ben poco tempo per parlare di
questo viaggio, Stygiaar. E poi, evidentemente, non abbiamo molto da dirci. Comunque, voglio
ringraziarti per quello che hai fatto. Quale che ne sia stata la ragione.»
«Non posso accettare i tuoi ringraziamenti. Non sarebbe decente, da parte mia.»
«Però mi pare che sia stato decente accettare la spada che ti ho portato. Anche dopo avermi detto che
era un dono indegno di un solo sguardo. Vedo anzi che, con tutti i tuoi discorsi sulla decenza, non ti
vergogni di portarla al fianco.»
Mi lanciò un'occhiata rossa e terrificante, ma non distolsi gli occhi dai suoi. Fu lui, invece, che girò la
testa, staccò un ramoscello da un albero, e se ne ficcò un'estremità in bocca.
«C'è una cosa che voglio dirti,» fece, sempre senza guardarmi. «Anche se non c'è motivo plausibile
perché te la racconti. Forse ho smarrito parte del mio buon senso. Quando tu hai riattraversato il fiume,
lasciando i Lauvectii, ho esaminato l'arma. Non perché me ne importasse, ma perché era mio dovere
accertarmi che non fosse un qualche trucco dei char'desh progettato a danno degli Stygiaar. Vidi
quella cosa sull'impugnatura. La testa di quella bestia, modellata in pietre preziose e in oro. L'ho
guardata una sola volta, poi l'ho ricoperta, perché non mi è sembrata una cosa decente da mostrare.»
Fece una lunga pausa.
«Quella notte stessa, ebbi un sogno divino. Nel sogno, c'era Rheif. Si trovava in un luogo lontano, e la
morte era su di lui. E qui ebbi una sensazione molto strana. Quel posto era lontano, ma, nello stesso
tempo, non lo era.»
«Hai ragione in entrambi i casi,» gli dissi a bassa voce. «Rheif è morto laggiù, proprio al di là di questo
braccio di mare, sull'Isola di Albion. Da qui, nei giorni senza nebbia, se ne possono scorgere le spiagge
candide. È
vicino: tuttavia, in un certo senso, è il più remoto di tutti i posti.»
Lo Stygiano si voltò, e per la prima e unica volta vidi nei suoi occhi un'ombra di paura.
«Non può essere,» fece cupamente. «Conosco quel luogo. È l'isola dei tuoi morti. Se tu avessi seppellito
Rheif laggiù, saresti uno spettro tu stesso. Se no, vuol dire che mi hai mentito!»
«Sono più che vivo,» assicurai, «e non ti ho mentito, Stygiano. Ma non posso dirti nulla di più.»
Mi fissò negli occhi per un lungo momento. L'ira lo dominava ancora, ma non era più una semplice
macchina per uccidere.
«In questo sogno divino,» riprese a dire, «Rheif divenne un altro. Per un istante, non fu più uno
Stygiano. Era la bestia la cui immagine adorna l'elsa di questa spada! Ed è per questo che ho lasciato le
foreste dei Lauvectii. Quel sogno mi ha molto turbato, e mi turba ancora. Devo sapere che cosa significa.
E adesso, per di più, tu hai fatto scendere quest'ombra di morte sulla mia mente, e i miei pensieri
saranno ancora più cupi.»
Per un istante, qualcosa mi toccò nel fondo dell'animo, e scomparve. Sei tu dunque, che cercavo,
Stygiano. Conosco il tuo nome: ma dovraiessere tu stesso a ripetermelo. Perché sei tu, in verità, colui che
doveva es-sere tratto dalle tenebre dei Lauvectii!
La forza che si era impadronita di lui lo lasciò andare bruscamente. Le fiamme rosse si estinsero nei suoi
occhi.
«Pensavo,» disse, «che tutto sommato potrei provare a salire a bordo di quella tua barca di cui mi hai
parlato. Giusto per vedere che cosa si prova. In fondo, porta il nome di uno della mia stirpe... anche se
non credo proprio che una cosa che galleggia sull'acqua onori in qualche modo la memoria di uno
Stygiano.»
«Sarai il benvenuto,» risposi.
«Ti renderai conto, ovviamente, che non ho intenzione di rimanere a lungo sopra quella cosa. »
«Certo, ti capisco. Non sarebbe decente. »
Quando il Sole al tramonto trasformò il mare in una distesa di oro liquido, e i venti veloci cominciarono a
gonfiare le vele dell' Ahzir, lo vidi, ritto sulla spiaggia, nel punto in cui io e i miei compagni ci
trovavamo pochi istanti prima. È difficile distinguere un Rhemiano dall'altro, a una certa distanza. Ma la
sua figura rigida e severa, la sua fronte aggrottata, gli occhi tremendi non permettevano errori.
C'erano molti soldati ai suoi ordini, ma nessuno cercò di fermarci. C'erano sicuramente molte navi
pronte ad avvicinarsi ad un suo comando. Ma lui non le chiamò.
Potevo leggere i suoi pensieri come se fossero i miei.
Se avesse fatto qualcosa di avventato, lei sarebbe morta. Così, almeno, lui credeva. Se invece fosse
rimasta in vita - a qualsiasi prezzo - allora, forse, avrebbe avuto ancora una possibilità di liberarla.
Ancora una volta, mi chiesi che tipo di preda il destino mi avesse fatto incontrare nelle strade di
Duroctium.
CINQUE
Col vento favorevole, è breve il viaggio dalle coste settentrionali della Gaullia fino agli Stretti che
portano nel Mar Meridionale. Un viaggio del genere non si misura però soltanto in giorni. È come la
transizione fra due mondi completamente diversi. Quelli fra noi che vengono dai cieli cupi e le buie
foreste del Nord, non sanno che cosa sia il Sole. Per noi, è un ospite sporadico e benvenuto. Il Sud,
invece, è la sua terra di nascita.
Ero felice quanto Signar-Haldring di trovarmi di nuovo sul mare; ma non tutti, a bordo, dividevano lo
stesso sentimento. Il nostro amico Stygiano si lamentava continuamente che l' Ahzir era troppo piccola
e troppo veloce, e benché non ne sapesse nulla di navigazione, aveva deciso che il nostro equipaggio era
formato da incompetenti.
«Se gli Stygiani costruissero navi,» disse una volta, «cosa che peraltro non hanno alcuna intenzione di
fare, di certo le costruirebbero in modo da non farle oscillare su e giù nell'acqua. Non capisco perché voi
non l'abbiate fatto.»
Al che, Signar lo bandì immediatamente dal ponte, fra cori di approvazione. La mattina del nostro
secondo giorno sul mare, il Vikoniano mi chiamò
dicendo che doveva mostrarmi qualcosa. Era scuro in volto, e turbato.
«Laggiù, vedi?», fece puntando il braccio, anche se non avevo bisogno di indicazioni.
Stavamo passando al largo di una città portuale che, come sapevo, si chiamava Camelium. Era una bella
città, con case dipinte in colori vivaci arrampicate sulle colline verdi che si alzavano sul mare. Era
popolata di pescatori, ed era anche un importante centro commerciale; nel suo porto, tante barche
colorate oscillavano come sugheri fra le onde. Non era questo spettacolo, tuttavia, che mi aveva attirato
la vista. Davanti a noi erano schierate quattro enormi navi da guerra rhemiane, con i ponti irti di torrette
corazzate, e tre file di remi. Le bandiere sventolavano alla brezza mattutina, e le vele color rosso-sangue
erano già issate sugli alberi.
«Come vedi, non ci hanno dimenticati,» fece Signar cupamente. «Né
c'era da aspettarselo. È per via di quella femmina che abbiamo a bordo, naturalmente.»
Non risposi. Sapevamo entrambi quello che era successo. I Rhemiani avevano mandato staffette veloci,
per via di terra, ad avvertire dell'accaduto le navi stazionate lungo la costa. C'era da prevederlo, dato
che la ragazza rappresentava certamente qualcosa di molto prezioso per qualcuno molto importante.
«Ci daranno la caccia fino alla morte, Aldair, o fino a quando avremo lei a bordo. È inevitabile.»
«D'accordo. Ma, anche se la lasciassimo andare, che succederebbe, Signar? Pensi che si
dimenticherebbero di noi? No: saranno alle nostre calcagna se la teniamo prigioniera, ma ci correranno
ugualmente dietro fino a schiacciarci se non l'avremo.»
«Forse,» fece il Vikoniano, cupo.
Per un momento, fissò le onde che scivolavano lungo la chiglia, le grandi spalle curve, immerso nei suoi
pensieri.
«La decisione spetta a te, Aldair. Ma, per conto mio, la metterei in una bella barca e la lascerei in mare
dietro di noi. Loro perderanno tempo per raccoglierla, e noi potremo scivolare via. Una volta fuori
portata, non ci raggiungeranno mai con quelle loro immense bagnarole.» Si interruppe, e mi lanciò uno
sguardo significativo. «È solo una possibilità, ma temo che sia l'unica che ci resta. O li vuoi eternamente
nella nostra scia, con la missione che dobbiamo compiere?»
Ovviamente non lo volevo, e glielo dissi.
«Bene, allora...»
«Dimentichi, però,» aggiunsi, «che in mare non c'è una sola squadra navale rhemiana. Gli Stretti sono
sorvegliati dalle forze imperiali, e stavolta non avremo la flotta di Niciea a proteggerci, come la prima
volta che li abbiamo attraversati.»
Ammise che avevo ragione, e di malavoglia riconobbe che la ragazza, rimanendo a bordo, continuava a
rappresentare un deterrente contro gli assalti dei nemici. Gli promisi che, una volta superata la rocca
che vigilava sugli Stretti, e dopo essere entrati senza danni nel Mar Meridionale, avrei riconsiderato di
nuovo tutta la faccenda.
Ma sapevo che, anche allora, non avrei cambiato idea. Per dirla francamente: non volevo vederla andare
via. A titolo di dissuasione nei confronti dei vascelli rhemiani, feci collocare la ragazza bene in vista sul
ponte, fra guardie armate. Era visibile da lontano, e chiaramente era viva. Alle sentinelle accanto a lei
era stato racco-mandato di fare la massima attenzione, perché la prigioniera era capace di infinite
astuzie e colpi di testa. Non mi sarei meravigliato affatto se l'avessi vista cogliere un attimo di
disattenzione dei suoi guardiani per tuffarsi in mare e dirigersi a nuoto verso i suoi amici.
I Rhemiani stavano chiaramente aspettando la sua comparsa, perché non appena la videro sul ponte,
una delle grandi navi si avvicinò per osservare meglio. Fu un momento di grande tensione. Lo scafo
mostruoso torreggiava sopra il nostro ponte, spostando una massa d'acqua tale che sarebbe stata fatale
a una nave di poco più piccola della nostra. I soldati celati nelle torrette avrebbero potuto sputare sulle
nostre vele, e probabilmente l'hanno fatto.
Signar ruggì e maledisse tutti, e agitò il pugno immenso in direzione del capitano della nave da guerra.
Poi, mostrò a tutti perché i Vikoniani sono considerati i migliori marinai del mondo...
Mentre eravamo ancora all'ombra della nave immensa, mise in moto il nostro equipaggio e, con una
manovra dolcissima, portò l' Ahzir al'Rhaz ad affiancarsi al vascello rhemiano. Sentii lo scafo
scricchiolare, mentre tutti ci afferravamo al sostegno più vicino. L'onda enorme dell'acqua spostata dal
mostro ci venne addosso di fianco. Avevo già deciso che quella era l'ora della nostra fine, quando, con
un balzo in avanti, agile come una lepre, il nostro scafo lungo e sottile colse in pieno il vento e si lasciò
alle spalle la nave rhemiana.
Potei udire il suono fragoroso della risata di Signar che soverchiava il battito delle vele.
«Provate un po' a fare questo con la vostra bagnarola,» stava dicendo. E
anche se nessuno, nella nave nemica, poteva raccogliere le sue parole, ero certo che il comandante
rhemiano aveva ugualmente capito il messaggio. Non potei fare a meno di sorridere quando mi capitò
sotto gli occhi l'espressione dello Stygiano. Aveva le orecchie basse, incollate al cranio, e ogni luce s'era
spenta nei suoi occhi. Come tutti noi, era completamente inzuppato d'acqua salata. La sua bella pelliccia
grigia sembrava uno straccio per lavare dopo il passaggio su molti pavimenti sudici.
«Non ridere,» mi fece in tono feroce. «Non mi meraviglierei affatto se quel grosso barile di birra avesse
fatto questo intenzionalmente. Il suo obiettivo era di affondarci tutti, e far fare a me la figura dello
sciocco.»
«Stygiaar,» risposi, «qualsiasi cosa tu possa pensare del Vikoniano, sappi di avere assistito a un prodigio
d'arte navale, una manovra quale non se ne erano mai viste. È una cosa che potrai raccontare ai tuoi
nipoti, quando tornerai nei Lauvectii.»
Mormorò qualche frase indistinta, e cominciò a strizzarsi l'acqua dalle orecchie.
«Non c'è alcun bisogno che io raccolga narrazioni di questo viaggio,»
fece, «perché ho già capito che non ritornerò mai al Nord. Mi sta bene. Non avrei dovuto farmi
convincere da te, con l'inganno, a salire sulle tavole di questo maledetto affare galleggiante.»
«Si dice ponte, non tavole,» lo corressi. «E neppure uno Stygiano, maestro di menzogne come tutti
quelli della tua razza, potrà mai convincermi che tu non sei venuto a bordo di tua spontanea volontà. Per
gli Occhi del Creatore: non penserai di imbambolarmi con le tue chiacchiere?»
Lo Stygiano tirò su col naso e guardò altrove.
«Non è decente per un Signore dei Lauvectii discutere con il char'desh. È una perdita di tempo.»
«Su questo, convengo.»
«Il fatto è che io annegherò sicuramente in questa specie di stagno senza riva. Nei Lauvectii certe cose si
sanno in anticipo, anche se non è opportuno che ti spieghi come e perché. Per questa ragione, desidero
che tu conosca il mio nome. Anche se tu non sei della mia gente, e non hai onore, potrai comunque
annunciare la mia venuta agli dèi delle foreste. Sempre che essi ascoltino le voci che si levano dall'acqua,
del che dubito. In ogni caso, quando il tempo sarà giunto, sappi che io sono Rhalgorn.»
Al che, girò le spalle e cominciò solennemente a dirigersi verso il sottoponte, cercando di apparire un
guerriero anziché una lepre accidentalmente scivolata fuori della pentola del salmi.
Fu in tal guisa che appresi ufficialmente il nome del mio nuovo compagno: un nome che, in qualche
modo, era già nella mia testa. E lui, a sua volta, poté soddisfare il suo orgoglio scegliendo quella bizzarra
maniera per presentarsi.
I Rhemiani non cercarono più di catturarci, ma si accontentarono di sorvegliarci a distanza. E anche
questa era un'impresa al limite delle loro possibilità. Signar aveva ragione. In realtà, i Rhemiani odiano
il mare, e lo navigano soltanto perché non ne possono fare a meno per affermare la loro potenza.
Questo atteggiamento si riflette nella tecnica costruttiva delle loro navi, che sembrano palazzi
galleggianti, piuttosto che navigli destinati a raccogliere il vento per volare sulle onde. Certamente, sono
molto diversi dai sottili scafi verdi dei Nicieani, che sembrano nati dalla spuma, o dalle veloci navi
vikoniane, con la prua alta e orgogliosa, che solcano i mari partendo dalla lontana Vhiborg per
depredare i porti di Rhemia. L' Ahzir è un misto di entrambe queste scuole marinare, e di ciascuna
accoglie il meglio. Non credo che oggi sulle onde ci sia nulla che possa starle alla pari. Anche i Rhemiani
lo sapevano, e sapevano anche che sarebbero stati messi a dura prova per mantenersi in vista nel
momento in cui avessimo deciso di filare via. Così, quando la mattina dopo doppiammo l'estremità
della penisola dei Tarconii, non fui sorpreso nel constatare che le grandi navi che ci erano state dietro
fino ad allora non si vedevano più, e che il loro posto era stato preso da un altro battello. Era una nave
nicieana, caduta chissà come in mano dei Rhemiani. Era un bel naviglio, dalla linea elegante. Non
sarebbe mai riuscito a superarci ma, da parte nostra, sarebbe stato difficile lasciarlo indietro in maniera
definitiva.
«Non molleranno mai la preda, sappilo. Sei un folle se pensi di potermi tenere ancora a lungo con te.»
Mi voltai, sorpreso e compiaciuto nel vederla. Con un cenno, ordinai alle guardie che non la perdevano
mai di vista di allontanarsi.
«Hai fatto bene a mostrarti,» le risposi. «I tuoi amici saranno lieti di constatare che stai bene.»
Scrollò le spalle, per farmi capire che dei suoi amici non le importava nulla, ed era salita per ragioni sue.
Il suo bel vestito di seta era stato ridotto a brandelli dalla nostra fuga attraverso la Gaullia, ed ora
indossava abiti da marinaio, ben poco adatti alla sua dolce figura. Con tutto ciò, mi sembrava sempre la
cosa più bella che avessi mai visto. La sua sola presenza mi provocava conseguenze gravissime. Ed ero
sicuro che lei lo aveva capito bene.
«Malgrado io non abbia il minimo desiderio di parlare con te.,» mi fece,
«tuttavia lo devo. Pretendo di sapere che cosa hai intenzione di fare di me.»
Aggrottai le sopracciglia.
« Pretendi, mia signora?» risposi. «Hai dimenticato una cosa. Gli artigli di Rhemia sono molto lontani.
Da quella parte,» e con un gesto indicai l'oriente.
Mi fissò per un lungo momento, col volto di pietra.
«Che genere di persona sei?», disse infine. «Anche se veniamo da terre differenti, siamo della stessa
razza. Eppure, tu navighi insieme con i Vikoniani, che sono i più feroci fra i pirati. E, peggio ancora, hai
rapporti inno-minabili con... gli Stygiani. » Le labbra le si torsero, come se il solo pronunciare quella
parola le facesse ribrezzo. «Le più oscene fra le creature! I fratelli di quel mostro hanno depredato le tue
città, fatto strage della tua gente. E tu... tu hai combattuto al suo fianco contro i soldati di Rhemia!»
Rabbrividì, e girò il volto. «Non riesco a capire come una così orrenda stortura possa verificarsi. Ma che
genere di individuo sei?»
«Mia signora,» risposi, «sono un individuo che ha imparato una cosa fondamentale: la forma di una
creatura non ha nulla a che fare con ciò che racchiude nel cuore. Tu parli della mia razza. Ebbene,
proprio dalla mia razza io sono stato tradito... compresi i Buoni Padri della Chiesa e i civili cittadini di
Rhemia. Ho trovato tanto amici che nemici fra i Nicieani, che sono verdi e coperti di scaglie, e ancor più
diversi da noi degli Stygiani. Ho trovato il male e il bene in tutte le razze con cui sono venuto a contatto,
e non ho avuto modo di notare una più alta percentuale di bari e di assassini in una razza piuttosto che
in un'altra.»
«E così, vi siete riuniti tutti insieme, voialtri gentiluomini,» mi interruppe con voce di scherno, «per
rapire fanciulle rhemiane e portarle via chissà
dove. È questo lo scopo principale della tua vita?»
«No. È un altro.»
«Davvero?», rise. «Mi piacerebbe conoscerlo.»
«Io invece non credo che ti farebbe piacere saperlo.»
Il sangue le defluì dal volto, e si toccò la gola con la punta delle dita.
«Ti prego...» disse. «Non sarà quello che penso...»
«Liberarsi di te sarà molto difficile, mia signora. E, d'altro canto, sarà
difficile anche tenerti con noi. Quale che sia la scelta, ho paura che avremo del filo da torcere. Forse,
però, sarebbe più semplice per me prendere la decisione giusta se sapessi chi è la fanciulla che ho
rapito, e perché l'intera flotta rhemiana è alle mie calcagna per riaverla. Sei una creatura molto
attraente, lo ammetto... ma credo che non sia il solo motivo...»
La rabbia le imporporò il volto.
«Può darsi che tu scopra chi sono prima di quanto pensi. E quel giorno non ti rallegrerai certo della tua
scoperta!»
Con queste parole enigmatiche mi voltò le spalle e ridiscese sotto coperta, lasciandomi come ricordo un
ultimo lampo rosa del suo musetto. La nave nicieana rimase in vista fino al calar del Sole, quando la
notte la ingoiò fra le ombre. Signar aveva ben tracciato la nostra rotta, prevedendo che avremmo
attraversato gli Stretti col favore delle tenebre. Questo avrebbe risolto uno dei nostri problemi, ma non
quello di liberarci del no-stro tenace inseguitore. Tuttavia, io ero certo che, in un modo o nell'altro, ce
ne saremmo liberati.
Il che avvenne: ma non nelle circostanze che avevo sperato... SEI
In genere, prima che sul mare si scateni una tempesta, il marinaio esperto ne è avvertito da una serie di
probanti indizi. Ci sono segnali portati dalle acque e dai venti che chi naviga sa leggere con la stessa
facilità
con cui lo. studioso legge i suoi libri. Infinite volte avevo visto Signar scrutare un cielo perfettamente
terso e trasparente, e annunciare che andavano incontro al cattivo tempo. La tempesta che ci investì nel
corso della prima ora della notte non aveva obbedito, invece, a nessuna delle regole del mare, perché il
vento che l'alimentava proveniva dalla terra ferma. Era un vento scivolato giù dalle basse colline della
penisola dei Tarconii, raccogliendo lungo il suo cammino banchi di nubi gonfie e gelide, e riversandosi in
mare senza preavviso. Non riuscimmo a raggiungere la costa per cercare un riparo, né potemmo
proseguire la rotta attraverso gli Stretti. Ci aggrappammo ad ogni possibile sostegno, ci legammo agli
alberi e alle murate... il mare era oscuro e furibondo, e sembrava affamato di noi tutti.
All'alba, il vasto oceano era di nuovo piatto e verde come uno stagno di campagna, e solo qualche lieve
fermento ne agitava la superficie. Poco prima soffiavano i venti più impetuosi che avessi mai visto in vita
mia, e ora spirava un dolcissimo zefiro, appena sufficiente a far vibrare le nostre vele.
Signar emise un brontolio sordo, e fissò con la fronte aggrottata la nostra velatura che pendeva inerte
dagli alberi.
«Spero che non avrai nulla in contrario se ti proporrò qualche salutare esercizio ginnico,» mi fece. «Sarà
bene che ci mettiamo ai remi, prima che al vento non salti in mente di farci qualche altra sorpresa.»
«In ogni caso,» dissi, «se non altro abbiamo lasciato indietro i nostri inseguitori. Se non sono affondati
loro, probabilmente pensano che siamo affondati noi.»
Il ragionamento era logico, anche se nessuno sperava che i Rhemiani avrebbero accettato la cosa senza
avere, per prova, almeno un pezzo dello scafo dell' Ahzir. Sono gente cocciuta e pertinace. Si racconta
che una volta metà dell'Impero andò perduto perché il Tiranno dell'epoca aveva disperso le sue Legioni
per dare la caccia a un topo con gli occhi d'oro. Se la leggenda era vera, i nostri inseguitori non
avrebbero lasciato scappar via tanto facilmente una preda ben più tangibile di un roditore mitico.
Secondo Signar, eravamo stati sospinti molto a sud e a occidente, lungo la costa di Kenyarsha, che è il
nome assegnato alla gran massa di terra che si stende sotto il Mar Meridionale. Un marinaio che aveva
servito sotto un mercante rhemiano disse che da qualche parte sotto gli Stretti c'era un porto chiamato
Bhazaar, che apparteneva anch'esso ai Rhemiani. Lui, però, non c'era mai stato.
Non mi fidavo molto dell'affermazione, perché, malgrado avessimo a bordo le migliori carte nicieane
disponibili, su di esse non c'era traccia di questa città. Per la verità, le mappe si interrompevano poco più
a sud degli Stretti. Kenyarsha è certamente un'immensa regione, e di essa si sa ben poco. I Nicieani
vivevano lungo le sue coste settentrionali, ma si erano spinti ben poco a fondo nell'entroterra, se non
lungo le vie di commercio o per combattere le popolazioni del deserto.
Tuttavia, nella situazione presente avevamo ben poco da scegliere, a meno che non volessimo dirigerci a
sud verso acque che non conoscevamo, o a occidente, là dove si dice che il Mar delle Nebbie precipiti
nel vuoto.
Dato che la mia è una nave libera, e non aveva schiavi a bordo, ciascuno di noi prese il suo turno ai
remi... persino Rhalgorn, sebbene gli Stygiani aborriscano il lavoro fisico di qualsiasi specie. A
mezzogiorno si levò una brezza piacevole, e la nostra fatica fu alleggerita. Poco dopo, la fortuna
cominciò a sorriderci. Una vedetta avvistò la terra: una lunga linea verde scuro all'orizzonte.
La notizia fece levare grida di giubilo, anche se io, chissà perché, non mi sentivo in vena di partecipare ai
rallegramenti. Le nostre ultime notizie di Niciea risalivano a due anni prima. Ci eravamo lasciati alle
spalle un Impero in pezzi, il cui sovrano era in fuga. Se la blasfema alleanza fra il predone Fhazir e i
sacerdoti di Aastar era ancora in atto, su quelle coste gli amici della Famiglia Reale non sarebbero stati i
benvenuti.
«Non è questo il problema più pressante,» mi fece Signar quando lo misi a parte dei miei timori. «Non
ne ho parlato prima, perché c'erano altre questioni più urgenti: ma siamo obbligati a prender terra da
qualche parte. La tempesta ha riversato acqua salata sulle nostre provviste di cibo e nella riserva di
acqua potabile. Ci resta ben poco da mangiare e da bere.»
«Che splendido modo di cominciare una missione,» mi lamentai. «Non siamo neppure riusciti ad
attraversare gli Stretti, perché il vento ci ha spostati a Sud. Quando torneremo nella zona, troveremo
frotte di nostri amici Rhemiani ad aspettarci. Non mi piace questa situazione, Signar. Il mondo non deve
conoscere ancora la nostra missione. Dobbiamo liberarci degli inseguitori, e subito!»
Signar annuì senza parlare. Quando il Vikoniano rumina su qualche problema, si dondola su e giù in una
specie di danza silenziosa, come al suono di una musica che lui soltanto può udire. In tali circostanze,
parlargli serve a ben poco.
Malgrado la possibilità di incontri pericolosi, il mio cuore si rallegrò
quando avvistammo la piccola città bianca. Non poteva rivaleggiare con Chaarduz, ma era chiaramente
una città nicieana, e la sua vista mi diede un senso di calore. In quella terra ero stato prima schiavo, poi
alto dignitario, e amavo molto la sua gente.
Un marinaio con gli occhi più acuti dei miei lanciò un grido e fece un gesto verso la spiaggia. Avevamo
davvero fortuna, perché sull'edificio più
alto della città sventolava la bandiera verde ornata di occhi d'oro! Mentre guardavamo, snelle forme
verdi avvolte in tuniche bianche si allinearono sulla riva, facendo gesti nella nostra direzione.
Chiaramente, conoscevano il nostro vascello, e in loro onore feci issare la bandiera nicieana e, sotto di
essa, le insegne personali dell'Aghiir, il mio Signore Tharrin, fratello del Re.
Questo gesto provocò un'esplosione di grida di gioia sulla spiaggia, tanto che temetti che gli spettatori
stessero per gettarsi in mare e venirci incontro a nuoto, anche se i Nicieani rifuggono dall'acqua per
quanto possibile. Invece, molte barche sottili presero il largo e si diressero alla nostra volta. Per primo si
avvicinò un piccolo vascello con alla prua una creatura che si agitava come in preda alla follia. Gridava,
saltava e gesticolava in modo del tutto improprio per un Nicieano. Quando la barca fu abbastanza
prossima da permettermi di vedere meglio di chi si trattava, decisi che il Sole aveva seriamente
danneggiato i miei occhi.
I Nicieani si somigliano molto l'uno all'altro, ma quando si ha dimestichezza con loro si impara a
distinguerli. I loro volti mancano di lineamenti: gli occhi sono piccole perle nere, il naso è ridotto a due
fessure, la bocca a un taglio orizzontale. Ma, di quella creatura, io conoscevo ogni singola scaglia: perché
era Thareesh, ed era forse il più abile arciere del mondo (dopo di me, s'intende).
Ed era estremamente improbabile che mi venisse incontro su una barca spazzata dai suoi furiosi colpi di
coda, perché lo avevo lasciato per morto nel Grande Deserto a Sud di Chaarduz, più di tre anni prima!
SETTE
Senza dubbio, la nostra allegra riunione sarebbe apparsa grottesca agli occhi di molti.
È dall'inizio del tempo che quelli della mia razza combattono contro i Nicieani conflitti all'ultimo sangue
(così, almeno, sostengono i nostri preti). Malgrado ciò, ci siamo abbracciati come fratelli: perché tali, fra
di noi, ci consideriamo.
Ero assetato di notizie sul destino di Niciea, e Thareesh fu per me come una sorgente di acqua viva. In
primo luogo, tuttavia, volli che per due volte di seguito mi raccontasse le sue avventure. E lui mi narrò di
come i ribelli lo avessero raccolto nel deserto più morto che vivo, di come fosse diventato per qualche
tempo uno di loro per salvarsi la pelle, e di come infine fosse riuscito a fuggire, attraversando tutta
Niciea per giungere al porto dove io lo avevo ritrovato.
Il Re, mi rivelò poi, era certamente morto, e in tale destino lo avevano seguito quasi tutti i membri della
Famiglia Reale e molti suoi fedeli. Erano infiniti, ormai, i nomi cui levare le preghiere. Ma c'erano anche
alcune buone notizie. Le promesse di Fhazir, il ribelle, e dei preti, si erano dissolte nel nulla. Nel popolo
si erano levati rabbia e tumulti. La gente aveva già dimenticato le follie che avevo portato la sventura sul
capo di tutti.
«I giorni dei traditori sono ormai contati,» concluse cupo Thareesh. «Ci sono molte città come questa, in
cui sono tornate a levarsi nel vento le antiche bandiere. E alla loro ombra non si radunano soltanto i
ricchi che hanno perso tutto o la plebaglia che non ha guadagnato nulla. Ci sono anche soldati come me,
che vengono da ogni parte dell'Impero.»
«E chi seguono,» gli chiesi, «visto che il Re e suo fratello sono morti?»
«Ma il giovane Dhar'jeem, ovviamente. Tu, Aldair, dovresti saperlo meglio di tutti.»
I Nicieani non tradiscono mai i loro pensieri, a meno che non vogliano deliberatamente rivelarli. Non
immaginavo che Thareesh sapesse che ero stato proprio io a portare al sicuro, nel lontano oriente, il
giovane principe. Mi aveva fatto capire, però, di essere al corrente della mia impresa. Per qual motivo lo
avesse fatto, non m'importava. Niciea non aveva mai avuto un suddito più leale di lui.
Anche senza alcuna richiesta esplicita da parte mia, Thareesh si mise immediatamente all'opera per
rifornire l' Ahzir, saltando alla gola di mercanti e sensali per spuntare i prezzi migliori. Signar,
ovviamente, ne fu deliziato. Quel pomeriggio, alla nostra ciurma si aggiunsero tre Nicieani, tutti marinai
esperti. Furono i benvenuti a bordo.
In qualche modo, sin dall'inizio avevo capito che anche Thareesh si sarebbe unito a noi. Così come avevo
capito che Rhalgorn avrebbe preso il posto di Rheif, dal primo momento che l'avevo veduto.
Vi lascio immaginare la mia gioia nell'accogliere fra i miei seguaci il Nicieano, che a sua volta era stato
uno dei più coraggiosi e fedeli seguaci del mio stesso Signore e padrone, l'Aghiir Tharrin. Ovunque egli
fosse in quel momento, in qualsiasi sconosciuto aldilà, di certo era felice per quell'evento. Mi sembrava,
quella notte, che le stelle procedessero nel loro corso verso una meta comune. Era davvero - mi dissi -
l'ora dei nuovi inizi. Sapevo che era così.
Era un sentimento che di rado avevo provato prima. Sapevo bene di essere guidato, in qualche modo
inconoscibile, anche se raramente riuscivo a discernere dove e quando. Non mi illudevo certamente che
a difesa della mia pelle fossero schierate Potenze Immani: un colpo di spada mi avrebbe trapassato la
pancia come a chiunque altro. Sapevo anche di essere stato infinite volte a un passo dalla morte. Ma chi
sarebbe tanto sciocco da chiedersi quando si sarebbe ripresentato per lui il momento della fortuna?
In ogni caso, sentivo che in quella sera si diffondeva un'aura di magia, e non potevo ignorare quella
sensazione. Era nell'aria, e tutti l'avvertivano. La luce che pioveva dalle lampade di bronzo e d'argento
tingevano di riflessi dorati i legni della nave, e nel groviglio delle ombre potevo immaginare che fosse
l'Aghiir stesso a sedere di fronte a me, e non Thareesh. Rhalgorn, grigio e solenne, era identico al suo
congiunto Rheif. E non c'era bisogno di immaginazione per trasfigurare Signar, immenso e peloso, con il
grande pugno stretto attorno a un boccale di birra. Osservando i suoi occhi neri come l'agata, mi resi
conto che persino lui era rapito dall'incantesimo di quell'ora. La magia era su di noi, e non veniva né dal
presente né
dal lontano passato, ma dalle caligini di un tempo intermedio, indimenticabile... Signar ed io avevamo
già informato Thareesh del fatto che la flotta rhe-miana ci stava dando la caccia, e mi resi conto che il
nicieano non avrebbe compreso tanto facilmente i motivi per cui la nostra dama prigioniera potesse
causare tanto fermento, dato che nella sua cultura le donne hanno un ruolo ben diverso, e secondario.
Tuttavia, l'arciere non mi pose alcuna domanda al riguardo.
«Non credo che ti seguiranno fin qui,» mi disse. «Tuttavia, ciò non significa che non potrebbero farlo, se
lo volessero.» Alzò verso il cielo gli occhi senza palpebre. «Un tempo, non avrebbero ardito avvicinarsi
alle coste di Niciea. Ma ora...»
«E che cosa mi dici del Mar Meridionale?», gli chiesi. «Una nave vi si potrebbe avventurare senza essere
individuata?»
«Non credo, Aldair. I Rhemiani sono lenti e goffi, ma sono anche fitti come uno sciame di mosche, e per
di più non c'è ormai nulla al mondo in grado di contrastarli.»
Signar bevve una lunga sorsata di birra e mi guardò attraverso la punta del suo muso. Hai visto? mi
ammonivano i suoi occhi. Che ti avevo detto?
«In ogni caso,» feci ad alta voce, «è lì che dobbiamo andare, Thareesh.»
«Il Nicieano ti ha appena detto quello che ci succederà,» mi interruppe Signar.
«Ma noi siamo più veloci di qualsiasi altra cosa che oggi attraversi il mare. Anche i pochi vascelli nicieani
caduti in mano loro non potrebbero raggiungere l' Ahzir. »
«È vero,» ringhiò il Vikoniano, battendo sul tavolo il pugno enorme.
«Ma solo se non incontriamo vento cattivo, se non imbrogliamo le vele, se non incappiamo in una
secca... e se non capiterà alcuna delle centinaia di avversità che conosce benissimo chiunque abbia mai
avuto la disgrazia di comandare una nave. Come me, per esempio. Rischi del genere non significano che
il disastro è ineluttabile, Aldair. Quando ci si mette in mare, è
automatico attendersi qualche imprevisto. Ma quando, ai rischi di una traversata, si aggiunge tutta la
flotta rhemiana dietro la nostra poppa...» Si interruppe, lanciò un'occhiata significativa a Rhalgorn e
Thareesh, quindi mi fissò nelle pupille senza riprendere la frase lasciata a metà.
«...ti rendi conto di quali siano le probabilità a nostro sfavore?», conclusi io per lui. «Fai bene a parlarne
in questo momento, amico mio. Loro sono i nostri compagni. Sono qui per dividere i nostri pericoli, e
devono sapere per intero a che cosa vanno incontro.»
Thareesh rimase immobile come una pietra.
Rhalgorn staccò le mascelle da un cosciotto arrostito, e si leccò i denti. Entrambi mi fissarono. Io
fronteggiai i loro sguardi, ma non dissi nulla, per un lungo istante.
Poi, cominciai a parlare.
Cominciai a parlare, e raccontai loro tutto, come meglio potei, cominciando dall'inizio. Raccontai della
mia fuga dall'Università di Silium, accusato di crimini che non avevo commesso. Raccontai di come Rheif
ed io ci fossimo trovati, entrambi fuggiaschi, a bordo di una piccola barca, e di come avessimo osservato
le bianche scogliere di Albion attraverso la nebbia livida. Non dissi loro di ciò che avevo visto sull'Isola di
Albion, perché né i Nicieani né gli Stygiani seguono le dottrine della Chiesa; ma conoscono ugualmente
quel luogo tremendo, e ne hanno orrore. Per i Signori dei Lauvectii è un luogo d'incubi, in cui dimorano
creature della tenebra. Per i Nicieani, che vivono nella luce e nel calore del Sole del Sud, è un inferno
gelido e desolato. Per la mia gente, è l'Isola Oscura, nella quale vagano per l'eternità le anime dei morti.
Io, però, avevo calcato le spiagge di Albion, e non avevo visto nessuna di quelle cose.
C'è la morte, sicuro, laggiù, in un certo modo. Ma non è la morte del Mondo di Là.
Esistono cose peggiori della morte.
Ci sono la vergogna, il tormento e il disonore. E anche qualcosa di ancora più orribile. Raccontai di come
il mare ci avesse spinti a Sud, dove venimmo catturati e fatti schiavi dall'Aghjir Tharrin. Fu lui che mi
insegnò l'amore per i resti delle antiche città, e mi scelse come suo aiutante nella ricerca dei misteri
nascosti tra le rovine sepolte nel paese dei Tarcornii. E fu lui che divise con me il segreto che un giorno
lo avrebbe condotto a morte, facilitando il crollo dell'Impero di Niciea.
Quando, al mio paese, ero un bravo figlio della Chiesa, credevo ciecamente in ciò che mi era stato
insegnato: che la storia era cominciata tremila anni fa, con la Creazione del Mondo. Prima, c'era la
Tenebra. L'Aghjir Tharrin mi mostrò la follia di quell'insegnamento. Esseri sco-nosciuti avevano
camminato lungo le vie della città sepolta almeno cin-quemila anni prima della Tenebra favoleggiata dai
preti!
E c'era di più. Molto di più, come appresi in seguito. Tharrin non era la fonte di queste conoscenze, ma
solo un anello di una lunga catena. Un Cygnano schiavo, che tuttavia non era uno schiavo, era stato un
suo maestro in quelle nozioni. E, a sua volta, aveva un altro maestro... una creatura che viveva in una
desolata distesa di sabbia nel Gran Deserto orientale; un veggente dalla pelliccia lieve come l'acqua o la
seta, e occhi giallo-verdi con l'iride ornata al centro da fori simili a semi di melone. Fu quella creatura
che mi assegnò come missione la ricerca che, alla fine, mi fece approdare sulle coste di Albion. Come ho
detto, cercai di raccontare quegli eventi nel modo migliore possibile. Ma come si può parlare dell'Isola
Oscura in maniera che chi ascolta capisca?
Raccontai di grandi querce, spesse come colonne... dissi della selvaggina che vi abbonda, dopo secoli di
proliferazione non mitigata da alcun cacciatore. Descrissi le bianche ossa dell'immensa città morta:
pallide dita spettrali che cercano la luce al di sopra della chioma di alberi immensi. Infine, narrai della
mia discesa nei sotterranei della città, e di come nelle gallerie dimenticate mi venne rivelato il segreto di
Albion...
...Porte di metallo levigato, che si aprivano da sole con un sussurro... luci che ardevano fredde e
immobili, come nessun'altra lampada al mondo... Migliaia di finestre grigie e spettrali, che raccoglievano
movimenti, immagini e parole, legate a eventi del lontano passato. Finestre che sotto il mio sguardo
tornarono in vita, di fronte a me immobile, e mi narrarono la vera storia delle vicende antiche. Vidi
creature come me, che vivevano in capanne di fango presso il mare. Le capanne diventarono villaggi, i
villaggi città, le città piccoli regni. Assistetti alla fondazione dell'Impero Rhemiano... ai primi passi dei
Nicieani dei Vikoniani... alle migrazioni degli Stygiani dall'oriente... alla riduzione in schiavitù dei
Cygnani... vidi creature che volano, e che vivono in grandi torri, e creature che vivono negli abissi del
mare...
Alcune finestre grigie non tornarono in vita, e nessuno saprà mai quali storie dovessero raccontare.
Poi, in quella grande sala sotterranea, mi trovai per la prima volta di fronte a un'immagine delle creature
senza pelliccia.
Persino un Cygnano appena tosato per l'estate non apparirebbe così nudo e repellente.
Non avevano muso, ma una piccola appendice cartilaginosa, con due fori, un taglio ornato di pelle rossa
per bocca, e orecchie simili a quelle dei topi appena nati.
Erano quelle creature, appresi, che avevano eretto la città sotto la quale mi trovavo, e le altre città in
rovina sparse per il mondo. Città i cui edifici si alzavano fino al cielo.
Sovrane e possenti, quelle creature avevano camminato in quei luoghi meravigliosi, sciamando come api
su tutta la terra.
E un giorno, un giorno remoto di un'estate dimenticata, le vidi creare il mondo. Il mio mondo.
Vidi creature simili a me fatte uscire da gabbie scintillanti e abbando-nate nude su una collina. Le vidi
stringersi le une alle altre, piangendodalla paura. Vidi accadere la stessa cosa per i Nicieani, i Vikoniani,
etutte le altre razze. Ma i loro nomi erano quelli assegnati dalle creaturesenza pelliccia. Non erano i nomi
veri. Quei nomi io li conosco, ma non lirivelerò: perché ho visto quali creature eravamo, tutti, prima del
cambia-mento, prima che venissimo esposti, nudi, ai terrori del nuovo mondo. Hovisto le gabbie di vetro,
e le cose racchiuse all'interno, gelate nell'appa-renza della vita:.. Un gigante peloso con quattro zampe,
che artigliava unsalmone in un torrente... una creatura magra e grigia che ululava alla lu-na... una
creatura strisciante con la pelle di smeraldo, addormentata nelsole... una bestia lanosa col manto
arricciato e gli occhi mansueti...E anche me stesso, ho veduto. Una creatura pingue con zampe collose
euna piccola coda arricciata.
Ero lì: mangiavo una pannocchia presso un recinto. Vicino, una femmi-na allattava i suoi piccoli...
E questo era il tremendo segreto dell'Isola di Albion.
Noi non siamo uomini appartenenti a razze diverse, come abbiamo sempre creduto. Anzi, non siamo
uomini affatto. Siamo creature trasformate, bestie che hanno ricevuto in dono mani e piedi al posto di
artigli e zoccoli. Esseri vitalizzati come buffi giocattoli, per il divertimento dei nostri creatori. Perché?
Perché l'Uomo potesse sentirsi simile a un dio?
O, diversamente, perché potesse mostrare a se stesso tutto il suo odio immenso e bruciante?
Non c'era un suono nella cabina dell' Ahzir. Solo il debole scricchiolio del legno e l'eco della risacca
rompevano il silenzio. Né Thareesh né Rhal-gorn avevano trovato parola. E, in verità, quali parole
potrebbero soccorrere due creature cui era stato rivelato che non erano uomini, ma bestie cui altre
creature avevano conferito il dono della parola?
«Questo fu solo l'inizio dei peccati dell'Uomo,» dissi loro. «Non si accontentò di formarci, e di
abbandonarci sulla terra per vivere le nostre vite. Ci rese simili a lui... una caricatura grottesca
dell'Uomo, destinata a seguire i suoi passi.»
Rhalgorn alzò lo sguardo. Era grigio come la cenere, ma i suoi occhi erano rossi di rabbia.
«Aldair,» disse, «si può chiudere una lepre in gabbia, ma non la si può
trasformare in un uccello.»
«Ma è questo ciò che Aldair ha cercato di dirvi,» intervenne Signar.
«Siamo uccelli in gabbia, che ci piaccia o no!»
Rhalgorn si apprestava a parlare di nuovo, ma io lo interruppi.
«E' proprio questo il peccato più grande, Stygiano,» feci. «Noi non possiamo vivere le nostre vite, come
creature libere. In quel luogo sotto la città, io ho visto la storia dell'Uomo. Anzi, le sue molte storie. Non
tutte, ovviamente, ma abbastanza per capire. Fra gli uomini, in tempi remoti, ci furono creature conte
te, che vivevano tra le foreste del Nord, e depredavano il mio popolo. Ci fu un Impero come quello
Rhemiano, che tentò di conquistare il mondo.» Guardai Signar e Thareesh. «E ci furono genti del
settentrione, che navigavano su navi lunghe e snelle. E popoli del deserto, che governavano le coste del
Mar Meridionale. Noi stiamo ripetendo lastoria dell'Uomo, Rhalgorn. Siamo incatenati alle sue vittorie e
alle suesconfitte. L'Uomo ha marcato il suo destino nelle nostre anime! »
Per la prima volta il Nicieano parlò.
«Che Aastar maledica lui e i suoi figli!»., disse. «Sempre che ci sia un Creatore al di sopra dell'Uomo per
mandare a effetto la maledizione,» aggiunse con una triste scrollata di spalle. «Non avrei mai
immaginato di dover pronunciare una simile eresia. Ma ormai l'ho detta.»
Rhalgorn spinse indietro la testa e rise. La sua risata ha un suono diverso da quella di tutte le altre razze,
e il verso insolito ci riscosse.
«Thareesh,» fece poi lo Stygiano, «io non so nulla dei tuoi dèi né dei loro poteri. Ma mi sembra che loro;
o i miei, o quelli di qualcun altro abbiano già realizzato il tuo desiderio. Non c'è più l' Uomo fra noi, né
ci sono i suoi figli.»
«In questo hai ragione,» feci io. « Lui non c'è più. Ma il suo peccato è
ancora sopra di noi.»
«Le colpe possono essere lavate,» fece Rhalgorn in tono solenne. «Le maledizioni si possono spezzare.»
E dicendo questo strinse l'impugnatura della sua spada, per mostrarci la sostanza dei suoi metodi. «Io
stesso l'ho fatto, qualche volta; e posso farlo un'altra.»
Lo fissai, poi passai lo sguardo sugli altri.
D'improvviso, sentii una tremenda corrente di forza fluire tra noi, e seppi che in essa c'era molto di più
della somma delle nostre forze individuali. C'era qualcosa d'altro. Qualcosa che era venuto alla luce
improvvisamente, ci aveva toccati, ed era scomparso. Ma aveva lasciato dietro di sé un sentimento più
ricco, e più completo, di quanto non dimorasse prima nei nostri spiriti. Signar versò birra per tutti, con
una misura extra per Rhalgorn e Thareesh: sapeva che ne avrebbero avuto bisogno per addormentarsi,
quella notte.
Volentieri avremmo cercato tutti l'oblio: ma il destino aveva deciso altrimenti. Avevamo appena portato
il boccale alle labbra, quando la sentinella lanciò un grido d'allarme, e colpi concitati batterono alla
nostra porta. OTTO
«Che significa, scomparsa?» ruggì Signar, afferrando il marinaio terrorizzato per i vestiti e sollevandolo
da terra. «Scomparsa dove, maledizione?»
Dal ponte venivano grida di allarme e scalpiccii di passi in corsa. Spinsi da parte il vikoniano e emersi
all'aria aperta. L'siir, uno degli amici di Thareesh che si erano aggiunti al nostro equipaggio, mi fermò
vicino al parapetto.
«Laggiù, Signore,» fece. «Nel mare...»
Seguii con lo sguardo la direzione indicata dal suo dito verde e scaglioso, ma non vidi nulla. Dietro di me
risuonò la voce di Rhalgorn.
«Sarai contento, ora, di avere uno Stygiano a bordo, perché veda ciò che tu non puoi vedere. Se non ci
fossi io, qui, Aldair...»
«Per favore, smettila e limitati a dirmi quello che vedi.»
«È la donna, precisamente. È a bordo di una di quelle scialuppe nicieane che abbiamo con noi. Quelle
cose che sembrano tronchi appuntiti con un lenzuolo attaccato a un palo.»
Il Nicieano gli lanciò uno sguardo che avrebbe ucciso un toro. Dietro di noi, la voce di Signar rimbombò
come un tuono.
«Il peggio deve ancora venire, temo. In qualche modo quella femmina ha colpito in testa una guardia,
quella stessa che, quando è rinvenuta, ha dato l'allarme.» Le sue orecchie pelose pendevano flosce
lungo il cranio.
«E la guardia mi ha detto che, poco prima di essere colpita, aveva appena sentito dare il cambio alle
sentinelle.»
Lo fissai per un istante, poi compresi. Sentii un brivido salirmi su per la nuca.
«Sì,» fece Signar, guardandomi negli occhi. «È stata libera di vagare sul ponte per un'ora o più,
sicuramente.»
«Allora, ci ha sentiti. Ha sentito tutto quello che io ho raccontato. Questo taglia la testa al toro.
Dobbiamo riprenderla. Le cose che ha udito non devono uscire dalle sue labbra.»
Signar fece un gesto con la mano.
«Il vento ci è favorevole,» disse. «Non arriverà lontano. L'unico pericolo è che la perdiamo di vista nella
notte.»
Gli artigliai il braccio.
«Questo Non deve accadere! »
«Chi mai avrebbe sospettato che quella femmina avesse nozioni di vela e navigazione,» fece Thareesh in
tono meditabondo. Non mi ero accorto che l'arciere si era unito a noi; ma è difficile sentire l'avvicinarsi
dei Nicieani, che sono silenziosi almeno quanto gli Stygiani. «È una cosa abituale dalle tue parti, Aldair?
Io non l'avrei mai sospettato.»
«Non può saperne troppo,» disse Signar. «Si sta dirigendo verso sud, con un robusto vento di poppa,
che è proprio ciò che farebbe un dilettante al timone. Presto le saremo addosso, e da quella parte non
arriverà mai a ricongiungersi ai suoi amici Rhemiani.»
Ma Signar aveva parlato troppo presto.
Le sue parole avevano appena finito di aleggiare nell'aria, che una vedetta lanciò un grido. I nostri
sguardi si indirizzarono verso ovest-nordovest, subito sotto la linea dell'orizzonte. Quattro vele scure
venivano verso di noi, gonfie del vento notturno. Tre appartenevano ad altrettanti tozzi e grevi
bastimenti rhemiani, la quarta a uno snello scafo nicieano catturato, quello stesso che avevamo
osservato qualche giorno prima. Quest'ultima imbarcazione era ben più avanti rispetto alle altre, e la
sua prora tagliava le onde come una lama sottile.
Signar bestemmiò e lanciò una serie di ordini concitati. Le nostre vele si alzarono e si gonfiarono, e la
nave saltò sulle onde come un capriolo. Pochi istanti più tardi, un marinaio gridò, e vedemmo una serie
di proiettili, lanciati dalle navi rhemiane, solcare il cielo piegandosi nella nostra direzione. Erano almeno
una dozzina, e da lontano sembravano piccole scintille infuocate. Avvicinandosi, tuttavia, si
ingigantirono diventando simili a soli fiammeggianti, grandi come covoni di fieno. Parallelamente alla
nostra fiancata, si levò una serie di spruzzi, misti di fiamme, acqua e vapore. Eravamo ancora fuori tiro. I
Rhemiani lo sapevano bene, e non avevano lanciato con l'intento di colpirci, ma semplicemente per
prendere le misure e aggiustare il tiro. Rhalgorn mi venne accanto e artigliò con le mani una fiancata.
«Mi hai proprio tirato dentro a una splendida avventura, Aldair,» fece.
«Prima mi fai rizzare i peli sul cranio con le tue storie di anime morte e di uomini che non sono uomini.
Poi mi abbandoni sul mare, in balia di quei diavoli che sarebbero ben felici di arrotare le unghie su di noi.
Il tuo comportamento, sappilo, non mi piace per nulla, e ti sarei molto grato se tu volessi riportarmi
nelle foreste dei Lauvectii il più presto possibile.»
«Ti assicuro che, ora come ora, persino io sarei felice di accompagnarti fino a casa tua,» risposi. «Il
problema è che in questo momento non mi è
perfettamente chiara la direzione da prendere.»
I Rhemiani indirizzarono un'altra salva alla nostra volta, e poi una terza. Non arrivarono più vicino della
prima. Ben presto aumentammo il nostro distacco, e non fummo più oggetto di attenzioni focose.
Se uno di quei colpi ci avesse raggiunto, saremmo andati in fiamme come una torcia coperta di resina, e
nessuno di noi si sarebbe salvato. Ma, ovviamente, una cosa del genere sarebbe potuta succedere
soltanto se noi fossimo rimasti immobili in mezzo al mare come una zucca in un orto. Ciò
non era precisamente conforme ai nostri desideri, per cui ci affrettammo a porre qualche altro miglio di
mare fra noi e le tozze bagnarole che stavano alle nostre calcagna. La nostra nave era molto più veloce,
e la manovra non presentò alcuna difficoltà.
Il vascello nicieano poneva invece qualche problema. Era in grado di inseguirci a non troppa distanza,
rimanendo in attesa di qualche evento che facesse girare la fortuna in senso a noi avverso. Il che
appariva come un'eventualità tutt'altro che da scartare, come sa chiunque si avventuri su per gli oceani.
«Potremmo virare, passare sotto il loro naso e scomparire nel buio,»
suggerì Signar con voce speranzosa. «Io, con questa nave, sono in grado di tagliare il vento senza
difficoltà.»
«Non ne dubito, amico mio,» risposi. «Il problema è che prima dobbiamo trovare lei. »
«E per far questo, in primo luogo dovremmo avvistarla,» borbottò il Vikoniano, scomparendo nel buio.
«Abbiamo occhi che sanno scrutare nella notte,» gli ricordai. «Ho forti dubbi che a bordo delle navi
rhemiane ci siano Stygiani di vedetta. Questo è un punto a nostro favore.»
«Lo so già. Quella creatura insopportabile me lo rammenta due volte al minuto,» rispose il Vikoniano.
Poi indirizzò una bestemmia alla volta della nostra prora. «Per la barba del Creatore, Aldair... è una cosa
da non credere. Quel mostro è praticamente identico a Rheif. Evidentemente, tutti gli Stygiani sono
uguali.»
«Non sarei così drastico. Rheif era un buon amico, anche se era propenso a qualche esagerazione.
Rhalgorn, per molti versi, è differente.»
Gli Stygiani finiscono per entrare in simbiosi con quanti stanno al loro fianco. Ma la loro presenza è
qualcosa di analogo all'orticaria o alla forfora: si sopporta solo dopo averci fatto l'abitudine. Lo guardai.
Aggrappato con tutte le sue forze, artigliava la prora del vascello lottando per non farsi strappar via dalle
onde. Inzuppato fino all'osso, bianco di spuma, pareva un fantasma appena emerso dall'abisso.
«Rhalgorn, hai un aspetto miserabile,» gli feci, avvicinandomi a lui il più possibile.
«Questa tua osservazione è davvero poco decorosa,» rispose a labbra strette. Teneva le mascelle
serrate, e i muscoli si flettevano lottando contro la forza delle onde. «In particolar modo se si considera
che la mia vista è
responsabile della sicurezza di tutte le persone che sono a bordo di questa barca.»
« Nave. È una nave. E i tuoi servigi sono grandemente apprezzati.»
«Ne dubito. Gli Stygiani non godono della stima che meriterebbero presso le altre razze. E il mondo non
sa ciò che perde per questa dimostrazione di ignoranza.»
Non mi parve il momento adatto per fare obiezioni.
«Vedi qualcosa?» gli chiesi. «Non c'è nulla in mare?»
«È una domanda che mi fanno all'incirca una volta al secondo. La rispo-sta, Aldair, è sì. Vedo qualcosa,
anzi molte cose. Ma tutte quante hanno un nome solo: acqua.»
Sentii il gelo artigliarmi lo stomaco. «Vuoi dire che l'abbiamo perduta?»
«Non ho detto questo. Non riesco a distinguerla... voglio dire che non vedo la sua forma, quella di donna
in una barca. È difficile da spiegare. È
lì, davanti a noi, ma è soltanto un'ombra fra le tante altre che animano il buio.»
Per uno Stygiano, era un'ammissione significativa. Rheif giurava che sarebbe stato capace di contare i
pidocchi fra le penne di un falco che volava in cielo, quando io non riuscivo a vedere nemmeno il falco.
«Fai del tuo meglio,» gli dissi. «Quella donna non deve raccontare ai Rhemiani ciò che ha udito.»
«Perché?» chiese lo Stygiano. «Con tutta probabilità, non le crederebbero. Io stesso non sono per nulla
sicuro di crederci.»
Questo, ovviamente non era vero. Avevo ben visto la sua faccia, giù
nella cabina.
Un'ora dopo mezzanotte, Rhalgorn annunciò che, non per colpa sua, aveva perso di vista la donna nella
barca. Aguzzò ancor a lungo gli occhi nelle tenebre, ma era chiaro che non si aspettava più di veder
nulla.
«Dove stava drizzando,» gli chiese Signar, «l'ultima volta che l'hai vista?»
«Drizzando?» fece Rhalgorn. «Che cosa significa drizzare, montagna di pelo? Io non sono un marinaio, e
non conosco i termini mistici della vostra arte.»
Signar inghiottì rumorosamente la sua bile.
«Andava ancora verso sud?» fece, con la voce più gentile possibile. «O
aveva cambiato direzione, verso nord, o verso ovest?»
«Verso est,» rispose Rhalgorn. «Un pochino spostata a sud, ma principalmente verso est.»
Signar ed io ci guardammo negli occhi. «Verso terra?»
«Non di sua volontà, credo,» disse dopo un istante il Vikoniano. «Il vento e la marea trascinano le
piccole imbarcazioni, quando non le si sa governare bene. E non penso che questo sia il caso della nostra
ex prigioniera.»
Malgrado le proteste del Vikoniano, feci dirigere anche la nostra nave verso terra. Non potevo
rimproverare al mio amico la sua prudenza: non sapevamo nulla della costa che si allargava davanti a
noi, e non potevamo sapere se ci attendevano scogli o secche. La sentinella, comunque, riferì
che la nave nicieana inseguitrice aveva cambiato rotta insieme con noi, restando sempre in nostra vista.
Era come se una corda invisibile unisse i due scafi.
Eravamo abbastanza vicini alla terra da vedere la scura massa della costa. Una spiaggia sottile era rotta
dall'urto delle lunghe onde bianche di spuma. Eravamo tutti in perfetto silenzio, mentre Signar, insieme
con i suoi due più abili scandagliatori, immergevano lunghe funi nell'acqua per misurare la profondità
del fondale. Solcavamo le acque tenebrose senz'altro rumore all'intorno che quello delle onde, e il grido
lontano degli uccelli che volavano lungo la costa. Il cielo era senza stelle, e giudicai che fosse all'incirca la
terza ora della notte, o poco più tardi.
Fra poco il Sole sorgerà, e dobbiamo ancora trovarla, pensavo. Magari,in questo stesso momento, si è
già riunita alla sua gente, e sta raccontandociò che ha udito al capitano di una nave rhemiana.
L'idea mi terrorizzava. Non condividevo l'opinione di Rhalgorn, secondo cui la storia sarebbe stata
accolta dall'incredulità più totale. I preti di Niciea avevano appreso soltanto una piccola parte del
segreto: sapevano solo che il mondo era molto più antico di quanto raccontavano le religioni. Ma questo
semplice frammento di conoscenza era parso loro talmente minaccioso che non avevano esitato ad
aizzare la gente contro di noi, e a provocare la fine di un Impero. Come diceva spesso il saggio Aghjir
Tharrin, la verità è una lampada che talvolta brilla di luce troppo vivida perché la gente accetti di
vederla.
Non volevo neppure pensare a ciò che sarebbe successo quando i Buoni Padri della Chiesa di Rhemia
avessero udito il racconto della ragazza. Erano enormemente gelosi del loro dominio. Se soltanto
avessero pensato che stava per diffondersi un verbo che poteva mettere in dubbio i loro insegnamenti,
avrebbero smosso le montagne pur di tacitarci. E, peggio ancora, c'erano potenti che, dopo essersi
impadroniti della verità, avrebbero cercato di nasconderla per usarla a loro vantaggio. Se costoro
avessero immaginato che, in un certo modo, si potevano aprire spiragli verso la storia futura, niente
avrebbe potuto fermarli. Non avrebbero esitato a mettere un intero mondo in catene, pur di stringere
nelle loro mani le estremità di quelle stesse catene.
E c'era poi un'altra mia inquietudine, che non avevo diviso con i miei compagni. Non riuscivo a capire
come l'Uomo avesse indirizzato sin dall'inizio il corso della nostra storia, e come avesse potuto
tracciarne la dire-zione. C'era forse, da qualche parte della nostra terra, una specie di gigantesco
orologio che batteva gli istanti del nostro destino? Forse era proprio così. E
se c'era qualcosa in grado di farci danzare come burattini appesi a un filo, che cosa avrebbe potuto fare
a noi, povere figure di pezza, che con le no-stre deboli forze tentavamo di ballare ad un ritmo differente
da quello cherisuonava dall'inizio dei secoli?
Non potevo dire se, con un atto sciocco e inconsiderato, avrei potuto scatenare una serie di avvenimenti
tali da mettere il mondo a ferro e fuoco. Magari, l'atto in questione poteva non dipendere neppure da
me. Potevano bastare, forse, poche parole pronunciate da una ragazza rhemiana. Avevo già passato
molte notti insonni, tormentato da pensieri simili a questo. Un sussurro interruppe le mie meditazioni.
Corsi subito al fianco di Rhalgorn.
«Là,» fece lo Stygiano. «Là c'è la barca, Aldair. C'è di sicuro, anche se dubito che tu possa vederla.»
Mi voltai per cercare Signar, ma il vikoniano era già dietro di noi.
«Non mi piace,» disse. «Siamo vicino alla foce di un fiume. Lo capisco dal rumore delle onde contro il
nostro scafo, e dall'odore dell'acqua.»
«Signar, dirigi a terra!»
«Se i fondali...» Si interruppe e scosse la testa, andando di corsa verso il timoniere. In pochi secondi,
virammo di bordo, cogliendo una corrente favorevole. Curvandomi a poppa, scrutai nelle tenebre dietro
di noi, e quasi non credetti ai miei occhi. I nostri inseguitori ci passarono a fianco nelle tenebre, e ci
superarono, scomparendo verso sud, mentre noi entravamo nella foce del fiume.
NOVE
Caso o fortuna ci furono favorevoli, quella notte.
Non rimanemmo in secca né andammo a sfasciare lo scafo contro qualche scoglio sommerso. Invece,
filammo rapidi e sicuri, vincendo una debole corrente. La barca che la nostra prigioniera aveva rubato ci
mise di fronte a nuovi misteri. Galleggiava libera, con la prora impigliata nei rami delle piante che dalla
sponda fluviale scendevano verso l'acqua. Non c'era segno che alla donna fosse capitato qualcosa di
male, e dubitavo che fosse caduta in acqua, dopo aver navigato senza problemi in mare aperto. All'alba,
Signar inviò pattuglie ad esplorare la foce del fiume, ma non se ne vide traccia.
«Dev'essere qui intorno,» osservò il Vikoniano. «Se avesse preso terra vicino al mare, non avremmo
trovato qui la sua barca. Per risalire la corrente del fiume fino a qui, qualcuno deve avercela portata.»
Le rive, su entrambi i lati, erano coperte di vegetazione che si spingeva fin dentro l'acqua.
Evidentemente la donna aveva risalito la corrente fino ad un certo punto, e poi era scesa a terra,
abbandonando la barca. L'unica cosa da fare era di inoltrarci anche noi lungo il fiume.
Non fu impresa facile per l' Ahzir, che era stato costruito per il mare. Per avanzare, ammainammo le
vele e cominciammo a manovrare i remi come pali, immergendoli nella melma del fondale: le rive erano
troppo vicine per permetterci di remare nel modo tradizionale.
Quando il Sole cominciò ad essere alto nel cielo, la calura crebbe e l'aria si fece incandescente. Il fiume
era scuro e fangoso, e puzzava di marciume. Sotto il pelo dell'acqua si vedevano scivolare forme
indistinte che - grazie al mio invincibile ottimismo - supposi fossero pesci. Sulle rive crescevano alberi
immensi dai tronchi nerastri, che allargavano sul nostro capo le grandi chiome. Attraverso il fogliame
penetravano soltanto brevi lame di luce, che disegnavano macchie indistinte sull'acqua e ci dipingevano
(tutti tranne i Nicieani) di uno sgradevole colore verdastro. Dalla vegetazione piovevano liane larghe
quanto un braccio, simili al sartiame di un vascello gigantesco. Più di una volta dovemmo impiegare
degli uomini perché, aiutandosi con pali, spingessero di lato gli ostacoli pendenti che ci intralciavano la
rotta. L'impressionante calore che rendeva quel posto simile a una fornace non piaceva a nessuno, ma
chi soffriva più di tutti era il vikoniano, abituato ai ghiacci. Quanto a Rhalgorn, prese il clima infame del
luogo come un insulto rivolto espressamente alla stirpe degli Stygiani. Pur nello sconforto, eravamo
affascinati dall'aspetto terribile dell'ambiente. Era una regione del mondo sconosciuta e insolita. Persino
i Nicieani, pur essendo grandi navigatori, non si erano mai spinti tanto lontano, verso sud.
«Credo che queste terre finiscano con incontrare il Grande Deserto, detto anche Grande Desolazione,»
fece Tharresh. «Da noi si raccontano molte storie intorno a quel luogo, e si dice che vi siano nascosti
grandi tesori.»
«I tesori si trovano sempre in luoghi dove nessuno avrebbe voglia di andare,» fece Rhalgorn
gravemente, asciugandosi il sudore dal muso. «Devo ancora sentir parlare di un tesoro che sia nascosto
in una località amena e ridente... per esempio sotto una quercia maestosa nelle foreste dei Lauvectii.»
Non potei fare a meno di ridere. «Nelle nostre favole,» dissi, «è proprio lì che gli stregoni malvagi
nascondono i tesori.»
«Peccato che non veniate a cercarli troppo spesso, specie all'ora di pranzo.»
Non gli risposi, e mi misi ad ascoltare i suoni provenienti dall'universo verde che ci circondava.
La bizzarria del luogo aveva l'effetto di inquietare e innervosire tutti coloro che si trovavano a bordo. A
mezzogiorno, tra la ciurma scoppiò una rissa. Un fatto del genere non si era mai visto prima, e la contesa
era nata praticamente dal nulla.
In un'altra occasione, rivolsi la parola a Thareesh per fargli un'osservazione, e vidi il nicieano guardarmi
con il fuoco negli occhi, e quindi voltarmi le spalle per allontanarsi senza rispondere. Che creatura
ripugnante, mi sorpresi a pensare del mio amico. Con quel suo puzzo dolciastro di sca-rafaggi, e
quell'orribile testa verde. A questo punto mi ripresi, troncando il flusso dei pensieri. Non avevo mai
avuto opinioni del genere sui Nicieani!
Che cosa mi stava succedendo? Cercai di soffocare quei pensieri insoliti, e concentrai la mia attenzione
sul mondo circostante. Eravamo una ciurma immusonita e taciturna, quel giorno, con poca voglia di
essere d'aiuto a noi stessi e agli altri.
Nel tardo pomeriggio eravamo tutti troppo esausti per pensare a litigare. Il sentimento dominante era
una torpida indifferenza. Io mi davo del pazzo per aver trascinato tutti in un viaggio così inutile e
pericoloso. La ragazza era di sicuro annegata, o era stata divorata da qualche mostro (anche se l'idea mi
faceva star male). E se pure era viva, dove mai avremmo potuto trovarla?
Stavo quasi per ordinare a Signar di portarci via da quel posto orrendo e di far rotta verso il mare,
quando la duplice cortina verde che si alzava dalle sponde del fiume si interruppe bruscamente, e ci
ritrovammo sotto il cielo aperto, senza più rami sopra la testa.
Galleggiavamo su un lago immobile come una lastra di bronzo, circondato da alberi alti e dritti. Le
sponde si levavano a picco sull'acqua, circondandoci come i bordi di un'immensa tazza.
«Conviene dare un'occhiata alla riva,» dissi a Signar. «Una breve occhiata. In questo luogo c'è qualcosa
che non va, e voglio averci a che fare il meno possibile.»
Non portammo l' Ahzir a ridosso della riva. Grandi scogliere grigie spiccavano tra le onde, per cui ci
accostammo ad esse con prudenza, a forza di remi, e quindi le usammo come passerelle. Erano
abbastanza compatte da tenerci all'asciutto, e sarebbero state utili se per caso avessimo dovuto lasciare
quel luogo in fretta. Lo Stygiano trovò modo di divertirsi, saltando con agilità da uno scoglio all'altro, e
quindi fermandosi a guardare noialtri che gli arrancavamo faticosamente dietro. Thareesh ed io
cercammo di ignorarlo; ma non era impresa facile. Avvicinandoci a terra, tuttavia, sentivamo crescere in
noi un insopprimibile timore, un senso di panico che scorticava i nervi e accelerava i battiti del cuore.
Rhalgorn non ne era immune, ma aveva deciso di dimostrarci che gli Stygiani non danno peso a cose di
questo genere. Continuò i suoi esercizi acrobatici fino a quando non fummo prossimi alla sponda, poi si
voltò ancora una volta verso di noi, per farci vedere quanto era stato bravo. Vidi il solito sogghigno
dipingersi sul suo volto... e lo vidi scomparire all'improvviso. Sotto i suoi stivali, il macigno sul quale si
trovava aveva cominciato a tremare e vibrare. Quindi si alzò in aria, facendolo andare a gambe levate.
Una colonna d'acqua spruzzò verso il cielo, e ricadde sulla nostra testa.
E allora quello che sembrava un masso si rivelò per ciò che era: non una pietra, ma una gigantesca,
orrida creatura che torreggiava sulle nostre teste. Thareesh ed io incoccammo le frecce ai nostri archi.
La cosa gridò, si scosse e agitò le braccia all'intorno. Era un mostro enorme, nero, grande tre volte un
vikoniano, con un largo petto e braccia e gambe come alberi. La pelle era grigia, e appariva spaccata
come l'argilla secca. Le sue dimensioni, da sole, erano terrificanti, ma non erano tutto. Sulle spalle si
alzava una testa grande come un barile, con ai lati due immense orecchie piatte, piccoli occhi neri e un
naso incredibile, che si agitava e si arrotolava sopra la sua bocca come un ripugnante tentacolo. Ai suoi
lati, uscivano dalle mascelle due lunghi, appuntiti denti giallastri, due zanne mostruose che si
incurvavano verso l'alto.
Per un'intera eternità il mostro terreggiò sopra di noi, artigliando l'aria e oscurando il Sole con la sua
mole. Poi, con un barrito che spaccò il cielo, si voltò tuffandosi nell'acqua, e cominciò a guadare
faticosamente verso la riva, prendendo terra in un punto in cui era sufficientemente bassa. Lo vedemmo
arrampicarsi sulla terraferma, ed allontanarsi verso l'interno. Fu facile seguire il suo cammino, perché
non c'era vegetazione che restasse intatta dopo il suo passaggio.
Guardai Thareesh.
Il Nicieano era immobile come un pupazzo di neve, la freccia ancora incoccata all'arco, e puntata verso il
nulla.
«Perché non hai tirato?», gli chiesi. «Non avrai avuto paura di mancare il bersaglio, spero.»
Il Nicieano si riscosse, e la sua lunga coda verde gli frustò le gambe.
«Domanda interessante,» fece. «Stavo proprio per rivolgertela anch'io.»
Lo fissai negli occhi, mentre lui mi dedicava la versione nicieana di un sogghigno perplesso. Nessuno dei
due aveva una risposta coerente. Eravamo entrambi arcieri esperti; tuttavia, di fronte a quel mostro,
non avevamo lanciato una sola freccia. Più tardi apprendemmo che anche a bordo nessuno
dell'equipaggio era corso a prendere le armi, e pochi di quelli che già le stringevano, le avevano
sollevate contro la creatura.
«Sono lieto di essere sotto la protezione di così prodi guerrieri,» fece cupamente Rhalgorn, mentre si
issava sopra il nostro scoglio. Ci fissò entrambi, mentre cercava di asciugarsi il pelo. «Proprio una
splendida dimostrazione di coraggio, amici. Che cosa avreste fatto, se quell'accidente avesse deciso di
afferrarmi e divorarmi sul posto? Gli avreste offerto uno stuzzicadenti?»
Thareesh aprì la bocca per rispondere, perché i Nicieani sono combattenti fieri del loro coraggio. Ma non
pronunciò una sola parola. Invece, tutti e tre sbarrammo gli occhi verso la riva. Gli alberi dritti che la
circondavano era brulicanti di quelle creature. I mostri barrivano, si agitavano e pestavano la terra,
facendo sollevare nubi di uccelli colorati che si allargarono sul lago. Era una vista incredibile, ma non
tanto quanto quella che seguì. Fra la truppa dei mostri schierati, apparve all'improvviso la nostra
fuggitiva, vide la nave immobile nel lago, e si precipitò verso di noi, come per incontrare amici ritrovati
dopo tutta una vita.
DIECI
L'esperienza con i giganti l'aveva chiaramente snervata, perché mi si gettò urlante fra le braccia, mi
strinse da togliermi il fiato, e cominciò a piangere sulla mia spalla.
Fu un felice interludio; tuttavia, ahimè, fuggevole.
Tornò subito in sé, e riprese la sua vecchia pratica di battermi con i pugni, graffiarmi il muso e tirarmi
calci negli stinchi, pronunciando atroci ingiurie.
«Stavo quasi per preoccuparmi,» le dissi. «Avevo cominciato a temere che quei mostri ti avessero
gettato un incantesimo. Credo di poter dire che non è vero.»
«Lasciami,» gridò. « Lasciami! Non osare mettermi le mani addosso, tu, specie di bifolco!
Poiché ero giovane e folle, mi sforzai di calmarla. Il che provocò una moltiplicazione dei suoi isterismi.
Avevo già graffi profondi intorno al naso e agli occhi; ma quando cominciò a strapparmi il pelo dalle
mascelle, la sollevai da terra, me la caricai in spalla e la portai di peso sulla nave, gettandola sul ponte.
Come compenso per le mie fatiche, ebbi di scorcio la fuggevole vista di un codino rosa, e di altre delizie
per le quali tuttavia in quel momento non provavo soverchio interesse.
Avremmo potuto lasciare subito quel luogo, ma Signar giudicò imprudente avventurarsi nel fiume
mentre calava la notte. Per cui, a forza di remi ci dirigemmo al centro del lago, e lì gettammo l'ancora.
Disposi una tripla vigilanza armata fino all'alba. Come precauzione supplementare, accendemmo torce,
le ponemmo in cima a lunghi pali, e le spingemmo oltre le fiancate, in modo da far luce quanto più
possibile intorno a noi. Se i mostri avessero deciso di avvicinarsi, li avremmo scorti da lontano.
Quando la prigioniera apprese che avremmo passato la notte lì, fu colta da un nuovo attacco isterico.
«No, no, non fatelo!» cominciò a gridare, con gli occhi sbarrati e scuotendo la testa, in preda a un
evidente terrore. «Dobbiamo andarcene da qui subito. Non... non sapete! Sono creature terribili,
orrende!»
«Pensi che ci assaliranno, allora?», chiese Signar.
Lei emise una breve risata nervosa. «Vuoi dire assalire la nave? No che non lo faranno. Hanno paura di
voi. Hanno paura di tutto!»
«Non mi sembrano troppo spaventati,» fece solennemente Rhalgorn. Lei lo gratificò di un gesto di
disprezzo col mento, e guardò da un'altra parte. Era ancora terrorizzata dallo stygiano, ma non voleva
darlo a vedere.
«Se uno di voi idioti volesse dedicarsi un momento a riflettere,» fece,
«capireste quello che voglio dire. Tutti quei barriti, quel trapestio, quell'agitazione, non sono altro che
manifestazioni di terrore. Io sono stata con loro... lo so. Sono spaventati, come bambini. È più forte di
loro!»
«Sono piuttosto grandi per essere bambini,» ringhiò Signar.
«E piuttosto pesanti,» aggiunse Rhalgorn. «Non mi piacerebbe affatto che uno di loro mi calpestasse,
mentre fugge in preda al terrore.»
«Un momento,» dissi io. Versai altro vino nelle coppe protese tutt'intorno, e porsi alla ragazza una
scodella piena di zuppa e una fetta di pane. La paura, constatai, non le aveva fatto perdere l'appetito.
«Hai detto che è più
forte di loro. Che cosa volevi dire?»
«Quello che ho detto. C'è qualcosa qui. Un' aura di terrore tutto intorno a loro. Una cosa terribile,
orrenda. Non l'avete avvertita, anche da lontano?
So, vedo che ve ne siete accorti. E non potete immaginare che cosa voglia dire essere vicini a quelle
creature.»
Ci raccontò di com'era fuggita, decisa a raggiungere le navi rhemiane, anche se non sapeva esattamente
dove fossero, ed anzi non fosse neppure certa che ci avessero seguito, fino al momento in cui non aveva
visto la prima salva di colpi scagliati verso di noi. Poi aveva scorto la terra, era entrata nella foce del
fiume, aveva aspettato un po', e infine aveva deciso di scendere a riva e di attraversare la giungla fino a
ritornare sulla costa.
«Avresti potuto tornare indietro con la barca,» le dissi. «È stato sciocco toccar terra e addentrarti in una
regione sconosciuta.»
Mi guardò come se fossi un verme. «Tornando indietro in barca, mi avreste vista subito. Non sono poi
così stupida, sai.»
«No. Non lo sei.»
«I mostri ti hanno catturata, dunque,» fece Signar.
«Non appena messo piede a terra. Hanno dei passaggi nella foresta, simili a tunnel praticati nel verde.
Guardando dal fiume, sembra che nulla possa passare attraverso quella barriera vegetale, ma non è
così.» Si interruppe, torse un istante le mani, poi riprese a parlare, senza guardarci in volto. «Non potete
capire come sia orribile trovarsi in mezzo a tante di quelle creature. In realtà, loro non mi hanno
catturata, nel vero senso della parola. Sarei potuta fuggire, penso, se avessi avuto un posto dove andare.
Ma avevo... paura di provarci. Si ha sempre paura quando si è vicino a quegli esseri.» Rise, con un
suono un po' troppo squillante. «Si ha quasi tanta paura quanto loro ne hanno di noi!»
«Evidentemente, ha ragione,» disse Thareesh, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «C'è una
qualche forza ignota in quelle creature, Aldair. Non è stata la nostra innata codardia a impedirci di
scagliare le frecce.» E lanciò uno sguardo significativo in direzione dello Stygiano.
«Sarà con immenso piacere che lascerò questo luogo,» fece Signar. «E
non credo che avrò molta difficoltà a far lavorare la ciurma.»
In quel momento mi venne un pensiero, e non potei fare a meno di esprimerlo, con un adeguato
sogghigno.
«A quanto sembra,» dissi rivolto alla ragazza, «i tuoi nuovi carcerieri non sono stati poi migliori dei
primi. Se proprio dovevi scappare, potevi scegliertene di più adatti al tuo rango...»
La vidi impallidire dall'ira, e volgersi verso di me con tale impeto che temetti volesse scavalcare la tavola
d'un balzo per saltarmi agli occhi.
«Davvero?» gridò. «Proprio? Ebbene, comincio a pensare che sarei stata meglio con quei mostri
piuttosto che con degli ... degli eretici!»
«Dunque, hai ascoltato.»
«Sì, ho sentito tutto!» Il suo mento si alzò in segno di sfida e sulla fronte si disegnarono le rughe del
corruccio. Mi scrutò con uno sguardo misto di curiosità e disprezzo. «Siete matti, per caso? Credete
davvero a quelle fantasie, e vi aspettate che gli altri ci credano?»
«Non sono fantasie, purtroppo. Non sai quanto ardentemente vorrei che lo fossero.»
«Per favore.» Chiuse gli occhi e scosse la testa. «Non sono la figlia di un contadino, che gode e si
spaventa alle storie di fate. Ho studiato, sai?»
Lanciò in giro uno sguardo divertito. «Ho studiato probabilmente più di quanto possiate dire tutti voi
messi insieme.»
«Non ne dubito,» feci, un po' seccato da questa osservazione. «E, talvolta, la cosa traspare.»
Arrossì, e strinse i braccioli della sedia.
«Vorrei andare nella mia stanza, ora, se non vi dispiace.» disse. «Non ho nient'altro da dire, e non c'è
nulla che voglia ascoltare.»
«Temo che dovrai sopportarci ancora un po',» risposi. «Il nostro destino riguarda anche te, ormai, che ti
piaccia o no. Quello che hai appreso rimanendo a origliare dietro la porta, ti rende partecipe della nostra
missione.»
Si alzò a metà dalla sedia.
«Non sai quello che dici!», gridò. «Ma lo sai chi sono, io?»
«No. Chi sei?»
Si sedette di nuovo, con il respiro pesante, senza parlare.
«Quello che hai sentito,» feci, «non è eresia. È la verità. Per quanto spiacevole possa apparire, è la
verità. Ed è anche la nostra preoccupazione principale.» Lanciai uno sguardo ai miei compagni, intorno
alla cabina.
«Non è male dedicare un momento al problema. La nostra ospite ci ha lasciati piuttosto in fretta, e la
sua partenza ha interrotto la nostra conversa-zione. Ci sono altre cose che volevo dirvi. Cose che
nessuno di voi, eccetto Signar, conosce.» Mi interruppi, mi diressi verso la porta, guardai fuori per un
istante, quindi tornai a rivolgermi verso i miei compagni. «Devo dirvi che anche altri sono impegnati
nella nostra stessa missione. L'Aghjir Tharrin era uno; il suo maestro, Nhidaaj il Cygnano, un altro. E ce
n'è ancora uno di cui non posso parlare. Io sono soltanto un anello della catena, come tutti voi. Siamo
ricercatori, avventurieri... Altri, però, cercano la verità in modi diversi, come gli studiosi che abbiamo
condotto in Albion.»
Vidi la ragazza impallidire.
«Sì, è proprio così. Signar ed io abbiamo viaggiato per tutta la Gaullia e le Terre del Nord, persino in
Rhemia stessa, alla ricerca di sapienti le cui intelligenze non fossero chiuse alla nostra rivelazione. In
questo momento, ci sono quattro studiosi nelle sale sotterranee di Albion, intenti ad assimilare la
sapienza che forse, un giorno, ci libererà dai legami impostici dall'Uomo.»
Girai lo sguardo, fermandolo sulla grande figura del Vikoniano. «Finora», dissi, «soltanto il nostro
Capitano conosceva il motivo del nostro viaggio oltre gli Stretti, nel Mar Meridionale, e perché è vitale
che facciamo vela nuovamente verso il nord, anche avendo alle calcagna tutta la flotta rhemiana. In
Albion sono nascosti segreti senza fine; per portarli alla luce non basterebbe una vita. Ma perché
depositarli laggiù? Per quale motivo l'Uomo eresse quel tempio della sapienza? In esso sono racchiuse
tutte le informazioni necessarie per chiarire le sue manipolazioni sulla storia: ma che altro? Fabrus
Domitius, che guida il gruppo di studio che si trova laggiù, pensa che Albion sia soltanto una delle
fortezze della sapienza disseminate dall'Uomo. È convinto che ce ne siano altre. Gran parte di quello che
avremmo potuto apprendere in Albion è perduto per sempre, corroso dallo scorrere dei secoli. Ma
un'altra fortezza simile a quella, ne sono certo, custodisce la chiave che rivelerà come l'Uomo ci abbia
fatti incamminare lungo questo faticoso sentiero.»
«Di che natura potrà mai essere questa chiave?», chiese Thareesh. «Lo sai?»
«Non posso dirlo perché io stesso non lo so per certo,» risposi. «So soltanto che da qualche parte, in
oriente, deve esistere un luogo come Albion. L'Uomo ci ha lasciato qualche traccia al riguardo. In una
delle finestre grigie dei sotterranei di Albion, per esempio, lo si vede intento ad erigere grandi
costruzioni, destinate a ospitare strane macchine. Ce ne sono molte, ma una di esse si nota subito per
l'ambiente caratteristico nel quale si trova. Ci sono deserti sabbiosi, tutto intorno, e il Sole arde come
una sfera incandescente.»
«Il Grande Deserto, vuoi dire?»
«Lo penso, non posso esserne sicuro. È ciò che dobbiamo scoprire.»
La ragazza si mise a ridere così rumorosamente che ci fece sobbalzare:
«Non può esserne sicuro, perché non c'è niente di vero,» fece. «È tutta una sciocchezza, una follia! Per il
Creatore, ma possibile che siate tutti matti come quelle povere bestie là fuori?»
«E bestie siamo in realtà, mia cara, come già ti ho detto. Ma quanto alla follia, non può essercene in noi
più di quanta ve ne è nel mondo di cui l'Uomo ci ha lasciato eredi.»
Per un momento rimasi immobile, senza dir nulla. Poi, come colto da un pensiero improvviso, mi diressi
verso il grande cassettone laccato che un tempo era appartenuto all'Aghjir Tharrin, mi sfilai la chiave dal
collo, e aprii la perfetta serratura nicieana. Liberai l'oggetto dal panno di velluto che l'avvolgeva, mi girai
e lo sollevai ponendolo nella piena luce della lampada al centro della cabina.
Era davvero una meraviglia a vedersi, e sul volto di tutti i presenti si disegnarono paura e stupore. La
pesante catena d'oro era lavorata in modo complicato e squisito, e tempestata di gemme. Ma era il suo
pendaglio che catturava lo sguardo. Era plasmato nella forma di una bestia che non è mai esistita. Aveva
il corpo scaglioso dei Nicieani, le ali di un uccello, e la testa di una creatura che mi ricordava l'essere che
incontrai sotto le sabbie di Xandropolis. Le zampe anteriori avevano grandi artigli, quelle inferiori zoccoli
divisi in due. Aveva corna sulla testa, ed emanava un respiro di rubini. Mentre la sorreggevo, vidi in
quella bestia fantastica un fuoco che non vi era stato posto dai suoi creatori. Era un fuoco, pensai, che
rispecchiava il disgusto invincibile negli occhi dei miei compagni. Perché quella era una cosa creata
dall'Uomo, e su di essa c'era ancora il suo tocco velenoso. Da Albion non avevo portato via nient'altro,
oltre alla spada di Rhalgorn, e nient'altro intendo averne. La presi in segno di sfida contro ciò che vi
avevo scorto dentro.
La prigioniera non ne sopportò la vista, e volse lo sguardo. Ma non abbastanza in fretta, pensai:
l'incantesimo l'aveva già colpita. UNDICI
L'alba dipinse di grigio l'oblò sopra la mia testa.
La calura stava già avvolgendo la mia cabina, e mi chiesi che cosa avrebbe portato il Sole di mezzogiorno.
Un po' di allegria, magari, mi dissi cercando di consolarmi. I rumori che venivano dal ponte mi
facevano capire che presto avremmo lasciato quel luogo tetro e saremmo tornati nel mare aperto. Mai
troppo presto. Avevo la testa ancora piena di sogni così
orrendi che non osavo nemmeno ricordarli.
Mentre mi infilavo gli stivali, mi fermai di botto per ascoltare. I rumori dal ponte erano davvero troppo
insistiti. C'era qualcosa di più, in ballo, oltre ai preparativi per affrontare il mare. Afferrai la mia spada e
salii di corsa. Appena fuori, vidi Rhalgorn, con le labbra piegate in una smorfia di ironico divertimento.
Era un'espressione che gli Stygiani amavano mostrare ogni volta possibile.
«Pare che ci sia qualcuno che ti vuole,» disse, studiandosi la punta delle dita. «Un gentiluomo di
notevole statura e dal naso imponente.»
Guardai sulla sua spalla, e vidi di cosa si trattava. Uno dei mostri era sulla riva, issato sopra uno scoglio.
Sembrava un monumento al nulla, secondo l'interpretazione di uno scultore folle, perché aveva lo
stesso colore grigio della roccia sulla quale era ritto, e dell'alba livida che si diffondeva all'intorno.
«Secondo te, che cosa vuole?»
«Fare amicizia, è chiaro,» rispose Rhalgorn, che non riusciva a dissimulare il suo divertimento. «Si sente
solo, e vuole scambiare quattro chiacchiere con qualcuno. Magari è un tuo lontano parente, Aldair. Il
naso ricorda un po' quello del Clan dei Venicii.»
Come al solito, gli sfoggi d'umorismo di Rhalgorn erano fuori luogo. Di tutto avevo voglia, in quel
momento, fuor che di ridere.
«Forse hai ragione,» risposi, «perché se è lo stesso gentiluomo che abbiamo incontrato ieri, mi par di
ricordare che non abbia molta simpatia per i Signori dei Lauvectii, ed anzi ami farli andare a gambe
all'aria.»
Prima che Rhalgorn potesse studiare una risposta adatta, si fece avanti Signar. «Che cosa pensate che
voglia quel tipo?»
«Era appunto l'argomento della nostra conversazione.»
Il Vikoniano si grattò il naso. «Beh, se qualcuno me lo chiedesse, direi che vuole parlare. Ma nessuno me
lo ha chiesto.»
Rhalgorn rise.
«Hai ragione. Nessuno te lo ha chiesto.»
«Già. E allora, che devo fare?»
«Avvicinati alla riva, ma non più del necessario. Non c'è alcun motivo di correre rischi che potremmo
benissimo evitare.»
Rhalgorn si fece immediatamente serio, quando intuì le mie intenzioni.
«Aldair,» fece, «sarà meglio che ti accompagni.»
«Sono certo,» risposi, «di esser capace da solo di incontrare questo mio lontano parente. Tu potrai
restare a bordo, dove rimarrai al sicuro e all'asciutto.»
Da vicino, non era meno spaventoso che da lontano. Un'ondata di terrore gelido, irrazionale, mi avvolse
come un vento fetido. Era un terrore senza motivo. Esisteva, e basta.
«Se puoi capirmi,» gridai a quella creatura, «rimani dove sei e non avvicinarti. Se hai qualcosa da dire,
dilla.»
Era ad almeno venti passi da me, e non aveva modo di nuocermi. Tuttavia, mentre parlavo, il panico mi
stringeva il cuore come una mano d'acciaio. Ogni cosa in me gridava, corri, corri... torna sulla nave! Mi
morsi la lingua, e rimasi fermo.
«Noi vogliamo tu andare,» fece il gigante. «Non restare qui più!»
Aveva una voce strana, tremula, come se nella sua bocca vibrassero piccole lamelle di stagno. Oppure,
pensai, più semplicemente stava parlando attraverso quel suo ridicolo naso.
«Non temere,» lo rassicurai. «Non abbiamo nessuna intenzione di rimanere qui.»
La creatura parve allarmata, e il suo messaggio successivo lo confermò.
«No, tu non capito. Dovete andare, ma non andare via!»
«Che cosa vuoi dire con questo?»
«Là c'è quello che vogliamo,» fece, indicando la riva opposta del lago.
«Là starete bene, davvero. Là. Là vedremo bene la vostra bella casa che naviga.»
Lo fissai.
«Volete... guardarci?»
«Che bello, che bello! Vuoi?»
Accidenti, pensai. La ragazza aveva ragione. Queste miserabili creature hanno paura di tutto. Hanno
paura che ce ne andiamo. Hanno paura che restiamo. Hanno paura di qualcosa, di qualsiasi cosa che
potrebbe accadere nel prossimo istante, procurando loro ancor più paura. Li ha chiamati bambini, e non
aveva torto.
Non avevo risposto alla domanda di quell'essere, ma dalle ondate di paura che stava indirizzando alla
mia volta, compresi che si era già reso conto delle mie intenzioni.
Osservai il mostro, che si stava dondolando da una zampa all'altra, e arrotolava il suo incredibile naso.
Era una manovra disgustosa. Lo aveva ripiegato come un dito fra le zanne che si spingevano fuori dai lati
delle mascelle, e ora se lo stava infilando in bocca. Che cosa posso dire a questa creatura? mi chiesi. Di
certo abbiamo ben poco in comune. Non riuscivo a vedere su quale base avremmo potuto intavolare
una conversazione ragionevole. Aguzzando gli occhi, vidi che portava qualcosa intorno al collo. Una
specie di antico e ammaccatissimo gioiello, una collana d'argento con una piccola gemma rossa
incastonata al centro.
«Che cos'è che porti al collo?», gli chiesi.
«Questo?», fece la creatura. «È il K'sei. »
«Dove lo hai preso? È molto bello.»
Vide che sorridevo, e quasi si mise a piangere.
«È il K'sei. Tutti avere il K'sei!»
«Ah, sì? Bene.» Questo chiudeva l'argomento. «Ha un nome, questo luogo? E il tuo popolo, come si
chiama? Noi veniamo da molto lontano, e questa regione non ci è familiare.»
«Noi essere Kenyarshii,» rispose la creatura.
«Kenyarshii.» Avevano assunto il nome dell'intero continente, anche se dubito che lo sapessero. La mia
domanda successiva confermò la mia opinione. Gli chiesi che cosa ci fosse al di là del loro territorio, e lui
si limitò
a fissarmi inebetito, come se la mia richiesta fosse priva di significato. Non c'era da meravigliarsi che
fossero terrorizzati - e incuriositi - dagli stranieri. Non avevano mai visto altre razze se non la loro stessa!
«Ora dobbiamo andarcene,» dissi. Il disco sanguigno del sole stava già
occhieggiando sulla sponda del lago. «Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi, e...»
La tremenda ondata di paura quasi mi fece cadere in ginocchio.
«Vuoi andare? No, non andare!» Le orecchie dell'essere si agitavano come chiome d'albero scosse dal
vento, tutto il suo corpo immenso tremava. «Non poter andare. Restare. Restare!»
Alzò la testa enorme, e cominciò a singhiozzare. I lamenti risuonarono per tutto il lago e subito fecero
loro eco quelli dei compagni. Fu allora che mi accorsi di loro: centinaia, tutti attorno alla riva, come una
fitta foresta grigia. Si dondolavano a un ritmo che soltanto loro potevano udire, e barrivano lanciando
verso il mondo i loro singhiozzi. Quell'enorme concentrato di terrore era quasi insostenibile. Corsi lungo
le rocce, e prima ancora che i miei stivali toccassero il ponte, l' Ahzir era in movimento, con i remi che
battevano ritmicamente l'acqua, in direzione del fiume. Chiaramente, quel giorno non c'erano dissensi
d'opinione nell'equipaggio. Prima ancora che il verde tunnel della foresta si chiudesse sopra di noi,
anche i marinai che non avevano un compito specifico corsero ad aiutare quanti azionavano i pali per
l'avanzamento della nave lungo il corso del fiume. Presto ci furono più uomini che pali, e a qualcuno
venne in mente di usare i remi al loro posto. Li tolsero dagli scalmi, e cominciarono ad affondarli nella
melma del fiume. Un ruggito di Signar pose fine alla manovra, ma non prima che alcuni remi finissero
spezzati in due, o perduti. Non me la sentii di condannare gli uomini. Un terrore sconosciuto e
incommensurabile si addensava sulle loro teste come uno sciame d'api. Soltanto il Creatore avrebbe
potuto farci andare via più in fretta da quel luogo. Per fortuna, pensai, eravamo quasi fuori. Ogni istante
ci portava più
lontano. Ancora un po', e la paura sarebbe scomparsa, abbandonata dietro di noi...
All'improvviso, mi resi conto che non era affatto così. Anzi, mi accorsi che il terrore, anziché scomparire,
diventava più forte che mai!
Come poteva essere?
I pensieri dei Kenyarshii si diffondevano forse per l'aria, allargandosi intorno come polvere nel vento?
Sapevo che non era così, perché la notte scorsa, pur rimanendo immobili nel lago, vicino a loro, non
eravamo stati disturbati in modo così intenso.
«Lo sento anch'io,» mi disse Thareesh, che aveva indovinato i miei pensieri. Le sue parole crepitarono
nelle mie orecchie come foglie secche schiacciate con le dita.
«Il terrore è rimasto con noi,» aggiunse. Era perfettamente immobile, come succede talvolta ai Nicieani.
Alla base della sua gola pulsava una piccola vena. «Qualcosa va male,» sibilò infine. « Molto male,
Aldair!»
Vicino a lui, un marinaio vikoniano si fermò e rimase immobile. Gli occhi neri come l'agata ruotavano
verso il nulla. Nel suo petto, cominciò a sorgere un sordo brontolio.
All'improvviso, capii. Non si udiva più nulla. Intorno a noi non c'era neppure un suono. La giungla era
piombata nel più assoluto silenzio. Tirai un respiro profondo, e lo trattenni.
Accanto a me, Thareesh si mosse come un fulmine. Mi voltai, e vidi Rhalgorn immobile, il petto dritto, le
labbra sollevate in un ghigno. Con una velocità eccessiva per il mio sguardo, afferrò una della lance
poste lungo il ponte, e la scagliò verso la riva. Dalla giungla venne un alto grido di dolore. Il grido di
battaglia di Rhalgorn lacerò l'aria. E poi il mondo esplose intorno a noi.
Un colpo secco come un tuono, il crepitio del legno che si spacca, e un albero immenso rovinò nel fiume.
Gli spruzzi d'acqua sommersero il ponte come pioggia, e la nostra prua colpì duro il tronco. Il
contraccolpo ci fece cadere a terra, risucchiandoci l'aria dai polmoni. Altri alberi cominciarono a piegarsi.
Udii il ruggito di Signar, ma le sue parole si perdevano tra i bramiti altissimi dei Kenyarshii. Dalla nave
partì una salva di frecce e lance, ma poche arrivarono a bersaglio. I mostri si nascondevano dietro una
fitta cortina verde.
Qualcosa di enorme cominciò a piegarsi nella giungla. Guardai in alto, e vidi la chioma immensa di un
albero altissimo curvarsi verso di noi in un arco lento e inesorabile, e infine precipitare sul ponte.
Maledizione! pensai. Ci stiamo spaccando in due!
I mostri avevano scelto con cura il luogo dell'agguato. In quel punto le rive si restringevano, e il nostro
spazio di manovra era ridotto. Signar urlò
un ordine. I Vikoniani della ciurma afferrarono le loro asce e cominciarono a menar colpi all'albero
caduto sul ponte, cercando di liberarci. Gli arcieri, intanto, vigilavano su di loro, inviando sciami di frecce
nella giungla. E allora, all'improvviso come era cominciato, tutto finì. Altre creature ci avrebbero
intrappolati lì, uccidendoci ad uno ad uno. Ma non i Kenyarshii. I Kenyarshii non erano guerrieri: la
paura, e non la sete di sangue, governava le loro vite. Non avevano cuore sufficiente per sostenere una
battaglia, e quando le nostre frecce cominciarono a sibilare più fitte fra di loro, fuggirono lungo i loro
verdi tunnel, fino a quando non riuscimmo più a sentire le loro grida.
Quando, alla fine, fummo in vista del mare, Signar mi riferì che soltanto la fortuna ci aveva fatti rimanere
tutti d'un pezzo.
«Lo scafo ha qualche tavola spezzata, ma per fortuna non andavamo troppo veloci quando abbiamo
urtato il tronco, e posso riparare i danni mentre viaggiamo. Non avremo problemi, finché il tempo
rimarrà sereno.»
E alzò gli occhi al cielo, sperando che qualche dio del nord lo avesse udito.
Il ponte era in rovina, ma anche questo poteva essere riparato. La fortuna principale era stata che i
tronchi non avessero danneggiato né gli alberi della nave né i pennoni. Ripararli sarebbe stato un lavoro
immenso, e inoltre in quella foresta difficilmente avremmo trovato il legno adatto. Fare un buon albero
di nave è più difficile che rizzare un obelisco. Un uomo della ciurma aveva avuto una gamba spezzata. Un
altro si era rotto la testa, ma se la sarebbe cavata. Su tutto il ponte c'era un intreccio inestricabile di rami
e di foglie, e mentre uscivamo dalla foce del fiume per entrare in mare aperto, stavamo ancora
lavorando per liberarci dei detriti. Fu nel corso di questa attività che Signar urlò il mio nome, facendomi
cenno di guardare verso prua. Non disse nulla, ma ringhiò, e torse le labbra per il disgusto.
Sotto un groviglio di foglie, liane e rami spezzati, era emerso il corpo di un Kenyarshii, steso sul ponte
come un enorme sacco di immondizia, e la testa segnata da un bernoccolo grande quanto un melone.
DODICI
Gli avventurieri non hanno mai pace.
Chi cerca l'acqua in un pozzo diverso dal suo - si dice fra gli Eubironi non deve lamentarsi se trova
qualche sorsata amara. Non posso fare a meno di riconoscere la saggezza di queste parole. Usciti dal
fiume, pensavamo che non avremmo mai più avuto a che fare con i Kenyarshii. Invece ci trovavamo con
una di quelle immonde creature piazzata proprio al centro del nostro ponte. Avremmo dovuto essere
contenti di riguadagnare il mare; e invece scrutavamo l'orizzonte in ansia, sapendo che i nostri amici
Rhemiani non ci avevano certo dimenticati.
«Potremmo avvistare le loro vele in qualsiasi momento,» disse Signar con voce tetra. «E non mi
sorprenderei affatto. I Rhemiani sono per molti versi creature ignoranti, ma non del tutto prive di
cervello. Ormai sono certi che non ci troviamo a sud, e che ci stiamo dirigendo di nuovo verso gli Stretti.
Ci seguiranno fino alla morte, Aldair! Quello che ha detto il nicieano è vero. Ormai, il mare è loro.»
Guardai al di sopra della sua spalla, cercando risposte in una cresta di spuma. Per un momento, sognai di
essere lontano dai vascelli rhemiani... che Signar aveva torto, e il mare era libero da nemici.
«Che cosa vorresti che facessi?», gli chiesi. «La nostra via è chiara. Dobbiamo superare gli Stretti e
dirigerci verso oriente!»
«Aldair...» Thareesh strinse le sue magre dita attorno al mio braccio e mi portò al suo fianco. Estratta la
spada, tracciò con essa delle linee sulle tavole di un boccaporto, poi mi fissò. «Abbiamo combattuto
l'uno al fianco dell'altro nel deserto. Fra di noi c'è molto sangue sparso reciprocamente, e sono pronto
ad ammettere che sei un arciere bravo quasi quanto me.» Un lieve sorriso torse i lembi del taglio che,
per lui, faceva l'ufficio della bocca. «Conosco bene l'importanza di questa missione. Ma, come Signar,
davanti a noi non vedo altro che rovina, se continueremo sulla stessa rotta.»
«Se?» Mi ritrassi da lui di scatto. «Non ci possono essere dei se in questa faccenda, amico mio.»
«Un momento. Lasciami finire di spiegarmi. Ecco...» Fece un gesto verso le linee che aveva tracciato.
«Questo è il Mar Meridionale, questa è Niciea e questa, a forma di stivale, è Rhemia. Qui cominciano i
territori di Kenyarsha. Da una parte ci sono gli Stretti. Dall'altra, forse...» E mandò la punta della spada in
semicerchio, attorno alla costa orientale del Mar Meridionale. Lo fissai negli occhi.
«Navigare intorno a Kenyarsha, Thareesh?» dissi. «Ma non ci sono mappe, non ci sono informazioni.
Non sappiamo neppure quanto è grande. Potremmo metterci settimane, mesi. Magari, potremmo non
arrivare neppure in oriente!»
«D'altra parte, Kenyarsha potrebbe essere più piccola di quanto pensiamo,» brontolò Signar in tono di
speranza.
«O potrebbe essere più grande!», lo interruppi irritato. «No, non possiamo fidarci di un'idea del genere.
Se stessimo facendo una crociera di piacere, si potrebbe correre il rischio. Ma ci sono troppe cose in
gioco...»
«Saggia decisione, davvero,» fece secco il Vikoniano. «Scambiamo dei mari ignoti e un incerto destino
per la morte sicura.»
«Non puoi esserne certo!»
Mi guardarono, e non dissero nulla. Erano compagni coraggiosi e fedeli. Ma in quel momento, non
potevo fissarli negli occhi, e non mi importava. Ma fu un attimo. Di certo, mi dissi, quando una persona
si rivolge con ira ai propri amici, deve fermarsi a considerare se stesso, e riflettere bene.
«Dovete capire che io... io non posso mettere da parte questa missione. I miei sentimenti danno forse
alle mie parole un tono che io stesso non desidero. Ed anche i miei modi...»
Signar tirò su col naso.
«All'inferno i modi, Aldair. Quello che conta è il buon senso, e nient'altro. Forse abbiamo torto noi, in
questa faccenda. Ma puoi avere torto anche tu. Il guaio è che, qualsiasi decisione prendiamo, dovrà
essere per forza quella giusta, o peggio per tutti.»
«Signar, Thareesh... Aspettate un po'. C'è una cosa che dobbiamo sapere, prima di decidere. E non c'è
momento migliore di questa per saperla.»
Mi aprì la porta della cabina con il consueto disprezzo. Era l'unica arma che possedesse contro di noi, e
la usava senza risparmio.
«Mia signora,» dissi, «arriverò subito al punto, visto che so che non sei interessata alle conversazioni.
Devo sapere chi sei. Ora. Senza divagazioni o menzogne. Non ho tempo di giocare, né voglia di pregarti.»
Gettò indietro la testa e rise.
«Che succede, eretico? Cominci a preoccuparti della giustizia rhemiana, vero? E hai ragione, perché fra
poco non mancherai di assaggiarla!»
Era una delle cose più graziose che avessi mai visto, ma anche la femmina più irritante della terra.
Perché mai attribuiamo tanto valore a esseri creati apposta per farci diventare tutti imbecilli?
Per la verità, suppongo che ci tocchi esattamente ciò che ci meritiamo. Abbiamo posto le donne così in
basso, che esse non possono non tentare di tutto per trascinarci giù con loro. E il bello è che il più delle
volte siamo felicissimi di fare il viaggio.
«L'ho capito dalla prima volta che ti ho vista,» dissi. «Sei il tipo che non sente ragioni.»
«Da te non sentirò né ragioni né nulla!»
«Bene, come vuoi.»
Mi voltai, aprii la porta della cabina e mostrai Rhalgorn fermo davanti alla soglia. Lo Stygiano si produsse
nel più orrido dei suoi sogghigni, mostrando tutti i denti e leccandosi le labbra. La donna impallidì
visibilmente.
«Non... non vorrai farlo entrare...»
«Lo ammetto, è una cosa terribile da fare a un amico. Ma è una colpa che dovrò sopportare. Col tempo,
spero che mi perdonerà. E ora,» dissi, muovendomi verso la porta, «e ora è tempo che vi lasci soli.
Quando vorrai rispondere alla mia domanda, basterà che mi chiami.»
Le risposte vennero giù come grandine. Non una: infinite. Parlava così
rapidamente, e di tante cose, che ricordo a mala pena la metà di tutto ciò
che disse.
Fermo sul ponte, respiravo a pieni polmoni l'aria salmastra, solo e in disparte. Come direbbe Rhalgorn,
non è decoroso per un comandante farsi vedere dalla ciurma mentre sta male.
«Posso fare qualcosa per te, Aldair?», fece Signar, avvicinandosi.
«Non credo,» gli dissi. «Sarai contento di sapere che avevi pienamente ragione riguardo ai Rhemiani.
Sicuramente ci daranno la caccia fino ai confini della terra. Sarà meglio che dirigi verso sud, e cominci a
pregare che ci sia modo di navigare attorno a Kenyarsha. Sembra che io abbia rapito Corysia, nipote
dell'Imperatore Titus Augustus. Ma perché, Signar, ho un così colossale talento nel provocare disastri?»
TREDICI
I Kenyarshii non sono soltanto le più grandi creature del mondo. Sono anche le più puzzolenti.
È difficile puzzare più di un branco di Vikoniani riuniti in una taverna affollata, dopo mesi di mare. O di
un guerriero Stygiano, nel pieno della battaglia. Ma queste sono offese all'olfatto di diversa natura, e col
tempo si arriva a tollerarle.
Il tanfo del Kenyarshii è di tipo diverso. Nasce dalla paura, e non esiste veleno più potente per la
degenerazione del corpo.
La paura di un topo non provoca disagi particolari. Ma quando si ha a che fare con una creatura grande
come una montagna, il problema si fa grave, persino sul ponte spazzato dal vento di una nave in mare
aperto. Non è facile parlare con quegli esseri: la loro mente sembra lavorare con procedure diverse da
quelle delle altre creature ragionanti. Questo fatto, aggiunto all'odore soverchiante, e alle continue
emanazioni di paura, rende la conversazione quasi impossibile.
«Devi smetterla di battere i piedi,» dissi alla cosa, standone lontano il più possibile e sgolandomi per
farmi udire. «Stai dissestando la nave, e non posso certo consentirtelo!»
«Non piace qui,» gemette la creatura. «Io non vuole restare!»
«Devi aver pazienza. Se non avessimo un grave problema di tempo, avremmo sistemato questa
faccenda in un minuto.»
«No, io vuole andare subito!»
Ricominciò ad emettere quello strano suono dal naso; quel rumore di tromba che irritava i nervi come
una grattugia. Un flusso di paura mi sommerse, sulla cresta di un'ondata d'odore nauseante.
Stringendomi la testa fra le mani, barcollai e arretrai di un passo.
«Smettila! Maledizione a te, non hai motivo di avere paura. Ma non capisci proprio nulla?»
Qualcosa evidentemente capiva, perché le pulsazioni dolorose nel mio cranio diminuirono un poco.
«Juumb'ar può tornare a casa?», chiese in tono di speranza.
«È così che ti chiami! Juumb'ar?»
«Se ti piace. Se no, va bene un altro nome.»
«Se mi piace? Perché mai dovrebbe importarmene un fico secco di come ti chiami?»
Il Kenyarshii raddrizzò le spalle, mi studiò con i piccoli occhi neri, e si ficcò il naso in un angolo della
bocca.
«Ti piaccio un poco di più, ora, vero?», chiese alla fine.
«Di più? Perché di più?»
«Più di prima. Quando parlavamo.»
«Che vuoi dire?», chiesi. Poi mi resi conto. «Ah, ho capito. Eri tu quello sulla roccia, nel lago? Se è così,
allora mi piaci di meno. È stato uno sporco trucco, il vostro, Juumb'ar. Noi non avevamo intenzione di
farvi alcun male, e voi ci avete attaccato senza che vi avessimo provocati.»
«Kenyarshii non attaccato,» gemette la creatura. «Soltanto aiutato a non andare. Voi dovevate
restare. Non andare!»
Dopo di che, cominciò ad agitare gambe e braccia in una specie di danza selvaggia, emettendo dal naso
barriti sempre più forti.
«Maledizione,» urlai, «smettila subito!»
Per tutta risposta, quell'immensa montagna di carne cominciò a tremare in modo incontrollabile,
rotolandosi sul ponte. Poi si fermò, e un getto di liquido caldo mi colse in pieno petto, facendomi quasi
cadere a terra. Rimasi immobile, intontito, mentre un odore orrendo si faceva lentamente strada fino
alle mie narici. Ci volle qualche istante prima che comprendessi l'inqualificabile oltraggio del quale
quell'immenso idiota mi aveva fatto oggetto. Mai, in tutta la mia vita, avevo pensato che una cosa del
genere potesse accadermi.
Era vitale percorrere quanta più strada possibile nel minor tempo, ora che avevamo deciso la rotta da
prendere. Né Signar né io pensavamo che i Rhemiani ci avrebbero inseguiti anche tanto a sud, per acque
sconosciute. Tuttavia non potevamo esserne sicuri, specialmente ora che avevamo appreso il rango
della nostra ospite. I Rhemiani sono un popolo cocciuto. In ogni caso, avevamo il mare aperto davanti a
noi, ed alle spalle un vento robusto. Per la prima volta, pensai che la nostra missione aveva preso
seriamente l'avvio. Non avremmo tollerato altri ostacoli. Se c'era un modo per navigare attorno a
Kenyarsha, l'avremmo trovato.
C'era ancora un bastone, però, fra le nostre ruote.
Quello che avevo detto a Juumb'ar era vero: se ne avessimo avuto il tempo, e non ci fossero stati rischi,
l'avremmo sbarcato volentieri al sicuro sulla costa della sua terra. Purtroppo, la costa era scoscesa e irta
di scogli, e ci mancava il tempo per trovare una rotta sicura, né potevamo mettere in pericolo il nostro
scafo ancora indebolito.
Dopo il terzo giorno di navigazione, tuttavia, Signar sarebbe stato disposto anche a scalare le montagne
con l' Ahzir, se necessario.
«Liberiamoci di quella creatura, Aldair. In un modo o nell'altro. Abbiamo una ciurma piena di coraggio, a
bordo: ma non si può chiedere a delle persone decenti di combattere il mare e quella cosa, insieme.
Hanno i nervi a fior di pelle, devo sedare due o tre risse ogni giorno. E andrebbe ancor peggio se metà
della gente non fosse a terra per via delle febbri o di qualche altro miasma.»
«I litigi non possono essere attribuiti a colpa del nostro amico sovradimensionato,» feci. «E quanto alle
febbri, sono dovute all'aria malsana che abbiamo respirato lungo il fiume. Le abbiamo avute tutti.»
Signar ringhiò e scrollò le spalle.
«Non è solo questione di litigi e di febbri,» fece. «C'è tutto il resto...»
«Il resto? Quale resto?»
«Beh, gli incubi e le altre cose..,»
«Degli incubi so qualcosa anch'io. Effettivamente, sono colpa del Kenyarshii. Ma quali sono le altre
cose?»
Il Vikoniano aggrottò la fronte e cominciò a grattarsi il petto.
«Qualcuno della ciurma sta cominciando ad avere... avere visioni. »
«Visioni? Che visioni?»
Signar esitò. «Strane cose. Creature orrende che di notte passeggiano sul ponte. Cose piene di occhi e
di... braccia, che vengono dal mare.»
Lo fissai esterrefatto, senza dire nulla.
«Aldair,» mi fece, dopo un lungo silenzio, «Le ho viste anch'io.» La sua voce era cupa. «Non lo
ammetterei di fronte a nessun'altra persona al mondo, ma a te devo dire la verità. Ho visto una cosa
come quelle, subito prima dell'alba. Era seduta sulla prora e mi scherniva, chiamandomi in qualche
lingua sconosciuta.» Si passò una mano sugli occhi. «Non pretendo che tu mi capisca. Ti racconto solo
ciò che ho visto con le mie stesse pupille. Quel mostro deve avere attirato su di noi la maledizione di
qualche dio terribile, e contro una cosa simile siamo del tutto impotenti.»
Scossi la testa.
«Quello che hai visto non era reale, Signar. Juumb'ar proietta su di noi le sue paure, come sappiamo
bene. Evidentemente, è in grado di proiettare anche false immagini provocate da queste paure. Non
sono cose che vengono dagli dèi, ma solo dalla sua povera mente terrorizzata.»
«E allora?» ribatté il Vikoniano con la fronte corrucciata. «Che differenza fa, da dove vengano quelle
visioni? Un altro paio di notti con mostri a spasso per il ponte, e avremo a che fare con una ciurma
impazzita... e un capitano degno di lei, a mio modesto parere!»
«La costa è ancora troppo scoscesa?»
«Sempre di più.»
La decisione era dura, ma inevitabile.
«Falla tenere d'occhio continuamente. Se prima di domattina non avremo trovato un punto adatto per
sbarcare, butteremo in acqua il Kenyarshii.»
«Non c'è altro da fare, Aldair.»
«Lo so anch'io. E se si deve fare, lo farò.»
Anche i miei sonni erano stati agitati e turbati da incubi, ma non avevo avuto alcuna visione spettrale. Se
Rhalgorn aveva visto fantasmi saltellare all'intorno, il suo orgoglio stygiano non glielo avrebbe mai fatto
ammettere. Thareesh ammise che forse aveva visto qualcosa, ma non volle dire di più. Quanto a
Corysia, naturalmente non aveva nulla da dirmi, né su questo argomento né su alcun altro. Quella notte
bevemmo birra e cenammo con patate e zuppa di pane e lenticchie. Thareesh aveva stoccato con cura le
nostre provviste alimentari, e avevamo ancora a bordo un po' di carne fresca, quella di certi animali
simili a stambecchi che vivono sulle coste rocciose del Mar Meridionale. Il Nicieano ne fece arrostire un
po'. Io non sono un grande mangiatore di carne, ma Signar e Rhalgorn fecero salti dalla gioia.
La pancia piena mise di buon umore lo Stygiano. Raccontò bugie grosse come montagne, e fece
un'imitazione di un nicieano che dà la caccia agli scarafaggi con la lingua, così esilarante da divertire
persino Thareesh. Le nostre risate, però, non erano dovute forse alla sola birra e ai piacevoli conversari.
Erano una forma di reazione contro ciò che ci stava intorno. C'era un'atmosfera strana, quella notte:
come la quiete che trasforma il mare in una lastra di vetro prima dello scatenarsi di una tempesta.
Quando sentimmo il Kenyarshii che si agitava e lamentava sul ponte, ci alzammo tutti di scatto, senza
parlare, come consapevoli che qualcosa do-veva succedere: la prima scintilla di luce del lampo che
avrebbe spezzato l'incantesimo.
La creatura tremava e si torceva sulle tavole del ponte. Dalla bocca e dal naso colava un liquido nero.
Nell'aria si spandeva un fetore orrendo, e vibrava qualcosa di più delle normali pulsazioni di paura. Il
Kenyarshii si era liberato il ventre, e si rotolava nei propri escrementi.
Rhalgorn disse qualcosa fra i denti. Signar si preparava a rispondere, ma nessun suono uscì dalla sua
bocca. Un marinaio gridò, puntando un dito tremante oltre il parapetto.
E la vedemmo tutti, senza possibilità di errore.
Una nave tenebrosa, spettrale, che scivolava silenziosa sulla nostra scia, a non più di una lunghezza di
distanza. Era snella e sottile, con la prua foggiata a forma di delfino, e le vele tese. Sul ponte si
scorgevano creature: cose cupe e terribili che sembravano non avere ossa. Erano rivestite di armature
bianche e gelide; armi d'argento vivo scintillavano ai loro fianchi. Occhiaie vuote scrutavano da elmi
immobili, rilucendo dei raggi pallidi e mortali che avvolgevano la stessa nave, e ne accendevano le vele
cineree. Non avevamo bisogno di leggere il nome scritto sulla prua per riconoscere il vascello, perché si
trattava chiaramente dell' Ahzir al'Rhaz. E se quella nave era lo spettro della nostra, il suo equipaggio
era formato dai nostri fantasmi.
Accanto a me, un vecchio marinaio rhemiano divenne bianco come neve. Ira e terrore gli torcevano la
bocca, e nella sua mano scintillò una spada.
« Uccidiamolo,» gridò. « Uccidiamo quel mostro maledetto! »
Altri raccolsero l'appello, e alzarono le spade contro il Kenyarshii. Cercai di urlare un comando, ma non
riuscii a emettere alcun suono. Vedevo gli eventi accadermi intorno, e non potevo far nulla per
intervenire. Mi sentivo come se vivessi di un attimo o due in anticipo sul mondo; come se le cose che
vedevo fossero già accadute un istante prima. Così, vidi la ciurma avanzare, le armi in pugno, e vidi una
cosa sorgere dal nulla nel mezzo dei marinai. La vidi torcersi come il fumo di un falò d'autunno: e dove
sfiorava un uomo, il suo cuore si gelava. Attraverso la sua forma lattiginosa, udii il grido di battaglia di un
grande vikoniano; vidi un marinaio balzare avanti, scavalcare il parapetto e precipitarsi fra le onde. Vidi
gli amici scagliarsi contro gli amici, e fare scempio delle carni nude. Il terrore era padrone del ponte, e
non potevamo far nulla per contrastarlo. La cosa orrenda scivolava fra noi come un serpente, e
guardandola, ciascuno vedeva sorgere dal nulla le sue paure più riposte. Torri spaventose, con le
finestre cieche e vuote... animali mai visti prima... creature disgustose che strisciavano sul ponte
cercando di spingerci in mare. Signar alzò la sua grande scure da battaglia contro il Kenyarshii... poi
qualcosa che soltanto lui poteva vedere gli trasse un ruggito dalle labbra, e lo portò a dibattersi sul
ponte come un bambino. Juumb'ar gemeva dal dolore e si lamentava, agitandosi all'intorno.
Guardandolo, vidi il gioiello che portava al collo illuminato da una luce spettrale. La gemma rosso-
sangue sembrava pulsare come un piccolo occhio malvagio. La fissai per la frazione di un attimo, e vidi
una cosa che non avrei mai voluto vedere. Mi mossi senza pensare, tenendo chiusa la mia mente a tutto
ciò che accadeva all'intorno. Tentavo di concentrarmi sui ricordi di giovinezza, sui pigri pomeriggi in riva
al fiume Bundus, quando pesci grandi e grossi saltellavano presso la riva, in attesa solo di qualcuno che li
prendesse... pensavo alle gelide mattine d'inverno, coronate di neve. E quando fui vicino al Kenyarshii,
allungai una mano senza guardare, e gli strappai dal collo la cosa maledetta.
Bruciava, come una gelida fiamma.
Cercai di scagliarla lontano da me, ma non ci riuscii. C'erano cose tremende da vedere nel gioiello... cose
stupende e terribili, sogni che nessuna creatura aveva mai sognato prima.
Mille vite più tardi, Rhalgorn me la strappò dal pugno e la scagliò in mare. Il suo grido di battaglia la
seguì nelle onde, mentre precipitava negli abissi.
E poi... nulla.
Persino l'ombra della paura era scomparsa. A bordo non c'erano più mostri, e nella nostra scia non si
vedeva alcun vascello fantasma. Nel buio della notte c'erano soltanto le stelle.
QUATTORDICI
L'alba sorse luminosa, ma ci volle del tempo prima che la luce del Sole scacciasse tutte le ombre dai
nostri cuori.
La notte ci aveva lasciato più poveri. Un marinaio aveva cercato rifugio dagli spettri fra le onde, e vi
aveva trovato la morte. Altri due erano gravemente feriti, e la loro fine era certa. Un altro era ancora in
preda al terrore folle, e disperavamo che potesse recuperare il senno. Juumb'ar era disteso sul ponte,
immobile come un cadavere; rimase così
per due interi giorni.
Avevamo capito, ormai, che non era sua la responsabilità delle nostre paure e delle disgrazie che ne
erano seguite. Ma quando si vedono morire dei buoni compagni, è facile attribuire colpe anche a chi non
c'entra. Va a merito della ciurma - e della presenza di Signar - il fatto che nessuno aggiunse a quella
strana creatura una nuova bocca, con un taglio di spada, sotto quella che la natura già le aveva
assegnato.
Ci maledicemmo a lungo per non aver compreso in tempo l'origine dei nostri guai. Ma come avremmo
potuto pensare che la colpa di tutto stava nell'amuleto di Juumb'ar? Quando il rompicapo è composto,
sembra facile capire dove vanno situati tutti i pezzi. Ora, potevamo immaginare ciò che era
probabilmente successo: il terrore della creatura nel trovarsi strappato alla sua gente, solo fra estranei
in mezzo al mare, aveva intensificato in modo tale la sua angoscia da sommergerci tutti.
Juumb'ar non poté confermare questi ragionamenti perché, quando riprese i sensi, aveva dimenticato
tutto. Passò una settimana prima che si azzardasse a parlare con qualcuno, e l'unico che riusciva a
estrargli qualche parola era Thareesh. La calma e i modi misurati del Nicieano compensavano, agli occhi
del Kenyarshii, il suo aspetto bizzarro.
«Tutto ciò che sa è che la sua gente ha sempre portato quelle cose. Alla nascita, a ciascuno viene
messo al collo un amuleto, e lo porta per tutta la vita. Come potete immaginare, pensano che si tratti di
un dono degli dèi.»
«In questo caso, mi sembra che sarebbe meglio non avere dèi,» commentò cupo Rhalgorn.
«Sono d'accordo,» fece Thareesh, «ma soltanto i più saggi o i più sciocchi si scelgono dèi a loro misura.
Quelle povere creature non soltanto hanno affidato la loro vita a quelle cose, ma fanno anche in modo
che nessuno di loro ne resti privo.» E procedette a spiegarci, con nostro orrore, che la popolazione
totale dei Kenyarshii è sempre mantenuta uguale al numero degli amuleti disponibili.
«Se un amuleto smette di funzionare - cosa che è già accaduta numerose volte - un membro della tribù
viene eliminato. I simili di Juumb'ar sono ormai ridotti a poco più di un centinaio, anche se sospetto che
per questo ci sia un'altra ragione, oltre alla scarsità di amuleti. Con gli anni, si sono accoppiati sempre di
meno, e soltanto poche femmine ormai partoriscono.»
Ci fissò per un istante, facendo guizzare la lingua, come fanno spesso i Nicieani. «Non potranno più
esistere come popolo, se al più presto non metteranno fine alla loro schiavitù. Ma non sembra un
evento probabile. Quel povero essere abbandonato sul nostro ponte sta cercando una sola cosa: la
possibilità di riavere intorno al collo quella dannata cosa. Ci credereste?
Ha vissuto talmente a lungo in preda alle sue allucinazioni che non può più
fronteggiare il mondo senza il conforto della paura!»
Signar scosse la testa imponente.
«Per la mia vita,» disse, «non riesco a capire come un intero popolo si sia cacciato da solo in un pasticcio
del genere. A meno che qualcuno non li abbia costretti.»
«Un po' come imporre il collare di ferro della schiavitù,» fece Thareesh.
«Sì. Solo che questo è peggiore.»
«Penso che Signar abbia intuito la verità,» dissi io. «Io sono convinto che i Kenyarshii abbiano ricevuto
l'amuleto da qualcun altro. Qualcuno che noi conosciamo bene.»
Per un momento, mi rivolsero sguardi interrogativi. Poi capirono di chi stessi parlando.
«Ne avrei discusso prima, ma volevo udire le parole di quella creatura. Come vi ho detto, quando fissai
quel piccolo occhio rosso, il mio sguardo fu catturato, e non riuscivo a staccarlo. Nell'amuleto c'era la
promessa di terrori grandi e atroci; eppure, non riuscivo a liberarmene. Volevo quelle cose. Volevo
essere spaventato! Sono più che sicuro di queste sensazioni. E da chi mai può esser nato un tale orrore?
Chi se non l'Uomo può averlo pensato e realizzato?»
Thareesh scosse la testa.
«Bisognerebbe risalire a un passato troppo lontano, Aldair. Non può essere. Nulla...»
«Nulla?» lo interruppi, spingendo indietro la sedia e andando verso un oblò per respirare a pieni
polmoni l'aria marina. «Nulla davvero, nel mondo che conosciamo, potrebbe rifulgere come un occhio
rosso e liberare un oceano di paura in chi lo fissa. Nulla... a meno che non venga dall'Uomo. Albion è
antica centinaia di secoli, se non di più: ed è piena di meraviglie come quella, tutte perfettamente
funzionanti. E poi, non dimentichiamoci che l'Uomo ha lasciato un'altra cosa dietro di sé, che rimane
ancora: voi, me e tutte le altre creature della terra, condannate a vivere una vita subalterna, che imita
quella del loro originatore. Siamo noi la prova necessaria. Comunque, non credo che i Kenyarshii
abbiano indossato l'amuleto sin dal momento in cui vennero trasformati da bestie in creature senzienti,
e posti nel loro territorio. Thareesh ci ha spiegato che l'esistenza degli amuleti prescinde da quella dei
Kenyarshii. Come li abbiano trovati, e dove, probabilmente non lo sapremo mai. È un mistero sepolto
nel passato.»
Il pugno possente di Signar fece vibrare la tavola.
«Chiunque li abbia indossati prima, i Kenyarshii o qualcun altro, si capisce bene la ragione per la quale
sono stati fatti. Sono decisamente lo strumento più adatto per tenere in riga qualche povera bestia,
quando non vuoi che si agiti troppo o si allontani da un certo posto. Molto meglio di gabbie, recinti e
steccati!»
Era un concetto interessarne. Sono sicuro che i miei compagni ebbero, come me, vivide immaginazioni
di se stessi prigionieri in un simile campo di concentramento senza sbarre.
Erano passate ormai due settimane dalla nostra sfortunata spedizione lungo il fiume. Ogni giorno ci
aspettavamo di vedere curvarsi la costa di enyarsha, per risalire verso nord. Ma l'attesa si faceva lunga:
era chiaro che il continente era più grande di quanto sospettassimo. La linea verdeggiante della terra
sembrava procedere all'infinito.
«Spero che questo viaggio non ci porterà fino ai limiti del nulla,» disse cupo Signar. «Se i miei calcoli
sono esatti, abbiamo già percorso più leghe di quante ve ne sono tra Vikonea e gli Stretti.»
«Il che significa che la nostra destinazione si allontanerà ancora, prima di riavvicinarsi,» gli feci. Non so
se l'osservazione sia stata per lui di qualche conforto. Per me, no di sicuro. I nostri rifornimenti erano
ancora abbondanti, ma non avevamo più nulla di fresco. Questo è uri aspetto della vita di mare che per
me non è stato mai gradevole. Si mangiano subito e per prime le cose che più mi piacciono, come le
verdure crude, e poi rimane soltanto quello che mi piace di meno, come la carne affumicata e salata.
Un mattino, scorgemmo una piccola baia azzurra, attorno alle cui rive si scorgevano benissimo alberi
carichi di frutti maturi.
Sfortunatamente, qualche altra creatura molto grande e irrequieta aveva trovato rifugio nello stesso
posto, e non gradiva la nostra intrusione. Non riuscimmo a vederla chiaramente ma, mentre ci
avvicinavamo, potemmo scorgerla mentre si agitava tra gli alberi, a guardia del suo paradiso.
Decidemmo di non correre rischi, e non sbarcammo. Il giorno dopo trovammo un'altra baia simile, le cui
coste dal mare sembravano prive di inquilini ingombranti. La frutta non era altrettanto abbondante, ma
raccogliemmo tutta quella che potemmo trovare, e riempimmo le cisterne di acqua fresca.
Mentre eravamo ancorati, accadde una cosa strana. La riferisco così come avvenne, pur senza capirla. La
notte era fresca e piena di stelle, e mi trovavo sul ponte, vicino al parapetto intento a respirare l'aria
dolce, priva dell'arsore del sale, che veniva dalla terra. Avevo passato diverse, ore chiuso nella mia
cabina, intento ad aggiornarne la cronaca delle nostre vicende, compito nella cui esecuzione sono molto
scrupoloso. Era molto tardi, e sul ponte non c'era alcuno, tranne le sentinelle. Rimasi sorpreso, perciò,
quando avvertii una presenza alle mie spalle, e mi voltai per trovarmi di fronte a... me stesso. Dire che
rimasi stupefatto, è dir poco. Ma stranamente, a parte il primo momento, non ebbi paura. Era
un'apparizione scura, nebulosa, circondata da un alone azzurro. L'altro Aldair stava ritto davanti a me,
quindi poggiò
le mani sul parapetto e guardò la costa. Indossava abiti strani; certamente diversi da qualsiasi cosa io
abbia mai posseduto. Non parlò né emise alcun suono, ma rimase con gli occhi fissi sulla costa, come se
stesse cercando qualcosa. Infine, si voltò a guardarmi, e per un istante mi parve che mi volesse parlare.
Invece, svanì nel nulla, come se non fosse mai apparso. Era già l'alba quando mi addormentai, e feci
sogni molto dettagliati. Quando mi destai, feci in modo che la ciurma realizzasse il sogno, così
come l'avevo visto. Presi il gioiello con l'immagine della bestia, che avevo trovato in Albion, lo disegnai
nel modo più realistico possibile, e mostrai il disegno ai marinai, comandando di dipingere l'immagine
sulla vela maestra, e sui loro scudi. Non so perché lo feci, ma quando vidi il lavoro terminato me ne
sentii molto compiaciuto. L'equipaggio reagì con orgoglio di fronte a quell'emblema, e lo accettò
immediatamente come insegna dell' Ahzir. Non so spiegare questi eventi. Non so perché e come sia
venuto a me l'altro Aldair, e che cosa mi abbia spinto ad alzare quell'immagine al co-spetto del mondo.
Forse, il primo evento in realtà non era mai accaduto. O
forse l'apparizione si era manifestata proprio per spingermi ad alzare quell'insegna, come feci. Quale sia
la verità, non posso saperlo. In quel periodo, parlai una sola volta con Juumb'ar, e per necessità. La
creatura era forse un po' più piacevole di quanto non fosse prima: ma il progresso era minimo. Forse, col
tempo, dopo aver dimenticato tutte le sue paure e aver visto il mondo com'è, sarebbe cambiato. C'era
solo da attendere e vedere. Secondo Rhalgorn, tuttavia, l'attesa era inutile: il Kenyarshii era
intrinsecamente repellente, e sarebbe sempre rimasto tale. E questo sottolineava - era il parere di un
esperto. Tanto Signar che lo Stygiano insistevano perché lo abbandonassi sulla spiaggia, ma io non
volevo farlo contro la sua volontà. Era innocuo, ormai, ed era una creatura del tutto disarmata. Tempo
prima, ero stato pronto a farlo precipitare fuori dal bordo se la sua presenza si fosse rivelata un rischio
per tutti noi. Ma ora non avevo il coraggio di mandarlo verso la morte certa abbandonandolo fra i
pericoli di Kenyarsha.
«Volere tornare a casa, Aldair,» mi disse un giorno. «Cosa migliore è girare la casa galleggiante e tornare
indietro.»
«Juumb'ar, vogliamo tutti tornare a casa. Un giorno o l'altro lo faremo.»
«Ma non ora?»
«No, non ora.»
«Dove andare noi, Aldair?»
«Da quella parte.»
«Juumb'ar non volere andare da quella parte. Voler tornare a casa!»
«Thareesh te ne ha già parlato, non ti ricordi? Ti ha detto che, se vuoi, puoi andare a riva e tornare a
casa per conto tuo. Non sei obbligato a restare con noi.»
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Cattivo e crudele Thareesh per dire questo. Juumb'ar non potere camminare fino a casa solo in posti
spaventosi. A Juumb'ar non piacere questo!»
«E allora dovrai rassegnarti ad un po' di navigazione in nostra compagnia.»
«Navigare mi fa star male, Aldair. Questa è cattiva casa galleggiante!»
«Cattiva o no, è la nostra casa galleggiante, e tutti quanti dobbiamo viverci su. E questo mi porta
all'argomento del quale volevo parlarti. Thareesh ti ha già accennato alla cosa, ma tu evidentemente
non vuoi ascoltare. Dato che siamo in tanti e lo spazio è poco, devi smetterla di defecare sul ponte. Non
è costume praticato sulle navi a vela, e il motivo mi sembra ovvio. Tanto più che tu sei una creatura dalla
mole alquanto fuori misura. Se proprio tu non segui questa regola fondamentale, il problema relativo si
moltiplica per quattro, se non di più.»
«Non piace andare vicino a parapetto, Aldair. Posto brutto, pericoloso!»
«Stai attento, Juumb'ar: se avvicinarti al parapetto ti piace poco, scavalcarlo ti piacerà ancora meno.
Decidi tu.»
Lo lasciai che esprimeva la sua angoscia con singhiozzanti colpi di tromba. Questo breve esempio valga a
dimostrare il perché non incoraggiavo la conversazione fra noi due. QUINDICI
Un giorno prima che si compisse la terza settimana di navigazione sotto costa, la vedetta ci fece salire
tutti di corsa in coperta, annunciando a gran voce che eravamo in vista del mare aperto.
Lo spettacolo era tremendo. Il capo con il quale terminava la punta del continente era squassato da
venti paurosi, che spingevano a riva frangenti colossali. Intorno a noi il mare ribolliva come l'acqua di
una caldaia, e tutti pensammo di essere davvero giunti fino al limite del mondo. Che cosa avremmo
trovato, spingendoci più a sud? pensai. Il confine della Terra, là dove il mare si precipita nel nulla?
Oppure il mondo continua all'infinito, e nuove terre emerse si susseguono le une alle altre?
Da tempo avevamo lasciato alle nostre spalle le stelle che ci erano familiari. Tanto la Scure che lo
Schiavo Impiccato, che brillano nei freddi cieli del Nord, erano scomparsi dalle nostre notti. Soltanto la
testa dello Schiavo faceva capolino sull'orlo dell'orizzonte. Nei cieli si mostravano nuovi misteri, grappoli
brillanti di ghiaccio e di fuoco che per noi non avevano nome. Se non avessimo posseduto l'ago magico,
conosciuto soltanto dai Nicieani, in quelle acque ci saremmo persi. Ma era un conforto vederlo puntare
sempre e senza esitazioni verso il Nord, anche in quei luoghi prossimi alla fine del mondo.
Al largo della nave incrociavano delfini e grandi balene. Le loro evoluzioni erano uno dei pochi diversivi
in grado di portare un sorriso sulle labbra di Corysia. La nostra prigioniera si era fatta vedere di più negli
ultimi tempi: un lungo viaggio per mare rende insopportabile la noia, se si passa il tempo da soli. Così,
talvolta venne persino a impreziosire la nostra tavola, anche se il suo principale contributo si limitava in
genere a un robusto appetito.
«Come sono belli i delfini,» mi disse un giorno. «Sono così vivi, e liberi!»
La brezza marina le modellava l'abito al corpo e premeva le morbide orecchie ai lati della testa. Era
bellissima. Quando rideva, riusciva a increspare la pelle del muso in un modo così grazioso che, ogni
volta che questo succedeva, sentivo qualcosa in me che si rimescolava. Noi siamo quelli che siamo -
riflettevo - e non c'è nulla da fare. Io non potevo fare a meno di desiderarla, e lei non poteva non odiare
lo stesso terreno che io calpestavo.
«La libertà è qualcosa che tutte le creature agognano,» dissi avvicinandomi a lei. «È un dono più
prezioso della vita stessa.»
Si voltò, alzando un sopracciglio per simulare la sorpresa di vedermi.
«Suppongo che questa osservazione debba essere intesa come un insulto rivolto a me e alla mia gente,
maestro Aldair?»
«No di certo, mia signora. Non devi essere troppo suscettibile circa la tua cittadinanza rhemiana. Sei
nata così, e non puoi farci nulla. Come io non posso farci nulla per essere un sequestratore di fanciulle,
un traditore, un eretico, un pirata, un barbaro... ho dimenticato qualcosa?»
Corysia arrossì, poi sospirò in tono di rassegnazione e tornò a guardare i delfini.
«Mi dispiace, mia signora,» le feci. «Siamo sempre l'uno contro l'altra, come due bambini.»
Mi guardò con un sorriso esitante, quasi malinconico.
«Come potrebbe essere altrimenti?» rispose. «I nostri mondi sono enormemente lontani. Comunque, se
può confortarti,» aggiunse con aria enigmatica, «non ti faccio più una colpa d'essere tutte le cose che
hai detto. A proposito, la parola che avevi dimenticato è villano. »
«Ah, già. Grazie per avermela ricordata.»
«Di nulla.»
Ridemmo entrambi, ma quel raro momento di rilassamento terminò bruscamente. Dalla sua
espressione, vidi che si era resa conto, all'improvviso, che la sua parte migliore stava per prendere il
sopravvento.
«Capiscimi,» dissi, «parlando di libertà non mi riferivo a Rhemia. Volevo parlare della nostra ricerca, di
questo viaggio.»
«L'unica cosa che mi interessa, di questo viaggio, è la sua fine.»
«E secondo te la nostra ricerca, ovviamente, è una menzogna.»
«Quasi certamente.»
«Molto interessante.»
«Perché dici così?»
«Anch'io ho ricevuto una certa istruzione, mia signora. Niente di raffinato come le Sette Scuole di
Rhemia; ma anche a Silium c'erano dei buoni insegnanti. Quanto meno, ci hanno convinti che la testa ha
qualche funzione di più, oltre a quella di decorare le spalle.»
«Stai cercando di dirmi qualcosa,» mi interruppe lei in tono freddo.
«Cerca di venire al punto.»
«Il punto, mia signora, è che anche se non credi al mio racconto sull'isola di Albion, non potrai tuttavia
ignorare quello che è successo qui, su questa nave. Come pensi che siano accadute, queste cose? Per
magia? Il mio buon maestro Levitinus, che la sua anima riposi in pace, diceva che anche i misteri di
questo mondo che sembrano uscire direttamente dagli abissi delle potenze oscure, in realtà sono
semplicemente il frutto di leggi naturali che ci sono sconosciute. Quei fenomeni originati dall'amuleto,
sono successi davvero o no, mia signora? La ragione ci dice di sì.»
Corysia mi fissò freddamente.
«È vero,» disse, «in questo mondo ci sono cose che non comprendiamo. Questo te lo concedo. Ma
spesso capita che un uomo cerchi di avvolgere la propria follia con il manto della ragione, nel tentativo
di renderla rispettabile.»
«Tu ne sai molto della rispettabilità, certamente. È una parola che presso i Rhemiani copre un'infinità di
delitti.»
La sua mano si alzò come un lampo dal parapetto. Mi colpì una volta, e l'avrebbe fatto di nuovo, se non
le avessi afferrato entrambi i polsi, serrandoglieli contro i fianchi.
«Sei davvero un uomo,» rise in tono di scherno. «Guarda come sei bravo a immobilizzare una donna
piccola e indifesa, senza farti aiutare da nessuno!»
«Mia signora, è la seconda volta, oggi, che mi hai chiamato uomo. Non è
una parola che mi piaccia. E se avessi tanto cervello quanto può essercene in una rapa, capiresti
perché!»
Con uno strattone, lei si svincolò e corse a chiudersi nella sua cabina. Così finì un'altra delle nostre
conversazioni. Al solito modo. Il terzo giorno dopo aver doppiato il capo estremo di Kenyarsha, ci
trovammo a viaggiare verso nord con un mare sempre più tempestoso. La no-stra prua scattava in alto
fra spruzzi incredibili di spuma, poi si rituffava nel cavo dell'onda con una velocità che ci faceva salire il
cuore in gola, gelandoci fin nelle ossa.
Signar mi informò che stavamo attraversando la coda di una tempesta che il giorno prima si era spostata
nell'entroterra. Ringraziai il cielo per non averne veduto il resto.
Quando finalmente i venti si calmarono, eravamo in mare aperto, non più in vista della costa, e
largamente fuori rotta.
La costa doveva trovarsi ad occidente rispetto a noi, ed alzammo le vele per tornare a vederla. Tuttavia,
non avevamo fatto i conti con la perversità
del tempo. Il vento cadde completamente. Non si sentiva neppure la più
lieve brezza, e le vele pendevano immobili come biancheria appesa ad asciugare. Di conseguenza,
dovemmo metterci ai remi e vogare in direzione della terra, sperando che al più presto si alzasse un po'
di vento. Era una dura fatica, sotto il Sole cocente e senza un filo d'aria fresca. La ciurma bestemmiava,
sudava e giurava che il mare si era trasformato in melassa.
Dopo un'ora di tormento, Signar diede l'alt e mi chiamò sul ponte.
«Se ti sembra che l'equipaggio fatichi più del normale,» mi fece, «ebbene, hai ragione. Guarda un po'.» E
dicendo questo gettò in mare una scheggia di legno. Poi un'altra. I nostri remi erano alzati e l'aria era
immobile. Tuttavia, le schegge di legno sfilarono rapidamente lungo lo scafo e ci sorpassarono, dirette
verso nord-est.
«Qui l'unica cosa che si muove è l'acqua,» spiegò Signar, «e non ha senso remare in direzione diversa.
Siamo incappati in una qualche corrente, ed anche molto veloce.»
«Che suggerisci di fare?»
«Non suggerisco nulla,» fece in tono secco. «Io sono il comandante, ma al momento non ho nulla da
comandare. Possiamo remare fino a farci scoppiare il cuore, e non arriveremmo in alcun luogo.
Dobbiamo aspettare. Non c'è altro da fare.»
«Quale è stato il periodo più lungo che ti sia mai capitato di passare in una situazione simile?», gli chiesi.
«Oh, quattordici o quindici giorni. Ma è molto insolito.»
«Lieto di sentirlo.»
«Ovviamente, non so nulla di questi mari. Da queste parti, periodi anche più lunghi potrebbero essere
una cosa comune.»
«Sono sicuro di no,» feci. «Anch'io non so nulla di queste acque, ma non credo che ciò che è insolito in
una zona, possa essere comune in un'altra.»
In seguito, non ne fui più così certo.
Per quattro interi giorni, non era venuto neppure il più esile soffio d'aria a increspare le acque. Dall'alba
fino a ben oltre il tramonto, rimanevamo ad arrostire come scarafaggi su una roccia, muovendoci solo
quando era indispensabile. Le notti non erano migliori. Alcuni marinai avevano cercato di trovare un po'
di refrigerio nuotando intorno alla nave, ma il sollievo venne a rapida fine quando una delle vedette
avvistò un branco di squali di grandezza mai vista che giravano intorno alla nave, a poca distanza dai
nuotatori. I Nicieani erano quelli fra noi che sopportavano meglio il Sole, ma non amavano mostrarsi nel
pieno riverbero del giorno. La loro ora favorita era quella che precedeva immediatamente l'alba, quando
si impegnavano in un gioco consistente nel rincorrersi fra antenne e sartie, salendo su e giù per gli alberi
e saltando nel cavo delle vele. Era una meraviglia vederli, perché
al mondo non ci sono arrampicatori più agili.
Il quinto giorno, apparve verso sud una fila di nubi basse. Mentre si avvicinavano, un vento caldo e
umido cominciò ad agitare debolmente le nostre vele, senza tuttavia gonfiarle. Poi le nubi svanirono
lasciando un cielo color del rame.
«Mi meraviglio che marinai esperti come voi non facciano nulla per provvedere,» si lamentò Rhalgorn.
«Non è decente restare qui immobili ad arrostirci.»
Signar lo gratificò di un ringhio.
«Bene,» fece, «tu che suggeriresti? Che cosa si fa quando si viene colti dalla bonaccia nelle foreste dei
Lauvectii?»
Rhalgorn gli mostrò i denti.
«Nei Lauvectii, siamo abbastanza cresciuti per non giocare più con le barche. Di conseguenza, non
succede mai nulla del genere.»
«Navi,» corresse Signar.
«Come?»
«Siamo su una nave, come ti ho già detto più volte, non su una barca. »
«Su qualsiasi cosa siamo,» fece Rhalgorn tirando su col naso, «non sta andando da nessuna parte. Anche
una persona usa a viaggiare per terra se ne accorgerebbe.»
All'alba del settimo giorno senza vento, la vedetta ci chiamò tutti sul ponte con un grido. Ogni nuovo
venuto aggiungeva il suo urlo personale, sforzando la gola disseccata, quando avvistava i banchi di
nuvoloni candidi che si ammassavano verso sud.
«Di certo sono nubi raccolte da un vento robusto,» fece Thareesh. Signar ruggì, abbrancando lo
stupefatto Nicieano nelle sue braccia enormi e scuotendolo come un fuscello.
«Sì, amico mio, c'è un bel vento robusto! Robusto abbastanza da farci veleggiare fino alla fine del
mondo!»
«Lo abbiamo già fatto,» gli ricordò Rhalgorn: «Stavolta, sarebbe sufficiente che ci riportasse indietro
dall'altra parte. Ormai siamo...» Si interruppe all'improvviso, fissando gli occhi in un punto del cielo.
«Guardate lì,» fece, puntando il braccio. «Verso sud-est.»
Facendo ombra agli occhi con la mano, aguzzai la vista. C'erano minuscoli punti scuri contro le nubi.
«Non vedo nulla,» dissi, «a parte uno stormo di uccelli.»
Rhalgorn emise un suono indistinto.
«Per te, forse. Ma per gli occhi di uno Stygiano sono qualcosa di più che uccelli. Volano, ma sono grandi
almeno quanto me, Aldair.»
«Ha ragione,» intervenne Thareesh.
«Certo che ho ragione. Come al solito, no?»
In breve anche chi possedeva occhi meno acuti poté rendersi conto della cosa. Signar gridò un ordine, e
subito gli arcieri andarono a mettersi ai posti di combattimento. Altri marinai afferrarono scudi e lance e
si tennero pronti.
Almeno venti di quelle creature cominciarono a circolare lentamente sulla nave, in gruppi di due o tre.
Non c'era dubbio che fossero qualcosa di più che uccelli. Capimmo subito che c'era un metodo nel loro
volo, e uno scopo nelle loro azioni. Sembravano molto interessati a capire chi eravamo e dove stavamo
andando, ma non si avvicinavano.
«Rhalgorn,» feci, «sono armati? Riesci a vedere se portano armi di qualche tipo?»
«Non hanno nulla che possa nuocerci,» rispose lo Stygiano. «Alcuni hanno dei sacchetti attorno al collo,
ma nulla di più.»
Diedi ordine all'equipaggio di deporre le armi, ma di tenersi pronti a riprenderle in caso di necessità. Le
creature volanti capirono immediatamente. Si radunarono tutte insieme, come uno sciame d'api, e una
di esse cominciò a scendere verso di noi, librandosi in lenti circoli. Per due volte passò il ponte,
guardandoci bene, ad un'altezza non superiore a quella dell'albero maestro. Poi, all'improvviso, si lasciò
cadere verso di noi. Per un istante pensammo che sarebbe precipitato come una pietra sfracellandosi
sulle tavole; ma poi si spalancarono le ali possenti e cominciarono ad agitarsi nell'aria, rallentando la
caduta e trasformandola in un atterraggio agile e leggero. Stupefatto, mi resi conto di aver già visto
creature come quella. Le avevo scorte per un istante in una delle finestre grigie che si aprivano nel
sottosuolo di Albion. Di fronte a noi, dunque, avevamo un'altra delle atrocità perpetrate dall'Uomo. Il
nostro visitatore era davvero uno strano essere, ma sono sicuro che noi, a lui, apparivamo ancor più
strani: goffi, pesanti e legati alla terra, mentre lui poteva alzarsi nei cieli. Era alto, ma magro in modo
spettrale; braccia e gambe apparivano così delicate e sottili che ero certo di poterle spezzare come un
fuscello con il minimo tocco. Tutta la sua forza sembrava racchiusa nelle ali ampie e robuste. Sul suolo
sembrava perso, come lo saremmo stati noi nell'aria.
Aspettava, perfettamente immobile. Mi avvicinai per dargli il benvenuto, muovendomi lentamente per
non spaventarlo. Mi fissò con tristi occhi dorati. Sul suo cranio si alzava un ciuffo di piume rosse, il cui
colore impallidiva verso il rosa mentre scendevano verso un becco duro e affilato. Quel ciuffo era la sua
unica nota di colore. Il resto del corpo era ricoperto da un manto di uniformi piume grigie.
«Mi chiamo Aldair,» dissi. «Stai pur tranquillo, straniero. Nessuno, a bordo, ti farà del male.»
Gli occhi dorati batterono una volta.
«Io sono Rhaiz, e non pensavo che voleste farmi del male. È detto che venite in pace.»
« Detto? » feci, fissandolo. «Qualcuno... vi aveva avvertiti del nostro arrivo?»
Rhaiz scosse la testa.
«Non era necessario che alcuno ce lo dicesse. Era scritto che sareste venuti.» Allargò le braccia sottili. «E
ora siete qui.»
SEDICI
Rhaiz ci spiegò che veniva da una terra situata a nordest, chiamata Indrae. Era a poca distanza in linea
d'aria. Signar, la cui esperienza di mari-naio gli permetteva di giudicare con sicurezza distanze e velocità,
valutò
che, sotto un buon vento, avremmo potuto navigare a circa tre quarti della velocità dei nostri amici alati.
«È a meno di un giorno di distanza,» fece, «se i miei calcoli sono esatti. Non sarebbe una cattiva idea,
Aldair, andare a dare un'occhiata.»
Quell'espressione - ormai lo sapevo bene - era per Signar soltanto un modo discreto per esprimere la
nostra estrema necessità di cibo, acqua fresca e riposo. A occhio e croce, eravamo ad almeno sei giorni
dalla rotta stabilita, e tutte le nostre riserve ormai erano scarse; di conseguenza, le nostre decisioni
erano obbligate. Se avessimo avuto un'altra possibilità, non avrei esitato ad abbracciarla, perché tutto il
seguito di circostanze che ci avevano portato al punto in cui eravamo mi dava una strana sensazione di
disagio. Prima la bonaccia, poi i venti, poi la corrente che ci aveva portato lontani da Kenyarsha, fino a
condurci all'appuntamento fortuito con le creature volanti. Sembrava quasi un disegno preordinato:
sospetto che avrei anche potuto metterlo da parte, se non avessi udito con le mie orecchie le parole di
Rhaiz:
« Era scritto che sareste venuti. E ora siete qui. »
Non ho particolare passione per le profezie. So che sono possibili, ma non mi interessa molto udirle; in
particolare quando riguardano me. So anche che in qualche modo io sono guidato lungo il mio
cammino: ma anche a questo preferisco non pensare. Nel corso della mia esistenza travagliata, ho
appreso che non serve a nulla chiedersi in anticipo quando e dove una mano soccorritrice ti sta
aspettando.
Rhaiz mi informò che il nome della sua gente era Avakhar, e la loro città
si chiamava Avak. È quasi impossibile descriverla, perché non esiste al mondo nulla che le somigli.
Appena la avvistammo mi resi conto che si trattava di un luogo molto antico, e mi crebbe il desiderio di
visitarla. Avak è costruita sulla foce di un grande fiume, le cui acque hanno da tempo ingoiato le sue
strade e le sue piazze. Ora, è un insieme di guglie altissime che spuntano dal fiume come tronchi
d'albero scarnificati dall'inverno. È un posto ideale per gli Avakhar, che abitano in quelle altezze
vertiginose e non hanno bisogno né di strade, né di piazze né di negozi. Mentre navigavamo all'ombra di
quelle torri, mi accorsi che erano tutte collegate fra di loro da una rete di passaggi: ponti altissimi e
sottili fatti di cordami e canne, tesi fra una guglia e l'altra come Mane tra gli alberi tropicali. Sembravano
quasi la rete costruita da un ragno immenso e disordina-to. Gli Avakhar preferivano dunque camminare,
talvolta, invece di volare?
No, rispose secco Rhaiz alla mia domanda. Quei passaggi non erano stati costruiti per la Vera Gente? Gli
Avakhar non avevano bisogno di ponti. E detto questo il suo becco rimase chiuso, né ci fu verso di farlo
ritornare sull'argomento. Non avremmo alloggiato nelle torri - ci venne spiegato - perché non erano
adatte al modo di vivere delle creature terrestri. Invece, saremmo stati condotti sulla riva del fiume,
dove erano state erette case adatte a noi. Chiaramente, dei messaggeri ci avevano preceduti a grande
velocità, perché quando l' Ahzir arrivò, trovammo tutto già pronto. Non posso negare che gli Avakhar
siano stati straordinariamente generosi nel loro benvenuto. La nave era stata appena tratta a riva, che
l'aria venne lacerata da un rumore di tuono, e il cielo divenne in un attimo nero di creature volanti.
L'equipaggio aveva già messo mano alle armi, quando ci rendemmo conto che si trattava di un gesto
d'amicizia. Centinaia di Avakhar cominciarono a volare in circolo intorno alla nave, urlando,
schiamazzando e facendo vibrare l'aria con le ali. Alcuni suonavano flauti e altri strumenti musicali,
aggiungendo frastuono al frastuono. Altri portavano grandi cesti, che rovesciarono in aria, ricoprendo il
ponte di frutti di ogni genere, e di fiori multicolori.
La cerimonia sarebbe stata piacevole e toccante, se non fosse stato per un piccolo particolare.
Poiché eravamo ospiti, era giocoforza accogliere col sorriso sulle labbra tutto ciò che cadeva dal cielo,
rendendoci conto che ogni popolazione al mondo ha le sue usanze, e bisogna rispettarle.
Il fatto è che dal cielo, insieme ai fiori e ai frutti, pioveva su di noi un'abbondante quantità di escrementi,
che oltre a lordare il ponte, si depositarono in larga misura sull'equipaggio schierato per ricevere il
benvenuto. Fra gli insigniti da tale omaggio ci fu anche Rhalgorn, che inoltre per sua sventura si trovò a
guardare in alto nel momento sbagliato. Più tardi apprendemmo che gli Avakhar hanno l'uso di liberarsi
gli intestini ogni volta che se ne presenta la necessità, e senza badare alle conseguenze: non eravamo
perciò stati fatti segno a particolari favori, ma potevamo considerarci vittime del caso. Rhalgorn tuttavia
non ne fu mai del tutto convinto. Quando volle parlarci di nuovo, ci esternò tutta la sua gratitudine per
averlo ammesso a partecipare a un'avventura grazie alla quale aveva potuto scoprire due nuove
creature che, pur essendo tanto diverse, condividevano il medesimo gentile costume circa le procedure
defecatone. Signar fece del suo meglio per non mettersi a ridere, quindi comunicò solennemente allo
Stygiano che poteva considerarsi fortunato per lo scampato pericolo, dato che i Kenyarshii, fino a prova
contraria, non volano.
Dopo il benvenuto, il ponte era coperto con uno strato di frutta spiaccicata, escrementi e petali di fiori
alto fino al ginocchio. L'aspetto e l'odore erano quelli di uno scarico di immondizie.
Se c'è una cosa che ho appreso nei miei viaggi, è che la gloria e la fama spesso vengono consegnate in
involucri singolari.
Malgrado l'apparente cordialità di quelle creature, lasciammo una piccola guarnigione sulla nostra nave.
Rhaiz ci chiese perché, e gli risposi che a bordo c'erano le reliquie dei nostri dèi, cui si dovevano costanti
tributi religiosi. Poiché gli Avakhar sono un popolo molto devoto, il nostro amico parve soddisfatto della
spiegazione.
«Possiamo fare quante ipotesi vogliamo sul loro atteggiamento nei nostri confronti,» fece Signar più
tardi, dopo un banchetto a base di frutta, pane e noci, «ma se, dopo esserci fidati di loro, queste
creature ci avessero accolto questo pomeriggio con le armi invece che con fiori, frutta e il resto, a
quest'ora saremmo tutti morti.»
Aveva ragione, ovviamente, ma eravamo troppo stanchi per metterci a discutere su ciò che poteva
essere, e non era stato. Comunque, disponemmo turni di guardia, e rimanemmo all'erta. Dormimmo
senza essere disturbati, a parte qualche occasionale scaramuccia con i pidocchi particolarmente feroci
lasciati sul posto dai nostri ospiti, come ultimo grazioso dono. La mattina, per colazione, trovammo altra
frutta, con disgusto di Rhalgorn. Lo Stygiano mostrò i denti e propose come alternativa di far colazione
con un bell'uccello arrosto, che a suo dire sarebbe stato delizioso. Rhaiz comparve per mostrarci la sua
città, e tutti lo accompagnammo: anche Corysia, con mia grande sorpresa. Signar disse che doveva
pensare alle provviste, e quando Rhaiz gli comunicò che alla cosa avrebbe provveduto la sua gente, il
Vikoniano impallidì e tornò di corsa alla nave. Una piccola barca dal fondo piatto ci portò dalla riva alla
più vicina delle torri. La creatura che, spingendola con un palo, guidava l'imbarcazione, era più grassa
degli altri Avakhar che finora avevamo visto, ed aveva le spalle così curve da sembrare vittima della
gobba. La sua cresta era quasi scomparsa, e le piume sembravano umide e appiccicose. Quando la fissai,
si voltò e nascose la faccia. Rhaiz sembrava non notare nemmeno la sua pre-senza.
«Dovrete solo arrampicarvi un po' sulla parete della torre,» spiegò, «fino a quando non avremo
imboccato il primo ponte. Da lì, si può raggiungere facilmente qualsiasi altro punto della città.»
Come turisti disciplinati, seguimmo le sue istruzioni, salendo non senza fatica una fila di rozzi gradini di
pietra che spuntavano dal muro, sino alla base del ponte. Accanto a me, Corysia impallidì fino a
diventare grigia. Il
«ponte» era un filarne di cordame e canne intrecciate, che si perdeva nella distanza fino ad una torre
lontana, diventando ai nostri occhi sottile come un filo.
«Va bene per voi, Aldair?», chiese Rhaiz.
«Oh, certo,» risposi, «va benissimo.»
Corysia mi lanciò un'occhiata tagliente come un rasoio.
«Che cosa avresti voluto che gli dicessi?», le feci a voce bassa, in modo da non farmi sentire
dall'Avakhar. «Che siamo creature timide e delicate, e abbiamo paura di avventurarci nel vuoto sospesi a
corde sottili?»
«Perché no? È vero.»
«Sì, ma non sarebbe decente.»
«Spero solo di sopravvivere a questa avventura,» mi rispose in tono cupo. «Nulla mi farebbe più piacere
che presentarti a mio zio.»
«Sono certo che l'Imperatore Augustus è una persona deliziosa, visto che è un tuo stretto parente.»
«Non so se rimarresti dello stesso parere, dopo averlo conosciuto.»
Gli Avakhar volavano all'intorno, poggiandosi da un cornicione all'altro, intenti alle occupazioni tipiche
delle creature alate, quali che esse siano. Per la verità, era difficile intuire quali fossero queste
occupazioni. Dovunque andassimo, eravamo accolti con grande calore e salutati come amici persi di
vista da tempo immemorabile: ma non c'era segno che i nostri ospiti perseguissero attività alcuna, a
parte il volare. Si raccoglievano sui pinnacoli più alti e chiacchieravano fra loro, oppure entravano e
uscivano dalle migliaia di aperture praticate nelle pietre delle torri. Apprendemmo chi erano i membri
della popolazione più grassi e curvi, e ci rendemmo conto della funzione dei ponti fra torre e torre. Si
trattava di Avakhar incapaci di volare, trattati come schiavi. Trasportavano lungo il fiume i frutti, le noci
e altro cibo raccolto nella foresta, e lo distribuivano fra le torri passando lungo i ponti. In un certo senso,
suppongo che in tutto il mondo non ci sia schiavo più miserabile di loro. La loro condizione era resa
ancor più patetica dal fatto che, un tempo, avevano conosciuto l'emo-zione del volo. Fu il Nicieano a
capire il motivo della loro presente condizione. A ciascuna di quelle creature era stato reciso un tendine
proprio dietro le spalle, dove le grandi ali si uniscono al corpo.
«Non dobbiamo fidarci troppo del loro atteggiamento remissivo e amichevole,» ci sussurrò. «Esseri
capaci di fare una cosa simile a individui della loro stessa razza...»
Rhalgorn lo interruppe. «Da quanto ho visto, non sono né migliori né
peggiori di qualsiasi altra razza. Fatta eccezione per gli Stygiani, naturalmente.»
Thareesh lo fissò ed emise un sibilo fra i denti. Rhalgorn rispose con una risata.
Ma non c'era nulla che, tanto Thareesh quanto io, potessimo ribattere, perché lo Stygiano aveva
ragione. I Signori dei Lauvectii sono un popolo crudele e feroce, certamente: ma sono anche le uniche
creature di mia conoscenza che non volgono mai la mano sui propri simili. In cima alla terza torre, Rhaiz
si fermò all'improvviso e mi fissò con i suoi occhi dorati.
«Qui, Aldair, dovremo lasciarti per qualche tempo. Un altro farà in modo che in seguito tu ci raggiunga
più in basso.»
«Che cosa significa questo?», fece Rhalgorn, venendosi a mettere al mio fianco.
Rhaiz rise e scosse la testa.
«Vi prego,» fece. «Rassicuratevi. Nessuno vi farà del male, fra gli Avakhar.» Poi si rivolse a me. «I tuoi
compagni non devono aver paura.»
«I suoi compagni non hanno affatto paura, amico,» disse Rhalgorn con voce cupa. «Ma questo non
significa che siano degli sciocchi.»
Dietro di lui, Thareesh piegò il capo in segno di assenso.
«Un momento,» feci io. «Che cos'è questa storia, Rhaiz?»
«È Rhamil, Aldair. Vuole parlarti.»
«E chi è Rhamil? Il vostro capo?»
«Rhamil è... Rhamil.»
«Il che, come chiarificazione, non è gran cosa.»
Rhaiz sbatté le palpebre.
«Allora,» fece «aggiungerò che è quello di cui ti ho parlato a bordo del vostro vascello. Quello che da
tempo attende la vostra venuta.»
DICIASSETTE
Come dissi più tardi a Rhalgorn e Thareesh, se gli Avakhar avessero avuto intenzione di farci fuori, non
avrebbero dovuto usare trucchi particolari.
«Inutile separare uno di' noi dagli altri, quando avrebbero potuto facilmente fare il servizio a tutti
insieme, senza troppa fatica. Bastava che, mentre attraversavamo uno di quei ponti sospesi, avessero
tagliato una delle estremità.»
La mascella di Rhalgorn cadde fino a terra.
«Ti confesso,» fece, «che non avevo pensato a questa possibilità.»
«Neppure io,» aggiunse Thareesh.
«Per essere perfettamente onesto,» dissi, «non ci avevo pensato neppure io. Mi è venuto in mente in
questo momento. Tuttavia, di sicuro ce ne ricorderemo tutti, la prossima volta che attraverseremo uno
di quei ponti.»
Pur essendo molto curioso, ormai, di incontrare questo Rhamil, ci mancò
poco che la mia avventura finisse ancor prima di cominciare. Fare un passo nel suo covo era impresa da
far morire di disgusto anche uno Stygiano. All'interno, aleggiava un fetore indescrivibile, nato da una
mescolanza di escrementi, frutti marci, alito cattivo e chissà cos'altro. Dominante su tutti questi afrori,
c'era il potente e inconfondibile tanfo della pelle non lavata.
«Ah, Aldair, entra, entra!»
Una torcia lottava con alterna fortuna contro le tenebre. Dall'altra parte della stanza c'era qualcosa che
mi parve fosse un Avakhar. Rhamil non possedeva alcuna delle caratteristiche che conferiscono grazia e
bellezza al suo popolo. L'oro degli occhi si era trasformato in una specie di giallo sporco, la cresta un
tempo orgogliosa era un'informe escrescenza dal colore indefinibile. Sul corpo erano rimaste ormai
poche penne, e molte di esse sembravano staccarsi dalla pelle sotto i miei stessi occhi, mostrando
un'epidermide corrosa e macchiata, tesa su ossa fragili.
«Accomodati,» mormorò, spingendo in avanti la testa. «Lì... no, lì, mi pare. Quel dannato sgabello deve
essere da qualche parte.» Ovunque si posassero le sue dita, si sollevava una nube di polvere grigiastra,
che mi serrava la gola e mi faceva tossire. La stanza di Rhamil era bizzarra quanto il suo occupante.
Mucchi informi di rottami d'ogni sorta si sollevavano fino al soffitto. Infiniti barattoli, orci, giare erano
appoggiati su scaffali, scatole, casse, barili, sedie. Con gli anni, molti di questi contenitori si erano rotti,
ed i loro frammenti erano ancora lì, insieme con i resti, caratterizzati dagli odori più diversi, di ciò
che avevano custodito. C'erano ovunque rimasugli e frammenti di foglie, pietre, semi, penne e vetro.
Sgocciolii, untume, incrostazioni, immondizie. Tuttavia, un gelo familiare mi sfiorò la nuca, perché in
mezzo a tutto quel letame maleodorante potevo vedere qualche traccia delle mura originali: e si
trattava della caratteristica finta-pietra liscia e grigia adoperata dall'Uomo.
Rhamil parve intuire il significato del mio sguardo.
«Ah,» fece, «tu sei davvero il Dha'ir Tayamanda, colui che doveva venire.» I suoi vecchissimi occhi
lampeggiavano. «Lo vedo chiaramente!»
«Non capisco quello che intendi dire,» risposi. «Ti sarei grato se tu mi spiegassi il significato delle tue
parole.»
«Ah, ma tu lo sai già. È nei tuoi occhi.»
«Tuttavia, vorrei saperlo da te, perché io non ho mai sentito parlare questo "colui che deve venire", o
comunque si chiami.»
Rhamil alzò un dito.
«Aldair, non devi prenderti gioco di me.»
«Ti assicuro che non ne ho alcuna intenzione.»
«Possiamo fidarci l'uno dell'altro.»
«Ne sono certo. Però...»
«Senti,» fece secco Rhamil, «tu sei il Dha'ir Tayamanda. Non cercare di negarlo. L'ho visto bene, ed è
così!» Mormorò qualche parola fra sé, mentre frugava tra il pattume che aveva intorno; ogni tanto mi
lanciava un'occhiata sospettosa. «Ecco,» fece alla fine, spingendo verso di me un lurido sacchetto di
cuoio. «Scegli una pietruzza... una qualsiasi. Mischiale, prima. Prendine una e non farmela vedere.»
«A che serve?»
«Accidenti a te, non potresti limitarti a fare quello che ti si chiede, senza domande?»
Eseguii.
«Sulla pietra che hai scelto c'è il segno del Sole, non è vero?»
«No.»
«Aspetta... Una falce di Luna?»
«No.»
«E allora, che cosa c'è?»
«Vuoi che te lo dica?»
«Sì, sì. Altrimenti, perché te lo avrei chiesto?»
«C'è una stella.»
«Ah, naturalmente.»
«Perché, naturalmente?»
«Una stella ti sta guidando. Quella è la pietra del marinaio. I tuoi colori favoriti sono il blu e il rosso, e tu
sei nato nel secondo mese. Il tuo numero fortunato è il nove. Ti sei avventurato lontano, imbarcandoti
per un lungo viaggio. Non è vero?»
«È vero che sono un marinaio, e mi sembra ovvio che, per venire fino a qui, io mi sia imbarcato per un
lungo viaggio. I colori del mio Clan sono il rosso e il blu, come puoi vedere dalla tunica che indosso. Sono
nato nell'ottavo mese e non nel secondo, e non ho la più pallida idea di quanta fortuna mi porti il
numero nove.»
Rhamil mi dedicò un sorriso obliquo.
«Però,» fece, «non puoi affermare che non ti porti fortuna...»
«No, non posso,» risposi, mentre la mia pazienza si stava rapidamente esaurendo. «Ma sono sicuro che
neppure tu puoi affermarlo con certezza, se mi perdoni l'ardire.»
Rhamil scrollò le spalle, agitando le sue piume sparse. Anche nella luce fioca potevo vedere che la sua
pelle brulicava di insetti. Mentre guardavo, ne prese uno fra le dita, lo schiacciò col becco, con aria
assente, e se lo mangiò. Trattenni a stento il vomito.
«Bene,» dissi. «Penso che ormai sia ora che me ne vada.» Mi alzai in piedi. «Grazie per avermi concesso
il tuo tempo prezioso.»
«Certo,» mormorò Rhamil, «come desideri, Aldair. Incidentalmente, chi è questo ghir thairn? È molto
presente nei tuoi pensieri, a quel che mi pare.»
«Che cosa?» feci, sedendomi di nuovo. «L'Aghjir Tharrin... che ne sai tu dell'Aghjir Tharrin?»
Rhamil si produsse nell'imitazione di un ghigno.
«Sei molto poco cortese, Aldair. Non me lo sarei mai aspettato da parte del Dha'ir Tayamanda. Ma non
si può alterare il corso del destino.»
«Senti, tu hai parlato dell' Aghjir Tharrin... »
«Davvero?»
«Certamente.»
«Oh. E allora? Vuoi conoscere il suo numero fortunato? È il quattro.»
Tirai un respiro profondo.
«Per qualche motivo, non riesco a credere che l'Aghjir Tharrin abbia un numero fortunato.»
«Certo che ce l'ha. Ce l'hanno tutti.»
«E che cos'altro sai, su di lui?»
Rhamil chiuse gli occhi.
«Sta pensando a te, e ti manda i suoi saluti. Dice che...»
«Non credo che l'Aghjir Tharrin possa più dirmi nulla.»
Rhamil parve deluso.
«Non credi?»
«No.»
«Beh, forse hai ragione. Non si può mai essere certi di queste cose. Tuttavia, è sicuro che l'avrebbero
molto interessato le torri degli Avakhar, perché porta un grande amore per le cose antiche.»
Cercai di non guardarlo, ma Rhamil era espertissimo nel cogliere i più
piccoli mutamenti di espressione. I suoi occhi cisposi brillarono di contentezza.
«Questo, almeno, ha un significato, per te,» fece. «Lo vedo bene.»
«Sì... è vero,» ammisi. Piegandomi in avanti, studiai con cura l'essere davanti a me. «Rhamil, che cosa sai
di questo posto? Chi ha costruito lestrutture in cui abitano gli Avakhar, e quando! »
Rhamil si appoggiò all'indietro, strofinandosi le dita le une sulle altre.
«Io sapevo che tu sei il Dha'ir Tayamanda. Non te l'ho forse detto?
Certo che conosco l'età delle torri, Aldair. E so chi le ha costruite. Io sono un Profeta degli Avakhar, e il
mio mestiere consiste nel sapere le cose.»
«E allora, dimmelo!»
«Dirti che cosa?»
«Chi ha costruito le torri!»
Rhamil sbatté gli occhi.
«Ma come? Non lo sai già, Aldair?»
«Sì, io lo so. Ma tu, lo sai?»
«Certamente.»
«E allora, dimmelo.»
«Dimmelo tu, prima.»
Oh, senti...»
«Per favore...» Rhamil sollevò una mano scheletrica, e se la premette sugli occhi. «Profetare e compiere
meraviglie come le mie è molto stancante, Aldair. Ti rivelerò altri segreti domani. Ora, devo riposare.»
« Tu mi rivelerai...» Mi alzai, facendo tintinnare orci e barattoli. «Ma di quali meraviglie parli, Rhamil?
Mi hai detto una sola cosa che aveva un'ombra di verità. Per il resto, erano tutte insensatezze!»
Rhamil aprì gli occhi e catturò un altro insetto dal cavo dell'ala.
«Avevo intenzione di rivelarti un altro numero fortunato,» fece, tirando su col naso. «Ora, forse, non lo
saprai mai.»
DICIOTTO
L'autentico dono della profezia è estremamente raro al mondo d'oggi. In compenso, c'è una
straordinaria abbondanza di imbroglioni e ciarlatani. Gran parte di questi individui non ha più saggezza o
interiorità di una rapa, e molti non sono in grado neppure di predire dove dormiranno la sera, o quando
mangeranno il loro prossimo pasto. Tuttavia, ve ne sono altri che posseggono poteri autentici, ma non
sanno più distinguerli dalla loro stessa malafede e dai loro trucchi. Sono certo che Rhamil apparteneva a
quest'ultima categoria.
Nessuno di noi aveva mai menzionato l'Aghjir Tharrin o la sua profonda conoscenza dell'antichità.
Eppure, Rhamil aveva visto con chiarezza entrambe le cose, estraendole chissà come dal mucchio
informe delle date di nascita sbagliate e dei numeri fortunati.
«Non riesce a distinguere la verità quando vi inciampa sopra,» dissi durante la cena, «ma non si può
negare che possegga un talento di qualche tipo.»
Gli altri annuirono, perché sembra che non esista alcuna terra che sia priva di veggenti, veri o falsi che
siano. In gran parte sono innocui, e aggiungono un tocco di colore ai mercati e alle fiere di paese. È
soltanto quando raggiungono posizioni di preminenza religiosa che diventano seccanti e pericolosi.
Rhalgorn e Thareesh erano ansiosi di riferire le loro avventure.
«È davvero un posto molto strano,» fece il Nicieano. «Di fronte a qualsiasi buco passassimo, chiedevamo
sempre a Rhaiz quale fosse l'occupazione dei suoi abitanti. Ci siamo resi conto presto che la nostra guida
non aveva la più pallida idea di quello che gli domandavamo. Parole come mercante, artigiano o
guerriero per lui non significavano nulla. Aldair, questa gente non ha occupazioni. Non costruiscono
cose né commerciano fra di loro. Non hanno monete di scambio, non posseggono oro o gemme. Il poco
lavoro che si fa, è compito degli schiavi.»
«Nella stanza di Rhamil ho visto dei mobili.»
«Forse. Ma non sono stati certo gli Avakhar a costruirli. Li hanno trovati da qualche parte o se li sono
procurati in chissà che modo.»
«Dovranno pur far qualcosa,» dissi, «oltre a volare.»
«La fanno,» intervenne Rhalgorn. «Mostragli la tua collezione, Thareesh.»
Il Nicieano estrasse alcuni oggetti dalla sua borsa e li depose sulla stuoia davanti a noi. Mi parvero nulla
più che corti bastoncini, larghi quanto un dito. Ce ne erano una dozzina, e ciascuno sembrava tarlato o
intaccato dalle mandibole di qualche insetto.
«Non sono stati gli insetti,» mi corresse Thareesh. «Sono stati gli Avakhar stessi. Abbiamo visto molti di
loro intenti a masticare questi bastoncini, e Rhaiz ci ha spiegato che la sua gente non scrive con le mani
(anzi, si è
meravigliato nell'apprendere che sia questo l'uso comune nelle altre parti della Terra). Invece, incidono
una qualche sorta di carattere su questi stecchi, usando il becco.»
«È un costume davvero insolito,» feci al Nicieano. «Ma non prova che gli Avakhar non abbiano
alcun'altra occupazione. È inconcepibile, secondo me, che la masticazione di pezzi di legno possa
costituire l'unico impegno di un intero popolo.»
Thareesh rivolse verso di me gli occhi senza palpebre. «Io non sono in grado di leggere questa specie di
scrittura, Aldair, se vogliamo chiamarla così. Però mi sono fatto dettare il contenuto di alcuni di questi
bastoni, e l'ho trascritto su un foglio di carta.»
Nuovamente, infilò la mano nella sua borsa, e ne trasse un pezzo di pergamena su cui erano vergati i
minuti caratteri della scrittura nicieana:
«Ho calcolato che occorrerebbero 47 giorni per volare fino alla Luna.Ma potrei sbagliarmi.»
«Una persona che soffra di bruciore ai piedi può trovar sollievo con unamistura di due parti di chiodi di
garofano in una ciotola di fango di fiu-me.»
«Saluto ogni nuovo giorno con un sorriso, ma mi rendo conto moltopresto di non far altro che ripetere
uno ieri già passato. Un giorno o l'al-tro smetterò di sorridere, per vedere se succede qualcosa.»
«Quante formiche insieme dovrebbero emettere un peto perché qualcu-no se ne accorgesse?»
«A chi parla troppo si secca la bocca, e non può sputare con altrettantafacilità di chi sta zitto.»
«Una volta ho contato 427 semi in un frutto di rhapayee. Il giorno dopo,ne ho trovato uno senza neppure
un seme.»
«Mi sono sempre chiesto se i pidocchi russano quando dormono.»
Thareesh alzò gli occhi e mise da parte il suo foglio di carta.
«Capito?», disse. «Abbiamo a che fare con una razza di filosofi dilettanti.»
«Dilettanti è la parola giusta,» assentii. «Non mi pare di aver udito nulla di cui il mondo non possa
tranquillamente fare a meno.»
Rhalgorn si grattò il naso.
«Quella sulle formiche mi è piaciuta. Non ci avevo mai pensato neppure io.»
Più tardi, nel pomeriggio, sedevo sulla riva del fiume, con accanto Thareesh, e vedevo il Sole impallidire
dietro nubi color del fuoco. La nostra nave beccheggiava lentamente vicino alla spiaggia. Signar aveva
lavorato sodo per provvedere alle riparazioni e ai rifornimenti, ed entro due giorni saremmo stati pronti
a ripartire. Aveva poca simpatia per gli Avakhar, anche se il sentimento era in gran parte dovuto
all'accoglienza non precisamente profumata che ci avevano dedicata. Per una volta, lui e Rhalgorn
avevano la stessa opinione.
Mi era parso di vedere Corysia sul ponte, ma non potevo esserne sicuro. Dopo il nostro giro mozzafiato
sulle torri, era tornata sulla nave e aveva giurato che non avrebbe mai più messo piede a terra. Sulla
spiaggia il clima era più fresco e, ovviamente, il fatto che lei fosse costretta a privarsi di quel minimo
comfort, era colpa mia. Che creatura insopportabile e mera-vigliosa, mi lamentai fra me e me.
«I tuoi pensieri sono molto lontani,» fece Thareesh.
«Più vicini di quel che tu pensi, amico mio,» risposi. Si accontentò di questa osservazione, e gliene fui
grato.
Osservammo l'oscurità addensarsi sulle alte torri degli Avakhar, e seguivamo i larghi voli di quelle
creature, che si dirigevano ai loro buchi di pietra per passarvi la notte.
«Mi comprenderai,» disse, «se trovo difficile immaginare che una razza capace di solcare i cieli non
riesca a pensare a nulla di più significativo dei peti delle formiche. È davvero una cosa indecente,
direbbe Rhalgorn.»
«È anche gente che schiaccia i propri pidocchi col becco per mangiarli,»
aggiunse il Nicieano, «e assegna numeri fortunati.»
«E lancia frutta marcia ed escrementi sui naviganti in visita.» Ridemmo entrambi a queste follie, e
scuotemmo la testa.
«Accidenti,» dissi, dando un calcio a una pietra. «Dovrebbero aver raggiunto un livello superiore a quello
che ve diamo, Thareesh. Non credi?»
«E perché mai? Perché abitano in cima alle rovine dell'Uomo? Un folle può vivere in perfetta ignoranza,
circondato da tutti i tesori del mondo, Aldair.»
Risi. «Forse le tue parole si adattano anche a me, oltre che agli Avakhar, amico mio.» Thareesh mi rivolse
uno sguardo interrogativo. «Ci sono momenti in cui mi trovo del tutto inadeguato al mio compito. Io
sono un guerriero, non uno studioso. Per un'impresa come la nostra, avremmo avuto bisogno di una
persona come Flavius Domitius. Io non riesco a interpretare bene neppure quello che vedo chiaramente
con i miei occhi. Peggio ancora, potrebbero passarmi cose importantissime sotto lo sguardo, senza che
io me ne accorga. Immagina che in questo stesso posto ci sia qualcosa di molto interessante. La
riconoscerei?»
Thareesh sorrise.
«Anche senza essere studiosi, Aldair, tutti noi riconosceremo sicuramente la Sede dell'Uomo, nel
momento in cui la incontreremo.»
«Forse,» risposi. «Seppure riusciremo mai ad incontrarla.»
«Tu ne sei veramente convinto?» Il Nicieano mi toccò un braccio. «Io sì. Non credo che il veggente che ti
ha indirizzato su questa strada ti abbia fatto fare tanto cammino per nulla. Non mi sembra possibile.»
In quel momento, le sue parole avevano per me poco significato, perché
nutrivo dubbi su tutto ciò che riguardava i profeti, le visioni e le grandi ricerche dietro il nulla.
«Thareesh,» dissi, «più di una volta durante il viaggio mi ha colto una sorta di disperazione sull'esito del
nostro compito. Certe volte, ho dubitato di essere davvero sotto la guida di un certo qualcuno. Altre
volte, ho pensato di essere troppo cieco per poter seguire la strada giusta. Altre volte ancora ho
immaginato di aver sognato tutto, e che nel mondo non vi sia alcun mistero tenebroso e nascosto.»
«E che Albion era un sogno, allora?», chiese il Nicieano. Non risposi. Invece, alzai ancora una volta lo
sguardo verso le alte torri degli Avakhar, che l'oscurità aveva ormai quasi del tutto ingoiato. Prima di
volgere le spalle alla spiaggia, captai con la coda dell'occhio un movimento presso la prua dell' Ahzir.
Osservando più attentamente, vidi l'immensa mole di Juumb'ar che si rotolava nelle basse acque del
fiume. Mentre guardavo, lo vidi immergere il suo lungo naso simile a un tentacolo, riempirlo d'acqua, e
spruzzarsela sulla schiena. Lo vidi ripetere quel gesto più e più volte, quindi raggiunsi Thareesh nei nostri
padiglioni. Ancora una volta, fui preso di pena per il grande e strano dolore che pativa quella creatura.
Come lo schiavo che ha infine spezzato il suo collare di ferro, il Kenyarshii non sapeva che cosa fare della
sua libertà. Non sapeva andare avanti, né indietro. Era perduto in qualche terrificante e ignoto territorio
di mezzo.
E se, per un momento, avevo dubitato della mia missione, o della concreta e orrenda eredità dell'Uomo,
la vista di Juumb'ar era sufficiente a ricondurmi alla realtà delle cose. DICIANNOVE
«Ah, Aldair, eccoti. Le pietre mi avevano previsto la tua venuta.»
Sedeva lì dove lo avevo lasciato, tra il fetore e la lordura del suo covo. Senza dubbio, pretendeva che io
credessi che era rimasto immobile in quella posizione dal giorno prima, come se non l'avessi visto spiare
il mio arrivo mentre avanzavo con cautela lungo il ponte sospeso.
«È bene che tu sia venuto,» aggiunse, fissando il soffitto scuro. «I segni del cielo annunciano grande
fortuna per i nati nel secondo mese.»
«Io sono nato nell'ottavo. E non mi sono arrampicato fin qui per conoscere i tuoi numeri fortunati,
Rhamil. Ieri, tu hai pronunciato il nome di una persona che mi è stata molto cara. Inoltre, l'Aghjir Tharrin
ha avuto gran parte in eventi che sono della massima importanza per me e per i miei compagni. Se nelle
tue pietre tu potessi scorgere altri di questi eventi, io...»
Rhamil fece un gesto vago e scosse la testa.
«Sei un individuo rozzo e impertinente, Aldair,» disse. «Non sono sicuro che tu sia pronto a ricevere i
grandi segreti.» Mi fissò con occhi fieri al di sopra del suo becco. «E non pensare che io non sappia ciò
che stai cercando.»
«La mia non era impertinenza,» gli assicurai. «Impazienza, forse...»
«Gioventù e stupidaggine, ecco che cos'è!», fece brusco l'Avakhar. All'improvviso, chiuse gli occhi e si
toccò la fronte. «C'è una persona cara lontana. Una madre, forse... o una sorella...»
«Rhamil. Ieri abbiamo parlato delle torri degli Avakhar. Tu mi hai detto di sapere quanto sono antiche, e
chi le ha costruite. Ciò fa parte delle cono-scenze che io sto cercando.»
«Lo so, Aldair. E fai bene a cercarle.»
«Che cosa sai?»
«La verità è che...», si schiarì la gola «... che le torri sono antiche d'anni senza numero. Sì, almeno. E io...
temo di non essere autorizzato a rivelarti i loro costruttori.»
«Tu non sei autorizzato perché non lo sai!»
«Lo so, invece!», strillò la creatura. I suoi vecchi occhi erano in fiamme.
«Non hai il diritto di parlarmi in questo modo. Io sono un Profeta degli Avakhar, che è una razza di
profeti, nel caso che tu non ne sia a conoscenza! C'è ben poco su questa terra che io non sappia o che
non possa sapere!»
«Eccetto chi ha costruito le torri,» gli ricordai.
Mi fissò, tremando così forte che le sue piume cominciarono a cadergli intorno come una nevicata nelle
terre del Nord.
«Tu non mi credi, vero? Bene, vieni con me, Mastro Aldair, e ti mostrerò chi ha costruito le torri, e le
altre cose ancora!»
Il cuore mi balzò in petto. Che se ne rendesse conto o no, quel vecchio imbroglione mi avrebbe guidato
verso altre conoscenze del mondo dell'Uomo. Di certo, nuove meraviglie mi aspettavano. Lo seguii verso
il retro della sua spelonca, fino ad uno stretto passaggio che prima non avevo notato. Mi portò giù per
una larga ma infida scala a spirale, ingombra di polvere e sporcizia, trascinandosi dietro le ali. Alla luce
della sua torcia fumosa potevo vedere da ogni lato grandi lastroni di pietra dell'Uomo, rigati da lunghe
strisce di ruggine. Avevo già visto strutture analoghe altre volte, ma non mi era ugualmente facile non
meravigliarmi per la facilità e l'abilità con la quale l'Uomo sapeva lavorare e modellare i metalli. Poteva
essere disprezzato per la sua crudeltà, ma non se ne poteva negare la grandezza.
Dal basso saliva una colonna d'aria fresca e umida, che portava l'odore inconfondibile degli Avakhar.
Quanto più scendevamo, tanto più forte si faceva il puzzo, finché fui certo che almeno un quarto di tutta
la razza si trovava lì sotto.
Ora si potevano vedere altre torce, ed era chiaro che ci stavamo approssimando alla fine della discesa.
All'improvviso, sotto di noi si aprì un enorme salone. Aguzzando gli occhi, potei vedere che all'interno
qualcuno
- o qualcosa - si stava muovendo.
Rhamil si volse verso di me, con gli occhi ardenti.
«Aldair,» fece, «sento che tu hai un fratello. Il suo nome è Reep, non è
vero?»
«Rheif,» risposi, meravigliato per questo nuovo pezzettino di verità che il «profeta» aveva cavato
dall'etere. «Ed è, o meglio era, un fratello in ogni modo, anche se... Per il Creatore, che diavolo è
questo? »
Rhamil ghignò felice, facendosi di lato perché potessi vedere meglio.
«Ti avevo detto,» fece, «che ti avrei mostrato grandi meraviglie, non è
vero? Ebbene, eccoti qui!»
«Sì... ma... che cos'è?»
Più guardavo la cosa, meno capivo. Era una grande ruota a raggi, distesa orizzontalmente rispetto al
terreno, e connessa in qualche modo con il pavimento fatto di pietra dell'Uomo. Una dozzina di schiavi
giravano la ruota con passo lento e uniforme, mentre guardie avakhar vigilavano. La meraviglia vera,
tuttavia, era posta sulla ruota stessa. Dal suo mozzo si alzava una palo di legno, e da questo spuntavano
centinaia di corte e acuminate punte d'osso. Vicino a ciascuna punta c'era una cosa che riconobbi a
prima vista: uno degli strani bastoncini di legno sui quali gli Avakhar usano incidere la loro saggezza,
esemplificata da riflessioni come il numero dei semi di un frutto o le abitudini notturne dei pidocchi.
«Bene,» fece Rhamil, «che cosa ne pensi?»
«Temo,» risposi francamente, «che quel che vedo superi le mie capacità
di comprensione.»
«Senza dubbio. Chi non possiede la vera conoscenza ha l'abitudine di non attribuire la giusta grandezza a
chi è migliore di lui, Aldair. Tu parli, ma non dici nulla. Guardi, ma non vedi.» Con un gesto del braccio,
indicò
tutta la scena davanti a me. «Qui, signore degli scettici, c'è la risposta a tutte le tue domande. Chi ha
costruito le torri degli Avakhar? Il Creatore stesso, naturalmente. E quanto sono antiche? La domanda
non ha senso, perché esistono da sempre.»
«Che cosa?»
«Naturalmente!»
«Ma... Rhamil, che cos'è quell'affare? A che serve! »
Rhamil mi rivolse uno sguardo carico di pena per la mia palese ignoranza.
«Aldair,» fece, «serve a creare, perché questa sala è la sede della crea-zione. I pensieri degli Avakhar
vengono condotti lungo quel palo, dove il loro significato viene assorbito dal Fluido Universale. I pensieri
cambiano ogni giorno, perché ogni giorno ne vengono aggiunti di nuovi. In un certo giorno nel futuro,
nessuno sa quando, tutti i pensieri possibili saranno stati posti a contatto con il palo, e assorbiti. Allora, il
mondo sarà creato e nasceranno tutte le creature.»
« Nasceranno? »
«Lo so,» fece sorridendo con aria paziente, «che tante verità comunicate tutte in una volta ti hanno
scosso considerevolmente. Vedi, ascoltando te e i tuoi compagni abbiamo scoperto che siete vittime
dell'illusione di essere vivi. Ovviamente, questo non è vero. Tutti noi siamo ancora non nati. Ci limitiamo
a sognare quella che ci sembra la realtà. Ovviamente, non può
esserci vera vita fino a quando tutto il pensiero non sia stato assorbito dal Fluido Universale, perché i
pensieri sono i mattoni con i quali è edificato l'universo.»
Così, mentre cercavo i segreti dell'Uomo, avevo finito per imbattermi invece nelle chiavi dell'universo,
che sono i piccoli bastoncini masticati dagli Avakhar.
Non sono certo degno di criticare il Creatore. Se qualcuno me lo chiedesse, tuttavia, metterei in luce il
fatto che l'unica cosa che Egli avrebbe potuto agevolmente lasciar fuori dal mondo da Lui creato è la
religione. Da quel che ho visto, fa più bene che male, ed ha ben poco a che vedere con il Creatore
stesso.
Quando si è visto tutto, rimane ben poco d'altro da vedere. Ripercorsi con Rhamil all'indietro la
medesima strada nelle viscere della torre, su per la scala a spirale piena di spazzatura. Stavolta portavo
io la torcia, e riuscii a vedere meglio i detriti dell'Uomo sparsi lungo i gradini. Pezzi di vetro e di ceramica,
incrostati dall'antichità. Piccoli spezzoni di filo, verdi e corrosi. Altri frammenti dei quali non riuscii
neppure a individuare il materiale di cui erano fatti.
L'Aghjir Tharrin avrebbe dato un braccio per poter studiare quel luogo!
Tutto ciò che conosceva dell'antichità erano le piatte e sterili rovine dei Tarconii. Ed io, che non avevo
neppure un'ombra della sua sapienza, ero salito sulle torri degli Avakhar e avevo percorso le sale di
Albion. Uno di noi due aveva visto poco. L'altro, troppo.
Alla luce della torcia scintillò qualcosa. Mi fermai, chinandomi a terra per frugare fra i detriti, e sollevai
l'oggetto. Era una piccola sfera, non più
grande di un uovo. Liscia come vetro, ma di una sostanza diversa. Inumidii un dito, e ripulii parte della
polvere secolare, studiando meglio la cosa. Anche se parte dell'oggetto era corroso e danneggiata,
potevo ancora se-guirne con il dito i disegni tracciati sulla sua superficie. Linee, che la percorrevano
come cerchi sempre più piccoli. Altre linee, trasversali rispetto alle prime.
L'improvvisa comprensione di ciò che avevo in mano quasi mi fece liquefare le gambe. Lì, era tracciata la
costa della Gaullia, con sopra l'isola di Albion. Sotto, lo stivale inconfondibile di Rhemia, il territorio dei
Tarconii, il Mar Meridionale. Al di là di questo, le terre desertiche di Niciea, e l'intero grande continente
di Kenyarsha. Doveva essere quello, anche se nessuna creatura vivente ne aveva mai tracciato le coste.
Sentivo il cuore martellarmi nel petto. Perché mai la razza dell'Uomo avrebbe dovuto avvolgere le sue
carte geografiche attorno ad una sfera sequesta non fosse stata la vera forma del mondo?
Poteva mai essere una cosa simile?
Ma, allora, una nave che procedesse avanti all'infinito, non sarebbe mai caduta nel Grande Vuoto, ma
avrebbe continuato a navigare, fino a tornare al punto di partenza...
Quel piccolo oggetto tremava nella mia mano. Oltre Albion, oltre il Mare delle Nebbie, due grandi
continenti si allungavano da nord a sud, uniti da una sottile striscia di terra. E oltre quelli...
Alte grida irate mi trassero rapidamente dai miei pensieri. Torce ruppero il buio, e mi vidi circondato da
Avakhar, che percorrevano i gradini con tutta la rapidità consentita dalle loro tozze gambe. Forse la loro
era una società senza guerrieri, come pensava Thareesh; ma quelli che venivano verso di me avevano
trovato alcune aste dalle punte minacciose, che agitavano nella mia direzione. VENTI
In circostanze del genere, non è saggio fermarsi a porre domande. Le creature che impugnano armi di
rado sono nelle condizioni mentali più
adatte a spiegare le loro ragioni.
Così, contrapposi azione ad azione, sguainai la spada, mi misi a gridare più forte di loro, e agitai la lama
all'intorno in cerchi rapidi e mortali. Come avevo immaginato, gli Avakhar avevano un certo talento per
urlare e saltellare, ma scarsa vocazione al combattimento. Quando videro dividersi in due la prima asta
colpita dalla mia spada, corsero a nascondersi, sollevando un insopportabile polverone con le ali. Corsi
in alto anch'io, e a un certo punto della salita sorpassai Rhamil, ma non mi fermai per chiacchie-rare. Al
di fuori, mi fermai, facendomi schermo con la mano contro il sole. Mi accorsi subito che la mia strategia
non era la più idonea quando si ha a che fare con creature volanti. Un immane frullo d'ali vibrò sulla mia
testa, e il cielo parve oscurato da un'ombra gigantesca. Mi abbassai in cerca di riparo, ma un avakhar mi
fece cadere lungo disteso. Erano a centinaia, in volo attorno alla torre. Non capivo che cosa potesse
avere innescato tutta quell'attività, ma non era il momento migliore per chiederselo. L'aria è
l'elemento naturale degli Avakhar, come la terra è il mio. Senza guardare né su né giù, mi lanciai di corsa
attraverso il ponte, pregando che a nessuna di quelle creature venisse in mente di tagliarlo, con me nel
mezzo. Gli Avakhar mi lasciarono stare, accontentandosi di svolazzare all'intorno facendo oscillare
paurosamente il ponte. Raggiunta la seconda torre, mi diressi verso la terza. Rhalgorn mi raggiunse,
agitando la spada, ringhiando agli Avakhar e sfidandoli ad avvicinarsi di una sola piuma.
«Pare che ci sia qualche problema,» gli feci.
«Direi anch'io. Ma è meglio che per prima cosa scendiamo giù da questo luogo. Non è un posto decente
per parlare.»
In basso, ci aspettava una scena caotica. Una dozzina di marinai erano addossati alla base della torre,
con le armi in pugno. Thareesh era alla loro testa, con l'arco nicieano pronto a scoccare. Intorno al
gruppetto c'erano più Avakhar di quanti potessi contarne. Si agitavano come api impazzite, inviando al
cielo le loro grida furiose.
«È qualcosa che ha a che fare con quel dannato Kenyarshii,» mi gridò
Rhalgorn al di sopra del frastuono. «È tutto quello che sono riuscito a capire. Lo tengono lì, vicino alla
riva!»
Guardai nella direzione indicata, ma non riuscii a vedere altro che un nugolo di Avakhar. Più lontano, le
creature alate si affollavano intorno alla nave, agitandosi e urlando a più non posso. Signar, ovviamente,
aveva tenuto a bordo il resto della ciurma. Se avessimo avuto bisogno di soccorsi, era pronto a mandare
i rinforzi.
Vidi Rhaiz poco distante, e mi feci largo verso di lui.
«Se riuscirai a far stare quieta la tua gente,» gridai, «forse riuscirò a capire quello che è successo. Tutta
questa gazzarra non porterà a nulla!»
Mi fissò, con gli occhi dorati ribollenti d'ira. Tuttavia alzò una mano e impose la calma al suo popolo.
C'era ancora chi strideva e batteva il becco, ma nel complesso si riusciva a parlare e ad essere uditi.
«Tutto ciò che hai da dire, dillo in fretta,» mi fece. «Gli Avakhar sono irati, e non potrò tenerli fermi in
eterno.»
«Sarà meglio che tu li tenga al posto loro il più a lungo possibile,» lo ammonii, «perché, se sarà
necessario, il mio equipaggio farà uso delle armi. Anzi, date le circostanze, direi che il loro autocontrollo
finora è stato ammirevole. Sarà meglio che tu mi dica con parole semplici quello che è
successo.»
«Quello...» Rhaiz trasse un profondo respiro e ingoiò la sua rabbia.
«Quello che è successo, Aldair, è per colpa di quella montagna di carne che hai portato con te. Non so
come si chiama, e non me ne importa. Ha profanato il suolo sacro, un'offesa che per gli Avakhar è
intollerabile.»
«Che ha fatto? Che cosa ha profanato?»
«Il Chela per essere esatti. Il lungo delle sepolture degli Avakhar.» Dopo aver detto questo, rabbrividì
per un istante. «Non è piacevole parlarne, ma suppongo di doverlo fare.»
«Penso che sia una buona idea, altrimenti non verremo mai a capo della faccenda. Dunque... che cosa
ha fatto Juumb'ar sul vostro suolo sacro?»
«Ha liberato le sue viscere,» scattò Rhaiz. «Ecco quello che ha fatto!»
«Davvero?»
«Davvero.»
Ironia del destino. L'unica caratteristica che il Kenyarshii e gli Avakhar avevano in comune - l'abitudine di
defecare su qualsiasi cosa fosse in vista
- si era trasformata in un atto di profanazione da lavare col sangue. D'altra parte, dopo la mia visita alla
sede della creazione, non c'era più nulla, di quel popolo, che fosse in grado di sorprendermi.
«Sono profondamente dispiaciuto per quello che è successo,» gli dissi,
«ma sono certo che quella povera creatura non aveva la minima idea di ciò
che stava facendo. Ben poche volte sa ciò che fa.»
«Le sue intenzioni hanno poca importanza. Quello che è fatto è fatto.»
«...e non lo si può disfare,» completai la frase per lui, mentre sentivo crescere dentro di me un profondo
fastidio per i problemi spirituali degli Avakhar. «Per quanto riguarda la natura della profanazione,
tuttavia, Rhaiz, mi viene in mente che sarebbe difficile dissacrare un luogo delle sepolture degli Avakhar.
Se tutte le creature della Terra devono ancora nascere, non c'è ancora nessuno vivo che possa morire.
Mi sembra perciò difficile che si possano profanare tombe inesistenti.»
Rhaiz mi rivolse un'occhiata incandescente.
«Quel che dici non mi sorprende, dato che tu non sei un Avakhar, e quindi ignori i piani del Creatore. Io
non ho detto che quanti sono sepolti nel Chela sono morti. Questa parola è tua, non nostra. Anche i
bambini sanno che viene un momento in cui si smette di respirare. Non sappiamo perché ciò avvenga,
ma succede a tutti. Il fenomeno non ha certamente nulla a che vedere con la morte, la quale, come hai
sottolineato tu, non potrà manifestarsi prima dell'inizio del mondo. Comunque, le creature che
smettono di respirare diventano immobili, rigide e cominciano a puzzare in modo insopportabile. Di
conseguenza, è necessario confinarle nel Chela. »
Eventuali commenti mi parvero superflui. Mi limitai a ringraziare educatamente, aggiungendo che
apprezzavo la sua spiegazione. «Di nuovo, Rhaiz, mi scuso nei confronti degli Avakhar. Sono
profondamente desolato per quanto è successo.»
«Inutile dire che le tue scuse non sono accettabili,» rispose rigido Rhaiz.
«Sarà meglio che tu e il tuo popolo lasciate il suolo di Indrae il più presto possibile. Per gli Avakhar non
siete più i benvenuti.»
«Procurerò che ciò sia fatto immediatamente,» assicurai, e mi volsi verso Rhalgorn.
«Il profanatore, ovviamente, deve rimanere qui.»
«Come?», mi voltai di scatto. «Aspetta un momento...»
Rhaiz mi interruppe.
«Aldair, devi ascoltare quello che sto per dirti. Questa offesa non può
rimanere impunita. È accaduta, e le parole non bastano a cancellarla. So che tu hai intenzione di sfidarci.
So anche che gli Avakhar non hanno armi in grado di contrastarti. Non siamo un popolo guerriero. Ma
combatteremo per proteggere le nostre credenze. Tu potrai farci un gran danno: ma la mia gente è
molto più numerosa della tua. Alla fine, molte creature giaceranno immobili sul terreno, senza respiro
né movimento. E alcune di esse non saranno Avakhar.»
Nella sua voce non c'era più rabbia, ma soltanto fredda determinazione. Quegli immobili occhi d'oro mi
dicevano chiaramente che era deciso a condurre quella follia fino all'estremo limite.
«Rhaiz,» feci, «non posso permettere che tu faccia del male a quell'essere. Non si è neppure reso conto
di quello che ha fatto.»
Rhaiz mi fissò con espressione di sorpresa.
«Ma non ho detto che gli avremmo fatto del male, Aldair. Ho detto che sarebbe stato punito. »
«C'è differenza?»
«Certo. La punizione non è compito che spetti ai non nati. È una delle prerogative del Creatore.
Quell'essere sarà scacciato da qui e inviato in quella direzione,» e indicò il nord, «verso la Grande
Desolazione.»
«E laggiù che cosa gli accadrà?»
«Nulla. È un luogo sterile, e privo d'ogni cosa. Lì non c'è nulla che possa fargli del male.»
Risi a piena gola.
«Né che possa aiutarlo, immagino,» feci. «Hai uno strano modo di usare le parole, Rhaiz. Non gli verrà
fatto del male. Morirà, e basta.»
«Ti sbagli,» fece Rhaiz solennemente. «Non può morire chi non è ancora nato.»
Non potevo permettere che a Juumb'ar accadesse una cosa simile. Qualsiasi cosa fosse, era un essere
vivente, e meritava un destino migliore di quello che gli si prospettava.
«In tal caso,» dissi, «lo accompagnerò in quel posto. È troppo stupido per viaggiare da solo.»
«Aldair,» fece Rhalgorn spalancando gli occhi. «Hai forse perduto il senno?»
Rhaiz mi fissò per un lungo istante, annuì, e voltò le spalle, allontanandosi.
«Questa è pura follia,» ringhiò lo Stygiano. «Quel grosso barile di lardo non vale certo una vita, Aldair. Ci
ha appestato dall'inizio di questa avventura, e se il dio degli Avakhar vuol godere della sua compagnia, io
per primo sarei felice di mandarlo a fargli visita.»
«Rhalgorn,» risposi, «sono profondamente e piacevolmente meravigliato per questo tuo improvviso
risveglio spirituale.»
«È meglio che morire. Condizione, come sai, che è più che realizzabile tanto per il mio popolo che per il
tuo.»
«Non ho nessuna intenzione di fare esperimenti al riguardo,» spiegai.
«Se la cosa servirà a soddisfare gli Avakhar e ad evitare una battaglia, accompagnerò Juumb'ar fino a
questa Desolazione, o qualsiasi cosa sia. Avverti Signar di seguire la costa verso nord. Taglierò verso
occidente non appena saremo fuori vista degli Avakhar, e vi raggiungerò.»
Rhalgorn sembrava a disagio.
«Sembra facile, a dirsi. È così per tutte le cose, ho notato, finché non si comincia a farle.»
Non sapeva lui stesso quanto giuste fossero le sue parole. Lo scoprii presto a mie spese. VENTUNO
Mentre guardavo i miei compagni alzare le vele e allontanarsi dalle coste di Indrae, pensavo che
probabilmente ero stato uno sciocco a fidarmi della parola degli Avakhar. Quegli esseri potevano essere
colpiti da un momento all'altro da una nuova illuminazione spirituale, e concepire una forma di
punizione del tutto diversa per Juumb'ar; qualcosa, per esempio, che implicava l'immersione nel fiume
per un periodo sufficiente a far cessare le funzioni respiratorie. Tutto è possibile per una razza che pone
nelle sue tombe gli esseri ancora non nati.
Comunque, malgrado i miei timori mantennero la loro parola. Anche perché - sospetto - già sapevano
che non esistono torture maggiori di quelle che è in grado di infliggere la Grande Desolazione. Senza
troppe cerimonie, venimmo portati alcune leghe a nord lungo il fiume, attraverso una foresta densa
come quella dei Kenyarshii. Ad un certo punto, però, la fitta cortina di alberi si interruppe bruscamente,
e ci trovammo in una pianura arida e desolata, arrostita da un sole di rame. Alla vista, il cuore mi fece un
tuffo nel petto. Dietro di me, Juumb'ar emise un gemito pietoso, e rotolò gli occhi dalla paura. Io ho
conosciuto il Grande Deserto a sud di Chaarduz, dove insieme con Thareesh per poco non persi la vita
combattendo contro le orde ribelli di Fhazir. È certamente un luogo pauroso. In quel momento, tuttavia,
lo ricordai quasi con affetto. Lì, in quella che gli Avakhar chiamavano giustamente la Grande
Desolazione, la terra stessa sembrava essere in fiamme, come la superficie del Sole che splendeva
impietoso e rovente. Il suolo sotto i nostri piedi era scabro e rosso, coperto di sottili schegge di pietra
che scricchiolavano sotto i nostri passi e bruciavano attraverso il cuoio degli stivali. L'aria era immobile e
arida, densa come uno sciroppo. Fu lì che gli Avakhar ci abbandonarono. Rhaiz si limitò a fare un gesto
verso nord, indicando il nulla, e scomparve dietro gli alberi con i suoi compagni. Ero sicuro, tuttavia, che
erano rimasti di vedetta dietro i tronchi per osservare le nostre mosse.
«Meglio cominciare a incamminarci,» dissi a Juumb'ar. «Di fronte a noi abbiamo una passeggiata non
breve né comoda.»
Il Kenyarshii tremava come gelatina.
«Noi non andare lì lontano,» piagnucolò. «Non trovare da bere né da mangiare lì, Aldair!»
«Avremo cibo e acqua quando saremo di nuovo sulla nave. Non ci metteremo molto. Per il momento,
faremo senza.»
La creatura si ficcò il naso in bocca e cominciò a piangere, rifiutando di muoversi. Però, quando gli voltai
le spalle e cominciai a camminare per conto mio, ritrovò d'incanto le forze e si mise sulle mie peste,
ansando e lacrimando dietro di me.
In un deserto si può morire in fretta. Senza gli abiti adatti, come quelli che indossano i carovanieri di
Niciea, il Sole a picco ti arroventa la pelle e ti frigge il cervello. Senz'acqua, in poche ore il corpo si
dissecca come una roccia. Osservando quella terra nuda e terribile, le parole che avevo detto a Rhalgorn
mi sembravano frutto di un attacco di idiozia. Era stato facile dire «Taglierò verso occidente e vi
raggiungerò.» È vero, la nave si trovava a non più di un giorno di cammino: ma un giorno calcolato sulle
facili strade della Gaullia, non sull'inferno che stavamo attraversando. Smisi presto di contare le volte
che Juumb'ar crollò a terra, sdraiandosi in attesa della morte. D'altra parte, se il nostro viaggio non fosse
cominciato nel tardo pomeriggio, quindi con il Sole non troppo alto, di certo sarebbe morto dopo non
molto tempo. C'è per la verità da considerare anche il diverso atteggiamento nei confronti della vita, fra
me e i Kenyarshii. Non voglio certo dire che io mi sia divertito, durante la nostra marcia: ma Juumb'ar sin
dall'inizio era convinto che sarebbe morto, e lui stesso non perdeva occasione per fare il primo passo
verso tale ineluttabile conseguenza. Quando il Sole finalmente scomparve immergendosi in un lago di
fuoco, ci sdraiammo grati sul terreno, anche se quest'ultimo era ancora così caldo da far venire le
vesciche.
«Possiamo riposarci solo per un momento,» dissi. «Non di più.»
Juumb'ar non rispose. Rimase immobile a fissarmi con occhi vuoti. La pelle grigia e incartapecorita gli
pendeva in grandi pieghe disseccate sul corpo enorme.
«Non andare in nessun posto, Aldair,» disse finalmente. «Juumb'ar volere acqua!»
«È proprio per questo che non possiamo fermarci,» spiegai. «Dobbiamo camminare durante la notte,
Juumb'ar. Il mare non può essere lontano, ormai. Possiamo raggiungerlo prima del mattino.»
«Ma quelle cose volanti verranno a farci del male! Verranno, Aldair!», si lamentò.
«Non preoccuparti per loro.»
«Io paura. Paura di loro. Io volere acqua, Aldair.»
Di certo, pensai, il Creatore deve avere un fine imperscrutabile per avermi imposto la compagnia di
quella specie di gigante infantile. Perché
mai proprio io dovevo trovarmi in quel posto, ad arrostirmi il muso fino all'osso? Sarebbe mai andato
qualcosa nel verso giusto, in questa avventura?
Col crepuscolo, il suolo terribile si ammorbidì un poco. Juumb'ar sedeva come un immenso mucchio di
stracci, silenzioso e senza fiato. Se lo lasciassi qui - mi dissi - da solo probabilmente potrei farcela a
raggiungere il mare. Con lui dietro a rallentarmi il cammino, il prossimo tramonto vedrà
invece due viandanti morti nella Grande Desolazione.
Girandomi sul terreno ancora caldo, sentii sotto il mio corpo qualcosa di duro, come una pietra.
Allungando la mano per levarmela di sotto, mi accorsi che non si trovava sul suolo, ma nella mia tasca.
Quando la sollevai nella debole luce della prima sera, la piccola sfera lattiginosa brillò fiocamente.
Stanco com'ero, sentii ugualmente un brivido di eccitazione lungo la schiena. Come potevo pensare alla
resa, quanto il mondo intero, con tutte le sue terre sconosciute, era lì, nel palmo della mia mano?
Non avevo grande interesse a morire nella Desolazione, e lo avrei evitato, finché possibile. Per quanto
riguarda Juumb'ar, avrei fatto del mio meglio per aiutarlo. Ma anche lui doveva fare la sua parte. Tutto
mi faceva male. Anche quei pochi momenti di riposo mi avevano irrigidito. Poggiai le mani al suolo, per
sollevarmi. Prima una gamba, poi l'altra. Alla fine ero ritto, con entrambi i piedi ben piantati per terra.
Saldo come una roccia.
Sì, però...
All'improvviso, il mio stomaco si rivoltò, e vidi il paesaggio oscillare e liquefarsi intorno a me. Sentii le
ginocchia che mi si piegavano, e le tenebre che stavano per ingoiarmi. No, mi dissi fermamente. Non
puoi permetterti di svenire, Aldair. Se svieni, la notte scivolerà via, e domani il Sole alto ti porterà la
morte sicura.... VENTIDUE
La cosa mi stringeva nel suo artiglio corneo, e rideva. Tossivo con lafaccia nel fango in fondo ad un mare
scuro e fetido, e questo sembrava di-vertire immensamente la creatura. Emise strani versi d'esultanza, e
mispinse ancora più profondamente nella melma. Ansimai cercando di respi-rare; sentivo che i miei
polmoni erano sul punto di scoppiare. La cosa les-se la mia paura come se fosse incisa a parole
gigantesche sulla roccia, erise, rise, rise....
Le mie stesse grida mi destarono dall'incubo. Mettendomi a sedere di scatto, mi guardai attorno nella
notte. La vista delle tenebre che mi circondavano spazzò via subito le false paure, e mi riempì di un
terrore reale e concreto.
Per quanto a lungo avevo dormito? Quante delle preziose ore senza Sole avevo lasciato dietro di me?
Per lo meno, all'orizzonte non si vedevano le pallide strisce che annunciano l'aurora. C'era ancora
qualche tempo prima che il Sole assassino sorgesse a reclamarci.
«Juumb'ar, dobbiamo subito... Juumb'ar?» Alzandomi in piedi, scrutai all'intorno. « Juumb'ar? »
Era scomparso. Chiamai di nuovo, ma dalla notte non venne alcuna risposta. Sarebbe nobile e bello
poter dire che camminai in lungo e in largo alla ricerca del Kenyarshii, perdendo preziosi minuti di
frescura. In verità, invece, non feci nulla del genere. Se avessi pensato che c'era una possibilità su mille
di trovarlo e di trascinarlo con me fino al mare, avrei tentato la sorte. Ma ero arrivato ormai a un punto
in cui non potevo andare più avanti, senza rischiare la mia vita per nulla. Se mi fossi messo subito in
cammino, forse sarei riuscito a raggiungere il mare. Altrimenti, sarei morto. Anche una sola ora sotto il
Sole rovente sarebbe stata più che sufficiente a uccidermi.
A occidente, dunque, in cerca dell' Ahzir. Conoscevo bene i miei compagni, e sapevo che erano già
sulla riva ad aspettarmi. Forse avevano anche disseminato segnali lungo la riva, per orientarmi, in modo
che... Mi fermai, e un pensiero mi gelò fino alle ossa.
Occidente?
Ma, per il Creatore, dov'era l'occidente?
Il cielo nero come l'inchiostro si apriva su di me, punteggiato da milioni di stelle. Nessuna di esse mi era
familiare. In quella notte non c'era nulla che io conoscessi, nessuna costellazione che potesse guidarmi.
Disperata-mente, frugai nell'immensità, cercando di riconoscere almeno una delle figure che Signar mi
aveva insegnato. Dov'era il Manto del Mugnaio, che avrebbe dovuto pendere sull'orizzonte? Se l'avessi
trovato, mi avrebbe indicato il nord, e avrei capito dov'era l'occidente. Ma se non l'avessi trovato... Risi a
voce alta. Con l'alba, avrei di certo trovato la strada. Anche le rape sanno che il Sole sorge a oriente!
All'improvviso, un suono tagliò le tenebre e mi fece rizzare i capelli. Pochi istanti dopo, si udì di nuovo.
«Juumb'ar!» gridai. «Sono qui!» Quel lamento pietoso mi era fin troppo familiare. Voltandomi mi
incamminai nella sua direzione, alla massima velocità consentita dalle mie stanche gambe.
Si faceva sempre più vicino. «Juumb'ar!» Davanti a me, il terreno cominciò a sollevarsi, curvandosi fino a
delineare una collinetta arida e bassa. Scivolai con gli stivali sulla superficie disseccata, lanciando
terriccio tutt'intorno. «Juumb'ar!» Finalmente, raggiunsi la cresta e la superai...
... e caddi nel vuoto, dall'altra parte, artigliando l'aria con le mani. Le mie dita scavarono solchi nella
parete a picco che formava il lato opposto della collinetta.
Precipitai.
Fu una caduta lunga, terribile, che mi parve durare per milioni di anni polverosi. La creatura del mio
incubo, che non ero riuscito a vedere, mi balzò addosso. Potevo sentirne il tanfo, avvertivo la sua fame
oscena mentre mi afferrava, e dilaniava, e lacerava nella sua mente... Poi tutto si fermò. Avevo la bocca
piena di terra, sentivo il gelo della pietra contro la mia guancia.
Allungai la mano, e sentii ancora pietra. Aprii gli occhi, e vidi contro che cosa mi ero fermato. Era un alto
dito di pietra, che si levava sopra di me nel cielo notturno. Ce n'erano altri, tutt'intorno. Scure colonne
massicce, alcune alte sul suolo, altre corte e tozze come dita troncate. Toccai quella contro cui mi
trovavo per esserne sicuro, ma non ne avevo bisogno: a prima vista, mi ero reso conto che erano fatte
con la pietra dell'Uomo. In che posto ero mai capitato? mi chiesi. Non ero stupito del fatto che si
trattasse di un luogo dell'Uomo, perché tutto sommato eravamo ancora abbastanza vicini alle torri degli
Avakhar. Senza dubbio, dovevano esserci numerosi luoghi come quello, tutto intorno alla città oggi
abitata dalle creature-uccello. Solo che quel posto aveva intorno a sé un'aria speciale. Un tremendo
senso di desolazione. Come se qualcosa vi fosse cominciato, e poi fosse finito bruscamente.
C'era di certo una ragione logica per questo, decisi. Qualcosa che aveva poco a che fare con il luogo in sé
stesso. Perché ormai avevo capito bene la fonte delle sensazioni che mi avevano travolto presso quella
collina. Juumb'ar aveva trovato un altro dei suoi maledetti amuleti. Non poteva trattarsi d'altro. Il
Kenyarshii era evidentemente capace di fiutare quelle cose da lontano, come un cavallo fiuta l'acqua.
Per il momento, le colonne che mi separavano dalla cosa rendevano meno intenso il suo potere. Ma
c'era. Potevo sentirne gli effetti come una morsa gelida alla base della nuca.
E questo, ovviamente, faceva nascere un altro problema. Se Juumb'ar aveva trovato un altro di quegli
oggetti, come avrei potuto convincerlo ad abbandonarlo, e a mettersi in cammino prima che il Sole
sorgesse, arrostendoci? Io non sapevo dov'era, e quanto a lui... Mi guardai intorno. Colonne. Tenebre.
Nulla. Poi, qualcosa... un'ombra nera, squadrata. Grande, con attorno ombre più piccole. Cautamente,
mi avvicinai, badando bene a mantenere sempre una colonna fra me e il posto dove pensavo che si
trovasse Juumb'ar. Con le dita toccai una superficie di metallo, piatta ma resa ruvida e corrosa dall'età.
Spingendo più oltre la mano, vidi che non si trattava di un solo oggetto, ma di qualcosa di composito,
come un insieme di scatole o quadrati metallici. Ogni scatola era larga circa mezzo metro, e le ombre più
piccole che avevo visto erano singole scatole cadute dall'alto della pila. In qualsiasi altra occasione, avrei
avuto grandissimo interesse per i manufatti dell'Uomo, quali che fossero. Ma in quel momento avevo un
solo pensiero: strappare Juumb'ar al suo orrendo giocattolo e correre come una lepre verso il mare,
sempre che fossi riuscito a trovarlo. Forse la mia mente era troppo concentrata su questo problema, per
cui abbassai la vigilanza. Fatto sta, che feci una cosa molto stupida. Mentre scivolavo nel buio fra le
scatole cadute, arrivai alla fine della pila... e continuai ad avanzare. La paura che mi aveva colto a bordo
dell' Ahzir e, nuovamente, pochi istanti prima, non era nulla più che il morso di una zanzara. Non sono
in grado di descrivere la cosa che mi toccò all'improvviso. Non voglio nemmeno provarci. Sono certo,
però, che fu il suo stesso enorme potere a salvarmi la vita, perché irruppe su di me con tale violenza da
avere un concreto e reale effetto fisico, facendomi barcollare all'indietro e ricadere fra la pila di scatole.
All'istante, scomparve. Ma ciò che avevo visto lì, non lo dimenticherò
mai.
Se gli dèi volevano prendersi gioco di me, quello era il momento buono. Mi ero allontanato dal mio
obiettivo, avevo attraversato mari sconosciuti e mi ero perso su una terra strana. Ero stato perseguitato
dalle tempeste, dai Rhemiani e dagli Avakhar. Ero stato innaffiato di urina, seppellito dagli escrementi e
fatto oggetto del ludibrio di una vergine reale. Eppure, nessuna di queste cose era stata per me tanto
pestilenziale quanto Juumb'ar dei Kenyarshii.
Una volta, a Silium, vidi dei ragazzacci legare un pesce marcio alla gamba di un folle. Il poveretto non
aveva alcuna idea di dove venisse il fetore, e se lo portava con sé ovunque andasse. La mia maledizione
era molto più grande di un pesce, e anche più puzzolente. Non posso fare a meno di pensare che ci sia
stata una intenzione ironica deliberata dal destino, nella piega presa dagli eventi: infatti, era stato
proprio quell'ammasso di carne stolida e fetida a portarmi nel luogo che avevo cercato alzando le vele
fino ai confini del mondo.
Nei pochi istanti in cui l'avevo intravisto, mi ero reso conto che ciò che stringeva il Kenyarshii non era un
semplice amuleto. Intorno a lui c'erano scatole, una pila simile a quella presso la quale io mi trovavo.
Solo che, da quella parte, era scivolata una grande forza, e vi si annidava come un topo nel formaggio. Le
scatole, o ciò che ne era rimasto, giacevano tutto intorno, come un cumulo di detriti. Erano spente,
annerite. Ma qualsiasi cosa le avesse distrutte, ne aveva lasciata una intatta, o quasi. Una delle scatole
conservava ancora il suo potere. Solo che sulla sua superficie c'era una crepa, sottile come un capello. E
attraverso quella crepa, un debole scintillio rosso si diffondeva nella notte. Che forza immensa e terribile
era chiusa in quella scatola! L'occhio dell'amuleto di Juumb'ar ci aveva quasi distrutti, eppure il potere
racchiuso in ciascuna di quelle scatole era centinaia di migliaia di volte più grande. Non potevo sapere
perché l'Uomo avesse cominciato ad erigere quelle colonne nel deserto, lasciando poi la sua opera a
metà. Né che cosa avesse portato la rovina fra le strutture di metallo.
Ma ormai avevo capito che il posto intravisto nelle finestre sotto Albionnon si trovava, come avevo
creduto, nel deserto sotto Niciea, ma lì, nellaGrande Desolazione. Era quello il luogo in cui erano custoditi
gli oggettiorribili che avevano chiuso le porte della storia, riducendo tutte le creatu-re in schiavitù.
Le stelle ruotavano nel cielo. Era la mia immaginazione, o all'orizzonte spuntava già una lieve ombra
grigia?
«Juumb'ar, ascoltami! Sono io, Aldair!»
Nessuna risposta. Intanto, il cielo si era fatto più chiaro. Anche se ci fossimo messi in cammino in quello
stesso momento...
«Juumb'ar, rispondimi!»
Un gemito appena impercettibile.
«Juumb'ar, devi venire fuori di lì, subito!»
«Non più venire,» mi rispose una voce piagnucolosa. «Juumb'ar restare qui, Aldair.»
«Non puoi restare lì. Se resti, morirai. Lo capisci questo, Juumb'ar?»
«Juumb'ar non morire!»
«Sì che morirai, stupido!»
Mi venne in mente un'idea. Mi allontanai di qualche passo dalla pila.
«Juumb'ar,» feci, «io me ne vado. Me ne vado ora. E ti lascio lì. Senza cibo né acqua. Mi hai inteso?»
Certo che mi aveva inteso. Ma la povera creatura era ormai perseguitata da una fame più intensa, e più
orribile.
«D'accordo,» gridai. «Rimani pure lì, se vuoi! E sai una cosa? Le creature volanti stanno arrivando. Sono
vicinissime. E stanno cercando proprio te, Juumb'ar!»
Un lamento altissimo e disperato lacerò la notte. Era un suono che sembrava racchiudere tutto il terrore
e la solitudine del mondo. E corse di gran carriera attraverso le pile di scatole nere, scuotendo la terra
sotto i suoi passi. I suoi occhi erano dilatati per la paura; il naso emetteva rumori spaventosi, le orecchie
enormi si agitavano come foglie nella tempesta.
Mi venne incontro con tutta la velocità consentita dalle sue gambe corte e tozze, e quando fu
abbastanza vicino, vidi che teneva ben stretta fra le braccia, premuta contro il petto, la scatola mortale.
VENTITRÉ
Se il Mondo di Là è così, decisi, merita certamente una visita. Niente più
soli ardenti che arrostivano le carni, ma il fresco refrigerio di una dolce brezza che accarezza la pelle.
Non più raggi accecanti, ma una rosea penombra che avvolge tutte le cose, immergendole in un
profumo di gelsomino.
« Aldair? »
Qualcosa si mosse nell'ombra. Uno spirito amico che si avvicinava per darmi il benvenuto.
« Aldair... mio caro Aldair, parlami, ti prego! »
Dita morbide mi accarezzarono. Labbra fresche si poggiarono sulle mie, e vi rimasero a lungo. Se prima
dubitavo, adesso ero sicuro: mi trovavo in Paradiso. Non avrei mai pensato di meritarmelo.
Per di più, in aggiunta a tutti gli altri comfort tipici del luogo, il Creatore benevolo mi aveva fornito anche
di una femmina innamorata. Era identica a Corysia in tutto e per tutto, salvo che per una cosa: quella
celeste creatura non graffiava, non tirava calci e non strillava come una gatta. Anzi, praticava tutte le
piacevoli arti che ci si augura di trovare in un mondo migliore. Al mio successivo risveglio, non vidi più né
il Mondo di Là, né la gemella di Corysia. Su di me torreggiava l'immensa e pelosa figura di Signar-
Haldring.
«E così, sei di nuovo fra gli esseri viventi. Come va?»
Sul muso gli si stampò un ghigno di compiacimento.
«Signar... Dove mi trovo?»
Uno sbuffo familiare venne da dietro le spalle del vikoniano.
«Là dove sono anch'io, per la verità,» fece Rhalgorn. «Spero, prima di lasciare questo mondo, di udire
parole più originali.»
«La cosa avverrà prima di quanto pensi,» ringhiò Signar, «se non tieni a freno la tua linguaccia da
stygiano. Aldair, per un po' ci hai fatto stare davvero in pena. In quel posto, il Sole ti ha quasi mangiato
vivo. Sono già tre giorni che ti abbiamo riportato a bordo. All'inizio...»
«Riportato...»
Mi alzai di scatto, mentre i ricordi si affollavano nella mia mente. Fitte di dolore mi trafissero da più
parti. Ricaddi giù, boccheggiando in cerca di respiro.
«Per il Creatore!» fece Signar. «Non devi muoverti così. Sei cotto come un arrosto!»
«Signar, Rhalgorn... Io devo sapere quello che è successo laggiù. Mi ricordo solo di Juumb'ar che
correva verso di me, con quell'oggetto del-l'Uomo fra le braccia!»
Rhalgorn e Signar si scambiarono occhiate interrogative.
«Se parli di quella strana scatola,» disse lo Stygiano, «non devi preoccuparti, Aldair. È sul ponte, proprio
ora. Juumb'ar stesso l'ha portata a bordo per te.»
Sbarrai gli occhi, e cercai di alzarmi lottando contro il dolore e contro braccia amichevoli che cercavano
di farmi stare giù. Alla fine, non sentii più alcun male, e sprofondai grato in un mare denso e grigio.
Mentre le forze e la ragione mi ritornavano, misi insieme le sparse fila degli eventi capitati senza di me.
I miei amici non si erano limitati ad aspettare che li raggiungessi attraverso la Grande Desolazione, ma si
erano rapidamente messi in cammino per cercarmi. Ci avevano trovati, chiaramente appena in tempo.
Juumb'ar era ancora in piedi, lamentandosi in direzione del Sole, e camminando nel senso sbagliato.
Cosa sorprendente, portava me sulle spalle. Per quale motivo si fosse preoccupato di caricarsi del mio
peso, non posso immaginarlo. Per quella creatura, un atto del genere è del tutto innaturale. Mai, in
nessuna circostanza, lo avevo visto mostrare compassione per qualsiasi altro essere vivente. Non
riuscimmo a capire che cosa gli fosse passato per la mente in quelle ore, perché dopo il suo ritorno a
bordo dell' Ahzir non volle pronunciare una sola parola. Qualcosa gli era accaduto, nella Desolazione. Il
tremendo potere della cosa fabbricata dall'Uomo gli aveva risucchiata ogni oncia di volontà, lasciandolo
privo di una mente sua propria. Non voleva né mangiare né bere, ed era del tutto inconsapevole della
nostra presenza. Non c'era nulla che potessimo fare per lui, e alla fine, cinque giorni dopo il nostro
ritorno dalla Grande Desolazione, Juumb'ar dei Kenyarshii morì
in silenzio.
È difficile dire quali sentimenti ci ispirasse quella creatura. Ci aveva procurati infiniti fastidi. Non aveva
alcuna qualità positiva che valesse la pena di prendere in considerazione, e a bordo dell' Ahzir non si
era fatto alcun amico. Come potrei affermare, senza menzogna, che venne compianto o rimpianto?
Thareesh il nicieano si espresse al riguardo nel modo migliore:
«Quella creatura non poteva essere né amata né disprezzata, Aldair, perché al di dentro non aveva che il
nulla. Tuttavia, non era colpa sua, ed io non lo disonorerò con la mia pietà.»
Se Juumb'ar aveva lasciato qualcosa a bordo dell' Ahzir, questo era un nuovo e terribile odio per gli
esseri morti da tempo che gli avevano rubato l'anima.
Provammo a risolvere il mistero della scatola nera. Quando tutte le soluzioni logiche vengono meno, si
deve per forza cercare più in là. L'oggetto dell'Uomo era chiaramente con noi, e la sua presenza
sembrava proiettare sul ponte ombre sinistre. Poiché c'era, ma non ci aveva distrutti, ciò che era
accaduto appariva chiaro. Quando lo avevo spaventato minacciando l'arrivo degli Avakhar, Juumb'ar
non aveva preso con sé il cubo che liberava le emanazioni mortali, ma un altro. Oppure, il cubo era in
qualche modo connesso alla struttura metallica, e distaccandolo non funzionava più. Una risposta valeva
l'altra. Comunque, in bene o in male, avevamo a bordo una di quelle cose.
Quando raccontai ai miei compagni quello che mi era successo nel deserto, e riferii i miei pensieri a
proposito di ciò che avevo scoperto, tanto Signar che Rhalgorn consigliarono di gettare in mare la cosa.
Io dissi che non ero d'accordo, e loro mi fissarono come se fossi diventato pazzo.
«Sembra che tu abbia già dimenticato quello che ci è successo sull'altro lato di Kanyarsha,» ruggì Signar.
«E tu stesso hai detto che quell'amuleto non era nulla al confronto di questa cosa!»
«Non l'ho dimenticato,» risposi, «ma non ho dimenticato nemmeno il motivo per cui siamo arrivati fin
qui, rischiando la vita contro i Rhemiani, il mare, e cento altri pericoli. Noi siamo partiti proprio per
cercare questa cosa. E ora l'abbiamo trovata. Non voglio neppure pormi delle domande sulla
successione di eventi che mi ha condotto in quel luogo nel deserto, né
sul come uno degli oggetti custoditi nel luogo dell'Uomo mi ha seguito fin qui. C'è molto di misterioso
in tutto questo. Ma il fatto è che ora l'abbiamo con noi, e dobbiamo tenercelo.»
Mi fermai per un istante, e li fissai negli occhi. Era il primo pomeriggio, e dal nord soffiava un venticello
fresco e piacevole. Da entrambe le nostre fiancate, ora, si vedeva terra. La costa di Kenyarsha a
occidente, e a oriente quella di chissà quale altra regione.
Molto tempo prima, Thareesh mi aveva detto che si può raggiungere l'oriente navigando attorno a
Kenyarsha. Io stesso avevo stretto fra le dita un modello piccolo ma perfetto del nostro mondo, e avevo
visto il punto in cui le acque in cui navigavamo incontrano quelle del Mar Meridionale. Oggi sono certo,
poi, di averle viste io stesso, quando insieme con Nhidaaj il Cygnano galoppavo verso Xandropolis con il
piccolo principe dei Ni-cieani. Là, prima del mio incontro nel deserto con il veggente dagli occhi gialli,
Nhidaaj mi mostrò la cima di grandi piramidi che sorgevano da acque tenebrose, e mi disse che erano le
cose più antiche che vi fossero al mondo. A quell'epoca non sapevo che era stato l'Uomo, il grande
nemico, a costruirle.
Mi dispiace dire che il piccolo globo che avevo trovato fra gli Avakhar non è più in mie mani. Si trova
molto lontano da noi, sulle pietre ardenti della Grande Desolazione, dove senza avvedermene lo persi.
Mi dispiace molto, perché vorrei rivederlo di nuovo.
«Nessuno di noi vuole negare l'importanza della nostra ricerca,» stava dicendo Signar. «Nessuna
creatura che abbia appreso il vero segreto di Albion non darebbe la vita per fare ciò che deve essere
fatto. Ma non faremo certo un favore al mondo propalando la follia.»
«Signar,» risposi, «io non credo che questa cosa ci porterà alla follia. Di qualsiasi cosa sia fatta, la sua
struttura ha resistito per centinaia di secoli o più. La ragione mi dice che fino a quando la scatola di
metallo rimarrà intatta, non ne soffriremo alcun male.»
«Già, la ragione,» fece Rhalgorn sbuffando e scrollando le magre spalle.
«Quello che dice Aldair è vero,» sibilò Thareesh. «Io ho esaminato quella cosa, e penso che sia
relativamente semplice aprirla...»
«Come?» La coppa scivolò dalle dita di Rhalgorn.
«Per favore...» Thareesh alzò una mano verdastra. «Non ho detto che l'ho aperta. Solo che si può fare
facilmente. Ci sono due semplici chiusure su due lati.»
«E la cosa potrebbe accadere... accidentalmente?», chiesi, allarmato quanto Rhalgorn a questa
informazione.
«Non sarebbe facile, ma penso che possa accadere, se la scatola viene colpita con violenza. Mi
sorprende,» aggiunse lanciando a Rhalgorn uno sguardo maligno, «che tu non abbia scoperto la cosa da
solo, considerata la grande curiosità degli Stygiani per tutto ciò che è chiuso e serrato.»
Rhalgorn ringhiò, ma non disse nulla.
«In ogni caso, fate in modo che ci sia sempre un marinaio di guardia attorno a quella cosa,» dissi. «E
penso che sarebbe bene legarla con delle funi.»
Signar mi lanciò uno sguardo grave. «Il che significa,» osservò, «che è
destinata a rimanere a bordo.»
«Certo.»
«Una volta misi una vipera sotto un secchio,» fece Rhalgorn. «Rimase al sicuro fino a quando non riuscì a
scivolare fuori e a infilarsi nel letto di un mio cugino. Fortunatamente, eravamo solo lontani parenti, e
non lo conoscevo molto bene.»
«Non abbiamo a che fare con vipere,» gli feci notare.
«Lo so, Aldair. E anche se a quanto pare tu giudichi la mia storia sciocca e priva di importanza, ti avverto
che in essa è racchiusa una certa saggezza. Se dobbiamo tenere quella cosa sotto un secchio, per dir
così, suppongo che abbiamo una ragione molto seria per farlo.»
Annuii, e allungai la mano per riempire la mia coppa.
«Mi pare che in quell'oggetto ci sia la chiave di due grandi segreti,» risposi. «In primo luogo, quei cubi
racchiudono una forza ignota che ha il potere di indurre terrore, visioni spaventose e, al limite, la follia.
In un certo senso, sono amuleti giganteschi. E poi, sono simili alle cose che hanno isolato Albion per
secoli, circondandola di paura e conservando i segreti dell'Uomo. In secondo luogo, possono essere
qualcosa di ancora più importante. Quelle stesse cose, o cose molto simili, hanno guidato la storia da
quando siamo stati abbandonati nel mondo e ci è stata data la ragione. Hanno funzionato tanto da
sentinella quanto da scudiscio nelle mani dell'Uomo. Sappiamo che dovevano esistere, ma nulla di più.
Ora sappiamo che questo tremendo potere può essere confinato. Ovunque siano nascoste sulla Terra
queste cose, col tempo potranno essere trovate, e fermate. Sul nostro ponte di sicuro c'è la morte. Ma
possiamo imparare a vincerla.»
«Forse,» fece cupo Rhalgorn. «Nei Lauvectii abbiamo un detto, che suona così: È difficile studiare una
vipera sotto un secchio, ma è stupido studiarla in qualsiasi altro posto.»
«Non credo proprio che esista un detto simile fra i Lauvectii,» risposi, non nascondendo la mia
irritazione.
«No, non esiste,» ammise Rhalgorn. «Ma ci sarà, se mai un giorno riuscirò a tornare a casa.»
VENTIQUATTRO
Quella notte, il sonno non voleva venire.
Più di una volta chiusi gli occhi, per trovarmi in una terra d'incubo, e risvegliarmi subito. Una volta,
sognai che una grande vipera strisciava fuori della cosa sul ponte e scendeva fino alla mia cabina,
cercandomi con occhi verdi e lucenti.
Un'altra volta sognai di Rhamil, in cima alla sua torre. «Tutti i pensieri del cosmo sono stati assorbiti,»
annunciava. «È tempo che il mondo cominci, Aldair.» Mentre parlava, la creazione ebbe luogo con un
triste e lamentoso gemito. Nacqui da un uovo piccolo e macchiettato, e quando vidi il mio nuovo
aspetto...
Alla fine, decisi che tanto valeva alzarmi e salire sul ponte a godermi un po' del vento fresco della notte,
dopo essermi lavata la faccia. Su di me brillavano nuovamente le familiari stelle dei cieli del nord. L'
Azhir solcava le onde, lasciando dietro di sé una lunga scia candida. Mi riempii i polmoni di aria
salmastra e mi misi ad ascoltare la notte. Forse fu l'effetto dell'aria fredda sulla mia pelle ancora
ustionata, o forse un residuo degli incubi di poco prima. Fatto sta che per un momento fui sopraffatto da
un terribile senso di solitudine e di pena. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e desiderai ardentemente
di trovarmi lontano da lì, nelle ampie vallate degli Eubironi. Ricordai gli odori del mercato, e i colori
dell'autunno. Rividi i volti dei miei familiari e dei miei amici, come se fossero davanti a me. Anche gente
che conoscevo appena mi sembrava ora infinitamente cara al mio cuore. Il duro lavoro della mia
giovinezza era un ricordo felice, e i lunghi, noiosi giorni dietro l'aratro nei campi erano la cosa più
piacevole che avessi mai provato. All'alba gran parte di quelle sensazioni erano svanite, e mi sentivo né
meglio né peggio di prima. Dopo un buon boccale di birra raggiunsi gli altri sul ponte e annunciai che
avremmo attraversato il Mar Meridionale Rhemiani o non Rhemiani - e avremmo fatto vela verso
Albion. Lì, avremmo consegnato il nostro «secchio di vipere» a Fabius Domitius e agli altri studiosi che
erano al lavoro nelle sale sotterranee. Nessuno parve sorpreso per questa decisione.
Più tardi, nel pomeriggio, le coste ai nostri due lati si avvicinarono considerevolmente. Comparvero ciuffi
di palme e stormi di uccelli bianchi. Signar decise saggiamente che era meglio non navigare di notte in
acque come quelle. Aveva appena dato ordine di gettare l'ancora quando una vedetta annunciò che
avevamo compagnia: una dozzina di cavalieri che galoppavano sulla spiaggia. In pochi secondi,
l'equipaggio era pronto a combattere, con le armi in pugno. Se davvero eravamo dove pensavo, cioè nei
pressi di Xandropolis, quei visitatori potevano essere di qualsiasi razza: Rhemiani, predoni del deserto, o,
peggio ancora, ribelli seguaci di Fhazir.
Si fermarono, prudentemente al di là del nostro raggio di tiro. Era chiaro, ora, che si trattava di Nicieani:
cavalieri sottili su snelle cavalcature, con i volti nascosti sotto i cappucci dei lunghi barracani.
«Che ne pensi?», chiesi a Thareesh.
«Di questi tempi, chi può essere sicuro di niente? Non è più tanto facile distinguere gli amici dai nemici,
a Niciea. Chiunque siano, diamo loro qualche cosa su cui meditare.»
Annuii, e, come avevamo già fatto sull'altro lato di Kenyarsha, alzammo sull'albero maestro il vessillo
reale dell'Impero Niceano. La vista della bandiera verde trapunta di occhi d'oro fece levare grida di
giubilo dal gruppo dei cavalieri. Sul ponte, eravamo felici come bambini, perché era passato molto,
molto tempo dall'ultima volta che l' Ahzir al'Rhaz aveva gettato l'ancora fra amici.
Il capo gruppo si chiamava Sha'desh. Era stato Capitano della Cavalleria Imperiale, aveva combattuto
all'assedio di Chaarduz, ed era un suddito fedele dell'Impero. Quando apprese che io ero lo straniero
divenuto rha-daz'meh dell'Aghjir Tharrin, fratello del Re, dai suoi occhi senza palpebre affiorarono
lacrime irrefrenabili.
«Allora,» disse, «non ho bisogno di annunciarti, perché nessuno lo sa meglio di te, che il giovane
principe vive. Niciea sanguina copiosamente dalle sue ferite, ma il tempo ci farà tornare di nuovo forti.»
Sha'desh sapeva certamente che è una cosa fuori del comune vedere un vascello che fa vela verso nord
diretto al Mar Meridionale. Tuttavia era un guerriero, e anche se era curioso, sapeva nascondere i suoi
sentimenti. Invece, ci diede consigli su ciò che potevamo aspettarci proseguendo sulla nostra rotta.
«Il Mar Meridionale è a non più di un giorno di navigazione da qui. Se intendete entrarvi, vi avverto che
la costa è in mano dei Rhemiani. Ci sono molti vascelli da guerra al largo, e nell'entroterra le truppe si
spingono fino a Xandropolis.» Si interruppe e sputò con disgusto sulla sabbia. «Quella città non è più un
libero punto di incontro per tutti i popoli, come una volta. Gli unici mercanti che entrano nelle sue mura
sono Rhemiani, o la marmaglia di Fhazir. Sembra che vadano d'accordo meravigliosamente, il che non è
affatto straordinario.»
Meditai un attimo sulle sue parole.
«Non credo che sorveglino troppo attentamente l'ingresso del Mare Me-ridionale, da questa parte,»
dissi.
«No,» rispose Sha'desh. «Direi proprio di no. Non si aspettano certo nessuno, da quella direzione.»
«Quindi, un vascello veloce avrebbe buone possibilità di scivolare nella notte e guadagnare il mare
aperto senza troppi pericoli.»
«Ottime possibilità, direi, Aldair,» risposte Sha'desh ghignando. «Soprattutto se, nel frattempo,
accadessero eventi tali nell'entroterra da attirare tutta l'attenzione dei Rhemiani.»
«Una cosa del genere sarebbe grandemente apprezzata.»
Il Capitano annuì.
«Non siamo molti, forse. Ma se ci mettiamo d'impegno, sappiamo fare un mucchio di chiasso.»
La cena, quella sera, fu molto piacevole.
Sha'desh e due suoi ufficiali si unirono a noi a bordo dell' Ahzir. Si versò
molto vino, molta birra, e i Nicieani portarono un grosso orcio di d'shei-ashhii, la dolce, pastosa zuppa
fatta con diverse varietà di insetti che è il piatto nazionale del loro paese. Thareesh naturalmente, ne fu
deliziato, e Rhalgorn si ricordò delle buone maniere, non facendo alcun commento a proposito dei
«mangia-scarafaggi». Forse ciò si deve al fatto che Signar lo aveva minacciato, in caso contrario, di
impiccarlo all'albero maestro. Ma io preferivo pensare che lo Stygiano avesse cominciato ad apprezzare
il valore guerriero di quella gente. Ci sono poche cose che i Signori dei Lauvectii tengano per sacre; ma
rispettano l'onore dei guerrieri, tanto degli amici che dei nemici. Di certo, quei Nicieani che
combattevano contro tutto il mondo per amore della loro nazione lacerata, meritava tutto il nostro
rispetto e tutta la nostra ammirazione. Chi può mai comprendere le vie di una donna?
Dall'epoca della mia avventura nella Grande Desolazione, Corysia aveva fatto di tutto per evitarmi, ed
era chiaro che non voleva ricordare ciò che c'era stato fra noi. Forse pensava che la mia febbre fosse
troppo alta perché
potessi ricordarmi di quel suo momento di tenerezza... o forse sperava che me ne ricordassi, ma non
voleva chiedermelo.
In ogni caso, quella sera impreziosì la nostra tavola con la sua presenza, e fu graziosa ed educata con
tutti: compito non facile, per chi, per nascita e ambiente, è abituato a tutt'altri modi. Come sempre,
aveva posto molta cura nel suo aspetto, anche se era ben lontana dalle tinture, i cosmetici e le ancelle
cui senza dubbio era abituata. Intorno al muso c'era un tocco di colore, e altrettanto sulla pianta delle
orecchie rosa. La luce morbida delle nostre lampade accendeva di riflessi il suo sottile abito di satin, e i
capelli attorno alle guance erano accuratamente modellati in piccoli ricci. Essendo una donna che
seguiva i dettami della moda, si era strappata con cura le setole: un'abitudine che ho trovato sempre
molto eccitante. Guardare, ovviamente, non è la stessa cosa che toccare. E senza la seconda cosa, la
prima risulta di solito molto infelicitante. In ogni caso, decisi, un sentimento che si manifesta soltanto in
condizioni di semiincoscienza, non è destinato a diventare gran che. Prima dell'alba eravamo già tutti in
piedi, perché ormai i nostri piani erano tracciati, e c'era molto da fare prima del calar del Sole. Non c'era
necessità di attendere a lungo in quello stretto braccio di mare. Se Sha'desh e i suoi cavalieri avevano
potuto avvistarci, altrettanto potevano fare le truppe rhemiane. Avremmo perciò aspettato il tramonto,
e avremmo remato per gran parte della notte, fino a giungere in vista del Mar Meridionale. Sha'desh e i
suoi cavalieri ci avrebbero accompagnato, sulla terra, per gran parte del nostro viaggio, separandosi
soltanto nei pressi di Xandropolis. Il niceiano mi assicurò che quella notte molte delle strutture del porto
avrebbero «incidentalmente» preso fuoco. Non appena avessimo visto le fiamme all'orizzonte,
avremmo dovuto inoltrarci nel mare aperto. Questo era il nostro piano, e si svolse più o meno come
previsto. Il cielo al di sopra della costa in mano rhemiana si illuminò, quella notte, come se stesse per
sorgere nuovamente il Sole, dandoci per la verità più luce di quanta ne sarebbe stato desiderabile.
Tuttavia non avvistammo alcuna nave rhemiana e, chissà per quale miracolo, nessuno avvistò noi.
Cogliemmo un buon vento, e facemmo vela verso occidente in direzione degli Stretti, e, al di là di essi,
per Albion.
L'esperienza del passato avrebbe dovuto insegnarmi che ogni volta che facciamo rotta verso una
destinazione lontana, finiamo sempre da qualche altra parte. Ho già avuto modo di ricordare che è una
grande fortuna per noi l'essere ciechi per quanto riguarda il nostro futuro. VENTICINQUE
Per tutto il resto della notte, il cielo alle nostre spalle rimase colorato da una sottile striscia arancione: il
segno della coraggiosa «azione diversiva»
messa in atto dai Nicieani. Verso sud-est, una serie di punti di luce seguivano la nostra rotta,
procedendo subito dopo l' Ahzir. Signar emise un profondo sospiro di soddisfazione nel vederli. «Il
nostro amico ha fatto proprio un buon lavoro, questa notte,» disse. «Non so come, ma ha fatto una
bella retata di navi rhemiane nei porti, e le ha incendiate tutte!»
Contammo più di sei vascelli che andavano alla deriva in fiamme, ma soltanto uno rimase visibile fino
all'alba. Era ad una lega da noi: uno scafo annerito dal fumo, con gli alberi ridotti a mozziconi
carbonizzati. A giudicare da quello che ne restava, era un vascello per la vigilanza costiera, più
sottile e più veloce della maggioranza delle navi rhemiane. Nel calore della battaglia, l'urlo della ciurma
vittoriosa si leva in genere possente sulle grida dei nemici. Gente che grida di giubilo e gente che urla di
terrore prima di morire affogata, mentre gli insulti dei vincitori continuano a lungo anche dopo che la
nave sconfitta è scomparsa sotto le onde. Quella volta, tuttavia, a bordo dell' Ahzir ci fu silenzio,
perché quella vista non invogliava a festeggiare la vittoria.
Il Sole fece capolino a oriente, dipingendo d'oro le acque grigie e illuminando la tragedia che si era
consumata vicino a noi. Sul mare galleggiavano tronchi anneriti e detriti di ogni genere. Una cassa mezzo
bruciata spuntò per un attimo dalle onde, e poi scomparse di nuovo.
«Odio quella gente,» fece Signar, «ma questo, per un marinaio, è il modo peggiore di morire, a qualsiasi
razza appartenga.»
Il grande vikoniano scosse la testa e girò la schiena, gridando ordini per accelerare la nostra rotta verso
occidente.
Fummo lieti di lasciare alle nostre spalle quella vista, e ogni persona a bordo trovò presto qualcosa da
fare. La nave incendiata era quasi scomparsa, quando la vedetta lanciò un grido, e ci tirò tutti sul ponte.
Potevo a mala pena credere ai miei occhi, ma era lì: un vecchio marinaio, del quale si vedevano solo la
testa e le spalle: dietro la nostra poppa. Ecco una persona alla quale gli dèi hanno sorriso, mi dissi,
perché soltanto una grande fortuna poteva averlo tratto vivo da quell'inferno. Fortuna, tuttavia, era la
parola sbagliata, perché quando portammo a bordo quel poveraccio, vedemmo che era gravemente
ustionato, e soffriva in modo indicibile. C'era poco che potessimo fare per lui, e cercammo almeno di
metterlo comodo. I guerrieri hanno una sensibilità particolare nei confronti della morte e dei morenti,
perché sono sempre al loro fianco.
«Non durerà a lungo,» fece Thareesh.
«Per sua fortuna,» aggiunse lo Stygiano. «Leverò una preghiera agli dèi dei boschi dei Lauvectii; se
riusciranno a sentirmi al di là di questo grande corpo d'acqua, forse gli doneranno una morte rapida e
facile. Altrimenti,»
aggiunse toccando l'elsa della sua spada, «io che non sono troppo sensibile per queste cose, potrei
decidere di compiere di persona il lavoro.»
A queste parole, gli occhi del vecchio marinaio si dilatarono, e il poveretto artigliò con le mani i legni del
ponte, cercando di fare un pietoso tentativo di ributtarsi in mare. Feci allontanare Rhalgorn e mi
inginocchiai vicino al morente, offrendogli dell'acqua.
«Non hai nulla da temere,» gli assicurai. «Sei fra amici, e da noi non ti verrà alcun male.»
Ingoiò l'acqua avidamente, ma era troppo terrorizzato per parlare. Date le circostanze, la cosa era
comprensibile. Anche senza la minaccia di Rhalgorn, la vista di tante creature di specie diversa doveva
averlo quanto meno confuso. Nel mondo normale, la gente è abituata a vedere le genti di razze diverse
dalla propria soltanto in catene, o morte, o armate e in atto di uccidere.
In ogni caso, dopo aver bevuto l'acqua, si distese sulle tavole del ponte. Sono sicuro che sarebbe morto
lì senza più muoversi, se in quel momento non fosse comparsa Corysia. Non appena la vide, balzò a
sedere con un grido. Un gesto che gli tolse quasi del tutto le poche forze che gli rimanevano. Corysia
impallidì, cadde in ginocchio vicino a lui e gli pose la testa nel grembo. Lacrime cominciarono a scorrerle
lungo le guance, e il vecchio marinaio, pur attraverso il suo dolore, riuscì a sorridere.
«Aldair...» Corysia sollevò verso di me gli occhi supplicanti. «Non puoi fare qualcosa? È ferito... soffre...»
«Non c'è nulla che io possa fare,» risposi. «Sta morendo, Corysia.»
L'ira le alterò i lineamenti, ma il Rhemiano la fermò.
«Ha ragione, mia Signora,» disse. «E non c'è nulla che io possa desiderare, ormai, se non vederti. Per il
Creatore, è una vista grazie alla quale muoio felice, perché ora so che sei viva e stai bene. Ti avevamo
data per dispersa, per morta...» Si interruppe, ricordandosi di dov'era, e alzò lo sguardo per cercarmi gli
occhi.
«Non temere, vecchio amico,» lo rassicurò lei. «Sono al sicuro, con questa gente. È una lunga storia, la
mia, Proctorius. Sarò felice di raccontartela, quando starai meglio.» Cercò di sorridere. «Quanti racconti
ho ascoltato sulle tue ginocchia, da bambina. È tempo che sia io a narrartene uno... anche se
difficilmente ci crederai.»
«Oh, io ti crederei, mia Signora,» mormorò stancamente il vecchio. «Se soltanto avessi tempo...»
«Ma tu non stai per morire,» fece lei, fermamente. «Io... io non lo permetterò. Mi hai sentito?»
«Sì, mia Signora, e vorrei poterti obbedire, come sempre...»
«Lo farai, se lo desideri.»
«Mia Signora...»
«Ora, però devi riposare. Abbiamo molto da dirci, ma più tardi. Un giorno saremo di nuovo a Rhemia,
insieme. Sederemo nel nostro posto favorito, nei giardini, e tu mi racconterai che cosa stava facendo un
vecchio soldato come te sul mare, e io ti racconterò le mie avventure. E poi... Proctorius!»
Corysia soffocò i singhiozzi col dorso della mano. Mi inginocchiai vicino a lei e le posi le mani sulle spalle.
«Corysia», dissi, «mi dispiace. Sta morendo.»
«No!»
Al grido, il vecchio Rhemiano riaprì gli occhi. Si stava spegnendo, ma aveva ancora una scintilla di vita.
«Mia Signora...»
«No, non parlare.»
«Io... devo. Ascolta, mia Signora... non... tornare... a... Rhemia. Non devi... no!»
«Che cosa? Proctorius.»
Scosse la testa debolmente per farla tacere.
«C'è il male, laggiù, mia Signora. Un orrore spaventoso... si è scatenato... si sparge rapido come la
peste... Non devi...»
Vidi il momento stesso in cui la Morte venne e soffiò sopra i suoi occhi. Anche Corysia vide, si coprì il
volto e pianse. Rimase immobile, stringendo a sé il vecchio soldato, finché con gentilezza non la
separammo da lui e portammo via il corpo.
Che cosa avesse voluto dire, non potevo saperlo, perché a Rhemia c'è
sempre qualcosa di torbido. È così per tutti gli Imperi, per quello rhemiano come per quello nicieano e
qualsiasi altro. Le intenzioni di chi regge il potere hanno poca importanza. I Nicieani desideravano solo il
meglio per il proprio popolo, ma questo non impedì la rovina della casa reale. È vero, forse, che nessun
grande potere può resistere in eterno, e ciascuno porta in sé i semi della propria rovina Dopotutto,
anche l'Impero dell'Uomo, che ha modellato il mondo, è morto e scomparso.
Rharlgorn interruppe i miei pensieri, porgendomi un plico.
«Era indosso al Rhemiano,» disse, «legato attorno alla sua cintola, sotto gli abiti.» Il plico recava il sigillo
imperiale, ed era confezionato con cura. Malgrado ciò, il mare aveva fatto il suo lavoro, e soltanto parti
del messaggio erano ancora leggibili: Per Marcus Quintus
Comandante della Guarnigione
di Xandropolis
Hai l'ordine di ritirare tutte le tr da Xandropolis e di rit imm a Rhemia. Chi ti reca questo essaggio, Proc s
è f leale. Egli ti rif a voc se che non è pru mettere per iscr Imper ive ma la ebe rivolta, perciò fai att
tradimento è ovunq e da ogni parte vi son gli agen dell'eretico Fabius Domitius che spiano e uc
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Il mondo si mise a girare intorno a me come impazzito. Allungai la mano in cerca di un appoggio
qualsiasi, e trovai lo Stygiano. Lui mi fissò, stupefatto, e subito al suo fianco corsero Signar e Thareesh.
Non riuscivo a trovare parole. Che cosa potevo dire? Che tutto ciò che avevamo creduto di conquistare
era perduto? Che non potevamo più far vela per Albion, perché Albion era discesa su Rhemia? Non
avevo parole per un'enormità come quella.
«Neanch'io riesco a crederci,» fece il vikoniano. «Quello studioso così
tranquillo e gentile.» Scosse la testa e immerse il naso nel boccale.
«Quello studioso così tranquillo e gentile ci ha traditi tutti,» dissi, «ed è
inutile fantasticare di un altro che porta lo stesso nome, o illudersi che ci sia un errore.» Picchiai con
forza il pugno sul tavolo. «Credetemi, è lo stesso Fabius Domitius che abbiamo lasciato in Albion. Il
tranquillo studioso Fabius è l' eretico. Fabius che si è trasferito a Rhemia. E solo il Creatore sa quali
orrori ha portato con sé!»
Nessuno parlò, ma sapevo quello che tutti stavano pensando.
«Non possiamo essere sicuri di quanto è successo,» disse infine Signar. Si grattò il petto e aggrottò la
fronte. «Il messaggio di quel vecchio soldato diceva ben poco.»
Gli altri mi guardarono, aspettando, perché avevano tutti in mente la stessa cosa.
«È vero,» feci, «ma ci ha detto abbastanza. Non abbiamo bisogno di sapere di più, per renderci conto
che siamo in pericolo. Sappiamo che è tornato da Albion, e questo è abbastanza.»
«Aldair ha ragione,» intervenne Rhalgorn. «Sembra che da quel luogo non venga mai nulla di buono.»
Mi alzai, fissandoli tutti. «Sentite. Se pensate che io abbia lavorato troppo di fantasia, ditemelo senza
timore. Siamo vecchi compagni, e le vostre opinioni sono le benvenute. Rhalgorn? Thareesh? E tu,
Signar... è vero che sarebbe stato meglio se il vecchio avesse detto qualcosa di più. Ma, dannazione, che
cosa poteva dire di più di questo!» E cavai di tasca il messaggio sbiadito, agitandolo sotto le loro
facce. «Pensate che l'Impero richiamerebbe a Rhemia le proprie Legioni, se non ci fosse nulla di
preoccupante?»
Thareesh guardò in alto con gli occhi senza palpebre.
«Nessuno sa che cosa Fabius abbia appreso in Albion, o quale forza l'abbia invasato per spingerlo a
rivoltarsi contro di noi,» fece. «Ma Aldair dice la verità. Non dobbiamo chiederci che genere di orrore
abbia portato da Rhemia. Per capirlo, basta guardare non più lontano del ponte dell' Ahzir. »
Signar spalancò gli occhi. «Ma non può aver liberato un orrore come quello!»
«Per farlo, avrebbe dovuto essere folle quanto l'Uomo, non di più,» rispose Thareesh. Guardai in fondo
al mio boccale, scrutando tra la feccia del vino. «È
inutile continuare a far congetture. Dobbiamo sapere. Non c'è altro da fare.»
Per un lungo momento, nessuno parlò. Infine, Signar ruppe il silenzio.
«Sei stato chiaro, Aldair, e senza dubbio hai ragione.»
«Verso Rhemia, dunque,» fece Rhalgorn.
«Non c'è altra via, non credete? Come potremo fare, non so dirlo, perché
in questo momento non c'è posto più pericoloso per noi sulla faccia della Terra.»
« Io so come si potrà fare, Aldair, anche se tu non lo sai.»
Mi girai sulla sedia e vidi Corysia, immobile nel vano della porta. Chissà
da quanto tempo era lì.
«È una cosa che posso fare,» aggiunse con calma. «Dimmi dove vuoi andare, ed io ti ci condurrò. Perché
sembra che sia la mia terra, che ora vogliono distruggere.»
VENTISEI
Dire che Corysia operò miracoli per farci entrare a Rhemia non è un'esagerazione. Tutt'intorno c'erano
cose che le ricordavano la giovinezza, ed ogni nuovo ricordo fu di aiuto per noi.
Guidò l' Ahzir in una piccola baia nascosta a nord della città. Perfino Signar rimase stupefatto, perché
era un posto nel quale nessuno avrebbe mai immaginato che potesse esservi una baia agibile. Tuttavia,
c'era. Un marinaio straniero in quelle acque vi sarebbe passato davanti senza accorgersene. Corysia,
invece, vi aveva giocato da piccola. Poi, c'erano sentieri nei boschi e strade che passavano attorno ai
piccoli villaggi, che potemmo percorrere senza rischi. Infine, nella città di Rhemia stessa, c'erano vicoli e
cortili così oscuri che anche i più disperati fra i ladri ne sarebbero stati alla larga.
«Per una fanciulla di lignaggio reale,» dissi annusando l'aria mefitica all'intorno, «hai una conoscenza
davvero rimarchevole delle peggiori suburre.»
«E tu sei fortunato, Aldair, che talvolta le fanciulle non abbiano la vocazione delle cosiddette vere
signore,» mi rispose con uno sconcertante lampo negli occhi. Non indagai più a fondo, perché mi
sembrava dell'umore adatto per farmi le confessioni più intime sulla sua giovinezza, ed io non ero
troppo sicuro di volerle ascoltare.
«Che orrore, le città,» sibilò Rhalgorn torcendo il muso grigio. «Ciascuna è più disgustosa dell'altra.
Come fa un guerriero a sapere se ci sono nemici in giro, quando l'unico odore che sente è la puzza di
spazzatura?»
«Se tu fossi nato in una città,» spiegò Thareesh, «non avresti problemi. Ne avresti imparato gli odori,
come hai fatto con quelli della foresta.»
Rhalgorn, ovviamente, si rifiutò di credere a quell'assurdità. «È un luogo davvero poco corretto e
decente, per uno Stygiano,» commentò. Nella nostra prima notte a terra, Corysia ci portò velocemente
attraverso il paese, fin quasi ai limiti della città. Ci riparammo in un cascinale abbandonato, dove
rimanemmo nascosti fino al calare della notte seguente, quando lei andò in avanscoperta per cercar di
raccogliere qualche notizia. Non avevamo la più pallida idea di quello che poteva aspettarci.
L'Imperatore Titus Augustus era ancora sul trono? Qual era il potere che era riuscito ad ottenere Fabius
Domitius? Speravo che Corysia potesse rispondere a queste domande. Quando le tradussi in parole,
Signar mi rese noto quello che pensava lui della faccenda.
«Intanto, bisognerà vedere se tornerà,» fece in tono cupo, anche se conosceva i miei sentimenti al
riguardo. Thareesh gli lanciò un'occhiata di rimprovero ma l'effetto sul Vikoniano fu nullo. Quanto a me,
non dissi nulla.
Sapevo bene di aver posto la vita di tutti noi nelle mani della stessa fanciulla rhemiana che avevo rapito
nelle strade della lontana Duroctium. La possibilità che lei potesse tradirci mi era passata per la mente
più di una volta. Per qualche motivo, tuttavia, ero sicuro che non l'avrebbe fatto. Corysia non aveva
molte ragioni per allearsi con noi, però amava la sua terra di nascita... l'amava almeno quanto ciascuno
di noi se ne sentiva invece nemico.
Era quasi l'alba quando tornò. Dapprima non la riconoscemmo: circostanza comprensibile, dato che era
rivestita dell'armatura d'ordinanza dei soldati rhemiani. Per di più dietro di lei venivano due cavalli,
carichi di provviste e condotti da un vero legionario di Rhemia. Thareesh stava già
per trafiggere tutta la compagnia con le sue frecce, quando lo fermai.
«Bene,» fece freddamente Corysia quando glielo dissi «Se voi quattro eroi non mi avete riconosciuta
sotto il travestimento, e probabile che non ci riuscirà nessun altro.»
L'uomo che accompagnava Corysia si chiamava Gaius Le era talmente fedele, pronto ad eseguire
qualsiasi suo ordine, ma era chiaro che la nostra vista non gli piaceva affatto Faceva forza su se stesso e
scambiava qualche parola con me, se necessario, ma non si avvicinava neppure ai miei compagni. Dopo
una buona razione di birra e salsicce, Corysia ci raccontò la sua storia.
Avevo già intuito che non ci portava buone notizie.
«È ancora peggio di quanto si potesse immaginare,» fece «L'eretico e i suoi complici controllano ormai il
cuore della città. Molti nobili sono stati imprigionati o uccisi La Chiesa e in rovina perché, astutamente, è
stato lì
che Fabius ha vibrato i suoi primi colpi. Sembra che abbia assassinato molti dei Buoni Padri che
ricoprivano le cariche più alte ed abbia lasciato in vita il Santo Padre stesso soltanto per ricattare coloro
che ancora si rifiutano di obbedirgli.» La voce di Corysia si fece gelida. «In realtà, sembra che non abbia
bisogno di grandi minacce nei confronti dei cittadini di Rhemia. Molta gente del popolo e persino molti
ecclesiastici hanno abbracciato spontaneamente la sua causa perché, a quanto sembra, compie miracoli
spettacolari. Aldair,» aggiunse amaramente, «già lo chiamano Figlio del Creatore!»
Balzai in piedi a queste parole.
«Miracoli? Che genere di miracoli, Corysia?»
Fu Gaius a rispondere. «Ho assistito a queste cose io stesso, anche se naturalmente...» e lanciò un
rapido sguardo a Corysia, «...non credo che siano veri miracoli.»
«Raccontami, per favore. Descrivimi esattamente quello che hai visto.»
«Quando Fabius Domitius si mostra in pubblico, cosa che per la verità
non avviene spesso, ha sempre in mano un cilindro di metallo lucente. Di notte, quella cosa proietta a
grande distanza un fascio di luce azzurra. Nessuno aveva mai visto prima una cosa simile! Nessuna
candela e nessuna lampada potrebbe fare niente del genere. E si dice,» prosegui Gaius arrossendo e
girando gli occhi, «anzi, gli eretici e i loro seguaci sostengono che si tratta della stessa luce azzurra che
un tempo apparve sopra...»
«...Albion,» terminai per lui, perché il legionario sembrava incapace di pronunciare la parola.
Per una persona che non crede ai miracoli, Gaius metteva una bella dose di emozione nelle sue parole.
Il Rhemiano raccontò di altre meraviglie che Fabius Domitius usava per incutere rispetto ai suoi
seguaci... anche se lui, naturalmente, non ci credeva. C'era un bastone che emetteva un rumore di
tuono e uccideva tutti coloro contro i quali veniva puntato. C'erano mantelli e stivali che sembravano
fatti d'oro e argento vivo. C'era un sedile posto sopra due ruote che trasportava a velocità straordinaria
una persona che vi si metteva a cavallo. Quest'ultimo - commentò Rhalgorn - non sembrava un modo
decente di viaggiare per un Figlio del Creatore.
Nessuno di questi «miracoli» mi meravigliava, perché Fabius Domitius aveva avuto molto tempo a
disposizione per frugare nei depositi dell'Uomo nascosti sotto Albion. Io stesso avevo visto all'opera in
quel luogo le luci straordinarie. Sono davvero cose stupefacenti, anche se sono convinto che nel mondo
dell'Uomo fossero il mezzo normale di illuminazione. Ma come si poteva sperare che il comune cittadino
di Rhemia capisse una cosa simile?
A quel che sembrava, Fabius Domitius aveva avuto bisogno di portare con sé solo pochi oggetti per
scuotere le fondamenta di un impero. Sapevo, tuttavia, che doveva avere con sé altre armi, ben più
potenti, e tremavo al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se l'Imperatore avesse deciso di
impiegare le Legioni che aveva richiamato nella capitale per contrastarlo. Con la voce che le tremava per
la vergogna, Corysia mi disse che persino alcuni Nobili della corte avevano deciso di allearsi con Fabius
Domitius. Suo padre, si affrettò ad aggiungere, non era naturalmente così sciocco da farsi coinvolgere in
questa follia. Gaius riferì che si nascondeva fuori città, mentre l'Imperatore stava chiamando a raccolta i
reparti ancora fedeli del suo esercito. Purtroppo, anche fra i militari molti avevano ceduto alle seduzioni
dell'eretico.
Non fece commenti al riguardo, ma non ne fui sorpreso. Il soldato rhemiano soggiace spesso
all'inquietante tentazione di mutar signore, Imperatore compreso, per motivi anche meno gravi di quelli
che coinvolgono le convinzioni religiose. Per la verità le legioni di Rhemia, sembrano particolarmente
influenzabili dalle persone dotate di una bella voce, e con le tasche ben fornite di argento. Mentre
ascoltavo questi racconti, venni colpito violentemente dalla consapevolezza di avere già vissuto qualcosa
di molto simile. Ricordavo ancor con dolore le vicende di Chaarduz, la grande capitale di Niciea.
Rivedevo i suoi palazzi in fiamme, mentre i Nobili abbandonavano le loro sedi e si chiedevano se ci si
potesse fidare dell'esercito. Gran parte dei militari rimase fedele: ma, alla fine, la cosa fece ben poca
differenza. Il Gran Sacerdote Bhurzal gonfiò il popolo di terrore, e quindi aprì le porte della città al ribelle
Fhazir.
Le circostanze, ovviamente, non erano le stesse. Ma non erano neppure troppo differenti.
Corysia aveva pensato molto al modo di farci entrare senza pericoli in città. Io, lei e Gaius indossammo
divise da soldati, mentre Rhalgorn, Signar e Thareesh ci seguirono in catene come schiavi esotici. In
questo modo, navigammo senza troppe difficoltà attraverso i vicoli stretti e le piazze fetide di Rhemia,
fino alla casa di Gaius il legionario. E forse val la pena di notare, con una sfumatura di ammirazione per
l'Impero e per i suoi cittadini, che anche nel mezzo dell'anarchia e della ribellione il nostro passaggio
venne appena notato, ed anzi passò fra la generale indifferenza. D'altra parte, la schiavitù era cosa
comune, e la vendita di un essere umano ad un altro era cosa normale sotto tutti i cieli. VENTISETTE
La casa di Gaius era nel quartiere settentrionale, dove abitano soprattutto soldati e mercanti.
Lì, gli edifici erano talmente addossati gli uni agli altri che era praticamente impossibile capire dove
cominciasse l'uno e finisse l'altro. Alla bellezza della zona donava un prezioso tocco il fetore orrendo e
stagnante del fiume vicino, che trasportava al mare gli escrementi di un quarto di milione di persone.
Rhalgorn e Signar avevano feroci commenti da fare al riguardo. Agli occhi di Rhemia, gli Stygiani e i
Vikoniani sono barbari rozzi e selvaggi, che mancano della cultura e della saggezza tipiche dei cittadini
dell'Impero. In verità, tuttavia, va detto che nessuna di queste due razze ha l'abitudine di costruire città
sopra i cumuli delle stesse immondizie.
È difficile arrivare a una precisa definizione del "barbaro", perché le opinioni al riguardo cambiano con i
paesi. Tuttavia, a giudicare dalla mia esperienza, possono definirsi "barbare" quelle popolazioni che
vivono il più possibile lontano dal puzzo dei propri simili.
L'oscurità cadde poco dopo il nostro arrivo, e dal terrazzo della casa di Gaius potemmo osservare la città
angustiata lottare contro se stessa. Attraverso la notte, giungevano grida di allarme. Soldati in armatura
correvano lungo i vicoli pavimentati da ciottoli, e sullo sfondo di tutto ciò si udiva il suono inconfondibile
del ferro che cozzava contro il ferro. Più di una volta, in direzione del sud, vedemmo levarsi il bagliore di
un incendio, che aggiungeva grandi fiori vermigli al fuoco delle stelle, e si riverberava nel milione di
piccoli occhi aperti nella notte di Rhemia. Quando il vento soffiava nella nostra direzione, venivamo
raggiunti dal fumo di questi incendi, e dall'odore potevamo distinguere ciò che stava bruciando. Una
volta, tra sentori meno piacevoli, venimmo avvolti da un profumo di spezie e di miele.
«Quando tanta gente è ammassata in un solo posto, disse Signar, «non c'è da meravigliarsi se sorgono
guai.»
Non c'è dubbio che avesse ragione.
Negli Eubironi si dice che Madre Giorno mette a letto la Paura. A Rhemia non era così. La paura era bene
sveglia anche di giorno, in agguato in ogni strada e in ogni piazza. La città tratteneva il respiro,
aspettando dietro le imposte sbarrate ciò che poteva accadere minuto dopo minuto.
«Lo so che tu conosci bene la città,» stavo dicendo a Corysia che, come al solito, aveva manifestato idee
diverse dalle mie. «Il fatto è che la Rhemia che tu conosci non è più quella in cui ci troviamo. Quella di
oggi è un luogo pieno di pericoli e di tradimento, e sarebbe idiota avventurarsi nelle sue strade.»
«Aldair, Rhemia è sempre stata piena di tradimento, nonché di pericoli.»
Con un movimento della splendida testa, sottolineò le sue parole. La leggerezza con la quale affrontava
l'argomento mi mandava in bestia, e lei lo sapeva.
«D'accordo,» ammise alla fine, «non sono i tempi migliori. Ma sarò prudente, e Gaius mi accompagnerà.
Conosco la città, Aldair, e ci sono ancora troppe cose che dobbiamo imparare su questo Fabius Domitius.
Tu stesso hai detto che sarebbe difficile avvicinarsi a lui, anche se avessimo degli alleati fra la sua
gente.»
Quello che diceva era vero, ma non valeva certo a mitigare le mie preoccupazioni.
«Sarebbe bene che venissi anch'io con te,» feci.
Corysia sorrise. «A dire il vero, non credo, Aldair.»
«Perché no? Non penserai che voglia mostrarmi vestito come sono, con gli abiti del Clan dei Venicii.
Indosserò una divisa da soldato.»
«L'ho capito.»
«E allora?»
«Non è solo questione di... abiti.»
«E di che?»
«Aldair...» Si morse un labbro e fece girare gli occhi nel vuoto. «Non vorrei offenderti... ma il fatto è che
tu non sembri un Rhemiano.»
Io sono lento di comprendonio, a volte, ma alla fine capisco.
«Vedo che non hai appreso gran che dai tuoi viaggi,» dissi freddamente.
«Sei ancora una dama dell'aristocrazia.»
Corysia sospirò.
«Non fare l'arrabbiato, ora,» disse. «Non intendevo dire nulla che ti smi-nuisse.»
«Bene. Allora non ti sorprenderà sapere che non me ne è mai importato un fico secco di somigliare o no
a un Rhemiano. Anzi, là da dove vengo, la cosa non viene considerata per nulla desiderabile.»
La conversazione durò ancora per un po', ma non vedo la necessità di riportarne altri passaggi. Quando
avevamo deciso di fare rotta per Rhemia, io avevo immaginato - e sperato - di vedere l'inizio di una
differente e più
sopportabile Corysia. Evidentemente mi ero sbagliato: il modello originale era ancora con noi. Alla fine
uscì, portandosi dietro Gaius e un gelido silenzio. Noialtri barbari venimmo lasciati soli a badare a noi
stessi. Non fu impresa facile, per noi quattro rinchiudersi in quell'appartamento piccolo e puzzolente,
senza aver null'altro da fare che attendere e godere dei piaceri della vita in città.
Avevamo vino da bere, ma era della qualità peggiore, quella che gli osti tengono in serbo per la
soldataglia, che si accontenta di tutto. In aggiunta, però, avevamo una bella razione di mosche per
tenerci compagnia. Su Rhemia c'è da dire questo: anche i cittadini più poveri hanno tutte le mosche che
potrebbero desiderare, e anche di più.
«Non avrei mai creduto di dover un giorno dire questo,» brontolò Rhalgorn, mentre rovesciava sul
pavimento la feccia rimasta in fondo alla sua tazza, «ma rimpiango quella dannata barca. Non è
decente viaggiare attraverso grandi distese d'acqua, ma almeno lì l'aria è respirabile.»
«È una nave,» fece Signar in tono rassegnato. «Una nave, Stygiano, non una barca.»
Rhalgorn lo ignorò. «Naturalmente, se potessi esprimere un desiderio, vorrei trovarmi tra le foreste dei
Lauvectii, a caccia di lepri in un bel giorno d'estate.» I suoi occhi rossi si infiammarono, e la coda tremò.
«Ti dirò una cosa che neppure io avrei mai creduto,» feci. «Preferirei andare con te a caccia di lepri,
piuttosto che trovarmi rinchiuso in questa fogna al centro di Rhemia.»
Rhalgorn ghignò, mostrando i denti. L'idea di un guerriero dei Venicii che seguiva le tracce di una lepre
insieme con uno Stygiano, evidentemente lo divertiva molto. Da guanto tempo se ne era andata
Corysia? mi chiesi. Sembrava da più
di mezza giornata, ma poteva anche essere da meno di un'ora. Il pessimo vino e l'aria fetida avevano
fatto pagare un caro prezzo al mio cervello. Signar giaceva addormentato in un angolo della stanza,
perché nella casa non c'erano giacigli grandi abbastanza per accogliere la sua mole. Rhalgorn ciondolava
davanti alla porta che si apriva sul cortile, con gli occhi semi-chiusi e le orecchie grigie pendenti lungo il
cranio. Un nugolo di mosche ronzava attorno al suo naso. Thareesh aveva salito la stretta scalinata che
portava sul tetto, e faceva la guardia lassù.
Ed io? Avevo cercato di fare qualcosa, ma non ricordavo neppure che cosa, e non lo ricordo ancora.
Anche oggi, di tutta la scena che seguì, ricordo solo pochi frammenti indistinti. Udii qualcosa. Ricordo
che cercai di aprire un occhio, poi un altro, e pensai che non era un comportamento abituale, per
Thareesh, scendere giù per le scale urlando e agitandosi come un contadino ubriaco. All'improvviso, mi
risvegliai. Thareesh era avvinghiato come una corda attorno alla corazza di un Rhemiano, con la spada
rossa di sangue. Rhalgorn era un grigio lampo di morte. I Rhemiani erano numerosi come le mosche,
nella stanza, mentre io cercavo di raggiungere una spada che non riuscivo a trovare. L'urlo di Signar
lacerò l'aria, mentre il suo enorme pugno nero calava come un maglio schiacciando un elmo crestato,
insieme con la testa che conteneva. Poi, un soldato grasso e puzzolente mi schiacciò a terra con lo
scudo, soffiandomi in faccia il suo respiro carico d'aglio, mentre io pensavo a come ero stato sciocco a
lasciare la mia spada dall'altra parte della stanza, dove non poteva servire a nessuno. VENTOTTO
Ben poche persone hanno mai avuto la possibilità di risvegliarsi in posizione verticale. È una sensazione
spaventosa e sgradevole. I miei piedi pendevano liberi, sospesi a un palmo dal pavimento. Non riuscivo
né a vedere né a sentire le mie braccia. Immaginavo che fossero da qualche parte al di sopra della mia
testa, invisibili. Nelle spalle sentivo un dolore atroce e pulsante, mentre la mia nuca era tormentata da
quello che sembrava un chiodo arroventato. Sentivo in bocca un sapore di rame, tossii, e sputai sangue.
« Bene, Aldair, vedo che sei di nuovo con noi» . Non fui sorpreso nel vedere Fabius Domitius ritto
davanti a me. Al contrario, mi sarei sorpreso se avessi visto qualcun altro. Era cambiato molto poco da
quando l'avevo lasciato in Albion. Malgrado la sua nuova condizione di preminenza, era ancora un
individuo basso e pingue, con il muso allungato e folte setole sulle guance. Magari, mi aspettavo di
vederlo in vesti di seta e gioielli, ora che aveva saccheggiato i tesori di Rhemia. Invece, era ancora Fabius
lo studioso, vestito di tunica e mantello. Forse, l'immagine di povertà accompagnata all'aura terribile del
potere gli sembrava meglio adatta per il Figlio del Creatore.
L'unica aggiunta all'abito da studioso, era tuttavia tale da amplificare di molto il suo status: da una
catena d'oro che portava alla cintura, pendeva una delle famose «luci di Dio» che avevano tanto
impressionato Gaius.
«Vorrei dire di esser contento di vederti, Fabius, ma non posso,» feci.
«Che cosa ne hai fatto dei miei compagni? Per il tuo bene, spero che siano ancora vivi e illesi. Hai già
molti debiti da pagare, uomo di scienza. Meglio per te se non aggiungerai altre voci al conto!»
Fabius non sembrava neppure ascoltarmi. Era ritto con le mani dietro la schiena, la fronte corrugata,
come se fosse immerso in gravi pensieri.
«È interessante, quello che dici,» mi rispose infine, fissandomi negli occhi. «Debiti, dunque. E con chi
sarei indebitato? È questo il nodo della questione. Con il Creatore? Non credo più alla sua esistenza,
Aldair. E se pure esistesse, non sarebbe certo il nostro Creatore, non è vero? Noi sappiamo chi sono i
nostri creatori: me li hai mostrati tu stesso, in Albion. È a loro, dunque, che io dovrò rispondere?» Scosse
la testa. «No, non credo che dobbiamo loro nulla per la sciagura di averci creati. Chi si presenterà
allora a riscuotere quei debiti? Le bestie mie simili? Impossibile: come avrei potuto fare dei torti a
creature che non hanno né un'anima né un destino loro proprio? In pratica, resto soltanto io per la resa
dei conti.» Sorrise. «E io ho imparato a sopportare con pazienza Fabius Domitius.»
«Splendida giustificazione, degna di uno studioso come te,» dissi. «Ma io non sono uno dei tuoi allievi,
Fabius. Hai ragionato così, quando hai deciso di uccidere Quintus, e Ambiir, e gli altri?»
Avevo tirato a indovinare, dicendo questo, ma avevo colto nel segno, perché vidi i suoi occhi ridursi per
un attimo a fessure, prima che riprendesse il controllo di sé. D'altra parte, vedendo ciò che era
diventato, non era difficile immaginare quello che aveva fatto ai suoi colleghi studiosi, in Albion. Il
pensiero mi fece ugualmente gelare il sangue. Se aveva ucciso i suoi stessi amici, come potevo sperare
che avesse risparmiato Rhalgorn e gli altri?
Mi fissava, e per un istante mi parve di cogliere nei suoi occhi un lampo di preoccupazione.
«Sembri deciso ad irritarmi, Aldair. Invece, non dovrebbero esserci con-flitti, fra noi due.»
Malgrado tutto, mi misi a ridere.
«Splendida relazione, la nostra», dissi. «Io appeso come una lepre al mercato, e tu in veste di
macellaio!»
«Non c'è nessun bisogno che tu resti lì a pendere. Ti farò mettere più
comodo se mi darai la tua parola che...»
«Avrai molto più della mia parola,» lo interruppi. «Anzi, hai sin d'ora il mio solenne giuramento,
Fabius, che non appena mi farai scendere da qui, io ti taglierò la gola con gioia e soddisfazione.»
Fabius sospirò e scosse la testa.
«Mi dispiace, Aldair. Speravo davvero che potessimo discutere un po’. Ti avrei anche offerto del vino. Ci
sono ottimi vini, qui in città, se si sa dove cercarli. Anche se nessuno di quelli prodotti qui intorno vale
gran che.»
Detto ciò, mi volse le spalle, allontanandosi con il tipico passo frettoloso degli studiosi, che camminano
sempre come se si stessero affrettando verso nuove straordinarie fonti di sapere. Si fermò davanti a una
stretta finestra, e guardò fuori. Dalla luce che entrava nella stanza, dedussi che era quasi il crepuscolo.
L'ambiente nel quale mi trovavo era lungo e stretto, con alti soffitti e le pareti rivestite di marmo dalle
venature scure. C'era una sola finestra, e sul mio capo le volte scomparivano nell'ombra. Non c'erano
mobili, a parte un semplice sgabello di legno che supponevo Fabius avesse portato con sé. Quello
sgabello mi parlava come se fosse un libro, perché era uno specchio di Fabius stesso. Quasi speravo che
l'uomo davanti mi fissasse con gli occhi ardenti del fanatico, o si rivolgesse a me con l'arroganza del folle
che vuole vedere tutto il mondo ai propri piedi. Una cosa del genere l'avrei potuta capire: C'è sempre
abbondanza di tiranni, in giro, e con loro alla fine si riesce a individuare un certo modulo di
comportamento, come si fa quando si tratta con i mercanti, o i contadini. Ma quel Fabius sfuggiva a
qualsiasi regola. Era un piccolo essere triste e solitario, che sembrava più
adatto a frugare fra i suoi libri che a schiacciare un Impero. E proprio in questo stava il suo pericolo. I
tiranni sono avidi di potere. Ma Fabius Domitius, che cosa mai voleva dal mondo? Non riuscivo a
immaginarlo. Potevo solo chiedermi quali giocattoli mortali avesse portato con sé da Albion, e che cosa
avesse intenzione di farne. Inoltre, non potevo dimenticare che ero stato proprio io a condurlo laggiù.
Si staccò dalla finestra, mi tornò vicino, si accomodò sullo sgabello, incrociò le dita in grembo, e mi fissò.
«Anche se non hai desiderio di parlare, Aldair, temo che dovrai. Ci sono delle cose che voglio ascoltare
da te.»
Bene, sta venendo al punto, mi dissi.
«Non riesco a immaginare nulla che possa interessarti sapere, Fabius.»
«Questo lascialo giudicare a me. È passato molto tempo da quando ci siamo visti l'ultima volta. Vorrei
sapere quello che ti è successo.»
«Non è una storia piacevole,» risposi, «ma puoi conoscerla, se lo desideri. Siamo partiti per individuare
la Sede dell'Uomo che doveva trovarsi in Oriente. Questo lo sai, perché abbiamo progettato il viaggio
insieme. Sfortunatamente, il destino aveva in serbo per noi un'amara sorpresa. Una tempesta ci ha colti
presso la terra dei Tarconii, e non siamo mai riusciti ad attraversare gli Stretti. L' Ahzir è affondata con
gran parte dell'equipaggio. Quelli che non sono morti si sono dispersi ai quattro venti, e hanno perduto
ogni interesse per il mare. Ed io per primo.»
Fabius fece un'aria delusa.
«Aldair, la tua storia è incredibile!»
«Mi dispiace. Se avessi saputo che ci saremmo incontrati di nuovo in Rhemia, avrei conservato per prova
un pezzetto della vela maestra.»
Si alzò e si passò una mano sul volto.
«Tutto questo è inutile, Aldair,» disse. «È solo una stupida perdita di tempo.»
«Posso fare una domanda?»
«Che vuoi sapere?»
«Perché hai fatto tutto questo, Fabius? Onestamente, vorrei saperlo. Io ho fatto, ormai è chiaro, lo
sbaglio più grosso della mia vita portandoti ad Albion, ma vorrei capire quello che ti è successo laggiù.»
Fabius sedette di nuovo, sorridendo fra sé.
«Aldair, tu sai pensare, ma non con la necessaria chiarezza. Tu sai quello che siamo, eppure insisti
nell'attribuirci una statura che non è la nostra. Mi hai portato in Albion per imparare. L'ho fatto. Ho
imparato che siamo bestie, puramente e semplicemente. Né migliori né peggiori dei nostri creatori.»
«Non siamo migliori, certo,» lo interruppi, «ma potremmo diventarlo.»
Mi tacitò con un cenno della mano.
«Sono stanco di questo sogno... dell'illusione che lavorando insieme potremo rovesciare la marea della
storia. La ragione e la logica non bastano a muovere il mondo. Ho camminato a lungo lungo la strada
dello studioso, e non ci ho trovato nulla.» Alzò gli occhi al soffitto. «Per rispondere alla tua domanda, ho
fatto quello che ho fatto perché ero stanco di essere quello che ero.» Allargò le braccia. «Non c'è altro
motivo, anche se non mi aspetto che tu mi creda. Ho visto la trama del mio destino. Ho visto che tutto
ciò che avrei potuto fare io - o chiunque altro - non avrebbe avuto alcuna importanza. Non ho alcun
particolare desiderio di diventare Imperatore, se è questo che sospetti. Per essere onesti, è un incarico
rognoso. Tuttavia, se mi trovo su questa strada, vuol dire che questa è la strada che era mio destino
imboccare, dato che nulla di ciò che avviene in questo mondo può essere mutato.»
«Sei tu stesso il primo a non crederci,» risposi. «Hai deformato la verità
per adattarla alle tue esigenze, Fabius. Che io sia dannato se non sei migliore come Tiranno che come
dialettico!»
Fabius mi guardò divertito.
«Aldair, come fai a sapere che quella che stiamo vivendo non è precisamente la storia delineata per noi?
Come fai a sapere che giù in Albion non c'è un nastro di quelli che si vedono attraverso quelle
straordinarie finestre... un nastro che non mostri me e te, proprio come siamo in questo momento? Tu
appeso al soffitto, ed io ritto davanti a te? Non sarebbe uno scherzo perfetto, degno dell'Uomo, quello
di far credere alle proprie miserabili creature di essere riuscite a conquistarsi la libertà, mentre sono più
schiave di prima?»
Fabius aveva colto nel segno. Molte volte, nei momenti di disperazione, quel pensiero aveva tormentato
anche la mia coscienza.
Mi agitò un dito davanti agli occhi.
«Bene, bene, Aldair. Vedo nel tuo sguardo che anche tu sei agitato da questi dubbi.»
«Quello che dici è una pura stupidaggine.»
«Davvero? Come fai a sapere che io stesso non ho visto le immagini di cui ti ho parlato?»
«Perché non esistono.»
Fabius rimase immobile. Sospirò profondamente, si torse le mani, poi le lasciò pendere lungo i fianchi.
«Ah, Aldair, questo è uno dei principali vantaggi di cui godono gli ignoranti. Sono sempre sicuri di tutto.»
Si chinò e raccolse il suo sgabello. Dietro di me, da qualche parte, si aprì
una porta. Stivali calpestarono il pavimento, una lama tagliò la corda alla quale era sospeso, e caddi a
terra.
Non volevo gridare, quando il sangue tornò a fluire nelle mie braccia, ma non riuscii a impedirmelo. Due
soldati, uno per lato, mi alzarono rudemente in piedi e cominciarono a trascinarmi attraverso la stanza.
Quando passammo davanti alla finestra, Fabius fece loro cenno di fermarsi. Guardai giù. C'era un cortile,
delimitato da un alto muro. Sul muro, un Sole morente stava tingendo di rosa i tetti della città. I marinai
dell' Ahzir erano nel cortile, incatenati gli uni agli altri. Davanti a loro, c'era la scatola nera. Dentro di
me, morì qualcosa.
«Non giocheremo più l'uno con l'altro,» disse Fabius. «Ho già appreso come sei venuto in possesso di
quella cosa, e so quello che può fare. E
penso di sapere anche che cos'è.»
«Fabius... sarò felice di dirti tutto quello che ne so, perché devi capire quello che è. Tu pensi di saperne
già abbastanza, ma non è vero.»
Fabius guardò nel cortile, poi tornò a fissarmi.
«Ti sbagli, Aldair. Ne so più di quanto tu creda.»
Cercai di parlare con la maggior calma possibile. Non c'era nulla di più
importante che farmi capire, e farmi credere.
«Non è vero, Fabius. Mi rendo conto di quello che pensi. Ma quella cosa non può essere usata per
controllare gli altri. Non può esserlo, perché è
impossibile controllare lei stessa. Non ti devi avvicinare a quella scatola, né devi cercare di aprirla. Ti
prego, ascoltami almeno in questo!»
«Ti ho ascoltato,» fece lui, «ed ora ne ho abbastanza, Aldair. Io e te non abbiamo più nulla da dirci.»
VENTINOVE
Non mi sarei sorpreso se mi avessero impiccato senza tante cerimonie, o mi avessero infilato una spada
tra le costole, gettando il mio corpo nella strada. Invece, i legionari che mi tenevano mi spinsero lungo
una stretta scalinata e mi chiusero in una segreta. Una porta scattò alle mie spalle, con un rumore cupo
e definitivo; una serratura girò pesantemente, facendo ruotare antichi ingranaggi.
Il pavimento umido era coperto di paglia, abitata da legioni di insetti. Fuori della cella, una torcia
bruciava debolmente, ed alcuni raggi di luce si facevano strada a fatica attraverso la grata dello
spioncino. Il posto puzzava come se il letame di tutte le stalle del mondo vi fosse stato ammucchiato
dall'inizio dei secoli. Se dovevo morire lì, mi augurai che ciò avvenisse presto, e che il primo ad
andarsene fosse il mio naso.
« Aldair? »
Quasi balzai fuori dalla mia pelle.
«Per gli Occhi del Creatore, chi ha parlato?»
«Tutti, suppongo, quando abbiamo visto chi era.»
Le parole vennero seguite da quel rumore particolare, simile a un cupo colpo di tosse, che per gli
Stygiani riveste il senso di una risata.
«Rhalgorn! Sei tu! Sei vivo!»
«Ci sono anch'io, e Thareesh,» risuonò la voce solenne di Signar, il Vikoniano. «Non pensavamo più di
poterti rivedere. Né te né gli altri.»
«Per la verità, riuscire a vederlo con questo buio è impresa ardua,» gli fece eco lo Stygiano, «anche per
occhi superbi come i miei. Sono certo che c'è, tuttavia, perché un buon numero delle mie pulci mi ha
lasciato per dare il benvenuto al nuovo arrivato.»
«Thareesh?»
«Sono qui, da qualche parte. O meglio, c'è quello che resta di me. Vorrai scusarmi se non mi alzo.»
«Thareesh, sei ferito...»
«Sì, è ferito,» rispose per lui Signar. «Ma sopravviverà, come tutti noi, anche se non so se ciò possa
considerarsi una fortuna. Nessuno di noi è in forma splendida, a tutti manca un po' di carne e di muscoli,
e abbiamo una bella dose di graffi per il corpo. Però c'è anche un bel numero di soldati rhemiani che
stanno peggio di noi, visto che sono morti stecchiti.»
«E tu,» mi chiese il Nicieano, «sei sempre tutto d'un pezzo?»
«Sono intero,» risposi, «anche se ho idea che le mie braccia si siano allungate di un bel po'.»
Raccontai quello che mi era successo, e riferii della mia conversazione con Fabius. La cosa che mi costò
di più fu rivelare che i nostri compagni erano tutti prigionieri, e che la scatola nera era in mano al
traditore. Quando terminai, per un lungo momento nessuno parlò.
«L'equipaggio, la nave... tutto?», chiese infine Signar.
«Tutto, a quanto pare, amico mio.»
Il Vikoniano emise un rumore dal profondo della gola.
«È stata la femmina, Aldair. Mi spiace dirlo, ma non c'è altra risposta. Ci ha traditi.»
«Non puoi esserne certo,» sibilò il Nicieano. «Sei chiuso in una stalla sotto terra, e non puoi sapere
quello che sta succedendo nei posti in cui non sei.»
Dal momento in cui mi ero risvegliato, e mi ero trovato nelle mani di Fabius Domitius, avevo lottato per
scacciare dalla mia mente quel pensie-ro. Tuttavia, non c'era motivo per cui dovessi illudermi più a
lungo.
«Se stai cercando di non ferire i miei sentimenti, Thareesh,» dissi, «ti sono grato. Ma è più che possibile
che Signar abbia ragione. Se è così, spero di non averne mai la conferma.»
«Bene, accidenti,» ringhiò lo Stygiano, «quando voi tre avrete finito di lamentarvi del vostro destino e di
discutere di chi sia la colpa, sarà meglio cominciare a pensare a come trasportare noi stessi fuori da
questo buco schifoso. Non posso parlare per voialtri, ma per un Signore dei Lauvectii la presente
atmosfera non è punto decente.»
«Un Signore dei Lauvectii, eh?», ruggì il Vikoniano. La sua mole immensa si agitò nel buio. «Mi auguro
che Sua Grazia abbia in mente un piano astuto e imprevedibile, perché sono oltremodo ansioso di
udirlo.»
«Sto pensando,» rispose Rhalgorn.
«Incredibile. Non ti succede spesso.»
«Sii paziente, montagna di pelo. Prima o poi troverò qualcosa.»
«In tal caso, spero che tu trovi un bel cosciotto di cervo del Nord, e un barile o due di birra. Dopo la fuga
dalle prigioni rhemiane, sono le cose che desidero di più.»
Nella stanza c'era dell'acqua, ammesso che potesse essere definita tale. Ma non c'era cibo, e da quando
eravamo stati rinchiusi li sotto, nessuno ne aveva portato.
«Se per caso non riusciremo a fuggire... è soltanto un'ipotesi, capitemi...» fece Signar, «... che cosa pensi
che abbia in serbo per noi quel simpatico e tranquillo studioso, Aldair?»
«Meglio non fare congetture, Signar. Un tempo, ero sicuro di conoscere bene Fabius Domitius, e come
vedi mi sbagliavo di grosso. La prossima volta, fammi il favore di ricordarmi che non ci si deve mai fidare
delle persone di una certa cultura.»
«Non possiamo permetterci di rimanere fermi ad aspettare,» fece Thareesh. «Se ti ha già appeso al
soffitto, potrebbe venirgli il desiderio di farlo di nuovo, Aldair, con tutti noi a tenerti compagnia.»
«No,» risposi scuotendo la testa, «non lo credo, Thareesh. Come ho già
detto, è un folle di tipo tutto particolare; uno studioso trasformatosi in Tiranno. In genere, re e
conquistatori sono tanto crudeli quanto ignoranti. Fabius non è né l'una cosa né l'altra. I cortigiani
avranno tempi difficili nel suo nuovo Impero, perché non è persona disposta ad ascoltare altri che se
stesso. Mi ha già comunicato che non ha più nulla da dirmi. Dubito che vorrà metterci alla tortura per il
puro piacere di farlo.»
«Che pensiero confortante,» commentò Signar, che aveva ascoltato con attenzione.
«D'altra parte,» aggiunsi, «è gelido come il Mare del Nord, e non esiterebbe un attimo a dare ordine di
ucciderci, se decidesse che siamo un pericolo per lui, o semplicemente che siamo del tutto inutili.»
«Questo, invece non è confortante,» ringhiò Signar. «Pensa con tutte le tue forze, Stygiano.»
Ci mettemmo tutti a pensare. A nessuno di noi sfuggiva che la cosa più
saggia da farsi era di tirarci via da quel luogo prima che la decisione finale nei nostri confronti venisse
presa al di fuori del nostro controllo. Ma che cosa potevamo fare?
Anche nei frangenti più disperati, il corpo è pronto a tradirci. Nessuno di noi aveva intenzione di
dormire, ma finimmo per addormentarci tutti. Né
gli insetti, né il fetore, né le buone intenzioni riuscirono a impedirlo. Mi svegliai, una volta, al suono degli
stivali delle guardie rhemiane che camminavano dietro la porta. Poi fu Rhalgorn, che nel sonno si agitava
e ringhiava, a svegliarmi una seconda volta.
Che ora era? Ero stato portato lì al tramonto. Era notte, fuori, o era già
spuntato un nuovo giorno? Senza né una luce né un rumore per mettere a fuoco i nostri sensi, un'ora o
un minuto erano la stessa cosa. Quando mi svegliai di nuovo poteva essere passata la metà di un'altra
notte. Qualcosa, o qualcuno...
La mano enorme di Signar calò su di me, imponendomi il silenzio. Di nuovo, un rumore dietro la porta.
Una chiave girò piano nella serratura. Poi... più nulla.
«Aldair, se tu o Rhalgorn o qualcuno degli altri è lì dentro... Sono io. Quando aprirò questa cosa, non
voglio che un'orda di pirati puzzolenti mi si precipiti addosso, capito?»
« Corysia! »
Per poco non urlai il suo nome. La porta si aprì e, profilata nella luce fioca, apparve Corysia,
seminascosta sotto mantello e cappuccio. Corsi a stringerla a me, dimenticando ogni altra cosa.
Rhalgorn, scattò fuori della porta, scrutando nel buio all'intorno con occhi da Stygiano.
«Corysia...». La fissai pieno di meraviglia. I suoi lineamenti delicati sembravano splendere di luce propria
davanti ai miei occhi. «Corysia, noi... noi...»
«Zitto,» fece lei, ponendomi un dito sulle labbra. «Lo so che avete molte domande da fare, e non sono
affatto sicura di avere le risposte per tutte. Però, adesso c'è poco tempo per questo.» Si fermò, tirò un
respiro, e fece correre gli occhi su ciascuno di noi. «Sono felice di vedervi tutti vivi. Davvero. Ero sicura
che ve la sareste cavata, ma...» Si interruppe, sorridendo. «Sì, sono felice anche per te, Rhalgorn.»
Allungò una mano per toccarlo. Gli occhi dello Stygiano si dilatarono come scodelle. Per una volta, era
rimasto senza parole.
«Ho imparato a conoscerti, ormai,» gli fece a bassa voce. «Ed ora che ti conosco, non ho più paura di
te.»
Signar rise, calando sulle spalle di Rhalgorn una pacca che avrebbe ucciso un bue. «Ma nessuno ha mai
avuto paura di Sua Grazia, qui presente,»
fece. «Glielo facevamo credere, per non avvilirlo.»
«Huh!», ringhiò lo Stygiano.
«Mia signora,» continuò Signar, con qualche difficoltà a guardare Corysia negli occhi. «Lo dirò io, perché
devo farlo. Fra tutti sono stato il solo che ha pensato... che ha...»
Corysia provò a guardarlo con occhi severi, ma non riuscì a non sorridere.
«Lo so quello che hai pensato, Signar. Non hai bisogno di dirmelo.»
Scosse la testa. «Io stessa, non so chi abbia tradito. Gaius è stato catturato quasi subito: eravamo
appena usciti dalla sua casa. Io sono riuscita a fuggire, a stento. Non so se ci stavano aspettando di
proposito, o se si sono imbattuti in noi per pura sfortuna da parte nostra. Da quello che ho visto, Aldair,
il Tiranno non ha bisogno di traditori tra le fila dei suoi avversari. I suoi occhi e le sue orecchie sono
ovunque, e ormai tutti lottano per disputarsi i suoi favori.» Tremò, e la strinsi più forte. Davvero, Corysia
aveva appreso molte cose in un tempo brevissimo. Aveva raggiunto suo padre fuori città, e anche se lui
non era riuscito a capire per quale motivo la figlia avesse abbracciato la causa dei suoi rapitori, tuttavia il
vederla viva era stato motivo sufficiente per credere alle parole di lei. Sono sicuro che Corysia era stata
chiara nel sottolineare come in gioco ci fosse molto di più che le vite di tutti noi. D'altra parte, la facilità
con la quale Fabius si era impadronito di Rhemia, parlava per lei. Suo padre le aveva promesso di
raggiungere l'Imperatore e di informarlo, anche se l'impresa era difficile, dato il momento, sia pure per
chi ne aveva sposato la sorella.
«Qualsiasi cosa accada,» concluse Corysia, «tornerà con quante forze avrà potuto raccogliere. Ma ho
paura che non avremo alcuna possibilità di vincere Fabius Domitius, se l'Imperatore non impegnerà nella
lotta tutte le sue Legioni.»
Aveva ragione, naturalmente.
Mi chiesi quante speranze avessimo che l'Imperatore Titus Augustus si fosse reso realmente conto della
situazione. Era comprensibile che esitasse, prima di prendere una decisione sanguinosa. Di certo, voleva
essere sicuro della piega che avrebbero preso gli eventi. D'altra parte, noi che gli offrivamo il nostro
aiuto eravamo nemici giurati dell'Impero, e ai suoi occhi non eravamo cèrto migliori di Fabius Domitius.
Rhalgorn ci avvertì che qualcuno stava venendo verso di noi lungo il corridoio.
«Sono dei nostri,» lo rassicurò Corysia. «Per il momento, almeno.» Torse la bocca. «Sono stati ingaggiati
e pagati con denaro sonante, e ci scorteranno fino a fuori di qui. Dopo di che, non potremo più fidarci di
loro. Una volta usciti, ciascuno dovrà badare a se stesso.»
Signar, Thareesh e Rhalgorn cominciarono a parlare fra di loro, ed io e Corysia avemmo un momento da
dedicare a noi due.
«Non so che cosa mai potrà venir fuori da tutto questo,» le dissi, «ma di una cosa sono sicuro...»
«So quello che vuoi dire, Aldair,» mi rispose lei dolcemente, «perché è
anche nei miei pensieri. Avremo molte cose da dirci, fra noi, quando potremo.»
La guardai negli occhi, e vidi che era proprio così, perché vi scorsi una luce che non vi avevo mai visto
prima.
«Arriveremo fino in fondo, Corysia,» le dissi, «perché i tuoi pensieri voglio conoscerli bene. Tutti,
nessuno escluso.»
TRENTA
Il gelido vento di mezzanotte ci parve il benvenuto, uscendo dalla fetida atmosfera della cella.
Fortunatamente, la città era immersa nel buio, fatta eccezione per alcuni fuochi molto al di là della
corona di tetti che ci circondavano. I nostri complici temporanei si dileguarono rapidamente, con la
maggiore velocità possibile. Avevano l'argento in tasca, e con noi non volevano avere più nulla a che
fare. Rhalgorn e Thareesh erano favorevoli a drastiche misure, tali da assicurarci che non sarebbero
andati da Fabius per cercare un altro guadagno, ma Corysia si oppose decisamente. Aspettammo,
all'ombra di un muro altissimo. A mano a mano che i miei occhi si abituavano all'oscurità, mi rendevo
conto che si trattava dello stesso muro che avevo visto, da diversa posizione, dalla finestra della sala
nella quale avevo parlato con Fabius. Alzando lo sguardo, vidi quella stessa finestra, che dal buio mi
fissava come un'occhiaia vuota. Dopo un'eternità, il cortile si animò di ombre, e gli amici di Corysia si
avvicinarono a noi. Lei corse loro incontro, e in seguito a un cenno senza parole, Signar si allontanò con
mezza dozzina di soldati per andare a liberare il nostro equipaggio, tenuto prigioniero in un'altra ala
dell'edificio. Corysia mi venne incontro, seguita da un Rhemiano dall'aspetto imponente.
«Voi due vi siete già incontrati, credo, in circostanze diverse dall'attuale,» mi disse. Nella sua voce
avvertii un'insolita indecisione. Ne compresi il motivo, quando potei scorgere il volto del nuovo venuto.
Aveva ragione. Ci eravamo già conosciuti, anche se non bene. Si chiamava Marcus Sabinus, e quando
l'avevo visto l'ultima volta era fermo, livido di rabbia, su una punta rocciosa della costa, mentre
alzavamo le vele per allontanarci dalla Gaullia. Prima di allora, avevo combattuto contro di lui nelle
foreste di Duroctium dopo avergli strappato Corysia dalle mani.
«Avevi detto che ci saremmo incontrati ancora,» gli ricordai, «ed è successo. Sono sicuro che il modo
non fa piacere a te quanto non lo fa a me. Tuttavia, ti sono grato per l'aiuto che ci dai.»
«Puoi ringraziare la mia Signora per questo,» mi rispose, rigido e duro come una roccia. «Se fosse stato
per me, avrei preferito incontrarti in un modo ben diverso.»
«Marcus...»
Il soldato si volse verso di lei.
«Mia Signora, tu sai che ti sono fedele, e obbedirò senza discutere ai tuoi comandi e a quelli di tuo
padre. Ma non puoi chiedermi più di questo.»
Corysia tacque.
Parlai con lui senza timore dei nostri piani. Gli spiegai quanto fosse importante riuscire a catturare
Fabius se possibile, anche se altre azioni sembravano avere la precedenza. Quando gli menzionai la
scatola di metallo nero che Fabius aveva rubato, il suo volto si irrigidì. Si alzò per conferire brevemente
con i suoi ufficiali, quindi tornò presso di noi.
«Corre voce che ci sia un tesoro che l'eretico custodisce con la massima cura. Forse, però, non è lo
stesso oggetto di cui tu parli.» Mi fissò con oc-chi gelidi. «È realmente di grande valore? Te lo chiedo
perché, se decidessimo effettivamente di conquistarlo, metteremmo in gioco molte vite, e molti uomini
valorosi morirebbero.»
«Non è un tesoro,» gli spiegai. «È una cosa che permetterebbe a Fabius Domitius di distruggere la tua
patria e tutta la tua gente, se decidesse di farlo. Non posso spiegarti il modo, ma sii certo che dico la
verità.»
Marcus rivolse un'occhiata a Corysia, quindi mi fece un breve cenno di assenso.
«È lì,» disse, puntando il dito, «in quella torre. C'è una forte guarnigione. Anche uccidendo le sentinelle
esterne, quelle che vigilano all'interno dell'edificio se ne accorgerebbero, e darebbero l'allarme. E poi,
anche così
non avremo ottenuto nulla, perché è impossibile penetrare nell'edificio senza macchine da assedio. È
troppo ben costruito per essere conquistato da un pugno di soldati, privi di equipaggiamento.»
«Tuttavia, dobbiamo trovare il modo,» gli dissi.
Mi fissò, e nei suoi occhi mi sembrò di cogliere un'ombra di rispetto.
«In tal caso,» rispose, «lo troveremo.»
Liberato l'equipaggio, il nostro numero crebbe, ma avevamo poche armi. Solo i soldati di Marcus ne
erano forniti.
«Rimedieremo,» disse Signar. «Presto ci saranno guerrieri che non avranno più bisogno delle loro
spade.» Dal buio, gli occhi di Rhalgorn scintillarono in risposta.
Marcus Sabinus aveva parlato con cognizione di causa. La torre nella quale era custodita la Sentinella
dell'Uomo appariva davvero inespugnabile. Tuttavia, i suoi costruttori non avevano tenuto conto
dell'agilità dei Nicieani, capaci di arrampicarsi come ragni su qualsiasi struttura costruita da qualsiasi
razza.
Sotto i nostri occhi Thareesh si inerpicò, insieme con due compagni, lungo la torre, sfuggendo alla vista
delle sentinelle, e scomparve nel buio. Anche se non potevamo più scorgerli, sapevamo che erano lì,
forme sottili schiacciate contro la pietra, pronte a usare ogni minimo appoggio, anche là
dove per nessuna altra creatura al mondo ci sarebbe stato un appoggio sufficiente. Marcus osservava in
silenzio, e avrei dato molto per conoscere i suoi pensieri. Corysia mi stava accanto, con le mani chiuse
sul mio braccio. La cosa non passò inosservata, e chiaramente non era gradita al Rhemiano. Non so dire
se Corysia si era resa conto dei sentimenti di quest'ultimo, ma certo essi travalicavano il semplice senso
del dovere.
Dalla torre non veniva alcun suono. I Nicieani non fanno mai molto rumore; soprattutto, poi, quando la
loro intenzione è di spargere sangue. Quando la porta pesante si spalancò davanti a noi, eravamo pronti.
Le sentinelle non aspettavano certo di essere affrontate da verdi forme scagliose scaturite dal buio, e
riuscimmo a sopraffarle senza fatica, affrontandole da due lati, noi da una parte e i Nicieani dall'altra.
Mentre il grosso conquistava la torre, Marcus Sabinus inviò una pattuglia verso le stalle, che risultarono
poco vigilate. Ben presto avevamo otto cavalli e un carro, che utilizzammo per trasportare la pesante
scatola di metallo.
Anche se non potevamo certo essere definiti una forza imponente, né
rappresentavamo un ostacolo serio per qualsiasi contingente militare ben organizzato, tuttavia ormai
eravamo tutti armati, e il nostro morale era alle stelle. E in nostre mani c'era la Sentinella dell'Uomo.
La realtà, tuttavia, non tardò a manifestarsi.
Un grido dalle nostre sentinelle ci mise in allarme. Una compagnia di soldati fedeli a Fabius stava
facendo a pezzi una delle nostre pattuglie presso la torre. Quando arrivammo, il combattimento era in
pratica finito.
«Mi sembrava strano che tutto procedesse così bene,» ringhiò Signar. Alzò una pesante ascia da guerra,
e si preparò a lanciarsi, insieme con Rhalgorn, attraverso la corte. Gridai loro di fermarsi.
«Non andiamo a cacciarci in combattimenti, a meno che non sia indispensabile,» dissi. «Non possiamo
permettere ai soldati di Fabius di tenerci impegnati. Per prima cosa, dobbiamo pensare a mettere al
sicuro la scatola nera.»
Rhalgorn annuì, riluttante. La sua spada era già coperta di sangue.
«Il nostro piccolo guerriero ha ragione, Vikoniano,» disse. «D'altra parte, senza rinforzi non
resisteremmo a lungo in questa posizione.»
Marcus Sabinus ci raggiunse al galoppo. I ferri del suo cavallo traevano scintille dai ciottoli della strada.
Era un legionario esperto, e aveva capito bene la situazione delle forze in gioco.
«Prenderemo posizione laggiù,» disse in tono cupo. «Raduna in fretta la tua gente. Ancora un minuto, e
resteremo presi come topi in trappola.»
Scomparve, lasciandosi alle spalle in clangore di ferro.
I soldati di Fabius erano ormai tutti all'erta. Sciamarono nella corte bramosi di sangue, trovando ampie
occasioni per spillarlo. Con un secco co-mando e un gesto con la spada, Marcus ci guidò fuori delle
porte, attraverso le strade. I soldati a piedi andavano avanti, seguiti dal carro, mentre i pochi a cavallo
cercavano di fare il possibile per rallentare i nemici. Ma poterono fare ben poco, e presto ci trovammo in
piena ritirata attraverso le strade di Rhemia. Un legionario cadde vicino a me, la gola trafitta da una
freccia. Voltai il mio cavallo per aiutare un grosso Vikoniano dell'equipaggio, ma i soldati mi respinsero
indietro. L'ultima cosa che vidi del poveretto, fu una schiena enorme, tutta rossa di sangue. Dalle grida
che sentivo, fui certo che in molti l'avevano accompagnato nel Lungo Viaggio.
«Il ponte!» mi gridò Marcus nelle orecchie. «Se arriveranno rinforzi, non potranno venire che da lì!»
Spronò il cavallo, facendo volare all'intorno pezzi di armatura e membra tagliate. Guardai nella direzione
che mi aveva indicato, ma non vidi nulla. La tenebra gravava su tutto. Combattevamo nel buio, in una
carneficina sanguinosa e terribile, senza alcuna certezza di poter distinguere i nemici dagli amici.
Qualcuno mi afferrò un braccio. Mi voltai, e per poco non divisi in due Rhalgorn con un fendente. La sua
faccia era lacera e insanguinata, ma era vivo, e a cavallo. Dietro di lui si stringeva Corysia, con gli occhi
dilatati dalla paura.
Cercò di dirmi qualcosa, ma le sue parole si persero nel frastuono della battaglia. Puntò con il braccio, e
guardai verso il punto che mi stava accennando. Il ponte!
Un grande arco di pietra si stendeva su un settore della città, e dall'altra parte... nulla. Mi resi conto,
allora, che era inutile attendere aiuti da quella direzione, perché non sarebbero venuti. Forse
l'Imperatore aveva fermato il padre di Corysia. O forse Fabius era riuscito a intercettarne in qualche
modo le truppe. Forse, i suoi soldati stavano lottando per la vita a poche strade di distanza, e noi non
riuscivamo neppure a sentirne le grida. Qualcuno incendiò la strada dietro di noi. Il fuoco si alzò a
lambire il cielo. Le truppe del Tiranno gridarono di giubilo, e avanzarono verso di noi. Le fiamme
splendevano sui loro elmi e danzavano sulle loro spade. Guardai davanti a me e vidi Corysia. Rhalgorn
l'aveva posta sul carro, al centro del ponte. Era viva, e la Cosa fabbricata dall'Uomo era ancora nelle
nostre mani. Ma a che cosa ci sarebbe servita, se fossimo tutti morti davanti ad essa?
Non c'era tempo per pensare. Un soldato mi venne addosso, poi un altro. Il mio ferro si scontrò con altro
ferro, e la violenza del colpo quasi mi paralizzò il braccio fino alla spalla. Colpii l'uomo sull'elmo, e
approfittai del suo stordimento per infilargli la spada fra le costole. Cadde senza un grido. Un dolore
improvviso mi trafisse una gamba, e mi fece vacillare. Gridai, fermai il cavallo, e mi tolsi dalla gamba una
lama che una mano non vista vi aveva conficcata.
Un colpo alle spalle, e mi trovai a terra, con gli occhi fissi al cielo. Il cavallo era sopra di me, con il ventre
squarciato, lanciando l'ultimo nitrito della sua vita.
Vidi Rhalgorn che seminava morte, veloce come il lampo, tanto che occhi normali non riuscivano a
scorgerlo. Signar si levava, nero e terribile, contro le tenebre, mentre i Rhemiani lo stringevano ai fianchi
come sanguisughe. Se li scuoteva di dosso agitando come una furia l'ascia d'acciaio lorda di sangue, che
si apriva la, strada attraverso barriere compatte di carne; ma sempre i legionari di Fabius gli erano
addosso. Un soldato basso e robusto mi venne incontro correndo come una furia. Mi alzai barcollando,
caddi, mi alzai di nuovo, e lui fu sopra di me. Il suo volto si curvò sul mio, e mi trovai a fissare un singolo
occhio nero, incastrato in un muso sfigurato da una cicatrice orrenda. Lo vidi iniettato di sangue e nero
di morte.
Cercai di tenerlo a distanza, con il braccio che si faceva sempre più pesante, tanto da non riuscire
neppure a sollevare la spada, Mi sembrava di menar colpi a un albero con un sacco vuoto. Il mio
avversario non era solo. Altri suoi compagni avevano fiutato l'odore del sangue, ed erano venuti a dargli
man forte.
Da qualche parte, Marcus Sabinus lanciò un gran grido attraverso la notte; disse qualcosa, ma non seppi
mai che cosa. Il mio avversario e i suoi compagni mi stringevano da presso. Un'ombra rossa mi velava gli
occhi, e scossi la testa, facendo spruzzare carne e sangue. Se mi avesse raggiunto un altro colpo - pensai
- per me sarebbe stata finita. Ero a terra, e i miei nemici erano sopra di me, le facce ghignanti, le spade
levate.
«Rheif!»
No, ricordai: Rheif era morto, dormiva in pace fra le colline di Albion.
« Rhalgorn! Signar, a me! »
La mia bocca formulava le parole, ma non usciva alcun suono. I tronchi assassini ghignavano,
sollevavano le spade per il corpo fatale. I ghigni si spensero.
L'occhio singolo e nero si dilatò, un grido emerse dalla gola del suo pro-prietario. I suoi compagni
indietreggiarono, con lo sguardo fisso. Uno di essi lasciò cadere la spada, poi un altro. Soldati vicini, che
non avevano preso parte al nostro combattimento, impallidirono, gettarono le spade e si diedero alla
fuga.
Infine, vidi anch'io la fonte di quel terrore. Una cosa che torreggiava sopra di me, pallida, scintillante,
come uno sciame di lucciole in una notte estiva.
Ancora una volta, come avevo già fatto in precedenza, aprii la bocca per parlare, ma non udii alcuna
parola. Era me... e non era me. Oscillò, si fece più luminosa, impallidì di nuovo, e mosse un passo
esitante, come se i suoi piedi calcassero un terreno non di questo mondo.
In quel frangente non mi fermai a chiedermi per quale motivo quell'Aldair-fantasma si trovasse lì. C'era
e, per il momento, la sua presenza mi aveva liberato dai miei nemici. Stringendo la spada, mi feci forza,
mossi qualche passo, poi cominciai a correre. Rhalgorn mi raggiunse sul ponte.
«Dov'è Corysia?», chiesi. «E Thareesh? E Signar, e gli altri?»
«Non lo so,» mi rispose, «Morti, vivi... Aldair, qui c'è qualcosa che...»
Barcollò, poi si riprese e mi strinse il braccio, spingendomi attraverso il ponte.
«No!», gridai, liberandomi dalla sua stretta. «Non possiamo lasciarli qui!»
Chi?» fece Rhalgorn, fissandomi con occhi di fiamma. «Lasciare chi, Aldair? Sono morti tutti... tutti!»
Ma già non lo ascoltavo più. Ero lontano, mi ero lanciato di nuovo nel cuore della battaglia, urlando il
nome di Corysia. Ma non riuscivo ad avanzare, bloccato da un muro di carne e di sangue.
«Corysia!»
Un grido terribile si levò dietro di me. Un'onda di soldati di Fabius aveva rotto le nostre linee e stava
avanzando verso di me. I difensori cercarono di chiudere loro la strada, ma c'era poco da fare. Non
avevano speranze, e lo sapevano. Mi feci forza, mi rizzai su me stesso, alzai la spada, e attesi.
« Aldair! »
La voce di Corysia mi raggiunse, levandosi al di sopra di ogni altro suono. Mi volsi e la vidi: era davanti a
me, sul ponte. Sentii il sangue che mi si gelava nelle vene. Mi mossi, ma sapevo che non sarei mai
riuscito a raggiungerla. Sapevo che sarebbe accaduto qualcosa di tremendo, e che non avrei potuto fare
nulla per impedirlo.
Il guidatore del nostro carro era morto, e il cavallo era quasi impazzito per la paura. Faceva oscillare il
carro paurosamente, urtando prima un lato del ponte, poi l'altro. Corysia cercò di afferrare le redini; la
bestia si impennò e la fece cadere al suolo. Poi, con un ultimo, terribile nitrito di paura, si liberò dei
finimenti e corse via nella notte. Una ruota del carro si inclinò, e scivolò fuori del mozzo. Il carro si
inclinò verso il suolo, rimase sospeso per un secondo sul nulla, poi precipitò nelle tenebre, con il suo
carico. Rimasi ritto al centro del caos, senza far nulla. Perché non c'era nulla che potessi fare, se non
attendere la fine del mondo...
EPILOGO
L'alba vide un Sole color del limone toccare un mare grigio come il ferro. A Nord, una striscia di color
fuliggine tingeva l'orizzonte, e seppi che stavamo passando al largo della costa di Rhemia. Ben poche
navi ormai viaggiano per queste acque, e quelle che lo fanno badano a tenersi il più
possibile lontane dalla terra. Perché ormai la città è morta: un deserto di strade vuote e di finestre che si
aprono sul nulla.
Si raccontano molte storie su quella che fu la grande capitale dei Rhemiani, e alcune di esse sono vere.
Un mercante mi ha detto che, pur tenendosi ben distanti dall'anello della paura, quando si guarda la
città si possono vedere creature orrende che strisciano fra le sue torri. Credo che mi abbia detto il vero.
Tutti i mostri che si annidano nel cuore di tutte le creature, sono radunati in quel luogo, perché l'occhio
rosso dell'Uomo è aperto nelle strade di Rhemia.
Ho appreso che i frammenti distaccati dell'Impero si stanno nuovamente ricongiungendo, e che il potere
centrale ha ora sede al Nord della penisola, presso la Gaullia. Dubito tuttavia che il nuovo edificio possa
dimostrarsi solido. Rhemia, nel suo passato, si è fatta troppi nemici. Tutti, hanno atteso a lungo per
assaporare questo momento.
Quanto a me, mi rendo conto di aver giocato un ruolo non secondario nella caduta di due grandi civiltà.
Forse, quanto è successo sarebbe successo ugualmente, anche senza di me, ma non posso esserne
certo. Le vicende alle quali ho assistito - mi chiedo - si sarebbero svolte allo stesso modo, se non fossi
fuggito dall'Università di Silium, e non fossi caduto nelle mani dei Nicieani? Se non fossi entrato a
Duroctium, e non avessi mai visto Corysia?
Ma è inutile perdersi dietro congetture vane. Come si dice negli Eubironi, non si può orinare giovedì
prossimo. Certe cose vanno affrontate subito. Comunque sia, so per certo che le cose non sono andate
secondo i piani dell'Uomo. Fabius Domitius aveva torto. La nostra ribellione non era prevista nelle
finestre magiche di Albion. Se non ne fossi profondamente convinto, non avrei alcun motivo di vivere la
mia vita, in un mondo come questo. Per due volte ho incontrato il mio stesso fantasma. È una cosa che
non comprendo, ma che è accaduta. Ho meditato a lungo su questo, ed è stato Rhalgorn a fornirmi le
parole migliori per tradurre i miei pensieri. La cosa non deve sorprendere, perché gli Stygiani sono vicini
agli dèi della terra, e conoscono cose di cui raramente parlano. «Ci sono mondi e tempi che si mescolano
con il nostro,» mi ha detto un giorno. Forse è così. E forse c'è
un tempo e un mondo in cui sono quell'altro me stesso che mi è apparso due volte. Che ne sarà, in quel
tempo, dell'Aldair che io sono ora? Rhalgorn non ha risposte per questa domanda, e io neppure. Lo
Stygiano è stato ben poco cambiato dalle nostre avventure. Ha cicatrici sulla testa e sul petto, il suo
lungo muso sembra un po' asimmetrico. Ma è ben difficile cambiare uno Stygiano, finché è vivo.
Thareesh ha subito una dolorosa ferita ad una coscia, e ha perso un pezzo di coda... anche se, a sentir
lui, l'ha persa tutta. Quanto a Signar, sulla sua mole ci sono larghe chiazze nelle quali la pelliccia non
ricrescerà mai più, e il suo braccio destro non funziona più come prima. La sua forza, tuttavia, è rimasta
intatta, ed è in grado di maneggiare la scure, impugnandola con la sinistra, meglio di cinque guerrieri
messi insieme. Anche Corysia ha avuto le sue ferite, come tutti noi, pur non avendo levato armi in
Rhemia. Sono piccole cicatrici, e ai miei occhi non ne offuscano certo la straordinaria bellezza. Né la
offuscano agli occhi di Rhalgorn, che le vuole un bene immenso, anche se a modo suo. Non
ammetterebbe una cosa del genere neppure sotto tortura, ma io non vorrei trovarmi al posto di una
qualsiasi creatura che facesse un torto a Corysia in sua presenza. Per conto mio, ho perso un orecchio,
anche se non so dire quando è successo. I miei compagni mi hanno offerto molti suggerimenti per
rimediare, in gran parte centrati sull'opportunità di tagliarmi anche l'altro per ripristinare l'equilibrio. È
un miracolo che siamo riusciti a uscire vivi da Rhemia; gran parte dell'equipaggio dell' Azhir è rimasto
laggiù, nella città maledetta, ucciso durante la battaglia presso il ponte o nel corso della tempesta di
paura seguita all'aprirsi della scatola nera. Quando emergemmo dal cerchio di terrore, eravamo ormai
quasi alla follia; ci vorrà molto tempo prima che si cancelli in noi il ricordo di quella notte. Non so che
cosa sia successo ai nostri nemici, o al coraggioso Marcus Sabinus e ai suoi soldati. Qualcuno è riuscito a
scappare, sicuramente, come noi. Ma poche persone, dolorosamente poche, sono riuscite a uscire dalla
città. Da quella notte, Corysia non ha più menzionato suo padre, né l'ho fatto io.
Vorrei poter dire di essere diventato più saggio grazie alle mie avventure. Di possedere una
comprensione più profonda delle astuzie dell'Uomo. Ma nelle mie mani ogni trionfo sembra tramutarsi
in tragedia, e alla fine mi sembra di non aver guadagnato nulla. Può darsi che, alla conclusione di tutto,
questi dolori si rivelino nel loro complesso un bene. Ma oggi è difficile poterlo affermare. Una sola luce
rischiara il mio cure, mentre facciamo vela per gli Stretti e per il mare aperto. Da tempo non sentivo più
intorno a me la presenza del veggente; l'altra notte, invece, in un sogno, ho avuto la vivida sensazione
che mi fosse vicino. Mi sono visto in un luogo che non avevo mai visitato prima. Era in una regione
grande, vastissima, molto ad Ovest di Albion, al di là del Mare delle Nebbie. So che quel luogo esiste: ne
ho visto i contorni segnati sulla sfera che trovai fra gli Avakhar e persi nella Grande Desolazione. Sono
certo che quell'oggetto mostrava la vera forma del mondo, e che una nave, dopo aver attraversato il
Mare delle Nebbie non precipiterebbe nel vuoto, ma approderebbe a quella nuova terra. Signar è
d'accordo con me, mentre Rhalgorn non ne è troppo sicuro.
Per ora, le nostre vele sono tese da una brezza robusta, e dietro di noi c'è
una lunga scia di spuma. Abbiamo tempo da dedicare alla birra, ai buoni compagni, e ad altre piacevoli
diversioni. È difficile immaginare che sulla terra ci sono creature che non trovano gioia in cose del
genere. Eppure, molti le trascurano in favore di cose che valgono di meno, altri le dimenticano per dare
la caccia a cose che - secondo loro - valgono di più. In verità, credo che sia proprio impossibile soddisfare
tutti... FINE
FRANCO FORTE
LA SPADA DEGLI DEI
(1985)
FRANCO FORTE E IL CICLO DI OROS
È ora la volta di Franco Forte e del suo Ciclo del Mondo di Oros. Infat-ti, proseguendo nella proposta che
sto portando avanti circa gli autoriitaliani di fantasia eroica, eccomi qui a presentarvi un altro
giovanissimoautore che spazia in modo assai riuscito in questa particolare tematica perla verità assai
prodiga di scrittori quanto mai interessanti.Franco Forte - prendendo a prestito una definizione
dell'amico Renatod'Aquino -non è uno dei Bronzi di Riace, sebbene una delle costruzioniche ancora
sgocciolano d'intonaco fresco. È infatti giovanissimo (fre-quenta il primo anno della Facoltà d'Ingegneria
a Milano), ma questa suagiovane età non gli ha certo impedito di esprimersi in maniera assai felicesia
nel campo della fantascienza che in quello della fantasy.Per quanto attiene la fantascienza ha pubblicato
diversi racconti su fan-zines ed uno, Mefistofele, di recente apparso sulla Rivista SF.. ere, gli havalso molti
consensi da parte degli appassionati per il garbato tono dihumour che vi ha saputo infondere.
Ma se la riuscita in campo fantascientifico è stata positiva, a mio avvisoil settore che gli è sicuramente
più congeniale è quello della fantasy e, inparticolare, quello della heroic fantasy. Ha composto infatti per
questoparticolare genere di narrativa una serie di racconti tutti ambientati nelMondo di Oros, che hanno
il pregio di una esposizione piana ed accatti-vante che avvince il lettore dalla prima all'ultima pagina.Il
tratteggio dei vari personaggi è portato con competenza ed acume taliche, se non vi avessi rivelato la
giovane età del nostro autore, sareste si-curamente portati dopo la lettura ad attribuirli ad uno scrittore
avanti congli anni e con l'esperienza di vita.
Dopo questo racconto (che è il primo in ordine cronologico del Ciclo)ve ne presenterò un altro nel
secondo volume dell'Enciclopedia dellaFantascienza dedicato alla Heroic Fantasy Italiana, MAGIE E
STREGO-NI, che vedrà la luce entro il primo semestre di quest'anno. Un altro poi lopubblicherò sulla
Rivista SF.. ere per cui spero, entro un lasso di temporelativamente breve, di farvi conoscere un po' più
approfonditamente sial'autore che questa sua Saga. Perché, ne sono certo, non mancherà di pia-cervi.
Gianni Pilo
PROLOGO
Come vi furono ere remote e splendenti civiltà ormai dimenticate, così
la mutevolezza dell'Universo ha saputo creare luoghi e situazioni in cuil'insolito ha usurpato il trono al
quotidiano, l'impossibile ha potuto pie-namente esprimere il suo fascino represso, le fantasie si sono
solidificatein realtà dalle loro auree immaginarie. Ogni possibilità è contemplata,ogni teoria è
trasformata in legge nelle sconfinate distese dell'infinito. Daqualche parte come punto invisibile coi suoi
parametri d'esistenza, pro-spera Oros, un pianeta su cui il Caos ha saputo estendere parte della
suamorbosa influenza; un mondo ove gli Dei hanno sconfinato dalla fantasiadegli uomini, per lottare
contro il Male a salvaguardia dell'Ordine. Que-sta è la storia di Fherd e Whitesnake, i due più grandi
campioni che lotta-rono al servizio del Bene supremo.
1
Il sole sorgeva a Levante, immenso in una coltre di tinte cupe. Sottili nubi grigie ne esasperavano i colori
scarlatti, proiettando un morbido alone ombroso fin sulle bianche cime delle alte montagne.
Fherd ammirava affascinato il rinascere della vita, dopo l'oblio della notte. Era giunto in terre di cui non
supponeva nemmeno l'esistenza. Vagabondava da più di un anno attraverso deserti, valli verdeggianti,
catene montuose dall'apparenza impenetrabile.
Talvolta tornava con la mente alla sua città natale, alle fiorenti terre che aveva abbandonato. Allora le
lacrime tornavano a scorrergli sulle guance, mentre i pugni si stringevano e i muscoli si contraevano, al
ricordo di un'ira che superava il dolore.
Dopo più di un anno, ancora non aveva dimenticato la sua follia, l'assurda ambizione che lo aveva spinto
a sacrificare la vita dei suoi compagni, della sua famiglia, in nome di un vanitoso progetto di libertà a cui
i Signori di Thur non avevano concesso la loro benevolenza.
Non aveva mai compreso quale fosse il reale valore dell'amicizia, del-l'amore, sino al giorno in cui vide
crollare il suo mondo coi propri occhi. Ora scontava i suoi errori, viaggiando solo in terre ignote, con la
sola compagnia di un ricordo straziante.
Strinse la vecchia lancia ormai logora che lo aveva accompagnato in mille delle sue inutili battaglie
contro il potere e la bramosia di esso, in difesa di quella minoranza di persone oneste che avevano
persino paura a lamentarsi per il dolore sofferto.
Aveva abbandonato la Stilita perché le sue lotte avevano contribuito a sterminare con maggior celerità
quegli afflitti che si affidavano alle sue parole, quei disgraziati che la disperazione costringeva a seguirlo
nelle sue crociate, a fidarsi ciecamente della forza che il suo fisico possente ispirava. Ma è la storia
stessa ad insegnarci che un uomo solo non basta ad arginare la sete di potere dei potenti, e fu così che
le sue parole di protesta causarono più morti tra gli innocenti di quanti se ne videro nel passato, seppur
doloroso.
Fherd rabbrividì al pensiero, e il suo grande corpo muscoloso tremò come una foglia in balia del vento.
Con un urlo di rabbia spezzò in due il legno nodoso della sua lancia, e con essa il passato.
Quando il volto gli si fu asciugato delle lacrime, riprese il cammino e si diresse a passo sicuro verso la
valle in cui cadeva il sole. Pigre spirali di fumo si levavano verso il cielo, obliquamente, tardando a
dissolversi nella totale mancanza di vento.
Fherd s'immobilizzò, pervaso fin nel profondo dell'anima da un crescente senso d'apprensione. Le spirali
di fumo rivelavano la sicura presenza dell'uomo tra quelle montagne. Aveva pensato spesso a quel
momento; a quando sarebbe tornato ad immergersi tra i suoi simili. Non poteva evitarlo, la sua mente
non avrebbe sopportato a lungo l'eremitaggio. Eppure la consapevolezza dalle sue debolezze, della forza
delle sue illusioni, lo tratteneva. La sua città e la sua gente avevano pagato il prezzo dei suoi sogni; non
voleva procreare altra infelicità.
D'altronde, Fherd non sarebbe riuscito a sopravvivere in una forma di segregazione autoimposta. Il suo
spirito era come quello di un ocras dalle quattro ali: doveva essere libero; libero di muoversi negli ampi
spazi della vita come il grande rapace bianco volava indisturbato nei cieli di tutta Argat, e in ugual misura
sentiva di aver bisogno della compagnia dei suoi simili, perché in fondo era per essi che aveva
combattuto e sofferto. Con improvvisa decisione cessò definitivamente di imporsi quello sfrenato
volontarismo che lo aveva portato tanto lontano dal mondo che lo aveva allevato, e si diresse con
rinnovato vigore verso il luogo che dava i suoi natali alle spirali di fumo.
Camminò due giorni interi, prima di riuscire a raggiungere la strana costruzione: grossi blocchi di roccia
intagliati e posti l'uno contro l'altro in quadrato sorgevano accanto ad una capanna di fango e bambù,
tanto semplice quanto robusta all'apparenza. Uno dei grossi blocchi possedeva un'apertura nel mezzo,
attraverso cui si scorgeva lo splendore di giocose fiammate. Una colonna di fumo si alzava verso il cielo
azzurro da una bocca scavata nella roccia posta sulla sommità della costruzione.
Un vecchio sedeva innanzi alla riverberante apertura, ed ogni tanto, con apparente regolarità, vi
immergeva un po' di legna che raccoglieva da una ordinata catasta che aveva accanto.
«Salve vecchio.»
L'uomo anziano non si mosse. Con voce bassa e pacata si limitò a dire:
«Ti ho sentito arrivare, straniero. Ti accolga il mio benvenuto.» Posò la mano su un grosso ceppo «Siedi
accanto a me.»
Fherd si sistemò vicino al vecchio, assaporando il tepore che usciva dalla grande costruzione.
«Perché alimenti il fuoco in questa grande cella?» chiese «Al rame non occorre tutto questo calore per
potersi uniformare ai tuoi desideri.»
Il vecchio si voltò finalmente a guardarlo. Il volto rugoso segnato dalle cariche di una lunga vita intensa
era celato quasi interamente dai lunghi capelli e dalla folta barba bianca che gli scendeva fin sulle
ginocchia. I suoi occhi grigi scrutarono profondamente il volto segaligno di Fherd.
«Non è il rame il materiale che io modello. L'eremitaggio tra queste montagne mi ha donato la
possibilità di compiere studi accurati e di superare questo stadio inattivo. Credimi, straniero, sono
andato ben oltre.» Con un veloce movimento della mano destra alzò una manica della pesante tunica
grigia che indossava. Il braccio era orribilmente deturpato da una rugosa cicatrice. La pelle aveva
assunto un colore bruno, e la sua apparenza accartocciata dava l'idea che dovesse sfaldarsi da un
momento all'altro.
«Ho dovuto subire le conseguenze della mia sfida all'ignoto. Questo braccio non riesco a sollevarlo per
più di una spanna. Eppure non mi sono mai arreso. Ho sacrificato la mia vita nello studio del fuoco e
della fantastica arte del modellare i metalli, ed ora ne sono pienamente consapevole.»
Tornò a fissare le fiamme che lambivano voraci la legna nel forno e il suo volto assunse un'espressione
malinconica. «Quando ero poco più di un ragazzo, un maldestro predatore che cercava la ricchezza
nell'aridità di questa montagna, ricordo che mi trovai a passare per un caso del destino in questa valle
spoglia, in cui l'acqua sgorga a fatica dai rari pozzi che qualcuno si è preso l'inutile briga di scavare. In
uno di questi mi stupii di scorgere un olio nero, al posto dell'acqua, denso e dal sapore orribile. Quella
stessa notte gli dei vollero che i miei occhi di fanciullo assistessero a un grande prodigio. Mi ero coricato
da poco, quando una grande fiamma scese dal cielo con un boato assordante e sfolgorò in quel pozzo,
continuando ad ardere come per magia. Quando compresi il potere di quell'olio, ebbi tra le mani il sacro
potere del fuoco, poiché capii di poterlo alimentare a mio piacimento per il tempo di intere
generazioni.» Il vecchio si alzò e andò a raccogliere un otre che porse a Fherd. «Ecco l'olio di cui ti ho
parlato.»
Fherd esaminò affascinato lo strano liquido. «È con questo che mantieni sempre vivo il tuo fuoco?»
«Arde come la legna ma più della legna. Viene con me, ti farò vedere cosa sono in grado di creare col
suo ausilio.»
2
La piccola capanna tratteneva a stento gli umori mutevoli del tempo. Il susseguirsi delle stagioni aveva
lisciato il legno delle pareti ed indurito il fango che ne saldava le intercapedini.
L'arredamento era modesto, conforme alle abitudini del padrone di casa. Un tavolo sgangherato, un
paio di sedie fatte a mano senza l'evidente ausilio di utensili, una lunga panca ed un giaciglio con sponde
di legno scuro. Un enorme baule di legno attirava l'attenzione di chiunque mettesse piede per la prima
volta nella capanna. Bolish porse a Fherd una tazza di terracotta. «Bevi questo liquore. L'ho preparato io
stesso estraendolo da erbe che raccolgo sul monte Bara. È
molto forte.»
Mentre Fherd era intento ad assaporare il verde infuso d'erbe, Bolish estrasse un fagotto di stracci dal
capiente baule di legno. Depose l'involto ai piedi di Fherd. «Sei il primo uomo che non fugge la mia
presenza da quando il Dio della Fiamma si è manifestato in questa valle. Tu hai finalmente portato nel
mio cuore un po’ di felicità. Voglio contraccambiare la compagnia delle tue parole donandoti la cosa che
più
mi è cara ma che ormai non può essere più utile ad un vecchio come me.»
Svolse il fagotto, rivelando un largo fodero di cuoio nero raffinatamente intarsiato. «Le mie braccia non
sono più in grado di sostenere il peso di questa spada. Voglio che Belator sia tua.»
Fherd fissò meravigliato la lunga spada. Possedeva una strana forma, o forse era simile a tutte le altre
spade che lui aveva visto ma con qualche particolare indefinibile che rendeva stonato l'insieme dei
contorni e quindi la sua figura.
La sommità dell'impugnatura esibiva un pomo a disco, schiacciato quasi insensibilmente, troncato in
basso all'inizio dell'impugnatura. Il disco era inciso nel suo centro, dove spiccava una elaborata «B».
Il vecchio prese a descrivere la spada e le sue straordinarie caratteristiche: «Avrai notato certamente la
brevità dei bracci dell'elsa in confronto a quelli della maggior parte delle spade, almeno quando i bracci
sono diritti come questi.»
Certamente i bracci lunghi sembrano a tutta prima consentire una migliore difesa del braccio; di fatto
però, i colpi che scivolano lungo la lama trovano l'elsa anche se essa ha i bracci brevi, mentre questi
consentono di scansare qualche fendente che potrebbe colpire un elsa più lunga. Inoltre prova ad
estrarla: vedrai che la lunga lama di Belator è abbastanza larga da consentire potenti colpi di taglio, ma
nel contempo possiede una costola robusta che consente di colpire meglio di punta. Comunque, la
differenza essenziale sta soprattutto nel materiale della lama. Forza, prova a sollevarla. «»
Fherd esitò un attimo, poi allungò le mani deciso e affascinato. Il suo viso assunse un'espressione di
stupore quando fu costretto a contrarre con forza i muscoli per sollevare la spada. Quando l'ebbe
estratta dal fodero, spalancò la bocca e restò a fissarla attonito.
Bolish sorrise compiaciuto. «È la prima volta che vedi un materiale così
lucente, vero? L'ho scoperto io stesso su queste montagne. È un materiale fortissimo, indistruttibile, che
non può essere messo a confronto neppure col rame più resistente.» Il vecchio si alzò e accompagnò
Fherd con la spada fuori della capanna. Allungò il braccio destro, quello sano, seppur deturpato dai segni
della vecchiaia, ad indicare una grossa formazione rocciosa. «Provala contro quel masso.»
Fherd si avvicinò allo spuntone di roccia che sembrava emergere dal terreno come un fungo ai piedi di
un albero. Sollevò la spada sopra la testa, impugnandola con entrambe le mani e, dopo un attimo
d'incertezza, lo calò
con tutte le sue forze.
Si era aspettato che la lama si sfracellasse inevitabilmente in una miriade di frammenti, data la forza con
cui era avvenuto l'impatto, ma quella sorte capitò alla protuberanza rocciosa.
Il contraccolpo inaspettato gli strappò l'arma dalle mani col rischio di spezzargli i polsi. Il vecchio Bolish si
rammaricò con sé stesso: «Avrei dovuto avvertirti di essere più cauto. Non potevi immaginare che la
spada potesse resistere ad un simile urto. Adesso comprendi quale sia la sua formidabile potenza?»
Raccolse Belator con apparente disinvoltura e mostrò a Fherd il corretto modo in cui s'impugnava.
«Dovrò insegnarti a combattere con quest'arma... se lo vorrai, naturalmente.»
Fherd si illuminò in volto. «Certo che lo voglio.» Affermò, e strinse Belator con la forza della passione.
Il fluire armonico del tempo ebbe una contrazione in quell'ultimo trascorrere di stagioni tra i freddi
monti di Kermon, quasi volesse concedere a Fherd ogni secondo della sua vita perché l'apprendistato
che stava seguendo fosse il più completo possibile. I colpi di spada inferti al vento e il clangore del
metallo adamantino sul granito della montagna, si diffondevano con lunghi echi per i crepacci
insondabili del monte Baru, sino a raggiungere i preoccupati machen dei ghiacciai, il cui ringhio
sommesso sorgeva in tono di sfida alle urla di battaglia lanciate da Fherd. Il vecchio Bolish scrutava
soddisfatto l'accrescersi della muscolatura del suo discepolo, e con essa la sempre più fluida disinvoltura
con cui il giovane maneggiava la pesante spada. Sempre più spesso, quasi volesse raggiungere l'apice
prima dell'arrivo dell'estate, Bolish impugnava robusti bastoni e impegnava Fherd in stressanti duelli,
dimostrando una resistenza fisica del tutto inusitata per la scadente qualità delle sue membra
intorpidite dagli anni. O almeno questo era quello che credeva Fherd, il quale ben presto si accorse di
quanto fossero sufficienti al vecchio la sua estrema abilità nel maneggiare la finta spada di legno e la
conoscenza profonda di sottili trucchi, per compensare egregiamente la sua mancanza di pura forza
fisica. Ben presto, Fherd prese coscienza di quanto le astuzie del cervello possano rivelarsi più efficaci
dell'ira e della brutalità, anche se all'apparenza meno evidenti. E quando i primi raggi di sole presero a
brillare fastidiosi sulle distese ghiacciate del monte Bara, egli aveva imparato a correlare ogni
movimento del suo corpo con gli impulsi meditati suggeriti dal suo cervello, e Belator si era fusa come in
un tutt'uno col suo corpo, quasi fosse un terzo arto che egli aveva imparato a maneggiare con la stessa
disinvoltura con cui si reggeva in piedi. Fu allora, dopo che una nuova notte ebbe chiuso dietro a Fherd
l'ultimo giorno della breve primavera di Argat, che gli dei decisero di rivelarsi all'uomo. La capanna
scomparve in un batter di ciglia durante il sonno di Fherd, e la figura sottile di Bolish irruppe tra le donne
dai seni prosperosi che popolavano i suoi sogni comunicandogli queste parole: «La mia vita, come quella
di ogni altro essere vivente, era stata predestinata per questo evento. Ho vissuto in questa piccola valle
tra i monti aspettando il tuo arrivo come ultimo atto della mia esistenza, ed ora tornerò nella Valle Sacra
dell'Hyperion a prendermi cura degli dei che mi donarono la vita, e che forse vorranno concedermi una
nuova esistenza, in futuro, da qualche parte su Oros. Sono felice di aver reso un fedele servizio ai miei
padri; e tu ne sei il magnifico risultato. Ora debbo lasciarti, ma prima ascolta le parole che ti comunico
per bocca dei Signori di tutta Argat. Essi desiderano che tu parta per le terre dell'Ovest, in cerca del
villaggio di Mosul. Laggiù si unirà a te un altro tassello di quel mistico mosaico che è stato composto per
il tuo destino, perché gli dei ti hanno scelto per una missione, un fato che si addice solo a te, e che forse
è il più grande tra quelli che sono stati concessi ad un mortale. Ma non è questo il momento e il luogo
perché tu ne acquisti piena coscienza. Ora il tuo unico dovere è quello di raggiungere il villaggio di
Mosul, oltre la Contrada del Sole, ai margini inferiori del Deserto Occidentale. Non è soltanto un ordine
degli dei che ti sono padri, ma anche un consiglio che voglio darti di persona, perché ho fiducia in te e in
tutto quello che ti ho insegnato.»
Cessate che furono quelle parole, la voce di Bolish si fece sempre più
confusa, indistinta, e l'intera figura del vecchio si restrinse, sfumò, diventò
evanescente, finché comparve Belator fulgida come un astro nella notte, e quello che restava di Bolish
venne assorbito dal bagliore della sua lama lucente. Quando Fherd si riscosse dal sonno, una frase
riecheggiava ancora nella sua mente, appena distinta: «Io non ti lascerò, Fherd. La mia essenza
sopravviverà in Belator, e se tu non l'abbandonerai mai, con essa potrai avermi sempre presente».
Fherd spalancò gli occhi d'improvviso, turbato da quel ricordo che sfu-mava nell'irrealtà del sogno, e il
cielo stellato che poco prima incombeva sul suo capo gli fornì la risposta a tutte le sue domande. Non
era rimasto nulla di Bolish e di quello che il vecchio aveva costruito in una vita intera. La sola Belator,
profondamente infissa a terra accanto al suo giaciglio, restava a testimone della sua piena sanità
mentale.
Sempre procedendo verso Ponente, Fherd raggiunse una vasta e calda pianura, ricca di palme da datteri
e di loirash dalle polpose foglie verdi. Ricordò che Bolish gli aveva parlato di quella pianura, la Contrada
del Sole, malsicura a causa di certi predoni detti Cauranas. Il vecchio gli aveva spiegato che gli abitanti
della valle allevavano strani buoi, grandi e bianchi come la neve, con corna corte e gobba tra le spalle,
assai belli a vedersi e forniti di una forza spaventosa.
I Cauranas miravano puntualmente a quelle prede, attaccando i borghi durante le tempeste di sabbia
provocate dal Simun del Sud, quando nugoli di sabbia producevano spesso un'oscurità che si prolungava
anche per sette giorni di seguito.
Fherd rimase qualche attimo ad ammirare la" verde distesa di dolci colline e regolari campi coltivati a
rettangoli di qualche chilometro, poi voltò
le spalle alla tentazione trascinando con sé i due robusti pelagi da soma che aveva catturato ai piedi del
monte Baru, quasi che la sua fortuna fosse stata oggetto della benevolenza degli dei.
Gli animali maculati portavano sul dorso capienti bisacce che contenevano alcune botti di olio nero e
una scorta del prezioso metallo che aveva raccolto sotto la guida del vecchio Bolish.
Fherd aveva intenzione di aggirare la Contrada del Sole, per poi proseguire in direzione del Deserto
Occidentale. Se il sole discendente non lo ingannava, il villaggio di Mosul avrebbe dovuto trovarsi sul suo
cammino, ad una ventina di giorni di marcia sulla pista di Ponente. 3
Mosul prosperava nelle faide tipiche dei villaggi di frontiera, create da uomini rozzi, forti, dediti ad una
vita selvaggia di conquista, le cui speranze e illusioni infrangevano qualsiasi ostacolo eretto dalla natura.
Innumerevoli costruzioni di legno e fango si reggevano a stento sulle poderose radici della grande
montagna che qualche chilometro più a Nord sormontava il villaggio.
Fherd s'incamminò guardingo sull'improvvisato acciottolato della strada maestra, scrutando coi suoi
occhi castani ogni zona d'ombra e ogni pertugio nascosto dal buio. Conosceva i rischi e i pericoli cui
andava incontro l'eventuale viaggiatore che giungeva in villaggi come quello, in cui ognuno badava a sé
stesso con le sole proprie energie, senza potere contare sull'aiuto di alcuno. Delinquenti ed
approfittatori di ogni fatta frequentavano i villaggi di frontiera in maniera assidua, sicuri di non trovare
alcuna opposizione alle loro scelleratezze.
La sopravvivenza era destinata all'abilità personale del singolo individuo. Fherd localizzò
immediatamente la bottega del maniscalco e vi si diresse con passo spedito. I suoi pelagi avevano
bisogno di riposo e di abbondante foraggio, dopo il massacrante viaggio al quale li aveva sottoposti. Il
maniscalco, un uomo grasso dall'espressione ambigua, lo accolse senza una parola. Raccolse le brighe
dei due animali e li condusse nella stalla, sul retro della bottega.
Fherd restò in piedi ad osservare il forcone del maniscalco che lanciava mucchi di biada sotto i musi
spenti dei due animali.
Terminata quell'operazione, l'uomo parlò. «Fanno due piastre di rame per notte. Quando tornerai a
prenderli, pagherai.»
Fherd annuì col capo senza aggiungere alcun commento, e uscì dalla stalla.
Bighellonò per qualche minuto sotto il sole implacabile, poi decise di entrare in una delle numerose
locande in cui la gente si affollava per discutere dei propri affanni, o per ripararsi dal caldo e dalla
polvere sollevata nell'afoso pomeriggio.
Si fece largo coi gomiti tra la ressa di ubriachi e andò ad occupare un tavolo che sembrava vuoto.
Quando fu sulla scomoda sedia di legno, pensò
che qualcosa non andava come avrebbe dovuto, in quel locale. Improvvisamente avvertì la stonatura: si
trattava del tavolo a cui si era seduto. C'era un mucchio di gente, ancora col bicchiere in mano, che
restava ih piedi pigiata nel mezzo della sala ignorando deliberatamente i quattro posti liberi. Sembrava
quasi che tutti evitassero anche solo di avvicinarsi a quel tavolo. Fherd si riscosse da quei pensieri
quando si accorse che il silenzio era calato nella locanda e che una cinquantina d'occhi lo fissavano
sgomenti. Il locandiere arrivò di corsa, trafelato, sfregando nervosamente le mani in un sudicio
grembiule.
«Tabriz... Tabriz, il tavolo è occupato.» piagnucolò con voce preoccupata «Non può sedersi qui. La
prego...»
«Come sarebbe a dire?» chiese Fherd che non comprendeva una simile assurdità. «Non ho trovato
nessuno a reclamare i diritti per queste sedie.»
«Questo tavolo è riservato a Lane della lontana Seth.» la folla emise all'unisono un brusio di disagio
all'udire quel nome. «Potrebbe essere qui da un momento all'altro.»
«A quanto pare» rispose Fherd con un sorriso beffardo tra le labbra
«questo Lane è molto temuto nella Contrada del Sole. Io non lo conosco, ma non credo sia così grosso
da riuscire ad occupare quattro posti tutto da solo. Se vorrà, potrà sedere con me a questo tavolo.»
Un'agghiacciante risata si ripercosse a commento per tutta la taverna, agendo come uno spartiacque
nella folla impaurita. Un uomo comparve davanti alla porta.
«Ora mi conosci, straniero.» tuonò. «Sta a te giudicare se quel tavolo è
abbastanza grande per poterci ospitare entrambi.»
Il visitatore non aveva un aspetto rassicurante. Con un corpo grande e grosso più del doppio di quello di
Fherd, se ne stava in piedi a gambe larghe, con i pugni chiusi poggiati spavaldamente sui fianchi enormi.
Un'aurea quasi palpabile di forza animalesca si levava dalla sua figura. Un'espressione crudele traspariva
da un paio di occhi grigi sormontati da due cespugliose sopracciglia nere. I capelli, sudici e tagliati
approssimativamente con l'evidente lama di un coltello o di una spada, erano soffocati da un grosso
elmo di cuoio nero da cui spuntavano due sinuose corna d'avorio bianco.
La sagoma poteva essere quella di un gigante coperto da un paio di calzoncini di pelle di machen e
dall'enorme petto glabro gonfiato in avanti come lo sperone roccioso di una montagna. Una larga spada
di rame era assicurata nel suo fodero dietro la schiena da una robusta cinghia di cuoio. L'elsa era
facilmente raggiungibile con un veloce movimento circolare del braccio, e una volta estratta era già
pronta per calare in un terribile fendente sul capo dell'avversario. Fherd fissò senza disagio quello
sguardo duro e boriosamente sicuro di sé.
«Hai proprio ragione, amico mio.» disse «Sei troppo grosso perché si possa sedere entrambi attorno a
questo tavolo...» il gigante sfornò un ghigno di compiacimento «... ma è anche vero che non ho alcuna
intenzione di cederti il mio posto. Per cui mi vedo costretto a ritirare la mia offerta e ad augurarti di
trovare in qualche altra locanda sedie abbastanza robuste da potere sopportare il tuo peso.»
Il gigante impallidì e il sorriso gli si deformò in faccia come la smorfia di un bambino crudele. Gonfiò il
petto come un rospo in amore, mentre le guance gli si imporporarono dal furore.
La sua mano corse veloce alla spada, sfoderandola, mentre il suo sguardo feroce indicava chiaramente
che era in procinto di compiere una strage. Emise una specie di orrido grugnito, poi le parole gli uscirono
dalla bocca come fossero dardi avvelenati. «Sporco bifolco delle paludi, ti farò a pezzi e darò la tua carne
in pasto ai losesh del deserto. Alzati in piedi se un po' di sangue ti scorre nelle vene.»
L'ultima frase fu un grido strozzato, più che una corretta susseguenza di parole. Gli avventori della
locanda si pigiarono più che poterono contro le pareti, creando spazio, terrorizzati, ma nel contempo
ansiosi di seguire lo svolgersi del diverbio.
Fherd sfoggiava un bonario sorriso e la più completa indifferenza alle minacce del gigante. Lane si
imbestialì oltre i limiti della sopportazione e partì alla carica, sbuffando come un pelago da corsa. Levò la
spada sopra la testa e l'abbatté con forza terribile sul tavolo che lo separava da Fherd. Il mobile si spaccò
in due, quasi senza opporre resistenza al colpo subito. Fherd si alzò in piedi e fronteggiò faccia a faccia il
suo sfidante. Sfilò
lentamente Belator dalla custodia, enfatizzando al massimo quel gesto e provocando una totale apnea
nella locanda.
Il gigante, pur sconvolto dall'ira, notò il metallo lucente e compatto da cui trapelava una forza arcana e
minacciosa.
Fherd impugnò l'elsa a due mani e puntò la spada contro il suo nemico, roteandola lentamente così che
tutti ricevessero in viso il bagliore dei raggi solari riflessi dalla lama. Un brivido di forza, di spavalda
potenza, passò
dalla pesante spada ai muscoli tesi delle braccia di Fherd, correndo alfine per tutto il suo corpo,
contribuendo ad inebriarlo di ardore. Lane parve accorgersi di quell'effetto, e tutta la sua figura parve
sgonfiarsi.
«Allora, bestione, quella spada pesa troppo per il tuo braccio? Son muscoli, quelli che mostri con tanta
benevolenza, o fasce di grasso?»
Quelle poche parole bastarono ad incitare il colosso che si lanciò contro Fherd con rinnovato furore.
Alzò la spada e la calò sull'elmo di cuoio indossato da quest'ultimo. La spada lucente si frappose alla
pericolosa traiettoria all'ultimo istante, bloccando il micidiale fendente.
Il gigante fece un passo indietro, poi tornò alla carica con un secondo fendente diretto all'anca. Fherd
intuì il colpo e con un veloce spostamento laterale portò la sua lama a cozzare trasversalmente con
quella di rame del suo avversario. I presenti emisero all'unisono un unico boato di meraviglia quando la
spada di Fherd tranciò in due l'arma del gigante come fosse stata di burro.
Il colosso si immobilizzò con ancora le braccia tese, atterrito e nel contempo profondamente sconvolto
dallo stupore. Fherd non attese un secondo di più: la punta della sua spada puntò in avanti con uno
scatto improvviso e s'infilzò nello stomaco del gigante senza incontrare resistenza. Quando ritrasse
Belator, un fiotto di sangue scuro si riversò a terra, preparando la pozza in cui poco dopo andò a
riversarsi il corpo inanimato di Lane.
Una voce si levò improvvisa nella sala, quando ormai lo stupore per la vittoria conseguita da Fherd era
superato: «Perché lo hai ucciso, Tabriz?
Ormai era sconfitto.»
Solo allora Fherd ripensò al suo gèsto. Aveva agito seguendo il suo solito istinto, accantonando ancora
una volta la ragione e infrangendo quel giuramento di moderazione che aveva stipulato con se stesso
tempo addietro. Rinfoderò la spada macchiata di sangue e voltò lo sguardo verso l'uomo che aveva
parlato.
«Era un prepotente.» cercò di giustificarsi. «Se non l'avessi ucciso, prima o poi avrebbe cercato di farlo
lui.»
Quel ben magro discorso servì a convincere i presenti, che cominciarono a bisbigliare tra di loro
commentando il duello a cui avevano assistito, ma lasciò a Fherd un poco di ghiaccio nel cuore.
Dalle altre locande prese a giungere un numero sempre maggiore di persone, a cui era giunta la notizia
dello scontro e che ora volevano conoscere di persona l'uomo che aveva ucciso Lane di Seth. La birra
cominciò a scorrere a fiumi, mentre gruppi di persone ripetevano agli assenti i movimenti che avevano
portato Fherd ad avere ragione del suo terribile avversario, naturalmente con l'aggiunta di numerose
teatrali modifiche. Fherd si sedette ad un tavolo liberato apposta per lui col viso contratto circondato da
un nugolo di persone che gli si addensava intorno come api sul miele.
Abbozzò un debole sorriso di ringraziamento e, dopo aver ripromesso a se stesso per l'ennesima volta
che mai più avrebbe agito in quel modo irresponsabile, si abbandonò alla piccola festicciola che era nata
in suo onore. 4
La Fama è messaggera tenace di verità che lentamente trasmuta in mezze verità, per poi fissarsi in una
formula compiuta, esatta, di sordida esagerazione. I fatti importanti, gli avvenimenti che colpiscono, non
tardano a diffondersi. Le gesta di eroi, o di uomini innalzati a tale grado, passando di bocca in bocca si
ingrandiscono, acquistano sempre nuovi e maggiori particolari che, ripetuti e intesi da più parti,
diventano conferma di se stessi. Così spesso si forma la cosiddetta «Opinione Pubblica».
Le situazioni, i «fatti», dapprima sono solo sussurri, poi pian piano prendono vigore, si rafforzano, si
riaffermano, creando miti, eroi, leggende. Così, dunque, l'Uomo dalla Spada Lucente per le bocche degli
uomini ovunque si conobbe. Sacra spada forgiata dagli dei, invincibile arma creata dal cielo.
Il villaggio di Mosul acclamava il suo eroe; da ogni dove accorreva gente.
In breve, il piccolo villaggio di frontiera divenne città di ritrovo, meta obbligata per ogni viandante che
attraversasse i confini di Kentrat. Fherd non badava a tutto quel trambusto; si era ritirato in una delle
stanze della locanda che il gestore gli aveva messo a disposizione gratuitamente, certo di potersi rifare
abbondantemente con la moltitudine di gente che il suo ospite richiamava da ogni parte.
Fherd abbacava costantemente verso il suo passato; non più quello remoto, che ormai aveva imparato a
tenere lontano, ma il più recente. Il più
scottante.
Fissava con gli occhi abbacinati la spada adamantina, ricordando inevitabilmente l'uomo che l'aveva
creata e che aveva avuto abbastanza fiducia in lui da volergliela donare.
La sua mente ripercorreva allora i giorni felici del suo addestramento, quando il suo cuore era tornato a
battere per la vita, nella vita. Regolarmente il rimorso tornava, sempre più forte, per la sua mancanza. Si
era lasciato trascinare dall'ira, dalla sua peccaminosa accidia per le pro-messe. Sedeva triste sul bordo
del letto, con le orecchie chiuse al fragore della città, alle voci che lo acclamavano.
Il sole albiccio fondeva le pietre, ed il suo calore esasperava l'animo adugiato di Fherd lo Stilita. Il
Deserto Occidentale confinava col villaggio di Mosul là dove la montagna si ritirava verso Nord: dal
terreno adusto si levavano correnti d'aria calda che rendevano tremolanti e confuse le figure di
chiunque vi s'incamminasse.
Una di queste, in sella al suo aggraziato pelago, si stava avvicinando lentamente, con le sue lunghe vesti
che la coprivano da capo a piedi. Il robusto pezzato sollevò la testa e nitrì, quando le sue narici frementi
colsero l'odore dell'acqua e della fresca erba dei pascoli montani. Una raffica di vento sollevò un
mulinello di sabbia bianca che s'infranse sul viaggiatore. Mosul distava ancora un centinaio di leghe; la
figura ammantata di nero calcolò di poterci arrivare nel pomeriggio del giorno seguente. I suoi calcoli si
dimostrarono errati, dato che riuscì ad individuare le case del villaggio grazie alla pallida luce irradiata
dalla luna vermiglia che risaltava nella notte. Gli zoccoli del pelago risuonarono bizzarramente, quando
l'animale si avviò lungo la strada principale del paese, lastricata di recente. Il viaggiatore guardò senza
riconoscerlo un villaggio che aveva già visitato in passato. La fresca brezza delle montagne asciugò il
sudore sui fianchi del pelago. Un uomo uscì da una piccola taverna barcollando e in breve finì a
spolverare il selciato con l'enorme naso arrossato dal vino. Quando si rialzò, scorse con la coda
dell'occhio la figura in nero che si allontanava lentamente verso il centro di Mosul. Pur con gli occhi
gonfi e la mente annebbiata dall'alcool, riconobbe la silenziosa figura e gli sgargianti finimenti che
bardavano il pezzato. Si buttò incespicando verso la locanda, tentando di avvertire il mondo intero con
urla spaventose dell'avvento della fine del mondo.
La città si era svegliata di soprassalto, dapprima svogliatamente, poi con crescente apprensione. Dalla
strada giungevano grida incomprensibili ad una mente ancora confusa dal sonno.
Fherd si versò una brocca d'acqua fresca sulla testa, poi si sporse dalla finestra. Una moltitudine di
persone si muoveva disordinatamente, come un esercito di formiche indaffarate. I volti esprimevano
meraviglia, paura, talora angoscia, tutti sinonimi di una sola visione. Un coro di voci ripeteva
incessantemente una stessa frase, terribile nella sua angosciosa monotonia:
«È giunta Whitesnake! Whitesnake è qui.»
L'avvento della luce del sole non quietò gli animi. Un sordo trambusto scuoteva continuamente il suolo
di Mosul.
Un bussare irrequieto svegliò Fherd di soprassalto. Lo Stilita si alzò grugnendo, si vestì con movimenti
maldestri, quindi finalmente andò ad aprire la porta.
La spada che l'istinto gli aveva fatto impugnare tornò a riposare nel suo morbido fodero, quando Fherd
riconobbe il locandiere. L'uomo aveva il viso contratto e i suoi denti abradevano furiosamente tra di loro
senza posa. Parlò improvvisamente, emettendo una fiumana di parole senza neppure spalancare
totalmente la stretta porta di legno scuro: «Dovete fuggire, mio Tabriz. Non avete molto tempo a
disposizione. Vi ho fatto preparare una scorta di cibo e il miglior pelago della città. Partite
immediatamente e non vi fermate prima di domani notte. Whitesnake è qui ed è venuta per voi. Vi
prego...»
Fherd interruppe la frenesia dell'oste con un gesto della mano. «Cercate di calmarvi, mio buon amico.
Perché dite che dovrei fuggire da Mosul come un meschino delinquente? E chi è questo Whitesnake di
cui sento risuonare il nome ovunque?»
L'oste strabuzzò gli occhi. «Non avete mai sentito parlare di Whitesnake, Tabriz?»
«Proprio così,» rispose Fherd. «Ora entrate e spiegatemi tutto.»
«Whitesnake è un nome sacro.» Intonò l'oste con accento enfatico. «La donna che lo ostenta appartiene
al popolo dei Cavalieri di Tangri, un Ordine di spietati Cavalieri che errano per Argat in cerca di gloria. Il
nome Whitesnake corrisponde ad un privilegio unico, conquistabile solamente da chi ha più volte
dimostrato un valore ed un'intelligenza non comuni rispetto agli altri appartenenti all'Ordine. Questi
Cavalieri attraversano il mondo sui pelagi addestrati, in cerca di degni avversari contro cui potersi
impegnare in combattimento. L'unico scopo della vita è combattere ed accrescere il proprio prestigio.
Ieri sera è giunta in città Seila Whitesnake, la più temibile guerriera dell'Ordine dei Cavalieri di Tangri. È
certamente venuta qui a Mosul per sfidare te, il mio potente Tabriz. La fama della tua spada è volata
ovunque come il vento.»
Fherd stette qualche attimo a fissare il pavimento della stanza. Aveva sentito parlare di questi Cavalieri
di Tangri, opportunisti, ma inscindibil-mente devoti alle principali regole della cavalleria, anche se non
ne aveva mai incontrato uno.
Quella era una buona occasione per porre rimedio ad una simile mancanza, tanto più se il famoso
cavaliere era una donna. Guardò l'oste dritto negli occhi, ostentando la massima calma e fiducia in se
stesso, e ordinò:
«Conducimi da questa Whitesnake. Se è venuta per me non ho alcuna intenzione di trasgredire le più
elementari regole dell'ospitalità.»
Il locandiere tentò di abbozzare una timida resistenza, ma quando Fherd legò ad armacollo la
fiammeggiante Belator, acconsentì rassegnato. 5
La guerriera di Tangri non poteva essere altro che il parto di una fantasia troppo sofisticata per essere
vera.
Fherd entrò nella taverna che la donna aveva prescelto, tenendo il viso nascosto nell'ombra creata dal
largo bàtolo del mantello che indossava. Si intrufolò inosservato tra la folla di persone che, immobili
come statue scolpite nella pietra, fissavano abbacinati la bionda guerriera. La donna sedeva impassibile
ad un tavolo posto contro la parete frontale rispetto all'adito della taverna. In questo modo aveva la
schiena protetta e possedeva una completa panoramica della locanda.
L'Armida indossava uno body aderentissimo di pelle nera sorretto sopra il seno da una cintura da cui
pendeva lateralmente, sotto l'ascella, un sottilissimo stiletto di rame. Le spalle erano nude e candide,
come se il sole non le avesse mai toccate.
Il body possedeva un'apertura ovale che metteva in luce l'ombelico e lo stomaco della donna. Due
strisce di cuoio per gamba le scendevano dall'inguine, fissate dov'erano al body, e si attorcigliavano ad
elica attorno a due gambe da capogiro.
Un paio di stivali morbidi le coprivano le tibie fin sotto il ginocchio, lasciando scoperti posteriormente i
due torniti polpacci. Quella specie di uniforme era completata da due bracciali di rame dalla forma di
serpenti che si attorcigliavano sugli avambracci. I lunghi capelli biondi le cascavano sulle spalle morbidi,
da sotto un caschetto di cuoio che possedeva uno spuntone superiore. Fherd si disse che per una donna
simile valeva la pena di farsi riconoscere. Si staccò dal gruppo e si avvicinò con passi sicuri alla guerriera,
che ora lo guardava con fare interessato.
Le si piazzò di fronte e si tolse il mantello. Whitesnake sorrise leggermente con gli angoli della bocca. Le
sue mani flessuose impugnavano il fodero della corta spada di rame che le pendeva dal fianco. Due
occhi più azzurri del cielo estivo scrutarono Fherd fin nel profondo dell'anima. «Onore a te, uomo dalla
Spada Lucente. La strabiliante fama delle tue imprese si è sparsa ovunque per il mondo. Si dice che tu
possegga una spada forgiata dagli dei stessi in grado di sconfiggere qualunque nemico si opponga al tuo
cammino. Io, Whitesnake Seila, Cavaliere dei Maestri di Tangri, vengo a portarti la mia sfida. Dimostrerò
al mondo che si possono sconfiggere gli eletti degli dèi.»
Fherd sorrise bonariamente. «Questo si chiama parlar chiaro. Devi essere molto sicura di te, dolcezza.»
La guerriera non si scompose. «Dimostreremo la nostra forza domani, in combattimento, non ora con
stupide parole. Come sfidante ho diritto alla scelta dell'arma. Ti farò comunicare la mia decisione.»
Detto questo, la donna si alzò maestosamente ed uscì dalla locanda con incedere regale. I suoi
movimenti suscitarono in Fherd pensieri voluttuosi. Il ragazzino infilò il naso nel pertugio. Fherd lo
guardò con un sorriso e lo invitò a entrare.
Il bambino scosse la testa e, sempre restando nascosto dietro l'uscio, comunicò il messaggio tutto d'un
fiato: «Il combattimento si farà su pelago con lancia e scudo. Chi viene sbalzato di sella ha perso. La
posta del vincitore sarà decisa prima di iniziare il duello.»
In un attimo si dileguò.
Fherd si morse nervosamente il labbro inferiore. Un duello su pelago! Si era fatto fregare come uno
stupido. Aveva accettato il duello convinto di poter usare Belator, contro la quale la donna avrebbe
potuto ottenere ben poco.
Non era novizio a combattimenti su pelagi, ma ricordava di essere già
stato vittima di numerose sconfitte, anche da parte di cavalieri meno quotati della guerriera di Tangri.
Doveva escogitare qualcosa o si sarebbe trovato seriamente nei guai. Fu in quell'attimo che ciò che gli
era sembrato frutto di semplici sogni si concretizzò in insolita realtà.
Belator aveva preso a fulgere, quasi volesse confessare di essere lei la fonte misteriosa da cui
prendevano consistenza tutte le stelle del cielo. Un alone brillante e palpitante di vita propria si estese
dalla spada sospesa a mezz'aria e, in breve tempo, venne a formare una sfera che avvolse Fherd con la
stessa delicatezza di una carezza. Lo Stilita era impietrito per lo stupore, ma nulla in lui aveva alcunché di
simile alla paura. Anzi, quando l'immagine del volto di Bolish si compose davanti ai suoi occhi, circondata
da una foschia densa e turbinante, non provò altro che gioia, in un impeto che quasi non riuscì a
controllare. Estese il braccio, incantato, nel tentativo di appurare se quel volto era reale o un crudele
parto della sua fantasia. Le dita protese incontrarono solo aria, ma la bocca di Bolish si spalancò, come
resuscitata alla vita da quel contatto, e la voce del vecchio raggiunse i timpani di Fherd con la sua
caratteristica cadenza.
«Come ti avevo detto, figliolo, Belator mi consente di esserti vicino.»
Fherd cercò di esprimere a parole lo stupore e i dubbi che lo assalivano, ma Bolish lo prevenne: «Il mio
destino è legato al tuo indissolubilmente, così come la ragione della tua esistenza altro non è che un
evento programmato, perché gli dei hanno bisogno del nostro operato per non farsi sopraffare dalle
orde del Caos. Accetta queste manifestazioni del loro volere come un dono ineguagliabile, poiché sei
forse il solo a cui è concesso di conoscere in anticipo le future svolte della propria vita.»
Fherd ricusò i suoi interrogativi e fece un gesto d'assenso col capo. L'immagine tremula di Bolish riprese
a parlare:
«Oggi hai conosciuto colei che ti accompagnerà nella lotta contro il Regno delle Ombre: Whitesnake. Gli
dei hanno voluto che la sua intelligenza e la sua abilità vengano posti al tuo servizio, e di questo ancora
devi ringraziarli. Ma ricorda, ella non si unirà a te spontaneamente. Devi conquistarla in due tempi:
prima con la spada, poi col cuore. Nel duello di domani avrai alle spalle l'appoggio divino, ma la tua
intelligenza dovrà partecipare attivamente al perseguimento della vittoria. Bada che la guerriera
Whitesnake non ha eguali, nel duello su pelago. La mano degli dei farà in modo di porre le tue capacità
su un suo stesso piano d'abilità, ma la mossa risolutiva non deve spettare ad altri che a te. Sappi
sfruttare l'intelligenza che mai hai disdegnato d'ostentare, in passato.»
L'immagine tremolò vivacemente, e ben presto sfumò in nebbia. Prima che la sua immagine scomparisse
del tutto, la proiezione di Bolish diede l'ultimo consiglio al suo discepolo:
«Ricorda l'arte che ti ho insegnato, Fherd. Ingegnati coi segreti che hai appreso.»
E in un lampo fu tutto quiete, come se nulla fosse accaduto. Fherd non provava alcunché di particolare,
dentro di sé, forse perché le rivelazioni che gli erano state fatte erano troppo al di fuori della portata
delle sue emozioni. Lui credeva in quello che aveva visto e udito, e aveva fede in quello che gli rivelava la
sfera del vecchio Bolish. Doveva pensare al duello, ora, a qualche astuzia che lo avrebbe reso superiore a
Whitesnake per quel poco che bastava a dargli la vittoria. Ritornò con la mente alle parole del ragazzino:
«...su pelago con lancia e scudo.»
Un sorriso arguto gli si dipinse sul volto. Raccolse la sua borsa con gli strumenti, si fissò in spalla un orcio
di terracotta traboccante di olio nero e con la mano libera sollevò una delle tante bisacce che
contenevano il prezioso minerale diamantino. Uscì dalla locanda in tutta fretta e si diresse con passo
eccitato alla bottega del maniscalco. Laggiù doveva senz'altro esserci una piccola fucina.
6
Fherd non aveva certo la presunzione di definirsi un fabbro medio, ma gli insegnamenti del vecchio
Bolish si dimostrarono in quell'occasione estremamente efficaci.
La bottega del maniscalco era più apprezzata di quanto si fosse immaginato. Dopo aver forzato un paio
di porte di legno si diresse in una grande stanza in cui si ergeva un solido forno a camino, costruito su
uno scheletro ligneo rivestito d'argilla.
Accertatosi dell'assenza del maniscalco dalla bottega, Fherd mescolò nel forno carbone di legna e il suo
minerale; quindi, mediante una quantità di calore esattamente calcolata, ottenne che il materiale
adamantino assimilasse tanto carbone quanto bisognava, ottenendo una massa spugnosa da lavorare
col martello.
Svolse il lavoro seguente nella fucina, lavorando coperto dietro una pietra semicircolare e con un buco
aereatore attraverso il condotto. Nell'attrezzatissima fucina trovò numerose tenaglie e diversi tipi di
martelli, possenti incudini di pietra e vasche con l'acqua, oltre al camino col mantice che soffiava l'aria
attraverso un becco di creta sul carbone di legna, il quale forniva poi il calore necessario a fondere il
materiale spugnoso. Il liquido incandescente fluì lentamente in una forma circolare concava usata
solitamente per fabbricare scudi di rame. Con un gran numero di martellate e di imprecazioni, il metallo
informe semiraffreddato venne laboriosamente modellato e foggiato in un rozzo scudo. Non restava
altro che temprare il metallo.
Fherd riscaldò di nuovo lo scudo poi lo immerse bruscamente in una vasca d'acqua gelida. Il risultato fu
leggermente sgradevole dal punto di vista estetico, ma già a prima vista estremamente efficace da
quello pratico. Fherd ricoprì lo scudo con strisce di cuoio, poi stette a rimirare soddisfatto il risultato del
suo lavoro. Nessun'arma di rame avrebbe potuto trapassare quello scudo, tanto meno la punta della
lancia di Whitesnake. Si sfregò le mani compiaciuto e subito tornò al lavoro con rinnovato impegno, per
allestire la seconda sorpresa che aveva ideato per la sua indomita e affascinante avversaria. Da piccolo
villaggio di frontiera qual era, Mosul si era trasformato ben presto in un'autentica cittadina pregna di
benessere. Quel giorno in particolare tutto il paese era in subbuglio: la birra scorreva a fiumi dentro e
fuori dalle taverne, la gente correva in lungo e in largo eccitata, ridente, facendo festa insomma. La
strada principale era stata preparata per il duello: quattro paletti di legno erano stati conficcati
nell'acciottolato, al centro della via, ad una distanza di cento ulne l'uno dall'altro, ed una striscia di cuoio
li collegava delimitando le due corsie in cui avrebbero galoppato i pelagi dei cavalieri. La folla attendeva
con fervore impaziente l'arrivo dei due contendenti. Centinaia di piastre di rame circolavano per le mani
degli scommettitori come nuovo fluido vitale per la loro professione, che da tempo vedevano soffocata.
Un boato improvviso accolse il sopraggiungere dei due sfidanti. Cavalcavano entrambi pelagi protetti da
spesse mantelline di cuoio e fastosamente bardati, soprattutto quello della guerriera. I due si
fronteggiarono senza dar sfoggio di alcuna particolare emozione.
«Veniamo subito al dunque.» intonò senza preamboli la donna. «Se riuscirò a batterti, la famosa Spada
degli Dei diverrà di mia proprietà.»
Fherd se l'era aspettato. Non riusciva ad immaginare nient'altro che potesse attirare con tanta
determinazione la voracità di un Cavaliere di Tangri. Sorrise ed espose le sue pretese, che la donna
ormai non avrebbe potuto evitare, a meno di incombere nella vergogna e nel disonore abbandonando
un duello da lei stessa voluto.
«Quello che chiederò in cambio di una mia eventuale vittoria, bionda Whitesnake, sarà qualcosa di
inconsueto. Ma prima voglio che tutto il paese ascolti da testimone le mie condizioni, affinché questo
duello s'abbia da fare.» La folla si fece particolarmente attenta, mentre gli scommettitori trovarono altro
pane per i loro denti. Fherd tornò a guardare la guerriera negli occhi intensi. «Voglio te, Seila
Whitesnake. Il tuo corpo e la tua mente per una notte.»
La bella donna strabuzzò gli occhi e strinse i denti soffocando la propria ira, mentre decine di uomini
lanciavano in aria mille cose, entusiasti della scelta perpetrata dal loro eroe.
Fherd abbozzò un innocente sorriso a risposta delle vampate di fuoco che gli giungevano dagli occhi irosi
della guerriera.
«Se devo rischiare la pelle in uno stupido duello,» si giustificò, «lascia almeno che lo faccia per qualcosa
per cui ve ne valga la pena,»
La guerriera alzò il naso stizzita, diede un violento strattone alle briglie del suo pelago e galoppò verso la
sua postazione. Fherd armò il braccio con lo scudo e si fece portare la lancia che aveva tenuta nascosta
fino all'ultimo momento. La folla crepitò rumorosamente, quando vide l'arma. La guerriera divenne
ancora più rossa dall'ira: quell'uomo voleva umiliarla davanti a tutti.
Fherd imbracciava compiaciuto il prodotto della sua tattica notturna: una lunga lancia senza punta, al
cui posto faceva mostra di sé una grossa palla argentea dalle dimensioni di una noce di cocco.
Il giudice di gara fece tacere la folla ed alzò il braccio che avrebbe dato il via, abbassandosi, alla contesa.
I due cavalieri si portarono in posizione, studiando attentamente l'avversario. Il braccio si abbassò di
scatto.
I pelagi nitrirono eccitati e si lanciarono al galoppo, spronati dai loro cavalieri. Fherd vide che la donna
teneva la lancia abbassata per non sforzare troppo il braccio prima di sferrare il colpo decisivo.
Lui la imitò. Quando furono ad una decina di ulne l'uno dall'altro, si preparò ad ammortizzare il colpo
che avrebbe inevitabilmente ricevuto. Il suo piano era semplice e funzionale: le regole stabilivano che
per l'assegnazione della vittoria non occorreva altro che sbalzare di sella il proprio avversario; non
occorreva uccidere nessuno. Per cui Fherd aveva pensato ad eliminare la punta della sua lancia che,
oltre a diminuire la superficie di contatto e quindi la forza del colpo, si sarebbe potuta spezzare nell'urto
contro lo scudo di Whitesnake.
La palla che aveva fissato all'estremità avrebbe avuto doppia efficacia: non si sarebbe spezzata e
avrebbe permesso di poter trasferire integralmente sullo scudo della guerriera la forza da lui applicata.
Inoltre, cosa non meno trascurabile, Fherd non voleva danneggiare in alcun modo la donna che il
destino gli aveva assegnato come compagna.
I due contendenti erano ormai l'uno di fronte all'altra.
La prima a colpire fu Whitesnake che, con un veloce scatto di reni, si tuffò in avanti sul dorso del pelago
e affondò un terribile colpo. Qualcosa agì automaticamente in Fherd, costringendolo a buttare indietro
la schiena nel tentativo ben riuscito di assorbire quanto più possibile la forza dell'impatto. Come aveva
sperato e calcolato, la punta di rame dell'asta della guerriera si spezzò nell'impatto, e la lancia così
menomata scivolò sullo scudo di Fherd senza arrecare danni.
Fherd non ebbe modo di sferrare il suo colpo.
I due cavalieri arrestarono i pelagi lanciati, li fecero voltare e ripresero a spronarli in direzione opposta.
La donna ebbe un singulto di stupore quando di accorse di avere la lancia menomata ma non si arrese.
Incitò il suo pelago a pieni polmoni e si lanciò spavaldamente alla carica. Era inconcepibile che lei, una
Whitesnake, si ritirasse da un duello. Questa volta lo scontro fu decisivo.
Fherd fece una finta in avanti col corpo, poi aspettò che la donna replicasse al suo tentativo. Quando
vide il delizioso corpo della guerriera piegarsi, approfittando della maggiore lunghezza della sua lancia
allungò il braccio colpendo con tutta la sua forza.
La folla trattenne il fiato, quando la palla argentea colpì in pieno lo stemma dipinto sullo scudo della
guerriera, che s'incrinò sotto la forza dell'urto. La donna venne sbalzata di sella mentre le si dipingeva in
volto una smorfia di amara sorpresa. Con uno sforzo disperato tentò di aggrapparsi alle briglie per non
cadere a terra, ma lo scudo contorto le ingombrò i movimenti e lei dovette subire l'umiliazione della
sconfitta. La folla esultò all'unisono con un potente boato.
Fherd arrestò il suo animale trafelato e si diresse con passo tranquillo verso il punto in cui un vulcano
era sul punto di esplodere. 7
Un odore acre e pungente s'innalzava da un fumoso braciere. La stanza era buia e silenziosa, mentre
Fherd fissava il soffitto.
Lo Stilita era sdraiato sul letto della miglior camera di Mosul, supino, con le dita intrecciate poggiate
sotto la testa. Ascoltava attentamente i suoni leggeri e soffocati che provenivano dal piccolo bagno
attiguo. Cercava di immaginare con una buona dose di fantasia le fattezze del corpo della donna, o
almeno di quelle parti nascoste dall'esiguo costume che indossava. Whitesnake uscì lentamente dal
bagno. Fherd si sollevò sui gomiti e fissò estasiato l'immobile figura. Seila Whitesnake era avvolta in un
bianco lenzuolo che aveva legato sopra il seno con un grosso nodo. I capelli dorati erano raccolti sulla
nuca in una graziosa spirale, mostrando un lungo collo dalla pelle vellutata. Fherd non poté fare a meno
di emettere un gemito di stupore: quell'esile figura che gli stava davanti a piedi nudi non poteva
assolutamente essere la rude donna-guerriero che lo aveva sfidato il giorno prima. Se non fosse stato
per l'impassibile espressione del viso, Fherd avrebbe giurato di avere innanzi un'altra persona. Ringraziò
gli dei per aver accomunato il destino di una simile creatura al suo e parlò a Seila Whitesnake, con
dolcezza, quasi volesse accarezzarla con quelle parole: «È un'inconsueta visione quella che mi appare
innanzi. Sconfiggo un guerriero ma rinasce un fiore.»
Lei rispose con voce atona: «Un Cavaliere di Tangri accetta la sconfitta da chiunque venga e paga i suoi
pegni. Passerò la notte con te.» Nel pronunciare l'ultima frase, il tono severo della sua voce si era
vistosamente incrinato. Quasi per distogliere l'attenzione di Fherd da quel suo momento di debolezza, la
donna slacciò il nodo che sosteneva il lenzuolo e fece un passo avanti, rivelando tutto il proprio
splendore. Fherd rimase immobile sulla sponda del letto, con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa per
lo stupore.
Seila Whitesnake aggrottò la bianca fronte. «Perché mi guardi così?»
chiese «Forse non ti piaccio? Ne sarei immensamente felice.»
Ma Fherd scosse violentemente il capo. «Mi spiace molto deluderti, ma devo ammettere di non aver
mai visto prima nulla di tanto meraviglioso. Sei bellissima, Seila.» La guerriera non riuscì a reprimere un
lieve rossore sulle guance. Fece una veloce corsa imbarazzata e s'infilò sotto le lenzuola con movimenti
flessuosi.
Fherd si coricò accanto alla donna. Il suo corpo percepì il calore emesso dal corpo pieno di Whitesnake.
Lui si strinse di più a Seila, che rimaneva immobile, rannicchiata su se stessa. Quando le toccò una spalla
con la mano, Fherd avvertì un leggero tremito propagarsi per tutto il corpo della donna.
«Stai tremando.» Le disse in un orecchio, quasi in un sussurro. Fu allora che lei non riuscì più a
trattenersi e, all'improvviso, scoppiò in pianto, abbandonando ogni atteggiamento d'orgoglio.
«È la prima volta.» Confessò tra i singhiozzi. «Non ero mai stata con un uomo, prima.»
Fherd le accarezzò i biondi capelli. «Stai tranquilla.» La rassicurò. «Io non voglio abusare di questa
occasione. Tu mi piaci, Seila, ma non ti toccherò nemmeno, se tu non lo vorrai. «»
Grossi goccioloni scivolarono tra le dita delle mani che Whitesnake aveva portato a coprire il volto, e
qualcosa si rilassò in lei. Fherd si alzò e andò a prendere una tazza di terracotta contenente il forte
liquore d'erbe che il vecchio Bolish le aveva insegnato a preparare. Si sedette accanto a Seila sulla
sponda del letto e le aprì le mani con estrema dolcezza.
Usò un lembo del lenzuolo per asciugare le lacrime che le rigavano le guance.
«Bevi questo,» disse. «Ti farà bene.»
La ragazza scosse la testa, ma poi acconsentì a bere il liquore.
«Non ho mai pensato di voler approfittare della mia vittoria.» Le confidò
Fherd. «Ti confesserò che la sfida è stata molto imparziale. Mi ero costruito delle armi particolari, contro
cui non avresti mai potuto ottenere nulla. Inoltre, qualcuno ha voluto aiutarmi.»
Seila gli parlò tra gli ultimi singhiozzi. «Se quello che dici è vero, qual è
il tuo scopo?»
Fherd sorrise. «Innanzi tutto distruggere la corazza che imprigionava la donna, ma soprattutto poter
scrutare nel tuo animo. Volevo scoprire quanto di Seila poteva emergere, a discapito della Whitesnake
crudele e dissoluta. Ora che conosci le mie intenzioni, se vuoi, sei padrona di alzarti e di andartene
anche subito. Non solleverò alcuna pretesa. Sappi, però, che ti vorrei qui con me, lontano dalle armi e
dalla vita che ti sono state imposte sin dalla nascita.»
Un silenzio imbarazzato scese nella stanza.
Seila studiò la sincerità sul viso di Fherd, poi allungò una mano verso la bocca dell'uomo. Le morbide dita
risalirono delicate le guance di Fherd e si persero tra i suoi folti capelli.
«Un Cavaliere di Tangri non nasce spietato,» disse, «e non ha colpa per quello che gli viene insegnato. Io
non ho mai conosciuto l'amore.»
Fherd prese la mano e le baciò il morbido palmo. «Vorrei poterti esprimere il mio.» Le disse. Seila
sorrise, lo abbracciò dietro il collo e lo attirò verso di sé. FINE
NEAL BARRETT JR.
ALDAIR SIGNORE DEI MARI
(Aldair, Across The Misty Sea, 1978)
UN ALTRO VIAGGIO CON ALDAIR
Molti di voi saranno finalmente contenti nel poter leggere il terzo, e pe-nultimo episodio, del Ciclo di
Aldair. In effetti era ormai parecchio tempoche stavate aspettando il seguito di Lungo i mari del fato da
noi pubbli-cato, se non vado errato, nel lontano... 1985. E, in effetti, bisogna conveni-re che un anno
d'interludio è forse un periodo di tempo un po' troppo lun-go tra un'avventura e l'altra dei nostri
simpatici Semiumani. Vedremo co-munque di fare onorevole ammenda nel senso che, entro quest'anno,
pub-blicheremo anche l'ultimo volume della tetralogia, si da recuperare il tem-po perduto.
Parlare di questa Saga mi sembra pleonastico, alla luce dei due prece-denti romanzi del Ciclo usciti in
questa collana, Aldair in Albion e Lungo i mari del fato appunto, che avrete sicuramente letto: se
qualcuno inveceper ventura non dovesse ancora averlo fatto, e fosse quindi questo il primovolume della
serie che legge, gli consiglio - prima di iniziare la lettura - difornirsi dei due precedenti volumi in modo
da poter avere una visionecompleta, e soprattutto progressiva, dell'intera vicenda.Lasciamo quindi da
parte le considerazioni critiche e d'insieme che for-mano d'altronde l'oggetto delle introduzioni ai due
volumi precedenti, eveniamo subito a quanto è narrato in questo libro, tenendo presente co-munque di
fare un brevissimo riassunto delle avventure precedenti perquelli di voi più pigri che non hanno voglia di
andare a prendere gli altriromanzi per richiamare alla memoria gli antefatti a questo Aldair signore dei
Mari.
I Semiumani, uomini con spiccate caratteristiche animali riuniti in tribù,e clan a seconda delle diverse
razze cui appartengono, dominano in prati-ca in modo incontrastato il nostro pianeta e - fatto questo
quanto maistrano e singolare - appellano se stessi col nome di Uomini. Di Uomini ve-ri invece non ve ne
è traccia alcuna, e il loro ricordo (che peraltro è
quanto mai confuso e si perde nella notte dei tempi) è strettamente limitatoalle più alte caste sacerdotali
che vietano nel modo più assoluto al popolodi venire in possesso di notizie concernenti appunto l'Uomo.A
questo stato di cose si ribella Aldair, vuoi perché spinto dal suo ca-rattere irrequieto e proteso alla ricerca
della novità, vuoi perché un af-flato misterioso - sotto forma di sogni e visioni - lo spinge senza sosta
inuna ricerca pervicace di quali possono essere le origini sue e dei suoicongeneri.
Questa ricerca, nella quale è accompagnato da una folta serie di com-primari sia di sesso maschile che
femminile, si snoda attraverso tutte leterre - e le acque - conosciute, fino ad approdare alla
temutissima e de-serta isola di Albion, nella quale, per la prima volta, Aldair scopre chisiano in realtà gli
Uomini veri, e chi siano invece i Semiumani che popo-lano il pianeta.
È superfluo dire come, durante questa ricerca protesa alla conoscenzadelle proprie origini, Aldair e i suoi
compagni vadano incontro ad una se-rie praticamente infinita di avventure, avventure che costituiscono
uno deimotivi salienti di questa Saga. Uno solo dei motivi però, in quanto, a benconsiderare, l'avventura
è solo il corollario del tema principale del nar-rato, costituito - una volta scoperte le Vestigia dell'Uomo
nel primo volu-me della serie - dall'interrogativo spasmodico di sapere, non solo dove siafinito l'Uomo,
ma anche il motivo per il quale abbia lasciato dietro di sé iSemiumani.
Ovviamente, neppure in questo terzo volume, Aldair (e nessuno di voi)riuscirà ad appagare quella che -
a ben vedere - non è solo una curiosità,ma il legittimo desiderio di sapere se la sua vita e quella dei suoi
similiabbiano uno scopo, o si tratti invece di un gioco atroce nel quale tutti lorosi muovono come semplici
marionette.
La presenza dell'Uomo, che in Aldair in Albion e in Lungo i mari del fato era quanto mai evanescente,
si fa sempre più concreta e, in questovolume, oltre al Popolo del Mare che ha conosciuto direttamente
l'Uomo ene conserva un chiarissimo ricordo, incontriamo anche i custodi di unadelle sue Fortezze -
l'ultima rimasta intatta - che sono appunto quanto dipiù simile a lui sia dato di vedere.
E Aldair, novello Ulisse (non penso infatti che farete soverchia faticanell'individuare i vari «ulissismi» del
narrato), prosegue impavido nellasua odissea, anche se in questo volume la fiducia in se stesso, di cui
avevadato ampia prova nelle precedenti avventure, viene ad incrinarsi in ma-niera notevole, fino al
punto che sta per rinunciare alla sua ricerca.Pur tra mille scrupoli di carattere morale e psicologico,
nonostante itentennamenti di vario genere, ed addirittura nonostante gli attacchi chegli vengono portati
dagli stessi uomini del suo equipaggio, Aldair si risol-ve a proseguire nella sua impresa, né diversamente
potrebbe fare, nonperché sia un predestinato cui il Fato con la F maiuscola abbia già trac-ciato un
cammino dal quale non può deflettere, ma per il molto più sem-plice motivo che la fine di questo
romanzo lo vede impegnato all'insegui-mento del vilain di turno che gli ha addirittura rapito la
fidanzata, dile-guandosi con lei all'interno di un campo temporale creato dall'Uomo cheforse è in grado
di condurlo dall'Uomo stesso.
Che dite? Pensate che Aldair riuscirà ad incontrare l'Uomo nell'ultimovolume del Ciclo? Diamoci sin d'ora
appuntamento a La Legione dei Semiumani e vi assicuro che lo saprete. Gianni Pilo
PROLOGO
«Più di una volta da quando ho iniziato le mie avventure, ho invidiato ildestino delle creature inferiori. So
per certo ormai che i migliori sonoquelli che sono più sensibili al mondo che li circonda, e che di solito
sonopiù infelici e soffrono di più. Dovremmo tutti imparare la lezione dalla ra-pa, che si occupa dei suoi
affari con molta ragionevolezza. Viene riscal-data dal sole e raffreddata dalla pioggia estiva. Le sue
radici sono salda-mente conficcate in un solo posto, e non prova alcun desiderio di procu-rarsi dei
problemi in un altro giardino. Il topo di campagna beneficia diuna simile benedizione, e se ne rende
anche conto. Non ho ancora sentitoche qualcuno di loro lasci un sacco di grano dietro di sé per cercare
vipe-re affamate.
«Eppure quelli di noi che sono dotati di teste più fini sono ansiosi di ab-bandonare il tepore delle loro
case per cercare morte, stenti ed altri mali,dovunque riescano a trovarli. Tutto ciò viene a volte chiamato
la ricercadella verità e del sapere, ma per lo più da quelli che raramente si sono av-venturati a più di una
lega di distanza dalla porta di casa loro. Quelli dinoi che hanno viaggiato un bel po' più lontano hanno un
altro nome, menobenevolo, per definirlo.
«Per quanto mi riguarda posso onestamente dire che ho già compiutoun periodo di vagabondaggio più
lungo di quello che poteva essere consi-derata la mia parte. In pochi, brevi anni, sono stato schiavo,
scolaro eComandante di vascello. Ho avuto una non piccola parte nella caduta didue grandi imperi. Sono
stato sul punto di essere inghiottito dalla cosasenza forma che sta a guardia del Grande Fiume. Mi sono
persino libratoin aria sopra la terra simile ad un grande uccello sgraziato. Meno si dicesu
quell'argomento, meglio è.
«Alla fine sono arrivato a conoscere l'opera dell'Uomo, nella triste espaventevole terra di Merkkia,
dall'altra parte del Mare delle Nebbie. Ilterribile segreto di quella razza è venuto infine alla luce, sebbene
siaqualcosa che ancora non ho penetrato a fondo neanche adesso. E anche senei miei viaggi non avessi
imparato niente altro, posso dire in tutta since-rità di essere orgoglioso di essere la bestia che sono...»
Aldair, già dei Venicii,
alla deriva sul Mare
dell'Oscurità
UNO
C'è un proverbio tra gli Eubironi: un Vikoniano è una folla, due sono un piccolo villaggio. Il proverbio non
va oltre, perché pochi potrebbero preoccuparsi di immaginarsi più di un paio di queste enormi creature
in una sola volta.
Nella mia terra noi conosciamo bene i Vikoniani; le loro lunghe barche vengono infatti a commerciare
nei porti settentrionali della Gaullia ogni primavera, non appena il mare ghiacciato consente loro di
passare. Fanno condizioni durissime per i loro carichi di merce, e provano gusto ad imbrogliare gli altri
popoli anche per ricavarci solo una moneta di rame in più. Non è troppo saggio avere a ridire con loro
perché, in verità, solo un Gaulliano di statura alta, raggiunge la pancia di un piccolo guerriero Vikoniano.
Io ho una predilezione particolare per queste creature, perché la migliore di loro è il Capitano del mio
vascello e probabilmente è anche il più
esperto ed abile marinaio del mondo. Ma ancora più di questo, SignarHaldring è un compagno fraterno,
un amico sincero e leale. Grazie a lui, ho imparato molto sulla sua gente, e in tutta onestà devo dire che
questi giganti ricoperti di pelliccia hanno più doti di quante se ne riescano a scorgere a prima vista. La
gente delle province meridionali non va molto d'accordo con i guerrieri Vikoniani, perché li hanno visti
solo sciamare a bordo dei loro vascelli con in pugno le loro asce da guerra insanguinate. Non è il
momento migliore, probabilmente, per una giusta valutazione. Nonostante la loro forza spaventosa e la
loro natura guerriera, ho scoperto che i Vikoniani sono un popolo cortese e tranquillo. E, mentre talvolta
se ne stanno completamente inoperosi, si ridestano velocemente per l'odore di birra forre o di un
combattimento in atto. Per quanto ne sappia io, trovano entrambe queste attività egualmente attraenti.
Così, io pensavo di aver veramente compreso il modo di vita dei Vikoniani. Ma questo succedeva prima
che conoscessi la gente di Raadnir. Queste creature sono una razza diversa da quelle che solcano i mari
a partire dal gelido porto di Vhiborg. Persino Signar li trovava strani: e quelli, a loro volta, non facevano
niente per farlo sentire a loro agio. Signar era disorientato, e più che disorientato anche un po'
arrabbiato, per il fatto che i Vikoniani sono molto orgogliosi della loro identità e della loro provenienza.
«Ti dico che», disse minacciosamente, stringendo il pugno attorno ad un boccale di birra, «non è questo
il modo di trattare uno della tua stessa razza, e questo è un fatto certo. Perché, se non sapessi come
stanno le cose, Aldair, direi che quelli non sono per niente dei veri Vikoniani, ma solo qualcosa che...
assomiglia a loro.» Scosse la sua grossa testa e fece una smorfia. «Per la Vista del Creatore, non hanno
neanche l' odore giusto!»
«Non li accuserei per questo», rifletté Rhalgorn. «Il giusto odore è sempre stato uno dei punti deboli dei
Vikoniani.»
Signar rizzò il pelo.
«Se fossi in te, alito di coniglio, ci penserei una volta di più prima di parlare di altri popoli, e del loro
mondo di odorare.»
Rhalgorn rise, quel particolare tossicchiare che passa per una risata tra gli Stygiani. Signar-Haldring
ringhiò dal profondo del suo torace, poi si girò a fissare in modo minaccioso le spiagge di Raadnir. In
realtà c'era ben poco da guardare lì. Una pianura rocciosa si abbassava fino ad arrivare al mare,
scivolando dolcemente dalle aride terre che si trovavano alle spalle. Il terreno era coperto di piccole
pietre rotonde, fino a dove l'occhio riusciva a guardare. Nessuna era molto più grande di un ciottolo, dal
momento che gli esemplari più grossi erano stati raccolti per costruire le basse casupole di pietra che
riparavano la gente di Raadnir dal freddo.
Senza voler esagerare, era un posto squallido e sgradevole per viverci. Non c'era da meravigliarsi sul
perché un simile popolo avesse perso la memoria delle sue origini: c'era poco lì che potesse tener vivo il
passato. Signar si rese subito conto di ciò, ma non poteva capacitarsi che un ma-rinaio-guerriero di
Vikonea potesse puzzare di aringa, e che potesse bruciare al fuoco lo sterco dei cervi delle nevi.
Avevamo discusso di quell'argomento più di una volta, ma raramente una volta è abbastanza per un
Vikoniano.
«La gente di Raadnir è quella che è, e, senza ombra di dubbio, così sarà
per sempre», dissi di nuovo. «Se hanno dimenticato il richiamo del mare e il piacere di una lama ben
affilata, c'è una buona ragione. Ciò non di meno, i loro padri erano originari dei fiordi del Mare di
Vhiborg, così come lo erano i vostri padri. Questo è vero, come è vero che piove, che ti piaccia o non ti
piaccia.»
«I padri dei loro padri, e così via», bofonchiò Signar. «È passato molto tempo da quando sono partiti
da li.»
«Può essere così come dici. Pur tuttavia...»
«Aldair...» Signar girò la testa per guardarmi in faccia, con le sue corte orecchie appiattite contro il
vento. «Io so cosa intendi, vecchio amico, e ti dico ancora una volta che ti stai sbagliando. Se stai
aspettando Sergrid Mezza-Barba per far rotta ad occidente, allora vorrà dire che rimarremo rintanati qui
finché i ghiacci del mare non si stringeranno intorno al nostro scafo.» Annusò l'aria e lasciò che la fredda
brezza arruffasse la sua pelliccia. «E tra l'altro, se so riconoscere l'odore dell'aria, il cambiamento del
tempo è cominciato già da alcune settimane.»
Aveva ragione, naturalmente. L'inverno stava per arrivare nella grigia terra di Raadnir. Ed io non avevo
nessuna intenzione di essere ancora in zona quando ciò fosse accaduto. Avrei solcato il Mare delle
Nebbie senza direzione se fosse stato necessario, sebbene quella non fosse un'alternativa che
considerassi particolarmente allettante.
«Dagli ancora un'altra possibilità», gli dissi. «Bevi con lui un altro paio di boccali e fagli un lungo racconto
di saccheggi e bottini.»
«Ah!» Signar storse il naso con disgusto. «La birra non è affatto la bevanda più adatta, e poi odora più di
pesce che del buon malto del Nord. E i racconti dell'antica Vhiborg non renderanno Sergrid Mezza-Barba
più
malleabile, Aldair. Diamine, lui se ne sta seduto lì muto come un rospo su un ceppo, ed ha tutta l'aria di
non credere ad una parola di quello che dico.»
Incontrai lo sguardo di Rhalgorn e cercai disperatamente di mantenermi serio, ma scoppiammo tutti e
due insieme in una sonora risata. Signar ci lanciò un'occhiata piena di stizza.
«Si suppone che nessuno creda ai racconti dei Vikoniani», gli dissi.
«Meno di tutti gli altri un Vikoniano stesso. Le meraviglie di quei racconti consistono nel modo di
raccontarli!»
«O stare seduti per tutto il tempo che dura uno di questi racconti, senza lanciarsi in mare», aggiunse
Rhalgorn. «Anche un Signore dei Lauvectii non ha abbastanza coraggio per fare una cosa simile.»
Io tentai disperatamente di riempire di nuovo il bicchiere del Vikoniano, ma fallii completamente e
inondai il ponte di birra. Rhalgorn, che faceva roteare gli occhi come una lepre impazzita, non aiutava
per niente la situazione. Signar-Haldring non era certo se facesse anche lui parte dello scherzo. Alla fine
ci gratificò di un tetro sogghigno e sollevò la sua enorme mole sul ponte.
«Gli darò un'altra possibilità, allora», disse minaccioso, «giacché mi pare che l'esito della spedizione
dipenda tutto dal buon Signar. Alla fin fine, che io sia dannato se non è vero che quelli che più si danno
da fare sono quelli che se la passano peggio.»
«Sappiamo che farai del tuo meglio», lo rassicurai: Signar emise un profondo grugnito e si allontanò con
passo pesante.
«Se le cose dovessero mettersi al peggio», urlò Rhalgorn dietro di lui,
«gioca le tue carte con quella bella ragazza che hai adocchiato. Quella grossa quasi quanto un fienile.»
Signar si fermò come se fosse rimasto pietrificato, e i peli gli si drizzarono sulla schiena. Per un lungo
momento rimase lì immobile, assaporando la gioia di gettare Rhalgorn nelle acque gelate del mare. Poi
riprese il cammino interrotto, facendo tremare il ponte sotto i suoi stivali. Dopo poco lo sentimmo
sbraitare affinché uno della ciurma avvicinasse una barca al vascello.
«Le tue non sono state parole particolarmente sagge», dissi a Rhalgorn.
«No? Mi sembravano le più appropriate in quel momento.»
«Così sarà sembrato a te. Gli Stygiani non sanno mai quand'è il momento di finirla. Non è nel loro
carattere avere il senso della misura. Ed ecco perché si trovano sempre in un guaio o nell'altro.»
Rhalgorn ghignò e mostrò i suoi lunghi denti. «Solo un guerriero dei Venicii può sapere quanti guai può
portare uno Stygiano. Abbiamo tenuto i vostri musi a occidente del fiume Rheino per più tempo di
quanto tu non possa ricordare.»
«Se siamo a questo», dissi, «ci sono sufficienti pelli grigie a scaldare i pavimenti degli Eubironi e a
dimostrare il perché la tua gente ha sempre di gran lunga preferito la sponda orientale del fiume. Non
c'è nessun...»
Rhalgorn sollevò una mano e fece una smorfia. «Tu l'hai vista, non è vero?»
«Che cosa? Visto chi?»
«Come, la bella Bruhngella, chi altro? Quell'amore di grassa pelliccia della buona gente di Raadnir.
Aldair, ti dico che quella ragazza farebbe davvero una bella coppia con una quercia ben piantata.»
Diedi un'occhiata nervosa al di sopra delle mie spalle per accertarmi che Signar non stesse per caso
tornando indietro.
«Uno di questi giorni», avvertii lo Stygiano, «la buona grassa pelliccia si dimenticherà che tu sei solo il
secondo Signore dei Lauvectii a cui lui non ha abbreviato la vita, pur avendo un'ascia a disposizione. Per
quanto riguarda quella Bruhn non so che, non mi aspettavo che le donne dei Vikoniani assomigliassero a
un ravanello o a una lepre, Rhalgorn. Le femmine di solito assomigliano notevolmente ai maschi della
loro razza, il che mi sembra anche logico.»
Rhalgorn fece un'altra smorfia. «Per favore, Aldair, non menzionare le lepri in mia presenza. Qualche
volta mi sembra quasi di assaporarne qualcuna, ben frollata, dopo essere stata appesa per una
settimana all'uncino del mio albero preferito.»
«Se hai fame», dissi, «come penso che tu ne abbia, visto che l'ora di cena è passata già da mezz'ora, c'è
ancora dell'arrosto di cervo, giù, sotto coperta.»
Gli occhi dello Stygiano brillarono di contentezza.
«Questa è la cosa più degna che io abbia sentito in tutta la giornata. Un cervo non è una lepre, ma
comunque sarà sufficiente finché non troveremo niente di meglio. Anche se solo gli Dei sanno quando
ciò potrà accadere.»
Si alzò in piedi e lanciò un'occhiata disperata verso il piatto orizzonte, poi si rivolse a me. «Aldair,
dovunque siamo diretti, voglio sperare che partiremo presto. Questo non è un posto decoroso dove
stare.»
Detto questo, scosse la pelliccia e scese giù.
DUE
Per Rhalgorn tutto quello che non si trova nelle fitte foreste dei Lauvectii è di natura sconveniente,
perché gli Stygiani non sono creature molto tolleranti. Per una volta, comunque, mi fu difficile dargli
torto. Anch'io pensavo a decine e decine di altri posti dove mi sarebbe piaciuto trovarmi, piuttosto che
sulle desolate spiagge di Raadnir. Si dice che più lontani si è
dalla patria, più quella sembri dolce. Può essere vero, perché nella mia memoria gli sconfinati prati degli
Eubironi erano ombreggiati da una vegetazione di indescrivibile bellezza. Ricordi di questo genere sono
di conforto al viaggiatore, ed è fin troppo semplice dimenticare che molto di ciò che ci siamo lasciati alle
spalle possa consistere solo in quello... teneri ricordi, e niente più. Il terribile occhio rosso della
Sentinella dell'Uomo aveva ridotto il centro di Rhemia ad una landa desolata, e se la sua aura di morte e
di terrore non aveva ancora fatto in tempo a toccare il Nord, sono certo che i suoi effetti si erano sentiti
anche li, pur se in maniera diversa. I Signori di Rhemia si curavano poco dei loro sudditi nei loro periodi
di splendore: non riuscivo ad immaginare che il caos e i disastri li avessero potuti rendere padroni più
solleciti. Tuttavia, non penso che vedremo di nuovo i tempi che noi ricordiamo. La cosa che giace per le
strade di Rhemia ha chiuso un'epoca per sempre, e ne ha spalancata un'altra. Certamente, lo spettro
dell'Uomo ride dalla sua tomba davanti alla follia delle sue creature. Avevamo imparato cosa eravamo, e
cosa eravamo diventati... ma per quel sapere avevamo pagato un prezzo molto alto.
Questo è il programma dei paesaggi turistici e grigi: obbligano i pensieri ad adattarsi ai loro colori
tenebrosi. Io ho scoperto che a volte un buon vinello può neutralizzare questo stato d'animo, e quando
ho saputo dove potermi procurare un tale rimedio, mi sono precipitato per ottenerlo. Sarebbe difficile
trovare due creature più diverse di Thareesh e della bella Corysia. I Nicieani sono nemici per la pelle di
tutti i Rhemiani, e Corysia era addirittura la nipote di Titus Augustus. Comunque, poiché nessuno di noi a
bordo dell' Ahzir al'Rhaz si prendeva la briga di preoccuparsi di cosa avremmo dovuto pensare o fare,
li trovai tutti e due nella mia cabina, che assorbivano il calore della grande stufa di ferro. Tutti e due
erano originari delle calde terre che si trovavano intorno al Mar Meridionale, e non gradivano le rigide
temperature invernali.
Corysia alzò lo sguardo quando io entrai, e nei suoi occhi si leggeva chiaramente una domanda.
«Non ci sono novità di rilievo», le dissi. «La popolazione di Raadnir se ne sta in disparte come sempre.»
«Questa è pur sempre una notizia», sospirò Thareesh, «anche se non è
esattamente quella che uno può essere ansioso di sentire. Se non avessi tanto buon senso, Aldair, direi
che questa terra non è mai stata benedetta dal sole. Non riesco a credere che le spiagge di Raadnir
abbiano mai pro-vato il tepore di una fredda notte nicieana.»
Gli feci un ampio sorriso e mi lasciai cadere vicino a Corysia.
«Thareesh, un luminoso giorno di mezz'estate qui, non potrebbe uguagliare il più freddo sotterraneo in
tutta Chaarduz.»
«Credo che sia vero.»
«Comunque, se ciò può farti sentire meglio, ti dirò questo: non intendo passare un altro giorno in questo
posto se Sergrid Mezza-Barba rifiuta di nuovo la nostra proposta.»
Corysia si illuminò. «E dicevi che non c'erano notizie importanti? Niente potrebbe interessarmi di più!»
Dissi loro che avevo chiesto a Signar-Haldring di fare un ultimo tentativo per guadagnarsi la benevola
attenzione del capo di Raadnir.
«Se non ci riuscirà, salperemo per il sud da soli, con tutti e tre i vascelli. C'è una terra lì da qualche parte,
perché l'ho vista chiaramente dalle torri degli Avakhar.»
«Allora noi la troveremo», disse Thareesh solennemente. «Con o senza l'aiuto di Sergrid Mezza-Barba.
Perché io sono certo che la fortuna è dalla nostra parte, Aldair.»
I suoi occhi incrociarono i miei per un lungo momento: fredde, nere agate in un volto quasi
completamente privo d'espressione. Quelli che non hanno mai vissuto tra i Nicieani hanno paura di
guardarli. A prima vista, sembrano non avere dei veri e propri lineamenti, solamente delle fessure e dei
tagli dove dovrebbero trovarsi il naso, la bocca e le orecchie. Inoltre le loro sottili forme verdastre sono
completamente prive di peluria, ricoperte di piccole scaglie al posto della pelliccia o dei peli. Comunque,
a parte il loro aspetto, i Nicieani sono molto simili a tutti gli altri popoli, con il bene e il male tra di loro.
«Mi sento già molto meglio», disse Thareesh, riempiendosi il boccale con del vino acido, «perché sono
sicuro che entro domani mattina staremo veleggiando verso il sud, e così cominceremo ad essere un po'
più vicini al sole.»
«Spero che tu non ti aspetti subito il caldo della Grande Desolazione», lo misi in guardia. «Se il calcolo di
Signar è giusto, noi ci troviamo quasi alla stessa latitudine di Vikonea. Dovremo navigare un bel po'
prima che si possa parlare di caldo.»
Thareesh lanciò un'occhiata dalle pieghe del suo pesante mantello. «Ti ringrazio per queste parole
rassicuranti, Aldair. Improvvisamente, non mi sento così bene come avevo immaginato. Se vuoi
scusarmi, andrò nella cabina a cercare qualche altra coperta.»
«Non ci sono abbastanza coperte in tutto il mondo per riscaldare un Nicieano», rise Corysia.
«In questo hai ragione», ammise lui. «Come direbbe Rhalgorn, questo non è un posto decente dove
stare.» Un qualcosa di simile ad un sorriso passò per la sottile linea della sua bocca. «Vedi, Aldair? Ci
sono volte in cui persino uno Stygiano dice la verità...»
«... che lui voglia o non voglia», finii io.
Fece gentilmente un cenno con la testa a Corysia e ci lasciò. Il sottile scudiscio verde che aveva per coda
aderiva perfettamente alle sue gambe nel tentativo di ripararsi dal freddo.
Riempii il mio boccale e rabboccai quello di Corysia. Se non ricordo male, le aristocratiche signore
Rhemiane hanno sempre molto da dire, e su ogni argomento.
«È ciò che esse fanno,» disse lei sarcasticamente, «e se ora una di loro fosse qui, tu ne avresti la
certezza, Aldair. Comunque, noi donne comuni che seguiamo guerrieri con un orecchio solo in giro per il
mondo, temiamo la collera dei nostri Signori e, saggiamente, non diciamo niente.»
Risi e le scompigliai i capelli. «Anche tu, come Signar, ti spaventi di un barilotto di birra! Per quanto
riguarda la faccenda dell'orecchio, Signora, ti pregherei di non parlarne più. È già abbastanza che il buon
Rhalgorn si offra quotidianamente di affettarmi quello che mi rimane per far stare la mia testa in
equilibrio.»
Corysia chiuse un occhio e mi squadrò pensierosa.
«Non l'avevo notato prima, Aldair, ma penso che abbia ragione. Forse c'è un'ascia nella cambusa...»
Fece la mossa di alzarsi e io l'attirai verso di me, facendo zittire la sua risata con un bacio. Lei mi passò le
braccia intorno al collo e rimanemmo stretti l'uno all'altro per un lungo momento, in silenzio. Ad esser
sincero non avrei mai pensato che questo momento sarebbe mai potuto arrivare. Tra noi erano successe
molte cose da quella splendente, luminosa mattina in cui l'avevo rapita ai Rhemiani. L'odio e il disprezzo
erano diventati amore, ma ciò non era accaduto in fretta, perché
Corysia non era stata allevata per amare un rozzo guerriero dei Venicii. Io ero un reietto, barbaro ed
eretico. I miei unici compagni erano creature che sembravano venir fuori dall'incubo di un bambino
Rhemiano. Non era il migliore inizio, forse, per un affare di cuore.
Ciononostante, grazie a qualche straordinario miracolo, tra noi adesso c'era l'amore. E, sebbene io abbia
imparato a conoscere bene Corysia, non dimenticherò tanto presto come era allora nella lontana
Doroctium: altera, arrogante, seduta a cavalcioni sulla sua cavalcatura così come avrebbe fatto un
soldato.
In fede mia, non avevo mai visto qualcosa di più incantevole. Aveva occhi neri e liquidi incastonati poco
al di sopra di un musetto impertinente; soffici orecchie ben modellate e dal colore rosa pallido. La sua
elegante figura era ricoperta di finissima pelliccia ramata, e la raffinatezza dei suoi abiti lasciava poco
all'immaginazione. La tunica di seta verde le fasciava le spalle e poi descriveva eleganti giri concentrici
intorno al suo ventre, nascondendo a malapena le sinuose curve delle due morbide file di seni. Una bella
vista davvero per un ragazzo cresciuto nelle pianure degli Eubironi. Sotto certi punti di vista, ho fatto
molta strada negli ultimi anni. Corysia sollevò la testa dalla mia spalla e mi carezzò la guancia.
«E dove stavi viaggiando con i tuoi pensieri, Mastro Aldair? Certamente non sei qui a bordo dell' Ahzir.
»
«Fai meglio a non chiedermelo», le dissi, «perché ora non abbiamo tempo a sufficienza per discutere
l'argomento approfonditamente.»
Corysia apparve divertita. «Ah, capisco.»
«Credo proprio di sì.»
«Allora i tuoi pensieri non erano molto diversi dai miei.»
«Sembra che ciò accada spesso. E, se me lo chiedi, mi pare che questo nostro accordo sia davvero una
bella cosa.»
«Tranne quando non c'è tempo per ulteriori... discussioni.»
«Sì. È l'unico neo.» Corysia sorrise, poi si alzò e si diresse verso l'oblò
dal quale si scorgeva il desolato paesaggio di Raadnir. Rimase a guardar fuori per un lungo momento
senza dire nulla, poi si girò di nuovo verso di me.. «Aldair... cosa pensi che troveremo li?»
«Dove? Nelle Terre Occidentali vuoi dire? Non te lo so dire, Corysia. So solo che si trova lì e che lo devo
trovare.»
«Tu devi, Aldair?» Nei suoi occhi riuscivo chiaramente a leggere l'inquietudine.
«Ci sono sogni menzogneri, e sogni che dicono il vero. Questo non è
mendace. È un sogno che ho fatto più e più volte da quando abbiamo lasciato il Mare Meridionale. E tu
lo sai.»
«Io non dubito di te», disse lei con gentilezza.
Realizzai che le mie parole potevano essere state ambigue, anche se non ne avevo avuto la minima
intenzione.
«Mi dispiace: so che tu non lo fai. Comunque io non ti condannerei se tu lo facessi. E neanche gli altri.»
«È un luogo dell'Uomo, vero?»
Ebbi un momento di esitazione prima di rispondere. «È un luogo dell'Uomo. O lo era.»
C'era dell'altro, e lei lo sapeva bene. Ma non aggiunsi niente e lei non insistette. Avrei voluto
interrompere il silenzio che era caduto tra noi, ma non trovavo le parole adatte.
«Aldair, io comprendo. Ciò che tu dici, e quello che non dici.»
«Bene», le dissi, «perché io non ne sono sempre certo.»
Tutti e due alzammo lo sguardo perché improvvisamente si udì il rumore di pesanti stivali che si
accingevano a venir giù. Non potevano appartenere a nessun altro che non a Signar-Haldring, a meno
che un paio di robuste querce non fossero salite a bordo. Poi la sua figura gigantesca irruppe nel vano
della porta spargendo tutt'intorno peli e ghiaccioli.
«Che io sia dannato se so cosa gli è preso», urlò, «ma lo farà, Aldair. Ha sentito di queste terre del sud, e
si è deciso!»
«Che cosa?» Mi alzai subito in piedi. «Sergrid Mezza-Barba?»
Signar fece cenno di sì con la testa e, pieno di gratitudine, afferrò il boccale caldo che Corysia gli offriva.
«Vuole vederci. Me e te, e sarà qui in meno di un'ora. E c'è anche dell'altro, ci farà una specie di festa,
e verranno tutti. Prova a immaginare che tipo di festa, se ci riesci.»
Sono sicuro che avevo la stessa aria stupefatta di Signar e Corysia.
«Non mi piace molto questo improvviso cambiamento. Non si addice a Sergrid Mezza-Barba.»
«No», fu d'accordo Signar, «sicuramente no. E a me questo fatto piace meno che a te.»
«Una festa hai detto?»
«Proprio così.»
Corysia espresse quella che era la nostra comune opinione.
«Immagino che noi non abbiamo scelta, non è così?»
TRE
La presenza di alcuni ostacoli sul proprio cammino è un fatto naturale e non rappresenta
necessariamente un fonte di preoccupazione. È invece il momento di preoccuparsi quando quegli
ostacoli vengono rimossi all'improvviso, e tutto sembrerebbe a quel punto scorrere liscio come l'acqua.
Così, considerai il ripensamento di Sergrid, nel migliore dei casi, di malaugurio. I miei compagni
condividevano il mio turbamento, in modo particolare Signar, che era riuscito a conoscere la gente di
Raadnir meglio di tutti noi.
«Non mi sembra una cosa vantaggiosa, Aldair», mi disse. E più tardi:
«Questa faccenda mi puzza...» C'era almeno un'altra buona dozzina di oscuri avvertimenti destinati a
rallegrarmi riguardo al compito che mi attendeva. Tuttavia non essendoci alternativa, ci trovammo ben
presto nell'umida catapecchia in pietra di Sergrid Mezza-Barba. C'era poco da vedere li, in quanto
quell'abitazione non assomigliava affatto a quella di un capo, almeno così come ci eravamo abituati a
vederle nei paesi che ci eravamo lasciati alle spalle. C'erano pelli di alce appese ai muri, un mucchio di
boccali di terracotta sporchi, e niente di più, tranne una lampada alimentata con olio di pesce che
crepitava in continuazione e che avrebbe sfigurato persino in una fogna Rhemiana. L'unico indizio
dell'alta posizione di Sergrid era un rozzo tavolo di legno, in pratica un enorme tronco che era stato
spaccato in due. Gli alberi sono rari come l'oro in quella terra, e supposi che quello dovesse essere
l'unico esemplare del genere in tutto il circondario. Il nostro ospite non perse tempo in preamboli. C'era
un boccale di birra sul tavolo e si presumeva che noi lo vedessimo chiaramente.
«Ecco quello che volete», grugnì tirando uno strano fagotto da sotto il tavolo, «sebbene io proprio non
riesca a capire come una creatura sana di mente possa desiderare di andare in un posto del genere.»
Sciolse una specie di laccetto che lo teneva legato e fece aprire il fagotto, poi lo appiattì sul tavolo e
avvicinò la lampada piazzandola in un angolo.
«Qui si trova Raadnir», disse, puntando il suo grosso pollice a nord, «e qui giù c'è il posto di cui voi mi
chiedete.»
Seguii il suo dito che passava sui mari fino all'estremo sud e poi piegava leggermente verso est. Era una
carta piuttosto deludente; consisteva praticamente di linee strane e contorte sul retro di un pezzo di
pelle scorticato, il tutto reso quasi nero dal sudiciume che si era accumulato negli anni. Eppure la gente
di Raadnir apparteneva al popolo dei Vikoniani e persino il più sciocco di loro era nato con la passione
per il mare.
«Sai niente di quel posto?», gli chiesi, «come viene chiamato, o che cosa si può trovare li?»
Lui mi ignorò e diede la sua risposta a Signar. Gli avi di Sergrid avevano raggiunto quella terra molto
tempo prima, e i loro discendenti si erano dimenticati di altre razze. Tutto sommato, per lui anche
Signar-Haldring era una novità, e non era ben sicuro di ciò che doveva fare di noi.
«E va bene, lo so», disse Sergrid accigliato. «E non sono neanche l'unico.»
«E di che si tratta?», gli chiese Signar.
«Come ho già detto non è un posto affascinante.»
«Ci sono pericoli da fronteggiare? Il mare è cattivo?»
«Credo che ci sia tutto questo. E forse anche di peggio.»
Signar mi guardò con aria perplessa. «Hai detto che tu credi, quindi tu non ci sei stato di persona?»
Il muso di Sergrid si contorse in un'atroce smorfia.
« Stato lì!» disse scoppiando in una gran risata, «ma, dite un po', per chi mi avete preso? Io non ho
perso il lume della ragione. No, non ancora, davvero io non l'ho perso!»
Si mise una delle sue grosse mani sulla faccia e si grattò un pezzo di pelle rossa vicino alle mascelle dove
non cresceva più il pelo. La cicatrice di una vecchia ferita, pensai, nonché il segno che gli aveva
procurato il suo soprannome.
«Per risponderti gentilmente», disse «io non sono mai stato lì e neanche qualcun altro c'è stato. Tranne
due, forse, trecento anni fa o pressappoco.»
Indicò cupamente la spiaggia e si versò un boccale di birra. «Le navi che ci portarono qui erano già
andate in rovina prima che mio padre e il padre di mio padre nascessero. Non c'era legname per
costruirne delle altre, cosa di cui vi potete facilmente rendere conto guardandovi intorno. Ora voi siete
appoggiati all'albero dell'ultima di quelle navi.»
Lanciò uno sguardo fiero a Signar-Haldring, e nei suoi occhi si leggeva chiaramente una sfida. «Ma non
abbiamo completamente dimenticato il luogo da dove proveniamo, se è questo ciò a cui state
pensando.»
«Sergrid, io non lo pensavo.» Disse Signar.
Lui sembrò soddisfatto di quella risposta e fece cenno di sì con la testa.
«Vi posso dire una cosa con certezza. Anche se ci fosse la possibilità di avere delle navi, io non farei mai
dirigere la loro prua verso quel luogo.»
Aggrottò le ciglia e coprì la carta con la mano. «È un brutto posto dove andare. Forse il peggiore che
esista. Si raccontano storie che fanno arric-ciare le orecchie. Ve lo assicuro.»
«Che dicono queste storie?»
Sergrid abbassò lo sguardo, riflettendo sulle sue stesse parole. «La leggenda dice che otto navi fecero
rotta verso sud... e solo due ritornarono.»
«E che cosa successe alle altre?», chiese Signar.
Sergrid gli lanciò un'occhiata minacciosa.
«Nessuno di quelli che hanno fatto ritorno ha mai voluto dire che cosa aveva visto... o cosa ne era
stato degli altri.»
Signar ed io ci aspettavano chiaramente dell'altro. Sergrid lo capì e scosse la testa.
«Questo è tutto», disse alzandosi in piedi. «E deve essere abbastanza, se ancora vi è rimasto un briciolo
di buon senso.»
«Sergrid», chiesi io, «la gente che fece ritorno, diede un nome a quel posto? Lo chiamavano in qualche
modo?»
Per la prima volta mi guardò diritto negli occhi. «Sì, lo chiamavano in qualche modo. Sebbene avesse già
un nome.»
Prima che potessi dire qualcos'altro, accartocciò la carta nel pugno e la spinse con violenza verso di me.
«Se ti fa piacere puoi guardare tu stesso. Io non ho niente altro da dirvi!»
Una volta fuori il suo modo di fare cambiò completamente, come se l'argomento delle carte per le Terre
Proibite non fosse mai stato discusso.
«Ci sarà da mangiare e da bere bene alla Grande Casa sulla collina», ci disse. «La vostra gente è attesa
non appena farà buio.»
Detto questo scomparve dietro le pesanti pellicce che ricoprivano la sua porta, lasciando Signar e me soli
sui gelidi pendii di Raadnir. Rimanemmo in silenzio finché non ci fummo notevolmente allontanati dalla
casa di Sergrid. Tutti quelli che sono cresciuti nelle Terre Settentrionali sanno che i suoni si diffondono
molto bene nell'aria gelida e rarefatta.
«Non abbiamo imparato granché», disse Signar alla fine. «Per tutto il tempo non abbiamo fatto altro che
giocare a rimpiattino. O, altrimenti, possiamo dire di aver ottenuto più di quanto cercassimo. Non so
decidermi tra le due ipotesi.»
«Probabilmente sono vere tutte e due», convenni io. «Noi abbiamo un proverbio tra gli Eubironi: Chi ha
la vista lunga per vedere i verdoni, netroverà tre in più di quelli che cerca. »
Signar aveva l'aria assente. «E con ciò che cosa vorresti dire?»
«Probabilmente niente. La carta è abbastanza precisa per portarci fin la?»
«Sì, è abbastanza buona. Ci vorranno circa quindici, venti giorni, credo. Dipende ovviamente dalle bufere
invernali e dal vento. Aldair, non sembra esattamente un posto dove vale la pena di precipitarsi,
vero?»
«No: chiaramente non è quel genere di posto. Se lo fosse, ci sarebbe verosimilmente molto poco da
imparare per noi li. Questa sembra essere la regola quando si ha a che fare con le vestigia dell'Uomo.
Per qualche ragione, Signar, la verità sembra rifuggire dai luoghi ameni di questa terra, e sembra che
preferisca nascondersi in luoghi immondi.»
Signar arricciò il naso. «Questo è un altro proverbio, o che?»
«No, mi sto solo ricordando di dove siamo stati in questi ultimi anni, e dove ci stiamo accingendo ad
andare.»
Mi interruppi, tirai fuori la carta dal mio mantello e la tenni aperta nella luce grigiastra. Nella
catapecchia di Sergrid c'era stata troppa poca luce per poter vedere bene ciò che cercavo, e non avevo
nessuna intenzione di aspettare fino a quando saremmo arrivati sulla nave.
Certamente era necessaria una buona luce. La pelle era vecchia e la scrittura sbiadita e poco chiara. La
maggior parte di ciò che vi era scritto era in lingua Vikoniana, che io riuscivo a leggere a malapena. Pur
tuttavia, all'improvviso, balzarono alla mia vista delle lettere che riuscii a capire con enorme facilità.
«Dunque, questo sì che è interessante!», dissi mostrando a Signar il posto a cui mi riferivo. «È scritto
senza ombra di dubbio in Rhemiano, che è
una lingua molto vicina alla lingua dell'Uomo. MERKKIA», decifrai lentamente. «Giudicando dalla sua
posizione, immagino che dovrebbe essere la terra a cui si riferiva Sergrid, verso sud-ovest. Lui aveva
detto che aveva un nome suo.»
«L'aveva detto», disse Signar torvo, «e se guardi con attenzione al di sotto del nome, potrai leggere il
nome che le ha dato la sua gente. Rhagnirte-holna. »
«E che cosa vuol dire?»
« Rhagnir è l'inferno. Holna è il sogno. Rhagnir te-holna è il Sogno dell'Inferno.»
«Ah, bene. I Vikoniani sono sempre portati all'esagerazione.»
Signar appariva addolorato. «Non quando diamo il nome a una cosa, Aldair. I nomi sono una cosa molto
seria per i Vikoniani.»
Naturalmente sapevo che quanto aveva detto era vero. La gente di mare mente quasi su tutto, ma non
scherzano mai sulle navi sulle quali navigano, o sulle spiagge che toccano nelle loro imprese. È un atto di
grande valore partecipare ad una festa di Vikoniani, se voi stessi non fate parte di quella razza. La
Grande Casa, come veniva chiamata dalla gente di Raadnir, è in realtà un grande cerchio di pietre
ricoperto con innumerevoli pelli di alci legate insieme. Questo prezioso animale fornisce anche il
combustibile per i fuochi di sterco che bruciano in prossimità del centro della struttura. Queste enormi
conflagrazioni fanno scaturire nuvole di fumo puzzolente che invadono la stanza come una fitta nebbia.
Aggiungete a questo l'odore della birra acida, del pesce essiccato e di un gran numero di giganti che non
si lavano, e vi farete più o meno un'idea dell'aria che tirava a quella riunione.
E, naturalmente, c'era un gran fracasso. E i combattimenti. E il martellare di spropositati stivali sul
pavimento seguendo il ritmo di una musica che solo i Vikoniani riescono a percepire.
«Non mi sono mai divertito tanto da quando siamo stati quasi sul punto di morire nella Grande
Desolazione sotto Chaarduz», disse Thareesh.
«Hai ragione», fui d'accordo io, «questa è un'occasione in cui si prova lo stesso tipo di gioia.»
Rhalgorn, che se ne stava rigido come una roccia tra noi due, non disse nulla. I suoi occhi erano iniettati
di sangue, e io sentivo una pesante coda che dava continui colpi contro uno dei miei stivali. I Signori dei
Lauvectii sono cacciatori di natura; riescono a sopravvivere nelle terre del nord grazie al loro olfatto
finissimo, al loro eccellente udito e alla loro vista straordinaria. Il fragore da cui eravamo circondati era
un affronto insopportabile per quelle facoltà. Ancora peggio, ciò che lui vedeva e sentiva aveva un
effetto particolarmente deleterio sul suo pensiero, in quanto la mente e i sensi sono strettamente legati
in uno Stygiano. Corysia non era con noi; l'inaspettato invito di Sergrid non era tuttora di mio
gradimento e io avevo di gran lunga preferito saperla al sicuro a bordo dell' Ahzir. Di solito non le piace
essere tenuta da parte, ma questa volta non aveva fatto obiezioni. In verità, se l'avesse fatto, avrebbe
impedito di partecipare alla festa a tutti quanti noi.
La Grande Casa era lunga e piuttosto stretta e, in qualità di ospiti di Sergrid Mezza-Barba, a noi erano
stati assegnati i posti d'onore al suo fianco, su una specie di tribuna di pietra sollevata dal terreno, vicino
ad una delle estremità della stanza. Ciò costituiva in qualche modo una protezione dalla foresta di alberi
fronzuti che si agitavano e ululavano tutt'intorno. Se qualcuno cadeva ubriaco sul pavimento - il che non
succedeva di rado - noi non saremmo stati coinvolti nel disastro, evitando così di finire in poltiglia. Signar
stava seduto alla mia destra e, a fianco di lui, lo stesso Sergrid. Appena un po' più sotto c'era un gruppo
di circa sei Vikoniani che io stavo osservando da un po' di tempo.
Uno di loro, un vero e proprio colosso anche per quelli della sua razza, aveva chiamato a raccolta quelli
che gli stavano intorno con delle specie di scherzose punzecchiature che tutti trovavano incredibilmente
divertenti. Io non avevo apprezzato la sua vena comica finché all'improvviso non realizzai che il bersaglio
degli scherzi era proprio Sergrid. Con sempre maggiore foga l'enorme Vikoniano scostava la peluria che
cresceva sul suo muso e indicava il palco. Era una rozza imitazione di quel pezzetto di pelle sulla
mascella di Sergrid dove non cresceva più il pelo, e quel gesto faceva sbellicare dalle risa tutti gli altri.
Lanciai una rapida occhiata, oltre Signar, in direzione di Mezza-Barba. Sebbene fosse piuttosto difficile
ignorare ciò che stava succedendo, sembrava non farci assolutamente caso. Signar si accorse del mio
interesse, e abbassò la sua testa vicino alla mia.
«Anch'io li sto guardando. Mi sembra che questo fatto creerà dei problemi, se vuoi sapere il mio
parere.»
«Sai chi sono? Devono essere proprio ubriachi fradici per prendersi gioco di lui, così, in sua presenza.»
«Quello enorme è il fratello di Sergrid, Ghalduff. L'ho già visto altre volte in giro. Per quanto ho potuto
capire sentendo le voci che corrono, pare che non scorra buon sangue tra di loro.»
«Ed è molto probabile che un po' di quel sangue scorrerà, se la faccenda va avanti in questo modo.»
Prima ancora che Signar potesse rispondermi, le risate sotto di noi si amplificarono in un vero e proprio
boato. Il fratello di Sergrid aveva afferrato uno dei suoi compagni e aveva passato il suo coltello,
leggermente e con precisione, sul muso del compare. Il taglio era stato così svelto e inferto con mano
così sicura che aveva lasciato completamente intatta la pelle. Ghalduff emise un ululato e sollevò un
ciuffo di peli, offrendolo poi a Sergrid.
Ancora una volta Mezza-Barba non sembrò prestargli nessuna attenzione. Mi domandai se per caso non
temesse il fratello, o se semplicemente lo disprezzasse. Ad ogni modo, Ghalduff scelse quel momento
per porre fine alla sua sciarada e per imbastirne un'altra, ed io mi guardai intorno con aria di sollievo. In
realtà, avrei dovuto sapere come vanno le cose: i festeggia-menti stavano per cominciare proprio allora.
Era fin troppo chiaro ciò a cui Ghalduff mirava. Aveva chiesto dell'altra birra, ma ciò che gli interessava
era la femmina che la serviva. Lui la guardò con sguardo malizioso e disse qualcosa che suscitò grasse
risate nei suoi compagni. La femmina si scostò e lui la tirò rudemente a sé, sussurrandole qualcosa
all'orecchio. Lei si tirò indietro artigliandogli il volto. Con un sorriso sguaiato Ghalduff le diede un
violento ceffone e la fece cadere per terra. Signar si alzò immediatamente emettendo un profondo
grugnito. Contemporaneamente anche Rhalgorn fu ancora più lesto e una macchia indistinta si slanciò
dalla tribuna direttamente verso la gola di Ghalduff.
«Possano gli Dei essere con noi, ora», brontolò Rhalgorn, « quella è la grande, grassa, graziosa pelliccia
per cui va in brodo di giuggiole!»
Bruhngella. In un improvviso sprazzo di saggezza, l'avevo indovinato. Come spesso accade, le
illuminazioni vengono spesso troppo tardi per essere di una qualche utilità. Ghalduff non era così
ubriaco come era sembrato, ed infatti riuscì a schivare la presa mortale di Signar, e si alzò con agilità
fronteggiando il suo avversario mantenendosi basso sulle gambe, assumendo una posizione da
combattente esperto. Un compagno gli lanciò un'ascia da guerra, e ne trovò un'altra per Signar. Signar
non esitò neanche per un attimo. Con un potente ruggito si scagliò contro Ghalduff e la sua ascia
descrisse nell'aria, davanti a lui, un arco spaventoso.
Ghalduff si ritrasse, attonito. Riuscivo a vedere un improvviso turbamento nei suoi occhi. Quello non era
un modo appropriato per iniziare un combattimento. Prima ci sarebbe dovuta essere una buona
quantità di imprecazioni e di mosse intimidatorie, per far mostra del proprio coraggio. Signar,
comunque, non aveva interesse a svolgere queste formalità. Stava addosso a Ghalduff senza dargli
tregua, costringendolo alla difesa fin dalle prime battute. Ghalduff non era un dilettante, ma aveva
passato tutta la vita a Raadnir, e non poteva sperare di gareggiare con la bravura di combattente di
Signar-Haldring. Sapevo cosa aveva intenzione di fare Signar, perché aveva cominciato a combattere con
il braccio destro, che era rimasto gravemente ferito nel nostro sanguinoso scontro sulla nave Rhemiana.
Ghalduff, naturalmente, non poteva saperlo, e si abituava sempre più ad incontrare la lama di uno che
combatte con il braccio destro. Dopo che Signar l'ebbe adeguatamente abituato ad un simile tipo di
combattimento, passò abilmente ma nel suo braccio sinistro, illeso e quindi più forte, e si accinse al
colpo finale. Non fu un combattimento lungo, ma ci furono dei momenti salienti. Ghalduff resistette più
a lungo di quanto mi sarei aspettato. Poi, la sorpresa e la comprensione di quanto stava accadendo si
affacciarono sul suo volto quando vide la lama di Signar che lo fendeva praticamente in due, dalla spalla
al torace.
Signar indietreggiò e sollevò in alto la sua arma per poter fronteggiare qualsiasi cosa fosse potuta
accadere in seguito. Sono sicuro che nella sua mente si dipingeva esattamente lo stesso quadro che si
andava delineando in quella di Rhalgorn, di Thareesh e nella mia: una breve battaglia senza speranza,
dalla quale sarebbe stato difficile uscire vivi. La folla, che era rimasta scioccata da ciò che aveva visto,
all'improvviso si ridestò piena di spirito di vendetta. Con uno spaventoso ruggito collettivo si lanciarono
contro di noi urlando minacciosamente. Sergrid MezzaBarba si alzò in piedi e fermò il loro attacco.
Scendendo dalla tribuna si fermò un momento a guardare suo fratello e poi si mosse per fronteggiare
Signar.
«Quello che hai fatto è una cosa terribile», disse solennemente. «Mio fratello è stato ucciso, e sebbene
sia stato un combattimento leale, niente lo potrà portare di nuovo in vita.»
Si interruppe, si grattò la mascella e si mise seriamente a riflettere sul problema. Alla fine si girò per
affrontare la folla che si trovava alle sue spalle.
«Se uno della nostra stessa razza avesse fatto scorrere del Sangue Reale, dovrebbe, certamente, pagare
con la sua vita!» Gli irati Vikoniani agitarono i pugni in segno di approvazione. «Ma questa gente è ospite
tra di noi, e gli Dei hanno più diritto di noi di decidere quale trattamento riservare loro.»
La popolazione di Raadnir non fu particolarmente soddisfatta di udire quelle parole, ma tenne per sé le
obiezioni.
Mezza-Barba si rivolse di nuovo a Signar.
«Questa è la mia sentenza Signar-Haldring da Vhiborg. Tu e i tuoi compagni siete banditi da Raadnir. Vi
ammonisco severamente a mettere ancora piede sulle coste di Raadnir. E voi...!» Sergrid si girò e puntò
il suo dito accusatore in direzione del circolo di amici del defunto Ghalduff. «Voi che avete portato mio
fratello a fare questa fine grazie alle vostre idiozie, voi prenderete il mare con loro, e sarete privati di
tutti i vostri titoli e delle vostre proprietà!»
I compagni di Ghalduff apparvero atterriti. Ma Sergrid non aveva ancora finito. Cercando con lo sguardo
tra la folla trovò Brunhgella e la fece avvicinare a lui.
«Fanciulla, in questo giorno tu hai sofferto molto», le disse gentilmente, facendo scivolare il suo braccio
tarchiato intorno alla sua vita. «Il tuo compagno è stato ammazzato davanti ai tuoi occhi, e ti ha lasciato
senza casa.»
« Compagno?», Signar spalancò le sue fauci.
«Comunque», disse Sergrid, «non soffrirai ulteriormente, perché godrai della protezione della Casa
Reale.»
Brunhgella alzò timidamente lo sguardo verso Sergrid, poi lanciò un'occhiata furtiva al disorientato
Signar.
«Ora andate», tuonò Mezza-Barba rivolgendosi a tutti noi, «prima che la collera e il dolore si
impossessino di me!» Non essendo necessarie altre incitazioni, in fila uscimmo velocemente dalla
Grande Casa, lasciandoci alle spalle le grida iraconde della gente di Raadnir.
Lasciammo quella terra la mattina seguente, dopo aver infine compreso perché ci erano state date le
carte che conducevano alla terribile terra chiamata Merkkia, Sogno dell'Inferno. Avevamo anche
arricchito le nostre conoscenze sul modo in cui i saggi capi si liberano di fastidiosi pretendenti al trono e
dei loro compagni, e su come conquistano proprietà, belle fanciulle e l'ammirazione dei loro sudditi
senza muovere personalmente un dito in nessuna di queste faccende.
QUATTRO
Quantunque durante la notte i venti non ci avessero sospinto verso i mari tropicali con la velocità che
Thareesh aveva sperato, il tempo a sud era di gran lunga più mite del freddo pungente di Raadnir. Il
clima era molto simile a quello delle frizzanti giornate d'autunno nel nord della Gaullia, e tutti tra di noi,
tranne i Nicieani, ne erano molto soddisfatti. Persino Corysia ammise che il tempo era accettabile per
fare quattro passi su in coperta, anche se non poteva essere assolutamente paragonato ai giorni assolati
e alle notti miti che si assaporavano nella zona del tacco dello stivale Rhemiano. Signar ci disse che
anche l'acqua lì era più calda, e che supponeva che ci fossimo inseriti in una di quelle ampie correnti che
si muovono come dei veri e propri corsi d'acqua indipendenti all'interno dei mari. Una corrente del
genere scorre a partire da Nord lungo le coste occidentali di Vikonea, ed è ben conosciuta da quelli che
sono soliti navigare in quelle zone. Rhalghorn, naturalmente, aveva già fiutato nell'aria la sua idea al
riguardo e dichiarò che l'acqua era acqua e, per quello che poteva vedere lui, si trovava semplicemente
lì dov'era, a meno che i venti non cominciassero a farla muovere in qualche altra direzione.
Signar gli chiese quali navi avesse mai governato nelle foreste dei Lauvectii, e una cosa tirò l'altra finché
lo Stygiano fu di nuovo bandito a tempo indeterminato dal ponte. Ciò accadeva regolarmente a bordo
dell' Ahziral'Rhaz, e sia Signar che Rhalgorn non vedevano l'ora che arrivasse l'occasione di un nuovo
scontro. Avevamo lasciato Raadnir da circa dieci giorni, quando avvistammo terra, in lontananza, a
dritta. Eravamo tutti piuttosto soddisfatti di questo fatto, anche se Signar si limitò a stringersi nelle
spalle dicendo che non c'era niente di esaltante nell'aver avvistato terra, dato che la carta di Sergrid
Mezza-Barba mostrava che in quel posto ci doveva essere della terraferma e, se uno segue una rotta
Vikoniana, è lecito aspettarsi di vedere quello che deve essere visto. Ciononostante, sono sicuro che
anche lui fosse segretamente sollevato. I nostri sei nuovi componenti dell'equipaggio, gli amici esiliati di
Ghalduff, avevano una naturale predilezione per il mare. Il sangue degli antichi Vikoniani scorreva nelle
loro vene, sebbene loro non avessero mai visto quella terra, né le navi che salpano da quelle sponde.
È vero che all'inizio erano piuttosto scontrosi, dal momento che si trovavano lontano da casa, in mezzo a
creature che non avevano mai visto prima. Ma avevano visto Signar combattere, e non avrebbero
dimenticato tanto in fretta ciò che lui aveva fatto a Ghalduff. Come misura di precauzione, Signar aveva
diviso il gruppo, assegnando due di loro su ognuno dei nostri vascelli.
«Diventeranno degli ottimi marinai», mi aveva assicurato. «Quando saremo arrivati lì dove stiamo
andando, farai fatica a distinguerli dagli altri Vikoniani che abbiamo a bordo.»
«Non credo», dissi, «perché la loro pelliccia è nera come la notte, mentre tu, e ogni altro Vikoniano che
conosco, avete la pelliccia con delle belle sfumature color giallo-bruno.»
Signar ci pensò un po' su e si grattò lo stomaco. «Ci ho riflettuto a lungo, e penso di aver trovato una
risposta al fatto che ci siano dei Vikoniani a Raadnir, e come siano arrivati li. Ci sono dei racconti su una
guerra combattuta circa cinquecento anni fa in Norghaadland, che è un luogo selvaggio e arido ad est di
Vhiborg. Si dice che la Luce ha vinto sulle Tenebre in una grande battaglia che si svolse li: come il Bene
che vince il Male, capisci. Solo che non sono sicuro se il racconto non sia stato per caso distorto; è
possibile che a combattersi siano state pellicce dalle sfumature di colore diverso, invece di qualche altra
cosa.» Signar fece una smorfia e scosse la testa. «Il modo in cui la vedo io è che, chiunque vinca
qualche contesa, viene considerato la parte buona, soprattutto a partire dal momento in cui si
cominciano a raccontare delle storie su determinati avvenimenti.»
«C'è molta verità in ciò che dici.»
«Io credo che sia una cosa naturale», aggiunse Signar. «Perlomeno è
stato sempre così».
« Una cosa naturale? » Mi girai verso di lui, infuriato a causa delle sue parole. «Naturale un corno,
Signar! È la Maledizione dell'Uomo che ci porta a combattere l'uno contro l'altro, e genera odio verso
ogni creatura che non abbia la coda o il naso in tutto e per tutto simili a quelli che abbiamo noi!»
Vidi lo smarrimento nei suoi occhi e mi accorsi che si stava vergognando enormemente.
«Signar, perdonami. La mia rabbia, vecchio mio, non era rivolta verso di te.»
Signar alzò le sue spalle possenti. «So che questo è vero, Aldair, e tu hai perfettamente ragione nel dire
ciò che dici. Credo di saperlo meglio di molti altri, non è vero?»
«Certamente tu lo sai, perché insieme noi abbiamo visto molte cose che nessuno dei due ha piacere di
ricordare.»
Le tempeste a mare fanno parte della vita di un marinaio così come ne fa parte il respiro. Non ci sono
mai tempeste buone: solo quelle cattive, e qualche volta terribili. Quella che si abbatté su di noi da Sud
nel nostro quattordicesimo giorno di viaggio, fu forte a sufficienza per mettere alla prova la nostra
abilità e per non farci dormire eccessivamente. Comunque, avevamo conosciuto venti parecchio più
pericolosi. La mia più grossa paura era quella che la tempesta potesse sparpagliare i nostri vascelli
portandoli al largo, lontani l'uno dall'altro, e che fosse poi difficile poterci riunire di nuovo tutti insieme.
Mi fidavo ciecamente dei Capitani, sia dell' Aghiir Tharrin che dello Shamma a'Lan. Erano navigatori
esperti: uno era un Nicieano, l'altro un Vikoniano cugino di Signar. Ognuno di loro conosceva bene il suo
mestiere, e aveva con sé uno di quei preziosi strumenti che riescono sempre a far trovare la strada (che
sono il segreto dei marinai di Niciea): un piccolo ago di metallo che indica sempre il nord.
Dopo che la tempesta fu passata, lo Shamma a'Lan si era allontanato verso oriente, pur rimanendo
ancora in vista, e stava correggendo in fretta la rotta per adeguarla alla nostra. Ma, due giorni dopo, non
c'era ancora nessuna traccia dell' Aghiir Tharrin. Persino Signar-Haldring cominciò a manifestare una
certa preoccupazione.
«Se al vascello non fosse successo niente, avrebbe dovuto ricongiungersi a noi già da parecchio tempo.»
«Questo è un mare molto grande», gli dissi. «Anche se si trovano appena dietro la linea dell'orizzonte,
sono comunque a molte leghe di distanza da noi.»
Signar non rispose niente. Si girò verso il ponte e annusò l'aria, come se in qualche maniera fosse stato
in grado di cogliere l'odore dell' AghiirTharrin. Lo lasciai lì e scesi sotto coperta, perché avevo un'idea
su come abbreviare la sua veglia.
Ci sono molte cose che io ricordo dei porti dell'Uomo, che vidi nelle profondità al di sotto della grande
città morta sull'Isola di Albion. Lì c'erano da vedere delle cose orribili, così come ce ne erano delle altre
mirabili. Le immagini delle migliaia di grigie finestre fantasma che si muovevano e parlavano, avrebbero
fatto impazzire una persona, se si fosse fermata a guardarle tutte insieme. E, sebbene io non approvi le
opere dell'Uomo, ci sono cose che ho visto che hanno colpito la mia fantasia e che non sembravano
essere pericolose. Una di queste cose era un congegno che avrei già usato molto tempo prima se avessi
avuto a disposizione più tempo e i materiali adatti. Ci avrebbe risparmiato una gran quantità di ricerche
inutili nella nostra tappa intorno al Corno di Kenyarsha, quando non osammo scendere a terra. Così,
prima di far vela verso il Mare delle Nebbie, feci in modo che il congegno fosse messo insieme da alcuni
artigiani nel libero porto Nicieiano di Bhazaar, e poi imballato a bordo dell' Azhir. I miei compagni
furono molto divertiti dalla cosa, e in modo particolare Rhalgorn, che promise solennemente di tagliarsi
la coda con l'ascia di guerra di Signar se quell'arnese avesse solo vagamente assomigliato a ciò che io
pretendevo. Ora, pensai, dato che l' Aghiir Tharrin era scomparso dalla nostra vista, l'avrei obbligato a
mantenere quella sua promessa.
In verità ero sorpreso come tutti gli altri di vedere quella grande sfera di stoffa che effettivamente
fluttuava in aria ad alcuni metri di distanza dal ponte, con le sue corde tese e salde, desiderosa di
librarsi nell'aria. Forse, in qualche recondito e più sensibile recesso della mia mente, mi ero immaginato
che sarebbe rimasta immobile e che non avrebbe fatto assolutamente nulla.
«È... alquanto più grande di quanto avessi pensato», dissi, non riuscendo in quel momento a trovare
niente di più intelligente da dire.
«Anche noi abbiamo dei proverbi tra i Lauvectii», disse Rhalgorn con aria cupa. «Me ne ricordo uno che
dice che una persona può rompersi l'osso del collo cadendo dal letto, oppure cadendo da un albero. La
differenza consiste nel tempo che si ha a disposizione per pensare alla propria follia durante la caduta.»
«Questo non è un detto dei Lauvectii. L'hai inventato tu per l'occasione.»
Rhalgorn si strinse nelle spalle. «Da dove credi che abbiano origine i proverbi? Qualcuno deve essere il
primo.»
«Oggi è proprio una bella giornata tranquilla», si intromise Signar. «Se la corda non si rompe, hai
qualche probabilità di farla tornare indietro.»
«Grazie infinite. Sono sicuro che mi ricorderò di queste parole.»
«Che succede se perde, Aldair?», chiese Corysia. «O se i carboni si spengono.»
«O se invece non si spengono», aggiunse Rhalgorn, «e mandano a fuoco l'aggeggio?»
Mi girai e li fronteggiai facendo tutti gli sforzi possibili per mostrarmi di gran lunga più calmo di quanto
in realtà non fossi. Pensare un simile congegno è una cosa: metterlo realmente in pratica è
decisamente un'altra. Il piccolo cesto munito di canne che si trovava all'estremità, appariva ogni
momento più piccolo e più fragile.
«Arrivederci», dissi piuttosto teso, «potreste augurarmi un piacevole volo, se ne avete voglia. Non
appena avrò individuato l' Aghiir Tharrin, vi farò dei segnali per farmi tirare di nuovo giù.» Detto
questo, saltai nel cestello cercando di avere un atteggiamento quanto più dignitoso possibile.
«Aspetta un attimo», disse Thareesh saltando al mio fianco. «Verrò anch'io, Aldair.»
Io lo guardai stupito e così fecero anche tutti gli altri.
«Ai Nicieani piacciono i luoghi alti, o forse te ne sei dimenticato?» Sor-rise, così come riesce a fare un
Nicieano, ed io gli sorrisi in risposta, proprio altrettanto scioccamente.
«È bello sapere di avere un compagno coraggioso!», urlai agli altri.
«È triste imparare che ci sono due sciocchi a bordo dell' Ahzir», disse Signar-Haldring. CINQUE
Rhalgorn aveva ragione. Se uno cade da una simile altezza, ha davvero tutto il tempo di meditare sulla
propria follia. Comunque, mentre ci si trova ancora in alto, ci sono molte cose che tengono occupati. Il
congegno non funziona da solo, richiede una buona dose di attenzione e di lavoro. C'è il recipiente dei
carboni da tenere accesi, le scorie di carbone che devono essere messe da parte prima che le tue brache
prendano fuoco, e le corde che tendono ad attorcigliarsi e ad ingarbugliarsi, cosa questa che non deve
succedere.
Fui molto riconoscente a Thareesh; è vero che i Nicieani trovano di loro gusto i luoghi alti e si divertono
a praticare uno sport che consiste nel saltare da un albero all'altro in cima alle navi, o a stare appesi al
sartiame avendo come unico punto d'appoggio la loro coda.
«Credo che gli uccelli siano abituati a tutto ciò», urlai a Thareesh cercando di coprire il rumore del vento,
«e non mette conto parlarne!»
Lui annuì mentre, precariamente appollaiato sul bordo del nostro cespuglio, cercava di liberare una fune
particolarmente ingarbugliata dalle altre. Quando ebbe finito, saltò giù e si avvicinò a me, in modo che
riuscissimo a sentirci quando parlavamo.
«C'è una cosa che non abbiamo considerato in quest'avventura, Aldair.»
«Solo una? A me ne vengono in mente parecchie.»
«Sto parlando del vento», disse. «Qui sopra non è lo stesso di giù.»
In effetti era proprio così, e la differenza era particolarmente frustrante. Mentre la nave viaggiava ad
una certa velocità, noi procedevamo ad un'altra. In questo modo la fune che ci teneva legati all' Ahzir
era sempre in tensione, costringendo il nostro cestello ad essere sempre inclinato e a formare un angolo
preoccupante. Noi ci eravamo accorti di questo problema immediatamente, ma avevamo sperato che in
qualche modo si sarebbe risolto da solo.
«Questo tuo congegno è stato studiato per sfruttare il vento», disse Thareesh con aria torva.
«Lo vedo. Avevo immaginato che avrebbe semplicemente fluttuato al di sopra della nave. E, se fosse
stato così, ora qui sopra la situazione sarebbe più piacevole.»
«Lo sarebbe decisamente. Ma penso che non abbia alcuna intenzione di raddrizzarsi. Penso che
preferisca rimanere obliquo.»
«Thareesh, io non credo che potremo ignorare questo fatto per ancora molto tempo. Credo che ci
troviamo in un bel pasticcio.»
Una brezza più forte portò in alto la sfera rigonfia, facendoci vacillare sulle gambe e spargendo carboni
ardenti tutt'intorno. Per un attimo la pelle verde del Nicieano divenne mortalmente bianca.
«Ci sono due cose che possiamo fare», disse con calma, stringendo con forza i lati della nostra
imbarcazione. «Possiamo fare dei segnali alla nave per farci tirare giù, il che ci farebbe inclinare ancora
di più, o...»
«O», completai io, «possiamo tagliare la fune e correre il rischio. Non mi pare che abbiamo molta scelta,
anche se non è una decisione brillante.»
«No, non lo è. Ma è meglio che facciamo qualcosa finché abbiamo ancora qualche possibilità di riuscita.
Mantieniti forte, per favore. È molto probabile che non sarà piacevole.»
Detto questo, tirò fuori una ben affilata lama Nicieana e ci liberò dall' Ahzir. Il nostro cestello ebbe uno
scarto così violento ed improvviso da provocare il vomito e che ci fece quasi rovesciare poi, libero da
ogni costrizione, il congegno si librò in alto con velocità vertiginosa. Azzardai un'occhiata guardinga al di
la del bordo. C'era un'enorme quantità di acqua blu, e praticamente nient'altro. L' Ahzir e lo Sfiamma
stavano rapidamente diventando dei pezzettini di legno sull'immensa superficie del mare.
«E ora?», chiese Thareesh.
«Ora», dissi io, «abbiamo due nuove ipotesi da considerare. Possiamo coprire il carbone ed assicurarci
che nel congegno non entri più aria calda. Se tutto va bene, potremmo quindi abbassarci lentamente
sull'acqua, mentre siamo ancora in vista dell' Ahzir. O possiamo raggiungere lo stesso effetto in modo
più rapido.»
«Io sono per il modo più veloce», disse Thareesh in fretta. «Almeno, credo che sia meglio. Come
facciamo?»
«Tu salti sulle corde e pratichi alcuni buchi nella stoffa, permettendo così all'aria di uscire.»
Thareesh mi osservò con aria molto composta. «Capisco. Io salto sulle corde.»
«Tu sei un Nicieano. I Nicieani sono bravi a fare queste cose.»
«Questo è vero», ammise Thareesh. «Ma questa è un'altezza piuttosto insolita persino per un Nicieano.
Aldair, ti sei reso conto che gli uccelli volano sotto di noi?»
«L'ho notato.»
«Bene», sospirò Thareesh, «quanto lo vuoi grande il buco?»
«Questo è un particolare che non ho ancora deciso», gli spiegai io, «se facciamo un buco troppo piccolo,
non servirà a niente. D'altra parte...»
Thareesh fece un gesto per indicare un sasso che si fracassava contro la sua mano.
«Esattamente», dissi io.
«Io propongo l'altra soluzione», disse Thareesh cupo in volto. Ero propenso ad essere d'accordo, dal
momento che non avevamo nessuna fretta di cadere nell'acqua. Signar, ora che si era reso conto di ciò
che ci era successo, ci avrebbe seguito. Procedendo a vele spiegate, avrebbe raggiunto il posto del
nostro ammaraggio in un battibaleno. Io e Thareesh ci scambiammo sorrisi rassicuranti e coprimmo il
carbone del nostro recipiente. Decisi che la nostra dolce discesa sarebbe cominciata da un momento
all'altro. Dopo un po' di tempo stavamo ancora salendo in alto, al di sopra della terra, spostandoci
velocemente verso ovest. Il congegno non sembrava minimamente risentire del fatto che avesse o meno
dell'aria supplementare. Se la cavava a meraviglia, proprio così come faceva prima. Sotto un certo punto
di vista, noi avevamo portato a buon fine ciò che ci eravamo proposti di fare. Mentre eravamo ormai
irreparabilmente fuori portata di due dei nostri vascelli, ci trovavamo in un'eccellente posizione per
individuare il terzo. Specialmente se si fosse trovato a navigare nella direzione in cui ci stavamo
dirigendo noi. C'erano momenti in cui avevamo la netta sensazione che certamente stavamo scendendo
verso il basso, ma è
difficile giudicare cose di questo genere quando ci si trova al di sopra della terra. Niente diventa più
grande o più piccolo. C'è solo il cielo, il mare, e una sottile linea nel mezzo.
«Senza dubbio», disse Thareesh, «quelli che hanno inventato questa imbarcazione dovevano essere
molto abili a manovrarla, per poter salire e scendere.»
«Sembra proprio che lo fossero», convenni io. «Non mi sembra ragionevole che saltassero sulle corde e
facessero dei buchi nella stoffa ogni volta che volevano scendere.»
«No, non lo è.»
«Che io sia dannato, Thareesh! Ecco cosa ci si guadagna a riportare in vita le meraviglie dell'Uomo.
Niente che quella razza abbia inventato porta a qualcosa di buono. Vedi dove ci ha portato la mia
curiosità? Siamo in un mare di guai, senza voler esagerare.»
Thareesh si mise ad annusare l'aria e mi gratificò di un pacifico sorriso Nicieano.
«Aldair, questa sembra una giornata adatta ai proverbi. Vuoi sentirne uno che fa parte del bagaglio
dell'antica saggezza Nicieana? Se uno si frusta con la sua stessa coda per ogni sbaglio che fa, si
ritroverebbe presto con una semplice protuberanza.»
«Ciò è molto confortante.»
«Forse no, ma è appropriato alla situazione.»
«Ti dico io cosa è appropriato alla situazione. Il sole sta tramontando, così come fa ogni giorno. Noi
fluttueremo presto nelle tenebre.»
Thareesh considerò la faccenda. «Pensi che ora dovremmo fare dei buchi nell'apparecchio, Aldair?»
«Sfortunatamente», gli ricordai, «questa non è più una delle nostre alternative. Il cestello non
galleggerà, Thareesh. Ci sono troppi buchi tra le canne. Non possiamo arrivare in acqua in quel modo
a meno che non ci sia qualcuno che ci tiri su molto in fretta.»
Il Nicieano si strinse le mascelle tra le lunghe dita. «Mi vergogno ad ammetterlo, ma non avevo pensato
a questo fatto.»
«Non ridurti la coda ad una semplice protuberanza», gli dissi. «Non ci farà scendere più in fretta, e...»
« Aldair! Smettila di declamare sagge sentenze e guarda li!»
Mi tirai su e seguii il suo braccio che puntava ad ovest.
«Cosa c'è? Io non vedo altro che il sole, e un mare luminoso come il ferro.»
«Li», indicò lui, «sulla linea dell'orizzonte. Se tu fossi nato vicino al Mare Meridionale, riusciresti a
vedere oltre la luminosità. C'è una linea scura lì che diventa ogni momento più scura!»
Aveva ragione, ma i miei occhi erano diventati pesanti come il piombo prima che fossi arrivato ad
intravederla.
«È una fila di nubi cariche di pioggia... o si tratta di terra.»
Thareesh scosse la testa. « Non è una fila di nuvole», disse con fermezza.
«E guarda... ci sono delle isole, più lontano a dritta.»
Io studiai quella scena luminosa per un lungo momento.
«Non sono delle isole molto grandi, se poi sono proprio isole.»
«Sono grandi abbastanza», disse Thareesh tutto contento, «e la terraferma è anche più grande.»
«È certamente molto meglio che ammarare in mare aperto di notte», mi trovai d'accordo io. «Ora, se
solo Signar...» Mi interruppi, sollevai una mano e mi schiaffeggiai violentemente proprio sulla fronte.
«E ora che succede?»
« Succede che ecco cosa capita a non far funzionare bene il cervello», grugnii io. «Abbiamo
dimenticato dove ci troviamo, Thareesh. Vecchio amico mio, cosa altro c'è a occidente se non Merkkia?
Siamo arrivati al Sogno dell'Inferno.»
Thareesh mi lanciò un'occhiata cupa. «Aldair, saremo su quel luogo in un attimo.»
Io mi sporsi fuori, e cercai di calcolare la nostra velocità tenendo presente la terra che ci trovavamo di
fronte. Le isole si trovavano ora sotto di noi, e noi ci stavamo spostando rapidamente verso la spiaggia.
Ci saremmo arenati su quei minuscoli pezzettini di pietra, ma era un'alternativa di gran lunga più
allettante di Merkkia...
Thareesh mi afferrò per la spalla e mi fece voltare verso il punto più
lontano del cestello.
«Aldair, riesco a stento a credere ai miei occhi», urlò, «ma è li, senza ombra di dubbio. Guarda, vicino a
quell'isola, verso sinistra: è la nave!»
Io la vidi immediatamente. «L' Ahzir! Per tutti i diavoli dell'Inferno, come hanno fatto ad arrivare qui
prima di noi?»
Thareesh scosse la testa. «Non è l' Ahzir, è l' Aghiir Tharrinn. Ha l'albero rotto, ma l'equipaggio è
ancora a bordo.»
«Quindi possono vederci!»
«Esattamente.»
Era ormai già a mezza strada sulle corde, e si stava aprendo rapidamente la via verso il grande sacco di
stoffa. Il suo coltello vibrò nell'aria e aprì un grosso squarcio nell'aggeggio. Poi un altro. E un altro
ancora.
«Thareesh», gridai, «dannazione, smettila! Basta così!»
Il vento portò lontano le mie parole, e il Nicieano continuò il suo lavoro come invasato da uno spirito di
vendetta. Aveva aspettato già abbastanza a lungo per far toccare terra a quella imbarcazione, ed era
determinato a compiere bene il suo compito.
Sarà sufficiente dire che non cademmo in acqua dolcemente. Il sacco si sgonfiò all'improvviso e
precipitammo al suolo come una pietra. Un attimo prima ci libravamo maestosamente nell'aria come un
falco: l'attimo dopo, avevamo tutta la grazia e la bellezza di un sacco di rape. Mi ricordo molte cose della
nostra discesa. La più memorabile è la vista di Thareesh, un ammasso verde di braccia, gambe e coda
che tentava di arrampicarsi nell'aria per tornare indietro su niente di più consistente di un pezzo di fune
mallata. C'era un'espressione incredibilmente sbigottita sul suo volto quando arrivò alla fine di quel
pezzetto.
SEI
Sebbene raramente si ottengano dei riconoscimenti per le proprie imprese, quasi sempre si viene
considerati colpevoli dei propri errori. Questo sarà probabilmente un proverbio da qualche parte nel
mondo. E, se non lo è, dovrebbe esserlo.
I nostri compagni furono sorpresi quanto sollevati di trovarci vivi e in condizioni accettabili, ad aspettarli
a bordo del mutilato Aghiir. Poi seguì
una felice riunione con conseguenti libagioni di grandi qualità di birra chiara e di birra d'orzo. E dopo
ancora ci fu un seguito quasi infinito di commenti sulla nostra avventura:
Rhalgorn: Signar, che cos'è che vola così alto, lì contro il sole? Direi che è un falco, ma è più veloce, e
molto meno aggraziato. Un gufo, forse?
Signar: Non può essere un gufo: ha la coda arricciata, e un orecchio... Rhalgorn: Per tutti gli Dei, adesso
lo riconosco: è il raro Venicio volante a muso corto!
Signar: Dannazione a me, penso che tu abbia ragione. E guarda... ce n'è
un altro, tutto verde e pieno di scaglie. È certamente il Nicieano coda a scudiscio e acchiappa insetti!
Menzionerò solo uno di questi divertenti spezzoni di conversazione; furono tutti dello stesso stampo e,
secondo il mio modo di vedere, penso che diventino noiosi molto in fretta.
Corysia non era divertita dalla mia avventura volante. A lei era sembrata semplicemente un'inutile follia,
sebbene io facessi notare che noi, in un modo o nell'altro, avevamo trovato l' Aghiir. Questa era senza
dubbio proprio la cosa più sbagliata da dire e, infatti, lei se ne andò nella nostra cabina dove rimase per
un bel po' di tempo. Almeno, avevo avuto il buon senso di non dirle che il congegno volante era stato
recuperato dal mare e che addirittura stava per essere riparato per un uso futuro. Thareesh ed io
avevamo già pensato a parecchi modi grazie ai quali il congegno avrebbe potuto essere migliorato e
controllato con più
efficacia. Come ho già detto, quello non era assolutamente il momento adatto per discutere con Corysia
di tali progetti.
Prima di mezzogiorno, mi incontrai con Signar-Haldring e i suoi Capitani per fare il punto della nostra
situazione. Tutti e tre concordarono che la terra che ci stava di fronte era effettivamente quella che sulla
carta di Sergrid corrispondeva al nome di Merkkia. Ad ogni modo, non erano affatto convinti che ci
trovassimo dalle parti dove era sbarcata la spedizione proveniente da Raadnir. Signar era del parere che
il posto fosse più spostato a sud. Bhaldrig e Seeshar avevano l'impressione che probabilmente si
trovasse più a nord. Avremmo potuto far vela verso un bel po' di direzioni nello sforzo di centrare
l'esatta ubicazione ma, nel far ciò, ci sarebbe stato poco merito. Non trovavo di mio gradimento l'idea di
lasciare l' Aghiir solo su una riva sconosciuta, senza l'albero a posto.
«Tu mi hai informato», disse Signar torvo, «che era un approdo buono o cattivo esattamente come
qualsiasi altro, se i racconti su questo luogo erano veri. Abbiamo buone probabilità di andare incontro a
dei guai, anche se ci troviamo uno o due gradi fuori rotta.»
«Questa è un'idea esaltante», gli dissi, «e probabilmente tu hai perfettamente ragione. Tuttavia, mi
piacerebbe che ci avvicinassimo il più possibile. Penso che sia importante che noi troviamo... qualsiasi
cosa gli altri hanno trovato.»
Seeshar si abbassò per avvicinare la carta agli occhi. Era vecchio, ma molto abile. La sua pelle verde si
era essiccata durante i numerosi anni di servizio presso un Impero e un Re al quale lui era sopravvissuto.
«Aldair», disse, «ho l'impressione che noi potremmo approdare nel posto che cerchiamo anche cento e
più volte... e ancora non essere certi di essere arrivati proprio li. Sotto certi punti di vista tutte le terre
sono uguali; hanno baie, insenature, e spiagge a centinaia e centinaia, ed ognuna è sempre molto simile
all'altra. A meno che non ci sia lì qualcosa che ti guidi, o sia un posto dove tu sei già stato in precedenza,
non c'è nessun modo affidabile per stabilire che sei arrivato dove volevi.»
Signar e Bhaldrig annuirono manifestando così il loro consenso. Io guardai dietro di loro le piccole isole
che si trovavano a dritta. Più in là, una bassa foschia avvolgeva la costa, nascondendo allo sguardo la
terra di Merkkia.
«Allora ecco come agiremo», dissi loro. «Partiremo tutti insieme, e setacceremo la costa in cerca di un
approdo favorevole. Ci vorrà probabil-mente un po' più di tempo così facendo, ma saremo tutti più
tranquilli sapendo che abbiamo altre due navi a fianco.»
«Se c'è del vero nei racconti di Raadnir», aggiunse Seeshar, «sarebbe più
prudente affrontare una terra simile insieme.»
Così, all'alba del giorno seguente, l' Ahzir e lo Shamma al'Lan diressero la loro prua verso la
terraferma, mentre l' Aghiir veniva rimorchiato. Il sole splendeva luminoso, e un venticello frizzante
entrava a gonfiare le nostre vele. Persino le coste di Merkkia sembravano verdi ed invitanti. Le acque
erano sorprendentemente tranquille, con ben poco movimento al di sotto della superficie. Questa non è
di solito la norma quando ci si avvicina sottocosta, dove correnti sottomarine possono rivelarsi molto
insidiose. Signar disse che le numerose isolette che correvano parallele alla riva funzionavano come una
scogliera protettiva contro il mare. Ero piuttosto curioso riguardo a quelle isole, che avevano un aspetto
diverso da tutte le altre che avevo visto. Poche si potevano definire grandi, ed erano tutte una molto
simile all'altra: spoglie collinette rocciose dall'altezza insignificante. Quando ci facemmo più vicini alla
costa, sembrarono essere un po' più alte, ma nessuna si sollevava più di alcuni metri sul livello della
superficie del mare. Signar non sapeva spiegare quel fenomeno, né potevano farlo gli altri esperti
marmai a bordo dell' Ahzir. Tutti, comunque, notarono che c'è sempre qualcosa di nuovo da vedere
nel mondo. Mentre io soppesavo quelle parole di saggezza, qualcuno mi sfiorò delicatamente il braccio
e, rigirandomi, vidi Corysia. Lei non disse nulla, ma rimase semplicemente al mio fianco a guardare la
nostra prua che fendeva l'acqua del mare creando una gran quantità di schiuma.
«È uno spettacolo che mi fa sempre venire sete», dissi io accennando all'acqua spumeggiante, «perché
assomiglia in modo impressionante alla parte superiore di un bel boccale di birra chiara.»
«Non è un paragone particolarmente brillante», disse Corysia freddamente.
«Non c'è niente di particolarmente brillante in un boccale di birra, ma è
una cosa piacevole a cui pensare. Naturalmente, a volte, il mare ha un colore dalla sfumatura diversa, e
allora mi viene da pensare alla spuma su un bicchiere di forte birra d'orzo, che è notevolmente più
densa e...»
«Aldair...»
Le feci un largo sorriso, al che lei sollevò il musetto e distolse lo sguardo.
«Io continuo a non parlarti.»
«Ma se l'hai appena fatto.»
«Me ne ero dimenticata.»
«Bene.»
«Ma ora me ne sono ricordata.»
«Se è ancora per quella storia del congegno volante...»
«È esattamente quello il motivo.»
«Corysia», le dissi facendola girare verso di me in modo da guardarla in volto, «che altro c'è da dire
sull'argomento?»
«Probabilmente niente. Ma... io ci sto ancor pensando.»
«E allora pensa a qualche altra cosa.»
«Del tipo?»
«Bèh, potresti approfondire l'argomento dei paragoni brillanti.»
«Non sono dell'umore adatto per pensare ai paragoni.»
«Bene, allora...»
«Aldair, potevi rimanere ucciso.»
«Ma non è successo.»
Lei sospirò, passandovi una mano tra i bei capelli color del rame. «Mi vuoi promettere una cosa, Aldair?»
«Che cosa?» Sapevo naturalmente fin troppo bene di cosa si trattava.
«Che tu non farai mai più, mai più, una cosa tanto stupida?»
«Ho sempre trovato difficile svisare i fatti quando Corysia mi guarda dritto negli occhi.
«C'è una cosa che voglio prometterti», dissi con il tono più solenne di cui fossi capace, «al momento,
Corysia...»
« Aldair!» Signar urlava a squarciagola il mio nome dal ponte.
«Corysia, devo andare.»
«Ma non hai...»
«Lo so. Ma lo farò.» Mi voltai e mi avviai rapidamente verso il ponte, ringraziando in cuor mio quella
divinità che aveva scelto proprio il momento più adatto per tirarmi fuori dai carboni ardenti. Signar
indicava la riva. «È la foce di un fiume che, dall'aspetto, è anche abbastanza profondo da poterci
navigare con i nostri scafi. Potremmo raggiungere un porto migliore, e avremmo ancora acque tranquille
alle spalle.»
Era davvero una buona idea, e me ne convinsi immediatamente. Non potevamo prevedere davanti a
quali pericoli ci saremmo trovati in quella terra, per cui un ritirata veloce era una cosa che trovavo molto
di mio gra-dimento. Signar urlò un ordine, e l' Ahzir al'Rhaz virò bruscamente a dritta con le grosse
vele che sbattevano al vento. La foce del fiume, che era spaziosa e dal colore blu intenso, si aprì davanti
a noi.
Trovai interessante che le piccole isole che si trovavano al largo di Merkkia non si fermassero sulla riva
ma continuassero anche lungo il corso del fiume e che infine diventassero particolarmente ricche di
fogliame lungo entrambe le rive.
Per un po' rimasi fermo a guardare vicino alla battagliola, godendomi quel panorama. Poi, lentamente,
cominciò a farsi strada in me il pensiero che c'era qualcosa di sbagliato nel mio ragionamento. Le isole
non marciano lungo il corso del fiume e non si allineano lungo le loro rive! In verità
non fanno affatto cose di questo genere!
Improvvisamente mi fu tutto chiaro, e realizzai con esattezza ciò che stavo vedendo. E, con la
comprensione, arrivò anche un terribile brivido che mi corse lungo la schiena. Quelle non erano affatto
delle isole, ma vecchie torri striminzite. E il nostro fiume non era per niente un fiume, ma un'ampia
strada sopra una città sommersa dell'Uomo.
SETTE
Le vestigia dell'Uomo si possono vedere in ogni terra, sebbene pochi le sappiano riconoscere per quello
che sono. L'agricoltore che rompe il suo aratro sulle radici di una città morta da lungo tempo, può
maledire le pietre che bloccano il suo cammino, ma non si domanderà come mai siano finite li. Ci sono
città adesso, non è forse vero? È ragionevole quindi pensare che ci fossero città anche nel passato.
I preti e gli scolari di ogni razza hanno tutti storie molto simili da raccontare: la Storia ha avuto inizio
circa tremila anni fa. Tutto ciò che è successo si trova all'interno di quel periodo, dal primo giorno di vita
del mondo fino ad ora. I miti della creazione variano di poco da un paese all'altro. La mia gente sostiene
che le creature della terra sono apparse per la prima volta ad Albion, dove hanno peccato contro il
Creatore e furono perciò buttate fuori nel mondo. I Vikoniani raccontano la storia in modo differente, e i
Nicieani in un altro modo ancora. Tutti comunque, includono nei loro racconti l'Oscura Isola di Albion.
Hanno ragione a farlo, ma non per i motivi che loro immaginano. Io so-no stato ad Albion, e conosco il
suo terribile segreto. In realtà è da lì che abbiamo preso le mosse... ma il resto della nostra storia è una
bugia. Il peccato è dell'Uomo, non il nostro, perché è stato lui che ci ha foggiati prendendo a modello le
bestie per rispecchiare la sua propria triste storia. Perché ha fatto una cosa simile? A questo non so dare
una risposta. Forse ha provato piacere a guardare la vergogna e la gloria della sua razza che riviveva di
nuovo.
Qualunque sia stato il peccato dell'Uomo, non si possono negare le meraviglie del suo mondo. Abbiamo
risalito il corso dell'ampio fiume per quasi mezza giornata, e non si vedeva ancora la fine della città. Su
tutte e due le rive, fino a dove l'occhio poteva arrivare, c'erano file e file di frassini. La foresta ormai da
lungo tempo aveva rivendicato i suoi diritti sul territorio, ma ci si poteva fare un'idea di come doveva
essere stata la città. Non credo che gli anni sarebbero mai riusciti a coprire la sua gloria. La ciurma dell'
Aghiir era normalmente molto rumorosa. Ai marinai piace parlare e cantare mentre lavorano, o
raccontare qualche oscenità ad un amico. Ora, non cantavano e non parlavano con nessuno. La quiete di
quella terra incuteva un riverente timore e aveva toccato tutte le creature che si trovavano a bordo.
Credo che percepissero i fantasmi dell'Uomo intorno a loro, e sapevano di stare assistendo ad uno
spettacolo al quale non avevano mai pensato che avrebbero assistito. C'era una paura ed una meraviglia
diffusa nell'aria a cui non sapevano dare un nome e che non riuscivano a comprendere fino in fondo, e
tutto ciò si rispecchiava sui loro volti. Le dimensioni della città erano veramente eccezionali. Ad ogni
ansa del fiume ci aspettavamo di vederne la fine. Anche un luogo così incredibile non poteva continuare
all'infinito.
«È grande come tutte le città del mondo messe insieme», disse SignarHaldring, «e forse ancora di più.
Cosa pensi che li abbia spinti a raggrupparle tutte insieme, Aldair? A me non sembra un'idea molto
intelligente.»
«Anch'io ero solito pormi questa stessa domanda quando ero all'Università di Silium», gli risposi.
«Quella città pareva ai miei occhi molto grande, sebbene credo che potresti mettere tutti i suoi abitanti
in una di queste torri, quando erano ancora in piedi, ed esserci ancora spazio anche per la popolazione
di Camelium e Culvia. In tutta onestà non so rispondere alla tua domanda.»
«Beh, per come la vedo io, non ha molto senso», brontolò Signar e si grattò la schiena mastodontica
contro l'albero.
«Forse un senso l'aveva per quelli che vivevano qui», gli feci presente.
«Le finestre che si muovevano sotto Albion, rappresentavano macchine che si muovevano velocemente
nell'aria e sul terreno. Non ci voleva molto per andare da un posto all'altro.»
«Che vuol dire tutta questa fretta di raggiungere qualche altro posto», disse lui, indicando con un ampio
gesto della mano l'orizzonte, «se poi è
esattamente come il posto che ci si è lasciati alle spalle?»
Potevo sollevare delle obiezioni su quella teoria. Non ero mai riuscito a comprendere perché le creature
provassero il desiderio di affollarsi tutte insieme in strade strette che non permettono al sole di
affacciarsi. Eppure molti di loro sono soliti fare così, e diventano tristi senza il cattivo odore dei loro
vicini. Evidentemente neanche l'Uomo era immune da quel tipo di follia...
Per quanto potessi indovinare, la struttura era crollata su se stessa nel corso dei secoli. Due grossi muri
avevano resistito e davano un'idea di ciò
che doveva essere stato l'edificio. I detriti formavano una collinetta sulla quale persino le mie gambe
poco slanciate potevano arrampicarsi. Rhalgorn, naturalmente, saltava avanti, fermandosi di tanto in
tanto, sorridendo con aria insensata, e facendo piovere verso il basso piccole dosi di terriccio e di pietre
nella direzione in cui mi trovavo.
A venti metri la nostra pertica offriva un bel panorama sul territorio circostante. Sebbene fossimo
passati lungo il fiume davanti a strutture più
alte, questa era di gran lunga la più superba di tutto il circondario. Nessuna poteva reggere il confronto
con le torri di Avakhar, sulle cui rovine si narravano decine e decine di racconti, ma io ero certo che
anche qui c'erano stati edifici simili.
«Ora che siamo giunti in cima a... questa cosa, che cosa si suppone che dovremmo fare?», chiese
Rhalgorn piuttosto irritato.
«Si suppone che ci guardiamo intorno, e vediamo tutto ciò che possiamo vedere», gli dissi. «Presumo
che la tua vista straordinaria ci sarà di qualche aiuto.»
Rhalgorn tirò su col naso e distolse lo sguardo. «La vista acuta dei Signori dei Lauvectii non è un
argomento su cui scherzare, Aldair. In una giornata limpida come questa...»
«Lo so. Tu puoi contare i pidocchi su di un falco che volteggia nell'aria.»
Rhalgorn sembrò sorpreso. «Te lo avevo già detto qualche altra volta?»
«Una o due. Solo che oggi non siamo qui in cerca di pidocchi.»
«Sono perfettamente consapevole di cosa stiamo cercando oggi. Siamo in cerca di possibili pericoli e,
per quanto possa vedere io in questo momento, non mi pare che ce ne siano all'orizzonte.»
«Bene.»
«C'è, comunque, un afide verde che si è posata a circa due metri di distanza dalla punta del nostro
albero.»
Ignorai quanto aveva detto, e scrutai verso il basso dal nostro posto d'osservazione verso il fiume. L'
Ahzir e gli altri due vascelli si trovavano ancorati nel mezzo della corrente a meno di mezza lega di
distanza. Sulla riva, al riparo di una formidabile barriera di pietre, avevo allestito il nostro campo, tutto
circondato da sentinelle che si trovavano appostate sui punti predominanti della zona. Mentre era
ancora giorno, tre squadre di perlustrazione bene armate facevano la ronda appena fuori il circolo delle
nostre sentinelle. Tali precauzioni non erano una garanzia contro i pericoli, ma avrebbero almeno fatto
sì che non fossimo colpiti di sorpresa, se fosse successo qualcosa appena fuori del campo. Non era stato
necessario diffidare la ciurma dall'andare in giro senza uno scopo ben preciso. Sebbene la gente di
Raadnir fosse fuggita da quel luogo più di tre secoli prima, non aveva affatto dimenticato dove ci
trovavamo.
«Quell'afide verde», dissi, «quella sull'albero della nostra nave. Di che colore ha gli occhi?»
Rhalgorn tirò fuori la sua lingua rossa e si leccò il muso.
«Neri», rispose senza un attimo di esitazione. «Con appena un tocco di giallo.»
Quando raggiungemmo il campo, due delle nostre squadre di perlustrazione avevano fatto ritorno.
Nessuna aveva notato niente di particolare, oltre agli uccelli, le lepri, e gli scoiattoli. C'erano, comunque,
degli escrementi tra le rovine, che indicavano la presenza di qualcosa di più grande.
«Quanto più grande?», volle sapere Rhalgorn.
«Abbastanza grande», rispose uno degli esploratori, anche se non poteva dire che cosa li avesse
depositati.
«Non mi piace questa storia», dissi a Rhalgorn.
Lo Stygiano si strinse nelle spalle. «Solo per il fatto che siano grandi non vuol dire che siano anche
pericolosi.»
Dal tono della sua voce capii che non era del tutto convinto di ciò che aveva detto.
«Gli avi di Sergrid non chiamarono questa terra Sogno dell'Inferno senza una ragione», gli ricordai io, e
diedi istruzioni ai nostri perlustratori di dire alle sentinelle ciò che noi già sapevamo e di installare
un'altra fila di guardie appena all'interno del nostro anello esterno. Stavo per mandare a chiamare
Signar a bordo dell' Ahzir, quando qualcosa fece un incredibile fracasso nel folto dei cespugli che si
trovava proprio alle nostre spalle. Tutti quelli che si trovavano al campo andarono a prendere le loro
armi, poi si rilassarono quando un grosso Vikoniano venne fuori dal fogliame. Si fermò sui suoi passi
rimanendo a guardarci con gli occhi spalancati.
«Che è successo? Cosa c'è che non va?», gli chiesi.
«Thareesh... Mastro Thareesh...»
«Thareesh cosa, dannazione a te!», urlò Rhalgorn. Il poveretto era troppo impaurito per riuscire a
parlare. Tutto ciò che riuscì a fare fu indicare in silenzio verso destra. Con un brivido improvviso mi
ricordai che Thareesh si trovava alla testa della terza squadra di esploratori. Come se fossimo stati una
sola persona Rhalgorn ed io sollevammo le nostre armi e ci lanciammo nella foresta, con metà del
campo al nostro seguito.
OTTO
Non so dire cosa mi aspettassi di trovare quando avremmo raggiunto Thareesh. E, sebbene avessi
evocato ogni possibile sorta di demone nella mia mente, non ero preparato alla cosa che ci trovammo
davanti: il non plus ultra dei demoni in persona. Perché in effetti era quello, che Thareesh aveva
scoperto. E, sebbene fosse solo l'immagine del demone, non era meno terrificante da guardare. C'era
una piccola radura ombreggiata da grandi querce. Al centro di questa radura c'era una statua maestosa
scolpita in uno sbiadito marmo bianco. Era stupefacentemente intatta, considerati gli anni da quando si
trovava li. Piccole particelle e pezzettini erano stati consumati da innumerevoli giorni di sole e di pioggia,
ma non c'era da sbagliarsi su ciò che rappresentava. Il volto dell'Uomo guardava verso il basso su di noi
dal passato, con un tocco di eterno disprezzo che gli increspava la bocca, mentre l'orgoglio traboccava
dai suoi vuoti occhi di pietra. Era nudo, all'infuori di un taglio di stoffa che gli cingeva le spalle e si
appoggiava nella piegatura del braccio. La statua era finemente lavorata: persino i muscoli e le vene
erano ben deli-neati. Thareesh e altri due Nicieani dell'equipaggio stavano immobili davanti a quella
cosa, come impietriti sotto il suo sguardo. Quelli che non mi avevano seguito dal campo sembravano
incapaci di muoversi o di parlare. Io mi sentii pieno di vergogna e di rabbia: pur tuttavia, feci quasi una
risata ad alta voce davanti a quella vista penosa. Una valle stretta e lunga piena di querce e un terribile
idolo di pietra: che luogo perfetto di adorazione del loro Dio per delle povere, ottuse creature!
Presi un giro di corda dalla mia cintura e mi girai per trovare il Vikoniano che ci aveva portati li. Prima
che potesse muoversi, all'improvviso lo frustai con la corda in volto con tutta la forza che avevo. Lui
cadde all'indietro, stupefatto.
«Tu», gli ordinai, «metti una corda attorno a quella cosa e tirala giù!»
Mi fissò e una totale incredulità era impressa sul suo volto. Estrassi il pugnale dalla mia cintura e lo
portai con violenza verso l'alto facendolo roteare in prossimità della sua pancia.
«Ora, dannazione a te: lo devi fare ora. O spargerò quelle tue grasse budella all'istante. Sei un guerriero
Vikoniano: non ti devi accucciare come una lepre, terrorizzato, davanti a un pezzo di pietra!»
Per un attimo pensai che mi avrebbe sollevato con una delle sue enormi mani e mi avrebbe ridotto in
polpette. Poi gli occhi gli si riempirono di sangue e, dal profondo del suo petto, sorse un cupo brontolio.
La corda volò nell'aria e afferrò la statua per le spalle. Un terribile urlo di guerra risuonò nella gola del
Vikoniano e sconvolse la quiete della valle. L'incantesimo era rotto. A quel punto si fecero tutti avanti
sfogando la loro vergogna contro l'immagine dell'Uomo.
Quelli che non avevano funi con loro prestarono le loro braccia a quelli che ne erano muniti. Un
guerriero di Raadnir si arrampicò in cima alla statua e ne avviluppò tra le sue braccia tarchiate la testa.
Con un possente ruggito la fece ruzzolare per terra. La sua prodezza lo fece acclamare da tutti gli altri e,
un momento dopo, l'idolo si spezzò all'altezza della vita e rovinò al suolo. Il marmo, reso fragile dagli
anni, si frantumò in mille pezzi. Ma non avevano ancora completato la loro opera. Nessuno interruppe il
proprio lavoro finché ogni frammento non fu ridotto in polvere. Quando finirono e si voltarono a
guardarmi, vidi che non c'era più paura nei loro occhi.
«Accertatevi che ogni membro dell'equipaggio venga condotto in questo posto», dissi loro. «Perché
voglio che vedano l'immagine dell'Uomo.»
Durante i giorni seguenti il campo fu preso dalla solita routine di lavori. Avevo scelto quattro squadre di
ricognizione il cui unico compito era quello di esplorare e scoprire. Erano capitanate da Corysia,
Thareesh, e due uomini dell'equipaggio che avevano mostrato una certa abilità nel frugare tra i luoghi
antichi. Certamente, non potevamo sperare di mettere su una vera e propria spedizione archeologica
sulle sponde di Merkkia. Portare alla luce i segreti di una o due strutture sarebbe stato un compito che
avrebbe occupato tutta la vita di squadre ben più grandi delle nostre. Le mie istruzioni erano quelle di
raccogliere manufatti di un certo interesse da quelle zone che erano più accessibili o sembravano più
sicure da esplorare. Dall'esperienza che avevo fatto ad Albion, e nella terra degli Avakhar, avevo
imparato che il vero livello delle città antiche giace quasi sempre al di sotto della superficie attuale.
Mentre da un certo punto di vista ciò rendeva l'esplorazione estremamente difficoltosa per il fatto che
era necessario scavare in profondità, presentava anche alcuni vantaggi: ciò che il tempo distrugge, può
anche conservare. Così l'erosione dei secoli alcune volte riesce a sigillare degli spazi con dei veri e propri
tesori, lasciandoli in pratica intatti. Erano quelli i luoghi che noi cercavamo. Avremmo trovato cose di
poco valore, questo lo sapevo, e cose di cui avremmo trovato difficile comprendere il fine. Ma, se
avessimo trovato anche solo una piccola informazione che ci facesse conoscere meglio la perfidia
dell'Uomo, avremmo potuto considerare la nostra missione riuscita.
Negli otto giorni seguenti, i miei uomini trovarono dei passaggi segreti sotto il livello del terreno in
cinque zone diverse. Questi passaggi condussero alla scoperta di un gran numero di stanze, botteghe e
corridoi, tutti differenti l'uno dall'altro che contenevano manufatti antichi. Molti erano talmente vecchi
da essere al di là di ogni identificazione; altri si ridussero in polvere appena vennero sfiorati. Ho fatto qui
una lista che comprende solo alcuni degli oggetti ritrovati, quelli di maggior valore e che sono stati
portati alla luce intatti:
• Una bottega con una notevole quantità di piatti raffinati, tazze, cristalleria e utensili da cucina per
apparecchiare la tavola di un piccolo esercito.
• Un certo numero di stanze spaziose, per la maggior parte in rovina, con file e file di tavole di metallo
lucente, in gran parte arrugginite. Su ognuna delle tavole c'erano i resti di un incomprensibile
meccanismo. Le parti di metallo di questi meccanismi erano tutte gravemente corrose, ma c'era anche
un altro materiale che aveva superato la prova del tempo: una stanza solida simile al vetro, che al tatto
appariva scivolosa come i ciottoli di un fiume. Perlopiù questo materiale era stato ritrovato in cialde
della grandezza di un bottone con sopra impressa una singola lettera dell'alfabeto. C'erano molte stanze
piene di queste tavole e di questi meccanismi, ma non riuscimmo a scandagliare quale fosse il loro
scopo.
• Un gran numero di monete d'argento, di rame e di altri metalli.
• Bottiglie di tutte le forme, le grandezze e i colori.
• Una bottega che conteneva migliaia di congegni fatti di due pezzi rotondi di vetro tenuti insieme da un
materiale molto simile a quello descritto sopra. Indovinammo immediatamente a cosa dovessero
servire. Quando si guardava al loro interno, le cose sembravano diventare più grandi, così capimmo che
dovevano essere simili ai cannocchiali usati dai capitani delle navi. Alcuni di questi congegni, in ogni
caso, non rendevano la visione affatto migliore, anzi la peggioravano. Molti contenevano delle lenti che
facevano sembrare il mondo verde, blu o giallo: una caratteristica questa che sembrava onestamente
davvero inutile.
• Un intero blocco di materiale simile al vetro con varie monete splendenti incastonate all'interno.
• Una piccola statua di una creatura che assomigliava un po' ad un topo. Aveva le orecchie nere, la faccia
bianca e gambe rosse. Portava alle mani dei guanti bianchi e scarpe gialle ai piedi. Decidemmo che era
probabilmente una divinità minore.
• Un bicchiere rotto con una sola mosca incastonata in un liquido pietrificato alla sua base.
• I resti di un orologio meccanico, molto simile ai complessi meccanismi che avevo visto alla corte di
Niciea. Questi, comunque, erano molto più
sofisticati.
Uno dei ritrovamenti più interessanti fu un libricino di carta, perfettamente conservato. Era stato
sigillato con un tipo di materiale trasparente che l'aveva miracolosamente protetto in tutto quel tempo
non permettendo all'aria di passare. Non saprei dire come erano state fatte le immagini che c'erano in
quel libricino; in tutti i casi, poiché c'erano anche delle parole, potevo solo immaginare che l'Uomo
avesse escogitato qualche mirabile forma di stampa ben più avanzata della nostra.
I soggetti di quelle figure erano membri maschili e femminili della razza dell'Uomo in un'infinita varietà
di posizioni di accoppiamento. Il nostro equipaggio era sempre stato di ottimo umore da quando era
stata distrutta la statua nella vallata.
Dopo che ebbi fatto passare quel libretto tra di loro, qualsiasi soggezione o rispetto nutrissero ancora
nei confronti del loro «dio» si vanificò in altri scoppi di rissa.
Avevo visto altre immagini dell'Uomo in precedenza, nelle grandi sale che si trovano sotto Albion. Sono
creature brutte, con volti piccoli dai lineamenti emaciati e una parte rotondeggiante quasi informe dove
dovrebbe esserci un muso o un grugno. Le loro piccole orecchie sono appiattite ai lati del cranio, e i loro
corpi appaiono tosati di fresco da ogni ciuffo di capelli o di pelliccia. Eppure, quando vidi per la prima
volta quella creatura, pensai che doveva essere sicuramente il terribile Signore della Terra, dal momento
che aveva costruito grandi città ed era pieno di poteri che incutono un riverente timore. Per tutti loro
non apparve troppo magnifico nelle pagine che feci circolare tra i miei compagni. Per come la vedo io, i
suoi stati di fregola non sono eccessivamente differenti da quelli degli esseri che ha creato. NOVE
«Se in tutto ciò c'è la chiave per comprendere la mente dell'Uomo, di certo io non riesco a trovarla», si
lamentò Signar. Strofinò un piccolo manufatto tra le grosse dita, girandolo prima da un lato e poi
dall'altro. Alla fine si strinse nelle spalle e lo gettò via. Il Vikoniano si sentiva chiaramente a disagio,
perché c'era poco spazio per muoversi. L'angolo che avevamo scelto per riporre gli oggetti ritrovati era
pieno zeppo.
«Non credo che dobbiamo aspettarci di poter portare alla luce qualcosa di particolarmente
interessante,» disse Thareesh. «Il posto è troppo vasto... lo sapevamo fin dall'inizio.»
«C'è il libretto,» dissi io. «Certamente, Thareesh, tu lo consideri importante.» Il Nicieano mi guardò con
aria molto dubbiosa. Signar sbuffò disgustato.
«Dico molto seriamente,» li rassicurai io. «Secondo il mio parere, i nostri ritrovamenti ci hanno
insegnato un bel po' di cose sull'Uomo. Se non altro, l'abbiamo spogliato della sua parvenza divina. Era
una creatura che sapeva molto di più sui misteri del mondo di quanto non sappiamo noi. Ma la
conoscenza non è la saggezza. È evidente che non aveva scrupoli ad abusare dei suoi inauditi poteri.»
«Non c'è molto da discutere su questo punto,» grugnì Signar.
«E credo che sarete tutti e due d'accordo nel riconoscere che ciò che non abbiamo trovato qui è la cosa
più significativa, a non voler dire di più.»
Signar espresse con un cenno del capo il suo assenso. «La Sentinella dell'Uomo,» disse Thareesh.
«Esattamente. Non ne abbiamo parlato molto, perché non è stato necessario. L'abbiamo tenuto
presente nella nostra mente fin dall'inizio: fin dal momento in cui siamo venuti a conoscenza del nome
che gli avi di Sergrid avevano dato a questa terra. Se «Sogno dell'Inferno» non è una descrizione
appropriata del destino di Rhemia, mi piacerebbe sentirne una migliore. Credo che nessuno di noi
rimarrebbe sorpreso di trovare anche qui quei terribili dispositivi.»
«Non posso dire di essere particolarmente deluso dal fatto che ci siamo sbagliati,» disse Signar
seccamente.
«Ma ci siamo veramente sbagliati?», chiese Thareesh. «Solo perché non le abbiamo trovate, non vuol
dire che non ci siano.»
«In un certo senso penso invece che sia proprio così,» gli dissi. «Ricorda: questa era proprio una città
dell'Uomo, un posto dove viveva, lavorava e si divertiva. Perché avrebbe dovuto conservare un
dispositivo così terribile in un luogo come questo? Noi sappiamo cosa succede quando qualcosa va
male.»
«Rhemia,» disse Thareesh.
«Giusto. Non è il genere di cosa che si tiene in cantina.»
Signar si alzò, stiracchiò le sue immense membra e venne a riempirsi il bicchiere.
«Se non è il «Sogno dell'Inferno» che ci aspettavamo, di che genere è, Aldair? Qualcosa è successo alla
gente di Raadnir. I Vikoniani ci avranno imbastito una leggenda, e ammetto che qualche volta falsiamo
un po' la verità dei fatti; ma la gente di Mezza-Barba è venuta a Merkkia, e questo è
un dato di fatto. E solo pochi di loro sono riusciti a venirne via vivi.»
Naturalmente questo era un problema a cui non sapevo rispondere. Avrei dato molto per poter risolvere
l'enigma di quel mistero, e un altro che ossessionava con altrettanta angoscia la mia mente: Perché
l'Uomo aveva co-struito la città più grande del mondo... e poi l'aveva abbandonata persempre?
Tra gli Eubironi, dove sono nato, le mamme dicono ai loro bambini che la notte è il sogno del giorno. Per
molti aspetti, io credo che sia vero. Le forme e i colori più familiari nascondono il loro aspetto quando
cade l'oscurità che non ci permette di vederli così come sono. In questo modo, la notte maschera con
eguale facilità ciò che è bello e ciò che è brutto. Quando c'è la luna piena, la città dell'Uomo perdeva
molto del suo terrificante potere e sembrava un posto piacevole in cui stare. Il colore argenteo della
luna rendeva il fiume più visibile, ed io riuscivo a scorgere gli alberi delle nostre navi che si stagliavano
contro il cielo. Persino le desolate rovine assumevano una sfumatura perlacea e più dolce. Oltre il
lungofiume e per i familiari sentieri del nostro accampamento, mi inoltrai nelle profonde tenebre delle
querce e degli aceri. Appena un po' più indietro, c'era la nostra prima sentinella. Mi fermai per fargli
sapere che ero io che stavo andando in giro da quelle parti, e che gli sarei stato grato se avesse evitato
di tirare una freccia nella mia direzione.
A pochi metri di distanza da lui incominciava la vera e propria foresta. Dei pesanti rami formavano un
tetto quasi solido in alto, e persino i luminosi raggi della luna si celavano alla vista. Mi muovevo con
molta attenzione, fermandomi di tanto in tanto ad ascoltare i rumori della notte. Davanti a me gli alberi
diventarono bruscamente più radi dove scorreva silenzioso uno stretto ruscello. Dietro il ruscello c'era
un basso muro di pietra, arrotondato dagli anni e che appariva striato alla pallida luce della luna. Studiai
la scena per un lungo momento, facendo scorrere lentamente lo sguardo su ogni foglia e su ogni zolla di
terreno. Infine, certo che lì non ci fosse niente, avanzai prudentemente di un passo all'interno della
radura. Non appena il mio stivale ebbe toccato il terreno, un'ombra sgusciò dal nulla e si mosse nella
mia direzione.
Va detto a mio merito, che non scappai via di gran carriera, ma rimasi come pietrificato al mio posto,
fungendo così da ottimo bersaglio.
«Non è andata male,» disse Rhalgorn. «Sembra che dopotutto ti abbia insegnato qualcosa sulle foreste,
sebbene non molto.»
«Ero stato estremamente silenzioso,» gli dissi. «Tu non lo ammetterai mai, ma sono quasi sicuro che tu
non avevi idea che io fossi lì.»
«Per la Vista del Creatore, ho detto che era ben fatto. Non hai fatto più
rumore di un cavallo piccolo.»
«Ti ringrazio. Sono certo che sia una specie di complimento.»
«Puoi considerarlo così, se ti fa piacere,» rispose arricciando il naso. Mi misi al suo fianco vicino al
ruscello, con le spalle appoggiate al muro di pietra. «Abbiamo sentito la tua mancanza a cena. Ti stai
facendo prezioso.»
Rhalgorn non rispose.
«Corysia ha chiesto di te. Parecchie volte.»
Guardai verso di lui in quella oscurità quasi totale. I suoi occhi rossi trafiggevano la notte e il suo lungo
muso si contorceva nell'aria gelida. Non riusciva a vedere i pidocchi su di un falco, o le mosche sul nostro
albero, ma ben poche cose sfuggivano alla sua attenzione. Ora come ora sono convinto che non c'era
praticamente un suono, un odore o qualcosa da vedere che potesse sfuggire ai suoi acutissimi sensi. Gli
Stygiani sono in assoluto delle creature astute ed implacabili: nel cuore della foresta non hanno uguali.
Io dovrei saperlo meglio di molti altri, perché il Clan dei Venicii ha combattuto i Signori dei Lauvectii da
tempo immemorabile. Finché il congiunto di Rhalgorn - Rheif - ed io, non ci trovammo accomunati nella
cattiva sorte, scommetterei che tra le nostre due razze non erano mai passate parole amichevoli.
Così, conoscevo quell'essere molto approfonditamente, ed ero sicuro che in quel momento doveva
essere oltremodo preoccupato. I lineamenti di uno Stygiano non rivelano niente riguardo al loro umore,
ma l'attorcigliarsi della loro coda dice praticamente tutto.
«Rhalgorn,» dissi alla fine, «i tuoi pensieri sono tanto foschi da soffocare la notte. Mi piacerebbe sapere
al più presto possibile qualcosa al riguardo.»
Rhalgorn si strinse nelle spalle. «Forse penso alle lepri. È un argomento piacevole su cui concentrarsi.»
«Tu non stai pensando alle lepri.»
«No?»
«No. Di solito lo fai spesso. Ma questa volta no.»
Rhalgorn sospirò. «Hai ragione. Non sto pensando alle lepri.»
«E allora a che cosa?»
Rhalgorn non rispose. Invece, si alzò silenziosamente e si avviò a grandi passi verso il limite della radura.
Rimase fermo lì per un lungo momento scrutando nel fitto del bosco. Quando si girò, c'era uno sguardo
differente nei suoi occhi. E quando parlò, lo fece senza guardarmi.
«Aldair,» disse pensieroso, «mi sono capitate molte cose da quando ci siamo incontrati al confine dei
Lauvectii ed io ho preso la spada del mio congiunto. Sotto molti aspetti, io non sono più quello di prima.
Ho navigato sull'acqua, il che è a dir poco inaudito per uno Stygiano. Cosa ancora più strana, sono
diventato amico di altre creature, ed ho imparato persino ad apprezzarle. Anche Signar pelliccia-grassa.
Tuttavia, se mai tu gli di-cessi una cosa del genere, ti toglierei l'unico orecchio che ti è rimasto.»
Si interruppe e si grattò con furia come se le parole che stava per pronunciare dovessero rimanere
sepolte lì.
«Condivido la tua ricerca, Aldair. Ho imparato ad odiare l'Uomo profondamente. Mi vengono in mente
pensieri di sangue quando penso a quanto di terribile ha fatto a tutti noi. Per quanto riguarda questo
fatto, la penso esattamente come te, Thareesh e gli altri. Per certi aspetti, però, io non assomiglio a
nessuno di voi.»
«Possiamo avere un obiettivo in comune,» dissi, «senza dover essere tutti uguali.»
«No,» Rhalgorn scosse la testa con impazienza. «Non è questo che voglio dire. Ti sto dicendo che io vedo
il mondo in un mondo differente, Aldair. Per tutti gli Stygiani è lo stesso. Io capisco la tua necessità di
esplorare le città dell'Uomo. Per cercare gli indizi della sua perfidia. Ma io non cerco delle risposte in
quelle città. Luoghi del genere sono alieni ai Signori dei Lauvectii. Noi non ne costruiamo e, per di più
non amiamo chi invece ha questa abitudine.»
«Questa è una cosa che capisco benissimo,» gli dissi.
«Sì, in un certo senso tu mi capisci,» disse lui. «Per altri versi, no. Ti dirò una cosa, Aldair...» Si girò per
guardarmi diritto in volto. «Ci sono odori qui, e suoni... e cose che possono essere viste e possono non
essere viste. E non hanno niente a che fare con questo grande cumulo di rifiuti dell'Uomo.»
«Che genere di cose?»
«Non so dirlo. So solo che sono qui. Gli Stygiani sono più vicini alla terra delle altre razze... non avevo
compreso appieno il significato di questo fatto, finché non ho incontrato creature di razze diverse dalla
mia. Aldair...» Si interruppe per cercare le parole. «Devo dirti che ho avuto un sogno divino.»
Io annuii ma non dissi nulla.
«Normalmente gli Stygiani non parlano ad altri di simili avvenimenti, ma io so che tu conosci abbastanza
questo genere di cose. Tu mi hai raccontato dell'individuo che ti si è presentato nella Grande
Desolazione... quello che ti ha stimolato nella tua ricerca, e che ti guida tuttora.»
«A volte credo che sia così,» gli dissi. «In altri momenti sono certo di non essere altro che uno sciocco,
che non è guidato assolutamente da nulla e nessuno.»
Rhalgorn apparve sgomento. «Non è né decoroso, né saggio dire una co-sa di questo genere!»
«Probabilmente hai ragione. Ora, raccontami il tuo sogno divino. Sono consapevole di questo dono degli
Stygiani, e ti assicuro che non disprezzerò una cosa del genere, ne la prenderò alla leggera.»
Rhalgorn mi sorrise con aria stanca. «Dono o maledizione, non so bene quale sia la definizione più
adeguata. E sono sicuro che tu non la prenderai alla leggera dopo che avrai ascoltato ciò che ho da dirti.
Aldair, ho fatto questo sogno più di una volta. Ho visto tutti noi, qui tra le rovine della città
dell'Uomo. Ho visto che attaccavamo la nostra stessa specie... e che distruggevamo noi stessi.»
« Cosa!» Fu come se qualcosa di gelido mi toccasse il petto, e non aveva niente a che fare con la fresca
aria notturna. «Rhalgorn, non è assolutamente una mancanza di rispetto nei confronti del tuo sogno
divino, ma io non capisco. Di certo non penserai che noi faremo una cosa simile.»
«Io non credo nulla,» disse lui senza vie di mezzo. «Tutto ciò che posso dirti è ciò che ho visto nel sogno.
Ognuno aggrediva la sua stessa specie. La parte peggiore di noi veniva a galla e noi ci rivoltavamo contro
noi stessi.»
«E non sai dire altro?»
«Aldair, non c'è niente altro che io sappia... »
Gli Stygiani difficilmente fanno ad altri delle confidenze. Quando lo fanno, ho avuto modo di notare, è di
solito per un motivo ben poco piacevole. Certamente, non potevo dare credito al sogno divino di
Rhalgorn. Ma non riuscivo neanche a dimenticarlo. Distruggere noi stessi? Era quello il significato di
«Sogno dell'Inferno»? Era questa la cosa che il popolo di Raadnir non aveva osato dire? Se era così, non
si poteva certo biasimarli. Ma cosa li aveva mai potuti spingere a fare una cosa del genere: a rivoltar-si
contro la loro stessa specie?
È inutile sottolineare che il sonno quella notte non arrivò facilmente. Quando arrivò, avrei dato molto
per essere di nuovo sveglio, per agitarmi e sentirmi vivo.
Proprio poco prima dell'alba, Corysia mi svegliò e mi mandò al punto di riunione dei nostri quartieri.
Signar, Rhalgorn e Thareesh, mi stavano aspettando, ed era facile intuire che non avevano da darmi
delle notizie piacevoli. Mancavano due delle nostre sentinelle. Non c'era nessun segno che indicasse che
era successo loro qualcosa: semplicemente, erano svaniti nel nulla.
DIECI
Dei guerrieri esperti imparano ad adattarsi ad ogni tipo di fatica. Possono combattere sotto il sole
cocente o durante le gelate invernali. Possono dormire mentre intorno a loro infuria la battaglia e
mangiare del cibo che normalmente troverebbe disgustoso. Un buon soldato ha delle possibilità
di sopravvivere anche ad una vita di questo genere. Si trova in un pericolo di gran lunga maggiore
quando ha a disposizione un comodo accampamento nelle vicinanze di un fiume, del buon cibo e un
compito leggero. Dal momento che non vede in giro nemici, dimentica immediatamente anche la loro
esistenza. Non passa molto tempo da quando inizia a pensarla in questa maniera, che si ritrova morto.
Era passato meno di un quarto d'ora da quando avevamo saputo che le nostre sentinelle erano
scomparse, che già il campo era stato abbandonato e tutte le nostre vettovaglie erano state riportate sui
vascelli. Signar allineò
le nostre navi al centro del fiume ed affrettò i lavori all'albero nuovo e all'attrezzatura dell' Aghiir.
Certamente non ci sarebbero più state squadre di esplorazione alla ricerca dei manufatti. Diedi rapide
istruzioni per stivare alcuni dei pezzi più interessanti a bordo dell' Ahzir e lasciare gli altri lì dove si
trovavano. Ancora una volta, il nostro equipaggio diede prova di tutto il suo valore guerriero. Tutti erano
armati fino ai denti e portavano l'elmo e l'armatura completa. Avevano gli occhi iniettati di sangue e una
spietata determinazione nei tratti del viso. Non sapevano cosa si sarebbero potuti trovare davanti quella
mattina, ma io non scorsi la paura in nessuna di quelle creature. C'è un qualcosa di molto particolare
nell'indossare l'armatura e nel prendere le armi. Ci si sente come immersi in una specie di aura mistica
di invulnerabilità, che fa pensare che, mentre una lama può colpire il proprio compagno, non può
toccare sé stessi. Se si fa il guerriero di mestiere, è
molto meglio credere così.
Quel giorno faceva freddo e nuvole minacciose passavano basse sulla terra. L'aria era umida e
prometteva pioggia: una mattinata che era davvero in perfetta sintonia con l'umore della nostra
compagnia. Davanti a noi, la linea di rovine cadenti che avevamo seguito, all'improvviso lasciò il passo
ad una fitta boscaglia. Rhalgorn diede il segnale dell'alt e si inginocchiò
per scrutare il terreno. Io abbandonai la mia squadra ed andai ad unirmi a lui.
«Trovato qualcosa?»
«Qualcosa,» borbottò lui, «ma non sono sicuro che cosa. Il terreno qui è
troppo duro, ed è molto difficile seguire delle impronte.» Si chinò fin quasi a sfiorare il terreno con il
muso e tolse via il terriccio superficiale con le dita, poi strappò una zolla d'erba secca e se la portò al
naso.
«Che cos'è?»
«Non lo so, Aldair.» Assunse un'aria notevolmente corrucciata. Mi guardò piuttosto a lungo con fare
interrogativo, poi si alzò e scosse la testa.
«È uno strano odore. Familiare, eppure allo stesso tempo totalmente sconosciuto.»
«Questo non ci dice molto.»
«A me dice moltissimo,» disse lui solennemente. «Siamo abbastanza vicini a qualcosa e, qualsiasi cosa
sia, non la trovo di mio gradimento.» Annusò l'aria una volta, e poi una seconda. «Da questa parte,»
disse alla fine,
«e fai in modo che i tuoi uomini stiano bene attenti, Aldair.»
Lo Stygiano ci guidò silenziosamente tra gli alberi e poi in un'altra piccola radura. Lì c'erano altre rovine:
l'ossatura di qualche imponente costruzione. Con le sue mura possenti, e costruita con la resistente
pietra grigia dell'Uomo, aveva sopportato le offese del tempo piuttosto bene, respingendo il soffocante
fogliame che durante tutto quel tempo aveva minacciato di tirarla giù. Il muro che seguimmo, in alcuni
punti era alto quasi cinque metri e sembrava allungarsi all'infinito. Ci muovemmo lungo la sua base,
mantenendo alle nostre spalle la sicurezza della solida pietra e facendo attenzione alla fitta boscaglia
che ci circondava. Sotto un certo punto di vista quello era uno spostamento che veniva fatto in buone
condizioni perché il pericolo poteva minacciarci davvero da poche direzioni. Tuttavia, se qualcosa si
fosse avvicinato dalla foresta, o dagli stretti sentieri che ci trovavamo di fronte e che avevamo alle
spalle, avremmo potuto impiegare per contrastarlo solo una piccola parte delle nostre forze. Non dissi
niente a Rhalgorn, ma ero molto ansioso di trovarmi fuori da quel posto. Rhalgorn si fermò numerose
volte a controllare l'aria e a studiare scrupolosamente il sentiero che ci stava davanti. Infine ordinai l'alt
per permettere ai nostri soldati di bere un sorso d'acqua o mangiare un boccone di qualsiasi cosa
avessero portato nei loro sacchi. La sosta non durò a lungo, perché nessuno era particolarmente
desideroso di attardarsi lì. Prima di rimetterci in marcia, mi spostai di nuovo avanti per parlare con
Rhalgorn. La strada che avevamo davanti sembrava non avere fine e la foresta intorno a noi diventava di
momento in momento più fitta. Mi domandavo per quanto tempo ancora avesse intenzione di farci
proseguire per quel sentiero.
Mi vide e cominciò a parlare... poi la sua testa si spostò velocemente da un lato e rimase come
pietrificato sui suoi passi. Facendomi segno di indietreggiare, fece con molta prudenza un passo avanti.
Poi un altro. Vidi ciò a cui stava tentando di avvicinarsi. C'era una macchia d'ombra sul muro che
avevamo di fronte, un'ampia fenditura dove la pietra aveva ceduto. Lo Stygiano si spingeva avanti a
poco a poco verso l'apertura, fece scivolare una mano sull'impugnatura della sua spada, e guardò
dentro. Avvenne tutto in un batter d'occhio. Un momento prima Rhalgorn stava saldamente piantato sul
terreno; l'attimo dopo era diventato una macchia grigia che si muoveva in aria. Qualcosa di enorme e
ripugnante si era sprigionata dal buco, spargendo pietre e calcinacci dietro di sé. Con un orribile ruggito
si slanciò verso di me. Io mi aggrappai a quel muro perpendicolare come se fossi un grosso coleottero,
tenendomi stretto ad ogni viticcio di rampicante e a tutto il fogliame che si trovava a portata di mano.
L'orrenda bestia passò sotto di me, sfiorando i miei stivali con la sua pelle. Alle sue spalle, da
quell'oscura cavità, sgorgò un vero e proprio torrente di creature che rumoreggiarono paurosamente
per lo stretto sentiero. Al di sopra del fragore causato dal loro passaggio riuscivo a sentire gli urli e le
grida dei miei guerrieri.
Tutta questa scena durò al massimo qualche secondo, ma sembrò incredibilmente più lunga. Mi lasciai
cadere al suolo e corsi indietro lungo il sentiero: Rhalgorn era già lì. I nostri guerrieri erano piuttosto
scossi, ma nessuno sembrava essere completamente fuori di sé. Stavano tutti raccolti intorno a qualcosa
che si trovava sull'erba ai margini della foresta. Sapevo già di cosa si trattava.
Rhalgorn era davanti a me. Lo guardai. «Lo sapevi, non è vero? Prima, dopo il boschetto, quando ti sei
fermato ad annusare il terreno.»
«L'avevo intuito, Aldair. Ma non lo sapevo.»
«Mi avevi guardato in un modo molto particolare.
Rhalgorn si mise a guardare un'altra cosa. «Forse l'ho fatto.»
Lo sorpassai e gli altri mi fecero largo. Il Vikoniano che aveva tirato giù
la cosa mi vide arrivare. Fece cadere la sua ascia da guerra insanguinata e si scostò.
Questa non era la prima volta che vedevo i miei antenati. Erano lì, tutti ben in vista, sotto Albion, dentro
a delle gabbie di vetro: tutte le bestie che l'Uomo usava per modellare le sue creature.
Uno è un grosso animale peloso vicino a un torrente che scorre veloce. Sta per catturare un pesce color
dell'argento nel torrente. Un'altra gabbia mostra due bestie macilente ai margini di una gelida foresta.
Una dilania la sua preda, mentre l'altra ulula alla luna. Ci sono piccole creature verdi con delle lunghe
code e la pelle squamosa che si crogiolano al sole. E ci sono gli antenati dei Tarconii, dei Kenyarshi, e
della gente di Avakhar. Infine, ci sono grassi animali dal corpo rotondeggiante che hanno dei piccoli piedi
ungulati e la coda arricciata. Hanno dei musi lunghi, orecchie larghe e flosce e delle setole sul mento.
Una mastica rumorosamente una pannocchia secca presso un recinto: un'altra, una femmina, allatta il
suo piccolo.
Ci sono dei nomi per queste bestie, incisi sotto le loro gabbie. Ma non c'è scritto Vikoniano o Stygiano o
Nicieano. I miei nobili progenitori non sono chiamati né Rhemiani, né Gaulliani, né Eubironi. Animali che
strisciano nella melma non hanno bisogno di nomi come questi. Guardai la cosa che giaceva lì immersa
nel suo sangue, poi mi girai e mi allontanai. Non volevo affrontare gli altri in presenza della bestia.
Trovammo le nostre due sentinelle dietro il muro, o meglio ciò che rimaneva di loro, che era un qualcosa
che non si aveva certo piacere di guardare a lungo. Pezzetti e brandelli raccapriccianti erano sparpagliati
per una vasta zona, misti agli escrementi delle creature. Sarebbe stato praticamente quasi impossibile
seppellirli, e non era un compito che avrei chiesto di svolgere ai loro compagni. La cosa migliore per noi
era abbandonare quel luogo, e quanto prima era, meglio era.
Trovai Rhalgorn presso il lato più lontano della struttura. Stava accovacciato ed analizzava il terreno.
«Sto raccogliendo l'equipaggio,» gli dissi. «Abbiamo trovato ciò che cercavamo, e anche qualcosa di
più.»
Rhalgorn non rispose.
«Che stai facendo qui?»
«Cerco qualcosa.»
«Che cosa?»
«Lo saprai quando l'avrò trovata!», disse lui brusco ed irritato. Rimasi un attimo fermo lì a guardare la
sua schiena, poi me ne andai per mettere in ordine l'equipaggio. È del tutto inutile parlare a uno
Stygiano quando lui non ha voglia di parlare. E suppongo che fossimo tutti autorizzati ad essere un po'
suscettibili. Al momento io stesso non mi sentivo particolarmente ben disposto. Non c'era precisamente
l'atmosfera adatta per stare tra amici a bere birra.
Non ebbi bisogno di sollecitare la nostra squadra per intraprendere la tappa di ritorno. Erano impazienti
di lasciare quel posto e quell'orribile vista alle loro spalle, e mettersi in viaggio per il fiume. Non
parlavano tra di loro, né facevano scherzi osceni come a volte i guerrieri sono soliti fare dopo una
battaglia. Invece mettevano impassibili uno stivale davanti all'altro e rimanevano in silenzio. Infine,
arrivammo all'estremità del lungo muro e ci dirigemmo verso il boschetto che si trovava alle sue spalle.
Durante la marcia non avevo visto Rhalgorn, ma non vi avevo prestato particolare attenzione. Senza
dubbio stava formando la retroguardia ed era di sicuro ancora di cattivo umore. Poi udii i guerrieri dietro
di me che parlottavano tra loro e, voltandomi, lo vidi che correva verso la testa della colonna più
velocemente che poteva. Lo guardai stupito facendomi da parte perchè aveva il respiro affannoso ed era
bianco come un lenzuolo.
«Rhalgorn...»
«No,» disse lui con un tono stridulo, «non c'è tempo per parlare. Solo, ascolta.» Mi scostò dal sentiero
allontanandomi dagli altri. «Non dire nulla a loro. Solamente... portali indietro alle navi... e corri per
tutto il tragitto se sarà necessario.»
«Rhalgorn, che cosa...»
«Aldair,» mi zittì lui, «ci ammazzerai tutti con queste domande! Guarda qui!» Ficcò il suo pugno sotto il
mio mento e lo aprì. Nel palmo della sua mano c'era un ciuffo di pelliccia grigia insanguinata.
Alzai lo sguardo su di lui. «Che cos'è?»
Mostrò i denti e tirò un profondo respiro. «Quelle creature non hanno ucciso le nostre sentinelle e non
le hanno trascinate fino al muro, Aldair. Si sono semplicemente spartite i rimasugli. Se tu pensi che i tuoi
antenati facciano paura, aspetta a vedere i miei.... e, per tutti gli Dei, tu li vedrai, se rimarremo ancora
a lungo qui a chiacchierare!»
UNDICI
Fortunatamente nessuno ci inseguì fino alle rive del fiume, perché non sono sicuro che avremmo avuto
fiato sufficiente per voltarci e combattere contro di loro. Quando arrivammo in prossimità
dell'ormeggio, feci suonare il corno di guerra, in modo da avvertire Signar che saremmo stati lì nel giro di
pochissimo tempo e che non avevamo nessuna intenzione di indugiare. L'equipaggio fece tutto ciò che
c'era da fare molto rapidamente e, in pochi minuti, erano tutti a bordo delle nostre scialuppe, tranne
Rhalgorn e due Vikoniani, che erano rimasti indietro a proteggere la nostra retroguardia. Signar aveva
mandato tutte le imbarcazioni tranne una verso le navi e noi, armi alla mano, aspettavamo con le spalle
rivolte verso il fiume. Di lì
a poco lo Stygiano e la sua squadra uscirono rumorosamente dalla boscaglia e saltarono sulla barca, e
così ci dirigemmo velocemente verso l' Ahzir. Gli Stygiani non si stancano con facilità. Posseggono una
forza ed una resistenza straordinarie, e si sentono molto orgogliosi di fare l'impossibile. Ad ogni modo,
in quel momento, a Rhalgorn non importava proprio niente di cose di questo genere. Stava disteso sulla
schiena nella barca e prendeva delle grosse boccate d'aria. Aveva gli occhi chiusi e la sua lunga lingua
rossa gli pendeva floscia dal muso.
«Il tuo sogno divino non era molto lontano dalla verità,» gli dissi. «Ci rivolteremo contro noi stessi e
distruggeremo la nostra stessa specie. Ora per me tutto ciò ha molto più senso.»
Annuì stancamente, assaporando la secchezza della sua gola. «I sogni divini diventano sempre più chiari
dopo che sono passati, Aldair. Uno potrebbe pensare che gli Dei farebbero meglio ad uscire allo
scoperto e dire semplicemente ciò che hanno in mente di dire, invece di ammantare i fatti di mistero.
Eviterebbero alle creature mortali un sacco di tempo e di guai.»
«Ma in quel caso,» spiegai io, «non agirebbero nel modo degli Dei.»
Lui mi guardò a lungo con aria pacifica. «Per me andrebbe perfettamente bene.»
La notte era luminosa quasi quanto il giorno a bordo dell 'Ahzir, dell' Aghiir, e dello Shamma a'Lan.
I ponti erano tutti circondati da fiaccole e Signar aveva dato ordine che fossero montate su dei lunghi
pali così da poter illuminare le acque per un raggio di alcuni metri. Sebbene fossi più
che certo che nessun animale potesse raggiungerci nel mezzo del fiume, approvai incondizionatamente
quelle precauzioni.
Naturalmente, il ritrovamento delle nostre due sentinelle e l'incontro con le bestie furono notizie che si
diffusero immediatamente a bordo dei nostri vascelli. I marinai sono persone molto particolari, a cui
piace molto lamentarsi, anche quando c'è molto poco di cui lamentarsi. Ora avevano un osso molto
succulento da spolpare, e immaginatevi come ne approfittarono. Tutto ciò mandò terribilmente in
collera Signar-Haldring perché, nonostante che sia un uomo giusto in tutto, egli è pur sempre il Capitano
di una nave.
«Non dissento in alcun modo da te,» gli dissi. «È necessario mantenere la disciplina a bordo alle navi.
Tuttavia, il nostro equipaggio è formato da gente buona e leale, e conosce la causa per la quale
combatte. Stamattina hanno assistito ad uno spettacolo che li ha colpiti nel più profondo dell'anima, e
non penso che possiamo biasimarli per questo. Signar emise uno strano rumore dal petto. «Non è a
biasimarli che sto pensando,» disse risoluto. «Essere spaventati non è un peccato, Aldair, e io non
credo a chi proclama di non aver paura davanti al pericolo. Ma questa è tutta un'altra storia: hanno
paura di ciò che non riescono a vedere, e pensano che ciò dia loro il diritto di dire a me come devo
condurre la mia nave. Vorresti forse che li assecondassi su questo argomento?»
«No.» Scossi la testa. «Ciò che vorrei fare, Signar, è dire loro la verità. Che c'è davvero un grande
pericolo su quelle sponde. Che se a Merkkia c'è
quel tipo di bestia, c'è la possibilità che ce ne siano anche delle altre. Sanno che siamo fuggiti da
qualcosa di più di ciò che abbiamo visto lì: di loro che cos'è. Che gli antenati degli Stygiani hanno preso i
loro compagni. Che ora sono qui a poca distanza da noi e che con ogni probabilità ci stanno osservando
da vicino. E forse anche qualcuno della vostra specie.»
Dall'espressione di Signar capii che di certo aveva già pensato ad una simile ipotesi, e che lui non
provava nessun gusto ad incontrare qualche Vikoniano preistorico, esattamente come tutti noi.
«Puoi aver ragione,» ammise alla fine. «Ciò che dici è che dei nemici reali sono più facili da fronteggiare
di qualche strano fantasma che ti sei costruito nella mente.»
«Esattamente.»
«Lo farò, allora, se servirà a riportare tutti immediatamente al lavoro. Sebbene io abbia la vaga
impressione che ciò che realmente c'è lì fuori, sia una vista di gran lunga peggiore di tutto ciò che loro
possano aver immaginato.»
Ad ogni modo Signar-Haldring seguì il mio suggerimento riguardo all'equipaggio. Penso che fosse la cosa
migliore da fare, e credo che anche Signar fosse d'accordo, almeno in gran parte. Nessuno dei due
realizzò che non sarebbe stata quella l'ultima volta che avremmo sentito parlare di quel fatto.
La mattina seguente continuammo a risalire il fiume. L'equipaggio non trovò di suo gradimento questo
fatto, in quanto avevano immaginato che, dopo la nostra avventura a terra, avremmo invertito la rotta e
ci saremmo diretti verso il mare aperto. Signar chiarì che era stufo di sentire dove le nostre navi
sarebbero dovute andare e dove non sarebbero dovute andare, e che se qualcuno ci teneva ancora a
discutere quell'argomento, avrebbe fatto meglio a procurarsi un'arma affilata per chiudere la
controversia. Nessuno raccolse la sua sfida, e passò del tempo prima che io udissi altri suggerimenti
provenire dal ponte. Ma comunque, credo che l'equipaggio fosse in qualche modo sollevato dal fatto
che io intendessi il campo a terra. Anche i più scettici tra di loro si rendevano conto che un animale
avrebbe dovuto nuotare per un bel po' prima di riuscire a raggiungerci. Signar, Thareesh, Rhalgorn e
Corysia, tutti approvarono la mia decisione. Eravamo lì e ci sentivamo abbastanza sicuri fino a quando
avremmo continuato a rimanere sul fiume: se non altro, potevamo sapere fino a dove si stendeva la
grande città, e che cosa si trovava al di là. Quest'ultimo motivo, intuivo io, era già più che sufficiente per
andare avanti. Perché, sebbene noi avessimo appreso molte cose sulle rive di Merkkia, avevamo fatto
poco per mandare avanti la nostra ricerca. Avevamo risolto l'enigma di «Sogno dell'Inferno» e di ciò che
era capitato alla gente di Sergrid, ma la risposta ci aveva detto poco su ciò che avevamo bisogno di
sapere. Avevamo imparato che le bestie erano ancora numerosissime in quella terra, ma noi sapevamo
di essere delle creazioni dell'Uomo, e come eravamo stati creati. Ma non ci eravamo affatto avvicinati
alla conoscenza di ciò che avevamo bisogno di sapere: la conoscenza che ci avrebbe aiutato a rompere
le catene di una storia che l'Uomo aveva imposto su di noi. Finché questa conoscenza non fosse stata
nostra, noi avremmo continuato ad appartenergli.
Non sapevo dire cosa avremmo trovato in alto, verso la sorgente di quell'ampio fiume. O se avremmo
trovato qualcosa. Questa è l'anima dell'avventura; è del tutto simile ad un soldato che gioca a dadi.
Finché non hai perso l'ultima monetina, c'è sempre la possibilità di vincere al lancio successivo. DODICI
Persino Corysia ammise che il congegno volante poteva esserci molto utile nell'impresa sul fiume.
Questo non vuol dire che lei incoraggiasse la cosa, ma che non fece il muso lungo, non pianse, e non
fece preparativi per andarsene a dormire da qualche altra parte.
Thareesh ed io avevamo pensato molto approfonditamente ai difetti maggiori del volare: vale a dire,
scendere giù di nuovo quasi più veloci di una pietra. Una semplice valvola era stata installata
nell'attrezzatura per permetterci di far uscire l'aria ad una velocità ragionevole; un vantaggio notevole
rispetto all'alternativa di ridurre il sacco a brandelli. Per di più, usare il congegno sul fiume non era così
azzardato come fluttuare sul mare. Non sarebbe stato necessario salire molto più in alto della nave, dal
momento che un'altezza doppia rispetto a quella dell'albero sarebbe stata sufficiente per vedere tutto
ciò che dovevamo vedere. Così, avremmo evitato il problema di essere trascinati dai venti in alta
quota, cosa che la volta precedente aveva portato al fallimento della nostra impresa. Nessuno di noi
guardava con piacere all'idea di perdere la nostra corda, ed atterrare sulla selvaggia terra di Merkkia.
Come era solito dire mio padre, chi pensa che non ci siano più sorprese nel mondo, non ha mai messo il
piede in una trappola per lepri. Questo barlume di saggezza mi rischiarò la mente quando Rhalgorn
annunciò che anche lui ci avrebbe accompagnati nel nostro viaggio aereo.
«TV?», dissi io. «È forse possibile che io abbia perso un occhio oltre che un orecchio? È proprio Rhalgorn
questo, il Signore dei Lauvectii: è proprio lui, Thareesh?»
«Anche se è lui, cosa della quale dubito,» disse Thareesh con molta calma,» non credo che sarebbe una
cosa saggia permettergli di salire a bordo. Non sappiamo nulla degli effetti che le alte quote producono
sugli aliti di coniglio.»
«Questo è vero. È una cosa che va considerata.» «O, supponiamo che gli venga fame e mangi
l'attrezzatura?»
«Sì, c'è questo pericolo.» «Non mi sembra proprio una buona idea.»
«No, temo che gli Stygiani non siano tagliati per il volo.» Rhalgorn attese pazientemente che noi
avessimo finito. «Spero che vi siate divertiti a parlare tra di voi,» disse piuttosto freddamente, «perché
vi assicuro che non sta-vo ad ascoltarvi. Volare sul terreno è molto indecoroso, ed io non provo altro che
disprezzo per una faccenda del genere. Ad ogni modo, poiché sono l'unico a bordo ad avere un paio
d'occhi che riescono a vedere oltre la battagliola della nave, credo che sia il caso che li adoperi.» Detto
questo, si girò e si avviò lentamente verso la prua dell' Ahzir. Era ancora presto e non aveva avuto
tempo di dire al Vikoniano come si fa a governare bene una nave, o perché le vele dovrebbero essere
regolate in un modo e non in un altro.
Dal momento che non ritenemmo opportuno affollarci in tre a bordo del piccolo cestello, quel
pomeriggio io rimasi giù, mentre Thareesh portava su Rhalgorn a fare un giro.
Tutto andò bene, ed io fui enormemente soddisfatto. Era una giornata di tempo buono, quasi senza
vento, e il congegno volava proprio al di sopra del nostro albero. Il dispositivo che avevamo applicato
funzionò a meraviglia e, al tramonto, Thareesh ricondusse giù la cosa senza incidenti.
«Hai visto,» dissi a Corysia, «non c'è niente di cui preoccuparsi. Mi aspetto presto che anche tu mi
chieda di andarci.»
Corysia mi lanciò un'occhiata minacciosa. «Lo farò, Aldair. Non appena dalle nuvole pioverà birra chiara
e birra d'orzo.»
Thareesh saltò giù dal cestello prima che urtasse contro il ponte, con gli occhi color dell'agata iniettati di
sangue.
« Ora lo Stygiano sa tutto sui congegni volanti, proprio come sa tutto sulle navi,» smaniò. «È tutto tuo,
Aldair. Mi faccio scorticare vivo, piuttosto di ripetere l'esperienza!» Con un'ultima occhiata assassina
nei confronti di Rhalgorn, si avviò impettito sotto coperta facendo una gran quantità di rumore, il che
non è un'impresa di poco conto per un Nicieano. Corysia e Signar non riuscivano a smettere di ridere.
Rhalgorn, che sembrava molto soddisfatto di sé, annunciò che in futuro avrebbe preferito che ci fossimo
rivolti a lui come avvistatore e Maestro di Volo. All'alba del nostro secondo giorno sul fiume, andai su
con Rhalgorn. La città dell'Uomo andava ancora di pari passo con il nostro percorso. In verità, sembrava
non dovesse avere mai fine. Pallide dita di pietre si allungavano fino all'orizzonte su tutti e due i lati, e
persino Rhalgorn Vista-Lunga non trovò neanche un pezzetto di foresta senza qualche struttura che si
intromettesse tra i suoi rami.
«Aldair: non può continuare all'infinito,» dichiarò.
«Infatti non lo penso. Ma per ora non mostra nessun segno di interruzione.»
«Sì, ma lo farà, prima o poi.»
«Perché dici questo?»
«Perché non ha senso costruire così tante cose di pietra.»
«Secondo gli Stygiani, non ha senso costruire alcuna struttura in pietra.»
«Questo è vero,» fu d'accordo lui. «Ma anche chi le ha costruite, non avrebbe dovuto costruirne un
numero così enorme. In tutti i casi, ne vedremo presto la fine.»
Ciò può dare un'idea del perché Thareesh non avesse trovato particolarmente di suo gradimento la
giornata di volo insieme a Rhalgorn. Per uno Stygiano esiste una sola forma di logica, e sarebbe quella
sua propria. Non riesce a capire perché la gente di altre razze si rifiuti di agire in maniera ragionevole.
A mezzogiorno, il sole irruppe tra le nuvole, e il mondo sottostante apparve di una tonalità più luminosa.
Le scure e tenebrose foreste diventarono verdi come erba novella, e le rovine dell'Uomo scintillavano
come pezzetti di marmo. Tirammo su il nostro pranzo dall' Ahzir su di una corda e, per qualche motivo,
Rhalgorn si deliziò moltissimo di questo fatto. C'era molto poco da vedere che presentasse un qualche
interesse. Sapevamo che lì giù c'erano delle creature, ma anche che si trovavano lontano dal fiume, o
troppo ben nascoste persino alla straordinaria vista di Rhalgorn. Di tanto in tanto mi riferiva di un
insetto su una foglia, o di un ciottolo sul fondo del fiume, ma io non ci facevo molta attenzione. Lui si
sentiva obbligato a vedere qualcosa, dopo il bel discorso del giorno prima.
«Mi è sembrato di vedere qualche animale in giro,» dissi io. «Almeno uno o due.»
Mi scrutò al di sopra del muso. «Così sembrerebbe. Ma non ce ne sono.»
«Perché pensi che non ne abbiamo individuato nessuno?»
«Perché non ce ne sono affatto, Aldair. Se ce ne fossero, io li avrei visti.»
«Sono convinto che sia così.»
«Vorresti dubitarne?»
«Naturalmente no. Sei tu quello che ha la vista lunga. Me lo hai detto tu stesso.»
«Questo è vero. Ed anche Maestro di Volo, ricordatene.»
«Se fossi in te non accennerei a quest'ultimo titolo in presenza di Thareesh.»
Rhalgorn fece una smorfia. «I Nicieani sono tra le creature meno ragionevoli che esistano al mondo.
Sebbene debba ammettere che ammiro e rispetto Thareesh: è un bravo scalatore e un ottimo
combattente, considerata la sua statura.»
«È carino da parte tua dire così,» gli dissi, cominciando ad essere un po'
stanco di quella discussione, «Suppongo che tu abbia dimenticato che gli irragionevoli Nicieani hanno
dato vita ad una grande cultura a sud del Mar Meridionale. Per quanto ne so io, gli Stygiani vivono
ancora nei boschi.»
Rhalgorn sembrò confuso. «Naturalmente non l'ho dimenticato, Aldair. So che i Nicieani hanno fondato
un Impero. E così hanno fatto anche i Rhemiani. E tutti e due, se non mi sbaglio, hanno fatto una brutta
fine. Mentre, come tu dici, gli Stygiani vivono ancora nelle foreste dei Lauvectii.»
Non mi pareva giusto che fosse lui ad avere l'ultima parola in quel discorso, e per di più con
un'affermazione di quel genere. Ciò che aveva detto era vero, ma gli Stygiani hanno la tendenza a lasciar
fuori dalle loro storie una gran quantità di fatti.
«Vedi,» cominciai, «ciò a cui tu hai mancato di accennare, Rhalgorn...»
Lui non mi aveva sentito. In quel momento un pezzo di pane gli cadeva dalle fauci spalancate. Fissava
qualcosa con gli occhi sbarrati e con un dito tremante indicava un punto sul fiume sotto di noi.
«Che gli Dei ci aiutino, Aldair! Cercavi degli animali... ed eccoli là: ogni tipo di dannato animale che esista
al mondo, per quanto ne so io!»
Per poco non mi soffocai con un sorso di birra. Erano proprio lì, poco oltre l' Ahzir dietro ad una stretta
ansa del fiume. Le sponde erano diventate nere per le loro forme mostruose e, mentre noi stavamo a
guardare, altre centinaia e centinaia ne uscirono a frotte dalle scure foreste. Suonai il corno di guerra
per mettere in guardia i vascelli che si trovavano alle nostre spalle. Ma era ormai già troppo tardi
perché... TREDICI
È una cosa terribile dover rimanere inattivi mentre dei valorosi compagni muoiono. Certamente, per un
guerriero non esiste una vergogna più
grande di questa da sopportare. Potevamo vedere tutto, e non potevamo far nulla. Desideravo
ardentemente un arco e una faretra piena di frecce. Non sarebbero servite a molto, ma almeno avrei
potuto avere una piccola parte nell'orrore che si compiva sotto di me.
Ho cercato di descrivere gli eventi così come li ho visti dall'alto dell' Ahzir e, se non sono riuscito a
rendere tutta l'angoscia e il terrore di quelli che vissero quel momento, è stato perché non ero lì al loro
fianco, e non aggiungerò parole alle loro sofferenze. Per tutto il resto, questo è un accurato resoconto,
dal momento che fui in grado di vedere con estrema precisione che cosa accadde a ciascuno dei nostri
vascelli. Questa fu una notizia tragicamente smentita dai miei Capitani, dal momento che loro videro
solo una piccola parte della scena, e non riuscirono a reagire con sufficiente rapidità, in modo da evitare
il disastro. È evidente che le creature avevano studiato ed osservato sia noi che i nostri vascelli molto
bene, perché attaccarono con grande decisione ed abilità. L' Ahzir era il primo dei nostri scafi a risalire
la corrente, e l' Aghiir e lo Shamma a'Lan venivano subito dietro. Erano troppo vicini, e a causa delle
loro posizioni c'era rimasto troppo poco spazio per manovrare velocemente. Forse il richiamo del mio
corno di guerra regalò a Signar i preziosi secondi di cui aveva bisogno; ancora un momento e l' Ahzir si
sarebbe ritrovato senza speranza sulla secca. Virò improvvisamente a dritta, facendo girare il vascello
così in fretta che noi per poco non cademmo dal bordo del nostro cestello, che si trovava proprio sopra l'
Ahzir. Bhaldrig, che era bordo dell' Aghiir, ebbe ben poco tempo per chiedersi cosa Signar stesse
facendo, Chiaramente, non poteva vedere ciò a cui stava andando incontro, perché navigava proprio
dietro all' Ahzir, a stretto contatto con la sua poppa, e stava facendo rotta in direzione di un'ansa del
fiume che si trovava davanti. Ora, anche se ce ne fosse stato il tempo, non ci sarebbe stato lo spazio per
virare.
A quel punto, il capitano Sheeshaan capì che qualcosa non andava per il verso giusto. L' Aghiir era
quasi scomparso al di là dell'ansa del fiume. L' Ahzir al'Rhaz aveva fatto inversione di rotta e procedeva
a tutta velocità
verso la foce del fiume. Saggiamente, Signar aveva messo gli uomini dell'equipaggio ai remi, per non
sprecare tempo con le vele. Faceva delle segnalazioni frenetiche in direzione dello Shamma per farlo
virare, ma col tempo che aveva a disposizione Sheeshaan non poté fare nulla, dal momento che aveva
ridotto troppo in fretta la sua velocità ed ora veniva trasportato dalla corrente. Fu un errore fatale, e
forse avrebbe potuto essere evitato, ma ora tutto ciò non ha molta importanza.
Sapevo che l' Aghiir era perso, perché era rimasto arenato sulle secche. Sul fiume in quel punto
crescevano delle grandi querce e le bestie stavano calando dall'alto sul suo ponte. Il vascello era
praticamente diventato nero a causa dei loro corpi, ed io riuscivo si e no a vedere un guerriero che
stesse ancora in piedi. Ormai entrambe le sponde del fiume erano animate da orribili creature di ogni
genere e forma, che ululavano e ruggivano assetate di sangue. Era una vista semplicemente
raccapricciante, ma non vedevo come avrebbe potuto mettere in pericolo l' Ahzir o lo Shamma.
Avevano catturato l' Aghiir, ma non assalendolo in acque profonde, e con tutto il fracasso che
facevano, nessuno si era allontanato dalla riva per raggiungerci.
Signar si stava dirigendo verso lo Shamma per tirargli una cima e aiutare Sheeshaan a mettere
dell'acqua sotto il suo scafo. Fu un momento di grande tensione, e non c'era tempo da perdere, ma lo
Shamma sarebbe stato presto fuori pericolo. Sono certo che sia Signar che Sheeshaan la pensavano
così, inoltre.... Quando accadde, accadde con molta rapidità.
Signar stava proprio lì lì per lanciare la cima. Sheeshaan aveva messo i remi in acqua e gli stava andando
incontro. Poi, all'improvviso, da ogni punto della riva, centinaia di rozze zattere di legno si gettarono nel
fiume, una dietro all'altra, finché si strinsero intorno alle secche e si disseminarono al di là della
corrente. Un altissimo e terribile urlo salì dalla gola delle bestie: come se fossero una sola cosa, si
sollevarono dalle sponde, balzando da una zattera all'altra. Nel giro di pochi secondi stavano già
dilaniando le fiancate dello Shamma e stavano sciamando sul suo ponte. Rimasi a guardare la scena
che si svolgeva sotto di me, ammutolito dall'orrore, ed impossibilitato a fermare quella carneficina così
come lo era l'equipaggio di Sheeshaan, ormai in preda alla disperazione. Guardare quelle bestie era a dir
poco spaventoso: scure orde di pelliccia, di zanne ed artigli. C'erano creature scarne e macilente, con
occhi rossi del colore del sangue e mascelle vigorose, che dovevano essere i progenitori della stirpe di
Rhalgorn... enormi animali tarchiati più grossi di un Vikoniano, ed altri lucidi come asce affilate che
gridavano come una femmina che viene torturata. Ho assistito a delle scene quel giorno, che rimarranno
per sempre impresse nella mia mente: compagni letteralmente fatti in due dalla traiettoria di una
singola zampa, guerrieri che venivano spiaccicati sul ponte prima di aver avuto la possibilità di scoccare
una sola freccia. Più di una volta vidi qualcuno che urlava stretto nella presa di una di quelle bestie,
mentre quella ne strappava via un arto con le zanne. Capitava spesso che un animale smettesse di
dilaniare e mangiare la sua preda per difenderla dall'attacco di numerose altri che volevano
appropriarsene. Quelle cose potevano essere fermate, ma non morivano facilmente. Erano capaci di
continuare a combattere, invasati da una furia ancora maggiore, anche se conficcate nella pelle avevano
più di una mezza dozzina di frecce. Una lancia affilata o un'ascia da guerra erano piuttosto efficaci, ma le
spade non sortivano praticamente nessun effetto. Quelle creature erano troppo veloci per essere
raggiunte dal colpo di una lama pesante. Tutti gli uomini del nostro equipaggio erano esperti
combattenti, ma non potevano competere contro un tale nemico. Molti lasciarono cadere le armi e
saltarono in acqua dalle fiancate della nave, e io non so biasimarli per questo. Sheeshaan e un piccolo
gruppo resistettero per un po', con le spalle rivolte a prua, ma furono ben presto sopraffatti e non li
vedemmo più. Signar comprese immediatamente che c'era ben poco che lui potesse fare per lo
Shamma. Quelli che riuscirono a raggiungere l' Ahzir venivano tirati rapidamente a bordo, ma non si
arrischiò a perdere nemmeno un momento per aspettare quelli che non ci riuscirono. In questo ebbe
ragione perché, sebbene lasciar morire dei compagni addolori un guerriero, sarebbe stata pura follia
condannare quelli ancora vivi.
Il Vikoniano era fuori pericolo, per il momento; Signar aveva di nuovo messo a segno le vele e
continuava anche a far remare alcuni uomini dell'equipaggio, sollevando una gran quantità di schiuma.
Una volta liberatisi dalle secche, le zattere furono ben presto inutili, dal momento che si dispersero
rapidamente, e gli animali non poterono più saltare da una all'altra. Alcuni, resi furibondi dal fatto che ci
vedevano ormai fuori dalla loro portata, si lanciavano senza pensare nel fiume e avanzavano goffi e
barcollanti verso di noi. Questi venivano liquidati con spietata determinazione dai nostri arcieri e, ogni
volta che una bestia affondava nelle acque profonde, l'equipaggio lanciava un grido di vittoria. Era una
ben magra consolazione rispetto a ciò che avevamo sofferto, ma era pur sempre qualcosa. Alcuni
momenti più tardi, queste grida di acclamazione si mutarono in disperati lamenti. Guardai giù verso il
fiume ed ebbi un tuffo al cuore. Le bestie non avevano ancora finito con noi. Lo Shamma e l' Aghiir
erano stati solamente l'inizio, ora tutto il percorso che avevamo davanti era denso di zattere e di
creature schiamazzanti. L'acqua profonda non sarebbe bastata a salvare l' Ahzir. sebbene molte
zattere sarebbero state spazzate via, in tutti i casi saremmo stati attaccati da un numero enorme di
quelle bestie. Se anche solo un gruppetto fosse riuscito a salire a bordo... Signar urlò degli ordini e l'
Ahzir aumentò improvvisamente la velocità, facendo un gran balzo in avanti. La nostra corda si tese
all'improvviso e ci scagliò violentemente contro i lati del cestello. Rhalgorn appariva sbigottito. «Signar
sta andando il più veloce possibile,» gridai. «Più veloce andrà
e più noi rimarremo indietro!»
«Allora farebbero meglio a tirarci giù,» disse Rhalgorn. «Ci stiamo abbassando ogni minuto di più.»
Lo fissai. Per essere un Maestro di Volo, aveva imparato davvero poco di quell'arte.
«La corda è troppo tesa. Non possono tirarci giù. Anche se...» Mi interruppi, e un brivido gelido mi
passò dietro la schiena. «Rhalgorn, è ancora peggio di quanto credi. Noi stiamo tirando loro
indietro!»
Lo Stygiano appariva davvero sconvolto poi, quando ebbe capito ciò che stava succedendo, spalancò gli
occhi.
«Te ne rendi conto anche tu, adesso. Stiamo svolgendo lo stesso compito di un'enorme ancora, che sta
rallentando incredibilmente la loro velocità.»
Lanciai una rapida occhiata al di là del bordo del cestello. Rimanevano meno di duecento metri tra l'
Ahzir e le orde in attesa.
«Signar potrebbe farcela,» disse Rhalgorn brusco. «Ma non con noi dietro.»
«No.»
«Allora devono tagliare la nostra corda, Aldair. Non c'è niente altro da fare.»
Io scossi la testa. «Non lo faranno. Cercheranno di salvarsi senza perderci. Dobbiamo farlo noi per loro,
Rhalgorn. E dobbiamo farlo subito.»
Rhalgorn non disse niente. Non c'era bisogno di parole. Portò la mano alla cintura e ne tirò fuori una
lama. Rimase per un attimo a fissarla, poi mi guardò. All'improvviso uno stupido sogghigno si dipinse sul
suo muso.
«Non ci vedo proprio nulla di divertente,» gli dissi. «Sbrigati, altrimenti lo farò io!»
«Penso che non lo farai,» disse con calma. «Non credo di essere pronto per fare un bagno nel fiume,
Aldair, o per combattere con i miei antenati. Ecco, ora, stai fermo!»
Prima che potessi dire una sola parola, fece fare alla corda un giro intorno alla sua vita, mi afferrò di
forza le mani, e le legò insieme. Diedi per scontato che fosse completamente impazzito. Con altrettanta
rapidità, mi sollevò, fece passare le mie braccia intorno al suo collo, e saltò fuori dal cestello. Realizzai
troppo tardi ciò che aveva intenzione di fare.
«Rhalgorn, non funzionerà mai!» Gli urlai nelle orecchie.
«Forse no. Ora chiudi il becco e mantieniti forte. Non abbiamo tempo per discutere l'argomento.»
L'attimo stesso in cui afferrò la corda, capii che eravamo spacciati. Il nostro peso fece immediatamente
inclinare il congegno in un angolo molto preoccupante. Dopo pochi metri si trascinava quasi dritto dietro
a noi, e non eravamo neanche a metà strada tra noi e l' Ahzir. Il respiro di Rhalgorn si fece affannoso,
ma più che altro si trattava di rantoli strazianti; faceva caparbiamente forza con una mano sull'altra, ma
non poteva farcela a tenerlo in alto ancora per molto tempo, con il mio peso ed il suo da trasportare. Il
congegno stava precipitando sempre più veloce. Quando avrebbe toccato l'acqua, anche noi l'avremmo
fatto. E sarebbe andata proprio così. Eppure Rhalgorn ancora resisteva. La poppa dell' Ahzir si trovava
ora solo a tre metri di distanza da noi. Poi due. Spruzzi d'acqua gelida che si alzavano dalla sua scia già ci
sfioravano. Potevamo farcela! Un attimo ancora... Rhalgorn lanciò una terribile bestemmia stygiana e la
corda gli sfuggì
dalle mani....
QUATTORDICI
In una infinitesimale frazione di secondo, nella mia mente mulinarono un'infinità di pensieri. Quello che
ricordo con più vividezza fu la speranza che io e Rhalgorn avessimo il buon senso di affogare prima che
le bestie avessero il tempo di venirci a raccogliere.
Andai avanti ad aspettare che l'acqua ci sommergesse.
Ma sembrava che ci mettesse un tempo interminabile.
Non che ci fosse poi tutta quella fretta...
All'improvviso, qualcosa di grosso e ricoperto di pelliccia si strinse alle mie spalle. Per la Vista del
Creatore, pensai, qualche orribile creatura ci ha ghermiti dal cielo! Poi mi sovvenne che le bestie di
Merkkia non odoravano di sale e di birra d'orzo. Signar-Haldring barcollava sotto il suo carico, e andò a
capitombolare maldestramente sul ponte, seppellendoci sotto il suo peso. Per il breve arco di un
secondo, io provai una gioia indicibile ad es-sere schiacciato da un Vikoniano. Un uomo dall'equipaggio
sciolse i lacci che mi tenevano legati i polsi e mi ficcò tra le mani una spada. Un altro fece volteggiare la
sua ascia da guerra e liberò la corda che ci teneva ancora legati. L' Ahzir ebbe un fremito, e finalmente
libero del suo pesante fardello, fece un meraviglioso balzo in avanti volando quasi sull'acqua.
Mentre correvo verso prua per unirmi agli altri, tra la folla individuai Corysia, ma non c'era tempo per i
saluti. Davanti a noi era tutto brulicante di quelle bestie. Mentre guardavamo la scena, altre centinaia e
centinaia di quegli orrendi animali si lanciarono in acqua, saltando sulle loro zattere per poterci
raggiungere.
Avevamo il vento in poppa e l'equipaggio adoperava i remi con tutta la forza di cui erano capaci.
Fendevamo le scure acque ad una notevole velocità, ma comunque non potevamo raggiungere quella
che si può prendere in mare aperto. Se non fossimo riusciti a farci largo tra quel groviglio di tronchi e
non fossimo riusciti a continuare a navigare... Se fossero riusciti a fermarci anche per un solo minuto...
Trenta minuti. Poi venti. I guerrieri si erano allineati contro la battagliola, ed ogni arma disponibile a
bordo era stata portata in coperta per essere usata contro le bestie. Erano dei bersagli semplici da
colpire, e noi ne facemmo ruzzolare nel fiume a dozzine e dozzine. Tuttavia ne continuavano ad arrivare
sempre degli altri.
Dieci metri. Cinque. All'improvviso ci ritrovammo proprio in mezzo a loro e, al di sopra dell'orribile
frastuono di cui erano capaci quelle creature, si udì il rumore dello schianto delle tavole di legno contro
la nostra prua. Per un attimo ebbi la certezza che saremmo tutti morti, lì in quel fiume. Poi, dalle grida di
evviva che udii alle mie spalle, seppi che eravamo ancora salvi. Fauci spalancate e occhi rossi iniettati di
sangue si arrampicavano sulla battagliola, ma poi ricadevano all'indietro ululando. Da qualche parte un
guerriero lanciò un grido. Una scura forma grigia stava acquattata sulla nostra prua ed io scagliai una
freccia che la colpì in pieno petto. La bestia ringhiò, con i denti strappò via la freccia e continuò ad
avanzare. Una freccia, poi ancora un'altra sibilarono da dietro alla mia spalla, e la cosa cadde ai miei
piedi, con i denti ancora serrati.
Un vero e proprio barrito scosse la coperta, e mi fece voltare di scatto. Sopra di me, sul ponte,
l'antenato di tutti i Vikoniani torreggiava su Signar, artigliando l'aria con le sue enormi zampacce. Si era
fatto strada lungo la nave da poppa, lasciandosi alle spalle un percorso insanguinato: ora, aveva davanti
a sé un avversario che trovava davvero di suo gradimento. L'arma di Signar scintillò. Un braccio ricoperto
di pelliccia la fece volar via e la mandò a sbattere sulle tavole del ponte. Signar cadde all'indietro. Un
guerriero ricoperto da una splendida pelliccia nera, uno di quelli di Raadnir, avanzò audacemente in
direzione della creatura e fece affondare la sua ascia da guerra così profondamente nel ventre della
bestia, che ne fuoriuscirono le budella. La bestia ruggì e si agitò violentemente impazzita a causa del
dolore. Con calma, il Vikoniano avanzò verso quelle membra raccapriccianti e avviluppò saldamente tra
le sue braccia il torace della cosa. Facendo forza sulle gambe, strinse e schiacciò la creatura con tutta la
forza di cui era capace. La bestia vacillò e ruzzolò sul ponte. La battagliola andò in pezzi, cedette, e sia la
bestia che il guerriero scomparvero nell'acqua. Nel giro di pochi secondi era tutto finito...
Le bestie si ritiravano alle nostre spalle, e di nuovo i nostri remi sferzavano l'acqua. A quel punto non
c'era una gran necessità di affrettarci, ma l'equipaggio non sembrò farci caso, ansioso di volgere
definitivamente le spalle a quell'avventura.
Un'ultima cosa deve essere ricordata per concludere adeguatamente la cronaca del «Sogno
dell'Inferno». Non è più piacevole di ciò che è stato detto prima ma, senza quest'altro particolare, la
storia non è completa. Pochi minuti dopo aver lasciato quelle bestie nella nostra scia, Rhalgorn, con
grande tranquillità, mi chiamò per farmi avvicinare alla battagliola. Dopo che ci ebbero raggiunti anche
Signar e il Nicieano, indicò con la mano in direzione della riva.
«Senza dubbio, eri del parere che rimanessero ormai poche sorprese nella terra di Merkkia,» disse cupo.
«Se avrai la bontà di dare un'occhiata lì, ne scoprirai un'altra. Non credo che tu abbia bisogno degli occhi
di uno Stygiano per vedere ciò che ti interessa vedere.»
Guardai, e per un attimo mi parve che non ci fosse proprio un bel niente, dal momento che riuscivano a
mimetizzarsi incredibilmente bene con il grigio ed il verde della foresta. Poi, come se un velo si fosse
sollevato dai miei occhi, le vidi, immobili e silenziose come le ombre. Le bestie in sé stesse erano orribili
da guardare, ma i loro capi erano dei veri e propri incubi divenuti realtà. Naturalmente, erano
esattamente quello che dovevano essere perché, sebbene noi nel fervore della battaglia non avessimo
affatto pensato ad una cosa del genere, degli animali non sanno legare insieme dei tronchi e dei
rampicanti per costruire delle zattere. Ed anche i più astuti tra di loro non sarebbero riusciti ad
escogitare il piano che aveva portato alla rovina i nostri vascelli.
È difficile descrivere queste cose, perché la descrizione di una non dice assolutamente niente di un'altra.
Non erano né Uomini né animali, ma qualcosa di mezzo. C'erano creature con gli zoccoli, le zampe e gli
arti come i nostri. Cose con grugni o musi, o con delle sottili aperture sotto gli occhi... Cose ricoperte di
pelliccia, o di scaglie, oppure che presentavano delle grosse macchie coperte di peli e di liscia pelle
rosa... Nonostante quello che ci avevano fatto, era difficile guardarli senza provare pietà o rammarico.
Non potevano essere diversi da com'erano, perché
i loro progenitori erano stati creati come se fossero stati delle cose, esattamente nello stesso modo in
cui erano stati creati i nostri, e non era stato chiesto loro come avrebbero voluto essere.
Questa, pensai, era stata l'azione più vergognosa dell'Uomo. Se noi eravamo delle sue creature, almeno
non eravamo cambiati un granché da come eravamo all'inizio. Non ci aveva trasformati in mostri, e non
aveva impresso su di noi l'abominio della sua stessa progenie. La riva del fiume ora era vuota. Sia le
bestie che i loro capi erano scivolati di nuovo nelle ombre del loro terribile mondo. Su tutti e due i lati
non c'era altro che il verde della foresta e le pallide, bianche dita, delle antiche strutture.
«Dei rifiuti,» disse Thareesh tranquillamente. «Ecco ciò che sono, Aldair. I rottami dell'odiosa
macchinazione dell'Uomo.»
«Credo proprio che tu abbia ragione,» dissi.
«Siamo tutti qui, allora: le bestie, i rifiuti, e la creazione finale. Ci manca solo l'Uomo per completare il
quadro.»
«Che io sia dannato se ho voglia di completarlo,» borbottò rabbiosamente Signar. Più tardi, quella sera
stessa, sentimmo di nuovo il delizioso profumo dell'aria di mare, e non rallentammo l'andatura fino a
quando non mettemmo tra noi e la minacciosa costa di Merkkia un vasto braccio di mare. Dei trenta
uomini dell'equipaggio dell' Aghiir non era sopravvissuto nessuno: erano rimasti tutti vittime delle
bestie. A bordo dello Shamma a'Lan erano morti ventisei uomini; solamente nove da quel vascello
erano riusciti a raggiungere sani e salvi l' Ahzir. Nel corso del nostro ultimo combattimento con gli
animali, otto uomini dell'equipaggio erano rimasti uccisi, ed altri tre morirono prima che il giorno finisse
a causa delle loro ferite. Era stata una battaglia che non aveva avuto nulla in comune con tutte quelle
che avevamo combattuto fino a quel momento. La morte piombava veloce, e c'era ben poco tempo per
l'onore, l'audacia o le imprese nobili. Sebbene pochi siano disposti ad ammetterlo, ci sono ben pochi
motivi di vanto nel mestiere del soldato, senza considerare il nemico che si ha di fronte. Perlopiù si
tratta di avere numerose ed eccellenti opportunità di morire, tra grandi sofferenze e senza che la cosa
desti particolare scalpore. QUINDICI
Su quei nostri primi giorni in mare, c'è davvero ben poco da raccontare. Non accadde nulla di veramente
importante, e perciò fece molto piacere a tutti noi.
Facemmo vela verso sud, e a dritta continuavamo a rimanere in vista delle coste di Merkkia. Signar si
lamentava del fatto che il nostro scontro con le zattere avesse in qualche modo indebolito la nostra
prua, provocando la rottura di alcune tavole del fasciame e permettendo così all'acqua di infiltrarsi in
alcuni punti dell'opera viva della nave.
Ad ogni modo, quando gli chiesi se preferiva trovare un porto dove potersi occupare delle riparazioni
necessarie, con fare brusco mi informò che avevamo subito dei danni, ma non stavamo per andare a
fondo, e che, a costo di dover nuotare davanti all' Ahzir e trainarlo coi denti, non avrebbe mai più fatto
una sosta in quella terra maledetta.
Dalla nostra avventura alla sorgente del fiume, non si può dire che Signar fosse stato il più piacevole dei
compagni. Come Capitano della nostra flotta, biasimava sé stesso a causa del disastro in almeno un
centinaio di modi diversi. Naturalmente, la decisione di intraprendere quel viaggio era stata mia, ma ciò
non aveva assolutamente nessun senso per il Vikoniano. La tragedia del «Sogno dell'Inferno» era
rimasta impressa nelle menti di tutti, ma raramente ne parlavamo tra di noi. Forse avevamo paura che le
nostre parole potessero in qualche modo riportare in vita l'orrore di cui quel giorno eravamo stati
spettatori. .. O nutrivamo la speranza che il nostro silenzio ci avrebbe riportati indietro nel tempo, ed
avrebbe così cancellato quei momenti dalla nostra memoria. Chiaramente, non avevo del tutto ragione
nel ritenere una cosa di questo genere, dal momento che venni a sapere che alcuni membri del nostro
equipaggio parlavano in verità di qualche altra cosa. Signar fece del suo meglio per mettere a tacere la
cosa, ma anche la sua notevole autorità non servì a nulla.
Alla fine, sotto coperta scoppiò una rissa, e uno degli uomini lasciò una piccola cicatrice su un altro
membro dell'equipaggio. Arrivati a quel punto, entrai anch'io nel merito della faccenda e feci condurre
in mia presenza i due. Di solito non interferisco in fatti di questo genere, ma avevo un interesse speciale
in quel caso particolare: i due che erano coinvolti nella rissa erano gli unici altri due membri della mia
razza a bordo dell' Ahzir, eccettuata Corysia. Il primo, Stumbacius, era stato un legionario. Le nostre
strade si erano brevemente incontrate un giorno di molto tempo prima, quando avevo rapito Corysia
alle Guardie Rhemiane. Era stata lei ad individuarlo di nuovo tra la moltitudine affamata che fuggiva
dall'Impero in rovina. L'avevamo preso a bordo, e si era rivelato un ottimo marinaio. Era un robusto
soldato di mezza età che aveva partecipato a numerose campagne, e che sapeva come prendere un
ordine ed eseguirlo senza fare questioni. L'altro invece, che si chiamava Barthius, era fatto di tutta
un'altra pasta. Aveva prestato servizio a bordo di uno di quei vascelli che i Rhemiani chiamano navi da
guerra, e che i Vikoniani e i Nicieani definiscono senza tanti complimenti bagnarole. Dopo che le nostre
sentinelle erano state uccise e noi ci eravamo diretti verso il fiume, era stato Barthius che aveva dato il
via alle lamentele dell'equipaggio.
Tra i due, io preferivo di gran lunga il soldato Stumbacius. Aveva tutta l'aria di un uomo semplice ed
onesto, in special modo poi, se veniva messo a confronto con l'altro. Barthius aveva il muso corto e la
testa quadrata, che erano le caratteristiche tipiche dei Belaturri. Orecchie piuttosto malfatte gli
pendevano molto accostate alle mascelle ed il suo corpo era ricoperto da una peluria nera e ramata. Di
solito, per tradizione, i Belaturri sono sempre stati mugnai, e nel migliore dei casi sono esseri piuttosto
scontrosi. Evidentemente, la salubre aria di mare poteva far ben poco per migliorare i loro caratteri.
Quando chiesi chi era stato a cominciare la rissa, fu Barthius a lasciarsi uscire di bocca una risposta.
«Quello lì,» disse incollerito, «è stato lui a cominciare ed io non ho fatto altro che difendermi! Lui...»
Lo interruppi bruscamente. «È vero, Stumbacius?»
«Sì, signore. È vero.» Il soldato mi guardò dritto negli occhi, non facendo nessun tentativo per evitarmi.
«Non c'è alcun motivo valido per nessuno a bordo di questo vascello, che possa portare a ricorrere alle
armi,» gli dissi. «Tuttavia, credo che tu abbia da dirmene uno.»
«Sì, signore. Infatti è così.»
«E quale sarebbe?»
«A me non piaceva quello che lui stava dicendo.»
«Tu l'hai ferito perché non gradivi le sue parole?»
«Sì, signore.»
«E allora vorrei sentire di che si trattava.»
Barthius aprì la bocca per protestare, ma non poteva assolutamente permettere di intromettersi.
Stumbacius si morse le guance e guardò verso la coperta.
«Perdonatemi, Signore. Preferirei non dirlo.»
« Dannazione a te!» gridai, sbattendo con violenza il pugno sul tavolo e guardando fisso tutti e due. «A
me non interessa proprio un bel niente cosa tu preferiresti fare o cosa non preferiresti fare! E adesso
sbrigati e di ciò
che hai da dire!»
Stumbacius inghiottì nervosamente. Si trovava in un vero e proprio dilemma, e la cosa non gli piaceva
per niente. Da un lato, disobbedire ad un ordine lo faceva quasi soffrire, dall'altro - ed era un motivo
altrettanto valido - c'era una sorta di codice non scritto dei soldati, che lo tratteneva dal dire qualcosa
contro un commilitone, senza considerare le circostanze particolari. Io non avevo affatto voglia di
punirlo, perché ero assolutamente convinto che Barthius avesse avuto ciò che si era meritato. Tuttavia,
il suo silenzio mi lasciava ben poca scelta.
«Per trenta giorni doppio turno di guardia,» gli dissi, «e mezza razione per lo stesso periodo. Forse la
prossima volta ci penserai due volte prima di infilzare un altro con la spada.»
Stumbacius non batté ciglio nell'ascoltare la sentenza, ma un ghigno malizioso incurvò lievemente la
bocca di Barthius. Si riprese prontamente, ma io me ne ero accorto benissimo.
«Ti sembra giusto?», gli chiesi. «Sei tu che sei rimasto ferito.»
«Signore, secondo il mio parere è una sentenza giustissima,» disse lui con molta calma.
«Bene. Perché a te sarà riservato lo stesso trattamento, amico mio.»
Le ganasce di Barthius si afflosciarono. «Questo non è...»
« Giusto, Barthius? Per la Vista del Creatore! Sei veramente ben poca cosa come marinaio, ed io mi
vergogno che tu sia proprio uno dei miei ma-rinai!» Più conoscevo quell'uomo e meno mi piaceva. «... E
devo dirti ancora un'altra cosa, e bada bene di non dimenticarla. Se a bordo dell' Ahzir permettessi
l'uso della frusta, tu saresti il primo a saggiarla!»
«Signore, io...» Barthius aprì la bocca e cercava le parole giuste. «Signore, io non ho fatto niente...
proprio niente!»
«Hai fatto molto di più di quanto non abbia fatto Stumbacius. In fin dei conti lui ti ha ferito lealmente
con una spada, mentre tu non hai nient'altro che la bocca. Non ho bisogno di ascoltare ciò che lui ha
da dire su di te, perché posso immaginarmelo con un buon grado di precisione. Tutti a bordo hanno
udito le tue parole, tranne me. Ora...» Mi alzai e feci il giro intorno al tavolo per mettermi proprio di
fronte a lui. «Supponiamo di voler andare fino in fondo in questa faccenda, Barthius.»
La nostra conversazione non si stava svolgendo secondo i parametri che Barthius aveva in mente.
«Non c'è niente, Signore.»
«Sarebbe meglio che ci fosse,» lo avvertii io. «Se non è così, io raddoppierò la punizione che hai
ricevuto, e tu potrai passare tutto il resto del nostro viaggio a contare i gabbiani. Mi hai sentito bene?»
«Sì, Signore. Ho sentito.» Sapeva bene che avrei messo in pratica ciò
che avevo promesso.
«È l'equipaggio, Signore.»
«L'equipaggio?»
«Sì, Signore. Loro pensano... voglio dire...»
«Loro cosa, Barthius? Stai parlando a nome dell'equipaggio, non è vero?»
«No, Signore, non è proprio così. È solo che alcuni di loro credono che...»
«No,» lo interruppi io. «A me non interessa sapere che cosa tu pensi che qualcun'altro possa credere.
Mi interessa sapere che cosa pensi tu, solo tu.»
«Signore...»
«Non mi esasperare, Barthius.»
Lui tiro un profondo sospiro e decise che mi aveva messo alla prova già
più a lungo di quanto non avesse mai osato pensare.
«Va bene, Mastro Aldair,» disse stancamente, «te lo dirò allora, anche se mi costerà la pelle, perché si
tratta di qualcosa che tu dovresti sapere, e, senza dubbio, non sono io l'unico che lo dice!»
«Barthius...»
«Sì, Signore. Bene... Signore, ammetto che noi tutti siamo venuti a bordo conoscendo la causa per la
quale eravamo chiamati a combattere, che ci sarebbero stati dei pericoli e tutto il resto, ma...» Ebbe un
attimo di esitazione, poi spiattellò tutto. «Signore, nessuno di noi uscirà vivo da tutto ciò, a meno che tu
non decida di portarci via da questa terribile terra, riportandoci nei luoghi ai quali apparteniamo! Non
siamo in molti, ora, ad essere rimasti vivi... e saremo presto tutti morti se non la smetterai di dare
la caccia a.... a un bel niente! Tu semplicemente...» Si interruppe e tremava in tutto il corpo ora perché,
tutt'a un tratto, si era reso conto di essere andato ben al di là di quanto non avesse avuto intenzione di
fare. Mi appoggiai al tavolo e lo guardai. «Indietro dove, Barthius? Ad est, verso Rhemia ed un mondo
che sta andando in rovina mentre noi stiamo qui a parlare? A nord, verso Raadnir ed ancora oltre, e
verso un mare gelato che ti stacca il muso dalla faccia? So che non ti piacerebbe andare a occidente,
verso la terra di Merkkia. A sud è esattamente dove siamo diretti, e se da lì io decido di andare da una
parte piuttosto che da un'altra, non sarai certo tu che potrai avere qualcosa da ridire.» Avanzai di un
passo e puntai un dito sul suo torace. «Stai a sentire, Barthius, e ascolta con molta attenzione... Se tu
dirai all'equipaggio anche solo un'altra delle tue perfide parole, ti sbarcherò su questa stupenda terra e
lascerò che tu alleni quella tua boccaccia con quelle creature! Ora... sparite dalla mia vista tutti e due,
e vergognatevi di tutto ciò!»
Così, pensavo che quell'incontro avrebbe messo fine alla faccenda, e l'avrebbe rimossa dalla mia mente.
Forse una volta o l'altra imparerò che la saggezza di quelli della mia gente è utile in molte più cose che
non semplicemente mettere a letto i bambini. Se mi ricordo il proverbio con esattezza, dice che al
mondo ci sono due tipi di sciocchi: uno crede che la rapa stia ridendo, l'altro pensa che non sia vero.
Come ogni buon proverbio, non se ne capisce il senso, finché non è troppo tardi per poter essere
d'aiuto. SEDICI
Dopo che furono passati circa dieci giorni da quando avevamo lasciato la foce del fiume, la terraferma
che avevamo a dritta cambiò decisamente le sue caratteristiche. Si vedevano ancora delle grosse
querce, ma ora i loro rami erano ricoperti di vegetazione e di muschio. Cominciarono ad apparire pini ed
abeti e, laddove un fiume sfociava a mare, c'era una specie parti-colare di albero che con le sue radici si
allungava fino nell'acqua. Dopo alcuni giorni di navigazione, avvistammo delle spiagge sabbiose che
scendevano fino a sfiorare la schiuma del mare, e la terra era piena di uccelli, di ogni dimensione e di
ogni colore. Una volta vedemmo di sfuggita uno stormo di splendide creature rosa con il collo sottile ed
aggraziato e le gambe lunghe e affusolate. Quando ci videro, si alzarono immediatamente in volo, ed
erano così numerose che quasi nascosero il sole alla nostra vista. Il mare ed il tempo ci furono molto
favorevoli; l'aria era tersa e tiepida e l'acqua si tingeva delle mille sfumature del blu. Era un bel
panorama da guardare ma, come tutte le cose, aveva sia un principio che una fine. Ancora un'alba
superba, e improvvisamente la terra di Merkkia cedette il passo al mare aperto.
Fino ad allora era stato piuttosto semplice rimandare le decisioni sul futuro. Anche se non sapevamo ciò
che avevamo davanti a noi, sapevamo benissimo ciò che ci eravamo lasciati alle spalle. Potevamo
seguire il contorno della costa, o continuare in direzione sud, verso... verso che cosa?
C'era ancora dell'altra terraferma più a sud, o non c'era assolutamente nulla? Nel mio scontro con
Barthius, avevo fatto la parte del capo baldanzoso, convinto di conoscere la sorte che mi aspettava. Ma,
dentro di me, ero molto meno sicuro di dove ci trovavamo in quel momento e di dove ci stessimo
dirigendo.
Nel frattempo, avevamo la pressante necessità di trovare un porto sicuro. Eravamo a corto d'acqua e di
viveri, e Signar-Haldring aveva giurato che non avrebbe più seguito alcuna rotta senza aver verificato le
condizioni della nostra prua. Così, sembrava proprio che non avessimo molte alternative. O la costa di
Merkkia o niente... ed io non ero affatto sicuro che avremmo trovato anche un solo uomo
dell'equipaggio disposto a mettere piede su quella terra una seconda volta.
Alla fine non prendemmo proprio nessuna decisione ma, per il momento, la rimandammo
ulteriormente. A sud del continente, il mare era punteggiato di piccole isole o di isolotti e, sebbene
nessuno sembrasse da lontano particolarmente promettente, ci convincemmo che valeva la pena
andarci a dare un'occhiata più da vicino. Contrariamente alla maniera in cui molti eccellenti racconti
vengono narrati, è questo il modo in cui hanno luogo la maggior parte delle imprese ardite e rischiose.
La fortuna era dalla nostra quel giorno ed infatti, prima che il sole scomparisse nel mare, trovammo
un'isola che sembrava fare al caso nostro. Era sufficientemente grande per rispondere alle nostre
esigenze, ed abbastanza piccola per assicurarci che non ospitasse nemici.
La mattina seguente, di buon'ora, Rhalgorn e Thareesh condussero a terra quattro guerrieri Nicieani per
esaminare il luogo. Quella squadra era stata scelta tenendo conto del fatto che ognuno di loro era
capace di correre molto in fretta. Meno di un'ora dopo, erano già di ritorno sulla bianca spiaggia e
saltavano e si sbracciavano per farci segno di scendere a terra... Sull'isola c'era una sorgente e, sebbene
l'acqua fosse piuttosto freddina, noi fummo ben contenti di riempire le nostre botti fino all'orlo. Per
quanto riguarda i viveri, non ce n'era una grande abbondanza, e consistevano per la maggior parte in
frutti acerbi e verdure selvatiche come porri e cipolle. Ciononostante, rendemmo quel posto spoglio di
tutto ciò che poteva avere da offrire, e facemmo essiccare al sole grandi quantità di pesce ed altre
creature marine. L'odore che si sprigionava durante questo processo offese Rhalgorn oltre ogni dire, e lo
Stygiano non riusciva assolutamente a darsi pace del fatto che in quel luogo non ci fossero delle belle
lepri grassottelle da poter mangiare.
«C'è una gran quantità di lepri sulle rive di Merkkia,» gli feci notare io.
«Siamo solo a poche leghe di distanza, e sono certo che Signar non farebbe difficoltà a prestarti una
scialuppa.» Lo Stygiano mi guardò con aria sorniona. «Se pensava che avrei avuto voglia di andarci,
avrebbe potuto accompagnarmici lui stesso a remi.»
Sin da quando sono iniziate le mie disavventure, sono successe un mucchio di cose che resistono a
qualsiasi spiegazione. Ho già parlato in precedenza di quegli esseri che condividono la mia causa e che,
in qualche modo misterioso, mi hanno indirizzato per questa strada: Lord Tharrin, Aghiir di Niciea, che fu
il primo a rivelarmi la vera età dei luoghi antichi; il Cygniano Nhidaaj, che era uno schiavo, ma schiavo
non era per niente. Ed infine, quello strano e solenne profeta con gli occhi a mandorla, che è il capo di
tutti loro.
Sogni di luoghi dove non sono mai stato hanno reso più bello il mio sonno. Qualche volta ho la
sensazione che il mio profeta mi abbia inviato queste visioni per trasmettermi la conoscenza. Altre volte,
penso che le cose che vedo siano il risultato di troppa birra d'orzo bevuta prima di andare a dormire.
Tuttavia, è difficile credere che mi sia infallibilmente cacciato nei guai sempre di mia spontanea volontà,
e per ripetute volte. Albion, le torri di Indrae, la Grande Desolazione sotto la terra degli Avakhar. Forse è
vero che sono un anello in una qualche grandiosa e significativa catena di eventi: una missione che un
giorno svelerà i segreti dell'Uomo. Mi piace credere che sarà così, e, in certi momenti, riesco quasi ad
esserne certo. In altri, mi ricordo del fatto che ogni rafano che si trova in un orto, senza dubbio
considera sé stesso l'unico nel suo filare che il sole abbia benedetto coi suoi raggi.
Quando erano passati ormai due giorni da quando eravamo sbarcati sull'isola, accadde qualcosa che mi
portò a credere che, dopotutto, c'era la possibilità che io fossi un rafano di una qualche importanza.
Corysia ed io ci stavamo crogiolando al sole e stavamo godendo della nostra reciproca compagnia
quando, correndo a grandi balzi, arrivò sulla spiaggia Thareesh, con quella sua lunga coda verde che
dava frustate come se fosse una bandiera di segnalazione.
Mi tirai su a sedere e mi stupii non poco di quell'atteggiamento perché, in verità, i Nicieani non sono
creature che si mettono facilmente in agitazione. Quando ci fu praticamente accanto, vidi che portava
tra le braccia un oggetto lungo ed appiattito.
«Aldair,» disse riprendendo fiato, «ti ho cercato dappertutto. Questa è
una cosa che tu devi vedere!»
«Che cos'è,» gli chiesi, «un'altro manufatto?»
«No,» rispose lui tranquillamente, dal momento che si rendeva conto che non ero niente affatto
entusiasta. «Non è assolutamente un manufatto, Aldair.»
Io non gli dissi nient'altro, ma acconsentii a spostarci dal sole in una zona ombrosa che si trovava a
ridosso della spiaggia. Thareesh si mise seduto per terra con le gambe incrociate, e sistemò l'oggetto
sulla sabbia, davanti a noi.
«All'inizio,» disse, «pensavo che non fosse niente di più di ciò che sembrava essere: una delle tante cose
dell'Uomo che hanno ben poco valore. Poi l'ho girato e sul bordo ho notato questo. Vedi? È vetro,
Aldair, o quella sostanza che vi somiglia tanto, e di cui abbiamo trovato tanta abbondanza a Merkkia.»
Ci chinammo per osservare meglio la cosa, e Corysia passò un dito sul suo bordo. «Non è fatto con un
solo materiale di vetro, ma con due. Guarda qui, Thareesh. Sono stati fusi insieme.»
«Probabilmente, bruciati,» suggerii io.
«Esattamente,» si illuminò il Nicieano. Ora...» Mise di nuovo l'oggetto in posizione appiattita. «Fai
attenzione al fatto che è ricoperto di polvere di legno e di sporcizia, che in tutti questi anni hanno creato
come un vero e proprio rivestimento. Eppure, viene via con una certa facilità, basta grattare un po'.»
Mise in azione il suo coltello e cominciò a scrostare pezzettini di detriti e a farseli cadere in grembo.
Aveva ragione: quel materiale veniva via con poco sforzo. Al di sotto di tutto rimaneva qualcosa, ma non
sapevo dire cosa potesse essere, perché Thareesh la teneva stretta al suo petto, fuori dalla portata della
mia vista.
«So che cosa c'è lì,» disse con gli occhi d'agata che gli brillavano, «perché ne avevo già tagliato un
pezzettino nel posto dove l'ho trovato. Non sono andato oltre, Aldair, perché volevo che tu fossi
presente quando sarebbe stato tutto scoperto. Corysia... vuoi essere così gentile da portarmi un bricco
d'acqua?» Lei si alzò e corse indietro verso la spiaggia dove avevamo lasciato le nostre provviste.
«Thareesh,» dissi, «non è questo il momento per fermarsi a bere qualcosa. Mi piacerebbe vedere che
cosa abbiamo qui, davanti a noi.»
«Un attimo di pazienza, Aldair.» Teneva un dito puntato davanti alla mia faccia. «Hai vissuto piuttosto a
lungo tra i Nicieani e dovresti aver imparato a saper attendere.»
«Ho anche vissuto tra i Venicii,» gli dissi, «e ti assicuro che la pazienza non rientra nel numero delle
nostre migliori qualità. Thareesh...»
«Ah, eccoci qua.» Prese il bricco dalle mani di Corysia e versò una notevole quantità d'acqua sul bordo
dell'oggetto. Poi continuò a bagnare tutto il manufatto. Quando ebbe finito, lo alzò in alto tra le mani e
rimase a fissarlo.
«Per il Creatore, è persino meglio di quanto non avessi immaginato!
Qui, Aldair... Ti faccio vedere io il mondo, o almeno una buona parte del mondo, sono pronto a
scommetterci.»
Gli strappai quella cosa dalle mani e la girai da tutti i lati. Corysia restò a bocca aperta, e il mio cuore
quasi smise di battere: perché Thareesh aveva completamente ragione e le sue parole erano state
veramente appropriate. Lì, davanti ai miei occhi, c'era una carta dell'Uomo, una carta geografica del suo
mondo, e sopra, con grande chiarezza, c'era segnata ogni nazione ed ogni città.
Con una mano che non riuscivo assolutamente a far smettere di tremare, trovai tutti i luoghi che
conoscevo... sebbene, naturalmente, i nomi non fossero gli stessi: Gaullia, l'Isola di Albion, lo stivale di
Rhemia e, più
sotto, l'immenso continente di Kanyarsha che guarda tutto il mondo come una grande testa. Dall'altra
parte del Mare delle Nebbie c'era la terra che supposi fosse quella di Sergrid Mezza-Barba e, ancora più
sotto, Merkkia, sebbene fosse scritta in maniera leggermente diversa.
Seguendo in basso il profilo della costa orientale, tracciai la nostra rotta fino all'estremità della
terraferma, e agli isolotti nei quali in quel momento stavamo riposando. Scossi la testa meravigliato.
Davvero il mondo era così
vasto come appariva lì? Beh, in tal caso ne avevamo vista una parte davvero insignificante! C'erano delle
grandi isole, degli interi continenti: persino un oceano di cui non avevamo mai conosciuto l'esistenza!
Sotto di noi vidi che il continente occidentale diventava più piccolo, fino a ridursi quasi a un niente nel
mezzo. Poi si allargava per formare un'altra terra, che si estendeva per un lungo tratto verso sud. Sulla
protuberanza orientale di quel continente, sfociava a mare un grande fiume. Era talmente vasto, che
sembrava che ogni goccia d'acqua disponibile sulla faccia della terra fosse arrivata infine a riposare lì.
Tastando con le mie dita quelle linee contorte, potevo quasi... quasi...
...Del tutto all'improvviso, io semplicemente non mi trovavo più lì...Qualcosa mi aveva sollevato verso
l'alto e mi aveva strappato da me stes-so e, per la terribile parte di un secondo, Corysia, Thareesh, e tutto
ciò
che mi circondava scomparvero. Eppure sapevo che si trattava di un postodove ero già stato prima, e che
se ci fossi rimasto per un istante più a lun-go... Corysia! Corysia...!
«Aldair... ti senti bene?»
Aprii gli occhi. «Io... ti ho chiamato. Non eri lì...»
«Sì,» disse lei gentilmente, «sono qui, Aldair.»
Thareesh mi porse il bricco con l'acqua, mentre nei suoi occhi d'agata si leggeva un profondo
turbamento. Spinsi da parte l'acqua e tirai su la carta dell'Uomo.
«Lì,» indicai, e la mano mi tremava talmente forte che dovetti premerla sulla carta per mantenerla
ferma. «È lì che dobbiamo andare, Thareesh.»
Il Nicieano apparve sconcertato. «Lì? Perché, Aldair?»
«Perché? Perché...» Non riuscivo a pensare. Scossi la testa e mi sentivo molto debole e stupido. «Non lo
so, Thareesh. Non lo so...»
«Ha un nome,» disse Corysia, guardando la carta di traverso. «È chiamata Amazzone.»
«Sì,» le dissi, «lo so.» Ed era vero.
DICIASSETTE
Solo il Creatore può conoscere tutte le strade che percorriamo e come ogni racconto deve finire.
Tuttavia, ci sono volte in cui credo che noi abbiamo la possibilità di intravedere qualche piccola parte di
questo grande affresco. E quando dubito che nella mia vita ci sia un senso e uno scopo, mi basta
semplicemente ricordare i più inverosimili cambiamenti della sorte che mi hanno portato al punto in cui
sono.
Se non avessimo scoperto la terra di Raadnir...
Se Sergrid Mezza-Barba non avesse usato delle carte antiche come esca per liberarsi di un fratello ed
acquistare una fanciulla. .. Se non fossimo stati attaccati dalle bestie di Merkkia e se la nostra prua non
fosse stata danneggiata...
Se non avessimo scelto proprio quell'isola per riparare il nostro danno... Se Thareesh non avesse
prestato tanta attenzione a quel rottame che nascondeva una cosa così importante... Se... se... se... Uno
può andare avanti con questo genere di ragionamenti fino all'infinito, finché la testa non gli scoppia.
Naturalmente, si può obiettare che un simile vaniloquio non è altro che il pietoso sogno di una bestia
che è stata messa su due gambe e a cui è stato imposto di scimmiottare le gesta di chi l'aveva creata.
Dopo che il traditore Fabius Domitius ebbe depredato i segreti di Albion e mi teneva in pugno, fece del
suo meglio per convincermi che le cose stavano esattamente così. «Aldair,» mi disse, «dopotutto come
fai a sapere che la tua battaglia per spezzare le catene della storia non sia semplicemente una parte
della storia che fin dall'inizio loro hanno programmato per noi? Non sarebbe l'ultimo e più perfetto
scherzo dell'Uomo quello di la-sciar credere alle sue creature che hanno conquistato la libertà? »
Devo ammettere che nei momenti di più cupa disperazione questo pensiero ha attraversato la mia
mente. Ci sono state delle volte in cui avrei avuto voglia di essere d'accordo con la spaventosa logica di
Fabius: che se davvero esiste un Creatore, non è sicuramente il nostro; che se abbiamo la necessità di
dare un nome a chi ci ha creati, in quel caso dobbiamo chiamarlo Uomo. Questo non lo farò mai.
Non era passato molto tempo da quando avevamo lasciato la nostra isola per far vela verso sud-ovest
passando attraverso il grande golfo che si tro-vava al di sotto di Merkkia, che arrivammo in un'altra isola
del tutto simile a quella che avevamo abbandonato. Era piccola, e la sabbia delle sue spiagge era bianca
come la farina appena uscita dal mulino. Alle sue spalle, proprio in direzione ovest, si riusciva a vedere la
terraferma e, dalle carte dell'Uomo, apprendemmo che si chiamava Yucatan. Anche se non so
assolutamente cosa quel nome significhi.
Rhalgorn e Thareesh andarono a remi fino a terra, contro il mio parere, dal momento che ormai non mi
fidavo più di nessun pezzo di terra che fosse più grande di una vela. Furono di ritorno piuttosto in fretta,
perché
Rhalgorn aveva fiutato l'odore di creature selvagge, e ne aveva anche visto le tracce. Thareesh mi riferì
che in lontananza aveva anche intravisto delle rovine e, dalla descrizione che mi fece, sembravano
essere state delle costruzioni molto simili alle allucinanti piramidi che avevo visto sotto Xandropolis la
notte che avevo incontrato il profeta con gli occhi simili a semi di zucca.
Certamente, dopo la nostra esperienza nel «Sogno dell'Inferno», penso che la mia paura nei confronti di
terre sconosciute fosse più che giustificata. A me sembrava una buona idea seguire la costa, che piegava
a sudest, fino al grande continente che si trovava sotto di noi. Lungo quella rotta c'erano delle piccole
isole sottocosta e, con ogni buona probabilità, quelle isole sarebbero state più che sufficienti per
provvedere alle nostre necessità. Se così non fosse stato, avremmo rischiato un incursione a terra. Per
un po' prendemmo in considerazione l'idea di tracciare una rotta che passasse attraverso la lunga
catena di isole che si trovavano a sud e a est della terra di Merkkia. Avevamo passato una di quelle isole
a sinistra proprio subito dopo aver effettuato le riparazioni sull' Ahzir. Signar ebbe da ridire
sull'opportunità di una scelta del genere, ed io mi trovai d'accordo con lui. Sebbene quelle isole
avrebbero potuto offrirci maggiori possibilità di provvedere ai nostri rifornimenti, erano, per la maggior
parte, abbastanza grandi da poter ospitare sia bestie che mezzebestie di ogni genere e tipo.
«Inoltre,» disse il Vikoniano, «tu ti ostini a chiamare questa cosa una carta, Aldair, e invece non è
assolutamente niente di simile. Una carta indica le varie profondità, le correnti e altre cose di questo
genere, tutte cose che possono essere di una certa utilità per un marinaio. Ora questa è una gran bella
carta geografica ma, credi a me, è davvero molto lontana dal-l'essere una vera carta nautica.»
Per di più aggiunse anche che, navigare in mezzo a delle isole poteva rivelarsi, a dir poco, un'impresa di
una certa difficoltà. Sia i venti che le correnti sono molto meno prevedibili che in alto mare, e noi
avevamo già
avuto occasione di notare, sulla nostra isola al largo del luogo chiamato Yucatan, che la vegetazione così
meravigliosamente variegata che si trovava sul fondo era affilata forse meglio delle nostre spade, e
avrebbe potuto facilmente squarciare la carne di una nave. Così, continuammo la nostra rotta verso sud-
ovest, mantenendo sempre in vista la terra a dritta. Venti forti e costanti ci assistettero lungo il
percorso, permettendoci di navigare veloci, cosa che non ci fece assolutamente prendere in
considerazione l'uso dei remi.
Le settimane scorrevano rapidamente: notti fresche e piacevoli facevano seguito a giornate tiepide, e il
tutto si succedeva con ritmo regolare. Oltrepassammo il luogo indicato sulla nostra carta in cui una
stretta striscia di terra unisce il continente settentrionale a quello meridionale. In quei momenti mi
sentii addosso una strana sensazione di meraviglia e curiosità, sapendo che solo a poche leghe di
distanza si stendeva un altro grande oceano, il più grande del mondo. Ci voleva un marinaio veramente
audace per sfidare un mare simile!
Qualche volta vedemmo la pinna insidiosa di uno squalo che seguiva la nostra scia. Più di una volta
intravedemmo in lontananza dei bagliori argentei allorquando qualche aggraziata creatura saltava fuori
dall'acqua e rifletteva i raggi del sole sulla sua superficie. Erano pesci che volavano, o che perlomeno
riuscivano a librarsi sull'acqua per alcuni metri. Rhalgorn non voleva assolutamente crederci finché
Signar non ne catturò uno e lo mise nel suo letto. L'equipaggio imparò a prendere queste creature con
delle reti mantenute per i lati: era uno sport piacevole ed interessante, ed inoltre ci procurava degli
ottimi pranzetti. Lo Stygiano, naturalmente, si rifiutava anche solo di assaggiarli. Sosteneva che una
creatura incapace di decidersi sul fatto se dovesse essere pesce o uccello, non era una cosa decorosa da
mangiare. Facemmo sosta in varie piccole isole. Nella maggior parte dei casi erano molto deludenti, in
quanto potevano fornirci poco cibo ed erano completamente sprovviste d'acqua. Alla fine decidemmo di
rischiare, e facemmo scendere sulla terraferma una squadra nel punto dove avevamo avvistato la foce di
un torrente.
L'equipaggio non si attardò nello svolgimento di questo compito e, nel giro veramente di pochi minuti,
avevamo a bordo acqua e frutta secca. I nostri arcieri uccisero alcuni piccoli cervi, ed anche alcuni
animali che Rhalgorn assicurava essere delle lepri, e perciò sue di diritto. In verità non assomigliavano in
alcun modo a delle lepri, ma noi fummo comunque contenti di lasciargliele. Non c'è niente di meglio di
una lepre - o anche di una quasi-lepre - per rendere più accettabile lo scontroso carattere di uno
Stygiano.
A mare accadono molte cose che non possono essere descritte con precisione. Ogni marinaio ha almeno
una o due versioni da dare riguardo a qualcosa che è stato visto o sentito durante la navigazione. Si
possono sentire racconti di ogni genere sui più svariati mostri: grandi serpenti con occhi come carboni
ardenti; orribili creature con braccia lunghe e contorte capaci di far sprofondare una nave. Pare che ci
siano persino delle stupende fanciulle che adescano marinai sventurati con canzoni ammananti (È
piuttosto interessante notare che questi esseri sembrano sempre assomigliare alle femmine della razza
a cui appartiene quel particolare marinaio). Sebbene io non dia molto credito a questo genere di storie,
accennerò ad un singolare avvistamento che è qualcosa di più del racconto di un marinaio, in quanto
sono stato io stesso ad esserne spettatore. In verità, è diventato un avvenimento così frequente, che
dubito sia rimasto a bordo un solo che non ne sia stato spettatore una volta o l'altra. Cominciò a
manifestarsi subito dopo che cominciammo a navigare lungo la costa orientale del continente
meridionale. Vedevamo la cosa esclusivamente di notte, di solito in condizioni di mare eccezionalmente
tranquille. Apparivano a una certa distanza dalla nostra prua, e sembravano in tutto e per tutto simili
alla testa di qualche creatura che sobbalzava nell'acqua. Normalmente arrivavano in gruppi di cinque o
sei ma, più di una volta, un marinaio riferì che ce n'erano troppi intorno a noi per poterli contare. Non si
accostarono mai tanto da lasciarci vedere cosa realmente fossero e, per quanto riguarda la nostra
esperienza, non posso dire che avessero intenzione di farci del male. Senza dubbio quelle creature
scomparivano di nuovo nelle profondità marine quando l' Ahzir si avvicinava troppo alla loro posizione.
Corysia ed io le guardammo dalla prua della nave una notte in cui la luna illuminava l'acqua con i suoi
raggi argentei. Notai che davano l'impressione di avere qualcosa di più rispetto alle altre normali
creature, e lei si trovò d'accordo con me.
«Forse, Aldair, sono anche loro affascinate dalla luna, proprio come noi.»
«Questa è un'ipotesi interessante,» le dissi. «Se nel profondo del mare ci fossero delle creature capaci di
ragionare, che cosa penserebbero della luna?»
«Ebbene, credo che penserebbero le stesse cose che pensiamo noi.»
«Davvero credi che sarebbe così? La superficie dell'oceano deve essere la vetta del mondo per le
creature che abitano gli abissi. Che sorpresa dev'essere tirar fuori la testa dal tetto, e scoprire che al di là
c'è ancora tanto spazio.»
Corysia sorrise deliziata.
«Cosa?»
«Niente. Stavo solo sognando ad occhi aperti di alcune creature che all'improvviso... oh, guarda! Eccole
lì di nuovo!»
Questa volta vennero in superficie a sinistra della nave, e questa volta sembrava che si fossero
avvicinate molto più di quanto non avessero mai fatto prima. C'erano quaranta, forse cinquanta di
quelle creature che si spostavano lentamente nelle calde acque rese chiare dalla luce della luna.
«Aldair, qualche volta mi fanno sentire molto... a disagio,» bisbigliò Corysia, stringendo il suo braccio
sotto il mio.
«A disagio?»
«Sì, come se... stessero lì per osservarci.»
«Certo Corysia, ma è la verità. Esattamente come noi stiamo osservando loro.»
«Questo lo so,» disse lei con impazienza, «ma non è questo ciò che volevo dire. Intendevo...
controllarci. »
«Oh.»
«Sai benissimo di cosa sto parlando.»
«Credo di sì,» ammisi. «Forse sto solo fingendo di non saperlo.»
Corysia mi guardò con aria interrogativa. «Non sapere cosa?»
«Il fatto di pensare che ogni cosa mi tiene sotto controllo.»
«Oh. Mi dispiace, io pensavo che...»
«No, non solo tu, Corysia. Io. Noi. Tutti a bordo dell' Ahzir. E dannazione a me, anche per dei buoni
motivi. Perché non dovremmo pensare che ogni cosa ci sorvegli? Finora, è...»
Mi fermai, non vedendo una ragione valida per continuare quel discorso. Quando tutti quelli che ti sono
vicini pensano agli stessi deprimenti pro-blemi, si trova ben poca consolazione nel portarli alla luce. Il
marinaio Barthius sarebbe stato orgoglioso di me... stavo facendo anch'io la mia parte per abbassare il
morale.
«Comincia a far freddo qui su,» dissi a Corysia. «Penso che un boccale di vino caldo farebbe proprio al
caso nostro.»
Corysia accettò prontamente il mio invito e ci affrettammo a scendere sotto coperta. Né il mare, né la
luna erano cambiati, ma nessuno dei due appariva più così amico come era sembrato prima.
DICIOTTO
Quelle creature marine rimasero con noi per altre due notti. La terza non si videro più. Ce ne
meravigliammo un po', ma non per molto tempo... un evento di interesse di gran lunga maggiore aveva
carpito la nostra attenzione. All'alba del quarto giorno ci svegliammo e scoprimmo che durante la notte
il mare aveva cambiato di colore. Non era più di quel cupo colore verde-azzurro, ma aveva assunto delle
scialbe tonalità giallastre. Questo fatto mi sembrò alquanto singolare, ma non fu così per Signar-
Haldring. L'ampio sorriso che si disegnò sul suo muso, diceva chiaramente che aveva già la risposta
pronta a ciò che era accaduto, e che sarebbe stato contento di darla al primo che gliel'avesse chiesto.
«Va bene, grande marinaio,» dissi io alla fine, «mi sembra chiaro che tu sai qualcosa di cui il resto di noi
non è a conoscenza. Che cosa è successo all'oceano?»
Signar non rispose, ma calò in mare un bricco con una lunga corda, lo tirò di nuovo su, e me lo porse.
«E che cosa dovrei farci io con questo?»
«Assaggia.»
Scossi la testa. «Ti ringrazio della tua gentilezza, ma in questo momento non sono tanto assetato da
bere acqua di mare.»
«Dannazione a me, Aldair,» disse molto irritato, «non ti sto chiedendo di mandarlo giù come se fosse
birra d'orzo... ma solo di assaggiare!»
Lo guardai e decisi che non mi pareva avesse proprio del tutto perso il lume della ragione, per cui bevvi
un piccolo sorso dal bricco. Era quasi fresco e solo leggermente salato.
«Va bene,» dissi, «hai vinto tu. Ora credo che tu ti aspetti che ti chieda: come può essere accaduto un
fatto del genere, Signar? Di solito non è
normale trovare acqua fresca nel mare.»
Signar rise, e con la sua grossa mano indicò la riva lontana. «Può accadere, perché siamo lì, Aldair.»
«Lì dove?»
«Dove volevi andare tu. Perché solo un fiume della grandezza e della portata di quello che si trova sulla
tua carta geografica può far arrivare le sue acque così lontano, in mare aperto.»
Io sbarrai gli occhi. «L' ...Amazzone?»
«Eh, sì. È proprio così.» Scosse la testa stupito. «Neanche a me sembra vero, ma è senza dubbio così.
Non riesco proprio a farmi un'idea da quante leghe ci troviamo in presenza delle sue acque. Potrebbero
essere cento, o anche più.»
Era un pensiero davvero sconcertante, anche se la carta indicava con una certa chiarezza che quel
grande fiume scorreva quasi lungo tutto un continente. Signar non riusciva a prevedere quando
avremmo raggiunto la foce del fiume, ma pensava che approssimativamente l'avremmo avvistata prima
che il giorno fosse finito, soprattutto considerando che ci trovavamo già nelle sue acque.
«Ti dirò una cosa, vecchio mio,» gli dissi, «hai condotto una navigazione veramente magistrale. Abbiamo
percorso una notevole quantità di leghe in acque pericolose, e nonostante una buona carta da
seguire...»
« Carta geografica, Aldair.» Dalla sua gola uscì uno strano suono «Come ho già avuto modo di dire in
precedenza, quella non è una carta nautica. E, sebbene io ti ringrazi delle tue parole, arrivare fin qui non
è stato esattamente quello che io definirei navigare... Quasi ogni persona che riesca a mettere a segno
una vela, non avrebbe nessun problema a seguire una rotta costiera. Ma sì, ammetto che persino Alito
di Coniglio potrebbe...» Si interruppe e apparve stupito delle sue stesse parole. «Per la Vista del
Creatore, Aldair, il caldo deve avermi dato alla testa. Rhalgorn non riuscirebbe a far galleggiare neanche
un bastone in uno stagno senza farlo affondare!»
Mi misi a ridere. Pare proprio che le grandi menti abbiano pensieri molto simili. È stato solo ieri sera, a
cena, che Rhalgorn ha decretato che Signar-Haldring non sarebbe stato capace neanche di trovare un
albero in una foresta senza una buona carta geografica.»
«Carta nautica,» ringhiò Signar, «e come al solito ha torto, perché in nessun caso mi farei sorprendere in
difficoltà in una foresta umida e fangosa!»
Signar non mi chiese mai che cosa avevo in mente, ora che eravamo quasi arrivati al grande fiume. Né lo
fecero gli altri. Semmai misero in dubbio la saggezza della nostra rotta, comunque non fecero obiezioni.
Certamente, non avrei potuto biasimarli se si fossero chiesti che cosa mai avremmo potuto fare in un
posto chiamato Amazzone, a migliaia di leghe di distanza da qualsiasi posto conosciuto. In verità, non
avevo alcuna risposta adeguata da poter dare loro.
Per un breve attimo, su quell'isola al largo di Merkkia, io ero stato su quel fiume, e avevo avuto la
certezza che saremmo andati lì: oltre a ciò, non sapevo nient'altro. E se i miei compagni si fossero resi
conto della paura che mi aveva preso in quel fuggevole momento, avrebbero avuto un bel po' a ridire
sulla nostra avventura...
Signar si sbagliava per quanto riguardava il fiume. Non riuscimmo a raggiungerne la foce quella sera. In
verità era ormai passato il mezzogiorno del giorno seguente, quando scoprimmo che in realtà non aveva
una singola foce, ma numerosissimi sbocchi a mare. Sulla carta geografica questo non veniva indicato
molto chiaramente, ma potevamo vedere con i nostri stessi occhi che era così.
«Non credo che faccia molta differenza prendere una via d'acqua o un'altra,» dissi a Signar. «In ogni
caso ci porteranno tutte nell'entroterra.»
«Credo proprio che tu abbia ragione,» mormorò con aria cupa, «così, se per te fa lo stesso, cerchiamone
una bella ampia. »
Non potevo avere nulla da ridire su questa decisione. Finora non avevamo avuta molta fortuna nel
risalire il corso dei fiumi. Gli dissi di cercare quella che gli pareva più adatta, e scesi sotto coperta.
Ora che stavamo navigando prudentemente sotto costa, quei venti costanti che ci avevano
accompagnato in mare aperto, ci abbandonarono all'improvviso, e l'aria divenne disgustosamente calda
e umida. Naturalmente non era quello l'unico segno da cui si poteva dedurre che ci trovavamo proprio
vicini al centro del mondo, dove il sole dà sfogo alla sua più
grande furia.
Tracciando una linea immaginaria da ovest ad est, trovai il punto parallelo al nostro che si trovava al
largo della costa di Kenyarsha e che sulla carta geografica viene chiamata Afrique. Sebbene noi non
avessimo avuto nessuna carta nautica che ci potesse guidare quando l' Ahzir al'Rhaz aveva
circumnavigato quel continente, era facile ricordarsi del caldo che avevamo sofferto lungo quelle coste.
Per un po' tentai di chiudere gli occhi e sonnecchiare, ma la cabina era ancora più soffocante del ponte.
Ben presto ero fradicio di sudore... in condizioni troppo miserevoli sia per alzarmi che per rimanere lì.
Alla fine caddi in un sonno agitato.
Immediatamente il caldo mi regalò sogni confortanti: orribili creature che armeggiavano fuori della mia
cabina dando pugni contro la porta. Facevano un fracasso terribile, e io pensai che se avessero battuto
ancora un po' più forte me li sarei ritrovati direttamente nella cabina: si, sarebbe stato proprio così. E
ancora. E ancora. Dannazione a me, ancora una volta e... Mi svegliai di colpo e mi tirai su a sedere. Tutto
il vascello gemeva ed era scosso da tremiti: qualcosa raschiava con violenza lo scafo. L' Ahzir sussultò e
si inclinò vertiginosamente a sinistra, e io fui scaraventato a terra. In un baleno mi alzai e saltai sul ponte
prima che il rumore si spegnesse.
«Signar!» strizzai gli occhi per proteggermi dalla luce del sole. «Per tutti i diavoli, che cosa sta
succedendo!»
Il Vikoniano si tirò su ed ebbe un gesto di stizza. «Era solo una secca,»
disse freddamente. «Ti puoi immaginare la sua grandezza tenendo presente le dimensioni del fiume che
abbiamo alle tue spalle.»
«Per la Vista del Creatore, avremo subito dei danni... pensavo che stessimo per capovolgerci!»
«Beh non è successo,» disse accigliato. «Il che non vuol dire che non sarebbe potuto succedere.» Notai
che la nave si era raddrizzata, e che stava filando tranquilla. «Ma non farei tanto affidamento sulla
fortuna se dovessimo ancora imbatterci in simili secche,» aggiunse Signar, «e non sarà
tanto facile evitarle.» Sputò disgustato fuori bordo. «L'acqua qui è profonda come un barile di birra
dopo due giorni di bevute!»
Rhalgorn si affrettò verso di noi da poppa guardandosi intorno con aria mite. «Non penso che sia una
buona idea lasciare che la barca navighi su delle cose, Signar.»
Signar gli lanciò un'occhiata torva. «È una nave, Alito di Coniglio. Non è una barca. E ti pregherei di
tenere per te i tuoi consigli sulla navigazione!»
Rhalgorn si strinse nelle spalle e tentò di sembrare offeso. Mi girai verso Signar. «Hai individuato qual è
la via migliore per risalire il fiume?»
«Ce ne sono abbastanza che farebbero al caso nostro,» disse lui, «ma non è così semplice come
avevamo pensato. Vedi bene che già a questo punto della nostra risalita abbiamo parecchi problemi.
Questo tuo Amazzone deve essere vecchio quasi quanto il mondo, Aldair. Deve aver scaricato sabbia e
detriti da un tempo immemorabile e credo che, più avanti andremo, e peggio sarà.»
«Vuoi dire che ci saranno posti che l' Ahzir non potrà attraversare?»
«Esattamente. A meno che tu non voglia prendere in considerazione l'ipotesi di tirare in secco la barca
da qualche parte, saremmo costretti a proseguire con molta lentezza e precauzione.»
«Bene, allora fai ciò che ritieni più opportuno,» gli dissi. «Penso che non sarei affatto felice di arenarmi
su una secca.»
Fu un pomeriggio lungo e noioso. Piazzammo delle sentinelle in più sul sartiame per tenere meglio sotto
controllo il nostro percorso, ma ci rendemmo ben presto conto che quest'espediente non ci era di
grande utilità... l'acqua era troppo torbida per riuscire ad intuire la profondità del fondale. Ed inoltre,
neanche i Nicieani, a cui era stato affidato quel compito e che sono così amanti del sole, riuscivano a
sopportare per più di pochi minuti quel terribile caldo. Alla fine abbandonammo quella soluzione, e
mandammo avanti una scialuppa dell' Ahzir a scandagliare il fondo con dei pali. Prendeva molto tempo
ma era un metodo sicuro e, dopo che gli uomini dell'equipaggio si furono impratichiti con il loro
compito, cominciammo a proseguire più velocemente.
«So che di solito non accettate consigli,» disse Rhalgorn, «anche quando sono buoni.»
«Sono contento che tu l'abbia capito,» disse Signar.
«Ciononostante, mi sembra che stiamo incontrando sempre più spesso questi ammassi di detriti lungo
la nostra rotta, invece che più raramente, come dovrebbe essere.»
« Secche,» lo rimbeccò Signar. «Non ammassi di detriti!»
«Sia come sia. Comunque, è un dato di fatto, non è vero?»
Signar guardò di traverso le acque dorate. «Ci sono secche da qualsiasi parte guardi. Non ne vedo di più
qui che in qualsiasi altro posto.»
«Puoi anche aver ragione,» disse Rhalgorn sbadigliando.
«Io ho ragione.»
«Forse sembra che ce ne siano di più perché si spostano così tanto.»
Signar si voltò verso di lui. «Ma che diavolo dici?»
«Gli accumuli di sabbia. Come dicevo...»
« Secche. E non si spostano affatto, caro Rhalgorn. Sono perfettamente immobili.»
«Oh,» disse lo Stygiano. «Questo non l'avevo capito. Sono solo un povero guerriero cieco che sta
facendo il giro intorno al mondo.»
Signar biascicò qualcosa.
«Rhalgorn, hai visto qualcosa per caso?», gli chiesi io.
«Ovviamente no, Aldair. Io sono semplicemente uno che ha la vista lunga e un Maestro di Volo, non un
grande Capitano di navi.»
«Rhalgorn...»
«Comunque,» disse fiutando l'aria, «Se vorrete avere la gentilezza di guardare qualcosa che non si
dovrebbe vedere, guardate quegli ammassi di sabbia a sinistra. Mentre Pelliccia Grassa mi stava
spiegando l'immobilità
di simile cose, due di loro sono scomparse, e altre sei sono emerse dall'acqua.»
«Stai vedendo delle onde che si alzano e si abbassano,» disse Signar senza neanche voltarsi. «Niente di
più!»
Tuttavia, mi schermai gli occhi e guardai il punto che Rhalgorn indicava. Per un lungo momento non vidi
nulla. Poi, all'improvviso, tre delle cosiddette secche si inabissarono completamente. Mi si rizzarono i
peli sulla nuca. «Signar... ha ragione. Qualcosa sta succedendo lì fuori.»
«Dannazione a me,» ringhiò il Vikoniano, «ti ci metti anche tu adesso Aldair?»
«Ed anch'io» si inserì Thareesh. Io non l'avevo visto avvicinarsi. «Temo che lo Stygiano stia vedendo
delle cose. E, qualsiasi cosa si trovi lì, non credo che sia una secca.»
Guardando tutti noi con aria sprezzante, Signar si mosse lentamente sul ponte e si mise a scrutare il
mare con aria infastidita. «È proprio come navigare con un gregge di bambini,» mormorò, «che saltano
ad ogni...» All'improvviso le parole gli morirono in gola. Le sue enormi mascelle vikoniane si
spalancarono e gli occhi gli si sbarrarono. Tutto intorno a noi un enorme massa grigia si stava sollevando
rumorosamente dal mare. In un battibaleno sembrò come se lo scuro fondo fangoso dello stesso oceano
si stesse alzando per venirci incontro.
Rimanemmo lì, come pietrificati. Poi Signar-Haldring ritornò in sé, e saltò sul ponte superiore urlando
ordini all'equipaggio. D'un tratto i marinai sciamarono sui ponti e tra il sartiame, come un nido di
formiche sconvolto da un bastoncino. L' Ahzir ebbe un sussulto e quasi si fermò prima di invertire la
rotta alla ricerca di acque più profonde. Non c'era tempo per cercare di capire che cosa ci fosse lì fuori...
chiaramente, era qualcosa che non avevamo piacere di incontrare.
«Signar!» mi sgolai al di sopra di quel frastuono.
«Ce la faremo,» mi urlò in risposta, «abbiamo ancora possibilità di raggiungere acque più profonde.»
Affrettandomi verso una scala di corda, mi arrampicai abbastanza in alto per riuscire a vedere ciò che
avevamo davanti. La cosa si muoveva molto lentamente allungando alla cieca delle protuberanze per
scovarci. Era davvero una cosa atroce da guardare. Non era né liquida né solida, ma qualcosa di mezzo,
sembrava in tutto e per tutto simile ad una grande massa di porridge vivente. Quella non era una
creatura capace di ragionare, ne ero sicuro, ma un qualche orrore cieco e brancolante con un solo truce
proposito... trovare la cosa che aveva osato disturbare il suo riposo. Si stendeva tutt'intorno a noi, a
prua e a poppa...
Per la Vista del Creatore, gli uomini che avevamo mandato nella scialuppa...! Scrutai il mare ma
naturalmente erano scomparsi. Non avevano nessuna possibilità di farcela contro quell'orribile creatura.
Udii un urlo provenire dalla prua, e così saltai sul ponte lanciandomi in avanti. Rhalgorn e Thareesh
avevano schierato i nostri uomini a sinistra e a destra sulla parte anteriore dei ponti. I guerrieri stavano
riversando una raffica dopo l'altra di saette sulla cosa: lunghe aste e frecce che venivano imbevute nella
pece e accese. Ogni qualvolta veniva colpita, la bestia fremeva e si ritraeva dal terribile calore.
L'equipaggio agitava le braccia in si so di vittoria e lanciava grida di gioia, sebbene io fossi certo che
capivano benissimo che non ci sarebbero state frecce sufficienti in tutte le Legioni Rhemiane per
annientare quella creatura.
Continuava ad avvicinarsi a noi e ad ingoiare acqua. Tuttavia Signar rimaneva immobile sul ponte ad
incitare l'equipaggio per sfruttare ogni alito di vento. All'improvviso sembrò come se le divinità di
Vikonea in persona avessero udito le sue suppliche, perché le vele furono sferzate da una refola
improvvisa che quasi ci sollevò dall'acqua. L'equipaggio mandò un urlo e ostentò le armi davanti al
mostro marino, mentre l' Ahzir si sollevava con prepotenza sulle acque blu.
Sarebbe bastato un altro minuto e sicuramente saremmo stati fuori pericolo, ma non doveva andare
così. La fortuna che ci aveva protetti fino a pochi minuti prima, ci abbandonò all'improvviso. Infatti la
cosa si erse come un enorme muro a sbarrarci il passo, e ci impedì di prendere il largo. DICIANNOVE
È facile immaginare che altri possano trovarsi coinvolti in qualche disastro, ma nessuno crede veramente
che sia proprio lui ad essere arrivato alla fine dei suoi giorni... anche quando tutto il porridge del
mondo minaccia di ingoiare il suo vascello. Così, anche se per un breve momento la disperazione aveva
preso tutti quelli che erano a bordo, all'improvviso ci riprendemmo e tornammo ai nostri posti. Come
ebbe a dire Rhalgorn passandoci davanti, morire con una spada in mano è una cosa... essere mangiati da
una zuppa è un'altra. Aveva ragione. Non riuscivo davvero ad immaginare un modo meno decoroso per
morire.
Il mostro marino si gonfiava e si dilatava davanti ai nostri occhi; ora era a non più di una decina di metri
dalle nostre fiancate, e si avvicinava ogni momento che passava. Signar mise fine alle nostre vane
scariche di colpi. Invece mandò una squadra a poppa a smantellare velocemente i ponti e a portare le
lunghe tavole di legno a prua. Lì sparse della pece sull'estremità
di ogni pezzo, vi diede fuoco, e scelse i nostri più forti guerrieri Vikoniani per lanciare le tavole sopra
quella massa che diventava sempre più voluminosa. Questa trovata risultò molto più efficace delle
frecce e delle lance, perché le tavole rimanevano lì dove cadevano e bruciavano con violenza. Il mostro
marino si contorse e fremette, cercando disperatamente di liberarsi del terribile calore che gli bruciava
la carne. E, come avevamo intuito, la cosa era veramente un'unica grande creatura, perché era evidente
che avvertiva l'effetto dei nostri colpi in ogni parte del suo corpo.
«Abbiamo fatto qualche passo avanti,» disse Signar, pulendosi il braccio laddove un tizzone gli aveva
bruciato la pelliccia, «ma non abbiamo risolto niente, e non possiamo continuare così ancora per molto.
Stiamo quasi finendo la pece, e che io sia dannato se intendo dare tutta la nave in pasto a quel mostro!»
Thareesh mosse il braccio da sinistra a destra. « Ciò che stiamo facendo qui sulla parte anteriore non
ha alcun effetto sul resto della creatura,» disse con aria torva. «Guardate lì... ci sarà addosso in un
momento, Aldair!»
Mi voltai verso Signar. «Manda qualcuno dei tuoi lanciatori di fiamme a poppa, presto.»
«Aldair, non possiamo continuare...»
«Continuare che cosa... a distruggere l' Ahzir! Per la Vista del Creatore, Signar, che differenza fa se
non riusciamo a fermare quella cosa? Continuiamo!»
Signar mi lanciò un'occhiataccia e si precipitò verso la prua. Io spinsi Thareesh da parte e gli dissi di
dirigere l'azione a poppa, poi mi guardai intorno in cerca di Rhalgorn.
Lui si trovava sul lato sinistro e continuava a divellere le assi del ponte. Lo feci smettere e lo condussi in
un angolo del ponte. «Questo lancio di tavole infuocate sta solamente distruggendo tutto,» gli dissi.
«Potremmo dar fuoco a tutte le flotte, Rhemiana, Vikoniana e Nicieana, e quella dannata cosa
continuerebbe a starci addosso.»
«È così,» fu d'accordo Rhalgorn, «ma prova a farlo capire a Signar.»
«Signar può prendere in considerazione la sua fine in mare aperto, ma non quella dell' Ahzir. È uno dei
più grandi difetti dei Capitani delle navi. Ritornerà in sé piuttosto in fretta, ma al momento non è di
grande aiuto.»
«Aldair,» disse con molta tranquillità, « Che cosa è di grande aiuto in questo momento?»
«Bene. Sei realistico e vedi la situazione per quello che è, vecchio mio.»
Gli strinsi con forza il braccio. «A meno che gli Dei non ci diano una mano, tutta questa triste storia sarà
finita prima che il sole tramonti. Ho ragione o no? Vedi qualche altra soluzione?»
Rhalgorn scosse la testa. «Mi piacerebbe contraddirti, ma non posso. È
finita Aldair. Non c'è più niente da fare.»
«C'è ancora una cosa,» gli dissi. «Possiamo morire da guerrieri, e lo faremo. Tu e Thareesh occupatevi di
portare in coperta ogni spada e ogni ascia da guerra disponibile del nostro arsenale, e che siano affidate
nelle mani giuste. La cosa dovrà trascinarsi a bordo per catturarci... e, quando l'avrà fatto, le daremo
battaglia e l'accoglieremo meglio che potremo.»
«Ha tutta l'aria di un'azione nobile e valorosa,» disse Rhalgorn, «finché
uno non si ricorda che viene condotta contro una ciotola di zuppa.»
«Penso che tu abbia ragione.»
Dal ponte vedemmo che i guerrieri Vikoniani continuavano a lanciare tavole di legno infuocate contro il
mostro marino. Se Signar-Haldring aveva capito che la sua causa era persa, non lo lasciò a vedere, e la
sua forza diede agli altri il coraggio di resistere. La creatura continuava a contorcersi e a indietreggiare
davanti ai nostri colpi, ma la nave recuperava con molta lentezza su di essa. Non riuscivamo più ad
utilizzare le vele, perché ci avrebbero portato direttamente nella cosa. Tra poco anche i nostri remi si
sarebbero rivelati inefficaci: il mare stava rapidamente scomparendo da tutti e due i lati.
Mi voltai verso Rhalgorn. «Abbiamo un altro problema,» dissi. «Farei meglio a parlarne ora, perché forse
non ne avremo più occasione. Non credo che essere mangiati da questa cosa sia un modo piacevole di
morire. Io... non voglio che Corysia faccia la nostra fine.»
Mi guardò e annuì con espressione comprensiva.
«Se dovesse accadere qualcosa... se per... qualche ragione non sarò al posto giusto al momento
giusto...»
Rhalgorn guardò il ponte. «Sarà fatto, Aldair.» Aveva ben altro in mente, ma non disse tutto. Se ne andò
in fretta chiamando Thareesh. Mi chiesi dove poteva essere Corysia, e lo seguii a prua. Non volevo starle
lontano ora. Sebbene non sopportassi nemmeno quel pensiero, sapevo che, quando il momento
sarebbe giunto, la mia volontà avrebbe spinto la mia mano a farlo. Ero atterrito nello scoprire che
potesse accadere una cosa simile, che nel mio cuore lei fosse già morta.
La vidi a prua con Signar che spalmava la pece su pezzi di tavola e li passava velocemente ad un altro. Lei
alzò gli occhi e colse il mio sguardo. Io lo distolsi, intimorito e vergognoso. Come avrei potuto guardarla
negli occhi ora? Le sarebbe bastata una sola occhiata per capire. Rapidamente, mi girai e mi diressi a
poppa, facendomi strada tra i rematori. A metà strada, un marinaio nicieano balzò dal suo posto e
inciampò nei miei piedi. Prima che ci facesse cadere entrambi sul ponte, lo afferrai per le spalle e lo
trattenni. Si liberò della mia stretta, e poi vide chi ero.
«M... Mastro Aldair!» I suoi occhi erano spalancati per la paura. Riuscì
solo ad indicare in silenzio in direzione del suo remo.
Guardai il marinaio, poi seguii la sua mano tremante. Mi si rivoltò lo stomaco, e l'amaro della bile mi salì
alla gola. L'estremità del suo remo era scomparsa in una massa di carne grigia e viscida. Le dita pallide
del mostro si avvolgevano intorno al legno e annaspavano verso l' Ahzir. Signar balzò alle nostre spalle
e ci spinse da parte. Strappò il remo dallo scalmo e lo lanciò a mare. La creatura lo risucchiò famelica al
di sotto della superficie. Il Vikoniano unì le grandi mani a coppa intorno alla bocca e urlò un ordine. I
marinai a sinistra e a destra alzarono rapidamente i remi: altri tre erano stati già afferrati dal mostro
marino e li lanciammo fuori bordo. Rhalgorn urlò dalla prua e indicò un punto. Signar ed io ci girammo
ad ascoltarlo ma le sue parole si persero nel fragore: l' Ahzir ad un tratto scricchiolò, oscillò, ed emerse
quasi dall'acqua. Signar impallidì al di sotto della pelliccia e cercò a tastoni un appiglio.
«Per la Vista del Creatore, Aldair, è sotto di noi!»
Scivolai, tesi le mani verso la sua cintura e mi aggrappai. Il Vikoniano mi tirò a sé e strisciò in cerca di una
posizione più sicura. La nave si alzò
di nuovo, e sbandò a sinistra. Un marinaio gridò a poppa. Con la coda dell'occhio ne vidi un altro
scivolare lungo il ponte e finire in mare. Corysia!
Mi guardai disperatamente intorno, scrutai i ponti. « Corysia!»
Sentii urlare il mio nome al di sopra del fracasso e mi girai di scatto. Lei era dietro di me, attaccata alla
battagliola del ponte. Quando mi vide, lasciò la presa e si diresse verso di me lungo i ponti inclinati.
«Corysia, no!» Era troppo tardi. Mi rialzai a fatica e corsi verso di lei, sapendo che non avrei dovuto
farlo. La nave oscillò di nuovo e lei cadde in ginocchio. Sul volto le apparve un'espressione sorpresa che
si tramutò velocemente in orrore quando capì che cosa stava accadendo. Cercò di afferrarsi a qualcosa,
ma non c'era niente. I suoi occhi mi guardarono disperati, ed io seppi che ormai era finita.
«Corysia! Corysia!»
Una macchia grigia venne fuori dal nulla, e mi oltrepassò diretta verso il ponte inclinato. Rhalgorn balzò
e tese il suo corpo scarno fino al limite estremo. Per un terribile secondo, penzolarono nel vuoto,
separati da qualche centimetro. Poi Rhalgorn tirò Corysia al proprio petto e sbatté gli stivali contro la
battagliola. Il legno si frantumò e i piedi dello Stygiano uscirono fuori bordo. Corysia urlò quando una
cosa grigia e pallida uscì serpeggiando dall'acqua e si avvolse intorno agli stivali di Rhalgorn. L'uomo
scalciò con violenza: tratteneva Corysia contro il suo corpo e si afferrava disperatamente alla battagliola
rotta con l'altro braccio. Ero vicino a loro, con la lama in mano. Signar mi superò con passo da gigante
per raccoglierli entrambi tra le sue braccia robuste. La cosa aveva afferrato Rhalgorn e non l'avrebbe
lasciato andare. Signar tirava con tutta la sua forza e la faccia dello Stygiano si contorceva per il dolore.
Io continuavo a tirare colpi al tentacolo scuro e viscido. Era duro, fibroso e forte come una buona
armatura: per niente simile al porridge cui l'avevamo paragonato.
«Aldair... presto!», ruggì Signar. Digrignò i denti, i muscoli tesi come corde lungo la schiena. Il braccio mi
si era intorpidito per i continui colpi, ma la creatura continuava a restare attaccata. Per un breve
momento, mi chiesi se dovevo tagliare la gamba di Rhalgorn per liberarlo. No, dannazione a me, non
l'avrei fatto! Saremmo probabilmente morti tutti prima del tramonto, ma giurai che lo Stygiano sarebbe
morto con entrambe le gambe intatte.
Gridando le peggiori bestemmie dei Venicii che riuscii a ricordare, lan-ciai la spada dietro di me e
agguantai l'ascia da guerra che Signar portava alla cintura. Di solito, potevo a stento sollevare la pesante
arma, ma ora mi sembrava poco più di un giocattolo. Brandii l'ascia con tutta la forza che riuscii a
raccogliere. Ancora... E ancora...
Ad un tratto, la carne nauseabonda si staccò e Signar-Haldring cadde all'indietro, lasciandosi quasi
sfuggire la presa sui due. Un odore disgustoso salì dal tentacolo reciso che contorcendosi ricadde in
mare. Una cima mi colpì le spalle ed io fui ben lieto di afferrarla. Alzai lo sguardo verso il ponte inclinato
e vidi il robusto marinaio Stumbacius assicurare la cima intorno all'albero. Annuì senza espressione, poi
si allontanò. Signar ed io tirammo Rhalgorn e Corysia a bordo.
Corysia lanciò un grido e mi gettò le braccia al collo. «Aldair! Oh, Aldair, pensavo... pensavo...»
«Corysia. Va tutto bene.» Calde lacrime mi bruciarono la spalla. La strinsi per un momento, poi
l'allontanai con gentilezza. Mi guardò, ma io ero impegnato con la cima che avevo alla vita. Prima che lei
potesse dire altro, l'avvolsi intorno alla sua, assicurandola all'albero.
«Aldair...» Si divincolò, e un'espressione stupita le apparve tra le lacrime. «A che cosa... Serve?»
«È per essere certi che non accada di nuovo. Va tutto bene, Corysia.»
«Non dirlo più!», disse bruscamente.
Non potevo guardarla. «Sarai... al sicuro, Corysia.»
«Al sicuro!» Diede uno strattone alla cima che la legava. «Che tu sia dannato, Aldair, non sono una
bambina.» La sua voce era spaventosamente calma. «So che cosa sta accadendo qui. So tenere una
spada come chiunque altro.»
Distolsi lo sguardo. «Aldair, guardami!»
«Rhalgorn... ce la fai a stare in piedi?»
«La gamba è a posto,» disse con calma. «Forse è un po' più lunga dell'altra. È una zuppa ben forte,
Aldair.» Fece una smorfia e si tirò su.
«Rhalgorn,» supplicò Corysia, « tu mi ascolterai? Io non...»
«Signora,» le disse Rhalgorn, «non avere tanta fretta di morire. C'è sempre tempo per farlo!»
Lei vacillò, visibilmente colpita dalle sue parole, perché erano molto significative. Rhalgorn si voltò
rapidamente e si allontanò, prima che la donna vedesse che c'era altro oltre l'ira nei suoi occhi. Io non
ebbi più coraggio dello Stygiano e lo seguii. Lei urlò, ma io non l'ascoltai. Sarei ritornato ben presto da
lei. Quando sarebbe stato il momento, avrei saputo dove trovarla.
Prima che io e Rhalgorn arrivassimo a prua, la nave si sollevò nuovamente e, all'improvviso, si raddrizzò,
mandandoci tutti a gambe all'aria. Qualche marinaio esultò per la gioia, ma l'urlo di Signar, proveniente
dalla poppa, ci disse che non avevamo riportato una grande vittoria. Ci arrampicammo di nuovo sul
ponte per guardare verso poppa, e vedemmo che il mostro marino ci aveva assalito da dietro. Quello era
il momento di perdere ogni speranza. La poppa dell' Ahzir era coperta quasi tutta da una massa di
carne viscida e grigia. Filtrò attraverso la battagliola, e con centinaia di dita terribili strisciò lungo i ponti.
Signar e un gruppo di guerrieri le si opposero. Thareesh arrivò con un'altra decina di uomini, Rhalgorn ed
io lo seguimmo. Ho assistito a più di un combattimento feroce, ma nessuno come quello che
affrontammo sulla stretta poppa dell' Ahzir. Nessun grido di guerra scosse l'aria. Non si udì il terribile
fragore delle armi o il clangore dei cavalli e delle armature. Invece, un silenzio soprannaturale avvolse la
nave, rotto solo dal sordo ritmo delle spade e delle asce che colpivano quella carne quasi inattaccabile.
Il mostro marino non poteva essere fermato.
Lo sapevamo, ma non potevamo semplicemente buttare le armi da parte e lasciarci sopraffare.
Avremmo lottato finché potevamo. Un guerriero non può fare altro.
Il tappeto scuro di carne emergeva senza sosta dal mare, costringendoci ad arretrare finché la poppa ne
fu coperta completamente. Lottammo finché le nostre braccia si intorpidirono. L'elsa della mia spada si
arrossò del sangue che mi scorreva dalle mani escoriate. Accanto a me, un Nicieano barcollò all'indietro
e lasciò cadere l'arma. Thareesh gli si avvicinò e lo fece rialzare con una lunga sequela di bestemmie
nicieane.
«Siamo perduti!» gridò il guerriero.
«Per tutti gli Dei, tu sei vivo!», sibilò Thareesh. «Prendi la spada e combatti!»
Un urlo, proveniente dal centro della nave, mi fece girare. Proprio al di sotto del ponte, una lingua
viscida di carne era scivolata lungo lo scafo e aveva raggiunto i ponti. Un solitario Vikoniano l'affrontava.
Corsi al suo fianco e chiamai aiuto. Nessuno sentì. Era solo una piccola battaglia nel corso della guerra.
Un altro grido da destra... un urlo da prua. D'improvviso, la cosa era dovunque, e noi eravamo perduti.
Verrò presto da te, Corysia, perché non voglio che tu veda la fine diquesta battaglia!
La nave scricchiolò. Le assi si spezzarono sotto i miei stivali. Per la prima volta mi venne in mente che la
creatura non aveva bisogno di coprire ogni centimetro dell'Ahzir: saremmo affondati molto prima
sotto il peso della sua massa. Mi affrettai sul ponte e guardai la poppa: era coperta completamente dalla
carne grigia. In un attimo anche la prua lo sarebbe stata, perché la creatura aveva attraversato il ponte
da destra a sinistra e si era riunita nel mezzo della nave. I marinai che se ne accorsero lasciarono cadere
le armi per la paura. Qualcuno saltò al di là del fiume di carne e corse sul ponte, altri si arrampicarono
sull'albero e si affrettarono lungo il sartiame. Lì non erano in salvo, ma avrebbero vissuto qualche attimo
in più.
Era arrivato il momento...
Avevo deciso come farlo. Dovevo arrivare dietro l'albero e infilare rapidamente la lama. Dovevo fare
così. Se l'avessi guardata in viso solo una volta, se l'avessi guardata negli occhi...
Il corto pugnale dei Venicii era stretto nella mia mano. Era freddo come un pezzo di ghiaccio. Bollente
come ferro appena forgiato. No!
Lei non avrebbe mai visto il peggio.
Corysia!
Cercai di non pensare a lei...
Corysia, perdonami!
... alzai la lama e l'abbassai in fretta.
Un tuono scosse l' Ahzir. Le gambe mi cedettero ed io caddi disteso sul ponte. Il coltello mi cadde dalla
mano e tintinnò sul legno. Alzai lo sguardo, vidi Corysia. Lei mi guardò, fissò il coltello che era ai suoi
piedi. Quando capì gli occhi le si spalancarono.
«Aldair... oh, Aldair!»
Il tuono si ripeté. Un fulmine partì da est, splendente come un piccolo sole, e illuminò la prua dell' Ahzir.
Io mi alzai, liberai Corysia della cima e la presi tra le braccia. Lei parlò, ma le sue parole si perdettero nel
fragore. La trascinai e guardai il cielo.
Signar si avvicinò barcollando. «Per tutti gli Dei, che diavolo succede?»
Arrivò dal largo della poppa, questa volta. Era una palla scintillante e argentea che si muoveva poco al di
sopra del mare. Ci oltrepassò con un boato, e l' Ahzir sussultò. Un momento prima era lì, un momento
dopo era scomparsa.
«Non esiste niente che si muova con tanta velocità!», disse il Vikoniano.
«Qualche cosa esiste.»
«Guarda!», gridò Corysia. La cosa rallentò al largo della nave, virò a sinistra e si fermò al di sopra della
prua. Vedendola da vicino, mi accorsi che era una sfera grande e splendente, e le sue pareti erano
inondate da una luce abbagliante. Rimase sospesa per un attimo, infiammata dal sole, poi lentamente
virò a destra. Mentre si muoveva, si aprì un foro nella sua parte inferiore, un raggio di luce azzurra che
uscì e toccò il mostro marino. La bestia tremò, e si contorse in un'agonia improvvisa. Grandi nubi di un
vapore nauseabondo si sollevarono dalla carne a brandelli. Sentivamo quasi i suoi gemiti di dolore
mentre la colonna di luce azzurra la bruciava e l'uccideva. L' Ahzir tremò. Afferrai Corysia e mi
aggrappai all'albero. La sfera d'oro fece un ampio giro intorno a noi, lasciando morte e distruzione dietro
di sé.
Tutt'intorno a noi, il mostro cominciò a mutare. La carne dura e coriacea, con cui avevamo lottato fino a
poco prima, sussultava e si scuoteva, come se al suo interno vi fossero mille creature diverse che
lottavano per liberarsi. D'improvviso, qualsiasi cosa fosse a tenerla unita cedette, e la massa cominciò a
separarsi davanti ai nostri occhi. Il grigio diventò bianco. Un filamento di materia dopo l'altro si staccò
dalla massa e cadde a mare. Ben presto, tutto quello che restava di quella terribile creatura erano
brandelli di gelatina inanimata sui ponti e uno strato lattiginoso sulla superficie dell'acqua. Per un lungo
momento tutti trattennero il fiato a bordo dell' Ahzir. Non è
facile passare in un attimo dalla vita alla morte, e poi di nuovo dalla morte alla vita. Avevamo appena
cominciato a capire di che cosa si trattava, quando la creatura era strisciata sui ponti e ci aveva quasi
distrutti. Ora, avevamo la stessa difficoltà a comprendere che era scomparsa. E, come se questo non
bastasse, c'era ancora un altro prodigio da guardare. Volteggiava al di sopra dell'albero, poco oltre la
prua. La fissavamo, incapaci di muoverci. Che cosa poteva essere? Se non fosse apparsa saremmo
sicuramente morti. Eppure la temevo, perché chi altri se non l'Uomo aveva potuto foggiare una simile
meraviglia?
Si librava su di noi, vasta e silenziosa come un sole caduto sulla terra. Poi si girò, si mosse lentamente
verso il mare, e sparì nel cielo come una palla di fuoco.
In quel breve momento, capii che le follie di quel giorno non erano fini-te. Perché, quando si voltò, ne
vedemmo l'altro lato: incisa su quella sfera d'oro c'era la copia perfetta dell' Ahzir al'Rhez, a vele
spiegate, con il vento in poppa...
VENTI
Mi dissero che l'alba seguente al nostro incontro con il mostro marino fu limpida e luminosa. Forse fu
così. Ma io ricordo appena quelle ore, perché
mi chiusi al mondo esterno e non parlai con nessuno. La depressione e l'autocompatimento non sono
tipiche del mio carattere, e di rado sono caduto preda di simili stati d'animo. Quella volta, comunque,
quando una cappa nera di disperazione calò su di me, non ebbi la forza di reagire. Piansi, mi maledissi ad
alta voce, e mi accusai. Bevvi anche una gran quantità di vino e di birra scura. È una mistura disastrosa
nel migliore dei casi, e ne rimase ben poca nel mio stomaco.
Alla fine dei conti, fu una vergognosa perdita di tempo e, quando tutto fu finito, non mi sentii meglio per
questo. Avevo rovinato un vestito, impuzzolentito la mia cabina, ed ero giunto ad una decisione
dolorosa. In verità, era una decisione a cui sarei potuto arrivare senza i pianti e i lamenti che l'avevano
accompagnata.
Non avevo voglia di affrontare i miei compagni. Ma non potevo vivere per sempre nella mia cabina,
chiuso insieme all'odore della disperazione. Quando infine uscii sul ponte, il giorno era quasi finito. Il
sole era coperto da una parete fiammeggiante di nubi, al di sopra del continente meridionale, e il mare
era color del rame. Eravamo lontani dalla costa e navigavamo in acque sicure. Signar aveva mantenuto
la nave in movimento perché il vento soffiasse lungo i ponti. Ma non stavamo andando da nessuna
parte, perché il Vikoniano non aveva alcuna rotta da seguire. Aspettava che il coraggioso capo della
spedizione tornasse in sé.
«Mi fa piacere rivederti,» disse, avvicinandosi. «Almeno così credevo,»
aggiunse, annusando l'aria intorno a me.
Non lo guardai. «Un po' di birra stantia non ha fatto male ad un Vikoniano,» dissi in tono deciso. «Se
l'odore ti dà fastidio, Signar, vattene da un'altra parte.»
Rimase in silenzio per un momento, e lo sentii grattarsi pensierosamente il muso. « Stantia non è la
definizione esatta,» disse infine. « Usata è un aggettivo molto più appropriato.»
«Usata, allora. Il rimedio è sempre lo stesso. Se ti da fastidio...»
«Ora, guarda, Aldair...» Mi afferrò un braccio e mi fece girare con rudezza. «Non è del tuo odore che
mi interesso, e tu lo sai dannatamente bene! Sono le tue condizioni che mi preoccupano!»
Lo guardai. «E quali pensi che siano, Signar? Quali dovrebbero essere?»
«Non tocca a me dirlo, ma certamente non queste.»
«Quanti ne abbiamo persi?»
Rimase interdetto per un attimo. «Che cosa?»
«Mi hai sentito bene. Quanti?»
Fece una smorfia e guardò il ponte. «Sei. Due nella lancia, quattro a causa di... di quella cosa.»
Risi e mi avvicinai alla battagliola. «Sei? Beh, non è male dopotutto, è
vero? Se si considera quanti ne ho persi a Rhemia, e le due navi nel fiume a Merkkia.»
«Se ti vuoi dare la colpa di tutto quello che è successo, va a prua a farlo,» disse senza espressione.
«Beh, allora a chi si deve dare la colpa?», gli chiesi. «A te? A Rhalgorn?
A Thareesh? Chi ci ha portati qui? Sono stufo del fato, dei sogni mandati dagli Dei e degli altri poteri
misteriosi, che si suppone aleggino da qualche parte e fanno succedere le cose: non è vero, Signar. Alla
fine dei conti, siamo noi a scegliere una strada o l'altra. E le strade che ho scelto io fino ad ora ci hanno
portato solo alla rovina!»
Signar aggrottò la fronte e scrutò il mare. «Se qualcuno di noi l'avesse immaginato, non saremmo
arrivati fino a questo punto, Aldair,» disse in tono gentile. «... chi l'avrebbe immaginato che avremmo
perso un equipaggio dopo l'altro? Tu in questo hai ragione. D'altra parte, non c'è nessuno tra noi che
non sapesse in quale impresa si stava lanciando. Se quel tuo fato, o qualsiasi cosa sia, avesse voluto
rendere tutto più facile, allora credo che ci avrebbe fatto cadere in grembo i segreti dell'Uomo con un
barilotto di buona birra.»
«È vero,» gli dissi, «ma non ha scelto di fare così. Allora si ritorna allo stesso punto, non è vero? Lo hai
detto tu stesso: chi l'avrebbe immaginato che sarebbe costato tante vite umane? Tu non l'hai
immaginato, e io neanche. Certamente i guerrieri e i marinai che ho mandato a morire non avevano
immaginato che questo viaggio sventurato sarebbe costato loro la vita.»
Il Vikoniano non disse niente per un lungo momento. Strinse la battagliola tra le grandi mani e mormorò
tra sé e sé. Infine si voltò a guardarmi con lealtà.
«Abbiamo vissuto molte cose insieme, Aldair e, se non posso parlare con te sinceramente, beh, non
posso farlo con nessun altro. So perché stai parlando in questo modo e non ti biasimo. Ma questo non
cambia il fatto che quello che dici è una maledetta fonia! Non c'è nessun altro modo per definirla!»
Mi sorprese, e immagino che la cosa fosse evidente.
«Aspetta,» disse, «non ho ancora finito. Sta a sentire. Hai fatto un mucchio di chiacchiere su quanti
uomini abbiamo perso, ma non hai ancora detto quando è troppo. »
«Che cosa?» Le sue parole mi confusero.
« Troppo, Aldair.» Mi appoggiò un dito sul petto. «Se domani dovessimo partire da Raadnir per
questo viaggio, e tu sapessi per certo che troveremo proprio quello che stiamo cercando, allora quante
vite daresti per arrivare alla meta? Una? Una decina? Daresti la tua vita? La mia? Quella di Corysia?
Daresti metà dell'equipaggio... o lo daresti tutto?» Scosse la sua grande testa. «Capisci che cosa dico,
Aldair? Se quello che cerchiamo non valetutte le vite che sono a bordo e altrove, allora è certo che non
vale nem-meno una vita! »
Aveva ragione naturalmente. Durante le ore più scure delle mie avventure, proprio questo pensiero mi
aveva dato forza. Se non vi avessi creduto, non avrei mai trovato il coraggio di rischiare tanto per una
meta che sembrava sempre lontana, sempre remota. Quello che Signar non capiva, era che ormai le sue
parole non significavano niente per me. Ero arrivato fin dove avevo potuto, e non potevo andare oltre.
Quante vite avrei dato per raggiungere il nostro scopo?
Per la prima volta, da quando era cominciata la nostra ricerca, potevo rispondere sinceramente a questa
domanda. Una sola vita era già troppo. Anche se fossi stato sicuro che avremmo spezzato le catene
della storia e liberato il mondo della terribile eredità dell'Uomo. Avrei dato volentieri la mia vita a
questo scopo. Ma non avevo intenzione di dare la vita di nessun altro.
A cena, e dopo, parlai con gli altri. Le loro ragioni erano le stesse di Signar. Potevo abbandonare la
nostra ricerca tanto facilmente? No, non potevo. Mi avrebbe distrutto l'anima farlo. Mi avrebbe lasciato
vuoto, senza scopo. Allora come potevo convincermi a continuare? Perché non potevo fare nient'altro.
Allora ogni guerriero che era morto per la nostra causa aveva dato la sua vita per niente? Si, dissi. Per
poco o niente. Ancora un motivo di più per far sì che ciò non si ripetesse in futuro. Thareesh sentiva che
avremmo dovuto essere incoraggiati dall'apparizione della palla d'argento che ci aveva salvati dal
mostro marino.
«Perfino l'equipaggio si è rincuorato,» disse. «Pensano che sia un presagio favorevole, Aldair. E, anche
se non ho la natura superstiziosa dell'uomo di mare, è difficile non essere d'accordo con loro.»
«Perché?», gli chiesi.
«Perché?», Thareesh sembrò sorpreso da una domanda del genere. «Non trovi molto interessante che
un congegno così miracoloso sia apparso proprio al momento giusto, Aldair? E che aveva il ritratto dell'
Ahzir al'Rhaz inciso su un lato? Che una cosa del genere esista è già un miracolo, ma il fatto che...»
«Thareesh...», lo interruppi bruscamente. «Temo di non essere stato abbastanza chiaro. Non metto in
discussione il fatto che quell'oggetto fosse straordinario. L'ho visto. Era lì. Ma non riesco ad immaginare
perché fosse lì e da dove venisse. E non ci riesci nemmeno tu, Thareesh, questo è il punto. Sai perché
tu, i marinai e chiunque altro a bordo di questa nave pensate che - qualsiasi cosa sia - sia un buon
presagio? Perché tu vuoi che lo sia, ecco perché! Lo hai detto tu stesso e che io sia dannato se non è
così. Tutti voi la pensate come un marinaio superstizioso!»
Thareesh si alzò. Gli occhi gli si incupirono, ma trattenne l'ira. «Non penso che sia il momento più
opportuno per parlare, Aldair. Forse più tardi...»
«No,» gli dissi. «Ascolta quello che ho da dire, e non stimarmi meno a causa dei miei modi, o di come
sono diventato da quando abbiamo incontrato il mostro marino. Sono la stessa persona, e non sono più
lo stesso. Non vedo le cose come le vedevo prima. Non posso più mandare a morire guerrieri sulla base
di sogni e presagi. Ogni volta che l'ho fatto, qualcuno è
morto. A Kenyarsha, a Rhemia, a Merkkia e ora ad Amazzone. Io vi ho portati qui, Thareesh. Perché ho
sognato che bisognava farlo, che qualche grande potere ci spingeva a venire qui. Che qui avremmo
trovato una risposta a quello che cerchiamo. Non ho bisogno di dirvi che cosa abbiamo trovato.»
«E poiché abbiamo incontrato il mostro marino, sei certo di avere sbagliato.» Scosse il capo con forza.
«Non mi sembra che parli secondo ragione, Aldair.»
« Ragione!» Mi alzai e lo guardai negli occhi. «Per la Vista del Creatore, vecchio mio, la ragione non
ha nulla a che fare con questa faccenda! Forse il segreto che cerchiamo è veramente alle foci di quel
fiume. Non ne ho idea. Ma so che non darò nessuna vita per scoprirlo!»
Le spalle del Nicieano si abbassarono. «E se c'è, Aldair? E se tu ti sbagli nel non tener conto dei presagi, e
se l'apparizione di quella strana sfera aveva lo scopo di indicarci la strada? Puoi veramente ignorare
questa possibilità? Puoi fermarti ora che sei così vicino alla meta? Il mostro marino che ci ostacolava il
cammino è morto...»
«È morto?» Alzai un braccio verso il mare. «Puoi guardare l'acqua e dirmi che non c'è più, solo perché
non lo vedi?»
Thareesh arrossì. « L'ho visto morire, Aldair!»
«Forse è morto,» dissi. «E forse ce ne è un altro. E poi un altro...»
«Che io sia dannato,» disse, stringendo il pugno intorno alla battagliola.
«Tu sosterresti anche che il sole sorge ad occidente, Aldair!»
Allungai una mano e gliela posai sulla spalla. «Penso che tu abbia ragione, Thareesh. Forse incontrerai
un Aldair migliore e più disponibile domani mattina. Ho pochi buoni amici in questo nostro mondo
ostile. Non sarebbe saggio farli adirare tutti.»
Il Nicieano si drizzò nelle spalle. «I tuoi compagni non si allontaneranno da te perché non sono d'accordo
con quello che dici, Aldair.»
«No,» gli dissi, «sono certo che dopo tanto tempo non lo faranno. Ogni tanto vi ho dato buoni motivi per
farlo.»
In verità, la mattina dopo non ero un «Aldair migliore.» Non cercai di polemizzare con i miei compagni.
Ma accadde ugualmente. Mi vennero a parlare uno alla volta, per cercare di farmi tornare in me. Mi
presentarono molte ragioni pratiche e giuste per farmi cambiare idea e continuare la nostra ricerca. Fui
d'accordo con tutti. Dissi loro che avevano ragione e che io avevo torto. Alla fine, però, li mandai via più
scontento che mai. Perché
non riuscirono a farmi dire che avrei dovuto rischiare la vita di uno di loro per tutti i segreti dell'Uomo.
Loro capivano... o tentavano di farlo. Ma i loro occhi mi dicevano che cosa pensavano, ed avevo
veramente vergogna di guardarli in faccia. Perché né Rhalgorn, né Corysia, né Thareesh, né Signar-
Haldring, avrebbero espresso a voce la domanda che avevano in mente: se Aldair non ci guiderà più,
dove andremo? Come avevo detto con tanta saggezza al marinaio Barthius, c'è un solo fine degno di
essere perseguito in un mondo che cade in rovina. Ora, io stesso avevo rinunciato a quel fine.
Nemmeno Corysia riusciva a capire che cosa mi fosse veramente acca-duto. Non riusciva a capire che
avevo semplicemente abbandonato la ricerca, che non avevo niente da dire a questo proposito. Non
potevo più
mandare un altro dei miei uomini a morire più di quanto una persona con le mani legate possa bere un
barilotto di birra.
Più di una volta, in quei giorni, ricordai una storia che avevo sentito da bambino. Parlava di un guerriero
molto coraggioso che tornò da una battaglia e trovò distrutto il suo villaggio. La sua casa non c'era più.
Sua moglie, i suoi figli e tutti i suoi amici erano stati uccisi. Il guerriero pianse, soffrì per tutto ciò che
aveva perso, poi decise di vendicarsi dei suoi nemici. Ripulì l'armatura, affilò le armi e inveì
silenziosamente contro i nemici. Le settimane passarono ma il guerriero non andava a combattere.
Trovò
delle ammaccature nell'armatura. Le sue lame non erano mai affilate come avrebbero dovuto. La giubba
e gli stivali avevano bisogno di essere rattoppati. Alla fine, il guerriero scoprì che, per quanto tentasse,
non riusciva ad oltrepassare i confini del suo villaggio. Arrivava fin dove poteva, ma non poteva andare
oltre. Non era un codardo. Non temeva la morte. Semplicemente era morta qualcosa dentro di lui:
aveva perso troppo, e non poteva perdere di più. Infine, i nemici tornarono al villaggio e lo trovarono lì,
seduto su una pietra. Per quanto si sforzasse, non riuscì ad alzare nemmeno un dito per difendersi.
Prima di allora non avevo mai capito questa storia.
VENTUNO
Potevamo discutere quanto ci piaceva su che cosa dovevamo fare e dove dovevamo andare, ma la verità
era che non potevamo andare da nessuna parte finché l' Ahzir non fosse stata riparata. La nave era
una vera rovina. Il rivestimento non c'era quasi più. Metà della battagliola mancava, e una gran quantità
di assi erano state divelte dalla plancia e dai ponti inferiori per combattere il mostro marino. La nave
somigliava molto più a una vecchia chiatta abbandonata che alla nave più bella e più veloce che solcasse
i mari.
Peggiori di tutti, naturalmente, erano i danni che non si vedevano. Signar aveva fatto l'elenco delle
riparazioni che con amarezza aveva diviso in due categorie: cose che bisognava riparare
immediatamente e cose che doveva-no essere riparate ancora prima. «Dobbiamo fare solo delle
riparazioni che un buon cantiere in due mesi di lavoro non riuscirebbe ad eseguire,» disse cupamente.
Potevamo tenere il mare, ammise, ma a malapena. Eravamo in grado di navigare lentamente in un mare
piatto, ma impallidiva all'idea di affrontare venti forti e mare agitato. «Potremmo attraversare un bello
stagno senza affondare,» annunciò. «Non garantisco più di questo.»
Era veramente un miracolo che fossimo ancora a galla. Le navi non sono costruite per essere schiacciate,
percosse, alzarsi di continuo ed essere quasi divorate dai mostri marini. Andava a merito di chi aveva
costruito l 'Ahzir il fatto che la nave non si fosse spaccata in due e non fosse colata a picco.
Per molti giorni, passammo tutto il nostro tempo a fare tutte le riparazioni che potevamo. Questi sforzi
erano limitati, nel migliore dei casi, dal fatto che non avevamo né assi né pece in più, visto che avevamo
usato entrambi questi materiali in abbondanza contro il mostro marino. Di conseguenza, per puntellare
un punto debole dello scafo, era necessario prendere il materiale da un altro. Ben presto, corremmo il
pericolo di provocare più
falle di quelle che riparavamo.
«Non importa molto se tu vuoi tornare indietro oppure no,» mi disse Signar. «Non abbiamo scelta,
Aldair. O troviamo un buon porto e rimettiamo l' Ahzir a posto, o la lasciamo qui a marcire.»
«Potremmo... cercare un altro fiume, non è vero?» suggerii, capendo, mentre parlavo, di dire una
sciocchezza.
Signar mi lanciò una lunga occhiata. «Conosco i tuoi sentimenti,» disse,
«e li rispetterò per quanto mi sarà possibile. Ma la risposta è no, e lo sai bene quanto me. Il tuo
Amazzone è proprio di fronte a noi, e non ho bisogno di dirti per quante leghe si estende. Non abbiamo
il tempo di cercare un altro fiume. Saremo maledettamente fortunati se riusciremo ad arrivare alla
sorgente di un fiume, dovunque sia, prima di colare a picco.»
Aveva ragione e non potevo ribattere. Né potevo dimenticare la paura quasi irragionevole che mi
prendeva al pensiero di navigare il grande fiume. Che cosa mi stava succedendo, mi chiesi. Non per la
prima volta, indagai seriamente sulle mie motivazioni. Ero pronto ad abbandonare la nostra ricerca
perché non potevo più digerire la morte degli altri, o era qualcosa di completamente diverso? Forse mi
preoccupavo per me... non per i miei compagni.
Non mi ero mai considerato né codardo né eccessivamente coraggioso. Come la maggior parte di coloro
che crescono in un ambiente guerriero, mi sentivo un qualcosa di intermedio fra i due. Ero insorto e
avevo lottato quando sarebbe stato più prudente voltarsi e scappare: ma non sono sicuro che questo
possa definirsi propriamente coraggio. Un soldato lotta e mantiene la sua postazione perché non ha
dove altro andare. Davanti a lui c'è
un nemico pronto a spaccarlo in due con un'ascia o una spada. Se scappa ha buone possibilità di ricevere
qualche colpo alla schiena. Benché molti guerrieri possano dissentire, sono incline a credere che il
coraggio sia semplicemente un modo molto pratico di affrontare un combattimento. Di conseguenza,
non credo che fosse la paura per la mia persona ad ossessionarmi e a rendermi estraneo ai miei
compagni. Era qualcos'altro. Era una paura che non potevo né affrontare né combattere, perché non si
faceva avanti e non si rivelava. Era lì, però. Come il guerriero della favola, arrivavo fin dove potevo, ma
non potevo andare oltre. Quanto devono aver riso gli Déi dei miei deboli tentativi di resistere alla loro
volontà! Se non volevo proseguire la mia ricerca alla sorgente del fiume, beh, mi ci avrebbero fatto
arrivare in un altro modo. E se resistevo a quei tentativi, potevo sedermi come una rapa sull' Ahzir, e
guardarla affondare sotto di me. Almeno c'era lavoro in abbondanza, un lavoro pesante sotto un sole
cocente. Lo accolsi di buon grado, perché mi teneva le mani molto più occupate della mente. Avevo
trovato un compito particolare per me, uno che si adattava alla mia razza. Né le popolazioni vikoniane e
nicieane, né quella stygiana, sono particolarmente affezionate all'acqua. La navigano e la bevono se
proprio devono farlo, ma non hanno alcun desiderio di entrarvi. Nuotano per non affogare, ma non
riescono ad immaginare che qualcuno possa trovare gradevole tuffarsi in acqua per il puro piacere di
farlo.
«È molto disdicevole,» sbuffò Rhalgorn, «e per giunta dannoso alla salute.»
«Gli Stygiani dovrebbero praticare anche l'arte del nuoto,» gli dissi.
«Come credi che i Venicii si trovino al buio, sebbene i nostri occhi non siano acuti come i vostri?»
Rhalgorn si grattò il mento con espressione assorta. «Risponderò alla tua domanda con un'altra
domanda, Aldair. Secondo te, gli squali che fioriscono in queste acque come trovano un guerriero dei
Venicii che nuota? A lume di naso, direi che sentono il suo bel corpo grasso fare capriole ad una lega di
distanza.»
«Non mi preoccupo degli squali,» gli dissi, sebbene ciò non fosse del tutto vero. «Gironzolano sempre
nei mari, ma di rado infastidiscono qualcosa che non li abbia provocati.»
«Mi pare una filosofia buona e giusta, Aldair. Spero che anche gli squali ne abbiano sentito parlare.»
«Sta attento,» disse Corysia, posando una mano sulla mia. «Se vedi qualcosa laggiù...»
«Starò attento,» la rassicurai. «E ti porterò qualche bella conchiglia da aggiungere alla tua collezione.»
Quello che ho detto sulla natura degli squali è vero, nella maggior parte dei casi. Sono creature violente
e voraci, ma in genere si tengono a distanza. Ciò non di meno, hanno una brutta reputazione, e noi non
avevamo mai lavorato in acqua senza delle vedette tra le sartie, e guerrieri armati di guardia a poppa.
Eravamo tre in quel gruppo di lavoro: Barthius, Stumbacius ed io. Barthius, come al solito, era alquanto
cupo e risentito, ma era di gran lunga il miglior sommozzatore tra noi. Lo elogiai per la sua abilità, ma
temo che ciò l'offendesse ancora di più. Stumbacius era il solito uomo fidato, non particolarmente felice
di essere sott'acqua, ma volenteroso e capace. Era un lavoro pesante e pericoloso. Un cavicchio del
timone si era spezzato, rendendo difficile a Signar mantenere una rotta a grande velocità. Sulla
terraferma sarebbe stato un lavoro semplice rimuovere il pezzo danneggiato e sostituirlo. Sott'acqua era
un compito spossante, complicato. Potevamo lavorare solo per pochi minuti senza risalire in superficie
per respirare; la maggior parte delle nostre energie andava sprecata scendendo e risalendo. Tuttavia,
riuscimmo a sfilare il cavicchio spezzato e a darlo ad un artigiano che era a bordo. Egli ne foggiò
rapidamente un altro uguale. Tutto quello che restava da fare era metterlo al suo posto: un compito
ingrato.
«Fate attenzione,» ammonì Signar. «Non deve essere né troppo allentato né troppo stretto, altrimenti
saremo in un guaio peggiore di prima. Se è
troppo allentato non si gonfierà abbastanza da adattarsi, se è troppo stretto, si gonfierà, si bloccherà e
probabilmente romperà il meccanismo.»
Ero steso sul ponte ad ascoltare, e boccheggiavo - per così dire - come un pesce fuor d'acqua. «Ti dovrai
fidare di noi,» gli dissi, «a meno che non voglia controllare tu stesso il lavoro.»
«Penso che sarebbe la soluzione più saggia,» disse Rhalgorn pensieroso.
«Non è mai una buona idea affidare le riparazioni di una nave a dei dilettanti.»
Signar gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Ti piacerebbe? Vuoi farlo tu?»
«Sarebbe interessantissimo,» disse Rhalgorn. «Mi sono chiesto spesso se un Vikoniano galleggia o
affonda.»
«Galleggia,» gli disse Signar. «Ma non ne sono così certo a proposito degli Stygiani. Potremmo scoprirlo
abbastanza in fretta.»
Da parte mia, avrei dato tutto per vederli entrambi sguazzare intorno all' Ahzir. Ci sono molte
creature bizzarre nel mare, ma nessuna avrebbe eguagliato quei due.
Il mondo al di sotto delle onde è strano e bello, in realtà. Nei mari limpidi, tropicali, si vede a grande
distanza, ed è facile immaginare che non ci sia affatto acqua, che si sia sospesi in un paese magico e
verde. L' Ahzir galleggiava tranquilla, a tre braccia da un fondale di sabbia bianca. C'erano pochi pesci,
sebbene di tanto in tanto vedessimo un branco di pesciolini dai colori brillanti guizzare in lontananza.
Una volta, una coppia di pesci si avvicinò al timone e ci osservò con curiosità. Erano a strisce gialle su
fondo blu, ed erano piatti come una padella. Dopo un momento, guizzarono via.
Non appena provai il nuovo cavicchio, fui certo che era troppo grande per andare bene. Lo riportai in
superficie e lo lanciai sul ponte con l'ordine di piallarlo un po'. Stumbacius emerse in superficie accanto
a me, poi arrivò anche Barthius.
«Ditegli di non rimpicciolire troppo il cavicchio,» disse in tono irritato,
«altrimenti dobbiamo ricominciare tutto daccapo... Signore,» aggiunse in fretta.
«L'ho già fatto,» gli dissi. «Ce la prenderemo comoda, finché il cavicchio non sarà della misura giusta.»
«Tenete gli occhi aperti laggiù,» urlò Thareesh. «Una delle vedette dice di aver visto qualcosa.»
«Che cosa?»
«Non lo sa. Qualcosa che si muoveva, a destra.»
«Molto probabilmente un branco di pesci,» disse Stumbacius.
«Oppure qualcosa che sta mangiando un branco di pesci,» mormorò
Barthius cupamente.
Li guardai entrambi. «Possiamo fermarci un po', se lo desiderate. Per me non c'è differenza.»
«Se per voi è la stessa cosa, Signore,» disse Stumbacius, «togliamoci il pensiero e facciamola finita.»
«Barthius?»
Barthius si strinse nelle spalle, ma gettò un'occhiata di disprezzo al suo compagno. Signar mi lanciò il
cavicchio piallato: lo osservai e poi feci un cenno di assenso verso i ponti. Sembrava che sarebbe andato
bene. Barthius allungò una mano per prenderlo e io glielo porsi, insieme ad una mazzuola di legno
pesante che usavamo come martello. Inspirò profondamente e si immerse sott'acqua. Dopo un lungo
momento, riemerse sputando acqua.
«Va bene,» disse, «ci vuole solo un paio di buone martellate, Mastro Aldair. Già l'ho infilato.»
Annuii, presi il martello e mi immersi.
Ricordando la fretta con cui Barthius era uscito in superficie, controllai attentamente il lavoro. Aveva
ragione. Il cavicchio si adattava bene e, quando si sarebbe gonfiato, avrebbe aderito perfettamente. Non
è facile martellare sott'acqua, e dopo qualche colpo non avevo più
aria e nuotai verso la superficie. Stumbacius tese la mano a prendere il martello ma io scossi il capo.
«Finirò io il lavoro e tu potrai scendere dopo a dare un'occhiata.» Inspirai profondamente, mi spinsi
lontano dallo scafo e mi immersi.
Poiché avevo lavorato tutto il giorno, scoprii che riuscivo a resistere sul fondo molto più che all'inizio.
Come in qualsiasi altro esercizio fisico, ci vuole un po' di tempo per abituarsi. Di conseguenza, fui
sorpreso e compiaciuto di scoprire che il lavoro era pressoché concluso quando avevo ancora una buona
riserva d'aria. Ancora qualche discesa... Improvvisamente qualcosa mi spinse lontano dal timone e mi
tirò il martello di mano. Mi voltai spaventato e vidi che Stumbacius galleggiava dietro di me. Mi afferrò
un braccio con una mano, facendo cenni frenetici con l'altra. Mi divincolai, chiedendomi che cosa gli era
preso. Mi acchiappò di nuovo e indicò disperatamente il fondale sabbioso. Guardai... e per poco non
bevvi una sorsata d'acqua. Una decina di forme scure scivolavano rapidamente sul fondo, lasciando una
scia di sabbia dietro di loro. Non ebbi bisogno di guardare una seconda volta. Mi voltai, seguii
Stumbacius, e nuotai in fretta verso la superficie. Con la coda dell'occhio vidi una grandine di aste e
frecce fendere l'acqua alle nostre spalle. Uscii in superficie, ansimai e vidi una cima oscillare dal ponte.
Cercai di afferrarla, la mancai. Lo scafo era solo ad un metro di distanza e io tentai disperatamente di
raggiungerlo. Se avessi potuto arrampicarmi lungo la fiancata e trovare un buon appiglio...
D'improvviso qualcosa di nero e luccicante emerse dal mare e mi diede una spinta. Poi una morsa
d'acciaio mi afferrò le gambe e mi trascinò sott'acqua.... VENTIDUE
In un angolino della mia mente, mi chiesi oziosamente come mai non fosse doloroso essere mangiato da
uno squalo. Ero spaventato a morte. I polmoni stavano per scoppiarmi... eppure, cosa alquanto strana,
ero ancora vivo.
Lanciai un'occhiata verso l'alto e vidi lo scafo dell' Ahzir a parecchie braccia più sopra, mentre il sole
danzava sull'acqua che era intorno alla nave. Poi, quella vista confortante scomparve quando due forme
scure mi si pararono davanti. Trascinavano tra loro qualcosa di luminoso e trasparente. Somigliava ad un
barattolo capovolto. In un batter d'occhio, mi lanciarono quella cosa addosso ed io ne fui ingoiato. Per la
Vista del Creatore, pensai, non hanno intenzione di mangiarmi... mi hanno dato in pasto ad un loro
amico.
I polmoni mi bruciavano. Mi dibattevo ciecamente nella mia prigione, lottando per liberarmi. Il mondo
diventò nero ed io non riuscii più a trattenere il fiato. Aprii la bocca e risucchiai l'acqua, pregando che la
fine giungesse rapidamente. Acqua! Stupito, aprii la bocca e respirai di nuovo. Dannazione non
eraaffatto acqua... era aria! Mi stupii di questo miracolo per qualche decimo di secondo, poi respirai
ancora. Non era fresca e pura, puzzava lievemente di pesce, ma era aria ed era buona abbastanza per
me.
Fiducioso di essere al sicuro - almeno per il momento - osservai la cosa che mi circondava. Non era né
dura né del tutto solida come avevo pensato sulle prime, ma soffice e flessibile al tatto. In alto, era
trasparente come vetro, mentre in basso sfumava in un porpora chiaro e lattiginoso. Notai una fila di
protuberanze nodose all'altezza della mia vita e allungai una mano a toccarle, pensando che fossero
qualcosa di solido a cui appigliarsi. L'acqua mi arrivava al petto e stare a galla era alquanto faticoso. Al
mio tocco, la cosa trasparente si scosse con violenza e mi schiacciò
con forza. L'acqua si rovesciò da sopra e mi fece boccheggiare. Infine, la cosa si calmò, ed io potei
respirare di nuovo. Qualsiasi cosa fosse, le dava fastidio essere toccata.
Improvvisamente, una faccia si stagliò all'esterno: apparve così rapidamente che sobbalzai per la paura.
Per la prima volta potei osservare con comodo uno dei miei catturatori. Sorprendentemente, non aveva
né un aspetto malvagio né spaventoso. C'era intelligenza e interesse nei suoi oc-chi, ed io avvertii, in
qualche modo, che non intendeva farmi del male. Non era uno squalo come avevo immaginato sulle
prime, perché sembrava sotto tutti gli aspetti un grande delfino. Aveva il muso lungo e grazioso della
sua razza, ed era nero e lucente dappertutto, tranne che nella parte inferiore del ventre. Restò fermo un
lungo momento a guardarmi. Poi salì lentamente e appoggiò un palmo sulla creatura trasparente,
proprio di fronte alla mia faccia.
Mi ritrassi meravigliato. Non era un delfino normale, ma un'altra creazione dell'Uomo! Dalle natatoie
scure, che aveva ai lati, spuntava un paio di mani perfettamente utilizzabili, molto somiglianti alle mie.
Istintivamente, allungai una mano e l'appoggiai contro la sua. L'ampia bocca si aprì
lievemente, mostrando che l'animale aveva capito. Allora parlò e, sebbene non distinguessi le sue
parole, risposi al suo saluto.
Dietro di lui, apparve un'altra forma scura che si venne a fermare accanto a noi. Era più piccola della
prima, e decisi che si trattava di una femmina. Mi guardò con curiosità, poi parlò al suo compagno.
Ebbero una breve conversazione in toni alti e acuti, indicando prima me e poi la creatura che mi
circondava. Infine, il maschio si voltò e indicò le protuberanze carnose della creatura, e fece un cenno di
assenso con la sua grande testa. Ne fui stupito. Mi stava dicendo che potevo aggrapparmi alle
protuberanze della creatura senza problemi? Le indicai, e allungai una mano come per toccarle. Sia lui
che la femmina annuirono con forza.
«No», feci segno con la testa, «Sono stanco di galleggiare qui dentro... ma non stanco fino a questo
punto.»
Il maschio iniziò a parlare, ma la femmina lo interruppe. Si avvicinò e appoggiò le mani sulla creatura e le
parlò in toni tranquillizzanti. «Va tutto bene», sembrò dire, «l'animale che è dentro di te non intende
farti del male.»
Va bene, allora, decisi, avrei fatto un tentativo. Dopotutto, il massimo che poteva succedermi era
affogare. Tesi con cautela una mano, e toccai leggermente la creatura. Si divincolò un po', ma la
femmina continuò ad ammansirla. Afferrai la protuberanza carnosa con più decisione. Poi tentai con
l'altra. Non successe niente. I miei nuovi compagni si sorrisero l'un l'altro, poi sorrisero a me. Insieme, si
girarono e nuotarono verso il loro branco.
Sebbene non riuscissi nemmeno ad intuire quale fosse, era chiaro che i delfini avevano in mente una
destinazione precisa. Ci muovevamo velo-cemente, poco al di sopra del fondale, rallentati solo dalla
creatura che mi portava nel suo ventre. Avevo dedotto, alla fine, che si trattava di una specie di medusa
gigante, addomesticata per obbedire ai voleri dei suoi padroni. Non aveva alcuna forma di intelligenza, e
a volte deviava in un'altra direzione per cui i suoi padroni la dovevano incitare a ritornare sulla strada
giusta.
Fu un viaggio molto lungo, ed io ebbi tempo in abbondanza per stupirmi delle meraviglie del mondo
sottomarino. Grandi foreste di coralli vivi ci attorniavano con i loro mille colori meravigliosi. Campi di
alghe oscillavano lievemente ad una brezza invisibile. Creature di cui non avevo la minima idea
nuotavano tutt'intorno. Una volta, ci immergemmo in una nube di pesci rossi e brillanti, un branco così
grande che sembrò riempire il mare. L'aria all'interno della mia creatura stava diventando irrespirabile.
Cominciai a preoccuparmene, ma il popolo dei delfini aveva prevenuto i miei bisogni. Due volte prima
che il viaggio finisse, ci fermammo per trovare una nuova creatura in attesa. Il grande maschio fece
segno che dovevo trattenere il respiro e trasferirmi da una fonte d'aria all'altra. Fu un'esperienza
piuttosto traumatica, ma feci quanto dovevo rapidamente e senza problemi, visto che non avevo molta
scelta in materia.
Per la prima metà del viaggio ci muovemmo in acque relativamente poco profonde; la luce che
proveniva dalla superficie era ancora luminosa e chiara tutt'intorno. Poi, d'improvviso, il fondale
sabbioso e bianco cedette il posto all'oscurità, e noi affondammo in un abisso nero come l'inchiostro.
Fino a quel momento, non mi ero preoccupato molto: c'era aria da respirare e la gentilezza dei delfini
era tranquillizzante e rassicurante. Ora, l'ultimo residuo del mio mondo scomparve d'improvviso ed io
fui preso da una paura gelida, irrazionale. Ero solo e indifeso: non avevo nessuna idea di dove mi
stessero portando i miei catturatori. Come facevo a sapere che erano veramente amichevoli? Sol
perché si stavano preoccupando tanto di mantenermi in vita, questo non significava che ero fuori
pericolo. E se vo-levano preservarmi solo per un orrore maggiore, che doveva ancora ap-parire!
Sebbene ci fosse aria in abbondanza, improvvisamente mi sentii schiacciato dalla terribile pressione del
mare, intrappolato. Gocce di sudore freddo mi apparvero sulla fronte e mi colarono sugli occhi. Il mio
petto sembrava stretto in una morsa di ferro: boccheggiai, aggrappato alle pareti della mia prigione.
Dovevo uscire: non potevo restare in quel posto nem-meno un momento di più!
La luce sbocciò tutt'intorno a me, una luce di un blu profondo, ultraterreno. Illuminò le pareti chiare
della creatura marina e, un istante dopo, le facce del popolo dei delfini. Essi appoggiarono rapidamente
le loro mani alla carne fredda e trasparente. Senza pensarci, appoggiai i miei palmi contro di loro. Nel
momento in cui ci toccammo, tutte le mie paure scomparvero. Fui sopraffatto da una sensazione di
grande pace e di gioia. Gridai; lacrime mi spuntarono dagli occhi e scorsero calde lungo le mie guance.
Amavo il popolo dei delfini, il mare che mi circondava e la creatura che mi teneva nel suo corpo e mi
dava la vita. Che cosa meravigliosa era essere vivo!
Dopo un attimo, i delfini si girarono e scomparvero nel buio, lasciando una scia di bollicine danzanti
dietro di sé. Le luci blu continuavano ad affollarmisi intorno e, sebbene la potente sensazione di amore e
di benessere si fosse placata, non era scomparsa del tutto. Per il resto del nostro viaggio mi sentii sicuro
e in pace con tutto quello che mi circondava... A grande distanza, al di sotto di noi, apparve un fioco
bagliore nelle profondità del mare. Quando ci avvicinammo, mi accorsi che era un enorme grappolo di
luci spettrali, molto somiglianti a quelle che seguivano la mia medusa fuori misura. Erano di decine di
colori diversi: blu e verdi freddi, gialli chiari come limoni, rossi simili alle sfumature delle braci. Non
riuscivo ad immaginare che cosa potessero essere. Ben presto, comunque, planammo tra quelle luci.
Trattenni il fiato e mi aggrappai alle protuberanze della creatura, sorpreso e stupito da ciò che mi
circondava. Ovviamente, era la residenza del popolo dei delfini! Dovunque posavo gli occhi, vedevo
centinaia, migliaia di delfini, che sciamavano nella luce soprannaturale, impegnati in faccende che non
riuscivo ad immaginare.
Dopo qualche momento, ci trovammo nel centro di una città grande e bella, e attraversammo una
strada d'acqua dopo l'altra. Tutt'intorno a noi, graziose spirali di corallo si alzarono dal fondale: torri
favolose perse in altezze ondeggianti. C'erano alte colonne, incredibilmente fragili, del colore delle
perle... archi rosa e filiformi che sulla superficie della terra si sarebbero frantumati in pochi secondi. Fui
molto colpito da quel luogo, e pensai che eclissava di gran lunga tutte le orribili città che avevo
conosciute. In qualche punto, nei pressi del centro della città, i delfini guidarono la mia creatura marina
intorno ad una grande struttura color lavanda e poi la fecero entrare in una grande corte sottomarina.
Quella sala stretta e lunga era attraversata da gallerie da una parte all'altra. Alcune erano illuminate
dalle luci spettrali, altre erano buie come la notte. I miei amici scelsero una delle entrate più buie, e
sprofondammo di colpo nelle viscere della città. Durante questo breve viaggio, persi completamente il
senso dell'orientamento: non avevo idea se ci stessimo muovendo verso l'alto, verso il basso o di lato.
Poi, proprio mentre mi abituavo al buio, la strada che ci era davanti fu improvvisamente illuminata da
una luce abbagliante. Dopo qualche secondo, con mia grande sorpresa, la creatura marina rallentò
l'andatura ed emergemmo in superficie! Mi guardai intorno, e mi accorsi che ci trovavamo in una
piccola caverna scavata nel corallo. Le pareti ed il soffitto erano illuminate dalle luci spettrali. Il loro
luccichio faceva splendere l'acqua di milioni di stelle colorate.
Il popolo dei delfini era già li. Gironzolavano e si chiamavano l'un l'altro a gran voce, con fischi alti e
acuti. Il maschio mi si avvicinò e cominciò a chiacchierare in tono eccitato, respirando in maniera
esagerata. Ovviamente, mi stava mostrando che potevo fare la stessa cosa. Non abbi bisogno di ulteriori
incoraggiamenti. Inspirai, salutai silenziosamente il mio ospite ed emersi in superficie. Il popolo dei
delfini mi strinse: mi nuotavano intorno, facendo spumeggiare l'acqua. Tutti volevano toccare quella
creatura esotica che viveva in superficie, ed io affogai quasi, sopraffatto da quelle profferte di amicizia.
Nel vederli riuniti in un gruppo così numeroso che sguazzava in superficie, improvvisamente mi venne in
mente dove avevo già visto uno spettacolo simile. Sicuramente quelle erano le stesse creature che
erano apparse per molte notti al largo della prua dell' Ahzir, poco prima del nostro incontro con il
mostro marino! Non poteva essere altrimenti!
Il grande maschio che era stato con me fin dall'inizio sembrò indovinare i miei pensieri, ed io ricevetti
una sorpresa maggiore delle altre. Mi si avvicinò a nuoto, sorrise e disse in un rhemiano perfettamente
comprensibile:
«I Por'ai ti danno il benvenuto, Aldair. Abbiamo molte cose da raccontarci.»
VENTITRÉ
Si chiamava Rah'neem, e la sua compagna si chiamava Cath'muur. Avevo immaginato che fossero dei
Nobili di un qualche genere a capo del loro popolo, ma non era affatto così. In realtà, appresi ben presto
che nessuno regna sui Por'ai o desidera farlo, perché essi ritengono che sia sbagliato stabilire delle
gerarchie. Per quanto possa sembrare incredibile, è un sistema che pare funzionare benissimo per loro.
«Se parli a noi due», disse Rah'neem con semplicità, «parli con tutti noi.»
Solo più tardi arrivai a capire la spaventosa realtà che si celava dietro le sue parole.
I Por'ai sono il popolo più gentile e sollecito del mondo. Si preoccuparono molto che stessi comodo, e
fecero quanto poterono per tenermi al caldo e all'asciutto nella caverna sotto la loro città e per nutrirmi
in modo adeguato. Mi fu data una pesante coperta di alghe intrecciate per riprendermi dal gelo del mio
lungo viaggio. C'era del pane che sapeva solo lievemente di pesce, e un brodo dal gusto dolce che
diffuse un dolce tepore nelle mie ossa. Avevo un mio appartamento, una piccola alcova al di fuori della
caverna principale, ma vi trascorsi poco tempo oltre a quello per dormire. Rah'neem si profuse in scuse
per avermi preso di sorpresa al di sotto dell' Ahzir e per avermi portato nella città contro la mia
volontà. Venni a sapere che quell'azione era costata molto ad entrambi, perché i Por'ai sono incapaci di
imporre i propri desideri su qualcun altro.
Fu Cath'muur che suggerì di far sapere ai miei amici che stavo bene. Quando le dissi che sarei stato felice
di farlo, se fosse stato possibile, lei trovò rapidamente una soluzione. La sua trovata mi fece scoppiare a
ridere, perché esibì prontamente una giara vuota di terracotta che era stata lanciata fuori bordo dall'
Ahzir! In effetti, il contenitore emanava ancora l'odore di vino aspro.
Cath'muur mi diede un pezzo piuttosto friabile di alghe secche intrecciate, un inchiostro ricavato dalla
conchiglia di qualche creatura, e una radice flessibile per scrivere. Scarabocchiai un breve messaggio che
diceva:
«Non vi preoccupate, sono vivo e in buona salute. Sono tra amici. Aldair.»
La missiva fu sistemata nella giara, che fu sigillata e mandata in superficie in un punto dove fosse visibile
ai miei compagni. Più tardi, mi assicurarono che era stata recuperata. C'è molto da dire a proposito del
mio soggiorno presso i Por'ai. Raccontare tutto quello che appresi da quel popolo richiederebbero da
solo un ponderoso volume. Di conseguenza, ho fatto del mio meglio per riportare quelle parti delle
nostre conversazioni che furono di interesse e importanza maggiori.
Fui molto sorpreso nell'apprendere che mentre noi non sapevamo niente sui Por'ai, loro sapevano
molto si di noi. Una volta, quando ne chiesi spiegazione a Rah'neem, lui eluse abilmente la domanda.
«Per comprendere le abitudini dei Por'ai, devi prima sapere chi sono», spiegò. «Non siamo come le altre
razze, Aldair. Voi siete nati sulla terraferma e noi siamo nati nel mare, ma la differenza tra noi non è solo
questa. Devo dirti che noi siamo una razza antica, molto più antica di qualsiasi altra che vive sulla Terra,
perché noi fummo i primi del Nuovo Popolo.»
«Il... Nuovo Popolo?» Alle sue parole, un brivido mi ghiacciò la spina dorsale. Lo studiai attentamente,
cercando di capire qualcosa dai tratti del suo viso.
Lui sorrise, girandosi leggermente nell'acqua. «Andiamo, Aldair... sai molto bene che cosa sto dicendo.
Siamo entrambi del Nuovo Popolo, tu ed io, come lo sono stati gli esseri intelligenti che esistono al
mondo. I Por'ai, però, furono le prime creazioni dell'Uomo.»
Lasciai uscire l'aria che avevo trattenuto nei polmoni. «Allora tu sai!»
«Ti sorprende molto?»
In un certo modo, suppongo che non fossi affatto sorpreso ma in quel momento non riuscii a trovare
parole, perché la mia testa era piena di meraviglia. Li, allora, in quella grande città sottomarina, c'era
una razza che doveva conoscere sicuramente i segreti dell'Uomo! «Le prime creazioni dell'Uomo...» Mi
accorsi appena di parlare ad alta voce.
«Lo siamo veramente», disse lui, e la sua voce fu sfiorata da una nota di tristezza. «Non è una bella
storia, ma la devi ascoltare se vuoi capire i Por'ai e perché sono quello che sono.»
Allora, Rah'neem cominciò la lunga storia dei Por'ai e dei loro rapporti con l'Uomo. Disse che l'Uomo
avevano avuto un amore particolare per i delfini fin da quando aveva cominciato a solcare i mari. Anche
allora, in tempi remoti, egli credeva che il delfino avesse delle capacità intellettive di gran lunga maggiori
di quelle degli animali che lo circondavano. In seguito, quando le sue conoscenze si ampliarono, trovò il
modo di comprendere i suoni dei delfini, e fece comprendere loro il proprio linguaggio. Era una forma
rozza di comunicazione, ma era un inizio.
«Ancora più tardi», spiegò Rah'neem, «quando l'Uomo acquisì la capacità di cambiare le forme di vita, il
delfino fu la prima creatura che egli mutò. In realtà, fu proprio il suo interesse nei confronti dei nostri
antenati che fece nascere in lui il desiderio di dare un'intelligenza reale a tutti gli animali della Terra.»
«Ma perché!», lo interruppi, preso da un'ira improvvisa nel sentire quelle parole. «Come ha potuto
fare una cosa del genere, Rah'neem! Non posso dire di essere dispiaciuto di essere ciò che sono...
eppure, fin da quando ho appreso di essere una cosa... una cosa artificiale, ho cercato di immaginare
quale tipo di essere può osare crearne un altro. L'Uomo non aveva alcun diritto di prendere la vita
nelle mani e di giocarci come con un giocattolo. Non toccava a lui mutarne le forme!»
Per qualche ragione, sia Rah'neem che Cath'muur sembrarono visibilmente scossi dalle mie parole. Si
guardarono l'un l'altro per un lungo momento, senza dir nulla. Infine, fu Cath'muur a parlare.
«Non capisci l'Uomo come lo capiscono i Por'ai», disse. «Non era né un dio né un demone, Aldair, ma un
po' di tutti e due. Come le sue creazioni, egli era capace delle azioni più nobili... o degli atti più infimi di
degradazione.»
«Gli Uomini che diedero la vera intelligenza al nostro popolo erano buoni», disse Rah'neem. «Avevano
un sogno, e sia che avessero ragione sia che avessero torto, era un sogno grande e spaventoso: dare le
capacità
intellettive ad ogni animale della Terra. Far loro il più prezioso dei doni!»
«Come la metti tu», dissi cupamente, «sembra una nobile azione, senza alcun dubbio. Ma io non riesco
a vedere l'Uomo come un grande benefattore, Rah'neem.»
Il Por'ai scosse il capo. «Quello che accadde non era previsto che accadesse. Il potere di mutare la vita fu
sottratto agli Uomini che l'avrebbero usato con saggezza, Aldair. Dopo che furono creati i Por'ai, non fu
usato mai più per dare dei compagni all'Uomo. Invece, coloro che avevano rubato quel dono crearono
dei servi, dei giocattoli... e dei mostri. Fu allora che i Por'ai si allontanarono dall'Uomo, e fuggirono nelle
profondità del mare. E facemmo bene, perché gli Uomini che avevano preso il potere cominciarono ad
odiare e temere i Por'ai. Eravamo l'unica razza sulla Terra che aveva la loro stessa intelligenza, e perciò
decisero che dovevamo morire. Per secoli ci hanno dato la caccia, e ci hanno sterminati a milioni.
Usarono armi grandi e terribili contro di noi. Avvelenarono i mari e crearono dei mostri-cacciatori per
scovare e distruggere le nostre città. Se non fossimo stati abituati alle profondità e non ne avessimo
conosciuto i segreti, non saremmo sopravvissuti alla loro ira.»
«Noi sapevamo che cosa stava facendo l'Uomo», disse Cath'muur, «e quella conoscenza apportò
tristezza ai Por'ai. Perché noi soli di tutte le creature sapevamo che cosa avrebbe potuto essere e quanto
era caduto in basso. Eppure, non potevamo fare molto altro oltre che salvare noi stessi. L'Uomo aveva
assaggiato il vino degli Dei: era più di un Uomo ormai, e qualcosa in meno.»
Rah'neem riprese il suo racconto. «Infine, negli ultimi giorni della sua follia, egli commise il più grande di
tutti i peccati. Non era più capace del nobile atto della creazione, Aldair. Alla fine, non poteva fare altro
che deridere la sua triste follia. Questo, in sintesi, è ciò che fece. Creò parodie di se stesso, e diede loro
la vita...»
«...e li legò alle catene della sua dannata storia!», finii io, cercando, per quanto potessi, di celare la
rabbia. «E per tutto questo tempo il tuo popolo sapeva, Rah'neem. Fin dall'inizio!»
Rah'neem alzò una mano. «Sì, sapevamo, Aldair. Conoscevamo la menzogna in cui vivevate dal
momento della vostra creazione. E, prima che tu ponga la domanda che sono sicuro hai in mente,
chiediti questo tu stesso: che cosa avrebbero potuto fare veramente i Por'ai? Per molte migliaia d'anni
voi siete stati poco più che selvaggi, come ogni razza ai suoi primordi. Vivevate le vostre vite all'ombra
della paura e della superstizione, così come aveva voluto l'Uomo.»
«È passato molto tempo da quando ci accalcavamo nelle caverne e lanciavamo le pietre l'uno contro
l'altro!»
«È vero», disse lui, con una calma che era molto più che irritante. «Ma ora che le vostre razze sono
cresciute, ora che i popoli del mondo sono più... illuminati, come procede la vostra ricerca, amico mio?
Quanto più
saggi sono diventati i popoli di tutte le terre?» I suoi neri occhi intelligenti fissarono con sicurezza i miei.
«Solo un gruppetto di esseri vi chiama fratelli e compagni, Aldair. Sai tu stesso che il resto del mondo
chiamerebbe follia il vostro segreto... sempre se si curasse di ascoltarlo!»
Più tardi, quando mi fermai a riflettere su questa conversazione, fui costretto ad ammettere che aveva
ragione, naturalmente... ma questo non raffreddò molto la rabbia ed il risentimento che mi bruciavano
dentro. Forse avevo torto a biasimare i Por'ai. Conoscevo io stesso il pericolo di portare la «verità» al
mondo: i Buoni Padri di Rhemia me l'avevano insegnato. A Silium, avevo visto abbastanza chiaramente
che la verità significava spesso la testa infilzata in un palo sui cancelli della città. In seguito, nella lontana
Niciea, i Sacerdoti di Chaarduz mi avevano fornito altre notizie sull'argomento: per seppellire una verità
che essi desideravano sopprimere, quelle degne persone semplicemente bruciarono un Impero.
Eppure, il dolore e la rabbia influivano sulla mia ragione, ed io non riuscivo a dimenticare che gli antenati
dei Por'ai erano stati lì fin dall'inizio. Senza dubbio, come diceva insistentemente Rah'neem, erano
incapaci di impedire il tradimento dell'Uomo, visto che erano alquanto impegnati a salvare se stessi. Lo
capivo. Ci credevo anche. Ma non riuscivo ad accettarlo. Non si può sopportare l'ignoranza, senza
risentirsi con coloro che invece sanno. I miei due amici Por'ai erano coscienti dei miei sentimenti e,
come venni a sapere, avevano una risposta immediata ai momenti di conflitto e di grande emozione.
Giravano la grande pinna e nuotavano via. Talvolta parlavamo anche di altri soggetti oltre la perfidia
dell'Uomo, ed io ebbi occasione di apprendere qualcosa sui Por'ai e sui loro costumi. Rah'neem e
Cath'muur mi insegnarono ad emettere i fischi per chiamare le creature luminose ogni qualvolta l'avessi
desiderato. Ben presto, con mia grande gioia, riuscii a farli muovere in qualsiasi modo volevo, e passai
molte ore a disegnare grappoli luminosi di luci in uno spiegamento abbagliante di colori. Appresi che
c'erano molte caverne come la mia intorno alla città, e che l'aria, che vi era al loro interno, era fornita
costantemente da alghe che crescevano al di sotto. Poiché i Por'ai sono mammiferi più che pesci,
devono respirare aria proprio come le creature che vivono in superficie. Con quel sistema meraviglioso
di camere d'aria, come le chiamano loro, non hanno alcun bisogno di tornare continuamente in
superficie.
«Eppure, nessuno resta sott'acqua molto a lungo», spiegò Cath'muur. «I Por'ai amano il sole quanto le
profondità. Siamo creature di due mondi, e non possiamo essere felici senza vivere in entrambi.»
Le parole di Cath'muur portarono alla luce un fatto interessante a proposito dei Por'ai. Essere felici,
appresi, era evidentemente l'occupazione principale di quel popolo. Visto che non si governavano l'un
l'altro, non avevano bisogno di impiegati e di amministratori. Non facevano guerre tra loro, perciò non
c'erano grandi eserciti. Contadini e commercianti erano superflui, dal momento che ogni cosa di cui si
aveva bisogno o nuotava lì
intorno o era ferma sul fondo dell'oceano.
Né Cath'muur né Rah'neem mi fornirono queste notizie. Per la maggior parte, intuii da solo la verità sui
Por'ai. Devo confessare, che un mucchio di cose non le appresi fino all'ultimo momento della mia
visita, ma spesso apprendiamo molto più da quello che non viene detto in nostra presenza. Per
esempio, quando chiesi a Rah'neem delle occupazioni dei Por'ai, o dissi che mi sarebbe piaciuto vedere
di più della città e di coloro che l'abitavano, lui cambiò velocemente argomento. Questo era piuttosto
irritante, ma anche illuminante. Che cosa, mi chiesi, ha da nascondere un popolo così simpatico e
tranquillo? Perché vengo tenuto in disparte dal resto della città? Ero un ospite molto viziato e non avrei
potuto chiedere un trattamento migliore. Ma in verità, avevo la stessa libertà di una cimice sotto un
vaso.
Quando diventavo particolarmente curioso a proposito di argomenti proibiti, allora i Por'ai
invariabilmente cambiavano soggetto di conversazione. Erano molto interessati alle storie della
terraferma; com'era, e che cosa vi faceva la gente. Nonostante ci avessero osservati per molti secoli,
erano molte le cose che non sapevano. Il che era del tutto comprensibile, visto che deve essere
difficilissimo studiare molte civiltà solo al largo delle spiagge.
Rah'neem era ansioso in modo particolare di sentire della mia ricerca dei segreti dell'Uomo, ed io ero
più che felice di rendergli questo favore. Anche se avevo appreso gran parte del passato di Albion, e di
altre zone del mondo, molte cose potevo solo intuirle.
Grazie a Rah'neem e alla sua conoscenza del sapere dei Por'ai, fui in grado di colmare molte lacune di
quella storia. Appresi che le razze dell'Uomo si erano combattute l'un l'altra, usando creature artificiali e
uomini di ferro per sostenere le loro battaglie. Appresi che l'ultima e più terribile guerra aveva quasi
distrutto tutta la Terra e l'aveva lasciata spoglia.
«Infine», disse Rah'neem, riprendendo il suo racconto, «restò solo un gruppetto di Uomini, sparsi sulla
superficie martoriata della Terra. Erano sopravvissute solo le Fortezze più robuste e più remote e ce
n'erano in tutto trentatré.» Il Por'ai si fermò, scuotendo il capo. «Se hai intuito quale fosse la natura
dell'Uomo, non sarai sorpreso nel sapere che i sopravvissuti di quella guerra non erano soddisfatti della
loro opera. Chi poteva dichiararsi il vincitore, se c'erano ancora trentadue fortezze a sfidare il suo
potere? La loro follia era tale che nessuno di essi poteva tollerare l'esistenza degli altri.
«L'ultima guerra dell'Uomo durò trentatré anni, almeno così dice la leggenda, benché sospetti che ci sia
qualche ragione remota e ignota per far combaciare i due numeri. Ad ogni modo, quando fu finita, sulla
faccia della Terra restava solo una Fortezza.»
«Ed era l'Isola di Albion», dissi.
Rah'neem annuì. «Albion, naturalmente.»
«E poiché non c'erano altri membri della sua razza da corrompere, egli creò il Nuovo Popolo, e fece in
modo che rivivesse daccapo la sua dannata storia!»
«E così», disse Rah'neem. «La tua razza, e le altre, furono i suoi successi, Aldair. E tu hai visto alcuni dei
suoi fallimenti: gli Uomini-bestia a Merkkia, la cosa che vi ha attaccati al largo del Grande Fiume...»
«Che cosa!», saltai su nel sentire questa affermazione, perché il Por'ai aveva sempre ignorato le mie
domande sull'argomento. « Quella cosa era una creatura dell'Uomo?»
«Lo era», disse Rah'neem. «I Por'ai la chiamavano il Briah'nn-Ruus: il divoratore di tutte le cose. Un
tempo, il luogo dove viveva quel mostro era il terreno di scarico di tutti gli esperimenti sbagliati
dell'Uomo. Le cose che egli vi aveva lasciate sarebbero dovute morire, invece vissero. Si unirono,
crebbero, e divennero una sola creatura grande e terribile. Non aveva né mente, né volontà, solo fame.»
«Ed è veramente scomparsa ora?»
«Sì.»
«E l'oggetto volante», dissi in fretta, «quel naviglio che è venuto a salvarci.»
Rah'neem parve sorpreso, come se in quel momento avesse dimenticato quel secondo strano fenomeno
che era collegato al primo. Era un soggetto che aveva accuratamente evitato più di una volta.
«Già me lo hai chiesto prima», disse freddamente. «Ti ripeto che non ne so niente, Aldair.»
Cercai il suo sguardo e lo trattenni. «Penso che tu forse ne sai qualcosa, Rah'neem.» Mi fissò,
chiaramente meravigliato, perché non lo avevo mai sfidato prima di allora. Per un secondo pensai che
mi avrebbe aggredito. Poi, il suo retaggio Por'ai prevalse, e con un grande spruzzo d'acqua scomparve al
di sotto della mia vasca. Devo ammetterlo, quel popolo ha escogitato dei sistemi molto efficaci di
concludere una conversazione. Ora arrivo alla fine della mia storia con i Por'ai. Come ho accennato
all'inizio, non ho cercato di riportare parola per parola quelle conversazioni, né di narrarle nell'ordine in
cui avvennero. In molti casi, ho messo insieme due o più incontri per motivi di convenienza.
La nostra ultima conversazione fa eccezione alla regola, ed io ho tentato di riferirla esattamente come
avvenne. C'è una buona ragione per farlo: le parole che ci scambiammo in quella occasione ebbero un
influsso profondo sul mio futuro, e sul futuro dei miei compagni. In realtà, alla luce di ciò
che accadde in seguito, sarebbe più esatto dire che non ci fu anima viva che non subì l'influenza di quel
momento.
Poiché non avevo alcun modo di misurare le ore, è difficile dire quanto dormii prima di udire Rah'neem
chiamarmi. In verità, mi sembrò che mi avesse lasciato solo un momento prima. Lo trovai, come sempre,
a fare piccoli giri al centro della mia vasca. Cath'muur non era con lui.
«Spero di non aver disturbato il tuo riposo», disse. «È importante che noi parliamo di nuovo, Aldair.»
«Sei il benvenuto, come sempre», gli dissi, servendomi delle poche parole che avevo appreso nella
lingua impossibile dei Por'ai. Di solito, questo sembrava far piacere a Rah'neem. Ora, però, era esitante,
distratto, non particolarmente ansioso di incontrare il mio sguardo.
«Devo dirti», disse d'improvviso, «che è arrivato il momento che tu lasci i Por'ai.»
Penso che me l'aspettassi. «Rah'neem», dissi con prudenza, «è sempre bello ricongiungersi ai vecchi
amici, ma è triste separarsi dai nuovi.»
Rah'neem annuì distrattamente, dando appena ascolto alle mie parole.
«Non siamo stati sempre sinceri con te, Aldair. Penso che tu lo sappia. Ci sono delle domande cui non
abbiamo risposto. Argomenti di cui abbiamo rifiutato di parlare. Ci sono delle ragioni che spiegano
questo comportamento. Vorrei che tu lo capissi.»
«Non ho mai desiderato di immischiarmi in cose che non mi riguardano», gli dissi. «Ho fatto delle
domande perché sono interessato ai Por'ai, e perché essi posseggono conoscenze di grande
importanza.»
Rah'neem annuì con impazienza. «Lo sappiamo, Aldair. Come ho già
detto, ci sono delle buone ragioni. Non è facile per i Por'ai mentire, a noi stessi o a chiunque altro. È una
cosa molto dolorosa per il nostro popolo.»
«Ho capito che ci sono molte cose che sono dolorose per i Por'ai», dissi.
«Forse la verità fa meno male di una bugia, ma penso che sia molto più di questo. Per voi non è facile
parlare con me, in assoluto, è vero, Rah'neem?»
Alzò lo sguardo, sorpreso. «Hai intuito molto più di quanto immaginassimo», disse cupamente. «Se le
cose stanno così, allora mi sarà più facile dirti quello che ho da dire». Infine, mi guardò negli occhi. «Hai
chiesto più
di una volta perché ti abbiamo portato qui, Aldair. Senza dubbio, ti sei chiesto perché i Por'ai hanno
scelto questo momento per rivelarsi al mondo, quando abbiamo nascosto la nostra presenza per tanti
anni ai popoli della terraferma. La risposta è semplice. Abbiamo dovuto rendere nota la nostra
presenza. Non ci hai lasciato altra scelta.»
« Che cosa vuoi intendere?» chiesi, perché le sue parole mi resero molto perplesso. «Rah'neem...»
«Aspetta, Aldair. Ascolta, e capirai. Ti ho detto una volta che non siamo uguali alle altre razze, che ci
sono delle differenze tra noi. Hai intuito una parte di quelle differenze, ma non puoi immaginare le altre.
Avevi ragione quando hai detto che per noi è doloroso parlare con te. Noi siamo felici di vivere, e
siamo felici che anche le altre creature vivano. Ma noi non pos-siamo tollerare la vostra presenza! »
«Ma, perché mai, Rah'neem? Siamo veramente tanto diversi? Mi pare che abbiamo molte cose in
comune...»
Rah'neem rise mestamente. «Ancora non capisci, è vero? Perché pensi che scappiamo quando tu mostri
rabbia, Aldair? E non ti sei chiesto perché
hai incontrato solo due Por'ai, e sei stato separato dai milioni di Por'ai che vivono nella nostra città?»
«So che sei... sensibile alla rabbia», dissi «e in verità pensavo che ci fosse qualcosa di strano nel fatto di
tenermi qui da solo...»
«Tu sei stato lasciato da solo», disse scandendo le parole, «perché non arrecassi danno agli altri.»
«Danno? Quale danno, Rah'neem!»
«Il danno che arrechi con la tua sola esistenza. Con il pensare, il sentire e il vivere. Perché questa è la
nostra forza e insieme la nostra debolezza, Aldair. È il vero motivo per cui l'Uomo fece tanti sforzi per
distruggerci. Non è un senso che ci diede lui, ma c'è e c'è sempre stato.» I suoi occhi scuri guardarono
nei miei. «Noi condividiamo i pensieri degli altri, Aldair. Non tutti, ma quelli forti a sufficienza da
toccarci. Rabbia, odio, paura... e amore, naturalmente. È un dono strano e terribile. Arreca dolore... e
gioia. Tu stesso hai provato questa gioia quando abbiamo lenito le tue paure durante il viaggio per
venire qui.»
«Voi...» credevo appena a quello che mi stava dicendo. Eppure, non c'era nessun'altra risposta possibile
alle esperienze che avevo vissuto tra i Por'ai. Tu sai che cosa sto pensando? È vero, Rah'neem? Non
pronunciai le parole ad alta voce. Ad un tratto la sua risposta mi arrivò chiaramente, come se stesse
parlando. È vero, Aldair. Non ci sono altri legami tra noi. »
Uscii quasi di senno. È una cosa molto particolare sentire le parole nella propria testa!
Rah'neem sorrise. «Capisci? Non avevi intuito tutto.»
«No», ammisi, «Non avevo intuito tutto. È una cosa che non avrei mai immaginato. Risponde a molte...»
«... Ma non a tutte», terminò lui.
«No. Certamente non a tutte. Non mi spiega perché sono stato portato qui. Devi ancora rispondere a
questo quesito.»
Rah'neem annuì. «Non è semplice farlo, Aldair. I pensieri degli altri sono molto più dolorosi di quanto
riesci ad immaginare. Ti abbiamo osservato, e abbiamo seguito la tua nave per qualche tempo, lo sai. Ci
siamo incuriositi soprattutto quando abbiamo appreso che cosa eravate in procinto di fare. Ma non
potevamo avvicinarci... non potevamo nemmeno avvertirvi della presenza del Briah'nn-Ruus, anche
quando abbiamo saputo che vi inseguiva.»
«Ma avevate bisogno di avvertirci, Rah'neem?» Il pensiero mi apparve improvvisamente nella testa.
Non saprei dire se era suo oppure mio. «Penso che voi sapevate che qualcosa ci avrebbe salvati dal
disastro... che non saremmo stati ingoiati dal mostro marino. Penso che i Por'ai fanno molto di più che
leggere i pensieri degli altri: sanno anche ciò che deve ancora accadere!»
Rah'neem mi studiò per un attimo. «Sì. Lo sapevamo, o pensavamo di saperlo. Il futuro è molto simile ad
un sogno, Aldair, e i sogni non sempre riflettono la verità. Gli stessi Por'ai non lo capiscono in pieno, e
preferirei non parlarne più.»
«Voi sapete qualcosa a proposito di quel naviglio», insistei, «quello che portava su una fiancata il ritratto
dell' Ahzir!»
«Aldair», disse con calma, «metti da parte tutti i pensieri a proposito del naviglio misterioso per il
momento, e ascolta che cosa ho da dirti. È molto importante che tu capisca perché i Por'ai abbiano
rischiato tanto per portarti qui.»
«Mi hai già detto che ero io la ragione, sebbene non capisco come ciò
possa essere.»
«Può essere», disse bruscamente, «perché abbiamo letto nei tuoi pensieri quando eri a bordo dell'
Ahzir e abbiamo appreso che cosa eri in procinto di fare: eri deciso a rinunciare a tutto, ad
abbandonare la ricerca che altri avevano incominciato prima di te. Solo questo ha potuto costringerci a
mo-strarci al mondo!»
Lo guardai, la rabbia stava velocemente sopraffacendo la sorpresa e l'incredulità. « Anche tu?»,
esplosi. «Per la Vista del Creatore, un altro dannatissimo profeta che vuole portarmi al nulla!»
Si allontanò dalla mia ira, ma restò. «Non devi fermarti ora, Aldair, aqualsiasi costo. »
«Beh», dissi, assaporando l'amarezza delle mie parole, «allora posso perdere un'altra nave carica di
amici?»
«Ti dirò quello che i Por'ai hanno saputo mille anni prima che la tua razza nascesse: Albion non era
l'unica fortezza che sopravvisse all'ultima guerra dell'Uomo. Ce n'era un'altra, la trentaquattresìma, e gli
Uomini che la costruirono la chiamarono la Fortezza di Amazzone. È ancora li, Aldair, e trovarla vale
tutto quello che possiedi...»
VENTIQUATTRO
Navigare il grande Amazzone non è la stessa cosa che navigare un fiume normale. In realtà, è così vasto
e spaventoso che ci si immagina di essere alla deriva su un mare ampio e fangoso. La nostra antica carta
geografica indicava che alla fine si restringeva, ma in quel momento sembrava difficile crederlo. L' Ahzir
navigò per molte leghe prima che le rive divenissero più di una macchia confusa e scura.
Un fiume di dimensioni simili presenta i suoi pericoli particolari. Spesso alberi grandi quanto la stessa
nave scendevano alla deriva verso di noi: alcuni erano così enormi che i loro rami frastagliati
sovrastavano l'albero maestro. Non c'è bisogno di dire che questi incontri confortavano poco Signar-
Haldring. Ostacoli del genere di giorno potevano essere evitati, ma di notte era un'altra cosa. Non
avevamo intenzione di ancorarci a riva; d'altra parte, non potevamo correre il rischio di essere
schiacciati, dopo l'imbrunire, da qualche pezzo gigantesco di immondizia. Risolvemmo questo dilemma
girando la cosa a nostro favore. Gli alberi che scendevano lungo la corrente, spesso si intricavano gli unì
con gli altri, finché il peso di tutto il groviglio non li ancorava saldamente al fondo. Terreno, rami e altri
detriti, vi si raccoglievano e infine formavano grandi isole al centro del fiume. Piante e piccoli alberi vi
crescevano rapidamente, e creature di ogni genere vi si installavano. Non avrei messo un piede su quei
mondi verminosi per tutto l'oro di Rhemia, ma essi costituivano un porto eccellente per la notte.
Nel quinto giorno di viaggio nel fiume, ci ancorammo ad un'isola particolarmente fetida, che sono certo
desse riparo ad ogni insetto e ad ogni verme dell'Amazzone. Quando calammo l'ancora, grandi nubi di
insetti ci assalirono. Piccole creature invisibili svolazzarono tutt'intorno e si immersero con un tonfo
nell'acqua. Corysia, che era accanto a me, fremette quando un serpente dal ventre bianco, spesso come
il mio polso, scivolò
tra il fogliame.
«Mi domando se la mamma di questo bimbo, sa che il figlio è uscito», dissi oziosamente.
Corysia fece una smorfia. «Se quel bimbo ha una mamma, non ho nessuna intenzione di vederla. Hai
mai immaginato un posto così denso di vi-ta, Aldair? Dovunque si guarda, qualcosa si muove,
qualcosa striscia.»
«Penso che giungla brulicante sia il termine che stavi cercando.»
«Avevo qualcosa di peggiore in mente», disse lei, «ma questo va bene lo stesso. Quando la notte scorsa
ci siamo fermati, sono stata un po' qui da sola. Tu eri con Signar e Thareesh da qualche parte. Ho
osservato una sola pianta per molto tempo, solo che credevo fosse un serpente o qualcosa del genere
perché si muoveva di continuo. Infine, ho capito che era una pianta. La stavo guardando crescere,
Aldair. Non riuscivo a crederci, ma era proprio così.»
«È un posto meraviglioso per una crociera», dissi. «Caldo, insetti, acqua sporca: l'Amazzone ha tutto.»
«Ha quello che stiamo cercando», disse lei. Non credo che intendesse dare alle sue parole quel tono.
Non c'era rabbia o rimprovero nella sua voce, ma c'era qualcosa. Quando mi girai a guardarla, capii di
avere ragione, perché lei distolse rapidamente lo sguardo.
«Andiamo, Corysia. Di' che cos'hai in mente. Non abbiamo bisogno di nasconderci nulla.»
Per un lungo momento non disse niente. Poi: «Io... penso di essere più
interessata a quello che hai in mente tu, Aldair. Ti conosco molto bene, amore, e so che non sei
soddisfatto di tutto questo.»
«Di che cosa?»
«Di questa avventura, naturalmente. Sai molto bene di che cosa sto parlando. Tu ti sei impegnato, ma il
tuo cuore non è in quest'impresa. Lo so, come lo sanno tutti gli altri.»
«Non ho fatto segreto dei miei sentimenti», le ricordai.
«No, questo non lo hai fatto.»
Alzai gli occhi su di lei, alquanto sorpreso. Se prima non c'era stata rab-bia, ora c'era chiaramente.
«Come credi che dovrei sentirmi, Corysia? Ho cambiato la mia decisione, non la mia idea. Continuo a
non essere entusiasta di portare i miei amici alla morte.»
Scosse il capo con forza. «Se tu veramente ci credessi, Aldair, non avresti mai cambiato opinione!»
«Io non ho cambiato opinione, ricordi? Ho cambiato solo la mia decisione. Non è la stessa cosa.»
«Sei convinto che stiamo navigando verso un altro disastro.»
Risi, assaporando l'amarezza delle mie parole. «Non convinto, Corysia. E tu hai ragione, se fossi
convinto di una cosa del genere, noi non saremmo qui! Ma pure, che specie di pazzo sarei se non
ricordassi che cosa è accaduto prima? Non c'è bisogno di elencare di nuovo tutte quelle follie, è
vero? Lo farò, se vuoi, anche se penso che le conosci bene.»
Distolse lo sguardo per un lungo momento e fissò l'acqua scura. «Hai detto che credevi ai Por'ai.»
«Ci credevo, e ci credo. Se non lo facessi, non staremmo risalendo l'Amazzone. Non sotto il mio
comando, questo è certo. I Por'ai sono incapaci di mentire, Corysia. Ne sono certo.»
«Allora credi che ci sia la trentaquattresima Fortezza da qualche parte, davanti a noi.»
« Loro ci credono. I Por'ai. E non mi sorprenderebbe scoprire che hanno ragione.» Le strinsi le spalle
con tanta forza che lei sussultò sotto il mio tocco. «Corysia, guardami, per favore. Non basta che
abbia fatto quello che ho fatto? Devo anche fingere? Non vedo questo quanto potrebbe essere utile a
qualcuno di noi!»
Lei pose le sue mani sulle mie e con freddezza le tolse dalle spalle.
«Allora non conosci i tuoi compagni come dovresti», disse in tono severo,
«e nemmeno la donna che ami, a quanto pare. Ogni persona a bordo dell' Ahzir guarda te per
prendere coraggio. Non lo sai questo, Aldair? Non basta che tu abbia cambiato la tua decisione. Se tu
non credi, allora loro non crederanno. Forse domani, o dopodomani, dovranno affrontare qualche
pericolo. Lo affronteranno bene, come sai, ma non se tu sei lontano da loro, Aldair. Fallo, e ti sporcherai
le mani del loro sangue!»
In verità, non potevo negare la saggezza delle sue parole. Alla luce di quello che stava per accadere,
avrei fatto bene a fingere una fiducia che non sentivo e a tenere la maggior parte dei miei sentimenti
per me... su questo e su altri argomenti. Anche se non sono certo che in fin dei conti avrebbe fatto molta
differenza...
Oltre gli alberi alla deriva, sembravano esserci pochi pericoli nella navigazione di un grande fiume. La
parte più rischiosa del viaggio era ormai alle nostre spalle, almeno per quanto riguardava l' Ahzir. I
Por'ai ci avevano pilotati oltre l'ampio delta con le sue correnti infide e i banchi di sabbia, e avevano
promesso di incontrarci in quel punto sulla via del ritorno. Ma Signar-Haldring piantò numerose aste e
bandierine per segnalare la rotta, e l'annotò attentamente sulle sue mappe personali.
«In caso ci possa tornare utile», brontolò in tono significativo, ed io sapevo molto bene che cosa aveva
in mente. Più di una volta il Vikoniano aveva sottolineato che, anche se i Por'ai erano il popolo più
gentile che si poteva immaginare, ci avevano lasciati al delta, rendendo chiaro come il giorno il fatto
che non volevano andare oltre. Gli spiegai di nuovo che erano un popolo molto insolito, ed
estremamente timoroso delle altre razze: informazioni che non lo dissuasero. Solo i fatti riescono a far
cambiare idea ad un Vikoniano che abbia preso le sue decisioni. Da questo punto di vista, sono
insopportabili quasi quanto gli Stygiani.
«Non sto chiedendo loro di dormire in cuccetta con me», disse cupamente, «ma non fa male a nessuno
nuotare un po' controcorrente e andare in perlustrazione, o non è così?»
Non avevo nessuna risposta da dargli oltre i fatti che avevamo sotto gli occhi. E, benché non dissi niente
a Signar, anche a me era venuto in mente che un accordo del genere con i Por'ai sarebbe stato
desiderabile. Nessuno di noi aveva dimenticato il disastro di Merkkia.
Non intendo dare l'impressione che non ci fosse alcun pericolo nel nostro viaggio. Il pericolo ci
circondava, se solo ci si guardava intorno. La giungla, che copriva entrambe le rive, era animata da ogni
genere di animali e serpenti, e lo stesso fiume era letale. Quanto fosse letale non lo capimmo finché non
scoprimmo per caso che cosa si nascondeva sotto la superficie delle acque. Rhalgorn, che disprezzava il
gusto del pesce, provava però una gioia quasi infantile nel catturarli. Durante il nono giorno di
navigazione del fiume, decise di tentare la fortuna, giurando su tutti gli Dei che vedeva pesci enormi in
quelle acque fangose. Da qualche parte nella sua riserva di cibi prese una mezza lepre così rancida che
nemmeno uno Stygiano l'avrebbe mangiata. Infilò un mucchio di ami in quell'esemplare, e lanciò la lenza
fuori bordo. In meno di tre secondi, l'acqua era piena di creature fameliche che si contendevano la sua
esca. Prima che potesse tirarla a bordo, la povera lepre era ridotta ad un mucchio di ossa, pulite e
bianche. Rhalgorn guardò per un attimo il mare, poi lasciò cadere esca, canna e lenza fuori bordo e si
precipitò sotto coperta.
Più tardi, acchiappammo parecchie di quelle creature con una rete e avemmo la possibilità di osservarle
da vicino. Sono simili agli squali, e i loro denti sono affilati quanto una buona lama nicieana.
«Spero che non ci siano più problemi con il timone», dissi a Signar.
«Non sono particolarmente ansioso di fare una nuotata, e non mi aspetto che Barthius o Stumbacius
vadano al mio posto.»
Signar finse di prestarmi ascolto, ma il ghigno che aveva sul muso mi fece capire che la sua mente era
occupata da altri pensieri. Appresi di che cosa si trattava qualche giorno più tardi, come lo stesso
Rhalgorn, che trovò uno di quei piccoli mostri nella sua cuccetta. A giudicare dal suo ululato, apparve
chiaro che ci sono delle cose ben spaventose con cui dormire, anche quando sono morte.
C'è poco altro da dire sul nostro viaggio lungo il fiume. Ogni giorno era uguale agli altri. C'erano
pericoli nascosti e disagi molto visibili. Insetti. Caldo. Pioggia. Dolori e febbri. Infine, all'alba del
quindicesimo giorno di navigazione, ci imbattemmo nella Fortezza di Amazzone. La cosa non fu affatto
drammatica. Semplicemente girammo un'ansa del fiume e la vedemmo, o almeno ne vedemmo l'inizio.
A livello della riva c'era un grande muro, costruito in pietra dell'Uomo, alto due volte l'albero della
nostra nave. Era incrinato e coperto di vegetazione, ma intatto. Quando ci accostammo, vedemmo che
si allungava per quasi mezza lega lungo il fiume.
«Non sembra molto facile entrarvi», borbottò Signar.
«Ci sarà un modo», gli dissi.
«E come immagini di fare?»
Prima che potessi rispondere, Rhalgorn indicò con un dito il muro. «Aldair ha ragione», disse
cupamente, «se voi poveracci aveste solo la metà
della vista di uno Stygiano, vedreste il guardiano in persona, pronto ad accoglierci!»
Guardai, ma non vidi niente. Signar gettò un'occhiata a Rhalgorn, poi afferrò il cannocchiale e lo diresse
verso il muro. Immediatamente, le piume che aveva sul dorso si rizzarono per la rabbia.
«Per la Vista del Creatore, non credo a quello che vedo, ma è li, sicuro come la morte. È un Uomo,
Aldair, coperto da un'armatura luccicante, e robusto a tuo piacimento!»
VENTICINQUE
Ebbi solo qualche secondo per osservare quella bizzarra creatura. Stava immobile sull'alto bastione
merlato, mentre il sole inargentava la sua armatura. Il suo elmo era saldamente fissato, e non potei
scorgere i suoi tratti. Ma avvertivo chiaramente il suo sguardo freddo e tagliente su di me. Ci studiò per
un altro lungo momento, poi se ne andò, un frammento di luce contro il cielo del mattino.
Signar non perse tempo ad invertire bruscamente la rotta e allontanare la nave dall'ombra del muro...
Potevamo essere ancora in pericolo, ma era confortante guardare quella spaventosa distesa di pietra da
una certa distanza. Un rapido sguardo mi disse che ogni guerriero era al suo posto di combattimento,
con arma e scudo in mano. Non si parlavano, non distoglievano lo sguardo dalla riva, e sono certo che
ogni essere a bordo aveva un unico pensiero in quel momento: È l'Uomo! L'uomo è qui...!
Eravamo preparati a trovare la sua Fortezza, perché avevamo camminato nella polvere dei suoi stivali
più di una volta. Ma incontrare il grande nemico sulla cima delle sue mura possenti, con l'atteggiamento
di un Signore... Sentii che il Vikoniano si muoveva silenziosamente accanto a me: Thareesh lo seguiva.
Entrambi, notai, stringevano l'elsa delle loro spade, sebbene sia certo che non ne fossero coscienti.
«Beh, che cosa facciamo ora», chiese Signar, «stiamo qui a guardare il muro?»
«La mossa tocca a lui», dissi, «aspetteremo che cosa fa.»
Il Vikoniano fece un rumore. «Conoscendo che popolo gentile sono, posso intuire che cosa farà!»
«Anche a me è venuta quest'idea in mente», sibilò Thareesh.
«E anche a me», dissi loro. «Se è veramente l'Uomo, e non riesco ad immaginare chi altri possa essere in
questo posto, è inutile andare via ora. Se è rimasta intatta solo una delle sue antiche armi...»
«Ah, ecco», indicò Thareesh. Seguendo il suo sguardo, individuammo un'ombra incrinare quel grande
muro, solo ad un metro al di sopra del fiume. L'ombra divenne una porta, poi improvvisamente si riempì
di luce.
«Creatore santo», mormorò Signar.
La bocca mi si seccò a quella vista, sebbene avessi già visto le luci dell'Uomo al di sotto di Albion. Non
tremano e non diminuiscono di intensità, ma splendono con una luce fredda e ferma, simili a piccoli soli
prigionieri. È qualcosa di spaventoso da vedere, e ci vuole un po' di tempo per abituarvisi.
«C'è di nuovo il nostro amico», disse Thareesh.
In realtà, c'era la stessa creatura, oppure qualcuno molto somigliante. Entrò nell'alone di luce e si
avvicinò alla soglia della porta. Poi, lanciò uno sguardo nella nostra direzione, alzò una mano, e ci fece
chiaramente un cenno di invito.
Accanto a me, Thareesh trattenne il fiato.
«Che io sia dannato», borbottò Signar, «ci ha presi per pazzi?»
«Ci ha giudicati abbastanza bene», dissi io.
Il Vikoniano cominciò a protestare, ma Thareesh lo interruppe. «Che cos'altro vorresti che facessimo:
virare e tornare indietro?»
«Userei l'intelligenza che mi ha dato il Creatore, per prima cosa! Ci deve essere una soluzione migliore
oltre quella di andare dritti dove vuole lui.»
«E quale sarebbe quest'altra soluzione?»
Signar si morse il labbro e lanciò un'occhiataccia al Nicieano. «Ci sto pensando. Qualsiasi essa sia, non è
certamente questa. » Mi guardò per trovare un appoggio, ma non lo ebbe. Conoscendomi bene
come qualsiasi creatura ne conosce un'altra, decise che era inutile dire altro. «Farò preparare una
lancia», mormorò cupamente, «a meno che non vuoi arrivarci a nuoto.»
«La barca piccola andrà bene», dissi. «Andremo solo io e un altro.»
«... E l'altro sarò io», disse Thareesh, mettendosi velocemente al mio fianco.
Rhalgorn ci studiò per un momento, poi ci onorò di un vero cipiglio stygiano. «Senza offendere voi due,
potenti guerrieri, penso che forse avrete bisogno di qualche muscolo in più, se avete intenzione di
conquistare tutta la Fortezza dell'Uomo.»
Risi e gli strinsi una spalla. «Hai espresso bene il tuo punto di vista, vecchio mio, ma io ti dirò qual è il
mio. Se lì c'è un pericolo, mille Stygiani non serviranno più di uno. Quella è una razza che ha ben poco
rispetto per le spade e le lance.»
«Forse», disse Rhalgorn freddamente. «Sebbene sia difficile immaginare che qualcuno nato sulla Terra
sia folle abbastanza da girare le spalle ad una lama stygiana.»
Non dissi niente a Corysia: eravamo da troppo tempo insieme perché vi fosse il bisogno di parole tra voi.
Mi voltai a guardarla una sola volta dalla lancia: sembrava piccola e lontana. Lei mi restituì lo sguardo,
poi ritornai in fretta ai miei remi.
«Senza dubbio il buon Rhalgorn ha ragione», disse Thareesh. «Questa è
probabilmente un'avventura folle, Aldair.»
«Non c'è da discuterne», acconsentii. «Che cosa sta facendo la creatura, Thareesh? È ancora dov'era
prima?»
Il Nicieano guardò al di sopra della mia spalla e si strinse nelle spalle.
«Non sta facendo niente di diverso da prima, e non è stato raggiunto da nessun altro. Giurerei, Aldair,
che quella creatura non ha mosso nemmeno un capello da quando è apparso la prima volta!»
«È un Uomo: non mi aspetto che si comporti come una creatura normale.»
«No, suppongo di no.»
«Eppure, sono d'accordo con te sul fatto che questo si sta comportando in un modo particolare.»
«È più che particolare, Aldair. Che cosa pensi che dovremmo fare?»
«Penso che dovremmo remare», gli dissi, «o piuttosto penso che tu dovresti farlo. È faticoso remare
con un caldo del genere, e le mie braccia sono esauste.»
Mi girai intorno quando lui prese i remi, sorpreso di scoprire che eravamo solo a pochi metri dal grande
muro. Il sole ardeva sull'ampia distesa di pietra dell'Uomo, e sulla fitta vegetazione che si arrampicava
lungo il muro. Il bagliore soprannaturale che illuminava la buia apertura si perdeva quasi nella luce più
intensa che veniva dal cielo. E li, con l'armatura infiammata dai raggi del sole, c'era il nemico che cercavo
da tanto tempo. La sua faccia mi era ancora celata, ma qualche istante ancora e finalmente avrei potuto
vederla.
Che cosa succede, mi chiesi, quando il creatore incontra la sua creazione? Il tempo aveva cambiato la
natura di quella razza terribile? Gli Uomini della Fortezza dell'Amazzone erano diversi da quelli che
avevano piegato il corso della storia per il loro piacere? Se non lo erano, Signar si sarebbe rivelato più
saggio di noi tutti, e noi avremmo fatto una fine spiacevole. Improvvisamente, arrivò il momento.
Thareesh accostò la lancia alla riva ed io allungai una mano per assicurare la cima che ci trattenesse.
Un'altra mano, più forte, si abbassò ad afferrare la mia, e Thareesh ed io alzammo lo sguardo su una
faccia di metallo scuro e su degli occhi freddi come pietra.
«Benvenuti alla Fortezza di Amazzone», disse, e quella voce fredda e senza tono mi gelò fino alle ossa.
«Il vostro vascello sarà al sicuro qui. Seguitemi, per favore...»
Detto questo, la creatura si girò di scatto e scomparve lungo il buio passaggio, lasciando Thareesh e me
a guardarci l'un l'altro, senza parlare.
«Per tutti gli Dei, Aldair!...»
«Lo so», dissi, stringendogli un braccio e lanciando una rapida occhiata all' Ahzir. «Ho capito, Thareesh,
e quello che stai pensando è giusto. Quello non è affatto un Uomo, ma un'altra delle sue creazioni:
qualche macchina meravigliosa costruita per servirlo. Avrei dovuto intuirlo quando l'ho vista, perché i
Por'ai hanno parlato di creature simili! Non avrei mai immaginato che noi avremmo...»
L'Uomo-macchina si fermò a guardare dietro con degli occhi rossi come brace. «Dovete seguirmi», disse
brevemente. «Voi non conoscete la strada.»
«Non sono del tutto sicuro di volere conoscere la strada», sussurrò il Nicieano. Eppure lo seguimmo,
con le mani strette intorno alle impugnature delle nostre armi. Anche quando si è certi di avere tutte le
probabilità a proprio sfavore, stringere l'elsa di una buona lama è sempre molto confortante. La nostra
guida aveva abbastanza ragione, almeno sotto un aspetto: ci saremmo persi in pochi minuti senza di lui.
Sebbene tentassi di tenere a mente ogni svolta e ogni curva di quel labirinto di pietra, ben presto ci
rinunciai, confuso senza speranza. Ci stavamo facendo un'idea completamente diversa di quel grande
muro della Fortezza di Amazzone. In realtà
non era affatto un muro, ma un blocco di massiccio e quasi infinito di pietra dell'Uomo. Su entrambi i lati
c'erano corridoi che portavano a luoghi ignoti, sale buie, e porte di ferro serrate contro di noi. Per
qualche ragione che né io né Thareesh riuscivano ad immaginare, la luce in quel posto a volte era
luminosa come il giorno, altre volte così fioca che vedevamo a stento la nostra guida. In nessun
momento vedemmo tracce di qualche altra creatura. Era una sensazione molto spiacevole, perché ad
ogni passo immaginavamo che degli esseri ci osservassero dalle ombre.
«Non mi piace», disse Thareesh. «C'è qualcosa che non va in questo posto.»
«Hai perfettamente ragione», convenni, «ma temo che sia un po' tardi per cominciare a preoccuparsi.
Sospetto che fosse già troppo tardi nel momento in cui abbiamo messo piede qui dentro.»
Davanti a noi, la cosa di ferro fece ancora un'altra svolta, e si infilò lungo un altro passaggio di pietra che
non differiva in niente dagli altri. Stavo cominciando ad essere più che stufo di quella faccenda. La
creatura sapeva molto bene che cosa stava accadendo, ma questo non era di conforto per nessuno di
noi due.
«Thareesh», disse infine, «sei stanco di sentirti una formica in un cunicolo come ne sono stanco io?»
«Certamente», disse il Nicieano. «Per quanto mi è cara la vita, penso che non saprei trovare la strada
per uscire da questo posto, ma farei volentieri un tentativo.»
«Sarebbe un tentativo inutile, nella migliore delle ipotesi, ma c'è un'altra soluzione a questo problema.
Se l'Uomo ci vuol vedere, può venire qui dove siamo. Tu», urlai, «torna indietro!»
La cosa esitò, poi girò il suo volto inespressivo verso di noi. «Dovete seguirmi, Signore. Non conoscete la
strada...»
«No», dissi, «non intendiamo seguirti. A meno che tu non ci dica immediatamente dove stiamo
andando!»
«... e quando ci arriveremo», aggiunse Thareesh.
La cosa restò perfettamente immobile, ed io sentii quasi i pensieri metallici ronzargli nella testa. «Stiamo
andando alla Centrale, Signore», disse monotonamente, «se questo è il vostro desiderio. Se non lo è,
sarò felice di condurvi agli alloggi. Ci vogliono ancora quattro minuti per la Centrale. Poco di più per gli
alloggi. Io...»
«Non desideriamo vedere la Centrale né gli alloggi, né qualsiasi altra cosa», lo interruppe Thareesh. «Di'
ai tuoi padroni che Aldair e Thareesh dell' Ahzir al'Rhaz sono qui, dovunque sia qui. »
La cosa guardò Thareesh, poi me. «Non so chi siate, Signore», disse alla fine, «ma siete un essere
parlante, perciò voi siete il padrone. Non vedo come possa dire a voi che voi siete qui, Signore, perché
dovreste già esserne a conoscenza.»
«Non abbiamo voglia di sentire indovinelli», lo ammonii, stringendo l'elsa della spada. «Va' a dire
all'Uomo che le bestie che lui ha creato vogliono guardarlo in faccia subito!»
«Non posso farlo», disse semplicemente.
«Attento...!» Thareesh si stava avventando su di lui. Io lo trattenni.
«Non posso, Signore, perché l'Uomo non c'è. Forse tornerà, ma questo non lo so.»
Non c'era? Thareesh ed io ci guardammo l'un l'altro.
«Che cosa intendi dire», chiesi, «da quanto tempo se ne è andato? Almeno questo lo sai?»
«Lo so, Signore... o credo di saperlo. Mi pare che siano passati centotre virgola quattro secoli. Oppure
sono centoquattro virgola tre? Mi perdonerete, Signore. Ogni giorno trovo che è più difficile accordare
cose del genere...»
VENTISEI
C'è molto da dire sulla Fortezza di Amazzone e sulle meraviglie che contiene: basterebbe a riempire un
libro intero. Di conseguenza, non tenterò di elencare le sue mirabilie; dirò solo che è un luogo
dell'Uomo, con tutto quello che ciò comporta: strani macchinari, oggetti sconcertanti e i fantasmi
sempre presenti di coloro che li realizzarono.
È un luogo alieno, eppure stranamente familiare. Gli Uomini, come abbiamo appreso, non erano affatto
diversi da noi. Ciò non è particolarmente sorprendente se ci si ricorda che noi, le bestie dell'Uomo,
fummo modellate a sua immagine. Ma, per ogni visione familiare, cento nuove perplessità vengono alla
luce. Ogni giorno ci facciamo molte più domande di quelle a cui possiamo rispondere.
Certamente, un solo enigma sovrasta tutti gli altri: perché l'Uomo abbandonò questo posto? Dove se ne
andò? La Fortezza fu costruita a fini di difesa. Questo è chiaro.
Eppure, è intatta, indenne. Non c'è nessun segno che sia stata attaccata da forze ostili. Questo, come ne
conveniamo io ed i miei compagni, è forse il segreto della Fortezza di Amazzone: non ha avuto
nessuna parte in quell'ultima e terribile guerra che distrusse le trentatré Fortezze dell'Uomo. E, se è così,
forse i Por'ai avevano ragione: forse è vero che gli Uomini non erano tutti uguali. Certamente, il mondo
oggi è popolato da creature sia buone che cattive, con ogni possibile sfumatura tra i due estranei.
Sforzando un po' l'immaginazione, riesco quasi a credere che gli Uomini fossero di varia natura proprio
come noi...
Se la Fortezza di Amazzone era un santuario per gli Uomini, a noi fu ugualmente utile. Nei venti giorni
che ci trascorremmo, avvennero cambiamenti miracolosi in tutti noi. Da malaticci e smunti che eravamo
di-ventammo sani e forti. Era difficile riconoscere volti familiari tra l'equipaggio, perché molti di loro
erano debilitati dalle ferite e dalle febbri al nostro arrivo. Per la prima volta quando cominciò la nostra
avventura, sentii delle risate non mitigate dall'ombra del pericolo.
Come in tutte le cose, però, quella tregua dalle avversità aveva anche il suo lato negativo. Non ho mai
visto una moneta con meno di due facce, e la Fortezza di Amazzone non fa eccezione. La verità è un
guerriero non può avere troppo a che fare con birra buona e vita comoda. Si lamenterà a voce alta nel
bel mezzo della battaglia se ci sono i vermi nel suo pane o se la birra è andata a male. Eppure, dopo una
settimana circa di pace e prosperità, quelle cose gli mancheranno. La sua birra è troppo dolce e il suo
pane è troppo caldo di forno. Per di più, poiché non ha più veri nemici da combattere, combatterà
chiunque riesca a trovare tra i suoi compagni. E, visto che anche loro sono guerrieri, saranno anche
troppo felici di venirgli in soccorso.
Di conseguenza, Signar aveva di nuovo le mani occupate. Non passava un giorno senza che vi fosse
qualche rissa. «Volete sapere per che cosa hanno lottato questa volta?» borbottò, entrando nel mio
alloggio dove Rhalgorn ed io ci stavamo dividendo un barile di vino.
«Immagino che ce lo dirai subito», sbadigliò lo Stygiano. Signar gli lanciò un'occhiata di fuoco. «C'è gente
che ha tempo di bere ogni tanto qualcosa di fresco, e altri che devono proteggerli, altrimenti una bella
sera si troveranno con la gola tagliata.»
«Che cosa è successo questa volta?» chiesi, offrendogli un boccale freddo per ammansirlo. Il Vikoniano
lo svuotò rapidamente, poi strofinò un avambraccio peloso sulla mascella.
«Cipolle», disse cupamente.
«Cipolle?»
«Cipolle. Due cipolle, per essere esatti. Un tipo ne ha contate sette nella sua zuppa, e nove in quella
del suo compagno. Dannazione, gli ha quasi staccato un orecchio.»
«Non è gran cosa per cui lottare. Due cipolle.»
«Dannazione, Aldair, non ci vorrà ancora molto tempo.»
«Ha ragione», aggiunse Rhalgorn. «Un guerriero pigro è più irascibile di un secchio pieno d'acqua
bollente. Lo abbiamo capito bene molto tempo fa nelle foreste dei Lauvectii. Ma non troverai mai gli
Stygiani seduti a ringhiarsi addosso: loro vanno in giro a fare razzie nelle terre vicine. Questo è
il motivo per cui siamo noti come una razza pacifica e tranquilla.»
Signar ed io ignorammo quest'affermazione, sapendo che non è del tutto inutile cercare di
controbattere la logica stygiana.
Riempii di nuovo i boccali e poi chiesi al Vikoniano: «C'è Barthius all'origine di tutte queste storie? Se c'è
un litigio in atto, non sarei sorpreso di scoprire che lui vi è coinvolto.»
«Non hai completamente ragione, Aldair. C'è il suo zampino in questa faccenda, questo è vero, ma ora si
comporta con molta cautela: lascia che gli altri si scaldino mentre lui si tiene in disparte. Gli hai dato una
buona lezione quando eravamo in mare, e lui non l'ha dimenticata.»
«L'unica cosa che ho fatto, temo, è stato renderlo più astuto e cauto», dissi. «Non ha imparato ad
evitare i guai, ha imparato ad evitare me!»
Signar annuì con espressione truce: i suoi occhi d'agata erano incupiti da una rabbia che trovava difficile
celare. Sapeva che avevo ragione, ma non poteva fare molto per risolvere il problema di Barthius, una
volta esclusa la soluzione di tagliargli la gola e gettarlo fuori dalla Fortezza. Questo, naturalmente, era un
comportamento che ci era estraneo, come lo scaltro Barthius sapeva bene. In verità, avrei dovuto
mettere da parte la misericordia e dare retta alla saggezza dei miei padri. Fin da quando ero bambino e
vivevo negli Eubironi, avevo sentito dire che un azione gentile raramente resta impunita. Faremmo
meglio a tenere a mente che questi proverbi vengono dimenticati in fretta, a meno che non contengano
una grande verità... Come ho detto più di una volta, ci sono misteri secolari da svelare nella Fortezza di
Amazzone. Ogni nuova scoperta, ogni oggetto particolare, apre la porta ad ulteriori speculazioni.
Eppure, sotto molti punti di vista, le cose che non abbiamo trovato ci dicono molto riguardo agli esseri
che l'abitavano. Ho detto che la Fortezza era un santuario, perché ho trovato ben poco che suggerisse
armi grandi e terribili o lo spaventoso Occhio dell'Uomo. Ci sono macchine e congegni in abbondanza,
ma non hanno l'aria di servire a distruggere. Quello è un luogo in cui gli Uomini vennero per evitare gli
altri Uomini. Sono convinto che questa sia la verità. Ci sono vaste sale per mangiare e dormire, caverne
grandi e ampie illuminate ancora da fredde luci.
Era un luogo per nascondersi ed aspettare: ma aspettare che cosa? Forse gli Uomini ancora ragionevoli
trovarono rifugio in questa fortezza mentre la terribile guerra delle trentatré Fortezze infuriava nel
mondo esterno?
Forse. Questa è una risposta probabile quanto le altre. Ma, come molte ri-sposte, pone una domanda
ancora più interessante: la Fortezza è ancora intatta, il che significa che sopravvissero all'olocausto. E, se
questo è vero, dove sono ora? Sulla Terra vivevano sia uomini buoni che uomini cattivi, ma nessuno di
loro ora è con noi. « Trovare laFortezza di Amazzone», mi hanno detto i Por'ai. « Vale tutto quello
chepossiedi! » L'ho trovata. Sono qui. E, sebbene non somigli agli altri rifugi dell'Uomo che ho
conosciuto, non è nemmeno completamente diversa. Come gli altri, nasconde bene i suoi segreti.
Se avessi avuto almeno la metà del buon senso di una rapa, sarei stato grato di questo piccolo favore.
Perché è accaduto che segreti di cui avrei fatto volentieri a meno si siano rivelati abbastanza presto.
VENTISETTE
Se il senno di poi è la saggezza degli stupidi, io ho fatto una provvista di sapienza nella mia vita. È facile
sfogliare le pagine del passato e puntare un dito su quell'ora e quel giorno, e mormorare saggiamente:
sì, quello è
stato un momento rilevante, una svolta di grande importanza. Quel momento, lo so ora, fu il
trentatreesimo giorno del nostro soggiorno nella Fortezza di Amazzone.
Ci sono molti che attribuiscono un significato terribile a quel numero, tenendo conto del fatto che è lo
stesso numero delle Fortezze che combatterono l'una contro l'altra in epoche lontane. A mio vedere,
questa faccenda è un'assurdità. Anche se nel mondo esistono veramente le magie ed i miracoli, perlopiù
i fatti accadono quando accadono. Sia come sia, coloro che cercano segreti oscuri li troveranno sempre.
I Nicieani dicono che, se si osserva abbastanza a lungo dello sterco di formica, alla fine si troverà un
mucchietto con il proprio nome. Thareesh dice che questo non è affatto un detto nicieano, ma io sono
certo di averlo udito da quelle parti...
Un guerriero stagionato non ha bisogno di guardare le stelle per sapere che ore sono. Di conseguenza,
sebbene non vedessi il cielo dalle viscere della Fortezza di Amazzone, seppi subito che era quasi l'alba
quando i grandi stivali di Signar risuonarono pesanti nella sala, svegliandomi di colpo dal sonno. Afferrai
la lama prima ancora di aprire completamente gli occhi e balzai verso di lui, spaventando Corysia che mi
era accanto. La grande figura del Vikoniano riempì l'uscio. Mi diede un'occhiata ve-loce e confusa, notò
la mia spada e scosse la testa. «Non ne avrai bisogno. Non c'è necessità di infilzare nessuno, per quanto
ne sappia.»
«Per quanto tu ne sappia?» dissi, cercando di infilarmi la giubba, «che cosa vorresti dire?»
Signar non fece nessun tentativo di nascondere la sua impazienza; «Alzati, vestiti e non fare tante
domande. Quando vedrai quello che c'è da vedere, allora potrai dire a me di che cosa si tratta.»
«Signar...»
Prima che riuscissi a finire di parlare, se n'era andato, lasciando me e Corysia a guardarci l'un l'altro.
Non venimmo a saperne di più lungo la strada, perché Signar si mise a camminare davanti a noi a lunghi
passi. Questo suo comportamento mi irritò infinitamente, ma mi incuriosì anche, perché non era tipico
del carattere di Signar-Haldring. All'esterno, la mattina era ancora una macchia chiara contro le stelle;
c'era abbastanza luce per non inciampare, ma troppo poca per fare qualcosa in più. La pesante cappa di
calore che soffoca quella terra ci lasciò senza respiro, e in un istante fummo impregnati di umidità come
l'aria. È facile dimenticare queste scomodità all'interno della Fortezza di Amazzone, perché l'Uomo vi ha
ricreato il proprio clima, e le sue grandi macchine lo hanno conservato attraverso i secoli.
Ci allontanammo dalla Fortezza e ci dirigemmo verso occidente. Sentivo il fiume alla mia destra, ma non
vedevo niente attraverso il fitto intrico di fogliame. Davanti a me, Signar si fermò, aspettò un momento,
poi continuò ad arrancare davanti. Il cielo stava passando dal turchese al giallo limone. Quando
superammo un boschetto di alberi dai tronchi scuri, il Vikoniano era di nuovo davanti a noi a bloccarci il
cammino. Dietro di lui, lungo il sentiero, c'era un gruppo di guerrieri e di marinai.
«È li», disse, ancora senza guardarmi negli occhi. «Una delle vedette della nave stava perlustrando la
zona tanto per divertirsi e... è venuto di corsa da me, e beh...»
«Dannazione», dissi, senza fare alcuno sforzo per nascondere la mia rabbia. «Mi sono stancato di questa
faccenda, Signar. Smettila con queste tue ciarle infernali e fatti da parte!» Senza aspettare la risposta,
spinsi Corysia e mi affrettai lungo il sentiero. I guerrieri pronunciarono il mio nome e velocemente mi
aprirono un varco.
Non so che cosa mi aspettassi di trovare, ma certamente non mi aspetta-vo la cosa che mi accolse nella
radura. Un terzo, se non metà di essa era sepolta sotto terra. Il resto era coperto da uno spesso strato di
piante rampicanti e radici che la legavano e la stringevano come una bestia in trappola. Ma anche così,
le sue dimensioni gigantesche erano visibili: ci sovrastava come una stella d'oro scesa dal cielo a
riposarsi. Lasciai la mano di Corysia e feci un passo avanti. Poi un altro. I guerrieri mormorarono degli
avvertimenti alle mie spalle. Stesi una mano su una sua fiancata, sentii la fredda superficie metallica,
scivolosa come vetro. Non c'era nemmeno una traccia di ruggine sulla sua superficie, nemmeno una
macchia. Nonostante tutti i secoli passati a dormire in quella radura, manteneva la stessa lucentezza di
una moneta di zecca.
Per un attimo, le mie dita indugiarono sul metallo: ero in preda allo stupore. Era un soggetto molto
strano e molto piacevole da toccare. Poi, sapendo che cosa dovevo fare, mi voltai di lato e girai
rapidamente intorno alle fiancate della cosa. Doveva essere li, naturalmente, e tutti i guerrieri e i
marinai che mi stavano alle spalle stavano aspettando che lo trovassi. Solo pochi metri più a destra e lo
vidi, luminoso e nuovo come il mattino. L'emblema sfolgorante dell' Ahzir al'Rhaz, con le vele
spiegate al vento e la prua che fendeva un mare verde-azzurro. Mi voltai a guardare il gruppo che mi
circondava e lasciai scorrere il mio sguardo su ognuno di loro.
«Certamente, è un bel ritratto», dissi loro, «anche se le cime sono un po'
lente nel sartiame, e il mare è troppo calmo per una velatura simile.»
Li colsi alla sprovvista. Spalancarono gli occhi e la bocca, convinti che fossi impazzito. Poi, uno scoppio di
risate scosse il gruppo e l'incantesimo fu rotto.
«Se c'è qualche sartia da fissare», disse un robusto marinaio vikoniano,
«ci puoi scommettere che qualche bel Nicieano è sul ponte a dormire al sole!»
Altre risate, e la voce acuta di un Nicieano dall'altra parte del gruppo:
«Chi riesce a trovare una cima in più sull' Ahzir? I grassi Vikoniani le indossano tutte come cinture!»
Il circolo di visi ansiosi si dissolse; guerrieri e marinai, in egual misura, si mossero a proprio agio sulla
radura, scambiandosi a gran voce insulti e oscenità. Qualcuno osò perfino avvicinarsi al disco d'oro. Un
Vikoniano dal pelo scuro, la persona che aveva cominciato a ridere, mi si affiancò e coraggiosamente
toccò con un dito la cosa. «Mi sono trovato davanti a parecchie domande senza risposta nel corso di
questa avventura», disse, scuotendo il capo in segno di meraviglia, «ma questa le batte tutte, Mastro
Aldair. Come pensate che possa essere, sia qui tutta sepolta, che al largo, in mare?»
«E a me piacerebbe sapere perché ha il ritratto della nostra nave sul suo scafo!», intervenne un altro.
«Sono tre buone domande», dissi, «e rimarranno senza risposta per ora, a meno che qualcuno non
abbia da darci delle risposte. È venuta da qualche parte, dal passato, per quanto mi è dato di capire,
visto che è evidente che è qui fin dai tempi dell'Uomo. Come faccia una sfera di metallo a volare è già
una meraviglia in sé e per sé, per cui non tento nemmeno di immaginare come faccia a spostarsi
attraverso i secoli.»
«C'è un modo piuttosto semplice», disse una voce alle mie spalle, «anche se non credo che Mastro
Aldair si curi di...» La voce si interruppe di colpo, la persona che parlava si era accorta che le sue parole
erano arrivate più lontano di quanto fosse nelle sue intenzioni.
La radura era silenziosa. Mi girai e individuai senza problemi chi aveva parlato, perché già conoscevo il
suo nome. Era Sha'diir, un Nicieano, uno del gruppo di Barthius. Signar me lo aveva fatto notare più di
una volta.
«Ti sbagli», dissi con calma, guardandolo dritto negli occhi. «Mastro Aldair sarebbe grato che gli fornissi
le risposte. Faccele sentire subito, in modo che tutti possano trarre frutti dalla tua saggezza.»
Sha'diir sembrò impallidire al di sotto della sua pelle squamosa. Coloro che gli si affollavano intorno
indietreggiarono rapidamente, e lui si ritrovò
completamente solo. A suo merito, va detto che mantenne la sua posizione, benché credo che non gli
restasse molto altro da fare.
«Io... ho parlato affrettatamente», disse in tono imbronciato, «le mie parole erano...»
«... non dirette a me», conclusi per lui. Avanzai di qualche passo e mi fermai davanti a lui. «Sia come sia,
le ascolteremo ora, Sha'diir. Sei una creatura libera, non uno schiavo. Non hai bisogno di nasconderti e
parlare dietro le spalle». Mi girai a guardare tutti uno per uno. «Vorrei che questo fosse chiaro a voi
tutti. Ogni essere qui presente ha il diritto di dire ciò che vuole. Coloro che viaggiano con me fin
dall'inizio, sanno che è così. Sanno anche», aggiunsi, guardando di nuovo Sha'diir, «che ascolterò ogni
marinaio e ogni guerriero che mi guardi negli occhi... e che ho poca pazienza per coloro che parlano alle
mie spalle. Ora, dimmi, Sha'diir, quello che non volevi dirmi prima!»
Gli occhi senza ciglia di Sha'diir si incupirono. «Non ho detto niente. Io...»
Il Nicieano cominciò a parlare. Un'ombra di paura attraversò la sua faccia. «Io... io... io ho detto che c'è
un solo modo in cui questo naviglio può
andare e venire a suo piacimento. Io...» la disperazione gli diede coraggio e le parole gli uscirono di
colpo. «È vero, ed ora lo dirò, anche se mi dovesse costare la vita! Sono demoni che dirigono questo
vascello... demoni che vengono dall'Inferno! E sono loro che hanno dipinto la nostra nave su una delle
sue fiancate, perché ci hanno marchiati, e prenderanno l'anima anoi tutti, prima ancora che il nostro
corpo sia morto! »
Quando citò i demoni, molti guerrieri impallidirono e si segnarono.
«Demoni, dici tu?», gli risi in faccia. «Per il Creatore, faresti meglio a ringraziare quei demoni e
augurare loro ogni bene, perché hanno salvato la tua pellaccia, quando eravamo in mare! Hai
dimenticato così in fretta che per poco non siamo stati divorati tutti quanti, alla foce del fiume? Io, per
quanto mi riguarda, non l'ho dimenticato. E voialtri?»
«No, no» gridarono, agitando rabbiosamente i pugni contro il Nicieano.
«Ricordiamo tutto molto bene, Mastro Aldair!»
Sha'diir si rivolse loro. «Ci sono molte cose peggiori del morire», sibilò
selvaggiamente. «Stupidi, non lo capite? Non avete gli occhi per vedere che cosa sta succedendo qui?»
Tese rigidamente un braccio verso di me.
«Lui è uno di loro! Un demone! L'ho visto bere il sangue di un...»
Il mio pugno si alzò e lo colpì in pieno. Non avevo intenzione di farlo, ma non avrei potuto fermarmi
nemmeno se mi fosse costato la vita. Sentì
le ossa spaccarsi sul suo volto. Vidi il sangue colargli lungo la mascella. Qualcuno alle mie spalle gridò,
ma non sentii le parole. Abbassai lo sguardo e vidi dolore e trionfo negli occhi di Sha'diir. Alzai lo
sguardo, e vidi gli altri che mi erano intorno. Era facile leggere anche nei loro occhi. Il padrone non
picchia il servo. Perché il servo non può restituirgli i colpi. Avevo fatto un errore terribile. E l'avrei
pagato...
VENTOTTO
Ha ben poco valore raccontare i propri peccati. Non sono né sminuiti né
enfatizzati dalle parole. Eppure, c'è una certa soddisfazione nel sapere che si sta infastidendo i propri
amici, oltre che se stessi. Credo di aver eseguito quest'azione nel più esemplare dei modi, servendomi di
quattro o cinque ore e di un pari numero di barili di vino.
«Veramente ben detto», disse infine Rhalgorn. «Penso che siamo tutti d'accordo che tu hai messo a
rischio le nostre vite, hai aizzato l'equipaggio contro di noi, messo a repentaglio le nostre vite, e in
generale hai fatto la figura dello stupido.»
Misi giù il boccale e lo guardai. «Ho detto tutto questo!»
«Questo, e molto altro», disse Corysia. «Tutti noi abbiamo fatto attenzione alle tue parole, Aldair.»
Mi alzai in piedi, guardando Corysia e gli altri. «Non capisco come possiate prendere alla leggera questa
faccenda. Ho commesso un errore gravissimo nel colpire Sha'diir. Ho perso il controllo su me stesso, e
questo è
imperdonabile. Ho violato...»
«Tutte le leggi del comando», finì Thareesh per me. «Lo sappiamo. E
ora che ti sei flagellato a sufficienza, vecchio mio, faremmo bene a lasciar cadere l'argomento.»
«E passare a qualcosa di più produttivo», aggiunse Corysia.
«Quale, per esempio?», volli sapere.
«Per esempio, in che modo possiamo meglio affrontare la situazione, Aldair. Vuoi sederti, per favore?
Mi innervosisci con quel tuo camminare avanti e indietro. Quello che è fatto è fatto e non si può disfare.
E, certamente, anche se tu sei deciso a coprirti di cenere, io sono convinto che qualcosa sarebbe
successa ad ogni modo. Se tu non avessi dato loro lo spunto, ne avrebbero creato uno.»
«Forse. Ma non avrei dovuto servirglielo su un vassoio d'argento.»
«Nondimeno, lo hai fatto», sospirò lei. «Va bene?»
Quel tipo meritava quello che ha ricevuto», brontolò Signar, «e anche qualcosa di più. Questo è certo.»
«Non è questo il punto, Signar, e tu lo sai dannatamente bene!»
«Non ho detto che lo era, è vero?»
Il Vikoniano nascose un ghigno dietro il pugno. «È vero, però», disse tra sé e sé. «Sono completamente
sbronzo, se non è vero...»
Il giorno che seguì trascorse tranquillo e senza incidenti. Questo, naturalmente, non mi fu di nessuna
consolazione, perché ero certo che significava solo che Barthius e il suo gruppetto di scontenti stavano
aspettando il momento adatto, e intanto aizzavano ancora di più l'equipaggio contro di noi.
I miei compagni fecero del loro meglio per riparare agli errori che avevo così stupidamente commesso.
Thareesh fu particolarmente valido sotto questo aspetto, visto che la maggior parte dei nostri marinai
erano nicieani, e queste persone lo tenevano in grande considerazione. I Nicieani sono molto fedeli, e
gran parte del nostro equipaggio aveva prestato servizio, sia tra i marinai che tra i guerrieri, sotto il
comando del mio amico e antico maestro, Lord Tharrin, l'Aghiir. Non avevano dimenticato che Thareesh
era uno dei loro e che aveva rischiato più volte la vita al servizio del loro Re. Mi piace pensare che
avessero una certa stima anche per me, perché
nessun altro straniero nella storia di Niciea era diventato rhadaz'meh dell'Aghiir.
«Non hanno dimenticato chi sei», mi rassicurò Thareesh. «La maggior parte di loro si vergogna del
tradimento di Sha'diir, e non vuole avere niente a che fare con lui o con Barthius.»
A sua volta, Signar mi fece sapere che i guerrieri e i marinai vikoniani erano fedeli fino alla morte, e
avrebbero ridotto in polvere Barthius e i suoi compagni al primo accenno di ribellione.
«Allora è chiaro che non abbiamo nulla da temere», dissi ai miei compagni. «C'è uno Stygiano tra noi -
tu, Rhalgorn - e la vostra fedeltà è indubbia. Ci sono quattro membri della mia razza nella Fortezza di
Amazzone: Corysia, Stumbacius, Barthius ed io. Corysia ed io non siamo dalla parte dei ribelli, e penso,
che non lo sia nemmeno Stumbacius. Il resto del nostro equipaggio comprende Vikoniani e Nicieani.
Thareesh e Signar mi assicurano che essi sono del tutto fedeli, tranne Sha'diir. Questo lascia solo due
ribelli: Sha'diir e Barthius.»
Mi strinsi nelle spalle e misi da parte l'argomento. «Non sono molti per una ribellione, è vero?»
Nessuno parlò intorno alla nostra tavola. Infine, Signar-Haldring si grattò la mascella e scosse la testa.
«Per essere una brutta situazione, sembra abbastanza buona. Solo che non lo è, e noi tutti lo
sappiamo.»
«È vero, lo sappiamo», convenni.
Rhalgorn sogghignò e si leccò il muso. «La risposta è piuttosto chiara. I ribelli raramente ammettono che
si stanno ribellando. Sarebbe stupido e disdicevole ammetterlo. Se desiderassi tagliare la gola dei miei
padroni, per prima cosa li convincerei che sono al sicuro dormendo nel mio letto.»
«E che cosa pensi di Stumbacius?», chiese Corysia.
«Che cosa penso di Stumbacius?»
«Ti vuole bene, Aldair. E ti rispetta. Si è rivelato un amico.»
Capii dove voleva arrivare e scossi il capo. «Stumbacius è un amico. Ma prima di tutto è un soldato. Se
ricordate, non ha tradito Barthius nemmeno all'inizio. Non farebbe mai la spia per me, e io non glielo
chiederei. D'altra parte, se i ribelli fanno la loro mossa, sono certo che violerebbe il codice dei guerrieri e
ci verrebbe ad avvertire.»
«Non se si muovono, Aldair, ma quando lo faranno», disse Rhalgorn. I suoi occhi iniettati di sangue
girarono rapidamente intorno, sfiorando tutti noi. «E non contare su Stumbacius, perché non sarà qui ad
avvertirci. Barthius non è tanto stupido. Quando sarà pronto, il tuo bel guerriero Rhemiano sarà il primo
a sentire la lama sulla gola.»
Le parole di Rhalgorn mi colpirono come un soffio di aria invernale. Aveva ragione, naturalmente, e mi
sentivo umiliato e adirato con me stesso per il fatto che non mi fosse venuto in mente prima. Potrei dire
poco più di quella sera, e non posso ricordare, mi costasse pure la vita, di che cosa parlammo.
Entro l'una del giorno seguente mi erano arrivati molti suggerimenti su come sedare la rivolta. Nessuno
di essi sembrava particolarmente utile, ma ringraziai i consiglieri del pensiero gentile che avevano avuto.
Signar suggeriva di disarmare tutti, in modo tale da assicurarsi che, chiunque fossero i ribelli, non
avessero nessun'arma. Egli stesso non era troppo entusiasta di quest'idea, perché fu proprio lui ad
elencarmi non meno di sette ragioni per le quali questa soluzione avrebbe fatto più male che bene. Non
accennerò
nemmeno all'idea di Rhalgorn, perché non era né di natura pratica né salutare. Ho parlato poco della
scoperta che aveva originato questo problema, e aveva dato forza a Barthius e ai suoi compagni. Anche
se non voglio sminuire il ruolo che ho avuto in quell'incidente, sono convinto che il vascello d'oro abbia
avuto la sua parte nel fomentare la ribellione nel mio equipaggio. Guerrieri e marinai sono tipi
superstiziosi, nel migliore dei casi: possono farsi beffe dei «demoni» di Sha'diir di giorno, ma quando la
notte scende su quella strana terra, allora è tutta un'altra faccenda. Non hanno bi-sogno delle allusioni
di Barthius per vedere diavoli di ogni forma e dimensione gironzolare nella Fortezza. E che cosa posso
offrire loro al posto di fantasmi gelidi e spaventosi? Le risposte giuste e «ragionevoli» che riesco ad
immaginare sono molto più
bizzarre di quelle che possono pensare loro stessi! Da dove viene quella cosa? Come ha fatto a volare
attraverso i secoli per venirci a salvare dal mostro marino? E, la domanda più spaventosa di tutte è: chi
governavaquel vascello e aveva dipinto l'immagine della nostra nave sulla sua fian-cata?
Quest'ultima domanda, naturalmente, ne porta altre alla luce: domande su cui non mi vorrei mai
soffermare. Non mi piace pensare a quelle due occasioni nella mia vita in cui ho incontrato lo spettro di
me stesso: una volta in mare, è un'altra sul fatidico ponte a Rhemia. Ma, c'è una domanda che devo
pormi: questo nuovo mistero è connesso a quell'altro? Il vascello d'oro non è uno spettro, perché l'ho
toccato ed è reale. Eppure, porta il mio simbolo sul suo scafo, e anche quello è reale. Come le ombre di
me stesso che erano, e poi non erano, questa è una cosa che non può essere, ma è. Se quel profeta che
talvolta guida il mio cammino può sentirmi, vorrei dirgli che non sono tagliato per questo genere di
lavoro. Ho già molto da fare con questo mondo e questo tempo, e non mi sento qualificato a trattare
con altri mondi e altri tempi...
Abbiamo un detto negli Eubironi che dice che vino buono e birra rancida sembrano uguali in una brocca
sporca. Il buon Stumbacius prova la verità
di questo proverbio, perché io lo avevo giudicato solo per quello che appariva: un soldato fedele, solido,
e del tutto privo d'immaginazione, ricavato dal tradizionale stampo rhemiano. Di conseguenza, fui
sorpreso e compiaciuto dell'interesse che mostrava nei riguardi della Fortezza di Amazzone. Fin
dall'inizio del nostro soggiorno, appresi che passava tutto il suo tempo libero a vagare nel vasto intrico di
camere, frugando in ogni angolo, e registrando perfino i suoi itinerari su una mappa formidabile.
Naturalmente, lo incoraggiai, visto che i suoi interessi rispecchiavano i miei, e ben presto lo sollevai da
tutti gli altri servizi e gli diedi l'incarico di fare la mappa di tutta la Fortezza.
Stumbacius, naturalmente, ne fu felice. Attaccò il progetto come si assalta una fortezza nemica, e ben
presto conobbe il posto quasi quanto gli Uomini che l'avevano costruito. Più tardi, quando i problemi
con Barthius si intensificarono, fui felice che il suo lavoro lo tenesse lontano dagli altri. Come Rhalgorn
mi aveva ricordato, quei due non si amavano. Di conseguenza, Stumbacius divenne una visione familiare
lungo i corridoi della Fortezza di Amazzone: una persona intenta al suo lavoro, industriosa, che si
trascinava dietro un Uomo Metallico con le braccia filiformi cariche di fogli polverosi.
Non ho parlato molto a proposito di questi Uomini Metallici, perché in realtà c'è ben poco da dire. Che
ce ne fosse più di uno in quel posto ci venne in mente solo quando un giorno ne apparvero due insieme.
Poi appresi che ce n'erano sette in tutto e che, a turno, ciascuno di loro era stato con noi, e noi non
avevamo mai notato la differenza. Avevano dei nomi, assegnati loro dall'Uomo, suppongo, sebbene
sembrassero del tutto inutili dal momento che non eravamo in grado di distinguerli l'uno dall'altro.
Stumbacius alla fine risolse questo problema dipingendo con una vernice rossa sul petto di ogni creatura
il suo nome. Di conseguenza, si sapeva se si stava parlando con Lis, Katho, Jon, Sib, Jer o Dann, anche se
questo non faceva nessuna differenza visto che ognuno di loro sapeva o non sapeva le stesse cose
dell'altro.
Ogni speranza che avevo di apprendere i segreti dell'Uomo da quelle creature fu disillusa. Sapevano
tutto quello che c'era da sapere sulla Fortezza di Amazzone, tranne quello che io volevo sapere. Erano
in grado di dire dove andavano conservati i vari aggeggi che vi si trovavano, e mille altre informazioni del
genere. Dati affascinanti, se si ama conoscere le procedure di immagazzinamento che venivano usate
mille anni fa. Ho detto che gli Uomini Metallici erano sette, e ne ho citati solo sei. L'ultimo si chiamava
Testa Rotta, un nome coniato da Stumbacius, perché
quella creatura aveva evidentemente sbattuto la testa contro un muro. Ora sedeva a raccogliere
polvere, fissando intensamente il nulla. Se al suo interno le rotelle continuavano a girare, io non le
sentivo, anche se appoggiavo un orecchio alla sua testa. Né potevo dire se si era rotto un mese prima
del nostro arrivo, o cento secoli prima. In verità, non ha molta importanza, perché il tempo scorre lento
come le ombre estive nella Fortezza di Amazzone...
VENTINOVE
«Ho qualcosa di molto interessante da mostrarvi, Mastro Aldair, veramente di molto interessante!»
Quest'affermazione proveniente dal serio e sobrio Stumbacius catturò
immediatamente la mia attenzione, perché non è certo la persona più eccitabile che io abbia
conosciuto.
«Bene», dissi, «anche se spero che non sia troppo interessante, Stumbacius: un altro miracolo
dell'Uomo qui intorno e io verrò fatto fuori certamente.»
La bocca gli si spalancò. Per un momento, sembrò interdetto. «Oh, non è
niente del genere, Signore, veramente!»
«No», gli dissi gentilmente, «Sono certo che non lo è. In questi giorni non so che pesci pigliare, vecchio
mio, e non è colpa tua. Ora, prendi una sedia e dimmi che cos'hai scoperto.»
Stumbacius si rilassò un poco, ma restò in piedi. Si voltò verso l'onni-presente Uomo Metallico che gli
era alle spalle, trovò un rotolo spesso di mappe e lo spianò davanti a me.
«Avete già visto queste mappe, Signore, ma ora c'è qualcosa in più. Guardate qui...» Fece scorrere un
dito sulla carta, «... ricorderete, Signore, che ci sono nove livelli in tutto nella Fortezza, ed ognuno è
adibito ad un uso particolare: come, per esempio, dormire, mangiare e immagazzinare oggetti; benché
sia difficile dire dove finisce uno e dove comincia un altro, visto che ci sono sale e passaggi che si
intrecciano gli uni con gli altri. Ora, c'è una cosa nuova, Mastro Aldair...» Picchiettò il dito ai margini
della mappa. «Sono venuto a sapere che c'è anche un altro livello. Un decimo livello, alquanto più in
basso degli altri.»
Aspettai di sentire se c'era altro. «E allora? Non ne sono particolarmente sorpreso, perché l'Uomo
sembrava amare i tunnel quanto li ama una lepre.»
Stumbacius parve addolorato. «Vi chiedo scusa, Signore, ma non è tutto. Io non conosco l' uso di
questo posto, e sono certo che non lo conoscono nemmeno gli Uomini di Metallo.»
«Ti aspettavi che lo sapessero?»
L'osservai per un momento, chiedendomi se avesse trascorso troppo del suo tempo in compagnia delle
creature di metallo. Loro affermano che perfino le pietre e i ravanelli diventano un soggetto
interessante di conversazione se non c'è nient'altro di cui parlare. Stumbacius intuì i miei pensieri,
perché le guance gli si colorirono. «È
vero e non è vero, Signore.» Aggrottò la fronte, si grattò le setole del muso. «Ci sono cose che sanno e
cose che non sanno, ne sono certo.»
«... E cose che sanno e di cui non parlano», aggiunsi. Stumbacius annuì, un po' riluttante. «È
abbastanza giusto, Signore, ma c'è ancora qualcos'altro. Quello che voglio dire è che ciascuno di loro sa
pressappoco quello che deve sapere, e non più di questo. È come... beh, è
come se fossero stati costruiti per fare certe cose e, quindi, solo quello è
stato messo nelle loro teste.»
«È un punto di vista interessante. Penso che tu abbia ragione.»
«Sì, Signore... e qui è il punto, capite. Questo nuovo livello di cui vi ho parlato. Nessuno di loro sa a che
scopo fu costruito. E sono quasi certo che non lo sappiano. Non saprei dire il perché, ma ne sono
certo.»
Dal tono della sua voce, capii che vi credeva fermamente. «Beh, che cosa sembra essere questo posto,
allora? Puoi fare qualche ipotesi, confrontandolo con gli altri livelli?»
Stumbacius rimase interdetto. Poi si diede uno schiaffetto sul capo e emise un basso gemito. «Mastro
Aldair, vi chiedo scusa. I discorsi non sono la cosa che mi riesce meglio, questo è certo. Non ve l'ho
nemmeno detto, è vero? Non ho nessuna idea a proposito di quel livello, perché non ci sono entrato. È
chiuso a chiave, serrato come un barile, e non c'è nessun modo di entrare, per quanto ho potuto
capire.»
«Chiuso a chiave, hai detto?» Vidi quella faccenda in una nuova luce, perché la curiosità è un grave
difetto del mio popolo, un difetto che porta spesso ad avere code e musi più corti.
«Sì, chiuso a chiave, Mastro Aldair.» Era soddisfatto di se stesso ora, e lo mostrava. «Pensavo che vi
avrebbe interessato, Signore.»
«Stumbacius», dissi cupamente, «come ti avevo detto già all'inizio, sarebbe stato meglio che non fosse
stato troppo dannatamente interessante...»
Ero certo che le cose stavano proprio come aveva detto il guerriero. Alla fine di una stretta scala che
partiva dal nono livello c'era un altro livello, o almeno, l'inizio di un altro. Perché la scala finiva di colpo
contro un'altra porta di metallo, infissa nella solida pietra.
«Beh, che cosa ne pensi?», chiesi a Rhalgorn. Gli Stygiani sono perfino più curiosi del popolo di Gaulha,
sebbene non ci tengano ad ammetterlo. Di conseguenza, poiché non vedevo nessuna ragione di dire a
Rhalgorn dove stavamo andando, lui si invitò immediatamente.
«È chiaramente una porta, va bene», disse in tono pensieroso. «Immagino che conduca in qualche altro
posto, che sta dall'altra parte.»
«È un'osservazione meravigliosa», gli dissi. «Ti sono grato dell'aiuto.»
Rhalgorn sbuffò e distolse lo sguardo. «Di' quello che vuoi, Aldair. Deridere gli sforzi altrui non ti porterà
a trovare una risposta.»
«Che cos'era quello? Uno sforzo?»
«L'inizio di uno sforzo. Se userai l'unico orecchio che ti rimane, senza dubbio sentirai anche il resto.»
Rhalgorn guardò l'Uomo Metallico che era alle spalle di Stumbacius. «Se vuoi una risposta», disse,
indicandolo,
«chiedila a quel mucchio di stagno che cammina come una persona. Lui sa che cosa c'è in quel posto,
ne puoi essere certo!»
«Io e Stumbacius ne abbiamo già discusso prima», gli dissi.
«Sì, ne abbiamo già discusso, Signore», disse Stumbacius.
«Ah, senza dubbio.» Rhalgorn ci dedicò un sorrisetto furbo. «Ma non avete discusso con questa cosa di
stagno.»
« Io l'ho fatto», intervenne Stumbacius. «Un'infinità di volte, Signore. Ci sono cose che essi sanno e
non dicono, questo ve lo posso garantire. Ma so che questa non è una di quelle cose.»
Lo Stygiano non si lasciò impressionare. «Forse non hai espresso in maniera esatta la domanda. C'è un
modo giusto e un modo sbagliato di trattare faccende del genere, lo sai.» Detto questo, trasse la sua
spada pesante dal fodero e la sollevò al di sopra della propria testa. « Tu», disse bruscamente
all'Uomo di Metallo, «aprici gentilmente questa porta o io ti spaccherò
quel secchio che hai fra le spalle!»
Stumbacius parve terrorizzato. L'Uomo Metallico non disse niente. Io cercai di trattenermi, ma scoppiai
in una sonora risata. «Temo che questo poveraccio non sia abituato al modo di ragionare degli Stygiani.»
Rhalgorn mi lanciò un'occhiata di fuoco. «Allora, lo imparerà dannatamente bene.» Abbassò la spada.
Stumbacius parve sollevato, ma Rhalgorn non aveva ancora finito. Balzò di fronte all'Uomo Metallico e
gli appoggiò
la punta della lama al di sotto del mento.
«Non hai paura di perdere la testa, è vero?»
«No, Signore», rispose con voce stridula, in quel tono freddo e irritante. Rhalgorn alzò un sopracciglio.
«Non hai paura? Allora, sei ancora più
ignorante di quello che credevo, oppure stai mentendo, come ho sempre sospettato.»
«No, Signore», disse l'Uomo Metallico.
«No, Signore, che cosa?»
«No, Signore, non sto mentendo.»
«Ah! Rhalgorn rise mestamente. «Volevi dire quello che hai detto, non è
vero?»
«Dire che cosa, Signore?»
«Dire che... dire che tu eri... che a te non importa se ti spacco la tua stupida testa!»
«No, Signore.»
«No, Signore, che cosa?», gli occhi di Rhalgorn si strinsero. I lunghi denti si scoprirono. «Vorresti farmi
credere che non ti piace restare in vita, allora? Che il pensiero di essere morto non ti spaventa?»
«No, Signore. Non mi può piacere restare in vita», disse, «perché non ho la funzione del piacere. Essere
morto, perciò, non mi spaventa, perché non ho la funzione dello spavento, né potrei spaventarmi di
morire anche se avessi una funzione simile, perché, come ho già detto...»
Se non fossi intervenuto in quell'istante, sono certo che Rhalgorn avrebbe fatto a pezzetti l'Uomo
Metallico, poi si sarebbe buttato alla ricerca de-gli altri. Di conseguenza, appresi che c'era realmente un
decimo livello nella Fortezza di Amazzone, e che non sembrava esserci nessun modo di accedervi. E,
anche se non appresi come si comunica razionalmente con gli Uomini Metallici, imparai ancora un altro
modo in cui non si comunica. Questo lo dirò per gli Stygiani: sono ostinati quanto sono curiosi. Una volta
che si sono convinti di qualcosa, non vi rinunciano senza lottare. Se uno di loro ha deciso che un ceppo
di legno volerà come un uccello, allora resterà tutto il giorno a guardarlo, certo che prima o poi gli
spunteranno le ah.
Nei giorni che seguirono, Rhalgorn pedinò senza sosta Stumbacius, portandolo sull'orlo della pazzia,
senza dubbio, perché aveva deciso che avrebbe piegato quelle creature di metallo alla sua volontà.
Affermava che quello era un tentativo scientifico molto serio, ma la verità è semplicemente che non
avrebbe mai ammesso che sulla terra esistesse un essere di qualsiasi tipo che poteva resistere ad uno
stagionato guerriero stygiano. TRENTA
Nessun figlio del Creatore ha orecchie più fini o lingua più veloce di un guerriero ozioso. Io non parlai
della nostra scoperta di un decimo livello, né lo fecero Stumbacius e Rhalgorn. I miei ordini furono
precisi a questo proposito, ed essi non mi disobbedirono. Eppure, nel giro di un'ora, la notizia si era
diffusa in ogni angolo della Fortezza. Anche l'ultimo dei guerrieri o dei marinai conosceva i dettagli più
impressionanti di quest'ultimo
«mistero dell'Uomo».
Non c'era alcun dettaglio da sapere, naturalmente, ma questo non fermò
né Barthius né Sha'diir. C'era una prigione sotterranea, anzi un abisso, al di sotto della Fortezza di
Amazzone, nero come le profondità dell'Inferno e pieno fino all'orlo di orrori indicibili. Parecchie
persone avevano sentito rumori spaventosi provenire da quel luogo, e uno mi aveva visto con i suoi
occhi fermo sull'orlo dell'abisso a chiamare grandi mostri al mio servizio. Quest'ultima cosa oltrepassò
ogni mio limite di sopportazione. Ignorai le ragioni validissime di Corysia che mi diceva di non fare
niente, e mi precipitai nella grande stanza dove la compagnia prendeva i suoi pasti e chiesi alla persona
che aveva visto quello spettacolo di dirmelo in faccia. Era una fola, naturalmente, perché quella persona
esisteva solo nella fantasia di Barthius.
«Ascoltatemi», dissi loro, «ascoltate coloro che tra voi conservano ancora il ben dell'intelletto! Non date
ascolto a nessuno che voglia usarvi per i propri fini e per i vostri!»
Voci rabbiose risposero alle mie parole, ma erano mescolate alle acclamazioni per quello che avevo
detto. Pugni si agitarono in aria; un barile colpì improvvisamente la parete che era alle mie spalle, si
frantumò e mi spruzzò di vino. Qualcuno dei marinai gridò di gioia, ma non a lungo. Un robusto
Vikoniano trovò il colpevole e lo stese a terra con il dorso della mano. Per un attimo pensai che la
ribellione sarebbe cominciata in quel luogo e in quel momento.
«Aspettate!», gridai, balzando su un tavolo, «aspettate e statemi a sentire!» Nella stanza calò il silenzio,
perché tra loro c'erano ancora più fedeli che ribelli... «Vi chiedo di ragionare con me», dissi. «Vi chiedo
di fare attenzione a non gettare via ciò che avete conquistato. Abbiamo la possibilità di ricominciare una
nuova vita qui: una vita non macchiata dal passato. Con il passare del tempo, il mondo potrà essere di
nuovo il nostro mondo... un mondo che...»
«Che genere di mondo è questo?» strillò qualcuno. «Di sicuro, non somiglia al nostro mondo!»
Le voci riempirono nuovamente la sala, e questa volta ci volle un po' più
di tempo per zittirle. «So che vi manca la vostra patria», dissi. «Anche a me manca la mia. Ma le terre al
di là del mare non sono più la nostra patria! Quel mondo è un mondo morto. Questo, appartiene a
noi!»
A questo punto si alzarono degli ululati, ma non avrei permesso che mi interrompessero. «Voi pensate
solo all'oggi e non al domani!» dissi loro, urlando per farmi sentire. «Pensate a questa terra così com'è
ora, non come potrebbe essere.»
«Potrebbe essere come le sabbie di Niciea?», strillò uno.
«Potreste trasformare questo posto fetido nelle Terre del Nord?», disse un altro.
«No. Non posso. Ma posso portare molte cose del vecchio mondo in questo nuovo mondo. Posso
portarvi le abitudini e la gente che rende un posto degno di essere chiamato patria.» Mi fermai, e
dedicai loro il più
ampio sorriso che riuscissi a fare. «Trovereste migliore questo mondo se vi fossero delle femmine?
Rispondetemi!»
Per un decimo di secondo la sala fu silenziosa. Poi, capirono che cosa avevo detto, e si alzarono tutti in
piedi. Paura e rabbia si trasformarono in esclamazioni di gioia e in risate clamorose. Mi presero sulle loro
spalle e mi acclamarono ancora una volta loro amico e loro capo. Solo un gruppetto di guerrieri e
marinai imbronciati restò fermo intorno a Barthius e Sha'diir, perché le mie parole avevano toccato un
desiderio ardente nelle loro anime che era più forte di qualsiasi altro.
Fu così che portai la speranza nel cuore dell'equipaggio e la pace nella Fortezza di Amazzone. Era una
pace irrequieta, e non avevo alcuna illusione che sarebbe durata. Avevamo rallentato Barthius, ma ero
certo che non avrebbe rinunciato così facilmente. In realtà, già dopo qualche giorno usava le mie stesse
parole contro di me: diceva all'equipaggio che avevo mentito, che non avevo nessuna intenzione di
mandare l' Ahzir al di là del mare a prendere le donne e altre cose.
Signar stava quasi scoppiando dalla rabbia: se avesse avuto via libera, Barthius e i suoi compagni
avrebbero visto il cappio prima della fine della giornata.
«Dannazione, Aldair», disse infuriato, «che cosa stai aspettando? Se c'è
mai stato un caso di ammutinamento più chiaro di questo, mi piacerebbe proprio vederlo!»
«Il caso è abbastanza chiaro», acconsentii, «e non ho alcuno scrupolo a condannare a morte quel tipo. È
agli altri che penso, Signar. Non possiamo eliminare Barthius senza condannare anche molti altri. Tra i
suoi seguaci ci sono molte persone che hanno lottato a lungo e coraggiosamente per la nostra causa.
Non desidero vederli morire solo perché si sono lasciati influenzare da stupide chiacchiere.»
«Stupide chiacchiere, è vero?» Il Vikoniano non fece alcun tentativo di celare il suo disgusto. «Quelle
stupide chiacchiere sono una spada che minaccia la tua gola, Aldair. Quel demonio vuole averla vinta, e
non si fermerà finché il nostro sangue non macchierà le pareti della Fortezza di Amazzone. Fa'
attenzione a quello che dico!»
Eppure, non volevo dare l'ordine di uccidere Barthius e i suoi seguaci. Invece, per mostrare che le mie
parole erano sincere, mi affrettai a far riparare l' Ahzir al'Rhaz, e ordinai all'equipaggio di raccogliere
beni e provviste per un lungo viaggio al di là del Mare delle Nebbie. Ero del tutto sincero riguardo a
questo progetto, sebbene fossi certo che c'erano molti nell'equipaggio che credevano l'avessi ideato sul
momento per salvarmi la pelle. In verità, era l'unica cosa razionale da fare se ci si fermava a pensarci. Se
non potevamo sopravvivere nel Vecchio Mondo, avremmo dovuto trovare il nostro spazio vitale altrove,
e dov'era un posto migliore della Fortezza di Amazzone? Forse il clima non era dei migliori, ma non
c'erano imperi da temere, e guerre da combattere. Non soffrivamo né la fame né la sete, e se le antiche
carte geografiche dell'Uomo dicevano la verità, c'era terra in abbondanza nel continente meridionale.
Certamente, non ho compiuto tutto quello che avevo progettato, perché
una gran parte del mondo è morta o è legata dalle catene del passato, condannata a rivivere la storia
dell'Uomo. Non ho ancora spezzato quelle catene, e forse non lo farò mai. Ma ho fatto qualcos'altro: ho
trovato un ottimo sistema per aggirarle, un sistema per ricominciare, per costruire un nuovo mondo non
infettato dal vecchio. E sono deciso a non lasciarmi sfuggire questa possibilità, solo perché un gruppetto
di ribelli e di stupidi vogliono uccidermi.
Il malcontento tra le persone dell'equipaggio continuò, e se io avevo immaginato che sarebbe diminuito
con la speranza di qualcosa di migliore nel futuro, fui tristemente deluso. Scoppiarono molte risse tra i
seguaci di Barthius e i miei fedeli. Le voci si diffusero come un incendio. L' Ahzir avrebbe navigato, sì,
ma a bordo non ci sarebbe stato un equipaggio normale. Io sarei stato al timone, con un equipaggio
formato dai demoni del mio famoso «abisso», e la stiva sarebbe stata piena fino a scoppiare dell'oro,
delle gemme e degli altri tesori che si diceva avessi trovato nella Fortezza di Amazzone.
Inevitabilmente, come aveva predetto il buon Signar, fui costretto ad adottare le maniere forti. Barthius
e Sha'diir, resi coraggiosi dalla mia inerzia, uccisero a sangue freddo due marinai nicieani che avevano
rifiutato di unirsi ai ribelli. Con una scorta di fedeli guerrieri vikoniani, marcia} negli alloggi
dell'equipaggio e presi Barthius, Sha'diir e sette dei loro seguaci. Tutti furono messi ai ferri, ed io
annunciai apertamente che sarebbero stati impiccati per i loro delitti prima che la settimana fosse finita,
e che c'era molto spazio sulla forca per chiunque desiderasse raggiungerli.
«Stai facendo un errore», mi avvertì Signar, «lasciando passare altro tempo prima di impiccare quei
demoni. Falla finita subito!»
«Perché?», chiesi. «Abbiamo tolto le mele marce dal barile.»
«Forse», intervenne Rhalgorn.
«Pensi che ce ne siano altre?», mi rivolsi allo Stygiano. «E se ci sono, beh, almeno facciamo fuori i capi e
i loro seguaci più ardenti. Non basta?
Dannazione, Rhalgorn, non voglio uccidere ogni membro della nostra truppa per essere certo che non
rimanga fra loro nessun ribelle! Altri nove morti sulla mia coscienza sono il massimo che posso digerire!»
Signar scosse selvaggiamente il capo. «Non sono sulla tua coscienza, Aldair. Si sono condannati a
morte da soli!»
«È certo che sono stati loro», aggiunse lo Stygiano.
«Ho detto tutto quello che mi premeva dire», dissi loro. «La faccenda è
chiusa e questa ne è la conclusione.»
«Spero per tutti gli Dei che tu abbia ragione», mormorò cupamente Signar, «ma sono certo come il
peccato che hai torto, Aldair.»
A dire la verità, non ero del tutto sicuro di me stesso come avevo lasciato credere agli altri.
Semplicemente non potevo cedere all'idea di uccidere altre persone, anche se si trattava di vermi come
Barthius e Sha'diir, perché ne ero stufo. Se questa era una debolezza da parte mia, allora che lo fosse.
Avevo già lottato questa debolezza ed ero arrivato alla Fortezza di Amazzone. Non bastava? Dovevo di
nuovo mettermi alla prova?
Strani discorsi, forse, per una persona allevata nella tradizione guerriera. Ma perfino una pietra non è
solo una pietra e niente di più: ha luce e buio al suo interno, e venature di ogni colore.
«Ho torto?», chiesi a Corysia. «Mi sono già comportato da stupido più di una volta, e non mi
sorprenderebbe scoprire che ci sono cascato di nuovo.»
«Tu pensi di essere uno stupido?», disse gentilmente.
«Penso che devo essere quello che sono, ma non sono del tutto certo di avere diritto ad un simile lusso.
Le decisioni che prendo riguardano anche gli altri, oltre me stesso.»
«Questo è vero. Ma penso che nessuno di noi potrebbe accusarti di mettere te stesso al di sopra del
bene comune, Aldair. Sicuramente, non sei intelligente e nobile come vorresti essere - o come esigi a te
stesso di essere - ma non ti sei mai comportato male con noi.»
«Ci sono alcuni che non sarebbero d'accordo con te», le ricordai. «E sono lì fuori a chiedere la mia pelle.
E ci sono altri che non sono più in vita per potersi lagnare delle mie decisioni.»
Lei restò in silenzio per un lungo momento. Poi allungò una mano a cercare la mia. «Ci pensi sempre, è
vero, amore mio? Nel nome del Creatore, Aldair, fa' pace con te stesso. Né i tuoi compagni né il tuo
amore lo possono fare al posto tuo!»
«Sono molto stanco», le dissi. «Vorrei vedere presto la fine di questa storia, Corysia, ma non sembra che
ci sia il modo di concluderla...»
«Arriva sempre il momento», annunciò Rhalgorn, «in cui coloro che hanno riso a crepapelle si ritrovano i
musi mozzati. Questo è un detto antico dei Signori dei Lauvectii.»
Avevano messo da parte i piatti della cena per goderci una coppa di birra, quando lo Stygiano fece
improvvisamente quest'affermazione.
«Che cosa diavolo dici», rise Corysia. «Gli Stygiani non hanno i musi, e questo non è certamente un
loro detto!»
«Grazie agli Dei non li abbiamo, Signora - e vi chiedo perdono - ma abbiamo dei vicini che li hanno»,
disse, guardandomi con intenzione, «e sono tipi arroganti e boriosi.»
«Rhalgorn», dissi, spingendo indietro la mia sedia, «hai sicuramente qualcosa da dire, ma qui non c'è
nessuno che abbia la minima idea di che cosa si tratti.»
«È naturale che non ne hai la minima idea», disse, annusando l'aria con grande spregio, «perché hai
chiuso il tuo piccolo orecchio rosa a Rhalgorn, che è solo un selvaggio dei boschi orientali e non è adatto
a pensare.»
«È inutile», disse stancamente Thareesh, «non la finirà finché non sarà
pronto a parlare.»
Signar si grattò il ventre peloso e sbadigliò. «Io, per quanto mi riguarda, non resterò qui ad aspettare.
Vogliate scusarmi, Signora...»
Rhalgorn rise, con quel tossicchiare strano che si definisce risata tra gli Stygiani. «Aspetta, Pelliccia
Grassa, per te dirò tutto e subito!»
«Non mi fare nessun favore», gemette Signar.
«Ah, ma te lo farò. E non lo farò a te, Aldair, perché tu deridi sempre gli sforzi di Rhalgorn, e questo è un
comportamento che mi addolora grandemente, tra parentesi.»
«Lo immagino. E di quali sforzi stai parlando, sempre se esistono?»
Rhalgorn ringhiò con il suo lungo grugno, assumendo l'aspetto di quando aveva appena finito di gustare
una lepre. «Sempre se esistono, è così?
Non lo dirai più quando saprai che ho risolto il segreto del decimo livello della Fortezza di Amazzone!»
Per poco non buttai a terra il boccale di birra. «Che cosa stai dicendo?»
«Voglio dire», disse in tono compiaciuto, «che so come entrarvi. »
«Sai come farlo. Ma non lo hai fatto, in realtà.»
«È la stessa cosa.»
«Veramente non lo è.»
«Se tu sai qualcosa, è come se fosse già fatta, Aldair.»
«Forse questo è valido per gli Stygiani. Ma non per gli altri popoli, a cui piace vedere le cose piuttosto
che sentire come potrebbero essere compiute.»
«Perché non la finite di fare chiacchiere?», sibilò Thareesh. Si alzò in piedi e fece ondeggiare la sua
sottile coda nicieana. «C'è un modo molto semplice di porre fine a questa conversazione.»
«Potrebbero smetterla di aprire la bocca tutti e due, tanto per incominciare», suggerì il Vikoniano.
«Meglio ancora», disse Thareesh, «andiamo subito a vedere questa meraviglia. Rhalgorn?»
Rhalgorn sfavillò di gioia e mi guardò. «Andiamo», gli dissi. «Ti sei messo da solo in questo guaio.»
«E sono felice di averlo fatto», disse lo Stygiano. «Pelliccia Grassa, ho bisogno del tuo aiuto. Se non altro,
hai spalle ampie e forti.»
Signar gli lanciò un'occhiata iniettata di sangue. «Per fare che cosa?»
«Beh, per trasportare il buon Testa Rotta, naturalmente.»
Mi fermai, con la giubba infilata a metà. «Rhalgorn, che cosa c'entra Testa Rotta in questa faccenda?»
Rhalgorn ghignò. «C'entra, Aldair, come vedrai al momento opportuno...»
TRENTUNO
«Rhalgorn, stai facendo la figura dello stupido. Ho intenzione di ricordarti questo giorno molte volte
negli anni a venire.»
Rhalgorn mi dedicò un ghigno distorto. «Vedremo chi sarà quello che ricorderà questo giorno, Aldair.»
«Dove vuoi che metta questa graziosa persona?», chiese SignarHaldring. Un ampio sorriso gli illuminò il
volto, perché quella faccenda lo divertiva immensamente. Tra le grandi braccia reggeva la figura floscia
dell'Uomo Metallico che Stumbacius aveva battezzato Testa Rotta.
«Li andrà bene», disse freddamente Rhalgorn. «È a portata di mano.»
Signar fece qualche passo indietro e studiò la cosa appoggiata sul pavimento. «Credi che il vecchio Testa
Rotta ci canterà un motivetto, Aldair, o forse farà un balletto? Non saprei dire che cosa mi piacerebbe di
più.»
«Farà molto più di questo», disse Rhalgorn. «Aprirà quella porta, ecco quello che farà.»
«Non hai assolutamente nessuna ragione per crederlo», dissi.
«Ho tutte le ragioni del mondo, Aldair. È semplicemente una questione di logica.»
«Logica stygiana?»
«Naturalmente.»
«Beh, questo spiega molto.»
«È vero, anche se tu lo hai detto per scherzare. Ho studiato attentamente le creature di stagno, e ho
appreso un mucchio di cose al loro riguardo.»
«Quali, per esempio?», chiese Thareesh.
«Per esempio, il fatto che fanno delle cose.»
«È naturale che facciano delle cose», dissi. «Già lo sappiamo.»
Egli scosse il capo. «Voglio dire che fanno certe cose. Stumbacius te l'ha detto ma tu non gli hai dato
ascolto. Alcuni trasportavano oggetti. Alcuni sanno dove vanno immagazzinati i vari oggetti. Altri non
fanno niente, ma fanno sì che i piccoli soli dell'Uomo funzionino. Testa Rotta, qui, apre le porte.»
«Che cosa?» Lo guardai. «Tu non hai visto Testa Rotta aprire una porta e non lo vedrai mai. È rotto,
Rhalgorn. Non fa niente.»
«Non è rotto», disse Rhalgorn in tono annoiato.
«A me pare rotto.»
«Come hai detto tu stesso, non fa niente. Questo non significa che sia rotto. Gli altri continuano a
lavorare - o fingono di farlo - perché nessuno ha ordinato loro di fermarsi. Testa Rotta è fermo perché
non ha niente da fare.»
«Rhalgorn...!»
«Gli altri Uomini Metallici aprono le porte», spiegò, «ma io non parlo di quel genere di apertura. Li ho
osservati. Aprono le porte che non sono chiuse a chiave, ma non si preoccupano delle altre. Ho chiesto
loro di farlo, ma non lo fanno. Perché non sanno come operare. Testa Rotta lo sa.»
Aspettai, ma evidentemente aveva finito per il momento. «E questo è
tutto? Questo è il motivo per cui ci hai portati qui? Per farci ascoltare un mosaico di... logica stygiana!»
«Ti ho portato qui per aprire una porta», tirò su col naso Rhalgorn.
«Bene», dissi, «Fa' pure, profeta dei Lauvectii. Siamo in attesa.»
Penso che Rhalgorn avrebbe volentieri lasciato perdere quell'assurdità in quel momento. Gli Stygiani
sono gli spacconi più arroganti che siano mai stati concepiti dal Creatore, ma preferirebbero morire in
guerra piuttosto che fare la figura degli stupidi.
Sforzandosi di avere un aspetto solenne, Signar obbedientemente seguì
le istruzioni di Rhalgorn. Trasportò Testa Rotta fino alla porta e lo tenne diritto. La testa dell'Uomo
Metallico si inclinò. I flosci piedi di metallo strisciarono sul pavimento. Infine disse: «Ora, Testa Rotta
aprici questa porta.»
Testa Rotta continuò a tenere il capo inclinato.
«Forse non conosce il suo nome», suggerì Thareesh.
«È giusto», aggiunsi. È stato Stumbacius a chiamarlo così. Probabilmente prima ne aveva un altro. Prova
con vari nomi, Rhalgorn.»
«Aldair», disse Corysia con fermezza, «almeno, lascialo in pace.»
«Sto solo cercando di aiutarlo, Corysia.»
«Non è questo che stai cercando di fare.»
«Il suo nome non ha nessuna importanza», disse cupamente Rhalgorn.
«Tu, comunque ti chiami. Apri questa porta, immediatamente!»
Signar non riuscì più a trattenersi. Scoppiò in una risata sonora che fece tremare la stanza.
Rhalgorn lo ignorò. «Avvicina un altro po' quella creatura, per favore. È
troppo lontana.»
Signar rizzò il pelo. «Non avevo in programma di reggere questa creatura per tutto il giorno, Rhalgorn.»
«Solo un altro po'...» Aggrottò le sopracciglia con espressione pensierosa, poi un grande ghigno gli
illuminò il volto. «Ah, naturalmente. Quanto sono stupido. Le creature non stanno semplicemente
davanti alle porte. Devono toccarle prima di aprirle!»
«Non c'è nessuna maniglia da toccare su questa porta», gli feci notare,
«dovresti essertene già accorto.»
Rhalgorn non stava ascoltando. Afferrò la mano sinistra dell'Uomo Metallico e la premette contro il
metallo della porta. Testa Rotta continuò a tenere il capo inclinato.
«Se lasci perdere ora questa assurdità», dissi, «noi tutti promettiamo che non ne parleremo mai più.»
« Io non lo farò», disse Signar.
«Deve essere destrorso», disse Thareesh.
«Proprio quello che stava pensando», disse Rhalgorn. Detto questo, sollevò la mano destra dell'Uomo
Metallico e la tenne appoggiata alla porta. Testa Rotta si irrigidì immediatamente. Raggi sottili di luce
bluastra crepitarono lungo il suo corpo. Rhalgorn e Signar gemettero. I loro peli si rizzarono. Un grande
randello invisibile li colpì e li gettò a terra. Testa Rotta oscillò pericolosamente, poi si raddrizzò. La sua
mano si mosse con calma verso la porta, poi si fermò. Mosse un passo malfermo verso sinistra, e tentò
di nuovo. Per un lungo momento non successe niente. Poi, davanti ai nostri occhi increduli, la porta si
aprì con un sussurro.
«Per la Vista del Creatore», disse Signar. «Sono sicuro che non è vero.»
Rhalgorn si riprese. «Che cosa... che cosa ti aspettavi, Pelliccia Grassa?»
Si sforzava di nascondere il suo proprio stupore. «Ho detto che si sarebbe aperta e... si è aperta. Io...»
«Chiudete la bocca, tutti e due!» dissi, perché li stavo già oltrepassando, con gli occhi fissi su quello che
mi stava davanti...
Come potrò dire quello che vidi, e dare un significato alle mie parole?
Era una vasta sala aperta, delimitata su ogni lato da pareti chiare, lattiginose, che sembravano fuggire
l'una dall'altra per poi marcarsi in curve ampie e veloci che miracolosamente si riunivano. C'erano gruppi
di sfere d'oro su tutta la superficie della stanza, tutte uguali. Erano alte più di tre metri. Queste sfere
erano raggruppate in cerchi formati da sette sfere, e i cerchi erano sette in tutto. Non tutti i cerchi erano
completi, perché delle quarantanove sfere che avrebbero dovuto comporre lo schema, almeno un
quarto non c'era più. La stanza, le pareti, le sfere d'oro: tutto era illuminato dal bagliore gelido dei soli
dell'Uomo, anche se non riuscivo a capire nemmeno dove fossero posti quei congegni. Ho descritto
quanto meglio potevo la stanza che era dietro la porta al decimo livello della Fortezza di Amazzone. In
verità, non ho detto quasi niente, perché c'erano delle cose in quel posto che non potevano né toccare,
né vedere, né immaginare: le sentivamo.
«Ho paura, Aldair. Ho paura da morire e non so perché.» Corysia si strinse contro di me, e mi afferrò le
mani.
«Lo sento», dissi, «è una cosa che è qui, eppure non lo è.» Mi sorpresi a bisbigliare queste parole,
perché c'era qualcosa in quel posto che incuteva timore e induceva a parlare sotto voce.
Diedi un'occhiata intorno e vidi Rhalgorn, Signar e Thareesh. Erano accanto a me, ma non ero sicuro se
fossero esseri solidi e reali o solo le ombre di sé stessi. Sembrava che i frammenti di ogni secondo, ogni
ora e ogni giorno, invece di fuggire si addensassero intorno a noi, come il pulviscolo di un'estate
polverosa.
«Il tempo è stonato, qui dentro,» disse più tardi Thareesh, e io non so trovare una definizione migliore di
questa. In quel momento qualcosa mi fece girare. Afferrai un movimento rapido con la coda dell'occhio.
Giran-domi di scatto, vidi lo Stygiano e capii che cosa stava per fare. «Rhalgorn!», strillai, rompendo quel
silenzio mortale. «Rhalgorn, no! Allonta-nati da quella cosa! »
Si fermò a poca distanza da una sfera d'oro. Il suo volto assunse un'espressione strana, stupita, come se
avessi parlato in una lingua straniera. Mi affiancai a lui quanto più in fretta potevo, maledicendo la
natura particolare di quel luogo che trasformava i miei stivali in piombo.
«Non toccarla,» lo avvertii. «Non avvicinarti nemmeno, Rhalgorn. Guarda...» Indicai la sfera che era
davanti a noi. «Per tutti gli Dei, non è
nemmeno come sembra!»
In realtà, vista da vicino, la sfera non era l'oggetto solido che sembrava, ma un cerchio illusorio intessuto
di fili d'argento, d'oro e perlacei, sottile come garza: l'ombra di qualcos'altro che noi non riuscivamo
nemmeno ad immaginare. Mentre la guardavo, la sfera ondeggiava, cambiava. Era molto piacevole
guardarla, fissare quella meraviglia e sapere che le correnti lente e immote dei secoli
incommensurabili...
« Aldair!» Sbattei le palpebre, ritornando all'improvviso dal nulla.
«Noi dobbiamo... andare via di qui,» disse Rhalgorn, «... subito!»
«Si...» tentai di mettere insieme le parole. «Andare... via di qui...»
Improvvisamente fui sollevato da terra e gettato sulle sue spalle. Corysia? Dov'era? Signar, Thareesh...
Era finita.
Ero fuori da quella terribile camera, e i miei compagni erano al mio fianco. Non parlammo né ci
guardammo finché non fummo sulla cima di quelle strette scale e lontani dal decimo livello della
Fortezza di Amazzone... TRENTADUE
I soldati si tengono lontani l'uno dall'altro dopo che una tragedia li ha colpiti. Storditi e silenziosi, non
parlano ai compagni né li guardano negli occhi: perché, facendolo, vivrebbero nuovamente
l'avvenimento che li ha sconvolti.
Avevamo lasciato alle nostre spalle il decimo livello, ma non riuscivamo a liberarci delle sensazioni che ci
aveva provocate. Somigliava molto ai sogni che restano aggrappati alla nostra coscienza molto dopo il
risveglio.
«Qualsiasi cosa sia quella che è avvenuta lì,» disse Signar, «non ho al-cun desiderio di provarla un'altra
volta.» Scolò un boccale di vino e fece una smorfia. «Una volta mi è più che bastato.»
«Si,» disse Corysia, «è più che abbastanza per tutti noi.» La tenevo stretta a me, ma questo non bastava
a fermare il tremito che la scuoteva. Thareesh scosse il capo e aggrottò le sopracciglia. «Erano... molto
simili al naviglio d'oro che è vicino al fiume... non è vero? L'avete notato? Simili, ma non uguali.»
«No,» dissi, «assolutamente diversi. Il naviglio che è accanto al fiume è
reale. L'ho toccato, e so che esiste. Ma non sono affatto certo di ciò che c'era e di ciò che non c'era in
quella stanza.»
«Quando ci ripenso,» disse il Nicieano, «non riesco nemmeno a ricordare bene di essere stato lì.
Questa è la cosa più incredibile, Aldair. Non somiglia a niente che io abbia già vissuto.»
Afferrai il suo sguardo e lo trattenni. «Non è vero, Thareesh. È molto simile a qualcosa che hai già
vissuto. Hai dimenticato l'Occhio dell'Uomo: quel terribile congegno che portò la pazzia nella Capitale di
Rhemia? Non è uguale a questo o alle macchine che siamo certi tracciano il corso della storia. Ma non è
nemmeno completamente diverso. »
Un solo sguardo ai miei compagni mi disse che sapevano esattamente che cosa stavo dicendo. «I
congegni dell'Uomo sembrano molto simili sotto un certo aspetto: fanno poco per migliorare la ragione,
il che è senza dubbio quello che l'Uomo aveva in mente. È chiaro che non abbiamo scoperto una stirpe
migliore e più razionale: è una stirpe uguale alle altre!»
«Non sono così sicura che sia vero,» disse Corysia.
«E io non sono del tutto sicuro che non lo sia!» dissi, anche se la mia rabbia non era indirizzata a lei.
«Rhalgorn, quella porta non deve restare aperta. Siamo corsi via da quel posto come" lepri spaventate.
Ora è tempo che ritorniamo in noi. Testa Rotta ha aperto quella dannata cosa, ora la può
richiudere.»
Rhalgorn annuì e si alzò in piedi. «Aspetta,» gli dissi. «Quando quella stanza sarà di nuovo chiusa,
accertati che l'Uomo Metallico non sia più disponibile per praticare la propria arte. Non voglio che quella
camera venga aperta. Da nessuno. E tu, Signar, metti delle guardie al decimo livello. Anche se quel posto
è chiuso, non voglio che nessuno vi si avvicini.»
«Chi suggerisci?», chiese Signar. « Io penso di sapere di chi possiamo fidarci, ma tutti si stanno
comportando in una maniera particolare in questi giorni.»
Scossi la testa e mi sedetti. «Per il Respiro del Creatore, non fai nessuna differenza tra una soluzione e
l'altra, è vero? Tutti quanti lo sapranno abbastanza presto. È sempre così. Barthius avrà semplicemente
qualche demone in più in cui lagnarsi!»
Quando Signar e Rhalgorn se ne furono andati, restai in silenzio ad osservare il sedimento del mio vino.
Come me, né Corysia né Thareesh avevano molto da dire. Che cosa c'era da dire che avesse qualche
senso?
«Perdona la mia rabbia,» le disse, «non era per te.»
«Non sono preoccupata della tua rabbia,» disse lei. «Metto ancora in dubbio la tua logica, Aldair.
Probabilmente sognerò quella stanza per il resto dei miei giorni, ma le mie o le tue paure non provano
che gli Uomini della Fortezza di Amazzone erano uguali agli altri, provano solo che non abbiamo capito
che cosa abbiamo visto laggiù!»
«Gorysia...», mi sforzai di mantenere la calma. «Che cosa pensi che ci fosse laggiù?»
«Non ne ho idea. E nemmeno tu. Ma non posso dimenticare quello che ti hanno detto i Por'ai. Noi
dovevamo trovare la Fortezza di Amazzone, ricordi? Se il Popolo del Mare è come tu dici, ci avrebbero
mandati in una situazione pericolosa?»
«I Por'ai non sanno tutto, Corysia. E ricorderai che ci sono stati molti posti in cui dovevamo andare, se
riesci a credere che esiste qualcosa che ci guida in questa avventura. E la maggior parte di quei posti
erano sgradevoli e per giunta letali.»
«Lo so,» sospirò lei, «eppure...»
«Io semplicemente non riesco a dimenticare come mi sono sentito in quella stanza. Tu ci riesci? Non
sapevo dove fossi o che cosa stessi vedendo. Per di più, non ero nemmeno certo di quando stesse
accadendo tutto ciò, perché il tempo ha un suo ritmo particolare laggiù. Per me, questa è
stata la corsa più spaventosa di tutte. Che cosa abbiamo disseppellito lì, in nome del Creatore? Se il
tempo stesso si piega alle regole dell'Uomo, chi vi si può opporre?»
Nessuno rispose a questa domanda, il che non mi sorprese. Inoltre, in quel momento Rhalgorn
riapparve, di ritorno dalla sua missione. Senza dire una parola, si sedette e si riempì di vino il più grande
boccale che riuscì
a trovare.
«Mi spiace dirvi che Testa Rotta non è buono a chiudere le porte come lo è ad aprirle,» disse
stancamente. «O se lo è, chiaramente non è dell'umore adatto. Suppongo che mi sarà data la colpa di
tutta questa storia: è sempre il destino di coloro che indicano la strada agli altri...»
TRENTATRÉ
Come mi ero aspettato, le voci riguardanti il decimo livello non tardarono molto a girare. Questa volta
era più facile per i ribelli spaventare l'equipaggio, perché avevano qualcosa di genuinamente spaventoso
con cui lavorare. Ancora una volta, maledissi la mia debolezza nel trattare gli ammutinati. Perfino ai
ferri, in attesa della morte, Barthius era pericoloso. Avevamo preso i suoi seguaci più accesi, ma era
chiaro che non li avevamo presi tutti. Gli altri ribelli erano più cauti nell'agire, rendendo più difficile il
compito di scovarli.
Feci quanto potevo. Parlai a coloro che mi avrebbero dato ascolto. Stabilii la data in cui sarebbe salpata
l' Ahzir, con la speranza che si sarebbero distratti pensando al futuro. Non sono certo che riuscii a
convertire qualcuno. Quelli che volevano sentir ragione, mi ascoltarono. Gli altri, sono sicuro, mi
ignorarono. Quella nuova faccenda del decimo livello fece poco per risolvere i problemi. Avevo proibito
di percorrere le scale che condu-cevano a quella stanza. Ma loro sapevano che cosa c'era lì. Quelli che
avevano dato un rapido sguardo alle sfere d'oro avevano molte cose da dire ai propri compagni.
Di conseguenza, se c'era mai stata la possibilità di soffocare la ribellione, io credevo che quella
possibilità fosse svanita. Mastro Aldair aveva mentito, non era vero? Aveva detto che non c'era niente
da temere nella Fortezza di Amazzone: che cos'altro aveva in serbo quell'amico dei demoni?
Una mattina, trovammo un mio rozzo ritratto sulla parete esterna. Avevo le corna al posto delle
orecchie e una verruca sul muso. La mia coda era più lunga ed era malignamente ricurva alla punta.
«Almeno non calunniano gli Stygiani,» notò Rhalgorn. «Suppongo che non ne abbiano il coraggio.»
«Non ne hanno bisogno,» dissi. «Gli Stygiani, così come sono, già sono molto simili ai demoni.»
Rhalgorn rifletté su questa frase. «Pensi che sia veramente così? È una cosa che non avevo mai preso in
considerazione.» Era chiaro che era stato colpito da quell'idea, e mi annoiò tutto il giorno con le sue
considerazioni al riguardo.
Accadde, come sapevamo che sarebbe accaduto, ma assolutamente non come ci aspettavamo. Signar
era certo che avrebbero tentato di liberare Barthius quel giorno, visto che avevamo deciso che sarebbe
stato giustiziato il giorno dopo. Io ero d'accordo. Avevamo torto. Comportandosi da codardi quali erano,
non fecero alcun tentativo di salvare il loro capo. Invece, decisero che se fossero stati ancora da quelle
parti dopo la morte di Barthius, ci sarebbero stati molti tra l'equipaggio che avrebbero voluto la loro
testa, sempre che non la chiedessi io per primo. Di conseguenza, decisero di diventare due volte
traditori e ricavare qualcosa: nel loro tradimento. Tutto questo lo dedussi con la grande chiarezza del
senno del poi, quando venni a sapere che i ribelli si erano impossessati dell' Ahzir al'Rhaz ed erano in
procinto di salpare.
«Se uno di quei diavoli danneggia solo una tavola di quella nave, mangerò le loro orecchie a colazione!»,
infuriò Signar. Si precipitò lungo il sentiero come una quercia sradicata. Il pelo gli si era drizzato sul
dorso e l'ascia da guerra sibilava al di sopra del suo capo. Amico o nemico, sembrava più prudente
trovarsi alle sue spalle per il momento. Sentivamo il rumore della battaglia, il tinnire del metallo contro il
metallo. Il marrone scuro del fiume divenne visibile, e lì trovammo Rhalgorn, appoggiato comodamente
alla sua spada.
«Sei in ritardo, Pelliccia Grassa,» ghignò. «È quasi finita, e tu non avrai alcun bisogno di ammaccare
quella tua mannaia.»
«Finita?», la mascella di Signar si abbassò per la delusione. Lanciò
un'occhiata all' Ahzir, che ora era ancorato vicino alla riva. In verità, c'era ben poco movimento a
bordo, sebbene sentissi una gran quantità di maledizioni e urla provenire dai ponti.
«Beh, dannazione, saliremo ad ogni modo a bordo,» grugnì il Vikoniano. «Con tutta quella lotta,
probabilmente hanno rotto qualcosa. La gente non ha nessun rispetto per una bella nave, questo è
certo!»
Thareesh era il solo di noi che era stato abbastanza vicino da prendere parte allo scontro, visto che era
stata veramente una battaglia di breve durata. C'era un po' di sangue sui ponti, e qualche freccia
conficcata nelle assi. Per il resto, sembrava uno dei soliti pomeriggi luminosi e nebbiosi sul Fiume
Amazzone.
«Siamo stati fortunati perché c'era qualche guerriero fedele ad oziare sulla riva,» disse Thareesh,
«altrimenti avremmo perso certamente la nave.»
Signar scoprì che i ribelli erano stati quattordici, uno dei quali era di guardia sulla nave. Tre erano stati
uccisi ed uno ferito. Gli altri, terrorizzati dall'idea di trovare resistenza, si erano allontanati velocemente
dalla riva a bordo della nave, poi erano fuggiti dall' Ahzir in una lancia e avevano trovato rifugio sulla
riva di fronte.
«Hai intenzione di inseguirli?», chiese Signar. «Non possono essere andati molto lontano.»
«No,» gli dissi, «sono così ansiosi di lottare con qualcosa: lasciali provare in quella zona selvaggia. Non
penso che gradiranno quello che troveranno sull'altra riva.»
Quando Barthius sentì che i suoi seguaci lo avevano tradito, urlò, bestemmiò e si agitò nei ferri fino a
ferirsi i polsi. I guardiani lo fermarono, e gli strinsero di più le catene in modo che non potesse
dimenarsi. «Non devi ferirti,» gli dissero, «perché domani ti aspetta il cappio.» Erano Vikoniani delle
fredde terre che sono al di là di Vhiborg, e credono che porti sfortuna impiccare una creatura che non
sia in buona salute.
Sha'diir e gli altri non dissero niente. Ormai in loro non c'erano più né
speranza né ribellione. I loro occhi già si specchiavano nello splendore grigio e levigato della morte.
«Dannazione, non ho mai gustato un goccio di birra quanto sto gustando questo!», urlò Signar-Haldring.
«Se quello è un goccio, allora io sono una lepre in un fosso,» disse Rhalgorn, versandosi la maggior parte
della birra sulla pelle. Signar rise e per poco non cadde dalla sedia. Il fatto che quei due si trovassero
divertenti, dava la misura di quanto avessero bevuto.
«Un brindisi!», gridò Thareesh, «ad Aldair!»
«Ad Aldair!», fecero eco gli altri.
Io scoppiai a ridere ed alzai il mio bicchiere...
«Non c'è bisogno che te ne vada,» mi disse Corysia. «So trovare la strada da sola.»
«Non sentiranno la nostra mancanza,» sogghignai. «Da come stanno andando le cose, penso che
continueranno fino all'alba o fino a che i barili non saranno asciutti.»
Allora lei si fermò, e mise le sue mani fredde nelle mie.
«Corysia? Che cosa c'è che non va?» Dall'altra estremità della sala sentii la risata gutturale di Signar.
«Niente, io...» Distolse lo sguardo e lasciò cadere la mia mano. «Come hai detto tu, continueranno fino
all'alba. E poi... io non sono un guerriero, Aldair. Non riesco nello stesso tempo a godere della
compagnia e pensare a domani.»
«Barthius e gli altri.»
Lei annuì. «So che così deve essere.»
«Si, Corysia.»
«Ma io non devo esserne felice.»
«Nessuno di noi ne sarà felice. Ma se non fosse finita in questo modo, sarebbe finita in un altro. Ci
avrebbero impiccati tutti o peggio.»
«Lo so.»
Io risi e le toccai una guancia. «Stai parlando come Aldair, ora.»
«E perché no?» Alzò un sopracciglio in segno di sfida. «Passo molto tempo con Aldair. Non c'è da
meravigliarsi che stia diventando come lui.»
«Che gli Dei non vogliano!», dissi.
«Non interamente come lui.»
«Speriamo di no. Speriamo che tu mantenga le tue caratteristiche. Sarei molto dispiaciuto se non lo
facessi.»
«Anch'io,» disse lei.
«È un buon insieme, e non ho alcun desiderio di cambiarlo.»
«Solo buono?»
«Beh, forse eccellente sarebbe un aggettivo più appropriato.»
«Si, anch'io lo penso. Almeno eccellente...»
Restammo lì per un lungo momento a stringerci l'uno all'altro senza dire niente, assaporando un silenzio
che non aveva bisogno di parole. La lasciai con l'assicurazione che l'avrei raggiunta dopo un minuto, e lei
disse che molto probabilmente sarebbe restata, se la cosa non fosse durata più a lungo. Dall'alta finestra
che era all'estremità del corridoio, aspirai l'odore denso e umido della notte, e vidi i puntini freddi e
luminosi di milioni di stelle. Conosco il cielo meridionale, ma non mi abituerò mai alle sue configurazioni
insolite. Non c'è il Guerriero Zoppo ad indicare la strada; la fascia nebbiosa della Catena dello Schiavo è
al di là dell'orizzonte. Avrei visto di nuovo, mi chiesi, i cieli che conoscevo così bene, e le terre che si
stendevano al di sotto di essi? È meglio mettere da parte questi pensieri, perché le terre che conosco
non sono come le ricordo, e non desidero immaginarle come sono veramente. Dall'altra estremità della
sala mi arrivò un sonoro scoppio di risate, poi un altro. Sogghignai tra me e me. Avrebbero rimpianto
questa notte l'in-domani mattina, ma il giorno a venire non preoccupa dei guerrieri con un barile di vino.
La risata mi arrivò di nuovo, più sonora questa volta. Dannazione, pensai, volevano coinvolgere tutta la
Fortezza? Se Signar... Si alzarono altre risate, ma questa volta un altro rumore si intrecciò al primo... un
rumore che mi fece rizzare i peli. Non erano risate, era il fragore di una battaglia... e l'altra voce era
quella di Corysia!
« Corysia!» Corsi lungo la sala, e i miei stivali rimbombarono sulla pietra cava. La sentii di nuovo, e
questa volta la sua voce era accompagnata dall'inconfondibile tintinnio delle lame che urtavano l'una
contro l'altra. Girai un angolo e mi trovai improvvisamente davanti a loro. Erano due Vikoniani e un
soldato nicieano. Per un decimo di secondo si fermarono, sorpresi di trovarsi me di fronte. Poi tutti e tre
mi furono addosso, con le armi strette in mano. Un'ascia vikoniana fischiò al di sopra della mia testa: la
schivai, feci una finta a sinistra, e misi il Nicieano tra me e gli altri. La lama del soldato calò. Le andai
incontro, la feci cadere, e abbassai la mia spada con un colpo rapido. Lui emise un singulto, barcollò
all'indietro, reggendosi una manica vuota. Non è una vergogna evitare due guerrieri vikoniani.
«Aldair, qui!» Rhalgorn si precipitò nella sala, scendendo dalle scale. Dietro di lui, un gruppo di guerrieri
fedeli si riversò nel corridoio. Ad un suo rapido ordine, una metà seguì i ribelli vikoniani, gli altri si
sparsero intorno a noi.
«Corysia,» dissi, «Rhalgorn, lei è...»
«Lei è scomparsa, Aldair,» disse cupamente. «Ho visto. Solo pochi minuti fa.»
« Scomparsa!»
«L'hanno presa, ma noi la riprenderemo. Lo giuro, Aldair.» Mi trascinò
dietro di sé.
Io mi fermai, mi divincolai. «Rhalgorn, la dobbiamo riprendere subito!»
«La riprenderemo quando ci sarà possibile!», disse bruscamente. «Guarda, amico mio, siamo stati
giocati, imbrogliati. Quella faccenda della nave era solo uno stratagemma per farci sentire al sicuro. Ed
ha funzionato veramente bene!»
Lo guardai. «Sono stati i ribelli che si erano impadroniti dell' Ahzir!»
«No, non penso che abbiano partecipato anche a questa lotta. Ce ne sono altri, più di quanti
immaginassimo. I demoni si sono rivelati solo ora: penso che ci abbiano perfino aiutati a sbaragliare gli
altri!»
Un brivido mi attraversò la spina dorsale. «Allora hanno liberato Barthius. Se lui ha preso Corysia,
Rhalgorn...»
«Se l'ha presa, noi la riprenderemo.»
Uno dei nostri gridò un avvertimento. Da un corridoio che era alla nostra sinistra arrivò un'orda di
guerrieri ribelli. Lanciammo il nostro grido di battaglia e li assalimmo prima che si fossero ripresi. La mia
lama trapassò
un Nicieano e io me ne andai prima ancora che lui cadesse. Un robusto Vikoniano mi sovrastò. Con un
ululato che mi scosse il cervello, tagliò in due la persona che mi stava alle spalle, poi si diresse col suo
passo pesante verso di me. Mi spostai, ma non abbastanza in fretta. Mi colpì in pieno alle spalle e mi
buttò a terra. Mi assalì come una nube scura; afferrai la mia lama con ambedue le mani e colpii
ciecamente in avanti. Il guerriero gemette, afferrandosi lo stomaco. Un grande zampillo di sangue mi
colpì il petto; lui indietreggiò verso il muro, a tentoni, mentre dallo stomaco gli sporgeva l'elsa della
spada. Sentii chiamarmi, e un soldato che non avevo mai visto mi lanciò una nuova arma.
All'improvviso, li sconfiggemmo. Non furono molti ad alzarsi e fuggire, e alcuni dei nostri giacciono
ancora fra loro."
Signar e Thareesh ci incontrarono in cima alle scale: alle loro spalle c'era un gruppetto di soldati. Il
Vikoniano era coperto di sangue, ma nemmeno una goccia era sua. «Sono scesi da questa parte,» gridò,
«erano la maggior parte!»
«Hai visto Corysia?»
Lui scosse la grande testa. «No, Aldair, ma Barthius è sceso qui sotto, lo so per certo.»
«Allora anche Corysia è lì.»
«È probabile; ha portato con sé Sha'diir e i peggiori tra i suoi seguaci. Noi abbiamo incontrato solo gli
ultimi rimasti a questo livello.»
«Sha'diir non è con loro,» sibilò Thareesh. I suoi occhi d'agata nera erano gelidi di ira. «L'ho finito io
stesso!»
Le sue parole si persero alle mie spalle perché mi precipitai lungo le scale e scomparii. Non vedevo
niente davanti a me oltre Barthius e Corysia. Ero cieco a qualsiasi altra cosa. Una gelida lama di ghiaccio
mi aveva trapassato il cuore.
«Dannazione,» disse Signar, afferrandomi con violenza, «non andrai lì
più in fretta di tutti noi!»
Mi liberai dalla sua stretta. «Rhalgorn, ispeziona questo piano, manda dei guerrieri lungo quel
passaggio.»
Tornarono dopo qualche minuto. Non c'era nemmeno un ribelle in vista. La lama di ghiaccio divenne più
affilata nel mio cuore. «Per la Vista del Creatore, sono scesi ancora più giù: al decimo livello!»
Erano lì e ci aspettavano. Una grandine di frecce sibilò lungo le scale e ci colpì. Un grande Vikoniano, uno
degli esuli di Sergrid Mezza-Barba, le raccolse sul suo scudo e scoppiò a ridere. I ribelli avevano formato
un muro di lame per opporsi a noi, ma noi ci riversammo su di loro come un fiume, colpendo, tagliando,
aprendo uno squarcio mortale nelle loro fila. Signar si aprì la strada nel branco a colpi d'ascia, lasciando
oscurità dietro di sé... Thareesh era una macchia rabbiosa di verde che apriva gole ovunque toccava... E
Rhalgorn, questo spettro silenzioso e grigio che porta la morte con la stessa rapidità dell'ombra, era il
più temuto di tutti. Perfino il grande Vikoniano rimpiccioliva alla sua presenza, perché un guerriero
stygiano è l'uccisore di anime, l'apportatore della notte, lo scava-fosse del mondo...
Scorsi Barthius ai margini della lotta. Un guerriero mi ostacolò la strada, e quando guardai di nuovo era
scomparso. Una lama mi colpì di piatto l'elmo, facendomi quasi perdere i sensi. Mi voltai, feci
indietreggiare il soldato, e fui fuori dalla mischia.
Barthius mi vide, sogghignò, restò fermo un momento, poi corse verso le ombre. Gli balzai dietro, mi
fermai... e mi sentii agghiacciare. Quando si voltò di nuovo lei era lì, stretta contro di lui. Un braccio le
serrava la vita, l'altro reggeva una lama piccola e sottile contro la gola di lei.
« Non lo fate, Mastro Aldair,» disse con calma, «sapete che l'ammazzerò, e volentieri!»
«Lasciala stare, Barthius.»
Lui rise. «Non è molto probabile, Mastro Aldair.»
«Non è sua questa lotta. È nostra. Tua e mia.» Mi avvicinai di un passo. I suoi occhi si incupirono per la
rabbia e lui avvicinò ancora di più la lama contro la pelle di lei.
«È morta se vi avvicinate ancora,» gridò, «l'ammazzerò sicuramente!»
Non mi fermai. Feci un passo... un altro. Mi guardò come se fossi impazzito.
«Non lo fate!»
«Lo farò. Vengo a prenderti, Barthius.»
«Io... l'ammazzerò. Lo farò sicuramente!»
«No, tu non lo farai. Perché, se lo farai, ammazzerai te stesso. Tu sei un codardo, e non hai nessuna
voglia di morire. Non nel modo in cui io ti farò
morire.» Pregai che non vedesse la paura che avevo, perché ero costretto a comportarmi in quel modo.
Se cedevo terreno, come chiedeva lui, lei sarebbe morta. Si guardò freneticamente intorno. Non c'era
nessuno che potesse aiutarlo. I suoi amici avevano i loro problemi. Barthius indietreggiò di un passo, poi
di un altro, si lanciò un'occhiata alle spalle e aumentò la sua stretta su Corysia. La lama di ghiaccio mi
toccò la spina dorsale ed io improvvisamente seppi che cosa stava facendo: non aveva nessuna
intenzione di dirigersi verso le scale o verso qualche altro posto. Stava ripiegando in un'altra direzione, e
lungo il suo cammino non c'era nient'altro che la porta della camera.
Mi fermai. «Non lo fare, Barthius!»
Lui alzò gli occhi in alto, poi si guardò alle spalle. Un sorrisetto gli increspò il viso.
«Non volete che veda che cos'avete lì dentro, Mastro Aldair?»
«Non puoi sapere che cosa c'è lì dentro. Non devi saperlo.»
«Ma lo saprò!»
«Barthius, ascoltami!»
Si mosse rapidamente, spingendo Corysia attraverso la porta aperta. Gli occhi di Corysia si spalancarono,
ed io capii che non potevo più aspettare. Qualsiasi cosa succedesse, non potevo permettere che lui la
portasse lì
dentro! Corsi, senza pensare a quello che poteva fare Barthius. Già sentivo la terribile atmosfera di quel
posto.
Barthius alzò gli occhi, e mi vide. Capì solo che stavo andando a prenderlo. Lo stupore stravolse i suoi
tratti. Ora avvertiva quello che c'era nella stanza. Dietro di lui si stagliava una sfera d'oro, ardente come
l'alito di un Dio.
« Barthius!»
Era troppo lontano e sapevo che non l'avrei mai raggiunto. Tutto quello che potei fare fu guardarlo
inciampare nella sfera, trascinando Corysia con sé.
Il tempo si frantumò in un milione di pezzi, che scomparvero. Un attimo rapido, un colore che non era
affatto un colore. Dove prima c'era la sfera d'oro, ora non c'era niente.
« Corysia! »
La chiamai, ma lei non rispose.
« Corysia! »
Gridai il suo nome, ma lei non sentì.
« Corysia! »
Gridai mille urla, ma lei non sarebbe venuta. E se lei non sarebbe venuta, allora sarei andato io lì dove lei
era scomparsa.
« Aldair... per tutti gli Dei...! » Rhalgorn mi trattenne tra le sue mani di ferro. Mi liberai della sua
stretta, respirai polvere d'oro e d'argento, e caddi nel domani...
EPILOGO
«Suppongo che sarà mia la colpa di tutta questa storia,» disse Rhalgorn.
«Non vedo come questo ci possa aiutare,» gli dissi. «Comunque, se ti rende felice, puoi assumerti la
colpa di tutto quello che desideri. Veramente non mi interessa.»
«Io non penso che l'errore sia stato tutto mio,» disse dopo un momento.
«Bene.»
«Ho aperto la porta, con l'aiuto di Testa Rotta, ma non ho chiesto alla gente di entrare nelle sfere d'oro.
Questa è stata più o meno una tua idea...»
«Va bene.»
«... Non mia.»
«Va bene, Rhalgorn...»
Se il tempo si muoveva, scivolava via con tanta calma che non lo vedevopassare...
«Aldair, vorrei sapere esattamente dove siamo. Gli Stygiani hanno un ottimo senso dell'orientamento,
ma devo ammettere che in questo momento sono alquanto confuso.»
«Come ho già detto, non siamo precisamente in nessun luogo, Rhalgorn. Più preciso non posso essere.»
«Non ha molto senso,» disse lui. «Ognuno è in qualche luogo.»
«Anche questo non ha molto senso,» gli dissi, indicando oltre le sue spalle. «Ciononostante, c'è.»
Forse per la millesima volta da quando tutto era incominciato, guardai la scena che era al di fuori delle
pareti argentee della nostra sfera d'oro. Era sempre la stessa visione: un numero infinito di stelle dalla
luce fredda contro un'oscurità grande e incommensurabile. Ogni tanto, sembrava che ci muovessimo
contro quella oscurità, ma non saprei dire se ci avvicinassimo o ci allontanassimo. Guardavo, però,
perché non c'era altro da vedere.
« La troveremo... »
«Che cosa?»
«Ho detto che la troveremo. Corysia. Stavo parlando tra me e me.»
«Si,» disse, «la troveremo, Aldair...»
Se i secondi diventavano secoli, passavano così lievi che li sentivo ap-pena...
«Almeno, sappiamo dove è andato l'Uomo... o come ci è arrivato, ad ogni modo. Anche se non sono
certo che questo sia di grande aiuto ora.»
Rhalgorn alzò un sopracciglio. «Pensi che sia così? Che sia andato da qualche parte dentro questa
cosa?»
«Mi pare ragionevole pensare che le sfere abbiano questo scopo. Non ti pare?»
«Non è un modo molto decoroso di viaggiare,» disse Rhalgorn. «Il miglior modo per spostarci è quello di
servirsi di una cosa che abbia il timone. Qui non vedo niente del genere.»
«Forse non ha bisogno di timone.»
Rhalgorn fece una smorfia. «Aldair... questo... »
Corysia, Corysia... sei qui fuori, da qualche parte, o vai alla deriva suun'altra corrente del Mare Oscuro?
Avevo creato una fantasia che mi consolava. Corysia aveva una sua propria sfera: Barthius, per qualche
felice errore, non era più con lei.
«Vorrei essere nelle foreste dei Lauvectii, Aldair.»
«A volte, anch'io vorrei che tu fossi lì, Rhalgorn.»
«Probabilmente ora ci sono le lepri da quelle parti. E una neve bella e soffice. Quella giusta per scovare
la selvaggina.»
«Probabilmente.»
«Più di tutte, mi piacciono quelle con le orecchie corte e a punta. E a te non piacciono?»
«Come ben sai, non mi interessano le lepri di nessun genere, Rhalgorn.»
Le ere cantano una canzone, ma se mi fermo troppo a lungo a sentirla,scompare...
«La troveremo, Aldair.»
«Lo so.»
«Forse troveremo anche noi stessi. Sono convinto che l'Uomo guidava queste sfere da un posto all'altro.
Se partiva dalla Terra, aveva sicuramente un altro posto dove andare.»
«Penso che tu abbia ragione.»
«Sono stanco di stare qui, Aldair. Non c'è molto da fare. Troveremo un posto dove attaccare questa
sfera. E troveremo anche Corysia.»
«Hai ragione. Sono due cose che dovremmo fare, Rhalgorn.»
Penso che sia passato un momento... Ne ho scorto l'estremità con la co-da dell'occhio...
FINE
NEAL BARRETT JR.
LA LEGIONE DEI SEMIUMANI
(Aldair: the Legion of the Beasts, 1982)
ALDAIR: ULTIMO ATTO
Non vi renderei certo un buon servigio se, arrivati all'inizio di questoquarto e conclusivo volume della
serie di Aldair, vi dicessi come va a fini-re la ricerca del nostro eroe snodatasi lungo tutto l'arco dei tre
precedentivolumi. Mi limiterò quindi ad alcune brevi note generali inerenti il Ciclodei Semiumani nel loro
complesso.
Avevo avuto modo di dirvi nella presentazione al primo volume di que-sta Saga, ALDAIR IN ALBION,
come, a differenza della maggior parte deiCicli di fantascienza e di fantasy, questo si sviluppava «in
crescendo», os-sia l'interesse del lettore aumentava di volume in volume, rimanendo sem-pre desta la
sua attenzione.
Ottenere un risultato del genere in un insieme narrativo comprendenteben quattro romanzi, non è certo
cosa da tutti, ma Barrett c'è riuscito. E
come c'è riuscito? È molto semplice. In primo luogo, Barrett è uno scritto-re con la S maiuscola e ben lo
sanno gli appassionati americani di fanta-scienza e fantasy i quali, ormai da anni, lo situano ai vertici
delle loropreferenze. In secondo luogo la struttura del Ciclo. Come vi potrete facil-mente accorgere dalla
lettura dei tre precedenti volumi, la trama comples-siva della vicenda è estremamente lineare: non vi è
nulla di complesso,d'intricato, di tortuoso, in una parola, di difficile comprensione od intelli-gibilità. E
questa, signori miei, checché se ne dica, è sempre una formulavincente nella narrativa.
Il lettore di questo particolare genere di narrativa infatti, non è assolu-tamente favorevole all'immissione
nei contesti narrativi di questo genere,di forti dosi di problematiche sociali, politiche, o al lancio di
«messaggi»
più o meno dissimulati dai contesti fantastico-spaziali che fanno obbliga-toriamente da contorno alle
vicende che vengono narrate. In oltre tren-t'anni di frequentazione di appassionati di fantascienza e
fantasy - salvopochissime eccezioni - ho sempre sentito dire che, per fare politica, bandi-re crociate a
livello sociologico, o comunque lanciare messaggi di altocontenuto etico e morale, esistono dei contesti
molto più idonei e consoniche non certamente la narrativa di fantascienza e di fantasy.E, francamente,
non posso dar torto a questa tesi: è un po' come volerandare a fare una gita sui prati in smoking o in
frac. Attenzione però anon equivocare. Non voglio certo con questo affermare che la narrativa
difantascienza e fantasy debba ridursi ad una letteratura di puro escapismodove tematiche di un certo
impegno debbano obbligatoriamente esserefatte oggetto del più severo ostracismo. Assolutamente no, e
stanno a di-mostrarlo le molte opere di indubbio valore contenutistico che sono per lamaggior parte
frutto della penna degli autori che diedero origine alla
«new wave» o che in seguito si richiamarono ad essa, come tutti voi sapetebene. Il problema è solo una
questione di «dosaggio», nel senso che biso-gna stare molto attenti a non calcare eccessivamente la
mano, ottenendocosì da parte del lettore un rifiuto.
Il lettore, nel momento che prende in mano uno di questi libri, si spogliadella sua identità di tutti i giorni,
che lo vede impegnato nel lavoro, nellacasa, nella politica, nella famiglia, eccetera, per concedersi un
momentodi riposo in quei mondi dell'immaginario che scaturiscono dalle sue lettu-re preferite. È
bombardato quotidianamente da messaggi di tutti i tipiportati ad invadere la sfera del suo io in tutti i
modi immaginabili, per cuinon gli si può certo imputare a delitto il desiderio di voler abbandonareper
qualche ora il meccanismo perverso e vorticoso nel quale è costretto avivere, per seguire le vie
dell'immaginario che gli prospettano gli scrittoridi fantascienza e fantasy.
Il vissuto quotidiano, la realtà di tutti i giorni gli sono ben note: spessoe volentieri anzi, gli sono
tristemente note, forse proprio perché non riescea vedere realizzate quelle istanze sociali, di giustizia,
etiche e morali, dellequali sente tanto parlare ma che raramente riesce a vedere concretizzate.Le
frustrazioni sono il pane quotidiano. Esistono frustrazioni nell'am-biente di lavoro, nella famiglia, con gli
amici, e così via dicendo: che malec'è allora se l'appassionato di narrativa fantastica chiede agli autori
deisuoi libri un po' di quel « sense of wonder» che è stato, è, e sarà semprealla base di questo genere
di narrativa?
E Neal Barrett è uno di quegli autori che sanno immettere nei loroscritti anche il «senso del
meraviglioso». Meraviglioso che scopriamo at-traverso gli occhi di Aldair e dei suoi compagni in questa
lunga ricercacondotta in un mondo che ci appare allo stesso tempo così diverso daquello che noi
conosciamo e così familiare. Ma forse l'abilità dello scritto-re consiste proprio in questo, ossia nel farci
riscoprire ed apprezzare coseche, data la lunga abitudine ad esse, non siamo più in grado di
valutareappieno.
Per dirla con Aldair - il quale apprezza molto i proverbi e le citazioniun vecchio detto cita che «una cosa
la si apprezza quando non la si hapiù» e, a ben vedere, forse questo è l'unico, timido messaggio che il
nostroscrittore statunitense ci propone.
Comunque abbiamo già perso troppo tempo in questioni serie o seriose(a seconda di come ciascuno le
interpreta) per cui mi sembra che sia orafinalmente - di conoscere l'esito della quest (fa molto
fantasia eroica, nontrovate, anche se vuol dire solo «ricerca») di Aldair, per cui... buona lettu-ra della
conclusione del Ciclo.
Ma sarà poi certo che Barrett ha posto veramente la parola fine al Ciclodei Semiumani? Quando un ciclo
ha successo...
Gianni Pilo
PROLOGO
Una volta, nella piazza del mercato di Chaarduz, mi ero imbattuto nelpiù fantastico e prezioso dei tesori.
Si trattava di una semplice scatola, fi-nemente lavorata, non più grande della mia mano, laccata di un
colore az-zurro cobalto come quello del mare. Quando aprii quella scatola, al suointerno ce n'era ancora
un'altra. E, all'interno di quella, un'altra ancora.Affascinato, continuai a tirar fuori una scatolina
dall'altra, finché rag-giunsi un quadratino minuto e sottile, simile ad una pietra preziosa, dicolore blu
intenso e non più grande degli escrementi di un topo. Lì mi fer-mai, temendo che le maldestre dita di un
guerriero potessero ridurre inpolvere quella meraviglia.
«Buon uomo,» chiesi al mercante che gironzolava alle mie spalle,
«quante altre scatole si trovano all'interno di questa? Non riesco a crede-re che ce ne possa essere
ancora anche una sola, perché persino gli arti-giani di Nicea non arrivano ad essere tanto abili.»
Gli occhi neri come l'agata del vecchio incontrarono i miei. «Signore,posso solo dirti ciò che è stato detto
a me. E cioè che non vi è fine allescatole...»
La piazza del mercato di Chaarduz, e quella stessa stupenda città, sonostate da lungo tempo inghiottite
dalla Grande Depressione. L'Impero diNicea è scomparso e, presumibilmente, ogni cosa che lo
riguardava. Per-sino Rhemia, antica e acerrima nemica dei Niceani lungo le coste del MarMeridionale,
giace tetra e gelida sotto una coltre di paura. In verità, il re-sto del mondo non se la passa molto meglio.
Tuttavia, sebbene siano passati innumerevoli anni e milioni di stelle, miricordo molto bene quel
momento sotto il fiero sole di Nicea. Sono più
vecchio ora, anche se non molto più saggio, e il tempo mi ha insegnatouna cosa, anche se forse è stata
l'unica: non sono più certo che il vecchiomercante abbia mentito sulla storia delle sue scatole.In effetti,
sembra che ogni piccolo pezzo di verità porti a un altro fram-mento di verità, e poi ad un altro ancora: e
il successivo è sempre più
sconcertante del precedente. So che il mio mondo non è così come sem-bra... so che siamo solo le
creature dell'Uomo, foggiate con pelliccia, peli,piume e scaglie, per il suo crudele divertimento... So che
l'Uomo si stancò
di questi giocattoli, proprio come un bambino viziato, e li abbandonò alloro destino...
Ora, finalmente, ho seguito le sue tracce confuse e caotiche fino allestelle. So cos'è, e cosa è arrivato ad
essere. Mi sono trovato di fronte a lui,l'essere creato davanti al suo creatore, e ho guardato nei suoi
occhi tristi eterribili.
Conosco tutte queste cose. Tuttavia, ci sono ancora altre scatole daaprire. E solo una creatura insensata
come me può desiderare di svelarecosa si nasconde al loro interno...»
Aldair, già dei Venicii,
Capo della Legione dei Semiumani
UNO
Quando ero più giovane, pensavo che nel mondo ci fosse poco da scoprire. Tutti i giorni erano
perfettamente uguali nella sconfinata e vasta terra degli Eubironi e, se pure le cose cambiavano,
cambiavano molto lentamente, e senza dare troppo nell'occhio. Era un mondo solido e affidabile, che si
reggeva sui sani valori di verità e tradizioni incrollabili. Crescendo, ho imparato che non tutte quelle
verità sono sempre vere. Così, un serpente non diventa un bastone se sputi sui suoi escrementi. Un
foruncolo sul muso non se ne va se lo strofini con un ravanello. Anzi, si infiamma ancora di più. Ancora
più tardi, quando cominciarono le mie avventure, scoprii che il Mare delle Nebbie non si dilegua nella
vuota immensità dell'Isola di Albion. Conduce, invece, in terre strane e terribili, da lungo tempo
dimenticate da tutto il resto del mondo.
Così, nel giro di pochi anni, ho visto vacillare la ragione e la verità mutarsi in menzogna almeno una
dozzina di volte. Ho visto fiorire la bellezza sulle ceneri della distruzione. Ho imparato che niente rimane
immutato. Tranne Rhalgorn.
I guerrieri Stygiani sono incapaci di cambiamenti. Conta ben poco per loro trovarsi all'improvviso ad
essere violentemente scagliati attraverso il tempo e lo spazio, da un mondo all'altro. Rimangono testardi
e irragionevoli come sempre, come se non avessero mai abbandonato le rigogliose foreste dei Lauvectii.
Osservavo Rhalgorn se ne stava accovacciato a pochi metri di distanza. I suoi occhi rosso fuoco fissavano
un punto non ben definito al di là del muso, e le lunghe orecchie appuntite gli penzolavano abbandonate
lungo la testa. La sua pelliccia aveva un colore grigiastro in quella strana luce indistinta, e riuscivo a
vedere i forti fasci di muscoli che si tendevano sotto la sua pelle.
Non è difficile indovinare a cosa sta pensando un Signore dei Lauvectii. Dal momento che gli Stygiani
sono i più abili e i più astuti assassini del mondo, qualche volta pensano alla morte. Mai alla loro,
naturalmente. Spesso riflettono su qualche profondo problema filosofico per giorni e giorni. Come
sarebbe un rospo se potesse volare? Una formica fa pipì tutti i giorni, e in che quantità?
Per la maggior parte del tempo, comunque, gli Stygiani pensano al cibo. A giudicare dal modo in cui la
sua grossa e folta coda batteva nervosamente sul terreno, decisi che era quello l'argomento che
dominava i suoi pensieri. Quasi certamente nel giro di pochi minuti si sarebbe messo in posizione eretta,
si sarebbe stiracchiato con comodo e si sarebbe messo a scrutare l'orizzonte con aria cupa.
«Aldair,» mi annunciò, «ho fame. Poiché in quest'assurdo posto non c'è
modo di sapere che ora è, non so più dire quanto tempo è passato dall'ultima volta che la mia povera
pancia ha toccato qualcosa da mangiare. Ma direi che si tratta di una mese e giù di lì.»
«Lo sapresti se fosse un mese,» lo rassicurai.
«Oh, davvero?» Alzò il muso e annusò con fare sdegnato dalla mia parte. «Bene, è inutile dire che mi
sento enormemente sollevato dalle tue parole.»
«Rhalgorn...»
«No, Aldair. Vedi, mi era venuta questa stupida idea che potessimo aver fame, e che fossimo ormai
irrimediabilmente persi. Così, solo perché siamo stati trasportati per non so quanto tempo tra le stelle, e
siamo atterrati su un mondo dove gli alberi crescono a testa in giù...»
«Io non credo che siano esattamente a testa in giù,» gli dissi. «Penso invece che sia proprio così che
debbano essere.»
«Certamente. E il cielo di solito è giallo e rosa. Come le interiora di un pollo.» Rhalgorn emise uno strano
suono, si tirò su il cinturone e se lo fissò intorno alla vita.
«Dove stai andando?»
«Ti ho detto che avevo fame, Aldair.» Sollevò un angolo del muso e mi mostrò i suoi denti affilati e la
lingua rossa. «Quando i Signori dei Lauvectii hanno fame, mangiano. Non se ne stanno seduti da qualche
parte a tirarsi i peli della barba dal grugno come fa qualcuno di mia conoscenza.»
Non mi pareva proprio di stare facendo niente di simile, e quindi lo interruppi bruscamente.
«Buona fortuna,» dissi. «Sarà interessante vedere cosa riuscirai a catturare, e che colore avrà.»
Rhalgorn mi guardò con fare stupito.
«So di che colore sarà. Sarà marrone, con la coda corta e le orecchie lunghe. È questo l'aspetto delle
lepri, se ti ricordi bene.»
Io lo guardai. «Stai per andare a caccia di lepri?»
«Certamente.»
«Su questo mondo...»
«Certo, su questo mondo. Dove altro dovrei andare? Aldair, ammetto che i colori e gli odori sono
piuttosto sconvenienti in questo posto. Non è il luogo più adatto per dei guerrieri Stygiani ma,
ciononostante, è pur sempre un mondo. Il Creatore ha commesso un piccolo errore con il colore del
cielo e con la sistemazione degli alberi, ma sono sicuro che Lui non ha dimenticato di creare qualche
grossa e bella lepre. Sarebbe semplicemente ridicolo.»
Sì,» dissi stancamente, non avendo nessuna voglia di litigare. «Sono certo che tu abbia ragione.»
Rhalgorn ghignò.
«Forse troverò anche qualcosa di simile ai fagioli e a qualche brutta radice lungo la strada. Se così
dovesse essere, te ne porterò un po'.»
«Quelle cose, come tu dici, si chiamano verdure, e tu lo sai bene. Dal momento che stai andando a
cercarle, mi staranno benissimo delle carote, delle rape e qualche bella patata. E anche qualche
pomodoro, se ne trovi. Ma rossi, per favore. Non mi piacciono se non sono ben maturi.»
«Me ne ricorderò,» disse lui, e si avviò a grandi passi verso occidente. Almeno, presumo che fosse verso
occidente. In precedenza le nuvole color verde-giallo che coprivano quel mondo avevano brillato più
luminose sopra le nostre teste. Ora, quella lucentezza si era avvicinata all'orizzonte. Calcolai che ciò
stesse a indicare l'esistenza di qualcosa di simile a un sole lì su, e che questo stesse tramontando proprio
davanti alla strada lungo la quale Rhalgorn si era incamminato. Perché tutto ciò che sapeva era che
quella specie di sole tramontava a est il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Ovviamente era solo un'utile
perdita di tempo voler paragonare quel mondo così assurdo e bizzarro con quello che ci eravamo lasciati
alle spalle. L'ampia pianura erbosa dove la sfera d'oro ci aveva lasciati non aveva in realtà assolutamente
niente a che fare con l'erba. Il terreno era sì
ricoperto da alcune piante, ma si trattava di un tipo di vegetazione simile a delle escrescenze scolorite e
carnose che non superavano la grandezza delle mie dita, tinte di una debole e malsana tonalità di
marrone. Qui e là
un gruppo di rocce bulbose della grandezza di piccole case spuntavano dal terreno. Queste brutte
montagnole erano dello stesso colore delle piante e assomigliavano in tutto e per tutto agli escrementi
di qualche enorme animale. Eppure, gli alberi erano le cose più affascinanti che ci fossero in quel posto.
Alti come querce, avevano il colore del ferro arrugginito ed erano del tutto simili a come Rhalgorn li
aveva descritti. A testa in giù. Se quei giganti pieni di radici avevano delle foghe di qualche genere, io
non ero riuscito a scovarle. E quindi si può dire che si trattava di un ambiente pastorale veramente
idilliaco... per qualcuno. Ma per un individuo abituato al verde lussureggiante della Terra e ai suoi cieli
turchini, era a dir poco sconvolgente. Penso che non fosse passata più di un'ora quando Rhalgorn si
rifece vivo. Si era fatto buio, ma riuscii facilmente a rendermi conto che non trasportava sulle spalle
nessuna lepre.
«Non dire niente,» grugnì prima che io aprissi bocca. «Non sono dell'umore adatto per poter sopportare
l'acuto spirito dei Venicii.»
«Non avevo assolutamente intenzione di fare apprezzamenti,» mentii spudoratamente.
«Bene. E allora non farlo.» Si lasciò cadere su una grossa pietra tonda e mi guardò. «Aldair, siamo
veramente nei guai.
Per quanto ne sappia, non c'è assolutamente nulla da mangiare su l'intera superficie di questo mondo.»
«Non credo che tu sia riuscito a girarlo tutto.»
Mi lanciò un'occhiata torva e mostrò i denti.
«Non ho avuto bisogno di girarlo tutto. Dall'altro lato di questi ridicolissimi alberi c'è un altro tratto di
terra come questo. E, finito quello, ci sono altri alberi, e poi un altro pezzo di terra. Non ci sono uccelli,
non ci sono insetti: non c'è praticamente nulla. Tranne questo.» Si alzò in piedi, cercò
nella pelliccia e tirò fuori un pezzetto di stoffa ripiegato.
«Che cos'è?»
«Stendi la mano e te lo farò vedere.»
Lo fissai con aria stanca e tenni ferma la mano lungo il corpo. «Rhalgorn, noi abbiamo un proverbio negli
Eubironi. Solleva le mani al cielo, e qualche uccello ti lascerà un regalo.»
Rhalgorn sembrò ferito.
«Siamo ben lontani dagli Eubironi, e questo direi proprio che non assomigli ad un uccello.»
Con molta riluttanza aprii la mano. Rhalgorn ci fece scivolare qualcosa. Osservai la cosa alla fioca luce del
tramonto. Non sembrava molto diverso da un fungo... anche se non mi era mai capitato di vedere dei
funghi ricoperti da ispidi peli grigiastri. Mentre stavo osservando quella strana cosa, sulla parte
superiore spuntarono due sottili peduncoli. All'estremità di ognuno dei peduncoli si trovava un occhio
nero e lucente. Gli occhi scrutarono l'ambiente circostante, si accorsero di me, e poi si ritrassero di
nuovo. Allora quella bizzarra creatura si sollevò di circa due centimetri su delle zampette simili a quelle
di un ragno, saltò a terra e scappò via. Io rimasi piuttosto perplesso a guardarmi il palmo della mano.
Proprio nel mezzo c'era un piccolo mucchietto grigio di un'odiosa sostanza.
«Molto divertente,» dissi, mentre mi strofinavo la mano su una roccia li vicino per ripulirmi la mano da
quella robaccia.
«Pare anche a te?», ghignò Rhalgorn con aria soddisfatta. «È esattamente lo stesso ricordo che ha
lasciato anche a me.»
«Potevi farmi la cortesia di avvertirmi.»
«Sì, avrei potuto. Ma non avrebbe fatto lo stesso effetto. C'è differenza tra sentir raccontare una cosa e
provarla effettivamente...»
Rhalgorn si interruppe. Rimase con le mascelle spalancate a guardare qualcosa dietro le mie spalle. Con
un balzo mi spostai lateralmente e vidi la cosa arrivare.
«Abbassati!», urlò Rhalgorn, e mi spinse violentemente a terra. Aveva appena finito di pronunciare
quelle parole, quando la cosa passò rombando sulle nostre teste e si perse lontana nel cielo,
scomparendo immediatamente alla nostra vista. Un fragore scosse la terra ed io avvertii il forte calore
del suo passaggio. Sconvolto mi rialzai in fretta e mi girai. La cosa mostruosa si trovava ora verso nord, a
meno di sei-settecento metri di distanza da noi. Continuava a volteggiare in quel momento: una scura
scoria di ferro bitorzoluta che eruttava fiamme bluastre del suo ventre. Poi si abbassò lentamente sul
terreno, scomparendo dietro un alto cumulo di pietre.
«Per la Vista del Creatore,» mormorò Rhalgorn, «cosa diavolo era quell'orrore?» Il tono della sua voce
sembrava fin troppo alto nell'improvviso silenzio che era calato.
«Suppongo che faremmo meglio a scoprirlo il più presto possibile,» dissi. «Anche se ci sarebbero
parecchie cose che preferirei fare in questo momento.»
«Potrebbero avere qualcosa da mangiare,» disse Rhalgorn speranzoso.
«Sì, potrebbe essere così.»
Mi girai a guardarlo.«È vero. Pur tuttavia bisogna anche considerare l'ipotesi che siano in cerca del
pranzo, e non di compagni con cui pranzare.»
Rhalgorn mostrò i denti.
«Se così stanno le cose, mi va benissimo. Vedremo chi si siederà a tavola per primo...»
DUE
Le tenebre calarono veloci su di noi e non ci permisero di trovare facilmente la strada in quell'immensa
pianura. Quella strana prateria roteante con la sua vegetazione ispida non offriva infatti più ricovero
della superficie di un tavolo, e non avevamo assolutamente intenzione di essere catturati al suo interno.
Ero perfettamente consapevole che quella macchina nera non indicava nient'altro che la presenza
dell'Uomo. Nello stesso istante in cui la sua ombra scura si era addensata su di noi, una mano spettrale
si era allungata e mi aveva stretto violentemente il cuore. Lui era lì: ci dividevano al massi-mo uno o due
respiri! Avevo seguito le sue tracce orribili e raccapriccianti praticamente per mezzo mondo, e avevo
trovato la sua ultima orma nel grembo dell'Amazzone. Ora, qualsivoglia divinità mi avesse scagliato tra
le stelle, l'aveva fatto per mettermi faccia a faccia con lui. Risi quasi di gusto al solo pensiero. Così ora ci
sei, Mastro Aldair. Che cosa hai intenzione di fare di lui? Fare strage con la tua spada della sua razza e
obbligarlo a rispondere dei suoi crimini?
«Aldair...»
Battei le palpebre, e scacciai i miei pensieri. «Mi dispiace, vecchio mio, avevo la testa occupata a
fantasticare.»
«Cerca invece di tenerla occupata con qualcos'altro,» mi ammonì, «se ti fa ancora piacere conservartela
sulle spalle. C'è ben altro a cui pensare in questo postaccio, piuttosto che fantasticare!»
Mi guardai intorno. Nere dita di pietra si allungavano verso il cielo buio. Tra le nuvole non si intravedeva
neanche una stella. «A che distanza pensi che ci troviamo da quel marchingegno?», chiesi. «Voglio dire,
da quella navicella di ferro e dalle creature che c'erano dentro?»
Rhalgorn storse il muso. «Se tu fossi uno Stygiano, riusciresti a sentire il loro fetore molto bene. Sono
proprio alle nostre spalle, dall'altro lato. E
sono anche abbastanza, se il mio naso funziona ancora bene.»
«E allora andiamo a dare uno sguardo,» dissi. «Ho aspettato già abbastanza l'arrivo di questo
momento.»
«Sì, ma c'è anche qualcos'altro,» prese a dire Rhalgorn. «Non so dire precisamente di che si tratti, ma so
che non è di mio gradimento.»
«Bene, allora conservatela per qualche altra volta. Abbiamo già abbastanza misteri da scoprire per ora.»
Prima che fosse in grado di rispondermi, io ero già alle sue spalle e avevo cominciato a scalare la ripida
collinetta con tanta agilità quanta mi era permessa dalle mie corte gambe. La macchina dell'Uomo se ne
stava rannicchiata come un brutto rospo sul terreno sotto la collinetta. Ora era perfettamente ferma,
ma un sordo ronzio vibrava in profondità all'interno delle sue budella, anche se più che sentirlo in effetti
lo si intuiva. Rimbombava attraverso il terreno passando per le dure radici di pietra, ed io riuscivo a
sentirne il rumore come fosse un ritornello sotto i miei stivali.
L'Uomo era lì, ma io non ero ancora in grado di scorgere il suo volto. Era un'ombra fuggitiva, un vago
movimento che si stagliava contro una pallida luce che andava facendosi mano a mano più intensa e che
proveniva dal grande scafo.
«In quel mostro c'è una potenza sufficiente a illuminare tutte queste sconfinate pianure e molte altre
ancora,» dissi a Rhalgorn. «Perché allora se ne vanno in giro al buio?»
L'unica risposta di Rhalgorn fu un grugnito che tirò fuori dal profondo del petto. «Ti avevo già detto che
c'era dell'altro oltre a ciò che saltava immediatamente all'occhio. Ma tu eri troppo impegnato nella tua
scalata per ascoltarmi.»
«Hai ragione. Comunque ora sono tutto orecchi.»
«Se sapessi di che si tratta, Aldair, mi sembra ovvio che te lo direi. Gli Stygiani sentono cose che gli altri
non percepiscono. Niente più di questo. Non mi piace ciò che sento lì giù. Si tratta principalmente di un
prurito che avverto dietro la testa. Ma c'è anche l'odore. Ne sono rimasto colpito proprio un attimo fa.»
«Un attimo fa?» Mi voltai verso di lui con fare accigliato. «Ciò è molto poco probabile.»
«Probabile o no, è esattamente così,» disse lui irritato. «Aldair, sto cercando di dirti...»
Le sue parole si spensero rapidamente mentre l'aspra luce del giorno fioriva sulla pianura sottostante.
Avevo invocato la luce e, per tutte le divinità, adesso l'avevo ottenuta: e molta più di quanta me ne fossi
aspettata!
Era una vista terrificante e sbalorditiva: non si riusciva a realizzarla con un solo sguardo. La navicella di
ferro sembrava ancora più smisurata, e faceva apparire ogni cosa che la circondava ancora più piccola.
Alti steli di metallo, ognuno sormontato da un fiero sole fiammeggiante, circondavano il vascello ed
emettevano sgradevoli raggi d'ombra nella notte. Dietro, sul limitare di questo cerchio, agglomerati di
baracche cadenti e bassi edifici in rovina si stringevano alla base della falesia. Nel migliore dei casi si
trattava di misere strutture tirate su senza alcun criterio, assolutamente fuori luogo se affiancate al nero
vascello. Non sembrava per niente verosimile che un popolo che solcava il cielo con apparecchi così
sofisticati abitasse in tali spregevoli tuguri.
Un certo numero di uomini si affaccendavano tutt'intorno, entrando e uscendo dalla navicella e dalle
costruzioni che si trovavano alle sue spalle. Non riuscivamo a vederli bene dal momento che
indossavano un pesante mantello munito di cappuccio.
«Rhalgorn,» bisbigliai, «che pensi di tutto ciò? Se questa è una delle città dell'Uomo, bisogna dire che gli
anni hanno offuscato le sue qualità. Queste luride catapecchie assomigliano molto poco alle rovine delle
torri della Terra.»
Rhalgorn non risposte. Aveva gli occhi sbarrati e fissi sulla scena che ci stava davanti, ed io seguii il suo
sguardo. Le figure incappucciate si stavano raccogliendo ai lati della navicella e, mentre noi eravamo
intenti a seguire la scena, una stretta scaletta toccò il suolo sferragliando. Un'oscura luce giallastra
lampeggiò all'interno della navicella. Poi, riuscimmo a intravedere una lunga fila di individui che si
avvicinavano allo strano mezzo. Senza neanche rendermene conto, afferrai l'elsa della mia spada.
L'Uo-mo! Per tutti gli Dei, era proprio lui, il grande avversario in carne e ossa davanti a me! Avevo visto
le sue immagini nelle grandi sale sotto Albion, e in seguito durante la navigazione del Mare delle Nebbie.
Non c'era nessuna creatura che gli somigliasse. Brutti, con i volti dai lineamenti emaciati e una testa in
tutto e per tutto simile a un uovo. Non presentavano nessuna caratteristica particolare, tranne forse
quella fenditura rosa che era la loro bocca e quella bizzarra protuberanza dove si sarebbe dovuto
trovare un muso o un grugno. Piccole orecchie storte che stavano attaccate al cranio, e volti e corpi
quasi completamente privi di peli o di pelliccia. Era davvero difficile credere che esseri simili fossero
veramente i Signori della Terra.
Il gruppo che stavamo osservando aveva l'aria di essere piuttosto misero e dolente, e all'improvviso mi
resi conto di quale fosse la causa di quella situazione. Quelli con l'aria smarrita e stanca, e praticamente
nudi, erano stati fatti prigionieri dagli altri, gli Uomini che indossavano i mantelli neri. I capi dello scuro
vascello sembravano provare un grande piacere nel tormentare quei poveri prigionieri. Uno, una
creatura lunga e sottile che pareva aver superato la giovinezza da lungo tempo, inciampò e uscì dalla
fila. Tre dei catturatori gli furono addosso in un attimo e presero a frustrarlo senza pietà con scudisci e
bastoni. Non avevo nessuna simpatia per l'Uomo, ma il sangue mi si raggelò nelle vene a quella vista.
«Rhalgorn,» dissi, «questa è davvero una brutta faccenda. Noi...» Mi interruppi e continuai a scrutare
nel buio alla sua ricerca. « Rhalgorn! »
Tutt'a un tratto lui fu di nuovo lì, un'ombra che usciva dalle ombre. «Per la Vista del Creatore, dove
diavolo ti eri cacciato?»
«Aldair,» disse lui in tono molto agitato, «non fare domande. Impugna la spada e seguimi velocemente.
Non c'è assolutamente tempo da perdere!»
«Cosa? Ma dove diamine...»
Si girò di scatto e mi strinse selvaggiamente il braccio. «Mi hai sentito?
Saremo spacciati se ce ne stiamo seduti qui ad aspettare. Sono stato là do-ve sarei dovuto andare
subito. Li giù. Se tu continui a fare altre stupide domande scoprirai perché... e non sarò io a dirtelo!»
Si mosse con movimenti agili nella notte. Io lo seguii arrancandogli dietro con tutta la velocità di cui ero
capace. Per un attimo lo persi tra quella confusione di pietre. Poi me lo trovai di nuovo vicino: si stava
tenendo in equilibrio su un enorme masso tondeggiante e faceva gesti frenetici nella mia direzione
esortandomi a raggiungerlo. In verità, non avevo affatto bisogno che mi si mettesse fretta. Gli Stygiani
non temono nulla al mondo più di una pancia vuota, ed io avevo colto l'espressione dei suoi occhi. In
qualsiasi cosa si fosse imbattuto, io non avevo nessun interesse ad incontrarla. Le pietre rotolarono
sotto i miei piedi. Io scivolai e cercai, un appiglio a cui aggrapparmi, ma trovai solo aria. All'improvviso
mi trovai a ruzzolare giù per un sentiero ripido e sassoso nel vano tentativo di raggiungere qualcosa che
potesse fermare la mia caduta libera. Una grossa mano si sporse dal nulla. Lunghe e forti dita
afferrarono la mia giubba e mi fecero saltare di nuovo in piedi.
Per poche frazioni di secondo pensai che potesse essere stato Rhalgorn. Poi la cosa mi sollevò fino
all'altezza della sua faccia per potermi guardare. Se era destino che dovessi morire di crepacuore,
evidentemente era quello il momento giusto. La cosa ghignò con la sua bocca ripugnante, un brillio
passò per il suo unico occhio giallo e, con modi ben poco gentili, mi issò sulle sue spalle.
Per qualche motivo mi ricordai di ciò che Rhalgorn aveva detto a proposito del pranzo... La stanzetta
puzzava in maniera indescrivibile, e il motivo era anche molto chiaro. Come ogni bambino fa presto ad
imparare, è molto ragionevole fare i propri bisogni lontano dal luogo dove si mangia, si fa all'amore, o
dove si gusta un buon boccale di birra. Evidentemente questo concetto non godeva di molta fortuna
presso i nostri prigionieri.
Mentre Rhalgorn ed io giacevamo legati sul lurido pavimento, uno di quei mostri si staccò dagli altri e si
avviò a passi pesanti verso un angolo che si trovava lì vicino. Senza ulteriori cerimonie si calò i suoi sudici
pantaloni e si accovacciò.
«Aldair,» disse Rhangorn con grande calma, «questa gente non è abituata a comportarsi esattamente
come noi.»
«Sì,» dissi, «me ne sto rendendo conto. Nel caso in cui non ne avessi più
l'opportunità, mi voglio scusare con te per averti fatto tutte quelle stupide domande. Avevi ragione.
Correre era di gran lunga più importante che parlare.»
Dei passi pesanti risuonarono alle nostre spalle. Le altre due creature alzarono lo sguardo e si fecero
prontamente da parte davanti al nuovo arrivato. Lui si fermò proprio sopra Rhalgorn, ci squadrò dritto in
volto e si tirò indietro il cappuccio.
«Bene, che c'è di nuovo qui?» La sua voce risuonava come la ghiaia che stride su una superficie non
perfettamente levigata. Non era più brutto degli altri... e neanche più gradevole. Fino a quel punto ne
avevamo visti circa una dozzina, uno più bizzarro dell'altro. Non erano né Uomini né bestie, ma avevano
qualcosa di tutti e due. Rhalgorn aveva ragione. Noi li avevamo già visti prima.
«Voi... che diamine siete?» Mi sferrò un violento calcio nello stomaco. Io mi ritrassi indolenzito ed ebbi
dei conati di vomito. Rhalgorn ringhiò e diede uno strattone alle corde che lo legavano guadagnandosi
una brutale pedata in volto.
Alzai lo sguardo per guardare la cosa. «Faresti meglio a non riprovarci,»
dissi con spavalderia. «L'Imperatore non ama vedere i suoi soldati presi a calci.»
«L'Imperatore?» La creatura socchiuse il suo occhio catarroso.» Di che diavolo di Imperatore parli?»
«Quello i cui vascelli io comando. Ce ne sono a migliaia proprio sopra di noi. Come i vostri ma solo più
grandi.»
La cosa rimase un attimo perplessa, con l'occhio fisso nel vuoto, poi rise.
«Uccidete gli altri,» disse a uno dei suoi amici. «Ho ancora qualcosa da dire a questo qui. Mi piace. È
divertente...»
TRE
«Aspetta,» urlai, «non puoi farlo!»
L'odioso sogghigno svanì dal suo volto. «Piccolo verme», disse con voce rauca, «hai fretta di morire
anche tu?»
Io mi strinsi nelle spalle con tanta naturalezza quanta può averne uno che sta per farsela nelle mutande.
«Stavo solo tentando di evitarti un sacco di guai,» dissi. «Se insisti, prego, prosegui pure. Sarà divertente
vedere ciò
che accadrà.»
Rhalgorn mi lanciò un'occhiata minacciosa.
«Di che cosa stai blaterando? Di che diavolo di guai parli?» L'espressione del mostro non mutò affatto:
sollevò solo leggermente una mano per fermare i suoi compagni.
«Sto parlando di magia,» dissi semplicemente. «La sua. Comunque, dal momento che sei protetto da
incantesimi grandi e potenti, tu non correrai nessun pericolo.»
La cosa impallidì. La sua grossa mano raggiunse istintivamente i talismani che gli pendevano dal collo.
Avevo avuto una felice intuizione. Quella bizzarra accozzaglia di pietre e di piume era in realtà proprio
un amuleto magico. I suoi amici si allontanarono di un paio di passi da Rhalgorn. Il mio catturatore
studiò lo Stygiano con grande attenzione, poi si girò di nuovo verso di me. Una peluria scura ricopriva
metà del suo volto, mentre l'altra parte era escoriata e coperta di macchioline. Un sopracciglio calloso e
ricoperto di squame si inclinava verso il basso fino a raggiungere il muso, corto e orribile a vedersi, e la
fenditura della bocca. Proprio la bocca era la caratteristica più irritante di tutte, perché era sistemata in
un singolare angolo della mascella ed era piena di denti spuntati e di grandezza abnorme.
«Dici che lui è in grado di fare delle magie? Quello lì?»
«Sì, lui ne è capace,» dissi. «Ed è capace di magie anche molto potenti, in verità.»
La cosa emise uno strano rumore. «Hai mentito quando hai parlato di Imperatori e roba simile.
Probabilmente stai mentendo di nuovo.»
«Sulla magia?» Cercai di dipingermi sul volto un'espressione quanto più
sconvolta e terrorizzata possibile. «Non sono così sciocco da attirare sulla mia testa la collera del
Demone Turnip!»
L'occhio del mostro si spalancò. «È un Demone? Ne sei sicuro?»
«Sì, lo è. In effetti...»
Rhalgorn roteò gli occhi all'indietro. Emise un ululato talmente raccapricciante da far letteralmente
gelare il sangue nelle vene che poi, a poco a poco, si stemperò nel rauco e gutturale modo di parlare dei
Lauvectii. Non era nient'altro che una litania che il suo popolo considerava d'aiuto nella cattura delle
lepri, ma ebbe un effetto molto efficace. Come fossero stati un solo individuo, i nostri catturatori
indietreggiarono terrorizzati, e automaticamente si coprirono il volto ed afferrarono i loro amuleti e i
loro talismani.
«Tu,» urlò con quanto fiato aveva in gola il loro capo, «fermalo!»
«Ci proverò. Ma una volta che ha iniziato a lanciare un incantesimo...»
«Mi hai sentito? Fermalo!»
«Rhalgorn,» dissi allora io nella sua strana lingua, «è stata una magia già
abbastanza grande, per il momento. Sono già sufficientemente impressionati.»
«Meglio così,» disse lo Stygiano, «perché sono già a corto di ricette valide.» Ad ogni modo continuò ad
emettere dei lugubri lamenti per circa un altro minuto, e poi si lasciò andare in quello che aveva tutta
l'aria di essere il riposo dopo il delirio. Gli Stygiani amano molto essere al centro dell'attenzione, anche
in circostanze piuttosto drammatiche e particolari. I nostri tennero una breve e frettolosa consultazione.
Al termine di questa il loro capo si girò verso di me. «Tu vivrai ancora per un po'. Forse. Finché ojt'Miyer
non sarà arrivato.»
«Chi è questo oshmire?»
Il volto della creatura si rabbuiò.
«Lo scoprirai da te, piccolo grande chiacchierone. E anche abbastanza presto!»
Con un gesto comandò che fossimo allontanati. Gli altri due ci rimisero in piedi e ci fecero marciare
senza tanti complimenti fuori dalla stanza. Rhalgorn ed io rimanemmo in silenzio durante il nostro
trasferimento per il campo. Camminando sotto l'ombra dello scuro vascello, decisi che, guardato da
quella posizione, sembrava molto meno malaugurante. Il nero nascondiglio di metallo era tutto
escoriato e butterato, ed era difficile individuare un solo pezzetto che non fosse stato rozzamente
rappezzato o imbullonato. Ciò rafforzò in me l'idea che mi si andava formando nella mente. Quegli
individui avevano delle potenti macchine a loro, disposizione, ma ero quasi del tutto certo che non
fossero stati loro a costruirle. Oltrepassata la navicella, c'era un'altra serie di tuguri e, al di là di questi,
un recinto all'aperto circondato da un'alta staccionata sulla quale correvano dei fili metallici. Venne
aperto un cancello arrugginito e fummo introdotti all'interno di quel recinto.
Mi guardai intorno. Il recinto era addossato al fianco di un dirupo. Nella parte posteriore c'era una
baracca praticamente mezza diroccata e sepolta nelle tenebre.
«Credo che quelle rocce siano impossibili da scalare,» dissi a Rhalgorn.
«E anche quella staccionata ha l'aspetto piuttosto impervio: scavalcarla non deve essere impresa da
poco.»
Rhalgorn sospirò.
«Due buone ragioni. Punto primo, io riesco a vedere decisamente meglio di te al buio, e ti informo che ci
sono almeno un'altra dozzina di quelle creature appostate nell'oscurità. Punto secondo, se potessi
scalare quest'affare e scappare, non riuscirei certo a farlo con te sulle spalle.»
«Oh, bene, queste mi sembrano due buone ragioni.»
«Naturalmente, noi siamo protetti dal Demone Turnip.» Inarcò i sopraccigli e si girò verso di me. «Sono
certo che ciò voglia dire molto.»
«Io ci conto molto.»
«Bene. In effetti ci sono per fortuna tantissimi modi per cacciare le lepri e...» Si interruppe, annusò l'aria
e si irrigidì. «Aldair, non siamo soli. C'è
qualcosa in quella baracca dietro di noi.»
Io socchiusi gli occhi per riuscire a vedere meglio nell'oscurità. «Io non vedo assolutamente nulla.»
«Neanche io. Ma riesco a sentirne benissimo l'odore.»
«Questo non vuol dire granché in un posto del genere.»
Mentre stavamo lì intenti a guardare, un pallido volto apparve sull'arco della porta. Ci studiò per un
lungo momento, poi, anche se con molta circospezione, fece un passo in avanti.
«Non muoverti,» dissi io con calma. «Dagli tempo.»
Rhalgorn obbedì, ma io percepii chiaramente il cupo grugnito che emise dal profondo della gola.
La creatura accennò un altro timido passo, poi si fermò e divenne ben visibile sotto la forte luce di una
specie di riflettore. Era un Uomo, smilzo e sottile, ricoperto di stracci. Aveva i capelli tagliati all'altezza
delle orecchie, ma presentava una folta crescita di peli intorno alla bocca e alle mascelle. Per quanto io
odiassi la sua razza con tutte le mie forze, non potei fare a meno di ammirare il suo coraggio. Anche per
lui si trattava della prima volta. Neanche lui aveva mai visto nessuno della nostra specie, e non poteva
sapere cosa aspettarsi. Ci guardò ancora per un momento, poi si fece ancora più vicino.
«Voi, bestie... sapete parlare?»
Se non avessi fermato Rhalgorn afferrandogli il braccio, gli sarebbe senz'altro saltato alla gola e
l'avrebbe fatto fuori immediatamente. Anch'io stavo tentando di fare del mio meglio per ingoiare la
rabbia che mi stava sopraffacendo al cospetto di quella fragile e stupida creatura. Ma certo non avevo
potuto fare a meno di notare che le prime parole che erano uscite dalla bocca dell'Uomo erano state sia
arroganti che presuntuose.
«Sì,» gli risposi, «le bestie sanno parlare. E certamente sono abili in quest'arte tanto quanto gli Uomini.»
Le mie parole lo fecero indietreggiare leggermente. Spalancò gli occhi e lanciò una rapida occhiata dietro
le spalle. Allora, scrutando le tenebre con più attenzione, mi accorsi dei suoi compagni.
«Osi venire ancora più vicino?,» gli intimò Rhalgorn con tono irato, «o forse hai paura di parlare con
delle bestie?»
«Calma,» dissi io sottovoce, e all'Uomo: «Se hai qualcosa da dire, avvicinati e parla. Se il mio amico
decide di farti a pezzi, qualche altro metro non farà nessuna differenza.»
L'Uomo si mise a scrutare Rhalgorn.
«Sì. Io... aspetto proprio questo.» Fece ancora qualche passo. Si vedeva chiaramente dal suo sguardo
che aveva paura, ma manteneva un certo ritegno.
«Che cosa siete voi,» disse con fare esterrefatto. « Chi siete voi? Non siete Uomini, ma non siete
nemmeno dei loro!»
«No,» gli dissi, «infatti non siamo dei loro. È una storia molto lunga e, se vivremo abbastanza a lungo, la
conoscerai anche tu. Come ti chiami, Uomo? Hai un nome?»
«Caldus. Io...» Scosse la testa, ancora non del tutto convinto di stare facendo la cosa più giusta.
«E tu? Tu... chi sei?»
«Aldair degli Eubironi, del Clan dei Venicii. E Rhalgorn è uno Stygiano, un vero Signore dei Lauvectii.»
Caldus si morse le labbra. Un solco profondo si scavò tra i suoi sopraccigli. «Questi posti che tu hai
nominato non significano assolutamente niente per me. Non li ho mai sentiti prima.»
«Non ho dubbi a riguardo,» dissi freddamente. «La tua specie dimentica con molta facilità le terre che
mette da parte.»
«E con questo che vorresti dire?» Caldus allargò le braccia e accennò un sorriso. «Io sono Caldus, del
Nuovo Arizona. Proprio lì, al di là del mare.»
Fece un gesto vago verso destra. «Ho vissuto lì per tutta la mia vita, e né
io, né nessuno della mia gente, abbiamo mai sentito parlare dei posti di cui tu stai parlando. E neanche
di voi, in verità!»
Io guardai i suoi compagni con un misto di rabbia e di tristezza. Cosa potevo fare di loro ora? Potevo
maledirlo per le colpe dei suoi padri... ma lui aveva dimenticato quei peccati o, addirittura, non ne aveva
mai saputo nulla. La verità era che il tempo e il luogo mi avevano davvero beffato. Il nemico della Terra
era già in ginocchio. Ed io non potevo fare a meno di odiarlo per quello...»
QUATTRO
Non era certo quello il momento o il luogo più adatto per mettere a conoscenza quei tristi figli
dell'Uomo delle loro vere origini. Era più che evidente che c'erano già fin troppi problemi a tenerci
occupati. E in quell'occasione fu Caldus ad insegnarci qualcosa. Lui e i suoi compagni erano molto ben
informati sul conto dei nostri catturatori, perché
quelli avevano da sempre terrorizzato la sua razza. Mentre lui era curioso di sapere noi che ruolo
avevamo in tutta quella storia, io lo convinsi che, comunque, saremmo stati d'aiuto.
Molto presto imparammo che Caldus non era uno completamente assimilabile al suo popolo, nel senso
che non ne condivideva tutte le caratteristiche. A me e a Rhalgorn sembrava spaventato ed esitante:
una lepre intimorita che poteva fuggire da un momento all'altro. Tra la sua gente, ad ogni modo, lui era
un coraggioso, anzi persino audace. I suoi compagni si erano rifugiati nella loro baracca e non avevano
mostrato la benché minima volontà di avvicinarsi a noi. Se lo Stygiano avesse emesso uno solo dei suoi
grugniti, penso che si sarebbero letteralmente sciolti dalla paura. Rhalgorn, naturalmente, l'aveva
perfettamente intuito, e provava un gusto enorme nel mostrare le sue zanne affilate e nel roteare gli
occhi in tutte le direzioni, soprattutto quando pensava che io non lo guardassi.
«Aldair, la supposizione che hai fatto su quelle creature è giusta,» mi disse Caldus. «Hanno un enorme
rispetto della magia.»
«E per poche altre cose, immagino.»
Caldus annuì.
«Le Bestie non hanno paura di nulla,» disse freddamente. «Assolutamente di nulla. E perché
dovrebbero? Hanno armi crudeli e macchine che volano tra le stelle. Quando vogliono altri schiavi,
vanno e se li prendono. È sempre stato così.»
Io tentavo di nascondere il mio disprezzo per quella cosa priva di peli.
«La creatura con cui abbiamo parlato, sembra essere un capo, o qualcosa di simile.»
«sht'Ingo,» disse Caldus. «Lui è un mercante di schiavi, ed è il capo di quella navicella. sht'Ingo ci ha
tormentato già in passato... e suo padre prima di lui.» L'Uomo dominò a stento un brivido. «Il fatto è che
c'era un Diavolo. Uno dei veri Signori dei Dieci Mondi. sht'Ingo non arrivava a raggiungere il suo livello
di crudeltà, e neanche quello di suo fratello. Fu brr'Luk che assassinò suo padre e gli sottrasse il regno,
lasciando sht'Ingo al freddo e con la navicella come suo unico bene. Dopo di ciò...»
«Aspetta,» lo interruppi alzando una mano. «Io non riesco a seguirti, Caldus. Questi nomi
impronunciabili che stai facendo e che sarebbero stati i massacratori dei loro padri, non significano
assolutamente nulla per me. Ma invece qualche altra cosa che hai detto mi suona più familiare. Dieci
mondi? Volevi proprio dire, come mi pare di aver capito, che quelle creature controllano veramente
dieci mondi?»
«Sì, perché, che c'è di strano?» Mi guardò con aria incuriosita. «Non lo sapevi? Io non so da dove venite
tu e il tuo compagno, ma se è al di là dei Dieci Mondi delle Bestie, deve essere davvero da molto
lontano!»
«Tu!» Sbottò all'improvviso Rhalgorn, spaventando Caldus quasi a morte. «Mi sono mantenuto calmo
fino a quando tu hai usato quella parola, ma ora non rispondo più di me stesso. Quella tua bocca senza
forma ha pronunciato quella parola ormai già tre volte. Una volta per descrivere Aldair e me, e due volte
per definire quei mostri. Sarebbe meglio che non accadesse più!»
Caldus fissò quegli occhi rossi infuocati ed adirati, poi deglutì a malapena. «Io... io non volevo dire niente
di offensivo. So che non siete come loro, solo che...»
«Rhalgorn ha perfettamente ragione,» mi introdussi io. «Il mio compagno si fa prendere facilmente dalla
collera, Caldus, ma io non sono affatto più tollerante di lui. Le cose come si chiamano tra di loro? Io non
posso credere che il termine che usano sia proprio Bestie. »
Caldus divenne rigido come un masso.
«Temo che siamo di nuovo al punto da dove eravamo partiti,» disse con fermezza. «Voi non volete
tollerare il nome che io uso per definire quegli esseri, ed io non riesco a tollerare quello che loro
adottano per sé stessi!»
«E perché no?»
«Perché loro si definiscono Uomini.»
Rhalgorn ed io ci scambiammo delle rapide occhiate d'intesa. Naturalmente, ci dicemmo senza aver
bisogno di parole, che cos'altro potevano pensare di essere?
Dal momento che eravamo arrivati in quel mondo a metà della giornata, non avevo nessuna cognizione
di come funzionassero da loro le ore. Tuttavia, mi ero fatto l'idea che il giorno durasse un po' in più che
sulla Terra. Dopo aver parlato con Caldus, pregai che la notte potesse durare una settimana o qualcosa
di simile, perché l'indomani si presentava con presagi per niente allegri. La cupa navicella non sarebbe
stata adoperata per portarci da qualche altra parte ancora più lontana. Al contrario, i nuovi schiavi che
venivano catturati, marciavano per un breve tragitto verso il mare e da lì venivano presi e portati su
un'isola al largo della costa. Dove sarebbero poi stati caricati a bordo di un vero vascello spaziale e
portati in uno dei Dieci Mondi.
«Come il mondo lì fuori?», chiesi. «Gli altri mondi sono simili a questo?»
Caldus sembrava completamente assente.
«Aldair, come faccio a saperlo? Io posso solo dirti quello che ho sentito. Storie che la mia gente si è
tramandata attraverso gli anni. Certo, non credo che tu sia così ottimista da pensare che qualcuno sia
ritornato da uno dei Dieci Mondi.» Scosse la testa allibito. «Questa è una cosa che non è mai successa,
e con ogni probabilità non succederà mai.»
«Bene, io sono assolutamente certo di non voler fare un viaggio in nessuno di questi loro mondi,» disse
con aria sprezzante Rhalgorn. «Figurarsi poi dieci. Non mi sembrano per niente convenienti per un
Signore dei Lauvectii.» La sua lunga coda grigia sbatteva nervosamente nell'oscurità.
«Il che equivale a dire che noi dovremo essere fuori da questo posto prima che faccia giorno,» dissi io.
«Una volta fuori di qui e sull'isola, sarà
praticamente impossibile fuggire. Caldus, quanti tuoi compagni ci sono in quella baracca? Ci sono pezzi
di legno, di ferro... qualcosa che possa essere usata come un'arma?»
«E della biancheria, se se ne trova in giro,» aggiunse Rhalgorn. «Una coperta, per esempio, può essere
strappata e intrecciata per farne un'ottima corda lungo la quale arrampicarsi.»
Caldus ci guardava con gli occhi spalancati, come se fossimo tutt'a un tratto usciti di senno.
«Ma di cosa... di cosa state parlando?», urlò atterrito. «Non c'è assolutamente nessun modo per
sfuggire a queste creature. È impossibile!»
Rhalgorn fece una smorfia.
«Come fai a saperlo, specie di Uomo? Ci hai mai provato?»
«Naturalmente no. Io non ero mai stato catturato prima. Sai, succede una sola volta!»
«Caldus,» dissi, cercando di essere ragionevole e di mediare tra quei due, «non ha in realtà molto senso
stare qui seduti ad aspettare di essere portati al macello. Vale sicuramente la pena di fare almeno un
tentativo.»
«E allora provateci,» disse con rabbia. «Ma non tirate in ballo anche me o i miei compagni in una tale
folle idiozia. Io, per quanto mi riguarda, non sono disposto a sprecare la mia vita per niente!»
«Ma sei disposto a passarla in schiavitù?»
«Questo è il modo in cui stanno le cose.» Distolse lo sguardo e si mise a fissare un punto del terreno. «È
sempre stato così, e non c'è molto altro da dire.»
«Capisco.»
«No. Tu non capisci proprio nulla.»
« Io sì, però,» disse Rhalgorn brusco. «Capisco che l'Uomo non ha abbastanza fegato per combattere.»
«Rhalgorn...»
«Per la vista del Creatore, Aldair: guardalo!»
Io presi Caldus per un braccio e con una rapida mossa lo allontanai dallo Stygiano.
«Quello che intendi fare della tua vita, è affar tuo,» gli dissi. «Il mio compagno ed io non abbiamo alcuna
propensione per la schiavitù. Ho incontrato per ora poche di quelle creature, e non provo alcun
desiderio di conoscerne altre.»
Caldus se ne uscì in una risata soffocata.
«Tu non sai ciò che stai dicendo, ma è la verità. Non hai ancora visto i peggiori! sht'Ingo è come una
buona madre paragonato ad altri.» Un fremito gli corse sul viso. «Come ojt'Miyer, per esempio. Che Dio
ti aiuti se mai...»
«ojt'Miyer?» Scrutai Caldus con molta attenzione. «L'altro ... sht'Ingo, ha fatto questo nome.»
«Cosa?» Il colore svanì dalle sue guance. «Cosa, cosa ha detto?»
«Semplicemente che Rhalgorn ed io potevamo vivere ancora per un po', fino a quando non fosse
arrivato questo ojt'Miyer.»
Caldus indietreggiò terrorizzato come se io stesso fossi diventato un demone in carne ed ossa.
«ojt'Miyer? Starebbe arrivando qui? Aldair, se hai abbastanza fortuna da trovare una pietra appuntita,
tagliati le vene e lascia che la vita scorra via da te ora, prima che sia troppo tardi. È la cosa migliore che
tu possa fare per te stesso. Lui è... è... un...» Le parole gli morirono in gola e Caldus si girò e corse via dai
suoi compagni verso la baracca.
Rhalgorn lo seguì con lo sguardo e aggrottò le sopracciglia.
«Che cosa hai fatto a quel poveraccio? Era incredibilmente sconvolto, come se avesse visto il suo stesso
fantasma.»
«No,» gli risposi, «Penso che abbia visto il mio fantasma. E il tuo, vecchio mio.» Gli dissi ciò che era
accaduto. Rhalgorn si fermò un attimo a riflettere, poi si grattò i peli dietro il collo.
«Penso che faremmo meglio a lasciare questo luogo quanto prima,» disse alla fine. «Non mi sto più
divertendo tanto.»
«Non pensi davvero che questo ojt'Miyer riuscirà a farsi beffe del Demone Turnip?»
Rhalgorn si fece passare la sua linguaccia tutt'intorno al muso e si mise a fissare l'odiosa navicella.
«Aldair, io penso che questo ojt'Miyer forse è il Demone Turnip.»
Nonostante ciò che avevamo detto a Caldus, penso che sia io che Rhalgorn sapevamo benissimo che
c'erano ben poche speranze di riuscire a scappare da quel posto. Tuttavia, ci dedicammo a quel progetto
con grande accanimento, discutendo i vari piani possibili, e cercando di individuare quale potesse essere
il punto più favorevole per scavalcare la staccionata. Alla fine, fu Rhalgorn che diede forma compiuta ai
nostri pensieri.
«Non è questo il momento adatto, Aldair. O, se lo è, la mia testa è troppo confusa per rendersene
conto.»
«Ce ne sarà un altro,» lo rassicurai. «Ce n'è sempre un altro. Non è certamente questa la prima Volta
che tu ed io ci sentiamo con le code al muro.»
Rhalgorn rise, di quel particolare suono simile alla tosse che passa per una risata tra la sua gente.
«Ciò di cui avremmo bisogno adesso, sarebbe il buon vecchio Pelliccia Grassa qui con noi. Così
potremmo smetterla di darci tanta pena per uscire da questa situazione, e potremmo scagliarlo contro
questo ojt'Miyer e farlo stendere in men che non si dica!»
Non potei fare a meno di ridere a quest'affermazione, perché Signar, Thareesh e gli altri che ci eravamo
lasciati alle spalle, occupavano in quel momento tutti i miei pensieri. Quante lunghe e terribili miglia ci
dividevano, mi domandavo, da quando quella sfera dorata ci aveva strappato dalla Terra e ci aveva
scagliati fra le stelle?
Di certo loro erano ormai persi per me. Questa era una verità dolorosa, direi crudele, da affrontare, ma
era la cosa più realistica da pensare. La Terra si trovava ad un incredibile distanza da noi, alla deriva nel
Mare delle Nebbie, dove una gelida stella assomigliava in tutto e per tutto ad un'altra. Da qualche parte
quella sera stava scorrendo della buona birra d'orzo, ma né io né Rhalgorn saremmo stati lì a dividerla
con qualcuno. In quel preciso momento, giusto per l'arco di un respiro, il pensiero di Corysia mi
attanagliò la mente. Riuscii a vederla chiaramente, a sentire il caldo del suo corpo che sì stringeva al
mio, a toccare i suoi seni delicati. Poi, all'improvviso, tutto si dissolse...
CINQUE
Finalmente l'alba sfiorò il piatto orizzontale e respinse le tenebre. Ancora per un altro giorno il sole era
una cosa pallida e malaticcia sotto malsane nuvole giallastre. Mi proposi di chiedere a Caldus se la piena
luce del giorno venisse mai ad illuminare quel mondo triste e desolato. Da qualche parte dietro la scura
navicella arrivò l'acuto e lugubre lamento di un corno di guerra. In un attimo il campo divenne brulicante
di figure incappucciate, che andavano e venivano mostrando di darsi molto da fare. La brezza mattutina
portò fino a noi un odore che non avrei definito spiacevole: l'odore di un appetitoso stufato e di un buon
vinello giovane. Sia Rhalgorn che io ci ringalluzzimmo al pensiero di qualcosa da bere e da mangiare.
L'ultimo pasto di cui conservavamo memoria era lontano nel tempo e nello spazio, ben al di là delle
stelle, e noi eravamo molto impazienti e desiderosi di riempire le nostre povere pance. Ad ogni modo
l'odore se ne andò così come era venuto. C'era evidentemente del cibo lì fuori, ma non era per noi.
«Avevo pensato di farla passare liscia a queste creature,» disse Rhalgorn con aria cupa. «Ora ti assicuro,
Aldair, che ho tutta l'intenzione di fargliela pagare cara, sì molto cara. Far morire di fame un Signore dei
Lauvectii non è il modo migliore per renderlo felice.»
«Sono certo che abbiano sentito parlare della collera degli Stygiani. Ed è
senza dubbio questo il motivo per cui desiderano vederti indebolito.»
Rhalgorn si illuminò. «Ebbene, credo proprio che tu abbia capito come stanno le cose. Questo potrebbe
dare una spiegazione logica a tutta la faccenda, non ti pare?» Sembrava particolarmente soddisfatto di
quell'assurda fantasticheria, ed arrivò persino a gratificare di uno stupido sogghigno i mostri che
vennero a prenderci.
Le creature ci misero in riga davanti alla grande navicella, raggruppandoci insieme con degli Uomini
provenienti da altri recinti che si trovavano nel campo. Caldus si mantenne a una certa distanza,
fingendo di non averci mai visti prima. Evidentemente, la sua paura di ojt'Miyer lo aveva convinto che
non eravamo affatto una buona compagnia. La piena luce del giorno non rendeva per niente più
affascinante i nostri catturatori. Per quanto potessi giudicare, non c'era nessuno tra loro che
assomigliasse ad un essere vagamente normale. Ognuno di loro non era altro che un'odiosa accozzaglia
di parti messe insieme alla rinfusa, senza nessun ordine particolare. Pelli squamose e verrucose
emanavano un olezzo simile a quello del sego di candele disciolto, e qua e là c'erano dei ciuffi di pelliccia
o strisce di pelle dell'Uomo, glabra e rosa. Né i volti, né le membra di questi esseri offrivano un insieme
accettabile. Un grugno diventava un muso. Un arto terminava con un artiglio, l'altro in uno zoccolo o in
una mano. Alcune creature avevano un modo di incedere normale, ma la maggior parte di loro ci
passavano accanto con un'andatura goffa e maldestra. Erano armati, anzi era più appropriato dire
corazzati, di tutto punto: avevano armi, elmi e lamine, munite di punte e di chiodi. C'erano anche spade,
scudisci e asce infilate nelle loro cinture, ed alcuni portavano dei tubi lucenti e smussati che io non
avevo mai visto prima d'allora. La rabbia sembrava essere il sentimento loro più congeniale, in quanto
sembravano trarre grande gioia e soddisfazione dall'andare in giro sghignazzando e deridendo tutto e
tutti. Un lamento cupo e spaventoso si alzò tra i prigionieri. Bisbigli soffocati si diffusero come fragili
foglie secche. Alcuni prigionieri urlarono e persero i sensi, e non ci fu modo di farli rimettere in piedi con
fruste o con randelli. Tagliati le vene e lascia che la vita scorra via da te ora, mi aveva detto Caldus.
Alcuni poveretti avevano imparato a memoria questa frase e speravano con tutte le loro forze di morire
lì dove erano caduti. Rhalgorn quasi mi stritolò il braccio e accennò alla nostra sinistra. All'inizio non
c'era niente. Poi le ombre si dileguarono davanti alla luce del giorno e ojt'Miyer cominciò a incedere tra
di noi...
Non era il volto di quella creatura che riusciva a sconvolgere tutti a quel modo, in quanto aveva la faccia
nascosta come tutti gli altri. Era l' intuizio-ne di ciò che lui era, a tramutare in pietra i cuori di chiunque
avesse la disgrazia di vederlo. Io penso che ognuno vedeva realizzarsi in lui i suoi incubi più profondi e
radicati. Per me si trattò di cose bianche simili alle teste di orribili vermi che davano l'impressione di
contorcersi e dimenarsi al di sotto del cappuccio, e scontrarsi senza sosta. In seguito, Rhalgorn mi disse
di aver visto delle cose completamente differenti, ma non ebbe alcu-na voglia di raccontarmi di che si
era trattato. ojt'Miyer stava fermo davanti a noi e lasciava scorrere il suo terribile sguardo su di noi.
All'improvviso fece segno a sht'Ingo di avvicinarsi a lui e gli disse qualcosa. sht'Ingo si affrettò a
bisbigliargli all'orecchio una risposta e subito dopo si ritrasse. Ancora prima che ciò accadesse, sapevo
già cosa poi si sarebbe verificato. ojt'Miyer si girò, mi guardò dritto in volto, e cominciò a muoversi nella
mia direzione.
Il sangue che avevo nelle vene divenne ghiaccio.
«Rhalgorn,» dissi più in fretta possibile, «sei ha un piano per fuggire, è
arrivato il momento di rendermelo noto.»
ojt'Miyer si fermò. Io tentai di guardare da qualche altra parte ma non ne fui capace.
«Magia, vero?», disse lui con calma. «Incantesimi, demoni e cose del genere.» La sua voce divenne più
acuta e mi colpì come un vento gelido sul picco di una montagna rocciosa. «Parleremo di questo più
tardi, piccola creatura.» Fece una pausa e si guardò intorno alla ricerca di Rhalgorn, poi si girò di nuovo
verso di me. «Ti piacerebbe vedere di quali magie è capace ojt'Miyer? Ho uno o due trucchi da
mostrarti.»
«No... non in modo particolare,» dissi io.
ojt'Miyer rise, un suono che mi fece battere i denti fino a farmeli dolere.
«Bene, solo uno allora.» In una frazione di secondo qualcosa di pallido e umido uscì strisciando
rapidamente dal suo mantello, in un lampo si avvinghiò attorno ad un Uomo che mi stava a fianco e lo
attirò verso di sé. L'Uomo emise un grido di terrore veramente spaventevole. ojt'Miyer lo teneva stretto
a sé come un amante impetuoso che soffocava le sue urla con carezze crudeli e mortali. Lo schiacciava,
lo lacerava, lo sfregiava e lo dilaniava. L'uomo strillava in preda a un cieco raccapriccio. ojt'Miyer lo
uccideva poco a poco, gentilmente, tormentando la sua preda con inutili sofferenze. Le ossa
scricchiolavano. Le carni si aprivano e sanguinavano. E
ancora la cosa-Uomo viveva, perché ojt'Miyer era un maestro in quest'arte. Infine tenne stretto il
poveraccio in una presa micidiale e cacciò la sua testa insanguinata sotto il suo misterioso mantello. Le
urla cessarono all'improvviso, e si persero in un suono che non venne dimenticato in fretta da quelli che
l'avevano udito.
ojt'Miyer si fermò e lasciò che quella cosa flaccida e senza più alcuna forma scivolasse via. Senza
aggiungere neanche una parola si girò e, passando accanto ai suoi servi, se ne tornò nelle ombre dalle
quali era emerso. Quando fu definitivamente scomparso dalla vista, sht'Ingo urlò un secco ordine e le
guardie ci fecero avanzare in ordine sparso. Poco tempo dopo ci trovavamo già fuori del campo ed
eravamo in cammino per quelle squallide pianure. Anche se me ne vergogno, devo ammettere che in
quel momento condividevo i pensieri dei miei amici prigionieri. Paragonato a ciò
che ci eravamo lasciati alle spalle, guardavamo con speranza alle gioie e alle benedizioni della schiavitù...
Rhalgorn ed io avemmo ben poche occasioni di poterci parlare durante il nostro viaggio, dal momento
che le guardie non incoraggiavano nessuno a parlare. Comunque, quel paio di occhiate che riuscimmo a
scambiarci furono sufficienti. Sarebbe arrivato il momento giusto, e noi l'avremmo colto al volo, a
qualunque costo. La vita è molto cara a chiunque, ma ci sono volte in cui il prezzo da pagare è troppo
alto.
I pensieri dello Stygiano combaciavano perfettamente con i miei quando raggiungemmo la cima di
quella bassa collinetta e vedemmo la distesa di mare color grigio-ardesia che si stendeva sotto di noi. In
quel punto, il braccio di mare era piuttosto stretto perché si apriva in una baia che si trovava in una
depressione a circa un miglio di distanza dal mare aperto. L'insenatura era cosparsa di centinaia di
minuscole isolette, piazzate una vicina all'altra e ricoperte di fitta boscaglia. Se fossimo riusciti a
raggiungere quelle isole e a far perdere le nostre tracce, avrebbero avuto un bel daffare per scovarci.
Le imbarcazioni delle creature erano piccole, scoperte e munite di remi: il che voleva dire che in ognuna
avrebbero preso posto circa una dozzina di prigionieri, più, molto probabilmente, una sola guardia.
«A giudicare dalle apparenze,» dissi a Rhalgorn, «si fidano molto di loro e non hanno invece alcun
rispetto degli Uomini. Supponi che quei poveri diavoli abbiano mai tentato di sopraffarli?»
Rhalgorn emise uno dei suoi strani rumori gutturali.
«Dubito fortemente che abbiano lo stomaco a sufficienza per un simile tentativo. Questi pelle pallida
sono nati per essere schiavi, Aldair.»
«C'è molta verità in quello che hai detto,» ammisi. «Caldus è chiaramente il più audace tra di loro, e
certo anche lui non è un caso esemplare.»
Rhalgorn si strofinò la pancia.
«Loro possono pure starsene seduti e immobili a vedere cosa gli succederà, se sono contenti così,» disse
tagliando corto. «Io, per quanto mi riguarda, conto di svignarmela da questo posto il più presto possibile
e di trovare un pasto decente.»
Mi girai verso di lui sogghignando.
«Spero che tu non voglia tentare di nuovo una battuta di caccia alla lepre!»
«Ora come ora mi accontenterei anche di una carota fibrosa e filacciosa e una di quelle schifose patate
di cui tu sei così ghiotto.» Scosse la testa con aria disgustata. «Per tutte le divinità! Non avrei mai
immaginato di ridurmi a sognare di poter riempire la mia povera pancia con delle radici! Mi trovo
davvero in una brutta situazione!»
I mostri sbraitavano, impartivano ordini e ci pungolavano per spingerci verso la spiaggia, perdendo di
tanto in tanto tempo a bastonare qualche infelice prigioniero. Il fatto era che sembravano non poter
procedere senza ammazzare qualcuno, o almeno picchiarlo senza che ci fosse alcun motivo per farlo.
Rhalgorn ed io riuscimmo a sederci in quella che reputavamo una posizione favorevole, e cioè a poco più
di un metro di distanza dalla guardia che si era sistemata a prua. Guadagnare quella posizione non ci
presentò
grandi problemi visto che nessuno dei nostri compagni provava un particolare desiderio di occupare
quel posto. Mentre già si remava per allontanarci da quella riva fangosa, io contai dodici barche in tutto.
Su ognuna delle barche c'era una guardia e circa dodici prigionieri. In testa e in coda al gruppo c'era
un'imbarcazione che portava solo quattro guardie.
La nostra guardia sembrava del tutto incurante del suo carico. Se ne stava seduta lì a guardarci remare e
andava avanti a tirarsi delle crosticine da quella sua orribile faccia con aria del tutto assente. Nella
cintura aveva una lama piatta e corta che era così arrugginita che temo avrebbe incontrato delle serie
difficoltà anche a tagliare il burro. L'unica arma che aveva con se era uno di quei bizzarri tubi che avevo
già notato prima. Quell'aggeggio mi incuriosiva enormemente, perché non riuscivo proprio a vedere
quale uso se ne potesse fare. Era corto, non andava infatti oltre i trenta centimetri di lunghezza, ed
assomigliava in tutto e per tutto ad un pezzo di canna lucente. Lanciai un'occhiata a Rhalgorn e mi
accorsi che anche lui era molto interessato da quello strano oggetto. In alcune cose gli Stygiani sono
bravi proprio quanto loro pensano di essere. Se quella creatura coperta di croste pensava davvero di
riuscire a picchiare Rhalgorn con quell'affare, io gli facevo i miei migliori auguri. Lo Stygiano gli avrebbe
tagliato la gola in una quarantina di posti differenti prima che fosse in grado di recitare le sue preghiere.
Il suo piano appariva ogni momento più praticabile. C'erano momenti in cui la fitta e ombrosa
vegetazione si univa con le numerosissime alghe che vedevamo sotto la nostra imbarcazione, formando
delle scure gallerie che non permettevano di scorgere le altre barche. Io con un occhio sorvegliavo la
guardia e con l'altro non perdevo di vista Rhalgorn. Era lo Stygiano che avrebbe deciso qual era il
momento più adatto per agire. Io avrei attirato l'attenzione della guardia e Rhalgorn avrebbe colpito. Lui
riusciva ad essere più veloce del vento, e nel breve arco di un secondo... All'improvviso qualcosa di
argenteo balenò tra le acque, ruppe la superficie e si avvicinò a noi come un insieme non ben definito
nel quale spiccavano denti e mascelle. La guardia si girò. Il tubo scintillante sputò
fiamme bluastre. Una testa squamosa venne troncata di netto dal collo di quell'assurdo animale che non
avevamo fatto in tempo ad individuare, ed affondò nelle acque profonde. Il tutto fu veloce, semplice e
letale. La guardia riprese a strapparsi le crosticine dalla faccia. Rhalgorn fissò tutta la scena con gli occhi
spalancati. Io rabbrividii e mi rimisi stancamente a remare. Ora avevamo le idee molto chiare su quale
fosse l'uso che si poteva fare di quelle piccole canne scintillanti. Erano lo strumento ideale per tagliare le
cose a metà con ben poco sforzo. Ed erano di gran lunga più rapidi degli Stygiani...
SEI
Ora che il nostro brillante e baldanzoso piano non era più di nessun valore, ogni momento che passava
ci faceva sentire più vicini a una vita da passare in schiavitù tra i piacevoli compagni di ojt'Miyer. Da
tutto quello che avevo visto fino a quel momento, non mi pareva, comunque, che sarebbe stata una vita
molto lunga. Soprattutto considerando il fatto che l'orrore da cui eravamo continuamente circondati
aveva già lasciato un segno indelebile su di noi.
Nella mia mente fiorirono almeno un'altra dozzina di piani. Alcuni avevano degli spunti interessanti, ma
tutti presentavano una grossa pecca: in ogni caso, Rhalgorn ed io saremmo stati ammazzati
immediatamente. Eravamo, insomma, di nuovo allo stesso punto di partenza. Speravamo sempre di
poter cogliere al volo qualche occasione favorevole e, soprattutto, pregavamo gli Dei affinché ci
salvassero la pelle. In un modo o in un altro il tutto si riduce sempre a quello.
Qualsiasi cosa avremmo dovuto fare, la dovevamo fare il più in fretta possibile. Ci trovavamo ancora in
mezzo al gruppo di isolette, ma io avevo già cominciato ad adocchiare dei luminosi squarci di mare
aperto. Ero in attesa. Guardavo Rhalgorn. Lui era il più veloce, e doveva essere quindi lui a fare la prima
mossa. Mentre ero in attesa dell'attimo favorevole, notai un qualcosa di molto particolare. Anche
Rhalgorn ebbe la mia stessa sensazione, ed io mi accorsi che con i suoi occhi infuocati stava
dardeggiando velocemente il folto della boscaglia. C'era un movimento, un qualcosa che sì agitava,
un'ombra nel folto della vegetazione che non era familiare in quell'ambiente. Un'infinita tranquillità che
si riusciva a percepire solo con quel senso che non ha nome. Lì... e lì di nuovo! Scuro contro chiaro. Un
lampo di verde che spiccava sull'enorme distesa grigia.
La guardia non si era accorta di niente. Era come se non avesse orecchie per quell'incalzante silenzio,
per quel bagliore di colore che era durato appena l'arco di uno sbatter di ciglia. Eppure, Rhalgorn ed io
l'avevamo visto chiaramente. Eravamo abituati al respiro della terra, al bisbiglio del vento che passava
tra l'erba secca e leggera. Quel mondo non ci apparteneva, ma il suo cuore batteva quasi alla stessa
maniera. Per un momento qualcosa aveva toccato quel cuore, e il vento aveva urlato: Un Intruso! Un
Intruso!
L'asta fischiò sinistra nell'aria e perforò il petto del mostro. Lui prima tossì, poi gli occhi gli si gonfiarono
inverosimilmente. Il micidiale tubo tremò tra le sue mani e Rhalgorn ne approfittò per colpirlo
violentemente spargendo la sua vita in una sola macchia di sangue. Fiamme blu si sprigionarono dal
tubo per la disperata stretta mortale della creatura, e fecero sfrigolare i rami degli alberi che si
trovavano lì intorno. Io urlai e cercai di agguantare la cosa. L'imbarcazione diede un violentissimo
strattone e venni catapultato fuori bordo. Urtai contro qualcosa, risalii a galla velocemente sputando
acqua grigiastra, e mi affannai a raggiungere la più vicina isola. Altri prigionieri dalla pelle-pallida si
dibattevano intorno a me. Era difficile stabilire che cosa temessero di più: se fossero le mascelle
argentee che vivevano lì, o gli intrusi che si trovavano sulle loro teste.
« Aldair! »
Rhalgorn urlò il mio nome e mi spinse sulla terraferma. Aveva sottratto la spada rugginosa alla nostra
guardia e me la mise in mano. Il mondo esplose intorno a noi. Gli Uomini urlarono terrorizzati. Una luce
blu affilata come un rasoio brillò tra la fitta vegetazione. I mostri ruggivano per la rabbia e per il dolore
mentre le frecce andavano a bersaglio. Le mascelle argentee si erano raccolte e si affilavano i denti
davanti a quel banchetto inaspettato. Rhalgorn ed io facemmo tutto quello che potevamo per mettere
quanti più Uomini possibile in salvo sull'isola. Gli intrusi non si erano ancora mostrati: continuavano a
rimanere nascosti e a mietere vittime, rendendo praticamente impossibile per le creature il compito di
individuarli. Le loro armi micidiali erano del tutto inutili in quell'occasione. All'improvviso uno strano
rumore, del tutto insolito fino a quel momento, colpì le mie orecchie. Sapevo di che cosa si trattava. Non
esiste quiete più terribile di quella dell'approssimarsi della fine della battaglia. È il momento in cui i
morti si sollevano e scivolano attraverso le loro ferite come la nebbia del mattino.
«Aldair,» disse Rhalgorn stancamente, «penso di essere sul punto di perdere il ben dell'intelletto.»
«Lo so. Quando l'hai scoperto?»
«Per favore. Sono molto serio. Lo sento... so che sarà così!»
«Sentito cosa?»
Lui annusò di nuovo l'aria.
«Birra d'orzo. Un po' inacidita, un po' stantia e in qualche modo usata, ma, ciononostante, birra d'orzo.»
Io lo guardai.
«Questo è il tuo stomaco che parla, non il tuo naso.»
«No, per tutti gli Dei, non è così. Aldair...» Improvvisamente si rizzò in piedi e lanciò una delle sue
terribili urla di guerra Stygiane. «Guarda Aldair, vedi quella cosa lì?» Gettò indietro la testa e cominciò a
ridere forte, si fece largo tra i cespugli e si mise a saltare su e giù urlando con quanto fiato aveva in gola.
«Rhalgorn...»
Mi fermai. Alle sue spalle vidi la grossa creatura tarchiata che rimbalzava di isola in isola verso di noi.
Una folta pelliccia color giallo-bruno ricopriva la sua enorme corporatura, ed era striata qui e là dalle
numerose cicatrici, segni di centinaia di battaglie. L'ampia testa piatta era parzialmente nascosta sotto
un elmo Vikoniano, ma io sarei stato in grado di riconoscere quei lineamenti in qualsiasi situazione. Il
muso corto e nero e gli occhi scurissimi mi erano familiari come il dorso della mia mano. Era Signar... ed
era proprio lì! Non ad un milione di stelle di distanza dove l'avevo lasciato! Il mio cuore ebbe un
sobbalzo e mi precipitai per andargli incontro. Rhalgorn era già lì. Signar lo sollevò con un forte ruggito
che lasciò lo Stygiano boccheggiante, poi lo lasciò libero per poter soffocare me contro la sua enorme
pancia.
«Dannazione a me,» ringhiò, mentre sfoderava un sorriso da orecchio a orecchio, «siete proprio voi, e
questa sì che è una notizia! Anche se come ciò sia potuto accadere non saprei davvero dirlo!»
«Sapevo che eri tu,» rise Rhalgorn. «Perché un Vikoniano fa sempre cadere più birra di quanta non ne
beva.»
Signar si girò a guardarlo con un ghigno divertito dipinto sul volto.
«Alito di coniglio, questo mondo è così pieno di bizzarri individui, che sono quasi contento di rivederti.
Dannazione a te!» Scosse il capo con l'aria di chi non si è ancora reso conto di quello che sta succedendo
e continuò a guardare quello strano paesaggio. «Non riesco a proprio a credere come tutto ciò sia
potuto accadere. Thareesh!» urlò all'improvviso. «Guardatevi un po' intorno per vedere se lo scovate!»
«Thareesh... è qui anche lui?»
«Certamente,» si imbronciò Signar. «Lui e un'altra dozzina del vecchio Ahzir. Non si può partire
all'improvviso e lasciare indietro il proprio capitano e il proprio equipaggio, Aldair. Loro troveranno le
tue tracce, in un modo o in un altro.»
A poco a poco, dietro a Signar cominciarono ad apparire tra il folto della vegetazione altre figure. Grandi
Vikoniani dall'aspetto simile a Signar, o altri neri come la notte, delle terre occidentali di Raadnir.
Guerrieri bassi e tarchiati della mia stessa razza compreso il buon Stumbacius. Agili arcieri Nicieani si
calarono dagli alberi, con le loro membra sottili completamente ricoperte di scaglie verdi dalla testa ai
piedi, con la testa piatta e delle semplici fessure al posto del naso e della bocca. Sembravano davvero
uscire da un incubo. Ora quel tempo mi sembrava invece come se non fosse mai esistito, giacché ero
arrivato a chiamare fratello più di un Nicieiano.
«Thareesh.» Strinsi forte la tua mano tra le mie. «Questo è un giorno al quale brinderemo per molte
notti.»
«Aldair, amico mio...» Il suono sibilante della sua voce era musica per le mie orecchie. «È davvero un
gran giorno questo. Aver ritrovato te e il buon Rhalgorn.» Si fece avanti e abbracciò lo Stygiano. Io sentii
l'aroma secco e forte della sua pelle. I Nicieani sono una razza fortunatissima perché, dovunque vadano,
un po' del deserto che è la loro patria è sempre con loro.
«I tuoi arcieri si sono comportati molto bene oggi,» gli dissi.
«Avevano compiti importanti e sgradevoli.»
«Questo è il solito modo di parlare dei Niceiani, fin troppo modesto.»
«Forse hai ragione.» Thareesh si guardò intorno. «Suppongo che siamostati abbastanza bravi.»
Quell'adunata di compagni perduti si interruppe all'improvviso quando un grosso Vikoniano arrivò
trafelato e balbettò qualcosa a Signar. SignarHaldring bestemmiò, si avviò, poi si girò e mi fece segno di
avvicinarmi a lui.
«Non riesco a capire questa faccenda,» disse con aria molto cupa, «e forse tu riesci meglio di me a
fartene un'idea. Per la Vista del Creatore, Aldair... queste specie di Uomini sono senz'altro il popolo più
strambo che io abbia mai visto!»
«Che cosa è successo ora?»
Signar mi indicò l'uomo dell'equipaggio che era al suo fianco.
«Signore,» mi disse lui, «abbiamo con noi degli Uomini che erano nelle imbarcazioni con le quali siamo
arrivati qui. Stiamo tentando di metterli insieme a quelli con i quali siete stati rinchiusi voi per
allontanarci da qui. Solo che... quei maledetti idioti si rifiutano di muoversi!»
Io lo interruppi.
«E perché non vogliono? Che cosa non gli sta bene?»
Il Vikoniano allargò le braccia.
«Mastro Aldair, il fatto è che non si piacciono. Ci era già capitato prima.»
«Ma sì, è per qualche loro assurda fissazione religiosa,» disse Signar con fare sprezzante.
«Semplicemente sono come stregati, questo è certo!»
Dalla mia breve ma significativa esperienza con l'Uomo, sapevo che era una creatura di indole codarda,
cocciuta e irritabile. Tuttavia, riuscii a stento a credere alla scena che si presentò davanti ai miei occhi.
Miracolosamente, solo un gruppetto di prigionieri erano stati sbranati dalle mascelle argentee. Pochi
altri presentavano ferite gravi e profonde, e con ogni probabilità sarebbero morti di lì a poco. Il resto,
circa un centinaio in tutto, erano al sicuro su quelle isolette, e se ne stavano a farfugliare strane cose o a
urlare con quanto fiato avevano nei polmoni. Le lucide imbarcazioni di legno che avevano trasportato
Signar e il suo equipaggio stavano attraccate lì vicino. Alcune cose dell'Uomo aspettavano nelle
imbarcazioni: erano puliti e decentemente vestiti, ed era più che evidente che non appartenevano al
mio gruppo. Io mi avvicinai per guardare un po' quella calca, poi mi girai verso Signar.
«Amico mio, sii così gentile da lanciare uno degli urli di guerra dei Vikoniani. Qualcosa di chiaro e
semplice sarà più che sufficiente.»
Signar fu piuttosto stupito da questa mia richiesta, poi ne afferrò il senso e ghignò molto soddisfatto.
Tirò un profondo respiro. Cominciò come un brontolio, che veniva su dal profondo della sua enorme
pancia, sali fino al petto dove si trasformò in un ruggito, poi sbraitò dalla gola come un vero e proprio
tuono. Fece tremare la terra, fece increspare le acque livide e fece cadere i ramoscelli degli alberi.
Mancò poco che le cose dell'Uomo morissero di paura. Io mi feci avanti.
«Caldus, sei qui da qualche parte?»
Dapprima ci fu silenzio, poi: «Cosa vuoi da me, Aldair? Ti avevo detto che non avrei avuto niente a che
fare con i tuoi folli e stupidi piani!» Fece alcuni passi in avanti e si mise a fissare l'acqua con fare molto
accigliato.
«Guarda cosa hai fatto. Hai fatto sì che alcuni dei nostri fossero ammazza-ti!»
Quel loro blaterare cominciò di nuovo, ed io lo interruppi in fretta.
«Caldus... alcuni dei tuoi compagni sono morti. Ciò è molto increscioso. Ma tutti quelli di voi che sono
sopravvissuti ora sono liberi. Non sarai ven-duto come uno schiavo. Capisci quello che sto dicendo?
Ora: convinci immediatamente tutta la tua gente a salire su quelle imbarcazioni... e dico tutti! Le
creature di ojt'Miyer faranno in fretta a realizzare che qui è successo qualcosa. Ed io non intendo essere
ancora nelle vicinanze quando ciò
accadrà.»
Caldus mi guardava con occhio torvo.
«Noi non verremo nelle barche con gli infedeli. Mai.»
«A chi ti stai riferendo?»
« A loro! » Puntò un dito tremante in direzione degli Uomini ben vestiti che si trovavano sulle
imbarcazioni di Signar. «Loro sono impuri!»
All'improvviso mi sentii molto stanco ed annoiato da tutta quella storia. Non avevo nessuna intenzione
di continuare ad ascoltarlo. Avevo già sentito delle discussioni religiose e sapevo benissimo dove
saremmo arrivati. C'era evidentemente una notevole differenza tra la dottrina della gente di Caldus e
quella degli altri. Qualche fondamentale punto della dottrina, come la vera lunghezza dell'organo
genitale di un nano in piena erezione.
«Caldus,» dissi alla fine, «credete all'esistenza di un paradiso in questa vostra religione?»
«Sì, certo!» rispose lui gelido.
«E ci sono dei santi. Avete anche dei santi, vero?»
«Certamente. A cosa vuoi arrivare, Aldair?»
Indietreggiando verso la spiaggia afferrai l'enorme ascia di guerra di Signar e la misi tra le mani di Caldus.
«Innalza questo tuo caro popolo al livello della santità,» gli dissi. «Ora!»
Per un breve attimo ci fu tutt'intorno un silenzio di morte. Poi, circa un centinaio di anime furono
improvvisamente illuminate e si agitarono freneticamente per essere le prime a salire sulle barche di
Signar... SETTE
I mercanti di schiavi avevano stabilito di seguire una rotta in direzione nord-ovest attraverso quelle
intricate isolette, fino a raggiungere la loro base in mare aperto. Signar invertì quella rotta e ci mise a
remare velocemente verso sud-est. Quella densa vegetazione divenne presto come una vera e propria
superficie solida al di sopra delle nostre teste. In meno di un'ora stavamo silenziosamente scivolando su
acque molto scure attraverso una fitta caverna legnosa. Persino le cose dell'Uomo, che stavano sempre
lì a lamentarsi di qualcosa, sembravano più sollevati. Signar disse che per il momento ci potevano
considerare al sicuro.
Dall'idea che mi ero fatto di quel posto, stavamo risalendo verso la foce di un fiume non particolarmente
impetuoso. Signar non aveva nessuna idea di dove nascesse quel fiume, ma era quasi convinto che si
spingesse per molte miglia all'interno della terraferma. Gli Uomini, spiegò, non conoscevano nulla della
terra che si stendeva alle spalle di quel delta paludoso, dal momento che l'acqua rappresentava una
specie di barriera protettiva contro le creature di ojt'Miyer.
Una domanda mi bruciava in mente fin dal momento in cui ci eravamo liberati dai mostri. Le casuali
parole di Signar sul fiume e sugli Uomini che abitavano lì, mi avevano notevolmente disturbato.
«Vecchio mio,» dissi, «sembri conoscere molte cose su questo mondo, e sono sbalordito da come tu
possa essere riuscito a saperle. Come hai fatto a trovare gli Uomini che sono con te, e in così poco
tempo? E come fai a sapere tutte queste cose sulla loro terra? A me e a Rhalgorn sono accadute
tantissime cose nel giorno e nella notte che abbiamo trascorso, qui, ma non conosciamo ancora
praticamente nulla. Tu, comunque...»
Mi interruppi. Il grosso guerriero se ne stava seduto dritto come un fuso e mi fissava come se avessi
perso il lume della ragione. Thareesh mi guardava anche lui ed aveva tutta l'aria di pensarla esattamente
come lui.
«Beh, che avete da guardarmi così voi due? Ho solo chiesto...»
«Sappiamo che cosa ci hai chiesto,» disse Signar con molta cautela. «Ed è proprio quello il punto.
Aldair... hai detto un giorno e una notte. Da quando sei stato dove?»
«Come dove? Qui, naturalmente,» dissi io piuttosto arrabbiato. «Su questo mondo così assurdo e
bizzarro! Che cosa pensavate che intendessi?»
Signar e Thareesh si scambiarono delle occhiate molto perplesse. «Aldair,» disse alla fine il Niceiano,
«c'è in effetti qualcosa di terribilmente sbagliato qui, e non sono del tutto certo di sapere di cosa si
tratti. Noi sappiamo parecchio su questo posto perché abbiamo avuto un periodo di tempo piuttosto
ampio per studiarlo e farci delle idee a riguardo. Signar ed io siamo stati qui più di due anni e mezzo...»
I peli mi si rizzarono sul collo.
«Ma questo non è possibile, Thareesh! Non è possibile! »
«Ovvio che no,» sbottò Rhalgorn. «Dannazione a tutti voi, questo non è
il momento adatto per raccontare pessime barzellette Nicieiane!»
Guardai Thareesh e scossi la testa.
«Temo che non sia affatto una barzelletta, Rhalgorn.»
Il Vikoniano tirò un profondo grugnito.
«No, infatti non lo è per niente.» Lanciò un'occhiata dietro le spalle di Rhalgorn, poi guardò di nuovo
me. «Aldair, ti spiego come ciò è potuto accadere, sebbene tu conosca la maggior parte della storia
bene quanto me. Mi ricordo di aver visto Barthius afferrare Corysia e trascinarla dentro quella stanza
sotto la Fortezza di Amazzone, con te e Rhalgorn alle calcagna. Lui saltò in una di quelle lucide e
splendenti cose rotonde...»
«... le sfere d'oro.»
«Sì. Poi la cosa si accese di un bagliore improvviso e in un attimo scomparve dalla vista.»
«E Rhalgorn ed io li seguimmo in un'altra sfera,» finii io per lui.«In men che non si dica fummo
trasportati dalla corrente non so assolutamente dove, con un milione di stelle tutt'intorno a noi.»
«Con niente da mangiare,» aggiunse Rhalgorn in tono molto acido.
«Poi,» dissi io, «dopo un... certo periodo di tempo, vedemmo comparire intorno a noi questo mondo e
la sfera scomparve dalla nostra vista.» Mi sporsi verso loro due. «Ma questo è stato ieri... non due anni
fa!»
Signar si strinse nelle spalle e continuò a guardare le scure acque. «Aldair,» disse con tono distaccato,
«non sono passati dieci minuti da quando io e gli altri ti abbiamo raggiunto. Non tutti i nostri se la sono
sentita di intraprendere un viaggio del genere, ma c'è stato un numero abbastanza consistente che
avuto lo stomaco per farlo. Siamo arrivati proprio dove eri arrivato tu, o comunque nelle vicinanze...» Si
girò verso Thareesh e il Nicieiano annuì.
«Anche noi siamo scesi lungo il fiume,» disse Thareesh, «solo che abbiamo fatto un altro percorso.»
Io lo guardai per un lungo momento.
«Quindi non esiste un'altra risposta più convincente di questa? Il tempo si è in qualche modo sconvolto
e noi siamo rimasti imbrigliati in questa sua logica.»
Eppure un piccolo spiraglio di speranza apparve nella mia mente dopo aver ascoltato quella notizia.
Signar era stato l'ultimo a partire ed il primo ad arrivare lì. Forse Corysia, che era stata la prima a
prendere il volo, sarebbe arrivata per ultima. Ma il problema era... quando? Tra due anni o tra cento? E
che senso aveva quella differenza? I Signori della Terra avevano costruito quelle sfere per poter
raggiungere le stelle. Non riuscivo a credere che semplicemente ci saltassero dentro e si lasciassero
trasportare da un tempo all'altro.
Era più che chiaro che gli anni avevano arrecato dei danni alle navicelle o, più probabilmente, noi non
eravamo capaci di guidarle. Il che poteva voler dire che Corysia sarebbe forse stata trasportata dalla
corrente nel Mare delle Nebbie per sempre. O che avrebbe potuto trovare qualche altro mondo distante
milioni di miglia da quello dove ci trovavamo riuniti noi in quel momento.
Quella verità faceva vanire i brividi solo a pensarci, ma le cose stavano proprio così. Credo che i miei
compagni intuissero ciò a cui stavo pensando, perché si misero immediatamente a fare qualcosa,
impegnandosi in qualche piccolo compito, anche se, in realtà, c'era davvero ben poco da fare... Più o
meno a metà del pomeriggio, ci fu dato uno sgradevole segnale che ci fece capire che quelle maledette
creature non ci avevano dimenticato. Un cupo brontolio di tuoni partì da est, si fece progressivamente
più
vicino, poi rombò al di sopra delle nostre teste, e il rumore fu cosi forte e violento che per poco non ci
fece stramazzare al suolo. Signar ci fece se-gno di interrompere qualsiasi attività e cominciò a spingere le
sue imbarcazioni verso un'isola dove c'era una vegetazione particolarmente fitta e lussureggiante con
delle radici spesse e forti come querce acquatiche. Per una lunga ora ce ne restammo seduti lì in
silenzio, con i nervi pronti a saltare da un momento all'altro, mentre l'odiosa navicella navigava dolce
sopra di noi, mandando di tanto in tanto dei lampi di fiamme bluastre che si infrangevano nelle acque
del fiume.
«Stanno puntando a qualcosa in particolare,» chiesi io, «o semplicemente ci stanno informando che
sono qui?»
«Molto probabilmente si tratta solo di una dimostrazione,» disse Signar. Si sporse e con la mano fece
sollevare un po' d'acqua. «Le cose degli Uomini dicono che quelle creature hanno delle macchine capaci
di individuare qualcosa che si muove al di sotto, sia che la vedano o no. Ora c'è un trucco, e la macchina
non può distinguere la differenza.»
Non erano passati neanche pochi minuti, quando la navicella invertì la rotta e risalì il corso del fiume.
Rimanemmo immobili lì dove ci trovavamo, a riposarci e a mandar giù un pasto frugale. Gli Uomini, che
avevano passato quell'ultima interminabile ora con la testa stretta tra le gambe, ripresero di nuovo il
loro passatempo preferito: ciarlare e litigare tra loro. Caldus aveva trovato un degno nemico tra gli
Uomini di Signar, una femmina dotata di una gran voce, chiamata Becky-Sue Elainesdotter. Dal mio
punto di vista assomigliava moltissimo ai maschi, anche se i peli dorati che aveva sulla testa erano
alquanto più lunghi. Aveva, ad ogni modo, un'altra caratteristica che la distingueva. Gli Uomini hanno
solo due mammelle, ma questi attributi sono piuttosto prominenti in alcune femmine - una peculiarità
che loro hanno in comune con molte altre razze - compresa, fortunatamente, la mia. Stavo
bighellonando senza meta, quanto mi imbattei in quella strana coppia. Rimasi per un bel po' a guardarli
mentre si scambiavano sguardi torvi ed improperi, poi con grande calma mi misi tra di loro.
«Caldus,» dissi, «stai facendo un grande baccano. Ti suggerirei di farla finita, prima che i nostri nemici ci
sentano nonostante il rombo della loro navicella.»
La femmina mi guardò di traverso. Caldus fece qualche passo avanti.
«Questi non affari tuoi!» disse con rabbia. «Ti posso assicurare, Aldair, che i mostri non ci sentiranno!»
«Questa improvvisa ostentazione di coraggio è davvero illuminante, ma decisamente fuori luogo. Qual è
il nocciolo della questione?»
«È una faccenda personale,» disse Caldus con fare burbero. «Non avrebbe alcun interesse per te.»
«Certo che l'avrebbe,» se ne uscì irata la femmina.«Lui è qui, no?» Mi squadrò molto attentamente. «Se
tu sei Aldair, l'amico di Signar, conosco già parecchie cose sul tuo conto. Sicuramente abbastanza per
sapere che sei un essere ragionevole. Vorresti, per favore, ascoltare ciò che ho da dirti?»
Caldus rise.
«Ecco, ora avrai anche tu la tua tirata d'orecchi!»
«Forse,» dissi io, «ma ho intenzione di ascoltare tutti e due, se ciò che avete da dire ha qualcosa a che
fare con il nostro viaggio e la sua felice conclusione. Se invece così non è...»
«È esattamente di questo che intendo parlare,» disse lei in fretta, facendo segno a Caldus di tacere con
un gesto della mano. «Questa... persona, ci chiede di dargli le nostre imbarcazioni, per permettere a lui
e alla sua gente di tornare a casa. Le nostre imbarcazioni!» Si buttò indietro i capelli e dai suoi occhi
sembrarono uscire lampi di fuoco.
«Sarai riportato nella tua terra,» dissi a Caldus. «Signar ha già spiegato tutto.»
«Ah, Non riuscirai a giocarmi così facilmente!»
«Di quale trucco parli?»
«Sai che cosa è lei?» Puntò un dito accusatore in direzione della femmina.
«No. Che cos'è, Caldus?»
«Quello che sono anche tutti gli altri. Pagani cultori della Nuova Dottrina. Miscredenti!»
«Stammi bene a sentire, ora!» Becky-Sue gli si lanciò contro.
«Calma,» dissi io, «calmatevi tutti e due.» Un sordo e familiare dolore cominciò a farsi sentire dietro la
mia nuca. «Per caso tutto ciò ha qualcosa a che fare con la religione? Se è così, farete bene a tener
presente che io ho già un'efficace risposta pronta.»
«Non riesco a credere che tu abbia tirato di nuovo in ballo questa faccenda,» mormorò Caldus.
«Su, fatti avanti.»
Caldus abbassò lo sguardo al suolo.
«Noi... abbiamo bisogno di quelle imbarcazioni, Aldair. Tu non capisci. Io non posso permettere che dei
seguaci della Nuova Dottrina arrivino a sapere la posizione del Nuevo Arizona.»
«Ah, ah!», se la rise Becky-Sue.
«Chiudi il becco. Perché no?»
Caldus mi guardò sconvolto.
«Perché? Ma perché sono dei pagani! Pensi che io voglia condurre quelli come lei nel rifugio dei Divini
Tradizionalisti?»
«Divini... cosa?»
«I Veri Uomini, Aldair. Questi esseri non sono come. Sono certo che tu riesci a vedere la differenza.»
Io li osservai per un lungo momento.
«Caldus, manderò qui Rhalgorn. Sarà meglio che voi due facciate una chiacchierata. Una brevissima
chiacchierata. Gli dirai tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere su questo tuo rifugio, così ci potremo
sbarazzare di te e dei tuoi amici al più presto possibile.»
Caldus spalancò gli occhi.
«Tu mi stai minacciando, Aldair! Questo non è leale!»
«Nella mia religione,» gli dissi, «il Meraviglioso Ravanello, tutto è leale. Dopo che Rhalgorn ti avrà
parlato della nostra Santa Dottrina, sono certo che tu ne diventerai un fervente seguace.»
Lui urlò e mi mostrò i pugni. Io mi girai, poi mi fermai e lo fronteggiai di nuovo.
«Sei uno stupido, Caldus. Non hai neanche idea di chi tu sia, quale sia il tuo ruolo e da dove tu sia
venuto. Non sono affatto una persona crudele o vendicativa, ma credo davvero che mi divertirò a
raccontarti la vera storia dell'Uomo!...»
OTTO
Il resto del nostro viaggio in quel dedalo di isole fu, per fortuna, piacevolmente monotono. Più o meno a
metà del secondo giorno, imboccammo un affluente del fiume che scorreva verso sud e che ci avrebbe
condotto verso la terra della gente di Caldus. La folta vegetazione, composta soprattutto da alberi con
enormi radici, continuava ad accompagnarci, ma ora le isole lasciavano qua e là il passo a scogliere
scoscese che ci sovrastavano. Era un percorso buio ma molto ben nascosto. Ero sicuro che dall'alto
nessuno avrebbe potuto immaginare che lì sotto scorreva un piccolo corso d'acqua.
Eppure, io mi domandavo: era davvero sicuro? Non era stato Caldus a dire che i mostri arrivavano e
rapivano senza ostacoli quelli della sua gente per farne degli schiavi?
«Non hai bisogno di preoccuparti,» disse lui con fare scontroso. «Siete praticamente al sicuro ora.»
«Non so perché, ma le tue parole mi confortano molto poco,» gli dissi.
«Forse dipende dal fatto che quando ci siamo conosciuti voi eravate degli schiavi. Ed io non ho alcun
desiderio di fare quell'esperienza.»
«Tu non la farai.»
«Tu continui a dirlo. Perché non riesco a darti fiducia?»
Caldus abbassò lo sguardo e si guardò le mani.
«Non mi hanno preso al porto,» biascicò.
«Dove allora?»
«In... da qualche altra parte.»
«E dove è stato? Dannazione, rispondimi!»
Gli afferrai la testa tra le mani e lo costrinsi a guardarmi. Per un breve attimo i nostri sguardi si
incrociarono. Vidi il suo profondo disprezzo, il suo gelido disdegno per ogni essere vivente che non
appartenesse alla sua razza. Non poteva sapere che era uno dei decaduti Signori della Terra, ma
qualcosa in lui lo faceva ricordare.
Più tardi mandai di nuovo Rhalgorn ad interrogarlo, ma persino le minacce dello Stygiano non sortirono
alcun effetto. Non aveva assolutamente intenzione di dire altro su dove fosse stato catturato o come.
Quando alla fine venni a scoprire la verità sull'intera faccenda, avrei ardentemente desiderato di aver
insistito ancora di più. Quando arrivammo a circa una lega di distanza dal porto, lasciai andare avanti
Caldus e un altro dei suoi per avvertire i suoi compagni del nostro arrivo. Mi era sembrata la cosa più
prudente da fare, dal momento che lui stava riportando a casa nuove e spaventevoli «bestie» ed
«eretici» da mandare in giro per il loro paese. Mentre lui era via, parlai con Becky-Sue Elainesdotter di
quegli assurdi screzi tra le tribù dell'Uomo.
«Non sono per niente assurdi e neanche stupidi!» mi informò gelida.
«Semplicemente tu non capisci, Aldair.»
«No,» dissi io molto pazientemente, «ma ci sto provando. Non è questa la prima volta che mi capita di
assistere a delle liti tra due religioni diverse. Per quanto riesca a ricordare, i Nicieani ebbero una
discussione interminabile sui materiali adoperati nella costruzione della Scala del Paradiso. Alcuni
dicevano che era legno, mentre altri dichiaravano fieramente che era fatta di pietra. Quelli che
sostenevano l'ipotesi del legno dicevano che ciò
era semplicemente ridicolo: una scala di pietra sarebbe crollata a causa del suo stesso peso molto prima
di raggiungere la meta. I seguaci della teoria della scala di pietra dicevano che quello era un
ragionamento fanciullesco. Cifre alla mano potevano facilmente dimostrare che il legname di tutte le
foreste del mondo si sarebbe esaurito molto tempo prima che una scala di legno potesse essere
ultimata.»
«E come andò a finire la storia?»
«In verità non c'è stata nessuna fine. Proprio poco prima che l'Impero cadesse, correva voce che i
dissidenti di ambedue quelle sette avessero formato un nuovo gruppo di veri credenti che erano in
grado di provare al di là di ogni dubbio che la scala era fatta di corda.
Becky-Sue aggrottò le ciglia molto irritata.
«Questa è una vera idiozia. Ti assicuro che la differenza tra i Cultori della Nuova Dottrina e quegli stupidi
Tradizionalisti è molto più importante.»
«Vale a dire?»
«Sei sicuro di volerlo sentire?»
Si rigirò una ciocca di capelli tra le dita.
«In verità non ne sono così ansioso,» le dissi in tutta sincerità, «ma credo che sia molto meglio così.»
Lei diede uno sguardo furtivo alla spessa superficie che stava sulle nostre teste. Un solitario raggio di
luce colpì l'acqua come una lancia, poi fuggì via.
«Sono certa che non ti interessa conoscere tutto quello che dice il Santo Documento, così cercherò di
raccontarti le cose più importanti il più in fretta possibile. Un tempo l'Uomo viveva in Paradiso con il
Creatore. Ma lui ingannò Dio, apprese il segreto della vita, e si mise a creare egli stesso. Per questo
peccato, fu cacciato dal Paradiso. Dio punì tutti gli Uomini, e li scagliò lontano dal Paradiso in uova
dorate. In quelle uova c'era possibilità
di respirare, e quindi di vivere, ma la memoria del Paradiso era stata cancellata dalla mente dell'Uomo.»
Fece una pausa per prendere respiro. «Dopo un certo periodo di tempo che non era tempo, le uova
dorate di Dio ci portarono qui, a soffrire sottomessi alle Bestie.»
«E le discussioni tra la tua gente e gli altri?»
Gli strani occhi blu della femmina si incupirono.
« Loro credono alla permanenza del peccato. Credono che... «si interruppe e quasi si soffocò nel
pronunciare le altre parole, «...che le uova di Dio si siano dissolte nella polvere quando noi siamo nati di
nuovo su questo mondo, Ma non è così,» urlò lei. «La scrittura dice chiaramente che le uova si sono
semplicemente perdute, non che sono scomparse. Ecco qual è lo scopo dei Cultori della Nuova Dottrina,
Aldair. La redenzione dell'Uomo. Un giorno noi ritroveremo quelle uova e ritorneremo in Paradiso!»
«Ti ringrazio,» le dissi con un certo distacco. «Hai aggiunto cose molto importanti alle mie conoscenze.»
«Capisci ora perché siamo diversi, vero? Voglio dire, questa non è una faccenda stupida e insulsa come
quella della scala!»
«No,» fui d'accordo io, «non lo è».
A quel punto lei si allontanò da me e ritornò tra i suoi compagni. Io tirai un grosso sospiro di sollievo.
Avevo tentato di nascondere i miei sentimenti, sebbene fossi letteralmente sconvolto dalla sorpresa. Mi
domandavo che cosa avrebbe detto quella femmina dell'uomo se le avessi detto che la sua storia era
praticamente vera in quasi tutti i particolari. E cioè che io ero arrivato recentemente da quel suo
Paradiso proprio in una di quelle sue uova dorate. Senz'ombra di dubbio mi avrebbe considerato pazzo
almeno quanto ojt'Miyer stesso...
Non mi ero atteso un'accoglienza fraterna nel rifugio di Caldus. Tuttavia, ero ben più che deluso. Verso
sera arrivammo ad un'ansa del corso d'acqua che stavamo percorrendo, dove un fiume più grande e
ricco aveva scavato una rientranza cavernosa sulle sue rive. La rientranza era protetta da una
vegetazione soffocante, ma rimaneva uno stretto passaggio per le nostre imbarcazioni.
«Non siete i benvenuti qui,» disse Caldus rudemente mentre saltava da una sporgenza della roccia sulla
nostra prua. Lanciò un'occhiata feroce a Becky-Sue.
«Lo so. Il discorso vale anche per me. Solo cerca di non dimenticare che non saresti qui ora se non
fosse per la mia gente!»
Caldus la ignorò e guardò avanti con un volto completamente privo d'espressione. La cavità dove
eravamo entrati si restrinse all'improvviso e, aiutandoci con dei pali, proseguimmo lungo un tunnel di
pietra che si avvolgeva e si contorceva sotto la terra. La strada era illuminata da torce conficcate nei
muri da ambedue i lati, e l'aria aveva un odore di umido e fuliggine.
«Mi dispiace che siamo venuti qui,» mormorò Becky-Sue alle mie spalle. «Questa non è gente a cui si
può accordare fiducia. Guardò Signar e Thareesh con aria molto triste. «Vi ho avvertito su di loro...
vedrete!»
«Forse non sarà così terribile come credi,» sibilò il Nicieiano. «BeckySue, non avrai dimenticato che
anche la tua gente all'inizio non ci ha riservato un'accoglienza che si può definire amichevole.»
«È vero quanto è vero che esiste la pioggia,» disse Signar, sfoggiando uno dei suoi ghigni più fulgidi.
«Pensavate che fossimo delle specie di mostri, proprio come stanno facendo adesso loro.»
Becky-Sue lo guardò con aria di superiorità.
«Questa sì che è bella, non avrai mica pensato che io avessi paura di te?»
A quel punto se ne uscì in una risata acuta e squillante che fece tintinnare le pareti. «Signar, non
possono farvi del male: siete più grandi di loro e inoltre siete armati. È di me che mi sto preoccupando.
Loro ci odiano, non lo sapevi questo? Sarebbero ben contenti di vederci tutti morti, se ciò fosse
possibile!»
«Non mi preoccuperei tanto di chi morirà e chi no,» rifletté ad alta voce Rhalgorn. «Potreste avere delle
spiacevoli sorprese.»
Caldus non disse niente ma, anche se mi dava le spalle, lo vidi irrigidirsi alle parole di Rhalgorn.
Alla fine lasciammo le imbarcazioni in una caverna più ampia e seguimmo Caldus giù per un passaggio di
una certa larghezza che scendeva nelle viscere del terreno descrivendo numerose curve. Le cose
dell'Uomo che avevamo salvato sgambettarono veloci giù per uno dei numerosi buchi di cui era primo
quella specie di sentiero che stavamo percorrendo. Becky-Sue e i suoi compagni procedevano attaccati a
me e al mio equipaggio. Non erano per niente felici di trovarsi in quel posto, e non avevano nessuna
intenzione di andarsene in giro a fare qualche passeggiata da soli. Rhalgorn camminava a fianco della
femmina, canticchiando qualcosa dietro a Caldus. Lo Stygiano non aveva gran simpatia per l'Uomo -
maschi o femmine che fossero - ma si stava divertendo a fare il paladino della causa della gente della
femmina. Ovviamente ciò rendeva Caldus estremamente nervoso, il che procurava ancora più piacere a
Rhalgorn.
Ad un certo punto Caldus si fermò e con un gesto vago indicò qualcosa sulla destra.
«Queste sono le vostre stanze. Occupate tutte quelle che volete. Per favore rimanete qui finché non
verrò a chiamarvi. C'è da mangiare e tutto ciò
che può servirvi.»
«Grazie,» gli dissi. «Quando ti rivedremo di nuovo?»
Caldus stava iniziando a parlare, poi si fermò. Stava cercando disperatamente di mantenere ferma la
voce.
«Io... io non ho idea. Una volta o l'altra. Io... non lo so...»
«Caldus,» gli dissi con molta calma, «mi hai fatto capire più che chiaramente che qui non siamo molto
graditi, né io, né i miei compagni, né tanto meno questa gente della tua stessa razza. Tuttavia, anche se
tu non vuoi assolutamente crederci, noi potremmo esserti di grande aiuto.»
Caldus mi fissò con aria sbalordita.
«Aiuto? Ma per il Respiro di Dio, non hai idea di quanto tu ci abbia già
aiutati! Io sono in un mare di guai proprio a causa tua e dei tuoi amici ficcanaso. Aldair. Mi dovrò
considerare molto fortunato se riuscirò a venir fuori da questa storia tutto intero, e sempre grazie a te!»
« Dannazione! », gracchiò Signar proprio come avrebbe fatto un rospo.
«Se davvero tu sei così preoccupato, e hai tutti questi problemi, sarò ben felice di riportarti lì dove ti ho
trovato!»
«Tu non puoi capire,» disse Caldus ostinato. «Tu semplicemente... non capisci!»
A quel punto si girò e scomparve sotto uno scuro passaggio. NOVE
Caldus non tornò quella sera, e neanche durante la notte. Ciò non mi sorprese affatto, perché avevo
ormai capito che gli Uomini trattano i loro problemi in maniera molto simile a quella delle altre creature:
li ignorano, sperando che si risolvano da soli.
«Che io sia dannato se riesco a capire questo popolo,» grugnì Signar,
«ed è proprio la verità. Ma come: pensa un po' che praticamente abbiamo fatto il guaio più grande che
potevamo fare a salvargli quelle odiose pellacce senza peli!»
Il grosso Vikoniano mi passò ancora una volta accanto mentre faceva un altro dei suoi instancabili giri
intorno alla stanza. Quegli irsuti giganti sono felici solo quando sentono sotto i loro stivali un bel ponte
di legno e la distesa del mare aperto davanti a loro. Non si entusiasmano molto di buchi cavernosi
incastrati nella roccia. Quando sono confinati in posti del genere, diventano una vera e propria minaccia
anche per i loro amici.
«Signar,» dissi io alla fine, «se non ti metti un attimo seduto, ce ne andremo tutti e lasceremo questo
posto interamente a tua disposizione. Così
potrai misurarlo a grandi passi a tuo piacimento, gettare all'aria tutto quello che c'è dentro, e ringhiare
contro i muri.»
Signar si voltò a guardarmi con aria torva.
«Non è colpa mia se queste creature non costruiscono delle stanze di grandezza appropriata.»
« Qualcosa non è della grandezza giusta qui dentro,» disse tirando rumorosamente su col naso
Rhalgorn. «Solo che saprei dire esattamente cos'è.»
Signar tirò fuori dal profondo del petto uno dei suoi soliti rumoracci, ma poi si andò momentaneamente
ad accucciare in un angolo, non essendoci sgabelli o sedie abbastanza robusti da sopportare il suo peso.
«Ho bisogno di un tuo parere,» gli dissi, «e più presto lo avrò meglio sarà. Mi sembra che abbiamo
offeso Caldus in modo molto pesante, e mi sto rompendo la testa nel cercare di capire quale possa
essere il motivo. Non ci amano, se così si può dire, ma non si tratta solo di questo.» Mi girai verso il
Niceiano per includere anche lui nel discorso. «Tu e Thareesh avete vissuto tra le cose dell'Uomo. Forse
voi potete far luce su questo mistero.»
«Sì, abbiamo vissuto tra di loro,» disse il Vikoniano. «Solo che non è la stessa cosa, Aldair. Questo
popolo e la gente di Becky-Sue non sono per niente simili, anzi sembrano appartenere a due razze
completamente diverse.»
«Questo è vero,» si intromise Thareesh. «Ci sono delle notevoli differenze tra gli Uomini, come ce ne
sono tra tutte le specie. Il popolo di Becky-Sue vive prendendo molte precauzioni ed è sempre vigile,
perché sa bene il grande potere che hanno i mostri. Ma...», sollevò una delle sue dita sottili per
sottolineare quanto stava per dire, «ma non vive in un perenne stato di paura. Credo che sia proprio
questa la differenza tra di loro.»
«E non vivono nemmeno in buchi scavati nel terreno,» fece notare Signar.
«No, infatti. Ed è questo il motivo per cui vengono raramente catturati da ojt'Miyer. Sono dei nomadi
come la mia gente. Quelle isole paludose e lussureggianti sono i loro deserti. Si spostano
tranquillamente da una parte all'altra, e molto di rado si fermano a lungo in uno stesso posto.»
Signar si massaggiava il ginocchio per un crampo che gli era venuto alla gamba e cercava di stenderla in
tutta la sua lunghezza senza riuscirci.
«Comunque, Aldair, non si può esprimere un giudizio negativo su di loro. Non sono dei guerrieri, questo
è certo e, con ogni probabilità, non lo saranno mai.»
Le sue parole mi fecero subito venire in mente una cosa, ma Rhalgorn fu più rapido di me ad intervenire.
«Eppure voi eravate con loro sulle barche,» disse, «e avete attaccato la squadra che ci stava portando
sulle isole.»
Signar apparve molto sorpreso, poi scoppiò a ridere.
«Dannazione a te, Rhalgorn... è giusto dire noi, ma non loro. Si è trattato di fortuna bella e buona e
niente di più. Stavamo facendo una battuta di caccia in cerca di mascelle-argentee ed eventuali altre
imbarcazioni. Sarebbero scappati immediatamente dopo che vi avevamo individuato, se non fossimo
stati noi a trattenerli.»
«Tuttavia,» riflettei io, «una differenza c'è, come hai detto tu stesso.»
Guardai Thareesh. «Caldus è assolutamente ignorante su tutto ciò che riguarda l'eredità dell'Uomo.
Becky-Sue conosce la storia, ma non ne è consapevole. Presumo che voi non le abbiate detto nulla.»
Thareesh scosse la sua testa squamosa.
«Avevamo già abbastanza problemi a convincerli della nostra buona fede. Quella storia non ci avrebbe
certo accattivato la loro benevolenza.»
«Avete agito saggiamente.»
Thareesh si alzò e si gettò il suo mantello scarlatto sulle esili spalle. Nato sulle coste del Mar
Meridionale, non aveva nessuna predilezione per il freddo.
«Aldair, mi pare di aver intuito che tu non intendi tenere le cose dell'Uomo all'oscuro della verità ancora
per molto.»
«Sì, hai intuito bene il mio pensiero. Solo che non riesco ad immaginare quale sarebbe l'occasione
giusta per raccontar loro la storia, ma deve essere raccontata.»
«Non credo saranno particolarmente contenti e desiderosi di ascoltarla,»
disse Rhalgorn. Non la si può definire una storia particolarmente lusinghiera.»
Fece una smorfia che esprimeva chiaramente il suo truce divertimento. Non potevo biasimarlo per ciò
che stava pensando. Nessuno di noi riusciva veramente a provare un sentimento di simpatia per quelle
creature. Era difficile ricordarsi del fatto che anche loro erano vittime della follia dell'uomo esattamente
come noi.
Credo che fosse una mattina quando Caldus ritornò. Non c'era in realtà
un modo efficace per distinguere il giorno dalla notte in quel posto. Il suo abbigliamento sembrava
addirittura peggiorato, e sono certo che non aveva passato la notte a riposare tranquillamente come
avevamo fatto noi. Aveva gli occhi profondamente cerchiati e vuoti, e sembrava portare sulle spalle il
peso del mondo intero.
«Ho parlato al Consiglio,» disse molto freddamente, e quasi scagliando-ci contro quelle parole. «Essi
hanno deciso che non sarebbe prudente per voi rimanere qui. Così, sei libero di andartene, Aldair.»
Rhalgorn scoppiò in una sonora risata, imitato dalla maggior parte dei guerrieri che si trovavano raccolti
attorno a me. Caldus si irrigidì. I due Uomini che si trovavano al suo fianco sbiancarono. A giudicare dai
loro abiti, dedussi che quei tipi dovessero essere una specie di guardie d'onore. Le loro camicie e i loro
pantaloni pieni di tasche erano assolutamente identici in ogni minimo particolare, ed ognuno di loro
portava un arco e una faretra piena di frecce.
Osservai attentamente quelle armi, e mi chiesi a cosa servissero. Se una fascia attaccata ad un pezzo di
legno basta per fare un arco, allora erano degli archi. Ad ogni modo, io avevo usato un arco lungo, vale a
dire gli archi comuni di Gaullia, fatto di resistente legno di frassino fin dalla mia infanzia, ed avevo anche
appreso la tecnica per maneggiare il particolare arco dei Nicieiani che presentava una doppia curvatura
ed era fatto di corno e fibre animali. Persino un legionario Rhemiano si sarebbe vergognato di avere
come armi quelle miserevoli cose, e quegli individui sicuramente erano ben poco pratici dell'arte del tiro
con l'arco.
«Liberi di andarcene,» dissi io. «Sono state queste le tue parole, vero Caldus? Non è in verità una gran
notizia quella che ci porti. Come vedo io la cosa, siamo anche liberi di rimanere.»
Di nuovo il colore abbandonò le sue guance.
«Non era questo... non intendevo dire questo,» disse lui con la voce che gli si strozzava in gola. «Aldair,
non perdiamo tempo nel cercare di essere gentili l'uno con l'altro. Non sei il benvenuto qui. Ormai ciò
dovrebbe esserti più che chiaro.»
«Infatti lo è. Ma è anche evidente che non ho raggiunto lo scopo che mi ero prefisso venendo qui. Voglio
dire, oltre al compito di riportarvi a casa sani e salvi, il che è stato chiaramente un errore da parte mia.
Io devo parlare con la tua gente, Caldus. Te l'avevo già ripetuto più di una volta. Non abbiamo nessuna
intenzione di partire prima che ciò sia avvenuto.»
«Questo... questo non è assolutamente possibile!», biascicò mentre teneva le braccia tese lungo il corpo
con i pugni stretti.
«Perché?»
«Perché... perché il Consiglio non ha niente da dirvi» . Lanciò un'occhiata torva in direzione di Becky-
Sue. «E neanche a quelli della sua razza!»
«Ciò non di meno lo faranno,» gli dissi.
Mi girai a dare uno sguardo veloce alle mie spalle dove si trovavano i miei guerrieri armati e corazzati. Al
mio fianco c'era la tozza e impassibile figura di Stumbacius. Uno della mia stessa razza, e che era stato
nel passato un soldato Rhemiano, il che voleva dire un compagno leale e devoto. Una cicatrice gli
correva lungo tutto il muso. La sfoggiava con fierezza, e quello era un segno del suo valore che non
diminuiva affatto il suo aspetto intrepido.
«Stumbacius,» dissi senza neanche guardarlo, «incolonna l'equipaggio e portaci fuori da "questo
passaggio. Se incontrerai degli ostacoli, trattali gentilmente, per quanto la situazione lo consenta.»
Caldus indietreggiò barcollando, insieme incredulo e arrabbiato.
«Aspettate... voi... voi... non potete...!»
Se le cose dell'Uomo non si fossero appiattite contro il muro, Stumbacius avrebbe marciato su di loro
senza perdere neanche un passo. I soldati Rhemiani non sono addestrati per far interporre qualcuno sul
loro cammino. Così, ci avviammo per il lungo corridoio, con Caldus e i suoi seguaci che correvano
davanti a noi, urlando e mostrando i pugni. Di solito non è
mia abitudine incedere in modo così impudente per le città degli altri popoli, ma era stato proprio
Caldus ad obbligarmi a quella tattica. Non avevamo passato anni lunghi e dolorosi alla ricerca dell'Uomo
per andarcene via come miti agnellini proprio ora...
All'improvviso, senza che niente lo facesse prevedere, il nostro angusto passaggio si interruppe e si
allargò in una stanza vasta e cavernosa. Mi fermai, e così fecero anche tutti gli altri, colpito
dall'incredibile bellezza del luogo. Immense dita di pietra gelata pendevano dal soffitto, altre salivano
verso l'alto dal terreno, e alcune volte si incontravano per formare colonne enormi e mirabili più robuste
di un albero. Mi sembrava come se gemme di ogni colore immaginabile si fossero fuse nel cuore della
terra, e poi fossero di nuovo sgorgate di nuovo tutte insieme per formare quella meraviglia.
Delle torce erano sistemate tutt'intorno alle pareti formando così un cerchio, ma la loro flebile luce non
riusciva a raggiungere la parte più alta. Fino al soffitto c'era infatti una notevole distanza, ed infatti
anche il più
piccolo rumore doveva compiere un lungo viaggio nel vuoto per quell'immensa sala.
«Aldair... ti prego!» Caldus si avvicinò con molta cautela. La rabbia ora l'aveva abbandonato. Ma, al suo
posto, nei suoi occhi era rimasta la paura, e le sue parole ebbero il tono di una supplica. «Io... io parlerò
di nuovo al Consiglio,» disse in fretta. «Loro verranno da te, e tu potrai dire ciò che vuoi. Solo... tu non
puoi stare qui!»
Lo guardai cercando di capire quale poteva essere il motivo di quel suo repentino cambio d'umore.
Dietro di lui delle figure andavano su e giù tra le ombre. Avevano paura di avvicinarsi a noi, ma erano
abbastanza curiosi per restare.
«Se siamo capitati su qualche luogo sacro della tua gente, me ne dispiace. Sei tu che hai fatto sì che le
cose andassero così.»
«Semplicemente... torna indietro,» disse ormai completamente indifeso.
«Farò come dici tu. Ma tu non puoi stare qui!»
«E perché no? Ci troviamo a nostro agio qui, e ci fa piacere vedere ancor quelle stanze.»
«Tu... tu... non puoi...»
Improvvisamente divenne cinereo. Le gambe non lo ressero più e cadde in ginocchio, affondando il volto
tra le mani. I suoi compagni caddero anche loro per terra al suo fianco, lamentandosi e coprendosi il
volto con le mani.
Rimasi a fissarli tutti e tre.
«Ora, per tutti i diavoli, che diamine significa tutto ciò?»
«Lì, Aldair. Guarda.»
Signar mi toccò il braccio e mi indicò. Circa una dozzina di cose dell'Uomo stavano immobili nelle
tenebre e ci guardavano spavalde, come se non avessero paura di nulla e di nessuno. Le loro facce erano
dipinte di un bianco terreo e spettrale. Per un attimo mi diedero l'impressione di stare fluttuando
nell'aria, come se non avessero corpo. Poi mi accorsi che erano vestite di tutto punto e tutte in nero.
«Non sono mai stato qui prima d'ora, ma io conosco questo posto.»
Mi girai verso Becky-Sue che si era portata al mio fianco.
«Allora forse saprai spiegarmi cosa ha ridotto l'amico Caldus in quello stato.»
Becky-Sue ghignò visibilmente a disagio.
«Questo non è un luogo sacro, Aldair. Sono loro che sono sacri. Lui li teme, perché loro sono i morti
della sua gente...»
DIECI
La fissai irritato.
«Becky-Sue, non crederai davvero a quello che hai detto? Quelli sono Uomini vestiti di nero che si sono
dipinti la faccia.»
Lei scosse la testa.
«Naturale che non ci credo. E neanche lui. Almeno non veramente. Ma ha paura di loro... più di tutti gli
altri, credo, dal momento che è entrato nella loro comunità solo da poco.».
Stavo per parlare, ma lei lesse la domanda nei miei occhi.
«Sono certa che sia questo il motivo per cui Caldus era così arrabbiato. Era quello che rischiava di più.
Nel corso degli anni, alcuni della sua gente sono riusciti a trovare la strada per il nostro rifugio e hanno
più volte accennato a questo fatto. Ti ricordi che ci hai detto di non essere stato preso in questo posto?
Penso che sia vero. I morti sono scelti e vengono inviati in un altro posto per essere portati via dai
mostri.»
Ero troppo sconvolto per essere in grado di rispondere.
Thareesh si fece avanti.
«La sua gente... sacrifica quelli della sua stessa specie ad ojt'Miyer?»
Becky-Sue annuì.
«A meno che io non mi sbagli, sì.»
«Mi sembra una spiegazione ragionevole,» disse Rhalgorn con torio molto acido. «Le cose dell'Uomo
non provano nessun desiderio particolare di combattere.»
Becky-Sue si girò a guardarlo.
«Se le cose stanno davvero così,» dissi io, «si spiega facilmente perché
Caldus sentiva che io gli stavo causando un sacco di guai. Deve essere imbarazzante per i morti ritornare
tra i vivi.»
«Certo,» disse Thareesh. «L'abbiamo fatto vergognare davanti alla sua gente.» Annuì pensieroso.
«Strana faccenda. Davvero strana.»
«Strana non è forse l'aggettivo più adatto,» mormorò Signar. Il muso gli si torse in una smorfia.
«Rhalgorn ha detto una cosa giusta, per come la penso io. Semplicemente, sacrificano i loro stessi fratelli
a quei diavoli...»
Scosse la sua grossa testa. «Mi pare proprio che non ci sia molto altro da dire su una cosa così!»
«Così pare anche a me,» disse Becky-Sue, senza guardarlo. «Il loro modo di fare non ha niente a che
vedere con il nostro, Signar, ma ci sono molte cose che tu non... non riesci a capire, in questo mondo...»
Non finì neanche di parlare e si girò da un'altra parte.
Signar si accorse di questo strano comportamento e ne fu molto stupito. Aveva dimenticato che in fin
dei conti erano tutti Uomini, nonostante le differenze che li dividevano.
«Dove pensi che sia?», chiese Thareesh all'improvviso.
«Dove penso che sia cosa?»
«Il posto dei morti,» rispose Rhalgorn per lui. «Non deve essere lontano. Mi pare di aver capito che
bisogna percorrere uno di questi passaggi che portano via da qui.»
Io ero profondamente scosso al pensiero di quella pratica. Non c'era da stupirsi che Caldus dicesse che il
suo rifugio era sicuro. Lo era... finché
non usciva fuori il tuo nome e tu venivi dato ad ojt'Miyer! Mi sembrava che sarebbe stato mille volte
meglio essere davvero ammazzati, che stare sempre lì a mezza strada. Come mio nonno era solito dire:
Colui che possiede tutte le cipolle del mondo, un giorno potrebbe pregare per avere un cavolo. I Signori
della Terra avevano fatto il loro tempo. Ora stavano pagando un prezzo molto amaro per tutto quello
che erano stati... Non tornò Caldus, ma un'altra cosa dell'Uomo, più anziano di lui. Apparve
all'improvviso da dietro una di quelle immense colonne di pietra, ci fece segno di seguirlo, e poi
scomparve in gran fretta.
Signar strinse i suoi occhi neri con aria preoccupata.
«Aldair, questa gente non mi fa più paura di quanta potrebbe farmene una frotta di nani. Ma non mi
fido di loro. Potrebbero stare tramando qualcosa.»
«Per una volta, credo che Pelliccia Grassa abbia ragione,» disse Rhalgorn tirando rumorosamente su con
il naso. Il Vikoniano si girò ringhiando verso di lui. Poi rimase a guardare lo Stygiano per un lungo
momento.
«Devo ammetterlo. Il naso di Rhalgorn serve anche a qualche altra cosa oltre che a stanare le lepri. Senti
puzza anche tu, vero?»
«Non c'è niente di imminente,» disse Rhalgorn con grande calma, «ma ci sarà.»
«Ah, bene, non potresti essere un po' più preciso?», chiesi io. Rhalgorn sembrò offeso.
«Non sono il mago alla fiera del villaggio, Aldair. I Signori di Lauvectii non vendono incantesimi e non
predicono il futuro.»
«Questo lo so bene, Rhalgorn.»
«Bene. Sono felice di sentirtelo dire.»
«Ti stavo solo chiedendo...»
«So cosa mi stavi chiedendo. La risposta è che dobbiamo stare molto attenti a tutto quello che faremo.»
«Uhm,» fece Signar. «Questo mi pare un vero e proprio avvertimento. Non dice molto di più di quanto
io non avessi saputo fin dall'inizio.»
Rhalgorn lo guardò.
«Sì, invece, pancia piena di birra. Io so di cosa sto parlando, mentre tu stai semplicemente aprendo la
bocca. Come al solito, d'altra parte. Per come la vedo io, c'è una grande differenza.» Detto ciò si avviò, e
il rumore dei suoi passi cominciò a rimbombare tra le pareti.
Gli Stygiani sono inclini ad essere permalosi e scontrosi, in particolar modo se vengono messe in
discussione le loro qualità. Tuttavia, le loro qualità sono reali, ed io tengo sempre in gran conto i loro
avvertimenti. Alla lunga, comunque, il buon senso ci sarebbe stato molto più utile di ogni profezia.
La nostra guida ci condusse per il maestoso scenario di una caverna fino ad un passaggio tagliato nella
roccia, molto simile a quello che avevamo percorso all'andata. Scure rientranze disseminavano tutto il
percorso e, infine, la cosa dell'Uomo si fermò davanti a una di quelle rientranze, un portale ricoperto di
fetide pellicce.
«Tu entrerai,» disse indicandomi. «Gli altri rimarranno fuori.»
«No,» gli dissi, «ti stai decisamente sbagliando.»
Lo scansai, oltrepassai quella specie di tenda e feci segno ai miei compagni di seguirmi. Questo gesto
fece un'enorme impressione sulle creature che stavano ad aspettare lì dentro. Qualsiasi cosa si fossero
aspettata, non si trattava certamente di una dozzina di guerrieri armati e dall'aria feroce. Erano in
cinque, compreso Caldus, seduti dietro un tavolo di legno sopra il quale erano sistemate delle torce.
Tutti, ad eccezione di Caldus, saltarono dalle sedie e ci guardarono esterrefatti. Uno, comunque, arrivò
fino a me e mi fronteggiò audacemente.
«Mi pare di capire che sei tu il capo,» disse con tono molto aspro. «Se non mi sono sbagliato, puoi dire
ciò che hai da dire. Gli altri devono andar via.»
«Non lo faranno,» gli dissi.
La cosa dell'Uomo rise.
«Perché? Vi facciamo paura?»
«Sì,» dissi in tutta sincerità. «È così, almeno per me. Ma non nella maniera in cui voi pensate. Io vi temo
perché so chi siete e cosa siete. Siete i poveri fantasmi dell'Uomo, ma l'astuzia della vostra specie non è
venuta meno con gli anni. Solo per questa ragione vi temo.»
A sentire queste parole lui rimase molto scosso, e indietreggiò un po'. Ma a suo merito bisogna dire che
non perse terreno. Era magro, aveva una lunga barba bianca, ed era molto in là con gli anni, ma una luce
potente brillava ancora nei suoi occhi. Mi studiò per un lungo momento e infine parlò.
«Mi è stato detto che tu ti chiami Aldair. Io sono Paulus, il capo di questo Consiglio. Ti starò ad ascoltare
perché è un mio dovere... perché tu sei voluto arrivare a tutti costi in questo rifugio.»
L'odio brillò nei suoi occhi color del cielo. Il disprezzo gli incurvò l'angolo della bocca.
«Tu non ti prenderai gioco di me,» disse seccamente. «Io so cosa siete. Non siete come le altre bestie,
ma siete pur sempre dei loro fratelli!»
Un rumore cupo e minaccioso salì tra i miei guerrieri. Io mi diressi dritto verso la cosa dell'Uomo e ficcai
il mio muso proprio davanti alla sua faccia.
«Paulus, tu sei uno stupido,» gli dissi. «Sei uno stupido vecchio e per giunta presuntuoso. Vivi acquattato
qui in queste caverne e pensi di intimorirmi con le tue parole. Eppure, date in pasto ad ojt'Miyer quelli
della vostra stessa gente e ve ne andate in giro con quella specie di giocattoli che vorreste far passare
per armi. Le bestie non fanno nulla di simile. Solo l'Uomo arriva a tanto.»
«Quello che facciamo e come lo facciamo non è affar tuo,» disse lui con durezza.
«No, infatti.» Guardai gli altri che si trovavano alle sue spalle.» Dal momento che vi piace parlare di
bestie, vi farò sentire qualcosa sulle bestie. Quegli esseri lì fuori, sono dei vostri fratelli, non miei. E voi
sapete bene che è la verità, proprio come lo so io!»
UNDICI
Chiaramente, avrei potuto scegliere un inizio più carino per il racconto che mi accingevo a fare. Le mie
parole colpirono Paulus e il suo Consiglio come se fossero state frecce ben appuntite. Perché loro
sapevano! Loro sa-pevano! I figli dell'Uomo impallidirono e divennero del tutto simili ai loro morti. Tutti
si guardavano l'un l'altro con aria attonita. Paulus fu il primo a riprendersi. Ma la maschera che aveva
indossato era ormai del tutto inutile, perché io avevo scoperto cosa c'era sotto.
«Voi non avete niente da dirci che noi desideriamo ascoltare,» urlò con rabbia. «Solo eresie e
superstizione!»
«Se eresia è un altro modo per dire verità, sentirai effettivamente molte eresie,» gli dissi.
Lui rise con amarezza.
«Mi pare che non abbiamo scelta, vero?»
«Nessuna, Paulus. Cioè non più delle bestie che vi siete lasciati alle spalle sulla Terra.»
Per un attimo la cosa dell'Uomo apparve davvero sconvolta. Poi tirò indietro la testa e scoppiò in una
sonora risata.
«Che favola è questa, ora? Pretendi forse di dirmi che siete delle divinità? Le bestie vengono
dall'Inferno, Mastro Aldair. Solo l'Uomo è nato in Paradiso.»
«Ah, certo,» dissi io, che avevo tutt'a un tratto capito ciò che voleva dire.
«E il nome con cui gli Uomini chiamano il Paradiso è Terra, a meno che io non abbia intuito male.»
«Certamente,» disse lui brevemente. «Perciò non continuare a dire cose blasfeme. I Santi e i diavoli non
vivono insieme in Paradiso.»
Uomo, dissi tra me e me, mi auguro che tu un giorno possa vedere questo Paradiso... Così, anche se
nessuno era particolarmente desideroso di ascoltarla, narrai la storia che così a lungo avevo atteso di
raccontare...
«Come ci dice la storia,» cominciai, «il mio mondo nacque circa tremila anni fa. Tutto ciò che è accaduto
è racchiuso in quel periodo di tempo, dal primo alito di vita fino ad ora. La mia gente dice che le prime
creature della Terra apparvero in Albion, dove peccarono contro il Creatore, e da dove furono cacciate
nel mondo. I Vikoniani raccontano la storia in un modo diverso, e i Nicieiani in un altro ancora. Tutti,
comunque, parlano dell'Oscura isola di Albion nei loro racconti.
«Parlerò brevemente dell'inizio delle mie peripezie. Appartengo al Clan dei Venicii, della terra degli
Eubironi, nel paese chiamato Gaullia. La mia gioventù l'ho passata a coltivare la terra e a combattere i
predoni Stygiani. Più tardi ho trascorso un anno all'Università dove ho appreso alcune mezze verità ed il
gusto per la birra d'orzo. Fu lì che incontrai Rheif, cugino di Rhalgorn, tenuto prigioniero dentro una
gabbia dai legionari, nella piazza del mercato. Dopo poco, questo nemico per la pelle del mio popolo ed
io riuscimmo a sfuggire ai soldati Rhemiani e fummo fatti schiavi dai Nicieiani.
«Nell'assolata città di Chaarduz, arrivai ad ottenere una carica molto alta al servizio di Lord Tharrin,
Aghiir di Nicea. Fu lui che mi mise a parte del terribile segreto che aveva appreso tra le rovine delle città
dei Tarconii: «Il mondo è molto più vecchio di quanto noi possiamo immaginare,» mi disse.
«Degli individui hanno camminato per le strade di queste città ormai morte, ben più di cinquemila anni
prima di quanto le storie sulla Creazione vogliono farci credere!» Furono queste parole che diedero
inizio alla mia ricerca, e alla mia avventura per scoprire la verità.
«Lord Tharrin morì, e l'Impero crollò. Ma non prima che quel gentile maestro mi conducesse dal suo
schiavo Nhidaaj, che non era affatto uno schiavo. Nhidaaj mi guidò per la Grande Desolazione che si
trova sotto Xandropolis, oltre le cuspidi sepolte delle tombe. Lì, in un sogno che non era un sogno,
incontrai uno spettro con delle orecchie nere simili alle lame e una pelliccia lucida come l'acqua. I suoi
occhi avevano un colore indefinito tra il verde e il giallo e la loro forma era simile a quella dei semi di
zucca. 'Vai in cerca della verità,» mi disse, « Vai in cerca della verità, enon avere paura di trovarla...'
»
«Così, io obbedii, anche se a malapena immaginavo dove questa mia ricerca mi avrebbe condotto. Con
Rheif e Signar-Haldring alzai le vele in direzione dell'Isola di Albion, non immaginandomi nemmeno in
sogno cosa mi sarei trovato davanti lì...
«Ed è a questo punto, Paulus, che tu e la tua gente entrate a far parte del racconto. Perché in mezzo ad
una foresta lussureggiante io trovai i resti di una città morta. E sotto quella città, trovai la verità.
«C'era una stanza immensa inondata da una luce fredda e costante. Le due pareti erano costellate da
migliaia di finestre che affacciavano tutte rigorosamente sul nulla. Eppure, quando mi misi davanti a
loro, come per miracolo, apparvero immagini meravigliose. Le finestre si muovevano e mostravano la
vera rappresentazione di cose che un tempo erano esistite.
«Fu lì che per la prima volta vidi la faccia dell'Uomo, e appresi che era stato lui a crearci. In una finestra
lo vidi portare i suoi strani arnesi celesti sul terreno e lasciare della capsule splendenti su una collina.
Nelle capsule c'erano dei corpi nudi... immobili, come se fossero dei morti. Allora, mi accorsi che si
trattava di creature come me...
«Quando gli Uomini fecero cadere i loro arnesi celesti, contemporaneamente videro la luce i miei
antenati. Si aggrapparono l'uno all'altro, tre-manti nel momento della creazione. Il mio cuore urlò per la
vergogna, perché sapevo di aver visto i primordi del mio mondo.
«C'erano altre finestre per cui guardare, altre razze da veder nascere... ma non mi dilungherò su questo
argomento.
«In fondo a quell'enorme sala giunsi alla visione più spaventosa di tutte. C'erano delle custodie di vetro.
Gli animali che si trovavano all'interno sembravano vivi, anche se non lo erano. C'era una sola creatura
grossa e pelosa che aveva quattro zampe e passava il tempo a tirare i pesci fuori dall'acqua... Un'altra
custodia conteneva animali macilenti e ricoperti di pelliccia accucciati ai margini di una foresta. Uno
sbranava la sua preda. Un altro aveva il muso rivolto verso l'alto e ululava al cielo... C'era una custodia
che mostrava delle piccole creature verdi con delle lunghe code e la pelle ricoperta di scaglie che si
crogiolavano al sole...
«Alla fine arrivai faccia a faccia con me stesso. Un animale grasso e con il corpo rotondeggiante, con
zoccoli al posto dei piedi e la coda arricciata. Sgranocchiava chicchi di grano secco in prossimità di una
staccionata. Vicino c'era una femmina che allattava i suoi piccoli...
«Su tutte le custodie c'erano dei nomi.
«Ma non c'era scritto Vikoniano, Stygiano o Nicieiano. Loro non chiamavano i miei antenati Gaulliani o
Rhemiani. Avevano dei nomi per loro... ma io ora non li ripeterò.
«Seppi, allora, come tutti noi eravamo stati creati. Delle cose a cui erano state date delle mani invece
che degli zoccoli o degli artigli. Voci al posto di grugniti e ululati.
«In seguito, appresi che non era stato quello il più grande peccato dell'Uomo. Ce n'era uno ancora più
grande. E un altro ancora più grande di quello. L'Uomo non si era accontentato solo di cambiarci, di
creare praticamente delle parodie di se stesso. Aveva piazzato sulla Terra delle macchine per stabilire il
nostro futuro così come era stato per il nostro passato. Come un cavallo messo nel mezzo di un campo,
potevamo brucare l'erba di una certo sentiero, ma non oltre. Eravamo dei pupazzi, a cui era stata data la
vita per ripetere le follie dell'Uomo.
«Più tardi, attraversando il Mare delle Nebbie, vidi ancora altri vostri peccati. Vidi i mostri che l'Uomo
aveva creato dal suo stesso seme, unendosi con le bestie che lui stesso aveva creato. Loro sono forse dei
nostri cugini... ma sono certamente dei vostri fratelli!
«Infine, e siamo alle battute finali, la razza dell'Uomo cominciò a combattere se stessa, utilizzando delle
creature da lui stesso create, e degli uo-mini di ferro per combattere le sue battaglie. Alla fine di tutto
ciò sopravvissero solo due grandi roccaforti. L'Isola di Albion e un'altra: la Fortezza di Amazzone. È stato
lì che abbiamo scoperto le sfere dorate che l'Uomo ha usato per lasciarsi alle spalle la Terra. Albion, io
credo, cadde nelle mani dei padri di ojt'Miyer. Dal momento che ora loro sono qui tra le stelle, è
chiaro che seguirono i Veri Uomini. Come possa essere accaduto che i vostri fratelli possedessero le armi
del passato mentre voi vi siete rifugiati qui, in queste caverne, io non so dirlo. Per come la penso io,
questo fatto è
abbastanza giusto.
«Questa è la fine della mia storia, Paulus. C'è ora solo un'altra cosa da dire. La vostra storia sulla
Creazione è piuttosto vicina alla verità. Le sfere dorate vi hanno effettivamente portato su questo
mondo, anche se non si è
trattato della rinascita che voi vi eravate immaginati. Io prego affinché la gente di Becky-Sue abbia
ragione, e voi abbiate torto. Io credo che le sfere che ci hanno portato non siano ritornate sulla Terra.
Credo che si trovino ancora qui, su questo mondo o su di un altro. Se riusciremo a trovarle, noi saremo
in grado di combattere contro le creature che vi hanno resi schiavi. E per combatterli, Paulus, dovete
dimenticare le differenze che ci sono tra la vostra stessa specie e quelle che vi dividono da noi. Voi avete
lì fuori un nemico ben più grande e temibile, e lui un giorno o l'altro scoprirà questo rifugio e vi
distruggerà una volta e per tutte. Succederà, perché non può
esserci altra fine plausibile per una razza che se ne sta rannicchiata nelle tenebre aspettando solo di
morire!...»
DODICI
Versare acqua gelida su dei miti prediletti non è il modo più rapido per farsi degli amici. Tuttavia, rimasi
sorpreso nel vedere che il Consiglio di Paulus non esplodesse in un attacco d'ira, né si buttasse a terra
disperato. Certo rimasero tutti scioccati ed increduli. E forse un po' arrabbiati, come era d'altra parte più
che comprensibile. Tuttavia, seppero tenere i loro sentimenti ben nascosti dietro quei loro occhi color
del cielo. Paulus non mi aveva guardato neanche una volta durante tutto il mio racconto. Aveva
accuratamente evitato il mio sguardo, tenendo con ostinazione gli occhi fissi sulle nocche delle sue
mani. Ora, dopo aver scambiato dei bisbigli concitati con i suoi compagni, si girò di nuovo verso di me.
«Mastro Aldair,» disse, con quel tono freddo e altezzoso così comune tra gli Uomini, «noi abbiamo
ascoltato il tuo racconto. Certamente non pos-siamo dirci compiaciuti di quello che abbiamo ascoltato.
Tu hai infamato il nostro passato ed hai gettato la vergogna sulle nostre teste. Hai imprecato contro la
nostra gente e hai gettato discredito sulle gesta dei nostri padri. E
tuttavia, noi siamo Uomini, e gli Uomini si fanno sempre guidare dalla ragione. Dobbiamo mettere da
parte i nostri sentimenti e lasciare che a parlare sia la ragione. Mi sono chiesto: se sta mentendo, quale
potrebbe essere lo scopo delle sue bugie? Se non è colui che dice di essere, allora chi è? "E
che cosa vuole da noi? Queste sono cose sulle quali dobbiamo riflettere. Vi chiedo quindi di ritornare nei
vostri quartieri per darci il tempo di riflettere.» Si fermò e diede una rapida occhiata a Caldus e agli altri.
«Sembra... sembra che noi dobbiamo interrogarci su parecchie cose prima di parlare di nuovo con voi...»
«Faremo come tu dici,» gli dissi. «Perché, Paulus, gli Uomini non sono le uniche creature ragionevoli.»
La mia risposta non fu per niente di suo gradimento, e lo fece vedere chiaramente. Io non mi curai
assolutamente di ciò che a quell'essere potesse piacere o non piacere. Caldus mantenne un silenzio
ostinato per tutto il tragitto che percorremmo dal luogo del Consiglio. Stranamente anche Becky-Sue
Elainesdotter, che prima si era sempre tenuta accostata a noi, ora si manteneva ad una certa distanza.
Non parlò, né mi guardò mai negli occhi. «Non puoi biasimarla,» disse Thareesh. «Hai parlato anche
della sua gente.»
Naturalmente aveva ragione.
«Continuo a dimenticare che anche lei è un Uomo. Sembra una persona così sensibile.»
«E lo è. Signar ed io ne abbiamo avuto più di una prova. Ma gli Uomini, Aldair, sono particolarmente
suscettibili per quanto riguarda i loro miti.»
«Sì, l'ho notato,» dissi io acido. «Evidentemente è molto più semplice creare dei miti che conviverci in
seguito. Comunque sono rimasto piacevolmente sorpreso dal modo in cui Paulus ha reagito. Mi
aspettavo di peggio.»
«Uh!» Signar-Haldring si avvicinò a noi. «Se quella gente avesse avuto la schiuma alla bocca, mi sentirei
molto meglio di come non mi sento ora!»
Io mi strinsi le spalle.
«Può essere un segno del fatto che l'Uomo sia in effetti più civile di quanto non sembri.»
«Forse,» grugnì, «o forse no...» Un solco profondo passò sul suo muso arricciato. Mi fermai a guardarlo.
«Signar... io non mi fido di quelle creature più di te. Tuttavia, se hanno espresso il desiderio di parlare
tra di loro, diamine, lasciamoli liberi di farlo. Forse vedranno la luce, o almeno qualche bagliore. Se così
non sarà, noi non avremo comunque perso niente. Possiamo partire quando vogliamo e portare avanti
la nostra impresa.»
Signar soffocò a stento un'imprecazione e si lanciò in avanti, una nuvola scura e ricoperta di pelliccia in
cerca di qualcosa su cui sfogare la sua ira. In verità, non ero poi così contento come pretendevo di
essere. Noi ave-vamo bisogno dell'aiuto di Paulus. Gli Uomini potevano essere la pedina vincente per
permetterci di abbandonare quel mondo e, allo stesso tempo, potevano conquistare la loro libertà. Ma
prima dovevano decidersi a buttarsi alle spalle le loro paure e ad accettare alcune tristi verità. Un
compito molto arduo, forse, ma io mi ero già sbagliato in passato. Una certa agitazione in testa al
gruppo mi distolse dai miei pensieri, e così sorpassai Thareesh per vedere cos'era successo. Rhalgorn,
che stava attaccato alle costole di Caldus, ora l'aveva messo contro il muro e gli teneva una lama
puntata proprio sotto il mento. Caldus se ne stava rigido e immobile come un cadavere, e guardava lo
Stygiano con gli occhi sbarrati per la paura. Li raggiunsi e scostai la lama dal volto di Caldus.
«Rhalgorn, c'è qualcosa che non va qui?»
«Questa cosa è il problema,» disse infuriato. «Se tu avessi gli occhi di uno Stygiano, ti accorgeresti che
non stiamo tornando indietro per la stessa strada che abbiamo fatto all'andata. Avremo dovuto girare a
sinistra lì in fondo... e non a destra!»
«È vero Caldus?»
Caldus cercò di sorridere.
«Stavo... stavo tentando di spiegare a quest'individuo...»
«Spiegalo a me. Se stai tramando qualcosa, stupida cosa dell'Uomo...»
«Aldair,» lui scosse la testa violentemente. «Stavo semplicemente facendo un'altra strada. Per evitare il
posto... il posto dei morti. Non mi aspettavo che voi ve ne rendeste conto. È solo...»
«Oh, capisco perfettamente,» gli dissi. «Se io stessi per mandare la mia stessa famiglia e i miei amici in
schiavitù, farei del mio meglio per evitarli.»
«Non è per questo e tu lo sai!»
«Caldus, se tu vuoi andare in giro per questo posto, fai pure. Solo stai bene attento.»
«Questa storia non mi piace neanche un po',» mormorò Rhalgorn.
«Allora non perderlo d'occhio, cosa che d'altra parte stai già facendo. Signar, Thareesh: controllate la
coda della colonna. È tempo che noi... Grandi Divinità, che cos'è quello?»
La terra tremò. Piccole pietre caddero dal soffitto e una tromba d'aria mi colpì violentemente alle spalle.
« Aldair,» ringhiò Signar. Rhalgorn afferrò Caldus alla gola e lo sollevò
in aria.
«Aspetta ad ucciderlo,» urlai. «Prima ne voglio un pezzo!» A quel punto mi lanciai indietro verso la
retroguardia, sapendo fin troppo bene ciò che ci avrei trovato. Signar stava fermo nel mezzo del
passaggio, con un'espressione ebete dipinta sul volto e fissava il massiccio muro di pietra che si trovava
a non più di un paio di centimetri di distanza dal suo naso.
«Si è staccato dal soffitto più veloce della pioggia,» disse con grande calma. «Che io sia dannato...
ancora un pelo e mi avrebbe ridotto come una bella porzione di stufato!»
«Sì. Penso proprio che tu abbia ragione.» Diedi un'occhiata a quel nuovo muro, poi corsi indietro da
Caldus. «Tu devi darmi qualche spiegazione,»
gli dissi. «Se io fossi in te, mi sbrigherei.»
«Vai avanti,» disse Caldus minaccioso. «Ammazzami, Aldair. Sono pronto a morire.»
Il suo volto si contrasse in una smorfia nell'attesa di ciò che sarebbe accaduto.
«Caldus!» Lo colpii in pieno volto con violenza. Lui aprì gli occhi e batté le palpebre. «Non hai fatto
niente per guadagnarti una cosa così nobile come la morte, cosa dell'Uomo. Potrei farti scorticare vivo
da Rhalgorn, ma non ho intenzione di ucciderti. Chiaramente tu hai bloccato la nostra ritirata. Perché,
Caldus? Dove porta questo passaggio?»
«Non puoi tornare al rifugio, Aldair.» Accennò quasi un sorriso. «Porta lì su. Fuori. Dove vanno i morti.»
Non so perché ma ciò non mi stupì affatto.
«Thareesh, manda avanti degli arcieri. Vedi che c'è lì.»
«Dannazione!», perse la pazienza Rhalgorn. «Dimmi solo una parola, Aldair!»
«Questa è opera di quel maledetto Paulus,» borbottò Signar, «sicuro come è sicuro che io ora sono qui.»
«Ovvio che sia così,» disse Caldus con calma. «Che ti aspettavi, Aldair?
Pensavi davvero che noi avremmo creduto a quel tuo racconto? Paulus ha capito subito il tuo trucco.
Noi tutti l'abbiamo capito. Lui non è sicuro da quale dei Dieci Mondi tu sia venuto: ma sa cosa sei
venuto a fare.»
«E cioè cosa?», chiesi molto seccato.
«Ma, diamine, è stato chiaro fin dall'inizio. ojt'Miyer è sempre in guerra con gli altri per procurarsi nuovi
schiavi. Avresti voluto spaventarci col farci fare un accordo con te, solo che noi non siamo interessati...»
«Aspetta.» Lo interruppi e mi avvicinai ancora di un passo. «Che cosa vuoi dire con la parola accordo,
Caldus? Io so che voi sacrificate quelli della vostra stessa specie per mantenere al sicuro il rifugio, ma...»
«Facciamo cosa?», Caldus portò indietro la testa e rise. «Pensi che ojt'Miyer sia uno stupido, Aldair? Che
lui non sappia dove si trova il rifugio? Ho detto che qui era sicuro. E lo è. Ma non è certamente un
grande segreto.»
Io rimasi per un attimo a guardarlo.
«Se non lo è, allora, per tutti i diavoli, perché non viene qui a farvi fuori? Potrebbe fare migliaia di schiavi
invece di un centinaio!»
Caldus apparve molto stupito.
«Perché dovrebbe fare una cosa del genere? Se ci prendesse tutti non potremmo più riprodurci. Ci
estingueremmo... e loro sarebbero persi.» Aggrottò le ciglia e scosse la testa. «Devi essere proprio un
novellino in questi affari, Aldair. Non conosci proprio ogni cosa, non ti pare?»
TREDICI
« Affari? » Rimasi impalato, incapace di credere alle sue parole. «Per la Vista del Creatore, è così
che dite voi? Sembrate mercanti che trattano una partita di vino!»
«È così che continuiamo a sopravvivere,» disse molto bruscamente. «È
così che stanno le cose, ed è così che continueranno ad essere.»
«Mi sembra,» gli dissi «che questa sia la tua risposta per ogni problema. Sono stato davvero uno stupido
pensando che mi avreste ascoltato e che vi sareste poi comportati lealmente. Il tradimento è stato
sempre un modo di comportarsi tipico dell'Uomo: vedo che non è cambiato granché. Rhalgorn, tienilo
d'occhio, e portalo lontano dalla mia vista!»
Detto questo mi girai e li lasciai.
«Aldair...»
Mi fermai. Becky-Sue si stava dirigendo verso di me.
«Aldair, non giudicarci tutti prendendo a esempio Caldus. Siamo tutti Uomini, ma non siamo tutti
uguali.»
«Infatti non lo pensavo,» dissi. «Davvero non credo sia così.»
«È stupido pensare che tu possa venire da uno dei Dieci Mondi,» disse lei impetuosamente, «o che tu
abbia qualcosa a che fare con la gente di ojt'Miyer. Io conosco Signar e Thareesh, e loro sono il popolo
migliore che si possa desiderare di incontrare!»
«Loro ti tengono in grande considerazione... e anch'io la penso come loro. Sono felice che tu sia con noi,
Becky-Sue.»
Lei mise una mano sulla mia spalla.
«Aldair, io sono spaventata a morte. Lo sai? Io... io non credo che riuscirei a sopportare di vivere in
schiavitù.»
«Mi sono trovato in guai più grossi di questo,» le dissi, cercando disperatamente di farmene venire in
mente almeno uno. «Ne verremo fuori.»
Lei tentò di sorridere.
«Io non so chi sei o da dove vieni. E in verità non ho nessuna necessità
di saperlo. Ho fiducia in te e tanto basta.»
«Cosa?» Mi bloccai e la fissai stupito. «Becky-Sue, tu sai chi sono. Mi hai sentito dirlo a Paulus e agli
altri.»
«Oh, sì, naturalmente ho sentito.» Mi guardò con aria maliziosa, come se dividessimo qualche segreto.
«Tu dovevi raccontare loro qualcosa. Come tu stesso ti sei detto, a loro non si può accordare fiducia.
Solo, non avresti dovuto parlare di religione nel tuo racconto, Aldair. E... e neanche del fatto che l'Uomo
è fratello delle bestie.» Si strinse nelle spalle e fece una smorfia. «Io sono dalla tua parte, eppure mi
hai fatto quasi arrabbiare.»
Io la afferrai violentemente per le spalle. «Che io sia dannato, BeckySue! Io non l'ho inventata quella
storia. È la verità!»
«Aldair...» Spalancò gli occhi e per poco non soffocò. «Mi stai facendo male!»
La lasciai andare. Lei indietreggiò. Il sangue le salì di nuovo sulle gote.
«Va bene,» disse con voce rotta, «se non mi credi, non sei obbligato a farlo. Mi sono sbagliata. Tu non
sei come Signar e Thareesh. No, tu non sei come loro!»
Con un salto si allontanò da me indignatissima, e passò davanti a Thareesh senza dire una parola. Il
Nicieiano la guardò con aria sbalordita. «Che cosa sta succedendo?»
«Niente. Gli Uomini danno più problemi di quanto non valgano, amico mio. Ecco cosa c'è.»
«Ho sempre pensato che Becky-Sue fosse una persona molto comprensiva.»
«Bene,» dissi per farla breve. «Quando avrai un momento libero, raccontale come hai fatto ad arrivare
qui dal Paradiso. Ti accorgerai che sarà
una conversazione molto illuminante...»
I miei arcieri riferirono che il passaggio si allargava in una caverna, qualcosa di molto simile alla grande
sala che ci eravamo lasciati alle spalle, solo più piccola. C'erano degli Uomini tutt'intorno a quel posto,
sia maschi che femmine. Si erano dileguati non appena avevano intravisto i nostri: alcuni indossavano
ancora i vestiti dei morti. Al di là di quella stanza, la caverna si apriva sul mondo. Mi confortò un po' il
fatto di vedere di nuovo la luce del giorno, anche se il sole era ancora nascosto sotto le nuvole rosa e
gialle. Ora ci trovavamo in un posto un po' più alto. Mentre ci arrampicavamo sulla sommità della
caverna, riuscii a vedere dei tratti del fiume che scorreva lento tra la folta vegetazione. Ancora più in là
c'era la sottile striscia grigia del mare.
«La cosa migliore che possiamo fare è prendere le loro imbarcazioni e volare più veloci della pioggia fino
al popolo di Becky-Sue,» disse Signar, socchiudendo gli occhi non più abituati alla luce del sole.
«Rimanere qui non è molto salutare, Aldair.»
«Bene,» fui d'accordo. «Solo, dove pensi che possano essere le barche?
Ho completamente perso il senso dell'orientamento. Siamo stati per troppo tempo lì sotto.»
«Da questa parte,» disse Rhalgorn annusando l'aria. «Ho appena chiesto a questa cosa dell'Uomo, e lui è
stato così gentile da dirmelo.»
«È molto probabile, però, che abbia mentito. Non sanno proprio un bel niente, loro.»
Rhalgorn mostrò i denti.
«Ti assicuro che non ha mentito. Abbiamo avuto una simpatica chiacchierata sull'argomento. Mi ha
anche detto che non c'è un momento particolare in cui i mostri vengono a fare la loro raccolta. Solo che,
di tanto in tanto, vengono ad esaminare il posto per vedere cosa c'è.»
«Senza dubbio.» Diedi a Caldus un'occhiata lunga e significativa. «Sarebbe preferibile che quelle barche
si trovassero nello stesso posto dove le avevamo lasciate. Se così non fosse...»
Caldus si morse il labbro.
«Sono lì. Per quanto vi possano essere utili. Non riuscirete mai ad uscire da questo posto.»
Rhalgorn ringhiò e lo sollevò da terra.
«E perché dovrebbe essere così?»
«Perché nessuno ci è mai riuscito,» rispose lui boccheggiante. «Non... non è previsto!»
Rhalgorn rise e lo gettò da parte.
«Dannazione, l'ho già detto una volta e lo ripeto. Non ho mai visto un popolo più adatto a essere
schiavo!»
Non potevo dargli torto.
Sembrava proprio che la cosa dell'Uomo avesse detto la verità perché, dopo poco, la collina che
nascondeva la caverna cominciò dolcemente a declinare verso nord. Era difficile farsi strada, perché in
quel mondo gli alberi crescevano così vicini gli uni gli altri che quasi rendevano impossibile il passaggio
tra di loro.
Si procedeva quindi con molta lentezza. Tre Vikoniani di Signar erano ormai praticamente sfiniti a furia
di farsi strada con le loro spade, quando dissi loro di fermarsi. Quel legno rossastro era resistentissimo:
sembrava infatti ferro più che legno", e così arrecavamo più danno alle armi che non agli alberi.
«Faremmo meglio a cercare un sentiero in questo guazzabuglio,» dissi a Signar.
«Non sono così sicuro che ci sia un sentiero, Aldair. Maledizione... non so cosa darei per lasciarmi alle
spalle la terraferma e poggiare i miei stivali sul ponte di una bella nave!»
Lo guardai.
«Arriverà anche quel momento, vecchio mio.»
Signar non disse più niente. Scosse solo la testa si girò da un'altra parte. Conoscevo benissimo i suoi
pensieri, perché erano anche i miei. Sembrava passata un'eternità da quando avevo sentito per l'ultima
volta una brezza fresca e piacevole riempire le vele dell' Ahzir al'Rhaz, e avevo visto la nostra prua
fendere le onde e creare ai lati tanta schiuma brillante. Non riuscivo ad immaginarmi niente di simile
senza sentire al mio fianco la presenza di Corysia. Se pure non l'avessi vista mai più, il suo volto mi
sarebbe rimasto impresso nella memoria per sempre, con la stessa forza e chiarezza della prima volta
che la vidi. Non avrei dimenticato così in fretta quei meravigliosi occhi neri e liquidi e tanto meno quel
delizioso, allegro musetto. Il suo corpo era ricoperto da una splendida peluria di co-lore castano chiaro
con riflessi ramati, ed era uno spettacolo davvero bello da guardare. Il suo abito di raso verde le si
piegava dolcemente sulla pancia descrivendo dei sublimi mezzi cerchi, e nascondeva a stento le tenere
file di mammelle. Ero rimasto lì impietrito come se mi fossi congelato nei miei stivali, perché non avevo
mai visto niente di più grazioso prima. In quel momento non avrei mai detto che un giorno sarebbe stata
mia. In seguito, quando lei cominciò ad amarmi, non avrei sognato nemmeno nel peggiore degli incubi
che avrei potuto perderla... e ora c'erano quei lunghi e penosi anni che ci dividevano...
«Sei molto lontano da qui, amico mio,» disse Thareesh.
Guardai in su e mi sforzai di sorridere.
«Sì, direi di sì. Stiamo arrivando da qualche parte seguendo questa strada?»
«No. Sembra proprio di no.» La sua lunga coda irsuta batteva nervosamente contro gli stivali. «Ma
Rhalgorn sta fiutando di nuovo qualcosa. E ci sono dei segni che fanno pensare che anche qualcun'altro
ha già percorso questa strada.»
Nel sentire quella notizia mi accigliai.
«Le cose dell'Uomo, forse?»
Thareesh scosse la testa.
«Rhalgorn non pensa che si tratti di loro. E neanch'io.»
Mi fece segno di andare avanti ed io lo seguii.
«Lì,» disse Rhalgorn. «I cespugli sono venuti su in un modo molto particolare. Aldair. Normalmente non
crescono così.»
«Puh!», grugnì Signar al di sopra della spalla. «Non vedo niente di diverso dalle stesse cose che ho visto
per tutta la giornata.»
«Da te infatti non ci si aspetta che tu veda un bel niente,» disse Rhalgorn con stizza. «Da te ci si può
aspettare solo che tu vada in giro a fare strani e orribili rumoracci, cara Pelliccia Grassa. Ma gli Stygiani
sanno che non sei pericoloso.»
Signar aprì la bocca per rispondergli, ma io lo fermai.
«Thareesh ha detto che si sentiva anche un odore. Che tipo di odore?»
«Niente di particolare. È solo che non c'è l'odore giusto. »
«Vuol dire che c'è l'odore sbagliato?»
Rhalgorn sollevò un sopracciglio.
«Che te ne pare di questo, Aldair?»
Mi chinai a guardare. In effetti il cespuglio non era esattamente come tutti gli altri, e presentava come
delle piccole cicatrici sulle sue radici. Qualcosa era venuta a disturbare quella zona, ma non sapevo
proprio immaginarmi cosa. L'osservai ancora più da vicino, poi feci segno a Rhalgorn di avvicinarsi.
«Vedi, proprio lì... a circa una decina di centimetri dal terreno. Che cos'è? Tu riesci a vedere questo
genere di cose meglio di me.»
Rhalgorn abbassò il muso fino a terra.
«Ho fatto di te ormai un battitore, Aldair.»
«Che cos'è?»
«Un filo piccolo e sottilissimo. Come la ragnatela di un ragno, ma non proprio uguale. Si allunga per il
terreno in tutte le direzioni.» Allungò un dito cercando di toccare la cosa.
«Non farlo!» Lo misi in guardia. «Non toccarla, Rhalgorn!»
«Non ti preoccupare, stavo semplicemente...»
Rhalgorn si afflosciò. La testa penzolava da un lato e lui stava perfettamente immobile. Mi chinai per
aiutarlo. Solo che non fui in grado di arrivare lì. Tutto intorno a me si dipinse di blu, e fui avvolto come
da una specie di nebbia. Tutto cominciò a correre rapidamente lontano da me. Con la coda dell'occhio
vidi Signar che ondeggiava come un albero al vento. Lo vidi pronto a partire. Mi chiesi se sarebbe
ricaduto su di me, o da qualche altra parte...
QUATTORDICI
«Aldair? Aldair, ti prego, svegliati!»
Sognavo ancora, allora... ma era un bel sogno... un sogno in cui io sen-tivo la sua dolce voce. ..
«Aldair!»
Aprii gli occhi. Guardai in su. Li chiusi di nuovo, strizzandoli forte: pensavo di stare ancora sognando. Il
suo volto ondeggiò e poi si dileguò, velato da un mare di colore blu scintillante...
«Guardami, caro. Va tutto bene ora, Aldair. Guardami...»
«Co... Corysia?» Saltai a sedere urlando il suo nome. «Per tutti gli Dei, sei vera... sei qui davvero!»
Una sensazione dolce e sciropposa mi attraversò lo stomaco. Dannazione, pensai freddamente, non
sarebbe stato affatto carino vomitare su Corysia... non era forse meglio... Lei mi costrinse dolcemente a
stendermi di nuovo.
«Sono vera, sì. Sono proprio io.» Sorrideva con aria rassicurante. «E anche tu sei vero. O lo sarai presto,
se te ne starai ancora un po' tranquillo a riposare...»
La seconda volta che mi svegliai lei era addormentata al mio fianco, calda e rassicurante: stava
appoggiata tra il mio braccio e la mia spalla. Avrei voluto svegliarla per tenerla stretta e assicurarmi così
che fosse davvero lì. Invece me ne rimasi lì dov'ero senza muovermi, lasciando correre lo sguardo su
tutto ciò che c'era da vedere.
Sopra di me c'era un soffitto a volta, che quasi si perdeva in un vago chiarore giallino e in ombre color
dell'ambra. Un bizzarro groviglio di canne e di tubi d'acciaio stava abbarbicato ai muri ricurvi e ricadeva
tutt'intorno in gigantesche antenne e bobine. I colori spaziavano dal grigiopiombo al grigio ferro, fino al
verde-rame. L'aria era umida e pesante, impregnata di esalazioni forti e grasse a cui non sapevo dare un
nome. E poi si udiva un'interrotta pulsazione che assomigliava vagamente al sordo rumore di un tuono
in lontananza, un suono che comunque faceva pensare a qualche forza sinistra.
Avevo l'impressione di percepire tutto il mondo come se fossi nelle budella di qualche mastodontica
balena in putrefazione. Eppure, sapevo che non era così. Questo era un posto ben più alieno e terribile
di quello...
«Non ho mai perso la speranza che un giorno ci saremmo potuti ritrovare,» disse lei, «anche se avrei
avuto tutti i motivi per farlo.»
«Oramai tutto questo è passato. Ora siamo di nuovo insieme.» Tenevo stretta la sua mano tra le mie.
«Non ci potrà dividere più nulla, Corysia. Te lo prometto.»
Lei mi guardò con aria coraggiosa, ma intanto si mordeva il labbro per ricacciare indietro le lacrime.
«Per quanto ancora, Aldair? Tu conosci queste creature. Sai cosa sono e dove ci stanno portando. Io ho
visto cosa fanno agli altri individui: non saprei proprio come definire i loro creduli divertimenti!»
«Corysia, ti prego, non darci per spacciati così in fretta,» le dissi con decisione. «Non quando siamo
ancora vivi e abbiamo ancora la nostra testa per pensare. Ti ricordi quella volta sul ponte? E ancora, alla
foce del grande fiume? Anche allora tutto sembrava perduto... eppure, eccoci ancora qui, tutti insieme.
È vero, in questo momento ci troviamo in una situazione... piuttosto spiacevole...»
«Oh, Aldair!» A quelle mie parole scoppiò quasi a ridere. «Se questa è
una situazione piuttosto spiacevole, non riesco a immaginare come sarebbe se fossimo 'in un mare di
guai'!»
«Quando saremo in quella situazione,» dissi io ostentando grande calma e sicurezza, «te lo dirò,
Corysia.»
«Dubito seriamente che ne avrai l'occasione, amore mio...»
Così, non avendo nulla di più piacevole da fare, ci abbracciammo e ridemmo a lungo senza alcun motivo,
forse solo per tentare di allontanare il pensiero del cupo futuro che ci attendeva. Non lontano da noi
stavano seduti Rhalgorn, Signar, Thareesh e il resto del mio equipaggio. Dietro a loro e un po' in
disparte, c'erano le cose dell'Uomo facenti parte del clan di Becky-Sue che erano stati presi insieme a
noi. Con mio grande stupore, la femmina e Caldus ora si parlavano tranquillamente. Evidentemente, le
avversità avevano gettato un ponte sul meschino golfo della differenza di religione che si stendeva tra di
loro. Ora avevano un argomento in comune da discutere: l'eresia di Aldair la Bestia.
Ero rimasto dolorosamente deluso da Becky-Sue. Per quanto potesse apparire intelligente e sensibile,
era pur sempre una cosa dell'Uomo. Prima avevo fatto un po' sgranchire le gambe e mi ero unito a
Signar e agli altri. Non era difficile capire ciò che ci era accaduto. I mostri avevano sistemato una specie
di trappola per evitare che i loro schiavi scappassero. In un modo o nell'altro, noi l'avevamo fatta
accidentalmente scattare. O, meglio sarebbe dire, che Rhalgorn l'aveva fatta scattare, anche se lui
insisteva nel dire che ero stato io a far oscillare la sua mano, la qual cosa avrebbe poi portato al
disastro. Sull'argomento si svolse una lunga conversazione tra Signar e lo Stygiano. Non vedevo alcuna
ragione plausibile per rimanere lì ad ascoltarla, e quindi me ne tornai da Corysia.
«Sentire quei due che vanno avanti ostinati come al solito ad insultarsi, mi fa sentire di nuovo a casa,
Aldair.» Scosse la testa e rise. «Caro Rhalgorn... non se ne troverebbe un altro uguale a lui da nessuna
parte. Ho sentito moltissimo la sua mancanza.»
«Non ho dubbi,» dissi io scuro in volto. «Uno Stygiano è come una pustola sul muso, Corysia. Quando se
ne va, ti domandi dove sia andato... e quando comincerà a farti male di nuovo.»
Corysia lanciò un'occhiata alle mie spalle.
«Potrei sistemare la contesa, ma detesto privarli del loro divertimento. Io so cos'è quella luce blu e cosa
è capace di fare, Aldair. È una cosa davvero orribile da vedere.»
«Darei non so cosa per poter mettere le mani su uno di quei dannati tubi,» le dissi. «Spade e frecce sono
del tutto inutili contro di loro!»
« Quella non sarà una cosa semplice da fare.»
«Niente lo è. Né in questo mondo, né in quello che ci siamo lasciati alle spalle. Corysia... Nell'attimo in
cui mi sono svegliato in questo posto, mi sono immediatamente reso conto che non mi piaceva. E non è
successo niente che mi abbia fatto cambiare idea.»
Corysia mi raccontò com'era accaduto che lei fosse capitata sulla navicella di quelle creature. Come tutti
noi, aveva fluttuato per un periodo di tempo indefinibile attraverso le stelle, poi aveva avvistato un
mondo alieno e bizzarro, che non le era per niente familiare. Fin dalle primissime battute del suo
racconto, mi resi conto che non poteva trattarsi dello stesso mondo che avevamo trovato noi, perché lì
c'erano alberi giganteschi con tronchi spessi come case, e rami che arrivavano a sfiorare le nuvole. Devo
dire a questo punto, che il traditore Barthius, che l'aveva costretta a salire in una delle sfere ed era stato
la causa di tutti i nostri guai presenti, alla fine si era riscattato. Dopo aver vagato per alcuni giorni per la
foresta, i mostri avevano individuato e raggiunto i due, e Barthius li aveva fronteggiati con audacia,
dando la vita per difendere Corysia.
«Per questo, e solo per questo, potrò perdonarlo,» le dissi. «Ma non per tutto il resto... per tutto quello
che era successo prima.»
«Forse questo è già abbastanza,» disse lei.
In conclusione, le cose che fu in grado di dirmi Corysia non furono di grande valore. Nel ventre della
nostra navicella non c'era differenza tra il giorno e la notte. Lei non aveva nessuna idea su quanto tempo
avesse trascorso lì dentro. I mostri ogni tanto si facevano vedere, ma non ad intervalli regolari. Da
quando lei si trovava a bordo, erano atterrati due volte. Una di queste due volte, i mostri avevano
catturato dei nuovi schiavi. E la parte più interessante del racconto, come avrei io stesso avuto modo di
constatare dopo poco, fu che uno di quegli schiavi non era né un Uomo, né
un mostro, né una creatura simile a noi. Era assolutamente differente da ogni essere che avevo mai visto
o che potessi immaginarmi. Fu Rhalgorn a presentarmi quell'essere. Nel corso delle poche ore che
avevamo trascorso a bordo, lo Stygiano aveva accuratamente esplorato con il suo finissimo olfatto tutta
la zona che occupavamo e aveva delimitato i confini della nostra prigione. Non era stato un compito
molto difficile da realizzare, in quanto eravamo liberi di spostarci dove volevamo all'interno della
navicella.
Oltre a noi, la stanza era occupata dalle cose dell'Uomo. Non c'era alcuna necessità di tenerli sotto
controllo; erano docili e contenti di essere schiavi, e questo i nostri catturatori lo sapevano molto bene.
Il fatto che a bordo ci fossero alcune centinaia di cose dell'Uomo mi preoccupava non poco. Corysia mi
aveva detto che erano già lì quando lei era stata presa. Io avevo appreso, quando in precedenza avevo
chiacchierato con Becky-Sue e Caldus, che nessuno era a conoscenza di altri rifugi su quel mondo. Così,
mi domandavo, da dove venivano quei prigionieri?
Riuscivo a intravedere una sola risposta plausibile.
«Non essere stupido,» mi disse Caldus stizzito. «Non ci sono altri mondi dell'Uomo all'infuori del
nostro.»
«Ha ragione,» fu d'accordo Becky-Sue. «Le Scritture dicono così... sia le sue che le mie.» Per essere stati
in passato dei nemici, ora quei due parevano intendersela davvero a meraviglia. Becky-Sue sedeva a
fianco di Caldus, con le mani poggiate sulle ginocchia di lui, in un atteggiamento che avrei definito anche
più che familiare.
«Bene,» dissi loro, «presumo che questo metta la parola fine alla questione. Quindi questi altri esseri
semplicemente non esistono, dal momento che voi due non li avete mai visti prima d'ora.»
Becky-Sue parve addolorata.
«Naturalmente esistono. La spiegazione è ovvia, Aldair. Ci sono rifugi sul nostro mondo di cui noi non
siamo a conoscenza.»
«Loro erano già a bordo,» spiegai cercando di mantenere la calma.
«Prima che Corysia fosse presa. Prima che le imbarcazioni arrivassero al vostro mondo.»
«E allora la tua Corysia deve essersi sbagliata. C'è un solo mondo di Veri Uomini. La Scrittura...»
«Lo so Becky-Sue. Mi siete stati di grande aiuto. Come sempre.»
Detto ciò, mi girai e li lasciai prima di perdere completamente la calma. Era veramente impossibile
riuscire a far ragionare gli Uomini. Erano creature meschine e ridicole. Ora che avevo imparato a
conoscerli, stentavo davvero a credere che avessero avuto intelligenza sufficiente per essere i Signori
della Terra...
QUINDICI
«Quel tipo non è molto interessante da vedere,» disse Rhalgorn, «ma è
stato prigioniero per un certo periodo di tempo, e sa molte più cose di noi sui mostri. È piuttosto
particolare, Aldair, ma ci può essere di grande aiuto.»
Rimasi ad osservare il mio compagno per un lungo momento. C'era un lampo strano ed irresoluto nei
suoi occhi.
«Spiegati meglio, cosa c'è di particolare in lui?»
«Rhalgorn si strinse nelle spalle.
«Niente di ben definito. Solo che mi ha colpito proprio... proprio perché
era diverso.»
«Diverso?»
«Sì, proprio così. Diverso.»
«E allora perché provo la strana sensazione che ci sia dietro qualcos'altro? C'è forse qualcosa che mi stai
nascondendo?»
Rhalgorn cominciò a spazientirsi.
«Non posso farci niente se tu hai delle sensazioni! Io ti ho detto tutto quello che c'era da dire. Io...» Si
interruppe e mi guardò con un'espressione ebete. «Aldair, non ho proprio idea del perché sto parlando
in questo modo. Io non so perché quella creatura è diversa. Per qualche arcano motivo, parlare di lei
mi rende incredibilmente nervoso. Forse che questo significa qualcosa?»
«No,» gli risposi, «ma ultimamente sono davvero poche le cose che hanno senso. Forse faremmo meglio
a non perdere altro tempo e ad andare a vedere questo tipo. Cosa gli hai detto su di noi?»
«Niente,» disse Rhalgorn emettendo uno dei suoi soliti rumoracci e facendo sbattere la sua grossa coda
grigia contro gli stivali. «Tu dimentichi che sono un guerriero Stygiano. Diversamente dalle cose
dell'Uomo, io sono uno che combatte, non uno che chiacchiera a vanvera.»
Pensai che fosse saggio non fare alcun commento su quella sua ultima affermazione.
Difficilmente avrei potuto dar torto a Rhalgorn per quanto riguardava quella creatura chiamata
Te'dchak. In verità, particolare era il termine più
adatto per descriverlo. Era basso, aveva un aspetto meschino ed era magro come un fuscello secco.
Pezzi di pelle pallida e chiazzata cascavano molli come degli stracci sulla misera figura e, sebbene non
fosse così privo di peluria come l'Uomo, la sua pelliccia non meritava di essere menzionata. Il tutto si
riduceva a dei pezzetti dall'aria malaticcia che non si sollevavano dal terreno per più di una trentina di
centimetri. Aveva delle orecchie piccolissime, una coda ispida e un muso storto e sproporzionato
rispetto alla sua grandezza.
Eppure, quando vidi Te'dhack per la prima volta, notai a stento questi lineamenti così inconsueti, perché
non riuscivo a staccare lo sguardo dai suoi occhi. Erano enormi e sorprendenti, lucenti come oro nuovo,
ed ebbi l'impressione che brillassero grazie ad una nascosta fonte di luce interna. Era come se tutta la
forza e l'energia di quella creatura fossero racchiuse in quelle cavità luminose e che il suo corpo non
fosse altro che la conchiglia necessaria a proteggerli. Non mi faceva nessuna meraviglia che Rhalgorn
non sapesse dare un nome a ciò che aveva visto! C'erano delle cose che sembravano aleggiare intorno a
Te'dchak che le parole non riuscivano ad esprimere.
Per un lungo momento lui rimase a fissare Rhalgorn, poi si girò per guardare me. «Io ti conosco,» disse
con voce flebile, e la bocca piccola e triste fu increspata da un gentile sorriso.
«E io conosco te,» gli risposi, e lui non fu né stupito né allarmato dalle mie parole. Fu invece Rhalgorn a
guardarci con aria molto perplessa, ma io non ero in grado di dirgli nulla. Io conoscevo quell'individuo,
altrettanto bene quanto conoscevo me stesso. Tuttavia, non avrei assolutamente saputo spiegare come
ciò poteva essere.
«Il tuo amico Rhalgorn sentiva che dovevamo incontrarci,» disse Te'dchak. «Aveva ragione in questo, e
anche per quanto riguarda l'altra faccenda. Lui è il tipo che dice poco a parole, ma sa parlare molto bene
con gli occhi.»
Rhalgorn impallidì e mi lanciò una rapida occhiata.
«No,» disse Te'dchak rivolgendosi a lui direttamente ed alzando una delle sue minuscole mani. «Non hai
detto niente che non avresti dovuto dire, amico mio. Aldair ha capito ciò che voglio dire.»
«Vuol dire che hai scritta la parola fuga a chiare lettere sul volto,» dissi allo Stygiano.
«In effetti è proprio così,» disse sorridendo la creatura. «Ed è bene che sia lì. Ho aspettato a lungo per
vedere una cosa del genere!»
«Rhalgorn mi ha detto che sei prigioniero già da parecchio tempo. Puoi dirmi da quanto tempo?»
«Ventitré anni,» disse lui con tono solenne. «Su una navicella o su un'altra...»
Rhalgorn ed io rimanemmo colpiti.
«Da... da così tanto tempo? Ma, Te'dchak, perché queste creature ti lasciano sempre qui? Questa è una
navicella piena di schiavi, o almeno così
pensavo che fosse. Perché allora...»
«Perché non sono stato venduto a uno dei Dieci Mondi?» Te'dchak batté
le palpebre di quei suoi enormi occhi. «Bene, come potete rendervi conto voi stessi, dalla mia vendita
non guadagnerebbero certo una grossa somma. Ma c'è un motivo molto più valido. Non ho una grande
forza in questo mio povero corpo, ma ci sono altri modi per combattere.»
«Quali altri modi?»
«La natura ci fornisce armi molto differenti tra loro, Aldair.» Girò i suoi accattivanti occhi lucenti su di
me. «Ad alcuni vien fatto dono di un'intelligenza brillante e muscoli sodi, come nel caso di Rhalgorn, qui.
Ad alcuni... ad alcuni viene data una... una...»
Ero solo vagamente consapevole che qualcuno stesse parlando. O, forse, me lo stavo solo immaginando.
C'era qualcuno lì, vicino a Rhalgorn, ma non si trattava di nessuno che mi interessasse vedere. Nessuno
che potesse avere alcuna importanza. Nessuno di cui mi dovessi preoccupare veramente, e di cui
neanche mi dovessi ricordare... Sbattei le palpebre. Te'dchak mi stava guardando e aveva dipinto sul
volto un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro.
«Per la Vista del Creatore, cosa mi è successo?»
«Niente più di quello che succede quando una creatura si sente tutt'uno con gli alberi della foresta, o se
ne sta perfettamente immobile su una spiaggia. Lui è lì ma, a meno che l'occhio non sia allenato a
vederlo, è
molto probabile che tu gli passi accanto senza renderti conto di lui. Ai primordi del mio mondo c'erano
in giro una gran quantità di predatori. Noi non eravamo adatti né a combattere né a scappare... ma
avevamo un'arma.»
«Se tu sei in grado di fare ciò,» disse Rhalgorn, «perché sei stato prigioniero così a lungo? Perché
semplicemente non ti sei alzato e te ne sei andato?»
«È facile. Perché loro sono in troppi,» disse lui perfettamente padrone di sé. «E l'effetto non dura poi
così tanto. Se tu, Aldair, fossi stato un predatore, io avrei avuto il tempo necessario a correre via e a
nascondermi. Ma niente di più. Mi avresti poi raggiunto abbastanza in fretta.»
«Capisco...»
Te'dchak allargò le braccia.
«Ad ogni modo, anche se fossi riuscito a scappare... dove sarei andato?
Mi avrebbero dato la caccia e mi avrebbero riacciuffato.» Si fermò e ci squadrò per un po'. «Capite
perché ho aspettato per così tanto tempo il vostro arrivo? Io posso distrarre i mostri, Aldair, ma niente
di più. Tuttavia, con il vostro aiuto...»
«Per gli occhi del Creatore!» Rhalgorn spinse il pugno sull'altra mano.
«Te'dchak, qui ci sono guerrieri perfettamente in grado di fare il resto!» I suoi occhi rossi brillarono di
piacere. «Aldair, riusciremo certamente a trovare il modo di scappare da qui. Qualcosa nei prossimi dieci
minuti mi renderà incredibilmente felice.»
«Perché non facciamo cinque?», gli dissi io. «Ma sarà meglio che prima prepariamo un piano ben
preciso. Te'dchak: quanti mostri ci sono a bordo della navicella? Lo sai?»
Te'dchak aggrottò le ciglia pensieroso.
«Non è facile dirlo. Sono solo in pochi a scendere fin quaggiù. Il resto è
indaffarato a guidare la navicella, il che non è un'operazione tanto semplice e tiene occupati molti di
loro, questo te lo posso dire per certo. Io non so quanto tu li conosca, Aldair, ma io li conosco piuttosto
bene. Sono creature crudeli e selvagge ma, per la maggior parte, non sono dotate di un ingegno
particolarmente acuto. Queste navicelle e le altre macchine di cui si servono sono incredibilmente
vecchie.» Si fermò e guardò di nuovo Rhalgorn e me. «Credo che voi sappiate già che le hanno rubate
alle cose dell'Uomo.»
«Sì, lo sappiamo. Anche se gli Uomini sembrano non volerci credere.»
Te'dchak si strinse stancamente nelle spalle.
«Ho smesso da molto tempo di parlare con gli Uomini. A me pare che non cambino mai. In ogni caso,
quando qui qualcosa non va per il verso giusto, i mostri hanno solo una vaga idea di come si possa
provvedere. Di solito, loro non fanno altro che abbandonare il mezzo e salire su un altro. Oh! Ma io non
ho ancora risposto alla tua domanda. Penso che ci saranno a bordo circa venti creature. Sicuramente
non più di trenta.»
«Direi che è un numero adeguato,» disse Rhalgorn.
«Molti di loro hanno però armi più potenti delle vostre,» gli ricordò
Te'dchak.
«Ma non le avranno ancora per molto,» sbottò lo Stygiano.
«Rhalgorn,» lo ammonii, «ora non facciamoci prendere dall'ansia. Ci sono ancora parecchie questioni da
chiarire.»
«Questioni?» Rhalgorn sembrava incredulo. «Che tipo di questioni?»
«Per esempio, una che mi è venuta in mente ora, anche se sono certo che non presenta difficoltà
insormontabili. Supponiamo di riuscire ad impadronirci di questa navicella: poi cosa ne sarà di noi? Se la
prenderemo dopo l'atterraggio, non ci ritroveremo a combattere solo con una ventina di loro, ma con
migliaia di mostri. Se invece riusciamo ad impossessarcene adesso, sperduti tra le stelle come siamo,
cosa proponi di farcene?»
Il sorriso di Rhalgorn svanì.
«Questo, Aldair, mi sembra uno dei punti più importanti dell'intera faccenda. Penso che dovremmo
pensarci su molto attentamente.»
«Pensavo che forse tu potevi occuparti di ciò. E penso che ormai stiamo parlando da più di dieci minuti.»
Rhalgorn fiutò l'aria.
«Naturalmente è così come tu dici. E poi i Signori dei Lauvectii non si buttano mai alla cieca in una
battaglia. Ci piace considerare tutto prima con attenzione.»
«Sì,» dissi. «L'avevo quasi dimenticato...»
Corysia, Signar e Thareesh, rimasero ad ascoltarci tranquillamente mentre noi raccontavamo del nostro
nuovo compagno e della parte che avrebbe avuto nel nostro piano. Quando finimmo, Signar si alzò in
piedi stiracchiandosi le lunghe braccia.
«Bene, io non ho mai navigato su un'imbarcazione che non fosse sull'acqua, Aldair, ma non deve essere
poi impossibile dopo aver fatto un po' di pratica.»
Rhalgorn mugugnò qualcosa e poi aggiunse: «Per il Respiro di Dio, sapevo che avrebbe detto
esattamente così! Pelliccia Grassa, non stiamo parlando di qualche asse di legno messa insieme, di una
vela e di un timone. Stiamo parlando di una macchina grande e complicata. Della quale tu non conosci
assolutamente nulla!»
«E tu sì, invece?»
«No. Naturalmente no. Ma io sono abbastanza intelligente da saperlo. Il che non si può dire di tutti
qui. Cosa penseresti di fare, Grande Capitano?
Portarci a remi di nuovo sulla Terra?»
«Per quanto ne so io, non c'è né vento né acqua tra le stelle. Tuttavia...»
«Ah!» Rhalgorn alzò un dito. «Niente vento hai detto, vero? Vedi, Aldair...»
«Va bene,» dissi io, «basta così. Fatela finita tutti e due. Mi pare evidente che un vascello che solca il
cielo tra le stelle non è la stessa cosa dell' Ahzir al'Rhaz. Ciò non di meno, a meno che qualcuno non
abbia un'idea migliore, non vedo altra soluzione che provare a guidarla. O ci proviamo, o cominciamo a
farci piacere l'idea di rimanere schiavi.»
«Io non ci penso neanche!», sibilò Thareesh.
«E tanto meno io,» si inserì Corysia. «Aldair... non è la prima volta che tentiamo di fare cose che non
avevamo mai fatto prima. Forse nessuna grande e arrischiata come questa, ma, come hai già detto tu:
abbiamo per caso un'alternativa? Preferisco mille volte provare e fallire, che affrontare quello che
altrimenti mi aspetterebbe.»
«Abbiamo almeno una dozzina di guerrieri validissimi che la pensano esattamente alla stessa maniera,»
disse Signar.
«Guerrieri senza armi,» gli fece notare Thareesh.
«A questo si può rimediare,» disse lo Stygiano. «Se le nostre non sono a portata di mano, prenderemo in
prestito le loro.»
Li scrutai bene in volto.
«Noi non abbiamo un'idea chiara del numero di nemici che dovremo affrontare, che armi avranno, o di
come si guida questa navicella. Come la vedo io, fare grandi piani non è granché utile. Dobbiamo solo
cercare di trovare un modo, con l'aiuto di Te'dchak.»
«È certo meglio che starsene seduti qui,» disse Signar.
Infatti lo è. Cominciamo a parlare con l'equipaggio, diciamo anche a loro il poco che siamo venuti a
sapere. Rhalgorn ed io discuteremo la cosa con Te'dchak e decideremo...»
Rhalgorn mi fulminò con un'occhiata e non mi permise di completare ciò che stavo dicendo. Mi girai di
scatto e udii il suono squillante del metallo che cozza contro il metallo. Due dei mostri stavano
scendendo piuttosto impacciati per una stretta scala che si trovava proprio sopra le nostre teste e
guardavano dritto dalla nostra parte. Il più grosso e sgradevole dei due indicò proprio me.
«Tu,» mi ordinò secco, «quello basso. Vieni qui! ojt'Miyer vuole vederti immediatamente!»
Gli altri risero sgradevolmente sotto i loro cappucci. «Dì addio ai tuoi compagni. Non li rivedrai tanto
presto!»
SEDICI
Se non avessi fermato il mio equipaggio, si sarebbero scagliati contro i due mostri già allora, senza
pensare alle conseguenze.
«No!» Afferrai il braccio di Rhalgorn appena in tempo, e sentii i suoi muscoli e i tendini che si
allungavano sotto la mia stretta.
«Stammi a sentire: è meglio così,» disse, con i suoi occhi infuocati che non si staccavano da quei due.
«Lui sta dicendo la verità, Aldair. Se te ne vai, non tornerai più.»
«Voi avete molte cose da fare,» gli dissi con calma. «Fatele, Rhalgorn.»
Le corde sotto le mie dita si allentarono un po'. Lui non mi guardò, perché non c'era bisogno di parole
tra noi. Guardai dietro di lui e colsi l'impercettibile cenno d'assenso di Signar. Anche lui aveva capito. Mi
diressi con passo deciso verso la creatura e lasciai che mi stringesse intorno al collo un collare di ferro.
Avevo già portato quel collare prima, e l'avevo barattato onorevolmente con una sciarpa... una cosa che
non credo sarebbe successa con ojt'Miyer. Non guardai indietro per cercare Corysia... Attaccata al mio
collare c'era una corta catena. Il tipo che ne teneva stretto l'altro capo provava gusto nel darci ogni
tanto qualche strattone mentre proseguivamo all'interno della navicella. Rideva ogni volta che
inciampavo e cadevo a faccia per terra. Non ha importanza dire quante volte ciò si verificò, perché anzi,
ogni volta raddoppiava la dose e sembrava divertirsi sempre di più. Mentre venivo trascinato per quei
corridoi arrugginiti che si susseguivano monotonamente uno dietro l'altro, mi sforzavo di tenere a
mente la strada che stavamo percorrendo. Ma presto mi resi conto che era praticamente inutile. Ogni
muro era uguale all'altro: sfregiato, rappezzato e sporco. C'erano delle porte di metallo da tutti e due i
lati, ma anche quelle erano sempre identiche.
Intuii che stavamo salendo verso l'alto, perché il rombo dei motori si stava riducendo ad un lontano
ronzio. A un certo punto passammo davanti ad una stanza buia, dove alcune creature erano indaffarate
a fare non so cosa. C'era un tavolo in quella stanza, illuminato da luci accecanti di tutti i colori. Più avanti
riuscii a carpire la fuggevole vista di un'altra stanza ancora più grande. La luce lì dentro era addirittura
troppo forte per poterla reggere. Per un attimo ebbi l'impressione di aver guardato nel cuore di qualche
immenso gioiello vivente.
Purtroppo queste brevi visioni svanivano troppo in fretta, e non rimaneva altro che guardare se non la
porta butterata che mi stava davanti. Nessuno ebbe bisogno di dirmi dove ci trovavamo. Riuscivo a
percepire benissimo che lì, dietro quella porta, c'era lui che mi stava aspettando. La paura passò
attraverso quel solido muro di ferro come fosse qualcosa di umido e vivo. Il cuore quasi mi si fermò, e io
riuscii a stento a mettere uno stivale davanti all'altro. Fino a quel momento mi ero comportato
coraggiosamente, come avrebbe fatto qualsiasi altro guerriero. Ma aveva già
visto ojt'Miyer una volta. Ed ero madido di sudore gelato al pensiero di incontrarlo di nuovo. I miei
carcerieri non mi seguirono: si limitarono ad aprire la porta e a spingermi dentro. La stanza era lunga e
stretta e dannatamente fredda. La luce era fioca e di un color giallo ambrato che sembrava fluttuare
nell'aria come nebbia. Un colore che mi ricordava il colore degli occhi di qualcos'altro. Quella luce mi
fece subito venire un tremendo mal di testa. Dov'era?
Perché non...
«Qui dietro, piccola creatura...»
Mi girai di scatto. Qualcosa di molto simile al ghiaccio mi sfiorò la nuca. La cosa rise: era più vicina ora.
Qualcosa si mosse nella penombra. Lui era lì: una figura scura vicino ad una finestra dalla quale si
vedevano le stelle. Fortunatamente i suoi lineamenti erano nascosti dal bavero del suo mantello.
«Bene, bene...» Di nuovo quella sua orribile voce che ricadeva come un macigno in un fiume fangoso.
«Mi riconosci, allora?»
«Sì, Ti riconosco ojt'Miyer...»
«E tu sei quella creatura che parlava di magia, vero?» Le sue parole erano più che gelide. «Non pensare
che io sia come gli altri. Non mi diverto affatto a sentir raccontare storie di demoni e incantesimi.
Sarebbe stato un grave sbaglio da parte tua averlo pensato. Lo sai questo, o no?»
«Sì,» gli risposi, e le parole mi uscirono a stento dalla gola. «Io... io lo so.»
Si mosse, una specie di macchia sfocata con alle spalle lo sfondo immenso del cielo stellato.
«Voglio delle risposte da te, strana creatura... Chi sei?... Che cosa sei?... Da dove vieni e dov'è la tua
nave?... Dimmi tutte queste cose...»
Quelle che stava facendo non erano delle domande. C'è sempre qualcosa di sottinteso in una domanda.
ojt'Miyer non stava chiedendo nulla: semplicemente mi stava dicendo cosa dovevo fare.
«Non ho motivo di non risponderti,» gli dissi con tono spavaldo. «Noi non siamo schiavi, ojt'Miyer, come
le altre creature senza peli. Come puoi vedere tu stesso, noi siamo molto simili a voi. Veniamo da un
mondo chiamato Mousedung, che è piuttosto lontano da qui. Siamo commercianti, per la maggior
parte: commerciamo in formaggio, pastinache e birra d'orzo. Ci siamo allontanati dalle nostre rotte
abituali e ci siamo persi... sì, abbiamo avuto dei problemi con la nostra navicella...» Pensai che quello
che gli stavo raccontando potesse essere plausibile. «... Semplicemente eravamo approdati in quel
mondo dove ci avete trovati. La nostra nave è affon-data e solo pochi di noi sono riusciti a raggiungere la
riva. I sopravvissuti si sono sparsi dappertutto. Abbiamo capito immediatamente che non potevamo fare
affidamento su quel popolo di schiavi. Non abbiamo niente in comuni con quegli esseri. Non avevamo
idea che ci fossero delle... delle creature civilizzate come voi da quelle parti. Non abbiamo avute molte
opportunità di spiegare chi eravamo. Noi, ah, naturalmente non ve ne facciamo una colpa...»
Raccontai tutte quelle bugie con quanta più calma mi fu possibile. Se avessi smesso di usare il cervello,
non avrei detto assolutamente più nulla. ojt'Miyer continuava a rimanere silenzioso. Sentivo il suo
sguardo gelido posato su di me. Poi, qualcosa all'interno di quell'oscuro cappuccio si allungò come per
cercare di raggiungere direttamente il mio cervello. Io feci un balzo all'indietro, e per poco non lanciai un
urlo quando mi sentii sfiorare da quella che sembrava una lama di un rasoio.
«E questo è tutto ciò che hai da dirmi?», mi chiese alla fine.
«Sì, ma... se c'è qualche altra cosa che vuoi sapere...»
Mi fece segno di tacere, si spostò dalla finestra e mi indicò di seguirlo. Io esitai, poi gli obbedii, cercando
di mantenere una distanza di sicurezza tra me e lui. Mi aveva creduto? E che differenza faceva se mi
aveva creduto? Un improvviso senso di disperazione cadde su di me come un insopportabile peso.
ojt'Miyer non aveva probabilmente prestato nessuna attenzione al mio racconto. Era stato solo un
momento di pausa a cui avrebbe posto fine in breve tempo.
ojt'Miyer si fermò. C'era nella stanza un piccolo portale di cui fino ad allora non mi ero accorto. Girò la
maniglia, aprì la porta ed entrò. Io lo seguii, anche se era l'ultima cosa che mi sarebbe piaciuto fare. La
luce in un certo senso era migliore. Tenebrose ombre color dell'ambra si fondevano con altre color ocra.
C'era qualcosa davanti a ojt'Miyer... un'ombra, un movimento che si intravedeva in un angolo. ojt'Miyer
fece un passo verso di me. Poi un altro. Fui investito dal suo alito fetido. Riuscivo quasi a sbirciare sotto il
suo cappuccio, le cose che si muovevano lì dentro.
«Hai paura di me, piccola creatura?...»
«Sì,» dissi sinceramente. «Penso che tu sia un essere che incute molta paura.»
Questa mia affermazione parve essere di suo gradimento.
«Ti ricordi di ciò che hai visto, vero? Cosa ho fatto a quella cosa dell'Uomo...» Se ne uscì in una risata
soffocata. «Quella non sarà la tua sorte. Ricordatelo.»
«Sono contento di saperlo».
C'era ancora qualcosa lì... C'era qualche altra cosa insieme a noi nella stanza...
«Ascolta molto attentamente,» disse ojt'Miyer. «Ti ho detto che non ti farò niente di male. Ci puoi
credere. È la verità... anche se non mi hai raccontato altro che bugie.»
«Cosa?» Scossi la testa. «No, io...»
«Tranquillo. Hai detto tutto quello che avevi bisogno di dire. Ora invece ascolterai. Io ti dirò cose vere e
non bugie. E quando avrò finito tu parlerai di nuovo. Mi dirai ciò che vorrò sentire.» Guardò nell'angolo
della stanza e poi di nuovo dalla mia parte.
«Ti dirò che so chi sei e da dove vieni, piccola creatura. Le pallide cose che si definiscono Uomini hanno
ormai dimenticato, ma noi ricordiamo ancora bene. Sappiamo che voi venite dal mondo della Nascita, e
anche loro vengono da quello stesso mondo. Noi conosciamo le navi e le macchine che sono
appartenute a loro prima che noi le prendessimo. Voi non venite da un popolo di commercianti, piccola
creatura. Voi siete arrivati su delle navicelle dorate che volano veloci attraverso uno spazio in cui il
tempo non passa mai. Ho potuto osservare io stesso questo fenomeno, anche se solo per un attimo,
quando stavamo sorvolando il mondo degli schiavi. Brillava come una stella, poi si posò sul suolo e svanì.
È chiaro che voi siete arrivati in quelle navicelle dorate. Voi mi darete quelle navicelle. Così verrò a
conoscere anche la strada che porta al mondo della Nascita...»
Riuscivo a stento a muovermi. Le parole di ojt'Miyer mi trapassavano come lame che arrivavano dritte al
cuore. Per gli occhi del Creatore... seloro entrassero in possesso di quelle navicelle e portassero le loro
ordesulla Terra!
«Io... io non so come risponderti,» dissi tranquillamente. «Io... non so niente di queste cose. Tu devi
credermi.»
ojt'Miyer fece una risatina soffocata.
«Ah, e invece sì che le conosci. Io so che tu le conosci, piccolo essere!»
Di nuovo qualcosa si mosse e si contorse sotto il suo cappuccio. «Eppure, ho dato la mia parola, non è
così? Non ti sarà fatto nulla di male. ojt'Miyer non ricambia una bugia con un'altra bugia. Ora guarda lì.
Laggiù...»
Mi girai. All'improvviso quell'angolo remoto venne illuminato, da un ampio e giallastro raggio di luce.
Lanciai un urlo. Le gambe non mi ressero più e caddi in ginocchio.
«Buon Dio... no!»
C'erano lì due creature. Stavano su di una ruota di ferro, fissata al suolo. Sulla ruota c'era un guerriero
Vikoniano, con le braccia e le gambe divaricate e incatenate. All'inizio pensai che fosse Signar, poi mi resi
conto che il colore della pelliccia era più scuro e che apparteneva alla gente di Raadnir. Mi vergognai
incredibilmente, perché non riuscivo neanche a ricordare il suo nome.
Lui comunque mi riconobbe e mi chiamò con quella voce profonda e rauca tipica della sua gente.
«Non preoccuparti assolutamente per me, Mastro Aldair! Non dire a queste cose niente che tu non
debba...»
Uno dei mostri lo zittì immediatamente assestandogli un feroce colpo al ventre. Il Vikoniano emise un
grugnito e contorse il volto in una smorfia.
« Dannazione a te,» urlai in direzione di ojt'Miyer. «Se hai delle domande da farmi, fammele! Lui non
sa niente!»
«Ah, cominci a capire che cosa succede qui,» disse ojt'Miyer con irritazione. «Io non gli faccio domande
su di lui. Io faccio a tutti loro domande su di te. In questo momento l'unica cosa che devi fare è
guardare, piccola creatura. Guardare e dirmi ciò che voglio sapere. Se le tue risposte non saranno di mio
gradimento, la faremo finita con quello e ne porteremo su un altro. E poi un altro ancora, e così via...»
«Non servirà a niente, ojt'Miyer. Ci puoi torturare tutti e continuerai a non sapere nulla! Io non ho le
tue dannate navicelle!»
«Se è così,» disse lui lentamente, «vuol dire che perderemo un po' di tempo e niente di più. Ma non lo
sapremo finché non avremo finito, giusto?» Le sue braccia ebbero un movimento inconsulto e ordinò,
«Cominciamo con questo, in fretta!»
Io mi girai. ojt'Miyer se l'aspettava. Diede uno strattone alla mia catena e mi fece voltare dalla parte
della ruota di ferro.
«Guarda,» sibilò, ed il suo alito per poco non mi fece cadere. «Guarda, e pensa bene a come dovrai
rispondermi!»
Non posso raccontare le cose che accaddero li. Le creature avevano una varietà infinita di lame a loro
disposizione... delle armi sottili ed affilate che si incurvavano in mille modi diversi. Il mio compagno
aveva una pelliccia molto spessa che gli ricopriva tutto il corpo. Ci volle un tempo interminabilmente
lungo per portarla via tutta. Quelle stupide creature erano molto abili nella loro arte. Dissi a ojt'Miyer
tutto quello che voleva sapere. Che eravamo effettivamente arrivati dal mondo in cui lui voleva
approdare nelle uova dorate dell'Uomo. Lui mi credette...
Ma non fermò le sue torture. Voleva di più. Dov'erano ora le navicelle?
Quante ne erano rimaste? Quando avrei potuto condurlo lì? Io lo maledissi, urlai che non lo sapevo!
Ma ojt'Miyer pensò che stessi mentendo. Così mi inventai le cose che voleva sapere. Trovai una risposta
ad ogni cosa che mi chiedeva. Ma non era ancora soddisfatto. Io capii, e fui preso da un improvviso
moto di orrore, che lui non si sarebbe accontentato mai. Avrebbe riservato quel suo efferato
trattamento a tutto l'equipaggio, ed io sarei stato lì a guardare. Rhalgorn. Signar. Thareesh. Corysia. Per
gli Occhi del Creatore: come avrei potuto sopportare che facessero quelle cose a Corysia!
Una porta sbatté alle mie spalle. Una luce accecante riempì la stanza e il mostro sht'Ingo apparve lì in
mezzo. ojt'Miyer si girò e cominciò a sfogare tutta la sua rabbia su di lui.
«Tu... esci immediatamente da qui! Nessuno può entrare!». La creatura indietreggiò tremando.
«ojt'Miyer - stanno... stanno scappando dal buco!»
Per una frazione di secondo ojt'Miyer allentò la presa sulla catena del mio collare. Quell'attimo mi bastò.
Mi infilai rapidissimo tra le gambe di sht'Ingo e corsi a perdifiato.
DICIASSETTE
ojt'Miyer urlò come se tutti i diavoli dell'inferno si fossero uniti insieme. Fiamme blu fischiarono alle mie
spalle e mi spruzzarono con qualcosa di simile a delle scorie vulcaniche. L'acciaio sibilava e ribolliva. Fui
colpito da un dolore lancinante ai talloni e urlai con quanto fiato avevo in gola, barcollai, caddi nel punto
dove il passaggio faceva una curva, e balzai di nuovo in piedi.
La strada davanti a me era libera, ma li sentivo distintamente appena dietro di me. Sempre più vicini.
Altri stavano sopraggiungendo da sinistra. Mi lanciai a destra, vidi la stretta scaletta di metallo e mi
arrampicai velocemente al livello sottostante. Rannicchiato, immobile, e trattenendo persino il respiro,
rimasi in ascolto. Il cuore mi martellava contro il petto. Tirai un profondo respiro nel tentativo di farlo
rallentare. Un rumore. Lontano, poi più vicino. Un urlo... poi un altro. Stivali che raschiavano sul metallo.
Quella specie di tosse delle armi dei mostri. Ma dove? Le pareti di metallo traevano in inganno, era
difficile individuare la provenienza dei suoni. Potevo dirigermi dal lato opposto a quello dove si
trovavano le creature, o lanciarmi direttamente tra le loro braccia. Non c'era tempo per prendere
decisioni ponderate. Allo stato attuale delle cose una valeva l'altra. Se gli altri erano riusciti a liberarsi,
ragionai, erano ancora lontani lì sotto. E quindi il tentativo migliore da fare era quello di continuare a
scendere. Cercare di raggiungere nel più breve tempo possibile i miei compagni e sperare di non
incontrare nessun mostro sulla mia strada.
Fortunatamente quella era una serie di scale; sotto una rampa ce n'era subito un'altra. Superai la prima
senza problemi, e stavo già per imboccare la seconda, quando li sentii. Due, forse tre. Mi guardai intorno
alla ricerca di un'eventuale porta, di un angolo, di qualcosa dove potermi nascondere. Ancora un altro
minuto e mi avrebbero sorpreso lì, a ghignare come un cretino!
Mi stesi sulla pancia: non c'era più tempo per poter pensare a niente altro. Comparve una figura
incappucciata, si arrampicò fino al mio livello e proseguì. Il secondo gli stava subito dietro, e seguì
esattamente i suoi movimenti. Poi si fermò. Diede delle occhiate tutt'intorno e guardò dritto dalla mia
parte.
Io mi lanciai giù per le scale e sentii tutte le sue imprecazioni. Arrivai giù e mi misi dietro il primo angolo
che trovai prima che la sua arma cominciasse a lanciare le sue scorie metalliche nel posto dove mi
trovavo. I suoni di una piccola guerra si stavano facendo più vicini. Cacciai quel pensiero dalla mente. In
quel momento avevo io stesso un'ardua battaglia da combattere, e non potevo certo permettermi di
pensare ad altri. Il mostro ora era proprio alle mie spalle. Cominciai a correre curvando ora a destra ora
a sinistra. Ero più veloce, ma lui era comunque avvantaggiato: aveva un'arma micidiale e un'idea ben
precisa su dove mi stavo dirigendo. All'improvviso comparvero delle porte di metallo. Un'intera fila.
Provai ad aprirne due. Bloccate. La terza si aprì e io mi ci lanciai dentro sbattendola con violenza alle mie
spalle. Era una stanza piccola, in penombra e senza uscite. Bene. Mi ero rinchiuso proprio in un ottimo
posto per farmi trovare subito e, per di più, senza nessuna possibilità di fuggire. Non so cosa avrei dato
per una spada, una mazza... per una cosa qualsiasi. Non c'era niente nella stanza, neanche... mi fermai.
Guardai ciò che la mia mano aveva afferrato. La fastidiosa catena che avevo sempre tenuto in mano per
non inciamparci dentro. Mi toccai istintivamente il bordo del mio collare di ferro. Non c'era chiave. La
creatura l'aveva fatto chiudere con uno scatto. Le mie dita sentirono una protuberanza simile a un
piccolo pomello, un bottone di ferro. Lo spinsi. Non accadde nulla. Tirai via le dita e cercai di frenare il
tremito delle mie mani. Quel bottone l'aveva fatto chiudere. Così doveva anche farlo aprire. Con calma,
delicatamente, feci scivolare il pomello a destra, poi a sinistra. Ancora niente, Su e giù, poi... Con un
leggerissimo, piacevole scatto, il collare cadde a terra. Lo presi e lo chiusi di nuovo, mi arrotolai circa
mezzo metro di catena intorno al pugno e saggiai la consistenza della mia arma. Non era un granché, ma
era abbastanza pesante. Ero di nuovo almeno un mezzo guerriero e un po' meno una lepre in fuga.
Lo sentii arrivare e mi appiattii contro la porta. Un attimo dopo, quella si spalancò e la creatura fece
irruzione nella stanza. Scagliai la catena con tutta la forza che avevo. La creatura barcollò, si portò le
orribili mani al volto e indietreggiò. Il tubo argenteo cadde al suolo tintinnando. Si aggirò
alla cieca per trovarmi. Lo colpii di nuovo. Lui prima cadde in ginocchio, poi si accasciò pesante come un
sacco. Il cappuccio gli scivolò dalla testa. Intravidi della pelliccia, della carne e dei lineamenti deformi. Mi
chinai a raccogliere la sua arma e la rigirai con cautela tra le mani. Farla funzionare sembrava piuttosto
semplice: se lui era in grado di farlo, sicuramente lo ero anch'io. C'era un'impugnatura che era stata
realizzata per delle mani più grandi delle mie. C'era un pezzo di metallo incurvato dove chiaramente
bisognava introdurre il dito. Spinsi. L'arma sputò le sue micidiali fiamme bluastre e fece crollare tutto un
pezzo di muro. Mi sentii molto sollevato. È facile passare dallo stato di schiavo a quello di padrone. Il
padrone è quello che ha sempre a disposizione delle armi. Dopo aver lanciato una rapida occhiata fuori
dalla porta, scivolai di nuovo nel corridoio e cercai di scoprire dove si trovava il prossimo angolo. Ora
non c'era da sbagliarsi su quale fosse il luogo dove si stava svolgendo la battaglia. Era proprio su quello
stesso livello, molto vicino a me. Corsi velocemente giù per un passaggio, mi fermai un attimo e poi girai
di nuovo. Il corridoio si interrompeva all'improvviso: c'era una biforcazione, si poteva andare a destra o
a sinistra. Il rumore delle armi era ora davvero vicinissimo. La puzza di metallo bruciato rendeva l'aria
sempre più pesante. Luci e ombre si alternavano sui muri.
Si trovavano a una ventina di metri di distanza sulla sinistra. Erano in tre. Figure incappucciate chine
sulle loro armi facevano fuoco e si muovevano con grande rapidità. Qualche volta, nel furore della
mischia, c'era il pericolo di ammazzare un amico. Qui questo problema non sussisteva. Sbagliarsi era
impossibile. Strisciai dietro l'angolo, alzai l'arma fino all'altezza della loro schiena e urlai. Si girarono tutti
e tre all'unisono, impietriti dallo stupore. Io spinsi il pezzettino di metallo e tenni stretta l'arma. Loro
gridarono, ondeggiarono, ruzzolarono rovinosamente.
Con grande cautela una figura venne allo scoperto. Basso e tarchiato. Occhi piccoli, un muso storto e con
una lunga cicatrice sopra, un pesante elmo a coprirgli la testa. Era davvero molto piacevole vedere una
creatura che mi assomigliava.
«Mastro Aldair!» Un ghigno gli fece allargare le mascelle.
«Stumbacius... tu qui!»
Urlai dalla gioia e mi misi a correre verso di lui. Tre arcieri Nicieiani gli stavano alle calcagna. L'ultimo
aiutava un compagno che zoppicava. Un rivolo di sangue scendeva giù per la sua coscia verde e ricoperta
di scaglie, ma sarebbe sopravvissuto e avrebbe combattuto ancora.
Stumbacius era un soldato e non perse tempo in saluti.
«Siamo una pattuglia,» mi spiegò in fretta. «Signar ci ha mandati in avanscoperta e siamo rimasti tagliati
fuori.» Accennò dietro alle sue spalle.
«La battaglia si stava svolgendo lì, e siamo nei guai, Mastro Aldair!»
«Avete armi? I tubi?»
«Qualcuno.» Sollevò il suo. «Fuori dal buco abbiamo trovato le nostre spade e i nostri archi, ma non
servono a molto.»
«Ora siamo tre di più, e ciò sarà di grande aiuto,» si intromise un Nicieiano. Stumbacius fece tornare
indietro un arciere per la strada da cui loro erano arrivati e mi fece segno di seguirlo.
«Aspetta. Se lì ci sono delle difficoltà, potremo aiutarli di più rimanendo qui. Manda indietro due di loro
con quello ferito. Fai restare gli altri con noi.»
Stumbacius richiamò il suo esploratore.
«Dì a Signar che noi ci spostiamo: saliamo al livello superiore e cerchiamo di prendere le creature alle
spalle. Digli che dobbiamo spostarci più in alto. Due livelli sopra questo. Lì c'è il cuore della navicella: ce
ne dobbiamo impadronire. Capito?»
Il Nicieiano fece cenno di sì con la testa e corse veloce dietro ai suoi compagni. Condussi Stumbacius e
gli altri indietro per la strada che io stesso avevo percorso per arrivare lì. Risalimmo quindi le scale fino
al li-vello superiore. La via era libera. Eravamo pronti ad affrontare qualsiasi problema, ma non ne
saremmo stati certo contenti.
Dopo una falsa partenza, arrivammo ad una scala a chiocciola che portava di nuovo giù. I Nicieiani sono
degli ottimi arrampicatori, ed io mandai uno dei nostri arcieri ad esplorare la strada. Infatti disprezzò le
scale e si inerpicò strisciando sulla parete, una striscia scura e verde contro il metallo butterato. Nel giro
di pochi secondi era di nuovo al mio fianco.
«La battaglia è proprio dietro l'angolo,» sibilò piano. «Noi possiamo vederli, ma loro non possono
vedere noi.»
Annuii. Si arrampicò di nuovo, Stumbacius ed io lo seguimmo. Il corridoio piegò bruscamente a destra.
Appena sorpassato l'angolo, vedemmo qual era la situazione. Più di venti mostri avevano intrappolato il
mio equipaggio dietro a due angoli, alla fine del passaggio. Era una situazione assolutamente senza
speranza. Quasi tutte le creature incappucciate avevano armi, mentre non più di quattro tra quelli di
Signar erano provvisti dei micidiali tubi.
Feci un segno agli altri, mi lasciai cadere a terra a pancia in giù e aprii il fuoco. Figure nere scattarono
sorprese e confuse, contorcendosi e urlando per il dolore. Risposero al nostro attacco, ma noi ci
mantenevamo bassi e i loro colpi non andarono a segno. Uno, più audace degli altri, si lanciò
direttamente verso di me, barcollando su quelle orribili gambe e facendo fuoco alla cieca. Stumbacius lo
tagliò praticamente in due parti. Signar si rese immediatamente conto della situazione. Un terribile urlo
di guerra Vikoniano risuonò al di sopra del crepitio delle armi e delle grida dei moribondi. Lo vidi
scansare le armi dei mostri e seminare il terrore con la sua enorme ascia da guerra per aprirsi la strada.
Gli altri guerrieri della sua razza combattevano spalla a spalla al suo fianco, e non c'era nessuno che
poteva impedire la loro avanzata. Uno, con la pelliccia quasi dello stesso colore di quella di Signar, non
aveva né ascia né spada ma non se ne dava assolutamente pensiero. Il suo braccio menava colpi come
fosse una mazza di ferro e fracassava ossa a destra e a manca.
Un nemico si poteva rendere conto che un Vikoniano lo stava per uccidere, ma quelli che cadevano
sotto i colpi di Rhalgorn raramente capivano cosa era stato ad ammazzarli. Un attimo era lì, l'attimo
dopo non c'era già
più, e dietro di sé aveva lasciato la strada insanguinata, nel modo veloce e silenzioso degli Stygiani.
Signar uccideva come un tuono. Rhalgorn come una folata di vento estivo.
«Signar, Rhalgorn!», urlai. «Prendete i vostri migliori elementi e venite come: non li abbiamo ancora in
pugno!»
Mi raggiunsero in un battibaleno, ombre scure e minacciose ricoperte del sangue di altre creature.
«Questi sono sistemati,» dissi, «ma ojt'Miyer ne avrà altri a disposizione. Dobbiamo impadronirci dei
livelli superiori, e in fretta!»
«E allora andiamo,» grugnì Signar, «anche se non credo che riconoscerei questo oshimire anche se me
lo trovassi davanti.»
«Invece sì,» gli dissi con calma, «ti assicuro che lo riconosceresti, amico mio. Non è possibile confondere
ojt'Miyer con nessun...»
DICIOTTO
«Tra gli Eubironi noi abbiamo praticamente un proverbio per ogni situazione,» dissi ai miei compagni.
«In questo momento me ne viene in mente uno in particolare.»
Rhalgorn fece roteare gli occhi.
«Non so perché, ma sono convinto di sapere già qual è.»
«Stai zitto e ascolta!», sbottò Signar. «Potremmo fare buon uso di un proverbio, questo è sicuro!»
«Se nessuno ha niente in contrario,» disse Rhalgorn, «penso che farò
una passeggiata. Sì una passeggiatina!»
«No,» dissi io cupo, «non la farai. Siediti qui e ascolta. Questo è il proverbio: Se sei arrabbiato con un
serpente, regalagli dei guanti per il suo compleanno.»
Signar batté le palpebre. Il suo sorriso svanì e lui mi guardò con una faccia priva di qualsiasi espressione.
«Béh, Aldair, questo è davvero un proverbio molto carino.»
Rhalgorn rise. Corysia e Thareesh scelsero proprio quel momento per entrare insieme a Te'dchak.
«Mi sono persa qualcosa?», chiese lei sorridendo.
«Sì,» disse Rhalgorn. «Aldair ci stava giusto spiegando qualcosa sui serpenti e sui guanti.»
«Cosa?»
«C'è un motivo,» dissi io piuttosto irritato, «se vi interessa saperlo. Se ci riflettete un po' su, vi renderete
conto che noi abbiamo esattamente lo stesso problema del serpente, caro Rhalgorn. Ci siamo
impadroniti di questa navicella e ci siamo liberati dei nostri carcerieri. Il guaio è: cosa ci faccia-mo con
questo regalo di compleanno?»
Con un ampio gesto della mano indicai la stanza in cui ci trovavamo. Era uno spazio ampio e circolare a
prua della navicella, in prossimità della parte più alta della nave. Le pareti erano ricoperte da uno
schieramento sconcertante di macchine che ronzavano, scattavano e vibravano in continuazione come
insetti su un albero. Le luci si accendevano e si spegnevano senza nessuna ragione particolare.
Dovunque posassi lo sguardo, c'erano bottoni leve e aggeggi dall'uso incomprensibile. Nessuna di queste
cose pareva avere un senso.
Io ero quasi certo che quella fosse la cabina di comando da cui si guidava la navicella. Ma come? Luci e
bottoni erano utili come una spada per una rapa, se non si ha la minima idea di come maneggiarli.
«Bene, su questo punto hai sicuramente ragione,» annuì Signar. «Ho capito ora dove vuoi arrivare.»
«Bene. Proprio questo è il punto. Noi non stiamo andando da nessuna parte. O, ipotesi ancora
peggiore, stiamo andando dove non vogliamo andare.»
«Probabilmente Aldair ha ragione,» sibilò Thareesh. Fissava con i suoi occhi senza palpebre le pareti
colorate e teneva la coda nervosamente attor cigliata sotto il mantello. «È ragionevole pensare che,
quando ci siamo impadroniti della navicella, ci stessimo dirigendo verso il mondo di ojt'Miyer. Potevano
aver cambiato rotta quando si erano resi conto di essere spacciati: ma perché avrebbero dovuto farlo?
Sarebbe stato un colpo davvero ben assestato mandarci comunque in schiavitù mentre pensavamo di
aver acquistato la libertà.»
«Se la navicella sta procedendo in un senso,» disse Corysia, «sicuramente possiamo farla andare in un
altro.»
«Non è esattamente come governare una nave,» mormorò Signar.
«Questa è la prima cosa che ho detto anch'io,» sbuffò Rhalgorn. Signar lo fulminò con lo sguardo.
«Non ho ancora finito, Alito di Coniglio! Quello che stavo per dire era, che se è vero che non è la stessa
cosa che andare a vela, c'è però una cosa che è la stessa.» Continuò ad annuire col capo. «Le stelle.
Non ce n'è nessuna che io abbia già visto prima, ma non posso assicurarti che si siano mosse da quando
noi siamo qui. Sono stato capitano su parecchi ponti per essere in grado di dirti che stiamo seguendo
una rotta ben precisa, anche se non saprei dire chi sia il timoniere.»
«Sono queste macchine che fanno da timone,» disse Te'dchak. «Di questo sono assolutamente certo.»
La piccola creatura non era mai intervenuta fino a quel momento. Mi girai a guardarlo.
«Tu lo sai per certo? Hai dimestichezza con le macchine?»
Si strinse nelle esili spalle.
«Aver dimestichezza con quelle macchine forse non è l'espressione più
appropriata, Aldair. Io so quello che fanno. Il che non è la stessa cosa che sapere come lo fanno».
Si fece avanti e si avvicinò ad un banco pieno di luci. Era ancora molto debole dopo lo sforzo che aveva
sostenuto. Aveva offuscato le menti dei mostri, anche se solo per un momento, per dare a Signar e a
Rhalgorn il tempo necessario... ma lo sforzo gli era costato molto caro.
«È solo una mia intuizione,» continuò lui, «ma penso che sia giusta. Sono certo che ojt'Miyer sia
scappato in una delle navicelle più piccole. La nave non può andare lontano, ma potrebbe anche non
averne bisogno. Forse siamo vicini alle altre navi, o a uno dei Dieci Mondi.» I grandi occhi dorati mi
guardarono dritto in volto. «Aldair, avrebbe potuto distruggere questa navicella prima di andarsene. Ma
non l'ha fatto. Le navi sono tutto per questi individui. Quando vengono distrutte o si perdono, non
possono essere sostituite.»
Mi misi a riflettere su questo punto. C'era molta saggezza in ciò che aveva appena detto. Probabilmente
ci stavamo dirigendo proprio nel covo di ojt'Miyer. E lui stesso sarebbe stato li ad accoglierci. Il fatto che
quel diavolo ci fosse sfuggito, mi aveva irritato più di quanto potessi dire. Dopo la nostra vittoria nella
parte inferiore della navicella, l'incursione ai livelli superiori non aveva dato nessun frutto. Tutte le
stanze e tutti i passaggi erano vuoti. Non c'era rimasto più nulla, tranne i poveri resti insanguinati di quel
corpo dilaniato sulla ruota di ferro. Non dimenticherò in fretta il lampo che passò negli occhi di
SignarHaldring quando vide la scena. I suoi cupi lineamenti si contorsero in una smorfia di rabbia
terribile e silenziosa. Un suono spaventoso cominciò a salire dalla sua gola e mi fece rizzare i peli dietro il
collo. Poi tirò fuori il suo coltello e con un colpo rapido e ben assestato mise fine alle sofferenze del suo
compagno. Dopo di ciò, Rhalgorn mi spinse in fretta fuori dalla stanza. Durante i combattimenti
avevamo perso due arcieri, ma erano caduti in battaglia. E quello è un modo molto diverso di morire...
«C'è ben poco da aggiungere,» disse a Te'dchak e agli altri. «Sarà stata davvero una vittoria inutile se
dopo tutto ciò arriveremo dritti dritti nel mondo di ojt'Miyer. Signar, Te'dchak... noi dobbiamo cambiare
questa rotta e sceglierne un'altra.»
Signar si grattò le orecchie.
«Hai ragione com'è vero che esiste la pioggia. Solo, Aldair, hai idea di come potremo riuscirci?»
«Non ne ho la più pallida idea. Ma se quegli stupidi individui hanno imparato a guidare questa navicella,
allora possiamo farlo anche noi.»
«Non abbiamo però molto tempo per imparare,» disse Thareesh con molta freddezza. «Loro si
dedicano a quest'attività ormai da centinaia di anni.»
«Più probabilmente un migliaio. Ciononostante, non serve a niente stare qui a piangere sulle nostre
disgrazie, o sbaglio? Te'dchak; ti dispiacerebbe rimanere qui con Signar e vedere cosa riuscite a
imparare? Non avremo bisogno di sapere tutto. Girare a destra, a sinistra, fermarsi e ripartire sarà
sufficiente.»
Signar mi lanciò un'occhiata minacciosa.
«Ah, sì, così ti basta?»
«Sì, amico mio, così basterà.» Ghignai e gli diedi una pacca affettuosa sulla spalla. «Sei un ottimo
marinaio. Forse il migliore. Sono certo che tu e Te'dchak ci darete la vostra risposta in pochissimo
tempo.»
Corysia alzò un sopracciglio. La ignorai e continuai a ridere. Nutrivo davvero poche speranze che
saremmo riusciti a portar fuori la testa o la coda da quel folle ammasso di luci e di bottoni. Tuttavia non
potevo assecondare un vikoniano che medita tristemente sulla sua sorte e quella dei suoi compagni.
Avevo già abbastanza cose di cui preoccuparmi senza aggiungerci anche quella tempesta che aleggiava
nell'aria.
Corysia e Thareesh se ne andarono dopo poco. Io avevo chiesto loro di guidare delle squadre ad
ispezionare la nave. Non ne conoscevamo neanche la metà, e mi sembrava prudente acquistare un po'
più di dimestichezza con la navicella. Sia che riuscissimo a capirne il funzionamento, sia in caso
contrario.
Avevamo anche discusso su cosa sarebbe stato meglio fare con le cose dell'Uomo, e avevamo deciso di
lasciarle lì dove si trovavano. Questa era stata una decisione molto facile da prendere. Nessuno dei
prigionieri pensava che il passaggio della navicella nelle nostre mani preludesse a qualcosa di meglio.
Per quanto ci era dato capire, dal loro punto di vista, un'altra razza di bestie aveva ora preso il comando
della navicella, e loro erano di-ventati i nostri schiavi. Naturalmente, Caldus e Becky-Sue sapevano molto
di più degli altri, ma la battaglia aveva sottratto loro ogni traccia di vita. Erano usciti dal buco a
malincuore, si guardavano intorno sempre con aria impaurita, e poi si ritraevano frettolosi.
Tuttavia, quei pochi momenti di libertà non erano stati del tutto inutili. Avevo colto lo sguardo di Becky-
Sue quando aveva visto i corpi senza vita dei mostri. Non aveva mai immaginato che quegli esseri
potessero essere come tutte le altre creature, che per esempio potessero sanguinare, e quindi pensai
che per lei potesse esserci ancora qualche speranza. Caldus era invece ostinato e insensato come al
solito. Mi disse che ci saremmo procurati un gran numero di guai, e che ci saremmo pentiti di quello che
avevamo fatto per tutta la nostra vita. E tutto ciò era detto da un individuo che aveva sotto gli occhi i
suoi nemici ridotti in cenere.
«Ho fatto sistemare i corpi dei nostri cari amici in un angolo remoto della nave,» mi disse Rhalgorn. «Ma
non è una soluzione che può andare avanti per le lunghe, perché già ora emanano un odore
insopportabile. Se è
possibile, ancora peggiore di quello che avevano quand'erano vivi.»
«In seguito dovremo trovare un modo per liberarci di loro,» dissi io.
«Non possono rimanere qui dentro con noi.»
Rhalgorn mi guardò con aria adirata e si mise a pulirsi i denti.
«Una bella risposta, Aldair. Naturalmente, ci avevo già pensato anch'io. Se avessi potuto buttarli fuori da
qualche parte ti assicuro che l'avrei già
fatto.»
«Bene: cosa te lo ha impedito?»
«Non ci sono porte in questo maledetto posto. Neanche una. Per uscire fuori, deve esserci una porta,
Aldair.»
Lo guardai.
«Ci deve essere per forza una porta, Rhalgorn. Anzi sicuramente più
d'una, immagino. Queste creature hanno bisogno delle porte, come chiunque altro.»
«Bene,» disse lui acido. «Allora indicamele tu, Mastro delle Porte. Così
potrò liberarmi dal cattivo odore.»
Te'dchak che si trovava lì vicino si girò a guardarci.
«Temo che non sia così semplice, caro Rhalgorn. Non si può semplicemente aprire una porta nello
spazio tra le stelle. Esiste una macchina anche per fare quello. È assolutamente necessario che l'aria non
esca dalla navicella.»
«Che cosa?» Rhalgorn lo guardò con aria incuriosita. «Io non so come funzionano le cose nel tuo mondo,
Te'dchak, ma nel nostro questa è una cosa perfettamente normale. Noi apriamo una porta e l'aria esce
fuori. E, naturalmente, altra invece ne entra. Niente di eccezionale, almeno come la vedo io.»
Te'dchak guardò lo Stygiano con fare molto pensieroso, poi si grattò il petto chiazzato.
«Ho paura che tu non sia pienamente consapevole di cosa ci sia lì fuori,»
disse molto pazientemente. «O, fatto forse ancora più importante, cosa non c'è. Non c'è aria nello
spazio, Rhalgorn. In verità non c'è assolutamente nulla. Se tu riuscissi ad aprire uno dei portelli ti
congeleresti e moriresti all'istante.»
Rhalgorn si schiarì la gola e mi guardò con aria scettica.
«Ah, e perché non dovrebbe esserci aria lì fuori, Te'dchak?»
«Non lo so. Semplicemente non c'è.»
«E che cosa ne è stato di lei?»
«Cosa?»
«Ho detto, cosa ne è stato di lei? Perché non è più lì?»
Te'dchak chiuse gli occhi.
«Rhalgorn non le è successo niente. Per quanto ne so io non c'è mai stata e basta. Lo spazio tra le stelle
è stato sempre così e così sarà.»
Rhalgorn mi guardò.
«Aldair, ti pare che tutto ciò abbia un senso?»
«Non ne ho idea,» risposi. «In tutta onestà, non avevo mai pensato a una cosa del genere prima d'ora.
Se Te'dchak sostiene che è così, probabilmente è vero.»
«Aldair,» Te'dchak sembrava allarmato. «Non si tratta di probabilità!»
Rhalgorn sorrise alla piccola creatura con aria maliziosa.
«Allora, Te'dchak, rispondi a questa mia domanda. Se lì fuori non c'è
aria, come fa a navigare questa navicella? Ah? Rispondi a questo, se ne sei capace!»
«Rhalgorn,» il tono di voce di Te'dchak era ora piuttosto teso, «questa navicella non è né un uccello, né
una barca. Quindi, non sta affatto navigando.» Scosse la testa e si mise di nuovo ad occuparsi del suo
compito.
«È davvero un bel tipo,» disse Rhalgorn quando l'altro era ormai lontano e non poteva più sentirlo. «Ma
non ha le idee molto chiare su come funziona il mondo.»
«E tu invece sì? Rhalgorn, io credo che sia possibile che lui sappia bene di cosa parla.»
Rhalgorn sorrise pazientemente e mostrò i denti.
«Vedi le stelle lì fuori, Aldair? Ce ne sono milioni e milioni, e non sono tenute lì da nastri o cose simili.
Loro navigano, come può vedere chiunque, anche se ha solo mezzo occhio. Solo per il fatto che vengo
dalle foreste dei Lauvectii, non vuol dire affatto che io sia uno stupido...!»
DICIANNOVE
Non ero del tutto certo che Te'dchak sapesse di cosa stesse parlando. D'altra parte, ero sicurissimo che
Rhalgorn non lo sapesse. Io conoscevo bene gli Stygiani. Una volta che un'idea gli è entrata in testa, ci
rimane attaccata come una sanguisuga. Può essere un'idea assurda e inconcepibile, ma questo vuol dire
davvero poco per i Signori dei Lauvectii. È una loro idea, e loro continueranno a pensarci fino alla
morte, o fino a che un'altra idea migliore non verrà ad occupare la loro mente.
Così, benché avessi molte altre cose da fare, mi sembrò prudente seguire quella storia personalmente.
Ci sono molti modi ragionevoli per appurare se effettivamente c'è o non c'è aria nello spazio. Poi, c'è il
modo Stygiano: trovare una porta, mettere fuori la testa e fiutare.
Seguii Rhalgorn che oramai era ben più che irritato e non potei fare a meno, comunque, di rimanere
colpito dal modo che aveva escogitato per dirimere la questione. Come avevo immaginato, in effetti a
bordo della navicella c'erano delle porte, sebbene non fossero del genere che mi sarei aspettato.
Davanti ad ogni porta c'era una piccola finestra, munita di uno spesso pannello. Attraverso quella
finestra si riusciva ad intravedere una stanzetta stretta e piuttosto lunga. E dietro quella un'altra porta.
Accanto alla finestra c'erano due bottoni e due luci. Dopo alcuni tentativi con relativi errori,
apprendemmo che la porta esterna si apriva direttamente sulle stelle. Quando quella porta era aperta,
una luce rossa si accendeva e si spegneva in continuazione. Mentre la porta esterna era aperta, era
impossibile aprire l'altra porta.
«Ci deve essere un motivo per tutto ciò,» dissi io a Rhalgorn.
«Naturalmente c'è. Se un nemico cerca di salire a bordo, rimane intrappolato in quella minuscola
stanzetta. E si può osservarlo attraverso quella finestra.»
«Non so dire perché, ma non credo sia questa la ragione.»
«Naturalmente.» Rhalgorn mi guardò con aria afflitta.
«Suppongo che tu abbia una risposta migliore.»
«Potrei. Prendiamo uno dei corpi e mettiamolo in questa stanza.»
«A che scopo? Che cosa hai intenzione di dimostrare?»
«Se lo sapessi,» gli dissi, «non avrei bisogno di farlo, non ti pare?»
Mugugnando per tutta la strada, Rhalgorn mi aiutò a trascinare un cadavere fino al portello. Lo
mettemmo lì dentro e chiudemmo la porta. Premetti il bottone giusto. In un attimo la luce rossa
cominciò a lampeggiare in continuazione, e una cosa veramente sconcertante e spaventosa ebbe luogo
lì dentro. Il cadavere del mostro si sollevò dal pavimento e cominciò
a fluttuare tutt'intorno. Ciocche di capelli ed altri orrori caddero dalla sua testa, insieme a milioni di
globuli di sangue. Poi, all'improvviso, la porta esterna si spalancò e la sua enorme massa fu inghiottita
dal vuoto. Guardai Rhalgorn. Era terreo sotto la pelliccia, e i suoi occhi rossi erano talmente spalancati
da sembrare dei piattini.
«Bene. Che ne pensi?»
Rhalgorn si leccò il muso.
«Ah, chiaramente c'è dell'aria lì fuori. Come immaginavo. Hai visto anche tu che il vento si è portato via
la creatura.»
«Io ho visto qualcosa. Non penso che fosse il vento. E neanche tu!»
«E invece sì,» disse lui con tutta la convinzione di cui fu capace. «È evidente, come è evidente che esista
la pioggia, Aldair.»
Lui non credeva assolutamente a quanto aveva detto, ma si rifiutava di ammettere che aveva torto. Ciò
non di meno quella fu l'ultima volta che discutemmo la questione dell'aria tra le stelle... Potrei riempire
libri interi sulle cose strane e curiose che scoprimmo a bordo della navicella di ojt'Miyer. Alcuni misteri,
come quello della doppia porta di Rhalgorn, li risolvemmo dopo ripetuti tentativi. Per la maggior parte,
comunque, la nave si tenne ben stretti i suoi segreti. Cosa aveva dato la possibilità alla nave di spostarsi
per il Mare delle Nebbie? Se non c'era aria nello spazio, come riusciva a galleggiare la nave? Perché non
cadeva?
E tutto ciò portava ovviamente ad un'altra domanda. Come faceva qualcosa a cadere da lì? Quando non
c'è un su e un giù a cui fare riferimento o anche destra e sinistra - lo stesso concetto di caduta non ha
più alcun senso. Tuttavia, quando si è in viaggio da un modo a un altro, fioriscono un numero incredibile
di fantasie.
Come avevo già fatto presente a Signar e a Te'dchak, io mi accontentavo per ora di imparare come
quelle cose funzionavano, e lasciavo i perché a dopo. Con un grande sforzo di volontà, li lasciai al loro
compito. Non vo-levo rimanere lì impalato ad aspettare la risposta, prima che loro avessero delle
risposte da dare. Ma questa fu una cosa semplice per me. Ero dolorosamente consapevole del tempo
che passava. Stavamo sprecando delle ore preziose, e non avremmo dovuto. E ci avvicinavamo
spaventosamente ad un mondo a cui non volevo nemmeno pensare.
Così, mi sentii immensamente sollevato quando un uomo dell'equipaggio mi trovò mentre mi aggiravo
come un'anima in pena e mi disse che Signar voleva che lo raggiungessi. Erano passati ben due giorni da
quando quei due avevano cominciato, ed era chiaro che non avevano sprecato tempo a dormire. Signar
era stanco ed irascibile. Te'dchak aveva un aspetto peggiore del solito, il che la dice lunga sulla
situazione in cui si trovavano quei due.
«Abbiamo imparato molte cose,» ci disse quando fummo tutti raccolti nella stanza circolare.
«Abbastanza, io penso, per fare un tentativo.»
«Un buon tentativo è tutto quello che chiedo.»
«Ci auguriamo di poter fare anche di meglio.» Mi rivolse un sorriso quasi affettuoso ma molto stanco.
«Come hai detto tu, le creature che guidavano questa navicella non sono dotate di un'intelligenza
brillante, Aldair. Semplicemente erano più pratiche, avevano più esperienza. Abbiamo cercato di
risolvere il problema procedendo logicamente, e abbiamo avuto alcune buone intuizioni. Venite...» Ci
fece segno di seguirlo fuori dalla stanza. «Andiamo giù, all'entrata, perché è lì che inizia tutta la storia.»
Rhalgorn, Corysia. Thareesh ed io, li seguimmo obbedienti. A pochi passi di distanza c'era una piccola
porta di metallo. All'interno c'era una stanza di cui mi ricordavo molto bene. I mostri mi ci avevano fatto
passare quando mi avevano condotto da ojt'Miyer. Era quasi completamente buia, dal momento che era
illuminata solo da uno strano raggio verde. Nel centro c'era un tavolo concavo, che sembrava essere di
vetro, pieno di luci dai colori accecanti.
«Non perderò tempo a spiegarvi come abbiamo appreso tutte queste cose,» disse Te'dchak. «Invece vi
voglio mostrare ciò che ora sappiamo. Queste luci presentano un quadro dei mondi che si trovano nello
spazio, dove la nave si sta dirigendo. Quella sottile linea rossa indica la rotta che sta seguendo la
navicella. Lì,..», indicò un punto con un dito, «c'è il mondo che abbiamo lasciato per ultimo. La parte
rosa della linea, davanti alla navicella, è il luogo dove stiamo andando.»
Guardai più attentamente, poi mi rivolsi verso Te'dchak.
«Per il Respiro del Creatore, se tu hai ragione, siamo quasi arrivati!»
Signar annuì.
«Sì, Aldair, hai ragione. Facendo i conti come meglio abbiamo potuto, cercando di stabilire quanto
tempo è passato da quando siamo a bordo, poi studiando i segmenti di quella linea, abbiamo calcolato
al massimo altri due giorni.»
«Sì, al massimo,» sottolineò con cautela Te'dchak. «Davvero al massimo, Signar.»
Abbassò lo sguardo e premette qualcosa che non riuscii a vedere. Luci blu, legate insieme come fossero
delle perle, brillarono all'improvviso più
luminose di tutte le altre. La luce verso la quale noi ci stavamo dirigendo si trovava tra di loro.
«Contale, e ti renderai conto che sono dieci,» disse Te'dchak. «Possiamo ragionevolmente pensare che
quelli sono i Dieci Mondi delle creature.»
«Una giusta osservazione,» dissi io. «E gli altri?»
Te'dchak si strinse nelle spalle.
«Posso solo avanzare un'ipotesi. Mondi che le creature hanno visitato. Mondi dai quali prelevano
schiavi.»
Mi misi ad osservare le luci. Oltre ai Dieci Mondi c'erano più o meno un'altra dozzina di luci. Mentre
stavo lì a guardare, un'idea prese a poco a poco forma nella mia mente. I mondi non erano piazzati lì
disordinatamente. Al contrario, rappresentavano i punti degli invisibili raggi di una ruota, e tutti insieme
facevano cerchio intorno ad una luce dorata che si trovava nel centro ed era più luminosa di tutte le
altre. Feci partecipi gli altri di questa mia osservazione.
Te'dchak scoppiò in una sonora risata.
«Ah, bene, te ne sei accorto, ora! Tutti i mondi che le creature visitano fanno parte di una stessa
famiglia. Ognuno di loro ha un sole in comune.»
Per un attimo mi parve di intravedere una speranza, ma poi subito svanì. Era ovvio che il mio mondo
non era nessuno di quelli. Eravamo ben più
lontani da casa! Se così non fosse stato, i mostri ci avrebbero trovato già
da tempo.
Te'dchak indovinò i miei pensieri.
«Non è lì, amico mio. Il mio sì, senza dubbio. Ma non riesco ad immaginare quale possa essere.»
Ci portò fuori da quella stanza buia e ci riunimmo di nuovo nel posto dà
cui eravamo partiti. Durante il tragitto, mi venne in mente una cosa e mi fermai. Aprii una porta e
sbirciai dentro. Quella era la stanza che scintillava come il cuore di un gioiello. Era come se lì dentro
venisse cantata una canzone che io non potevo udire, e come se qualcosa danzasse con le scintille di
luce.
«Io... io non ho idea di cosa succeda lì dentro,» disse Te'dchak velocemente. Poi mi guardò e incrociò il
mio sguardo. «Va bene,» sospirò, «tu leggi al di là delle mie parole, vero Aldair?»
«Che cosa vedi lì dentro, Te'dchak? Tu vedi qualcosa, io lo so.»
Gli altri in quel momento erano lontani e non potevano sentirci.
«Io non so dire come lo so, ma lo so,» mi disse. «Quella cosa pensa, Aldair. Pensa per la navicella. E
sono certo che questo i mostri non lo sapessero.»
Lo guardai perplesso.
«Pensa? Vuoi dire, come una persona?Come può essere?»
«Come può essere tutto ciò? Eppure esiste, è tutto reale: giusto?»
«Ora,» disse Te'dchak, quando fummo di nuovo tutti riuniti nella grande sala circolare, «a questo punto
arriviamo sia ad una risposta che a una domanda.» Si diresse verso la lunga parete e indicò un punto.
«Vedete quel punto sotto le quattro luci blu? Lì c'è una fessura nel pannello, e in quella fessura c'è una
di queste.»
Si spostò e tirò fuori da un vassoio una luccicante barra di metallo. Assomigliava in effetti in tutto e per
tutto a quella che si trovava nella fessura.
«Io e Signar abbiamo avanzato un'ipotesi,» ci spiegò. «E credo che non sia tanto malvagia, in verità. Ci
sono ventisette luci sul tavolo nell'altra stanza...»
«... Ventisette mondi,» disse Thareesh.
«Esattamente. E ci sono ventisette barrette di metallo come questa. Secondo me è più che una semplice
coincidenza.»
«Per tutte le divinità,» urlai io, «è certamente più di una coincidenza!»
Saltai su dalla mia sedia e mi diressi verso il pannello. «Metti la barretta giusta in una fessura, e la
navicella ti porterà dritto in quel mondo. È questo ciò che stavi per dire?»
«Sì,» rispose Te'dchak. «Solo che c'è una cosa da aggiungere, temo.»
Lanciò un'occhiata a Signar. «Vi avevo detto che ci sarebbe stata una risposta e una domanda. Ci sono
dei segnetti su ognuna di queste barrette, Aldair. Senza dubbio rappresentano i nomi di ognuno dei
ventisette mondi. La domanda è: quale corrisponde a quale? Non è neanche il caso di pensare che
potremmo riuscire in breve tempo a decifrare quella scrittura. Così
possiamo cambiare rotta e andare dove ci pare. .. ma non sapremo dove cistiamo dirigendo fino a che
non ci arriveremo! »
«E se sbagliamo la prima volta, conclusi io per lui, «non ci sarà la possibilità di un secondo tentativo...»
VENTI
Per un lungo momento, una cappa di disperazione quasi visibile ci immobilizzò tutti. Potevo sentire il
bisbiglio dell'aria attraverso la feritoia che si apriva sulla mia testa e il sordo ronzio dei motori sotto di
noi. Nella mia immaginazione il ritmo di quei vecchi motori sembrava accelerarsi ogni momento di più,
spingendoci sempre più vicino ad ojt'Miyer. Guardai Corysia, Thareesh, Rhalgorn.
«Ci proveremo, naturalmente,» disse Signar. «Non ci diamo ancora per sconfitti, Aldair.»
«No,» intervenne Te'dchak, «è chiaro che no! Abbiamo imparato moltissime cose...» La sua voce si
affievolì. Si girò e si mise ad osservare le luci che continuavano a lampeggiare. Prima ancora che i suoi
occhi si fossero allontanati dai miei, capii cosa c'era lì.
Mi alzai e lo raggiunsi.
«Naturale che non siamo stati ancora vinti. Come hai detto tu, abbiamo imparato tantissimo in molto
poco tempo. Troveremo la risposta. Io sono molto fiducioso.»
Sollevai un cubetto di metallo dal vassoio che stava a fianco di Te'dchak, lo osservai attentamente, lo
posai, ne presi un altro. I segni erano leggermente diversi su ognuno. E per me non volevano dire
assolutamente nulla.
«Possiamo almeno cambiare direzione,» dissi io. «Questo ci farà guadagnare comunque del tempo. Non
saremo costretti ad atterrare, o mi sbaglio? Quando saremo arrivati vicino alla nostra destinazione...»
Te'dchak mi interruppe.
«Potremmo. Ma non ci sarebbe di grande aiuto. Potrebbe anche ucciderci più in fretta.»
Si lasciò cadere in una sedia accanto a Signar. «Tu dimentichi da quanto tempo io mi trovo a bordo di
queste dannate navicelle, Aldair. La navicella non può navigare nello spazio a tempo indeterminato.
Hanno bisogno di fermarsi di tanto in tanto. Per dei motivi che non hanno nulla a che fare con gli schiavi
o con le merci. Ho idea che si tratti del materiale che è in grado di far muovere i motori. Queste navicelle
non sono come le uova dorate che tu mi hai descritto: loro si spostano solo tra i mondi che circondano
un unico sole. Non vanno in giro tra le stelle.»
«Non mi farà meraviglia che ojt'Miyer volesse mettere le mani sulle sfere,» disse Thareesh. «Gli
avrebbero conferito un potere terribile ed infinito!»
«Se però fosse stato in grado di capire il modo in cui funzionano,» disse Signar.
«Se le trova,» dissi io con ansia, «capirà come si usano. Puoi scommetterci. Questo non deve accadere.
In un modo o nell'altro, noi dobbiamo evitarlo!»
«Un'idea davvero nobile,» disse Rhalgorn secco. «Anch'io penso che dovremmo farlo, Aldair. Non
appena avremo risolto questo insignificante problemuccio.»
Feci un balzo in avanti pronto a sfogare tutta la mia rabbia sullo Stygiano. Poi colsi il primo ghigno
ironico sulla sua faccia e capii.
«Hai ragione,» gli dissi. «Dovremmo cercare di risolvere una volta per tutte l'insignificante problema di
sopravvivere per un giorno o due. È effettivamente una cosa che si deve risolvere prima delle altre.»
Rhalgorn rise imitato poi da tutti gli altri.
«Cambia la nostra rotta,» dissi a Signar. «Ci darà un po' di tempo, e non vedo proprio come potrebbe
procurarci più guai di quelli che non abbiamo già ora.»
«A meno che non succeda qualcosa alla navicella,» disse Te'dchak, «e noi non ci ritroviamo catapultati
fuori di qui nelle tenebre.»
Lo guardai.
«E sarebbe forse peggio che finire nelle mani di ojt'Miyer?»
Te'dchak a sua volta mi guardò, ma non disse niente.
«Stavi sognando,» disse Corysia. «Hai lanciato un urlo, ma non sono riuscita a capire quello che dicevi.
Era un brutto sogno?»
Mi tirai su per toccarla.
«Non particolarmente piacevole.»
«Mi dispiace, Aldair. Raccontamelo. Se riesci a ricordarlo ti farà bene. Questo è un ottimo rimedio per i
brutti sogni.»
«Soprattutto il tenerti vicina è un ottimo rimedio per molte cose. Comunque, di qualcosa mi ricordo, ma
solo molto vagamente.»
«Lei mi si fece più vicina e mi sussurrò dolcemente all'orecchio: «Solo vagamente, vero?»
«Temo proprio di sì.»
«Forse posso rinfrescarti la memoria.»
«È del tutto... del tutto possibile.»
«Se mi ricordo bene, è altamente probabile che io ne sia in grado.»
«Lo pensi davvero?»
«Sì, io oh...! Tesoro, stai di nuovo sognando, non è vero?»
«Vagamente.»
«Oh, no, Aldair. Vagamente per nulla...»
La volta successiva si trattò di un sogno all'interno di un altro sogno. Io ero me stesso, ma me stesso
come riflesso in uno specchio. Mi ricordo molto chiaramente di quella notte. Combattevamo per salvare
le nostre vite su quello stretto ponte di legno nel cuore di Rhemia. Io ero caduto a terra, c'era del sangue
nei miei occhi, una dozzina di spade mi stavano puntate alla gola. Poi, l'insulsa e scintillante immagine di
me stesso mi apparve davanti... vaghe e nebulose fonti di luce mi circondavano, come lucciole in una
sera d'estate. I miei nemici urlarono e si ritrassero. Io mi rimisi in piedi, anche se con una certa difficoltà,
afferrai la mia lama e mi misi alla ricerca di Corysia. Quando guardai di nuovo, lo spettro di me stesso
era sparito... Non era quella la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con il fantasma di me stesso.
Era accaduto già un'altra volta prima: a largo della costa di Kenyarsha.
L'immagine oscillò e si dissolse come fumo sospinto dal vento. Mi trovavo di nuovo sul ponte dell' Ahzir
al'Rhaz, alla foce del fiume Amazzone... Il sole accecante batteva impietoso su di noi. Combattevamo
come furie contro la cosa del mare che minacciava di trascinarci giù nelle profondità marine. Vidi
Rhalgorn, Thareesh, Signar. E vidi di nuovo l'abbagliante pallone d'argento che all'improvviso si metteva
a lampeggiare nei cieli. Rimasi a guardare, come ero rimasto a guardare quel giorno, quando un pallido
raggio di colore blu chiaro si era sprigionato da quell'apparizione e aveva bruciato la cosa del mare
riducendola in gelatina... Guardavo, e mi ricordai della paura e dello stupore che mi attanagliavano il
cuore quando aveva visto esattamente la stessa figura del mio vascello impressa su quella specie di
pallone... L' Ahzir al'Rhaz, a vele spiegate che correva veloce sulle onde... Ma perché ora stavo
rifacendo quel sogno? E, cosa ancora più strana, perché non ero quell' Aldair, ma un altro? Perché nei
miei sogni io ero lo spettro di me stesso, il fantasma che dovevo fronteggiare una seconda volta. Ed io
ero la creatura che guardava giù da quella feroce navicella le minuscole imbarcazioni che si trovavano
sotto...
Non sarei riuscito a riaddormentarmi, ne ero sicuro. Mi staccai da Corysia il più silenziosamente possibile
e mi avviai per le sale della navicella. Forse anche Rhalgorn era sveglio e si stava aggirando da qualche
parte. Gli Stygiani dormono molto poco; è tipico della loro natura andare in giro alle ore più inverosimili.
Ma, comunque, ciò non si verificò quella notte. Il ponte era vuoto. Solo il brillio delle luci sulla
scintillante parete di metallo dava qualche segno di vita. Mi allontanai e mi diressi verso la stanza dove
era custodito il modello dei mondi su quel tavolo di vetro. La piccola linea rossa che rappresentava la
nostra navicella si muoveva lentamente seguendo la sua rotta. Chi poteva dire se verso il meglio o verso
il peggio?
Alla fine, entrai in quella particolarissima stanza che sembrava il cuore di un diamante. Rimasi immobile
al centro di quell'incredibile luminescenza, rapito dalle luci che danzavano sulle sue infinite facce.
Ascoltai la dolce cantilena della sua canzone. C'era una sola sedia in un angolo, fissata al pavimento e
incurvata in modo da accogliere una figura più sottile e slanciata della mia. Caldus ci sarebbe stato
comodissimo, o qualsiasi altro Uomo. Non era una sedia ideata per le bestie.
E, forse, fu proprio quello il motivo per il quale ero fermamente deciso che ora ne avrebbe accolta una.
Mi sedetti. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi...
« Fase Operativa. Pronto a ricevere... »
Saltai su, allibito. I peli drizzati dietro la nuca.
«Che cosa... chi è là? Chi è stato a parlare?»
Mi guardai intorno, perlustrai tutta la stanza.
« Pronto a ricevere... »
Mi aggrappai ai braccioli della sedia.
«Chi... chi sei? Rispondimi!»
« CONVAC CENTO,» disse la voce. « Pronto a ricevere... »
Era una voce fredda e razionale. La voce di una femmina delle cose dell'Uomo. Veniva dal nulla,
contemporaneamente da tutti i lati. La stanza, se possibile, brillava ancora più luminosa. Le
sfaccettature dei gioiello erano come esseri vivi che rilucevano di luce propria.
«Puoi rispondere a delle domande?», le chiesi esitante.
« Fase Operativa. Pronto a ricevere... »
Il cuore mi saltò in gola. Per la Vista del Creatore! Te'dchak aveva ragione: quella cosa pensava! Era
una macchina, ma sapeva parlare!»
«Ho delle domande da farti,» dissi.
« Chiedi. La tua autorizzazione, prego. »
La gola mi si seccò.
«Che tipo di autorizzazione preferisci?»
« Il codice di autorizzazione del Capitano, prego. Non ho il permesso dirispondere a domande di altri
Ufficiali che non siano il Capitano. A menoche non ci sia il codice giusto» .
« Io sono il Capitano, ora,» le dissi spavaldo.
La voce fece una breve pausa.
« Negativo. Ivan Petersonn è registrato come Capitano... »
«Quando è stata l'ultima volta che hai parlato con il Capitano Petersonn?»
« Questa è una domanda. Tu non hai l'autorizzazione per fare delle do-mande... »
Perfetto, pensai io oltremodo irritato. Siamo di nuovo al punto di partenza.
«Non definiamola una domanda,» suggerii io. «Direi che si tratta piuttosto di un chiarimento, non trovi?
Che mi permetterebbe di ottenere l'autorizzazione di cui hai bisogno.»
« Accettato», la voce rispose immediatamente. « Il Capitano Petersonnha comunicato con me
cinquemilatrecentododici anni standard fa. Più duemesi e... »
«Questo... questo può bastare,» dissi.
Divinità Potenti! Pensai con incredibile meraviglia al fatto che quella cosa se ne stava seduta lì da tutto
quel tempo. In attesa... Aveva la voce parlato con i mostri? ojt'Miyer sapeva che era lì, e sapeva come
usarla?
«Ho un altro chiarimento,» dissi. «Il Capitano Petersonn non è più il Comandante. Tu devi esserne a
conoscenza. Sei consapevole della durata della vita di un Uomo?»
« Sì,lo sono. Il Capitano Petersonn non è più vivo. È morto... »
Eccoci al punto, pensai.
«Hai riconosciuto qualche altra autorizzazione da allora?»
« No. »
«Perché no?»
«Nessun essere dotato di senso, sia qualificato che privo dei requisiti necessari, mi ha chiesto
l'autorizzazione.»
«Tirai un sospiro di sollievo.
«Io... sono qualificato?»
« Sì. »
«Spiegami perché, per favore. Sai chi sono?»
« Io so che tu non sei un Uomo. Ma l'essere qualificati non dipende dal-l'aspetto esterno, ma dai modelli
di pensiero. Ci sono parametri di accet-tabilità molto severi. Tu rientri in questi parametri. »
«Bene,» dissi. «Ora ho bisogno di un altro chiarimento. Per un certo numero di anni questa navicella è
stata nelle mani di esseri non autorizzati. Come tu stessa hai accennato, non erano neanche consapevoli
della tua presenza. Io ho cacciato quegli esseri e ho preso il comando. Se mi dichiaro Capitano di questa
navicella, sono, secondo il tuo punto di vista, investito di pieni poteri. Intuisco che tu sei una... persona
dotata di notevole logica. Se è così come credo, ti rendi conto che una navicella deve avere un Capitano
qualificato.»
Il grande gioiello fece una pausa. Mi resi conto che il lampeggiare delle sue innumerevoli luci aveva un
ritmo sempre più selvaggio. Quella specie di canzone che mi pareva di udire raggiunse dei toni sempre
più alti, poi tutto tornò normale.
« Accettato,» disse alla fine. « Posso sapere qual è il tuo nome per regi-strarlo, Capitano? Prego,
fammi tutte le domande che desideri... »
VENTUNO
Avrei potuto urlare di gioia in quel momento, e forse persino danzare per tutta la stanza. E senz'altro
l'avrei fatto se non avessi temuto di sconvolgere la mia nuova amica. È vero che avevo l'impressione che
quelle macchine non si stupissero tanto facilmente, ma la voce che mi aveva parlato era vera come
quella di una persona, e non riuscivo a pensare a lei in un modo diverso.
«Puoi chiamarmi Aldair,» dissi, «e sono molto felice di averti conosciuto. A proposito, ed io come posso
chiamarti? Spero che non ti sia offesa per quello che ho detto. CONVAC CENTO è un po' troppo
formale.»
« Il Capitano Petersonn mi chiamava Connie,» mi disse, « tu puoi fare lostesso se ti piace. »
«Benissimo, allora vada per Connie. Ora, se non ti dispiace, vorrei farti una domanda. Io non ho
dimestichezza con i codici di destinazione di questa navicella. I cubi di metallo che indicano la direzione
della nave. Per noi sono pericolosi molti di quei mondi: specialmente i dieci che sono segnati dalle luci
blu nella stanza che si trova accanto a questa.»
« La tavola delle rivelazioni, Capitano... »
«Sì, credo che si tratti di quella. Se puoi aiutarmi, avrei bisogno di sapere su quale mondo potremmo
dirigerci per ora, Connie. Uno in cui i mostri
- gli esseri privi di autorizzazione di cui abbiam parlato prima - non siano in grado di trovarci con
facilità.»
Connie fece una breve pausa, intonando una breve musichetta all'interno delle sue pareti.
« Posso rispondere a questa domanda solo in modo negativo», disse alla fine. « Logicamente, dal
momento che questa nave toccherà prima o poitutti i ventisette mondi di questo sistema, non c'è nessun
luogo dove riusci-reste a non essere scovati. Ad ogni modo, tu hai adoperato la parola 'fa-cilmente'. Qui
c'è una lista dei ventisette mondi con i loro codici di desti-nazione, le coordinate e il tempo che occorre
per arrivarci dalla nostraattuale posizione. Vengono indicati anche i nomi comuni con cui sono
co-nosciuti questi mondi. »
Una piccola sfaccettatura proprio sopra di me divenne all'improvviso opaca. Delle parole segnate in
bianco apparvero in rapida successione su quella superficie, una fila dopo l'altra.
« Avrai notato,» continuò Connie, « che nella mia lista i mondi sonoelencati in ordine discendente, il
che si riferisce al loro isolamento, e allafrequenza delle visite che queste o altre navicelle vi hanno fatto.
»
Io mi sporsi in avanti per studiare meglio la carta.
«Connie, vedo che hai sottolineato con una linea i primi quattro mondi, e poi l'ottavo... e ah, il
quindicesimo e il ventiduesimo.»
« Giusto, Capitano. Quei mondi non possono essere raggiunti da questopunto senza una sosta per lavori
di manutenzione ed altre riparazioni ne-cessarie. Tenendo presente la tua posizione di preminenza e di
responsa-bilità, non credo che troveresti prudente agire in quel modo. Devo fartinotare che la navicella si
trova in uno stato deplorevole, Capitano Aldair.La mia proiezione di sicurezza operativa è zero-zero-zero-
punto otto-sette-zero. »
«Vorresti dirmelo in una lingua normale?»
« In una lingua normale,» disse in modo confuso Connie, « se non faiqualcosa il più presto possibile,
Capitano, perderemo i pezzi ad uno aduno. »
«La nave è durata per un periodo di tempo molto lungo,» le feci notare io.
« Ma senza nessun merito da parte delle creature che ne sono state re-sponsabili,» disse lei. « Per
esempio. Le principali connessioni di guida. ..»
«Connie. Mi piacerebbe rendermi utile, ma temo che al momento non sia possibile fare niente.» Mi misi
di nuovo a studiare la carta. «Quella ci porta al numero cinque, vero? Codice di guida Epsilon Omega.
Coordinate... qualsiasi. Tre giorni di viaggio da qui. Connie, potresti...»
«Aldair, con chi diamine stai parlando?»
Sobbalzai e feci girare la mia sedia. Corysia e Te'dchak stavano fermi all'entrata e mi guardavano come
se avessi perso il lume della ragione. Quando vidi l'espressione che era dipinta sui loro volti, scoppiai in
una sonora risata.
«Stavo solo passando un po' di tempo con Connie,» dissi senza dilungarmi in spiegazioni. «Mi ha detto
un mucchio di cose interessanti.»
Corysia sollevò un sopracciglio. Era più che perplessa.
«Faresti molto meglio a non passare il tempo con qualcuno che si chiama Connie,» mi avvertì. Io ghignai
e alzai lo sguardo verso le pareti scintillanti.
«Connie, per favore, vuoi salutare Corysia e Te'dchak?»
« Ciao, Corysia e Te'dchak,» disse lei obbediente. Corysia sbarrò gli occhi. Te'dchak rimase allibito, poi
sorrise con aria di chi aveva capito.
«Avevo ragione,» disse comunque con tono sorpreso, «quella cosa pensa!»
« Non quella cosa,» lo corresse Connie, ed io colsi una nota di disappunto nella sua voce. « Lei, se
non ti dispiace. »
«Na... naturalmente.» I luminosi occhi di Te'dchak si scurirono un po'.
«Ti chiedo scusa.»
«Venite qui, tutti e due;» dissi, invitandoli a raggiungermi in fretta.
«Guardate: Connie ha risolto per noi il nostro problema.» Indicai loro la lista luminosa. «Quel punto, il
quinto, è il posto dove dobbiamo fare rotta. È
chiamato...»
«...Fe'niel!» Te'dchak completò la frase per me con una specie di urlo.«Per tutti gli Dei... Fe'niel!»
Lo guardai. Tremava in tutto il corpo. Folte ciocche di capelli gli erano ricadute sul suo volto chiazzato.
«Che c'è Te'dchak? Conosci quel mondo?»
Lui si girò a guardarmi e vidi che grosse lacrime gli cadevano dagli occhi.
«Conoscerlo? Certo che lo conosco, Aldair. È il mio mondo, che non ho rivisto da più di vent'anni!»
Sia io che i miei compagni ci sentimmo molto confortati dal sapere che era quella la nostra nuova
destinazione, anche se Connie mi mise in guardia dicendomi che avrei anche potuto avere delle brutte
sorprese lì, e persino essere catturato di nuovo. Secondo lei, Fe'niel era sicuro solo in relazione alle
altre nostre possibilità. Non potevo sperare di nascondermi a lungo in quel posto, mi avvertì. Infatti i
mostri conoscevano quel mondo, e tra l'altro la presenza di Te'dchak come prigioniero ne era una prova
più
che evidente.
«Tuttavia loro non arrivano spesso lì,» mi disse lui. «Come tu già sai, abbiamo il particolarissimo dono di
renderci pressoché invisibili, e siamo praticamente inservibili come schiavi.»
Così, nonostante gli avvertimenti di Connie, noi eravamo ansiosi di arrivare lì e, quando quel grande
cerchio verde-blu finalmente troneggiò sulle nostre teste, persino Caldus e Becky-Sue Elainesdotter
salirono sul ponte a vederlo.
Fe'niel era davvero uno spettacolo affascinante e meraviglioso da vedere mentre tuonavamo attraverso
il suo polo nord, e poi urlavamo attraverso pesanti cumuli di nuvole giù fino al suolo di colore verde. Il
cielo era di nuovo di un piacevole e familiare colore blu: davvero una gradita sorpresa, dopo lo squallido
mondo di Caldus.
La grande navicella rimase sospesa sul terreno, tremò, scricchiolò e infine si fermò. Il metallo vecchio e
malridotto emise gemiti e lamenti e, tutt'a un tratto, ci rendemmo conto di un nuovo rumore che non ci
era per niente familiare. Ci volle un lungo momento affinché io realizzassi di cosa si trattava. Silenzio.
L'assenza di rumore e del ronzio dei motori che era una presenza costante sulla navicella.
Signar si mise alla guida di una squadra per perlustrare i dintorni. Fece ritorno in meno di un'ora.
«Non si vede in giro nessuno,» riportò, «ma loro sono stati qui. Ci sono tracce della loro robaccia
dappertutto, e questo sarebbe il posto che sceglierebbero per atterrare se dovessero ritornare.»
«Ce lo aspettavamo,» dissi io. «Non possiamo farci niente.»
Signar roteò all'indietro gli occhi dalla meraviglia.
«Aspetta a dire cosa ti aspettavi, Aldair. Questo è un mondo davvero mirabile, te lo assicuro!»
Lo era e come. Stavo ritto sul ponte esterno della navicella con gli occhi sbarrati, e così tutti gli altri
membri dell'equipaggio; Per la prima volta nella mia vita, provai la stessa sensazione che deve provare
una formica quando se ne sta tra l'erba. Tutt'intorno a noi, al di là della radura dove eravamo atterrati,
c'erano alberi: alberi come non mi ero mai immaginato potessero esistere. I loro rami si allungavano
come a voler raggiungere le nuvole, e i loro tronchi giganteschi erano larghi duecento metri o forse più...
«Aldair!» Corysia mi strinse forte il braccio e si girò a guardarmi. «È
questo,» gridò esterrefatta. «Qui, su questo mondo! È questo il posto dove siamo stati presi Barthius ed
io!»
Rimasi con lo sguardo fisso su di lei.
«Ne sei sicura?»
«Certo che ne sono sicura,» disse lei con impazienza. «Potrei mai dimenticare o confondere un posto
come questo?»
Effettivamente no. Quando riferii a Te'dchak questo fatto, lui guardò Corysia per un lungo momento, poi
distolse lo sguardo e si mise a fissare il terreno con aria accigliata.
«Ci deve essere qualche altra cosa. Anche se non so dire di che si tratta. Noi ci siamo conosciuti sulla
navicella, e non è stato un caso. Di questo sono assolutamente certo. Corysia è già stata qui. Connie ci
ha fatto tornare indietro...»
«Puoi aver ragione,» dissi. «Ci sono parecchie coincidenze e non di poco conto, Te'dchak.»
«No,» disse lui con lentezza, «non sono per niente insignificanti, proprio per niente, Aldair.»
Ancora una volta fui sconvolto dalla malvagità delle cose dell'Uomo. Mi sarei dovuto aspettare ciò che
avevano ideato, ma quelle creature erano una continua sorpresa. Messi davanti ad un'altra possibilità di
riacquistare la loro libertà, più dei tre quarti di quegli stupidi esseri scelsero di starsene rintanati nel
ventre della navicella tra i loro stessi escrementi. Gli altri, individui audaci e avventurosi, misero il naso
fuori del ponte, e poi se ne scapparono terrorizzati tra gli alberi, disperdendosi in tutte le direzioni
possibili e facendo del loro meglio per allontanarsi il più possibile da noi. Con mia grande sorpresa,
Caldus e Becky-Sue mostrarono un po' più di buon senso. Perché, non saprei dirlo.
Te'dchak sembrava conoscere a perfezione il luogo dove ci stavamo dirigendo, perché ci conduceva
abile e veloce per le foreste, sempre più lontano dal punto in cui si trovava la navicella. Per quanto mi
riguardava, io trovavo quello spostamento oltremodo prudente. Per il momento non mi stavo
occupando di dove eravamo diretti o di che cosa avremmo fatto una volta giunti a destinazione. I piani a
lunga scadenza potevano attendere. Ciò di cui avevamo bisogno era solo un posto dove nasconderci e
rifocillarci. Certo, quando avevo appreso che la sfera dorata di Corysia l'aveva portata su Fe'niel, avevo
cominciato a sperare che Te'dchak avesse ragione: che in realtà ci fosse una ragione ben più profonda di
quella che ci potevamo immaginare come giustificazione della nostra presenza lì. Quello non era un
mondo dell'Uomo. E, a sentire Te'dchak, non lo era mai stato. Tuttavia, in tempi remotissimi, i
sopravvissuti della Fortezza dell'Amazzone dalla Terra erano approdati fino a quel mondo. Il che voleva
dire che potevano esserci delle sfere su Fe'niel. La razza di Te'dchak non ne conosceva l'esistenza, ma ciò
non provava in nessun modo che in realtà non ci fossero. Continuavo a ripetermi questo concetto,
sperando con tutto il cuore che potesse essere vero.
Le foreste di Fe'niel non erano il luogo più adatto al crepuscolo, perché
solo pochi, pallidi raggi dorati, riuscivano a farsi strada attraverso il fittissimo fogliame. Così la notte
calava all'improvviso e senza che niente la lasciasse presagire e, in pochi attimi, gli enormi tronchi degli
alberi cominciarono a spandere le loro ombre tutt'intorno a noi. Te'dchak non fu per nulla preoccupato
dal calare delle tenebre. Fe'niel era il suo mondo, e i suoi grandi occhi luminosi sembravano fatti
apposta per adattarsi all'oscurità senza alcun problema. Anche Rhalgorn si sentiva perfettamente a suo
agio. Le foreste sono un porto sicuro per i Signori dei Lauvectii, e lui si deliziava incredibilmente dello
spettacolo che lo circondava.
«Sono certo che tra la tua gente e gli Stygiani ci siano dei legami molto stretti,» fece sapere a Te'dchak.
«Se così non fosse, il Creatore non vi avrebbe assegnato una foresta così splendida per viverci.»
Te'dchak non aveva alcuna risposta da dargli, ma annuì educatamente. In verità, non credevo proprio
che ci fossero probabilità che lui fosse una sorta di cugino di Rhalgorn.
Poco prima che la notte scendesse su di noi, Te'dchak si era fermato, era rimasto perfettamente
immobile per un attimo, poi si era lanciato precipitosamente verso un albero che si trovava a poca
distanza da lui. Lì si fermò
di nuovo e ci fece segno di raggiungerlo. Non riuscivo a capire dove, finché non lo vidi scivolare
agilmente nell'incavo di un'enorme radice che torreggiava su di noi e subito dopo scomparire. Lanciai
uno sguardo alle mie spalle ed ebbi conferma del fatto che stava facendo buio, quindi mi decisi a
seguirlo seguito a ruota da tutti i miei compagni.
Te'dchak sorrideva alla luce ondeggiante di una torcia.
«Questa è una delle città della mia gente,» disse. «Una vecchia città che è stata abbandonata. Penso che
servirà benissimo al nostro scopo.»
Mi guardai intorno. Ci trovavamo in un'ampia stanza di legno, che era una delle pareti dell'albero. Le
pareti erano lisce come le pietre di un fiume, ed erano incise con delle figure geometriche. Un
passaggio, a volta abbellito da sculture, conduceva sulla destra, e Te'dchak ci guidò in quella direzione,
facendoci scendere per delle ripide scale di legno. Corysia si guardava intorno con aria stupitissima.
«Aldair, è tutto di una bellezza indescrivibile,» disse sottovoce. «Questo è proprio il posto dove avevo
immaginato che Te'dchak potesse vivere.»
«Si è davvero splendido,» fui d'accordo io. «Una vista davvero mirabile.»
«Le persone che vivono nelle foreste, non so perché, ma hanno un gusto più delicato di quelle che non ci
vivono,» disse Rhalgorn.
«Sì,» dissi io. «Penso che sia normale che tu la veda così. Eppure dovresti ricordare che, mentre gli
Stygiani vivono effettivamente nelle foreste, non ci costruiscono delle città. E per questa ragione, loro
non costruiscono niente altro. »
Rhalgorn sembrò dispiaciuto.
«Avremmo potuto farlo,» disse con tono indignato, «se solo avessimo voluto, Aldair. Ma non era nostra
intenzione. Ad ogni modo, gli alberi qui sono alquanto più grandi di quelli delle foreste dei Lauvectii.»
«Oh, davvero? Non ci avevo fatto caso.»
«E inoltre,» aggiunse lui, «mentre la gente di Te'dchak, pur essendo chiaramente imparentata con gli
Stygiani, non è per niente attrezzata per combattere e ha bisogno di buoni nascondigli per difendersi,
gli Stygiani, naturalmente, non ne hanno bisogno.»
«Giusto. Ci sono invece popoli che vivono dalle loro parti che hanno bisogno di nascondersi quando gli
Stygiani imperversano con le loro scorrerie. I Venicii, i Coronalli, i Tybionii...»
Rhalgorn si strinse nelle spalle.
«Tutti dobbiamo fare qualcosa, Aldair.»
«Comunque, hai ragione. Se la gente di Fe'niel ha bisogno di un posto dove nascondersi, certo bisogna
dire che hanno scelto bene. Non riesco ad immaginare un rifugio più sicuro per difendersi dai mostri,
o...»
A quel punto gli Dei, come ogni tanto sono propensi a fare, decisero di ridermi in faccia. Avevo appena
finito di pronunciare quelle parole, quando un terribile tuono fece tremare le pareti tutt'intorno a noi.
Afferrai Corysia e la tenni stretta a me. Arrivò un altro tuono. E poi ancora un altro. Era come se
qualcuno o qualcosa lì fuori ci stesse cercando per vendicarsi di noi...
VENTIDUE
Te'dchak urlò e fece dei gesti concitati nella mia direzione. Le sue parole si persero a causa del fragore di
un altro tuono che fece tremare la terra proprio sopra di noi. Presi sulle spalle Corysia e mi affannai a
seguirlo. Da qualche parte, Signar lanciò un secco comando accompagnato da una lunga sfilza di
bestemmie Vikoniane. Te'dchak si portò rapidamente fuori dal sentiero che avevamo percorso e si
lanciò giù per una stradina scoscesa e molto più stretta, praticamente una specie di tunnel scavato nelle
radici che ci portò nelle viscere della terra, ben lontani dall'albero stesso.
Continuammo a seguirlo seguendo l'incerta luce della sua torcia. Dopo numerose curve, persi
completamente il senso dell'orientamento. Potevo ancora sentire il rombo delle esplosioni, ma era
ormai lontano, un tremore distante in un punto non ben precisato della terra. Quando alla fine Te'dchak
si fermò, mi affiancai immediatamente a lui.
«Li abbiamo seminati. Almeno per ora. Per tutti i diavoli come diamine hanno fatto a trovarci qui?
Scopriranno l'entrata e seguiranno le nostre tracce...»
«Non lo faranno.» Te'dchak scosse la testa e rimase in ascolto. «Non credo che scenderanno qui giù.
Aldair. Se ho ragione, non dovrebbero farlo. Loro hanno delle macchine che sentono l'odore di esseri
viventi, o seguono le tracce nei punti dove almeno sono passati.»
«Ha ragione,» si intromise Becky-Sue. «Ve lo posso confermare. Le hanno usate anche con noi.»
«Allora non funzionano tanto bene,» disse Thareesh speranzoso. «Altrimenti non sareste sopravvissuti
così a lungo.»
Becky-Sue si strinse nelle spalle.
«Le tengono appese al braccio e quegli strumenti emettono dei segnali luminosi quando individuano
qualsiasi essere vivente. Ma non penso che riescano davvero a distinguere un uccello da un pesce, per
esempio.»
Mi misi di nuovo in ascolto ma non sentivo niente.
«Penso che tutta la terra che è sopra di noi, ci aiuterà in qualche modo. Non riusciranno ad arrivare
tanto vicini a noi. Te'dchak, dove porta questo tunnel? Se riesci a portarci abbastanza lontano, possiamo
far perdere loro le nostre tracce. Non rimarranno qui sotto all'infinito.»
Te'dchak mi guardò. Io non pensavo veramente ciò che avevo detto, e neanche lui. ojt'Miyer non si
sarebbe arresto tanto facilmente. Mi chiesi come fosse riuscito a rintracciarci su Fe'niel. Forse erano in
grado di seguire la scia delle navicelle. O forse aveva chiamato in suo aiuto delle altre unità per trovarci.
Una volta gli Uomini avevano conosciuto un modo per mettersi in contatto anche da grandi distanze.
Con ogni probabilità anche ojt'Miyer era in grado di fare la stessa cosa. C'erano ancora moltissime cose
di cui noi non eravamo a conoscenza, e la nostra ignoranza poteva esserci fatale.
«Per rispondere alla tua domanda,» disse Te'dchak, «ti dirò che il tunnel può portarci dovunque ci faccia
comodo. Le città sono tutte collegate tra loro, in un modo o nell'altro. Quelle più grandi sono scavate
proprio alle basi degli alberi, ma nel mezzo ci sono anche dei piccoli villaggi. La strada che stiamo
percorrendo ora, Aldair, può condurci in qualsiasi città del mio mondo.»
«Aspetta un momento,» lo interruppi. «Tu non devi portarci dalla tua gente. Loro non possono esserci
di grande aiuto, e sarebbe del tutto inutile metterli in pericolo.»
Negli occhi di Te'dchak si riflessero i bagliori della torcia.
«Io non sono sicuro che noi dobbiamo preoccuparci per la mia gente,»
disse solennemente. «Non ho detto niente su quest'argomento finora Aldair, ma, come tu sai, io sono
capace di fare alcune cose. Posso avvertire la presenza di quelli della mia razza anche da molto, molto
lontano, e non ho sentito assolutamente nulla da quando siamo atterrati su Fe'niel.» Sostenne il mio
sguardo per un lungo minuto. «Non siamo mai stati molti. Ora, non sono per niente sicuro che sia
rimasto qualcuno. Sento dentro di me un vuoto incredibile. Una sensazione che non avevo mai provato
prima, e nel mio stesso mondo.»
Di nuovo, come era già accaduto a bordo della navicella dei mostri, il tempo cominciò a non avere alcun
senso. Intuii che già metà della notte doveva essere trascorsa quando Te'dchak intimò l'alt. Non
avevamo udito nessuna esplosione per un certo periodo di tempo, e questo aveva notevolmente
confortato l'equipaggio. Mi sarebbe piaciuto condividere quel sentimento, ma non fu così. ojt'Miyer non
si sarebbe dato per vinto tanto in fretta. Per ora ci aveva persi, forse, ma ci avrebbe ritrovati. Se un
metodo era fallito, ne avrebbe adottato prontamente un altro, e poi un altro finché non avesse
raggiunto il suo scopo.
E in effetti non trascorse molto tempo prima che ci facesse sapere che non ci aveva affatto dimenticati.
Te'dchak fu il primo a rendersene conto, poi Rhalgorn. Erano passati solo pochi minuti da quando ci
eravamo messi di nuovo in cammino, quando tutti e due si bloccarono all'improvviso. Te'dchak rimase
perfettamente immobile. Le orecchie appuntite di Rhalgorn si rizzarono nervosamente e i suoi occhi
infuocati si strinsero nello sforzo di riuscire a vedere più lontano possibile.
«Non viene da sopra. È qui, in basso. Nelle viscere della terra.»
«Cosa?» Mi portai al suo fianco. «Sono nel tunnel? Ne sei certo?»
«No, non sono nel tunnel.» Te'dchak scosse la testa. «È come dice lui. Sono nel terreno. Da quella parte,
e piuttosto vicini. Venite... presto!»
Senza aggiungere altro, si lanciò in avanti e ci guidò lontano da quella nuova minaccia. Il tunnel
descriveva curve tortuose su se stesso, e scendeva sempre più profondamente nel cuore della terra.
Quando ci fermammo per la seconda volta, udii anch'io qualcosa. Non si trattava di un tuono stavolta.
Era ancora peggio. Una specie di orribile scatto che si ripeteva in continuazione e che faceva saltare i
nervi.
«Ce ne sono due ora. Non più di due,» disse Rhalgorn.
«Dio Grande, due cosa?»
Te'dchak si irrigidì. Le gambe presero a tremargli così come ogni parte del suo minuscolo corpo.
« Gli arrotini! », urlò all'improvviso. «Non... non può essere. Erano tutti morti da più di cent'anni!»
« Arrotini? Te'dchak...»
Lui non rispose. Invece si girò e volò giù per il tunnel, molto più velocemente di quanto io potessi
crederlo capace.
«Rhalgorn,» urlai, «stai con lui. Qualcosa lo ha atterrito al punto da fargli perdere completamente la
testa, ed io non sono sicuro che sappia dove si sta dirigendo.»
Rhalgorn aveva un'aria a dir poco sconvolta.
«Se non lo sa lui, chi può saperlo?»
Ordinai all'equipaggio di seguirlo", mentre io percorrevo il passaggio a ritroso per raggiungere Signar.
Corysia mi chiamò. Io risposi, ma le parole mi morirono in gola. La terra fu scossa da un tremito
devastante, e una parete del tunnel si spaccò in due cadendo rovinosamente al suolo. Terra umida e
pietre cominciarono a piovere su di me. Per poco non soffocai, e cominciai a sputare polvere.
« Aldair: guarda fuori! », ringhiò Signar. Delle mani molto forti mi afferrarono per le spalle e mi
gettarono di lato. Fiamme bluastre uscirono dalle mani del Vikoniano. Sobbalzai e mi scansai. Il legnò
sputò di nuovo fiamme e qualcosa si contorse e si attorcigliò
nell'oscurità. Signar fece fuori di nuovo. La cosa rispose con un lamento di dolore acuto e
sgradevolissimo. Si trascinò per un po' nel tentativo di raggiungerci. Signar assestò un altro colpo
violentissimo sul terreno. Quella cosa orripilante gemette ancora, si ritrasse e poi si mosse
rumorosamente dritto verso di noi.
«Grandi Divinità di Ragnir,» sussurrò Signar, «non riesco a fermare quella dannata cosa in nessun
modo!»
La carne friggeva e crepitava. Noi indietreggiammo. Non riuscivo a trovare la mia arma. Un guerriero che
era al mio fianco mi gettò la sua. Signar lanciò uno dei suoi terribili urli. Qualcosa di umido e giallastro
lanciava colpi alla cieca dal terreno. Io la bruciai, e la cosa mi si attaccò ai piedi, perdendo sangue di
colore scurissimo. Mi vennero i conati di vomito e indietreggiai sconvolto. All'improvviso la cosa scoppiò
sulle nostre teste, riempiendo il tunnel con la sua forma mostruosa. Le lanciai contro ancora una
fiammata poi mi girai e corsi via. Una sola, rapida occhiata ci bastò: davanti a noi non c'erano altro che
denti obliqui e mascelle spalancate. Incontrammo Rhalgorn e gli altri a metà del passaggio, e loro ci
fecero segno di tornare indietro.
«Un altro è penetrato lì,» disse concitato. «Quella strada è impraticabi-le!»
«Sicuro come è sicuro l'inferno, noi non possiamo tornare indietro. Te'dchak... presto! Ci stanno
stringendo nel mezzo.»
Te'dchak non si muoveva. I suoi grandi occhi guardavano dietro di me.
«Te'dchak!» Lo scossi forte. Lui sbatté le palpebre, mi fissò attonito.
«Dannazione a tutto, non possiamo rimanere qui. Che strada possiamo prendere?»
«Ah... da questa parte,» mormorò. «Giù e poi a sinistra.»
Feci un cenno rapidissimo a Rhalgorn, e mi avviai in quella direzione. Avevamo subito afferrato che
Te'dchak ci aveva indirizzati verso il primo passaggio che aveva visto. Non era più in grado di pensare
con lucidità. Avevamo perso la nostra guida, e pressoché tutte le speranze di far perdere ad ojt'Miyer le
nostre tracce.
Bastò un attimo per rendermi conto che avevo purtroppo intuito bene. Thareesh e due arcieri vennero
veloci verso di me e si fermarono.
«Siamo corsi avanti,» disse Thareesh in fretta. «Il passaggio non porta da nessuna parte, Aldair: fa un
solo giro intorno alla strada che abbiamo fatto per arrivare qui!»
«Mi... mi dispiace,» disse Te'dchak che continuava a tremare in tutto il corpo. «Pensavo che...»
«Non preoccuparti. Hai fatto quello che hai potuto. Thareesh: ora le creature ci saranno addosso da tutti
e due i lati. Trattienile come meglio potrai e dacci il tempo!»
«Per fare che?», chiese Thareesh.
«Come faccio io a saperlo? Vai!» Mi girai di nuovo verso Te'dchak.
«Ascolta. Tu devi aiutarci. Non c'è nessun altro in grado di poterlo fare. Cerca di scacciare gli Arrotini
dalla tua mente e pensa a dove ci troviamo. Se tu non...»
«Io so dove ci troviamo,» disse lui con improvvisa calma. «Per quello che può esserti utile. Abbiamo
fatto il giro a ritroso, ed ora ci troviamo esattamente sotto il luogo dove è atterrata la navicella.»
Lo fissai.
«Allora anche ojt'Miyer è lì. Grandi Divinità, anche se riuscissimo a venir fuori di qui, ci andremmo a
buttare direttamente tra le sue braccia!»
«Aldair,» disse lui molto esitante, «c'è... c'è un'altra cosa...»
«Quale? Sbrigati!»
Un urlo altissimo di rabbia e di dolore risuonò in basso nel passaggio alla nostra destra. Ci avevano
stretti in trappola! Non poteva finire così: Corysia apparve dietro l'angolo: il suo volto era pallido e
tirato.
«Aldair, non riescono a fermarli... quelle cose incassano ogni genere di colpo e continuano ad
avanzare!»
«Rimani qui,» le dissi. «Forse un'arma in più potrà essere d'aiuto.»
«Aldair...»
«Te'dchak. Non ho tempo ora.»
«Ascoltami... ti prego! Tu non li fermerai. Gli Arrotini ci hanno tormentato per migliaia d'anni. Non puoi
ucciderli. Io... io pensavo che se ne fossero andati.»
«Infatti l'avevi detto,» intervenni io. Ma Te'dchak non mi lasciò continuare.
«Ti avevo detto anche qualche altra cosa. Io sono capace di sentire in che punto mi trovo quaggiù,
Aldair. Io so dove portano i tunnel, sia che li veda, che non li veda. C'è un altro posto...» Toccò la parete
alle sue spalle;
«...lì. Proprio dietro di noi. Dall'altro lato. C'è qualcosa di molto particolare lì, ma è lì.»
Mi chinai su di lui per essere certo di aver capito bene in tutto quel fracasso.
«Un altro tunnel? Cosa dici?»
«Non so. Forse. Non direi che sia un posto che mi da sensazioni piacevoli...»
«Dannazione, non m'importa un tubo di che sensazioni ti dà!», esplosi io. «Tu...» urlai a un grosso
Vikoniano. «Porta qui delle altre armi... svelto!» Tornai indietro e tirai Te'dchak verso di me. «Stammi
bene a sentire. Non so cosa diavolo ci sia lì, ma ci andremo a dare uno sguardo.»
Premetti il grilletto dell'arma e una sottile linea blu fece aprire lo spesso muro di radici. Il legno sì annerì,
poi andò in fiamme. Il Vikoniano e Stumbacius si fecero avanti per starmi a fianco e si misero all'opera.
In pochi secondi, quell'arma che riusciva a vincere anche muri di ferro, aprì un varco di circa due metri
nel legno.
«Aspettate,» dissi. «C'è qualche altra cosa.» Il fumo svanì ed io mi chinai sul buco annerito. Al centro
c'era una superficie dura e porosa. I peli mi si rizzarono. La Pietra dell'Uomo! I Signori della Terra
avevano coperto il loro mondo della loro robaccia ed eccola anche lì, sotto Fe'niel!
«Passateci in mezzo,» urlai con quanto fiato avevo in gola. «Sbrigatevi!»
Le loro armi fecero fuoco ripetutamente nel buco. La Pietra dell'Uomo brillò, si fuse e scomparve. Io li
lasciai, trovai un arciere e lo mandai a chiamare gli altri. Stumbacius urlò e io tornai di nuovo verso il
buco. Si erano riusciti ad aprire la strada. Mi piegai e passai attraverso il buco che ancora scottava.
Qualsiasi cosa ci fosse lì, non poteva essere peggio di un Arrotino.
Mi gelai, aprii e chiusi gli occhi più volte sotto la fredda luce dell'Uomo. Per un attimo, pensai di essere
di nuovo nelle profondità della Fortezza di Amazzone dove quell'avventura aveva preso il via. La stanza
in cui mi trovavo era una gemella di quella che c'era lì: quella luce particolarissima che non tremava mai,
le pareti bianco-latte che descrivevano folli angoli sulla mia testa. E tutt'intorno a me, disposti in circolo,
c'erano i tesori che cercavo... quegli strani globi d'argento, perle ed oro intessuti insieme in un filato più
sottile di un velo... le inafferrabili sfere dell'Uomo. Mancò poco che ridessi apertamente di me stesso.
Avevo detto la verità
ad ojt'Miyer, perché non avevo assolutamente idea di dove fossero nascoste quelle meraviglie. Ora
quella verità era una bugia. Ed io l'avevo condotto proprio nel luogo dove quelle meraviglie erano
custodite... VENTITRÉ
Sapevo che era lì...
Quando mi girai, vidi un Caldus che non avevo mai visto prima. Il colore aveva abbandonato le sue
guance. I suoi occhi luccicavano di una luce che era un misto di gioia e paura. Io avevo visto le
macchine dell'Uomo. Ma, per quanto meravigliose potessero essere, erano pur sempre delle cose e
niente di più. Tuttavia, Caldus riconobbe le uova d'oro del suo Paradiso. Signar gli correva dietro,
quando mi vide si fermò, e scosse la testa stupito.
«Per gli occhi degli Dei potenti, Aldair... non siamo di nuovo nel punto da dove siamo partiti!»
«Più o meno. Maledizione, Signar, ci hanno chiusi nell'angolo. Non credo che nessuno di noi abbia voglia
di lanciarsi di nuovo tra le stelle... e come altra alternativa ci resta solo quella di fermarci e combattere!»
Signar sembrava sconvolto.
«Non c'è dubbio. Preferisco mille volte combattere piuttosto che salire di nuovo su uno di quei palloni.»
A quel punto Rhalgorn si affiancò a noi.
«Avrai immediatamente l'opportunità di rimangiarti le tue parole, Pelliccia-Grassa. Quegli incubi ci sono
alle costole, e i loro padroni anche!»
«ojt'Miyer?»
Corsi velocemente verso il varco che ci eravamo aperti. Una mezza dozzina di uomini dell'equipaggio
stavano acquattati lì e facevano fuoco in continuazione verso l'interno del buco.
Thareesh si girò a guardarmi.
«The l'ha detto Rhalgorn? I mostri si trovano nel tunnel ora... ma non stanno facendo fuoco contro di
noi!»
«Naturale che no.» Mi resi conto all'istante di ciò che stava accadendo.
«Sono occupati a cercare il passaggio. La stessa cosa che abbiamo fatto noi. Signar!» Mentre parlavo, la
pietra dell'Uomo che si trovava sulle nostre teste tremò e cedette sotto l'inesorabile peso degli Arrotini.
Indietreggiai cercando di appoggiarmi alle pareti. Ecco lì: si era aperto un cerchio della grandezza della
mia testa. Signar se ne accorse e urlò per chiamare rinforzi.
«No...» Gli feci segno di tornare indietro. «È troppo tardi. Dobbiamo tentare la carta delle sfere!»
Ci ritirammo tenendo ben strette le armi in pugno. Il sapore del rame che avevo in bocca stava
diventando sempre più amaro. Potevamo morire lì. Oppure saltare in quei cerchi lattei e sparire in un
attimo in direzione di qualche mondo lontano. La fortuna non ci avrebbe favorito per due volte. Non ci
saremmo mai ritrovati tutti insieme di nuovo.
«Aldair, aspetta...» Corysia mi aveva afferrato il braccio e mi tirava via. Mi liberai dalla sua stretta.
«Non c'è tempo. Stai vicino a me. Se è destino che ci perdiamo di nuovo, saremo almeno insieme.»
«No,» urlò lei. «C'è un'altra possibilità. Vieni... presto!»
La guardai attonito. Rhalgorn urlò e mi scostai con un balzo. Il muro dietro di noi crollò. L'orribile figura
di un Arrotino si mosse pesantemente tra le macerie. Era sporco, ricoperto di polvere, di pietre e aveva
dei pezzi di legno che gli pendevano dalle mascelle. Vacillava sui suoi arti ripugnanti, gridava e si
avvicinava sempre di più facendo dondolare la sua enorme testa a destra e a sinistra.
Fiamme blu venivano lanciate in continuazione per cercare di tirargli via la carne. Ma non c'era nulla da
fare. Si piegava in due, lanciava ululati spaventosi ma poi avanzava di nuovo.
«Non si può fermarlo,» urlò Te'dchak. «Non muore mai!»
«Meglio così,» dissi minaccioso. «Rhalgorn, il muro!»
C'erano sparsi dappertutto cumuli di pietre e di detriti. Rhalgorn e tre arcieri si inginocchiarono e
riempirono il buco di fuoco. Uno dei mostri urlò
e cadde con un tonfo nella stanza. In risposta fischiarono sulle nostre teste numerosissime fiamme blu.
«Indietro,» urlai, cercando di farmi sentire nonostante l'assurdo fracasso.
«Indietro!» Scaricai nel buco tutta la mia arma e corsi dietro a Corysia. Lei mi condusse velocemente
all'interno del cerchio delle sfere. Lì c'era una porta piccola e bassa. Mi abbassai per poterci passare.
Una volta dentro mi bloccai e il sangue mi si gelò nelle vene. «Per gli occhi del Creatore!»
Troneggiava su di me una sfera dorata di grandezza esorbitante, alta sicuramente più di quaranta metri.
E dietro a quella ce n'era un'altra, e poi un'altra ancora. Mi resi conto, in quel soffio di tempo che tempo
non era, che tutti i miei ora e i quando degli altri erano confluiti per dar vita a quel momento.
«Aldair...» Signar mi scosse con violenza. «Dannazione, Aldair, non c'è
tempo per starsene lì a guardare!»
«Cosa?»
Lo guardai e non ero per niente certo di conoscerlo.
«Stanno arrivando.»
Gli occhi di Rhalgorn fiammeggiavano.
«Ora, Aldair!»
«Fai... fai salire l'equipaggio a bordo,» dissi con aria assente.
«Fare cosa?,» chiese Signar infuriato.
Mi girai verso di lui.
«Falli salire a bordo, Signar. Non c'è altro.»
Gli occhi del Vikoniano divennero neri, ma obbedì. Guardai Corysia, poi mi precipitai ad attraversare il
portello arrotondato della navicella. Trovai la ripida scala d'argento che mi portò in un attimo sul ponte.
La liscia sedia di cuoio si inclinò per accogliere la mia persona. Sul pannello davanti a me si accesero
innumerevoli luci. Le conoscevo, come conoscevo tutta la schiera di manopole e di interruttori.
Maneggiavo con dimestichezza i bottoni di avorio disposti in circolo. Lasciai che le mie dita danzassero
tra quella marea di congegni, e non avevo bisogno di vedere quali erano i tasti che toccavano.
«Connie sei lì?»
« Sono qui, Capitano Aldair. Ai tuoi ordini. Il trasferimento è stato com-pletato. Ho abbandonato la
navicella scura. Sono una parte dell'Ahziral'Rhaz. »
Alzai lo sguardo costernato.
«Come... come fai a conoscere quel nome? È il nome che io avevo dato ad un altro vascello. Uno che
veleggia sui mari della Terra.»
« È anche il nome di questa navicella, ora» . Questa fu la sua risposta.
« Perché tu in questo momento l'hai inserito nel codice della mia mente... »
«Io... io cosa? Sì, naturalmente. Pronti a partire, Connie?»
« Prontissimi, Capitano. »
«Aldair!»
Becky-Sue lanciò un urlo alle mie spalle e mi afferrò le mani. Rhalgorn la spinse via. Io mi girai di scatto
per guardarla e lei gridò di nuovo, rafforzando la sua stretta.
«È qui fuori,» biascicò Rhalgorn tra i denti. «Caldus.»
«Beh, che aspetti? Fallo entrare, dannazione!»
«Attento, Aldair...»
Scattai in piedi e guardai fuori dall'enorme finestra di cristallo. Tre mostri di ojt'Miyer giacevano riversi ai
piedi dello stretto portale della nostra stanza. Caldus stava ritto in piedi in mezzo a loro: con la sua arma
bruciava il passaggio, e li spingeva indietro. Riuscivo a sentire gli ululati di rabbia e di dolore dei mostri.
Lui faceva fuoco a ripetizione. Le creature riuscivano ogni tanto a sollevarsi un po' e gli alitavano contro
delle vere e proprie tempeste di vento. Fiamme blu sprizzavano fuori dello scafo.' La navicella tremò
sotto i miei stivali. Chiusi gli occhi sulla scena e mi diressi a tentoni verso la sedia.
«Connie... blocca tutte le entrate.»
«No,» urlò Becky-Sue. «Non puoi abbandonarlo!»
«Devo farlo,» le dissi. «Non ho scelta, Becky-Sue...»
Premetti la mia mano sul cerchio blu-argento. Il mondo intorno a me bruciò senza fiamme, come il
respiro di un Dio. Il tempo si frantumò in bilioni di pezzettini...
Non c'erano stelle. L'aria era fina e fredda e odorava di ferro come dopo un acquazzone. La navicella
emanava l'unica luce che si potesse scorgere tutt'intorno. Si era fermata in una caverna sabbiosa scavata
nella roccia e lanciava la sua ombra cupa su un paesaggio spoglio e desolato. Sollevai una pietra e la
tenni un po' in mano. Era grigia e porosa, vuota e morta come una scoria vulcanica. La lanciai lontano e
la sentii rotolare giù dalla collina.
«Dove pensi che ci troviamo?» mi chiese Corysia. Si avvicinò a me ancora di più: tremava in tutto il
corpo. «È spaventoso non vedere neanche una stella.»
«Connie ci ha spiegato il perché. È difficile capire le parole che lei usa, ma sembra che noi siamo molto
vicini al nulla. Non ci sono stelle perché
ce le siamo lasciate alle spalle.» Sorrisi e guardai Corysia. «Lei dice che pensa all'oscurità come un golfo:
un mare tra due corpi di terra. Ho tentato di vederla anch'io in questo modo, ma con me non funziona.
Questo è un mondo ben più spaventoso di quello che lei descrive.»
Corysia non mi disse nulla a proposito della navicella. Né lo fece nessuno degli altri. Nessuno sentì il
bisogno di chiedermi come facessi a conoscere così bene la navicella, né come fosse possibile che ora
quell'infinità
di luci e di bottoni mi fosse quasi più familiare dell'elsa della mia spada. Anche loro provavano la mia
stessa sensazione. Di essere già stati lì prima: come se fossimo dei fantasmi che ricordavano solo a metà
chi erano stati.
«Sta bene Becky-Sue?», chiesi a Corysia.
«Sta bene come può star bene.» Corysia colse il mio sguardo e intuì cosa mi stava passando per la testa.
«Non c'era davvero nient'altro che tu potessi fare, Aldair.»
«Questo però non lo riporterà di nuovo tra noi.»
«No,» disse lei con tono piatto, «non lo riporterà tra noi. Ma non si può
ormai fare niente per cambiare questa situazione, giusto?»
«No, almeno per ora. Forse avrei potuto aspettare, mandare qualcuno in suo aiuto.»
«...e farci uccidere tutti,» finì lei. «Ti pare che avresti dovuto agire così, Aldair? Se ti trovassi di nuovo in
quella situazione, ti comporteresti così?»
Non risposi, ma mi allontanai da lei e mi misi a guardare in alto, quella completa oscurità.
«Abbiamo fatto tutto ciò per niente, Corysia, o almeno così mi pare. Forse, se non avessi fatto nulla, le
cose non sarebbero andate peggio di così. Il giorno che mi trovai di fronte quel diavolo di ojt'Miyer e
scoprii che sapeva dell'esistenza delle sfere, decisi che l'avrei fermato. Che in qualche modo le avrei
raggiunte prima di lui.»
«E ci sei riuscito,» disse lei forzando un sorriso. «In un certo senso è
stato così.»
«Perfetto,» sbuffai io. «Di quanto: due, o tre minuti? Corysia, se fossimo riusciti a distruggere le sfere, gli
avremmo impedito di raggiungere la Terra per sempre!»
«Ma... lui... lui potrebbe non trovarle mai,» disse lei con aria speranzosa. Le lanciai un'occhiata torva.
«Corysia, c'è un modo di guidare queste navicelle. E noi ce ne siamo lasciati alle spalle altre due. Cosa
pensi che ci farà con quelle?»
Corysia si accigliò pensierosa.
«Non ti sei forse dimenticato qualcosa? Noi già conosciamo il destino di questa navicella. Non può
essere altro che il vascello che apparve sull' Ahzir al'Rhaz sull'Amazzone, e ci salvò dalla cosa del mare.
Così noi tor-neremo sulla Terra, e...»
«Corysia...» La scossi forte afferrandola per le spalle. «Questo lo so. So che è accaduto e che accadrà:
qualsiasi cosa. È impossibile che noi potremo guardare giù dalla navicella e vedere noi stessi in piedi sui
ponti. Tuttavia, so che è così perché sono stato lì. Ma non è tutto qui. Forse noi rive-dremo ancora la
Terra... sì, sembra proprio che sarà così. Ma questo non impedirà ad ojt'Miyer di trovarci anche lì.»
«No,» disse lei dopo un attimo, «non glielo impedirà. Ma non posso credere...»
«... credere che siamo arrivati così lontani per perdere? Perché no, Corysia? Solo perché noi abbiamo
ragione, ed ojt'Miyer no?»
«Sì,» rispose lei con la voce che le si stava rompendo in pianto, «per tutti gli Dei, non è forse questo un
motivo sufficiente?»
«Dovrebbe esserlo,» le dissi. «Ma non lo è. Oramai ho imparato questa verità da molto tempo.»
VENTIQUATTRO
Sono un guerriero di professione, non uno scolaro. La mia breve permanenza all'Università mi aveva
insegnato che ero molto più adatto a maneggiare la spada che la penna. Lì non imparai nulla che mi
potesse risultare utile per risolvere i problemi che mi trovai ad affrontare su quel mondo desolato tra le
stelle. Come è possibile conoscere una cosa ancora prima che accada?
Se una tale cosa è già accaduta - o accadrà - non avevo io altra scelta che recitare la parte che ho
recitato?
E cosa accadrebbe, o cosa sarebbe accaduto, se non lo facessi o non l'avessi fatto?
Le risposte a queste domande diventavano altre domande. Mi lasciavano un dolore ostinato alla nuca,
come quello che ti affligge la mattina dopo che hai bevuto troppa birra d'orzo. Solo che, in questo caso,
non c'era stato niente di piacevole prima del dolore.
Se il destino era sovrano, decisi, avrei lasciato che seguisse il suo corso. Pescai nelle mie tasche una
moneta d'argento rhemiana che avevo sempre portato con me per tutti quegli anni. Su un lato c'era
l'effigie delle spade incrociate della Legione. Sull'altro era raffigurata la testa di Titus Augustus, ultimo
Imperatore di quella terra sfortunata, e zio di Corysia. Testa e avrei assecondato il fato dipingendo il
vecchio Ahzir al'Rhaz sulla prua di quella navicella. Croce, non l'avrei fatto.
Uscì croce.
Così, quando e se fossimo arrivati di nuovo sulla Terra, la nostra navicella non avrebbe avuto dipinta
sulla sua prua l'immagine dell' Ahziral'Rhaz. Anche se avevamo visto chiaramente quell'immagine dai
ponti della nostra navicella. Era meglio lasciare al fato la risoluzione di quel piccolo problema!
Connie cercò di rendersi utile, e non ci riuscì. Ma fu per colpa mia almeno quanto sua.
« Queste navicelle sono diverse da quelle che fanno la spola tra i mon-di,» mi spiegò. « Quelle che
usano ojt'Miyer e i suoi mostri sono delle pro-duzioni tarde, e non delle più importanti dell'Uomo,
costruite dopo cheaveva abbandonato la Terra. »
«So che sono diverse,» le dissi. «Le sfere viaggiano in un altro modo, anche se non sono affatto certo di
quale sia questo modo.»
« Capitano, Aldair,» disse lei pazientemente, « forse sarà meglio nonperdere tempo a discutere
'quale' potrebbe essere questo modo. »
Queste sue parole mi irritarono oltre ogni dire.
«E perché no, Connie? Non sarò un Maestro di Ragionamento, ma non sono neanche una rapa!»
« Mi dispiace. Dammi un definizione di rapa. »
«Lascia stare, dimentica quello che ho detto? Probabilmente hai ragione tu.»
« Il modo più semplice per spiegare questa differenza è che i mezzi ditrasporto dei mostri navigano
attraverso lo spazio: da un punto all'altrocome una nave sul mare. Questa navicella prende invece come
una speciedi scorciatoia, e non è legata alla dimensione spazio-tempo. »
Tentai di non pensare a ciò che aveva detto.
«Connie, adesso ti farò una domanda più pratica, o almeno spero che lo sia. Noi tutti ricordiamo di aver
visto questa navicella sulla Terra. Tu questo lo sai. Presumo che io mi trovassi al suo interno... o che mi ci
sarei tro-vato, insieme a tutti i miei compagni.»
« È chiaramente un paradosso,» disse lei. « Ci sono delle teorie su que-sti... »
«Per favore: non mi interessa sapere quali sono. La mia domanda è più
semplice di quanto tu immagini. Dal momento che questa navicella andrà
sulla Terra, do per scontato che tu conosca la rotta da seguire per arrivarci.»
« No, Capitano, io non la conosco... »
Mi tirai su e la guardai come se mi avesse assestato un tiro mancino.
«Ma, dannazione a tutto!» Diedi un pugno sul bracciolo della sedia con tutta la forza di cui ero capace.
«Tu... tu ci hai portato lì... o ci porterai!»
« Forse l'ho fatto. Ma questo non è ancora successo, Capitano» .
«Allora come ho fatto ad arrivarci? Rispondi a questa mia domanda.»
« Io non sapevo che tu ci fossi arrivato,» disse lei stoicamente. « Ovvia-mente, mi ricorderò la strada.
Quando e se accadrà. »
«Splendido. Così non avrò bisogno di sapere ciò che ora ti sto chiedendo, non ti pare?»
Connie non ebbe alcuna risposta da darmi.
Potrei passare tantissimo tempo ad elencare le meraviglie del nostro vascello dorato. Era
incredibilmente vecchio, eppure sembrava essere nuovo e pulito come nei tempi passati. A bordo c'era
cibo in grandi quantità, e c'erano cose che non avevamo mai provato prima.
Dopo aver imparato quali erano i bottoni giusti da premere - o dopo che ci ricordammo di nuovo quali
erano - una provvista di delizie senza fine era a nostra completa disposizione. Inclusa, fortunatamente,
una degna sostituta della birra chiara e della birra d'orzo. Chiaramente, le cose che mangiavamo e
bevevamo erano vecchie di una cinquantina di secoli e forse più. Eppure avevano un gusto eccellente,
come se fossero fresche, e nessuno di noi si era posto il problema di come ciò potesse essere. Nella
navicella c'erano montate delle armi: delle versioni più grandi e ancora più micidiali di quei tubi che
sputavano fiamme di fuoco bluastre. Con l'aiuto di Connie, quelle armi potevano venir puntate contro
un eventuale nemico con velocità e precisione. Rhalgorn e Thareesh si deliziarono a giocare con quei
giocattoli, e distrussero una gran quantità di cumuli di pietre prima che io gli imponessi di smetterla.
Una sera, dopo cena, Signar-Haldring e Te'dchak mi presero da parte e mi guidarono verso il cuore del
vascello. Non avevo assolutamente idea di come fosse fatto, e loro non avevano intenzione di
anticiparmi niente lungo la strada che dovemmo percorrere per arrivarci. Mi guardai intorno, ma non
vidi niente di particolarmente interessante. C'era una colonna di metallo bianco, spessa come una
quercia di proporzioni ragguardevoli. Incastonato in quella colonna c'era un pannello con dei bottoni.
«Ebbene?» Rivolsi a quei due uno sguardo molto perplesso. «Che fa quest'affare? Ci si può spillare birra
d'orzo o ci si può saltellare sopra?»
«Nessuna delle due cose,» grugnì Signar. «Semplicemente stai lì e guarda, Aldair.»
Detto questo, fece un cenno a Te'dchak che a sua volta si fece avanti e spinse quei bottoni colorati
seguendo un ordine speciale. Un pannello che si trovava nella colonna scivolò lateralmente, benché io
non vedessi nessuna fessura dove potesse essersi ritirato. Dietro a quel pannello c'era una spessa lastra
di cristallo. Mi ci avvicinai e sbirciai dietro incuriosito. All'inizio non c'era proprio niente da vedere: solo
una massa grigiastra e confusa, assolutamente priva di colore. Poi qualcosa si mosse, proprio nell'angolo
del mio occhio. Era qualcosa di fastidioso perché, quando diressi il mio sguardo verso quel punto,
svolazzò lontano, ai margini del mio campo visivo.
È un quadrato, decisi: un quadrato più scuro del vuoto che lo circonda. Solo che non era un quadrato,
perché aveva troppi lati, o forse non ne aveva abbastanza. Mentre stavo lì a guardare, un piano si mosse
in un posto dove non sarebbe potuto arrivare, si annebbiò in una macchia indistinta, si spostò, disegnò
un angolo impossibile, e si capovolse chiudendosi in se stesso. Troppo tardi: sentii che tutta la mia cena
mi saliva alla gola.
«Avreste potuto avvertirmi,» dissi furioso, asciugandomi il sudore freddo dalla faccia. «Non è una
sorpresa tanto piacevole, Signar.»
«Béh, sì...» Signar si strinse nelle spalle e si grattò sotto la pancia. «Ci abbiamo pensato, Aldair. Solo che
non è una cosa tanto semplice da spiegare, se non la si vede con i propri occhi.»
«Un po' meno di comprensione mi sarebbe andata bene lo stesso, te lo assicuro. Per tutti i diavoli, cos'è
quella cosa?»
«In mancanza di un termine più adatto,» si intromise Te'dchak, «è il motore. Il meccanismo che manda
avanti questo vascello.»
Lo fissai e scossi la testa.
«Quello sarebbe un meccanismo? Te'dchak, non assomiglia in nessun particolare a tutti i meccanismi
che ho visto finora. Per prima cosa, non rimane lì sempre.»
«Oh?» Te'dchak sollevò un sopracciglio. «Per una navicella che non sta ferma lì per sempre, mi
sembra proprio il motore giusto, Aldair.»
Naturalmente aveva ragione. Ne ebbi in seguito la conferma da Connie. Il fatto di rivolgermi a lei non fu
in verità un'idea brillante, perché lei tentò
subito di spiegarmi perché un motore in realtà stava o non stava nel posto giusto. Fortunatamente
riuscii ad interromperla prima di saltare un altro pasto.
Così, senza che comparisse mai una stella, né tanto meno il sole, passarono alcuni giorni e alcune notti.
Noi ci leccavamo le ferite, imparavamo qualcosa di più sul nostro vascello, e ci interrogavamo su quello
che sarebbe stato di noi. Questa naturalmente era la cosa che mi preoccupava più di tutte. Quando
eravamo scappati dalle viscere di Fe'niel, qualche ricordo del passato o del futuro mi era venuto in aiuto.
Istintivamente, avevo deciso di trasferirci in un posto più sicuro, lontano da qualsiasi stella. Ora, mi
trovavo nell'impossibilità di fare di più. La mia mente era vuota. Nessuna reminiscenza del passato o del
futuro era venuta in mio aiuto per guidarmi. Con molta calma Connie mi informò che lei sarebbe stata in
grado di portarci quasi in un numero indefinito di altri posti. Tutto ciò che avevo da fare era dirle dove. E
come.
«Sei tu che dovresti saperlo,» protestai io. «L'altra navicella aveva delle destinazioni: perché questa qui
non ce le ha?»
« Sì che ce le ha», disse lei. « Sono qui, ma non riesco ad accederci. Sen-za dubbio tra di loro ci sarà
anche il codice per la Terra. »
A quelle parole balzai in piedi.
«Che cosa vuol dire che non puoi accederci?»
« Esattamente quello che ho detto, Capitano. È stata sistemata una pro-tezione nella memoria di questa
navicella. Io non ho la chiave di letturaper liberarmene. »
«In nome del Creatore, Connie, stai cercando di dirmi che noi non possiamo andare da nessuna
parte?»
« Sì. Temo proprio che sia così. »
«Ma... ma noi siamo arrivati qui! Se siamo riusciti a farlo, dovremmo essere in grado di raggiungere
qualsiasi altra destinazione.»
« Negativo, Capitano. Non so spiegarti il perché. Nessun altro eccetto tepuò spiegare come facevi a
conoscere il funzionamento dei controlli e deimeccanismi di questa navicella, come prima questione. E
poi come haifatto a trasferirmi su quest'altra navicella. »
«Non possiamo andare proprio da nessuna parte?», chiesi di nuovo.
«Siamo bloccati qui?»
« Oh, no, Capitano Aldair. Ci possiamo muovere liberamente attraversotutti i doppi-infiniti fuori del
tempo. Semplicemente siamo impossibilitati araggiungere un'altra destinazione in tempo reale. Almeno
fino a quandonon sarai in grado di rimuovere la protezione. »
All'improvviso mi sentii dolere in tutto il corpo, come se fossi stato percosso ripetutamente con un
bastone.
«Connie,» dissi stancamente, «cosa significa esattamente questo fuori del tempo di cui parli? È forse
qualche posto dove sia desiderabile approdare?»
« Ti ricordi quello che hai visto quando hai guardato nel motore, Capi-tano? »
Deglutii a fatica. «È... sarebbe quello il fuori del tempo?»
« Qualcosa di molto simile. »
«Connie, perché non me lo hai detto prima?»
« E perché avrei dovuto, Capitano? Tu non me lo avevi chiesto. »
«Aldair, puoi venire fuori un minuto? Abbiamo trovato qualcosa che vorremmo farti vedere.»
Sollevai lo sguardo e vidi la figura enorme di Signar che occupava la soglia della porta. Un ghigno di
soddisfazione gli passava da un lato all'altro della faccia e riusciva a contenersi con difficoltà.
«No, grazie lo stesso,» gli dissi. «Il mio stomaco si è appena ripreso dalla tua ultima sorpresa.»
Signar sembrò dispiaciuto.
«Oh, ma non ha niente a che fare con quella roba, Aldair. Alzò una delle sue grosse mani. «Ti giuro che
non si tratta di niente che ti farà star male.»
«Anche Rhalgorn ha a che fare con questa faccenda?»
«Sì, c'è anche lui.»
«E Thareesh?»
«Uhm.»
«Scordatelo.»
«Non vedo proprio come potrei,» sospirò lui. Con due passi poderosi mi raggiunse, mi caricò
gentilmente sulle sue spalle e mi portò fuori della navicella. Gli altri erano tutti riuniti lì. C'era
l'equipaggio al gran completo. Signar mi mise giù e tutti esplosero in un urrà, lanciando in aria le loro
spade e i loro elmi.
«Va bene,» dissi io, «e tutto questo perché?»
«Di qua,» fece Signar, il cui ghigno diventava sempre più largo. «Allora ti piace?»
Seguii l'arco che stava descrivendo il suo braccio e lo vidi. Era un magnifico disegno dell' Ahzir al'Rhaz
con tutte le vele spiegate al vento che fendeva le onde agile e sicuro. Occupava completamente una
delle fiancate della navicella. Io non avevo detto a nessuno del lancio della monetina, neanche a Corysia.
Evidentemente, decisi, era del tutto inutile giocare d'azzardo con gli Dei. Anche quando perdono,
riescono poi ad avere l'ultima mossa.
«È... è un emblema davvero molto bello,» dissi a tutti loro. «Sì, veramente splendido. Vi ringrazio per
quello che avete fatto.»
«Abbiamo pensato che fosse la cosa più giusta da fare,» sibilò Thareesh.
«Ciò che sarà, sarà, Aldair. Lo stemma della nostra nave appartiene anche a questa navicella.»
«Sì,» dissi io, «ovviamente hai ragione. Non è mai saggio combattere contro il fato.»
Rhalgorn bisbigliò all'orecchio di Corysia qualcosa che io dovevo sentire.
«Spero che non abbia già pronto uno dei suoi proverbi per l'occasione. Sarebbe più di quanto riuscirei a
sopportare.»
L'equipaggio scoppiò a ridere, ed io risi con loro.
«Nessun proverbio, per ora. Anche se, vi avverto, ne tirerò fuori uno abbastanza presto. In effetti...»
Non riuscii a finire. In quel preciso momento la voce di Connie tuonò
dalla navicella. « Capitano: due navicelle in spazio reale! Vieni dentro,presto! »
VENTICINQUE
Non ci fu bisogno di chiedere da dove venivano le navicelle. Prima ancora che riuscissi a guadagnare il
ponte e a cadere nella mia sedia, fiamme blu cominciarono ad illuminare il paesaggio.
«Connie,» sbottai, «pensavo che tu mi avessi detto che queste navicelle non potessero andare da
nessuna parte. Per tutti i diavoli, allora come hanno fatto a trovarci?»
« C'è solo una spiegazione, Capitano. Sono riusciti a rimuovere le prote-zioni. »
«E come?»
« Non lo so, Capitano. Ma è chiaro che ci sono riusciti. »
Un tuono scosse la navicella. Le armi di Rhalgorn risposero lanciando a loro volte fiamme dal cielo.
«Andiamocene via di qui, Connie... e in fretta!»
« Destinazione, Capitano? »
«Dannazione a tutto,» urlai con voce roca. «Qualsiasi!»
« Dammi un codice aperto zero-nove-quattro, prego,» disse lei con calma, come se avessimo a
disposizione tutto il tempo che volevamo. Io vibrai colpi sui bottoni d'avorio. Non accadde nulla. Non
c'era nulla... Ammutolito, guardai le mie dita che si spostavano alla cieca da una chiave all'altra, da un
interruttore all'altro, con la velocità e la forza di una lumaca che sta per morire. La mia testa si spostò, si
girò come se fosse immersa nella melassa verso il portello che si trovava sopra di me. In un lasso di
tempo che mi sembrò un anno o anche di più, mi trovai a guardare lo spazio buio e allucinante. Una
linea di fuoco blu crepitò nel cielo alla mia sinistra. Si muoveva alla folle velocità di due o tre centimetri
al giorno, dritto in direzione della navicella. Aprii la bocca per avvertire Connie. Forse il suono salì fino
alla mia gola e cominciò il suo faticosissimo viaggio per superare la barriera dei miei denti.
«Coooooooooooooonnnnnnnnnnnnnniiiiiiiieeeeeeeeee......»
Il fuoco blu ci raggiunse. Fu una scarica violentissima, ed ora si trovava a meno di un metro dalla lastra di
cristallo. Continuava ad avanzare. In un secondo... o in un secolo...
«...eeeee, Grandi Dei, che cosa è successo? Dove siamo?»
Fuori della navicella non c'era nulla. Letteralmente niente. Il vuoto. Solo il vuoto. Niente più di
quell'indistinto grigiore.
« Mi hai dato un codice aperto,» mi spiegò Connie. « Per quanto riguar-da il posto dove ci troviamo,
darti una risposta è un po' più difficile. Nonsiamo da nessuna parte. O forse dappertutto. Una cosa
equivale all'altra. »
Rhalgorn fece irruzione nella stanza, seguito da Signar.
«Ora spiegaci che ci hai fatto!» Disse Rhalgorn infuriato. «Questo non è
un posto decente dove stare, Aldair. Penso che faremmo bene ad andare da qualche altra parte.»
«A stare a sentire Connie, è esattamente lì che siamo.» Alzai lo sguardo verso il soffitto, dove avevo
sempre avuto la sensazione che si trovasse.
«Bene. Ed ora che facciamo? Non possiamo rimanere qui.»
« Se ho capito bene la tua prima domanda, Capitano, tu hai già la rispo-sta pronta. Tu devi riuscire da
eliminare la protezione ed ottenere l'acces-so alle destinazioni in tempo reale. »
«Ma io non so come farlo!», urlai esasperato.
« La tua seconda asserzione è sbagliata. Noi possiamo benissimo starequi. E infatti, così sarà a meno
che... »
«È proprio quello che volevo dire.»
Mi lasciai cadere di nuovo sullo schienale della sedia e chiusi gli occhi. Per tutti i diavoli, che diamine ci
facevo io lì? Io ero un semplice guerriero. Non me ne intendevo affatto di luccicanti sfere dorate che
non vanno da nessuna parte. Io mi intendevo di campi sconfinati e di furiosi combattimenti. Mi
intendevo di vere estati e veri inverni, dove la principale preoccupazione di un guerriero è avere muscoli
forti e una lama affilata. Non sapevo proprio come parlare a delle macchine" femmine che vivono
incastrate nelle pareti.
«Se il nostro mezzo è fatto alla stessa maniera di quelli che ci stanno inseguendo,», dissi, «allora vuol
dire che ojt'Miyer ha imparato come si fa ad arrivare da un posto reale ad un altro. Se lui ci è riuscito, ci
dobbiamo riuscire per forza anche noi.»
Signar si strinse nelle spalle.
«Forse i codici di quelle navicelle non sono bloccati, come dice Connie. Forse solo questa è così...»
Mi alzai e mi misi a fissare un punto nel vuoto.
«Forse. Ma io penso che lei abbia ragione. Ragioniamo: gli Uomini devono aver installato le protezioni su
queste navicelle per un motivo. Quale? L'idea che mi sono fatto io è che stavano ormai perdendo tutte
le loro ultime battaglie con i mostri. Volevano accertarsi che le navicelle non potessero essere usate se
cadevano nelle mani sbagliate. Ma come avranno fatto?»
«Pensavo che fosse esattamente quello che cerchiamo di scoprire,» disse Signar.
«Infatti lo è, Pelliccia-Grassa.» Rhalgorn guardava il Vikoniano con aria di sfida. «Penso di aver capito
dove vuole arrivare. Aldair: a volte tu vedi le cose proprio come uno Stygiano. Appassionato. Tenace...»
«Ah, ah!», se la rise Signar. «Ostinato, stupidamente cocciuto...»
«Finitela e ascoltatemi!», urlai dando un pugno nella parete. « Deve essere così. Un codice o una
parola potrebbero essere andati persi nel corso degli anni. Si tratta in effetti di qualcosa di molto
semplice, eppure... Rhalgorn, porta qui Becky-Sue. Subito!»
«Becky-Sue?»
«Sì. A meno che non mi sbagli, è l'Uomo stesso la chiave per risolvere il problema.» Indicai il posto di
comando. «Una cosa dell'Uomo deve stare seduta lì. Nessun altro.»
Rhalgorn mi guardò.
«Se hai ragione, non si tratta poi di un gran segreto. ojt'Miyer l'ha capito piuttosto in fretta.»
«ojt'Miyer non è un mostro come gli altri. Lui è...»
« Capitano... » Connie tuonò al di là della parete. « Sono qui... gli altri! »
Balzai dalla sedia.
«Non può essere!»
« Ti dico che sono qui, Capitano. In modo o nell'altro sono riusciti a se-guire la nostra rotta. »
Fiamme blu cominciarono a balenare a prua della nostra navicella.
«Dannazione,» gridai, «avevi detto che eravamo fuori della dimensione temporale!»
« È così. Ma non avevo detto che eravamo al sicuro, Capitano. Avevoanche detto che non eravamo da
nessuna parte. »
All'improvviso mi balenò in mente che faceva ben poca differenza morire con o senza un orologio. Ed io
sarei decisamente morto se uno di quei colpi micidiali avesse raggiunto la navicella, perché l'avrebbe
tagliata in due.
«Connie, fai qualcosa,» dissi « Qualsiasi cosa!»
Tutt'a un tratto il mio stomaco si rivoltò e lei ci scagliò da nessun posto a un altro...
Tutto intorno a me galleggiava, ma ciò non sembrava preoccuparegranché l'Aldair che era dentro di me.
Il terrore che mi aveva preso alloraera la traccia di qualcosa che apparteneva a un altro mondo, dove
c'erauna maledetta direzione chiamata su... e un 'altra chiamata giù... Urlai:sconvolto da quell'incubo,
cercavo disperatamente di aggrapparmi a qual-cosa di piatto... mi muovevo lungo il levigato piano della
ragione, mi af-frettavo da un punto all'altro come un'immagine sulla carta, cercavo disfuggire ai demoni
dell'Alto e del Basso...
Click! Ero Aldair ed ero tutto... un 'enorme cosa solida come un univer-so di ferro... Non c'erano parole
come 'spazio' o 'altro' o 'lì'... C'ero soloio... Ero solo, lo sapevo... ma il significato di quella parola mi
sfuggiva...Click! Click!
Un circolo di angoli bizzarri... il quadrato con i lati ricurvi che fluttuavaintorno a me era di un colore che
non avevo mai visto prima... Io parlavocon lui. «Rhalgorn?» Da quella cosa informe che ero, saltavano
fuori pa-role appiccicaticce e lo ricoprivano come una ragnatela. Lui cercava diliberarsene, e poi gettava
quello scuro groviglio filamentoso verso di me.Quando quei fili mi toccarono, io li odorai a lungo e poi li
scagliai lonta-no.
«Penso che sia così, Aldair,» dissero loro. «Non posso esserne certo.Questo non è per niente un posto
decente... spero di non avere un'ariaidiota come quella che hai tu...»
«Dov'è Becky-Sue? L'hai portata?»
Il circolo con gli angoli bizzarri fece cadere delle perle d'argento irte dispine da tutti i lati. Mi trafissero e
mi fecero venire il prurito.
«Sono qui,» disse lei con irritazione. «Aldair, ti prego, ferma tutto ciò.Immediatamente! Non mi piace!»
«Non posso Becky-Sue. Solo tu puoi farlo.»
«Io?», biascicò lei, ed altre perle spinate si sparsero intorno a me.
«Siediti su quella sedia,» disse Connie in tono gelido. «Io ti aiuterò,Becky-Sue.»
«Sedia? Quale sedia?»
«Quella che ti sta cullando, quella blu pallido. La vedi? Pensa moltoattentamente a lei, Becky-Sue. Così
va bene... Tocca i controlli... Io ti aiu-terò...»
«No!» Becky-Sue sussultò terrorizzata e indietreggiò. «Fa freddo, fa co-sì terribilmente freddo!
«No. È solo un'impressione.»
«Non farmelo fare, Connie.»
«Tu devi. Ora... quei bastoncini piumati che sono tutti lunghi e molli...quelli sono i bottoni. Spingili, no...
voglio dire premili con forza, così.»
«Connie, mi fa male!»
«Solo per un attimo. Ora, ora... ecco. Comandami. Destinazione CodiceTerra...»
«Des... des... non ci riesco... sto per cadere... aiutami!»
«Resisti Becky-Sue. Fatti forza, ci sono qui io. Ti aiuterò. Becky-Sue...»
«Destin... azione...»
«...Codice Terra, Becky-Sue...»
«...Codice Terra, Oh, Dio... sono persa!»
Click! Click! Click!
Rhalgorn... di nuovo un volto familiare... pelliccia grigia e orecchie appuntite... Si sforzava di ghignare.
Becky-Sue se ne stava sprofondata nella sedia, con i capelli gialli riversi sul volto.
«Maledizione,» urlai. «Guarda lì!» Corsi verso il portello e vidi il cielo azzurro, un sole luminoso e
familiare. Sotto, La Terra era... «Connie: è il mondo sbagliato. Non è la nostra Terra, no, non lo è
affatto!» Il mio cuore per poco non cessò di battere. Il mondo era sconvolto da vere e proprie tormente.
Il fuoco serpeggiava tra le nuvole scure. Lampi si rincorrevano sul globo.
« È il mondo giusto,» disse Connie. « Siamo solo arrivati un po' in antici-po, Capitano. »
«Becky-Sue...» La afferrai per le spalle e la scossi forte.
« No,» disse Connie, « Ora non ho bisogno di lei... »
Click-CLICK!
« Non è facile, Capitano... non è per niente facile. Io non so... esatta-mente quanto... quanto tempo fa
hai lasciato il tuo mondo... »
CLICK!
« Ah, sì. Guarda sotto di te ora, Capitano Aldair! »
Mi affrettai di nuovo verso il portello, spingendo Rhalgorn da parte. Signar, Corysia e Thareesh si
affollarono sul ponte dietro di noi. Era lo spettacolo più bello che avessi mai visto in vita mia, o che
avessi mai sperato di vedere. A occidente c'era la costa scura di Merkkia Meridionale, e le acque marroni
dell'Amazzone, lievemente increspate dal vento, si andavano a gettare nelle acque blu del Mare delle
Nebbie. Nel mezzo della pianura fangosa c'era una piccola macchia bianca. La nostra navicella si
avvicinava sempre di più al terreno. La macchia bianca diventava sempre più grande, e si distingueva ora
chiaramente che erano le vele dell' Ahzir al'Rhaz, che procedeva ingavonato tra un groviglio di assi e
di alberi.
Lo stomaco mi si strinse, perché sapevo benissimo cosa stava accadendo laggiù. Stavamo combattendo
disperatamente sotto un sole cocente, menavamo colpi con spade e con asce per tagliare le braccia
pallide e scintillanti della cosa del mare che ormai si era arrampicata sul nostro ponte e cercava di
avvolgere tutto lo scafo nei suoi tentacoli per trascinarci nelle profondità
marine con lei. Non mi ponevo più domande impossibili. Potevo vedere l' Ahzir. Se mi fossi dato la
pena di guardare più da vicino, avrei potuto vedere anche me stesso, che alzavo lo sguardo stupito verso
quella straordinaria navicella che era comparsa all'improvviso sopra le nostre teste. Mi girai per chiedere
a Rhalgorn di tenere pronte le armi, per bruciare la cosa del mare e allontanarla dalla nave che si
trovava sotto di noi per mantenere fede alla promessa fatta in passato. Non ebbi bisogno di chiedere. Ci
abbassammo descrivendo dei cerchi nell'aria, e un raggio di fuoco blu balenò verso il basso riducendo le
acque fangose in vapore acqueo, e facendo friggere il mostro che viveva in quel luogo.
Mi ricordavo che, per un momento o poco più, la nostra sfera si era abbassata fino quasi a sfiorare il
mare, fluttuando proprio sull'albero di quell'altro Ahzir. Sapevo quello che allora non avevo potuto
sapere: che Connie stava controllando che quella creatura fosse davvero morta e non potesse
danneggiarci più. Distolsi in fretta lo sguardo dal portello, imitato subito dai miei compagni. Solo Becky-
Sue fu lasciata a fissare quei volti che guardavano verso l'alto del ponte sotto di noi... e che tuttavia
erano ben dietro di lei.
VENTISEI
Se c'era una cosa che avevo imparato nel corso delle mie avventure, è
che un problema lascia rapidamente il passo ad un altro. Così, dopo aver ritrovato la Terra ed aver
salvato i noi stessi di prima dal sicuro disastro, mi trovai ad affrontare il difficile problema di quale
sarebbe stata la prossima mossa da fare.
«Siamo di nuovo al punto di partenza,» dissi ai miei compagni «O, più
letteralmente, siamo arrivati solo qualche mossa più avanti del gioco. Quella nave sta ora seguendo il
suo cammino lungo l'Amazzone. Tra breve raggiungerà il grande muro sul fiume, e noi... e loro,
scopriremo la Fortezza di Amazzone.»
«...Dove fronteggeremo la rivolta di Barthius, e da dove saremo scagliati tra le stelle,» completò
Thareesh. Mi guardò con quei suoi occhi neri come l'agata e si attorcigliò la coda intorno agli stivali. «Io,
Aldair, sono il primo a non essere particolarmente desideroso di andarmi a salutare sulla banchina.
Difficilmente mi sembrerebbe la cosa più adatta da fare.»
«Tutta questa faccenda non ha alcun senso,» borbottò Signar, «ma ho l'impressione che ci stiamo
affannando per niente. Se avessimo incontrato noi stessi già prima - voglio dire, l'ultima volta, quando
eravamo loro -sa-rebbe qualcosa di cui certamente non ci saremmo dimenticati, non ti pare?
Così suppongo che non sia accaduto e che non accadrà di nuovo. Se qualcosa non succede una volta e tu
semplicemente ti ricordi che non è successa a quel modo, perché allora, quando capita di nuovo, o
sembra essere...»
Signar si fermò, si morse la mascella e mi guardò confuso. «Dannazione, non sono nemmeno sicuro di
ciò che dico.»
Rhalgorn scoppiò a ridere e il Vikoniano lo fulminò con un'occhiataccia.
«Io so quello che volevi dire,» gli dissi. «Evidentemente ci sono delle regole in questo gioco che consiste
nel saltare da un tempo all'altro. Comunque, c'è una cosa che mi riguarda.» Feci una pausa per studiare
le loro reazioni. «Se vi ricordate, durante il periodo che trascorremmo alla Fortezza, trovammo il relitto
di questa navicella. Era prigioniera di un groviglio di alberi e di foglie e sembrava incredibilmente
vecchia. Così mi sembra chiaro che atterreremo di nuovo alla Fortezza di Amazzone. Ma perché
atterriamo secoli prima che gli altri noi stessi riescano a risalire il fiume?
Noi non avremmo mai scelto disfare così. Noi ce ne stiamo seduti qui a preoccuparci di come poter
tornare troppo giù dopo essere partiti per le stelle. Non succede - o non è successo - affatto, così!»
I miei compagni sembravano sconcertati. Sapevo a cosa stavano pensando.
«Quindi c'è sia un futuro che un passato di cui noi non conosciamo nulla, giusto?», chiese Corysia. «Non
c'è alcun modo per prevedere se sopravviveremo a questo naufragio, Aldair.»
«No,» dissi io, «non c'è. Possiamo solo aspettare e vedere...»
Connie poté fare ben poco per chiarire la faccenda, ma era fiduciosa che tutto sarebbe andato per il
meglio.
« Siamo apparsi sul tuo vascello a vela proprio al momento giusto, Ca-pitano. In un'ora di un giorno fra
tutti i tempi possibili che ci sono maistati o che mai ci saranno. »
«Sì,» fui d'accordo io, «questa è una navigazione tranquillissima: poi non so cosa accadrà, Connie. Quello
che non mi va giù è la storia del relitto. Sì, c'è proprio qualcosa che non va in quella storia.»
« Per ora non ho alcuna risposta, da darti, Capitano Aldair. »
«E io nemmeno.» Alzai lo sguardo verso il posto dove pensavo si trovasse Connie. «Non c'è motivo di
rimandare la cosa, non pare anche a te?
Vado a dirlo anche agli altri. Vorranno essere messi al corrente.»
« Quanto lontano vuoi spingerti, Capitano? »
«Sei mesi, credo. O forse un anno. Dopo la nostra partenza dalla Fortezza di Amazzone. Dannazione,
vorrei farla finita il più presto possibile, Connie! Dobbiamo distruggere quel rifugio di sfere sotto la
Fortezza. Finché quel posto esiste ancora...»
« Capitano, che differenza fa? ojt'Miyer non ha bisogno delle capsuleora. Ha delle navicelle che può far
andare tranquillamente dove vuole,come d'altra parte sei in grado di fare tu. »
«Lo so,» dissi io con amarezza. «Ma sono alle corda ormai, Connie. Forse anche le navicelle hanno
bisogno di qualcosa per... per aiutarle a raggiungere il tempo e il luogo giusti. Forse la Fortezza è una
sorta di torre di segnalazione, un segnale. Non so... solo che devo provare a fare qualcosa!»
« In seguito penseremo anche a questo,» disse lei con calma. « Sono certache tutto andrà per il
meglio, Capitano. »
Le sue parole non riuscirono assolutamente a tranquillizzarmi. Chiunque avesse inventato e costruito
Connie, aveva voluto che lei parlasse con quella voce calma e un po' melliflua in qualsiasi occasione. Se
ojt'Miyer fosse piombato all'improvviso sul ponte e mi avesse spaccato in due con un'ascia da guerra,
ero sicuro che lei avrebbe riferito i particolari dell'incidente sempre con lo stesso modo tranquillo e
disinteressato. « Sembra chetu sia morto, Capitano Aldair... » Connie era davvero una persona
simpatica, ma alle volte a dir poco sconcertante. Click!
Dalla spessa finestra di quarzo vidi scorrere i giorni e le notti...Click-Click-Click!
Il tempo perse la mia vita nelle sue mani, la strinse fino a ridurla in pol-vere e mi gettò attraverso gli anni
in un battibaleno... Crescevo, combatte-vo gli Stygiani tra gli Eubironi, a Silium incontravo Rheif, il cugino
diRhalgorn, diventavo schiavo dei Nicieiani... veleggiavo sul Mare delleNebbie e poi venivo scagliato tra
le stelle... Lungo il cammino diventavo ilfantasma di me stesso, spiavo quell'altro Aldair che combatteva
sul pontedi Rhemia, e poi ancora fuori le coste di Kenyarsha... Sì, lì c'era ogni re-spiro della mia vita... che
scorreva via così veloce come se nemmeno cifosse mai stato davvero... Click!
Ci lanciamo tutti verso la finestra per guardare giù. In un modo o in un altro, il tempo era passato. La
scura colonna di una tempesta incombeva a nord; prima non c'era. «Connie, sai dirmi quanto siamo
lontani?» Connie attese a rispondermi più a lungo di quanto mi fossi aspettato.
« Non ne sono certa, Capitano. Sembra che ci siano delle... delle irre-golarità. »
Mi accigliai rivolto verso il soffitto. «Per favore, traduci con parole più
semplici.»
« Sì, Capitano. Non sono perfettamente sicura in che periodo noi vera-mente ci troviamo. »
«Interessante, Connie, molto interessante.»
«Béh, comunque, siamo nel dove giusto,» disse Signar. «Quello è il fiume, e dietro quell'ansa, lì, c'è la
strada che porta alla Fortezza. Mi ricordo delle secche insidiose che c'erano in quel posto e...» Signar
spalancò le mascelle. «Per il Respiro del Creatore, cos'è quello?»
« Navicelle, Capitano: sono sotto di noi, ma si stanno sollevando infretta,» si intromise Connie. «
Quattro... sei... nove in tutto. »
Navicelle? Da dove! Accadde in un lampo, prima che riuscissi a raggiungere la finestra. Ci furono subito
addosso, fecero circolo attorno a noi: sfere blu come il colore del cielo, grandi come la nostra.
«Fuoco!», ululò Signar. «Connie, fai qualcosa!»
«No,» dissi io secco. «Aspetta: è troppo tardi per questo.»
«Aldair,» urlò Corysia, «guarda i loro scafi!»
Indicò un punto fuori del portello. Io strizzai gli occhi contro il sole. C'era un cerchio bianco disegnato su
ogni scafo. All'interno del cerchio c'era una carta geografica della Terra, e dietro quella, due mani strette
una era la mano priva di peli di un Uomo, l'altra, la zampa pelosa di una bestia.
«Grandi Dei,» mormorò Signar mentre veniva verso di me, «Che diamine significa?»
«La risposta è semplice,» tagliò corto Rhalgorn, «le cose dell'Uomo hanno stretto un patto con
ojt'Miyer. Cosa c'è di così sorprendente?»
«Non è vero,» sbotto Becky-Sue. «Non avrebbero mai fatto una cosa simile!»
«Hai ragione, sono sicuro,» replicò con fare sdegnoso Rhalgorn. «I padroni non stringono la mano dei
loro schiavi, né lì piazzano nelle loro effigi.»
Mi girai a guardarlo.
«Hai ragione.» Risi mentre gli davo una pacca sulla spalla. «Più di quanto tu non pensi, Rhalgorn!»
Rhalgorn si accigliò.
«Non vedo quale motivo ci sia per divertirsi. Sei fuori di te, Aldair. Non ti riconosco.»
«Oh, ma non è vero. Non vedi...?»
Prima che potessi rispondergli, sei navicelle virarono con una manovra rapidissima e uscirono dal nostro
campo visivo. La loro partenza fece tremare violentemente la nostra navicella e Connie ritenne
opportuno allontanarsi a non so quante centinaia di leghe di distanza in due vertiginosi secondi. Fiamme
blu brillarono nel cielo e caddero appena dietro di noi. All'improvviso il cielo si riempì di navicelle.
Navicelle di tutti i colori immaginabili si spostavano all'impazzata nei cieli da un orizzonte all'altro. Le
navicelle blu erano chiaramente le meno numerose: per ognuna di loro c'erano una dozzina di altri
mezzi rappezzati e malconci con delle strisce bizzarre e multicolori: nere, gialle, rosso sangue, marroni.
Ragnatele di fuoco solcavano il cielo. Tre navicelle blu spruzzarono una specie di matassa aggrovigliata
contro una macchia color ocra che era stata evidentemente schedata come un nemico. Quello si scostò
di lato, si accorse della trappola tesagli dalla quarta navicella, ma era troppo tardi. Non ci fu nessuna
esplosione violenta; semplicemente il cerchio giallo si dissolse prima di un alone e poi scomparve del
tutto.
Connie ci fece fare un altro girotondo nei cieli. Sembrava essere in grado di anticipare le mosse che gli
altri vascelli facevano per tentare di colpirci. Ci rendeva agili come un ago e ci faceva uscire indenni
dall'ammucchiata della battaglia. Sterzando... slittando con destrezza da una parte all'altra...
svolazzando da uno spicchio di cielo a un altro.
Mi resi conto che, quando potevamo, le navicelle blu ci stavano aiutando; ci sorpassavano rapidissime e
attiravano su di loro uno dei nemici, facendo a loro volta fuoco su di lui. A un certo punto Connie scese
in picchiata per passare al di sotto di un paio di sfere e riuscì a stento a portarci in un punto sicuro. Una
delle due continuò a seguire la rotta sbagliata... l'altra descrisse un arco strettissimo e ci venne contro.
Stavo a guardare e urlai qualcosa che nessuno udì. La navicella nera e rosso lacca si avvicinava sempre
più veloce e faceva fuoco a ripetizione. Non aveva nessuna intenzione di virare!
Una navicella blu ci vide: virò per cercare di mettersi tra noi e il nostro nemico. Ma la navicella nera e
rossa era più veloce. Le fiamme lambirono le nostre fiancate, la navicella sembra urlare e descrisse
percorsi iperbolici nei cieli.
« Siamo stati colpiti. » Annunciò Connie con la sua solita calma. « Moltogravemente, Capitano. »
«Per la Vista del Creatore, Connie... questo lo so!»
Il mondo si capovolse. La Terra e il cielo si scambiarono il posto. Becky-Sue lanciò un urlo. Corysia
affondò le unghie nel mio braccio. Io feci in tempo a scambiare una rapida occhiata con Rhalgorn al
chiarore di quella luce tremolante. Poi lui mi rivolse un ghigno ampio e idiota. Se fossi uscito vivo da
tutto ciò, gli avrei chiesto cosa ci trovava di così divertente... Lo stomaco mi salì alla gola.
Click-Click-Click!
Nero-bianco-nero-bianco-nero... Stavamo scendendo in picchiata eConnie ci stava spostando in
continuazione e con mosse repentine fuori edentro il tempo. In qualche recesso della mia mente mi
domandai perché,per tutti i diavoli, lo stesse facendo... Non avevamo già abbastanza pro-blemi in quel
tempo?
La navicella colpì qualcosa, rimbalzò, fu scossa da tremiti, e alla fine si fermò. Mi tirai su a sedere, aprii e
chiusi gli occhi più volte. Guardai i miei compagni. L'aria era pesante e c'era un forte odore di ferro misto
a quello del rame.
«Connie, ce l'hai fatta,» urlai, «ed è praticamente un miracolo che noi...»
« Capitano, » mi interruppe, « non c'è tempo per parlare. Il miracolo dicui parli non durerà per
sempre. Ho rallentato il tempo per farvi salvare:siamo indietro di uno o due secoli rispetto al tempo in cui
ci trovavamo.La navicella sta implodendo rapidamente, mentre noi risaliamo il corsodegli anni... tutto
accadrà in meno di un secondo, anche se voi non ve neaccorgerete. »
«Connie,» sbottai, «un secolo prima! Grandi Dei, noi non possiamo stare qui!»
« Voi non siete qui... io sono qui. Andate via... presto. Andate via, Capi-tano... Non posso fermarla! »
Ci guardammo l'un l'altro per un breve attimo, poi ci lanciammo per la stretta rampa di scale. Signar urlò
con quanto fiato aveva in gola e raccolse dietro di lui tutto l'equipaggio. Poi ci trovammo tutti a terra a
correre: solo che non correvamo affatto. Guardai Signar. Stava nuotando nella melassa... trascinando
una bracciata dietro l'altra come se fosse agonizzante... mi girai indietro per guardare la navicella... il
movimento era continuo... fummo fatti prigionieri dalla pesante melma del tempo della navicella... ci
trascinò indietro... indietro negli anni...
Poi, all'improvviso, fui libero: mi affannavo sul terreno umido e morbido, e respiravo con lentezza la
calda aria tropicale. Mi girai ancora per guardare la navicella. C'era una macchia incolore. La navicella
giaceva lì, accartocciata su se stessa. Tutt'intorno a lei cresceva una vegetazione aggrovigliata fatta di
vigne e alberi antichissimi. Era come se avessi già visto quella scena, quando avevamo risalito
l'Amazzone e avevamo trovato la Fortezza. Era chiaro che era rimasta lì per secoli.
«Addio, Connie,» dissi tra me e me. «Non ti dimenticherò tanto in fretta.»
VENTISETTE
Ci spostammo velocemente da quel posto e non ci guardammo più indietro. Essere sballottati dal
proprio passato al proprio futuro è una cosa che lascia estremamente sconcertati. Io per primo pensavo
che fossimo fatti per assistere al passare degli anni con un ritmo molto più regolare: un pezzetto alla
volta.
Ci incamminammo nel pomeriggio caldo ed afoso e imboccammo il sentiero che ci era già familiare e che
portava alla Fortezza di Amazzone. Signar mandò i suoi esploratori in avanscoperta, perché, anche se le
navicelle blu che si erano alzate in volo da quel luogo ci erano sembrate amiche, non potevamo essere
certi di chi ci saremmo trovati di fronte.
«...o quando,» come prontamente puntualizzò Rhalgorn. «È una cosa davvero indecente, Aldair, non
sapere mai quale compleanno ti sei lasciato alle spalle e quale sarà il prossimo.»
«Abbiamo già passato tutto ciò,» dissi. «Non fa molta differenza venire scagliati mille anni avanti o un
milione indietro, Rhalgorn. Non ha niente a che fare con i compleanni. Ad ogni modo, non dobbiamo
essere molto lontani da un tempo che troveremo abbastanza familiare. Un mese dopo la nostra
partenza dalla Fortezza, o forse un anno. Non più di questo.»
Rhalgorn ammiccò con i suoi occhi rosso scuro.
«Naturalmente,» disse con tono seccato. «È com'è che non mi ricordo di navicelle blu con quegli
emblemi così particolari dipinti sui loro scafi... o di battaglie combattute nei cieli con altre navicelle
multicolori?»
«Non ho detto che non è possibile che si tratti di più di un anno. Potreb-be anche essere.»
Rhalgorn si blocco e mi guardò.
«Hai dimenticato quello che ci ha detto Connie? Ci ha portati indietro nel tempo per farci salvare. Ho
l'impressione che ci abbia portato un bel po' più indietro di quanto lei stessa non avesse immaginato, e
che ci abbia lasciato lì. Quelle erano le navicelle dell'Uomo che si combattevano tra di loro, Aldair. Molto
tempo prima che tu ed io fossimo creati. Non c'è nessun'altra spiegazione logica a ciò che abbiamo
visto.»
«No. Connie sapeva ciò che stava facendo. Non credo che quello che hai detto sia vero.»
«Bene.» Si strinse nelle spalle. «Sarò molto contento di scoprire che mi sono sbagliato.»
Qualche minuto dopo uscimmo fuori dal folto della foresta e li vedemmo. Il cuore per poco non cessò di
battere a quella vista. Allora Rhalgorn aveva ragione ed io mi sbagliavo. Le tre figure che ci stavano
davanti erano delle cose dell'Uomo, non appartenevano a nessuna delle nostre razze!
Ci fermammo e rimanemmo a squadrarci incuriositi attraverso la piccola radura che ci separava. Gli
Uomini erano vestiti con degli abiti a macchie verdi, dello stesso colore della giungla. Avevano delle armi
allacciate alle cinture, ma non accennarono a nessun movimento per prenderle. Io feci un passo avanti.
«Chi siete, Uomini, e da dove venite?»
Uno, il più alto di loro, mi guardò e rise.
«Potrei fare a te la stessa domanda. Non ti ho mai visto prima d'ora.»
Una risposta davvero particolare, decisi.
«Siete venuti per unirvi a noi?», chiese. «Se è così, siete i benvenuti.»
« Unirci a voi? Grandi Dei, questa è un'offerta davvero strana da parte di un Uomo!»
Il sorriso del tipo svanì. Si girò verso i suoi compagni, poi si fermò e si guardò alle spalle. Un altro Uomo
comparve da un rifugio nascosto tra gli alberi e si diresse verso di me. Era alto, molto magro e con i
capelli completamente bianchi. Gli occhi blu chiari e la pelle rugosa indicavano che era molto avanti
negli anni. Si fermò a pochi passi da me e sorrise.
«Conosco quest'individuo, Morgan, anche se lui non si ricorda di me.»
Tese la sua mano verso di me. «È passato molto tempo, Aldair... almeno per me.»
Io lo fissai allibito. C'era qualcosa che mi era familiare in lui, ma non riuscivo ad afferrare cosa. Gli
Uomini si assomigliano tutti moltissimo ed è
difficile distinguerne uno dall'altro. Certamente, io non potevo conoscere nessun Uomo sulla Terra,
perché erano scomparsi prima che io venissi al mondo.
«Aldair,» ripeté lui, «sono cambiato così tanto? Davvero?»
In quel preciso istante Becky-Sue lanciò un urlo, mi spinse lontano e si gettò tra le sue braccia.
«Caldus!» urlò, nascondendo le sue lacrime nell'incavo della sua spalla.
«Buon Dio, sei pronto tu!»
Io feci qualche passo indietro, molto scosso... perché in effetti era davvero Caldus, l'Uomo che avevamo
dato per morto sotto Fe'niel non più di una settimana prima! Lui accarezzò Becky-Sue con dolcezza e i
suoi vecchi occhi brillarono di gioia e di dolore insieme. Io distolsi lo sguardo, perché
non era bello stare a guardare quello che in quel momento succedeva tra quei due. Si erano ritrovati.
Ma il tempo aveva scavato un fosso profondissimo tra loro. Non vedevo due amanti che si riunivano.
Vedevo un vecchio che teneva abbracciata una bambina.
Ci trovavamo su un'ampia terrazza, scavata nelle poderose pareti della Fortezza di Amazzone. Quando
ero partito da quel posto, la giungla aveva quasi soffocato la sua superficie con la crescita di cinquanta
secoli e più. Ora le cicatrici della battaglia avevano bruciato ogni cosa vivente per miglia e miglia
tutt'intorno, e avevano eliminato i primi tre livelli della Fortezza stessa. Caldus sorseggiava la sua birra e
di tanto in tanto guardava fuori.
«È una lotta continua per poter sopravvivere, Aldair. Qualche volta riusciamo a colpirli, e li danneggiamo
anche seriamente. Ma il costo che paghiamo è comunque molto alto, e un giorno o l'altro la
spunteranno. Ci sono rimaste oramai poche navicelle: venti forse, mentre loro ne hanno centinaia. Loro
possono permettersi di perderne qualcuna, mentre per noi ogni perdita è un vero e proprio disastro.»
«Non si può fare in nessun altro modo?», gli chiesi. «Catturare le loro navicelle quando atterrano, o
bloccarle nel luogo di partenza?»
Caldus scosse la testa.
«Non ne abbiamo un numero sufficiente per adottare una tattica simile, Aldair. Ci eliminerebbero in
breve tempo, e non avremmo ottenuto nulla.»
«Voi avete fatto ottime cose finora, a quanto vedo.»
«Siamo qui, e siamo ancora vivi.» Mise un pugno nell'altro, e i suoi occhi stanchi brillarono di un lampo
di rabbia e di fierezza come quelli di un ragazzo. «Loro sanno che gli Uomini e le Bestie sono ancora
alleati per combatterli, ed è già qualcosa, Aldair. Sì, è già qualcosa!»
In verità, questo non assomigliava in nulla al Caldus che avevo conosciuto un tempo. Il lumacone pallido
e spaventato che si era sempre nascosto ed aveva accettato la schiavitù come il male minore, ora urlava
vendetta contro i suoi nemici. Era stato rafforzato e provato dagli anni, e ora era di nuovo un vero
Signore della Terra.
Ad ogni modo, Caldus sarebbe rifuggito con piacere da quei titolo e sarebbe stato capace di dirigere
tutta la sua rabbia contro chi avesse osato tirarlo fuori dal passato. Le due mani strette sul suo blasone
rispecchiavano fedelmente il piccolo mondo all'interno della Fortezza di Amazzone. Il Grande Vikoniano,
Nicieiani ricoperti di scaglie verdi e molti della mia stessa razza uniti in libertà e su un piano di completa
uguaglianza con l'Uomo.
In verità era veramente sorprendente andare in giro per la Fortezza e chiacchierare con quelli che erano
venuti a combattere lì. Appartenevano a una razza diversa da tutte quelle che mi era capitato di
conoscere nel corso delle mie peregrinazioni intorno al mondo. C'era qualcosa nei loro occhi e li
distingueva da tutti gli altri: da quelli che non conoscevano la verità sulla loro eredità. Molti avevano
trascorso lì la maggior parte della loro vita, combattendo fianco a fianco con l'Uomo. Guardavano alle
cose dell'Uomo con un atteggiamento diverso, perché li avevano già conosciuti in veste di amici e
compagni di lotta. E, a loro volta, gli Uomini consideravano alla stessa maniera le Bestie della Terra.
Questa era naturalmente un'ottima cosa, ed ero orgoglioso di esserne testimone. Eppure, ci volle un po'
di tempo per farmici abituare. Sia per me che per i membri del mio equipaggio che avevano visto l'altra
faccia della medaglia, non era una cosa tanto facile da dirigere. In un modo o nell'altro, non potevamo
fare a meno di provare risentimento verso quel quadretto di pace e fratellanza. Secondo il nostro modo
di ragionare, non era passato più di un mese da quando eravamo partiti da quel posto. Non riuscivamo a
farci una ragione del fatto di essere volati attraverso il tempo come una pietra lanciata su uno stagno... e
che invece per gli altri che vivevano lì
fossero passati cinquant'anni e più. In verità, quello non era per niente il nostro mondo. Era il loro. Noi
avevamo avuto una parte nella sua costruzione, ma era difficile dire quale. Ci sentivamo stranieri nelle
nostre stesse case.
Non fu un'impresa facile arrivare a conoscere la gente della Fortezza di Amazzone. Erano abbastanza
socievoli e desiderosi di fare la nostra conoscenza, ma ciò non voleva dire che ci accettassero. Con
nostra grande sorpresa apprendemmo che non ci vedevano come esseri veri, in carne e ossa come loro,
perché per loro eravamo degli eroi, delle leggende tornate a vivere. Caldus aveva raccontato la storia
delle nostre avventure su questo e su altri mondi, e non c'era neanche un bambino nella Fortezza che
non conoscesse i nomi di Aldair, Rhalgorn e degli altri. Così, mentre noi incontravamo un bel po' di
problemi ad abituarci a quel popolo, per loro era un compito ancora più arduo. Pochi si sarebbero sentiti
a loro agio a dividere un boccale di birra con un Mito. Caldus intuì il mio sconforto.
«Questo è il prezzo che pagano gli eroi,» disse trattenendo a stento un sorriso. «Prendiamo molto
seriamente le nostre leggende, da queste parti.»
«Sì,» dissi io un po' seccato. «È facile da dire se non sei tu uno di loro. Mi sento più un fenomeno da
baraccone che un eroe, Caldus. I bambini mi ridono dietro. I guerrieri hanno paura di parlarmi, hanno
paura che in un modo o nell'altro possano offendermi. Ma io non mi offendo così facilmente, amico mio.
E non sono certo una statua nel parco.»
«Non ancora, almeno.» Caldus rise e mi abbracciò affettuosamente.
«Passerà. Molto presto saranno tutti occupati a combattere e avranno poco tempo per adorare il dio
Aldair.» Poi il suo volto si fece serio e i suoi occhi blu di Uomo si fissarono su di me. «Non risentirti di ciò
che sto per dirti, è
solo un'idea che mi sono fatto; ma non mi sembra tanto cattiva. Il tuo arrivo ha ridato loro la speranza, e
proprio in un momento in cui avevamo disperatamente bisogno di aggrapparci ad una speranza.
Neanch'io sono veramente certo di non credere alle storie che sento.»
«Credere a quali storie?»
Fissò lo sguardo nell'oscurità.
«Che il tuo ritorno ci porterà fortuna. Che... che tu sei quello che stavamo aspettando.»
«Via, smettila ora,» protestai, e mi scrollai di dosso quella storia con una risata.
«No.» Alzò in alto una mano. «Io sono vecchio, Aldair. Ma non ho perso la ragione.» Mi guardò e sorrise.
«Quando tu mi hai conosciuto, io non credevo in niente. Ero un completo idiota come solo un Uomo può
esserlo, credo, e chiamarmi così è un eufemismo. Pensavo di sapere tutto quello che c'era da sapere sul
nostro rifugio. In verità, non sapevo proprio nulla. La paura era il mio Dio, e la mia fede era una bugia
enorme e mostruosa.»
«Eri nato con quelle convinzioni,» gli ricordai. «Non ci potevi fare nulla e non devi fartene una colpa.»
Si accigliò e scosse la testa.
«Tutte le creature sono nate con delle convinzioni. Questo non vuol dire però che debbano rimanerci
ancorate per tutta la loro vita.» Si fermò e si morse il labbro pensieroso. «Per te non è stato così, Aldair.
Tu hai vinto l'ignoranza del mondo intero.»
Fui costretto a ridere di nuovo.
«Vieni, Caldus, e non cominciare anche tu a fare di me una statua. Tu conosci la mia storia bene
quanto me. Sono stato coinvolto in questa ricerca proprio come te: non mi sorprenderebbe che fosse
stato così per tutti quelli che vengono definiti eroi. Una persona viene lanciata come un truciolo sulla
corrente e va dove la corrente lo porta. È solo un'impressione il fatto che lei sappia ciò che sta facendo.»
Gli occhi di Caldus si illuminarono.
«Ah; non è questo il punto, giusto? Chi lancia il truciolo in quella corrente e lo mette sulla retta via?
Credo in un tipo di Creatore diverso da quello in cui credevo nel nostro Rifugio. Io non credo che Lui
rivolga verso le sue creature un occhio cieco.»
Rimasi a guardare quella cosa dell'Uomo per un lungo momento. Non lo conoscevo più, o meglio non lo
riconoscevo più.
«Che diamine mi stai dicendo Caldus! Io non so neanche dove tutto ciò
mi porterà.»
«Ti porterà dove sei già stato,» disse lui con calma. «Tu sei stato aiutato lungo il tuo percorso, e sei stato
tu stesso a dirmelo. La creatura che hai incontrato sotto Xandropolis. Quella con gli occhi simili a semi di
zucca.»
«Sì, è vero: questo mi è successo..»
«E non pensi che queste forze abbiano ancora una parte nella partita che stai portando avanti?»
«In verità,» gli dissi, «non ne sono più così sicuro. E come potrei esserlo? Dove mi hanno realmente
portato quelle forze? Il mondo era incatenato alla storia dell'Uomo quando ho iniziato. Io ho spezzato
quelle catene e ho riportato alla luce la verità. E a che scopo in fin dei conti? Sotto parecchi punti di vista
non era un mondo poi così cattivo. Non più crudele e retrogrado di tanti altri, immagino. Ma che cos'è
ora? È stata la mia intrusione che ha fatto raggiungere un orrore più grande di quello che gli Uomini o
le Bestie fossero ancora riusciti a creare.» Mi alzai e mi misi davanti a lui.
«Stai di fronte al leggendario Aldair, Caldus. L'eroe che ha aperto ad ojt'Miyer le porte della Terra!»
Caldus si passò una mano sul volto ricoperto di rughe.
«Tu hai abbandonato gli Dei, Aldair, e questa non è una buona cosa. Fortunatamente non credo che loro
abbiano abbandonato te.»
«Perfetto,» dissi io con amarezza. «Mi fa piacere sentirlo. Spero che anche ojt'Miyer abbia sentito
questa notizia...»
VENTOTTO
La storia di Caldus e di come era arrivato alla Fortezza di Amazzone è
una cronaca a sé, ed io qui posso solo cercare di darne un'idea. Copre un periodo di cinquanta lunghi
anni ed una saga di audaci avventure come tutte quelle che si rispettino. Caldus è molto riluttante ad
apparire un eroe agli occhi degli altri, ma merita ampiamente quest'appellativo. Dopo che l'avevamo
dato per spacciato nelle viscere di Fe'niel, riuscì a sfuggire alla furia dei mostri e visse per circa sei mesi
in quei tunnel, sempre a stretto contatto con gli Arrotini e sempre sul punto di morire di fame. Alla fine
riuscì di nuovo a farsi strada verso la superficie, e trovò le altre cose dell'Uomo che erano fuggite dalla
navicella appena eravamo atterrati, o meglio, ciò che ne rimaneva, perché molti di loro si erano fatti
catturare di nuovo.
Il primo anno che li liberò dalla schiavitù pensarono che fosse pazzo. Il secondo anno riuscì a far tornare
in loro dei sentimenti e il coraggio. E il terzo anno li condusse all'attacco di una navicella dei mostri e
massacrò
tutti quelli che si trovavano a bordo. Fu l'inizio dei nuovi Signori della Terra... Caldus sapeva di non poter
combattere ojt'Miyer con quelle imbarcazioni più lente che navigavano tra i mondi. ojt'Miyer stesso
aveva ora due di quei vascelli senza tempo, e l'unica navicella di Caldus non poteva certo competere da
sola contro tutte quelle di ojt'Miyer.
La ragione gli suggerì che, se un nascondiglio di sfere dorate si trovava sotto l'antico luogo di atterraggio
a Fe'niel, altri se ne dovevano trovare su altri mondi. ojt'Miyer, naturalmente, fece anche lui
rapidamente lo stesso ragionamento. Tra loro iniziò una gara per trovare i preziosi vascelli, una gara che
Caldus sapeva non sarebbe mai stato in grado di vincere. I mostri avevano armi e navicelle a volontà. Lui
aveva solo una navicella e pochi Uomini male addestrati.
Tuttavia Caldus non rimase a mani vuote. Dopo dieci lunghi anni di battaglie su una dozzina di mondi
differenti, riuscì a mettere insieme una formidabile flotta di navicelle e un numeroso esercito di
fedelissimi. I mostri erano comunque sempre più forti e numerosi di lui. Alla fine lo cacciarono da tutti i
ventisette mondi. Caldus non aveva più nessun posto dove andare. Partì con la sua gente per la Terra, la
sua antica patria. Non si era mai riuscito a perdonare per quel che aveva fatto, anche se per me era più
che chiaro che ojt'Miyer non aveva seguito le sue tracce, ma le mie. ojt'Miyer aveva cercato
affannosamente e per lungo tempo la chiave d'accesso alla Terra. Lì si potevano catturare schiavi a
volontà e, soprattutto, lì c'ero io. Diciassette anni dopo l'arrivo di Caldus, ojt'Miyer apparve nei cieli
della Fortezza di Amazzone. E da quel giorno fino ad ora, le navicelle blu avevano avuto sempre un bel
daffare.
«Sono stato io a portare la distruzione qui,» disse Caldus con grande calma. «Sono io che ho reso schiava
la Terra, e ora non c'è più niente da fare!»
«Ascolta,» gli dissi, «Questa è la mia storia, ricordi? Se tu non mi permetti di addossarmi la colpa,
come potrai addossartela tu? Perché non diciamo le cose come stanno, e non diamo anche ad ojt'Miyer
la sua parte?
Dio sa se la merita!»
Caldus non avrebbe accettato nulla di tutto ciò. Gli anni avevano affaticato incredibilmente le sue spalle,
e l'amarezza che si portava nel cuore non gli avrebbe permesso di darsi pace. Nella sua mente aveva
tradito il mondo dei suoi padri ed arrecato ancora più dolore alle Bestie che ora vivevano in quel mondo.
In verità, credo che avesse ragione. Avevamo giocato tutti e due una partita che non portava a nulla.
«Caldus mi ha detto di non disprezzare gli Dei,» dissi a Corysia, «eppure lui stesso ha abbandonato tutte
le speranze.»
«Forse,» disse lei. «Anche se penso che lui creda davvero che tu abbia portato una nuova speranza
nella Fortezza. Molte persone con cui ho parlato pensano che sia vero.»
Risi forte.
«Il fatto è che Caldus vuole che loro ci credano, cara Corysia. È alle corde ormai. Parlare a dei guerrieri
che in ogni nuovo attacco dei mostri perdono altri amici: cosa vuoi che ti dicano? Oppure che hanno
visto traspor-tare i loro bambini nelle navicelle degli schiavi dalla Gaullia o da Niciea. Loro ti daranno
sempre una versione diversa dei fatti. Questa è una battaglia perduta, amore mio. È stata perdente fin
dall'inizio. Caldus lo sa meglio di chiunque altro.»
Corysia si guardò pensierosa le mani.
«E tu Aldair, tu cosa faresti al suo posto?»
«La stessa cosa che sta facendo lui, ovviamente,» le risposi senza pensarci su neanche un attimo.
«Continuerei a combattere fino alla fine. Cosa altro c'è da fare?»
«Qualcosa che Caldus ha dimenticato,» disse lei serenissima. «Qualcosa che non mi aspettavo avresti
dimenticato anche tu. Pensare di vincere, per esempio.»
«Hai ragione. Anche se è più facile a dirsi che a farsi.»
«Béh, certo Aldair,» disse lei con aria assente. «Sono sicura che sia così. Tu sei un guerriero e io sono
solo una femmina. Se tu dici che siamo perduti...»
«Non ho detto esattamente così. »
«...Se tu dici che ormai tutto è perso, che ojt'Miyer alla fine l'avrà vinta su tutti noi, io pure mi convinco
che sarà così.»
Guardai l'espressione tranquilla del suo volto. Era stata un'ottima imitazione del mio modo di parlare ed
io non potei fare a meno di ridere forte.
«Solo una povera femmina, hai detto, vero? Per la Vista del Creatore, Corysia, il sangue di Rhemia scorre
abbondante nelle tue vene, questa è la verità. Tu sì che saresti stata un'ottima Imperatrice. Hai ereditato
tutta l'astuzia e l'intelligenza di tuo zio Augustus!»
«Mi sarebbe piaciuto,» disse con aria altezzosa, «se non fossi stata rapita da un barbaro.»
«Bisogna stare attenti a quei barbari. Hanno buon gusto e prediligono le fanciulle belle e nobili.»
«Questo è vero.» Sorrise lei. «E se poi non gli dai retta, si intestardiscono ancora di più.»
«Almeno per uno di loro, questo è sicuro,» le dissi.
Ci trovavamo alla Fortezza da non più di tre giorni, quando ojt'Miyer venne di nuovo ad attaccarci. Capii
subito che non si trattava di schermaglie ordinarie - già prima aveva impegnato tutte le sue navicelle -
ma in quest'attacco ce n'erano ancora di più che nell'ultimo.
«È ciò che temevamo,» mi disse Caldus cupo in volto, «Stavolta ojt'Miyer ha intenzione di far sbarcare le
sue truppe, e le sue macchine da terra. Ci ha provato almeno un'altra mezza dozzina di volte nel corso di
questi ultimi anni, ma siamo sempre stati abbastanza forti da respingerlo. Penso proprio che questa
volta abbia deciso di farla finita.»
«Può farcela?»
Caldus mi guardò per un attimo e poi si precipitò nei sotterranei per incontrarsi con i suoi comandanti.
Pochi momenti più tardi le spesse pareti furono scosse e cominciarono a tremare sotto i colpi di
ojt'Miyer. Campane d'allarme suonarono tutt'intorno alla Fortezza. Soldati armati e provvisti di
armature mi sciamarono a fianco e andarono a raggiungere i loro posti. Alcuni erano addetti alle grandi
armi fornite di più barili che si trovavano incastonate nella pietra tutt'intorno alla Fortezza. Altri si
diressero in alcune posizioni strategiche da dove era più facile neutralizzare l'esercito dei mostri che
calava dalle scure navicelle. Per la prima volta nella mia vita, mi sentii praticamente inutile. Io sono un
guerriero, e se c'è una battaglia che si svolge vicino a me, io sono sempre stato nella mischia. Non ho
mai strisciato carponi come un bambino impaurito e tanto meno mi sono nascosto la testa tra le gambe.
Eppure, in quell'occasione, mi sentivo come un relitto del passato con quell'antiquata spada di ferro e
l'arco di legno. Qui non c'era assolutamente bisogno di me. Anzi, ancora peggio, probabilmente ero
d'impaccio agli altri.
«Non mi piace tutto ciò,» dissi a Rhalgorn; «mi sento come un pezzo esposto in un museo.»
«E anche molto antico,» ghignò lui.
Mi accingevo a rispondergli. Un lampo passò sulla mia testa e con il suo rumore seppellì le mie parole.
Cominciò a cadere una cascata di pietre che ci fece cadere. Una cosa dell'Uomo ricoperta di ferro sul
torace e sulle braccia, si fermò e si diresse veloce verso di noi.
«Signori... dovete mettervi al riparo, stiamo subendo un attacco!»
Rhalgorn si passò una mano sul muso e grugnì.
«Siamo ancora capaci di rendercene conto, amico. Questa non è la nostra prima battaglia, te lo posso
assicurare.»
L'Uomo sorrise educatamente.
«Sì, certo. Solo che...»
«Solo che?», dissi io. « Tu forse ti troverai un posto dove ripararti. Il mio amico ed io andremo a
cercarci il posto dove si sta combattendo. Non ci interessano i buchi per i conigli.»
L'Uomo arrossì. Una raffica di colpi fischiò vicinissima alle nostre orecchie e si abbatté poco lontana da
noi. Lui si girò e ci fece segno di seguirlo. Ci affrettammo giù per una scala di pietra mentre la stanza
esplodeva dietro di noi. Sapevo dove erano ormeggiate le sfere e condussi Rhalgorn in quella direzione,
cioè verso il livello più basso della Fortezza. La grande stanza era ravvivata dal vocio di moltissime
persone. Navicelle blu schizzavano fuori e dentro la stanza seguendo un ritmo frenetico di cui non
riuscivo a seguire lo schema. Uomini e Bestie correvano di qua e di là, portando armi e munizioni alle
navicelle, e prendendo i morti e i feriti. Mi guardai intorno ed individuai un capitano che conoscevo. Era
un tipo magro e ossuto, con una faccia scavata, occhi blu profondi ed un sorriso aperto. Il suo nome era
B'Wayne, ed era uno dei fedelissimi di Caldus. Signar mi aveva detto che gli altri piloti delle navicelle lo
avevano soprannominato «l'Indistruttibile» Wayne, perché in battaglia riusciva sempre a cavarsela e a
ritornare illeso.
«B'Wayne,» gli dissi, «Rhalgorn ed io vorremmo venire con te. Qui non serviamo praticamente a nulla e
forse potremmo essere di qualche aiuto a bordo della tua navicella.»
B'Wayne ci guardò e aggrottò le sopracciglia. «Sono sicuro che voi vi sapreste rendere utili, Mastro
Aldair. Solo che Caldus mi taglierebbe la testa se io...»
«Ho capito,» tagliai corto. «Siamo divinità del passato e non dobbiamo subire danni.»
«Caldus in questo momento è impegnato da altri problemi,» rifletté
Rhalgorn. «Non penso che avrà il tempo di controllare ogni navicella che parte.»
«E in particolare questa qui,» aggiunsi io, «che sembra essere in qualche modo fuori del suo campo
d'azione.»
B'Wayne ci lanciò un'occhiata sfuggente.
«Mi dispiace, ma quello che mi state chiedendo è assolutamente impossibile.» Guardò di sottecchi la
superficie rattoppata del suo scafo. «Ad ogni modo se volete salire un attimo a bordo per dare
un'occhiata in giro, siete liberi di farlo. Io devo andare a dire una cosa a quel tipo laggiù.»
Senza voltarsi indietro, si diresse a grandi passi verso un grosso Vikoniano che si stava dando da fare
attorno alla bocca di un'arma da fuoco. Mi girai per parlare con Rhalgorn. Lui non c'era già più: era salito
a bordo. Per la prima volta, capii veramente cos'era diventato il mondo. Caldus e gli altri avevano
ragione. Per lo più, non era più un mondo adatto ai guerrieri. Certamente, non c'era posto per noi nei
cieli, perché quella era una battaglia troppo veloce per le menti sia degli Uomini che delle Bestie. Wayne
l'«Indistruttibile» occupava la sedia del comando, ma una voce chiamata Leigh ci scagliò nel groviglio di
scure navicelle descrivendo archi e curve ad una velocità che era impossibile da immaginare. Anche le
armi dipendevano da lei, e le usava con assoluta precisione, spedendo uno dietro l'altro i vascelli dei
mostri fuori del tempo.
Non appena una navicella color giallo e rame scomparve dalla vista, B'Wayne lanciò un urlo acutissimo e
mostrò il pugno in direzione dei cieli.
«Maledizione, Mastro Aldair, oggi sì che li stiamo trattando come meritano! Ne abbiamo fatte già fuori
tre. E non finirà qui!»
« Noi? » Vidi Rhalgorn pronunciare quell'unica parola quasi in silenzio e rivolto verso di me. Io
chiaramente afferrai subito ciò che voleva dire. Che utilità c'era a rischiare la vita dei piloti in quelle
navicelle? Era più che evidente che la macchina chiamata Leigh poteva farne benissimo a meno.
«È del tutto simile a starsene tranquilli davanti a un bel boccale di birra,» disse Rhalgorn sottovoce, «e
mandare la tua spada in battaglia da sola.»
B'Wayne lo sentì e si girò verso di lui ridendo.
«Non è affatto come sembra, Mastro Rhalgorn. Non ce ne stiamo comodamente seduti qui mentre Leigh
fa tutto il lavoro da sola.»
«Béh...», Rhalgorn si schiarì la voce. «Sono certo che sia tu ad avere ragione e che io abbia torto...»
«Infatti è così,» annuì con convinzione il pilota. Batté con la mano sui braccioli della sua sedia. «Leigh
pensa più in fretta di me, e di ogni essere vivente, se questo è quello che vuoi dire. Ma non conosce gli
schemi di combattimento. Io sì, perché nella mia vita non ho fatto nient'altro che combattere. Lei
esegue i miei pensieri, mette in pratica le mie direttive.»
Toccò di nuovo la sedia. «Le mie o quelle di chiunque altro stia seduto qui.»
Rhalgorn lo guardò con aria molto annoiata.
«Tu stai seduto sulla sedia e lei... ah, ho capito cosa vuoi dire.»
«Naturalmente. Perché non lo sapevate?»
«No, Capitano. Confesso di no.»
Guardai lo Stygiano. Non c'era malafede in quello che stava dicendo. Lui sapeva che B'Wayne stava
dicendo la verità. Io non avevo bisogno di ascoltare le sue parole perché in un certo senso, potevo
leggere i suoi pen-sieri. Hai ragione Aldair, stava dicendo. La nostra epoca è veramente fi-nita e noi
apparteniamo a un museo. Non c'è proprio spazio per i guerrie-ri...
VENTINOVE
Quando sbarcammo dalla navicella di B'Wayne e ci ritrovammo nella stanza sotto la Fortezza di
Amazzone, fui incerto se fossimo nel mezzo di una celebrazione o di una veglia funebre.
In verità mi sembrava che ciò che si stava svolgendo avesse delle caratteristiche di entrambe le cose. La
battaglia aerea era andata eccezionalmente bene. Erano state distrutte più di trenta delle navicelle di
ojt'Miyer: il numero più grande che fosse mai stato raggiunto in un singolo combattimento. Ma, d'altro
canto, noi avevamo perso sette navicelle, poco meno della metà della nostra intera flotta. I conti erano
presto fatti: un'altra vittoria come quella, e la Fortezza sarebbe scomparsa per sempre. Tra l'altro, anche
la stessa Fortezza aveva subito gravi danni. Un altro intero livello era ora in rovina. Le forze di terra di
ojt'Miyer si erano attestate ad appena poche leghe di distanza dal fiume. Il che voleva dire che, da quel
momento in poi, potevamo aspettarci arrembaggi sia da terra che dal mare.
Caldus aveva già convocato tutti i suoi comandanti quando arrivai. Infatti la riunione era ormai alle
ultime battute e Caldus stava dando delle rapide istruzioni ad uno dei suoi capitani. Aspettai che avesse
finito e poi attraversai la stanza dirigendomi verso di lui. Caldus mi vide e i suoi occhi brillarono di
rabbia.
«È stata una cosa molto stupida quella che hai fatto, Aldair. Potevi farti ammazzare, e senza alcun
motivo.»
«Un guerriero non muore mai inutilmente,» gli dissi, «o, almeno, spera che sia così.»
Caldus scosse la testa con irritazione e si girò dall'altra parte.
«Tu non capisci questo tipo di combattimento, amico mio. Non ci sono da fare cose da guerrieri. Almeno
non quelle che ti ricordi tu nelle battaglie che hai combattuto!»
Lo guardai dritto negli occhi.
«Che diamine stai dicendo, Caldus? Chi sono gli Uomini e le Bestie che ho visto correre avanti e dietro
senza sosta? E armati fino ai denti? A me davano l'idea di non essere altro che guerrieri!»
«Va bene. Chiamali come vuoi.» Si passò con molta lentezza una mano tra i capelli grigi. «Come ti ho già
detto, non sono guerrieri nel senso che tu sei abituato a dare alla parola. Combattono in un modo
differente. Non saltano semplicemente da un lato all'altro in cerca di qualche nemico da affrontare. Loro
sono... impiegati tatticamente, ed eseguono le direttive più
realizzabili delle proiezioni che Arvac riesce a dare loro.»
«Arvac?» Pensai di non aver capito bene il nome. «Uno dei tuoi comandanti che non ho ancora
conosciuto?»
Caldus sospirò e si sforzò di sorridere.
«No, Aldair, non penso che tu l'abbia incontrato. Vieni, forse ora potresti. Ti aiuterà a capire come
stanno le cose.»
Detto questo, mi portò fuori dalla stanza e passammo nel corridoio, fermandoci alla fine davanti ad una
pesante porta di ferro. Lo guardai sorpreso, mentre cercava con un certo affanno una chiave nel fondo
della sua tasca. Era forse pazzo quell'Arvac, o cosa? Se non lo era, perché mai dovevano tenerlo
rinchiuso lì?
All'interno, la stanza era del tutto spoglia tranne che per un unico tavolo e una sedia. Sul tavolo c'era
una piccola macchina di metallo che brillava di innumerevoli luci. Mi guardai intorno e non vidi nessuno.
«Dov'è questo Arvac, Caldus?»
«Proprio lì.» Indicò la macchina. «Lo stai guardando.»
Sgranai gli occhi.
«Arvac... Arvac è una macchina?»
«Certamente. Tu hai dimestichezza con i meccanismi a bordo delle navicelle. Arvac è molto simile a tutti
gli altri, solo che fa molte più cose.»
Avevo capito cosa voleva dire il riferimento alle navicelle, ma non riuscivo a vedere il collegamento tra le
due cose.
«Che cosa ha a che fare quest'aggeggio con i guerrieri? I guerrieri che non sarebbero per niente
guerrieri, come tu dici?»
Caldus mise la mano sullo schienale della sedia.
«È molto di più che un guerriero. È tutta la battaglia, Aldair. La guerra. Il passato e il futuro della
Fortezza. È tutto racchiuso qui.»
Guardai quella macchina con una certa preoccupazione.
«Per il Respiro del Creatore! Tu... stai governando la Fortezza con questo... questo profeta di metallo?»
«Non è stata una cattiva definizione, la tua.» Sorrise. «Solo che Arvac è
un po' più accurato del tuo rilevatore di media.»
«Naturalmente. Aveva predetto che oggi avremmo perso quasi metà
della nostra flotta?»
Caldus arrossì.
«No,» disse, cercando di trattenere la rabbia. «C'erano dei fattori sconosciuti. Cose che non potevamo
immaginare. L'attacco è stato molto più feroce di quanto Arvac non avesse previsto.»
A quel punto risi forte.
«Caldus, ti serve una macchina per sapere il perché? Io sono il perché. ojt'Miyer sa che io sono qui.
Certo io non sono poi così importante; ma io sono un chiodo fisso nella sua mente. Aspetta da molto
tempo il momento della mia cattura. Non si fermerà davanti a niente pur di ottenere il suo scopo!»
Caldus spalancò la bocca per la sorpresa.
«Diamine, penso che tu abbia ragione. Come ho fatto a non pensarci prima?»
«Perché non ci ha pensato Arvac?»
Caldus mi ignorò completamente.
«Al punto in cui siamo, conosci già molto, e hai diritto a conoscere anche il resto. I miei capitani ed io ci
siamo appena riuniti. Qui. Con Arvac. La guerra è definitivamente persa, temo. È finita. Arvac ci ha
mostrato una curva costantemente in discesa negli ultimi diciotto anni: sì, ci ha avvertiti da lungo
tempo. Solo che noi non volevamo arrenderci all'evidenza dei fatti. I pronostici hanno dato
definitivamente ragione ad ojt'Miyer.»
Guardai quella piccola scatola di metallo.
«Tu ti lasci dire da quella macchina che siete finiti?»
«Aldair, la verità è che noi eravamo finiti fin da quando abbiamo iniziato quest'avventura,» mi rispose lui
con molta pazienza. «Questo te l'avevo già
detto. Era già tutto deciso nei ventisette mondi, prima di venire qui. Ho continuato a combattere
perché... perché avevo bisogno di combattere. Tu puoi capirmi. Avevo vissuto tutta la mia vita nascosto
in un buco e non avevo fatto niente. Tu mi hai fatto vedere qualcosa di meglio.» Rise amaramente e si
diresse nell'angolo della stanza. «L'Uomo ha creato le Bestie. Poi le Bestie hanno fatto sì che l'Uomo
diventasse di nuovo Uomo. Ora siamo tutti qui,» disse con tono acido, «amici e fratelli come saremmo
sempre dovuti essere. Scosse la testa. «Non è stato tutto inutile, credo. Noi abbiamo conquistato la
libertà e questo conta già qualcosa.»
Indovinai che Caldus fosse oramai vicino ad avere ottant'anni. In quel momento sembrava molto più
vecchio.
«Cosa hai intenzione di fare ora?», gli chiesi. «Ritirarti e lasciare via li-bera ad ojt'Miyer? Forse
potremmo mandare la nostra macchina ad arrendersi alla sua.»
«Loro non hanno un Arvac,» disse lui molto seriamente, non cogliendo affatto la mia ironia. «Tu mi
conosci meglio di chiunque altro. Se moriremo, moriremo in un modo diverso. Combatteremo fino a
quando ne saremo capaci. Ma dobbiamo abbandonare la Fortezza immediatamente. Non c'è
assolutamente nessun'altra soluzione.»
«Fare cosa?» Mi alzai e mi misi di fronte a lui. «Se perdiamo la Fortezza è davvero tutto finito e tu lo sai
benissimo.»
Caldus si strinse stancamente nelle spalle.
«Aldair, è persa comunque. Combatteremo da qualche altra parte. Noi abbiamo già pronto tutto, nel
caso si fosse verificata quest'evenienza. Resisteremo più a lungo possibile. Arvac dice...»
« Al diavolo Aryac!»
Battei violentemente il pugno sul tavolo. Caldus mi fissò allibito. Le luci di Arvac cominciarono a
lampeggiare in segno di pericolo.
«Al diavolo tutto quello che ti pare, Aldair.» Mi disse Caldus con calma.
«Ma è la verità. I numeri non mentono. È finita per noi qui.»
Devo dare ragione ad Arvac almeno in una cosa. Riuscì a prevedere l'inizio del prossimo attacco di
ojt'Miyer con incredibile precisione. Ci disse l'ora esatta in cui sarebbe successo. Prese il via con una
ferocia inaudita poco prima dell'alba. Le sue navicelle colpirono la Fortezza con le loro armi micidiali,
riducendo in polvere gli spessi muri di pietra. Degli esploratori ci portarono notizie fresche sulle forze di
terra dei mostri. Si stavano aprendo la strada per risalire il corso del fiume con gigantesche macchine di
ferro che abbattevano qualsiasi tipo di vegetazione al loro passaggio. Caldus mise in azione il piano di
Arvac ancora prima che l'attacco avesse inizio. Non ci fu niente in grado di dissuaderlo. Lui era
dannatamente convinto che le parole di Arvac fossero la voce della ragione. Quando chiesi ai suoi
comandanti delle spiegazioni sull'argomento, loro mi guardarono come se avessi perso il lume della
ragione. Era sempre stato Arvac a prendere le decisioni. Perché mettere adesso in discussione il suo
ruolo?
Mi ricordai di ciò che Caldus aveva detto sugli Dei - di come lui ora credesse in un nuovo Creatore - uno
che senza dubbio non godeva della mia approvazione. Un brivido freddo mi passò lungo tutta la spina
dorsale al pensiero di quella conversazione. Era stata una chiacchierata e niente di più. Qualcosa in cui
un vecchio voleva credere, ma non ci riusciva. Caldus aveva certamente un nuovo dio in cui credere. E il
suo nome era Arvac.
«Maledizione,» dissi ai miei compagni, «Caldus ha tradito una religione falsa e stupida per un'altra
ancora peggiore. È Arvac che ora lo governa, e Arvac ha detto che è giunta l'ora di chiudere bottega.
Senza dubbio, stiamo per ascendere verso qualche paradiso meccanico.»
«È abbastanza chiaro quello che sta succedendo qui,» sibilò Thareesh.
«Ho passato parecchio tempo a parlare con la gente della Fortezza, specialmente con quelli occupati a
combattere. Sono troppo coinvolti per riuscire a vedere le cose con obiettività. Non si rendono conto di
ciò che sta succedendo, Aldair, ma io sono pronto a scommettere un barile di birra che so già come
andrà a finire. Ci squadrò tutti con i suoi occhi neri come l'agata. «Se vi soffermate a riflettere
sull'andamento dei combattimenti qui, la verità vi salterà agli occhi come un porro. Certo i mostri sono
molto più
numerosi, ma non è quello il problema. ojt'Miyer li ha sovrastati anche con il pensiero.»
«Penso di sapere dove vuoi arrivare,» disse Rhalgorn. «Vuoi dire che i mostri sono ben più avanti di
questo Arvac, vero?»
«Esattamente,» disse Thareesh. «Avanti è la parola appropriata. Le persone attraversano dei periodi
positivi e dei periodi negativi. Non si prendono sempre le stesse decisioni. Arvac prevede... ma è anche
prevedibile.»
Tirai un lungo respiro.
«Per la Vista del Creatore, Thareesh... hai ragione come è vero che piove, e questi stupidi non l'hanno
ancora capito. Stanno andando al macello da soli e nemmeno lo sanno!»
«Credi che ojt'Miyer già sappia quali saranno le loro prossime mosse?», chiese Signar. «Voglio dire, il
fatto di voler abbandonare la Fortezza e tutto il resto?»
«Certo che lo sa. Per forza. Non ha lasciato a Caldus nessun'altra porta aperta. Con le perdite che
abbiamo subito, è l'unica cosa che quella dannata macchina potesse suggerire. Uno meno uno uguale
niente. Così, facciamola finita. Questo è stato il ragionamento.»
«E allora noi che abbiamo intenzione di fare?», chiese Rhalgorn con aria molto cupa. «Spero che non ce
ne staremo qui ad aspettare.»
«Non è ne ho la più pallida idea,» dissi io onestamente. «Ma ti assicuro che non ce ne staremo con le
mani in mano.»
Le tattiche di Arvac erano piuttosto ragionevoli, e naturalmente, era pro-prio quello l'ostacolo più
grosso. Una rapa avrebbe capito immediatamente qual era il suo ruolo. Avrebbe risposto all'attacco
sporadicamente, lanciando di tanto in tanto delle scariche contro i mostri per tenerli occupati mentre
noi avremmo a poco a poco evacuato completamente la Fortezza... per andare poi lo sapeva Dio dove.
Nessuno era stato incaricato di comunicarmi quel particolare del piano. ojt'Miyer conosceva già tutti i
nostri movimenti e aveva spostato l'attacco verso il centro inviandoci contro molti dei suoi mezzi a
grande velocità, e faceva lanciare colpi a casaccio senza seguire nessuno schema prestabilito. Arvac tirò
fuori qualche altro numero nel frenetico sforzo di resistere. Fece esattamente ciò che ojt'Miyer si
aspettava. Perdemmo una gran quantità di guerrieri e altre due delle nostre preziose navicelle. Caldus si
rifiutò di darmi ascolto. Il fatto che Arvac ci stesse portando alla rovina, e anche molto in fretta, era una
realtà che non voleva assolutamente prendere in considerazione.
«Tu non capisci come stanno le cose,» disse seccato e lanciandomi un'occhiata di disprezzo aggiunse: «Ti
ho già spiegato, Aldair: le guerre non sono più come tu le ricordi.»
«Oh, davvero? Bene, allora non ti chiederò più nulla,» dissi adeguando il mio tono al suo. «Dimenticavo
che sto parlando con un vero Signore della Terra e non con uno schiavo nascosto in un buco!»
A queste parole il suo volto sì incupì, e un velo di tristezza gli passò negli occhi. Era stata un'inutile
crudeltà, e me ne ero pentito nel momento stesso in cui la pronunciavo. Tuttavia, quella breve
discussione servì a qualcosa. Caldus mi fece capire senza mezzi termini che non avevamo più
tempo per discutere. Non aveva bisogno dei consigli di un mitico guerriero del passato. Arvac ci avrebbe
guidato nel mare della storia e nel tempo giusto.
Non ci furono problemi per portare il mio equipaggio nel livello più basso. Una dozzina di creature e
forse più erano perse nel tumulto dell'attività. Navicelle entravano e uscivano, comparendo e
scomparendo dalla vista come gigantesche lucciole. Alcune stavano combattendo le scure navicelle dei
mostri, mentre altre erano occupate a trasportare fuori della Fortezza Uomini e Bestie.
C'erano lì esseri delle razze più disparate che lavoravano insieme. Avevo visto persino alcuni uomini che
avevamo incontrato durante la scoperta della Fortezza di Amazzone. Riconobbi Walldrop, il più vecchio
e il più
curvo di tutti. Come al solito, non faceva altro che stare chino su di un muro, una posizione che era stata
la sua preferita per qualcosa come cinquemila anni o forse più. Wayne, «L'Indistruttibile», era ancora
impegnato in battaglia, e ciò mi fece tirare un sospiro di sollievo. In quel momento non avevo nessuna
voglia di salire a bordo insieme a un carico di soldati armati e di evacuati. B'Wayne ci vide arrivare e
lanciò a Rhalgorn e a me un'occhiata torva.
«Fareste bene ad andarvene da qualche altra parte,» disse secco. «Sono in un bel mare di guai a causa
vostra.»
«Ho detto a Caldus che quello che è accaduto non è stata colpa tua. Che noi ci siamo intromessi a bordo
a tua insaputa.»
B'Wayne fece una smorfia e si tolse del grasso dal sopracciglio.
«Caldus non vi ha creduto, e nemmeno me ha creduto. Che cosa vuoi, Mastro Aldair? Qualsiasi cosa sia,
la risposta è no.»
«Temo che sarà sì,» gli dissi. «Credo che saremo costretti a forzarti di nuovo la mano.»
B'Wayne stava studiando una specie di carta geografica. La distese con calma e mi guardò con aria
strana. Vidi che sospettava qualcosa e che i muscoli delle spalle gli si erano irrigiditi all'improvviso.
« Non farlo,» gli dissi con calma. «Rhalgorn è proprio dietro di te con una lama tra le mani. Gli sei
simpatico e non vorrebbe usarla contro di te.»
La faccia dell'Uomo si incupì ancora di più.
«Che diamine vuol dire tutto ciò, Aldair?»
«Non ne sono del tutto certo,» gli dissi sinceramente. «Ma te lo comunicherò non appena lo saprò.»
TRENTA
La navicella blu schizzò fuori dalla stanza, apparve per una breve frazione di secondo sopra la Fortezza,
poi cominciò una complessa serie di manovre fuori e dentro il tempo reale per sfuggire alle navicelle dei
mostri. B'Wayne rimase attentissimo allo svolgimento di quel compito finché
non fu sicuro che ci eravamo messi in salvo. Poi si girò nella sua sedia di comando e mi guardò.
«Hai perso il lume della ragione?», disse furioso. «Cosa speri di ottenere con questa bravata, Mastro
Aldair? Questa navicella è assolutamente necessaria lì, non qui.»
«Ora Stammi a sentire,» gli dissi. «Si dà il caso che io ne abbia più bisogno, come spero che ti renderai
conto anche tu.»
«Ah, certo, capisco,» sbottò lui. «La tua gente è tutta al sicuro a bordo e lontana dalla battaglia!»
Rhalgorn tirò fuori dalla gola uno dei suoi rumoracci e fece per scagliarsi su di lui. Io feci un balzo in
avanti e lo bloccai.
«No. Non si tratta di questo. Voglio solo che tu mi stia a sentire e risponda alle mie domande. Abbiamo
davvero poco tempo.»
Mi allontanai e diedi un'occhiata fuori del portello, poi mi girai di nuovo verso di lui.
«Dimmi un po' se ho ragione o no. Tu hai un altro posto dove portare la gente della Fortezza. La maggior
parte delle navicelle sta portando in salvo gli abitanti mentre le altre mantengono occupato ojt'Miyer.»
«Questo è quello che stiamo tentando di fare,» mormorò lui, «e abbiamo bisogno di tutte le navicelle
per fare andare in porto l'operazione. Inclusa questa.»
«E non pensi che ojt'Miyer conosca già tutto il piano? Per la Vista del Creatore, Capitano: lui non è un
idiota. Ha abbastanza forza sia per terra che per aria per impadronirsi della Fortezza prima che voi
riusciate a portare in salvo tutti. Tu questo lo sai bene quanto me!»
B'Wayne saltò dalla sedia.
«No,» disse senza scomporsi, «Io non lo so. Se lui avesse potuto intrappolarci l'avrebbe senz'altro
fatto. Perché non avrebbe dovuto? Pensi che si accontenterebbe di uno solo di noi?»
«No. Naturalmente non lo penso.»
«Allora quello che stai dicendo ha davvero poco senso.»
«Invece ce l'ha,» dissi io, «sento che ojt'Miyer sa già dove state andando.»
B'Wayne rimase un attimo perplesso. Poi mi guardò e scoppiò in una risatina un po' ironica.
«Ma lui non lo sa. Noi ci siamo assicurati che sia così.»
«Ti sbagli, Capitano. Lui vi sta lasciando andar via, e per un ottimo motivo. Prenderà la Fortezza senza
perdere né troppi guerrieri, né navicelle. Vi lascerà approdare a questa specie di rifugio, e poi si
impadronirà anche di quello. ojt'Miyer vuole vincere tutta la partita, B'Wayne... non solo una parte.»
Lui rifletté un po' sulle mie ultime parole, poi scosse la testa.
«È una teoria interessante, ma niente più di questo. Non può sapere dove siamo diretti.»
«Perché è Arvac a dirlo?»
L'uomo arrossì.
«Arvac ci ha fatti sopravvivere fino ad ora. Lui sa cosa fa!»
«E ojt'Miyer sa quello che Arvac sta facendo. Questo è il punto cruciale di tutta questa triste storia. Tu,
Caldus e gli altri siete completamente ciechi davanti a ciò che accade intorno a voi. Vi siete abituati al
fatto che sia una macchina a pensare per voi. Arvac somma due a due e se ne viene sempre fuori con
quattro. Le persone qualche volta commettono degli errori e come risultato ottengono cinque. L'errore
giusto può vincere una battaglia. Tu questo lo sai. Ma Arvac non fa mai errori. Lui è prevedibile. Lui fa
sempre ciò che sarebbe più logico fare. È questo il motivo per cui ojt'Miyer può leggerlo come fosse un
libro. Ora, B'Wayne, dimmi solo dov'è questo nuovo rifugio!»
B'Wayne si morse il labbro e guardò oltre le mie spalle.
«È... è in un buon posto. Sicuro. Arvac ha preparato con molta accuratezza una base segreta ed ora...»
«Con Arvac,» dissi io secco, «la parola 'segreta' non è molto appropriata. Comunque, ora il punto è un
altro. Dove si trova?»
B'Wayne era tesissimo.
«È in Africa.»
«E dove precisamente?»
Spinse alcuni bottoni sul bracciolo della sua sedia. Una carta si illuminò
al di sopra delle nostre teste.
«Ah, capisco. Noi la chiamavamo Kenyarsha. Un buon posto per una base... o meglio, lo sarebbe se
ojt'Miyer non ne fosse già a conoscenza.»
«Maledizione a tutto, lui non lo sa!»
B'Wayne si irrigidì e si sporse dalla sedia.
«Siediti!», gli dissi. Si sedette.
«Supponiamo che tu... che tu abbia ragione,» disse lui rigido, «cosa che comunque non è. Cosa pensi di
poter fare che Arvac non sia in grado di fare meglio?»
Sapevo a cosa si riferiva. Aldair la Leggenda stava mettendo il naso dove non doveva.
«Ci arriverò tra poco,» gli dissi.
«C'è ancora qualche altra cosa che ho bisogno di sapere. So che tu puoi metterti in contatto con la
Fortezza e con le altre navicelle. Quindi cerca di scoprire quando verrà portata a termine l'evacuazione.»
Mi guardò di traverso.
«Basta. Adesso è troppo. Da ora in poi ti conviene risparmiare il fiato.»
« Fallo, B'Wayne. Mi scuserò in seguito!»
Azionò un pulsante sotto il palmo della sua mano.
«Non posso dire molto. ojt'Miyer può intercettare la nostra conversazione, se vuole.»
Mi girai verso Rhalgorn.
«Porta Thareesh qui... in fretta!»
Rhalgorn sparì. Io mi girai di nuovo verso B'Wayne.
«Dì loro di chiamare un Nicieiano. Uno che parla la Lingua dei Guerrieri.»
B'Wayne era furioso ma fece ciò che gli avevo chiesto.
Una voce usciva dalla parete.
«B'Wayne, dove diavolo ti sei cacciato? Che diamine sta succedendo lì?
Sei praticamente scomp...»
«Più tardi,» sbottò B'Wayne. «Ora ascoltami, Morgan. Fai venire lì
Fe'eerin se si trova ancora nella Fortezza. Sbrigati!»
Thareesh arriva subito dietro a Rhalgorn. Gli dissi ciò di cui aveva bisogno. A un cenno di assenso di
B'Wayne, lui parlò con l'altro Nicieiano in una rapida serie di suoni sibilanti. Anche se ojt'Miyer avesse
avuto a disposizione un prigioniero Nicieiano, sarebbe riuscito a capire ben poco di quel farfuglio. È una
lingua che gli arcieri dell'Impero parlano solo fra di loro.
B'Wayne interruppe il segnale per un momento e Thareesh si girò verso di me.
«Saranno tutti fuori nel giro di un'ora. ojt'Miyer ti tiene sotto tiro ma non sta spingendo.»
«Non pensavo che sarebbe andata così.» Guardai B'Wayne. «Ti pare che ciò abbia senso? Perché non sta
bombardando la Fortezza con tutto quello che ha a disposizione? Sicuramente nella Fortezza non
avrebbero avuto la forza di resistere a un simile attacco.»
L'Uomo serrò le labbra.
«Io... io non lo so. Non mi sembra ragionevole. Arvac aveva detto che saremmo andati incontro ad
alcuni infortuni nelle ultime ore...»
«E invece non è così, giusto? ojt'Miyer sta permettendo a tutti di mettersi in salvo. L'hai sentito tu
stesso. Non hai bisogno di fidarti della mia parola per questo.»
B'Wayne lottò con se stesso per un attimo, poi si sedette di nuovo nella sua sedia di comando. Era
fedele a Caldus. Ma era anche un esperto guerriero. Non era rimasto vivo sbattendo la porta contro la
verità.
«Va bene,» disse alla fine, «che cosa vuoi che faccia?»
«Qual è il piano per l'ultima fase dell'operazione? Penso di saperlo, ma tu comunque dimmelo.»
«Noi voleremo via con il grosso della flotta mentre la retroguardia li terrà occupati. Le navicelle
dovranno passare attraverso una frazione di un secondo del tempo reale prima di mettere in codice la
nuova base. L'idea è
quella di tenere ojt'Miyer occupato in modo che non possa tracciare il nostro percorso.»
«Solo che lui ha già il percorso,» aggiunsi io. «Bene. Può funzionare anche così.»
B'Wayne alzò un sopracciglio.
«Funzionare anche così? Cioè come? Esattamente nella maniera in cui vuole ojt'Miyer?»
Io ghignai nella sua direzione.
«Se saremo fortunati... esattamente nel modo che vuole ojt'Miyer. Lui segue Arvac punto per punto. Noi
siamo prevedibili, e dobbiamo continua-re ad esserlo. Per il momento, almeno.»
B'Wayne si accigliò e scosse la testa.
«Qualsiasi cosa tu abbia in mente, Aldair, non funzionerà. Caldus ha ancora il comando della Fortezza.»
«Noi non andremo a chiedere a Caldus il suo parere sull'argomento. Non dobbiamo farlo. Perché non
cambierà assolutamente nulla nel programma stabilito. Devono pensare che siamo davvero finiti,
Capitano. Proprio fino all'ultimo secondo.»
B'Wayne si fece molto pensieroso e si guardò attentamente la punta delle dita.
«Mi sono fatto un'idea di dove vuoi arrivare, e credo che tu abbia maledettamente ragione. Ci vorrà
all'incirca poco più di un secondo. E se noi lo perdiamo...»
«Se lo perdiamo,» finii io per lui, «quello che doveva succedere accadrà
in ogni caso.»
B'Wayne mi guardò di traverso.
«Quindi penso che sarà meglio non perderlo. Fammi vedere di cosa hai bisogno e esci di qui, Aldair. Avrò
parecchio da fare con Leigh qui.»
«Fammi solo accertare che due più due fa sei,» lo avvertii io. Aspettammo.
B'Wayne se ne rimase seduto nella sua sedia di comando pressato da un indicibile tensione, nello sforzo
di carpire quanto più possibile in quella ridda di ordini che veniva impartita avanti e dietro per tutta la
Fortezza, a mezzo mondo di distanza. Grosse gocce di sudore gli colavano dalla fronte. Le sue dita si
posavano sui bottoni multicolori.
«È fatta...», disse senza alzare lo sguardo. «Gli ultimi due vascelli sono pronti a partire... la retroguardia
segue...»
Ora non ci sarebbe voluto più molto. Le navicelle di ojt'Miyer stavano sorvolando la Fortezza, in attesa.
La nostra intera flotta si sarebbe alzata in volo per andare incontro alla sua e per coprire gli ultimi
vascelli in partenza per il rifugio. ojt'Miyer le avrebbe lasciate avvicinare. Poi sarebbe scattato
all'improvviso, sarebbe uscito dal campo visivo, e li avrebbe lasciati li per andare a concentrare tutte le
sue forze sulla nuova base in Africa. In pochi secondi, la terribile potenza della sua flotta al gran
completo avrebbe ridotto in polvere quel posto. Le nostre navicelle l'avrebbero seguito. Ma sarebbe
stato ormai già troppo tardi. ojt'Miyer si sarebbe impossessato della vecchia Fortezza, e tutti quelli che si
trovavano nella nuova sarebbero morti. Le nostre navicelle non avrebbero avuto scampo, perché non
avrebbero avuto nessun posto dove rifugiarsi. ojt'Miyer avrebbe potuto distruggerle ad una ad una a
suo piacimento. Sarebbe andata proprio così... se i mostri e la nostra gente avessero seguito la logica di
Arvac. Sapevo di poter contare su Caldus. Era troppo tardi per insegnargli la bizzarria di due più due.
Pregai tutti gli Dei che ojt'Miyer non scegliesse proprio quel momento per gettare all'aria tutto il suo
piano e si facesse venire qualche idea originale. Ma perché avrebbe dovuto? Tutto ciò che doveva fare
era seguire Arvac e così ci avrebbe avuto in pugno.
B'Wayne si irrigidì.
«Sono partiti!», urlò. «Le nostre navicelle sono in volo... tutte... Stanno facendo cerchio intorno ad
ojt'Miyer... ojt'Miyer sta rispondendo ai loro colpi...»
« Ora! », gridai io e B'Wayne cominciò a fare volare veloci le sue dita sui bottoni.
«Ordine di Emergenza! Coordinate sette-cinque-cinque-tre-due. Settore S per Scimmia. Eseguire! »
Leigh volò fuori del campo visivo in nessun tempo. Quasi all'istante ci trovammo a circa trenta miglia al
di sopra del rifugio africano. Corsi verso il portello.
«Grandi Déi, dove sono?»
Il cuore per poco non mi cedette. I cieli erano vuoti. Questo era veramente il punto cruciale del piano, la
sfasatura che poteva ucciderci. I piloti di B'Wayne erano ben addestrati, dei combattenti disciplinati. In
teoria, dovevano eseguire gli ordini senza porsi domande sul fatto che sembrassero o meno ragionevoli.
Se non l'avessero fatto... B'Wayne urlò.
«Eccoli lì!» La flotta blu brillò nel nostro campo visivo. B'Wayne impartì il nuovo ordine. «Fuoco, punto
trentadue-sette e resistere...» Lo schema di fuoco di B'Wayne era un ampio campo conico. Una volta
attivato, avrebbe aperto un fuoco a ventaglio nei cieli e sulla terra passando proprio dietro il nuovo
rifugio.
Ora il gioco passava nelle mani di ojt'Miyer. Avrebbe pensato che le navicelle fossero partite in direzione
del nuovo rifugio. Perfetto. Tutto andava per il meglio. Le avrebbe tenute sotto tiro e poi le avrebbe
finite tutte insieme.
Passò un secondo.
Poi due.
« Eseguire! », scattò B'Wayne.
La flotta eseguì immediatamente. Un campo accecante di lampi blu coprì i cieli. Tre secondi.
Quattro...
All'improvviso la flotta di ojt'Miyer arrivò in vista. Più di trecento navicelle dai colori sgargianti pronte al
massacro apparvero proprio nel mezzo della nostra ragnatela in attesa di distruggerli.
B'Wayne lanciò un urlo di guerra e si alzò dalla sua sedia; la vista sotto di noi era terribile, sconvolgente.
Le navicelle di ojt'Miyer venivano distrutte in un battibaleno, a dozzine. Un centinaio - forse anche più -
furono eliminate solo nel primo mezzo secondo di battaglia.
I nostri capitani non avevano più bisogno di ordini. Comandi crepitavano da tutte le parti. Per la prima
volta, le cose stavano andando diversamente. Vascelli neri, gialli e marroni che erano riusciti ad evitare il
peggio nella primissima fase del combattimento, ora si trovavano inseguiti da tutti i lati dalle navicelle
blu dello stesso colore del cielo. I nostri piloti colpivano con velocità inaudita, con cupa determinazione.
Anche dopo che fu passato il primo momento di assoluta meraviglia, la flotta nemica perdeva se-condi
preziosi a riprendersi dai colpi ricevuti. Ed erano secondi che costavano davvero molto cari. B'Wayne
decideva quali erano i bersagli, e Leigh li seguiva ondeggiando fra i cieli alla ricerca di nuove vittime. Un
vascello color rosso sangue si dissolse nel nulla davanti alla nostra prua. Descrivendo un arco
impossibile, Leigh ci scagliò verso l'alto. Il fuoco brillava intorno al nostro scafo. Leigh ci fece sprofondare
abilmente al di sotto, e poi risalire rapidissimi. Una sfera gialla troneggiò all'improvviso sopra di noi e lei
la prese, volando dritta attraverso il vuoto in cui la navicella si sarebbe dovuta trovare. Slittava fuori del
tempo reale e un attimo dopo vi ritornava. Ci inclinavamo descrivendo ampie curve sopra il campo di
battaglia, sorvolando la zona come uno sparviero in cerca di nuove vittime. Potevo vedere le navicelle
sotto di noi, e i lampi blu che sprizzavano tra le nuvole. Poi, all'improvviso, vidi anche qualche altra cosa.
Una singola navicella si stava allontanando dal campo di battaglia, e si stava dirigendo rapida come una
scheggia sempre più alto. Era molto lontana, ma io riuscivo ad individuarne il colore. Era nera: non aveva
nessun colore. Il piatto nero che assorbe tutti i colori dello spazio tra le stelle.
«Lì, B'Wayne.» Gli indicai il posto. «È ojt'Miyer? Deve essere lui!»
«B'Wayne abbaiò qualcosa a Leigh. Schizzammo fuori del tempo reale per la piccolissima parte di un
secondo, poi indietro di nuovo. La navicella nera apparve all'altezza del nostro portello, lanciando
fiamme nel cielo come un'enorme stella scura. Leigh fece fuoco. Sparì di nuovo. Apparve sotto di noi e
aprì il fuoco di nuovo. Fiamme blu lambirono la nostra prua: non ci raggiunsero solo per pochi
centimetri. Leigh era già andata via. Colpì la scura navicella ripetutamente. Quella tremò e cadde
lontano. Era stata colpita, ma non affondata. Non era stato sufficiente a farla sprofondare nel vuoto.
Leigh fece ancora fuoco. La navicella svanì all'improvviso. Io urlai, battendo violentemente sulle spalle di
B'Wayne. «L'hai colpita... è scomparsa!»
« No,» corresse Leigh. « È svanita su se stessa. È seriamente danneggia-ta, ma non distrutta. »
«Ma è come se fosse rimasta azzoppata,» mi assicurò B'Wayne. «Non andrà lontano.»
«Allora so dov'è,» dissi io.
B'Wayne mi guardò. Sì, io lo sapevo. Sapevo dove doveva essere... TRENTUNO
Ancora una volta mi trovavo su quella verde collinetta all'ombra di quelle querce imponenti. Il sepolcro
di Rheif era a pochi passi di distanza. Il suo elmo era ancora dove l'avevo lasciato, ricoperto ora da una
folta distesa d'edera. Rhalgorn era al mio fianco. Guardava il luogo dove giaceva il cugino, ed io mi
ricordai del giorno in cui Rheif era morto. Era un giorno molto simile a questo. L'avevo lasciato lì seduto
sotto l'albero. Sapevamo tutti e due che quella ferita gli sarebbe stata fatale; che lui sarebbe stato già
morto quando io fossi ritornato. Ma non parlammo di questo tra di noi. Avevamo parlato di altre cose.
Dopo un po', Rhalgorn ed io scendemmo giù per la collina ed entrammo nella foresta. Era ricca e
lussureggiante, piena di uccelli e di selvaggina di tutti i tipi. Seguii il sentiero che già avevo percorso.
Sugli alberi vedemmo le ossa bianche della città morta che sporgevano le loro dita macilente sulla
corona di verde.
In breve raggiungemmo la radura, un'ampia distesa di prato ricoperta di erba alta e verde. Proprio nel
mezzo c'era la navicella. Sembrava del tutto fuori posto in quel luogo, una cosa scura dove non avrebbe
dovuto esserci niente di scuro.
«Sarà sicuramente morto,» disse Rhalgorn. «Niente avrebbe potuto sopravvivere lì dentro.»
Girai intorno al relitto accartocciato. Non era più una sfera. Era un'ombra sottile che sembrava fatta di
carta.
«Dovrebbe essere morto, ma non lo è,» dissi io. «È ojt'Miyer, ed è ancora vivo.»
Rhalgorn mi guardò sbigottito.
«Non puoi saperlo.»
«Eppure lo so.»
«Va bene,» sospirò lui, «lo sai. Allora lo troveremo.»
«Non ne abbiamo bisogno. So dov'è. E non saremo insieme questa volta amico mio. È una cosa che
devo sbrigare da solo.»
Rhalgorn si schiarì la voce.
«In qualche modo me lo aspettavo. Aldair, non è questo il momento per fare delle sciocchezze. Spero
che tu non abbia cominciato a credere alla tua stessa leggenda.»
«Questo è davvero molto difficile.»
«E allora che ti prende? Io non posso...» Si fermò. «Ah, naturalmente. È
per Rheif, non è vero? Dimentica quella storia, Aldair. Quando questa storia sarà finita, ci sarà un solo
Stygiano sepolto qui.»
«No,» gli dissi, «non si tratta solo di quello. Anche di quello, probabilmente. Ma non è tutto.» Lo guardai
dritto negli occhi e gli misi una mano sulla spalla. «Devo farlo, Rhalgorn. Non posso dire perché.»
«O non vuoi,» disse lui cupo.
«No. Io non so perché. È così che deve essere...»
Zaffate d'aria calda salirono dalla parte più bassa. Io mi feci strada nella cavità come avevo già fatto
prima, tenendo in mano una torcia di rami secchi per illuminare la strada. Trovai il corridoio e la
stanzetta che stava subito dietro. Sorpassata quella c'era la porta di metallo. E dietro a quella il luogo
dove ojt'Miyer stava aspettando. Dove altro poteva essere se non sotto l'Isola di Albion? Sarebbe
dovuto venire: avrebbe dovuto conoscere quel luogo dove la follia dell'Uomo aveva preso il via, e dove
probabilmente aveva anche avuto termine. Aprii la porta, scesi giù per il passaggio e salii per la stretta
tromba di scale. La grande sala era esattamente lì dove l'avevo lasciata. La luce dell'Uomo rischiarava la
stanza. Migliaia di finestre grigie stavano allineate alle pareti su entrambi i lati, in attesa di raccontare le
loro storie. Le scatole di vetro che si trovavano in fondo alla sala riflettevano quella gelida luce. Lasciai
scorrere lo sguardo lungo il nero pavimento. Feci un altro passo, poi mi inginocchiai per vedere meglio.
Lì a terra c'era una vaga macchia, forse si potevano definire più propriamente delle gocce di liquido.
Gialle e viscose come il rosso d'uovo. Dietro ce n'erano altre. E poi altre ancora. Mi rialzai in fretta e
toccai l'arma che avevo a fianco. Era ferito ma vivo. Rimasi immobile dov'ero, senza spostarmi neanche
di un millimetro. Lasciai correre lo sguardo lungo tutta la grande sala. Mi misi in ascolto. Alla fine feci un
passo avanti. Sfilai il tubo scintillante dalla mia cintura e lo tenni fermo tra le mani.
All'improvviso, qualcosa di umido e nero guizzò fuori dalle tenebre e si avvinghiò alla mia mente. Lanciai
un urlo... barcollai, caddi in ginocchio. Mi strinsi la testa tra le mani per placare l'atroce dolore che
provavo. L'arma mi cadde dalle mani e scivolò di lato. ojt'Miyer rise. Un vento freddo che soffia su foglie
aride e secche.
«Laggiù, piccola bestia...»
Le mie gambe erano come acqua. Mi sforzai di rimettermi in piedi. Vidi l'arma, che era arrivata quasi a
metà della stanza. Non era il caso di tentare di raggiungerla. Non avrebbe mai permesso che arrivassi fin
lì.
«Non riesco a vederti,» lo chiamai. «Vieni alla luce, ojt'Miyer, a meno che tu non abbia paura.»
Lui rise di nuovo. Io feci un balzo e lo vidi proprio alle mie spalle, un'ombra sotto una colonna di pietre.
Indietreggiai velocemente. Un'altra ondata d'odio investì la mia mente. Scossi la testa; barcollai ancora,
cercai di allontanare il buio che stava calando intorno a me. Stava abbarbicato alla colonna e la batteva
con qualcosa, producendo un rumore insopportabile. Macchie scure e umide gli imbrattavano il
mantello. Il pavimento sotto di lui era appiccicaticcio.
«Avevo sperato che gli anni ti avessero ucciso,» gli dissi. «Ora, però sono felice che non sia stato così.
Non avrei voluto essere derubato in questo momento.»
« Anni, hai detto?» Dal suo cappuccio uscì una risata soffocata. «È questo ciò che pensi? Che sarà
quello a farmi morire? Come un Uomo o una Bestia? Cosa pensi che io sia, piccola cosa?»
Tentai una risata.
«Io so cosa sei, ojt'Miyer. Un po' Uomo e un po' Bestia. E in te c'è il peggio delle due specie!»
Si tirò su, tremando sotto il mantello.
«Uno stupido come tutti gli altri? Tu non hai mai neanche intuito la verità, e cioè che ojt'Miyer non è
come nessun altro? Loro sanno... le creature che mi seguono sanno!»
«Sanno cosa?»
Qualcosa di mostruoso si affacciò nella mia mente.
«Tu sei uno stupido come tutti gli altri!», si innervosì. «Non sei affatto meglio di tutti gli altri. Non ti sei
mai fatto delle domande su quelli che mi servono? Uno schiavista dove vende la sua merce... se tutti i
suoi amici so-no anche loro schiavisti? »
Si allontanò dalla colonna. Il mantello gli si attorcigliò intorno e poi cadde giù come fosse acqua...
Un urlo rimase sospeso nella mia gola. Fui scosso dall'orrore che mi stava davanti. Era una figura, eppure
non era affatto una figura... si muoveva e scorreva dentro di sé, luccicava come carne morta che tornava
in vita... Mi girai e corsi più in fretta che potevo... giù per la lunga sala... su peril corridoio stretto fino
alla superficie... affannavo... il sole cominciò ascaldarmi il volto ed ero libero... c'erano querce scure... il
cielo blu e lenuvole bianche... e quell'orrore chiamato ojt'Miyer era oramai lontanodietro le mie spalle...
.. .Il sogno esplose. Tintinnò come il vetro e svanì. ojt'Miyer rise. Io battei le palpebre, vidi il pallido nido
di cose rosa che strisciavano rapide fuori dalla sua faccia e si attorcigliavano intorno al mio torace.
Troppo tardi: quel senso di umidità mi colò fino alla bocca, mi scivolò lungo la pancia e giù fino alle
gambe. La ragnatela si strinse intorno a me, mi attirò verso di lui... Non c'era più aria intorno a me... e
tutto era nero... e niente aria... per... per respirare! Ebbi un movimento inconsulto di tutto il corpo,
sputai quella cosa dalla mia bocca e lanciai un urlo allucinante...
«Pensavi davvero che potessi morire,» bisbigliò lui nella mia testa. «La morte non è per la mia razza,
Aldair... Lo capisci ora? Guarda più vicino... più vicino...»
«No!»
«Guarda, e vedi cosa c'è là... vieni a vivere per sempre, piccola bestia... vieni a vivere per sempre in
me...»
Mi attirò verso di sé, mi accarezzò con arti simili a rasoi... mi riempì di baci dalle migliaia di dita che
venivano fuori dalla sua faccia... Poi mi indicò il luogo grigio... il luogo dove mi avrebbe preso. Gli altri
che erano arrivati prima si girarono a guardare con occhi ciechi. Per salutarmi con le loro bocche che
non potevano parlare.
« No! »
Cercai di distogliere la mia mente. Il luogo grigio si vanificò. Mi trascinai fuori, mi misi a dargli calci con
tutta la forza di cui ero capace. Un pallido tendine cedette. E poi un altro.
«Maledizione a te,» disse lui infuriato, «è troppo tardi... troppo tardi per questo!»
Gli diedi un altro calcio con la punta dei piedi. ojt'Miyer indietreggiò, emise un suono orribile e tolse
l'aria dai miei polmoni. Le ossa si spezzarono nelle mie braccia. Io urlai, boccheggiai in cerca d'aria e
cacciai indietro il dolore. Cerchi di sangue navigavano davanti ai miei occhi. Dovevo rimanere sveglio...
dovevo combatterlo. Se avessi ceduto anche solo per una frazione di secondo, lui mi avrebbe portato in
quel luogo e non sarei mai più stato in grado di andarmene... Io... io non potevo... non potevo lasciarmi
prendere da lui!
Era quello lo sforzo in cui mi dovevo impegnare, e ci misi tutto me stesso. Il mio braccio partì rapidissimo
nella sua direzione, afferrò qualcosa di umido e la buttò da parte.
ojt'Miyer ululò. Un gelo scuro e mortale mi attanagliò la mente, indugiò
per un po', poi si allontanò. Un urlo terribile e assordante esplose dai polmoni di ojt'Miyer. Il suo corpo
fu scosso da brividi violenti e mi scagliò
lontano da lui. Caddi pesantemente a terra, battendo la testa sul pavimento. Il dolore che provai fu
talmente forte che per poco non svenni. Mi allontanai con movimenti simili a quelli di un granchio, mi
girai e guardai ojt'Miyer. Si stava trascinando dietro la colonna come una creatura impazzita. Con un urlo
allucinante cominciò a strapparsi le membra del suo stesso corpo, procurandosi atroci ferite una dopo
l'altra. Fissai quella scena a dir poco allibito. Non mi illudevo certo che potessero essere stati i miei
deboli tentativi ad aver causato a quell'orrida creatura tanto danno. Eppure, stava morendo: si stava
uccidendo più in fretta che poteva.
Attesi.
Quando tutto fu finito, mi avvicinai tanto quanto riuscii ad osare e lo guardai. Non c'era niente da
vedere. Un mantello vuoto.
Un'umida macchia gialla. E un odore di rame e di cenere... EPILOGO
«Sei stato molto tranquillo in questi ultimi giorni, Aldair. Non penso che tu abbia detto più di mezza
dozzina di parole.»
Alzai lo sguardo su Corysia e poi lo feci scorrere dietro di lei. Dietro all'ampia terrazza di pietra c'era un
sentiero di sabbia bianca e ancora dietro le acque profonde del Mare Meridionale con il loro splendido
colore verde-blu. La villa si trovava sulla costa di Nicea. Era stata la casa di qualche nobile ormai morto
da tempo, e era ancora in buone condizioni. La sedia era molto comoda, e avevo di fianco a me un piatto
di cipolle verdi e un bel boccale di birra fresca. Corysia era vicino a me. Non sentivo davvero nessun'altra
esigenza.
«Le femmine non sono mai soddisfatte,» le dissi. «Pensano sempre che tu parli o troppo, o troppo
poco.»
Lei si avvicinò a me e si sedette sul basso muretto di pietre. «Io ti conosco, Aldair.»
«E chi potrebbe negarlo?»
«Io so perché tu parli molto. E perché non dici assolutamente nulla. Non sei costretto a dirmelo se non
ne hai voglia.»
«Dirti cosa?», chiesi con tutta l'innocenza di cui ero capace. Corysia si accigliò.
«Va bene, Aldair.» Guardò il mare, poi si girò di nuovo verso di me. «È
venuto Rhalgorn mentre tu dormivi. Seppelliranno Caldus domani. Alla Fortezza di Amazzone.»
«Noi ci andremo, naturalmente.»
«Te la senti?»
«Corysia, ho solo una costola un po' incrinata. Non mi pare che sia qualcosa in grado di mettere un
guerriero fuori combattimento.»
Corysia parve divertita.
«Tu hai due costole rotte. E un braccio fratturato. E...»
«Sia quel che sia. Ad ogni modo noi ci andremo. Un viaggio di due o tre secondi non mi stancherà poi
così tanto.» Allungai la mano per prendere il boccale di birra e ne bevvi una bella sorsata. «È vissuto fino
a vedere la fine dell'avventura,» dissi, «sono molto contento di questo.»
«Era molto vecchio. B'Wayne dice che semplicemente... si è spento. Un buon modo per morire, se devo
dire la mia.»
«E Becky-Sue? Sta bene?»
«Sì, abbastanza,» disse Corysia. «O comunque lo sarà. C'è un capitano chiamato Morgan. Ti ricordi di
lui? Era nella squadra che abbiamo incontrato quando siamo arrivati alla Fortezza.»
«Sì, mi ricordo di lui.»
«Bene. Io credo che sia lui il motivo per cui Becky-Sye starà presto bene.»
«Oh, ne sono contento!»
C'erano delle altre novità, ma per la maggior parte, ne ero già a conoscenza. Oltre a Rhalgorn, mentre
dormivo, erano venuti anche B'Wayne e Te'dchak. C'erano ancora alcune navicelle dei mostri in
circolazione, ma i nostri piloti le stavano inseguendo e mettendo ad una ad una fuori combattimento.
Tutto lasciava credere che non ci sarebbe voluto ancora molto per sbarazzarci definitivamente di tutti
loro.
Stranamente avevamo trovato poche navicelle vuote e abbandonate dopo la battaglia. Te'dchak disse
che avevano perso tutto il loro coraggio appena erano stati privati del loro leader, e che semplicemente
si erano fatti da parte quando avevano appreso che ojt'Miyer era morto.
In questo aveva parzialmente ragione, ma B'Wayne trovò una ragione molto più attendibile.
Gironzolando intorno ad una navicella abbandonata, scoprì che i controlli erano stati cambiati. Le
navicelle avrebbero fatto tutto ciò che avrebbero dovuto... tranne ritornare nei ventisette mondi.
«ojt'Miyer non aveva fiducia in loro,» mi aveva detto B'Wayne dopo questa scoperta. «Questo è ormai
chiaro, Aldair.»
«Suppongo che tu abbia ragione,» gli dissi. E in effetti era così. Anche se non gli dissi perché.
Corysia interruppe il corso dei miei pensieri.
«È ojt'Miyer, non è vero?»
«Che cos'è?»
«La cosa di cui tu non vuoi parlare. Cosa è accaduto laggiù, Aldair? Non credo che debba tenerti tutto
per te.»
«Tenermi cosa, Corysia?» Mi strinsi nelle spalle e mi misi a fissare il mare. «L'ho trovato. Si era
gravemente ferito durante la collisione. L'ho ucciso. È tutto quello che c'è da raccontare. Davvero.»
«Sì?»
«Certo.»
Mentre parlavo tenevo nascosta la faccia dietro al mio boccale di birra, perché Corysia era bravissima a
leggermi in volto le bugie. Prima o poi sarei stato costretto a dirlo a tutti loro.
Loro pensavano ancora che ojt'Miyer fosse come tutti gli altri. Più crudele e scaltro, forse, ma niente di
più di un mostro. Non potevano immaginare che fosse qualcosa di diverso. Sarebbe stato consolante
pensare che non ce n'erano altri della sua specie in giro, che eravamo al sicuro su questo nostro mondo,
lontani come eravamo da altre stelle. Comunque, in tutta sincerità, non ci potevamo sentire per niente
al sicuro. Perché io ora sapevo che erano stati i suoi stessi compagni a scovare ojt'Miyer e a farlo fuori.
Lui era ferito, indebolito... ed occupato con me. Era bastato un attimo e l'avevano preso. Io mi ero
sentito toccare da loro, poi si erano spostati su di una preda più appetibile. Senz'ombra di dubbio lui
rappresentava un bel trofeo, e i suoi fratelli avevano escogitato un modo davvero spaventoso per
eliminarlo.
Lì fuori erano affamati di anime. E quella era una fame davvero terribile... FINE
Document Outline
1 Neal Barrett Jr. - Aldair In Albion (Ita Libro)

2 Neal Barrett Jr. - Lungo I Mari Del Fato

3 Neal Barrett Jr. - Aldair Signore Dei Mari

4 Neal Barrett Jr. - La Legione Dei Semiumani

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