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(Revelations, 1997)
a cura di DOUGLAS E. WINTER
Indice
Uomini e peccati
1
Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni. Verso il mare aperto,
verso il futuro e verso la morte, naturalmente; verso la rivelazione, forse
verso entrambi. E poi toma da dove è venuto, almeno in quei punti in cui
le correnti sono più perverse, dove compaiono i vortici, e dove le acque
sono come gonne di schiuma sui fianchi delle rocce. Da questi angoli, che
ho fatto miei, mi fermo a spiare. Nascondigli impervi sulle rive fangose,
nell'intrico dei rami. Da queste posizioni privilegiate posso guardare
furtivamente il fiume che si contraddice, appuntandomi i particolari nel
mio blocco per poterli analizzare in seguito. Qualche volta mi sono persino
avventurato nelle acque tumultuose: una volta di proposito, e una volta per
errore (un ramo si spezzò sotto di me e io rischiai di affogare, spinto avanti
e indietro tra le rocce come un volano). Non è stato per niente piacevole,
credetemi. Non prestate fede a quello che vi possono raccontare gli
sciamani, che vi dicono, con occhi gonfi, come è bello fare il bagno nel
fiume. È la loro mutevolezza a proteggerli da ogni pericolo. Il resto di noi
è molto più fragile: è più facile che ci ammacchiamo o che ci feriamo
nell'inondazione. Per dire la verità, è terribile trovarsi nel bel mezzo di un
torrente così impetuoso: senza sapere se verremo riportati nell'utero, nel
conforto delle acque materne, o fuori, verso la fredda morte paterna.
Trovarsi a sperare un momento, ed essere allo stremo l'attimo successivo,
senza sapere, per metà del tempo, quale delle due prospettive dia conforto
e quale generi paura.
Ma finché me ne sto al sicuro sulla riva, come un semplice testimone,
penso che sia un buon posto per riflettere. E talvolta la vicinanza
dell'acqua, forse i suoi spruzzi, che velano l'aria, forse il suo scrosciare,
che fa tremare il cuore, provocano delle visioni.
Una volta, per esempio, mentre, seduto nel mio nascondiglio, spiavo il
fiume, immaginai di essermi spostato all'improvviso su una collina. La
scena che avevo davanti era come un mosaico di campi su cui uomini e
donne stavano lavorando. Molto di quello che vedevo in questa scena mi
richiamava alla mente una miniatura medievale. Il faticoso lavoro dei con-
tadini, l'assenza di qualsiasi segno di modernità - un veicolo, un palo del
telegrafo - ma, ancora più di questo, una monotonia in tutto il panorama
che dava la sensazione che il cielo ceruleo e l'orizzonte ondeggiante e tutto
quello che si trovava tra la collina e quell'orizzonte - siepi, sentieri, campi
e casupole - si trovassero sullo stesso piano di visione, ogni particolare
perfettamente a fuoco, e in rapporto perfetto l'uno con l'altro. Mi sembrava
che questo mondo si trovasse in qualche luogo tra la realtà e l'illusione. In
parte era un documento e in parte una decorazione.
Fissai lo sguardo su un uomo che arava a poca distanza da me. Vidi che
stava scavando tra dei cadaveri: la sua pala muovendosi scopriva i
cadaveri, uno dopo l'altro. Si trattava di un cimitero? mi chiesi. Vedevo
che c'erano dei segni nel terreno, ma non mi sembravano delle tombe: si
trattava semplicemente di ramoscelli privi di foglie, infilati nel terreno per
segnalare la presenza dei cadaveri, che erano stati seppelliti a intervalli
regolari in tutto il campo.
Poi mi resi conto del mio errore. Tra i cadaveri si vedeva movimento. Si
rigiravano nel loro letto di vermi in modo da poter guardare il cielo,
stiracchiando le loro membra pallide e nude come chi si risveglia da un
sonno. Alcuni si misero a sedere; adesso erano in piedi, ancora incerti sulle
loro membra. La maggior parte di loro era vecchia: coi visi avvizziti, i seni
svuotati, gli occhi ciechi, e con i reumatismi. E tuttavia sembravano felici
della loro condizione. Quando iniziarono a sentirsi più solidi sulle gambe e
a credere alla loro buona sorte iniziarono a fare salti, salutandosi l'un
l'altro, mettendo in mostra sorrisi senza denti. Poi iniziarono a farsi strada
sul sentiero pieno di solchi che portava al raggruppamento di capanne che
si trovava a poca distanza dal campo, col passo che si faceva più sicuro via
via che camminavano. Vidi le porte delle capanne che si spalancavano,
mentre i morti venivano accolti come se fossero stati attesi. Furono accesi
dei fuochi per riscaldarli, e davanti a loro venne posato dello stufato con
pane e vino. Mangiarono, si vestirono, e poi si sedettero ad ascoltare i
bambini dei loro ospiti, che parlavano loro con una grande solennità, come
fanno i bambini.
Dopo un certo tempo, iniziarono a vivere: iniziarono ad assumersi i
compiti degli uomini e delle donne che hanno scopo e appetito. E mentre
facevano questo e ricoprivano i tetti di paglia e pescavano e pregavano o
rimanevano seduti a contemplare il cielo, vidi che il fardello degli anni gli
cadeva di dosso. Vidi che i loro capelli si facevano più folti, e la loro carne
più rubiconda; vidi che i seni delle donne diventavano più voluttuosi e che
le loro facce stanche diventavano lisce, vidi gli uomini diventare più forti,
e le loro gengive riempirsi di denti, e vidi i due sessi posarsi addosso occhi
luminosi e sposarsi.
Adesso capivo la visione con una maggiore chiarezza. Queste persone
erano nate dalla tomba, e stavano vivendo all'indietro verso il ventre
materno. Non c'è da meravigliarsi che avessero ascoltato con una tale
attenzione i bambini al momento del loro ritorno; stavano facendo tesoro
della saggezza dei loro anziani.
Morivo dalla voglia di poter ascoltare quello che si dicevano: chiedere
loro, se avevamo una lingua in comune, cosa si provava a essere nati dalla
tomba. Ma questo non poteva succedere. Le coppie che avevo visto
disseppellire dall'uomo nel campo, a questo punto erano tornate
all'infanzia, un'infanzia tenuta in gran conto, e i più vecchi tra loro
venivano portati in braccio, mentre continuavano a rimpicciolirsi, fino a
diventare poco più grandi di vermi rossi nelle mani dei loro protettori. In
questo stato venivano riportati sul terreno dal quale erano venuti, e con
grande irriverenza e sonore risate e spreco di alcol, venivano seppelliti.
Parecchie donne si denudavano e ballavano saltellando sul terreno in modo
da renderlo duro sopra le teste di quei semi. Poi la folla tomava al
villaggio. E lì rimaneva in attesa che il sole e la pioggia e la bontà di Dio
onnipotente desse vita a un'altra generazione.
Questa era stata la visione che avevo avuto sulla riva del fiume. Più di
una volta ero stato avvertito di non cercare un significato in questi sogni.
Vengono, dice molta gente, solo per distoglierci dalle semplici verità di
una vita vissuta in modo pragmatico. Ma io non ci credo, almeno non del
tutto. Anche se nemmeno io riesco a capire il significato di questa visione,
o di qualsiasi altra che vi possa raccontare, questo non significa che non
possa con profitto essere usata per la sua saggezza.
***
Quest'uomo, per esempio, che si muove adesso tra gli alberi, con le scar-
pe che spolverano il ghiaccio dall'erba, che fissa la riva e le acque con gli
occhi, non è venuto qua alla ricerca di una rivelazione. Vuole solo trovare
la donna con cui ha diviso il suo lurido tugurio, a qualche miglio
controcorrente da qua, negli ultimi quattro anni. Si chiama Agnes. Il nome
di lui è Martin, ma lei, per qualche ragione che non ricorda, lo ha
soprannominato Shank, e così è rimasto. Si tratta anche, diciamocela,
dell'uomo più brutto di tutta questa parte dell'Inghilterra, la sua faccia è
un'accozzaglia di bitorzoli e paresi, la barba, che lui taglia di rado, è
incolta.
Manca un giorno all'anno Mille, e la maggior parte degli uomini e delle
donne che hanno timor di Dio che vivono lungo il fiume si sono riuniti
nella chiesa del villaggio di Tress per ringraziare il loro redentore. Ma
Shank ha una sola speranza di redenzione: la sua Agnes che ha osato
vivere con lui a dispetto della sua bruttezza e della sua anima violenta, la
sua Agnes che è uscita all'alba dicendo che doveva fare acqua, e che non
era tornata al loro letto accanto al focolare, la sua Agnes che una volta gli
aveva detto di non credere nel paradiso, ma che a lei sarebbe bastato
dividere la tomba con lui per l'eternità, diventare polvere al suo fianco. Lui
non le aveva lasciato capire quanto lo avesse commosso udire tali parole.
Solo più tardi, solo vicino al fiume, aveva udito dei suoni animaleschi
nelle vicinanze e si era reso conto che si trattava del gemito del suo pianto
pieno di gratitudine.
Nessuno di quelli che abitano lungo le rive del fiume amano Agnes più
di Shank. Anche se ha un cuore grande e i fianchi larghi, il suo corpo tra le
gambe è fatto in un modo strano; ha qualcosa dell'anatomia maschile e
qualcosa di quella femminile; è stranamente configurato. A Shank non
importa. In realtà lui trae conforto dal fatto che, nonostante i suoi capelli
siano lucidi e neri e che i suoi occhi siano fieri, nessun uomo la prende-
rebbe in moglie. E allora che importanza ha che lei non gli possa dare
bambini: lui odia i bambini. Lui odia ogni cosa, a parte Agnes e il fiume.
Non si tratta di un tipo di vita che si possa definire civilizzata. Non
hanno parole affettuose l'uno per l'altra. Non pregano. Non parlano di
niente che sia astratto, parlano solo del cibo, del fuoco, del tetto che hanno
sopra la testa. A volte scopano, anche se nessuno dei due lo fa con grande
appetito. A volte, solo nei boschi, Shank si masturba. Occasionalmente
stupra un animale. Ma, comunque, loro vivono in una specie di
matrimonio, un matrimonio privo, per dire la verità, di qualsiasi pretesa di
civiltà, ma legati uno all'altra come una qualsiasi coppia che si sia
scambiata i voti davanti all'altare.
***
Ma adesso Agnes se n'è andata e Shank è pieno di paura. Questi sono
tempi senza legge; non sarebbe la prima volta che qualche donna sia stata
aggredita e violentata lungo il fiume da uomini venuti dalla collina, i quali,
una volta commesso il loro crimine, ritornano da dove sono venuti,
rendendo poco probabile la punizione. E lui ha udito cose anche più strane
di questa. Di uomini che non sono esattamente uomini, ma che in certe
occasioni hanno preso la forma di animali, che si sono impossessati di
bambini e che li hanno divorati. Un uomo, solo l'estate scorsa, fu trovato
fuori di casa sua, dopo che si era rimpinzato della carne e del sangue di un
neonato, lasciando la culla vuota e le fasce strappate. Questa creatura,
almeno, venne impiccata e davanti all'albero disse che il Vecchio era
entrato in lui e gli aveva detto: Allo scadere del millennio il Figlio di Dio
tornerà nel mondo dei vivi, e il mio potere sugli uomini finirà, quindi devo
fare peggio che posso.
Shank non credette a questa storia quando la udì, ma adesso si chiede se
non è possibile che fosse vera, c'è qualcosa di strano in questa giornata,
qualcosa a cui non riesce a dare un nome. Estrae il suo coltello da caccia e
se lo tiene al fianco mentre avanza. Sarà pronto a qualsiasi cosa si trovi
davanti; uomo, animale, o entrambi.
E adesso la vede. Eccola, nel fango, a faccia in giù nel fango. Non è
nuda, ma il suo abito è stato sollevato dall'acqua che la lambisce, e ne
espone i glutei. La sua carne è voluttuosa, persino nella luce incerta di
dicembre, il suo pallore vivido contro il fango scuro. La prima cosa che fa
Shank quando arriva vicino al corpo è tirare la stoffa ruvida e impregnata
d'acqua sulle sue nudità, in modo che il cielo e il fiume non la vedano in
questo modo. Solo allora tira fuori la sua faccia dal fango e la gira
sottosopra. Le ferite che le hanno tolto la vita sono sul collo, ma ce ne
sono molte altre, tagli più piccoli sulle braccia e sulle mani, dove ha
cercato di lottare con il suo assassino, alcuni sul seno, che diventano
visibili solo quando Shank le lava il viso e il busto con manciate di acqua
gelata presa dal fiume. C'è poco sangue, la maggior parte è già stata lavata
via, le ferite sono solo lembi di pelle da cui fluisce un fluido roseo. Ha gli
occhi chiusi. La bocca è leggermente aperta, e le labbra sono bluastre. Alla
fine, si costringe a guardarla tra le gambe, e scopre che le strane
formazioni del suo sesso sono state tagliate e mutilate orribilmente così
che l'inguine per cui aveva stravisto più di una volta mentre lei dormiva è
diventato un ammasso irriconoscibile di carne straziata. Non ha molte
speranze, ma spera che fosse già morta quando le è stato fatto questo.
Ritorna al fiume, immergendosi per qualche metro, per essere sicuro che
la può lavare con l'acqua più pulita, e con tenerezza, con una tenerezza
anche maggiore di quando le aveva lavato la faccia, le lava l'inguine. Oh,
adesso piange, e continua a piangere, e forse un poeta direbbe che
aggiunge le sue lacrime all'acqua con lui le lava il sesso, e se le lacrime
potessero guarire, come a volte fanno nei poemi, se il dolore potesse fare
dei miracoli, come a volte succede nella narrativa, allora questa devozione
potrebbe restituirla alla sua curiosa interezza. Ma naturalmente non è così.
E alla fine non riesce nemmeno più a piangere.
La solleva e la porta tra gli alberi, posandola su un delicato cuscino di
erba ghiacciata. Poi pensa, se perdo dell'altro tempo a occuparmi di lei,
l'uomo che le ha fatto questo se ne andrà di certo, tornerà tra le colline.
La posso seppellire più tardi. Ma posso solo catturarlo adesso. E per
quanto lei abbia sofferto lui soffrirà di più, oh, molto di più. Per quanto
abbia gridato forte, implorandolo di smettere, il suo assassino griderà
molto più forte.
In questo momento lui diventa un'altra cosa: diventa la morte vivente, un
uomo la cui unica espressione è il suo coltello. Adesso non è adirato, i
coltelli non si adirano. Adesso non ha lacrime, i coltelli non ne hanno. È
semplicemente affilato e appuntito e ineluttabile.
Non fatevi confortare da questo, anche se è difficile, lo so, non godere
dell'attimo mentre si muove tra gli alberi; è difficile non provare piacere
per la semplicità di ciò che è diventato.
Provo pena per Padre Michael e per le sue sbornie. Mi piacerebbe man-
dargli Cristo, proprio in questo momento. Mi piacerebbe descrivere come -
mentre Michael si versava un altro bicchiere di vino - avesse udito il suono
delle colombe tra le querce del sagrato, avesse posato il bicchiere, si fosse
diretto alla porta e avesse visto il Redentore, seduto tra gli alberi, che
erano miracolosamente in fiore. Michael avrebbe lasciato cadere il
bicchiere, avrebbe camminato incerto nella luce invernale, si sarebbe
lasciato cadere in ginocchio e si sarebbe pentito dei suoi peccati. E Gesù
avrebbe posato il palmo insanguinato sulla sua testa, e a bassa voce gli
avrebbe detto che non c'era necessità che temesse gli inferi, perché era
stato salvato.
Ma oggi non mi riesce di trovare Gesù Cristo. La notte scorsa, mentre
ero seduto alla scrivania e organizzavo il lavoro della giornata, pensavo di
poter avere Cristo abbastanza vicino da poterlo descrivere. Ma oggi c'è
troppa nebbia, non riesco a vedere il Figlio, quindi come posso
raffigurarmelo in quel posto dolce come una melodia sotto le querce? Oh,
direte voi, inventatelo: è questo che fanno gli scrittori. A volte questo è
vero: ma non qua, non ora. Questa mattina ho una chiara visione di Padre
Michael, che medita sui terrori dell'inferno mentre beve avidamente il suo
vino: ma il suo Redentore non si vede da nessuna parte.
C'è un uomo di nome Oswald che vive con la famiglia sul limitare del
bosco, a poca distanza dal villaggio. È l'unico uomo nelle vicinanze ad
avere a che fare regolarmente con Shank. Un uomo con un collo tozzo,
calvo, caparbio, a Oswald piace ridere, specialmente davanti alle brutte no-
tizie. I suoi vicini trovano questa cosa sconcertante, e a volte si chiedono
se sia completamente sano, ma in lui c'è una dose di buon senso che è
difficile negare. Quando la più produttiva delle sue quattro mucche morì, e
lui fu trovato a ridere vicino al cadavere, poté solo far notare che sembrava
buffa con le zampe rigide sui fianchi, e che cosa avrebbe potuto fare
comunque, non poteva di certo farla tornare in vita, e allora perché
piangere?
Oggi Shank ha trovato Oswald fuori della sua capanna, seduto su di un
tronco. Sua moglie lo ha buttato fuori, dice lui, finché non smetterà di
stancarla con i suoi stupidi giochi. Shank gli dice cosa è successo ad Agnes
e, una volta tanto, Oswald non ride.
«Sono passati di qua tre montanari. È stato solo un'ora fa. Gli ho parlato
di persona, e posso assicurarti che uno di loro era un tipaccio», dice a
Shank.
Shank gli chiede che aspetto avesse questo mascalzone, e Oswald gli
dice: «Piccolo, con i capelli rossi, con la faccia di un maialino imberbe».
Questo fa ridere Oswald.
«Devo venire con te, per catturarlo?» gli chiede.
Shank risponde di no, questo è un lavoro solo suo. Oswald gli dice che
sarebbe felice di impiccare l'uomo, lo ha fatto in precedenza, quando la
giustizia lo ha richiesto, e gli piace farlo, soprattutto quando scalciano,
questo fatto lo fa sempre ridere. Alla fine, quando Shank se ne va, si offre
di seppellire Agnes. Shank gli risponde di no.
«Almeno lasciami portare il corpo a casa tua», si offre Oswald, «altri-
menti qualche animale la può prendere.»
Shank gli comunica la sua gratitudine, come meglio gli consente il suo
vocabolario limitato, e gli dice che sì, gli piacerebbe che portasse a casa il
corpo di Agnes. Poi se ne va, a caccia del maialino imberbe.
***
E adesso torniamo a Shank, che ha osservato la sua preda per molte ore,
aspettando con pazienza che gli si presentasse l'occasione di fare del male.
Gli uomini hanno alimentato il fuoco per tre volte, in modo che
continuasse a scoppiettare mentre bevevano e parlavano e bevevano di
nuovo. Ma la birra che avevano bevuto aveva preso il sopravvento, e loro
avevano appoggiato le teste per dormire, lasciando che il fuoco si
consumasse. Adesso ci sono solo i tizzoni e alla sua luce irregolare Shank
riesce a immaginare le facce dei tre uomini, inerti sotto le loro pellicce
consunte.
Ha un suo piano: prima prenderà quello che sta più vicino a lui, che è
anche il più grande, e quindi il più pericoloso per lui. O almeno è questo
che lui immagina. In effetti Shank sta per muoversi dal suo nascondiglio
quando il terzo uomo (non il gigante, né l'assassino) si alza barcollando e
con terribili grugniti e schiarimenti di gola si allontana inciampando dal
campo. Shank ne deduce che l'uomo stia andando a pisciare, cosa che gli
torna comoda. Lo ucciderà mentre è impegnato a svuotarsi la vescica. Si
muove rapidamente e con calma verso il limitare del campo e verso il buio
in cui sta barcollando l'uomo, e gli si avvicina rapidamente, trovandosi a
breve distanza da lui, che sta appollaiato vicino a un albero a cagare. Fa
fatica, grugnisce, e impreca. Shank si ritrova addosso all'uomo prima che
lui se ne renda conto, e abilmente gli taglia la gola da un orecchio all'altro.
L'ultimo respiro dell'uomo gli sfugge dalla gola mentre cade sui suoi
escrementi, addosso all'albero.
Shank si gira a guardare gli altri due uomini. Nessuno dei due si è mosso
dal torpore del proprio sonno. Lui non degna l'uomo morto di una seconda
occhiata, ma torna rapidamente verso il fuoco in modo da poter pugnalare
il secondo compagno dell'assassino. È veloce. Alza il coltello, e lo fa
cadere, dritto nel torace dell'uomo. Ma la pelliccia è più spessa di quanto
Shank non avesse immaginato, e impedisce alla lama di compiere ii suo
fatale dovere. L'uomo si alza, ruggendo, con la lama di Shank che gli tiene
la pelliccia infilzata nel torace. Lo getta contro il fuoco, ma a differenza
della sua vittima Shank non è istupidito dall'alcol, e in un battibaleno è di
nuovo addosso all'uomo, e gli infila il coltello nella carne. La pelliccia
cade. L'uomo si guarda il torace e vede il sangue che ne sgorga. In quel
momento Shank lo colpisce di nuovo, questa volta affondando il coltello
nella pancia dell'uomo e muovendolo avanti e indietro, dividendo carne,
muscoli e grasso. Quando lo estrae, il contenuto della pancia esce con lui,
le sue interiora, la sua cena, e la birra. L'uomo emette un gemito, quasi un
singhiozzo, e cade riverso sul pelo. Shank non rimane lì a guardarlo mo-
rire. Si butta addosso all'uomo che Oswald aveva chiamato un maialino
imberbe, l'uomo che farà soffrire ripetutamente per la morte di Agnes.
Il terzo uomo si è svegliato, e naturalmente si è alzato. Ma non ha alcuna
intenzione di combattere: la sua miglior difesa, ha deciso, sta nello
scappare. Shank ha comunque il vantaggio della furia. I suoi polmoni
immettono eroiche boccate d'aria, ha gli arti gonfi e pulsanti per la
passione del momento, sente un'allegria che non ricorda di aver mai
provato prima. Afferra il maiale per i capelli, gli posa il coltello fatale
vicino al collo, e lo taglia, fa un taglio della lunghezza di un dito, non di
più, ma abbastanza, abbastanza da permettere all'uomo di sapere che se
cerca di lottare è un uomo morto. Poi Shank lo trascina verso il fuoco e gli
spinge la faccia verso le fiamme che crepitano dai tizzoni.
«Hai ucciso la mia donna», dice, all'orecchio dell'uomo.
Nonostante il terrore, il maiale protesta, no, no, no, dice, non ha fatto
niente. Forse uno degli altri, ma non lui. Giura, sul sangue sacro di Cristo,
non ha fatto niente.
Shank spinge la faccia del suo prigioniero più vicino al fuoco. I riccioli
della barba disordinata dell'uomo prendono fuoco, e il fuoco si alza, forte e
luminoso. Lui ripete che non ha colpa, ma con ogni parola di protesta
viene spinto più vicino alla fonte di calore. Adesso la sua barba ha preso
fuoco, i capelli vicino alle orecchie si raggrinziscono, come del resto la
frangia e le ciglia. Inizia a essere colto dal panico, lotta per liberarsi di
Shank. Le sue parole di diniego sono diventate urla. Lui si agita e alcuni
dei tizzoni volano via, ma lui non riesce a liberarsi del suo tormentatore,
che all'improvviso si stanca di torturarlo e spinge la faccia dell'uomo in
quello che resta del fuoco. Oh, il maiale strilla, e rinvigorita dall'agonia la
sua agitazione raddoppia, fino a diventare abbastanza forte da liberarsi di
Shank. Tira fuori la faccia dai tizzoni, con la barba e i capelli in fiamme, e
mettendosi in piedi, corre strillando. Shank per un attimo rimane
paralizzato, affascinato dallo spettacolo che gli si para davanti. Vorrebbe
che ci fosse qualcuno con cui dividerlo, forse Oswald, sì, Oswald
riderebbe fino alle lacrime.
Poi all'improvviso, l'uomo si allontana, ancora in fiamme, incespicando
tra gli alberi. Shank raccoglie il coltello, che aveva lasciato cadere nella
lotta, e lo segue. La preda non è difficile da trovare: la sua testa è una palla
luminosa che si agita nel buio.
E allora, Shank ode il fiume. Il montanaro lo ha portato al fiume. Può
vedere le acque che si muovono davanti a lui, riesce persino a vedere la
sua preda che zoppica nell'acqua schiumosa, in cui si butta per porre fine
alla sua agonia. Le fiamme si spengono, ma adesso Shank sta camminando
nella fanghiglia ghiacciata, e riesce ancora a vedere con una certa
chiarezza la sua vittima. Si getta alla caccia nel fiume, afferra l'uomo, che
ruggisce sopra il rombo del fiume. Sono entrati nel fiume dove la corrente
corre bianca e veloce e nel loro essere sfiniti e feriti nessuno dei due riesce
a opporvisi. La vittima di Shank è la prima a cadere, e Shank ne trae
vantaggio, spingendo la testa dell'uomo sotto l'acqua. Non lo affogherà, ha
deciso, si limiterà a indebolirlo abbastanza da renderlo obbediente. Poi lo
riporterà sulla riva, e inizierà a tagliarlo, e continuerà a farlo fino al suo
ultimo respiro. Solo allora, quando l'uomo non sarà più in grado di
esprimere la sua sofferenza, gli accoltellerà gli occhi e considererà
vendicata la morte di Agnes.
Ma prima deve tirare l'uomo fuori dall'acqua, cosa che si sta dimo-
strando diffìcile. Anche se la testa del maiale è stata sotto per un po', graf-
fia ancora la faccia di Shank, lasciandogli dei segni sulle guance. Shank
tira l'uomo in superficie, cogliendo alla luce della luna una visione di come
il fuoco lo ha riempito di vesciche, poi colpisce la faccia ferita con un
pugno. L'uomo non rinuncia ancora a combattere. Raggiunge il collo di
Shank e lo tira giù nell'acqua. Questa volta sono le gambe di Shank a
essere trascinate via dalla corrente. Legati insieme, vengono portati a valle,
gettati a tratti contro le rocce, poi catturati da un mucchio di detriti (i rami
degli alberi, gli escrementi, una capra morta). La violenza del loro
passaggio toglie il fiato a Shank, che però non molla la presa sulla sua
preda. È una caparbietà che lo distruggerà. Il corpo dell'uomo diventa più
pesante, sembra, e mentre sprofonda tira Shank giù con lui. Shank inspira
acqua, sputa, inala un'altra boccata, poi sprofonda sotto la superficie.
Solo ora si accorge che l'uomo che sembrava avere intenti così criminosi
è ormai annegato. È solamente la reazione dei suoi muscoli irrigiditi che lo
fa stringere a Shank in questo modo. Il resto, il movimento del suo corpo,
il modo in cui sembra voler trascinare Shank con sé di proposito, è tutto il
lavoro del fiume. Comunque, è troppo tardi per rinunciare alla lotta. Non
avrebbe potuto liberarsi nemmeno se avesse voluto, l'acqua presto ha la
meglio su di lui. E lui continua ad andare giù, finché esala l'ultimo respiro
pieno di sabbia in una nuvola di bolle d'argento.
Nella mia mente, il fiume alla fine arriva al capanno dove Agnes e
Shank hanno vissuto insieme. Ci vogliono quattro anni, quattro anni in cui
nessuno si avvicina al posto, a causa delle superstizioni, ma un febbraio
l'improvviso bel tempo fa sciogliere la neve pesante, e così le acque del
fiume gonfiandosi si alzano più di quanto non abbiano mai fatto a memoria
d'uomo, e il fiume entra nel capanno. È come un ospite non invitato, che
spalanca la porta, e rivolta il posto sottosopra. Riduce i pochi mobili in
frammenti, lava via gli ultimi residui di cenere dal camino, si impossessa
dei crani degli animali che Shank aveva collezionato e i sassi lisci e chiari
che Agnes era solita portare a casa dalle rive del fiume, e che chiamava i
suoi bambini, prende alcune ciotole di legno, una fiasca, un coltello o due,
le pellicce consunte sotto cui dormivano, si impossessa di tutto e tutto lava
via.
I muri del capanno stesso sopravvivono per un'altra stagione, ma col
calore dell'estate successiva il posto all'improvviso cede. L'inverno se-
guente, quando arriva ancora, l'inondazione si porta via quello che era
restato, e in primavera l'erba cresce dove c'era stata la capanna.
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Non avverrà più alcun cambiamento importante in questo luogo per
quasi mille anni. Il fiume continuerà a scorrere, un anno dopo l'altro,
talvolta arrivando quasi a gelare negli inverni più freddi, o ridotto a un
ruscelletto fangoso nelle estati più calde, ma sostanzialmente inalterato.
Oh, sta intagliando un bel sentiero, per dire la verità, erodendo una riva e
depositando limo sull'altra. Ma questi cambiamenti sono troppo sottili per
essere visibili al solo passare di un chiliad.
Gli alberi tra le sue rive crescono più lussureggianti, naturalmente.
Gettano i loro semi, e quando l'albero originale perisce per malattia o
vecchiaia, quei semi sono sostenuti dal caldo legno e dalle foglie che si
sono decomposti e crescono rigogliosi. In alcuni anni il sottobosco è
addirittura impenetrabile, poi un piccolo incendio elimina il legno morto, e
ha inizio un nuovo ciclo di crescita.
Posso dirvi poco delle storie degli uomini che si sono sviluppate là,
senza dubbio ci sono un numero infinito di avvenimenti che hanno luogo
in un posto simile, atti di seduzione e di devozione, piccole gentilezze,
piccole crudeltà. Niente degno di nota, tuttavia, a parte questo: nell'estate
del 1850, il pittore John Everett Millais venne qua, alla ricerca di una
scena di un fiume da poter dipingere in un quadro che aveva progettato. Il
soggetto deve essere quello di Ofelia che annega, che si allontana
galleggiando con la sua ghirlanda di fiori. Millais si fermò per un giorno a
studiare le anse del fiume. Voleva trovare un posto che si adattasse
maggiormente ai particolari del testo shakespeariano, ma questo fiume non
ha salici. Alla fine scelse il fiume Hogsmill, nel Surrey, e l'anno successivo
fu là che dipinse il suo capolavoro.
Il paesaggio non subisce cambiamenti significativi fino al 1940, con
l'approssimarsi della fine del millennio. Nel settembre di quell'anno un
solitario bombardiere della Luftwaffe, azzoppato dal fuoco della
contraerea mentre attraversa la costa dell'Inghilterra, lascia cadere un
carico intero di bombe destinate a Londra, e parecchie finiscono nei pressi
del fiume. Una di queste non esplode e, persa nel sottobosco, non sarà
scoperta che molto tempo dopo. Una seconda esplode appena a nord del
villaggio, uccidendo del bestiame. È la terza bomba di cui ci occuperemo,
perché fa saltare per aria la chiesa di Tress, liberando dalle loro tombe i
molti buoni cristiani che vi avevano giaciuto convinti che non avrebbero
mai più visto il cielo fino al giorno del giudizio.
Quando, alla fine della guerra, la chiesa viene ricostruita, un artista che
era venuto a vedere il fiume per la prima volta perché era un seguace di
Millais, e aveva erroneamente creduto che il dipinto di Ofelia fosse stato
eseguito qui (e si innamorò al punto tale della tranquillità del posto da
trasferirvi la sua famiglia la primavera successiva), venne incaricato di
disegnare quattro finestre di vetro colorato. Solo tre dei quattro disegni
furono realizzati e consegnati. Sono gloriosi, il trionfo della sua carriera.
Uno riproduce Giovanni Battista, in piedi nel fiume, circondato da una
congregazione di accoliti felici che aspettano di venire battezzati. Il
secondo mostra Cristoforo che regge il Bambin Gesù sulle spalle, in un
altro fiume, questo più selvaggio di quello in cui è in piedi Giovanni. Il
terzo rappresenta Cristo il Redentore che cammina sulle acque, mentre il
pesce gli lambisce i piedi feriti. In caso qualcuno possa pensare che si
trattasse delle acque della Galilea, il pittore si assicurò che i pesci fossero
trote di fiume.
La quarta finestra avrebbe dovuto rappresentare il secondo avvento,
quando il fiume sarebbe risalito verso le sue sorgenti, e il sole, la luna e le
stelle avrebbero tutte brillato insieme, e Cristo, e l'anima spaventata che lo
reggeva, e lo sciamano che lo aveva battezzato sarebbero tornati in gloria a
perdonare i peccatori e a dividere con loro il segreto della benedizione. Ma
l'artista muore di un attacco di cuore prima di finire il suo capolavoro, e la
quarta finestra viene invece fatta di vetro liscio, attraverso il quale la
congregazione vede solo il cielo.
1900-1909
La grande burrasca
di Joe R. Lansdale
ore 18.38
ore 21.12
Più tardi quella sera la rossa fece qualcosa che gli diede fastidio e lui le
fece un altro occhio nero, poi si stiracchiò, le si stese addosso e si
addormentò. Mentre dormiva, sognò di avere una testa piena di capelli
come quella del signor Ronald Beems.
Fuori, il vento stava aumentando leggermente, soffiando caldo, man-
dando aria che sapeva di salmastro nelle strade di Galveston e attraverso le
finestre del bordello.
ore 21.34
Bill Cooper stava lavorando fuori sul terrazzo del primo piano che stava
costruendo. L'aveva quasi ultimato se non per qualche lavoro di finitura.
Senza che se ne rendesse conto da un po' di tempo si era fatto buio, e lui
stava cercando di finire al lume di una lanterna. Stava martellando un'asse
laterale quando sentì una goccia di pioggia. Si interruppe e guardò in su. Il
cielo notturno aveva un aspetto particolare, che per un attimo lo fece
rimanere in osservazione. Studiò il cielo un momento più a lungo, e decise
che non era poi così brutto. Era solo la luce delle stelle a dargli quello
strano aspetto. Su di lui non caddero altre gocce.
Bill gettò il martello sul pavimento, lasciando il chiodo infilato solo per
metà, raccolse la lanterna, ed entrò in casa per tenere compagnia a sua
moglie e al suo figlioletto. Per quel giorno ne aveva avuto abbastanza.
ore 23.01
***
Centro della perturbazione vicino alle Key West si muove verso nord.
Imbarcazioni dirette verso i porti della Florida e di Cuba dovrebbero
esercitare cautela. È probabile che la tempesta diventi pericolosa.
ore 10.23
ore 17.23
ore 17.30
«Lil» Arthur quella sera corse allo Sporting Club e vi rimase davanti,
con le mani nelle tasche dei pantaloni. Il vento era frizzante e l'aria aspra.
Sabato avrebbe combattuto con un contendente alla corona dei pesi
massimi, e anche se non sarebbe stato classificato come un incontro
ufficiale e McBride aveva acconsentito a partecipare per fare un po' di
denaro, «Lil» Arthur era felice di avere la possibilità di combattere con un
uomo che un giorno avrebbe potuto competere per il titolo. E se lo avesse
battuto, anche se non sarebbe stato riportato nei record di McBride, «Lil»
Arthur avrebbe saputo che era successo, avrebbe sconfitto uno sfidante al
campionato mondiale dei pesi massimi.
Ne aveva fatta di strada dalle Battle Royales dove aveva iniziato la sua
carriera. Era il suo amico Ernest che lo aveva convinto a iniziare. Una
volta al mese, a volte con una maggiore frequenza, dei pugili bianchi
volevano che una manciata di ragazzi e di uomini neri venissero al club
per un combattimento aperto a tutti. Ne mettevano nove o dieci su un ring,
a volte li facevano spogliare nudi e gli facevano indossare delle maschere
Sambo. Lo aveva fatto anche lui una volta.
Mentre gli uomini di colore combattevano, i bianchi gettavano del
denaro e li incitavano a uccidersi l'un l'altro. A volte ne legavano due
insieme alle caviglie, e li facevano combattere. Il sangue scorreva come
melassa sulle frittelle. C'erano parecchie ossa rotte. E muscoli strappati.
Per i bianchi era un gran divertimento, guardare un paio di negri che si
riempivano di pugni l'un l'altro.
«Lil» Arthur scoprì di essere bravo in tutto quel combattere, e buttò
persino giù Ernest, in realtà ponendo fine alla loro amicizia. Non poteva
farne a meno. Era salito sul ring, il sangue gli era andato alla testa per
l'eccitazione, e avrebbe colpito chiunque si fosse avvicinato.
Iniziò a boxare regolarmente, acquistò una certa abilità. Niente più
Battle Royales per lui. Si fece una reputazione tra i pugili di colore, e col
tempo la sua fama raggiunse anche i bianchi.
Lo Sporting Club, a corto di nuovi sfidanti bianchi per il loro campione,
Forrest Thomas, diede a «Lil» Arthur venticinque dollari per confrontarsi
con il loro uomo, pensando che un uomo di colore e un bianco sarebbero
stati una novità, e che la superiorità della razza bianca sarebbe stata
provata in un match di abilità e di velocità.
Appena prima del combattimento, «Lil» Arthur disse le preghiere, e poi
pensando che avrebbe combattuto davanti a un mucchio di bianchi arrab-
biati e meschini e, per la prima volta, davanti a donne bianche - donne
dell'ambiente del pugilato, ma pur sempre donne, che volevano vedere un
nero picchiato fino a che fosse ridotto in gelatina — prese della garza e si
fasciò il pene. Lo fasciò in modo da renderlo spesso come un manganello.
Immaginava che avrebbe dato a quei bianchi qualcosa da guardare. La
cosa che temevano maggiormente. Uno stallone nero come il carbone.
Pestò Forrest Thomas come se fosse stato un figliastro impertinente, lo
pestò così duramente che interruppero il combattimento in modo che nes-
suno potesse vedere un uomo di colore che metteva al tappeto un bianco.
Senza averlo veramente voluto lo Sporting Club fu costretto a conse-
gnare il titolo a «Lil» Arthur John Johnson, e il fatto che adesso fosse un
uomo di colore a detenere la preziosa corona era come un osso di pollo che
gli si fosse conficcato in gola. Soprattutto nella gola di Beems. Come
presidente in carica dello Sporting Club l'incontro era stato una sua idea, e
Forrest Thomas era stato il suo uomo.
Entra in scena McBride. Beems aveva fatto il lavoro di preparazione,
convincendo un paio dei membri più benestanti dello Sporting Club a
finanziare un combattimento. Uno in cui un contendente vero alla corona
dei pesi massimi potesse pestare «Lil» Arthur e restituire la corona locale a
un uomo bianco, anche se quell'uomo avrebbe dovuto restituire la corona
una volta tornato a Chicago, lasciando il posto di nuovo vacante. In questo
caso, «Lil» Arthur poteva essere sicuro che non avrebbe mai avuto un'altra
possibilità di competere al titolo dello Sporting Club. In un modo o
nell'altro lo volevano fuori.
«Lil» Arthur non aveva mai visto McBride. Non sapeva come combat-
teva. Aveva solo sentito dire che era duro come la roccia e aveva delle
palle come una scimmia di ottone. Gli piaceva pensare di essere come lui.
Non aveva intenzione di rinunciare al titolo. Sabato avrebbe scoperto se
doveva cominciare a farlo.
ore 21.00
La rossa, con un labbro gonfio, due occhi neri e un livido sulla pancia, si
girò con circospezione e posò il braccio sul torace villoso di McBride. «Ne
hai avuto abbastanza?»
«Te lo dirò io quando ne ho avuto abbastanza.»
«Stavo pensando che potrei andare dabbasso a prendere qualcosa da
mangiare. Torno subito.»
«Avevi tempo prima. Se non hai mangiato, peggio per te. Io pago, qui. O
paga lo Sporting Club, fa lo stesso.»
«Un motore ha bisogno di carburante, se vuoi che funzioni.»
«Sì?»
«Sì.» La rossa si avvicinò e fece passare la mano tra i capelli di
McBride.
McBride le mollò uno schiaffo. «Non mi toccare i capelli. Stai lontana
dai miei capelli. E stai zitta. E non m'importa se tu vuoi scopare o no. Se
voglio scopare io, si scopa. Chiaro?»
«Sissignore.»
«Ascoltami bene, vado a cagare. Quando torno, voglio che ti lavi quel
brutto buco. Mi fa schifo sbattertelo dentro se non è pulito. Quindi lavati.»
«Fa così caldo. Sudo. E tu comunque mi sporcherai di nuovo.»
«Non mi importa. Tu lavati quella roba. A metterci l'uccello così mi si
ammoscia. M'attacchi qualcosa e vengo a cercarti e ti scambio il buco del
culo con la figa a suon di calci.»
«Non ho nessuna malattia, McBride.»
«Bene.»
«Perché sei così cattivo?» gli chiese la rossa all'improvviso, stupendosi
lei stessa che una frase del genere le fosse uscita di bocca. Si accorse che
un'osservazione di questo tipo non solo avrebbe fatto infuriare McBride,
ma che era comunque una domanda stupida. Era come chiedere a un pollo
perché beccava la merda. Lo faceva e basta. McBride era cattivo perché lo
era, tutto qua.
Ma mentre la rossa temeva il peggio, McBride diventava filosofo. «Non
si tratta di essere cattivo o no. È solo perché io posso fare quello che
voglio, e gli altri no. Hai capito, sorellina?»
«Sicuro. Non intendevo dire niente di male.»
«Se c'è uno capace di fare a me quello che faccio io agli altri, va bene. È
così che funziona. Non c'è uomo, donna o animale sulla terra che valga
qualcosa. Hai capito?»
«Certo, hai ragione.»
«Puoi scommetterci che ho ragione. L'unica cosa pura a questo mondo è
un bambino. Di essere umano o di animale un cucciolo nasce affamato e
innocente. Non può fare niente per conto suo. Poi cresce e diventa proprio
come gli altri. Un bambino è a posto fino a circa due anni. Poi dovrebbe
essere soffocato in modo da lasciare lo spazio disponibile. Mia sorella non
ha dato problemi fin quando ha avuto circa due anni, poi non ha fatto altro
che pretendere cose, con mia madre che gliele dava. Più tardi, nemmeno
mia madre ha più voluto aver niente a che fare con lei, proprio come me.
Superati i due anni non ha più voluto dir altro che guai. Come me. Come
chiunque altro.»
«Certo», rispose la rossa.
«Oh, stai zitta, non distingui il tuo culo dall'impronta di un maiale.»
McBride si alzò per andare in bagno. Prese il revolver, il portafogli e il
rasoio. Non si sarebbe certo fidato di una puttana, o di nessun'altra donna,
per quel che contava, almeno finché avesse potuto sbatterne una.
Mentre era al cesso a provare il nuovo gabinetto con lo scaricò dell'ac-
qua, la rossa uscì dal letto con addosso solo il lenzuolo. Scivolò fuori della
porta, scese dabbasso, e uscì in strada. Fece cenno a un uomo in un
calesse, lo convinse a darle un passaggio, lieta di trovarsi fuori da quella
situazione, senza preoccuparsi della direzione che avrebbe preso.
ore 21.49
ore 13.06
ore 14.30
ore 16.30
***
ore 16.45
ore 18.30
ore 20.00
ore 8.06
Issac Cline aveva guidato il suo calesse fino alla spiaggia, avvisando
coloro che abitavano nelle vicinanze di evacuare. Qualcuno lo aveva fatto.
Qualcun altro era rimasto. Molti erano passati attraverso parecchie
tempeste e pensavano che avrebbero superato anche quest'altra.
Tuttavia molti abitanti e turisti si erano diretti verso il lungo ponte a
tralicci che portava alla terraferma del Texas.
Carri, calessi, cavalli e pedoni si erano ammassati sul ponte come formi-
che su un biscotto. Il cielo, che era stato stranamente chiaro e luminoso
nella prima mattinata, adesso era diventato grigio e aveva iniziato a
piovere. Dei tre ponti ferroviari che portavano alla terraferma, uno era già
sott'acqua.
ore 15.45
Henry Johnson, con «Lil» Arthur che lo aiutava, salì sul carro accanto a
sua moglie. Tina reggeva un ombrello sopra le loro teste. Sul retro del
carro c'era il resto della famiglia, protetto da dei pali verticali piantati negli
angoli, che erano stati coperti con la tela cerata che era servita per il tetto
di casa.
Per tutto il giorno Henry aveva discusso se avessero dovuto andarsene.
Entro le due del pomeriggio si era reso conto che non si trattava semplice-
mente di un altro temporale. Questo sarebbe stato un maledetto avveni-
mento di portata eccezionale. Aveva organizzato la sua famiglia, e adesso,
in una maniera o nell'altra, sarebbe partito. Diede un'occhiata al suo tugu-
rio, all'acqua che scrosciava dal tetto come le cascate del Niagara. Non era
molto, ma era tutto quello che aveva. Dubitava che avrebbe retto per molto
sotto questo diluvio, ma cercò di non pensarci. Aveva delle preoccupazioni
più grosse. Disse a «Lil» Arthur: «Tu verrai con noi».
«Devo combattere», gli rispose il ragazzo.
«Tu non devi fare niente. Questo temporale ti porterà col culo in mare.»
«Devo, papà.»
Tina disse: «Forse tuo padre ha ragione, bambino. Dovresti venire».
«Sai che non posso. Quando il combattimento sarà finito, vi raggiunge-
rò. Lo prometto. In effetti con un tempo così ci metterò meno a vincere.»
«Fallo», disse Tina.
«Lil» Arthur salì sul carro, abbracciò la mamma e strinse la mano al
padre. Henry parlò rapidamente e senza guardare «Lil» Arthur disse:
«Buona fortuna figliolo. Mettilo al tappeto».
«Lil» Arthur annuì. «Grazie, papà.» Saltò giù e girò dietrp al carro,
sollevò la tela cerata, abbracciò le sorelle e diede la mano al cognato,
Clement. Se lo tirò accanto e gli disse: «Stai fuori da mia sorella, capito?»
«Sì, Arthur. Certo. Ma penso che abbiamo un problema. È già piena.»
«Oh, merda», rispose «Lil» Arthur.
ore 16.03
Mentre Henry Johnson guidava i cavalli sul ponte di legno che collegava
Galveston alla terraferma si sentiva male. L'acqua lambiva le ruote del car-
ro. I cavalli erano nervosi, e la fila di fuggitivi sul ponte era infinita. Ci
sarebbe voluto un sacco di tempo ad attraversare, forse ore, e stando alle
apparenze, dal modo in cui l'acqua si alzava, non sarebbe passato molto
tempo prima che il ponte fosse sommerso.
Disse una preghiera tra sé e sé: «Signore, prenditi cura della mia
famiglia. E specialmente di quel mio figlio pazzo, 'Lil' Arthur».
Non gli venne in mente di includere anche se stesso nelle sue preghiere.
ore 16.37
Bill e Angelique Cooper spostarono tutte le cose di valore che potevano
essere trasportate al primo piano della casa. L'acqua stava già filtrando
dalla porta. La pioggia scrosciava contro le finestre con sufficiente
violenza da scuoterle, e le tegole sul tetto sbattevano violentemente.
Bill interruppe il suo lavoro e, camminando nell'acqua che gli arrivava
alle caviglie, si diresse verso una finestra per guardare fuori. Disse:
«Angelique, penso che possiamo smettere di portare roba».
«Ma non ho portato su il...»
«Ce ne andiamo.»
«Ce ne andiamo? Si mette così male?»
«Non ancora.»
Bess non voleva farsi attaccare al calesse. Era nervosa e aveva gli occhi
sbarrati. Il fienile era pieno d'acqua che grondava. Angelique con un
ombrello sopra la testa, aspettava che il calesse fosse pronto. Sentiva
l'acqua che ormai entrava anche nelle sue scarpe alte.
ore 17.00
McBride si svegliò. Il vento ululava. Il vetro della finestra sbatteva
violentemente, anche se le finestre erano chiuse. L'aria, tanto per cambiare,
era fredda, ma umida. Nella stanza c'era buio.
La donna, avvolta in una coperta, sedeva su una sedia appoggiata al
muro opposto. Si girò a guardare McBride. Disse: «L'inferno si è
scatenato».
«Dici?» McBride si alzò, e camminò nudo fino alla finestra. Il vento era
così forte da spingerlo. «Dannazione», disse. «È buio come a mezzanotte.
Non mi piace.»
«Tutto qua? È il peggior ciclone che abbia mai visto, e non penso che
siamo ancora arrivati al massimo.»
«Non pensi che cancelleranno l'incontro, vero?»
«Riesci a lottare su una barca?»
«Diavolo, dolcezza, posso lottare e scopare allo stesso tempo su una
barca. Adesso che ci penso, posso scopare e lottare su un tronco che rotola,
se devo. Quando ero al nord facevo il boscaiolo.»
«Se fossi in te, troverei un tronco, e inizierei a picchiare.»
La luce di un lampo, bianco come l'eternità, squarciò il cielo, e quando
lo fece, l'oscurità esterna svanì, e in quell'istante, McBride vide che la
strada era coperta di acqua che arrivava fino alla vita.
«Credo che sia meglio che inizi a recarmi là», disse. «Mi ci può volere
un po' di tempo.»
La donna pensò: Bene, dolcezza, vai avanti, e spero che ti anneghi.
ore 17.20
ore 17.46
In città l'acqua non era così alta, ma ci volle quasi un'ora a McBride per
giungere allo Sporting Club. Per un isolato camminò con l'acqua che gli
arrivava alla vita, poi scese all'altezza del ginocchio, poi alla caviglia.
Quando arrivò la sua bombetta aveva perso la forma, e i suoi vestiti erano
rovinati. E l'acqua non aveva fatto bene nemmeno al suo revolver e al suo
rasoio.
Quando raggiunse l'edificio, fu sorpreso di trovare una folla di uomini
riuniti sulle scale. Molti stavano sotto all'ombrello, ma molti erano a testa
nuda. Tra di loro c'erano alcune donne. Per la maggior parte puttane. Le
donne decenti non vanno agli incontri di pugilato.
McBride salì le scale, e la folla lo bloccò. Lui disse: «Guardate, sono
McBride. Devo combattere col negro».
La folla si separò, e McBride, tra parole d'incoraggiamento e qualche
colpetto sulle spalle, riuscì a entrare. Dentro si poteva ancora sentire il
vento, ma sembrava lontano. La pioggia era solo un rumore di sottofondo.
Beems, Forrest, e i due anziani erano in piedi nell'ingresso e sembravano
tesi come galline all'ora di pranzo. Appena videro McBride, i loro visi si
rilassarono, e i due anziani si allontanarono. Beems disse: «Avevamo
paura che non ce l'avrebbe fatta».
«Preoccupati del vostro investimento?»
«Immagino.»
«Sarei venuto anche se avessi dovuto arrivare a nuoto.»
«Se il negro non si fa vedere i soldi e il titolo sono suoi.»
«Non li voglio così», disse McBride. «Voglio colpirlo. Naturalmente, se
non si fa vedere, prenderò i soldi. Avete mai visto un tempo così brutto
prima?»
«No», rispose Beems.
«Mi aspettavo che non ci sarebbe stato nessuno.»
«I giocatori si fanno sempre vedere», disse Forrest. «Si giocano i soldi,
si giocano anche la vita.»
«Vai a trovarti qualcosa da fare, Forrest», gli disse Beems. «Farò vedere
lo spogliatoio a McBride.»
Forrest guardò Beems, ridacchiò un po', facendogli capire che sapeva
quello che aveva in mente. Beems era furioso. Forrest se ne andò. Beems
prese McBride per il gomito e iniziò a guidarlo.
«Non sono un cane per farmi portare», disse McBride.
«Molto bene», rispose Beems, e McBride lo seguì attraverso una porta
laterale fino a uno spogliatoio. Nella stanza c'erano cinque centimetri d'ac-
qua.
«Mio Dio», disse Beems. «Si è aperta una falla da qualche parte.»
«Un'acqua come questa», disse McBride, «con questa forza... lava via la
malta dai mattoni, filtrando attraverso le crepe del muro... Diavolo, per
quel che devo fare io va bene.»
«Ci sono dei pantaloncini e delle scarpe in quell'armadietto», disse
Beems. «Può cambiarsi se vuole.»
McBride si scrollò di dosso l'acqua, si sedette su una panca e si tolse
scarpe e calze, appoggiando i piedi sulla panca. Beems rimase nel suo
punto di osservazione a guardare l'acqua che saliva.
McBride tolse il rasoio dal fianco di una delle scarpe, lo tenne in modo
che Beems lo potesse vedere e disse: «Un guanto da boxe messicano».
Beems rise. Guardava mentre McBride si toglieva la bombètta, la giacca
e la camicia. Guardò con attenzione mentre si toglieva i pantaloni e le
mutande. McBride si avvicinò all'armadietto che Beems gli aveva indicato,
si fermò e si girò a fissare Beems.
«Ti piace quello che vedi, vero, amico?»
Beems non disse niente. Aveva il cuore in gola.
McBride fece una risata nella sua direzione. «L'ho saputo dalla prima
volta che ti ho visto, che sei una femminuccia.»
«No», disse Beems. «Niente del genere. Non è per niente così.»
McBride sorrise. In quel momento sembrava molto gentile. Disse: «Va
bene. Vieni qua. Non mi importa».
«Bene...»
«No. Davvero. È solo che, sai, bisogna stare attenti. Non far sapere a
nessuno. Non tutti capiscono, sai...»
Beems si stava quasi leccando le labbra mentre si avvicinava a McBride.
Quando fu più vicino, McBride fece un ampio sorriso e scaricò un
uppercut destro nello stomaco di Beems. Lo colpì con una tale forza che
lui cadde in ginocchio nell'acqua, poi si riversò in. avanti andando a
sbattere con la testa contro la panca. Gli cadde anche il cilindro, che finì in
acqua, navigò tra la fila di armadietti, fece un giro a destra vicina al muro,
e scomparve alla vista dietro una panca.
McBride tirò Beems per i capelli finché la testa di quest'ultimo fu vicino
al suo pene e disse: «Guardalo per un minuto, perché è tutto quello che
avrai.»
Poi lo fece rimettere in piedi trascinandocelo per i capelli e si mise a
lavorare su di lui. Sinistri e destri. Niente di troppo potente. Ma più di
quanto Beems avesse mai ricevuto. Quando ebbe finito, lo lasciò che
giaceva nell'acqua vicino alla panca a tossire.
McBride disse: «La prossima volta che piscerai, piscerai sangue,
sorellina». McBride prese una salvietta dall'armadietto, si sedette sulla
panca, ci mise sopra i piedi e se li asciugò. Poi si mise i pantaloncini da
combattimento. C'era uno specchio nell'interno dell'armadietto, e McBride
rimase sconvolto alla vista dei suoi capelli. Erano un macello. Passò
parecchi minuti a rimetterseli a posto. Quando ebbe finito, guardò in basso
verso Beems, che fingeva di essere morto.
McBride disse: «Alzati, mammoletta. Fammi vedere dove devo com-
battere».
«Non dirlo a nessuno», disse Beems. «Ho moglie. Una reputazione. Non
dirlo a nessuno.»
«Ti farò una promessa», disse McBride, chiudendo l'anta
dell'armadietto. «Se quel dannato negro mi batte, ti scopo. Merda. Lascerò
che mi scopi tu. Ma non eccitarti tutto il buco del culo. Non ho intenzione
di perdere. Stasera, per come mi sento, potrei buttare al tappeto anche John
L. Sullivan.»
McBride iniziò a uscire dallo spogliatoio, portando con sé le calze e le
scarpe da combattimento. Beems giaceva nell'acqua, lasciandogli un
grosso vantaggio.
ore 18.00
Henry non riusciva a credere alla lentezza con cui la fila si muoveva.
Centinaia di persone che strisciavano da ore. Quando i Johnson arrivarono
vicino alla fine del ponte, quasi sulla terraferma, arrivò un'ondata di acqua
di un marrone scuro, che trascinò il calesse che avevano davanti giù dal
ponte. Anche il carro dei Johnson sentì l'onda, ma scivolò solo verso il
parapetto. Ma il calesse colpì il parapetto, sobbalzò, lo superò, tirandosi
dietro anche il cavallo. Per un attimo il cavallo rimase là appeso, con le
zampe posteriori che scivolavano giù, mentre con le zampe davanti tirava,
poi il parapetto cedette e il tutto finì in acqua.
«Oh, Gesù», disse Tina.
«Tieni duro», disse Henry. Sapeva che doveva fare presto, prima che
arrivasse un'altra ondata, perché se fosse stata più grossa, o se li avesse
colti vicino al buco che aveva fatto il calesse, anche per loro sarebbe stata
la fine.
Dietro di loro i Johnson potevano sentire le urla della gente che stava
cercando di fuggire dalla tempesta. L'acqua si stava rapidamente alzando
sopra il livello del ponte e quelli che stavano a metà o in fondo si resero
conto che se non fossero passati in fretta non ce l'avrebbero fatta. Mentre
lottavano per portarsi avanti, il ponte scricchiolò e gemette come una voce
umana.
Il vento squarciò la tela cerata del carro e lo fece volar via. «Merda»,
disse Clement. «Non è una meraviglia?»
Un cavallo che portava un uomo e una donna, la donna portava un
grande cappello di paglia con due ali che si abbassavano di lato, passò di
corsa accanto ai Johnson. Il ponte era troppo scivoloso e il cavallo si
muoveva troppo velocemente. Le zampe gli si aprirono e cadde, iniziando
a scivolare. Scivolò dritto nell'apertura che aveva fatto il calesse.
Scomparve immediatamente sotto l'acqua. Quando Henry azzardò
un'occhiata in quella direzione, vide il cappello che la donna portava
venire a galla e poi allontanarsi nell'acqua.
Quando il carro di Henry fu in linea con il buco, una nuova ondata
marrone passò sul ponte, ma stavolta più alta e più forte. Colpì i cavalli e il
carro di traverso. Il rumore dell'impatto ricordò a Henry di quando si era
trovato nella Guerra Civile e un carro su cui stava viaggiando fu colpito da
un cannone yankee. L'impatto lo aveva fatto ruotare su se stesso, e quando
aveva cercato di alzarsi, le sue gambe erano spezzate. Pensava che mai più
avrebbe provato tanta paura. Ma adesso aveva una paura anche maggiore.
Il carro sbandò di lato, colpì l'apertura, ma era troppo grande per pas-
sarci attraverso. Rimase appeso al parapetto, ma le fasce laterali si incrina-
rono per l'impatto. I familiari di Henry strillarono e si coricarono nel carro
mentre l'acqua si posava su di loro come una pesante mano. La pressione
dell'acqua staccò le ruote del carro dal loro asse, mandando il fondo del
carro a sbattere contro il ponte. Fortunatamente i fianchi tennero.
«Tutti fuori!» gridò Henry.
Lui, con la gamba rotta che si rifiutava di rispondere, ruzzolò fuori dal
carro, sul ponte, che adesso si trovava sotto un metro d'acqua. Afferrò una
fiancata e si tirò su, aiutò Tina a scendere, raggiunse il carro e tolse il
bastone dal sedile.
Clement e gli altri saltarono giù, e iniziarono ad affrettarsi a piedi verso
la fine del ponte. Quando arrivarono all'altezza di Henry, lui disse:
«Muovetevi, sbrigatevi. Non preoccupatevi per me».
Tina lo prese per il braccio. «Muoviti, donna», le disse. «Hai i ragazzi di
cui preoccuparti. Io devo liberare i cavalli.» Le diede un colpetto sulla
mano. Lei si allontanò con gli altri.
Henry estrasse il suo coltello di tasca e iniziò a liberare i cavalli dalle
briglie. Non appena furono liberi, entrambi gli animali andarono a sbattere
contro il parapetto. Uno rimbalzò indietro, girò su se stesso, e si diresse
all'estremità del ponte a un galoppo serrato, ma il colpo che diede l'altro
cavallo fu talmente forte da farlo capovolgere e finire a gambe all'aria.
Penetrò nell'acqua e scomparve.
Henry si mise a cercare la sua famiglia. Non riusciva più a vederli. Di
certo erano già arrivati sulla terraferma.
Altre persone erano sopraggiunte a occupare il loro posto; gente con
carri, calessi, a cavallo o a piedi. Gente che sembrava arrampicarsi sul-
l'acqua, dal momento che ormai il ponte era completamente sotto il livello
del mare.
Poi Henry udì un ruggito. Si girò verso il lato a est del ponte. C'era una
pesante muraglia d'acqua che si era alzata proprio sopra di lui, e si stava
abbassando, come un mostruoso pigliamosche bagnato. E quando colpì
Henry e il ponte, e tutti gli altri che vi stavano sopra, li schiacciò con la sua
forza mandandoli a finire nella pancia del mare che ribolliva.
ore 18.14
ore 19.39
ore 19.45
ore 20.15
Il combattimento era iniziato tardi, subito dopo che due ragazzi di colore
con una gamba sola avevano fatto un paio di round, saltellando in giro,
cercando di colpirsi a casaccio con dei guanti da boxe enormi.
C'erano poche persone ma molto schiamazzo. Tanto da far dimenticare a
«Lil» Arthur il temporale che infuriava fuori. La folla continuava a
gridare: «Uccidi il negro», aveva iniziato un coro di «tutti i negri mi
sembrano uguali», un numero con un ritmo coinvolgente che a «Lil»
Arthur piacque a dispetto di se stesso.
Le grida, la canzone erano intese a demoralizzarlo, ma lui scoprì che lo
eccitavano. Gli piaceva fare la parte del derelitto. Gli piaceva far
rimangiare a quegli stronzi le loro parole. Inoltre, era lui il campione di
Galveston, non McBride, indipendentemente da quello che la folla voleva.
Lui era colui che stasera avrebbe dovuto passare tra le corde come
vincitore. E aveva fatto un cambiamento. Non avrebbe più permesso che lo
presentassero come «Lil» Arthur. Quando avevano chiamato il suo nome,
e l'annunciatore, con riluttanza lo aveva definito il campione dello
Sporting Club di Galveston, aveva fatto come lui gli aveva chiesto.
L'aveva chiamato con il nome con cui d'ora in poi avrebbe voluto essere
chiamato. Non «Lil» Arthur Johnson. Non Arthur John Johnson, ma il
nome con cui lui si chiamava: Jack Johnson.
Fino a questo punto, comunque, il combattimento non stava andando in
nessuna direzione precisa, e doveva ammettere che McBride sapeva
colpire. Aveva un modo suo di tirare dei brevi, violenti colpi alle costole,
pugni che sembravano coltellate.
Prima del combattimento, Jack, come aveva sicuramente fatto anche
McBride, aveva usato i pollici per risistemarsi il cotone nei guanti. Siste-
marli in modo che le nocche si trovassero contro il cuoio e facessero
contatto con la carne di McBride. Ma fino a ora McBride aveva evitato la
maggior parte dei suoi pugni. Quell'uomo era un maestro a scivolare tra i
pugni. Jack non aveva mai visto niente del genere prima. McBride riusciva
anche a scansare i colpi con un movimento secco dell'avambraccio. Una
mossa da vero professionista che la diceva lunga.
Ma anche così, Jack si rese conto che stava riuscendo a incassare i pugni
molto bene, e aveva scoperto qualcosa di veramente sorprendente. Le
poche volte in cui aveva colpito McBride era quando, in preda
all'eccitazione, si piegava in avanti con i piedi piatti e scagliava un
uppercut. Questo colpo non era una cosa su cui era molto allenato e
quando lo aveva fatto in precedenza, aveva lanciato il pugno stando
sollevato sui talloni, torcendo il corpo, nel modo tradizionale. Ma aveva
scoperto, contro ogni logica, che riusciva a tirare lo stesso colpo a piedi
piatti piegandosi in avanti, e che in questo modo il colpo era più potente.
Pensava di aver visto un po' di sorpresa sulla faccia di McBride quando
lo aveva colpito in questo modo. Per lui di certo lo era stata.
Andò avanti così fino all'inizio del quarto round, poi quando McBride si
alzò gli disse: «Ti ho coccolato abbastanza, negro, adesso devi
combattere».
Allora Jack vide cose che non aveva mai visto prima. Il modo in cui
questo tipo si muoveva era sorprendente.
Saltellava come un gatto, nel modo in cui aveva sentito dire che com-
batteva anche Gentleman Jim, e questo tizio era svelto con le mani. Lan-
ciava dei proiettili, e i proiettili stordivano molto più di prima. Jack si rese
conto che McBride si era controllato, cercando di rendere l'incontro più
interessante. E si accorse di qualcosa d'altro. Qualcosa di importante su se
stesso. Non sapeva sulla boxe tutto quello che credeva di sapere.
Cercò di colpire McBride, ma lui schivava i colpi con le braccia, allora
provò la sua arma a sorpresa, l'uppercut, e si accorse che con quello lo
poteva colpire un po' allo stomaco, ma non abbastanza da mandarlo al
tappeto. Quando arrivò il quinto round, Jack era spaventato. E ferito. E
l'arbitro, un bastardo pelle e ossa con dei baffi a manubrio, non gli dava
una mano. Ogni volta che immobilizzava McBride, li separava. Se era
McBride a immobilizzarlo, prendendolo a ditate negli occhi e a testate,
l'arbitro rideva come se stesse mangiando della gelatina.
Jack stava pensando che forse era il caso di andare al tappeto. Lasciarsi
cadere e rimanere giù, in modo da togliersi da questa situazione la
prossima volta che McBride lo avesse colpito con uno di quei suoi colpi
brevi che sembravano un muro, ma poi il gong suonò e lui si sedette nel
suo sgabello, e Zio Cooter, l'unico uomo nel suo angolo, gli buttò
dell'acqua sulla bocca e gli fece sputare il sangue in un secchio.
Zio Cooter gli disse: «Se fossi in te, mi fìngerei morto. Lasciati cadere
su quel dannato tappeto e rimanici come se ci fossi inchiodato. Se non lo
fai quella testa di cazzo ti farà a pezzi. Così ti porti a casa qualche soldo e
non muori. Portare a casa qualche soldo fa bene e a morire non c'è fretta».
«Gesù. È bravo. Come faccio a batterlo?»
Zio Cooter massaggiò le spalle di Jack. «Non puoi. Fingiti morto.»
«Ci deve essere un modo.»
«Sì», disse Zio Cooter. «Potrebbe morirti addosso. Questo è il solo
modo in cui tu lo possa battere. Deve solo morire.»
«Grazie, Cooter. Sei di grande aiuto.»
«Piacere mio.»
Jack temeva il suono del gong. Guardava nell'angolo di McBride che
stava seduto sul suo sgabello come se fosse stato al bar, bevendosi una
bottiglia di birra, e chiacchierando con qualcuno tra il pubblico. Stava
chiedendo che gli portassero un panino.
Forrest Thomas era nell'angolo di McBride e reggeva una salvietta sul
braccio, una salvietta piegata, in caso McBride ne avesse avuto bisogno,
cosa che, considerando che doveva farsi una bella sudata, non era
improbabile.
Forrest guardò Jack, gli puntò contro un dito e abbassò il pollice come se
fosse stato il cane di una pistola. Jack riusciva a leggere una parola sulle
labbra di Forrest. La parola era: PUM!
L'arbitro si diresse all'angolo di McBride, si appoggiò al palo e, per
qualche motivo, si fece una risata con lui.
Il gong suonò. McBride diede la birra a Forrest e uscì dall'angolo. Jack
si alzò, vide Beems, con gli occhi neri, abbastanza malmesso, seduto in
prima fila. Malmesso o no, Beems sembrava felice. Guardò Jack e rise
come un becchino.
Questa volta Jack si prese una bella serie di colpi. Sembrava non riuscire
a fermare i ganci brevi di McBride, e sembrava che non riuscisse a colpirlo
con nessun altro colpo se non l'uppercut, e anche con quello non abbastan-
za forte. McBride stava andando meglio, più il tempo passava e più si scal-
dava. Se avesse preso un'altra birra con un panino, diavolo, avrebbe potuto
mettere Jack al tappeto in modo da potersi fare anche un caffè e una torta.
Jack decise di smettere di cercare di colpire la testa e le costole, e di
cercare solo di entrare e di colpire McBride sulle braccia. In questo modo,
almeno sarebbe riuscito a colpire qualcosa. Lo fece, e si stupì vedendo alla
fine del round che McBride abbassava la guardia.
Jack tornò al suo angolo e Zio Cooter disse: «Continua a colpirlo sulle
braccia. Sembra che vada bene. Gli rovini gli strumenti».
«Me lo ero immaginato. Grazie mille.»
«Piacere mio.»
Jack studiò la folla nelle gradinate dello Sporting Club. Non guardavano
il ring. Avevano girato la testa verso la parete a est, e per una buona
ragione. Stava vibrando. L'acqua stava filtrando, e aveva coperto il
pavimento sotto il ring per un'altezza di quindici centimetri. La gente che
occupava le prime due file della gradinata, tutto intorno al ring, era stata
costretta ad alzare i piedi. Sopra di lui, Jack udì un rumore simile a quello
che avrebbe potuto sentire se qualcosa di grosso e terribile avesse tolto la
pelle dalla testa di un elefante.
Quando il gong suonò di nuovo e Jack si alzò dall'angolo, si accorse che
l'acqua era salita di altri cinque centimetri.
ore 20.46
Bill tenne la lanterna davanti a sé, con il braccio teso mentre si rannic-
chiava in cima alle scale. L'acqua ne aveva coperto la metà. La casa era
scossa come qualcuno che fosse stato seduto su un cavallo che scalpitava.
Sentiva le tegole che si liberavano, e volavano via.
Tornò in camera da letto. Il vento ululava. Le finestre vibravano. Un
paio di vetri erano saltati via. Il bambino piangeva. Angelique era seduta in
mezzo al letto, e cercava di coccolarlo ma Teddy non ne voleva sapere di
calmarsi. Bess stava in un angolo della stanza, con la testa appoggiata
contro la parete. Il cavallo agitava nervosamente la coda avanti e indietro,
nitrendo.
Bill si alzò ad aprire le finestre per togliere un po' di forza al vento. Era
una cosa che sapeva che avrebbe dovuto fare molto tempo prima, ma stava
cercando di risparmiare al bambino il sibilo e l'umidità.
Folate di vento e di pioggia irrompevano dalle finestre aperte. Bill
riusciva a fatica a stare in piedi, tanta era la loro forza.
Quindici minuti più tardi sentì i mobili di sotto che sbattevano contro il
soffitto, galleggiando sul pavimento sopra cui stava lui.
ore 21.00
Mio Dio, pensò Jack, quanti round di questa cosa mi devo fare? La testa
gli doleva e le costole gli facevano anche più male, e dentro si sentiva
come se avesse inghiottito della colla bollente e stesse cercando di
vomitarla. Le gambe, che pur erano forti, iniziavano a sentire il peso del
combattimento. Aveva pensato che fosse un combattimento in quindici
round, ma si rese conto che erano già venti, e se per allora non aveva perso
si sarebbe potuti arrivare a venticinque.
Jack sbatté un guantone contro il gomito sinistro di McBride, lo vide
fare una smorfia e lasciar cadere il braccio. Allora fece seguire un
uppercut, e questa volta non si limitò a toccare McBride ma lo colpì con
forza. L'impatto del colpo su McBride fu così forte che scoreggiò. Il
panino che aveva mangiato tra i round adesso non gli doveva sembrare più
tanto una buona idea.
Con la serie di colpi successivi Jack fece di nuovo centro con l'uppercut.
McBride indietreggiò e lui lo seguì, colpendolo sulle braccia, riuscendo
ogni tanto a inserire un uppercut, e persino a raggiungerlo con dei ganci e
dei dritti.
Poi ogni luce nell'edificio si spense, mentre le pareti si aprivano e le
gradinate iniziavano ad alzarsi sotto la spinta dell'acqua, facendo cadere gli
spettatori in un'oscurità bagnata. Anche il ring iniziò a muoversi, ad alzarsi
verso il soffitto, ma prima che scivolasse via da sotto a Jack, McBride gli
aveva dato un colpo di una tal forza che Jack ebbe la sensazione di aver
sentito che le vite passate avessero cessato di esistere; che gli antenati
usciti dal fango avessero sobbalzato per quel colpo, che di rimando fosse
tornato nel presente e si fosse spinto nel futuro, e indietro di nuovo. Il
soffitto volò via con una folata di vento, Jack si allungò, afferrò qualcosa e
vi si aggrappò come se ne fosse dipesa la sua vita.
«Stupido figlio di puttana», disse Zio Cooter, «mi hai preso per la testa».
ore 21.05
ore 22.00
Bill e Angelique erano nel letto con Teddy. L'acqua si stava alzando
oltre il bordo del materasso, buttandogli addosso un vento freddo e umido.
Avevano acceso il giradischi e stavano ascoltando un Gospel, ma il vento e
la pioggia erano entrati nel meccanismo e l'avevano fatto spegnere.
E mentre si spegneva, il muro più lontano si incrinò e cedette e pezzi di
legno arrivarono tra i flutti sul pavimento mentre il soffitto e il letto si
curvavano. Bess all'improvviso scomparve da un buco nel pavimento. Un
attimo c'era, l'attimo dopo era scomparsa sotto l'acqua.
Bill afferrò Angelique per il braccio, la fece alzare nell'acqua che
arrivava al ginocchio. Lei si teneva stretto Teddy. Lui li spinse dall'altra
parte della stanza mentre il pavimento si spostava, gli fece attraversare la
porta che conduceva alla terrazza non ancora ultimata, inciampò in un
martello che giaceva sotto l'acqua, ma riuscì a tenersi in piedi.
Bill non poteva far a meno di pensare a tutto il lavoro che aveva messo
in questa terrazza. Adesso non sarebbe mai stato finito. Odiava non portare
a termine i lavori. Lo odiava più del fatto che iniziasse a inclinarsi.
C'era un pilastro centrale che sembrava reggere bene, e loro vi presero
posizione dietro. Il pilastro era uno dei tanti attorno a cui era costruita la
casa: un pilastro di supporto che sollevava la casa sopra il normale livello
dell'acqua: collegava la camera da letto al terrazzo.
Bill cercò di guardare attraverso la pioggia scrosciante. Tutto quello che
riusciva a vedere era l'acqua. Galveston era coperta dal mare. Si era alzato
e aveva inghiottito la città e l'isola.
La casa iniziò a essere scossa violentemente. Udirono il legno che si
rompeva, lo sentirono vibrare. Il terrazzo oscillava con una maggiore
intensità.
«Non ce la faremo, vero Bill?» chiese Angelique.
«No, cara. Credo di no.»
«Ti amo.»
«Ti amo.»
Lui la strinse a sé e la baciò. Lei disse: «Non importa per me e per te.
Ma Teddy... Lui non sa... Lui non capisce. Dio, perché Teddy? È solo un
bambino... Come si annega, caro?»
«Un respiro profondo ed è finita. Solo un grosso sorso d'acqua, senza
opporre resistenza.»
Angelique iniziò a piangere. Bill si piegò, iniziò a cercare con le mani
sotto l'acqua che ricopriva il terrazzo. Trovò il martello. Si trovava in quel
punto perché si era impigliato in un buco del terrazzo non ancora ultimato.
Bill lo tirò fuori. C'era un grosso chiodo che sporgeva dal pilastro
principale. Lo aveva conficcato lì il giorno prima, perché fosse facile tro-
varlo. Era il suo ultimo grande chiodo e aveva intenzione di conservarlo.
Usò la forbice del martello per estrarlo. Guardò Angelique. «Possiamo
dare a Teddy una possibilità.»
Angelique non riusciva a vedere bene Bill in quel buio, ma in qualche
modo intuì quello che il suo viso diceva. «Oh, Bill!»
«È una possibilità.»
«Ma...»
«Noi non ce la possiamo fare, ma il pilastro...»
«Oh, Signore, Bill», e Angelique si piegò, tenendosi Teddy stretto al
petto. Bill le afferrò le spalle, e disse: «Dammi il bambino».
Angelique singhiozzò, poi la casa si curvò a destra, solo il pilastro
reggeva. Gli altri stavano cedendo, ma finora questo non si era spostato.
Angelique diede Teddy a Bill. Bill baciò il bambino, lo sollevò più in
alto che poté sul pilastro, spinse il bambino contro il legno, e sollevò il
braccio. All'improvviso Angelique gli fu accanto, a sostenere il bambino.
Bill la baciò. Poi prese il martello e il chiodo, e piazzandolo dritto davanti
al polso di Teddy, glielo infilò nella carne con un colpo rapido.
Poi il temporale prese a soffiare ancora più furioso e il terrazzo si tra-
sformò in gelatina. Bill afferrò Angelique, e lei riuscì quasi a dire:
«Teddy», poi le forze della natura li portarono via assieme alla fragile
casa.
Il meccanismo che faceva ruotare la luce del faro di Bolivar aveva smes-
so di funzionare. Le scale che portavano al faro si erano gradualmente
riempite di gente che cercava riparo dal temporale, e via via che si alzava
l'acqua la gente saliva. Per ultimo era arrivato un uomo con un ragazzo, e
di conseguenza era costantemente sull'ultimo piolo che si alzava. Con-
tinuava a dire: «Muovetevi, muovetevi a meno che vogliate vedere affo-
gare un uomo e il suo ragazzo». Tutti si spostavano in su. Poi l'uomo
tornava a ripetere il suo ritornello mentre l'acqua si alzava di nuovo.
Il faro stava diventando congestionato. La torre aveva iniziato a on-
deggiare. L'operatore, Jim Marlin e sua moglie, Elizabeth, accesero la
lampada a cherosene e la piazzarono nel centro della lente d'ingrandimento
circolare e cercarono di girare manualmente il raggio. Volevano che
qualcuno sapesse che qui c'era un rifugio, anche se era sovraffollato e
avrebbe presto potuto cessare di esistere. La miglior cosa da fare era di
spegnere la luce e sperare di riuscire a salvare quelli che erano già lì, e se
stessi. Ma Jim ed Elizabeth non potevano fare una cosa del genere.
Elizabeth disse: «Per come la vedo io Jim, è tutto o niente, e il buon Dio lo
vorrebbe allo stesso modo. Io voglio che sia così».
Per tutta la notte udirono urla e grida d'aiuto, e una volta, quando il faro
funzionava ancora, avevano visto un giovane aggrappato a un pezzo di
legno. Quando la luce era tornata al punto in cui si trovava il giovane, era
svanito.
Adesso, mentre cercavano di far funzionare la luce manualmente, si
accorsero che era un'impresa senza speranza. Alla fine la lasciarono pun-
tare su un'unica direzione, e nella luce videro un paio di corpi trascinati da
un gran tappeto da cui pendevano delle corde, che sembravano tentacoli di
meduse. Le corde si erano intrecciate attorno ai due, e il tappeto sembrava
muoversi, si piegava e si apriva come un paio di grosse ali, come se fosse
stata una creatura marina che li portava in un posto segreto dove li avrebbe
mangiati in pace.
Né Jim né Elizabeth Marlin conoscevano i corpi gonfi impigliati tra le
corde, non avevano idea che si chiamassero Ronald Beems e Forrest
Thomas.
ore 5.00
ore 6.00
ore 7.03
1910-1919
Dovessi morire prima di svegliarmi
di David Morrell
Non era stato il primo caso, ma il primo caso per il dottor Jonas
Bingaman, anche se non se ne era reso conto fino a due giorni più tardi. Il
paziente, un ragazzo con le lentiggini e i capelli rossi, giaceva esausto
sotto le coperte del suo letto. Bingaman, che quando la mamma in ansia
del ragazzo aveva telefonato stava per lasciare lo studio, si fermò
sull'ingresso della piccola camera da letto e si rese immediatamente conto
che il ragazzo aveva la febbre. Non si trattava solo del fatto che Joey
Carter, che il dottore aveva messo al mondo dieci anni prima, era rosso in
faccia. Dopo tutto, l'estate del 1918 era stata estremamente calda, e anche
adesso, alla fine di agosto, il dottore stava trattando casi di scottature. No,
quello che gli aveva fatto concludere così rapidamente che il ragazzo
aveva la febbre era che, nonostante facesse ancora caldo, Joey aveva i
brividi sotto le lenzuola e due coperte.
«È così sin da quando è arrivato a casa prima di cena», disse la madre di
Joey, Rebecca. Una donna sottile e insignificante di circa trentacinque anni
aveva preceduto il dottore nella stanza e gli aveva fatto cenno di seguirla
con urgenza. «Ho trovato il suo costume da bagno bagnato. È andato a
nuotare.»
«Nel torrente. Lo avevo avvertito del pericolo», disse il padre di Joey,
Edward. L'uomo allampanato, il miglior falegname di Elmdale, indossava
ancora la tuta e le scarpe da lavoro e aveva tracce di segatura negli spessi
capelli scuri. «Gli avevo detto di starci alla larga».
«Nel torrente?» Bingaman si girò verso Edward che aspettava ansioso
nel corridoio.
«L'acqua non è buona. Ti fa stare male. Lo so perché il ragazzo di Bill
Kendrick l'estate scorsa è stato male dopo esserci andato a nuotare. Ha
respirato sotto e ha ingoiato dell'acqua. Ha vomitato per tutta la notte.
Avevo avvertito Joey di non avvicinarsi, ma lui non mi ha ascoltato.»
«Il torrente che attraversa la fattoria dei Larrabee?»
«Sì, quello. Il bestiame sporca l'acqua. I loro escrementi seguono la cor-
rente e finiscono nel punto in cui si va a nuotare.»
«Sì. Mi ricordo che il ragazzo di Bill Kendrick è stato male per l'acqua
l'estate scorsa», disse Bingaman. «Ha vomitato Joey?»
«No.» La voce di Rebecca era tirata.
«Sarà meglio che gli dia un'occhiata.»
Mentre Bingaman attraversava la stanza si accorse che in un angolo c'era
una mazza da baseball. Appeso sul letto c'era un modello in balsa di uno
dei biplani Curtiss che l'American Expeditionary Force stava usando
contro i tedeschi, attaccato al soffitto con una corda.
«Non ti senti bene, Joey?»
Era evidente che al ragazzo ci volle un enorme sforzo per fare cenno di
no con la testa. Le palpebre erano appena socchiuse. Tossì.
«Hai nuotato nel torrente?»
Joey aveva problemi a fare cenno di sì. «Avrei dovuto ascoltare papà»,
mormorò con voce rauca.
«La prossima volta saprai qual è la cosa giusta da fare. Ma per adesso,
voglio che tu ti concentri sullo stare meglio. Adesso ti visiterò, Joey.
Cercherò di essere il più gentile possibile.»
Bingaman aprì la borsa nera e si sporse su Joey, e sentì il calore che spri-
gionava dal ragazzo. Suo padre e sua madre fecero un passo avanti,
guardando con attenzione. La tosse di Joey si fece più profonda.
Dieci minuti più tardi, Bingaman rimise lo stetoscopio nella borsa e si
drizzò.
«È di questo che si tratta?» chiese velocemente Edward. «Dell'acqua cat-
tiva che arriva dalla fattoria dei Larrabee?»
Bingaman esitò. «Perché non andiamo a parlare da qualche parte e
lasciamo riposare Joey?»
«Se si trattasse solo dei due amici di Joey direi che avrebbero potuto am-
malarsi per aver nuotato nel torrente dei Larrabee», disse Bingaman al
dottor Powell, che era tornato in ospedale in risposta alla convocazione
urgente da parte di Bingaman. Era mezzanotte. Erano seduti uno di fronte
all'altro nell'ufficio di Powell, alla luce fievole di una lampada da tavolo
che rendeva le loro facce giallastre. «Il guaio è che il papà di Joey non si è
avvicinato neanche lontanamente a quel torrente, e anche lui si è preso
l'infezione.»
«Stai ancora pensando a Riverton?»
«È l'unica risposta che ha senso. Joey probabilmente si è preso l'infezio-
ne alle attrazioni. Forse un lavoratore gli ha starnutito addosso, oppure si è
trattato di un passeggero sulla ruota Ferris. Comunque sia successo, poi ha
trasmesso l'infezione a suo padre e ai suoi due amici. Hanno mostrato i sin-
tomi un giorno dopo di lui, perché sono stati infettati più tardi di Joey.»
«Infettati da Joey. È logico, a parte per una cosa.»
«Cioè?»
«Perché la mamma di Joey...?»
Qualcuno bussò alla porta. Senza aspettare una risposta, una infermiera
corse dentro. «Mi spiace disturbarla, ma la signora Carter è appena crollata
sotto gli stessi sintomi di suo figlio e di suo marito.»
Entrambi i dottori si alzarono.
«Dovremo prendere precauzioni per il contagio», disse Bingaman,
seguendo l'infermiera fuori dalla stanza.
«Sì.» Powell si affrettò ad avvicinargli. «Niente visite. Garze di prote-
zione obbligatorie per il personale medico, e per chiunque entri in quelle
stanze. Il pronto soccorso dovrebbe essere disinfettato.»
«Bene», disse Bingaman. «E la stanza in cui è morto Joey. Le infermiere
che lo hanno accudito dovrebbero disinfettarsi bene e mettersi delle divise
pulite in caso siano state contaminate.»
«Ma non sappiamo ancora come trattare quest'infezione, a parte i rimedi
che abbiamo già provato.»
«E quelle non hanno funzionato». Bingaman sentiva un peso allo
stomaco.
«Se la tua teoria sull'inizio dell'infezione è giusta, perché non ci sono
stati casi a Riverton?» chiese Powell.
«Non lo so. In effetti non c'è quasi niente che io sappia. Quando avremo
i risultati dell'autopsia di Joey?»
***
E che aveva ucciso suo padre, apprese Bingaman quando arrivò all'ospe-
dale dopo avere finito il suo giro di visite mattutino. Neanche la mamma di
Joey e i due amici del ragazzo se la stavano passando troppo bene,
lottavano per respirare nonostante gli fosse stato dato l'ossigeno. Ed erano
stati portati in ospedale altri otto casi.
«Stiamo ancora agendo sul presupposto che si tratti di polmonite», disse
Powell, mentre si metteva la maschera e si preparava a entrare nel reparto
in quarantena.
«Stanno facendo effetto il chinino e la canfora?»
«Solo marginalmente. Alcuni pazienti si sentono meglio per un po'. La
temperatura scende per un po'. Per esempio a Rebecca Carter la febbre è
scesa da quaranta a trentanove. Pensavamo di fare progressi, ma la
temperatura si è alzata di nuovo. Alcuni pazienti sarebbero morti senza
ossigeno, ma non so quanto durerà la nostra scorta. Ne ho ordinato altro,
ma il nostro distributore ad Albany sta esaurendo le scorte.»
Conscio di quanto gli tirasse la maschera sul viso, Bingaman controllava
il reparto in quarantena in cui le infermiere, sotto organico e stremate,
facevano del loro meglio per occuparsi dei pazienti, tra il sibilare delle
bombole di ossigeno e i colpi di tosse. In un angolo, una tenda era stata
tirata attorno a un letto.
«Alcuni dei pazienti tossiscono sangue», disse Powell.
«Cos'hai appena detto?»
«Sangue. Sono...»
«Prima di quello. Che il nostro distributore ad Albany sta per rimanere
senza scorte di ossigeno?»
«Sì.»
«Perché?»
«Il loro telegramma non lo diceva.»
«Si potrebbe trattare del fatto che ci sono troppi altri posti che ne hanno
bisogno?»
«A che cosa stai pensando?»
«Le attrazioni sono arrivate a Riverton da qualche altra destinazione.
Dopo Riverton sono andate da qualche altra parte.»
«Jonas, non stai suggerendo...»
«Pensi che tutta questa parte dello stato sia infettata?»
La radio senza fili stava sulla scrivania nello studio di Bingaman. Era
nera, era larga sessanta centimetri e alta e profonda quarantacinque.
C'erano parecchi quadranti e manopole, un codice dell'alfabeto Morse e un
microfono. Dal giorno in cui Marconi aveva trasmesso il primo messaggio
oltre oceano nel 1901, Bingaman era stato affascinato dal fenomeno. A
ogni nuovo sviluppo eccezionale nelle comunicazioni radio, il suo
interesse aveva continuato a crescere, finché, alla fine, incuriosito dal fatto
di poter eventualmente ricevere trasmissioni radio della guerra in Europa,
aveva celebrato il suo cinquantaduesimo compleanno in marzo comprando
l'apparecchio che aveva davanti. Si era preparato e aveva superato con
successo l'esame richiesto dal governo per poter diventare un operatore
radioamatore. Poi, avendo raggiunto il suo scopo, si era reso conto che le
esigenze del suo lavoro, per non parlare della mezza età, gli lasciavano
poca energia per rimanere alzato fino a tardi a parlare con altri
radioamatori nel paese.
Adesso, comunque, provava un'energia maggiore di quanto non avesse
provato da molti anni. Marion, che si era stupita di veder tornare a casa suo
marito a metà pomeriggio, e correre di sopra avendole a fatica detto:
«ciao», lo guardò togliersi la giacca, sedersi davanti alla radio e
accenderla. Quando gli chiese come mai si era preso un pomeriggio di
libertà, lui le chiese di stare tranquilla, per favore. Disse che aveva del
lavoro da fare.
Stare tranquilla? Pensò. Lavoro da fare? «Jonas, so che sei stato sottopo-
sto a un'enorme pressione, ma non è una buona ragione per...»
«Per favore.»
Marion sempre più stupita, rimase a guardare mentre lui girava
manopole e parlava con forza al microfono, identificandosi con il nome e
il numero di operatore che gli aveva dato il governo, cercando
ripetutamente di trovare qualcuno che gli rispondesse. Ci furono rumori di
energia statica. A volte Marion udiva un gemito elettronico. Si avvicinò di
qualche passo, sentendo la tensione di suo marito. Si sorprese quando udì
una voce provenire dalla radio.
Sollevato Bingaman rispose. «Sì, Harrisburg, ti sento.» Aveva sperato di
trovare qualcuno ad Albany o qualcun altro nello stato di New York, ma la
capitale della vicina Pennsylvania era abbastanza vicino, poteva essere
considerata un sostituto accettabile. Spiegò la ragione della sua chiamata,
la situazione in cui si trovava Elmdale, le informazioni di cui aveva
bisogno, e non poté reprimere un grugnito quando ricevette una risposta
impensabile, molto peggio di qualsiasi cosa avesse mai potuto temere.
«Quarantamila? No, non è possibile che abbia capito bene, Harrisburg. Per
favore ripetete. Passo.»
Ma quando l'operatore ad Harrisburg ripeté la sua risposta, Bingaman
continuava a non riuscire a crederci. «Quarantamila?»
Marion sussultò quando, solo per la terza volta da quando erano sposati,
lo sentì imprecare.
«Bontà divina, aiutaci.»
«È morta?»
Bingaman aveva appena finito di accogliere venticinque nuovi pazienti
nella palestra che era stata trasformata in un ospedale. Mentre lui e il
dottor Kramer uscivano dal grande edificio - che si stava ben presto
riempiendo di letti occupati - strinsero gli occhi, disturbati dalla forte luce
di settembre, e notarono dei carri trainati da cavalli su cui venivano caricati
i cadaveri.
«Quanti ne sono morti la notte scorsa?»
«Quindici.»
«Continua a peggiorare.»
Bingaman vacillò.
«Cosa succede?» chiese Kramer. «Non ti senti bene?»
Bingaman non rispose ma invece si diresse faticosamente verso uno dei
carri. Il cadavere di una donna, con un'uniforme da infermiera, vi veniva
sollevato dentro.
«Ma l'ho vista solo ieri. Come è potuto succedere così in fretta?»
«Ho sentito dei rapporti che dicono che adesso ai sintomi ci vuole meno
tempo per svilupparsi», disse Kramer alle sue spalle. «Dal minimo segno
di essere stato infettato, una persona può sviluppare la malattia completa
entro le ventiquattro ore. Stamattina ho sentito la storia di un uomo,
apparentemente in salute che era uscito di casa per recarsi al lavoro. Non
tossiva. Nessuno nella sua famiglia aveva notato che fosse febbricitante. È
morto per strada a un isolato dalla fabbrica in cui lavorava. Ho sentito
un'altra storia...»
«Sì?»
«Quattro donne ieri sera stavano giocando a bridge. La partita è finita
alle undici. Nessuna di loro stamattina era viva.»
Bingaman sentiva un peso al torace. Le spalle gli dolevano. Gli occhi gli
facevano male, solo per mancanza di sonno, disse a se stesso. Prese la
mascherina dalla tasca, dal momento che se l'era tolta quando era uscito
dall'ospedale. «Da adesso in poi, penso che dovremo indossare sempre le
maschere, anche quando non siamo con i pazienti. Di giorno e di notte. A
casa e al lavoro. Dappertutto.»
«A casa? Non ti sembra un po' esagerato?» chiese Kramer.
«Lo è?» Bingaman diede un'ultima occhiata all'infermiera morta, circa
vent'anni, lunghi capelli scuri, mentre il carro si allontanava rumorosamen-
te. Così giovane, tante ragioni per vivere, pensò. «Nessuno di noi è
immune. La malattia ci circonda. Non c'è modo di dire chi possa essere ad
attaccarcela.» Guardò Kramer. «Continuo a ricordarmi che era l'infermiera
che ieri ha tossito mentre era nella stanza con noi.»
Ancora luce. Marion non tossiva più. Bingaman in seguito concluse che
quello che le aveva salvato la vita era la sua costituzione robusta, anche se
quando era abbastanza presente, insisteva che era stato lui a salvarle la
vita. Le sue somministrazioni, come le chiamava lei, e gli disse di non
essere così modesto.
«Sttt», le disse lui con amore. «Non consumare energia.»
Al contrario lui non aveva alcun dubbio che erano state le cure amorose
di Marion nello stadio iniziale della sua malattia che avevano salvato lui.
La malattia impietosa poteva essere combattuta sulla base dei sintomi.
Dopo di che il paziente sarebbe vissuto o morto sulla base delle sue risorse
personali, e adesso che Bingaman aveva sopportato l'esperienza intima del
potere devastante della malattia, si meravigliò che qualcuno avesse la forza
di resisterle.
Forse la forza non era il fattore determinante. Forse si trattava di fortuna.
O di destino. O della volontà di Dio. Ma se si trattava di quest'ultimo caso,
Dio certamente doveva essersi rivoltato contro una gran quantità di gente.
Per un presbiteriano come Bingaman, che credeva all'assioma per cui
lavoro duro e prosperità erano sinonimo di salvezza, l'idea che l'influenza
potesse essere la dimostrazione della disapprovazione divina nei confronti
del mondo era inquietante. Di certo, anche prendendo in considerazione la
guerra, il mondo non poteva essere un posto così brutto. Ed era proprio la
cosiddetta guerra con i suoi fucili mitragliatori e gas lacrimogeni, con
cloro e fosgene, iprite, e con gli orrori sempre crescenti, il problema?
Ma in questo caso, aveva senso che Dio in cambio infliggesse milioni di
altre perdite?
Ogni chiesa della città era stata trasformata in ospedale. Erano tutte
piene.
Al cimitero non c'era più posto per i cadaveri. I becchini non riuscivano
a tener dietro al lavoro di rimuovere terra per scavare nuove fosse. I
cadaveri giacevano a file in un terreno ai margini della città. Sentinelle
armate vi facevano la guardia per impedire che gli animali li mangiassero,
e ognuna, con indosso una maschera, pregava di non prendere l'infezione
dai cadaveri. Ai funerali potevano partecipare solo i membri della famiglia
con indosso una maschera, e i pastori che, compatibilmente con un minimo
di dignità, cercavano di essere il più veloci possibili, mentre leggevano le
preghiere per i morti.
Avevo un uccellino
Si chiamava Enza.
Aprii la finestra.
Era in-flu-Enza.
1920-1929
Ariani e assenzio
di F. Paul Wilson
Ernst Drexler trovava divertenti le cose più strane. Questo era il modo in
cui le definiva: divertenti. Persino l'inflazione poteva essere divertente.
Karl Stehr ricordava di aver visto Ernst a varie manifestazioni artistiche
a Berlino prima di aver avuto veramente occasione di conoscerlo.
Emergeva tra quella folla perennemente trasandata per l'abito e il panciotto
sempre stirati, per il colletto inamidato e la cravatta, per il cappello floscio
che portava o in testa o sotto il braccio, e per il suo caratteristico bastone
col manico d'argento foderato di pelle di rinoceronte nera. Portava i capelli
neri tirati all'indietro, che partivano dalla fronte spaziosa, lisci come
linoleum; aveva lunghe sopracciglia che incorniciavano luminosi occhi
blu, labbra sottili, un mento volitivo e la carnagione abbronzata anche in
inverno completavano il quadro. Karl immaginava che Ernst avesse circa
trentacinque anni, ma il suo aspetto era quello di una persona più anziana.
Per settimane intere sembrava essere ovunque, e aveva sempre qualcosa
da dire. Alla personale di Paul Klee, dove era esposto il suo ultimo lavoro,
The Twittering Machine, Karl gli aveva sentito commentare
sarcasticamente che Klee si fosse unito troppo precipitosamente alla
Bauhaus. Ernst si trovava sempre nei posti giusti: alla prima del Dr.
Mabuse, der Spieler, alla festa in onore degli attori per la rappresentazione
cecoslovacca R.U.R, e alle rappresentazioni segrete del Nosferatu di
Murnau, per nominarne solo alcuni.
E poi si volatilizzava. Scompariva per settimane o addirittura un mese
senza farne parola a nessuno. Quando ricompariva, riprendeva le cose
dove le aveva lasciate, come se non ci fosse stata alcuna interruzione. E
quando era in città praticamente viveva al Romanisches Cafe, dove ogni
sera lo si poteva vedere vagare tra i tavoli, col bicchiere in mano, una
meteora vagante di ironia e pettegolezzi che lasciava cadere commenti
secchi e pieni di arguzia sull'arte e la letteratura come se si fosse trattato di
frutta matura. Nessuno sembrava ricordare chi lo avesse presentato per
primo alla gente del caffè. Sembrava insinuarsi tra i clienti abituali per
conto suo. Dopo un po' si aveva la sensazione che ci fosse sempre stato.
Tutti conoscevano Ernst, ma nessuno lo conosceva bene. La sua
personalità era un curioso incrocio di disponibilità e riserbo che Karl
trovava stimolante.
La loro amicizia ebbe inizio nella fredda sera di un sabato primaverile.
Karl aveva chiuso la sua libreria in anticipo e stava vagando per la
Budapesterstrasse, dirigendosi al Romanisches Cafe, che si trovava
all'angolo fra Tauentzien e Gedachtniskirche: era grande per essere un
caffè, con una vasta area all'aperto e un interno spazioso che veniva
utilizzato quando il tempo era inclemente e durante la stagione fredda.
Karl, che indossava dei pantaloni alla zuava, si era sistemato sotto il ten-
done e aveva appoggiato le gambe su una sedia vuota vicino a lui, mentre
si beveva l'aperitivo tra vasi in fiore e rileggeva Siddharta. Sentendo uno
scalpiccio di tacchi alti, alzava lo sguardo verso le donne «moderne» che
passavano in coppie o terzetti, con gli abiti aderenti che svolazzavano alle
ginocchia e con i loro berretti lisci e stretti tirati giù sui capelli alla
maschietta; con le labbra rosse, gli occhi coperti dal mascara, e i cappotti
rifiniti con una pelliccia morbida che copriva il collo.
Karl amava Berlino. Era innamorato della città da quando l'aveva vista
la prima volta, quando suo padre ve lo aveva portato prima della guerra. E
due anni prima, per il suo ventesimo compleanno, aveva abbandonato gli
studi all'università per portare avanti con lei una relazione di lunga durata.
La sua amante era il centro del mondo artistico, dove nascevano nuove
libertà. Qua potevi essere quello che volevi: un libero pensatore, un libero
amante, un comunista, persino un fascista; gli uomini potevano vestirsi
come le donne e le donne potevano vestirsi come gli uomini. Non
esistevano limiti. E i nuovi movimenti in campo musicale, nelle arti, il
cinema e il teatro avevano radici qua. Ogni volta che si girava vedeva una
nuova meraviglia.
La notte si stava coricando sull'amante di Karl quando Ernst Drexler si
avvicinò al suo tavolo e si presentò.
«Non siamo mai stati presentati formalmente», disse tendendogli la
mano. «Si chiama Stehr, vero? Si venga a unire a me al mio tavolo. Ci
sono alcune cose di cui mi piacerebbe parlare con lei.»
Karl si chiedeva di quali cose potesse desiderare di parlare con lui, que-
st'uomo che era più vecchio di lui di almeno dieci anni, ma dal momento
che non aveva progetti per la serata, lo seguì.
Al Romanische quella sera c'era la solita gente. Di recente si era trattato
di coloro che ruotavano intorno ai bohémien berlinesi, tutti gli artisti, scrit-
tori, giornalisti, critici, compositori, editori, direttori d'orchestra e chiunque
altro avesse a che fare con l'avanguardia artistica tedesca, oltre alle
ragazze, ai ragazzi, e ai semplici nullafacenti. Alcuni si sedevano fissi in
un posto, altri passavano senza curarsene da un tavolo all'altro. Il fumo for-
mava una coltre di mussola sopra un miscuglio di barbe disordinate, crinie-
re ispide, capelli alla maschietta che incorniciavano occhi tinti di nero,
cappelli, berretti, monocoli, pince-nez, bocchini lunghi trenta centimetri,
maglioni voluminosi, calze scure, abbigliamento d'epoca che spaziava
dall'ellenico al preraffaellita.
«L'ho vista al Siegfried, l'altra sera», disse Ernst, mentre raggiungevano
un tavolo in un angolo buio, fuori dal flusso peristaltico. Ernst prese la
sedia accanto al muro, da dove poteva osservare la stanza, e lasciò l'altra
per Karl.
«Cosa pensi dell'ultimo film di Lang?»
«Molto tedesco», rispose Karl prendendo posto e voltando con riluttanza
le spalle alla stanza. Era un osservatore di gente.
Ernst rise. «Che commento diplomatico! Ma molto vero. Inganno, tradi-
mento, e pugnalate alla schiena, sia in senso figurato che letterale. Davvero
tedesco. Anche se poco Neue Sachlichkeit.»
«Penso che il neorealismo fosse la cosa più lontana dalla mente di Lang.
Invece Die Strasse, d'altro lato...»
«Il Neue Sachlichkeit si unirà presto all'espressionismo nel mausoleo dei
movimenti. E che liberazione. È merda.»
«Kunst ist Scheisse?» disse Karl, ridendo. «Il dadaismo è il più morto di
tutti.»
Ernst rise di nuovo. «Cielo, sei acuto, Karl. È questa la ragione per cui
volevo parlare con te. Sei davvero brillante. Sei una delle poche persone in
questa stanza in grado di apprezzare il mio nuovo divertimento.»
«Davvero? E quale sarebbe?»
«L'inflazione.»
Prima che Karl gli potesse chiedere cosa intendeva, Ernst fece un cenno
a un cameriere di passaggio.
«Per me il solito, Freddy, e...?» Indicò Karl, che ordinò uno schnapps.
«Inflazione?» disse Karl. «Non ne ho mai sentito parlare... Cos'è, un
nuovo gioco di carte?»
«No, no», disse Ernst sorridendo. «Si gioca col denaro.»
«Naturalmente. Ma come...»
«Si gioca con denaro vero nel mondo reale. È davvero divertente. Ho
iniziato a giocarlo all'inizio dell'anno.»
Freddy ben presto arrivò con lo schnapps di Karl. Per Ernst portò un bic-
chiere da vino vuoto, una caraffa di acqua fredda e una piccola ciotola di
cubetti di zucchero. Karl guardava affascinato mentre Ernst estraeva una
fiaschetta d'argento dalla tasca interna e ne svitava il tappo. Versò tre dita
di liquido verde chiaro nel bicchiere, poi si rimise in tasca la fiaschetta. Poi
tirò fuori un cucchiaio, prese un cubetto di zucchero dalla ciotola e lo
tenne sopra il bicchiere. Poi versò dell'acqua dalla caraffa, lasciandola
cadere sopra il cubetto e nel bicchiere per farla mischiare col liquido
verde... che iniziò a diventare di un giallo pallido.
«Assenzio!» sussurrò Karl.
«Proprio», disse Ernst. «Ho iniziato ad apprezzarlo prima della guerra. È
un peccato che adesso sia illegale, anche se è abbastanza facile da
trovare.»
Adesso Karl capiva perché di solito Ernst prendeva questo tavolo
appartato. Istintivamente si guardò intorno, ma nessuno stava guardando.
Ernst sorbì e si asciugò le labbra. «Lo hai mai provato?»
«No.» Karl non ne aveva mai avuto l'occasione. E inoltre aveva sentito
dire che ti fa impazzire.
Ernst spinse il bicchiere dall'altra parte del tavolo. «Assaggia.»
Una parte di Karl lo spingeva a dire di no, mentre un'altra parte spingeva
la sua mano in avanti e gli faceva stringere le dita intorno al calice del bic-
chiere. Se lo portò alle labbra e ne prese un minuscolo sorso.
Il sapore amaro gli fece buttare la testa all'indietro e increspare le
guance.
«È il suo sapore caratteristico», disse Ernst riprendendo il bicchiere. «Ci
vuole un po' per abituarcisi.»
Karl rabbrividì mentre inghiottiva. «Come è entrato in voga?»
«Per mezzo secolo, in tutto il continente, l'ora del cocktail è stata nota
come l'heure verte a causa di questo miscuglio.» Sorbì di nuovo, chiuse gli
occhi, assaporando. «Al momento giusto, nel luogo giusto, può essere...
rivelatore.»
Dopo un attimo, aprì gli occhi e fece cenno a Karl di avvicinarsi.
«Qua. Spostati e siediti vicino a me. Voglio mostrarti qualcosa.»
Karl fece scivolare la seggiola dall'altra parte, vicino a Ernst, in modo
che entrambi potessero guardare l'affollato salone principale del
Romanische.
«Guardali, Karl», disse Ernst, indicando la stanza con il movimento del
braccio. «La crema degli artisti di questa città assistita dalla propria claque
e dalla propria corte di epigoni e accoliti che ride rumorosamente, e si mi-
schia all'immondizia e ai lunatici della città. Morfina-dipendenti e
vegetariani guancia a guancia con bolscevichi e uomini di mondo, arrivisti
e anarchici, abortisti e antivivisezionisti, direttori e dilettanti, decani e
demi mondaines.»
Karl si chiese quanto tempo avesse passato Ernst a bere assenzio e a
osservare la scena. E perché? Sembrava un entomologo che stesse
studiando un formicaio particolarmente interessante.
«Tutti vogliono unirsi alla parata», continuò. «Si muovono sotto
l'illusione autodeterminata di avere il controllo: 'Quello che accade alle arti
a Berlino oggi, il resto del mondo lo copia la settimana prossima'.
Abbastanza vero, ma questa è la Maschera della Morte Rossa, Karl. Forze
enormi sono in gioco, intorno a loro, e loro sono certi di venirne
schiacciati mentre il gioco si sviluppa. La Germania sta cadendo a pezzi
attorno a noi, gli impossibili debiti di guerra ci stanno soffocando, i
francesi e i belgi sono accampati nella valle della Ruhr da gennaio, i
comunisti stanno cercando di impadronirsi del nord, la destra e i
monarchici possiedono la Baviera, e la risposta della Reichsbank ai
problemi economici è di stampare altro denaro.»
«Va così male?» disse Karl.
«Certo. È solo carta. Ha mandato i prezzi alle stelle.» Si tolse il
portafogli dalla tasca interna, ne estrasse un biglietto, e lo passò a Karl.
«Un dollaro americano», disse lui.
Ernst annuì. Vale oro, come si dice. L'ho comprato a diecimila marchi in
gennaio. Ti interessa sapere quanto me lo pagherebbero oggi in banca?»
«Non lo so», iniziò Karl. «Forse...»
«Quarantamila. Quarantamila marchi.»
Karl era impressionato. «Hai quadruplicato il tuo denaro in quattro
mesi.»
«No, Karl», disse Ernst con un sorriso amaro. «Ho solo quadruplicato il
valore dei marchi che controllo. Il mio potere d'acquisto è esattamente
quello che era in gennaio. Ma io sono una delle poche persone in questa
terra scossa dalla tempesta che può dirlo.»
«Forse dovrei provare anch'io», disse Karl. Abassa voce, ammirando
l'elegante semplicità del piano. «Prendere i miei risparmi e convertirli in
dollari.»
«Fallo», disse Ernst. «Vuota il tuo conto in banca, tira tutti i marchi che
hai fuori dal materasso, e convertili in dollari. Ma questa è solo
sopravvivenza, non si può definire divertimento.»
«Sopravvivenza mi suona abbastanza bene», disse Karl.
«No, amico mio. La sopravvivenza non è mai abbastanza. Gli animali
limitano le loro preoccupazioni alla semplice sopravvivenza: gli esseri
umani cercano il divertimento. Questo è il motivo per cui bisogna trovare
un modo per rendere l'inflazione divertente. L'inflazione c'è. Non c'è niente
che noi possiamo fare per cambiarla. Quindi almeno divertiamoci con lei.»
«Non so...»
«Possiedi una casa?»
«Sì», rispose Karl lentamente, con cautela. Non sapeva dove l'avrebbe
portato questa conversazione. «E no.»
«Davvero? Vuoi dire che è completamente ipotecata?»
«No. In realtà è di mia mamma. Una piccola proprietà a nord della città,
vicino a Bernau. Ma gliela gestisco io.»
Il padre era un colonnello morto nelle Argonne, e l'aveva lasciata a lei.
Ma la madre non aveva disposizione per il denaro, e inoltre non era più la
stessa da quando il padre era morto cinque anni fa. Quindi Karl si era
occupato delle terre e dei conti, ma passava la maggior parte del tempo a
Berlino. Amava la città e amava il rinascimento artistico che produceva.
La sua libreria andava a fatica in pari, ma lui non l'aveva aperta per trarne
un profitto. L'aveva fatta diventare un posto dove gli scrittori e gli artisti
del luogo erano i benvenuti e potevano curiosare e incontrarsi. Aveva
attrezzato una piccola zona sul retro del negozio dove potevano sedersi a
parlare e bere il caffè che lui teneva in caldo per loro. Sognava che un
giorno uno dei poveri sconosciuti che approfittavano della sua ospitalità
sarebbe diventato famoso e forse avrebbe ricordato il posto con affetto. E
forse un giorno si sarebbe fermato a salutare Thomas Mann o l'introverso
Hermann Hesse. Finché quel momento fosse arrivato Karl si accontentava
di offrire caffè e dolci a scribacchini che facevano la fame.
Ma già dall'inizio, il negozio aveva dato dei dividendi non finanziari. Gli
permise di accedere al mondo della letteratura, e da lì a tutta la carovana
artistica che ruotava intorno a Berlino.
«Nessun pericolo di perderla?»
«No.» La proprietà produceva abbastanza, insieme alla pensione di papà,
da permettere alla mamma una vita confortevole.
«Bene. Accendi un'ipoteca. Prendi in prestito tutto il denaro che puoi,
poi converti tutti questi marchi in dollari americani.»
Karl rimase senza parole all'idea. La casa di famiglia non aveva mai
avuto vincoli. Mai. L'idea era impensabile.
«No. Non potrei.»
Ernst mise il braccio sulla spalla di Karl e si sporse verso di lui. Karl
poteva sentire l'odore dell'assenzio nel suo alito.
«Fallo, Karl. Credimi su questo. È divertente, ma ne vedrai anche gli ef-
fetti pratici. Ricordati le mie parole, tra sei mesi sarai in grado di ripagare
tutto il mutuo con un solo dollaro americano. Una sola moneta.»
«Non so...»
«Devi. Ho bisogno di qualcuno che giochi con me. È molto più buffo
quando c'è qualcuno con cui dividere il divertimento.»
Ernst si drizzò e sollevò il calice.
«Un brindisi!» disse, e toccò il bicchiere di Karl col suo. «A proposito»,
aggiunse, «sai da dove ha avuto origine l'usanza di toccare i bicchieri per
un brindisi? Ai vecchi tempi, quando avvelenare un rivale era una moda
tra le classi alte, era diventata usanza di lasciare versare al tuo compagno
un po' della sua bevanda nel tuo bicchiere, e viceversa. In quel modo, se
uno dei bicchieri era avvelenato, entrambi ne avrebbero sofferto.»
«Com'è affascinante», disse Karl.
«Proprio. Inevitabilmente l'atto del versare era accompagnato dallo sbat-
tere dei bicchieri. Da qui, la consuetudine moderna.» Ancora una volta
fece sbattere il suo bicchiere con l'assenzio con lo schnapps di Karl.
«Credimi, Karl. L'inflazione può essere molto divertente, e portare anche
profitti. Mi aspetto che il marco perda la metà del suo valore nelle
prossime sei settimane. Quindi non perdere tempo.»
Alzò il bicchiere. «All'inflazione!» gridò, e vuotò il bicchiere.
Karl bevve il suo schnapps in silenzio.
Ernst si alzò dalla sedia. «Mi aspetto di vederti pieno di dollari e senza
alcun marco quando torno.»
«Dove vai?»
«Un viaggetto che faccio ogni tanto. Mi piace andare a nord attraverso la
Sassonia e la Turingia per vedere cosa stanno facendo i bolscevichi. Sono
membro del Partito comunista tedesco, sai. Sottoscrivo per Rote Fahne,
ascolto i comizi della Zentrale, e vado ai raduni. È molto divertente. Ma
una volta che ho fatto il pieno di retorica marxista, mi dirigo a sud, a
Monaco, per vedere quello che sta facendo l'altra estremità dello spettro
politico. Sono anche membro del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori
tedeschi e sottoscrivo per il loro Volkischer Beobachter.»
«Non ne ho mai sentito parlare», disse Karl. «Come fanno a chiamarsi
nazionale, se nessuno li conosce a livello nazionale?»
«Nello stesso modo in cui si possono chiamare socialisti quando sono
palesemente fascisti. Anche se io, per primo, ho qualche difficoltà a vedere
molta differenza tra le due estremità dello spettro. Si distinguono solo dalla
messa in scena e dalla retorica. I Nazional Socialisti, si chiamano Nazi,
hanno molto potere a Monaco e in Baviera, ma nessuno gli presta molta
attenzione da queste parti. Una volta devo portarti a sentire uno dei loro
capi. Herr Hitler è un bel personaggio. Sono certo che al nostro amico
Freud piacerebbe farlo distendere sul suo lettino.»
«Hitler? Non ho mai sentito parlare nemmeno di lui.»
«Dovresti davvero sentirlo parlare qualche volta. È davvero divertente.»
Alcune settimane più tardi, quando Karl tornò dalla banca con i
documenti dell'ipoteca affinché sua madre li firmasse, vide qualcosa sul
montante della porta di casa. Si fermò e guardò meglio.
Una mezuzah, una pergamena ebraica.
Estrasse il coltellino tascabile e la strappò dal legno, poi entrò.
«Mamma, di cosa si tratta?» chiese, lasciando cadere l'oggetto sul
tavolo.
Lei guardò nella sua direzione con i suoi grandi occhi marrone
intelligenti. I capelli castani erano striati di grigio. Immediatamente dopo
la morte di papà aveva perso peso considerevolmente e non l'aveva mai
riacquistato. Una volta era vivace e felice, aveva un sorriso contagioso che
le creava due fossette nelle guance. Adesso era pallida e tranquilla.
Sembrava che si fosse ristretta, nel corpo e nello spirito.
«Sai molto bene di cosa si tratta, Karl.»
«Ma non ti ho avvertita di non metterlo fuori?»
«Deve stare fuori.»
«Non di questi tempi, mamma. Non è salutare.»
«Dovresti essere orgoglioso di essere ebreo.»
«Non sono ebreo», disse lui.
Gli sembrava che avessero fatto questa discussione centinaia di volte di
recente, ma sua madre non voleva capire. Suo padre, il colonnello, era
stato cristiano, sua madre ebrea. Karl aveva deciso che non sarebbe stato
né l'uno né l'altro. Era ateo, uno scettico, un libero pensatore, un
intellettuale. Era tedesco per lingua e nascita, ma preferiva pensare a se
stesso come a un cittadino internazionale. I paesi e i confini delle nazioni
dovrebbero essere aboliti, e un giorno lo saranno.
«Se tua madre è ebrea», disse lei, «tu sei ebreo. Non puoi sfuggire a que-
sto fatto. Non ho paura di dire al mondo che sono ebrea. Non ero molto
osservante quando tuo padre era vivo, ma adesso che se n'è andato...»
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
Karl si sedette vicino a lei e le prese la mano tra le sue.
«Mamma, ascolta. Il paese è pervaso da sentimenti antisemiti di questi
tempi. Sono sicuro che finiranno, ma in questo momento stiamo vivendo
in un paese incredibilmente orgoglioso che ha perso una guerra e che vuole
incolparne qualcuno. Alcune delle persone più cattive hanno scelto gli
ebrei come capro espiatorio. Quindi fino a quando il paese non si rimette
in equilibrio, penso che sia meglio non farsi notare troppo.»
Il sorriso di lei era fiacco. «Se lo dici tu, caro.»
«Bene.» Aprì il raccoglitore che aveva portato dalla banca. «E adesso
dedichiamoci alle carte. Questi sono gli ultimi documenti per l'ipoteca,
pronti da firmare.»
La mamma si strinse le mani. «Sei sicuro di fare la cosa giusta?»
«Assolutamente sicuro.»
In realtà, adesso che gli ultimi documenti erano pronti, stava avendo dei
ripensamenti.
Karl aveva organizzato le cose in modo da prendere in prestito fino
all'ultimo centesimo che la banca gli avrebbe dato sulla proprietà della
madre. Ricordava come si era sentito a disagio al bagliore avido negli
occhi del funzionario di banca, quando aveva firmato le carte.
Immaginavano rovesci finanziari, debiti di gioco, forse, un bisogno
disperato di denaro che avrebbe inevitabilmente portato al mancato
pagamento e all'appropriazione da parte della banca. Gli occhi del
presidente della banca avevano brillato al di sopra degli occhiali da lettura,
c'era mancato poco che si sfregasse le mani anticipando quanto sarebbe
successo.
Dubbi e paura si impadronirono di Karl adesso mentre la penna di sua
madre passava sopra la riga per la firma. Si stava comportando da pazzo?
Lui era un libraio e questi erano uomini che si occupavano di finanza. Chi
era lui per presumere di saperne più di uomini che passavano le loro
giornate a trattare di denaro? Stava agendo sulla base di un capriccio,
spinto da un uomo che conosceva a malapena.
Ma si fece coraggio, ricordando le ricerche che aveva fatto. Era sempre
stato bravo con le ricerche. Sapeva come estrarre le informazioni. Aveva
saputo che Rudolf Haverstein, il presidente della Reichsbank, aveva
aumentato gli ordini di biglietti di banca e stava facendo funzionare le
presse a piena velocità e per lunghe ore. Guardò in silenzio mentre sua
madre firmava i documenti per l'ipoteca.
Aveva già chiesto prestiti personali, usando i gioielli di sua madre come
garanzia. Calcolando l'ipoteca, aveva accumulato cinquecento milioni di
marchi. Se li convertiva immediatamente, avrebbe avuto
novemilaottocento dollari per mezzo miliardo di marchi. Sembrava
assurdo. Si chiedeva chi fosse più pazzo, la Reichsbank o lui.
«Perché una birreria?» chiese Karl mentre si sedevano nella enorme sala
principale del Burgerbraukeller.
«Perché Monaco è il cuore del paese che beve la birra», disse Ernst. Una
cameriera formosa appoggiò un paio di boccali da litro di birra chiara sul
tavolo di assi di legno grezzo davanti a loro. «Se vuoi raggiungere queste
persone devi parlar loro quando bevono birra.»
Il Burgerbraukeller era enorme, e si ergeva su un appezzamento di ter-
reno di discrete proporzioni sul lato orientale del fiume Isar che tagliava la
città in due. Dopo lo Zirkus Krone era il luogo d'incontri più grande di
Monaco. Sparsi all'interno di questo vasto complesso si trovavano diversi
distinti bar e ristoranti, ma il centro era costituito dalla sala principale che
poteva ospitare tremila persone. Quella sera tutti i posti erano occupati, e
coloro che erano arrivati in ritardo stavano in piedi nei corridoi e affollava-
no il fondo della sala.
Karl bevve qualche sorso di birra per mandar giù un boccone di
salsiccia. Tutto intorno a lui c'erano uomini vestiti di nero e di varie
gradazioni di marrone, tutti impazienti dell'arrivo del Führer. Ma vide
alcune persone in giacca e cravatta, e anche qualcuno che indossava i
tradizionali calzoni corti di pelle bavaresi e i cappelli tirolesi. Karl e Ernst
avevano fatto immediatamente amicizia con i loro vicini di tavolo
dividendo con loro un grosso piatto di formaggio, pane e salsicce che
avevano ordinato nella cucina piena di movimento. Anche se non erano in
divisa, non affiliati ad alcuna organizzazione, e non indossavano delle
fasce sul braccio, i due nuovi venuti di Berlino adesso erano considerati
Komraden dalla gente del posto che divideva il loro lungo tavolo. Furono
accettati con ancora maggior entusiasmo quando Ernst menzionò il fatto
che Karl era il figlio del colonnello Stehr, che aveva combattuto ed era
morto nelle Argonne.
Karl pensò che era molto meglio essere accettati come camerati che il
contrario. Aveva ascoltato le conversazioni che si tenevano al tavolo, i
ripetuti riferimenti in tono riverente ad Adolf Hitler come all'uomo che
avrebbe salvato la Germania da tutti i suoi nemici, sia interni che
internazionali, e che avrebbe riportato la terra dei padri alla gloria che
meritava. Karl intuiva che nemmeno il potere di Dio sarebbe stato
sufficiente a salvare qualcuno che in questa folla avesse osato dire
qualcosa contro Herr Hitler.
L'aria caliginosa era piena degli odori di qualsiasi birreria: di luppolo e
di malto versato, di fumo di tabacco, l'odore penetrante dell'aglio sulle
salsicce che si stavano cuocendo, di formaggio saporito, di corpi sudati, e
di attesa piena d'ansia. Karl stava finendo il suo ultimo boccale quando si
accorse di una certa agitazione tra la folla. Qualcuno con una cicatrice in
faccia era arrivato sul palco. Disse alcune parole tra la confusione che
aumentava e finì con il presentare Herr Adolf Hitler.
Con il fragore di un tuono la folla si alzò gridando: «Heil! Heil!»,
mentre un uomo minuto, alto circa un metro e settanta, che avrebbe potuto
avere un'età qualsiasi tra i trentacinque e i quarantacinque anni, salì i
gradini che portavano al palco. Indossava una giacca di lana marrone, una
camicia bianca con il colletto rigido, una cravatta sottile, con dei pantaloni
al ginocchio e calze marroni sulle corte gambe arcuate. Portava i capelli
marroni diritti con una riga sulla destra e pettinati sulla parte alta della
fronte, aveva un colorito giallastro, quasi giallo, e delle labbra sottili sotto
dei corti baffetti. Camminava piegato leggermente in avanti con la testa
inclinata a sinistra, e le mani infilate nelle tasche della giacca.
È questo l'uomo che chiamano Führer? Sembra un negoziante, o un
impiegato governativo, pensò Karl. È questo l'uomo che pensano salverà la
Germania? Erano forse tutti impazziti o ubriachi... o entrambe le cose?
Hitler raggiunse il podio e fissò il pubblico in attesa, e fu allora che Karl
ebbe il primo squarcio degli occhi indimenticabili di quell'uomo.
Brillavano come fari dalla loro cavità, forando la stanza, sconcertando Karl
col loro sorprendente fuoco azzurro. Guizzando ipnotici, pieni di
fanatismo, passavano in rassegna la stanza, tranquillizzandola, sfidando
un'altra voce a interrompere la sua.
E poi iniziò a parlare, con quel sorprendente tono da baritono che si
alzava e si abbassava come in un'opera di Wagner, gettando degli
improvvisi suoni gutturali nell'aria che mettevano enfasi come fossero
state pietre delle dimensioni di un pugno.
Per i primi dieci minuti parlò con voce pacata, rigidamente in piedi con
le mani intrappolate nelle tasche. Ma mentre la sua voce si alzava, e la
passione si faceva più potente, le mani si liberarono, fini, gradevoli, mani
con lunghe dita che svolazzavano come piccioni e scendevano in picchiata
come falchi, che poi si stringevano in un pugno per colpire la cima del
podio, con colpi che sembravano inferti con una mazza.
I minuti passavano, trasformandosi in un'ora, poi due. Dapprima Karl
era riuscito a conservarsi distaccato, facendo a pezzi le parole di Hitler,
separando le verità scelte con attenzione dalle mezze verità e dalle bugie
aperte. Poi, nonostante se stesso, iniziò a crollare sotto il magnetismo
dell'uomo. Questo Adolf Hitler era un oratore talmente appassionato, così
preso dalle sue parole, che uno doveva seguirlo, qualunque fossero le
falsità e la logica speciosa della sua oratoria. Non ci poteva essere alcun
dubbio che quest'uomo credeva inequivocabilmente in ogni parola che
diceva, e in qualche modo trasferiva queste ferventi convinzioni al suo
pubblico, cosicché anche loro si convincevano inalterabilmente della verità
di ciò che diceva.
E non fu mai più convincente di quando chiamò tutti i leali tedeschi a
rispondere alla richiesta d'aiuto di una Germania malata e indebolita, non
solo malata finanziariamente ed economicamente, ma una Germania sul
proprio letto di morte da un punto di vista intellettuale e morale. Non vi
era alcun dubbio che la Germania fosse malata, messa a terra da una
malattia che non si può guarire con impiastri e unguenti e purganti. La
Germania aveva bisogno di una chirurgia radicale: quelle parti che erano
malate e incancrenite e stavano avvelenando il resto del sistema dovevano
essere eliminate e bruciate prima che la guarigione potesse iniziare.
Karl ascoltava e rimaneva estasiato, inchiodato, incurante del tempo, pri-
gioniero di quella voce e di quelle parole.
E poi quest'uomo, questo Adolf Hitler, in piedi sul podio, bagnato dal
sudore, coi capelli attaccati alla fronte, agitando le mani, invitava tutti i
leali tedeschi a cui importava della loro madre patria a riunirsi intorno al
Partito nazista, e a marciare su Berlino, dove avrebbero ottenuto la
promessa dalla debole Repubblica di Weimar di bandire comunisti ed ebrei
da ogni posizione di potere e di scacciare le truppe francesi e belghe dalla
valle della Ruhr, e una volta ancora rendere inviolati i confini della patria.
Oh, perdio, ci sarebbe stato un nuovo governo in carica a Berlino, uno che
avrebbe riportato la Germania alla grandezza a cui era destinata. La
miseria della Germania doveva essere debellata dalla forza della
Germania. Il nostro giorno è giunto! Il momento è adesso!
La grande sala impazzì mentre Hitler faceva un passo indietro
permettendo alle ovazioni deliranti di più di tremila voci di far tremare i
muri e le travi accanto a lui. Persino Karl si alzò in piedi, pronto ad agitare
in aria il pugno e a gridare con quanto fiato aveva in gola. All'improvviso
si sorprese.
Cosa sto facendo?
Nel corso della mattina le strade di Monaco sui due lati del fiume erano
percorse da voci contrastanti che passavano con la stessa regolarità del
tramvai: il triumvirato si è messo con Hitler... i triumviri sono liberi e stan-
no organizzando delle contromosse contro il colpo di stato... la Reichswehr
si è ribellata ed è pronta a marciare su Berlino con Hitler... la Reichswehr
sta marciando su Monaco per sconfiggere il colpo di stato proprio come ha
fatto con il tentativo comunista il mese scorso... Hitler controlla completa-
mente Monaco e il suo esercito... alcuni ufficiali giovani e alcune unità di
polizia appoggiano il colpo di stato...
Karl inseguì ogni voce, cercando di conoscere la verità, ma la verità a
Monaco sembrava essere un bene molto aleatorio. Andò avanti e indietro
sul fiume Isar, tra il quartier generale dei rivoltosi nel Burgerbraukeller
sulla riva orientale e gli uffici governativi vicino a Marienplatz a occiden-
te, con la mano destra infilata in tasca, stretta sulla pistola, alla ricerca di
Hitler. Lui ed Ernst si erano separati, immaginando che due persone potes-
sero coprire una zona più ampia se erano divise.
A mezzogiorno Karl iniziò ad avere l'idea che Hitler non avesse poi
tanto il controllo della situazione quanto gli faceva piacere far credere di
avere. E vero, le sue truppe sembravano avere una mano di ferro sulla città
a oriente del fiume, e una bandiera con la svastica sventolava da un
balcone sul Nuovo Municipio sul lato occidentale, ma Karl si era accorto
che le divise verdi della polizia bavarese di stato erano riunite alle
estremità occidentali dei ponti sull'Isar. Non bloccavano il traffico, ma
sembravano vigili. E le truppe della Settima Divisione della Reichswehr
stavano attraversando la città. Il quartier generale della Reichswehr sulla
riva occidentale era ancora sotto il controllo delle unità della
Reichskriegsflagge del Kampfbund, ma il quartier generale in sé adesso
era circondato da due battaglioni di fanteria della Reichswehr e da un certo
numero di unità di artiglieria.
La marea sta cambiando, pensò con una soddisfazione macabra Karl.
Forse alla fine non sarebbe stato necessario che usasse la pistola.
Era in piedi sul lato occidentale del ponte Ludwig, con le spalle al vento,
quando vide Ernst che si affrettava verso di lui dall'estremità più lontana.
«Vengono da questa parte!» gridò Ernst, con le guance rosse per l'ecci-
tazione e il freddo.
«Chi?»
«Tutti. Tutti quelli del colpo di stato, a migliaia. Hanno iniziato una
marcia per le vie della città. E Hitler è alla loro testa.»
Appena Ernst ebbe finito di parlare, Karl si mise a spiare tra le prime file
dei manifestanti. Nazisti in camicia marrone che portavano le loro
bandiere rosse e bianche che sbattevano e si agitavano al vento. Dietro di
loro venivano gli altri, che avanzavano a braccetto, dirigendosi
direttamente verso il ponte Ludwig. Individuò Hitler nelle prime file, con
indosso il suo impermeabile marroncino e un cappello di panno. Vicino a
lui c'era il generale Ludendorf, uno degli eroi di guerra più rispettati del
paese.
Si era radunata una folla di sostenitori e di semplici curiosi, mentre la
Polizia Verde si affrettava verso l'estremità a ovest del ponte per fermare i
manifestanti. Prima che si potesse organizzare, squadre di truppe d'assalto
sciamarono dai lati del corteo, circondandola e disarmandola.
La marcia emerse dall'altra parte del ponte senza che nessuno la potesse
fermare.
Karl rinsaldò la presa sulla pistola. L'avrebbe finita qua, adesso, senza
pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze per lui. Ma, attra-
verso la calca che lo circondava, non riusciva ad avere una visione chiara
di Hitler. E con sua grande delusione, molti spettatori si unirono alla mar-
cia al suo passare, ingrossandone ancora le file.
I manifestanti affluirono nella già affollata Marianplatz, davanti al mu-
nicipio, dove vennero accolti calorosamente e con grida di adulazione
dalle migliaia di persone che si erano raccolte là. Una interpretazione
delirante di «Deutschland über Alles» fece tremare i vetri delle finestre in
tutta la piazza e finì tra innumerevoli grida di «Heil Hitler».
Karl non riuscì mai ad avvicinarsi a meno di un centinaio di metri dal
suo obiettivo.
E adesso, con le file raddoppiate, la marcia era ripartita, questa volta
dirigendosi a nord verso Wienstrasse.
«Si stanno dirigendo al quartier generale del Reichswehr», disse Ernst.
«È circondato», disse Karl. «Non riusciranno mai ad avvicinarsi.»
«E chi li fermerà?» disse Ernst. «Chi gli sparerà addosso con il generale
Ludendorf al fianco di Hitler e con tutti quei civili che sono con loro?»
Karl sentì che le mascelle si indurivano al ricordo della visione che gli
era passata per il cervello, che portava con sé l'immagine di sua madre,
vecchia, rinsecchita, nuda e sanguinante.
«Io.»
Partì di corsa per una strada parallela a quella della marcia, distanziando
con facilità la folla che si muoveva lentamente. Calcolò che i manifestanti
dovevano arrivare in Residenzstrasse per raggiungere l'edificio della
Reichswehr. Si nascose in un portone del Feldhermhalle, vicino all'inizio
della strada, e vi si piegò, ansante per l'esercizio a cui non era abituato.
Alcuni secondi più tardi, Ernst si unì a lui, respirando quasi normalmente.
«Non era necessario che venissi», gli disse Karl.
«Certo che l'ho fatto. Siamo testimoni di un cambiamento storico.»
Karl estrasse la pistola dalla tasca della giacca. «Ma dopo di oggi ne sarà
protagonista una persona diversa da Hitler.»
All'inizio della Residenzstrasse, dove si apriva su una piazza, Karl vide
delle unità della Polizia Verde che preparavano una barricata.
Bene. La marcia avrebbe dovuto rallentare mentre si avvicinava alla bar-
ricata, e quello sarebbe stato il suo momento.
«Ecco che arrivano», disse Ernst.
Le mani di Karl iniziarono a sudare mentre cercava il suo obiettivo tra le
prime file. Quando riuscì a identificare Hitler si accorse che la presa della
pistola gli scivolava tra le mani. Ecco. Questo era il suo momento storico,
in cui avrebbe potuto trasformare la storia in modo che non si verificassero
gli orrori che la visione gli aveva mostrato.
Fu colto da un dubbio che lo strinse alla base della gola come una mor-
sa. E se la visione fosse stata sbagliata? E se si fosse trattato solo
dell'assenzio e di nient'altro? E se fosse stato sul punto di uccidere un
uomo a causa di allucinazioni da ubriaco?
Si liberò dei dubbi. No. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Hitler deve
morire. Qui. Adesso. Per mano mia.
Come aveva previsto, la marcia rallentò mentre si avvicinava alle barri-
cate, e le truppe d'assalto si avvicinarono alla Polizia Verde gridando:
«Non sparate! Siamo i vostri camerati! C'è il generale Ludendorf con noi!»
Karl sollevò la pistola, aspettando che gli si presentasse l'occasione.
Poi si aprì un passaggio tra lui e la forma di Hitler nell'impermeabile.
Adesso! Deve essere adesso!
Prese la mira, lentamente, con attenzione. Non aveva esperienza con le
pistole. Suo padre, quando era un ragazzo, lo aveva portato a caccia col
fucile, ma non vi aveva mai trovato una grossa soddisfazione. Non
provava piacere neppure in questo, era mosso solo dal senso del dovere.
Ma sapeva come prendere la mira, e davanti a lui c'era il cuore di questo
mostriciattolo che avanzava impettito. Si ricordò le parole di suo padre...
«Schiaccia, non tirare... schiaccia... fatti sorprendere dallo sparo...»
E mentre Karl aspettava di farsi sorprendere, immaginò il cilindro di
piombo affusolato che esplodeva dalla canna, volando verso Hitler, affon-
dandogli nel torace, strappandogli i polmoni e il cuore, strappandogli la
vita prima che lui potesse distruggere le vite degli sventurati, impotenti,
milioni di innocenti che odiava così tanto. Vide Hitler che si piegava e
cadeva, vide un breve, violento spasmo di rabbia e confusione mentre il
suo esercito sparava selvaggiamente in tutte le direzioni, continuando coi
tumulti finché la Polizia Verde e le unità dell'esercito regolare non si fosse-
ro chiuse intorno a loro per dividerli, per arrestarne i capi, e disperdere gli
altri. Forse si sarebbe levato qualcun altro che odiava gli ebrei, ma non
avrebbe avuto la combinazione unica di quest'uomo di magnetismo perso-
nale e potere oratorio. Il futuro che Karl aveva visto non sarebbe mai acca-
duto. La sua pallottola avrebbe tagliato il legame tra questo tempo e quel
futuro.
E quindi lasciò che il suo indice sudato accarezzasse il grilletto... schiac-
ciando...
Ma mentre la pistola sparava, qualcosa gli urtò il braccio. Il proiettile
sibilò nell'aria fredda, alto, mancando Hitler.
Il tempo si fermò. I manifestanti si immobilizzarono, qualcuno a metà
passo. Tutti a eccezione di Hitler. Adesso aveva la testa girata verso Karl,
e i suoi occhi azzurro chiaro lo cercavano tra gli androni, le finestre, fino a
fissarsi nei suoi. I due uomini si fissarono l'un l'altro per un istante, un'eter-
nità... poi... Hitler sorrise.
E con quel sorriso il tempo riprese il suo ritmo mentre l'unico colpo di
Karl stava provocando una valanga di colpi da parte della Polizia Verde e
delle truppe del Kampfbund. All'improvviso sulla Residenzstrasse ci fu il
caos. Karl guardava pieno di orrore mentre la gente correva in tutte le dire-
zioni, urlando, sanguinando, cadendo e morendo. Il marciapiede divenne
rosso e scivoloso per il sangue. Lui vide che Hitler si abbassava e si teneva
basso. Pregò che il proiettile di qualcun altro lo trovasse.
Alla fine gli spari cessarono. I fucili tacevano, ma l'aria era ancora piena
delle grida dei feriti. Karl, sorpreso, vide Hitler che lottava per rimettersi
in piedi, poi lo vide volare via lungo il marciapiede, con l'arma spianata.
Prima che lui riuscisse a riprendersi e mirare ancora con la pistola, Hitler
era saltato su una Opel berlina gialla, che lo aveva portato via.
Karl aggiunse le sue grida a quelle dei feriti. Si girò verso Ernst.
«Sei stato tu! Perché mi hai colpito il braccio? L'avevo nel mirino, e tu...
me l'hai fatto mancare!»
«Mi dispiace terribilmente», disse Ernst scrutando avidamente la
carneficina in strada davanti a loro. «È stato un incidente. Stavo
sporgendomi in avanti a guardare e ho perso l'equilibrio. Non preoccuparti.
Penso che tu abbia raggiunto il tuo scopo. Il colpo di stato è finito.»
Karl era fuori di sé dalla gioia quando Adolf Hitler venne catturato dalla
Polizia Verde due giorni più tardi, accusato di tradimento, e buttato in
galera. Il Partito Nazional Socialista venne smantellato e dichiarato
illegale. Adolf Hitler aveva perso il suo firmamento politico, la libertà, e
dal momento che era austriaco, c'era anche la possibilità che dopo il
processo venisse deportato.
Mentre si aspettava il processo, Karl riaprì il negozio di libri e cercò di
reinserirsi nella normale routine a Berlino. Ma la visione dello spettro di
Adolf Hitler lo perseguitava. Hitler era ancora vivo, poteva ancora
provocare gli orrori che Karl aveva visto. Lui aspettava famelico il
processo, di vedere Hitler umiliato, condannato a un minimo di vent'anni o
deportato, o ancora meglio: ucciso come traditore.
Durante i mesi che portarono al processo vide Ernst sempre meno di fre-
quente. Ernst sembrava essersi stancato di Berlino. Adesso era stata
stabilita la parità tra oro e marchi e questo aveva riportato l'inflazione sotto
controllo; il nuovo governo sembrava stabile, non c'erano altri colpi di
stato in fermentazione... la vita era molto meno «divertente».
Si incontrarono di nuovo a Monaco il giorno della sentenza di Hitler.
Come il processo, anche la sentenza si teneva nella sala delle conferenze
della vecchia scuola di Fanteria perché i tribunali regolari della città non
avevano spazio a sufficienza per le enormi folle attirate dalla cosa. Karl
non era riuscito a trovar posto dentro; né, apparentemente ci era riuscito
Ernst. Entrambi avevano dovuto accontentarsi di stare in piedi fuori sotto il
cielo luminoso di mezzogiorno ad aspettare le notizie insieme agli abitanti
della città.
«Non posso dire di essere sorpreso di vederti qua», disse Ernst, mentre si
davano la mano.
«Nemmeno io immagino che trovi tutto questo divertente.»
«Proprio.» Indicò col bastone. «Oh, cielo. Guarda quella gente.»
Karl li aveva già studiati, e lo avevano sconvolto. Migliaia di tedeschi
erano sciamati qui intorno a questo grande edifìcio di mattoni da tutto il
paese, cercando invano di entrare in tribunale. Due battaglioni della Polizia
Verde erano piazzati dietro a barriere di filo spinato per tenere lontana la
folla. Durante i venticinque giorni del processo, Karl si era mosso tra di
loro e aveva provato orrore al rendersi conto di quante persone parlassero
di Hitler con i toni reverenti di adorazione riservati ai reali o a un dio.
Oggi le donne avevano portato bouquet di fiori per Hitler, e quasi tutti
nell'enorme moltitudine indossavano nastri rossi, bianchi e neri, i colori
nazisti.
«Adesso è una figura nazionale», disse Ernst. «Prima del colpo di stato
nessuno aveva sentito parlare di lui. Adesso il suo nome è conosciuto in
tutto il mondo.»
«E quel nome ben presto sarà in galera», disse con veemenza Karl.
«Senza dubbio. Ma ha fatto del processo un uso eccellente come podio
improvvisato.»
Karl scosse la testa. Non riusciva a capire perché i giudici avessero per-
messo a Hitler di parlare così prolungatamente dal seggio dei testimoni.
Per giorni, settimane, aveva continuato, ricevendo ovazioni a scena aperta
in tribunale, mentre i reporter trascrivevano le sue parole e le pubblicavano
perché tutta la nazione le potesse leggere.
«Ma oggi si arriva alla fine. Forse mentre noi ne stiamo parlando, la sua
sentenza viene pronunciata. Oggi Adolf Hitler andrà in prigione per un
periodo molto, molto lungo. Anche meglio: oggi sarà deportato in
Austria.»
«La prigione, sì», disse Ernst. «Ma non conterei sulla deportazione. È,
dopo tutto, un reduce decorato dell'esercito tedesco, e io credo che i giudici
siano più che un po' intimiditi dalla manifestazione di appoggio che ha
ricevuto qua e nel resto del paese.»
All'improvviso si sentirono delle grida provenienti dalle persone che sta-
vano più vicino all'edificio, seguite da un'allegria sfrenata mentre si
spargevano le voci sulla sentenza: cinque anni nella prigione di Landau...
ma con la possibilità di libertà provvisoria tra sei mesi.
«Sei mesi!» gridò Karl. «No, non può essere! È colpevole di tradimento.
Ha cercato di rovesciare il governo!»
«Buono, Karl», disse Ernst. «Stai attirando l'attenzione.»
«Non starò zitto!» gridò. «La gente deve sapere!»
«Non queste persone, Karl.»
Karl alzò le braccia verso il cerchio di facce arcigne che gli si erano
strette intorno. «Ascoltatemi! Adolf Hitler è un mostro! Dovrebbero
chiuderlo nel buco più scuro e più profondo e gettare via la chiave! Lui...»
Venne colpito da un pugno al rene destro e un dolore lancinante gli per-
corse il torace. Mentre Karl inciampava in avanti, un altro uomo, con occhi
selvaggi e pieni di furia, gli diede un pugno in faccia mostrando i denti.
Lui crollò pesantemente sul pavimento mentre le grida di «comunista»,
«ebreo» gli riempivano le orecchie. Il cerchio gli si chiuse intorno, e il
cielo gli venne coperto da facce rabbiose, che non mostravano pietà mentre
lo colpivano alla schiena, alla pancia e alla testa con pesanti scarponi.
Karl stava perdendo l'ultimo bagliore di coscienza quando
all'improvviso i colpi cessarono e il cielo blu comparve di nuovo sopra di
lui.
Con gli occhi offuscati vide Ernst che si piegava su di lui, scuotendo la
testa con sgomento.
«Buon Dio, amico! Hai un ultimo desiderio? Se non avessi chiamato la
polizia in tuo soccorso adesso saresti una poltiglia sanguinante!»
Dolorosamente Karl si appoggiò su un gomito e sputò sangue. Scene
dalla visione oscura iniziarono a passargli come un flash davanti agli
occhi.
«Succederà!» singhiozzò.
Si sentiva completamente solo, totalmente sconfitto. Hitler adesso aveva
un seguito a livello nazionale. Tra sei mesi sarebbe stato di nuovo per le
strade, nelle birrerie, a divulgare il suo odio. Questo processo non
significava la sua fine, era solo l'inizio. Lo aveva catapultato sulla scena
nazionale. Era per strada. Avrebbe preso il sopravvento.
E la visione sarebbe diventata realtà.
«Dannazione, Ernst! Era proprio necessario che mi facessi sbagliare il
colpo?»
«Te l'ho detto, Karl. È stato un incidente.»
«Davvero?» Nel corso dei mesi, da quel freddo giorno d'autunno, i pen-
sieri di Karl erano ritornati spesso alla gomitata di un tempismo perfetto
che gli aveva fatto sbagliare il colpo. «Mi chiedo se si è davvero trattato di
un incidente, Ernst. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che tu lo abbia
fatto di proposito.»
La faccia di Ernst si indurì mentre si alzò torreggiando sopra Karl.
«Credi quello che vuoi, Karl. Ma non posso dire che mi dispiaccia. Io,
per primo, sono convinto che il prossimo decennio o due saranno molto
più divertenti con Herr Hitler che senza di lui.» Il suo sorriso era freddo,
ma i suoi occhi brillavano per l'attesa. «Aspetto con ansia gli anni che
verranno, e tu?»
Karl cercò di rispondere, ma le parole non venivano. Se solo Ernst sa-
pesse...
E poi vide il bagliore nei suoi occhi e una eventualità lo colpì con la
forza di uno scarpone chiodato: forse Ernst sapeva.
Ernst si toccò la punta del cappello con il manico d'argento del suo ba-
stone. «Se tu mi vuoi scusare adesso, Karl, devo davvero andare. Devo
incontrare un amico, un nuovo amico, per bere qualcosa.»
Si girò e si allontanò, mischiandosi alla folla crescente in rosso, bianco,
nero e marrone.
1930-1939
Triade
di Poppy Z. Brite
e Christa Faust
A Su Wei
Tra le quinte, nel teatro del Dragone Fortunato, l'aria era impregnata
degli odori del cerone e dell'incenso e del sudore dei ragazzi. Piccoli
guerrieri con giacche riccamente ricamate in oro e rosso si affollavano
davanti a frammenti di specchi, per dipingersi labbra e palpebre con lunghi
pennelli. A coppie facevano a turno per allungarsi i muscoli nelle difficili e
dolorose posizioni che preparavano i loro corpi ai rigori dell'Opera di
Pechino. Le cosce ruotavano sull'anca a 360 gradi, le spine dorsali si
piegavano all'indietro come erba al vento. Un ragazzo più grande, di
quattordici anni circa, si agganciò sulle orecchie una lunga barba bianca e
prese una posa artritica, facendo ondeggiare le maniche a pieghe del suo
abito.
Contro la parete più lontana, un ragazzo con una tunica iridescente verde
e argentea stava seduto con le braccia conserte. Era alto per la sua età, e
aveva due ampie spalle, polsi ossuti e mani grandi ed espressive. Il suo
viso dipinto, spigoloso e magro, avrebbe potuto essere considerato severo
se non fosse stato per un paio di orecchie comicamente larghe che ne
emergevano, come i manici di una brocca.
Spinse la testa all'indietro contro la parete piena di schegge di vetro, e
trasse un profondo sospiro. Il suo corpo era teso come una corda in attesa
di essere fatta vibrare. Il nastro bagnato che aveva legato intorno alla
fronte stava iniziando ad asciugarsi sotto il berretto a punta, tenendogli la
pelle sopra agli occhi così tesa da rendergli impossibile sbatterli. Dopo
un'ora o due, gli asciugava talmente il bulbo oculare da procurargli degli
spasmi.
Ma gli occhi che bruciavano e il prurito caldo della pelle sotto il trucco
erano tormenti familiari. Dopo otto anni, non valeva la pena di prenderne
atto più che dei crampi nello stomaco vuoto, o del dolore senza fine che gli
procurava ripetere in continuazione gli esercizi di punizione.
«Ji Fung.»
La voce bassa lo richiamò dalla sua meditazione senza scopo. Guardò in
su negli occhi grandi e truccati del suo migliore amico, Lin Bai, che
vestiva l'abito bianco e argenteo del seducente Serpente Bianco.
Così vestito, Lin Bai si trasformava, da bel ragazzo qual era, in una
visione di bellezza che turbava Ji Fung ogni volta che lo vedeva. Vedere la
faccia familiare del suo migliore amico offuscata dal capriccio faceva ri-
bollire lo stomaco di Ji Fung di un miscuglio di emozioni contraddittorie.
Gli ricordava le lunghe notti passate tra i morsi della fame quando lui e Lin
Bai si erano raggomitolati vicini sotto le coperte, a sussurrarsi i loro sogni
e segreti nel silenzio profondo del dormitorio.
Padron Lau era all'antica e credeva ancora che una donna vera sul palco
portasse sfortuna. Era stato lui a chiamare così Lin Bai, che significava
Loto nascosto, che era un nome da ragazza. E Lin Bai era brillante nei
ruoli femminili. Recitava i ruoli di guerrieri femmine come Mu Lan, o di
eroine da tragedia come Chu Ying-tai con la stessa finezza. Invece il torace
ampio e la bravura acrobatica naturale di Ji Fung, assieme alla sua voce
passabile cospiravano a tenerlo nei ruoli faticosi di soldato o di mangiatore
di spade.
Lin Bai era nato per essere protagonista. Possedeva la grazia di una
rondine, la rigogliosa fragranza di un'orchidea completamente sbocciata, la
bellezza fredda della giada bianca. La sua voce era sonora e piena di
colore. Aveva già provocato fitte di invidia in stelle che avevano dieci anni
più di lui. I compagni di scuola lo odiavano perché era un cagnolino da
salotto viziato, il preferito del Padrone, che per lui aveva sempre una
boccata di riso caldo anche quando tutti gli altri erano affamati. Ji Fung era
il suo unico amico.
«Aiutami con le bandiere». Lin Bai arcuò leggermente in su la bocca
rosso ciliegia.
Ji Fung prese l'imbracatura imbottita con le sue quattro bandiere,
facendo cenno a Lin Bai di girarsi. Lin Bai obbedì silenziosamente, a testa
bassa, sapeva obbedire a un ordine. Ji Fung tese le cinghie sul torace
minuto del suo amico e le legò strette, tirandole un po' per essere sicuro
che avrebbero retto. Lin Bai scosse la parte superiore del corpo, per prova.
Il ricamo d'argento brillava mentre le quattro bandiere sventolavano come
se fossero state ali.
Lin Bai sorrise, e Ji Fung all'improvviso provò caldo e freddo allo stesso
tempo. Si girò dall'altra parte.
Delle tende polverose si aprirono all'estremità del camerino e Padron
Lau entrò nel bel mezzo di quella allegra confusione. La conversazione
musicale dei ragazzi si interruppe.
«Smettetela di giocare!» Le pesanti sopracciglia del Padrone si abbassa-
rono sui suoi occhi, poi si sollevarono in modo allarmante. Era un uomo
alto, muscoloso, con una bocca sensuale che sembrava fuori posto sotto il
suo naso che pareva una lama e i suoi occhi acuti, di pietra. Vedere il
disappunto in quegli occhi era l'incubo di ogni ragazzo, perché le sue
punizioni venivano dispensate frequentemente e senza preavviso. Ji Fung
le conosceva tutte: costretto a danzare e a fare salti mortali finché i
legamenti urlavano di dolore; costretto a piegarsi e a contare i colpi che
riceveva finché il suo morbido didietro era completamente escoriato dalle
bastonate; costretto a stare in equilibrio sulle mani così a lungo che dopo
non riusciva a drizzare i polsi per ore.
Il Padrone era il loro insegnante il loro padre e il loro dio. Bramavano le
sue rare lodi e vivevano nel terrore della sua disapprovazione. Molti non
riuscivano a immaginare la vita senza di lui.
«La rappresentazione sta iniziando», disse il Padrone. «Niente errori.»
I ragazzi si misero in fila per farsi controllare. Padron Lau percorse la
fila, scrutando i suoi allievi con occhi pungenti. Ecco, un pompon storto su
un ornamento del capo si guadagnò una crudele tirata d'orecchio, una
faccia dipinta in modo imperfetto si attirò uno schiaffo doloroso dietro il
collo. Il Padrone superò Ji Fung e gli altri attori secondari con poco più di
un cenno del capo, ma si fermò davanti a Lin Bai per quasi un minuto,
fissandolo come se avesse avuto il dono di vedere attraverso il tessuto e la
carne fino alle profondità vermiglie del suo cuore che batteva. Lin Bai non
ricambiò lo sguardo del suo padrone. L'abbigliamento femminile e
l'inclinazione timida degli occhi lo facevano sembrare riservato. Solo Ji
Fung lo conosceva abbastanza da leggere l'odio nella sua schiena rigida e
nella sua mascella tirata.
Lin Bai odiava Padron Lau con una violenza di cui Ji Fung non aveva
mai capito appieno la profondità. Ji Fung sapeva cosa significava maledire
in cuor suo il padrone mentre scacciava le lacrime sotto i colpi del bastone
di bambù, o durante le lunghe ore passate immobile in un'unica posizione
massacrante. Ma l'odio di Lin Bai era diverso, più profondo, una cosa che
teneva nascosta dentro di sé come un tesoro di cristallo dalle punte affilate,
una crisalide scura di cui non si poteva immaginare la forma finale. C'era
un'intensità particolare nell'aria tra il Padrone e il suo allievo più bravo che
faceva sentir male e debole Ji Fung, che era fieramente protettivo nei
confronti del suo amico.
«Bene», disse il Padrone all'improvviso, e allora la musica iniziò il suo
lamento, perché era arrivato il momento di entrare in quell'altro mondo.
La sala era quasi vuota. Niente altro che piccoli gruppi di teste grigie e
bambini che si muovevano irrequieti. Mentre era in piedi dietro le quinte Ji
Fung si trovò a desiderare di essere uno di quei bambini. Un ragazzino
seduto tra la mamma e il papà in quel teatro appesantito dal rosso e
dall'oro. Un ragazzo che sarebbe tornato a casa tra i dolci e un letto
morbido, non a una tazza di riso e a un dormitorio affollato.
Era stato un ragazzo così, in un'altra vita. Da qualche parte dentro di lui
c'era un sogno vago di una bella casa e di un'amah sorridente. Di giocattoli
d'argento con una molla che li muoveva e di un cane nero con una morbida
pelliccia. Di una famiglia, zii e zie e cugini, di banchetti ricchi e rumorosi,
pieni di risate e di strani racconti.
Ma Ji Fung era troppo vecchio per desiderare il conforto senza
preoccupazioni dell'infanzia. E se permetteva alla sua mente di vagare
troppo a lungo per quei sentieri, di andare troppo oltre, sapeva che sarebbe
finito nei terribili crocevia della notte in cui era stato tolto dalla sua casa
per sempre.
Fino ad allora era stato chiamato solo Ji o figliolo. Aveva un altro nome
che era molto più lungo e più elegante, ma a casa era solo Ji; a volte Siu Ji,
o piccolino. Ma quella notte gli era stato tolto tutto, anche il suo vero
nome.
Le mani disperate di sua madre lo avevano trascinato fuori da un sonno
difficile. Lo aveva messo a letto con qualche ora di anticipo e senza cena,
ignorando le sue grida di richiamo per la sua amah e per le focaccine di
loto al vapore che amava. Adesso lo stava scuotendo per svegliarlo e gli
abbottonava una semplice giacca di cotone. Lei indossava una tunica di un
blu spento e dei pantaloni larghi, aveva i capelli lucidi raccolti sul collo, e
la faccia pallida priva di trucco. Sembrava una serva, non la prima moglie
di un uomo ricco e potente.
Ji aveva saputo, nel modo in cui sanno i bambini, senza capire, che qual-
cosa di terribile stava accadendo. Si sentì male fino alle ossa e certo che il
mondo stesse per crollare. Sua madre non gli aveva detto più di una
manciata di parole nei suoi sette anni di vita. Adesso lo chiamava bravo
ragazzo e ometto mentre fissava il vuoto alle sue spalle. I suoi occhi
brillavano al buio come la luce della luna su acque minacciose.
Quando lui riuscì a parlare, si mise a piangere cercando di suo padre.
Suo padre aveva sempre tempo per lui, gli portava regali da Macao e da
Shanghai, faceva aspettare importanti uomini d'affari mentre si occupava
di una sbucciatura su un ginocchio o di un giocattolo rotto. Sì, suo padre
viziava il suo unico figlio, ma mai fino al punto da ridurlo all'impotenza,
perché i figli devono essere forti e brillanti. Ji un giorno si sarebbe seduto
dietro quella scrivania, avrebbe capito i misteriosi scambi che suo padre
dirigeva, li avrebbe diretti lui stesso.
Suo padre gli aveva già dato il sigillo col suo nome, un oggetto di giada
intagliato che Ji teneva sempre con lui. Adesso era nella sua mano
sudaticcia, strappato da sotto il cuscino al suo risveglio, con le sue
estremità fredde e i minuscoli caratteri familiari e rilassanti come la voce
di suo padre. Se solo avesse potuto vedere suo padre adesso, la notte
avrebbe perso quell'incredibile senso di minaccia.
Ma quando lo chiamò, sua madre si girò. Aveva la schiena rigida e
strana.
«Non parlare più di tuo padre», gli intimò.
L'odio nella voce di lei lo paralizzò come il veleno di un ragno. Ji in quel
momento seppe che il mondo era già finito.
Lei lo condusse attraverso la casa immobile, muovendosi come un fanta-
sma nei lunghi corridoi silenziosi. Le loro ciabatte di pezza non
producevano alcun suono sui pesanti tappeti e i pavimenti di marmo lucidi.
Lui chiese dove stavano andando, ma lei non rispose. Lui le chiese della
sua seconda madre e delle sue piccole sorellastre. Della terza madre col
suo pancione e gli occhi tranquilli. Della sua amah. Del cameriere col
grande torace e le forti braccia. Di chiunque potesse impedire a Ji di
perdere il controllo e di scivolare lungo una discesa sdrucciolevole, verso
un futuro imprevedibile. Ma sua madre non rispondeva a nessuna delle sue
implorazioni. Gli stringeva solo il braccio e lo faceva camminare più
velocemente.
Passando attraverso la cucina buia, vide le forme dell'amai e della cuoca
piegate sul pavimento vicino alla stufa. La testa dell'amah aveva un alone
di un liquido nero lucido che risaltava sulle mattonelle bianche. L'aria era
rancida di cibo vecchio e sapeva vagamente di vomito.
«Amah», chiamò, tirando in direzione del corpo crollato.
Sua madre lo zittì. «L'amah sta dormendo. È molto stanca.» Guardò da
un'altra parte. «Sono tutti molto stanchi. Devi stare tranquillo, e non
svegliarli.»
Ji cercò di guardarsi alle spalle mentre lei lo trascinava fuori dall'entrata
di servizio, ma era troppo buio, e la porta si richiuse troppo rapidamente
alle sue spalle.
Camminarono per tutta la notte, vagando senza meta per le strade, in
vicoli scuri che puzzavano di interiora di pesce e di urina. Scivolarono
senza farsi notare tra battaglioni di soldati stranieri che si trascinavano per
le strade con le facce rubizze e il fiato da ubriachi. Quando superarono un
negozio che faceva spaghetti di soia, luminoso e affollato dietro le vetrine
opache per il vapore, Ji cercò di trascinare sua madre verso il punto da cui
proveniva il buon profumo. Si sentiva svenire per la fame adesso, ma lei
non si girò.
La notte di Hong Kong era un collage di immagini, orribili e fantastiche.
Vide prostitute dagli occhi incavati che ostentavano seni vizzi, e
mendicanti bambini che leccavano il sangue dei polli sgozzati dai
marciapiedi luridi fuori da un macello. Vide delle luci al neon luride
riflesse sulle lunghe macchine nere e lucide su cui viaggiavano milionari
occidentali e le loro donne esotiche dai capelli rossi. La ricchezza e lo
squallore giacevano fianco a fianco, intimi come amanti.
Per Ji, a sette anni e stanco, era un brutale sovraccarico di sensazioni.
Stringeva il suo sigillo di giada finché gli penetrò nella carne, deciso a non
piangere, a non vedere, a mettere ciecamente un piede davanti all'altro
finché questo viaggio incomprensibile fosse terminato. Forse era ancora
nel suo letto e stava sognando, e la sua amah presto l'avrebbe svegliato con
una tazza di riso fumante.
Bocche ripugnanti senza denti mormoravano vicino a lui, ma lui non
guardava in su per vedere i loro proprietari. Luci brillanti danzavano sulla
coda dell'occhio, ma lui non si girava per vedere da dove provenissero.
Vedeva solo i suoi piedi, infilati in scarpe grossolane da contadino. Scarpe
nere di pezza, consumate alle estremità, che strisciavano su pietre unte. Un
passo dopo l'altro e la mano di sua madre gli sembrava come una morsa di
denti aguzzi intorno alla sua, e non gli permetteva mai di rallentare. La sua
stanza, il suo letto gli sembravano incredibilmente distanti. Forse non c'era
mai stato nient'altro che questo camminare senza fine. Forse la sua intera
esistenza era stata solo un sogno, l'invenzione di una mente vagante mentre
il suo corpo arrancava faticosamente.
Iniziò a diventare grigio, a perdere coscienza, avrebbe potuto continuare
per sempre se i suoi piedi non avessero inciampato in qualcosa di rigido
che gli impediva il passo. La sua vista tornò a farsi immediatamente nitida.
C'era una ragazza morta nel vicolo davanti a lui, per metà nascosta
dietro a dei bidoni di immondizia che puzzavano. Era quasi carina, con le
sue manine piegate come conchiglie. Il suo lungo collo grazioso si apriva
in un rosso sorriso bagnato. Il suo abito di foggia occidentale macchiato di
sangue le saliva intorno ai fianchi. Agli occhi infantili di Ji, le pieghe rosa
del suo inguine in vista apparivano come una terribile mutilazione, una
ferita molto peggiore di quella che aveva alla gola, un taglio profondo che
non sarebbe mai guarito. Fece un singhiozzo che gli fece accapponare la
pelle.
Se sua madre lo avesse picchiato o gli avesse detto di stare tranquillo,
avrebbe potuto continuare ad amarla. Ma lei si limitò a guardarlo senza
vedere, persa in qualche inferno personale dove il terrore e il dolore del
suo unico figlio non avevano più importanza del ronzio delle mosche nei
bidoni dell'immondizia. Il vuoto sul suo viso era così terribile, così
imperdonabile che le lacrime di Ji gli morirono dentro, lasciandogli un
freddo così profondo che non si sarebbe mai più sciolto.
«Il tuo nuovo nome è Wang Ji Fung», disse lei. La sua voce era priva di
emozioni. «Tuo padre si chiamava Wang Sau. Tirava un risciò, ma è
morto. Dillo.»
Lui ripeté la bugia, senza capire, ma terrorizzato all'idea di fare un
errore. Fung significava fenice. Il suo nuovo nome era figlio della fenice.
«Se dirai mai a qualcuno il tuo vero nome, degli uomini cattivi verranno
a tagliarti la lingua. Capisci Wang Ji Fung?»
Lui si immaginò uomini dal viso indurito con abiti scuri che lo
inseguivano con pistole nere sporche di grasso e coltelli affilati e crudeli
come i loro occhi. Annuì. Il suo terrore era enorme e puro.
Il sole apparve rosso all'orizzonte. Con lui arrivò uno spaventoso
lamento cadenzato, alto e potente, che echeggiava tra le mura di pietra
dell'edificio principale della scuola coperte dal muschio. Era il suono che
avrebbe definito la sua vita per gli otto anni che seguirono: il rumore di
giovani che cantavano i loro esercizi mattutini. Gli diede un brivido
premonitore che gli fece venire i sudori freddi.
In un ufficio in ombra, rimase in piedi, immobile e in silenzio vicino a
sua madre mentre Padron Lau leggeva il contratto ad alta voce. Ji capì che
sarebbe appartenuto a quest'uomo per i dieci anni successivi, una proprietà
grezza che il Padrone si sarebbe impegnato a rifinire e a caricare di valore.
Avrebbe ricevuto cibo, rifugio e sarebbe stato addestrato, e se avesse
disobbedito, avrebbe potuto essere picchiato a morte.
L'appena nato Wang Ji Fung non provò altro che freddo mentre sua
madre premeva il pollice nell'inchiostro nero appiccicaticcio e metteva il
suo marchio in fondo alla pagina. Sapeva scrivere perfettamente i caratteri
del proprio nome, ma lui immaginò che stesse fingendo di essere la vedova
illetterata di un povero conducente di risciò.
Piegò la testa e si girò verso suo figlio. Ji Fung sentì di nuovo su di sé
quegli occhi freddi e bollenti.
«Non dimenticarti mai quello che ti è stato detto», disse lei.
Lui la guardò allontanarsi, le spalle dritte sotto la tunica blu a buon
mercato. Cercò di ricordare la manciata di capelli color ebano sul suo collo
pallido, i polsi delicati, la forma orgogliosa della schiena. Pensò di correrle
dietro, di buttarsi sulla sua schiena e sfracellarle il cranio delicato contro il
pavimento di pietra. Invece, allontanò lo sguardo. Fu l'ultima volta in cui
la vide.
Ji Fung giaceva piegato su se stesso, sepolto nel buio e nel dolore lanci-
nante. Una voce gli serpeggiava nella testa, nella pancia, continuando a
sussurrare le stesse parole.
Sta succedendo di nuovo.
La routine senza senso della sua vita era esplosa all'aperto. Sotto le
lacerazioni della sua pelle c'era il demone del caos violento della sua infan-
zia, di eventi enormi e orribili che non poteva controllare e nemmeno
capire, eventi che lo trascinavano nella loro scia.
Quando le porte dell'armadio si aprirono, quasi si mise a gridare. Delle
mani lo afferrarono, cercando di tirarlo fuori. Lui agitò le braccia nella loro
direzione, sicuro che Padron Lau fosse tornato per picchiarlo a morte.
«Ji Fung.»
Un sussurro caldo vicino alla faccia, e un ricco profumo che sapeva di
rame. Ji Fung aprì gli occhi e vide Lin Bai, con del sangue scuro schizzato
sugli zigomi, che gli striava la fronte pallida e cadeva dal suo mento
appuntito. Negli occhi cerchiati di sangue di Lin Bai c'era un bagliore di
pazzia che fece gelare il cuore di Ji Fung. Era come se la passione folle di
sua madre fosse tornata a perseguitare il viso familiare del suo solo amico,
del suo quasi-amante. Era paralizzato di fronte alla sua pazzia: minacciava
di strapparlo da questa vita e di ributtarlo vorticosamente nel passato.
«Dobbiamo andarcene di qua, adesso.»
Ji Fung strinse gli occhi e scosse la testa. Sentiva che il suo braccio
veniva tirato, ma non riusciva a muoversi. «Voglio vedere mio padre», si
udì dire con una voce da bambino.
«Ji Fung...» La voce di Lin Bai all'improvviso si fece più bassa, più
ferma. Prese il viso del suo amico tra le mani macchiate di sangue. «Non
posso lasciarti qua. Morirei senza di te. Se tu rimani, rimarrò anch'io e
morirò con te.»
Ji Fung aprì gli occhi. Vide le lacrime disegnare tracce di cristallo sul
sangue che si coagulava sulla faccia di Lin Bai. Il suo corpo perse la sensi-
bilità, divenne incapace di resistere, mentre Lin Bai lo avvolgeva tra le sue
braccia calde e sussurrava le parole che aveva bisogno di udire più di
qualsiasi altra cosa.
«Ti amo», disse Lin Bai.
L'antica armatura che avvolgeva il cuore di Ji Fung cadde a pezzi. Stava
ancora male per il terrore, ma questo poteva farlo. Poteva fuggire dalla
prigione della Scuola dell'Opera con Lin Bai al suo fianco, poteva cercare
una nuova vita dove aveva pensato che non ce ne fosse alcuna.
Contraccambiò il suo abbraccio per un lungo attimo, incapace di
qualsiasi altra cosa. Poi ricordò. «Aspetta», disse, liberandosi.
Sotto gli occhi incuriositi degli altri studenti, che avevano osservato tutta
la scena senza muoversi per non interferire, Ji Fung attraversò di corsa il
dormitorio fino alla sua branda. Le coperte portavano ancora le tracce del
calore dei loro corpi. Per un attimo toccò la trama sottile del tessuto,
spiaciuto di essere stato interrotto. Ma quell'interruzione e qualsiasi cosa
Lin Bai avesse vissuto nello studio del padrone, avevano dato loro la
possibilità di essere liberi. Ci sarebbe stato tempo in seguito per trovarsi
tra coperte calde e carezze ancora più calde, se fossero stati fortunati. Ji
Fung allungò la mano sotto il sottile materasso di cotone, e strinse il pugno
attorno al sigillo di giada. Lo mise in tasca e tornò correndo da Lin Bai,
che si stava fissando le mani, con un sorriso strano.
«Muoviti. Hai detto che dovevamo fare presto.»
Lin Bai guardò in alto e i suoi occhi tornarono normali. «Sì. Andiamo.»
Mano nella mano, spingendosi l'un l'altro nei passaggi scuri e nelle sale
maledette, volarono via dalla scuola che era stata il loro mondo per più di
metà delle loro vite.
Le strade erano affollate di gente. Occidentali con nasi tondeggianti e
occhi chiari. Mercanti che decantavano la perfezione delle loro pere, dei
loro granchi o delle loro scarpe. Ragazzi dall'aria dura che bighellonavano
sulle porte, coi visi butterati, resi arancione dalla brace delle sigarette
straniere. Donne dagli sguardi duri che offrivano di far cose, per pochi
penny, che i ragazzi non avevano nemmeno mai sentito nominare.
Continuarono a correre, scansando biciclette e tricicli, inebriandosi del
vento notturno e del sapore della libertà.
Lin Bai si fermò brevemente per lavarsi il sangue dalla faccia in una
fontana piena di carpe, il grande pesce di un arancio dorato che un giorno
si sarebbe trasformato in dragone. Ji Fung si chiedeva se il sangue del
Padrone che era stato ucciso avrebbe nutrito quelle creature o le avrebbe
avvelenate.
Ben presto si trovarono sul lungomare. Il porto era pieno di luci,
brulicante di vita. Le giunche con i loro occhi strabici e i sampan con il
fondo piatto si stendevano in distanza nella baia verde pisello. La gente
che viveva sulle barche aveva costituito un proprio villaggio galleggiante
illuminato da lanterne. Friggevano pesce su piccole stufe a carbone,
appendevano la biancheria rovinata ad asciugare come meglio potevano
nell'aria umida. Una ragazza seduta a prua di un sampan che aveva subito
parecchie riparazioni, si stava pettinando i lunghi capelli che ondeggiavano
alla brezza marina. Il suo fratellino pisciava nell'acqua, ridendo.
«Dove possiamo andare?» chiese Ji Fung, guardando le luci distanti di
Kowloon che brillavano oltre la distesa d'acqua. «Non conosciamo
nessuno. Non abbiamo denaro.»
Lin Bai sorrise, si mise in posizione, a braccia aperte, e cantò. La sua
forte voce chiara si spargeva nel porto.
«Faaaaaa tanto freddo!»
«Shhh», lo intimò al silenzio Ji Fung, agitando le mani. Una sequenza
perfetta di Due volte sposa avrebbe potuto guadagnarli l'approvazione di
Padron Lau, indietro nell'altra vita, ma non sarebbe servita a niente qui.
«Il vento freddo è tagliente come un pugnale», cantava con gli occhi
spalancati Lin Bai. «Con lo stomaco vuoto sono costretto a mendicare.»
«Sei diventato pazzo?» Ji Fung lanciò un'occhiata selvaggia intorno.
«Smettila di cantare! Qualcuno ti riporterà alla Scuola.»
«Per un povero dotto, il futuro ha in serbo ben poco. Ho fame e freddo.
Cos'altro posso sopportare?»
I ragazzi si erano guadagnati un piccolo pubblico di facce curiose. Ji
Fung afferrò la mano di Lin Bai e piegò la testa.
«Scusate il disturbo. All'improvviso mio fratello pensa di essere una
stella dell'opera!» Ji Fung cercò di fare una risata, ma Padron Lau gli
aveva schiacciato la gola e non riuscì. La sua risata aveva un suono
malato, dava l'impressione che stesse soffocando. La piccola folla si
disperse e furono di nuovo soli col rumore dell'acqua che lambiva i fianchi
di legno delle centinaia di barche.
«Perché lo hai fatto?» sibilò Lin Bai. «Mi avrebbero dato del denaro.»
«Stupido! Non hanno soldi.»
«Allora cibo.»
Ji Fung sentì gli odori del cibo che provenivano dai sampan: zenzero a
fette, olio che ribolliva, pesce così fresco e tenero da sciogliersi in bocca.
Lo stomaco gli borbottò, e si chiese se dopo tutto non avrebbe dovuto
permettere a Lin Bai di cantare.
«Era molto bella», disse un'altra voce, rauca e sprezzante, direttamente
dietro di loro.
Si girarono e videro un ragazzo che avrà avuto due o tre anni più di loro.
Era sottile come un cane, con freddi occhi obliqui, lunghi capelli sporchi, e
il sorriso che sembrava una sciabolata.
«Dimmi», disse il ragazzo, avvicinandosi di un passo. «Che altri trucchi
sai fare?»
Ji Fung provava uno strano prurito al collo. Si spostò davanti a Lin Bai e
cercò di far abbassare gli occhi al ragazzo, sperando di sembrare più duro
di quanto non si sentisse. «Scompari», gli disse. «Non venire a cercar
rogne con noi.»
«Ah, non mi fare così tanta paura.» Il sorriso tirato del ragazzo si fece
più ampio. Dal buio alle sue spalle si materializzarono in quattro, anche
più sottili e sbrindellati del loro capo. «Avete sentito che questo finocchio
con la testa pelata ha cercato di minacciarmi?» chiese loro.
Ji Fung e Lin Bai si trovarono circondati da ogni parte da ragazzi con
denti rotti e dita mancanti che ridevano mentre si stringevano addosso a
loro. A Ji Fung iniziò a ribollire il sangue, pronto a combattere. Quando
due dei ragazzi lo afferrarono, iniziò a colpire all'impazzata, apprezzando
la sensazione della pelle che si rompeva sotto le sue nocche. Sfuggì alla
loro presa e tornò indietro colpendo un ragazzo all'addome, e sentendo le
costole che si spezzavano al contatto coi suoi piedi.
Per alcuni attimi pensò che sarebbe riuscito a batterli tutti. Poi un
braccio gli scivolò intorno al collo, e il morso freddo di una lama sotto il
mento lo immobilizzò, col cuore che gli galoppava nel torace.
Udì di nuovo la voce aspra del capo. «Prendete quello bello.»
Lin Bai afferrò gli occhi del ragazzo pelle e ossa, e fece finire un calcio
volante nei testicoli di un altro. Ma erano in troppi, e fu trascinato davanti
al capo, sulla cui faccia sputò. Il capo vi posò sopra un dito lurido e si
leccò via una goccia di saliva che era vicino all'angolo della bocca. Sorrise,
e in quell'istante Ji Fung credette che quel ragazzo li avrebbe uccisi
entrambi.
Poi all'improvviso sentirono una serie di rumori forti come i botti del-
l'ultimo dell'anno. Ji Fung sentì qualcosa che gli passava sibilando sopra la
spalla, quasi sfiorandogli l'osso del collo. Il ragazzo che lo teneva lasciò
cadere il coltello e scappò. Un secondo più tardi anche gli altri si disperse-
ro, veloci come un nido d'insetti spaventati dal rumore di passi. Il capo
gettò loro un'ultima occhiata malvagia guardandosi alle spalle e scomparve
in un vicolo.
Vacillando Ji Fung si tirò in piedi, provando nausea e vertigini. Era stato
colpito di nuovo in faccia dopo tutte le botte che gli aveva dato Padron Lau
e aveva la sensazione di avere il cranio pieno di trucioli di metallo. Lin Bai
venne al suo fianco e Ji Fung si appoggiò alle spalle ossute del suo amico,
tremando come un vecchio.
Ma Lin Bai gli stava dando di gomito, indicandogli qualcosa. Mentre Ji
Fung sollevava la testa, una nuova voce gridò: «Venite dentro se volete
restare vivi».
Una lunga berlina elegante, color grigio chiaro, aveva accostato nel vi-
colo a pochi metri di distanza. La figura avvolta dalla nebbia seduta sul
sedile posteriore faceva loro cenno con una mano, mentre con l'altra reg-
geva una pistola così piccola e lucida da sembrare un giocattolo.
Lin Bai e Ji Fung non ebbero nemmeno bisogno di guardarsi. Sofferenti
ed esausti e senza alcuna alternativa, si diressero alla lunga vettura grigia.
***
***
Lin Bai giaceva nudo sulla pancia, con la testa che gli girava, la bocca
asciutta come sabbia. Aveva le guance rigate di lacrime che erano cadute e
si erano asciugate. Perique era uscito da ore, ostintatamente ottimista, certo
che con il denaro e con quelli che chiamava i suoi contatti, sarebbe riuscito
a trovare Ji Fung.
Lin Bai non nutriva questa speranza. Lui sapeva cosa stava succedendo.
Tutti quelli che cercavano di amarlo morivano, quindi Ji Fung era morto.
Lin Bai non aveva contrastato la sua malasorte uccidendo Padron Lau:
l'aveva solo allontanata per un po'. Adesso lei l'aveva trovato, e Ji Fung era
sicuramente divorato tra le sue mascelle.
Sapeva che doveva andarsene da quell'albergo prima che la sua
malasorte si riversasse anche su Perique, che era piuttosto stupido e
debole, ma dolce, che aveva salvato la sua vita infelice e quella di Ji Fung.
Ma forse il veleno lo aveva già toccato. Inevitabilmente avrebbe toccato
tutte le persone di cui gli importava. Sarebbe andato lontano, in mezzo alle
montagne, e sarebbe diventato un eremita. Ma sapeva che non sarebbe
sopravvissuto a due lune. Aveva il cuore di un attore. Sarebbe appassito e
morto senza un pubblico. Forse avrebbe dovuto...
Calde lacrime appassionate ricominciarono a scendere, e Lin Bai si
rotolò su un fianco per lasciarle cadere lentamente nelle lenzuola di seta
impregnate di sudore. Raggiunse la bottiglia di whisky americano che
aveva vicino solo per scoprire che le coperte erano fradice del suo
contenuto puzzolente. Gettò la bottiglia vuota contro il muro. Non si ruppe
come aveva sperato, ma cadde con un rumore sordo sul tappeto.
Lin Bai chiuse gli occhi. Un dolore intenso gli pulsava alla testa, aveva i
crampi allo stomaco per il dolore, e si rese conto che desiderava morire più
di ogni altra cosa. La morte avrebbe posto fine al suo dolore ma,
soprattutto, avrebbe posto fine al dolore di coloro che gli stavano intorno.
Come fare? La finestra non era abbastanza alta. Perique aveva preso con
sé la pistola. C'erano i rasoi, ma il sangue gli avrebbe ricordato Padron
Lau. Non voleva morire nel modo in cui era morto Padron Lau.
Si guardò disperatamente intorno nella stanza, cercando lo strumento
della sua morte. Gli occhi gli caddero sul comodino, dove Perique aveva
appoggiato un mezzo vassoio di piccoli dolci al forno, pieni di pasta di
bacche rosse e di dolce oppio. Ieri Perique aveva avvertito lui e Ji Fung di
non mangiarne più di uno alla volta, perché erano molto forti.
Lin Bai iniziò a mangiare i dolci con rapidi morsi, mentre il sapore forte
gli inaridiva la bocca. Quando ne ebbe finiti quattro, il piatto gli cadde
dalle mani. Si lasciò andare all'indietro e aspettò che il vuoto si
impossessasse di lui.
***
Ji Fung si fermò un attimo fuori della suite di Perique, improvvisamente
in ansia. Si raddrizzò la cravatta nuova e si passò il palmo della mano sui
capelli lisciati all'indietro, nervoso e insicuro di se stesso. Era arrivato fin
qua, ma era talmente cambiato nel corso di una notte. Non era più un
orfano in fuga. Adesso era un uomo con una famiglia potente, il
primogenito pianto a lungo a cui era stato dato il bentornato. Si chiedeva
se sarebbe stato possibile per lui ritornare a quel mondo notturno, a quel
sogno oppiaceo di vita profumato dal sesso.
Scosse la testa. Non aveva scelta. Lo doveva a Perique per avergli
salvato la vita, e quella vita sarebbe stata inutile se non l'avesse potuta
dividere con Lin Bai.
Doveva mettere insieme queste due metà. Ci doveva essere un modo.
Poteva presentare Lin Bai alla sua famiglia come Betty Lee, o meglio
ancora come Betty LeBon, la cugina di Perique. Suo zio non avrebbe mai
creduto che Perique venisse da una buona famiglia, ma forse una ricca
sarebbe andata bene. Cosa aveva detto sulla strana fratellanza, su quegli
oscuri rivoluzionari-gangster i cui veri scopi Ji Fung non aveva nemmeno
iniziato a immaginare. «Mettiamo insieme il capitale in ogni modo
possibile.»
Forse Perique avrebbe anche saputo dove andare a comprare dei
bambini. Allora avrebbe potuto avere dei figli e rimpiazzare la famiglia
che sua madre aveva devastato. Immaginava qualche vagabondo che
veniva salvato da una vita di fame, e da una morte miserabile come quella
del ragazzo che aveva preso il suo posto. Forse avrebbe potuto fare
ammenda per l'agonia del ragazzo, placare il suo fantasma che bruciava.
Stava sorridendo ed era pieno di idee per il futuro mentre apriva la porta
e attraversava l'appartamento verso la camera da letto. Il corpo nudo di Lin
Bai giaceva floscio sul letto, circondato dai resti appiccicaticci dei pani di
oppio.
Ji Fung corse verso il letto, afferrò Lin Bai per le spalle e gli
schiaffeggiò la faccia, prima delicatamente poi con più forza. La testa di
Lin Bai gli dondolava sul collo come se fosse stata attaccata a fatica.
Aveva la pelle fredda e sudaticcia, gli occhi semiaperti che mostravano il
bianco.
«Lin Bai, svegliati! Non morire adesso! Ti prego, fratello, amore mio!»
Lin Bai fece un rumore smorzato, come qualcuno che fosse stato
disturbato nel sonno. Delle deboli pulsazioni passavano nel suo collo. Ji
Fung lo tirò in piedi, lottando per sostenerne la leggera massa inerte.
«Cammina con me», gli ordinò Ji Fung. «Balla con me! Muoviti,
alzati!»
Perique fece irruzione dalla porta, maledicendo in francese.
«Jung sei vivo!» Si affrettò ad aiutarlo a sorreggere Lin Bai. «Cos'è suc-
cesso a Lai?»
Ji Fung indicò con il mento i pani mangiati a metà.
«Mon Dieu! Non avrei mai dovuto lasciarlo solo. Ma non è ancora
perduto. Ho visto di peggio.» Perique corse in bagno e iniziò a riempire la
vasca. «Portalo qua. Presto.»
Posarono Lin Bai nell'acqua fredda e gliela spruzzarono in faccia,
sfregandogli mani e piedi.
«Lin Bai», chiamava Ji Fung. «Amore mio, riesci a sentirmi?»
Iniziò a cantare. «Dai tempi antichi, quanti amanti sono rimasti fedeli
fino alla fine?»
Le palpebre di Lin Bai tremarono. Rotolò la testa avanti e indietro, gru-
gnendo a voce bassa. Perique increspò le labbra in segno di approvazione.
«Giusto. Canta con me. Ma quelli che erano amanti fedeli alla fine si
sono ritrovati insieme. Anche se si trovavano a migliaia di chilometri.
Anche se strappati l'uno all'altro dalla morte.»
Le labbra di Lin Bai si stavano muovendo, ma la sua voce era un
sussurro, si sentiva a stento.
«Come fa il resto?» chiese Ji Fung. «Sai che mi dimentico sempre le
parole. Aiutami a ricordare.»
La bocca di Lin Bai si incurvò agli angoli, un vago fantasma di un
sorriso. Aveva una voce alta e potente, ma adesso la sua forza se n'era
quasi completamente andata. «E quelli che maledicono il loro fato infelice
sono coloro a cui manca l'amore.»
C'erano delle lacrime sulle guance di Ji Fung, e la voce gli si spezzava
mentre lui e Lin Bai cantavano insieme.
«Il vero amore muove il cielo e la terra. Il metallo e la pietra brillano
come il sole e illuminano le pagine delle vecchie storie.»
Lin Bai appoggiò la testa alla spalla di Ji Fung nel suo abito nuovo,
adesso tutto umido dell'acqua del bagno. «Non ricordi mai le parole», lo
rimproverò. «Continua pure a fare sogni a occhi aperti anziché allenarti.
Come farai a diventare una stella di Hollywood?» Ji Fung appoggiò le
labbra sulla fronte di Lin Bai, ricordando la sensazione che gli dava la
corta peluria dove adesso crescevano dei capelli di seta. «Ho bisogno che
tu sia lì a ricordarmele», disse.
Lin Bai aprì gli occhi e guardò Ji Fung, adesso completamente
cosciente. «Sei vivo.»
Ji Fung annuì.
«E anch'io.»
«Sì, anche tu.»
«Non ti ho portato sfortuna.»
Ji Fung sorrise. «Decisamente no.»
Dopo che Lin Bai si fu asciugato e infilato in un accappatoio bianco, i
ragazzi si coricarono abbracciati sul letto. Perique si distese in una
poltrona, col mento appoggiato al pugno. Li guardava come un gufo. Ji
Fung accarezzava i capelli umidi del suo amante, mentre raccontava la
storia della sera prima.
Quando gli ebbe detto del favore che lo zio gli aveva richiesto, gli occhi
pallidi di Perique si illuminarono. «Shanghai», esclamò. «L'unica città
civilizzata di questo disgraziato emisfero. Che meraviglia!»
Si sporse in avanti e massaggiò la guancia fredda di Lin Bai.
«Facciamo un viaggio, bellissima Betty. Andiamo a Shanghai!»
Nessuno di loro era mai stato nella città chiusa tra le mura di Kowloon,
ma tutti ne avevano sentito raccontare cose terribili. Il posto era un covo
brulicante di cattivi, dove albergava dissoluzione e decadenza. Un uomo
che entrasse di notte e una donna che fosse stata sufficientemente pazza da
entrarvi in qualsiasi momento, soprattutto se era bella, difficilmente
avrebbero visto il mattino. Perique raccontò loro di posti squallidi dove
erano tenute le donne, drogate e incatenate, costrette a fare tutte le cose
abominevoli che un cliente potesse immaginare. Per il giusto prezzo, disse
Perique, uno poteva persino mutilare o uccidere una ragazza.
Anche così, Lin Bai insistette per andare con loro. Non poteva passare
un'altra notte in attesa in albergo: disse che sarebbe impazzito. Ricordando
l'immagine del corpo floscio del suo amante disteso sul letto Ji Fung
cedette. Pensò che chiunque cercasse di interferire con Betty Lee avrebbe
avuto più di quanto non avesse desiderato, nessuno poteva aspettarsi che
una ragazza così schiva fosse capace di fare una capriola a mezz'aria e di
dare un doppio calcio volante abbastanza forte da spezzare un cranio.
La città tra le mura non fu all'altezza delle loro aspettative. La sua massa
claustrofobica di pietre e legno era quasi deserta. Una volta questo posto
era stato la fortezza Manchu contro gli inglesi, fortificata con muri dello
spessore di cinque metri, dominata dalla mano d'acciaio dello Yamen.
Dopo la presa di possesso degli inglesi il posto era diventato una terra di
nessuno, governato solo dalla legge del coltello alla gola.
A Hong Kong, e in altre parti di Kowloon, la Festa del Fantasma
Affamato era in pieno svolgimento. Ji Fung e Lin Bai conoscevano bene
questa celebrazione, dal momento che includeva rappresentazioni speciali
dell'Opera per intrattenere i morti. Piccoli falò spiccavano in ogni vicolo e
vicoletto, in ogni marciapiede e cortile. Il fumo che proveniva dai
bastoncini d'incenso si mischiava a quello dei falò. L'aria umida aveva un
profumo dolce, un po' di bruciato. Copie di carta di beni di prima necessità
e di lusso, mobili, automobili, abiti, venivano bruciate in questa serata per
proteggere i propri antenati dal bisogno. Ji Fung pensò di nuovo al ragazzo
che era morto al suo posto, dato alle fiamme cosicché a suo padre non
mancasse un figlio nell'aldilà.
Dentro alle mura, comunque, la festa stessa era come un fantasma, anche
incredibilmente affamato, sembrava. La maggior parte delle strutture
cadenti erano vuote e scure. Alcune case erano così malmesse e
ondeggianti da dare la sensazione di essere sul punto di crollare, e di
rimanere in piedi solo perché erano sorrette dagli edifici che avevano a
fianco, come un cadavere che fosse sostenuto da due storpi. Qua e là, dei
minuscoli fuochi erano alimentati da pezzi di ossa, e merda umana seccata,
tenuti in vita da anime prostrate che occasionalmente li nutrivano con
regali ritagliati da carta stampata a buon mercato. Le strade erano così
strette che i ragazzi dovevano passare davanti a queste misere celebrazioni
in fila indiana per evitare di bruciacchiarsi i piedi. Gli abitanti della città
non prestavano loro alcuna attenzione. La maggior parte non alzava
nemmeno la testa al loro passaggio, e quelli che lo facevano si affrettavano
subito a distogliere lo sguardo.
«È come se avessero paura di noi», sussurrò Lin Bai, mentre un ragazzo
muscoloso li guardava dalla soglia di un sudicio negozio, per poi
nascondercisi dentro.
«Pensano che siamo la Triade», disse Perique.
Ji Fung lo guardò. «Lo siamo.»
«Tu lo sei. Io sono in vacanza.» Perique evitò con cura una pozzanghera
di schifoso fango. «Shanghai sembrerà dannatamente bella dopo questo.»
Arrivarono al negozio di macellaio che Gong Sut Fo aveva nominato.
Teste di maiale arrosto erano in mostra in vetrina, con gli occhi che
sporgevano dalle orbite, la pelle fragile e semitrasparente, le mandibole
spezzate a metà e allargate in modo da mostrare due file di denti affilati
come rasoi. Sopra di loro era appesa una fila di anatre mal conservate,
ammuffite e infestate da uova di mosche. Una singola candela bruciava nel
negozio, e alla sua luce un ragazzino stava scuoiando un cane. La massa
colorata dei suoi intestini giaceva accanto a lui. Il suo corpo nudo era
macchiato di sangue, e i suoi lunghi capelli neri ne erano completamente
intrisi.
Si affrettarono a superare il negozio e girarono nello stretto vicolo che
stava alle sue spalle. Il vecchio chiosco del venditore di scarpe e la sua
casa si trovavano in una leggera rientranza del muro dell'edificio del
macellaio. Il suo territorio era segnato da un ammasso di ciabatte di pezza
e sandali di pelle grezza. Dietro c'era una pentola per cucinare e un
materasso.
Un vecchio mise da parte la ciotola di spaghetti mentre Ji Fung entrava
nel vicolo. La sua faccia scura era secca come la pelle dei sandali, ma i
suoi occhi erano acuti e brillanti.
«Scarpe per il giovane gentiluomo?» chiese.
«Mi piacerebbe comprare alcuni dei tuoi sandali di erba», disse Ji Fung,
provando la sensazione di essere ancora sul palcoscenico.
Il vecchio sorrise, rivelando un unico dente.
«Ah», disse. «Ho vergogna ad ammettere che me ne è rimasto solo
uno.»
Allungò la mano nel mucchio di scarpe e tirò fuori un singolo sandalo
intrecciato di vecchio stile, come quelli indossati dai monaci.
«Comunque, della migliore qualità. Fatto a mano coi cannicci migliori.»
Ji Fung guardò alle sue spalle Perique e Lin Bai all'inizio del vicolo.
Perique si strinse nelle spalle. Ma Lin Bai gli fece un leggero cenno di
assenso, come aveva sempre fatto quando Ji Fung aveva bisogno di un
suggerimento.
Trasse un profondo sospiro e disse la sua battuta. «Me ne serve solo uno
per il viaggio che devo fare.» Poi estrasse la banconota che aveva piegato
con cura sul traghetto e la consegnò come gli era stato insegnato.
Il vecchio annuì, mentre le sue dita scure piene di nodi prendevano la
banconota e la nascondevano con una velocità maggiore di quello che gli
occhi di Ji Fung non potessero vedere. Sollevò la pentola rivelando così un
buco profondo, ne tolse una scatola di lacca rossa, ne spolverò via polvere
e cenere, e la mise nelle mani di Ji Fung.
Era più grossa di quanto lui si sarebbe aspettato. Abbastanza grande per-
ché fosse necessario reggerla con due mani, e aveva un'elaborata serratura
di ottone. Lui l'avrebbe dovuta portare al sicuro a Shanghai. Soppesandola
nella sua presa, faceva fatica anche a concepire il valore che questa
semplice scatola rappresentava. Non solo il valore monetario, ma la
quantità di fiducia che suo zio aveva riposto in lui. Ji Fung in silenzio
promise allo spirito di suo padre che la fratellanza non sarebbe stata
delusa.
In piedi per conto suo vicino alla finestra, Ji Fung guardava il porto non
ancora illuminato dall'alba. Riusciva a distinguere parecchie navi
giapponesi, tra cui una grande ammiraglia da cui sventolava un Sol
Nascente. Si sentiva profondamente a disagio e quando Lin Bai gli fece
scivolare le braccia calde attorno alla vita, Ji Fung indietreggiò.
«Le cose si mettono male, qui», sussurrò Lin Bai, appoggiando le labbra
sul collo di Ji Fung. «Riesci a sentirlo?»
Ji Fung annuì. «Penso che presto a Shanghai ci sarà la guerra.»
«Non solo a Shanghai.» Lin Bai appoggiò il mento sulla spalla di Ji
Fung e rimase a fissare il porto. «Voglio dire in tutta la Cina. Non stavi
facendo attenzione stasera, ma tutti parlano della guerra. Della rivoluzione.
Conversazioni pazzesche. C'è battaglia dappertutto.»
Lin Bai afferrò Ji Fung per la vita, appena sopra il rigonfiamento dei
glutei. «Penso che ce ne dovremmo andare.»
Ji Fung girò la testa per guardare la faccia di Lin Bai. «Tornare a Hong
Kong?»
«No.» Lin Bai continuava a fissare fuori della finestra. «In America.»
«Non essere sciocco. Dove troveremmo il denaro?»
«Pei ce l'ha.»
Ji Fung si girò a guardare Perique, che dormiva agitato in un ammasso di
coperte.
«Lasciamoci alle spalle il vecchio mondo», disse Lin Bai. La sua pelle
nuda era calda e setosa contro la schiena di Ji Fung. «Lasciamoci alle
spalle la sfortuna. Iniziamo una nuova vita a Hollywood, come abbiamo
sognato.»
Ji Fung si girò e prese Lin Bai tra le braccia. Le curve del corpo del suo
amante erano così preziose, così fragili. «Non posso lasciare la mia fami-
glia», disse.
Lin Bai si liberò, con gli occhi scuri e profondi. «Sono io la tua famiglia.
E anche Pei lo sarebbe, se glielo permettessi.»
Ji Fung stava in silenzio. Suo zio gli aveva restituito la sua identità
perduta. Aveva dato a Ji Fung un lignaggio, una storia, lo aveva fatto
sentire legato non solo alla sua famiglia per sangue, ma alla più grande
fratellanza della Triade. E, dopo avere ritrovato il nipote a lungo dato per
perduto, Ji Fung non pensava che Gong Sut Fo sarebbe stato felice di
perderlo di nuovo. In effetti, se avesse fatto una qualunque cosa che avesse
potuto far ritenere a suo zio di essere il figlio di sua madre, sospettava che
non lo avrebbe lasciato vivere.
«Bai», disse. Aveva la voce stanca, distrutta. «Per favore non costringer-
mi a scegliere.»
***
***
L'ospedale era una specie di inferno del tutto nuovo. I dottori e le infer-
miere si muovevano come sonnambuli attraverso un oceano di ferite,
curavano solo quelli che sembravano avere una possibilità di sopravvivere,
e agli altri iniettavano morfina e li lasciavano nei corridoi a morire. Era
completamente buio prima che Ji Fung riuscisse a ottenere che qualcuno
guardasse Lin Bai. Il dottore era inglese, appena più vecchio di Perique. I
suoi occhi azzurri erano cerchiati dalla fatica, e le mani erano coperte di
sangue fin oltre il gomito.
«Sua moglie ha una commozione cerebrale e, temo, una frattura del cra-
nio all'attaccatura dei capelli. Deve cercare di tenere la ferita pulita, dal
momento che un'infezione al cervello può provocarne la morte.»
Il dottore prese un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte.
«Le darei delle medicine, ma non ne sono rimaste. Le darei della garza
per medicare la ferita, ma non ne abbiamo abbastanza. Non c'è nient'altro
che possa fare per lei.»
Fuori la serata era calda e ripugnante. I vivi avevano fatto del loro
meglio per ripulire le strade dai morti, ma il compito era estremamente
gravoso e il caldo non perdonava. La puzza di bruciato, di carne che
marciva aveva già iniziato a penetrare l'umida brezza estiva.
Camminavano lungo il Bund, dove il fiume rinfrescava un po' l'aria, alla
ricerca del loro albergo. Non riuscirono a trovarlo. Le navi giapponesi
erano ancora all'ancora nell'acqua scura, immobile, forse vantandosi per la
città che stavano distruggendo.
Ji Fung teneva Lin Bai mentre vomitava sangue e cioccolato contro
l'edificio della Banca di Hong Kong e di Shanghai. L'odore della bile era
quasi il benvenuto, perché almeno sapeva di vita.
«Ji Fung», sussurrò Lin Bai, quasi come se avesse letto nel pensiero del
suo amante. «Sto morendo.»
«Zitto», gli sussurrò Ji Fung. «Smettila con questi discorsi che portano
sfortuna.»
«La sfortuna è la sola cosa che abbiamo», si lamentò Lin Bai. «Il mondo
sta morendo. Non c'è via di scampo.»
«Non preoccuparti.» Ji Fung lisciò all'indietro i capelli sudati e sporchi
di sangue che cadevano sul viso di Lin Bai. «Stiamo andando a casa a
Hong Kong. Là saremo al sicuro.»
«Non c'è via di scampo», ripeté Lin Bai. «Mi sento le vertigini...» Si
allontanò strisciando da Ji Fung e iniziò di nuovo a vomitare.
Si era formata una folla dall'altra parte della strada, che gridava e
spingeva. Avvicinandosi di qualche passo, Ji Fung vide che la confusione
era concentrata attorno a un veicolo militare aperto. La folla aveva
afferrato gli occupanti e li stava trascinando nella strada, attaccandoli con
pietre, lunghe schegge di legno appuntite, qualunque cosa mortale
capitasse loro tra le mani.
Mentre Ji Fung guardava, un giovane soldato giapponese si liberò dalla
folla e scappò con passo incerto attraversando la strada verso di lui. La
faccia dell'uomo era una maschera di sangue, aveva il naso rotto, le labbra
e le orecchie spezzate. La divisa era a brandelli. Sotto i capelli tagliati
corti, Ji Fung riusciva a vedere dei profondi tagli sulla testa. In parecchi
punti si poteva vedere il cranio che brillava. Una ferita che dava
l'impressione di un semolino infernale ne esponeva il cervello.
Il soldato afferrò Ji Fung per il bavero e urlò qualcosa in una rima fatta
di sillabe spezzate. Poi iniziò a cadere. Prima di rendersi completamente
conto di ciò che stava facendo Ji Fung lo prese e lo abbassò con
delicatezza per terra. Le mani del soldato trovarono le sue, e Ji Fung le
tenne con forza. I giapponesi potevano essere diavoli di invasori e
torturatori. Ma i giapponesi erano un'astrazione. Questo giovane era come
lui, una pedina in un sistema implacabile, messo in moto da forze al di là
della loro comprensione.
Ji Fung cullò il soldato morente, fissandolo negli occhi. Una delle
pupille era esplosa e riempiva l'iride di un nero senza fondo. Mentre Ji
Fung fissava in quell'occhio, gli sembrò che le immagini del cervello
danneggiato del soldato si imprimessero nel suo. Gente che non aveva mai
visto, paesaggi che non conosceva. Una stanza silenziosa dove un padrone
meditava, mentre il suo corpo immobile era un vascello colmo delle
immagini fluide del combattimento. Una ragazza con un kimono ricamato,
con dei boccioli di ciliegia intrecciati nei lunghi capelli neri.
Una bolla di sangue spesso si gonfiò e schizzò fuori dalle labbra dell'uo-
mo. Il suo corpo si irrigidì tra le braccia di Ji Fung, e un profondo rantolo
lungo e bagnato arrivò dal torace. Mentre la vita abbandonava il soldato, le
immagini che si formavano nella testa di Ji Fung sembrarono venire dal
futuro. Vide il corpo dell'uomo che si decomponeva nel punto in cui
giaceva, che esplodeva nel calore umido, invaso dalle mosche e maturo dei
frutti della decomposizione. Vide un vecchio e una vecchia che leggevano
una lettera, mentre le loro facce si afflosciavano per la pena. Vide quella
che sembrava una lunga fila di bambini fantasmi in un corridoio buio,
semitrasparenti e privi di sostanza, che si allungavano fino all'infinito. I
bambini che quest'uomo avrebbe avuto, forse, e i loro figli, e i figli dei loro
figli. Le loro manine erano piegate sul torace, come se sapessero che non
sarebbero mai nati.
Le dita del soldato si chiusero sulla sua manica, un riflesso della morte.
E all'improvviso Ji Fung pensò che si trovava in una strana città, la città in
cui quest'uomo aveva vissuto con la sua famiglia. Qualcosa era caduto dal
cielo, una bomba, ma più terribile di qualsiasi bomba avesse mai visto
Shanghai. Stava scappando da un calore terribile che gli cuoceva la pelle e
gli dava la sensazione che i suoi occhi stessero friggendo nelle orbite. I
suoi organi stavano cuocendo dentro di lui. Non poteva andare più in là.
Cadde, rotolandosi nel nero che provocava vesciche, e fissò
un'immagine che era decisamente al di là della sua possibilità di
comprensione. Una corona di fuoco che ingigantiva si alzò nel cielo
striato. Sotto c'era una gran colonna di fumo in cui riusciva a vedere delle
forme annerite che si contorcevano, ondeggiando. Dev'essere alto un
milione di li. Come era possibile che qualcuno vivesse in un mondo in cui
poteva accadere una cosa del genere? Non era sicuro se aveva chiuso gli
occhi o se era stato accecato, ma qualsiasi cosa era preferibile alla vista di
quella nuvola infernale.
Ji Fung sbatté gli occhi. Era piegato sulle scale dell'edificio della Banca
di Hong Kong e Shanghai e cullava tra le braccia un uomo morto. Dietro
di lui, poteva udire Lin Bai che vomitava e sputava; sembrava che fossero
passati solo pochi secondi. Fissò la faccia distrutta del soldato. «Cosa mi
hai mostrato?» sussurrò. «Avresti vissuto per vedere queste cose? Se è
così, allora ringrazia di essere morto stasera.»
Posò il corpo del soldato e andò ad aiutare il suo amante.
Sul ponte affollato di una vecchia giunca che si chiamava Devil Fox, Ji
Fung si sedette con la schiena contro una montagna di corda di canapa che
stava marcendo, cullando in grembo la testa di Lin Bai. Era una buona
posizione, che occasionalmente riceveva l'ombra delle consunte vele
marroni che lo facevano pensare a enormi ali di insetto ricurve. Ji Fung
aveva scambiato il suo fermacravatte di brillanti, l'orologio d'oro di
Perique e tutto il resto a parte il braccialetto di giada di Lin Bai in cambio
di un passaggio a Hong Kong, ringraziando Perique in silenzio per l'ultima
frenetica giornata di shopping.
Adesso i loro visi erano bruciati dal sole e dal vento e avevano le labbra
secche per il sale. Ji Fung non aveva mangiato niente da quando aveva
diviso l'ultimo candito con Lin Bai due giorni prima. Mentre lasciava che
il cioccolato gli si sciogliesse in bocca era difficile credere che solo due
giorni prima era stato sulla porta del negozio di via Nanking ad ascoltare
«le ragazze» che litigavano. Sulla giunca c'era ancora dell'acqua fresca, ma
c'erano talmente tante persone a bordo, che non sarebbe durata che uno o
due giorni.
Lin Bai si agitò sul suo grembo e si lamentò a bassa voce, un suono
doloroso e senza speranza. Ji Fung fece del suo meglio per calmarlo,
controllando le bende piene di croste che gli coprivano la ferita alla
tempia. Era lurida e puzzolente, ma Ji Fung aveva usato l'ultima striscia di
tessuto della sua camicia e non voleva iniziare a strappare la giacca, poiché
era l'unica protezione che avevano contro il sole.
«Hing», sussurrò Lin Bai. Fratellone, un soprannome con cui non chia-
mava Ji Fung da anni. «Ho sete.»
«Presto potrai avere dell'acqua. Verranno con il secchio.» Ji Fung mas-
saggiò la guancia di Lin Bai. Nessuno dei due aveva ancora bisogno di
farsi la barba, ma sulla mascella di Lin Bai c'era una sottilissima ombra di
sottili peli neri. Ji Fung si chiese per quanto tempo ancora il suo amante
sarebbe stato in grado di passare per una donna, e cosa sarebbe successo se
li avessero scoperti. La folla di rifugiati si sarebbe coalizzata contro di
loro, li avrebbe gettati in mare per risparmiare qualche sorsata d'acqua?
L'odio era così profondo? O in tempi disperati come questi i tabù meno
importanti si sarebbero persi lungo la strada?
Per fortuna, era improbabile che le persone che erano maggiormente
vicine a loro notassero qualcosa di strano: un vecchio quasi cieco che
portava su una corda tre gabbie squisitamente intagliate piene di grilli; un
paio di donne esauste con una manciata di bambini dagli occhi incavati che
richiedevano tutta la loro attenzione.
Quella sera, il tempo divenne brutto. Erano entrati nella scia di un tifone,
e non erano in grado di dire se riuscivano a starne ai margini o se vi si
stavano dirigendo in mezzo. Ji Fung coprì Lin Bai con la giacca e si
raggomitolò sotto la pioggia senza nient'altro che il sottile panciotto di seta
e i pantaloni macchiati di sangue. Il mare sotto di loro si agitava furioso.
La faccia di Lin Bai era mortalmente pallida, e le labbra erano di un blu
livido. Occasionalmente cadeva nel delirio, balbettando qualcosa a Ji Fung
o a Perique o a Padron Lau, poi singhiozzando come se dovesse
spezzarglisi il cuore. Ji Fung cantava ogni canzone che conosceva,
cercando di calmarlo, ma Lin Bai non si univa a lui, nemmeno quando Ji
Fung dimenticava le parole.
Il vecchio con le gabbie di grilli diede loro qualche sorsata di vino di
prugne da una bottiglietta che aveva nascosto in una scarpa di pezza,
dicendo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare due giovani amanti.
Raccontò loro una storia di due amanti che si erano trasformati in grilli per
sfuggire a dei genitori che non approvavano la loro unione. Ji Fung fu lieto
della pioggia senza fine perché poteva mascherare le sue lacrime.
Al mattino il vecchio era morto, con la bocca senza denti piena di
pioggia. L'equipaggio lo buttò in mare e prese le graziose gabbie di grilli.
Ji Fung riuscì a mettere al sicuro la bottiglia di vino di prugne, che adesso
era quasi vuota. Guardò le acque agitate che sbatacchiavano la fragile
struttura del vecchio finché degli squali di passaggio la tirarono sotto. Lui
rabbrividì e si strinse più vicino a Lin Bai. Mancavano ancora tre giorni
per arrivare a Hong Kong.
La pioggia non cessava. Invece il mare divenne più violento. Guardare il
cielo era quasi come guardare un velo d'argento che lentamente discendeva
prendendo la forma di una spirale. A Ji Fung dolevano le ossa per il freddo
e l'umidità e per dover lottare contro il vento. Arrivavano onde più alte
della barca, muri di morte di un verde grigiastro che li avrebbero inghiottiti
in un secondo se il vento avesse cambiato direzione. A volte l'acqua
copriva il ponte, lavando via vomito e fagotti non legati. La gente perdeva
le poche cose preziose che era riuscita a mettere in salvo dalle macerie di
Shanghai. Le onde intorno a loro erano disseminate di vestiti da sposa di
seta, teiere dorate, ritratti di antenati dai visi duri e scatole di lacca simili a
quella che Lin Bai aveva rotto in via Nanking. Così tanti tesori, adesso
privi di valore, proprio come una manciata di sabbia.
L'acqua iniziò a chiedere in pegno bambini e vecchi che non ce la
facevano più a tener duro. I passeggeri si legavano agli alberi e al sartiame
tristemente sicuri che sarebbero annegati quasi sicuramente se la giunca si
fosse capovolta, ma pronti a rischiare piuttosto che essere buttati in mare.
Ji Fung usò un grosso pezzo di canapa bagnata per legarsi con Lin Bai a un
pesante uncino di ferro che si trovava sul ponte. In mente non aveva alcun
pensiero che non fosse di sopravvivenza.
Quando arrivarono al porto di Hong Kong, più della metà dei passeggeri
se n'era andata.
Il tifone che si era portato dietro la barca nella sua scia era già arrivato
sull'isola. Era come se la distruzione di Shanghai li avesse seguiti a casa,
usando l'acqua e il vento anziché il fuoco per attaccare il paesaggio
familiare. Le giunche e i sampan nel porto erano stati fissati saldamente
ma le onde li sbatacchiavano ancora qua e là crudelmente. Una bandiera di
avvertimento sventolava in cima a un lungo palo sul molo. Due triangoli
uno in cima all'altro, vertice contro vertice. Ji Fung pensò che il simbolo
sembrava una clessidra a cui stesse per finire il tempo.
Gli ci volle quasi tutta la notte per trovare un albergo. Migliaia di
viaggiatori, di rifugiati e di persone di Kowloon che avevano perso l'ultimo
traghetto avevano cercato un buco in attesa che passasse la tempesta. Alla
fine riuscì a scambiare l'ultimo braccialetto di giada di Lin Bai per una
minuscola stanza in un albergo di terz'ordine che ospitava per lo più
marinai stranieri.
Posò Lin Bai sul materasso macchiato, gli tolse le calze strappate e lo
straccio bagnato che il suo vestito era diventato, e lo coprì con una
minuscola coperta grigia. Non era necessario: la carne nuda di Lin Bai
irradiava il calore della malattia come una fornace ben rifornita.
«Hing... Di' al Padrone che sto troppo male per andare da lui. Non lo
sopporto stasera.»
Respirò faticosamente, e Ji Fung gli prese la mano. Sembrava un artiglio
senza carne, quasi troppo caldo per tenerlo. «Il Padrone è morto», disse Ji
Fung. «Non ti toccherà mai più.»
«Chen Bau dovrà fare la parte del Serpente Bianco.» Gli occhi giallastri
di Lin Bai vagarono da una parte all'altra senza vedere. «Digli di usare il
vestito con le piume di quaglia.»
Ji Fung vide una goccia di cristallo cadere sul collo scarno di Lin Bai.
Forse che il dannato tetto stava perdendo? La toccò con un dito, poi
l'assaggiò. Calda e salata. Una lacrima, la sua.
«Ji Fung?» la voce di Lin Bai era spessa e bassa, arrochita dall'infezione.
«Un giorno lasceremo questo posto, vero? Andremo a Hollywood. Non ci
saranno più delle noiose opere cinesi per noi. Saremo cowboy e gangster.»
«Va bene», disse Ji Fung. Si spogliò e scivolò sotto le coperte,
prendendo il corpo scheletrico e bollente di Lin Bai tra le braccia.
«Quando starai meglio, ti prometto che ce ne andremo da questo posto. Ma
prima mi devi promettere che migliorerai. Me lo prometti?»
Ma Lin Bai era silenzioso, il suo respiro affannoso e tormentato. Ji Fung
passò il resto della notte tenendolo tra le braccia, cercando di pensare a
tutte le cose che aveva sempre voluto dire, mormorandole tutte nei capelli
sudaticci dietro il collo di Lin Bai. A volte cantava dei brani d'opera,
facendo finta che gli mancassero le parole, cercando di convincere Lin Bai
a unirsi a lui.
«Ma quelli che erano sinceri alla fine si sono uniti.» Si ricordava delle
membra inerti di Lin Bai tra le sue braccia. «Anche se a migliaia di
chilometri di distanza...»
Ma non riusciva a cantare la strofa successiva, anche se l'aveva incisa
nella mente bassa e chiara.
Anche se strappati l'uno all'altro dalla morte...
Ji Fung guardava in giù il viso bianco di Lin Bai e si rendeva conto che
stava morendo. Mentre una luce rossastra filtrò nel cielo, lui giaceva in
ascolto dell'ultimo respiro del suo amante, lungo e lento, il suono della sua
anima che scivolava fuori dalle sue labbra socchiuse.
Ji Fung baciò quelle labbra. Erano secche, leggermente dolci, immobili
come la morte stessa.
Lui giacque con il corpo di Lin Bai tra le braccia per un lungo tempo,
mentre ascoltava la tempesta che infuriava di fuori. Non aveva paura:
sapeva che Lin Bai non gli avrebbe mai fatto del male, lo aveva saputo
anche quando aveva la pistola puntata alla faccia. Ma quando sentì che il
freddo si impadroniva del corpo che aveva tra le braccia, rabbrividì e si
sedette per vestirsi.
Mentre allacciava i piccoli bottoni intarsiati, sentì una sporgenza nella
tasca sinistra. Vi infilò la mano e scoprì l'anello dimenticato di Sincere e il
sigillo di giada che una volta era stato il ricettacolo di tutte le sue speranze
e dei suoi sogni. Il gioiello rosso sangue era abbagliante come lo era stato
quando Lin Bai lo aveva indicato a Perique nella vetrinetta, un migliaio di
anni prima.
Lui aveva immaginato l'espressione sul viso di Lin Bai quando glielo
avesse fatto scivolare sul dito sottile. Ma adesso era troppo tardi per
questo. Il mondo era morto. Lin Bai era morto. Non era rimasto niente. La
famiglia che aveva significato così tanto per lui sembrava non aver più
valore senza Lin Bai a dividerla con lui. Inutile come una manciata di
sabbia. Si raggomitolò nel letto e singhiozzò sulla spalla del suo amante
che stava diventando freddo, desiderando di essere morto.
Ma mentre la giornata passava, scoprì che il suo desiderio non si
realizzava. Aveva il corpo rigido, pieno di dolori e coperto di lividi, molto
lontano dalla consolazione inerte della morte. A meno che avesse voluto
uccidersi, avrebbe dovuto vivere. Si girava e rigirava tra le mani l'anello e
il sigillo. Mentre la luce del sole si dileguava, anche il tifone si
allontanava. Un silenzio limpido, fatato cadde sulla città. Era arrivato
l'occhio del ciclone e Ji Fung sentì un piano concretizzarsi dentro di lui.
Vendere l'anello gli avrebbe dato abbastanza denaro per le due cose di
cui aveva maggiormente bisogno.
Per prima cosa un biglietto per l'America. In secondo luogo, una
bottiglia di cherosene.
Pensava che Lin Bai avrebbe approvato entrambi gli acquisti.
Gong Sut Fo stava prendendosi le sue soddisfazioni con una cantante
americana, una bellezza dai capelli rossi e con lunghe gambe, occhi
ambrati e capezzoli rosa corallo. Aveva un temperamento altero come i
suoi colori, e questo incontro era costato molto a Gong Sut Fo sia in
denaro che in tranquillità. Quando un servo pallido e tremante lo
interruppe con quattro colpi alla porta, divenne furioso.
«Osi disturbarmi?» Gong Sut Fo si buttò addosso una vestaglia di seta
nera e rossa. «Che cosa c'è che non può aspettare finché un uomo non ha
finito con... non ha finito?»
«Un fantasma, Gwan.» Davvero un fantasma. Gwan era una parola usata
in segno di rispetto, fantasma significava che si trattava di una cosa che
non si poteva discutere davanti alla cantante, e il servo aveva la stessa
espressione che avrebbe avuto se qualcuno gli avesse ucciso l'unico figlio.
La cantante capiva un po' di cantonese. Si tirò la coperta sul seno
cadente e si accigliò. «Un fantasma? Di cosa sta parlando?»
Seccato dalla piega presa dagli avvenimenti, con l'uccello che si
rinsecchiva come una vecchia rapa, Gong Sut Fo scoprì che la voce piatta
dell'americana gli dava sui nervi. Le baciò le dita curate. «Mimi... mia
dolce...» trasse un profondo sospiro, ricordando la sensazione carezzevole
del suo corpo. «Giuro che tornerò da te al più presto.»
Mentre si affrettava giù dalle scale, poteva sentire le grida nel vicolo
dietro la cucina. Spinse via il servo ossequioso per farsi strada e si diresse
risoluto verso la folla di cuochi e di inservienti, fuori della porta di
servizio, nel vicolo.
L'odore lo colpì immediatamente, l'odore indimenticabile che si era
inciso nella sua memoria otto anni prima in un corridoio del piano
superiore della casa di suo fratello. Era un odore di grasso che colava, di
capelli che friggevano e di carne, ripugnante ma in qualche modo
stuzzicante.
C'era un cadavere che bruciava nel vicolo.
«Pazzi!» sputò, spingendo i servi verso la porta della cucina. «Volete
che tutto il vicinato vada in fiamme? Andate. Prendete dell'acqua!» I servi
sciocchi formarono immediatamente una fila per portare secchi e bacinelle
d'acqua. Anche così, passarono parecchi minuti prima che riuscissero a
spegnere l'incendio.
Gong Sut Fo si piegò a esaminare il corpo. Aveva gli arti raggrinziti, e si
erano ripiegati nella posizione fetale. La faccia era l'apertura di un incubo
di carne carbonizzata e di ossa strinate. Ma i piedi non erano quasi per
niente bruciati e lui non fece fatica a riconoscere le lucide scarpe bianche e
nere che aveva ordinato a Chi Gwai di dare a suo nipote. Gong Sut Fo
sentì una strana sensazione al torace, come se stesse sprofondando e vide
che il cadavere teneva stretto qualcosa in mano.
Fu difficile aprire i pugni stretti, e riuscì a farlo solo rompendogli alcune
dita. Andarono in pezzi come degli spaghetti bruciacchiati. Alla fine trovò
quello che stava cercando.
La giada era stata incrinata dal calore, ma i caratteri ricurvi portavano
ancora il nome di suo nipote.
Il servo che aveva disturbato Gong Sut Fo durante l'amplesso adesso si
inginocchiò davanti a lui, tremando ancora più violentemente di prima.
Aveva in mano un pezzo di carta piegato.
«Questo è stato trovato sulla porta della cucina», disse, e se la diede a
gambe non appena Gong Sut Fo ebbe preso il pezzo di carta.
Le parole in inglese erano scritte con una calligrafia disordinata,
infantile. Il biglietto diceva semplicemente: «Sono il figlio di mia madre».
Quando il loro padrone tornò in casa, i servi gettarono una vecchia
coperta sui resti fumanti del cadavere e mandarono via dal vicolo una
piccola folla di curiosi. Nella confusione della ritirata nessuno si accorse
dell'alta ragazza insignificante con un fazzoletto grigio tirato sulle larghe
orecchie. Nessuno si chiese perché stava sorridendo, anche se il suo viso
era pieno di lacrime.
1940-1949
A Cavallo del nero
di Charles L. Grant
Quando si alzò il sole, era bianco come l'estate, e le ombre che gettava
non erano per niente ombre, ma semplicemente punti nell'aria dove le cose
si andavano a nascondere fino al ritorno della luna. In una piccola stalla,
passata attraverso troppe intemperie per essere pittoresca, un paio di
cavalli si mossero con difficoltà; in una piccola casupola di due stanze
troppo in rovina per essere davvero comoda, le assi scricchiolavano e un
bollitore fischiò debolmente mentre la brezza scivolava attraverso la
finestra piena di fenditure per morire sul pavimento spoglio.
Quando il bollitore si fermò, non ci fu più alcun suono.
Nel cortile sul davanti, che ospitava prevalentemente fango sbiadito ed
erba piegata, una lucertola dalla coda blu guizzava da una pietra all'altra, si
immobilizzava, guizzava di nuovo via, scivolando sotto il basso porticato
dove il sole non poteva arrivare e il calore non era opprimente come una
fornace.
Dov'era l'orizzonte e in quali direzioni si sarebbe potuto stagliare al di là
delle montagne, se queste avessero avuto un colore, se la foschia non ne
avesse macchiato le vette ammorbidendone i contorni?
Nel portico era seduto un uomo, che reggeva tra le mani una tazza di
latta con del caffè. Non doveva combattere contro il freddo, ma lui sentì un
brivido, e sorseggiò il liquido denso come se in qualche modo l'inverno
avesse trovato la strada per penetrare nel suo midollo.
Quando ebbe finito, appoggiò la tazza vicino alla sedia e guardò la
strada nera che si snodava davanti a quella che di questi tempi passava per
casa sua.
La terra si srotolava senza uniformità, e là fuori nel deserto c'erano
salvia e pini marittimi, cactus e arbusti, ciottoli vaganti con la forma
modellata dal vento, e diritto davanti a lui in distanza, una fila di alberi
dalla ricca chioma che delimitavano le anse di uno stretto fiume che
appariva minaccioso ma non si avvicinava mai.
Non si mosse nulla.
Un'ora più tardi trasse un lungo sospiro e si costrinse ad alzarsi. Si
stiracchiò, si sfregò un occhio con la nocca, e si stiracchiò di nuovo. Era
un uomo che non aveva spessore finché non si arrabbiava, il cui volto non
aveva espressione finché la rabbia non tirava le pieghe cotte dal sole e
stringeva gli occhi foschi e cupi.
Portava una camicia scozzese con le maniche arrotolate, due bottoni
aperti, il colletto rovinato e sfilacciato. Jeans. Scarponi consunti. Una
cintura di pelle resa sottile dall'uso. Uno Stetson con la tesa calata.
Guardava la strada.
Non si mosse nulla.
Fece un cenno con la testa, lentamente, e lentamente si girò, scendendo
dal portico per dirigersi verso la stalla relativamente fresca. Lì diede da
mangiare e da bere al nero ombroso, diede da mangiare e sellò la tranquilla
roana, lasciò che il nero si facesse strada nel recinto parzialmente erboso
irrigato dalla sorgente, dove si diresse immediatamente verso la falsa
promessa di ombra, sotto a un vecchio pioppo. La cavalla non era proprio
pelle e ossa ma al solo guardarla chiunque avrebbe capito che una buona
corsa l'avrebbe sicuramente uccisa.
Quando raggiunge l'albero, girò la testa.
L'uomo annuì, una promessa, e si girò, massaggiando il collo della vec-
chia roana, sussurrandole alle orecchie, adulandola, dicendole che aveva la
sensazione che non sarebbero stati soli a lungo.
Una volta in sella, col cappello basso, lasciò che lei trovasse la strada
per uscire, seguendo il ciglio tra la carreggiata e il vasto fossato che la
delimitava. Si muovevano con lentezza, l'uomo e la cavalla dalla lunga
coda, solo di rado succedeva che avessero fretta. Quella mattina era in ri-
tardo. Di solito, quando usciva, se ne andava appena dopo l'alba, prima che
la giornata avesse la possibilità di accendere il suo fuoco bianco. C'era
stato un sogno, comunque, con le facce lucide di compagni assenti
aspettati a lungo di cui sente da molto la mancanza: anche loro erano soli
e, come lui, stavano cercando.
Cavalcò in direzione est, verso una città che era poco visibile a causa
degli avvallamenti del terreno, senza preoccuparsi del calore del sole. Non
aveva senso andare più velocemente, la giornata e la distanza li avrebbero
traditi. Nemmeno quando, guardandosi alle spalle, vide la nuvola di
polvere che muoveva verso di lui. Non si fermò. Continuò a cavalcare. Un
motore fendeva l'aria.
Non si mosse nulla.
Nemmeno la roana.
Alla fine, per un attimo la macchina e la cavalla procedettero affiancati,
ignorandosi finché la macchina accelerò e andò ad accostare sul ciglio un
centinaio di metri più avanti. La roana fu costretta a prendere la strada,
sbuffando e drizzando le orecchie.
Il conducente si sporse fuori del finestrino, scosse la testa, e fissò il
cavaliere attraverso dei sottili occhiali da sole che non rispecchiavano altro
che il cielo.
«Tu», disse il conducente, con un sorriso, «sei un figlio di puttana
difficile da trovare, lo sai?» Una faccia rotonda, un po' abbronzata. Denti
da pescecane.
Il cavaliere guardò pazientemente verso il basso, senza dire niente.
«Per amor del cielo, Rob, quando diavolo hai intenzione di mettere un
telefono?» Matt Dumont si sfregò le sopracciglia, e appoggiò il braccio sul
finestrino aperto. «Dannazione, odio venire fin qua. È come guidare in una
maledetta fornace.»
Rob Garland mosse le labbra, forse in un sorriso, forse no. «Allora non
venire.» Una voce, molto più profonda del motore, o della notte nel
deserto.
«Come diavolo faccio altrimenti a mettermi in contatto?» Una voce così
piatta, che la maggior parte della gente faceva fatica a sentirla. «Gesù.»
Diede un colpetto delicato alla portiera. «Ti piace? Una Roadmaster. L'ho
avuta per quattro soldi quando il vecchio Davidson ha fatto fagotto per
andare a Los Angeles il mese scorso. Ha comprato delle azioni della
Frazer, ha detto che non voleva essere sleale», ragliò. «Ci puoi credere?
Un banchiere sleale?» Ringhiò di nuovo.
«Ho da fare, Matt. Cosa vuoi?»
«Te.»
Rob grugnì.
«Giuro, Rob, è tutto. Voglio solo parlare. È una cosa così terribile?
Beviamo qualcosa da Dinah, cosa ne dici?»
Nello spostare l'altro braccio, Dumont toccò il clacson con il gomito.
Lo strombettio improvviso fu smorzato dall'oppressione del caldo.
La roana non si mosse nemmeno.
«Non hai bisogno di me, Matt. Diavolo, non ti piaccio nemmeno.»
Dumont piegò la testa e sorrise, mettendo in mostra una fessura tra i
denti davanti. «E allora?»
«Allora non c'è niente che tu possa dire che non abbia già sentito almeno
un centinaio di volte in precedenza. Non mi è piaciuto quando le ho sentite
allora, e sono sicuro che non mi piacerà sentirle da Dinah.» Si portò le dita
alla tesa del cappello. «Guida piano, Matt. Se ti capita qualcosa da queste
parti, non ti troverà nessuno.»
«Tu vivi da queste parti, tu mi troverai.»
Bob toccò il collo della roana per farla muovere. «No», disse. «Non cre-
do.»
«Dannazione, Garland», gli urlò alle spalle Dumont, al colmo dell'esa-
sperazione. «La guerra è finita, idiota. Quando imparerai che i tempi
cambiano?»
Un momento più tardi la macchina accelerò superandolo, col clacson
che suonava, e le gomme che sollevavano sabbia, poi si inerpicò per una
salita e scomparve alla vista.
Rob e la roana continuarono a cavalcare, lentamente come il caldo che
cavalcava con loro.
Era seccato che Dumont si fosse fatto vedere, seccato che la sua quiete
fosse stata disturbata da quel veicolo col muso lungo. Non aveva niente
contro le macchine, ma erano completamente inutili qui fuori, e i cretini
come Dumont guidavano come se avessero avuto il diavolo sopra il tetto.
Sperava che l'uomo non fosse in città al suo arrivo. Non aveva alcun
desiderio di parlare. Aveva già parlato, e combattuto, e corso, e
sanguinato.
Quello era successo allora, adesso era diverso.
Poi superarono un edificio che una volta era stato un deposito di vagoni,
quando la vecchia miniera era ancora attiva, ma le miniere erano vuote
dalla morte di Franklin Delano Roosevelt, e le rotaie erano scomparse da
un pezzo, forgiate in cisterne, il tetto era crollato, le porte erano a pezzi, le
finestre senza vetri, c'erano tracce di coyote nella polvere, e i rampicanti
crescevano dove una volta il macchinista stava in piedi ad asciugarsi la
fronte con un fazzoletto che era quasi lungo come il suo braccio.
Superarono un vecchio vagone che era sprofondato nel fossato, le cui
ruote ormai erano un ricordo, con i dadi arrugginiti, il fondo pieno di sassi
e di erbacce e delle ossa che erano i resti del pranzo di un falco.
Mancavano delle assi: ne aveva prese un paio anche lui quando l'inverno
aveva reso necessario il fuoco.
Superarono degli operai che stavano impiantando dei pali per il telefono,
che tendevano dei cavi, chiedendosi ad alta voce chi diavolo con la testa a
posto potesse ordinare tutto questo, qua fuori in mezzo al niente, in un
posto che non portava da nessuna parte.
Lo ignorarono.
Andava bene.
Un falco in volo si allontanò all'alzarsi del sole.
Le ombre sprofondavano a terra.
Alla fine, senza rendersi conto di quanto tempo fosse passato, portò la
roana oltre le grandi porte aperte dell'unica stalla rimasta in città, scese da
cavallo, e disse a Solomon Winks di trattar bene la ragazza, che di questi
tempi sentiva ancora di più il caldo.
«Non dovrebbe cavalcarla così a lungo in giornate come questa, signor
Garland», si intromise il garzone di stalla, scuotendo la testa dispiaciuto in
direzione della cavalla, parlandogli, liberandolo della sella, afferrando un
panno umido per rinfrescare un po' la bestia.
«Abbiamo camminato.»
Il nero sospirò. «La cavalla ha camminato, lei cavalcava.»
Rob fece una risata tranquilla, dando alla cavalla una zolletta di
zucchero, permettendogli di strofinarsi sul suo torace.
Solomon, che non indossava altro che una tuta da lavoro e una maglietta
senza maniche, versava dell'acqua in un abbeveratoio. «Le dispiace se le
chiedo come mai è venuto, signor Garland? Pensavo che non l'avrei vista
per un altro paio di settimane.»
«Sono venuto a dare un'occhiata, figliolo, solo a dare un'occhiata.»
L'uomo dai capelli bianchi lo guardò di traverso, mettendo in evidenza
una fronte piena di cicatrici, come se qualcuno lo avesse morso nel sonno.
«Lei non dà mai solo un'occhiata.»
Rob si strinse nelle spalle. «Quando ne senti il bisogno ti devi muovere,
tutto qua.»
Diede una pacca sulla groppa della roana in segno di saluto. Poi indicò il
garzone. «Non pensarci troppo, Solomon, mi hai sentito? Che tu ci creda o
no, a volte uno si annoia tutto solo laggiù.»
Solomon annuì.
Rob sapeva che non ci credeva.
Dopo aver preso col palmo della mano un po' d'acqua dall'abbeveratoio
ed essersela buttata in faccia, uscì dall'edificio lungo e alto, annusando gli
odori del fieno e del sudore, del fresco e del caldo, finché raggiunse la
porta che conduceva al retro del negozio dei mangimi. Lo attraversò e
tornò in strada senza salutare l'impiegato e si fermò sotto la tenda con le
frange che non si muoveva.
Macchine accostate al marciapiede, macchine al semaforo nuovo, pedoni
in giacca e cravatta, in jeans e in abiti da passeggio che avevano sostituito
gli abiti da lavoro, quando i loro proprietari avevano lasciato le loro
occupazioni per tornare a casa nel deserto, dall'oceano. Una volta li
conosceva tutti, adesso ne conosceva a stento una decina. Si spostavano, i
giovani lo facevano, andavano nelle città sulla costa, al di là delle
montagne, e nelle città oltre le pianure.
I vecchi si fermavano.
I giovani morivano.
I vecchi no.
E anche il posto non era quasi per niente cambiato, la lunga strada
principale che brillava minacciosamente, mentre il calore in distanza dava
l'impressione che si sollevassero delle braccia fantasma, a nascondere le
montagne, facendo contorcere i pali che avevano sostituito gli alberi, coi
cavi al posto dei rami e traverse al posto dei ramoscelli. Gli edifici erano
prevalentemente in legno, qualcuno di pietra, pochi di mattoni. Le case, le
chiese, la scuola erano tutte sulle strade che stavano alle spalle dei grandi
edifici a due piani che ospitavano gli uffici e i negozi.
Una piccola città distesa nel deserto che aspettava di essere scoperta da
una grande città.
Due isolati più in là, si infilò nella porta del primo ristorante della zona,
il più piccolo, il meno frequentato, con le sue tovaglie di tela cerata a qua-
dri rossi, i ventilatori da pavimento e un bancone lungo la parete sinistra,
dei séparé lungo quella di destra, una manciata di tavoli in mezzo e sul
fondo. Una tenda semitrasparente tirata per metà sulla finestra teneva fuori
il riverbero. Tre uomini nel primo séparé, dei cappelli appesi al muro, nes-
suno ai tavoli.
Nessuno al bancone finché non si sedette sullo sgabello più vicino alla
cassa, lasciò cadere il cappello sullo sgabello a fianco del suo, e prese un
menù che si trovava tra lo zucchero e il ketchup. Mentre guardava la lista,
senza davvero leggerla, dal momento che l'avrebbe potuta recitare a me-
moria, sentì qualche risata sommessa alle sue spalle, dei sussurri scambiati
velocemente e una risata aperta.
Per un attimo chiuse gli occhi.
Ai vecchi tempi, pensò con desiderio, ai vecchi tempi.
In quell'attimo di buio benedetto udì il leggero cigolio della porta
basculante, nella parete posteriore, e i passi di una donna.
«Ehi», disse uno degli uomini, «Ehi, cowboy.»
Quando aperse gli occhi, la vide in piedi davanti a lui, con le braccia
conserte sotto il seno, con una sopracciglia folta sollevata. I capelli biondi
erano tagliati corti. La divisa che indossava era fatta in parti uguali di
macchie pallide e di colore sbiadito da troppo tempo per avere ancora un
nome.
«Ehi, tu cowboy.»
Il suo viso aveva zigomi alti e le guance incavate, labbra scure e spesse,
occhi scuri e raramente spalancati. Una volta avrebbe ballato, avrebbe
detto le parole giuste, fatto le promesse necessarie, qualsiasi cosa pur di
vedere quello che c'era sotto i bottoni che le tiravano sul davanti. Ma il
secolo andava avanti e alla sua età lui si limitava a guardare, a sorridere e
ad aspettare la domanda.
«Sessantadue?» chiese lei, con la punta della lingua sull'angolo della
bocca. «No.»
«Dannazione.»
«Ehi, cowboy!»
Chiuse di nuovo gli occhi, li riaprì, e le scrutò il viso alla ricerca di un
segno qualsiasi.
È il tuo turno, gli rispose lei con un cenno; c'è così dannatamente caldo
per pensare!
Sapeva come si sentiva lei, e fece girare lo sgabello verso il séparé, e gli
uomini con le loro stupide risate mentre gli leggevano gli anni sul viso e
sul dorso delle mani posate distrattamente sulle cosce.
«Mi spiace, vecchio», disse uno di loro. «Pensavamo che fossi qualcun
altro.»
Gli altri due repressero il riso.
«Forse potresti aver ragione», rispose con calma.
Aspettava.
Non si mosse nulla.
Solo il ronzio e il rombo delle pale dei ventilatori negli angoli in fondo.
Da qualche parte, fuori, il nitrito di un cavallo, gli zoccoli che
sbattevano sul terreno duro.
Il più giovane e il più alto dei tre scivolò con facilità fuori dal séparé, la
cravatta leggermente storta, gli ampi baveri che gli facevano sembrare il
torace più piccolo, mentre i pantaloni abbondanti gli regalavano gambe da
gigante. Si muoveva con cautela, scrutando Rob attraverso la polvere
appesa nell'aria come una stella. Quando uno dei suoi amici fece un sibilo
nei suoi confronti, scosse il capo con violenza, una volta, poi si fece
scivolare i pollici nella cintura alta.
«Hai idea di chi sono?» chiese. Aveva lo spazio tra il naso e il labbro
coperto dai baffi, come Douglas Fairbanks e i capelli pettinati all'indietro
come Tyrone Power.
Rob si strinse nelle spalle.
«Clark», disse stancamente la cameriera, «va' da qualche altra parte, va
bene? Non ho bisogno di questo.»
Clark Mitchell le ammiccò, oltre la spalla di Rob. «Dinah, nessun
problema. Sto solo facendo una domanda, tutto qua.»
Il suo compagno rise.
Rob guardava.
Clark si appollaiò sul bordo del tavolo, con un piede che dondolava.
«Allora, hai idea di chi sono?»
La diligenza che correva rumorosamente per la strada tirata da sei cavalli
agitati, una donna e una bambina che indossavano due cappelli simili,
quattro cavalieri su cavalli imbizzarriti. Un uomo che sbirciava da una
finestra, una gran stella d'argento appuntata sul suo gilè di pelle. Rob lo
guardò: poi distolse lo guardo.
«Ehi», disse Clark a voce bassa. Senza gentilezza.
Rob gli voltò le spalle, dette un colpetto sul menù, aggrottò un sopracci-
glio verso Dinah. «Caffè, uova, pane tostato, pancetta e prosciutto, e se ce
l'hai burro.»
«Il razionamento è finito», disse lei, con un sorriso rapido. «Sai, davvero
dovresti venire in città più spesso.»
Lui fece una risata silenziosa, ma non perse l'espressione interrogativa
del suo sguardo.
O l'apprensione.
Non aveva niente a che fare con i tre uomini dietro di lui.
«Ehi, cowboy, sto parlando con te.»
Lei prese il menù dal bancone e lo rimise al suo posto. «Fammi un favo-
re», disse, dirigendosi verso la cucina. «Non fare confusione, sono sola
oggi.»
Una mano si allungò oltre la coscia sullo sgabello e lo fece girare.
Clark sorrise: lì non c'era niente.
«Non sei molto gentile, vecchio, lo sai? Ti faccio una domanda e tu mi
ignori. Come ti aspetti di essere una stella se mi ignori?»
Rob si accigliò.
«Vedete?» disse Clark agli altri. «Ve lo avevo detto che non mi conosce-
va.»
Senza dare la sensazione di essersi mosso, Rob si alzò, afferrò i baveri
del vestito, lo sollevò, e senza sforzo portò il giovane al séparé,
lasciandolo cadere sul sedile. Si sporse verso di lui, adesso aveva una
mano sul nodo della cravatta del giovane, mentre con l'altra la tirava,
facendo un cappio.
«Non mi importa per niente chi sei», disse con calma, «e decisamente
non mi interessa sapere perché sei qua. Toccami ancora, e ti spello. Vivo.»
La faccia di Clark si riempì di chiazze, gli occhi gli uscirono dalle
orbite.
I suoi amici erano a bocca aperta. Il cappio si strinse.
«Sei un tizio della televisione», disse Rob, facendosi più vicino,
parlando a voce più bassa. «Non mi fai impressione.»
Lasciò andare la cravatta con una contorsione e uno scatto del polso, e il
giovane boccheggiò, sputacchiò, crollò in avanti, mentre alla fine i suoi
amici si decidevano a venire in suo aiuto.
Rob guardò in basso verso di loro.
«Avevate ragione, a proposito», disse loro, ritornando verso il bancone.
«Impossibile», disse con disprezzo uno di loro. «Sei troppo
dannatamente vecchio.»
Rob sedette, sorridendo. «Figliolo, tu non sai cosa voglia dire vecchio.»
Tornò a voltare loro la schiena.
Aspettò finché sentì la porta a due battenti fermarsi dopo avere cigolato
a lungo, aspettò finché i passi si allontanarono rumorosamente sulla
passerella d'assi, aspettò finché il rumore degli speroni fu soffocato dal
borbottio tossicchiante di un autobus, aspettò finché il sottile odore della
pistola ben oliata fu sostituito dall'aroma del suo cibo.
I tre uomini se ne erano andati.
Dinah appoggiò un fianco al bancone e lo guardò mangiare, senza dire
nulla, dicendo tutto, mentre lui guardava lei che lo guardava, e
immaginava che ormai dovesse avere circa quarantacinque anni. Non
aveva un marito, lui era andato a combattere nel Pacifico e non era tornato,
forse era morto, forse no; non aveva figli, e non aveva una famiglia di cui
parlare. Aveva il ristorante, tutto qua.
E un paio di volte al mese, aveva lui, sullo sgabello vicino al bancone,
che la guardava mentre lo osservava.
«Rob?» disse, con una voce giovane, incerta e un po' spaventata. Lui
mangiò.
«Solomon è venuto sul retro mente stavo cucinando.»
Lui grugnì. «Quell'uomo parla troppo.»
«Dice...»
Rob la guardò, nient'altro, e lei si girò a prendere uno straccio pulito per
passare un bancone che non era stato toccato da nient'altro che dal piatto di
Rob, e da un leggero strato di polvere.
Era stato a Los Angeles, a San Diego, aveva preso il treno da Denver a
Saint Louis. Non era, come si lamentava amaramente Dumont con tutti
quelli che lo volevano stare a sentire, un uomo che viveva nel passato, che
odiava il presente e sabotava il futuro. Gli piaceva andare al cinema, il
telefono lo affascinava quanto lo irritava, e più di una volta aveva
benedetto l'aria condizionata nel bar di Clay Poplar. Non che, si corresse,
funzionasse sempre, specialmente nei giorni più caldi di fine luglio.
Ma i tempi cambiavano.
Prima o poi, glielo avrebbe dovuto dire.
Prima o poi, i suoi amici sarebbero arrivati.
Dumont lo incrociò che stava uscendo dal negozio del ferramenta, con
un piccolo sacchetto di chiodi in una mano, un martello nell'altra. Aveva
un corpo rotondo che andava d'accordo con la faccia rotonda, le gambe
corte e due mani piccole e tozze, e il vestito che indossava era troppo
costoso e di sartoria per essere stato acquistato da quelle parti.
«Parlami», gli chiese.
«Sto andando a casa.»
«Ti seguirò come un cagnolino.»
Rob rise. «Sono certo che lo farai.»
In distanza, il grido solitario di una locomotiva, col fumo che si alzava
sopra i tetti perché non c'era vento che se lo portasse via.
Un bastardo stava scavando alla base di un palo per legare i cavalli,
fiutando con insistenza.
Un portatore cinese superava rapidamente l'angolo, li vide, si inchinò e
scomparve alla vista.
«Smettila», disse Dumont.
Rob continuava a camminare. Che l'uomo lo seguisse o no, non poteva
importargliene di meno.
«Ascolta Rob», disse l'uomo, tenendo la voce bassa, avvicinandosi un
po', ma senza toccarlo, «c'è un tizio in città, si chiama Clark Mitchell.
Lavora per la National Broadcasting Company, NBC, come alla radio, vo-
gliono allargare la loro rete televisiva. Sai di cosa si tratta, una rete? La
gente a New York vede lo stesso programma allo stesso momento della
gente di Los Angeles. E tutti i posti in mezzo? Stanno sistemando dei ripe-
titori e delle stazioni locali. Rob, hai visto un apparecchio televisivo, vero?
Gesù, hai idea di cosa sto parlando?»
Rob continuava a camminare, l'uomo poteva continuare o no.
«Almeno dimmi che hai sentito parlare di Ed Sullivan e di Milton
Berle.»
Con riluttanza Rob annuì.
Dumont volse lo sguardo al cielo. «Grazie, Dio, per i piccoli favori. A
ogni modo, questo Mitchell è come un reporter. Lui va alla televisione alla
sera e racconta le notizie. È una persona davvero importante da questa par-
te del Mississippi.»
«Ho già una radio», disse Rob, guardando dentro la vetrina di un nego-
zio, pensando che era arrivato il momento di comprarsi un paio di camicie
nuove. Ne aveva quattro, una aveva troppe toppe per essere usata in
compagnia, e due avevano delle macchie. Usava la quarta solo
occasionalmente.
Più tardi decise, forse domani.
«Qui stiamo parlando del futuro, Rob», insistette Dumont, afferrandogli
il braccio e poi lasciandolo andare come se ne fosse stato bruciato. «Tutto
quello che voglio sono dieci acri, dieci acri pidocchiosi. Cristo, quanti ne
hai? Cinque, seimila? Che sarebbero per te dieci acri di dannata sabbia in
meno?»
Rob guardò in basso verso di lui. «Dieci acri di meno di dannata
sabbia.»
«Molto divertente.» Dumont si asciugò la faccia con un fazzoletto già
macchiato di sudore. «Stiamo parlando della ricchezza, Rob. Tu vendi a
me, io vendo a loro, e poi dividiamo.»
Sull'angolo, Rob si fermò per lasciar passare una diligenza postale, e il
guidatore con il fucile lo salutò toccandosi il cappello. Dentro una donna
con un cappello pieno di piume sorrise timidamente.
«Potrei venderglielo direttamente io», disse Rob, attraversando la strada.
«No, non lo faresti. Ma lo venderesti a me, vero?»
Superarono il negozio di mangime, e Rob si fermò all'angolo dell'edifi-
cio. «No.»
«Perché, dannazione?» Dumont chiese alla sua schiena.
Rob non rispose.
«Gesù Cristo, se lanciano la dannata Bomba, tutto quello che ti rimarrà
saranno cinque, seimila acri dove non riuscirai a far crescere nemmeno
della dannata erbaccia.»
Solomon se n'era andato.
Rob sellò la roana e la portò all'aperto.
Dumont si allontanò dall'animale, asciugandosi di nuovo la faccia. «Rob,
per favore mi devi ascoltare. Mitchell non rimarrà qua per sempre. Se non
prendiamo una decisione adesso, lui sceglierà un altro posto.» Si aggrappò
alla staffa. «Gesù, Rob, devi aiutarmi a uscire da questa situazione. Sei
l'unica speranza che mi è rimasta.»
La staffa si mosse, la mano si allontanò.
«Che Dio ti maledica, Garland! Arrivi in questo modo, a cavallo di quel
dannato animale, e spaventi a morte metà della città.»
Rob si sporse in avanti e diede un colpetto sulla spalla dell'uomo.
«Bene», disse. «Hanno ragione.»
Mentre cavalcava verso il ciglio della strada, un terzetto di ragazzini
passava a gran velocità in una decappottabile.
Risero e suonarono il clacson.
La roana non si mosse.
***
***
Amy guidò fino a lui e si sedette sui gradini ai suoi piedi, con la gonna a
pieghe raccolta attorno alle gambe. Parlarono dei bambini, di quelli che
erano i suoi preferiti e di quelli che la facevano diventare matta e di quelli
che si mettevano a piangere perché i loro papà si svegliavano la notte,
udendo gli spari e i rumori dei cacciabombardieri, dei cannoni e delle
granate.
Erano passati quattro anni, e si continuava a morire.
«E adesso questo», disse lei con rabbia.
Lui accese una lanterna e l'appese al gancio che pendeva dal soffitto del
portico. La luce non era tanta, ma almeno lui non stava ascoltando un
fantasma.
«Che cosa?» disse, sedendosi di nuovo, accavallando una gamba sopra
l'altra, sorseggiando dalla tazza che aveva riempito di nuovo.
«Sai quello che voglio dire.» Lei allungò una mano e gli toccò lo stivale,
lo afferrò e tirò finché lui avvicinò la sedia, e lei appoggiò la guancia al
suo ginocchio. La mano che lui aveva libera ondeggiava sulla testa di lei,
sentendola senza toccarla, mentre il fuoco della lanterna era un riflesso del
fuoco tra i suoi capelli. «Voglio dire che hai visto così tante cose, Rob.
Macchine e aerei e più guerre di quante penso che tu voglia ammettere. Tu
sei un libro di storia in movimento, e non lo sai nemmeno.» Quando lei
spostò leggermente il peso del corpo un dito le sfiorò i capelli e si spostò.
«Io sono stata a scuola, e non so niente, e sono io che dovrei dire a quei
ragazzi di non avere paura.»
Lui non riuscì a evitarlo; le toccò i capelli, modellandoglieli sul cranio e
seguendone la caduta fino alla spina dorsale.
Lei sospirò e gli abbracciò la gamba.
I coyote cantarono.
Una diligenza passò veloce come un fulmine, con i cavalli che
sbuffavano e la frusta che schioccava.
Fuori dal buio.
Nel buio.
«Ti odio», disse sognante.
Lui grugnì.
Lei si spostò facendoglisi più vicina. «Perché hanno paura di te?»
Lui non sapeva come rispondere, quindi rimase in silenzio, sperando che
questa volta, con questa donna, non ci fosse altro tempo oltre a quello che
avevano.
Così giovane, e così presto sarebbe stata vecchia.
«Stavo pensando di andare alla riunione in quella tenda domani.»
«Oh?»
Lei rise, solo un po'. «Mi dispiace per quel predicatore, tutto qua. È così
piccolo. Non so se nessuno lo prenderà sul serio.»
Lo avrebbero fatto; sapeva che lo avrebbero fatto.
Lo fanno sempre.
E non sbagliano mai.
Lei si ritrasse e si girò per appoggiarsi al palo, con la luce della lampada
che gettava delle ombre morbide sulla sua faccia, facendola sembrare più
giovane. «Io so chi sei, sai?»
Lui non disse niente.
Lei rise e l'età svanì. «Sono un'insegnante, ricordi? Posso mettere insie-
me le cose, leggere, scrivere e fare cose magiche di questo tipo.»
Lui non disse niente.
«Tu sei un fuorilegge.»
Lui inspirò profondamente, poi espirò lentamente.
Lei scosse la testa stupita. «Siamo praticamente alla metà del secolo, e
abbiamo un fuorilegge vivo e vegeto appena fuori della città.» La lanterna
le si riflesse negli occhi. «Pensavo che fossero tutti morti.»
I coyote cantarono.
«Lo sono», sussurrò lui.
Una folata di vento, la lanterna scricchiolò e si agitò, facendo entrare e
uscire il suo viso dall'ombra.
«È questo il motivo per cui hanno così tanta paura di te? Perché pensano
che tu...»
Un'automobile dal muso lungo accostò dietro la station wagon dalle
fiancate di legno di Amy. I fari tagliarono la notte e si spensero. Il motore
tossì. Sbatté una portiera. Lei si sistemò la gonna, accigliandosi per l'intru-
sione, guardando lui alla ricerca di un indizio su cosa fare, cosa dire, ma
lui si limitò a scuotere la testa, in modo che lei quasi non se ne accorse, si
fece solo un po' più piccolo come se all'improvviso si fosse ritrovato
addosso altri decenni, pesantissimi.
Lei sbatté le palpebre, poi sorrise, e si girò mentre un uomo attraversava
il cortile facendo scricchiolare la ghiaia.
«Signor Garland, buona sera.»
Rob annuì. «Signor Mitchell.»
«Mi riconosce finalmente. Lo prenderò come un complimento.»
Mitchell si fermò quando raggiunse la luce, mise un piede sul portico, si
sporse in avanti, appoggiandosi a un braccio. Buttò il cappello all'indietro,
si toccò il mento. «E lei è l'insegnante, vero? Signorina...?»
«Russell», disse lei in modo compassato.
Lui annuì. «Naturalmente.» Un sorriso a Rob, non da squalo, solo un
lupo. «Mi sembra, signorina Russell, che ci sia una celebrità in mezzo a
noi.»
«È così?»
«Sì, certo. Il signor Garland è quello che noi nel mondo della televisione
chiamiamo una personalità.»
Il suo sguardo non si spostò.
«Davvero?»
«Su, signorina Russell. Mi sta dicendo che non lo sapeva?» Denti da
lupo. «Robert Garland, data di nascita sconosciuta, pena di morte non
applicabile, nessun nome di comodo come Billy the Kid o Six-Gun
Morgan, ha passato parecchio tempo in diverse galere e prigioni in tutto il
West. Per assassinio. Sfortunatamente sembra che non ci sia in giro una
prigione in grado di trattenerlo.»
«È così?»
Mitchell smise di ridere. «È un assassino, signorina Russell. Sono pronto
a scommettere che ci sono ancora dei mandati di cattura col suo nome in
ogni stato a est delle Montagne Rocciose e a ovest del Mississippi. Cosa ne
dice lei, signor Garland?»
«Faccia un colpo da maestro», disse Rob con voce roca. «Chiami la
legge e faccia arrestare un vecchio stanco che si siede a fatica sul suo
vecchio cavallo. Un colpo da maestro.»
«Non voglio farla arrestare, signor Garland. Voglio solo la sua terra.»
La lanterna ondeggiava ancora cigolando.
La faccia di Mitchell entrava e usciva dall'ombra.
«Sa», disse, ignorando Amy adesso, «che ci sono già più di un milione
di apparecchi televisivi nel paese? Ha un'idea di quanta gente veda la mia
faccia ogni settimana? Sa quanta gente vedrebbe la sua faccia ogni sera se
io parlassi di lei?» Abbassò la testa, poi guardò di nuovo in su. «Non ci
sarebbe un poliziotto in questo paese che non conoscerebbe il suo nome.»
Si raddrizzò, lisciandosi la cravatta con il palmo della mano.
Amy disse: «Perché?» Indicò la notte. «Ci sono decine e decine di città
in cui potrebbe andare e ognuna di loro è più grande della nostra. Perché
diavolo vuole proprio noi? Perché sta facendo pressione su Rob?»
Lui si toccò il cappello e si allontanò, guardandosi alle spalle, e disse:
«Perché posso».
Lui giacque sul letto, con la luce della luna sul torace.
Non pensava di essere un uomo stupido: aveva visto troppe cose per non
sapere che il mondo cambia e i mondi entrano in collisione, che le persone
come lui e Solomon, e Dinah e Clay o si tiravano da parte per conto loro o
venivano spostati, o spinti o mandati via a gomitate, non faceva molta
differenza. Andava così. Un giovane lupo prima o poi ne sconfiggeva uno
vecchio, un giovane bufalo prima o poi si occupava di un toro lento.
Allungò il braccio di lato e raccolse la tazza di latta, si rese conto che era
vuota, chiuse un occhio pensieroso, poi spinse via la tazza di lato.
Raccolse la bottiglia.
Bevve.
Li aveva incontrati tutti, ne aveva amati alcuni, era andato avanti quando
non riusciva più a guardarli morire, quando non riusciva più a sopportare
lo sguardo nei loro occhi o i deboli baci che gli davano, o il tocco tremante
delle loro dita soffici sulla sua pelle, quando iniziavano a farsi delle
domande, e iniziavano, alla fine, a odiarne il suono e la vista, che si
allontanava.
Quando vedeva come funzionava.
Bevve.
Bevve.
***
Tuttavia non c'era mai stato un momento come quello di oggi, nessun
momento in cui potesse finalmente vedere la fine della strada. Terra o
pietra, cemento o sassi, c'era sempre una curva, si attraversava un fiume,
che scorreva tortuoso su una montagna, scivolando in una vallata di cui
non si era accorto mentre viaggiava.
Lo rendeva un po' triste.
Solo un po'.
Non per la fine della strada, ma per loro e perché non sapevano.
Era vecchio.
Era lento.
Immaginava, mentre la luce della luna svaniva, che forse stava davvero
arrivando il momento.
Ma lo rendeva triste.
Solo un po'.
Svuotò la bottiglia.
Dormì.
Non sognò.
Si svegliò quando il sole stava quasi per tramontare, si girò per sedersi,
si tenne la testa tra le mani, e fissò il pavimento.
perché posso
Si diresse alla porta e si appoggiò allo stipite, strizzando gli occhi alla
luce del giorno che stava morendo, guardando i camion e le carrozze,
scuotendo la testa con un semplice sorriso mentre occasionalmente
scivolava avanti e indietro nel tempo, allora e adesso. Quando un lungo
autobus grigio passò senza fermarsi, distolse lo sguardo chiedendosi come
mai Dumont e Amy fossero gli unici a vedere. Non aveva pensato che
fossero così speciali, un imbroglione e un'insegnante, ma non aveva
pensato neppure che quel sole notturno fosse così speciale.
E non lo era.
Non nel modo a cui pensavano loro.
Lui si girò e rimase in piedi nel portico, analizzando l'aria, in ascolto, e
seppe che i suoi amici non sarebbero arrivati quella notte. Per un attimo ne
rimase perplesso, era quasi sicuro che ci sarebbero stati, finché non passò
un camion con parecchie casse sul fondo. Sulle fiancate c'era una scritta.
Apparecchi televisivi. Uno di questi, ne era sicuro, era per Clay Poplar e
sua moglie.
Nessuna bomba qua.
Ma, comunque, la fine.
«Bene», disse a bassa voce. Aveva finalmente preso una decisione.
Si mosse nella grande stanza, raccogliendo le cose che pensava gli
sarebbe piaciuto mettere in salvo, e rimettendole al loro posto, quando si
rese conto di quello che stava facendo. Mentre si muoveva, sollevando la
polvere, respirò profondamente, e canticchiò senza tono, continuando a
toccare, finché il giorno non se ne fu andato. Poi allungò la mano sotto il
letto e ne estrasse una vecchia valigia, con le cinghie di pelle consumata e
le finiture di ottone ossidate. Il cuoio si spezzò quando lo toccò, il
coperchio si deformò quando lo sollevò e lui usò entrambe le mani per
sollevare il nero che stava lì dentro e metterlo sul materasso.
«Bene», disse all'abbigliamento che non usava da così tanto tempo.
«Bene.»
Si spogliò.
Si vestì.
Raccolse il cappello, con la tesa ampia e nero, e uscì sul portico.
I coyote cantarono.
Lui rispose.
Una pioggia di meteore balenò nel cielo bruciando, balenò morendo, la-
sciando nella sua scia tracce di luce senza speranza.
Girò intorno alla baracca fino alle stalle, ancora non completamente
sicuro di dover cavalcare stasera finché non entrò e vide che la roana
giaceva sul fianco nel suo recinto.
«Oh, Signore», sussurrò, tanto per se stesso quanto per la cavalla. Le si
inginocchiò al fianco, e le massaggiò il fianco caldo, suggerendole con un
sussurro che sarebbe andato tutto bene, vecchia mia, tu non ci sarai, non
adesso, non stavolta.
Quando si alzò, con le giunture che scoppiavano, la schiena rigida, un
nitrito basso nel recinto a fianco lo fece girare, sollevare un sopracciglio
senza dire niente, mentre portava il nero slanciato nel cortile e lo sellava.
E, mentre lo faceva, guardava il cielo, guardava la strada, pensando che
c'era ancora qualcosa che poteva fare prima che dovesse fare quello che
doveva fare.
Un passo, e con facilità si ritrovò in groppa al cavallo.
Un complimento, un tocco ed erano in strada, e viaggiavano nel centro,
niente alle loro spalle e niente davanti a loro.
I coyote smisero di cantare.
E immediatamente si fermò alle porte della stalla, da dove internamente
si vedeva una luce.
Il nero attraversò rumorosamente lo spazio aperto, quasi impennandosi,
e Solomon uscì, accigliato, finché non vide Rob.
«Oh, Gesù», disse il vecchio. Si guardò intorno freneticamente, dicendo
a Rob con ogni sobbalzo e ogni sospiro che stava pensando di scappare,
che voleva nascondersi, ma che era terrorizzato a fare qualsiasi cosa che
non fosse di rimanere lì in piedi. Poi si mise una mano sulla faccia finché
smise di tremare. «Avevo intenzione di andare alla riunione alla tenda, ma
tutto questo lavoro... Dannazione, avrei dovuto andarci.» Si sporse a
guardare oltre il nero, si accigliò di nuovo, e scrutò il cortile. «Sei solo?»
«Per un po'», rispose Rob. «Non ti devi preoccupare.»
Solomon quasi si afflosciò per quanto grande era il suo sollievo. «Ti di-
spiace se ti chiedo per quanto?»
Rob rise. «Sei una peste, Solomon. Vuoi sapere troppo.»
«Ne ho il diritto.»
Rob ci pensò sopra e sorrise. «Non molto, per come vanno le cose. Ma
troppo per te. Va bene?»
«Diavolo no. Vivrò per sempre.»
L'uomo sul nero si abbassò a stringere la mano del nero, a lungo e con
forza, e fece girare il cavallo per dirigersi sulla strada principale.
Cavalcando nel centro della strada.
Le luci della strada e delle case e dei negozi si abbassavano mentre
passava, e non tornavano più a brillare.
Si fermò una seconda volta quando raggiunse la taverna dell'Horseshoe.
Scese da cavallo e spinse la porta, senza preoccuparsi del silenzio che
aveva interrotto il pianista a metà di una nota, né delle occhiate che
ricevette dagli uomini ai tavoli sul fondo, vicino al juke-box. Andò diritto
al bar e si sedette su uno sgabello vicino a Dumont. Il barista era un
giovane che riuscì a stento a non rimanere a bocca spalancata quando vide
Rob, poi mentre la sorpresa veniva sostituita da un sogghigno si girò a dire
una parola alle due donne che sedevano all'estremità del bar. Loro
guardarono in su e ridacchiarono.
«Cosa diavolo vuoi?» gli chiese Dumont.
Rob mise la mano nella tasca della camicia e ne tirò fuori un rotolo di
biglietti legati con uno spago. Prese la mano dell'uomo e gli mise il denaro
nel palmo, chiudendogli le dita intorno.
«Esci, Matt», disse, abbassando la voce. «Sali su quella tua bella
Roadmaster, e vattene.»
Dumont fissò i biglietti, sbatté gli occhi una volta, e si alzò. «Da che
parte?» disse, dirigendosi alla porta.
«Non ha importanza», gli disse Rob, mentre buttava un biglietto sul
banco per pagare quello che Dumont aveva bevuto, poi si alzò e lo seguì.
Fuori, senza perdere tempo, si sedette sul nero e guardò Dumont che si
affrettava a correre via, e poi, essendosi ricordato qualcosa di vitale, si fer-
mava, e tornava indietro. Si allungò verso la staffa, ma senza toccarla.
«Perché io?» chiese.
Rob gli fece una smorfia. «Clay è alla riunione.»
«Figlio di puttana.»
«Forse. Forse no.»
Dumont annuì e se ne andò, senza guardarsi indietro, svoltando oltre
l'angolo dove l'albero che reggeva il poster si ergeva da solo tra i rifiuti
delle sue foglie cadute.
Il nero agitò la testa e sbuffò.
Cavalcarono.
Le luci si abbassavano, scomparendo, una o due esplodendo in un breve
bagliore.
Zoccoli, zoccoli metallici, che echeggiavano sulla pietra e sul legno
molto dopo essersi lasciati la città alle spalle.
Vide la luce in distanza, un bianco brillante, reso ancora più brillante dal
fatto che la notte era così buia.
Continuarono a cavalcare.
Oltrepassarono un buco in un improvvisato recinto di corda, oltre il
quale c'erano parcheggiate parecchie decine di automobili e una manciata
di camioncini intorno a un grande tendone da circo. Su alcuni pali vicino
all'entrata ardevano delle torce, abbastanza in alto anche per un uomo alto.
Sui cavi dei tiranti c'erano delle decorazioni. Dei pennoni si piegavano
sulla cima.
Poteva udire una voce provenire dall'interno, ma non riusciva a capire le
parole. Non che avesse importanza. Sapeva quello che dicevano: il peccato
e la corruzione, la salvezza e la dannazione, l'ascesa e la caduta in un
abisso nero avvolto dal fuoco.
Entrò cavalcando, tenendo il nero a freno, quando il centinaio di persone
o più che si trovavano sulle sedie da campeggio si resero conto che lui era
là.
Davanti, su di un palco alto, il piccolo predicatore nel suo vestito nero,
che teneva in alto la sua Bibbia, si bloccò nel bel mezzo di un verso, con la
bocca aperta, gli occhi spalancati, un dito che puntava al soffitto di stoffa.
«Tu!» gridò il predicatore. «Come osi!»
Rob lo ignorò.
Spinse il nero in avanti, nel corridoio centrale, guardando le facce alla
ricerca di quella di cui aveva bisogno.
«Tu! Osi! Nella casa del Signore!»
Amy sedeva nel corridoio.
Lui la vide, sorrise, continuò a cavalcare.
«Vattene, Satana!» ordinò il predicatore.
Quando il nero raggiunse il palco, sbuffò, tese le orecchie all'indietro,
pestò gli zoccoli poi si girò.
Nessuno parlò, nessuno gridò, nessuno pregò, nessuno si mosse.
Rob risalì il corridoio, lentamente, senza un suono, finché si trovò di
nuovo davanti Amy.
Si era mezzo alzata, lasciandovisi ricadere quando lui la raggiunse, si
sporse in avanti e le disse: «Di' a Jean e Pete che i bufali stanno
arrivando.»
Si raddrizzò prima che lei potesse parlare, scrutò le facce finché lo vide,
compiaciuto ed elegante in un nuovo abito gessato, col cappello in
grembo, guardandosi intorno come se tutti avessero dovuto conoscere la
sua faccia.
«Satana!» gridò il predicatore, il primo suono che si udì per qualche
tempo.
Poi il vento iniziò a gonfiare e a far ondeggiare le pareti della tenda, e i
pennoni e le decorazioni si spezzarono, con rumore di spari e di tuono.
Rob estrasse la pistola e mirò a Clark Mitchell.
«Con me», disse semplicemente.
Mitchell rise e si strinse nelle spalle.
Armò il cane.
«Con me.»
Mitchell si lisciò la cravatta, incerto e dubbioso.
Una donna piagnucolò, un uomo brontolò, il vento faceva gonfiare le pa-
reti e iniziò a ruggire nel deserto.
«Non lo dirò un'altra volta», gli disse Rob.
Mitchell lo sfidò solo per un secondo prima di alzarsi e di farsi strada
con tono di scusa lungo il corridoio. «Mi dispiace, reverendo», disse
mentre si rimetteva il cappello. «Non la farai franca», disse a Rob.
Il nero avanzava.
Mitchell indietreggiava.
«Satana, vattene da questa gente!» gridava il predicatore.
Rob si guardò alle spalle, sollevò la testa, e il predicatore si
immobilizzò.
Tu lo sai, pensava Rob, come se il predicatore lo avesse potuto udire, tu
lo sai, ma non parlerai.
Allora Mitchell crollò, e implorò aiuto mentre scappava dalla tenda.
Rob lo seguì senza fretta, fermandosi, una volta all'esterno, per
permettere al vento di dirgli dov'era andato l'uomo. Verso la strada,
sembrava, e il nero iniziò a trottare, mentre la polvere che si sollevava
faceva scintille, e dalle narici e dalla pelle gli usciva il vapore.
I pennacchi si ruppero, le decorazioni si agitavano, una fune si spezzò e
il tetto iniziò a cedere.
Una volta in strada, Rob fece girare il nero verso est e lo lasciò correre.
Non vedeva Mitchell, ma non aveva importanza. Quell'uomo non aveva
immaginazione, avrebbe cercato rifugio nella notte, poi avrebbe cercato di
ritornare quando fosse stato sicuro che Rob lo aveva superato.
Il nero correva. Fuoco e fumo.
E rallentò quando Mitchell iniziò a vedersi, dritto davanti a loro, senza
cappello, con la giacca che ondeggiava, mentre si guardava alle spalle e
cercava di correre più velocemente, essendosi accorto che Rob veniva
verso di lui.
La caccia non durò a lungo. Rob gli si accostò, si abbassò, e lo colpì alla
spalla. Mitchell inciampò sul selciato e sbandò, si rotolò e si mise carponi
in ginocchio, con le mani unite implorando, col sangue tra le dita, mentre
Rob si girava e aspettava.
La pistola ancora armata.
Il sangue copriva il lato destro della faccia di Mitchell, mentre scendeva.
Sassolini e ghiaia gli si erano attaccati alla guancia e al sopracciglio, gli
era venuta via una manciata di capelli mettendo in mostra il cuoio
capelluto.
«Non puoi fare questo», disse Mitchell, tremando così tanto da
barcollare. «Tu non sai chi sono io.»
Rob non disse niente.
«Ci sarà la tua faccia su ogni giornale, su ogni schermo. Non puoi fare
questo!»
Il nero abbassò la testa e la scosse.
«Sapranno chi sei, stupido figlio di puttana!» Singhiozzò e si coprì la
faccia.
Vento invernale.
«No», disse Rob. «Non andrà così.»
Mitchell abbassò le mani, aveva sangue anche sulle labbra e sui denti.
Non capiva: con una mano tesa implorava: «Cosa diavolo ti ho fatto?»
L'uomo sul nero guardava indietro in direzione della tenda, verso le
fiamme che iniziavano a lambirne i lati, cancellando qualche stella, mentre
delle figure minuscole si allontanavano dal fuoco.
«Hai fatto vedere loro la Bomba», disse, girando di nuovo lentamente la
testa. Occhi foschi.
Mitchell deglutì, ebbe un conato di vomito, sputò. «E allora?»
L'uomo sul nero piegò la testa verso la tenda. «Il predicatore dice loro
che si tratta dell'Armageddon.»
«Gesù Cristo. Cosa diavolo significa?»
«Si sbaglia.»
Mitchell cercò di alzarsi, ricadde in ginocchio sulle mani, e si lamentò.
«Pazzo», sussurrò. «Buon Dio, è pazzo!»
«Tu lo sei», gli disse l'uomo.
Tirò il grilletto.
Mitchell si tirò su, la schiena rigida, finché il vento non lo rifece cadere.
Rob aspettò finché un'altra folata fece rotolare il corpo nel fossato, e si
assicurò che Amy fosse sfuggita all'incendio.
Aspettò finché il nero non si stancò di stare fermo.
E allora ricominciò a cavalcare.
Una strada breve, stavolta.
E lo intristiva.
Solo un po'.
1950-1959
Le porte aperte
di Whitley Strieber
La meteora tracciò nel cielo una scia di luce, seguita da un ululato silen-
zioso, che lasciò una strana sensazione di vita. Il dottore, un dottore del
cielo, allontanò lo sguardo come se si fosse trattato di una cosa appestata.
Lui inspirò una boccata d'aria suburbana, sentì che gli gonfiava il petto,
sentì anche una leggera pressione sotto il torace che era quella della morte.
Della morte, aliena come la meteora, che arrivava da un posto scono-
sciuto, per andarsene in un posto sconosciuto.
Della morte e delle cose viste. Cosa ne poteva dire?
Cosa poteva dire?
«Ci sono quantità indivisibili di significato, risoluzioni, l'inflessibilità
del peccato, la condizione di inattività dell'anima. Della mia anima.»
Le luci di Princeton brillavano intermittenti lungo le colline, frammenti
di memoria che portavano alla mente i giorni incoscienti e pieni di energia
in cui aveva insegnato là. Inspirò un'altra boccata d'aria, e la fatica che fece
lo colpì in tutto il suo orrore.
«Come fai a resistere, von Neumann», disse al vento. «Von Nooman»,
disse di nuovo, pronunciandolo all'americana. «Com'è possibile che quello
sia tu?»
Il fisico, il commissario, l'ebreo ungherese nell'abito a tre pezzi, l'uomo
più acuto del mondo. Il cattolico.
Si chiedeva se il neoplasma fosse pallido o semitrasparente, o dello
stesso colore del fegato in cui viveva. Poteva sentire un rigonfiamento che
spingeva, poteva sentirne la pressione, come se la mano gentile di un
bambino avesse premuto sulla sua pancia dall'interno, o come una
gravidanza. Si toccò la tempia. «Tipicamente, questo neoplasma estende la
sua metastasi al cervello, spesso collocandosi nella sede della coscienza.»
Mentre se la sfregava, respirava rumorosamente, e sentiva i capelli
muoversi sotto le dita. Un bambino avrebbe trasformato in grida quei
rumori e si sarebbe strappato i capelli dalle radici.
Sospirò alla nuova folata d'aria. Come disprezzava la notte. Dormire era
un tormento, lo guardavano dormire, guardavano dal di dentro, tenendogli
gli occhi addosso, mentre le loro lunghe labbra ridevano con un desiderio
lascivo.
La parte più terribile, comunque, non era quella. La parte più terribile
era il risveglio. Prima, il lento ritorno della coscienza, poi l'improvviso
peso dei ricordi che tornano, poi con un urlo soffocato e l'irrigidimento di
ogni muscolo del suo corpo: essi sono reali.
Tre di loro correvano sul marciapiede, fuggivano. Stanotte ce n'erano
tre. Il loro odore che si posava sull'aria del giardino: come carta che brucia
lentamente.
«Esiste la possibilità che la nostra interpretazione iniziale non fosse
corretta, nemmeno come orientamento. Esiste la possibilità che...»
Dicevano: la sua mente si fa più debole. Dicevano: è un sintomo. Ma
loro non sapevano quello che lui aveva visto.
I suoi colleghi accettarono con delicata condiscendenza il suo ritorno
alla Chiesa. Non riusciva a spiegarsi con loro, perché, per farlo, avrebbe
dovuto rivelare il suo segreto, e se lo avesse rivelato, sarebbe stato come
togliere il dito dalla diga.
Quel dito era la salvezza del mondo: il cancello veniva mantenuto
chiuso dall'ignoranza.
Altrimenti avrebbero cavalcato verso la realtà sull'onda della conoscenza
e questa era la ragione per cui stava morendo. La natura si era accorta della
sua conoscenza e stava rifiutando il disordine implicito in essa,
uccidendolo con il cancro.
Lettera non ultimata al presidente Eisenhower, 1956, Ultra Top Secret:
«Qualcosa nel modo diverso in cui essi vedono la realtà significa che, nel
nostro mondo, alla lettera, non sono reali e devono usare il fatto che noi
crediamo in essi come un ponte. Per questa ragione, il diniego ufficiale
deve essere assoluto e aggressivo. Il pubblico non deve sapere che sono
qua».
Se la gente avesse saputo quello che c'era in fondo al giardino... se
avessero saputo quello che li aspettava al momento della morte, cosa
vedevano i passeggeri, ormai destinati alla fine, danzare nei corridoi degli
aerei che si sfracellavano, cosa entrava in cabina con loro
«... emergenza del traffico aereo...»
prima che cadessero come farfalle spezzate. E poi cosa, poi cosa?
Emergenza...
«Il suo fegato non funziona, dottor von Neumann. Possiamo rimetter-
glielo in funzione, ma lei non si può aspettare una cura definitiva.»
Non vedrà il 1957, 1958, 1959, 1960, sessantuno sessantadue sessantatré
sessantaquattrocinquesei...
Alzò lo sguardo al cielo. «Dio, prendimi. Cristo, prendimi. Vergine,
prendi quest'uomo che ne ha uccisi a milioni.»
«John, il tuo lavoro non è un peccato. Il tuo lavoro è teso a ottenere un
benessere più grande per il mondo. In quel senso è un'estensione del corpo
di Cristo.»
«Ho fatto bruciare a morte quindicimila bambini, padre, e ne ho mutilati
altri trentaseimila.»
«Devi avere fede nel potere del Signore. Devi credere nel suo perdono.
Cristo vuole i tuoi peccati. Portali a lui.»
«Nessuno vuole i miei peccati. Loro vogliono i miei peccati.»
«Vogliono farti sentire così in colpa da farti aprire l'anima alla grazia. Di
questo si nutrono.»
«Essi si nutrono di tutti noi.»
Una faccia scruta nella sua da mezzo metro di distanza e lui vede in 1
questi occhi universali la distruzione dell'uomo. Se i malvagi sono
veramente malvagi, allora tutte le anime saranno consegnate nelle loro
mani, anche le anime degli eletti e dei buoni.
«Non ci credo!»
«Padre, è vero!»
«Dio non può lasciare andare i buoni. I salvati sono salvati.»
«Anche loro! Persino il paradiso è invaso. Dio sta perdendo, non vede?
Ciò che ha creato lo sta distruggendo, e quello è il segreto dei secoli.»
«Prega con me, John. Prega semplicemente. Ave Maria, piena di grazia,
il Signore è con Te...»
«Lei non è niente, è una semplice donna... una piccola ebrea che si è
persa in un passato lontano.»
«È colei che ha contribuito a creare l'essenza. La stella del mare. La
regina di maggio. Lei ha posato i piedi sulla testa del serpente.»
«Parole! Parole sciocche!»
«Le parole sono le fondamenta del mondo. Lui ha fatto tutto con le
parole.»
«La formazione originaria della materia ha raggiunto la massa critica ed
è esplosa.»
«Il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio. Parliamo della stessa cosa,
vedi?»
«Cosa ti succede quando muori, padre?»
«Qualsiasi cosa Dio desideri.»
«Se dà alla tua anima...» S'interruppe, poi distolse lo sguardo, cercando
di nascondere il suo dolore all'arguzia del vecchio prete con la faccia da
bambino. Ma il verbo lo seguì poiché il verbo non era Dio, non più.
Poi in quegli occhi vede il viso di suo padre... e gli occhi svaniscono.
«Perdonami, Signore, perdona i miei folli peccati.»
Anche il prete svanisce, la conversazione di tre mesi prima svanisce,
mentre le dita scorrono lungo le pagine della Bibbia. Adesso è troppo buio
per leggere, con questi occhi che ingannano. «Dio, lasciami tenere il dito
nella diga che la mia mente ha rotto. Lascia che l'inondazione non mi
faccia annegare. Dio, il tumore è così terribilmente difficile da sop-
portare.»
Sta di nuovo male. Il suo pasto è stato troppo abbondante. Allora è la
bile, la bile diventa un veleno che rafforza i suoi sogni di morte... anche i
sogni dei suoi giorni in Ungheria, delle canzoni dell'infanzia, dei sigari e
dei baffi di suo padre, della gioia di correre tra le foglie in autunno. La bile
gli porta la poesia, la bile lo condanna ai suoi ricordi.
Dopo la diagnosi - quella notte tardi - si era svegliato e l'aveva vomitata,
pura e amara. Si era coricato sulle piastrelle del bagno, steso su un fianco
nel suo pigiama grigio, ascoltando l'acqua che finiva di gorgogliare nella
tazza, e poi lo sfarfallio dei lepidotteri contro la lampada del soffitto.
L'uomo più acuto del mondo in quel momento era diventato solo un altro
corpo...
che aveva visto i loro strani abiti blu, le uniformi scintillanti scivolare tra
realtà e incubo...
che aveva sentito il tocco lacerante dei loro artigli e la morbidezza della
loro pelle di cervo.
Seppelliti in una cantina in quell'aeroporto, seppelliti sotto la pista di
atterraggio, sotto l'area di stivaggio della benzina, sotto le unità refrige-
ranti, sotto i magazzini delle armi, dove gli scarafaggi giocavano tra le
incrostazioni delle tubature, essi giacevano in un freddo che mozza il
respiro e in un silenzio dominato dal ronzio dei compressori, mentre le
loro labbra morte racchiudevano quella che sembrava una specie di estasi.
Erano arrivati a causa dell'esplosione della bomba, in qualche modo
attratti dalla sua furia - o si trattava del fatto che un'esplosione atomica è
così violenta che avvelena anche il mondo dell'anima?
Per un certo tempo dopo la diagnosi, aveva lavorato furiosamente. Per
alcune settimane. Poi gli avevano detto di smettere di fumare, e quello lo
aveva fatto sentire in qualche modo nudo, portandolo a vedere in modo più
diretto quello che avrebbe desiderato di non essere in grado di vedere.
Passò del tempo con padre Dubois, seguendo il suo fumare incessante,
ritmico, ascoltando le sue spiegazioni, i suoi raggiri, meravigliandosi ai
suoi racconti di Chiesa, così ricchi, poetici e spirituali.
Si era avvicinato a coloro che avrebbero dovuto essere morti, guidato da
quel brillante soldato di nome Arthur... cosa? Ancora il cervello, qual era il
nome dell'uomo? Arthur... un tenente colonnello nella sua nuova uniforme
dell'aviazione... Exner? E il giovane aveva detto: «Si stanno
decomponendo dottor von Neumann, ma non sembrano morti».
Come poteva un altro mondo essere così strano? Come poteva tutto
quello che lo legava alla realtà essere così diverso, e tuttavia così coerente?
Essi non vedevano niente alla nostra maniera, tuttavia tutto quello che
facevano aveva un senso.
Morto, fuori dal suo corpo, non sarebbe stato al sicuro da loro.
Dottor von Neumann, stai morendo. Dottore del cielo, dottore di questo
mondo minuscolo, ladro dei segreti di Dio, folle Prometeo: stai morendo.
E guarda, c'è qualcun altro là fuori tra le ombre, proprio sotto quell'albero,
tranquillo e accovacciato come un fungo grigio.
La teoria della terra cava. Perry che si avvicinava al limitare nord: «C'è
una vista fantastica, sono sul limitare di un altro mondo, di una grande
fenditura che si allarga dove ci dovrebbe essere il Polo...»
Dottore?
«Avevo la sensazione che fosse qui a collezionare anime», aveva detto
l'ometto. L'ometto che era venuto alla base aerea, un essere insignificante
arrivato da qualche località vicino a Roswell, New Mexico, con quel
terribile segreto in mente. Le vene gli pulsavano nella testa. Aveva grandi
mani che teneva intrecciate, macchie di sudore sotto le ascelle, e stringeva
una sigaretta arrotolata a mano, che lui chiamava una pillola, e il dottor
von Neumann aveva detto: «Non dovrà mai ripetere quésto». E aveva
pensato: «Una persona del pubblico sa la verità». E poi aveva pensato: «Se
parla dovrà morire». Ma lui non aveva parlato.
Lo aveva fatto suo figlio. Il ragazzo aveva parlato in Marina, e nella vita
civile, aveva raccontato storie selvagge sui demoni del deserto.
Scomparso, era scomparso: uno dei tanti. Era morto guardando il fucile in
faccia, morto come se stesse esaminandone la pelle di metallo alla ricerca
di imperfezioni.
Essi avevano lasciato la sua macchina sul ciglio della strada.
«Dottore, siamo qui per raccogliere la sua" anima. La vostra, scusateci.
La vostra anima. Il possessivo arcaico suona più definitivo, non crede?»
È possibile calcolare la velocità con cui un tumore aumenta, e in questo
modo stabilire il ritmo con cui comprime, ostruisce e impedisce. Mentre la
bile si accresce, il sangue diventa detrito di fogna, gli occhi prendono un
colorito giallastro e la pelle diventa olivastra. E il sangue diventa marrone,
marrone come i rifiuti congelati che pendevano dalla coda dell'aereo ad
Anchorage, quando erano andati a vedere... come si chiama? La fonte di
tutti i sussurri, la cosa che veniva dal ghiaccio. Ricordava il senso di
commemorazione sull'aereo, lo stravagante dipartimento della Guerra, no,
è cambiato, il dipartimento della Difesa, cibo, tutti i lussi di quel
meraviglioso Super Connie con la livrea dell'aviazione degli Stati Uniti.
Avevano pensato che avrebbero svelato il segreto dei secoli.
Poi avevano visto la rigida stalattite marrone che pendeva dal fondo
dell'aereo, i loro rifiuti che si erano ghiacciati diventando solidi non
appena erano usciti dalla toilette. Ah, ah, ah, il colonnello Tizio e il co-
lonnello Caio avevano riso, anche il generale Walter, diavolo, come si
chiama, la tua memoria se ne sta andando, aveva riso. Poi avevano attra-
versato la pista per dirigersi alle macchine, altri sigari, altro alcol, e tu
pensi, tu sei il commissario di tutto questo, commissario von Neumann con
il tuo bel vestito, perché sei capace di risolvere complicate operazioni con
la mente...
Puoi misurare l'ampiezza del tempo, il grido incandescente della morte
dell'atomo, la probabilità che Sant'Agostino avesse davvero capito la
natura del mondo.
Tu, il padrone, non sapevi che vedere la cosa significava entrare nel suo
corpo, come aveva fatto Giona, e giacere nel suo esofago pulsante per il
resto dei tuoi giorni, sapendo che essa ti possedeva e che ti avrebbe
posseduto per sempre.
L'avevano portata là e seppellita nel ghiaccio perché anche per loro era
troppo terribile da sopportare, troppo potente perché i demoni la
controllassero? C'era davvero un maligno oltre a Satana, più corrosivo, più
invasivo?
Il prete una volta aveva detto una cosa curiosa: «Dio si adegua al buio. È
l'amore di Dio che produce il fuoco di Satana».
La Città di Dio, il Giardino di Dio: non un posto fisico, in realtà, ma un
luogo fuori della natura del tempo. La terra, lo vedeva ora, non era per
niente un globo: era l'energia del tempo a renderla rotonda e a collocarla
sulla sua rotta perfetta in cielo. In realtà il mondo era un immenso arazzo,
che veniva continuamente tessuto dagli indaffarati vermi della vita. Sì, un
arazzo in un palazzo della mente di Dio: era quello che si intendeva per «si
adegua al buio». L'uomo più acuto del mondo adesso sapeva che il buio e
la luce erano uno il fondamento dell'altro. Dio e Satana erano sposati.
Ed essi guardano la parte della tappezzeria che tu hai tessuto, e non sono
soddisfatti. Tu hai introdotto l'orribile filo marrone della tua arroganza e
della tua ingordigia. Tu hai detto sì, lascia che pubblichi questo, lascia che
calcoli quello, lasciami decodificare il segreto del buio e della luce, che tu
sei uno, che sei sempre stato uno, lasciami quindi essere la mente superiore
che dirige la rivelazione.
Così anch'io ho rubato, come Prometeo, come Eva, ho rubato il tuo
segreto, che dietro la divinità di Dio e la malvagità delle ombre ci sei tu...
Anche i colonnelli lo hanno visto, nell'elegante corpo della cosa, nei
ghiacci del nord. Ed erano ammutoliti per quello che essa rifletteva, non le
loro belle facce, ma le loro vecchie anime grottesche. Avevano visto tutti
che erano in qualche modo parte della cosa, che l'avevano aumentata e
fatta crescere fino a che aveva modellato dei macchinari forgiandoli dai
dannati e li aveva fatti volare nei cieli del mondo. Questo alla faccia dei
colonnelli e delle loro macchine e dei loro sigari. Invece di essere uccisi
erano stati chiusi in un manicomio senza finestre, accuditi da infermiere
sorde. Un compromesso tra il presidente e l'uomo più acuto del mondo.
«Gli spari, generale», aveva detto quando avevano iniziato a scivolare
nei cieli: detto con acida ironia. Ma la povera stupida creatura aveva
replicato: «Dannatamente giusto!»
Ed eccoli gli aerei... che volano alti, così terribilmente drammatici, che
attraversano i cieli del 1951... pilotati da giovani con le guance luminose,
che leggono romanzi in formato tascabile e masticano gomma... giovani
che pensano ai Brooklyn Dodgers e ai St. Louis Browns... che portano
nelle loro pance di metallo la fine del mondo...
Noi applaudiamo. Sferragliano, sferragliano, di qui e di là sferragliano.
Alla radio nella sala di raduno suonava Blue Moon: Blue Moon, era di
Dorothy O'Shea? L'irlandese di Manhattan.
Cara, il cibo delizioso di Manhattan, Manhatta, la parola indiana... tutto
andato. Con la celebrazione dei suoi vari ...ati, professorato, com-
missariato... nave affondata, gli aerei che venivano portati fuori, le bombe
che venivano fatte sfilare, i reattori atomici che venivano scoperti, adesso
si perdevano in un'unica immagine offuscata di uniformi e nel forte odore
di sidol che emanava da questa collezione di ufficiali.
Si lasciò cadere su una sedia da giardino in ferro, resa umida dalla
rugiada notturna. Il suo lungo respiro successivo gli portò il profumo delle
foglie... il Progetto Manhattan, dove avevamo scelto le foglie della morte,
decodificando, decodificando, calcolando, trovando l'equilibrio della
giustizia atomica... mentre essi affamati guardavano dagli alti cieli...
sperando che riuscissimo nel nostro intento.
Desiderava così tanto accendere un sigaro, che fece il gesto di toccarsi i
fianchi alla ricerca del coltellino e dell'accendino, poi si mise la mano nel
taschino alla ricerca dei cubani dolci che avrebbero dovuto trovarsi là.
Concentrata al massimo nel suo tumore, in questa calda notte estiva, ci
deve essere tutta la storia del pianeta. In ogni tumore. E quelle meteore
erano solo pietra e ferro provenienti da un pianeta lontano o erano davvero
dei cancri volanti, che cercavano per tutto il cosmo una vittima da
infestare?
Non ne era sceso uno, librandosi nel giardino sul retro, per poi scivolare
sfrigolando tra l'erba?
No, di certo no.
Non era volato tranquillamente dentro dalla finestra?
No.
E aveva proceduto lungo il corridoio, sputando quando toccava il muro?
No.
Lasciando un fumo che puzzava di pelle umana bruciacchiata?
No.
Non era entrato in camera da letto?
No.
Sempre più vicino
NO.
Sul sottile strato di pelle tremolante...
NO!
E poi... dentro. La siringa veniva inserita: ecco, John, non è doloroso, è
solo sgradevole... lei con il suo lino bianco strusciante nel pomeriggio
caldo, nel profondo pozzo di marmo della toilette, in ginocchio, con le
natiche nude esposte alle sue attenzioni da contadina... Magda profumava
così, aveva il sapore profondo, acuto e dolce di tutta la carne.
Magda, un'ebrea... soffocata, emerge dalla morte e dai ricordi di casa.
Che lo aveva curato, lavato, spazzolato, si era occupata di lui, lo aveva
tenuto sul suo enorme ventre e gli aveva fatto capire che ogni donna, ebrea
o no, porta dentro di sé la presenza luminosa della Vergine. «Dio e Dea»,
aveva detto Magda. «Lei è sua madre e sua moglie.» Magda, un'ebrea
cattolica pagana. Il padre di lui aveva ridacchiato e aveva detto che
avrebbe dovuto imparare il catechismo da un prete.
Magda sotto la pioggia, con le sue grandi mani che davano conforto, si
appoggiava allo stipite della porta, inspirava l'aria profumata dei meli in
fiore, mentre essi salivano lentamente schiamazzando sulla spina dorsale
d'Europa...
Come è difficile trovare i propri peccati in questa vita. Magda non era
una mia responsabilità; era una serva a pagamento, lo erano tutti.
Dio, ce ne siamo andati: prima i comunisti, poi la Guardia di Ferro che
calpestava il raffinato impero austro-ungarico della mia infanzia.
Dio, ci siamo lasciati i nostri servitori alle spalle.
Dio, penso di aver amato questa Magda che mi ha accudito, che mi ha
cresciuto, portato in spalla, che ha dormito su un letto di cenci a fianco
della mia culla. Ricordo... o è il cancro a ricordare... il sapore preciso del
suo latte.
Potete crederci che adesso l'Ungheria fa parte dell'impero di Stalin? È
stato bravo a prendersi i magiari, a rubarli a se stessi. Oh, quel mostro dai
grandi baffi che si riempiva la pipa...
Con i suoi aerei. Tu, Giuseppe. Harry lo chiamava lo zio Joe. Ike no.
Non si fa illusioni su di lui. «Quei russi erano come animali.» Nessuna
illusione: «Gesù Cristo, John, non riesci a farmi una bomba più grande? E
più in fretta, per amor del cielo, farla più in fretta? Costruisci le attrez-
zature, chi se ne importa se perdono? Sei un patriota o no? Costruisci, per
amor di Dio!»
Costruire strutture imperfette, signore, dove fare alchimie che avvele-
neranno i secoli a venire, signore?
«Autorizzo la costruzione di grossi edifici grigi pieni di ventilatori e
orifizi e condotti, e al diavolo i bambini di quel parco!»
Il plutonio è così complesso che è come una specie vivente, con bisogni
e diritti e desideri, persino morali ed etici, e una coscienza che si basa,
come la nostra, solo sulla propria sopravvivenza.
Rocky Flats, oh, Dio, è così imperfetto. Anche Oak Ridge, che ironia
questo nome bucolico, è imperfetto. Orifizi che si aprono sull'ampio
pomeriggio blu, un cigolio metallico, e i ventilatori che succhiano, suc-
chiano, succhiano e un millesimo di grammo che vola in quel mondo da
cartolina che sta fuori, pieno di lunghe macchine blu e pallide case, che
risuona delle canzoni della Principessaprimaveraestateautunnoinverno e
della vecchia fattoria, e gli irrigatori che sputano e il sole che risplende sui
campi di pomodori... a Oak Ridge, dove la tarda notte ha portato il ritmo
furtivo della fornicazione, e le donne cariche di bambini passavano con i
loro cesti della spesa riempiendoli di cereali e di bistecche al sangue e di
litri di latte e succhi di frutta e corn flakes e biscotti, e su tutti loro il
marchio della bestia, che aumenta e diminuisce con il rossore delle guance
e appare nello sguardo limpido di occhi molto felici.
Terra di orgoglio e libertà.
Ike: «Siamo qui per proteggere quei bambini, dottore. Mi dia delle
bombe più grosse! Adesso! Ieri!»
E come sono carine le nuove bombe all'idrogeno con la loro linea
affusolata e con le loro pinne argentee, che navigano attraverso il silenzio
blu del Pacifico, ammiccando come foglie d'argento nel ventoso cielo
tropicale. E sono anche carini i ragazzi che guardano con quei loro occhi
chiari, da americani, mentre fanno bolle con la gomma e nella loro testa
navigano i risultati del baseball considerati come perfetti numeri divini.
Si tratta della morte della luce. Le luci si spengono in tutta Europa...
adesso le ricordo, le luci nelle sale da ballo di Pest, di Vienna, di Berlino,
dei caffè concerto spumeggiami e le arti di noi ebrei. Giudei. Judenratt.
Osweicim. Il desiderio di neve fresca che devono avere avuto i miei servi e
i miei amici. Da ebreo a cattolico a von. Von Neumann. Padre nostro che
sei... Cristo, ok, rinunciamo, lui è il messia.
«Padre, perdonami.»
«Dio perdona.»
E più indietro, durante la prima guerra, come avevamo sofferto per la
mancanza del caffè e dei vini dolci e freddi della campagna del Reno, per
lo champagne francese e per le nobili paste del nostro impero... e dopo, i
pettegolezzi fatali dei fucili.
Buda nel 1918: una città resa vecchia da tre anni di fanfare, all'im-
provviso nebbiosa per il carbone grezzo e i pezzi di legno che bruciano e
rendono grigia e triste anche la neve che scende. E nella tristezza, una
sottile specie di nobiltà; e in alto, in alto nel cielo, ho visto aerei argentei
come fantasmi di un futuro... che è arrivato in modo estremamente velo-
ce... muoversi silenziosi e improbabili sotto la vasta cupola nuvolosa.
E adesso, America: «Mi considero l'uomo più fortunato del mondo...»
Lou Amyotrophic Lateral Gehrig, la voce che ha inaugurato il futuro, che
echeggia come in una cattedrale fatta di parchi vuoti, mentre i nervi emet-
tono il ronzio della danza sclerotizzante e fatale di un'intera nazione.
Perché la sclerosi era stata liberata, era fuggita con me, era venuta con
me, nel mio viaggio mistico nella natura più profonda del paese, arrivando
come me in un aeroplano d'argento proveniente dal futuro, portando (con
me) fino alle colline di Hollywood con le sue case dall'architettura a sbalzi,
i suoi fruscianti vestiti blu e le sue lunghe macchine, le crudeltà
dell'Europa che rapidamente, senza far rumore ricoprirono tutto di una
tristezza senza tempo.
Pensava spesso a Lou Gehrig, che era morto per la più terribile di tutte le
morti. L'uomo più atletico del mondo era stato ridotto un micron dopo
l'altro alla più assoluta paralisi mortale fino a giacere, immobile e silen-
zioso, con gli occhi infossati e chiusi a sognare la più alta, la più lontana,
la più sorprendente corsa alla casa base. È morto come morirai tu, mia
terra adottiva. Sorridendo, apro le mani. In esse, vedo il bagliore pene-
trante del plutonio. «Ho la tua medicina.»
Naturalmente l'uomo più acuto del mondo era anche il più pericoloso.
Sedeva con i piedi nell'erba, guardando le giunchiglie sparse nel giardino,
dolci ombre silenziose nel buio. Era seduto anche in quell'aeroplano
d'argento del suo primo approccio e pensava: Oh, Adolf con la tua colonia
Guerlain e coi tuoi sigari clandestini, con gli occhiali cerchiati d'oro come
quelli di Harry, ma più segreti, hai scortato i nostri figli nei sotterranei
incrostati delle tue sale, e noi ebrei, mettendo insieme questo e quel
piccolo ingrediente, abbiamo risposto con la bomba.
Nel senso più terribile, lavoriamo per Dio. Lavoriamo per Dio, noi che
abbiamo menti troppo eleganti per sopportare Dio, lavoriamo per una
ragazza di dodici anni con i capelli color del grano e labbra come le rose di
Sharon, che negli anni di mezzo della tua vita, caro Adolf, è rimasta nuda
in piedi, coi capelli color del grano brulicanti dei tre stadi di vita del
pidocchio, ad ascoltare nel buio il rumore dei cristalli che cadevano e poi
le grida acute di altri ottocento bambini con i capelli color del grano e le
labbra di Sharon, a provare il gas, pensando terrorizzata, nell'ultima
umiliante confusione, che l'argento della fibbia della cintura Gott mit uns
dell'uomo gentile che l'aveva spinta dentro fosse un talismano di
liberazione. E quindi tese le mani in alto all'occhiolino che mille e seicento
altre mani stavano grattando e pensò di aver visto brillare dal suo
Hakenkreuz lucidato un'altra luce...
La luce che avevo nella mente luce d'acciaio
luce dei peccati d'Europa e del giovane viaggio dell'America
luce blu ardente della valle di Sharon.
«John, prenderai freddo.»
Voce? Reale? No.
«Adesso puoi avere un po' di cognac.»
«Sì.»
Deferente, conscio che il soggiorno illuminato avrebbe buttato delle
ombre sulla sua pelle da notte delle streghe, cosciente che tutte le donne, le
cui mani presto avrebbero lavato il suo corpo morto, gli avrebbero lanciato
quelle occhiate terribilmente codarde, lui si muove obbediente verso la
porta. E continua anche l'altro viaggio che sta compiendo, portando le
ombre della vecchia Europa nel sole dell'America che rapidamente
diminuisce d'intensità.
Oh, America, non ti conoscevo allora, ma adesso siedo su di te, tra-
sportato dalla tua gioventù con ali d'argento nella mia missione di morte,
questo vecchio con un forte accento, pieno di cancro, con la figura
leggermente arrotondata e con i suoi abiti di sartoria, lui che può parlare
con Ike, come tu parli con Charlie di Charlotte, oh, America.
Strana creatura nata dalla morte dell'Europa, sono venuto a divorarti con
il mio veleno atomico.
Ike aspira una sigaretta, questo uomo fiero, intenso, questo Ike sorri-
dente. «Cosa ne direbbe di darmi due bombe al mese? Non può essere così
difficile. Due al mese.» Si gira nella sua sedia girevole di pelle, guarda
fuori verso le rose del prato della Casa Bianca. «Dannazione, penso che sia
ubriaca», dice con la convinzione biascicata di un prete. Una donna
quadrata, piccola, si muove sull'erba come se stesse cercando un orecchino
perduto.
«Signor presidente, non abbiamo le capacità per raddoppiare la pro-
duzione in un anno.»
La sedia si rigira rumorosamente. Gli occhi, adesso umidi, lo guardano
con la tristezza senza paura di una pantera all'angolo. «Stalin verrà qua, e
avrà bombe a migliaia.»
«Signore, questo è...»
«Non mi dica che è impossibile, Johnny! Non ci pensi nemmeno. Le
dico io cosa è possibile!»
«Avremo sessanta bombe per la metà del '54, signore. Sessanta.»
«Garantito? Sicuro?»
«Sono io l'amministratore delle bombe.»
Io, l'amministratore. Commissario della commissione per l'Energia
atomica. Perché? Ero un sognatore troppo bravo, così bravo che hanno
messo me, uno straniero, a capo di tutti i sognatori.
«Dottor von Neumann, sto chiedendo se la commissione per l'Energia
atomica garantisce al presidente sessanta bombe atomiche in grado di
funzionare per il 1° gennaio 1954. Qual è la sua risposta?»
«Vagando e sognando giù per Moonlight Bay...»
Il cancro dice: «Ehi, sognatore».
Il cancro dice: «Cosa ne diresti di un musical su di me?»
Il cancro dice: «Lo puoi chiamare... ehm... vediamo... forse lo puoi
chiamare, Signor Lento».
«Vieni dentro per il tuo cognac, John.»
Giù per Moonlight Bay.
Nessuno sa niente della sensualità della morte, che è una delle cose più
terribili del morire lentamente. Cadere da una montagna, svegliarsi in un
incendio, essere schiacciati da una cassaforte che cade: queste sono le
morti di coloro che sono benedetti.
Le morti lente appartengono a noi maledetti, in grado di vedere gli strani
demoni infantili che vedo io farsi più vicini... sempre più vicini... vederli, e
vedere a un milione di chilometri di distanza la gente normale che naviga
in un arcobaleno che io non posso toccare.
Il frutto dell'albero della conoscenza: mi ci sono ingrassato e li ho visti, e
ho visto la cosa che è peggio di Satana e meglio di Dio e così ho perso
completamente la mia collocazione. «Tutto quello che sono riuscito a fare,
padre, è stato ficcare il dito nella diga, proprio quel dito che aveva fatto il
buco!»
«Non ti seguo.»
No, sicuramente no, perché se così fosse, la farei uccidere per la sua
stessa sicurezza e per la salvezza del mondo. Più sai, America, più spro-
fondi.
«Padre, cosa può fare uno che ha un peccato che non si può confessare?»
«Per ricevere l'assoluzione, tutti i peccati devono essere confessati nel
confessionale. Non possiamo semplicemente dire: 'Ho peccato, assolvimi'.
I peccati devono essere raccontati.»
«E se il racconto in se stesso è un peccato?»
Il prete, alla fine, era stato zittito. Non aveva risposta, e John von
Neumann seppe in quel momento di essere perduto. Lui, tra tutti gli uomi-
ni che erano mai esistiti, aveva commesso un peccato imperdonabile.
Nella morte lenta c'è passione, c'è liberazione, c'è un'orribile sensualità.
Perché pensate che le pubbliche esecuzioni vengano fatte da puttane?
Perché il corpo morente arrivava al rapimento mentre il cappio si stringeva
o il gas sibilava? Perché sembrano rapiti, quelli che hanno dato la vita?
Essere tagliato fuori dall'atto del respirare - soffocato, avvelenato,
spappolato - rappresenta anche un piacere per il corpo e allora il vecchio
malato di cancro diventa sensuale in modo rivoltante. Dopo che lui ha
finito con la moglie, lei vaga nelle profondità della casa. Ben presto lui
sente dei rumori soffocati e si accorge che sta vomitando per l'effetto che
le fa.
Lui la ama comunque.
«Vieni, faremo un fuoco.»
«Arrivo.»
Allora, in un silenzio di tomba, dalla finestra nera della casa accanto,
una voce... è inglese, inglese... all'improvviso capire sembra importante...
cos'è Gillgillyosenfeffercastenellenbogen vicino al mare? Ah, una
canzone. Una canzone alla radio. Se ho mai avuto bisogno di te, ho
bisogno di te ora... Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora...
Si sposta lentamente più vicino alla casa, con indosso il suo vestito nero
con il panciotto, con la catena d'oro del padre che tintinna minac-
ciosamente. Se ho mai avuto bisogno di te... È un valzer, meine Liebchen?
Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora... Mi sento così
completamente solo, da non sapere cosa fare.
Diavolo di un Prometeo, tramandato nei secoli da uno scienziato al-
l'altro, come un virus della mente... il dispiacere prometeico... ladri del
fuoco... prendimi tra le braccia e non lasciarmi mai andar via... Oh Dio ci
sei... dormono tutti, quindi va bene...
Trova un'altra panca, qui lo raggiunge un profumo di fiori senza nome.
Le jacarande che fioriscono di notte, o no, non si può trattare di loro, le
jacarande sono californiane. Non ci sono jacarande a Princeton.
«Cosa sta fiorendo?»
«Parla, John. Stai dicendo che sei malato?»
«Che fiore sta fiorendo?»
«Non ci sono fiori adesso. Entra. Entra.»
Formalmente, come potrebbe fare il papa, distese la mano verso le voci
smorzate che provenivano dalla radio, America, salvami, ba ba ba boom.
America, mi hai travolto. Adesso è arrivato il momento, America, fa'
l'amore con il mio sarcoma.
Hai l'odore di un cancro al fegato, sì, e nel reparto oncologico, c'è un
odore combinato di esterasi marci, di decomposizione chimica unito al
puzzo della pelle biliosa.
Cosa si fa, dal momento che non è possibile fermare i tumori? Li si
devia. Si costruiscono piccole aperture temporanee per far scorrere la bile.
Un'apertura qua, un'apertura là. Ti aprono dappertutto.
Sente di nuovo i rumori in fondo, vicino al cancello. Si affretta, arriva a
un altro punto debole, e si prepara a chiuderlo.
«Oh, sta ritornando dal sentiero!»
Si è dato il compito di camminare avanti e indietro in questo piccolo
giardino europeo nel bel mezzo dell'America, di camminare, presidiando il
posto contro di essi nella notte.
«John, ti devo chiedere di entrare.»
«Ci sono dei bambini qua.»
«Entra.»
«Solo un altro momento.»
Essi opprimono questo ebreo che è arrivato dopo le lunghe ondate
migratone su una nave d'argento, proiettato nella grandezza dei cieli,
portando il fuoco nelle mani di questi Amerikaner felici... di queste per-
sone migliori... bum bum bum Mr. Sandman, portami i tuoi sogni... con le
loro gomme e i loro libri tascabili che non metteranno le persone in fila per
provare la bomba su di loro...
Come ha fatto Giuseppe... trentaseimila morti all'istante. Cosa si aspet-
tava, mettendogli addosso delle stupide divise e mandandoli fuori a fare
delle «manovre atomiche»?
Ma noi, i sostenitori di Prometeo... Noi non avevamo bisogno di
manovre, noi avevamo città intere su cui provare le bombe. Terra spoglia,
più bruciata di quanto non avrebbe mai dovuto essere.
Le anime di Hiroshima e Nagasaki: nei suoi sogni peggiori se ne sono
andate persino le anime.
«Salve, dottor von Neumann.»
«Buona sera.»
Si sta dondolando sul cancello, con le labbra pallide di Sharon che
ardono di ardore notturno. «C'era lei alla radio.» Dice raadio.. aahdio.
«Ah.»
«Lei è l'uomo più acuto del mondo.»
«Ah, ah! Allora non hanno parlato a Herr Doktor Einstein, non credo.»
Lei allunga le mani, piega le dita, ordinandogli di avvicinarsi. E lui va
con trepidazione - conosco un posto buio e isolato - sì, a causa della
terribile debolezza del corpo e per il terribile abbraccio in cui lo avvolge la
morte tentatrice, e sente immediatamente un fuoco elettrico bruciargli
dentro, che è il bisogno del corpo di lasciarsi dietro il suo seme, che sulla
terra è la cosa più vicina all'amore di Dio - ricco, umido, odoroso, sen-
suale, che lecca, succhia, sfrega, grida l'amore del caro vecchio Dio al
centro protuberante, scuro e imploso, di ogni cosa...
«Perché non indossi semplicemente una camicia?»
«Sono un gentiluomo.»
«Oh.»
Lui sa che lei si sta facendo domande sul suo corpo, e come reagirebbe
se lo vedesse? Naturalmente farebbe emergere la sua Magda, non la sua
Lorelei. Arriverebbe con un sorriso, con le braccia lisce incipriate dal
crepuscolo, gli occhi resi più scuri dall'infinito, dicendo: «Vuoi un pezzo
di gomma?»
Oh materna Magda, ho tanta paura. L'avevi anche tu mentre ti gasavano,
paura? L'avevi quando le luci si sono spente con un rumore sordo,
elettrico, e l'avevi quando i cristalli di Zyclon-B hanno iniziato a scendere
sbatacchiando come pioggia dura, molto dura? L'avevi quando hai sentito
le grida soffocate di tutte le Magde d'Europa e l'odore del cloro e la puzza
dell'urina e delle feci che si liberavano, mentre la tempesta di donne urlanti
intorno a te muoveva dita tremanti sulle serrature e sulle prese d'aria?
«Come ti chiami? Immagino che tu sia la figlia del mio vicino, il signor
Chilton?»
«No.»
«Allora...» Si interruppe. Il sudore gli usciva da tutto il corpo. Dita
d'acciaio gli chiudevano la gola.
«Chi sono io, Jancsi?»
Non c'è risposta. Ma come hanno fatto? Come hanno potuto venire qua
in questa forma terribile, nella forma di una ragazza che ha disceso la
lunga rampa verso il buio?
Di nuovo il sorriso. Le labbra si allontanano dai denti come ali terribili, i
denti stessi sono lunghi e bagnati, la lingua all'interno regge un occhio di
cristallo.
Essa.
L'hanno trovata nel deserto vicino a qualche squallida immenzionabile
piccola città. Essa è comparsa nella forma di una macchina sventrata che
ha vomitato larve nel terreno. Larve provenienti dallo spazio, larve pro-
venienti dall'aldilà, larve provenienti proprio dal centro del suo fegato...
«Vuoi sederti? Con me?»
Non posso, non oso dire di no. «Io... naturalmente...»
Così si siedono sull'ultima panca che ha sistemato qui con le sue mani
nel '49... era d'estate? La Panca della Guardia in fondo al giardino, al
confine del mondo. «Jancsi, sta' calmo. Siediti, siediti.»
«Sì, mi siederò con te.»
Lei lo conduce, si siede, si siede anche lui e rimane in attesa, lei lo tira
giù in modo che lui giaccia sulla panca con la testa sul suo grembo, e lui
guarda in su come se avesse guardato la Magda della sua infanzia, la
Sylvia Maria della sua gioventù, i lunghi colli e l'orgoglio di queste donne,
i cui tratti, nei gentili visi divini, sono stati toccati dall'ombra dell'anima
più di quelli di qualsiasi uomo.
«Mia mamma e mio papà dicono che sei malato.»
«È così, bambina.»
Lei posa dita leggere come zanzare sulle guance di lui. Un'altra mano
giace sulle mani congiunte di lui. I suoi occhi sono chiusi da altre dita e
altre dita gli toccano il collo... non è abituato a dita che lo tocchino inti-
mamente, non fa parte della sua storia... adesso è nudo, un bambino incerto
in grembo alla dea dell'enormità con i capelli nel cosmo delle stelle, con
gli occhi che riflettono un'infinità di case e focolari, con i denti che
stringono affamati il cibo dell'anima.
Ed ecco che da lui proviene un grido. Un grido. Un grido e...
«Jancsi?»
C'era una storia su di lui che aveva fatto il giro di Princeton, terra delle
menti elette, che non era un essere umano ma un semidio che aveva fatto
uno studio dettagliato sugli esseri umani e che li poteva imitare
perfettamente.
È ironico che adesso sia davvero nelle mani di un semidio, un demone
ridacchiante nelle vesti di una ragazzina i cui capelli biondi come il grano
portano in sé il sottile odore intorpidente dello Zyklon-B.
Le famiglie di Budapest della ricca borghesia come la sua avevano in
generale posto una grande enfasi sullo sviluppo delle capacità sociali;
modi cortesi e affascinanti erano coltivati come strumenti essenziali per
avanzare avanzare, i bombardieri che avanzavano sopra la terra fumante,
l'avanzata dei gloriosi eserciti dei bombardieri. Ecco i fucili... ecco gli
aerei...
Gli uomini nel B-36 che ascoltano WEAF alla radio mentre armano le
bombe. «Il grassone è su. Tre. Due. Uno. Armata. Prepararsi alla conse-
gna. Aprite le porte... porte aperte...»
Nel luminoso pomeriggio azzurro, le porte si aprono sulla faccia della
terra, la terra che sorride al cielo, il cielo che le sorride di rimando e questo
demone di scarafaggio ronzante pieno di uomini di Jackson, tifosi dei
Chicago Cubs, e indiani sradicati che vivono a Cleveland... «Ehi, ragazzi, i
Cubbies ce la faranno a vincere il campionato.»
«No, assolutamente no, vinceranno i Reds.»
«Vuoi scommettere? Siamo a Hiroshima?»
«Sì. Ci siamo. Noi... conto alla rovescia per sganciare.»
«Niente contraerea. La contraerea è buona.»
«Ok, sgancia la bimba.»
«Sono pronto.»
«I Cubbies.»
«I Reds.»
«Sgancia. Vai.»
Oh Enola Gay hai visto quello che ho visto io, li abbiamo proprio
sistemati per benino, waw, quei musi gialli... guarda...
Cubbies.
Reds.
Bastardi yankee, ragazzi, cosa?
Ehi, mi chiedo se una bomba potrebbe bruciare un'anima.
Sei un amante dei musi gialli, Jernigan?
No, io no. Solo che c'è una calma terribile nel mio cuore in questo
momento.
Avevo la sensazione che la cosa fosse qua a raccogliere le anime.
«Per favore, per favore non me lo fare rivivere.»
«È un tuo successo.»
«No... il mio dolore.»
Lei si infila in profondità nella sua mente, portando con sé strati di pelle
bruciata giapponese che appende al filo della sua memoria, nel sole del
mattino tanto amato nell'infanzia, ad asciugarsi e pulirsi al fresco.
La cosa più terribile dell'essere punito dai demoni è che a loro piace così
tanto. Non li consuma come fa con i torturatori umani. Le SS hanno
dovuto andare in analisi. Herr Doktor Schleicher con la sua valigetta piena
di Schutz Staffel carta protocollo, ti si sarebbe avvicinato offrendoti
Zigaretten e dicendo: «Così tanti ebrei sacrificati per la terra degli avi,
eh?» E tu, nell'intimità di quella stanza, ti saresti permesso di piangere, eh?
«Ma questo non è un mio peccato. Il mio peccato è...»
«È?»
«È-di-esistere.» E in ciò c'è tutto il suo essere, e lui piange al vedere
tutto il suo essere, provando una tremenda agonia al sapere e vedere che
tutti i peccati appartengono a tutti i peccatori, e quindi, per la sua anima
morente, lui piange.
I demoni non piangono. Infatti più soffri, più forti essi diventano. La tua
agonia li porta al raggiungimento di una specie di orgasmo. Che diventa
permanente, come l'equilibrio del sole, la tua agonia è il loro piacere: l'alfa
e l'omega, intrecciati in perfetta armonia.
Lei dice: «Voglio venirti a trovare ogni giorno».
«Oh, bambina, non ce n'è bisogno.»
Naturalmente non sta mentendo con la testa sul grembo di una ragaz-
zina, no, ma standole seduto accanto, corretto nel vestire come nei modi,
mentre respira la freschezza della sua pelle e dei suoi capelli, e ascolta la
purezza della sua voce che arriva a spiegare perché il cuore mistico del
giudaismo è emigrato in America e ne ha fatto una roccaforte protetta dalle
bombe.
La voce di Ben Bernie esce dalla televisione. «Vuoi comprare un'ana-
tra?»
Milton, Zio Miltie, Texaco, puoi dare la tua macchina in mano all'uomo
che indossa...
Stelle nel cielo come polvere appesa in der Morgenlicht.
Luce del mattino, così presto? «Dove sono, Padre del Cielo, dove
sono?»
Sei nella tua mente, John. Hai raggiunto una posizione singolare. Sei in
una posizione super, né qui né lì.
La mente vede i B-36 46 56 66 76 86 96 come sarà nel 2006 quando il
genere umano giudicherà il genere umano, togliendo l'ultima pelle pulita
dai fili della mente, Oh Dio proteggimi...
John, ho intenzione di mettere la tua anima in un'altra carne, proprio nel
corpo di questa ragazza, che nell'anno 1962 ti porterà nel suo grembo, sì,
questa ragazza che adesso a undici anni si dondola sul cancello del tuo
giardino sarà, dopo che Orione sarà passato davanti alla luna per tre volte,
tua madre.
Tu tocchi la mano della bambina, la mano di tua madre, che ti solleverà
di nuovo nel mondo, riportando il diamante pazzo della tua anima alla luce
ineluttabile. «Come ti chiami bambina?»
«Sally. Lo sai. Ci siamo già incontrati.»
«Tu non sei Sally. Tu non sei una bambina.»
«Hai paura?»
«Sì, Sally. Ho paura.»
«Allora vieni con me.»
«No.»
«Devi venire con me.»
«No!»
Qualcosa gli salta sulla schiena, lui lancia un grido, inciampa sotto il
peso, sente un sussurro aspro. «Tu verrai con noi! Io ti porterò là, tu
vecchio brontolone!» Dure mani di ragazzo, cicciotte, gli afferrano le
orecchie e tirano finché agli angoli dei suoi occhi delle comete iniziano a
brillare, e lui barcolla fuori dai cancelli del giardino, nel vicolo comune,
con il suo selciato segnato da solchi e i suoi bidoni dell'immondizia, con i
suoi steccati e il salice con i suoi rami sporgenti. Lei volteggia tra i
cespugli ricchi di vegetazione, passando con facilità in qualche passaggio
da bambini, un posto segreto, immagina, dove ci sono...
dozzine...
... i bambini del mondo dannato, gli eredi dell'indeterminatezza del
quantum e delle radiazioni di Enola Gay: un mondo condannato a soffrire
a causa di ciò che lo ha salvato.
«Ehi, ha portato l'ebreo. L'ebreo! È qua.»
«Ehi, buon uomo, hai intenzione di spogliarti? Fammi vedere il tuo
cazzo ebreo tutto nudo, come, uau, glieli hanno bruciati via in Polonia. A
mio papà è successo a Monte Cassino, signor ebreo, come ti ci vedevi in
quella situazione?»
«Bene, Dio ha dato a Hitler Himmler e lo Zyklon-B, ma ha dato a noi,
gli ebrei, Albert Einstein e me.»
«A mio papà è successo.»
«Piego il mio ginocchio grato sulla tomba di tuo padre, Oh America, ti
porto in cambio del tuo sangue, la chiave del futuro del mondo.»
Principio:
Una volta che la mente adotta l'esperienza come insieme di quantum,
cessa di credere a se stessa come a un fattore di controllo, e il mondo
incomincia a quel punto a manifestarsi in un modo più vero, più reale e,
meno determinato. È solo dall'interno del contesto di menti in questa
condizione che può arrivare un pensiero genuinamente nuovo e utile.
Esposizione del principio:
«Il commissario per l'Energia atomica dottor John von Neumann,
considerato da molti come l'uomo più acuto del mondo, ha affermato al
simposio internazionale sul futuro della scienza che si è tenuto a
Dumbarton Oaks che il genere umano deve 'iniziare il processo di svi-
luppare intelligenze più grandi di quella umana, se dobbiamo continuare a
progredire verso una singola teoria funzionale alla spiegazione di tutte le
operazioni fisiche.' Il dottor von Neumann ha inoltre detto che 'si scoprirà
che l'intelligenza umana non sarà sufficiente a raggiungere la teoria
unificata che adesso stiamo ricercando. Per far questo dobbiamo, in effetti,
creare un nuovo Dio, uno che parli con noi'. Il reverendo dottor Herb
Trickler delle Chiese Unificate di Dio ha presentato una protesta formale
alla conferenza, descrivendo il dottor von Neumann come un 'ebreo eretico
e un comunista senza Dio'.»
I ricordi sono fatti di questo... uh uh... sono fatti di questo...
Un'infinità di conferenze e, in seguito, un'infinità di polli uccisi, bolliti,
essiccati e serviti; il dottor von Neumann è diventato la vittima di un
raggio gamma o di un neutrone ad alta velocità che è riuscito a sfuggire
alla protezione di piombo, a Los Alamos o a Oak Ridge o da qualche altro
reattore al carbonchio, e adesso nel suo fegato c'è un cancro che è come un
pezzo di antracite vivente e il reverendo Trickler è diventato membro del
Congresso e con i suoi modi bacchettoni e il. suo stretto collare fa risonare
strali sul comunismo dicendo: «Questa Fondazione Nazionale della
Scienza non riceverà mai un centesimo di finanziamento pubblico», un
pronunciamento che, grazie a Dio, Ike ignora.
«Potrei farle il bagno come faccio con le mie bambole.»
«Scusa?»
«Continua a grattarsi. Se le facessi il bagno con del sapone da bucato, si
sentirebbe meglio?»
«Mi sentirei meglio, oh, e nell'acqua fredda...»
Magda: piccolo amore, piccola colomba, sto cantando per te, sto can-
tando, piccolo amore, piccola colomba. Oh so, so che è così, che i magiari
una volta con le loro voci toccavano il cielo, quando erano liberi.
E mentre un uomo muore, lascia dietro di sé uno strato dopo l'altro di
morte, finché c'è solo la sua nudità e la tomba, e questa è la strada che John
von Neumann sta attraversando con il suo passo goffo, lento, con i suoi
occhi gialli e una palla da biliardo che gli tira nella pancia.
«Dottore, mi spiace doverle dire che la medicina non ha fatto abbastanza
passi avanti da poterle offrire qualcosa che serva come cura.»
«C'è un'opzione chirurgica, in questo caso?»
«Temo di no, dottore. Ci sono dei ritrovati chimici, ma questo tipo di
trattamento è agli inizi. Probabilmente non faremmo nient'altro che farla
stare ancora peggio.»
«Dottore, si rende conto che sono in una posizione molto delicata, per
quanto riguarda il mio lavoro? Che è il motivo per cui mi sento in dovere
di chiederle: ci sono misure drastiche?»
«Una teoria dice che un organo si può trapiantare. Ma è solo una teoria.»
«Perché non limitarsi a resecare il fegato?»
«Non possiamo. Non c'è modo di controllare l'emorragia.»
Sessantasei. 76, ultimo treno, 86, tutti a bordo, 96, Belsen, Belsen treno
per Belsen, Therienstadt, Auschwitz e Biarritz...
«Quindi, dottore, mi sta dicendo che devo morire?»
«Temo di sì, dottore.»
Rimase in piedi là, sentendosi a pezzi, dal momento che aveva solo
cinquantatré anni e così via, e loro pensavano come era amaro che si fosse
trattato di un dannato raggio gamma che si era liberato a Oak Ridge o a
Los Alamos, a causa della distrazione di qualche ragazzino...
Un ragazzino americano, l'attenzione americana, Cubbies, Yankee,
Philly A, il commissario von Neumann che muore. «Ma, dottore, non
posso morire, sono una risorsa. Il paese ha bisogno di me. Tutto il mondo
occidentale. Sono un bastione contro gli ismi.»
«Mi spiace dottore, mi spiace davvero.»
«Dottore, sarebbe meglio per il paese se mi potesse dare la maggior
quantità di tempo produttivo possibile.»
«Naturalmente dottore.»
Regime: una dieta leggera, aspirina, novacristina, poi il tentativo di
resezione fallisce. Si sveglia, e capisce dalle loro facce che... «Prognosi?»
«La radioterapia alla cavità addominale può portare altre complicazioni
dovute al fatto che non possiamo individuare il tumore perfettamente e il
fegato è così dannatamente sensibile.»
«Succederà presto?»
«Non presto. Prima, dottor von Neumann, verrà mangiato. Lentamente.
Perché ha compiuto un peccato subdolo e terribile, e Dio vuole che passi
una certa quantità di tempo a rifletterci sopra, nella speranza che possa
guadagnarsi il perdono prima dello scadere del suo tempo. Altrimenti, una
delle anime migliori che siano mai state create dovrà essere distrutta.»
Bambini al chiaro di luna, angeli forse, o forse demoni, in piedi, mano
nella mano, cantavano a un vecchio preso dalla paura mentre moriva:
1960-1969
Uomini di fiammiferi e Joo
di Etlizabeth Massie
Lo Status Quo
«Immagini di uomini di fiammiferi»
Settembre 1968
***
Gary non pensava che il suo ginocchio avrebbe avuto bisogno di punti,
ma gli bruciava come se fosse stato di fuoco. Il taglio gli attraversava la
rotula, non era profondo, ma sanguinava tantissimo. La tuta da lavoro che
indossava era strappata, e lui non aveva niente con cui rammendarla.
Imprecò sottovoce, si toccò il taglio ancora una volta, tanto per vedere fino
a che punto poteva fargli male, poi guardò verso la strada e le macchine
che passavano.
Non si era mai buttato da un veicolo in movimento prima. Era una cosa
per cui serviva agilità, lo sapeva, ma il vecchio che gli aveva dato un
passaggio lo aveva afferrato per le sue parti intime, e non aveva avuto
alternativa. Gary aveva fatto l'autostop per tutta la strada da Chicago alla
Virginia, immaginava che si fosse trattato di un migliaio di miglia, o
almeno un paio di centinaia e fino ad ora era andato tutto bene. Una
ragazza era un po' fuori e lui non era sicuro se sarebbero rimasti in strada,
ma anche quella cosa era finita bene. Gary aveva fatto con lei una
quindicina di miglia prima di ringraziarla, io mi fermo qua, mia nonna vive
in fondo a quel vialetto, ci vediamo.
Le cose erano state sopportabili durante la settimana appena trascorsa.
Le dita rotte, che aveva tenute insieme con del nastro adesivo che aveva
strappato da un avviso di una vendita all'asta su una strada di campagna in
Illinois, sembrava che fossero in via di guarigione.
Ma questo zotico che gli aveva dato l'ultimo passaggio lo aveva portato
a considerare che forse era il caso di camminare per le ultime trenta miglia.
L'uomo era sembrato abbastanza innocuo, sulla settantina, con un berretto
dei John Deere e una pila di volantini del Farm Bureau sul sedile davanti.
Ma dopo un paio di miglia, a metà della montagna verso il Blue Ridge
Parkway, l'uomo aveva iniziato a parlare di tori.
«Sei un ragazzo di campagna, ragazzo?»
«No. Sono di Worth.»
«Dove si trova?»
«Vicino a Chicago.»
L'uomo annuì come se ne avesse sentito parlare ma non gli interessasse
veramente. Fece ruotare il braccio fuori dal finestrino del suo Ford Falcon,
indicando alla persona sulla macchina che aveva dietro di sorpassarlo e di
smetterla di stargli alle calcagna.
«Negli ultimi giorni ho vissuto sulla strada», disse Gary. «Non è stato
facile, ma finora ce l'ho fatta.»
«Ti è mai capitato di passare del tempo con le vacche?»
Gary aveva lanciato uno sguardo all'uomo senza girare la testa. Non
sapeva dove tutto questo stava portando. Forse il vecchio aveva delle
sagge considerazioni da fare e nessuno con cui condividerle. Gary decise
di lasciarlo parlare. Aveva deciso la settimana prima che avrebbe cercato
di non avere pregiudizi verso le cose. Sarebbe stato aperto verso ogni cosa,
verso ogni persona. Avrebbe abbracciato la pace e la comprensione. Non
avrebbe giudicato, e tutta quell'altra robaccia. Un voto che aveva fatto a se
stesso per compensare tutto il male che aveva visto di recente. Tutto il
male che aveva fatto. Conducimi ciecamente. Lasciami credere.
«No», rispose Gary. «Non so molto delle vacche.»
«Pensavo di sì, vista la tuta da contadino che indossi.»
Gary aveva indosso una tuta. All'inizio si era trovato un po' in imbarazzo
per questo, ma si era sforzato di superare la cosa. Quando si era lasciato la
città alle spalle, non era passato da casa. Era più facile decollare con quello
che aveva già con sé, una sacca contenente occhiali da sole, un'insegna di
cartone arrotolata, una torcia, un pacchetto di sigarette, un paio di canne,
un pettine nero di plastica e duecento dollari che gli erano rimasti dalla
primavera precedente, quando aveva lavorato come segnalatore in
un'impresa di costruzioni stradali. Dopo due giorni di viaggio si era
imbattuto in un temporale che aveva bagnato gli unici abiti che aveva, un
paio di jeans e una maglietta. Quindi aveva rubato la tuta e una seconda
maglietta, blu, con le maniche lunghe che strappò da una fila di panni
dietro a una piccola casa di mattoni che aveva trovato sulla sua strada.
Aveva lasciato qualche dollaro attaccato al filo.
Ogni due giorni Gary si cambiava d'abito. Oggi era il giorno della tuta.
«No», disse Gary, appoggiando il braccio sul bracciolo del Falcon. Gli
piaceva tenere le dita rotte verso l'alto quando poteva. «La porto solo
perché è comoda.»
Il vecchio tossì, sputò fuori dalla finestra, e risucchiò su un molare. Poi
disse: «Ti piacciono le cose comode?»
«Be'», disse Gary. Si interruppe, poi disse: «Certo».
A quella battuta l'uomo rise, anche se Gary non stava seguendo il filo dei
suoi pensieri.
«Non vale per tutti?» disse l'uomo. «A tutti piacciono le cose comode.
Cose che ti fan sentire bene.»
Gary sentì qualcosa indurirsi in fondo alla bocca, con uno scatto.
«Siamo in cima alla montagna ora, mi sembra. Mi può lasciare qua, va
bene? Non voglio farla deviare dalla sua strada.»
«No», disse l'uomo. «Vado fino in fondo. E anche tu.» L'uomo si leccò il
labbro inferiore e le sue sopracciglia bianche cespugliose iniziarono a
contrarsi.
Gary fece passare il braccio attraverso le cinghie della sacca e mise en-
trambe le braccia sul bracciolo. Tese i muscoli delle gambe.
«Sei piuttosto carino, sai, con quei capelli lunghi», disse l'uomo. «Ti pia-
ce quando qualcuno ti passa la mano nei capelli, ragazzo?»
«Mi faccia scendere», disse Gary. Il suo voto di correttezza gli fece ag-
giungere: «Per favore».
«Hai quel bel pelo sulla faccia e sul mento, come un uomo vero.
Scommetto che hai dei bei peli anche tra le gambe, vero? Scommetto che è
bello sentirli!»
E l'uomo, con un grido deliziato, appoggiò una mano sull'inguine di
Gary che spinse la porta e saltò giù.
Mentre si allontanava rotolando dalla macchina verso il ciglio della stra-
da, si accorse con sollievo che l'uomo non rallentava. La portiera aperta
della macchina si richiuse a causa della pendenza della strada e della
velocità del furgone che continuava a correre sulla montagna.
Poi Gary si sedette e vide il taglio sulla gamba.
«Dannato pervertito!» gridò Gary in direzione del Falcon che stava
scomparendo. La gamba gli pungeva e lui per un po' cercò di tenersi la
ferita. Ma il sangue diminuì e lui si alzò, prese atto del fatto che la tuta era
rovinata, e si fece scivolare la sacca sopra la spalla.
Doveva ancora percorrere circa trenta miglia, e non se la sentiva al mo-
mento di fare un altro tentativo con una macchina.
Voto di pace e comprensione o meno.
Dalla sala da pranzo giunse la voce di sua madre: «Sei venuta a casa a
piedi da scuola oggi?»
Dall'ingresso Sharon rispose: «Sì. Rachel voleva andare a fare spesa pri-
ma della partita di pallone. Io non ne avevo voglia».
I piatti che venivano rimessi a posto tintinnavano. Sua madre era sempre
puntuale, sempre corretta, sempre una buona moglie per il dottor Louis
Richards, Jr. Si cenava in sala da pranzo, mai al tavolo della cucina. I
tovaglioli erano sempre di stoffa, e i piatti sempre di porcellana.
«Cielo, Sharon. Tu e Rachel non avrete litigato, vero?»
«No.»
Sharon strinse le braccia attorno alla cartella e iniziò a salire a due
scalini alla volta, fermandosi in cima quando le venne un crampo allo
stomaco.
Sì, Signore, per favore, fa' che succeda. Il principio della fine.
Ma i crampi terminarono in fretta come erano arrivati, senza lasciare
altro che un leggero senso di bruciore. Lei percorse il corridoio verso la
sua camera da letto e si chiuse la porta alle spalle.
Buttò i libri sulla scrivania. Si sedette sul letto, facendo attenzione a non
stropicciare le coperte in modo da non doverlo rifare prima di scendere a
cena. Tutto intorno a lei c'erano arredi di buon gusto scelti da sua madre.
Sedie bianche, tende bianche, un copriletto bianco. Puro e bianco, come la
loro figlia. Su un pezzo di sughero incorniciato c'erano foto di Davy Jones
e Walter Koenig, strappati da alcuni numeri della rivista 16 Anni. Non
c'erano poster, comunque. I poster erano volgari.
Qualcuno bussò alla porta della camera da letto, e dal corridoio, Lou, il
suo fratellino, disse: «Stasera scelgo io il programma alla TV. Alle sette e
mezzo c'è uno special di Banana Split».
«Bene», disse Sharon. «Adesso scompari.»
Lei giacque sul letto e allungò il braccio per aprire il cassetto del suo
comodino. Da dentro estrasse un piccolo album di ritagli. Lo aprì, lo tenne
sollevato, e rimase a fissare i nuovi ritagli che aveva messo insieme da
aprile.
«Gli avvenimenti del giorno» per lei era sempre stata una parola sporca,
fino alla primavera scorsa. Qualsiasi cosa oltre alla città di Neison in cui
viveva non aveva niente a che fare con lei, con loro. Chi aveva tempo di
occuparsi di cose che non fossero la famiglia, gli amici e le majorette? Ma
poi Sharon si era innamorata. Lo aveva visto nel notiziario della sera, e la
sua faccia e i suoi occhi le avevano rapito il cuore. Era bello.
Il padre di Sharon lo odiava, naturalmente. L'uomo era un radicale, l'uo-
mo era un antiamericano. Voleva uguali diritti per i neri. L'uomo voleva la
fine della guerra. L'uomo era un liberale. Il governo doveva stare attento a
uomini scaltri come quello.
Gli amici di Sharon non sapevano nemmeno chi fosse quell'uomo. Beh,
forse avevano sentito fare il suo nome e di certo conoscevano suo fratello
morto, ma non leggevano mai i giornali, e non guardavano mai la
televisione se non per vedere il Selvaggio Selvaggio West e Gomer Pyle.
Bobby.
Sharon aveva scritto il suo nome su tutti i suoi quaderni. Aveva preso il
suo vecchio album dei ritagli delle girl-scout, aveva strappato via tutti i
ricordi dei campeggi e aveva dato inizio al suo libro di Bobby.
E poi lo avevano ucciso. Gli avevano sparato alla testa nella cucina di un
albergo il 5 giugno. Morì il 6 giugno. I suoi amici avevano stretto le spalle.
Suo padre aveva detto: «Se dai tempo al tempo le cose si sistemano. Scom-
metto che il governo ci ha qualcosa a che fare. Sono più furbi di quanto la
gente non voglia credere».
Il 7 giugno Sharon aveva invitato Darrell Harner a casa sua mentre i suoi
genitori erano fuori. Nel cortile, dietro il gazebo, aveva scopato la stella
del calcio per alleviare il suo dolore.
La cosa non aveva aiutato. Aveva passato il resto dell'estate ad evitare le
telefonate insistenti di Darrell.
E adesso.
Sharon delicatamente rimise l'album nel cassetto. Poi si diede ancora un
pugno sullo stomaco, stringendo i denti, stavolta implorando il Diavolo,
dal momento che Dio non sembrava interessato.
***
***
Ottobre 1968
Gary odiava il cibo. Aveva tutto lo stesso sapore, come se fosse stato sul
punto di andare a male, e più il tempo passava più aveva questa
sensazione. Le donne di Sunrise potevano essere capaci di fare un quadro
o tessere una vestaglia, ma di certo non erano capaci di cucinare niente di
commestibile. Amico era il responsabile della preparazione del cibo. Era
lui che ordinava le provviste, ed era lui che controllava i lavori in cucina,
ma di certo il tizio non sapeva niente sul gusto. Gary si chiedeva sempre
più spesso cosa ci facesse quell'uomo con il suo tempo libero. Non lo
passava di certo leggendosi libri di cucina.
Dopo aver mangiato, Gary non si sentiva mai completamente bene.
Sentiva la lingua spessa e si sentiva stupido. Anche il suo modo di parlare
si era fatto strascicato come quello degli altri abitanti di Sunrise. Si
muoveva con una maggiore lentezza. A volte faceva solo finta di
mangiare, poi scivolava fuori da Sunrise all'emporio della vecchia sulla
Strada 947 e si comprava delle merendine dalla macchinetta esterna con il
poco denaro che gli era rimasto nel sacco.
In qualche modo, sapeva che se Amico lo avesse scoperto, l'uomo non
ne sarebbe stato per niente felice.
Ma in qualche modo, a Gary non importava. Tollerava tutto questo
finché non avesse trovato la forza vitale che cercava. Finché fosse stato
avvolto dalla pace e dall'amore che tutti gli altri intorno a lui sembravano
avere colto.
Ne ho bisogno adesso, portamela adesso, lasciami avere abbastanza
fiducia da trovarla!
La sola forza vitale di cui fosse cosciente era il bruciore che provava
quando era vicino a Sharon. Lei lo abbracciava e gli sorrideva, ma
nient'altro. Lui sapeva che era innamorata di Amico. La maggior parte
delle donne di Sunrise sembravano esserlo. E anche alcuni uomini. E tutto
questo dove lo portava?
Gary si diede al giardinaggio e iniziò ad aiutare a riparare le molte
capanne di Sunrise. Scherzava con gli altri che lavoravano accanto a lui,
con una zappa o un martello tra le mani.
E aspettava la salvezza, sognando Sharon ad occhi aperti.
Novembre 1968
Sharon sedeva nell'erba sul limitare del pascolo, con i piedi che le
pendevano nel pendio. Aveva le mani intrecciate intorno al rigonfiamento
che le cresceva nella pancia. Il sole stava calando, e la riunione serale si
era sciolta. Oltre il declivio, le poiane volavano in circolo. Su un filo d'erba
vicino a lei si era posata una cavalletta, che stava scrutando l'aria con le
sue antenne. Gary era in giro con alcuni degli altri, che stavano
trasportando le ultime zucche della stagione. C'era una leggera brezza che
soffiava sul declivio e sul pascolo. L'aria odorava di rame e di cannella.
Bobby si venne a sedere vicino a Sharon. Le prese la mano e le diede un
colpetto. Sharon voleva entrare dentro di lui, ma non osava. Era troppo im-
portante per quello. Che lui fosse uscito durante il giorno per vederla era
l'unica gloria di cui aveva bisogno.
«Grazie di tutto», disse Sharon timidamente.
«Grazie a te. Sei una donna amorevole e innocente.» Rimasero seduti in
silenzio. Sharon all'improvviso ebbe paura che se non avesse detto
nient'altro Bobby se ne sarebbe andato. Quindi chiese: «Mi chiedo chi
abbia vinto le elezioni oggi?»
«Elezioni?»
«Il presidente?»
«Non so di cosa stai parlando», disse Bobby, e Sharon seppe che, nel
suo oblio, aveva ragione lui. Anche lei doveva dimenticare, come aveva
fatto lui. Come era saggio. Come era buono. Come era innocente.
Grazie a Dio, pensò.
Bobby rimase seduto un po' più a lungo, poi si alzò e si diresse alla sua
capanna a fare il suo lavoro. Qualunque esso fosse. Lui lo sapeva, e questa
era l'unica cosa che avesse importanza.
Dicembre 1968
C'era una mano sulla sua bocca e Gary si svegliò con un sobbalzo,
incapace di gridare. Sbatté gli occhi nel buio della capanna, cercando di
vedere chi gli si era messo a cavalcioni e lo teneva giù.
Glielo disse la voce.
«Gary, Gary», disse Amico, «metti in dubbio la nostra sincerità?»
Gary poteva sentire l'odore del tabacco da pipa nell'alito dell'uomo. Una
delle ginocchia di Amico premeva sul torace di Gary. Faceva un male
d'inferno.
«Gary, ti amiamo. Come puoi dubitare? Noi non facciamo parte del
mondo. Dobbiamo essere forti e credere in noi stessi. Credi a te stesso,
Gary?»
Gary non sapeva che altro fare a parte annuire. Sharon gli aveva detto di
lui. Come una bambina a scuola che aveva fatto la spia sul bambino
cattivo.
«Va bene. Dubitare è così triste. Ricorda. Io sono qui per te. Se tu avessi
dei dubbi, vieni a parlarne direttamente con me. Non spaventare le tue
sorelle con delle chiacchiere sciocche.»
La mano si sollevò dalla bocca di Gary. Gary tossì, poi disse: «Come
vuoi tu».
Ci fu una pausa, poi Amico si piegò e diede a Gary un bacio pieno di
passione. «Sono quello di cui hai bisogno», disse allontanandosi. «Non
pensare nemmeno di andartene. Non sognartelo nemmeno, amico mio.»
Gary annuì.
L'uomo si alzò e con calma lasciò la capanna. A Gary vennero i brividi.
Non avevo intenzione di odiare, non avevo intenzione di odiare, non
avevo intenzione di odiare.
Sussurrò: «Ti odio bastardo».
Febbraio 1969
Luglio 1969
Sharon conteneva a fatica la sua felicità. Mentre Joo prendeva il latte dal
suo seno e Gem giaceva vicino a lei sull'erba, contando le foglie di un
ramo sporgente, lei si ripeteva con la mente quello che Bobby le aveva
detto mentre stavano cogliendo i mirtilli.
«Abbiamo una cosa molto speciale stasera a cena», aveva detto.
«Di cosa si tratta?» gli aveva chiesto. Dio, com'era bello quell'uomo, an-
cora più bello del primo Bobby. Non riusciva nemmeno a ricordarsi il
cognome del primo Bobby, o perché lo aveva amato.
«Non sarebbe così speciale se te lo dicessi», disse lui, mettendo il
braccio intorno a Sharon e toccandole gioiosamente il mento. «Ma ha a
che fare con il tuo amico Gary. Non dirglielo. Avrò bisogno del tuo aiuto.
Mi aiuterai stasera, vero?»
«Oh», disse Sharon. «Naturalmente!» Joo tossì, e Sharon si mise la bam-
bina in grembo e le diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena.
Gem disse: «Ce ne sono oltre trecento!»
Certo che ti aiuterò, pensò Sharon.
Giocò la sua parte per il resto della giornata. Era un cittadino di Sunrise
drogato e felice. Finì di rastrellare, strappò le erbacce dai fagioli, e si unì
agli altri per il pranzo al pascolo. Tenne persino la bimba di Sharon,
facendo attenzione a non guardare le sue gambe direttamente. Sperava che
il sudore freddo che aveva sulle braccia venisse interpretato come sudore
di fatica. Quando Gillian arrivò zoppicando per unirsi alla folla del pranzo
e tutti mormoravano che la poveretta doveva essersi fatta male, ma come
sono allegre quelle bende tutte colorate, Gary dovette lottare per
controllare la rabbia.
Un professore pazzo.
No, era anche peggio. Un imperatore pazzo, re di tutto quello che
vedeva, isolato sulla montagna, al sicuro, lontano dal mondo terribile di
cui spesso borbottava.
Sharon, buon Dio, perché siamo qua?
Gary non poteva permettere che questa pazzia continuasse. Ma non era
stato in grado di immaginare come interromperla.
Se non uccidendo Amico, e lui aveva fatto un voto di non commettere
più violenza.
Nel pomeriggio, mentre riparava la cancellata di una capanna, lottava
alla ricerca di idee. Niente gli sembrava possibile. Non c'era modo di
convincere la comunità di quello che stava succedendo. Amavano questo
posto. Amavano il loro Bobby, il loro Abraham, il loro Giona. Il suo
Amico.
Forse, quindi, avrebbe solo dovuto prendere Sharon e scappare. Lasciare
gli altri alla loro euforia.
Sì, decise, mentre suonava la campana della cena, e gli altri giardinieri
ridevano e raccoglievano i loro attrezzi. Dopo cena avrebbe preso Sharon e
se ne sarebbe andato da quel posto.
Anche se avesse dovuto imbavagliarla. Anche se avesse dovuto imbava-
gliarla e legarla e gettarsela sulle spalle.
Sharon era seduta tra Gem e Gary, e teneva la sua bambina. Erano in
sala da pranzo perché la pioggia aveva ricominciato a scendere, battendo
sul tetto di metallo ed entrando dalle finestre aperte. I piedi di Sharon
battevano al ritmo della pioggia. Non riusciva a fermarli e non voleva.
Stasera, Bobby le avrebbe permesso di fare qualcosa di speciale.
I piatti di portata giravano per i tavoli, e tutti prendevano le loro porzioni
di purè e crema di grano. Bobby era seduto al suo solito posto al tavolo
principale, con le mani raccolte, sorridente. Era così dolce che non si
servisse mai quando gli altri mangiavano. Diceva che voleva sempre
assicurarsi che prima ce ne fosse abbastanza per loro. Gary stava seduto in
silenzio, muovendo le patate con la forchetta.
«Rallegrati», gli disse lei, toccandolo col gomito. Lui le sorrise.
«Così va meglio», disse lei.
E poi Bobby si alzò e sollevò la mano per chiedere l'attenzione di tutti i
presenti.
La televisione era accesa, ronzando piano, con la sua luce blu pulsante
che lavava il pavimento della stanza. Amico era steso sulla sua poltrona, e
stava bevendo una bottiglia di birra. Sembrava che stessero trasmettendo
un notiziario. C'erano voci intense d'uomo e nessuna musica. Gary guardò
l'apparecchio oltre la spalla di Amico, ma non riusciva a dare un senso a
quello che vedeva. Bianco e nero. Un movimento indecifrabile.
Aumentava le sue vertigini. Lasciò ricadere lo sguardo di nuovo sul
pavimento.
Oh, Dio, la testa gli faceva male. Lo stomaco lo disturbava e lui si
sporse oltre la brandina e vomitò.
«Non troviamo sempre quello che stiamo cercando, vero, Gary?» disse
Amico, senza girarsi. «Almeno non subito.»
Dannazione. «Cosa...?» iniziò.
Amico sospirò. «Cosa diavolo stavi cercando quando sei venuto qui a
Sunrise? Mi sono dimenticato quello che hai detto esattamente, ma sono
sicuro che non era molto diverso da quello che stavano cercando gli altri
rifiuti. La vita? Qualcosa del genere. E cosa stavi cercando nella mia
capanna stamattina? Droghe?»
Gary si tirò su a sedere, lasciò scendere i piedi dal bordo della brandina
e se li mise sotto di sé. La sua vista vacillava.
«Guarda solo questo», disse Amico. Alzò la mano che reggeva la
bottiglia di birra e la diresse verso la televisione. Gary sbatté gli occhi
un'altra volta. Bianco e nero. Movimenti confusi. Sembrava un film. Un
razzo di qualche tipo, appoggiato su un panorama polveroso. Gary scosse
la testa, cercando di schiarirsi la vista. Le voci provenienti dalla
televisione, concitate e alterate, stavano congratulandosi con qualcuno
nell'apparecchio. Poi le voci si diressero ai telespettatori, poi parlarono tra
di loro, trascinate da una grande emozione.
«Sono atterrati sulla luna», disse Amico.
Gary inclinò la testa e fissò. «La luna?»
«Sembrerebbe», disse Amico. Bevve un sorso e sospirò. Poi guardò di
nuovo Gary ed emise un piccolo suono. «Quasi quattro anni di questo
lavoro, e mai nessuno ha fatto irruzione nei miei spazi personali.
Immagino che avrei dovuto aspettarmelo prima o poi, ma mi ero abituato
alla vita facile.»
Alla televisione un portello era stato aperto. C'erano uomini con indosso
strani abiti. Atterrati sulla luna? Impossibile.
«Vita facile?» ripeté Gary.
«Molto facile», disse Amico. «I lavori governativi sono sempre comodi,
Gary. La paga è buona e ci sono i benefìci collaterali. Be', se si può
chiamare questo buco di baracca un beneficio. Ma è meglio dell'Indocina:
nessun rischio qua. Mi tengo costantemente in contatto con i miei
superiori; sanno quello che succede e sono molto soddisfatti del mio
lavoro. Tutti qua sono a posto, tutti che credono alla propria ricerca
personale. Come qualche insetto che esplora il fondo di una bottiglia.»
«Sapevi che ero qua», disse Gary.
«Bene, lo zio Sam da lavori buoni ma non assume imbecilli. Hai lasciato
un rastrello nell'altra stanza stamattina. Dopo la colazione eri l'unico ad
avere in mano un rastrello. Sono un osservatore. E dove altro avresti
potuto essere se non nella stanza sul retro...»
«Io... non ero...»
«Adesso, Gary», Amico girò la poltrona e gli fece un cenno con la botti-
glia di birra. «Non facciamo più i finti tonti. Tu sei un cercatore. Io sono la
verità. Ti darò qualcosa di interessante. Poi...» fece un cenno in direzione
della pila di giornali. In cima c'era una siringa. «Poi ti dovrai unire alla
folla dei felici.»
«Perché tutti questi fastidi?»
«Fastidi?» chiese Amico. «Voi merda idealistica siete i fastidi. Ci sono
comunità come questa in tutto il paese. Diamo dei volantini a tutte le
manifestazioni, alle riunioni di protesta. Li attirano come mosche. Un
posto per sfuggire ai peccati dell'America, vero? Li portiamo dentro, li
teniamo drogati e pacifici e loro stanno fuori dai piedi.»
Gary si alzò. Per un attimo pensò che sarebbe caduto, ma combatté per
mantenere l'equilibrio, per controllare la sua mente. Aveva bisogno della
sua mente, del suo corpo.
«E cosa sono una manciata di bambini deformi?» chiese Amico. «Non
cresceranno per darci fastidio, non credo.»
Voto contro la violenza, Gary. Voto di pace.
«Allo zio Sam e alla sua saggezza», disse Amico. Prese da bere. Sorrise.
Voto di pace!
Alla televisione, la testa di un uomo in tuta spaziale comparve dal
portello. Il paesaggio lunare era notturno.
«Pronto per l'ago?» gli chiese Amico. Si alzò, pestando i piedi e affron-
tando Gary come un pistolero. «Un ago per un bastardo?»
Gary affondò in avanti. Finì addosso ad Amico, che scivolò all'indietro
sopra il bracciolo della poltrona e sbatté la testa contro il pavimento.
«Non violenza!» gracchiò Amico. «Ricorda, pace e amore e...»
Gary afferrò il televisore con entrambe le mani. La rabbia gli percorreva
le braccia, facendogli portare l'ingombrante apparecchio in alto sopra la
testa. Alla televisione una voce confusa diceva: «È un piccolo passo per
l'uomo...»
«Gary, aspetta, possiamo...!»
Al diavolo la pace!
Gary lasciò cadere l'apparecchio sulla testa di Amico. Ci fu un crac che
gli diede un'enorme soddisfazione. L'immagine sullo schermo andava e ve-
niva, come una palla buttata in un lago, poi si chiarì di nuovo. Gary si
spostò indietro sul pavimento fissando quello che aveva fatto. Il sangue
scorreva da sotto l'apparecchio e sembrava che volesse arrivare a
raggiungere il dito teso di Amico.
«... un salto gigantesco per l'umanità!»
Non aspettò la nascita del sole. Non ci sarebbero state spiegazioni. Lo
avrebbero maledetto con le loro voci strascicate, e Sharon avrebbe dovuto
sopportare il fardello di due perdite: il suo amico e il suo dio.
Sharon.
Gary era in piedi davanti al muretto di un belvedere sulla Parkway.
Aveva camminato nel buio per ore, era bagnato di sudore. Si chiedeva se
nessuno si fosse ancora incuriosito di sapere se Amico era nella sua
capanna.
Naturalmente no. Loro rispettavano il suo isolamento. Non si sarebbero
mai sognati di disturbare l'uomo. Avrebbe potuto continuare per giorni.
Nessuno se ne sarebbe accorto.
Gary guardò il mondo verso occidente, aspettando pazientemente che il
sole si alzasse dietro di lui e lo maledicesse.
Quando sentì il primo calore del mattino e vide i primi riflessi rossastri
intorno a lui salì sul muretto. Queste montagne blu erano davvero belle. Le
strade e le case nascoste dalla vegetazione in continua crescita. Sopra, le
nuvole che si trasformavano da rosa ai colori dell'oro e diventavano
bianche. La brezza si alzò dalle lucide rocce di sotto.
Sharon.
Gary alzò le braccia al cielo.
«Un piccolo passo per l'uomo», disse.
Dagli alberi folti al di là e sotto il muro, un gruppo di ali prese il volo. In
un attimo, una flottiglia di elicotteri si alzarono, girando intorno a Gary,
passandogli accanto. Gli passarono sopra, tagliando e ferendo il cielo,
muovendosi nella direzione di Sunrise.
Qualcuno se n'era accorto.
Guardando giù, Gary si chiese se la sua testa si sarebbe spaccata come
quella di uno a cui sparano alla testa.
«Un salto gigantesco», disse.
1970-1979
Whatever
di Richard Christian Matheson
Ti dovrai arrendere
Alla verità tanto triste
Alla sporca verità.
Boz Scaggs, Lowdown
Rolling Stone
MEMO Interno
M:
Cattive notizie. Ho guardato tra le pagine di Matheson. Sono
francamente stupita. Sono davvero affascinanti. Tuttavia in qualche modo
elusive. Nonostante l'orrore di ciò che è successo in realtà, non sono
nient'altro che una raccolta di ritagli. Evocativi. Ma fugaci. Non mi
sorprende che Esquire e The New Yorker abbiano deciso di lasciar perdere.
Il mio suggerimento è che noi facciamo lo stesso.
MOSCHE.
Colpiscono la pelle come proiettili di sangue coagulato. Si attaccano alla
pietra liscia, alle mura della roccaforte, dormendo all'ombra che striscia
furtiva; iceberg d'ombra.
Turisti. Calore.
Mezzelune salate sotto le ascelle. Sandali che strisciano sulla roccia anti-
ca. Sigarette turche. Amanti si tengono le mani umide.
Una città abbandonata. Morta da molto tempo. Da prima della nascita di
Cristo. Odiata. Martellata sul legno con chiodi; lasciata a sanguinare, come
un vitello al macello. Grida senza risposta. Ragioni non fornite.
Una coppia.
Giovane. Diciannove. Diciassette anni. Lui. Lei.
Una relazione. Due mesi. Stati d'animo incontrollabili. Passione e paura.
Sofferenza.
La Nikon di lei che ritaglia qualche attimo di tempo: un bisturi che
scatta dolcemente. Ricordi per un libro. Un album. Un mausoleo da
salotto.
Una lotta continua. In macchina da Parigi a Montecarlo. Fermandosi per
strada per un caffè ghiacciato. Un paese affascinante.
Lui apre la custodia della chitarra. Le corde di metallo bollenti sotto il
sole; dita che brandiscono. Suona una nuova ballata. Canta a voce bassa
Dei bambini si radunano. Lui sorride, un santo a piedi nudi. Parla di lei.
Lei cerca di non ascoltare. Sente che la sua vita è spazzata via. Lui non è
più suo.
Lei inizia a piangere.
Lui sta tornando in America. Da quel bastardo di Tutt.
Per i Whatever.
Rivista Bam.
9 dicembre 1969
Quando ti ho incontrato
non servivo a molto.
Una confezione da sei di nulla.
Non ero sicuro da toccare
Rolling Stone
Appunti sparsi. Febbraio 1970
Rivista Crawdaddy.
Agosto 1976
«E Hubris.
«Stanley Hubris. Uno dei nostri migliori registi», dice ridendo Greg
Magurk, socio di Rikki Tutt e fondatore insieme a lui dei Whatever. Al
momento si trova sul bordo della piscina, sotto a cinquanta chili di ossido
di zinco, una lattina da un metro e ottanta di Crisco.
«Ci accusano sempre di voler fare lo sgambetto ai giornalisti, sai? Come
se commerciassimo in chiacchiere da sabbie mobili e sfidassimo gli iniziati
ad avvicinarsi.» Tutt è stufo.
È una giornata blu oltremare, perfetta a Honolulu. Tutt, Magurk e il
resto dei Whatever si stanno prendendo qualche giorno di vacanza lontano
da Los Angeles, mentre limano le canzoni che hanno appena scritto per il
nuovo album, Philip's Head, un tributo al membro della band Phil Zapata,
che è morto il mese scorso al Greenwich Village. Tutt, un pilota civile, ha
portato la band al funerale a Sag Harbor in aereo, in un Avianca 707 che
avevano comprato e riarredato, un ritiro galleggiante, che hanno sventrato
e riempito di oggetti edonistici caldi e pelosi.
Il jet, che i Whatever chiamano SPOT, li ha portati sulle isole e porta il
gruppo a tutti gli spettacoli. Tra gli ospiti occasionali dell'aereo si contano
la moglie di un primo ministro che era scappata per unirsi alla danza libera
di Tutt e Magurk, e un vescovo cattolico che aveva perso la fede dopo aver
scoperto che il sesso non coinvolgeva esclusivamente lui, e di conseguenza
aveva gettato via il cappello rosso e aveva finito con il vivere con un
membro delle Sister Sledge.
Casualmente, chiedo se è vero del buco nella testa di Zapata.
Tutt annuisce, sgocciolando ananas sul terrazzo della sua casa in affitto a
Diamond Head. «Trapanazione. Se l'è fatta da solo. Ha deciso la misura
della punta e... è entrato.»
Magurk gioca con un telescopio, chiude un occhio davanti alle lenti di
precisione, alla ricerca di qualche indesiderato.
«Aveva sempre voluto una maggiore elevazione mentale. Per come la
vedeva Phil, i bambini nascono con il cranio aperto... e finché non diven-
tiamo adulti...» Cerca un'immagine.
«... il casco non ossifica», suggerisce Tutt.
«... giusto. A ogni modo, si forma, e rinchiude le membrane che cir-
condano il cervello e bloccano le pulsazioni che provengono dal cuore.
L'idea è che, lì dentro, il cervello è troppo compresso e ha fame di sole e di
un po' di aria fresca. Quindi Phil si mette in testa...»
«... a ogni modo, temporaneamente», aggiunge Tutt.
«... che stava perdendo il contatto coi sogni e così via. Poi si immagina
che il suo equilibrio mentale si stia muovendo verso l'egoismo e la psicosi
finale, che, argomenta Phil, era l'eredità dell'uomo, collettivamente e in-
dividualmente. A quel punto decide di farsi un buco in testa.»
Tutt sta canticchiando e lottando con un cocco che continua a sfuggire al
suo grembo e al suo coltello, e rotola via.
«A ogni modo lo ha fatto a mano con questo strano strumento che aveva
comprato in un negozio di strumenti chirurgici. Si chiama trapano. Una
specie di cavatappi che fai funzionare manualmente. Una specie di punta
di metallo circondata da un anello di denti da sega», spiega Magurk.
Tutt continua. «La punta entra nel cranio. Poi tieni il trapano fermo
finché la sega rotante scava una galleria, dopo di che può essere estratta.
Se tutto va bene, la sega rimuove un disco di osso ed espone il cervello.»
«Assumendo che ce ne sia uno», dice Magurk. Abbassa la voce, con tri-
stezza. «C'era una confusione terribile, l'ha asportato per metà.»
«I poliziotti dicono che sembrava che avesse un grosso fiore in fronte.»
Magurk mette a fuoco il telescopio. «Non si può provocare il benessere
imminente. Chi l'ha detto?»
«Il tizio al McHale Navy?»
Annuiscono con aria sobria.
Anche se Tutt e Magurk sono stati criticati per aver portato la conversa-
zione su un piano impertinente e crudele, dopo un pomeriggio con loro, è
evidente che questo genere di conversazione è solo il loro umorismo
privato fatto di botta e risposta, che si delizia di accoppiamenti esoterici. In
realtà hanno in mente di dare una percentuale considerevole dei profitti di
Philip's Head alla vedova di Zapata, Joyce, che è rimasta sola con due
bambini piccoli, Lon e Will. Tutt e Magurk sono i padrini dei ragazzi e li
chiamano spesso mentre sono in giro. Nel frattempo hanno contattato
molti personaggi importanti che dovrebbero prendere il posto di Zapata
alle tastiere nell'album.
E per quanto riguarda le nuove canzoni?
«Ci piacciono. A Phil sarebbero piaciute. Ma prima di incidere,
vogliamo provare il nuovo materiale in piccoli club. Qua sarebbe perfetto.
Molto sottotono. Sono tutti felici alle Hawaii.»
«Anche i lebbrosi sono felici.»
«A ogni modo siamo venuti per evitare i cattivi scribacchini.»
Vuole dire i critici. Non è che la band abbia cattive recensioni. È che è
inevitabile che Tutt e Magurk vengano definiti la voce del loro tempo. Ma
loro non sono mai andati in cerca di quel tipo di gratificazioni.
«Ci trattano come se fossimo qualcosa di speciale. Voglio dire, andiamo,
ragazzi, chi ci ha definito la coscienza trafitta dell'intorpidimento post-
hippy? Scriviamo solo canzoni!»
«Guarda», dice Magurk, «non neghiamo quello che succede. Quando ne-
gli ultimi anni si è visto il palazzo pieno di re venali, con i loro valletti
intriganti che spiano la concorrenza, con il paese nel mezzo di questa
guerra terribile, coi bambini che bruciano vivi, come si fa a scrivere
d'amore?»
Rimangono in silenzio. Guardano le onde che si infrangono. Le nubi si
spostano lentamente.
Magurk scribacchia qualcosa in un blocco, riscrivendo le parole di una
nuova canzone per cui la band ha già pronta la musica al Music Plant di
L.A. Si chiama «Flesh Diction.»
«Dieci anni fa era facile», dice Tutt. «Per scopare ti bastava vestirti me-
glio di John Sebastian e citare Siddharta.» Guarda il sole che penetra con
lo scarso interesse di un misantropo. «... Cieli di marmellata, sai?»
Magurk non ascolta nemmeno. «Le Hawaii sono un complesso
miscuglio di uomo e natura», dice a nessuno in particolare, adocchiando
una bambola formosa che emerge dalle onde.
Rivista Billboard.
Settembre 1971
Sono state fatte oggi le Nomination per tutte le categorie Grammy. Non
è stata una sorpresa per nessuno che Whatever di Rikki Tutt e Greg
Magurk abbia avuto la Nomination per le categorie Best New Rock Group
e Best Album. Il primo album del gruppo, Know Means Know, è stato
vendutissimo, è tra i preferiti della critica e il numero due nella classifica
dei primi 100 album di Billboard.
«E adesso la canzone che sta dando una bella batosta alle classifiche...
'Yeah, Right', dei Whatever, un inno da esaurimento che sembra aver fatto
alzare la temperatura a un'intera generazione. Pete Towshend: prendete
nota.»
Lasciami stare,
andrà tutto bene.
Non è rimasto niente,
ma è tutto mio.
Tagliami la gola
Guardami dissanguarmi.
Non piangere bambina,
Goditi la corsa.
Tutt si sposa.
Inga è tedesca. Dicono che non sorrida mai. Guarda solo oltre le tue
pupille facendoti sentire come un binocolo giocattolo a buon mercato.
Innervosisce gli uomini normali. Rende felici i rocchettari. Conosce tutte
le loro porte e le loro finestre, sa come scassinarle, come fare irruzione. Sa
chiacchierare e ridere. Indossa abiti così stretti che si riesce a vedere la sua
ambizione che filtra tra le fibre.
Dicono anche che sua madre era la masochista privata di Hitler, la sua
pelle squisita era il suo portacenere personale, dal momento che il lunatico
Führer la riempiva di pois fatti con bruciature di sigaretta ogni volta che il
Reich si trovava in difficoltà.
Inga è bella. Non avrebbe potuto sposare nessuno che non fosse una star.
E quando sorride a Tutt il cielo si riempie di nuvole e uccelli che
cinguettano.
Tutte volevano Tutt. Non era solo un fenomeno. Lui era quello con il bel
viso, la dolce espressione preoccupata. Il bambino senza mamma che ti
prendeva per mano, e che sorrideva contento per ogni gentilezza. Era il
poema che solo tu facevi rimare. La voce ardente che immobilizzava uno
stadio.
Che lo faceva piangere.
Si scherzava sul fatto che quando cantava piangeva dentro. Ma nessuno
poteva superarlo. Persino il suo ex collaboratore, Truce Wood.
«Sai come voleva chiamare la nostra band, Petals? Cry. Gli era sempre
piaciuto il nome. Gli si intonava, sapete? Un vero bastardo imbronciato.
Con veri disordini comportamentali.»
Ma cosa dire della musica? Chiedo a Wood. Continua a lanciare il suo
coltello contro un albero. Questo ranch pieno di cose succulente è ciò che
ha comprato con quello che gli era rimasto, un niente cosparso di cactus.
«E qualcosa di questo tipo. Tutti gli altri scrivono canzoni. Tutt e
Magurk sentono Dio. Lo mettono in musica. Sanguinano per i nostri
peccati.»
E tutti abbiamo un'occasione di sentirne lo sfogo. È una bella immagine.
O si tratta solo del fatto che Truce è rinato? Lui non risponderà, preferisce
non parlarne.
Estrae il coltello dall'albero. Uno sguardo perso. Dopo che i Petals si
erano divisi, Truce ha fatto qualcosa da solo. La band si chiamava Fat
Couch. Il primo album, nel Settanta, Happy Nap, è rimasto un po' in
circolazione senza sfondare, poi è morto. Non è scattato niente. La casa
discografica li ha eliminati prima che il secondo album arrivasse in sala
d'incisione.
Adesso gestisce un bar, Truce, a Durango. Ammette che quando nel suo
mondo tutto ha iniziato ad andare storto, ha perso la voce e ha cominciato
a ingurgitare acido come se si trattasse di vitamina C. Ben presto diventò
così abbattuto e paranoico, che ingaggiò un investigatore privato per rin-
tracciare la sua voce.
Il tizio gli faceva pagare 250 dollari al giorno più le spese. Disse a Truce
che aveva seguito la voce fino a un ristorante a Wichita Falls e che l'aveva
messa all'angolo, ma che lei era scappata. Alla fine disse che l'aveva
trovata e gliel'aveva spedita per raccomandata in una scatola imbottita.
Truce tiene ancora la scatola chiusa sul camino.
«Questo è quello che ti fa la droga.» Sorride. «La tengo là come lezione
per me stesso. Ho perso tutto, ragazzi. Sono fortunato a essere vivo.»
Asciuga la lama sui suoi Levi's. «Le cose cambiano. E devi imparare a
vivere con i fantasmi.»
E adesso Rikki Tutt sposa cinquanta chili di austerità tedesca, e Truce si
preoccupa del giusto regalo di nozze.
«Ti dirò una cosa, le donne di sette continenti sono in lutto.»
Ha ragione. Rikki è qualcosa di più di uno che ce l'ha fatta. È l'unico che
sia mai riuscito a trovare la strada per entrare.
«Forse gli prenderò la sua scatola personale per il camino.» Truce
annuisce, con una serietà mortale. «La fama ti inghiotte mentre non
guardi.»
«Signor presidente, parliamo un po' della sua vita privata con la First
Lady. Ho sentito che a lei e a Pat piace molto guardare lo sport alla
televisione.»
«La ginnasta sovietica Olga Korbut è un'atleta sorprendente. Non sono
un sostenitore di quel governo, ma la bravura può emergere in posti
sorprendenti.»
«Ho anche delle spie che mi dicono che è un appassionato della musica
di Stan Kenton. Si balla alla Casa Bianca? Voi due? Soli?»
Nixon ride. Prende un sorso dell'acqua che Frost gli ha offerto.
«Non penso che farei bene a rispondere a questa domanda senza avere
l'autorizzazione di Pat. Lei è molto riservata sulle questioni romantiche.»
«I film preferiti di quest'anno?»
«Vediamo dei film alla Casa Bianca, come sa. Abbiamo qualche amico.
Ci è piaciuta molto The Poseidon Adventure, Jeremiah Johnson. What's
Up Doc? Mi è anche piaciuto Deliverance, ma Pat si è trovata a disagio
per la violenza.»
«E il rock'n'roll?
«Pat è una fan di Helen Reddy. Il disco First Time Ever I Saw Your
Face è decisamente piacevole.»
«Sto parlando del vero rock'n'roll.»
Ridacchia.
«Mi faccia un'altra domanda.»
«Di sicuro conosce i Rolling Stones, i Beatles...»
«Naturalmente. Dei giovani che hanno davvero talento.»
«E i Whatever?»
Nixon sbatte le ciglia. Vede cosa sta per arrivare.
«Si rende conto di quanto siano stati critici verso la sua politica estera?»
«No, non ne sono al corrente.»
«Le posso assicurare, signor presidente, che sembrano parlare a nome
della loro generazione e rispecchiare l'insoddisfazione dei giovani
americani.»
«La gente dell'Asia sudorientale ha bisogno del nostro aiuto.»
«E allora cosa mi dice degli altri problemi? Una delle canzoni numero
uno della band, 'World of Hurt', riporta l'accusa dei membri della band su
quella che loro pensano sia l'apatia di Washington sul problema
dell'eliminazione dei rifiuti tossici. Di certo ne è stato informato.»
Nixon fa un sorriso tirato, stringe le mascelle, riflette.
«È una domanda o un'accusa?»
«Perché i membri della band sono stati picchiati e arrestati dalla polizia
durante una manifestazione per la pace al Washington Monument? È a
conoscenza dell'arresto?»
«Stiamo parlando di politica o di musica rock?»
«Stiamo parlando della sua popolarità che sta diminuendo tra i giovani
degli Stati Uniti, signore.»
Nixon si asciuga il labbro superiore.
«Loro credono che il suo governo stia portando avanti una campagna
non dichiarata e immorale di violenza militare nel sudest asiatico e che lei
voglia blandire le voci dell'opposizione. Che lei sta portando al macello i
giovani del suo paese.»
«Non si brucia la bandiera degli Stati Uniti. Non si fa. Questa band... lo
hanno fatto sul palcoscenico.»
«E cosa mi dice del loro oltraggio e della loro disperazione... in realtà di
quella dei giovani di tutto il paese?»
«Non si brucia la bandiera.»
Quando Tutt la vide per la prima volta, disse che aveva visto la fine.
Lampeggiava come un avvertimento precognitivo in fase REM, una
mezza immagine. Uno sguardo attraverso il buco della serratura di una
forma uccisa, buttata, non si sa dove, nei suoi pensieri. La sensazione che
niente di buono avrebbe potuto venire dallo stare con lei.
Tutt ricordava che lei aveva detto poco. Un sorriso che rivelava
qualcosa. Niente. Tutto quello che aveva bisogno di credere. Era il suo
dono: se ne era accorto troppo tardi.
Lei era scura. I capelli. Gli occhi. I gioielli. Aveva sopracciglia perfette
su un bel viso. Sembrava forte, sicura. Tuttavia dentro di lei da qualche
parte cadevano delle lacrime. Tutt lo sentì in un battere di ciglia. Un
attimo.
Lei sorrideva con troppa facilità, ricorda di avere pensato. Adesso
vorrebbe aver fatto più attenzione a quell'impressione fugace, ben presto
offuscata, spazzata via. Avrebbe pagato in seguito per quella svista.
Nei suoi occhi si sentiva a casa. Gli piaceva il calore della sua pelle,
anche se non l'aveva toccata. Ma sentiva che era calda, come un raggio di
sole che scivola silenziosamente tra le persiane.
Poteva sentire il suo profumo e pensare per un momento che era sempre
stato il suo profumo preferito, anche se non sapeva collocarlo. Non
riusciva a collocare niente di lei. Ma la conosceva... almeno, dice, sentiva
che doveva.
L'astrologo che aveva incontrato nello studio di registrazione durante il
primo album aveva predetto il suo incontro con Inga. Gli aveva detto che
avrebbe incontrato la donna con cui sarebbe stato per sempre. La sua
anima gemella. La compagna che sarebbe stata impressa sulla sua carne
come i sottili fili colorati che attraversano le banconote.
Tuttavia lui sapeva che niente di buono avrebbe potuto provenire dalla
loro vita insieme. Persino il giorno in cui la sposò, aveva paura. C'era qual-
cosa di sbagliato. In quel giorno, nella bella chiesa sopra il mare che
riluceva, piena di amici e familiari, lui si sentì male. Mentre si baciavano,
Rikki sentì che stava morendo.
Caro te,
un'annotazione dai fuori di testa.
Grazie per la lettera. Ci va bene fare l'intervista con te a Miami. L'unico
ostacolo possibile è che stiamo facendo il Midnight Special registrando a
distanza dal Cameo Theater. Siamo in città per fare una manifestazione per
Bobby Seale, o per raccogliere del denaro per le tette di Joan Baez, o
qualche altra cosa del genere.
Crosby, Stili + Nash (le maledette pastiglie per dormire all'amaranto) ci
aiutano. Abbiamo bisogno di un pomeriggio per controllare il suono. Cosa
ne diresti se facessimo l'intervista il giorno dopo, così possiamo riposare?
Altrimenti saremo costretti a mandare segnali a distanza.
Saremo al Bel Air. Ci piace perché, da bravi narcisisti, ci piace trattarli
male e pretendere bambinaie a tempo pieno che eseguono le nostre richie-
ste impossibili. Soprattutto quelle sordide, che hanno a che fare con le
zone basse.
Tutt vuole comprare un cappotto a Miami. Il suo è stato ridotto in cenere
dalla sua ultima donna che sembra una macchinetta mangiasoldi, mentre
girava per la proprietà di Lennon. Qualcosa a proposito di qualcuno che
stava accendendo un fuoco e aveva bisogno di legna. Lei pensava che
avessero detto lana.
Pensi che John falci il prato da solo? Forse costringe Ringo a farlo in
cambio del permesso di entrare negli uffici della Apple a soffiarsi la pro-
boscide.
Non conosciamo bene Miami e ci portano facilmente a credere qualsiasi
cosa, siamo dei turisti ideali. Siamo davvero felici se possiamo farci
portare in giro come una specie strana in prestito da uno zoo della costa
occidentale e ci piacerebbe controllare tutte le cose affascinanti, comple-
tamente degradanti, o al cui ritmo sia facile ballare.
Ieri sera ho scritto quattro canzoni nuove con Tutt. Deve aver inghiottito
un piano. Da qualsiasi parte lo tocchi, ne tiri fuori della musica.
Ci vediamo a Miami.
MAGURK
Rivista Cashbox.
Settembre 1974
Per l'uscita del nuovo album dei Whatever per la VOICE Records, Just
Forget It, i distributori musicali di tutto il mondo stanno dandosi molto da
fare per entrare in contatto con il supergruppo. Parecchie tra le maggiori
catene musicali hanno annunciato progetti per esporre Just Forget It in
tutte le loro vetrine, e distribuire magliette e felpe griffate tra i clienti.
Anche Wallach Music City di L.A. esporrà il manifesto dei Whatever su
tutto il lato del negozio che dà su Sunset Boulevard. Sul tetto, la copertina
dell'album, un cervello di due piani attraversato da una diagonale rossa,
sarà affiancato da una riproduzione lunga sei metri dell'album del debutto
dei Whatever che recentemente è stato pubblicato di nuovo.
La sera dell'uscita, la VOICE Records terrà una festa a inviti
nell'elegante Kaleidoscope Club di L.A. con i membri della band. Tra le
iniziative della costa orientale ci sarà l'allestimento di una carovana di
mezzi della VOICE che trasporteranno i clienti da Central Park ai negozi
di dischi di Manhattan fino alle ore piccole.
Altre feste da «Pazzie di mezzanotte» organizzate a livello
internazionale includeranno spettacoli laser, sessioni di ascolto
gigantesche, e un concerto dal vivo trasmesso via satellite nei cinema.
A chi ha chiesto di questo blitz promozionale, Rikki Tutt e Greg Magurk
hanno risposto stringendosi nelle spalle: «Immagini in cerca di
significato».
Parte di articolo.
Albuquerque, New Mexico.
Luglio 1977
Newsweek.
11 settembre 1974
A cosa pensano Rikki (Ronni) Tutt e Greg Magurk dei Whatever? Le te-
nebre del loro secondo e più recente album, Just Forget It, uscito la
settimana scorsa, hanno scatenato una straziante polemica.
Mentre il primo album della band, l'intossicante Know Means Know era
surrealista alla Lewis Carroll, pieno di cerebralità post-psichedelica, di
pulsioni che danno dipendenza e ghiribizzi lirici, il secondo è più difficile
da collocare. Non c'è niente del sentimento deliziato della band, catturato
sotto una pioggerellina alla Magritte, degli sforzi precedenti; nessuna
invenzione fine a se stessa che ti fa storcere il naso.
La band sta cambiando. Philip Zapata, che adesso è completamente
sintetizzato, e G.G. Wall, con il suo strumento tormentato da Jimi e
dall'esperienza, non riescono a salvare i loro capi rimasti senza fede.
Ascoltare la musica dei Whatever è quasi come guardare un amico
eloquente in preda a una soffocante depressione.
Potrebbe essere che le pagliacciate del Watergate e il conto delle salme
del Vietnam abbiano lasciato Tutt, Magurk e compagnia in uno squallido
funk di cui non riescono a liberarsi? Mentre Just Forget It è un insieme
brillante di canzoni, stupefacenti dal punto di vista lirico, non c'è
possibilità di sbagliare sul fatto che siano deprimenti. L'assassinio della
cultura pop ne riempie ogni nota e ogni parola, e il loro primo obiettivo è
colpire i potenti dei titoli dei giornali. Il governo è in cima alla lista.
«Addicts» è un gioco ossessivo sulla farsa dello scandalo Watergate,
pieno di imprecazioni amare. Nessuno ne esce vivo, incluso G. Gordon
Liddy, John Dean, John Ehrlichman, e l'ex presidente Richard M. Nixon.
La fontana della giovinezza è rossa, non lìmpida.
Il segreto dell'amore gioca sulla paura.
Non dovresti resistere, non c'è motivo.
È uno sporco trucco della vita, le regole dello spinello.
FORTEMENTE RACCOMANDATO
Brutte strade, brutta gente. Bar che lavano via la morte dai loro
marciapiedi ogni mattina. Si erge un capannone abbandonato e in rovina.
Dentro, un tizio che ha fatto un viaggio di migliaia di chilometri all'ora e
ha continuato a viaggiare, si sta svegliando.
Si chiama Oz Peterson, ed era un poliziotto a Chinatown. Fino a quando
lui e il suo partner si erano fatti prendere dagli spacciatori peruviani, e Oz
aveva visto il tizio con cui viaggiava tagliuzzato lentamente, torturato per
strappargli delle informazioni. Il suo partner, Nicky, non parlò. Ma gli ci
erano voluti tre giorni per ucciderlo alla fine. E Oz ha ancora delle
immagini da incubo di Nick, appeso come carne da macello, con gli
squarci del coltello che gli aprono il corpo, che sanguina a morte.
Oz si sfrega mentre si sveglia, si prepara il caffè, mentre un sole coperto
dal fumo si alza nel suo loft. È pieno di tele dipinte di immagini
esorcizzanti di sé. Dopo la sua morte, Oz è scomparso, è crollato, si è
messo a bere, ha perso la strada, sperando che non lo trovassero più.
Era finito a Los Angeles a dipingere, mettendosi a fare dei lavoretti da
investigatore privato quando aveva bisogno di soldi. Sorveglianze per
divorzi, telefoto, diventando grasso. Andava a casa la sera e si metteva a
parlare ad alcune immagini di Huerredura e a dipingere finché le immagini
non iniziavano a fargli paura. Facce. Bambini urlanti. Lame che tagliavano
il sole. Gocce rosse che gocciolavano sul pavimento del suo loft e lo
facevano sedere a gambe incrociate a pensare di farla finita.
Ma un colpo alla porta lo fermò.
Si alzò in piedi, l'aveva già vista. Ma guardò giù, non volendo stabilire il
legame, non volendo correre il rischio di farsi piacere nessuno. E così
avevano viaggiato insieme nell'ascensore del loft, un migliaio di volte e lui
seppelliva la faccia sotto una maschera di morte e lei non chiese mai. Lui
l'aveva sempre ritenuta una puttana. Pallida, vistosa. Capelli da Edgar
Winter, una astrazione ironica. Faccia graziosa, occhi furbi. Occhi che
probabilmente sapevano che lui era chiuso in se stesso e che non avrebbe
fatto domande.
Ma poi lei disse che aveva bisogno di droga. Ne aveva? Era per un
amico. Un braccio affamato che aveva bisogno di qualcosa di buono.
Lui non rispose e lei seppe.
Lei lo convinse ad andare a letto e fece qualche giochino che gli fece
passare il torpore. E si strinsero l'uno all'altra e lui la guardava, sentendosi
in colpa. Cosa ci faceva qua una come lei?
«Qua la gente viene lasciata agli angoli della strada a farsi raccogliere.»
Gli piace. Stare vicino a lei.
Combatte per prendere una decisione. Alla fine tira fuori le manette dal
comodino e le ancora il polso sottile al letto.
Lei si contorce, urla parolacce.
Lui chiama i poliziotti.
E mentre portano via Inga, lui ne schizza la faccia. Lei gli urla dietro, dal
sedile posteriore della macchina di pattuglia. Lui è in piedi sul marciapiedi
lurido, finisce il carboncino. Torna nella sua stanza. Appende lo schizzo e
si ubriaca.
Il moschettiere della stanza ovale, «Gerry», quest'anno sta andando pe-
sante sulle droghe, mettendo la gente in carcere senza libertà condizionata.
Forse Magurk stavolta non riuscirà a tirar fuori Inga.
Anche se l'ha mandata dentro lui.
Time.
10 aprile 1978
Malattia e scintillio.
Prendimi solo la mano.
Non ti farò mai del male.
Sono il tuo più grande ammiratore.
E continua così questa passeggiata mortale tra le fantasie dei media coi
loro falsi sogni. Agli occhi di Tutt, Magurk, Wall e McGoo, L.A. è un
enorme orrendo appetito, dipinto con toni inumani che vanno dal grigio
industriale al rosso che ricorda le ferite da arma da fuoco. Tagliano
un'incisione profonda e tirano indietro la carne per mostrare la povertà
falsamente elegante del mondo dello spettacolo, una festa che affoga i suoi
piccoli nelle bugie prima di mangiarli.
Nelle testimonianze di sangue dei Whatever, la città che riluce
foscamente inghiottisce le vite, mentre le sue strade vengono insozzate da
carne malata, da sguardi più bui del catrame. Le puttane avanzano
impettite, commerciando la morte, e dappertutto questo paesaggio
avvelenato inghiotte la speranza e diffonde, mentre nessuno guarda, il
cancro della città. Da «Hurting Inside», arriva questo brivido spensierato:
(coro)
Ho fatto un colpo,
Trasportando anime perse.
Alcuni mettono in discussione il metodo,
Ma la vita è una questione di obiettivi.
Non contenti di sparare sulla falsità delle luci del neon, si tuffano in una
problematica più profonda con il loro pezzo «Black Sky» fortemente
ambientalista, impostato su una presenza feroce del pianoforte e la vocalità
rabbiosa di Tutt.
(coro)
Il cielo è nero.
L'orologio si è fermato per sempre.
Il cielo è nero.
Le fiamme hanno raggiunto la foresta.
Il cielo è nero.
L'uomo cattivo arriva con un sorriso.
Ha fame ed è vuoto.
Si fermerà per un po'.
Rikki Tutt è a dorso nudo, e si fissa davanti allo specchio. La sua band, i
Whatever, è a Minneapolis, e fa da apertura per il gruppo rock
latinoamericano Malo che suonerà per uno stadio pieno a metà. I giorni
delle sale piene e degli album numero uno sono finiti; questa
programmazione sovrapposta di stili musicali diversi mette le cose in un
rilievo significativo.
Negli anni recenti i Whatever hanno avuto scarse vendite di dischi e
bassa affluenza di pubblico ai concerti. Il gruppo sembra una vittima,
almeno parzialmente, della discomusic. Recentemente, sono stati scacciati
dallo stadio a fischi quando hanno aperto a Sarasota per i KC e i Sunshine.
Allo stesso modo anche nella vita privata hanno vissuto la loro parte di
vera tragedia.
Il chitarrista G.G. Wall è morto per una overdose di eroina a una festa a
Hollywood, data dal megagruppo dei Seahorse. Il batterista Stomp McGoo
è stato messo in prigione per violenza sessuale su una minorenne, sebbene
la ragazza in seguito abbia ammesso di aver mentito. Stomp si è riunito al
gruppo per la produzione del disastrosamente impopolare album, Skin and
Bones.
Per un tour Wall fu sostituito da Snap Brown, che aveva suonato con
Billy Preston, Blood, Sweat and Tears, la Eric Burdon Band, Howlin'
Wolf, e suonava regolarmente a Londra e New York.
Brown ha lasciato il gruppo dopo otto mesi per formare gli SHAKE, un
gruppo di risonanza internazionale che si distingue per un'allegra musica
dance e colorati costumi da calipso. Il loro primo album, Boogie Bay, è nu-
mero uno in America e in Gran Bretagna, e tutte le composizioni sono di
Brown.
Anche se Magurk e Tutt sono apertamente critici della musica di Brown,
e dicono di provare orrore per il fatto che Brown sia una superstar, Brown
non risponde mai sulla stampa. Il suo album da solista French Eyes, occhi
francesi, e stato ridicolizzato da Tutt e Magurk che lo hanno chiamato
«French Fries», patatine fritte, e hanno paragonato il suo istinto musicale a
un fast food.
Nel frattempo, i Whatever continuano a fare concerti per pagare le spese
legali che aumentano a spirale a causa della vertenza in corso con il loro ex
manager Lenny Lupo che, sostengono, si è appropriato indebitamente dei
diritti dei loro quattro album. Lupo obietta che è tutta un'invenzione e che
è stato licenziato quando aveva ancora interessi negli album che la band
aveva fatto e nei progetti futuri, in caso ce ne fossero.
«Spazzatura inventata», dice Tutt.
Il gruppo è stato anche querelato dai genitori della quindicenne che era
stata picchiata a morte al loro concerto di Atene del 1978. La polizia greca
dice che il servizio d'ordine privato assunto dai Whatever non ha fatto
niente per intervenire quando la ragazza è stata aggredita da una folla
indisciplinata, arrabbiata perché i Whatever avevano dovuto abbreviare il
loro concerto a una sola ora per il collasso che G.G. Wall aveva avuto sul
palco. È dura stabilire se il gruppo sia riuscito a riprendersi dopo la sua
morte per overdose.
«Mi manca», ammette Tutt. «Non so... forse è stato intelligente a
tirarsene fuori. Il mondo si sta addormentando. A nessuno importa niente.
È un torpore globale. Voglio dire, un dannato attore è in corsa per la
presidenza.»
«Corre a piedi, se è per quello», aggiunge Magurk.
«Oh, cammina adesso?» Tutt mastica del sedano.
Magurk quasi sorride.
«A un certo punto qualcosa non ha funzionato», dice. «Voglio dire che
la dannata Donna Summer è numero uno. Sono stato a trovare mia madre a
Sarasota, e anche lei ne è condizionata.»
Tutt manda giù un sorso di tequila. «Forse è solo tuo padre. Lui è un tipo
tranquillo.» Fa un cenno. «Ti dirò, la gente una volta credeva che avessimo
qualcosa da dire.»
«Lo avevamo?» chiede Magurk.
Tutt non dice niente. Finisce la tequila.
«Chiedilo ai Bee Gees.»
E tu?
1980-1989
Smantellare l'architettura della fortezza
smantellare il muro
di David J. Schow e Craig Spector
Un bambino di sei anni vive e respira grazie ai morti, alla famiglia, agli
amici, agli estranei, tutti resi uguali da grosse macine. Corre voce che la
polvere setacciata sia usata per fare la malta (per costruire le prigioni) o
per cuocere il pane (per ingannare i loro stomaci); scherzi di questa
portata vanno oltre la sua capacità di comprensione. Lui è stato testimone
dei ghetti, dei forni e delle fosse comuni. I suoi guardiani ridono sempre
per la sua faccia macchiata di fuliggine e per le sue mani nere. Diverte i
suoi padroni con il suo fegato e la sua abilità. Gli basta per guadagnargli
un nuovo lavoro e mantenerlo in vita. Almeno fino a quando compirà sette
anni.
***
***
Henri salì scortato dalla pistola verso una morte sicura. Non era riuscito
a sterminare nemmeno uno dei mostri che stavano in fondo alle scale. Non
era un uomo religioso, quindi non poteva cercare conforto negli ultimi riti
o nelle preghiere.
Cosa aveva ottenuto?
Aveva camminato dritto nella loro tana, un ebreo nel folto della con-
nivenza nazista, una trasgressione punibile con un proiettile in testa. Non
aveva avuto paura. Aveva, in effetti, sentito un inspiegabile senso di
sicurezza e di finalità, di qualcosa di positivo, fino dal momento in cui era
stato ammesso nella casa di Koepp, senza essere ostacolato, con l'aiuto
dell'uomo che adesso aveva intenzione di ucciderlo.
Perché?
Gelft, l'uomo che spingeva avanti Henri con il fucile, rispose a tutte le
domande che lui non aveva espresso sussurrando un'unica parola.
Doppelgänger.
La vista di Henri si fece confusa: provò un attacco di nausea che gli
diede le vertigini. Gelft era Doppelgänger? Fino a ora, quel nome in codice
non era stato nient'altro che una voce al telefono, senza età, senza sesso.
Gelft era l'Istituto, un mago del doppio gioco all'interno della rete della
Schwarze Spinne, che dopo aver fatto un altro mezzo giro cadeva in piedi,
con un risultato perfetto, proprio dentro la cerchia degli intimi di Koepp.
Gelft continuò a recitare il suo ruolo mentre spingeva Henri verso
l'ingresso al piano di sopra. Libertà sotto tiro. Il cuore di Henri si fece più
leggero. Forse dopo tutto in questo mondo il bene esisteva davvero. Con la
porta d'ingresso a pochi metri di distanza, Gelft chiese a Henri se riusciva a
ricordare la sua storia.
Prima che Henri potesse rispondere o chiedergli cosa voleva dire, il
mondo si trasformò in una luce brillante.
1990-1999
La parola
di Ramsey Campbell
Per S.T.Joshi
JESS KRAY
LA PAROLA
Per la prima volta da che ricordo, non vedo l'ora che cominci la mia
giornata in banca. Potrei perfino essere in grado di sopportare la gente al di
qua dello sportello senza digrignare i denti. Ma quel pomeriggio Mag, una
delle ragazze di mezza età, entra nella stanza con un giornale della sera e
quasi me lo sbatte in faccia come se fosse colpa mia. «Guarda qui. Quando
la finiranno? Non so dove andrà a finire il mondo.»
Non voglio leggere altro, tuttavia afferro il giornale. L'articolo dice che
durante il programma radiofonico che ho ascoltato, Kray aveva affermato
che il suo libro era migliore della Bibbia e che quindi la gente avrebbe
fatto meglio a leggere la sua opera. Un vescovo si è rivolto alla polizia
presentando una denuncia e una setta chiamata Cristo Risorgerà invita tutti
i cristiani a distruggere La parola ovunque lo trovino. Anche se non è sulla
strada di casa, faccio in modo di passare davanti al negozio in cui ho
rubato la mia copia. Al terzo giorno, una mezza dozzina di Zelanti, armati
di cartelloni con la scritta CRISTO NON KRAY stanno manifestando
davanti al negozio.
A quanto pare la polizia non ritiene che valga la pena di perderci molto
tempo, e io spero che il gruppetto si scoraggi presto, perché in questo
modo stanno facendo pubblicità a Kray. Ma il giorno dopo sono diventati
otto, e quello successivo dodici, e durante il fine settimana molti
ammiratori di Kray si mettono a leggere La parola ai dimostranti per fargli
comprendere quanto si stiano sbagliando. Ho la sensazione di non aver
avuto nemmeno il tempo di respirare e già quasi tutte le librerie del paese
si ritrovano davanti alle vetrine un gruppetto di buffoni che continuano a
leggersi a vicenda La parola, la Bibbia o il Corano. A quel punto Kray
decide di presentarsi davanti a tutte le librerie per parlare con i dimostranti.
Continuo ad ascoltare tutti i notiziari per vedere se finalmente è passato
nel dimenticatoio, ma non ho tanta fortuna. Per tutto il tempo che rimango
in camera, sento la presenza del libro nella stanza. Lo getterei via, ma
qualcuno potrebbe finire per leggerlo... potrei farlo a pezzi e bruciarlo, ma
allora sarei come quelli di Cristo Risorgerà. Il giorno in cui, in banca,
all'ora di pranzo tutti parlano del fatto che Kray è in città, mi scervello per
cercare qualcos'altro da fare, qualsiasi cosa piuttosto che trovarmi in
mezzo alla folla. E se fosse proprio questa l'occasione in cui verrà
fermato? Mi piacereebbe proprio assistere alla scena, e così vado anch'io.
Devono esserci almeno un centinaio di persone radunate fuori dalla
libreria. Qualcuno ha dato a Kray una sedia sulla quale salire, ma Dio solo
sa chi è stato a fare in modo che un raggio di sole lo illuminasse. Sta
rispondendo a una domanda: «Se ascolta la registrazione della mia
intervista, si renderà conto che non ho mai detto che il mio libro fosse
migliore della Bibbia. Non sono sicuro di che cosa significhi sicuro in quel
contesto. Spero, solo che il mio libro contenga tutti i grandi libri».
E sorride, e io rimango in attesa che qualcuno gli salti addosso, ma
nessuno si fa avanti, neanche per un attacco verbale. Sento che la mia voce
si fa faticosamente largo per uscire dalla bocca e tutto quello che mi viene
in mente è la tipica domanda che i cervelli in pappa porgono agli scrittori
durante i congressi: «Dove ha trovato quelle idee?»
Sono così tanti quelli che si voltano a fissarmi, che credo di aver fatto la
domanda che Kray non voleva sentire. Ho la sensazione che mi stia osser-
vando con più occhi di un ragno, di un intero nido di ragni... ancora di più
di quante sono le persone che stringono in mano una copia della sua
storiella. Kray guarda nella mia direzione in generale, cercando di farmi
credere che non mi ha riconosciuto o che non sono degno di essere
riconosciuto. «Sono nel mio libro.»
Vorrei domandargli perché finge di non conoscermi, ma non sono certo
che suonerebbe come un'accusa, e la possibilità che alla domanda venga
dato un altro significato mi fa stridere i denti dall'orrore. Ma non intendo
accettare una delle sue facili risposte e grido: «Chi sono nel libro?»
L'ammiratrice di Kray più vicina smette di riprenderlo con una cinepresa
e si volta verso di me. «Le sue idee, voleva dire. Si stava parlando delle
sue idee.»
Non mi va che mi si dica di che cosa stavamo parlando, soprattutto se a
farlo è una che non sa nemmeno pettinarsi e tenere chiusa la bocca, e mi
chiedo se non stia cercando di impedirmi di fare la domanda che non mi
ero accorto avesse tanta importanza. «Chi ha conosciuto in Florida?»
grido.
Kray punta lo sguardo su di me ed è come se il suo sorriso si stesse inci-
dendo nella mia testa. «Alcuni anziani le cui vecchie idee stavano per
andare perse. Sono nel mio libro. Ci siamo tutti nei libri che contano.»
Forse nota che sto per chiedergli dei tre libri che vorrebbe dimenticassi-
mo, perché soggiunge: «Come stavo per dire, chiedo di rispettarci l'un l'al-
tro. Concedetemi di non criticare La parola finché non l'avrete letto. Se
qualcuno si sentirà danneggiato dal mio libro, desidero esserne informato».
Potrei essere scomparso o non esserci mai stato. Quando smette di parla-
re, in attesa di una reazione, è come se il suo sorriso si fosse incollato sulla
mia bocca. Un mormorio percorre la folla, ma nessuno sembra voler porre
delle domande. Tutte le proteste sono state ingoiate dalla vaghezza. A quel
punto due sorveglianti si staccano dalla folla e scortano Kray fino a una
limousine che si è fermata proprio dietro di me. Allungo un braccio con
l'intenzione di toccarlo e... non so che cosa voglio, ma uno dei guardiani
mi spinge di lato. Scorgo la schiena di Kray, poi la limousine si allontana
rapidamente, tutti si mettono a parlare fra di loro e io devo prendermi il
pomeriggio libero perché non riesco nemmeno a vedere il denaro in banca.
Ogni volta che l'emicrania si attenua, la mia testa si riempie di pensieri
su Kray e sul suo libro. Quando, nell'oscurità, percepisco la presenza del
libro accanto a me, non posso fare a meno di esprimere un desiderio...
auguro all'autore e alla sua opera di finire all'inferno e di restarci fintanto
che dura il mio mal di testa. È la prima volta che desidero credere
nell'inferno. Non che io sia arrivato al punto di credere che i desideri si
realizzino, ma certo mi sento meglio quando alla radio dicono che i
progetti di Kray non sono andati come lui voleva. Alcuni leader
musulmani lo accusano di distogliere dall'Islam le pecorelle del loro
gregge.
Continuo a leggere i giornali e ad ascoltare i notiziari nel caso qualche
ayatollah abbia messo una taglia sulla sua testa. Alcune librerie di città
infestate da musulmani o nascondono le copie del libro oppure le
rispediscono alla casa editrice, e io spero ardentemente che il panico
continui a diffondersi. Ma subito dopo viene annunciato che Kray si
incontrerà pubblicamente con i leader musulmani e discuterà La parola
con loro.
Un programma notturno sulle cosiddette arti trasmetterà la discussione
dal vivo. Non assisto alla trasmissione perché non conosco nessuno che mi
permetta di guardare il suo televisore, ma mentre sta andando in onda
spengo la luce e mi siedo accanto alla finestra. Fuori sono sempre più
numerose le finestre che si illuminano, come se la città pullulasse di gente
desiderosa di sapere che cosa accadrà a Kray. Apro la finestra e mi metto
in ascolto, pensando di sentire le grida dei musulmani e forse anche gli
strilli di Kray, ma non c'è mai stata maggior tranquillità. Quando il silenzio
comincia a far sì che la mia testa si riempia di pensieri che non voglio
avere, me ne vado a letto e sogno Kray su una croce. Ma la mattina dopo,
in banca tutti parlano di come i musulmani alla fine siano passati dalla
parte di Kray e come uno di loro, un professore universitario, tradurrà La
parola nella lingua che parlano i musulmani. Qualunque essa sia.
E tutti quanti, perfino Mag che non sapeva che cosa ne sarebbe stato del
mondo con tipi come Kray, dicharano di ammirarlo, di essersi innamorati
di lui e del modo in cui si era comportato, e che avrebbero voluto andarlo a
vedere quando era venuto in città. Quando affermo di avere una copia di
La parola e di non riuscire a leggerla, mi guardano pieni di compatimento.
Tre di loro mi chiedono di prestargli il libro e io rispondo che possono
andare a comprarselo, visto che non ho mai pagato la mia copia, dopodiché
fortunatamente nessuno mi parla più molto. Continuo a sentire che parlano
di Kray e mi rendo conto che pensano a lui; durante l'ora di pranzo due dei
miei colleghi comprano La parola, e tutti gli altri, perfino il direttore,
vogliono dargli un'occhiata. Sono circondato da Kray, soffocato da una
massa di lui. Comincio a chiedermi se, a parte me, c'è qualcuno al mondo
che sa chi è realmente. Finalmente la banca chiude e quando esco
dall'edificio, due seguaci della setta Cristo Risorgerà mi stanno aspettando.
Sono entrambi vestiti come impiegati statali e hanno l'aria di trascorrere
metà della vita a lavarsi la faccia e a lucidare le croci che gli pendono dal
collo. Si fanno avanti contemporaneamente non appena esco alla luce del
sole e la ragazza mi dice: «Lei lo conosceva».
«Io, no, chi? Conoscevo chi?»
Il suo ragazzo, o chiunque sia, mi tocca il braccio come fosse un segnale
segreto. «Abbiamo visto come gli ha fatto confessare chi aveva
incontrato.»
«Sediamoci da qualche parte e parliamo», mi invita la ragazza.
Ogni volta che si muovono, le croci mandano dei bagliori, finché sento
gli occhi come un intero cimitero di croci bruciate. Perlomeno questa
coppia non ha accettato ciecamente La parola e forse parlare con loro
potrebbe essere meglio che restarmene chiuso in camera. Troviamo una
panchina che non è piena di disoccupati, la liberiamo dei cartocci di
McDonald's e i seguaci della setta si siedono accanto a me, uno da una
parte e una dall'altra, anche se mi ero messo quasi in fondo alla panchina.
«Era un suo amico?» domanda la ragazza.
«A quanto pare lui vuole essere amico di tutti», rispondo.
«Non amico di Dio.»
Non importa chi è stato a pronunciare questa frase; poteva essere stato o
l'uno o l'altra. «Allora, quanto ne sa di ciò che è successo in Florida?»
«Solo quello che ha detto lui quando gliel'ho domandato.»
«Lei dev'essere sincero con noi. Non c'è nulla che possiamo fare a
riguardo se non abbiamo fiducia nella verità.»
«Perché no?»
Questo li lascia sconcertati, perché è ovvio che non sono abituati a
pensare. Poi si riprendono: «Abbiamo bisogno di sapere tutto ciò che
riusciamo a scoprire su di lui».
«Chi è noi?»
«Pensiamo che lei potrebbe essere uno di noi. La pensiamo nello stesso
modo, ce ne siamo accorti.»
Ma questo è proprio quello che non farò mai con nessuno. Sto quasi per
balzare in piedi, appoggiandomi sulle loro teste fresche di shampoo in
modo che non possano seguirmi, ma voglio che mi dicano ciò che sanno di
Kray che io non so. «Forse è per questo che gli ho domandato della
Florida. So soltanto che l'ultima volta che l'ho incontrato, stava per andarci
e, quando è tornato, ha scritto La parola. Allora, che cosa è successo?»
Si scambiano un'occhiata, poi tornano a fissarmi. «Ci sono persone che
sono scese da una montagna quasi cento anni fa. Sappiamo che ha
incontrato queste persone, o qualcuno a loro collegato. Questa dev'essere
l'origine della sua forza. Nient'altro gli avrebbe permesso di averla vinta
sull'Islam.»
Non avrei mai creduto che qualcuno potesse dire cose più insensate di
Kray. «Aveva lo stesso fascino anche quando era soltanto un appassionato
di libri di fantasia. Ha una dote particolare per rendersi simpatico a tutti
quelli che conosce e per promuovere se stesso.»
«Dev'essere in questo modo che è riuscito ad apprendere il segreto
giunto dalla montagna. Che cos'altro è in grado di dirci?»
Mi va benissimo aumentare la loro diffidenza nei confronti di Kray, ma
non ho intenzione di fargli credere che ho cercato di aiutarli. «Nulla»,
rispondo, e mi alzo.
Affondano contemporaneamente le mani nelle tasche delle giacche alla
ricerca di opuscoli. «Prenda questi, per favore. Il nostro indirizzo è sul
retro, nel caso volesse mettersi in contatto con noi.»
Potrei rispondere che questo non succederà mai e accartocciargli i loro
foglietti sulla faccia, ma fintante che stringerò gli opuscoli in mano,
nessuno mi potrà scambiare per un ammiratore di Jess Kray. A casa, gli do
un'occhiata e mi rendo conto che sono proprio stupidi come pensavo, pieni
di citazioni tratte dalla Bibbia sull'Apocalisse e l'anti Cristo e l'antigelo e
Zio solo sa che cos'altro. Li infilo sotto il letto e cerco di credere di aver
aiutato i seguaci della setta a incastrare Kray. Continuo a sperarlo fin
quando non vedo la sua fotografia sulla copertina della rivista Time.
A quel punto metà della banca ha letto La parola. Li ho visti ridere o
piangere o restare assolutamente immobili mentre lo leggono durante le
pause e, una volta finito, sembra che abbiano un segreto che vorrebbero
rivelare a tutti. Io non chiedo nulla. Mi sono quasi masticato la lingua.
Chiunque fa domande sul libro, si sente rispondere «leggilo», oppure «devi
scoprirlo da solo», e mi chiedo se nel libro ci sia scritto di far in modo che
venga letto da più persone possibili, come un tempo avevano scritto sui
poster di non svelare la fine dei film. Continuo a non toccare la mia copia
di La parola, ma un giorno mi intrufolo in una libreria per leggere l'ultima
pagina. Naturalmente non ha alcun senso, ma ho l'impressione che se
leggessi la pagina precedente comincerei a comprendere qualcosa, perché
forse il libro può essere letto anche tornando indietro, oltre che andando
avanti. Getto il libro sul bancone e mi precipito fuori dal negozio.
Perlomeno hanno tolto La parola dalla vetrina per far spazio a un altro
chilo di grasso in giacca e cravatta, ma continuo a vedere gente che lo
legge per strada. Ogni volta che vedo qualcosa mandare un bagliore in
mezzo a una folla, temo che sia un'altra copia che cerca di attrarre
l'attenzione su di sé. A casa, sento che sta cominciando a circondarmi là
fuori, nell'oscurità, e mi dico che ne ho una copia che nessuno sta
leggendo. Ma devo prendere il treno e andare a fare delle passeggiate in
campagna per allontanarmi dal libro... è l'unico modo di essere certo che
nessuno lo sta leggendo nelle vicinanze. E quando torno da una di quelle
gite, lo vedo che mi osserva dalla bancarella della stazione.
Sembra un poster che invita ad arruolarsi nel suo esercito e che non ha
bisogno di indicarti con un dito. Mentre fingo di sfogliare la rivista, faccio
cadere tutte le copie di Time sul pavimento della biglietteria, tranne quella
che mi infilo nella parte anteriore dei pantaloni. Durante tutto il tragitto
verso casa, sento il mio pene che si strofina sulla sua bocca, e una volta in
camera mia, mi faccio una bella risata vedendo la macchia che ho lasciato
sulla sua faccia, prima di mettermi a cercare le facce che parlano di lui.
Il titolo dice CHE COS'È LA PAROLA? scritto con gli stessi caratteri
usati per la copertina del libro. Forse nell'articolo troverò ciò di cui ho
bisogno per togliermelo per sempre dalla mente. Dice solo di come abbia
comprato una casa per i suoi genitori in Florida con una parte dell'anticipo
ricevuto, e di come il libro sia in corso di traduzione in tredici lingue, e io
comincio a vomitare. Poi la scribacchina cerca di spiegare che cosa rende
La parola un tale fenomeno editoriale, come lo definisce. E quando sono
quasi diventato cieco a furia di leggere quello che ha scritto, giungo alla
conclusione che si tratti di un altro dei trucchi di Kray.
Dice tropppo e niente. La giornalista non sa se la parola è il libro o
l'autore o le parole che sembrano essere state inserite per errore. Kray le ha
detto che se un libro non è linguaggio, npn è nulla. «Di conseguenza, forse
dovremmo prenderlo in, scusate il bisticcio, parola.» Kray aveva detto che
si limitava a mettere le parole sulla carta e che toccava a ogni lettore
decidere qual era il loro significato. Così la giornalista aveva messo
insieme un branco di cretiche, di tipe fasulle sempre pronte a dire la loro e
di scrittrici di grido così che potessero discutere La parola.
Se fossero stati presenti, gli avrei spiaccicato la faccia l'una contro
l'altra. Era il libro più divertente che avesse mai letto, diceva qualcuna, il
più commovente diceva un'altra, e tutte concordavano con entrambe. Una
donna paragonò il romanzo a I Racconti di Canterbury, e a quel punto
comincia una discussione sul fatto che fosse un personaggio a raccontare
la storia, o diversi, o se invece tutti i personaggi fossero la stessa persona
che agisce in un particolare stato mentale oppure se si tratta di un nuovo
tipo di relazione tra tutti loro. Una professoressa fa notare che la Bibbia è
stata scritta da molte persone, ma non ci si accorge di questo quando se ne
legge una traduzione mentre, secondo lei, era possibile riconoscere
quando, nel libro di Kray, le voci cambiavano, «così come tante sono le
voci delle persone che comprendono il libro». Questo dà loro lo spunto per
iniziare a parlare dell'idea contenuta ne La parola, secondo la quale
nell'era biblica la gente viveva più a lungo perché, da un punto di vista
temporale, era più vicina all'origine, come se questo spiegasse per quale
motivo oggigiorno la gente vive più a lungo o tutto quello che ci accade,
con l'universo che va alla deriva, avvicinandosi allo stato in cui era prima
che si formasse. Poi una tira fuori quella stronzata sulla gente che
commette più peccati per fare in modo che le loro azioni riportino alla
crocifissione, altrimenti Cristo non tornerebbe, oppure il libro intende dire
che gli esseri umani devono sapere quando fermarsi prima di gettare lo
scompiglio nell'equilibrio mondiale, ma nel frattempo, a questo punto devo
far scorrere un dito sotto le parole e leggerle a voce alta, anche se questo
mi fa peggiorare il mal di testa. L'articolo continua per diverse altre
colonne nelle quali le esperte assicurano che se si legge La parola a voce
alta ci si trova davanti a un testo di poesia e alcuni passaggi suoneranno
quasi come musica, e come nel libro vi siano sviluppi delle idee tratte da
Sufismo, Upanishad, Buddismo, Baha'i, Cabala, Gnosticismo, nonché da
miti greci, romani e altri ancora più antichi; continuo a scorrere le parole
con l'unghia che graffia la carta fino a quando giungo alla fine dell'articolo
con qualcuno che dice: «Ritengo che l'essenza di questo libro possa
rappresentare il necessario mito dei nostri tempi». E tutti concordano, e io
faccio a pezzi la rivista e cerco di dormire.
Mi sembra di sentire ancora il loro chiacchiericcio, come se Kray si ser-
visse delle loro voci per fare in modo che la gente decida di leggere il libro
per scoprire di che cosa stavano vaneggiando. Le sento anche la mattina
successiva mentre mi dirigo verso la banca, e mi chiedo quante di loro
verranno citate dall'editore sulla copertina dell'edizione economica, e a
quel punto mi rendo conto che aspetto già con terrore l'uscita dell'edizione
economica perché ci sarà molta più gente che se la potrà permettere. Sono
terrorizzato all'idea di trovarmi circondato da gente che ha in testa solo
Kray, perché a quel punto il mondo sembrerà ancor di più come un luogo
in cui mi trovo a vagare per errore. Mi viene quasi da ridere pensando che
preferirei non avere la conferma che la gente è stupida come ho sempre
pensato.
La polizia non gli disse niente; lo rassicurò soltanto sul fatto che
sapevano come comportarsi e che sarebbe stato meglio se prima avesse
risposto alle loro domande, cosa che lui fece, e che poi li avesse lasciati
lavorare senza chiedere a che punto fossero ogni momento. Questa fu la
parte più difficile. Dal momento che lui non era un sospetto (al momento
dell'assassinio era stato a un centinaio di miglia di distanza, ad aiutare la
madre malata attraverso gli orrori del suo terzo Natale con il morbo di
Parkinson; così aveva testimoniato, anche se in verità non distingueva un
giorno dall'altro) ne conseguiva che c'erano due tipi di sospetti. Il primo:
qualcuno che Mary Elizabeth conosceva, un amico, o un collega di lavoro.
Il secondo: un estraneo psicotico il cui sentiero lei era stata abbastanza
sfortunata da attraversare per caso. La prima ipotesi sembrava improbabile
alla mente di Devlin, persino assurda. Mary Elizabeth aveva una piccola
cerchia di amici, per la maggior parte donne che stavano gentilmente
scivolando nella mezza età, c'erano persone gradevoli, la maggior parte
delle quali aveva incontrato anche lui ai picnic organizzati dalla ditta e
cose simili. Non c'era nessuno di cui non si sarebbe fidato. Il che lasciava
la sua seconda ipotesi come l'unica spiegazione possibile. Sua moglie
aveva incontrato la morte per caso, perché le era capitata davanti. E per
ogni ora di ritardo che la polizia accumulava nell'inseguimento del-
l'assassino, facendo domande asinine su uomini e donne che non avevano
nessuna colpa nella faccenda, più grande diventava la possibilità che il col-
pevole sfuggisse, e per sempre. Impensabile! Che la sua amata potesse
essere portata via in questo modo e che il ladro non fosse punito. Ma
mentre i giorni passavano (e le notti: non dormiva, non voleva nemmeno
dormire, con il letto vuoto accanto a lui), più diventava frustrante, e più
diventava sicuro che se giustizia in questa faccenda doveva essere fatta,
avrebbe dovuto essere lui l'uomo che la dispensava.
Ed è così che arriva alla casa che non sì nota a Camberwell, con il suo
prato curato e la sua porta blu, e viene invitato dentro a un posto così
completamente diverso dall'esterno che è come se fosse uscito dalla realtà
della veglia per finire in un sogno. Il nome della sua guida è Shirley
Dunbar. Ha circa cinquant'anni, di recente si è fatta bionda, e potrebbe
essere stata una bellezza una cinquantina di chili fa. Ha preparato uno
spuntino per entrambi: panini al prosciutto, un dolce natalizio pieno di
frutta e rum e dei bicchieri di scotch. Goditeli, dice, mentre sono seduti nel
salotto scuro, con le sue pareti di gesso ricoperte con centinaia di piccoli
pezzetti di lino su cui sono tracciati segni incoerenti: questa è l'ultima volta
in cui devi mangiare o bere per ventiquattr'ore. Puoi prendere un po'
d'acqua, ma niente di solido. Prima di partire hai bisogno di pulire il tuo
sistema.
«Partire per dove?» chiede Devlin.
«Indietro a vedere cosa è successo», risponde Shirley. Ha un boccone di
dolce e whisky in bocca e lo assapora mentre parla. «Prenderai la luce e
tornerai indietro.»
«Pensavo che tu...»
«Io?»
«... pensavo che fosse quello che fanno i veggenti. Tu vai... io non so... a
parlare ai tuoi spiriti, o quel genere di cose.»
«No, non io.»
«... ma io non...»
«Cosa?»
«Non so niente di tutto questo.»
«Tu conosci tua moglie», risponde Shirley. «Io no. Tu l'hai vista morta.
Io no. Probabilmente tu sei stato nel posto in cui è stata trovata...»
«Sì.»
«... io no. Vedi io sono solo qua per aiutarti.»
«Quindi tu non?...»
«Viaggi?»
«Sì.»
«No. No, se posso evitarlo. Quando ero più giovane, bene, sì,
occasionalmente andavo. Allora ero più interessata, immagino. Pensavo
che ci fossero più cose da conoscere di quanto non fosse vero.»
«Più cose da conoscere?»
«Il grande schema delle cose», risponde Shirley, mentre con le mani
tozze descrive dei cerchi davanti a sé. «Ma naturalmente si impara...»
«Cosa?»
«Che non c'è niente. Ci siamo solo noi che vogliamo, sai, e il nostro
volere non è abbastanza, vero? Voglio dire, alla fine. Semplicemente non è
abbastanza.»
Devlin non è sicuro di quanto stia capendo di tutto questo, ma decide di
non fare altre domande, cosa che a Shirley va bene, perché può mettere
insieme i pensieri senza bisogno di essere stimolata. Gli racconta,
attraverso una sorprendente serie di frammenti, la storia della sua vita.
Nata a Belfast, sposata all'età di diciassette anni, perse tutti i suoi figli per
malattia, e scoprì i suoi doni quando suo marito (per tutto il tempo lo
chiama il signor Dunbar) scappò via con una sua amica, e lei rimase in una
casa vuota a trastullarsi con la pazzia. Ha un dono, che forse le viene da
sua madre - un modo di forare il velo, come dice lei, che sta tra noi e i
morti. Una volta che si è impadronita della natura del suo talento, dice, non
c'è modo di tornare indietro. È come se la donna che era stata fino a quel
momento fosse evaporata. Continua a tenere il nome Dunbar — invece che
riprendere il suo nome da ragazza - come un modo di ricordare a se stessa
che una volta era una donna sposata come tante altre.
Alla fine arriva al punto cruciale del suo monologo. «Ti starai chieden-
do», dice lei, «dove porta tutto questo.»
«Bene...» inizia Devlin.
«La fiducia è importante», risponde lei. «Voglio dire, ci sono io e ci sei
tu, e ci deve essere fiducia, vero, quando veniamo portati insieme a questo
modo.»
«Tu pensi che siamo stati portati insieme?»
«Oh, sì. Era il tuo destino venire qua, Devlin», gli dice. Devlin vuole
chiedere da dove viene questa fede, dal momento che gli è sembrato che
negasse ogni grande schema, ma decide di non interrompere il flusso, di
lasciarla parlare. «Ci sono delle cose in questa casa...» dice «... cose che
non si trovano a Roma o a Gerusalemme. E sai, è buffo, penso che stiano
meglio qua di quanto non siano mai stati in qualche elaborato reliquiario.
La maggior parte delle cose sacre nel profondo sono umili, vero?
Un'unghia, una ciocca di capelli, una pietra...» La voce è diventata più
bassa mentre parla di questi tesori, e ogni minima ombra di dubbio ha
lasciato il cuore di Devlin. Guarda la sua faccia rubiconda per il whisky e
sa che non si tratta di una recita. Parla di pezzi di cose comuni portate, per
le loro associazioni con il miracoloso, a uno stato di esaltazione. E se
questo è possibile per una pietra o per un'unghia, pensa lui, perché non
per un uomo? E con questi pensieri, sente la prima traccia di speranza che
ha provato da quando ha perso la moglie.
Non può fare a meno di parlare adesso; si sente pieno di potere.
«Voglio iniziare», dice. «Per favore, voglio iniziare.»
«Hai già iniziato, non vedi?» gli dice. «Hai iniziato nel momento in cui
hai sentito il mio nome. Ma voglio che tu capisca le conseguenze di questo
viaggio.»
«Non mi importa.»
«Dovrebbe», gli dice con durezza. «Questa non è una questione di vita e
di morte. Quello sarebbe facile. No. Questa è... questa è...»
«... cosa?»
«È difficile trovare le parole», risponde lei. Poi, dopo una pausa per pen-
sarci sopra: «Capisco il tuo dolore, e voglio aiutarti a lenirlo, ma c'è solo
un oggetto in questa casa che ti possa aiutare davvero nella tua ricerca. È
una fiamma».
«Una fiamma?»
«Una specie. Vedrai tu stesso. Come ho detto, è una fiamma. Ma... è
molto più di questo. È stata portata qua nel primo anno del mio... come
dovrei chiamarlo?... della mia seconda vita. L'uomo che l'ha portata voleva
liberarsene, e me l'ha data.»
«Cosa fa?»
«Illuminerà la strada, di ritorno verso la tua vita. Fino al momento in cui
è morta, se è quello che vuoi vedere.»
«È quello che voglio vedere.»
«Quello e solo quello?»
«Sì.»
«Giuri?»
«Sì.»
«Questo è molto importante, Devlin.»
«Non capisco, perché?»
«Bene, te lo dirò. Le cose sacre hanno una mente per conto loro. Le cose
non sacre, lo stesso. Hanno... intenzioni. Non tutte. Alcune sono solo
quello che sembrano. Ma questa fiamma...»
«Intenzioni di fare cosa?»
Shirley si stringe nelle spalle, versandosi un altro grosso bicchiere di
whisky. «Ti sto solo avvertendo per essere sicura di quello che vuoi.»
«Voglio sapere chi ha ucciso mia moglie», risponde Devlin. «Cosa po-
trebbe essere più semplice di questo?»
Gli dice di tornare al tramonto del giorno seguente. Gli dice che
dovrebbe indossare cotone o seta, scarpe di pelle - nessun materiale fatto
dall'uomo. Ripete le sue istruzioni sul non mangiare. Lui le chiede cosa si
dovrebbe aspettare. Lei gli dice che non lo sa. Ogni caso è diverso, dice.
Questa non è una scienza esatta, dice. Trattiamo, dice, con il contenuto
delle nostre anime, e solo un pazzo direbbe che lo capisce. Poi gli dice di
andarsene, cosa che lui fa, ritorna nel mondo reale con la percezione delle
cose cambiata considerevolmente. Mentre guida a casa deve fermarsi
almeno una dozzina di volte, perché la sua mente semplicemente vola via.
Si trova a chiedersi quanto del mondo intorno a lui ha cambiato di
significato. Ogni centimetro di asfalto sotto le ruote della macchina, ogni
farfalla morta spiaccicata contro il finestrino rappresentano forse un
frammento di qualche vasto mistero? C'è potere nella materia morta delle
sue unghie, o nella saliva che si secca agli angoli della bocca? Se è così,
che mondo è questo? E quanto, quanto desidererebbe poterne parlare a
Mary Elizabeth.
(Forse a questo punto è opportuna una parola su Shirley. Lei è nella casa
da cui Devlin è appena uscito, distesa sul pavimento del bagno, dove ha
appena avuto un potente colpo che l'ha lasciata immobilizzata. Nelle
prossime tre ore questa paralisi si dimostrerà fatale. Lotterà per
raggiungere un telefono, ma non ci riuscirà. Pregherà, ma non le verrà
inviato alcun aiuto. Alla fine, nel bel mezzo di una pozza di urina, con il
corpo che le muore intorno, renderà grazia per una vita vissuta con uno
scopo. E mentre lei rende grazia, si dimentica di se stessa, o almeno si
dimentica della sua condizione attuale. È di nuovo nelle strade di Belfast,
all'età di nove anni. Nove anni benedetti, nove anni innocenti. Prima che
scoprisse cos'era il sesso; prima che perdesse la fede in Dio e in Padre
O'Connor, prima che sua madre diventasse stanca e avesse i capelli
bianchi. Un giorno d'estate, e lei in Galway Street, che passeggia come in
sogno, odorando il verde delle colline.
È lì che vive quando muore: in un momento che non ha ricordato per
decenni, ma che adesso la circonda come un abbraccio, e la libera nella
morte.)
E sulla riva del fiume, gli uccelli si fanno silenziosi. L'aria fredda vibra;
scuote minuscoli granelli di ghiaccio argenteo dai più piccoli fili d'erba.
Qualcosa è imminente.
Il fiume è troppo potente per farsi influenzare, naturalmente. Va avanti,
con il suo corso inalterato. A qualche distanza a valle da questo punto,
Shank cerca i villani che crede abbiano ucciso la sua amata moglie; tra
poche ore sarà morto lui stesso, e portato via dal cuore del fiume. Adesso il
tremore delle cose aumenta, e tra gli alberi appare una forma; accesa dalla
sua stessa luce strana.
Non lontano da questo posto, Oswald è venuto a prendere il corpo di
Agnes dalla riva del fiume; e qui incontra quello che ritiene una qualche
specie di spirito. Non lo è. È solo il povero Devlin, perso, che vaga. È
venuto sulla riva del fiume e ha visto il cadavere, e la vista è stata
sufficiente a scuoterlo di nuovo nella necessità di trovare un qualche
scopo. Ricorda di essere stato nella casa di Shirley; ricorda il dolore e
l'incomprensione che lo ha portato qua. E, naturalmente, ricorda l'azione
che aveva nascosto a se stesso: la sua dolce Mary Elizabeth che
sanguinava davanti a lui.
Vedere quest'altra donna - un cadavere più penoso (se fosse possibile) di
quello di sua moglie - che giace nel fango, lo ha riportato a una lucidità
terribile. Vale a dire: lui è di nuovo se stesso. Ma non capisce la simmetria
degli avvenimenti. Lui pensa di vedere il cadavere di sua moglie,
trasformato in qualche modo. Si avvicina per guardarlo più da vicino. No,
questo non assomiglia nemmeno vagamente alla sua Mary Elizabeth.
Chi è? chiede al fiume. Il fiume ruggisce, ma non gli offre nessuna ri-
sposta.
Distoglie lo sguardo dalla vista di lei e vede - là, tra gli alberi - una
figura, vestita di pelli d'animale, che lo guarda. È questo l'assassino, si
chiede, catturato nel momento della fuga? Che vista penosa che è: una
specie di ombra, che non potrà mai aver pace.
E, pensando a questo, inizia a piangere. Non per l'uomo davanti a lui,
che potrebbe anche non esserne responsabile, ma per se stesso, che è perso
in una ricerca che non ha conclusione, almeno fino a quando non tornerà al
primo crimine, al peccato dell'Eden: e come potrà conservare la sua
lucidità in un viaggio di questa portata? Impossibile.
Lui chiede all'uomo tra gli alberi: Chi è questa donna? Senza aspettarsi
veramente una risposta. Non si sorprende allora che l'uomo prenda il volo
e scompaia, tra gli alberi, lasciando Devlin da solo sul fiume, con il cuore
troppo gonfio per essere in grado di formulare delle domande. Di cosa è
gonfio? Oh, di niente di puro, di niente che possa portare questa storia a
una graziosa conclusione morale. Non sente un tormentoso rimorso per
quello che farà tra un migliaio d'anni, sulla riva del fiume; non ha trovato
una comprensione più profonda di come funziona il cuore umano. Nel suo
viaggio qua ha solo imparato quello che sapeva già: che la crudeltà porta
crudeltà. E allora? E allora cosa succede se lui è stato plasmato da mani
altrui a fare del male con le proprie mani? Non c'è bellezza in una tale
ripetizione, nessun significato profondo. Shirley aveva ragione, non c'era
nessuno schema grandioso.
E adesso, si chiede. Deve andare avanti e avanti e rassegnarsi alla sua
terribile discesa? Sembra che non abbia scelta in questa faccenda. Lui è
rassegnato a perdere ogni significato di sé mentre continua, e percorre il
millennio, attraversando vite che non sono la sua, e che allo stesso tempo
lo sono, perché lui ne è una conseguenza: la somma grottesca delle loro
sofferenze e del loro dolore.
Se potesse voltarsi verso di me, se potesse trovarmi nel mio capanno sul
fiume, cosa, mi chiedo, cosa vorrebbe da me, che ho il controllo del suo
destino?
Adesso me lo sto immaginando, che viene sulla soglia, abbassando la te-
sta sotto il ramo ricoperto dal muschio che costituisce l'architrave della
porta, che mi guarda e dice: Sei tu il mio creatore?
Gli rispondo: Sì, sono io.
Sei tu che mi hai portato qua? dice.
Gli rispondo: Sì, sono stato io.
E dove andrò? chiede.
Bene, gli dico. La scelta è semplice. Il fiume scorre in due direzioni, dice
lui, un po' irritato. Sì, sì, l'ho sentito. Così può essere avanti o indietro, è
questo che mi stai dicendo.
Mi stringo nelle spalle. In breve, dico.
Bene, non mi piace nessuna di queste due possibilità, risponde lui. Se
vado indietro, cosa ci sarà per me? Mi consegno alla polizia, dichiaro
l'insanità, e corro il rischio in tribunale? Non è un'idea molto attraente. E
se io continuo con il mio viaggio, finirò un gorilla. Il gorilla che ha
commesso il primo peccato, ecco che cosa diventerò. E non mi piace
nemmeno questo.
Allora dimmi quello che vuoi, gli dico.
Voglio una via d'uscita, voglio una possibilità di redenzione, voglio
Si interrompe a metà della frase, guarda indietro.
Cosa c'è? gli chiedo.
Ho sentito
Cosa?
qualcuno che piange.
Non è così insolito, gli dico. Forse qualcuno nel fiume
Che sta affogando, vuoi dire?
È successo, gli rispondo.
E tu te ne stai seduto lì? dice, senza tentare di nascondere il suo disgusto
per la mia passività.
Di nuovo mi stringo nelle spalle. Se si sono buttati dentro e poi se ne
sono pentiti, è un problema loro, gli dico.
Ma se si è trattato di un incidente, dice lui, se stavano solo camminando
in riva al fiume, e se sono inciampati, e scivolati, e non avessero voluto -
Adesso nei suoi occhi ci sono delle lacrime. Se non fossero riusciti a
controllarsi
Come te? dico a voce bassa.
Lui mi fissa. Ma le lacrime non si fermano. Gli riempiono gli occhi, poi
gli scendono dalle guance. Vorrei poter disfare ogni cosa. Vorrei poter
andare alla sua tomba e svegliarla.
Una volta ho avuto una visione
Di cosa?
Di gente che viveva all'indietro. Un uomo stava scavando dei cadaveri
fuori dal terreno
C'è ancora quel grido, dice lui, distogliendo lo sguardo da me.
Qualcuno è là fuori
Aspetta, non ho finito di raccontarti la mia visione.
'fanculo le tue visioni, dice lui; non ne ho bisogno. Sei perso anche tu
come me.
Dicendo così, mi lascia nel mio rifugio, e la conversazione immaginaria
arriva alla sua conclusione.
E tuttavia continuo a sentirlo. Anche se lui non è mai stato con me,
anche se io sono sempre stato solo sulla riva del fiume, ad aspettare che
una storia mi venisse a trovare, io lo sento là fuori, sopra il rumore
dell'acqua.
Aspetta, dice. Aspetta.
Adesso c'è una nuova svolta, penso tra me. L'uomo si comporta come se
avesse una certa misura di autodeterminazione: come se potesse
allontanarsi da me, e comunque, in qualche modo, continuare a vivere.
Naturalmente, è impossibile. Io l'ho evocato perché servisse alla mia
storia, lui non può esistere al di là del mio sogno di lui; non può fare
nessun viaggio che io non abbia immaginato prima.
E tuttavia, mentre mi alzo dal mio posto all'ombra, so che si proverà che
sto sbagliando e il pensiero mi mette di buon umore. Devlin è andato dove
io non ho ancora guardato. Tutto quello che posso fare è seguirlo, per
quanto strano possa essere.
Faccio un passo fuori nel crepuscolo e lo cerco. Eccolo, a meno di venti
metri dal mio posto, che si muove tra gli alberi. La fiamma che porta
lampeggia dentro di lui, illuminando l'erba e il tronco degli alberi, e i rami
spogli sopra la sua testa. Io lo guardo, incantato. E lo fa anche l'uomo il cui
pianto ha richiamato qua Devlin: padre Michael. Lui si inginocchia
accanto al corpo di Agnes, mentre stringe nella mano la lama con cui le ha
fatto tanto male. Lui si è sollevato la tonaca, esponendo i suoi genitali. Lui
ha intenzione, credo, di mutilarsi qua, vicino a lei, per rendere il suo sesso
altrettanto irriconoscibile come ha ridotto quello di lei, cosicché quando il
suo corpo avrà sanguinato a morte, sotto la vita, non sembrerà tanto
diverso da quello di lei.
Ma la vista di Devlin gli toglie questi pensieri dalla testa. Lascia cadere
il coltello, e smette di piangere.
Mio Dio, dice, senza desiderare di profanare il nome del Signore.
L'uomo che si muove tra gli alberi verso di lui sembra davvero il suo
Salvatore da lungo assente. Con la luce che proviene dalla sua stessa
sostanza, la dolce calma del suo aspetto, e soprattutto, il modo in cui tende
le braccia verso padre Michael, come per perdonare quello che fino a quel
momento era sembrato imperdonabile.
Cosa dovrei fare? Dovrei intervenire per fare che si renda conto del suo
errore? Dirgli che l'uomo dal quale spera di ricevere il perdono è tanto
colpevole quanto lui? Che è solamente un peccatore, perduto nel tempo
sulla riva del fiume? No; questa sarebbe solo un'altra crudeltà da
aggiungere al catalogo; non servirebbe a nessuno scopo, eccetto forse a
placare la mia invidia per il conforto che prova.
Mi sposto un po' più vicino, nella speranza di sentire quello che passa tra
di loro, ma non sono abbastanza svelto. Quando arrivo a portata d'orecchio
hanno già finito di scambiarsi quelle poche parole che desideravano dire, e
padre Michael si sta alzando dalla sua posizione accanto al corpo di
Agnes, lasciando cadere il coltello con cui stava per evirarsi. Allunga le
braccia verso il suo Redentore, e mentre lo fa, con lacrime di gratitudine
che gli scendono dalle guance, Devlin allarga le braccia. Non è un
abbraccio che gli offre; sta semplicemente dando possibilità al padre che si
pente di vedere la fiamma, che almeno ai miei occhi sembra aver preso
dimora nel torace di Devlin. Ondeggia al ritmo del suo cuore, mentre la
sua incandescenza viene fermamente pompata nel suo sistema. Vedo la sua
presenza che si diffonde, persino attraverso il tessuto della camicia e dei
pantaloni di Devlin: è come se lui venisse consumato dalla fiamma
dall'interno all'esterno. Non scarto la possibilità che sia proprio così. Non
aveva forse osservato Shirley che le cose sacre hanno una volontà propria?
Qualunque sia il significato di questa vista, ha ostacolato padre Michael:
senza dubbio lo rinforza nella sua convinzione che l'uomo davanti a lui sia
qualche divinità. Allunga le braccia per toccare il suo Salvatore dal cuore
leggero, e come le sue dita prendono contatto la fiamma diventa
improvvisamente ambiziosa, e in un momento stupefacente consuma la
carne e le ossa di Devlin Coombs completamente (insieme agli abiti che
quelle ossa e quella carne avevano coperto) lasciando solo una gloriosa
filigrana di vene piene di luce, con un cuore in fiamme al centro. Devlin
non emette suono mentre brucia. È come se la luce avesse semplicemente
richiamato dentro di sé l'illusione della sua sostanza; come se fosse sempre
stata solo un'invenzione della fiamma, anziché mia.
(C'è un pensiero: che la fiamma sia tutto quello che esiste, e noi tutti
siamo solo le ombre che getta su una pagina, compreso me. Pensavo di
essere stato condiscendente verso le illusioni di Devlin, lasciandogli
credere di avere una volontà sua; ma forse a sua volta la fiamma è
condiscendente nei miei confronti, e mi permette di nascondere la sua
onnipotenza in una narrazione.)
Padre Michael ha smesso di piangere; questo è troppo tremendo per le
lacrime. Guarda, con un tenue sorriso, come quello di un bambino
stregato, mentre la fiamma fa quello che lui sicuramente spera che faccia:
si muove lungo le sue dita e nel suo corpo. Il disegno delle vene che ha
delineato l'ultima parte di Devlin segue il suo creatore, e va dove va la
fiamma. Padre Michael inizia a ringraziare, non una sola volta ma una
cinquantina. Si aspetta che la fiamma lo bruci fuori dalla sua impurità? Se
è così, sarà deluso. Il suo corpo avvolge la luce, completamente,
sigillandola. Dopo che è entrata in lui non rimane niente, neanche il più
tenue bagliore a indicare che è stato benedetto dalla sua presenza. C'è solo
il buio del bosco, e lo scorrere del fiume, e una donna, morta nell'erba.
Padre Michael non la guarda più. Si allontana forse di novanta metri dal
posto dove giace, trova un posto dove possa vedere il cielo, e lì si corica,
con le braccia tese.
È solo dopo parecchie ore che io mi rendo conto di quello che ha
intenzione di fare. Non intende fare niente, a parte che stare coricato
nell'erba a lasciare morire il suo corpo.
Non è una cosa veloce, credetemi. Rimane vivo per cinque giorni,
giacendo nello stesso posto, il puzzo delle sue evacuazioni che richiama
l'attenzione degli animali selvaggi, che sono sorpresi, quando si
avvicinano, di rendersi conto che questo pezzo di carne umana respira
ancora.
Nella seconda mattina del suo martirio, due uomini del villaggio
vengono con Oswald a raccogliere il corpo di Agnes. Senza mezze parole
Oswald li ha avvertiti che questo è un posto maledetto, e loro non
indugiano, ma prendono il cadavere e lo portano via con premura. Nessuno
di loro vede padre Michael; né lui fa alcun tentativo di attirare la loro
attenzione.
Passano le prime ore di quei primi giorni dell'anno Mille e le lunghe
notti fredde, e una di queste porta con sé una leggera spolverata di neve.
Odo i denti del prete che battono, e la quarta notte scivola nel delirio, e nel
delirio a volte prega in latino, a volte parla, come se avesse un compagno
invisibile. Più di una volta sono tentato di andare a sedermi vicino a lui e
di ascoltare. Ma resisto. Questo è il suo momento. Si è meritato la sua
solitudine.
Appena prima di mezzanotte, il cinque di gennaio, il suo respiro diventa
veloce e superficiale, poi si ferma completamente. Mi sento solo, dopo che
se ne è andato, anche se conoscevo questi uomini, questi due in uno, meno
di quanto credessi. Infatti, per essere onesti, quasi per niente. Forse,
pensandoci, non si tratta di solitudine che provo. Forse è invidia, che loro
si siano trovati, e abbiano redento le loro anime con la fede e la fiamma, e
abbiano trovato un tale conforto in quello che credevano che avrebbero
potuto morire una morte disgraziata, e considerarsi fortunati.
Postfazione
(Per concludere)
di Douglas E. Winter
FINE