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Capitolo 10.

Sintesi. Il padre di Gertrude, ricevuta la nuova lettera, sfruttò il senso di colpa, il pentimento e lo sconforto
della figlia come arma per convincerla a piegarsi alla vita monacale. Gertrude cedette e si dichiarò pronta a
comportarsi come il padre desiderava. Gertrude compì gli ultimi passi per diventare monaca: espresse la
richiesta alla badessa del monastero di Monza, fu esaminata da un vicario che le domandò se la sua
intenzione di diventare monaca fosse dettata da un sincero desiderio o non fosse il frutto di una
costrizione, Gertrude mentì, fingendo di voler prendere il velo di sua volontà. Una volta entrata in
convento, per Gertrude i primi anni di clausura furono un tormento: aveva continui rimpianti e provava
astio verso le sue compagne. Pur non rivestendo ancora l’incarico di badessa che le era stato promesso,
godeva di molti privilegi, compreso quello di abitare in un appartamento separato che confinava con
l’abitazione di un giovane di malaffare di nome Egidio. Gertrude cominciò una relazione clandestina con
Egidio, che la indusse a commettere diversi atti illeciti, fino a coinvolgerla nel delitto di una conversa che
aveva minacciato di rivelare ciò che sapeva sulla loro relazione. La conversa scomparve e la gente pensò
che fosse scapata lontano. Gertrude, presa dai rimorsi, la sognava anche di notte. Lucia e Agnese si
trovarono di fronte alla monaca di Monza a distanza di circa un anno da quegli avvenimenti. La monaca
fece domande molto insistenti a Lucia e lei si sentì rispondere di non dare troppo peso alle domande della
monaca di Monza, perché le persone appartenenti ai ceti alti sono tutte particolari.

Riassunto ampio. Dopo aver letto la lettera in cui Gertrude lo supplicava di perdonarla, il principe convocò
sua figlia che, non appena si presentò al suo cospetto, gli chiese perdono in ginocchio, senza nemmeno
avere il coraggio di guardarlo negli occhi per la vergogna. Lui le parlò cercando di farla sentire in colpa e di
farle credere che ciò che era accaduto era la dimostrazione che lei, troppo debole di fronte alle tentazioni,
non era adatta alla vita mondana. Quando Gertrude acconsentì a diventare monaca, il principe cambiò
atteggiamento nei suoi confronti e assicurò alla figlia che, da quel momento, le avrebbe dimostrato il suo
lato amorevole. Mandò un servo a chiamare la moglie e il primogenito e, per condividere con loro la sua
gioia, comunicò che Gertrude era pronta a prendere il velo.

I familiari acclamarono la decisione di Gertrude, prospettandole una vita di agiatezza e onori. Stabilirono
che l’indomani avrebbero fatto immediatamente richiesta alla badessa. Onde evitare che la sfiorasse anche
un minimo ripensamento, le tennero occupato il resto della giornata tra impegni, congratulazioni, visite e
inchini. Quando gli ospiti se ne andarono, Gertrude rimase sola con i genitori e il fratello: suo padre la
elogiò nuovamente e lei, sentendosi finalmente benvoluta e forte, volle vendicarsi della cameriera che le
aveva fatto da carceriera e si lamentò di lei con il padre, che promise che l’indomani avrebbe rimproverato
la donna e assegnò immediatamente al suo posto un’anziana servitrice. La decisione di Gertrude rallegrò
tutta la famiglia che finalmente la premiò con la sua rinnovata considerazione. L’indomani Gertrude si lasciò
vestire e pettinare per andare in gita al monastero di Monza ed esprimere alla badessa la volontà di farsi
monaca. Prima di partire, il padre la prese in disparte e le disse che la sua dichiarazione alla badessa
sarebbe stata una formalità e le raccomandò di parlare poco ma in maniera disinvolta, per non lasciare
trapelare il sospetto che la sua decisione non fosse ferma e risoluta. Scesa dalla carrozza davanti al
monastero, Gertrude si trovò circondata da una folla che si divise in due parti, man mano che lei
attraversava. Si sentiva osservata, ma ciò che la teneva maggiormente in soggezione erano gli occhi del
padre. Condotta fino al monastero di Monza per dichiarare alla badessa che voleva prendere i voti,
Gertrude cominciò a parlare, ma la vista di una compagna che la fissava con aria di pietà e malizia la indusse
quasi a tirarsi indietro; bastò lo sguardo del padre a farla desistere, così Gertrude dichiarò che voleva
diventare monaca. La badessa replicò che avrebbe dovuto sottoporre la richiesta alle altre monache e ai
superiori, ma, conoscendo i sentimenti che in quel luogo si provavano verso la fanciulla, era sicura di un
responso positivo.
Dopo le congratulazioni e le acclamazioni, Gertrude fu contesa dalle monache, che le dimostravano
benevolenza con carezze e moine. La badessa, nel mentre, avvisò il principe che, qualora i genitori avessero
forzato la volontà della loro figlia, sarebbero incorsi nella scomunica, ma il principe la rassicurò. Mentre
tornavano a casa, Gertrude contò le occasioni che le erano rimaste per tirarsi indietro. Si sentiva in colpa
per non averlo ancora fatto, ma, visto che il padre mostrava di essere soddisfatto di lei, per il momento ne
fu rincuorata. Nei giorni successivi, Gertrude scelse una madrina e questo valse come ulteriore assenso
verso la scelta monacale. Poco prima che giungesse il vicario che avrebbe dovuto valutare la sincerità della
sua vocazione, il padre la convocò per essere sicuro che lei non rinnegasse il percorso intrapreso fino a quel
momento.

Per Gertrude ormai non era più possibile tornare indietro, così scelse una madrina e scrisse la lettera al
vicario, come prevedeva la consuetudine. Il padre di Gertrude le disse che ormai, dopo tutti i consensi dati
e i passi fatti, un ripensamento non sarebbe stato possibile. Aggiunse che, qualora Gertrude avesse cercato
di tornare sui suoi passi, sarebbe stato svilito il suo onore e le fece capire che si sarebbe trovato nella
condizione di raccontare a tutti del paggio. Vista la reazione turbata di Gertrude, suo padre si affidò dunque
al giudizio della figlia, le suggerì qualche risposta da dare al vicario e le prospettò la vita di clausura che
l’attendeva come piacevole e piena di vantaggi. Quando un servitore annunciò che era arrivato il vicario, il
padre di Gertrude li lasciò soli.

Il vicario era convinto che Gertrude nutrisse una sincera vocazione, perché così era stato informato dal
principe, e la interrogò, quasi giustificandosi per l’insistenza delle domande. Le chiese se la sua decisione di
farsi monaca fosse libera o se fosse stata dettata da qualche costrizione. Gertrude, che conosceva la verità,
allontanò spaventata la possibilità di raccontarla, immaginando l’ira del padre e dichiarò di voler prendere il
velo di sua spontanea volontà. Dal momento che il vicario non aveva motivo di dubitare di lei, il colloquio si
risolse come desiderava il principe che, una volta conosciuto l’esito, corse da Gertrude per riempirla di lodi
e carezze. Nonostante fosse combattuta tra i suoi desideri profondi e la necessità di evitare la
disapprovazione del padre, Gertrude proseguì dunque il percorso della vita monacale; viveva nel rimpianto
della libertà perduta e nell’odio del presente, rimuginava sui suoi passi falsi e disfaceva invano mille volte
con il pensiero i suoi assensi, invidiano ferocemente le donne che non si trovavano nella sua condizione.
Dopo 12 mesi di noviziato e pentimenti, si trovò al momento del sì definitivo: anche stavolta lo ripeté ed
entrò in monastero. A quel punto, qualunque fosse il modo in cui era diventata monaca, avrebbe potuto
condurre una vita serena: invece, continuava a sentire il peso dell’imposizione.

Una volta superato l’esame con il vicario, Gertrude entrò in monastero e iniziò a fare dispetti alle monache
che riteneva complici del padre nel convincerla a diventare suora. Dal momento che lei era pur sempre la
figlia del principe e quindi si trovava, nella scala sociale, un gradino al di sopra di loro, le compagne
subivano le sue prepotenze e i suoi sbalzi d’umore. Gertrude, però, non risparmiava nemmeno le monache
che non avevano tramato contro di lei e, anziché seguire il loro pio esempio, le derideva alle spalle. Le
consolazioni, in convento, erano poche e per nulla appaganti e, per di più, Gertrude non godeva del
confronto che avrebbe potute venirle dalla religione.

Gertrude non era stata insignita del titolo di badessa, però godeva di diversi privilegi, tra i quali l’incarico di
maestra delle educande. Invidiosa del fatto che avrebbero assaporato un giorno ciò che a lei sarebbe stato
precluso per sempre, spesso le maltrattava. In altri momenti, invece, partecipava all’allegria delle sue
allieve, lasciandosi persino andare ad atteggiamenti poco ortodossi. La sua esistenza proseguì in questo
modo per qualche anno, finché non si presentò un’occasione che sarebbe stata la sua disgrazia. Tra i
privilegi concessi a Gertrude per ripagarla del fatto di non essere ancora badessa, vi era l’assegnazione di
un appartamento separato che confinava con la casa di un giovane di malaffare di nome Egidio. Un giorno
Egidio vide Gertrude in cortile mentre lui era affacciato a una finestra, e osò rivolgerle il saluto: lei rispose e
tra i due cominciò una relazione che provocò in Gertrude, almeno in un primo momento, dei cambiamenti
positivi di umore. Dopo qualche tempo, però, la monaca tornò a essere dispettosa e capricciosa come
prima. Un giorno, una conversa, che aveva minacciato di raccontare i suoi segreti, sparì misteriosamente.

Dopo che fu scoperto un buco nel muro dell’orto, si fecero molte ricerche per trovare la conversa
scomparsa, dopodiché tutti si convinsero che di sua volontà fosse fuggita molto lontano (in Olanda). La
monaca di Monza evitava di parlare della questione, eppure l’immagine della conversa la perseguitava.
Avrebbe preferito mille volte vederla viva e minacciosa davanti a sé piuttosto che pensare a lei, giorno e
notte, in modo ossessivo.

Era trascorso circa un anno da quei fatti, quando Lucia e Agnese furono accolte al convento e alloggiate nel
quartiere della fattoressa attiguo al chiosco. La monaca di Monza riempiva Lucia di domande sulla
persecuzione di don Rodrigo, esprimendo giudizi molto strani: sembrava quasi che non capisse la
repulsione di Lucia per quel signorotto e che trovasse sciocca la sua ritrosìa. Dal momento che Gertrude la
assillava con le sue insistenti e invadenti domande, Lucia le eludeva timidamente. Confidatasi con Agnese,
la madre la rincuorò dicendole di non farci caso, perché secondo lei i ricchi erano tutti un po’ particolari.
Capitolo 11.

Sintesi. Il Griso, capo dei bravi, racconta a don Rodrigo l’esito negativo del tentato rapimento di Lucia ed
entrambi ipotizzano che nel palazzotto si nasconda una spia. Don Rodrigo è molto irritato dalla fuga di
Renzo e Lucia. L’indomani, il conte Attilio giunge al palazzotto di don Rodrigo, per ricordagli che i termini
della scommessa su Lucia sono scaduti. Saputo della discussione tra fra Cristoforo e don Rodrigo, il conte
Attilio si indigna perché il frate non è stato punito come meritava: propone quindi di chiedere aiuto al conte
zio, uomo molto potente e rispettato, ed esce per andare a caccia. Il Griso viene inviato in paese perché
raccolga le voci sulla notte del mancato rapimento. Quando torna, riferisce che Renzo e Lucia, dopo aver
tentato il matrimonio a sorpresa, sono stati mandati in due luoghi diversi. La notizia che i due promessi
sposi siano separati dà molta soddisfazione a don Rodrigo, che merita di danneggiare ulteriormente Renzo,
provocandogli problemi legali. Renzo, nel frattempo, arriva a Milano, e trova una situazione che non si
aspettava: vedendo la farina per terra, pensa che in città ci debba essere molta abbondanza, diversamente
dalla campagna, dove imperversa la carestia. Vede perfino del pane in terra e lo raccoglie. Giunto al
convento dei cappuccini indicatogli da fra Cristoforo, Renzo domanda di padre Bonaventura, ma gli viene
detto di aspettare. Renzo, attratto dal brulichio del tumulto, torna a vedere che cosa accade in città.

Riassunto ampio. Dopo il tentato rapimento, i bravi si presentarono dal Griso mortificati per il fallimento e
simili a un branco di segugi che tornano dal loro padrone dopo aver inseguito invano una lepre. Don
Rodrigo li attendeva nervoso e pensava a come ricevere Lucia, credendo che il rapimento fosse andato a
buon fine. Ma quando il Griso andò a fare rapporto a don Rodrigo sulla notte trascorsa, questi lo accolse
con disappunto. Il Griso, ferito dalle parole del suo padrone, rispose che aveva lavorato fedelmente
rischiando anche la vita. Per spiegarsi l’insuccesso del rapimento di Lucia, don Rodrigo ipotizzò che ci fosse
una spia e il Griso condivise il sospetto. Don Rodrigo gli affidò 3 compiti per il giorno successivo e lo
congedò elogiandolo, per risarcirlo dei rimproveri con cui l’aveva accolto.

La mattina seguente, Attilio ricordò a don Rodrigo che, essendo il giorno di san Martino, erano scaduti i
termini della scommessa. Questi garantì che avrebbe pagato e riferì dell’accesa discussione con fra
Cristoforo. Suo cugino si indignò del fatto che il frate non fosse stato punito come meritava e si prese
l’incarico di provvedere chiedendo appoggio al conte zio, membro del Consiglio stesso. Durante la
colazione, continuarono a discutere dell’accaduto; don Rodrigo era preoccupato non tanto della giustizia,
quanto del fatto che le chiacchiere della gente potessero giungere fino al podestà e contestò al cugino
l’abitudine di contraddirlo troppo: disse che quella era un uomo potente e che conveniva tenerselo buono;
Attilio replicò confermando che sarebbe andato a parlare al conte zio. Quando Attilio uscì per andare a
caccia, ritornò il Griso a riferire che cosa si vociferasse in paese.

Gli eventi della notte furono così inusuali che era impossibile che chi ne fosse a conoscenza non si fosse
lasciato sfuggire qualche notizia. Perpetua ammise di essere stata imbrogliata e raccontò dell’inganno alle
spalle di don Abbondio.

Anche Gervaso, che finalmente si era sentito un protagonista, e Tonio, che si era confidato con la madre,
avevano lasciato trapelare qualche notizia; solo Menico aveva parlato poco, redarguito dai genitori e chiuso
in casa. Le voci cominciarono a circolare in paese: il Griso riportò che tutti sembravano concordare sul
nome di don Rodrigo come responsabile dell’agguato alla casa di Lucia, ma che si moltiplicavano le ipotesi e
le congetture sul ruolo dei bravi e del pellegrino. La mattina successiva, dopo che Attilio ebbe ricordato a
don Rodrigo che aveva perso la scommessa, i due si accordarono per dare una punizione a fra Cristoforo.
Intanto, il Griso era andato in paese per avere informazioni sui promessi sposi e aveva scoperto che erano
scappati. Tornato al palazzotto di don Rodrigo, gli riferì tutto quanto: don Rodrigo si indignò all’idea che
Renzo e Lucia fossero fuggiti insieme con l’aiuto di fra Cristoforo, del quale giurò che si sarebbe vendicato.
Voleva scoprire dove si trovassero e mandò di nuovo il Griso a raccogliere notizie, ma costui chiese se fosse
possibile affidare a qualcun altro l’incarico, perché temeva che, lontano dalla protezione del suo padrone,
qualcuno potesse consegnarlo alla giustizia o addirittura ucciderlo per riscuotere le taglie che pendevano
sulla sua testa. Deriso dal suo padrone, il Griso accettò la missione. Don Rodrigo, intenzionato a creare a
Renzo problemi con la giustizia, pensò che avrebbe potuto chiedere consiglio al dottor Azzecca-garbugli, in
grado di maneggiare le gride secondo il proprio scopo; don Rodrigo, però non immaginava che Renzo si
stesse per mettere nei guai con le sue stesse mani.

Renzo era giunto a Milano animato da pensieri contrastanti, viaggiando a piedi attraverso una strada
difficoltosa e piena di fango, infossata tra 2 sponde. A un certo punto, vide da lontano il Duomo e lo
contemplò: ma poi si voltò indietro e, scorgendo il Resegone, si emozionò. Riprese il cammino e, un po’ alla
volta, notò degli elementi architettonici della città. Quand’era ormai vicino, chiese a un viandante la strada
più breve per andare al convento dei cappuccini. L’uomo che Renzo incontrò per la strada gli chiese di
spiegare meglio a quale convento si riferisse e lui gli mostrò la lettera di fra Cristoforo. Il signore vi lesse
come destinazione «porta orientale» (oggi Porta Venezia) e, aggiungendo che era vicina, gli indicò
l’itinerario per raggiungerla: Renzo si meravigliò della cortesia dei cittadini nei confronti della gente di
campagna. Superò la porta, che era molto diversa da quella dei tempi in cui scrisse Manzoni, perché era
rudimentale ed era il punto da cui partiva una via divisa da un piccolo fossato in due stradine tortuose.

Passando oltre la colonna di san Dionigi, Renzo si meravigliò che nessuno dei gabellini (coloro che
riscuotono la gabella, la tassa per l’ingresso in città) lo avesse fermato: i pochi compaesani andati in viaggio
a Milano, infatti, al loro ritorno avevano raccontato di grandi perquisizioni. A lui, invece, non avevano
chiesto nulla. La città sembrava deserta e silenziosa: si sentiva solo, da lontano, un rumore che era segnale
di un movimento importante ma distante. Renzo notò che per terra vi erano delle strisce bianche, che
presto riconobbe come farina: pensò che vi fosse grande abbondanza in città, diversamente dalla
campagna. L’impressione fu confermata quando Renzo, con sua immensa meraviglia, vide a terra delle
pagnotte. Renzo si mise in tasca il pane trovato per terra pensando tra sé e sé che, se fosse comparso il
padrone, glielo avrebbe ripagato. Riprese il cammino, ma vide che giungeva della gente dal centro della
città. In particolare, notò una famiglia che avanzava con un grosso carico. Un uomo aveva sulle spalle un
grande sacco che perdeva farina; la moglie aveva la sottana rivoltata in modo che contenesse una grande
quantità di farina, che ad ogni passo però si disperdeva per via dei movimenti; il figlio teneva stretto un
cesto colmo di pani che cadevano quando affrettava il passo per raggiungere i genitori. La madre sgridò il
figlio perché faceva cadere le pagnotte, ma lui replicò che non era colpa sua. Nel mentre arrivò altra gente
dalla porta, attratta dal fatto che si potesse trovare del cibo. Renzo capì di essere capitato in una città
insorta e questo gli arrecò un sentimento di piacere, perché anche lui, come la maggior parte delle persone,
era convinto che la carestia fosse stata provocata dai fornai e da chi portava via il grano. Ciò nonostante,
decise di stare alla larga dal tumulto e andò nel convento dei cappuccini dove domandò di padre
Bonaventura.

Giunto al convento dei cappuccini, Renzo domandò di padre Bonaventura. Il frate che gli aprì gli rispose di
aspettarlo in chiesa, ma il giovane, attratto dal brulichio della città, andò a vedere che cosa stesse
accadendo, sbocconcellando il suo mezzo tozzo di pane.
Capitolo 12.

Sintesi. È il secondo anno di carestia e a Milano la situazione è molto tesa, perché gran parte del popolo,
immiserito e affamato, crede che la responsabilità sia di proprietari terrieri e fornai, che nasconderebbero il
grano e si arricchirebbero alle spalle dei poveri. In realtà, le cause della scarsità di cibo affondano le radici
sia nella guerra sia nei raccolti insufficienti per sfamare la popolazione. Il cancelliere Ferrer aveva imposto
per il pane un prezzo basso ma ingiusto per i fornai, perché inferiore addirittura a quello della farina. Di
conseguenza i fornai insorgono, ma, a seguito delle loro proteste, una giunta, nominata dal governatore di
Milano, impegnato lontano a causa della guerra, rincara di nuovo il prezzo del pane. A quel punto il popolo
si solleva contro i fornai. Dapprima vengono assaliti i garzoni che trasportano il pane. La folla, stimolata da
persone senza scrupoli che sperano di approfittare della situazione, si riversa in piazza, quindi si dirige al
forno delle grucce nella Corsia de’ Servi. La moltitudine lo assale, nonostante la presenza di un manipolo di
soldati e del loro capitano di giustizia, che assiste praticamente impotente. Renzo sopraggiunge quando il
forno è già depredato e attaccato: il giovane, ragionando tra sé e sé, non approva il comportamento della
folla e si domanda dove si potrà fare il pane se i forni vengono distrutti. Spinto dalla curiosità, sceglie
comunque di seguire la folla inferocita. Una volta appiccato il fuoco al mobilio e agli utensili del forno delle
grucce, la folla decide di avventarsi contro un altro panificio. Trovandolo ben presidiato, decide di dirottare
la sua rabbia verso la casa del vicario di provvisione, l’ufficiale addetto alle forniture alimentari, considerato
responsabile della fame che dilaga in città.

Riassunto ampio. Il 1628, anno in cui si svolge la vicenda, era il secondo anno di raccolto scarso, per colpa
sia delle condizioni metereologiche sia degli uomini che, impegnati nella guerra per la successione di
Mantova e del Monferrato, erano costretti a trascurare i loro poderi; inoltre, le truppe alloggiate nei paesi
gravavano sui residenti. La carestia comportò povertà e questa determinò un rincaro dei beni di prima
necessità: invece di riconoscere come causa l’oggettiva scarsità di cibo, il popolo iniziò la ricerca di un capro
espiatorio. La gente vociferava, sbagliando, che non era vero che il gran scarseggiasse, ma che veniva
nascosto i magazzini o addirittura spedito all'estero segretamente, in base a un piano ordito da chi avrebbe
avuto il compito di venderlo. Il popolo chiese ai magistrati che fossero presi provvedimenti per scoprire
questi giacimenti di grano: i funzionari, però, si limitarono a stabilire un prezzo oltre il quale non poteva
essere venduto il grano, detto calmiere, e a proclamare editti. Si trattava di misure che non potevano
supplire il bisogno di cibo del popolo che reclamava a gran voce urgenti rimedi.

Per tenere sotto controllo il malcontento generale, il gran cancelliere spagnolo Antonio Ferrer, che faceva
le veci del governatore di Milano don Gonzalo Fernandez de Cordova, impegnato nell’assedio di Casale e
del Monferrato, fissa il prezzo del pane a una cifra inferiore rispetto a quella del grano. La folla accorse dai
fornai pretendendo il pane al prezzo stabilito: questi brontolavano, ma lavoravano con impegno perché
avvertivano che nella risolutezza della gente vi era una minaccia in agguato. Il popolo si sentiva legittimato
dai provvedimenti dei magistrati e, del resto, presentiva che quella situazione favorevole sarebbe durata
poco. Antonio Ferrer, nonostante le lamentele dei fornai, non cercò di venire loro incontro e lasciò la
situazione immutata. Il governatore di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordova, troppo impegnato in
guerra per occuparsi di queste faccende, affidò la questione a una giunta da lui nominata affinché
ristabilisse un prezzo del pane equo: fu quindi deciso un rincaro del pane, per cui il popolo si infuriò.

La sera prima che Renzo arrivasse a Milano, le persone, pur senza essersi accodate, si ritrovavano e
parlavano dell’aumento del prezzo del pane: si moltiplicavano i lamenti e le minacce di farsi giustizia. Tra la
folla si aggiravano anche degli individui intenzionati ad alimentare la tensione. Le persone andarono a
dormire con l’idea che fosse urgente reagire e, l’indomani, si radunarono di nuovo per le strade della città.
Bastò una scintilla per far scoppiare l’insurrezione. La scintilla fu il passaggio di un garzone che trasportava
del pane. Il ragazzo fu assalito dalla folla, abbandonò la cesta del pane e scappò via. Chi non era riuscito ad
arraffare parte del bottino sottrasse il pane ad altri garzoni. Il desiderio di ottenere del cibo aumentò,
anche perché molti erano rimasti a mani vuote o comunque insoddisfatti; così la gente si riversò in un forno
che si trovava nella strada chiamata Corsia dei Servi, il «forno delle grucce», e si ammassò davanti al suo
ingresso. Chi vi lavorava si chiuse dentro e qualcuno corse a chiedere aiuto al capitano di giustizia. I padroni
e i garzoni della bottega, anche loro affacciati ai piani superiori, cominciarono a gettare pietre alle persone,
ferendone alcune e uccidendone due. La moltitudine si agitò ancora di più, divelse le inferriate e si riversò
nel forno. Qui, anziché cercare vendetta per le ferite ricevute, fece razzia di pane e farina, sollevando
nuvole di polvere bianca. Ben presto l’assalto si estese anche agli altri forni della città, ma gli effetti furono
molto meno devastanti: o i padroni del forno avevano chiamato le guardie o i pochi aggressori presenti
venivano a patti con i fornai che, per tenerli buoni, distribuivano il pane. Il risultato era che al forno delle
grucce si ammassavano sempre più rivoltosi. Renzo, senza saperlo, era arrivato proprio lì. Lungo il tragitto
osservava la folla e ascoltava i suoi discorsi.

Renzo procedeva osservando e ascoltando attentamente la folla. C’era chi inneggiava all’abbondanza, chi
sosteneva che il pane sarebbe stato impastato con il veleno per decimare la popolazione, chi riteneva che
fossero tutti birboni, a partire dal primo responsabile: il vicario di provvisione che, deputato principalmente
al rifornimento alimentare di Milano, era il capro espiatorio ideale. Tra gli spintoni e i discorsi della folla,
Renzo riuscì ad arrivare davanti al forno e notò con disappunto che era semi-distrutto. La gente lo stava
depredando perfino dei mobili e dei libri di contabilità che poi venivano portati, attraversando la folla, in
uno spazio, nei pressi del Duomo, dove tutti gli oggetti sarebbero stati bruciati tra le grida e le acclamazioni
dei presenti.

Gli assalitori fecero un rogo con gli oggetti rubati nel forno, continuando a gridare. Renzo non era molto
d’accordo con quel comportamento, ma non esternò le sue perplessità. Quando il fuoco si spense, si sparse
la voce di un nuovo assalto a un altro forno. Renzo era indeciso se andarci o tornare al convento dei
cappuccini, ma prevalse la curiosità. Dal momento che il forno in cui si riversò la folla era ben difeso, una
voce propose di andare a cercare giustizia a casa di colui che riteneva il diretto responsabile del rincaro del
pane: il vicario di provvisione. La calca si diresse lì inferocita.
Capitolo 13.

Sintesi. Una folla di gente in rivolta sta per riversarsi nella casa del vicario di provvisione, Che, sentiti i primi
turisti e nei prime urla del tumulto, si spaventa: impallidisce, si raccomanda ai servitori, vorrebbe scappare
ma non può e finisce per nascondersi in soffitta. Renzo, dal momento che qualcuno ha invocato a gran voce
la morte del vicario, si butta nel tumulto con l'intenzione di placare gli animi ed evitare spargimento di
sangue. La folla aggiunge la porta del vicario, che è stata chiusa con zelo dai suoi servitori, e cerca di
scardinarla. Nel mentre, un manipolo di soldati viene invitato in sua difesa, ma resta impotente di fronte all'
adunata di tante persone. La situazione sta per degenerare quando Renzo, indignato dagli intenti assassini
di un «vecchio malvissuto», interviene a difesa del vicario e viene scambiato per una spia o per il vicario
stesso travestito da contadino: rischia di cadere vittima della folla, ma alcuni cittadini che stanno dalla sua
parte cercano di proteggerlo. Fortunatamente l'attenzione viene attirata dall' arrivo di una scala, portata da
alcune persone che vorrebbero utilizzarla per entrare nella porta del vicario. All'improvviso si diffonde la
notizia dell'imminente arrivo del gran cancelliere: Ferrer giunge in carrozza e avanza lentamente cercando
di conquistarsi i rivoltosi, ai quali si rivolge in italiano, ma mirando in realtà salvare il vicario, a cui invece
parla in spagnolo per tranquillizzarlo delle sue intenzioni. Ferrer, con l'aiuto della parte pacifica della folla e
anche di Renzo, riesce a raggiungere la casa del vicario a condurlo via per salvarlo. Questi, una volta in
carrozza, si rannicchia in un angolo, per non essere visto dagli assalitori, e Ferrer gli raccomanda di restare
lì, senza però garantirgli nulla sul suo futuro.

Riassunto ampio: Il vicario di provvisione stava pranzando senza appetito, quando qualcuno lo avvisò che
una folla si stava dirigendo verso la sua casa. Lui avrebbe voluto fuggire, ma non avrebbe fatto in tempo. I
servitori serrarono la porta mentre il rumore della calca si faceva sempre più vicino, finché si sentirono
colpi alla porta, accompagnati da accuse e minacce. Il vicario di provvisione era molto spaventato. Provò a
fuggire, ma, osservando da un piccolo Parco della soffitta, vide che la strada era piena vincente. atterrito, si
rifugiò in un nascondiglio. Barricato nel suo nascondiglio, il vicario di provvisione stava in ascolto, sperando
che il rumore della calca si affievolisse. Renzo si trovava proprio al centro della ressa; vi era entrato di sua
volontà: voleva dare una mano per impedire che si compiessero atti violenti contro il vicario, nonostante lui
stesso, condizionato dalle voci che circolavano, lo ritenesse colpevole. Quando giunse presso la porta del
vicario, molte persone stavano cercando di scardinare la serratura e di sgretolare i muri; Chi non la colpiva,
incitava comunque alla distruzione con grida e spaventa.

I magistrati inviarono in aiuto dei soldati, ma il loro ufficiale, non sapendo come comportarsi, esitava. La
sua indecisione fu scambiata per paura e la folla si fece più agguerrita. Un vecchio dall'aspetto malvagio,
mostrando una corta, un martello e dei chiodi, minacciò di voler inchiodare il vicario al portone, una volta
fosse stato ucciso. Renzo tentò di convincerlo che non era quella la soluzione giusta; Allora il vecchio lo
accusò di essere un complice del vicario, una spia, e in un attimo si diffuse la voce che si trattasse
addirittura del vicario stesso travestito da contadino, tanto che una parte della folla stava per scagliarsi
contro Renzo. Lui si nascose in mezzo alle persone vicine; intanto, altri stavano cercando di far passare una
scala per appoggiarla la casa del vicario e raggiungere l'interno entrando attraverso una finestra.

La scala distrasse i facinorosi e Renzo pensò di approfittarne per uscire dalla calca sarebbe voluto tornare
da padre Bonaventura, ma l'arrivo del gran cancelliere Ferrer, accolto come un eroe da alcuni, con ostilità
da altri, lo fece desistere. Le persone si alzarono in punta di piedi per assistere all'arrivo di Ferrer. Manzoni
spiega che, nei tumulti popolari, si contrastano sempre due forze: gli uomini che cercano di volgere le cose
al peggio, soffiando sul fuoco quando le fiamme sembrano spegnersi, e quelli che tentano di ottenere
l'effetto contrario, mostri da amicizia oppure in virtù del loro animo incline al bene. Del resto, la folla è
composta da un ammasso casuale di persone con indoli differenti che si adeguano al primo o al secondo
gruppo e si comportano da gregari. Il sopraggiungere di Ferrer portò in vantaggio la fazione di coloro che
cercavano di sedare le azioni dei malintenzionati. Ferrer era amato dal popolo però era bastato del prezzo
del pane e per non aver voluto tornare sui suoi passi, nonostante le proteste dei fornai. In quel momento
era venuto a portare in prigione in vicario di provvisione e questo infuse negli animi la convinzione che si
stesse compiendo un atto di giustizia, tanto che una parte della moltitudine si adoperò per aiutarlo a
raggiungere la porta. Anche Renzo volle andargli incontro.

Ferrer fu accolto come un galantuomo dalla folla e anche Renzo gli andò incontro, mentre la carrozza
avanzava lentamente, facendosi largo tra la ressa. Stretto tra la folla, Ferrer procedeva sporgendosi dallo
sportello ora di destra ora di sinistra e mostrandosi alla gente con molto affabile. Gesticolava e distribuiva
baci, ripetendo frasi che promettevano e abbondanza. Le parole in italiano avevano la funzione di
ingraziarsi la folla, mentre esprimeva il suo vero pensiero in spagnolo: chi lo avesse sentito in mezzo alla
confusione avrebbe capito che non aveva davvero intenzione di mettere in carcere il vicario. L'unico che lo
capiva era il suo cocchiere Pedro. Anche il cocchiere trattava la folla con modi gentili, chiedendo di fare
spazio alla carrozza. Il passaggio di Ferrer era agevolato da tutti coloro che si prodigavano per aprirgli un
barco. Renzo, convinto della sollecitudine di Ferrero, aveva deciso di non abbandonarlo fino a che fosse
arrivato alla porta del vicario e si dava da fare per aiutarlo. Il cancelliere, d'altro canto, mostrava sorrisi a
tutti coloro che si rendevano utili e anche Renzo la ricevette più di uno. La carrozza procedeva lentamente,
attorniata dalla folla e in mezzo a un frastuono così assordante che per Ferrer era quasi impossibile parlare.
Eppure ci provò, pronunciando le parole che immaginava avrebbero funzionato per tenere calma la
moltitudine: assicuro una giusta punizione per il vicario, continuando a parlare in italiano, ma a smentire le
sue parole in spagnolo: promise inoltre il pane a basso prezzo e abbondanza per tutti.

Finalmente, Ferrer giunse davanti alla casa, grazie soprattutto all' aiuto dei volontari. Sollevato dal fatto che
la porta fosse ancora chiusa, uscita la carrozza. La folla stetti in silenzio e in attesa, finché Ferrer scese dalla
carrozza promettendo pane e giustizia: allora partirono le acclamazioni. Dall’interno della casa gli fu aperta
la porta il cancelliere sguscio dentro appena in tempo, poco prima che venisse rinchiusa. Gli andò incontro,
scendendo dalle scale ancora spaventato, il vicario di provvisione, dichiarando che era nelle sue mani e in
quelle di Dio. Ferrer lo prese per mano e lo fece uscire. L'altro li stava incollato e rannicchiato dietro: grazie
alla spalla protettiva creata dalla parte buona della folla, i due riuscirono ad entrare nella carrozza. La
moltitudine si suddivise tra chi applaudiva e chi imprecava. La carrozza procedeva un po' più velocemente
rispetto all'andata, perché sfruttava quella sorta di corsia che si era formata poco prima e che i volenterosi
mantenevano con impegno. Ferrer raccomando al vicario che se ne stesse nascosto - anche se non ci
sarebbe stato affatto bisogno di questa raccomandazione -, poi si mostrò alla folla ripetendo le parole che
essa desiderava: pane e giustizia. Promise inoltre un castigo severo per il vicario di provvisione e per
responsabili della carestia; subito dopo le frasi in italiano per blandire la folla, ne pronunciava altre parole
in spagnolo rivolte al vicario, che rivelavano la verità delle sue intenzioni.

Avevano quasi terminato di attraversare la calca quando Ferrer vide i soldati spagnoli e rivolse a un ufficiale
un saluto in spagnolo, che suonava piuttosto un rimprovero perché i soldati non erano stati di grande aiuto.
Rassicurato dalla vicinanza dei soldati spagnoli, il cocchiere Pedro ritenne che la gente rimasta fosse
abbastanza rada da poter essere trattata senza usare le gentilezze di poco prima, e condusse i cavalli al
galoppo verso il castello. Ferrer fece alzare il vicario dal suo cantuccio e, senza rispondere ai suoi
ringraziamenti, gli chiese che cosa avrebbe detto il governatore spagnolo di quelle sommosse. Il vicario
rispose che avrebbe dato le dimissioni, ma Ferrer gli ricordo che avrebbe dovuto attenersi alla volontà del
re.
Capitolo 14.

Sintesi. Dopo che la folla si è dispersa, Renzo tiene un piccolo comizio personale in cui si scaglia contro i
potenti e i «dottori» che vogliono ingannare il popolo; ormai stanco e affamato, si mette poi a cercare un
luogo dove poter mangiare e riposarsi. Di accompagnarlo si offre un ambiguo personaggio che dice di
volerlo condurre da un oste suo amico, ma Renzo decide di fermarsi alla prima osteria che vede. Entrato
insieme a Renzo all’osteria, l’accompagnatore inizia a spingerlo a bere con lo scopo di farlo ubriacare
affinché Renzo confessi qualcosa di compromettente e venga arrestato. Quando l’oste chiede a Renzo le
sue generalità, il giovane si infuria dicendo che il tentativo di conoscere nome e cognome è tutto un
complotto ai danni della povera gente. Renzo, che continua a bere senza freno, inizia un lungo sproloquio
contro l’uso di carta e penna, che divengono nelle mani dei potenti degli strumenti per avere la meglio sui
più poveri e sui più deboli. Gli avventori dell’osteria approvano le parole di Renzo anche se, accorgendosi
del suo crescente stato di ubriachezza, smettono di badare a lui. L’oste stesso, che ha ormai capito le
intenzioni della falsa guida, non gli presta più attenzione. La falsa guida propone poi un ipotetico progetto
per la distribuzione del pane al popolo: affermando di chiamarsi Ambrogio Fusella, di professione spadaio,
riesce a far rilevare a Renzo il suo nome senza che lui nemmeno se ne renda conto. Ottenuto questo, se ne
va, mentre Renzo, ormai completamente ubriaco, diventa oggetto di risa per tutti gli avventori dell’osteria.

Riassunto ampio. Una volta che Ferrer e il vicario riuscirono a mettersi in salvo, la folla iniziò lentamente a
dispendersi e a diradarsi, finché, all’arrivo di un drappello di soldati che si pose a presidio della porta, anche
l’ultimo sparuto gruppetto di sfaccendati con intenzioni sovversive, non soddisfatto dell’esito del tumulto,
lasciò il campo. E così, mentre la folla s’intratteneva in svariati discorsi sull’accaduto, sopraggiunse la sera e
Renzo iniziò a sentire il bisogno di mangiare e riposarsi. Dopo che la folla iniziò a disperdersi, Renzo, alla
ricerca di un’osteria dove mangiare e passare la notte, si accostò a un gruppo di sfaccendati e, con
l’ingenuità del campagnolo che pensa di essere stato protagonista di un grande evento, si mise a esprimere
le sue opinioni. Pensando soprattutto alla sua esperienza personale con don Rodrigo, iniziò così ad accusare
i prepotenti che fanno tutto ciò che vogliono ai danni della povera gente, senza curarsi delle leggi. Renzo
continuò accusando il sistema giudiziario che non puniva i veri colpevoli, ma che veniva sfruttato da
“dottori” alleati con i potenti a tutto svantaggio dei poveri. Renzo, infatti, si diceva convinto che ci fosse
una “lega”, un’associazione di delinquenti, che andava smascherata e fatta conoscere a Ferrer, che lui
ingenuamente riteneva un “galantuomo” preoccupato degli interessi del popolo. Renzo propose dunque di
andare il giorno dopo da Ferrer per raccontargli come stavano le cose e aiutarlo a far rispettare la giustizia.
Renzo stesso era stato vittima di un “dottore” che non aveva voluto aiutarlo. La sua proposta era di far
rispettare le leggi, di mandare in galera chi lo meritava e di sostituire le autorità se erano corrotte o non
facevano il loro lavoro. Ai discorsi di Renzo molti applaudirono, ma vi fu anche chi sollevò critiche; lui, però,
sentiva solo i complimenti. Mentre tutti si salutavano, dandosi appuntamento per il giorno seguente sulla
piazza del Duomo, Renzo chiese dove potesse trovare un’osteria per mangiare e riposarsi. A Renzo si
avvicinò un personaggio particolarmente cortese e pieno di attenzioni per lui, che sino a quel momento non
aveva detto nulla, ma che aveva ascoltato con attenzione le sue parole. L’uomo si offrì di accompagnarlo in
un’osteria poco distante che conosceva bene. La folla rimasta finì così per disperdersi, mentre Renzo seguì
lo sconosciuto ringraziandolo. Questi iniziò a chiedergli da dove provenisse a fargli domande circa i gravi
fatti di cui era stato vittima. Renzo, dopo avergli detto di venire da Lecco, cambiò discorso e, vista l’insegna
di un’osteria con una luna piena, decise di fermarsi. La sua guida non poté far altro che seguirlo. Renzo
invitò la guida a entrare e a bere un bicchiere in sua compagnia. La guida accettò volentieri e lo precedette
entrando nell’osteria, dove regnava una gran confusione: cibo, fiaschi di vino, carte, dadi e soldi,
probabilmente rubati, stavano alla rinfusa su una lunga tavola che occupava una parte della stanza. Un
garzone, tutto affaccendato, serviva al tavolo, mentre l’oste era seduto accanto al camino fingendo
indifferenza, ma controllando con attenzione quello che accadeva nella stanza. Appena Renzo e la sua
guida entrarono, si fece loro incontro: l’oste, che ben conosceva la vera identità della falsa guida,
imprecando fra sé, cercò di indovinare se Renzo fosse un complice di quello sbirro sotto mentite spoglie
oppure se fosse una sua vittima. Sedutosi al tavolo dell’osteria, Renzo ordinò un fiasco di vino “sincero” e
chiese qualcosa da mangiare. La guida si sedette di fronte a lui e gli versò del vino, mentre l’oste propose a
Renzo dello stufato. L’oste sollecitò il garzone a servire Renzo, ma precisò che quel giorno non aveva pane.
Allora Renzo estrasse l’ultima pagnotta (dei tre) rimastagli di quelle trovate durante i tumulti e la sventolò
in aria. I presenti inneggiarono al pane a buon mercato e, quando Renzo volle sottolineare che lui quel pane
non l’aveva rubato, gli avventori sghignazzarono pensando che scherzasse. Renzo iniziò così a mangiare
voracemente e a bere il vino, mentre la guida si preoccupava di ordinare all’oste di preparare il letto per
Renzo. A questo punto l’oste chiese a Renzo tutti i dati necessari per registrarlo, secondo quanto era
previso da una grida, ma il giovane, che continuava a buttar giù un bicchiere di vino dopo l’altro, perdendo
sempre più lucidità nonché freni, si oppose e fece cenno ai suoi casi personali: se le gride che difendevano
le persone perbene non venivano applicate, si chiedeva Renzo, per quale motivo lui ora avrebbe dovuto
rispettare questa grida e dichiarare le sue generalità? Il gruppo degli avventori diede manforte a Renzo e
così l’oste non poté che desistere. L’unica preoccupazione dell’oste era non finire nei guai per colpa di quel
giovano ingenuo e sprovveduto. Renzo, che continuava a bere un bicchiere dopo l’altro, iniziò uno
sproloquio contro l’uso di carta e penna da parte dei signori. Uno degli avventori disse che la mania dei
signori di usare le penne derivava dal fatto che i ricchi si potevano permettere di mangiare molte oche, al
che Renzo lo definì un “poeta”. Manzoni, a questo punto, interviene con la precisazione che il termine nel
linguaggio del popolo non indica certo coloro che compongono poesie, ma designa persone dal carattere
bizzarro e originale. Renzo disse che la vera ragione per cui i signori avevano la cattiva abitudine di usare
carta e penna era che potevano poi servirsene per imbrogliare la povera gente, utilizzando anche,
all’occasione, qualche parola in latino per confondere le idee. Renzo si disse soddisfatto della giornata
politica appena trascorsa, perché si era parlato nella lingua del popolo, senza usare carta, penna e
calamaio. Fra il via vai degli avventori, anche la guida di Renzo fu sul punto di andarsene, ma non senza aver
messo alla prova il giovane per l’ultima volta. La falsa guida fece ulteriori tentativi per estorcere
informazioni a Renzo, ormai ubriaco. Fece persino una proposta per sistemare le cose in modo favorevole
per il popolo: propose di fissare un prezzo limite del pane e di distribuire a ogni famiglia una tessera
nominale da utilizzare per ricevere la quantità di pane in base al numero di persone componenti il nucleo
familiare. Per esemplificare la proposta, tentò di nuovo di chiedere nome e cognome a Renzo, il quale glieli
disse senza nemmeno accorgersene. La falsa guida di Renzo decise, alla fine, di andarsene divincolandosi
dalla stretta del giovane che avrebbe voluto farlo bere ancora con lui. Renzo, d’altro canto, era ormai
completamente ubriaco, cosa che rende gli uomini particolarmente propensi a parlare. Manzoni lo
giustifica dicendo che i fumi dell’alcol ebbero su di lui un effetto tanto immediato e devastante perché egli
non vi era abituato. Dopo che la falsa guida se ne andò, Renzo continuò a parlare senza freni, ormai
completamente annebbiato dal vino. Ricominciò di nuovo a rievocare il brutto tiro dell’oste che voleva
mettere per iscritto i suoi dati, l’uso traditore del latino e la giornata trascorsa, e stava anche per lasciarsi
scappare i nomi di don Rodrigo e fra Cristoforo, ma alla fine seppe trattenersi in tempo. Renzo divenne così
“lo zimbello della brigata”. Ma in quel fiume di parole scomposte e spesso senza senso che uscì dalla sua
bocca un nome solo non venne mai proferito: quello di Lucia.

Capitolo 15.

Sintesi. Renzo, ottenebrato dall’effetto del vino, viene condotto a letto dall'oste, e si addormenta subito.
Lost tenta invano di farsi dire il suo nome, poi si reca al palazzo di giustizia per denunciare la mancata
registrazione dell'avventore e, lungo la strada, si lamenta tra sé della stupidità del giovane, che avrebbe
potuto metterlo nei guai. L'indomani, di prima mattina, Renzo viene svegliato di soprassalto da 3 uomini
intenzionati a condurlo al palazzo di giustizia: si tratta di due sbirri e di un notaio criminale, che lo fanno
vestire e gli intimano di seguirli. Renzo non capisce e pretende spiegazioni, ma il notaio cerca di calmarlo,
rassicurandolo e dicendogli che tutto si sistemerà. lungo il tragitto, però, Renzo viene ammanettato con un
marchingegno, dotato di un sistema per procurare dolore a chi tenta di ribellarsi: il giovane protesta con il
notaio che gli dice che si tratta di una pura formalità e lo invita ad avere pazienza. Renzo approfitta del
fatto che si trova in mezzo alla folla, ancora intenzione dopo i tumulti del giorno precedente, per richiamare
l'attenzione su di sé e gridare che sta per essere imprigionato illegittimamente solo per aver urlato, il giorno
prima, «pane e giustizia». Visto che le cose si mettono male, gli sbirri liberano Renzo e sono costretti a
scappare: anche il notaio, per quanto reso irriconoscibile dalla sua cappa nera, riesce a fuggire. Renzo è
quindi libero.

Riassunto ampio. Visto che Renzo era ormai del tutto ubriaco, l’oste tentò di convincerlo ad andare a letto.
Solo con molta fatica, e nonostante le sue ripetute proteste, riuscì a persuaderlo a salire nella camera che
gli aveva messo a disposizione. Renzo fu salutato con un gran chiasso dagli altri avventori e rispose con un
frenetico gesticolare. Si congratulò dunque con l’oste che lo stava aiutando e gli rimproverò ancora di
avergli voluto estorcere nome e cognome. L’oste giustificò le sue richieste con la motivazione che erano
obblighi di legge; tuttavia, tentò di nuovo di approfittare della poca lucidità di Renzo per chiedergli nome e
cognome. Per l’ennesima volta, Renzo lo insultò rifiutandosi di rispondere. L’oste, allora, per calmarlo e
farlo tacere, disse che il suo era solo uno scherzo e lo sollecitò a spogliarsi velocemente e a mettersi a letto.
Si accorse così che Renzo aveva del denaro nelle tasche del farsetto (= giubba indossata dagli umili). Dopo
aver messo Renzo a letto, l’oste raccomandò alla moglie di occuparsi dell’osteria mentre lui sarebbe andato
al palazzo di giustizia per denunciare il caso del forestiero che si era rifiutato di farsi identificare. Nel
tragitto, continuava a inveire nei confronti del povero montanaro, colpevole ai suoi occhi di essere uno
sciocco ingenuo, convinto di poter cambiare il mondo solo per aver visto una ribellione popolare. L’oste
arrivo infine al palazzo di giustizia, dove scoprì che i funzionari a cui aveva rilasciato la deposizione non solo
erano già al corrente di tutto, ma ne sapevano persino più di lui: infatti, la guida che aveva accompagnato
Renzo all'osteria era uno sbirro sotto copertura, che, estorcendo con l'inganno alcune informazioni a Renzo
(«nome, cognome e patria»), lo aveva denunciato. L’oste fu congedato con la raccomandazione di badare
che Renzo non lasciasse l'osteria. La mattina seguente, Renzo fu svegliato di soprassalto da una voce che
urlava il suo nome e da qualcuno che lo scuoteva con forza: si trattava del notaio criminale accompagnato
da due uomini armati. Renzo non capiva che cosa stesse accadendo né come avessero fatto a sapere il suo
nome. Si rassegnò a seguire i 3 uomini dopo che questi gli ebbero bruscamente intimato di andare via con
loro. Mentre il notaio cercava di calmare Renzo per condurlo via con sé senza creare scompiglio,
preoccupato dal clima infuocato che si respirava per le vie, Renzo non riusciva a capire perché lo stessero
per portare al palazzo di giustizia e, soprattutto, come il suo nome potesse essere stato scoperto. Il notaio
si rammaricò molto di dovere usare tante cautele per arrestare un sempliciotto come Renzo, che in altre
circostanze sarebbe stato condotto via senza problemi e avrebbe confessato facilmente, e si dibatteva tra la
possibilità di lasciar fare tutto agli sbirri, rischiando così di risultare un vigliacco, e quella di gestire la cosa di
persona: decise infine per quest’ultima soluzione. Renzo, ormai vestito, si accorse che i soldi e la lettera che
teneva nella tasca del farsetto erano spariti. Così protestò con il notaio che, per tenerlo buono, decise di
restituirglieli, dicendo tra sé che una volta arrivati al palazzo di giustizia gliel’avrebbe fatta pagare gli
interessi. Il notaio fece intanto ammanettare Renzo, e alle proteste del giovane rispose, con l’astuzia e la
diplomazia che lo contraddistinguevano, che si trattava di obblighi di legge, pure formalità. Intanto gli sbirri
strinsero le manette e Renzo si acquietò. Il notaio allora gli raccomandò di comportarsi bene, cioè di non
farsi notare e di guardar dritto davanti a sé senza attirare l’attenzione, in modo che tutto potesse risolversi
nel più breve tempo possibile; agli sbirri intimò poi di non fargli del male. Renzo, che stava diventando
meno sprovveduto, non credette a una parola di quello che il notaio gli diceva per ammansirlo, per cui
decise di fare esattamente il contrario. Il magistrato, in effetti, era un uomo astuto, che riusciva a raggirare
le persone grazie a una smaliziata esperienza: proprio come tutti quelli che usano l’astuzia in ogni occasione
per raggiungere i loro scopi, sapeva conservare il sangue freddo solo se poteva avvalersi della forma,
mentre quando si trovava alle strette, era facile per l’uomo che stava cercando di truffare scoprire il suo
gioco. Infatti, in quell’occasione, la paura di essere coinvolto in qualche sollevazione popolare tolse lucidità
al notaio. Renzo si guardava intorno, mentre il suo carceriere continuava a raccomandargli di comportarsi
bene. Quando Renzo vide arrivare 3 uomini che parlavano animatamente di forni, farina e giustizia, colse
l’occasione e cominciò a richiamare la loro attenzione tossendo e facendo cenni con gli occhi. Quando gli
sbirri, spaventati, strinsero le manette, Renzo urlò dal dolore e, mentre il notaio cercava di giustificare la
situazione dicendo che era un malvivente, spiegò che invece lui era innocente e che era stato arrestato solo
perché il giorno prima aveva urlato “pane e giustizia”. Gli sbirri, visto che le cose si stavano mettendo al
peggio, si diedero alla fuga, mentre il notaio, reso troppo riconoscibile dalla cappa nera, cercava invano di
passare inosservato, finché riuscì a sgusciar via tra la folla che si accalcava sempre di più.

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