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REVELATIONS

(Revelations, 1997)
a cura di DOUGLAS E. WINTER

Per Howard Morhaim


la lunga strada verso casa

Poiché i movimenti della vita umana si sviluppano a spirale, noi tornia-


mo al punto da cui siamo venuti, ripercorrendo le nostre tracce, ma ad un
livello più alto, nella serpentina successiva della spirale, così che si tratta
sempre di andare avanti e tornare indietro allo stesso tempo.
GEORGE MACDONALD, England's Antiphon

Indice

Chiliad: una riflessione di Clive Barker - Parte prima - Uomini e peccati


1900 La grande burrasca di Joe R. Lansdale
1910 Dovessi morire prima di svegliarmi di David Morrell
1920 Ariani e assenzio di F. Paul Wilson
1930 Triade di Poppy Z. Brite e Christa Faust
1940 A cavallo del nero di Charles Grant
1950 Le porte aperte di Whitley Strieber
1960 Uomini di fiammiferi e Joo di Elizabeth Massie
1970 Whatever di Richard Christìan Matheson
1980 Smantellare l'architettura della fortezza, smantellare il Muro di
David J. Schow e Craig Spector
1990 La parola di Ramsey Campbell
Chiliad: una riflessione di Clive Barker - Parte seconda - Un momento
nel cuore del fiume
Postfazione (Per concludere) di Douglas E. Winter

Chiliad: una riflessione


(Parte prima)
di Clive Barker

Uomini e peccati

1
Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni. Verso il mare aperto,
verso il futuro e verso la morte, naturalmente; verso la rivelazione, forse
verso entrambi. E poi toma da dove è venuto, almeno in quei punti in cui
le correnti sono più perverse, dove compaiono i vortici, e dove le acque
sono come gonne di schiuma sui fianchi delle rocce. Da questi angoli, che
ho fatto miei, mi fermo a spiare. Nascondigli impervi sulle rive fangose,
nell'intrico dei rami. Da queste posizioni privilegiate posso guardare
furtivamente il fiume che si contraddice, appuntandomi i particolari nel
mio blocco per poterli analizzare in seguito. Qualche volta mi sono persino
avventurato nelle acque tumultuose: una volta di proposito, e una volta per
errore (un ramo si spezzò sotto di me e io rischiai di affogare, spinto avanti
e indietro tra le rocce come un volano). Non è stato per niente piacevole,
credetemi. Non prestate fede a quello che vi possono raccontare gli
sciamani, che vi dicono, con occhi gonfi, come è bello fare il bagno nel
fiume. È la loro mutevolezza a proteggerli da ogni pericolo. Il resto di noi
è molto più fragile: è più facile che ci ammacchiamo o che ci feriamo
nell'inondazione. Per dire la verità, è terribile trovarsi nel bel mezzo di un
torrente così impetuoso: senza sapere se verremo riportati nell'utero, nel
conforto delle acque materne, o fuori, verso la fredda morte paterna.
Trovarsi a sperare un momento, ed essere allo stremo l'attimo successivo,
senza sapere, per metà del tempo, quale delle due prospettive dia conforto
e quale generi paura.
Ma finché me ne sto al sicuro sulla riva, come un semplice testimone,
penso che sia un buon posto per riflettere. E talvolta la vicinanza
dell'acqua, forse i suoi spruzzi, che velano l'aria, forse il suo scrosciare,
che fa tremare il cuore, provocano delle visioni.
Una volta, per esempio, mentre, seduto nel mio nascondiglio, spiavo il
fiume, immaginai di essermi spostato all'improvviso su una collina. La
scena che avevo davanti era come un mosaico di campi su cui uomini e
donne stavano lavorando. Molto di quello che vedevo in questa scena mi
richiamava alla mente una miniatura medievale. Il faticoso lavoro dei con-
tadini, l'assenza di qualsiasi segno di modernità - un veicolo, un palo del
telegrafo - ma, ancora più di questo, una monotonia in tutto il panorama
che dava la sensazione che il cielo ceruleo e l'orizzonte ondeggiante e tutto
quello che si trovava tra la collina e quell'orizzonte - siepi, sentieri, campi
e casupole - si trovassero sullo stesso piano di visione, ogni particolare
perfettamente a fuoco, e in rapporto perfetto l'uno con l'altro. Mi sembrava
che questo mondo si trovasse in qualche luogo tra la realtà e l'illusione. In
parte era un documento e in parte una decorazione.
Fissai lo sguardo su un uomo che arava a poca distanza da me. Vidi che
stava scavando tra dei cadaveri: la sua pala muovendosi scopriva i
cadaveri, uno dopo l'altro. Si trattava di un cimitero? mi chiesi. Vedevo
che c'erano dei segni nel terreno, ma non mi sembravano delle tombe: si
trattava semplicemente di ramoscelli privi di foglie, infilati nel terreno per
segnalare la presenza dei cadaveri, che erano stati seppelliti a intervalli
regolari in tutto il campo.
Poi mi resi conto del mio errore. Tra i cadaveri si vedeva movimento. Si
rigiravano nel loro letto di vermi in modo da poter guardare il cielo,
stiracchiando le loro membra pallide e nude come chi si risveglia da un
sonno. Alcuni si misero a sedere; adesso erano in piedi, ancora incerti sulle
loro membra. La maggior parte di loro era vecchia: coi visi avvizziti, i seni
svuotati, gli occhi ciechi, e con i reumatismi. E tuttavia sembravano felici
della loro condizione. Quando iniziarono a sentirsi più solidi sulle gambe e
a credere alla loro buona sorte iniziarono a fare salti, salutandosi l'un
l'altro, mettendo in mostra sorrisi senza denti. Poi iniziarono a farsi strada
sul sentiero pieno di solchi che portava al raggruppamento di capanne che
si trovava a poca distanza dal campo, col passo che si faceva più sicuro via
via che camminavano. Vidi le porte delle capanne che si spalancavano,
mentre i morti venivano accolti come se fossero stati attesi. Furono accesi
dei fuochi per riscaldarli, e davanti a loro venne posato dello stufato con
pane e vino. Mangiarono, si vestirono, e poi si sedettero ad ascoltare i
bambini dei loro ospiti, che parlavano loro con una grande solennità, come
fanno i bambini.
Dopo un certo tempo, iniziarono a vivere: iniziarono ad assumersi i
compiti degli uomini e delle donne che hanno scopo e appetito. E mentre
facevano questo e ricoprivano i tetti di paglia e pescavano e pregavano o
rimanevano seduti a contemplare il cielo, vidi che il fardello degli anni gli
cadeva di dosso. Vidi che i loro capelli si facevano più folti, e la loro carne
più rubiconda; vidi che i seni delle donne diventavano più voluttuosi e che
le loro facce stanche diventavano lisce, vidi gli uomini diventare più forti,
e le loro gengive riempirsi di denti, e vidi i due sessi posarsi addosso occhi
luminosi e sposarsi.
Adesso capivo la visione con una maggiore chiarezza. Queste persone
erano nate dalla tomba, e stavano vivendo all'indietro verso il ventre
materno. Non c'è da meravigliarsi che avessero ascoltato con una tale
attenzione i bambini al momento del loro ritorno; stavano facendo tesoro
della saggezza dei loro anziani.
Morivo dalla voglia di poter ascoltare quello che si dicevano: chiedere
loro, se avevamo una lingua in comune, cosa si provava a essere nati dalla
tomba. Ma questo non poteva succedere. Le coppie che avevo visto
disseppellire dall'uomo nel campo, a questo punto erano tornate
all'infanzia, un'infanzia tenuta in gran conto, e i più vecchi tra loro
venivano portati in braccio, mentre continuavano a rimpicciolirsi, fino a
diventare poco più grandi di vermi rossi nelle mani dei loro protettori. In
questo stato venivano riportati sul terreno dal quale erano venuti, e con
grande irriverenza e sonore risate e spreco di alcol, venivano seppelliti.
Parecchie donne si denudavano e ballavano saltellando sul terreno in modo
da renderlo duro sopra le teste di quei semi. Poi la folla tomava al
villaggio. E lì rimaneva in attesa che il sole e la pioggia e la bontà di Dio
onnipotente desse vita a un'altra generazione.
Questa era stata la visione che avevo avuto sulla riva del fiume. Più di
una volta ero stato avvertito di non cercare un significato in questi sogni.
Vengono, dice molta gente, solo per distoglierci dalle semplici verità di
una vita vissuta in modo pragmatico. Ma io non ci credo, almeno non del
tutto. Anche se nemmeno io riesco a capire il significato di questa visione,
o di qualsiasi altra che vi possa raccontare, questo non significa che non
possa con profitto essere usata per la sua saggezza.

Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni. In avanti verso la


spiegazione delle cose, a una destinazione che giustifichi le agonie del
viaggio. E all'indietro, verso un tempo in cui il fiume era reale, e in cui
quelli che vagavano sulle sue rive avevano uno scarso interesse per le
visioni.

***

Quest'uomo, per esempio, che si muove adesso tra gli alberi, con le scar-
pe che spolverano il ghiaccio dall'erba, che fissa la riva e le acque con gli
occhi, non è venuto qua alla ricerca di una rivelazione. Vuole solo trovare
la donna con cui ha diviso il suo lurido tugurio, a qualche miglio
controcorrente da qua, negli ultimi quattro anni. Si chiama Agnes. Il nome
di lui è Martin, ma lei, per qualche ragione che non ricorda, lo ha
soprannominato Shank, e così è rimasto. Si tratta anche, diciamocela,
dell'uomo più brutto di tutta questa parte dell'Inghilterra, la sua faccia è
un'accozzaglia di bitorzoli e paresi, la barba, che lui taglia di rado, è
incolta.
Manca un giorno all'anno Mille, e la maggior parte degli uomini e delle
donne che hanno timor di Dio che vivono lungo il fiume si sono riuniti
nella chiesa del villaggio di Tress per ringraziare il loro redentore. Ma
Shank ha una sola speranza di redenzione: la sua Agnes che ha osato
vivere con lui a dispetto della sua bruttezza e della sua anima violenta, la
sua Agnes che è uscita all'alba dicendo che doveva fare acqua, e che non
era tornata al loro letto accanto al focolare, la sua Agnes che una volta gli
aveva detto di non credere nel paradiso, ma che a lei sarebbe bastato
dividere la tomba con lui per l'eternità, diventare polvere al suo fianco. Lui
non le aveva lasciato capire quanto lo avesse commosso udire tali parole.
Solo più tardi, solo vicino al fiume, aveva udito dei suoni animaleschi
nelle vicinanze e si era reso conto che si trattava del gemito del suo pianto
pieno di gratitudine.
Nessuno di quelli che abitano lungo le rive del fiume amano Agnes più
di Shank. Anche se ha un cuore grande e i fianchi larghi, il suo corpo tra le
gambe è fatto in un modo strano; ha qualcosa dell'anatomia maschile e
qualcosa di quella femminile; è stranamente configurato. A Shank non
importa. In realtà lui trae conforto dal fatto che, nonostante i suoi capelli
siano lucidi e neri e che i suoi occhi siano fieri, nessun uomo la prende-
rebbe in moglie. E allora che importanza ha che lei non gli possa dare
bambini: lui odia i bambini. Lui odia ogni cosa, a parte Agnes e il fiume.
Non si tratta di un tipo di vita che si possa definire civilizzata. Non
hanno parole affettuose l'uno per l'altra. Non pregano. Non parlano di
niente che sia astratto, parlano solo del cibo, del fuoco, del tetto che hanno
sopra la testa. A volte scopano, anche se nessuno dei due lo fa con grande
appetito. A volte, solo nei boschi, Shank si masturba. Occasionalmente
stupra un animale. Ma, comunque, loro vivono in una specie di
matrimonio, un matrimonio privo, per dire la verità, di qualsiasi pretesa di
civiltà, ma legati uno all'altra come una qualsiasi coppia che si sia
scambiata i voti davanti all'altare.

***
Ma adesso Agnes se n'è andata e Shank è pieno di paura. Questi sono
tempi senza legge; non sarebbe la prima volta che qualche donna sia stata
aggredita e violentata lungo il fiume da uomini venuti dalla collina, i quali,
una volta commesso il loro crimine, ritornano da dove sono venuti,
rendendo poco probabile la punizione. E lui ha udito cose anche più strane
di questa. Di uomini che non sono esattamente uomini, ma che in certe
occasioni hanno preso la forma di animali, che si sono impossessati di
bambini e che li hanno divorati. Un uomo, solo l'estate scorsa, fu trovato
fuori di casa sua, dopo che si era rimpinzato della carne e del sangue di un
neonato, lasciando la culla vuota e le fasce strappate. Questa creatura,
almeno, venne impiccata e davanti all'albero disse che il Vecchio era
entrato in lui e gli aveva detto: Allo scadere del millennio il Figlio di Dio
tornerà nel mondo dei vivi, e il mio potere sugli uomini finirà, quindi devo
fare peggio che posso.
Shank non credette a questa storia quando la udì, ma adesso si chiede se
non è possibile che fosse vera, c'è qualcosa di strano in questa giornata,
qualcosa a cui non riesce a dare un nome. Estrae il suo coltello da caccia e
se lo tiene al fianco mentre avanza. Sarà pronto a qualsiasi cosa si trovi
davanti; uomo, animale, o entrambi.

Nel mio quarantaquattresimo anno mi prese un certo turbamento che si


impossessò di me, proprio come Shank teme che faccia con lui il lupo
mannaro. Ma io non avevo un coltello. Mi ero avventurato senza nessuna
cautela nella mezza età, e non ero preparato a quello che mi si abbatté
contro. I miei arti si fecero di piombo, il torace mi faceva male mentre
compivo l'atto faticoso di respirare, tutto quello che avevo fatto in vita,
tutto quello che avevo cercato di fare, mi sembrava inutile. Questa bestia
mi aveva gettato in un baratro così profondo e scuro che non riuscivo a
vedere il cielo. E lì giacqui, col corpo inutile e la mente resa stupida dal
suo stesso farneticare. Nei giorni buoni riuscivo persino a piangere.
Coloro a cui importava di me mi avevano offerto soluzioni
convenzionali, dicevano che stavo semplicemente attraversando la crisi
familiare della mezza età, avevo perso fiducia nello scopo della mia vita, e
avrei dovuto trovarne un altro. Non avevo più gioia, né certezze, ero
ridotto, in pieno benessere e godendo della massima popolarità, alla
disperazione.
La disperazione fu la ragione per cui lasciai i posti che in tempi felici
avevo chiamati miei (mi ricordavano troppo quello che avevo perso, chi
non ero più) e mi trovai un altro posto in cui sedere. Andai al fiume. Ero
stato là in precedenza, una o due volte. Ma non avevo mai fatto uno studio
dei suoi movimenti come stavo facendo ora, non avevo mai guardato le
sue acque così da vicino, o lasciato che la mia mente vagasse con loro,
seguendo la corrente e opponendovisi.
Inevitabilmente mi venne in mente una storia. Le storie avevano conti-
nuato a ossessionarmi, persino nel baratro, come inviti a feste a cui non
sopportavo di partecipare, a pezzi e rovinato com'ero. Questa, tuttavia,
sembrava parlarmi in modo più tenero delle altre. Questa non era come le
altre storie che avevo raccontato nella mia giovinezza, non era così sicura
di se stessa, né del suo scopo. Lei e io avevamo molto in comune. Mi
piaceva il modo in cui si avvolgeva su se stessa, come le acque del fiume,
come si offriva di avvolgersi sul mio dolore, e rimanervi per un po' se
necessario, finché non avessi trovato un modo di parlare. Mi piaceva la sua
mancanza di sentimenti. Mi piaceva la sua mancanza di moralità.
Penso che fosse la presenza di questa storia a indurmi la prima visione;
quel cimitero con le anime che ne nascevano. Scrissi la mia visione, e una
volta che la mia mano iniziò a scorrere sulla carta, sentivo che la letargia
un po' mi abbandonava, come se lo stesso movimento lenisse il mio dolore
con la sua familiarità. Le parole iniziarono ad arrivare. Vidi Shank lungo il
fiume, il povero Shank abbandonato. Nel dizionario trovai un titolo che mi
piaceva. Chiliad: un periodo di mille anni. E anche Chiliasm, una dottrina
che postula la ricomparsa di Cristo sulla terra, in forma visibile, e lo
stabilirsi di un regno teocratico. Non sapevo, quando avevo iniziato a
scrivere, se Cristo avrebbe fatto parte della mia storia. Non lo so ancora.
Forse alla fine questa sarà una storia dell'anti-chiliasm, di un periodo in cui
Cristo non viene, in cui le porte del paradiso non si spalancano, e dove, al
posto dell'infinita beatitudine divina, noi abbiamo solo il conforto delle
nostre invenzioni. È un periodo in cui le luci che vediamo nel cielo sono
solo il riflesso della luce delle stelle in una stratosfera malata, e i miracoli
della guarigione che hanno luogo nei posti sacri dimostrano di essere
semplicemente dovuti alla forza di volontà, e vengono ribaltati quando
coloro che ne sono testimoni guardano in un'altra direzione; in cui i
matematici ci dicono che a una ulteriore riflessione i loro calcoli erano
sbagliati, e che niente ci tiene insieme, niente si lega, niente mostra il
minimo segno di eleganza o di eccellenza.
C'è nella nostra natura una fame rovinosa di realizzazione. Avendo
avuto inizio, senza avere alcuna possibilità di scelta, vogliamo essere sicuri
di avere mano nella conclusione. Vogliamo segnarla, nel calendario dei
tempi. Là abbiamo avuto inizio. Qua terminiamo. E se al momento della
nostra fine ci fosse una fine universale, sarebbe una cosa così brutta? Se
lasciassimo solo sporcizia e mari morti a chi verrà dopo di noi, sarebbe una
cosa così brutta?
Ascoltatemi, anche se questo abbietto appetito è confessato solo dagli
isterici - da quel messia dissidente che conduce con prontezza il suo
gregge malandato sulla montagna, mentre conta le ore che mancano al suo
Armageddon (continuamente rinviato dalle loro preghiere) - è un desiderio
universale. Tutti noi contiamo le ore. Tutti noi cerchiamo la realizzazione,
anche se la temiamo. Desideriamo essere distrutti. Io desidero essere
distrutto. Se dovessi incontrare Shank lungo il fiume sarei in difficoltà a
non mettermi sulla traiettoria del suo coltello.

E adesso la vede. Eccola, nel fango, a faccia in giù nel fango. Non è
nuda, ma il suo abito è stato sollevato dall'acqua che la lambisce, e ne
espone i glutei. La sua carne è voluttuosa, persino nella luce incerta di
dicembre, il suo pallore vivido contro il fango scuro. La prima cosa che fa
Shank quando arriva vicino al corpo è tirare la stoffa ruvida e impregnata
d'acqua sulle sue nudità, in modo che il cielo e il fiume non la vedano in
questo modo. Solo allora tira fuori la sua faccia dal fango e la gira
sottosopra. Le ferite che le hanno tolto la vita sono sul collo, ma ce ne
sono molte altre, tagli più piccoli sulle braccia e sulle mani, dove ha
cercato di lottare con il suo assassino, alcuni sul seno, che diventano
visibili solo quando Shank le lava il viso e il busto con manciate di acqua
gelata presa dal fiume. C'è poco sangue, la maggior parte è già stata lavata
via, le ferite sono solo lembi di pelle da cui fluisce un fluido roseo. Ha gli
occhi chiusi. La bocca è leggermente aperta, e le labbra sono bluastre. Alla
fine, si costringe a guardarla tra le gambe, e scopre che le strane
formazioni del suo sesso sono state tagliate e mutilate orribilmente così
che l'inguine per cui aveva stravisto più di una volta mentre lei dormiva è
diventato un ammasso irriconoscibile di carne straziata. Non ha molte
speranze, ma spera che fosse già morta quando le è stato fatto questo.
Ritorna al fiume, immergendosi per qualche metro, per essere sicuro che
la può lavare con l'acqua più pulita, e con tenerezza, con una tenerezza
anche maggiore di quando le aveva lavato la faccia, le lava l'inguine. Oh,
adesso piange, e continua a piangere, e forse un poeta direbbe che
aggiunge le sue lacrime all'acqua con lui le lava il sesso, e se le lacrime
potessero guarire, come a volte fanno nei poemi, se il dolore potesse fare
dei miracoli, come a volte succede nella narrativa, allora questa devozione
potrebbe restituirla alla sua curiosa interezza. Ma naturalmente non è così.
E alla fine non riesce nemmeno più a piangere.
La solleva e la porta tra gli alberi, posandola su un delicato cuscino di
erba ghiacciata. Poi pensa, se perdo dell'altro tempo a occuparmi di lei,
l'uomo che le ha fatto questo se ne andrà di certo, tornerà tra le colline.
La posso seppellire più tardi. Ma posso solo catturarlo adesso. E per
quanto lei abbia sofferto lui soffrirà di più, oh, molto di più. Per quanto
abbia gridato forte, implorandolo di smettere, il suo assassino griderà
molto più forte.
In questo momento lui diventa un'altra cosa: diventa la morte vivente, un
uomo la cui unica espressione è il suo coltello. Adesso non è adirato, i
coltelli non si adirano. Adesso non ha lacrime, i coltelli non ne hanno. È
semplicemente affilato e appuntito e ineluttabile.
Non fatevi confortare da questo, anche se è difficile, lo so, non godere
dell'attimo mentre si muove tra gli alberi; è difficile non provare piacere
per la semplicità di ciò che è diventato.

A due miglia di distanza, nella chiesa di Tress, il prete, Padre Michael,


dopo aver propinato ai suoi fedeli una bella dose di sermoni, e dopo averli
visti allontanarsi dalla porta, si ritira nel suo minuscolo cottage a bere un
bicchiere di vino aspro. Ha una costituzione d'acciaio, anche se sembra
vecchio per i suoi trentadue anni. Comunque spera di non vivere a lungo,
molto presto i suoi parrocchiani avranno un altro prete, queste persone che
si siedono nelle panche con gli occhi umidi, capendo a malapena una
parola di ciò che dice. Qualcuno che li ami di più di quanto non faccia lui.
Si versa un altro bicchiere di vino, e pulendo un angolo della finestra
coperta dal ghiaccio, guarda fuori nel sagrato. Che Dio lo aiuti, non vuole
essere sepolto qui, né lo merita. I corpi immobilizzati nella terra congelata
lì fuori appartengono a uomini troppo ignoranti per conoscere il vero
significato del peccato, mentre lui non ha una simile difesa. Non merita di
giacere in pace tra loro. La domanda è: cosa merita davvero? Si gira
dall'altra parte, beve il suo vino e riflette un po' su questo. Che punizione
ha in serbo per lui l'inferno? Ha studiato i dogmi della sua fede con un
uomo che poteva recitare l'architettura dell'inferno a memoria: ogni sua
profondità, ogni suo angolo. Ognuno aveva il suo scopo, creato per
ricordare al peccatore il suo peccato per la durata della sua punizione.
Questo stesso maestro, adesso vescovo, ricordava anche sempre ai suoi
studenti che per quanto terribili potessero sembrare questi tormenti, erano
irrilevanti se rapportati alla solitudine dell'anima separata da Dio. Michael
cercava di credere in questo, ma non ci riuscì mai. Era una finzione
teologica. Perché bastava la semplice puntura di un'ape, o un taglio sul
pollice a farlo gridare di dolore: il dolore fisico nella scala descritta dal suo
maestro di certo superava qualsiasi solitudine. Lui si sentiva solo adesso,
senza Dio, e lo trovava sopportabile. Il vino allontanava il dolore, se lo si
mandava giù con una certa regolarità.
Allora, quale agonia lo aspettava? Qualche strumento terribile, pro-
gettato per lui e per lui solo? Qualche disgrazia personale che avrebbe
gettato sulla sua persona tormenti mille volte peggiori di qualsiasi cosa
potesse soffrire in questo mondo?
Bene, più a lungo fosse stato fuori dal suo abbraccio, meglio sarebbe sta-
to. Forse, dopotutto, non sarebbe morto giovane. Si sarebbe macerato nel
vino cattivo e sarebbe sopravvissuto a Matusalemme, avrebbe negato al
diavolo il piacere del suo dolore per qualche altro decennio, e forse, nel
frattempo, avrebbe trovato la salvezza.

Provo pena per Padre Michael e per le sue sbornie. Mi piacerebbe man-
dargli Cristo, proprio in questo momento. Mi piacerebbe descrivere come -
mentre Michael si versava un altro bicchiere di vino - avesse udito il suono
delle colombe tra le querce del sagrato, avesse posato il bicchiere, si fosse
diretto alla porta e avesse visto il Redentore, seduto tra gli alberi, che
erano miracolosamente in fiore. Michael avrebbe lasciato cadere il
bicchiere, avrebbe camminato incerto nella luce invernale, si sarebbe
lasciato cadere in ginocchio e si sarebbe pentito dei suoi peccati. E Gesù
avrebbe posato il palmo insanguinato sulla sua testa, e a bassa voce gli
avrebbe detto che non c'era necessità che temesse gli inferi, perché era
stato salvato.
Ma oggi non mi riesce di trovare Gesù Cristo. La notte scorsa, mentre
ero seduto alla scrivania e organizzavo il lavoro della giornata, pensavo di
poter avere Cristo abbastanza vicino da poterlo descrivere. Ma oggi c'è
troppa nebbia, non riesco a vedere il Figlio, quindi come posso
raffigurarmelo in quel posto dolce come una melodia sotto le querce? Oh,
direte voi, inventatelo: è questo che fanno gli scrittori. A volte questo è
vero: ma non qua, non ora. Questa mattina ho una chiara visione di Padre
Michael, che medita sui terrori dell'inferno mentre beve avidamente il suo
vino: ma il suo Redentore non si vede da nessuna parte.

Il dottore mi dice che la mia depressione mi ha reso immune al piacere;


in altre parole non riesco a provare piacere nelle cose. Questo diventa
particolarmente acuto quando mi occupo di quello di cui mi occupo ora:
scrivo. Mi chiede da quanto mi sento così e gli rispondo che non lo so. Ho
mai provato piacere mentre mi dedicavo alla mia arte? C'è qualche piccola
eccitazione sessuale nel movimento della penna sulla carta, immagino,
qualche soddisfazione puritana nel vedere la pila di fogli riempiti che
aumenta. Ma piacere? Come nell'atto dell'amore, e del mangiare
cioccolatini? No.
Questo mi porta a chiedermi se il mio lavoro non sia stato durante tutti
questi anni una forma di autopunizione: se non sono come Padre Michael
nella sua cella, mentre guarda fuori dalla piccola fessura che ha creato per
vedervi il mondo, e che poi, non credendo a ciò che vede, ritorna alle sue
meditazioni sulla sofferenza?
(In seguito penso: perché mai dovrei aspettarmi di trovare piacere nel
lavoro che faccio? Il piacere è una ricompensa, data al sistema umano
dall'evoluzione in cambio dei servizi resi alla preservazione e all'aumento
della specie. Io non servo a nessuno scopo naturale nell'atto di scrivere
storie. Non fa fare alcun passo avanti alla razza umana che uno scrittore
racconti storie sull'incertezza, sulle tenebre e sulla rivelazione. Perché
dovrei essere ricompensato col piacere? Penso che la prova più vera della
divinità nelle nostre cose sia il fatto che indugiamo nelle nostre fantasie,
che non siamo semplicemente macchine per l'allevamento, programmate
per procreare. L'omosessuale nel suo calore sterile, l'anacoreta nella sua
cella chiusa, lo scienziato che misura la distanza tra galassie
irraggiungibili, e il poeta agonizzante nella ricerca di una sillaba, tutti
vivono delle vite che non servono a nessuno scopo evolutivo. La divinità
non diventa forse più visibile quando a noi manca una applicazione
pratica? Nel nostro essere sognatori, nel nostro resistere agli imperativi
dell'ovulo e dello sperma e della famiglia?)
5

C'è un uomo di nome Oswald che vive con la famiglia sul limitare del
bosco, a poca distanza dal villaggio. È l'unico uomo nelle vicinanze ad
avere a che fare regolarmente con Shank. Un uomo con un collo tozzo,
calvo, caparbio, a Oswald piace ridere, specialmente davanti alle brutte no-
tizie. I suoi vicini trovano questa cosa sconcertante, e a volte si chiedono
se sia completamente sano, ma in lui c'è una dose di buon senso che è
difficile negare. Quando la più produttiva delle sue quattro mucche morì, e
lui fu trovato a ridere vicino al cadavere, poté solo far notare che sembrava
buffa con le zampe rigide sui fianchi, e che cosa avrebbe potuto fare
comunque, non poteva di certo farla tornare in vita, e allora perché
piangere?
Oggi Shank ha trovato Oswald fuori della sua capanna, seduto su di un
tronco. Sua moglie lo ha buttato fuori, dice lui, finché non smetterà di
stancarla con i suoi stupidi giochi. Shank gli dice cosa è successo ad Agnes
e, una volta tanto, Oswald non ride.
«Sono passati di qua tre montanari. È stato solo un'ora fa. Gli ho parlato
di persona, e posso assicurarti che uno di loro era un tipaccio», dice a
Shank.
Shank gli chiede che aspetto avesse questo mascalzone, e Oswald gli
dice: «Piccolo, con i capelli rossi, con la faccia di un maialino imberbe».
Questo fa ridere Oswald.
«Devo venire con te, per catturarlo?» gli chiede.
Shank risponde di no, questo è un lavoro solo suo. Oswald gli dice che
sarebbe felice di impiccare l'uomo, lo ha fatto in precedenza, quando la
giustizia lo ha richiesto, e gli piace farlo, soprattutto quando scalciano,
questo fatto lo fa sempre ridere. Alla fine, quando Shank se ne va, si offre
di seppellire Agnes. Shank gli risponde di no.
«Almeno lasciami portare il corpo a casa tua», si offre Oswald, «altri-
menti qualche animale la può prendere.»
Shank gli comunica la sua gratitudine, come meglio gli consente il suo
vocabolario limitato, e gli dice che sì, gli piacerebbe che portasse a casa il
corpo di Agnes. Poi se ne va, a caccia del maialino imberbe.

Non c'è bisogno che vi dica molto su quest'uomo la cui lama


presumibilmente ha fatto su Agnes un lavoro così terribile. Dovete solo sa-
pere che è innocente, almeno del crimine per cui tra breve morirà. Ha com-
messo altri atti, quasi altrettanto terribili (Oswald non si sbaglia a vedere
cattiveria in lui); quindi forse c'è una certa giustizia in quello che sta per
capitargli. Ma poiché, almeno oggi, è un uomo che non si aspetta di essere
stanato, ed è in compagnia di altri due uomini (uno dei quali il suo
fratellastro) che si sentono altrettanto senza colpa in questo tardo
pomeriggio, l'uomo non fa alcun tentativo per coprire le proprie tracce.
Abbastanza presto Shank trova le prove del passaggio del trio, e ben presto
si trova a breve distanza da loro. Quando è abbastanza vicino da vederli,
comunque, il che avviene all'imbrunire, rimane indietro in attesa. Il trio ha
acceso un piccolo fuoco tra gli alberi, e sta cucinando un coniglio che uno
di loro ha catturato; stasera non andranno oltre. Shank può permettersi di
acquattarsi contro un albero, e guardare le stelle che cominciano a fare la
loro comparsa in cielo, finché gli uomini si addormentano. Allora li
prenderà, uno alla volta. Non ha alcun dubbio in testa sulla necessità di
risparmiare i compagni dell'assassino: la loro vicinanza li condanna. E tutti
e tre moriranno per il crimine di uno solo.

***

A Tress la congregazione ritorna per il servizio serale, e si affolla nella


piccola chiesa per ringraziare di un'altra giornata vissuta senza dolore, ma
anche se il gregge di Padre Michael aspetta che compaia il suo prete,
aspetta invano. Alla fine qualcuno si alza per andarlo a cercare. Non lo si
riesce a trovare.
(No, non è vero. Io ve lo posso trovare. È seduto in alto, tra i rami più
alti della quercia più grande nel sagrato. Anche se è notte, la sua forma è
resa visibile dall'assenza di stelle. Nessuno pensa a guardare in alto,
mentre escono, scuotendo la testa per la stranezza della situazione. Perché
dovrebbero? Nessuno si aspetta di vedere il proprio prete appollaiato su un
albero.)

Oswald, nel frattempo, è andato a prendere il corpo di Agnes per


portarlo in un luogo sicuro. Non è, considerata l'epoca in cui ha vissuto, un
uomo particolarmente superstizioso. Se una creatura metà uomo e metà
lupo gli dovesse passare accanto in questo momento, certamente
crederebbe a quello che gli mostrano i suoi occhi, ma di certo non
immaginerebbe che fosse possibile vedere un simile orrore. Non mormora
preghiere o vecchie rime mentre cammina, per tenere il male lontano dalla
sua strada, non ha in tasca un talismano o una croce. Ma mentre si fa
strada lungo la riva del fiume verso il punto in cui Shank gli ha anticipato
che troverà il cadavere, lo prende una strana inquietudine. Non ha niente a
che vedere con l'orribile prospettiva che ha di fronte, ha visto ciò che di
peggio il mondo può fare alla carne umana al suo tempo. Quello che lo fa
rallentare e scrutare tra gli alberi un po' più attentamente è la stranezza
delle sensazioni che sono nate in lui. Vuole piangere, e non ne conosce il
motivo. Gli occhi gli pungono, e il naso gli cola; e per un attimo si deve
fermare ad asciugarsi il moccio dai baffi e le lacrime dalle guance. Dopo
averlo fatto, alza la testa, e ha una visione che è la più strana della sua
lunga vita. A poca distanza da lui, un uomo è comparso sulla riva del
fiume. Volta la schiena a Oswald, ma gli sembra che l'estraneo regga una
qualche specie di luce, perché la sua figura è delineata da un pallido
bagliore. C'è qualcosa di rilassante in questa visione. La luce è bella come
quella di una luna primaverile, e altrettanto stabile. Anche se dal momento
in cui Oswald ha iniziato il suo viaggio si è alzato il vento, la lampada che
l'uomo regge non tremola per niente. Non c'è nulla nell'ombra che possa
dare motivo a Oswald di credere che l'uomo possa essere un pericolo. C'è
una specie di inconsistenza in lui: più la visione si fa intensa e più ha la
sensazione che la luce che l'uomo porta filtri qua e là dal suo corpo, come
se non fosse del tutto solido.
Oswald sa come devono sembrare i morti agli occhi di un vivente che li
vede, come lottino per ottenere una corporeità e non riescano a
raggiungerla. Allora si tratta di un morto, che lui sta vedendo? Se è così,
perché Oswald prova una tale serenità? Perché vuole avvicinarsi all'uomo
per vederlo meglio?
Non analizza i suoi istinti per più di un attimo, ma li segue,
avvicinandosi al fantasma senza fare alcun tentativo per nascondersi. E
quando gli si fa più vicino, il mistero di questa apparizione diventa più
profondo. Gli abiti che porta non sono comuni per Oswald: eleganti abiti
chiari che potrebbero essere adatti a qualche nobile proveniente da un
paese sconosciuto. Non porta alcuna arma che Oswald possa vedere, né ci
sono segni che sia in compagnia. È semplicemente in piedi tra gli alberi,
immerso e attraversato dalla luce che regge.
Quando arriva alla distanza di un lancio di pietra da lui, Oswald vede ciò
che giace ai suoi piedi: il corpo di Agnes.
Oswald si ferma, con la mente all'improvviso nel caos più totale. Si
tratta di colui che ha massacrato Agnes, di qualche fantasma che lei ha
incontrato lungo il fiume, che l'ha privata della vita e che poi è tornato a
gongolare sopra il suo corpo? Se è così, Shank si vendicherà dell'uomo
sbagliato, cosa che in circostanze diverse potrebbe far ridere Oswald - in
passato ha provato piacere nell'assurdità che venisse uccisa la persona
sbagliata - ma adesso non gli procura nessun piacere. Ha una mezza idea di
tornare indietro e di interrompere la missione di Shank, ma nel momento
della sua incertezza il fantasma sente la sua presenza e si gira a guardarlo.
E, oh, il viso che Oswald vede tra gli alberi, lo sguardo negli occhi dello
spirito, l'espressione luttuosa, gli toglie ogni voglia di ridere. Dopo questo
momento, Oswald non riderà più, mai più. Invecchierà, diventerà molto
vecchio per gli standard del suo tempo, ma si tratterà di una vita vissuta in
uno stato di dolore.
Il fantasma parla. Questa non è mia moglie, dice. E poi dopo un lungo
momento, Chi è?
Oswald non vuole parlare con lo spirito. Meno contatti ci sono, ragiona,
meglio è. Lascia che il fantasma interroghi qualche altro viaggiatore che
passa da queste parti.
Inizia a ritirarsi, un passo incerto dopo l'altro, e mentre fa questo tiene
gli occhi fissi sulla morta.
Chi è? Chiede di nuovo il fantasma. Con la voce logora come la sua
stessa sostanza.
Oswald trova difficile riuscire a resistere, dal momento che la faccia del
fantasma è così piena di dolore. Ma si costringe ad allontanare lo sguardo,
e posa gli occhi sulla lampada che giace nelle mani dell'uomo. Non si
tratta, si accorge, di una lampada; né di nessun tipo di luce che lui possa
riconoscere. È come se l'uomo stesse reggendo un pezzo di luna, ferma e
limpida. È la luce che lo calma, lo sa; e forse si tratta di una calma fatale,
una calma che farà smettere al suo cuore di battere se non si gira ora, in
fretta, molto in fretta, mentre ancora ci riesce. Affannato e madido di
sudore, arriva infine al suo capanno, al pezzo di tronco su cui era seduto
quando è arrivato Shank. Ci si siede sopra, e fa del suo meglio per
ricomporsi. Non vuole spaventare i suoi figli. Infine la porta si apre e ne
compare sua moglie, gli chiede dove se n'è andato e che cosa ha portato
indietro. Non è andato da nessuna parte, dice; non ha portato indietro
niente. Lei non gli crede, naturalmente. Lo conosce troppo bene. (O
almeno è quello che crede. Dopo stasera non lo conoscerà più così bene
come una volta. Il suo marito ridanciano se n'è andato via, e qualcuno che
lei non riesce ad amare molto ne ha preso il posto. Morirà tra due inverni e
sul suo letto di morte gli chiederà quello che non osa chiedergli adesso,
perché adesso vede lo sguardo nei suoi occhi: gli chiederà cosa gli era
successo. E lui cercherà di dirglielo, e mentre incespica sulle parole lei se
ne andrà.)

E adesso torniamo a Shank, che ha osservato la sua preda per molte ore,
aspettando con pazienza che gli si presentasse l'occasione di fare del male.
Gli uomini hanno alimentato il fuoco per tre volte, in modo che
continuasse a scoppiettare mentre bevevano e parlavano e bevevano di
nuovo. Ma la birra che avevano bevuto aveva preso il sopravvento, e loro
avevano appoggiato le teste per dormire, lasciando che il fuoco si
consumasse. Adesso ci sono solo i tizzoni e alla sua luce irregolare Shank
riesce a immaginare le facce dei tre uomini, inerti sotto le loro pellicce
consunte.
Ha un suo piano: prima prenderà quello che sta più vicino a lui, che è
anche il più grande, e quindi il più pericoloso per lui. O almeno è questo
che lui immagina. In effetti Shank sta per muoversi dal suo nascondiglio
quando il terzo uomo (non il gigante, né l'assassino) si alza barcollando e
con terribili grugniti e schiarimenti di gola si allontana inciampando dal
campo. Shank ne deduce che l'uomo stia andando a pisciare, cosa che gli
torna comoda. Lo ucciderà mentre è impegnato a svuotarsi la vescica. Si
muove rapidamente e con calma verso il limitare del campo e verso il buio
in cui sta barcollando l'uomo, e gli si avvicina rapidamente, trovandosi a
breve distanza da lui, che sta appollaiato vicino a un albero a cagare. Fa
fatica, grugnisce, e impreca. Shank si ritrova addosso all'uomo prima che
lui se ne renda conto, e abilmente gli taglia la gola da un orecchio all'altro.
L'ultimo respiro dell'uomo gli sfugge dalla gola mentre cade sui suoi
escrementi, addosso all'albero.
Shank si gira a guardare gli altri due uomini. Nessuno dei due si è mosso
dal torpore del proprio sonno. Lui non degna l'uomo morto di una seconda
occhiata, ma torna rapidamente verso il fuoco in modo da poter pugnalare
il secondo compagno dell'assassino. È veloce. Alza il coltello, e lo fa
cadere, dritto nel torace dell'uomo. Ma la pelliccia è più spessa di quanto
Shank non avesse immaginato, e impedisce alla lama di compiere ii suo
fatale dovere. L'uomo si alza, ruggendo, con la lama di Shank che gli tiene
la pelliccia infilzata nel torace. Lo getta contro il fuoco, ma a differenza
della sua vittima Shank non è istupidito dall'alcol, e in un battibaleno è di
nuovo addosso all'uomo, e gli infila il coltello nella carne. La pelliccia
cade. L'uomo si guarda il torace e vede il sangue che ne sgorga. In quel
momento Shank lo colpisce di nuovo, questa volta affondando il coltello
nella pancia dell'uomo e muovendolo avanti e indietro, dividendo carne,
muscoli e grasso. Quando lo estrae, il contenuto della pancia esce con lui,
le sue interiora, la sua cena, e la birra. L'uomo emette un gemito, quasi un
singhiozzo, e cade riverso sul pelo. Shank non rimane lì a guardarlo mo-
rire. Si butta addosso all'uomo che Oswald aveva chiamato un maialino
imberbe, l'uomo che farà soffrire ripetutamente per la morte di Agnes.
Il terzo uomo si è svegliato, e naturalmente si è alzato. Ma non ha alcuna
intenzione di combattere: la sua miglior difesa, ha deciso, sta nello
scappare. Shank ha comunque il vantaggio della furia. I suoi polmoni
immettono eroiche boccate d'aria, ha gli arti gonfi e pulsanti per la
passione del momento, sente un'allegria che non ricorda di aver mai
provato prima. Afferra il maiale per i capelli, gli posa il coltello fatale
vicino al collo, e lo taglia, fa un taglio della lunghezza di un dito, non di
più, ma abbastanza, abbastanza da permettere all'uomo di sapere che se
cerca di lottare è un uomo morto. Poi Shank lo trascina verso il fuoco e gli
spinge la faccia verso le fiamme che crepitano dai tizzoni.
«Hai ucciso la mia donna», dice, all'orecchio dell'uomo.
Nonostante il terrore, il maiale protesta, no, no, no, dice, non ha fatto
niente. Forse uno degli altri, ma non lui. Giura, sul sangue sacro di Cristo,
non ha fatto niente.
Shank spinge la faccia del suo prigioniero più vicino al fuoco. I riccioli
della barba disordinata dell'uomo prendono fuoco, e il fuoco si alza, forte e
luminoso. Lui ripete che non ha colpa, ma con ogni parola di protesta
viene spinto più vicino alla fonte di calore. Adesso la sua barba ha preso
fuoco, i capelli vicino alle orecchie si raggrinziscono, come del resto la
frangia e le ciglia. Inizia a essere colto dal panico, lotta per liberarsi di
Shank. Le sue parole di diniego sono diventate urla. Lui si agita e alcuni
dei tizzoni volano via, ma lui non riesce a liberarsi del suo tormentatore,
che all'improvviso si stanca di torturarlo e spinge la faccia dell'uomo in
quello che resta del fuoco. Oh, il maiale strilla, e rinvigorita dall'agonia la
sua agitazione raddoppia, fino a diventare abbastanza forte da liberarsi di
Shank. Tira fuori la faccia dai tizzoni, con la barba e i capelli in fiamme, e
mettendosi in piedi, corre strillando. Shank per un attimo rimane
paralizzato, affascinato dallo spettacolo che gli si para davanti. Vorrebbe
che ci fosse qualcuno con cui dividerlo, forse Oswald, sì, Oswald
riderebbe fino alle lacrime.
Poi all'improvviso, l'uomo si allontana, ancora in fiamme, incespicando
tra gli alberi. Shank raccoglie il coltello, che aveva lasciato cadere nella
lotta, e lo segue. La preda non è difficile da trovare: la sua testa è una palla
luminosa che si agita nel buio.
E allora, Shank ode il fiume. Il montanaro lo ha portato al fiume. Può
vedere le acque che si muovono davanti a lui, riesce persino a vedere la
sua preda che zoppica nell'acqua schiumosa, in cui si butta per porre fine
alla sua agonia. Le fiamme si spengono, ma adesso Shank sta camminando
nella fanghiglia ghiacciata, e riesce ancora a vedere con una certa
chiarezza la sua vittima. Si getta alla caccia nel fiume, afferra l'uomo, che
ruggisce sopra il rombo del fiume. Sono entrati nel fiume dove la corrente
corre bianca e veloce e nel loro essere sfiniti e feriti nessuno dei due riesce
a opporvisi. La vittima di Shank è la prima a cadere, e Shank ne trae
vantaggio, spingendo la testa dell'uomo sotto l'acqua. Non lo affogherà, ha
deciso, si limiterà a indebolirlo abbastanza da renderlo obbediente. Poi lo
riporterà sulla riva, e inizierà a tagliarlo, e continuerà a farlo fino al suo
ultimo respiro. Solo allora, quando l'uomo non sarà più in grado di
esprimere la sua sofferenza, gli accoltellerà gli occhi e considererà
vendicata la morte di Agnes.
Ma prima deve tirare l'uomo fuori dall'acqua, cosa che si sta dimo-
strando diffìcile. Anche se la testa del maiale è stata sotto per un po', graf-
fia ancora la faccia di Shank, lasciandogli dei segni sulle guance. Shank
tira l'uomo in superficie, cogliendo alla luce della luna una visione di come
il fuoco lo ha riempito di vesciche, poi colpisce la faccia ferita con un
pugno. L'uomo non rinuncia ancora a combattere. Raggiunge il collo di
Shank e lo tira giù nell'acqua. Questa volta sono le gambe di Shank a
essere trascinate via dalla corrente. Legati insieme, vengono portati a valle,
gettati a tratti contro le rocce, poi catturati da un mucchio di detriti (i rami
degli alberi, gli escrementi, una capra morta). La violenza del loro
passaggio toglie il fiato a Shank, che però non molla la presa sulla sua
preda. È una caparbietà che lo distruggerà. Il corpo dell'uomo diventa più
pesante, sembra, e mentre sprofonda tira Shank giù con lui. Shank inspira
acqua, sputa, inala un'altra boccata, poi sprofonda sotto la superficie.
Solo ora si accorge che l'uomo che sembrava avere intenti così criminosi
è ormai annegato. È solamente la reazione dei suoi muscoli irrigiditi che lo
fa stringere a Shank in questo modo. Il resto, il movimento del suo corpo,
il modo in cui sembra voler trascinare Shank con sé di proposito, è tutto il
lavoro del fiume. Comunque, è troppo tardi per rinunciare alla lotta. Non
avrebbe potuto liberarsi nemmeno se avesse voluto, l'acqua presto ha la
meglio su di lui. E lui continua ad andare giù, finché esala l'ultimo respiro
pieno di sabbia in una nuvola di bolle d'argento.

Molto più tardi le acque vorticose liberano i due corpi. La vittima di


Shank viene portata verso il mare, ma Shank viene portato vicino alla foce
del fiume. Qua il fango è denso e anche se alcune persone nei giorni che
seguono lo attraversano, alla ricerca di granchi, e anche di pesce morto,
per incrementare le loro misere provviste di cibo, il corpo di Shank passa
inosservato. Tuttavia i granchi non sono così incuranti della sua presenza.
Si avvicinano al cadavere come pellegrini, muovendosi furtivamente sopra
di lui, strisciando nei suoi abiti, nella bocca, nelle cavità del suo ventre, per
impossessarsi di qualsiasi sua parte appaia commestibile. Le ossa finiscono
nel fango, e il sole non splenderà più su di lui.

Nella mia mente, il fiume alla fine arriva al capanno dove Agnes e
Shank hanno vissuto insieme. Ci vogliono quattro anni, quattro anni in cui
nessuno si avvicina al posto, a causa delle superstizioni, ma un febbraio
l'improvviso bel tempo fa sciogliere la neve pesante, e così le acque del
fiume gonfiandosi si alzano più di quanto non abbiano mai fatto a memoria
d'uomo, e il fiume entra nel capanno. È come un ospite non invitato, che
spalanca la porta, e rivolta il posto sottosopra. Riduce i pochi mobili in
frammenti, lava via gli ultimi residui di cenere dal camino, si impossessa
dei crani degli animali che Shank aveva collezionato e i sassi lisci e chiari
che Agnes era solita portare a casa dalle rive del fiume, e che chiamava i
suoi bambini, prende alcune ciotole di legno, una fiasca, un coltello o due,
le pellicce consunte sotto cui dormivano, si impossessa di tutto e tutto lava
via.
I muri del capanno stesso sopravvivono per un'altra stagione, ma col
calore dell'estate successiva il posto all'improvviso cede. L'inverno se-
guente, quando arriva ancora, l'inondazione si porta via quello che era
restato, e in primavera l'erba cresce dove c'era stata la capanna.

8
Non avverrà più alcun cambiamento importante in questo luogo per
quasi mille anni. Il fiume continuerà a scorrere, un anno dopo l'altro,
talvolta arrivando quasi a gelare negli inverni più freddi, o ridotto a un
ruscelletto fangoso nelle estati più calde, ma sostanzialmente inalterato.
Oh, sta intagliando un bel sentiero, per dire la verità, erodendo una riva e
depositando limo sull'altra. Ma questi cambiamenti sono troppo sottili per
essere visibili al solo passare di un chiliad.
Gli alberi tra le sue rive crescono più lussureggianti, naturalmente.
Gettano i loro semi, e quando l'albero originale perisce per malattia o
vecchiaia, quei semi sono sostenuti dal caldo legno e dalle foglie che si
sono decomposti e crescono rigogliosi. In alcuni anni il sottobosco è
addirittura impenetrabile, poi un piccolo incendio elimina il legno morto, e
ha inizio un nuovo ciclo di crescita.
Posso dirvi poco delle storie degli uomini che si sono sviluppate là,
senza dubbio ci sono un numero infinito di avvenimenti che hanno luogo
in un posto simile, atti di seduzione e di devozione, piccole gentilezze,
piccole crudeltà. Niente degno di nota, tuttavia, a parte questo: nell'estate
del 1850, il pittore John Everett Millais venne qua, alla ricerca di una
scena di un fiume da poter dipingere in un quadro che aveva progettato. Il
soggetto deve essere quello di Ofelia che annega, che si allontana
galleggiando con la sua ghirlanda di fiori. Millais si fermò per un giorno a
studiare le anse del fiume. Voleva trovare un posto che si adattasse
maggiormente ai particolari del testo shakespeariano, ma questo fiume non
ha salici. Alla fine scelse il fiume Hogsmill, nel Surrey, e l'anno successivo
fu là che dipinse il suo capolavoro.
Il paesaggio non subisce cambiamenti significativi fino al 1940, con
l'approssimarsi della fine del millennio. Nel settembre di quell'anno un
solitario bombardiere della Luftwaffe, azzoppato dal fuoco della
contraerea mentre attraversa la costa dell'Inghilterra, lascia cadere un
carico intero di bombe destinate a Londra, e parecchie finiscono nei pressi
del fiume. Una di queste non esplode e, persa nel sottobosco, non sarà
scoperta che molto tempo dopo. Una seconda esplode appena a nord del
villaggio, uccidendo del bestiame. È la terza bomba di cui ci occuperemo,
perché fa saltare per aria la chiesa di Tress, liberando dalle loro tombe i
molti buoni cristiani che vi avevano giaciuto convinti che non avrebbero
mai più visto il cielo fino al giorno del giudizio.
Quando, alla fine della guerra, la chiesa viene ricostruita, un artista che
era venuto a vedere il fiume per la prima volta perché era un seguace di
Millais, e aveva erroneamente creduto che il dipinto di Ofelia fosse stato
eseguito qui (e si innamorò al punto tale della tranquillità del posto da
trasferirvi la sua famiglia la primavera successiva), venne incaricato di
disegnare quattro finestre di vetro colorato. Solo tre dei quattro disegni
furono realizzati e consegnati. Sono gloriosi, il trionfo della sua carriera.
Uno riproduce Giovanni Battista, in piedi nel fiume, circondato da una
congregazione di accoliti felici che aspettano di venire battezzati. Il
secondo mostra Cristoforo che regge il Bambin Gesù sulle spalle, in un
altro fiume, questo più selvaggio di quello in cui è in piedi Giovanni. Il
terzo rappresenta Cristo il Redentore che cammina sulle acque, mentre il
pesce gli lambisce i piedi feriti. In caso qualcuno possa pensare che si
trattasse delle acque della Galilea, il pittore si assicurò che i pesci fossero
trote di fiume.
La quarta finestra avrebbe dovuto rappresentare il secondo avvento,
quando il fiume sarebbe risalito verso le sue sorgenti, e il sole, la luna e le
stelle avrebbero tutte brillato insieme, e Cristo, e l'anima spaventata che lo
reggeva, e lo sciamano che lo aveva battezzato sarebbero tornati in gloria a
perdonare i peccatori e a dividere con loro il segreto della benedizione. Ma
l'artista muore di un attacco di cuore prima di finire il suo capolavoro, e la
quarta finestra viene invece fatta di vetro liscio, attraverso il quale la
congregazione vede solo il cielo.

1900-1909
La grande burrasca
di Joe R. Lansdale

Per Norman Partridge

Gli abitanti di quelle isole che oggi chiamiamo le Indie Occidentali,


almeno una volta all'anno, si ritrovavano il loro paradiso soggetto a un dio
terribile che portava venti selvaggi, pioggia e alla fine la devastazione.
Chiamavano il loro dio terribile Hurakan.

Martedì 4 settembre,1900, ore 16.00

Messaggio telegrafico da Washington, meteorologico centrale a Issac


Cline, Ufficio meteorologico di Galveston, Texas:
Perturbazione tropicale si sta spostando verso nord sopra Cuba.

ore 18.38

In un pomeriggio che scotta più di due topi di fogna che scopano in un


calzino di lana, John McBride, un metro e ottantacinque, cento chili di
peso, con due mani enormi, con la struttura e l'aggressività di un cinghiale
selvaggio, arrivò in traghetto dalla terraferma del Texas all'Isola di
Galveston, con una pistola nascosta sotto la giacca e un rasoio nella scarpa.
Dopo che il traghetto ebbe attraccato, McBride posò la valigia, si tolse la
bombetta, prese un fazzoletto bianco pulito e inamidato dalla giacca, vi
pulì la fascia della bombetta, lo usò per asciugarsi la fronte, se lo fece
passare sui capelli neri che si stavano diradando, e si rimise il cappello.
Un vecchio cinese di San Francisco gli aveva detto che perdeva i capelli
perché portava sempre il cappello, e McBride aveva deciso che forse aveva
ragione, ma a questo punto usava il cappello per nascondere la calvizie.
Pensava che a trent'anni era troppo giovane per perdere i capelli. Il cinese,
in cambio di una somma considerevole, gli aveva dato un tonico per i suoi
problemi. McBride lo usava religiosamente, sfregandoselo sullo scalpo.
Gli unici risultati che aveva visto sinora era che faceva brillare la zona
senza capelli. Se fosse mai tornato a San Francisco lo avrebbe sistemato
per bene, forse gli avrebbe dato un paio di cazzotti in testa.
Mentre McBride raccoglieva la valigia e scendeva dal traghetto insieme
agli altri, osservò il cielo. Sembrava verde come un tavolo da biliardo.
Mentre il sole si abbassava a bere dal golfo, McBride quasi si aspettava di
vedere del vapore che si alzava da dietro l'isola. Inspirò profondamente
l'aria salmastra e pensò che aveva un buon odore. Gli faceva venire fame
quell'odore. Questo era il motivo per cui si trovava qua. Aveva fame.
Prima nel suo menù c'era una donna, poi una bistecca, poi un po' di riposo
prima della portata finale, la ragione per cui era venuto. Per rifilare una
bella batosta a un negro.
Aveva noleggiato un calesse affinché lo portasse a un bordello di cui gli
avevano parlato quelli che gli avevano affidato il lavoro, i tizi che avevano
pagato il suo viaggio da Chicago. A sentir loro c'era una rossa così brava e
ben fatta da farti cantare a squarciagola. Per come la pensava lui, se aveva
i capelli rossi, era una femmina, ed era pronta, sarebbe andata bene, e al
diavolo cantare. Era comunque qualcun altro a pagare il conto.
Mentre il calesse si muoveva, McBride studiò Galveston. Era una ver-
sione meridionale di New York, con un tocco leggermente tropicale. Le
case erano sollevate su dei trampoli, in realtà spessi pilastri di supporto,
per difenderle dalle acque delle tempeste, e nella città vera e propria le
case sembravano provenire dalle piantagioni del Profondo Sud.
Il municipio apparentemente era stato progettato da un architetto con un
passato moresco. Era pieno di guglie e spirali. Lo stile faceva a pugni con
un magnifico orologio che era alloggiato nel punto più alto dell'edificio,
una torre aguzza. L'orologio sembrava un Big Ben in miniatura.
L'Inghilterra incontra gli stati centrali.
Tram elettrici sibilavano lungo le strade, e c'era un gran numero di bici-
clette, carrozze, calessi e pedoni. McBride vide persino un'automobile.
Le strade erano fatte di blocchi di legno seppelliti, che McBride
identificò come zavorra di nave. Alcune delle strade laterali erano fatte di
conchiglie bianche, e alcune erano di sabbia dura. Quello che vide gli
piacque. Forse dopo che avrò sistemato il negro, mi fermerò per un po'.
Prenderò il sole sulla spiaggia. Troverò la maniera di mettere le mani su un
po' di soldi.
Quando finalmente McBride arrivò al casino, era buio pesto. Diede
all'autista nero una grossa mancia, sollevò il cappello, afferrò la valigia,
superò il cancello di ferro battuto intarsiato, salì i gradini, ed entrò per farsi
dare una sistemata.
Dopo aver dato il suo nome a una donna grassa, che dava l'impressione
di essere in grado anche lei di dare una strizzata a un paio di clienti, gli fu
dato il trattamento riservato ai reali. La tenutaria in persona lo accompagnò
di sopra, lo svestì, gli fece il bagno, e lo coccolò un po'.
Quando fu pulito, lo asciugò, lo infilò nel letto, lo baciò sulla fronte
come se fosse stato un ragazzino, poi trotterellò via. Nel momento in cui se
ne andò, lui saltò fuori dal letto, si mise davanti allo specchio della toeletta
e si pettinò i capelli, cercando di metterne più che poteva sulla zona pelata.
Si era appena sistemato e aveva appena fatto in tempo a tornare a letto che
la rossa ricomparve.
Aveva gli occhi verdi e la vita un po' pesante, ma non era brutta da
guardare. Aveva dei capelli rosso fuoco in testa e di un rosso più cupo tra
le gambe, che erano bianche come lenzuola e lisce come un maialino
appena nato.
Lui iniziò col farle un po' di male, schiacciandole i capezzoli, solo per
farle vedere chi era il capo. Lei finse piacere. Con i soldi che i suoi datori
di lavoro pagavano, si immaginava che avrebbe avvolto uno stronzo nella
ghiaia e l'avrebbe spinto per terra col naso facendo finta che le piacesse.
McBride le irruvidì un po' il fondoschiena, poi salì in sella e cavalcò un
po'. In seguito quando lei non fu più così condiscendente a fare quello che
voleva lui, le fece un occhio nero.
Quando i rappresentanti del Galveston Sporting Club fecero la loro
comparsa, lui era a letto con la rossa, scoperto, con un vento caldo che
soffiava dalla finestra aperta e asciugava i succhi suoi e della donna.
La tenutaria fece entrare i membri del club e se ne andò. Erano in
quattro, tutti vestiti da sera con il cilindro in mano. Due avevano capelli e
baffi grigi. Gli altri due erano più giovani. Uno era grosso, e aveva una
faccia che sembrava fare costantemente da scudo alle cannonate. Aveva
entrambi gli occhi neri a causa di un incontro recente. Aveva il naso
schiacciato e deviato sul lato sinistro del viso. Respirava attraverso la
bocca. Non aveva gli incisivi superiori.
L'altro giovane era un damerino minuto. Questo, immaginò McBride,
doveva essere Ronald Beems, l'uomo che gli aveva scritto per conto dello
Sporting Club.
Ogni particolare di Beems dava fastidio a McBride. Il suo vestito, a
differenza di quelli degli altri che erano pieni di pieghe e cadevano male,
sembrava stirato di fresco, insensibile all'umidità del pomeriggio. Odorava
leggermente di naftalina, e di un qualche tipo di tonico per capelli a base di
zenzero. Aveva dei baffi sottili e dei capelli che facevano invidia a
McBride. Neri, spessi e lunghi, con delle basette a fedine. Aveva dei line-
amenti perfetti. Non lo aveva mai sfiorato nessun pugno. Stava in piedi
rigido, come se avesse avuto un manico di scopa nel sedere.
Beems, come gli altri, guardò McBride e la rossa con più che un po' di
stupore. McBride giaceva a gambe larghe e la schiena appoggiata a un
cuscino. Sembrava essere molto grosso in quel posto. Aveva gambe, spalle
e braccia spesse e piene di muscoli ricoperti di sudore. Aveva lo stomaco
un po' prominente, ma sembrava duro a guardarlo.
La puttana, accaldata, con l'occhio nero, le gambe aperte, e il seno
penzolante, sembrava più imbarazzata di McBride. Voleva coprirsi, ma
non si mosse. Nella sua memoria era ancora fresco il ricordo del pugno
all'occhio.
«Per amor del cielo», disse Beems. «Si copra.»
«Cosa diavolo credete che abbiamo fatto, qua? Che abbiamo giocato a
dama?» disse McBride.
«Non c'è nessun bisogno di dar tutta questa pubblicità alla cosa. Un
uomo si prende le proprie soddisfazioni in privato.»
«Di certo avete già visto delle palle», disse McBride, allungandosi a
prendere un sigaro che era appoggiato sul tavolo vicino al revolver e a una
scatola di fiammiferi. Poi sorrise e studiò Beems. «O forse tu no... E
invece forse sì, forse ne hai visto un sacco e da vicino. Mi sembri il tipo di
persona che preferirebbe sentire le scoregge di un ragazzo un po' grasso
che una bella ragazza cantare.»
«Che bruto disgustoso», disse Beems.
«Che cose da dirsi», rispose McBride. «Adesso sono davvero ferito.
Vieni al sodo.» McBride diede un colpetto sulla parte interna della coscia
della rossa. «Tu conosci questa cosa, vero? No, non la conosci. Ti devo
dire io di cosa si tratta. Noi la chiamiamo una donna, e quella cosa che ha
tra le gambe è la sua farfallina rossa.»
«Noi non facciamo affari in questo modo», disse Beems.
McBride sorrise, prese un fiammifero dalla scatola, e si accese il sigaro.
Soffiò il fumo e disse: «Tu pezzo di stronzo vestito della festa mi hai fatto
venire fin qui da Chicago. Non sono io che ho chiesto di venire qua. Mi
avete offerto un lavoro e io l'ho accettato, e posso rinunciare, se mi fa co-
modo. Mi avete già pagato il biglietto del ritorno. Voi mi avete mandato a
chiamare e io sono venuto, e mi avete organizzato e pagato questa cosa, e
siete venuti a questa riunione in un bordello, e adesso mi venite a dire che
siete troppo speciali per guardare le mie palle? Troppo puritani per
guardare una micetta. Uscite, e fatemi finire quello che voglio finire
davvero. Domani sarò fuori di qua, e potrete dare una lezione al vostro
negro».
Per un po' si sentirono dei piedi che sfregavano sul pavimento, e uno
degli uomini più anziani si sporse in avanti e sussurrò qualcosa a Beems.
Lui trasse un sospiro, come un pesce fuor d'acqua, e disse: «Molto bene.
Non c'è molto da dire. Vogliamo dare una batosta a questo negro, e vo-
gliamo che sia una cosa fatta bene. Abbiamo saputo che nel suo ultimo
incontro il suo avversario è morto».
«Sì», rispose McBride. «L'ho ucciso e ho intinto il mio stoppino nella
sua signora. La sera stessa.»
Questa era una bugia, ma a McBride piaceva il suono di quello che
diceva. Gli piacque l'espressione che comparve sulle loro facce quando lo
disse. La donna in realtà era la sorellastra dell'uomo, e l'uomo era morto a
causa delle percosse tre giorni dopo.
«E si trattava di un bianco?» chiese Beems.
«Bianco come la neve. Morto come una pietra. Parliamo di soldi.»
«Le abbiamo spiegato la nostra offerta finanziaria»
«Ripetetela. Mi piace il suono del denaro.»
«Cento dollari prima che salga sul ring col negro. Altri duecento se lo
batte. Un bonus di cinquecento se lo uccide. Questo è un combattimento
breve. Non quarantacinque round. Nessun pugile fa così tanti soldi con
uno sforzo così piccolo. Nemmeno John L. Sullivan.»
«Dovete proprio odiarlo questo negro. Perché? Si sta facendo il vostro
cane?»
«Sono affari nostri.»
«Va bene. Ma mi prenderò adesso metà del denaro.»
«Il patto non era questo.»
«Lo è adesso. E mentre sono qua farò aumentare il conto. Prendere o la-
sciare.»
Ci fu ancora un certo movimento di piedi. Alla fine i due uomini più
anziani avvicinarono le teste ed estrassero i portafogli. Presero il denaro, e
lo diedero a Beems. «Questi signori sono i nostri sostenitori», disse
Beems. «Questo è il signor...»
«Non mi importa chi sono», disse McBride. «Datemi i soldi.»
Beems li gettò ai piedi del letto.
«Raccoglili e portali qua», disse McBride a Beems.
«No.»
«Sì, lo farai perché vuoi che io pesti questo negro. E lo desideri proprio
tanto. E un'altra ragione è questa: se non lo farai mi alzerò dal letto e
sculaccerò il tuo delicato culetto per tutta la stanza.»
Beems ne fu un po' scosso. «Ma perché?»
«Perché posso farlo.»
Beems, con il viso rosso come se avesse avuto un'infezione, raccolse i
biglietti dal letto e li portò a McBride. Poi glieli gettò. McBride, veloce
come un'anatra su un insetto in giugno, afferrò il polso di Beems e lo tirò
verso di sé, costringendolo a mollare la presa e a far cadere i soldi sul suo
torace. Poi, con la mano libera, si tolse di bocca il sigaro, e lo spinse
contro il pollice di Beems che con un gemito disse: «Forrest!»
L'uomo grosso, senza denti e con gli occhi neri iniziò ad avvicinarsi al
letto di McBride. Lui disse: «Sta' indietro, Charlie, o dovrai ingaggiare
qualcuno per scrollarti questo tizio dal culo».
Forrest esitò, poi fece un passo indietro e piegò la testa.
McBride prese la mano di Beems e se la infilò tra le gambe e la sfregò
ripetutamente sulle sue palle sudate, poi lo spinse via. Beems rimase a
bocca aperta, a fissarsi la mano.
«Sono io il capo qua», disse McBride. «E d'ora in avanti le cose ri-
mangono in questo modo. Trattatemi con rispetto. Se io vi dico che dovete
tenermi l'attrezzo quando piscio, voi lo dovete tenere. Se dico che mi
dovete reggere le lenzuola mentre mi faccio un pezzo, lo dovete fare.»
Beems disse: «Bastardo. Ti potrei fare uccidere».
«Allora fallo. Odio i tipi come te. Odio tutti quelli che immagino che
possano essere come te. Odio quelli cui piacciono i tipi come te o che
vogliono essere come te. Ucciderei persino un cane che si trovasse a essere
con te. Odio tutti voi bastardi pieni di soldi e senza palle. Vi odio perché
non siete capaci di pestarvi il vostro negro, e sono contento che non siate
capaci di farlo, perché io posso. E voi mi pagherete. Quindi vai avanti.
Manda pure i tuoi assassini. Vedi un po' dove andranno a finire. E dove
andrete a finire voi. E odio i tuoi dannati capelli, Beems.»
«Quando tutto questo sarà finito», disse Beems, «te ne andrai subito.»
«Lo farò, ma non a causa tua. Perché non ti sopporto, te e la tua piccola
ammucchiata di pezzi di merda.»
L'uomo grosso e senza denti alzò la testa, fissando McBride.
McBride disse: «Il negro ti ha pestato, non è vero Forrest?»
Forrest non rispose, ma la sua faccia era molto espressiva. McBride
disse: «Tu non sei capace di pestare il negro, quindi il tuo capo mi ha
mandato a chiamare. Io posso pestare il negro. Quindi non pensare nem-
meno per un momento di potermele dare».
«Suvvia», disse Beems. «Andiamocene. Quest'uomo mi dà il vomito.»
Beems si unì agli altri, con la mano sporca tenuta in disparte. Sembrava
che gli uomini più anziani si fossero appena resi conto di essersi persi nella
foresta. Si organizzarono in modo da riuscire a uscire dalla porta. Beems li
seguì, ma prima di uscire si girò a fissare McBride.
Lui disse: «Non lavarti quella mano Beems. Potrai dire: 'Questa è la
mano dell'uomo che ha toccato le palle di John McBride'.»
«Vai all'inferno», gli disse Beems.
«Tienimi informato», rispose McBride. Beems uscì. McBride gridò die-
tro a lui e ai suoi amici: «Signori, è stato un piacere fare affari con voi».

ore 21.12
Più tardi quella sera la rossa fece qualcosa che gli diede fastidio e lui le
fece un altro occhio nero, poi si stiracchiò, le si stese addosso e si
addormentò. Mentre dormiva, sognò di avere una testa piena di capelli
come quella del signor Ronald Beems.
Fuori, il vento stava aumentando leggermente, soffiando caldo, man-
dando aria che sapeva di salmastro nelle strade di Galveston e attraverso le
finestre del bordello.

ore 21.34

Bill Cooper stava lavorando fuori sul terrazzo del primo piano che stava
costruendo. L'aveva quasi ultimato se non per qualche lavoro di finitura.
Senza che se ne rendesse conto da un po' di tempo si era fatto buio, e lui
stava cercando di finire al lume di una lanterna. Stava martellando un'asse
laterale quando sentì una goccia di pioggia. Si interruppe e guardò in su. Il
cielo notturno aveva un aspetto particolare, che per un attimo lo fece
rimanere in osservazione. Studiò il cielo un momento più a lungo, e decise
che non era poi così brutto. Era solo la luce delle stelle a dargli quello
strano aspetto. Su di lui non caddero altre gocce.
Bill gettò il martello sul pavimento, lasciando il chiodo infilato solo per
metà, raccolse la lanterna, ed entrò in casa per tenere compagnia a sua
moglie e al suo figlioletto. Per quel giorno ne aveva avuto abbastanza.

ore 23.01

Le onde si frangevano rumorosamente contro la spiaggia e l'aria era


sorprendentemente pesante considerando che la serata era parecchio
avanzata. Si posava calda e umida sul torace nudo di «Lil» Arthur John
Johnson. Inspirava ed espirava l'aria mentre colpiva con tutta la sua forza
la traversa della ferrovia per la centesima volta. La colpì col suo pugno
destro. E la traversa sprofondò nella sabbia. La uncinò con il sinistro, la
bloccò con un dritto, mettendo nell'operazione tutta la forza della sua
struttura di un metro e ottanta per novanta chili di peso. La traversa andò
indietro, uscì dalla sabbia, e colpì la spiaggia.
Arthur fece un passo indietro e tese in fuori le grosse mani nere e le
esaminò alla luce della luna. Avevano qualche graffio ma fondamental-
mente erano a posto. Si diresse verso l'acqua, si piegò e mise a bagno le
mani, lasciando che le onde le lambissero. Nemmeno il sale le bruciava.
Le sue mani sembravano di cuoio. Le sfregò l'una contro l'altra, assicu-
randosi che fossero completamente coperte dall'acqua del mare. Fece una
coppa con le mani e la riempì d'acqua, se la sfregò sul viso, e sulla testa
rasata come un proiettile.
Faceva questo esercizio, insieme a molti altri da molti mesi. Stava
indurendo le mani e la faccia col lavoro e l'acqua salmastra. Si diceva che
quest'uomo con cui doveva combattere, questo McBride, avesse dei pugni
che sembravano rasoi, pugni che penetravano dai guanti e tagliavano la
carne.
«Lil» Arthur trasse un altro respiro, e questa volta inspirò non solo
l'odore dell'aria salmastra e del pesce morto, ma anche della fogna, che
veniva regolarmente scaricata al largo del golfo.
Prese il badile e scavò di nuovo il buco nella sabbia, vi rifece cadere la
traversa, la sistemò e tornò al lavoro. Questa volta, venne fuori dopo due
colpi. Lui ripeté il rito di lavarsi le mani e la faccia, poi raccolse la
traversa, se la sistemò su una spalla e cominciò a correre su e giù per la
spiaggia. Quando ritenne di aver corso abbastanza, cambiò spalla e iniziò a
correre in direzione opposta. Non sentiva nemmeno senza fiato.
Raccolse il suo badile, e con la traversa su una spalla si diresse verso il
tugurio della sua famiglia nei Flats, anche noti come Città dei Negri.

«Lil» Arthur lasciò la traversa davanti al tugurio e mise il badile sul


portico cadente. Stava per entrare quando vide un uomo a pochi metri di
distanza. L'uomo era bianco. Indossava degli abiti eleganti e un cappello.
Quando fu vicino al portico, si fermò, si tolse il cappello. Era Forrest
Thomas, l'uomo che «Lil» Arthur aveva battuto fino a fargli perdere i sensi
tre settimane prima. C'era voluto solo fino a metà del terzo round.
Persino nella luce incerta della luna, «Lil» Arthur riusciva a vedere che
Forrest sembrava messo male. Per un attimo, un fugace istante, si sentì
quasi male per averlo combinato così. Ma poi iniziò a chiedersi se l'uomo
avesse una pistola.
«Arthur», disse Forrest. «Sono venuto a parlarti un attimo, se va bene.»
Era certamente un atteggiamento diverso da quello della sera in cui
«Lil» Arthur era salito sul ring con lui. Allora Forrest Thomas era stato
pieno di sé e borioso e la parola negro si era posata sulle sue labbra con
forza e di frequente. Era arrabbiato perché il suo padrone lo aveva costretto
a lottare contro un uomo di colore. A sentire lui, meritava non meno di
John L. Sullivan, che si era rifiutato di lottare con un nero, considerando
questa una degradazione per il titolo dei pesi massimi.
«Sì», disse «Lil» Arthur. «Cosa vuoi?»
«Non ho niente contro di te», disse Forrest.
«Per me non ha importanza», gli rispose «Lil» Arthur.
«Mi hai dato una bella pestata.»
«Lo so. E lo posso fare di nuovo.»
«Non ci credevo prima, ma adesso lo so anch'io.»
«È questo che mi sei venuto a dire? Ti sei vestito bene, solo per venire a
parlare al negro che ti ha pestato?»
«Sono venuto per dirti dell'altro.»
«Dillo. Sono stanco.»
«È arrivato McBride.»
«Non mi stai dicendo niente di nuovo. Immaginavo che a un certo punto
sarebbe arrivato. Come faccio a combattere con lui se non viene?»
«Tu non sai niente su McBride. No davvero. Ha ucciso un uomo sul
ring, durante il suo ultimo combattimento a Chicago. E questo è il motivo
per cui Beems lo ha portato qua, per farti uccidere. Beems e il suo gruppo
ti vogliono morto perché hai battuto un bianco. A loro non importa che sia
io quello che hai pestato. A loro importa solo che si sia trattato di un
bianco. Beems immagina sia un insulto alla razza, che un bianco sia stato
battuto da un uomo di colore. Questo McBride ha qualche possibilità di
competere per il titolo mondiale. È a quel livello.»
«Mi stai dicendo che sei preoccupato per me?»
«Ti sto dicendo che Beems e i membri dello Sporting Club non l'hanno
presa bene. Hanno anche perso un sacco di soldi con le scommesse.
Devono sistemare le cose. Non sono tuo amico, ma immagino di doverti
questo. Sono venuto ad avvertirti che questo McBride è un assassino.»
«Lil» Arthur ascoltò per un attimo i grilli che si sfregavano le zampe,
poi disse: «Se io mi preoccupassi del fatto che quest'uomo è un assassino e
non combattessi con lui, questo sarebbe bello per il tuo capo, vero? Beems
potrebbe dire che il negro non si è fatto vedere. Che ha avuto paura di un
bianco».
«Se combatti con questo McBride ci sono buone probabilità che ti
uccida o che ti azzoppi. Dal momento che il pugilato è illegale, non ci sarà
nessuno a controllare come vanno le cose. Non per davvero. Il pubblico
presente non dirà niente. In ogni caso la loro stessa presenza è irregolare.
Se tu morissi o fossi ferito gravemente, finiresti nel golfo con un blocco di
granito attaccato all'uccello, e questo chiuderebbe il caso.»
«Mi stai dicendo che dovrei scappare?»
«Se scappi, Beems salva la faccia, e tu non le prendi, e magari non
finisci ammazzato. Pensaci.»
«Non stai facendo un favore a me. Stai solo facendo il lavoro per
Beems. Stai cercando di sconfiggermi con le parole. Bene, non mi farò
pestare. Bianchi. Neri. A righe. Non ha importanza. McBride sale sul ring,
e io lo butto giù. Tu torna da Beems. Digli che non ho paura, e che non
scapperò. E che niente di quello che hai tentato ha funzionato.»
Forrest si infilò il cappello. «Fai come vuoi, negro.» Si girò e si allon-
tanò.

***

«Lil» Arthur si preparò a entrare in casa, ma non fece in tempo ad aprire


la porta che suo padre, Henry, ne uscì. Mentre camminava si trascinava
dietro la gamba, appoggiandosi al bastone. Indossava una maglietta
consunta e dei pantaloni da lavoro. Era sudato. Stanco. Grigio. Ancora più
grigio alla luce della luna.
«Non dovresti parlare in quel modo a un bianco», gli disse Henry.
«Quelli del Ku Klux Clan si faranno vedere.»
«Non ho paura di nessuno di loro.»
«Sì, va bene. Io sì, e vedremo quello che dirai tu quando penzolerai da
una corda, con un picchio che ti morsica le palle. Non hai ancora vissuto
abbastanza. Non hai che ventidue anni. Siediti, ragazzo.»
«Papà, tu non sei me. Io non mi sono rotto una gamba. Non ho paura di
nessuno.»
«Io non sono nato con la gamba rotta. Siediti.»
«Lil» Arthur si sedette vicino a suo padre. Henry disse: «Un uomo di
colore deve stare al gioco, vincere al gioco. Capisci?»
«Non ti ho visto vincere molto.»
Henry colpì «Lil» Arthur in velocità. Fu rapidissimo, e «Lil» Arthur si
accorse che lui aveva ereditato la sua velocità di mano. «Chiudi il becco»,
disse Henry. «Non parlare a quel modo a tuo padre.»
«Lil» Arthur allungò la mano e si toccò la guancia, non perché gli
facesse male ma perché era ancora un po' stupito. Henry disse: «Per un
uomo di colore, vincere significa srimanere vivo per tutto il tempo che ha
deciso il Signore».
«Ma come passi il tempo che hai avuto, papà, questo non dipende dal
Signore. Un giorno sarò il campione del mondo dei pesi massimi. Vedrai.»
«Non ci sarà nessun campione del mondo di colore 'Lil' Arthur. E non
c'è modo di farti ragionare. Sei un pazzo. Un giorno taglierò la corda che ti
lega a un albero, con il collo tutto tirato. Aiutami. Vado a letto.»
«Lil» Arthur aiutò il padre ad alzarsi, e il vecchio, tenendosi in equili-
brio con il bastone, si trascinò dentro la capanna.
Un attimo dopo, uscì la madre di «Lil» Arthur, Tina. Era una donna con
una faccia ampia, piccola e massiccia, di quasi vent'anni più giovane del
marito.
«Non devi parlare a tuo padre a quel modo», disse.
«Lui non fa niente e vuole che non faccia niente neanch'io», disse «Lil»
Arthur.
«Sai cosa ha passato. È nato schiavo. Ha fatto il lottatore per i bianchi
come se fosse stato una qualche specie di gallo da combattimento, e si è
ritrovato con una gamba paralizzata per aver dovuto combattere per i
Ribelli durante la guerra. Pensaci su. Era in una bella situazione. Lui, un
uomo nero là fuori a sparare agli yankee, perché se non lo faceva, loro
avrebbero sparato a lui, e se si fosse rifiutato di combattere gli yankee gli
avrebbero sparato i ribelli.»
«Non sono così entusiasta degli yankee nemmeno io. Non sono più
simili ai neri di quanto non lo siano gli altri.»
«È vero. Ma tuo padre ha ragione su una cosa. Tu non hai vissuto
abbastanza e non sai niente di niente. Vorresti così tanto essere un bianco
da starne male. Tu sei africano, ragazzo. Tu sei nato da degli schiavi che
sono venuti da degli schiavi che venivano dall'Africa.»
«Stai dicendo quello che dice lui?»
«No. Io sto dicendo di pestare questo tizio, e di dargliele di santa
ragione. Ricordati di quando quei bulli ti correvano dietro fino a casa, e ti
dicevo che se tornavi indietro senza avere combattuto te le avrei date io
più forte di quanto te le dessero loro.»
«Sissignora.»
«E solo se lo pesterai per bene, non ti pesterò poi io.»
«Sissignora.»
«Questi bianchi che hanno ingaggiato questo tizio per combatterti, ti
hanno minacciato, sono dei bulli. Vai là, e pestalo, e usa quello che Dio ti
ha dato al posto delle mani, e fai come dici tu. Ma ricordati, che non ti
regaleranno niente. Il solo modo in cui un uomo bianco ti rispetterà è se lo
pesterai, mi senti? E tu puoi pestarlo sul ring meglio che da qualsiasi altra
parte, perché altrimenti sei solo uno sporco negro che impiccheranno in
qualche angolo. Ma non parlare più a tuo padre in quel modo. Lui è meglio
di molte altre persone. Lui ha un lavoro sicuro, e tiene insieme la sua
famiglia.»
«Pulisce i cessi.»
«È più di quanto non sia tu.»
«E sei tu a tenere insieme la famiglia.»
«È un lavoro per due persone.»
«Sissignora.»
«Buona notte, figliolo.»
«Lil» Arthur la abbracciò, le baciò la guancia, e lei entrò. Lui la seguì, le
due stanze erano così piccole, con tutti quei corpi sulle tavole di legno - i
suoi genitori, le sue tre sorelle, due fratelli e un cognato, che gli davano la
sensazione di soffocare. E i piccioni lo facevano stare male. Sempre questi
piccioni. Avevano trovato un buco nel tetto - quello che era stato coperto
con la carta catramata - e adesso si stavano appollaiando dentro sulle travi.
Domani metà della casa sarebbe stata coperta dalle cacche degli uccelli.
Doveva salire sul tetto e metterci dell'altra carta catramata. Continuava a
dire che lo avrebbe fatto. Il papà non poteva farlo, e lui passava tutto il suo
tempo ad allenarsi. Doveva fare dell'altro per la sua famiglia, oltre che
portare i pochi dollari che guadagnava combattendo.
«Lil» Arthur prese il bastone che tenevano vicino alla porta per questo
motivo. E iniziò a indirizzarlo verso i piccioni. Alla fine non avrebbe fatto
alcuna differenza. Sarebbero volati fino al tetto, poi gradualmente
avrebbero iniziato a tornare indietro per andare ad appollaiarsi... ma
l'esplosione di ali d'uccello, vederli alzarsi nel cielo attraverso il buco nel
soffitto, gli sollevò lo spirito.
Suo cognato, Clement, si appoggiò su un gomito sul suo tavolato, e sua
moglie, la sorella di «Lil» Arthur, Lucy, si agitò e si girò, allungò le
braccia sul torace di Clement, ma non si svegliò.
«Cosa stai facendo, Arthur?» sussurrò Clement. «Non sai che un uomo
ha bisogno di dormire? Devo andare a lavorare domani. Non tutti noi
possiamo dormire tutto il giorno.»
«Allora dormi. E sta fuori da mia sorella. Lucy non ha bisogno di
bambini, adesso. C'è una casa piena di gente.»
«È mia moglie. Dobbiamo farlo. E moltiplicarci.»
«Allora trovati un altro posto per andare a moltiplicarti. Siamo am-
massati come delle sardine, qua.»
«Sei pazzo, Arthur.»
Arthur agitò il bastone che aveva in mano. «Coricati e stai zitto.»
Clement si coricò, e Arthur rimise a posto il bastone, raccolse il suo
tavolato e uscì. Controllò che non fosse sporco di cacca degli uccelli, non
ne trovò. Si stiracchiò sul portico, e cercò di dormire. Pensò di prendere la
chitarra, di tornare alla spiaggia e di suonare un po', ma era troppo stanco.
Troppo stanco per fare qualsiasi cosa, e troppo sveglio per dormire.
Sua madre gli aveva detto più di una volta quando era un bambino che
una vecchia veggente nera gli aveva preso la manina tra le sue e aveva
detto: «Questo bambino mangerà il pane in molti paesi».
Era qualcosa che lo aveva sempre sostenuto. Ma adesso, iniziava a
dubitare. A parte una volta in cui aveva cercato di lasciare Galveston in
treno, e si era addormentato nel carro merci solo per svegliarsi e rendersi
conto che non aveva fatto altro che girare in tondo per tutta la notte mentre
il treno veniva scaricato, non aveva avuto altre avventure e continuava a
mangiare il pane a Galveston.
Per tutta la notte continuò a combattere le zanzare, il caldo e la sua
ambizione. Al mattino si sentiva esausto.

Mercoledì 5 settembre, ore 10.20

Messaggio telegrafico da Washington, Ufficio meteorologico centrale, a


Issac Cline, Galveston, Texas, Ufficio meteorologico centrale:

Centro della perturbazione vicino alle Key West si muove verso nord.
Imbarcazioni dirette verso i porti della Florida e di Cuba dovrebbero
esercitare cautela. È probabile che la tempesta diventi pericolosa.

ore 10.23

McBride si svegliò, scopò la rossa, si sedette sul letto, fece schioccare le


dita e disse: «Mangerò e poi mi allenerò, Rossa. Fatti trovare qua quando
torno, e carica tutto sul conto dello Sporting Club. E lavati.»
«Va bene, signor McBride», rispose lei.
McBride si alzò, versò dell'acqua in un catino, si lavò l'uccello, sotto le
ascelle, e si buttò dell'acqua sulla faccia. Poi si sedette alla toilette davanti
allo specchio e passò venti minuti a mettersi il rimedio del cinese e a
pettinarsi i capelli. Non appena li ebbe sistemati come voleva si infilò un
berretto.
Si vestì con dei pantaloni morbidi, una camicia a maniche corte, delle
scarpe morbide, si fasciò le mani con della garza, mise un piccolo bloc
notes e una matita nella tasca posteriore, poi si infilò dei morbidi guanti di
pelle. Mentre la rossa non guardava nella sua direzione, avvolse la pistola
e il rasoio in una busta e poi li nascose tra la camicia e lo stomaco.
Dabbasso, dopo esserci assicurato che nelle vicinanze non ci fosse
nessuno, tolse la busta con la pistola e il rasoio, la infilò nascondendola tra
il verde di una pianta in vaso, poi si allontanò.
Passeggiò per la strada verso un caffè dove ordinò una bistecca, uova e
un sacco di caffè. Mangiò con i guanti e il cappello. Pagò il pasto, ma si
fece dare la ricevuta.
Confortabilmente sazio andò ad allenarsi.
Iniziò al porto. C'era un certo numero di uomini immersi in un duro
lavoro. Stavano caricando delle balle di semi di cotone su di una nave. Lui
rimase a guardarli con le mani dietro la schiena. Il profumo del mare era
intenso. Il mare lambiva i pali con entusiasmo, e l'aria era pesante come un
sacco di cotone.
Dopo un po', si diresse verso un uomo grosso e calvo che aveva delle
mani e dei piedi grandi come colonne di una piantagione. L'uomo in-
dossava una tuta sbiadita senza camicia, e aveva il torace peloso come il
culo di un orso. Indossava dei grossi scarponi da lavoro aperti di lato.
McBride poteva vedergli i piedi nudi attraverso le fessure. McBride odiava
un uomo che non mantenesse le apparenze, anche se stava lavorando.
L'orgoglio è come un cane. Se non lo nutri regolarmente muore.
McBride chiese: «Come ti chiami?»
L'uomo, che portava un sacco di semi di cotone sotto ogni braccio, si
fermò a guardarlo, sorpreso. «Ketchum», rispose. «Warner Ketchum.»
«Sì», disse McBride. «Mi sembrava. Allora si tratta di te.»
L'uomo lo fissò. «Di me cosa?»
Gli altri uomini smisero di lavorare e si girarono a guardare.
«Volevo solo vederti», disse McBride. «Sì, corrispondi alla descrizione.
Non avrei mai creduto che un bianco si abbassasse a una cosa del genere.
Il fatto è che è difficile immaginare chiunque che si abbassi a una cosa del
genere.»
«Di cosa stai parlando, amico?»
«Bene, corre voce che il Warner Ketchum che lavora al porto ai suoi
tempi fosse noto per aver succhiato il cazzo a un negretto.»
Ketchum fece cadere i sacchi di semi di cotone. «Chi diavolo sei? Dove
hai sentito una cosa del genere?»
McBride si portò le mani coperte dai guanti dietro la schiena e ve le
tenne. «Dicono che in una buona serata puoi fare di più tu con il cazzo di
un negro che un gatto con un gomitolo di spago.»
L'uomo era furibondo. «Mi devi aver confuso con qualcun altro, tu figlio
di puttana che parli come uno yankee.»
«No, non ti ho confuso con nessuno. Ti chiami Warner Ketchum.
Rispondi alla descrizione del negro a cui hai fatto il lavoro.»
Warner fece un passo avanti col piede destro e fece volare un pugno di
destro così curvato da sembrare la lama di una falce. McBride lo scansò
senza togliersi le mani dalla schiena, scivolò indietro ruotando i fianchi
mentre affondava il suo uppercut nello stomaco di Warner.
Gli mancò il fiato e indietreggiò traballando mentre McBride gli volava
di nuovo addosso, con un gancio sinistro nelle costole, e un diretto al
plesso solare. Warner si piegò su se stesso e si lasciò cadere sulle
ginocchia.
McBride gli si piegò sopra, lo baciò sull'orecchio dicendo: «Dimmi.
Quello dei negri sa di liquirizia?»
Allora Warner si alzò pieno di furia. Tirò prima un destro, poi un
sinistro. McBride si piegava rapidamente sotto i colpi. Warner lo prese a
calci. McBride si girò di lato, schivò il calcio, e scaricò un sinistro che
prese in pieno Warner sulla mascella, seguito da un destro che lo colpì con
un rumore simile all'impatto di un attacco dell'artiglieria.
Warner si lasciò cadere su un ginocchio. McBride lo afferrò per la testa
e gli fece volare una ginocchiata in faccia, spappolandogli il naso. Warner
cadde a faccia in giù, si appoggiò sulle mani e quasi riuscì ad alzarsi. Poi,
molto lentamente, crollò e rimase a terra senza muoversi.
McBride guardò gli uomini che lo stavano osservando. Disse: «Non ha
succhiato il cazzo di nessun negro. Me lo sono inventato». Tirò fuori il
foglio e la matita e scrisse: Dovuto. Prezzo di un compagno di allena-
mento, CINQUE DOLLARI.
Rimise via il blocco e la matita. Tirò fuori dal borsellino cinque dollari,
li piegò, e li mise nella tasca posteriore dell'uomo. Si girò verso gli altri
che continuavano a fissarlo come se si fosse trattato di uno dei miracoli di
Gesù.
«Francamente, penso che siate tutti un mucchio di scemi intristiti, e
penso che, uno alla volta, vi posso lisciare tutti quanti, rifiuti bianchi del
sud. Nessuno che vuole provare?»
«Non credo proprio», gli rispose un uomo massiccio che stava davanti
alla folla. «Tu sei un lottatore.» Raccolse un sacco di semi di cotone che
aveva messo giù, e si diresse alla nave. Gli altri uomini fecero lo stesso.
McBride disse: «Va bene», e si allontanò.
Pensò che forse, più avanti nel porto, avrebbe potuto trovare un altro
compagno di allenamenti.

ore 17.23

Mentre la giornata volgeva al termine e imbruniva McBride controllò il


block notes su cui aveva segnato le spese e vide che lo Sporting Club gli
doveva quarantacinque dollari di compagni e un nuovo paio di guanti, oltre
alla colazione e alla cena che avrebbe fatto. Aggiunse i soldi per farsi
lustrare le scarpe. Un goffo figlio di puttana gliene aveva strisciato una.
Si fece lucidare le scarpe e mangiò una bistecca, e rilassò i muscoli
mentre arrivava al bordello. Si sentiva ancora sciolto, come se avesse
potuto ancora sistemare due o tre zoticoni.
Entrò, tirò la sua mercanzia fuori dalla pianta, e salì le scale.

Giovedì 6 settembre, ore 18.00

Messaggio telegrafico da Washington, Ufficio meteorologico centrale a


Issac Cline, Galveston, Texas, Ufficio meteorologico:

Centro della tempesta immediatamente a nord delle Key West.

ore 17.30

«Lil» Arthur quella sera corse allo Sporting Club e vi rimase davanti,
con le mani nelle tasche dei pantaloni. Il vento era frizzante e l'aria aspra.
Sabato avrebbe combattuto con un contendente alla corona dei pesi
massimi, e anche se non sarebbe stato classificato come un incontro
ufficiale e McBride aveva acconsentito a partecipare per fare un po' di
denaro, «Lil» Arthur era felice di avere la possibilità di combattere con un
uomo che un giorno avrebbe potuto competere per il titolo. E se lo avesse
battuto, anche se non sarebbe stato riportato nei record di McBride, «Lil»
Arthur avrebbe saputo che era successo, avrebbe sconfitto uno sfidante al
campionato mondiale dei pesi massimi.
Ne aveva fatta di strada dalle Battle Royales dove aveva iniziato la sua
carriera. Era il suo amico Ernest che lo aveva convinto a iniziare. Una
volta al mese, a volte con una maggiore frequenza, dei pugili bianchi
volevano che una manciata di ragazzi e di uomini neri venissero al club
per un combattimento aperto a tutti. Ne mettevano nove o dieci su un ring,
a volte li facevano spogliare nudi e gli facevano indossare delle maschere
Sambo. Lo aveva fatto anche lui una volta.
Mentre gli uomini di colore combattevano, i bianchi gettavano del
denaro e li incitavano a uccidersi l'un l'altro. A volte ne legavano due
insieme alle caviglie, e li facevano combattere. Il sangue scorreva come
melassa sulle frittelle. C'erano parecchie ossa rotte. E muscoli strappati.
Per i bianchi era un gran divertimento, guardare un paio di negri che si
riempivano di pugni l'un l'altro.
«Lil» Arthur scoprì di essere bravo in tutto quel combattere, e buttò
persino giù Ernest, in realtà ponendo fine alla loro amicizia. Non poteva
farne a meno. Era salito sul ring, il sangue gli era andato alla testa per
l'eccitazione, e avrebbe colpito chiunque si fosse avvicinato.
Iniziò a boxare regolarmente, acquistò una certa abilità. Niente più
Battle Royales per lui. Si fece una reputazione tra i pugili di colore, e col
tempo la sua fama raggiunse anche i bianchi.
Lo Sporting Club, a corto di nuovi sfidanti bianchi per il loro campione,
Forrest Thomas, diede a «Lil» Arthur venticinque dollari per confrontarsi
con il loro uomo, pensando che un uomo di colore e un bianco sarebbero
stati una novità, e che la superiorità della razza bianca sarebbe stata
provata in un match di abilità e di velocità.
Appena prima del combattimento, «Lil» Arthur disse le preghiere, e poi
pensando che avrebbe combattuto davanti a un mucchio di bianchi arrab-
biati e meschini e, per la prima volta, davanti a donne bianche - donne
dell'ambiente del pugilato, ma pur sempre donne, che volevano vedere un
nero picchiato fino a che fosse ridotto in gelatina — prese della garza e si
fasciò il pene. Lo fasciò in modo da renderlo spesso come un manganello.
Immaginava che avrebbe dato a quei bianchi qualcosa da guardare. La
cosa che temevano maggiormente. Uno stallone nero come il carbone.
Pestò Forrest Thomas come se fosse stato un figliastro impertinente, lo
pestò così duramente che interruppero il combattimento in modo che nes-
suno potesse vedere un uomo di colore che metteva al tappeto un bianco.
Senza averlo veramente voluto lo Sporting Club fu costretto a conse-
gnare il titolo a «Lil» Arthur John Johnson, e il fatto che adesso fosse un
uomo di colore a detenere la preziosa corona era come un osso di pollo che
gli si fosse conficcato in gola. Soprattutto nella gola di Beems. Come
presidente in carica dello Sporting Club l'incontro era stato una sua idea, e
Forrest Thomas era stato il suo uomo.
Entra in scena McBride. Beems aveva fatto il lavoro di preparazione,
convincendo un paio dei membri più benestanti dello Sporting Club a
finanziare un combattimento. Uno in cui un contendente vero alla corona
dei pesi massimi potesse pestare «Lil» Arthur e restituire la corona locale a
un uomo bianco, anche se quell'uomo avrebbe dovuto restituire la corona
una volta tornato a Chicago, lasciando il posto di nuovo vacante. In questo
caso, «Lil» Arthur poteva essere sicuro che non avrebbe mai avuto un'altra
possibilità di competere al titolo dello Sporting Club. In un modo o
nell'altro lo volevano fuori.
«Lil» Arthur non aveva mai visto McBride. Non sapeva come combat-
teva. Aveva solo sentito dire che era duro come la roccia e aveva delle
palle come una scimmia di ottone. Gli piaceva pensare di essere come lui.
Non aveva intenzione di rinunciare al titolo. Sabato avrebbe scoperto se
doveva cominciare a farlo.

ore 21.00

La rossa, con un labbro gonfio, due occhi neri e un livido sulla pancia, si
girò con circospezione e posò il braccio sul torace villoso di McBride. «Ne
hai avuto abbastanza?»
«Te lo dirò io quando ne ho avuto abbastanza.»
«Stavo pensando che potrei andare dabbasso a prendere qualcosa da
mangiare. Torno subito.»
«Avevi tempo prima. Se non hai mangiato, peggio per te. Io pago, qui. O
paga lo Sporting Club, fa lo stesso.»
«Un motore ha bisogno di carburante, se vuoi che funzioni.»
«Sì?»
«Sì.» La rossa si avvicinò e fece passare la mano tra i capelli di
McBride.
McBride le mollò uno schiaffo. «Non mi toccare i capelli. Stai lontana
dai miei capelli. E stai zitta. E non m'importa se tu vuoi scopare o no. Se
voglio scopare io, si scopa. Chiaro?»
«Sissignore.»
«Ascoltami bene, vado a cagare. Quando torno, voglio che ti lavi quel
brutto buco. Mi fa schifo sbattertelo dentro se non è pulito. Quindi lavati.»
«Fa così caldo. Sudo. E tu comunque mi sporcherai di nuovo.»
«Non mi importa. Tu lavati quella roba. A metterci l'uccello così mi si
ammoscia. M'attacchi qualcosa e vengo a cercarti e ti scambio il buco del
culo con la figa a suon di calci.»
«Non ho nessuna malattia, McBride.»
«Bene.»
«Perché sei così cattivo?» gli chiese la rossa all'improvviso, stupendosi
lei stessa che una frase del genere le fosse uscita di bocca. Si accorse che
un'osservazione di questo tipo non solo avrebbe fatto infuriare McBride,
ma che era comunque una domanda stupida. Era come chiedere a un pollo
perché beccava la merda. Lo faceva e basta. McBride era cattivo perché lo
era, tutto qua.
Ma mentre la rossa temeva il peggio, McBride diventava filosofo. «Non
si tratta di essere cattivo o no. È solo perché io posso fare quello che
voglio, e gli altri no. Hai capito, sorellina?»
«Sicuro. Non intendevo dire niente di male.»
«Se c'è uno capace di fare a me quello che faccio io agli altri, va bene. È
così che funziona. Non c'è uomo, donna o animale sulla terra che valga
qualcosa. Hai capito?»
«Certo, hai ragione.»
«Puoi scommetterci che ho ragione. L'unica cosa pura a questo mondo è
un bambino. Di essere umano o di animale un cucciolo nasce affamato e
innocente. Non può fare niente per conto suo. Poi cresce e diventa proprio
come gli altri. Un bambino è a posto fino a circa due anni. Poi dovrebbe
essere soffocato in modo da lasciare lo spazio disponibile. Mia sorella non
ha dato problemi fin quando ha avuto circa due anni, poi non ha fatto altro
che pretendere cose, con mia madre che gliele dava. Più tardi, nemmeno
mia madre ha più voluto aver niente a che fare con lei, proprio come me.
Superati i due anni non ha più voluto dir altro che guai. Come me. Come
chiunque altro.»
«Certo», rispose la rossa.
«Oh, stai zitta, non distingui il tuo culo dall'impronta di un maiale.»
McBride si alzò per andare in bagno. Prese il revolver, il portafogli e il
rasoio. Non si sarebbe certo fidato di una puttana, o di nessun'altra donna,
per quel che contava, almeno finché avesse potuto sbatterne una.
Mentre era al cesso a provare il nuovo gabinetto con lo scaricò dell'ac-
qua, la rossa uscì dal letto con addosso solo il lenzuolo. Scivolò fuori della
porta, scese dabbasso, e uscì in strada. Fece cenno a un uomo in un
calesse, lo convinse a darle un passaggio, lieta di trovarsi fuori da quella
situazione, senza preoccuparsi della direzione che avrebbe preso.

ore 21.49

In seguito seccato con la rossa, McBride usò la tenutaria, e le fece en-


trambi gli occhi neri, quando lei osò suggerire che troppo sesso prima di
un combattimento non sarebbe stata un'idea troppo buona per un atleta.
La donna, a letto con il braccio di McBride appoggiato sul suo ampio
seno, sospirò guardando il riverbero della lampada a gas che dalla strada si
rifletteva sul soffitto.
Be', pensò, è un modo di guadagnarsi da vivere.

Venerdì 7 settembre, ore 10.35

Messaggio telegrafico da Washington, Ufficio meteorologico centrale, a


Issac Cline, Galveston, Texas, Ufficio meteorologico:

Avviso di tempesta. Galveston, Texas. Prendete precauzioni.

Issac Cline, capo dell'Ufficio meteorologico di Galveston, Texas, sedeva


alla sua scrivania nell'ufficio al terzo piano del Levy Building e lesse il
telegramma. Scese dabbasso e uscì a dare un'occhiata.
Il tempo minacciava sicuramente un temporale, ma non sembrava
trattarsi di una turbolenza particolare. Lavorava all'Ufficio meteorologico
da otto anni, e pensava che doveva ormai avere imparato a distinguere un
ciclone tropicale, e non si trattava di questo. Il cielo non era del colore
giusto.
Camminò fino a raggiungere la spiaggia. Per allora il vento si era fatto
più forte, e il mare si stava gonfiando. Le nuvole sembravano batuffoli di
piume d'oca che fossero state strappate da un cuscino. Si allontanò un po'
lungo la spiaggia, trovò una tartaruga che si era impigliata nelle alghe, e la
stuzzicò con un bastone. Era morta stecchita.
Issac tornò al Levy Building e, prima che fosse arrivato, il vento era au-
mentato considerevolmente. Salì le scale fino al tetto. Il barometro che era
là stava scendendo rapidamente, e il vento aveva raggiunto proporzioni
preoccupanti. Modificò la sua opinione su quello che sapeva dei temporali.
Immaginava che il vento andasse a trenta chilometri all'ora, e che fosse
ancora in aumento. Si mosse in direzione opposta, e si fece strada verso il
palo di rilevazione su cui erano innalzate due bandiere. Quella più alta era
in realtà uno stendardo bianco, che si agitava al vento come la lingua di
una pettegola. Chiunque l'avesse visto si sarebbe reso conto che il vento
proveniva da nord-ovest. Sotto a questo vi era una bandiera rossa con un
centro nero, e questa significava che il vento si stava muovendo a una
velocità spaventosa, e che entro poche ore sarebbe sopraggiunta una
tempesta particolarmente violenta. L'aria puzzava di umido e di pesce. Per
un attimo Cline pensò di aver toccato la tartaruga morta e di essersi portato
dietro il suo puzzo. Ma non si trattava di questo, era il vento.

Circa allo stesso momento, la nave a vapore Pensacola, comandata dal


capitano James Slater, lasciò il porto di Galveston dal molo 34, con
destinazione Pensacola in Florida.
Slater aveva letto i rapporti sulla tempesta il giorno prima, e anche se il
vento stava prendendo forza ed era stranamente pieno di vapore, il cielo
non mostrava i segni che lui stava cercando. Un polveroso color rosso
mattone, segno sicuro di un ciclone tropicale. Pensava che tutta la
faccenda delle previsioni meteorologiche fosse allo stesso tempo basata
sull'intuito e la fortuna, come qualsiasi altra cosa. Pensava di poter essere
in grado di fare previsioni con altrettanta precisione.
Diede ordine di far uscire la Pensacola nel golfo.

ore 13.06

I piccioni svolazzavano verso l'apertura nel tetto dei Johnson. La carta


catramata si era sollevata, strappata, ed era volata via, e si agitava nel cielo
come se si fosse trattato di piccoli frammenti neri della struttura della
capanna.
«Sono ancora quegli uccelli», disse sua madre.
«Lil» Arthur smise di fare i sollevamenti e guardò il soffitto. Le travi
erano piene di piccioni. E anche della loro cacca. Il cielo si vedeva bene
attraverso il buco nel tetto. Ed era davvero nero. Sembrava pieno di
veleno.
«Merda», disse «Lil» Arthur.
«Va bene», rispose lei. «Lascia stare. Hanno paura. E anch'io.»
«Lil» Arthur si alzò e disse: «Non c'è niente di cui avere paura. Siamo
passati attraverso ogni tipo di tempesta. Qua siamo in alto. L'acqua non
arriverà mai a quest'altezza».
«Non mi sono mai piaciuti i temporali. Sarò contenta quando tuo padre e
i ragazzi saranno a casa.»
«Papà ha una vecchia tela cerata che penso di poter mettere su quel
buco. Terrà fuori la pioggia.»
«Se pensi di potere, fallo.»
«Avrei già dovuto farlo», disse «Lil» Arthur.
Uscì, strisciò sotto il pavimento del portico, e prese la vecchia tela
cerata. Era parecchio consunta, ma poteva servire allo scopo, almeno per
ora. La trascinò nel cortile, strisciò di nuovo sotto, ne estrasse una scala
traballante e un martello pieno di ruggine. Stava per entrare a prendere i
chiodi quando udì un ruggito strano. Si fermò ad ascoltare e lo riconobbe.
Erano i cavalloni marini. Li aveva di certo sentiti in precedenza, ma non
così forte e a una così grande distanza dalla spiaggia. Prese i chiodi,
appoggiò la scala al fianco della casa e portò sul tetto la tela cerata che
quasi prese il volo quando l'aprì, trascinandolo con sé. Con uno sforzo
considerevole la inchiodò sopra il buco intrappolando i piccioni che non
erano volati in casa.

ore 14.30

Dentro il bordello, la tenutaria, con un labbro gonfio che si era aggiunto


agli occhi neri, dalla sua posizione sul letto guardava McBride che, nudo,
seduto a una sedia davanti allo specchio della toeletta, con attenzione
impomatava e sistemava i capelli sulla macchia di alopecia. Le finestre
erano chiuse, e il vento le faceva vibrare come se fossero state dadi nel
pugno di un giocatore. L'aria dentro il bordello era viziata.
«Cos'è questo odore?» chiese lei.
Era il tonico che gli aveva dato il cinese. Lui disse: «Se non vuoi che ti
strizzi le tette chiudi quella dannata boccaccia».
«Va bene.»
Le finestre vibrarono di nuovo. Violente scariche di pioggia colpivano il
vetro.
McBride andò alla finestra, appoggiando l'uccello molle allo stipite, fin
quasi a toccare il vetro, come un grosso bruco grinzoso in cerca di una via
d'uscita
«Sta arrivando un temporale», disse.
La donna pensò: ci voleva anche questa.
McBride aprì la finestra. Il vento fece volar via dalla toeletta il pettine e
la spazzola. Un uomo che camminava nella strada piena di sabbia, con una
mano sul cappello per impedirgli di volar via, guardò in su verso McBride.
Lui si prese in mano il suo attrezzo e glielo sventolò davanti. L'uomo girò
la testa e accelerò il passo.
McBride disse: «Allarga quelle gambe grasse, dolcezza, perché sto
entrando in porto, e sono pronto a lasciar cadere l'ancora».
Sospirando, la donna si girò sulla schiena, e McBride la montò. «Non mi
mettere in disordine i capelli, stavolta», le disse.

ore 16.30

Lo studio puzzava di sigaro, di fumo e di sudore, e vagamente di lozione


per bambini. L'orologio a pendolo suonò la mezz'ora. L'aria che filtrava
dalla finestra era umida e appiccicosa e faceva agitare le tende scure. La
luce del sole, un po' offuscata da una nebbiolina verdastra, entrava e
usciva, illuminando gli occhi finti e i denti ingialliti di una dozzina di teste
di animali che erano montate sul muro. Orsi, cinghiali, cervi. Persino un
lupo.
Beems, la fonte di tutto questo sudore e degli altri odori, pensò: Manca
almeno un'altra ora prima che mia moglie venga a casa. Bene.
Forrest lo teneva con una tale forza che la fronte di Beems andò a
sbattere contro il muro, facendo tremare la testa di un cinghiale selvaggio
che era appeso là, dando l'impressione che l'animale avesse girato la testa
in risposta a un rumore lontano, una vista particolare.
«Non è che io faccia questo perché sono uno di quelli», disse Beems. «È
solo che, oh sì, dolcezza... Mia moglie, sai, non fa niente per me. Voglio
dire, devi provare un po' di piacere, ogni tanto. Un uomo deve avere il suo
piacere, non trovi... Oh, sì. Tutto qua... Un uomo, deve avere il suo
piacere, giusto? Anche se non c'è niente di strano in lui?»
Forrest posò le mani sulle spalle nude di Beems, spingendolo giù finché
la sua testa si posò in cima al cuscino del divano. Forrest piegò indietro i
fianchi, poi si mosse in avanti con i denti stretti, penetrando
profondamente nel buco di Beems. Disse: «Sì. Certo».
«Sei sincero? Questo non mi fa diventare una checca?»
«No», ansimò Forrest. «Non lo ha mai fatto. Non lo farà mai. Non vuole
dire niente. Niente di niente. Va tutto bene. Tu sei un uomo vero. Lascia
che mi concentri.»
Forrest si doveva concentrare. Odiava questa cosa, ma faceva parte del
suo lavoro. E, naturalmente, senza che lui lo sapesse, si faceva la moglie di
Beems. Allora, se voleva continuare a farlo, doveva fare come voleva il
capo. E la signora Beems, naturalmente, non aveva idea che lui scremasse
il lurido buco del marito, o che lui avesse altrettanto interesse per le donne
di quanto ne ha un maiale per un servizio da tè in argento.
Che scherzo! Lui scopava la vecchia di Beems, gli faceva da cane da
guardia, a un buon prezzo, e lo serviva di dietro, rassicurandolo sul fatto
che non era quello che era, una principessina. E come beneficio
aggiuntivo, non doveva combattere con il negro l'indomani. Questo era il
grosso premio. Quel figlio di puttana tirava calci come un mulo. Sperava
che questo signor McBride lo avrebbe sistemato per bene. Quando il negro
fosse morto si sarebbe fatto un punto d'onore di andare a farla sulla sua
tomba. Proprio in cima.
Be', forse, decise Forrest, mentre spingeva i fianchi abbastanza avanti da
fare strillare un po' Beems, dopo tutto non gli dispiaceva questo lavoro.
Non del tutto. Prendeva così tante schifezze da Beems, che questo era
quasi piacevole, far piegare il bastardo su un divano, e infilarglielo dentro
così forte da fargli sbattere la testa contro il muro. Questo dannato frocio
senza palle che lo insultava in pubblico, cercando di fare il duro.
Forrest prese la bottiglietta di lozione per bambini dal tavolino e la versò
sul sedere di Beems. Rimise a posto la bottiglia e si rese conto che si stava
ammosciando. Cercò di far finta che si trattasse della signora Beems che
aveva il sedere più soffice e i peli pubici più biondi che avesse mai visto.
«Ci sono quasi», disse Forrest.
«Vai, Forrest! Su, forza!»

Nel momento dell'orgasmo, Beems si immaginò che il cazzo che si era


infilato nel suo sedere peloso appartenesse al grosso negro, «Lil» Arthur.
Aveva pensato a «Lil» Arthur per tutto il tempo. Da quando lo aveva visto
combattere nudo in una Battle Royales con indosso una maschera Sambo
per divertire la folla.
E il modo in cui «Lil» Arthur aveva pestato Forrest. Oh, Dio. Con una
tale intensità. In modo così esperto. Fino ad allora Forrest era stato l'uomo,
e questo gli faceva desiderare Forrest, ma adesso, desiderava il negro.
Oh, Dio, pensò Beems, averlo dentro di me, con indosso quella ma-
schera, sarebbe il massimo che potrei desiderare. Appena una volta. Forse
due. Gesù, lo voglio così disperatamente che devo essere sicuro che venga
ucciso. Devo essere sicuro che non andrà a finire che gli offrirò dei soldi
per far questo, perché se sopravvive all'incontro con McBride, so che
crollerò e cercherò di farlo. E se io crollo e lui non lo vuole fare e la voce
circola, oppure lui lo fa, ma la voce circola, oppure mi scoprono... non
potrei sopportarlo. È abbastanza brutta così, ma con un negro...?
E poi c'era McBride. Pensò a lui. Gli aveva toccato le palle e aveva finto
di provare disgusto, ma non si era ancora lavato la mano, proprio come gli
aveva suggerito lui.
Se McBride vinceva il combattimento con il negro, meglio ancora, se lo
uccideva, forse lo avrebbe fatto con lui. McBride era uno a cui piaceva il
denaro, e gli piaceva far male a tutte quelle che si faceva. Beems lo poteva
dire dal segno delle percosse che aveva visto sulla rossa. Sarebbe stato
bello. Sarebbe andato tutto bene. McBride era il tipo che si sarebbe fatto
chiunque o qualunque cosa. Beems ne era sicuro.
Immaginò che ci fosse McBride al lavoro invece di Forrest. McBride,
nudo con la bombetta in testa.

***

Forrest, nel momento dell'orgasmo, grugnì e disse: «Oh, sì», e quasi si


lasciò scappare il nome della signora Beems. Quando ebbe finito alzò la
testa, e vide i duri occhi di vetro del cinghiale selvaggio. Erano illuminati
dalla luce del sole. Poi le tende si agitarono e gli occhi rimasero al buio.

ore 16.45

Il battello a vapore Pensacola, che si allontanava da Galveston, rag-


giunse il golfo inseguito dal vento. Il capitano Slater si sentì stringere il
cuore. Il mare a occidente aveva un aspetto selvaggio, la nave si issava e si
abbassava, mentre le onde, rese di un verde scuro dalle grosse nubi che
facevano ombra dall'alto, si impennavano sui fianchi della nave facendola
sollevare mentre precipitavano.
Jake Bernard, il comandante in seconda, comparve sul ponte, verde
come le onde. Era ospite di Slater per la durata del viaggio. E, in questo
momento, avrebbe desiderato essere ancora a casa. Non gli sembrava
possibile sentirsi così male. Mai, in tutti gli anni passati in mare, aveva
visto niente di simile, cosa che lo aveva portato a credere di essere immune
dal mal di mare.
«Non so te, Slater», disse Bernard, «ma non mi ero mai divertito così
tanto da quando un bulldog ha sbudellato mio papà».
Slater cercò di ridere, ma non ce la fece. Si accorse che Bernard,
nonostante i suoi scherzi, non sembrava particolarmente gioviale. Slater
disse: «Guarda gli strumenti».
Bernard controllò il barometro che stava scendendo rapidamente.
«Non l'ho mai visto così basso», disse Bernard.
«Nemmeno io», rispose Slater. Allora diede un ordine all'equipaggio.
Disse loro di tirar giù le vele, di chiudere i boccaporti, e di prepararsi a
imbarcare acqua
Bernard, il cui sguardo non aveva abbandonato il barometro disse: «Dio!
Guarda qua!»
Slater guardò. Il barometro segnava 28.55.
Bernard disse: «Per quanto ne so io, se si abbassa così tanto, ti conviene
piegarti in avanti, baciarti l'uccello e dirgli addio».

ore 18.30

I Cooper, Bill, Angelique e il loro bimbo di diciotto mesi, Teddy,


stavano andando a cena al ristorante col calesse, quando il loro cavallo,
Bess, una bella giumenta color cioccolata, si mise a correre verso il mare
che si infrangeva.
Era il mare che spaventava il cavallo, e nel momento della paura aveva
cercato di buttarsi a testa bassa verso ciò che la originava, assicurando così
Bill sul fatto che i cavalli fossero gli animali più stupidi che Dio avesse
creato.
Bill tirò le redini e maledisse il cavallo. Bess si girò, e fece sobbalzare il
calesse tanto che lui pensò che potessero ribaltarsi, ma il calesse subì un
contraccolpo in direzione opposta e lui riuscì a rimettere Bess in
carreggiata.
Angelique, graziosa e coi capelli neri, disse: «Penso di essermi mac-
chiata la sottogonna... lo sento... No, si tratta di Teddy, grazie a Dio».
Bill fermò il calesse fuori del ristorante, che si trovava vicino alla spiag-
gia ed era posato su pilastri molto alti, Angelique cambiò il pannolino al
bambino e mise quello sporco sul retro del calesse.
Quando ebbe finito, legarono le redini ed entrarono per cenare. Si se-
dettero vicino a una finestra da dove si poteva vedere il calesse. Il cavallo
era imbizzarrito e si agitava così tanto che Bill temette che potesse spac-
care le redini e scappare. Sopra di loro, i massi che coprivano il tetto piatto
rotolavano e precipitavano come topi sopra delle leccornie. Teddy, seduto
su un seggiolone che il ristorante aveva messo a loro disposizione, colpiva
con un cucchiaio il piatto di salsa di mele che aveva davanti.
«Se avessi saputo che il tempo era così brutto», disse Angelique, «sa-
remmo rimasti a casa. Mi spiace, Bill.»
«Stiamo a casa anche troppo spesso», disse Bill, rendendosi conto che il
rumore delle onde che si frangevano lo costringeva ad alzare la voce. «E
costruire quel terrazzo in casa non aiuta molto i miei nervi. Sto iniziando a
rendermi conto che non sono un gran falegname.»
Angelique spalancò i grandi occhi scuri. «No? Non sei un buon falegna-
me?»
Bill le sorrise.
«Avrei potuto dirlo solo dal numero delle imprecazioni che lanciavi.
Quante volte ti sei tirato il martello sul pollice, caro?»
«Troppe per tenerne il conto.»
Angelique si fece seria. «Bill. Guarda!»
Molti dei clienti del ristorante avevano interrotto la cena e stavano in
piedi davanti alle grandi vetrate, a guardare il mare. La marea era alta e
stava sferzando contro i pilastri del ristorante con una forza tale da far
finire la spuma contro i vetri.
«Cielo», disse Bill. «Solo pochi minuti fa non era così brutto.»
«Si tratta di un ciclone?» chiese Angelique.
«Sì. È davvero un ciclone. Hanno alzato le bandiere. Le ho viste.»
«Perché sei così nervoso? Non è il primo che vediamo.»
«Non lo so. Questo mi sembra diverso... Va tutto bene. Sono solo un po'
teso... tutto qua.»
Mangiarono rapidamente e tornarono a casa col calesse, con Bess che
continuò a tirare con forza per tutto il viaggio. Il mare si agitava alle loro
spalle e le nuvole correvano sopra le loro teste come apparizioni.

ore 20.00

Il comandante Slater credeva che questo vento stesse tranquillamente


viaggiando a ottanta nodi l'ora. Un ciclone. La Pensacola saltava come una
rana. La terraglia di sotto sbatteva da tutte le parti. Un baule per i
medicinali, così pesante che non bastavano due uomini per portarlo, si
sollevò e andò a sbattere contro la finestra, volò fuori sul ponte, poi, scivo-
lando, colpì la ringhiera, fece un salto e cadde nel mare che ribolliva.
Slater e Bernard sbatterono le teste con una tale forza che quasi si
misero reciprocamente fuori combattimento. Quando Slater si risollevò,
estrasse una spessa fune da sotto uno scaffale e la gettò attorno a un palo di
supporto, la avvolse con un paio di giri, poi usò le estremità libere per
legarle intorno alla sua vita e a quella di Bernard. In quel modo a lui e
Bernard era possibile muoversi sul ponte se fosse stato necessario, ma non
avrebbero fatto la fine del baule dei medicinali.
Slater cercò di pensare a cos'altro poteva fare, ma aveva fatto tutto
quello che poteva. Aveva fatto abbassare l'ancora nel golfo, fino a un
centinaio di braccia di profondità, e aveva dato istruzione ai suoi uomini
che trovassero il miglior rifugio possibile vicino alle loro postazioni e si
mettessero a pregare.
La Pensacola oscillava intorno all'ancora, lottando come un toro im-
brigliato. Slater poteva sentire i bulloni e le lamiere che tenevano insieme
la nave nel lamento dell'agonia. Se i bulloni avessero ceduto, se le lamiere
si fossero aperte, non c'era bisogno del comandante Achab per sapere che
sarebbero finiti nel rifugio di Davy Jones così in fretta da non avere il
tempo di tirare una boccata d'aria.
Usando il muro come appoggio, Slater si spostò nel punto in cui il baule
aveva rotto il vetro del ponte. La schiuma del mare vi sbatteva contro con
l'effetto di aghi sparati da un cannone. Si stava concentrando sul ponte di
prua, lo stava guardando sprofondare, quando udì un suono uscire dalla
bocca di Bernard; non era proprio una parola, ma era più significativo di
un grugnito.
Slater si girò e vide Bernard che afferrava la maniglia di una delle
finestre del ponte con una tale forza che pensava che l'avrebbe sicuramente
scardinata. Poi vide quello che aveva visto lui.
Il mare era diventato nero come un forno, il cielo era del colore della
cancrena, e tra cielo e mare c'era qualcosa che sembrava emergere
dall'acqua, qualcosa di enorme e dalla strana forma. Solo allora Slater si
rese conto di cosa si trattava. Era un enorme muro d'acqua grande molte
più volte della nave e si stava dirigendo direttamente sopra e verso di loro.

Sabato 8 settembre, ore 3.30


Bill Cooper aprì gli occhi. Era stato sopraffatto da una sensazione di
timore. Si alzò con cautela, in modo da non svegliare Angelique, e andò
nella camera dall'altra parte del corridoio a controllare Teddy. Il bambino
dormiva profondamente, con il pollice in bocca.
Bill gli sorrise, poi si allungò verso di lui, e lo toccò delicatamente. Il
bambino era sudato, e Bill si accorse che nella stanza c'era un odore di
rancido. Aprì una finestra, mise fuori la testa, e guardò in su. Il cielo si era
schiarito e la luna brillava luminosa. Improvvisamente si sentì sciocco.
Forse la faccenda del temporale e il terrazzo che stava costruendo al piano
superiore di casa sua lo avevano messo in agitazione e lo avevano
preoccupato. Di certo, sembrava che il temporale si fosse allontanato.
Poi questo senso di soddisfazione passò. Quando esaminò il cortile, si
accorse che si era trasformato in argento fuso. E poi si accorse che era
l'effetto della luce lunare sull'acqua. Il golfo si era fatto strada fino a
raggiungere la casa. Una barca a remi, che si era sciolta dagli ormeggi,
galleggiava lì accanto.

ore 8.06

Issac Cline aveva guidato il suo calesse fino alla spiaggia, avvisando
coloro che abitavano nelle vicinanze di evacuare. Qualcuno lo aveva fatto.
Qualcun altro era rimasto. Molti erano passati attraverso parecchie
tempeste e pensavano che avrebbero superato anche quest'altra.
Tuttavia molti abitanti e turisti si erano diretti verso il lungo ponte a
tralicci che portava alla terraferma del Texas.
Carri, calessi, cavalli e pedoni si erano ammassati sul ponte come formi-
che su un biscotto. Il cielo, che era stato stranamente chiaro e luminoso
nella prima mattinata, adesso era diventato grigio e aveva iniziato a
piovere. Dei tre ponti ferroviari che portavano alla terraferma, uno era già
sott'acqua.

ore 15.45

Henry Johnson, con «Lil» Arthur che lo aiutava, salì sul carro accanto a
sua moglie. Tina reggeva un ombrello sopra le loro teste. Sul retro del
carro c'era il resto della famiglia, protetto da dei pali verticali piantati negli
angoli, che erano stati coperti con la tela cerata che era servita per il tetto
di casa.
Per tutto il giorno Henry aveva discusso se avessero dovuto andarsene.
Entro le due del pomeriggio si era reso conto che non si trattava semplice-
mente di un altro temporale. Questo sarebbe stato un maledetto avveni-
mento di portata eccezionale. Aveva organizzato la sua famiglia, e adesso,
in una maniera o nell'altra, sarebbe partito. Diede un'occhiata al suo tugu-
rio, all'acqua che scrosciava dal tetto come le cascate del Niagara. Non era
molto, ma era tutto quello che aveva. Dubitava che avrebbe retto per molto
sotto questo diluvio, ma cercò di non pensarci. Aveva delle preoccupazioni
più grosse. Disse a «Lil» Arthur: «Tu verrai con noi».
«Devo combattere», gli rispose il ragazzo.
«Tu non devi fare niente. Questo temporale ti porterà col culo in mare.»
«Devo, papà.»
Tina disse: «Forse tuo padre ha ragione, bambino. Dovresti venire».
«Sai che non posso. Quando il combattimento sarà finito, vi raggiunge-
rò. Lo prometto. In effetti con un tempo così ci metterò meno a vincere.»
«Fallo», disse Tina.
«Lil» Arthur salì sul carro, abbracciò la mamma e strinse la mano al
padre. Henry parlò rapidamente e senza guardare «Lil» Arthur disse:
«Buona fortuna figliolo. Mettilo al tappeto».
«Lil» Arthur annuì. «Grazie, papà.» Saltò giù e girò dietrp al carro,
sollevò la tela cerata, abbracciò le sorelle e diede la mano al cognato,
Clement. Se lo tirò accanto e gli disse: «Stai fuori da mia sorella, capito?»
«Sì, Arthur. Certo. Ma penso che abbiamo un problema. È già piena.»
«Oh, merda», rispose «Lil» Arthur.

ore 16.03

Mentre Henry Johnson guidava i cavalli sul ponte di legno che collegava
Galveston alla terraferma si sentiva male. L'acqua lambiva le ruote del car-
ro. I cavalli erano nervosi, e la fila di fuggitivi sul ponte era infinita. Ci
sarebbe voluto un sacco di tempo ad attraversare, forse ore, e stando alle
apparenze, dal modo in cui l'acqua si alzava, non sarebbe passato molto
tempo prima che il ponte fosse sommerso.
Disse una preghiera tra sé e sé: «Signore, prenditi cura della mia
famiglia. E specialmente di quel mio figlio pazzo, 'Lil' Arthur».
Non gli venne in mente di includere anche se stesso nelle sue preghiere.

ore 16.37
Bill e Angelique Cooper spostarono tutte le cose di valore che potevano
essere trasportate al primo piano della casa. L'acqua stava già filtrando
dalla porta. La pioggia scrosciava contro le finestre con sufficiente
violenza da scuoterle, e le tegole sul tetto sbattevano violentemente.
Bill interruppe il suo lavoro e, camminando nell'acqua che gli arrivava
alle caviglie, si diresse verso una finestra per guardare fuori. Disse:
«Angelique, penso che possiamo smettere di portare roba».
«Ma non ho portato su il...»
«Ce ne andiamo.»
«Ce ne andiamo? Si mette così male?»
«Non ancora.»

Bess non voleva farsi attaccare al calesse. Era nervosa e aveva gli occhi
sbarrati. Il fienile era pieno d'acqua che grondava. Angelique con un
ombrello sopra la testa, aspettava che il calesse fosse pronto. Sentiva
l'acqua che ormai entrava anche nelle sue scarpe alte.

Bill si interruppe un attimo per calmare il cavallo, diede un'occhiata ad


Angelique, pensò che sembrava stranamente bella, con l'acqua che colava
a fiotti dall'ombrello. Si teneva stretto Teddy. Lui era addormentato,
completamente ignaro di quello che gli stava succedendo attorno. In
qualsiasi altro momento, il bambino avrebbe strillato, seccato. Il vento e la
pioggia in realtà lo stavano aiutando a dormire. Almeno, pensò Bill, di
questo sono grato.
Quando il calesse fu pronto, l'acqua arrivava a metà polpaccio. Con
grande difficoltà Bill aprì la porta del fienile, vide che il cortile non
esisteva più, e nemmeno la strada. Avrebbe dovuto indovinare la direzione
da prendere. Ma la cosa peggiore era che non era l'acqua prodotta dalla
pioggia ad inondare le strade. Era definitivamente acqua di mare: l'acqua
del golfo si era alzata a inghiottire Galveston nel modo in cui si dice che
l'oceano avesse inghiottito Atlantide.
Bill aiutò Angelique e Teddy a salire sul calesse, poi prese le redini, e
schioccò a Bess. Lei strattonava e indietreggiava, ma alla fine,
persuadendola con le redini e con le parole, Bill la calmò. Iniziò ad
arrancare nell'acqua buia e potente.

ore 17.00
McBride si svegliò. Il vento ululava. Il vetro della finestra sbatteva
violentemente, anche se le finestre erano chiuse. L'aria, tanto per cambiare,
era fredda, ma umida. Nella stanza c'era buio.
La donna, avvolta in una coperta, sedeva su una sedia appoggiata al
muro opposto. Si girò a guardare McBride. Disse: «L'inferno si è
scatenato».
«Dici?» McBride si alzò, e camminò nudo fino alla finestra. Il vento era
così forte da spingerlo. «Dannazione», disse. «È buio come a mezzanotte.
Non mi piace.»
«Tutto qua? È il peggior ciclone che abbia mai visto, e non penso che
siamo ancora arrivati al massimo.»
«Non pensi che cancelleranno l'incontro, vero?»
«Riesci a lottare su una barca?»
«Diavolo, dolcezza, posso lottare e scopare allo stesso tempo su una
barca. Adesso che ci penso, posso scopare e lottare su un tronco che rotola,
se devo. Quando ero al nord facevo il boscaiolo.»
«Se fossi in te, troverei un tronco, e inizierei a picchiare.»
La luce di un lampo, bianco come l'eternità, squarciò il cielo, e quando
lo fece, l'oscurità esterna svanì, e in quell'istante, McBride vide che la
strada era coperta di acqua che arrivava fino alla vita.
«Credo che sia meglio che inizi a recarmi là», disse. «Mi ci può volere
un po' di tempo.»
La donna pensò: Bene, dolcezza, vai avanti, e spero che ti anneghi.

ore 17.20

«Lil» Arthur era in piedi nel portico, cercando di decidere se doveva


sfidare l'acqua che ormai era arrivata a lambire il portico, quando vide una
barca priva degli ormeggi che galleggiava.
Subito si buttò in acqua, e si mise a nuotare. La forza dell'acqua lo
faceva muovere in direzione della barca, e ben presto la bloccò. Mentre si
arrampicava dentro, si rese conto che la barca era piena per un terzo
d'acqua. Trovò un remo e un secchio mezzo pieno di terra. La terra si era
trasformata in fango e stava iniziando a uscire dal secchio. Alcuni vermi
morti sembravano muoversi nella confusione. Il mondo era sottosopra per
l'acqua, il vento e il buio.
«Lil» Arthur prese il secchio e ne versò fuori il fango e i vermi, e iniziò
ad allontanarsi svuotando la barca dell'acqua. Ogni tanto posava il secchio
e usava i remi. Non che servissero a molto. L'acqua lo portava dove voleva
andare. In città.

ore 17.46

In città l'acqua non era così alta, ma ci volle quasi un'ora a McBride per
giungere allo Sporting Club. Per un isolato camminò con l'acqua che gli
arrivava alla vita, poi scese all'altezza del ginocchio, poi alla caviglia.
Quando arrivò la sua bombetta aveva perso la forma, e i suoi vestiti erano
rovinati. E l'acqua non aveva fatto bene nemmeno al suo revolver e al suo
rasoio.
Quando raggiunse l'edificio, fu sorpreso di trovare una folla di uomini
riuniti sulle scale. Molti stavano sotto all'ombrello, ma molti erano a testa
nuda. Tra di loro c'erano alcune donne. Per la maggior parte puttane. Le
donne decenti non vanno agli incontri di pugilato.
McBride salì le scale, e la folla lo bloccò. Lui disse: «Guardate, sono
McBride. Devo combattere col negro».
La folla si separò, e McBride, tra parole d'incoraggiamento e qualche
colpetto sulle spalle, riuscì a entrare. Dentro si poteva ancora sentire il
vento, ma sembrava lontano. La pioggia era solo un rumore di sottofondo.
Beems, Forrest, e i due anziani erano in piedi nell'ingresso e sembravano
tesi come galline all'ora di pranzo. Appena videro McBride, i loro visi si
rilassarono, e i due anziani si allontanarono. Beems disse: «Avevamo
paura che non ce l'avrebbe fatta».
«Preoccupati del vostro investimento?»
«Immagino.»
«Sarei venuto anche se avessi dovuto arrivare a nuoto.»
«Se il negro non si fa vedere i soldi e il titolo sono suoi.»
«Non li voglio così», disse McBride. «Voglio colpirlo. Naturalmente, se
non si fa vedere, prenderò i soldi. Avete mai visto un tempo così brutto
prima?»
«No», rispose Beems.
«Mi aspettavo che non ci sarebbe stato nessuno.»
«I giocatori si fanno sempre vedere», disse Forrest. «Si giocano i soldi,
si giocano anche la vita.»
«Vai a trovarti qualcosa da fare, Forrest», gli disse Beems. «Farò vedere
lo spogliatoio a McBride.»
Forrest guardò Beems, ridacchiò un po', facendogli capire che sapeva
quello che aveva in mente. Beems era furioso. Forrest se ne andò. Beems
prese McBride per il gomito e iniziò a guidarlo.
«Non sono un cane per farmi portare», disse McBride.
«Molto bene», rispose Beems, e McBride lo seguì attraverso una porta
laterale fino a uno spogliatoio. Nella stanza c'erano cinque centimetri d'ac-
qua.
«Mio Dio», disse Beems. «Si è aperta una falla da qualche parte.»
«Un'acqua come questa», disse McBride, «con questa forza... lava via la
malta dai mattoni, filtrando attraverso le crepe del muro... Diavolo, per
quel che devo fare io va bene.»
«Ci sono dei pantaloncini e delle scarpe in quell'armadietto», disse
Beems. «Può cambiarsi se vuole.»
McBride si scrollò di dosso l'acqua, si sedette su una panca e si tolse
scarpe e calze, appoggiando i piedi sulla panca. Beems rimase nel suo
punto di osservazione a guardare l'acqua che saliva.
McBride tolse il rasoio dal fianco di una delle scarpe, lo tenne in modo
che Beems lo potesse vedere e disse: «Un guanto da boxe messicano».
Beems rise. Guardava mentre McBride si toglieva la bombètta, la giacca
e la camicia. Guardò con attenzione mentre si toglieva i pantaloni e le
mutande. McBride si avvicinò all'armadietto che Beems gli aveva indicato,
si fermò e si girò a fissare Beems.
«Ti piace quello che vedi, vero, amico?»
Beems non disse niente. Aveva il cuore in gola.
McBride fece una risata nella sua direzione. «L'ho saputo dalla prima
volta che ti ho visto, che sei una femminuccia.»
«No», disse Beems. «Niente del genere. Non è per niente così.»
McBride sorrise. In quel momento sembrava molto gentile. Disse: «Va
bene. Vieni qua. Non mi importa».
«Bene...»
«No. Davvero. È solo che, sai, bisogna stare attenti. Non far sapere a
nessuno. Non tutti capiscono, sai...»
Beems si stava quasi leccando le labbra mentre si avvicinava a McBride.
Quando fu più vicino, McBride fece un ampio sorriso e scaricò un
uppercut destro nello stomaco di Beems. Lo colpì con una tale forza che
lui cadde in ginocchio nell'acqua, poi si riversò in. avanti andando a
sbattere con la testa contro la panca. Gli cadde anche il cilindro, che finì in
acqua, navigò tra la fila di armadietti, fece un giro a destra vicina al muro,
e scomparve alla vista dietro una panca.
McBride tirò Beems per i capelli finché la testa di quest'ultimo fu vicino
al suo pene e disse: «Guardalo per un minuto, perché è tutto quello che
avrai.»
Poi lo fece rimettere in piedi trascinandocelo per i capelli e si mise a
lavorare su di lui. Sinistri e destri. Niente di troppo potente. Ma più di
quanto Beems avesse mai ricevuto. Quando ebbe finito, lo lasciò che
giaceva nell'acqua vicino alla panca a tossire.
McBride disse: «La prossima volta che piscerai, piscerai sangue,
sorellina». McBride prese una salvietta dall'armadietto, si sedette sulla
panca, ci mise sopra i piedi e se li asciugò. Poi si mise i pantaloncini da
combattimento. C'era uno specchio nell'interno dell'armadietto, e McBride
rimase sconvolto alla vista dei suoi capelli. Erano un macello. Passò
parecchi minuti a rimetterseli a posto. Quando ebbe finito, guardò in basso
verso Beems, che fingeva di essere morto.
McBride disse: «Alzati, mammoletta. Fammi vedere dove devo com-
battere».
«Non dirlo a nessuno», disse Beems. «Ho moglie. Una reputazione. Non
dirlo a nessuno.»
«Ti farò una promessa», disse McBride, chiudendo l'anta
dell'armadietto. «Se quel dannato negro mi batte, ti scopo. Merda. Lascerò
che mi scopi tu. Ma non eccitarti tutto il buco del culo. Non ho intenzione
di perdere. Stasera, per come mi sento, potrei buttare al tappeto anche John
L. Sullivan.»
McBride iniziò a uscire dallo spogliatoio, portando con sé le calze e le
scarpe da combattimento. Beems giaceva nell'acqua, lasciandogli un
grosso vantaggio.

ore 18.00

Henry non riusciva a credere alla lentezza con cui la fila si muoveva.
Centinaia di persone che strisciavano da ore. Quando i Johnson arrivarono
vicino alla fine del ponte, quasi sulla terraferma, arrivò un'ondata di acqua
di un marrone scuro, che trascinò il calesse che avevano davanti giù dal
ponte. Anche il carro dei Johnson sentì l'onda, ma scivolò solo verso il
parapetto. Ma il calesse colpì il parapetto, sobbalzò, lo superò, tirandosi
dietro anche il cavallo. Per un attimo il cavallo rimase là appeso, con le
zampe posteriori che scivolavano giù, mentre con le zampe davanti tirava,
poi il parapetto cedette e il tutto finì in acqua.
«Oh, Gesù», disse Tina.
«Tieni duro», disse Henry. Sapeva che doveva fare presto, prima che
arrivasse un'altra ondata, perché se fosse stata più grossa, o se li avesse
colti vicino al buco che aveva fatto il calesse, anche per loro sarebbe stata
la fine.
Dietro di loro i Johnson potevano sentire le urla della gente che stava
cercando di fuggire dalla tempesta. L'acqua si stava rapidamente alzando
sopra il livello del ponte e quelli che stavano a metà o in fondo si resero
conto che se non fossero passati in fretta non ce l'avrebbero fatta. Mentre
lottavano per portarsi avanti, il ponte scricchiolò e gemette come una voce
umana.
Il vento squarciò la tela cerata del carro e lo fece volar via. «Merda»,
disse Clement. «Non è una meraviglia?»
Un cavallo che portava un uomo e una donna, la donna portava un
grande cappello di paglia con due ali che si abbassavano di lato, passò di
corsa accanto ai Johnson. Il ponte era troppo scivoloso e il cavallo si
muoveva troppo velocemente. Le zampe gli si aprirono e cadde, iniziando
a scivolare. Scivolò dritto nell'apertura che aveva fatto il calesse.
Scomparve immediatamente sotto l'acqua. Quando Henry azzardò
un'occhiata in quella direzione, vide il cappello che la donna portava
venire a galla e poi allontanarsi nell'acqua.
Quando il carro di Henry fu in linea con il buco, una nuova ondata
marrone passò sul ponte, ma stavolta più alta e più forte. Colpì i cavalli e il
carro di traverso. Il rumore dell'impatto ricordò a Henry di quando si era
trovato nella Guerra Civile e un carro su cui stava viaggiando fu colpito da
un cannone yankee. L'impatto lo aveva fatto ruotare su se stesso, e quando
aveva cercato di alzarsi, le sue gambe erano spezzate. Pensava che mai più
avrebbe provato tanta paura. Ma adesso aveva una paura anche maggiore.
Il carro sbandò di lato, colpì l'apertura, ma era troppo grande per pas-
sarci attraverso. Rimase appeso al parapetto, ma le fasce laterali si incrina-
rono per l'impatto. I familiari di Henry strillarono e si coricarono nel carro
mentre l'acqua si posava su di loro come una pesante mano. La pressione
dell'acqua staccò le ruote del carro dal loro asse, mandando il fondo del
carro a sbattere contro il ponte. Fortunatamente i fianchi tennero.
«Tutti fuori!» gridò Henry.
Lui, con la gamba rotta che si rifiutava di rispondere, ruzzolò fuori dal
carro, sul ponte, che adesso si trovava sotto un metro d'acqua. Afferrò una
fiancata e si tirò su, aiutò Tina a scendere, raggiunse il carro e tolse il
bastone dal sedile.
Clement e gli altri saltarono giù, e iniziarono ad affrettarsi a piedi verso
la fine del ponte. Quando arrivarono all'altezza di Henry, lui disse:
«Muovetevi, sbrigatevi. Non preoccupatevi per me».
Tina lo prese per il braccio. «Muoviti, donna», le disse. «Hai i ragazzi di
cui preoccuparti. Io devo liberare i cavalli.» Le diede un colpetto sulla
mano. Lei si allontanò con gli altri.
Henry estrasse il suo coltello di tasca e iniziò a liberare i cavalli dalle
briglie. Non appena furono liberi, entrambi gli animali andarono a sbattere
contro il parapetto. Uno rimbalzò indietro, girò su se stesso, e si diresse
all'estremità del ponte a un galoppo serrato, ma il colpo che diede l'altro
cavallo fu talmente forte da farlo capovolgere e finire a gambe all'aria.
Penetrò nell'acqua e scomparve.
Henry si mise a cercare la sua famiglia. Non riusciva più a vederli. Di
certo erano già arrivati sulla terraferma.
Altre persone erano sopraggiunte a occupare il loro posto; gente con
carri, calessi, a cavallo o a piedi. Gente che sembrava arrampicarsi sul-
l'acqua, dal momento che ormai il ponte era completamente sotto il livello
del mare.
Poi Henry udì un ruggito. Si girò verso il lato a est del ponte. C'era una
pesante muraglia d'acqua che si era alzata proprio sopra di lui, e si stava
abbassando, come un mostruoso pigliamosche bagnato. E quando colpì
Henry e il ponte, e tutti gli altri che vi stavano sopra, li schiacciò con la sua
forza mandandoli a finire nella pancia del mare che ribolliva.

ore 18.14

Bill e Angelique Cooper, col loro calesse sommerso a metà dall'acqua,


vedevano il ponte attraverso la pioggia che scrosciava, poi all'improvviso
non lo videro più. Del ponte e della gente era stato fatto un unico mucchio
che era stato trascinato via.
Un attimo più tardi il ponte si sollevò sopra le onde, come una lunga
spina dorsale serpeggiante. La gente vi stava ancora aggrappata. Si tuffò
nell'acqua, con la coda che sferzava nell'aria, poi scomparve e la gente con
lui.
«Che Dio abbia misericordia delle loro anime», disse Angelique.
Bill rispose: «È finita, a questo punto».
Girò il calesse con difficoltà a causa dell'acqua, e si diresse di nuovo a
casa. Tutto intorno a lui, tegole e pietre volavano via dai tetti come
proiettili.

ore 19.39

«Lil» Arthur, mentre galleggiava verso la città, si accorse che in quel


punto l'acqua era meno profonda. Non cambiava molto per lui, la pioggia
colpiva la barca riempiendola d'acqua. Non riusciva a remare e allo stesso
tempo togliere l'acqua dalla barca alla stessa velocità con cui si formava.
Si arrampicò sul fianco e lasciò che la barca venisse trascinata dalla
corrente.
L'acqua lo sorprese per la sua forza. Ci mancò poco che lo trascinasse
via, ma per fortuna era abbastanza bassa da permettergli di fare presa con
un piede e spingere controcorrente. Sguazzò fino allo Sporting Club, poi si
diresse sul retro verso l'entrata dei neri. Quando vi giunse, un nero anziano
noto come Zio Cooter lo fece entrare, dicendo: «Ragazzo, se fossi stato in
te, sarei rimasto a casa».
«Cosa?» gli rispose «Lil» Arthur. «Per perdermi un giro in barca?»
«Un giro in barca?»
«Lil» Arthur gli raccontò come aveva fatto ad arrivare fin là.
«Dannazione», disse Zio Cooter. «Dio sommergerà quest'isola, a causa
della sua cattiveria. Come ha fatto con Sodoma e Gomorra.»
«E tu e io cosa abbiamo fatto a Dio?»
Zio Cooter sorrise. «Sicuro, siamo gli unici bambini buoni che Dio abbia
avuto. Lui si prenderà cura di noi. Bene, di me almeno. Tu sei sistemato
con quel McBride, ed è proprio un brutto soggetto, 'Lil' Arthur. Dio non ti
aiuterà in questa circostanza. Ma neanche questo McBride ha dimostrato
molto buonsenso. Ha pestato il signor Beems e lui è quello che ha
organizzato questa cosa, quello che tirerà fuori i soldi.»
«Perché lo ha pestato?»
«Non ti immagini come sono i bianchi. Sono tutti fuori di testa. Ma il
signor Beems adesso sembra davvero un orsetto lavatore. Ha entrambi gli
occhi neri, e le labbra gonfie.»
«Dove mi cambio?»
«Nel ripostiglio delle scope. Hanno detto che ti devi mettere i
pantaloncini e le scarpe lì. E c'è della garza per le mani.»
«Lil» Arthur trovò i pantaloncini. Erano vecchi e sbiaditi. Nemmeno le
scarpe da combattimento erano molto meglio. Trovò degli stracci sporchi e
li usò per asciugarsi. Usò la garza per avvolgervi le mani, poi il pene.
Pensò che una volta che inizi una tradizione, poi è il caso di rispettarla.

ore 19.45

Quando Bill, Angelique e Teddy arrivarono a casa, videro che l'acqua


aveva esercitato una tale violenza contro la porta d'ingresso da aprirla.
L'acqua scorreva nell'ingresso e sul primo gradino delle scale. Bill guardò
in su e vide una lampada che bruciava al piano di sopra. Se n'erano andati
tanto di fretta, che si erano dimenticati di spegnerla.
Sbuffando Bess fece un balzo. Il calesse sobbalzò in avanti, urtò il
marciapiede e le briglie vennero tirate così repentinamente che Bill e la sua
famiglia non vennero fatti volar via dai sedili ma furono semplicemente
spinti avanti e indietro con forza. Le redini scivolarono via di mano a Bill
così rapidamente che il cuoio gli tagliò i palmi.
Bess percorse di corsa il cortile ed entrò dalla porta d'ingresso aperta, e
lentamente e con attenzione iniziò a salire le scale.
Angelique disse: «Le mie terre».
Bill, un po' stupito, scese, fece il giro del calesse e aiutò la moglie e il
bambino a uscire. Il bambino era bagnato e piangeva, e Angelique cercò di
coprirlo con l'ombrello, ma adesso il vento e la pioggia sembravano
arrivare contemporaneamente da tutte le direzioni. L'ombrello non co-
stituiva nessun riparo.
Sguazzarono dentro casa, cercando di chiudere la porta, ma l'acqua era
troppa per loro. Rinunciarono.
Bess aveva raggiunto il pianerottolo superiore ed era scomparsa. La
seguirono. La porta della camera da letto era aperta e il cavallo era entrato.
Era in piedi vicino al tavolo su cui era posata la lampada a cherosene.
Tremava.
«Poveretta», disse Angelique, raccogliendo alcune salviette da un ar-
madio. «È più spaventata di noi.»
Bill tolse le briglie che erano rimaste addosso a Bess, poi la massaggiò
cercando di calmarla. Quando andò alla finestra e guardò fuori, il cavallo
lo seguì. Non era arrivato un miracolo ad asciugare il mondo. Era evidente
che il livello dell'acqua stava salendo.
«Forse qui saremo al sicuro», disse Angelique. Stava asciugando Teddy,
che strillava violentemente perché sentiva freddo ed era bagnato. «L'acqua
non si può alzare fino a qua, vero?»
Bill massaggiava pigramente il mantello di Bess e pensava al ponte. Al
modo in cui si era rotto come se si fosse trattato di un giocattolo di legno.
Disse: «Certo che no».

ore 20.15

Il combattimento era iniziato tardi, subito dopo che due ragazzi di colore
con una gamba sola avevano fatto un paio di round, saltellando in giro,
cercando di colpirsi a casaccio con dei guanti da boxe enormi.
C'erano poche persone ma molto schiamazzo. Tanto da far dimenticare a
«Lil» Arthur il temporale che infuriava fuori. La folla continuava a
gridare: «Uccidi il negro», aveva iniziato un coro di «tutti i negri mi
sembrano uguali», un numero con un ritmo coinvolgente che a «Lil»
Arthur piacque a dispetto di se stesso.
Le grida, la canzone erano intese a demoralizzarlo, ma lui scoprì che lo
eccitavano. Gli piaceva fare la parte del derelitto. Gli piaceva far
rimangiare a quegli stronzi le loro parole. Inoltre, era lui il campione di
Galveston, non McBride, indipendentemente da quello che la folla voleva.
Lui era colui che stasera avrebbe dovuto passare tra le corde come
vincitore. E aveva fatto un cambiamento. Non avrebbe più permesso che lo
presentassero come «Lil» Arthur. Quando avevano chiamato il suo nome,
e l'annunciatore, con riluttanza lo aveva definito il campione dello
Sporting Club di Galveston, aveva fatto come lui gli aveva chiesto.
L'aveva chiamato con il nome con cui d'ora in poi avrebbe voluto essere
chiamato. Non «Lil» Arthur Johnson. Non Arthur John Johnson, ma il
nome con cui lui si chiamava: Jack Johnson.
Fino a questo punto, comunque, il combattimento non stava andando in
nessuna direzione precisa, e doveva ammettere che McBride sapeva
colpire. Aveva un modo suo di tirare dei brevi, violenti colpi alle costole,
pugni che sembravano coltellate.
Prima del combattimento, Jack, come aveva sicuramente fatto anche
McBride, aveva usato i pollici per risistemarsi il cotone nei guanti. Siste-
marli in modo che le nocche si trovassero contro il cuoio e facessero
contatto con la carne di McBride. Ma fino a ora McBride aveva evitato la
maggior parte dei suoi pugni. Quell'uomo era un maestro a scivolare tra i
pugni. Jack non aveva mai visto niente del genere prima. McBride riusciva
anche a scansare i colpi con un movimento secco dell'avambraccio. Una
mossa da vero professionista che la diceva lunga.
Ma anche così, Jack si rese conto che stava riuscendo a incassare i pugni
molto bene, e aveva scoperto qualcosa di veramente sorprendente. Le
poche volte in cui aveva colpito McBride era quando, in preda
all'eccitazione, si piegava in avanti con i piedi piatti e scagliava un
uppercut. Questo colpo non era una cosa su cui era molto allenato e
quando lo aveva fatto in precedenza, aveva lanciato il pugno stando
sollevato sui talloni, torcendo il corpo, nel modo tradizionale. Ma aveva
scoperto, contro ogni logica, che riusciva a tirare lo stesso colpo a piedi
piatti piegandosi in avanti, e che in questo modo il colpo era più potente.
Pensava di aver visto un po' di sorpresa sulla faccia di McBride quando
lo aveva colpito in questo modo. Per lui di certo lo era stata.
Andò avanti così fino all'inizio del quarto round, poi quando McBride si
alzò gli disse: «Ti ho coccolato abbastanza, negro, adesso devi
combattere».
Allora Jack vide cose che non aveva mai visto prima. Il modo in cui
questo tipo si muoveva era sorprendente.
Saltellava come un gatto, nel modo in cui aveva sentito dire che com-
batteva anche Gentleman Jim, e questo tizio era svelto con le mani. Lan-
ciava dei proiettili, e i proiettili stordivano molto più di prima. Jack si rese
conto che McBride si era controllato, cercando di rendere l'incontro più
interessante. E si accorse di qualcosa d'altro. Qualcosa di importante su se
stesso. Non sapeva sulla boxe tutto quello che credeva di sapere.
Cercò di colpire McBride, ma lui schivava i colpi con le braccia, allora
provò la sua arma a sorpresa, l'uppercut, e si accorse che con quello lo
poteva colpire un po' allo stomaco, ma non abbastanza da mandarlo al
tappeto. Quando arrivò il quinto round, Jack era spaventato. E ferito. E
l'arbitro, un bastardo pelle e ossa con dei baffi a manubrio, non gli dava
una mano. Ogni volta che immobilizzava McBride, li separava. Se era
McBride a immobilizzarlo, prendendolo a ditate negli occhi e a testate,
l'arbitro rideva come se stesse mangiando della gelatina.
Jack stava pensando che forse era il caso di andare al tappeto. Lasciarsi
cadere e rimanere giù, in modo da togliersi da questa situazione la
prossima volta che McBride lo avesse colpito con uno di quei suoi colpi
brevi che sembravano un muro, ma poi il gong suonò e lui si sedette nel
suo sgabello, e Zio Cooter, l'unico uomo nel suo angolo, gli buttò
dell'acqua sulla bocca e gli fece sputare il sangue in un secchio.
Zio Cooter gli disse: «Se fossi in te, mi fìngerei morto. Lasciati cadere
su quel dannato tappeto e rimanici come se ci fossi inchiodato. Se non lo
fai quella testa di cazzo ti farà a pezzi. Così ti porti a casa qualche soldo e
non muori. Portare a casa qualche soldo fa bene e a morire non c'è fretta».
«Gesù. È bravo. Come faccio a batterlo?»
Zio Cooter massaggiò le spalle di Jack. «Non puoi. Fingiti morto.»
«Ci deve essere un modo.»
«Sì», disse Zio Cooter. «Potrebbe morirti addosso. Questo è il solo
modo in cui tu lo possa battere. Deve solo morire.»
«Grazie, Cooter. Sei di grande aiuto.»
«Piacere mio.»
Jack temeva il suono del gong. Guardava nell'angolo di McBride che
stava seduto sul suo sgabello come se fosse stato al bar, bevendosi una
bottiglia di birra, e chiacchierando con qualcuno tra il pubblico. Stava
chiedendo che gli portassero un panino.
Forrest Thomas era nell'angolo di McBride e reggeva una salvietta sul
braccio, una salvietta piegata, in caso McBride ne avesse avuto bisogno,
cosa che, considerando che doveva farsi una bella sudata, non era
improbabile.
Forrest guardò Jack, gli puntò contro un dito e abbassò il pollice come se
fosse stato il cane di una pistola. Jack riusciva a leggere una parola sulle
labbra di Forrest. La parola era: PUM!
L'arbitro si diresse all'angolo di McBride, si appoggiò al palo e, per
qualche motivo, si fece una risata con lui.
Il gong suonò. McBride diede la birra a Forrest e uscì dall'angolo. Jack
si alzò, vide Beems, con gli occhi neri, abbastanza malmesso, seduto in
prima fila. Malmesso o no, Beems sembrava felice. Guardò Jack e rise
come un becchino.
Questa volta Jack si prese una bella serie di colpi. Sembrava non riuscire
a fermare i ganci brevi di McBride, e sembrava che non riuscisse a colpirlo
con nessun altro colpo se non l'uppercut, e anche con quello non abbastan-
za forte. McBride stava andando meglio, più il tempo passava e più si scal-
dava. Se avesse preso un'altra birra con un panino, diavolo, avrebbe potuto
mettere Jack al tappeto in modo da potersi fare anche un caffè e una torta.
Jack decise di smettere di cercare di colpire la testa e le costole, e di
cercare solo di entrare e di colpire McBride sulle braccia. In questo modo,
almeno sarebbe riuscito a colpire qualcosa. Lo fece, e si stupì vedendo alla
fine del round che McBride abbassava la guardia.
Jack tornò al suo angolo e Zio Cooter disse: «Continua a colpirlo sulle
braccia. Sembra che vada bene. Gli rovini gli strumenti».
«Me lo ero immaginato. Grazie mille.»
«Piacere mio.»
Jack studiò la folla nelle gradinate dello Sporting Club. Non guardavano
il ring. Avevano girato la testa verso la parete a est, e per una buona
ragione. Stava vibrando. L'acqua stava filtrando, e aveva coperto il
pavimento sotto il ring per un'altezza di quindici centimetri. La gente che
occupava le prime due file della gradinata, tutto intorno al ring, era stata
costretta ad alzare i piedi. Sopra di lui, Jack udì un rumore simile a quello
che avrebbe potuto sentire se qualcosa di grosso e terribile avesse tolto la
pelle dalla testa di un elefante.
Quando il gong suonò di nuovo e Jack si alzò dall'angolo, si accorse che
l'acqua era salita di altri cinque centimetri.

ore 20.46

Bill tenne la lanterna davanti a sé, con il braccio teso mentre si rannic-
chiava in cima alle scale. L'acqua ne aveva coperto la metà. La casa era
scossa come qualcuno che fosse stato seduto su un cavallo che scalpitava.
Sentiva le tegole che si liberavano, e volavano via.
Tornò in camera da letto. Il vento ululava. Le finestre vibravano. Un
paio di vetri erano saltati via. Il bambino piangeva. Angelique era seduta in
mezzo al letto, e cercava di coccolarlo ma Teddy non ne voleva sapere di
calmarsi. Bess stava in un angolo della stanza, con la testa appoggiata
contro la parete. Il cavallo agitava nervosamente la coda avanti e indietro,
nitrendo.
Bill si alzò ad aprire le finestre per togliere un po' di forza al vento. Era
una cosa che sapeva che avrebbe dovuto fare molto tempo prima, ma stava
cercando di risparmiare al bambino il sibilo e l'umidità.
Folate di vento e di pioggia irrompevano dalle finestre aperte. Bill
riusciva a fatica a stare in piedi, tanta era la loro forza.
Quindici minuti più tardi sentì i mobili di sotto che sbattevano contro il
soffitto, galleggiando sul pavimento sopra cui stava lui.

ore 21.00

Mio Dio, pensò Jack, quanti round di questa cosa mi devo fare? La testa
gli doleva e le costole gli facevano anche più male, e dentro si sentiva
come se avesse inghiottito della colla bollente e stesse cercando di
vomitarla. Le gambe, che pur erano forti, iniziavano a sentire il peso del
combattimento. Aveva pensato che fosse un combattimento in quindici
round, ma si rese conto che erano già venti, e se per allora non aveva perso
si sarebbe potuti arrivare a venticinque.
Jack sbatté un guantone contro il gomito sinistro di McBride, lo vide
fare una smorfia e lasciar cadere il braccio. Allora fece seguire un
uppercut, e questa volta non si limitò a toccare McBride ma lo colpì con
forza. L'impatto del colpo su McBride fu così forte che scoreggiò. Il
panino che aveva mangiato tra i round adesso non gli doveva sembrare più
tanto una buona idea.
Con la serie di colpi successivi Jack fece di nuovo centro con l'uppercut.
McBride indietreggiò e lui lo seguì, colpendolo sulle braccia, riuscendo
ogni tanto a inserire un uppercut, e persino a raggiungerlo con dei ganci e
dei dritti.
Poi ogni luce nell'edificio si spense, mentre le pareti si aprivano e le
gradinate iniziavano ad alzarsi sotto la spinta dell'acqua, facendo cadere gli
spettatori in un'oscurità bagnata. Anche il ring iniziò a muoversi, ad alzarsi
verso il soffitto, ma prima che scivolasse via da sotto a Jack, McBride gli
aveva dato un colpo di una tal forza che Jack ebbe la sensazione di aver
sentito che le vite passate avessero cessato di esistere; che gli antenati
usciti dal fango avessero sobbalzato per quel colpo, che di rimando fosse
tornato nel presente e si fosse spinto nel futuro, e indietro di nuovo. Il
soffitto volò via con una folata di vento, Jack si allungò, afferrò qualcosa e
vi si aggrappò come se ne fosse dipesa la sua vita.
«Stupido figlio di puttana», disse Zio Cooter, «mi hai preso per la testa».

ore 21.05

Il comandante Slater pensò che dovevano trovarsi in fondo al golfo a


questo punto, e si sorprese molto al vedere che non era così. La notte
precedente una grande ondata li aveva colpiti con una forza tale da strap-
pare la catena dell'ancora. La nave era stata portata giù, e poi era stata
ricoperta da tutta l'acqua del mondo, e c'erano stati buio e orrore totali, e
poi, a quella che sembrava una distanza di ore, ma avrebbe potuto essere di
secondi, l'acqua si era riaperta e la Pensacola era volata in alto come se
fosse stata sparata da un cannone, era tornata giù, si era inclinata talmente
a dritta da prendere acqua, poi, miracolosamente, si era drizzata di nuovo.
Da quel momento c'era stata maretta.
Slater si scosse merda e acqua di mare dalle gambe dei pantaloni, e seguì
la fune che aveva legata alla vita fino al palo di supporto. Lo afferrò, poi
controllò il resto della corda. Al buio gridò: «Bernard, ci sei?»
«Penso di sì», gli giunse dal buio la voce di Bernard. Fu allora che
sentirono un paio di bulloni saltare, con un rumore di fucilate. Poi: «Oh,
Gesù», disse Bernard. «Hai sentito quel rigonfiamento? Ecco che torna.»
Slater girò la testa e guardò. Non c'era nient'altro che un gran muro nero
che si muoveva verso di loro. Al confronto la prima ondata sembrava un
leggero sollevamento; questa era più grossa della Grande Muraglia.

ore 22.00

Bill e Angelique erano nel letto con Teddy. L'acqua si stava alzando
oltre il bordo del materasso, buttandogli addosso un vento freddo e umido.
Avevano acceso il giradischi e stavano ascoltando un Gospel, ma il vento e
la pioggia erano entrati nel meccanismo e l'avevano fatto spegnere.
E mentre si spegneva, il muro più lontano si incrinò e cedette e pezzi di
legno arrivarono tra i flutti sul pavimento mentre il soffitto e il letto si
curvavano. Bess all'improvviso scomparve da un buco nel pavimento. Un
attimo c'era, l'attimo dopo era scomparsa sotto l'acqua.
Bill afferrò Angelique per il braccio, la fece alzare nell'acqua che
arrivava al ginocchio. Lei si teneva stretto Teddy. Lui li spinse dall'altra
parte della stanza mentre il pavimento si spostava, gli fece attraversare la
porta che conduceva alla terrazza non ancora ultimata, inciampò in un
martello che giaceva sotto l'acqua, ma riuscì a tenersi in piedi.
Bill non poteva far a meno di pensare a tutto il lavoro che aveva messo
in questa terrazza. Adesso non sarebbe mai stato finito. Odiava non portare
a termine i lavori. Lo odiava più del fatto che iniziasse a inclinarsi.
C'era un pilastro centrale che sembrava reggere bene, e loro vi presero
posizione dietro. Il pilastro era uno dei tanti attorno a cui era costruita la
casa: un pilastro di supporto che sollevava la casa sopra il normale livello
dell'acqua: collegava la camera da letto al terrazzo.
Bill cercò di guardare attraverso la pioggia scrosciante. Tutto quello che
riusciva a vedere era l'acqua. Galveston era coperta dal mare. Si era alzato
e aveva inghiottito la città e l'isola.
La casa iniziò a essere scossa violentemente. Udirono il legno che si
rompeva, lo sentirono vibrare. Il terrazzo oscillava con una maggiore
intensità.
«Non ce la faremo, vero Bill?» chiese Angelique.
«No, cara. Credo di no.»
«Ti amo.»
«Ti amo.»
Lui la strinse a sé e la baciò. Lei disse: «Non importa per me e per te.
Ma Teddy... Lui non sa... Lui non capisce. Dio, perché Teddy? È solo un
bambino... Come si annega, caro?»
«Un respiro profondo ed è finita. Solo un grosso sorso d'acqua, senza
opporre resistenza.»
Angelique iniziò a piangere. Bill si piegò, iniziò a cercare con le mani
sotto l'acqua che ricopriva il terrazzo. Trovò il martello. Si trovava in quel
punto perché si era impigliato in un buco del terrazzo non ancora ultimato.
Bill lo tirò fuori. C'era un grosso chiodo che sporgeva dal pilastro
principale. Lo aveva conficcato lì il giorno prima, perché fosse facile tro-
varlo. Era il suo ultimo grande chiodo e aveva intenzione di conservarlo.
Usò la forbice del martello per estrarlo. Guardò Angelique. «Possiamo
dare a Teddy una possibilità.»
Angelique non riusciva a vedere bene Bill in quel buio, ma in qualche
modo intuì quello che il suo viso diceva. «Oh, Bill!»
«È una possibilità.»
«Ma...»
«Noi non ce la possiamo fare, ma il pilastro...»
«Oh, Signore, Bill», e Angelique si piegò, tenendosi Teddy stretto al
petto. Bill le afferrò le spalle, e disse: «Dammi il bambino».
Angelique singhiozzò, poi la casa si curvò a destra, solo il pilastro
reggeva. Gli altri stavano cedendo, ma finora questo non si era spostato.
Angelique diede Teddy a Bill. Bill baciò il bambino, lo sollevò più in
alto che poté sul pilastro, spinse il bambino contro il legno, e sollevò il
braccio. All'improvviso Angelique gli fu accanto, a sostenere il bambino.
Bill la baciò. Poi prese il martello e il chiodo, e piazzandolo dritto davanti
al polso di Teddy, glielo infilò nella carne con un colpo rapido.
Poi il temporale prese a soffiare ancora più furioso e il terrazzo si tra-
sformò in gelatina. Bill afferrò Angelique, e lei riuscì quasi a dire:
«Teddy», poi le forze della natura li portarono via assieme alla fragile
casa.

A dominare tutto dall'alto, con l'acqua tutt'attorno al pilastro, Teddy,


freddo e bagnato, urlava per il dolore.

Bess venne a galla tra il legno e l'immondizia. Iniziò a muovere le


zampe furiosamente, sbuffando acqua. Un chiodo che sporgeva da un asse
le tagliò il muso, aprendo una ferita profonda. Il cavallo nitrì, agitò
violentemente le zampe, alzò la testa, cercando di mantenersi a galla.

Domenica 9 settembre, ore 4.00

Il meccanismo che faceva ruotare la luce del faro di Bolivar aveva smes-
so di funzionare. Le scale che portavano al faro si erano gradualmente
riempite di gente che cercava riparo dal temporale, e via via che si alzava
l'acqua la gente saliva. Per ultimo era arrivato un uomo con un ragazzo, e
di conseguenza era costantemente sull'ultimo piolo che si alzava. Con-
tinuava a dire: «Muovetevi, muovetevi a meno che vogliate vedere affo-
gare un uomo e il suo ragazzo». Tutti si spostavano in su. Poi l'uomo
tornava a ripetere il suo ritornello mentre l'acqua si alzava di nuovo.
Il faro stava diventando congestionato. La torre aveva iniziato a on-
deggiare. L'operatore, Jim Marlin e sua moglie, Elizabeth, accesero la
lampada a cherosene e la piazzarono nel centro della lente d'ingrandimento
circolare e cercarono di girare manualmente il raggio. Volevano che
qualcuno sapesse che qui c'era un rifugio, anche se era sovraffollato e
avrebbe presto potuto cessare di esistere. La miglior cosa da fare era di
spegnere la luce e sperare di riuscire a salvare quelli che erano già lì, e se
stessi. Ma Jim ed Elizabeth non potevano fare una cosa del genere.
Elizabeth disse: «Per come la vedo io Jim, è tutto o niente, e il buon Dio lo
vorrebbe allo stesso modo. Io voglio che sia così».
Per tutta la notte udirono urla e grida d'aiuto, e una volta, quando il faro
funzionava ancora, avevano visto un giovane aggrappato a un pezzo di
legno. Quando la luce era tornata al punto in cui si trovava il giovane, era
svanito.
Adesso, mentre cercavano di far funzionare la luce manualmente, si
accorsero che era un'impresa senza speranza. Alla fine la lasciarono pun-
tare su un'unica direzione, e nella luce videro un paio di corpi trascinati da
un gran tappeto da cui pendevano delle corde, che sembravano tentacoli di
meduse. Le corde si erano intrecciate attorno ai due, e il tappeto sembrava
muoversi, si piegava e si apriva come un paio di grosse ali, come se fosse
stata una creatura marina che li portava in un posto segreto dove li avrebbe
mangiati in pace.
Né Jim né Elizabeth Marlin conoscevano i corpi gonfi impigliati tra le
corde, non avevano idea che si chiamassero Ronald Beems e Forrest
Thomas.

ore 5.00

Uno spiraglio di luce. L'alba. Jim ed Elizabeth si erano addormentati


appoggiati alla base della grande luce, e al primo raggio di sole si erano
svegliati, e dalla finestra del faro avevano visto la prua di una nave, e in
piedi sulla prua, che guardava verso di loro, un uomo con indosso un'uni-
forme in disordine, che stava piangendo selvaggiamente.
Jim andò alla finestra. La nave si trovava sollevata su di una grande
quantità di sabbia e di legno. Attraverso la prua poteva leggere le lettere
Pensacola. L'uomo era appoggiato al vetro. Indossava un berretto da
capitano. Teneva la mano tesa col palmo in fuori. Jim allungò la sua verso
il vetro cercando di arrivare a quella del capitano in lacrime.
Dietro di lui comparvero un certo numero di uomini bagnati. Quando
videro il faro caddero in ginocchio e alzarono le teste al cielo in preghiera,
dimenticandosi che di fatto era stato il cielo che li aveva annientati.

ore 6.00

Il giorno fece irruzione sull'acqua che brillava, e l'acqua iniziò ad


abbassarsi, rapidamente, mentre John McBride stava comodamente
appollaiato sulla lancetta delle ore di quello che era rimasto dell'orologio
del municipio. Stava seduto là, con le braccia strette intorno alle macerie
che pendevano dall'orologio. Nella notte, un enorme meccanismo a molla
si era staccato dal quadrante e l'aveva colpito sulla testa, e per un attimo
aveva creduto che stava ancora combattendo col negro. Non era sicuro di
cosa fosse peggio. Il ciclone o il negro. Ma durante la notte, era stato grato
che ci fosse la molla a cui aggrapparsi.
Sotto di lui vide molto di quello che era rimasto dello Sporting Club, tra
cui gli armadietti in cui aveva messo le sue cose. Per tutta la notte i guanti
erano stati un peso. Temeva che il fatto di non riuscire a mantenere la
presa lo avrebbe fatto cadere. Era bello sentirsi le mani libere dal cuoio
bagnato e stretto.
McBride si sporse per afferrare la lancetta dei minuti, la fece dondolare
un po' in modo da farsi abbassare sopra una pila di macerie. Ci si
arrampicò sopra, tra un ammasso di corpi gonfi, di uomini, donne e
bambini, la maggior parte dei quali avevano le teste e i corpi tagliati dalle
assi. Frugò nelle loro tasche alla ricerca di denaro, senza trovarne, ma una
delle donne - riusciva a capire che si trattava di una donna solo dal vestito
e dall'acconciatura, dal momento che i tratti del suo viso erano andati persi
dal gonfiore - aveva un anello. Cercò di toglierglielo dal dito, ma non
voleva venir via. L'acqua le aveva fatto gonfiare la carne tutta intorno.
Si fece strada fino alla fila di armadietti. Vi frugò in mezzo finché trovò
quello in cui aveva messo i suoi abiti. Erano così sporchi di fango che li
lasciò lì. Ma prese il rasoio e il revolver. Il revolver era pieno di
fanghiglia. Tirò fuori i bossoli, li scosse e li rimise dentro, poi si infilò la
pistola nei pantaloncini da boxe bagnati. Aprì il rasoio, lo liberò della
sabbia, si avvicinò alla donna e usò il rasoio per tagliarle il dito. La lama
tagliò la carne con facilità e spezzò rumorosamente l'osso. Si infilò l'anello
sul mignolo, chiuse il rasoio, e se lo fece scivolare nella cintura dei pan-
taloni, vicino alla pistola.
Era successa una cosa assurda. Aveva nascosto il denaro nel bordello, e
immaginava che sia lui sia la grassa tenutaria ormai fossero probabilmente
in alto mare, la donna probabilmente piena di ferite di arpioni.
E le teste di cazzo che avrebbero dovuto pagarlo erano tutti annegati,
compreso il principale, il finocchio Beems. E se non lo fossero stati, di
certo non erano più uomini con grandi mezzi.
Era stato un viaggio di merda. Non aveva abiti. Non aveva denaro. Non
aveva pestato il negro. E non aveva più una donna. Era venuto con più
cose di quelle con cui partisse.
Cos'altro c'era che poteva andare storto?
Decise di farsi strada nell'acqua fino al bordello, di vedere se fosse
ancora in piedi, forse per strada avrebbe anche trovato qualche cadavere da
saccheggiare, qualcosa che gli permettesse di rifarsi delle perdite.
Mentre si muoveva in quella direzione, vide un cane sopra una cuccia
che galleggiava. Il cane era incatenato alla sua cuccia e la catena si era
impigliata a delle macerie cosicché lui era finito sul tetto della cuccia.
Sollevò gli occhi, vide McBride e abbaiò debolmente per chiedere aiuto.
McBride decise che era a portata della sua pistola.
La sollevò e premette il grilletto. Sentì uno scatto ma non successe
niente. Provò di nuovo, sperando contro l'evidenza. Stavolta la pistola
sparò e il cane fu colpito al cranio, rotolò giù dal tetto rimanendo appeso
alla catena, poi scomparve alla vista.
McBride disse: «Poveretto».

ore 7.03

Il livello dell'acqua si stava abbassando rapidamente, tornando verso il


mare, lasciandosi dietro migliaia di corpi e di rovine che una volta erano
stati Galveston. Il puzzo era terribile. Jack e Cooter, che avevano passato
la notte nella casa sull'albero di un bambino, si svegliarono, stupiti di
essere vivi.
L'enorme quercia su cui si trovavano aveva perso le foglie e i rami, ma
la casa era rimasta intatta. Era incredibile. Vi si erano arrampicati, erano
scesi dal legno a cui si erano aggrappati, ed erano entrati. Dentro era
asciutto, e loro trovarono tre biscotti secchi in un contenitore e trovarono
tre bottiglie calde di quella bella bevanda del Texas, Dr. Pepper. C'era un
telefono alla parete, ma era finto, fatto di legno e di latta. Jack provò il
desiderio di provarlo, come se potesse esserci una linea diretta col Signore,
perché di certo era il Signore che li aveva portati qua.
Cooter aveva aiutato Jack a togliersi i guanti, poi avevano mangiato i
biscotti, si erano bevuti una bottiglia di Dr. Pepper a testa, poi si erano
divisi l'ultima bottiglia e si erano addormentati.
Quando tornò la luce e il bel tempo, decisero di scendere. La scala, una
serie di assi fissate all'albero con dei chiodi, era stata lavata via, ma loro
tornarono a terra, scivolando giù come dei pompieri dal palo.
Quando toccarono terra, iniziarono a camminare, facendosi strada tra il
fango e l'acqua che adesso arrivava alla caviglia. Il mondo che avevano
conosciuto se n'era andato. Galveston era una poltiglia di corpi gonfi, di
esseri umani, di cani, di muli e di cavalli e di legno fradicio. In distanza
videro i componenti di una famiglia bagnati e sudici che camminavano
uno dietro l'altro, come una fila di anatre. Jack li riconobbe. Li aveva visti
in giro in città. Erano Issac Cline, suo fratello Joseph, sua moglie e i suoi
figli. Si chiese se sapessero dove stavano andando, o se, come lui e Cooter,
non sapevano che fare. Optò per la seconda ipotesi.
Jack e Cooter decisero di spostarsi in centro alla ricerca di un punto più
alto. Ben presto riuscirono a vedere la torre del municipio, in brutto stato,
ma ancora in piedi, con l'orologio da cui era schizzata una grossa molla.
Usciva dal quadrante come una grossa lingua di metallo tutta contorta.
Non avevano fatto molta strada verso la torre quando videro un uomo che
stava venendo loro incontro. Indossava dei pantaloncini come quelli di
Jack e stava montando una giumenta marrone color del cioccolato senza
sella. Aveva avvolto un pezzo di corda consunta attorno al morso del
cavallo e la usava come se si fosse trattato di una briglia primitiva. Aveva i
capelli pettinati alla perfezione. Era McBride.
«Merda», disse Cooter. «Cosa mi dici di questo? Bene, Jack, ti saluto, ci
vediamo.»
«Scemo», disse Jack.
Cooter si mise le mani in tasca e girò a destra, dirigendosi verso una pila
di macerie e di corpi, recandosi non si sa dove.
McBride individuò Jack, urlò: «Ehi, tu, negro. Nemmeno un ciclone
riesce ad annegarti».
«Nemmeno te», rispose Jack. Erano a cinque metri l'uno dall'altro. Jack
vedeva la pistola e il rasoio nella cintura di McBride. Il cavallo, un
bell'animale con un taglio profondo sul muso, all'improvviso cedette e
giacque con le zampe piegate sotto di sé, lasciando cadere la testa nel
fango.
McBride smontò dall'animale, dicendo: «Ci si può credere? Questo
dannato cavallo è sopravvissuto a tutto questo e adesso non riesce nem-
meno a portarmi».
McBride tirò fuori la pistola e sparò alla testa del cavallo. Lui rotolò
delicatamente, giacque su un fianco senza nemmeno tirare un ultimo
sospiro. McBride si girò di nuovo verso Jack. Aveva la pistola in mano.
Disse: «Se non avesse sparato, avrei dovuto abbattere quel cavallo con
un'asse. Non credo nella sofferenza degli animali. La pistola è stata
sott'acqua, e ha funzionato due volte su tre. Riesci a crederci?»
«Il cavallo sarebbe stato bene», disse Jack.
«No, non è vero», rispose McBride. «Perché non lo scuoti per vedere se
rinviene?» McBride spinse la pistola nella cintura dei pantaloni. «E cosa
mi dici di noi due? Vuoi che finiamo quello che abbiamo interrotto?»
«Devi aver voglia di scherzare», rispose Jack.
«Mi hai sentito ridere?»
«Non so tu, picchio, ma io mi sento come se fossi stato travolto da un
ciclone, e poi avessi nuotato per qualche miglio con i guantoni, e poi
avessi passato la notte su una casa su un albero e avessi fatto colazione con
tre biscotti e Dr. Pepper.»
«Io non ho nemmeno fatto colazione, negro. Ascolta. Non posso tornare
a casa senza sapere se te le posso dare o no. Diavolo, potrei anche non
riuscire nemmeno ad andare a casa. Voglio sapere se te le posso dare. E
anche tu.»
«Sì. Lo voglio. Ma non voglio lottare con una pistola e un rasoio.»
McBride tolse la pistola e il rasoio dai pantaloni, trovò un posto asciutto
e ve li mise. Disse: «Vieni».
«Dove?»
«C'è solo questo posto.»
Jack si girò a dare un'occhiata. Vide una leggera salita dietro le macerie.
C'era stata una casa. Uno dei pilastri di supporto era ancora visibile.
«Laggiù», disse Jack.
Vi si recarono e trovarono un angolo che aveva circa le dimensioni di un
ring. Sotto di loro, da ogni lato, c'erano mucchi di corpi e sopra questi
volavano i gabbiani, alla ricerca di carne fresca e di occhi. McBride studiò
i cadaveri, quello che era rimasto di Galveston, si girò verso Jack e disse:
«Al diavolo le regole».
Si buttarono l'uno addosso all'altro, a pugni nudi. Dopo pochi istanti fu
subito evidente che erano entrambi esausti. Si colpivano a casaccio, non
tiravano pugni, e il rumore dei colpi si mischiava alle grida dei gabbiani.
McBride infilò la testa sotto il mento di Jack, e glielo alzò. Jack bloccò il
collo di McBride, e gli diede una ginocchiata all'inguine.
Si rotolarono sul terreno e nel fango, poi si divisero. Si rimisero in piedi
e ricominciarono a combattere. Poi il rumore dei loro colpi e delle grida
dei gabbiani vennero superati da un grido così unico e selvaggio, che
smisero di picchiarsi.
«Fermo», disse Jack.
«Cosa diavolo è?» chiese McBride.
Si diressero verso il punto da cui proveniva il grido, appoggiandosi al
grande pilastro di supporto. Una volta qua c'era stata una casa, e adesso
c'era solo questo. McBride disse: «Non so tu, negro, ma io sono stanco».
Di nuovo ci furono delle grida. Sopra di lui. Lui guardò in su. Vicino
alla cima del pilastro era inchiodato un bambino. Il suo braccio sollevato e
inchiodato era coperto di sangue secco. I gabbiani gli svolazzavano vicino
alla testa, facendo una specie di alone.
«Che sia dannato», disse Jack. «Sollevami McBride.»
«Cosa?»
«Sollevami».
«Stai scherzando?»
Jack sollevò la gamba. McBride sospirò, con le mani unite fece una
staffa, e Jack si sollevò, si afferrò al pilastro e dolorosamente si fece strada
verso l'alto. Sotto di lui, McBride raccoglieva i rifiuti e li gettava ai
gabbiani.
«Colpirai il bambino, stupido», disse Jack.
Quando arrivò su, Jack scoprì che il chiodo sporgeva dal polso del
bambino di due o tre centimetri. Strinse il pilastro con la forza delle
gambe, si tenne con un braccio mentre con l'altro cercava di togliere il
chiodo con le dita. Non si mollava.
«Non riesco a toglierlo», urlò Jack in direzione di McBride. Stava per
cadere, le braccia e le gambe gli si erano trasformate in burro.
«Tieni duro», gli disse McBride e si allontanò.
Sembrò che passasse un'eternità prima del suo ritorno. Aveva con lui il
revolver. Guardò in su verso Jack e il bambino. Li guardò per un lungo
momento. Jack lo guardò, non si mosse. McBride disse: «Ascolta, negro.
Prendi questo, usalo per tirar fuori il chiodo».
McBride tolse le cartucce che erano rimaste nel caricatore e gettò il
revolver su. Jack lo prese al terzo tentativo. Usò la sicurezza per liberare il
chiodo, ma più che altro riuscì a far polpette del polso del bambino. Il
bambino aveva smesso di piangere. Stava facendo una specie di suono
lamentoso come di una capra morente.
Il chiodo si allentò, e Jack per un pelo rischiò di non afferrare il bambino
in tempo, e quando lo fece, gli afferrò il braccio che era stato inchiodato e
sentì che la spalla gli usciva di posto. Si stava indebolendo, e sapeva che
stava per cadere.
«McBride», disse. «Prendi.»
Il bambino cadde insieme alla pistola. McBride si allungò e afferrò il
bambino. Lui strillò quando lo afferrò, e McBride lo sollevò sopra la testa
e rise. Posò il bambino su una grossa pila di legno e lo guardò.
Jack era arrivato a metà strada sul pilastro quando cadde, atterrando
sulla schiena, buttando fuori l'aria che gli era rimasta. Quando si rimise
insieme abbastanza da alzarsi, trovare il revolver, vacillare fino da
McBride, lui aveva risistemato la spalla del bambino e gli stava facendo
dei versetti.
Jack disse: «Non ce la farà. Ha perso un sacco di sangue».
McBride si alzò con il bambino in spalla. Disse: «No. È duro come un
cinghiale. Il peggio che gli rimarrà sarà una cicatrice. Elastico com'è non
ne avrà nessun danno reale. E non ha poi nemmeno sanguinato così tanto.
Se si mette in pancia un po' di latte, tra sedici, diciassette anni, andrà a
caccia di gonnelle. Naturalmente, la cosa migliore da fare sarebbe venirlo a
cercare quando avrà due anni e ucciderlo. Crescerà per diventare un uomo
come noi.»
McBride tenne il bambino a braccia tese e lo guardò. Il pene del piccolo
si alzò e il bambino gli pisciò addosso. McBride fece una risata fragorosa.
«Bene, merda, negro. Immagino che oggi non sia la mia giornata, e non
è nemmeno il giorno in cui noi due scopriremo chi è il migliore. Qua. Non
conosco nessuno qua. Tieni.»
Jack prese il bambino, diede a McBride la pistola e disse: «Non so
nemmeno io se c'è ancora qualcuno che conosco».
«Lasciati dire che sei un negro fortunato», disse McBride. «Rinuncio a
darti una battuta, magari a ucciderti.»
«Va bene?»
«Uh. Qualcuno deve portare questo bimbo in salvo, se rimanesse qua tra
un'ora mi sarei stancato di lui e gli metterei la testa sott'acqua.»
«Lo faresti, vero?»
«Potrei. E sai, sei un pazzo a ridarmi la pistola.»
«No. L'ho rotta mentre liberavo quel chiodo.»
McBride rise, gettò la pistola nel fango, si schermò gli occhi e guardò il
cielo. «Non ci crederai ma sembra che sarà una bella giornata.»
Jack annuì. Il bambino gli succhiava la spalla. Decise che McBride
aveva ragione. Questo bambino era un duro. Gli stava accovacciato ad-
dosso come se niente fosse successo, cercando di prendere il latte. Jack si
chiese chi fossero i familiari del bambino. Poi si chiese cosa fosse
successo alla sua famiglia. Dov'erano? Erano vivi?
McBride rise e disse: «Negro, hai un diavolo di uppercut». Poi si girò e
si allontanò.
Jack diede un colpetto sulla schiena del bambino, guardò McBride che
trovava il suo rasoio e si allontanava. Lo guardò scomparire dietro un
ammasso di legname e di corpi, e non lo vide mai più.

1910-1919
Dovessi morire prima di svegliarmi
di David Morrell

Il Signore ha costruito Gerusalemme; e ha riunito i ripudiati di Israele.


Ha curato coloro a cui è stato spezzato il cuore; e ha dato loro medicine
per guarire la malattia.
Ha detto quante erano le stelle, e le ha chiamate tutte per nome.
Il libro delle preghiere comuni.

Non era stato il primo caso, ma il primo caso per il dottor Jonas
Bingaman, anche se non se ne era reso conto fino a due giorni più tardi. Il
paziente, un ragazzo con le lentiggini e i capelli rossi, giaceva esausto
sotto le coperte del suo letto. Bingaman, che quando la mamma in ansia
del ragazzo aveva telefonato stava per lasciare lo studio, si fermò
sull'ingresso della piccola camera da letto e si rese immediatamente conto
che il ragazzo aveva la febbre. Non si trattava solo del fatto che Joey
Carter, che il dottore aveva messo al mondo dieci anni prima, era rosso in
faccia. Dopo tutto, l'estate del 1918 era stata estremamente calda, e anche
adesso, alla fine di agosto, il dottore stava trattando casi di scottature. No,
quello che gli aveva fatto concludere così rapidamente che il ragazzo
aveva la febbre era che, nonostante facesse ancora caldo, Joey aveva i
brividi sotto le lenzuola e due coperte.
«È così sin da quando è arrivato a casa prima di cena», disse la madre di
Joey, Rebecca. Una donna sottile e insignificante di circa trentacinque anni
aveva preceduto il dottore nella stanza e gli aveva fatto cenno di seguirla
con urgenza. «Ho trovato il suo costume da bagno bagnato. È andato a
nuotare.»
«Nel torrente. Lo avevo avvertito del pericolo», disse il padre di Joey,
Edward. L'uomo allampanato, il miglior falegname di Elmdale, indossava
ancora la tuta e le scarpe da lavoro e aveva tracce di segatura negli spessi
capelli scuri. «Gli avevo detto di starci alla larga».
«Nel torrente?» Bingaman si girò verso Edward che aspettava ansioso
nel corridoio.
«L'acqua non è buona. Ti fa stare male. Lo so perché il ragazzo di Bill
Kendrick l'estate scorsa è stato male dopo esserci andato a nuotare. Ha
respirato sotto e ha ingoiato dell'acqua. Ha vomitato per tutta la notte.
Avevo avvertito Joey di non avvicinarsi, ma lui non mi ha ascoltato.»
«Il torrente che attraversa la fattoria dei Larrabee?»
«Sì, quello. Il bestiame sporca l'acqua. I loro escrementi seguono la cor-
rente e finiscono nel punto in cui si va a nuotare.»
«Sì. Mi ricordo che il ragazzo di Bill Kendrick è stato male per l'acqua
l'estate scorsa», disse Bingaman. «Ha vomitato Joey?»
«No.» La voce di Rebecca era tirata.
«Sarà meglio che gli dia un'occhiata.»
Mentre Bingaman attraversava la stanza si accorse che in un angolo c'era
una mazza da baseball. Appeso sul letto c'era un modello in balsa di uno
dei biplani Curtiss che l'American Expeditionary Force stava usando
contro i tedeschi, attaccato al soffitto con una corda.
«Non ti senti bene, Joey?»
Era evidente che al ragazzo ci volle un enorme sforzo per fare cenno di
no con la testa. Le palpebre erano appena socchiuse. Tossì.
«Hai nuotato nel torrente?»
Joey aveva problemi a fare cenno di sì. «Avrei dovuto ascoltare papà»,
mormorò con voce rauca.
«La prossima volta saprai qual è la cosa giusta da fare. Ma per adesso,
voglio che tu ti concentri sullo stare meglio. Adesso ti visiterò, Joey.
Cercherò di essere il più gentile possibile.»
Bingaman aprì la borsa nera e si sporse su Joey, e sentì il calore che spri-
gionava dal ragazzo. Suo padre e sua madre fecero un passo avanti,
guardando con attenzione. La tosse di Joey si fece più profonda.
Dieci minuti più tardi, Bingaman rimise lo stetoscopio nella borsa e si
drizzò.
«È di questo che si tratta?» chiese velocemente Edward. «Dell'acqua cat-
tiva che arriva dalla fattoria dei Larrabee?»
Bingaman esitò. «Perché non andiamo a parlare da qualche parte e
lasciamo riposare Joey?»

Dabbasso, i piatti ancora pieni di patate, carote e costine di maiale si sta-


vano raffreddando nelle pentole e nelle padelle sulla cucina.
«Ma di cosa pensa si tratti?» chiese Rebecca nel momento in cui si
sedettero al tavolo della cucina.
«Quanto è seria la cosa?» chiese Edward.
«Ha la febbre a trentanove. Ha le ghiandole gonfie. E ha i polmoni
congestionati.»
«Mio Dio, non crede che si possa trattare di difterite causata
dall'acqua?» L'ansia di Rebecca si stava trasformando in una specie di
panico.
Edward fissò il pavimento e scosse la testa. «Mi fa paura questa cosa.»
«No, non penso che si tratti di difterite», disse Bingaman.
Il papà di Joey alzò lo sguardo, speranzoso.
«Alcuni dei sintomi sono quelli della difterite. Ma la difterite presenta
delle lesioni bluastre che hanno la consistenza del cuoio. Le lesioni sono
circondate da infiammazione e sono visibili vicino alle tonsille e alle
narici.»
«Ma Joey...»
«Non ha queste lesioni», disse Bingaman. «Penso che Joey possa avere
la bronchite.»
«La bronchite?»
«Ne saprò di più quando lo vedrò di nuovo domani. Nel frattempo, cure-
remo i sintomi. Dategli metà dose di aspirina ogni sei ore. Fategli delle
spugnature con l'alcol. Aiuteranno entrambi ad abbassare la febbre.
Quando il pigiama e le lenzuola sono umidi di sudore, cambiateglieli.
Tenetegli la finestra aperta. L'aria fresca aiuterà a scacciargli i germi dal
torace.»
«E?» chiese il padre di Joey.
Bingaman non capì.
«È tutto qua? È tutto quello che potete fare?»
«Sì, oltre ad assicurarvi che beva molta acqua.»
«Se riesce a tenerla giù. È l'acqua che lo ha messo nei guai.»
«Forse. Joey vi ha detto se qualcuno degli altri ragazzi è andato a
nuotare con lui?»
«Sì. Pete Williams. Ben Slocum.»
Bingaman annuì. Non solo li conosceva, li aveva messi al mondo tutti,
proprio come aveva fatto con Joey. «Misurate la febbre a Joey ogni due
ore. Telefonatemi se aumenta o se compare qualche altro sintomo.»

«Signora Williams, sono il dottor Bingaman. Vi potrà sembrare strano,


ma mi stavo chiedendo se suo figlio Pete sta bene. Non ha febbre?
Neppure le ghiandole gonfie? Nessuna congestione?»
Fece un'altra telefonata.
«Niente del genere, signora Slocum? Suo figlio sta bene? Bene. Grazie.
Mi saluti suo marito. Perché ho telefonato per chiedere? Solo un controllo
casuale. Sa che mi piace controllare che gli studenti di Elmdale stiano bene
prima dell'inizio della scuola. Buona notte. Grazie di nuovo.»
Bingaman posò l'auricolare vicino al telefono di legno appeso alla parete
nel corridoio principale di casa sua. Preoccupato, spense la luce centrale e
si appoggiò al muro, scrutando fuori della porta a vetri dell'ingresso. La
luce del tramonto si stava affievolendo. Nel cortile le lucciole iniziavano a
brillare. Un'automobile modello T passò sferragliando. In un porticato
dall'altra parte della strada, illuminato da un riverbero di luce proveniente
dalla finestra del soggiorno, Harry Webster stava seduto nella sua sedia a
dondolo, a fumarsi la pipa.
«Jonas, cosa c'è che non va?»
Bingaman si voltò verso sua moglie, Marion, di cui, alla penombra
dell'ingresso, vide il profilo ampio delle spalle che si avvicinavano. Figlia
di un immigrato tedesco, una origine che aveva smesso di ricordare, vista
la guerra in corso in Europa, Marion era stata allevata in una fattoria che si
trovava a nord nello stato di New York, prima di fare un corso per
infermiere, e il suo aspetto robusto era uno dei motivi per cui inizialmente
Bingaman era stato attratto da lei. Venticinque anni fa. Adesso, a
cinquantadue anni, era robusta come sempre, e lui l'amava più che mai. È
vero che i capelli color del miele che lui amava accarezzare adesso
avevano acquistato delle striature d'argento. Ma, comunque, anche i suoi
capelli non solo erano diventati argentei, ma si erano fatti radi fino a farlo
diventare quasi calvo. Marion lo definiva «distinto».
«Che cosa non va?» le fece eco Bingaman. «Non sono sicuro che ci sia
qualcosa che non va.»
«Sei pensieroso da quando sei tornato a casa per la cena, dopo aver
visitato Joey Carter.»
«È un problema su cui sto rimuginando. Sembra che Joey abbia la bron-
chite. Suo padre pensa che se la sia presa nuotando in acque infette questo
pomeriggio. Ma ci vogliono parecchi giorni perché la bronchite si
manifesti, e nessuno dei ragazzi con cui Joey è andato a nuotare è malato.»
«A cosa stai pensando?»
«Di qualsiasi cosa si tratti, Joey deve essersela presa da qualche altra
parte. Ma di solito non vedo solo un caso di bronchite. Si diffonde. Quindi
dove l'ha presa se in città non l'ha nessun altro?»

Rebecca Carter si muoveva irrequieta vicino alla porta con la zanzariera


aperta, impaziente che il dottor Bingaman salisse i gradini d'ingresso ed
entrasse in casa. «Temevo che non sarei riuscita a mettermi in contatto con
lei.»
«In realtà, quando ha telefonato, stavo per mettermi in macchina per
venire qua. Stamani Joey era il primo paziente della mia lista.»
Sentendosi a disagio a causa del peso che di recente aveva messo su,
Bingaman iniziò a salire le scale per andare al primo piano, poi si fermò,
accigliato, quando sentì la tosse cavernosa che arrivava dalla camera da
letto che stava proprio in cima. «Joey ha avuto questa tosse per tutta la
notte?»
«Non così brutta.» La faccia di Rebecca era stravolta per la mancanza di
sonno. «Così è iniziata appena prima dell'alba. Gli ho dato aspirina e fatto
spugnature come mi ha detto lei, ma non sembra che gli faccia alcun
bene.»
Il dottore si affrettò su per le scale, allarmato per quello che vide
entrando nella stanza. Joey sotto le coperte sembrava più piccolo. Aveva il
viso molto più rosso, e aveva anche un colorito bluastro intorno alle
labbra. Il torace si gonfiava, come se tossisse anche quando non lo stava
facendo.
Bingaman si mise al lavoro di gran fretta, togliendo i suoi strumenti
dalla borsa; si accorse che la temperatura di Joey era arrivata a quaranta,
che i suoi polmoni sembravano più congestionati e che la gola era
infiammata, le ghiandole più gonfie, e che il ragazzo non aveva nemmeno
l'energia per rispondere alle domande. Il giorno prima la velocità del polso
e della respirazione di Joey erano state 85 e 20. Adesso erano 100 e 25.
«Mi spiace dirle questo, signora Carter.»
«Cosa c'è che non va?»
«Potrebbe essere polmonite.»
Rebecca Carter sussultò.
«So che preferirebbe tenerlo a casa», disse Bingaman, «ma penso che
per Joey adesso sarebbe meglio se lo portassimo all'ospedale.»
Rebecca sembrava pensare di aver perso la ragione, come se non fosse
possibile che stesse sentendo quello che il dottore le stava dicendo. «No.
Posso prendermi cura io di lui.»
«Sono sicuro che può farlo, ma adesso Joey ha bisogno di cure speciali
che non può avere qua.»
Rebecca sembrava più spaventata. «Come cosa?»
«Le spiegherò dopo che avrò telefonato all'ospedale per organizzare le
cose.» Sperando di averla distratta, Bingaman si affrettò al telefono a muro
vicino alla porta d'ingresso. Quello che non voleva dirle era che il colore
bluastro che Joey aveva intorno alla bocca era un indizio di cianosi; la
congestione nei polmoni del ragazzo impediva che circolasse abbastanza
ossigeno. Se a Joey non fosse stato dato ossigeno attraverso una bombola
in ospedale, avrebbe potuto soffocare a causa del liquido che aveva nei
polmoni.

«Certamente ha i sintomi della polmonite», disse il capo dello staff


medico dell'ospedale di Elmdale. Si chiamava Brian Powell, e la sua
costituzione nervosa contrastava con la circonferenza solenne di
Bingaman. I due medici erano amici da anni, e Powell, che era di turno al
pronto soccorso quando era stato ammesso Joey Carter, aveva poi invitato
Bingaman nel suo ufficio per una tazza di caffè. Bingaman non riusciva a
liberarsi la mente dal pianto della signora Carter.
«Ma se è polmonite, come ha fatto a prenderla?» Bingaman ignorò la
tazza con il caffè fumante che stava davanti a lui sulla scrivania. «Non hai
nessun paziente che presenti gli stessi sintomi?»
Powell scosse la testa. «Durante l'inverno questi sintomi non sarebbero
insoliti. Raffreddori e infezioni secondarie possono portare alla polmonite.
Ma durante l'estate? Me ne ricorderei di certo.»
«È solo che non ha alcun senso.» Bingaman sudava sotto la giacca del
vestito. «E perché Joey è l'unico?»

«No.» Rebecca Carter aspettava fuori della stanza di Joey sperando di


poter entrare. Aveva gli occhi rossi per le lacrime. «Non è successo niente.
È stata una estate normale. Abbiamo fatto quello che facciamo di solito.»
«E sarebbe?» chiese Bingaman.
Rebecca si sfregò un fazzoletto contro gli occhi. «Picnic. A Joey piace
giocare a baseball. Andiamo al parco, ed Edward gli insegna a lanciare. E
al cinema. A volte andiamo al cinema. A Joey piace Charlie Chaplin.»
«Tutto qua? Solo questo?»
«Solo un'estate normale. Io ho il mio club del cucito. Non abbiamo spes-
so la possibilità di fare le cose tutti insieme perché Edward lavora fino a
tardi nei cantieri, approfittando del bel tempo. Perché lo chiede? Joey non
si è ammalato a causa dell'acqua del torrente?»
«Riesce a pensare a qualsiasi altra cosa che Joey abbia fatto quest'estate?
Niente che sia anche minimamente insolito?»
«No. Mi dispiace, ma...»
Fu interrotta dal marito che arrivava correndo lungo il corridoio
dell'ospedale. «Rebecca.» La faccia color cuoio di Edward Carter era
lucida per il sudore. «Ho deciso di venire a casa a pranzo per vedere come
stava Joey. La vicina, la signora Wade, mi ha detto che eri venuta... Mio
Dio, dottore, cosa c'è che non va in Joey?»
«Sto ancora cercando di scoprirlo. Potrebbe essere polmonite.»
«Polmonite?»
La porta della stanza di Joey si aprì. Per un attimo, il gruppo ebbe una
rapida visione di Joey coperto dalle lenzuola in un letto di ferro, con una
maschera d'ossigeno sul viso. Poi uscì un'infermiera e chiuse la porta.
«Come sta?» la mamma di Joey non poté fare a meno di chiedere.
«Ha la testa leggera», le rispose la minuscola infermiera. «Continua a
dire di sentirsi come se fosse sulla ruota Ferris.»
«La ruota Ferris?» Bingaman scosse la testa confusa.
«Probabilmente si sta ricordando il parco dei divertimenti», disse il
padre di Joey.
«Parco dei divertimenti?»
«A Riverton. La settimana scorsa. Sono andato a prendere del legno spe-
ciale per un lavoro che sto facendo e Joey è venuto con me. Ha passato
un'ora al parco dei divertimenti. E la ruota Ferris gli è piaciuta davvero
molto.»

«Sì. Pazienti con la febbre, con le ghiandole ingrossate, e congestione»,


spiegò Bingaman, usando il telefono che era nello studio del dottor Powell.
«Con una diagnosi probabile di polmonite.» Stava parlando al primario
dell'ospedale di Riverton, a cinquanta miglia di distanza. «Niente?
Neanche un singolo caso? Bene... sto cercando di capire come mai uno dei
miei pazienti abbia questi sintomi. La settimana scorsa è stato a Riverton.
Pensavo che forse il parco dei divertimenti che avete lì... Se le viene in
mente qualcosa, le dispiace telefonarmi? Grazie.»
Bingaman riagganciò l'auricolare e si sfregò la nuca.
Durante la conversazione, Powell era rimasto seduto dietro la scrivania,
osservandolo. «Prenditela con calma. La polmonite può essere come il
polline nel vento. Probabilmente non capirai mai come ha fatto il ragazzo a
prendersi il malanno.»
Bingaman fissò fuori della finestra un passerotto sopra un olmo.
«Polline al vento?» Trasse un sospiro. «Sai come sono fatto. Non posso
farne a meno. Penso troppo. Non posso lasciare stare niente. A parte...»
«Sì?» Powell alzò le sopracciglia.
«A parte che in questo caso il mio paziente non sta migliorando per
niente.»

Marion lo guardava fissare il suo piatto. «Non ti piace l'arrosto?»


«Cosa?» Bingaman guardò in su. «Oh... mi dispiace. Immagino di non
essere troppo di compagnia stasera.»
«Sei ancora preoccupato?»
Sollevò un po' di purè con la forchetta. «Non mi piace sentirmi
impotente.»
«Non sei impotente. Questo pomeriggio hai fatto un sacco di bene ai pa-
zienti che sono venuti nel tuo studio.»
Senza assaggiare le patate, Bingaman appoggiò la forchetta. «Perché i
problemi che avevano erano facili da trattare. Posso dare due punti a un
taglio su un braccio. Posso prescrivere bicarbonato di sodio per uno sto-
maco in disordine. Posso prescrivere balsamo che riduce il prurito del-
l'avvelenamento da edera velenosa e che impedisce allo sfogo di
diffondersi. Ma a parte combattere i sintomi, non c'è assolutamente niente
che possiamo fare per combattere la polmonite. Abbiamo cercato di fare
abbassare la temperatura di Joey, di tenerlo idratato e di dargli l'ossigeno.
Dopodiché, è solo questione di sapere se il ragazzo è abbastanza forte da
combattere l'infezione. Non dipende da me. È nelle mani di Dio. E a volte
Dio può essere crudele.»
«La guerra di certo ce lo fa capire», disse Marion. Era americana, leale,
ma i suoi ascendenti tedeschi la rendevano cosciente in modo terribile che
brave persone morivano da entrambe le parti della linea Hindenburg.
«Tutte queste morti inutili per le ferite infette.» Bingaman batté la for-
chetta sul piatto. «In un certo senso, è come per l'infezione di Joey.
Signore, come vorrei essere ancora giovane. Essere ancora all'università.
Mi tengo aggiornato con le riviste specializzate, ma non posso fare a meno
di sentire che uso tecniche superate. Vorrei essermi dedicato alla ricerca.
Microbiologia. Darei qualsiasi cosa per essere in grado di colpire
un'infezione alla fonte. Forse un giorno qualcuno inventerà un farmaco che
individua i germi che portano l'infezione e li uccide.»
«Certo questo ti renderebbe il lavoro più facile... Ma nel frattempo...»
Bingaman annuì solennemente. «Facciamo quello che possiamo.»
«Stai lavorando troppo. Perché non fai qualcosa per te stesso? Va' nel
tuo studio. Prova quella radio senza fili che hai comprato.»
«Me ne ero quasi dimenticato.»
«Ma eri ben deciso quando hai passato la domenica pomeriggio a
installare l'antenna sul tetto.»
«E tu eri certamente decisa a informarmi che sarei caduto dal tetto e mi
sarei rotto l'osso del collo.» Bingaman ridacchiò. «Quella radio ti
sembrava un'idea geniale quando l'hai comprata. Una meraviglia del
ventesimo secolo.»
«Lo è ancora.»
«La possibilità di parlare con una persona in un altro stato. In un altro
paese. Senza fili. Poter sentire una nave in mare. O il rapporto da un
campo di battaglia.» Bingaman riprese contegno. «Bene, quella parte non è
meravigliosa. Il resto, comunque... Sì, credo, che stasera farò qualcosa per
me.»
Ma il telefono suonò mentre lui percorreva il corridoio per recarsi di so-
pra. Con fare stanco, staccò la cornetta e si sporse verso il microfono.
«Pronto.» Rimase in ascolto. «Oh.» Gli mancò la voce. «Oh.» Il suo
tono si fece più sobrio. «Arrivo.»
«Un'emergenza?» gli chiese Marion.
Bingaman sentì una pressione al torace. «Joey Carter è morto.»
Marion si fece pallida. «Santo cielo.»
«Con l'ossigeno pensavo che avesse una possibilità... Che cosa
terribile!» Si sentiva paralizzato e lottò per trovare la forza di alzarsi.
«Farò meglio ad andare a parlare con i suoi genitori.»
Ma dopo essersi messo la giacca del vestito e aver preso la sua borsa
nera, il telefono suonò di nuovo. Lui rispose, ascoltò, e quando riappoggiò
l'auricolare, si sentiva più vecchio e più stanco.
«Di cosa si tratta?» Marion gli toccò il braccio.
«Era di nuovo l'ospedale. Il padre di Joey è appena crollato sotto la feb-
bre: trentanove. Tossisce. Ha le ghiandole ingrossate. I due ragazzi con cui
Joey è andato a nuotare adesso hanno gli stessi sintomi. I loro genitori li
hanno appena portati al pronto soccorso.»

«Se si trattasse solo dei due amici di Joey direi che avrebbero potuto am-
malarsi per aver nuotato nel torrente dei Larrabee», disse Bingaman al
dottor Powell, che era tornato in ospedale in risposta alla convocazione
urgente da parte di Bingaman. Era mezzanotte. Erano seduti uno di fronte
all'altro nell'ufficio di Powell, alla luce fievole di una lampada da tavolo
che rendeva le loro facce giallastre. «Il guaio è che il papà di Joey non si è
avvicinato neanche lontanamente a quel torrente, e anche lui si è preso
l'infezione.»
«Stai ancora pensando a Riverton?»
«È l'unica risposta che ha senso. Joey probabilmente si è preso l'infezio-
ne alle attrazioni. Forse un lavoratore gli ha starnutito addosso, oppure si è
trattato di un passeggero sulla ruota Ferris. Comunque sia successo, poi ha
trasmesso l'infezione a suo padre e ai suoi due amici. Hanno mostrato i sin-
tomi un giorno dopo di lui, perché sono stati infettati più tardi di Joey.»
«Infettati da Joey. È logico, a parte per una cosa.»
«Cioè?»
«Perché la mamma di Joey...?»
Qualcuno bussò alla porta. Senza aspettare una risposta, una infermiera
corse dentro. «Mi spiace disturbarla, ma la signora Carter è appena crollata
sotto gli stessi sintomi di suo figlio e di suo marito.»
Entrambi i dottori si alzarono.
«Dovremo prendere precauzioni per il contagio», disse Bingaman,
seguendo l'infermiera fuori dalla stanza.
«Sì.» Powell si affrettò ad avvicinargli. «Niente visite. Garze di prote-
zione obbligatorie per il personale medico, e per chiunque entri in quelle
stanze. Il pronto soccorso dovrebbe essere disinfettato.»
«Bene», disse Bingaman. «E la stanza in cui è morto Joey. Le infermiere
che lo hanno accudito dovrebbero disinfettarsi bene e mettersi delle divise
pulite in caso siano state contaminate.»
«Ma non sappiamo ancora come trattare quest'infezione, a parte i rimedi
che abbiamo già provato.»
«E quelle non hanno funzionato». Bingaman sentiva un peso allo
stomaco.
«Se la tua teoria sull'inizio dell'infezione è giusta, perché non ci sono
stati casi a Riverton?» chiese Powell.
«Non lo so. In effetti non c'è quasi niente che io sappia. Quando avremo
i risultati dell'autopsia di Joey?»

***

L'uomo con le spalle ricurve si tolse i guanti di gomma, li fece cadere


nell'apposito cesto, si tolse la maschera e si appoggiò a un armadietto. Si
chiamava Peter Gingrich. Un chirurgo, faceva anche il medico patologo a
Elmsdale. Guardò prima Bingaman poi Powell e disse: «I polmoni erano
completamente pieni di liquido. Sarebbe stato impossibile per il ragazzo
respirare.»
«Sarebbe stato possibile un accumulo di liquido susseguente alla
morte?» chiese Bingaman.
«Cosa stai suggerendo?»
«Una causa diversa per la morte. Hai esaminato il cervello?»
«Naturalmente.»
«Non c'era nessun segno di...?»
«Cos'hai in mente esattamente?»
«La causa della morte sarebbe potuta essere qualcosa di altamente conta-
gioso come la meningite?»
«No. Nessun segno di meningite. Quello che ha ucciso il ragazzo gli ha
attaccato i polmoni.»
«Polmonite», disse Powell. «Non c'è motivo di scartare la diagnosi
iniziale.»
«A parte il fatto che la polmonite normalmente non si diffonde così rapi-
damente.»
«Non si diffonde così rapidamente? Ci sono altri casi?»
«Quattro da quando è morto il ragazzo.»
«Santo Cielo.»
«Lo so, sembra l'inizio di un'epidemia.»
«Ma causata da cosa?» chiese Bingaman.
«Cercherò di scoprirlo», disse Gingrich. «Ho campioni di tessuto pronti
per essere analizzati. Farò del mio meglio per identificare il
microrganismo responsabile. Cos'altro possiamo...»
Bingaman iniziò a dirigersi verso la porta. «Penso che sia ora di fare
un'altra telefonata all'ospedale di Riverton.»

Il sangue scompariva dalla faccia di Bingaman mentre ascoltava il


dottore responsabile del pronto soccorso dell'ospedale di Riverton. «Ma ho
chiesto al primario di mettersi in contatto con me se fossero stati segnalati
dei casi.» Che sia maledetto, pensò Bingaman. «Troppo occupato? Non
aveva tempo? Sì. E temo che ben presto tutti noi saremo molto più
occupati.»
Mentre si girava dall'altra parte, fu colpito dall'espressione piena di ap-
prensione sulla faccia di Powell.
Quanti casi hanno?»
«Dodici», rispose Bingaman.
«Dodici?»
«Si sono tutti presentati nelle ultime ore. Due pazienti sono morti.»

Bingaman parcheggiò la sua modello T nel vialetto di casa e spense le


luci. Erano passate le tre del mattino e lui sperava che i rumori e lo
sferragliare della macchina non svegliasse sua moglie, ma vide una pallida
luce gialla apparire alla finestra della sua camera da letto e scosse il capo,
scoraggiato, desiderando di possedere ancora un cavallo e un calesse.
L'aria era impregnata dello strano odore causato dai tubi di scarico della
vettura. Troppe invenzioni. Troppe complicazioni. C'è, pensò, comunque
un'invenzione che desidererei, un farmaco che elimini i microbi delle
infezioni.
Con le gambe che protestavano, uscì dalla macchina. Marion gli aveva
aperto la porta d'ingresso, mentre lui saliva le scale che portavano al
portico.
«Hai un aspetto orribile.» Gli prese la borsa e gli posò un braccio sulle
spalle, guidandolo in casa.
«È stata una notte di quelle.» Bingaman le spiegò quello che era
successo in ospedale, i nuovi pazienti che aveva visitato, e i trattamenti che
aveva loro prescritto. «Oltre all'aspirina, stiamo usando il chinino per
controllare la febbre. Sfreghiamo i toraci dei pazienti con olio canforato e
li facciamo respirare attraverso strisce di tessuto inzuppato, per cercare di
tenergli aperti i passaggi bronchiali.»
«Funziona?»
«Non lo sappiamo ancora. Sono così stanco che faccio fatica a pensare
lucidamente.»
«Lascia che ti metta a letto.»
«Marion...»
«Cosa?»
«Non so come dirlo.»
«Vai avanti e dillo.»
«Se questa malattia è contagiosa come sembra...»
«Dillo.»
«Sono stato esposto al contagio. Forse dovresti starmi lontana. Forse non
dovremmo dormire nello stesso letto.»
«Dopo venticinque anni? Non intendo smettere di dormire con te
adesso.»
«Ti amo.»

Il paziente, Robert Wilson, era un falegname di quarantadue anni con gli


occhi azzurri, che lavorava con Edward Carter. L'uomo aveva le giunture
gonfie e i polmoni congestionati. Si lamentava del mal di testa e di avere i
muscoli doloranti. Aveva la temperatura a 39,5.
«Temo di doverla mandare all'ospedale», disse Bingaman.
«Ospedale?» Wilson tossì.
Bingaman fece un passo indietro.
«Ma non posso permettermi di stare a casa dal lavoro», disse il
falegname dalla robusta corporatura. «Non mi può semplicemente dare una
pastiglia o qualcosa del genere?»
Come se non lo volessi, pensò Bingaman, ma disse: «Non in questo
caso».
Wilson si portò una mano alla bocca e tossì di nuovo. I suoi occhi
azzurri erano vitrei. «Ma che cos'ho?»
«Ho bisogno di farle degli altri esami in ospedale», gli rispose
Bingaman, che col tono professionale cercava di nascondere la verità: la
cosa che aveva ucciso Joey Carter, qualunque cosa essa fosse.

E che aveva ucciso suo padre, apprese Bingaman quando arrivò all'ospe-
dale dopo avere finito il suo giro di visite mattutino. Neanche la mamma di
Joey e i due amici del ragazzo se la stavano passando troppo bene,
lottavano per respirare nonostante gli fosse stato dato l'ossigeno. Ed erano
stati portati in ospedale altri otto casi.
«Stiamo ancora agendo sul presupposto che si tratti di polmonite», disse
Powell, mentre si metteva la maschera e si preparava a entrare nel reparto
in quarantena.
«Stanno facendo effetto il chinino e la canfora?»
«Solo marginalmente. Alcuni pazienti si sentono meglio per un po'. La
temperatura scende per un po'. Per esempio a Rebecca Carter la febbre è
scesa da quaranta a trentanove. Pensavamo di fare progressi, ma la
temperatura si è alzata di nuovo. Alcuni pazienti sarebbero morti senza
ossigeno, ma non so quanto durerà la nostra scorta. Ne ho ordinato altro,
ma il nostro distributore ad Albany sta esaurendo le scorte.»
Conscio di quanto gli tirasse la maschera sul viso, Bingaman controllava
il reparto in quarantena in cui le infermiere, sotto organico e stremate,
facevano del loro meglio per occuparsi dei pazienti, tra il sibilare delle
bombole di ossigeno e i colpi di tosse. In un angolo, una tenda era stata
tirata attorno a un letto.
«Alcuni dei pazienti tossiscono sangue», disse Powell.
«Cos'hai appena detto?»
«Sangue. Sono...»
«Prima di quello. Che il nostro distributore ad Albany sta per rimanere
senza scorte di ossigeno?»
«Sì.»
«Perché?»
«Il loro telegramma non lo diceva.»
«Si potrebbe trattare del fatto che ci sono troppi altri posti che ne hanno
bisogno?»
«A che cosa stai pensando?»
«Le attrazioni sono arrivate a Riverton da qualche altra destinazione.
Dopo Riverton sono andate da qualche altra parte.»
«Jonas, non stai suggerendo...»
«Pensi che tutta questa parte dello stato sia infettata?»

«Mi spiace», disse l'operatore. «Non riesco ad arrivare al centralino di


Albany. Tutte le linee sono occupate.»
«Tutte?»
«È la capitale dello stato. Ci sono tanti affari diretti là. Se tutti cercano di
contattare l'operatore allo stesso momento...»
«Provi Riverton. Provi l'ospedale di là.»
«Solo un attimo... Mi dispiace signore. Non riesco a mettermi in contatto
nemmeno con quell'operatore. Le linee sono occupate.»
Bingaman diede all'operatore i nomi di tre altre città importanti della
zona, ma lui non riuscì a mettersi in contatto con i suoi colleghi di quei
distretti. Tutte le linee erano occupate.
«Qui non si tratta più della capitale dello stato», disse Bingaman. «Cosa
succede perché vengano fatte così tante telefonate allo stesso tempo?»
«Non ne ho davvero idea, signore.»
«Bene, non può interrompere e ascoltare?»
«Solo le telefonate locali. Come le ho spiegato, non ho l'accesso ai
centralini degli altri operatori. Inoltre non mi è permesso spiare a meno
che si tratti di un'emergenza.»
«Si tratta di questo.»
«Un'emergenza?» L'operatore tossì. «Che specie di emergenza?»
Bingaman riuscì a controllarsi prima di parlare. Se non sto attento,
pensò, creerò il panico.
«Proverò ancora più tardi.»
Riappese l'auricolare. La testa iniziava a fargli male.
«Nessuna fortuna?» gli chiese Powell.
«È tutto così dannatamente frustrante.»
«Ma anche se scopriamo che questa parte dello stato è infetta, questo co-
munque non ci aiuterà a combattere quello che ci troviamo per le mani.»
«Potrebbe, se sapessimo contro cosa stiamo combattendo.» Bingaman si
sfregò le tempie che gli pulsavano. «Se solo ci fosse un modo per mettersi
in contatto con...» Fu attraversato da un formicolio. «C'è un modo.»

La radio senza fili stava sulla scrivania nello studio di Bingaman. Era
nera, era larga sessanta centimetri e alta e profonda quarantacinque.
C'erano parecchi quadranti e manopole, un codice dell'alfabeto Morse e un
microfono. Dal giorno in cui Marconi aveva trasmesso il primo messaggio
oltre oceano nel 1901, Bingaman era stato affascinato dal fenomeno. A
ogni nuovo sviluppo eccezionale nelle comunicazioni radio, il suo
interesse aveva continuato a crescere, finché, alla fine, incuriosito dal fatto
di poter eventualmente ricevere trasmissioni radio della guerra in Europa,
aveva celebrato il suo cinquantaduesimo compleanno in marzo comprando
l'apparecchio che aveva davanti. Si era preparato e aveva superato con
successo l'esame richiesto dal governo per poter diventare un operatore
radioamatore. Poi, avendo raggiunto il suo scopo, si era reso conto che le
esigenze del suo lavoro, per non parlare della mezza età, gli lasciavano
poca energia per rimanere alzato fino a tardi a parlare con altri
radioamatori nel paese.
Adesso, comunque, provava un'energia maggiore di quanto non avesse
provato da molti anni. Marion, che si era stupita di veder tornare a casa suo
marito a metà pomeriggio, e correre di sopra avendole a fatica detto:
«ciao», lo guardò togliersi la giacca, sedersi davanti alla radio e
accenderla. Quando gli chiese come mai si era preso un pomeriggio di
libertà, lui le chiese di stare tranquilla, per favore. Disse che aveva del
lavoro da fare.
Stare tranquilla? Pensò. Lavoro da fare? «Jonas, so che sei stato sottopo-
sto a un'enorme pressione, ma non è una buona ragione per...»
«Per favore.»
Marion sempre più stupita, rimase a guardare mentre lui girava
manopole e parlava con forza al microfono, identificandosi con il nome e
il numero di operatore che gli aveva dato il governo, cercando
ripetutamente di trovare qualcuno che gli rispondesse. Ci furono rumori di
energia statica. A volte Marion udiva un gemito elettronico. Si avvicinò di
qualche passo, sentendo la tensione di suo marito. Si sorprese quando udì
una voce provenire dalla radio.
Sollevato Bingaman rispose. «Sì, Harrisburg, ti sento.» Aveva sperato di
trovare qualcuno ad Albany o qualcun altro nello stato di New York, ma la
capitale della vicina Pennsylvania era abbastanza vicino, poteva essere
considerata un sostituto accettabile. Spiegò la ragione della sua chiamata,
la situazione in cui si trovava Elmdale, le informazioni di cui aveva
bisogno, e non poté reprimere un grugnito quando ricevette una risposta
impensabile, molto peggio di qualsiasi cosa avesse mai potuto temere.
«Quarantamila? No, non è possibile che abbia capito bene, Harrisburg. Per
favore ripetete. Passo.»
Ma quando l'operatore ad Harrisburg ripeté la sua risposta, Bingaman
continuava a non riuscire a crederci. «Quarantamila?»
Marion sussultò quando, solo per la terza volta da quando erano sposati,
lo sentì imprecare.
«Bontà divina, aiutaci.»

«Influenza spagnola», il tono di Bingaman era tetro, le sue parole una


sentenza di morte.
Powell sembrava allarmato.
Gingrich si piegò in avanti, carico di tensione. «Ne sei proprio sicuro?»
«Me lo hanno confermato per radio da due altre fonti diverse.»
Il gruppo che era stato riunito affrettatamente, e che consisteva anche
dell'altro medico di Elmdale, Douglas Kramer, e delle sei infermiere
dell'ospedale, sembrava enormemente abbattuto. Si trovavano nella stanza
più grande dell'ospedale non adibita al pubblico, l'area di riposo delle
infermiere, che bastava appena a ospitare tutti, mentre il calore dei loro
corpi aveva creato sulle sopracciglia di tutti loro una pellicola di sudore.
«Influenza spagnola», mormorò Powell, come se volesse mettere alla
prova le terribili parole, cercando di convincersi che le aveva udite
davvero.
«Spagnola... devo controllare nei miei libri di medicina», disse Kramer,
«ma per quanto mi ricordo l'ultima esplosione di influenza è stato nel...»
«Nel milleottocentottantanove», disse Bingaman. «Ho fatto una veloce
ricerca prima di venire in ospedale.»
«Circa trent'anni.» Gingrich scosse la testa. «Un periodo abbastanza lun-
go da lasciare sperare che non sarebbe tornata, che la malattia fosse
debellata per sempre.»
«L'esplosione prima di quella era stata nel 1847-48», disse Bingaman.
«In quel caso c'era stata una distanza di quarant'anni.»
«Resistente.»
«Influenza spagnola?» chiese una pallida infermiera. «Perché la chiama-
no così...? È arrivata dalla Spagna?»
«Non sanno da dove sia arrivata», rispose Bingaman. «Ma la
paragonano a un'esplosione che fece la sua comparsa nel 1647 e che era
arrivata dalla Spagna.»
«Da dove è venuta non ha importanza», disse Powell, alzandosi. «La do-
manda da farsi è, come ci comportiamo? Quarantamila?» Stupefatto si girò
verso Bingaman. «L'operatore radio con cui hai parlato lo ha confermato?
Quarantamila pazienti con l'influenza in Pennsylvania?»
«No. Non è giusto. Mi hai frainteso.»
Powell si rilassò. «Lo speravo anch'io. Quella cifra è quasi impossibile
da credere.»
«È molto peggio di così.»
«Peggio?»
«Non quarantamila pazienti con l'influenza. Quarantamila morti.»
Qualcuno trasse un profondo sospiro. Nella stanza non ci fu un
movimento.
«Morti», sussurrò un'infermiera.
«E questo solo in Pennsylvania. Le cifre di New York non sono
complete, ma sembra che ci siano duemila nuovi casi ogni giorno. Di
questi circa un centinaio muoiono.»
«Al giorno?»
«Una stima ottimista. Fino a ora potrebbero essere morti quindicimila
pazienti là.»
«Nello stato di New York.»
«No. Nella città di New York.»
«Ma questo va oltre ogni possibile immaginazione!» disse Gingrich.
«E c'è dell'altro.» Bingaman sentiva gli sguardi del gruppo posati su di
lui. «Gli operatori radio con cui sono stato in contatto hanno parlato con
altre parti del paese. L'influenza spagnola è esplosa anche a Philadelphia,
Boston, Chicago, Denver, San Francisco e...»
«Un'epidemia a pieno titolo», disse Kramer.
«Perché non ne abbiamo sentito parlare finora?» chiese un'infermiera.
«Esatto. Perché non siamo stati avvertiti?» Le guance di Powell erano
rosse. «Albany ci avrebbe dovuto avvertire! Ci hanno lasciati da soli,
senza protezione alcuna. Se ce lo avessero detto, avremmo potuto prendere
dei provvedimenti. Avremmo potuto fare scorta di provviste mediche.
Avremmo potuto... avremmo potuto...» Sembrò che le sue stesse parole lo
soffocassero.
«Vuoi sapere perché finora non ne abbiamo sentito parlare?» disse
Bingaman. «Perché il telefono e il telegrafo non sono efficienti. Quante
persone hanno il telefono a Elmdale? Un terzo della popolazione. Quanti
di questi fanno telefonate a lunga distanza? Molto pochi, a causa della
spesa. E chi chiamerebbero? Molti dei loro parenti vivono proprio qui, in
città. Il nostro giornale non è collegato alla Associated Press, quindi le
notizie che ci arrivano sono locali. Finché non ci sarà un sistema radio
nazionale e le notizie potranno viaggiare attraversando il paese in tempo
reale, ogni città è più isolata di quanto ci piaccia pensare. Ma per quanto
riguarda la ragione per cui le autorità di Albany non hanno informato le
comunità come quella di Elmdale dell'epidemia, bene, gli operatori con cui
ho parlato hanno una loro teoria, che le autorità non volessero informare
nessuno della malattia»
«Non volevano...?»
«Per evitare il diffondersi del panico. Non ci sono stati annunci pubblici.
I giornali non hanno stampato quasi niente sulla possibilità di
un'esplosione di influenza.»
«Ma questo è completamente irresponsabile.»
«L'idea sembrava essere quella di impedire che la gente perdesse il con-
trollo e scappasse in campagna. Ogni giorno evidentemente le autorità
speravano che il numero di nuovi casi sarebbe diminuito, e che il peggio
sarebbe passato. Quando le cose fossero tornate nella norma, l'ordine
sarebbe stato mantenuto.»
«Ma le cose non sono rientrate nella norma, vero?» chiese Gingrich.
«Per niente.»

Il commento di Gingrich echeggiò minacciosamente nella mente di


Bingaman mentre la riunione aveva termine e dottori e infermiere si
dirigevano nella parte aperta al pubblico dell'ospedale. Quello che il
personale medico doveva affrontare mentre ognuno riprendeva le proprie
mansioni era l'inizio del caos a Elmdale. Durante la mezz'ora di durata
della riunione, si erano presentati venti nuovi pazienti con quelli che
adesso il personale riconosceva come i sintomi dell'influenza: febbre alta,
muscoli doloranti, mal di testa feroci, problemi di visione, vertigini,
difficoltà di respirazione. La litania della tosse rendeva Bingaman
terribilmente conscio dell'aria che respirava. Di corsa afferrò la sua
maschera di garza. Aveva la visione mentale dei germi, che a migliaia si
riversavano nel pronto soccorso. L'immagine mentale era talmente potente
che Bingaman temette di avere le allucinazioni.
«Signora Brady», disse a una delle infermiere volontarie non addestrate
che si erano occupate del pronto soccorso mentre era in corso la riunione.
«La sua maschera. Si è dimenticata di mettersi la maschera. E anche tutti
questi nuovi pazienti hanno bisogno di maschere. Non possiamo
permettere che si tossiscano addosso l'un l'altro.»
E su di noi, pensò allarmato Bingaman.
La fine della normalità, il caos che si erano ritrovati addosso, non veniva
segnalato solamente dalla confusione dell'insolita attività o dall'aumento
drammatico dei nuovi pazienti. Quello che dava a Bingaman il senso della
portata potenziale di quell'incubo che si stava sviluppando era che
l'ospedale di Elmdale, che doveva provvedere alle necessità mediche
dell'intera contea, adesso aveva più pazienti di quanti ne potessero ospitare
i suoi trenta letti.
«Cosa faremo?» chiese con urgenza Powell. «Per adesso possiamo
mettere i pazienti su materassi e brande nei corridoi, ma, di questo passo,
faremo in fretta a finire questi spazi. Lo stesso vale per il mio ufficio e per
l'area di riposo delle infermiere.»
L'infermiera capo, Virginia Keel, coi capelli rosso tiziano, e notoria-
mente senza senso dell'umorismo, era appena tornata dall'essersi occupata
di un paziente. «Così non va. Dobbiamo organizzare una struttura
d'emergenza, un posto grande abbastanza per sistemare i nuovi arrivi.»
«La palestra delle scuole superiori», disse Bingaman.
L'infermiera capo e il primario lo guardarono come se avesse perso il
senno.
«Con la scuola che sta per iniziare, vuoi trasformare la palestra in un re-
parto di isolamento?» chiese stupito Powell.
«Chi ha parlato della scuola che inizia?»
Powell sembrava scioccato, ma cominciava a capire.
«Un terzo dei nostri pazienti sono bambini», disse Bingaman. «Al mo-
mento, non vedo nessuna ragione per non dedurre che ben presto
accoglieremo anche un numero maggiore di pazienti, e una gran parte
saranno bambini. Sarebbe da criminali permettere alla scuola di iniziare.
Questo non farebbe altro che dar divulgare più rapidamente l'infezione.
Dobbiamo chiedere alle autorità di posporre l'inizio della scuola di
parecchie settimane, finché non ci rendiamo conto della portata di quello
con cui abbiamo a che fare. Forse l'epidemia diminuirà di portata.»
«L'espressione sul tuo viso mi dice che non lo credi», disse Powell.
«Posticipare l'inizio della scuola?» Il sindaco Halloway, che era il capo
della commissione scolastica, sbatté le palpebre. «È assurdo. La scuola
deve aprire tra quattro giorni. S'immagina quello che dovrei subire da
genitori furiosi? Quelli che hanno il telefono non smetterebbero di
chiamarmi. E quelli che non ce l'hanno assedierebbero il mio ufficio
dall'esterno. Questi genitori vogliono che le loro vite tornino alla
normalità. Ne hanno avuto abbastanza di bambini che vanno in giro a
bighellonare per la città. Li vogliono vedere di nuovo davanti a una
lavagna, a imparare qualcosa.»
«A una settimana da oggi, se questa epidemia continua a diffondersi allo
stesso ritmo, quei genitori la imploreranno di chiudere la scuola», predisse
Bingaman.
«E quello sarà il momento di chiuderla», disse Halloway, sbattendo di
nuovo le palpebre. «Quando la gente che mi ha eletto mi dirà che vuole
quello.»
«Non mi sta ascoltando.» Bingaman pose entrambe le mani sulla
scrivania del sindaco. «La gente sta morendo. Deve prendere una
posizione su questo.»
Halloway smise di sbattere le palpebre. «Non mi posso permettere di
prendere una decisione affrettata.»
«Bene, ma prenda una decisione. Permetterà che la palestra delle scuole
superiori venga trasformata in un ospedale d'emergenza?»
«Dovrò consultare gli altri membri della commissione scolastica.»
«Bene», disse Bingaman con rabbia. «Mentre lei si consulta, io
sistemerò i letti nella palestra.»
«La situazione è davvero seria come dice lei?»
«Abbastanza seria da prendere in considerazione l'idea di chiudere tutti i
posti in cui la gente si riunisce: ristoranti, cinema, negozi, bar...»
«Chiudere il distretto commerciale?» Halloway spinse la testa indietro
con una tale foga che gli occhiali quasi gli caddero dal naso. «Chiudere
il...? Forse i bar. Continuo a ricevere lamentele dai gruppi religiosi su
quello che succede in quei posti. Il movimento proibizionista sta
diventando terribilmente potente. Ma i ristoranti e i negozi? Con tutto il
chiasso che farebbero i proprietari per gli affari che perderebbero.»
Halloway scoppiò a ridere. «A questo punto mi potrebbe anche chiedere di
chiudere le chiese.»
«Si potrebbe arrivare anche a questo.»
All'improvviso il sindaco smise di ridere.
Si preoccupa dell'effetto che l'epidemia potrebbe avere sugli affari, pen-
sava demoralizzato Bingaman mentre guidava la sua modello T sulle
strade ingannevolmente sonnolente di Elmdale dirigendosi all'ospedale.
Bene, c'è un'impresa del cui benessere il sindaco non si deve preoccupare:
quella di pompe funebri.
Quando Bingaman raggiunse l'area di parcheggio col fondo in ghiaia
dell'ospedale le sue premonizioni vennero confermate e fu allarmato al
trovarla piena di veicoli e di calessi, prova che c'erano nuovi pazienti. Fu
ancora più allarmato dall'espressione abbattuta di Powell, quando si
incontrarono nell'ingresso del rumoroso e affollato pronto soccorso.
«Altri diciotto casi», disse Powell. «Altre tre morti, tra cui la mamma di
Joey Carter.»
Per un attimo, Bingaman non riuscì a respirare. La testa, che gli doleva
senza tregua dal giorno prima, gli faceva anche più male. Il pronto
soccorso era incredibilmente caldo, e il sudore gli faceva attaccare addosso
la camicia ben inamidata sotto la giacca del vestito. Voleva sbottonarsi il
colletto che gli dava l'impressione di soffocarlo, ma sapeva che nella sua
posizione di autorità non si poteva permettere un atteggiamento così
informale in pubblico.
«Nessuno ha pensato ad avvertire Ballard e Standish?» riuscì a chiedere,
riferendosi ai due becchini di Elmdale.
Powell annuì, portando Bingaman in un angolo, lontano dalla
confusione del pronto soccorso. I suoi modi significavano che non voleva
farsi sentire. «Non hanno avuto bisogno di essere informati», sussurrò.
«Ognuno dei due è venuto, qui parecchie volte. Sto ancora cercando di
abituarmi a quello che mi ha detto Ballard.»
«Cioè?»
Powell abbassò la voce ancora di più. «Mi ha detto: 'Mio Dio, dove
andrò a trovare abbastanza personale? Dove vado a trovare abbastanza
bare?'»
«Non abbiamo più ossigeno.» Virginia Keel, la capo infermiera, si
fermò vicino a loro. «E abbiamo poche scorte di aspirina, chinino e olio
canforato.»
«Dobbiamo cercare di procurarci tutto quello che possiamo dalle farma-
cie in città», disse Powell.
«Prima che la gente si faccia prendere dal panico e inizi a fare incetta»,
avvertì Bingaman.
«Ma senza forniture mediche...»
«Cercate di dare ai pazienti molti liquidi», disse Bingaman
all'infermiera. «Fate del vostro meglio per nutrirli. Zuppe. Creme.
Qualsiasi cosa leggera e facile da digerire.»
«Ma non c'è nessuno che possa cucinare per i pazienti.»
«L'Organizzazione delle Donne», disse Powell. «Chiederemo a loro di
cucinare.»
«E di aiutare le infermiere», disse la Keel. «Nonostante le volontarie che
sono arrivate stamattina, ho un disperato bisogno di personale.»
«A chi altri possiamo chiedere di dare una mano?» Bingaman cercava
disperatamente di pensare. «Nessuno ha chiesto al dipartimento di polizia?
E cosa ne pensate dei vigili del fuoco volontari? E dei preti? Loro possono
spargere la parola tra i loro parrocchiani.»

Erano quasi le due del mattino quando Bingaman riuscì ad andare a


casa. Di nuovo spense i fari della sua Modello T. Di nuovo vide una
fievole luce gialla apparire alla finestra della sua camera da letto.
Nonostante la stanchezza riuscì a sorridere a Marion che gli era venuta
incontro sulla porta.
«Non puoi continuare a sfruttarti così», disse lei.
«Non ho alternative.»
«Hai mangiato?»
«Un panino mentre lavoravo. E ogni tanto una tazza di caffè.»
«Bene, adesso ti siederai a tavola. Scalderò il pollo e i dolci che ho fatto
per cena.»
«Non ho fame.»
«Non stai ascoltando quello che ho detto. Ti siederai a tavola.»
Bingaman rise. «Se insisti.»
«E domani verrò con te.. Avrei già dovuto farlo oggi.»
Lui si fece improvvisamente attento. «Marion, non sono sicuro...»
«Bene, lo sono io. Sono un'infermiera diplomata, e c'è bisogno di me.»
«Ma questo è diverso da quello che credi. Questo è...»
«Cosa?»
«Una delle infermiere è crollata oggi. Ha tutti i sintomi.»
«E le altre?»
«Sono sfinite, ma fino a ora, non si sono ammalate, grazie a Dio.»
«Allora le chance sono dalla mia parte.»
«No. Non voglio perderti, Marion.»
«Non posso rimanere barricata in casa. E tu? Guarda i rischi che stai cor-
rendo tu. Non voglio perderti nemmeno io. Ma se puoi correre tu dei rischi
allora posso farlo anch'io.»
Bingaman continuò a discutere con lei, ma sapeva che lei aveva ragione.
La città aveva bisogno d'aiuto, e nessuno dei due sarebbe stato in grado di
reggere la vergogna se non avessero adempiuto al loro obbligo morale.
Oggi aveva visto delle cose sorprendenti, persone sul cui aiuto lui aveva
contato, che gli avevano detto che era pazzo se pensava che avrebbero
rischiato la vita per aiutare dei pazienti con quella malattia; altri che non
erano mai andati in chiesa o partecipato alla vita della comunità che si
erano offerti di aiutare senza che gli venisse chiesto. Gli era venuta l'idea
che l'epidemia fosse il modo in cui Dio metteva alla prova quelli che non
morivano, per determinare chi era che valeva la pena di salvare.
L'idea si rafforzò dopo che ebbe mangiato il pollo e il dolce che Marion
gli aveva scaldato, il suo pranzo preferito, anche se lui lo aveva assaggiato
appena. Andò di sopra, ma invece di entrare in camera da letto, entrò nello
studio, si sedette stancamente alla scrivania, e accese la radio.
«Jonas?»
«Tra un attimo.»
Udendo i segnali di energia statica, girò le manopole e guardò i
quadranti. Periodicamente, parlava al microfono, identificandosi.
Alla fine contattò un altro operatore, questo a Boston, ma quando gli de-
scrisse quello che stava succedendo, i tremila nuovi casi giornalieri di
Boston, con un numero di morti così alto che i 291 carri funebri della città
erano costantemente indaffarati, Bingaman fu ancora tormentato dal
pensiero di Dio. Secondo l'operatore radio di Boston non c'era comunità
degli Stati Uniti che non fosse stata toccata. Da Minneapolis a New
Orleans, da Seattle a Miami, da nord a sud, da est a ovest e in qualunque
posto tra questi punti la gente moriva a una velocità da fare impazzire. In
Canada e in Messico, in Argentina e in Brasile, in Inghilterra e in Francia,
in Germania e in Russia, in Cina e in Giappone... Non si trattava di
un'epidemia ma di un malanno universale, pandemico. Non si trattava solo
degli Stati Uniti. Era dappertutto. Pieno di orrore, Bingaman pensò alla
peste bubbonica, conosciuta col nome di Morte Nera, che aveva colpito
l'Europa nel Medio Evo, ma quello che stava sentendo adesso era molto
più diffuso della Morte Nera, e se le cifre sulla mortalità che gli erano state
date erano accurate, il flagello in corso aveva un potenziale di letalità
molto maggiore. Cielo, e il freddo non era ancora arrivato! Cosa sarebbe
successo quando il freddo dell'inverno avrebbe aggravato i sintomi della
malattia? Bingaman ebbe un'immagine da incubo di milioni di cadaveri
congelati disseminati per il mondo senza che nessuno li seppellisse. Sì,
l'influenza spagnola era il modo in cui Dio metteva alla prova l'umanità,
per giudicare come reagivano i sopravvissuti, pensò. Poi un pensiero
ancora più atroce lo colpì, dandogli i brividi. O era possibile che si
trattasse della fine del mondo?

«Sembra che sia iniziata in Kansas», disse Bingaman al personale medi-


co. Avevano fissato una riunione ogni mattina alle otto, nell'area di riposo
delle infermiere dell'ospedale: per passare le informazioni e soffocare i
pettegolezzi. Dopo la riunione si dividevano per informare i volontari di
quello di cui avevano discusso.
«In Kansas?» Powell aggrottò le sopracciglia, confuso. «Avrei detto che
era iniziato in qualche località più esotica.»
«A Fort Riley», continuò Bingaman. La notte prima aveva dormito solo
due ore e stava combattendo per trovare energie. La testa gli pulsava.
«Quella struttura dell'esercito è una delle aree principali di addestramento
delle Forze Alleate. In marzo c'è stata una tempesta di sabbia di una
potenza inusitata.»
«Sabbia», disse Gingrich. «Avevo formulato una teoria secondo la quale
la polvere è il mezzo di trasporto principale della malattia a grandi
distanze.» Si girò verso le infermiere. «Dobbiamo prendere delle
precauzioni straordinarie. Chiudere tutte le finestre. Eliminare anche la
minima polvere.»
«Con questo caldo?» obiettò Virginia Keel. Come capo infermiera, non
perdeva mai l'occasione di dire quello che pensava, nemmeno a un dottore.
«E con la febbre dei pazienti? Non sarebbero in grado di sopportarlo.»
Gli occhi di Gingrich brillarono per la rabbia di essere stato
contraddetto.
Prima che si arrivasse a scambiarsi male parole, Bingaman li distrasse.
«Ci potrebbe essere anche un altro agente responsabile della trasmissione
iniziale. Ho parlato a un radioamatore in Kansas questa mattina presto, e
mi ha detto che la teoria al campo è che la tempesta di sabbia, che ha
trasformato il giorno nella notte per ben tre ore, ha lasciato non solo
parecchi centimetri di polvere su tutto il campo, ma anche ceneri di
concime bruciato.»
Le narici di Kramer vibrarono. «Concime bruciato?»
Bingaman annuì.«Mi rendo conto che è un argomento poco delicato.
Chiedo scusa alle signore. Ma con l'emergenza che ci troviamo ad
affrontare non ci possiamo permettere di fare i delicati. C'è un
considerevole reparto di cavalleria a Fort Riley. Migliaia di muli e di
cavalli. Si stima che quegli animali depositino novemila tonnellate di
concime a! mese, un evidente problema d'igiene che il comandante del
campo ha cercato di alleviare ordinando ai suoi uomini di bruciare gli
escrementi. Il fumo dei falò e poi le ceneri soffiate dalla tempesta di sabbia
apparentemente hanno diffuso i microbi dell'infezione per tutto il campo.
In seguito alla tempesta, talmente tanti soldati erano crollati sotto i sintomi
dell'influenza che l'ufficiale medico responsabile del campo temette che
avrebbero avuto bisogno di tutti i tremila letti dell'ospedale del forte. Per
fortuna l'esplosione diminuì dopo cinque settimane.»
«E poi?» Powell si accigliò. Sembrava avesse una premonizione di
quello che sarebbe venuto dopo.
«Dal forte due divisioni vennero mandate a raggiungere il resto delle no-
stre forze in Europa. L'influenza esplose sulle navi dell'esercito. Quando i
soldati arrivarono in Francia, la diffusero tra le nostre unità, quelle inglesi
e francesi. Presumibilmente anche ai tedeschi. Secondo le stime più recenti
la marina britannica da sola ha oltre diecimila casi di influenza.
Naturalmente anche la popolazione civile ne è stata colpita. Dopodiché la
malattia si è diffusa dall'Europa in Asia e in Africa e da ogni altra parte del
mondo, includendo, naturalmente, di nuovo l'America. Una teoria
alternativa sull'origine pandemica è che sia iniziata nelle fattorie della Cina
e che sia giunta in Francia con i portatori cinesi che gli alleati usavano per
scavare le trincee. Forse l'origine vera non sarà mai conosciuta.»
«Ma cosa si dice della mortalità?» chiese un'infermiera, che evidente-
mente aveva paura della risposta.
«In tre mesi, l'influenza ha ucciso più persone in Europa, tra soldati e
civili, di quanti non ne siano morti in operazioni militari in entrambi i
fronti, durante tutti e quattro gli anni di durata della guerra.»
Per parecchi istanti, il gruppo rimase senza parole.
«Ma stiamo parlando di milioni di morti», disse Virginia Keel.
«E molti altri milioni continueranno a soffrire per questa malattia.»
«Allora...»
«Sì?» Bingaman si girò verso un'infermiera che era visibilmente
preoccupata.
«Non c'è speranza.»
Bingaman scosse la testa che gli scoppiava. «Se credessimo a questo, al-
lora davvero non ne esisterebbe alcuna. Dobbiamo sperare.»
L'infermiera si portò una mano alla bocca e tossì. Tutte le altre persone
nella stanza diedero segni di tensione e si allontanarono da lei.

«È morta?»
Bingaman aveva appena finito di accogliere venticinque nuovi pazienti
nella palestra che era stata trasformata in un ospedale. Mentre lui e il
dottor Kramer uscivano dal grande edificio - che si stava ben presto
riempiendo di letti occupati - strinsero gli occhi, disturbati dalla forte luce
di settembre, e notarono dei carri trainati da cavalli su cui venivano caricati
i cadaveri.
«Quanti ne sono morti la notte scorsa?»
«Quindici.»
«Continua a peggiorare.»
Bingaman vacillò.
«Cosa succede?» chiese Kramer. «Non ti senti bene?»
Bingaman non rispose ma invece si diresse faticosamente verso uno dei
carri. Il cadavere di una donna, con un'uniforme da infermiera, vi veniva
sollevato dentro.
«Ma l'ho vista solo ieri. Come è potuto succedere così in fretta?»
«Ho sentito dei rapporti che dicono che adesso ai sintomi ci vuole meno
tempo per svilupparsi», disse Kramer alle sue spalle. «Dal minimo segno
di essere stato infettato, una persona può sviluppare la malattia completa
entro le ventiquattro ore. Stamattina ho sentito la storia di un uomo,
apparentemente in salute che era uscito di casa per recarsi al lavoro. Non
tossiva. Nessuno nella sua famiglia aveva notato che fosse febbricitante. È
morto per strada a un isolato dalla fabbrica in cui lavorava. Ho sentito
un'altra storia...»
«Sì?»
«Quattro donne ieri sera stavano giocando a bridge. La partita è finita
alle undici. Nessuna di loro stamattina era viva.»
Bingaman sentiva un peso al torace. Le spalle gli dolevano. Gli occhi gli
facevano male, solo per mancanza di sonno, disse a se stesso. Prese la
mascherina dalla tasca, dal momento che se l'era tolta quando era uscito
dall'ospedale. «Da adesso in poi, penso che dovremo indossare sempre le
maschere, anche quando non siamo con i pazienti. Di giorno e di notte. A
casa e al lavoro. Dappertutto.»
«A casa? Non ti sembra un po' esagerato?» chiese Kramer.
«Lo è?» Bingaman diede un'ultima occhiata all'infermiera morta, circa
vent'anni, lunghi capelli scuri, mentre il carro si allontanava rumorosamen-
te. Così giovane, tante ragioni per vivere, pensò. «Nessuno di noi è
immune. La malattia ci circonda. Non c'è modo di dire chi possa essere ad
attaccarcela.» Guardò Kramer. «Continuo a ricordarmi che era l'infermiera
che ieri ha tossito mentre era nella stanza con noi.»

«Non toccarmi! Allontanati!»


Lo scoppio fece sollevare la testa a Bingaman che stava esaminando un
paziente. Era in mezzo a una fila di letti in palestra, circondato da
un'attività alacre di infermiere e volontari che si spostavano da un paziente
a un altro, dando loro acqua, o zuppa, se riuscivano a mangiare, che poi gli
sfregavano la fronte febbricitante con del ghiaccio avvolto in salviette. Un
altro gruppo di volontari si occupava del problema rischioso di cosa fare
dei rifiuti corporei di così tante persone che non erano in grado di badare a
se stesse. Puzza di escrementi, sudore e morte riempiva la zona che adesso
era diventata assurdamente piccola. Contrario alle teorie del dottor
Gingrich sulla polvere e le finestre chiuse, Bingaman aveva ordinato che
tutte le finestre della palestra fossero aperte. Tuttavia il terribile odore che
c'era nell'edificio gli dava la nausea.
«Te l'ho detto, maledizione, toglimi le tue sporche mani di dosso!»
Il linguaggio poco ortodosso attrasse l'attenzione di Bingaman che se ne
sentì oltraggiato. Il responsabile aveva una tosse profonda. Là, disse
Bingaman. A destra. Tre file più in là. Infermiere, volontari, e quei pochi
pazienti a cui era rimasto un minimo di forza guardavano in quella
direzione.
«Tu, cagna, se mi tocchi di nuovo...!» La voce rauca dell'uomo si
disintegrò in un parossistico attacco di tosse.
Un linguaggio del genere non poteva assolutamente essere tollerato.
Bingaman lasciò il paziente che stava accudendo, si fece strada tra i letti,
raggiunse un'altra fila, si fece strada tra altri letti, avvicinandosi al luogo da
cui proveniva la confusione. Tre uomini ne avevano evidentemente portato
dentro un quarto, che era buttato su un letto, e opponeva resistenza alle
cure dell'infermiera. L'indignazione di Bingaman si fece più acuta all'idea
che un'infermiera venisse apostrofata in quel modo, ma trovò ancora più
orribile quello che seguì. Le sue emozioni gli rendevano difficile respirare.
«Tu, dannata tedesca!»
Marion. L'infermiera con cui il paziente stava gridando era la moglie di
Bingaman. I tre uomini che avevano portato dentro il paziente la stavano
spingendo via.
Oltraggiato, Bingaman raggiunse il punto della discussione. «Non la toc-
cate! Cosa sta succedendo?»
La faccia del paziente si fece rossa per la furia con cui aveva tossito.
Della saliva volò. Bingaman, pensieroso, fece un passo indietro,
assicurandosi di essere davanti a Marion per proteggerla.
«Mettetevi le maschere. Nessuno entra senza indossarne una. Che
problema c'è?»
«È lei il problema», disse uno. Strascicava le parole. Era alto, indossava
abiti da lavoro, ed era evidente che aveva bevuto. «Tedesca pidocchiosa.»
«Controlla il modo in cui parli.»
«Unna. Krucca», disse un secondo uomo, più muscoloso del primo.
«Non prendi in giro nessuno.» Era evidente che anche lui aveva bevuto.
«Tu sei quella che ha fatto questo! Che hai fatto star male il mio amico!
Che hai dato a tutti l'influenza!»
«Che razza di sciocchezze...?»
«Spagnola col cavolo.» L'uomo sul letto tossì di nuovo. Stava perdendo
forza. Nonostante le guance febbricitanti, aveva dei cerchi neri allarmanti
intorno agli occhi. «È l'influenza tedesca.»
Il primo uomo fece un passo vacillante verso Marion. «Quanto ti ha
pagato il Kaiser, Krucca?»
«Pagata?» chiese il secondo uomo. «Non c'era bisogno che la pagasse, la
cagna. È tedesca, non è vero? I tedeschi amano uccidere gli americani.»
«Ho sentito abbastanza.» Bingaman era scosso dalla rabbia. «Esci da
questo ospedale. Adesso. Giuro che chiamo la polizia.»
«E la lasceresti?» Il terzo uomo, con fare da ubriaco, puntò un dito verso
Marion, che sussultò alle spalle di Bingaman. «La lasceresti qua a uccidere
degli altri americani? È lei che ha portato qua l'influenza. L'influenza
tedesca. Questo è il modo in cui il Kaiser pensa che vincerà la guerra.
Dannati Krucchi assassini.»
«Non lo ripeterò un'altra volta! Vattene subito o...»
Bingaman fece un passo verso gli uomini, spingendoli verso la porta. Il
primo uomo si preparò, mormorando: «Gli Unni hanno ucciso mio figlio in
Francia, dannato filotedesco», e colpì il dottore sul viso.
Sembrò che il tempo si fosse fermato. D'un tratto si ricominciava.
Udendo le grida intorno a lui, Bingaman strisciò indietro, conscio del
sangue che gli sgorgava dal labbro sotto la maschera. Qualcosa l'aveva
colpito al naso, e vide doppio. Il sangue gli scendeva dalle narici. Perse il
controllo delle gambe. Gli sembrava di galleggiare. Quando toccò il
pavimento, udì delle grida in distanza.
Poi tutto si fece confuso. Aveva la vaga sensazione di venire sollevato e
portato. Udiva delle voci ansiose in distanza. La sua mente vagava mentre
lui veniva posato su qualcosa. Una branda. In una specie di magazzino in
penombra in fondo alla palestra.
«Jonas, va tutto bene? Jonas?»
Riconobbe la voce di Marion. Ogni parola piena d'ansia sembrava più
vicina, come se lei fosse stata piegata su di lui.
«Jonas?»
«Sì. Penso di stare bene.»
«Lascia che ti tolga questa maschera per farti respirare.»
«No. Non possiamo rischiare la contaminazione. Lasciamela su.»
Lei gli stava togliendo il sangue dal viso. «Te ne darò una pulita.»
«Jonas?» Era la voce di un uomo. Preoccupato. Powell.
«Ho solo un po' di vertigini», gli rispose lentamente Bingaman. «Sono
stato colto di sorpresa.» Le sue parole sembravano echeggiare. «Tra un
attimo starò bene.» Cercò di sedersi, ma si sentiva come se avesse avuto
delle palle nella testa che rotolassero avanti e indietro, costringendolo ad
abbassarla. «Quegli uomini. Sono...?»
«Andati.»
«Un poliziotto. Hai chiamato un...?»
«Quale sarebbe lo scopo? Quando hanno chiuso le scuole, i ristoranti e i
negozi, hanno anche vuotato la prigione. Non c'è nessun posto in cui rin-
chiuderli.»
«Non riesco a capire cosa gli ha preso. Accusare Marion. Oltraggioso.»
Bingaman riuscì ad aprire gli occhi e a mettere a fuoco. Vide il viso
preoccupato di Marion. E quello di Powell, che aveva una espressione
piena di riluttanza.
«Cosa succede? Cosa mi state tenendo nascosto?» chiese Bingaman.
«Questa non è la prima volta.»
«Non capisco.»
«La gente è spaventata», disse Powell. «Non riescono ad accettare che
non ci sia uno scopo in tutto ciò. Vogliono una spiegazione semplice.
Qualcosa di specifico.»
«Continuo a non capire.»
«Qualcuno a cui dare la colpa. I tedeschi. Marion.»
«Ma questo è assurdo. Come possono essere così pazzi da credere che
Marion farebbe...»
L'espressione sconfitta sulla faccia di Marion fece accigliare Bingaman.
«Tu lo sapevi?»
«Sì.»
«Da quanto tempo va avanti?»
«Da parecchi giorni.»
«E tuttavia tu hai continuato a fare il tuo lavoro e sei venuta a dare una
mano? Sono sorpreso che...» Ma poi Bingaman ci pensò sopra, e non ne fu
più sorpreso. Marion faceva sempre la cosa giusta, anche quando era
difficile.
«Non farti un'impressione sbagliata», disse Powell. «Non tutti la
pensano in questo modo. Solo una minoranza. Una piccola minoranza. Ma
di certo hanno reso pubbliche le loro opinioni.»
«Dovrò stare a casa», disse Marion.
«No», disse Powell. «Non puoi lasciarti spaventare da questo atteggia-
mento.»
«Non è a causa loro. Ho un lavoro più importante. Ascolta la fronte di
Jonas. Toccagli le ghiandole in gola. Mettigli la mano sul torace. Non ti
serve uno stetoscopio. Puoi sentire la congestione. L'ha presa.»

Il sobbalzare delle ruote nelle buche e i vapori dannosi del Modello T


fecero peggiorare il dolore lancinante che Bingaman provava alla testa,
facendogli venire la nausea mentre Marion lo portava a casa. Sembrava
che le ferite avessero infranto la determinazione con cui aveva attenuato i
sintomi che aveva attribuito solo alla fatica. Adesso mentre il delirio aveva
il sopravvento, il suo ultimo pensiero cosciente fu un'eco di quello che
aveva detto al dottor Kramer dopo aver visto il cadavere dell'infermiera:
come aveva potuto succedere così rapidamente? Quando Marion lo portò
in casa, il dolore delle sue labbra e delle narici gonfie era niente al
confronto del dolore profondo delle sue giunture e dei suoi arti. Aveva la
testa così leggera che si sentiva dissociato da se stesso, sembrava
ondeggiare, mentre guardava Marion che lottava per tirarlo fuori dalla
macchina e per fargli salire i gradini di casa.
Fece del suo meglio per tossire lontano da lei, grato di avere insistito per
farsi mettere una nuova maschera. Ma nel momento in cui lo infilò sotto le
coperte, sbuffando per lo sforzo, lei gli allentò il nodo della cravatta e gli
tolse la maschera, che durante il tragitto a casa si era riempita di sangue.
«No», mormorò lui.
«Non discutere con me, Jonas. Devo pulirti.»
«Mi avresti dovuto lasciare in ospedale.»
«Non dal momento che hai un'infermiera diplomata che ti può assicurare
una cura costante a casa.»
Lei gli tolse le scarpe, le calze, i pantaloni, la giacca del vestito mac-
chiata di sangue, il panciotto e la camicia. Gli tolse la biancheria intima.
Nudo, sul letto, lui era percorso dai brividi, si stringeva le braccia sul tora-
ce, coi denti che battevano, guardava il soffitto, mentre Marion lo lavava
dalla testa ai piedi. Usò acqua tiepida e sapone, lo asciugò completamente,
poi lo fece sedere e gli fece scivolare la camicia da notte sulla testa, tiran-
dogliela giù fino alle ginocchia. Gli mise ai piedi delle grosse calze di lana.
Lo coprì con il lenzuolo e tre coperte. Quando vide che anche questo non
bastava e che lui tremava anche più violentemente, gli portò una borsa
dell'acqua calda e gli mise sopra una trapunta di piuma d'oca.
Bingaman tossì e disse qualcosa a proposito della maschera.
«Interferisce col tuo respiro», gli rispose Marion.
«Potrebbe contaminar...»
«Non penso che serva a molto. Inoltre, sono già stata esposta.» Il respiro
di Marion si fece più affrettato mentre lavorava.
Minuti, forse ore più tardi, lei gli stava facendo bere qualche cucchiaiata
di tè, quando i brividi si trasformarono in un'enorme quantità di sudore che
si liberava da lui. Allora gli strappò via le coperte, lo spogliò di nuovo, gli
fece un bagno sfregandolo con l'alcol, lo fece uscire dal letto e lo appoggiò
per terra. Aveva perso il controllo dell'intestino e aveva sporcato il letto.
Lei dovette cambiare le lenzuola, poi pulirlo e cambiargli la camicia da
notte, poi lo rimise sotto le coperte rimboccandolo bene perché gli erano
tornati i brividi. Gli coprì la fronte con un panno fumante e lo imboccò con
altro tè, cercando di fargli anche inghiottire dei pezzettini di pane caldo
inzuppato.
Lui aveva perso qualsiasi contatto con l'esterno e galleggiava nel buio.
La sua mente era una barca in un mare sempre più agitato. Un mare
notturno. Agitato dalla tempesta. Che vorticava.

Non aveva idea di quanto tempo era stato via, ma gradualmente il


mondo smise di ruotare, tutto si fece più tranquillo, e quando ritornò,
lentamente, indistintamente, gli sembrò che la sua gola non fosse mai stata
così secca o di essere mai stato così debole. Gli occhi gli facevano male
come se fossero stati sprofondati nella sua testa. Aveva la pelle tirata per la
disidratazione, e grassa a causa delle sudate che aveva fatto. Allo stesso
tempo, sembrava vuota, come se avesse perso peso.
Queste sensazioni furono una cosa graduale. Lui giaceva passivamente,
e guardava una striscia di luce che entrava dalla finestra della camera da
letto alla sua sinistra. Poi la luce scomparve, e alla fine il raggio di sole
entrò attraverso la finestra alla sua destra, e lui si rese conto che era stato
semincosciente per tutto il tempo in cui il sole era passato da est a ovest.
Ma non si stupì troppo di non essersi reso conto del fatto che niente nella
stanza era cambiato, che la sua camicia da notte e le coperte erano le stesse
che aveva avuto al mattino, che nessuno era stato nella stanza, che Marion
non era entrata nella stanza.
Cercò di chiamarla, ma i suoi polmoni erano troppo deboli, la gola
troppo secca, e non ne venne fuori niente. Cercò di nuovo e riuscì solo a
produrre un piagnucolio di animale.
Marion! pensò con disperazione. Non temeva per se stesso, non temeva
di essere stato lasciato solo, senza aiuto. Era terrorizzato per Marion. Se lei
non si stava prendendo cura di lui, questo significava che non ne era in
grado, e questo voleva dire...
Lo sforzo di muoversi lo fece tossire. La congestione provocava un
rumore nel torace. Il respiro passava sibilando dai bronchi ingrossati e
dalla gola arida. Ma nonostante il dolore e la letargia, aveva la sensazione
di stare meglio, di non essere più in uno stato così febbrile. Il mal di testa
non era più così forte da dargli la sensazione che gli stesse esplodendo. I
muscoli gli facevano male, ma non come se l'avessero stiracchiato su una
rastrelliera.
Quando si girò sul fianco e cercò di alzarsi dal letto, le gambe gli
cedettero. Crollò sul pavimento. Marion! Continuava a pensare. Si mise a
strisciare. Il movimento di una mano dietro l'altra gli ricordò la
determinazione e la paura che aveva provato quando aveva imparato a
nuotare. Una caraffa sul tavolo attrasse la sua attenzione, e afferrò una
sedia vicino al tavolo, lottando per alzarsi in piedi, per inclinare la caraffa
verso le sue labbra. L'acqua gli scorse a rivoletti verso la bocca, sopra le
labbra piene di croste e di tagli, sul mento, sopra la camicia da notte.
Goffamente la rimise al suo posto, preoccupato di farla cadere, dal
momento che l'acqua era troppo preziosa per rischiare di sprecarla. Ma per
quanto fosse preziosa, era anche tiepida e stantia, con un leggero sapore di
polvere. Era evidente che era lì da un po', e con una premonizione
crescente, che lo riempiva di terrore, cercò di chiamare il nome di Marion,
rabbrividendo al suono sottile della sua voce gracchiante, e si mise di
nuovo a strisciare.
La trovò sul pavimento della cucina. Il suo primo pensiero in preda al
panico fu che fosse morta. Gemette ed ebbe la sensazione di sentire un'eco,
ma si rese conto che il secondo gemito era venuto da lei, debole, lontano,
ma pur sempre un gemito. Lottò sforzandosi di strisciare verso di lei con
maggiore energia. Le toccò la fronte e ne sentì provenire un calore
terribile. Sì. Era viva! Ma la cavernosità della sua tosse e la lentezza della
sua reazione quando cercò di sollevarla lo riempì di paura. Si rese conto
che doveva immediatamente preoccuparsi di farle ingurgitare dei liquidi.
Afferrò il piano del mobile della cucina, si tirò su, sudando mentre metteva
in funzione la pompa in cucina, per riempire una tazza d'acqua dal pozzo
di casa. Ci mancò poco che la facesse cadere e quasi non si ricordò di
portare un cucchiaio, ma alla fine si sedette esausto vicino a Marion sul
pavimento della cucina, le prese la testa in grembo e le versò dell'acqua tra
le labbra gonfie e secche. Il calore che emetteva era sorprendente.
Lottando si avvicinò alla ghiacciaia, usò uno scalpello per il ghiaccio per
staccare con modi goffi qualche pezzo di ghiaccio mezzo sciolto nel
comparto superiore. Coi pezzetti di ghiaccio avvolti in un asciughino,
crollò di nuovo vicino a Marion, e le passò una pezza fredda sulla faccia
rossa come una barbabietola. Le sistemò la pezza sulla fronte, le infilò
qualche altro cucchiaio d'acqua in bocca, poi cedette alla sete e bevve dalla
tazza. Alla fine gli scivolò di mano e la lasciò cadere sul pavimento,
bagnando sia Marion che se stesso. Gemette, si sentì di nuovo le vertigini,
e appoggiò la testa al pavimento.

Il tempo era confuso. Quando riprese di nuovo conoscenza, si trovò su


una sedia del salotto. Marion era sul divano di fronte a lui, con una coperta
gettata addosso. Il suo torace si alzava e si abbassava. Tossiva. Su un
tavolino c'erano un piatto di pane secco e una caraffa d'acqua. Qualcuno ci
ha trovato, pensò Bingaman, e tossì. Qualcuno ci è venuto ad aiutare. Ma
durante le ore piene di sforzo che seguirono, fu costretto a rendersi conto
che si era sbagliato, che non era venuto nessuno, che in qualche modo era
stato lui che aveva spostato Marion nel salotto, che lui aveva portato il
pane e la caraffa d'acqua. Il pane era così vecchio e duro che dovette
bagnarlo nell'acqua prima di poterlo delicatamente inserire nella bocca di
Marion. Per incoraggiarla a mangiare. Sospirò una preghiera di
ringraziamento quando lei inghiottì. Quando lei tossì, temette che avrebbe
espulso il cibo, ma rimase giù assieme all'acqua incredibilmente deliziosa.

Di nuovo il tempo si fece confuso. Adesso sul tavolino accanto al divano


non c'era più il pane, ma marmellata di fragole e un cucchiaio. Ricordava
di avere visto la marmellata nella ghiacciaia. Marion stava tossendo. Lui le
massaggiava la fronte caldissima con una salvietta che racchiudeva gli
ultimi pezzetti di ghiaccio. Le infilava in bocca la marmellata. Le
sollevava un bicchiere alle labbra. Lui beveva da un altro bicchiere, con la
sensazione che le sue labbra e la sua gola secche assorbissero l'acqua.
Buio. Luce.

Di nuovo buio. La cantina. Qualche passo per aprire la porta della


cantina sotterranea. Sudando nonostante il freddo. Afferrando due barattoli
della marmellata di Marion da uno scaffale. Tossendo. Ondeggiando.
Inciampando nelle scale della cantina, raggiungendo la cucina, strizzando
gli occhi per la luce brillante del tramonto, scoprendo che le marmellate
che lui aveva preso con un tale sforzo erano dei cetrioli in salamoia.
Buio. Luce.
Buio. Luce.

Ancora luce. Marion non tossiva più. Bingaman in seguito concluse che
quello che le aveva salvato la vita era la sua costituzione robusta, anche se
quando era abbastanza presente, insisteva che era stato lui a salvarle la
vita. Le sue somministrazioni, come le chiamava lei, e gli disse di non
essere così modesto.
«Sttt», le disse lui con amore. «Non consumare energia.»
Al contrario lui non aveva alcun dubbio che erano state le cure amorose
di Marion nello stadio iniziale della sua malattia che avevano salvato lui.
La malattia impietosa poteva essere combattuta sulla base dei sintomi.
Dopo di che il paziente sarebbe vissuto o morto sulla base delle sue risorse
personali, e adesso che Bingaman aveva sopportato l'esperienza intima del
potere devastante della malattia, si meravigliò che qualcuno avesse la forza
di resisterle.
Forse la forza non era il fattore determinante. Forse si trattava di fortuna.
O di destino. O della volontà di Dio. Ma se si trattava di quest'ultimo caso,
Dio certamente doveva essersi rivoltato contro una gran quantità di gente.
Per un presbiteriano come Bingaman, che credeva all'assioma per cui
lavoro duro e prosperità erano sinonimo di salvezza, l'idea che l'influenza
potesse essere la dimostrazione della disapprovazione divina nei confronti
del mondo era inquietante. Di certo, anche prendendo in considerazione la
guerra, il mondo non poteva essere un posto così brutto. Ed era proprio la
cosiddetta guerra con i suoi fucili mitragliatori e gas lacrimogeni, con
cloro e fosgene, iprite, e con gli orrori sempre crescenti, il problema?
Ma in questo caso, aveva senso che Dio in cambio infliggesse milioni di
altre perdite?

«Dottor Bingaman.» L'infermiera fece un passo indietro, spaventata, con


il viso improvvisamente privo di colore, quasi bianco come la sua divisa.
«Non può essere!»
«Cosa diavolo?»
«Mi era stato detto che era morto!»
«Morto?» Bingaman fece un altro passo verso l'infermiera nel corridoio
dell'ospedale.
Lei quasi indietreggiò. «Dopo la morte del dottor Powell e del dottor
Gingrich, io...»
«Aspetti un attimo. Il dottor Powell è morto?»
«Sì, e anche il dottor Gingrich e...»
«Morti.» Fu sopraffatto dallo choc. Sentendosi le vertigini, temette di
avere una ricaduta e appoggiò una mano al muro per sostenersi. Trasse un
profondo sospiro, represse un colpo di tosse e la studiò. «Che cosa le ha
fatto pensare che fossi morto?»
«È quello che mi hanno detto.»
«Chi glielo ha detto?»
«Un sacco di gente. Non so. Non ricordo. È stato tutto così terribile. Si
sono ammalate così tante persone. Tante persone sono morte. Non riesco a
ricordare che è vivo e chi non lo è. Non riesco a ricordare quando ho
dormito l'ultima volta o quando...»
La stanchezza e le preoccupazioni avevano impedito a Bingaman di ren-
dersi conto, quando era entrato in ospedale, di quanto l'infermiera stessa
sembrasse stanca. «Si sieda», le disse, rendendosi conto di qualcos'altro,
della ragione per cui nessuno era venuto a casa sua per scoprire se aveva
bisogno d'aiuto. Perché avrebbero dovuto preoccuparsi se tutti pensavano
che fosse morto? E deve essere morta un sacco di gente!
«Deve andare a casa», disse Bingaman. «Prenda un po' di cibo. Si
riposi.»
«Non posso. Ci sono così tanti pazienti. Non riesco a tenere divisi i vivi
dai morti. Continuano ad andarsene e ne arrivano altri. C'è così tanto da
fare. Io...»
«Va tutto bene. L'autorizzo io. Vada a casa. Parlerò con Virginia.» Si
riferiva alla capo infermiera. «Sono sicuro che sarà d'accordo.»
«Non può.»
«Cosa?»
«Parlarle.»
«Non capisco.»
«Virginia è morta.»
Si ritrovò a fissarla senza parole, terrorizzato al pensiero che gli
potessero dire che altre persone su cui poteva fare riferimento fossero
morte. Tante cose erano successe così rapidamente. Passarono dei
barellieri, portando il cadavere del sindaco Halloway.
Un altro pensiero orribile lo colse. «Da quanto tempo?» riuscì solo a
chiedere.
L'infermiera esausta scosse la testa confusa.
«Voglio dire...» Si sentiva di nuovo la fronte calda. «Che giorno è?»
Confusa lei rispose: «Mercoledì».
Lui si sfregò la fronte. «Sto cercando di sapere il giorno del mese».
«Il nove di ottobre». L'infermiera aggrottò le sopracciglia stupita.
«Il nove ottobre?» Si sentiva come quando era stato colpito al viso. Stri-
sciò indietro.
«Dottor Bingaman, si sente bene?»
«Un mese.»
«Non capisco.»
«L'ultima cosa che ricordo è l'inizio di settembre.»
«Continuo a non...»
«Ho perso il resto di settembre e... Un mese. Ho perso un intero mese.»
Spaventato, cercò di spiegare, di cercare di far capire all'infermiera cosa
significava passare così tante settimane lottando per respirare, attraverso i
polmoni pieni di liquido, mentre per tutto il tempo dovevi affrontare il
mare nero spazzato dalla tempesta del delirio.
Cercava di descrivere la sete incredibile, gli spasmi degli arti doloranti,
l'incredibile oppressione al torace.
Dal modo preoccupato in cui l'infermiera lo guardava si rese conto che
stava balbettando. Non gli importava. Poiché per tutto il tempo aveva
lottato per rendersi conto di come avesse perso un mese della sua vita e si
rese conto che se era successo a lui, doveva essere successo anche ad altri.
Santo cielo, pensò, quante altre persone sono in trappola in casa loro,
troppo deboli per rispondere al telefono, se ne hanno uno, o a chiunque
bussasse alla loro porta? Quando aveva lasciato casa sua, un'ora prima,
aveva bussato alla porta dei vicini alla sua destra e alla sua sinistra. Non
aveva risposto nessuno. Lo aveva disturbato vedere quanto fosse deserta la
strada con gli olmi in fila, mentre una fresca brezza faceva volare via le
foglie che dal verde erano passate a un giallo autunnale con rapidità
sorprendente, in soli pochi giorni, anche se, adesso se ne rendeva conto, si
era trattato di un mese. E quei vicini non se n'erano andati da qualche
parte. Fu colto da una certezza terribile che loro fossero in casa, impotenti
o morti.

«Jonas, hai un aspetto terribile. Devi riposare», disse il dottor Kramer.


«Va' a casa. Prenditi cura di Marion.»
«Sta bene. Ci sono altri che stanno peggio. Ha insistito che aiutassi a
curare gli altri.»
«Ma...»
«Tu e io siamo gli unici medici rimasti in città. La gente muore! Non
posso andare a casa! C'è bisogno di me!»

Ogni chiesa della città era stata trasformata in ospedale. Erano tutte
piene.
Al cimitero non c'era più posto per i cadaveri. I becchini non riuscivano
a tener dietro al lavoro di rimuovere terra per scavare nuove fosse. I
cadaveri giacevano a file in un terreno ai margini della città. Sentinelle
armate vi facevano la guardia per impedire che gli animali li mangiassero,
e ognuna, con indosso una maschera, pregava di non prendere l'infezione
dai cadaveri. Ai funerali potevano partecipare solo i membri della famiglia
con indosso una maschera, e i pastori che, compatibilmente con un minimo
di dignità, cercavano di essere il più veloci possibili, mentre leggevano le
preghiere per i morti.

«Dobbiamo continuare a cercare!» Bingaman organizzava le squadre.


«Chi sa quanta gente c'è che ha bisogno del nostro aiuto? Anche se sono
morti li dobbiamo trovare. C'è un rischio troppo grande di colera. Di
pestilenza. I corpi in decomposizione provocheranno una pestilenza
secondaria.»
A capo del suo gruppo Bingaman marciava lungo le strade e bussava
alle porte. A volte una mano tremante li faceva entrare, una faccia ossuta
con gli occhi infossati che assicurava a Bingaman che le altre persone in
casa avevano superato il peggio, evidentemente non coscienti del fatto che
Bingaman era arrivato forse appena in tempo per cercare di salvarli. Altre
volte, non ricevendo risposta, la squadra di Bingaman faceva irruzione.
Una debole tosse li conduceva ai pochi sopravvissuti. Troppo spesso,
l'odore della malattia e della decomposizione dava il vomito. Intere
famiglie erano morte da parecchio tempo.

Avevo un uccellino
Si chiamava Enza.
Aprii la finestra.
Era in-flu-Enza.

Il ritornello, che Bingaman aveva sentito cantare come in stato di ipnosi


da una ragazzina dalle guance incavate e dall'espressione assente, mentre i
cadaveri dei suoi genitori venivano portati via dalla casa, gli avvelenava la
mente. Non riusciva a liberarsene, non poteva farlo tacere, non riusciva a
soffocarlo. «Aprii la finestra e in-flu-Enza.» Il ritmo era insidioso, come la
malattia. Si ripeteva nei suoi pensieri finché gli diede le vertigini, e temette
che avrebbe avuto un altro attacco di Enza.«Aprii la finestra.» Sì. La ma-
lattia era ovunque. Tutt'intorno. Nel cielo, nell'aria. In ogni respiro.
Bingaman sapeva che dopo quello che aveva passato avrebbe dovuto se-
guire il consiglio di Kramer e riposare, ma per quanto si sentisse le vertigi-
ni... «in-flu-Enza...» tenne duro, come Marion lo spingeva a fare, lottando
da una casa all'altra, portando avanti la sua opera di soccorso per coloro
che soffrivano e per i morti. «In-flu-Enza.» Tenne duro perché era arrivato
alla ferma conclusione che se questa malattia era la punizione divina, era
anche un'opportunità che Dio gli stava offrendo per rendere il mondo un
posto migliore, per sradicare il male e per lavorare per la salvezza.

La squadra di Bingaman sfondò la porta e cercò con attenzione nelle


ombre polverose, pianterreno, primo piano, cantina e soffitta. La sua
apprensione era stata inutile. Non c'era nessuno, vivo o morto.
Grati di poter tornare all'aperto, a camminare sulle foglie morte, i
membri della squadra seguirono Bingaman sul marciapiede di legno.
«Non abbiamo guardato dentro a questa casa.»
«Non ce n'è bisogno», disse Bingaman.
«Perché no?»
«È mia.»
«Ma cos'è quest'odore?»
«Non capisco cosa vuoi dire.»
«Viene da...»
«Dalla casa più avanti», disse Bingaman.
«No, viene da qui. Da casa tua.»
«Non ha senso. Io non sento niente.»
«Penso che faremo meglio a dare un'occhiata.»
«Fermatevi.»
«La porta è chiusa a chiave.»
«State lontano.»
«Qui nel portico l'odore è anche più forte. Dacci le chiavi.»
«Allontanatevi dalla mia proprietà!»
«Le tende sono tirate. Non riesco a vedere dalla finestra.»
«Vi sto dicendo di andarvene!»
«Quell'odore è... Qualcuno mi aiuti ad aprire la porta.»
Fecero irruzione tra le proteste di Bingaman. L'odore che fece vomitare
parecchi uomini veniva senza possibilità d'errore dal salotto. Marion
Bingaman era morta da un certo tempo. Il suo cadavere con la pelle grigia
e gonfio era sporco di marmellata di fragole e di olio canforato. Pillole di
chinino e di aspirina le erano state infilate in bocca finché le guance le si
erano gonfiate e le labbra le si erano aperte. Dalla sua bocca uscì persino
un cetriolo. La sua schiena scoperta sembrava un puntaspilli, se non per il
fatto che gli spilli erano grosse siringhe ipodermiche che il dottore le aveva
infilato tra le costole e nei polmoni, cercando disperatamente di tirarne
fuori il liquido che l'aveva annegata. C'erano parecchi secchi che
contenevano un liquido giallastro dall'odore disgustoso.
«Marion.» Le strofinò i capelli. «Mi dispiace. Ho cercato di tenerli lon-
tani. So quanto ci tieni ai tuoi sonnellini. Perché non cerchi di
riaddormentarti?»

Il picco dell'epidemia coincise con l'armistizio in Europa, con la dichia-


razione di pace, l'11 novembre 1918. Dopo di che, gli eserciti si dispersero
e i soldati esausti iniziarono il loro lungo viaggio di ritorno a casa, ma l'in-
fluenza non fece ritorno con loro a ridare forza ai microbi infetti che erano
già sul posto. Al contrario, contro ogni logica, la malattia perse
rapidamente forza, ed entro la fine dell'anno, durante il periodo invernale,
quando l'influenza, esacerbata dalla temperatura fredda, avrebbe dovuto
colpire con maggiore forza, iniziò a diminuire d'intensità. Rimasero a
soffrire del massacro alcune aree remote, le isole del Pacifico e aree
sperdute della giungla. Per il resto, dopo aver ripulito il mondo intero,
senza fare distinzione tra i villaggi degli eschimesi e le metropoli europee,
l'influenza spagnola si avvicinò alla fine.
Bingaman, la cui faccia non riacquistò più l'allegra rotondità e che aveva
perso uno per uno i capelli argentei, si riposava, come facevano anche gli
altri sopravvissuti. Della popolazione di dodicimila abitanti di Elmdale,
ottomila erano crollati sotto i sintomi. Di questi, duemila e cinquecento
erano morti. Molti dei quattromila rimasti avevano lavorato senza tregua a
occuparsi dei malati e a seppellire i morti. Alcuni, naturalmente, si erano
rifiutati di aiutare a qualunque costo, per paura di venire infettati.
Avrebbero dovuto far la pace con Dio.
L'umanità era stata messa alla prova. Durante le esplosioni più terribili
della Morte Nera in Europa nel Medio Evo si stima siano morti
venticinque milioni di persone. Il numero stimato di soldati morti durante
la prima guerra mondiale era di otto milioni e mezzo. Bingaman aveva
appreso l'ultima cifra comunicando ininterrottamente con radioamatori in
America e in Europa. Ma il numero presunto dei morti per l'influenza era
stato di quasi quaranta milioni. Ancora più sorprendente, il numero delle
persone che si sospetta fossero state colpite dall'influenza è stimato in un
miliardo, più della metà della popolazione mondiale. Se la malattia avesse
continuato nella sua devastante velocità esponenziale, la civiltà come noi
la conosciamo sarebbe stata distrutta entro la primavera del 1919. Parlando
coi suoi compagni radioamatori nel resto del paese e nel mondo, Bingaman
divideva con loro il senso di perdita e di inutilità. Ma simpatizzava anche
con la speranza nascente che si intuiva in alcuni loro commenti. Sì, la
crema della gioventù americana ed europea era stata distrutta dalla guerra.
Quello che non era riuscita a fare la guerra, lo aveva fatto l'influenza senza
considerazione dell'età. La società era stata distrutta.
E se... quest'idea era quasi impensabile, e tuttavia qualcuno vi aveva
dato voce, sulla base della lettura di Charles Darwin... e se l'esplosione
pandemica fosse stata uno strumento di selezione naturale, e adesso che i
più forti erano sopravvissuti, l'umanità, in conseguenza di questo, sarebbe
stata migliore, in grado di migliorarsi geneticamente? Per Bingaman un
modo di pensare così materialista era ripugnante. Aveva udito abbastanza
sul Darwinismo per sapere che si basava sulla teoria degli eventi casuali,
che in fondo era atea e che adorava il caso. Per Bingaman, non esisteva
una cosa come il caso e l'incidente. Tutto era parte di un progetto cosmico
e aveva uno scopo finale, e ogni teoria che non includesse Dio per lui era
inaccettabile. Ma un'altra teoria era accettabile, ed era questa che gli dava
speranza, che questa peste, uno dei cavalieri dell'Apocalisse, fosse stata il
modo in cui Dio chiedeva l'attenzione dell'umanità, il suo modo di
avvertire i sopravvissuti dei loro peccati, e di garantire loro un'opportunità
di imparare dai loro errori, di ripartire daccapo.
«Come la guerra», Bingaman aveva detto a Marion, che era entrata nel
suo studio tre settimane dopo essere stata seppellita. Lui l'aveva guardata
tra le lacrime e aveva sorriso. Da allora continuava a parlarle.
«L'influenza è stata l'avvertimento di Dio che non ci dovrà mai più
essere un'altra guerra come questa. Non è così che l'hanno chiamata? La
guerra che deve mettere fine a tutte le guerre? Sono convinto che questa
sia un'opportunità di guardare avanti.»
Marion non rispose.
«Inoltre, ho letto di un movimento che vuole aggiungere la proibizione
come emendamento alla costituzione», disse Bingaman. «Quando sono
stati chiusi i bar per impedire all'influenza di diffondersi, era evidente
quanto fosse migliore la società senza di loro. La gente ha riconosciuto i
propri errori. I bar rimarranno chiusi.»
Marion continuava a non rispondere.
«E qualcos'altro», disse Bingaman. «Sai che io cerco sempre di essere
ottimista. Sono convinto che la società trarrà altri benefici dalla
devastazione dell'influenza. Siamo arrivati così vicino alla morte, tutti noi,
il mondo. Quindi adesso impareremo ad apprezzare maggiormente la vita,
a rispettarla, a essere migliori. Questo decennio sta per finire. Ne sta
iniziando uno nuovo. Un nuovo inizio. Sarà affascinante vedere come ci
riprenderemo da tanta morte.»
Marion continuava a stare zitta.
«Tuttavia una cosa mi preoccupa», disse Bingaman. «Ieri sera alla radio
ho sentito di un ricercatore di New York City che ha scoperto che
l'influenza non è stata causata da un batterio ma da un virus. In teoria,
queste informazioni dovrebbero facilitare la ricerca di una cura.
Normalmente.» Si accigliò. «Se tutte le cose fossero uguali, dovremmo
essere in grado di trovare un vaccino. Ma non in questo caso. Perché il
ricercatore ha anche scoperto che il virus dell'influenza muta in
continuazione. Qualsiasi vaccino avrebbe effetto solo per un periodo
limitato. Nel frattempo il virus in costante cambiamento potrebbe tornare
in una forma anche più mortale. Oppure potrebbe comparire una piaga
diversa e peggiore.»
Marion parlò per la prima volta. «Dio ci aiuti.» Tossì. Una saliva striata
di sangue le comparve sulle labbra bluastre.
Bingaman rabbrividì, temendo che l'avrebbe persa per la seconda volta,
che l'orrore si sarebbe ripetuto, e avrebbe continuato a ripetersi. «Sì, si
riduce tutto a questo. Un atto di fede. Dio ci aiuti. Ricordi con quanta
determinazione abbiamo cercato di avere dei bambini, e come siamo
rimasti delusi quando abbiamo scoperto che non potevamo averne? Allora
ci eravamo detti che era il Signore a volere così, che Dio ci aveva dato
questo fardello per mettere alla prova la nostra fede. Bene... Forse è stato
per il meglio.» Singhiozzò mentre l'immagine di Marion cominciava a
svanire. «Non avrei sopportato di perdere qualcun altro.»
Fuori della finestra dello studio, la neve aveva iniziato a cadere. Un
vento freddo spazzava gli olmi scheletrici, seppellendone le ultime foglie
appassite.

1920-1929
Ariani e assenzio
di F. Paul Wilson

La Germania è in pieno esaurimento nervoso.


Non c'è nulla di buono da riportare.
Ben Hecht, 1923

Oggi occorrono 40.000 marchi per comprare un dollaro americano.


Volkischer Beobachter, 4 maggio 1923

Ernst Drexler trovava divertenti le cose più strane. Questo era il modo in
cui le definiva: divertenti. Persino l'inflazione poteva essere divertente.
Karl Stehr ricordava di aver visto Ernst a varie manifestazioni artistiche
a Berlino prima di aver avuto veramente occasione di conoscerlo.
Emergeva tra quella folla perennemente trasandata per l'abito e il panciotto
sempre stirati, per il colletto inamidato e la cravatta, per il cappello floscio
che portava o in testa o sotto il braccio, e per il suo caratteristico bastone
col manico d'argento foderato di pelle di rinoceronte nera. Portava i capelli
neri tirati all'indietro, che partivano dalla fronte spaziosa, lisci come
linoleum; aveva lunghe sopracciglia che incorniciavano luminosi occhi
blu, labbra sottili, un mento volitivo e la carnagione abbronzata anche in
inverno completavano il quadro. Karl immaginava che Ernst avesse circa
trentacinque anni, ma il suo aspetto era quello di una persona più anziana.
Per settimane intere sembrava essere ovunque, e aveva sempre qualcosa
da dire. Alla personale di Paul Klee, dove era esposto il suo ultimo lavoro,
The Twittering Machine, Karl gli aveva sentito commentare
sarcasticamente che Klee si fosse unito troppo precipitosamente alla
Bauhaus. Ernst si trovava sempre nei posti giusti: alla prima del Dr.
Mabuse, der Spieler, alla festa in onore degli attori per la rappresentazione
cecoslovacca R.U.R, e alle rappresentazioni segrete del Nosferatu di
Murnau, per nominarne solo alcuni.
E poi si volatilizzava. Scompariva per settimane o addirittura un mese
senza farne parola a nessuno. Quando ricompariva, riprendeva le cose
dove le aveva lasciate, come se non ci fosse stata alcuna interruzione. E
quando era in città praticamente viveva al Romanisches Cafe, dove ogni
sera lo si poteva vedere vagare tra i tavoli, col bicchiere in mano, una
meteora vagante di ironia e pettegolezzi che lasciava cadere commenti
secchi e pieni di arguzia sull'arte e la letteratura come se si fosse trattato di
frutta matura. Nessuno sembrava ricordare chi lo avesse presentato per
primo alla gente del caffè. Sembrava insinuarsi tra i clienti abituali per
conto suo. Dopo un po' si aveva la sensazione che ci fosse sempre stato.
Tutti conoscevano Ernst, ma nessuno lo conosceva bene. La sua
personalità era un curioso incrocio di disponibilità e riserbo che Karl
trovava stimolante.
La loro amicizia ebbe inizio nella fredda sera di un sabato primaverile.
Karl aveva chiuso la sua libreria in anticipo e stava vagando per la
Budapesterstrasse, dirigendosi al Romanisches Cafe, che si trovava
all'angolo fra Tauentzien e Gedachtniskirche: era grande per essere un
caffè, con una vasta area all'aperto e un interno spazioso che veniva
utilizzato quando il tempo era inclemente e durante la stagione fredda.
Karl, che indossava dei pantaloni alla zuava, si era sistemato sotto il ten-
done e aveva appoggiato le gambe su una sedia vuota vicino a lui, mentre
si beveva l'aperitivo tra vasi in fiore e rileggeva Siddharta. Sentendo uno
scalpiccio di tacchi alti, alzava lo sguardo verso le donne «moderne» che
passavano in coppie o terzetti, con gli abiti aderenti che svolazzavano alle
ginocchia e con i loro berretti lisci e stretti tirati giù sui capelli alla
maschietta; con le labbra rosse, gli occhi coperti dal mascara, e i cappotti
rifiniti con una pelliccia morbida che copriva il collo.
Karl amava Berlino. Era innamorato della città da quando l'aveva vista
la prima volta, quando suo padre ve lo aveva portato prima della guerra. E
due anni prima, per il suo ventesimo compleanno, aveva abbandonato gli
studi all'università per portare avanti con lei una relazione di lunga durata.
La sua amante era il centro del mondo artistico, dove nascevano nuove
libertà. Qua potevi essere quello che volevi: un libero pensatore, un libero
amante, un comunista, persino un fascista; gli uomini potevano vestirsi
come le donne e le donne potevano vestirsi come gli uomini. Non
esistevano limiti. E i nuovi movimenti in campo musicale, nelle arti, il
cinema e il teatro avevano radici qua. Ogni volta che si girava vedeva una
nuova meraviglia.
La notte si stava coricando sull'amante di Karl quando Ernst Drexler si
avvicinò al suo tavolo e si presentò.
«Non siamo mai stati presentati formalmente», disse tendendogli la
mano. «Si chiama Stehr, vero? Si venga a unire a me al mio tavolo. Ci
sono alcune cose di cui mi piacerebbe parlare con lei.»
Karl si chiedeva di quali cose potesse desiderare di parlare con lui, que-
st'uomo che era più vecchio di lui di almeno dieci anni, ma dal momento
che non aveva progetti per la serata, lo seguì.
Al Romanische quella sera c'era la solita gente. Di recente si era trattato
di coloro che ruotavano intorno ai bohémien berlinesi, tutti gli artisti, scrit-
tori, giornalisti, critici, compositori, editori, direttori d'orchestra e chiunque
altro avesse a che fare con l'avanguardia artistica tedesca, oltre alle
ragazze, ai ragazzi, e ai semplici nullafacenti. Alcuni si sedevano fissi in
un posto, altri passavano senza curarsene da un tavolo all'altro. Il fumo for-
mava una coltre di mussola sopra un miscuglio di barbe disordinate, crinie-
re ispide, capelli alla maschietta che incorniciavano occhi tinti di nero,
cappelli, berretti, monocoli, pince-nez, bocchini lunghi trenta centimetri,
maglioni voluminosi, calze scure, abbigliamento d'epoca che spaziava
dall'ellenico al preraffaellita.
«L'ho vista al Siegfried, l'altra sera», disse Ernst, mentre raggiungevano
un tavolo in un angolo buio, fuori dal flusso peristaltico. Ernst prese la
sedia accanto al muro, da dove poteva osservare la stanza, e lasciò l'altra
per Karl.
«Cosa pensi dell'ultimo film di Lang?»
«Molto tedesco», rispose Karl prendendo posto e voltando con riluttanza
le spalle alla stanza. Era un osservatore di gente.
Ernst rise. «Che commento diplomatico! Ma molto vero. Inganno, tradi-
mento, e pugnalate alla schiena, sia in senso figurato che letterale. Davvero
tedesco. Anche se poco Neue Sachlichkeit.»
«Penso che il neorealismo fosse la cosa più lontana dalla mente di Lang.
Invece Die Strasse, d'altro lato...»
«Il Neue Sachlichkeit si unirà presto all'espressionismo nel mausoleo dei
movimenti. E che liberazione. È merda.»
«Kunst ist Scheisse?» disse Karl, ridendo. «Il dadaismo è il più morto di
tutti.»
Ernst rise di nuovo. «Cielo, sei acuto, Karl. È questa la ragione per cui
volevo parlare con te. Sei davvero brillante. Sei una delle poche persone in
questa stanza in grado di apprezzare il mio nuovo divertimento.»
«Davvero? E quale sarebbe?»
«L'inflazione.»
Prima che Karl gli potesse chiedere cosa intendeva, Ernst fece un cenno
a un cameriere di passaggio.
«Per me il solito, Freddy, e...?» Indicò Karl, che ordinò uno schnapps.
«Inflazione?» disse Karl. «Non ne ho mai sentito parlare... Cos'è, un
nuovo gioco di carte?»
«No, no», disse Ernst sorridendo. «Si gioca col denaro.»
«Naturalmente. Ma come...»
«Si gioca con denaro vero nel mondo reale. È davvero divertente. Ho
iniziato a giocarlo all'inizio dell'anno.»
Freddy ben presto arrivò con lo schnapps di Karl. Per Ernst portò un bic-
chiere da vino vuoto, una caraffa di acqua fredda e una piccola ciotola di
cubetti di zucchero. Karl guardava affascinato mentre Ernst estraeva una
fiaschetta d'argento dalla tasca interna e ne svitava il tappo. Versò tre dita
di liquido verde chiaro nel bicchiere, poi si rimise in tasca la fiaschetta. Poi
tirò fuori un cucchiaio, prese un cubetto di zucchero dalla ciotola e lo
tenne sopra il bicchiere. Poi versò dell'acqua dalla caraffa, lasciandola
cadere sopra il cubetto e nel bicchiere per farla mischiare col liquido
verde... che iniziò a diventare di un giallo pallido.
«Assenzio!» sussurrò Karl.
«Proprio», disse Ernst. «Ho iniziato ad apprezzarlo prima della guerra. È
un peccato che adesso sia illegale, anche se è abbastanza facile da
trovare.»
Adesso Karl capiva perché di solito Ernst prendeva questo tavolo
appartato. Istintivamente si guardò intorno, ma nessuno stava guardando.
Ernst sorbì e si asciugò le labbra. «Lo hai mai provato?»
«No.» Karl non ne aveva mai avuto l'occasione. E inoltre aveva sentito
dire che ti fa impazzire.
Ernst spinse il bicchiere dall'altra parte del tavolo. «Assaggia.»
Una parte di Karl lo spingeva a dire di no, mentre un'altra parte spingeva
la sua mano in avanti e gli faceva stringere le dita intorno al calice del bic-
chiere. Se lo portò alle labbra e ne prese un minuscolo sorso.
Il sapore amaro gli fece buttare la testa all'indietro e increspare le
guance.
«È il suo sapore caratteristico», disse Ernst riprendendo il bicchiere. «Ci
vuole un po' per abituarcisi.»
Karl rabbrividì mentre inghiottiva. «Come è entrato in voga?»
«Per mezzo secolo, in tutto il continente, l'ora del cocktail è stata nota
come l'heure verte a causa di questo miscuglio.» Sorbì di nuovo, chiuse gli
occhi, assaporando. «Al momento giusto, nel luogo giusto, può essere...
rivelatore.»
Dopo un attimo, aprì gli occhi e fece cenno a Karl di avvicinarsi.
«Qua. Spostati e siediti vicino a me. Voglio mostrarti qualcosa.»
Karl fece scivolare la seggiola dall'altra parte, vicino a Ernst, in modo
che entrambi potessero guardare l'affollato salone principale del
Romanische.
«Guardali, Karl», disse Ernst, indicando la stanza con il movimento del
braccio. «La crema degli artisti di questa città assistita dalla propria claque
e dalla propria corte di epigoni e accoliti che ride rumorosamente, e si mi-
schia all'immondizia e ai lunatici della città. Morfina-dipendenti e
vegetariani guancia a guancia con bolscevichi e uomini di mondo, arrivisti
e anarchici, abortisti e antivivisezionisti, direttori e dilettanti, decani e
demi mondaines.»
Karl si chiese quanto tempo avesse passato Ernst a bere assenzio e a
osservare la scena. E perché? Sembrava un entomologo che stesse
studiando un formicaio particolarmente interessante.
«Tutti vogliono unirsi alla parata», continuò. «Si muovono sotto
l'illusione autodeterminata di avere il controllo: 'Quello che accade alle arti
a Berlino oggi, il resto del mondo lo copia la settimana prossima'.
Abbastanza vero, ma questa è la Maschera della Morte Rossa, Karl. Forze
enormi sono in gioco, intorno a loro, e loro sono certi di venirne
schiacciati mentre il gioco si sviluppa. La Germania sta cadendo a pezzi
attorno a noi, gli impossibili debiti di guerra ci stanno soffocando, i
francesi e i belgi sono accampati nella valle della Ruhr da gennaio, i
comunisti stanno cercando di impadronirsi del nord, la destra e i
monarchici possiedono la Baviera, e la risposta della Reichsbank ai
problemi economici è di stampare altro denaro.»
«Va così male?» disse Karl.
«Certo. È solo carta. Ha mandato i prezzi alle stelle.» Si tolse il
portafogli dalla tasca interna, ne estrasse un biglietto, e lo passò a Karl.
«Un dollaro americano», disse lui.
Ernst annuì. Vale oro, come si dice. L'ho comprato a diecimila marchi in
gennaio. Ti interessa sapere quanto me lo pagherebbero oggi in banca?»
«Non lo so», iniziò Karl. «Forse...»
«Quarantamila. Quarantamila marchi.»
Karl era impressionato. «Hai quadruplicato il tuo denaro in quattro
mesi.»
«No, Karl», disse Ernst con un sorriso amaro. «Ho solo quadruplicato il
valore dei marchi che controllo. Il mio potere d'acquisto è esattamente
quello che era in gennaio. Ma io sono una delle poche persone in questa
terra scossa dalla tempesta che può dirlo.»
«Forse dovrei provare anch'io», disse Karl. Abassa voce, ammirando
l'elegante semplicità del piano. «Prendere i miei risparmi e convertirli in
dollari.»
«Fallo», disse Ernst. «Vuota il tuo conto in banca, tira tutti i marchi che
hai fuori dal materasso, e convertili in dollari. Ma questa è solo
sopravvivenza, non si può definire divertimento.»
«Sopravvivenza mi suona abbastanza bene», disse Karl.
«No, amico mio. La sopravvivenza non è mai abbastanza. Gli animali
limitano le loro preoccupazioni alla semplice sopravvivenza: gli esseri
umani cercano il divertimento. Questo è il motivo per cui bisogna trovare
un modo per rendere l'inflazione divertente. L'inflazione c'è. Non c'è niente
che noi possiamo fare per cambiarla. Quindi almeno divertiamoci con lei.»
«Non so...»
«Possiedi una casa?»
«Sì», rispose Karl lentamente, con cautela. Non sapeva dove l'avrebbe
portato questa conversazione. «E no.»
«Davvero? Vuoi dire che è completamente ipotecata?»
«No. In realtà è di mia mamma. Una piccola proprietà a nord della città,
vicino a Bernau. Ma gliela gestisco io.»
Il padre era un colonnello morto nelle Argonne, e l'aveva lasciata a lei.
Ma la madre non aveva disposizione per il denaro, e inoltre non era più la
stessa da quando il padre era morto cinque anni fa. Quindi Karl si era
occupato delle terre e dei conti, ma passava la maggior parte del tempo a
Berlino. Amava la città e amava il rinascimento artistico che produceva.
La sua libreria andava a fatica in pari, ma lui non l'aveva aperta per trarne
un profitto. L'aveva fatta diventare un posto dove gli scrittori e gli artisti
del luogo erano i benvenuti e potevano curiosare e incontrarsi. Aveva
attrezzato una piccola zona sul retro del negozio dove potevano sedersi a
parlare e bere il caffè che lui teneva in caldo per loro. Sognava che un
giorno uno dei poveri sconosciuti che approfittavano della sua ospitalità
sarebbe diventato famoso e forse avrebbe ricordato il posto con affetto. E
forse un giorno si sarebbe fermato a salutare Thomas Mann o l'introverso
Hermann Hesse. Finché quel momento fosse arrivato Karl si accontentava
di offrire caffè e dolci a scribacchini che facevano la fame.
Ma già dall'inizio, il negozio aveva dato dei dividendi non finanziari. Gli
permise di accedere al mondo della letteratura, e da lì a tutta la carovana
artistica che ruotava intorno a Berlino.
«Nessun pericolo di perderla?»
«No.» La proprietà produceva abbastanza, insieme alla pensione di papà,
da permettere alla mamma una vita confortevole.
«Bene. Accendi un'ipoteca. Prendi in prestito tutto il denaro che puoi,
poi converti tutti questi marchi in dollari americani.»
Karl rimase senza parole all'idea. La casa di famiglia non aveva mai
avuto vincoli. Mai. L'idea era impensabile.
«No. Non potrei.»
Ernst mise il braccio sulla spalla di Karl e si sporse verso di lui. Karl
poteva sentire l'odore dell'assenzio nel suo alito.
«Fallo, Karl. Credimi su questo. È divertente, ma ne vedrai anche gli ef-
fetti pratici. Ricordati le mie parole, tra sei mesi sarai in grado di ripagare
tutto il mutuo con un solo dollaro americano. Una sola moneta.»
«Non so...»
«Devi. Ho bisogno di qualcuno che giochi con me. È molto più buffo
quando c'è qualcuno con cui dividere il divertimento.»
Ernst si drizzò e sollevò il calice.
«Un brindisi!» disse, e toccò il bicchiere di Karl col suo. «A proposito»,
aggiunse, «sai da dove ha avuto origine l'usanza di toccare i bicchieri per
un brindisi? Ai vecchi tempi, quando avvelenare un rivale era una moda
tra le classi alte, era diventata usanza di lasciare versare al tuo compagno
un po' della sua bevanda nel tuo bicchiere, e viceversa. In quel modo, se
uno dei bicchieri era avvelenato, entrambi ne avrebbero sofferto.»
«Com'è affascinante», disse Karl.
«Proprio. Inevitabilmente l'atto del versare era accompagnato dallo sbat-
tere dei bicchieri. Da qui, la consuetudine moderna.» Ancora una volta
fece sbattere il suo bicchiere con l'assenzio con lo schnapps di Karl.
«Credimi, Karl. L'inflazione può essere molto divertente, e portare anche
profitti. Mi aspetto che il marco perda la metà del suo valore nelle
prossime sei settimane. Quindi non perdere tempo.»
Alzò il bicchiere. «All'inflazione!» gridò, e vuotò il bicchiere.
Karl bevve il suo schnapps in silenzio.
Ernst si alzò dalla sedia. «Mi aspetto di vederti pieno di dollari e senza
alcun marco quando torno.»
«Dove vai?»
«Un viaggetto che faccio ogni tanto. Mi piace andare a nord attraverso la
Sassonia e la Turingia per vedere cosa stanno facendo i bolscevichi. Sono
membro del Partito comunista tedesco, sai. Sottoscrivo per Rote Fahne,
ascolto i comizi della Zentrale, e vado ai raduni. È molto divertente. Ma
una volta che ho fatto il pieno di retorica marxista, mi dirigo a sud, a
Monaco, per vedere quello che sta facendo l'altra estremità dello spettro
politico. Sono anche membro del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori
tedeschi e sottoscrivo per il loro Volkischer Beobachter.»
«Non ne ho mai sentito parlare», disse Karl. «Come fanno a chiamarsi
nazionale, se nessuno li conosce a livello nazionale?»
«Nello stesso modo in cui si possono chiamare socialisti quando sono
palesemente fascisti. Anche se io, per primo, ho qualche difficoltà a vedere
molta differenza tra le due estremità dello spettro. Si distinguono solo dalla
messa in scena e dalla retorica. I Nazional Socialisti, si chiamano Nazi,
hanno molto potere a Monaco e in Baviera, ma nessuno gli presta molta
attenzione da queste parti. Una volta devo portarti a sentire uno dei loro
capi. Herr Hitler è un bel personaggio. Sono certo che al nostro amico
Freud piacerebbe farlo distendere sul suo lettino.»
«Hitler? Non ho mai sentito parlare nemmeno di lui.»
«Dovresti davvero sentirlo parlare qualche volta. È davvero divertente.»

Oggi occorrono 51.000 marchi per comprare un dollaro americano.


Volkischer Beobachter, 21 maggio 1923

Alcune settimane più tardi, quando Karl tornò dalla banca con i
documenti dell'ipoteca affinché sua madre li firmasse, vide qualcosa sul
montante della porta di casa. Si fermò e guardò meglio.
Una mezuzah, una pergamena ebraica.
Estrasse il coltellino tascabile e la strappò dal legno, poi entrò.
«Mamma, di cosa si tratta?» chiese, lasciando cadere l'oggetto sul
tavolo.
Lei guardò nella sua direzione con i suoi grandi occhi marrone
intelligenti. I capelli castani erano striati di grigio. Immediatamente dopo
la morte di papà aveva perso peso considerevolmente e non l'aveva mai
riacquistato. Una volta era vivace e felice, aveva un sorriso contagioso che
le creava due fossette nelle guance. Adesso era pallida e tranquilla.
Sembrava che si fosse ristretta, nel corpo e nello spirito.
«Sai molto bene di cosa si tratta, Karl.»
«Ma non ti ho avvertita di non metterlo fuori?»
«Deve stare fuori.»
«Non di questi tempi, mamma. Non è salutare.»
«Dovresti essere orgoglioso di essere ebreo.»
«Non sono ebreo», disse lui.
Gli sembrava che avessero fatto questa discussione centinaia di volte di
recente, ma sua madre non voleva capire. Suo padre, il colonnello, era
stato cristiano, sua madre ebrea. Karl aveva deciso che non sarebbe stato
né l'uno né l'altro. Era ateo, uno scettico, un libero pensatore, un
intellettuale. Era tedesco per lingua e nascita, ma preferiva pensare a se
stesso come a un cittadino internazionale. I paesi e i confini delle nazioni
dovrebbero essere aboliti, e un giorno lo saranno.
«Se tua madre è ebrea», disse lei, «tu sei ebreo. Non puoi sfuggire a que-
sto fatto. Non ho paura di dire al mondo che sono ebrea. Non ero molto
osservante quando tuo padre era vivo, ma adesso che se n'è andato...»
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
Karl si sedette vicino a lei e le prese la mano tra le sue.
«Mamma, ascolta. Il paese è pervaso da sentimenti antisemiti di questi
tempi. Sono sicuro che finiranno, ma in questo momento stiamo vivendo
in un paese incredibilmente orgoglioso che ha perso una guerra e che vuole
incolparne qualcuno. Alcune delle persone più cattive hanno scelto gli
ebrei come capro espiatorio. Quindi fino a quando il paese non si rimette
in equilibrio, penso che sia meglio non farsi notare troppo.»
Il sorriso di lei era fiacco. «Se lo dici tu, caro.»
«Bene.» Aprì il raccoglitore che aveva portato dalla banca. «E adesso
dedichiamoci alle carte. Questi sono gli ultimi documenti per l'ipoteca,
pronti da firmare.»
La mamma si strinse le mani. «Sei sicuro di fare la cosa giusta?»
«Assolutamente sicuro.»
In realtà, adesso che gli ultimi documenti erano pronti, stava avendo dei
ripensamenti.
Karl aveva organizzato le cose in modo da prendere in prestito fino
all'ultimo centesimo che la banca gli avrebbe dato sulla proprietà della
madre. Ricordava come si era sentito a disagio al bagliore avido negli
occhi del funzionario di banca, quando aveva firmato le carte.
Immaginavano rovesci finanziari, debiti di gioco, forse, un bisogno
disperato di denaro che avrebbe inevitabilmente portato al mancato
pagamento e all'appropriazione da parte della banca. Gli occhi del
presidente della banca avevano brillato al di sopra degli occhiali da lettura,
c'era mancato poco che si sfregasse le mani anticipando quanto sarebbe
successo.
Dubbi e paura si impadronirono di Karl adesso mentre la penna di sua
madre passava sopra la riga per la firma. Si stava comportando da pazzo?
Lui era un libraio e questi erano uomini che si occupavano di finanza. Chi
era lui per presumere di saperne più di uomini che passavano le loro
giornate a trattare di denaro? Stava agendo sulla base di un capriccio,
spinto da un uomo che conosceva a malapena.
Ma si fece coraggio, ricordando le ricerche che aveva fatto. Era sempre
stato bravo con le ricerche. Sapeva come estrarre le informazioni. Aveva
saputo che Rudolf Haverstein, il presidente della Reichsbank, aveva
aumentato gli ordini di biglietti di banca e stava facendo funzionare le
presse a piena velocità e per lunghe ore. Guardò in silenzio mentre sua
madre firmava i documenti per l'ipoteca.
Aveva già chiesto prestiti personali, usando i gioielli di sua madre come
garanzia. Calcolando l'ipoteca, aveva accumulato cinquecento milioni di
marchi. Se li convertiva immediatamente, avrebbe avuto
novemilaottocento dollari per mezzo miliardo di marchi. Sembrava
assurdo. Si chiedeva chi fosse più pazzo, la Reichsbank o lui.

Oggi occorrono 500.000.000 inarchi per comprare un dollaro


americano.
Volkischer Beobachter, 1 settembre 1923

«All'inflazione galoppante», disse Ernst Drexler, toccando con il suo


bicchiere giallo quello chiaro di Karl.
Karl bevve qualche sorso dal suo bicchiere e non disse nulla. Lui ed
Ernst si erano spostati dal marciapiede caldo e luminoso di fine estate del
Romanisches Cafe, alla sala intema più scura e fresca.
Era sabato mezzogiorno e il Romanisches Cafe era quasi vuoto. Ma, in
fondo, chi poteva permettersi di mangiare fuori di questi tempi?
Solo i ladri e gli speculatori di valuta.
Quattro mesi prima Karl non lo aveva creduto possibile, ma per un certo
periodo sì erano davvero divertiti con l'inflazione.
Adesso la cosa stava diventando spaventosa.
Perché adesso, a meno di quattro mesi dopo aver preso in prestito mezzo
miliardo di marchi, i suoi novemilaottocento dollari americani valevano
quasi cinque triliardi di marchi. Cinque triliardi. Il numero non aveva sen-
so. Faceva fatica a immaginare persino un miliardo di marchi, e lui
controllava cinquemila volte quella cifra.
«Mi sono reso conto proprio oggi», bisbigliò Karl, «che sono in grado di
pagare il mio debito di mezzo miliardo di marchi con un biglietto da un
dollaro.»
«Non farlo», gli disse rapidamente Ernst.
«Perché no. Mi piacerebbe non avere debiti.»
«Lo farai. Aspetta.»
«Fino a quando?»
«Non passerà molto prima che il tasso di cambio sarà di un miliardo di
marchi per dollaro. Non sarebbe molto più divertente pagare la banca con
una sola moneta americana?»
Karl fissò il bicchiere. Questo gioco non lo divertiva più. La gente aveva
perso fiducia nel marco. E a buona ragione. Il suo valore stava
precipitando. In soli trenta giorni era sceso da un milione per dollaro a
mezzo miliardo per dollaro. I numeri affollavano i margini delle
banconote, file interminabili di zero senza alcun significato. Nonostante
stampasse per ventiquattro ore al giorno, la zecca della Reichsbank non
poteva far fronte alla domanda. Sopra ai biglietti da un milione di marchi
veniva stampato DIECI MILIONI in grandi lettere nere. I lavoratori erano
passati da un salario quindicinale a uno settimanale, e adesso venivano
pagati giornalmente. Alcuni chiedevano di essere pagati due volte al
giorno in modo da poter usare l'intervallo di pranzo per andare a spendere
lo stipendio prima che perdesse valore.
«Ho paura, Ernst.»
«Non preoccuparti. Ti sei messo al sicuro. Non hai niente da temere.»
«Sono spaventato per i nostri amici e vicini. Per la Germania.»
«Oh, quello.»
Karl non capiva come Ernst potesse essere così sprezzante verso la
miseria che cresceva costantemente intorno a loro come un fiume
ingrossato. Karl ne era oppresso. Si sentiva in colpa, aveva quasi vergogna
di essere al sicuro sul suo letto di valuta straniera.
Ernst bevve fino all'ultima goccia di assenzio, e alzò gli occhi che
brillavano.
«Andiamo a fare una passeggiata, vuoi? Andiamo a vedere come se la
passano i tuoi amici e vicini in questa bella giornata.»
Karl lasciò il suo schnapps e lo seguì in strada. Camminavano lungo
Budapesterstrasse finché arrivarono a una panetteria.
«Guarda», disse Ernst, indicando col suo lungo bastone nero. «Una riu-
nione mondana.»
Karl inorridì al sarcasmo. La lunga coda di uomini, donne, giovani e
vecchi con le facce tese e gli occhi ansiosi stavano in fila davanti alla porta
e lungo il marciapiede. Non si poteva proprio definire una riunione monda-
na. Code per il pane, per la carne, il latte, per tutti i beni di prima necessità,
erano diventate talmente comuni che venivano date per scontate. I clienti
stavano lì con i loro sacchetti di carta, i sacchi di tela e ceste di vimini
pieni di marchi, spostando il peso del corpo da un piede all'altro,
spingendo avanti, stando attaccati alla persona che li precedeva, per evitare
che qualcuno cercasse di infilarsi in mezzo, continuando a contare i propri
marchi con la mente, sperando che fosse avanzato qualcosa da comprare
quando arrivavano al bancone, sperando che il loro denaro nel frattempo
non si fosse svalutato troppo.
Karl non si era mai trovato in una di queste file. Non era necessario.
Doveva solo fare una telefonata o mandare un biglietto al macellaio e al
panettiere elencando le cose di cui aveva bisogno e dicendo che avrebbe
pagato in valuta americana. Entro pochi minuti il commerciante sarebbe
stato alla sua porta con l'ordine. Non provava piacere, né alcun senso di
superiorità, nella sua capacità di farsi portare a casa le cose necessarie,
solo sollievo che sua madre non dovesse assoggettarsi alla fame e all'ansia
di queste povere anime.
Mentre Karl guardava, un ragazzo si avvicinò al centro della coda dove
una giovane donna aveva appoggiato un cesto di vimini pieno di marchi
sul marciapiede. Mentre le passava accanto, afferrò un manico della cesta,
lo girò, rovesciandone fuori i soldi, poi scappò via con il cesto. La donna
gridò, ma nessuno si mosse per fermarlo. Nessuno voleva perdere il posto
in coda.
Karl iniziò l'inseguimento, ma Ernst lo trattenne.
«Non preoccuparti. Non lo prenderai mai.»
Karl guardò la giovane donna che raccoglieva i soldi sparsi per terra e
riprendere il suo posto in coda, piangendo. Il cuore gli si spezzò per lei.
«Questo deve finire», disse a Ernst. «Qualcuno deve fare qualcosa.»
«Ah, sì», rispose Ernst, annuendo saggiamente. «Ma chi?»
Continuarono a camminare. Mentre si avvicinavano a un angolo, Ernst
all'improvviso alzò il bastone e lo premette contro il torace di Karl.
«Ascolta. Cos'è questo rumore?»
Più avanti, all'incrocio, il traffico si era fermato. Anziché il rumore dei
motori a combustione interna, Karl sentiva qualcos'altro. Altri suoni, più
bassi, meno ritmici, riempivano l'aria. Una cacofonia caotica di colpi e di
passi, accompagnata da un coro diatonico di cigolii e squittii dai toni alti.
E poi comparvero alla vista zoppi, ciechi, senza membra, istupiditi, gli
straccioni sfigurati di due guerre: i pochi rimasti veterani della guerra
franco-prussiana del 1870 figure piegate e inaridite tra i settanta e gli
ottant'anni, che avevano assediato Parigi e proclamato Wilhelm di Prussia
imperatore della Germania nella Sala degli Specchi di Versailles, stavano
alla testa di un corpo molto più numeroso di sopravvissuti patetici della
disastrosa grande guerra, la guerra che doveva por fine a tutte le guerre, gli
uomini valorosi i cui capi sconfitti cinque anni prima avevano bassamente
acconsentito a riparazioni impossibili nella stessa Sala degli Specchi.
Karl guardava sbalordito mentre un giovane con un solo braccio passava
a pochi metri da lui, trascinandosi dietro una sedia a rotelle su cui giaceva
un uomo senza arti, poco più di una testa con un torace. Nessuno dei due
era molto più vecchio di lui. La parata del Grand Guignol era piena di
queste frazioni di uomini e dei loro compagni ciechi, sordi, zoppi e
saltellanti. Karl sapeva che avrebbe bene potuto trovarsi tra loro se fosse
nato un anno o due prima.
Alcuni portavano cartelli che imploravano, pregavano, esigevano
pensioni più alte e assegni di invalidità; tutti avevano un aspetto stanco e
sconfitto, ma soprattutto si vedeva che avevano fame. Qui c'erano le
vittime più penose dell'inflazione galoppante.
Karl si mise in fila con loro e si tirò dietro Ernst.
«Davvero», disse Ernst, «questa non è per niente la mia idea di un
pomeriggio divertente.»
«Dobbiamo dimostrare loro che non sono soli, che non li abbiamo
dimenticati. Dobbiamo dimostrare al governo che li appoggiamo.»
«Non servirà a niente», disse Ernst, mettendosi al passo con lui bron-
tolando. «Ci vuole tempo perché il governo autorizzi un aumento delle
pensioni. E anche se viene approvato, nel momento in cui diventerà
effettivo, l'aumento avrà già perso di valore.»
«Questo non può continuare!» gridò Karl. «Qualcuno deve fare qualcosa
per questo caos.»
Ernst puntò il suo bastone nero davanti a lui. «Ecco un suggerimento.»
Sull'angolo c'erano due uomini in abbigliamento paramilitare con la ca-
micia marrone e berretto. Sull'avambraccio avevano delle bande rosse su
cui era ricamata una strana croce nera piegata dentro a un cerchio bianco.
Reggevano uno striscione:

VENITE DA NOI CAMERATI!


ADOLF HITLER VI AIUTERÀ!

«Hitler», disse Karl lentamente. «L'hai già nominato, o sbaglio?»


«Sì. Il Gefreiter austriaco. Sarà a quella grande riunione fascista a
Norimberga domani per commemorare qualcosa. Spero di riuscire ad
andare a sentirlo ancora. È un oratore meraviglioso. Vuoi venire con me?»
Karl aveva sentito parlare della riunione, come tutto il resto della
Germania. Nella città bavarese erano attesi oltre duecentomila veterani e
membri di ogni gruppo paramilitare di destra del paese, per celebrare l'an-
niversario della battaglia di Sedan, nella guerra franco-prussiana.
«Non credo. Non mi piacciono le grandi folle. Soprattutto le grandi folle
di fascisti.»
«Qualche altra volta, allora. Ti chiamerò quando si riuniranno per un in-
contro nella birreria di Monaco. Lo fanno spesso. In quel modo avrai l'im-
patto completo della sua oratoria. Veramente divertente.»
Adolf Hitler, pensò Karl, mentre superava gli uomini con le camicie
marroni con le strane bande sulle braccia. È possibile che sia lui il
salvatore della Germania?»
«Sì», disse a Ernst. «Chiamami. Voglio sentire quest'uomo.»

Oggi occorrono 200.000.000.000 inarchi per comprare un dollaro


americano.
Volkischer Beobachter, 22 ottobre 1923

«È come entrare in un altro paese», mormorò Karl in piedi sulla


banchina della stazione di Monaco.
«Non è per niente un altro paese», rispose Ernst, che era in piedi accanto
a lui, mentre aspettavano che un facchino prendesse le loro borse.
«Solamente un accampamento armato pieno di gente altrettanto tedesca
quanto noi. Forse anche di più.»
«Gente innamorata delle divise.»
«E cosa ci potrebbe essere di più tedesco?»
Ernst gli aveva mandato un messaggio la settimana prima, scribacchiato
nella sua calligrafia inclinata all'indietro sul retro vuoto di una banconota
da cento milioni di marchi. Anche con tutte le zecche che lavoravano a
pieno regime, la Reichsbank si era vista costretta a stampare i nuovi
marchi solo da un lato per poter tenere il passo con la sempre crescente
domanda di banconote. Ernst aveva trovato divertente usare il lato vuoto
delle banconote dei tagli più piccoli come cancelleria. E questo biglietto
invitava Karl a recarsi a sud a sentire Herr Hitler.
Karl adesso avrebbe voluto aver ignorato l'invito. Una sensazione di
freddo lo aveva percorso quando il treno era entrato in Baviera, era iniziato
all'imboccatura dello stomaco, poi gli aveva preso il torace ed era salito
per la spina dorsale fino al collo, da dove adesso gli insinuava dita ghiac-
ciate intorno alla gola. Divise... divise militari dappertutto, che ciondola-
vano nei paraggi della stazione, che marciavano per le strade, in piedi negli
angoli, e nessuno di loro che portasse il grigio confortevolmente familiare
delle truppe regolari della Reichswehr. Uomini giovani, di mezza età, ve-
stiti di marrone e di nero, blu e verde, tutti con occhi vigili e sospettosi e
facce tirate e ostili.
Qualcosa di sinistro stava crescendo al sud, qualcosa di poco pulito,
qualcosa di pericoloso.
«Sono i tempi», disse a se stesso. «Solo un altro aspetto di questo caoti-
co Zeitgeist.» Naturale che la Baviera sembrasse un accampamento arma-
to. Meno di tre settimane fa il suo gabinetto, sbalordito da quello che
aveva interpretato come la sottomissione codarda di Berlino alla continua
presenza delle truppe franco-belghe nella valle della Ruhr, aveva
dichiarato lo stato d'emergenza e sospeso la Costituzione di Weimar entro i
suoi confini. Gustav von Kahr era stato dichiarato Generalstaatskommissar
della Baviera con poteri dittatoriali. Berlino aveva lanciato minacce ma
fino a ora non aveva fatto alcuna mossa contro lo stato meridionale
belligerante, preferendo per il momento le strade della diplomazia.
Ma quanto sarebbe durato? I comunisti del nord stavano cercando di
dare l'avvio a una rivoluzione in Sassonia, convocando ad aderire
all'«ottobre tedesco», e i bavaresi più radicali stavano organizzando una
marcia su Berlino contro l'impotenza del governo centrale nelle questioni
interne e internazionali, specialmente per quanto riguardava la finanza e la
moneta.
La moneta... quando il marco era precipitato a cinque miliardi per un
dollaro, due settimane prima, Karl aveva estinto l'ipoteca sulla proprietà e
il prestito sui gioielli della madre con dieci centesimi americani, con quello
che gli americani chiamavano un «dime».
Doveva succedere qualcosa. Le cariche erano sistemate, la miccia
accesa. Dove sarebbe stata l'esplosione? Quando?
«Pensa a loro come a uccelli umani», disse Ernst, indicando alla sua
sinistra due gruppi con divise diverse. «Puoi dire di chi si tratta dalle loro
piume. I grigi sono soldaten... soldati regolari della Reichswehr, natural-
mente. I grigi sono la polizia di stato della Baviera. E quando ci spostere-
mo per Monaco vedrai la polizia cittadina regolare, vestita di blu.»
«Grigio, verde, blu», mormorò Karl.
«Giusto. Questi sono i colori ufficiali. I colori non ufficiali sono il mar-
rone e il nero. Appartengono in modi diversi agli S.A. nazisti, i cosiddetti
reparti d'assalto e alla Reichskriegsflagge e alle unità delle Bund
Oberland.»
«E così fuorviante.»
«Lo è. La Baviera è stata la culla del fascismo sin dalla guerra, ma per la
maggior parte era una cosa frammentaria, un quantitativo innumerevole di
rigogliosi gruppuscoli paramilitari. Ma di questi tempi le cose sono diver-
se. I gruppi si stanno coalizzando e adesso le tre fazioni principali si sono
alleate in qualcosa che si definisce Kampfbund.»
«Il gruppo di battaglia?»
«Precisamente. E sono decisamente pronti per la battaglia. Ci sono più
depositi di fucili e di mitragliatrici seppelliti e nascosti nelle cantine di
Monaco e dintorni di quanti Berlino ne possa immaginare nei suoi incubi
peggiori. I nazisti di Hitler sono la fazione dominante del Kampfbund, e
proprio in questo momento lui e il governo della Baviera sono in
disaccordo. Hitler vuole marciare su Berlino, il Commissario Generale
della Baviera, Kahr, no. Al momento, Kahr è in posizione di vantaggio. Ha
la Polizia Verde, la Polizia Blu, e le truppe regolari della Reichswehr per
tenere in riga il Kampfbund. La domanda è, fino a quando riuscirà a
conservare la loro lealtà, dal momento che il cuore di molti di loro è negli
accampamenti nazisti, e i discorsi di Hitler agitano sempre di più la causa
nazista?»
Karl sentiva la morsa fredda stringerglisi attorno alla gola. Desiderò che
Ernst non lo avesse portato a Monaco. Desiderava non aver accettato.
«Forse non è un buon momento per trovarsi qua.»
«Sciocchezze!» gridò Ernst. «È il momento migliore! Non senti l'eccita-
zione nell'aria? Non senti le forze enormi al lavoro intorno a noi? Fermati
e ascolta, e udrai i denti della ruota cosmica mettersi in movimento. Le
nuvole si sono addensate e stanno preparando le scariche. I fulmini della
storia stanno per colpire, e noi siamo vicino al punto in cui succederà. Lo
so con la stessa certezza con cui so il mio nome.»
«Il fulmine può essere mortale.»
«Il che rende la cosa anche più divertente.»

«Perché una birreria?» chiese Karl mentre si sedevano nella enorme sala
principale del Burgerbraukeller.
«Perché Monaco è il cuore del paese che beve la birra», disse Ernst. Una
cameriera formosa appoggiò un paio di boccali da litro di birra chiara sul
tavolo di assi di legno grezzo davanti a loro. «Se vuoi raggiungere queste
persone devi parlar loro quando bevono birra.»
Il Burgerbraukeller era enorme, e si ergeva su un appezzamento di ter-
reno di discrete proporzioni sul lato orientale del fiume Isar che tagliava la
città in due. Dopo lo Zirkus Krone era il luogo d'incontri più grande di
Monaco. Sparsi all'interno di questo vasto complesso si trovavano diversi
distinti bar e ristoranti, ma il centro era costituito dalla sala principale che
poteva ospitare tremila persone. Quella sera tutti i posti erano occupati, e
coloro che erano arrivati in ritardo stavano in piedi nei corridoi e affollava-
no il fondo della sala.
Karl bevve qualche sorso di birra per mandar giù un boccone di
salsiccia. Tutto intorno a lui c'erano uomini vestiti di nero e di varie
gradazioni di marrone, tutti impazienti dell'arrivo del Führer. Ma vide
alcune persone in giacca e cravatta, e anche qualcuno che indossava i
tradizionali calzoni corti di pelle bavaresi e i cappelli tirolesi. Karl e Ernst
avevano fatto immediatamente amicizia con i loro vicini di tavolo
dividendo con loro un grosso piatto di formaggio, pane e salsicce che
avevano ordinato nella cucina piena di movimento. Anche se non erano in
divisa, non affiliati ad alcuna organizzazione, e non indossavano delle
fasce sul braccio, i due nuovi venuti di Berlino adesso erano considerati
Komraden dalla gente del posto che divideva il loro lungo tavolo. Furono
accettati con ancora maggior entusiasmo quando Ernst menzionò il fatto
che Karl era il figlio del colonnello Stehr, che aveva combattuto ed era
morto nelle Argonne.
Karl pensò che era molto meglio essere accettati come camerati che il
contrario. Aveva ascoltato le conversazioni che si tenevano al tavolo, i
ripetuti riferimenti in tono riverente ad Adolf Hitler come all'uomo che
avrebbe salvato la Germania da tutti i suoi nemici, sia interni che
internazionali, e che avrebbe riportato la terra dei padri alla gloria che
meritava. Karl intuiva che nemmeno il potere di Dio sarebbe stato
sufficiente a salvare qualcuno che in questa folla avesse osato dire
qualcosa contro Herr Hitler.
L'aria caliginosa era piena degli odori di qualsiasi birreria: di luppolo e
di malto versato, di fumo di tabacco, l'odore penetrante dell'aglio sulle
salsicce che si stavano cuocendo, di formaggio saporito, di corpi sudati, e
di attesa piena d'ansia. Karl stava finendo il suo ultimo boccale quando si
accorse di una certa agitazione tra la folla. Qualcuno con una cicatrice in
faccia era arrivato sul palco. Disse alcune parole tra la confusione che
aumentava e finì con il presentare Herr Adolf Hitler.
Con il fragore di un tuono la folla si alzò gridando: «Heil! Heil!»,
mentre un uomo minuto, alto circa un metro e settanta, che avrebbe potuto
avere un'età qualsiasi tra i trentacinque e i quarantacinque anni, salì i
gradini che portavano al palco. Indossava una giacca di lana marrone, una
camicia bianca con il colletto rigido, una cravatta sottile, con dei pantaloni
al ginocchio e calze marroni sulle corte gambe arcuate. Portava i capelli
marroni diritti con una riga sulla destra e pettinati sulla parte alta della
fronte, aveva un colorito giallastro, quasi giallo, e delle labbra sottili sotto
dei corti baffetti. Camminava piegato leggermente in avanti con la testa
inclinata a sinistra, e le mani infilate nelle tasche della giacca.
È questo l'uomo che chiamano Führer? Sembra un negoziante, o un
impiegato governativo, pensò Karl. È questo l'uomo che pensano salverà la
Germania? Erano forse tutti impazziti o ubriachi... o entrambe le cose?
Hitler raggiunse il podio e fissò il pubblico in attesa, e fu allora che Karl
ebbe il primo squarcio degli occhi indimenticabili di quell'uomo.
Brillavano come fari dalla loro cavità, forando la stanza, sconcertando Karl
col loro sorprendente fuoco azzurro. Guizzando ipnotici, pieni di
fanatismo, passavano in rassegna la stanza, tranquillizzandola, sfidando
un'altra voce a interrompere la sua.
E poi iniziò a parlare, con quel sorprendente tono da baritono che si
alzava e si abbassava come in un'opera di Wagner, gettando degli
improvvisi suoni gutturali nell'aria che mettevano enfasi come fossero
state pietre delle dimensioni di un pugno.
Per i primi dieci minuti parlò con voce pacata, rigidamente in piedi con
le mani intrappolate nelle tasche. Ma mentre la sua voce si alzava, e la
passione si faceva più potente, le mani si liberarono, fini, gradevoli, mani
con lunghe dita che svolazzavano come piccioni e scendevano in picchiata
come falchi, che poi si stringevano in un pugno per colpire la cima del
podio, con colpi che sembravano inferti con una mazza.
I minuti passavano, trasformandosi in un'ora, poi due. Dapprima Karl
era riuscito a conservarsi distaccato, facendo a pezzi le parole di Hitler,
separando le verità scelte con attenzione dalle mezze verità e dalle bugie
aperte. Poi, nonostante se stesso, iniziò a crollare sotto il magnetismo
dell'uomo. Questo Adolf Hitler era un oratore talmente appassionato, così
preso dalle sue parole, che uno doveva seguirlo, qualunque fossero le
falsità e la logica speciosa della sua oratoria. Non ci poteva essere alcun
dubbio che quest'uomo credeva inequivocabilmente in ogni parola che
diceva, e in qualche modo trasferiva queste ferventi convinzioni al suo
pubblico, cosicché anche loro si convincevano inalterabilmente della verità
di ciò che diceva.
E non fu mai più convincente di quando chiamò tutti i leali tedeschi a
rispondere alla richiesta d'aiuto di una Germania malata e indebolita, non
solo malata finanziariamente ed economicamente, ma una Germania sul
proprio letto di morte da un punto di vista intellettuale e morale. Non vi
era alcun dubbio che la Germania fosse malata, messa a terra da una
malattia che non si può guarire con impiastri e unguenti e purganti. La
Germania aveva bisogno di una chirurgia radicale: quelle parti che erano
malate e incancrenite e stavano avvelenando il resto del sistema dovevano
essere eliminate e bruciate prima che la guarigione potesse iniziare.
Karl ascoltava e rimaneva estasiato, inchiodato, incurante del tempo, pri-
gioniero di quella voce e di quelle parole.
E poi quest'uomo, questo Adolf Hitler, in piedi sul podio, bagnato dal
sudore, coi capelli attaccati alla fronte, agitando le mani, invitava tutti i
leali tedeschi a cui importava della loro madre patria a riunirsi intorno al
Partito nazista, e a marciare su Berlino, dove avrebbero ottenuto la
promessa dalla debole Repubblica di Weimar di bandire comunisti ed ebrei
da ogni posizione di potere e di scacciare le truppe francesi e belghe dalla
valle della Ruhr, e una volta ancora rendere inviolati i confini della patria.
Oh, perdio, ci sarebbe stato un nuovo governo in carica a Berlino, uno che
avrebbe riportato la Germania alla grandezza a cui era destinata. La
miseria della Germania doveva essere debellata dalla forza della
Germania. Il nostro giorno è giunto! Il momento è adesso!
La grande sala impazzì mentre Hitler faceva un passo indietro
permettendo alle ovazioni deliranti di più di tremila voci di far tremare i
muri e le travi accanto a lui. Persino Karl si alzò in piedi, pronto ad agitare
in aria il pugno e a gridare con quanto fiato aveva in gola. All'improvviso
si sorprese.
Cosa sto facendo?

«Bene, cosa te ne è sembrato del Gefreiter?» chiese Ernst. «Del nostro


appuntato impettito?»
Erano usciti sulla Rosenheimerstrasse, e stavano tornando all'albergo, e
le orecchie di Karl avevano finalmente smesso di rintronare. Davanti a
loro, nel buio, la foschia che si alzava dal fiume Isar scintillava
nell'incandescenza delle luci che delineavano il ponte Ludwig.
«Penso che sia l'oratore più magnetico, potente e affascinante che abbia
mai sentito. In modo addirittura spaventoso.»
«È evidentemente pazzo, totalmente lunatico. Un capolavoro di sofisti-
cheria iperbolica, ma non oserei dire spaventoso.»
«È così... così... antisemita.»
Ernst si strinse nelle spalle. «Lo sono tutti. È solo retorica. Non significa
nulla.»
«È facile dirlo per te.»
Ernst si fermò e rimase a fissare Karl. «Aspetta. Non mi stai dicendo...?»
Karl si girò e annuì silenziosamente al buio.
«Ma il colonnello Stehr non era...»
«Sua moglie sì.»
«Santo cielo, amico! Non avevo idea!»
«Bene, cosa c'è di tanto strano? Cosa c'è di male nel fatto che un
ufficiale tedesco sposi una donna che, guarda caso, è ebrea?»
«Niente, naturalmente. È solo che uno si abitua talmente tanto a questi
militari e alle loro...»
«Sapevi che il generale von Seeckt, comandante dell'intero esercito tede-
sco, ha una moglie ebrea? E anche il cancelliere Stresemann.»
«Naturalmente. I nazisti lo ripetono in ogni occasione.»
«Giusto! Siamo dappertutto!» Karl si calmò con sforzo. «Mi dispiace,
Ernst. Non so perché me la sono presa tanto. Non mi considero nemmeno
un ebreo. Sono un essere umano. Punto.»
«Forse, ma per la legge ebraica, se la madre è ebrea, lo sono anche i
figli.»
Karl lo fissò. «Come lo sai?»
«Lo sanno tutti. Ma non ha importanza. Le persone del posto che
abbiamo conosciuto ti conoscono come il figlio del colonnello Stehr.
Questo è ciò che avrà importanza qua nella settimana che seguirà.»
«Nella settimana che seguirà? Non torniamo a Berlino?»
Ernst lo afferrò per il braccio. «No, Karl. Ci fermiamo. Le cose stanno
arrivando a un punto critico. I prossimi giorni si annunciano come
estremamente divertenti.»
«Non dovrei...»
«Torniamo in albergo. Ti farò un po' di assenzio. Sembra che ti possa
fare comodo.»
Karl ricordò il sapore amaro, poi si rese conto che probabilmente quella
sera gli avrebbe fatto bene dimenticare un po'.
«Va bene», disse. «Ma solo uno.»
«Eccellente! Assenzio stasera, e noi faremo i nostri programmi per il
futuro domattina.»

Oggi occorrono 4.000.000.000.000 marchi per comprare un dollaro


americano.
Volkischer Beobachter, 8 novembre 1923

«Herr Hitler stasera parlerà a Freising», disse Ernst mentre


camminavano nell'aria fresca del mattino, superando chiese con le cupole
rotonde e case color pastello che sarebbero sembrate più al loro posto
lungo il Tevere che lungo l'Isar.
«Quanto dista?»
«Circa trenta chilometri a nord. Ma ho un'idea migliore. Gustav von
Kahr, l'onorevole dittatore della Baviera, stasera parlerà al
Burgerbraukeller.»
«Preferirei ascoltare Hitler.»
Novembre era arrivato da più di una settimana, e Karl era ancora a
Monaco. Si aspettava che sarebbe tornato a casa molto tempo prima ma si
era trovato troppo preso da Hitler per andarsene. Era una strana attrazione,
ne era allo stesso tempo affascinato e ne provava repulsione. Era l'uomo
che avrebbe potuto prendere le fazioni in lotta della Germania e farle
diventare una sola, ma poi avrebbe potuto portare la rovina sulla
Costituzione di Weimar. Ma dove sarebbe stata la costituzione per la fine
dell'anno quando sulle vecchie banconote da un marco veniva stampato
EINE BILLION?
Karl si sentiva come un passero affamato che contempla l'offerta di una
vipera di curargli il nido mentre va a caccia di cibo. Di certo il suo nido
sarebbe ben protetto dagli altri uccelli durante la sua assenza, ma potrebbe
contare sul fatto di trovarvi ancora un uovo al suo ritorno?
A Monaco aveva parlato con un certo numero di ebrei, per la maggior
parte negozianti, portando la conversazione sui gruppi del Kampfbund, e
di Hitler in particolare. Gli sconvolgimenti sismici nell'economia li
avevano prostrati e resi disperati, sicuri che il loro paese sarebbe stato in
rovina per la fine dell'anno a meno che non si fosse fatto qualcosa. La
maggior parte di loro disse che avrebbe appoggiato chiunque avesse
ripreso il controllo del caos economico e dell'inflazione galoppante. Hitler
e i nazisti promettevano delle soluzioni definitive. E che importanza
poteva avere se per un po' il paese avesse dovuto vivere sotto una
dittatura? Niente, niente, poteva essere peggio di questo. Dopo tutto, il
Kaiser non era stato un dittatore? E le cose erano andate sicuramente
meglio sotto di lui che durante la Repubblica di Weimar, con la sua
costituzione che garantiva così tante libertà. A che cosa serviva la libertà
di stampa, di parola e di assemblea, se morivi di fame? E per quanto
riguardava l'antisemitismo, la maggior parte degli ebrei di Monaco faceva
eco all'atteggiamento di rifiuto di Ernst. Pura retorica. Nient'altro che
discorsi duri per eccitare i bevitori di birra.
Ancora a disagio, Karl si sentiva continuamente attirato a sentire i
discorsi di Hitler, allo Zirkus Krone, al Burgerbraukeller e in altre birrerie
per la città, sperando ogni volta che l'uomo avrebbe detto qualcosa per
placare le sue paure e per permettergli di abbracciare la speranza che il
nazismo offriva.
L'assenzio non faceva che alimentare questa spinta. Karl aveva iniziato a
berne un bicchiere con Ernst prima di andare ai comizi di Hitler e, di
conseguenza, aveva iniziato ad apprezzarne il gusto amaro.
Dal momento che sembrava che Hitler parlasse in continuazione.
Soprattutto successivamente al fallimento del colpo di stato comunista
ad Amburgo. Fallì perché i lavoratori tedeschi rifiutarono di schierarsi
dalla parte della bandiera rossa e le truppe della Reichswehr riuscirono
facilmente a sedare la rivoluzione il secondo giorno. Non ci sarebbe stato
un Ottobre Tedesco. Ma il tentativo era stato un incitamento per i gruppi
del Kampfbund che li aveva quasi portati all'isterismo. Karl vide più divise
nelle strade di Monaco di quante non ne avesse visto a Berlino durante la
guerra. Ed Herr Hitler stava lì in mezzo, agitando le scintille del fervore
patriottico fino a dar loro fuoco ogni volta che trovava un pubblico.
Karl partecipò al secondo discorso di Hitler mentre era sotto l'influenza
dell'assenzio, e in quella circostanza ebbe la sua prima allucinazione. Suc-
cesse mentre Hitler stava raggiungendo il crescendo finale: la sala ondeg-
giava davanti a Karl, la luce si affievolì, tutti i colori svanirono dalla vista,
lasciando solo sfumature di grigio che andavano dal bianco al nero. Aveva
l'impressione di essere in una stanza affollata, proprio come la birreria.
L'allucinazione svanì troppo in fretta perché Karl riuscisse a cogliere ogni
dettaglio, ma lo aveva lasciato tremante e spaventato.
La sera successiva capitò di nuovo, lo stesso flash di bianco e nero, e la
stessa susseguente scossa di paura.
Era l'assenzio, ne era sicuro. Aveva sentito dire che provocava il delirio
e allucinazioni, e anche pazzia a coloro che ne abusavano. Ma Karl non
aveva la sensazione di stare impazzendo. No, si trattava di qualcos'altro.
Non era pazzia, ma un diverso livello di percezione. Aveva la sensazione
di percepire una verità nascosta, appena dietro la portata dei suoi sensi, che
lo attraeva, che cercava di arrivare a lui. Gli sembrava di avere appena
scalfito la superficie di questa terribile verità, ma che se avesse continuato
a sforzarsi, ben presto l'avrebbe afferrata.
E sapeva come fare a estendere la sua portata: con altro assenzio.
Ernst era felice di avere trovato un altro entusiasta della sua libagione
preferita.
«Stasera dimenticati di Herr Hitler», gli disse Ernst. «Questo è meglio. I
triumviri di Baviera verranno qua di persona - Kahr, il generale Lossow e
il colonnello von Seisser. Si dice che Kahr darà un annuncio sconvolgente.
Qualcuno dice che dichiarerà l'indipendenza della Baviera. Altri dicono
che riporterà sul trono il principe Rupprecht e restaurerà la monarchia
bavarese. Non voglio perdermela questa, Karl!»
«E cosa mi dici di Hitler e del resto del Kampfbund?»
«Hanno la bava alla bocca. Sono stati invitati a prendere parte, ma non
possono prendere la parola. È chiaro, penso che Kahr stia facendo una
mossa per snobbare il Kampfbund e rendere più solida la sua posizione
come capo. Entro domani mattina, Hitler e i suoi compari si potranno
trovare inondati da un torrente isterico di nazionalismo bavarese. Questo
sarà peggio di qualsiasi sconfitta politica. Diventerebbero... irrilevanti.
Pensa al loro oltraggio, pensa alla loro frustrazione.» Ernst si sfregò le
mani con gioia. «Oh, questo sarà davvero molto divertente!»
Con riluttanza, Karl si trovò d'accordo. Sentiva che si stava avvicinando
sempre di più alla sua visione sfuggente, ma anche se il
Generalstaatskommissar Kahr tentava di togliere il tappeto da sotto ai piedi
al Kampfbund, Karl era sicuro che avrebbe avuto un sacco di opportunità
in futuro di sentire Herr Hitler.

Karl ed Ernst arrivarono presto al Burgerbraukeller, e fu un bene. La po-


lizia blu cittadina aveva chiuse le porte alle sette e un quarto, quando la
stanza si era riempita da scoppiare. Questo era un pubblico ben più di
classe di quello che attirava Hitler. Uomini d'affari ben vestiti con cappelli
a cilindro, donne in abito lungo che si mischiavano a ufficiali dell'esercito
e ai membri del gabinetto della provincia bavarese; i giornali locali erano
rappresentati dagli editori anziché da semplici reporter. Tutti a Monaco
volevano udire quello che il Generalstaatskommissar aveva da dire, e
quelli che erano rimasti sotto la pioggerellina all'esterno protestavano
furiosamente.
Erano loro i fortunati, decise Karl non appena Gustav von Kahr iniziò a
parlare. Il monarchico tarchiato, con un'incipiente calvizie, non aveva al-
cun annuncio sconvolgente da fare. Invece se se stava in piedi, curvo sul
podio a leggere con tono monotono un noioso trattato anti-marxista che
non finiva mai con Lossow e Seisser, gli altri due terzi del triumvirato in
carica, seduti sul palco dietro di lui.
«Andiamocene», disse Karl dopo quindici minuti di ronzio.
Ernst scosse la testa e guardò alla loro destra. «Guarda chi è appena
arrivato.»
Karl si girò e riconobbe la figura nel leggero impermeabile marroncino
in piedi dietro un pilastro sul fondo della sala, che si mordicchiava
un'unghia.
«Hitler! Pensavo che dovesse parlare a Freising.» La voce di Ernst si ab-
bassò mentre si rigirava nella sedia scrutando il pubblico. «Mi chiedo...»
«Cosa?»
Si abbassò verso di lui e sussurrò all'orecchio di Karl: «Mi chiedo se
Herr Hitler non abbia in mente qualcosa per stasera».
L'intestino di Karl si strinse in un nodo. «Un colpo di stato?»
«Abbassa la voce. Sì. Perché no? Il triumvirato della Baviera e la mag-
gior parte del suo gabinetto sono qua. Se io stessi programmando di pren-
dere il potere, riterrei che questo sia il posto e il momento giusti.»
«Ma tutta quella polizia di fuori?»
Ernst si strinse nelle spalle. «Forse salirà solo sul palco e si lancerà in
uno dei suoi discorsi. In ogni modo, stasera qua si potrebbe fare la storia.»
Karl guardò dietro verso Hitler e si chiese se la visione che aveva quasi
afferrato trattava di questo. Diede a Ernst una gomitata.
«Hai portato l'assenzio?»
«Naturalmente. Ma non riusciremo a prepararcelo bene qua.» Si
interruppe. «Comunque ho un'idea.»
Fece un cenno alla cameriera e le ordinò due calici di cognac. Lei lo
guardò con espressione strana, ma ritornò pochi minuti dopo e posò i
bicchieri sul tavolo vicino ai boccali di birra. Ernst tirò fuori la sua
fiaschetta d'argento dalla tasca e si versò una porzione più che generosa di
assenzio nel cognac.
«Non sta diventando giallo», disse Karl.
«Lo fa solo nell'acqua.» Ernst alzò il suo calice e ne agitò il contenuto
verdastro. «Questo era il modo preferito da Toulouse-Lautrec di diluire
l'assenzio. Lo chiamava il suo 'terremoto'.» Ernst sorrise mentre faceva
toccare il suo bicchiere con quello di Karl. «Ad avvenimenti che scuote-
ranno la terra.»
Karl sorseggiò e tossì. L'amarezza dell'assenzio era rafforzata anziché
diminuita dall'alcol. Lo mandò giù con un sorso di birra. Avrebbe versato
volentieri il resto del suo terremoto nel bicchiere di Ernst se non avesse
sentito il bisogno di ogni singola goccia dell'assenzio per raggiungere la
sua visione sfuggente. Quindi arrivò in fondo al calice, cacciando giù ogni
sorso con altra birra. Si chiedeva se sarebbe stato in grado di camminare
fuori di qua senza bisogno di aiuto alla fine della serata.
Stava appoggiando il bicchiere vuoto quando udì della grida provenienti
dall'esterno. Le porte sul fondo del salone si aprirono violentemente con un
rumore sordo mentre delle figure con degli elmetti entrarono a passo di
carica, brandendo sciabole, pistole e fucili con baionetta. Dalle loro cami-
cie marroni e dalle svastiche sulle loro fasce rosse Karl sapeva che non si
trattava della polizia.
«Truppe d'assalto naziste!» disse Ernst.
Ci fu il pandemonio. Alcuni uomini gridarono per lo stupore e l'oltrag-
gio, mentre altri urlavano: «Heil!» Alcuni strisciavano sotto i tavoli, men-
tre altri vi salivano sopra per avere una vista migliore. Le donne strillavano
e svenivano alla vista di un mitragliatore che veniva appostato alla porta.
Karl si guardava intorno alla ricerca di Hitler, e lo vide che camminava a
passo di marcia nel corridoio centrale tenendo una pistola in aria. Mentre
raggiungeva il palco sparò un colpo al soffitto.
Improvviso silenzio.
Hitler salì vicino al Commissario Generale von Kahr e si girò verso la
folla. Karl alla sua vista sbatté gli occhi. Si era tolto l'impermeabile ed era
rimasto con una giacca di cattivo taglio con una croce di ferro attaccata
sopra il petto. Sembrava... ridicolo, più un maître d'hotel di un ristorante di
terz'ordine che il salvatore della Germania.
Ma in quel momento gli occhi azzurro chiaro lanciarono il loro incante-
simo, e il baritono familiare echeggiò nella sala annunciando che una rivo-
luzione nazionale era scoppiata in Germania. Le città bavaresi di Augusta,
Norimberga, Ratisbona e Wurzburg adesso erano sotto il suo controllo, la
Reichswehr e la Polizia di stato stavano marciando dai loro
accasermamenti sotto la bandiera nazista, il governo di Weimar non
esisteva più. Un nuovo Reich nazionale tedesco si stava formando. Hitler
comandava.
Ernst rideva sotto i baffi. «Il Gefreiter sembra un cameriere che ha fatto
un colpo di stato contro il personale del ristorante.»
Karl lo udiva a stento. La visione... stava arrivando... adesso era vicina...
l'assenzio, carburato dal cognac e dalla birra, la stava portando più vicina
di quanto non fosse mai stata prima... la stanza gli tremolava intorno, i
colori stavano scomparendo...
E poi la sala del Burgerbraukeller non esistette più, e lui era nel buio...
un buio informe e silenzioso... ma non era solo. Individuò del movimento
intorno a lui nel buio che si poteva toccare...
E allora li vide.
Forme umane, sottili, pallide, sudicie, con le guance incavate, con gli
occhi sprofondati nelle orbite, vestite di stracci o completamente nude, e
sottili, così dolorosamente sottili, come scheletri coperti di pergamena at-
traverso cui ogni costola e ogni protuberanza, e nodulo dell'inguine e dei
fianchi si poteva toccare e contare, tutti traballanti, che scivolavano, perde-
vano l'equilibrio mentre procedevano a tentoni verso di lui, fuori dal buio.
Dapprincipio pensò a un sogno, una copia in forma d'incubo della marcia
dei veterani di cui era stato testimone a Berlino, ma queste... persone...
erano diverse. Non c'erano uniformi sbrindellate qua. Quelli che avevano
abiti addosso, indossavano pigiami a righe come nelle prigioni, e ce n'era-
no così tanti. Con questa fila che si stendeva a sinistra e a destra fino a
dove Karl riusciva a vedere, che si allungava fino a scomparire in distanza
dove avrebbe potuto trovarsi l'orizzonte, il loro numero era così grande da
rendere impossibile contarli... migliaia, centinaia di migliaia, milioni...
E venivano tutti dalla sua parte. Mentre si avvicinavano a lui iniziavano
a prendere velocità, finché irruppero in una corsa incerta come una man-
dria spaventata. Adesso erano più vicini... con le loro facce sparute che
erano diventate maschere di paura, le labbra sottili tese su bocche senza
denti, senza dare alcun segno che lo avevano visto... non vedeva alcuna
traccia di luce nei buchi neri che erano le loro cavità oculari... ma sobbalzò
non appena riuscì a distinguere altri particolari.
Erano stati mutilati, marchiati in realtà. Una stella a sei punte era stata
intagliata nella carne di ognuno. Sulla fronte, tra i seni, sulla pancia... una
stella di Davide sanguinante. L'unico colore che non fosse nero, bianco o
grigio era il rosso del sangue che stillava da ognuna delle sei punte
marchiate.
Ma perché stavano correndo? Che cosa li incitava alla fuga?
E poi udì una voce che gridava, dapprima debole e lontana, poi più forte:
«Alle Juden raus!» Continuava a ripetere: «Alle Juden raus! Alle Juden
raus!» Sempre più forte mentre si avvicinavano finché Karl dovette coprir-
si le orecchie con le mani per proteggerle.
«ALLE JUDEN RAUS! ALLE JUDEN RAUS!»
E poi gli furono addosso, facendogli ressa intorno, facendolo cadere in
ginocchio e poi giacere sulla faccia nella loro corsa spaventata, dimentica
di lui mentre gli camminavano addosso nella loro corsa cieca verso il
nulla. Non riuscì a rimettersi in piedi, non cercò nemmeno. Non aveva
paura di essere schiacciato perché non pesavano quasi niente, ma non
poteva alzarsi a causa del loro numero. Quindi rimase a faccia in giù al
buio, con le mani sulla testa, ad ascoltare quella voce.
«ALLE JUDEN RAUS! ALLE JUDEN RAUS!»
Dopo quella che gli era sembrata un'eternità, smisero di passare. Karl
alzò la testa. Era solo nel buio. No... non solo. Qualcun altro... una figura
solitaria si stava avvicinando. Una donna nuda, vecchia, piccola, sottile,
con lunghi capelli grigi, che si faceva strada zoppicando sulle ginocchia
doloranti per l'artrite. C'era qualcosa di familiare in lei...
«Mamma!»
Rimase paralizzato, come avesse avuto radici, incapace di distogliere gli
occhi dalla sua nudità. Sembrava così sottile, e talmente più vecchia, come
se fosse invecchiata di vent'anni. E in ogni seno vuoto c'era intagliata una
stella di Davide.
Lui singhiozzò mentre le tese le mani.
«Santo cielo, mamma! Cosa ti hanno fatto?»
Ma lei non sembrò rendersi conto della sua presenza, e gli passò accanto
zoppicando come se non esistesse.
«Mam...!»
Si girò, cercando di afferrarle il braccio mentre passava, ma si gelò in
muto stupore quando vide la montagna dietro di lui.
Tutti quei macilenti morti viventi che gli erano passati accanto erano
accatastati in un mucchio che si accumulava come le Alpi, gettati senza
attenzione come bambole rotte in un ammasso lugubre che si allungava per
miglia nel buio sopra di lui.
Solo che adesso avevano occhi. Occhi morti, che fissavano senza vedere
dalla sua parte, ognuno con una preghiera silenziosa... aiuto, salvaci, per
favore non permettere che succeda...
Sua madre era là. Doveva trovarla, tirarla fuori di là. Corse verso la torre
di carne umana ma prima che la raggiungesse i bianchi e i neri iniziarono a
brillare e a sciogliersi, sanguinando colore mentre quella dannata voce cre-
sceva sempre più forte... «ALLE JUDEN RAUS! ALLE JUDEN RAUS!»
E Karl conosceva quella voce. Che il cielo lo aiuti, la conosceva.
Era la voce di Adolf Hitler.
All'improvviso si ritrovò nel Burgerbraukeller, in piedi, a fissare Adolf
Hitler che stava fermo sul podio. Erano passati solo pochi secondi. Era
sembrato un tempo molto più lungo.
Mentre Hitler finiva il suo discorso, i triumviri Kahr, Lossow e Seisser
vennero fatti scendere dal podio dietro la minaccia di una canna di fucile.
E Hitler era là in piedi a gambe larghe e le braccia strette sul petto, che
osservava con aria di sfida trionfale la folla stupita che si riuniva e
mormorava davanti a lui.
Adesso per Karl quello che aveva visto era chiaro. L'odio di Hitler non
era solo retorica. Questo pazzo intendeva davvero quello che diceva. Ogni
singola parola. Voleva la distruzione degli ebrei tedeschi, degli ebrei
ovunque. E adesso, qui in questa birreria, stava afferrando il potere per
fare proprio questo. E ci stava riuscendo!
Doveva essere fermato!
Mentre Hitler si girava a guardare i triumviri che venivano scortati via,
Karl si spostò in avanti, col braccio alzato, il dito puntato, pronto ad
accusare, a urlare una denuncia. Ma dalla sua gola non uscì alcun suono.
Le sue labbra si muovevano, i polmoni pompavano, ma le sue corde vocali
erano bloccate. Rauchi sibili faticosi erano gli unici suoni che riusciva a
fare.
Ma quei suoni non erano sufficienti per attirare l'attenzione delle truppe
d'assalto naziste. I più vicini si girarono e gli puntarono contro il fucile.
Ernst gli si infilò al fianco e lo trattenne, facendogli abbassare il braccio.
«Non sta bene», disse Ernst. «È stato malato, e l'eccitazione di stasera è
stata troppo per lui.»
Karl cercò di liberarsi da Ernst. Non gli importava delle truppe d'assalto
o delle loro armi. Queste persone dovevano ascoltare, dovevano sapere
quello che Hitler e i suoi Nazional Socialisti avevano in mente. Ma in quel
momento Hitler se ne stava andando dal palco, al seguito dei tre triumviri
prigionieri.
Nella confusione di folla spaventata ed eccitata che ne aveva seguito
l'uscita, Ernst si trascinò dietro Karl verso una delle porte laterali. Ma la
strada fu loro bloccata da un militare delle forze d'assalto con una faccia da
bambino.
«Non se ne va nessuno finché non lo dice il Führer.»
«Quest'uomo è malato!» urlò Ernst. «Sai chi era suo padre? Il colonnello
Stehr in persona. Questo è il figlio di un eroe delle Argonne! Fallo
immediatamente uscire all'aperto!»
Il giovane soldato, che di certo non poteva avere più di diciotto o dician-
nove anni, fu preso alla sprovvista dall'esplosione di Ernst. Era molto
improbabile che avesse mai sentito parlare di un colonnello Stehr, ma si
fece da parte per farli passare.
La pioggerellina si era trasformata in neve, e l'aria fredda aveva iniziato
a schiarire la testa a Karl, che però continuava a essere senza voce.
Cercando di sottrarsi al braccio di Ernst che lo sosteneva, per un po' corse
e per un po' inciampò nei terreni del Burgerbraukeller, dove adesso si
accalcavano tutti i membri entusiasti del Kampfbund. Si diresse verso la
strada, desiderando di urlare, di urlare le sue paure e avvertire la città, il
paese, che un pazzo assassino stava prendendo il potere.
Quando raggiunse il lato più lontano della Rosenheimerstrasse, trovò un
vicolo, vi si piegò e vomitò. Dopo essersi vuotato lo stomaco, si pulì la
bocca sulla manica e ritornò nel punto sul marciapiede in cui lo aspettava
Ernst.
«Santo cielo, amico», disse Ernst. «Che cosa ti è successo là dentro?»
Karl si appoggiò a un lampione e gli parlò della visione, dei milioni di
ebrei morti, della voce di Hitler e di quello che gridava.
Passò parecchio tempo prima che Ernst rispondesse. I suoi occhi aveva-
no un'espressione assente, quasi fissa, come se avesse cercato di vedere il
futuro che Karl gli aveva descritto.
«È stato l'assenzio», disse alla fine. «Il terremoto di Lautrec. Te ne sei
approfittato un po' troppo di recente, e non ci sei abituato. Lautrec è stato
rinchiuso da qualche parte per causa sua. Van Gogh si è tagliato un orec-
chio mentre ne subiva l'effetto.»
«No», rispose Karl, afferrando il davanti del cappotto di Ernst.
«L'assenzio è responsabile, te lo garantisco, ma mi ha solo aperto la porta.
Si è trattato di più che di un'allucinazione. È stata una visione del futuro,
un avvertimento. Deve essere fermato, Ernst!»
«Come? Lo hai sentito? C'è in atto una rivoluzione nazionale, e lui la sta
conducendo.»
Una risoluzione d'acciaio, fredda come la neve che stava cadendo, stava
prendendo forma dentro Karl.
«Mi è stato dato un avvertimento», disse con voce bassa a Ernst. «Non
ho intenzione di ignorarlo.»
«Cosa hai intenzione di fare? Di andartene dal paese?»
«No», rispose lui. «Ho intenzione di fermare Adolf Hitler.»
«Come?»
«Con ogni mezzo necessario.»

Non abbiamo il diritto o l'autorità di giustiziare... ancora.


Hermann Goering, 8 novembre 1923

Il resto della serata fu come un fantasma spaventoso, pieno di grida,


spari e rumori contraddittori: sì, c'era una rivoluzione nazionale; no, non
c'erano sollevamenti a Norimberga o nelle altre città.
Una cosa era chiara per Karl: c'era davvero una rivoluzione m corso a
Monaco. Per tutta la notte, lui ed Ernst vagarono per la città, incrociando
ripetutamente distaccamenti di uomini con la camicia marrone che marcia-
vano sotto la svastica. E allineati sui marciapiedi c'erano uomini e donne di
tutte le età, che li acclamavano.
Karl voleva afferrarli e scuoterli e gridar loro in faccia: «Non sapete
quello che state facendo! Non avete idea di quello che hanno in mente!»
Nessuno si muoveva per impedire il colpo di stato. La Polizia Blu, la
Polizia Verde, le truppe della Reichswehr non erano visibili da nessuna
parte. Ernst portò Karl attraverso il fiume fino al quartier generale della
Reichswehr, dove videro i membri della Reichskriegsflagge e segmenti del
Kampfbund entrare e uscire impettiti.
«È vero!» disse Karl. «Le truppe della Reichswehr sono con loro!»
Karl cercò di chiamare Berlino per sapere quello che accadeva là, ma
non riuscì a ottenere la linea. Poi andò agli uffici del Munchener Post, un
giornale che in passato era stato critico nei confronti di Hitler, ma trovò gli
uffici messi a soqquadro, le macchine per scrivere scomparse, tutte le at-
trezzature per la stampa distrutte.
«Il colpo di stato non è iniziato che da un giorno e hanno già comincia-
to!» disse Karl, in piedi sul marciapiede pieno di vetri alla cerea luce del-
l'alba, valutando i danni. «Schiacciano chiunque non sia d'accordo con
loro.»
«Sì!» gridò una voce alle sue spalle. «Schiacciateli! Stritolateli sotto i
talloni!»
Si girarono e videro un uomo di mezza età con la barba che faceva on-
deggiare una bottiglia di champagne mentre si univa a loro davanti agli
uffici del Post. Portava una striscia con la svastica sul braccio e un cappot-
to dell'esercito stracciato.
«Adesso è arrivato il nostro momento!» disse l'uomo. Trangugiò un po'
di champagne e sollevò la bottiglia. «Un brindisi! I tedeschi per i tedeschi,
e che gli ebrei vadano all'inferno!» Gettò la bottiglia a Karl. «Ecco! Il dono
di un ebreo che sta in fondo alla strada.»
Karl si sentì il torace trafitto da punte di ghiaccio.
«Davvero?» disse, prendendo la bottiglia piena per metà. «Dono?»
«In realtà, requisita.» Abbaiò una risata. «Insieme al suo orologio e ai
gioielli della moglie... dopo che erano stati arrestati.»
Una furia incontrollabile, alimentata dal crescente disagio delle due set-
timane appena passate e dagli orrori della sua visione nella birreria,
esplose in Karl. Spostò la presa sulla bottiglia e la sbatté contro la testa
dell'uomo.
«Mio Dio, Karl!» gridò Ernst.
L'uomo si irrigidì e cadde piatto sulla schiena in mezzo alla poltiglia che
si era formata, col cappotto aperto, con le braccia distese sui fianchi.
Karl lo fissò, stupefatto per quello che aveva fatto. In vita sua non aveva
mai colpito un altro uomo. Si piegò su di lui.
«Respira ancora.»
Poi vide la pistola che l'uomo portava alla cintura. La prese per il manico
e la liberò. Si drizzò, cullò la pistola tra le mani che tremavano e si girò
verso Ernst.
«Mi hai chiesto prima come avrei fermato Hitler. Ecco la risposta.»
«Sei impazzito?» disse Ernst.
«Non devi seguirmi. È più sicuro se ritorni in albergo mentre io cerco
Herr Hitler.»
«Non insultarmi. Ti starò accanto per tutto il tempo.»
Karl fissò Ernst, sorpreso e contento per la risposta. «Grazie, Ernst.»
Ernst rise, con gli occhi che gli brillavano per l'eccitazione. «Non mi
perderei questo per tutto l'oro del mondo!»

Nel corso della mattina le strade di Monaco sui due lati del fiume erano
percorse da voci contrastanti che passavano con la stessa regolarità del
tramvai: il triumvirato si è messo con Hitler... i triumviri sono liberi e stan-
no organizzando delle contromosse contro il colpo di stato... la Reichswehr
si è ribellata ed è pronta a marciare su Berlino con Hitler... la Reichswehr
sta marciando su Monaco per sconfiggere il colpo di stato proprio come ha
fatto con il tentativo comunista il mese scorso... Hitler controlla completa-
mente Monaco e il suo esercito... alcuni ufficiali giovani e alcune unità di
polizia appoggiano il colpo di stato...
Karl inseguì ogni voce, cercando di conoscere la verità, ma la verità a
Monaco sembrava essere un bene molto aleatorio. Andò avanti e indietro
sul fiume Isar, tra il quartier generale dei rivoltosi nel Burgerbraukeller
sulla riva orientale e gli uffici governativi vicino a Marienplatz a occiden-
te, con la mano destra infilata in tasca, stretta sulla pistola, alla ricerca di
Hitler. Lui ed Ernst si erano separati, immaginando che due persone potes-
sero coprire una zona più ampia se erano divise.
A mezzogiorno Karl iniziò ad avere l'idea che Hitler non avesse poi
tanto il controllo della situazione quanto gli faceva piacere far credere di
avere. E vero, le sue truppe sembravano avere una mano di ferro sulla città
a oriente del fiume, e una bandiera con la svastica sventolava da un
balcone sul Nuovo Municipio sul lato occidentale, ma Karl si era accorto
che le divise verdi della polizia bavarese di stato erano riunite alle
estremità occidentali dei ponti sull'Isar. Non bloccavano il traffico, ma
sembravano vigili. E le truppe della Settima Divisione della Reichswehr
stavano attraversando la città. Il quartier generale della Reichswehr sulla
riva occidentale era ancora sotto il controllo delle unità della
Reichskriegsflagge del Kampfbund, ma il quartier generale in sé adesso
era circondato da due battaglioni di fanteria della Reichswehr e da un certo
numero di unità di artiglieria.
La marea sta cambiando, pensò con una soddisfazione macabra Karl.
Forse alla fine non sarebbe stato necessario che usasse la pistola.
Era in piedi sul lato occidentale del ponte Ludwig, con le spalle al vento,
quando vide Ernst che si affrettava verso di lui dall'estremità più lontana.
«Vengono da questa parte!» gridò Ernst, con le guance rosse per l'ecci-
tazione e il freddo.
«Chi?»
«Tutti. Tutti quelli del colpo di stato, a migliaia. Hanno iniziato una
marcia per le vie della città. E Hitler è alla loro testa.»
Appena Ernst ebbe finito di parlare, Karl si mise a spiare tra le prime file
dei manifestanti. Nazisti in camicia marrone che portavano le loro
bandiere rosse e bianche che sbattevano e si agitavano al vento. Dietro di
loro venivano gli altri, che avanzavano a braccetto, dirigendosi
direttamente verso il ponte Ludwig. Individuò Hitler nelle prime file, con
indosso il suo impermeabile marroncino e un cappello di panno. Vicino a
lui c'era il generale Ludendorf, uno degli eroi di guerra più rispettati del
paese.
Si era radunata una folla di sostenitori e di semplici curiosi, mentre la
Polizia Verde si affrettava verso l'estremità a ovest del ponte per fermare i
manifestanti. Prima che si potesse organizzare, squadre di truppe d'assalto
sciamarono dai lati del corteo, circondandola e disarmandola.
La marcia emerse dall'altra parte del ponte senza che nessuno la potesse
fermare.
Karl rinsaldò la presa sulla pistola. L'avrebbe finita qua, adesso, senza
pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze per lui. Ma, attra-
verso la calca che lo circondava, non riusciva ad avere una visione chiara
di Hitler. E con sua grande delusione, molti spettatori si unirono alla mar-
cia al suo passare, ingrossandone ancora le file.
I manifestanti affluirono nella già affollata Marianplatz, davanti al mu-
nicipio, dove vennero accolti calorosamente e con grida di adulazione
dalle migliaia di persone che si erano raccolte là. Una interpretazione
delirante di «Deutschland über Alles» fece tremare i vetri delle finestre in
tutta la piazza e finì tra innumerevoli grida di «Heil Hitler».
Karl non riuscì mai ad avvicinarsi a meno di un centinaio di metri dal
suo obiettivo.
E adesso, con le file raddoppiate, la marcia era ripartita, questa volta
dirigendosi a nord verso Wienstrasse.
«Si stanno dirigendo al quartier generale del Reichswehr», disse Ernst.
«È circondato», disse Karl. «Non riusciranno mai ad avvicinarsi.»
«E chi li fermerà?» disse Ernst. «Chi gli sparerà addosso con il generale
Ludendorf al fianco di Hitler e con tutti quei civili che sono con loro?»
Karl sentì che le mascelle si indurivano al ricordo della visione che gli
era passata per il cervello, che portava con sé l'immagine di sua madre,
vecchia, rinsecchita, nuda e sanguinante.
«Io.»
Partì di corsa per una strada parallela a quella della marcia, distanziando
con facilità la folla che si muoveva lentamente. Calcolò che i manifestanti
dovevano arrivare in Residenzstrasse per raggiungere l'edificio della
Reichswehr. Si nascose in un portone del Feldhermhalle, vicino all'inizio
della strada, e vi si piegò, ansante per l'esercizio a cui non era abituato.
Alcuni secondi più tardi, Ernst si unì a lui, respirando quasi normalmente.
«Non era necessario che venissi», gli disse Karl.
«Certo che l'ho fatto. Siamo testimoni di un cambiamento storico.»
Karl estrasse la pistola dalla tasca della giacca. «Ma dopo di oggi ne sarà
protagonista una persona diversa da Hitler.»
All'inizio della Residenzstrasse, dove si apriva su una piazza, Karl vide
delle unità della Polizia Verde che preparavano una barricata.
Bene. La marcia avrebbe dovuto rallentare mentre si avvicinava alla bar-
ricata, e quello sarebbe stato il suo momento.
«Ecco che arrivano», disse Ernst.
Le mani di Karl iniziarono a sudare mentre cercava il suo obiettivo tra le
prime file. Quando riuscì a identificare Hitler si accorse che la presa della
pistola gli scivolava tra le mani. Ecco. Questo era il suo momento storico,
in cui avrebbe potuto trasformare la storia in modo che non si verificassero
gli orrori che la visione gli aveva mostrato.
Fu colto da un dubbio che lo strinse alla base della gola come una mor-
sa. E se la visione fosse stata sbagliata? E se si fosse trattato solo
dell'assenzio e di nient'altro? E se fosse stato sul punto di uccidere un
uomo a causa di allucinazioni da ubriaco?
Si liberò dei dubbi. No. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Hitler deve
morire. Qui. Adesso. Per mano mia.
Come aveva previsto, la marcia rallentò mentre si avvicinava alle barri-
cate, e le truppe d'assalto si avvicinarono alla Polizia Verde gridando:
«Non sparate! Siamo i vostri camerati! C'è il generale Ludendorf con noi!»
Karl sollevò la pistola, aspettando che gli si presentasse l'occasione.
Poi si aprì un passaggio tra lui e la forma di Hitler nell'impermeabile.
Adesso! Deve essere adesso!
Prese la mira, lentamente, con attenzione. Non aveva esperienza con le
pistole. Suo padre, quando era un ragazzo, lo aveva portato a caccia col
fucile, ma non vi aveva mai trovato una grossa soddisfazione. Non
provava piacere neppure in questo, era mosso solo dal senso del dovere.
Ma sapeva come prendere la mira, e davanti a lui c'era il cuore di questo
mostriciattolo che avanzava impettito. Si ricordò le parole di suo padre...
«Schiaccia, non tirare... schiaccia... fatti sorprendere dallo sparo...»
E mentre Karl aspettava di farsi sorprendere, immaginò il cilindro di
piombo affusolato che esplodeva dalla canna, volando verso Hitler, affon-
dandogli nel torace, strappandogli i polmoni e il cuore, strappandogli la
vita prima che lui potesse distruggere le vite degli sventurati, impotenti,
milioni di innocenti che odiava così tanto. Vide Hitler che si piegava e
cadeva, vide un breve, violento spasmo di rabbia e confusione mentre il
suo esercito sparava selvaggiamente in tutte le direzioni, continuando coi
tumulti finché la Polizia Verde e le unità dell'esercito regolare non si fosse-
ro chiuse intorno a loro per dividerli, per arrestarne i capi, e disperdere gli
altri. Forse si sarebbe levato qualcun altro che odiava gli ebrei, ma non
avrebbe avuto la combinazione unica di quest'uomo di magnetismo perso-
nale e potere oratorio. Il futuro che Karl aveva visto non sarebbe mai acca-
duto. La sua pallottola avrebbe tagliato il legame tra questo tempo e quel
futuro.
E quindi lasciò che il suo indice sudato accarezzasse il grilletto... schiac-
ciando...
Ma mentre la pistola sparava, qualcosa gli urtò il braccio. Il proiettile
sibilò nell'aria fredda, alto, mancando Hitler.
Il tempo si fermò. I manifestanti si immobilizzarono, qualcuno a metà
passo. Tutti a eccezione di Hitler. Adesso aveva la testa girata verso Karl,
e i suoi occhi azzurro chiaro lo cercavano tra gli androni, le finestre, fino a
fissarsi nei suoi. I due uomini si fissarono l'un l'altro per un istante, un'eter-
nità... poi... Hitler sorrise.
E con quel sorriso il tempo riprese il suo ritmo mentre l'unico colpo di
Karl stava provocando una valanga di colpi da parte della Polizia Verde e
delle truppe del Kampfbund. All'improvviso sulla Residenzstrasse ci fu il
caos. Karl guardava pieno di orrore mentre la gente correva in tutte le dire-
zioni, urlando, sanguinando, cadendo e morendo. Il marciapiede divenne
rosso e scivoloso per il sangue. Lui vide che Hitler si abbassava e si teneva
basso. Pregò che il proiettile di qualcun altro lo trovasse.
Alla fine gli spari cessarono. I fucili tacevano, ma l'aria era ancora piena
delle grida dei feriti. Karl, sorpreso, vide Hitler che lottava per rimettersi
in piedi, poi lo vide volare via lungo il marciapiede, con l'arma spianata.
Prima che lui riuscisse a riprendersi e mirare ancora con la pistola, Hitler
era saltato su una Opel berlina gialla, che lo aveva portato via.
Karl aggiunse le sue grida a quelle dei feriti. Si girò verso Ernst.
«Sei stato tu! Perché mi hai colpito il braccio? L'avevo nel mirino, e tu...
me l'hai fatto mancare!»
«Mi dispiace terribilmente», disse Ernst scrutando avidamente la
carneficina in strada davanti a loro. «È stato un incidente. Stavo
sporgendomi in avanti a guardare e ho perso l'equilibrio. Non preoccuparti.
Penso che tu abbia raggiunto il tuo scopo. Il colpo di stato è finito.»

Il colpo di stato di Monaco elimina definitivamente


Hitler e i suoi seguaci Nazionalsocialisti.
New York Times, 9 novembre 1923

Karl era fuori di sé dalla gioia quando Adolf Hitler venne catturato dalla
Polizia Verde due giorni più tardi, accusato di tradimento, e buttato in
galera. Il Partito Nazional Socialista venne smantellato e dichiarato
illegale. Adolf Hitler aveva perso il suo firmamento politico, la libertà, e
dal momento che era austriaco, c'era anche la possibilità che dopo il
processo venisse deportato.
Mentre si aspettava il processo, Karl riaprì il negozio di libri e cercò di
reinserirsi nella normale routine a Berlino. Ma la visione dello spettro di
Adolf Hitler lo perseguitava. Hitler era ancora vivo, poteva ancora
provocare gli orrori che Karl aveva visto. Lui aspettava famelico il
processo, di vedere Hitler umiliato, condannato a un minimo di vent'anni o
deportato, o ancora meglio: ucciso come traditore.
Durante i mesi che portarono al processo vide Ernst sempre meno di fre-
quente. Ernst sembrava essersi stancato di Berlino. Adesso era stata
stabilita la parità tra oro e marchi e questo aveva riportato l'inflazione sotto
controllo; il nuovo governo sembrava stabile, non c'erano altri colpi di
stato in fermentazione... la vita era molto meno «divertente».
Si incontrarono di nuovo a Monaco il giorno della sentenza di Hitler.
Come il processo, anche la sentenza si teneva nella sala delle conferenze
della vecchia scuola di Fanteria perché i tribunali regolari della città non
avevano spazio a sufficienza per le enormi folle attirate dalla cosa. Karl
non era riuscito a trovar posto dentro; né, apparentemente ci era riuscito
Ernst. Entrambi avevano dovuto accontentarsi di stare in piedi fuori sotto il
cielo luminoso di mezzogiorno ad aspettare le notizie insieme agli abitanti
della città.
«Non posso dire di essere sorpreso di vederti qua», disse Ernst, mentre si
davano la mano.
«Nemmeno io immagino che trovi tutto questo divertente.»
«Proprio.» Indicò col bastone. «Oh, cielo. Guarda quella gente.»
Karl li aveva già studiati, e lo avevano sconvolto. Migliaia di tedeschi
erano sciamati qui intorno a questo grande edifìcio di mattoni da tutto il
paese, cercando invano di entrare in tribunale. Due battaglioni della Polizia
Verde erano piazzati dietro a barriere di filo spinato per tenere lontana la
folla. Durante i venticinque giorni del processo, Karl si era mosso tra di
loro e aveva provato orrore al rendersi conto di quante persone parlassero
di Hitler con i toni reverenti di adorazione riservati ai reali o a un dio.
Oggi le donne avevano portato bouquet di fiori per Hitler, e quasi tutti
nell'enorme moltitudine indossavano nastri rossi, bianchi e neri, i colori
nazisti.
«Adesso è una figura nazionale», disse Ernst. «Prima del colpo di stato
nessuno aveva sentito parlare di lui. Adesso il suo nome è conosciuto in
tutto il mondo.»
«E quel nome ben presto sarà in galera», disse con veemenza Karl.
«Senza dubbio. Ma ha fatto del processo un uso eccellente come podio
improvvisato.»
Karl scosse la testa. Non riusciva a capire perché i giudici avessero per-
messo a Hitler di parlare così prolungatamente dal seggio dei testimoni.
Per giorni, settimane, aveva continuato, ricevendo ovazioni a scena aperta
in tribunale, mentre i reporter trascrivevano le sue parole e le pubblicavano
perché tutta la nazione le potesse leggere.
«Ma oggi si arriva alla fine. Forse mentre noi ne stiamo parlando, la sua
sentenza viene pronunciata. Oggi Adolf Hitler andrà in prigione per un
periodo molto, molto lungo. Anche meglio: oggi sarà deportato in
Austria.»
«La prigione, sì», disse Ernst. «Ma non conterei sulla deportazione. È,
dopo tutto, un reduce decorato dell'esercito tedesco, e io credo che i giudici
siano più che un po' intimiditi dalla manifestazione di appoggio che ha
ricevuto qua e nel resto del paese.»
All'improvviso si sentirono delle grida provenienti dalle persone che sta-
vano più vicino all'edificio, seguite da un'allegria sfrenata mentre si
spargevano le voci sulla sentenza: cinque anni nella prigione di Landau...
ma con la possibilità di libertà provvisoria tra sei mesi.
«Sei mesi!» gridò Karl. «No, non può essere! È colpevole di tradimento.
Ha cercato di rovesciare il governo!»
«Buono, Karl», disse Ernst. «Stai attirando l'attenzione.»
«Non starò zitto!» gridò. «La gente deve sapere!»
«Non queste persone, Karl.»
Karl alzò le braccia verso il cerchio di facce arcigne che gli si erano
strette intorno. «Ascoltatemi! Adolf Hitler è un mostro! Dovrebbero
chiuderlo nel buco più scuro e più profondo e gettare via la chiave! Lui...»
Venne colpito da un pugno al rene destro e un dolore lancinante gli per-
corse il torace. Mentre Karl inciampava in avanti, un altro uomo, con occhi
selvaggi e pieni di furia, gli diede un pugno in faccia mostrando i denti.
Lui crollò pesantemente sul pavimento mentre le grida di «comunista»,
«ebreo» gli riempivano le orecchie. Il cerchio gli si chiuse intorno, e il
cielo gli venne coperto da facce rabbiose, che non mostravano pietà mentre
lo colpivano alla schiena, alla pancia e alla testa con pesanti scarponi.
Karl stava perdendo l'ultimo bagliore di coscienza quando
all'improvviso i colpi cessarono e il cielo blu comparve di nuovo sopra di
lui.
Con gli occhi offuscati vide Ernst che si piegava su di lui, scuotendo la
testa con sgomento.
«Buon Dio, amico! Hai un ultimo desiderio? Se non avessi chiamato la
polizia in tuo soccorso adesso saresti una poltiglia sanguinante!»
Dolorosamente Karl si appoggiò su un gomito e sputò sangue. Scene
dalla visione oscura iniziarono a passargli come un flash davanti agli
occhi.
«Succederà!» singhiozzò.
Si sentiva completamente solo, totalmente sconfitto. Hitler adesso aveva
un seguito a livello nazionale. Tra sei mesi sarebbe stato di nuovo per le
strade, nelle birrerie, a divulgare il suo odio. Questo processo non
significava la sua fine, era solo l'inizio. Lo aveva catapultato sulla scena
nazionale. Era per strada. Avrebbe preso il sopravvento.
E la visione sarebbe diventata realtà.
«Dannazione, Ernst! Era proprio necessario che mi facessi sbagliare il
colpo?»
«Te l'ho detto, Karl. È stato un incidente.»
«Davvero?» Nel corso dei mesi, da quel freddo giorno d'autunno, i pen-
sieri di Karl erano ritornati spesso alla gomitata di un tempismo perfetto
che gli aveva fatto sbagliare il colpo. «Mi chiedo se si è davvero trattato di
un incidente, Ernst. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che tu lo abbia
fatto di proposito.»
La faccia di Ernst si indurì mentre si alzò torreggiando sopra Karl.
«Credi quello che vuoi, Karl. Ma non posso dire che mi dispiaccia. Io,
per primo, sono convinto che il prossimo decennio o due saranno molto
più divertenti con Herr Hitler che senza di lui.» Il suo sorriso era freddo,
ma i suoi occhi brillavano per l'attesa. «Aspetto con ansia gli anni che
verranno, e tu?»
Karl cercò di rispondere, ma le parole non venivano. Se solo Ernst sa-
pesse...
E poi vide il bagliore nei suoi occhi e una eventualità lo colpì con la
forza di uno scarpone chiodato: forse Ernst sapeva.
Ernst si toccò la punta del cappello con il manico d'argento del suo ba-
stone. «Se tu mi vuoi scusare adesso, Karl, devo davvero andare. Devo
incontrare un amico, un nuovo amico, per bere qualcosa.»
Si girò e si allontanò, mischiandosi alla folla crescente in rosso, bianco,
nero e marrone.

1930-1939
Triade
di Poppy Z. Brite
e Christa Faust
A Su Wei

Che profusione di viola brillante e tenero


cremisi,
Tra i pozzi in rovina e i muri cadenti.
Tsao Hsueh-Chin,
Un sogno di Rosse Dimore

Hong Kong, 1937

Tra le quinte, nel teatro del Dragone Fortunato, l'aria era impregnata
degli odori del cerone e dell'incenso e del sudore dei ragazzi. Piccoli
guerrieri con giacche riccamente ricamate in oro e rosso si affollavano
davanti a frammenti di specchi, per dipingersi labbra e palpebre con lunghi
pennelli. A coppie facevano a turno per allungarsi i muscoli nelle difficili e
dolorose posizioni che preparavano i loro corpi ai rigori dell'Opera di
Pechino. Le cosce ruotavano sull'anca a 360 gradi, le spine dorsali si
piegavano all'indietro come erba al vento. Un ragazzo più grande, di
quattordici anni circa, si agganciò sulle orecchie una lunga barba bianca e
prese una posa artritica, facendo ondeggiare le maniche a pieghe del suo
abito.
Contro la parete più lontana, un ragazzo con una tunica iridescente verde
e argentea stava seduto con le braccia conserte. Era alto per la sua età, e
aveva due ampie spalle, polsi ossuti e mani grandi ed espressive. Il suo
viso dipinto, spigoloso e magro, avrebbe potuto essere considerato severo
se non fosse stato per un paio di orecchie comicamente larghe che ne
emergevano, come i manici di una brocca.
Spinse la testa all'indietro contro la parete piena di schegge di vetro, e
trasse un profondo sospiro. Il suo corpo era teso come una corda in attesa
di essere fatta vibrare. Il nastro bagnato che aveva legato intorno alla
fronte stava iniziando ad asciugarsi sotto il berretto a punta, tenendogli la
pelle sopra agli occhi così tesa da rendergli impossibile sbatterli. Dopo
un'ora o due, gli asciugava talmente il bulbo oculare da procurargli degli
spasmi.
Ma gli occhi che bruciavano e il prurito caldo della pelle sotto il trucco
erano tormenti familiari. Dopo otto anni, non valeva la pena di prenderne
atto più che dei crampi nello stomaco vuoto, o del dolore senza fine che gli
procurava ripetere in continuazione gli esercizi di punizione.
«Ji Fung.»
La voce bassa lo richiamò dalla sua meditazione senza scopo. Guardò in
su negli occhi grandi e truccati del suo migliore amico, Lin Bai, che
vestiva l'abito bianco e argenteo del seducente Serpente Bianco.
Così vestito, Lin Bai si trasformava, da bel ragazzo qual era, in una
visione di bellezza che turbava Ji Fung ogni volta che lo vedeva. Vedere la
faccia familiare del suo migliore amico offuscata dal capriccio faceva ri-
bollire lo stomaco di Ji Fung di un miscuglio di emozioni contraddittorie.
Gli ricordava le lunghe notti passate tra i morsi della fame quando lui e Lin
Bai si erano raggomitolati vicini sotto le coperte, a sussurrarsi i loro sogni
e segreti nel silenzio profondo del dormitorio.
Padron Lau era all'antica e credeva ancora che una donna vera sul palco
portasse sfortuna. Era stato lui a chiamare così Lin Bai, che significava
Loto nascosto, che era un nome da ragazza. E Lin Bai era brillante nei
ruoli femminili. Recitava i ruoli di guerrieri femmine come Mu Lan, o di
eroine da tragedia come Chu Ying-tai con la stessa finezza. Invece il torace
ampio e la bravura acrobatica naturale di Ji Fung, assieme alla sua voce
passabile cospiravano a tenerlo nei ruoli faticosi di soldato o di mangiatore
di spade.
Lin Bai era nato per essere protagonista. Possedeva la grazia di una
rondine, la rigogliosa fragranza di un'orchidea completamente sbocciata, la
bellezza fredda della giada bianca. La sua voce era sonora e piena di
colore. Aveva già provocato fitte di invidia in stelle che avevano dieci anni
più di lui. I compagni di scuola lo odiavano perché era un cagnolino da
salotto viziato, il preferito del Padrone, che per lui aveva sempre una
boccata di riso caldo anche quando tutti gli altri erano affamati. Ji Fung era
il suo unico amico.
«Aiutami con le bandiere». Lin Bai arcuò leggermente in su la bocca
rosso ciliegia.
Ji Fung prese l'imbracatura imbottita con le sue quattro bandiere,
facendo cenno a Lin Bai di girarsi. Lin Bai obbedì silenziosamente, a testa
bassa, sapeva obbedire a un ordine. Ji Fung tese le cinghie sul torace
minuto del suo amico e le legò strette, tirandole un po' per essere sicuro
che avrebbero retto. Lin Bai scosse la parte superiore del corpo, per prova.
Il ricamo d'argento brillava mentre le quattro bandiere sventolavano come
se fossero state ali.
Lin Bai sorrise, e Ji Fung all'improvviso provò caldo e freddo allo stesso
tempo. Si girò dall'altra parte.
Delle tende polverose si aprirono all'estremità del camerino e Padron
Lau entrò nel bel mezzo di quella allegra confusione. La conversazione
musicale dei ragazzi si interruppe.
«Smettetela di giocare!» Le pesanti sopracciglia del Padrone si abbassa-
rono sui suoi occhi, poi si sollevarono in modo allarmante. Era un uomo
alto, muscoloso, con una bocca sensuale che sembrava fuori posto sotto il
suo naso che pareva una lama e i suoi occhi acuti, di pietra. Vedere il
disappunto in quegli occhi era l'incubo di ogni ragazzo, perché le sue
punizioni venivano dispensate frequentemente e senza preavviso. Ji Fung
le conosceva tutte: costretto a danzare e a fare salti mortali finché i
legamenti urlavano di dolore; costretto a piegarsi e a contare i colpi che
riceveva finché il suo morbido didietro era completamente escoriato dalle
bastonate; costretto a stare in equilibrio sulle mani così a lungo che dopo
non riusciva a drizzare i polsi per ore.
Il Padrone era il loro insegnante il loro padre e il loro dio. Bramavano le
sue rare lodi e vivevano nel terrore della sua disapprovazione. Molti non
riuscivano a immaginare la vita senza di lui.
«La rappresentazione sta iniziando», disse il Padrone. «Niente errori.»
I ragazzi si misero in fila per farsi controllare. Padron Lau percorse la
fila, scrutando i suoi allievi con occhi pungenti. Ecco, un pompon storto su
un ornamento del capo si guadagnò una crudele tirata d'orecchio, una
faccia dipinta in modo imperfetto si attirò uno schiaffo doloroso dietro il
collo. Il Padrone superò Ji Fung e gli altri attori secondari con poco più di
un cenno del capo, ma si fermò davanti a Lin Bai per quasi un minuto,
fissandolo come se avesse avuto il dono di vedere attraverso il tessuto e la
carne fino alle profondità vermiglie del suo cuore che batteva. Lin Bai non
ricambiò lo sguardo del suo padrone. L'abbigliamento femminile e
l'inclinazione timida degli occhi lo facevano sembrare riservato. Solo Ji
Fung lo conosceva abbastanza da leggere l'odio nella sua schiena rigida e
nella sua mascella tirata.
Lin Bai odiava Padron Lau con una violenza di cui Ji Fung non aveva
mai capito appieno la profondità. Ji Fung sapeva cosa significava maledire
in cuor suo il padrone mentre scacciava le lacrime sotto i colpi del bastone
di bambù, o durante le lunghe ore passate immobile in un'unica posizione
massacrante. Ma l'odio di Lin Bai era diverso, più profondo, una cosa che
teneva nascosta dentro di sé come un tesoro di cristallo dalle punte affilate,
una crisalide scura di cui non si poteva immaginare la forma finale. C'era
un'intensità particolare nell'aria tra il Padrone e il suo allievo più bravo che
faceva sentir male e debole Ji Fung, che era fieramente protettivo nei
confronti del suo amico.
«Bene», disse il Padrone all'improvviso, e allora la musica iniziò il suo
lamento, perché era arrivato il momento di entrare in quell'altro mondo.
La sala era quasi vuota. Niente altro che piccoli gruppi di teste grigie e
bambini che si muovevano irrequieti. Mentre era in piedi dietro le quinte Ji
Fung si trovò a desiderare di essere uno di quei bambini. Un ragazzino
seduto tra la mamma e il papà in quel teatro appesantito dal rosso e
dall'oro. Un ragazzo che sarebbe tornato a casa tra i dolci e un letto
morbido, non a una tazza di riso e a un dormitorio affollato.
Era stato un ragazzo così, in un'altra vita. Da qualche parte dentro di lui
c'era un sogno vago di una bella casa e di un'amah sorridente. Di giocattoli
d'argento con una molla che li muoveva e di un cane nero con una morbida
pelliccia. Di una famiglia, zii e zie e cugini, di banchetti ricchi e rumorosi,
pieni di risate e di strani racconti.
Ma Ji Fung era troppo vecchio per desiderare il conforto senza
preoccupazioni dell'infanzia. E se permetteva alla sua mente di vagare
troppo a lungo per quei sentieri, di andare troppo oltre, sapeva che sarebbe
finito nei terribili crocevia della notte in cui era stato tolto dalla sua casa
per sempre.
Fino ad allora era stato chiamato solo Ji o figliolo. Aveva un altro nome
che era molto più lungo e più elegante, ma a casa era solo Ji; a volte Siu Ji,
o piccolino. Ma quella notte gli era stato tolto tutto, anche il suo vero
nome.
Le mani disperate di sua madre lo avevano trascinato fuori da un sonno
difficile. Lo aveva messo a letto con qualche ora di anticipo e senza cena,
ignorando le sue grida di richiamo per la sua amah e per le focaccine di
loto al vapore che amava. Adesso lo stava scuotendo per svegliarlo e gli
abbottonava una semplice giacca di cotone. Lei indossava una tunica di un
blu spento e dei pantaloni larghi, aveva i capelli lucidi raccolti sul collo, e
la faccia pallida priva di trucco. Sembrava una serva, non la prima moglie
di un uomo ricco e potente.
Ji aveva saputo, nel modo in cui sanno i bambini, senza capire, che qual-
cosa di terribile stava accadendo. Si sentì male fino alle ossa e certo che il
mondo stesse per crollare. Sua madre non gli aveva detto più di una
manciata di parole nei suoi sette anni di vita. Adesso lo chiamava bravo
ragazzo e ometto mentre fissava il vuoto alle sue spalle. I suoi occhi
brillavano al buio come la luce della luna su acque minacciose.
Quando lui riuscì a parlare, si mise a piangere cercando di suo padre.
Suo padre aveva sempre tempo per lui, gli portava regali da Macao e da
Shanghai, faceva aspettare importanti uomini d'affari mentre si occupava
di una sbucciatura su un ginocchio o di un giocattolo rotto. Sì, suo padre
viziava il suo unico figlio, ma mai fino al punto da ridurlo all'impotenza,
perché i figli devono essere forti e brillanti. Ji un giorno si sarebbe seduto
dietro quella scrivania, avrebbe capito i misteriosi scambi che suo padre
dirigeva, li avrebbe diretti lui stesso.
Suo padre gli aveva già dato il sigillo col suo nome, un oggetto di giada
intagliato che Ji teneva sempre con lui. Adesso era nella sua mano
sudaticcia, strappato da sotto il cuscino al suo risveglio, con le sue
estremità fredde e i minuscoli caratteri familiari e rilassanti come la voce
di suo padre. Se solo avesse potuto vedere suo padre adesso, la notte
avrebbe perso quell'incredibile senso di minaccia.
Ma quando lo chiamò, sua madre si girò. Aveva la schiena rigida e
strana.
«Non parlare più di tuo padre», gli intimò.
L'odio nella voce di lei lo paralizzò come il veleno di un ragno. Ji in quel
momento seppe che il mondo era già finito.
Lei lo condusse attraverso la casa immobile, muovendosi come un fanta-
sma nei lunghi corridoi silenziosi. Le loro ciabatte di pezza non
producevano alcun suono sui pesanti tappeti e i pavimenti di marmo lucidi.
Lui chiese dove stavano andando, ma lei non rispose. Lui le chiese della
sua seconda madre e delle sue piccole sorellastre. Della terza madre col
suo pancione e gli occhi tranquilli. Della sua amah. Del cameriere col
grande torace e le forti braccia. Di chiunque potesse impedire a Ji di
perdere il controllo e di scivolare lungo una discesa sdrucciolevole, verso
un futuro imprevedibile. Ma sua madre non rispondeva a nessuna delle sue
implorazioni. Gli stringeva solo il braccio e lo faceva camminare più
velocemente.
Passando attraverso la cucina buia, vide le forme dell'amai e della cuoca
piegate sul pavimento vicino alla stufa. La testa dell'amah aveva un alone
di un liquido nero lucido che risaltava sulle mattonelle bianche. L'aria era
rancida di cibo vecchio e sapeva vagamente di vomito.
«Amah», chiamò, tirando in direzione del corpo crollato.
Sua madre lo zittì. «L'amah sta dormendo. È molto stanca.» Guardò da
un'altra parte. «Sono tutti molto stanchi. Devi stare tranquillo, e non
svegliarli.»
Ji cercò di guardarsi alle spalle mentre lei lo trascinava fuori dall'entrata
di servizio, ma era troppo buio, e la porta si richiuse troppo rapidamente
alle sue spalle.
Camminarono per tutta la notte, vagando senza meta per le strade, in
vicoli scuri che puzzavano di interiora di pesce e di urina. Scivolarono
senza farsi notare tra battaglioni di soldati stranieri che si trascinavano per
le strade con le facce rubizze e il fiato da ubriachi. Quando superarono un
negozio che faceva spaghetti di soia, luminoso e affollato dietro le vetrine
opache per il vapore, Ji cercò di trascinare sua madre verso il punto da cui
proveniva il buon profumo. Si sentiva svenire per la fame adesso, ma lei
non si girò.
La notte di Hong Kong era un collage di immagini, orribili e fantastiche.
Vide prostitute dagli occhi incavati che ostentavano seni vizzi, e
mendicanti bambini che leccavano il sangue dei polli sgozzati dai
marciapiedi luridi fuori da un macello. Vide delle luci al neon luride
riflesse sulle lunghe macchine nere e lucide su cui viaggiavano milionari
occidentali e le loro donne esotiche dai capelli rossi. La ricchezza e lo
squallore giacevano fianco a fianco, intimi come amanti.
Per Ji, a sette anni e stanco, era un brutale sovraccarico di sensazioni.
Stringeva il suo sigillo di giada finché gli penetrò nella carne, deciso a non
piangere, a non vedere, a mettere ciecamente un piede davanti all'altro
finché questo viaggio incomprensibile fosse terminato. Forse era ancora
nel suo letto e stava sognando, e la sua amah presto l'avrebbe svegliato con
una tazza di riso fumante.
Bocche ripugnanti senza denti mormoravano vicino a lui, ma lui non
guardava in su per vedere i loro proprietari. Luci brillanti danzavano sulla
coda dell'occhio, ma lui non si girava per vedere da dove provenissero.
Vedeva solo i suoi piedi, infilati in scarpe grossolane da contadino. Scarpe
nere di pezza, consumate alle estremità, che strisciavano su pietre unte. Un
passo dopo l'altro e la mano di sua madre gli sembrava come una morsa di
denti aguzzi intorno alla sua, e non gli permetteva mai di rallentare. La sua
stanza, il suo letto gli sembravano incredibilmente distanti. Forse non c'era
mai stato nient'altro che questo camminare senza fine. Forse la sua intera
esistenza era stata solo un sogno, l'invenzione di una mente vagante mentre
il suo corpo arrancava faticosamente.
Iniziò a diventare grigio, a perdere coscienza, avrebbe potuto continuare
per sempre se i suoi piedi non avessero inciampato in qualcosa di rigido
che gli impediva il passo. La sua vista tornò a farsi immediatamente nitida.
C'era una ragazza morta nel vicolo davanti a lui, per metà nascosta
dietro a dei bidoni di immondizia che puzzavano. Era quasi carina, con le
sue manine piegate come conchiglie. Il suo lungo collo grazioso si apriva
in un rosso sorriso bagnato. Il suo abito di foggia occidentale macchiato di
sangue le saliva intorno ai fianchi. Agli occhi infantili di Ji, le pieghe rosa
del suo inguine in vista apparivano come una terribile mutilazione, una
ferita molto peggiore di quella che aveva alla gola, un taglio profondo che
non sarebbe mai guarito. Fece un singhiozzo che gli fece accapponare la
pelle.
Se sua madre lo avesse picchiato o gli avesse detto di stare tranquillo,
avrebbe potuto continuare ad amarla. Ma lei si limitò a guardarlo senza
vedere, persa in qualche inferno personale dove il terrore e il dolore del
suo unico figlio non avevano più importanza del ronzio delle mosche nei
bidoni dell'immondizia. Il vuoto sul suo viso era così terribile, così
imperdonabile che le lacrime di Ji gli morirono dentro, lasciandogli un
freddo così profondo che non si sarebbe mai più sciolto.
«Il tuo nuovo nome è Wang Ji Fung», disse lei. La sua voce era priva di
emozioni. «Tuo padre si chiamava Wang Sau. Tirava un risciò, ma è
morto. Dillo.»
Lui ripeté la bugia, senza capire, ma terrorizzato all'idea di fare un
errore. Fung significava fenice. Il suo nuovo nome era figlio della fenice.
«Se dirai mai a qualcuno il tuo vero nome, degli uomini cattivi verranno
a tagliarti la lingua. Capisci Wang Ji Fung?»
Lui si immaginò uomini dal viso indurito con abiti scuri che lo
inseguivano con pistole nere sporche di grasso e coltelli affilati e crudeli
come i loro occhi. Annuì. Il suo terrore era enorme e puro.
Il sole apparve rosso all'orizzonte. Con lui arrivò uno spaventoso
lamento cadenzato, alto e potente, che echeggiava tra le mura di pietra
dell'edificio principale della scuola coperte dal muschio. Era il suono che
avrebbe definito la sua vita per gli otto anni che seguirono: il rumore di
giovani che cantavano i loro esercizi mattutini. Gli diede un brivido
premonitore che gli fece venire i sudori freddi.
In un ufficio in ombra, rimase in piedi, immobile e in silenzio vicino a
sua madre mentre Padron Lau leggeva il contratto ad alta voce. Ji capì che
sarebbe appartenuto a quest'uomo per i dieci anni successivi, una proprietà
grezza che il Padrone si sarebbe impegnato a rifinire e a caricare di valore.
Avrebbe ricevuto cibo, rifugio e sarebbe stato addestrato, e se avesse
disobbedito, avrebbe potuto essere picchiato a morte.
L'appena nato Wang Ji Fung non provò altro che freddo mentre sua
madre premeva il pollice nell'inchiostro nero appiccicaticcio e metteva il
suo marchio in fondo alla pagina. Sapeva scrivere perfettamente i caratteri
del proprio nome, ma lui immaginò che stesse fingendo di essere la vedova
illetterata di un povero conducente di risciò.
Piegò la testa e si girò verso suo figlio. Ji Fung sentì di nuovo su di sé
quegli occhi freddi e bollenti.
«Non dimenticarti mai quello che ti è stato detto», disse lei.
Lui la guardò allontanarsi, le spalle dritte sotto la tunica blu a buon
mercato. Cercò di ricordare la manciata di capelli color ebano sul suo collo
pallido, i polsi delicati, la forma orgogliosa della schiena. Pensò di correrle
dietro, di buttarsi sulla sua schiena e sfracellarle il cranio delicato contro il
pavimento di pietra. Invece, allontanò lo sguardo. Fu l'ultima volta in cui
la vide.

«Stai sognando la cena?»


Lin Bai pizzicò il lobo di Ji Fung. «Fa' attenzione. Se perdi la battuta, il
Padrone te la tirerà fuori più tardi.»
Ji Fung stava per rispondergli, ma Lin Bai udì la sua battuta, si inchinò
velocemente agli dei dell'opera, e volteggiò via, con piccoli passi
femminili che lo portarono sul palcoscenico. Ji Fung e gli altri ragazzi
dell'esercito di creature marine del Serpente Bianco emersero dietro di lui
in formazione compatta, e la battaglia iniziò.
Ji Fung cercò di perdersi nella monotonia della routine. Conosceva i mo-
menti e i movimenti della storia perfettamente. Avanti e indietro, scuote le
nappine, fa guizzare le lance, volteggia nell'aria cadendo in piedi, come
un'immagine riflessa allo specchio dei suoi tre compagni. Ma nella sua
mente si vedeva a combattere veramente per l'onore della sua amata, Lin
Bai negli abiti del Serpente Bianco. Immaginava di squarciare le pance dei
soldati nemici, staccando la testa del marito indegno di Serpente Bianco,
che aveva rifiutato il suo amore e aveva cospirato per distruggerla.
Immaginava di portarne la testa a Serpente Bianco e di esserne
ricompensato con un bacio profondo.
Questo pensiero gli serpeggiava lungo la spina dorsale, distraendolo col
suo calore. Mentre il suo rivale lanciava un ampio colpo mortale, estrema-
mente drammatico, Ji Fung perse l'equilibrio, finì la capriola all'indietro,
andando ad atterrare con forza e leggermente fuori centro. Sentì un forte
dolore al braccio sinistro, ma si ricompose senza fallo, facendo tutta una
serie di capriole che lo portarono fuori scena.
Appoggiandosi alla parete coperta da schegge di vetro, Ji Fung si sfregò
la spalla dolorante e guardò Lin Bai che combatteva con gli altri. Le lance
volavano e si agitavano come se fossero state paglie. Il modo
profondamente tragico in cui Lin Bai curvava le spalle e le sue mani
aggraziate ogni volta facevano spezzare il cuore a Ji Fung. Tutti potevano
vedere che Serpente Bianco non voleva combattere, che amava ancora suo
marito nonostante il suo tradimento, e che questo inutile amore non faceva
che aumentare il suo dolore.
Ji Fung sentì ancora montare dentro di lui quello strano desiderio di
protezione, come se non si trattasse di antichi personaggi, ma dello stesso
Lin Bai che era stato così tradito. Cercò di respingere quella cosa dentro di
sé, come sempre. Ma ogni volta respingerla era un po' più difficile.

Più tardi, Ji Fung si piegò davanti a un catino di acqua unta, togliendosi


il trucco dalla pelle che pungeva. Intorno a lui, ragazzi nudi raccattavano
bracciate di costumi che si erano tolti e con attenzione li mettevano dentro
a bauli di legno profumato. Le armi venivano raccolte e avvolte in
morbido cotone, le boccette di pittura ammassate in scatole laccate.
Quando tutti si furono strofinati e rivestiti con le loro divise grigie, si
misero in fila ad aspettare il loro maestro.
Passò un'ora prima che lui finalmente arrivasse, con la mascella serrata,
gli occhi ridotti a due sottili fessure. Rimase fermo per un lungo istante a
fissare la fila di ragazzi. Poi si girò.
«La rappresentazione di stasera è stata l'ultima al Dragone Fortunato.»
Padron Lau parlava al muro, il corpo fermo come pietra. «Il signor Sung
dice che non rappresenterà più l'Opera di Pechino.» Il mento gli tremava,
in modo appena percettibile. «Da adesso in poi, solo musica jazz.»
Gli studenti erano in silenzio, a occhi bassi. Ji Fung si sentiva come se
avesse preso un durissimo colpo allo sterno, del genere che prendi quando
cadi male e colpisci un pezzo del fondale o il ginocchio di un altro
ragazzo. Si chiedeva cosa sarebbe successo di lui adesso. I suoi dieci anni
erano quasi finiti, e l'Opera era l'unica cosa che conosceva. Aveva sempre
pensato che si sarebbe unito a una compagnia e che avrebbe passato il
resto della sua vita a recitare. Che altra scelta aveva, e se non si trattava più
di una scelta, il suo corpo e la sua anima erano stati venduti a un'arte che
stava morendo?
Ma questo pensiero era troppo grosso e scivoloso per trattenerlo. Era
molto più facile camminare per le strade familiari che riportavano alla
scuola, con Lin Bai che camminava davanti a lui e un altro ragazzo dietro,
tutti che aiutavano a portare i bauli come formiche con un carico troppo
pesante. Ji Fung si calmò fissando la nuca di Lin Bai, i setosi capelli di un
nero bluastro che accarezzavano la curva vulnerabile del suo cranio. Cercò
di svuotare la sua mente come il pallido cielo grigio.
Di ritorno nel dormitorio oscuro, i due giacquero nelle loro strette
brande, vicini ma quasi senza toccarsi. Tutto intorno a loro, si sentiva il
fruscio degli altri ragazzi che sospirando si preparavano a dormire. Le
brande di Lin Bai e di Ji Fung erano state spinte insieme in un angolo della
grande stanza comune, contro le pietre del muro. Quest'angolo era freddo e
umido, ma permetteva loro un minimo di privacy.
«Non più rappresentazioni al Dragone Fortunato», sussurrò Ji Fung. Non
riusciva ancora ad abituarsi all'idea, l'odore di muffa del vecchio teatro e
delle sue quinte umide gli erano familiari come la struttura cadente della
sua branda. «È difficile da credere. Forse il dragone non è poi così
fortunato.»
Lin Bai annuì. «La gente preferisce andare al cinema.» La sua voce si
fece bassa e sognante. «A vedere i film americani. Di Hollywood.»
Quel nome non voleva dire niente per Ji Fung. Era semplicemente una
parola con un suono straniero.
Lin Bai infilò la mano sotto il sottile materasso e ne tirò fuori una rivista
rovinata. Le sue dita delicate avevano rispetto della copertina scivolosa,
macchiata di sudore. Ji Fung riusciva a malapena a vedere l'immagine di
una donna coi capelli chiari e un abito stretto che le spingeva il seno sotto
il mento e riduceva la sua vita alle dimensioni di quella di un ragno. Si
chiese come faceva a respirare. Le parole sulla copertina erano piene di
curve e incomprensibili.
«Un giorno ci andrò», disse Lin Bai. «A Hollywood. Sono stanco di
noiose opere cinesi. Sempre le stesse storie. Andrò in America e diventerò
una famosa stella del cinema.»
Scivolò nel letto tirandosi dietro Ji Fung, ricoprendo le loro teste con le
coperte. Ji Fung era acutamente cosciente del calore del corpo di Lin Bai
che si mischiava al suo, delle spalle ossute e dei fianchi di Lin Bai che
toccavano i suoi.
«Andremo insieme», sussurrò Lin Bai. «Saremo eroi d'azione. Soci.
Combatteremo i cowboy e i gangster e viaggeremo in automobile e
berremo il miglior champagne.»
«Sham-peh-yin? Cos'è?»
«Non ne sono sicuro», ammise Lin Bai, «ma tutte le stelle del cinema lo
bevono. Deve essere molto dolce.»
«Sì. Sì», disse Ji Fung, scaldandosi alla fantasia. «Indosseremo scarpe di
pelle e ci faremo crescere i capelli. Staremo a letto tutta la mattina, e un
cameriere ci porterà lo champagne e i dolci.»
«La gente griderà quando ci vedrà recitare», ridacchiò Lin Bai. «Ci na-
sconderemo nel cinema e guarderemo le nostre facce in alto sullo schermo
d'argento. Guarderemo la gente che ci guarda e vedremo le loro budella
contorcersi in un centinaio di nodi per la nostra bravura.»
«E Padron Lau sarà dispiaciuto di aver perso degli attori così bravi.»
Ci fu un breve silenzio, carico. Quando Lin Bai parlò, la sua voce era
piena di un veleno mortale, un odio letale come il vetro tritato.
«Padron Lau sarà morto.»
Il silenzio crebbe, scottava di verità non dette e per il fiato caldo dei
ragazzi sotto le coperte.
«Il Padrone non ti ha chiamato stasera.» La voce di Ji Fung era bassa,
sul punto di spezzarsi. Aveva il terrore di parlare di questo. Prima non
aveva mai fatto parola delle lezioni notturne di Lin Bai nella camera del
maestro. Era la fonte di molte illazioni e crudeli speculazioni da parte dei
ragazzi: dal momento che Lin Bai era così bravo a fare le parti della donna
sul palcoscenico, forse la faceva anche nel letto del Padrone.
Altro silenzio. Ji Fung si aspettava che Lin Bai si girasse arrabbiato,
perso nel suo segreto dolore. Desiderò che ci fosse un modo per
rimangiarsi queste parole dette senza pensarci, di offrire a Lin Bai un
misero conforto, un rifugio per la sua tempesta interiore.
Poi, dal buio arrivò un suono più basso. Un suono che cancellava
l'abisso tra di loro, che riempiva di uno strano calore il poco spazio che
separava i loro corpi. Era il sussurro basso e spezzato delle lacrime.
Ji Fung non osava quasi respirare. I suoi polsi erano appoggiati contro la
curva delle spalle di Lin Bai, ed era estremamente conscio di quel
minuscolo contatto. Sentiva il corpo di Lin Bai scosso dai singhiozzi
soffocati, e pensò a Serpente Bianco che piangeva la morte di un marito
senza cuore. Ji Fung si accorse che quello che desiderava veramente era di
prendere Lin Bai tra le braccia, baciare via le lacrime dalla sua faccia,
proteggerlo dal Padrone e da tutto il mondo, ma soprattutto dal dolore che
lo divorava da dentro. Rendersi conto di questo gli fece scorrere il sangue
sulle guance e gli indurì il pene.
Tolse il polso e si girò dall'altra parte. Il cuore gli batteva
selvaggiamente. Voleva correre fuori, farsi un bagno nella fredda aria
notturna, avrebbe fatto qualunque cosa per fuggire da quella caverna
bollente di coperte e vergogna, e dal profumo intossicante del corpo di Lin
Bai. Aveva la sensazione che sarebbe annegato nella tempesta ormonale
che aveva dentro e che gli dava alla testa.
Quasi si liberò, mancò poco che si alzasse. Poi la piccola mano ossuta di
Lin Bai si avvolse intorno alla sua, e Lin Bai sussurrò: «Non andare».
E poi si portò le dita di Ji Fung alle labbra, quelle labbra rosa, ciniche e
vulnerabili, con gli angoli ancora macchiati di rosso ciliegia. Ji Fung si
lasciò trascinare in quello strano abbraccio e fu come lasciarsi cadere da
una montagna, come ritrovarsi in un languido sogno. Come tornare a casa.
La pelle di Lin Bai sotto il tessuto grezzo del pigiama era così fine e
morbida che Ji Fung fu certo che l'avrebbe ferito con la durezza delle sue
mani, ma non riuscì a controllarsi. Era ignaro della presenza degli altri
ragazzi nella stanza attorno a loro, e non gli importava se qualcuno stava
guardando. Voleva premere più a fondo in quella levigatezza di seta, per
sentire la frizione calda e dolorosa della nudità di Lin Bai contro la sua.
Voleva spezzare le ossa d'avorio di Lin Bai, entrare nella carne vulnerabile
della sua bocca con denti famelici e selvaggi. L'intensità viziosa del suo
desiderio lo spaventava e gli dava fuoco.
Le mani di Lin Bai erano affusolate, callose, fredde al tatto, e così
gentili. Si muovevano sui muscoli del torace di Ji Fung, volando sulla sua
pancia fino a imprigionare il suo pene dolorante. Ji Fung si morse la
lingua, per soffocare un grido e iniziò il suo viaggio a spirale nel puro
piacere.
Poi il bozzolo delle coperte fu strappato via come un fragile strato di
pelle che ricopre una ferita appena guarita. Ji Fung sentì delle dita dure che
gli penetravano nel collo. Prima che si rendesse conto di cosa stava
succedendo, era stato trascinato fuori dal letto e gettato contro la parete.
Sbatté con forza il cranio, e la testa iniziò a riempirglisi di stelle: rosse,
blu, argentee, come i fuochi d'artificio di Capodanno.
Ebbe a malapena il tempo di scivolare sul pavimento prima di venire di
nuovo afferrato. Come ricominciò a mettere a fuoco, la faccia di Padron
Lau apparve a pochi centimetri dalla sua, sfigurata per la rabbia. Dietro il
Padrone c'erano le file di brande, gli altri ragazzi che si tiravano le coperte
sulle teste, facendo finta di non vedere. Il desiderio di Ji Fung si coagulava
nella sua pancia, provocandogli senso di colpa e una paura terribile.
Il Padrone sbatté di nuovo Ji Fung contro il muro, mandando tremori di
spasimi sulla sua spina dorsale. Poi accadde l'impensabile: il pugno del Pa-
drone scese a posarsi sulla faccia girata all'insù di Ji Fung. La testa gli si
riempì di luci e del rumore che fa una ciotola di vetro da frutta che viene
colpita con una mazza imbottita.
Fu allora che seppe che sarebbe morto. Il Padrone aveva picchiato Ji
Fung e tutti gli altri ragazzi molte volte e in molti più modi di quanti ne
potessero contare. Ma non aveva mai colpito uno studente sulla faccia. La
vostra faccia deve essere pulita e pura come un foglio bianco che aspetta
l'inchiostro. Questa era una delle infinite regole del maestro, quelle che
faceva loro recitare mentre bruciava la pelle delicata dentro i loro gomiti
con un ferro bollente e frustava i loro posteriori nudi con un fascio di
rametti fino a farli sanguinare. Padron Lau era un uomo pieno di regole e
routine incrollabili. Questo era quello che lo rendeva un insegnante
brillante. Questo era quello che adesso riempiva Ji Fung di terrore: se il
maestro infrangeva una regola, le poteva infrangere tutte.
Mentre la presa di Padron Lau si faceva più salda, la gola di Ji Fung
iniziò a riempirsi di sangue spesso e denso. I pugni gli facevano male, per
il desiderio di riuscire a spezzare la presa e combattere. Ma un blocco
irremovibile dentro di lui gli impediva di opporre resistenza al maestro.
Sua madre lo aveva consegnato a quell'uomo. Lui era di proprietà di
Padron Lau che poteva farne quello che voleva.
Si ricordò di essere stato in piedi dietro a sua madre nell'ufficio del
Padrone in quella fredda mattina, ad ascoltarne la voce secca che elencava
i punti del contratto. Se disobbedisce, sarà picchiato a morte.
Ji Fung sentì la sua coscienza perdersi in tutto quel grigio mentre il
padrone lo tirava per la stanza e lo spingeva in un armadio pieno di
biancheria sporca. Giacque piegato su un fianco a vomitare schizzi di
sangue e di riso, afferrando manciate di panni che puzzavano di sudore. La
porta sbatté, la serratura scattò e il buio per Ji Fung fu totale.

Lin Bai si piegò contro il muro, sentendo l'ardore di centinaia di occhi


che guardavano da sotto le coperte, che strisciavano verso di lui come
lucidi insetti neri, che lo giudicavano con parole volgari. Lui si coprì il
viso con la mano, sapendo come lo avrebbe fatto sembrare quel debole
gesto, ma incapace di reggere il tormento di così tanti occhi. Voleva
scaricare tutta la sua rabbia su di loro, distruggerli.
Ma non aveva potere, niente che potesse infiammare la sua rabbia. Non
aveva nient'altro che la sua agilità e la sua bellezza, nient'altro che la sua
grazia. Queste erano le cose che lo avevano fatto amare da Ji Fung.
Le sue mani avevano l'odore del corpo di Ji Fung. In silenzio Lin Bai si
condannò a migliaia di tormenti per aver trascinato il suo amico nel suo
incubo personale. La sodomia di Padron Lau era un fardello che aveva
sempre portato da solo, un segreto tatuato sulla carne della sua anima.
Tutti coloro che avessero mangiato quella carne avrebbero sofferto,
proprio come aveva sofferto lui. Proprio come avevano sofferto i suoi
genitori, bruciati a morte nel loro piccolo negozio di tè, per il crimine di
averlo messo al mondo. Proprio come aveva sofferto il figlioletto di sua
zia, strozzatosi a morte con un pezzo di carne dolce essiccata quattro
giorni dopo che Lin Bai era andato a vivere con loro.
Il giorno in cui sua zia lo portò alla Scuola dell'Opera disse che era un
bambino che porta sfortuna, che aveva la maledizione di portare dolore e
morte su coloro che gli erano vicini. Non voleva che questo succedesse a Ji
Fung, quindi aveva tenuto il suo amico a distanza, combattendo sempre il
desiderio profondo di tirarlo accanto a sé e non lasciarlo più andare.
Stasera il suo bisogno lo aveva sopraffatto. Adesso lui e Ji Fung ne
avrebbero pagato il prezzo.
Padron Lau strappò le mani di Lin Bai dal suo viso, e afferrò la mascella
del ragazzo con forza sufficiente a scorticargli la pelle.
«Puttana», gli sussurrò a denti stretti.
Il corpo di Lin Bai tremava per la rabbia e la vergogna. L'aria intorno a
loro era gravida del silenzio in ascolto. Dietro le sue palpebre si
srotolavano sogni di morte e di assassinio, ma non oppose resistenza
quando il Padrone lo trascinò nel privato del suo studio. Da queste stanze
gli altri ragazzi avrebbero forse potuto udire uno strano piagnucolio o uno
strillo, ma non avrebbero potuto sapere quello che succedeva dietro la
pesante porta.
I pensieri di Lin Bai cozzavano l'uno contro l'altro come uccelli in trap-
pola nella gabbia del suo cranio. Il suo corpo era passivo come sempre,
come era stato allenato a essere, da quando era appena abbastanza grande
per camminare: piedi uniti, testa piegata, solo e immobile nel vuoto dello
studio, di fronte all'uomo che aveva odiato e servito per anni. Il suo corpo
restava passivo mentre Padron Lau gli legava i polsi sopra la testa con una
corda di seta rossa, e mentre il padrone gli strappava via il pigiama logoro
e colpiva la sua carne nuda con un pezzo di bambù bagnato. Il dolore era
familiare come respirare.
«Come osi darti a un altro uomo?» chiese il padrone. Il suo fiato era
caldo e sgradevole contro i capelli lanuginosi sul collo di Lin Bai, proprio
sulla giuntura del cranio. Immaginò Padron Lau che sprofondava i denti in
quel punto e riuscì a stento a sopprimere un brivido.
«Donna di strada senza valore. Sporca puttanella.»
Anche questi insulti erano familiari, anche se non come i colpi del basto-
ne. Durante altre notti, con questo stesso scenario, Lin Bai aveva recitato il
suo ruolo, proprio come aveva recitato tutti quei ruoli che conosceva così
bene. Perdonami, Padrone. Non sono degno della saggezza delle tue mani,
del potere del tuo uccello. Come una canzone per allenare la voce, un
esercizio, suoni senza significato.
Ma stasera la sua rabbia bruciava più forte del suo terrore, persino più
della sua vergogna per i suoi desideri incerti. Nei suoi momenti più neri
doveva ammettere con se stesso che, talvolta, negli ultimi due anni, aveva
iniziato a piacergli il modo in cui il padrone lo toccava. Non stasera,
comunque, non dopo aver visto la faccia di Ji Fung battuta a sangue. Lin
Bai scacciò indietro la sua rabbia mentre le dita del padrone sfioravano la
pelle segnata dai colpi della canna, e poi si infilavano nella fessura del suo
buco lacerato. Si tormentava furioso mentre il padrone spingeva nel suo
ano un dito ingrassato col sangue.
«Gli hai permesso di penetrarti?» sibilò il padrone, con la voce piena di
disprezzo. «Hai accettato il suo flaccido spaghettino? Dubito che tu sia riu-
scito nemmeno a sentirlo dopo il mio.»
Lin Bai avrebbe voluto poter sputare acido con la lingua.
«Non sono tua moglie.»
Il dito scivolò fuori troppo velocemente, dandogli una sensazione di
qualcosa di appiccicoso che raschiava. Ma questo dolore fu eclissato da
quello più acuto di uno schiaffo in faccia. Poteva sentire il proprio odore
sulla mano del padrone.
«Io ti possiedo», sputò lui, con la faccia di Lin Bai schiacciata tra il
pollice e un indice che puzzava di sedere. «Io ti ho creato. Io ho scolpito la
femminilità sul ragazzino di campagna sparuto che eri quando tua zia ti ha
venduto nove anni fa. Tu sei più di mia moglie. Tu sei mia proprietà.»
Padron Lau lo fece ruotare su se stesso e cinse le sue costole con un
avambraccio che era una morsa, sollevando da terra i suoi piedi nudi e
facendogli mancare il fiato. Lin Bai si sentì vulnerabile in modo nauseante
mentre sentiva le dita del padrone che lavoravano per slacciarsi i pantaloni.
Udì il padrone che si schiariva la gola, poi sputare su un palmo ruvido.
Poi, anche se aveva provato questa sensazione molte volte, si fece piccolo
mentre l'erezione del Padrone scivolava dentro di lui in tutta la sua
lunghezza.
Sentiva come un pugno nello stomaco, come se un albero cercasse di
crescere nel suo intestino. Perso in un vortice di sofferenza e dolore, di
piacere colpevole, Lin Bai cercò a tentoni una qualche solida emozione,
qualcosa che gli impedisse di annegare nella vergogna e nella paura. Pensò
immediatamente a Ji Fung, al sapore della sua pelle, alla sensazione di seta
del suo muscolo duro che pulsava tra le mani di Lin Bai, al rumore che
faceva la sua pelle spaccandosi sotto i colpi del padrone.
Era certo che, eccitato dal sesso, il padrone sarebbe tornato nell'armadio
e avrebbe ucciso Ji Fung. Una parte oscura della mente di Lin Bai voleva
persino abbracciare quella logica brutale. Lui portava sfortuna, era
velenoso, e chiunque fosse abbastanza pazzo da avvicinarsi a lui sarebbe
morto.
Ma a farsi strada in mezzo a tutta la confusione c'era una nuova fiera
emozione, che inghiottiva il desiderio di acquiescenza passiva. Nata da una
furia amara che non aveva fine, una furia che lui non poteva più masticare
come bolo, questa nuova emozione era forte e complessa. E lo portava a
provare il desiderio di combattere: contro l'apatia, contro la prigione di
questa sadica routine. Ma non con una rabbia frenetica. Non con una
resistenza senza scopo che gli avrebbe solo procurato un dolore ancora più
aspro, ma con un unico atto controllato che avrebbe liberato lui e il suo
amante.
Cose se fosse stata liberata da una doccia ghiacciata una chiarezza im-
provvisa spazzò via l'ultima confusione, e Lin Bai seppe cosa doveva fare.
Piegò la schiena, diventò tutt'uno con il pene pulsante del padrone, e ge-
mette come se avesse ritrovato se stesso tra le braccia di Ji Fung. Si lasciò
andare alla recita con tutte le sue forze. A un certo punto, lungo la strada,
come sempre, si perse nella parte. Il piacere che fingeva divenne reale, e
lui lasciava che il suo corpo lavorasse con quello del padrone, come
avrebbe fatto con un attore che recitasse con lui. Dicendo quello che
pensava e anche altro, disse all'altro tutto quello che lui aveva bisogno di
udire. Ben presto l'orgasmo del padrone eruppe dentro di lui, e anche Lin
Bai si sentì venire. Sentì come una premonizione di vittoria.
Quando la corda rossa che gli legava i polsi fu slegata, Lin Bai si lasciò
cadere sul pavimento, come se stesse svenendo. I suoi sensi erano più
all'erta di quanto non fossero mai stati, e lui era completamente cosciente
del punto in cui si erano lasciati cadere nella loro passione. Il Padrone era
mezzo ubriaco del nettare della sottomissione di Lin Bai, e non si accorse
di nulla. Ma a pochi passi di distanza, con gli altri attrezzi di scena, c'era
una rastrelliera di lance da battaglia. Erano riccamente intarsiate con seta,
progettate per il palcoscenico, non come armi. Tuttavia, avevano un certo
peso, e la punta era abbastanza acuta da pungere la pelle. Lin Bai aveva
visto i ragazzi pungersi più di una volta durante gli allenamenti.
Come sempre, tenne la faccia bassa, finché il padrone si fu asciugato e si
fu rinfilato i pantaloni. Ben presto la sua voce gli arrivò, roca ma non più
furiosa come prima: «Alzati, donna».
Lin Bai non riusciva a vedere il padrone, ma aveva la sensazione che
fosse in piedi lì accanto. Se si sbagliava anche di pochissimo, stasera
sarebbe morto prima di Ji Fung.
«Padrone», sussurrò. «Sono troppo debole per alzarmi.»
La sua mano si allungò molto lentamente verso la lancia più bassa, rossa
e dorata, adornata di pompon di seta e di una coda di cavallo legata con un
nastro nero.
«Aiutami, marito.» Le parole avevano il sapore della bile in bocca. Girò
quelli che sperava fossero occhi deboli e civettuoli verso il suo padrone.
Il padrone fece un verso rauco con la gola, arrivando quasi a sorridere.
Fece un passo verso di lui e si piegò per aiutare il suo allievo migliore, la
sua donna.
Lin Bai tirò un profondo sospiro. Aveva lo stesso terrore rapito che lo
prendeva sempre prima di provare un trucco difficile in scena per la prima
volta. Questa volta non c'era stata nessuna prova, e un errore poteva
significare la sua vita. Sapeva che doveva fare le mosse necessarie. Ma
questo era l'uomo che gliele aveva insegnate.
Il padrone gli afferrò il polso e tirò violentemente. Lin Bai si alzò in
fretta, usando il movimento dell'altro per sollecitare il suo. Il suo braccio si
protese - aveva la lancia - fendeva in avanti, in avanti, verso la faccia
sbalordita di Padron Lau. Vide la mano del padrone alzarsi per fermarlo,
veloce come un fulmine, ma non abbastanza, i suoi riflessi erano
intorpiditi dal sesso e dal sadismo. La punta della lancia era alla gola di
Padron Lau e stava spingendo dentro la V dell'osso del collo forandone la
pelle rugosa.
Lin Bai girò la lancia, poi tirò. La lama colpì qualcosa di duro nella gola
del padrone e si staccò dalla lancia. Le mani del padrone l'afferrarono, la
tirarono fuori con un rumore terribile di risucchio, e la fecero sbattere
rumorosamente da qualche parte. La ferita si aprì, come un frutto o un
fiore, con i contorni che si separavano nettamente, per un istante senza
sanguinare. Poi ci fu sangue dappertutto, che correva a fiotti dal corpo del
padrone, andando a finire sulla faccia di Lin Bai che lo assaporò sulle
proprie labbra, salato come lo sperma dell'uomo.
Padron Lau inciampò all'indietro, cercando, senza riuscirci, di tenere in-
sieme le due metà del collo. Un suono soffocato si fece strada dalla sua
laringe spezzata. L'espressione di sorpresa sul suo viso era squisita.
Mentre il Padrone cadeva Lin Bai balzò in pedi. Si intravide nello
specchio che il padrone teneva sopra il catino. Alla luce bluastra della
luna, il sangue brillava riflettendosi sul suo viso pallido, simmetrico come
trucco attorno ai suoi grandi occhi. Si mise in una posa delicata, tenendo
stretta la lancia.
«Il sole domina tutti gli esseri celestiali», cantò, «ma la luna può tradire
con la pazienza e il riflesso.»
Gettò in alto la lancia, facendo roteare e volteggiare il suo corpo spoglio
per prenderla. La lama brillò, e la coda di cavallo sferzò selvaggiamente.
Lin Bai posò la lancia sul pavimento ai suoi piedi e si inchinò davanti al
cadavere del suo Padrone.

Ji Fung giaceva piegato su se stesso, sepolto nel buio e nel dolore lanci-
nante. Una voce gli serpeggiava nella testa, nella pancia, continuando a
sussurrare le stesse parole.
Sta succedendo di nuovo.
La routine senza senso della sua vita era esplosa all'aperto. Sotto le
lacerazioni della sua pelle c'era il demone del caos violento della sua infan-
zia, di eventi enormi e orribili che non poteva controllare e nemmeno
capire, eventi che lo trascinavano nella loro scia.
Quando le porte dell'armadio si aprirono, quasi si mise a gridare. Delle
mani lo afferrarono, cercando di tirarlo fuori. Lui agitò le braccia nella loro
direzione, sicuro che Padron Lau fosse tornato per picchiarlo a morte.
«Ji Fung.»
Un sussurro caldo vicino alla faccia, e un ricco profumo che sapeva di
rame. Ji Fung aprì gli occhi e vide Lin Bai, con del sangue scuro schizzato
sugli zigomi, che gli striava la fronte pallida e cadeva dal suo mento
appuntito. Negli occhi cerchiati di sangue di Lin Bai c'era un bagliore di
pazzia che fece gelare il cuore di Ji Fung. Era come se la passione folle di
sua madre fosse tornata a perseguitare il viso familiare del suo solo amico,
del suo quasi-amante. Era paralizzato di fronte alla sua pazzia: minacciava
di strapparlo da questa vita e di ributtarlo vorticosamente nel passato.
«Dobbiamo andarcene di qua, adesso.»
Ji Fung strinse gli occhi e scosse la testa. Sentiva che il suo braccio
veniva tirato, ma non riusciva a muoversi. «Voglio vedere mio padre», si
udì dire con una voce da bambino.
«Ji Fung...» La voce di Lin Bai all'improvviso si fece più bassa, più
ferma. Prese il viso del suo amico tra le mani macchiate di sangue. «Non
posso lasciarti qua. Morirei senza di te. Se tu rimani, rimarrò anch'io e
morirò con te.»
Ji Fung aprì gli occhi. Vide le lacrime disegnare tracce di cristallo sul
sangue che si coagulava sulla faccia di Lin Bai. Il suo corpo perse la sensi-
bilità, divenne incapace di resistere, mentre Lin Bai lo avvolgeva tra le sue
braccia calde e sussurrava le parole che aveva bisogno di udire più di
qualsiasi altra cosa.
«Ti amo», disse Lin Bai.
L'antica armatura che avvolgeva il cuore di Ji Fung cadde a pezzi. Stava
ancora male per il terrore, ma questo poteva farlo. Poteva fuggire dalla
prigione della Scuola dell'Opera con Lin Bai al suo fianco, poteva cercare
una nuova vita dove aveva pensato che non ce ne fosse alcuna.
Contraccambiò il suo abbraccio per un lungo attimo, incapace di
qualsiasi altra cosa. Poi ricordò. «Aspetta», disse, liberandosi.
Sotto gli occhi incuriositi degli altri studenti, che avevano osservato tutta
la scena senza muoversi per non interferire, Ji Fung attraversò di corsa il
dormitorio fino alla sua branda. Le coperte portavano ancora le tracce del
calore dei loro corpi. Per un attimo toccò la trama sottile del tessuto,
spiaciuto di essere stato interrotto. Ma quell'interruzione e qualsiasi cosa
Lin Bai avesse vissuto nello studio del padrone, avevano dato loro la
possibilità di essere liberi. Ci sarebbe stato tempo in seguito per trovarsi
tra coperte calde e carezze ancora più calde, se fossero stati fortunati. Ji
Fung allungò la mano sotto il sottile materasso di cotone, e strinse il pugno
attorno al sigillo di giada. Lo mise in tasca e tornò correndo da Lin Bai,
che si stava fissando le mani, con un sorriso strano.
«Muoviti. Hai detto che dovevamo fare presto.»
Lin Bai guardò in alto e i suoi occhi tornarono normali. «Sì. Andiamo.»
Mano nella mano, spingendosi l'un l'altro nei passaggi scuri e nelle sale
maledette, volarono via dalla scuola che era stata il loro mondo per più di
metà delle loro vite.
Le strade erano affollate di gente. Occidentali con nasi tondeggianti e
occhi chiari. Mercanti che decantavano la perfezione delle loro pere, dei
loro granchi o delle loro scarpe. Ragazzi dall'aria dura che bighellonavano
sulle porte, coi visi butterati, resi arancione dalla brace delle sigarette
straniere. Donne dagli sguardi duri che offrivano di far cose, per pochi
penny, che i ragazzi non avevano nemmeno mai sentito nominare.
Continuarono a correre, scansando biciclette e tricicli, inebriandosi del
vento notturno e del sapore della libertà.
Lin Bai si fermò brevemente per lavarsi il sangue dalla faccia in una
fontana piena di carpe, il grande pesce di un arancio dorato che un giorno
si sarebbe trasformato in dragone. Ji Fung si chiedeva se il sangue del
Padrone che era stato ucciso avrebbe nutrito quelle creature o le avrebbe
avvelenate.
Ben presto si trovarono sul lungomare. Il porto era pieno di luci,
brulicante di vita. Le giunche con i loro occhi strabici e i sampan con il
fondo piatto si stendevano in distanza nella baia verde pisello. La gente
che viveva sulle barche aveva costituito un proprio villaggio galleggiante
illuminato da lanterne. Friggevano pesce su piccole stufe a carbone,
appendevano la biancheria rovinata ad asciugare come meglio potevano
nell'aria umida. Una ragazza seduta a prua di un sampan che aveva subito
parecchie riparazioni, si stava pettinando i lunghi capelli che ondeggiavano
alla brezza marina. Il suo fratellino pisciava nell'acqua, ridendo.
«Dove possiamo andare?» chiese Ji Fung, guardando le luci distanti di
Kowloon che brillavano oltre la distesa d'acqua. «Non conosciamo
nessuno. Non abbiamo denaro.»
Lin Bai sorrise, si mise in posizione, a braccia aperte, e cantò. La sua
forte voce chiara si spargeva nel porto.
«Faaaaaa tanto freddo!»
«Shhh», lo intimò al silenzio Ji Fung, agitando le mani. Una sequenza
perfetta di Due volte sposa avrebbe potuto guadagnarli l'approvazione di
Padron Lau, indietro nell'altra vita, ma non sarebbe servita a niente qui.
«Il vento freddo è tagliente come un pugnale», cantava con gli occhi
spalancati Lin Bai. «Con lo stomaco vuoto sono costretto a mendicare.»
«Sei diventato pazzo?» Ji Fung lanciò un'occhiata selvaggia intorno.
«Smettila di cantare! Qualcuno ti riporterà alla Scuola.»
«Per un povero dotto, il futuro ha in serbo ben poco. Ho fame e freddo.
Cos'altro posso sopportare?»
I ragazzi si erano guadagnati un piccolo pubblico di facce curiose. Ji
Fung afferrò la mano di Lin Bai e piegò la testa.
«Scusate il disturbo. All'improvviso mio fratello pensa di essere una
stella dell'opera!» Ji Fung cercò di fare una risata, ma Padron Lau gli
aveva schiacciato la gola e non riuscì. La sua risata aveva un suono
malato, dava l'impressione che stesse soffocando. La piccola folla si
disperse e furono di nuovo soli col rumore dell'acqua che lambiva i fianchi
di legno delle centinaia di barche.
«Perché lo hai fatto?» sibilò Lin Bai. «Mi avrebbero dato del denaro.»
«Stupido! Non hanno soldi.»
«Allora cibo.»
Ji Fung sentì gli odori del cibo che provenivano dai sampan: zenzero a
fette, olio che ribolliva, pesce così fresco e tenero da sciogliersi in bocca.
Lo stomaco gli borbottò, e si chiese se dopo tutto non avrebbe dovuto
permettere a Lin Bai di cantare.
«Era molto bella», disse un'altra voce, rauca e sprezzante, direttamente
dietro di loro.
Si girarono e videro un ragazzo che avrà avuto due o tre anni più di loro.
Era sottile come un cane, con freddi occhi obliqui, lunghi capelli sporchi, e
il sorriso che sembrava una sciabolata.
«Dimmi», disse il ragazzo, avvicinandosi di un passo. «Che altri trucchi
sai fare?»
Ji Fung provava uno strano prurito al collo. Si spostò davanti a Lin Bai e
cercò di far abbassare gli occhi al ragazzo, sperando di sembrare più duro
di quanto non si sentisse. «Scompari», gli disse. «Non venire a cercar
rogne con noi.»
«Ah, non mi fare così tanta paura.» Il sorriso tirato del ragazzo si fece
più ampio. Dal buio alle sue spalle si materializzarono in quattro, anche
più sottili e sbrindellati del loro capo. «Avete sentito che questo finocchio
con la testa pelata ha cercato di minacciarmi?» chiese loro.
Ji Fung e Lin Bai si trovarono circondati da ogni parte da ragazzi con
denti rotti e dita mancanti che ridevano mentre si stringevano addosso a
loro. A Ji Fung iniziò a ribollire il sangue, pronto a combattere. Quando
due dei ragazzi lo afferrarono, iniziò a colpire all'impazzata, apprezzando
la sensazione della pelle che si rompeva sotto le sue nocche. Sfuggì alla
loro presa e tornò indietro colpendo un ragazzo all'addome, e sentendo le
costole che si spezzavano al contatto coi suoi piedi.
Per alcuni attimi pensò che sarebbe riuscito a batterli tutti. Poi un
braccio gli scivolò intorno al collo, e il morso freddo di una lama sotto il
mento lo immobilizzò, col cuore che gli galoppava nel torace.
Udì di nuovo la voce aspra del capo. «Prendete quello bello.»
Lin Bai afferrò gli occhi del ragazzo pelle e ossa, e fece finire un calcio
volante nei testicoli di un altro. Ma erano in troppi, e fu trascinato davanti
al capo, sulla cui faccia sputò. Il capo vi posò sopra un dito lurido e si
leccò via una goccia di saliva che era vicino all'angolo della bocca. Sorrise,
e in quell'istante Ji Fung credette che quel ragazzo li avrebbe uccisi
entrambi.
Poi all'improvviso sentirono una serie di rumori forti come i botti del-
l'ultimo dell'anno. Ji Fung sentì qualcosa che gli passava sibilando sopra la
spalla, quasi sfiorandogli l'osso del collo. Il ragazzo che lo teneva lasciò
cadere il coltello e scappò. Un secondo più tardi anche gli altri si disperse-
ro, veloci come un nido d'insetti spaventati dal rumore di passi. Il capo
gettò loro un'ultima occhiata malvagia guardandosi alle spalle e scomparve
in un vicolo.
Vacillando Ji Fung si tirò in piedi, provando nausea e vertigini. Era stato
colpito di nuovo in faccia dopo tutte le botte che gli aveva dato Padron Lau
e aveva la sensazione di avere il cranio pieno di trucioli di metallo. Lin Bai
venne al suo fianco e Ji Fung si appoggiò alle spalle ossute del suo amico,
tremando come un vecchio.
Ma Lin Bai gli stava dando di gomito, indicandogli qualcosa. Mentre Ji
Fung sollevava la testa, una nuova voce gridò: «Venite dentro se volete
restare vivi».
Una lunga berlina elegante, color grigio chiaro, aveva accostato nel vi-
colo a pochi metri di distanza. La figura avvolta dalla nebbia seduta sul
sedile posteriore faceva loro cenno con una mano, mentre con l'altra reg-
geva una pistola così piccola e lucida da sembrare un giocattolo.
Lin Bai e Ji Fung non ebbero nemmeno bisogno di guardarsi. Sofferenti
ed esausti e senza alcuna alternativa, si diressero alla lunga vettura grigia.

Il tiratore indossava un vestito bianco di foggia occidentale e scarpe nere


tirate a lucido. Scarpe di pelle, prese nota Ji Fung. Era pallido in modo
allarmante, e i suoi lunghi capelli neri erano lucidi e acconciati con cura. I
suoi abiti, la pelle, l'interno della berlina avevano un odore dolce e allo
stesso tempo pungente. Ma la cosa strana del suo aspetto erano gli occhi.
Avevano forma cinese, con ciglia lunghe e nere come quelle di Lin Bai,
ma erano di un color giada lattiginoso come gli occhi di qualche animale
predatore.
Dopo aver ordinato all'autista di proseguire la corsa, mise via la pistola e
offrì loro qualcosa da una fiaschetta d'argento che teneva in una tasca
interna. «Qua, prendete un sorso.»
I ragazzi lo fissarono, senza capire.
Il giovane sospirò. «Parlate cantonese? Non siete per caso saltati giù da
una barca di passaggio?»
Ji Fung ritrovò la voce. «Sì, parliamo cantonese.» Più chiaramente di te,
pensò, ma non lo disse. L'accento del loro salvatore era quello della
terraferma, forse di Shanghai. E aveva un'inflessione anche più strana,
qualcosa che Ji Fung non si provava nemmeno a immaginare.
Sentì quegli occhi color giada lattiginosa su di sé e abbassò la testa.
«Non potremmo ripagarla per aver salvato le nostre vite prive di valore
nemmeno in un migliaio di vite. Per questo saremo sempre in debito verso
di lei.»
L'uomo sorrise compiaciuto. «Una piccola cosa, che non vale neppure la
pena di menzionare. È stato un piacere mettere in pratica la mia abilità di
tiratore su quei monelli. E non avrei di certo voluto che il mondo perdesse
un cantante così piacevole e con un tale talento.»
Le guance lisce di Lin Bai si fecero rosse. Ji Fung non sapeva se
sorridere o se essere geloso.
«Ma», continuò l'uomo, «dal momento che sarete per sempre in debito
con me, potreste almeno farmi la cortesia di provare quello che vi offro.»
Di nuovo offrì loro la fiaschetta. Ji Fung aveva paura di macchiare con
le dita sudicie e sporche di sangue la superficie d'argento che brillava. Ma
Lin Bai allungò la mano e l'afferrò. Prese un lungo sorso, poi sorrise, si
leccò le labbra e passò la fiaschetta a Ji Fung. Reso audace dal sapore della
bocca di Lin Bai sul metallo, Ji Fung ne prese una sorsata.
Il sapore fu come una fiammata in gola, gli bruciò lo stomaco come un
ferro rovente, e gli riempì il cranio di un fuoco ambrato semitrasparente.
Tossì, buttando fuori uno schizzo di saliva e di liquore che puzzava, si
portò le mani alla faccia costernato e lasciò cadere la fiaschetta. Lin Bai la
raccolse a mezz'aria.
Il loro salvatore stava ridendo. «Non è il tuo veleno, vero?»
«Veleno?» Lo stomaco di Ji Fung ebbe uno spasimo di terrore, e persino
Lin Bai sembrò allarmato.
«No, no, non essere stupido. È solo un modo di dire, un ridicolo modo di
dire americano. Quello che avete appena bevuto è whisky Jack Daniel.»
Lin Bai era incapace di nascondere l'eccitazione che provava. «È ameri-
cano? Di Hollywood?»
«Dio, no.» L'uomo fece ruotare gli occhi. «Gli americani fanno del buon
whisky e della buona musica, ma non sanno vivere. Soprattutto non a
Hollywood. Io sono francese.»
Le buone maniere non permettevano di dar segno di curiosità
sull'evidente presenza di sangue cinese nelle vene di questo essere esotico.
I ragazzi rimasero in silenzio. Il disappunto di Lin Bai era quasi tangibile.
Alla fine Ji Fung chiese: «Come la possiamo chiamare?»
«Mi chiamo Pierre Jean-Luc LeBon. Ma gli amici mi chiamano
Perique.» Fece una pausa enfatica. «Se volete essere miei amici,
chiamatemi Perique.»
Lin Bai si accigliò. «Pei-week?»
La risata di Perique era bassa e, Ji Fung pensò, persino leggermente
crudele. «Se vuoi andare a Hollywood», disse, «devi lavorare un po' su
quell'accento.»

Perique li portò in un albergo che sembrava uscire da un sogno, con i


corridoi blu e argento, brillantemente illuminati, ultramoderno. Li fece en-
trare da un ingresso posteriore, per corridoi con tappeti così spessi che i ra-
gazzi facevano fatica a tenere l'equilibrio, e dentro una suite più grande
della sala del Dragone Fortunato. Sui mobili stile barocco erano appoggiati
abiti dai tessuti raffinati e dai tagli più moderni, pantaloni morbidi, sottili
camicie e cravatte di seta nei toni di brillanti gioielli.
Ji Fung cercò di mantenere le distanze, reso sospettoso da questo
benessere. Ma Perique aveva salvato loro la vita, e non c'era modo di
andarsene se non gettando vergogna addosso a lui e a loro stessi.
Inoltre Lin Bai era completamente sedotto. Il fascino del posto lo aveva
completamente colpito, gli abiti dai colori brillanti sparsi ovunque, i
romanzi con le pagine dai margini in oro, la scatola di cioccolatini francesi
che Perique offrì loro. Ji Fung non riusciva a ricacciare la gelosia in gola
ogni volta che la faccia di Lin Bai si accendeva di fronte a qualche nuovo
lusso.
Perique ordinò del cibo per loro, prelibatezze occidentali che erano allo
stesso tempo disgustose e fantastiche. Ogni cosa sembrava troppo dolce,
troppo morbida. Ji Fung si trovò a desiderare degli spaghettini fritti in olio
bollente, un cibo che Padron Lau aveva sempre dato loro in occasione del-
l'anno nuovo. Pensare al Padrone gli ricordò il crimine di Lin Bai, una cosa
così mostruosa. Uccidere il proprio Padrone era altrettanto brutto che ucci-
dere il proprio padre. Ji Fung all'improvviso si sentì braccato, terrorizzato,
incapace di dimenticare. Per un attimo, il cioccolato che macchiava la boc-
ca di Lin Bai gli sembrò sangue.
Ma era così difficile ricordare che erano fuggiaschi, assassini. Così dif-
ficile mentre Perique offriva un assaggio di questo, un assaggio di quello e
li incoraggiava a toccare la fodera della sua giacca, della seta più fine,
chiedendo loro se non volevano provarla. Bevvero champagne, che dopo
tutto non era dolce, ma una bevanda aspra con delle bollicine che pungeva
il palato della bocca di Ji Fung e faceva rallentare il tempo come se
strisciasse languidamente.
Ben presto Perique spinse i mobili contro il muro e implorò i ragazzi di
recitare. All'inizio Ji Fung fu riluttante, ma Lin Bai non aveva bisogno di
essere persuaso. Il suono di quella voce chiara e ricca fece svanire il dolore
dalla gola di Ji Fung, e anche lui intervenne. Cantarono l'uno per l'altro,
combattendo con le corde delle tende e morirono l'uno nelle braccia
dell'altro. Il sorriso rapito di Perique li spinse ad andare avanti, e lo
champagne inumidiva le loro gole dando la sensazione che avrebbero
potuto continuare per ore.
Mentre diventavano sempre più alticci, i ragazzi iniziarono a
dimenticare le parole che una volta erano sembrate marchiate sulle loro
lingue. Perique suggerì che inventassero altre parole, un'idea così
sconvolgente che dapprima li fece ridacchiare furbescamente, e poi li
spinse a cercare di superarsi l'un l'altro in sciocchezze e volgarità. «Le tue
palle sono succulente come kumquat, lascia che ne beva il succo», cantò
Lin Bai con perfetti toni da opera, mentre Ji Fung si lasciava cadere
ridendo anche se si rendeva conto che l'offerta veniva dal cuore.
Perique fece la parte del regista hollywoodiano, facendoli baciare come
amanti che erano stati a lungo divisi, facendo finta che non l'avessero fatto
nel modo giusto, e facendoglielo ripetere più volte. Poi si ritrovarono nudi
sul letto di Perique, una fantasia che sembrava una nuvola di lenzuola
bianche e cuscini di piuma d'oca, con le gambe intrecciate e le bocche
unite, proprio come se sapessero come fare l'amore.
Perique stava ancora mormorando indicazioni, ma Ji Fung quasi non le
sentiva, preso solo dal battito del cuore di Lin Bai e dal suo respiro. Sotto
quegli occhi attenti che erano in qualche modo allo stesso tempo cinesi e
stranieri, in questo luogo che era diverso da qualsiasi cosa avessero mai
immaginato, Ji Fung e Lin Bai alla fine si scoprirono reciprocamente.
Ji Fung si svegliò con la luce del sole che lo avvolgeva. Il suo primo
pensiero fu: «È tardi, il Padrone ci ucciderà per esserci addormentati...»
Poi la testa iniziò a battergli e una sensazione di nausea gli percorse gli
intestini, e lui ricordò ogni cosa. I muscoli gli dolevano, aveva l'uccello
caldo e infiammato. Lin Bai dormiva curvato accanto a lui, unica cosa
familiare in questo terrificante mondo nuovo. Perique se n'era andato,
lasciandosi dietro il dolce miasma dei vari prodotti per la cura del suo
corpo. Ji Fung fece scivolare il braccio attorno alla vita di Lin Bai, nascose
la faccia nella curva della sua spalla morbida come seta.
Lin Bai si agitò, fece un grugnito, poi balzò a sedere e iniziò a far vagare
lo sguardo nella stanza buia. I suoi occhi incrociarono quelli di Ji Fung, e
Ji Fung si rese conto che stava riacquistando la memoria.
«Ai-yaa», disse Lin Bai alla fine. «Mi sembra che la testa mi stia per
scoppiare.»
«Mi sembra che la vescica mi stia per scoppiare. Mi chiedo come sia il
bagno da queste parti.»
«Probabilmente di giada intagliata»
«Con finiture in oro.»
«E quadratini di fine seta per pulirsi.»
Facendo una risata indistinta che attraversò il loro malessere, i ragazzi
vacillarono da una parte all'altra della stanza, aprendo una porta dopo
l'altra. Trovarono diversi armadi enormi, pieni dei vestiti e delle scarpe di
Perique. Ji Fung aveva pensato che tutto il guardaroba del suo ospite fosse
sparso nella stanza, ma si trattava in realtà solo di una minima parte di
quello che aveva da indossare. Tutto era profumato di legno di sandalo e di
colonia dall'odore aspro. Spalancando una porta si trovarono davanti una
vasca del tipo con le gambe a zampa, mentre dietro un'altra c'era una tazza
di porcellana brillante.
«È quasi un peccato pisciarci dentro», disse Ji Fung. Ma i ragazzi si
misero fianco a fianco e lo fecero comunque, facendo schizzare un torrente
di urina nell'acqua chiara davanti a loro.
Perique ritornò portando con sé l'odore dello zucchero e dell'aria fresca
del mare. Buttò la giacca sul letto e si tirò accanto i ragazzi.
«Sembra che abbiate fatto i cattivi», disse.
Ji Fung si irrigidì tra le braccia profumate di Perique. «Cosa vuoi dire?»
Perique estrasse dalla giacca un foglio di giornale che era stato piegato
ripetutamente e lo lisciò sulla coperta. «Guardate.»
Ji Fung si accigliò vedendolo. Poteva sentire il sangue che gli saliva alle
guance. «Non ci vedo bene, leggi tu.»
Perique guardò in su e con comprensione disse: «Non sai leggere,
vero?»
«Certo che sono capace.» Ji Fung agitò una mano come per scacciare il
pensiero. «Tutto il bere di ieri sera mi ha fatto venire il mal di testa. Tutto
qua.»
Perique sorrise e si strinse nelle spalle per mostrare che sapeva che Ji
Fung stava mentendo, ma non mancò completamente di garbo.
«Dice che Lau Tung Ho, padrone della Scuola dell'Opera di Hong Kong
è stato ucciso la notte scorsa. Pugnalato a morte. Due degli allievi sono
scomparsi, e sono ricercati per l'assassinio. Si chiamano Lin Bai e Wang Ji
Fung.
Perique girò la pagina e appoggiò il giornale. Lin Bai si sedette e si
sporse sopra la spalla di Ji Fung per guardare.
«Ecco la foto.»
Era un ritratto della loro classe, preso un anno prima dal proprietario del
teatro del Dragone Fortunato. Le teste dei fuggiaschi erano cerchiate. Ji
Fung era in piedi nell'ultima fila, in mezzo ai ragazzi più alti, e la sua
faccia era una macchia indistinta. Ma Padron Lau aveva messo il suo
allievo migliore davanti, e i lineamenti fini di Lin Bai erano
immediatamente riconoscibili.
Ji Fung provò una rabbia improvvisa e impossibile da controllare. Lin
Bai aveva distrutto il suo mondo sicuro e lo aveva trascinato in questo
incomprensibile turbinio. Aveva ucciso chi si occupava di loro, e adesso
erano alla mercé di un nuovo custode, Perique, che era di certo
affascinante, ma anche pazzo.
Immediatamente si rese conto di quanto i suoi sentimenti fossero
meschini. Non era lui che aveva dovuto sopportare l'umiliazione e le
violenze notturne per mano di Padron Lau. Non era lui che aveva dovuto
affrontare la tortura degli altri ragazzi per aver fatto una cosa che odiava.
Quegli onori di dubbio valore appartenevano solo a Lin Bai.
Lin Bai aveva dovuto uccidere Padron Lau, lo aveva fatto per salvare la
vita di Ji Fung oltre alla sua. E Lin Bai aveva dovuto scappare. E Ji Fung
aveva scelto di scappare con lui, e adesso sarebbero per sempre stati legati
l'uno all'altro. Se marcire in prigione era parte del loro destino, sarebbero
marciti insieme.
Guardò su verso Perique. «Hai intenzione di denunciarci?»
Perique scoppiò in una risata. Ji Fung pensò di nuovo che la risata del
loro nuovo amico non era per niente gentile, ma quando arrivò ne fu
sollevato. «E perdermi delle altre rappresentazioni personali? Non siate
stupidi.» Buttò via il giornale e afferrò saldamente le mani dei ragazzi.
«Ho le mie abitudini che sono, come si può dire, al di fuori della legalità.
Di rado arrivano all'omicidio, ma sono costretto a essere tollerante verso
coloro che provano piacere in quel tipo di cosa.»
«Non mi è piaciuto!» Lin Bai gridò, poi si batté la mano libera sulla
bocca.
Perique sollevò un sopracciglio nero dalla forma perfetta. «Sei stato tu,
Piccolo Dono?» Stava scherzando con il nome di Lin Bai. Siu Lai
significava Piccolo Dono. Ji Fung era diventato Jung, o seme.
Lin Bai annuì, mentre la sconfitta e la vergogna gli coloravano la faccia.
Perique diede un colpetto sulla guancia liscia di Lin Bai, fece passare
una mano gentile sull'ispida peluria che aveva in testa. Il Padrone le rasava
una volta alla settimana, e adesso la crescita che avevano in testa era quasi
di sette giorni. «Buon per te. Avevo creduto che fosse stato Jung, ma i
petali del loto possono nascondere un'ape con un ago pungente, vero?»
Lin Bai si strinse nelle spalle. Aveva gli occhi umidi, stava per lasciarsi
andare. Ji Fung voleva abbracciarlo, ma se a Lin Bai spiaceva di avere
ucciso il Padrone, era una cosa che doveva affrontare da solo. Non era
cosa da essere alleviata da un inutile tentativo di conforto.
«Deve essere stato molto crudele nei tuoi confronti», disse Perique.
«Voglio solo aiutare.»
Ji Fung non poté controllarsi. «Non ci conosci, ti piace il nostro aspetto,
è vero, ma non apparteniamo al tuo mondo. Perché sei così generoso con
noi? Perché rischiare dei guai per avere aiutato due criminali?»
«Mi piacciono i guai.»
«Bene, ma...» Ji Fung lottò per trovare un modo di dire quello che
voleva senza far perdere la faccia a Perique. «Forse sei di nobile nascita o
un importante uomo d'affari internazionale. Noi siamo solo dei poveri
attori non abituati al tuo stile di vita. Non è giusto che tu debba metterti in
pericolo per amor nostro.»
«In altre parole», sorrise Perique, «non hai intenzione di fidarti di me,
finché non ti avrò detto qualcosa di me stesso.»
Ji Fung e Lin Bai lo fissarono. Di certo Perique non era, non poteva
essere cinese. Nessun cinese avrebbe mai osato tagliare così nettamente un
velo di educata foschia.
«Non mi importa. Parlo cinque lingue, e mi piace dire quello che penso
in ognuna di loro. Beviamoci una tazza di caffè, va bene?» Perique le
ordinò, poi mise una poltrona dorata vicino al letto. «Da dove iniziamo?
Sono nato a Shanghai vent'anni fa. Mio padre era un artista di Parigi, un
pazzo avventuroso il cui talento era di certo di molto superiore alla sua
ricchezza. Mia madre era la figlia di un ricco commerciante della costa che
possedeva una flotta di giunche per il commercio dell'oppio. Ho avuto
cinque fratelli e sorelle, tre vivono in Francia, due a Londra. Io passo
spesso le vacanze all'estero, quindi siete stati fortunati a trovarmi qui
adesso.»
Il caffè arrivò, forte e nero, con un profumo delizioso ma con un gusto
amaro e strano.
«Adesso i miei genitori sono morti. Mia madre, cinese mi ha lasciato
una fortuna, mio padre, francese, un sogno. Io ero come lui, mi aveva
detto. Se il mondo avesse smesso di divertirmi, sarei morto. E gli ho
creduto. Quindi ho viaggiato per il mondo riempiendo il mio cervello delle
idee più nuove, il mio stomaco con le delicatezze più raffinate, e il mio
letto con le creature più amabili che potessi trovare.»
Ji Fung guardò Lin Bai e di nuovo Perique. «Perché noi due?»
Una sfumatura di cremisi infiammò le pallide guance di Perique, ma
stava sorridendo. «Mi piace guardare», disse.

Perique spinse i ragazzi fuori dalla berlina grigia in un vicolo che


puzzava di bastoncini d'incenso e di ostriche. Una donna con una pelle
bianca per la cipria e con labbra rosse e impudiche stava in piedi vicino a
una porta di metallo grezzo. Perique le parlò rapidamente in una lingua che
non era familiare. Udendo la parola jazz, Ji Fung immaginò si trattasse di
inglese. La donna aprì la porta e li spinse dentro.
L'interno era scarsamente illuminato, impregnato dall'odore del tabacco
e dell'oppio. Una bellezza esotica avvolta da un abito di seta bianca stava
cantando. Aveva una voce vivace e spensierata, che faceva le bolle come
lo champagne. Aveva la pelle scura come tè carico, occhi marroni con
ciglia pesanti, e una bocca incredibilmente piena e sensuale. Perique le
strizzò l'occhio, e lei sorrise.
Perique li portò tra le quinte, dentro un minuscolo camerino pieno di
fiori recisi. Il profumo dolce e umido era allo stesso tempo rinfrescante e
penetrante. Quando la canzone fu finita, la cantante venne verso di loro,
seguita da ondate di applausi e da grida che la imploravano di cantare
ancora. Diede a Perique un bacio veloce sulla bocca e iniziò a parlare nella
stessa lingua straniera, lentamente e biascicando le parole.
Perique indicò i ragazzi mentre le rispondeva. La cantante annuì
pensierosa.
Perique si girò nuovamente verso i ragazzi. «Lai, Jung, questa è Clarise.
Vi aiuterà a prepararvi per i ruoli più importanti della vostra carriera di
attori, i ruoli che vi salveranno la vita.»
Con un sorriso lento, Clarise si slacciò il vestito e lo lasciò cadere. Le
punte morbide del suo seno caddero insieme a lui, perché erano cucite
nelle coppe del reggiseno del vestito. Sotto, il suo torace era piatto, con
piccoli capezzoli marroni che si vedevano sotto un corsetto allacciato
molto stretto.
«Vedete?» disse in cantonese, con un accento forte e farfugliato. «Sono
un ragazzo come voi.»
Si accarezzò la protuberanza nelle mutande di seta.
«Ma è il mio segreto. E adesso sarà anche il vostro.»
Ji Fung scosse la testa, provando orrore a quella vista di virilità avvolta
in seta e pizzi, e all'idea che lui non sarebbe mai sembrato come questa
creatura. «Lin Bai fa la parte della donna», disse. «Non io.»
Perique rise vedendo il suo disagio. «Se la polizia ti prende, sarai
condannato a morte. E anche Lai.»
«Ma crederesti che sono una donna? È impossibile.» Ji Fung si prese le
orecchie, le tirò fuori come fossero state manici di una brocca. «Guarda
qua. Sarei la donna con meno pretese di tutta la Cina.»
Perique si strinse nelle spalle. «Hai un'idea migliore?»
Ji Fung si girò verso Lin Bai. «Diglielo! Lo sai che non è possibile.»
Lin Bai girò la testa, sorridendo dietro le dita.
Ji Fung saltò su. Il profumo dei fiori lo fece vacillare. «Siete tutti contro
di me.»
«Smetti di lottare», lo sgridò Clarise a voce bassa. «Se combatti,
nessuno ti crederà.»
Sentì la mano di Lin Bai sulla spalla. «Non essere così sconvolto, Ji
Fung. Mi piacerebbe vederti nei panni di una ragazza.» Ji Fung lasciò
cadere la testa e le gambe gli cedettero. Sapeva riconoscere il momento
della sconfitta.
«Spogliatevi», disse loro Clarise. «Prima che possiate diventare donne,
dovete lasciare uscire l'uomo.» Sollevò un rasoio che brillava.
Quando Perique riuscì a smettere di ridere abbastanza a lungo da
prendere fiato, Ji Fung era a metà strada verso la porta. «Depilazione,
Jung, è solo per la depilazione.»

***

Clarise portò una bacinella d'acqua, insaponò le gambe e le ascelle dei


ragazzi, e con la lama lucente tirò via la schiuma. Dopodiché non poterono
fare a meno di massaggiarsi la pelle, meravigliandosi alla nuova
levigatezza di seta.
Le sopracciglia di Perique si sollevarono mentre Clarise apriva la scatola
del trucco. «Sono così graziosi... Di certo non ne hanno bisogno.»
Clarise sbuffò. «Ti farò vedere quanto ne sai sull'essere graziosi.»
Perique sembrava offeso finché Clarise non si sporse verso di lui e gli
diede un altro bacio sulla bocca, stavolta non così veloce e leggero.
«Possiamo truccarci da soli», si offrì Lin Bai. «Sappiamo come si fa.»
Presero il trucco, si fecero la riga sopra gli occhi con la polvere
d'antimonio, accentuarono le sopracciglia e l'incavo delle guance, si
dipinsero le labbra e si incipriarono la pelle. Persino il trucco da
palcoscenico di Clarise sembrava leggero e asciutto paragonato al fangoso
cerone a cui erano abituati a Scuola. Comunque, l'atto di truccare i propri
lineamenti era una piccola consolazione, qualcosa di familiare in questo
mare di stranezze.
Sembrava che Lin Bai si divertisse a farsi infilare in un corsetto
complicato fatto di elastico e di ossa di balena, ma Ji Fung rifiutò la
contrazione spaventosa. Clarise chiocciò la sua disapprovazione e disse
che avrebbe avuto una figura da ragazzina. Ji Fung non sapeva cosa
intendesse ma insistette sul voler riuscire a respirare.
Poi fu la volta della biancheria con l'imbottitura di cotone cucita dentro,
solo un accenno di rigonfiamento per Ji Fung, delle coppe più piene per
Lin Bai. Il pesante seno finto sembrava incongruo sulla sua struttura
sottile, ma Perique disse che sembrava sexy. Poi fu la volta di calze
scivolose sorrette da fasce elastiche, e vestiti di foggia occidentale di seta
brillante, colore del cielo estivo e della giada luccicante. E scarpe di pelle,
scarpe con i tacchi alti su cui era faticoso camminare, ma che davano una
sensazione meravigliosa da seduti.
E poi, il tocco finale: le parrucche. Clarise si dilungò sulle possibilità, ne
sollevò una di capelli lucidi solo per rimetterla nella scatola, poi ne tirò
fuori un'altra, prendendo il mento dei ragazzi tra le mani e girando le facce
da una parte e dall'altra. La faccia di Lin Bai si illuminò quando ne estrasse
una bionda, ma Perique disse che non era credibile. Lin Bai tenne il
broncio finché Perique gli scelse un'altra parrucca nello stesso stile, ma
scura con dei riflessi rossi brillanti.
Per Ji Fung, la scelta fu più difficile. Clarise alla fine optò per una massa
disordinata di onde di un nero lucido che gli scendevano oltre le spalle e
coprivano le sue orecchie offensive.
Quando Clarise li portò davanti a uno specchio a figura intera, Ji Fung
non riusciva a credere ai suoi occhi. Lin Bai naturalmente era da togliere il
fiato, completamente femminile come in ogni suo ruolo. Ma Ji Fung non
riusciva a smettere di guardare la donna che lui stesso era diventato. Non
era bella nemmeno la metà di Lin Bai, ma era senza alcun dubbio
femminile. Un po' semplice, più alta e con le spalle più ampie di quanto
non avrebbero dovuto essere. Una ragazza che avrebbe dovuto adeguarsi a
sposare un uomo più anziano, forse un vedovo, ma comunque una ragazza.
Era spaventoso. Si sentiva come se una parte di sé, la parte completamente
maschile, fosse morta nella Scuola con Padron Lau. Per la seconda volta
nella sua vita, la sua identità era stata cancellata e ricreata. Questa cosa lo
faceva sentire perso e gli dava le vertigini. Raggiunse la mano di Lin Bai.
«Le ragazze nuove di zecca devono avere dei nomi nuovi di zecca»,
disse loro Perique. «Nomi americani, naturalmente, adatti a stelle del
cinema americane.»
Prese nelle mani il mento di Lin Bai. «Tu sarai Betty Lee.»
«Betty», Lin Bai ripeté, come sotto ipnosi.
Con l'altra mano, Perique massaggiò gli zigomi truccati di Ji Fung. «E tu
sarai Jenny Lee. La sorella di Betty.»
Se mai dirai a qualcuno il tuo vero nome, degli uomini cattivi verranno
a tagliarti la lingua. Capisci?
«Jenny Lee», disse Ji Fung, provando la lenta paura di un sogno. Non
avrebbe dimenticato. Non avrebbe mai parlato.

Passarono due mesi. Ji Fung sentiva che stava imparando a muoversi


come una donna, come Lin Bai. Erano stati abituati a passare ore ogni
settimana a far pratica e a recitare insieme. Adesso, invece, i loro corpi si
scambiavano informazioni in qualsiasi altro modo, per tutto il tempo,
fianco a fianco in una strada affollata, con le anche che ondeggiavano in
tandem, nella vasca da bagno meravigliosa tutta scivolosa per il sapone e il
sudore, a fare l'amore sotto lo sguardo famelico di Perique.
Una sera Perique li portò al Quartiere Francese, in un night club
elegante, decorato con viti rampicanti e ferro battuto. Perique disse che era
stato fatto prendendo a ispirazione New Orleans, una bella città americana.
Mentre offriva loro delle bibite di un profondo cremisi che si chiamavano
Hurricane, promise che un giorno li avrebbe portati là. «Un Hurricane è
una specie di uragano», spiegò Perique ai ragazzi che sorbivano il
miscuglio alla frutta, «e in America di solito li chiamano con nomi di
ragazza.»
«Cosa? Gli uragani?»
«Sì. Forse quest'anno Hurricane Betty spazzerà via New Orleans.»
Perique si arrotolò un ricciolo della parrucca di Lin Bai attorno al suo dito
curato. Lin Bai era incantevole in un vestito nero che gli lasciava scoperta
la schiena, si immergeva nel suo fondoschiena, e lasciava intuire la
fenditura del suo sedere. Ji Fung doveva esercitare un forte controllo su di
sé per impedirsi di massaggiare quella schiena tentatrice in tutta la sua
lunghezza facendo scivolare un dito nella fenditura di seta.
Perique non mostrava questo controllo. In privato raramente toccava i
ragazzi, ma in pubblico faceva un grande spettacolo dei suoi
palpeggiamenti. Era come per il suo modo di vestire, come l'ostentazione
con cui mostrava la sua ricchezza, sembrava che volesse dire al mondo:
«Guarda quello che ho. Guarda cosa mi posso permettere».
Ji Fung sorseggiò il suo Hurricane. Era abbastanza dolce da dargli sui
nervi. Si trovò a desiderare una sorsata di champagne per eliminare il
sapore nauseante della frutta e del rum. Si era abituato al piccolo vizio
dello champagne, proprio come si era abituato alla lingua. Perique stava
insegnando loro l'inglese, facendogli ripetere la pronuncia finché
riuscivano a dire: «Sono molto lieta di conoscerla» proprio come vere
signore. Passavano ore al cinema e dopo passavano ore a imitare le loro
stelle preferite, lottando per pronunciare nomi come Greta Garbo e
Marlene Dietrich.
Perique era orgoglioso dei suoi studenti, che bevevano informazioni
come spugne assetate. Quando volevano qualcosa, glielo faceva chiedere
in inglese. Aveva persino insegnato loro a leggerlo e scriverlo un po'; Ji
Fung scoprì che aveva una certa predisposizione per la magia delle parole
sulla carta. Perique era come un angelo paragonato al Padrone duro che
avevano conosciuto prima, ma tuttavia c'erano momenti in cui Ji Fung si
chiedeva se il loro salvatore non fosse un po' troppo compiaciuto della sua
superiorità.
C'erano anche volte in cui desiderava di non aver mai imparato l'inglese.
Una volta era in piedi al bar di un club occidentale che faceva jazz, e stava
prendendo qualcosa da bere per Lin Bai mentre Perique danzava con lui,
quando un americano coi capelli unti fece un ghigno beffardo nella loro
direzione e chiese alla sua compagna elegante (ma senza pretese): «Chi ha
portato i musi gialli?»
Il sorriso della donna sembrò dividere in due la sua faccia appuntita
come se fosse stata tagliata da un'accetta. «Sono certa che è stato Perique
LeBon.»
«A quel ragazzo piace far credere di essere un bianco, ma il giallo inizia
a venir fuori.»
«Almeno si tratta di ragazze. Avresti dovuto vedere la creatura che
aveva trascinato qui il mese scorso...»
Ji Fung non menzionò mai a Perique la cosa, che però rimase sul fondo
della sua mente, a disturbarlo.
Posando il bicchiere di Hurricane vuoto sul tavolo, prese una cipria dalla
borsa a rete d'argento che aveva in grembo e si esaminò la faccia,
sfregandosi una macchia immaginaria di matita sull'occhio e applicando
una sfumatura non necessaria di rossetto. Non poteva ancora credere che la
faccia che vedeva allo specchio fosse davvero la sua. Lin Bai vide Ji Fung
che si scrutava, sorrise compiaciuto e gli diede un colpetto nelle costole,
con un'unghia lunga e dipinta di rosso.
Mentre metteva via la cipria, sentì una cosa quadrata e liscia sul fondo
della borsa. Il sigillo di giada col suo nome. Lo teneva con lui dalla notte
della fuga, ma di recente non vi aveva quasi mai pensato. Adesso lo tirò
fuori e continuò a rigirarselo tra le mani. Si sentiva la testa leggera per i
fumi dell'alcol e per le luci e l'eleganza di questo mondo di night club, e
all'improvviso provò la sensazione che questa piccola reliquia fosse l'unica
cosa che lo legasse alle sue due vite precedenti, un seme da cui forse un
giorno la sua vera identità avrebbe potuto ricrescere.
Ji Fung si portò la giada fredda alle labbra. Guardandosi in giro per il
club, si accorse del barista silenzioso, un europeo impossibilmente alto con
lunghi capelli neri, che serviva un paio di cinesi in giacca e cappelli neri
flosci. Trasudavano un'indifferenza da predatori, e Ji Fung si chiese se
qualcuno avrebbe mai trovato il coraggio di chiamarli musi gialli.
Perique gli piantò un bacio che sapeva di liquore all'angolo della bocca,
e disse qualcosa sull'andare a spendere una monetina, ma Ji Fung non
riuscì a distogliere lo sguardo dalla coppia al bar.
Lin Bai notò il centro dell'attenzione di Ji Fung. «Chi sono?»
«Non so», disse Ji Fung. Una parte di lui si voleva dimenticare di loro,
andarsene dal club, portare Lin Bai a casa e passare la notte a divorare il
suo corpo liscio e sottile. Ma non riusciva a distogliere lo sguardo. C'era
qualcosa di familiare in questi uomini, nel modo curiosamente rigido in cui
tenevano le dita mentre si portavano alle labbra le sigarette.
Uno di loro parlò al barista, poche corte sillabe esplosive. Il barista
annuì, tirò fuori una spessa busta da sotto il bar e gliela consegnò. Mentre
se la faceva scivolare in una tasca interna, l'uomo girò la testa e colse lo
sguardo di Ji Fung.
Ji Fung si girò, col cuore che batteva all'impazzata, ma era troppo tardi.
L'uomo si stava avvicinando, era al loro tavolo.
«Buona sera signore.» Il suo sorriso metteva in evidenza una bocca dai
denti perfetti, ma non gli arrivava mai agli occhi. E svanì completamente
quando vide il sigillo di giada nelle mani di Ji Fung.
Ji Fung cercò di rifarlo scivolare nella borsa, ma era troppo tardi.
L'uomo lo prese per il polso e lo trascinò in piedi.
«Dove lo hai preso?»
Un terrore cieco oscurò la vista di Ji Fung. Adesso sapeva chi dovevano
essere questi due uomini. Erano i gangster di cui lo aveva avvertito sua
madre, quelli che gli avrebbero tagliato la lingua se avesse mai parlato. La
sua mente era un vortice senza controllo, il panico gli provocava le
vertigini. Sapeva che stava per perdere la lingua. Non riusciva a ricordare
cosa non avrebbe mai dovuto dire. Il suo nome, qual era? Wang Ji Fung?
Jenny Lee? O qualcosa di completamente diverso?
L'uomo gli storse la mano, e prese il sigillo che ne cadeva. «Rispondimi,
cagna!»
Ma Ji Fung non ci riusciva. Quando sentì il bacio freddo di una pistola
contro le costole, chiuse gli occhi e aspettò di morire. Invece, i due uomini
lo presero per il gomito e lo spinsero verso la porta. Vagamente sentì Lin
Bai che strillava delle parole che avrebbero potuto essere il suo nome.
In un fetido vicolo dietro il club, l'uomo con i denti perfetti esaminò il
sigillo di giada di Ji Fung alla debole luce. Il suo amico lo immobilizzava
contro un viscido cancello di legno, mormorando delle oscene affettuosità
che suonavano più come minacce di tortura.
«Ladra», disse il primo uomo a voce bassa, come se avesse parlato a
un'amante. «Dicci come mai sei arrivata ad avere un bene prezioso che ap-
parteneva a Gong Wa Toi.»
Il nome di suo padre. Ji Fung non lo sentiva nominare da anni. All'im-
provviso si ricordò gli occhi pazzi di sua madre in quell'alba di così tanto
tempo fa, il suo respiro caldo mentre gli ordinava: «Non parlare mai più di
tuo padre».
L'altro uomo allentò la presa sulla gola di Ji Fung. Il girocollo di perle
che Perique gli aveva comprato quel pomeriggio si ruppe, e le pallide sfere
si dispersero nel fango puzzolente del vicolo. Ji Fung non riusciva a
parlare, poteva solo scuotere la testa.
L'uomo fece un rumore come se stesse sputando, mentre attorcigliava le
dita nei capelli di Ji Fung e tirava. Quando la lunga chioma gli rimase in
mano la sua espressione fu quasi comica. Strappò il vestito di Ji Fung che
si aprì sul davanti e gettò un'imprecazione alla vista del torace nudo, da
ragazzo.
Naturalmente a quel punto lo picchiarono. Ji Fung non oppose
resistenza, cedendo sotto i colpi, come aveva ceduto una volta sotto il
bastone di bambù del Padrone. Quando perse conoscenza, diede il
benvenuto al buio e pregò di non risvegliarsi mai più.

Gli dei non accolsero le sue preghiere. La coscienza ritornò lentamente e


dolorosamente, un passo dopo l'altro: un male violento al gomito, delle
pulsazioni ai reni, un dolore sordo all'occhio destro. Si svegliò per scoprire
che la guancia che gli doleva era schiacciata sulla trama di un morbido
tappeto, con un ricco disegno rosso e oro, che si agitava nel vortice
confuso della sua vista offuscata. Sentì l'aria fredda sulla schiena e sulle
cosce e si rese conto di essere quasi nudo, dal momento che il vestito
costoso che aveva indosso era a brandelli.
Ji Fung chiuse gli occhi, cercando conforto nell'oblio. Ma all'improvviso
delle mani dure lo toccarono, scuotendolo. Guardò in su verso la faccia del
suo assalitore.
L'uomo era bianco come un fantasma, gli occhi lucidi e pieni di panico.
Mostrò i suoi denti perfetti in un sorriso disperato che sembrava più una
smorfia. «Bevi questo», disse, tendendogli una tazza blu semitrasparente.
«Ti farà sentire meglio.»
Ji Fung si mise a sedere, trasalendo senza capire. Prese la tazza, dal mo-
mento che le mani dell'uomo tremavano così violentemente che il liquido
che conteneva minacciava di rovesciarsi sul tappeto. Si trattava di the,
forte e dolce come miele. Lo bevve in tre sorsate. L'uomo gli fu
immediatamente accanto per riempirgli di nuovo la tazza. «Mi chiamo Chi
Gwai, sono il tuo servo. Ti ho preparato una teiera di Foschia delle Nuvole
che cresce solo sulle vette più alte, dove gli uomini non riescono ad
arrivare. Ci sono scimmie che sono state addestrate a cogliere le foglie di
questo the e a portarlo giù in ceste. Si tratta di un infuso molto speciale.
Per favore fammi sapere se hai bisogno di qualcos'altro.»
Ji Fung aveva la sensazione che la sua mente fosse piena di punte
acuminate, e non riusciva a capire il mistero del comportamento del suo
assalitore. Sorseggiò il the e fece un inventario del suo corpo. Non c'era
niente di rotto, ma la pelle era piena di lividi e di escoriazioni, che si
manifestavano in un dolore diffuso che si trasformava in formicolii
localizzati. Il suo labbro inferiore era spezzato, anche se non brutalmente,
e parecchi denti gli dondolavano nelle gengive quando li toccava con la
lingua. In testa gli si accatastavano domande formulate a metà.
«Ti offro umilmente questi abiti», disse Chi Gwai, piegando il capo.
«Sono di qualità scadente, ma è il meglio che possiedo.»
Reggeva un abito di taglio occidentale a tre pezzi, di un grigio scuro con
delle sottili righe bianche, e una camicia di seta bianca. Gli abiti avevano
una fattura squisita. Ji Fung li prese, sentendo che il mondo aveva
completamente smesso di avere senso.
«Per favore, accetta anche queste scarpe.» Chi Gwai gli porse una
scatola. Le scarpe erano di pelle nere e bianche, lucide come il vetro. Gli
andavano perfettamente.
Chi Gwai gli portò dell'acqua calda perché si potesse lavare il sangue
seccato e il rossetto dal viso, e un pettine per mandare indietro i capelli che
stavano crescendo. Mentre si metteva il vestito, si accorse che il sigillo di
giada era stato messo con discrezione nel taschino del gilè.
Alla fine si guardò allo specchio e vide un'altra persona completamente
nuova. Era elegante, quasi bello. I lividi e il labbro spezzato gli
conferivano un'aria sinistra. Sembrava uno dei gangster di cui lo aveva
avvertito sua madre.
Chi Gwai lo condusse lungo un corridoio in una grande stanza piena a
metà di tavoli e sedie intagliate. Una nicchia nel muro conteneva una
statua di Kwan Ti, il feroce generale, dio della lealtà e della fratellanza,
con tre bastoni di incenso che bruciavano davanti a lui. Sulla parete più
lontana era appeso un enorme dipinto di un villaggio in inverno, pieno di
persone minuscole che si occupavano di un migliaio di piccoli compiti. Ji
Fung riconobbe il dipinto un istante prima di vedere l'uomo seduto a
capotavola.
«Ciao, Siu Ji.»
Il nome della sua infanzia. Il primo nome che avesse mai avuto, quello
che aveva quasi dimenticato.
Ji Fung ricordò di aver mangiato a questo tavolo, fissando il dipinto e
desiderando che esistesse il modo di entrare in quel perfetto mondo in
miniatura. Lui e i suoi genitori erano sempre stati benvenuti alla tavola di
quell'uomo. La faccia di suo zio adesso era più pesante, i capelli iniziavano
a diventare più radi. Ma gli occhi non erano cambiati. Erano come quelli di
suo padre, con palpebre grandi e di un marrone chiaro, anche se lui
ricordava che gli occhi di suo padre erano più gentili di quelli dello zio.
Teneva stretta tra le dita macchiate di nicotina una sottile sigaretta
americana, che si bruciava. Ji Fung ricordò il persistente odore di tabacco
che aveva pervaso tutti i pasti.
«Zio», mormorò Ji Fung, piegando la testa per celare la sua confusione.
Gong Sut Fo si alzò e prese il nipote per le spalle. «Dapprima non
riuscivo a credere ai miei occhi. Il fantasma del figlio di mio fratello era
tornato dalla tomba sotto le vesti di una donna.»
La faccia di Ji Fung bruciava per la vergogna, ma non capiva. Sua
mamma aveva detto alla sua famiglia che era morto?
Gong Sut Fo lo guardò come un antiquario avrebbe guardato una giada
rara.
«Mi maledico per non essere riuscito a riconoscere la tua foto nel
giornale, ma era sfocata, e io non riuscivo a convincermi che tua madre
fosse capace di una tale cattiveria. Adesso che ti vedo con i miei occhi,
non ho più alcun dubbio.»
Il cuore di Ji Fung iniziò a gonfiarsi di una gioia cauta. Sua madre aveva
fatto una cosa terribile portandolo via dalla sua famiglia, ma adesso l'aveva
trovata, ed era lei che sarebbe stata scacciata.
«Dov'è Gong Wa Toi?» chiese. «Perché mio padre non è venuto ad
accogliermi?»
La faccia dello zio si fece inespressiva come acqua ferma. Il silenzio
riempì la stanza per un attimo senza fine e Ji Fung pensò che il battito del
suo cuore doveva essere la cosa che faceva più rumore. Poi Gong Sut Fo
sorseggiò con molta cautela il suo the.
«Devi avere fame.» Fissò per un momento nella profondità del quadro,
poi batté le mani. Nel giro di pochi secondi comparve una servetta.
«Porta a mio nipote della zuppa e degli gnocchi al vapore.» Sollevò la
tazza. «E altro tè.»
«No, grazie», disse Ji Fung, lottando con le sue buone maniere un po'
arrugginite. «È troppo disturbo.»
In verità non aveva molta fame, aveva l'intestino pieno di acidi dovuti
alla tensione e all'Hurricane che aveva bevuto. Ma sapeva che non poteva
rifiutare direttamente.
«Nessun disturbo», disse Gong Sut Fo, con la faccia increspata da un
sorriso particolare inespressivo. «Solo avanzi.»
Quando arrivò il cibo, era due volte la quantità che si era aspettato, e
ogni piatto era appena fatto e bollente: gli gnocchi erano ripieni di maiale
piccante, nella zuppa c'erano succulenti pezzi di coda di pescecane, e la
grossa tazza di riso fumante e bianco conteneva dei pezzetti di dolce e di
verdura. A Ji Fung l'appetito tornò con un'ondata di nostalgia. Si era
dimenticato di quanto fosse stanco di cibo occidentale, con i suoi pezzi di
carne indigesta e i suoi sughi densi e insipidi. I fragranti piatti cantonesi
davanti a lui gli riportavano memorie di enormi banchetti a questo tavolo,
di lui e delle sue due sorelline che correvano avanti e indietro come
cagnolini gioiosi, che afferravano un morso di pesce, un dolce di riso, una
fetta di radice di loto sciroppata.
Mangiò con appetito sotto lo sguardo attento dello zio e aspettò la
risposta alla sua domanda. Ma non fu che dopo che Ji Fung ebbe finito
ogni piatto che Gong Sut Fo riprese a parlare.
«Tua madre veniva da Soochow, da una famiglia borghese che faceva
strumenti musicali. Era famosa per la sua voce melodiosa e per il suo bel
viso, e suo padre era ambizioso, e aveva rifiutato offerte da uomini
rispettabili. Lui aspettava che si presentasse un uomo benestante di Hong
Kong, un uomo che avesse potere. Un uomo che gli era stato predetto da
una veggente del posto.»
Ji Fung si riempì la tazza e bevve, ascoltando attentamente.
«Ho incontrato tua mamma, Miao-Ying, a Shanghai.» Gong Sut Fo fece
una pausa. «Ci innamorammo.»
Ji Fung si accigliò, ma gli occhi di suo zio lo attraversavano.
«Che pazzia», disse. «Non eravamo stati presentati. Ma era vero.
Adoravo le sue piccole stranezze, l'espressione distante dei suoi occhi.
Come eravamo birichini. Mi permetteva di tenerle la mano e anche di
baciarle le dita! Ma era una ragazza strana. Diceva che non voleva
dipendere dagli uomini per tutta la sua vita, e tutti sanno che una donna
deve dipendere dagli uomini.
«Miao-Ying andò da suo padre e gli disse che aveva trovato il marito dei
suoi sogni. Disse che provenivo da una potente famiglia di Hong Kong,
proprio come aveva predetto la veggente, e lo implorò di lasciarci sposare.
Suo padre ne fu compiaciuto, ma poiché era ambizioso, si informò sulla
mia famiglia e scoprì che anche il mio fratello più anziano non era sposato.
Pensò: Perché dare mia figlia al secondodenito della famiglia Gong,
quando potrebbe essere la prima moglie del primo figlio? E offrì Miao-
Ying a Wa Toi invece che a me.
«All'epoca pensavo che ne sarei morto, al vederla ogni giorno, sapendo
che dormiva ogni notte con mio fratello. Adesso mi rendo conto che averla
persa può essere l'unica ragione per cui sono ancora vivo. I suoi strani
modi, lo sguardo assente, credo che fossero i segni della sua pazzia.»
Ji Fung intrecciò le mani sul grembo. Il cibo delizioso giaceva a disagio
nel suo stomaco.
«Dopo il matrimonio, Miao-Ying iniziò a muoversi per casa come un
fantasma, non parlava mai né a me né a mio fratello e alla servitù solo
quando non aveva scelta. Nella mia arroganza giovanile, immaginavo che
stesse soffrendo per me. Stette male per tutta la gravidanza. Dopo la tua
nascita, sembrò che non ti riconoscesse come suo figlio. Quando la cercavi
piangendo, ti affidava a una balia, ma poi scompariva e i servi la trovavano
a scrutarti mentre dormivi.
«Credo che Wa Toi abbia cercato di amarla. E adorava te. Ma quando si
accorse che lei non restituiva il suo affetto, si prese una seconda moglie, la
madre delle tue sorelle, e in seguito una terza, che quella primavera
aspettava un bambino. Miao-Ying continuava a chiudersi sempre di più in
se stessa, come se pensasse che da lei non ci si aspettava più niente.
«Anche se a quell'epoca avevo moglie e figli miei il pensiero di Miao-
Ying mi tormentava ancora. Immaginavo che scappavamo via insieme, ero
perseguitato da desideri pazzeschi. Immaginavo che l'avrei salvata.
Desideravo essere fuggito con lei, non avrei potuto salvarla da se stessa,
ma avrei potuto salvare mio fratello.
«Era l'inizio della primavera, durante la stagione dell'equinozio d'inver-
no, quando ti portò via. Io ero stato fuori a bere per tutta la notte e per una
buona parte del mattino, ed ero arrivato alla decisione che non potevo
vivere senza di lei. Andai a casa di mio fratello e bussai alla porta, per
chiedere che divorziasse da Miao-Ying senza ulteriore indugio. Non
ottenendo risposta, spinsi la porta che si aprì ed entrai. Non dimenticherò
mai quello che vidi.
«Prima di tutto l'odore. Terribile, come una persona col vomito che non
si lava da mesi, come una toilette straripante. Mi trovai davanti servi che
giacevano dove erano caduti, cogli abiti sporchi di merda e di vomito,
vomito nero, il segno di un certo veleno che era molto usato negli omicidi.
Corsi di sopra a cercare mio fratello, solo per trovarlo avvolto in coperte
puzzolenti e macchiate di sangue, rigido e morto con accanto la sua
seconda moglie.»
«Mentre continuavo la mia ricerca, non trovai altro che morte. Ho visto
molte cose terribili nella mia vita, ma poche eguagliano la vista della terza
moglie, la più giovane, che giaceva con le tue sorelline tra le braccia, le
gambe spalancate che mostravano la testa blu e rugosa del bambino che
stava nascendo, come se all'ultimo momento avesse cercato di sfuggire al
destino di sua madre, ma senza averne la forza.
«Ero ubriaco di rabbia e giuravo vendetta sul demone con la testa
d'uomo che aveva avvelenato la famiglia di mio fratello. Avevo lasciato la
camera di Miao-Ying per ultima, temendo la vista del suo povero corpo
distrutto dal veleno, anche se avevo bisogno di sapere. Rimasi in piedi
sulla porta con le lacrime agli occhi, e mentre traevo un profondo sospiro
per prepararmi, sentii un nuovo odore. Cherosene. Appoggiai l'orecchio
alla porta e riuscii a sentire dei deboli suoni, come un pianto soffocato.
«Affascinato dall'idea che Miao-Ying potesse essere ancora viva, spinsi
la porta e la vidi in ginocchio al centro della stanza. Le sue braccia pallide
tenevano un bambino piccolo avvolto in una coperta. Non ne potevo
vedere il viso e ne dedussi che si trattasse di te. L'odore del cherosene mi
sopraffaceva: vedevo che i suoi capelli e il suo vestito ne erano imbevuti,
come la coperta avvolta intorno al bambino. Mi resi conto che era lui che
stava piangendo, mentre i suoi singhiozzi venivano soffocati dallo spesso
cotone che gli copriva la testa.
«Quando Miao-Ying si girò a guardarmi, seppi che era stata lei ad
avvelenare mio fratello. Il suo viso era composto e gradevole come
sempre, ma i suoi occhi scottavano, come quelli di un cane impazzito,
pieni di livore e di odio. Guardai con orrore mentre accendeva il
fiammifero e si dava alle fiamme.
«Il bambino gridava e lottava tra le sue braccia, cercando di liberarsi
della coperta che bruciava, poi raggrinzendosi mentre le fiamme si
impadronivano del suo corpo. Miao-Ying lo teneva stretto, il suo viso
sereno ed estatico anche sotto le fiamme. Io potevo solo rimanere a
guardare il fuoco che mangiava la faccia che mi aveva perseguitato per
così tanti anni.»
«Fino a oggi provo vergogna ad ammettere che non ho fatto un
movimento per salvare lei o il bambino che ho creduto fossi tu.»
Gong Sut Fo volse lo sguardo verso Ji Fung, anche se non sembrava
vedere il nipote.
«Adesso che ti ho raccontato questa storia, devi raccontarmene una tu.
La storia di come hai fatto a finire qui a casa mia otto anni dopo che tua
madre ti aveva ucciso.»
Dapprima non uscì alcuna parola. Ji Fung riusciva solo a pensare a do-
mande da fare. Quali emozioni profonde avevano esacerbato sua madre
per renderla capace di un tale atto? Il suo cuore doveva essere stato come
un uovo con un migliaio di anni, conservato nella cenere e nella calce,
seppellito fino a farlo diventare nero come un millennio di mezzanotti. Che
cosa l'aveva alla fine spinta a questo? Sarebbe mai riuscito a comprenderne
le ragioni? E se lo avesse potuto, questo avrebbe fatto di lui un possibile
assassino? Questo era una prova che era figlio di sua madre?
E qual era il bambino che era morto al suo posto? Era troppo facile per
lui immaginarsela mentre lo lasciava alla Scuola dell'Opera, e poi allettava
qualche vagabondo morto di fame a seguirla nella casa piena di cadaveri,
promettendogli cibo, e dandogli la morte. Immaginava la faccia sporca del
ragazzo che diventava nera e si avvizziva tra le fiamme. Gli sembrava più
vera della faccia dello zio che aveva davanti a sé, più reale del ricordo
della faccia della madre.
Ji Fung si sentiva male fino alle ossa, era sicuro che non sarebbe più riu-
scito a parlare. Ma alla fine lo fece. Una volta che fu iniziato il processo di
liberazione dopo così tanti anni, la storia prese vita, senza che lui la
potesse controllare, riversandosi come sangue da una ferita che credeva
guarita.
Suo zio ascoltava attentamente, continuando a tirare dalla sua sigaretta,
con la faccia butterata priva di emozioni. Quando Ji Fung terminò in un si-
lenzio impotente, Gong Sut Fo, batté le mani per farsi portare altro tè.
«Mi sono già occupato di questo problema con la polizia», disse, riem-
piendo di nuovo la tazza di Ji Fung. «Non si stanno più interessando a te
come sospetto.»
«Zio, sei troppo generoso.» Ma che ne sarebbe stato di Lin Bai?
La bocca di Gong Sut Fo si curvò in quella smorfia fredda che era il suo
sorriso. «È il meno che possa fare per l'unico figlio del mio unico fratello.»
Ji Fung sapeva che non poteva chiedere aiuto per il suo amico. Se suo
zio avesse saputo che tipo di amici erano, probabilmente li avrebbe fatti
uccidere entrambi. Lin Bai avrebbe potuto rimanere una donna per
sempre? Ji Fung sentiva che questo favore era un peso che sarebbe rimasto
per sempre sul suo cuore. Non riusciva a immaginare quello che gli
sarebbe stato chiesto in cambio.
Per un'ora parlarono di cose normali, come ogni nipote e zio che si vedo-
no dopo un lungo periodo di lontananza. Gong Sut Fo gli mostrò delle
fotografie delle sue cinque figlie, tutte ben maritate o promesse all'interno
di buone famiglie, e Ji Fung commentò che erano diventate delle giovani
donne attraenti. Parlarono di un prozio che era morto, di un cugino che Ji
Fung ricordava a stento. Del mah-jongg, del tempo e di un viaggio che
Gong Sut Fo aveva fatto di recente a Pechino. Ji Fung iniziava a credere di
essere davvero tornato a casa.
Gong Sut Fo spinse indietro la sedia. «Bene, adesso è tardi, quasi
mattino.»
«Sì, è vero», rispose Ji Fung. Era esausto, come se la confusione della
serata gli avesse prosciugato ogni goccia di vitalità dalle ossa.
«C'è solo una piccola cosa che ti devo chiedere, prima che ci ritiriamo.»
Ji Fung trattenne il fiato. Ecco. Annuì, cauto.
«Solo un piccolo favore, che però apprezzerò molto.»
«Qualsiasi cosa, zio.»
«Si tratta di questo.» Gong Sut Fo accese quella che sembrava essere
stata la sua centesima sigaretta. «Ho un nuovo socio d'affari molto
importante a Shanghai. Un americano. Sta pensando di mettersi in affari
con noi, ma prima gli piacerebbe avere un campione del nostro prodotto.»
«Di che prodotto si tratta?»
Lo zio fece cenno alla servetta di avvicinarsi, e lei arrivò portando sul
tavolo quella che sembrava una scatola molto elaborata di giada intagliata.
Gong Sut Fo aprì il coperchio, ne estrasse un pacchetto avvolto in tessuto
rosso, aprì il tessuto rivelando così una pallottola nera appiccicaticcia,
lunga e spessa come il dito di una mano. Ne emanava un aroma dolce e
ricco, abbastanza forte da far girare la testa a Ji Fung.
«Oppio?» sussurrò.
«Questo ti sconvolge?»
Ji Fung non riusciva a parlare. Fissò le scarpe nuove e lucide. I gangster,
gli assassini di cui lo aveva avvertito la sua madre assassina, erano la sua
famiglia. Ma di certo suo padre non era stato un uomo malvagio... Ji Fung
si rese conto che non sapeva niente di suo padre, a parte il fatto che l'uomo
gli aveva parlato gentilmente e gli aveva dato dei dolci. Al di fuori del suo
ruolo di padre, Gong Wa Toi avrebbe potuto essere qualunque tipo
d'uomo. Era forse anche solo vagamente possibile che il fatto che la
mamma lo avesse ucciso e ne avesse rapito il figlio fosse giustificato da
una vita marcia e corrotta?
Non era possibile. E anche se lo fosse stato, niente avrebbe potuto giusti-
ficare l'assassinio gratuito delle altre mogli, dei servitori fedeli, dei figli. E
del ragazzo che era morto al suo posto, che, per lui, aveva anche perso
definitivamente la propria identità, morendo con i lineamenti bruciati in
modo che non fossero riconoscibili.
Come se avesse letto la confusione sulla faccia del nipote, Gong Sut Fo
parlò. «Non siamo criminali. Siamo rivoluzionari, che acquisiscono i
capitali con ogni mezzo necessario. Il capitale ci dà il potere di combattere
i codardi imperialisti che porterebbero la Cina alla rovina per soddisfare la
propria avidità. La fratellanza della Triade è come una famiglia, e una
famiglia deve stare unita nel momento della discordia e del dolore.» La sua
voce era carica di emozione. «È la famiglia in cui sei nato, e dalle cui
braccia tua madre ti ha strappato. Il tuo posto è qua con noi. Ringrazio gli
dei che tu sia di nuovo qua. Tu sei il primo figlio del primo figlio di mio
padre. Io non ho figli miei, solo figlie. Sarebbe un onore considerarti mio
figlio.»
Tutte le lunghe fredde notti alla Scuola dell'Opera gli tornarono in
mente, tutte le volte in cui Ji Fung aveva sognato di scappare per trovare la
sua famiglia perduta. I ricordi lo riempivano di speranza e di gratitudine, al
punto tale che le lacrime gli pungevano gli occhi. Li sbatté per respingerle
e aspettò, sapendo che suo zio non aveva finito.
«Ma prima c'è una cosa», disse Gong Sut Fo, con occhi torvi. «Devo
sapere oltre ogni dubbio che sei il figlio di mio fratello, non di Miao-Ying.
Se nelle tue vene scorre il sangue dei Gong, allora non mi deluderai. Fai a
tuo zio questo favore come una dimostrazione di lealtà verso la memoria di
tuo padre.»
Ji Fung abbassò la testa.
«Dimmi cosa devo fare, zio, e lo farò con gioia.»
«Tra tre giorni sarà Yue Lan, la Festa del Fantasma affamato. A
quell'epoca, prendi il traghetto per Kowloon e percorri la strada Tung Tau
Tsuen fino alla città tra le mura. Entra da via Fui Sing, dove praticano i
dentisti abusivi. Fai un centinaio di passi e troverai una macelleria, e dietro
di questa un vicolo in cui un vecchio vende scarpe. Chiedigli di farti
vedere dei sandali tessuti d'erba. Quando ti dirà che ne ha solo uno, digli:
'Me ne serve uno solo per il viaggio che devo fare'. Consegnagli il denaro
in questo modo.»
Gong Sut Fo tenne una banconota piegata nella mano sinistra tra l'indice
e il medio, e le altre dita ripiegate nel palmo, col pollice che le teneva giù.
Jì Fung prese il denaro e imitò il movimento dello zio. Gong Sut Fo annuì,
rimettendosi la banconota in tasca.
«Il vecchio ti darà una scatola. Porta questa scatola a Shanghai in treno.
Sul Bund, la strada principale che corre lungo il fiume Whangpoo, troverai
un posto che si chiama Shanghai Club, dove il nostro nuovo amico pranza
ogni giorno con i suoi amici francesi. Lo incontrerai là e gli darai la
scatola. Lui ha già la chiave. Si chiama Herbert Hinchcliffe.»
Ji Fung ripeté il difficile nome due volte, a bassa voce.
«La tua pronuncia inglese è eccellente», disse Gong Sut Fo. «Te l'hanno
insegnato alla Scuola dell'Opera?»
Ji Fung fece un sorriso appena accennato e lo zio glielo restituì con
sentimenti più genuini di quanto non ne avesse ancora mostrati.
«Sei un bravo ragazzo.» Si alzò e diede un colpetto sulla spalla di Ji
Fung. «Ho un'altra cosa per te.»
Gong Sut Fo fece un cenno alla ragazza che scomparve. Pochi secondi
più tardi, i due uomini del vicolo entrarono furtivamente.
«Nipote, hai già incontrato Chi Gwai. Questo è Lam Bao, il suo socio.» I
due uomini si inchinarono. Sembravano pallidi e nervosi. «Sono venuti a
scusarsi per averti fatto del male.»
Ji Fung fu rigido e a disagio attraverso tutta la formalità delle scuse.
Poteva vedere che entrambi gli uomini avevano terrore di suo zio. Quando
il secondo uomo arrivò alla fine del suo discorso mal preparato, Gong Sut
Fo infilò una mano in un cassetto e ne estrasse una piccola rivoltella
rivestita d'argento. La porse a Ji Fung che la prese con enorme riluttanza.
«Li perdoni?» chiese Gong Sut Fo.
Ji Fung spostava il peso freddo dell'arma nella mano destra. I due
uomini davanti a lui stavano in silenzio con gli occhi spalancati e le facce
appiccicaticce per il sudore. Ji Fung si rese conto che c'era una parte di lui
che voleva sparare a entrambi, per fare provar loro la paura e il dolore che
aveva sentito quando lo avevano trascinato via da Lin Bai.
Pensare a Lin Bai riportò il dolore. Dove era adesso? Stava piangendo la
morte di Ji Fung, proprio come aveva fatto Gong Sut Fo per così tanti
anni?
Ji Fung si morse l'interno del labbro. Doveva concentrarsi. Non era una
questione di vendetta. Era una prova. Chiuse gli occhi per un lungo attimo,
poi guardò suo zio dritto in faccia.
«Li perdono», disse Ji Fung. «Stavano solo proteggendo la memoria di
mio padre. Non avrei ritrovato la mia famiglia se non fosse stato per loro.»
Gong Sut Fo annuì. Chiaramente approvava la risposta. «La natura gene-
rosa di mio nipote ha risparmiato le vostre vite», disse agli uomini. «Ma ai
miei occhi, la strada del perdono è lunga e diffìcile.»
Prese la pistola dalle mani di Ji Fung e sparò due colpi. Il sangue si
sparse sul pavimento. Dei fiori rossi comparvero sulle scarpe nere e
bianche di Ji Fung. I due uomini caddero gridando, tenendosi la gamba
spezzata.
Gong Sut Fo rimise la pistola nel cassetto e di nuovo appoggiò la mano
sulla spalla di Ji Fung. Questa volta Ji Fung dovette combattere per non
tirarsi indietro.
«Quando le loro ferite saranno guarite, tu sarai di ritorno da Shanghai.
Da quel giorno in poi, saranno le tue guardie del corpo personali. Ti
proteggeranno con la loro vita e faranno tutte le altre cose che chiederai
loro.»
Ji Fung si sforzò di distogliere lo sguardo dalla pozza di sangue sul bel
tappeto. Gli occhi gli caddero sulla statua di Kwan Ti che brandiva la
spada, e lui ricordò che anche questo era un dio della Triade, uno dei tre
generali noti anche come i Tre Fratelli per via della loro grande lealtà
reciproca. Si accorse che la mano sinistra di Kwan Ti era piegata nello
stesso modo in cui suo zio gli aveva insegnato a consegnare il denaro.
Era troppo. Come un bambino stanco, Ji Fung lasciò che suo zio lo
portasse oltre gli uomini che si dimenavano e lo conducesse fuori nel
lungo corridoio.
«È stata una lunga notte per te», disse Gong Sut Fo. «Oggi dormirai
senza essere disturbato. Inizierai il tuo viaggio quando cadrà di nuovo la
notte.»

***

Lin Bai giaceva nudo sulla pancia, con la testa che gli girava, la bocca
asciutta come sabbia. Aveva le guance rigate di lacrime che erano cadute e
si erano asciugate. Perique era uscito da ore, ostintatamente ottimista, certo
che con il denaro e con quelli che chiamava i suoi contatti, sarebbe riuscito
a trovare Ji Fung.
Lin Bai non nutriva questa speranza. Lui sapeva cosa stava succedendo.
Tutti quelli che cercavano di amarlo morivano, quindi Ji Fung era morto.
Lin Bai non aveva contrastato la sua malasorte uccidendo Padron Lau:
l'aveva solo allontanata per un po'. Adesso lei l'aveva trovato, e Ji Fung era
sicuramente divorato tra le sue mascelle.
Sapeva che doveva andarsene da quell'albergo prima che la sua
malasorte si riversasse anche su Perique, che era piuttosto stupido e
debole, ma dolce, che aveva salvato la sua vita infelice e quella di Ji Fung.
Ma forse il veleno lo aveva già toccato. Inevitabilmente avrebbe toccato
tutte le persone di cui gli importava. Sarebbe andato lontano, in mezzo alle
montagne, e sarebbe diventato un eremita. Ma sapeva che non sarebbe
sopravvissuto a due lune. Aveva il cuore di un attore. Sarebbe appassito e
morto senza un pubblico. Forse avrebbe dovuto...
Calde lacrime appassionate ricominciarono a scendere, e Lin Bai si
rotolò su un fianco per lasciarle cadere lentamente nelle lenzuola di seta
impregnate di sudore. Raggiunse la bottiglia di whisky americano che
aveva vicino solo per scoprire che le coperte erano fradice del suo
contenuto puzzolente. Gettò la bottiglia vuota contro il muro. Non si ruppe
come aveva sperato, ma cadde con un rumore sordo sul tappeto.
Lin Bai chiuse gli occhi. Un dolore intenso gli pulsava alla testa, aveva i
crampi allo stomaco per il dolore, e si rese conto che desiderava morire più
di ogni altra cosa. La morte avrebbe posto fine al suo dolore ma,
soprattutto, avrebbe posto fine al dolore di coloro che gli stavano intorno.
Come fare? La finestra non era abbastanza alta. Perique aveva preso con
sé la pistola. C'erano i rasoi, ma il sangue gli avrebbe ricordato Padron
Lau. Non voleva morire nel modo in cui era morto Padron Lau.
Si guardò disperatamente intorno nella stanza, cercando lo strumento
della sua morte. Gli occhi gli caddero sul comodino, dove Perique aveva
appoggiato un mezzo vassoio di piccoli dolci al forno, pieni di pasta di
bacche rosse e di dolce oppio. Ieri Perique aveva avvertito lui e Ji Fung di
non mangiarne più di uno alla volta, perché erano molto forti.
Lin Bai iniziò a mangiare i dolci con rapidi morsi, mentre il sapore forte
gli inaridiva la bocca. Quando ne ebbe finiti quattro, il piatto gli cadde
dalle mani. Si lasciò andare all'indietro e aspettò che il vuoto si
impossessasse di lui.

***
Ji Fung si fermò un attimo fuori della suite di Perique, improvvisamente
in ansia. Si raddrizzò la cravatta nuova e si passò il palmo della mano sui
capelli lisciati all'indietro, nervoso e insicuro di se stesso. Era arrivato fin
qua, ma era talmente cambiato nel corso di una notte. Non era più un
orfano in fuga. Adesso era un uomo con una famiglia potente, il
primogenito pianto a lungo a cui era stato dato il bentornato. Si chiedeva
se sarebbe stato possibile per lui ritornare a quel mondo notturno, a quel
sogno oppiaceo di vita profumato dal sesso.
Scosse la testa. Non aveva scelta. Lo doveva a Perique per avergli
salvato la vita, e quella vita sarebbe stata inutile se non l'avesse potuta
dividere con Lin Bai.
Doveva mettere insieme queste due metà. Ci doveva essere un modo.
Poteva presentare Lin Bai alla sua famiglia come Betty Lee, o meglio
ancora come Betty LeBon, la cugina di Perique. Suo zio non avrebbe mai
creduto che Perique venisse da una buona famiglia, ma forse una ricca
sarebbe andata bene. Cosa aveva detto sulla strana fratellanza, su quegli
oscuri rivoluzionari-gangster i cui veri scopi Ji Fung non aveva nemmeno
iniziato a immaginare. «Mettiamo insieme il capitale in ogni modo
possibile.»
Forse Perique avrebbe anche saputo dove andare a comprare dei
bambini. Allora avrebbe potuto avere dei figli e rimpiazzare la famiglia
che sua madre aveva devastato. Immaginava qualche vagabondo che
veniva salvato da una vita di fame, e da una morte miserabile come quella
del ragazzo che aveva preso il suo posto. Forse avrebbe potuto fare
ammenda per l'agonia del ragazzo, placare il suo fantasma che bruciava.
Stava sorridendo ed era pieno di idee per il futuro mentre apriva la porta
e attraversava l'appartamento verso la camera da letto. Il corpo nudo di Lin
Bai giaceva floscio sul letto, circondato dai resti appiccicaticci dei pani di
oppio.
Ji Fung corse verso il letto, afferrò Lin Bai per le spalle e gli
schiaffeggiò la faccia, prima delicatamente poi con più forza. La testa di
Lin Bai gli dondolava sul collo come se fosse stata attaccata a fatica.
Aveva la pelle fredda e sudaticcia, gli occhi semiaperti che mostravano il
bianco.
«Lin Bai, svegliati! Non morire adesso! Ti prego, fratello, amore mio!»
Lin Bai fece un rumore smorzato, come qualcuno che fosse stato
disturbato nel sonno. Delle deboli pulsazioni passavano nel suo collo. Ji
Fung lo tirò in piedi, lottando per sostenerne la leggera massa inerte.
«Cammina con me», gli ordinò Ji Fung. «Balla con me! Muoviti,
alzati!»
Perique fece irruzione dalla porta, maledicendo in francese.
«Jung sei vivo!» Si affrettò ad aiutarlo a sorreggere Lin Bai. «Cos'è suc-
cesso a Lai?»
Ji Fung indicò con il mento i pani mangiati a metà.
«Mon Dieu! Non avrei mai dovuto lasciarlo solo. Ma non è ancora
perduto. Ho visto di peggio.» Perique corse in bagno e iniziò a riempire la
vasca. «Portalo qua. Presto.»
Posarono Lin Bai nell'acqua fredda e gliela spruzzarono in faccia,
sfregandogli mani e piedi.
«Lin Bai», chiamava Ji Fung. «Amore mio, riesci a sentirmi?»
Iniziò a cantare. «Dai tempi antichi, quanti amanti sono rimasti fedeli
fino alla fine?»
Le palpebre di Lin Bai tremarono. Rotolò la testa avanti e indietro, gru-
gnendo a voce bassa. Perique increspò le labbra in segno di approvazione.
«Giusto. Canta con me. Ma quelli che erano amanti fedeli alla fine si
sono ritrovati insieme. Anche se si trovavano a migliaia di chilometri.
Anche se strappati l'uno all'altro dalla morte.»
Le labbra di Lin Bai si stavano muovendo, ma la sua voce era un
sussurro, si sentiva a stento.
«Come fa il resto?» chiese Ji Fung. «Sai che mi dimentico sempre le
parole. Aiutami a ricordare.»
La bocca di Lin Bai si incurvò agli angoli, un vago fantasma di un
sorriso. Aveva una voce alta e potente, ma adesso la sua forza se n'era
quasi completamente andata. «E quelli che maledicono il loro fato infelice
sono coloro a cui manca l'amore.»
C'erano delle lacrime sulle guance di Ji Fung, e la voce gli si spezzava
mentre lui e Lin Bai cantavano insieme.
«Il vero amore muove il cielo e la terra. Il metallo e la pietra brillano
come il sole e illuminano le pagine delle vecchie storie.»
Lin Bai appoggiò la testa alla spalla di Ji Fung nel suo abito nuovo,
adesso tutto umido dell'acqua del bagno. «Non ricordi mai le parole», lo
rimproverò. «Continua pure a fare sogni a occhi aperti anziché allenarti.
Come farai a diventare una stella di Hollywood?» Ji Fung appoggiò le
labbra sulla fronte di Lin Bai, ricordando la sensazione che gli dava la
corta peluria dove adesso crescevano dei capelli di seta. «Ho bisogno che
tu sia lì a ricordarmele», disse.
Lin Bai aprì gli occhi e guardò Ji Fung, adesso completamente
cosciente. «Sei vivo.»
Ji Fung annuì.
«E anch'io.»
«Sì, anche tu.»
«Non ti ho portato sfortuna.»
Ji Fung sorrise. «Decisamente no.»
Dopo che Lin Bai si fu asciugato e infilato in un accappatoio bianco, i
ragazzi si coricarono abbracciati sul letto. Perique si distese in una
poltrona, col mento appoggiato al pugno. Li guardava come un gufo. Ji
Fung accarezzava i capelli umidi del suo amante, mentre raccontava la
storia della sera prima.
Quando gli ebbe detto del favore che lo zio gli aveva richiesto, gli occhi
pallidi di Perique si illuminarono. «Shanghai», esclamò. «L'unica città
civilizzata di questo disgraziato emisfero. Che meraviglia!»
Si sporse in avanti e massaggiò la guancia fredda di Lin Bai.
«Facciamo un viaggio, bellissima Betty. Andiamo a Shanghai!»

Nessuno di loro era mai stato nella città chiusa tra le mura di Kowloon,
ma tutti ne avevano sentito raccontare cose terribili. Il posto era un covo
brulicante di cattivi, dove albergava dissoluzione e decadenza. Un uomo
che entrasse di notte e una donna che fosse stata sufficientemente pazza da
entrarvi in qualsiasi momento, soprattutto se era bella, difficilmente
avrebbero visto il mattino. Perique raccontò loro di posti squallidi dove
erano tenute le donne, drogate e incatenate, costrette a fare tutte le cose
abominevoli che un cliente potesse immaginare. Per il giusto prezzo, disse
Perique, uno poteva persino mutilare o uccidere una ragazza.
Anche così, Lin Bai insistette per andare con loro. Non poteva passare
un'altra notte in attesa in albergo: disse che sarebbe impazzito. Ricordando
l'immagine del corpo floscio del suo amante disteso sul letto Ji Fung
cedette. Pensò che chiunque cercasse di interferire con Betty Lee avrebbe
avuto più di quanto non avesse desiderato, nessuno poteva aspettarsi che
una ragazza così schiva fosse capace di fare una capriola a mezz'aria e di
dare un doppio calcio volante abbastanza forte da spezzare un cranio.
La città tra le mura non fu all'altezza delle loro aspettative. La sua massa
claustrofobica di pietre e legno era quasi deserta. Una volta questo posto
era stato la fortezza Manchu contro gli inglesi, fortificata con muri dello
spessore di cinque metri, dominata dalla mano d'acciaio dello Yamen.
Dopo la presa di possesso degli inglesi il posto era diventato una terra di
nessuno, governato solo dalla legge del coltello alla gola.
A Hong Kong, e in altre parti di Kowloon, la Festa del Fantasma
Affamato era in pieno svolgimento. Ji Fung e Lin Bai conoscevano bene
questa celebrazione, dal momento che includeva rappresentazioni speciali
dell'Opera per intrattenere i morti. Piccoli falò spiccavano in ogni vicolo e
vicoletto, in ogni marciapiede e cortile. Il fumo che proveniva dai
bastoncini d'incenso si mischiava a quello dei falò. L'aria umida aveva un
profumo dolce, un po' di bruciato. Copie di carta di beni di prima necessità
e di lusso, mobili, automobili, abiti, venivano bruciate in questa serata per
proteggere i propri antenati dal bisogno. Ji Fung pensò di nuovo al ragazzo
che era morto al suo posto, dato alle fiamme cosicché a suo padre non
mancasse un figlio nell'aldilà.
Dentro alle mura, comunque, la festa stessa era come un fantasma, anche
incredibilmente affamato, sembrava. La maggior parte delle strutture
cadenti erano vuote e scure. Alcune case erano così malmesse e
ondeggianti da dare la sensazione di essere sul punto di crollare, e di
rimanere in piedi solo perché erano sorrette dagli edifici che avevano a
fianco, come un cadavere che fosse sostenuto da due storpi. Qua e là, dei
minuscoli fuochi erano alimentati da pezzi di ossa, e merda umana seccata,
tenuti in vita da anime prostrate che occasionalmente li nutrivano con
regali ritagliati da carta stampata a buon mercato. Le strade erano così
strette che i ragazzi dovevano passare davanti a queste misere celebrazioni
in fila indiana per evitare di bruciacchiarsi i piedi. Gli abitanti della città
non prestavano loro alcuna attenzione. La maggior parte non alzava
nemmeno la testa al loro passaggio, e quelli che lo facevano si affrettavano
subito a distogliere lo sguardo.
«È come se avessero paura di noi», sussurrò Lin Bai, mentre un ragazzo
muscoloso li guardava dalla soglia di un sudicio negozio, per poi
nascondercisi dentro.
«Pensano che siamo la Triade», disse Perique.
Ji Fung lo guardò. «Lo siamo.»
«Tu lo sei. Io sono in vacanza.» Perique evitò con cura una pozzanghera
di schifoso fango. «Shanghai sembrerà dannatamente bella dopo questo.»
Arrivarono al negozio di macellaio che Gong Sut Fo aveva nominato.
Teste di maiale arrosto erano in mostra in vetrina, con gli occhi che
sporgevano dalle orbite, la pelle fragile e semitrasparente, le mandibole
spezzate a metà e allargate in modo da mostrare due file di denti affilati
come rasoi. Sopra di loro era appesa una fila di anatre mal conservate,
ammuffite e infestate da uova di mosche. Una singola candela bruciava nel
negozio, e alla sua luce un ragazzino stava scuoiando un cane. La massa
colorata dei suoi intestini giaceva accanto a lui. Il suo corpo nudo era
macchiato di sangue, e i suoi lunghi capelli neri ne erano completamente
intrisi.
Si affrettarono a superare il negozio e girarono nello stretto vicolo che
stava alle sue spalle. Il vecchio chiosco del venditore di scarpe e la sua
casa si trovavano in una leggera rientranza del muro dell'edificio del
macellaio. Il suo territorio era segnato da un ammasso di ciabatte di pezza
e sandali di pelle grezza. Dietro c'era una pentola per cucinare e un
materasso.
Un vecchio mise da parte la ciotola di spaghetti mentre Ji Fung entrava
nel vicolo. La sua faccia scura era secca come la pelle dei sandali, ma i
suoi occhi erano acuti e brillanti.
«Scarpe per il giovane gentiluomo?» chiese.
«Mi piacerebbe comprare alcuni dei tuoi sandali di erba», disse Ji Fung,
provando la sensazione di essere ancora sul palcoscenico.
Il vecchio sorrise, rivelando un unico dente.
«Ah», disse. «Ho vergogna ad ammettere che me ne è rimasto solo
uno.»
Allungò la mano nel mucchio di scarpe e tirò fuori un singolo sandalo
intrecciato di vecchio stile, come quelli indossati dai monaci.
«Comunque, della migliore qualità. Fatto a mano coi cannicci migliori.»
Ji Fung guardò alle sue spalle Perique e Lin Bai all'inizio del vicolo.
Perique si strinse nelle spalle. Ma Lin Bai gli fece un leggero cenno di
assenso, come aveva sempre fatto quando Ji Fung aveva bisogno di un
suggerimento.
Trasse un profondo sospiro e disse la sua battuta. «Me ne serve solo uno
per il viaggio che devo fare.» Poi estrasse la banconota che aveva piegato
con cura sul traghetto e la consegnò come gli era stato insegnato.
Il vecchio annuì, mentre le sue dita scure piene di nodi prendevano la
banconota e la nascondevano con una velocità maggiore di quello che gli
occhi di Ji Fung non potessero vedere. Sollevò la pentola rivelando così un
buco profondo, ne tolse una scatola di lacca rossa, ne spolverò via polvere
e cenere, e la mise nelle mani di Ji Fung.
Era più grossa di quanto lui si sarebbe aspettato. Abbastanza grande per-
ché fosse necessario reggerla con due mani, e aveva un'elaborata serratura
di ottone. Lui l'avrebbe dovuta portare al sicuro a Shanghai. Soppesandola
nella sua presa, faceva fatica anche a concepire il valore che questa
semplice scatola rappresentava. Non solo il valore monetario, ma la
quantità di fiducia che suo zio aveva riposto in lui. Ji Fung in silenzio
promise allo spirito di suo padre che la fratellanza non sarebbe stata
delusa.

Il treno si era fermato di nuovo. Questa era la settima volta, e non


avevano nemmeno raggiunto Soochow.
Perique alzò gli occhi e scosse la testa, ma i ragazzi lo ignorarono, incol-
lati al finestrino circondato da orde di venditori ambulanti. Questa gente
era talmente abituata a vedere treni fermi sulle rotaie che andavano in giro
con la loro mercanzia, aspettando che succedesse. Quando accadeva, si
affrettavano con i loro vassoi di merendine e tazze d'argilla di tè, ninnoli e
giocattoli. Perique era disgustato al vedere come questi bifolchi
proliferavano, come mosche o qualche altra specie di parassiti seccanti.
Desiderava che i suoi ragazzi non li incoraggiassero.
Quando alla fine Ji Fung e Lin Bai si sedettero di nuovo avevano le
braccia piene di paccottiglia. Pere marrone e palle di riso al vapore in
foglie di loto. Coni di carta pieni di spaghetti fritti in olio di semi. Uno
specchietto con un dragone rosso e oro sul dietro. Un granchio di bambù
con le antenne e le gambe che si muovevano. Una scimmia di latta dipinta
su un bastone.
Iniziarono a dividersi il cibo, scartando le molli foglie verdastre, tra
nuvole di vapore, servendosi dai coni di carta con dei bastoncini eleganti.
Perique storse il naso. «Come fate a mangiare quelle cose?»
«Sono buone!» disse Lin Bai. Il suo rossetto era quasi completamente
scomparso. Solo gli angoli della bocca erano ancora di un rosso brillante.
«Qua.» Ji Fung gli offrì una pera, ma Perique scosse la testa con
violenza.
«Non hai imparato niente? Questi contadini usano la merda umana per
fertilizzare i loro raccolti. Il loro cibo è pieno di ogni tipo di malattie.
Colera, dissenteria.»
Lin Bai rise. «Nessuna malattia riesce a sopravvivere con questi.»
Sollevò un peperoncino rosso rugoso tra i suoi bastoncini d'argento, poi se
lo infilò in bocca.
«Inoltre», aggiunse Ji Fung, «quel cibo nella carrozza ristorante è terribi-
le. Ha il sapore di carne insipida bollita nel vomito di un bambino.»
Perique sibilò esasperato. Le sue speranze di trasformare questi animali
selvatici in giovani civilizzati diminuiva ogni giorno che passava.
I ragazzi si scambiarono uno sguardo di sbieco, e Ji Fung si allungò per
tirare le tende dello scompartimento.
«Adesso, solo un attimo», iniziò Perique, ma loro si erano già buttati
uno addosso all'altro, baciandosi e succhiandosi e gemendo e lasciandogli
vedere tutto, e lui si ricordò perché amava tanto quei due animaletti.

Più tardi, mentre stavano cenando nella carrozza ristorante, ci furono un


sacco di chiacchiere sulla guerra. Le truppe cinesi e giapponesi avevano
combattuto sul ponte Marco Polo vicino a Pechino. Un tenente giapponese
e il suo autista che mancavano all'appello, in seguito furono trovati vicino
all'aerodromo di Hungjao.
«Sessualmente mutilati, cosa?» un inglese con la faccia rossa elaborò
con non poca gioia. «Gli hanno tagliato il pisellino. È allucinante quello a
cui arrivano questi cinesi.»
La sua compagna, un cosino di ragazza con i capelli biondo cenere e
occhi azzurro pallido, parlò: «Immagini che ci sia pericolo?»
I baffi enormi dell'inglese tremarono. «Non essere così dannatamente
stupida, Enid! Queste cose succedono sempre in Cina. Non succederà
niente alla gente civilizzata.»
Al tramonto, il treno non si era ancora spostato. Perique sedeva nello
scompartimento soffocante, con in mano un bicchiere pieno di whisky con
ghiaccio e la testa di Lin Bai appoggiata sul grembo. Il ragazzo era così
bello, con la lunga frangia che gli cadeva sulla fronte, con quegli occhi da
ninfetta e la bocca rossa e sensuale. I capelli gli erano cresciuti in una
maschietta, quindi poteva fare a meno della parrucca, una benedizione in
quei mesi estivi. E i suoi lineamenti erano così fini e bene allenati che non
aveva quasi bisogno di trucco per sembrare una ragazza.
Dall'altra parte rispetto a loro, Ji Fung stava elegantemente seduto e
forse aveva anche un'aria leggermente pericolosa col suo nuovo vestito
grigio e le sue scarpe di due colori. Era l'yang per lo yin di Lin Bai,
altrettanto bello, ma in un modo mascolino, con qualche sfumatura oscura.
Il suo mento quadrato, le ampie spalle e la vita sottile erano il
complemento perfetto alla gracile esilità di Lin Bai. Stavano così bene
insieme.
Ji Fung si accorse della attenzione di Perique e sorrise, inclinando la
testa in un modo che metteva in mostra i muscoli della gola. «Parlaci
ancora di Shanghai.»
Lin Bai si intromise senza aprire gli occhi. «Sì. Parlacene.»
«Bene... mi ricordo la biblioteca allo Shanghai Club.» Rise a bassa voce.
«Il club è famoso per il suo bar, che è il più lungo del mondo - 150 metri, e
io vi ci porterò a bere entrambi, lo prometto - ma quando ero un ragazzo
non mi importavano i bar. Mi ricordo dei vecchi che giocavano a scacchi
nella biblioteca, il profumo del fumo delle loro pipe. Ricordo i libri,
scaffali e scaffali che salivano fino dove giungeva l'occhio, con lunghe
scale su cui salivi per raggiungere quelli sui ripiani più alti. Vi passavo le
lunghe giornate estive a leggere, respirando la polvere del cuoio e della
carta, che avevano l'odore dell'immaginazione. Avevo pochi amici, quindi
mi consolavo con quelli che trovavo nei libri.»
«Di certo devi aver avuto degli amici», disse Ji Fung.
«Chi? Non conoscevo nessun altro mezzosangue della mia età. I
bambini cinesi pensavano che fossi uno snob, e i bianchi mi
chiamavano...»
«Come?» Lin Bai si tirò su un gomito. «Come ti chiamavano?»
Perique guardò fuori dalla finestra il paesaggio immobile. «Un muso
giallo e un bastardo», disse alla fine.
Ji Fung si piegò verso di lui e diede un colpetto al ginocchio di Perique.
«Allora erano stupidi, e non valeva la pena di conoscerli.»
Perique annuì, ma ancora adesso ricordava come si era sentito solo e
come avrebbe desiderato la compagnia degli altri ragazzi, così solo che
avrebbe volentieri travasato indifferentemente il suo sangue cinese o
quello bianco se ne fosse stato capace. Essere un bianco puro nella
Concessione francese di Shanghai sarebbe stato celestiale. Ma anche
essere un cinese puro, appartenere completamente a qualcosa, poter avere
degli amici...
La voce di Ji Fung lo scosse dal suo sogno. «E i tuoi fratelli e sorelle?»
Cristo. «Oh, sì», disse in modo poco convincente. «Giocavo spesso con
loro.»
Ricordava che una volta aveva ordinato ai bambini di alcuni servi di gio-
care con lui. I due ragazzi lo avevano fatto con fredda gentilezza,
aspettando pazientemente che quel nuovo compito terminasse per poter
tornare a spennare le anatre in cucina. Angosciato e furioso, Perique li
aveva trascinati verso una pagoda nascosta dalle viti in fondo ai quartieri
della sua famiglia e li aveva costretti a darsi piacere con la bocca mentre
lui stava a guardare. Mostrarono segni di eccitazione, ma dopo che fu
finita, avevano guardato Perique con un odio tale che lui non osò mai più
rivolgere loro la parola.
Andò dall'altra parte dello scompartimento e si tirò Ji Fung accanto, fece
scivolare il braccio dietro la vita sottile del ragazzo mentre passava l'altra
mano tra i capelli spessi e morbidi di Lin Bai. «Ma adesso ho voi, ragazzi
miei. E quando arriveremo a Shanghai, vi mostrerò la Parigi dell'Oriente, o
la Puttana dell'Oriente se preferite. Solo alcuni anni fa un missionario cri-
stiano in visita disse che la città era così decadente che Dio dovette
chiedere scusa a Sodoma e Gomorra.»
Entrambi i ragazzi si accigliarono confusi.
«Non importa. Vi porterò a passeggiare sul Bund, vicino al fiume, dove
ci sono lo Shanghai Club e tutti gli altri edifici maestosi. Andremo a far
spesa da Sincere e Wing On, dove potrete comprare assolutamente tutto
quello che le vostre testoline possono desiderare. Andremo al Teatro del
Gran Mondo e a vedere il Balletto di Shanghai, o l'Opera Russa. Vi
piacerebbe?»
Ricevette un coro di sì enfatici. Proprio allora il treno iniziò a muoversi,
e delle acclamazioni arrivarono da tutta la carrozza.
Era la metà della notte quando finalmente arrivarono alla stazione ferro-
viaria di Shanghai. Nonostante l'ora tarda, la stazione era gremita di gente.
C'erano madri bionde ed eleganti circondate da set di valigie, che
spettegolavano tra di loro dei problemi dell'Oriente, mentre le bambinaie
cinesi cercavano di rabbonire dei bambini biondi che si lamentavano, dal
momento che erano stati tenuti in piedi ben oltre la loro solita ora. C'erano
dei vecchi damerini europei e i loro giovani compagni di entrambi i sessi.
C'erano i nativi di Shanghai, coppie ben vestite, uomini d'affari e signore
benestanti con le sopracciglia dipinte e facce severe coperte da polvere di
riso.
Tutti stavano lottando per salire su un treno e andarsene da Shanghai. La
tensione stava iniziando a scalfire la maschera delle buone maniere: Ji
Fung fu stupefatto al vedere una giovane madre graziosa che spingeva da
parte una vecchia per far salire i suoi bambini sul treno. La vecchia quasi
cadde sulle rotaie.
«Perché hanno tutti così tanta fretta?» chiese Ji Fung, sollevando tre
delle loro sette valigie.
«Come faccio a saperlo?» borbottò Perique, guardandosi intorno alla ri-
cerca di un facchino. L'ultima parte del viaggio gli aveva fatto perdere
vigore, ed era seccato all'idea di doversi portare le valigie.
«Si tratta dei combattimenti?» chiese Lin Bai, spingendo una piccola
valigia col tallone delle sue scarpe col tacco alto.
«Faanculo la battaglia!» abbaiò Perique. Alzò imperiosamente una
mano. «Facchino!» Ma i pochi facchini in divisa che riuscirono a vedere
erano già carichi di borse.
«Ascoltate», disse Perique. «Questi non sono una massa di contadini
ignoranti che litigano per dei pezzi di terra senza valore. Questo è il mondo
civilizzato. Se scappassimo via ogni volta che queste persone iniziano a
sparare ai loro nemici, non ci sarebbe alcuna Shanghai.»
«Queste persone?» Ji Fung lasciò cadere le borse che stava reggendo.
«Intendi i cinesi?»
Perique sollevò lo sguardo. «Parlo delle persone senza alcuna civiltà.»
Lin Bai cercò di mettersi tra loro. «Su. Prenderò due valigie e Pei ne
prenderà due, e Ji Fung prenderà il resto. Se aspettiamo un facchino,
stiamo qua tutta la notte.» Lo ignorarono.
Ji Fung sputò per terra vicino alle scarpe di Perique. «Se non fosse per
tutte queste persone senza civiltà, chi pulirebbe i tuoi bei bagni di
porcellana, ti farebbe il bucato, ti preparerebbe da mangiare e ti
imboccherebbe come un bambino, che è quello che sei?»
«Come osi parlarmi in questo modo?» La faccia di Perique diventò
rossa, i suoi occhi verdi mandarono fiamme. «Senza di me, la tua
preziosissima gente ti avrebbe tagliato la gola, e ti avrebbe lasciato morto
davanti al porto di Hong Kong.»
«Sì, e tu puoi trasformare un filosofo in un cane rabbioso se lo affami al
punto giusto.»
«Perché, ingrato piccolo...»
«Cosa?» Ji Fung urlò in faccia a Perique. «Come volevi chiamarmi?»
Perique non aveva risposta. Ji Fung si girò vero Lin Bai, che li stava
guardando con orrore. «Starai con lui e sarai il suo cagnolino cinese, o
verrai con me?»
«Dove?» Le mani di Lin Bai si muovevano con dei movimenti inconsci
di disperazione, tracciando delle forme nell'aria stantia e fumosa del treno.
«Dove andremmo? Abbiamo bisogno di un amico.» Si girò verso Perique.
«Tu sei cinese. Hai lo stesso diritto che hanno tutti gli altri di criticare i
tuoi concittadini. Solo cerca di mostrare un po' più di compassione. La vita
della maggior parte dei cinesi non è fortunata come la tua.»
«Non sono cinese», disse Perique con voce strangolata. «Non sono
niente. Non mi chiamo nemmeno LeBon. Mi chiamo Lee.»
«Cosa?» dissero i ragazzi all'unisono.
La folla intorno a loro continuava a fluire e a spingere. Il loro silenzio
era avvolgente. Alla fine Perique disse: «Non importa. Immagino che ve
ne vogliate andare, vedendo che non sono solo un razzista, ma anche un
bugiardo.»
Lin Bai inclinò la testa. «Cosa vuoi dire Pei?»
«Vi ho detto che ero nato a Shanghai vent'anni fa. Fino a qua è tutto
vero. Tutto il resto è stato una bugia. Non ho né fratelli né sorelle. Mio
padre era cinese, e commerciava in cose più o meno legali. Per la maggior
parte non lo erano, ed era estremamente ricco. Mia madre era
un'entreneuse di Parigi, che lavorava a Shanghai. Non era una prostituta,
solo uno spirito libero... ma agli occhi di mio padre era la stessa cosa.
Spese del denaro per lei, la abbagliò, le fece credere che l'amava. Ben
presto riuscì a ottenere da lei quello che voleva, e ben presto se ne stancò e
la scaricò. Lei ebbe altri ammiratori, ma non era il tipo da dare la caccia
agli uomini. Mio padre non ebbe sue notizie fino a tre mesi più tardi,
quando lei lo contattò dicendogli che stava aspettando un figlio da lui.
«Dapprima lui non credette che lei sapesse chi era il padre, ma lei in
qualche modo riuscì a convincerlo. Dopodiché lui la prese a vivere con sé
e la trattò come sua moglie. Lei ricevette il cibo più ricco, il letto più
morbido e le migliori cure. Mio padre la trattò squisitamente fino al giorno
in cui nacqui io.»
«Poi che successe?» Lin Bai lo incitò a continuare quando Perique si in-
terruppe. «La mandò via?»
«No. La fece uccidere.»
Gli occhi dei ragazzi si spalancarono.
«Quella stessa notte mandò due subalterni nella sua stanza... Uno mi
mise una mano sulla bocca in modo che non la svegliassi con il mio
pianto. L'altro spinse un grosso spillone per cappelli nella sua narice fino
al cervello. Mio padre ne fece scaricare il cadavere da una giunca d'oppio
nel mezzo del Mar della Cina meridionale.»
«Ma perché?»
Perique si strinse nelle spalle. «Voleva un figlio. Non voleva il peso di
una moglie, men che meno di una prostituta di Parigi, come la chiamava
lui. Io fui allattato e cresciuto da un'amah. Non penso che le donne gli
interessassero molto. Se io fossi stato una femmina, penso che avrebbe
ucciso anche me.»
«Come sai tutto questo?» chiese Ji Fung.
«Fu mio padre stesso che mi raccontò la storia quando avevo dieci anni.
Voleva che sapessi che tipo d'uomo era, e che tipo di donna era stata mia
madre. Come tuo zio, Jung, aveva paura che avrei finito per diventare il fi-
glio di mia madre. Immagino di averlo fatto. Cinque anni più tardi mi
definì un molle invertito francese e mi ordinò di lasciare casa sua.»
«Allora...»
«Come mai vivo così bene? È facile. I legami familiari in Cina non si
possono mai spezzare davvero. Fino alla sua morte mio padre mi pagò mi-
gliaia di sterline all'anno perché usassi un nome diverso dal suo. Mi
promise che se avessi vissuto in questo modo fino alla sua morte, avrei
ereditato la sua fortuna, e io lo feci. Pubblicamente non voleva aver niente
a che fare con me. Ma ogni volta che ero a Shanghai, sembrava sempre
sapere cosa avevo fatto.» Perique rimase in silenzio per un attimo, con le
braccia distese lungo i fianchi. Sembrava stanco e sconfitto. Il cuore di Ji
Fung ne fu toccato nonostante il suo snobismo e il suo meschino razzismo.
Queste cose adesso sembravano patetiche, e lui sembrava un uomo che
critica inutilmente un sistema che ha su di lui un potere assoluto...
Ji Fung sentiva un nuovo legame con Perique: entrambi sapevano cosa
significava perdere un genitore amato per mano di uno pazzo. Perché era
evidente che Perique amava il fantasma di sua madre, anche se aveva
passato un sol giorno con lei quando era viva. Ji Fung immaginò Perique
da bambino, un prigioniero protetto nel mondo di suo padre, proprio come
lui e Lin Bai erano stati prigionieri della Scuola dell'Opera. Ma mentre
loro avevano consolazione reciproca, Perique non aveva nessuno.
Lui allungò la mano e dette una rapida stretta a quella di Perique. Lui ne
sembrò sorpreso, poi sollevato. «Quindi non vuoi andartene?» gli chiese. Ji
Fung si permise di fare un lieve sorriso. «No, a meno che non lo voglia
tu.»
«Non prendermi in giro», disse Perique piegandosi a raccogliere la sua
parte dei bagagli. «Voi due siete i primi veri amici che abbia mai avuto.»
«Allora troviamo un posto dove mettere queste dannate valigie, così po-
trai iniziare a farci vedere la Puttana dell'Oriente.»

Il Shanghai Club era proprio favoloso come lo aveva descritto Perique.


Alti soffitti decorati, fresche stanze in penombra, lunghe finestre che
guardavano sul fiume e il profilo rococò. Nel bar più lungo del mondo
c'erano un centinaio di baristi esperti che avevano a disposizione ogni
veleno commestibile del mondo. Perique offrì loro del Brandy Alexander,
una bevanda schiumante e cremosa la cui dolcezza mascherava l'alto tasso
alcolico.
Vagarono un po' brilli nella biblioteca, cercando di leggere i caratteri ro-
mani impressi in oro sui bordi di pelle dei libri, scoppiando a ridere
divertiti dalla loro pronuncia indistinta. Quasi si dimenticarono del loro
appuntamento per le sei con l'occidentale. Quando Perique vide l'orologio
e glielo ricordò, persero altri cinque minuti a dirsi l'un l'altro: «Herbert
Hinchcliffe», e ridendo sentendone il suono.
Poi andarono in bagno a sistemarsi e a riacquistare un po' di sobrietà, e
Ji Fung davanti allo specchio iniziò a fare respiri profondi, proprio come
aveva spesso fatto appena prima di andare in scena. Picchiettò un'unghia
curata sulla serratura di ottone della scatola di lacca rossa, alla ricerca di
una sicurezza che non provava. Quando non riuscì più a rimandare, drizzò
le spalle e andò a parlare con il direttore d'albergo.
Si trattava di un piccolo Fukienese dall'aria autoritaria, con qualche
sfumatura di grigio nei baffi spuntati con cura. Scrutò Ji Fung e i suoi soci
con cortese sospetto.
«Sto cercando un americano, Herbert Hinchkwiff.» Ji Fung stava lottan-
do per mantenere un tono di voce basso e deciso, anche se sapeva che
aveva storpiato il nome dell'uomo.
«Chi lo cerca?» chiese l'uomo. Il suo tono era altezzoso, ma non
sgarbato.
«Sono il nipote di Gong Sut Fo. Ho un pacco da consegnare al suo
cliente, il signor Herbert, da parte di mio zio.»
«Hinchcliffe», sibilò Perique. «Il cognome è Hinchcliffe.»
Ma il piccoletto non sembrava essersi accorto dell'errore di Ji Fung. Non
appena aveva udito il nome di Gong Sut Fo, il tono dell'uomo era passato
da arrogante e condiscendente a disperatamente servile.
«Signor Gong sono lieto di ricevere lei e i suoi amici nella nostra umile
istituzione. Per favore, permettetemi di offrirvi il nostro cibo migliore.»
«Lei è molto gentile», disse Ji Fung. «Ma prima mi può dire dove posso
trovare il nostro amico americano?»
La faccia dell'uomo si lasciò andare come se all'improvviso fosse stato
portatore di notizie terribili. «Mi dispiace tanto, signor Gong, ma il signor
Hinchcliffe non viene da noi da due o tre giorni.» Scribacchiò qualcosa
velocemente su un pezzo di carta. «Ecco il suo indirizzo dove potete
trovarlo. Se c'è qualcos'altro che posso fare per aiutarvi...»
Ji Fung si mise in tasca il foglio. «Grazie», disse a testa alta. «Basta
così.»
«Ben detto», mormorò Perique mentre il direttore li conduceva a un
tavolo vicino alla finestra. «Credo che per te ci sia ancora speranza.»

La casa di Herbert Hinchcliffe era nella Concessione Francese, in via


Lafayette davanti al Parco Francese. Il piccolo parco era infestato di vaga-
bondi, e l'aria umida della sera era piena degli odori del cibo e dei suoni
sibilanti dello shanghaiese.
Ji Fung spinse i pesanti cancelli di ferro della bella casa bianca. Un
sentiero di mattoni, verde di muschio, si snodava tra un giardino
lussureggiante fino alla veranda. Shanghai era stata costruita su una
palude, il che significava che la città stava lentamente sprofondando. Ma la
vegetazione che cresceva da questo fango era rigogliosa e verdeggiante. Il
profumo del gelsomino notturno riempiva il giardino e li seguiva fin nel
portico.
L'alta porta a doppio battente aveva dei batacchi di ottone che avevano
la forma di teste di leone. Ji Fung era abituato al leone cinese, una creatura
sorridente che di solito si vede mentre gioca con una palla cava colorata. I
leoni di Herbert Hinchcliffe avevano occhi freddi, e le bocche gelate in un
eterno ghigno. Si costrinse ad afferrare uno dei pesanti anelli di ottone e a
bussare tre volte. Poi fece un passo indietro, per sentire se dall'interno
provenissero dei suoni che rivelassero vita.
Passarono cinque minuti prima che la porta venisse aperta da una
vecchia con una giacca di panno nera. I capelli le si stavano diradando, la
schiena, curvata dall'età, ne aveva ridotto l'altezza a poco più di un metro.
«Siamo qui per vedere il signor Hinchcliffe», disse Ji Fung. Alla fine era
riuscito a pronunciare il nome correttamente. Reggeva la scatola di lacca
rossa davanti a sé, come se si fosse trattato di un'offerta di pace.
«Troppo tardi.» il suo mandarino aveva una forte inflessione dialettale di
Shanghai.
«Cosa intende con troppo tardi?» chiese Perique.
«È andato.» Agitò le mani rugose nell'aria come ali al vento. «È tornato
in America. Diceva di avere paura della guerra. Adesso i cinesi e i
giapponesi combattono in continuazione. Anch'io ho paura ma io sono una
vecchia nonna.» Rise. La risata cinese poteva esprimere quasi tutti i
sentimenti, e questa risata diceva, non ho più speranze. «Ho lavorato per
tutta la vita per la famiglia Hinchcliffe. Ditemi, dove potrei andare?»
La vecchia, che si chiamava signora Yuan, offrì loro del tè mentre
decidevano cosa avrebbero dovuto fare della scatola. L'avevano posata sul
tavolo in mezzo a loro, ancora chiusa, mentre l'uomo con la chiave si
trovava a migliaia di chilometri di distanza. Ji Fung si trovò a segnare i
contorni della scatola col dito, mentre discutevano delle possibilità.
Avrebbero dovuto lasciarla alla signora Yuan? Riportarla a Gong Sut Fo?
Ji Fung si sentiva un peso al torace, al posto del cuore. Era sicuro che,
qualsiasi cosa avessero deciso, lui avrebbe deluso lo zio.
Alla fine decisero di mandare un telegramma a Gong Sut Fo chiedendo
ulteriori istruzioni. Ringraziarono la signora Yuan per il tè e la lasciarono
sola nella casa vuota.
La berlina che Perique aveva noleggiato stava ancora aspettando fuori.
Mentre entravano, Perique tirò una lunga sorsata dalla fiaschetta d'argento
che aveva in tasca e ordinò all'autista di girare in via Pierre Robert.
Lin Bai accettò un sorso dalla fiaschetta. «Dove andiamo?»
«Voglio farvi vedere qualcosa.» C'era una luce particolare negli occhi
strani di Perique. Si sporse in avanti e disse all'autista di guidare molto
lentamente in via de Zikawei. Quando si avvicinarono a una fila di alti
cancelli molto simili a quelli di Herbert Hinchcliffe, Perique vuotò la
fiaschetta e trascinò i ragazzi fuori dalla macchina.
«Questa è la casa in cui sono nato e cresciuto. Qui è dove mia madre è
stata assassinata, e dove mio padre è morto nel sonno di vecchiaia.»
Ji Fung e Lin Bai si scambiarono occhiate diffidenti, non capendo cosa
Perique volesse da loro.
«Non so chi viva qua adesso, ma sono sicuro che non gli importerà se
diamo un'occhiata in giardino. C'erano delle rose, di ogni colore
immaginabile...»
«Pei, no.» Lin Bai infilò le unghie nelle spalle di Perique. «È buio. A
questa gente non farà piacere che ci intrufoliamo di nascosto nel loro
giardino. E se pensassero che siamo soldati giapponesi?»
Ma Perique stava già aprendo il cancello e infilandosi dentro. I ragazzi
lo seguirono, con l'intenzione di fermarlo. Invece quasi gli andarono a
sbattere contro perché lui si era fermato in cima a un sentiero infestato
dalle erbacce a fissare i resti della casa illuminati dalla luna.
La vernice era grigia e screpolata, e si staccava a croste. Le finestre dalla
linea aggraziata erano rotte, solamente qualche pezzo di vetro appuntito
era rimasto nelle cornici marce. Le rose c'erano ancora, selvagge sui lunghi
steli, con i petali pallidi e le punte marroni. Gli scheletri delicati di quelli
che una volta potevano essere stati alberi da frutta giacevano di lato, con le
radici intrecciate fuori dal terreno paludoso. La porta d'ingresso era aperta
e rivelava all'interno un buio pericoloso.
Perique rimase immobile come le statue coperte di muschio, e drappeg-
giate dalle viti che popolavano il giardino. Voltava la schiena a Ji Fung,
ma la sagoma delle sue spalle cadenti tradiva il suo disappunto. Ji Fung si
chiese che cosa Perique avesse sperato di trovare qua.
«Pei», disse, posando una mano sulla spalla del suo amico. «Andiamo.»
C'era un leggero fruscio proveniente dalla casa. Il mento di Perique si
alzò. Tutto il suo corpo, nel buio, sembrava mettere a fuoco l'interno della
casa con un'intensità predatoria. Anche Ji Fung guardò, appena in tempo
per vedere una giovinetta che usciva sulla veranda.
Penosamente sottile sotto lo straccio d'abito grigio che indossava, stava
portando la struttura di una sedia di legno che aveva perso il sedile. Li vide
e si congelò.
Ji Fung non riusciva a credere a quello che seguì, anche se lo vide con i
suoi stessi occhi. Perique mise la mano nella giacca e ne estrasse la sua
minuscola pistola, con la stessa facilità di un cowboy in un film americano.
Prima che Ji Fung avesse il tempo di reagire, un botto risonò nell'aria
immobile della sera, e la guancia sporca della ragazza esplose in un
bollente schizzo rosso. Si accartocciò. La sedia perse una gamba mentre
colpiva le piastrelle che si sgretolavano sulla veranda.
I ragazzi si bloccarono sbalorditi, mentre Perique saliva di corsa i
gradini e prendeva a calci la ragazza caduta. «Ladra!» gridò. «Ti insegnerò
a rubare dalla casa di mio padre!»
Prese di nuovo il corpo a calci finché non cadde dalla veranda e nell'er-
baccia. Lasciandosi cadere in ginocchio, con attenzione sistemò la sedia
sulle tre gambe che le erano rimaste.
«Mio padre aveva otto di queste sedie, e un tavolo nello stesso stile.» Le
lacrime illuminavano il suo viso pallido alla luce della luna. «Ai banchetti
che offriva ai suoi soci di lavoro io ero sempre seduto alla sua destra.
Erano le uniche circostanze in cui credevo che fosse orgoglioso di me.»
I singhiozzi di Perique si fecero più insistenti, e gli scossero il corpo.
«È tutto finito», sussurrò. La sua voce si perdeva quasi sotto il canto dei
grilli nel giardino morente.

Quella notte, Ji Fung avrebbe potuto giurare che Perique li aveva


trascinati in tutti i bar e night club di Shanghai. Ogni posto era affollato di
gente che sembrava desiderare di divertirsi fino alla disperazione. Il jazz
lubrificava la soffocante aria notturna. I bicchieri venivano riempiti,
vuotati e riempiti di nuovo. La folla che aveva creato questo carnevale
improvvisato si era riversata numerosa nelle strade, e i ragazzi lasciarono
che li trascinasse come una calda marea di alcol.
Ji Fung cercò di mantenersi a distanza da questa baldoria. Sotto il sorriso
gaio di ogni ubriaco sembrava nascondersi una disperazione profonda. Tra
la folla qui e là c'erano dei soldati, molti dei quali dolorosamente giovani,
e tutti bevevano come se si fosse trattato del loro ultimo giorno al mondo.
Le prostitute sciamavano come topi. Anche le più vecchie e le più malate
lavoravano alacremente. Tutti sembravano essere pronti ad afferrare
l'ultima possibilità di divertirsi.
La notte perse presto interesse per Ji Fung, ma gli ci vollero ore per
riuscire a trascinare Perique al Cathay Hotel.

In piedi per conto suo vicino alla finestra, Ji Fung guardava il porto non
ancora illuminato dall'alba. Riusciva a distinguere parecchie navi
giapponesi, tra cui una grande ammiraglia da cui sventolava un Sol
Nascente. Si sentiva profondamente a disagio e quando Lin Bai gli fece
scivolare le braccia calde attorno alla vita, Ji Fung indietreggiò.
«Le cose si mettono male, qui», sussurrò Lin Bai, appoggiando le labbra
sul collo di Ji Fung. «Riesci a sentirlo?»
Ji Fung annuì. «Penso che presto a Shanghai ci sarà la guerra.»
«Non solo a Shanghai.» Lin Bai appoggiò il mento sulla spalla di Ji
Fung e rimase a fissare il porto. «Voglio dire in tutta la Cina. Non stavi
facendo attenzione stasera, ma tutti parlano della guerra. Della rivoluzione.
Conversazioni pazzesche. C'è battaglia dappertutto.»
Lin Bai afferrò Ji Fung per la vita, appena sopra il rigonfiamento dei
glutei. «Penso che ce ne dovremmo andare.»
Ji Fung girò la testa per guardare la faccia di Lin Bai. «Tornare a Hong
Kong?»
«No.» Lin Bai continuava a fissare fuori della finestra. «In America.»
«Non essere sciocco. Dove troveremmo il denaro?»
«Pei ce l'ha.»
Ji Fung si girò a guardare Perique, che dormiva agitato in un ammasso di
coperte.
«Lasciamoci alle spalle il vecchio mondo», disse Lin Bai. La sua pelle
nuda era calda e setosa contro la schiena di Ji Fung. «Lasciamoci alle
spalle la sfortuna. Iniziamo una nuova vita a Hollywood, come abbiamo
sognato.»
Ji Fung si girò e prese Lin Bai tra le braccia. Le curve del corpo del suo
amante erano così preziose, così fragili. «Non posso lasciare la mia fami-
glia», disse.
Lin Bai si liberò, con gli occhi scuri e profondi. «Sono io la tua famiglia.
E anche Pei lo sarebbe, se glielo permettessi.»
Ji Fung stava in silenzio. Suo zio gli aveva restituito la sua identità
perduta. Aveva dato a Ji Fung un lignaggio, una storia, lo aveva fatto
sentire legato non solo alla sua famiglia per sangue, ma alla più grande
fratellanza della Triade. E, dopo avere ritrovato il nipote a lungo dato per
perduto, Ji Fung non pensava che Gong Sut Fo sarebbe stato felice di
perderlo di nuovo. In effetti, se avesse fatto una qualunque cosa che avesse
potuto far ritenere a suo zio di essere il figlio di sua madre, sospettava che
non lo avrebbe lasciato vivere.
«Bai», disse. Aveva la voce stanca, distrutta. «Per favore non costringer-
mi a scegliere.»

Passarono tutto il giorno successivo a fare la spesa. Perique era ancora


più pazzo del solito, gettava denaro su qualsiasi stupidata che colpisse la
sua fantasia, non discutendo il prezzo di niente. Riempì le braccia di Lin
Bai di braccialetti di giada e comprò a Ji Fung un fermacravatta con un
brillante vergognosamente costoso. Per lui scelse un nuovo orologio d'oro
con sopra le sue iniziali scritte con una calligrafia elaborata.
Mentre la giornata passava, Ji Fung si ritrovò a camminare a qualche
passo di distanza dietro Lin Bai e Perique. Mentre il calore denso di
umidità del pomeriggio gli colpiva la testa e faceva attaccare i vestiti al
corpo, i battibecchi futili tra i due si intensificarono. Ji Fung di solito li
trovava divertenti: a questo punto di solito li apostrofava, «ehi, ragazze», e
si riferiva a loro come «alle ragazze», finché loro gli si rivoltavano contro.
Ma adesso le loro voci acute gli urtavano i nervi. La testa pulsava allo
stesso ritmo del suo cuore infelice. Qualcosa stava per succedere.
In un negozio di dolciumi, le «ragazze» litigarono per decidere se com-
prare cioccolato o prugne salate. Ji Fung si appoggiò allo stipite della
porta, nauseato dall'odore dello zucchero bruciato. Prima era andato
all'ufficio del telegrafo per telegrafare a suo zio, ma il piccolo negozio era
pieno di gente, e la folla si accalcava anche nelle strade. Cercò di
telefonare, ma le linee erano state requisite per uso militare. Adesso lui si
sentiva perso e alla deriva, staccato da entrambe le sue famiglie.
L'unico articolo utile che Perique gli aveva comprato oggi era una
capace valigia nera, perfetta per tenere la scatola di lacca rossa.
Togliendosi dalla strada di una grassa signora europea con un cane
ringhiante sotto ognuna delle enormi braccia bianche, Ji Fung si piegò ad
aprire la valigia, per controllare. Voleva solo far passare le dita sulla
superficie fredda della preziosa scatola, rassicurandosi che fosse ancora là.
Aveva avuto paura di lasciarla nella stanza d'albergo. Era quasi certo di
avere deluso suo zio e la fratellanza della Triade... quasi. La scatola era il
suo legame con quella vita. Finché l'avesse conservata, c'era la possibilità
per lui di appartenere a quel mondo.
Alla fine Perique e Lin Bai uscirono dal negozio di dolci con una scatola
di cioccolata, una borsa di prugne salate e una manciata di strisce nere fra-
granti, quasi amare, che Ji Fung aveva gustato per la prima volta a Hong
Kong. Ji Fung masticava lentamente mentre camminavano, ancora a
disagio, ma iniziando a farsi cullare dal calore sonnolento. Una
pioggerellina iniziò a cadere, rendendo i marciapiedi scivolosi,
trasformando il cielo in un grigio acquoso. I ricordi frammentati di Perique
li portarono a fare un percorso assurdo per la città, e Ji Fung si lasciò
portare.
«Da Sincere», disse Perique mentre raggiungevano l'intersezione di via
Nanking. «Devo portarvi da Sincere, e comprarvi tutto quello che vuole il
vostro cuore. Ho promesso che lo avrei fatto.» I suoi occhi color giada
brillavano enormemente nella sua faccia arrossata.
Ji Fung cercò di protestare. «Pei, ci hai comprato abbastanza cose.
Perché non torniamo...»
Lin Bai lo interruppe. «Lascia che continui a comprare. Lo rende felice:
adora fare scena con noi. E come fai a sapere che non hai bisogno di
queste cose?»
«Giada e brillanti...»
«Possono essere dati in cambio di altre cose», disse Lin Bai con tono
definitivo.
Scoprirono che Sincere era un enorme grande magazzino con le porte
adornate da alberi di palma, che sembravano sentinelle all'ingresso di un
qualche antico tempio. Dentro era scuro e fresco, pieno di tessuti fini e di
oli penetranti. Ovunque guardasse Ji Fung vedeva qualcosa che non aveva
mai visto prima. Lingua d'anatra candita e strumenti serpeggianti per
curvare i capelli delle signore. Degli intagli in giada delle dimensioni di un
bambino piccolo. Attrezzature e aggeggi moderni brillanti fianco a fianco
con dee verde celadon e stendardi rossi simbolo di lunga vita e buona
fortuna. In piedi in mezzo a quell'ostentazione di ricchezze, Ji Fung
riusciva quasi a credere alle promesse di questi caratteri dorati.
Fuori c'era un po' di confusione. Dapprima Ji Fung la ignorò, ma
divenne sempre più forte. Si spostò verso le porte, lasciando Perique e Lin
Bai con le teste piegate sopra le vetrinette dei gioielli.
«Cosa succede?» chiese a un ragazzo che correva con in testa un berretto
da baseball americano.
Il ragazzo lo guardò perplesso, pronto a partire. Ji Fung lo prese per la
spalla e gli ripeté la domanda in inglese.
«Aeroplani cinesi stanno bombardando l'Idzumo», disse il ragazzo, libe-
randosi della presa di Ji Fung.
«La cosa?»
«La nave da guerra giapponese», disse il ragazzo scappando via. «Vada
al porto o la perderà.»
Ji Fung fece qualche passo in strada e guardò in su il pallido cielo grigio.
La pioggia diminuì, ma lui non riusciva a vedere alcun aereo. Udì un tuono
in distanza e il rumore di motori proveniente da est. Tutto intorno a lui la
gente si era ammassata a fissare il cielo vuoto.
Un vecchio con la faccia amara, che portava una gabbia di oche appesa a
un palo, stava raccontando qualcosa a tutti quelli che aveva intorno. Era
stato sulla riva del Whangpoo quando l'attacco era cominciato.
«Puà», sputò. «Nessuna bomba ha colpito la nave. Colpivano solo
l'acqua e andavano a picco. Ho vergogna per i figli della Cina. Come
possiamo sperare di salvare il paese dai diavoli giapponesi se i nostri aerei
sono della qualità peggiore e i nostri piloti non sono addestrati?»
«Guardate!» Una donna incinta con un bambino sulla schiena puntò un
dito al cielo. Il rombo dei motori si fece più forte, e quattro aerei cinesi in
formazione gettarono le loro ombre a forma di crocifisso sulle pietre di via
Nanking.
«Guardate in quale modo vergognoso si ritirano», disse il vecchio, scuo-
tendo la testa bianca e facendo volteggiare la sparuta barba. «Non c'è
speranza per la Cina.»
«Nonno.» Una ragazza con dei nastri sulle trecce tirò la manica del vec-
chio. «Cosa sono quelle macchie nere nel cielo?»
Gli occhi malati di cataratta del vecchio divennero enormi, e quasi
rotondi come quelli degli stranieri. «Non può essere», sussurrò. Ma le
macchie nere che oscillavano nel cielo si fecero sempre più grandi e la loro
forma cilindrica e la coda pinnata si faceva più nitida mentre cadevano.
Una terribile paralisi prese Ji Fung nelle ossa mentre guardava le bombe
che cadevano verso di lui. La loro discesa sembrava pigra, come l'andatura
di un uomo che cammina per recarsi da un'amante che conosce da anni.
Avrebbe potuto rimanere fermo a guardare finché gli occhi gli si fossero
accecati a causa dell'esplosione, se un'immagine della faccia di Lin Bai
non gli fosse comparsa davanti come una premonizione.
Si girò per rientrare da Sincere. Dopo aver fissato il cielo così a lungo,
l'interno in penombra del negozio sembrava totalmente nero.
E poi le bombe caddero a terra.
Ci fu solo una frazione di secondo di terrore, una frazione di secondo in
cui il nome di Lin Bai gli salì scottando in gola. Poi la spinta violenta
dell'onda d'urto gli riempì la testa come un tuono, raccogliendolo e
spingendolo via come se fosse stata la mano di un dio in preda all'ira.
Provò dolore e vertigini e un enorme impatto che tagliò fuori il mondo.

Ji Fung ritornò a galla con un senso di grande peso, di oppressione. Si


dibatté contro la massa cedevole che lo circondava finché raggiunse luce e
aria. Era stato colpito, ma non seriamente ferito, e si rese conto che era
stato seppellito sotto montagne di fine seta. I colori vibranti erano stati
smorzati dalla fuliggine e dalla polvere di gesso, e macchiati dallo scuro
del sangue. Scavò disperatamente nel mucchio, col cuore che gli batteva
nel torace. Doveva trovare la valigia. Dov'era la scatola rossa? Ji Fung
sapeva che se l'avesse persa avrebbe tradito lo zio, suo padre e la loro
fratellanza.
Quando le sue dita toccarono la pelle morbida come burro della valigia,
lacrime di sollievo gli riempirono gli occhi che bruciavano. Si lasciò spro-
fondare nella montagna di seta, stringendo la valigia al torace per quella
che sembrò un'eternità, la mente completamente libera da pensieri.
Di nuovo il pensiero di Lin Bai penetrò il suo torpore, un contraccolpo
accecante che lo richiamò dalla sua apatia. Ji Fung si sollevò, continuando
a tenere stretta la valigia, e iniziò a cercare i suoi amici. Le poche
indicazioni che aveva trovato nel negozio erano frammentarie e confuse,
lasciando Ji Fung disorientato, incapace di localizzare il reparto gioielleria
dove li aveva lasciati ad ammirare un grosso rubino incastonato in un
pesante anello d'oro.
Il magazzino era distrutto, tutte le belle cose a pezzi o rovinate. Il cavo
che sollevava l'ascensore di vetro portandolo al piano superiore si era
spezzato. La carcassa contorta dell'ascensore giaceva in fondo alla corsa,
perdendo olio e sangue. I resti dei passeggeri erano uno stufato maciullato.
Tutta la cosa aveva un aspetto organico, sembrava un mostro di carne e
metallo, appena morto.
Verso il fondo del negozio, il soffitto decorato era crollato, schiacciando
i clienti sotto tonnellate di pietra e di gesso. Dappertutto c'erano morti e
morenti. Ji Fung fu afferrato da mani, sentiva voci che imploravano aiuto o
un rapido colpo alla testa, ma lui si rifiutò di prestar loro attenzione. Si
fece strada tra il massacro come un cieco, l'unica cosa a guidarlo era
l'immagine della faccia di Lin Bai.
Prima trovò Perique.
Era morto. Questo era evidente anche a tre metri di distanza. Il suo
corpo giaceva contorto, la testa inclinata con un'angolazione che sfidava
l'anatomia. Quando Ji Fung si avvicinò, riuscì a vedere lo scheletro di
metallo della vetrinetta. Un milione di schegge di vetro ne erano esplosi, e
Perique vi era stato in piedi proprio davanti. Ji Fung si inginocchiò vicino
al suo amico per assicurarsi di quello che già sapeva.
La bella faccia di Perique era quasi irriconoscibile. Pietre preziose
brillavano nella carne scorticata delle sue guance, diamanti e smeraldi gli
erano stati incastonati nella pelle, spinti dalla forza dell'esplosione. Aveva
gli occhi pieni di schegge di prezioso cristallo. Il vestito di lino bianco era
scarlatto per il sangue.
Nella carne morbida sotto il mento di Perique, Ji Fung vide l'anello di
rubini che Lin Bai aveva ammirato. Provava riluttanza a separarlo dal mu-
scolo aperto in cui era sprofondato, ma Ji Fung era deciso. Alla fine si
liberò con un suono malsano, e lui lo infilò nella tasca del panciotto. Un
unico pensiero gli occupava la mente, e lo rendeva insensibile alle grida e
ai singhiozzi intorno a lui. A Lin Bai questo anello era piaciuto. Ji Fung
glielo avrebbe dato. Aveva trovato l'anello, quindi avrebbe trovato Lin Bai.
Ma alla fine, fu Lin Bai che lo trovò.
«È morto?» chiese la risonante voce familiare. Ji Fung si girò per vedere
Lin Bai in piedi in mezzo alla morte e alle macerie. Sembrava quasi
grazioso. Le sue calze di seta erano rovinate, le sue eleganti scarpe rosse
macchiate del rosso più scuro del sangue. Aveva la faccia e le braccia
piene di tagli.
Ji Fung si alzò, desiderando prendere Lin Bai tra le braccia, ma incapace
di farlo. «Era un brav'uomo», si sentì recitare. «Generoso e coraggioso.»
Perché era così formale? Voleva ridere, gridare, qualsiasi cosa che avesse
potuto aiutare a eliminare quella strana sensazione di freddo.
Lin Bai si lasciò cadere in ginocchio vicino a Perique e toccò la curva
della sua mascella incastonata di gioielli. Poi aprì la giacca di lino bianca e
ne tolse il fermasoldi di Perique. Esitò per un attimo, poi prese il nuovo
orologio d'oro e anche la pistola che aveva nella cintura.
Ji Fung si accigliò. «Stai rubando ai morti?»
Il mento di Lin Bai era fermo, risoluto. «Non avrà bisogno di queste
cose in paradiso.»
Una donna iniziò a urlare a pochi metri di distanza. Non riuscivano a
vederla, ma l'agonia nelle sue grida perforò loro il cervello.
«Vieni.» Lin Bai prese la mano di Ji Fung. «Fuori sarà meglio.»

***

Fu peggio. Shanghai non era più un'oasi di eleganza e decadenza,


insensibile alle sconvenienti macchinazioni della rivoluzione. Lo scudo
dorato che aveva protetto gli stranieri e le loro comode vite dalla realtà
della Cina era per sempre in frantumi. La guerra era arrivata sulle soglie
delle loro case, e dal momento che non l'avevano sentita bussare aveva
fatto irruzione.
La morte era stata il grande livellatore. Cinesi ed europei giacevano fian-
co a fianco, lavati nel sangue reciproco, alcuni corpi addirittura forzati
negli altri dalla forza dell'esplosione. Arti e pezzi di carne non
identificabili giacevano sanguinanti sulle pietre bagnate dalla pioggia. I
guidatori erano crollati sulle ruote delle loro vetture costose, mentre i
ricchi passeggeri erano stati cucinati nei sedili posteriori come anatre
affumicate nella vetrina di qualche ristorante.
Il vecchio che aveva temuto per il futuro della Cina era seduto nudo
nella strada, l'esplosione gli aveva strappato via gli abiti. Aveva la barba
bianca carbonizzata sulle guance strinate. Nella loro gabbia di bambù, le
sue oche erano state maciullate fino a diventare una poltiglia rosa di
interiora e piume. Il vecchio aveva una massa di carne carbonizzata al
posto del torace scarno. Ji Fung riusciva a stento a identificare la forma di
una minuscola mano, un pezzo di nastro di un colore brillante in un intrico
fumante di capelli neri.
«Nessuna speranza!» stava gridando il vecchio. «Nessuna speranza per
la Cina!»
Lin Bai tirò Ji Fung in una zona libera nel mezzo della strada, lontano
dai muri che potevano crollare in qualsiasi secondo. «Ascoltami.
Dobbiamo andarcene dal paese. Non mi hai voluto credere prima, credimi
adesso. Il vecchio ha ragione. Non c'è speranza per la Cina. Solo morte.
Non abbiamo scelta. Dobbiamo aprire la scatola di tuo zio.»
Ji Fung strinse la valigia. «Stai parlando come un pazzo. Non posso
aprirla. E se potessi cosa faremmo con le cose che contiene?»
«L'oppio di quella scatola vale una fortuna. Potremmo venderlo a poco
prezzo e avere ancora denaro più che a sufficienza per due biglietti per
l'America.»
Ji Fung distolse lo sguardo. «Te l'ho detto. Non posso tradire la mia
famiglia»
«Dimmi una cosa», disse Lin Bai. Le sue fini sopracciglia nere si curva-
vano sui suoi occhi che stavano sputando uno scuro fuoco. «Dov'è il mio
posto nella tua nuova famiglia? Mi lascerai perdere per sposare qualche ra-
gazza scelta da tuo zio che sia adatta a te?»
«Certo che no. Ho programmato di presentarti come cugina di Pei...»
«Pei è morto. E tuo zio è vivo oggi perché non gli è stato permesso di
sposare la donna che aveva scelto, tua madre. Che cosa ti fa credere che ti
permetterebbe di sceglierti una moglie?»
«Non ti abbandonerei», mormorò Ji Fung. Ma Lin Bai si infuriò.
«Anche se lo facessi, non sono una donna! Anche se tu te ne sei dimenti-
cato, io no. Ti aspetti che reciti questo ruolo fino al giorno della mia
morte? Tu hai trovato la tua identità, ma non ti interessa della mia. Chi ha
ucciso Padron Lau perché tu potessi vivere? Chi è stato fratello e amante
per te? È stata la tua preziosa famiglia?»
La voce ben addestrata di Lin Bai sovrastava le grida e i lamenti che rap-
presentavano il seguito dell'esplosione. Le guance di Ji Fung bruciavano
per la vergogna, e si guardò intorno per vedere se qualcuno stava
ascoltando. Le poche persone ancora in grado di reggersi in piedi e di
camminare non prestavano loro alcuna attenzione, ma lui si fece piccolo al
pensiero che questa conversazione arrivasse alle orecchie di qualcuno che
stava morendo. «Non dobbiamo parlare qua.»
«Non mi stai ascoltando?» Lin Bai abbassò la voce. «Possiamo vendere
o scambiare l'oppio ed essere in viaggio per l'America già domani. Tuo zio
immaginerà che sei stato ucciso nel bombardamento. È ricco. Sai che la
sua fiducia nei tuoi confronti raggiunge solo il valore di quello che si può
permettere di perdere.»
«Non posso rubare alla mia famiglia.»
La faccia di Lin Bai era scura per la rabbia. «Osi parlare a me di rubare.
Tu stai rubando il mio futuro per compiacere un uomo che a malapena
conosci.»
«Mio padre...» Ji Fung si sentiva come se stesse venendo rivoltato, come
se dei cani avessero combattuto per strappargli il cuore.
«Io non ho avuto un padre. Non ho uno zio, nessuna famiglia ricca e in-
fluente. Se non posso scappare dalla Cina, morirò. Non voglio essere un
fantasma nella casa della tua famiglia.»
Si sporse verso Ji Fung, ancora dolorosamente bello sotto la polvere di
gesso e il sangue appiccicaticcio che gli striava la faccia.
«Dammi la scatola.»
Ji Fung strinse la valigia con più forza. «Non posso.»
Le lacrime si appesero alle ciglia scure di Lin Bai, poi caddero
tracciando righe di cristallo sulle sue guance straziate. «Allora non mi lasci
scelta», disse. Allungò la mano nella borsa di pelle rossa e prese la pistola
di Perique. Come in un sogno la puntò alla faccia di Ji Fung. «Dammi la
scatola.»
Per un lungo istante, Ji Fung fu troppo stupito per parlare. La sua mente
era piena di ricordi irrilevanti. Ricordava una volta in cui Lin Bai aveva
fatto la parte di una guerriera Mu Lan, e Ji Fung era stato uno degli
scagnozzi malvagi. Era stata l'unica volta in cui avevano dovuto
combattersi l'un l'altro, e per tutta la scena faticarono per non scoppiare a
ridere. Ma adesso gli occhi di Lin Bai non erano per niente divertiti, in loro
c'era solo una vitrea espressione di disperazione.
«Mi spareresti?»
«Non ho scelta», disse Lin Bai. La sua angoscia era evidente nella voce
che gli tremava, ma la canna della pistola non si mosse.
Il torace di Ji Fung era teso e di ghiaccio. «Non farlo. Vieni a casa con
me.»
«Metti per terra la scatola.» Adesso la voce di Lin Bai si sentiva appena
sopra le grida dei feriti e dei morenti.
Muovendosi come se fosse stato intrappolato in un incubo sciropposo, Ji
Fung posò la valigia sul pavimento tra loro. Guardò Lin Bai che la
afferrava con forza e ne tirava fuori la scatola rossa da quella che gli
sembrava una grande distanza. Cercando tra le macerie, Lin Bai trovò una
pietra grande come un pugno e iniziò a colpire la serratura di ottone. Non
puntava più la pistola contro Ji Fung, ma lui non pensò di gettarsi su Lin
Bai. Conosceva la prontezza di riflessi del suo amante.
Ci vollero cinque colpi. Il colpo finale ruppe il coperchio della scatola e
mandò a finire serratura e contenuto sulle pietre insanguinate.
Era sabbia. Fine sabbia bianca.
Lin Bai lasciò cadere la pistola. Afferrò due manciate di quella roba, fa-
cendola scivolare tra le dita, scuotendo la testa avanti e indietro come per
negare in silenzio la realtà. Ji Fung vide un pezzo di carta tra i resti della
scatola e si piegò per prenderlo.
«Signor Hinchcliffe», era scritto in inglese, «se mio nipote le consegnerà
questa scatola senza averla aperta, per favore gli dia 500 dollari americani,
che le verranno rimborsati. Sono molto grato del suo aiuto.»
Sotto di questo c'era il sigillo di suo zio. Le dita intorpidite di Ji Fung
lasciarono cadere il messaggio.
Le mani di Lin Bai erano ancora seppellite nella sabbia, ma adesso
aveva voltato la faccia al cielo. «Ji Fung, ascolta...»
Di nuovo il ronzio dei motori dall'alto, che arrivavano veloci e bassi. Ji
Fung cercò di parlare, ma le parole che avrebbero potuto curare tutto
quello che giaceva in frantumi tra loro furono inghiottite in una nuova
raffica di esplosioni che lo mandò a finire per terra lungo e disteso, la
faccia schiacciata contro la sabbia insanguinata.
Quando fu in grado di aprire gli occhi, vide la faccia di Lin Bai bagnata
di sangue fresco da un profondo taglio alla tempia. Non era in grado di
dire se il suo amante fosse ancora vivo. Mentre lo prendeva tra le braccia,
finalmente Ji Fung iniziò a singhiozzare. Si sentiva come se i singhiozzi
fossero stati liberati con brutalità dai suoi polmoni allenati, dalle sue
viscere, dalle radici dei suoi genitali. Voleva chiudere gli occhi e non
aprirli mai più. Ma mentre si rendeva conto di ciò, sentì un minuscolo
pulsare nella gola di Lin Bai, e seppe che non poteva morire mentre Lin
Bai era vivo.

***

L'ospedale era una specie di inferno del tutto nuovo. I dottori e le infer-
miere si muovevano come sonnambuli attraverso un oceano di ferite,
curavano solo quelli che sembravano avere una possibilità di sopravvivere,
e agli altri iniettavano morfina e li lasciavano nei corridoi a morire. Era
completamente buio prima che Ji Fung riuscisse a ottenere che qualcuno
guardasse Lin Bai. Il dottore era inglese, appena più vecchio di Perique. I
suoi occhi azzurri erano cerchiati dalla fatica, e le mani erano coperte di
sangue fin oltre il gomito.
«Sua moglie ha una commozione cerebrale e, temo, una frattura del cra-
nio all'attaccatura dei capelli. Deve cercare di tenere la ferita pulita, dal
momento che un'infezione al cervello può provocarne la morte.»
Il dottore prese un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte.
«Le darei delle medicine, ma non ne sono rimaste. Le darei della garza
per medicare la ferita, ma non ne abbiamo abbastanza. Non c'è nient'altro
che possa fare per lei.»
Fuori la serata era calda e ripugnante. I vivi avevano fatto del loro
meglio per ripulire le strade dai morti, ma il compito era estremamente
gravoso e il caldo non perdonava. La puzza di bruciato, di carne che
marciva aveva già iniziato a penetrare l'umida brezza estiva.
Camminavano lungo il Bund, dove il fiume rinfrescava un po' l'aria, alla
ricerca del loro albergo. Non riuscirono a trovarlo. Le navi giapponesi
erano ancora all'ancora nell'acqua scura, immobile, forse vantandosi per la
città che stavano distruggendo.
Ji Fung teneva Lin Bai mentre vomitava sangue e cioccolato contro
l'edificio della Banca di Hong Kong e di Shanghai. L'odore della bile era
quasi il benvenuto, perché almeno sapeva di vita.
«Ji Fung», sussurrò Lin Bai, quasi come se avesse letto nel pensiero del
suo amante. «Sto morendo.»
«Zitto», gli sussurrò Ji Fung. «Smettila con questi discorsi che portano
sfortuna.»
«La sfortuna è la sola cosa che abbiamo», si lamentò Lin Bai. «Il mondo
sta morendo. Non c'è via di scampo.»
«Non preoccuparti.» Ji Fung lisciò all'indietro i capelli sudati e sporchi
di sangue che cadevano sul viso di Lin Bai. «Stiamo andando a casa a
Hong Kong. Là saremo al sicuro.»
«Non c'è via di scampo», ripeté Lin Bai. «Mi sento le vertigini...» Si
allontanò strisciando da Ji Fung e iniziò di nuovo a vomitare.
Si era formata una folla dall'altra parte della strada, che gridava e
spingeva. Avvicinandosi di qualche passo, Ji Fung vide che la confusione
era concentrata attorno a un veicolo militare aperto. La folla aveva
afferrato gli occupanti e li stava trascinando nella strada, attaccandoli con
pietre, lunghe schegge di legno appuntite, qualunque cosa mortale
capitasse loro tra le mani.
Mentre Ji Fung guardava, un giovane soldato giapponese si liberò dalla
folla e scappò con passo incerto attraversando la strada verso di lui. La
faccia dell'uomo era una maschera di sangue, aveva il naso rotto, le labbra
e le orecchie spezzate. La divisa era a brandelli. Sotto i capelli tagliati
corti, Ji Fung riusciva a vedere dei profondi tagli sulla testa. In parecchi
punti si poteva vedere il cranio che brillava. Una ferita che dava
l'impressione di un semolino infernale ne esponeva il cervello.
Il soldato afferrò Ji Fung per il bavero e urlò qualcosa in una rima fatta
di sillabe spezzate. Poi iniziò a cadere. Prima di rendersi completamente
conto di ciò che stava facendo Ji Fung lo prese e lo abbassò con
delicatezza per terra. Le mani del soldato trovarono le sue, e Ji Fung le
tenne con forza. I giapponesi potevano essere diavoli di invasori e
torturatori. Ma i giapponesi erano un'astrazione. Questo giovane era come
lui, una pedina in un sistema implacabile, messo in moto da forze al di là
della loro comprensione.
Ji Fung cullò il soldato morente, fissandolo negli occhi. Una delle
pupille era esplosa e riempiva l'iride di un nero senza fondo. Mentre Ji
Fung fissava in quell'occhio, gli sembrò che le immagini del cervello
danneggiato del soldato si imprimessero nel suo. Gente che non aveva mai
visto, paesaggi che non conosceva. Una stanza silenziosa dove un padrone
meditava, mentre il suo corpo immobile era un vascello colmo delle
immagini fluide del combattimento. Una ragazza con un kimono ricamato,
con dei boccioli di ciliegia intrecciati nei lunghi capelli neri.
Una bolla di sangue spesso si gonfiò e schizzò fuori dalle labbra dell'uo-
mo. Il suo corpo si irrigidì tra le braccia di Ji Fung, e un profondo rantolo
lungo e bagnato arrivò dal torace. Mentre la vita abbandonava il soldato, le
immagini che si formavano nella testa di Ji Fung sembrarono venire dal
futuro. Vide il corpo dell'uomo che si decomponeva nel punto in cui
giaceva, che esplodeva nel calore umido, invaso dalle mosche e maturo dei
frutti della decomposizione. Vide un vecchio e una vecchia che leggevano
una lettera, mentre le loro facce si afflosciavano per la pena. Vide quella
che sembrava una lunga fila di bambini fantasmi in un corridoio buio,
semitrasparenti e privi di sostanza, che si allungavano fino all'infinito. I
bambini che quest'uomo avrebbe avuto, forse, e i loro figli, e i figli dei loro
figli. Le loro manine erano piegate sul torace, come se sapessero che non
sarebbero mai nati.
Le dita del soldato si chiusero sulla sua manica, un riflesso della morte.
E all'improvviso Ji Fung pensò che si trovava in una strana città, la città in
cui quest'uomo aveva vissuto con la sua famiglia. Qualcosa era caduto dal
cielo, una bomba, ma più terribile di qualsiasi bomba avesse mai visto
Shanghai. Stava scappando da un calore terribile che gli cuoceva la pelle e
gli dava la sensazione che i suoi occhi stessero friggendo nelle orbite. I
suoi organi stavano cuocendo dentro di lui. Non poteva andare più in là.
Cadde, rotolandosi nel nero che provocava vesciche, e fissò
un'immagine che era decisamente al di là della sua possibilità di
comprensione. Una corona di fuoco che ingigantiva si alzò nel cielo
striato. Sotto c'era una gran colonna di fumo in cui riusciva a vedere delle
forme annerite che si contorcevano, ondeggiando. Dev'essere alto un
milione di li. Come era possibile che qualcuno vivesse in un mondo in cui
poteva accadere una cosa del genere? Non era sicuro se aveva chiuso gli
occhi o se era stato accecato, ma qualsiasi cosa era preferibile alla vista di
quella nuvola infernale.
Ji Fung sbatté gli occhi. Era piegato sulle scale dell'edificio della Banca
di Hong Kong e Shanghai e cullava tra le braccia un uomo morto. Dietro
di lui, poteva udire Lin Bai che vomitava e sputava; sembrava che fossero
passati solo pochi secondi. Fissò la faccia distrutta del soldato. «Cosa mi
hai mostrato?» sussurrò. «Avresti vissuto per vedere queste cose? Se è
così, allora ringrazia di essere morto stasera.»
Posò il corpo del soldato e andò ad aiutare il suo amante.

Sul ponte affollato di una vecchia giunca che si chiamava Devil Fox, Ji
Fung si sedette con la schiena contro una montagna di corda di canapa che
stava marcendo, cullando in grembo la testa di Lin Bai. Era una buona
posizione, che occasionalmente riceveva l'ombra delle consunte vele
marroni che lo facevano pensare a enormi ali di insetto ricurve. Ji Fung
aveva scambiato il suo fermacravatte di brillanti, l'orologio d'oro di
Perique e tutto il resto a parte il braccialetto di giada di Lin Bai in cambio
di un passaggio a Hong Kong, ringraziando Perique in silenzio per l'ultima
frenetica giornata di shopping.
Adesso i loro visi erano bruciati dal sole e dal vento e avevano le labbra
secche per il sale. Ji Fung non aveva mangiato niente da quando aveva
diviso l'ultimo candito con Lin Bai due giorni prima. Mentre lasciava che
il cioccolato gli si sciogliesse in bocca era difficile credere che solo due
giorni prima era stato sulla porta del negozio di via Nanking ad ascoltare
«le ragazze» che litigavano. Sulla giunca c'era ancora dell'acqua fresca, ma
c'erano talmente tante persone a bordo, che non sarebbe durata che uno o
due giorni.
Lin Bai si agitò sul suo grembo e si lamentò a bassa voce, un suono
doloroso e senza speranza. Ji Fung fece del suo meglio per calmarlo,
controllando le bende piene di croste che gli coprivano la ferita alla
tempia. Era lurida e puzzolente, ma Ji Fung aveva usato l'ultima striscia di
tessuto della sua camicia e non voleva iniziare a strappare la giacca, poiché
era l'unica protezione che avevano contro il sole.
«Hing», sussurrò Lin Bai. Fratellone, un soprannome con cui non chia-
mava Ji Fung da anni. «Ho sete.»
«Presto potrai avere dell'acqua. Verranno con il secchio.» Ji Fung mas-
saggiò la guancia di Lin Bai. Nessuno dei due aveva ancora bisogno di
farsi la barba, ma sulla mascella di Lin Bai c'era una sottilissima ombra di
sottili peli neri. Ji Fung si chiese per quanto tempo ancora il suo amante
sarebbe stato in grado di passare per una donna, e cosa sarebbe successo se
li avessero scoperti. La folla di rifugiati si sarebbe coalizzata contro di
loro, li avrebbe gettati in mare per risparmiare qualche sorsata d'acqua?
L'odio era così profondo? O in tempi disperati come questi i tabù meno
importanti si sarebbero persi lungo la strada?
Per fortuna, era improbabile che le persone che erano maggiormente
vicine a loro notassero qualcosa di strano: un vecchio quasi cieco che
portava su una corda tre gabbie squisitamente intagliate piene di grilli; un
paio di donne esauste con una manciata di bambini dagli occhi incavati che
richiedevano tutta la loro attenzione.
Quella sera, il tempo divenne brutto. Erano entrati nella scia di un tifone,
e non erano in grado di dire se riuscivano a starne ai margini o se vi si
stavano dirigendo in mezzo. Ji Fung coprì Lin Bai con la giacca e si
raggomitolò sotto la pioggia senza nient'altro che il sottile panciotto di seta
e i pantaloni macchiati di sangue. Il mare sotto di loro si agitava furioso.
La faccia di Lin Bai era mortalmente pallida, e le labbra erano di un blu
livido. Occasionalmente cadeva nel delirio, balbettando qualcosa a Ji Fung
o a Perique o a Padron Lau, poi singhiozzando come se dovesse
spezzarglisi il cuore. Ji Fung cantava ogni canzone che conosceva,
cercando di calmarlo, ma Lin Bai non si univa a lui, nemmeno quando Ji
Fung dimenticava le parole.
Il vecchio con le gabbie di grilli diede loro qualche sorsata di vino di
prugne da una bottiglietta che aveva nascosto in una scarpa di pezza,
dicendo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare due giovani amanti.
Raccontò loro una storia di due amanti che si erano trasformati in grilli per
sfuggire a dei genitori che non approvavano la loro unione. Ji Fung fu lieto
della pioggia senza fine perché poteva mascherare le sue lacrime.
Al mattino il vecchio era morto, con la bocca senza denti piena di
pioggia. L'equipaggio lo buttò in mare e prese le graziose gabbie di grilli.
Ji Fung riuscì a mettere al sicuro la bottiglia di vino di prugne, che adesso
era quasi vuota. Guardò le acque agitate che sbatacchiavano la fragile
struttura del vecchio finché degli squali di passaggio la tirarono sotto. Lui
rabbrividì e si strinse più vicino a Lin Bai. Mancavano ancora tre giorni
per arrivare a Hong Kong.
La pioggia non cessava. Invece il mare divenne più violento. Guardare il
cielo era quasi come guardare un velo d'argento che lentamente discendeva
prendendo la forma di una spirale. A Ji Fung dolevano le ossa per il freddo
e l'umidità e per dover lottare contro il vento. Arrivavano onde più alte
della barca, muri di morte di un verde grigiastro che li avrebbero inghiottiti
in un secondo se il vento avesse cambiato direzione. A volte l'acqua
copriva il ponte, lavando via vomito e fagotti non legati. La gente perdeva
le poche cose preziose che era riuscita a mettere in salvo dalle macerie di
Shanghai. Le onde intorno a loro erano disseminate di vestiti da sposa di
seta, teiere dorate, ritratti di antenati dai visi duri e scatole di lacca simili a
quella che Lin Bai aveva rotto in via Nanking. Così tanti tesori, adesso
privi di valore, proprio come una manciata di sabbia.
L'acqua iniziò a chiedere in pegno bambini e vecchi che non ce la
facevano più a tener duro. I passeggeri si legavano agli alberi e al sartiame
tristemente sicuri che sarebbero annegati quasi sicuramente se la giunca si
fosse capovolta, ma pronti a rischiare piuttosto che essere buttati in mare.
Ji Fung usò un grosso pezzo di canapa bagnata per legarsi con Lin Bai a un
pesante uncino di ferro che si trovava sul ponte. In mente non aveva alcun
pensiero che non fosse di sopravvivenza.
Quando arrivarono al porto di Hong Kong, più della metà dei passeggeri
se n'era andata.
Il tifone che si era portato dietro la barca nella sua scia era già arrivato
sull'isola. Era come se la distruzione di Shanghai li avesse seguiti a casa,
usando l'acqua e il vento anziché il fuoco per attaccare il paesaggio
familiare. Le giunche e i sampan nel porto erano stati fissati saldamente
ma le onde li sbatacchiavano ancora qua e là crudelmente. Una bandiera di
avvertimento sventolava in cima a un lungo palo sul molo. Due triangoli
uno in cima all'altro, vertice contro vertice. Ji Fung pensò che il simbolo
sembrava una clessidra a cui stesse per finire il tempo.
Gli ci volle quasi tutta la notte per trovare un albergo. Migliaia di
viaggiatori, di rifugiati e di persone di Kowloon che avevano perso l'ultimo
traghetto avevano cercato un buco in attesa che passasse la tempesta. Alla
fine riuscì a scambiare l'ultimo braccialetto di giada di Lin Bai per una
minuscola stanza in un albergo di terz'ordine che ospitava per lo più
marinai stranieri.
Posò Lin Bai sul materasso macchiato, gli tolse le calze strappate e lo
straccio bagnato che il suo vestito era diventato, e lo coprì con una
minuscola coperta grigia. Non era necessario: la carne nuda di Lin Bai
irradiava il calore della malattia come una fornace ben rifornita.
«Hing... Di' al Padrone che sto troppo male per andare da lui. Non lo
sopporto stasera.»
Respirò faticosamente, e Ji Fung gli prese la mano. Sembrava un artiglio
senza carne, quasi troppo caldo per tenerlo. «Il Padrone è morto», disse Ji
Fung. «Non ti toccherà mai più.»
«Chen Bau dovrà fare la parte del Serpente Bianco.» Gli occhi giallastri
di Lin Bai vagarono da una parte all'altra senza vedere. «Digli di usare il
vestito con le piume di quaglia.»
Ji Fung vide una goccia di cristallo cadere sul collo scarno di Lin Bai.
Forse che il dannato tetto stava perdendo? La toccò con un dito, poi
l'assaggiò. Calda e salata. Una lacrima, la sua.
«Ji Fung?» la voce di Lin Bai era spessa e bassa, arrochita dall'infezione.
«Un giorno lasceremo questo posto, vero? Andremo a Hollywood. Non ci
saranno più delle noiose opere cinesi per noi. Saremo cowboy e gangster.»
«Va bene», disse Ji Fung. Si spogliò e scivolò sotto le coperte,
prendendo il corpo scheletrico e bollente di Lin Bai tra le braccia.
«Quando starai meglio, ti prometto che ce ne andremo da questo posto. Ma
prima mi devi promettere che migliorerai. Me lo prometti?»
Ma Lin Bai era silenzioso, il suo respiro affannoso e tormentato. Ji Fung
passò il resto della notte tenendolo tra le braccia, cercando di pensare a
tutte le cose che aveva sempre voluto dire, mormorandole tutte nei capelli
sudaticci dietro il collo di Lin Bai. A volte cantava dei brani d'opera,
facendo finta che gli mancassero le parole, cercando di convincere Lin Bai
a unirsi a lui.
«Ma quelli che erano sinceri alla fine si sono uniti.» Si ricordava delle
membra inerti di Lin Bai tra le sue braccia. «Anche se a migliaia di
chilometri di distanza...»
Ma non riusciva a cantare la strofa successiva, anche se l'aveva incisa
nella mente bassa e chiara.
Anche se strappati l'uno all'altro dalla morte...
Ji Fung guardava in giù il viso bianco di Lin Bai e si rendeva conto che
stava morendo. Mentre una luce rossastra filtrò nel cielo, lui giaceva in
ascolto dell'ultimo respiro del suo amante, lungo e lento, il suono della sua
anima che scivolava fuori dalle sue labbra socchiuse.
Ji Fung baciò quelle labbra. Erano secche, leggermente dolci, immobili
come la morte stessa.
Lui giacque con il corpo di Lin Bai tra le braccia per un lungo tempo,
mentre ascoltava la tempesta che infuriava di fuori. Non aveva paura:
sapeva che Lin Bai non gli avrebbe mai fatto del male, lo aveva saputo
anche quando aveva la pistola puntata alla faccia. Ma quando sentì che il
freddo si impadroniva del corpo che aveva tra le braccia, rabbrividì e si
sedette per vestirsi.
Mentre allacciava i piccoli bottoni intarsiati, sentì una sporgenza nella
tasca sinistra. Vi infilò la mano e scoprì l'anello dimenticato di Sincere e il
sigillo di giada che una volta era stato il ricettacolo di tutte le sue speranze
e dei suoi sogni. Il gioiello rosso sangue era abbagliante come lo era stato
quando Lin Bai lo aveva indicato a Perique nella vetrinetta, un migliaio di
anni prima.
Lui aveva immaginato l'espressione sul viso di Lin Bai quando glielo
avesse fatto scivolare sul dito sottile. Ma adesso era troppo tardi per
questo. Il mondo era morto. Lin Bai era morto. Non era rimasto niente. La
famiglia che aveva significato così tanto per lui sembrava non aver più
valore senza Lin Bai a dividerla con lui. Inutile come una manciata di
sabbia. Si raggomitolò nel letto e singhiozzò sulla spalla del suo amante
che stava diventando freddo, desiderando di essere morto.
Ma mentre la giornata passava, scoprì che il suo desiderio non si
realizzava. Aveva il corpo rigido, pieno di dolori e coperto di lividi, molto
lontano dalla consolazione inerte della morte. A meno che avesse voluto
uccidersi, avrebbe dovuto vivere. Si girava e rigirava tra le mani l'anello e
il sigillo. Mentre la luce del sole si dileguava, anche il tifone si
allontanava. Un silenzio limpido, fatato cadde sulla città. Era arrivato
l'occhio del ciclone e Ji Fung sentì un piano concretizzarsi dentro di lui.
Vendere l'anello gli avrebbe dato abbastanza denaro per le due cose di
cui aveva maggiormente bisogno.
Per prima cosa un biglietto per l'America. In secondo luogo, una
bottiglia di cherosene.
Pensava che Lin Bai avrebbe approvato entrambi gli acquisti.
Gong Sut Fo stava prendendosi le sue soddisfazioni con una cantante
americana, una bellezza dai capelli rossi e con lunghe gambe, occhi
ambrati e capezzoli rosa corallo. Aveva un temperamento altero come i
suoi colori, e questo incontro era costato molto a Gong Sut Fo sia in
denaro che in tranquillità. Quando un servo pallido e tremante lo
interruppe con quattro colpi alla porta, divenne furioso.
«Osi disturbarmi?» Gong Sut Fo si buttò addosso una vestaglia di seta
nera e rossa. «Che cosa c'è che non può aspettare finché un uomo non ha
finito con... non ha finito?»
«Un fantasma, Gwan.» Davvero un fantasma. Gwan era una parola usata
in segno di rispetto, fantasma significava che si trattava di una cosa che
non si poteva discutere davanti alla cantante, e il servo aveva la stessa
espressione che avrebbe avuto se qualcuno gli avesse ucciso l'unico figlio.
La cantante capiva un po' di cantonese. Si tirò la coperta sul seno
cadente e si accigliò. «Un fantasma? Di cosa sta parlando?»
Seccato dalla piega presa dagli avvenimenti, con l'uccello che si
rinsecchiva come una vecchia rapa, Gong Sut Fo scoprì che la voce piatta
dell'americana gli dava sui nervi. Le baciò le dita curate. «Mimi... mia
dolce...» trasse un profondo sospiro, ricordando la sensazione carezzevole
del suo corpo. «Giuro che tornerò da te al più presto.»
Mentre si affrettava giù dalle scale, poteva sentire le grida nel vicolo
dietro la cucina. Spinse via il servo ossequioso per farsi strada e si diresse
risoluto verso la folla di cuochi e di inservienti, fuori della porta di
servizio, nel vicolo.
L'odore lo colpì immediatamente, l'odore indimenticabile che si era
inciso nella sua memoria otto anni prima in un corridoio del piano
superiore della casa di suo fratello. Era un odore di grasso che colava, di
capelli che friggevano e di carne, ripugnante ma in qualche modo
stuzzicante.
C'era un cadavere che bruciava nel vicolo.
«Pazzi!» sputò, spingendo i servi verso la porta della cucina. «Volete
che tutto il vicinato vada in fiamme? Andate. Prendete dell'acqua!» I servi
sciocchi formarono immediatamente una fila per portare secchi e bacinelle
d'acqua. Anche così, passarono parecchi minuti prima che riuscissero a
spegnere l'incendio.
Gong Sut Fo si piegò a esaminare il corpo. Aveva gli arti raggrinziti, e si
erano ripiegati nella posizione fetale. La faccia era l'apertura di un incubo
di carne carbonizzata e di ossa strinate. Ma i piedi non erano quasi per
niente bruciati e lui non fece fatica a riconoscere le lucide scarpe bianche e
nere che aveva ordinato a Chi Gwai di dare a suo nipote. Gong Sut Fo
sentì una strana sensazione al torace, come se stesse sprofondando e vide
che il cadavere teneva stretto qualcosa in mano.
Fu difficile aprire i pugni stretti, e riuscì a farlo solo rompendogli alcune
dita. Andarono in pezzi come degli spaghetti bruciacchiati. Alla fine trovò
quello che stava cercando.
La giada era stata incrinata dal calore, ma i caratteri ricurvi portavano
ancora il nome di suo nipote.
Il servo che aveva disturbato Gong Sut Fo durante l'amplesso adesso si
inginocchiò davanti a lui, tremando ancora più violentemente di prima.
Aveva in mano un pezzo di carta piegato.
«Questo è stato trovato sulla porta della cucina», disse, e se la diede a
gambe non appena Gong Sut Fo ebbe preso il pezzo di carta.
Le parole in inglese erano scritte con una calligrafia disordinata,
infantile. Il biglietto diceva semplicemente: «Sono il figlio di mia madre».
Quando il loro padrone tornò in casa, i servi gettarono una vecchia
coperta sui resti fumanti del cadavere e mandarono via dal vicolo una
piccola folla di curiosi. Nella confusione della ritirata nessuno si accorse
dell'alta ragazza insignificante con un fazzoletto grigio tirato sulle larghe
orecchie. Nessuno si chiese perché stava sorridendo, anche se il suo viso
era pieno di lacrime.

1940-1949
A Cavallo del nero
di Charles L. Grant

Il barile si ferma qua.


Harry S. Truman

Quando si alzò il sole, era bianco come l'estate, e le ombre che gettava
non erano per niente ombre, ma semplicemente punti nell'aria dove le cose
si andavano a nascondere fino al ritorno della luna. In una piccola stalla,
passata attraverso troppe intemperie per essere pittoresca, un paio di
cavalli si mossero con difficoltà; in una piccola casupola di due stanze
troppo in rovina per essere davvero comoda, le assi scricchiolavano e un
bollitore fischiò debolmente mentre la brezza scivolava attraverso la
finestra piena di fenditure per morire sul pavimento spoglio.
Quando il bollitore si fermò, non ci fu più alcun suono.
Nel cortile sul davanti, che ospitava prevalentemente fango sbiadito ed
erba piegata, una lucertola dalla coda blu guizzava da una pietra all'altra, si
immobilizzava, guizzava di nuovo via, scivolando sotto il basso porticato
dove il sole non poteva arrivare e il calore non era opprimente come una
fornace.
Dov'era l'orizzonte e in quali direzioni si sarebbe potuto stagliare al di là
delle montagne, se queste avessero avuto un colore, se la foschia non ne
avesse macchiato le vette ammorbidendone i contorni?
Nel portico era seduto un uomo, che reggeva tra le mani una tazza di
latta con del caffè. Non doveva combattere contro il freddo, ma lui sentì un
brivido, e sorseggiò il liquido denso come se in qualche modo l'inverno
avesse trovato la strada per penetrare nel suo midollo.
Quando ebbe finito, appoggiò la tazza vicino alla sedia e guardò la
strada nera che si snodava davanti a quella che di questi tempi passava per
casa sua.
La terra si srotolava senza uniformità, e là fuori nel deserto c'erano
salvia e pini marittimi, cactus e arbusti, ciottoli vaganti con la forma
modellata dal vento, e diritto davanti a lui in distanza, una fila di alberi
dalla ricca chioma che delimitavano le anse di uno stretto fiume che
appariva minaccioso ma non si avvicinava mai.
Non si mosse nulla.
Un'ora più tardi trasse un lungo sospiro e si costrinse ad alzarsi. Si
stiracchiò, si sfregò un occhio con la nocca, e si stiracchiò di nuovo. Era
un uomo che non aveva spessore finché non si arrabbiava, il cui volto non
aveva espressione finché la rabbia non tirava le pieghe cotte dal sole e
stringeva gli occhi foschi e cupi.
Portava una camicia scozzese con le maniche arrotolate, due bottoni
aperti, il colletto rovinato e sfilacciato. Jeans. Scarponi consunti. Una
cintura di pelle resa sottile dall'uso. Uno Stetson con la tesa calata.
Guardava la strada.
Non si mosse nulla.
Fece un cenno con la testa, lentamente, e lentamente si girò, scendendo
dal portico per dirigersi verso la stalla relativamente fresca. Lì diede da
mangiare e da bere al nero ombroso, diede da mangiare e sellò la tranquilla
roana, lasciò che il nero si facesse strada nel recinto parzialmente erboso
irrigato dalla sorgente, dove si diresse immediatamente verso la falsa
promessa di ombra, sotto a un vecchio pioppo. La cavalla non era proprio
pelle e ossa ma al solo guardarla chiunque avrebbe capito che una buona
corsa l'avrebbe sicuramente uccisa.
Quando raggiunge l'albero, girò la testa.
L'uomo annuì, una promessa, e si girò, massaggiando il collo della vec-
chia roana, sussurrandole alle orecchie, adulandola, dicendole che aveva la
sensazione che non sarebbero stati soli a lungo.
Una volta in sella, col cappello basso, lasciò che lei trovasse la strada
per uscire, seguendo il ciglio tra la carreggiata e il vasto fossato che la
delimitava. Si muovevano con lentezza, l'uomo e la cavalla dalla lunga
coda, solo di rado succedeva che avessero fretta. Quella mattina era in ri-
tardo. Di solito, quando usciva, se ne andava appena dopo l'alba, prima che
la giornata avesse la possibilità di accendere il suo fuoco bianco. C'era
stato un sogno, comunque, con le facce lucide di compagni assenti
aspettati a lungo di cui sente da molto la mancanza: anche loro erano soli
e, come lui, stavano cercando.
Cavalcò in direzione est, verso una città che era poco visibile a causa
degli avvallamenti del terreno, senza preoccuparsi del calore del sole. Non
aveva senso andare più velocemente, la giornata e la distanza li avrebbero
traditi. Nemmeno quando, guardandosi alle spalle, vide la nuvola di
polvere che muoveva verso di lui. Non si fermò. Continuò a cavalcare. Un
motore fendeva l'aria.
Non si mosse nulla.
Nemmeno la roana.
Alla fine, per un attimo la macchina e la cavalla procedettero affiancati,
ignorandosi finché la macchina accelerò e andò ad accostare sul ciglio un
centinaio di metri più avanti. La roana fu costretta a prendere la strada,
sbuffando e drizzando le orecchie.
Il conducente si sporse fuori del finestrino, scosse la testa, e fissò il
cavaliere attraverso dei sottili occhiali da sole che non rispecchiavano altro
che il cielo.
«Tu», disse il conducente, con un sorriso, «sei un figlio di puttana
difficile da trovare, lo sai?» Una faccia rotonda, un po' abbronzata. Denti
da pescecane.
Il cavaliere guardò pazientemente verso il basso, senza dire niente.
«Per amor del cielo, Rob, quando diavolo hai intenzione di mettere un
telefono?» Matt Dumont si sfregò le sopracciglia, e appoggiò il braccio sul
finestrino aperto. «Dannazione, odio venire fin qua. È come guidare in una
maledetta fornace.»
Rob Garland mosse le labbra, forse in un sorriso, forse no. «Allora non
venire.» Una voce, molto più profonda del motore, o della notte nel
deserto.
«Come diavolo faccio altrimenti a mettermi in contatto?» Una voce così
piatta, che la maggior parte della gente faceva fatica a sentirla. «Gesù.»
Diede un colpetto delicato alla portiera. «Ti piace? Una Roadmaster. L'ho
avuta per quattro soldi quando il vecchio Davidson ha fatto fagotto per
andare a Los Angeles il mese scorso. Ha comprato delle azioni della
Frazer, ha detto che non voleva essere sleale», ragliò. «Ci puoi credere?
Un banchiere sleale?» Ringhiò di nuovo.
«Ho da fare, Matt. Cosa vuoi?»
«Te.»
Rob grugnì.
«Giuro, Rob, è tutto. Voglio solo parlare. È una cosa così terribile?
Beviamo qualcosa da Dinah, cosa ne dici?»
Nello spostare l'altro braccio, Dumont toccò il clacson con il gomito.
Lo strombettio improvviso fu smorzato dall'oppressione del caldo.
La roana non si mosse nemmeno.
«Non hai bisogno di me, Matt. Diavolo, non ti piaccio nemmeno.»
Dumont piegò la testa e sorrise, mettendo in mostra una fessura tra i
denti davanti. «E allora?»
«Allora non c'è niente che tu possa dire che non abbia già sentito almeno
un centinaio di volte in precedenza. Non mi è piaciuto quando le ho sentite
allora, e sono sicuro che non mi piacerà sentirle da Dinah.» Si portò le dita
alla tesa del cappello. «Guida piano, Matt. Se ti capita qualcosa da queste
parti, non ti troverà nessuno.»
«Tu vivi da queste parti, tu mi troverai.»
Bob toccò il collo della roana per farla muovere. «No», disse. «Non cre-
do.»
«Dannazione, Garland», gli urlò alle spalle Dumont, al colmo dell'esa-
sperazione. «La guerra è finita, idiota. Quando imparerai che i tempi
cambiano?»
Un momento più tardi la macchina accelerò superandolo, col clacson
che suonava, e le gomme che sollevavano sabbia, poi si inerpicò per una
salita e scomparve alla vista.
Rob e la roana continuarono a cavalcare, lentamente come il caldo che
cavalcava con loro.
Era seccato che Dumont si fosse fatto vedere, seccato che la sua quiete
fosse stata disturbata da quel veicolo col muso lungo. Non aveva niente
contro le macchine, ma erano completamente inutili qui fuori, e i cretini
come Dumont guidavano come se avessero avuto il diavolo sopra il tetto.
Sperava che l'uomo non fosse in città al suo arrivo. Non aveva alcun
desiderio di parlare. Aveva già parlato, e combattuto, e corso, e
sanguinato.
Quello era successo allora, adesso era diverso.
Poi superarono un edificio che una volta era stato un deposito di vagoni,
quando la vecchia miniera era ancora attiva, ma le miniere erano vuote
dalla morte di Franklin Delano Roosevelt, e le rotaie erano scomparse da
un pezzo, forgiate in cisterne, il tetto era crollato, le porte erano a pezzi, le
finestre senza vetri, c'erano tracce di coyote nella polvere, e i rampicanti
crescevano dove una volta il macchinista stava in piedi ad asciugarsi la
fronte con un fazzoletto che era quasi lungo come il suo braccio.
Superarono un vecchio vagone che era sprofondato nel fossato, le cui
ruote ormai erano un ricordo, con i dadi arrugginiti, il fondo pieno di sassi
e di erbacce e delle ossa che erano i resti del pranzo di un falco.
Mancavano delle assi: ne aveva prese un paio anche lui quando l'inverno
aveva reso necessario il fuoco.
Superarono degli operai che stavano impiantando dei pali per il telefono,
che tendevano dei cavi, chiedendosi ad alta voce chi diavolo con la testa a
posto potesse ordinare tutto questo, qua fuori in mezzo al niente, in un
posto che non portava da nessuna parte.
Lo ignorarono.
Andava bene.
Un falco in volo si allontanò all'alzarsi del sole.
Le ombre sprofondavano a terra.
Alla fine, senza rendersi conto di quanto tempo fosse passato, portò la
roana oltre le grandi porte aperte dell'unica stalla rimasta in città, scese da
cavallo, e disse a Solomon Winks di trattar bene la ragazza, che di questi
tempi sentiva ancora di più il caldo.
«Non dovrebbe cavalcarla così a lungo in giornate come questa, signor
Garland», si intromise il garzone di stalla, scuotendo la testa dispiaciuto in
direzione della cavalla, parlandogli, liberandolo della sella, afferrando un
panno umido per rinfrescare un po' la bestia.
«Abbiamo camminato.»
Il nero sospirò. «La cavalla ha camminato, lei cavalcava.»
Rob fece una risata tranquilla, dando alla cavalla una zolletta di
zucchero, permettendogli di strofinarsi sul suo torace.
Solomon, che non indossava altro che una tuta da lavoro e una maglietta
senza maniche, versava dell'acqua in un abbeveratoio. «Le dispiace se le
chiedo come mai è venuto, signor Garland? Pensavo che non l'avrei vista
per un altro paio di settimane.»
«Sono venuto a dare un'occhiata, figliolo, solo a dare un'occhiata.»
L'uomo dai capelli bianchi lo guardò di traverso, mettendo in evidenza
una fronte piena di cicatrici, come se qualcuno lo avesse morso nel sonno.
«Lei non dà mai solo un'occhiata.»
Rob si strinse nelle spalle. «Quando ne senti il bisogno ti devi muovere,
tutto qua.»
Diede una pacca sulla groppa della roana in segno di saluto. Poi indicò il
garzone. «Non pensarci troppo, Solomon, mi hai sentito? Che tu ci creda o
no, a volte uno si annoia tutto solo laggiù.»
Solomon annuì.
Rob sapeva che non ci credeva.
Dopo aver preso col palmo della mano un po' d'acqua dall'abbeveratoio
ed essersela buttata in faccia, uscì dall'edificio lungo e alto, annusando gli
odori del fieno e del sudore, del fresco e del caldo, finché raggiunse la
porta che conduceva al retro del negozio dei mangimi. Lo attraversò e
tornò in strada senza salutare l'impiegato e si fermò sotto la tenda con le
frange che non si muoveva.
Macchine accostate al marciapiede, macchine al semaforo nuovo, pedoni
in giacca e cravatta, in jeans e in abiti da passeggio che avevano sostituito
gli abiti da lavoro, quando i loro proprietari avevano lasciato le loro
occupazioni per tornare a casa nel deserto, dall'oceano. Una volta li
conosceva tutti, adesso ne conosceva a stento una decina. Si spostavano, i
giovani lo facevano, andavano nelle città sulla costa, al di là delle
montagne, e nelle città oltre le pianure.
I vecchi si fermavano.
I giovani morivano.
I vecchi no.
E anche il posto non era quasi per niente cambiato, la lunga strada
principale che brillava minacciosamente, mentre il calore in distanza dava
l'impressione che si sollevassero delle braccia fantasma, a nascondere le
montagne, facendo contorcere i pali che avevano sostituito gli alberi, coi
cavi al posto dei rami e traverse al posto dei ramoscelli. Gli edifici erano
prevalentemente in legno, qualcuno di pietra, pochi di mattoni. Le case, le
chiese, la scuola erano tutte sulle strade che stavano alle spalle dei grandi
edifici a due piani che ospitavano gli uffici e i negozi.
Una piccola città distesa nel deserto che aspettava di essere scoperta da
una grande città.
Due isolati più in là, si infilò nella porta del primo ristorante della zona,
il più piccolo, il meno frequentato, con le sue tovaglie di tela cerata a qua-
dri rossi, i ventilatori da pavimento e un bancone lungo la parete sinistra,
dei séparé lungo quella di destra, una manciata di tavoli in mezzo e sul
fondo. Una tenda semitrasparente tirata per metà sulla finestra teneva fuori
il riverbero. Tre uomini nel primo séparé, dei cappelli appesi al muro, nes-
suno ai tavoli.
Nessuno al bancone finché non si sedette sullo sgabello più vicino alla
cassa, lasciò cadere il cappello sullo sgabello a fianco del suo, e prese un
menù che si trovava tra lo zucchero e il ketchup. Mentre guardava la lista,
senza davvero leggerla, dal momento che l'avrebbe potuta recitare a me-
moria, sentì qualche risata sommessa alle sue spalle, dei sussurri scambiati
velocemente e una risata aperta.
Per un attimo chiuse gli occhi.
Ai vecchi tempi, pensò con desiderio, ai vecchi tempi.
In quell'attimo di buio benedetto udì il leggero cigolio della porta
basculante, nella parete posteriore, e i passi di una donna.
«Ehi», disse uno degli uomini, «Ehi, cowboy.»
Quando aperse gli occhi, la vide in piedi davanti a lui, con le braccia
conserte sotto il seno, con una sopracciglia folta sollevata. I capelli biondi
erano tagliati corti. La divisa che indossava era fatta in parti uguali di
macchie pallide e di colore sbiadito da troppo tempo per avere ancora un
nome.
«Ehi, tu cowboy.»
Il suo viso aveva zigomi alti e le guance incavate, labbra scure e spesse,
occhi scuri e raramente spalancati. Una volta avrebbe ballato, avrebbe
detto le parole giuste, fatto le promesse necessarie, qualsiasi cosa pur di
vedere quello che c'era sotto i bottoni che le tiravano sul davanti. Ma il
secolo andava avanti e alla sua età lui si limitava a guardare, a sorridere e
ad aspettare la domanda.
«Sessantadue?» chiese lei, con la punta della lingua sull'angolo della
bocca. «No.»
«Dannazione.»
«Ehi, cowboy!»
Chiuse di nuovo gli occhi, li riaprì, e le scrutò il viso alla ricerca di un
segno qualsiasi.
È il tuo turno, gli rispose lei con un cenno; c'è così dannatamente caldo
per pensare!
Sapeva come si sentiva lei, e fece girare lo sgabello verso il séparé, e gli
uomini con le loro stupide risate mentre gli leggevano gli anni sul viso e
sul dorso delle mani posate distrattamente sulle cosce.
«Mi spiace, vecchio», disse uno di loro. «Pensavamo che fossi qualcun
altro.»
Gli altri due repressero il riso.
«Forse potresti aver ragione», rispose con calma.
Aspettava.
Non si mosse nulla.
Solo il ronzio e il rombo delle pale dei ventilatori negli angoli in fondo.
Da qualche parte, fuori, il nitrito di un cavallo, gli zoccoli che
sbattevano sul terreno duro.
Il più giovane e il più alto dei tre scivolò con facilità fuori dal séparé, la
cravatta leggermente storta, gli ampi baveri che gli facevano sembrare il
torace più piccolo, mentre i pantaloni abbondanti gli regalavano gambe da
gigante. Si muoveva con cautela, scrutando Rob attraverso la polvere
appesa nell'aria come una stella. Quando uno dei suoi amici fece un sibilo
nei suoi confronti, scosse il capo con violenza, una volta, poi si fece
scivolare i pollici nella cintura alta.
«Hai idea di chi sono?» chiese. Aveva lo spazio tra il naso e il labbro
coperto dai baffi, come Douglas Fairbanks e i capelli pettinati all'indietro
come Tyrone Power.
Rob si strinse nelle spalle.
«Clark», disse stancamente la cameriera, «va' da qualche altra parte, va
bene? Non ho bisogno di questo.»
Clark Mitchell le ammiccò, oltre la spalla di Rob. «Dinah, nessun
problema. Sto solo facendo una domanda, tutto qua.»
Il suo compagno rise.
Rob guardava.
Clark si appollaiò sul bordo del tavolo, con un piede che dondolava.
«Allora, hai idea di chi sono?»
La diligenza che correva rumorosamente per la strada tirata da sei cavalli
agitati, una donna e una bambina che indossavano due cappelli simili,
quattro cavalieri su cavalli imbizzarriti. Un uomo che sbirciava da una
finestra, una gran stella d'argento appuntata sul suo gilè di pelle. Rob lo
guardò: poi distolse lo guardo.
«Ehi», disse Clark a voce bassa. Senza gentilezza.
Rob gli voltò le spalle, dette un colpetto sul menù, aggrottò un sopracci-
glio verso Dinah. «Caffè, uova, pane tostato, pancetta e prosciutto, e se ce
l'hai burro.»
«Il razionamento è finito», disse lei, con un sorriso rapido. «Sai, davvero
dovresti venire in città più spesso.»
Lui fece una risata silenziosa, ma non perse l'espressione interrogativa
del suo sguardo.
O l'apprensione.
Non aveva niente a che fare con i tre uomini dietro di lui.
«Ehi, cowboy, sto parlando con te.»
Lei prese il menù dal bancone e lo rimise al suo posto. «Fammi un favo-
re», disse, dirigendosi verso la cucina. «Non fare confusione, sono sola
oggi.»
Una mano si allungò oltre la coscia sullo sgabello e lo fece girare.
Clark sorrise: lì non c'era niente.
«Non sei molto gentile, vecchio, lo sai? Ti faccio una domanda e tu mi
ignori. Come ti aspetti di essere una stella se mi ignori?»
Rob si accigliò.
«Vedete?» disse Clark agli altri. «Ve lo avevo detto che non mi conosce-
va.»
Senza dare la sensazione di essersi mosso, Rob si alzò, afferrò i baveri
del vestito, lo sollevò, e senza sforzo portò il giovane al séparé,
lasciandolo cadere sul sedile. Si sporse verso di lui, adesso aveva una
mano sul nodo della cravatta del giovane, mentre con l'altra la tirava,
facendo un cappio.
«Non mi importa per niente chi sei», disse con calma, «e decisamente
non mi interessa sapere perché sei qua. Toccami ancora, e ti spello. Vivo.»
La faccia di Clark si riempì di chiazze, gli occhi gli uscirono dalle
orbite.
I suoi amici erano a bocca aperta. Il cappio si strinse.
«Sei un tizio della televisione», disse Rob, facendosi più vicino,
parlando a voce più bassa. «Non mi fai impressione.»
Lasciò andare la cravatta con una contorsione e uno scatto del polso, e il
giovane boccheggiò, sputacchiò, crollò in avanti, mentre alla fine i suoi
amici si decidevano a venire in suo aiuto.
Rob guardò in basso verso di loro.
«Avevate ragione, a proposito», disse loro, ritornando verso il bancone.
«Impossibile», disse con disprezzo uno di loro. «Sei troppo
dannatamente vecchio.»
Rob sedette, sorridendo. «Figliolo, tu non sai cosa voglia dire vecchio.»
Tornò a voltare loro la schiena.
Aspettò finché sentì la porta a due battenti fermarsi dopo avere cigolato
a lungo, aspettò finché i passi si allontanarono rumorosamente sulla
passerella d'assi, aspettò finché il rumore degli speroni fu soffocato dal
borbottio tossicchiante di un autobus, aspettò finché il sottile odore della
pistola ben oliata fu sostituito dall'aroma del suo cibo.
I tre uomini se ne erano andati.
Dinah appoggiò un fianco al bancone e lo guardò mangiare, senza dire
nulla, dicendo tutto, mentre lui guardava lei che lo guardava, e
immaginava che ormai dovesse avere circa quarantacinque anni. Non
aveva un marito, lui era andato a combattere nel Pacifico e non era tornato,
forse era morto, forse no; non aveva figli, e non aveva una famiglia di cui
parlare. Aveva il ristorante, tutto qua.
E un paio di volte al mese, aveva lui, sullo sgabello vicino al bancone,
che la guardava mentre lo osservava.
«Rob?» disse, con una voce giovane, incerta e un po' spaventata. Lui
mangiò.
«Solomon è venuto sul retro mente stavo cucinando.»
Lui grugnì. «Quell'uomo parla troppo.»
«Dice...»
Rob la guardò, nient'altro, e lei si girò a prendere uno straccio pulito per
passare un bancone che non era stato toccato da nient'altro che dal piatto di
Rob, e da un leggero strato di polvere.

La taverna dell'Horseshoe, dall'altra parte della strada rispetto a Dinah e


un isolato più in su, si trovava già al suo posto sull'angolo,
apparentemente, quando il mondo si era formato, una miniera d'oro per i
suoi proprietari che prendevano l'oro che i minatori avevano appena
estratto dalle loro concessioni, prendevano l'argento dai viaggiatori che si
recavano in California, prendevano i dollari dai soldati che non avevano
ancora avuto il tempo di togliersi le uniformi e di trovarsi un lavoro.
Non era, e non era mai stato, un posto tranquillo.
I pianisti e le cantanti alla fine avevano fatto spazio a vistosi juke-box, e
sul retro, sotto un portico, una mezza dozzina di uomini stavano vicino a
un polveroso Panoram, scuotendo la testa stupiti, ma senza metterci
nemmeno un altro centesimo. Non si fermarono a lungo. Lo schermo
cinematografico che stava sopra il juke-box era sbiadito, e Rita Rio e la
sua orchestra tutta femminile cantava con un suono metallico e troppo
veloce, le immagini erano striate e mosse. Era meglio sedersi al Deluxe e
guardare lo stesso spettacolo sul grande schermo, era più conveniente ed
era meglio.
Clay Poplar aveva messo la musica cinque anni prima. Quando la
compagnia aveva smesso di produrre queste macchine perché la guerra
aveva bisogno del ferro, del vetro e del rame, non aveva avuto il coraggio
di togliere l'armamentario. Nemmeno quando aveva dovuto giuntare da
solo i brevi filmati musicali.
«Un giorno dovrò bruciare quel figlio di puttana», mormorava, mentre
passava a Rob un bicchierino.
Un orso grigio, con la camicia bianca e il grembiule che riempiva la
stanza anche quando era vuota.
«I tempi cambiano», disse Rob. Bevve. Si godette il fuoco. Picchiettò un
dito sul bicchiere.
Poplar lo guardava di traverso. «Sei sicuro? È dannatamente presto.»
Rob picchiettò di nuovo sul bicchiere.
Il barista versò e si tirò indietro, si diede da fare con qualche bicchiere e
un asciughino. «Mi piace quel cinema, sai? Il Deluxe?»
Rob annuì.
«L'altra sera al cinegiornale c'era una ripresa della Bomba.»
Rob bevve.
«È una cosa infernale, Rob, una cosa infernale.» Si diede da fare con le
bottiglie impilate davanti allo specchio all'acquaforte. «Truman dice che i
russi, che non sono più nostri amici, ...che loro hanno la bomba, non so
come si chiama.» Si diede da fare con il grembiule, adesso la sua voce era
bassa, molto più giovane. «Se loro ce l'hanno, Rob, faranno saltare in aria
il mondo. Quella cosa, la NATO, non vale proprio niente.»
«Non mi dire», gli rispose, lasciando che l'ultima goccia gli si sistemasse
sulla lingua.
Poplar ebbe il buon senso di sembrare imbarazzato quando finse una
risata. «C'è un tizio là fuori di questi tempi, un predicatore. Ha spaventato
Mildred parlando della dannata fine del mondo, sai l'Apocalisse e quella
roba lì.»
«Non mi dire.»
«Non io. A me basta dovermi gestire ubriaconi e puttane. Lascio a lei e
alla sua vecchia quella roba di chiesa.»
Rob si sentiva come se avesse passato la vita su uno sgabello. Si fece
scivolare giù e lasciò cadere un dollaro sul bar. Sistemò il cinturone e uscì
nel sole.

Un uomo piccolo era in piedi nell'angolo all'ombra dei rami frondosi di


uno dei pochi alberi rimasti sulla strada principale. Un manifesto scritto a
mano era attaccato al tronco, indiceva una riunione sotto la tenda, per
l'indomani sera, nella estremità orientale della città, tenuta dal reverendo
Carl Thomas. L'uomo indossava un abito nero, con i pantaloni troppo corti,
e le maniche della giacca che lasciavano vedere i suoi polsi ossuti e dei
polsini consumati. Nella mano sinistra, all'altezza della spalla, teneva una
Bibbia, i cui margini erano rifiniti in oro, e con la mano destra implorava i
passanti, muovendo le dita in modo fluido, costantemente, con fare
languido in questa ondata di calore.
Rob si appoggiò al muro della taverna e guardò mentre l'uomo parlava
bene e con serietà a una mezza dozzina di donne, tutte che annuivano, e
una mezza dozzina di uomini, la maggior parte dei quali erano perplessi.
«Non è una coincidenza che Bestia e Bomba inizino entrambe con la
stessa lettera.» Si portò la Bibbia aperta al torace, con amore, quasi con
estasi. «Non è una coincidenza che il colore del Nemico sia rosso come il
colore del sangue dei bambini piccoli.»
Rob ascoltò mentre la dozzina diventava due dozzine, e un poliziotto di
passaggio ricordò, con fare tollerante, a tutti loro, che la tenda era da
qualche altra parte, la riunione era prevista per un altro momento, che era
ora di disperdersi. Il predicatore sorrise e gli disse che si stava limitando a
passare la Parola a quelli che avrebbero potuto essere a teatro, o in qualche
soggiorno sfortunato dove la televisione aveva messo radici.
La folla si sciolse, con promesse implicite di partecipare la sera
seguente.
Il poliziotto si allontanò scuotendo la testa.
Il predicatore guardò Rob. «Tu ci sarai fratello?»
Rob si staccò dal muro, si toccò la falda del cappello, e si allontanò.
«Colui che vive impugnando la spada, fratello...!» lo inseguì la voce del
predicatore.
Rob si voltò, camminando all'indietro, e sorrise mentre salutava col cap-
pello.
Il predicatore strizzò gli occhi in segno di stupore, poi barcollò verso
l'albero, e lo afferrò con una mano mentre con l'altra si colpì di nuovo il
cuore con la Bibbia.

«Una volta», disse Rob alla ragazzina sull'altalena, «c'erano i bufali e


non si riusciva a vedere il terreno per quanti erano. Milioni, credo. Milioni.
E quando si muovevano, cara... Oh, Cielo, quando si muovevano.»
La rabbia e il tuono intrappolati sotto la superficie, che facevano
imbizzarrire i cavalli e scappare le mandrie, e scuotere i muri dalle fonda-
menta, quegli improvvisi sconvolgimenti della terra a miglia di distanza
dalla mandria in fuga, che facevano scuotere gli alberi, e qualche volta li
facevano anche cadere, la sensazione nelle ossa di un uomo, come se
stesse ascoltando Dio, o il Diavolo che urlavano déntro di lui.
Lui si appoggiò allo steccato del cortile della scuola, con una mano in
tasca, l'altra infilata nella cintura. Aveva il cappello tirato basso, una
gamba incrociata sull'altra all'altezza della caviglia. Intorno a lui c'era più
di una dozzina di ragazzi che ridevano alle sue storie, che ne volevano
sentire altre, e che imploravano l'insegnante perché ancora non lo
mandasse via, erano ancora durante l'intervallo, e questo era più divertente
che giocare a rincorrersi sotto il sole.
La ragazza, che si chiamava Jean, voleva sapere se Dale Evans era
davvero una cowgirl.
«Oh, credo di sì», disse lui, senza preoccuparsi della bugia. La ragazza
non aveva molte cose nel deserto se non il desiderio di andarsene. «Ma
penso che tu sia più graziosa.»
Lei arrossì.
I ragazzi fischiarono.
L'insegnante batté le mani e scosse la testa. «Signor Garland, lei è incor-
reggibile.»
Lui fece una risata. «Questo è il complimento più grosso che mi sia stato
fatto in tutto il giorno, signorina Amy.»
I ragazzi fischiarono di nuovo, e iniziarono a spingersi l'un l'altro. Li
stava ignorando; non volevano che un vecchio parlasse a una ragazzina
stupida, o alla loro insegnante. Inoltre era abbastanza vecchio da essere
suo nonno, per amor del cielo, e lei non avrebbe dovuto guardarlo nel
modo in cui lo guardava.
«Ehi», disse uno di loro. Rob lo conosceva come Pete. «Ha visto la
bomba atomica, signor Garland?»
Tra i ragazzi si fece silenzio.
Jean smise di dondolarsi.
Pete si guardò in giro, all'improvviso timoroso di aver detto qualcosa di
terribilmente sbagliato.
Amy Russell disse: «Non penso che il signor Garland sia davvero...»
«No», disse gentilmente Rob. «Non l'ho vista.»
«Io l'ho vista alla televisione, da mio zio. Era grossa.»
Lui annuì. «Ci scommetto che lo era.»
«Ha vinto la guerra, sai?»
Lui annuì di nuovo. «Lo so.»
«Sembrava davvero spaventosa.»
«Ho visto di peggio.»
Amy sembrava nervosa, e Rob inclinò la testa finché riuscì a vederla,
con il riflesso del sole dietro i suoi capelli ramati, che arrivava quasi, ma
non proprio, a penetrarle l'abito. Quando lei distolse lo sguardo dirigendolo
per un attimo in basso, lui non poté evitare un sorriso, che fece senza
muovere le labbra.
«Il bufalo», disse Jean, facendo quasi il broncio. «Voglio sentirla parlare
del bufalo e degli indiani.»
Poteva sentire il calore, il peso del cielo.
«Troppo tardi», disse. «E troppo tardi.»
Un campanello risuonò nell'edificio, e ci fu un turbinio improvviso di
bambini che correvano, che chiamavano, che si salutavano con le mani,
che ridevano di Jean, che non sapeva che il vecchio sapeva che l'intervallo
era finito.
Amy si avvicinò, nello stesso tempo tirandosi in disparte. «Rob, mi sei
mancato.»
Lui voleva avvicinarsi, toccarle il braccio, ma sulla soglia, in distanza,
c'era una donna imponente. «Tornerò ancora.» Lui rise, e stavolta furono le
sue labbra a fare il lavoro. «Sai che lo farò. Questi ragazzini non ne hanno
mai abbastanza.»
Lei non si mosse. «Sono spaventati, Rob. È tutto quello di cui parlano...
la Bomba. La maggior parte dei loro padri era nel Pacifico.» Lei si guardò
intorno impotente nel cortile deserto. «Non so cosa dire loro.»
«Niente», disse lui.
Suonò un altro campanello.
«Che cosa ci fai qua, Rob? Cos'è...»
Lui si toccò la falda del cappello per farla stare zitta e uscì dal cancello e
scese in strada. Sapeva che lei stava guardando; sapeva che anche altri
guardavano dal prato sul davanti e dietro le finestre protette dalle tende, e
avrebbe voluto che la piccola Jean non gli avesse chiesto come era stato, là
fuori, prima che tutto cambiasse.
Peggio, avrebbe voluto non riuscire a ricordare.
Ma non poteva evitarlo.
Dai falò all'elettricità, dal Pony Express al telefono, dalle ferrovie ai ca-
mion e alle macchine, dalle trincee ai bombardieri, era come cavalcare il
nero quando era giovane. Troppo veloce per riuscire a vedere qualcosa, e
quando arrivavano dove volevano, non era come era stato quando erano
partiti. Che poi era il motivo per cui adesso cavalcava e camminava piano,
prendendosi tempo, assicurandosi di conoscere quello che vedeva prima
che quello che aveva visto scomparisse, prima di ritrovarselo alle spalle
che si allontanava.

Era stato a Los Angeles, a San Diego, aveva preso il treno da Denver a
Saint Louis. Non era, come si lamentava amaramente Dumont con tutti
quelli che lo volevano stare a sentire, un uomo che viveva nel passato, che
odiava il presente e sabotava il futuro. Gli piaceva andare al cinema, il
telefono lo affascinava quanto lo irritava, e più di una volta aveva
benedetto l'aria condizionata nel bar di Clay Poplar. Non che, si corresse,
funzionasse sempre, specialmente nei giorni più caldi di fine luglio.
Ma i tempi cambiavano.
Prima o poi, glielo avrebbe dovuto dire.
Prima o poi, i suoi amici sarebbero arrivati.

Dumont lo incrociò che stava uscendo dal negozio del ferramenta, con
un piccolo sacchetto di chiodi in una mano, un martello nell'altra. Aveva
un corpo rotondo che andava d'accordo con la faccia rotonda, le gambe
corte e due mani piccole e tozze, e il vestito che indossava era troppo
costoso e di sartoria per essere stato acquistato da quelle parti.
«Parlami», gli chiese.
«Sto andando a casa.»
«Ti seguirò come un cagnolino.»
Rob rise. «Sono certo che lo farai.»
In distanza, il grido solitario di una locomotiva, col fumo che si alzava
sopra i tetti perché non c'era vento che se lo portasse via.
Un bastardo stava scavando alla base di un palo per legare i cavalli,
fiutando con insistenza.
Un portatore cinese superava rapidamente l'angolo, li vide, si inchinò e
scomparve alla vista.
«Smettila», disse Dumont.
Rob continuava a camminare. Che l'uomo lo seguisse o no, non poteva
importargliene di meno.
«Ascolta Rob», disse l'uomo, tenendo la voce bassa, avvicinandosi un
po', ma senza toccarlo, «c'è un tizio in città, si chiama Clark Mitchell.
Lavora per la National Broadcasting Company, NBC, come alla radio, vo-
gliono allargare la loro rete televisiva. Sai di cosa si tratta, una rete? La
gente a New York vede lo stesso programma allo stesso momento della
gente di Los Angeles. E tutti i posti in mezzo? Stanno sistemando dei ripe-
titori e delle stazioni locali. Rob, hai visto un apparecchio televisivo, vero?
Gesù, hai idea di cosa sto parlando?»
Rob continuava a camminare, l'uomo poteva continuare o no.
«Almeno dimmi che hai sentito parlare di Ed Sullivan e di Milton
Berle.»
Con riluttanza Rob annuì.
Dumont volse lo sguardo al cielo. «Grazie, Dio, per i piccoli favori. A
ogni modo, questo Mitchell è come un reporter. Lui va alla televisione alla
sera e racconta le notizie. È una persona davvero importante da questa par-
te del Mississippi.»
«Ho già una radio», disse Rob, guardando dentro la vetrina di un nego-
zio, pensando che era arrivato il momento di comprarsi un paio di camicie
nuove. Ne aveva quattro, una aveva troppe toppe per essere usata in
compagnia, e due avevano delle macchie. Usava la quarta solo
occasionalmente.
Più tardi decise, forse domani.
«Qui stiamo parlando del futuro, Rob», insistette Dumont, afferrandogli
il braccio e poi lasciandolo andare come se ne fosse stato bruciato. «Tutto
quello che voglio sono dieci acri, dieci acri pidocchiosi. Cristo, quanti ne
hai? Cinque, seimila? Che sarebbero per te dieci acri di dannata sabbia in
meno?»
Rob guardò in basso verso di lui. «Dieci acri di meno di dannata
sabbia.»
«Molto divertente.» Dumont si asciugò la faccia con un fazzoletto già
macchiato di sudore. «Stiamo parlando della ricchezza, Rob. Tu vendi a
me, io vendo a loro, e poi dividiamo.»
Sull'angolo, Rob si fermò per lasciar passare una diligenza postale, e il
guidatore con il fucile lo salutò toccandosi il cappello. Dentro una donna
con un cappello pieno di piume sorrise timidamente.
«Potrei venderglielo direttamente io», disse Rob, attraversando la strada.
«No, non lo faresti. Ma lo venderesti a me, vero?»
Superarono il negozio di mangime, e Rob si fermò all'angolo dell'edifi-
cio. «No.»
«Perché, dannazione?» Dumont chiese alla sua schiena.
Rob non rispose.
«Gesù Cristo, se lanciano la dannata Bomba, tutto quello che ti rimarrà
saranno cinque, seimila acri dove non riuscirai a far crescere nemmeno
della dannata erbaccia.»
Solomon se n'era andato.
Rob sellò la roana e la portò all'aperto.
Dumont si allontanò dall'animale, asciugandosi di nuovo la faccia. «Rob,
per favore mi devi ascoltare. Mitchell non rimarrà qua per sempre. Se non
prendiamo una decisione adesso, lui sceglierà un altro posto.» Si aggrappò
alla staffa. «Gesù, Rob, devi aiutarmi a uscire da questa situazione. Sei
l'unica speranza che mi è rimasta.»
La staffa si mosse, la mano si allontanò.
«Che Dio ti maledica, Garland! Arrivi in questo modo, a cavallo di quel
dannato animale, e spaventi a morte metà della città.»
Rob si sporse in avanti e diede un colpetto sulla spalla dell'uomo.
«Bene», disse. «Hanno ragione.»
Mentre cavalcava verso il ciglio della strada, un terzetto di ragazzini
passava a gran velocità in una decappottabile.
Risero e suonarono il clacson.
La roana non si mosse.

***

Sedeva sotto il portico e guardava le montagne che diventavano color


del sangue, spesse e scure, mentre il sole si insinuava dietro di loro.
Movimenti tra l'artemisia mentre il deserto ritornava alla vita e il cielo si
riempiva di uccelli con grandi ali sfreccianti che li sorreggevano contro il
vento notturno, finché non cadevano. Come una bomba. Finché le piccole
creature morivano senza emettere un suono.
Bevve dalla tazza di latta, ma stavolta non si trattava di caffè. Sul
portico, vicino alla sedia, c'era una bottiglia, e mentre lui sorseggiava si
ricordò che una volta aveva un sapore così buono, e rabbrividendo si
chiese come mai adesso aveva il sapore della vernice.
Finì la tazza e la riempì di nuovo senza farne cadere nemmeno una
goccia, stringendosi la sua giacca di jeans sul torace, mentre il caldo
finalmente finiva e al suo posto si insinuava il freddo del deserto. Intorno
alla baracca c'erano un'infinità di suoni, passi rapidi e movimenti affrettati,
fruscii, un sasso che rotolava. Nell'aria un odore dolce. Una sensazione
morbida mentre il tramonto diventava rapidamente buio.
Bevve e vide una strada, non qua, giù, vicino a Denver, dove una
mattina stava cavalcando quando era stato fermato da un ragazzino con
una grossa pistola al cinturone. Aveva le cicatrici del vaiolo sulle guance e
un orecchio maciullato, ma aveva voluto provare, era stato insolente e
malizioso, e Rob lo aveva ucciso con un colpo solo, senza nemmeno
scendere dalla sella.
Aveva pagato il funerale.
Aveva continuato a cavalcare, stavolta verso sud, e aveva trovato lavoro
in un ranch vicino alle colline di Santa Fe. Un anno più tardi si era sparsa
la voce, qualcuno aveva iniziato a cercare, e lui se n'era andato.
Aveva passato un inverno in una caverna, e un'estate in una prigione che
alla fine non era più riuscita a trattenerlo, aveva navigato su una chiatta sul
Great River, trainando legno per i battelli a vapore e cotone per le navi,
portando donne per gli uomini che facevano i porti e le dighe. Un anno più
tardi si era sparsa la voce, e qualcuno ci aveva provato e lui se ne era
andato.
Bevve di nuovo e vide le cose con maggiore chiarezza, poi chiuse gli
occhi e vide tutto.
Qualcosa strillò nel deserto appena prima di morire.
I fari trascinavano il rombo dei motori da est a ovest, senza rallentare.
Iniziò a sentire un dolore dietro il capo, lo scosse cercando di scacciarlo.
Non era il momento.
C'erano le stelle, allora, e un ululato come di sogno che lo fece sorridere
gli fece alzare la testa. Sospettava che ridessero di lui, i coyote e i lupi, ma
lo faceva sempre sentire meglio.

***
Amy guidò fino a lui e si sedette sui gradini ai suoi piedi, con la gonna a
pieghe raccolta attorno alle gambe. Parlarono dei bambini, di quelli che
erano i suoi preferiti e di quelli che la facevano diventare matta e di quelli
che si mettevano a piangere perché i loro papà si svegliavano la notte,
udendo gli spari e i rumori dei cacciabombardieri, dei cannoni e delle
granate.
Erano passati quattro anni, e si continuava a morire.
«E adesso questo», disse lei con rabbia.
Lui accese una lanterna e l'appese al gancio che pendeva dal soffitto del
portico. La luce non era tanta, ma almeno lui non stava ascoltando un
fantasma.
«Che cosa?» disse, sedendosi di nuovo, accavallando una gamba sopra
l'altra, sorseggiando dalla tazza che aveva riempito di nuovo.
«Sai quello che voglio dire.» Lei allungò una mano e gli toccò lo stivale,
lo afferrò e tirò finché lui avvicinò la sedia, e lei appoggiò la guancia al
suo ginocchio. La mano che lui aveva libera ondeggiava sulla testa di lei,
sentendola senza toccarla, mentre il fuoco della lanterna era un riflesso del
fuoco tra i suoi capelli. «Voglio dire che hai visto così tante cose, Rob.
Macchine e aerei e più guerre di quante penso che tu voglia ammettere. Tu
sei un libro di storia in movimento, e non lo sai nemmeno.» Quando lei
spostò leggermente il peso del corpo un dito le sfiorò i capelli e si spostò.
«Io sono stata a scuola, e non so niente, e sono io che dovrei dire a quei
ragazzi di non avere paura.»
Lui non riuscì a evitarlo; le toccò i capelli, modellandoglieli sul cranio e
seguendone la caduta fino alla spina dorsale.
Lei sospirò e gli abbracciò la gamba.
I coyote cantarono.
Una diligenza passò veloce come un fulmine, con i cavalli che
sbuffavano e la frusta che schioccava.
Fuori dal buio.
Nel buio.
«Ti odio», disse sognante.
Lui grugnì.
Lei si spostò facendoglisi più vicina. «Perché hanno paura di te?»
Lui non sapeva come rispondere, quindi rimase in silenzio, sperando che
questa volta, con questa donna, non ci fosse altro tempo oltre a quello che
avevano.
Così giovane, e così presto sarebbe stata vecchia.
«Stavo pensando di andare alla riunione in quella tenda domani.»
«Oh?»
Lei rise, solo un po'. «Mi dispiace per quel predicatore, tutto qua. È così
piccolo. Non so se nessuno lo prenderà sul serio.»
Lo avrebbero fatto; sapeva che lo avrebbero fatto.
Lo fanno sempre.
E non sbagliano mai.
Lei si ritrasse e si girò per appoggiarsi al palo, con la luce della lampada
che gettava delle ombre morbide sulla sua faccia, facendola sembrare più
giovane. «Io so chi sei, sai?»
Lui non disse niente.
Lei rise e l'età svanì. «Sono un'insegnante, ricordi? Posso mettere insie-
me le cose, leggere, scrivere e fare cose magiche di questo tipo.»
Lui non disse niente.
«Tu sei un fuorilegge.»
Lui inspirò profondamente, poi espirò lentamente.
Lei scosse la testa stupita. «Siamo praticamente alla metà del secolo, e
abbiamo un fuorilegge vivo e vegeto appena fuori della città.» La lanterna
le si riflesse negli occhi. «Pensavo che fossero tutti morti.»
I coyote cantarono.
«Lo sono», sussurrò lui.
Una folata di vento, la lanterna scricchiolò e si agitò, facendo entrare e
uscire il suo viso dall'ombra.
«È questo il motivo per cui hanno così tanta paura di te? Perché pensano
che tu...»
Un'automobile dal muso lungo accostò dietro la station wagon dalle
fiancate di legno di Amy. I fari tagliarono la notte e si spensero. Il motore
tossì. Sbatté una portiera. Lei si sistemò la gonna, accigliandosi per l'intru-
sione, guardando lui alla ricerca di un indizio su cosa fare, cosa dire, ma
lui si limitò a scuotere la testa, in modo che lei quasi non se ne accorse, si
fece solo un po' più piccolo come se all'improvviso si fosse ritrovato
addosso altri decenni, pesantissimi.
Lei sbatté le palpebre, poi sorrise, e si girò mentre un uomo attraversava
il cortile facendo scricchiolare la ghiaia.
«Signor Garland, buona sera.»
Rob annuì. «Signor Mitchell.»
«Mi riconosce finalmente. Lo prenderò come un complimento.»
Mitchell si fermò quando raggiunse la luce, mise un piede sul portico, si
sporse in avanti, appoggiandosi a un braccio. Buttò il cappello all'indietro,
si toccò il mento. «E lei è l'insegnante, vero? Signorina...?»
«Russell», disse lei in modo compassato.
Lui annuì. «Naturalmente.» Un sorriso a Rob, non da squalo, solo un
lupo. «Mi sembra, signorina Russell, che ci sia una celebrità in mezzo a
noi.»
«È così?»
«Sì, certo. Il signor Garland è quello che noi nel mondo della televisione
chiamiamo una personalità.»
Il suo sguardo non si spostò.
«Davvero?»
«Su, signorina Russell. Mi sta dicendo che non lo sapeva?» Denti da
lupo. «Robert Garland, data di nascita sconosciuta, pena di morte non
applicabile, nessun nome di comodo come Billy the Kid o Six-Gun
Morgan, ha passato parecchio tempo in diverse galere e prigioni in tutto il
West. Per assassinio. Sfortunatamente sembra che non ci sia in giro una
prigione in grado di trattenerlo.»
«È così?»
Mitchell smise di ridere. «È un assassino, signorina Russell. Sono pronto
a scommettere che ci sono ancora dei mandati di cattura col suo nome in
ogni stato a est delle Montagne Rocciose e a ovest del Mississippi. Cosa ne
dice lei, signor Garland?»
«Faccia un colpo da maestro», disse Rob con voce roca. «Chiami la
legge e faccia arrestare un vecchio stanco che si siede a fatica sul suo
vecchio cavallo. Un colpo da maestro.»
«Non voglio farla arrestare, signor Garland. Voglio solo la sua terra.»
La lanterna ondeggiava ancora cigolando.
La faccia di Mitchell entrava e usciva dall'ombra.
«Sa», disse, ignorando Amy adesso, «che ci sono già più di un milione
di apparecchi televisivi nel paese? Ha un'idea di quanta gente veda la mia
faccia ogni settimana? Sa quanta gente vedrebbe la sua faccia ogni sera se
io parlassi di lei?» Abbassò la testa, poi guardò di nuovo in su. «Non ci
sarebbe un poliziotto in questo paese che non conoscerebbe il suo nome.»
Si raddrizzò, lisciandosi la cravatta con il palmo della mano.
Amy disse: «Perché?» Indicò la notte. «Ci sono decine e decine di città
in cui potrebbe andare e ognuna di loro è più grande della nostra. Perché
diavolo vuole proprio noi? Perché sta facendo pressione su Rob?»
Lui si toccò il cappello e si allontanò, guardandosi alle spalle, e disse:
«Perché posso».

Lei gli diede il bacio della buona notte.


I coyote cantarono.

Lui giacque sul letto, con la luce della luna sul torace.
Non pensava di essere un uomo stupido: aveva visto troppe cose per non
sapere che il mondo cambia e i mondi entrano in collisione, che le persone
come lui e Solomon, e Dinah e Clay o si tiravano da parte per conto loro o
venivano spostati, o spinti o mandati via a gomitate, non faceva molta
differenza. Andava così. Un giovane lupo prima o poi ne sconfiggeva uno
vecchio, un giovane bufalo prima o poi si occupava di un toro lento.
Allungò il braccio di lato e raccolse la tazza di latta, si rese conto che era
vuota, chiuse un occhio pensieroso, poi spinse via la tazza di lato.
Raccolse la bottiglia.
Bevve.

Li aveva incontrati tutti, ne aveva amati alcuni, era andato avanti quando
non riusciva più a guardarli morire, quando non riusciva più a sopportare
lo sguardo nei loro occhi o i deboli baci che gli davano, o il tocco tremante
delle loro dita soffici sulla sua pelle, quando iniziavano a farsi delle
domande, e iniziavano, alla fine, a odiarne il suono e la vista, che si
allontanava.
Quando vedeva come funzionava.

Il cielo conteneva le stelle e la luna e le ombre che volavano da un


declivio a un altro.
Il modo in cui funzionava.
Finché una notte ci fu un sole.
Non durò, ma era là, come il vento che infuriava sui declivi e perlustrava
la terra, e niente di quello che aveva camminato là, camminò più, e niente
di ciò che vi era volato sopra esalò un altro respiro.

Bevve.

Quella notte aveva cavalcato là, la notte in cui ci fu il sole, e aveva


sentito il vento e aveva visto il nero che il sole si era lasciato alle spalle.
Non lo spaventò né lo eccitò.
Ma lo intristì, solo un po'.
Ci si era abituato, solo un po': i posti, le facce, le uccisioni e i salvataggi,
il whisky, l'idromele, il vino, l'acqua; le capanne, le torri, le lunghe strade e
i passi di montagna.
Le cavalcate.

Bevve.

***

Tuttavia non c'era mai stato un momento come quello di oggi, nessun
momento in cui potesse finalmente vedere la fine della strada. Terra o
pietra, cemento o sassi, c'era sempre una curva, si attraversava un fiume,
che scorreva tortuoso su una montagna, scivolando in una vallata di cui
non si era accorto mentre viaggiava.
Lo rendeva un po' triste.
Solo un po'.
Non per la fine della strada, ma per loro e perché non sapevano.
Era vecchio.
Era lento.
Immaginava, mentre la luce della luna svaniva, che forse stava davvero
arrivando il momento.
Ma lo rendeva triste.
Solo un po'.

Svuotò la bottiglia.

Dormì.
Non sognò.
Si svegliò quando il sole stava quasi per tramontare, si girò per sedersi,
si tenne la testa tra le mani, e fissò il pavimento.
perché posso
Si diresse alla porta e si appoggiò allo stipite, strizzando gli occhi alla
luce del giorno che stava morendo, guardando i camion e le carrozze,
scuotendo la testa con un semplice sorriso mentre occasionalmente
scivolava avanti e indietro nel tempo, allora e adesso. Quando un lungo
autobus grigio passò senza fermarsi, distolse lo sguardo chiedendosi come
mai Dumont e Amy fossero gli unici a vedere. Non aveva pensato che
fossero così speciali, un imbroglione e un'insegnante, ma non aveva
pensato neppure che quel sole notturno fosse così speciale.
E non lo era.
Non nel modo a cui pensavano loro.
Lui si girò e rimase in piedi nel portico, analizzando l'aria, in ascolto, e
seppe che i suoi amici non sarebbero arrivati quella notte. Per un attimo ne
rimase perplesso, era quasi sicuro che ci sarebbero stati, finché non passò
un camion con parecchie casse sul fondo. Sulle fiancate c'era una scritta.
Apparecchi televisivi. Uno di questi, ne era sicuro, era per Clay Poplar e
sua moglie.
Nessuna bomba qua.
Ma, comunque, la fine.
«Bene», disse a bassa voce. Aveva finalmente preso una decisione.
Si mosse nella grande stanza, raccogliendo le cose che pensava gli
sarebbe piaciuto mettere in salvo, e rimettendole al loro posto, quando si
rese conto di quello che stava facendo. Mentre si muoveva, sollevando la
polvere, respirò profondamente, e canticchiò senza tono, continuando a
toccare, finché il giorno non se ne fu andato. Poi allungò la mano sotto il
letto e ne estrasse una vecchia valigia, con le cinghie di pelle consumata e
le finiture di ottone ossidate. Il cuoio si spezzò quando lo toccò, il
coperchio si deformò quando lo sollevò e lui usò entrambe le mani per
sollevare il nero che stava lì dentro e metterlo sul materasso.
«Bene», disse all'abbigliamento che non usava da così tanto tempo.
«Bene.»
Si spogliò.
Si vestì.
Raccolse il cappello, con la tesa ampia e nero, e uscì sul portico.
I coyote cantarono.
Lui rispose.
Una pioggia di meteore balenò nel cielo bruciando, balenò morendo, la-
sciando nella sua scia tracce di luce senza speranza.
Girò intorno alla baracca fino alle stalle, ancora non completamente
sicuro di dover cavalcare stasera finché non entrò e vide che la roana
giaceva sul fianco nel suo recinto.
«Oh, Signore», sussurrò, tanto per se stesso quanto per la cavalla. Le si
inginocchiò al fianco, e le massaggiò il fianco caldo, suggerendole con un
sussurro che sarebbe andato tutto bene, vecchia mia, tu non ci sarai, non
adesso, non stavolta.
Quando si alzò, con le giunture che scoppiavano, la schiena rigida, un
nitrito basso nel recinto a fianco lo fece girare, sollevare un sopracciglio
senza dire niente, mentre portava il nero slanciato nel cortile e lo sellava.
E, mentre lo faceva, guardava il cielo, guardava la strada, pensando che
c'era ancora qualcosa che poteva fare prima che dovesse fare quello che
doveva fare.
Un passo, e con facilità si ritrovò in groppa al cavallo.
Un complimento, un tocco ed erano in strada, e viaggiavano nel centro,
niente alle loro spalle e niente davanti a loro.
I coyote smisero di cantare.
E immediatamente si fermò alle porte della stalla, da dove internamente
si vedeva una luce.
Il nero attraversò rumorosamente lo spazio aperto, quasi impennandosi,
e Solomon uscì, accigliato, finché non vide Rob.
«Oh, Gesù», disse il vecchio. Si guardò intorno freneticamente, dicendo
a Rob con ogni sobbalzo e ogni sospiro che stava pensando di scappare,
che voleva nascondersi, ma che era terrorizzato a fare qualsiasi cosa che
non fosse di rimanere lì in piedi. Poi si mise una mano sulla faccia finché
smise di tremare. «Avevo intenzione di andare alla riunione alla tenda, ma
tutto questo lavoro... Dannazione, avrei dovuto andarci.» Si sporse a
guardare oltre il nero, si accigliò di nuovo, e scrutò il cortile. «Sei solo?»
«Per un po'», rispose Rob. «Non ti devi preoccupare.»
Solomon quasi si afflosciò per quanto grande era il suo sollievo. «Ti di-
spiace se ti chiedo per quanto?»
Rob rise. «Sei una peste, Solomon. Vuoi sapere troppo.»
«Ne ho il diritto.»
Rob ci pensò sopra e sorrise. «Non molto, per come vanno le cose. Ma
troppo per te. Va bene?»
«Diavolo no. Vivrò per sempre.»
L'uomo sul nero si abbassò a stringere la mano del nero, a lungo e con
forza, e fece girare il cavallo per dirigersi sulla strada principale.
Cavalcando nel centro della strada.
Le luci della strada e delle case e dei negozi si abbassavano mentre
passava, e non tornavano più a brillare.
Si fermò una seconda volta quando raggiunse la taverna dell'Horseshoe.
Scese da cavallo e spinse la porta, senza preoccuparsi del silenzio che
aveva interrotto il pianista a metà di una nota, né delle occhiate che
ricevette dagli uomini ai tavoli sul fondo, vicino al juke-box. Andò diritto
al bar e si sedette su uno sgabello vicino a Dumont. Il barista era un
giovane che riuscì a stento a non rimanere a bocca spalancata quando vide
Rob, poi mentre la sorpresa veniva sostituita da un sogghigno si girò a dire
una parola alle due donne che sedevano all'estremità del bar. Loro
guardarono in su e ridacchiarono.
«Cosa diavolo vuoi?» gli chiese Dumont.
Rob mise la mano nella tasca della camicia e ne tirò fuori un rotolo di
biglietti legati con uno spago. Prese la mano dell'uomo e gli mise il denaro
nel palmo, chiudendogli le dita intorno.
«Esci, Matt», disse, abbassando la voce. «Sali su quella tua bella
Roadmaster, e vattene.»
Dumont fissò i biglietti, sbatté gli occhi una volta, e si alzò. «Da che
parte?» disse, dirigendosi alla porta.
«Non ha importanza», gli disse Rob, mentre buttava un biglietto sul
banco per pagare quello che Dumont aveva bevuto, poi si alzò e lo seguì.
Fuori, senza perdere tempo, si sedette sul nero e guardò Dumont che si
affrettava a correre via, e poi, essendosi ricordato qualcosa di vitale, si fer-
mava, e tornava indietro. Si allungò verso la staffa, ma senza toccarla.
«Perché io?» chiese.
Rob gli fece una smorfia. «Clay è alla riunione.»
«Figlio di puttana.»
«Forse. Forse no.»
Dumont annuì e se ne andò, senza guardarsi indietro, svoltando oltre
l'angolo dove l'albero che reggeva il poster si ergeva da solo tra i rifiuti
delle sue foglie cadute.
Il nero agitò la testa e sbuffò.
Cavalcarono.
Le luci si abbassavano, scomparendo, una o due esplodendo in un breve
bagliore.
Zoccoli, zoccoli metallici, che echeggiavano sulla pietra e sul legno
molto dopo essersi lasciati la città alle spalle.
Vide la luce in distanza, un bianco brillante, reso ancora più brillante dal
fatto che la notte era così buia.
Continuarono a cavalcare.
Oltrepassarono un buco in un improvvisato recinto di corda, oltre il
quale c'erano parcheggiate parecchie decine di automobili e una manciata
di camioncini intorno a un grande tendone da circo. Su alcuni pali vicino
all'entrata ardevano delle torce, abbastanza in alto anche per un uomo alto.
Sui cavi dei tiranti c'erano delle decorazioni. Dei pennoni si piegavano
sulla cima.
Poteva udire una voce provenire dall'interno, ma non riusciva a capire le
parole. Non che avesse importanza. Sapeva quello che dicevano: il peccato
e la corruzione, la salvezza e la dannazione, l'ascesa e la caduta in un
abisso nero avvolto dal fuoco.
Entrò cavalcando, tenendo il nero a freno, quando il centinaio di persone
o più che si trovavano sulle sedie da campeggio si resero conto che lui era
là.
Davanti, su di un palco alto, il piccolo predicatore nel suo vestito nero,
che teneva in alto la sua Bibbia, si bloccò nel bel mezzo di un verso, con la
bocca aperta, gli occhi spalancati, un dito che puntava al soffitto di stoffa.
«Tu!» gridò il predicatore. «Come osi!»
Rob lo ignorò.
Spinse il nero in avanti, nel corridoio centrale, guardando le facce alla
ricerca di quella di cui aveva bisogno.
«Tu! Osi! Nella casa del Signore!»
Amy sedeva nel corridoio.
Lui la vide, sorrise, continuò a cavalcare.
«Vattene, Satana!» ordinò il predicatore.
Quando il nero raggiunse il palco, sbuffò, tese le orecchie all'indietro,
pestò gli zoccoli poi si girò.
Nessuno parlò, nessuno gridò, nessuno pregò, nessuno si mosse.
Rob risalì il corridoio, lentamente, senza un suono, finché si trovò di
nuovo davanti Amy.
Si era mezzo alzata, lasciandovisi ricadere quando lui la raggiunse, si
sporse in avanti e le disse: «Di' a Jean e Pete che i bufali stanno
arrivando.»
Si raddrizzò prima che lei potesse parlare, scrutò le facce finché lo vide,
compiaciuto ed elegante in un nuovo abito gessato, col cappello in
grembo, guardandosi intorno come se tutti avessero dovuto conoscere la
sua faccia.
«Satana!» gridò il predicatore, il primo suono che si udì per qualche
tempo.
Poi il vento iniziò a gonfiare e a far ondeggiare le pareti della tenda, e i
pennoni e le decorazioni si spezzarono, con rumore di spari e di tuono.
Rob estrasse la pistola e mirò a Clark Mitchell.
«Con me», disse semplicemente.
Mitchell rise e si strinse nelle spalle.
Armò il cane.
«Con me.»
Mitchell si lisciò la cravatta, incerto e dubbioso.
Una donna piagnucolò, un uomo brontolò, il vento faceva gonfiare le pa-
reti e iniziò a ruggire nel deserto.
«Non lo dirò un'altra volta», gli disse Rob.
Mitchell lo sfidò solo per un secondo prima di alzarsi e di farsi strada
con tono di scusa lungo il corridoio. «Mi dispiace, reverendo», disse
mentre si rimetteva il cappello. «Non la farai franca», disse a Rob.
Il nero avanzava.
Mitchell indietreggiava.
«Satana, vattene da questa gente!» gridava il predicatore.
Rob si guardò alle spalle, sollevò la testa, e il predicatore si
immobilizzò.
Tu lo sai, pensava Rob, come se il predicatore lo avesse potuto udire, tu
lo sai, ma non parlerai.
Allora Mitchell crollò, e implorò aiuto mentre scappava dalla tenda.
Rob lo seguì senza fretta, fermandosi, una volta all'esterno, per
permettere al vento di dirgli dov'era andato l'uomo. Verso la strada,
sembrava, e il nero iniziò a trottare, mentre la polvere che si sollevava
faceva scintille, e dalle narici e dalla pelle gli usciva il vapore.
I pennacchi si ruppero, le decorazioni si agitavano, una fune si spezzò e
il tetto iniziò a cedere.
Una volta in strada, Rob fece girare il nero verso est e lo lasciò correre.
Non vedeva Mitchell, ma non aveva importanza. Quell'uomo non aveva
immaginazione, avrebbe cercato rifugio nella notte, poi avrebbe cercato di
ritornare quando fosse stato sicuro che Rob lo aveva superato.
Il nero correva. Fuoco e fumo.
E rallentò quando Mitchell iniziò a vedersi, dritto davanti a loro, senza
cappello, con la giacca che ondeggiava, mentre si guardava alle spalle e
cercava di correre più velocemente, essendosi accorto che Rob veniva
verso di lui.
La caccia non durò a lungo. Rob gli si accostò, si abbassò, e lo colpì alla
spalla. Mitchell inciampò sul selciato e sbandò, si rotolò e si mise carponi
in ginocchio, con le mani unite implorando, col sangue tra le dita, mentre
Rob si girava e aspettava.
La pistola ancora armata.
Il sangue copriva il lato destro della faccia di Mitchell, mentre scendeva.
Sassolini e ghiaia gli si erano attaccati alla guancia e al sopracciglio, gli
era venuta via una manciata di capelli mettendo in mostra il cuoio
capelluto.
«Non puoi fare questo», disse Mitchell, tremando così tanto da
barcollare. «Tu non sai chi sono io.»
Rob non disse niente.
«Ci sarà la tua faccia su ogni giornale, su ogni schermo. Non puoi fare
questo!»
Il nero abbassò la testa e la scosse.
«Sapranno chi sei, stupido figlio di puttana!» Singhiozzò e si coprì la
faccia.
Vento invernale.
«No», disse Rob. «Non andrà così.»
Mitchell abbassò le mani, aveva sangue anche sulle labbra e sui denti.
Non capiva: con una mano tesa implorava: «Cosa diavolo ti ho fatto?»
L'uomo sul nero guardava indietro in direzione della tenda, verso le
fiamme che iniziavano a lambirne i lati, cancellando qualche stella, mentre
delle figure minuscole si allontanavano dal fuoco.
«Hai fatto vedere loro la Bomba», disse, girando di nuovo lentamente la
testa. Occhi foschi.
Mitchell deglutì, ebbe un conato di vomito, sputò. «E allora?»
L'uomo sul nero piegò la testa verso la tenda. «Il predicatore dice loro
che si tratta dell'Armageddon.»
«Gesù Cristo. Cosa diavolo significa?»
«Si sbaglia.»
Mitchell cercò di alzarsi, ricadde in ginocchio sulle mani, e si lamentò.
«Pazzo», sussurrò. «Buon Dio, è pazzo!»
«Tu lo sei», gli disse l'uomo.
Tirò il grilletto.
Mitchell si tirò su, la schiena rigida, finché il vento non lo rifece cadere.
Rob aspettò finché un'altra folata fece rotolare il corpo nel fossato, e si
assicurò che Amy fosse sfuggita all'incendio.
Aspettò finché il nero non si stancò di stare fermo.
E allora ricominciò a cavalcare.
Una strada breve, stavolta.
E lo intristiva.
Solo un po'.
1950-1959
Le porte aperte
di Whitley Strieber

Per quanto riguarda le notti, vi avverto che sono pericolose


Di notte il vento cambia e arrivano i sogni
Fa molto freddo
Ci sono strane stelle vicino ad Arturo
Voci che piangono in cielo un nome sconosciuto.
Archibald MacLeish
Epistola da lasciare sulla terra

La meteora tracciò nel cielo una scia di luce, seguita da un ululato silen-
zioso, che lasciò una strana sensazione di vita. Il dottore, un dottore del
cielo, allontanò lo sguardo come se si fosse trattato di una cosa appestata.
Lui inspirò una boccata d'aria suburbana, sentì che gli gonfiava il petto,
sentì anche una leggera pressione sotto il torace che era quella della morte.
Della morte, aliena come la meteora, che arrivava da un posto scono-
sciuto, per andarsene in un posto sconosciuto.
Della morte e delle cose viste. Cosa ne poteva dire?
Cosa poteva dire?
«Ci sono quantità indivisibili di significato, risoluzioni, l'inflessibilità
del peccato, la condizione di inattività dell'anima. Della mia anima.»
Le luci di Princeton brillavano intermittenti lungo le colline, frammenti
di memoria che portavano alla mente i giorni incoscienti e pieni di energia
in cui aveva insegnato là. Inspirò un'altra boccata d'aria, e la fatica che fece
lo colpì in tutto il suo orrore.
«Come fai a resistere, von Neumann», disse al vento. «Von Nooman»,
disse di nuovo, pronunciandolo all'americana. «Com'è possibile che quello
sia tu?»
Il fisico, il commissario, l'ebreo ungherese nell'abito a tre pezzi, l'uomo
più acuto del mondo. Il cattolico.
Si chiedeva se il neoplasma fosse pallido o semitrasparente, o dello
stesso colore del fegato in cui viveva. Poteva sentire un rigonfiamento che
spingeva, poteva sentirne la pressione, come se la mano gentile di un
bambino avesse premuto sulla sua pancia dall'interno, o come una
gravidanza. Si toccò la tempia. «Tipicamente, questo neoplasma estende la
sua metastasi al cervello, spesso collocandosi nella sede della coscienza.»
Mentre se la sfregava, respirava rumorosamente, e sentiva i capelli
muoversi sotto le dita. Un bambino avrebbe trasformato in grida quei
rumori e si sarebbe strappato i capelli dalle radici.
Sospirò alla nuova folata d'aria. Come disprezzava la notte. Dormire era
un tormento, lo guardavano dormire, guardavano dal di dentro, tenendogli
gli occhi addosso, mentre le loro lunghe labbra ridevano con un desiderio
lascivo.
La parte più terribile, comunque, non era quella. La parte più terribile
era il risveglio. Prima, il lento ritorno della coscienza, poi l'improvviso
peso dei ricordi che tornano, poi con un urlo soffocato e l'irrigidimento di
ogni muscolo del suo corpo: essi sono reali.
Tre di loro correvano sul marciapiede, fuggivano. Stanotte ce n'erano
tre. Il loro odore che si posava sull'aria del giardino: come carta che brucia
lentamente.
«Esiste la possibilità che la nostra interpretazione iniziale non fosse
corretta, nemmeno come orientamento. Esiste la possibilità che...»
Dicevano: la sua mente si fa più debole. Dicevano: è un sintomo. Ma
loro non sapevano quello che lui aveva visto.
I suoi colleghi accettarono con delicata condiscendenza il suo ritorno
alla Chiesa. Non riusciva a spiegarsi con loro, perché, per farlo, avrebbe
dovuto rivelare il suo segreto, e se lo avesse rivelato, sarebbe stato come
togliere il dito dalla diga.
Quel dito era la salvezza del mondo: il cancello veniva mantenuto
chiuso dall'ignoranza.
Altrimenti avrebbero cavalcato verso la realtà sull'onda della conoscenza
e questa era la ragione per cui stava morendo. La natura si era accorta della
sua conoscenza e stava rifiutando il disordine implicito in essa,
uccidendolo con il cancro.
Lettera non ultimata al presidente Eisenhower, 1956, Ultra Top Secret:
«Qualcosa nel modo diverso in cui essi vedono la realtà significa che, nel
nostro mondo, alla lettera, non sono reali e devono usare il fatto che noi
crediamo in essi come un ponte. Per questa ragione, il diniego ufficiale
deve essere assoluto e aggressivo. Il pubblico non deve sapere che sono
qua».
Se la gente avesse saputo quello che c'era in fondo al giardino... se
avessero saputo quello che li aspettava al momento della morte, cosa
vedevano i passeggeri, ormai destinati alla fine, danzare nei corridoi degli
aerei che si sfracellavano, cosa entrava in cabina con loro
«... emergenza del traffico aereo...»
prima che cadessero come farfalle spezzate. E poi cosa, poi cosa?
Emergenza...
«Il suo fegato non funziona, dottor von Neumann. Possiamo rimetter-
glielo in funzione, ma lei non si può aspettare una cura definitiva.»
Non vedrà il 1957, 1958, 1959, 1960, sessantuno sessantadue sessantatré
sessantaquattrocinquesei...
Alzò lo sguardo al cielo. «Dio, prendimi. Cristo, prendimi. Vergine,
prendi quest'uomo che ne ha uccisi a milioni.»
«John, il tuo lavoro non è un peccato. Il tuo lavoro è teso a ottenere un
benessere più grande per il mondo. In quel senso è un'estensione del corpo
di Cristo.»
«Ho fatto bruciare a morte quindicimila bambini, padre, e ne ho mutilati
altri trentaseimila.»
«Devi avere fede nel potere del Signore. Devi credere nel suo perdono.
Cristo vuole i tuoi peccati. Portali a lui.»
«Nessuno vuole i miei peccati. Loro vogliono i miei peccati.»
«Vogliono farti sentire così in colpa da farti aprire l'anima alla grazia. Di
questo si nutrono.»
«Essi si nutrono di tutti noi.»
Una faccia scruta nella sua da mezzo metro di distanza e lui vede in 1
questi occhi universali la distruzione dell'uomo. Se i malvagi sono
veramente malvagi, allora tutte le anime saranno consegnate nelle loro
mani, anche le anime degli eletti e dei buoni.
«Non ci credo!»
«Padre, è vero!»
«Dio non può lasciare andare i buoni. I salvati sono salvati.»
«Anche loro! Persino il paradiso è invaso. Dio sta perdendo, non vede?
Ciò che ha creato lo sta distruggendo, e quello è il segreto dei secoli.»
«Prega con me, John. Prega semplicemente. Ave Maria, piena di grazia,
il Signore è con Te...»
«Lei non è niente, è una semplice donna... una piccola ebrea che si è
persa in un passato lontano.»
«È colei che ha contribuito a creare l'essenza. La stella del mare. La
regina di maggio. Lei ha posato i piedi sulla testa del serpente.»
«Parole! Parole sciocche!»
«Le parole sono le fondamenta del mondo. Lui ha fatto tutto con le
parole.»
«La formazione originaria della materia ha raggiunto la massa critica ed
è esplosa.»
«Il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio. Parliamo della stessa cosa,
vedi?»
«Cosa ti succede quando muori, padre?»
«Qualsiasi cosa Dio desideri.»
«Se dà alla tua anima...» S'interruppe, poi distolse lo sguardo, cercando
di nascondere il suo dolore all'arguzia del vecchio prete con la faccia da
bambino. Ma il verbo lo seguì poiché il verbo non era Dio, non più.
Poi in quegli occhi vede il viso di suo padre... e gli occhi svaniscono.
«Perdonami, Signore, perdona i miei folli peccati.»
Anche il prete svanisce, la conversazione di tre mesi prima svanisce,
mentre le dita scorrono lungo le pagine della Bibbia. Adesso è troppo buio
per leggere, con questi occhi che ingannano. «Dio, lasciami tenere il dito
nella diga che la mia mente ha rotto. Lascia che l'inondazione non mi
faccia annegare. Dio, il tumore è così terribilmente difficile da sop-
portare.»
Sta di nuovo male. Il suo pasto è stato troppo abbondante. Allora è la
bile, la bile diventa un veleno che rafforza i suoi sogni di morte... anche i
sogni dei suoi giorni in Ungheria, delle canzoni dell'infanzia, dei sigari e
dei baffi di suo padre, della gioia di correre tra le foglie in autunno. La bile
gli porta la poesia, la bile lo condanna ai suoi ricordi.
Dopo la diagnosi - quella notte tardi - si era svegliato e l'aveva vomitata,
pura e amara. Si era coricato sulle piastrelle del bagno, steso su un fianco
nel suo pigiama grigio, ascoltando l'acqua che finiva di gorgogliare nella
tazza, e poi lo sfarfallio dei lepidotteri contro la lampada del soffitto.
L'uomo più acuto del mondo in quel momento era diventato solo un altro
corpo...
che aveva visto i loro strani abiti blu, le uniformi scintillanti scivolare tra
realtà e incubo...
che aveva sentito il tocco lacerante dei loro artigli e la morbidezza della
loro pelle di cervo.
Seppelliti in una cantina in quell'aeroporto, seppelliti sotto la pista di
atterraggio, sotto l'area di stivaggio della benzina, sotto le unità refrige-
ranti, sotto i magazzini delle armi, dove gli scarafaggi giocavano tra le
incrostazioni delle tubature, essi giacevano in un freddo che mozza il
respiro e in un silenzio dominato dal ronzio dei compressori, mentre le
loro labbra morte racchiudevano quella che sembrava una specie di estasi.
Erano arrivati a causa dell'esplosione della bomba, in qualche modo
attratti dalla sua furia - o si trattava del fatto che un'esplosione atomica è
così violenta che avvelena anche il mondo dell'anima?
Per un certo tempo dopo la diagnosi, aveva lavorato furiosamente. Per
alcune settimane. Poi gli avevano detto di smettere di fumare, e quello lo
aveva fatto sentire in qualche modo nudo, portandolo a vedere in modo più
diretto quello che avrebbe desiderato di non essere in grado di vedere.
Passò del tempo con padre Dubois, seguendo il suo fumare incessante,
ritmico, ascoltando le sue spiegazioni, i suoi raggiri, meravigliandosi ai
suoi racconti di Chiesa, così ricchi, poetici e spirituali.
Si era avvicinato a coloro che avrebbero dovuto essere morti, guidato da
quel brillante soldato di nome Arthur... cosa? Ancora il cervello, qual era il
nome dell'uomo? Arthur... un tenente colonnello nella sua nuova uniforme
dell'aviazione... Exner? E il giovane aveva detto: «Si stanno
decomponendo dottor von Neumann, ma non sembrano morti».
Come poteva un altro mondo essere così strano? Come poteva tutto
quello che lo legava alla realtà essere così diverso, e tuttavia così coerente?
Essi non vedevano niente alla nostra maniera, tuttavia tutto quello che
facevano aveva un senso.
Morto, fuori dal suo corpo, non sarebbe stato al sicuro da loro.
Dottor von Neumann, stai morendo. Dottore del cielo, dottore di questo
mondo minuscolo, ladro dei segreti di Dio, folle Prometeo: stai morendo.
E guarda, c'è qualcun altro là fuori tra le ombre, proprio sotto quell'albero,
tranquillo e accovacciato come un fungo grigio.
La teoria della terra cava. Perry che si avvicinava al limitare nord: «C'è
una vista fantastica, sono sul limitare di un altro mondo, di una grande
fenditura che si allarga dove ci dovrebbe essere il Polo...»
Dottore?
«Avevo la sensazione che fosse qui a collezionare anime», aveva detto
l'ometto. L'ometto che era venuto alla base aerea, un essere insignificante
arrivato da qualche località vicino a Roswell, New Mexico, con quel
terribile segreto in mente. Le vene gli pulsavano nella testa. Aveva grandi
mani che teneva intrecciate, macchie di sudore sotto le ascelle, e stringeva
una sigaretta arrotolata a mano, che lui chiamava una pillola, e il dottor
von Neumann aveva detto: «Non dovrà mai ripetere quésto». E aveva
pensato: «Una persona del pubblico sa la verità». E poi aveva pensato: «Se
parla dovrà morire». Ma lui non aveva parlato.
Lo aveva fatto suo figlio. Il ragazzo aveva parlato in Marina, e nella vita
civile, aveva raccontato storie selvagge sui demoni del deserto.
Scomparso, era scomparso: uno dei tanti. Era morto guardando il fucile in
faccia, morto come se stesse esaminandone la pelle di metallo alla ricerca
di imperfezioni.
Essi avevano lasciato la sua macchina sul ciglio della strada.
«Dottore, siamo qui per raccogliere la sua" anima. La vostra, scusateci.
La vostra anima. Il possessivo arcaico suona più definitivo, non crede?»
È possibile calcolare la velocità con cui un tumore aumenta, e in questo
modo stabilire il ritmo con cui comprime, ostruisce e impedisce. Mentre la
bile si accresce, il sangue diventa detrito di fogna, gli occhi prendono un
colorito giallastro e la pelle diventa olivastra. E il sangue diventa marrone,
marrone come i rifiuti congelati che pendevano dalla coda dell'aereo ad
Anchorage, quando erano andati a vedere... come si chiama? La fonte di
tutti i sussurri, la cosa che veniva dal ghiaccio. Ricordava il senso di
commemorazione sull'aereo, lo stravagante dipartimento della Guerra, no,
è cambiato, il dipartimento della Difesa, cibo, tutti i lussi di quel
meraviglioso Super Connie con la livrea dell'aviazione degli Stati Uniti.
Avevano pensato che avrebbero svelato il segreto dei secoli.
Poi avevano visto la rigida stalattite marrone che pendeva dal fondo
dell'aereo, i loro rifiuti che si erano ghiacciati diventando solidi non
appena erano usciti dalla toilette. Ah, ah, ah, il colonnello Tizio e il co-
lonnello Caio avevano riso, anche il generale Walter, diavolo, come si
chiama, la tua memoria se ne sta andando, aveva riso. Poi avevano attra-
versato la pista per dirigersi alle macchine, altri sigari, altro alcol, e tu
pensi, tu sei il commissario di tutto questo, commissario von Neumann con
il tuo bel vestito, perché sei capace di risolvere complicate operazioni con
la mente...
Puoi misurare l'ampiezza del tempo, il grido incandescente della morte
dell'atomo, la probabilità che Sant'Agostino avesse davvero capito la
natura del mondo.
Tu, il padrone, non sapevi che vedere la cosa significava entrare nel suo
corpo, come aveva fatto Giona, e giacere nel suo esofago pulsante per il
resto dei tuoi giorni, sapendo che essa ti possedeva e che ti avrebbe
posseduto per sempre.
L'avevano portata là e seppellita nel ghiaccio perché anche per loro era
troppo terribile da sopportare, troppo potente perché i demoni la
controllassero? C'era davvero un maligno oltre a Satana, più corrosivo, più
invasivo?
Il prete una volta aveva detto una cosa curiosa: «Dio si adegua al buio. È
l'amore di Dio che produce il fuoco di Satana».
La Città di Dio, il Giardino di Dio: non un posto fisico, in realtà, ma un
luogo fuori della natura del tempo. La terra, lo vedeva ora, non era per
niente un globo: era l'energia del tempo a renderla rotonda e a collocarla
sulla sua rotta perfetta in cielo. In realtà il mondo era un immenso arazzo,
che veniva continuamente tessuto dagli indaffarati vermi della vita. Sì, un
arazzo in un palazzo della mente di Dio: era quello che si intendeva per «si
adegua al buio». L'uomo più acuto del mondo adesso sapeva che il buio e
la luce erano uno il fondamento dell'altro. Dio e Satana erano sposati.
Ed essi guardano la parte della tappezzeria che tu hai tessuto, e non sono
soddisfatti. Tu hai introdotto l'orribile filo marrone della tua arroganza e
della tua ingordigia. Tu hai detto sì, lascia che pubblichi questo, lascia che
calcoli quello, lasciami decodificare il segreto del buio e della luce, che tu
sei uno, che sei sempre stato uno, lasciami quindi essere la mente superiore
che dirige la rivelazione.
Così anch'io ho rubato, come Prometeo, come Eva, ho rubato il tuo
segreto, che dietro la divinità di Dio e la malvagità delle ombre ci sei tu...
Anche i colonnelli lo hanno visto, nell'elegante corpo della cosa, nei
ghiacci del nord. Ed erano ammutoliti per quello che essa rifletteva, non le
loro belle facce, ma le loro vecchie anime grottesche. Avevano visto tutti
che erano in qualche modo parte della cosa, che l'avevano aumentata e
fatta crescere fino a che aveva modellato dei macchinari forgiandoli dai
dannati e li aveva fatti volare nei cieli del mondo. Questo alla faccia dei
colonnelli e delle loro macchine e dei loro sigari. Invece di essere uccisi
erano stati chiusi in un manicomio senza finestre, accuditi da infermiere
sorde. Un compromesso tra il presidente e l'uomo più acuto del mondo.
«Gli spari, generale», aveva detto quando avevano iniziato a scivolare
nei cieli: detto con acida ironia. Ma la povera stupida creatura aveva
replicato: «Dannatamente giusto!»
Ed eccoli gli aerei... che volano alti, così terribilmente drammatici, che
attraversano i cieli del 1951... pilotati da giovani con le guance luminose,
che leggono romanzi in formato tascabile e masticano gomma... giovani
che pensano ai Brooklyn Dodgers e ai St. Louis Browns... che portano
nelle loro pance di metallo la fine del mondo...
Noi applaudiamo. Sferragliano, sferragliano, di qui e di là sferragliano.
Alla radio nella sala di raduno suonava Blue Moon: Blue Moon, era di
Dorothy O'Shea? L'irlandese di Manhattan.
Cara, il cibo delizioso di Manhattan, Manhatta, la parola indiana... tutto
andato. Con la celebrazione dei suoi vari ...ati, professorato, com-
missariato... nave affondata, gli aerei che venivano portati fuori, le bombe
che venivano fatte sfilare, i reattori atomici che venivano scoperti, adesso
si perdevano in un'unica immagine offuscata di uniformi e nel forte odore
di sidol che emanava da questa collezione di ufficiali.
Si lasciò cadere su una sedia da giardino in ferro, resa umida dalla
rugiada notturna. Il suo lungo respiro successivo gli portò il profumo delle
foglie... il Progetto Manhattan, dove avevamo scelto le foglie della morte,
decodificando, decodificando, calcolando, trovando l'equilibrio della
giustizia atomica... mentre essi affamati guardavano dagli alti cieli...
sperando che riuscissimo nel nostro intento.
Desiderava così tanto accendere un sigaro, che fece il gesto di toccarsi i
fianchi alla ricerca del coltellino e dell'accendino, poi si mise la mano nel
taschino alla ricerca dei cubani dolci che avrebbero dovuto trovarsi là.
Concentrata al massimo nel suo tumore, in questa calda notte estiva, ci
deve essere tutta la storia del pianeta. In ogni tumore. E quelle meteore
erano solo pietra e ferro provenienti da un pianeta lontano o erano davvero
dei cancri volanti, che cercavano per tutto il cosmo una vittima da
infestare?
Non ne era sceso uno, librandosi nel giardino sul retro, per poi scivolare
sfrigolando tra l'erba?
No, di certo no.
Non era volato tranquillamente dentro dalla finestra?
No.
E aveva proceduto lungo il corridoio, sputando quando toccava il muro?
No.
Lasciando un fumo che puzzava di pelle umana bruciacchiata?
No.
Non era entrato in camera da letto?
No.
Sempre più vicino
NO.
Sul sottile strato di pelle tremolante...
NO!
E poi... dentro. La siringa veniva inserita: ecco, John, non è doloroso, è
solo sgradevole... lei con il suo lino bianco strusciante nel pomeriggio
caldo, nel profondo pozzo di marmo della toilette, in ginocchio, con le
natiche nude esposte alle sue attenzioni da contadina... Magda profumava
così, aveva il sapore profondo, acuto e dolce di tutta la carne.
Magda, un'ebrea... soffocata, emerge dalla morte e dai ricordi di casa.
Che lo aveva curato, lavato, spazzolato, si era occupata di lui, lo aveva
tenuto sul suo enorme ventre e gli aveva fatto capire che ogni donna, ebrea
o no, porta dentro di sé la presenza luminosa della Vergine. «Dio e Dea»,
aveva detto Magda. «Lei è sua madre e sua moglie.» Magda, un'ebrea
cattolica pagana. Il padre di lui aveva ridacchiato e aveva detto che
avrebbe dovuto imparare il catechismo da un prete.
Magda sotto la pioggia, con le sue grandi mani che davano conforto, si
appoggiava allo stipite della porta, inspirava l'aria profumata dei meli in
fiore, mentre essi salivano lentamente schiamazzando sulla spina dorsale
d'Europa...
Come è difficile trovare i propri peccati in questa vita. Magda non era
una mia responsabilità; era una serva a pagamento, lo erano tutti.
Dio, ce ne siamo andati: prima i comunisti, poi la Guardia di Ferro che
calpestava il raffinato impero austro-ungarico della mia infanzia.
Dio, ci siamo lasciati i nostri servitori alle spalle.
Dio, penso di aver amato questa Magda che mi ha accudito, che mi ha
cresciuto, portato in spalla, che ha dormito su un letto di cenci a fianco
della mia culla. Ricordo... o è il cancro a ricordare... il sapore preciso del
suo latte.
Potete crederci che adesso l'Ungheria fa parte dell'impero di Stalin? È
stato bravo a prendersi i magiari, a rubarli a se stessi. Oh, quel mostro dai
grandi baffi che si riempiva la pipa...
Con i suoi aerei. Tu, Giuseppe. Harry lo chiamava lo zio Joe. Ike no.
Non si fa illusioni su di lui. «Quei russi erano come animali.» Nessuna
illusione: «Gesù Cristo, John, non riesci a farmi una bomba più grande? E
più in fretta, per amor del cielo, farla più in fretta? Costruisci le attrez-
zature, chi se ne importa se perdono? Sei un patriota o no? Costruisci, per
amor di Dio!»
Costruire strutture imperfette, signore, dove fare alchimie che avvele-
neranno i secoli a venire, signore?
«Autorizzo la costruzione di grossi edifici grigi pieni di ventilatori e
orifizi e condotti, e al diavolo i bambini di quel parco!»
Il plutonio è così complesso che è come una specie vivente, con bisogni
e diritti e desideri, persino morali ed etici, e una coscienza che si basa,
come la nostra, solo sulla propria sopravvivenza.
Rocky Flats, oh, Dio, è così imperfetto. Anche Oak Ridge, che ironia
questo nome bucolico, è imperfetto. Orifizi che si aprono sull'ampio
pomeriggio blu, un cigolio metallico, e i ventilatori che succhiano, suc-
chiano, succhiano e un millesimo di grammo che vola in quel mondo da
cartolina che sta fuori, pieno di lunghe macchine blu e pallide case, che
risuona delle canzoni della Principessaprimaveraestateautunnoinverno e
della vecchia fattoria, e gli irrigatori che sputano e il sole che risplende sui
campi di pomodori... a Oak Ridge, dove la tarda notte ha portato il ritmo
furtivo della fornicazione, e le donne cariche di bambini passavano con i
loro cesti della spesa riempiendoli di cereali e di bistecche al sangue e di
litri di latte e succhi di frutta e corn flakes e biscotti, e su tutti loro il
marchio della bestia, che aumenta e diminuisce con il rossore delle guance
e appare nello sguardo limpido di occhi molto felici.
Terra di orgoglio e libertà.
Ike: «Siamo qui per proteggere quei bambini, dottore. Mi dia delle
bombe più grosse! Adesso! Ieri!»
E come sono carine le nuove bombe all'idrogeno con la loro linea
affusolata e con le loro pinne argentee, che navigano attraverso il silenzio
blu del Pacifico, ammiccando come foglie d'argento nel ventoso cielo
tropicale. E sono anche carini i ragazzi che guardano con quei loro occhi
chiari, da americani, mentre fanno bolle con la gomma e nella loro testa
navigano i risultati del baseball considerati come perfetti numeri divini.
Si tratta della morte della luce. Le luci si spengono in tutta Europa...
adesso le ricordo, le luci nelle sale da ballo di Pest, di Vienna, di Berlino,
dei caffè concerto spumeggiami e le arti di noi ebrei. Giudei. Judenratt.
Osweicim. Il desiderio di neve fresca che devono avere avuto i miei servi e
i miei amici. Da ebreo a cattolico a von. Von Neumann. Padre nostro che
sei... Cristo, ok, rinunciamo, lui è il messia.
«Padre, perdonami.»
«Dio perdona.»
E più indietro, durante la prima guerra, come avevamo sofferto per la
mancanza del caffè e dei vini dolci e freddi della campagna del Reno, per
lo champagne francese e per le nobili paste del nostro impero... e dopo, i
pettegolezzi fatali dei fucili.
Buda nel 1918: una città resa vecchia da tre anni di fanfare, all'im-
provviso nebbiosa per il carbone grezzo e i pezzi di legno che bruciano e
rendono grigia e triste anche la neve che scende. E nella tristezza, una
sottile specie di nobiltà; e in alto, in alto nel cielo, ho visto aerei argentei
come fantasmi di un futuro... che è arrivato in modo estremamente velo-
ce... muoversi silenziosi e improbabili sotto la vasta cupola nuvolosa.
E adesso, America: «Mi considero l'uomo più fortunato del mondo...»
Lou Amyotrophic Lateral Gehrig, la voce che ha inaugurato il futuro, che
echeggia come in una cattedrale fatta di parchi vuoti, mentre i nervi emet-
tono il ronzio della danza sclerotizzante e fatale di un'intera nazione.
Perché la sclerosi era stata liberata, era fuggita con me, era venuta con
me, nel mio viaggio mistico nella natura più profonda del paese, arrivando
come me in un aeroplano d'argento proveniente dal futuro, portando (con
me) fino alle colline di Hollywood con le sue case dall'architettura a sbalzi,
i suoi fruscianti vestiti blu e le sue lunghe macchine, le crudeltà
dell'Europa che rapidamente, senza far rumore ricoprirono tutto di una
tristezza senza tempo.
Pensava spesso a Lou Gehrig, che era morto per la più terribile di tutte le
morti. L'uomo più atletico del mondo era stato ridotto un micron dopo
l'altro alla più assoluta paralisi mortale fino a giacere, immobile e silen-
zioso, con gli occhi infossati e chiusi a sognare la più alta, la più lontana,
la più sorprendente corsa alla casa base. È morto come morirai tu, mia
terra adottiva. Sorridendo, apro le mani. In esse, vedo il bagliore pene-
trante del plutonio. «Ho la tua medicina.»
Naturalmente l'uomo più acuto del mondo era anche il più pericoloso.
Sedeva con i piedi nell'erba, guardando le giunchiglie sparse nel giardino,
dolci ombre silenziose nel buio. Era seduto anche in quell'aeroplano
d'argento del suo primo approccio e pensava: Oh, Adolf con la tua colonia
Guerlain e coi tuoi sigari clandestini, con gli occhiali cerchiati d'oro come
quelli di Harry, ma più segreti, hai scortato i nostri figli nei sotterranei
incrostati delle tue sale, e noi ebrei, mettendo insieme questo e quel
piccolo ingrediente, abbiamo risposto con la bomba.
Nel senso più terribile, lavoriamo per Dio. Lavoriamo per Dio, noi che
abbiamo menti troppo eleganti per sopportare Dio, lavoriamo per una
ragazza di dodici anni con i capelli color del grano e labbra come le rose di
Sharon, che negli anni di mezzo della tua vita, caro Adolf, è rimasta nuda
in piedi, coi capelli color del grano brulicanti dei tre stadi di vita del
pidocchio, ad ascoltare nel buio il rumore dei cristalli che cadevano e poi
le grida acute di altri ottocento bambini con i capelli color del grano e le
labbra di Sharon, a provare il gas, pensando terrorizzata, nell'ultima
umiliante confusione, che l'argento della fibbia della cintura Gott mit uns
dell'uomo gentile che l'aveva spinta dentro fosse un talismano di
liberazione. E quindi tese le mani in alto all'occhiolino che mille e seicento
altre mani stavano grattando e pensò di aver visto brillare dal suo
Hakenkreuz lucidato un'altra luce...
La luce che avevo nella mente luce d'acciaio
luce dei peccati d'Europa e del giovane viaggio dell'America
luce blu ardente della valle di Sharon.
«John, prenderai freddo.»
Voce? Reale? No.
«Adesso puoi avere un po' di cognac.»
«Sì.»
Deferente, conscio che il soggiorno illuminato avrebbe buttato delle
ombre sulla sua pelle da notte delle streghe, cosciente che tutte le donne, le
cui mani presto avrebbero lavato il suo corpo morto, gli avrebbero lanciato
quelle occhiate terribilmente codarde, lui si muove obbediente verso la
porta. E continua anche l'altro viaggio che sta compiendo, portando le
ombre della vecchia Europa nel sole dell'America che rapidamente
diminuisce d'intensità.
Oh, America, non ti conoscevo allora, ma adesso siedo su di te, tra-
sportato dalla tua gioventù con ali d'argento nella mia missione di morte,
questo vecchio con un forte accento, pieno di cancro, con la figura
leggermente arrotondata e con i suoi abiti di sartoria, lui che può parlare
con Ike, come tu parli con Charlie di Charlotte, oh, America.
Strana creatura nata dalla morte dell'Europa, sono venuto a divorarti con
il mio veleno atomico.
Ike aspira una sigaretta, questo uomo fiero, intenso, questo Ike sorri-
dente. «Cosa ne direbbe di darmi due bombe al mese? Non può essere così
difficile. Due al mese.» Si gira nella sua sedia girevole di pelle, guarda
fuori verso le rose del prato della Casa Bianca. «Dannazione, penso che sia
ubriaca», dice con la convinzione biascicata di un prete. Una donna
quadrata, piccola, si muove sull'erba come se stesse cercando un orecchino
perduto.
«Signor presidente, non abbiamo le capacità per raddoppiare la pro-
duzione in un anno.»
La sedia si rigira rumorosamente. Gli occhi, adesso umidi, lo guardano
con la tristezza senza paura di una pantera all'angolo. «Stalin verrà qua, e
avrà bombe a migliaia.»
«Signore, questo è...»
«Non mi dica che è impossibile, Johnny! Non ci pensi nemmeno. Le
dico io cosa è possibile!»
«Avremo sessanta bombe per la metà del '54, signore. Sessanta.»
«Garantito? Sicuro?»
«Sono io l'amministratore delle bombe.»
Io, l'amministratore. Commissario della commissione per l'Energia
atomica. Perché? Ero un sognatore troppo bravo, così bravo che hanno
messo me, uno straniero, a capo di tutti i sognatori.
«Dottor von Neumann, sto chiedendo se la commissione per l'Energia
atomica garantisce al presidente sessanta bombe atomiche in grado di
funzionare per il 1° gennaio 1954. Qual è la sua risposta?»
«Vagando e sognando giù per Moonlight Bay...»
Il cancro dice: «Ehi, sognatore».
Il cancro dice: «Cosa ne diresti di un musical su di me?»
Il cancro dice: «Lo puoi chiamare... ehm... vediamo... forse lo puoi
chiamare, Signor Lento».
«Vieni dentro per il tuo cognac, John.»
Giù per Moonlight Bay.
Nessuno sa niente della sensualità della morte, che è una delle cose più
terribili del morire lentamente. Cadere da una montagna, svegliarsi in un
incendio, essere schiacciati da una cassaforte che cade: queste sono le
morti di coloro che sono benedetti.
Le morti lente appartengono a noi maledetti, in grado di vedere gli strani
demoni infantili che vedo io farsi più vicini... sempre più vicini... vederli, e
vedere a un milione di chilometri di distanza la gente normale che naviga
in un arcobaleno che io non posso toccare.
Il frutto dell'albero della conoscenza: mi ci sono ingrassato e li ho visti, e
ho visto la cosa che è peggio di Satana e meglio di Dio e così ho perso
completamente la mia collocazione. «Tutto quello che sono riuscito a fare,
padre, è stato ficcare il dito nella diga, proprio quel dito che aveva fatto il
buco!»
«Non ti seguo.»
No, sicuramente no, perché se così fosse, la farei uccidere per la sua
stessa sicurezza e per la salvezza del mondo. Più sai, America, più spro-
fondi.
«Padre, cosa può fare uno che ha un peccato che non si può confessare?»
«Per ricevere l'assoluzione, tutti i peccati devono essere confessati nel
confessionale. Non possiamo semplicemente dire: 'Ho peccato, assolvimi'.
I peccati devono essere raccontati.»
«E se il racconto in se stesso è un peccato?»
Il prete, alla fine, era stato zittito. Non aveva risposta, e John von
Neumann seppe in quel momento di essere perduto. Lui, tra tutti gli uomi-
ni che erano mai esistiti, aveva commesso un peccato imperdonabile.
Nella morte lenta c'è passione, c'è liberazione, c'è un'orribile sensualità.
Perché pensate che le pubbliche esecuzioni vengano fatte da puttane?
Perché il corpo morente arrivava al rapimento mentre il cappio si stringeva
o il gas sibilava? Perché sembrano rapiti, quelli che hanno dato la vita?
Essere tagliato fuori dall'atto del respirare - soffocato, avvelenato,
spappolato - rappresenta anche un piacere per il corpo e allora il vecchio
malato di cancro diventa sensuale in modo rivoltante. Dopo che lui ha
finito con la moglie, lei vaga nelle profondità della casa. Ben presto lui
sente dei rumori soffocati e si accorge che sta vomitando per l'effetto che
le fa.
Lui la ama comunque.
«Vieni, faremo un fuoco.»
«Arrivo.»
Allora, in un silenzio di tomba, dalla finestra nera della casa accanto,
una voce... è inglese, inglese... all'improvviso capire sembra importante...
cos'è Gillgillyosenfeffercastenellenbogen vicino al mare? Ah, una
canzone. Una canzone alla radio. Se ho mai avuto bisogno di te, ho
bisogno di te ora... Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora...
Si sposta lentamente più vicino alla casa, con indosso il suo vestito nero
con il panciotto, con la catena d'oro del padre che tintinna minac-
ciosamente. Se ho mai avuto bisogno di te... È un valzer, meine Liebchen?
Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora... Mi sento così
completamente solo, da non sapere cosa fare.
Diavolo di un Prometeo, tramandato nei secoli da uno scienziato al-
l'altro, come un virus della mente... il dispiacere prometeico... ladri del
fuoco... prendimi tra le braccia e non lasciarmi mai andar via... Oh Dio ci
sei... dormono tutti, quindi va bene...
Trova un'altra panca, qui lo raggiunge un profumo di fiori senza nome.
Le jacarande che fioriscono di notte, o no, non si può trattare di loro, le
jacarande sono californiane. Non ci sono jacarande a Princeton.
«Cosa sta fiorendo?»
«Parla, John. Stai dicendo che sei malato?»
«Che fiore sta fiorendo?»
«Non ci sono fiori adesso. Entra. Entra.»
Formalmente, come potrebbe fare il papa, distese la mano verso le voci
smorzate che provenivano dalla radio, America, salvami, ba ba ba boom.
America, mi hai travolto. Adesso è arrivato il momento, America, fa'
l'amore con il mio sarcoma.
Hai l'odore di un cancro al fegato, sì, e nel reparto oncologico, c'è un
odore combinato di esterasi marci, di decomposizione chimica unito al
puzzo della pelle biliosa.
Cosa si fa, dal momento che non è possibile fermare i tumori? Li si
devia. Si costruiscono piccole aperture temporanee per far scorrere la bile.
Un'apertura qua, un'apertura là. Ti aprono dappertutto.
Sente di nuovo i rumori in fondo, vicino al cancello. Si affretta, arriva a
un altro punto debole, e si prepara a chiuderlo.
«Oh, sta ritornando dal sentiero!»
Si è dato il compito di camminare avanti e indietro in questo piccolo
giardino europeo nel bel mezzo dell'America, di camminare, presidiando il
posto contro di essi nella notte.
«John, ti devo chiedere di entrare.»
«Ci sono dei bambini qua.»
«Entra.»
«Solo un altro momento.»
Essi opprimono questo ebreo che è arrivato dopo le lunghe ondate
migratone su una nave d'argento, proiettato nella grandezza dei cieli,
portando il fuoco nelle mani di questi Amerikaner felici... di queste per-
sone migliori... bum bum bum Mr. Sandman, portami i tuoi sogni... con le
loro gomme e i loro libri tascabili che non metteranno le persone in fila per
provare la bomba su di loro...
Come ha fatto Giuseppe... trentaseimila morti all'istante. Cosa si aspet-
tava, mettendogli addosso delle stupide divise e mandandoli fuori a fare
delle «manovre atomiche»?
Ma noi, i sostenitori di Prometeo... Noi non avevamo bisogno di
manovre, noi avevamo città intere su cui provare le bombe. Terra spoglia,
più bruciata di quanto non avrebbe mai dovuto essere.
Le anime di Hiroshima e Nagasaki: nei suoi sogni peggiori se ne sono
andate persino le anime.
«Salve, dottor von Neumann.»
«Buona sera.»
Si sta dondolando sul cancello, con le labbra pallide di Sharon che
ardono di ardore notturno. «C'era lei alla radio.» Dice raadio.. aahdio.
«Ah.»
«Lei è l'uomo più acuto del mondo.»
«Ah, ah! Allora non hanno parlato a Herr Doktor Einstein, non credo.»
Lei allunga le mani, piega le dita, ordinandogli di avvicinarsi. E lui va
con trepidazione - conosco un posto buio e isolato - sì, a causa della
terribile debolezza del corpo e per il terribile abbraccio in cui lo avvolge la
morte tentatrice, e sente immediatamente un fuoco elettrico bruciargli
dentro, che è il bisogno del corpo di lasciarsi dietro il suo seme, che sulla
terra è la cosa più vicina all'amore di Dio - ricco, umido, odoroso, sen-
suale, che lecca, succhia, sfrega, grida l'amore del caro vecchio Dio al
centro protuberante, scuro e imploso, di ogni cosa...
«Perché non indossi semplicemente una camicia?»
«Sono un gentiluomo.»
«Oh.»
Lui sa che lei si sta facendo domande sul suo corpo, e come reagirebbe
se lo vedesse? Naturalmente farebbe emergere la sua Magda, non la sua
Lorelei. Arriverebbe con un sorriso, con le braccia lisce incipriate dal
crepuscolo, gli occhi resi più scuri dall'infinito, dicendo: «Vuoi un pezzo
di gomma?»
Oh materna Magda, ho tanta paura. L'avevi anche tu mentre ti gasavano,
paura? L'avevi quando le luci si sono spente con un rumore sordo,
elettrico, e l'avevi quando i cristalli di Zyclon-B hanno iniziato a scendere
sbatacchiando come pioggia dura, molto dura? L'avevi quando hai sentito
le grida soffocate di tutte le Magde d'Europa e l'odore del cloro e la puzza
dell'urina e delle feci che si liberavano, mentre la tempesta di donne urlanti
intorno a te muoveva dita tremanti sulle serrature e sulle prese d'aria?
«Come ti chiami? Immagino che tu sia la figlia del mio vicino, il signor
Chilton?»
«No.»
«Allora...» Si interruppe. Il sudore gli usciva da tutto il corpo. Dita
d'acciaio gli chiudevano la gola.
«Chi sono io, Jancsi?»
Non c'è risposta. Ma come hanno fatto? Come hanno potuto venire qua
in questa forma terribile, nella forma di una ragazza che ha disceso la
lunga rampa verso il buio?
Di nuovo il sorriso. Le labbra si allontanano dai denti come ali terribili, i
denti stessi sono lunghi e bagnati, la lingua all'interno regge un occhio di
cristallo.
Essa.
L'hanno trovata nel deserto vicino a qualche squallida immenzionabile
piccola città. Essa è comparsa nella forma di una macchina sventrata che
ha vomitato larve nel terreno. Larve provenienti dallo spazio, larve pro-
venienti dall'aldilà, larve provenienti proprio dal centro del suo fegato...
«Vuoi sederti? Con me?»
Non posso, non oso dire di no. «Io... naturalmente...»
Così si siedono sull'ultima panca che ha sistemato qui con le sue mani
nel '49... era d'estate? La Panca della Guardia in fondo al giardino, al
confine del mondo. «Jancsi, sta' calmo. Siediti, siediti.»
«Sì, mi siederò con te.»
Lei lo conduce, si siede, si siede anche lui e rimane in attesa, lei lo tira
giù in modo che lui giaccia sulla panca con la testa sul suo grembo, e lui
guarda in su come se avesse guardato la Magda della sua infanzia, la
Sylvia Maria della sua gioventù, i lunghi colli e l'orgoglio di queste donne,
i cui tratti, nei gentili visi divini, sono stati toccati dall'ombra dell'anima
più di quelli di qualsiasi uomo.
«Mia mamma e mio papà dicono che sei malato.»
«È così, bambina.»
Lei posa dita leggere come zanzare sulle guance di lui. Un'altra mano
giace sulle mani congiunte di lui. I suoi occhi sono chiusi da altre dita e
altre dita gli toccano il collo... non è abituato a dita che lo tocchino inti-
mamente, non fa parte della sua storia... adesso è nudo, un bambino incerto
in grembo alla dea dell'enormità con i capelli nel cosmo delle stelle, con
gli occhi che riflettono un'infinità di case e focolari, con i denti che
stringono affamati il cibo dell'anima.
Ed ecco che da lui proviene un grido. Un grido. Un grido e...
«Jancsi?»
C'era una storia su di lui che aveva fatto il giro di Princeton, terra delle
menti elette, che non era un essere umano ma un semidio che aveva fatto
uno studio dettagliato sugli esseri umani e che li poteva imitare
perfettamente.
È ironico che adesso sia davvero nelle mani di un semidio, un demone
ridacchiante nelle vesti di una ragazzina i cui capelli biondi come il grano
portano in sé il sottile odore intorpidente dello Zyklon-B.
Le famiglie di Budapest della ricca borghesia come la sua avevano in
generale posto una grande enfasi sullo sviluppo delle capacità sociali;
modi cortesi e affascinanti erano coltivati come strumenti essenziali per
avanzare avanzare, i bombardieri che avanzavano sopra la terra fumante,
l'avanzata dei gloriosi eserciti dei bombardieri. Ecco i fucili... ecco gli
aerei...
Gli uomini nel B-36 che ascoltano WEAF alla radio mentre armano le
bombe. «Il grassone è su. Tre. Due. Uno. Armata. Prepararsi alla conse-
gna. Aprite le porte... porte aperte...»
Nel luminoso pomeriggio azzurro, le porte si aprono sulla faccia della
terra, la terra che sorride al cielo, il cielo che le sorride di rimando e questo
demone di scarafaggio ronzante pieno di uomini di Jackson, tifosi dei
Chicago Cubs, e indiani sradicati che vivono a Cleveland... «Ehi, ragazzi, i
Cubbies ce la faranno a vincere il campionato.»
«No, assolutamente no, vinceranno i Reds.»
«Vuoi scommettere? Siamo a Hiroshima?»
«Sì. Ci siamo. Noi... conto alla rovescia per sganciare.»
«Niente contraerea. La contraerea è buona.»
«Ok, sgancia la bimba.»
«Sono pronto.»
«I Cubbies.»
«I Reds.»
«Sgancia. Vai.»
Oh Enola Gay hai visto quello che ho visto io, li abbiamo proprio
sistemati per benino, waw, quei musi gialli... guarda...
Cubbies.
Reds.
Bastardi yankee, ragazzi, cosa?
Ehi, mi chiedo se una bomba potrebbe bruciare un'anima.
Sei un amante dei musi gialli, Jernigan?
No, io no. Solo che c'è una calma terribile nel mio cuore in questo
momento.
Avevo la sensazione che la cosa fosse qua a raccogliere le anime.
«Per favore, per favore non me lo fare rivivere.»
«È un tuo successo.»
«No... il mio dolore.»
Lei si infila in profondità nella sua mente, portando con sé strati di pelle
bruciata giapponese che appende al filo della sua memoria, nel sole del
mattino tanto amato nell'infanzia, ad asciugarsi e pulirsi al fresco.
La cosa più terribile dell'essere punito dai demoni è che a loro piace così
tanto. Non li consuma come fa con i torturatori umani. Le SS hanno
dovuto andare in analisi. Herr Doktor Schleicher con la sua valigetta piena
di Schutz Staffel carta protocollo, ti si sarebbe avvicinato offrendoti
Zigaretten e dicendo: «Così tanti ebrei sacrificati per la terra degli avi,
eh?» E tu, nell'intimità di quella stanza, ti saresti permesso di piangere, eh?
«Ma questo non è un mio peccato. Il mio peccato è...»
«È?»
«È-di-esistere.» E in ciò c'è tutto il suo essere, e lui piange al vedere
tutto il suo essere, provando una tremenda agonia al sapere e vedere che
tutti i peccati appartengono a tutti i peccatori, e quindi, per la sua anima
morente, lui piange.
I demoni non piangono. Infatti più soffri, più forti essi diventano. La tua
agonia li porta al raggiungimento di una specie di orgasmo. Che diventa
permanente, come l'equilibrio del sole, la tua agonia è il loro piacere: l'alfa
e l'omega, intrecciati in perfetta armonia.
Lei dice: «Voglio venirti a trovare ogni giorno».
«Oh, bambina, non ce n'è bisogno.»
Naturalmente non sta mentendo con la testa sul grembo di una ragaz-
zina, no, ma standole seduto accanto, corretto nel vestire come nei modi,
mentre respira la freschezza della sua pelle e dei suoi capelli, e ascolta la
purezza della sua voce che arriva a spiegare perché il cuore mistico del
giudaismo è emigrato in America e ne ha fatto una roccaforte protetta dalle
bombe.
La voce di Ben Bernie esce dalla televisione. «Vuoi comprare un'ana-
tra?»
Milton, Zio Miltie, Texaco, puoi dare la tua macchina in mano all'uomo
che indossa...
Stelle nel cielo come polvere appesa in der Morgenlicht.
Luce del mattino, così presto? «Dove sono, Padre del Cielo, dove
sono?»
Sei nella tua mente, John. Hai raggiunto una posizione singolare. Sei in
una posizione super, né qui né lì.
La mente vede i B-36 46 56 66 76 86 96 come sarà nel 2006 quando il
genere umano giudicherà il genere umano, togliendo l'ultima pelle pulita
dai fili della mente, Oh Dio proteggimi...
John, ho intenzione di mettere la tua anima in un'altra carne, proprio nel
corpo di questa ragazza, che nell'anno 1962 ti porterà nel suo grembo, sì,
questa ragazza che adesso a undici anni si dondola sul cancello del tuo
giardino sarà, dopo che Orione sarà passato davanti alla luna per tre volte,
tua madre.
Tu tocchi la mano della bambina, la mano di tua madre, che ti solleverà
di nuovo nel mondo, riportando il diamante pazzo della tua anima alla luce
ineluttabile. «Come ti chiami bambina?»
«Sally. Lo sai. Ci siamo già incontrati.»
«Tu non sei Sally. Tu non sei una bambina.»
«Hai paura?»
«Sì, Sally. Ho paura.»
«Allora vieni con me.»
«No.»
«Devi venire con me.»
«No!»
Qualcosa gli salta sulla schiena, lui lancia un grido, inciampa sotto il
peso, sente un sussurro aspro. «Tu verrai con noi! Io ti porterò là, tu
vecchio brontolone!» Dure mani di ragazzo, cicciotte, gli afferrano le
orecchie e tirano finché agli angoli dei suoi occhi delle comete iniziano a
brillare, e lui barcolla fuori dai cancelli del giardino, nel vicolo comune,
con il suo selciato segnato da solchi e i suoi bidoni dell'immondizia, con i
suoi steccati e il salice con i suoi rami sporgenti. Lei volteggia tra i
cespugli ricchi di vegetazione, passando con facilità in qualche passaggio
da bambini, un posto segreto, immagina, dove ci sono...
dozzine...
... i bambini del mondo dannato, gli eredi dell'indeterminatezza del
quantum e delle radiazioni di Enola Gay: un mondo condannato a soffrire
a causa di ciò che lo ha salvato.
«Ehi, ha portato l'ebreo. L'ebreo! È qua.»
«Ehi, buon uomo, hai intenzione di spogliarti? Fammi vedere il tuo
cazzo ebreo tutto nudo, come, uau, glieli hanno bruciati via in Polonia. A
mio papà è successo a Monte Cassino, signor ebreo, come ti ci vedevi in
quella situazione?»
«Bene, Dio ha dato a Hitler Himmler e lo Zyklon-B, ma ha dato a noi,
gli ebrei, Albert Einstein e me.»
«A mio papà è successo.»
«Piego il mio ginocchio grato sulla tomba di tuo padre, Oh America, ti
porto in cambio del tuo sangue, la chiave del futuro del mondo.»
Principio:
Una volta che la mente adotta l'esperienza come insieme di quantum,
cessa di credere a se stessa come a un fattore di controllo, e il mondo
incomincia a quel punto a manifestarsi in un modo più vero, più reale e,
meno determinato. È solo dall'interno del contesto di menti in questa
condizione che può arrivare un pensiero genuinamente nuovo e utile.
Esposizione del principio:
«Il commissario per l'Energia atomica dottor John von Neumann,
considerato da molti come l'uomo più acuto del mondo, ha affermato al
simposio internazionale sul futuro della scienza che si è tenuto a
Dumbarton Oaks che il genere umano deve 'iniziare il processo di svi-
luppare intelligenze più grandi di quella umana, se dobbiamo continuare a
progredire verso una singola teoria funzionale alla spiegazione di tutte le
operazioni fisiche.' Il dottor von Neumann ha inoltre detto che 'si scoprirà
che l'intelligenza umana non sarà sufficiente a raggiungere la teoria
unificata che adesso stiamo ricercando. Per far questo dobbiamo, in effetti,
creare un nuovo Dio, uno che parli con noi'. Il reverendo dottor Herb
Trickler delle Chiese Unificate di Dio ha presentato una protesta formale
alla conferenza, descrivendo il dottor von Neumann come un 'ebreo eretico
e un comunista senza Dio'.»
I ricordi sono fatti di questo... uh uh... sono fatti di questo...
Un'infinità di conferenze e, in seguito, un'infinità di polli uccisi, bolliti,
essiccati e serviti; il dottor von Neumann è diventato la vittima di un
raggio gamma o di un neutrone ad alta velocità che è riuscito a sfuggire
alla protezione di piombo, a Los Alamos o a Oak Ridge o da qualche altro
reattore al carbonchio, e adesso nel suo fegato c'è un cancro che è come un
pezzo di antracite vivente e il reverendo Trickler è diventato membro del
Congresso e con i suoi modi bacchettoni e il. suo stretto collare fa risonare
strali sul comunismo dicendo: «Questa Fondazione Nazionale della
Scienza non riceverà mai un centesimo di finanziamento pubblico», un
pronunciamento che, grazie a Dio, Ike ignora.
«Potrei farle il bagno come faccio con le mie bambole.»
«Scusa?»
«Continua a grattarsi. Se le facessi il bagno con del sapone da bucato, si
sentirebbe meglio?»
«Mi sentirei meglio, oh, e nell'acqua fredda...»
Magda: piccolo amore, piccola colomba, sto cantando per te, sto can-
tando, piccolo amore, piccola colomba. Oh so, so che è così, che i magiari
una volta con le loro voci toccavano il cielo, quando erano liberi.
E mentre un uomo muore, lascia dietro di sé uno strato dopo l'altro di
morte, finché c'è solo la sua nudità e la tomba, e questa è la strada che John
von Neumann sta attraversando con il suo passo goffo, lento, con i suoi
occhi gialli e una palla da biliardo che gli tira nella pancia.
«Dottore, mi spiace doverle dire che la medicina non ha fatto abbastanza
passi avanti da poterle offrire qualcosa che serva come cura.»
«C'è un'opzione chirurgica, in questo caso?»
«Temo di no, dottore. Ci sono dei ritrovati chimici, ma questo tipo di
trattamento è agli inizi. Probabilmente non faremmo nient'altro che farla
stare ancora peggio.»
«Dottore, si rende conto che sono in una posizione molto delicata, per
quanto riguarda il mio lavoro? Che è il motivo per cui mi sento in dovere
di chiederle: ci sono misure drastiche?»
«Una teoria dice che un organo si può trapiantare. Ma è solo una teoria.»
«Perché non limitarsi a resecare il fegato?»
«Non possiamo. Non c'è modo di controllare l'emorragia.»
Sessantasei. 76, ultimo treno, 86, tutti a bordo, 96, Belsen, Belsen treno
per Belsen, Therienstadt, Auschwitz e Biarritz...
«Quindi, dottore, mi sta dicendo che devo morire?»
«Temo di sì, dottore.»
Rimase in piedi là, sentendosi a pezzi, dal momento che aveva solo
cinquantatré anni e così via, e loro pensavano come era amaro che si fosse
trattato di un dannato raggio gamma che si era liberato a Oak Ridge o a
Los Alamos, a causa della distrazione di qualche ragazzino...
Un ragazzino americano, l'attenzione americana, Cubbies, Yankee,
Philly A, il commissario von Neumann che muore. «Ma, dottore, non
posso morire, sono una risorsa. Il paese ha bisogno di me. Tutto il mondo
occidentale. Sono un bastione contro gli ismi.»
«Mi spiace dottore, mi spiace davvero.»
«Dottore, sarebbe meglio per il paese se mi potesse dare la maggior
quantità di tempo produttivo possibile.»
«Naturalmente dottore.»
Regime: una dieta leggera, aspirina, novacristina, poi il tentativo di
resezione fallisce. Si sveglia, e capisce dalle loro facce che... «Prognosi?»
«La radioterapia alla cavità addominale può portare altre complicazioni
dovute al fatto che non possiamo individuare il tumore perfettamente e il
fegato è così dannatamente sensibile.»
«Succederà presto?»
«Non presto. Prima, dottor von Neumann, verrà mangiato. Lentamente.
Perché ha compiuto un peccato subdolo e terribile, e Dio vuole che passi
una certa quantità di tempo a rifletterci sopra, nella speranza che possa
guadagnarsi il perdono prima dello scadere del suo tempo. Altrimenti, una
delle anime migliori che siano mai state create dovrà essere distrutta.»
Bambini al chiaro di luna, angeli forse, o forse demoni, in piedi, mano
nella mano, cantavano a un vecchio preso dalla paura mentre moriva:

Non hai sentito la mia signora


Che scendeva nel giardino cantando?
I merli neri e gli usignoli stavano in silenzio
Per sentire i vicoli che echeggiano

Oh caro Händel, non la sentiva da quando era un ragazzo! Un ragazzo,


un bacio, un ragazzo sognante. La purezza delle loro voci sembrava
contenere tutta la saggezza del mondo.

Ho visto te non la mia signora


Là fuori nel giardino
A far vergognare le rose e i lillà
Perché è due volte più bella

«John di cosa si tratta? Ti ho portato la sciarpa.»


«La mia anima?»
«Sciarpa! Se n'è andato anche il tuo udito, amore mio?»

Anche se non son niente per lei


Anche se mi deve guardare solo di rado
Anche se non potrò mai piangerla
L'amerò fino alla morte

Sua moglie si fermò, guardò verso i bambini. «Che bello. Canzoni in


una dolce serata.»
«Le voci più tristi che abbia mai udito.»
«Soprattutto per un uomo che ha salvato il mondo intero. Su, bambini,
cantategli qualcosa di allegro.»
«No! Non parlare con loro!» Alza le braccia corpulente. «No, non
ascoltatela. Per favore, cuore mio, torna in casa.»
Un enorme peso cala su di lui dal nero del cielo e di nuovo si trova nel
veleno della morte, con il suo sangue marrone e il pugno di granito che gli
cresce dentro. Si tocca il fianco, si stira, sente qualcosa di duro che tira da
dentro. C'è un prurito terribile legato a quella miserabile cosa, e vorrebbe
avere una lozione con cui ungere la sua pelle raggrinzita. E vorrebbe
ancora fumare, si tocca le tasche, cercando un grosso sigaro cubano. È un
rituale dei morenti quello di privarli del tabacco.
Vede che il tempo è passato, volato via nel sonno. Non è più in piedi in
giardino a guardare il cielo, è in un posto buio e caldo - morto?
No, nel suo letto. E nella sua mano ce n'è un'altra che è morbida e fresca
e umida, e lo schiaccia mentre si sveglia, e lui sprofonda per un unico
dolce momento nel profondo del suo matrimonio. Ma la mano sembra più
un verme o un serpente che gli avvolge il polso, nel momento in cui se ne
accorge. Cerca di liberarsi, sente una voce bassa, gorgheggiante, guarda...
in un vasto oceano nero
dove nuotano le storie dei mondi caduti
e lui vede il suo posto in quelle storie
e sa che stanno aspettando di mangiare quella parte di lui che altrimenti
sarebbe stata immortale
come lui avrebbe mangiato la coscia di un agnello.
Immediatamente si alza il sole, le colombe incominciano a tubare, dalla
cucina arriva il profumo del caffè e della pancetta, la radio canticchia,
perché sei tuuuuuuuuuu.
C'è uno studente laureato che viene a sentire una lezione oggi. Pendono
dalle parole del semidio. Informazioni riservate: È probabile che esista tra
le entità una barriera di quantum, a causa della assoluta mancanza di
referenti percettivi. Questo significa che la prima difficoltà ci impedirebbe
di vederci l'un l'altro, perché noi necessariamente vedremmo quello che le
nostre aspettative ci permetterebbero di vedere, nient'altro. Mi riferisco qui
a una difficoltà relativa al neurone e a una difficoltà di informazione.
Letteralmente non potremmo vedere quello che non siamo in grado di
anticipare. Sospetto, incidentalmente, che una forma più lieve di questo
problema abbia toccato i mesoamericani quando si scontrarono con gli
spagnoli. Questo è il motivo per cui gli spagnoli riscontrarono una tale
sorprendente passività nel loro esercito, e perché solo relativamente pochi
spagnoli furono in grado di sconfiggerne a migliaia.
«Tuttavia, è mia convinzione che la barriera percettiva sia di doppia
natura, cioè, che nessuna delle due forze sia in grado di capire il problema
finché non lo fa anche l'altra.
«Cosa vedremo in mancanza della realtà? Qui posso solo fare
riferimento a 'il sonno della ragione genera dei mostri' perché, finora, è
tutto quello che abbiamo incontrato.»
Jim Forrestal nel profondo buio della notte, in custodia nell'ospedale di
Bethesda, in un piano alto, si trovò faccia a faccia con questo stesso orrore,
brulicante e complicato, incredibilmente vecchio, con il viso segnato da
tutti i suoi peccati. Jim, piuttosto che affrontarlo, saltò fuori dalla finestra
nell'aria nera... piuttosto che dormirci insieme... piuttosto che lasciarsi
leccare, o farsi fare qualsiasi altra cosa.
Come possiamo avere coraggio, quando alle otto del mattino, conce-
piamo tali fantasie?
«Com'è, padre, morire? Quando cessa il controllo, e cosa si prova, in
questo fluire verso la fine della mente?»
«Mi sento vulnerabile, vede, immagino che si debbano essere sentiti così
anche i filosofi e i geni nelle camere a gas, in piedi completamente nudi,
sapendo che la piccola schiera di bambini sudici che avevano visto in giro
nelle sale degli avvoltoi ben presto gli avrebbero tolto di bocca l'oro...
scelti perché non c'erano strumenti e le loro dita erano piccole abbastanza
per questo lavoro.»
«Dottore, non riesco a capire. Lei sta parlando ungherese. Quando parla
ungherese non la capisco.»
«Magiaro... È una lingua simile, sa, vicina alla lingua madre di tutti gli
ariani.»
«Non ne dubito, dottore. Che domanda ha oggi? Che cosa la preoc-
cupa?»
«Se portassi il mio peccato direttamente da Dio, e lo dicessi solo a
Lui...»
«No. Alle mie orecchie. Dio la sentirebbe solo in questo caso. Questo è
il vincolo della Chiesa, e non può essere allentato. Si limiti a dire il suo
peccato e elimini il problema. Non ha molto tempo.»
Padre Dubois, alla fine, diventa impaziente con questo complicato
intellettuale.
Sono io l'uomo che sta morendo, grasso e gonfio e giallo e pieno di
prurito nella mia guaina di crema, qua, in questa sedia che puzza in questa
casa che presto dovrò lasciare
... i miei figli e i figli dei figli
... quelle generazioni, sì, che cammineranno fino al limite
... cinquant'anni, no, di più, e loro saranno in grado di predire la fine dei
loro giorni.
«Magda?»
«Magda è morta, John.»
«Certo. Mi ero distratto. Pensavo di essere ancora nella vecchia casa.»
Ma no, sono nudo, qua nel suo budoir pieno di sole. Il prete se n'è
andato, da molto tempo, e lei prende la lozione, me la cosparge sulla pelle
nuda, lei che si è occupata di me per tutti questi lunghi anni, e in
soggezione davanti a me godeva della sottile e pulsante penetrazione del
mio sesso, che aveva riso sotto la pioggia dei miei baci e ricevuto la mia
adorazione e passione, e che guardandomi quella volta in cui mi facevo la
barba aveva pronunciato quella frase: «È la luce, John, o sei un po'
giallastro?»
«Oh, giallo. Sono i dannati cinesi; ci stanno dando dei grattacapi in
Corea.»
«No, penso che tu abbia l'itterizia. Ti senti bene?»
E allora lui si rese conto per la prima volta che la gravità aveva una
presa un po' maggiore su di lui, che alle tempie aveva una specie di pulsare
lento, e che non si sentiva per niente bene.
Se n'era andato al lavoro, tuttavia, in quell'ultimo giorno immortale, nel
posto in cui si speculava sui mostri con frasi eleganti, dove si usava il
linguaggio della fisica per parlare a ruota libera dell'impossibile che era
diventato reale.
Lui aveva raccontato loro una storia che iniziava così: «Essi si sono
sempre nascosti nella natura del mondo...»
Una volta era entrato in una caverna nella Selva di Turingia - era stato
quando, quaranta anni fa? - una strana caverna che era stata una miniera di
ferro durante l'alba ariana - e forse anche prima, quando il primo di noi ne
aveva estratto il primo metallo attraverso la prima fusione... avrebbe
potuto con facilità essere la prima tra tutte le miniere.
Giù nel profondo c'era un continuo stillicidio e la strada era ripida, le
pareti erano rese blu dalla luce delle lampade da minatori al carburo, e lui e
quel turingio... morto nella prima guerra, naturalmente... un tizio
meravigliosamente civile, con una mente deliziosamente sbadata... si erano
amati l'un l'altro per un po', si erano baciati ma solo sulla guancia, tra
amici, sì, sai, non è niente, ed erano arrivati in un vecchio posto così
strano, dentro la grotta, con un soffitto alto e poi... dietro... una specie di
trabocchetto nel terreno... e se non ci fossero state quelle forme bluastre...
folletti, la gente delle miniere, sì, interessante, forse qualche forma di vita?
Davvero reale, naturalmente, anche se negato dai biologi. Ma chi sono loro
per visitare miniere profonde nella Turingia, nell'anno 1914?
Caro vecchio mondo, così bello nel tuo tramonto, non c'è mai stata una
tale eleganza o tolleranza o purezza di umana speranza - tutto sottoscritto
negli articoli di guerra. Era possibile per un ragazzo ebreo ungherese
attraversare naturalmente una mezza dozzina di confini in treno senza
ricevere mai una parola, nemmeno uno sguardo inquieto da parte di un
altro viaggiatore. Un ebreo? Chi se ne importa, siamo tutti europei allo
stesso modo, no?
C'era quel cultore di scienze occulte di Poznan che aveva detto: «Ab-
biamo fatto cose considerevoli, dottor von Neumann, creato magie sor-
prendenti, diffuso il bene e la prosperità tra tutti gli ebrei polacchi, noi
maghi shtetler. Ma non abbiamo visto l'ombra... finché all'improvviso,
eccoli là nei loro carri armati neri e nei loro aerei rombanti, e noi lo
abbiamo visto, ma, ignorando il buio, l'abbiamo liberato».
Sì, sì, aveva detto con una risata divertita: «E cosa avete creato, polli per
le pentole degli ebrei?»
Adesso sa. Avevano creato il folletto demone. Il cobalto. La bomba al
cobalto. Cobalto radioattivo, il più terribile dei veleni. Dietro allo scudo di
piombo, sotto alla finestra di quarzo spessa trenta centimetri illuminata
tanto da sembrare illuminata dalla lampada stessa di Lucifero, orribilmente
blu e orribilmente brillante, giaceva la carne del demone, che lui aveva
visto in forma vivente in Turingia, nel sottosuolo.
Lui aveva raccontato tutto questo come una storia, e loro l'avevano
ascoltato, con gli occhi stretti per lo stupore, sapendo che stavano ascol-
tando qualcosa che proveniva da oltre i limiti della mente umana. Ed erano
queste storie che davano origine alle favole del semidio, dell'impostore tra
gli uomini.
Lo sono? Questo piccolo Jancsi è un impostore, che tradisce persino se
stesso? Forse sì, forse questo è il motivo per cui non posso trovare la
svolta finale in questo labirinto, il perdono della mia vita.
Quando aveva visto per la prima volta il cobalto reso radioattivo, aveva
fatto un passo indietro, stupito al vedere quanto assomigliasse alla pelle dei
folletti che aveva visto in quella miniera. Aveva pensato che doveva essere
la pelle stessa dell'inferno.
«Avvelenerà il mondo, signor presidente.»
Essa è anche quel blu ardente. Il modo in cui ronza, come se fosse fatto
da tante zanzare...
Jim Forrestal che sfreccia verso la finestra, Jim che apre la finestra, Jim
che cade come una cometa tra lenzuola svolazzanti verso.il cemento che
sta sotto, il sangue di Jim che esce dal suo sudario.
Avevo la sensazione che essa fosse qua a collezionare anime.
C'era una cosa terribile, una cosa davvero terribile: e cosa dire di quel
film, un uovo nero che correva nel cielo, inseguendo quella forma pulsante
e incandescente. Che cos'era? Cosa significava?
Anime catturate. Specie catturate. Mondo catturato.
Il primo incontro si era tenuto due giorni dopo Roswell. John von
Neumann ricordava ogni parola.
HST: Abbiamo la bomba.
JVN: Temo che abbiamo un grande problema.
HST: Bene, risolviamo il dannato problema.
JVN: Non posso, signor presidente.
HST: Lei dovrebbe essere l'uomo più acuto del mondo.
Come si era sentito inutile allora. Ancora di più oggi.
«Oggi, penso sia arrivato il momento dei saluti.»
«Ti senti così male, John?»
«Oh, sì, certamente malissimo. Ho bisogno di morfina, temo.»
Poi erano arrivati dei giovani uomini con le loro gomme da masticare, a
impedirgli di raccontare i suoi segreti. Il piano era che, proprio alla fine,
sarebbe stato lasciato da solo, in una stanza a prova di suono, in modo che
nessuno potesse venir infettato dalla sua conoscenza. No, sarebbe morta
con lui, andata con lui dai demoni e la porta dell'inferno si sarebbe chiusa
alle loro spalle.
L'America, allora, non sarebbe rimasta paralizzata, tutto in una volta, da
una improvvisa conoscenza, ma il processo di rivelazione sarebbe stato
infinitamente paziente, e, si sperava, non sarebbe stato completato prima di
aver trovato una difesa. Se questa conoscenza in qualche modo sfuggiva a
quella stanza, bene, allora per il mondo sarebbe stata la fine.
Tu li avevi dissotterrati con le tue sciocchezze atomiche. Per salvare la
civiltà l'hai resa schiava. Ah, l'astuzia di ciò! Noi abbiamo fatto lo stesso
nella nostra qualità di maghi. Combattendo i demoni che erano entrati nel
corpo dell'uomo, sconfiggendo Hitler e Tojo, controllando lo Zio Giuseppe
e il Presidente Mao, noi gente gentile e musicale dell'Ovest, li abbiamo
fatti emergere dalla notte, ancora più grandi di prima, li abbiamo fatti
saltar qua direttamente dall'inferno, con gli artigli sguainati per uncinare le
nostre anime. Quelli che vogliono abbracciare il bene devono quindi
trovare un modo per placare il male. Tutto il resto è arroganza. Mozart,
arroganza. Il caro Händel, arroganza. Luce elettrica, macchine blu, ragazzi
con le lentiggini, ragazze coi capelli color del grano, donne con abiti estivi,
arroganza, arroganza.
«Padre, la Chiesa è arrogante.»
«No.»
«Arrogante a immaginare che si possa semplicemente perdonare il
peccato. E Hitler?»
«Se la sua fede avesse avuto il sopravvento sui suoi peccati, questi
sarebbero stati lavati via.»
«Ma non sono stati lavati via.»
«Solo Dio lo sa.»
Cosa diranno tra un migliaio di anni, della nostra epoca? Era un periodo
di musica e di scienza, i prodotti principali di questa civilizzazione. Prima
dell'Occidente, la conoscenza musicale dell'uomo era parziale, c'erano il
curioso misolidio vibrante dei greci, il lungo lamento dei corni romani e le
elaborazioni cinesi. Ma poi arrivò il fiore prorompente di cinque secoli di
canzoni e di pensiero, la scoperta del mondo naturale curiosamente
collegata all'invenzione di uno strumento dopo l'altro, l'accordo perduto
per il campo unificato, e così l'opportunità persa dalla musica fu persa
anche dalla scienza, e non ci fu nessuna fusione tra scienza e religione,
nessun servizio per il divino.
Dio nel suo cocchio se ne va nel posto successivo, in un altro pianeta a
caso pieno di scimmie che urlano disperate... con una nuova decisione da
prendere: evoluzione o estinzione?
«Ci ha abbandonato Dio, padre?»
«No.»
«Ne è certo?»
«John, credere qualcosa è conoscerne la verità a livello intellettuale. La
fede è quella stessa verità che fluisce nel tuo sangue. Il mio sangue mi dà
la certezza.»
«Ma cosa succede se muori e Cristo non c'è? Nessuna Vergine, nessun
Paradiso, niente di quello che ti eri aspettato?»
Nella Sua rabbia e nel Suo amore, egli ci ha lasciato ai folletti, al ragaz-
zo-dio che, nella sua ricerca di compagnia, ha formato l'intero cosmo...
Oh Dioniso, amore mio, dolce animale immortale nelle vesti di un
bambino... che Petronio Arbitro e William Blake hanno compreso in parte,
e che il dottor John von Neumann di cui lasciate che si dica: «Capì tutto
quello che gli fu messo davanti», ha capito in pieno.
E ha camminato nel passato e nel futuro, e si è nascosto lontano dalle
orde che masticano gomma, con il loro baseball e i giubbotti d'argento
sulle torri di controllo, con i loro stupidi romanzi in edizione tascabile e
con le loro magie elettroniche - la televisione, un tale miracolo - affidata
alla Texaco Star Theater, vedi gli USA nella tua Chevrolet, America la più
grande terra di morte, e Beulah, una Magda nera nella stanza sul retro dove
il Negro felice è costretto a sorridere e a danzare..
A danzare. Sì, ha scritto Magda: «Oggi ci hanno fatto danzare. Eravamo
fuori nel cortile, qualcosa è andato storto, non ho sentito, e poi al-
l'improvviso abbiamo iniziato a danzare. Stiamo danzando. La contessa
non conosce il nostro modo di danzare, e deve ballare a passo di valzer, ed
è così sottile, nel freddo che punge la pelle in qualsiasi punto la tocchi - lei
aveva tutti quei pizzi di seta - e poi alle quattro, credo, hanno scaricato dei
rifiuti di patate e i bambini hanno mangiato persino i vermi - oh, mio
Jancsi, scrivo questo solo perché sono l'ebrea speciale di Therienstadt,
quella con la carta, una ebrea da esposizione, portata fuori perché sorrida
alla Croce Rossa, ma almeno io posso dedicare questo foglio all'America,
ho detto che sei mio figlio, vedi, possiamo solo mandare ai parenti, a
nessun altro, e voglio dire che questo sterminio degli ebrei da parte dei
nazisti non è giusto. Sono qua con tutti gli ebrei tedeschi e francesi perché
tu hai un nome nobile e poiché sei famoso in America loro non vogliono
che io soffra troppo».
Quando se ne andarono, cosa sarebbe successo se semplicemente se la
fossero portata dietro? Ma no, lei fu lasciata a occuparsi della casa, e ci
devono essere stati anche dei giorni buoni per Magda e Pyotr con tutto lo
champagne e lo storione, e il cognac che era rimasto, qualcosa risaliva
addirittura a prima della prima guerra, sì avevano di che riempirsi lo
stomaco, potevano farcela con un po' di carbone in cucina; finché non
arrivarono i soldati, aveva visto i film, oh, Dio, che cosa terribile, e avere
queste lettere e le foto era una tale agonia, lei, con i suoi sforzi, gli aveva
lasciato in eredità una punizione terribile...
come quelle che aveva sempre meritato da ragazzo, la volta in cui aveva
dissezionato quel maledetto pollo e aveva sporcato di sangue le cose che
lei stava cucendo, l'aveva strapazzato alla sua maniera e lui sapeva come i
contadini punivano la propria prole, e ah, come aveva riso suo padre a
sentire quella storia lacrimevole... Oh, Mag, gli hai dato proprio una bella
bastonata alla magiara, bene, bene! Ah, Ah! Che sorpresa era stato,
sentirlo ridere perché una contadina aveva alzato la frusta sulle chiappe di
un von. Aveva creduto che le avrebbero tagliato la testa, aveva persino
pensato di denunciarla all'imperatore. Ah, Ah, se ti fa arrabbiare dagliene
un'altra! Bene! Bene!
Come si era comportato bene con lei allora, non era più il suo bel von
padroncino, ma un altro contadinello da strigliare, e lui sempre premuroso,
pronto a darle una mano. Non più scherzi su di lei. Oh, ma c'era stato un
tale amore in quella casa.
Aveva visto film sulle ebree che venivano portate a frotte nude nelle
strade, donne sofisticate e istruite che stringevano le loro povere mam-
melle gelatinose, Dio, e gli uomini con i loro peni circoncisi esposti al
ludibrio delle folle.
Dov'erano i figli di Schiller, dove stavano andando, come era che non
erano ancora fuggiti dai boschi bui di Vercingetorige, che terribile
maledizione pendeva sul loro capo?
Aveva sperato, sì, e con tutto il cuore, che Berlino durasse più a lungo di
Tokyo, perché Harry avrebbe sicuramente fatto cadere un piccolo uovo
semitico sulla testa maledetta del vecchio Adolf. Sì, gli stupidi semiti con
la loro scienza idiota. Hitler aveva detto: «Sono incline a credere che il
mondo sia circondato dal ghiaccio...» Aveva lasciato perdere il suo
progetto sull'acqua pesante, non aveva capito, non con la sua mente ottusa
e crudele da contadino. Non era come Roosevelt, o Harry o Ike, che
adoravano quello che non capivano.
Eh, tu, buon uomo. Cosa ne hai fatto di quell'acqua pesante che hanno
fatto per te, tu sciocco disgraziato tedesco del sud, l'hai bevuta? L'hai presa
per un clistere? Tu diavolo, assassino della mia povera grassa Mag...
Metà mondo muore nel terrore, l'altra metà nello stupore. La morte ha
una sensualità segreta. Lui l'aveva vista molto tempo fa, quando da ra-
gazzo si era imbattuto in un'esecuzione improvvisata - un qualche brigante
di strada - alla maniera sbrigativa dei rumeni, in una piccola città...
l'avevano trascinato ed era diventato duro come un bastone mentre si
contorceva e diventava nero... con l'uccello e la lingua sporgenti... che
ricordo orribile per la mente di un uomo che sta per morire... cosa dovrei
fare se arrivassi a qualche tipo di parossismo mentre sono attorniato dalle
mie figlie? Ma no, sono troppo pieno di segreti, mi sono dimenticato che
morirò da solo, solo con la vicinanza dei ragazzi con la gomma e il loro
baseball, i militari ben rasati e i microfoni autorizzati dagli alti gradi, che
sciocchezza - cosa ci fanno con tutti questi segreti in una repubblica? - Io
morirò da solo, con solo un inserviente militare a testimoniare la mia
abnegazione... e alla fine, anche lui mi lascerà.
Ike, nel suo sorriso, non ci vedono dentro la violenza? Non vedono che
uomo duro esso sia? No.
Sorprendente. Va fuori a giocare a golf. Come fanno a farlo, a soppor-
tarne l'estrema monotonia? Golf, a mangiare hamburger, a leggere quegli
strani libri sui cowboy. Quanto è più avanti Stalin di Ike, intellettualmente.
Ma pazzo, grazie a Dio...
Oh, cosa importa? Solo i segreti più profondi hanno importanza, quelli
così terribili che continuo a dimenticarmeli. Ti svegli in un mondo terso,
con gli uccelli che cantano e un'aria così dolce, e poi senti il tuo dolore, il
suo peso nauseante, e ti vengono in mente il tuo sangue marrone, i tuoi
segreti e il blocco di granito alla base del tuo fegato e i raggi gamma che
l'hanno messo lì, mentre guardavi la carne color cobalto del demone, il
cobalto che alla fine ti ha ucciso, perché tu l'hai visto in una miniera nella
sua forma vivente...
Si trattava di qualcosa che nemmeno Einstein poteva capire. Avrebbe
rivoluzionato completamente il suo mondo. Ma lui finge solo di essere
saggio, fa solo finta.
Io non sono saggio, sono troppo intelligente per esserlo. So troppe cose
per non provare che terrore.
Oh, Mag, per favore sta' lì per me, dall'altra parte. Mag, per favore
prendimi nel tuo grande grembo, prendimi e canta, sì, le canzoni vecchie,
vecchie, i cui titoli mi sfuggono, quelle dei giorni in cui mi davi il latte, oh,
madre Mag.
«Sto ancora pensando a te, mia Magda.»
«John, ricordi così tante cose adesso. È un bene. Non avevi tempo di
ricordare prima ...»
«Prima di iniziare a morire.»
Lei annuisce, ma i suoi occhi non si alzano a incontrare il suo sguardo.
Lei contorce le mani. Lei ha sussurrato: «Madre di misericordia, madre
dell'Altissimo, salvalo e guariscilo da questo terribile male». Hanno par-
lato di Lourdes. Sì, e adesso una delle menti più grandi, fisico, matematico
e teorico, una persona certamente libera da rosari e feticci, si trova un
tumore nella pancia e se ne va a Lourdes, vedi?
Benedicimi padre, perché ho peccato, ho abbandonato una brava donna
alla mercé dei tedeschi, a farsi ammazzare in modo orribile e l'ho fatto
senza necessità, per la preoccupazione di perdere una vecchia casa che ho
perso comunque. Benedicimi padre, perché ho anche mangiato del frutto
dell'albero della conoscenza - il frutto più alto, scusami, che Eva aveva
tralasciato. Sì, l'ho fatto, e lì, sotto la superficie, ho scoperto le larve, le
larve dello spirito che aspettano che le anime pesanti, anime come la mia,
si stanchino di camminare in superficie, sprofondino e si avviluppino nei
meccanismi dell'agonia immortale. Sì, l'ho fatto e adesso loro sono state
liberate in superficie, sono state mandate furiose nelle case degli innocenti,
perché io con la mia bomba ho abbattuto il tuo muro, oh, mio Dio.
Padre Dubois: «Scusami, John, stai ancora parlando ungherese. Dici che
hai fatto una bomba? Che specie di bomba?»
«Padre, ho un bisogno disperato di assoluzione, disperato perché ho
visto, ho visto quello che loro, quello che loro - ho camminato negli
androni dell'inferno, padre...»
«Sì, va' avanti.»
«Ho commesso il più grave di tutti i peccati, ho rubato il fuoco dietro il
fuoco, il fuoco che era sfuggito persino a Prometeo. Ho rubato l'anima
stessa di Dio e l'ho trasformata in una bomba, padre. L'ho rubata e l'ho
trasformata in una bomba e ho sparso nel mondo il terrore, padre.»
«Nient'altro?»
«In che senso, padre?»
«Nessun altro peccato? Mangiato carne al venerdì, forse, mentre stavi
giocando con la tua bomba?» (Abbassa la voce.) «Ti sei toccato, forse?»
«Carne... sì, sì... migliaia di volte. Sono stato un agnostico, vede.»
«Oh, niente agnostici. Ci sono solo cattolici e atei. Queste sottili di-
stinzioni sono solo sciocchezze. Bene, adesso qua abbiamo dei peccati
veri. Peccati che Dio può perdonare. Hai mangiato carne al venerdì, vero?
Bene, sappiamo che il Santo Padre lo proibisce. È un peccato mortale.»
«Padre?»
«Sì.»
«Penso di avere distrutto il genere umano.»
«Ah! E così sia. Ma di' tre Ave Marie al buon Signore per la carne... ego
te absolvo... vai e non peccare più.»
Scrisse al vescovo Pearsall: «È possibile che ci sia un prete che abbia
accesso a informazioni riservate?» E poi al segretario della Difesa, il
nuovo segretario, Jim Forrestal era morto da molto tempo, ma non c'era
accesso per alcun prete.
«Moglie mia, desidero inginocchiarmi ai tuoi piedi.»
«John?»
«Lo desidero, per implorare perdono per i miei peccati.»
«Il prete...»
«Non ha niente a che fare con questo. Tu sei più vicina a Dio. Essere
con te è come essere con Dio. Il momento del coito è il momento di
preghiera più sacro.»
Nella sua voluttuosa camicia da notte bianca, arrossendo, si siede sulla
seggiola rigida davanti al tavolo e riceve le sue suppliche, un uomo nudo
malato ai suoi piedi, e quando lui le posa le mani sulle ginocchia, lei in
qualche modo riesce, toccandogli il cranio calvo, a lasciargli la sua dignità.
«Abbiamo avuto una vita così dolce», dice lei. Poi in magiaro: «I fiori
stanno ancora sorridendo».
Lui sente il conforto della voce di lei che si è alzata in canto, sente le sue
mani tranquille sulla testa, e la gentilezza e la nobiltà della sua presenza gli
dicono che questo dio che si è inventato è davvero compassionevole...
e poi si rende conto che lei non è lei
e poi si rende anche conto che queste non sono le ginocchia della sua
buona moglie
e sente il ronzio della bestia che canta bramosa
e sa che sua moglie è il Signore delle Mosche, e che lui non è che un
supplicante nudo sull'orlo dell'inferno.
Non poteva schizzare in piedi, non ne aveva più la forza, ma invece fece
un balzo indietro e per un breve attimo intravide la sua immagine
spaventata e giallognola che si rifletteva nelle lenti degli occhi composti
della cosa dalle mandibole blu sibilanti. E poi sua moglie era là, che
scendeva dalla cosa come cera fusa, con il corpo e la faccia che la rico-
privano cosicché lui allungando le dita tremanti le toccò il collo, e sentì il
battito deciso delle sue pulsazioni... ma naturalmente sapeva... era la cosa.
«Ti puoi confessare, John», disse con il più delicato dei toni. Allargò le
braccia. «Vieni, marito, puoi, sì.»
Era così atterrito da non riuscire a muoversi, lì in ginocchio, sapendo che
per tutto il tempo era stato sposato, aveva concepito i suoi figli, aveva
preso piacere in qualcosa di... terribile.
Lei si sporse verso di lui. «Non scappare, John.» Un sorriso da ragazza.
«Non sono qualcosa di cui tu debba avere paura.» Nel suo tono, c'era
un'ondata di umanità, ed era così completamente caldo, così com-
pletamente innamorato che se ne sentì disarmato, e si sistemò di nuovo e le
mormorò:
«C'è qualcosa qua, una cosa terribile, che ha minacciato che se noi
parliamo di ciò, se riveliamo la sua esistenza al resto dell'umanità, allora
essa ci annienterà tutti».
«Questa è la malattia.»
«Certamente, la malattia dell'universo. L'universo di Dio, abbandonato e
terribilmente malato, un'inimmaginabile moltitudine di soli putrescenti, un
errore incredibile, un deserto di mondi assassinati.» Seppellì il viso tra i
pizzi di lei. «E noi... io l'ho fatto. Ho assassinato il mondo.»
«Oh, John, questo non è un peccato. Cos'hai fatto? Sei andato con altre
ragazze? O cogli uomini, John, quello lo capirei. So come funziona, si
tratta di un incidente, nient'altro. John non devi aver paura di confessare
questi peccati prima di morire. No, sarò io il tuo prete, ti assolverò nel
nome della Vergine Madre. Ti garantirò il perdono.» La mano di lei si
appoggiò alla guancia di lui, lui odorò il profumo dolce della sua camicia
da notte. «Già, persino prima che me ne renda conto.»
«Ho desiderato... Dioniso.»
«Un giovane?»
«No, no... un dio. Un dio, vedi. Si è innamorato - un dio con il corpo di
un uomo e la saggezza dei secoli...»
«Il Bambino Gesù?»
«Il bambino selvaggio. Il bambino delle foreste e del torrente che scorre,
figlio dei boschi sacri e degli animali della foresta. Quello... che ho
amato... una volta... in Turingia... in una miniera... Oh, Dio, in una
miniera...»
«Non capisco.»
All'improvviso si sollevò dal suo grembo. Si inginocchiò di fronte a lei,
stringendosi le mani. «Ho mangiato carne al venerdì, per favore, mia
amata, perdonami.»
Lei fece un sorriso mesto. «Io posso solo perdonare i peccati del cuore.
Non posso nemmeno capire una cosa come questa. È un peccato per la
Chiesa americana?»
La sua mente voleva ridere per quanto si sentiva idiota, un uomo grasso
e giallastro che si tiene in equilibrio su ginocchia nodose, il suo vecchio
enorme uccello che gli ciondolava fino alle caviglie. Non poteva con-
fessare i suoi segreti perché nessuno li poteva capire. L'abisso tra quello
che sapeva e il modo in cui gli altri immaginavano che il loro mondo
funzionasse era semplicemente troppo grande. Loro non riuscivano a
capire la natura dell'indeterminazione, e quindi non riuscivano a capire il
male che aveva fatto causandone la perdita, quando l'amorfa realtà del
demone era diventata all'improvviso definita e assolutamente reale.
«Vieni.» Lei si alzò, lo tirò in piedi e insieme andarono a letto. Lei
teneva il capo inclinato con orgoglio, lo trattava con enorme cortesia, con
enorme solennità, e lui fece finta di non averla vista rabbrividire per la
repulsione quando le aveva baciato la pelle morbida.
Lei posò la mano su di lui e abbassò gli occhi e una vampata di rossore
le comparve sulle guance. Non erano mai stati così espliciti l'uno con
l'altra, mai così schietti, e lui si vergognava, erano in piena luce del giorno,
lei non avrebbe dovuto vedere questo. Ma lei lo vide, lei guardava
direttamente la sua virilità eretta, nuda.
«John», disse, e passò le dita sul suo membro fino a toccare il posto più
nudo di tutti, dove la carne si alzava dalla radice del suo corpo.
Lui si agitò, eliminò dalla sua mente il fatto che la cosa era presente,
perché essa era presente accanto a ognuno e cercava di entrare nel mondo
attraverso due miliardi di porte. Perché quello era in realtà il genere
umano, un vasto sistema di porte, pronte ad aprirsi, pronte a lasciare che il
buio coprisse la luce soffusa della casa di Dio.
I semidei sanno queste cose: a differenza degli uomini, i semidei sono
condannati anche alle conseguenze di azioni che non capiscono. In questo
senso, Edipo era un semidio perché doveva soffrire le conseguenze di una
natura che non poteva controllare. Allo stesso modo anche John von
Neumann, che doveva soffrire perché aveva portato a compimento il
tragico destino della sua mente.
Lei se lo tirò accanto, poi lo fece appoggiare sul letto coniugale. Si
liberò della camicia da notte e lasciò che gli occhi di lui le cadessero
addosso, sulla delicata piega delle labbra sorridenti e sugli occhi dalla luce
divina, sulla linea del seno con le sue curve perfettamente terrene, sulla
pelle imperfetta dal dolce profumo, indurita dalle sofferenze della
gravidanza, e anche sul monte di venere e sul segreto che racchiudeva.
Ma lui sapeva, e non poteva sfuggire alla conoscenza che, dietro la sua
grazia e dignità, lottava per liberarsi tutta la furia ronzante dell'inferno.
«Oh, va tutto bene», disse lei, e in quel piccolo, minuscolo momento fu
felice, fu felice con lui
e con la magia che aveva creato, erano di nuovo giovani
e la morte era lontana
e nel cielo non c'erano altro che stelle
Enola Gay era ancora ferro nelle profondità della Turingia, e il paese
della felicità non aveva ancora riempito il mondo con i suoi aerei e le sue
bombe
e Adolf Hitler era un contadino che tracannava birra e Albert Einstein
era un impiegato svizzero e lei allora, oh, allora brillava come una stella e
scuoteva la testa per il piacere di farlo e lui vedeva la luna tra i suoi capelli.
Adesso, la luce del sole. Lei incombeva su di lui, una cara vecchia
cornacchia di donna, che gli saltava addosso facendo ondeggiare la testa e
ridendo. Lui finì in fretta, non aveva forza, e il suo cuore batteva come una
trota in un cestino e le tempie gli martellavano e si sentiva lo stomaco
pesante, ma tutto quello che riuscì a fare fu girare la testa di lato e
vomitare una schiuma bianca.
Così la grazia della carne lo lasciò per sempre. Lei si tolse da lui, scosse
la testa come una ragazzina eccitante, e si accinse a pulirlo, cosa che fece
con uno straccio freddo e due salviette rosa. «Ecco, adesso è tutto a posto
amore, come prima.» Andò in bagno e lui la vide sedersi sulla tazza e
piangere, buttando fuori quello che era senza dubbio l'ultima parte di suo
marito.
Lui giacque il più fermo possibile, sperando che il suo cuore scoppiasse
su questo finale perfetto. Ma no, continuava stancamente a battere.
Combatté per calmare il suo stomaco, respirando profondamente,
spostando l'attenzione dalla nausea al mal di testa che lo faceva impazzire
e indietro di nuovo. Dalla nausea al mal di testa ai ricordi.
Aveva saputo all'istante, nel terribile momento in cui era arrivata la
telefonata. «Dottore, parla il generale Roger Remy, e vorrei essere il primo
a informarla che l'aviazione inglese ha un disco e i resti di tre apparecchi
alieni.»
Com'erano stupidi. Apparecchi alieni. Questi corpi senza organi interni,
con trachee rudimentali, non potevano essere quello che sembravano.
L'aviazione e tutti gli altri che pensavano, immaginavano, poveri pazzi,
che le cose fossero nient'altro che un trucco crudele e furbo. Aveva sempre
sentito che la cosa sarebbe arrivata, il demone sarebbe arrivato... ma come
era stato furbo.
L'arrivo del disco volante era l'inizio della fine dell'uomo. Lo vide come
una frattura della ragione, una breccia nella diga, il sollevarsi di un caos
che la storia e l'amore e la speranza avevano avvolto nelle tenebre.
Al principio c'era stata eccitazione, persino ebbrezza, progetti per andare
in New Mexico a incontrare gli alieni, anche il presidente, portando le
bandiere e i loro sogni. I pazzi avevano formato comitati e gruppi di studio
e Jim Forrester e Harry Truman avevano inventato grossi accorgimenti per
controllare il flusso della conoscenza, e oh, quei giorni erano pieni di oro e
promesse.
Per loro, per i pazzi. Lui era andato dritto da padre Dubois ed era entrato
nella Chiesa, era ritornato, sì, era tornato a messa, aveva abbandonato il
suo agnosticismo, si era inginocchiato e aveva pregato, cari Gesù e Maria,
proteggete questo vostro figlio da quello che, nella sua ignoranza, ha
liberato. Cari Gesù e Maria, mostratemi la via per il perdono.
Poi essi, in qualche modo subdolo, erano riusciti a localizzare il se-
gretario Forrestal nel mezzo della notte e l'avevano rimosso dal suo corpo
come se avessero estratto la polpa da un frutto, e lui li vide come erano
veramente, e nell'arco della giornata impazzì completamente. Aveva scritto
dei diari, e Truman gli aveva chiesto: «Dovrei leggerli?»
«Li bruci, signor presidente, con le sue mani, proprio in questo camino.
Non li apra mai più. Li bruci.» Lui sapeva cosa avrebbero contenuto,
naturalmente: l'alchimia che avrebbe dissolto le pareti del mondo. «Li
bruci e uccida chiunque ne sia al corrente. Me. Lei stesso.»
Come aveva riso Truman, con i suoi occhialini che brillavano e le
guance che prendevano colore. Truman, che profumava di borotalco.
Quell'ometto con mani precise e nervose. Truman a cui era stato garantito
il diritto di prendere le due decisioni più importanti per l'umanità: lanciare
le bombe che avevano permesso loro di entrare, e nasconderne la presenza.
Era passato un giorno, una di quelle giornate senza tempo che capitano
nella vita delle persone molto malate, quando il corpo sembra scivolare in
una specie di foschia senza fine, immutabile, che non è esattamente la
morte, non ancora.
Poi nei due giorni successivi era rimasto a letto, senza alzarsi più dal
momento del coito. Senza alzarsi. Lei lo passava con una spugna bagnata e
gli metteva la padella. Adesso era impotente, completamente. Non poteva
alzarsi, nemmeno provando.
Quella notte aveva fatto uno strano sogno, di bambini puri, biondi e
pallidi e crudeli, che avevano creato un posto per lui tra i rifiuti del fienile.
Lui non aveva capito perché un gentiluomo e un dottore avrebbe dovuto
trovare alloggio in un fienile, finché non vide le sue orme e si rese conto di
essere un porco, un grasso porco, e vide che era morto ed era diventato
questa bestia lurida per cui gli avanzi della tavola e persino la sua stessa
merda aveva un profumo dolce. Divenne cosciente del fatto che i bambini
che danzavano lo stavano ingrassando e che lui non riusciva a resistere alle
croste del prosciutto e alle carote bollite che gli gettavano, anche se nei
loro occhi leggeva un freddo interesse.
Il suo corpo da maiale era così vivo che lui si sentiva un semidio con dei
minuscoli zoccoli. Quando si mise a gridare, c'era musicalità nel suo grido,
una canzone sublime, e un antico, misterioso senso di incanto. Nel suo
regno di maiali era potente, il glorioso, il re, colui che riceveva i cibi
migliori. Lui amava le loro braccia lunghe e le loro mani grassocce, ma
non i loro occhi scuri, profondi, no, gli occhi che si aprivano sull'ignoto,
ma loro lo servivano con i loro pantaloni corti e i loro scarponi, le ragazze
con i grembiuli inamidati.
Quando le loro mani lo afferravano, lui sentiva una scossa elettrica.
Come se fossero stati fatti di un fuoco che faceva rabbrividire. Lui cantò la
sua canzone, sollevò gli occhi, ma i suoi servi erano diventati i suoi
padroni, e all'improvviso si sentì in gola un calore fortissimo e il sangue
che scorreva, e poi udì anche le loro grida di piacere, udì la melodia e si
ritrovò morto.
Quando si svegliò dalla morte, si trovava in una stanza bianca, e intorno
al suo letto c'erano degli uomini.
Che portavano i loro gentili saluti.
Aveva lavorato fino alla fine, dicevano.
Era stato nobile, dicevano.
Lui disse: Ma io sono un maiale.
Loro dissero: Questo giovane starà con te.
C'era un ragazzo che indossava la divisa dell'Air Force, un giovane dalle
guance rosee che, invariabilmente, odorava di gomme alla frutta e di
sigarette.
«Buon giorno, signore», disse. «Sono qui per la durata.»
La durata! Wo ist meine Frau? Mia moglie?
Lei aspetterà di fuori. E i miei figli? Fuori.
Il segreto, John. Ricorda cosa c'è in ballo.
Oh, Dio... glielo dirò, allora, che si tratta della fine: l'umanità divorata.
Ma che importanza ha? Anche se non lo diciamo, saranno comunque
divorati in segreto.
«Divorati, divorati, qual è l'etimologia della parola in inglese, signori?
Non deriva dal latino, da devorare, un tema accentato, che è in relazione a
devoto?» (Guarda le loro facce, non capiscono nulla.) «Devorare,
devotate... è solo una questione di finale, vedete?»
Loro non vedono. Loro pensano in termini di armi, di combattimenti, ma
non si può combattere questo, non si può combattere una bestia che può
entrare nel mondo da due miliardi di porte, e anche di più. Oh, mio Dio,
come passa il tempo. Sempre più porte. Loro pensano di trattare con
qualcosa di sostanzialmente ordinario, ma questo non è essenzialmente
ordinario.
«Almeno la cosa riesce a mantenere la grazia del mondo quantico nel
macrocosmo, lo vedete?»
Facce inespressive, teste che si giravano, che venivano scosse da una
tristezza fuori luogo.
«Non posso morire signori, se nessuno oltre a me capisce questo!»
Il giovane sorrise. Posò la mano sulla fronte di von Neumann. «Febbre»,
dichiarò.
«Quanti anni hai?»
«Diciannove signore.»
«Un tenente, così giovane...»
«Vengo dall'accademia.» Scelto per la sua ignoranza, senza dubbio, e gli
avevano detto di non raccontare ad anima viva quanto avrebbe udito, sotto
pena di morte.
Lottò con le lenzuola, si guardò intorno e alla fine trovò il segretario.
«Di cosa si tratta? Dov'è il colonnello Ford?»
«Si ricorda la frase 'l'uomo poco importante è sempre relativamente
l'essere umano più civile'?»
«Ah, Veblen. Immagino di condividere il concetto.» Si trattava natu-
ralmente della ragione per cui il colonnello era stato sostituito dal ragazzo.
Guardava da una faccia all'altra. Il segretario della Difesa, segretari
dell'Esercito, Marina e Air Force, i capi di Gabinetto come un plotone di
soldatini in fondo alla stanza. «Dov'è Ike?»
«Ike è nel deserto.»
Fece un cenno con la mano, non volendo che il ragazzo udisse dell'altro.
«Nessuno capisce quello che ho detto, sulla fine? No, vedo di no. Allora
mandate Wiener, mandate Pauli. Loro potrebbero capire.»
Ci fu silenzio. Il suo giovane infermiere gli mise un panno sulla fronte.
Nel luccichio dei giovani occhi, John von Neumann poteva leggere la
verità specifica del concetto di Veblen: l'ignoranza del ragazzo era davvero
una pace, davvero civilizzata, e loro avevano avuto ragione a portarlo.
«Comunque mandate qualcuno. Chiunque. Almeno cercate di capire.»
Lentamente, come vecchie che lasciassero una cattedrale, i gentiluomini
del potere si ritirarono.
«Non combattete», gli gridò dietro, sollevandosi a metà dal letto, poi
sentendosi sollevare dal ragazzo, che lo mise a sedere. «Non osate com-
battere!» Una mano si alzò, si mosse... come per scacciarlo via. «Voi
stupidi americani, ascoltate!»
Lottò freneticamente, ma loro non si fermarono.
Poi tutta la forza lo abbandonò. Sprofondò tra le braccia del ragazzo.
«Il figlio contaminato. Il figlio contaminato.»
«Signore?» Il ragazzo lo riappoggiò nel letto.
«Il figlio contaminato.»
«Sì, signore.»
Il ragazzo non capiva: nessuno di loro poteva capire. La sola mente che
poteva impedire questo stava morendo. Lottò per tutto il giorno, sentendosi
vagamente inquieto quando il ragazzo lo lavò e lo pulì. «Sei anche un
infermiere?»
«Sto studiando medicina. Poi mi specializzerò.»
«E sai... hai bisogno di sapere?»
«Sì.»
«Come ti senti, ragazzo? E la tua ragazza? Ce l'hai una ragazza?»
«No, signore.»
«No. Bambini... Avrai dei figli, continuerai il tuo nome?»
«Signore, credo di voler passare.»
«Certo che vuoi. Naturalmente. Tutti lo farebbero se sapessero.»
«Volevo dire, passare sulla domanda. Finché non avrò una ragazza.»
«Non mettere al mondo figli! Non farlo!»
Il sorriso del ragazzo si fece incerto. «No?»
Von Neumann si allungò verso di lui. «Sono un maiale. Mi stanno
portando al macello!»
«Sì, signore.»
«Vattene! Esci dalla stanza.»
Invece il ragazzo gli si avvicinò di più, e in quel momento John von
Neumann capì l'ultima cosa che non aveva ancora capito. Gli fece mancare
il fiato, gli spezzò il cuore, rendersi conto che il ragazzo sapeva, che tutti
loro sapevano proprio come lui, lo avevano saputo sempre come l'aveva
saputo lui, queste anime antiche che erano i creatori degli dei e delle
bombe e dei sogni.
Mentre il respiro di von Neumann si affievoliva, sentì che le calde
braccia del ragazzo lo stringevano sempre più forte, vide nei suoi occhi
ardenti gli occhi dall'aldilà, nella forza delle sue braccia sentì sia il ser-
pente che l'angelo. Nel sorriso spaventoso del ragazzo, l'uomo morente alla
fine vide colui che aspetta tutti noi, oltre le porte aperte.

1960-1969
Uomini di fiammiferi e Joo
di Etlizabeth Massie

Per Amy, Kurt e Amanda

Quando guardo nel cielo


Vedo nei tuoi occhi un buffo tipo di giallo
Corro a casa e poso la testa sul letto
Vedo il tuo viso sotto il cuscino
Mi sveglio il mattino dopo in agitazione, sbadiglio
Vedo il tuo viso che guarda furtivo dalla finestra
Immagini di uomini di fiammiferi e te
Miraggi di uomini di fiammiferi e di te
Tutto quello che vedo sono loro e te.

Lo Status Quo
«Immagini di uomini di fiammiferi»

Si spostò carponi accanto al ragazzo ferito e si lasciò cadere dietro ad un


bidone per l'immondizia arrugginito che si trovava all'angolo della strada.
Il sangue che aveva sulle mani era suo, del ragazzo ferito e di una donna;
aveva cercato di aiutare il ferito, di toglierlo dalla traiettoria dei proiettili e
dalle nuvole di gas, ma il ragazzo aveva perso conoscenza, ed era pesante
da trascinare. E mentre era in piedi in cerca d'aiuto, mentre alzava le
braccia in mezzo a quella pazzia per far cenno a qualcuno, qualcosa che
venisse in loro soccorso, uno sciocco che urlava diede un colpo vigoroso
con la sua mazza facendogli un taglio sul palmo della mano e spezzandogli
due dita.
«Devo andarmene», disse ansante, con il corpo ripiegato dietro il
bidone, il mento contro il petto per evitare i pezzi di vetro che volavano.
Le parole gli uscivano da mascelle che si muovevano alla velocità di un
giocattolo a molla. «Questo non è giusto. Questo non è giusto per un
cazzo.»
Dalla sua sinistra arrivò un grido, da vicino al bidone. «Ahhhhhhiiiiii!»
Lui girò lo sguardo e guardò in su. Un uomo con una giacca strappata, che
aveva sul viso l'espressione da spirito banshee, fece sventolare una
bandiera nord-vietnamita e si mise a ballare il tip-tap. L'uomo andò quasi a
finire sul ragazzo ferito, ma sembrò non accorgersi di lui. Poi qualcosa
volò sopra la testa dell'uomo e si andò a sfracellare contro il muro alle sue
spalle. L'uomo emise un grido di guerra e si affrettò a tornare in mezzo alla
confusione della strada.
Da dietro il bidone, si chiese quanto tempo ancora avrebbe dovuto
passare prima che qualcuno con più potere di lui riuscisse a far smettere
questa cosa. Adesso stava andando avanti un giorno dopo l'altro. Pazzia e
dolore. Odio e sangue. Non era quello che si era immaginato, non era
quello per cui si era impegnato.
Nossignore.
Qui non si tratta di qualche terra lontana fatta di risaie, di bufali
indiani e di campi minati. Questa non è l'Asia sudorientale. Questa è la
maledetta Chicago, per amor del cielo. Cose di questo tipo non succedono
da queste parti.
Una mano gli si posò sulla spalla, e lui sussultò, alzando la mano piena
di sangue davanti alla faccia come uno scudo.
Non colpirmi, amico, sono già ferito, non ho più intenzione di andare là
fuori, lasciami stare!
Ma la voce che gli arrivò dall'alto era bassa e gentile, quasi impossibile
da sentire sopra il rumore della battaglia che imperversava nelle strade.
«Hai bisogno di questo, figliolo», disse la voce.
Guardò oltre lo schermo delle sue dita rotte e vide un sorriso, e un pezzo
di carta che veniva allungato verso di lui.
«Bisogno di cosa?» chiese. La gola gli faceva male.
«Questo», disse la voce. «Leggilo. Non perderlo!»
Sollevò la mano sana e prese il foglio. Distolse lo sguardo dal sorriso per
posarlo sul volantino, che era già macchiato di rosso.
Cos'era, una cazzuta pubblicità? Venite a mangiare da Sam dopo la
battaglia, noi serviamo sia patrioti che comunisti...?
Ma c'era una fila di alberi e un sole. Sotto c'erano le parole SUNRISE.
VI DIAMO IL BENVENUTO.
Si infilò il foglio nella tasca della camicia. Forse ci avrebbe dato un'altra
occhiata più tardi. Ma adesso era ferito, e dall'altra parte del bidone c'era
un ragazzo ferito che non avrebbe resistito per molto se fosse rimasto in
quella situazione.
«Ehi, amico», iniziò. «C'è un ragazzo lì fuori, se potessi...»
Ma quando tornò a guardare in su, si accorse che il sorriso se n'era anda-
to. Il ragazzo del volantino di Sunrise era svanito. Scrutò oltre il bidone.
Le orde stavano ancora sciamando, alcune in una direzione, altre nell'altra.
Ci sarebbe voluto un po' di tempo, prima che potesse uscire.
«'fanculo», disse. Si portò al torace le dita spezzate e cercò di pensare
alla canzone A Little Help from My Friends, ma non ci riuscì perché lì non
c'erano amici. Qualsiasi amico avesse trovato prima, era là fuori da
qualche parte, e non lo avrebbe più trovato. La maggior parte non erano
per niente amici.
Nessun amico.
Nessun aiuto.
I Beatles erano fortunati, avevano entrambi.

Settembre 1968

Signore, non è possibile che mi stia succedendo questo.


Sharon si lasciò cadere in ginocchio in un cubicolo, nel bagno delle
ragazze del primo piano.
Il cuore le batteva all'impazzata.
Dio, mi devi ascoltare, pregava in silenzio. Avrebbero dovuto iniziare
oggi. Devono iniziare, sono passati quasi quattro mesi, so quando sono
iniziate! Per favore non lasciare che mi capiti questo!
Fuori dai cubicoli altre ragazze si sedettero sui lavandini tirando fuori le
sigarette. «Alla St. Mary ti fanno mettere in ginocchio e se la tua gonna
non tocca il pavimento, ti mandano a casa.» Era Susan a parlare. «Se
cercassero di farlo qua, gli direi va bene, vado a casa! Farsi buttare fuori
sarebbe uno spasso, non credete?»
«Sì.» Era Mary Jane. Lei portava la gonna più corta di chiunque altra a
scuola. Amava bere dalle fontanelle basse, in modo da doversi piegare.
Sharon strinse i pugni cercando di eliminare il suono delle voci delle ra-
gazze in caso il Signore le rispondesse. Signore, ascoltami.
Susan e Mary Jane ridacchiarono e tossirono.
Signore!
Ci fu il rumore della porta del corridoio che si chiudeva. Qualcuno si
affrettò verso i lavandini, dicendo: «Sta arrivando la prof ! Buttate via i
cicchi!»
Le porte dei cubicoli si aprirono. Le sigarette colpirono l'acqua delle toi-
lette con un sibilo, poi ci fu il rumore degli sciacquoni.
Sharon si ripiegò su se stessa e si spinse i pugni nello stomaco. Ancora,
ancora, ancora.
Va bene così? Eh? Ho detto ascolta! Perdonami subito!
Sentì che le ragazze stavano uscendo dal bagno. Dopo un attimo il
rumore dei passi dell'insegnante sulle piastrelle del pavimento. «Qualcuno
ha fumato qua dentro?»
Perdona i miei peccati, Signore!
«C'è nessuno qua dentro?»
Ascoltami! Rispondi!
L'insegnante entrò nel cubicolo accanto a quello di Sharon, si sedette, e
si liberò di un lungo peto scoppiettante.
Era tutta la risposta che Sharon avrebbe avuto.

***

Gary non pensava che il suo ginocchio avrebbe avuto bisogno di punti,
ma gli bruciava come se fosse stato di fuoco. Il taglio gli attraversava la
rotula, non era profondo, ma sanguinava tantissimo. La tuta da lavoro che
indossava era strappata, e lui non aveva niente con cui rammendarla.
Imprecò sottovoce, si toccò il taglio ancora una volta, tanto per vedere fino
a che punto poteva fargli male, poi guardò verso la strada e le macchine
che passavano.
Non si era mai buttato da un veicolo in movimento prima. Era una cosa
per cui serviva agilità, lo sapeva, ma il vecchio che gli aveva dato un
passaggio lo aveva afferrato per le sue parti intime, e non aveva avuto
alternativa. Gary aveva fatto l'autostop per tutta la strada da Chicago alla
Virginia, immaginava che si fosse trattato di un migliaio di miglia, o
almeno un paio di centinaia e fino ad ora era andato tutto bene. Una
ragazza era un po' fuori e lui non era sicuro se sarebbero rimasti in strada,
ma anche quella cosa era finita bene. Gary aveva fatto con lei una
quindicina di miglia prima di ringraziarla, io mi fermo qua, mia nonna vive
in fondo a quel vialetto, ci vediamo.
Le cose erano state sopportabili durante la settimana appena trascorsa.
Le dita rotte, che aveva tenute insieme con del nastro adesivo che aveva
strappato da un avviso di una vendita all'asta su una strada di campagna in
Illinois, sembrava che fossero in via di guarigione.
Ma questo zotico che gli aveva dato l'ultimo passaggio lo aveva portato
a considerare che forse era il caso di camminare per le ultime trenta miglia.
L'uomo era sembrato abbastanza innocuo, sulla settantina, con un berretto
dei John Deere e una pila di volantini del Farm Bureau sul sedile davanti.
Ma dopo un paio di miglia, a metà della montagna verso il Blue Ridge
Parkway, l'uomo aveva iniziato a parlare di tori.
«Sei un ragazzo di campagna, ragazzo?»
«No. Sono di Worth.»
«Dove si trova?»
«Vicino a Chicago.»
L'uomo annuì come se ne avesse sentito parlare ma non gli interessasse
veramente. Fece ruotare il braccio fuori dal finestrino del suo Ford Falcon,
indicando alla persona sulla macchina che aveva dietro di sorpassarlo e di
smetterla di stargli alle calcagna.
«Negli ultimi giorni ho vissuto sulla strada», disse Gary. «Non è stato
facile, ma finora ce l'ho fatta.»
«Ti è mai capitato di passare del tempo con le vacche?»
Gary aveva lanciato uno sguardo all'uomo senza girare la testa. Non
sapeva dove tutto questo stava portando. Forse il vecchio aveva delle
sagge considerazioni da fare e nessuno con cui condividerle. Gary decise
di lasciarlo parlare. Aveva deciso la settimana prima che avrebbe cercato
di non avere pregiudizi verso le cose. Sarebbe stato aperto verso ogni cosa,
verso ogni persona. Avrebbe abbracciato la pace e la comprensione. Non
avrebbe giudicato, e tutta quell'altra robaccia. Un voto che aveva fatto a se
stesso per compensare tutto il male che aveva visto di recente. Tutto il
male che aveva fatto. Conducimi ciecamente. Lasciami credere.
«No», rispose Gary. «Non so molto delle vacche.»
«Pensavo di sì, vista la tuta da contadino che indossi.»
Gary aveva indosso una tuta. All'inizio si era trovato un po' in imbarazzo
per questo, ma si era sforzato di superare la cosa. Quando si era lasciato la
città alle spalle, non era passato da casa. Era più facile decollare con quello
che aveva già con sé, una sacca contenente occhiali da sole, un'insegna di
cartone arrotolata, una torcia, un pacchetto di sigarette, un paio di canne,
un pettine nero di plastica e duecento dollari che gli erano rimasti dalla
primavera precedente, quando aveva lavorato come segnalatore in
un'impresa di costruzioni stradali. Dopo due giorni di viaggio si era
imbattuto in un temporale che aveva bagnato gli unici abiti che aveva, un
paio di jeans e una maglietta. Quindi aveva rubato la tuta e una seconda
maglietta, blu, con le maniche lunghe che strappò da una fila di panni
dietro a una piccola casa di mattoni che aveva trovato sulla sua strada.
Aveva lasciato qualche dollaro attaccato al filo.
Ogni due giorni Gary si cambiava d'abito. Oggi era il giorno della tuta.
«No», disse Gary, appoggiando il braccio sul bracciolo del Falcon. Gli
piaceva tenere le dita rotte verso l'alto quando poteva. «La porto solo
perché è comoda.»
Il vecchio tossì, sputò fuori dalla finestra, e risucchiò su un molare. Poi
disse: «Ti piacciono le cose comode?»
«Be'», disse Gary. Si interruppe, poi disse: «Certo».
A quella battuta l'uomo rise, anche se Gary non stava seguendo il filo dei
suoi pensieri.
«Non vale per tutti?» disse l'uomo. «A tutti piacciono le cose comode.
Cose che ti fan sentire bene.»
Gary sentì qualcosa indurirsi in fondo alla bocca, con uno scatto.
«Siamo in cima alla montagna ora, mi sembra. Mi può lasciare qua, va
bene? Non voglio farla deviare dalla sua strada.»
«No», disse l'uomo. «Vado fino in fondo. E anche tu.» L'uomo si leccò il
labbro inferiore e le sue sopracciglia bianche cespugliose iniziarono a
contrarsi.
Gary fece passare il braccio attraverso le cinghie della sacca e mise en-
trambe le braccia sul bracciolo. Tese i muscoli delle gambe.
«Sei piuttosto carino, sai, con quei capelli lunghi», disse l'uomo. «Ti pia-
ce quando qualcuno ti passa la mano nei capelli, ragazzo?»
«Mi faccia scendere», disse Gary. Il suo voto di correttezza gli fece ag-
giungere: «Per favore».
«Hai quel bel pelo sulla faccia e sul mento, come un uomo vero.
Scommetto che hai dei bei peli anche tra le gambe, vero? Scommetto che è
bello sentirli!»
E l'uomo, con un grido deliziato, appoggiò una mano sull'inguine di
Gary che spinse la porta e saltò giù.
Mentre si allontanava rotolando dalla macchina verso il ciglio della stra-
da, si accorse con sollievo che l'uomo non rallentava. La portiera aperta
della macchina si richiuse a causa della pendenza della strada e della
velocità del furgone che continuava a correre sulla montagna.
Poi Gary si sedette e vide il taglio sulla gamba.
«Dannato pervertito!» gridò Gary in direzione del Falcon che stava
scomparendo. La gamba gli pungeva e lui per un po' cercò di tenersi la
ferita. Ma il sangue diminuì e lui si alzò, prese atto del fatto che la tuta era
rovinata, e si fece scivolare la sacca sopra la spalla.
Doveva ancora percorrere circa trenta miglia, e non se la sentiva al mo-
mento di fare un altro tentativo con una macchina.
Voto di pace e comprensione o meno.

Dalla sala da pranzo giunse la voce di sua madre: «Sei venuta a casa a
piedi da scuola oggi?»
Dall'ingresso Sharon rispose: «Sì. Rachel voleva andare a fare spesa pri-
ma della partita di pallone. Io non ne avevo voglia».
I piatti che venivano rimessi a posto tintinnavano. Sua madre era sempre
puntuale, sempre corretta, sempre una buona moglie per il dottor Louis
Richards, Jr. Si cenava in sala da pranzo, mai al tavolo della cucina. I
tovaglioli erano sempre di stoffa, e i piatti sempre di porcellana.
«Cielo, Sharon. Tu e Rachel non avrete litigato, vero?»
«No.»
Sharon strinse le braccia attorno alla cartella e iniziò a salire a due
scalini alla volta, fermandosi in cima quando le venne un crampo allo
stomaco.
Sì, Signore, per favore, fa' che succeda. Il principio della fine.
Ma i crampi terminarono in fretta come erano arrivati, senza lasciare
altro che un leggero senso di bruciore. Lei percorse il corridoio verso la
sua camera da letto e si chiuse la porta alle spalle.
Buttò i libri sulla scrivania. Si sedette sul letto, facendo attenzione a non
stropicciare le coperte in modo da non doverlo rifare prima di scendere a
cena. Tutto intorno a lei c'erano arredi di buon gusto scelti da sua madre.
Sedie bianche, tende bianche, un copriletto bianco. Puro e bianco, come la
loro figlia. Su un pezzo di sughero incorniciato c'erano foto di Davy Jones
e Walter Koenig, strappati da alcuni numeri della rivista 16 Anni. Non
c'erano poster, comunque. I poster erano volgari.
Qualcuno bussò alla porta della camera da letto, e dal corridoio, Lou, il
suo fratellino, disse: «Stasera scelgo io il programma alla TV. Alle sette e
mezzo c'è uno special di Banana Split».
«Bene», disse Sharon. «Adesso scompari.»
Lei giacque sul letto e allungò il braccio per aprire il cassetto del suo
comodino. Da dentro estrasse un piccolo album di ritagli. Lo aprì, lo tenne
sollevato, e rimase a fissare i nuovi ritagli che aveva messo insieme da
aprile.
«Gli avvenimenti del giorno» per lei era sempre stata una parola sporca,
fino alla primavera scorsa. Qualsiasi cosa oltre alla città di Neison in cui
viveva non aveva niente a che fare con lei, con loro. Chi aveva tempo di
occuparsi di cose che non fossero la famiglia, gli amici e le majorette? Ma
poi Sharon si era innamorata. Lo aveva visto nel notiziario della sera, e la
sua faccia e i suoi occhi le avevano rapito il cuore. Era bello.
Il padre di Sharon lo odiava, naturalmente. L'uomo era un radicale, l'uo-
mo era un antiamericano. Voleva uguali diritti per i neri. L'uomo voleva la
fine della guerra. L'uomo era un liberale. Il governo doveva stare attento a
uomini scaltri come quello.
Gli amici di Sharon non sapevano nemmeno chi fosse quell'uomo. Beh,
forse avevano sentito fare il suo nome e di certo conoscevano suo fratello
morto, ma non leggevano mai i giornali, e non guardavano mai la
televisione se non per vedere il Selvaggio Selvaggio West e Gomer Pyle.
Bobby.
Sharon aveva scritto il suo nome su tutti i suoi quaderni. Aveva preso il
suo vecchio album dei ritagli delle girl-scout, aveva strappato via tutti i
ricordi dei campeggi e aveva dato inizio al suo libro di Bobby.
E poi lo avevano ucciso. Gli avevano sparato alla testa nella cucina di un
albergo il 5 giugno. Morì il 6 giugno. I suoi amici avevano stretto le spalle.
Suo padre aveva detto: «Se dai tempo al tempo le cose si sistemano. Scom-
metto che il governo ci ha qualcosa a che fare. Sono più furbi di quanto la
gente non voglia credere».
Il 7 giugno Sharon aveva invitato Darrell Harner a casa sua mentre i suoi
genitori erano fuori. Nel cortile, dietro il gazebo, aveva scopato la stella
del calcio per alleviare il suo dolore.
La cosa non aveva aiutato. Aveva passato il resto dell'estate ad evitare le
telefonate insistenti di Darrell.
E adesso.
Sharon delicatamente rimise l'album nel cassetto. Poi si diede ancora un
pugno sullo stomaco, stringendo i denti, stavolta implorando il Diavolo,
dal momento che Dio non sembrava interessato.

***

La serata era appena all'inizio. Molte macchine lo avevano superato


mentre si dirigeva sulla cima della montagna, ma lui si era allontanato dal
ciglio e le aveva ignorate. Un furgone Volkswagen, pieno di quelli che
sembravano studenti del college rallentò persino e suonò il clacson. Una
ragazza che era seduta davanti gli chiese se voleva infilarsi dentro con
loro, si stavano dirigendo a Virginia Beach, ma Gary aveva fatto un cenno
di no con la mano. Nel suo corpo i lividi si erano gonfiati nei posti più
strani, e ad ogni passo sentiva il bruciore di nuove ferite. Se il tormento
fisico era purificatore, allora doveva essere puro come acqua piovana. A
dispetto di quello che doveva apparire.
Quando raggiunse i cartelli stradali che annunciavano che mancava solo
un miglio e mezzo alla cima della montagna, Gary si trovò un angolo
morbido, pieno di muschio, sotto un albero. Si lasciò cadere nel
sottobosco, appoggiò la testa alla corteccia, e si appisolò.
Sognò guerra e sangue, e non fu senza sollievo che si svegliò sotto la
pioggia che gli bagnava la tuta.

Le discussioni all'ora di cena ruotavano attorno a suo padre, naturalmen-


te. Mentre la madre di Sharon faceva passare i piatti di portata intorno al
tavolo, sorridendo e annuendo al ritmo del monologo di suo marito, Louis
Richards Jr., medico chirurgo, discuteva di un magazzino che aveva
appena acquistato.
«Ci farà mettere insieme un bel gruzzoletto nel prossimo futuro», disse.
«Dividerò il posto in piccole unità, ognuna con la propria porta e la chiave.
Potrò affittare le stanze su base mensile.»
«Mmm», disse la mamma di Sharon.
La famiglia era seduta in sala da pranzo. Sharon, i suoi genitori, e il suo
fratellino Lou. Lou Terzo. Lou era nervoso, sperava che la cena finisse
prima che arrivasse il momento degli Split.
«Deve essere confortevole, disponibile 24 ore al giorno. Bisogna
assumere una guardia che controlli. Credo di poter ricavare circa 100 unità
da quel posto.» Il papà prese un boccone di polpettone. Era un polpettone
orribile. La mamma era brava come arredatrice, ma era una cuoca penosa.
Ma il dottor Richards aveva ben altro in mente per accorgersene.
«La cosa buffa è che l'ometto che possedeva il magazzino non aveva
idea della miniera d'oro sopra a cui era seduto. Ho pagato una stupidata per
comprarlo. L'ignoranza di rado è una benedizione, vero?»
«No, davvero non direi», disse la mamma di Sharon.
Sharon disse: «Non sto bene. Voglio andare di sopra».
«Hai bisogno di Pepto-Bismol?» Sua madre finalmente la guardò. «Non
puoi stare male, cara, domani siamo a pranzo dai tuoi nonni.»
Il dottor Richards disse: «Triplicherò l'investimento in meno di due anni,
ho calcolato. C'è qualche altro magazzino nella zona a sud della città che
voglio prendere prima che qualcun altro immagini cosa ho in ballo».
«Posso allontanarmi? Per favore?» I pugni di Sharon si contraevano e si
allargavano. Se li mise in grembo, in modo che i suoi genitori non li
vedessero. Non c'era niente che odiassero di più che veder perdere il
controllo delle proprie emozioni.
«Tesoro?» disse sua madre, che a quel punto stava aspettando che suo
padre le desse un indizio. Lui sbatté i denti, poi fece sventolare la mano
nell'aria, un modo un po' irritato per permetterle di andare.
Sharon salì in bagno. Si sedette sulla toilette e si guardò tra le gambe
alla ricerca del segno che, o il miracolo per cui aveva pregato aveva
funzionato, o che almeno avevano funzionato i pugni che si era data.
Si liberò e guardò. Non c'era altro che pipì.
Andò in camera sua, col cuore che le batteva, e per un attimo si sedette
sul bordo del letto. Poi afferrò la borsa, saltò fuori dalla finestra, sopra la
veranda, e si lasciò cadere a terra.
Per un attimo pensò di andare a casa di Darrell, ma sarebbe stato inutile.
Lui non aveva niente da perdere. A lei stava costando tutto.
«Un investimento davvero brutto, papà», disse. «Non ti vanterai di
questo alla prossima riunione di famiglia.»
Percorse il vialetto fino alla strada, e iniziò a camminare dirigendosi
verso est, verso i piedi della montagna. Prima di aver superato un isolato,
stava già rabbrividendo nell'aria della sera.

Raggiunse la vetta della montagna, sudando e pieno di dolori. Il sangue


che si era asciugato sul suo ginocchio prudeva. Ma la vista della vetta lo
liberò di parte del dolore. Ad un belvedere vuoto si appoggiò a un muro di
pietra e si mise a guardare. Sembrava che queste vaste montagne blu sorri-
dessero. Miglia e miglia di dorsali ammorbidite dagli alberi. Le strade
erano nascoste dalla natura, le case, se ce n'erano, inghiottite. Le nuvole
stavano sospese in alto, e davano la sensazione di essere pronte a scendere
per abbracciare il mondo.
«Sì», disse Gary. Tirò un profondo sospiro. «Sì.»
Era quasi arrivato. Lo poteva sentire. La tensione della settimana appena
passata si allontanò da lui come l'aria da un vecchio pallone. Sollevando le
braccia spinse la testa all'indietro e sorrise al cielo.
Sotto di lui, dagli alberi della montagna, si udì nell'aria un fruscio di ali
e, in un istante, si trovò attorniato da uno stormo d'uccelli, di fianco, di
sopra. Gary disse: «Oh, sì». Gli uccelli si divisero e scomparvero.
Gary lasciò il belvedere per riprendere la strada.
Nelle vicinanze, trovò un minuscolo angolo civilizzato, una stazione di
servizio e un ristorante Howard Johnson. Gary, che non aveva orologio,
indovinò che dovessero essere circa le otto di sera, quindi la maggior parte
dei clienti se n'era già andata. Nel parcheggio erano rimasti pochi veicoli.
L'arancione del tetto aveva bisogno di una mano di vernice.
Gary spinse la porta del bagno della stazione di servizio, ma era chiusa a
chiave. Trovò un rubinetto dell'acqua sulla facciata laterale dell'edificio, se
ne versò un po'nelle mani piegate e se la buttò sul viso. Si specchiò nella
vetrina della stazione di servizio, più curioso che disgustato da quello che
aveva visto. Adesso i capelli gli scendevano oltre le spalle, dritti e castani.
Li aveva lavati il giorno prima in un torrente di montagna, ma erano
ancora piatti e unti. La barba era cespugliosa. Aveva gli occhi cerchiati a
causa del poco sonno e del fatto che dormiva su mucchi di foglie
ammassate e coperto dalla sua sacca.
E il suo stomaco era arrabbiato per la mancanza di attenzione che aveva
ricevuto da Chicago. C'era stata una lunga parata di panini e fagioli bolliti
in bettole in piccole città in mezzo all'asfalto. A volte non gli era nemmeno
stato permesso di entrare in queste bettole perché ai padroni non piaceva il
suo aspetto, quindi i suoi pasti erano stati avanzi assortiti presi dai bidoni
sul retro.
Stasera, comunque, voleva qualcosa da poter gustare, qualcosa su cui
poter chiudere gli occhi mentre cantava una facile canzone alle sue papille
gustative.
Vongole, pensò. Vongole, pane caldo e un'insalata. Si pulì le mani nella
tuta, si passò le dita tra i capelli e si annusò sotto le ascelle.
Il risultato non fu eccezionale, ma probabilmente l'interno del ristorante
aveva l'aria condizionata e non si sarebbe notato molto.
Mentre camminava verso l'ingresso, l'insegna dell'Howard Johnson tossì
e prese vita. Insetti volanti furono immediatamente attratti dal suo tono
monotono. Gary si fermò nel parcheggio, si accese una sigaretta, e tirò
alcune boccate. Dal ristorante uscì una coppia, a braccetto, e si fermarono
a baciarsi sugli scalini esterni. Gary si permise un tenue sorriso, ecco
l'amore. Esisteva ancora in piccole parti del mondo, anche tra queste
montagne blu della Virginia.
Il ragazzo si allontanò dalla ragazza, guardò Gary e disse: «Qual è il tuo
problema, lurido hippy?»
Ma anche in Virginia, l'amore non era cieco.
Il ristorante era un Howard Johnson. Sharon c'era venuta un sacco di
volte quando la sua famiglia viaggiava durante il fine settimana lungo la
Parkway per andare a Raven's Roost. Ma non era mai salita in cima alla
montagna a piedi prima, non aveva mai camminato per le quattro miglia
che c'erano tra Neison e la vetta, e il ristorante era un tempio meraviglioso
per un pellegrino stanco.
Sharon si sedette per un attimo sul paraurti di una station wagon nel par-
cheggio, dopo essersi tolta dai piedi doloranti le scarpe da tennis.
Anche se il suo corpo era stanco, la sua mente era fresca e sprezzante.
Ma adesso cosa farai? insisteva. Sharon cercò di scacciare la domanda.
Non voleva pensare a niente adesso se non a prendere qualcosa da
mangiare e da bere. Aveva la gola secca per la difficoltà di respirare in
salita.
Dopo aver mangiato, avrebbe considerato ancora la sua situazione e le
sue due scelte. Un salto dal belvedere o la vita con i suoi genitori e il
bambino e il marchio, l'odio verso se stessa e la vergogna.
Ambaraba-cicci-coccò.
Si rimise le scarpe ed entrò nel ristorante. La cameriera la fece sedere in
un séparé. Sharon scivolò sulla sedia di finta pelle e si sfregò gli occhi.
Sapeva che dietro c'erano le lacrime, ma non volevano uscire. Andava
bene così. Piangere non avrebbe fatto bene a nessuno. Mentre aspettava
che la cameriera le portasse dell'acqua e il menù, si accorse di un cliente
che era seduto in un séparé vicino al suo.
Era un uomo piccolo, con lunghi capelli scuri che gli arrivavano alle
spalle, con una barba nera, incolta. Di certo non era di queste parti. Dava la
sensazione di aver dormito in un fienile. Aveva gli occhi posati sulla
finestra del ristorante su qualche punto lontano e immobile. Sharon lo
osservò velocemente, poi frugò nella borsa alla ricerca di qualche soldo
che le bastasse almeno per una Coca e una ciotola di zuppa.
Programmazione eccellente, Sharon. Lou ha un maialino pieno che ti
saresti potuta portare dietro.
Fu il sospiro dell'uomo che riportò l'attenzione di Sharon su di lui, e
l'espressione corrucciata delle sue sopracciglia che la spinse a guardarlo
così a lungo che lui si accorse di lei. L'uomo spostò lo sguardo dal punto
fuori della finestra a lei. Aveva gli occhi scuri come i capelli, e l'intensità
delle sue emozioni, paura, rabbia, dolore, non ne era sicura, la tennero
inchiodata allo schienale della sua poltrona e le fecero mancare il fiato.
E poi lei annuì lentamente, un gesto gentile e benigno che le aveva inse-
gnato sua madre («Sii gentile con gli estranei, non troppo, ma non essere
mai sgarbata, Sharon»), e riportò l'attenzione sulla sua manciata di
monetine.
«Posso aiutarti?» La cameriera non doveva essere più vecchia di Sharon
e stava masticando una gomma.
«Non ho avuto il menù», disse Sharon. «Quanto costa la zuppa di
vongole?»
«Una tazza quarantanove centesimi», disse la cameriera. «Una ciotola
sessantanove.»
«E con il chili?»
La gomma scoppiò. «Lo stesso. Vuoi un menù?»
«E una minestra? L'avete la minestra, vero?»
La cameriera si mise una mano sul fianco. «Abbiamo la zuppa.»
«Quanto costa il minestrone?»
Voltò gli occhi all'indietro, mentre la gomma le compariva agli angoli
della bocca. «Ti porto il menù.» Si allontanò. Sharon guardò le monete che
aveva in mano.
Aveva un dollaro e sedici centesimi, senza contare le poche monetine da
un penny che potevano essersi infilate tra le pieghe della sua borsa. Una
tazza di minestra e un bicchiere d'acqua per adesso sarebbero dovuti
bastare. Il suo stomaco, che a casa aveva rifiutato il polpettone, adesso
borbottava.
Sharon si alzò e si diresse in bagno. Non voleva essere al tavolo quando
la cameriera le avesse portato il dannato menù. Per un minuto, fece
scendere l'acqua nel lavandino e ci fece giocare le dita. Il calore era
piacevole, il vapore che saliva verso il suo mento le faceva arricciare i
capelli che erano scappati dalla treccia, come se fossero stati dei nastri per
avvolgere i pacchi.
«Che il Signore abbia pietà», sussurrò.
Uscì dal bagno delle signore e si diresse al suo posto. La cameriera stava
posando il menù, quindi Sharon indugiò vicino al carrello dei dolci finché
non la vide allontanarsi. Poi si andò a sedere.
Vicino al menù, con un angolo che usciva da sotto la saliera, c'era un
biglietto da cinque dollari.
Prima non c'era.
Sharon toccò il biglietto, poi si guardò intorno. Dietro di lei, due genitori
con tre bambini, ammassati in un séparé, stavano discutendo con una delle
bambine che si rifiutava di mangiare il suo cheeseburger. Dall'altra parte
del ristorante, sugli sgabelli davanti al bancone, delle persone, da sole,
masticavano la loro cena fissando il piatto. Nel séparé davanti a lei, l'uomo
con la barba guardava qualcosa fuori della finestra.
Il biglietto era stropicciato, arrivava chiaramente dalle tasche di
qualcuno. Il papà di Sharon teneva sempre le banconote piegate con ordine
nel portafogli. Questo sembrava essere stato infilato velocemente in una
tasca e tirato fuori di nuovo. Sharon lo tolse da sotto la saliera.
La cameriera era tornata. Stava facendo un pallone con la gomma.
«Hai guardato il menù?» chiese.
Sharon sentì la pelle del viso irrigidirsi. «Ti sei guardata allo specchio?
Con quella gomma sembri un tanghero. Sei disgustosa.»
Gli occhi della cameriera si fecero piccoli. Esitò, combattendo alla
ricerca di qualcosa da dire. Poi fece un sorriso sprezzante e disse: «Cosa
hai deciso che ti puoi permettere con un dollaro? Signora?»
Sharon si alzò, si infilò il biglietto da cinque dollari nella tasca della
gonna e disse: «Io posso permettermi di uscire da questo posto. E tu sei
bloccata qua. Divertiti».
Fuori era buio. Sharon si diresse all'estremità del parcheggio e rimase in
piedi, con le braccia conserte, tenendosi i gomiti con le mani. Le lacrime
cercarono di scendere, ma Sharon si morsicò l'interno della guancia per
fermarle. Le luci del ristorante sopra la sua testa ronzavano come un
calabrone prigioniero sotto un vetro.
«Hai bisogno di questi?»
Sharon si guardò intorno, con le dita che stringevano ancora il gomito, e
vide l'uomo che era stato seduto nel séparé accanto al suo. Era davvero
piccolo, non più di un metro e sessantacinque, e i suoi abiti erano orribili.
Una maglietta di cotone blu senza maniche e una tuta che sembravano
passate sotto un camion. Le stava tendendo una manciata di tovaglioli.
«No. Grazie.»
«Sicura?»
Lei annuì.
L'uomo doveva avere al massimo vent'anni. Sembrava uno di quegli hip-
py che Sharon aveva visto sui giornali. Disordinati. A brandelli. Aveva una
sacca che sembrava quasi vuota. Si chiedeva se fosse un radicale, un
comunista. Desiderava che se ne andasse.
Lui rimase lì in piedi.
Lei disse: «Cosa vuoi?»
«C'è niente che possa fare per aiutarti?» Aveva una voce bassa e senza
pretese. «Non hai preso niente da mangiare là dentro. Ho dei cracker, che
mi sono avanzati dalla zuppa.»
«No», disse lei. «Grazie. Ma immagino che accetterò i tovaglioli, dopo
tutto.»
Lui glieli diede. Lei si sfregò la faccia.
«Nient'altro?»
«No.»
L'uomo annuì. Si allontanò di qualche metro, poi si sedette su una grossa
pietra sul margine del parcheggio. Fissò la strada nello stesso modo in cui
aveva fissato fuori della finestra del ristorante.
Sharon si infilò i tovaglioli nella borsa. C'era un belvedere non lontano,
sulla strada. Bobby aveva fatto una fine violenta. La sua sarebbe stata
simile. Si chiedeva se la testa le si sarebbe aperta come il cranio di
qualcuno a cui sparano alla testa. Si chiedeva se meritava lo stesso tipo di
morte che era toccata a Bobby. Pietro non si era fatto crocifiggere a testa
in giù perché si riteneva indegno di morire nello stesso modo in cui era
morto Gesù?
Si diresse sulla strada.
D'impulso, chiamò l'uomo: «Ti auguro una vita felice». Fu quel
commento, si rese conto più tardi, che mandò all'aria tutti i suoi piani.

Fu il suo ultimo commento prima di dirigersi verso la strada che spinse


Gary a seguirla. Una vita felice?
Le sue guance si contraevano per l'ansia. Rimase un po' in distanza,
mentre la guardava muoversi, alla luce della luna screziata dalle nuvole,
poiché non voleva che lei pensasse che era un uomo pericoloso che le
strisciava dietro, ma volendo che lei sapesse che lui c'era, in caso avesse
bisogno.
Bisogno di cosa?
«Cazzo, non so», sibilò tra i denti. La ragazza era giovane, forse aveva
diciassette o diciotto anni, indovinò. Era alta, con i capelli rossi raccolti in
una treccia che le arrivava a metà della schiena. Indossava una minigonna
verde e una camicetta senza maniche. Gary scommise che doveva avere
freddo, con la brezza della montagna che spirava. Non aveva nient'altro
che una borsetta. Deve essere una ragazza del posto che è uscita a fare una
passeggiata.
Per qualche ragione pensava che avrebbe seguito la lunga strada di mon-
tagna giù, fino alla piccola città che c'era in fondo, ma invece lei girò verso
il belvedere. Gary si fermò vicino a un vecchio acero che si trovava
all'ingresso del belvedere e rimase a guardare. La ragazza arrivò al muro di
pietra che separava i turisti dal vuoto della montagna. Rimase in piedi e
guardò la valle in distanza, e i puntini delle luci che indicavano la presenza
umana, il dominio umano sul buio.
È graziosa, pensò.
E poi lei salì sul muretto di pietra facendo ondeggiare le braccia
all'indietro, e Gary pensò: Pensa di saper volare?

Fece roteare le braccia all'indietro, come pistoni che si preparassero alla


spinta. Le persone buone morivano sempre. Vecchi, giovani. Gente
famosa, quelli senza un nome.
C'era libertà nella morte. C'era innocenza nella morte. Nessuno avrebbe
dovuto sapere la verità.
«Signore, guardami. Mi pento.»
Si sporse in avanti, mentre l'improvvisa corrente che portava su l'aria
fragrante della valle la tenne sospesa per il più piccolo degli attimi.
«Mi pento. Io...» Saltò giù dal muro all'indietro. Colpì una pietra col gi-
nocchio e si strappò un grosso pezzo di pelle.
«Dannazione», disse. «Non posso.» Inspirò profondamente, mandando
in frantumi le sue speranze e la sua visione. «Dannazione.»
E all'improvviso qualcuno stava correndo verso di lei e la afferrava e la
gettava sulla ghiaia del vicino parcheggio.
La sua testa rimbalzò, una volta, sul terreno. Combatté per liberarsi. Le
sue mani si agitarono nell'aria. L'uomo con la barba era lì e la fissava.
«Cosa diavolo stai facendo?» gridò Sharon. L'uomo si sedette
all'indietro sui talloni senza dire niente. «Allontanati da me!»
Il respiro dell'uomo era irregolare, pesante, come se fosse stato
altrettanto spaventato di lei. Si sfregò la faccia. Poi si lasciò cadere seduto
e si grattò la barba.
«Ho detto di andartene!» gridò lei.
«Pensavo...» iniziò lui.
«Cosa», gli chiese Sharon. Gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo sulla
spalla. «Cosa credevi?»
«Pensavo che volessi buttarti.»
Sharon esitò. «E anche se fosse? Non è affar tuo. Chi sei per permetterti
di mandare a monte quello che voglio fare?»
Sharon pensò di aver visto le sue spalle sollevarsi ed abbassarsi, come
per fare spallucce.
Sharon indicò le gocce di sangue sulle sue ginocchia sbucciate. «Mi hai
fatto fare male», disse.
«Mi dispiace.»
Sharon si spostò indietro per andarsi ad appoggiare al muro di pietra. Di
cosa diavolo si tratta, Signore? Stai aggiungendo insulti all'ingiuria?
Come l'uomo con la barba, anche Dio non disse niente.
Dopo un minuto, Sharon disse: «E chi sei, comunque?»
L'uomo non la guardò. Disse: «Gary».
«Okay, Gary, non dovresti essere così ansioso di farti gli affari degli
altri.»
Rimasero in silenzio. Poi Sharon disse: «Adesso te ne puoi andare».
Gary guardò in su verso le stelle, poi di nuovo verso Sharon. «Ho
tempo.»
«Tempo per cosa?»
«Tempo per non andarmene ancora.»
Sharon chiuse gli occhi. Anche se era incinta solo di tre mesi, pensava di
riuscire a sentire il movimento del feto dentro di lei, come un piccolo
pesciolino rosso che controlla i confini della sua vasca. Se solo fosse stato
così semplice, prendere una rete e tirarlo fuori e buttarlo fuori, dove avreb-
be boccheggiato un po' e poi sarebbe morto. Se solo avesse avuto il denaro
per andare a Londra come facevano le ricche signore. Il papà aveva i soldi.
Sharon non aveva altro che una rabbia legittima e un ginocchio sbucciato.
Rabbrividì violentemente.
Gary guardava oltre. Nella pallida luce della notte, Sharon vide la stessa
intensa emozione che gli aveva visto negli occhi al ristorante. Trattenne il
fiato. Era allo stesso tempo spaventoso e curioso.
«Hai freddo?» le chiese Gary.
Lo aveva. «No.»
«Hai i brividi. Ho un'altra camicia, nel sacco. La vuoi?»
«Non puzza come te?»
Gary si strinse nelle spalle. «Non so. Forse. Ma questo non la rende
meno calda.»
«No, grazie.»
«Sto andando verso sud, non molto lontano», disse Gary. «A circa venti-
cinque miglia sulla Parkway. A cercare un posto che si chiama Sunrise. Tu
sei di queste parti?»
«Sì.»
«Hai sentito parlare di Sunrise?»
«No.»
Gary annuì. «È un posto meraviglioso, anche se non ci sono mai stato.
Ho scoperto che esiste circa una settimana fa e da allora lo sto sognando.
Un posto in cima alla montagna. È la risposta a quello che ho sempre
voluto. Pace. Libertà.» Gary mise la mano nella tasca davanti della sua
tuta. Ne tirò fuori un volantino piegato. Lo porse a Sharon. Era stampato
con un inchiostro da stampa viola, come gli stampati della scuola.
«È difficile leggerlo al buio», disse Sharon.
Gary aprì il sacco e ne estrasse la torcia. L'accese e la porse a Sharon.
Lei lesse l'avviso.
SUNRISE. VI DIAMO IL BENVENUTO. NON TROVERETE
QUELLO CHE STATE CERCANDO DA NESSUNA ALTRA PARTE.
VI AMIAMO ANCHE SE NON VI CONOSCIAMO ANCORA. VENI-
TECI A TROVARE.
«Di cosa si tratta?» disse Sharon.
«Di quello che dice di essere. Io sto cercando un posto in cui vivere.
Lontano da tutte le schifezze con cui ho avuto a che fare durante l'ultimo
anno.»
In cima al volantino c'era un disegno di alberi e di un sole che sorrideva.
In fondo c'erano delle indicazioni.
«Viaggio da Chicago per trovarlo.»
«Chicago? Mi sembri un contadino», disse Sharon. Gli restituì il
volantino.
Gary se lo infilò in tasca. «Vuoi venire con me?» le chiese.
«Perché pensi che dovrei farlo. Vivo a Neison, giù in fondo alla monta-
gna. Vengo da una buona famiglia, mio papà fa il dottore.» Trasse un
profondo sospiro. Faceva male. «Non sono una vagabonda. Non ti conosco
nemmeno. Mi potresti uccidere in un secondo.»
Mi ucciderai, Gary? Fallo in fretta. Sparami in testa.
«Immagino di avere avuto l'impressione che non sapessi dove andare»,
disse lui.
Una ciocca di capelli si infilò nella bocca di Sharon, lei la spinse via,
con rabbia. Lui non l'avrebbe uccisa, dopotutto.
«Allora te ne vai?» chiese Gary. «Torni a Neison?» Sharon aprì la bocca
per parlare, per dirgli di sparire, per dirgli di limitarsi a ucciderla, per dirgli
che era incinta e che non riusciva a credere che avessero ucciso Bobby, lui
era bello, oh, così bello, ma gli occhi di quest'uomo erano belli come quelli
di Bobby, e questo uomo brutto che puzzava, con la sua tuta stracciata,
aveva gli occhi pieni di preoccupazione e di interesse. E quindi tutto quello
che ne uscì fu un fiume di lacrime e di singhiozzi strazianti. Le prime
lacrime che versava dal 6 giugno. Se lo avesse saputo suo padre avrebbe
applaudito il suo stoicismo.
Gary le si precipitò accanto e le cinse le spalle con un braccio. Lei
appoggiò il viso alla spalla di lui. Aveva il naso chiuso per il pianto quindi
l'odore non era così terribile.
E lui era caldo.

Il mattino provava dolore dappertutto. La ragazza aveva dormito contro


la sua spalla per un periodo molto lungo, e lui era rimasto seduto
immobile, per lasciarla comoda. Aveva il braccio addormentato e pieno di
spilli. Aggiungici il taglio al ginocchio e le dita rotte, e lui era a pezzi. E
adesso che il cielo si era appena svegliato ed era arancione, Gary doveva
pisciare.
«Ehi», disse, scuotendola.
La ragazza grugnì.
«Ehi, mi devo alzare.» Gli occhi della ragazza sbatterono, poi si
aprirono. Lei fissò Gary, con le sopracciglia inarcate per l'incredulità.
«Devo alzarmi. Spostati.»
La ragazza sbatté gli occhi, poi si ritrasse. «Cosa è successo?»
«Hai dormito. Adesso mi devo alzare.»
«Ho dormito qua?» chiese.
«Sì.» Gary si alzò. C'erano degli alberi in fondo al belvedere. Una corsa
veloce e in pochi secondi avrebbe sistemato tutto.
«Ho dormito qua con te?»
«Sì. E io devo fare la pipì.» Si sentiva stupido, come se le avesse chiesto
il permesso. Disse: «Faccio in un attimo».
Gary corse verso gli alberi e si mise dietro una quercia con un grosso
tronco. Mentre si slacciava la tuta e si liberava, si chiese se lei se ne
sarebbe andata mentre era occupato. Era strana, ma aveva bisogno di
qualcosa. Non sapeva nemmeno come si chiamava.
Uscì dagli alberi e camminò sulla ghiaia verso il muro di pietra. La
ragazza era in piedi, e stava frugando nella borsa alla ricerca di qualcosa.
Sembrava arruffata, ma sempre graziosa.
La ragazza si girò quando lo vide. Si accigliò. «Devo andare», disse lei.
«Pensavo che non volessi andare a casa. La notte scorsa sembravi così
triste, così spaventata.»
La ragazza arrotolò la lingua tra i denti. Si mise a fissarsi i piedi. «Le
mie scarpe hanno un aspetto terribile.»
«Meglio delle mie.»
«Anch'io ho un aspetto orribile.»
Gary non disse niente.
«Non è vero?»
«Mi sembri a posto. L'aspetto non è tutto.»
La ragazza scosse la testa. «Ti sbagli. L'aspetto dice alla gente delle
cose. L'aspetto è importante, dice che tipo di persona sei. Mia madre non
mi lascia nemmeno andare a far la spesa con i pantaloni. Devo indossare
dei vestiti. I vestiti dicono alla gente che mi prendo del tempo per me
stessa. Che ho classe.»
Gary disse: «Cosa ti dice il mio aspetto?»
«Con te non saprei.»
Gary si fece scivolare le mani nella tasca della tuta. «Bene», disse.
«Devo trovare Sunrise. È stato bello incontrarti...»
«Sharon», disse lei.
«Sharon.»
Lui sollevò la sacca e se la buttò sulle spalle. Fece un sorriso alla
ragazza, l'unica cosa che le poteva offrire. Poi si girò e passò il cavalcavia.
Tra venticinque miglia. Verso sud sulla Parkway.
«Forse dovrei venire con te», lei gli gridò dietro. «Cioè, se non ti
dispiace avere compagnia.»
Gary si girò di nuovo verso di lei. «No», rispose. «Non mi dispiace.»
Lei si mise la borsa sulle spalle e si mise a camminare sulla ghiaia con la
treccia che si agitava. «Facciamo colazione prima. Ho cinque dollari.»
Gary annuì. Si incamminarono.

Si era presentata una terza scelta. Non un tuffo dal belvedere, né


ritornare dai suoi genitori. Ma camminare appresso ad un uomo pieno di
lividi e in disordine con indosso una tuta verso un posto nelle montagne di
cui non aveva mai sentito parlare.
Camminarono per almeno quindici miglia prima che iniziasse a fare
buio. Sharon era stanca, ma strinse i denti e non lo fece vedere. Ogni volta
che una macchina passava, e lei suggeriva che facessero l'autostop, lui
rispondeva di no.
Parlarono, prima della vita selvaggia che vedevano sui margini della
strada, poi della famiglia, poi degli avvenimenti del momento. Sharon
chiese a Gary cosa pensava dell'assassinio di Bobby Kennedy. Lui le disse
che era un maledetto peccato.
Sharon pensò che le sarebbe piaciuto quest'uomo, nonostante la sua tuta.
Un altro miglio, e Sharon disse a Gary di essere incinta.
Alle sei e mezzo, Sharon si fermò stanca morta e aspettò che Gary si
accorgesse che non gli stava più dietro. Lui si fermò dieci metri più avanti
e si guardò alle spalle.
«Cosa succede?»
Sharon sospirò. «Vorrei che tu ripensassi all'idea di chiedere un passag-
gio. Cosa abbiamo ancora domani? Altre dieci miglia?»
«Se il passaggio si dimostra un pericolo?»
«E se non lo è? La maggior parte della gente è gentile, non è vero?»
«Non so.»
«Se ci tagliano la gola non darne la colpa a me. Okay?»
«Stasera ci riposeremo e inizieremo domani.»
«Aspetta, arriva qualcuno.» Sharon inclinò la testa, ascoltando il veicolo
che si avvicinava dalla curva.
«Io no...»
Sharon iniziò a fare dei cenni con la mano. «È un vecchio. Mi sembra a
posto!»
«Bene», disse Gary. Il camioncino vibrò sulla strada e accostò. Sharon si
avvicinò al finestrino e parlò a voce bassa per un momento. Poi fece un
cenno a Gary. «Va nella nostra direzione! Muoviti.»
Gary raccolse la sua sacca e si avvicinò. «Se il tipo inizia a parlare di
mucche, io me la filo prima che tu faccia in tempo a strizzare gli occhi.»
«Cosa vuoi dire?»
«Niente.»
Il guidatore si chiamava Mitchell. Non aveva niente da dire sulle
mucche e le tute. Sharon era seduta tra i due uomini.
«Mancano solo dieci o quindici miglia a Conner Falls, e il tuo volantino
dice che il posto è da quelle parti», disse lei.
Gary annuì ma non disse niente.
Andava bene, pensò lei. Se lui non apprezzava la cosa lo avrebbero fatto
almeno i suoi piedi.

La macchina si fermò a un emporio vicino alla Parkway. Una spessa


nebbia stava iniziando a scendere dalle alte montagne che si trovavano
intorno.
«Devo fare una telefonata», disse l'uomo a Gary e a Sharon. «Devo av-
vertire mia moglie che mi ci vorrà un'altra ora. Quando diventa così, ci
vuole un sacco di tempo ad arrivare alla fattoria. Lei si preoccupa.»
Mentre Mitchell si dirigeva alla cabina del telefono vicino alle pompe
della benzina, Gary e Sharon entrarono nel negozio. Era passato molto
tempo da quando avevano mangiato i cracker tutti sbriciolati di Gary e le
ciambelle da Howard Johnson e Sharon aveva più che fame.
L'interno del locale profumava di scatole per gioielli di pino e ricordini
della montagna in plastica. Ogni vacanza in montagna che Sharon aveva
fatto con la sua famiglia aveva gli stessi odori. Dietro il bancone c'era una
vecchia con un rossetto rosso acceso e degli occhiali cerchiati di blu.
Schioccò le labbra con disprezzo, e disse: «Cosa volete? Tra dieci minuti
chiudo».
Sharon sentì pruderle le mani per la rabbia improvvisa. «Mi scusi, siamo
clienti.»
«Mi chiedo di che tipo», disse la donna.
«Non le interessa che i clienti entrino nel suo negozio?»
Gli occhi della donna si fecero piccoli. «I clienti hanno l'aspetto dei
clienti. Ne vedo in continuazione. Voi non lo siete.»
Gary disse a bassa voce: «Sharon, calma, andiamocene».
«Voi due avete l'aspetto di quei balordi che vivono in fondo alla strada»,
continuò la donna. «Non mi fido di loro e non mi piace averli intorno. E se
potessi li scaglierei giù dalla montagna.»
Sharon si avvicinò al bancone, con le mascelle serrate. «Come osa
parlare di aspetto? Sua madre non le ha insegnato la più elementare
cortesia. Chi diavolo crede di essere?»
«Sharon», disse Gary. Sharon lo udì avvicinarsi. Lui le toccò il braccio.
Lei si ritrasse.
«Immagino che le buone maniere non arrivino a questo punto delle mon-
tagne, vero?» Sharon sperava che la donna si sarebbe lasciata andare a
litigare con lei. Una bella battaglia sarebbe stata positiva adesso. Nessuna
filosofia, solo una bella urlata come ai vecchi tempi. Come quelle che
faceva con sua madre per i vestiti o la lunghezza delle gonne.
E sono incinta. Mamma, ti farebbe piacere?
Ma la donna era così arrabbiata che non riusciva né a parlare né a
muoversi. Aveva gli angoli degli occhi che le tremavano per la rabbia.
Aveva le mani come paralizzate sul bancone.
Per un lungo istante ci fu silenzio. Poi Gary disse: «Immagino che
sarebbe inutile chiederle le indicazioni per il Sunrise Camp?»
Lo fu.

***

Per un po' camminarono senza parlare. La nebbia accarezzava la faccia


di Gary, e lui sentiva il potere purificante delle sue mani fredde e umide.
Conducimi in questo ciecamente, pensò. Voglio credere. Era così
emozionato, che faceva fatica a deglutire. E Sharon, sapeva di esserne già
innamorato.
Lei era esausta, lo vedeva. Non manca più molto, continuava a dirle. E
lei non si lamentava.
Mitchell, che stava riagganciando il telefono quando Sharon e Gary
uscirono dal negozio, aveva dato loro le indicazioni.
«Vedete la Strada 947 vicino all'emporio in direzione est? Seguitela per
un quarto di miglio, poi c'è una strada di ghiaia che non è nemmeno
numerata. Penso sia la strada che porta a Sunrise. Comunque, perché
volete andare là? Non ci sono che hippy. Se volete la mia opinione, i
federali dovrebbero prenderli a calci nel sedere, farli sgombrare e farli
scomparire da qualche altra parte.»
Gary disse solo: «Grazie per le indicazioni».
La strada che portava a Sunrise si trovava ad almeno mezzo miglio sulla
Strada 947. La superficie di ghiaia era facile da seguire, ma impossibile da
prevedere. Riuscivano a vedere a circa due metri di distanza, ma non oltre.
La torcia di Gary si spense dopo pochi minuti di questa strada. Sembrava
che le curve li portassero a spirale verso l'alto finché sembrava impossibile
potere andare ancora oltre. Era come camminare nel paradiso. Gli alberi
che si vedevano sul ciglio della strada avevano l'aspetto di fantasmi. Ogni
pochi minuti la luce della luna penetrava la nebbia, ma poi svaniva, e i due
dovevano ricominciare a muoversi fidandosi solo del loro intuito.
«Come diavolo faremo a sapere quando arriviamo?» chiese Sharon.
«Penso che lo sapremo e basta.»
Io lo saprò. Ci siamo quasi, ci siamo quasi.
Camminavano.
Sharon disse: «Vuoi cantare? Conosco tutte le canzoni dei Monkees».
«Io no.»
«Cosa ne dici di Yellow Submarine?»
Gary scosse la testa. Questo era un momento importante: non poteva
cantare di una festa in fondo all'oceano.
«A me piace cantare. Di solito cantavamo al campeggio delle Scout,
quando eravamo fuori tra i boschi come adesso.»
«È bello», disse Gary.
Sharon prese fiato. Iniziò a cantare. «Quando guardo in cielo vedo i tuoi
occhi, di una strana specie di giallo.»
Gary non poté fare a meno di ridere. «Immagini di uomini fatti con i
fiammiferi.» Grande.
«Corro a casa, vado a letto, nascondo la testa e vedo la tua faccia sotto
il cuscino», cantò Sharon.
E insieme: «Mi sveglio il mattino dopo agitato, sbadigliando, vedo la
tua faccia che fa capolino dalla finestra. Immagini di uomini fatti con i
fiammiferi e tu, miraggi di uomini fatti con i fiammiferi e tu, tutto quello
che vedo sono loro e te».
Sharon si interruppe, ridendo. «Cosa significa, Gary? Non ci capisco
molto nelle canzoni psichedeliche.»
«Immagino che siano diverse per persone diverse.»
«È un trucco!»
Gary concesse. «Forse sì.»
Una puzzola attraversò la ghiaia davanti a loro, e loro si
immobilizzarono. Sbatté gli occhi e scomparve tra gli alberi.
E poi Gary alzò la mano per fermare Sharon.
«Cosa c'è?» chiese lei.
«Penso che l'abbiamo trovato.»
Un cedro sul lato della strada era addobbato come un albero di Natale.
Era ricoperto di piccole decorazioni di latta, tagliate, sembrava, da vecchie
lattine dell'olio e di verdure. Catene di carta, la maggior parte delle quali
scolorite e rovinate dalla pioggia e dal vento, pendevano dai rami
dell'albero. Degli omini fatti con dei bastoncini di legno si dondolavano
dalle catene.
«Guarda cos'hanno fatto i bambini», disse Sharon.
Gary rispose: «C'è un cancello qua».
C'era un cancello, accostato, che attraversava la strada. Gary lo spinse
per farlo aprire, e loro due entrarono nel terreno protetto di Sunrise.
Ci vollero ancora due o tre minuti perché potessero distinguere qualcosa
di diverso dagli alberi e dalla strada di ghiaia. Sulla destra, più avanti, fuori
dal sentiero, c'erano morbidi coni di luce.
«Una casa?»
Sharon annuì. «Penso di sì.»
Camminarono in direzione delle luci. Mentre si avvicinavano, le forme
squadrate di una piccola capanna divennero visibili. C'era un portico con
una zanzariera sul davanti e un'altalena che pendeva dal tetto del portico
sulla sinistra. Le luci erano delle lanterne che erano appese a entrambi i lati
della porta della capanna.
«Vuoi che bussi?» chiese Gary.
«Lo farò io se non lo fai tu», disse lei. Gary provò un moto di affetto per
la sua determinazione, e allungò la mano per darle un colpetto affettuoso
sul viso.
Lei non si allontanò, e non lo rimproverò. Lui seppe, allora, con certezza
assoluta, di amarla. Gary salì e attraversò il portico e bussò alla porta.
Mentre aspettava dietro il legno una risposta, Gary si chiese per un attimo
se dentro ci potesse essere qualche montanaro pazzo con un fucile in
mano.
Conducimi in questo ciecamente. Quello che c'è, c'è.
Udì un rumore di passi, poi la porta venne spalancata.
Una donna sorridente con una camicia da notte bianca disse: «State cer-
cando Sunrise?»
Gary annuì. Guardò Sharon alle sue spalle. Lei era salita sul portico. An-
che lei annuì.
Entrarono, lasciandosi alle spalle la notte nebbiosa.

Sunrise si svegliò con il sole: uomini e donne uscirono dalle loro


capanne e si riunirono sul pascolo che c'era in cima alla montagna e
guardarono il punto rosso che si alzava da una cima lontana e iniziava la
sua salita nel cielo. Stavano in silenzio durante questo rituale mattutino.
Tutti in piedi a fissare il cielo.
Gary e Sharon, che avevano dormito su delle stuoie nella capanna che
avevano trovato nella nebbia, uscirono nel portico a guardare l'assemblea
mattutina della comunità. La donna che li aveva salutati la sera prima se
n'era andata prima che Sharon e Gary si fossero svegliati. Ma la sera prima
aveva detto loro che si chiamava Gem.
«È un posto più grande di quello che avrei creduto», sussurrò Gary a
Sharon, ma lei lo zittì, per paura che se avessero parlato prima che fosse
giunto il momento sarebbero stati scacciati di nuovo sulla strada ghiaiosa.
C'erano forse un centinaio di cittadini di Sunrise, la maggior parte di
loro uomini e donne tra i venticinque e i trent'anni. Alcune donne
accudivano dei bambini, nessuno dei quali aveva più di tre anni. Gli abiti
che indossavano erano strane combinazioni, tutti di certo adatti alla
temperatura autunnale che iniziava a rinfrescare, ma brutti e stridenti e
senza alcuno stile. Nessun completo pantalone alla moda e abiti a tubino
nel mucchio. Sharon provò una fitta di superiorità, poi ne provò vergogna.
Gli abiti di Gary erano altrettanto bizzarri di quelli di queste persone. E
Gary era davvero una brava persona.
Le altre capanne erano vicine a quella in cui avevano dormito Gary e
Sharon; alcune di queste erano all'aperto, altre al riparo degli alberi.
Sharon era pronta a scommettere che questo posto era stato una chiesa o
una fattoria modello per un certo tempo.
Dopo dieci minuti passati in meditazione il gruppo si sciolse e la gente
iniziò a sparpagliarsi, parlando liberamente. Gary lasciò il portico e si
diresse verso una coppia che stava seduta sotto un albero nelle vicinanze,
tenendosi per mano. Sharon lo seguì.
«Ciao», salutò Gary.
I due guardarono in su. Sbatterono gli occhi e sorrisero. L'uomo aveva i
capelli biondi e sporchi che gli arrivavano alla vita. La donna, di origini
asiatiche, portava i capelli raccolti in numerose trecce legate con fili di
caprifoglio.
«Bene, ciao», disse l'uomo.
«Siamo arrivati la notte scorsa», disse Gary. «Abbiamo dormito in
quella capanna, con una donna che si chiama Gem. Siamo nuovi.»
«Bene, bene, amico», disse l'uomo. Sembrava che avesse un impedimen-
to nel parlare, le sue parole uscivano un po' strascicate. Sbatteva spesso gli
occhi: e il bianco dei suoi occhi non era esattamente bianco. Buttò i capelli
indietro e tese la mano a Gary e Sharon. «Dovete venire a incontrare
Abraham.»
«Chi?» chiese Sharon.
La donna ridacchiò. Sembrava strano, una donna di trent'anni che ridac-
chiava come una ragazzina. Ma era un suono talmente felice che Sharon
non poté fare a meno di sorridere. «Abraham per Wind. Giona per me. È il
fondatore di Sunrise, quello che ci ha accolto qua.» Anche la sua voce era
un po' strascicata. Sharon si chiese se l'altezza del posto giocasse degli
scherzi con i suoni.
L'uomo biondo si alzò e prese la donna per il braccio. «Venite con noi.
Non dorme, anche se non è uscito per vedere l'alba. Lui è molto
impegnato, a organizzare per noi, a fare per noi, si vede di rado.»
«A fare cosa?» chiese Sharon.
Allora fu il turno dell'uomo di ridacchiare, e la donna si unì a lui. Il
suono della risata era acuto e aperto e libero. Gary guardò prima la coppia
poi Sharon, e quando Sharon rise, lo fece anche lui. La coppia condusse
Sharon e Gary attraverso il pascolo a una lontana fila di alberi, dove, per
conto suo, si ergeva una capanna un po' più grande delle altre. Superarono
una donna seduta sull'erba, che stava occupandosi di due bambini piccoli.
Uno dei due, una bimbetta, aveva una testa decisamente troppo piccola per
il suo corpo. All'altro bambino, un maschietto che non doveva ancora
avere compiuto due anni, mancavano entrambe le braccia.
Sharon sentì che i polmoni le si stringevano, e si costrinse a guardare
avanti e non i bambini.
Alla capanna, Wind salì sulla veranda e bussò alla porta.
«È molto occupato, ma mai tanto da non riuscire ad accogliere i nuovi
ospiti», disse Wind. Bussò di nuovo. Ci fu una risposta dall'interno, un
suono profondo e caloroso che sembrava un miscuglio tra Babbo Natale e
Charlton Heston.
«Entrate.»
Come Gary e Sharon si avvicinarono, Wind tese la mano e trattenne
Sharon.
«Oh, solo uno per volta», disse Wind. «Deve incontrarsi con noi uno per
volta, per conoscerci, per capirci.»
Sharon guardò la donna. Giocava con una delle sue treccine e sorrideva.
«Okay», concesse Sharon.
Si sedette sullo scalino più basso della capanna, mentre Wind e la donna
si allontanavano.
Gary entrò.

La capanna era molto simile a quella in cui avevano passato la notte.


Chiaramente non c'era elettricità. Lampade a cherosene erano appoggiate
ad un tavolo di legno grezzo vicino ad un camino. Alcune sedie erano
allineate contro i muri sotto le finestre. Una porta, che portava ad una
seconda stanza sul retro, era chiusa. C'erano dei poster attaccati sulle pareti
altrimenti nude, LA GUERRA NON FA BENE AI BAMBINI NÉ AGLI
ALTRI ESSERI VIVENTI. VINCEREMO. E l'invocazione ANDATE
PLACIDAMENTE TRA IL RUMORE E LA FRETTA...
L'uomo era in piedi accanto al tavolo, e si stava accendendo la pipa. Era
alto, sottile, con una barba che gli ricadeva sul torace come un nido per gli
uccelli. La sua testa, invece, era calva.
«Amico mio!» disse. «Ci hai trovato. Nessuno vi ha ostacolato, vero?»
«Ostacolato?»
L'uomo sbatté gli occhi. «Quelli che ci odiano. Quelli che pensano che
anche noi dovremmo credere a quello che credono loro. La polizia, l'F.B.I.,
l'esercito. Il governo, dannazione. Ti hanno dato un volantino?»
«Sì.»
«E dove te lo hanno dato?»
«Alla Convenzione democratica nazionale. Poco più di una settimana
fa.»
«Ah, sì. Una brutta scena amico mio. Noi diamo il benvenuto a tutti
quelli che non vogliono più vedere scene così brutte, non più brutti
viaggi.»
«Sì», disse Gary.
«Allora dimmi, amico mio.» L'uomo fece un passo verso Gary e abbassò
la testa. «Sussurramelo. Perché sei qua?»
Gary guardò l'uomo. All'improvviso, si sentiva stupido. Chi era questo
tipo? Era per trovare questo che aveva fatto tanta strada?
Fiducia, aiutami ad avere fiducia, aiutami a entrare in questo cieca-
mente e liberamente.
«Sono venuto per allontanarmi dai mali del mondo», riuscì a dire Gary.
«Sì», disse l'uomo. «Hai fatto del male agli altri, vero?»
«Sì.»
«Parlamene.»
«Ho fatto ciò che non avrei dovuto. Non ho fatto quello che avrei dovu-
to. Nelle strade, durante la Convenzione, ho gettato delle bottiglie. Botti-
glie di vetro. Ho colpito una donna. Posso averla uccisa, non lo so.»
«Continua.»
«Ho degli amici che sono andati in guerra. Io no. Sono stati uccisi. Mi
mancano. Vorrei averli potuti salvare.»
«Vuoi allontanarti dalla violenza.»
«Ho fatto un voto di pace. Voglio trovare la pace, e la vita e l'amore.»
«Qua li avrai», disse l'uomo. Si raddrizzò e sorrise a Gary. Era un sorriso
buono.
Andrà tutto bene.
«Chiamami come vuoi», disse l'uomo. «Voglio essere per te quello di
cui hai bisogno.»
Gary si fermò. Come chiamare quell'uomo? Poi disse: «Ti chiamerò
Amico».

«Sussurramelo: Perché sei qua?»


Sharon disse: «Voglio essere di nuovo innocente».
«Adesso sei innocente.»
«No, non lo sono. Sono incinta.»
L'uomo sorrise. Sharon voleva allungare il braccio e toccarlo. Lui capì.
La sollecitudine che aveva intuita in Gary non era nulla al confronto con la
fiammata di simpatia che emanava da quest'uomo. Che fortuna era stata se-
guire Gary qui, pensò.
«L'innocenza», disse l'uomo, «è in tutti noi. Se apriamo noi stessi a tutte
le esperienze, siamo innocenti. È quando esitiamo che siamo persi.»
«Non amavo il ragazzo con cui ero stata.»
«L'amore è innocente. Anche il sesso. E il dolore, la gioia, i dispiaceri.
Noi siamo creati per provare l'innocenza. Dovremmo provarla tutta.»
Sharon annuì.
«Chiamami come vuoi», disse l'uomo. «Voglio essere quello di cui tu
hai bisogno.»
«Qualsiasi cosa?» chiese Sharon.
L'uomo annuì.
«Posso chiamarti Bobby?»

Ottobre 1968

Divisero la capanna con la donna che si chiamava Gem e i suoi tre


mariti. Nella capanna, che aveva solo due stanze, una era quindi per Gem e
la sua famiglia, e la seconda, quella sul davanti, per Sharon e Gary. Gem
era dolce e i suoi mariti (agli occhi di Dio, aveva detto loro) erano
tranquilli e senza pretese, così simili l'uno all'altro da sembrare gemelli.
Passavano le giornate a disegnare, a zappare il terreno, a cantare e a
dormire.
E tutto quello che Gary poteva fare, era giacere vicino a Sharon la notte,
e non tirarsela vicino e fare l'amore con lei. Lui la amava. La amava tanto
da provare dolore. Lei non si faceva più le trecce, lasciava i suoi capelli
liberi, e vederglieli ondeggiare al vento lo eccitava. Quando mangiavano
tutti insieme, cosa che avveniva sul pascolo quando il tempo era buono o
nella grande sala da pranzo quando pioveva, lui riusciva a malapena a
mangiare a volte, guardando i suoi movimenti aggraziati e il suo sorriso
aperto e onesto.
Questo posto aveva fatto meraviglie per lei.
Perché non aveva fatto lo stesso per lui? Lui si sentiva perso e solo. Ci
vuole solo tempo, diceva a se stesso. Non tutti si liberano facilmente della
mancanza di fiducia. La notte pregava il potere dell'universo perché gli
permettesse di essere assorbito dalla libertà, ma per adesso stava
continuando a lottare.
Una cosa che lo rendeva nervoso era il fatto che Sharon sembrava
infatuata del capo del gruppo, che chiamava Bobby. Le sue comparse, una
volta al mattino a colazione, e una volta alla sera a cena, duravano per tutto
il giorno nella conversazione di lei. Gary, per questo motivo, non pensava
che l'uomo gli piacesse tanto, e chiamarlo Amico era difficile.
Scopare Sharon lo avrebbe aiutato ad alleviare le sensazioni cattive,
anche se il pensiero non faceva che farlo sentire più in colpa.

Dapprima Sharon avrebbe potuto giurare che tutti a Sunrise avessero


problemi di linguaggio, ma dopo le prime settimane, non aveva più questa
sensazione. Forse era così, oppure lei e Gary si erano abituati ai suoni.
O forse anche loro avevano preso l'abitudine di strascicare le parole.
Sharon aveva scoperto che comunque non le importava.
Mentre le giornate di ottobre si facevano pigre, Sharon iniziò ad aiutare
a preparare i pasti per la comunità e a volte, aiutava a curare i bambini.
In tutto c'erano sette bambini. Quando Gem le si avvicinò la prima volta
per farsi aiutare con un gioco da bambini, Sharon aveva sobbalzato. Tutti
avevano dei difetti. A due mancavano gli arti. Uno aveva la pelle
squamata. Un altro era nato senza bocca, e Bobby aveva fatto un
intervento chirurgico d'emergenza sulla bambina, aprendole un buco
attraverso il quale adesso la piccola mangiava.
Ma Bobby aveva parlato a Sharon dopo che aveva sentito la sua esitazio-
ne.
Erano tutti innocenti. Anche più innocenti per le loro imperfezioni, e
quindi più capaci e bisognosi d'amore. Dove, se non qua, avrebbero potuto
ricevere questo amore? Di certo non nel mondo esterno, dove si
combattevano guerre e il denaro regnava supremo.
Sharon si dedicò con entusiasmo alla cura dei bambini. Lei aiutava a far
loro il bagno e a dar loro da mangiare. Giocava con le rocce e con i fiori.
Loro facevano degli ometti con i fiammiferi usati della cucina e li
appendevano al cedro che stava all'ingresso di Sunrise. Sharon non vedeva
l'ora che il suo bambino nascesse in marzo. Di notte, talvolta, nel silenzio
della stanza anteriore, si scusava con il bambino per l'odio che all'inizio
aveva provato nei suoi confronti. Poi si addormentava, al sicuro, accanto a
Gary.
E sognava di Bobby.

Gary odiava il cibo. Aveva tutto lo stesso sapore, come se fosse stato sul
punto di andare a male, e più il tempo passava più aveva questa
sensazione. Le donne di Sunrise potevano essere capaci di fare un quadro
o tessere una vestaglia, ma di certo non erano capaci di cucinare niente di
commestibile. Amico era il responsabile della preparazione del cibo. Era
lui che ordinava le provviste, ed era lui che controllava i lavori in cucina,
ma di certo il tizio non sapeva niente sul gusto. Gary si chiedeva sempre
più spesso cosa ci facesse quell'uomo con il suo tempo libero. Non lo
passava di certo leggendosi libri di cucina.
Dopo aver mangiato, Gary non si sentiva mai completamente bene.
Sentiva la lingua spessa e si sentiva stupido. Anche il suo modo di parlare
si era fatto strascicato come quello degli altri abitanti di Sunrise. Si
muoveva con una maggiore lentezza. A volte faceva solo finta di
mangiare, poi scivolava fuori da Sunrise all'emporio della vecchia sulla
Strada 947 e si comprava delle merendine dalla macchinetta esterna con il
poco denaro che gli era rimasto nel sacco.
In qualche modo, sapeva che se Amico lo avesse scoperto, l'uomo non
ne sarebbe stato per niente felice.
Ma in qualche modo, a Gary non importava. Tollerava tutto questo
finché non avesse trovato la forza vitale che cercava. Finché fosse stato
avvolto dalla pace e dall'amore che tutti gli altri intorno a lui sembravano
avere colto.
Ne ho bisogno adesso, portamela adesso, lasciami avere abbastanza
fiducia da trovarla!
La sola forza vitale di cui fosse cosciente era il bruciore che provava
quando era vicino a Sharon. Lei lo abbracciava e gli sorrideva, ma
nient'altro. Lui sapeva che era innamorata di Amico. La maggior parte
delle donne di Sunrise sembravano esserlo. E anche alcuni uomini. E tutto
questo dove lo portava?
Gary si diede al giardinaggio e iniziò ad aiutare a riparare le molte
capanne di Sunrise. Scherzava con gli altri che lavoravano accanto a lui,
con una zappa o un martello tra le mani.
E aspettava la salvezza, sognando Sharon ad occhi aperti.

Novembre 1968

Sharon sedeva nell'erba sul limitare del pascolo, con i piedi che le
pendevano nel pendio. Aveva le mani intrecciate intorno al rigonfiamento
che le cresceva nella pancia. Il sole stava calando, e la riunione serale si
era sciolta. Oltre il declivio, le poiane volavano in circolo. Su un filo d'erba
vicino a lei si era posata una cavalletta, che stava scrutando l'aria con le
sue antenne. Gary era in giro con alcuni degli altri, che stavano
trasportando le ultime zucche della stagione. C'era una leggera brezza che
soffiava sul declivio e sul pascolo. L'aria odorava di rame e di cannella.
Bobby si venne a sedere vicino a Sharon. Le prese la mano e le diede un
colpetto. Sharon voleva entrare dentro di lui, ma non osava. Era troppo im-
portante per quello. Che lui fosse uscito durante il giorno per vederla era
l'unica gloria di cui aveva bisogno.
«Grazie di tutto», disse Sharon timidamente.
«Grazie a te. Sei una donna amorevole e innocente.» Rimasero seduti in
silenzio. Sharon all'improvviso ebbe paura che se non avesse detto
nient'altro Bobby se ne sarebbe andato. Quindi chiese: «Mi chiedo chi
abbia vinto le elezioni oggi?»
«Elezioni?»
«Il presidente?»
«Non so di cosa stai parlando», disse Bobby, e Sharon seppe che, nel
suo oblio, aveva ragione lui. Anche lei doveva dimenticare, come aveva
fatto lui. Come era saggio. Come era buono. Come era innocente.
Grazie a Dio, pensò.
Bobby rimase seduto un po' più a lungo, poi si alzò e si diresse alla sua
capanna a fare il suo lavoro. Qualunque esso fosse. Lui lo sapeva, e questa
era l'unica cosa che avesse importanza.

Dicembre 1968

C'era la neve. Gary rimase in piedi sotto il portico e fissò la distesa di


bianco.
Dannazione, sarà un lungo inverno.
La porta si aprì alle sue spalle e comparve Sharon, avvolta in una
coperta che aveva fatto lei stessa con vecchi pezzi di tessuto.
«Guarda!» disse. «Amo la neve.»
E io amo te, Sharon. Non lo vedi? Ma disse: «Ne ho avuta la mia dose a
Chicago. Adesso solo guardarla mi fa star male».
«Gem ha delle scarpe per la neve che ha fatto lo scorso anno. Ci farà
vedere come si fanno se ci interessa.»
«Certo.»
Sharon si avvicinò e infilò il suo braccio sotto a quello di Gary. «Non è
meraviglioso? Non penso di essere mai stata così felice. Bobby sa come
prendersi cura di noi, vero?»
Gary disse: «Tu pensi che tutto sia meraviglioso».
«Sì.»
«Non c'è niente che ti sembri strano?»
«Strano? Naturalmente. La mia vita non era altro che abiti per la festa di
fine d'anno e pranzi e i Monkees. Questo sarebbe stato strano, vero?
Gloriosamente strano.»
«Mi chiedo che giorno sia oggi»
«Mmm», disse Sharon. «Ha importanza? Io sono felice.»
«Forse è già Natale. Se lo fosse, ti farei un regalo, Sharon. Sai se è
Natale?»
«Non mi importa se è Natale o Pasqua o il giorno della Marmotta. Non
ha importanza, Gary.»
«E se fosse Natale, faremmo la cena di Natale? E che sapore avrebbe?
Come la merda che mangiamo tutti i giorni? La merda che mi fa star male?
Non dirmi che non lo senti, Sharon.»
«Sentire cosa?» La voce di lei iniziò a suonare difensiva. Dio,
desiderava che lei lo amasse e avesse fiducia in lui. Sharon si allontanò,
sollevando gli occhi e la coperta in un unico movimento. «Cosa vuoi
dire?»
«Questo posto non è quello che avevo sperato.»
«Non gli stai dando alcuna possibilità, Gary.»
«Gliene ho date un sacco. Qua c'è qualcosa che non funziona.»
«Per favore, non dirlo.»
«Perché no?»
«Ti sentiranno.»
Gary la prese per il braccio. Una parte della coperta scivolò via,
esponendo il suo corpo nudo all'aria invernale. Lei non si mosse. Aveva lo
sguardo fisso su di lui.
«Chi lo farà? A chi importa? Questo posto rappresenta la libertà, vero?
Sharon, ascolta la tua voce. Puoi non essere d'accordo con me, ma io ho
diritto di dire quello che penso. Non riesco a credere che tu, tra tutte le
persone, ti sia fatta incantare da questo posto!»
«Tu mi hai portato qua. Anche tu ci credi!»
«Sharon, pensa solo per un momento. Sembra che le persone qua non
abbiano nemmeno la salute. Hanno gli occhi spenti, Sharon.»
«Stai zitto! Per favore, stai zitto, Gary!»
Gary la fissò. I capelli rossi le spazzolavano il seno. Gli occhi, grandi e
spaventati e, sì, innocenti, anche se un po' spenti anche loro. Almeno lei
aveva trovato quello che voleva. Lei aveva la sua innocenza.
«Okay», concluse. «Starò zitto. Mi dispiace, Sharon. Dimentica quello
che ho detto.»
Sharon non disse niente.
«Okay?» disse Gary.
Sharon si tirò la coperta sulle spalle. «Okay», rispose. Tirò un respiro
profondo. Un tenue sorriso le comparve sulle labbra. «Vuoi fare le scarpe
per la neve?»

C'era una mano sulla sua bocca e Gary si svegliò con un sobbalzo,
incapace di gridare. Sbatté gli occhi nel buio della capanna, cercando di
vedere chi gli si era messo a cavalcioni e lo teneva giù.
Glielo disse la voce.
«Gary, Gary», disse Amico, «metti in dubbio la nostra sincerità?»
Gary poteva sentire l'odore del tabacco da pipa nell'alito dell'uomo. Una
delle ginocchia di Amico premeva sul torace di Gary. Faceva un male
d'inferno.
«Gary, ti amiamo. Come puoi dubitare? Noi non facciamo parte del
mondo. Dobbiamo essere forti e credere in noi stessi. Credi a te stesso,
Gary?»
Gary non sapeva che altro fare a parte annuire. Sharon gli aveva detto di
lui. Come una bambina a scuola che aveva fatto la spia sul bambino
cattivo.
«Va bene. Dubitare è così triste. Ricorda. Io sono qui per te. Se tu avessi
dei dubbi, vieni a parlarne direttamente con me. Non spaventare le tue
sorelle con delle chiacchiere sciocche.»
La mano si sollevò dalla bocca di Gary. Gary tossì, poi disse: «Come
vuoi tu».
Ci fu una pausa, poi Amico si piegò e diede a Gary un bacio pieno di
passione. «Sono quello di cui hai bisogno», disse allontanandosi. «Non
pensare nemmeno di andartene. Non sognartelo nemmeno, amico mio.»
Gary annuì.
L'uomo si alzò e con calma lasciò la capanna. A Gary vennero i brividi.
Non avevo intenzione di odiare, non avevo intenzione di odiare, non
avevo intenzione di odiare.
Sussurrò: «Ti odio bastardo».

Febbraio 1969

I dolori iniziarono appena prima dell'alba. Sharon si sedette sulla stuoia


e si strinse le braccia attorno alle ginocchia finché i dolori furono così forti
da farle temere di non riuscire a controllarli.
Le donne fanno di queste cose in continuazione, disse a se stessa.
Dall'alba dei tempi. Bobby dice così. Il dolore fa parte della cosa.
«Gary?» sussurrò.
Il sudore le scendeva sul torace e si seppelliva nella piega che aveva
sopra la pancia. Quando una contrazione le strinse la pancia in una morsa
si morsicò la lingua coni denti. Devo svegliare Gary? Non so niente di
queste cose. Quanto tempo ci vuole? E se qualcosa va storto?
Il dolore fa parte della cosa.
«Gary?»
Il dolore è innocente.
Arrivò un'altra contrazione, rubandole per un momento il fiato e la
mente. I muscoli del collo le tiravano la testa all'indietro finché si ritrovò a
fissare il soffitto pieno di ragnatele.
«Gary! Gem! Aiutatemi!»
Allora Gary si alzò, si piegò su di lei, prendendole la testa e cullandola
tra le sue braccia.
«Gem!» gridò.
Un attimo più tardi Gem era al loro fianco. Tenne la mano di Sharon,
canticchiando e sorridendo.
Dopo dieci ore e molte cocenti illusioni il bambino nacque. Era tutto
storto, aveva delle pinne al posto delle gambe, ma era bellissimo. E
innocente.
Bobby era estatico. Venne a vedere Sharon, che era stata portata fuori
sul portico della capanna a riposare nonostante il freddo vento invernale.
Le baciò la fronte, poi sollevò il bambino per esaminarlo. Sharon guardava
l'uomo gentile e pieno di amore mentre portava la minuscola bambina alle
guance, poi la girò per presentarla alla congregazione sotto la neve.
«Un minuscolo bene prezioso!» disse. «Un bambino innocente in questo
mondo, che ci è stato regalato. Libera dalle leggi terribili del mondo.
Libera di essere quello che deve essere.»
Ci furono dei mormorii tra la folla, la maggior parte erano suoni di
piacere e di stupore.
Bobby si girò di nuovo verso Sharon. Aveva gli occhi umidi e segnati.
«Ho chiamato la bambina Jewel», disse. «Un gioiello del nostro amore. Un
gioiello che brillerà nei nostri cuori. Sarà per sempre parte di noi.»
Baciami, pensava Sharon.
Bobby si piegò in avanti e baciò Sharon sulle guance. La sua anima
esultava. Bobby restituì la bambina, e Sharon ne cullò il minuscolo corpo
contro il collo. Lui scese gli scalini del portico e sillabò il nome della
bambina mentre con i piedi tracciava le lettere nella neve. In grosse lettere,
che tutti potessero vedere.
«Jool.»
Bobby si girò, ammiccò e ritornò alla sua capanna. Attraverso le lacrime
Sharon vide Gary che spostava il peso da un piede all'altro, in piedi in
mezzo alla folla. Lei voleva chiamarlo, dirgli di sorridere, la bambina stava
bene e la loro minuscola parte di mondo era a posto, ma aveva la gola
secca per le grida del parto, quindi chiuse gli occhi e lasciò che Gem e
Willow le dessero qualche colpetto e si occupassero di lei e che poi la
portassero dentro quando il suo corpo si era raffreddato.

Ci sta prendendo in giro.


Gary fissò il nome nella neve, il nome attorno al quale gli altri
passavano intorno con tanta reverenza, per non distruggerlo.
È un uomo furbo. È istruito. Sa scrivere correttamente. Ci sta
prendendo in giro, e noi lo adoriamo per questo.

Luglio 1969

Gary era in piedi vicino al refettorio e reggeva un rastrello. Aveva


saltato la cena, e stava guardando i membri della comunità che uscivano
nella foschia pomeridiana, tenendosi per braccio, cantando, ridendo. Felici.
Pazzi.
«Porteremo i bambini dove ci sono i mirtilli», disse Sharon, mentre
passava con qualche altra madre. Il loro modo di parlare strascicato dava i
brividi a Gary. Non riusciva a sopportare la vista della bambina. «Vuoi
venire?»
«No, grazie», disse Gary. «Devo liberarmi di questa erba tagliata e poi
devo togliere le erbacce dai fagioli.»
Sharon sorrise, si strinse nelle spalle, e spostò il peso di Jewel sull'anca.
La bambina indossava un minuscolo vestito bianco che aveva fatto Gem,
su cui era ricamato il soprannome della bambina, Joo.
Verrà anche Bobby», disse Sharon. «Ci ha detto che può stare con noi
per un'ora intera se ci fa piacere.»
«È molto carino, Sharon», disse Gary. Sorrise. Non conosceva più la dif-
ferenza tra un sorriso vero e un sorriso forzato. Come era diversa dalla
ragazza disperata, altezzosa, che aveva incontrato in settembre. Adesso era
disperata, ma per il suo amore per Bobby. Avrebbe corso nuda tra le spine
se lui glielo avesse chiesto. Avrebbe concepito altri bambini se lui avesse
voluto, altre creature deformi se solo lui avesse schioccato le dita o
l'avesse guardata con un sorriso. Sarebbe saltata giù dal muretto del
belvedere per quell'uomo.
Il cuore di Gary era in preda al dolore al vedere la bellezza impazzita.
Ma non era solo Sharon a essere impazzita. Tutta la comunità era andata.
Era passato molto tempo da quando Gary aveva mangiato del cibo
preparato dalle signore di Sunrise. Senza denaro da ottobre, aveva rubato
del pane dalle scatole ancora chiuse e la frutta in cucina e aveva bevuto
l'acqua che prendeva in un ruscello vicino. Di certo non stava mangiando
peggio di quanto avesse fatto durante il suo viaggio da Chicago alla
Virginia. E questo era stato di certo il viaggio più sorprendente di tutti.
Questo viaggio lo aveva mantenuto razionale e aveva portato alla luce
una verità.
Amico li stava drogando.
Il motivo, Gary non riusciva ad indovinarlo. Quello che Amico voleva
da una comunità di persone che strascicavano le parole e che si
muovevano lentamente era al di là della sua capacità di comprensione.
Non lo stavano arricchendo. Non erano i suoi schiavi sessuali.
Non aveva senso.
Quindi Gary fece un secondo voto con se stesso nei mesi appena passati,
altrettanto importante di quello sulla pace. Avrebbe fermato il bastardo
quando gli si fosse presentata l'occasione. Come, non ne aveva idea. Che
cosa avrebbe implicato, non riusciva a immaginarlo. A volte si sentiva
intontito e stupido come gli altri cittadini di Sunrise dalle menti fritte. Ma
quando fosse venuto il momento, l'avrebbe fatto. Questo per amore di
Sharon.
«Ti amo, Sharon», sussurrò alla schiena di Sharon mentre portava via la
bambina. Il secondo voto, ancora una volta, lo fece rabbrividire, e gli fece
contorcere i muscoli sotto la pelle.
Quando la sala da pranzo si fu svuotata e Gary fu sicuro che fossero tutti
fuori a compiere i loro riti pomeridiani, iniziò a rastrellare. Sul davanti del
refettorio, di lato, poi muovendosi su una linea dritta ma lenta negli alberi
verso la capanna di Amico. La mente di Gary si aggrappava al tessuto mal-
concio della logica che aveva analizzato, e ricominciò ad esplorarlo.
Chi diavolo era Amico? Non era di certo un Messia religioso. Gary non
aveva mai sentito l'uomo parlare della fine del mondo e dei giusti che si
ergevano contro il diavolo, non predicava mai la salvezza e la vita eterna.
Un professore, cercò di indovinare Gary. Un uomo licenziato da qualche
lavoro universitario, un professore di chimica, che faceva esperimenti con
il suo piccolo gregge di pecore. Divertente da guardare, specialmente con
la varietà di difetti di nascita che uscivano dai fornelli.
L'uomo si dava un sacco da fare per i suoi soldatini. Volantini distribuiti
ad ovest fino a Chicago. Il denaro per il flusso costante di cibo e le altre
scorte.
Gary afferrò il rastrello con tanta forza che gli sembrò che le nocche gli
esplodessero. Ne faceva passare i denti tra l'erba e le foglie, avvicinandosi
sempre di più alla baracca di Amico. Sharon aveva detto che l'uomo
avrebbe passato un'ora con loro, a raccogliere mirtilli. Rastrellò per alcuni
minuti rimanendo in ascolto.
La capanna era vuota.
Gary portò il rastrello con sé. Arrivò sullo scalino, si guardò alle spalle e
scivolò dentro.
Qualsiasi prova andrà bene, pensava. Conducimi ciecamente, mostrami
qualcosa che convincerà Sharon ad andarsene con me.
La stanza sul davanti era uguale a come era stata quando lui e Sharon
avevano visto Amico per la prima volta. Le sedie erano rimaste nella
stessa posizione. Le lampade nello stesso posto. Chiaramente quell'uomo
passava poco del suo tempo in questa stanza. Lo interessava la stanza sul
retro.
E cosa ci troverò? Un set da chimico?
Con la fiducia che Amico sembrava avere nelle persone che lo circonda-
vano, Gary si sorprese di trovare la porta della stanza sul retro chiusa.
Tolse una forcina che aveva rubato a Sharon e la infilò nel buco della
serratura. La sua infanzia a Chicago stava dando i suoi frutti. La porta si
aprì.
Ci volle un attimo ai suoi occhi per abituarsi alla mancanza di luce. C'era
un'unica finestra nella stanza, ed era ricoperta di giornali.
E alla fine riuscì a vedere, ma quello che c'era fece solo intrecciare le
braccia a Gary e gli fece scuotere la testa.
C'era un piccolo generatore elettrico. Era attaccato ad un televisore e a
una radio ricetrasmittente. Davanti alla televisione c'era una poltrona,
molto usata.
«Dannazione», disse Gary. «È questo il grande segreto dell'uomo. Guar-
da Laugh-In?» Gary quasi sorrise, ma poi contrasse con forza la mascella.
Strinse i pugni. «Non credo», disse a bassa voce.
C'era un piccolo letto, una lampada, un tappeto di stracci, probabilmente
fatto per Amico da una delle ardenti ammiratrici della comunità.
Niente scatole, niente polvere.
Solamente una radio e una televisione puzzolenti. Una pila di giornali e
riviste sul pavimento. Non esattamente prove schiaccianti.
Doveva avere il suo nascondiglio da qualche altra parte.
Gary udì dei passi sugli scalini esterni. Rimase col fiato sospeso, e
chiuse la porta della stanza sul retro, poi si diresse a tastoni verso il letto.
Era una branda bassa. Vi si nascose sotto.
Dalla stanza sul davanti arrivava la voce di Amico.
«Cosa credevi, Gillian?»
Gillian, pensò Gary. Una giovane donna che aveva visto ma di cui non
aveva mai davvero preso nota. Sulla ventina. Insignificante.
«Allora, Gillian?» ripeté Amico.
La voce di Gillian era debole. «Non so.»
«Dolcezza, ne abbiamo già parlato, vero? Tu sei qua perché sei una delle
persone speciali che vogliono essere libere da quello che c'è di fuori. Non
te lo ricordi?»
Gillian disse: «Sì».
«Ma sono due volte, che ti trovo a scappare da Sunrise. Come se tu non
volessi più stare qua.»
Gillian non disse niente.
Qualcosa che sembrava un ragno si arrampicò sulla faccia di Gary. Lo
spinse via.
«Gillian, non possiamo permettere che la gente se ne vada. Te lo dissi la
prima volta che è successo. Non è una bella cosa. Adesso siedi. Devo
assicurarmi che questo non succeda più.»
Gary girò la testa, cercando di avvicinarsi alla porta chiusa. «No»,
sussurrò Gillian.
«Siediti.»
Ci fu silenzio. Una lunga pausa. Poi Gillian disse: «Per favore, no!»
«C'è gioia in ogni esperienza», disse Amico. «Lo ricordi? Amore, sesso,
lavoro, dolore.»
«No. Per favore!»
E ci fu un urlo, e poi dei singhiozzi, e Amico che diceva: «Te le
benderò. Nessuno deve essere messo al corrente delle circostanze, Gillian.
Possiamo fare delle bende brillanti, non credi? Graziose, estive».
Gillian singhiozzava sommessamente. Ci furono dei movimenti nella
stanza, e dopo un periodo di tempo che sembrò non finire mai, la porta
anteriore venne aperta.
«Ti aiuterò ad andare al posto dei mirtilli dove puoi aiutare a guardare i
bambini. Puoi goderti il sole ed essere grata per tutto quello che hai qua.
Appoggiati a me, Gillian.»
La porta venne richiusa. Gary scivolò fuori da sotto il letto e aprì la
porta. Facendo attenzione camminò verso la finestra sul davanti e sbirciò
fuori.
Gillian e Amico si stavano dirigendo verso il pascolo, a braccetto, come
amanti.
Gillian si appoggiava pesantemente a lui.
L'aveva azzoppata.

Sharon conteneva a fatica la sua felicità. Mentre Joo prendeva il latte dal
suo seno e Gem giaceva vicino a lei sull'erba, contando le foglie di un
ramo sporgente, lei si ripeteva con la mente quello che Bobby le aveva
detto mentre stavano cogliendo i mirtilli.
«Abbiamo una cosa molto speciale stasera a cena», aveva detto.
«Di cosa si tratta?» gli aveva chiesto. Dio, com'era bello quell'uomo, an-
cora più bello del primo Bobby. Non riusciva nemmeno a ricordarsi il
cognome del primo Bobby, o perché lo aveva amato.
«Non sarebbe così speciale se te lo dicessi», disse lui, mettendo il
braccio intorno a Sharon e toccandole gioiosamente il mento. «Ma ha a
che fare con il tuo amico Gary. Non dirglielo. Avrò bisogno del tuo aiuto.
Mi aiuterai stasera, vero?»
«Oh», disse Sharon. «Naturalmente!» Joo tossì, e Sharon si mise la bam-
bina in grembo e le diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena.
Gem disse: «Ce ne sono oltre trecento!»
Certo che ti aiuterò, pensò Sharon.

Giocò la sua parte per il resto della giornata. Era un cittadino di Sunrise
drogato e felice. Finì di rastrellare, strappò le erbacce dai fagioli, e si unì
agli altri per il pranzo al pascolo. Tenne persino la bimba di Sharon,
facendo attenzione a non guardare le sue gambe direttamente. Sperava che
il sudore freddo che aveva sulle braccia venisse interpretato come sudore
di fatica. Quando Gillian arrivò zoppicando per unirsi alla folla del pranzo
e tutti mormoravano che la poveretta doveva essersi fatta male, ma come
sono allegre quelle bende tutte colorate, Gary dovette lottare per
controllare la rabbia.
Un professore pazzo.
No, era anche peggio. Un imperatore pazzo, re di tutto quello che
vedeva, isolato sulla montagna, al sicuro, lontano dal mondo terribile di
cui spesso borbottava.
Sharon, buon Dio, perché siamo qua?
Gary non poteva permettere che questa pazzia continuasse. Ma non era
stato in grado di immaginare come interromperla.
Se non uccidendo Amico, e lui aveva fatto un voto di non commettere
più violenza.
Nel pomeriggio, mentre riparava la cancellata di una capanna, lottava
alla ricerca di idee. Niente gli sembrava possibile. Non c'era modo di
convincere la comunità di quello che stava succedendo. Amavano questo
posto. Amavano il loro Bobby, il loro Abraham, il loro Giona. Il suo
Amico.
Forse, quindi, avrebbe solo dovuto prendere Sharon e scappare. Lasciare
gli altri alla loro euforia.
Sì, decise, mentre suonava la campana della cena, e gli altri giardinieri
ridevano e raccoglievano i loro attrezzi. Dopo cena avrebbe preso Sharon e
se ne sarebbe andato da quel posto.
Anche se avesse dovuto imbavagliarla. Anche se avesse dovuto imbava-
gliarla e legarla e gettarsela sulle spalle.

Sharon era seduta tra Gem e Gary, e teneva la sua bambina. Erano in
sala da pranzo perché la pioggia aveva ricominciato a scendere, battendo
sul tetto di metallo ed entrando dalle finestre aperte. I piedi di Sharon
battevano al ritmo della pioggia. Non riusciva a fermarli e non voleva.
Stasera, Bobby le avrebbe permesso di fare qualcosa di speciale.
I piatti di portata giravano per i tavoli, e tutti prendevano le loro porzioni
di purè e crema di grano. Bobby era seduto al suo solito posto al tavolo
principale, con le mani raccolte, sorridente. Era così dolce che non si
servisse mai quando gli altri mangiavano. Diceva che voleva sempre
assicurarsi che prima ce ne fosse abbastanza per loro. Gary stava seduto in
silenzio, muovendo le patate con la forchetta.
«Rallegrati», gli disse lei, toccandolo col gomito. Lui le sorrise.
«Così va meglio», disse lei.
E poi Bobby si alzò e sollevò la mano per chiedere l'attenzione di tutti i
presenti.

«Gary», disse Amico. «Vieni qua.»


Gary lasciò cadere il cucchiaio che fece un rumore metallico quando
arrivò sul tavolo. Tutte le conversazioni cessarono e tutti lo guardarono.
«Cosa c'è?»
«Vieni qua, amico mio. E anche tu Sharon.» Sharon si alzò in un lampo,
porgendo Joo a Geni, poi spostandosi tra i tavoli per andarsi a mettere
vicino ad Amico. Agitò la mano nell'aria, invitando Gary a muoversi, a
muoversi!
Gary si alzò. Si diresse al centro della sala da pranzo. Cosa cazzo?
Aveva il cuore in tumulto, incerto, terrorizzato. Si fermò tra Sharon e
Amico, tra l'innocente e il colpevole, e guardò le persone sorridenti. I
sorrisi drogati, insipidi, frivoli, diretti non a lui, ma all'uomo accanto a lui,
Amico.
«Gary», disse Amico. «Mi sono accorto che sei un membro speciale
della nostra comunità. Tu sei un leale cercatore, vero?»
«Be'», disse Gary. «Sì.»
«A volte è giusto premiare colui che cerca. La ricerca non sempre è la
sua ricompensa. Non sempre troviamo quello che stiamo cercando.
Almeno, non subito.»
Che cosa diavolo...?
Sharon annuì, facendo finta di capire quello che il professore pazzo
stava dicendo.
«Tu e Sharon siete arrivati qui insieme. La sua strada è stata facile. Tu
hai lottato. Voglio premiare la tua lotta.» Alzò una tazza dal tavolo che
aveva davanti. La tenne in alto per i membri della comunità. «Offro un
brindisi a Gary per la sua determinazione! Dobbiamo bere in suo onore, e
lui deve bere per se stesso. Sharon, come sua prima amica, controlla che
beva ogni goccia in modo da non diminuire l'onore con l'umiltà.»
Tutti alzarono i bicchieri. Sharon, ridendo, portò la tazza alle labbra di
Gary.
Oh, Dio.
Avrebbe potuto cercare di fuggire. Queste persone erano drogate.
Ma Amico non lo era.
Forse mi vuole davvero onorare. Forse non si tratta che di una
ricompensa per essere rimasto e non aver creato problemi dalla notte in
cui era venuto a trovarmi.
«Bevi, sciocco!» ridacchiò Sharon.
Forse.
«Gary, muoviti.»
Forse no.
Non aveva scelta. Prese in mano la tazza. Conducimi ciecamente.
Lasciami credere.
E bevve.

La televisione era accesa, ronzando piano, con la sua luce blu pulsante
che lavava il pavimento della stanza. Amico era steso sulla sua poltrona, e
stava bevendo una bottiglia di birra. Sembrava che stessero trasmettendo
un notiziario. C'erano voci intense d'uomo e nessuna musica. Gary guardò
l'apparecchio oltre la spalla di Amico, ma non riusciva a dare un senso a
quello che vedeva. Bianco e nero. Un movimento indecifrabile.
Aumentava le sue vertigini. Lasciò ricadere lo sguardo di nuovo sul
pavimento.
Oh, Dio, la testa gli faceva male. Lo stomaco lo disturbava e lui si
sporse oltre la brandina e vomitò.
«Non troviamo sempre quello che stiamo cercando, vero, Gary?» disse
Amico, senza girarsi. «Almeno non subito.»
Dannazione. «Cosa...?» iniziò.
Amico sospirò. «Cosa diavolo stavi cercando quando sei venuto qui a
Sunrise? Mi sono dimenticato quello che hai detto esattamente, ma sono
sicuro che non era molto diverso da quello che stavano cercando gli altri
rifiuti. La vita? Qualcosa del genere. E cosa stavi cercando nella mia
capanna stamattina? Droghe?»
Gary si tirò su a sedere, lasciò scendere i piedi dal bordo della brandina
e se li mise sotto di sé. La sua vista vacillava.
«Guarda solo questo», disse Amico. Alzò la mano che reggeva la
bottiglia di birra e la diresse verso la televisione. Gary sbatté gli occhi
un'altra volta. Bianco e nero. Movimenti confusi. Sembrava un film. Un
razzo di qualche tipo, appoggiato su un panorama polveroso. Gary scosse
la testa, cercando di schiarirsi la vista. Le voci provenienti dalla
televisione, concitate e alterate, stavano congratulandosi con qualcuno
nell'apparecchio. Poi le voci si diressero ai telespettatori, poi parlarono tra
di loro, trascinate da una grande emozione.
«Sono atterrati sulla luna», disse Amico.
Gary inclinò la testa e fissò. «La luna?»
«Sembrerebbe», disse Amico. Bevve un sorso e sospirò. Poi guardò di
nuovo Gary ed emise un piccolo suono. «Quasi quattro anni di questo
lavoro, e mai nessuno ha fatto irruzione nei miei spazi personali.
Immagino che avrei dovuto aspettarmelo prima o poi, ma mi ero abituato
alla vita facile.»
Alla televisione un portello era stato aperto. C'erano uomini con indosso
strani abiti. Atterrati sulla luna? Impossibile.
«Vita facile?» ripeté Gary.
«Molto facile», disse Amico. «I lavori governativi sono sempre comodi,
Gary. La paga è buona e ci sono i benefìci collaterali. Be', se si può
chiamare questo buco di baracca un beneficio. Ma è meglio dell'Indocina:
nessun rischio qua. Mi tengo costantemente in contatto con i miei
superiori; sanno quello che succede e sono molto soddisfatti del mio
lavoro. Tutti qua sono a posto, tutti che credono alla propria ricerca
personale. Come qualche insetto che esplora il fondo di una bottiglia.»
«Sapevi che ero qua», disse Gary.
«Bene, lo zio Sam da lavori buoni ma non assume imbecilli. Hai lasciato
un rastrello nell'altra stanza stamattina. Dopo la colazione eri l'unico ad
avere in mano un rastrello. Sono un osservatore. E dove altro avresti
potuto essere se non nella stanza sul retro...»
«Io... non ero...»
«Adesso, Gary», Amico girò la poltrona e gli fece un cenno con la botti-
glia di birra. «Non facciamo più i finti tonti. Tu sei un cercatore. Io sono la
verità. Ti darò qualcosa di interessante. Poi...» fece un cenno in direzione
della pila di giornali. In cima c'era una siringa. «Poi ti dovrai unire alla
folla dei felici.»
«Perché tutti questi fastidi?»
«Fastidi?» chiese Amico. «Voi merda idealistica siete i fastidi. Ci sono
comunità come questa in tutto il paese. Diamo dei volantini a tutte le
manifestazioni, alle riunioni di protesta. Li attirano come mosche. Un
posto per sfuggire ai peccati dell'America, vero? Li portiamo dentro, li
teniamo drogati e pacifici e loro stanno fuori dai piedi.»
Gary si alzò. Per un attimo pensò che sarebbe caduto, ma combatté per
mantenere l'equilibrio, per controllare la sua mente. Aveva bisogno della
sua mente, del suo corpo.
«E cosa sono una manciata di bambini deformi?» chiese Amico. «Non
cresceranno per darci fastidio, non credo.»
Voto contro la violenza, Gary. Voto di pace.
«Allo zio Sam e alla sua saggezza», disse Amico. Prese da bere. Sorrise.
Voto di pace!
Alla televisione, la testa di un uomo in tuta spaziale comparve dal
portello. Il paesaggio lunare era notturno.
«Pronto per l'ago?» gli chiese Amico. Si alzò, pestando i piedi e affron-
tando Gary come un pistolero. «Un ago per un bastardo?»
Gary affondò in avanti. Finì addosso ad Amico, che scivolò all'indietro
sopra il bracciolo della poltrona e sbatté la testa contro il pavimento.
«Non violenza!» gracchiò Amico. «Ricorda, pace e amore e...»
Gary afferrò il televisore con entrambe le mani. La rabbia gli percorreva
le braccia, facendogli portare l'ingombrante apparecchio in alto sopra la
testa. Alla televisione una voce confusa diceva: «È un piccolo passo per
l'uomo...»
«Gary, aspetta, possiamo...!»
Al diavolo la pace!
Gary lasciò cadere l'apparecchio sulla testa di Amico. Ci fu un crac che
gli diede un'enorme soddisfazione. L'immagine sullo schermo andava e ve-
niva, come una palla buttata in un lago, poi si chiarì di nuovo. Gary si
spostò indietro sul pavimento fissando quello che aveva fatto. Il sangue
scorreva da sotto l'apparecchio e sembrava che volesse arrivare a
raggiungere il dito teso di Amico.
«... un salto gigantesco per l'umanità!»
Non aspettò la nascita del sole. Non ci sarebbero state spiegazioni. Lo
avrebbero maledetto con le loro voci strascicate, e Sharon avrebbe dovuto
sopportare il fardello di due perdite: il suo amico e il suo dio.
Sharon.
Gary era in piedi davanti al muretto di un belvedere sulla Parkway.
Aveva camminato nel buio per ore, era bagnato di sudore. Si chiedeva se
nessuno si fosse ancora incuriosito di sapere se Amico era nella sua
capanna.
Naturalmente no. Loro rispettavano il suo isolamento. Non si sarebbero
mai sognati di disturbare l'uomo. Avrebbe potuto continuare per giorni.
Nessuno se ne sarebbe accorto.
Gary guardò il mondo verso occidente, aspettando pazientemente che il
sole si alzasse dietro di lui e lo maledicesse.
Quando sentì il primo calore del mattino e vide i primi riflessi rossastri
intorno a lui salì sul muretto. Queste montagne blu erano davvero belle. Le
strade e le case nascoste dalla vegetazione in continua crescita. Sopra, le
nuvole che si trasformavano da rosa ai colori dell'oro e diventavano
bianche. La brezza si alzò dalle lucide rocce di sotto.
Sharon.
Gary alzò le braccia al cielo.
«Un piccolo passo per l'uomo», disse.
Dagli alberi folti al di là e sotto il muro, un gruppo di ali prese il volo. In
un attimo, una flottiglia di elicotteri si alzarono, girando intorno a Gary,
passandogli accanto. Gli passarono sopra, tagliando e ferendo il cielo,
muovendosi nella direzione di Sunrise.
Qualcuno se n'era accorto.
Guardando giù, Gary si chiese se la sua testa si sarebbe spaccata come
quella di uno a cui sparano alla testa.
«Un salto gigantesco», disse.

1970-1979
Whatever
di Richard Christian Matheson

Ti dovrai arrendere
Alla verità tanto triste
Alla sporca verità.
Boz Scaggs, Lowdown

Rolling Stone
MEMO Interno

A: Michael Blaine, Redattore Capo.


Da: Lisa Frankel, Redattore Esecutivo.

M:
Cattive notizie. Ho guardato tra le pagine di Matheson. Sono
francamente stupita. Sono davvero affascinanti. Tuttavia in qualche modo
elusive. Nonostante l'orrore di ciò che è successo in realtà, non sono
nient'altro che una raccolta di ritagli. Evocativi. Ma fugaci. Non mi
sorprende che Esquire e The New Yorker abbiano deciso di lasciar perdere.
Il mio suggerimento è che noi facciamo lo stesso.

So che questo scrittore è un tuo amico. Ma ho la forte sensazione che se


entriamo in questa cosa facciamo un grosso errore. Per concludere: una
volta la band era importante, ma secondo me non è una leggenda; è stata
dimenticata. E il manoscritto, anche se è finito, non è pubblicabile. Avrei
voluto avere notizie migliori.

Aspetto di sapere cosa ne pensi.


L.
cc: M. Blaine/L. Frankel/J. Wenner

Roccaforte della città morta. Aix-en-Provence, Francia.


27 agosto 1969

MOSCHE.
Colpiscono la pelle come proiettili di sangue coagulato. Si attaccano alla
pietra liscia, alle mura della roccaforte, dormendo all'ombra che striscia
furtiva; iceberg d'ombra.
Turisti. Calore.
Mezzelune salate sotto le ascelle. Sandali che strisciano sulla roccia anti-
ca. Sigarette turche. Amanti si tengono le mani umide.
Una città abbandonata. Morta da molto tempo. Da prima della nascita di
Cristo. Odiata. Martellata sul legno con chiodi; lasciata a sanguinare, come
un vitello al macello. Grida senza risposta. Ragioni non fornite.
Una coppia.
Giovane. Diciannove. Diciassette anni. Lui. Lei.
Una relazione. Due mesi. Stati d'animo incontrollabili. Passione e paura.
Sofferenza.
La Nikon di lei che ritaglia qualche attimo di tempo: un bisturi che
scatta dolcemente. Ricordi per un libro. Un album. Un mausoleo da
salotto.
Una lotta continua. In macchina da Parigi a Montecarlo. Fermandosi per
strada per un caffè ghiacciato. Un paese affascinante.
Lui apre la custodia della chitarra. Le corde di metallo bollenti sotto il
sole; dita che brandiscono. Suona una nuova ballata. Canta a voce bassa
Dei bambini si radunano. Lui sorride, un santo a piedi nudi. Parla di lei.
Lei cerca di non ascoltare. Sente che la sua vita è spazzata via. Lui non è
più suo.
Lei inizia a piangere.
Lui sta tornando in America. Da quel bastardo di Tutt.
Per i Whatever.

Da una conversazione registrata. Monserrat.


1° gennaio 1972

«Sono stanco morto. Una brutta influenza.»


Jagger; la cannuccia nel cocktail. Denti da cavallo che spingono le
labbra in fuori; paraurti vistosi. «È una battuta? Cristo...»
Quando parla è come se facesse sesso orale. È abbronzato. Un ragazzino
lascivo con pantaloni stretch; un Gatsby del sesso, a bordo di un gingillo di
50 metri. Proprio adesso è raffreddato e ha 38 di febbre. Ha l'aspetto di una
maschera di Halloween con ritenzione idrica: non una faccia che dovrebbe
ospitare un raffreddore di testa.
Gli altri Stones sono laggiù da qualche parte, si muovono piano, nell'ac-
qua, con le bombole, a caccia di coralli e di pesci rari. Li spaventano con i
loro gioielli pacchiani. Braccia piene di cicatrici. Anguille albine che
valgono troppi milioni per stare a contarli.
«Guance infossate tra un tesoro sommerso», suggerisce Mick. «Allora...
di cosa si tratta? Volete la mia opinione?» Gli piace l'idea, emana una gioia
ostile. Accende una pipa antica, tira una boccata. Risponde, immettendo
aria nei polmoni, come se parlasse dall'interno di un sacco pesante.
«... va bene. Loro sono noi. Se siamo abbastanza bravi da essere loro.»
Prendo nota. Raffredda il Learjet. Lecca il bordo del suo piccolo
bicchiere perfetto, usando la lingua come uno straccio rosa. Poi,
all'improvviso, guarda in lontananza, un posto da cui se ne vuole andare,
velocemente, un posto pieno di cose sbagliate.
«Ma quella merda che scrivono è intensa. Questi ragazzi sono tormenta-
ti.» Si stringe nelle spalle. «Non sono più i tempi di Woodstock. Inoltre,
come dice Keith, era solo immondizia e acido preso male.»
Butta fuori il fumo, sbadigliando come il gattino più ricco del mondo.
«Ma allo stesso tempo... non vorrei essere al loro posto. Le luci che
hanno in testa... sono troppo dannatamente brillanti. Puoi vedere tutto.
Avete sentito 'Error of the Opposite' dal primo album? Le canzoni sono
dannatamente brillanti ma... dove la prendete una chiarezza come quella?»
Gli occhiali da sole riflettono gli yacht, barche delle dimensioni di un
magnete da frigo si riflettono sulle lenti. Non dice niente. Starnutisce.
Tossisce una schifezza di S-M Caruso da un'ugola assicurata dai Lloyds.
Grugnisce, infelice.
«Odierei vedere tutto. Questo è il motivo per cui hanno inventato... cosa
hanno inventato, dimmelo ancora, amico?»
«Ombre?»
Scuote la testa. No, non è quello.
«Limiti?»
Sta perdendo interesse. Lo vedi quando accade alle rock star. Si tuffano
in un mare perfetto e ti infradiciano.

Rivista Bam.
9 dicembre 1969

SCHIZZI DI SANGUE E ARRANGIAMENTI FLOREALI

Petals, un gruppo di rock melodico che è specializzato in liriche impre-


gnate di emozioni, si è diviso, e i suoi membri se ne sono andati a formare
altri gruppi. Si dice che il fondatore Rikki Tutt stia lavorando in uno studio
di L.A. con l'ex membro dei Seance Greg Magurk, noto per le sue liriche
acerbe e giochi di parole oscuri in canzoni come l'hit del 1967 «Miss
Take». Magurk è tornato recentemente dalla luna di miele in Francia,
durante la quale il suo matrimonio molto pubblicizzato con Bibi Rousse
che era stata un'igienista, è stato annullato all'improvviso.
Il batterista Stomp McGoo, che aveva fatto parte del gruppo funk della
Louisiana Pressure, gestisce le stecche. Si dice che Phil Zapata del duo
folk Zapata e Lake abbia interrotto l'ultimo tour in Europa del gruppo per
unirsi a loro. Lake ha sporto querela contro il suo partner. Il loro album
Take A Guess è stato nella classifica dei primi dieci per oltre cinque
settimane.
Sembra che stia succedendo qualcosa di molto interessante qui, ragazzi.
Vi teniamo informati.

Liriche da Here Pussy dal secondo album dei Seance, scritte da


Gregory Magurk.
Per gentile concessione della Voice Records, 1968.

Quando ti ho incontrato
non servivo a molto.
Una confezione da sei di nulla.
Non ero sicuro da toccare

Tu mi hai cucinato le melanzane,


hai stirato le mie imperfezioni e ì miei abiti.
Adesso sono solo un gatto domestico.
Non ho più tutti quei bassi.

Rolling Stone
Appunti sparsi. Febbraio 1970

Il gruppo di recente formazione Whatever sta al momento incidendo,


con un mago della produzione di uno studio di L.A. Purdee Boots. Si dice
che i Beatles e gli Hollies stiano collaborando e che le incisioni, fino a ora,
siano eccezionali. L'album, ancora senza titolo, deve uscire per VOICE
Records entro la fine dell'anno.

Dai miei appunti: Fillmore West, San Francisco.


Ufficio di Bill Graham.
5 giugno 1970

Parte di intervista registrata con il manager dei Whatever, Lenny Lupo.


D. Come descriveresti lo stile della banda?
R. È il rintocco funebre del rock stupido. Ha melodia. Ha idee. Sai che
Zappa è un fan? Vuole partecipare al prossimo album. Se fosse il
diciassettesimo secolo, questi ragazzi potrebbero scrivere opere. Ti dico, se
fossi Bob Dylan, sparerei al mio dizionario delle rime e aprirei una
lavanderia.
D. Negli anni Sessanta rappresentavi cantanti folk e gruppi surf. Come
hai deciso di diventare manager del gruppo?
R. Li ho sentiti, mi sono piaciuti. Istinto.
D. Si dice che il primo album Know means Know sia sorprendente.
R. Ti dirò una cosa. I Whatever sono i Beatles americani. Sfido
chiunque ad ascoltare la loro musica e a non esserne profondamente
colpito.
D. Il surf è morto. L'invasione britannica è finita. Dove ci porteranno gli
anni Settanta?
R. Chiedimelo tra dieci anni.

New York Times. Recensioni musicali


«Whatever», Bottom Line.
4 febbraio 1972

Whatever, una band che si dice abbia un quoziente d'intelligenza troppo


alto per il suo stesso bene, ieri sera ha avuto un successo strepitoso e ha
scosso la terra.
Il loro primo album, Know Means Know, è stato in testa alle classifiche
della maggior parte della critica quest'anno. Il complicato mosaico di testo
e musica, organizzato dal produttore Purdee Boots, è una meraviglia
sfolgorante. Ma dal vivo, il quintetto che ha base a Los Angeles, è anche
meglio.
Le loro composizioni, lavoro dell'ombroso chitarrista Greg Magurk dalla
coda di cavallo e del vocalista e bassista dalla faccia d'angelo Rikki Tutt,
sono come piccoli romanzi destinati a risultati estremamente originali.
Tuttavia, non si accontentano della ricercatezza alla Beatles, e i giochi di
parole, le osservazioni e i mal di cuore dei signori Magurk e Tutt
rappresentano solo una parte di quello che offre il gruppo. I loro canti e le
loro canzoni sono anche nutriti da ritmi primitivi, un colpo al petto vudù.
Non sbagliatevi, questa non è una meringa di vinile fiorita di teneri niente.
È rock and roll che tiene la bocca aperta mentre mastica.
Ed è una musica a cui è quasi impossibile resistere.
Ieri sera, mentre suonavano per la folla estasiata che affollava il Bottom
Line, i Whatever sembravano un Houdini che dà le vertigini. Il canto di
Tutt era dolce come quello di un corista e si imponeva senza sforzo. Le
arie bieche del signor Magurk erano più tetre, e stillavano una carnalità
maliziosa. Liriche perverse straripanti di ironia molto apprezzabili, ma mai
viste come un'intima astrusità.
Mentre il resto del rock and roll (con poche eccezioni, come John
Lennon e Paul McCartney, Joni Mitchell o Bob Dylan; forse uno sporadico
fraseggio intenso di Neil Young, Paul Simon o Lou Reed) si diletta in
schizzi, i Whatever fanno degli studi a pieno campo.
I pezzi da togliere il fiato del batterista Stomp McGoo hanno scavato un
solco così profondo che è sorprendente che nessuno sia caduto e si sia fatto
male.
Phil Zapata, alle tastiere, che una volta era solo un bambino prodigio,
adesso è cresciuto completamente, si è fatto uno Chopin da taverna che
fuma Camel mentre colpisce la tastiera, e indossa colori così scuri da avere
l'aspetto di un criminale dello Steinway.
La chitarra ritmica G.G. Wall, addobbato con una giacca con le frange e
dei jeans aderentissimi che sono la sua caratteristica distintiva, sbuffava le
canzoni in uno stato di trance, pizzicando una chitarra che dopo deve aver
avuto bisogno di una sigaretta.
Indipendentemente dalle sorprendenti canzoni dei signori Tutt e
Magurk, questa band potrebbe essere un grosso successo. Dal momento
che lavora con i signori Tutt e Magurk sembra probabile che ne esca un
supergruppo.
Lasciandosi una scia di fumo alle spalle i Whatever si sono innalzati
rapidamente sopra l'orizzonte dei burattini delle case discografiche che si
danno un sacco di arie e mettono in ridicolo i primi quaranta posti nelle hit
del rock and roll. Non sono ancora dei re. Ma c'è stile da re qua.
Con le loro voci incontaminate e le loro liriche primordiali, i Whatever
hanno raggiunto i massimi livelli espressivi. Qualcosa di raro tocca questi
giovani.

Rivista Crawdaddy.
Agosto 1976

«E Hubris.
«Stanley Hubris. Uno dei nostri migliori registi», dice ridendo Greg
Magurk, socio di Rikki Tutt e fondatore insieme a lui dei Whatever. Al
momento si trova sul bordo della piscina, sotto a cinquanta chili di ossido
di zinco, una lattina da un metro e ottanta di Crisco.
«Ci accusano sempre di voler fare lo sgambetto ai giornalisti, sai? Come
se commerciassimo in chiacchiere da sabbie mobili e sfidassimo gli iniziati
ad avvicinarsi.» Tutt è stufo.
È una giornata blu oltremare, perfetta a Honolulu. Tutt, Magurk e il
resto dei Whatever si stanno prendendo qualche giorno di vacanza lontano
da Los Angeles, mentre limano le canzoni che hanno appena scritto per il
nuovo album, Philip's Head, un tributo al membro della band Phil Zapata,
che è morto il mese scorso al Greenwich Village. Tutt, un pilota civile, ha
portato la band al funerale a Sag Harbor in aereo, in un Avianca 707 che
avevano comprato e riarredato, un ritiro galleggiante, che hanno sventrato
e riempito di oggetti edonistici caldi e pelosi.
Il jet, che i Whatever chiamano SPOT, li ha portati sulle isole e porta il
gruppo a tutti gli spettacoli. Tra gli ospiti occasionali dell'aereo si contano
la moglie di un primo ministro che era scappata per unirsi alla danza libera
di Tutt e Magurk, e un vescovo cattolico che aveva perso la fede dopo aver
scoperto che il sesso non coinvolgeva esclusivamente lui, e di conseguenza
aveva gettato via il cappello rosso e aveva finito con il vivere con un
membro delle Sister Sledge.
Casualmente, chiedo se è vero del buco nella testa di Zapata.
Tutt annuisce, sgocciolando ananas sul terrazzo della sua casa in affitto a
Diamond Head. «Trapanazione. Se l'è fatta da solo. Ha deciso la misura
della punta e... è entrato.»
Magurk gioca con un telescopio, chiude un occhio davanti alle lenti di
precisione, alla ricerca di qualche indesiderato.
«Aveva sempre voluto una maggiore elevazione mentale. Per come la
vedeva Phil, i bambini nascono con il cranio aperto... e finché non diven-
tiamo adulti...» Cerca un'immagine.
«... il casco non ossifica», suggerisce Tutt.
«... giusto. A ogni modo, si forma, e rinchiude le membrane che cir-
condano il cervello e bloccano le pulsazioni che provengono dal cuore.
L'idea è che, lì dentro, il cervello è troppo compresso e ha fame di sole e di
un po' di aria fresca. Quindi Phil si mette in testa...»
«... a ogni modo, temporaneamente», aggiunge Tutt.
«... che stava perdendo il contatto coi sogni e così via. Poi si immagina
che il suo equilibrio mentale si stia muovendo verso l'egoismo e la psicosi
finale, che, argomenta Phil, era l'eredità dell'uomo, collettivamente e in-
dividualmente. A quel punto decide di farsi un buco in testa.»
Tutt sta canticchiando e lottando con un cocco che continua a sfuggire al
suo grembo e al suo coltello, e rotola via.
«A ogni modo lo ha fatto a mano con questo strano strumento che aveva
comprato in un negozio di strumenti chirurgici. Si chiama trapano. Una
specie di cavatappi che fai funzionare manualmente. Una specie di punta
di metallo circondata da un anello di denti da sega», spiega Magurk.
Tutt continua. «La punta entra nel cranio. Poi tieni il trapano fermo
finché la sega rotante scava una galleria, dopo di che può essere estratta.
Se tutto va bene, la sega rimuove un disco di osso ed espone il cervello.»
«Assumendo che ce ne sia uno», dice Magurk. Abbassa la voce, con tri-
stezza. «C'era una confusione terribile, l'ha asportato per metà.»
«I poliziotti dicono che sembrava che avesse un grosso fiore in fronte.»
Magurk mette a fuoco il telescopio. «Non si può provocare il benessere
imminente. Chi l'ha detto?»
«Il tizio al McHale Navy?»
Annuiscono con aria sobria.
Anche se Tutt e Magurk sono stati criticati per aver portato la conversa-
zione su un piano impertinente e crudele, dopo un pomeriggio con loro, è
evidente che questo genere di conversazione è solo il loro umorismo
privato fatto di botta e risposta, che si delizia di accoppiamenti esoterici. In
realtà hanno in mente di dare una percentuale considerevole dei profitti di
Philip's Head alla vedova di Zapata, Joyce, che è rimasta sola con due
bambini piccoli, Lon e Will. Tutt e Magurk sono i padrini dei ragazzi e li
chiamano spesso mentre sono in giro. Nel frattempo hanno contattato
molti personaggi importanti che dovrebbero prendere il posto di Zapata
alle tastiere nell'album.
E per quanto riguarda le nuove canzoni?
«Ci piacciono. A Phil sarebbero piaciute. Ma prima di incidere,
vogliamo provare il nuovo materiale in piccoli club. Qua sarebbe perfetto.
Molto sottotono. Sono tutti felici alle Hawaii.»
«Anche i lebbrosi sono felici.»
«A ogni modo siamo venuti per evitare i cattivi scribacchini.»
Vuole dire i critici. Non è che la band abbia cattive recensioni. È che è
inevitabile che Tutt e Magurk vengano definiti la voce del loro tempo. Ma
loro non sono mai andati in cerca di quel tipo di gratificazioni.
«Ci trattano come se fossimo qualcosa di speciale. Voglio dire, andiamo,
ragazzi, chi ci ha definito la coscienza trafitta dell'intorpidimento post-
hippy? Scriviamo solo canzoni!»
«Guarda», dice Magurk, «non neghiamo quello che succede. Quando ne-
gli ultimi anni si è visto il palazzo pieno di re venali, con i loro valletti
intriganti che spiano la concorrenza, con il paese nel mezzo di questa
guerra terribile, coi bambini che bruciano vivi, come si fa a scrivere
d'amore?»
Rimangono in silenzio. Guardano le onde che si infrangono. Le nubi si
spostano lentamente.
Magurk scribacchia qualcosa in un blocco, riscrivendo le parole di una
nuova canzone per cui la band ha già pronta la musica al Music Plant di
L.A. Si chiama «Flesh Diction.»
«Dieci anni fa era facile», dice Tutt. «Per scopare ti bastava vestirti me-
glio di John Sebastian e citare Siddharta.» Guarda il sole che penetra con
lo scarso interesse di un misantropo. «... Cieli di marmellata, sai?»
Magurk non ascolta nemmeno. «Le Hawaii sono un complesso
miscuglio di uomo e natura», dice a nessuno in particolare, adocchiando
una bambola formosa che emerge dalle onde.

Rivista Billboard.
Settembre 1971

Sono state fatte oggi le Nomination per tutte le categorie Grammy. Non
è stata una sorpresa per nessuno che Whatever di Rikki Tutt e Greg
Magurk abbia avuto la Nomination per le categorie Best New Rock Group
e Best Album. Il primo album del gruppo, Know Means Know, è stato
vendutissimo, è tra i preferiti della critica e il numero due nella classifica
dei primi 100 album di Billboard.

Da una conversazione registrata.


Parigi, Francia. Tour Eiffel.
20 dicembre 1974

G.G. Wall giura che è vero.


«Immagino che fosse una specie di metafora. Sai, allestita per il
pubblico. Era strano.»
Lui dice che la bambina sanguinava semplicemente. Invece delle lacri-
me, sulla sua faccia da bambina di otto anni scorreva il sangue che le mac-
chiava il vestito di rosso. A parte ciò non aveva alcuna espressione, le
mani raccolte tranquillamente in grembo, con le mosche che succhiavano
sulle sue guance.
«Non vedo come avrebbero potuto fingere una cosa così. La gente veni-
va da tutte le parti, affascinata. Provavano dolore e rimorso. Ma sembrava
anche che provassero uno strano senso di sollievo.»
Lui pensa che questo li abbia aiutati a superare il loro dolore e le torture
quotidiane. La ragazza non si è mai alzata dalla sedia, per tutte le ore in cui
è stato possibile vederla. Non ha mai parlato.
«Fa dannatamente caldo in Italia in quel periodo dell'anno, troppo... era
estate, sapete? E i suoi genitori la costringevano a stare seduta lì nel suo
vestito bianco mentre la gente si radunava e le passava davanti.»
Il ricordo inizia a non piacergli.
«Noi eravamo in tournée, in Europa. Abbiamo suonato in Italia per un
paio di settimane. Sono andato a vederla ogni giorno.»
Silenzio.
«Dopo alcuni giorni, iniziai a provare vergogna. Per averla guardata in
quel modo. Non so cosa significa o perché sia capitato a lei, ma quello che
noi tutti facevamo era sbagliato...»
Guarda fuori dalla Tour Eiffel, senza guardare niente, perso in Parigi
come in un grosso dipinto.
Sono passati due anni da quando i Whatever hanno suonato in Italia.
Wall dice che si dice che la ragazza continui a sanguinare.

King Biscuit Flower Hour.


Trasmissione radio nazionale.
19 marzo 1972

«E adesso la canzone che sta dando una bella batosta alle classifiche...
'Yeah, Right', dei Whatever, un inno da esaurimento che sembra aver fatto
alzare la temperatura a un'intera generazione. Pete Towshend: prendete
nota.»

Questo affare è una fesseria,


Voglio la mia mamma.
La mia mantra è morta.
Chiamate il mio padrone.
È uno scherzo?
Chi comanda?
Mi hanno portato la small
Avevo chiesto una large.

Non mi sto divertendo,


Ho perso energia.
Dove sono le risate?
La vita è una fregatura.

Non è come una volta.


La birra è insipida.
Il sole è freddo,
Sento odore di bruciato.

Lasciami stare,
andrà tutto bene.
Non è rimasto niente,
ma è tutto mio.

Tagliami la gola
Guardami dissanguarmi.
Non piangere bambina,
Goditi la corsa.

Dai miei appunti.


Durango.
Febbraio 1973

Tutt si sposa.
Inga è tedesca. Dicono che non sorrida mai. Guarda solo oltre le tue
pupille facendoti sentire come un binocolo giocattolo a buon mercato.
Innervosisce gli uomini normali. Rende felici i rocchettari. Conosce tutte
le loro porte e le loro finestre, sa come scassinarle, come fare irruzione. Sa
chiacchierare e ridere. Indossa abiti così stretti che si riesce a vedere la sua
ambizione che filtra tra le fibre.
Dicono anche che sua madre era la masochista privata di Hitler, la sua
pelle squisita era il suo portacenere personale, dal momento che il lunatico
Führer la riempiva di pois fatti con bruciature di sigaretta ogni volta che il
Reich si trovava in difficoltà.
Inga è bella. Non avrebbe potuto sposare nessuno che non fosse una star.
E quando sorride a Tutt il cielo si riempie di nuvole e uccelli che
cinguettano.
Tutte volevano Tutt. Non era solo un fenomeno. Lui era quello con il bel
viso, la dolce espressione preoccupata. Il bambino senza mamma che ti
prendeva per mano, e che sorrideva contento per ogni gentilezza. Era il
poema che solo tu facevi rimare. La voce ardente che immobilizzava uno
stadio.
Che lo faceva piangere.
Si scherzava sul fatto che quando cantava piangeva dentro. Ma nessuno
poteva superarlo. Persino il suo ex collaboratore, Truce Wood.
«Sai come voleva chiamare la nostra band, Petals? Cry. Gli era sempre
piaciuto il nome. Gli si intonava, sapete? Un vero bastardo imbronciato.
Con veri disordini comportamentali.»
Ma cosa dire della musica? Chiedo a Wood. Continua a lanciare il suo
coltello contro un albero. Questo ranch pieno di cose succulente è ciò che
ha comprato con quello che gli era rimasto, un niente cosparso di cactus.
«E qualcosa di questo tipo. Tutti gli altri scrivono canzoni. Tutt e
Magurk sentono Dio. Lo mettono in musica. Sanguinano per i nostri
peccati.»
E tutti abbiamo un'occasione di sentirne lo sfogo. È una bella immagine.
O si tratta solo del fatto che Truce è rinato? Lui non risponderà, preferisce
non parlarne.
Estrae il coltello dall'albero. Uno sguardo perso. Dopo che i Petals si
erano divisi, Truce ha fatto qualcosa da solo. La band si chiamava Fat
Couch. Il primo album, nel Settanta, Happy Nap, è rimasto un po' in
circolazione senza sfondare, poi è morto. Non è scattato niente. La casa
discografica li ha eliminati prima che il secondo album arrivasse in sala
d'incisione.
Adesso gestisce un bar, Truce, a Durango. Ammette che quando nel suo
mondo tutto ha iniziato ad andare storto, ha perso la voce e ha cominciato
a ingurgitare acido come se si trattasse di vitamina C. Ben presto diventò
così abbattuto e paranoico, che ingaggiò un investigatore privato per rin-
tracciare la sua voce.
Il tizio gli faceva pagare 250 dollari al giorno più le spese. Disse a Truce
che aveva seguito la voce fino a un ristorante a Wichita Falls e che l'aveva
messa all'angolo, ma che lei era scappata. Alla fine disse che l'aveva
trovata e gliel'aveva spedita per raccomandata in una scatola imbottita.
Truce tiene ancora la scatola chiusa sul camino.
«Questo è quello che ti fa la droga.» Sorride. «La tengo là come lezione
per me stesso. Ho perso tutto, ragazzi. Sono fortunato a essere vivo.»
Asciuga la lama sui suoi Levi's. «Le cose cambiano. E devi imparare a
vivere con i fantasmi.»
E adesso Rikki Tutt sposa cinquanta chili di austerità tedesca, e Truce si
preoccupa del giusto regalo di nozze.
«Ti dirò una cosa, le donne di sette continenti sono in lutto.»
Ha ragione. Rikki è qualcosa di più di uno che ce l'ha fatta. È l'unico che
sia mai riuscito a trovare la strada per entrare.
«Forse gli prenderò la sua scatola personale per il camino.» Truce
annuisce, con una serietà mortale. «La fama ti inghiotte mentre non
guardi.»

Music City News.


Nashville.
Aprile 1971

Il ventiduenne G.G. Wall, chitarra dei Whatever, è stato nominato


chitarrista dell'anno dalla rivista Playboy nel suo sondaggio annuale sul
mondo della musica. Era arrivato prima di Clapton, Segovia, Beck,
Hendrix, Wes Montgomery, Joe Pass, Kenny Burrell e George Harrison.
Anche la sua composizione «Tight Squeeze» era stata votata come il
miglior pezzo strumentale dell'anno.
Wall, che aveva abbandonato la scuola a quattordici anni, ha sofferto di
problemi emotivi sin dall'infanzia e ne ha parlato in un recente Dick Cavett
Show. Quando gli è stato chiesto qual è il ruolo che gioca l'intelletto nella
musica dei Whatever, Wall ha risposto a Cavett che la sua mente «non si
fa sentire molto ultimamente. Immagino che abbia altri progetti».
E per quanto riguardava la psicoterapia a cui si sottoponeva da più di
dieci anni: «Ci credo. La psicologia è come il restauro di un dipinto.
Riporta alla luce i colori originali».
La maggior parte degli anni dell'adolescenza, Wall li aveva passati
dentro e fuori da istituti di correzione per furto. Faceva sempre irruzione
nei luoghi di culto e si sa che ha rubato oggetti religiosi letteralmente da
centinaia di chiese.
«Perché dovrebbero tenerli le chiese, amico?»
E cosa ne ha fatto di tutti quegli oggetti?
«Bene...» riesce a dire, mentre un'aria birichina gli compare sulla faccia.
«Di' solo che non sono riuscito a rispondere e che ti ho guardato con uno
sguardo vuoto.»

Il David Frost Show.


Londra. Hotel Ritz.
Settembre 1972

«Signor presidente, parliamo un po' della sua vita privata con la First
Lady. Ho sentito che a lei e a Pat piace molto guardare lo sport alla
televisione.»
«La ginnasta sovietica Olga Korbut è un'atleta sorprendente. Non sono
un sostenitore di quel governo, ma la bravura può emergere in posti
sorprendenti.»
«Ho anche delle spie che mi dicono che è un appassionato della musica
di Stan Kenton. Si balla alla Casa Bianca? Voi due? Soli?»
Nixon ride. Prende un sorso dell'acqua che Frost gli ha offerto.
«Non penso che farei bene a rispondere a questa domanda senza avere
l'autorizzazione di Pat. Lei è molto riservata sulle questioni romantiche.»
«I film preferiti di quest'anno?»
«Vediamo dei film alla Casa Bianca, come sa. Abbiamo qualche amico.
Ci è piaciuta molto The Poseidon Adventure, Jeremiah Johnson. What's
Up Doc? Mi è anche piaciuto Deliverance, ma Pat si è trovata a disagio
per la violenza.»
«E il rock'n'roll?
«Pat è una fan di Helen Reddy. Il disco First Time Ever I Saw Your
Face è decisamente piacevole.»
«Sto parlando del vero rock'n'roll.»
Ridacchia.
«Mi faccia un'altra domanda.»
«Di sicuro conosce i Rolling Stones, i Beatles...»
«Naturalmente. Dei giovani che hanno davvero talento.»
«E i Whatever?»
Nixon sbatte le ciglia. Vede cosa sta per arrivare.
«Si rende conto di quanto siano stati critici verso la sua politica estera?»
«No, non ne sono al corrente.»
«Le posso assicurare, signor presidente, che sembrano parlare a nome
della loro generazione e rispecchiare l'insoddisfazione dei giovani
americani.»
«La gente dell'Asia sudorientale ha bisogno del nostro aiuto.»
«E allora cosa mi dice degli altri problemi? Una delle canzoni numero
uno della band, 'World of Hurt', riporta l'accusa dei membri della band su
quella che loro pensano sia l'apatia di Washington sul problema
dell'eliminazione dei rifiuti tossici. Di certo ne è stato informato.»
Nixon fa un sorriso tirato, stringe le mascelle, riflette.
«È una domanda o un'accusa?»
«Perché i membri della band sono stati picchiati e arrestati dalla polizia
durante una manifestazione per la pace al Washington Monument? È a
conoscenza dell'arresto?»
«Stiamo parlando di politica o di musica rock?»
«Stiamo parlando della sua popolarità che sta diminuendo tra i giovani
degli Stati Uniti, signore.»
Nixon si asciuga il labbro superiore.
«Loro credono che il suo governo stia portando avanti una campagna
non dichiarata e immorale di violenza militare nel sudest asiatico e che lei
voglia blandire le voci dell'opposizione. Che lei sta portando al macello i
giovani del suo paese.»
«Non si brucia la bandiera degli Stati Uniti. Non si fa. Questa band... lo
hanno fatto sul palcoscenico.»
«E cosa mi dice del loro oltraggio e della loro disperazione... in realtà di
quella dei giovani di tutto il paese?»
«Non si brucia la bandiera.»

Parte di un articolo non pubblicato di Esquire.


5 giugno 1973

Quando Tutt la vide per la prima volta, disse che aveva visto la fine.
Lampeggiava come un avvertimento precognitivo in fase REM, una
mezza immagine. Uno sguardo attraverso il buco della serratura di una
forma uccisa, buttata, non si sa dove, nei suoi pensieri. La sensazione che
niente di buono avrebbe potuto venire dallo stare con lei.
Tutt ricordava che lei aveva detto poco. Un sorriso che rivelava
qualcosa. Niente. Tutto quello che aveva bisogno di credere. Era il suo
dono: se ne era accorto troppo tardi.
Lei era scura. I capelli. Gli occhi. I gioielli. Aveva sopracciglia perfette
su un bel viso. Sembrava forte, sicura. Tuttavia dentro di lei da qualche
parte cadevano delle lacrime. Tutt lo sentì in un battere di ciglia. Un
attimo.
Lei sorrideva con troppa facilità, ricorda di avere pensato. Adesso
vorrebbe aver fatto più attenzione a quell'impressione fugace, ben presto
offuscata, spazzata via. Avrebbe pagato in seguito per quella svista.
Nei suoi occhi si sentiva a casa. Gli piaceva il calore della sua pelle,
anche se non l'aveva toccata. Ma sentiva che era calda, come un raggio di
sole che scivola silenziosamente tra le persiane.
Poteva sentire il suo profumo e pensare per un momento che era sempre
stato il suo profumo preferito, anche se non sapeva collocarlo. Non
riusciva a collocare niente di lei. Ma la conosceva... almeno, dice, sentiva
che doveva.
L'astrologo che aveva incontrato nello studio di registrazione durante il
primo album aveva predetto il suo incontro con Inga. Gli aveva detto che
avrebbe incontrato la donna con cui sarebbe stato per sempre. La sua
anima gemella. La compagna che sarebbe stata impressa sulla sua carne
come i sottili fili colorati che attraversano le banconote.
Tuttavia lui sapeva che niente di buono avrebbe potuto provenire dalla
loro vita insieme. Persino il giorno in cui la sposò, aveva paura. C'era qual-
cosa di sbagliato. In quel giorno, nella bella chiesa sopra il mare che
riluceva, piena di amici e familiari, lui si sentì male. Mentre si baciavano,
Rikki sentì che stava morendo.

Dai miei appunti.


Malibu, California.
Luglio 1972

«A guardare abbastanza da vicino, tutti lo vogliono.»


Ha diciannove anni. Un angelo del Botticelli caduto. La sua band, Crazy
Tea Cup, ha cercato con un'Elektra, ma non è riuscita a sfondare. Ragazze
con la chitarra. Scordatevelo. Dà sui nervi alla gente, come la polka.
Lei guarda i ragazzi, con la testa piena di Kamasutra. Non c'è niente
della contrizione stancante della generazione di sua madre, della vergogna
dell'abbandono sessuale. Le costrizioni morali delle generazioni passate a
proposito della sessualità femminile stanno andando in fumo, bruciate
insieme ai reggiseni fuori della Casa Bianca, e trasformano il cielo davanti
al prato dei Nixon in una nuvola rossa.
Per quanto riguarda Jamie, un cazzo da rocchettaro è il meglio che si
possa trovare.
«La generazione di mia madre era una generazione di brave donne piene
di frustrazioni.»
Delle curve piacevoli filtrano dalla camicetta lucida e dai jeans stretti.
La sua pelle è perlacea e le sue mani delicate.
«Sto solo rifacendomi del tempo perduto.» Arrotola un'Hawaiana e
increspa la bocca alla ricerca dell'effetto - una Lolita all'hashish.
Secondo la sua stima ha avuto incontri pregnanti con più di un migliaio
di luminari del rock. Lo fa solo per la mamma. Ma per Jamie, i Whatever
rappresentano la parte più impegnativa. Se li è fatti tutti e viaggia con loro
ogni volta che sono in tournée. Infatti occuparsi delle loro parti private
oltre che della loro vita privata la occupa a tempo pieno e lei spesso riveste
il ruolo di infermiera e confessore. Lei sembra sentire che la sua vicinanza
corroborante faciliterà il loro viaggio attraverso la vita. Renderà la loro
musica più profonda. La renderà parte di tutto questo.
«Magurk dice sempre che sono decisamente all'altezza del safari. 'Abiti
caldi, onde pungenti per le mie digressioni casuali. Tutto in valigia.' Parla
così», ha detto questa ragazza che ha abbandonato Radcliffe per viaggiare
con Zep, Supertramp, Dr. Hook e anche Cat Stevens prima che, come dice
lei, '... prendesse il treno delle prediche'.»
Lei ha cercato di superare la fase della vita sulla strada con i Whatever,
ma viaggiare per il mondo con persone famose la teneva al guinzaglio tra
le quinte.
Ha provato a cambiare. È uscita persino con un poliziotto, un genio
malato, che dopo il servizio viveva in una bottiglia di Smirnoff.
«È durata una settimana. È stata un'idea di mia madre. Pensa che sia atti-
rata da ragazzi che assomigliano a mio padre perché lui non è disponibile.
Come se me ne importasse, anche se fosse disponibile.»
Beve qualcosa. Si lecca quelle labbra che prendono la temperatura delle
persone famose in un modo speciale. Preferirebbe parlare di Tutt e
Magurk.
«Sono dei geni. Non i soliti stupidi che si danno delle arie.»
Ridacchia. «Sì, non sono di certo dei pavoni.»

Lettera da Magurk per me.


Losanna, Svizzera.
Luglio 1974

Caro te,
un'annotazione dai fuori di testa.
Grazie per la lettera. Ci va bene fare l'intervista con te a Miami. L'unico
ostacolo possibile è che stiamo facendo il Midnight Special registrando a
distanza dal Cameo Theater. Siamo in città per fare una manifestazione per
Bobby Seale, o per raccogliere del denaro per le tette di Joan Baez, o
qualche altra cosa del genere.
Crosby, Stili + Nash (le maledette pastiglie per dormire all'amaranto) ci
aiutano. Abbiamo bisogno di un pomeriggio per controllare il suono. Cosa
ne diresti se facessimo l'intervista il giorno dopo, così possiamo riposare?
Altrimenti saremo costretti a mandare segnali a distanza.
Saremo al Bel Air. Ci piace perché, da bravi narcisisti, ci piace trattarli
male e pretendere bambinaie a tempo pieno che eseguono le nostre richie-
ste impossibili. Soprattutto quelle sordide, che hanno a che fare con le
zone basse.
Tutt vuole comprare un cappotto a Miami. Il suo è stato ridotto in cenere
dalla sua ultima donna che sembra una macchinetta mangiasoldi, mentre
girava per la proprietà di Lennon. Qualcosa a proposito di qualcuno che
stava accendendo un fuoco e aveva bisogno di legna. Lei pensava che
avessero detto lana.
Pensi che John falci il prato da solo? Forse costringe Ringo a farlo in
cambio del permesso di entrare negli uffici della Apple a soffiarsi la pro-
boscide.
Non conosciamo bene Miami e ci portano facilmente a credere qualsiasi
cosa, siamo dei turisti ideali. Siamo davvero felici se possiamo farci
portare in giro come una specie strana in prestito da uno zoo della costa
occidentale e ci piacerebbe controllare tutte le cose affascinanti, comple-
tamente degradanti, o al cui ritmo sia facile ballare.
Ieri sera ho scritto quattro canzoni nuove con Tutt. Deve aver inghiottito
un piano. Da qualsiasi parte lo tocchi, ne tiri fuori della musica.
Ci vediamo a Miami.
MAGURK

Dai miei appunti.


In volo. Costa irlandese.
Gennaio 1975
«Odiavo la guerra. Odiavo le armi. Sai cosa fa il napalm? Sai quanto ci
mette a bruciare fino alle dannatissime ossa? Cuoce il midollo. So di
ragazzi dell'aviazione che hanno mangiato il midollo bruciato di bambini
vietnamiti come se fosse stato Colonel Sanders. Ragazzi in... qualcuno
aveva delle foto. Mi sono dimenticato chi.»
Stomp indossa vistosi stivali da cowboy, pantaloni di pelle ricoperti da
macchie di dubbia origine; un abbigliamento logoro da gladiatore del rock.
L'elicottero scende sullo stadio dell'isola scozzese dove venticinque
superstar del rock daranno spettacolo questo fine settimana per raccogliere
denaro per gli orfani handicappati della guerra.
«Li chiamiamo i ragazzi di Calley. Dici che gli dispiacerà? Chi se ne
frega, ci metterà in trincea?»
Prende un po' di hashish e si arrotola una canna.
«Abbiamo comprato un bordello a Saigon. Abbiamo mandato tutte le
ragazze che ci lavoravano in un altro a Gia Dinh. Lo abbiamo trasformato
in ospedale. Abbiamo dato un posto a questi bambini, senza braccia. Senza
gambe. Con la pizza al posto degli occhi. È orribile. Davvero!»
Muove sui pantaloni di pelle le dita da solista, mentre sta a gambe incro-
ciate, e fissa l'isola piena di muschio, che emerge dal mare, come un trifo-
glio gigante. Tutt e Magurk arriveranno più tardi da Londra. Passeranno
tutta la serata agli studi di Abbey Road a fare un mixaggio. G.G. Wall sta
passando due giorni di vacanza a Mosca con la sua ultima ragazza, Vera, il
tipo della spia russa. Si dice che esca anche con Goldie Hawn, una delle ex
di Donovan, e una suora. Stomp ride, senza sconfessare niente. Vuole tor-
nare alla sua versione della politica.
«'fanculo Kissinger... 'fanculo i complessi industriali militari... 'fanculo
John Wayne.» È un congedo comprensibile dal tipo tranquillo del gruppo.
Forse ingenuo; una miscela di rabbia e parole confuse. Forse qualcosa di
più personale.
Suo fratello, Steven, era volato in Vietnam, a versare Orange Julius da
elicotteri della morte, uccidendo alberi, segando arti.
«John Wayne... un altro stronzo. Prendigli le braccia e le gambe. A che
cosa gli servono? Trasformatelo in una riserva di organi. Aiutate i ragazzi.
Fategli solo dei primi piani. Continuerà a lavorare lo stesso.»
Sorride, ma è convinto di ogni singola parola che fluisce senza speranza
in questa siringa particolare. «Queste persone stanno uccidendo l'America.
Quando sei vecchio e meschino e non riesci più a fartelo alzare, la guerra è
la miglior scopata in circolazione. Puoi scommettere che ne stanno cercan-
do un'altra, proprio adesso.»
L'elicottero viene spinto con forza dal vento dell'Atlantico. Stomp si
morde un labbro. Chiude gli occhi.
«Dio, odio volare.»

Articolo non pubblicato.


Festa dei Seahorse. Colline di Hollywood.
Gennaio 1979

Una luna che sembra una torcia.


I pazzi sono in circolazione; macchine tedesche tutte lucide parcheggiate
da inservienti in livrea fuori da un palazzo costruito da Frank Lloyd
Wright. Il rock esce a fiotti dall'interno, rimbombando sugli archi stile
decò.
Dentro, il posto è strapieno di animali del rock'n'roll, con le braccia
ricoperte d'oro. Facce agitate sfolgoranti ridono sniffandosi il cervello su
strisce bianche. Corpi nudi, perfetti scivolano dentro vasche spumeggianti.
La musica assordante ci spella vivi mentre L.A. luccica e si droga, in
lontananza. Da qualche parte là fuori, Sid Vicious ha ucciso la sua ragazza,
e dei babbei pieni di brufoli fanno la coda per vedere Grease.
Il tipo strambo che ha affittato il posto per un mese parla con il
responsabile del suono del gruppo, Feeder. Continuano a parlare del tour. I
Seahorse hanno fatto una strage in Europa. Il nuovo album High Horse, ha
avuto incassi da record.
«Stanno lasciando le band come i Whatever nella polvere», dice Snuffy
Hawkins, direttore musicale di Whirl, la rivista musicale che sta crescendo
più rapidamente dopo Rolling Stone. Anche se i cantanti e i musicisti
vicini al gruppo che hanno collaborato alla registrazione degli album dei
Whatever si sono presi la loro parte di benefici aggiuntivi, adesso quei
giorni sono finiti.
Passano gli altri membri dei Seahorse, con gli occhi lucidi, frenetici. Il
tour in quindici paesi li ha portati allo stremo, hanno bisogno di sfogarsi. I
quattro: batterista, due chitarre e cantante solista. Megaimbroglio. Una
carica repressa pesante, pronta a scaricarsi sulle donne. Sotto occhi stanchi
si agita il cattivo ragazzo. Ci si scambia segreti con il sorriso furbo di chi
sa, con parole in codice.
Ragazze dappertutto. Smaniose, con occhi spalancati. Guardano in un
silenzio pieno di bisogni, un harem di vittime, che prendono un numero
nella speranza di vincersi un membro della band.
I Seahorse ridono, mentre bevono nella piscina con il loro amico dei
Whatever G.G. Wall. Hanno appena ultimato un'intervista con me per il
Rolling Stone sputando addosso a tutti.
Dino, il leader delle persone al seguito della band, gli ha detto che hanno
fatto una stronzata, che nessuno vende merda a Jann Wenner, neanche
gente importante del cazzo come i Seahorse.
Il basso dei Seahorse, Lick Clean, sparge in giro qualcosa di nuovo.
Eroina. Marrone. Cinese. La chiama Strada Rocciosa. Stuff gioca con roba
chimica come se stesse mettendo insieme una ricetta per la zuppa.
G.G. si inietta una dose nel braccio. Vaga per l'oscuro palazzo dove si
tiene la festa, iniziando a cavalcare quello che Feeder gli aveva promesso
che era Elvis, sognando pompini, doni sputati da un ago. Inizia ad avere le
convulsioni.
Venti minuti più tardi è freddo e pallido.
Il carro dell'obitorio si era perso mentre cercava di trovare il posto.
«Aveva la leucemia. Sono sicuro che è stato quello», dice il manager dei
Whatever, Lenny Lupo. «Vivere con una condanna a morte è stato troppo
duro per lui. Quella roba avrebbe potuto farlo fuori in qualsiasi momento.
Lui era uno che si prendeva le sue responsabilità. Se l'è presa.»
«Stronzate», dice il cantante solista dei Seahorse, Vinnie Perito. «L'ho
visto quella sera. Stava bene. Se la stava passando bene. Forse ne è venuto
fuori prima che gli Etcetera o Noteven o Whatever-col-cavolo diventassero
i cazzutissimi Monkees, va bene? Senza voler mancare di rispetto. Mi pia-
ceva fare delle feste con lui. E anch'io stavo con loro, quando erano impor-
tanti. Ma allora, sto mentendo? Quando è arrivata la notizia di merda, ieri,
ho detto che lo sapevo.»
Perito al momento si trova in un centro di riabilitazione dopo essere so-
pravvissuto a una seconda overdose. Rikki Tutt, che è stato raggiunto ad
Aspen, dove era andato a sciare, ha detto che Wall era un musicista
brillante e «... un vecchio lupo».

Dai miei appunti.


San Paolo, Brasile.
Prigione femminile di Bejejos.
Dicembre 1977
«Mi hanno preso.» Nessuna espressione. «Pace.»
Inga si trova nell'area delle visite. Sta fumando. Ride con aria furba. Non
riesco a credere che si trovi qua, soprattutto adesso che arriva il Natale.
«Guarda, non posso dire niente sul caso, va bene?»
Si dice che l'abbiano incastrata. Mentre portava qualche chilo di roba a
Rio per il grande concerto dei Whatever a Copacabana.
Era riuscita a cavarsela per la droga che aveva comprato a Los Angeles
facendo del lavoro per la comunità. Ma qua è diverso. Il Sudamerica è un
brutto posto per contrabbandare o fare gli stronzi. Ti tagliano le mani, ti ta-
gliano la vita.
Le voci che arrivano dalla base dei Whatever è che Magurk e la sua
squadra di avvocati stanno cercando di incontrarsi di nuovo con gli
ufficiali della polizia di Rio. Stanno lavorando su qualche specie di
appello. Forse arriveranno a un accordo. Ma non sembra che si metta bene.
«Se lo vedi, digli che lo amo. Non mi lasciano ricevere o mandare
posta.»
Una matrona dall'espressione arcigna e dalla pelle scura mi dice che l'ora
delle visite è terminata. Inga non mostra né paura né preoccupazione.
«Uscirò di qua. Guarda. Magurk non lascerà che muoia qua dentro.»
Prometto di dire a Magurk che lo ama.

Rivista Cashbox.
Settembre 1974

Per l'uscita del nuovo album dei Whatever per la VOICE Records, Just
Forget It, i distributori musicali di tutto il mondo stanno dandosi molto da
fare per entrare in contatto con il supergruppo. Parecchie tra le maggiori
catene musicali hanno annunciato progetti per esporre Just Forget It in
tutte le loro vetrine, e distribuire magliette e felpe griffate tra i clienti.
Anche Wallach Music City di L.A. esporrà il manifesto dei Whatever su
tutto il lato del negozio che dà su Sunset Boulevard. Sul tetto, la copertina
dell'album, un cervello di due piani attraversato da una diagonale rossa,
sarà affiancato da una riproduzione lunga sei metri dell'album del debutto
dei Whatever che recentemente è stato pubblicato di nuovo.
La sera dell'uscita, la VOICE Records terrà una festa a inviti
nell'elegante Kaleidoscope Club di L.A. con i membri della band. Tra le
iniziative della costa orientale ci sarà l'allestimento di una carovana di
mezzi della VOICE che trasporteranno i clienti da Central Park ai negozi
di dischi di Manhattan fino alle ore piccole.
Altre feste da «Pazzie di mezzanotte» organizzate a livello
internazionale includeranno spettacoli laser, sessioni di ascolto
gigantesche, e un concerto dal vivo trasmesso via satellite nei cinema.
A chi ha chiesto di questo blitz promozionale, Rikki Tutt e Greg Magurk
hanno risposto stringendosi nelle spalle: «Immagini in cerca di
significato».

Parte di articolo.
Albuquerque, New Mexico.
Luglio 1977

Stomp sta recitando.


Vestito come Jesse James suda sotto il cappello di scena. Il regista
venticinquenne, Mitch Meyer, è appena uscito dalla scuola
cinematografica di UCLA e sta pungolando uno staff esausto per portare
avanti questa opera da pochi centesimi. Si chiama Blood of Earth, sangue
della terra, e la trama ha qualcosa a che fare con: (A) un bordello dove è
nascosto l'oro di una rapina al treno (e Buffy Sainte-Marie è la tenutaria...
ehi, non si può non amare questo paese), (B) un fuorilegge schizofrenico
che si rade male e si mette insieme a dei sadici che se la spassano, e (C)
uno sceriffo che canta.
Non vi basta ancora?
Dove si inserisca esattamente la parte del sangue della terra, o dove la
terra potrebbe iniziare a sanguinare, non è chiaro. Immagino che se siamo
abbastanza profondi, riusciamo a scoprirlo.
Nel frattempo, si può dire che le cose non sono andate molto bene sul
set.
La produzione ha superato il budget al punto tale che potrebbe rendersi
necessario dover finire il tutto a mano colorandolo con dei pastelli. Due
produttori si sono licenziati, il direttore di produzione dell'unità ha perso
un dito in una rissa in un bar (si dice che sia stato il dito a dar inizio alla
rissa), numerosi membri dello staff hanno preso la dissenteria per essere
andati una sera a divertirsi in Messico, lasciando così entrare nei loro
colon dei virus in sombrero. E mentre il film viene propagandato come una
favola junghiana di vigliaccheria e verità primordiali, quelli che hanno
visto i giornalieri dicono che assomigli al peggior Oklahoma.
Al momento fa così caldo in New Mexico, che le mosche si buttano di
fianco, implorando una birra. Le gomme delle roulotte degli esterni si
afflosciano. Delle persone bagnano i cavalli per non farli svenire, e tutto
intorno al set c'è aria di tortura e disidratazione. Deve essere stato più
fresco quando hanno girato Lawrence d'Arabia,
Persino Our Mr. Sun.
Per complicare l'imbroglio già di per sé dispendioso, a L.A. lo studio
odia fare le cose di corsa. L'aspetto, l'illuminazione, le recitazioni. A loro
piace Stomp. Pensano che abbia una disinvolta sensualità capricciosa. Un
atteggiamento naturale.
Lenny Lupo, il manager dei Whatever, ha accettato che Stomp recitasse
questo ruolo dopo che Lenda Bruxton aveva visto la band in concerto e
aveva deciso che Stomp era perfetto. Bruttarello, sexy, pieno di capelli.
Il regista aveva scritto il copione e aveva voluto la regia, in cambio. Lo
avrebbe voluto fare Beatty. Newman. Burt Reynolds aveva lottato per
averlo, non c'è riuscito, e adesso sta cercando di entrare in un progetto dal
titolo The Man who Loved Cat Dancing. Davvero la gente può voler
vedere i gatti che ballano con Burt?
Il regista perde mezzo chilo al giorno a causa del caldo, della mancanza
d'appetito, e del terrore; il tizio ha l'aspetto di uno che ha le montagne
russe che gli ballano nello stomaco. Sa che c'è una costosissima riga
tracciata sul suo collo in questo momento, e che il cortometraggio per cui
aveva vinto un primo premio a Cannes non significa granché.
Sta facendo una cena a base di unghie mentre si consulta con il camera-
man e il direttore della fotografìa, cercando di fare una ripresa che sembra
impossibile; cercando di guadagnare punti con i pezzi grossi di L.A che
stanno minacciando di interrompere il film. Una persona dello staff ha
detto che la voce che gira è che Mitch è perso in dettagli superficiali e che
«non c'è sotto niente».
Lo studio ha già ingaggiato un nuovo scrittore, un pistolero da centomila
bigliettoni alla settimana, che in questo momento si trova in una roulotte, a
ristrutturare e ad aggiustare il nuovo testo. Ma non si tratta di
un'operazione da poco, si tratta di un by-pass quadruplo.
Stomp ha i suoi problemi fuori scena.
Ha lasciato la sua ragazza Jane, per una delle comparse del film, una
havvaiana che ha vinto un concorso di bellezza, con due tette così prorom-
penti da aver dato loro i nomi di presidenti americani. Ma i pettegoli
dicono che Jane li ha trovati nudi nell'albergo di Stomp e ha sbattuto
cinquanta chili di aloha fuori dalla finestra del secondo piano. La tettona è
sopravvissuta, Jane se n'è andata, e Stomp ha concentrato di nuovo
l'attenzione sul suo lavoro.
In questo momento è nella sua sedia da regista che scrive le parole di
una canzone che si intitola «Floozy Woozy.» Un libro delle poesie di
Blake e dei discorsi di Daniel Berrigan stanno nel tascone della sedia. Non
vede l'ora di finire la produzione, tornare a L.A. a lavorare sul nuovo
album doppio dei Whatever, Skin and Bones. E non vede l'ora di essere
preso sul serio come scrittore di canzoni.
Gli pesa sempre di più che siano Tutt e Magurk ad avere questo
monopolio, e pensa che sia arrivato anche per lui il momento di iniziare a
costruire gli alberghi al Parco delle Vittorie. Ha un nuovo manager
personale, Karen Dellinger, che ha curato gli interessi di Illinois Speed
Press, Peaches and Herb, Livingston Taylor e Eric Carmen. Fino a ora, ha
scritto un motivetto per una ditta di dentifrici e un album di canzoni per
bambini che è pronto da registrare e si intitola The Big Stinky Ape. E pensa
di poter fare altre belle cose di questo tipo. È anche fidanzato con
Dellinger, che prima faceva la contabile, che dice che Stomp ha lo stesso
talento di Magurk e Tutt. Mentre programma di continuare a fare il
batterista per i Whatever, prende anche lezioni di chitarra.
Stomp suona la sua Martin personalizzata con il suo nome inciso in ma-
dreperla. Vuole parlare.
«Sto solo strimpellando un po'... sai. Vuoi sentire qualcosa?» Cancella
una parola, soffia via i pezzi di gomma rossa, confetti di gomma.
«Molto duro. Qualcosa come... 'Seduto sulle sedie economiche... dor-
mendo sulle lenzuola strappate... mentre ascolta i suoi pensieri... la mia
attenzione vola e marcisce'.» Cerca di decidere se gli piace. Mentre lotta
con quello che ha scritto.
«A ogni modo... continua: 'Lei c'è per me... lei c'è per te... a ricordare...
che ci sono cose che non crescono mai/ Mi fa sentire sbilanciato... non un
compratore... solo in affitto'». Ride. Gli piace la parte. Beve un sorso di
caffè freddo, sotto il sole che picchia. Sgranocchia un cubetto di ghiaccio.
Continua a leggere.
«Floozy Woozy... sono stanco della sua faccia. Floozy Woozy... è una
mente senza traccia.» Si sfrega la mascella con la barba lunga, che fa parte
dell'aspetto del personaggio, uno sceriffo vedovo, abbattuto dal dolore;
scosso da un incubo. E che evidentemente non è più capace di radersi. Ho
accennato al fatto che canta anche? Forse nella riscrittura ballerà anche il
tip-tap come Sammy.
«Il resto è... un po' vago. Suona così: 'Lei pensa di piacermi... pensa di
essere intrigante... per me è prova di accoppiamento tra consanguinei'.» Si
asciuga il sudore. Potrebbe essere un sudore nervoso se fossimo in un
posto diverso da questa fornace che ci sta cuocendo.
Il coordinatore degli stunt, un gentile svedese di Stoccolma, con un
nome troppo difficile da pronunciare, sta passandoci accanto e Stomp
legge di nuovo i versi. Vuole sapere se piacciono allo Stunt Svedese. l'SS
sorride, con gentilezza.
«Forse Magurk e Tutt lo possono sistemare», borbotta, allontanandosi.

Newsweek.
11 settembre 1974

A cosa pensano Rikki (Ronni) Tutt e Greg Magurk dei Whatever? Le te-
nebre del loro secondo e più recente album, Just Forget It, uscito la
settimana scorsa, hanno scatenato una straziante polemica.
Mentre il primo album della band, l'intossicante Know Means Know era
surrealista alla Lewis Carroll, pieno di cerebralità post-psichedelica, di
pulsioni che danno dipendenza e ghiribizzi lirici, il secondo è più difficile
da collocare. Non c'è niente del sentimento deliziato della band, catturato
sotto una pioggerellina alla Magritte, degli sforzi precedenti; nessuna
invenzione fine a se stessa che ti fa storcere il naso.
La band sta cambiando. Philip Zapata, che adesso è completamente
sintetizzato, e G.G. Wall, con il suo strumento tormentato da Jimi e
dall'esperienza, non riescono a salvare i loro capi rimasti senza fede.
Ascoltare la musica dei Whatever è quasi come guardare un amico
eloquente in preda a una soffocante depressione.
Potrebbe essere che le pagliacciate del Watergate e il conto delle salme
del Vietnam abbiano lasciato Tutt, Magurk e compagnia in uno squallido
funk di cui non riescono a liberarsi? Mentre Just Forget It è un insieme
brillante di canzoni, stupefacenti dal punto di vista lirico, non c'è
possibilità di sbagliare sul fatto che siano deprimenti. L'assassinio della
cultura pop ne riempie ogni nota e ogni parola, e il loro primo obiettivo è
colpire i potenti dei titoli dei giornali. Il governo è in cima alla lista.
«Addicts» è un gioco ossessivo sulla farsa dello scandalo Watergate,
pieno di imprecazioni amare. Nessuno ne esce vivo, incluso G. Gordon
Liddy, John Dean, John Ehrlichman, e l'ex presidente Richard M. Nixon.
La fontana della giovinezza è rossa, non lìmpida.
Il segreto dell'amore gioca sulla paura.
Non dovresti resistere, non c'è motivo.
È uno sporco trucco della vita, le regole dello spinello.

I loro doni e i loro trucchi non diminuiscono, ma gli scrittori delle


canzoni sembrano averne dimenticato la gioia. Questo è un album di
innumerevoli doni, comunque pesantemente inquieto. I Whatever hanno
bisogno di sollevare la testa dallo squallore della politica di guerra degli
Stati Uniti e dal piagnucolante rancore dei contestatori, prima che Tutt e
Magurk siano ancora in grado di dire qualcosa di buono.

FORTEMENTE RACCOMANDATO

Dai miei appunti.


Ospedale militare di Kittridge. Missouri.
4 novembre 1974

«Non mi può sentire.»


La stanza puzza di chiuso. Si vedono i campi di grano. Comignoli. Un
treno pieno di mandrie spaventate sferraglia in distanza.
Una cittadina; fattorie, qualche industria. Dall'alto dei loro trattori e del
loro fondamentalismo non vedono spesso passare tizi come Stomp
McGoo. E quei capelli e quel velluto. I braccialetti che tintinnano; un
ossuto omosessuale. Arrossiscono solo al pensiero.
Lui tiene la mano di suo fratello Steven. Steven ha fatto atterrare il suo
chopper su una mina in Vietnam, e per questo adesso gli manca qualcosa.
Due braccia andate. Una gamba. La maggior parte della faccia. Adesso è
cieco e lo nutrono con un tubo.
«Dovevi vedere come lanciava. Steven da solo in pratica era tutta la
squadra dell'università. Poteva colpire un ditale da mezzo chilometro.»
Steven geme. Stomp gli massaggia i capelli.
L'infermiera dice che l'ora delle visite è quasi finita. Stomp annuisce, si
abbassa a sussurrare qualcosa a Steven, lo tiene. Io non riesco a sentire
quello che si dicono. Stomp lo tiene più stretto. Poi si gira a guardarmi per
un attimo. Sta piangendo.
Durante il viaggio di ritorno dall'ospedale, Stomp non ha detto una paro-
la. Mentre l'aereo decolla, guarda fuori dal finestrino la città che ci
lasciamo alle spalle. Con gli occhi chiusi. Ha detto qualcosa sul fatto che
Steven non può più piangere. Sulla sua faccia non c'era rimasto niente che
glielo permettesse. I condotti lacrimali erano stati distrutti.
La notte successiva, Stomp ha fatto l'assolo di batteria più lungo e più
sorprendente che si possa ricordare.

Articolo del Los Angeles Weekly. Dai miei appunti.


Los Angeles, California.
Centro di L.A. Binari di Alameda.
3 gennaio 1975, ore 2.37

Brutte strade, brutta gente. Bar che lavano via la morte dai loro
marciapiedi ogni mattina. Si erge un capannone abbandonato e in rovina.
Dentro, un tizio che ha fatto un viaggio di migliaia di chilometri all'ora e
ha continuato a viaggiare, si sta svegliando.
Si chiama Oz Peterson, ed era un poliziotto a Chinatown. Fino a quando
lui e il suo partner si erano fatti prendere dagli spacciatori peruviani, e Oz
aveva visto il tizio con cui viaggiava tagliuzzato lentamente, torturato per
strappargli delle informazioni. Il suo partner, Nicky, non parlò. Ma gli ci
erano voluti tre giorni per ucciderlo alla fine. E Oz ha ancora delle
immagini da incubo di Nick, appeso come carne da macello, con gli
squarci del coltello che gli aprono il corpo, che sanguina a morte.
Oz si sfrega mentre si sveglia, si prepara il caffè, mentre un sole coperto
dal fumo si alza nel suo loft. È pieno di tele dipinte di immagini
esorcizzanti di sé. Dopo la sua morte, Oz è scomparso, è crollato, si è
messo a bere, ha perso la strada, sperando che non lo trovassero più.
Era finito a Los Angeles a dipingere, mettendosi a fare dei lavoretti da
investigatore privato quando aveva bisogno di soldi. Sorveglianze per
divorzi, telefoto, diventando grasso. Andava a casa la sera e si metteva a
parlare ad alcune immagini di Huerredura e a dipingere finché le immagini
non iniziavano a fargli paura. Facce. Bambini urlanti. Lame che tagliavano
il sole. Gocce rosse che gocciolavano sul pavimento del suo loft e lo
facevano sedere a gambe incrociate a pensare di farla finita.
Ma un colpo alla porta lo fermò.
Si alzò in piedi, l'aveva già vista. Ma guardò giù, non volendo stabilire il
legame, non volendo correre il rischio di farsi piacere nessuno. E così
avevano viaggiato insieme nell'ascensore del loft, un migliaio di volte e lui
seppelliva la faccia sotto una maschera di morte e lei non chiese mai. Lui
l'aveva sempre ritenuta una puttana. Pallida, vistosa. Capelli da Edgar
Winter, una astrazione ironica. Faccia graziosa, occhi furbi. Occhi che
probabilmente sapevano che lui era chiuso in se stesso e che non avrebbe
fatto domande.
Ma poi lei disse che aveva bisogno di droga. Ne aveva? Era per un
amico. Un braccio affamato che aveva bisogno di qualcosa di buono.
Lui non rispose e lei seppe.
Lei lo convinse ad andare a letto e fece qualche giochino che gli fece
passare il torpore. E si strinsero l'uno all'altra e lui la guardava, sentendosi
in colpa. Cosa ci faceva qua una come lei?
«Qua la gente viene lasciata agli angoli della strada a farsi raccogliere.»
Gli piace. Stare vicino a lei.
Combatte per prendere una decisione. Alla fine tira fuori le manette dal
comodino e le ancora il polso sottile al letto.
Lei si contorce, urla parolacce.
Lui chiama i poliziotti.
E mentre portano via Inga, lui ne schizza la faccia. Lei gli urla dietro, dal
sedile posteriore della macchina di pattuglia. Lui è in piedi sul marciapiedi
lurido, finisce il carboncino. Torna nella sua stanza. Appende lo schizzo e
si ubriaca.
Il moschettiere della stanza ovale, «Gerry», quest'anno sta andando pe-
sante sulle droghe, mettendo la gente in carcere senza libertà condizionata.
Forse Magurk stavolta non riuscirà a tirar fuori Inga.
Anche se l'ha mandata dentro lui.

Time.
10 aprile 1978

È stata una lunga attesa. E il risultato è un capolavoro inquietante. Il


primo pezzo del nuovo doppio album dei Whatever Skin and Bones è
«Mainline» e, come il resto dell'album, è un'accusa diretta.

Malattia e scintillio.
Prendimi solo la mano.
Non ti farò mai del male.
Sono il tuo più grande ammiratore.

E continua così questa passeggiata mortale tra le fantasie dei media coi
loro falsi sogni. Agli occhi di Tutt, Magurk, Wall e McGoo, L.A. è un
enorme orrendo appetito, dipinto con toni inumani che vanno dal grigio
industriale al rosso che ricorda le ferite da arma da fuoco. Tagliano
un'incisione profonda e tirano indietro la carne per mostrare la povertà
falsamente elegante del mondo dello spettacolo, una festa che affoga i suoi
piccoli nelle bugie prima di mangiarli.
Nelle testimonianze di sangue dei Whatever, la città che riluce
foscamente inghiottisce le vite, mentre le sue strade vengono insozzate da
carne malata, da sguardi più bui del catrame. Le puttane avanzano
impettite, commerciando la morte, e dappertutto questo paesaggio
avvelenato inghiotte la speranza e diffonde, mentre nessuno guarda, il
cancro della città. Da «Hurting Inside», arriva questo brivido spensierato:

Il mio programma è la morte.


Sto male dentro.
Un altro nuovo amico
Viene portato a riva dalla marea.

Faccio festa nelle sfortune.


Sono un amico discutibile.
Sono buono durante la luna piena.
Sono un'avanguardia degli anni Settanta.

Mangio uomini a colazione,


Bevo donne a pranzo.
Mi immergo nella loro essenza.
È la mia bibita preferita.

Non si può fermare.


Non si può trovare.
Per me, siete tutti cani che abbaiano,
Messi a dormire nel mio canile.

(coro)

Sto male dentro.


Nessuno capisce
Sono qualcosa in più di valore incalcolabile
Che dà solo una mano.

Ci sono troppe persone,


Non c'è abbastanza amore.
Il mondo è una scogliera.
Io sono solo una spinta.

(fine del coro)

Ho fatto un colpo,
Trasportando anime perse.
Alcuni mettono in discussione il metodo,
Ma la vita è una questione di obiettivi.

Il mio programma è la morte.


È il mio modo di essere.
Un altro sogno perduto.
Un'altra bella giornata.

Non contenti di sparare sulla falsità delle luci del neon, si tuffano in una
problematica più profonda con il loro pezzo «Black Sky» fortemente
ambientalista, impostato su una presenza feroce del pianoforte e la vocalità
rabbiosa di Tutt.

Gli uccelli si nascondono,


sanguinando tra alberi morti.
Le nubi sono infette.
E mettono i malati in ginocchio.

Sono in arrivo brutte cose.


Posso udirle sulle scale.
Che scendono dai corridoi.
La morte è nell'aria.

(coro)

Il cielo è nero.
L'orologio si è fermato per sempre.
Il cielo è nero.
Le fiamme hanno raggiunto la foresta.

Il cielo è nero.
L'uomo cattivo arriva con un sorriso.
Ha fame ed è vuoto.
Si fermerà per un po'.

Ma non è tutto nichilismo. Nel melodioso «Shade of a Blue Affair», la


band cambia ottave emotive, e Magurk canta una ballata implorante, soste-
nuta solo dalla chitarra melanconica di Wall. Sul terzo lato, il pezzo
d'apertura è l'ardente «Spanish Lies», un ritmo castigliano che ti culla.
Le venti canzoni, nonostante le liriche frequentemente critiche non
annientano mai l'invenzione melodica né diventano fragili affermazioni.
Negli album precedenti, Tutt e Magurk hanno smorzato il battito dei loro
cuori con polemiche e rabbia. In Skin and Bones non tirano pugni, non si
autocommiserano né si sentono persi. L'atteggiamento da star che
emergeva nel lavoro precedente, in modo poco camuffato, in quest'album
non si trova proprio. Solo percezione e una elegante produzione. E le solite
composizioni che fanno volare.
Forse Bob D. aveva ragione, e i tempi stanno davvero cambiando.
Questo non è un album che avrebbe potuto essere apprezzato o perdonato
qualche anno fa. Ma dal modo in cui vanno le cose, questo è un album che
riempie un vuoto minaccioso.
CINQUE STELLE.

Colonna di Joyce Haber.


Los Angeles Times
4 febbraio 1978

COMPAGNA DI UN ROCCHETTARO TROVATA MORTA

Inga Johanneson, ex moglie del cofondatore dei Whatever Rikki Tutt, è


stata trovata impiccata nella sua cella nella prigione di San Paolo del
Brasile. I responsabili della prigione dicono che la Johanneson si è
suicidata con una cintura. Tutt non ha rilasciato dichiarazioni, ma si sa che
da parecchi mesi stava cercando di farle ottenere la libertà. Il manager dei
Whatever, Leonard Lupo, ha detto che tutta la band è sotto choc e che Tutt
è in isolamento dietro supervisione medica. Quelli che gli sono vicino
hanno evitato di commentare il fatto che per un'inquietante coincidenza la
morte della Johanneson è capitata il giorno del compleanno di lui.

Dai miei appunti.


Memorial Stadium. Minneapolis.
Novembre 1979

Rikki Tutt è a dorso nudo, e si fissa davanti allo specchio. La sua band, i
Whatever, è a Minneapolis, e fa da apertura per il gruppo rock
latinoamericano Malo che suonerà per uno stadio pieno a metà. I giorni
delle sale piene e degli album numero uno sono finiti; questa
programmazione sovrapposta di stili musicali diversi mette le cose in un
rilievo significativo.
Negli anni recenti i Whatever hanno avuto scarse vendite di dischi e
bassa affluenza di pubblico ai concerti. Il gruppo sembra una vittima,
almeno parzialmente, della discomusic. Recentemente, sono stati scacciati
dallo stadio a fischi quando hanno aperto a Sarasota per i KC e i Sunshine.
Allo stesso modo anche nella vita privata hanno vissuto la loro parte di
vera tragedia.
Il chitarrista G.G. Wall è morto per una overdose di eroina a una festa a
Hollywood, data dal megagruppo dei Seahorse. Il batterista Stomp McGoo
è stato messo in prigione per violenza sessuale su una minorenne, sebbene
la ragazza in seguito abbia ammesso di aver mentito. Stomp si è riunito al
gruppo per la produzione del disastrosamente impopolare album, Skin and
Bones.
Per un tour Wall fu sostituito da Snap Brown, che aveva suonato con
Billy Preston, Blood, Sweat and Tears, la Eric Burdon Band, Howlin'
Wolf, e suonava regolarmente a Londra e New York.
Brown ha lasciato il gruppo dopo otto mesi per formare gli SHAKE, un
gruppo di risonanza internazionale che si distingue per un'allegra musica
dance e colorati costumi da calipso. Il loro primo album, Boogie Bay, è nu-
mero uno in America e in Gran Bretagna, e tutte le composizioni sono di
Brown.
Anche se Magurk e Tutt sono apertamente critici della musica di Brown,
e dicono di provare orrore per il fatto che Brown sia una superstar, Brown
non risponde mai sulla stampa. Il suo album da solista French Eyes, occhi
francesi, e stato ridicolizzato da Tutt e Magurk che lo hanno chiamato
«French Fries», patatine fritte, e hanno paragonato il suo istinto musicale a
un fast food.
Nel frattempo, i Whatever continuano a fare concerti per pagare le spese
legali che aumentano a spirale a causa della vertenza in corso con il loro ex
manager Lenny Lupo che, sostengono, si è appropriato indebitamente dei
diritti dei loro quattro album. Lupo obietta che è tutta un'invenzione e che
è stato licenziato quando aveva ancora interessi negli album che la band
aveva fatto e nei progetti futuri, in caso ce ne fossero.
«Spazzatura inventata», dice Tutt.
Il gruppo è stato anche querelato dai genitori della quindicenne che era
stata picchiata a morte al loro concerto di Atene del 1978. La polizia greca
dice che il servizio d'ordine privato assunto dai Whatever non ha fatto
niente per intervenire quando la ragazza è stata aggredita da una folla
indisciplinata, arrabbiata perché i Whatever avevano dovuto abbreviare il
loro concerto a una sola ora per il collasso che G.G. Wall aveva avuto sul
palco. È dura stabilire se il gruppo sia riuscito a riprendersi dopo la sua
morte per overdose.
«Mi manca», ammette Tutt. «Non so... forse è stato intelligente a
tirarsene fuori. Il mondo si sta addormentando. A nessuno importa niente.
È un torpore globale. Voglio dire, un dannato attore è in corsa per la
presidenza.»
«Corre a piedi, se è per quello», aggiunge Magurk.
«Oh, cammina adesso?» Tutt mastica del sedano.
Magurk quasi sorride.
«A un certo punto qualcosa non ha funzionato», dice. «Voglio dire che
la dannata Donna Summer è numero uno. Sono stato a trovare mia madre a
Sarasota, e anche lei ne è condizionata.»
Tutt manda giù un sorso di tequila. «Forse è solo tuo padre. Lui è un tipo
tranquillo.» Fa un cenno. «Ti dirò, la gente una volta credeva che avessimo
qualcosa da dire.»
«Lo avevamo?» chiede Magurk.
Tutt non dice niente. Finisce la tequila.
«Chiedilo ai Bee Gees.»

Servizio Informazioni Reuter.


1° gennaio 1980, ore 1.15

Tutti i membri del gruppo musicale Whatever, un gruppo che parecchi


ammiratori e critici hanno sentito come coloro che rappresentavano il rock
dell'uomo che pensa e l'aggressività intellettuale della musica dei primi
anni Settanta, sono morti in un fatale incidente aereo la notte scorsa alle
porte di Montreux, in Svizzera.
Il gruppo stava tornando negli Stati Uniti dopo uno spettacolo per
l'ultimo dell'anno. Tutti e tre i membri sono rimasti uccisi quando il loro
aereo privato è andato a sbattere contro una montagna ricoperta dalla neve.
Il manager e produttore del gruppo, Purdee Boots, raggiunto nei suoi
uffici di Los Angeles, ha dichiarato: «... Siamo tutti sbalorditi».
Gli investigatori della polizia svizzera che erano sulla scena del disastro
hanno detto che l'interno dell'aereo era stato riempito con oggetti di natura
religiosa.
«Devono averci tenuto la messa, lassù, o qualcosa del genere», ha detto
il detective Claude Thoin. «Stava succedendo qualcosa di poco chiaro.»

Microfono aperto. Il Comedy Store.


Hollywood, California.
7 gennaio 1980, ore 23.50

«Allora, ecco la domanda...»


«Whatever?»
«Voglio dire, parliamo di una band che ha toccato la vetta...»

Dai miei appunti.


New York City.
15 gennaio 1980

Sto scrivendo queste cose alle tre del mattino.


Non sono riuscito a completare questo articolo come avrei voluto. Avrei
voluto entrare nell'infanzia di ogni membro, nel pieno delle loro esistenze
prima che dessero vita ai Whatever. Ma il loro tempo è finito.
Spero che quello che ho raccolto, anche se frammentario, se rapportato
alla dimensione a tutto campo delle vite vere, e anche se tende al mosaico,
catturi qualcosa delle loro vite e del loro straordinario talento. Forse non
funzionerà. Forse nemmeno io. Proprio come ha detto Inga.
Quando arrivai sul posto dello scontro fatale, il mio occhio colse un'im-
magine della polizia svizzera che infilava in sacchetti di plastica pezzi di
oggetti religiosi che erano stati rinvenuti nelle vicinanze dell'incidente. In
montagna faceva davvero freddo e i corpi furono portati via da un
elicottero, e mentre lo guardavo alzarsi, mi ricordai della notte che avevo
volato con il gruppo, dopo uno spettacolo che avevano fatto al Forum di
Los Angeles, cinque anni fa.
Stavamo andando a Dallas, ed io mi ero occupato della band abbastanza
a lungo da guadagnarmi la loro fiducia. Quella sera avevano diviso con me
qualcosa di molto personale: un rituale. Mi avevano permesso di esservi
testimone, anche se mi era stato chiesto di giurare che non avrei mai
parlato di quello che avevo visto.
A causa della loro morte prematura, sento che adesso ne posso parlare.
Spero che il mio istinto abbia ragione. Questo è ciò che ricordo:
La sera in cui lasciammo LAX, dieci minuti dopo il decollo, Rikki Tutt
mise il 707 della band in automatico. Poi venne dietro con il resto della
banda. Nella cabina dell'aereo non c'erano sedili, solo dei grossi cuscini.
Erano quasi le due del mattino.
Rikki mise su un album ossessionante di un bellissimo coro che aveva
cantato al funerale di Robert F. Kennedy. Le voci erano colme di dolore e
di trasporto, e su di noi ebbero uno strano effetto soporifero.
Greg Magurk diminuì l'intensità dell'illuminazione in tutto l'aereo e gli
altri accesero esattamente cento candele di misure diverse. Non so quale
significato avesse il numero. Ma era osservato e doveva essere essenziale.
Usarono dei candelabri che provenivano dalle innumerevoli chiese che
Wall aveva derubato.
I cinque unirono le mani e chiusero gli occhi. Poi, uno alla volta,
chiesero che la verità fosse sempre presente per loro. La cera colava su
innumerevoli candelabri, macchiandone il metallo che rappresentava la
divinità come se fosse stato il sangue di Cristo.
Con la mente riesco ancora a vedere Tutt e Magurk, a gambe incrociate
sui cuscini. Le loro facce erano più serie di quanto non le avessi mai viste,
alla luce tenue delle candele, e i loro occhi sembravano aspettare qualche
travolgente fatto dell'esistenza.
G.G. Wall, Philip Zapata e Stomp McGoo erano seduti uno accanto
all'altro e tenevano le mani a Greg e Rikki. Erano tutti esausti per lo
spettacolo e alla luce ondeggiante delle candele i loro volti brillavano;
sembravano valorosi indiani che si stavano preparando a incontrare il
Grande Spirito.
La verità.
Era diventata la loro chiesa. La loro fortezza in una città morta.
Alla fine, forse erano stati gli anni Settanta a farlo. Chi cazzo lo sa.
Magurk una volta mi aveva detto che «i batteri fornicatori del sogno
americano» lo offendevano. «Questi sordidi intrallazzi e furti.» Voleva
dire il mondo della musica. Washington. I democratici. I repubblicani. La
brutta musica. I Capi cattivi.
Una gravità senza un pianeta.
Nel campo musicale i Whatever credevano che persone senza talento
con prodotti fittizi avessero rovinato tutto. La macchina del denaro aveva
cooptato l'arte e l'aveva usata come combustibile a buon mercato per
mandare avanti lo spettacolo.
I Whatever erano entrati nell'immensità del mito ed erano stati messi sul
trono, in un mondo pieno di barili di petrolio che valeva 19 dollari ed era
venduto a 46. Con accordi di pace che vivevano per metà, come fantasmi,
vuoti di significato.
Mi chiedo se avessero saputo che c'era la montagna. O se non avessero
creduto di aver visto abbastanza; se la distanza tra quello che per loro
aveva valore e quello che il mondo era diventato li aveva distrutti già
prima della collisione: seppellendoli sotto l'acciaio e la neve.
E solo un pensiero. Ma non cambia il fatto che mi mancano. Che loro
non avrebbero mai dovuto smettere di avere importanza. Che erano stati
dimenticati e sostituiti, messi nella tomba dal decadimento maniaco di
un'epoca vana.
Questa è l'ultima nota che ho ricevuto da Greg e Rikki. Erano ad
Amsterdam appena prima di Natale, stavano lavorando sulla colonna
sonora di un film di basso costo che si intitolava Void of Course, su un
presidente americano che sta passando attraverso un esaurimento nervoso
e nessuno se ne accorge. Erano orgogliosi delle loro composizioni. La nota
diceva:

Hola Buon Uomo,


Abbiamo pensato al tuo suggerimento di scrivere un libro sulla band.
Non lo faremo. Non siamo nemmeno sicuri di voler fare il pezzo che hai in
mente per il Rolling Stone. Le band non dovrebbero essere dei romanzi. O
dei manifesti. A ogni modo siamo finiti. Solo una cassetta di pezzi vecchi
ma buoni.
Stomp dice che gli anni Settanta erano come gli anni Sessanta ma con
dei capelli più brutti. Noi diciamo che gli anni Settanta non sono nemmeno
mai esistiti. E dovremmo saperlo.
Tu pensavi che noi avevamo idee, una certa percezione Escher
trasportata nella musica. Ma è solo rock. Viene. Va. Scompare dallo
specchietto retrovisore.
Ehi, amico... noi siamo stati alla festa troppo a lungo.

E tu?

1980-1989
Smantellare l'architettura della fortezza
smantellare il muro
di David J. Schow e Craig Spector

Lui ci ha fatto uno scherzo. Questo Hitler, penso,


Rimarrà con noi fino alla fine delle nostre vite.
Heinz Krüger
The Shattered House: A Youth in Germany

Un bambino di sei anni vive e respira grazie ai morti, alla famiglia, agli
amici, agli estranei, tutti resi uguali da grosse macine. Corre voce che la
polvere setacciata sia usata per fare la malta (per costruire le prigioni) o
per cuocere il pane (per ingannare i loro stomaci); scherzi di questa
portata vanno oltre la sua capacità di comprensione. Lui è stato testimone
dei ghetti, dei forni e delle fosse comuni. I suoi guardiani ridono sempre
per la sua faccia macchiata di fuliggine e per le sue mani nere. Diverte i
suoi padroni con il suo fegato e la sua abilità. Gli basta per guadagnargli
un nuovo lavoro e mantenerlo in vita. Almeno fino a quando compirà sette
anni.

Lo specchio dietro il bar di Hirohiko Ozawa era un pezzo di immondizia


Art Déco fatto da strati di vetro che riflettevano il suo viso in tante copie
che si sovrapponevano. Le finestre a tutt'altezza del suo appartamento
dirigenziale al decimo piano avevano una magnifica vista sul Tiergarten.
Fuori, di sotto, il Muro di Berlino stava cadendo, un pezzo alla volta. Alla
deriva in un mondo fragile, fatto di immagini false e cambiamenti
repentini, Hiro, amante consumato dei giochi di parole, poteva permettersi
il lusso della riflessione.
Quando si trattava di sopravvivere e avere successo nell'arena aziendale
dei tagliatori di gole, la capacità di trasformazione diventava una questione
di vita o di morte, e Hiro aveva costruito la sua carriera sulla capacità di
cogliere i cambiamenti continui: prendere sulla carta decisioni di pietra,
per buttare poi il tutto a mare al momento giusto. Mostrare una faccia
quando le azioni si alzano, mostrarne un'altra quando precipitano, senza
mai farti vedere sudare. Diventa famoso, poi temuto, poi infame... poi
invisibile. Sotto una veste fai il lavoro, organizza complotti sotto un'altra.
Molte persone restituirono l'occhiata di Hiro dallo specchio.
La Koramitsu Corporation aveva fondato la maggior parte del suo
successo su una delle idee preferite di Hiro, il concetto dell'alibi a prova di
bomba. In questo mondo quando si diceva Koramitsu, si parlava di
software, e quando la Koramitsu aveva bisogno di fare delle mosse audaci
nella progettazione del prodotto, chiamavano l'uomo che conoscevano con
il nome di Hirohiko Ozawa. Da qui, l'ufficio importante, i benefici
aggiuntivi e la vista dall'alto. Era stato Hiro a scegliere lo specchio,
insieme all'altra mostruosità a forma di conchiglia color verde acqua che
era il bar. A Hiro piacevano le cose pacchiane. Era un conoscitore delle
cose vistose, soprattutto quando erano comprate e pagate da persone che
non contavano.
Solo, con arroganza, brindò a se stesso. Non era per niente il giapponese
umile, protetto, che si disprezza, 'fanculo con tutte queste dicerie.
Hiro stava ancora per trasformarsi. Da lupo mannaro europeo a tigre
asiatica, immaginava. Tra quindici giorni sarebbe stato a Hong Kong, con
un nuovo lavoro sotto il nome di Seko Kobayashi... posizione assicuratagli
dal contrabbando di certi progetti di microprocessori top-secret prodotti
per la Koramitsu dalla ditta tedesca Mohler Partners GbH. I progetti erano
stati la merce di scambio nella fusione che avrebbe dovuto avvenire tra
Koramitsu e Mohler. Ma quando il furto fosse stato scoperto, colui a cui
sarebbe stata addossata la colpa e ne avrebbe pagato le conseguenze
sarebbe stato - udite, udite! - Hirohiko Ozawa.
Grazie alla vendita ad hoc di una società controllata, Hiro si era
assicurato che entro sei mesi qualsiasi azione contro di lui a causa della
tecnologia rubata sarebbe stata impossibile. Entro quel termine, gli altri tizi
di Hong Kong avrebbero avuto bisogno di Seko Kobayashi per salvarsi il
sedere... e Seko aveva grossi progetti per Hong Kong, prima della fine
della festa nel 1997.
Dietro i vetri, senza che si udisse alcun rumore, dei giovinastri che non
avevano niente di meglio da fare, stavano dandosi da fare con il Muro.
Brulicavano e sciamavano, ansiosi di farsi riprendere dalle telecamere dei
mezzi d'informazione, durante questo fugace momento di storia tascabile.
Il Muro era stato in piedi per la maggior parte della vita di Hiro, ini-
zialmente come una barricata di filo spinato eretta dalla polizia della
Germania dell'Est nel 1961. Berlino era sempre stata la città dei muri, fino
dal 1735, quando il re Federico Guglielmo I costruì un muro intorno alla
città per facilitare la raccolta delle tasse. Storicamente i muri avevano
unificato i berlinesi, fino al più infame, il cui scopo era specificamente di
dividerli in occidentali e orientali.
Hiro era al corrente dello schema per accogliere gli orientali in arrivo
con dei «fondi di accoglienza» di 100 DM a testa, e non aveva intenzione
di essere in circolazione per il caos economico quasi assicurato che
sarebbe seguito una volta che il settore occidentale si fosse riempito di
orientali che erano, secondo gli standard di Hiro, economicamete inferiori.
La valuta della Germania dell'Est non era convertibile. Il tasso di cambio
del mercato nero di 1DM (occidentale) per dieci marchi (dell'est) ben
presto sarebbe sceso vicino ai livelli della Repubblica di Weimar,
lasciando parecchi che adesso festeggiavano la riunificazione poveri e di
cattivo umore.
In ogni caso, ben presto davanti alle banche ci sarebbero state lunghe
code.
Dopo quarant'anni di miracolo economico, l'Occidente era diventato
decisamente compiacente: un mercato affollato, altamente specializzato,
gerarchico, dominato da dinosauri dai capelli argentei che stavano tutti per
prendere un bel colpo. L'aria era fredda e deprimente, sporca per quello
che i locali chiamavano «il tipico smog comunista» generato dalla com-
bustione del carbone e dal monossido di carbonio, che si diffondeva a
ovest. Com'era quel detto sul sapere da che parte soffiava il vento?
L'opportunismo è una grande forza produttiva, diceva l'e.ditoriale in
Der Spiegel. Lo era certamente, pensò Hiro, che sapeva che in URSS
questo «opportunismo» aveva rivoltato completamente tutta la burocrazia.
Se il Muro di Berlino poteva essere abbattuto, allora tutte le scommesse
non avevano più valore; prima una Germania divisa era stata un concetto
immutabile come la stabilità monolitica dell'Unione Sovietica.
Almeno certe cose non cambiavano mai.
Gli anni Ottanta erano iniziati con i carri armati polacchi che schiac-
ciavano i cittadini come se fossero stati scarafaggi, con l'esercito sovietico
che sciamava in Afghanistan, e l'insano presidente americano Ronald
Reagan che aveva gettato 2.400 miliardi di dollari in un'orgia di spese
militari. Adesso il decennio era al tramonto, e le pedine del domino sta-
vano cadendo su tutta l'Europa dell'Est. Questo era quello che succedeva
quando un paese vincolava la sua identità nazionale a una guerra... e il
nemico si arrendeva. Era ora di dividersi.
Hiro sarebbe scivolato via tra i botti dei tappi dello champagne e il tonfo
coraggioso delle picconate che baciano il Muro. Ben presto i bulldozer
avrebbero ridotto il cemento verniciato in parti sempre più piccole, per
rendere, come dice il detto occidentale, piccole le cose grandi. Alla fine il
Muro di Berlino non sarebbe stato nient'altro che foraggio per i turisti e,
inevitabilmente, i più furbi tra quelli che lo avevano abbattuto si sarebbero
potuti rendere conto che qualsiasi pezzo di pietra verniciata in modo
convincente e venduto ai babbei sul lungomare di Venice Beach, a un
mondo di distanza, in California, avrebbe potuto fruttare qualche dollaro.
Sentendo il rumore di una carta magnetica che veniva infilata nella
serratura della porta del suo ufficio, Hiro si girò, sempre reggendo il
bicchiere in mano. Il senso di colpa non faceva parte del suo codice
genetico, ma la sorpresa sì, e il suo sguardo balzò sulla valigetta che si
trovava sulla sua scrivania, ordinatamente imballata con la roba rubata.
Il visitatore non annunciato era un uomo piccolo, più o meno dell'altezza
di Hiro, anche se più anziano. Hiro immaginò che dovesse essere sopra i
cinquanta. Un uomo il cui abito di gabardine e la cui cravatta
proclamavano efficienza ed erano indizio di anonimato. Un uomo come
Hiro. Portava occhiali montati in acciaio, e aveva la mano destra com-
pletamente ricoperta da una strana manica che aveva lo spessore di tre
videocassette messe insieme.
Questo fu tutto quello che Hiro riuscì a registrare prima che un colpo
infrasonico di piccolo calibro gli trafiggesse l'aorta. Lasciò cadere il bic-
chiere, sputò sangue, e zigzagò in silenzio finché le sue gambe rimasero
insensibili. Si lasciò andare sul tappeto.
L'intruso guardò verso la valigetta, poi di nuovo Hiro. Un altro proiettile
silenzioso si andò a schiantare esattamente dove gli occhi dell'uomo gli
avevano detto di andare.
Il colpo successivo, sparato direttamente nella tempia di Hiro, era stato
scelto per la sua mancanza di velocità residua, penetrava, si allargava e
non usciva. Rimbalzò nel cranio di Hiro, facendo un purè dei segreti che vi
erano raccolti, anche se ormai Hiro era morto.
Se i suoi occhi ancora aperti avessero potuto vedere, avrebbero
registrato i riflessi, nello specchio dietro il bar, adesso che la valigetta non
ne impediva più la vista, del Muro in lontananza che, alla fine, crollava,
mentre gli spettatori e i capipopolo giravano intorno alle rovine come un
esercito di formiche.

Il Kommandant sorride quando vede il ragazzo che guida coloro che si


occupano del fuoco con i loro elmetti di cuoio muniti di corna. È una bella
mattina per un falò.
Le truppe fanno marciare la carne in file di cinque e gli sparano davanti
ai roghi che consumeranno i loro resti. Il ragazzo guarda la fuliggine che
mulina verso il cielo, nero come catrame; screziato dal grigio della
cenere. Non c'è tempo, non più, per i forni o per ingannevoli schemi di
ricollocazione; se il processo non viene accelerato, il Reich annegherà in
un mare puzzolente di ebrei.
Un ufficiale delle SS in visita dal IV-B4 valuta il ragazzo con occhi
limpidi, scambiandolo inizialmente per un semplice giocattolo sessuale.
Chiede quale soprannome abbia dato il Kommandant al suo piccolo
fardello.
Gli occhi del Kommandant danno una risposta alla SS. Guarda, sem-
brano dire con un bagliore di orgoglio. Uno come questo si trova una
volta per guerra. Guarda quello che fa il mio Aschmaus.

L'uomo noto al personale dell'albergo come Herr Erich Barstow si


spostava da un divano all'altro della sua suite, controllando il suo Rolex
troppo di frequente. È quasi ora di pranzo. È quasi l'ora di riempire quel
piccolo vuoto nella tua vita, pensò, diventando un uomo d'azione.
Si sentiva come una comparsa in un film, sotto la luce dei riflettori che
ha desiderato così ardentemente, per scoprire che assieme a questa c'è un
calore insopportabile. Se il tuo pubblico ti vedeva sudare avevi perso. Se i
suoi ospiti, oggi, avessero avuto il più vago sentore che Herr Erich
Barstow era una finzione come il suo orologio da ricco... bene, i morti non
sudano, no?
Gelft stava di sentinella vicino alla porta dell'atrio. Presto si sarebbe
sentito bussare, e Gelft avrebbe aperto la porta a tre uomini, tutti e tre in
originale, veri come il veleno. E Erich Barstow era in scena.
Anche Gelft era un piccolo capolavoro. Robusto, biondo, l'ebreo con
l'aspetto più ariano che Erich avesse mai visto da quando veniva impiegato
come surrogato di spia. L'Istituto aveva organizzato questa imboscata, e
scelto questa suite costosa (ottocento dollari americani per notte, si era
meravigliato Erich) attrezzata con minuscoli microfoni. Avevano anche
insistito sulla necessità di una guardia del corpo per Erich, un
professionista il cui sangue freddo faceva desiderare a Erich di poter
gridare Azione! con tutte le sue forze dal davanzale più vicino... anche se
più il momento si avvicinava e più si sentiva enormemente grato di avere
questo grosso alleato a portata di mano.
L'abito di Armani di Erich era in prestito e il fatto che sembrasse fatto su
misura per lui era una felice coincidenza. Felice, pensò con tristezza,
desiderando di riuscire a immedesimarsi nel personaggio con la stessa
facilità con cui si era messo la giacca.
Gli invitati per il pranzo di quel giorno erano Koepp, il politico, Hessler,
promotore originario della Fondazione Phoenix, e Jaeckel, l'unico nazista
d'annata, in questa nuova Santissima Trinità di Nazional Socialismo.
In una mattina piovigginosa della primavera del '43, l'Einsatzgruppen di
SS di Jaeckel aveva appeso ai ganci per la carne duecento ebrei macellati e
decapitati, con delle etichette che, in scherno alla legge talmudica, li
classificavano come Carne Kosher. L'esecuzione di più di 130.000
indesiderabili in Polonia e in Lettonia era stata sovrintesa anche da
Jaeckel... e gli eredi dei giudici di Norimberga avevano passato gli ultimi
quattro decenni annusando e scavando nel tentativo di trovarlo.
Herr Erich Barstow lo aveva trovato. Trovare uomini come Jaeckel era
facile se si avevano i giusti contatti, come la Fondazione Phoenix, che
aveva sede in America ed era diretta da un uomo il cui nome era stato
cambiato legalmente in Karl Hessler.
Il club di Hessler era del tipo che dà sempre il benvenuto a simpatizzanti
sostenitori con conti bancari apparentemente senza fondo, nientemeno che
per ricordare al mondo intero che il cosiddetto Olocausto è stato una bugia,
la Soluzione Finale un mito e le indiscrezioni sui forni crematori e sullo
Zyklon-B solo sciocchezze messe in giro dal Governo di Occupazione
Sionista.
In parole povere, Jaeckel era un relitto impotente e Hessler un pagliaccio
con un megafono. Il premio era Ernst Koepp. Un uomo dalla presenza
drammatica, con una certa influenza nella nuova Germania. Koepp aveva
una capacità quasi divina di accogliere con calore la gente, il Volk. Poteva
far sembrare un discorso logico e condivisibile sulla legge e sull'ordine,
come la premessa al necessario ritorno delle virtù di vecchio stampo del
Nazional Socialismo... e poi al momento della raccolta di fondi fare battute
sul fatto di essere in grado di annusare un ebreo da quattro isolati di
distanza. La visione limitata del mondo di Koepp affascinava un pubblico
mondiale che aveva fame di soluzioni rapide e definitive; e la sua
piattaforma si traduceva facilmente, anche a continenti di distanza, sia
nelle chiese colpite dalle Molotov della Orange County, che nella
Brooklyn coi suoi crimini generati dall'odio, che a Johannesburg e a
Bialystock.
Entra Erich Barstow, collaboratore.
Con l'aiuto del suo nome di battaglia e una casella postale, le credenziali
razziali di Erich erano impeccabili. La sua identità come lobbista di
Washington era considerata di grande valore da Hessler, che diceva di
avere un sesto senso per queste cose (come aveva confidato a Erich in
parecchi dei suoi famigerati comunicati). Il tempismo era stato perfetto,
c'era urgente bisogno del suo denaro per ottenere case sicure, per le armi,
per le pubblicazioni, per il forziere di guerra di Koepp.
Entra, successivamente, il diretto opposto della Fondazione Phoenix: un
gruppo che si fa chiamare, almeno quest'anno, l'Istituto. Quello di cui loro
avevano urgentemente bisogno era una «faccia» per colpire Hessler e i
suoi compagni; non un eroe, solo qualcuno che aiutasse a liberare dal male
una piccola parte di mondo. L'Istituto sapeva come sfruttare i momenti di
debolezza nelle risoluzioni umane. Sapevano come portare uomini normali
a giocare alle spie.
Forse era destino che questo uomo oggi fosse Erich Barstow. O forse era
un altro tentativo di afferrare un pezzo della sua anima che aveva la
sensazione che fosse volata via senza che se ne accorgesse.
Erich cercò di rafforzare la sua determinazione. Quattordici piani sotto le
finestre della sua suite in albergo, ventotto miglia di cemento e acciaio che
si stendevano per ventotto anni opprimenti, giacevano come la colonna
vertebrale dissotterrata di qualche specie di dinosauro estinta. Le guardie
del confine orientale, addestrate a sparare a vista, adesso si scambiavano
con i loro colleghi occidentali sorrisi a cui non erano abituate, mentre tutti
si chiedevano cosa sarebbe successo dopo. La storia era costruita su
momenti come questi e l'aria autunnale era carica. Qualcosa stava per
succedere... ma cosa? E se la grossa bestia laggiù si fosse svegliata
all'improvviso e avesse deciso di mangiare qualche lillipuziano che
danzava sulle sue vertebre divise?
Erich ebbe un attimo di panico improvviso. Avrebbe voluto poter essere
là, tra i celebranti. E se fosse uscito adesso...
Se solo, all'epoca, gli zoticoni dell'accademia di Vienna avessero dato a
quello sciocco imbianchino una possibilità. No, era più importante che il
mondo non soffrisse per la presenza di un altro artista incapace, e quindi
adesso aveva bisogno di Erich.
Al terzo colpo, Gelft aprì la porta della suite. Erich era ancora fuori
vista, vicino alla finestra. Si raddrizzò e si preparò a fare la sua parte.
Gelft se n'era andato.
Tranquillamente, un uomo piccolo con un vestito di gabardine di un
colore neutro, si chiuse la porta alle spalle. Fece a Erich un sorriso vacuo.
Il riverbero delle lampade a soffitto formava due rettangoli di luce bianca
sulle lenti dei suoi occhiali. Mentre sorrideva, sparò due volte a Erich al
plesso solare, con una specie di pistola a schermo acustico che non faceva
rumore. Lo choc traumatico lo colpì a velocità da manuale. Le ginocchia di
Erich cedettero, e lui si riversò sul pavimento.
Vide del sangue. Che proveniva dai suoi polmoni. Non riusciva a
parlare. O respirare.
La mano dell'assassino che aveva sparato era infagottata in una specie di
marchingegno nero, squadrato. Sempre sorridendo, l'uomo produsse un
brandello di stoffa antica e la posò con delicatezza sopra le ferite sul torace
di Erich.
Nel quarto di secondo che costituiva il resto della sua vita, Erich rico-
nobbe la forma, la ricordava da una vecchia fotografia. Due triangoli
sovrapposti che formavano una stella a sei punte. Poi l'estremità della
scatola nera sputò ancora fuoco, colpendolo in mezzo alle sopracciglia.
Esce Erich Barstow.

***

L'aneddoto preferito del Kommandant fa ridere i suoi ufficiali e lo rende


più umano, un uomo da cui non è così brutto prendere ordini rigidi.
Mentre racconta la storia, fanno da punteggiatura un brindisi o due. E
come si meravigliano i suoi uomini.
Ho visto un nervo esposto delle dimensioni di un bambino, inizia di
solito il Kommandant. Nei suoi occhi nient'altro che fame e la volontà di
sopravvivere.
Questo li inchioda.
Sapete che seccatura è metterli in fila. I pastori possono solo pungolarli
fino a un certo punto. Una fila di ebrei dopo l'altra, che si lamentano e
strillano, in attesa di veder sparare ai bambini. Ma uno esce zigzagando.
La puttana a cui apparteneva inizia a fare rumore. Lui si sta dirigendo
dritto verso di me. Gli Schupos abbattono la donna con il calcio del fucile,
pronti ad abbattere il parassita prima che mi possa macchiare la giacca o
mi possa morsicare alla caviglia. Non arriva nessuno sparo. Il mio
personale e io siamo sulla linea del fuoco. E nel momento in cui mi
raggiunge, si ferma, sbatte i talloni insieme e saluta: «Heil Hitler!»
Neppure una volta si gira a guardare sua madre. Cosa posso dire di
una cosa del genere?
Lascio che guardi. Questa mattina ne abbiamo bruciato tremila. So-
lamente i frammenti di ossa potrebbero riempire diversi camion, camion
che non avevamo. Era stata requisita una betoniera diesel per trasformare
in polvere le ossa. Per rendere più facile la cosa, dentro il tamburo
c'erano grosse palle d'acciaio. Erano primitive, inefficaci. Il ragazzo me
lo provò, saltando nel tamburo e tirando fuori un cranio. Controllò tra i
tizzoni ancora caldi e trovò dell'oro che il personale di pulizia non aveva
visto. Quando rimosse i detriti, la polvere era migliore, più fine.
Alcune persone si tengono i ratti come animali da compagnia. Io mi ero
preso il mio piccolo Aschmaus. E per quanto riguarda la farina di giudei,
sapete tutti com'è finita.

Secondo quello che dicevano i documenti che aveva in borsa, il nome


della baldracca era Heike Strab. Un nome tedesco, ma documenti e pas-
saporto erano americani. Era una specie di avvocato, ma cosa più im-
portante era ovviamente una traditrice della sua razza. Stanz e Wolfìe la
violentarono a turno sul pavimento di pietra della centrale idrica. Nessuno
li avrebbe sentiti, grazie alla segretezza del loro ultimo rifugio e al rumore
della baldoria a pochi metri dal luogo in cui la facevano sporca.
Stanz e Wolfie trovavano la felicità che la gente provava per la caduta
del Muro vomitevole, e andavano alla ricerca di una preda, desiderosi di
spaccare qualche cranio. Le potenziali vittime si muovevano dappertutto
come zombie narcotizzati, festosi e senza pensieri. Era come una som-
mossa ma senza il divertimento. Almeno circolava l'alcol, che per la mag-
gior parte era gratis, quindi Stanz e Wolfie annusavano la folla alla ricerca
di sesso e violenza estrema, non necessariamente in quest'ordine.
Avevano trovato Heike e la sua macchina fotografica. Foto di un paio di
punk ariani con la testa rasata: un marco. Il ricordo più economico nel
libero mercato. Proprio così.
Questo agnello straniero non aveva modo di sapere che Stanz e Wolfie
non erano punk, nemmeno post-punk. Sia i loro scarponi da
combattimento con le stringhe rosse che i loro tatuaggi tribali, erano parte
dell'uniforme più rigida che dei giovani con le loro aspirazioni potessero
mai sperare di indossare. Entrambi avevano letto Mein Kampf dal principio
alla fine (la stessa copia rilegata); e per loro questa era stata la cosa più
vicina al leggere per diletto che avessero mai fatto. Wolfie aveva un
pugnale da SS infilato nello scarpone (e si vantava del fatto che fosse
autentico, con tacche e tutto il resto), e dormiva anche tenendoselo
addosso. A parte il fatto che Wolfie era più giovane di sei mesi di Stanz e
che sfortunatamente aveva occhi marrone (quelli di Stanz erano azzurri,
proprio come quelli del Führer), fondamentalmente non era possibile
distinguere l'uno dall'altro, erano inseparabili, due giovani skinhead
programmati su un lato solo con dogmi criptofascisti. Questo per loro
significava in prevalenza avere una scusa per azzoppare gli estranei e per
rubare cibo, ma di recente avevano iniziato a sentire il caldo rimbombo del
millennio che sopraggiungeva, nel modo in cui si sente nell'aria il calore
dell'imminente alba, prima che sopraggiunga la luce. Forse avevano fatto
qualcosa di giusto, intuitivamente, per tutto il tempo.
Nel mondo astratto di bianchi e neri e di giusto e sbagliato di Heike
Strab, poliziotti eroici sarebbero arrivati in qualunque momento a bordo di
un elicottero per salvarla. Il salvataggio sarebbe stato portato a termine,
sarebbero state sporte le denunce e i ragazzi avrebbero ricevuto la meritata
punizione. Nel suo mondo le valutazioni psichiatriche della scuola del-
l'obbligo di questa coppia sarebbero state considerate prove ammissibili.
Se a qualcuno fosse importato decifrare le parole scritte a carta carbone
sulla velina gialla, si sarebbero scoperti i nomi innocui da lungo tempo
abbandonati di questi due, e il modo in cui le loro inclinazioni erano state
etichettate: ribelli, e depressi. Si sarebbe potuto leggere che il loro peso era
sotto la norma, che il loro modo di parlare era frenetico e mancava di
coordinazione, e che il loro modo di mangiare e di dormire era aberrante.
Conclusione? Schizotimia, iperansietà, e qualcos'altro di inimmaginabile
che tuttavia venne definito come «Insieme di disordini dello sviluppo».
Anche la soluzione al problema dei giovani Stanz e Wolfie aveva un
nome: Ritalin Sr in dosi da venti milligrammi, che i ragazzi alla fine
vendettero ad altri ragazzi ancora più giovani di loro. Nel mondo di Heike
Strab, degli ingredienti così socialmente dissociati formavano la ricetta per
un individuo che poteva giocare con pensieri suicidi. Gli spostati, secondo
la visione ingannevole di Heike Strab, quasi sempre arrivavano
all'autodistruzione.
Il suicidio, comunque, non era mai stato un'opzione per Stanz e Wolfie,
a meno che fossero stati ubriachi al punto tale da uccidersi l'un l'altro per
errore. Il mondo li aveva esclusi, e loro coglievano ogni occasione per
vendicarsi. Non era colpa loro se Heike Strab aveva fatto l'errore di cercare
un contatto visivo. La nuova esperienza di apprendimento di Heike veniva
rinforzata ogni volta che un cazzo o l'altro le penetrava l'ano.
Com'era semplice e piacevole trarre vantaggio dall'umore della città
stasera. Non ha importanza l'aspetto, adesso siamo tutti alleati, no? Indi-
viduare l'obiettivo era stato uno scherzo in quest'atmosfera carnevalesca, e
una volta che le ebbero stretto sulla faccia la calza da ginnastica, l'obiettivo
non fu un grosso problema. Una scopata sicura con una troia ebrea.
Anche se era debole e sciocca era stata molto più divertente del loro
obiettivo originale, un piccoletto con degli occhialini di metallo, evidente-
mente fuori posto in quella confusione, che cercava di allontanarsi velo-
cemente da qualche albergo con una borsa in ogni mano, una ventiquat-
trore in una e una di quelle valigette d'argento che al cinema sono le
preferite dagli spacciatori di droga nell'altra. Cosa c'era nelle valigie?
Denaro? Segreti? Che tentazione! Ma quando l'avevano stanato, Wolfie
aveva individuato Heike e la sua macchina fotografica, e anche se sia lui
che il suo partner amavano e ricercavano la violenza, non erano invertiti.
Il loro rifugio attuale era unico. Infatti era abbastanza intimo da per-
mettere loro di mandare al macero la vita di Heike Strab rendendoli invi-
sibili come tappezzeria, dal momento che si trovava nel mezzo di coloro
che facevano festa per la caduta del Muro.
Costruita prima della caduta di Berlino, la struttura allungata, simile a un
fortino, era stata intesa in origine come una centrale idrica rifornita dal
Landwehrkanal. Il quaranta per cento dei mattoni usati per la sua
costruzione erano arrivati per ferrovia a Berlino dalla Mattoni
Rademacher, che utilizzava cenere grezza fornita dal campo di concen-
tramento di Mendhausen durante la guerra.
Una statistica che aveva sempre impressionato Stanz e Wolfie era che
circa 367.000 ebrei avevano sostanzialmente contribuito alla produzione di
cenere di Mendhausen.
I bombardamenti notturni ripetuti e spietati avevano miracolosamente
risparmiato l'edificio ma avevano danneggiato la rete rendendo l'acqua
poco sicura. La pioggia dei bombardamenti alla fine del 1944 era stata così
terribilmente costante che la nuova centrale non ebbe mai la possibilità di
essere utilizzata. Una volta che la Cortina di Ferro divise l'Est dall'Ovest,
attraverso la struttura esistente era stato costruito il Muro. Tutte le valvole
erano state sigillate: tutti gli accessi murati.
Questa volta con mattoni comuni.
Una generazione più tardi, Stanz e Wolfie avevano fatto irruzione, erano
entrati e avevano scoperto un segreto.
Il retro della centrale correva parallelo alla profusione di graffiti che
costituiva il fronte occidentale del Muro. C'era un vuoto di circa due metri
tra l'esterno della stazione e il Muro stesso. Qualcuno aveva cercato di
scavare un tunnel. Uno scavo nella stanza sul retro scendeva per circa tre
metri, poi si dirigeva a est. Sopra il terreno, oltre l'ampiezza del Muro,
c'era una terra di nessuno di duecento metri, con guardie, cani, filo spinato
e batterie di mitragliatrici. Quelli che avevano scavato il tunnel avevano
rinunciato dopo circa quaranta metri. La stanza posteriore della centrale
era piena di immondizia, terra, pietre, sassi e blocchi di cemento.
Ovviamente era stata programmata qualche via di fuga che poi era stata
abbandonata. Altri tunnel come questo avevano funzionato, come uno che
finiva in un panificio abbandonato e aveva permesso nel 1964 a
cinquantasette persone di fuggire.... finché le sentinelle avevano iniziato a
sparare nel tunnel all'estremità orientale. Stanz e Wolfie non avevano
modo di sapere quando questa operazione fosse stata abbandonata, né la
capacità intellettuale per indovinarlo, né gli importava.
Wolfie tornò indietro con qualche birra facile, e i ragazzi calmarono la
loro sete selvaggia mentre Heike passava da momenti in cui era cosciente a
momenti d'incoscienza. Brindarono a lei, brindarono alla loro scelta,
brindarono l'un l'altro, e alla fine si potevano considerare loro stessi abba-
stanza brindati.
A un certo punto, dopo lo scoccare della mezzanotte, un maglio o un
martello iniziò a colpire pesantemente contro l'esterno della centrale ab-
bandonata e dimenticata. Stanz e Wolfie si svegliarono di soprassalto
scuotendo la testa con tristezza. Il loro rifugio era destinato a essere ridotto
in cenere, grazie al Muro, e loro avrebbero dovuto procurarsene un altro.
Prima che si riaddormentassero, arrabbiati per il loro imminente sfratto,
tirarono, trascinandola per le caviglie, quello che rimaneva di Heike Strab
nella stanza sul retro. Stanz le spiaccicò la faccia contro l'ammasso di
immondizia lasciato dagli scavatori, poi si sedette sulla sua testa finché
smise di respirare e si riunì ai suoi antenati.
Poi Wolfie la squartò con il suo pugnale da SS, e insieme, con il suo
sangue, iniziarono a tracciare dei segni sui mattoni che si sgretolavano.

Per fare una buona infornata ne occorrono circa trecento, ammassati


insieme, giovani e vecchi, grassi e magri, in modo che le fiamme siano
abbastanza calde da forgiare l'acciaio.
Aschmaus, per far divertire il Kommandant, muove la mascella di uno
dei crani del giorno prima, fingendo che parli. Trova molti occhi di vetro
e inizia a collezionarli. Qui, più che altro, ce ne sono molti marrone.
Aschmaus li deriderebbe tutti se comportarsi così significasse che gli
viene permesso di respirare e mangiare per un altro giorno. Riesce a
respingere dalla memoria il ricordo della faccia della mamma. Respinge i
rumori degli sconosciuti in viaggio per il paradiso. Ne cancella l'espres-
sione, costruendo muri nella sua testa, proprio come se si trattasse di un
altro hobby, segreto... l'unica cosa privata che abbia.
A volte dopo che il Kommandant si è tolto gli scarponi e il grammofono
suona, ad Aschmaus viene permesso di mangiare un pezzetto di salsiccia o
il torsolo di una mela dalla tavola del suo padrone. Si siede ai piedi del
Kommandant e a volte si appisola. Il leggero sonno gli permette di
immaginare di essere trasportato via dalla musica, di galleggiare in alto
sopra le guardie, come un pezzetto di cenere dimenticato, dove le
ciminiere non si vedono, e per sempre lontano dai roghi.
Aschmaus costruisce i suoi muri, e colleziona i suoi occhi, e galleggia
ogni volta che può. L'alba arriva sempre.

Quasi un secolo prima, nel 1888, anche Jack lo Squartatore ne aveva


uccise due nello stesso giorno. Il suo assassinio delle prostitute dell'East
End, Catherine «Kate» Eddowes ed Elizabeth «Long Liz» Stride, era
diventato famoso come il «Doppio evento».
Clouder rifletté sugli impegni della mattinata, e si chiese se, tra un
centinaio d'anni, l'analisi della storia e il senno di poi avrebbero fornito
motivi, legami, teorie ... tutte quelle sciocchezze usa e getta che hanno
creato molti best seller fuori del campo della narrativa, e che hanno fornito
agli Sherlock Holmes dilettanti delle ragioni per continuare a respirare. I
libri sui serial killer andavano forte di questi tempi.
La parte relativa al rapporto tra i due eventi era quasi scontata. Anche se
Clouder aveva usato due pistole diverse per assassinare i suoi obiettivi che
non avevano legami apparenti, lo stile freddo e deliberato che metteva in
ogni suo lavoro avrebbe potuto suscitare l'interesse di qualche editorialista
che avesse voluto richiamare l'attenzione del pubblico sui contratti dei
sicari, o sugli assassinii stile esecuzione. Che sarebbero state tutte le prove
di cui si poteva disporre per rimuginarci sopra. Che era esattamente il
motivo per cui Clouder aveva scelto questo metodo. Non lasciava mai
indizi accidentali, lasciava sempre volutamente dei vuoti, qualcosa su cui
degli intelletti non particolarmente brillanti avrebbero potuto continuare a
ruminare, senza fine. Inutilmente.
Appese il cappotto nell'ingresso e si asciugò la faccia con la punta della
sciarpa, un vezzo rituale su cui non si era mai soffermato a riflettere. Forse
era un gesto scaramantico.
«Hirohiko Ozawa» non aveva mostrato sorpresa quando era stato ucciso,
e per questo motivo, Clouder aveva provato un tenue legame con lui. Si
trattava di affari, un rischio in cui Herr Ozawa si era avventurato avendo
chiaramente in mente le possibili conseguenze. Per Clouder comunque il
colpo era stato facile.
«Erich Barstow», invece, si era comportato come se la sua visita fosse
stata la sorpresa più grossa della sua vita spezzata. Questo secondo colpo
aveva lasciato per tutto il pomeriggio un gusto amaro sul palato sofisticato
di Clouder. Per eliminare il contenuto del file su Herr Ozawa lo diede
prima in pasto alla macchina tritadocumenti e poi bruciò il tutto nel
camino. Durante queste operazioni si preparò del tè secondo le usanze
russe, lasciando un lungo cucchiaio nel bicchiere per raffreddarlo. Quando
arrivò il momento di distruggere il file su Herr Barstow, Clouder lo sfogliò
un'ultima volta. Era più spesso del file che riassumeva la storia e le
abitudini di Ozawa.
I dilettanti non dovrebbero mai essere ammessi all'unico gioco inter-
nazionale che abbia davvero importanza. Che cosa aveva ispirato la cre-
azione del personaggio che Clouder aveva ucciso come Erich Barstow?
Il raccoglitore era reso più voluminoso da un libretto che aveva il
formato di un pamphlet intitolato Beffa dell'Olocausto! Era stato
pubblicato - tipografia, layout grafico eccetera - dalla Fondazione Phoenix
nel 1983, e tre anni prima una copia maltrattata era stata acquistata per
capriccio da un tizio di nome Eric Greene, che insegnava storia in una
università di Georgetown.
Beffa dell'Olocausto! Era una blaterata anti-intellettuale, primitiva in
modo trasparente. Il suo orgoglioso autore, Karl Hessler era descritto
attraverso un'estesa seppur modesta biografia dei suoi risultati. Clouder
non aveva bisogno che di guardare la foto di Hessler per desumere la sua
totale bassezza e fanatismo: era flaccido e trasandato, aveva un amore
feticistico per le divise e gli covava negli occhi una furbizia di basso
livello. Esattamente la caricatura che un nazista vero non avrebbe mai
perdonato, a meno che non fossero implicati dei contributi finanziari.
Clouder lasciò cadere il libello vicino al resto del file.
La storia di Eric Greene era scarna fino alla depressione e prevedibile
come i motivi di Hessler. Sua madre era stata una ebrea, morta quando lui
aveva sei anni. Suo padre era stato steso da un embolo delle dimensioni di
un salame kosher. Ritrovandosi di fatto a essere il patriarca della sua
stirpe, Eric iniziò a cercare un significato nella sua vita.
Clouder alzò gli occhi al cielo. Le persone monotone non si accon-
tentano mai di insegnare storia ed essere dei buoni consumatori. D'altro
lato, Greene ricordatosi di essere mortale aveva iniziato a darsi da fare per
cambiare il corso della sua esistenza. Forse c'era un granello di profondità
nell'uomo.
Lo scontro tra Greene e Beffa dell'Olocausto sembrava casuale. Era
l'unico avvenimento casuale nella catena di eventi a cui Clouder aveva di
recente posto fine con il fuoco. Le passioni di Greene erano state accese
dalla diatriba di Hessler, quindi forse il libretto aveva fatto del bene.
Usando un nome di comodo e un indirizzo postale, aveva gettato un'esca
nelle acque torbide dell'intrigo avvicinandosi a Hessler, cosa non
sorprendente data l'evidente fame di soldi che aveva. Per mezzo di bugie
convenienti e un uso attento delle ambiguità insite in un rapporto a
distanza, Greene era riuscito a presentarsi come «Erich Barstow»...
lobbista di Washington, nazista teorico, orecchio comprensivo, nonché il
benefattore più recente e il migliore amico di Karl Hessler.
Clouder sorseggiò il suo the e andò avanti. Una volta ottenuta l'atten-
zione di Hessler, Greene attrasse quella dell'Istituto che si era fatto avanti
raccogliendo informazioni sulla sua famiglia.
Il padre di Greene era sopravvissuto ad Auschwitz ed era arrivato in
America come profugo nel 1948. Clouder scosse la testa. Non avevano
molti elementi su cui far presa. Ma la gente dell'Istituto aveva un asso nella
manica: una fotografia che avevano sottoposto all'osservazione di Greene
esattamente al momento giusto.
Madre e figlio, una anonima strada di Cracovia; un ragazzino saluta
con la mano mentre la mamma lo regge. Attaccata alla manica di en-
trambi, una grossolana stella di tessuto a sei punte.
Clouder aveva solo un facsimile sfocato della foto. Si vedeva che la
madre era logorata dalle preoccupazioni ma piena di speranza. Lei e il
bambino stavano sorridendo, anche se le circostanze sembravano depri-
menti. In un attimo provò una fitta, come un ricordo, qualcosa del genere
di quello che doveva aver provato Greene quando l'Istituto gli aveva teso
l'imboscata con la fotografia.
Nella faccia del ragazzo Eric Greene aveva visto suo padre. Suo padre
era riuscito a sopravvivere a un campo di concentramento. Sua nonna, la
giovane donna orgogliosa della foto, non c'era riuscita... ma eccola, che
salutava il suo nipotino con la mano, quel nipotino che non avrebbe mai
conosciuto o portato in braccio.
Clouder buttò nella macchina tritadocumenti il facsimile della foto.
La scelta del momento era più critica di quanto Eric Greene avesse mai
potuto sospettare. Hessler aveva telefonato, eccitato per un qualche
progetto per cui il nuovo Reich sarebbe stato onorato di richiedere la
partecipazione di «Erich Barstow». Quasi allo stesso tempo, l'Istituto
aveva fatto sapere a Greene che avevano bisogno di una faccia da
neonazista per la loro ultima operazione. Il passato e il futuro, la storia e la
realtà, in quel momento si erano uniti per Eric Greene, e lui aveva
acconsentito a giocare all'eroe.
Il resto del materiale era insignificante. A Georgetown Greene aveva una
Hausfrau con gli occhi marrone che si chiamava Ellen Rachel. Non aveva
figli. Il suo posto all'università avrebbe dovuto essere sottoposto a
revisione. Non aveva animali.
Clouder pulì il camino con una spazzola per vestiti, dopo aver conse-
gnato il resto del materiale su Erich Barstow alle fiamme. Si sentiva
leggermente seccato. Greene aveva cercato di chiudere un vuoto nella sua
vita spirituale; era stupido incolparlo di qualsiasi cosa, dal momento che
lui non aveva mai saputo quanto fosse stato esposto. Riconsiderare la sto-
ria di Greene, adesso, aveva aperto una crepa nella calma di Clouder. Non
era mai stata una buona idea, rifletté, sentirsi coinvolto dagli obiettivi.
Greene era banale e senza speranza. Era il povero Herr Greene.
Clouder passò dal soggiorno alla sala del biliardo. Erano uguali per
struttura, separate da un arco che era un muro non portante. La casa di
Clouder, una volta era stata l'ala ovest di un edificio per appartamenti per
persone di medio reddito, costruito sulle macerie del dopoguerra, un
alveare per esseri umani, con stanze che si trovavano una di fronte all'altra,
susseguendosi con monotonia militare. Dopo un turbinio di risistemazioni
Clouder vi si era trasferito, occupando due appartamenti che adesso erano
stati riuniti in uno, dopo averli riarredati con eleganza.
Solamente i conti venivano mandati qua, indirizzati a un nome diverso
da Clouder. Tecnicamente erano decenni che Clouder non avesse un nome
che si potesse rintracciare, solo un pacchetto di identità mescolate e
scartate a volontà. Ben presto non ci sarebbe più stata distinzione tra Est e
Ovest: forse sarebbe stato necessario che Clouder cambiasse il modo in cui
fare arrivare i suoi conti. Adesso la Germania sarebbe stata di nuovo unita.
Dopo il giubilo del crollo del Muro sarebbero tornati tutti i terribili
fantasmi del passato. Una volta riunita, come avrebbe potuto la rinata
Germania diventare simile alla vecchia?
Questo pensiero colpì Clouder di sorpresa, dandogli una sferzata. Eric
Greene era stato costretto dagli stupidi dell'Istituto a sacrificare la sua vita
con l'inganno?
La gente dell'Istituto aveva trovato un ebreo ben intenzionato ma igno-
rante. Avevano influenzato il suo disgusto per i nazisti con le chiacchiere
giuste. Lo avevano strategicamente messo davanti al passato della sua
famiglia e, al momento giusto, l'avevano sbattuto sotto la linea di tiro.
L'Istituto stava inseguendo qualcos'altro, ed Eric Greene era stato la
pedina da giocare.
Clouder fece dell'altro the. Sceglieva sempre un bicchiere pulito ogni
volta che se ne versava. Era noioso nei piccoli rituali. Ricostruire i pezzi
del puzzle che erano alla base del suo secondo compito della mattinata fu
un veloce esercizio mentale.
Le informazioni di Clouder su Greene/Barstow gli erano arrivate dalla
Die Schwarze Spinne, un gruppo di burattinai neonazisti specializzati nel
manovrare nostalgici residuati postbellici come la Fondazione Phoenix,
che speravano che la Soluzione Finale per quella banda di mummie della
politica implicasse lo svegliarsi e il diventare concreti. L'intermediario era
stato un agente della Die Schwarze Spinne, il cui nome in codice era
«Gelft».
Era l'uomo a cui Clouder aveva fatto un breve cenno della testa, quando
gli aveva aperto la porta uscendo... in modo che lui potesse entrare,
chiudere la porta, e uccidere Eric Greene ed Erich Barstow. Gelft aveva
probabilmente letto lo stesso file su Greene che Clouder stava
distruggendo.
Gelft era un pezzo interessante del gioco. Clouder si divertiva a fare
deduzioni.
Il biondo Gelft aveva passato abbastanza tempo a schivare i proiettili e a
prendere il sole nel deserto del Sinai da farsi passare per un membro
tesserato della Mossad Aliyah Beth, e in questo modo era riuscito a pe-
netrare l'ambasciata americana a Berlino... cioè Berlino Ovest. Con il suo
accento olandese poteva altrettanto facilmente passare per tedesco.
Sfruttando i contatti presi in ambasciata, Gelft poteva informare l'Istituto
di una riunione di nazisti, la qual cosa aveva dato origine al fatto che
l'Istituto aveva sommariamente mandato «Erich Barstow» al macello.
L'Istituto avrebbe interpretato l'esposizione di Greene, non come una fuga
di notizie, ma come un'offesa. Una minaccia. L'Istituto andava a letto con
gli arabi fino dai tempi della crisi del petrolio dell'inizio degli anni Settanta
e, per quanto ricordava Clouder, gli arabi non erano mai stati
particolarmente entusiasti della Mossad. Lo scherzo di Greene era stato
necessariamente di poco conto perché aiutare Israele non era una cosa che
potesse avere un prezzo troppo alto.
Come jolly, il personaggio Gelft (o comunque si chiamasse nel mondo
reale) era carico di elementi inscrutabili e oscuri, di fatti effimeri e
nebulosi. Data la premessa che Eric Greene era un ebreo che si era
mascherato da nazista, e la premessa minore che Gelft poteva allo stesso
modo lavorare per una qualunque delle due parti, un sillogista avrebbe
potuto concludere che se Greene era diventato un obiettivo per un qualsiasi
motivo, diverso da quello di mettere ordine nel mazzo... allora c'era
qualcosa che non quadrava. Un elemento che Clouder non riusciva a
percepire, qualche aspetto nascosto che avrebbe potuto entrare in gioco più
tardi.
Avrebbe potuto essere stimolante interferire di proposito, sulla base
delle informazioni di cui Clouder già disponeva o che poteva desumere.
Avrebbe potuto cambiare il risultato di eventi previsti a breve termine.
Altrimenti, il «Doppio evento» che aveva occupato la maggior parte della
sua mattinata non sarebbe stato per lui di alcuna soddisfazione. Uccidere
non era abbastanza, non più.
Non era stato un sacrificio, concluse Clouder. Secondo una tipica prassi
dell'Istituto, Eric Greene era stato una vittima delle esigenze di bilancio.
Soddisfatto del fatto che il suo lavoro della mattinata non fosse più un
mistero, Clouder chiamò un numero telefonico segreto di Zurigo per assi-
curarsi che fossero stati fatti due depositi sui suoi conti personali in una
certa ora e in una certa data. Grazie a uno strumento che si chiama
Solander Box, aveva una delle linee telefoniche più sicure d'Europa. Ogni
tentativo di rintracciare una telefonata o di controllare la linea sarebbe
stato dirottato su dei numeri scelti a caso in tutta la città, che
corrispondevano a una molteplicità di nomi sconosciuti dietro i quali
Clouder sarebbe stato al sicuro. Peccato che Eric Greene non avesse avuto
un tale paracadute, una personalità di riserva.
Il silenziatore che Clouder aveva usato quella mattina era stato costruito
apposta per lui per adattarsi a un vasto assortimento di revolver o di armi
automatiche. La sua apertura a dado era stata progettata per bloccare
qualsiasi canna all'interno di uno schermo acustico. Come a Clouder
piaceva pensare, il rumore esce dalla camera, non dalla bocca. Era
questione di una frazione di secondo, ma era la frazione di secondo più
rumorosa dell'atto di sparare. L'aveva detto all'aimaiolo che aveva
costruito il silenziatore. I silenziatori da canna, come sapevano entrambi,
erano un'idea del cinema popolare. Il silenziatore di Clouder, simile a una
cuffia insonorizzante, era l'aggeggio giusto. Assieme alle armi e alla
valigetta che le aveva contenute era stato ridotto a un ammasso di rottami
dai grossi stritolatori di rifiuti vicino al Muro di Berlino, dove per un po' di
tempo ci sarebbero state un sacco di demolizioni. A Clouder dispiaceva
aver perso il silenziatore, perché era il lavoro di un artigiano, un tipo di
artigianato che la Germania aveva dimenticato.
Ma dal momento che Clouder era un uomo metodico, ne aveva già
ordinati altri due uguali.
La casa di Clouder era piena di nascondigli per cose come armi, silen-
ziatori e ogni sorta di valuta straniera e documenti d'identità. Alcuni erano
semplici cassaforti, o ripostigli dietro dei pannelli abbastanza sofisticati da
ingannare qualsiasi curioso con indosso un'uniforme. Altri erano in grado
di resistere all'ispezione di uno scanner a multifrequenza o a un attacco
nucleare... non che dei missili volanti fossero una eventualità molto
concreta, dato il clima caotico e allegro che prevaleva nei giornali e alla
televisione.
Dopo aver infilato la valigetta che aveva prelevato a Hirohiko Ozawa
nel baule di una Mercedes rubata, era tornato a casa a mani vuote. Dal
momento che non aveva un altro contratto, e che non voleva che il fan-
tasma di Eric Greene gli rovinasse il resto della giornata, si mise a pensare
a «die Berliner Mauer». Aveva camminato in mezzo alla folla che si era
radunata per la sua demolizione. Non aveva sentito nessun senso di
appartenenza.
Berlino, gemellata a Los Angeles come Cannes lo era a Beverly Hills, si
stava di nuovo preparando a essere la capitale di una Germania unita. I
militari americani, 250.000 durante il massiccio dispiegamento del 1987,
avrebbero fatto le valigie, e la storica Brigata di Berlino comandata dal
colonnello Alfred W. Baker, sarebbe stata la prima a partire, mentre
avveniva questa massiccia demolizione. La Brigata avrebbe lasciato liberi
degli uffici situati in edifici della Germania dell'Est eretti per il
feldmaresciallo Hermann Goering, che in precedenza erano stati usati dalla
Luftwaffe, e che, fino a non tanto tempo fa, erano l'unica base americana
dietro le linee nemiche.
L'ammirazione di Clouder per il colonnello Baker era duplice; prima di
tutto c'era un rispetto illimitato per l'abilità dell'uomo a ripartire da zero.
Nel 1969 Baker era stato fatto a pezzi da una borsa piena di esplosivi
vietcong. Le sue ossa si erano spezzate quando l'esplosione lo aveva
sollevato di una decina di metri, ed era atterrato rompendosi la faccia e la
schiena in due punti. I medici avevano rinunciato a intervenire. Quando un
prete venne a dargli l'estrema unzione, Baker sputò fuori dei pezzi di denti
e di gengiva per dire: «Scompari, non sono cattolico, e non ho intenzione
di morire».
La seconda ragione era qualcosa che Baker aveva detto quando era un
giovane tenente assegnato al controllo di Berlino Est all'inizio degli anni
Sessanta, parole che Clouder aveva memorizzato, perché non solo
toccavano le corde più profonde della sua personalità, una parte della sua
anima che aveva dormito a lungo ed era quasi stata dimenticata, ma
sapevano esprimere ciò che la città all'epoca era diventata, un posto
sanguinante e diviso. «Guardavi da una parte e c'era il giorno, guardavi
dall'altra e c'era la notte. Era come vivere nel sole mentre si guarda in un
temporale. Mentre andavo in giro la gente a volte faceva cenno. Non
dimenticateci.»
Qualcosa era stato dimenticato. Qualcosa mancava. Questa era la ra-
gione per cui la faccia di Eric Greene continuava a disturbare Clouder. Un
ebreo americano con un vuoto nel passato era diventato un finto nazista
con un buco nel cervello. Qualche verità fondamentale era stata mal
collocata. Non trascurata, Clouder era troppo scrupoloso per essere
trascurato. Era come il titolo di una famosa canzone sulla punta della
lingua: molesta, seducente, elusiva.
Clouder rifletteva sotto una doccia bollente e stimolante, poi si coricò
nudo, a sonnecchiare. Se si calcola il tempo passato a fare i preparativi per
il lavoro della mattina, era sveglio da diciotto ore. Prima di chiudere gli
occhi accese lo stereo. Adesso era il momento di Mahler.
La canzone stonata mormorata dalle Brigate della Cenere e della Morte
non contiene speranza né per la vittima né per il tormentatore:

Ehi, SOB, ehi, SOB


Perché mi hai messo al mondo?
Che vita, che vita:
Sarebbe stato meglio se tu avessi abortito.

I giorni si trasformarono in settimane, in mesi misurati dal sudore e


dalla fame, dal tanfo e dal terrore. La saggezza superstiziosa del Dio in
cui credeva la mamma morta non significa niente per un ragazzo nato in
un mondo di epurazioni e ghetti. Non conosce giustizia né significato,
famiglia o tribù. Qui non c'è Dio.
Il nuovo occhio che trova per la sua collezione è di un azzurro perfetto,
come quelli del Führer, azzurro come il cielo. Veglierà su di lui, mentre
gli altri sentono il suo potere e distolgono lo sguardo. Sono già cadaveri,
tutti loro, combustibile per le fiamme. Ma lui è Aschmaus, re dei bugiardi,
e troverà sempre un modo per sopravvivere.

Henri si svegliò di soprassalto, sudato per l'incubo, mentre la musica del


suo sogno scompariva, per essere sostituita dal mal di testa. Così reale, il
sogno, narcotizzante, ma non poteva competere con il suono del telefono.
Cercò di localizzare gli occhiali, l'accappatoio, la sua padronanza di sé, per
prepararsi a ricevere le cattive notizie. Le telefonate erano poco frequenti,
telefonate come questa, abbastanza potenti da scacciare la foschia dal suo
cervello se non lo sporco dagli occhi.
Anche se il suo telefono era attaccato a una segreteria telefonica (un
inchino alla tecnologia invadente), Henri non credeva agli intermediari.
Annuì tra sé mentre mormorava dei monosillabi a indicare che stava
prestando attenzione.
Il Ragno Nero stava ancora tessendo una oscura ragnatela. Una preda
sponsorizzata dall'Istituto era stata colpita, un amico degli americani
ucciso. La bocca di Henri si fece tesa, un riflesso troppo familiare e mai
confortevole. Uno in meno dalla nostra parte.
Poi il resto: era stata fatta una convocazione. Henri doveva prender nota
dell'indirizzo. Stasera al 33 di Gelderstrasse dei giocatori si sarebbero
riuniti per provare nuovamente che il vecchio Reich non era cenere.
Henri interruppe la comunicazione e pensò a come scacciare questo
imminente mal di testa. Si sentiva destabilizzato e perduto.
Era un uomo piccolo, dalla corporatura comune, con i capelli com-
pletamente bianchi e il portamento piegato dal tempo, il tipo di persona
che compensava i suoi rimpianti con aspirazioni molto alte. Le sue mani
erano abili e capaci; i suoi occhi, senza veli. Henri vedeva le cose con
chiarezza. Aveva guardato il Muro cadere, per la maggior parte alla tele-
visione, ed era prudente sulla Riunificazione che sarebbe seguita.
Si stavano facendo dei buchi nel Cancello di Brandeburgo. Guardie Stasi
e Polizei di Berlino venivano viste mentre bevevano insieme in pubblico,
mentre una folla felice danzava sulla linea di divisione tra Allora e Adesso.
Ogni volta che Henri sentiva parlare del passato, la cicatrice sulla parte
interna del suo avambraccio sinistro pulsava, come se stesse cercando di
comunicare qualcosa di arcano e rivelatore. Era un solco pieno di
increspature, lungo circa otto centimetri, appena un po' più chiaro della
pelle inviolata che lo circondava. Henri preferiva questo serpente piegato
di tessuto cicatrizzato al numero che una volta vi era stato impresso. Si era
fatto l'anestesia da solo, e aveva scolpito la carne lui stesso, usando un
rasoio sterilizzato. Gli aveva fatto molto male. Henri aveva avuto la
benedizione di un'alta soglia di tollerabilità al dolore, fin dall'infanzia.
Era vivo. A quanto aveva saputo dalla telefonata, uno straniero che si
chiamava Eric Greene era morto. Henri si chiedeva quale fosse stata la
tolleranza al dolore di Eric Greene. Non aveva dubbi che fosse stato
giovane e coraggioso... ma lui non aveva mai portato una stella di stoffa,
né un numero, e probabilmente non aveva mai dovuto fare scelte
cannibalistiche per sopravvivere.
Il nome in codice per la fonte telefonica di Henri era «Doppelgänger.»
Grazie all'elettronica, non ci si poteva fidare nemmeno del timbro di voce,
ed era proprio di tecnologia che «Doppelgänger» aveva parlato.
L'incontro al 33 di Gelderstrasse convergeva attorno al furto di qualche
prodotto altamente tecnologico che era costato un'altra vita. Tutti gli
uomini che si sarebbero riuniti là avrebbero considerato chiunque con le
convinzioni di Henri il loro più odiato nemico.
Henri conosceva l'indirizzo, una distesa di granito situata a metà strada
tra Checkpoint Charlie e la Topographie des Terrors, dove i crimini della
madrepatria erano conservati come reliquie nell'involucro di quello che era
stato il quartier generale della Gestapo. A presiedere l'affare di stasera
sarebbe stato il politico con i capelli più biondi della nuova Germania,
Ernst Koepp, che aveva ereditato questa formidabile casa da suo padre, e
quindi poteva tenere corte avvantaggiandosi di una posizione equidistante
tra il passato e il futuro.
Una tale possibilità, stare a cavalcioni dei due mondi, era qualcosa che
Henri non si voleva perdere.
Nello stato della Sassonia della Germania dell'Est, la politica di un
pastore dissidente di nome Heinz Eggert diventato ministro degli Interni
stava diventando dura. Eggert aveva formulato l'idea di un'unità speciale di
polizia che dovesse trattare principalmente con i neonazisti e con la
violenza di destra; ben presto la sua Soko REX, o «commissione speciale
per l'estremismo di destra», avrebbe ripulito la Sassonia dal crimine, in un
modo destinato a far colpo su tutto il pianeta. Si diceva che altri stati, come
Brandeburgo, stessero prendendo in considerazione l'utilizzo di unità
simili.
Nel frattempo, il Cremlino e gli americani e la Mossad miravano a cose
più appariscenti: i Mengele, i Barbie, gli Eichmann, quei casi capaci di
guadagnar loro l'attenzione della stampa internazionale.
Mentre Eggert aspettava che tutti i tedeschi si evolvessero, e mentre i
cacciatori di nazisti di più alto profilo si accattivavano tutte le recensioni
migliori, oggi, Henri, in mezzo a loro, in questo preciso momento, si dava
da fare per combattere tutta questa ingiustizia, ma in modo meno
appariscente. Aveva una fobia per l'ostentazione e gli encomi pubblici.
Di solito Henri teneva la televisione accesa, con il volume basso. Era un
vecchio apparecchio, e la ricezione non era molto buona senza cavo. Il suo
obiettivo era un rumore visivo, non nitidezza di particolari. Ogni tanto
faceva attenzione al notiziario. Proprio in questo momento vedeva
l'eccitazione che c'era all'esterno, intrappolata e inscatolata in questo
schermo pieno di neve, l'emozione fatta spettacolo.
La parata di colore e movimento nella televisione silenziosa forniva una
compagnia che non chiedeva niente in cambio, e lo aiutava a murare le
sostanze tossiche che vivevano nella sua mente. Lui aveva potuto radersi
via il numero dal braccio, ma mai da dentro la sua testa. Mentre
attraversava la stanza per andare vicino alla libreria, tirò fuori una edizione
rilegata del Mein Kampf, che, lo sapeva, era vietato vendere ma non
possedere. La polvere sullo scaffale lo rassicurò sul fatto che niente era
stato toccato dall'ultima volta che aveva usato il libro. Nascosto tra lo
spessore delle sue pagine sventrate c'era una tastiera. Henri digitò il suo
numero: 56281347.
La stanza nascosta dietro la libreria movibile aveva le dimensioni di due
scrivanie una contro l'altra, con lo spazio per una sedia in mezzo, una sedia
piccola, ed era tanto bassa che i capelli di Henri sfioravano il soffitto
quando si sedette. Straripava del materiale raccolto da Henri, i raccoglitori
colmi che contenevano la sua ricerca sociopolitica. Sistemati nel database
del suo computer c'erano i nomi di molte tra le persone che avrebbero fatto
la loro comparsa a casa di Koepp quella notte. Come un investigatore che
sta programmando un'irruzione tra gli spacciatori, Henri sapeva quanto
fossero cattivi quegli uomini. Lo sapevano anche loro. Lui ne aveva la
prova. Loro avevano la protezione. Il trucco, che non cambiava mai, era
prenderli con le mani nel sacco, nel posto giusto, al momento giusto.
Da un cassetto estrasse una pistola che non aveva mai sparato. Era un
relitto della guerra e un ricordo della sua gioventù rubata. Henri usava la
pistola, in certe occasioni, per ottenere la collaborazione dagli uomini cat-
tivi. L'arma serviva a fare pulizia, non a fare vittime, a sistemare dei vecchi
debiti, non a farne di nuovi. Questo era il motivo per cui l'Istituto si
sarebbe sempre rivolto a Henri: i loro intellettuali sapevano già che gli
affari non erano importanti, come non lo era la politica. Per Henri, tutto era
personale, e non ne erano rimasti molti come lui. Ogni volta che l'Istituto
lo richiedeva, Henri liberava il segugio che aveva dentro. Era più pulito,
lasciava qualcuno a cui scaricare colpe e richiedeva meno scartoffie.
La parte di cui gli sfruttatori di Henri non si sarebbero mai resi conto (e,
di cui, in effetti, non gli importava niente) era che lui, dal canto suo, era
convinto che non sarebbe mai riuscito ad abbattere un numero sufficiente
di nemici per equilibrare un po' le cose. Se avesse potuto bruciare i
colpevoli a cento al giorno, il fuoco sarebbe durato per un secolo dopo la
sua morte.
Con amarezza, si chiedeva quanti occhi di vetro avrebbe potuto rac-
cogliere da quelle ceneri.
Lo schermo della TV gli mostrava i suoi concittadini che stavano per-
dendo la testa. Il mondo era cambiato in pochi giorni.
L'esodo degli abitanti di Berlino Est in Ungheria e Cecoslovacchia aveva
avuto come risultato delle manifestazioni a Lipsia e a Dresda. Era tutto
maturato nell'Alexanderplatz: quando tre quarti di milione di persone
avevano fatto ansimare e sudare, come sollevatori di pesi, i valorosi
membri del Politburo, che cercavano di guadagnare tempo mentre
promettevano cambiamenti.
Due giorni fa era stata annunciata la legge Reissepass. Per la prima volta
in quarant'anni, i visti per l'uscita avrebbero permesso alla gente dell'est di
visitare il settore occidentale, a partire dalla mattina successiva. Semplice.
Profondo.
Se non che l'addetto alle pubbliche relazioni del Partito Gunter
Shabowsky aveva solo dato un'occhiata veloce alla nuova legge, mentre si
stava recando in limousine a una conferenza stampa TV. Alla domanda su
quando sarebbe entrata in vigore la nuova legge, Shabowsky diede
un'occhiata alle sue carte e, non avendovi trovato risposta, disse ai
giornalisti e alle telecamere quello che suonava meglio:
Per quanto ne sapeva immediatamente.
A ogni cancello dalla Reichstag fino a Checkpoint Charlie, le persone si
erano ammassate a migliaia, chiedendo di passare... quattordici ore prima.
I Tinterpisser Burokrat ne erano stati presi completamente alla, sprovvista,
mentre le guardie di confine si chiedevano se dovevano sparare a tutti.
Alla fine, fu un capitano della Stasi che si chiamava Helmut Stossi ad
aprire per primo il suo cancello, e a dare inizio alla marea che alla fine
avrebbe fatto cadere la Cortina di Ferro... senza che venisse sparato un
colpo, un risultato da scuotere il mondo, che non era che la conseguenza di
un banale errore burocratico.
Il capitano Stossi si chiedeva ad alta voce e in modo toccante perché era
stato in piedi davanti a quel cancello negli ultimi vent'anni. Henri lo aveva
visto, alla televisione, l'uomo che con il suo gesto aveva rivoluzionato le
cose.
Henri disprezzava la prevedibilità.
Decise di portare la pistola alla festa.

Il microchip del computer, che era costato la vita multiforme di Hirohiko


Ozawa, assomigliava a un centopiedi di silicone, con delle gambe di rame
sporgenti, simili a dei dentelli. La scatola sottile che lo conteneva in un
nido di schiuma antistatica stava nel taschino di Hoff; il modo in cui Hoff
si continuava a toccare, da paranoico, tra un morso e l'altro e dopo ogni
sorso di vino, confermò a Ernst Koepp che l'uomo era un pazzo, troppo
circospetto anche per essere uno scienziato pazzo.
Ma Hoff era sicuramente un maestro nell'orchestrazione delle infor-
mazioni, nel portare le macchine a fare quello che lui voleva; nel
sottomondo alieno (a Koepp) di drive ottici e gigabyte e superprocessori,
Hoff riusciva a creare musica. Hoff sapeva come interpretare i calcoli per
completare i quali sarebbero occorsi miliardi di vite umane, tutti distillati
in catene incomprensibili di uno e di zeri, tutti immagazzinati in una
superficie grande come il centesimo della capocchia di uno spillo.
Hoff aveva il suo lavoro che lo rendeva felice. Il lavoro di Koepp,
stasera, era sposare la stregoneria tecnologica di Hoff con gli ideali vecchi
di mezzo secolo di un Reich che duri un migliaio di anni... e far funzionare
il matrimonio.
Ai piedi del tavolo, Karl Hessler era impegnato a farsi vedere e a essere
servile. Hessler aveva sempre ricordato a Koepp un pesce palla, e avrebbe
desiderato uccidere il grassone con le sue mani dopo il fallimento
dell'iniziativa promossa dall'Istituto. Farsi incastrare nella compagnia poco
edificante dei membri della Fondazione Phoenix e di vecchi nazisti
incartapecoriti come Jaeckel, in un posto facilmente attaccabile come un
albergo, non poteva avere che un effetto nocivo sull'immagine che Koepp
voleva costruire.
Stanotte aveva deciso lui il luogo dell'incontro: la villa sulla
Gelderstrasse vantava merlature e un muro di pietra con un cancello che
parlavano del suo passato aristocratico. Era una delle poche residenze
private non abbattuta dalle bombe alleate, e si diceva che il re Alberto di
Prussia una volta avesse tenuto qua un'amante. Questa storia piaceva a
Koepp, che fosse vera o no. La residenza gli era stata tramandata da suo
padre, un membro del partito molto considerato che l'aveva liberata dai
suoi inquilini precedenti, un produttore di vetro benestante che si chiamava
Schulman. La sola cosa che Koepp sapeva di Herr Schulman era che era
passato in volo da un comignolo a Treblinka... quello, e il suo Grande
Segreto.
Nei giorni inebrianti che avevano preceduto la Kristellnacht, Herr
Schulman (da ebreo furbo qual era) aveva scavato una seconda cantina e
ne aveva fatto un nascondiglio abbastanza grande da contenere la sua
famiglia - aveva avuto sei figli - per parecchie settimane. Una porta scor-
revole, mascherata in modo che sembrasse un normale muro di gesso, dava
l'accesso alla stanza, che era attrezzata come un appartamento con tanto di
cucina e servizi, i cui scarichi erano stati fatali per la sua scoperta. Koepp
sapeva bene che era necessario essere cauto sulle tracce che si lasciano in
giro e aveva soppresso ogni prova esteriore dell'esistenza della stanza anni
fa, in tempi immemorabili. L'aveva fornita di cavi per i modem, di tracce
per l'illuminazione e filtri per l'aria. Fino a quella storica notte, Koepp
aveva usato questo spazio principalmente come galleria per i suoi dipinti a
olio - Impressionisti, alcuni Preraffaelliti, parecchi Klee - un altro lascito
di papà Koepp, il meritevole uomo di partito.
La sicurezza era gestita dal personale selezionato direttamente da
Koepp, comandato da due giovanottelli presuntuosi con gli occhi freddi,
muniti di radio e apparecchi elettronici. Dentro la casa, Koepp poteva
permettersi la cortesia di essere indulgente verso dei pazzi come Hessler o
verso dei pezzi di antiquariato come Jaeckel, e di lasciarsi andare tra gli
uomini che erano la vera speranza di restaurare il Reich.
A metà tavolata c'erano Heidrick e Dexter, aggressivi, nazional socialisti
di terza generazione provenienti dagli Stati Uniti. Alla destra di Koepp
c'era Volmer Saphire, che veniva da Stuttgart. Saphire era la prima scelta
di Koepp come vicecancelliere, quando fosse giunto il momento. Alla
sinistra di Koepp c'era Biermann, che, a dispetto del suo nome comico, era
quanto di più simile Koepp potesse trovare a un Göering dei tempi
moderni, non tanto un uomo quanto una cosa grossa e solida, fredda e
inflessibile, un muro di pietra. Poi c'era Hoff, con i capelli mossi e i
pensieri stanchi, che si affrettava sul dessert senza alcuna compostezza,
eccitato in modo quasi sensuale all'idea di quello che avrebbe potuto fare
con la sua amata chip. Dopo di lui, Stohler, appena tornato dall'Argentina,
due giorni prima del suo sessantanovesimo compleanno. Poi c'era Conrad
Bleuel, un mago nel cambiare identità, che era stato corteggiato dai
palestinesi nel momento in cui il Medio Oriente aveva rimpiazzato il
Vietnam come punto caldo degli anni Settanta. Oltre a lui sedevano Esslin
e Zille, entrambi presenti grazie alle due nuove identità postbelliche fornite
dalla CIA americana, che aveva dato prova di una amorale capacità di
baratto, da scaldare il cuore. Poi arrivava la brigata delle ventiquattrore:
Adenauer, Gelft e Broger, che rappresentavano rispettivamente l'Ordine,
Die Schwarze Spinne e la Nazione Ariana. Di fronte a Koepp era seduto il
suo amico d'infanzia (e attuale amante) Werner Uedey.
Questo, rifletteva Koepp, era il modo in cui si doveva essere sentito
Reinhard Heydrich, quando aveva presieduto Wannsee, un congresso di
uomini devoti, alcuni più affidabili di altri, alcuni migliori nel loro lavoro
di quelli seduti vicino a loro, alcuni semplicemente uomini migliori, ma
tutti con l'unico scopo, mentre sorbivano del buon cognac, di cambiare il
mondo.
Adenauer fece un brindisi in ricordo del Nazista Fantasma, e Koepp
ascoltò mentre veniva raccontata la leggenda, per quelli che non la
conoscevano ancora.
Secondo la storia, il Nazista Fantasma era stato una figura chiave nelle
prime ore del Kampfbund, un personaggio così trascurato dalla storia
ufficiale che adesso poteva godere della mistica seducente di un secondo
assassino di Kennedy. Subito dopo il Putsch della birreria, il Nazista Fan-
tasma aveva messo in scena un finto attentato alla vita del Gefreiter a
Monaco, meticolosamente organizzato ed eseguito nel momento giusto per
sollevare la coscienza pubblica. Tutto quello che era servito era stato un
unico colpo di pistola, sparato da un angolo nascosto nel Feldherrnhalle.
Ne era seguito uno scontro tra i nazisti e la polizia, e il resto è una storia
che conoscono tutti. L'uomo che era stato lo strumento per l'ascesa di
Hitler non aveva mai vantato riconoscimenti, né avuto alcuna posizione di
rilevanza nel Terzo Reich. Avendo lavorato umilmente per un miracolo
per il bene della Germania, aveva scelto di rimanere invisibile per sempre.
Ammirevole. I bicchieri si toccarono.
Dall'altra parte della tavola, Hessler rumorosamente propose qualche
altro brindisi che Koepp preferì ignorare. Invece, tenne sotto controllo i
vari gradi di entusiasmo attorno al tavolo, e calibrò gli applausi dati al
Nazista Fantasma, mentre preannunciava la presentazione che aveva
programmato, che sarebbe iniziata non appena si fosse potuto concludere
la fase dedicata ai sigari puzzolenti e al brandy asettico.
Per richiamare l'attenzione, Koepp fece tintinnare il coltello contro un
bicchiere da acqua. Hessler, come sempre, fu l'ultimo a fare silenzio.
Mentre facevano festa, osservò Koepp, una nuova Germania si stava
formando là fuori. Tutt'intorno si sentirono dei mormoni d'assenso.
Era una rivoluzione. Non solamente in Germania, ma in tutto il mondo.
Quelle che avevano dimostrato di non essere superpotenze erano finite. Il
comunismo sarebbe imploso a causa del peso enorme della sua testa.
Gangster avrebbero esercitato il proprio impero, Ivan in doppiopetto,
mentre l'America, il corridore delle lunghe distanze, ansava e barcollava
fino a cadere. Dal vuoto sarebbe nato il caos, l'inflazione, le regole del
mercato nero. La frenesia che ne sarebbe seguita avrebbe ridotto in
schiavitù il resto del mondo. Mentre i sionisti ordivano delle trame oscure,
il Medio Oriente si sarebbe diviso e la Cina si sarebbe risvegliata dal suo
coma maoista. Il mondo avrebbe implorato l'ordine a ogni costo, e avrebbe
dato il benvenuto al primo pugno di ferro che lo avesse potuto guidare.
Sarebbero stati pronti.
Assensi di cuore dal gruppo, mentre Koepp adesso parlava del nuovo
blitzkriegs. Invocava la nuova tecnologia, i computer, internet, le
superstrade dell'informazione, i filamenti di fibre ottiche attraverso cui
ogni sicurezza, ovunque, poteva essere penetrata. Descriveva come sa-
rebbero stati veloci i nuovi assalti, fluidi, mutevoli, come virus che sopraf-
facessero le nazioni prima che un singolo colpo potesse venire sparato, o
un missile puntato. La resistenza? Sarebbe caduta a pezzi dall'interno.
Bastava far volatilizzare i conti bancari con una telefonata. Far scomparire
i nemici trasformandoli in non persone senza identità, con una serie di
colpi sulla tastiera più facili che suonare le «Tagliatelle» al piano.
Hoff fece un cenno di approvazione con il capo, soprattutto quando
Koepp fece elegante uso di terminologia elettronica. Non c'erano vie
d'uscita.
Fuori dalle merlature del 33 di Gelderstrasse, i berlinesi stavano fe-
steggiando ubriachi la rinascita della Germania. Anche questo si adattava e
sembrava perfetto.
Koepp indossò la sua faccia da uomo di partito e si alzò per condurre i
compagni soldati di sotto, dove un futuro migliore aspettava tutti loro.

Il campanello della porta principale suonò abbastanza tardi da tra-


sformare il malumore di Rudi in aperta ostilità. Il suo compagno Klaus era
già completamente indispettito. Nessuno dei due si era goduto la festa
politica di Herr Koepp, perché la Germania era sempre stato il paese che
aveva la coscienza di casta più alta, e il consesso di nazisti che aveva
appena passato due ore a tracannare, a rimpinzarsi e a scoreggiare
ricordava a questi due giovani aspiranti che non erano ancora membri del
partito, e non ne avevano i privilegi. Non ancora.
Stasera stavano adempiendo il loro ruolo come gli aiutanti più fidati di
Koepp, rubandosi delle sorsate veloci di gin e chiacchierando con l'alito
che sapeva di menta sul modo in cui avrebbero potuto diventare uomini di
punta del Quarto Reich, se solo Koepp gliene avesse dato la possibilità.
Il campanello suonò proprio mentre Koepp stava portando i suoi uomini
in cantina per i divertimenti aperti solo ai membri. Invece di potersi
rilassare, adesso, probabilmente, Rudi e Klaus avrebbero dovuto trattare
con qualche ubriacone Scheisskopf che faceva bagordi di fuori. Avrebbero
potuto portare di nuovo l'importuno fuori in mezzo alla folla, o, Klaus
colse un bagliore freddo nell'occhio di Rudi, forse avrebbero potuto
scortarlo dove erano parcheggiate le macchine e dargli una sistemata
completa.
In ogni modo, le prospettive di divertimento per la serata stavano
migliorando.
Gelft trasse un sospiro attento e profondo, non mostrando alcun segno
esteriore di reazione o choc. Il visitatore sulla soglia di Koepp era piccolo
di statura e aveva un'aria grigia, come un contabile, un uomo che non
aveva un aspetto appariscente. Sembrava sapere dov'era, era venuto qua di
proposito. Stillava amicizia e invitava alla collaborazione. Peter Kurten, il
Vampiro di Düsseldorf, era stato un uomo come questo, vestito
elegantemente, tranquillo, gentile, anche deferente...
... uno stupratore, un piromane, un assassino che amava la bestialità e
uccidere gli uomini, donne, bambini, animali, qualsiasi cosa, usando
martelli, coltello, forbici e garrota, non che avesse una preferenza parti-
colare per uno qualunque di questi strumenti. Uccideva con qualsiasi cosa
avesse a portata di mano e faceva un buon lavoro. Kurten aveva commesso
il primo dei suoi orrendi crimini e aveva sconvolto la Germania nello
stesso anno del Putsch della birreria.
L'uomo sulla soglia sorrideva, faceva domande, si comportava in modo
formale. Rudi bloccò Klaus. Nessuno dei due stava ridendo.
Solo ieri, Gelft e il suo ospite si erano incrociati, Gelft in uscita, l'altro
mentre entrava per far schizzare Eric Greene, alias il nazista mancato Erich
Barstow, fuori dalle sue scarpe di vera pelle. Gelft aveva ammirato la
pulizia dell'atto, dopo il fatto. Adesso, si calmò: nessuna lotta dal momento
che anche lui era un professionista.
L'assassino sulla porta di ingresso restituì l'occhiata a Gelft senza dar
segno di riconoscerlo. Questo tizio è bravo, pensò Gelft. Questo signore è
un cubetto di ghiaccio.
Mentre gli altri ospiti si dirigevano in truppa verso la cantina di Koepp,
o il suo rifugio atomico, o qualsiasi altra cosa fosse, Gelft si era scusato e
si era diretto in bagno a prendersi altri sessanta secondi per considerazioni
tattiche. Adesso una soluzione alle sue preoccupazioni aveva appena bus-
sato alla porta. Gelft aveva il potere di ordinare a Rudi e a Klaus di tirarsi
indietro, e lo fece; Rudi e Klaus non ne furono contenti, ma a Gelft non
importava. Il forestiero entrò, togliendosi cappello e ombrello e facendo un
veloce sorriso di saluto, nient'altro, a Gelft. Tuttavia, nel profondo degli
occhi dell'assassino non c'era nessun indizio che lo potesse tradire.
Bene.
Gelft accompagnò il nuovo venuto dabbasso. L'espressione di disap-
punto sulle facce di Klaus e di Rudi era palpabile come argilla appena
plasmata. Gelft spostò la valigetta nella mano libera per toccare il socio
sulle spalle mentre scendevano, il modo migliore per sapere come avrebbe
preferito essere chiamato quando fosse stato presentato agli altri ospiti.
La risposta non aveva significato per Gelft.
Di sotto Koepp aveva esaurito le fasce da portare al braccio. Gelft vide
gli altri che le ostentavano, classiche svastiche nere in cerchi bianchi in
campo rosso, e gongolavano fatui come giovani hitleriani ubriachi di or-
moni al loro primo incontro. Se Koepp aveva un'abilità che superava le
altre, era quella di dare la sensazione di essere al proprio posto... Avrebbe
ricordato a tutti loro che di sopra, in un mondo dove i moderni berlinesi
danzavano sulla tomba dello stalinismo, era illegale usare una tale insegna.
Era illegale vendere una copia dell'autobiografia più interessante della
Germania. Era contro la legge persino fare il saluto nazista.
Koepp fantasticava di essere il padre del cambiamento, un uomo che
avrebbe favorito quelli che aveva scelto e avrebbe restituito loro l'orgoglio
e, stasera, avrebbe conferito loro l'onore di essere l'avanguardia. Sì,
persino Hessler.
Gli interstizi di muro tra la collezione di dipinti rubati erano coperti da
scaffali di quercia che contenevano una biblioteca tenuta meticolosamente:
libri dalla parte della stanza a forma di corridoio, videocassette e dischi
dall'altra. Gelft sentiva l'odore dell'aria rigenerata, e sospettava l'esistenza
di deumidificatori.
Un grosso schermo per la proiezione occupava l'estremità più lontana
della stanza sotterranea; nei decenni precedenti avrebbe potuto essere un
palcoscenico. Lo schermo rivestito di perline era enorme, più alto di Gelft.
In standby era di un colore blu brillante.
Gelft vide il suo ospite dirigere lo sguardo sugli scaffali, esaminando la
collezione preziosa delle conoscenze naziste, archiviata con cura e
accudita con qualcosa di simile all'amore. Ogni libro immaginabile. Ogni
inquadratura di pellicola d'archivio che avesse mai visto la luce: il Führer
in divisa, in abiti civili, che fa discorsi, che stringe mani, che conduce le
truppe, che balla, che gioca con i cani, che si diverte con Eva. Qui c'erano i
film personali di Goebbel. Era tutto in mostra; il database più esteso e
certamente uno dei più completi sul piccolo imbianchino che Gelft potesse
immaginare. Sospettava che si fosse addirittura preso la briga di includervi
profili psichiatrici, passati e presenti, e rapporti delle autorità dell'epoca
sulla probabile composizione molecolare del cervello di Hitler.
Koepp fece un cenno di assenso a Hoff, l'uomo dell'elettronica, e ultimò
la distribuzione del brandy. Con un'ostentazione da Fantasma dell'Opera,
Hoff si sedette a un terminale che sembrava abbastanza complesso da
amministrare una banca svizzera in pilota automatico. Rimosse la chip
rubata alla Koramitsu dalla sua custodia e la infilò in una presa cilindrica
che si ritirò nel terminal principale dopo che lui ebbe battuto qualche
comando sulla tastiera. Un piccolo portello si chiuse, e la chip se n'era
andata, inghiottita.
La spiegazione di Hoff che la chip conveniva dei campioni digitali in
analogici di realtà virtuale viaggiava oltre la capacità di comprensione
della maggior parte degli uomini presenti. C'era dell'altro. Koepp gli fece
segno di continuare. Hoff insistette abbastanza a lungo enfatizzando che
questo computer ibrido poteva non solo assimilare le informazioni, ma
anche produrre una conseguente intelligenza artificiale capace di libere
associazioni.
Ja, giusto. Hessler, in fondo al gruppo, si pulì il naso e ansimò mera-
vigliato davanti a una divisa completa da SS conservata in una vetrinetta
vicino alla porta. Mentre Hessler in questa circostanza si comportava da
turista, Jaeckel era nostalgico, e mostrava apertamente di desiderare il
pugnale cerimoniale della divisa.
Hoff digitò qualche altra istruzione. Aggrottò le sopracciglia. Si mas-
saggiò il labbro superiore con l'indice, come se aspettasse di essere ap-
provato telepaticamente dallo strumento. Dal profondo di una serie di
circuiti ammassati come un sandwich, i dischi iniziarono a girare in una
parvenza di vita.
Koepp diede un'occhiata all'orologio e si assicurò che Hoff lo vedesse
farlo. Gelft fece quasi un passo avanti per presentare il suo ospite, ma in
questo modo avrebbe rotto l'atmosfera. Quando il grande schermo diventò
buio, con una specie di singhiozzo digitale, Gelft sospirò e appoggiò la sua
ventiquattrore, facendo spallucce al visitatore (che era diventato una sua
responsabilità personale finché non fosse finita la presentazione).
Sembrava che per un po' avrebbero dovuto fare la parte del pubblico.
Un fotogramma dopo l'altro, sul grande schermo iniziò a comparire una
faccia, come uno schizzo monocromatico nel ghiaccio che lentamente
veniva in superficie dalle acque oscure. Hoff fece a Koepp un cenno
affermativo.
All'inizio si trattava solo di un'immagine video sfocata, con i tratti che
saltellavano in piani e curve crude, mentre i baffi e i capelli scuri
sembravano poco meglio di quelli di una caricatura da cartoni; come un
Disney da Dachau. Gli occhi erano chiusi. L'espressione, se si poteva dire
così, era di pace perfetta e regale.
Delle ombre si sovrapponevano mentre la macchina estrapolava e
costruiva in modo esponenziale sulle informazioni che conosceva. L'im-
magine acquistò profondità e prospettiva. La topografia si fondeva nella
fisionomia. Per Gelft era come guardare un 3-D veramente ben polarizzato
senza gli occhiali. La punta dei baffi era bianca. Le narici si muovevano
mentre l'immagine dava l'impressione di respirare.
Le persone che guardavano rimasero senza fiato. Quando la faccia
gigante sullo schermo alla fine aprì gli occhi - occhi azzurri - e sembrò
guardarli, ne furono paralizzati.
Koepp fece la sua mossa. Gelft riusciva a vedergli le macchioline di
sudore febbrile sulla fronte. Il politico fece un passo avanti e proclamò
Alle Juden Raus!
Non fu la reazione degli ospiti ma l'espressione della faccia dell'im-
magine sullo schermo che attirò l'attenzione sbalordita di Gelft: era cam-
biata al suono della voce di Koepp; era sia imperiosa che innocente, per
metà bambino per metà dio. Guardava da Koepp agli altri. Il modo in cui
sembrava che li vedesse tutti, individualmente, in qualche modo sapendo
quello che stava succedendo, era la cosa che aveva destato lo stupore di
Gelft. Doveva essere collegata a telecamere nascoste. Forse proprio in
questo momento erano tutti ripresi da una dozzina di posizioni, e dati in
pasto al mostro di Hoff sulla base di un nanosecondo. La macchina avreb-
be digerito tutto quello che metteva dentro, e avrebbe reagito.
Soddisfatto, Koepp aspettò la risposta dell'immagine.
Quello che disse fu: H-h-hi-hhei-Heil-hh.
La faccia lottò nel dire la sua prima parola, mentre la voce sbandava da
un basso profondo a uno strillo adenoideo. Mentre l'immagine continuava
a migliorare, ammorbidendosi e diventando più organica, l'espressione di
Hoff si faceva irreale mentre mormorava scuse su scuse a Koepp,
maltrattando la tastiera, cercando di fare delle rettifiche con labbra bianche
e tese e una faccia cadaverica.
H-h-hhe-Heil... HIThiii... HEIL hit-hit-hit...
Li colpiva da degli altoparlanti nascosti come un bambino ritardato che
facesse do-re-mi in dolby e a velocità accelerata. La metà degli uomini
avevano posato i loro bicchieri presi dallo sconforto. Adenauer lanciò
un'occhiata a Gelft e fece spallucce. La maggior parte degli altri, essendo
molto tedeschi, aspettarono con espressioni neutrali e ostentato sdegno, per
vedere cosa sarebbe successo.
Hoff pestò un'altra raffica di colpi. La faccia si riconfigurò in un quarto
di secondo, come se qualcuno le avesse dato un colpo dietro la testa.
Heil Hi-Hi-ITT-lrr!
Koepp scattò, facendo il saluto e ripetendo l'invocazione Correttamente.
Funzionò su circa la metà degli ospiti, come Jaeckel che spinse in fuori un
torace che sembrava il petto di un pollo come se fosse stato sollecitato
galvanicamente. Alcuni degli uomini più giovani, come Drexler e Broger,
avevano paura di esagerare e di trovarsi a dover rispondere a qualche
domanda tranello sulla lealtà.
La faccia restituì lo sguardo a Koepp. A lui, pensò Gelft; se si trattava di
un trucco, era un trucco stravagante. La faccia sembrò arrabbiarsi per poi
ripensarci. A Koepp disse, «Heil Hitler!»... questa volta senza nessun
balbettio elettronico. Quasi dannatamente perfetto.
Koepp si illuminò. Il programma lo riconosceva, e in realtà stava co-
municando! Adesso quasi tutti si unirono a lui nel restituire il saluto.
Quasi tutti.
Quando Gelft vide l'espressione sulla faccia del piccoletto, non riuscì a
capirne il significato. Non c'era tempo per le speculazioni. Sul fondo della
stanza qualcuno stava ridendo.
Karl Hessler, fondatore e incarnazione della Fondazione Phoenix, lasciò
cadere il bicchiere di brandy. La sua faccia era di un colore rosso brillante.
Le lampade che illuminavano l'uniforme in esposizione individuarono
l'uomo grasso troppo chiaramente mentre liberava la sua risata sguaiata.
Sembrava che ragliasse. Rischiava un'ernia. Heidrick e Saphire fecero un
passo indietro, allontanandosi da lui, come se fosse stato contagioso,
probabilmente avendo paura di mettersi a ridere loro stessi.
Gelft guardò gli altri mentre Hessler scalciava, cercando di giustificarsi,
di spiegare, anche se solo a gesti, che...
Che stava pensando confusamente di giocare a ping pong; o di fare una
semplice telefonata internazionale in Europa; o a un Adolf interattivo che
avrebbe dato ordini a tutti, da cui sarebbe venuta fuori una versione
portatile, un Führer Tascabile....
... che questa era la cosa più dannatamente stupida che avesse mai visto
in vita sua.
L'americano alla fine dovette appoggiarsi alla vetrina che conteneva la
divisa da SS. Adesso stava respirando affannosamente. Lottava per
inspirare, pensò Gelft, in modo da poter ridere ancora: sarebbe potuta
essere un'utile distrazione.
Gelft vide che la rabbia di Koepp raggiungeva il colmo. Prima che
potesse decidere come vendicarsi, nel tentativo di salvare la faccia, dal-
l'altra parte della stanza qualcuno prese una decisione. Qualcun altro aveva
deciso cosa fare, e senza nessuna manifestazione emotiva.
La faccia sullo schermo fece il nome di Koepp, perfettamente, poi
aggiunse qualcos'altro sempre senza interruzioni: «Ausrotten».
Dapprima Gelft non capì: pensava di aver sentito a frotte. Koepp aveva
capito. E anche Hessler, che smise di ridere come se lo avessero spento.
Era una parola di cui aveva abusato con molta creatività durante la sua
carriera dedicata a razionalizzare libretti come Beffa dell'Olocausto. La fila
di facce, come una giuria in penombra, si divise mentre Koepp si
avvicinava all'uomo grasso.
Hessler fece un passo indietro, mentre la sua mente ricercava positi-
vamente una spiegazione. Gelft vide la sua occasione, e in cuor suo seppe
che era venuto il momento dell'eliminazione, dell'annientamento. Per
ausrotten.
L'ideatore della Fondazione Phoenix riuscì a fare tre passi indietro prima
che la sua nuca si fermasse contro il Glock da dieci millimetri di Gelft.
L'unico colpo, senza silenziatore, fece un rumore profondo nel silenzio di
tomba della stanza sotterranea. Tutti indietreggiarono. L'apparato vocale
iperattivo di Hessler si sparse a schizzare il monitor da cui l'immagine
proiettata osservava la sua morte, non con odio, o con senso di
realizzazione, ma con una concentrazione totale. Hoff, non abituato ad
assaggiare i pezzi di un onesto morto in faccia, quasi scappò. Gelft puntò
la pistola su di lui. In meno tempo di quanto ne fosse occorso al cadavere
di Hessler per cadere, Hoff si trovò appoggiato allo schienale a occuparsi
degli affari suoi, mentre pestava sulla sua tastiera seduto nella sua urina e
la cucitura dei suoi pantaloni si faceva più scura.
Sullo schermo il loro Führer sorrise.
Gelft vide la luce: ogni minuscola informazione su Hitler era stata
sintetizzata qua, e il prodotto conosceva la storia, la politica, la strategia,
l'economia e la natura umana meglio di tutti loro. E avrebbe imparato
ancora di più in ogni frazione di secondo che passava e non avrebbe mai
dimenticato niente di quello che conosceva. Poteva vedere dove in pre-
cedenza erano stati fatti degli errori, dissezionarli da un milione di angoli,
e da queste debolezze costruire dei punti di forza inimmaginabili. Più
tempo avrebbe avuto per pensare, meglio sarebbe diventato, e non smet-
teva mai di pensare. Avrebbe potuto trascendere la fragilità della carne
come essere di pura volontà, e questa volta, quella volontà avrebbe potuto
trionfare... se tutti avessero ascoltato quello che aveva da dire.
Ricordò a tutti loro, zum Beispiel, che nel 1945 l'ordine dell'Armata
Rossa di denazificare la Polonia e la Germania aveva portato alla morte
oltre settantacinquemila tedeschi - uomini, donne e bambini, tutti civili non
combattenti - in più di milleduecento campi di prigionia, dove so-
pravvivevano con razioni da carestia se non morivano di tifo o di
sovraffollamento. La Sicurezza dell'Ufficio di Stato Russo aveva
deliberatamente reclutato i sopravvissuti del cosiddetto Olocausto per fare
una retata di tedeschi e assoggettarli a questa punizione vendicativa...
... e questi ipocriti avevano il coraggio di gemere Mai Più?
Gelft adesso vedeva gli occhi dei suoi compagni che brillavano nel buio,
trafissi dall'immagine evocata, ma ancora di più da questo sogno che si
rafforzava. Erano tutti riflessi nel freddo sguardo al fosforo del loro capo
in una dualità che veniva espressa all'infinito. Tutti gli occhi, meno quelli
del suo ospite, l'osservatore con la calma distaccata dell'assassino di
professione... di un uomo che in questo posto vedeva il male, che forse lo
aveva persino assaporato.
Il piccoletto stava tremando. Tolse una Luger dal cappotto e gridò
un'unica parola. Avrebbe dovuto essere drammatica, qualcosa che
interrompesse lo spettacolo. Invece, Gelft vide che l'uomo era sul punto di
piangere, che l'impatto del suo gesto veniva sabotato dal tremito della sua
voce.
La parola era genug, e voleva dire solo basta.
Lo sguardo di Koepp era iniettato di sangue. La risoluzione dei suoi
luogotenenti era stata consacrata dal sacrificio di Hessler, le loro menti,
soddisfatte dalla seduzione delle loro chiese. Adesso si presentava una
nuova vittima: un estraneo, un vigliacco che si era buttato su una stanza
piena di uomini mentre le loro schiene erano voltate.
Gelft sentì una spinta che proveniva dal suo stesso bisogno di agire.
Uccidere Koepp avrebbe avuto il significato simbolico della decapitazione
dell'Idra. Uccidere uno chiunque degli altri avrebbe solo contribuito ad
aumentare possibilità già suicide.
Il suo ospite sparò alla faccia sullo schermo.
Non ci fu alcuna esplosione soddisfacente di scintille e proiettili. Lo
schermo era una struttura assorbente. Tutto quello che fece il proiettile fu
di scavare un buco rotondo preciso nel centro della gigantesca fronte
dell'immagine, un'imperfezione che la faccia stessa non poteva vedere.
Sorrise ancora, con la bocca che si arcuava in su come a esprimere il
piacere perverso che si prova quando si schiaccia un insetto. Hoff dalla
consolle fece un rumore. Non dava alcun comando ormai da minuti.
C'era tempo per solo una mossa a sorpresa, un proiettile partì, e Gelft agì
prima di chiunque altro. Intrappolò il tiratore atterrandolo mentre
Adenauer senza esitare gli tolse la Luger dalla presa. Probabilmente per
tenerla come un trofeo, pensò Gelft. Desideroso di fare dei punti adesso
che il pericolo era passato, Biermann seppellì un pugno poderoso nello
stomaco dell'estraneo che lo fece piegare e lo fece sollevare dal pavimento.
L'estraneo annaspò e si lasciò cadere tra le braccia di Gelft.
Gelft fu preso di mira da Koepp, lo scompiglio creato da questo
portagrane era colpa sua. Una buona risposta in questo momento poteva
significare la differenza tra una promozione... e un'altra esecuzione.
Gelft decise in favore della chiarezza. Questo, non era un nemico del
Reich, e il suo contributo, proprio come quello del Nazista Fantasma di
Adenauer, li aveva aiutati dietro le scene, per ottenere la chip, per neu-
tralizzare quelli che erano alla ricerca della vendetta come Eric Greene.
Forse, suggerì Gelft, il suo ospite aveva bevuto troppo liberamente, o era
agitato per qualche altra ragione. Forse era stato assorbito dalla passione
per il miracolo di cui era stato testimone.
Koepp chiese di sapere un nome. Gelft buttò giù l'unica carta che gli era
ancora rimasta da giocare: Aschmaus.
Il nome ebbe su Joseph Jaeckel l'effetto di una scarica elettrica. Sem-
brava rinnovare un fuoco che era seppellito nel profondo dei suoi occhi,
facendolo sobbalzare come avevano fatto i lampi con Frankenstein. Con
una sorprendente vitalità afferrò e storse il braccio che Herr Gelft della Die
Schwarze Spinne immobilizzava. Il lembo della manica della camicia si
sollevò e sul braccio Jaeckel vide la cicatrice deforme sull'avambraccio,
che si liberava dal polsino come un serpente da un cunicolo.
Un sorriso gli si scolpì sul volto mentre chiedeva a questo Aschmaus
dove avesse perso il suo numero.
Jaeckel si rendeva conto che la maggior parte degli altri lo considerava-
no un fossile. Nel 1944, comunque, era stato la SS Sturmbahnführer
Jaeckel. Adesso era vecchio e stanco... ma doveva essere completamente
rintronato per non ricordare il soprannome che era stato dato al bimbetto di
sei anni che un tempo aveva visto scherzare tra le ceneri del suo popolo.
Guarda, sembrano dire gli occhi del Kommandant, brillando d'orgoglio.
Uno come questo si presenta solo una volta per guerra. Guarda quello che
fa il mio Aschmaus.
Qua, non c'era modo di nascondersi nella montagna di ossa sminuzzate e
nei resti in polvere delle vite sacrificate. Jaeckel giurò che poteva vedere
qualcosa dietro gli occhi di quest'uomo, che all'improvviso stava
crollando, una barriera che si vaporizzava senza avvertimento. Nonostante
la posizione ridicola in cui veniva trattenuto da Gelft, questo ebreo era
riuscito a sbattere i talloni insieme e a fare un sieg heil per la fila di occhi
accusatori che lo circondava, con il palmo piatto mentre il suo braccio
intrappolato si girava dalla parte sbagliata.
Jaeckel vide che il gesto faceva presa su tutti i presenti proprio come
aveva affascinato il Kommandant. Ma solo per un istante.
Gli uomini valutando colui che avrebbe voluto rovinar loro la festa
risero, spezzando la tensione, dandosi di gomito. Koepp era ancora al
comando, e stava ancora cercando una spiegazione per l'intruso, che era
responsabilità di Gelft.
Jaeckel non disse niente. Voleva vedere come avrebbero giocato questi
capi dell'ultima ora.
L'uomo di nome Gelft fu eccezionale. Rapidamente propose di scortare
questo Aschmaus, questo agente segreto, via, di occuparsi di lui da qualche
altra parte, proprio perché era una sua responsabilità. Il tappeto di Koepp
avrebbe già dovuto essere ripulito del defunto Karl Hessler. Non c'era
bisogno di altro melodramma dentro la casa di Koepp. Gelft voleva
prendere atto della gerarchia e dimostrare rispetto.
L'opinione di Jaeckel fu confermata quando vide che la testa televisiva
con il buco del proiettile annuiva silenziosamente d'accordo.

***

Henri salì scortato dalla pistola verso una morte sicura. Non era riuscito
a sterminare nemmeno uno dei mostri che stavano in fondo alle scale. Non
era un uomo religioso, quindi non poteva cercare conforto negli ultimi riti
o nelle preghiere.
Cosa aveva ottenuto?
Aveva camminato dritto nella loro tana, un ebreo nel folto della con-
nivenza nazista, una trasgressione punibile con un proiettile in testa. Non
aveva avuto paura. Aveva, in effetti, sentito un inspiegabile senso di
sicurezza e di finalità, di qualcosa di positivo, fino dal momento in cui era
stato ammesso nella casa di Koepp, senza essere ostacolato, con l'aiuto
dell'uomo che adesso aveva intenzione di ucciderlo.
Perché?
Gelft, l'uomo che spingeva avanti Henri con il fucile, rispose a tutte le
domande che lui non aveva espresso sussurrando un'unica parola.
Doppelgänger.
La vista di Henri si fece confusa: provò un attacco di nausea che gli
diede le vertigini. Gelft era Doppelgänger? Fino a ora, quel nome in codice
non era stato nient'altro che una voce al telefono, senza età, senza sesso.
Gelft era l'Istituto, un mago del doppio gioco all'interno della rete della
Schwarze Spinne, che dopo aver fatto un altro mezzo giro cadeva in piedi,
con un risultato perfetto, proprio dentro la cerchia degli intimi di Koepp.
Gelft continuò a recitare il suo ruolo mentre spingeva Henri verso
l'ingresso al piano di sopra. Libertà sotto tiro. Il cuore di Henri si fece più
leggero. Forse dopo tutto in questo mondo il bene esisteva davvero. Con la
porta d'ingresso a pochi metri di distanza, Gelft chiese a Henri se riusciva a
ricordare la sua storia.
Prima che Henri potesse rispondere o chiedergli cosa voleva dire, il
mondo si trasformò in una luce brillante.

L'esplosione sembrò sollevare l'intero edificio, poi lasciarlo cadere in un


soffio. La casa di Koepp che sembrava un castello risprofondò sulle
fondamenta tutta storta, con forza sufficiente a far digrignare i denti ai
passanti. Tutto quello che era stato in piedi cadde; tutto quello che si
poteva rompere si ruppe. Le pietre delle fondamenta furono spinte pre-
potentemente in una nuova posizione dopo secoli di immobilità.
La maggior parte degli esseri viventi dentro la casa finirono le loro
esistenze come rifiuti in fiamme. Le scale fortificate incanalarono la palla
infuocata che saliva dal seminterrato come una bomba delle dimensioni di
un tunnel U-Bahn. Avrebbe bruciato come l'inferno e avrebbe ridotto il
numero 33 di Gelderstrasse a pietre e cenere, lasciando i berlinesi che
stavano nelle vicinanze con qualcosa di diverso dalla caduta del Muro di
cui chiacchierare il mattino dopo.
Hoff, il mago della tecnologia, diventò tutt'uno con i suoi pannelli di
controllo, mentre il calore dell'esplosione faceva fondere il suo scheletro
con i circuiti sciolti. Il metallo bolliva. Lo schermo si arricciava più in
fretta della celluloide quando è vicina a un fiammifero acceso.
Non c'era Dio, là sotto le fiamme. Non c'era nemmeno più un Führer.
Due pensieri passarono segnando la fine della coscienza al silicone
appena nata: ricordò cosa succedeva quando gli ufficiali se ne vanno
presto da una riunione, e fu colpita dall'ironia di bruciare in un bunker, due
volte nel corso dello stesso secolo.
Di sopra, l'effetto della scossa spinse il corpo di Gelft addosso a Henri.
La porta d'ingresso davanti a loro si piegò, prese fuoco ed esplose verso
l'esterno. Caddero dei detriti che entrarono in collisione con altri, e forma-
rono delle altre scorie mentre la polvere di gesso si sollevava pericolosa-
mente. Questa è la sensazione che devono aver provato nelle camere a gas,
in mezzo ai roghi.
L'uomo che da bambino si era chiamato Henri, poi Aschmaus, poi
ancora Henri, venne sbattuto a terra dalla massa più pesante del corpo di
Gelft. Poi scomparve, forse per sempre.

Clouder rinvenne tra il fumo, il fuoco e il panico, con le fiamme che


lambivano il sudore e il sangue sul suo viso, mentre un dolore forte e
costante gli impediva di muovere la spalla sinistra. Aveva le gambe bloc-
cate sotto un corpo caduto.
Ricordò tutto.
Adesso che poteva vedere, non aveva tempo per fermarsi ad ammirare. Il
suo naso addestrato gli diceva che le macerie che stavano ancora cadendo,
e su cui era disteso, puzzavano troppo di C4, se il loro obiettivo era stato
solo quello di cancellare una stanza piena di facili bersagli. Forse l'artista
del plastico aveva dovuto tener conto dei muri spessi della casa.
Tutti quelli che erano di sotto dovevano essere morti. Quassù c'erano
ancora spasmi di vita. Clouder vide uno dei cani da guardia, il tizio di
nome Rudi, grigio come un fantasma con il sangue che gli usciva da
entrambe le orecchie, che si faceva strada vacillando tra le macerie sparse,
dirigendosi verso il punto in cui c'era stata la porta della cantina. Sembrava
un po' stordito, ma pieno di eccitazione. Ecco una bella possibilità di
dimostrare a Koepp quello che valeva.
Gelft grugnì, si spostò dal corpo di Clouder rotolando, e sparò a Rudi nel
collo. La testa gli si aprì con un rumore che sembrava lo schioccare di una
frusta macchiandogli i capelli di sangue, e cadde.
Libero, Clouder cercò, zoppicando, di mettersi in piedi contro una trave.
Aveva capito chi era Gelft nel tempo che Rudi aveva impiegato a morire.
Gelft aveva più travestimenti delle vertebre di un serpente. Aveva buttato
Greene nell'intrigo solo per convalidare il suo invito alla riunione di
Koepp. La vita di Greene era stata il lasciapassare per la valigia di Gelft.
Ti ricordi la tua storia?
Quando questo trucco era stato provato per la prima volta, Hitler era
stato salvato da un pezzo di un grosso tavolo per le riunioni che lo aveva
riparato dall'esplosione. Certi trucchi migliorano con il tempo.
Klaus, che aveva visto la parte in cui Rudi finiva a mangiare il pavi-
mento, cercò di afferrare Gelft da dietro una credenza che era caduta.
Clouder aveva visto che stava caricando. Nonostante la spalla ferita, riuscì
a spostarsi in avanti e a intercettarlo.
Il ragazzo era più alto. Ma quello di cui Gelft fu testimone era degno di
meraviglia.
Clouder si sollevò a mezz'aria in punta di piedi, immobilizzando la testa
di Klaus nella piega del suo braccio e usando il momento della discesa per
staccare il collo del ragazzo con un rumore che passò inosservato nella
confusione generale. Da parte di Clouder era stato tutto un singolo
movimento di danza. Le iridi di Klaus rotolarono sotto le palpebre
lasciando in vista solo il bianco. Quando venne liberato, scivolò senza vita
sul pavimento. L'unica cosa che serviva a questo punto era prendere
accordi per il funerale.
In vita sua Gelft non aveva mai visto Henri. Ma Gelft aveva visto
Clouder, quella mattina, in albergo.
Adesso tutto veniva messo insieme con eleganza e acquistava un senso.
Ma questo non era il momento per assaporare il legame unico che Clouder
provava per quest'uomo, una specie di sdoppiamento psichico che
conteneva mille domande. Non c'era tempo adesso, per nessuna di esse.
Sirene e divise stavano cercando la casa, dirigendosi verso il luogo
dell'incidente che aveva illuminato la notte.
Gelft stava cercando di reggere metà del suo scalpo, barcollava e si
teneva in piedi a fatica, ma era ancora in grado di far cenno a Clouder di
allontanarsi, di cercare di fargli abbandonare immediatamente la scena. In
questo momento elettrizzante i suoi occhi dicevano a Clouder molto di più
di qualsiasi parola.
Il suo istinto gli diceva di dirigersi al Muro. E là perdersi tra la folla.
Trovare acqua per pulirsi, improvvisare delle bende.
Clouder zoppicò via dai resti della casa di Koepp, facendosi strada nella
Wilhelmstrasse, lasciandosi alle spalle l'uomo del mistero conosciuto come
Gelft. La silhouette di Doppelgänger si stagliava sull'entrata, delimitata dal
fuoco, pronta a continuare la sua vita di inganni.
Il reportage della televisione e della radio di Berlino Ovest continua
non-stop. I reporter sbattono i microfoni davanti a cittadini giubilanti,
chiedendo le loro impressioni. Quasi tutti rispondono che si trovano da-
vanti a qualcosa di pazzesco.
Clouder si inserisce perfettamente bene.
Le schegge e la polvere che gli sporca il vestito vengono attribuiti alle
ferite visibili su tutto il Muro, fatte per estrarne pezzi da tenere come
ricordo. Questo è un lavoro che mette sete e che crea tanta polvere.
Nessuno si fa male. Per adesso, c'è un sacco di entusiasmo. Tra pochi
giorni, ci sarà insofferenza e ostilità per il traffico, per le lunghe code, per
il sovraffollamento.
Una giovane donna che senza fiato si presenta come Gisela tira fuori una
cassetta di pronto soccorso, come per magia, e si accinge a occuparsi dei
tagli di Clouder. Mentre lei lavora, a Clouder viene assurdamente in mente
un medico da campo. Qualcuno gli porge una bottiglia mezzo vuota di
champagne a buon mercato, Clouder ne inghiotte due sorsate per lenire
l'aridità che ha in gola. Quando Gisela finisce e gli dice che andrà tutto
bene, la bacia e si mischia alla folla, tra cui scompare.
Clouder crolla contro il Muro, a metà soddisfatto, a metà in fase di
recupero. L'ondata della folla che si agita lo fa spostare, ma allo stesso
tempo lo sostiene mentre gli individui vengono spinti avanti e indietro
come plancton.
Nessuno verrà qua, a cercarlo. Il braccio gli pulsa ancora dolorosamente;
dovrà cercare un medico. Ma in questo momento, è in piedi tra la folla,
una macchia confusa che nessuno storico individuerà o troverà motivo per
ricordare. Il momento della fine deve essere assaporato.
Brandendo un barattolo di vernice spray, un primitivo moderno si fa
strada. La gente fa posto mentre lui scrive uno slogan alto un metro sul
Muro, proprio vicino al punto in cui sta Clouder. DIE MAUER IST TOT.
Applausi selvaggi. Con gesti esagerati, come un mimo che si esibisce, ride,
scambiando la lattina di vernice con la bottiglia di champagne che ha in
mano Clouder. Ingurgita le ultime bollicine con un sorriso mentre la folla
guarda le lettere gocciolanti sul Muro.
Clouder incidentalmente ha urtato il graffito. Quando guarda la sua
mano libera, è umida di vernice, di un rosso brillante.
Mostra la mano all'artista del graffito, con aria di scusa, quasi vergo-
gnoso. Prima di poter parlare, viene preso con la forza, senza che nessuno
se ne accorga.
Ci sono i pazzi in circolazione stanotte, l'atmosfera è davvero pazzesca.

Due in uno, due in uno, due in uno...


Wolfie stava saltellando come una scimmia (o un cinese, che a pensarci
bene era la stessa cosa, ja?) tutto eccitato e allegro. Avevano appena rubato
un portafogli pieno di soldi, e il furto significava vacche grasse per
entrambi, perché Wolfie e Stanz avevano fatto giornata doppia.
Stanz spinse un piede che calzava uno stivale dalla punta d'acciaio e
sentì una costola che si rompeva. Del sangue scorreva dalle narici del
bastardo; dell'altro sangue gli macchiava i denti giallastri. Non che aves-
sero dovuto far molta fatica per far del male a questo tizio, quando lo
avevano trovato era pieno di polvere e strascicava i piedi, come un borsa di
pezza di seconda mano.
Wolfie era stato il primo a riconoscerlo.
La seconda preda della giornata rappresentava la vendetta di ogni regola
reazionaria secondo la quale vivevano. La fortuna non li aveva mai
favoriti. Tuttavia ecco che arrivava l'eccezione, la fessura logica tra cui le
loro intere esistenze potevano scivolare, l'aberrante buco cosmico che
permette ai mutanti di essere tali. I loro orizzonti dichiaratamente limitati
erano stati raggiunti, poi superati.
Il punto era che loro si stavano godendo veramente al massimo questa
vittoria.
Stantz aveva fatto la parte dell'artista strambo con la bomboletta di
vernice, mentre Wolfie si era preso cura di manganellare il tipo. Wolfie era
sicuro. Questo era lo stesso tipo che avevano lasciato perdere in
precedenza quello stesso giorno per dedicarsi ai piaceri della povera Heike
Strab. Stesso tipo compatto, da uomo d'affari, gli mancavano solo gli
occhiali e la valigetta, ma era sempre una preda di valore, adocchiato
mentre Wolfie e Stanz si stavano divertendo tra le masse di persone os-
sessionate più dal petricidio, l'uccisione delle pietre, che dall'uccisione di
qualsiasi altra cosa.
Una volta che tutti gli occhi fissarono il graffito di Stanz, fu facile
portare la loro vittima destinata al nascondiglio nella stazione idrica, per
ripulirlo. Pardon, papà; ha bevuto troppo. Amen.
I fuochi d'artificio scoppiavano nella notte, e ce n'era stato uno tanto
forte da far girare la testa a tutti, appena prima del colpo gobbo di Stanz e
Wolfie. Tutta la dannatissima città stava perdendo la testa, e questo faceva
molto comodo ai ragazzi. Era la migliore copertura.
Mentre ripulivano il vecchio, Stanz si accorse della cicatrice parlante sul
suo braccio sinistro, e meno che sobriamente aiutò Wolfie a concludere
che la loro ultima vittima, in effetti, era ebrea. Iniziarono a riempirlo di
pugni dati a casaccio, ricominciando con forza maggiore ogni volta che la
sua sagoma molle dava segno di riprendere conoscenza. Si divertirono a
guardare i disegni che il suo sangue faceva sul terreno.
Domani mattina, Berlino si sarebbe svegliata da una sbornia colossale. I
cittadini sarebbero stati meno inclini al perdono. Era l'ora giusta per i topi
del Muro, per andarsene. Quando le grosse gru avessero staccato intere
sezioni del Muro, ogni buco sarebbe diventato un nuovo ingresso per gli
orientali. La centrale sarebbe inevitabilmente stata abbattuta.
Adesso avevano i mezzi per spostarsi alla destinazione successiva della
loro vita brutale e possibilmente breve. Ma questo sarebbe venuto dopo
che avessero finito di divertirsi a suon di pugni e calci. Alibi? Perché? Non
li avrebbero presi stanotte. E lui non aveva né anelli né altre prove addosso
che qualche Schatzchen si struggesse per questo vecchio Schwanz. Non
sarebbero state fatte domande ai ragazzi.
Prima che la centrale fosse chiusa o demolita, Stanz e Wolfie avrebbero
indossato abiti nuovi... avrebbero avuto un posto caldo in cui intrufolarsi e
denaro in tasca. Avrebbero brindato, molte volte, alla vecchia scoreggia
anonima a cui avevano rubato la vita, affinché loro potessero riempirsi
sempre i bicchieri.
Il loro benefattore stava ancora respirando faticosamente quando i
ragazzi lo sistemarono sopra il cadavere di Heike Strab in una parodia di
un rapporto sessuale. Mentre la sua testa sfondata colpiva il torace di lei
che non respirava più, lui gemette e mormorò dei nomi.
Nessuno di loro aveva significato.

L'ultima volta in cui Aschmaus vede la faccia di sua madre, è coperta di


sangue. Lei ha smesso di gridare da un pezzo. Ha smesso di muoversi.
Viene buttata nel rogo, e cade con le gambe e le braccia tese come se
stesse aspettando di ricevere un amante tra le fiamme.
Henri, pensa, anche se nessuno lo chiede. Mi chiamo Henri.
Ma qua non c'è nessuno che lo possa chiamare, non più. Il suo nome
vola via, un puntino grigio su una nuvola nera, finché quello che rimane è
solo Aschmaus.
Lui non vede la mamma mentre brucia e si accartoccia, mentre i lega-
menti si induriscono e tirano, dando l'impressione che lei stia ancora
cercando di scansare i colpi. Una parte di lui vorrebbe poterle dire che gli
dispiace, ma è meglio consegnare quella parte alle fiamme. Non c'è posto
per il dolore, o per la pietà, o il rimorso. Aschmaus rimane sull'attenti
davanti al fuoco che scoppietta, poi va avanti con il lavoro di mantenersi
vivo.

Ancora impressionato dall'esplosione nella casa di Koepp, sedotto dagli


avvenimenti del Muro, non si è accorto che la bottiglia di champagne si
stava piegando sulla sua testa. Adesso non sente i pezzi del vetro rotto
infilati tra i capelli bagnati dal sangue fresco, il suo. Dopo una vita è
assuefatto al semplice dolore.
Non si è accorto delle agili mani che gli frugano nelle tasche, esponendo
le sue identità, ripulendolo. Non sta ancora bene ed è disorientato. Tutto
quello che sa è che se sviene di nuovo, può anche non svegliarsi più.
In quell'attimo è stato preso alla sprovvista. In circostanze normali
liberarsi di due persone come i suoi aguzzini sarebbe stato un lavoro breve,
senza sforzi. Li avrebbe potuti prendere anche con il braccio ferito; sono le
conseguenze che lo preoccupano, non il dolore. Decide che, quando aprirà
gli occhi, li ucciderà entrambi.
Ma sono passate ore. Ore da quando se ne sono andati per sempre.
La donna è inerte, e alla tenue luce si vede che sprofonda sotto la
polvere grigia. Sembra non avere alcuna caratteristica, la sua faccia girata
verso l'alto è una maschera di sangue secco e polvere. È fredda al tatto e
sembra che il peso di lui non la disturbi. È facile per lui fare la
sostituzione, la mamma è morta così. Una tragedia, una brutta cosa. Ma
almeno lui è sopravvissuto, per...
Per fare cosa? Per ottenere cosa?
Rimane tranquillo. È così stanco. Fuori... quelle macchine enormi, il cui
rumore è attutito dai mattoni di questa... della sua nuova prigione. Era stato
fatto a pezzi, perché fosse in grado di cacciare e uccidere e sopravvivere, e
poi, rimesso insieme, perché soffrisse di più mentre proprio la sua anima
cercava di dividere e di conquistare, e il suo corpo cercava di costringerlo
a sopravvivere ancora una volta. I suoi occhi si sono aperti sulle sue
macchinazioni interiori... ma tutto quello che riescono a vedere sono delle
crude dichiarazioni in tetro marrone sui muri che lo circondano.
ACHTUNG JUDEN. ALLE JUDEN RAUS!
Nessuno verrà a muoverlo. Nessuno lo sposterà più vicino al Muro
perché il suo oblio sia più efficace. Non può raggiungere il tunnel di fuga
incompleto in questa minuscola stanza; se anche potesse, andrebbe dalla
parte sbagliata, verso il fondo senza uscita.
Nessuno riciclerà le sue ceneri, per farne mattoni per costruire posti
come quello. Ha raggiunto quell'invisibilità che per tutta la sua vita è stato
il suo compagno di ballo.
Fuori un altro pezzo di Muro viene staccato. Colpisce il suolo con una
vibrazione che sembra un tuono. I tedeschi e i turisti vi si buttano sopra
come api, sporcandosi le mani di sangue in una corsa folle per ottenere
ricordi e pezzi da vendere. Ci saranno sempre quelli che prendono, e non
ci saranno mai abbastanza pezzi. Presto anche le sentinelle e i cani da
guardia saranno in vendita, al giusto prezzo.
Della fuliggine sparsa scende a posarsi sul pavimento della stanza di-
menticata della vecchia centrale idrica, aggiungendo un altro strato di pol-
vere agli occhi ancora aperti della donna che potrebbe essere sua madre,
che gli è stata restituita. Lui le si stringe addosso e rabbrividisce. Adesso il
bambino può finalmente appoggiare la testa al sicuro e riposare.
E dorme. Aschmaus si rende conto che il terribile suono che sente di
fuori non è il risveglio di qualche male che aveva dormito a lungo. È il
respiro rumoroso di qualche altra morte, di qualcosa che stava morendo da
troppo tempo.

1990-1999
La parola
di Ramsey Campbell

Per S.T.Joshi

Era veramente Figlio di Dio


John Wayne, The Greatest Story Ever Told

Grazie a Zio, nessuno cerca di parlare con me mentre aspetto


l'ascensore. Ai congressi di fantascienza, ogni volta che uno vuole salire,
l'ascensore si trova sempre all'ultimo piano e, prima che arrivi a terra, mi
riesce sempre di attirare gente come uno stronzo attira le mosche. C'è una
donna il cui girovita è due volte il resto del corpo, uno senza maniche e
senza deodorante, almeno uno scrittore che sbava per essere notato, e
adesso anche un tizio che si è aspirato il cervello e che usa un walkie-talkie
per mandare messaggi a un altro delegato che si trova a pochi metri di
distanza. Nel frattempo arriva un gruppetto che sfoggia distintivi del
congresso, con il nome formato da minuscole teste del rispettivo
proprietario: N. Trails, Elfan, Si Fye, e io mi fermo a pensare di quale,
meno di tutti gli altri, vorrei venire a sapere qualcosa. Finalmente ecco
l'ascensore; riesco a chiudere le porte prima che entri anche una tizia calva
con alcuni draghi tatuati sullo scalpo, ma non posso evitare che si intrufoli
un ragazzo magro in giacca e cravatta. Nota la mia maglietta RETARD,
poi legge il nome sul distintivo. «Salve», mi dice. «Sono...»
«Jess Kray», lo interrompo, evidentemente crede che io non sappia
leggere, «e mi hai mandato il peggior racconto che io abbia mai letto in
vita mia.»
Si risucchia le labbra come se gli avessi dato un pugno sulla bocca.
«Qual era?»
«Quanti ne hai scritti di così orrendi?»
«Nessuno che io sappia.»
Tutti fingono di non guardarlo mentre fa del suo meglio per restare
impassibile.
«Mi hai inviato quello su Frankenstein, la capra morta e le due suore»,
gli ricordo a voce alta, così che tutti possano sentire.
«Ne ho scritti tanti altri da allora.»
«Vedi di non mandarli a Retard.»
La mia rivista di fantascienza adesso non si chiama più così, ma non
glielo dico. Lascio che prosegua il suo viaggio fino all'ultimo piano in
compagnia del nostro piccolo pubblico, mentre io vado a chiudermi in
camera. Dovrei scrivere un pezzo su Sesso, Sette e Significati nascosti nei
romanzi dell'orrore delle donne, che mi faccia capire il motivo per il quale
non ero mai stato in grado di leggere un libro scritto dalla metà dei
partecipanti di cui avevo sentito parlare, ma ora ho un mal di testa feroce.
Rimango sdraiato sul letto per tutto il tempo in cui riesco a stare da solo,
poi cerco qualcuno di sopportabile con il quale cenare.
Siamo a Contraception, Edimburgo, ma potremmo trovarci in qualsiasi
luogo in cui una massa di fan si riversa in un albergo, occupandolo per
tutto il fine settimana. Appena entrato nell'atrio, vado quasi a sbattere
contro Hugh, uno scrittore che un tempo aveva un sacco di libri nei negozi,
forse perché nessuno li comprava. Fra non molto i libri diventeranno
videogiochi con i quali divertirsi, ma scommetto che nessuno giocherà con
i suoi. «Che stai facendo di bello quest'anno, Jeremy?» tuona nel vedermi.
«Sto morendo, come tutti.»
Emette un suono come se stesse cercando di non reagire dopo che
qualcuno gli ha piantato un gomito nelle costole, e proprio in quel
momento il resto del suo gruppo esce dal bar. Uno di loro è Jess Kray, che
mi invita: «Se è libero, venga a cena con noi, Jeremy».
Si comporta come se fosse il personaggio più importante della compa-
gnia, e sorride con i denti che assicurano «guarda che siamo veri» e la
bocca che conferma «controlla pure se vuoi» e gli occhi con un messaggio
solo per me. Rifiuterei per il puro gusto di vedere che faccia fa, ma Hug il
Pustoloso si intromette: «Devi assolutamente venire», e fa capire ai suoi
amici che intende proprio il contrario, e a quel punto il divertimento sta nel
non rifiutare.
L'idea di Hug di ristorante alla moda è un posto chiamato Padrini. Mi
ritrovo seduto accanto a sua moglie, una pakistana, e a un'amica che
nemmeno partecipa al congresso, ignoro entrambe e così smettono di
parlare in inglese. Nel corso delle riunioni ho già sentito le stupidaggini
che Hug adesso sta riciclando sul dovere dello scrittore di offrire una
nuova visione del mondo, come se lui l'avesse mai fatto, e sulla ricerca
come parte più importante dello scrivere. Parla ancora come il fan che è
stato un tempo, e come tutti i fan che conosco, o pontificando mentre vi
fissano negli occhi, o guardando oltre la vostra spalla, come se aveste uno
specchio dietro di voi. Soltanto Kray appare colpito dal suo discorsetto.
Finalmente Hug finisce di mangiare la pizza e assicura: «Adesso mi sento
meglio».
«Prima dovevi sentirti spaventosamente male», commento io.
Kray scoppia a ridere, ma allo stesso tempo rivolge a Hug una smorfia di
comprensione, e io non vedo l'ora di tornare in camera e metterni a
scrivere un pezzo sui suoi giochetti. Continuo a scrivere finché non ci vedo
più per il mal di testa e, dopo essere riuscito in qualche modo a dormire,
butto giù alcune righe sul resto dei buffoni presenti a Contraception,
arrivando quasi a completare il primo numero di Raduno di disadattati e
deformi, perché i congressi non sono altro che questo. Durante la giornata
conclusiva, scorgo Kray mentre paga da bere al direttore di una casa
editrice, il che significa certamente che gli venderà almeno una trilogia. E
di questo che scrivo una volta tornato a casa. Poi si ricomincia con la solita
giacca e cravatta, con la solita banca di Fulham e con i clienti in fila
dall'altra parte dello sportello, il che almeno serve a tenerli a una certa
distanza, mentre io trasformo loro e le loro vite in numeri su uno schermo.
Ma c'è l'odore delle persone al di qua dello sportello, e a volte anche il loro
tocco, se non mi sposto abbastanza in fretta. Portare avanti il gioco di non
dire mai ciò che penso mi permette di arrivare alla fine della giornata, e poi
di quella successiva, e dell'altra ancora. Chiuso in camera, stampo la mia
piccola rivista, la spedisco e aspetto che i buffoni dei quali ho scritto
minaccino di farmi causa o di darmi una manica di botte. Non è ancora
finito l'anno quando, in mezzo agli esemplari per la recensione e al resto di
ciarpame che gli editori inviano alle riviste specializzate, trovo un articolo
su Jess Kray, il giovane scrittore più interessante degli ultimi anni, i cui
primi tre romanzi daranno un nuovo significato alla letteratura di fantasia.
Zio sa che l'ho fatto tanto per ridere. Chiedo una copia dei tre romanzi
per vedere di che schifezza si tratti, e sono anche peggio. Parlando di un
antimondo in cui tutti diventano il proprio opposto sessuale, così un ragaz-
zo gay si trasforma in un eroe barbaro e una lesbica diventa la sua amante,
alcuni personaggi, una volta tornati al mondo reale, ricordano quello che
sono stati, e la maggior parte di loro cerca di far tornare la memoria agli
altri, anche se uno pensa che invece dovrebbero dimenticarselo, e così via
con una massa di stronzate del genere. Scorro rapidamente alcuni capitoli
del primo libro giusto per farmi una risata all'idea che qualcuno possa
comprare un romanzo intitolato Un Tocco di Altro convinto che si tratti di
qualcosa di diverso. A quanto pare i libri continuano la storia raccontando
di una mezza calzetta che si trasforma completamente nell'altra realtà e
riesce a diventare un capo in questo mondo. Sono trascorsi nove mesi da
quando ho visto Kray parlare con il direttore della casa editrice, di
conseguenza o riesce a scrivere con una disinvoltura ancora maggiore di
quanta ne usi con la gente, oppure li aveva già scritti prima. Sulla prima
copertina vi è il volto di una donna che si trasforma in quello di un uomo,
sulla seconda c'è un bianco che si trasforma in un nero, e sulla terza, al
posto di un volto, vi è uno specchietto di carta stagnola. Questo è quello
che scaglio con più forza attraverso la stanza. In seguito li aggiungo al
mucchio di libri da vendere a Fantasia per tutti, il negozio di fumetti e
fantascienza vicino al porto, ma poi vengo a sapere che Kray sarà proprio
là per firmare i libri per i suoi ammiratori.
Com'è possibile che un autore completamente sconosciuto riesca a otte-
nere qualcosa del genere, seppure in un negozio gestito da un fan? Penso
che sia arrivato il momento che qualcuno lo smascheri. Quel sabato porto i
libri con me, lasciandovi sopra la targhetta con la parola OMAGGIO, in
modo che veda che non li ho comprati. Anzi, forse farò in modo di farmi
vedere mentre li vendo subito dopo che me li ha autografati. Ma appena lo
scorgo seduto al tavolo, dietro tre pile di libri, Kray si alza di scatto.
«Jeremy, come va! Ehi gente, questo è Jeremy Bates. È stato il mio primo
critico.»
Zio solo sa se non sta cercando di farsi notare. Gli unici clienti sono
lettori di fumetti, il che è una contraddizione in termini, che sembrano
essere usciti di casa senza la mamma per andare a comperare i loro
giornaletti preferiti. E il proprietario, che io chiamo Kath per via della
tunica e dei capelli lunghi, non sembra particolarmente interessato al
tentativo di Kray di sfruttare la mia reputazione, anche se per la verità non
è mai interessato a molto, ma parte da dove arriva l'erba da fumare. Porgo
a Kray i libri con la targhetta OMAGGIO ben in vista, ma lui continua a
sorridermi. «I miei editori non mi hanno ancora inviato la tua recensione,
Jeremy.»
Dovrei spiegargli che è perché non ho alcuna intenzione di scriverne
una, ma, Zio buono, riesco solo a borbottare come un fan: «Scrivici sopra
qualcosa, per favore».
Sul primo libro scrive: «Per Jeremey che mi ha conosciuto prima che di-
ventassi bravo», sul secondo «Al nostro futuro», e «Per la vita» su quello
che spero sia l'ultimo. Quando me li restituisce come fossero qualcosa di
prezioso, me li infilo sotto il braccio e comincio a sfogliare qualche
consunta rivista, cercando di vedere quanti ammiratori riesce ad attirare.
Zero. Il signor Nessuno e la sua famiglia. Un buco colossale. Alcuni ra-
gazzi sulle mountain bikes lo indicano da dietro la vetrina finché Kray li
caccia via, e a un certo punto una donna si avvicina a Kray, ma solo per
chiedergli dove si trova il reparto Star Trek. La moglie di Kath offre a
Kray un bicchiere d'infuso d'erbe che non è nemmeno caldo e ha ancora
dentro la bustina; mi diverte proprio stare a guardare mentre è costretto a
berlo. Restiamo tutti lì a ciondolare per la seconda mezz'ora poi, con quel
suo tono di voce di uno che parla nel sonno, Kath suggerisce: «Forse
potresti firmarne un certo numero da lasciare qui in negozio».
Da come lo dice, capisco che non intende riferirsi a tutti i libri
accatastati sul tavolo, ma questo non ferma il nostro autore. Dopo averli
autografati uno a uno, Kray esclama: «Allora, andiamo a pranzo?»
Kath e sua moglie si scambiano un'occhiata, e Jess lo Scherzoso, li tran-
quillizza con un sorriso ciascuno. «Capisco. Non ha alcuna importanza. Mi
offrirete il pranzo la prossima volta, quando vi avrò fatto guadagnare un
bel po' di soldi. Per questa volta offro io.»
I proprietari scrollano la testa, sono ovviamente convinti che non ci sarà
una prossima volta, ma Jess il Perfetto li abbaglia con un sorriso ancora
più ampio, poi si volge verso di me. «Se vuoi intervistarmi, Jeremy, puoi
farlo durante il pranzo. Sarai colui che lo farà sapere al mondo.»
«Che cosa?»
«Quello che dirò.»
Voglio che il prossimo numero di RMM faccia sgorgare molto altro san-
gue e, oltretutto, nessuno mi ha mai pagato un pranzo. Lo porto al
ristorante dietro l'angolo, al Le Marin Qui Rit, che uno chef francese con
troppi soldi ha voluto costruire all'interno di un vecchio magazzino lungo
il Tamigi. «È molto carino», ammette Kray vedendo le reti piene di
granchi che penzolano dalle travi del soffitto e i camerieri vestiti da
marinai, anche se potrei scommetterci che non è più della stessa opinione
quando legge i prezzi sul menu. Non appena abbiamo ordinato, si precipita
verso la porta con la scritta MARINAI, forse perché pensando ai prezzi
sente il bisogno di vomitare, e io sfoglio rapidamente i suoi libri fino a
quando torna con un sorriso e dice: «Chiedimi qualsiasi cosa». Ho appena
aperto la bocca, quando m'interrompe: «Non registri?»
«Non sapevo di averne bisogno. Non ti preoccupare, ricordo tutto. Te lo
può confermare anche la mia ex moglie.»
Dalla tasca dell'impermeabile tira fuori un registratore portatile. «In caso
avessi bisogno di verificare. Ne porto sempre uno con me per verificare i
miei pensieri.»
È una frase che ha sentito dire a Contraception da uno scrittore di
successo. Un marinaio ci porta una bottiglia di Mutton Cadet, succo di
pecora presumo, e io accendo il registratore. «Che cosa dovrebbe
significare per il mondo un nome come Kray?»
«È il nome di mio padre», risponde, dimostrando poi che avevo ragione
a essere sospettoso, perché viene fuori che suo padre era un ebreo polacco
finito in un campo di concentramento, che si era lasciato alle spalle il resto
del cognome, dopo essere emigrato alla fine della guerra con ciò che
restava della sua famiglia.
«A proposito di pregiudizi, che succede a un tizio di colore che decide di
chiamarsi Negro quando diventa un eroe?»
«Un negro è qualcuno a cui dà fastidio essere chiamato così. Sei tu che
controlli le parole, oppure sono loro che controllano te.»
«E nei tuoi libri, chi ha il controllo?»
«Un po' l'uno, un po' le altre. Sto imparando. Voglio essere un avventu-
riero per conto dell'immaginazione.»
Non vedo l'ora di scrivere un pezzo su di lui, ma adesso mi hanno
portato il salmone. Aspetta che ne abbia mangiato un boccone, poi mi
domanda: «Che cosa ti è piaciuto dei libri?»
Incredulo, mi rendo conto che molti sono i brani rimasti impressi nella
mia mente... frasi come «l'AIDS è un tale inferno che andrai dritto in
paradiso.» Vorrei rispondere «niente», ma non resisto al suo sorriso.
«Quando dici che essere nato maschio è il nuovo peccato originale.»
«In realtà questo è ciò che afferma uno dei miei personaggi.»
Che cosa intende dire? Le sue parole continuano a sfuggirmi e non ho
idea di dove se ne stiano andando. Quando arriviamo alla fine del pranzo,
sono quasi sul punto di cedere anche sul dolce, mi sfinisce questo suo
rifiuto di sentirsi offeso per qualsiasi cosa gli dica. Tutto quello che riesco
a escogitare come domanda conclusiva è: «Dove credi di andare?»
«A trascorrere l'estate in Florida con la mia famiglia. È lì che si concen-
trano le idee.»
«Sempre sperando che tu ne riesca a trovare qualcuna.»
Non spegne il registratore finché non abbiamo bevuto il caffè, poi mi
consegna il nastro. «Grazie per il tuo aiuto», mi dice, e insiste per
stringermi la mano. Sembra di trovarsi nel bel mezzo di un rito massonico,
per cercare di scoprire se conosco un segreto... o è questo oppure Kray si
sta allenando a stringere mani nel modo migliore.
Riesce a restare impassibile mentre paga il conto, poi m'informa che è
diretto alla stazione, che sarebbe proprio sulla mia strada ma non glielo
dico. Gli volto le spalle e torno verso casa facendo un giro più lungo
attraverso le stradine che preferisco, senza giardini o spazi tra una casa e
l'altra e meno illuminate del resto della città. Mentre faccio questo tragitto
non ho bisogno di pensare, è come se nulla possa accadere dentro di me o
fuori di me. Devo solo tornare a casa e lavorare con quel nastro, che
sembra essersi attaccato come una tenia nella tasca posteriore dei
pantaloni.
Spero che vivrò anche se, per errore, Kray vi abbia lasciato inciso sopra
qualche pensiero, ma ci sono soltanto le nostre chiacchiere. Quindi o ha
portato il registratore per essere certo che fossi in grado di registrare
l'intervista o, più probabilmente, voleva tenersi una copia di ciò che
avevamo detto. Anche se non si era fidato di me, è una bella fatica scrivere
su di lui come vorrei. Ci vogliono giorni e alcuni dei miei peggiori mal di
testa. È come se mi avesse rubato tutta l'energia e l'avesse trasformata in
una forza che agisce solo a suo favore.
Quando mi sembra di essere riuscito a scrivere abbastanza per
completare un numero di RMM, mi dedico alla stampa delle pagine. Devo
stare attento a scansarle oppure le calpesto ogni volta che, durante la notte,
mi alzo per andare a vomitare. Spedisco una copia ai miei cinque abbonati
e a tutti coloro che mi hanno inviato le loro riviste anche se non sono
rimasti in molti dopo che ho scritto articoli sulla loro spazzatura. Ne porto
alcune copie a Constipation e a Convulsion e ne vendo alcune a persone
che non sono mai state a un congresso prima di allora e non sono capaci di
dire di no. Quando, durante la notte, comincio a urlare contro la rivista e a
tirare calci contro le copie ammonticchiate, decido di affittare un tavolo
nella sala rivenditori di Contamination. Ma sabato notte qualcuno penetra
nella stanza e, alla mattina dopo, tutte le copie sono sparite. Questo non è
proprio uno dei miei anni migliori. Mio padre muore e mia madre mi
riferisce che la mia ex moglie è andata al funerale. L'agenzia della banca
chiude per via della recessione e io resterei senza lavoro, se non fosse che
uno degli impiegati viene colpito alla schiena durante una rapina. Mi
trasferiscono nel quartiere di Chelsea, dove la metà di quelli che
s'incontrano a pranzo sembrano tanti agenti in borghese e dove i bidoni
della spazzatura sono sigillati in modo che nessuno può ficcarci dentro una
bomba. Perlomeno la polizia non permette ai dimostranti di attraversare il
quartiere, anche se lì si sentono gridare slogan contro la disoccupazione,
l'ergastolo per reati di pornografia, le leggi islamiche per i reati di
bestemmia, il coprifuoco per tutti i maschi che raggiungono la pubertà, i
profitti ricavati dalla vendita di alcol e tabacco che devono essere destinati
alla disintossicazione dalla droga o contro la partecipazione ai servizi reli-
giosi resa obbligatoria per legge... alcuni scrittori chiedono alle loro case
editrici di non inviarmi più copie per la recensione, e questo significa che
perlomeno sono riuscito a dargli fastidio. Per quasi un anno non partecipo
più ai congressi, fino a quando mi dimentico quanto siano noiosi e
restarmene chiuso nella mia stanza mi sembra addirittura peggio. A Pasqua
decido di trovare un passaggio per raggiungere Consternation, a
Manchester.
Aspetto quasi mezz'ora all'imbocco dell'autostrada e noto che un'auto
prende a bordo un paio di ragazze che sono arrivate molto dopo di me, per
questo non sono dell'umore giusto per ascoltare le stronzate
dell'automobilista che alla fine si ferma per darmi un passaggio. Mi
domanda che cosa ho intenzione di fare per Pasqua e questo mi fa pensare
che si tratti di un fanatico religioso, ma quando gli parlo di Consternation,
si fa in quattro per spiegarmi che da giovane gli piacevano H.G. Wells e
Jules Verne, come se me ne fregasse qualcosa. Poi mi domanda: «Come
definiresti questo nuovo tizio che ha scritto La parola? È un autore di
fantascienza, di storie fantastiche o che cosa?»
«Non conosco nessuna parola.»
«Pensavo che potesse essere uno dei vostri. È andato da un editore, gli
ha parlato delle sue idee per un libro e se n'è tornato a casa con un
contratto per un importo superiore a quello che forse riuscirò a guadagnare
in tutta la mia vita.»
«Come mai è così informato?»
«Il fatto è che ho una libreria. Quelli in alto vogliono che sappiamo in
anticipo che non si tratta di un esordiente qualsiasi. Se mi spremo un po' le
meningi, sono sicuro che ricorderò anche il nome.»
Sto per dirgli di non affaticarsi troppo, che lui si illumina tutto. «Non so
come mi sono potuto dimenticare un nome del genere, a parte il fatto che
fa venire in mente i fratelli Kray, sempre che tu non sia troppo giovane per
ricordare il loro regno del terrore. L'ultima cosa che il suo nome ricorda è
quello di un criminale. Jess Kray, ecco come si chiama il fenomeno.»
Gli direi che lo conosco se fossi certo di riuscire a convincere questo
buffone che si tratta di uno che non vale la pena di conoscere. Mi mordo la
lingua fino a quando sembra che i denti si incontrino, poi mi rendo conto
che l'automobilista ha notato le lacrime che mi scorrono sul viso e avrei
voglia di urlare. Rimane in silenzio fino a quando si ferma per lasciarmi
scendere dall'auto. «Dovrebbe parlare ai suoi amici di questo Kray. A
quanto sembra ha delle idee che ti fanno pensare.»
Non ho alcuna intenzione di parlare a qualcuno di Kray, soprattutto
ricordando che proprio lui mi aveva detto di farlo. Resto nella camera
d'albergo fino a quando il mal di testa si attenua e mi permette di vedere,
poi scendo nella sala rivenditori. Su molti banconi, invece dei libri, si
trovano visori di realtà virtuale e lettori tascabili di CD-ROM. Non riesco
a trovare nulla di Kray e alcuni dei rivenditori mi osservano attentamente
come se avessi intenzione di rubargli qualcosa, il che mi fa venir voglia di
ribaltargli i banconi. Poi il grassone che porta sempre un sombrero mi
domanda: «Posso fare qualcosa per lei?»
«Penso proprio di no.» Ma la mia risposta non lo fa allontanare e tutto
quello che mi viene in mente è cercare di disorientarlo. «Vedo che non ha
La parola.»
«No, ma Jess ha mandato a ognuno di noi una copia della copertina»,
risponde, tirando fuori un pezzo di cartone con scritto al centro della parte
destra:

JESS KRAY
LA PAROLA

Non riesco a distinguere se la scritta sia in bianco su fondo nero o nera


su bianco, perché non appena mi sposto di un centimetro si trasformano
nel loro contrario. Chiudo gli occhi, vedendo che sarà pubblicato da quegli
stronzi che hanno smesso di inviarmi gli esemplari per la recensione. «Che
cosa vuol dire che ve l'ha mandata? È soltanto uno scrittore.»
«Ha anche ideato la copertina e, siccome vuole che tutti sappiano come
verrà, ha convinto l'editore a stampare un certo numero di prove di
copertina da inviare agli addetti ai lavori.»
Non domando che cosa Kray abbia detto riguardo al suo libro. Quando
Grassone con il Cappellone dice: «Non può tenere gli occhi chiusi per
sempre», ho voglia di chiudere i suoi, soprattutto perché, non appena apro
i miei, lui soggiunge: «Dobbiamo prenotargliene una copia per quando
uscirà?»
«Me ne spediranno una.»
«Ne dubito», commenta, e non saprà mai quanto sia stato vicino a ritro-
varsi con il setto nasale rotto, gli va bene perché devo riportare la mia testa
in camera.
Ma forse non intendeva riferirsi esclusivamente a me. Tornato a casa, te-
lefono al nuovo editore di Kray chiedendo un esemplare per la recensione.
Dico di chiamarmi Jay Battis, il primo nome che mi viene in mente, dico
di essere il direttore della rivista Psycophant e di non aver alcun rapporto
di amicizia con quel cinico di Jeremy Bates. Ma l'impiegata mi risponde
che il libro di Kray non è un libro di fantascienza, è letteratura, e loro non
mandano copie alle riviste specializzate.
Quindi perché me la prendo tanto? Il fatto è che non mi va che
l'impiegata mi tratti come se non fossi all'altezza di Kray, dopo che sono
stato io a fargli più pubblicità di quanta ne meritasse quando ne aveva più
bisogno. Ricordo che mi aveva ringraziato per l'aiuto... intendeva riferirsi a
questo libro? Domando l'indirizzo di Kray alla stronzetta dell'ufficio
pubblicità, e lei vorrebbe che le credessi quando risponde che non lo
sanno. Potrei allora domandarle chi è il suo agente, ma intanto mi è venuto
in mente come ottenere una copia gratuita di quel capolavoro mondiale.
Non vado nel negozio di Kath, perché verrei notato. Il giorno in cui esce
il libro, decido di andare nella più grande libreria di Chelsea. Davanti
all'ingresso c'è un'auto della polizia e gli agenti stanno facendo spostare
dalla vetrina un manifesto che rappresenta una versione ingrandita della
copertina di La parola... sento i poliziotti dire che ha distratto gli
automobilisti. Mi avvicino a un tavolo sul quale è posata una pila di copie
di La parola ed esco immediatamente dal negozio con una copia in mano,
mentre il personale è impegnato con gli agenti. Tuttavia, mi sento come se
Kray mi avesse perdonato per aver rubato il suo libro, e devo fare uno
sforzo enorme per non gettarlo via.
Mi sento osservato anche dopo essermi chiuso a chiave nel mio apparta-
mento. Nascondo la copia sotto il letto mentre preparo un piatto di
spaghetti e apro una lattina di salmone per cena. Poi mi siedo accanto alla
finestra e rimango a guardare le auto della polizia a caccia di criminali e
ascolto le urla e le sirene fino a quando si fa buio. Poi comincio ad avere la
sensazione che quelle auto stiano cercando proprio me, e tiro le tende ma a
quel punto non riesco a farmi venire nient'altro in mente da fare, se non
leggere il libro.
Solo le prime pagine. Già la prospettiva che ce ne siano più di mille mi
fa uscire dai gangheri. Non sopporto i libri i cui dialoghi non sono
virgolettati e i paragrafi iniziano sempre con la parola «e». E comincio ad
avere l'impressione che le parole mi scivolino in testa prima che io le possa
afferrare. Mentre leggo il libro mi sembra di starmene nascosto nella mia
stanza, di essermi chiuso fuori dal mondo. Spingo La parola sotto il letto,
in modo da non vedere la copertina con i suoi trucchetti, e accendo la
radio.
Continuo a pensare a Kray. Spero che, dato che il libro è uscito quel
giorno, sentirò qualcuno farlo a pezzi. Alla radio non trasmettono più
programmi sui libri, ce n'è solo uno che parla di quella che loro chiamano
arte. Stanno commentando la musica di un gruppo rock eschimese, una
mostra di sculture fatte con profilattici usati e un'edizione del Jesus Christ
Superstar in cui tutti gli artisti sono donne su sedie a rotelle; mi do dello
stupido per aver pensato che gli ideatori del programma avessero
considerato Kray degno del loro tempo e do dello stupido al mondo intero
per la sua generale idiozia, quando la presentatrice dice: «E adesso vi
presentiamo un giovane scrittore il cui primo romanzo è stato descritto
come un nuovo genere di libro. Jess Kray, qual è l'intento che sta dietro a
La parola?»
«A ben vedere, penso che sia all'interno del libro, piuttosto che dietro. E
direi che potrebbe trattarsi del più vecchio genere di libro, quello che è
stato dimenticato.»
Inizialmente non credo che si tratti di lui, perché non ha alcun accento.
Mi sento la testa pulsare nello sforzo di ricordare che accento aveva e
quando rinuncio, sento la presentatrice che domanda: «Il narratore
dovrebbe essere identificato con Dio?»
«Ritengo che il narratore dovrebbe essere diverso per ogni persona,
come Dio.»
«Sembra che voglia fare il misterioso.»
«Non pensa che il mistero sia sempre stato il nocciolo di tutto? Il che
non è lo stesso di cercare di nascondersi. Tutti noi abbiamo letto libri in
cui lo scrittore cerca di nascondersi dietro la scrittura, anche se
naturalmente questo non è possibile perché il gesto stesso rivela che si
pensava di essere nascosti...»
«Può farci un esempio?»
«Diciamo che tutti i libri che abbiamo letto sono stati un rifugio, e io
non voglio che il mio lo sia.»
«Tutti i libri? Anche la Bibbia, il Corano?»
«Rappresentano dei tentativi di dire tutto indipendentemente dal fatto di
contenere numerose contraddizioni, inoltre ritengo che in essi vi sia un
errore fondamentale. Forse Shakespeare aveva individuato il problema, ma
non riuscì a risolverlo. Adesso tocca a me.»
Vorrei che la presentatrice perdesse la pazienza, ma lei dice: «Per
riassumere, lei sta cercando di superare Shakespeare, la Bibbia e tutti gli
altri grandi libri».
«Per il mio libro è stata usata tanta carta. Sono dell'idea che se uno non è
in grado di dare al mondo più di quanto gli porti via, non dovrebbe
nemmeno vivere.»
«Proprio come dice a un certo punto di La parola. Grazie, Jess Kray.»
Dopodiché la presentatrice si rivolge a una cretica... ovvero una cretina che
pensa di essere una critica, come tutte quelle che attaccano le mie riviste...
chiedendo la sua opinione su Kray e sul libro. Quando la cretica spiega
che, secondo lei, il narratore potrebbe essere Cristo, dato che in una scena
vede la luce dietro una montagna attraverso i fori nelle sue mani, mi metto
a urlare contro la radio e continuo per un po' prima di spegnerla. Mi infilo
a letto e continuo ad avere la sensazione che c'è una luce accanto a me, la
vedrei se solo aprissi gli occh. Li tengo chiusi per tutta la notte e mi
sveglio con l'impressione che una parte del libro di Kray si sia insinuata
nelle profondità della mia mente.

Per la prima volta da che ricordo, non vedo l'ora che cominci la mia
giornata in banca. Potrei perfino essere in grado di sopportare la gente al di
qua dello sportello senza digrignare i denti. Ma quel pomeriggio Mag, una
delle ragazze di mezza età, entra nella stanza con un giornale della sera e
quasi me lo sbatte in faccia come se fosse colpa mia. «Guarda qui. Quando
la finiranno? Non so dove andrà a finire il mondo.»

CHIESTA LA CENSURA PER UN LIBRO «BLASFEMO»

Non voglio leggere altro, tuttavia afferro il giornale. L'articolo dice che
durante il programma radiofonico che ho ascoltato, Kray aveva affermato
che il suo libro era migliore della Bibbia e che quindi la gente avrebbe
fatto meglio a leggere la sua opera. Un vescovo si è rivolto alla polizia
presentando una denuncia e una setta chiamata Cristo Risorgerà invita tutti
i cristiani a distruggere La parola ovunque lo trovino. Anche se non è sulla
strada di casa, faccio in modo di passare davanti al negozio in cui ho
rubato la mia copia. Al terzo giorno, una mezza dozzina di Zelanti, armati
di cartelloni con la scritta CRISTO NON KRAY stanno manifestando
davanti al negozio.
A quanto pare la polizia non ritiene che valga la pena di perderci molto
tempo, e io spero che il gruppetto si scoraggi presto, perché in questo
modo stanno facendo pubblicità a Kray. Ma il giorno dopo sono diventati
otto, e quello successivo dodici, e durante il fine settimana molti
ammiratori di Kray si mettono a leggere La parola ai dimostranti per fargli
comprendere quanto si stiano sbagliando. Ho la sensazione di non aver
avuto nemmeno il tempo di respirare e già quasi tutte le librerie del paese
si ritrovano davanti alle vetrine un gruppetto di buffoni che continuano a
leggersi a vicenda La parola, la Bibbia o il Corano. A quel punto Kray
decide di presentarsi davanti a tutte le librerie per parlare con i dimostranti.
Continuo ad ascoltare tutti i notiziari per vedere se finalmente è passato
nel dimenticatoio, ma non ho tanta fortuna. Per tutto il tempo che rimango
in camera, sento la presenza del libro nella stanza. Lo getterei via, ma
qualcuno potrebbe finire per leggerlo... potrei farlo a pezzi e bruciarlo, ma
allora sarei come quelli di Cristo Risorgerà. Il giorno in cui, in banca,
all'ora di pranzo tutti parlano del fatto che Kray è in città, mi scervello per
cercare qualcos'altro da fare, qualsiasi cosa piuttosto che trovarmi in
mezzo alla folla. E se fosse proprio questa l'occasione in cui verrà
fermato? Mi piacereebbe proprio assistere alla scena, e così vado anch'io.
Devono esserci almeno un centinaio di persone radunate fuori dalla
libreria. Qualcuno ha dato a Kray una sedia sulla quale salire, ma Dio solo
sa chi è stato a fare in modo che un raggio di sole lo illuminasse. Sta
rispondendo a una domanda: «Se ascolta la registrazione della mia
intervista, si renderà conto che non ho mai detto che il mio libro fosse
migliore della Bibbia. Non sono sicuro di che cosa significhi sicuro in quel
contesto. Spero, solo che il mio libro contenga tutti i grandi libri».
E sorride, e io rimango in attesa che qualcuno gli salti addosso, ma
nessuno si fa avanti, neanche per un attacco verbale. Sento che la mia voce
si fa faticosamente largo per uscire dalla bocca e tutto quello che mi viene
in mente è la tipica domanda che i cervelli in pappa porgono agli scrittori
durante i congressi: «Dove ha trovato quelle idee?»
Sono così tanti quelli che si voltano a fissarmi, che credo di aver fatto la
domanda che Kray non voleva sentire. Ho la sensazione che mi stia osser-
vando con più occhi di un ragno, di un intero nido di ragni... ancora di più
di quante sono le persone che stringono in mano una copia della sua
storiella. Kray guarda nella mia direzione in generale, cercando di farmi
credere che non mi ha riconosciuto o che non sono degno di essere
riconosciuto. «Sono nel mio libro.»
Vorrei domandargli perché finge di non conoscermi, ma non sono certo
che suonerebbe come un'accusa, e la possibilità che alla domanda venga
dato un altro significato mi fa stridere i denti dall'orrore. Ma non intendo
accettare una delle sue facili risposte e grido: «Chi sono nel libro?»
L'ammiratrice di Kray più vicina smette di riprenderlo con una cinepresa
e si volta verso di me. «Le sue idee, voleva dire. Si stava parlando delle
sue idee.»
Non mi va che mi si dica di che cosa stavamo parlando, soprattutto se a
farlo è una che non sa nemmeno pettinarsi e tenere chiusa la bocca, e mi
chiedo se non stia cercando di impedirmi di fare la domanda che non mi
ero accorto avesse tanta importanza. «Chi ha conosciuto in Florida?»
grido.
Kray punta lo sguardo su di me ed è come se il suo sorriso si stesse inci-
dendo nella mia testa. «Alcuni anziani le cui vecchie idee stavano per
andare perse. Sono nel mio libro. Ci siamo tutti nei libri che contano.»
Forse nota che sto per chiedergli dei tre libri che vorrebbe dimenticassi-
mo, perché soggiunge: «Come stavo per dire, chiedo di rispettarci l'un l'al-
tro. Concedetemi di non criticare La parola finché non l'avrete letto. Se
qualcuno si sentirà danneggiato dal mio libro, desidero esserne informato».
Potrei essere scomparso o non esserci mai stato. Quando smette di parla-
re, in attesa di una reazione, è come se il suo sorriso si fosse incollato sulla
mia bocca. Un mormorio percorre la folla, ma nessuno sembra voler porre
delle domande. Tutte le proteste sono state ingoiate dalla vaghezza. A quel
punto due sorveglianti si staccano dalla folla e scortano Kray fino a una
limousine che si è fermata proprio dietro di me. Allungo un braccio con
l'intenzione di toccarlo e... non so che cosa voglio, ma uno dei guardiani
mi spinge di lato. Scorgo la schiena di Kray, poi la limousine si allontana
rapidamente, tutti si mettono a parlare fra di loro e io devo prendermi il
pomeriggio libero perché non riesco nemmeno a vedere il denaro in banca.
Ogni volta che l'emicrania si attenua, la mia testa si riempie di pensieri
su Kray e sul suo libro. Quando, nell'oscurità, percepisco la presenza del
libro accanto a me, non posso fare a meno di esprimere un desiderio...
auguro all'autore e alla sua opera di finire all'inferno e di restarci fintanto
che dura il mio mal di testa. È la prima volta che desidero credere
nell'inferno. Non che io sia arrivato al punto di credere che i desideri si
realizzino, ma certo mi sento meglio quando alla radio dicono che i
progetti di Kray non sono andati come lui voleva. Alcuni leader
musulmani lo accusano di distogliere dall'Islam le pecorelle del loro
gregge.
Continuo a leggere i giornali e ad ascoltare i notiziari nel caso qualche
ayatollah abbia messo una taglia sulla sua testa. Alcune librerie di città
infestate da musulmani o nascondono le copie del libro oppure le
rispediscono alla casa editrice, e io spero ardentemente che il panico
continui a diffondersi. Ma subito dopo viene annunciato che Kray si
incontrerà pubblicamente con i leader musulmani e discuterà La parola
con loro.
Un programma notturno sulle cosiddette arti trasmetterà la discussione
dal vivo. Non assisto alla trasmissione perché non conosco nessuno che mi
permetta di guardare il suo televisore, ma mentre sta andando in onda
spengo la luce e mi siedo accanto alla finestra. Fuori sono sempre più
numerose le finestre che si illuminano, come se la città pullulasse di gente
desiderosa di sapere che cosa accadrà a Kray. Apro la finestra e mi metto
in ascolto, pensando di sentire le grida dei musulmani e forse anche gli
strilli di Kray, ma non c'è mai stata maggior tranquillità. Quando il silenzio
comincia a far sì che la mia testa si riempia di pensieri che non voglio
avere, me ne vado a letto e sogno Kray su una croce. Ma la mattina dopo,
in banca tutti parlano di come i musulmani alla fine siano passati dalla
parte di Kray e come uno di loro, un professore universitario, tradurrà La
parola nella lingua che parlano i musulmani. Qualunque essa sia.
E tutti quanti, perfino Mag che non sapeva che cosa ne sarebbe stato del
mondo con tipi come Kray, dicharano di ammirarlo, di essersi innamorati
di lui e del modo in cui si era comportato, e che avrebbero voluto andarlo a
vedere quando era venuto in città. Quando affermo di avere una copia di
La parola e di non riuscire a leggerla, mi guardano pieni di compatimento.
Tre di loro mi chiedono di prestargli il libro e io rispondo che possono
andare a comprarselo, visto che non ho mai pagato la mia copia, dopodiché
fortunatamente nessuno mi parla più molto. Continuo a sentire che parlano
di Kray e mi rendo conto che pensano a lui; durante l'ora di pranzo due dei
miei colleghi comprano La parola, e tutti gli altri, perfino il direttore,
vogliono dargli un'occhiata. Sono circondato da Kray, soffocato da una
massa di lui. Comincio a chiedermi se, a parte me, c'è qualcuno al mondo
che sa chi è realmente. Finalmente la banca chiude e quando esco
dall'edificio, due seguaci della setta Cristo Risorgerà mi stanno aspettando.
Sono entrambi vestiti come impiegati statali e hanno l'aria di trascorrere
metà della vita a lavarsi la faccia e a lucidare le croci che gli pendono dal
collo. Si fanno avanti contemporaneamente non appena esco alla luce del
sole e la ragazza mi dice: «Lei lo conosceva».
«Io, no, chi? Conoscevo chi?»
Il suo ragazzo, o chiunque sia, mi tocca il braccio come fosse un segnale
segreto. «Abbiamo visto come gli ha fatto confessare chi aveva
incontrato.»
«Sediamoci da qualche parte e parliamo», mi invita la ragazza.
Ogni volta che si muovono, le croci mandano dei bagliori, finché sento
gli occhi come un intero cimitero di croci bruciate. Perlomeno questa
coppia non ha accettato ciecamente La parola e forse parlare con loro
potrebbe essere meglio che restarmene chiuso in camera. Troviamo una
panchina che non è piena di disoccupati, la liberiamo dei cartocci di
McDonald's e i seguaci della setta si siedono accanto a me, uno da una
parte e una dall'altra, anche se mi ero messo quasi in fondo alla panchina.
«Era un suo amico?» domanda la ragazza.
«A quanto pare lui vuole essere amico di tutti», rispondo.
«Non amico di Dio.»
Non importa chi è stato a pronunciare questa frase; poteva essere stato o
l'uno o l'altra. «Allora, quanto ne sa di ciò che è successo in Florida?»
«Solo quello che ha detto lui quando gliel'ho domandato.»
«Lei dev'essere sincero con noi. Non c'è nulla che possiamo fare a
riguardo se non abbiamo fiducia nella verità.»
«Perché no?»
Questo li lascia sconcertati, perché è ovvio che non sono abituati a
pensare. Poi si riprendono: «Abbiamo bisogno di sapere tutto ciò che
riusciamo a scoprire su di lui».
«Chi è noi?»
«Pensiamo che lei potrebbe essere uno di noi. La pensiamo nello stesso
modo, ce ne siamo accorti.»
Ma questo è proprio quello che non farò mai con nessuno. Sto quasi per
balzare in piedi, appoggiandomi sulle loro teste fresche di shampoo in
modo che non possano seguirmi, ma voglio che mi dicano ciò che sanno di
Kray che io non so. «Forse è per questo che gli ho domandato della
Florida. So soltanto che l'ultima volta che l'ho incontrato, stava per andarci
e, quando è tornato, ha scritto La parola. Allora, che cosa è successo?»
Si scambiano un'occhiata, poi tornano a fissarmi. «Ci sono persone che
sono scese da una montagna quasi cento anni fa. Sappiamo che ha
incontrato queste persone, o qualcuno a loro collegato. Questa dev'essere
l'origine della sua forza. Nient'altro gli avrebbe permesso di averla vinta
sull'Islam.»
Non avrei mai creduto che qualcuno potesse dire cose più insensate di
Kray. «Aveva lo stesso fascino anche quando era soltanto un appassionato
di libri di fantasia. Ha una dote particolare per rendersi simpatico a tutti
quelli che conosce e per promuovere se stesso.»
«Dev'essere in questo modo che è riuscito ad apprendere il segreto
giunto dalla montagna. Che cos'altro è in grado di dirci?»
Mi va benissimo aumentare la loro diffidenza nei confronti di Kray, ma
non ho intenzione di fargli credere che ho cercato di aiutarli. «Nulla»,
rispondo, e mi alzo.
Affondano contemporaneamente le mani nelle tasche delle giacche alla
ricerca di opuscoli. «Prenda questi, per favore. Il nostro indirizzo è sul
retro, nel caso volesse mettersi in contatto con noi.»
Potrei rispondere che questo non succederà mai e accartocciargli i loro
foglietti sulla faccia, ma fintante che stringerò gli opuscoli in mano,
nessuno mi potrà scambiare per un ammiratore di Jess Kray. A casa, gli do
un'occhiata e mi rendo conto che sono proprio stupidi come pensavo, pieni
di citazioni tratte dalla Bibbia sull'Apocalisse e l'anti Cristo e l'antigelo e
Zio solo sa che cos'altro. Li infilo sotto il letto e cerco di credere di aver
aiutato i seguaci della setta a incastrare Kray. Continuo a sperarlo fin
quando non vedo la sua fotografia sulla copertina della rivista Time.
A quel punto metà della banca ha letto La parola. Li ho visti ridere o
piangere o restare assolutamente immobili mentre lo leggono durante le
pause e, una volta finito, sembra che abbiano un segreto che vorrebbero
rivelare a tutti. Io non chiedo nulla. Mi sono quasi masticato la lingua.
Chiunque fa domande sul libro, si sente rispondere «leggilo», oppure «devi
scoprirlo da solo», e mi chiedo se nel libro ci sia scritto di far in modo che
venga letto da più persone possibili, come un tempo avevano scritto sui
poster di non svelare la fine dei film. Continuo a non toccare la mia copia
di La parola, ma un giorno mi intrufolo in una libreria per leggere l'ultima
pagina. Naturalmente non ha alcun senso, ma ho l'impressione che se
leggessi la pagina precedente comincerei a comprendere qualcosa, perché
forse il libro può essere letto anche tornando indietro, oltre che andando
avanti. Getto il libro sul bancone e mi precipito fuori dal negozio.
Perlomeno hanno tolto La parola dalla vetrina per far spazio a un altro
chilo di grasso in giacca e cravatta, ma continuo a vedere gente che lo
legge per strada. Ogni volta che vedo qualcosa mandare un bagliore in
mezzo a una folla, temo che sia un'altra copia che cerca di attrarre
l'attenzione su di sé. A casa, sento che sta cominciando a circondarmi là
fuori, nell'oscurità, e mi dico che ne ho una copia che nessuno sta
leggendo. Ma devo prendere il treno e andare a fare delle passeggiate in
campagna per allontanarmi dal libro... è l'unico modo di essere certo che
nessuno lo sta leggendo nelle vicinanze. E quando torno da una di quelle
gite, lo vedo che mi osserva dalla bancarella della stazione.
Sembra un poster che invita ad arruolarsi nel suo esercito e che non ha
bisogno di indicarti con un dito. Mentre fingo di sfogliare la rivista, faccio
cadere tutte le copie di Time sul pavimento della biglietteria, tranne quella
che mi infilo nella parte anteriore dei pantaloni. Durante tutto il tragitto
verso casa, sento il mio pene che si strofina sulla sua bocca, e una volta in
camera mia, mi faccio una bella risata vedendo la macchia che ho lasciato
sulla sua faccia, prima di mettermi a cercare le facce che parlano di lui.
Il titolo dice CHE COS'È LA PAROLA? scritto con gli stessi caratteri
usati per la copertina del libro. Forse nell'articolo troverò ciò di cui ho
bisogno per togliermelo per sempre dalla mente. Dice solo di come abbia
comprato una casa per i suoi genitori in Florida con una parte dell'anticipo
ricevuto, e di come il libro sia in corso di traduzione in tredici lingue, e io
comincio a vomitare. Poi la scribacchina cerca di spiegare che cosa rende
La parola un tale fenomeno editoriale, come lo definisce. E quando sono
quasi diventato cieco a furia di leggere quello che ha scritto, giungo alla
conclusione che si tratti di un altro dei trucchi di Kray.
Dice tropppo e niente. La giornalista non sa se la parola è il libro o
l'autore o le parole che sembrano essere state inserite per errore. Kray le ha
detto che se un libro non è linguaggio, npn è nulla. «Di conseguenza, forse
dovremmo prenderlo in, scusate il bisticcio, parola.» Kray aveva detto che
si limitava a mettere le parole sulla carta e che toccava a ogni lettore
decidere qual era il loro significato. Così la giornalista aveva messo
insieme un branco di cretiche, di tipe fasulle sempre pronte a dire la loro e
di scrittrici di grido così che potessero discutere La parola.
Se fossero stati presenti, gli avrei spiaccicato la faccia l'una contro
l'altra. Era il libro più divertente che avesse mai letto, diceva qualcuna, il
più commovente diceva un'altra, e tutte concordavano con entrambe. Una
donna paragonò il romanzo a I Racconti di Canterbury, e a quel punto
comincia una discussione sul fatto che fosse un personaggio a raccontare
la storia, o diversi, o se invece tutti i personaggi fossero la stessa persona
che agisce in un particolare stato mentale oppure se si tratta di un nuovo
tipo di relazione tra tutti loro. Una professoressa fa notare che la Bibbia è
stata scritta da molte persone, ma non ci si accorge di questo quando se ne
legge una traduzione mentre, secondo lei, era possibile riconoscere
quando, nel libro di Kray, le voci cambiavano, «così come tante sono le
voci delle persone che comprendono il libro». Questo dà loro lo spunto per
iniziare a parlare dell'idea contenuta ne La parola, secondo la quale
nell'era biblica la gente viveva più a lungo perché, da un punto di vista
temporale, era più vicina all'origine, come se questo spiegasse per quale
motivo oggigiorno la gente vive più a lungo o tutto quello che ci accade,
con l'universo che va alla deriva, avvicinandosi allo stato in cui era prima
che si formasse. Poi una tira fuori quella stronzata sulla gente che
commette più peccati per fare in modo che le loro azioni riportino alla
crocifissione, altrimenti Cristo non tornerebbe, oppure il libro intende dire
che gli esseri umani devono sapere quando fermarsi prima di gettare lo
scompiglio nell'equilibrio mondiale, ma nel frattempo, a questo punto devo
far scorrere un dito sotto le parole e leggerle a voce alta, anche se questo
mi fa peggiorare il mal di testa. L'articolo continua per diverse altre
colonne nelle quali le esperte assicurano che se si legge La parola a voce
alta ci si trova davanti a un testo di poesia e alcuni passaggi suoneranno
quasi come musica, e come nel libro vi siano sviluppi delle idee tratte da
Sufismo, Upanishad, Buddismo, Baha'i, Cabala, Gnosticismo, nonché da
miti greci, romani e altri ancora più antichi; continuo a scorrere le parole
con l'unghia che graffia la carta fino a quando giungo alla fine dell'articolo
con qualcuno che dice: «Ritengo che l'essenza di questo libro possa
rappresentare il necessario mito dei nostri tempi». E tutti concordano, e io
faccio a pezzi la rivista e cerco di dormire.
Mi sembra di sentire ancora il loro chiacchiericcio, come se Kray si ser-
visse delle loro voci per fare in modo che la gente decida di leggere il libro
per scoprire di che cosa stavano vaneggiando. Le sento anche la mattina
successiva mentre mi dirigo verso la banca, e mi chiedo quante di loro
verranno citate dall'editore sulla copertina dell'edizione economica, e a
quel punto mi rendo conto che aspetto già con terrore l'uscita dell'edizione
economica perché ci sarà molta più gente che se la potrà permettere. Sono
terrorizzato all'idea di trovarmi circondato da gente che ha in testa solo
Kray, perché a quel punto il mondo sembrerà ancor di più come un luogo
in cui mi trovo a vagare per errore. Mi viene quasi da ridere pensando che
preferirei non avere la conferma che la gente è stupida come ho sempre
pensato.

Quando i poster che annunciano l'uscita dell'edizione economica comin-


ciano ad apparire sotto le pensiline degli autobus o sui riquadri per le
affissioni, sono costretto a camminare con gli occhi semichiusi. L'illusione
ottica della copertina non è stata riportata anche sui poster, ma questo
significa che gli editori sono convinti che basteranno titolo e nome per
vendere il libro. In banca tutti continuano a chiedermi se non mi sento
bene, e alla fine rispondo che nessuno mi preparerà più la cena
domenicale, dato che mia madre ha avuto un infarto ed è morta in
ospedale, ma questi sono solo affari miei e comunque non riesco quasi a
mangiare aspettando l'uscita dell'edizione economica.
Il giorno in cui ne scorgo una copia, c'è una marcia di protesta di pazzi
che chiedono la riapertura degli ospedali dai quali sono usciti e, in mezzo a
tutta questa confusione, una donna se ne sta seduta su una panchina a
leggere La parola, come se non vedesse né sentisse nulla di tutto quello
che accade intorno a lei. Poi l'uomo che sta aspettando si siede accanto a
lei, le preme la bocca umida sulla guancia, poi allunga il collo per vedere
che cosa sta leggendo, e vedo che anche lui comincia a leggere come se
uno venisse attratto comunque, anche senza aver neppure aperto il libro.
Quando mi precipito in banca, una delle ragazze mi chiede se so quando
uscirà l'edizione economica e il fatto che io risponda di no mi fa sentire
come se cercassi di fermare qualcosa che non può essere fermato.
O forse sono l'unico che può farlo? Passo l'intera giornata cercando di
ricordare dove ho messo l'intervista che gli avevo fatto. Nonostante che
qualcuno abbia rubato tutte le copie di RMM a Contamination, dovrei
avere ancora il nastro registrato. Frugo sotto i vestiti, i piatti, le lattine e
anche dentro le lattine, sotto le pagine della rivista che ho fatto a pezzi,
sotto gli asciugamani che ho ammonticchiato in un angolo del pavimento e
fra i pezzi di vetro dei bicchieri che ho fracassato nel lavandino.
Non lo trovo da nessuna parte. Mia madre deve averlo gettato via una
delle volte in cui è venuta a pulirmi la stanza. Comincio a urlare insultii
contro di lei fino a quando resto senza voce, e nel frattempo ho gettato
dalla finestra tutto ciò che può essere spostato. Dato che stanno demolendo
la casa di fronte alla mia, qualche detrito in più non farà alcuna differenza;
inoltre, i topi di fogna che occupano l'edificio in cui vivo devono essere
troppo spaventati per chiedermi che cosa sto facendo, a meno che non
siano tutti presi dalla lettura de La parola.
Alla fine della settimana, due delle schiave che lavorano in banca hanno
una copia dell'edizione economica e sono pronte a prestarla a chiunque la
chieda. E non so quando hanno cominciato a circondarmi con le parole di
Kray. Per la maggior parte del tempo... Zio, tutto il tempo... so che
ripetono parole dette da qualcun altro ma dopo un po' noto che hanno
cominciato a parlare in modo da far capire che stanno citando frasi altrui.
Per esempio, la ragazza allo sportello accanto al mio si mette a parlare di
un misterioso omicidio che ha visto alla televisione e quella accanto a lei
commenta: «Il mistero è intorno a noi e in noi», e tutte e due scoppiano a
ridere come se condividessero un segreto. Oppure una chiede che ore sono
e la sua comprimaria in questa farsa risponde: «L'ora è quella che decidi
tu». E una serie di stronzate del genere: «Guarda ciò che c'è dietro il
mondo», oppure: «Sei l'ombra dell'infinito», e questa è stata la frase che ha
detto il direttore come se volesse superare tutte le altre citazioni. E prima
che io me ne renda conto, almeno metà delle schiave non dice più:
«Buongiorno», ma: «Cos'è la parola?»
Il che trasforma il mondo in un grande mal di testa. La gente ripete
questa frase anche in strada e quando si presenta al mio sportello, al punto
che mi chiedo se non ho sbagliato prendendomela con mia madre per aver
perso il nastro, se non sia stato qualcun altro a introdursi nella mia camera.
Ma non riesco più a controllarmi quando un'altra frasetta comincia a
radicarsi nella mente delle persone come uno slogan... e cioè quando sento
una delle ragazze rispondere a un'altra: «Come direbbe Kray».
«C'è qualche argomento su cui non ha nulla da dire?»
Penso di parlare in modo del tutto normale, ma le due ragazze si tappano
le orecchie, prima di scrollare la testa e di rispondere all'unisono, guardan-
domi come se fossero dispiaciute per me: «No».
«Zio, ascoltare voi è come ascoltare lui.»
«Forse dovresti farlo.»
«Forse lui lo farà.»
«Forse lo faranno tutti.»
«Forse in futuro.»
«Come direbbe Kray.»
«Sai che sei l'unico a non averlo letto, Jeremy?»
«Ringrazio Zio se questo serve a restare diverso.»
«A meno che noi non troviamo noi stessi in tutti gli altri...»
«Come direbbe quello stronzo di Kray.»
Una donna che sta compilando un assegno rimane senza fiato, un'altra
cliente si mette a schioccare la lingua come un pappagallo, e sono certo
che disapprovano con forza il fatto che osi insultare il loro idolo. Nessuna
delle schiave mi parla più per il resto della giornata, il che sarebbe un
sollievo se non continuassi a percepire che pensano le parole di Kray
anche quando non le pronunciano a voce alta. Presumo che il direttore non
mi abbia sentito, dato che si trovava nel suo ufficio per spiegare a
qualcuno che la banca sarebbe rientrata in possesso della loro casa. Ma il
lunedì mattina mi manda a chiamare e mi dice: «Come probabilmente
saprà, si è parlato di un'ulteriore razionalizzazione».
Aveva detto qualcos'altro anche prima, ma io stavo cercando di vedere
dove aveva nascosto La parola. Perlomeno non parla come Kray. «Mi
scusi, signor Bates, ma c'è qualche problema di cui pensa dovrei essere
informato?»
«Riguardo a che cosa?»
«Vorrei darle la possibilità di giustificare il suo comportamento. Come
lei sa, la banca desidera che tutto il suo personale sia vestito in modo
impeccabile e abbia un aspetto decoroso.»
Incrocio le braccia cercando di nascondere qualsiasi cosa di cui possa
eventualmente lamentarsi e sento le mie ascelle fare ciacchete e me stesso
dire: «Pensavo che lei dovesse vedere se stesso in me».
«Ma questo non ha mai significato che potesse servire come scusa. Non
ha davvero nient'altro da dire?»
Non riesco proprio a credere di aver cercato di difendermi citando Kray.
Mi mordo la lingua finché mi fa così male che sono costretto a tirarla
fuori. «Le consiglierei di farsi aiutare da qualcuno, signor Bates»,
suggerisce il direttore. «Speravo di poterle dare la notizia in modo meno
traumatico, ma devo dire che non ne vedo il motivo. A causa della
situazione economica, mi è stato chiesto di proporre altri tagli del
personale e lei converrà con me che il suo atteggiamento non ha fatto che
confermarmi nella mia decisione.»
«Kray non ha nulla da dire su come rimettere in sesto l'economia?»
«Credo che lo faccia su basi mondiali, ma non riesco a vedere come que-
sto possa essere d'aiuto nella situazione che stiamo trattando.»
Il direttore comincia ad avere uno sguardo vagamente comprensivo...
probabilmente pensa che, dopotutto, sono anch'io uno di loro e questo non
mi va affatto. «Se ci provasse, gli ficcherei il libro su da dove è venuto.»
Il direttore fa una faccia come se lo avessi insultato personalmente.
«Non vedo l'utilità di prolungare questa conversazione. Se intende
continuare a lavorare durante il periodo di preavviso, le devo chiedere di
prendersi maggiore cura del suo abbigliamento e, mi perdoni la
franchezza, di farsi anche un bagno.»
«Quante volte dice Kray che devo farne uno?» La mia intenzione è di
essere sarcastico, ma se per caso venisse presa come una domanda seria?
«Non che me ne freghi qualcosa», soggiungo, anche se non mi sembra
abbastanza. «Anzi, con il suo libro mi ci pulirò il culo. E lo stesso vale per
il suo preavviso, perché non ho più alcuna voglia di vedere nessuno di voi
né chiunque abbia nella sua testa spazio per quel, quel...» non riesco a
trovare un insulto abbastanza pesante per Kray, ma non ha importanza,
perché nel frattempo esco dall'ufficio, camminando all'indietro e dicendo:
«Tanto tutti sanno che so benissimo di essere stato licenziato per quello
che ho detto di lui», e alzo la voce in modo che mi sentano anche se si
sono tappati le orecchie con le mani. Poi, in qualche modo, riesco a tornare
a casa, a infilare le chiavi nella toppa e a gettarmi sul letto.

Nella mia camera non vi è quasi nient'altro tranne me e La parola.


Quindi ho ancora un lavoro da compiere, e cioè restarmene qui per fare in
modo che questa sia la copia che nessuno legge. Continuo a farlo fino a
quando la banca mi manda un assegno per la somma che, probabilmente,
speravano di non dovermi, e così mi ricordo di tutto il denaro che ho
dimenticato di portarmi via quando me ne sono andato dalla banca.
Aspetto che aprano. Inizialmente penso che le schiave fingano di non
conoscermi, poi mi chiedo se non siano troppo occupate a pensare i
pensieri di Kray. Una delle schiave prende il mio assegno e la nota di
prelevamento, si allontana e rimane via più a lungo di quanto perfino una
come lei possa impiegarci, poi vedo il manager sporgere la testa dal suo
ufficio e restare a osservarmi mentre strappo un opuscolo patinato su come
i clienti possono aiutare la banca ad aiutare il Terzo Mondo. Gli sento dire
all'impiegata di darmi ciò che voglio, poi ritrae la testa come una tartaruga
che abbia ricevuto un calcio e con stupore mi rendo conto che ha paura di
ciò che io sono. Ma che cosa sono?
La schiava infila tutto il mio denaro in una busta, che lascia poi cadere
nella mangiatoia sotto lo sportello, quella mangiatoia che mi ha sempre la-
sciato in dubbio su quale lato si trovavano i maiali. Mi ficco la busta sotto
l'ascella e mi lascio alle spalle anni della mia vita. Sto tornando a casa più
in fretta possibile, attraverso strade in cui ogni negozio ha una svendita in
corso oppure sta chiudendo, o entrambe le cose, quando vedo il viso di
Kray.
È disegnato sulla copertina di quella che è ormai l'unica rivista di libri
pubblicata. Devo scoprire che cosa Kray stia tramando, ma con il denaro
sotto il braccio come un cancro, non sono certo di riuscire a sgraffignare la
rivista senza essere notato. Entro nel negozio e afferro la rivista che sta
sullo scaffale, il fatto che la gente indietreggi nel vedermi mi fa sentire più
forte.
Sono appena riuscito a leggere che La parola si avvii a superare la
Bibbia quanto a copie vendute in tutto il mondo, di come un gruppo di
accademici abbia asserito che il libro contiene un messaggio personale per
ogni individuo e che chiunque non sia in grado di leggere dovrebbe farselo
raccontare da qualcun altro, che un pallone gonfiato che vorrebbe sembrare
un poliziotto mi ordina di comprare la rivista oppure di andarmene. Ho
letto abbastanza e ho quanto mi serve. Il denaro mi darà tempo a
sufficienza per fare ciò che devo.
Solo che non so di che cosa si tratta. Più a lungo sto chiuso in camera,
più sono tentato di cercare un suggerimento in La parola. Sta cercando di
farmi credere che non sia possibile trovare aiuto al di fuori delle sue pagi-
ne, ma io ho qualcos'altro da leggere. Trovo gli opuscoli di Cristo Risorge-
rà che La parola ha fatto del suo meglio per strappare e impedirmi di
trovare, e quando finalmente riesco a tirar fuori la mia faccia e gli opuscoli
dalla polvere che si è accumulata sotto il letto, riesco in qualche modo a
lisciare la carta e a leggere l'indirizzo.
Si trova in una zona malfamata, nelle cui strade i poliziotti circolano
solo su auto blindate, semmai fanno un giro da quelle parti, dove non ci
sono telecamere e solo di rado qualche elicottero per controllare i passanti.
È ormai buio. Negli androni degli edifici, vi sono degli individui che se la
prendono con tizi come loro, quando non se ne vanno, raggnippati in ban-
de, a caccia di persone più deboli con cui prendersela. Ho paura che possa-
no appiccarmi il fuoco perché vedo alcuni cani fare a pezzi qualcosa di
bruciacchiato che ha l'aria di essere stato qualcuno, ma evidentemente nes-
suno pensa che io valga abbastanza per prendersela con me, e sono loro
che ci perdono.
Il tempio della setta si trova nel bel mezzo di un isolato composto da
case centenarie, alcune delle quali hanno un tetto. In una casa vi sono dei
bambini che corrono tenendo un gatto per le zampe, ma non vedo nessun
altro. Mentre salgo fino all'uscio del tempio, sento i gradini che traballano
e scricchiolano sotto i miei piedi e devo aggrapparmi al batacchio per ritro-
vare l'equilibrio, anche se questo mi dà la sensazione che le mie dita stiano
andando in frantumi. Sto per sbattere il batacchio contro la targa arruggini-
ta quando un fuoco acceso in una casa in rovina dall'altra parte della strada
illumina la stanza al di là della finestra accanto a me.
È piena di sedie sistemate intorno a un tavolo su cui sono posati alcuni
opuscoli. In quel momento il fuoco manda bagliori più vivi e vedo che non
si tratta di opuscoli ammonticchiati uno sull'altro, ma di due copie de La
parola. I libri cominciano a tremolare come due blocchi di gelatina
avanzando sul tavolo verso di me e, nel tentativo di lasciarlo andare, sono
quasi sul punto di strappare il batacchio dalla porta. Ruzzolo giù per le
scale, poi mi metto a correre e non mi fermo fino a quando non mi ritrovo
chiuso a chiave nella mia camera.
Rimango all'erta tutta la notte, nel caso fossi stato seguito. Anche
quando l'ultimo televisore viene spento, non riesco ad addormentarmi. E
quando, con l'alba, arrivano i camion della nettezza urbana per ripulire le
strade di sangue, vomito e cartucce vuote, non voglio dormire perché mi
sono ricordato che i seguaci della setta Cristo Risorgerà non sono gli unici
a sapere che cosa era in realtà Kray.
Esco quando le strade non pullulano ancora di gente... quando gli
assistiti sono andati a lavorare e i mendicanti stanno contando le monetine.
Quando raggiungo la libreria Everybody's Fantasy sembra che i libri in
vetrina e l'insegna TUTTO A METÀ PREZZO siano lì da mesi. Le righe
di sporco sulla vetrina mi impediscono di leggere il dorso dei libri sullo
scaffale dove dovrebbe trovarsi quello di Kray. Mi nascondo dall'altra
parte della strada, in una casa distrutta da un incendio, e aspetto che una
donna accompagnata da tre doberman si allontani in modo da potermi
introdurre nel negozio, spaccandone la porta a vetri con un mattone,
quando vedo arrivare Kath a bordo di un'auto, i cui pezzi graffiano la
strada. Non sembra interessato al motivo che mi ha portato lì né ad altro,
se non a vendere i libri, e così gli dico: «Sei la mia ultima speranza».
«Va bene, okay.» Gli ci vogliono diversi secondi prima che riesca a do-
mandare: «Che cosa?»
«Hai alcuni libri che voglio comprare.»
«Davvero?» Riesce a mettere insieme tutta la vitalità di cui dispone e co-
mincia a vagare per il negozio, raccogliendo i libri sparsi sul pavimento.
«Eccoli qui.»
Penso che abbia capito quali libri voglio, finché mi rendo conto che lui
si riferisce a tutto ciò che hanno in negozio. Mi dirigo verso gli scaffali,
quando vedo La parola, La parola, La parola... «E dov'è Un Tocco di
Altro» mi metto quasi a gridare.
«Non lo conosco.»
«Certo che lo conosci. Il primo romanzo di Jess Kray e gli altri due che
sono usciti insieme. Li ha autografati tutti, anche se tu non volevi. Non
puoi averli venduti, delle schifezze come quelle.»
«Non posso?» Kath si gratta la testa come se cercasse di cavarne fuori i
pensieri. «No, me lo ricordo. Lui ha comprato tutte le copie. Dev'essere
stato prima che uscisse La parola.»
«Capisci che cosa aveva intenzione di fare, vero?»
«Voleva essere gentile. Si sentiva in colpa per averci lasciato con tutti
quei libri visto che non è venuto nessuno, e così li ha ricomprati appena se
lo è potuto permettere. Vorrei che li avessimo ancora. Non ho mai visto da
nessuna parte che li vendessero con lo sconto.»
«È perché Kray non vuole che si venga a sapere che li ha scritti, non te
ne rendi conto? Altrimenti tutti comincerebbero a chiedersi come è
possibile che un tipo del genere abbia scritto l'opera che lui vuole che tutti
comprino.»
«Se dici questo, vuol dire che non hai letto La parola. Non ha
importanza ciò che è successo prima, ma solo che cosa accadrà quando
ognuno avrà appreso da quel libro.»
Doveva essersi bevuto anche quel po' di cervello che aveva. «Prima, an-
ch'io la pensavo come te su di lui», mi sta dicendo adesso, «ma poi ho
avuto modo di conoscerlo.»
«Davvero? Sai dove posso trovarlo?»
«L'ho conosciuto attraverso il suo libro.»
«Ma devi avere l'indirizzo al quale gli hai spedito i libri.»
«Presso il suo editore.»
«Non ti ha dato nemmeno il suo indirizzo e tu pensi che lui sia un tuo
amico?»
«Stava traslocando. Non ha nulla da nascondere, devi crederlo.» Il fatto
di dovermi dare tante risposte così rapidamente sembra aver esaurito Kath,
poi il suo viso si illumina. «Se vuoi sapere davvero com'è, dovrebbe
trovarsi da Consummation.»
«Non frequento più quegli ambienti. È già abbastanza insopportabile la
gente che incontro ogni giorno.» Kath sfoglia le riviste sul bancone come
un gatto che cerchi di coprire i suoi piccoli stronzi. «Leggeranno alcuni
brani di La parola per beneficenza, verrà organizzata una tavola rotonda
per discutere del libro e lui dovrebbe parteciparvi. Ci andremmo anche noi,
ma abbiamo avuto da poco una bambina.»
«Non mi dire che ci sarà qualcuno che crescerà senza La parola.»
«No, vorremmo che anche lei lo vedesse un giorno. Quello che volevo
dirti è che non possiamo permetterci di andare.» Scuote alcune riviste
specializzate che tiene in entrambe le mani fino a quando da una di esse
cade un volantino. «Vedi, eccolo.»
Il volantino parla di Consummation, che si terrà tra due settimane a
Birmingham, e nel quale si dice che la domenica sarà il Giorno di Jess
Kray. Mi sforzo di non accartocciarlo troppo. «Posso tenerlo?»
«Pensavo che non volessi conoscerlo.»
«Mi hai convinto.» Ficco il volantino in tasca. «Grazie per avermi dato
ciò che cercavo», dico, lasciandolo ad ammuffire con i suoi libri.

Non credo che un intero congresso di fantascienza si lasci abbindolare


da Kray. Zio solo sa quanto sono stupidi i fan, ma in modo diverso...
credono di essere meno stupidi di tutti gli altri. So che cosa farò quando
vedrò loro e lui. Le due settimane non sembrano tanto trascorrere quanto
non esserci affatto. Il venerdì mattina faccio un bagno in modo da non
attirare l'attenzione su di me fino a quando non lo vorrò. Per la prima volta
in vita mia, non faccio l'autostop per raggiungere la località del congresso,
ma prendo il treno per arrivare in tempo e poter controllare la situazione.
Una volta seduto, rimango dove sono perché ho visto una donna che legge
La parola e non voglio sapere quanti altri passeggeri lo stanno facendo.
Fisso le case, una accanto all'altra, con le griglie d'acciaio alle finestre, e i
fiumi coperti di sostanze chimiche e i boschi che i bambini continuano a
incendiare, ma percepisco le parole di Kray acquattate nelle teste
traballanti intorno a me.
L'albergo in cui si svolge il congresso è a cinque minuti a piedi dalla
stazione. Dopo aver superato una decina di accattoni, fingo di essere solo
nella strada. L'albergo è completamente prenotato e non c'è un buco libero,
lo stesso vale per quello successivo, e alla fine mi devo accontentare di un
hotel in cui le scale traballano come se fossi ubriaco e la camera puzza del-
l'impermeabile di qualcuno e di vecchi mozziconi di sigarette. Non
importa, perché trascorrerò con i fan tutto il tempo che mi riuscirà di
resistere. Raggiungo l'albergo del congresso mentre è ancora giorno e ci
sono diversi poliziotti fuori delle loro auto. La prima cosa che mi domanda
la ragazza al banco della registrazione, una con un anello al naso e altri sei
alle orecchie, è: «Ha una copia de La parolai»
Sento i muscoli della faccia che si irrigidiscono, ma riesco a rispondere:
«È a casa».
«Se vuole averne una durante il congresso, è inclusa nel prezzo della
registrazione.»
Sarà un'altra copia che nessuno può leggere. Dico alla ragazza di chia-
marmi Jay Batt e, quando la ragazza vi ha scritto sopra il nome, mi
appunto la targhetta sul maglione, poi stringo il libro nella destra e mi
sembra quasi di sentire le parole che si frantumano l'una contro l'altra. «È
già arrivato?»
«Non verrà.»
«Ma è per lui che sono qui. Mi avevano promesso che sarebbe venuto.»
Probabilmente è convinta che la mia delusione sia dello stesso tipo della
sua. «Quando gli abbiamo scritto, ci aveva assicurato che sarebbe venuto,
solo che adesso è impegnato con il film che stanno girando su di lui e che
la televisione trasmetterà il mese prossimo. Vuole che le dica ciò che ha
detto? Che ora che abbiamo La parola, non abbiamo più bisogno di lui.»
So che è una stronzata, ma non so esattamente perché. Mi mordo la
lingua per non mettermi a urlare e quando vedo l'aria di comprensione
della ragazza per le mie lacrime, mi allontano, dirigendomi verso il bar. Vi
sono già più persone che sedili e io conosco quasi tutti... ho scritto articoli
su di loro nelle mie riviste. Mi chiedo come posso avvicinarmi abbastanza
per scoprire che cosa pensano veramente de La parola, quando si mettono
a salutarmi come fossi un vecchio amico. Sono già in due a offrirmi da
bere prima che io mi renda conto che si comportano così... perché ho una
copia de La parola.
Butto giù i due bicchierini e gli altri che mi vengono offerti e faccio in
modo che sia chiaro che non intendo ricambiare. Sto cercando di far
andare su tutte le furie qualcuno, così come la loro indulgenza fa infuriare
me. Perché forse, in questo modo, si metteranno a discutere di Kray. Ma
qualunque cosa io dica di lui e delle sue menzogne, loro continuano a
mantenere un atteggiamento comprensivo e ad aspettare pazientemente che
io capisca. La stanza si fa sempre più buia a mano a mano che i miei occhi
si riempiono di polvere e di fumo, e i volti intorno a me cominciano a
liquefarsi come se La parola li avesse trasformati in cera. A quel punto
comincio a urlare contro i membri del comitato e ad affondare le unghie
nella copertina del libro. «Perché mai qualcuno dovrebbe girare un film su
di lui? È più probabile che avesse paura di incontrare al congresso
qualcuno che sa quello che ha scritto in passato e che vuole dimenticare.»
«Non devi dire questo. Guarda, ci ha mandato questo, tutto sul suo
film.» Il presidente del comitato tira fuori un opuscolo dalla sua valigetta.
La vista di Kray che sorride dalla copertina mi rende quasi cieco di rabbia,
ma riesco comunque a leggere il nome della casa di produzione. «E dopo
che verrà trasmesso», soggiunge il presidente, «ci sarà una discussione dal
vivo alla quale lui sarà presente.»
Torno in albergo per cercare di riprendere il controllo. Da qualche parte
qualcuno sta sparando con delle mitragliatrici e sono costretto a suonare
per tre volte il campanello prima che il portiere di notte armato mi faccia
entrare, ma adesso non possono più fermarmi. Riesco a spaccare una ba-
laustra mentre arranco su per le scale fino alla mia camera, poi crollo sul
letto lasciando che mi piombi addosso il mal di testa. Ogni volta che si
attenua, penso a un altro brano della lettera che intendo scrivere. Ma alla
fine la notte e i rumori di spari svaniscono e la stanza torna ad assumere un
aspetto vagamente reale. È come essere parte di una copertina di un libro
che nessuno desidera togliere dalla vetrina, ma non potranno ignorarmi
ancora per molto.
Scrivo la lettera e lascio l'albergo, dicendo all'impiegata che motivi ur-
genti richiedono la mia presenza altrove e, stando attento a non farmi
derubare dagli innumerevoli borseggiatori, raggiungo l'ufficio postale più
vicino, il w431.
Mi faccio dare l'indirizzo del canale televisivo. Imbucare la lettera mi
riporta alla mente di quando ero costretto a vivere con i miei genitori e
andavo in chiesa, e lì mi mettevano delle cose in bocca di fronte all'altare.
Appena la lettera non si trova più fra le mie mani, non so se mi sento vuoto
o sollevato, e non riesco a ricordare esattamente ciò che ho scritto.
Trascorro la domenica a casa cercando di ricordare. Ho davvero
dichiarato di essere stato il primo a far conoscere Kray? Mi sono davvero
definito un Giuda Carota perché avevo paura che si ricordasse
dell'intervista e dicesse alla regista di tenermi a distanza? Non è probabile
che Kray dica di non aver mai sentito parlare di me? Non riesco a pensare
come mi faccia sentire un'idea del genere. Ho lasciato l'altra copia de La
parola nella stanza d'albergo come se si trattasse della Bibbia e devo
sforzarmi per non scaraventare la copia che tengo sotto il letto fuori dalla
finestra per dare alla gente qualcosa per cui accapigliarsi, oltre
all'immondizia in strada.
Il lunedì sapevo che la lettera era arrivata. Forse ci sarebbero volute
alcune ore prima che giungesse sulla scrivania della regista del
programma, dato che non sapevo come si chiamava. Martedì l'avrebbe
senz'altro avuta e ora di mercoledì avrebbe dovuto scrivermi. Ma arriva
giovedì e io guardo il postino che entra ed esce rapidamente dal furgone,
mentre il suo collega fa la guardia armato di un fucile a pallini, ma non ci
sono lettere per me.
Per due volte sento il telefono che squilla nell'ingresso dell'edificio, ma
potrebbe trattarsi semplicemente di camion militari che fanno tremare la
casa. Comincio a pensare che potrei scrivere un'altra lettera sotto un nome
diverso, affermando di sapere cose su Kray che nessun altro conosce, ma
non mi riesce di immaginare una lettera abbastanza diversa dalla
precedente. Vado a letto per pensare, poi decido che è meglio farlo stando
alzato, e in questo modo trascorro il resto del giovedì e il venerdì mattina.
Poi sento il furgone che si ferma con uno stridio di pneumatici, appena il
tempo necessario perché il poliziotto infili una lettera sotto la porta senza
dover scendere dalla cabina di guida, probabilmente non possono più
permettersi di pagare un secondo postino, poi con un altro stridio il
furgone si allontana. E quando vado a guardare vedo, in fondo alle scale, la
busta con il logo del canale televisivo.
L'aprirei subito, ma ho paura di leggere ciò che dice. Mi rendo conto di
essere nudo e mi copro il pene con la busta mentre corro al piano di sopra,
anche se nella casa tutti hanno paura di aprire la porta se sentono che c'è
qualcuno in giro. Chiudo tutte le serrature, fermo tutte le catene e mi
pulisco le mani sul didietro in modo che non siano scivolose quando
prendo la busta, poi la strappo quasi a metà e dispiego la lettera.

Egregio signor «Carota»


Jess Kray dice

Improvvisamente le mie mani sembrano come guanti che qualcuno si è


appena tolto e, quando riesco di nuovo a vedere, devo andare a recuperare
la lettera da sotto il letto. Mi sto già scervellando per cercare un nome
diverso con il quale firmare la prossima lettera che invierò, dato che fra
poco saprò come si chiama la regista, dovrei telefonarle? Mi strofino gli
occhi finché la visione mi torna abbastanza chiara per vedere che la donna
si chiama Tildy Bacon, poi faccio in modo che leggano ciò che ha scritto.

Egregio signor «Carota»


Jess Kray dice che sarà ben lieto di incontrarla e di farla partecipare alla
nostra discussione del 25.

Prosegue spiegando che mi pagheranno le spese e dove devo andare, ma


io crollo sul letto, perché ho appena scoperto che dopotutto non so proprio
cosa fare. Non importa, saprò ciò che devo dire quando le telecamere
saranno accese e l'intero paese mi starà a guardare. Ma in quell'idea manca
qualcosa e l'assenza continua a darmi dei colpetti sulla testa. La sento
come un'intrusa nella mia stanza e so che non mi lascerà in pace. Forse so
che cosa sto cercando di non pensare ma trascorre una settimana prima che
me ne renda conto: non posso avere la certezza di smascherare Kray se
non leggo La parola.
Passo l'intera giornata dicendomi che devo farlo e il giorno successivo
tiro fuori il libro dal suo nascondiglio, spazzando via le ragnatele.
Rimango a fissare la copertina finché sembra che si sia conficcata dietro ai
miei occhi, poi urlo contro me stesso per costringermi ad aprire il libro.
Non appena riesco a vedere di nuovo le lettere, comincio a leggere, ma è
come se le parole di Kray e il rumore di tamburi, sirene e spari si fondano
in un'unica sostanza che mi riempie la testa prima che io possa impedirlo, e
a quel punto devo chiudere il libro. Manca meno di una settimana al giorno
in cui mi presenterò alla televisione e tutto quello che riesco a pensare è di
trovarmi il più lontano possibile dalla gente mentre sto leggendo il libro. Il
giorno successivo è domenica, il che non fa alcuna differenza, dato che
anche in tutti gli altri giorni della settimana c'è lo stesso numero di persone
che vagano per la campagna senza aver nulla da fare. Strappo la copertina
di un opuscolo di Cristo Risorgerà e l'avvolgo intorno a La parola, prima
di dirigermi verso Kings Cross e sono sicuro che alcune delle persone che
evito, guardano il libro per vedere se si tratta de La parola. Con il pugno
picchio sulla saracinesca d'acciaio fino a quando l'impiegato mi vende un
biglietto. Mentre aspetto il treno, attraverso il vetro blindato del chiosco
dei libri noto che la maggior parte dei giornali annunciano lo scoppio di
una guerra in Africa. Mi sorprendo a chiedermi se La parola sia già stata
tradotta in quei paesi e poi immagino un mondo in cui non vi sono guerre
perché tutti sono troppo impegnati a leggere La parola, a pensarvi e a
parlarne, e sento che le unghie mi fanno male, tanta è la forza con cui
tengo stretto il libro per evitare di gettarlo sotto una locomotiva.
Quando il mio treno si allontana dalla stazione, mi accorgo di essere
quasi l'unico passeggero, ma vedo lungo le strade molta più gente del
previsto. A quanto pare molti di loro si stanno riunendo in una chiesa
diroccata e vedo una vera e propria folla, disseminata nel parco, a cui viene
letto qualcosa da un libro... non riesco a capire bene se sia nero o bianco.
Tutti hanno il viso rivolto verso il sole come se non sapessero che questo li
accecherà. Mentre la città si allontana alle mie spalle, ho la netta
sensazione che tutte quelle menti stracolme di Kray cerchino di trascinare
indietro la mia e che siano costrette a staccarsi dalla mia testa come pezzi
di chewing gum ormai senza sapore. Poi vi sono soltanto campi formati da
righe in attesa di essere scritte e siepi fiorite di spazzatura; ore dopo,
montagne salgono verso l'alto, emergendo da campi e boschi come se il
mondo si stesse ancora cristallizzando. Scendo a una stazione che si trova
proprio nel cuore delle montagne e che è costituita unicamente da un paio
di marciapiedi vuoti. Continuo ad arrampicarmi fino a quando mi ritrovo
nel fitto di un bosco e sono quasi senza fiato per la salita. Mi siedo sul
tronco di un albero spezzato e a quel punto non vi è null'altro da fare se
non leggere. Mi costringo ad aprire La parola e a leggere più in fretta che
posso.
Non sollevo lo sguardo fino a quando non ho finito. Sento le sue parole
che si affollano nella mia testa e che vi si riproducono, ma prima di
affrontarlo devo comprendere che cosa ha voluto dire al mondo o meglio
che cosa ha trasmesso al mondo. L'unico rumore che si sente è quello delle
pagine che volto e strappo non appena le ho finite, ma sento gli alberi che
si chinano per leggere al di sopra della mia spalla e il muschio che dai loro
tronchi scivola verso il terreno per essere più vicino al libro e gli animaletti
che corrono lungo i rami e vanno a fermarsi proprio sopra la mia testa. Ma
non guardo, leggo solo più in fretta, così in fretta che il libro è già nella
mia testa prima ancora che io me ne renda conto. Tanto o poco che ne sia
entrato, mi sento più forte... qui ci siamo soltanto io e il libro.
Improvvisamente mi chiedo se le pagine non possono essere state
impregnate di una qualche sostanza stupefacente, ma se così fosse, ho
evitato la trappola gettando le pagine perché la droga ha effetto solo se uno
tiene in mano il libro intero. Non so da quanto tempo ho cominciato a
leggere il libro a voce alta, ma non importa se questo mi aiuta a
comprendere a che cosa mira Kray. Anche se quando ho finito la gola mi
fa male, riesco a scoppiare in una risata che fa indietreggiare gli alberi.
Crollo a terra con il viso rivolto alle nubi e cerco di pensare che cos'è che il
libro mi ha detto che l'autore non voleva che nessuno sapesse.
Il mio corpo trema, internamente ed esternamente, e mi sento come se
anche il mio cervello vibrasse. Ne La parola vi era qualcosa riguardo al
panico, ma se ci penso, questo mi dimostrerà come sia il libro a causarlo o
non sarò invece in grado di resistere all'idea di ingoiare La parola come
fosse una medicina? Sto già ricordando e il fatto di affondare le unghie
nelle tempie non riesce ad annientare il pensiero. Kray dice che noi tutti
proveremo un po' del panico che Cristo ha sentito quando ci avvicineremo
al tempo in cui il mondo viene cambiato. Sento l'idea che si apre nella mia
mente e mentre lotto contro di lei, ho come un'illuminazione e comprendo
ciò che stava cercando di non ammettere nell'esprimerla in quel modo.
Voleva che nessuno sapesse che era lui a essere preda del panico... che
aveva qualcosa da temere.
Mi metto a sedere e rimango rannicchiato fino a quando smetto di trema-
re, poi scendo dalla montagna passando in mezzo agli alberi. Il boschetto
disseminato di pagine de La parola sembra avere un significato che io non
ho più bisogno di comprendere. Alcune pagine danno l'impressione di
stare per ritrasformarsi in legno. La notte attraversa il bosco insieme a me
e, poco dopo, un treno emerge dal buio. Torno a casa e mi chiudo in
camera.
Ora ho bisogno di tutto il tempo per trattenere La parola nella mia
mente. L'unica altra cosa a cui devo stare attento è quando quelli della
televisione mi manderanno i biglietti del treno, ma tutto intorno a me
sembra sul punto di fare una mossa. Ogni volta che sento una macchina, è
come se potesse trattarsi del furgone postale. Perlomeno questo mi auta a
non badare all'impressione che tutto ciò che vedo del mondo sia pronto a
tradirsi. Se è così che ci si sente dopo aver letto La parola...
Il giorno dopo il furgone postale passa oltre il mio edificio, e questo
accade anche il giorno successivo. E se la lettera indirizzata a me fosse
stata rubata o se qualcuno alla televisione ne avesse impedito l'invio?
Pagherò io stesso il biglietto e in qualche modo arriverò agli studi
televisivi per partecipare alla discussione. Ma alla fine il biglietto arriva,
ma questo potrebbe voler dire che cercheranno di rubarmelo dalla stanza.
Sto seduto con il biglietto stretto fra i denti, scruto la strada e cerco di
sentire che cosa stanno preparando per fare irruzione nell'edificio. E se la
mia stessa stanza fosse una trappola? O se invece stessero cercando di
farmelo pensare in modo che io esca allo scoperto? Avvolgo il biglietto in
uno degli opuscoli di Cristo Risorgerà in modo che l'inchiostro non coli
quando lo porterò con me in bagno e, l'ultima mattina, faccio un lungo
bagno che somiglia a una specie di rituale. Quello sarebbe un ottimo
momento per venirmelo a rubare, ma non si fanno vivi, e nemmeno
durante il tragitto verso la stazione anche se sono certo che la gente mi stia
guardando come se sapesse qualcosa di me. Per quanto possa ricordare, è
la prima volta che nelle strade non si sentono rumori di scontri e di
violenze, e questo mi fa pensare che presto ce ne saranno.
Sul treno vado a sedermi in un posto dal quale posso osservare l'intero
scompartimento e noto che gli altri passeggeri fingono di non guardarmi.
Lungo tutta la strada che mi porterà a Hyde Park Corner mi aspetto da un
momento all'altro di venire bloccato. Arranco su per la salita che conduce
all'albergo quando una limousine va a fermarsi proprio davanti alle porte
di vetro e due guardiani ne scendono in fretta seguiti da Kray. Quando si
rialza somiglia a un serpente ritto sulla coda. Fingo di essere concentrato
sulla vetrina di una libreria religiosa nel caso cercasse di influenzarmi
prima che la gente ci possa guardare. Vedo copie de La parola accanto alla
Bibbia e al Corano, e il riflesso di Kray che si confonde con il suo libro,
mentre entra in albergo. Deve avermi notato, e allora perché mi lascia in
pace? Perché la passività è l'arma che ha sempre usato con me da quando
ho letto La parola... non fa nulla in modo che io venga attratto verso di lui
e le sue parole. È il trucco che ha usato con i lettori di tutto il mondo.
Sapere questo mi rende impaziente di giungere alla conclusione. Aspetto
fino a quando vedo che raggiunge l'appartamento all'ultimo piano, poi
vado a registrarmi alla ricezione. La camera è larga più del doppio di
quella che ho lasciato a casa. Finalmente il mondo si sta accorgendo di me.
Mentre faccio un altro bagno, bevo i liquori contenuti nel frigorifero e
preferisco ignorare lo squillo del telefono fino a quando penso che ci sia
appena il tempo di arrivare agli studi televisivi prima dell'inizio della
discussione. Il volto di una ragazza sul videotelefono mi dice che c'è un
taxi che mi aspetta. Non appena siamo saliti, vuole sapere tutto su di me,
ma io non le permetto di farmi sentire come se non sapessi quello che
sono. Rispondo a tutte le sue domande con una scrollata di spalle, e alla
fine rimane in silenzio. Non vi sono altre auto lungo la strada, mi chiedo se
vi sia un coprifuoco o se tutti se ne stiano in casa aspettando di vedere
Kray e me.
Cinque minuti dopo il taxi entra a tutta velocità nel cortile anteriore
degli studi televisivi. La ragazza senza molto fiato mi fa superare di gran
fretta la guardia ferma davanti alla porta e anche quella dietro una
scrivania, poi mi precede lungo un corridoio che sembra non finire mai.
Penso che questa sia la trappola che avevano tenuto in serbo per me, ma lei
svolta a sinistra ed entra in una stanza, e io mi trovo circondato da voci e
faccia a faccia con Kray.
Nel locale vi sono circa una dozzina di altre persone. Su un tavolo e nei
piatti di carta sparsi tutto intorno vi sono i resti di un buffet. Una donna
con gli occhi troppo grandi per il suo viso si presenta dicendo di essere
Tildy Bacon e mi porge un bicchiere di vino, mentre una ragazza mi
pettina e mi incipria, e io ho la sensazione che stiano mettendo in scena un
rituale tratto da La parola. Kray mi osserva mentre parla e sorride con
alcuni amici e, quando la ragazza ha finito con me, mette una fetta di torta
in un piatto e me la porta. «Devi mangiare qualcosa, Jeremy. Hai l'aria di
uno che ha digiunato per l'occasione.»
Anche lui. Mi sembra più magro e più vecchio, come se avesse messo
quasi tutto se stesso nel libro, o non sta invece cercando di farmi credere
che non sarà difficile trattare con lui? Prendo il piatto e innaffio un pezzo
di torta con un sorso di vino, poi lui mi sorride. «È quasi ora.»
Sta parlando del programma che vedo dietro di lui, su un monitor
accanto a un fax? Qualcuno, che potrebbe essere un professore o uno
studente, sta dicendo che nessuno di quelli che lui ha conosciuto è rimasto
lo stesso dopo aver letto La parola e che, secondo lui, il libro costituisce
per ogni lettore l'esperienza fondamentale della sua vita. Kray mi osserva
ma, fino a quando non andremo in onda, non gli lascerò vedere quanto ne
so di quello che sta dicendo lo schermo. Poi, rivolgendosi a ognuno di noi,
Tildy Bacon dice: «Andiamo? Portate con voi i bicchieri».
Mentre la ragazza che dovrebbe imparare come respirare accompagna i
presenti verso il corridoio, Tildy Bacon mi si avvicina, fissandomi in volto.
Quindi hanno deciso di bloccarmi proprio all'ultimo momento. Aspetterò
fino a quando sarenno usciti tutti dalla stanza e farò quanto è necessario
per fare in modo che lei non mi segua e non mi impedisca di partecipare al
programma. Ma lei m'informa: «Dato che lei non era qui, abbiamo dovuto
chiedere a Jess che qualifica darle nei titoli di testa».
Se pensa che le chieda chi Kray abbia detto che io sia, può continuare a
pensarlo per molto. «Sono certo che vi ha dato l'informazione più giusta»,
commento con un sorriso che, per quel che m'importa, può somigliare
anche a quello di Kray, poi me ne vado passandole accanto prima che mi
possa far perdere altro tempo, e seguo gli altri lungo il corridoio.
Inizialmente la sistemazione dello studio sembra perfetta. Noi sette,
compreso Kray, verremo fatti accomodare su divani intorno a un tavolino
basso sul quale sono posati bicchieri e una caraffa d'acqua, mentre i
guardiani di Kray dovranno starsene dall'altra parte di una vetrata. Ma il
fatto è che non sono riuscito ad arrivare in testa alla fila dei partecipanti,
quindi come posso avvicinarmi a lui? Ma Kray mi dice: «Siediti accanto a
me, Jeremy», dando dei colpetti su un cuscino di pelle, e lo raggiungo
prima di riuscire a chiedermi che intenzioni abbia.
Il rumore che tutti gli altri fanno sedendosi è quello di qualcosa che si
stiracchi nel sonno. Il programma su Kray appare su un monitor posto in
un angolo dello studio. Un prete sta dicendo che, secondo lui, il segreto de
La parola ha bisogno di essere compreso, poi scorrono i titoli di coda e
una donna, che non mi ero nemmeno reso conto che avrebbe condotto la
discussione, si china leggermente in avanti sul tavolo e aspetta che una
luce rossa le dia il via. Poi dice: «E allora, Jess Kray, qual è il suo
segreto?»
Kray sorride a lei e al mondo intero. «Se ne ho uno, deve trovarsi nel
mio libro.»
Interviene un uomo dal viso costellato di buchi dove un tempo vi erano
foruncoli: «In altre parole, se rivelasse il segreto il libro non venderebbe?»
C'è davvero qualcuno qui accanto a me che non crede ne La parola?
Kray gli rivolge un sorriso. «No, sto dicendo che il segreto deve essere
diverso per ognuno. Non è un fatto commerciale. In alcune parti del
mondo il libro viene regalato.»
L'uomo dai buchi sembra soddisfatto, ma una donna che ha più peli sul
labbro superiore che sul cranio domanda: «Per ottenere che cosa?»
«La pace.»
Buon Zio, Kray è davvero convinto che il suo libro possa fermare le
guerre. O forse intende dire che non sarà in pace finché il mondo intero
non avrà La parola dentro di sé? La donna alla quale era stato dato il
segnale di inizio trasmissione si protende ancora attraverso il tavolo,
cercando di raggiungere Kray con il suo profumo, con le sue mani
scintillanti di anelli e con i capelli che ondeggiano come olio sull'acqua. La
donna intende trasformare lo spettacolo in una discussione, il che darà a
Kray la possibilità di non essere sempre sotto l'occhio della telecamera.
Dirò qualsiasi cosa per irritarlo, anche prima di sapere che cosa sto
dicendo. «Si presume che sia...»
La conduttrice si blocca e tutti guardano me. A quel punto sento ciò che
sto per dire... che il segreto de La parola si presume che sia una specie di
vita eterna. Ma non vi è alcun segreto ne La parola, ecco perché sono qui.
«Jeremy?» mi sollecita Kray.
Mi sto chiedendo se La parola mi sia entrata dentro senza che io lo me
ne sia accorto... se stava riuscendo a farmi dire ciò che ho quasi detto e se
è per questo che Kray mi sta incoraggiando. Vuole che lo dica, e lui sta
parlando di pace, che sapevo già sarebbe stata la sua arma, e all'improvviso
capisco. È come se i miei occhi venissero colpiti da un raggio di luce, e
non m'importa se mi acceca. «Si suppone che lui sia Cristo», grido.
Vi è un po' di agitazione sui cuscini di pelle, poi qualcuno che non ho
bisogno di vedere dice: «Tutti i personaggi rappresentano chiaramente i
suoi diversi aspetti».
«Stiamo parlando del narratore di La parola», spiega la conduttrice
rivolgendosi alla telecamera, poi soggiunge: «Io l'ho inteso come se si
trattasse di una specie di profeta».
«Cristo era un profeta», commenta un uomo di cui riesco soltanto a
vedere che porta un turbante.
«Stiamo forse dicendo...», interviene di nuovo la conduttrice, ma non
può proteggere Kray da me in questo modo. «Lui sa benissimo che non
intendevo nessuno dei personaggi del suo libro», grido. «Io intendevo
proprio lui.»
Le parole mi escono di bocca più in fretta di quanto io riesca a pensare,
ma sento che sono giuste. «Se la gente non crede in lui, non crede
nemmeno nel suo libro. E non crederanno in lui a meno che lui non sia in
grado di salvare se stesso.»
Nella mia testa le idee si combattono l'un l'altra come se La parola
stesse cercando di chiarirsi. Se Cristo fosse tornato adesso, dovrebbe
morire per aprire la strada a una religione che funzionasse meglio di quella
che aveva precedentemente fondato, o sarebbe stato semplicemente
l'opposto di Cristo a cercare di fermare tutta la violenza e a cambiare il
mondo? Comunque sia... sono completamente in preda al panico perché
sento Kray accanto a me, che vuole che io... vuole che io continui a parlare
mentre non sono in grado di controllare le mie parole... perché sono le sue
o perché non sarò in grado di rivolgerle contro di lui? Poi mi accorgo da
quanto tempo è rimasto in silenzio, e penso che lui voglia che io parli con
lui cosicché lui possa parlare con me. È suo il panico che sto provando?
Ha paura... ha paura di me, perché sono...
«Penso sia il momento di passare oltre», interviene la conduttrice, ma il
suo invito cade nel vuoto. Mi volto e lo guardo.
Mi sta aspettando. Il suo sorriso mi dice di parlare... di dire tutto ciò che
devo dire, perché poi lui risponderà e tutto ciò che la gente ricorderà
saranno le sue parole. È sempre stato così fin dal momento in cui il
pubblico ha sentito parlare di lui. Ora me ne rendo conto, ma lui mi ha
permesso di arrivare troppo vicino. Mentre apro la bocca, tendo il capo
verso di lui.
Per un momento sembra che stia per baciarlo. Vedo le sue labbra che si
socchiudono, la lingua che sfiora i denti, il sangue che gli arrossa gli occhi
e, finalmente, la paura. Abbasso ancora il capo e miro alla gola. Ho
imparato a farlo mordendomi la lingua e adesso non ho bisogno di
trattenermi o di allentare la presa. Qualcuno sta gridando, sembra che il
mondo intero stia gridando, ma non può essere Kray, perché gli ho
strappato la voce. Sollevo la testa e gliela risputo in faccia.
Non gli nasconde gli occhi, che incontrano i miei e nei quali vedo il
perdono, o qualcosa di peggio... la realizzazione? Poi la sua testa crolla
all'indietro, squarciandogli la gola in modo tale che ho paura che cercherà
di parlare attraverso la ferita, e lui allarga le braccia verso la telecamera. È
tutto ciò che riesco a vedere, perché adesso non vi è nulla nei miei occhi se
non la luce. Ma non è ancora finita, sento ancora il gusto della sua voce,
come ferro nella mia bocca.
Le parole lottano per scoppiarmi dalla testa e io non so che cosa sono.
Da un momento all'altro i guardiani di Kray o qualcuno dei presenti mi
afferrerà, ma se riesco soltanto... urto le ginocchia contro il tavolo per
trovarlo e sento i bicchieri che cozzano contro la caraffa. Mi getto in avanti
e ne trovo uno, una mano mi afferra il braccio, ma riesco a divincolarmi e
spingo il bicchiere contro i miei denti finché sento che si spezza. Ora
sembra che la luce si stia trasformando in dolore che a sua volta si
trasforma nel mondo, ma di chi è questo dolore... di Kray o mio? Tante
mani mi afferrano e non ho più tempo per pensare. Mentre mi costringo a
masticare e a ingoiare, almeno sono certo che non dirò mai più un'altra
parola.

Chiliad: una riflessione


(Parte seconda,)
di Clive Barker

Un momento nel cuore del fiume

Di nuovo vicino al fiume. Ho fatto un sogno sull'Avvento. Questo è


quanto ho messo per iscritto quando mi sono svegliato.
Nelle ultime giornate tenebrose, ho scritto, anche nelle ore che avevano
preceduto il cambiamento, anche nei momenti che avevano preceduto il
Momento, la maggior parte della gente sul pianeta negava ciò di cui era a
conoscenza. Avevano seppellito la loro attenzione in un milione di occupa-
zioni poco importanti. (Naturalmente ogni occupazione era poco
importante allora, dal cuocere il pane alla elargizione del potere; molto
presto tutto questo non sarebbe più stato nulla.)
Ma il resto del mondo non era così ostinato. Gli animali domestici per
esempio, anche i più leali, lasciavano i canili e scavalcavano i cancelli per
andare ad annusare il cielo aperto. Le mandrie al macello abbandonavano
la paura e si piegavano con piacere, anche mentre scendeva il colpo fatale.
Ogni uccello rimaneva muto, in attesa di una musica migliore. Ogni goccia
di pioggia che cadeva svaporava, desiderosa di salire di nuovo, e di dare
un'occhiata alla munificenza del cielo davanti alla generosità del genere
umano.
Gli dei del Panteon si erano manifestati a uno sbattere di ciglia, forse
meno. Per un attimo il pianeta era un posto di fede, dubbio ed empietà, e
l'istante dopo non c'era più spazio per nessuna di queste cose. Chi aveva
bisogno di fede quando i sensi confermavano ogni cosa? Per quanto
riguarda il dubbio e l'empietà, erano assurdità adesso che ogni divinità che
fosse apparsa alla coscienza umana (e parecchie centinaia di migliaia che
non l'avevano mai fatto) si era manifestata. L'Avvento era indiscriminato.
Non faceva differenza tra grandi e piccole divinità. All'estero c'erano
poteri vasti e in trasformazione, divinità che portavano con sé flotte di
veicoli angelici e ogni sorta di parafernali divini, ma c'erano anche logore
divinità locali, guardiani di rocce dipinte, spiriti di boschetti di bambù;
presenze che curavano le ferite e univano gli amanti, demoni che
perseguitavano le strade deserte, gli alberghi abbandonati. Un mondo di
brama e di bisogno era all'improvviso un posto di sovrabbondanza; e la
fine del genere umano iniziò, perché non c'era più niente che fosse
invisibile, o che non si potesse conoscere, e quindi non rimaneva niente da
sperare o da desiderare.
Ecco quello che scrissi, seduto in riva al fiume, e da questo inizio
concepii un libro sui giorni che seguono il Momento: un libro nel quale
avrei indugiato nella mia passione per le divinità. Sarebbe stato, decisi,
enciclopedico. Avrei creato un pellegrino, a imitazione di Bunyan, i cui
passi avanti non sarebbero stati segnati da prove sulla fede e sulla forza,
ma dagli orrori della certezza e dalla disperazione portata da orizzonti
senza limiti. La sua eccitazione e la sua pietà ben presto sarebbero
rattrappite. Lui avrebbe saziato i suoi sensi e la sua curiosità senza paura di
essere censurato, e a strati sarebbe sprofondato in una via di completa
indifferenza. Lo dipinsi che vagava nella città assediata dalla rivelazione.
Nelle prime ore ci sarebbero stati branchi di dei selvaggi liberi per le
strade, che avrebbero gridato la loro saggezza contro un cielo pieno di
lampi. Pochi minuti dopo l'alba sarebbe stato impossibile passare dalle
strade transitabili, dal momento che le persone che abitano il pianeta
sarebbero aumentate grazie a uno stato totale di resurrezione. (C'era una
certa competitività tra le divinità come su chi sarebbe riuscito a far risor-
gere il più gran numero di anime morte; dopo che tutte le tombe fossero
state vuotate e tutte le ceneri umane ricombinate, coloro che erano in gara
sarebbero stati costretti a far risorgere le mucche e i cavalli; ben presto si
sarebbe trattato di pecore e maiali; in seguito si sarebbero abbassati al
pollame.)
Così i giorni passavano, un caos tra cui il mio pellegrino strabiliato si
sarebbe fatto strada stancamente, con le sue energie esaurite da infinite
meraviglie e infinite glorie, finché alla fine, nei dintorni della città, trovata
una collina, si sarebbe coricato, chiudendo gli occhi sotto un cielo pieno di
nuvole. C'è un buio piacevole sotto le sue ciglia, un'assenza riposante. Lui
vuole entrarci per sempre. Ma come può raggiungere una tale
benedizione? Se si uccide qua sulla collina, qualche messia zelante lo
troverà di certo, e lo resusciterà come Lazzaro. Deve trovare un posto per
morire dove il suo cadavere non sia scoperto. Sospirando, si alza in piedi e
si arrampica sulla vetta della collina. Il paesaggio davanti a lui non gli dà
maggiore conforto della città che ha lasciato. Ogni boschetto ha il suo dio
privato, come ogni incrocio, ogni arbusto, ogni pietra. C'è un granello di
polvere che un dio o l'altro non esalti? si chiede. C'è un posto in cui
potere stare soli? Allora inizia il suo pellegrinaggio. Con il cuore pesante
in modo insostenibile, continua per la sua strada, cercando un posto dove
la resurrezione non lo possa trovare.
Non sarebbe un buon libro, penso. Sarebbe stata una follia. La sua parte
migliore era in questi paragrafi: essi contengono tutta l'ironia che un
volume avrebbe contenuto, e consumano meno inchiostro. Ora sono libero
di rimettere mano alla morte sul fiume.

Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni; ma voi lo sapete: e io


prima o poi dovrò lasciarmi andare a questo, e farmi portare dove vorrà.
Forse annegherò; forse sarò spinto di nuovo verso la riva. Forse
nell'inondazione troverò l'amore. Forse, nella furia delle acque vedrò il
mondo come solo i santi lo vedono. Fino ad allora - finché non avrò il
coraggio di tornare in mezzo al tumulto - posso solo guardare, e sperare di
essere in grado di finire quello che ho iniziato, anche se l'inizio e la fine
possono sembrare molto simili.

L'uomo si chiama Devlin Coombs, e fino a ieri era un uomo sposato di


quarantun anni, felicemente ignoto. Lavorava in una piccola compagnia di
assicurazioni in città, dove era stato un liquidatore per dieci anni. Il
martedì e il giovedì andava alla scuola serale e studiava ceramica. Ha fatto
tre vasi di cui può dire: questi mi piacciono. Non ha figli. Gli piace
Beethoven e lo sformato d'anguilla. Almeno, era così. Non gli piacerà più
lo sformato d'anguilla, né ascolterà più una sonata di Beethoven senza
piangere in modo così privo di controllo da dover spegnere la musica. Non
farà più vasi, né farà più l'amore con Mary Elizabeth, perché la notte
scorsa il corpo della sua amatissima moglie è stato portato a riva dal fiume.
Era il ventisei di dicembre millenovecentonovantanove, cinque giorni
prima del giorno di buon auspicio, cinque giorni prima del millennio,
quando i profeti del destino promettono la fine del mondo. Si sbagliavano
di circa una settimana, pensa Devlin mentre cammina lungo il fiume: o in
alternativa il mondo è finito in anticipo, perché a cosa serve il mondo
senza Mary Elizabeth?
Tutto quello che può fare adesso è piangerla, piangerla e chiedersi,
mentre piange, come aveva potuto fare una fine simile. Come era possibile
che una donna di una tale moralità, che non si era mai staccata dal sentiero
della giustizia, avesse perso la vita per essere stata assassinata?
Lui dovette identificare il corpo, naturalmente, e non si aspettava dalla
polizia, per cui aveva un disprezzo celato, nessun tipo di delicatezza nel
gestire la cosa. Aveva ragione. Non ce ne fu. Fu portato in una stanza
scarsamente disinfettata e gli venne messa davanti la sua forma penosa,
posata su un tavolo di smalto bianco sbeccato. C'era un lenzuolo che la
ricopriva dalla testa ai piedi. Lui chiese che venisse rimosso
completamente. Qui, almeno, il detective dimostrò un qualche grado di
umanità, dicendogli molto tranquillamente che non gli sembrava un'idea
molto saggia.
«È in condizioni orribili sotto il collo», disse l'uomo.
Devlin replicò che era pronto per quello. Voleva vederla tutta. E quando
l'uomo tirò indietro il lenzuolo non si pentì della sua decisione. Era
davvero in condizioni terribili, con il corpo orribilmente squarciato. Ma
l'inerzia della sua massa per lui era la prova più certa della sua assenza - il
senso che lei era andata, completamente, perché altrimenti non avrebbe
permesso l'azione spregevole di venire scoperta - e questo rendeva il tutto
più sopportabile. Tutto quello che poteva sapere adesso - l'unico mistero
che poteva risolvere - era l'identità dell'uomo che le aveva tolto la vita.

La polizia non gli disse niente; lo rassicurò soltanto sul fatto che
sapevano come comportarsi e che sarebbe stato meglio se prima avesse
risposto alle loro domande, cosa che lui fece, e che poi li avesse lasciati
lavorare senza chiedere a che punto fossero ogni momento. Questa fu la
parte più difficile. Dal momento che lui non era un sospetto (al momento
dell'assassinio era stato a un centinaio di miglia di distanza, ad aiutare la
madre malata attraverso gli orrori del suo terzo Natale con il morbo di
Parkinson; così aveva testimoniato, anche se in verità non distingueva un
giorno dall'altro) ne conseguiva che c'erano due tipi di sospetti. Il primo:
qualcuno che Mary Elizabeth conosceva, un amico, o un collega di lavoro.
Il secondo: un estraneo psicotico il cui sentiero lei era stata abbastanza
sfortunata da attraversare per caso. La prima ipotesi sembrava improbabile
alla mente di Devlin, persino assurda. Mary Elizabeth aveva una piccola
cerchia di amici, per la maggior parte donne che stavano gentilmente
scivolando nella mezza età, c'erano persone gradevoli, la maggior parte
delle quali aveva incontrato anche lui ai picnic organizzati dalla ditta e
cose simili. Non c'era nessuno di cui non si sarebbe fidato. Il che lasciava
la sua seconda ipotesi come l'unica spiegazione possibile. Sua moglie
aveva incontrato la morte per caso, perché le era capitata davanti. E per
ogni ora di ritardo che la polizia accumulava nell'inseguimento del-
l'assassino, facendo domande asinine su uomini e donne che non avevano
nessuna colpa nella faccenda, più grande diventava la possibilità che il col-
pevole sfuggisse, e per sempre. Impensabile! Che la sua amata potesse
essere portata via in questo modo e che il ladro non fosse punito. Ma
mentre i giorni passavano (e le notti: non dormiva, non voleva nemmeno
dormire, con il letto vuoto accanto a lui), più diventava frustrante, e più
diventava sicuro che se giustizia in questa faccenda doveva essere fatta,
avrebbe dovuto essere lui l'uomo che la dispensava.

Devlin ha un dentista da cui evita di andare ma che di recente è


diventato un vicino. Lui incontra l'uomo, un tale Edward Littlefield,
mentre raggiunge la macchina per andare nel posto in cui è stata trovata
Mary Elizabeth. Littlefield è un uomo con una faccia larga, con una
fessura tra i denti e concreto, la cui reazione ad avere una tra le professioni
meno amate al mondo è di ricavarne tutto quello che può. Ma oggi non fa
battute sull'igiene orale. Ha sentito la notizia, naturalmente, e dice che ha
trovato l'intervista televisiva di Devlin della sera precedente, in cui si
lamentava per la mancanza di attività della polizia, molto commovente.
«Bisogna prendere queste cose nelle proprie mani», dice, e spiega che
parla per esperienza. Suo figlio era scomparso quando aveva sei anni e non
era mai stato trovato.
«A tutt'oggi», dice Littlefield, «vorrei essermi fidato meno della polizia
e di più del mio istinto. Avrei potuto trovare il ragazzo io stesso se non mi
fossi limitato a stare seduto a casa a credere a ogni dannata cosa che mi
raccontavano.» Il suo sguardo vagò sulla strada, come se anche adesso
pensasse di poter vedere suo figlio - che è scomparso da diciannove anni
ormai - a giocare a nascondino tra gli aceri. «Mia moglie ha incontrato una
donna un paio di anni fa che ci disse che avrebbe potuto aiutarci, e io
pensai: buon Dio, dov'eri quando avevamo bisogno di te?»
«Mi dispiace, non la seguo. Chi è questa donna?»
«È stata mia moglie ad avere le conversazioni davvero interessanti con
lei. Io non so...» Ritorna a concentrare lo sguardo su Devlin. «... Lei è un
credente?» chiede con voce bassa.
«In cosa?»
«In quel tipo di cose. Roba paranormale. Fenomeni psichici...»
«Non so.»
«Ma sarebbe disposto a fare un tentativo?»
«Be', di certo la polizia non mi è di nessun aiuto. E io ho paura...» si
interrompe, fissando il terreno.
«Sputi il rospo», risponde Littlefield, alla sua maniera.
«Temo che se non scoprirò chi è stato... voglio dire... mai... impazzirò.»
Littlefield annuisce. Di nuovo, sta guardando in fondo alla strada. «So
come ci si sente», sussurra. «Non sapere come finisce. Come un libro
senza le ultime pagine. Per quanto tu guardi, per quanto tu preghi. Io ero
solito pregare ogni notte, con tutta la forza che conoscevo: Buon Dio
dimmi dove è seppellito mio figlio. Arrivi a quel punto. Dimmi solo dove è
seppellito.»
Devlin rimane in silenzio per un lungo istante, imbarazzato dalla
vulnerabilità di Littlefield. Se potesse andarsene in quel momento lo
farebbe, ma ha bisogno che l'uomo gli dia altre informazioni: il nome della
veggente, e i suoi movimenti. Non ha bisogno di chiedere. Littlefield deve
solo guardare la faccia di Devlin, per tirare fuori il portafoglio, e da questo
un biglietto, e scrivere un nome e un numero. «Buffo», dice mentre scrive,
«come ci si ricorda di certi numeri di telefono e non di altri. Non sono mai
riuscito a ricordare il numero di mia suocera; anche se lo devo aver fatto
centinaia di volte. Ma questo», porge il biglietto a Devlin, «lo ricordo
senza neanche aver bisogno di pensarci.»
Si separano. Devlin non mette il biglietto in tasca. Lo porta nel pugno
stretto saldamente e chiama la donna appena entra in casa, anche se, nel
momento in cui lei risponde e lui ne sente la voce è come se fosse stata lei
a fare la telefonata, e tutto quello che ha fatto lui fosse stato di rispondere
alla sua convocazione.

Ed è così che arriva alla casa che non sì nota a Camberwell, con il suo
prato curato e la sua porta blu, e viene invitato dentro a un posto così
completamente diverso dall'esterno che è come se fosse uscito dalla realtà
della veglia per finire in un sogno. Il nome della sua guida è Shirley
Dunbar. Ha circa cinquant'anni, di recente si è fatta bionda, e potrebbe
essere stata una bellezza una cinquantina di chili fa. Ha preparato uno
spuntino per entrambi: panini al prosciutto, un dolce natalizio pieno di
frutta e rum e dei bicchieri di scotch. Goditeli, dice, mentre sono seduti nel
salotto scuro, con le sue pareti di gesso ricoperte con centinaia di piccoli
pezzetti di lino su cui sono tracciati segni incoerenti: questa è l'ultima volta
in cui devi mangiare o bere per ventiquattr'ore. Puoi prendere un po'
d'acqua, ma niente di solido. Prima di partire hai bisogno di pulire il tuo
sistema.
«Partire per dove?» chiede Devlin.
«Indietro a vedere cosa è successo», risponde Shirley. Ha un boccone di
dolce e whisky in bocca e lo assapora mentre parla. «Prenderai la luce e
tornerai indietro.»
«Pensavo che tu...»
«Io?»
«... pensavo che fosse quello che fanno i veggenti. Tu vai... io non so... a
parlare ai tuoi spiriti, o quel genere di cose.»
«No, non io.»
«... ma io non...»
«Cosa?»
«Non so niente di tutto questo.»
«Tu conosci tua moglie», risponde Shirley. «Io no. Tu l'hai vista morta.
Io no. Probabilmente tu sei stato nel posto in cui è stata trovata...»
«Sì.»
«... io no. Vedi io sono solo qua per aiutarti.»
«Quindi tu non?...»
«Viaggi?»
«Sì.»
«No. No, se posso evitarlo. Quando ero più giovane, bene, sì,
occasionalmente andavo. Allora ero più interessata, immagino. Pensavo
che ci fossero più cose da conoscere di quanto non fosse vero.»
«Più cose da conoscere?»
«Il grande schema delle cose», risponde Shirley, mentre con le mani
tozze descrive dei cerchi davanti a sé. «Ma naturalmente si impara...»
«Cosa?»
«Che non c'è niente. Ci siamo solo noi che vogliamo, sai, e il nostro
volere non è abbastanza, vero? Voglio dire, alla fine. Semplicemente non è
abbastanza.»
Devlin non è sicuro di quanto stia capendo di tutto questo, ma decide di
non fare altre domande, cosa che a Shirley va bene, perché può mettere
insieme i pensieri senza bisogno di essere stimolata. Gli racconta,
attraverso una sorprendente serie di frammenti, la storia della sua vita.
Nata a Belfast, sposata all'età di diciassette anni, perse tutti i suoi figli per
malattia, e scoprì i suoi doni quando suo marito (per tutto il tempo lo
chiama il signor Dunbar) scappò via con una sua amica, e lei rimase in una
casa vuota a trastullarsi con la pazzia. Ha un dono, che forse le viene da
sua madre - un modo di forare il velo, come dice lei, che sta tra noi e i
morti. Una volta che si è impadronita della natura del suo talento, dice, non
c'è modo di tornare indietro. È come se la donna che era stata fino a quel
momento fosse evaporata. Continua a tenere il nome Dunbar — invece che
riprendere il suo nome da ragazza - come un modo di ricordare a se stessa
che una volta era una donna sposata come tante altre.
Alla fine arriva al punto cruciale del suo monologo. «Ti starai chieden-
do», dice lei, «dove porta tutto questo.»
«Bene...» inizia Devlin.
«La fiducia è importante», risponde lei. «Voglio dire, ci sono io e ci sei
tu, e ci deve essere fiducia, vero, quando veniamo portati insieme a questo
modo.»
«Tu pensi che siamo stati portati insieme?»
«Oh, sì. Era il tuo destino venire qua, Devlin», gli dice. Devlin vuole
chiedere da dove viene questa fede, dal momento che gli è sembrato che
negasse ogni grande schema, ma decide di non interrompere il flusso, di
lasciarla parlare. «Ci sono delle cose in questa casa...» dice «... cose che
non si trovano a Roma o a Gerusalemme. E sai, è buffo, penso che stiano
meglio qua di quanto non siano mai stati in qualche elaborato reliquiario.
La maggior parte delle cose sacre nel profondo sono umili, vero?
Un'unghia, una ciocca di capelli, una pietra...» La voce è diventata più
bassa mentre parla di questi tesori, e ogni minima ombra di dubbio ha
lasciato il cuore di Devlin. Guarda la sua faccia rubiconda per il whisky e
sa che non si tratta di una recita. Parla di pezzi di cose comuni portate, per
le loro associazioni con il miracoloso, a uno stato di esaltazione. E se
questo è possibile per una pietra o per un'unghia, pensa lui, perché non
per un uomo? E con questi pensieri, sente la prima traccia di speranza che
ha provato da quando ha perso la moglie.
Non può fare a meno di parlare adesso; si sente pieno di potere.
«Voglio iniziare», dice. «Per favore, voglio iniziare.»
«Hai già iniziato, non vedi?» gli dice. «Hai iniziato nel momento in cui
hai sentito il mio nome. Ma voglio che tu capisca le conseguenze di questo
viaggio.»
«Non mi importa.»
«Dovrebbe», gli dice con durezza. «Questa non è una questione di vita e
di morte. Quello sarebbe facile. No. Questa è... questa è...»
«... cosa?»
«È difficile trovare le parole», risponde lei. Poi, dopo una pausa per pen-
sarci sopra: «Capisco il tuo dolore, e voglio aiutarti a lenirlo, ma c'è solo
un oggetto in questa casa che ti possa aiutare davvero nella tua ricerca. È
una fiamma».
«Una fiamma?»
«Una specie. Vedrai tu stesso. Come ho detto, è una fiamma. Ma... è
molto più di questo. È stata portata qua nel primo anno del mio... come
dovrei chiamarlo?... della mia seconda vita. L'uomo che l'ha portata voleva
liberarsene, e me l'ha data.»
«Cosa fa?»
«Illuminerà la strada, di ritorno verso la tua vita. Fino al momento in cui
è morta, se è quello che vuoi vedere.»
«È quello che voglio vedere.»
«Quello e solo quello?»
«Sì.»
«Giuri?»
«Sì.»
«Questo è molto importante, Devlin.»
«Non capisco, perché?»
«Bene, te lo dirò. Le cose sacre hanno una mente per conto loro. Le cose
non sacre, lo stesso. Hanno... intenzioni. Non tutte. Alcune sono solo
quello che sembrano. Ma questa fiamma...»
«Intenzioni di fare cosa?»
Shirley si stringe nelle spalle, versandosi un altro grosso bicchiere di
whisky. «Ti sto solo avvertendo per essere sicura di quello che vuoi.»
«Voglio sapere chi ha ucciso mia moglie», risponde Devlin. «Cosa po-
trebbe essere più semplice di questo?»

Gli dice di tornare al tramonto del giorno seguente. Gli dice che
dovrebbe indossare cotone o seta, scarpe di pelle - nessun materiale fatto
dall'uomo. Ripete le sue istruzioni sul non mangiare. Lui le chiede cosa si
dovrebbe aspettare. Lei gli dice che non lo sa. Ogni caso è diverso, dice.
Questa non è una scienza esatta, dice. Trattiamo, dice, con il contenuto
delle nostre anime, e solo un pazzo direbbe che lo capisce. Poi gli dice di
andarsene, cosa che lui fa, ritorna nel mondo reale con la percezione delle
cose cambiata considerevolmente. Mentre guida a casa deve fermarsi
almeno una dozzina di volte, perché la sua mente semplicemente vola via.
Si trova a chiedersi quanto del mondo intorno a lui ha cambiato di
significato. Ogni centimetro di asfalto sotto le ruote della macchina, ogni
farfalla morta spiaccicata contro il finestrino rappresentano forse un
frammento di qualche vasto mistero? C'è potere nella materia morta delle
sue unghie, o nella saliva che si secca agli angoli della bocca? Se è così,
che mondo è questo? E quanto, quanto desidererebbe poterne parlare a
Mary Elizabeth.

Quando cala il tramonto la sera dopo ritorna a casa di Shirley, come


d'accordo. Lo stomaco gli borbotta, la pelle gli prude leggermente, sente la
testa leggera. Sta in piedi sulla soglia e parla a se stesso, dicendo: Stai
calmo. Sei il padrone del tuo corpo e della tua mente. Questo è ciò che
volevi dopo tutto. Stai calmo. Poi bussa alla porta. Si apre non appena la
tocca e lui entra, chiamando il nome di Shirley. Non c'è risposta, ma non
serve che ci sia. Ha percorso solo un metro nel corridoio, quando vede una
luce che filtra dal soggiorno, e sa di essere atteso. Adesso non esita, ma
entra con un sorriso sul volto. Se Shirley è lì a vedere il suo sorriso, lui
comunque non è in grado di vederla, ma, comunque, nient'altro che la
fiamma attira il suo sguardo. Si libra nell'aria vicino al camino, emettendo
una luce argentea. Mentre si avvicina, sente il suo tocco sul viso e sulle
mani; gira i palmi in su e sente come delle punture. Deve annunciare il suo
desiderio? si chiede. No, no; la luce lo sa. È nel suo cranio, che illumina il
buio, che lo conforta.
Vi avvolge intorno le mani, come una coppa, gentilmente, come farebbe
se stesse prendendo un dente di leone, o una farfalla. Essa risponde alle
sue attenzioni nello stesso modo, filtrando dentro di lui attraverso i suoi
pori. La carne risponde con brividi di piacere, come se il suo sistema fosse
stato inaridito, e la luce filtra attraverso i suoi canali polverosi come una
pioggia che è stata a lungo trattenuta. Solo quando si è abituato alla sua
presenza, il potere purificatore del suo flusso si manifesta, e a quel punto è
così ebbro per la trasformazione che sente avvenire perché gliene importi.
Questo è il compito della luce, e lui non ha alcuna intenzione di negarlo.
Né ne sarebbe capace. Essa adesso ha abbandonato ogni pretesa di buone
maniere, ed erompe in tutta la sua imponenza, perforandolo, inondandolo,
un emetico spirituale che lo lascia in piedi pieno di brividi.
E proprio mentre sembra che il suo intero corpo sarà fatto a pezzi, essa
interrompe la sua violenta opera di pulizia, e si ritrova ferma dentro di lui.
Rimane in attesa, aspettandosi di vedere comparire Shirley con l'offerta
di qualche parola di istruzione. Ma lei non compare. Passano dieci minuti;
quindici; venti; continua ad aspettare. Alla fine si rassegna al fatto che non
avrà alcuna guida, da Shirley o da nessun altro. Lui è per conto suo in
questa impresa.
«Bene, allora...» mormora, quasi come se si aspettasse di dialogare con
la luce. «Dobbiamo?...»
Stava per dire: Dobbiamo andare al fiume? Ma non finisce la frase. La
luce si sposta - lui sente che si muove dentro di lui, considerevolmente - e
in una strana confusione esce dalla casa e si trova in strada. Non è
cosciente del movimento dei suoi arti; non è cosciente di stare facendo uno
sforzo qualunque. È semplicemente trasportato, e in procinto di realizzare i
suoi desideri.

(Forse a questo punto è opportuna una parola su Shirley. Lei è nella casa
da cui Devlin è appena uscito, distesa sul pavimento del bagno, dove ha
appena avuto un potente colpo che l'ha lasciata immobilizzata. Nelle
prossime tre ore questa paralisi si dimostrerà fatale. Lotterà per
raggiungere un telefono, ma non ci riuscirà. Pregherà, ma non le verrà
inviato alcun aiuto. Alla fine, nel bel mezzo di una pozza di urina, con il
corpo che le muore intorno, renderà grazia per una vita vissuta con uno
scopo. E mentre lei rende grazia, si dimentica di se stessa, o almeno si
dimentica della sua condizione attuale. È di nuovo nelle strade di Belfast,
all'età di nove anni. Nove anni benedetti, nove anni innocenti. Prima che
scoprisse cos'era il sesso; prima che perdesse la fede in Dio e in Padre
O'Connor, prima che sua madre diventasse stanca e avesse i capelli
bianchi. Un giorno d'estate, e lei in Galway Street, che passeggia come in
sogno, odorando il verde delle colline.
È lì che vive quando muore: in un momento che non ha ricordato per
decenni, ma che adesso la circonda come un abbraccio, e la libera nella
morte.)

Devlin si ritrova vicino al fiume. Non ricorda di aver passato alcuna


strada per arrivarvi, anche se desume che deve averlo fatto. Tutto quello
che ricorda è la calma, la calma benedetta, di essere nella fiamma e della
fiamma.
Conosce l'angolo in cui è venuto. È a parecchie centinaia di metri più a
monte del posto in cui fu trovato il corpo di Mary Elizabeth, non lontano
dalla chiesa, con le sue tre finestre gloriose e quella di semplice vetro. Si
chiede se la velocità del pensiero lo porterà per il resto della strada fino al
posto dell'assassinio. Ma no, il suo corpo apparentemente indietreggia
spinto dalla sua volontà. Lui si costringe ad andare, e i suoi muscoli gli
obbediscono, portandolo lungo la riva del fiume. E mentre lui va il cielo
inizia a schiarirsi. È già l'alba? pensa. La notte è appena cominciata. No,
vede, non è il primo dell'anno, che si sta chiarendo una pennellata dopo
l'altra, lui sta camminando indietro al pomeriggio in cui la vita di Mary
Elizabeth si è persa.
Una ragazzina corre e lo supera, gridando. Non dà segno di mostrare che
lui sia visibile per lei, ma forse era troppo intenta nella sua caccia, o volo,
per accorgersi di lui. Lui la guarda sfrecciare via, e il suo rumore si
allontana. Quando lui torna a guardare lungo la riva del fiume, il suo corpo
inizia a tremare perché, là - a meno di trenta metri da lui - c'è Mary
Elizabeth. Lui non aveva previsto l'effetto che gli avrebbe fatto rivederla.
Il suo tremito è così violento che è quasi come una fitta, deve costringersi
a rimanere in piedi. Arrivano le lacrime, e portano con sé fuori dal suo
cuore i riflessi della fiamma, momentaneamente lo accecano, prima di
colargli dalle guance.
Oh, Dio; spera di poterle parlare. Solo poche parole, niente di
particolare, solo dirle quanto è amata.
Ma prima che possa andarle abbastanza vicino per poter fare un
tentativo, la vede girarsi: vede un uomo che corre tra gli alberi
inseguendola. Oh, Cristo, pensa, non così presto! Non permettere che
succeda prima che io abbia una possibilità di...
Ma aspetta. Di cosa si tratta? Lei sta ridendo con l'uomo, non sta
scappando piena di paura, e l'espressione sulla faccia dell'estraneo non è
quella di chi ha intenzioni cattive, ma scherzosa. Incrocia gli occhi, tira
fuori la lingua, tutto per divertimento. E Dio sa che anche se è una
esibizione puerile, lei ne è totalmente divertita. Quando lui la raggiunge lei
non lo spinge via; si limita a scuotere la testa, come un genitore affettuoso
con un bambino che fa il buffone. E si tratta di qualcosa non troppo
lontana dalla verità; il suo compagno ha la metà dei suoi anni: sarà al
massimo un ventenne, a cui è appena passata l'acne. Devlin pensa,
vagamente, che lei gliene ha parlato, che glielo ha indicato, forse, in una
foto a una festa in ufficio. Lui non ha alcuna importanza per lei; o almeno
lui non ha mai avuto alcun sospetto che potesse essere così. Adesso ha
ragione di chiedersi, vedendo il modo in cui lei permette che la sua mano
si posi sulla sua spalla, sul suo mento, Oh, adesso sul suo seno: lei non gli
oppone resistenza; almeno, non totalmente. Ancora, c'è quell'espressione
indulgente; un dito alzato, una leggera scossa della testa, come a dire: non
essere monello; non qua; non qua. Comunque il tentativo di imporre la
disciplina viene ignorato, l'amante saltella davanti a lei, sbirciandola e
accarezzandola, bloccandole la strada sul sentiero.
Lei sta giocando con la morte. Devlin lo sa. In qualche punto lungo il
sentiero farà o dirà qualcosa che irriterà questo giovane, e il sorriso svanirà
come i salti, e inizierà la produzione di sangue. Lei adesso lo ha spinto di
lato, come per continuare per la sua strada, anche se lo fa con civetteria.
Lui le cammina accanto, sussurrando qualcosa che la fa arrossire, che le fa
apparire una luce negli occhi. Devlin conosce quella luce. Una volta era lui
che la riceveva; e che dono glorioso era, che prometteva ogni tipo di
intimità. Adesso questo dannato ragazzo riceve l'occhiata, e le promesse,
riceve le carezze e i baci, prende le scopate, senza dubbio, quando i giochi
sono finiti, prende il suo corpo sotto di lui nel sedile posteriore della
macchina...
«Oh, Dio», mormora Devlin.
E mentre lui parla sembra che lei lo oda. Almeno guarda nella sua
direzione, e sul suo viso c'è preoccupazione.
«Cos'è?» le chiede il suo compagno.
«Mi sembrava di aver sentito...» Scuote la testa, scacciando il pensiero.
Ma anche nel momento in cui lo scaccia cambia idea. «Lui è qua», dice.
«Chi?»
«Mio marito.»
«Non essere sciocca», risponde il giovane calorosamente, e per
rassicurarla la bacia sulle labbra. Lei non si oppone alle sue consolazioni, e
risponde al suo bacio.
Oh, Dio, singhiozza ancora Devlin. Oh, Dio. Questa volta, se Mary
Elizabeth lo sente, non ne dà segno. Ha permesso al suo amante di
sbottonarle il cappotto, e lui annaspa sul davanti del suo vestito. Devlin è
disgustato, gli sta permettendo di scoprirle il seno, qua all'aperto. Il
capezzolo è duro a causa dell'aria fredda, lui se lo scalda in bocca, e lei
chiude gli occhi deliziata dalla sensazione.
Oh, puttana, pensa Devlin. Farmi questo, tradirmi dell'amore che mi do-
vevi come mia sposa — girarmi la schiena a letto dicendomi che non è più
questo che desideri - quando lo è, lo è. Guardati, troia, con la mano sui
suoi pantaloni, con la lingua nella sua bocca! Devlin si sente male allo
stomaco; vuole distogliere lo sguardo, ma non riesce a togliere gli occhi
dalla scena. Di certo non lo faranno qui e adesso; di certo non sono così
ardenti l'uno per l'altra da riuscire a scopare sul terreno gelato? Il giovane
adesso le sta sussurrando qualcosa, massaggiandole pigramente la tetta con
il palmo, e lei ride, con le guance arrossate. Da quanto tempo non vedeva
quell'occhiata sul suo viso? Almeno cinque anni da che giaceva sul
cuscino tutta piena di desiderio, rossa e matura e pronta a riceverlo.
Poi mai più. E questa è l'ultima volta in cui la vedrà in questo modo, per
sempre...
Mentre la sua mente forma questi pensieri, l'istinto gli dice di guardarsi
alle spalle. Lo fa, e là vede un secondo testimone dell'infedeltà di sua mo-
glie. Il fitto sottobosco e le ombre degli alberi nascondono alla vista la
faccia dell'uomo, ma c'è qualcosa nel modo in cui si avvicina che fa
credere a Devlin che riconoscerà il guardone quando diventerà visibile. I
sospetti di Devlin, sembra, erano stati sbagliati per ben due volte: prima
perché aveva pensato che Mary Elizabeth fosse morta per mano di un
estraneo incontrato per caso, poi perché era stato pronto a condannare il
giovane che aveva al suo fianco per il crimine. È questo l'assassino. Ogni
momento Devlin è più sicuro di questo fatto. Il cuore affretta i suoi battiti:
il respiro si fa affannoso. Perché sente un'eccitazione simile? E poi, e poi...
... le foglie smettono di nasconderlo, il groviglio di rami si divide, ed
ecco la faccia dell'uomo che toglierà la vita a Mary Elizabeth. Alla vista
ricorda come si era sentito bene, quando era venuto tra gli alberi, come gli
era sembrato legittimo nella sua ira, e forte e pieno di gioia, quando
finalmente i suoi dubbi erano stati spazzati via, alla vista di lei che
respirava affannosamente davanti a lui che la lavorava con il dito.
Aveva rimosso completamente l'avvenimento dai suoi ricordi, una volta
portato a termine il suo atto; nascosto da se stesso, in modo da non perdere
i brandelli della sua sanità. Ma adesso non ha senso negarlo.
Sono stato io. Sono stato io, sono stato io, sono stato io.
E tutto quello che lui può fare è guardare. Non può impedire che questa
scena venga portata fino in fondo: è già storia. Lui era venuto qui solo per
scoprire il colpevole, ed eccolo, in tutta la sua gloria vendicativa, mentre
maneggia il coltello con una tale velocità che i due amanti non hanno il
tempo di mettersi a correre. Pugnala il giovane sul fondo schiena e lui
cade. Non è morto, ma è troppo profondamente ferito per andare troppo
lontano. Poi Devlin inizia il suo lavoro su Mary Elizabeth, che sta
singhiozzando che non è colpa sua, non è colpa sua; lui l'ha presa di
sorpresa...
Devlin dice semplicemente: vi stavo guardando. Poi la taglia, lungo il
collo. Non è una ferita inferta per uccidere. Ne esce sangue, naturalmente,
ma poco. Lui si accinge a tagliarla ancora nello stesso posto, ma stavolta
lei alza il braccio per difendersi, e lui le taglia la mano, che si mette a
sanguinare. Lei strilla e, come se il suono fosse un segnale, Devlin inizia a
tagliuzzarla e a pugnalarla selvaggiamente.
Guardandosi mentre lavora, Devlin ricorda ogni cosa, e la sua mente
rivive orrori che devono ancora avvenire. Lui continuerà a pugnalarla a
lungo dopo che è caduta per terra e ha rinunciato a implorare aiuto. Le
taglierà il seno. Le aprirà la camicetta e le scarabocchierà la pancia con il
coltello. Si slaccerà i pantaloni e cercherà di urinarle addosso, senza
riuscirci, e sposterà la sua attenzione sull'amante, che ha strisciato per
qualche metro, allontanandosi dal posto dell'assassinio, per poi cadere per
la perdita di sangue. È in delirio quando Devlin arriva da lui; guarda il suo
assassino e sorride, come se pensasse di essere nella culla, e che lui sia suo
padre, venuto a dargli il bacio della buona notte. Devlin non lo pugnala,
ma spinto da qualche perverso desiderio prende il giovane tra le braccia e
lo porta al fiume. Anche adesso, l'amante non capisce il rischio che sta
correndo. Continua a guardare Devlin con aria sognante, e continua a farlo
anche quando Devlin lo butta tra le acque, che all'istante si richiudono
sulla sua testa. Il giovane non ha forza negli arti, non riesce nemmeno ad
agitarli per mantenersi a galla. Scende e si allontana, e si perde nel mare.
Devlin si guarda ritornare al corpo di sua moglie. La sua faccia è terribil-
mente inespressiva, come la faccia di un imbecille. Ma quella di lei lo è
ancora di più. Era mai stata così graziosa come l'aveva creduta lui? si
chiede. Non c'è prova evidente. È sempre sembrata un po' insignificante
nelle fotografie; come se avesse fatto le prove per i ritratti che le sarebbero
stati fatti qui tra poco, mentre giace nell'erba. Nessuno potrebbe vedere la
luminosità che lui ha visto in lei (forse il suo giovane amante l'ha vista, ma
non avrebbe scritto nessun inno alla sua bellezza adesso); no, sarebbe stata
una parte di questo mistero che nessuno avrebbe mai risolto, perché nessun
essere vivente avrebbe saputo come era essere suo schiavo.
Era quel pensiero più di qualsiasi altra cosa che lo preoccupava. Lei era
morta per colpa della sua mano indisciplinata, e questo era terribile. Ma
ancora più terribile era che nessuno avrebbe capito il suo potere.
Ancora nascosto? lui sente dire da qualcuno.
Trattiene il fiato; si guarda intorno. Non c'è nessun altro che lui, lui e la
morta.
Tuttavia rimane in ascolto, e la voce arriva di nuovo, esce dalla sua
bocca. Le parole contengono la luce. Non puoi dare la colpa alla sua
bellezza, mormora a se stesso. Sei venuto qua per capire. Allora guarda.
Prendi con te la luce e guarda.
Non ha bisogno di chiedere dove. C'è solo un posto in cui cercare l'origi-
ne di questa furia impietosa: nell'anima dell'uomo davanti a lui.
E così pensando, la luce porta il suo corpo fantasma sull'erba nel punto
in cui siede l'altro se stesso con le mani macchiate di sangue.
Fai la tua domanda, dice la luce, e lui diligentemente la fa. Come è
iniziato questo? chiede più forte che può. L'uomo non dà segno di aver
capito la domanda: ma tira un profondo respiro mentre si prepara ad
alzarsi, e in quell'istante Devlin se ne va, come se quell'atto fosse tutta la
spinta di cui aveva bisogno per entrare in se stesso. Il mondo svanisce,
lasciandolo nel buio. È un buio pallido anche se una cosa simile non
dovrebbe essere possibile, questo nero appartiene più alla sua
indeterminatezza misteriosa che al suo colore. Non c'è niente a cui l'occhio
si possa aggrappare, da nessuna parte, ma Devlin, comunque, non si fa
prendere dal panico. La luce getta ancora la calma sul suo cuore. Le cose si
chiariranno, pensa, se solo lui sarà paziente.
Quanto a lungo aspetta, sospeso nel nulla? È impossibile dirlo. Ma via
via il grigio comincia a coagularsi davanti a lui, come una cosa che dopo
essersi sciolta ricorda la sua forma precedente, e si rimette insieme nel suo
significato. Davanti a sé vede una finestra. E attraverso questa un albero.
Sente l'odore della primavera, adesso. Sente la brezza che agita dolcemente
i rami carichi di fiori che si muovono contro la sua faccia. Da qualche
parte nella casa alle sue spalle una porta sbatte, ma lui non si gira a
guardare. Lui sa di che casa si tratta, di quale finestra, di quale albero. Sa
persino cosa vedrà quando andrà alla finestra, anche se si è tolto questo
momento dalla mente per più di trent'anni.
Sono io, pensa. Sono nella mia memoria.
E cosa vede che guarda dalla finestra attraverso un intrico di rami e di
foglie? Vede un uomo e una donna che si accoppiano, stretti insieme nel
più intimo dei modi. La brezza si alza, le fronde si agitano ed eclissano la
vista. Lui ne è frustrato; vuole vedere di più. Aspetta, e gli viene consentito
un altro sguardo, e un altro ancora, ma vede troppo poco per soddisfare la
sua curiosità. Si allontana dalla finestra e corre per la casa. Tutte le finestre
sono aperte, e tutto quello che il vento riesce a trovare si muove. Le tende
volteggiano, la carta vola, un vaso di gerani viene rovesciato. Lui adesso è
alla porta sul retro, e guarda fuori l'erba screziata sotto l'albero. C'è sua
sorella - che ha tredici anni più di lui - con il vestito sollevato quasi fin
sopra la faccia, cosicché la metà bassa del suo corpo, che è completamente
svestita, dà l'impressione di emergere da un sacco foderato di pizzo. Lei
singhiozza e sospira mentre un giovane uomo che Devlin non conosce, con
il corpo interamente vestito (a eccezione del suo fallo, che penzola in fuori,
per metà eretto), le tocca con le dita la tenerezza tra le gambe aperte.
Adesso l'amante appoggia la bocca a quella zona, insinuando le mani sotto
le ginocchia della ragazza sollevandole i piedi da terra in modo da poterla
divorare meglio. Lei singhiozza più forte, e invoca il suo nome. Oh,
Stephen, dice, è così bello, oh sì, è così bello.
Il ragazzo Devlin vede di più di quello che vorrebbe, ma questo non
significa che riesca a distogliere lo sguardo. La pelle rosata di sua sorella,
la pelle bagnata di sua sorella, i piccoli pugni delle sue mani mentre si
agita sotto di lui.
Poteva scappare adesso? No, mai. Anche se nella sua pancia poteva
sentire il disastro che si avvicinava, anche se poteva vedere, quasi al
rallentatore, le pieghe del suo vestito che si abbassano, come un velo che
cade; anche se sa che lo vedranno qua, mentre curiosa, e che le
conseguenze saranno terribili, non riesce a scappare da quello che è certo
succederà.
E poi succede. Gli occhi di sua sorella compaiono alla vista, prima muo-
vendosi sulla faccia del suo amico, poi, un istante più tardi, sulla faccia di
suo fratello. Adesso sta protestando vigorosamente, avvertendo Stephen
della presenza di una spia, spingendolo via mentre si agita per coprire la
sua nudità.
L'amante si è alzato, e il suo fallo gli dondola davanti come un dito
grasso che faccia cenno di no. In cinque o sei passi lui è addosso al
ragazzo, e inizia a picchiarlo con tanta forza che in pochi minuti Devlin si
ritrova a terra a vomitare mentre il mondo diventa bianco. Adesso sua
sorella si è alzata, il suo oltraggio per la presenza di un testimone si è
trasformato in terrore mentre i colpi continuano a scendere a pioggia.
«Non ucciderlo!» grida. «Oh, Stephen, no...»
Si sta muovendo adesso per prendere il braccio del suo amante, per
fermare il pugno prima che spacchi il cranio di Devlin come se fosse un
uovo, e per essersi data da fare si guadagna un colpo lei stessa, duro, duro,
sulla faccia. E in seguito un altro, e poi un altro, a cui lei risponde con
colpi suoi, e maledice, anche se quando apre la bocca ne esce più sangue
che parole. Cade in ginocchio, e afferra il fallo di Stephen, che è ancora
duro. Ha paura che lei abbia intenzione di staccarglielo? O è
semplicemente eccitato da una nuova febbre per la violenza di lei, e si
lascia andare senza preoccupazioni per le conseguenze? Lei non riesce a
parlare, adesso, la sua faccia è conciata troppo male. E tuttavia continua ad
aggrapparsi alla sua virilità, assurdamente, mentre i colpi la immobilizzano
sempre di più.
E nella caligine del suo dolore Devlin sente la calma della luce che
scende su di lui; sente che il visitatore è scivolato fuori dalla vittima che è
stato, e si muove inesorabilmente verso l'uomo che sta sfigurando sua
sorella.
«Voglio tornare al fiume, per favore», dice alla luce, ma sa, anche
mentre parla, che il viaggio è appena iniziato. È andato alla ricerca di un
colpevole, ma avendo scoperto la sua colpevolezza, la ricerca non può
finire qua. Se Devlin uomo ha ucciso per le ferite per cui Devlin ragazzo
aveva sofferto, allora che ne è di colui che lo ha ferito? Da dove è venuta
la sua brutalità?
Ed entra nella carne di Stephen, come la fiamma di una candela a
mezzogiorno, invisibile, ma tuttavia capace di dare l'avvio a
conflagrazioni.

Sapete cosa è successo dopo. La parabola è perfettamente trasparente.


Ma io devo dirvelo: devo credere che il mio significato risieda non nel
movimento per sommi capi della storia, ma nel ticchettio della sintassi e
della cadenza. Se no, ogni storia può essere bollita insieme in poche frasi
senza fascino; una sequenza di vittime: questo e questo e questo; poi il
matrimonio o la morte. Ci deve essere di più nella narrazione delle storie,
così come ci deve essere di più nelle nostre vite.
Quindi adesso Devlin si trova nella memoria dell'uomo che lo ha
brutalizzato. E lì vede una stanza sporca, e un letto sporco. Qualcuno ha
cagato sul letto, prodigiosamente, spazzando escrementi sul cuscino,
persino sul muro contro il quale il letto si trova. Il tanfo è forte.
Lo sguardo in prestito va allo specchio, in cui per un attimo vede riflesso
un uomo con una cintura, che si avvicina al letto e vi tira fuori da sotto un
bimbetto di tre o quattro anni, e inizia a percuotere il bambino senza pietà.
È lui il Cagone, senza dubbio: le sue natiche sono piene di quella roba.
Ma la punizione va ben al di là del crimine. In pochi minuti i singhiozzi
del bambino si alzano a un tale livello che Devlin-in-Stephen inizia a
strillare istericamente. Rimpiange subito il suo rumore. Il bambino che ha
cagato viene lasciato da parte, e la punizione arriva invece in direzione di
Stephen: altri colpi, altri strilli.
E anche nella foga dell'assalto, la calma della luce arriva di nuovo, e di
nuovo Devlin se ne va, fuori da una memoria, dentro a un'altra: nella
mente dell'uomo con la cintura. È tutto così semplice, allora, pensa mentre
se ne va: è solo la rabbia che si tramanda da una generazione all'altra? È
questa tutta la storia del dolore, per sempre?
Non è più nella testa di Stephen, ma nella testa dell'uomo - è un padre o
un patrigno? - che lo picchia. Sente il corpo pesante dell'uomo intorno a
lui, un'anima pesante, e davanti a lui non vede Stephen che si lamenta, ma
un ragazzo a torso nudo, con un sorriso e un coltello. C'è del sangue sulla
lama, e sulla mano di colui che lo regge: il sangue della vittima. E dietro il
ragazzo con il coltello, un mucchio di facce sudicie, che si godono lo
spettacolo. Questo è quello che l'uomo che picchiava Stephen ricorda
quando usa la cintura: un tempo dell'infanzia quando il bulletto locale
divertiva i suoi compari tormentando il ragazzo indifeso. Devlin riesce a
sentire i singhiozzi del bambino adesso, non sono così diversi da quelli di
Stephen o dai suoi.
Ricevo il messaggio, dice, sperando che la luce lo capisca. Non ha biso-
gno di seguire più oltre la processione all'indietro: il principio è
perfettamente chiaro. Per favore, dice, puoi lasciarmi andare adesso. Ma ha
iniziato qualcosa che non ha il potere di fermare. Sente ancora la spinta
della sua prima indagine, del suo feroce desiderio di sapere chi gli aveva
tolto il suo amore. Lo porta avanti, nel corpo del giovane che ha davanti. E
lì, con un'inevitabilità che fa star male, trova le crudeltà che hanno reso
brutale quest'anima. Un ricordo della mamma del giovane, che arriva dalla
cucina dove aveva tagliato la carne, che arriva con l'odore della carne
morta sulle mani e, oh, casualmente gli dà uno scappellotto per qualche
marachella. Non ha importanza quale. Riceve una cinquantina di colpi di
questo tipo da sua madre ogni giorno; non lasciano segni. Ma lui la odia
per la facilità della sua indifferenza. Un giorno, giura, avrà la volontà di
prendere il coltello della carne, lì sul piano, e di pugnalarla in quel cuore
duro...
Basta! Devlin grida di nuovo. Ma no, naturalmente, sta già scivolando
nella casalinga con le mani macchiate di sangue, dentro questa donna triste
a cui non importa niente del dolore, dato o ricevuto, di chi è morto per
questo dolore, di chi ci è morto, mentre guarda suo zio che scuoia un
animale il cui cuore sta ancora battendo, e che poi le sorride con
un'occhiata negli occhi che lei sa che significa che questo lavoro
disgraziato lo eccita: l'agonia dell'animale, e la vulnerabilità di questa
ragazzina, che non ha ancora compiuto dieci anni e che nuda è più dolce
persino del corpo spellato che si agita sulla roccia. Ben presto lui avrà le
dita dentro di lei, e lei avrebbe desiderato di essere morta.
... e anche lui, proprio nel momento dell'azione. Vorrebbe essere
l'animale morente, senza colpa nella sua sofferenza, invece dell'uomo che
non può fare a meno di essere, in tutta la sua spregevolezza. Non si vede
mai con maggiore chiarezza che nel momento della violazione, mentre lei
singhiozza perché lui faccia in fretta, per favore zio, per favore zio...
... in gioventù aveva conosciuto un religioso che gli aveva detto che la
colpa e il dolore erano il sale dell'anima, che ci preservano dal tarlo della
soddisfazione, e ci tengono retti in modo che Dio ci possa divorare in
paradiso alla fine dei tempi. Queste parole lo hanno perseguitato, nel corso
degli anni, gli hanno riempito la testa di immagini del suo corpo posato
sulla tavola di Dio, insieme agli altri corpi di anime colpevoli come la sua.
E al pensiero di essere divorato, si eccitava e, nella sua erezione, pensava
ai bambini e a come poteva portarli a tavola con lui, a come avrebbe
potuto avere compagnia il Giorno del Giudizio.
Adesso vede il prete con gli occhi della mente, mentre si allontana dalla
roccia, lasciando la ragazza violentata a ricoprirsi. Vede delle lacrime che
scendono dalle guance dell'uomo. E la ricerca continua, nella testa del
prete; in una memoria dentro una memoria dentro una memoria....
Il prete ha perso ogni speranza di innocenza durante una piccola guerra,
in Europa, durante la quale si è innamorato di un soldato. Non si erano mai
toccati, se non per stringersi la mano, né si erano scambiati alcuna parola
affettuosa. Ma il prete era certo che i suoi teneri sentimenti erano
ricambiati, e l'ultimo giorno di guerra era andato a dichiarare i propri
sentimenti a quell'uomo. Lo trovò, dopo molte ricerche, in un mucchio di
cadaveri. C'era un vecchio soldato che faceva rotolare i cadaveri in una
tomba comune, e vedendo il prete che fissava la faccia del suo amato, gli
chiese: Conoscevi quest'uomo?
Il prete aveva provato vergogna dei suoi sentimenti, e rispose che no,
non conosceva quell'uomo. Che stava semplicemente meditando
sull'assoluta autorità della morte. Il becchino fece finta di essere convinto,
ma non lo era. Odiava i preti - il loro linguaggio, il loro compiacimento - e
vide qui un'opportunità di procurare sconforto all'uomo davanti a lui. Se è
un'ispirazione che stai cercando, disse, facendo avvicinare il prete al
cadavere del soldato, allora non cercare oltre, e così dicendo, scoprì i
fianchi del soldato, che erano spezzati fino a mostrare le ossa.
... e guardando il prete annaspare e stare male e allontanarsi correndo e
urlando, il becchino rise, anche se nella sua risata non c'era gioia.
In gioventù anche lui aveva amato profondamente e aveva perso
l'oggetto della sua devozione: due sorelle con cui aveva vissuto in
un'unione senza Dio per cinque anni, finché una pestilenza se le portò via
entrambe, insieme ai sei bambini che gli avevano dato, tutto nello spazio di
una settimana.
E la pestilenza era stata trasmessa alle donne da un uomo che sapeva di
portare con sé la morte, e la stava trasmettendo anche mentre accarezzava i
bambini sotto il mento e accarezzava le guance delle donne con il pollice.
Aveva preso questa peste in Africa, dove era andato come mercenario, e
aveva visto tali crudeltà gettate sugli innocenti, ed era diventato così
rabbioso per tutto quello che aveva visto che iniziò a pensare che
diffondere questa peste fosse una gentilezza.
E così via, avanti, una mente dopo l'altra, un dolore dopo l'altro.
Devlin non piange più. È già abituato ai dolori che testimonia. Non
ricorda qual è il suo scopo in questo; non ricorda nemmeno chi è. Lui si
limita a continuare a volare attraverso un catalogo di perdita e di crudeltà,
innocenza punita e colpa ricompensata, sofferenze non spiegate, morte non
meritata. A volte si trova nel corpo di un uomo, a volte di una donna, a
volte di un bimbo. Sente le loro forme che cambiano intorno a lui, come la
luce lo porta lungo la linea delle azioni e di chi le compie. Lui afferra
vagamente che questo viaggio lo consegnerà alla fine in qualche stato
primordiale: che lui sta viaggiando all'indietro verso qualche causa
iniziale. Ma il concetto è troppo difficile per lui perché lo possa tenere per
più di un attimo; l'attimo successivo se ne è andato, e lui è come uno
sciocco carico spedito nel passato, la sua mente come la mente di un
dormiente, che afferra solo le vaghe forme dei sogni.

E sulla riva del fiume, gli uccelli si fanno silenziosi. L'aria fredda vibra;
scuote minuscoli granelli di ghiaccio argenteo dai più piccoli fili d'erba.
Qualcosa è imminente.
Il fiume è troppo potente per farsi influenzare, naturalmente. Va avanti,
con il suo corso inalterato. A qualche distanza a valle da questo punto,
Shank cerca i villani che crede abbiano ucciso la sua amata moglie; tra
poche ore sarà morto lui stesso, e portato via dal cuore del fiume. Adesso il
tremore delle cose aumenta, e tra gli alberi appare una forma; accesa dalla
sua stessa luce strana.
Non lontano da questo posto, Oswald è venuto a prendere il corpo di
Agnes dalla riva del fiume; e qui incontra quello che ritiene una qualche
specie di spirito. Non lo è. È solo il povero Devlin, perso, che vaga. È
venuto sulla riva del fiume e ha visto il cadavere, e la vista è stata
sufficiente a scuoterlo di nuovo nella necessità di trovare un qualche
scopo. Ricorda di essere stato nella casa di Shirley; ricorda il dolore e
l'incomprensione che lo ha portato qua. E, naturalmente, ricorda l'azione
che aveva nascosto a se stesso: la sua dolce Mary Elizabeth che
sanguinava davanti a lui.
Vedere quest'altra donna - un cadavere più penoso (se fosse possibile) di
quello di sua moglie - che giace nel fango, lo ha riportato a una lucidità
terribile. Vale a dire: lui è di nuovo se stesso. Ma non capisce la simmetria
degli avvenimenti. Lui pensa di vedere il cadavere di sua moglie,
trasformato in qualche modo. Si avvicina per guardarlo più da vicino. No,
questo non assomiglia nemmeno vagamente alla sua Mary Elizabeth.
Chi è? chiede al fiume. Il fiume ruggisce, ma non gli offre nessuna ri-
sposta.
Distoglie lo sguardo dalla vista di lei e vede - là, tra gli alberi - una
figura, vestita di pelli d'animale, che lo guarda. È questo l'assassino, si
chiede, catturato nel momento della fuga? Che vista penosa che è: una
specie di ombra, che non potrà mai aver pace.
E, pensando a questo, inizia a piangere. Non per l'uomo davanti a lui,
che potrebbe anche non esserne responsabile, ma per se stesso, che è perso
in una ricerca che non ha conclusione, almeno fino a quando non tornerà al
primo crimine, al peccato dell'Eden: e come potrà conservare la sua
lucidità in un viaggio di questa portata? Impossibile.
Lui chiede all'uomo tra gli alberi: Chi è questa donna? Senza aspettarsi
veramente una risposta. Non si sorprende allora che l'uomo prenda il volo
e scompaia, tra gli alberi, lasciando Devlin da solo sul fiume, con il cuore
troppo gonfio per essere in grado di formulare delle domande. Di cosa è
gonfio? Oh, di niente di puro, di niente che possa portare questa storia a
una graziosa conclusione morale. Non sente un tormentoso rimorso per
quello che farà tra un migliaio d'anni, sulla riva del fiume; non ha trovato
una comprensione più profonda di come funziona il cuore umano. Nel suo
viaggio qua ha solo imparato quello che sapeva già: che la crudeltà porta
crudeltà. E allora? E allora cosa succede se lui è stato plasmato da mani
altrui a fare del male con le proprie mani? Non c'è bellezza in una tale
ripetizione, nessun significato profondo. Shirley aveva ragione, non c'era
nessuno schema grandioso.
E adesso, si chiede. Deve andare avanti e avanti e rassegnarsi alla sua
terribile discesa? Sembra che non abbia scelta in questa faccenda. Lui è
rassegnato a perdere ogni significato di sé mentre continua, e percorre il
millennio, attraversando vite che non sono la sua, e che allo stesso tempo
lo sono, perché lui ne è una conseguenza: la somma grottesca delle loro
sofferenze e del loro dolore.
Se potesse voltarsi verso di me, se potesse trovarmi nel mio capanno sul
fiume, cosa, mi chiedo, cosa vorrebbe da me, che ho il controllo del suo
destino?
Adesso me lo sto immaginando, che viene sulla soglia, abbassando la te-
sta sotto il ramo ricoperto dal muschio che costituisce l'architrave della
porta, che mi guarda e dice: Sei tu il mio creatore?
Gli rispondo: Sì, sono io.
Sei tu che mi hai portato qua? dice.
Gli rispondo: Sì, sono stato io.
E dove andrò? chiede.
Bene, gli dico. La scelta è semplice. Il fiume scorre in due direzioni, dice
lui, un po' irritato. Sì, sì, l'ho sentito. Così può essere avanti o indietro, è
questo che mi stai dicendo.
Mi stringo nelle spalle. In breve, dico.
Bene, non mi piace nessuna di queste due possibilità, risponde lui. Se
vado indietro, cosa ci sarà per me? Mi consegno alla polizia, dichiaro
l'insanità, e corro il rischio in tribunale? Non è un'idea molto attraente. E
se io continuo con il mio viaggio, finirò un gorilla. Il gorilla che ha
commesso il primo peccato, ecco che cosa diventerò. E non mi piace
nemmeno questo.
Allora dimmi quello che vuoi, gli dico.
Voglio una via d'uscita, voglio una possibilità di redenzione, voglio
Si interrompe a metà della frase, guarda indietro.
Cosa c'è? gli chiedo.
Ho sentito
Cosa?
qualcuno che piange.
Non è così insolito, gli dico. Forse qualcuno nel fiume
Che sta affogando, vuoi dire?
È successo, gli rispondo.
E tu te ne stai seduto lì? dice, senza tentare di nascondere il suo disgusto
per la mia passività.
Di nuovo mi stringo nelle spalle. Se si sono buttati dentro e poi se ne
sono pentiti, è un problema loro, gli dico.
Ma se si è trattato di un incidente, dice lui, se stavano solo camminando
in riva al fiume, e se sono inciampati, e scivolati, e non avessero voluto -
Adesso nei suoi occhi ci sono delle lacrime. Se non fossero riusciti a
controllarsi
Come te? dico a voce bassa.
Lui mi fissa. Ma le lacrime non si fermano. Gli riempiono gli occhi, poi
gli scendono dalle guance. Vorrei poter disfare ogni cosa. Vorrei poter
andare alla sua tomba e svegliarla.
Una volta ho avuto una visione
Di cosa?
Di gente che viveva all'indietro. Un uomo stava scavando dei cadaveri
fuori dal terreno
C'è ancora quel grido, dice lui, distogliendo lo sguardo da me.
Qualcuno è là fuori
Aspetta, non ho finito di raccontarti la mia visione.
'fanculo le tue visioni, dice lui; non ne ho bisogno. Sei perso anche tu
come me.
Dicendo così, mi lascia nel mio rifugio, e la conversazione immaginaria
arriva alla sua conclusione.
E tuttavia continuo a sentirlo. Anche se lui non è mai stato con me,
anche se io sono sempre stato solo sulla riva del fiume, ad aspettare che
una storia mi venisse a trovare, io lo sento là fuori, sopra il rumore
dell'acqua.
Aspetta, dice. Aspetta.
Adesso c'è una nuova svolta, penso tra me. L'uomo si comporta come se
avesse una certa misura di autodeterminazione: come se potesse
allontanarsi da me, e comunque, in qualche modo, continuare a vivere.
Naturalmente, è impossibile. Io l'ho evocato perché servisse alla mia
storia, lui non può esistere al di là del mio sogno di lui; non può fare
nessun viaggio che io non abbia immaginato prima.
E tuttavia, mentre mi alzo dal mio posto all'ombra, so che si proverà che
sto sbagliando e il pensiero mi mette di buon umore. Devlin è andato dove
io non ho ancora guardato. Tutto quello che posso fare è seguirlo, per
quanto strano possa essere.
Faccio un passo fuori nel crepuscolo e lo cerco. Eccolo, a meno di venti
metri dal mio posto, che si muove tra gli alberi. La fiamma che porta
lampeggia dentro di lui, illuminando l'erba e il tronco degli alberi, e i rami
spogli sopra la sua testa. Io lo guardo, incantato. E lo fa anche l'uomo il cui
pianto ha richiamato qua Devlin: padre Michael. Lui si inginocchia
accanto al corpo di Agnes, mentre stringe nella mano la lama con cui le ha
fatto tanto male. Lui si è sollevato la tonaca, esponendo i suoi genitali. Lui
ha intenzione, credo, di mutilarsi qua, vicino a lei, per rendere il suo sesso
altrettanto irriconoscibile come ha ridotto quello di lei, cosicché quando il
suo corpo avrà sanguinato a morte, sotto la vita, non sembrerà tanto
diverso da quello di lei.
Ma la vista di Devlin gli toglie questi pensieri dalla testa. Lascia cadere
il coltello, e smette di piangere.
Mio Dio, dice, senza desiderare di profanare il nome del Signore.
L'uomo che si muove tra gli alberi verso di lui sembra davvero il suo
Salvatore da lungo assente. Con la luce che proviene dalla sua stessa
sostanza, la dolce calma del suo aspetto, e soprattutto, il modo in cui tende
le braccia verso padre Michael, come per perdonare quello che fino a quel
momento era sembrato imperdonabile.
Cosa dovrei fare? Dovrei intervenire per fare che si renda conto del suo
errore? Dirgli che l'uomo dal quale spera di ricevere il perdono è tanto
colpevole quanto lui? Che è solamente un peccatore, perduto nel tempo
sulla riva del fiume? No; questa sarebbe solo un'altra crudeltà da
aggiungere al catalogo; non servirebbe a nessuno scopo, eccetto forse a
placare la mia invidia per il conforto che prova.
Mi sposto un po' più vicino, nella speranza di sentire quello che passa tra
di loro, ma non sono abbastanza svelto. Quando arrivo a portata d'orecchio
hanno già finito di scambiarsi quelle poche parole che desideravano dire, e
padre Michael si sta alzando dalla sua posizione accanto al corpo di
Agnes, lasciando cadere il coltello con cui stava per evirarsi. Allunga le
braccia verso il suo Redentore, e mentre lo fa, con lacrime di gratitudine
che gli scendono dalle guance, Devlin allarga le braccia. Non è un
abbraccio che gli offre; sta semplicemente dando possibilità al padre che si
pente di vedere la fiamma, che almeno ai miei occhi sembra aver preso
dimora nel torace di Devlin. Ondeggia al ritmo del suo cuore, mentre la
sua incandescenza viene fermamente pompata nel suo sistema. Vedo la sua
presenza che si diffonde, persino attraverso il tessuto della camicia e dei
pantaloni di Devlin: è come se lui venisse consumato dalla fiamma
dall'interno all'esterno. Non scarto la possibilità che sia proprio così. Non
aveva forse osservato Shirley che le cose sacre hanno una volontà propria?
Qualunque sia il significato di questa vista, ha ostacolato padre Michael:
senza dubbio lo rinforza nella sua convinzione che l'uomo davanti a lui sia
qualche divinità. Allunga le braccia per toccare il suo Salvatore dal cuore
leggero, e come le sue dita prendono contatto la fiamma diventa
improvvisamente ambiziosa, e in un momento stupefacente consuma la
carne e le ossa di Devlin Coombs completamente (insieme agli abiti che
quelle ossa e quella carne avevano coperto) lasciando solo una gloriosa
filigrana di vene piene di luce, con un cuore in fiamme al centro. Devlin
non emette suono mentre brucia. È come se la luce avesse semplicemente
richiamato dentro di sé l'illusione della sua sostanza; come se fosse sempre
stata solo un'invenzione della fiamma, anziché mia.
(C'è un pensiero: che la fiamma sia tutto quello che esiste, e noi tutti
siamo solo le ombre che getta su una pagina, compreso me. Pensavo di
essere stato condiscendente verso le illusioni di Devlin, lasciandogli
credere di avere una volontà sua; ma forse a sua volta la fiamma è
condiscendente nei miei confronti, e mi permette di nascondere la sua
onnipotenza in una narrazione.)
Padre Michael ha smesso di piangere; questo è troppo tremendo per le
lacrime. Guarda, con un tenue sorriso, come quello di un bambino
stregato, mentre la fiamma fa quello che lui sicuramente spera che faccia:
si muove lungo le sue dita e nel suo corpo. Il disegno delle vene che ha
delineato l'ultima parte di Devlin segue il suo creatore, e va dove va la
fiamma. Padre Michael inizia a ringraziare, non una sola volta ma una
cinquantina. Si aspetta che la fiamma lo bruci fuori dalla sua impurità? Se
è così, sarà deluso. Il suo corpo avvolge la luce, completamente,
sigillandola. Dopo che è entrata in lui non rimane niente, neanche il più
tenue bagliore a indicare che è stato benedetto dalla sua presenza. C'è solo
il buio del bosco, e lo scorrere del fiume, e una donna, morta nell'erba.
Padre Michael non la guarda più. Si allontana forse di novanta metri dal
posto dove giace, trova un posto dove possa vedere il cielo, e lì si corica,
con le braccia tese.
È solo dopo parecchie ore che io mi rendo conto di quello che ha
intenzione di fare. Non intende fare niente, a parte che stare coricato
nell'erba a lasciare morire il suo corpo.
Non è una cosa veloce, credetemi. Rimane vivo per cinque giorni,
giacendo nello stesso posto, il puzzo delle sue evacuazioni che richiama
l'attenzione degli animali selvaggi, che sono sorpresi, quando si
avvicinano, di rendersi conto che questo pezzo di carne umana respira
ancora.
Nella seconda mattina del suo martirio, due uomini del villaggio
vengono con Oswald a raccogliere il corpo di Agnes. Senza mezze parole
Oswald li ha avvertiti che questo è un posto maledetto, e loro non
indugiano, ma prendono il cadavere e lo portano via con premura. Nessuno
di loro vede padre Michael; né lui fa alcun tentativo di attirare la loro
attenzione.
Passano le prime ore di quei primi giorni dell'anno Mille e le lunghe
notti fredde, e una di queste porta con sé una leggera spolverata di neve.
Odo i denti del prete che battono, e la quarta notte scivola nel delirio, e nel
delirio a volte prega in latino, a volte parla, come se avesse un compagno
invisibile. Più di una volta sono tentato di andare a sedermi vicino a lui e
di ascoltare. Ma resisto. Questo è il suo momento. Si è meritato la sua
solitudine.
Appena prima di mezzanotte, il cinque di gennaio, il suo respiro diventa
veloce e superficiale, poi si ferma completamente. Mi sento solo, dopo che
se ne è andato, anche se conoscevo questi uomini, questi due in uno, meno
di quanto credessi. Infatti, per essere onesti, quasi per niente. Forse,
pensandoci, non si tratta di solitudine che provo. Forse è invidia, che loro
si siano trovati, e abbiano redento le loro anime con la fede e la fiamma, e
abbiano trovato un tale conforto in quello che credevano che avrebbero
potuto morire una morte disgraziata, e considerarsi fortunati.

Dopo un po', vado a guardare il fiume.


E dopo un altro po', metto giù queste ultime parole, appoggio il mio
blocco in un punto in cui spero che venga trovato e, dopo aver trovato un
posto in cui le acque sono così tumultuose che ci sono poche speranze che
possa resister loro, mi immergo.
Non posso dire se Giovanni del Deserto, vestito di pelli di capra, mi
aspetta là, con le mani che lasciano cadere l'acqua battesimale, o se
Cristoforo il Gigante verrà a prendermi sulle sue spalle, chiamandomi
Figliolo; o se Cristo verrà, con le trote che gli saltano vicino, desiderose di
spargere i loro arcobaleni davanti ai suoi piedi bucati.
O se io sarò semplicemente trasportato via, guardando attraverso il vetro
liscio dei miei occhi, sperando di vedere prima di annegare sole, luna e
stelle che risplendono nello stesso firmamento.

Postfazione
(Per concludere)
di Douglas E. Winter

Molto tempo fa, ma non tantissimo, avevo curato un'antologia di


racconti inediti dal titolo Prime Evil. Il libro doveva essere la celebrazione
di quella narrativa elusiva conosciuta come «horror» mentre raggiungeva il
suo zenith negli anni Ottanta. Io avevo pensato al suo contenuto come
narrativa horror per gente che non leggeva horror: una vetrina di scrittori
di fama e prosa di qualità che ricordasse ai lettori della grande tradizione
letteraria quello che l'idea del genere volgarizzava. La mia ambizione fu
ricompensata, e il successo del libro sul mercato portò a una proposta
inevitabile dell'editore: il temuto seguito.
Declinai senza esitazioni. Prime Evil II sembrava una contraddizione in
termini. C'era ancora molto da dire sull'horror, e il compenso era
interessante; ma, per definizione, il secondo di una serie non può che
essere una ripetizione di quanto è venuto prima. Vi era anche implicita una
macabra ironia: rivisitare lo stesso territorio non avrebbe fatto che
affermare i confini del genere che Prime Evil avrebbe dovuto infrangere.
Un secondo volume sembrava altrettanto necessario di un settimo, o di un
settantesimo. Quello di cui i lettori, e gli scrittori, avevano bisogno era
qualcosa di nuovo. Promisi al mio editore, e a me stesso, che avrei potuto
fare qualcosa di meglio di un seguito e, in realtà, qualcosa di unico.
L'idea, quando mi venne, non era completamente originale. Ogni tanto,
quando gli scrittori si ritrovano tra di loro (di solito in un bar), si parla a
ruota libera di collaborazioni e, a volte, emerge l'idea stravagante di un
romanzo scritto da un gruppo di talenti brillanti.
Come altri, anch'io mi sono chiesto di tanto in tanto se queste
chiacchiere oziose avrebbero potuto trovare una realizzazione sulla carta
stampata. Ci sono dei precedenti, tra cui tre romanzi prodotti nel 1930 dal
Detection Club, un consesso di scrittori del crimine inglesi tra i cui
membri si contano Anthony Berkeley, Agatha Christie, Milward Kennedy
e Dorothy L. Sayers. Per festeggiare un anniversario di Fantasy Magazine,
Julius Schwartz concepì The Challenge from Beyond (settembre 1935), un
paio di storie scritte a molte mani da scrittori di pulp fiction come Robert
E. Howard, H.P. Lovecraft, A. Merritt e E.E. «Doc» Smith. Più di recente
è arrivato l'orgiastico Naked Came the Stranger (1969), che è stato scritto
da un gruppo sotto pseudonimo. Ma questi testi erano resi pesanti dalla
loro stessa concezione, che costringeva gli scrittori a dividersi i
personaggi, l'ambiente, la trama e - alla ricerca della coesione narrativa - lo
stile. Visione e voce, le qualità che definiscono i nostri migliori scrittori,
erano soggiogate da un denominatore comune.
Uno sforzo di gruppo più filtrato è l'antologia, dove storie individuali
sono inserite all'interno di un paesaggio narrativo con le sue proprie regole
descrittive. Questi libri stanno diventando sempre più popolari, ma (come
implica il loro nome) esigono che gli scrittori condividano i personaggi o
l'ambiente, di solito con lo scopo di propagandare un fumetto, una serie
televisiva, o un film. Scrittori di narrativa immaginaria (a parte quelli che
provano piacere alle sfide tecniche o che hanno bisogno dei soldi)
raramente trovano ispirazione o creano della buona narrativa quando
piegano il loro talento ai bisogni predefiniti di altri. Per ragioni simili, gli
scrittori talvolta decidono di non partecipare ad antologie di temi
vagamente collaborativi, che legano insieme le storie con un sottile filo
comune.
Per mettere insieme gli scrittori più bravi e più brillanti, avevo bisogno
di un forum che permettesse totale libertà creativa e che tuttavia avesse la
forza narrativa e l'unità tematica di un romanzo. Per un po' temetti che non
ci fosse soluzione.
Svegliandomi una notte al buio, in preda all'insonnia, mi trovai a
riflettere su come sarebbe stata la vita tra una decina d'anni, alla fine di
un'altra decade - in realtà la fine del secolo - quando avrei raggiunto
l'inimmaginabile età di cinquant'anni. Poiché sono nato nel 1950, la mia
vita è sembrata misurata dalle decadi, e l'anno duemila ha un significato
particolare per me; ma mi sono reso conto che questo anno era pieno di
significato per tutti noi e che il suo passaggio avrebbe dovuto essere
ricordato nella narrativa.
In termini matematici, l'anno 2000 segna l'ultimo anno del Ventesimo
secolo (e non, come molti credono, il primo anno del Ventunesimo). Il
numero stesso, con tutti quegli zeri, è spaventoso, soprattutto dopo un anno
che ha tre nove. Il modo in cui scriviamo, leggiamo e percepiamo gli anni
verrà alterato in modo drammatico; ma dubito che la terra ne sarà scossa e
che la luna diventerà di sangue. Anche se abbiamo sentito racconti di
frenesia millenaria nell'anno 999, gli storici adesso non danno credito alle
storie di panico diffuso che sembra abbia accompagnato la fine del primo
millennio.
Il passaggio di un migliaio di anni - una chiliad, come osserva Clive
Barker - ha un significato particolare nella fede cristiana; ma il suo signifi-
cato è stato distorto da un evangelismo errante al punto che molti credono
che il millennio sia foriero di imminente distruzione. Infatti il millennio
invocato nel capitolo 20 dell'Apocalisse di Giovanni arriva dopo la tribola-
zione; è il regno di mille anni di Cristo sulla terra, durante il quale la
santità avrà il sopravvento prima della Notte del Giudizio e del proverbiale
Giorno Perfetto.
Allo stesso modo la parola apocalisse, con cui si intende erroneamente
una catastrofe sopraffacente, non significa la fine del mondo. Come il
titolo alternativo del capolavoro delirante di San Giovanni ci dice,
apocalisse - dal greco apokalyptein, scoprire - in realtà significa
rivelazione. Proprio come la Rivelazione di San Giovanni è l'ultimo libro
del Nuovo Testamento, gli ultimi anni del secolo, e in particolare quelli del
millennio, sono pieni di apocalisse. È un anniversario globale e,
inevitabilmente, un momento in cui fare le somme e andare avanti. Un
tempo di rivelazioni.
Quale modo migliore di segnare la fine del Ventesimo secolo e la nascita
del Ventunesimo, la fine del secondo millennio e l'inizio del terzo, se non
attraverso una sequenza di storie, ognuna collocata in un decennio degli
ultimi cento anni? Ecco una struttura che, attraverso la sua insistenza
cronologica, avrebbe permesso agli scrittori di lavorare dal cuore e che,
tuttavia, avrebbe offerto la cornice e la continuità di un romanzo.
Il risultato, la prima «antologia/romanzo», avrebbe dovuto chiamarsi
Millennium. Nei sette anni che seguirono, ho imparato quanto fosse
difficile mantenere questa promessa inebriante, mentre vivevo la vita della
legge. Nel frattempo, il mio lavoro è stato sottoposto all'attenzione
entusiasta di HarperCollins, che sono diventati i miei nuovi editori. Una
serie televisiva mi ha cooptato il titolo, e io ne ho colto uno più
significativo: Revelations.
Nonostante i miei viaggi e le mie tribolazioni, gli scrittori a cui ho
chiesto di collaborare hanno risposto con entusiasmo ed energia e, una
storia dopo l'altra, abbiamo costruito il libro. Il loro obiettivo, da scrittori
coscienti, era costruire una sfida per i nostri lettori, creando un
intrattenimento che assorbe l'immaginazione e che, nei suoi momenti
migliori, offre esattamente quello che il titolo promette: rivelazioni.
Scoprirete, credo, che gli scrittori che si sono uniti a me in questo viaggio
hanno fatto proprio quello.
Non c'erano regole: agli scrittori era stata data la scelta del decennio, il
titolo millenario del libro, e la rara possibilità di potersi dilungare; di
scrivere senza preoccuparsi di un limite di pagine. Le storie, meglio
descritte dalla denominazione romanzi brevi, non sono state scritte
seguendo qualche ordine particolare. Nessuno aveva visto quello che
avevano creato gli altri scrittori, a eccezione di David J. Schow e Craig
Spector, a cui avevo fatto vedere «Ariani e assenzio» di F. Paul Wilson
dopo aver letto la prima bozza di «Smantellare l'architettura della fortezza,
smantellare il Muro» ed essermi reso conto della convergenza dei loro
racconti. Quando l'ultima decade fu completa, Clive Barker si assunse il
compito imponente di creare un romanzo breve che «avvolgesse» il secolo
e che comunque rimanesse in modo provocatorio un romanzo che si
potesse leggere (nelle sue mani, maestosamente) per conto suo.
Anche se avevo invitato scrittori che erano noti per le loro inclinazioni
per la dark fantasy, non una sola volta ho usato la parola horror nel
descrivere il libro. La definizione che, di per sé, era stata innocente era
diventata un epiteto per alcuni, e un ghetto per molti. Anche se è una bella
etichetta per una vasta tradizione letteraria - provate a nominare un grande
scrittore che non abbia prodotto una grande storia soprannaturale - la
parola «horror» è stata corrotta dai sottoprodotti di cliché delle
pubblicazioni commerciali, di solito con una copertina nera, la maggior
parte dei quali tratta di vampiri o serial killer (e a volte di entrambi).
Volevo delle narrazioni che mi parlassero con voce originale, che mi im-
pegnassero in un dialogo, e ho scelto quegli autori le cui parole mi
avevano toccato, sorpreso, che avevano continuato a vibrare in un periodo
di ripetizione e di eccesso. Volevo assicurarmi che la narrativa di nome
conosciuta come «horror» sarebbe sopravvissuta nel Ventunesimo secolo;
e volevo che Revelations fosse per i lettori una garanzia di ciò.
Negli anni finali del Diciannovesimo secolo, la letteratura occidentale
dell'orrore e del soprannaturale ha sperimentato un profondo cambiamento.
Nello spazio di pochi anni sono stati pubblicati un numero sorprendente di
lavori horror capaci di generare ulteriori sviluppi, tra cui Lo strano caso
del dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson (1886); Il ritratto
di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891); The Great God Pan di Arthur
Machen (1894); L'isola del dottor Moreau (1896) e La guerra dei mondi
(1897-98) di H. G. Wells; Dracula di Bram Stoker (1897); Il giro di vite di
Henry James (1898); Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle
(1901); «The Monkey's Paw» di W.W. Jacobs (1902) e Cuore di tenebra
di Joseph Conrad (1902). Anche se ci sono spiegazioni alternative - il
declino degli imperi europei, i nuovi media (giornali e libri prodotti a poco
prezzo, attraverso cui la parola scritta ha ottenuto, per la prima volta nella
storia, un pubblico di massa) - è una tentazione considerare il ruolo che
l'avvicinarsi dei doppi zeri, la fine del secolo, può aver giocato sulla psiche
creativa.
La fin de siècle ha segnato la transizione di questa letteratura dal gotico
allo stereotipo. Con il nuovo secolo, e l'avvento di mezzi visivi (film e in
seguito fumetti e televisione), la personificazione dell'horror in un formato
visivo - la creatura - ha assunto enorme importanza. Da quel momento
l'estetica del vedere ha dominato la nostra cultura popolare, facendo
proliferare i «film sui mostri» degli anni Cinquanta e i film pieni di sangue
e di effetti speciali degli anni Ottanta e Novanta, nei quali l'illusione ottica
ha avuto il sopravvento sulla trama e in cui, nei casi peggiori, l'unico ruolo
umano era quello della vittima.
La televisione ha una morale scaltra, Ai confini della realtà di Rod
Serling ha avvertito dei pericoli di ricercare il mostruoso in una pelle
diversa dalla nostra. Proprio come L'abbazia di Northanger (1818) di Jane
Austen ha segnato il tramonto sicuro del gotico, criticandone le
apprensioni verso l'esterno, lo scenario semplice di Serling, nel quale gente
comune si affretta con fervore mccarthistico a condannarsi l'un l'altro come
mostri, ha messo in evidenza quanto sia fragile il regno della creatura.
L'horror, ci ricordano questi scrittori, non è la finzione rassicurante di
corpi e case contorte, o anche menti contorte. È tutto quello che non può
essere reso rassicurante, che si evolve, in continuo mutamento, perché
riguarda il nostro bisogno inesorabile di affrontare lo sconosciuto, e
l'emozione che proviamo quando ne siamo in balìa.
Adesso che abbiamo visto i mostri, adesso che sono arrivati a Maple
Street, abbiamo imparato quella certa verità: loro sono noi. Anche se senza
dubbio sopporteremo, e a volte ci divertiremo, nel loro regno per gli anni a
venire, il successo di Christopher Pike e R.L. Stine nel mediare
l'immaginario dei mostri verso giovani lettori suggerisce che, come ci
ricorda la Bibbia, arriva il momento in cui bisogna abbandonare le cose
infantili.
Come creatori e consumatori del fantastico dark, ci troviamo a una
svolta non diversa da quella che hanno affrontato i sognatori e i devoti che
si sono trovati di fronte alla fine del Diciannovesimo secolo. Forse la
correlazione è fortuita, solo il prodotto di forze sociali e tecnologiche che
non hanno niente a che vedere con il calendario. Ma forse, solo forse, c'è
qualche altra forza al lavoro, un desiderio metafisico che, mentre l'orologio
conta fino al minuto finale di quel centesimo anno, verso la fine, e l'inizio
di un millennio, ci dice che è arrivato il momento di andare avanti: verso
un altro genere di horror che, come ogni nuovo giorno, abbia infinite
possibilità.

Anche se tutti coloro che hanno contribuito a Revelations avranno la mia


eterna gratitudine per gli sforzi considerevoli (e la loro pazienza), devo rin-
graziare in particolare David J. Schow, che ne conosce la ragione, per
quello che verrà; e Clive Barker, per esserci stato, primo e ultimo e
sempre.
L'entusiasmo e l'incoraggiamento del mio curatore originale, Hilary
Ross (che mi manca moltissimo), è stato uguagliato e sorpassato da quello
di John Silbersack e Caitlin Blasdell di HarperCollins U.S. e Jane Johnson
di HarperCollins U.K. A tutti loro i miei sentiti ringraziamenti.
Revelations è uno dei pochi libri che ha avuto bisogno, per essere dato
alle stampe, di una serie di avvocati, e io devo dare atto al lavoro di Dan
Brooks e Eamonn Foley della Layton, Brooks & Hecht che hanno aiutato a
insegnare a un certo qualcuno una lezione considerevole.
Grazie anche a Peter Schneider, Walter Jon Williams e Amy Stout per la
loro onestà e integrità; a Michael Barry e William C. Winter per la
consulenza storica e l'assistenza; a Steven Spruill per i pranzi; al dottor
Anton Trinidad per le sue parole a coloro che occasionalmente mancavano
di saggezza; e, soprattutto, al mio agente, Howard Morhaim, e a mia
moglie, Lynne, per essermi stati vicino.

E Dio asciugherà le lacrime dai loro occhi;


e non ci saranno altre morti,
né dispiaceri, né pianto,
né ci dovrà più essere altro dolore:
perché le cose di prima se ne sono andate.
Rivelazione 21:4

FINE

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