Il “profeta giusto”
Nell’agosto del 1977, Ratzinger trascorse per ferie un paio di settimane nel
seminario diocesano di Bressanone. Il cardinale Albino Luciani, patriarca di
Venezia, era a quel tempo presidente della Conferenza episcopale del
Triveneto (della quale fa parte anche l’Alto Adige). Venne a conoscenza
della presenza del giovane confratello cardinale e volle andarlo a trovare,
avendone apprezzato gli scritti teologici, e in particolare il commento alla
costituzione conciliare Lumen gentium. Conversarono in italiano, che
Ratzinger aveva imparato durante il Concilio, anche se in maniera un po’
stentata, utilizzando il metodo didattico dei dischi a 33 giri. Poi lo avrebbe
perfezionato dopo l’arrivo a Roma, parlandolo quotidianamente.
Quella fu la prima occasione di contatto fra i due, che in un’intervista
Ratzinger ricordò come l’opportunità per «ammirare la sua grande
semplicità, e anche la sua grande cultura: mi raccontò che conosceva bene
quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al
santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille
metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto».
Il 16 agosto 1977, nell’omelia di una celebrazione per la festa di san
Rocco, il patriarca Luciani riferì pubblicamente dell’incontro: «Pochi giorni
fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di
Monaco: in una Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in
parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il coraggio di
proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger mi è
parso in quella occasione un profeta giusto. Non tutti quelli che scrivono e
parlano hanno oggi lo stesso coraggio; per voler andare dove vanno gli altri,
per paura di non sembrare moderni, alcuni di essi accettano solo con tagli e
restrizioni il Credo pronunciato da Paolo VI nel 1968 alla chiusura
dell’Anno della fede; criticano i documenti papali; parlano continuamente
di comunione ecclesiale, mai però del Papa come punto necessario di
riferimento per chi vuole essere nella comunione vera della Chiesa. Altri,
più che profeti, sembrano dei contrabbandieri; approfittano del posto che
occupano, per smerciare come dottrina della Chiesa quello che è, invece,
loro pura opinione personale o anche dottrina mutuata da ideologie
aberranti e disapprovate dal Magistero della Chiesa».
Il successivo incontro personale avvenne soltanto durante il Conclave
dell’estate 1978, dopo la morte di Papa Montini il 6 agosto. Per quello che
ho potuto dedurre, la stima di Ratzinger nei confronti di Luciani lo portò a
unirsi a quanti lo ritenevano degno di essere eletto Pontefice, cosa che
accadde il 26 agosto, dopo soli quattro scrutini. E nel giorno della
celebrazione d’inizio del ministero petrino, il successivo 3 settembre, i due
scambiarono alcune parole in relazione all’imminente viaggio del cardinale
in Ecuador. Con la lettera del 1° settembre, uno dei primi atti del
pontificato, Giovanni Paolo I aveva infatti nominato l’arcivescovo di
Monaco e Frisinga come Legato pontificio al Congresso mariano di
Guayaquil, poiché da qualche anno la diocesi tedesca e quella ecuadoriana
si erano gemellate e l’arcivescovo locale Bernardino Echevarría Ruiz aveva
appunto suggerito il nome di Ratzinger come inviato.
Con parole che non risultano “di circostanza”, Papa Luciani gli scrisse:
«Abbiamo il desiderio di partecipare, in qualche modo, a queste solennità
per dar loro più importanza e splendore. Perciò, con questa lettera, ti
scegliamo, ti creiamo e ti proclamiamo nostro inviato straordinario, e ti
affidiamo la missione di presiedere queste celebrazioni in nostro nome e
con la nostra autorità. Ti distingui per la tua grande conoscenza della santa
dottrina e, come sappiamo, ardi d’amore per la Madre di Cristo Salvatore e
Madre nostra. Indubbiamente, quindi, svolgerai la funzione a te affidata con
intelligenza, saggezza e successo».
Giovanni Paolo I, per dimostrare ulteriormente il proprio affetto, il 24
settembre inviò un messaggio al Congresso, invitando a fare del motto
“L’Ecuador, per Maria a Cristo” «un intero programma di vita e di azione
apostolica: Maria, Madre di Cristo, Madre della Chiesa e Madre dolcissima
di ciascuno di noi, sia sempre il tuo modello, la tua guida, il tuo cammino
verso il Fratello maggiore e Salvatore di tutti, Gesù».
Ratzinger lo lesse pubblicamente, ringraziando a nome di tutti i fedeli il
Pontefice per la sua premurosa vicinanza. E per questo restò
particolarmente colpito alla notizia della sua morte, che lo raggiunse in un
modo un po’ strano: «Dormivo nella residenza dell’arcivescovo di Quito.
Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di
Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e
si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’
sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che
sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o
realtà. Infine scoprii che era il vescovo ausiliare di Quito, Alberto Luna
Tobar, il quale mi comunicò che il Papa era morto».
Il 6 ottobre 1978, celebrando a Monaco il pontificale in suffragio di Papa
Luciani, espresse quasi il presentimento di quanto poi sarebbe stato
confermato da Francesco con la beatificazione del 4 settembre 2022:
«L’unica grandezza nella Chiesa è di essere santi. E i suoi santi sono le
colonne di luce che ci mostrano la via. D’ora innanzi apparterrà anch’egli a
queste luci. E ciò che ci fu concesso solo per trentatré giorni emana una
luce che non può più venirci tolta».
Nella biografia su Wojtyła, George Weigel scrive che Ratzinger gli
confidò: «Eravamo convinti che l’elezione fosse avvenuta in armonia con la
volontà divina, non semplicemente con quella umana… E se, un mese dopo
essere stato eletto con la volontà divina, egli era morto, Dio intendeva
comunicarci qualcosa». Ricordando quei giorni del Conclave, il cardinale
Ratzinger confermò in seguito: «L’elezione di Luciani non fu un errore.
Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia
della Chiesa. Quella morte improvvisa aprì anche le porte a una scelta
inaspettata. Quella di un Papa non italiano. Nel Conclave precedente si
parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché
c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di
qualcosa di assolutamente nuovo».
Un binomio vincente
Il cardinale Ratzinger partì per l’Ecuador il 19 settembre 1978 e vi restò
sino alla fine del mese. Proprio in quei giorni, dalla Polonia una
delegazione di vescovi, guidata dal primate Stefan Wyszyński e dal
cardinale Karol Wojtyła, giunse in Germania per incontrare i confratelli
tedeschi. Era l’esito di un lungo cammino avviato ben tredici anni prima, il
18 novembre 1965, con la lettera firmata dai vescovi polacchi presenti al
Vaticano II: «Dai banchi del Concilio che sta per concludersi, vi tendiamo
le nostre mani accordando perdono e chiedendo perdono»; cui, il 5
dicembre successivo, i vescovi tedeschi avevano risposto: «Anche noi vi
preghiamo di dimenticare, vi preghiamo di perdonare».
Ratzinger e Wojtyła, dunque, non si incontrarono in quella occasione, e
anche ai tempi del Concilio, pur avendo collaborato entrambi alla
formulazione di alcuni documenti, non si erano mai incrociati di persona. In
seguito, il prefetto sottolineerà: «Naturalmente avevo sentito parlare della
sua opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo conoscerlo. Dal
canto suo, aveva letto la mia Introduzione al cristianesimo, che aveva anche
citato agli esercizi spirituali da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella
Quaresima del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo entrambi
di incontrarci». L’unica opportunità, di sfuggita, fu nell’ottobre del 1977,
durante il Sinodo dei vescovi sulla catechesi al quale ambedue presero
parte.
Secondo le ricostruzioni giornalistiche, nel Conclave che si svolse dal 14
al 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, e quello di
Firenze, Giovanni Benelli, partirono appaiati nelle prime votazioni e di fatto
si annullarono a vicenda. All’ottavo scrutinio emerse così il nome
dell’arcivescovo di Cracovia, senza sorprendere Ratzinger, come lui stesso
ha dichiarato: «Lo sostenevo. Il cardinale König mi aveva parlato. E, per
quanto limitata, la conoscenza personale che avevo di Wojtyła mi aveva
persuaso che fosse davvero l’uomo giusto».
Giovanni Paolo II cominciò subito a guardarsi intorno per costruire la
propria squadra nella Curia romana. Certamente voleva che Ratzinger ne
fosse al più presto uno dei titolari, al punto da invitarlo, dopo neanche un
anno, a diventare prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica,
dove stava per andare in pensione il cardinale Gabriel-Marie Garrone. Ma
l’arcivescovo di Monaco riuscì a convincerlo che «erano trascorsi appena
due anni e ritenevo impossibile lasciare così presto la sede di san
Corbiniano. La consacrazione episcopale rappresentava in qualche modo
una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di appartenenza. Dunque il
Papa soprassedette alla nomina e chiamò a quell’incarico il cardinale Baum
di Washington, preannunciandomi tuttavia sin da quel momento che in
seguito si sarebbe rivolto a me per un altro incarico».
Nell’autunno del 1980, ci furono due importanti opportunità per una più
profonda conoscenza del cardinale da parte di Giovanni Paolo II: in
Vaticano, dal 26 settembre al 25 ottobre, fu relatore generale della quinta
assemblea del Sinodo dei vescovi sul tema “La famiglia cristiana”; in
Germania, per il primo viaggio pontificio dal 15 al 19 novembre, preparò
per lui diverse bozze di discorsi e omelie. A quei giorni si riferisce
l’aneddoto che, una volta, Ratzinger mi raccontò: vedendo il Papa
affaticato, gli offrì una stanza in episcopio per una pennichella pomeridiana,
ma Wojtyła rispose sorridendo che «ci sarà tanto tempo per riposarsi in
Cielo!»; e poi gli lasciò cadere l’idea che l’avrebbe voluto a Roma come
nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede.
Il 6 gennaio 1981 il cardinale giunse in Vaticano per la consacrazione
episcopale di monsignor Ennio Appignanesi, il parroco di Santa Maria
Consolatrice a Casal Bertone della quale Ratzinger era titolare (come tutti i
porporati, in questo modo era divenuto idealmente membro del clero
romano). Giovanni Paolo II volle incontrarlo privatamente e tornò alla
carica, ma l’arcivescovo di Monaco si era preparato una via di fuga e gli
rispose che avrebbe accettato la nomina unicamente se avesse potuto
continuare a scrivere saggi teologici a propria firma, in aggiunta ai
documenti ufficiali del dicastero.
Papa Wojtyła chiese ai collaboratori di verificare e venne a sapere che
anche il cardinale Garrone, da prefetto dell’Educazione cattolica, aveva
pubblicato diversi libri: a quel punto Ratzinger sentì di non avere scampo!
In un’occasione, il cardinale mi confidò che già la nomina a Monaco
andava oltre ogni sua aspettativa, figurarsi il trasferimento a Roma in una
Congregazione… Ma poi si convinse che non poteva fare resistenza dinanzi
alla reiterata richiesta di Giovanni Paolo II e comprese che in quel ruolo
avrebbe perfino potuto proseguire meglio gli studi personali e il servizio
alla Chiesa universale.
Quarant’anni fa, porre al Pontefice una simile condizione poteva
sembrava un peccato di hybris, di superbia, atteggiamento del tutto
contrario allo stile di Ratzinger. In realtà, sin da allora lui vedeva nella
propria produzione saggistica una dote da sfruttare per farla divenire uno
strumento pastorale. Non c’era in gioco la vanagloria del grande teologo,
bensì la consapevolezza del servizio che poteva essere reso alla Chiesa.
Avrebbe vissuto il rinunciare a questa possibilità di influire a livello
personale nel dibattito teologico come un’amputazione, dannosa per sé, ma
pure per gli altri.
Ho avuto occasione di comprenderne ulteriormente le motivazioni
ragionando con lui riguardo alle critiche che gli venivano fatte quando
pubblicava i volumi su Gesù Cristo: Benedetto XVI è stato risoluto nel
contestare chi affermava che il tempo da lui dedicato alla scrittura veniva
sottratto al governo della Chiesa, poiché questo avrebbe dovuto essere il
suo compito primario. Facendo riferimento a san Bonaventura e al proprio
predecessore Benedetto XIV, mi ha sempre sottolineato che pure quella
della scrittura è una forma di governo, poiché dà cibo spirituale ai fedeli, in
aggiunta agli atti magisteriali.
Con un riferimento spero non eccessivamente azzardato, il 7 giugno
2013 ero seduto di fianco a Papa Francesco, durante l’incontro in Vaticano
con gli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti, e mentre lo ascoltavo
rispondere divertito a una ragazzina che la scelta di vivere a Santa Marta era
«per motivi psichiatrici, perché è la mia personalità», ho pensato che la
stessa osservazione avrebbe potuta farla Ratzinger, sia da cardinale sia da
Papa, riguardo la sua scelta di continuare a scrivere. In molteplici occasioni
Benedetto XVI mi ha infatti detto con forza: «Per me la scrittura non è un
impegno, ma una liberazione che mi fa bene. Non mi toglie forza, ma
piuttosto me la genera. Si tratta di due energie diverse, e ambedue devono
essere esercitate». In sostanza, direi che, senza lo sfogo della produzione
teologica, la “pentola a pressione” del suo intelletto non avrebbe avuto una
valvola di sicurezza e sarebbe esplosa.
Un appuntamento settimanale
Estremamente importante, per il consolidamento del loro legame, fu la
cosiddetta “udienza di tabella”, che alle ore 18 di ogni venerdì li vedeva
impegnati a discutere da soli non soltanto i documenti in preparazione, ma
anche la situazione più generale della Chiesa e del mondo. Ratzinger mi
raccontava poi che in varie occasioni la conversazione si era dilatata pure
all’ambito culturale, poiché Papa Wojtyła apprezzava la letteratura tedesca e
voleva confrontarsi con lui su opere di autori contemporanei che l’avevano
colpito.
Oltre a quelle udienze ufficiali, al martedì mattina il cardinale veniva
spesso convocato per incontri più informali, dove personalità ecclesiastiche
volta a volta diverse ragionavano sulle catechesi del mercoledì, su questioni
d’attualità, sulle tematiche proposte dai vescovi di una determinata nazione
in visita ad limina (l’incontro quinquennale con il Papa, N.d.A.), su nuove
riflessioni che emergevano in ambito teologico… E descriveva quegli
appuntamenti, che spesso si dilatavano al pranzo, come momenti anche di
buonumore e occasioni di sentirsi in ottima compagnia.
Ratzinger avvertiva come problematica una situazione che si era creata
con la riforma della Curia romana voluta da Paolo VI. Il sostanziale
coordinamento dei dicasteri vaticani da parte della Segreteria di Stato,
guidata da Agostino Casaroli fino al 1991 e successivamente da Angelo
Sodano, imponeva talvolta una scelta su cosa privilegiare fra la saldezza
della dottrina e la duttilità della diplomazia. Anche se il prefetto cercava di
mantenere buoni rapporti con tutti, smussando gli spigoli più acuti, ogni
tanto qualche situazione locale si imponeva maggiormente all’attenzione e
lui si trovava a dover caldeggiare con Giovanni Paolo II soluzioni
divergenti da quelle proposte dal segretario di Stato.
Ricordo per esempio, nella seconda metà degli anni Novanta, il fitto
scambio di lettere tra la Segreteria di Stato, la nostra Congregazione e la
Conferenza episcopale tedesca in relazione ai consultori ecclesiastici che in
Germania dovevano decidere se continuare a rilasciare i certificati di
colloquio alle donne che intendevano abortire. La natura di questa
attestazione risultava ambigua, poiché – anche se in origine era un modo
per aprire un dialogo e far riflettere chi voleva abortire (inoltre, grazie ai
relativi sussidi statali, permetteva ai consultori ecclesiastici di proseguire
l’attività di consulenza in favore della vita) – si era di fatto trasformata in
un’autorizzazione all’esecuzione depenalizzata dell’aborto nelle prime
dodici settimane di gravidanza.
Tra i cardinali Sodano e Ratzinger c’era diversità di vedute su come
affrontare la problematica: il primo più attento ai risvolti politici della
vicenda e ai buoni rapporti con la presidenza di quella Conferenza
episcopale, mentre il secondo aveva innanzitutto a cuore l’intera questione
etico-morale e le conseguenze dottrinali e pastorali che ne sarebbero
scaturite. Cosicché si andò avanti a lungo nel dibattito “dietro le quinte” e
alla fine, l’11 gennaio 1998, Papa Wojtyła inviò ai vescovi tedeschi una
lettera nella quale stabilì «che un certificato di tale natura non venga più
rilasciato nei consultori ecclesiali o dipendenti dalla Chiesa». Ma nel
contempo, e a mia memoria non conosco altri esempi espliciti del genere,
faceva capire a chiare lettere quanto fosse stata accesa la diatriba fra i due
blocchi di pensiero: «Da persone, che per la Chiesa e nella Chiesa si
impegnano, si è messo in guardia con forza da una simile decisione, che
lascerebbe le donne in situazioni conflittuali senza l’appoggio della
comunità di fede. Altrettanto con forza si è denunciato che il certificato
coinvolge la Chiesa nell’uccisione di bambini innocenti e rende meno
credibile la sua assoluta contrarietà all’aborto. Ho preso in seria
considerazione entrambe le voci e rispetto l’appassionata ricerca da
ambedue le parti della giusta via per la Chiesa in questa questione
importante».
In precedenza, un momento di dissonanza fra Ratzinger e Giovanni
Paolo II era stato l’incontro interreligioso per la pace del 27 ottobre 1986 ad
Assisi, al quale il cardinale non ritenne opportuno partecipare. Il rischio da
lui intravisto era che si manifestasse confusione tra le diverse espressioni di
culto dei 62 capi religiosi convenuti nella cittadina di san Francesco: di
conseguenza temeva che la sua semplice presenza potesse venire equivocata
come una valutazione favorevole. Effettivamente in alcune chiese si
svolsero cerimonie inappropriate, per esempio con l’esposizione della statua
di Budda vicino a un tabernacolo, oppure con la preparazione del calumet
della pace su un altare; e anche riguardo all’appuntamento pomeridiano
nella piazza inferiore della basilica, dove i diversi gruppi si ritrovarono
insieme, la sequenza di preghiere, seppur scandite da una pausa fra ciascuna
di esse, diede avvio a polemiche su sensazioni di sincretismo o di cedimenti
al relativismo.
Per quello che ho percepito da qualche sua confidenza in merito,
Ratzinger aveva riferito a Papa Wojtyła le proprie perplessità, ma il
Pontefice era pienamente convinto dell’opportunità di quell’incontro e gli
chiese semplicemente di contribuire alla migliore preparazione fattibile. Il
cardinale aveva chiaro il proprio compito di far presenti le possibili derive,
ma poi non si tirava indietro quando Giovanni Paolo II gli manifestava una
esplicita volontà. Secondo Ratzinger, comunque, il Papa si rese conto, con il
senno di poi, che i timori espressi dal cardinale non erano del tutto
peregrini, al punto che nella seconda edizione del 24 gennaio 2002 chiese di
curare maggiormente i dettagli delle cerimonie, cosicché Ratzinger, che
pure fino al giorno precedente non era nella lista dei partecipanti, alla fine
ritenne di poter intervenire dopo una personale richiesta del Pontefice.
I collaboratori di Papa Wojtyła ripetevano sempre che nessuna decisione
significativa era stata presa da Giovanni Paolo II senza la consultazione
previa del cardinale, e io stesso ho avuto spesso fra le mani lettere a lui
indirizzate che venivano inoltrate in Congregazione con la scritta di suo
pugno: «Chiedere al cardinale Ratzinger», «Per favore, inviare al prefetto
Ratzinger». In questi casi, noi collaboratori della Congregazione leggevamo
con attenzione la lettera per comprendere la fattispecie della richiesta e
ipotizzare una proposta da sottoporre al cardinale, in modo da consentirgli
di valutare l’opportunità di illustrarla a propria volta al Pontefice
nell’udienza settimanale.
Quando sono diventato segretario particolare del prefetto, ricevevo
frequentemente telefonate dai segretari monsignor Stanisław Dziwisz (“don
Stanislao”) e monsignor Mieczysław Mokrzycki (“don Mietek”), i quali a
nome di Papa Wojtyła chiedevano che Ratzinger si recasse nel Palazzo
apostolico per una riunione con altri cardinali o da solo con il Santo Padre.
Erano invece scarsi gli appuntamenti per pranzi di lavoro, poiché il Papa
aveva ormai difficoltà anche nella deglutizione. Però ne venne organizzato
uno quando divenni segretario particolare del cardinale, il quale volle
presentarmi ufficialmente a Giovanni Paolo II e ai suoi collaboratori
dell’Appartamento papale. Io ero abbastanza intimidito dalla circostanza,
ma sia il Papa che i segretari furono molto cordiali e dopo un po’ mi sentii
completamente a mio agio.
«La Chiesa deve concentrare sempre più gli sforzi per creare un’alternativa
reale al mondo con una comunità, magari minoritaria, ma che ha scoperto
“la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo”.»
«Ci sono oggi dei cristiani “tagliati fuori”, che si pongono fuori da
questo strano consenso dell’esistenza moderna, che tentano nuove
forme di vita; essi, indubbiamente, non richiamano particolare
attenzione a livello dell’opinione pubblica, ma fanno qualcosa che
davvero indica il futuro.» (Il sale della terra, 1997)
«La Lumen gentium ha riportato i carismi nel cuore della Chiesa. Il Signore
sembra aver voluto confermare questa decisione del Concilio perché dopo
di esso abbiamo assistito a un vasto risveglio di carismi nella Chiesa.»
«Alcuni credono che sia possibile, anzi necessario, rinunciare oggi alla tesi
dell’unicità di Cristo per favorire il dialogo tra le varie religioni. Ora,
proclamare Gesù Signore significa proprio proclamare la sua unicità. La
grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi, e in primo luogo il
Papa, è di coniugare la più leale e convinta partecipazione al dialogo
interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di
Gesù Cristo.»
«La formula canonica attuale del rapporto fra il Papa e i vescovi è cum
Petro et sub Petro. Finora è stato accentuato soprattutto il sub Petro. I tempi
sono forse maturi per ridare tutto il suo significato al cum Petro. Si tratta di
creare organismi opportuni per attuare questo, che non potranno ispirarsi
più rigidamente a vecchie ripartizioni dell’orbe cattolico. Non possiamo più
ragionare in termini di antichi patriarcati.»
«Il primato del vescovo di Roma, nel suo senso originario, non si
oppone alla Costituzione collegiale della Chiesa, ma si tratta di un
primato di comunione che si colloca all’interno di una Chiesa che
vive e si comprende come comunità comunionale. Questa istanza
autorevole della collegialità dei vescovi non esiste per una mera
utilità umana (anche se questa la richiede), ma perché il Signore
stesso, accanto e con il ministero dei Dodici, ha istituito il ministero
speciale dell’ufficio petrino. […] Sono sempre più in dubbio che
questa (dei patriarcati, N.d.A.) possa essere la forma organizzativa
adeguata a raggruppare grosse unità continentali.» (Il nuovo popolo
di Dio, 1971 - Dio e il mondo, 2001)
La lettera di Schönborn
Ovviamente, come in tutti i più recenti Conclavi, le illazioni e le ipotesi
sull’andamento delle votazioni e sul risultato finale sono state numerose e
anche contraddittorie. Ciò che è indubitabile è la rapidità dell’elezione: per
Benedetto XVI sono stati necessari soltanto quattro scrutini (come per
Giovanni Paolo I nel 1978), un primato superato nell’ultimo secolo
unicamente da Pio XII (cui nel 1939 ne bastarono tre), mentre per gli altri si
va dai cinque di Paolo VI nel 1963 e di Francesco nel 2013 fino ai sette di
Pio X nel 1903, agli otto di Giovanni Paolo II nel 1978, ai dieci di
Benedetto XV nel 1914, agli undici di Giovanni XXIII nel 1958 e ai
quattordici di Pio XI nel 1922.
Sul fatto che il nome di Ratzinger fosse emerso sin dall’inizio come il
più votato, concordarono da subito tutte le indiscrezioni. Il cardinale Julián
Herranz, nel libro di memorie Nei dintorni di Gerico, ha dettagliato:
«Perché confluirono così rapidamente sul nome di Ratzinger più di due terzi
dei voti necessari? Si è parlato e scritto giustamente di una quadruplice
legittimità: il prestigio intellettuale del grande teologo; la legittimità
istituzionale del prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e
decano del Sacro Collegio; la legittimità romana in quanto membro della
Curia da tanti anni; e la legittimità wojtyliana dell’uomo di fiducia di
Giovanni Paolo II. Oserei aggiungere un’ulteriore ragione: la legittimità
spirituale di un sacerdote di profonda vita interiore (è un contemplativo) e,
nel contempo, di vibrante spirito apostolico, il quale, come Giovanni Paolo
II, è sempre disposto a portare la dottrina e l’amore di Cristo a tutti gli
areopaghi del mondo».
Parlando con il biografo Peter Seewald, Benedetto precisò di essere
rimasto colpito, durante il pre-Conclave, dal fatto che «molti cardinali
abbiano, per così dire, implorato colui che stava per essere eletto di
prendere su di sé la croce anche se non se ne sentiva all’altezza, di piegarsi
al voto della maggioranza di due terzi e di vedere in ciò un segno. Era un
dovere interiore, dicevano. Hanno posto il tema con tanta serietà da
convincermi che se davvero la maggioranza dei cardinali avesse espresso
questo voto la scelta sarebbe stata del Signore e io avevo il dovere di
accettare».
In particolare, nell’udienza del 25 aprile con i pellegrini tedeschi, Papa
Ratzinger confidò: «Quando, lentamente, l’andamento delle votazioni mi ha
fatto capire che, per così dire, la scure sarebbe caduta su di me, la mia testa
ha incominciato a girare. Ero convinto di aver svolto l’opera di tutta una
vita e di poter sperare di finire i miei giorni in tranquillità. Con profonda
convinzione ho detto al Signore: non farmi questo! Disponi di persone più
giovani e migliori, che possono affrontare questo grande compito con
tutt’altro slancio e tutt’altra forza. Allora sono rimasto molto toccato da una
breve lettera scrittami da un confratello del Collegio cardinalizio. Mi ha
ricordato che in occasione della Messa per Giovanni Paolo II avevo
incentrato l’omelia sulla parola che il Signore disse a Pietro presso il lago di
Genesaret: “Seguimi!”. Il confratello mi ha scritto: “Se il Signore ora
dovesse dire a te ‘seguimi’, allora ricorda ciò che hai predicato. Non
rifiutarti! Sii obbediente come hai descritto il grande Papa, tornato alla casa
del Padre”. Questo mi ha colpito nel profondo. Le vie del Signore non sono
comode, ma noi non siamo creati per la comodità, bensì per le cose grandi,
per il bene. Così alla fine non ho potuto fare altro che dire sì».
A scrivere quelle parole era stato il cardinale Christoph Schönborn, che
conosceva Ratzinger sin dal 1972, quando, da giovane domenicano, era
andato a seguirne i corsi a Ratisbona, restando poi nella cerchia ristretta dei
suoi ex allievi. Di fatto, tolti gli amici di gioventù, è stato una delle poche
persone che si scambiavano il “tu” con Ratzinger: fra loro, i cardinali
Cordes, Kasper, Meisner e Müller. Ma, per esempio, restò sempre il “lei”
con Amato, Bertone, Comastri, Ruini, Scola, Sodano e Vallini, che pure
furono tra i suoi principali riferimenti sia da cardinale sia da Papa.
Su quali parole abbia esattamente pronunciato per rispondere alla
domanda, proposta dal vicedecano Sodano, riguardo all’accettazione, sono
girate diverse varianti, tutte fantasiose, anche perché completamente
estranee alla sua sensibilità. Da quella attribuita al cardinale Michele
Giordano («Propter voluntatem Dei accepto»), alla più complessa
formulazione riferita dal cardinale Cormac Murphy-O’Connor («No, non
posso. Accetto come volontà di Dio»). Su questo posso permettermi di
essere preciso, avendolo esplicitamente chiesto al diretto interessato,
l’unico a disporre della facoltà di violare il vincolo del segreto. La sua
risposta fu semplicemente: «Accepto» (accetto, in latino); e anche
relativamente al nome si limitò a dire: «Benedictus».
In quel momento si annullava un plurisecolare pregiudizio: era infatti
esattamente da quattro secoli che non veniva eletto Papa il responsabile del
Sant’Uffizio. L’ultimo era stato Camillo Borghese (1552-1621), eletto il 16
maggio 1605 con il nome di Paolo V, quando da due anni era al vertice
dell’Inquisizione romana. Ed è singolare che anche l’ultimo decano del
Collegio cardinalizio eletto Papa prima di Ratzinger era stato responsabile
della medesima Congregazione: Gian Pietro Carafa (1476-1559), divenuto
Paolo IV il 23 maggio 1555 all’età di 79 anni.
Una curiosità di molti riguardò quale potesse essere stato il nome votato
da Ratzinger. Personalmente, alla fine mi sono convinto della
verosimiglianza di un aneddoto relativo al fatto che il cardinale Giacomo
Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1985 al 2003, avrebbe ricevuto un voto
sin dal primo scrutinio. A pranzo, dopo la terza votazione, Biffi si sarebbe
sfogato con l’arcivescovo partenopeo Giordano (secondo una testimonianza
del vaticanista Francesco Grana): «Se scopro chi è che si ostina a votarmi lo
prendo a schiaffi»; ricevendone come replica: «Siamo vicini all’elezione del
nuovo Papa ed è abbastanza evidente che sia lui a darle sempre il voto.
Vuole allora prendere a schiaffi il Papa?».
In effetti, Ratzinger aveva conosciuto molto bene il cardinale di
Bologna, che partecipava assiduamente agli incontri in Congregazione,
della quale era membro. Ne aveva letto e apprezzato numerosi libri e
riteneva molto qualificati i suoi interventi nei dibattiti della feria quarta.
Per mostrargli esplicitamente la propria stima, nel 2007 lo invitò a predicare
gli esercizi spirituali alla Curia romana: Biffi è stato così l’unico cardinale
ad averne guidati due, dopo quello del 1989 per Giovanni Paolo II. E a un
anno dalla morte, per il volume commemorativo del 2016 Ubi fides ibi
libertas, Benedetto XVI inviò un commosso messaggio: «Nella mia
memoria il cardinal Biffi è un pastore esemplare della Chiesa di Dio in
tempi tempestosi. Biffi era una personalità tutta d’un pezzo, uomo di un
coraggio straordinario, senza paura di popolarità o impopolarità, orientato
solo dalla luce della verità, che in Gesù Cristo ci appare in persona. La sua
intelligenza straordinaria e la sua formazione culturale e teologica, collegata
con una buona dose di umorismo, erano convincenti, perché era totalmente
al servizio della verità, al servizio del Signore, e così degli uomini del
nostro tempo. Mi auguro che persone di questa grandezza umana non
manchino mai nella Chiesa di Dio».
L’insospettabile tradimento
In quell’orizzonte contrastato del 2011-2012 si inserì la fuga di documenti
riservati che rappresentò una delle pagine più nere per la nostra famiglia
pontificia. Di fatto, la sensazione che conservo ancora oggi dentro di me è
quella di essermi trovato nei panni di un padre che non si accorge che il
figlio ruba i gioielli della mamma e che, anche quando il furto viene alla
luce, non riesce a nutrire alcun sospetto su di lui… Tuttora, se ripenso ai
protagonisti di quella triste vicenda, non riesco a staccare da un angolino
del cervello l’idea che si sentissero in buona fede. Ma la quantità di azioni
negative che furono messe in atto fu indubbiamente qualcosa che si
approssima al diabolico.
Agli inizi, dopo che il 25 gennaio 2012 la trasmissione Gli intoccabili su
La7 aveva reso note alcune lettere dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò
relative al suo trasferimento dal Vaticano alla nunziatura della Santa Sede
negli Stati Uniti, era sembrato trattarsi unicamente dello spiacevole esito di
screzi connessi a promozioni e rimozioni in alcuni ruoli di vertice della
Curia romana. Ma la cosa si complicò quando sul quotidiano «Il Fatto»
venne pubblicato un testo che il cardinale colombiano Darío Castrillón
Hoyos aveva consegnato, il 30 dicembre 2011, in Segreteria di Stato per
informare di presunte indiscrezioni attribuite da imprenditori tedeschi al
cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina
da lui compiuto nel novembre precedente.
Secondo quelle anonime fonti, Romeo aveva fornito ai suoi interlocutori
cinesi quattro informazioni: per le questioni più importanti, Benedetto
consultava lui e il cardinale Scola; il rapporto del Papa con il segretario di
Stato era molto conflittuale e addirittura Benedetto odiava Bertone; in
segreto il Santo Padre si stava occupando della sua successione e aveva già
scelto il cardinale Scola come idoneo candidato; infine, il preannuncio della
morte del Pontefice entro dodici mesi, probabilmente a causa di un
attentato. Una rapida consultazione portò alla secca dichiarazione di padre
Federico Lombardi: «Una cosa talmente fuori dalla realtà e poco seria che
non voglio nemmeno prenderla in considerazione».
Su indicazione di Benedetto, incontrai sia Castrillón sia Romeo, e la mia
netta impressione fu che il cardinale colombiano avesse ingenuamente dato
credito a persone poco autorevoli, motivate da oscuri interessi. Romeo
precisò che ovviamente aveva avvertito la Segreteria di Stato del suo
viaggio privato: in precedenza era stato nunzio e sapeva bene come
comportarsi. La valutazione conclusiva fu che il cardinale palermitano era
stato coinvolto soltanto perché in quel periodo era la più alta personalità
ecclesiastica giunta in Cina, e nessuno di noi ebbe il minimo dubbio che le
dichiarazioni a lui attribuite fossero una totale fandonia.
Il vero “colpo di scena” fu l’intervista del 22 febbraio 2012, sempre su
Gli intoccabili, dove il cosiddetto “corvo” spiegava di far parte di un
gruppo di dipendenti che volevano far emergere la verità su vicende oscure
e scandalose. Ascoltando quella voce modificata elettronicamente, non
riconobbi inflessioni a me familiari, per cui pensai che si trattasse di una
persona che non conoscevo, se non addirittura di un attore che aveva
interpretato una testimonianza verosimile. Ma certamente rappresentava il
preannuncio di ulteriori rivelazioni, come veniva chiaramente fatto
comprendere nel corso di quella trasmissione.
Sin dagli inizi della vicenda, la Gendarmeria pontificia aveva iniziato a
indagare: il 3 febbraio il comandante Domenico Giani inviò una
informativa al promotore di giustizia Picardi e dopo tre giorni venne
formalizzata la prima denuncia contro ignoti. Ma la fuoruscita degli
ulteriori documenti spinse Benedetto a costituire, il 24 aprile, una
Commissione cardinalizia che, «in forza del mandato pontificio a tutti i
livelli» (come fu esplicitamente precisato), potesse interrogare
riservatamente chiunque venisse ritenuto in grado di offrire tasselli per il
raggiungimento della verità.
Era composta da tre autorevoli cardinali, tutti ultraottantenni e dunque in
grado di operare senza “conflitti di interessi”: Julián Herranz, esperto di
Diritto canonico, Jozef Tomko, ottimo conoscitore della Curia romana, e
Salvatore De Giorgi, più esterno all’ambito vaticano. Come segretario fu
scelto il francescano Luigi Martignani, della Segreteria di Stato. Bertone
aveva provato a suggerire che la Commissione riferisse a lui, ma Benedetto
decise invece che il rapporto fosse diretto, sorpassando il segretario di
Stato.
Fu soltanto la pubblicazione, il 19 maggio seguente, del libro Sua
Santità, firmato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, a segnare la definitiva
svolta. Appena sfogliai quel volume, mi resi conto che alcuni dei documenti
citati, e addirittura fotografati, non erano passati per altri uffici vaticani se
non il mio. Li avevo mostrati al Papa, che vi aveva apposto la sua sigla e
indicato come procedere, e li avevo conservati sullo scaffale alle spalle del
mio tavolo di lavoro.
A quel punto feci mente locale su come si svolgesse il nostro lavoro
nella stanza della segreteria situata di fianco allo studio del Papa e
visualizzai che sostanzialmente, oltre al secondo segretario Xuereb e
all’aiutante Gabriele, non vi entrava nessuno. Comunque, per affrontare di
petto la situazione, in accordo con Benedetto XVI, convocai per la
mattinata del 21 loro due, insieme con le quattro Memores e anche suor
Birgit. Chiesi a ciascuno se fosse stato lui a consegnare quei documenti, e
tutti negarono con fermezza. A quel punto fui molto duro e, rivolgendomi
direttamente a Paolo, lo accusai del furto, approfittando del fatto che nella
stanza aveva una scrivania con un computer per lavori di archiviazione.
Quando al mattino arrivava la borsa dalla Segreteria di Stato, io smistavo il
contenuto e sottoponevo al Papa la documentazione da valutare
personalmente; lui leggeva, annotava qualche appunto e talvolta domandava
chiarimenti, e alla fine mi restituiva tutto con il suo responso. Documenti e
lettere rimanevano in un posto riservato del mio ufficio, nel tempo in cui
accompagnavo Benedetto alla Seconda loggia per le udienze, fino a quando,
prima di pranzo, un addetto della Segreteria di Stato veniva a riprendere la
borsa con il materiale visionato.
Paolo veniva con noi, ma poi spesso risaliva per sbrigare i suoi compiti.
Avendo la chiave dell’ascensore Sisto V poteva salire e scendere senza dare
nell’occhio e, poiché nel frattempo anche Xuereb si muoveva, lui poteva
restare spesso solo. Pensandoci in seguito, mi sono reso conto che, dopo il
pranzo, costantemente rientrava in ufficio e se ne andava verso le 15 (in
genere, arrivava intorno alle 7 per la Messa), dando l’impressione che
dovesse recuperare lavoro arretrato, cosicché aveva tempo disponibile per
le sue “cose”.
Perciò non avevo dubbi nell’incolparlo, contestandogli che almeno due
lettere pubblicate nel volume – relative alle donazioni di un giornalista e di
un banchiere in favore della carità del Papa – certamente le aveva avute
soltanto lui per le mani, in quanto erano arrivate direttamente a me e non
erano mai uscite dall’ufficio; per di più, gli avevo chiesto personalmente di
fare la fotocopia e di abbozzare una risposta di ringraziamento. Ma lui ebbe
la prontezza di negare assolutamente il fatto, addirittura facendo l’offeso e
chiedendomi come fossero nati in me tali sospetti.
Dopo il pranzo, entrai in cappella e non mi aspettavo di trovarlo lì. Lo
avvicinai e gli chiesi di dirmi la verità su cosa avesse combinato. Fu quello
il momento in cui cominciò ad ammettere di aver incontrato Nuzzi e di
avergli consegnato qualche documento. Io restai scioccato da questa
rivelazione. In seguito ho saputo che subito dopo si recò da monsignor
Harvey per raccontargli cosa era accaduto, forse nella folle speranza di
ricevere un sostegno, lasciando anche lui senza parole.
Quello che ancora oggi mi sconcerta, quando ci ripenso, è
l’atteggiamento che Paolo mostrò quando gli comunicai la sospensione
cautelare dal lavoro, in attesa che si chiarisse la situazione. Lui sostenne che
si stava soltanto individuando un capro espiatorio e, con freddezza, affermò
di sentirsi sereno e a posto con la coscienza, avendo avuto un colloquio con
il suo padre spirituale, don Giovanni Luzi.
Effettivamente, pur permanendo qualche ombra in relazione al segreto
confessionale, durante il processo si evidenziò che il sacerdote aveva
ricevuto da Gabriele della documentazione, che dichiarò di aver bruciato
dopo essersi reso conto della provenienza illegittima e disonesta. Ma
soprattutto emerse che il sacerdote gli aveva dato la «censurabile
indicazione», come la definirono con un eufemismo i giudici vaticani, di
«attendere le circostanze e, salvo che fosse stato il Santo Padre a
chiedermelo di persona, di non affermare ancora questa mia responsabilità».
Il mistero di Emanuela
Ovviamente, nel contesto del Vatileaks, non poteva mancare l’aggancio con
la terribile vicenda del sequestro di Emanuela Orlandi, che da decenni
riemerge periodicamente sulla stampa, con rivelazioni più o meno
attendibili e significative. Il 22 febbraio 2012 fu la volta della divulgazione,
nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, di alcuni stralci di una nota che
mi aveva inviato padre Lombardi, al tempo direttore della Sala stampa.
Dalla sintesi giornalistica, sembrava come se improvvisamente i vertici
della Santa Sede avessero concentrato una particolare attenzione su un
evento che risaliva a trent’anni prima, dato che la sparizione era avvenuta il
22 giugno 1983.
In realtà, l’antefatto era decisamente più ordinario, poiché si collegava
all’incontro che il 9 dicembre 2011 avevo avuto con Pietro Orlandi, che
desiderava consegnarmi una copia del suo libro Mia sorella Emanuela e
voleva ragguagliarmi su alcuni sviluppi del caso. Mi informò anche che
aveva invitato a partecipare all’Angelus del 18 dicembre in piazza San
Pietro quanti avevano firmato la sua petizione per sollecitare ulteriori
approfondimenti delle indagini e mi chiese di verificare la possibilità che
Papa Benedetto rivolgesse loro un saluto.
La mia conoscenza dei fatti era molto limitata, cosicché chiesi a padre
Lombardi di fornirmi una valutazione su quanto affermato nel volume,
mentre monsignor Giampiero Gloder, della Segreteria di Stato, esaminò i
dettagli della questione. La risposta di quest’ultimo, che venne poi
fotocopiata da Paolo Gabriele e resa nota nel libro di Nuzzi, fu che non
sarebbe stato opportuno un cenno pubblico, con una motivazione che risultò
ragionevole: «Il fratello della Orlandi sostiene fortemente che ai vari livelli
vaticani ci sia omertà sulla questione e si nasconda qualcosa. Il fatto che il
Papa anche solo nomini il caso può dare un appoggio all’ipotesi, quasi
mostrando che il Papa “non ci vede chiaro” su come è stata gestita la
questione».
Nell’appunto di padre Lombardi, da lui redatto tra fine dicembre 2011 e
inizio gennaio 2012 (e presumibilmente consegnato a Pietro Orlandi sempre
da Gabriele, poiché si conoscevano), era sottolineato con umana
partecipazione che «si percepisce che la tragedia della famiglia non è solo
quella di una figlia scomparsa, ma anche quella della tortura prolungata di
messaggi, rivendicazioni, informazioni contraddittorie, che tengono sempre
in dubbio e risvegliano la questione fino ai nostri giorni con presunti nuovi
elementi». Venivano quindi esaminati i diversi aspetti del tragico evento e
offerte le possibili risposte ad alcuni interrogativi proposti in quel libro.
Sviluppando tali considerazioni, il 14 aprile 2012 la Sala stampa
vaticana fornì un’ampia nota, dopo che «in alcune iniziative e interventi,
che hanno avuto eco sulla stampa, è stato avanzato il dubbio se da parte di
istituzioni o personalità vaticane si sia fatto veramente tutto il possibile per
contribuire alla ricerca della verità su quanto avvenuto», precisando che era
stato possibile «grazie ad alcune testimonianze particolarmente attendibili e
a una rilettura della documentazione disponibile, verificare nella sostanza
con quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani procedettero ad
affrontare quella situazione».
Personalmente avevo espresso la mia massima disponibilità e solidarietà
a Pietro Orlandi, come lui stesso attestò alla conduttrice Federica Sciarelli
in quella trasmissione della Rai, ma naturalmente le dichiarazioni di padre
Lombardi rappresentarono la ricostruzione più autorevole sulla quale basare
qualsiasi presa di posizione: «La sostanza della questione è che purtroppo
non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del
caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le autorità vaticane, in base ai
messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che, come
periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al Papa –
condivisero l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una
oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni
in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori dell’attentatore del Papa.
Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del
sequestro. L’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro
stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza
indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione
attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e
alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità».
Mi fu anche garantito che, nel corso degli anni, era stato fatto quanto
possibile per aiutare la famiglia Orlandi e di tutte queste informazioni feci
la dovuta comunicazione a Papa Benedetto. Pure il comandante Giani
consultò la documentazione dell’epoca e concluse che non c’era stata
alcuna notizia tenuta nascosta alla magistratura italiana e che nel frattempo
non erano maturate ulteriori ipotesi riguardo alle quali poter approfondire le
indagini in Vaticano.
Le diverse e contrastanti piste – dalla connessione con l’attentato a
Giovanni Paolo II al tentativo di avviare uno scambio con Ali Agca, dagli
scontri fra servizi segreti dell’Est e dell’Ovest alle vicende criminali della
banda della Magliana, dalle questioni connesse allo IOR del tempo di
Marcinkus ai presunti finanziamenti al movimento polacco Solidarnosc –
hanno avuto ciascuna indizi a favore e contro, senza che fossero mai
raggiunte definitive prove. E un dubbio aleggia ancora: se la sollecita e
partecipata preoccupazione di Papa Wojtyła, che lanciò un pubblico appello
sin dall’Angelus del 3 luglio 1983, abbia avuto come indesiderato corollario
gli sporchi maneggi di criminali privi di scrupoli, che si sono insinuati in
questa tragedia dove l’innocente vittima è stata una cittadina vaticana di
appena 15 anni (senza dimenticare la coetanea Mirella Gregori, anche lei
scomparsa nel nulla in quei mesi).
Da parte mia posso serenamente affermare che è totalmente inventato
quanto venne scritto dal giornalista Pino Nicotri sul sito
www.blizquotidiano.it il 13 gennaio 2015: «Qualche mese fa i magistrati
sono venuti a sapere in via confidenziale che “durante il processo la
Segreteria di Stato e la Gendarmeria del Vaticano erano semplicemente
terrorizzate dall’idea che Paolo Gabriele avesse fotocopiato anche il dossier
preparato con estrema cura da Gänswein”. Il dossier comunque non risulta
tra le fotocopie consegnate a Nuzzi e neppure tra quelle trovate
nell’appartamento in Vaticano dell’ex maggiordomo. Segno che non è stato
fotocopiato. Negli ultimi tempi però i magistrati si sono chiesti il perché di
tanta paura che ce ne fosse invece in giro una copia. Inevitabile l’ipotesi che
il dossier contenesse l’intera verità su cosa è successo e per mano di chi».
Molto più semplicemente, io non ho mai compilato alcunché in relazione al
caso Orlandi, per cui questo fantomatico dossier non è stato reso noto
unicamente perché non esiste.
Ugualmente infondata fu la polemica innescata nel dicembre del 2021
dalle dichiarazioni dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo su un paio di
incontri che aveva avuto a gennaio del 2012, nell’ufficio di piazzale Clodio,
con Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini. I vertici della
Gendarmeria si erano recati da lui per affrontare la problematica relativa
alla tomba di Renatino De Pedis, esponente della banda della Magliana,
nella cripta della basilica romana di Sant’Apollinare. Nei mesi precedenti
era stato ipotizzato che vi fosse seppellita anche Emanuela Orlandi,
cosicché si era voluta manifestare la disponibilità della Santa Sede per
l’apertura della bara e la verifica del contenuto, in modo da sgombrare il
campo da qualsiasi sospetto.
L’offerta di collaborazione, concordata con il cardinale Bertone e della
quale anch’io ero stato messo al corrente, venne però evidentemente
fraintesa, tant’è che l’ex magistrato ha impropriamente rievocato che «in
quella occasione, chiesi la possibilità del rinvenimento del corpo di
Emanuela Orlandi o almeno di sapere, di conoscere la sua fine. Si
mostrarono disponibili e mi dissero: “Le faremo sapere”». Come ribadito
più volte, questa sintetica ricostruzione è fuori dalla realtà, tant’è che in
tempi recenti pure l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe
Pignatone, ha precisato che all’epoca «il dottor Capaldo non ha mai detto
nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con
“emissari” del Vaticano», riferendone invece «solo dopo essere andato in
pensione (23 marzo 2017)».
6
Un Magistero a tutto tondo
Un pontificato cristocentrico
Ovviamente non è possibile sintetizzare in poche pagine un Magistero come
quello di Benedetto XVI, così denso dal punto di vista qualitativo, come
ampio dal punto di vista quantitativo. Però vorrei almeno sottolineare alcuni
punti essenziali del pontificato, che già rappresentano la sua più
significativa eredità. E il cuore decisivo, a mio parere, è stata la
testimonianza cristocentrica nel suo annuncio e nel suo operare.
La Parola di Dio è Cristo stesso, che è e deve essere al centro della
Chiesa e della sua vita. Considerato sotto questa luce, è cristiano colui che
crede in Gesù Cristo e vive un’amicizia personale con Lui. Anche e proprio
per questo motivo, un Papa non può precedere il Signore e voler stabilire
egli la via che Gesù stesso ha definito. Come ogni cristiano, anzi più di
chiunque altro, il Papa deve seguire Cristo, anteponendolo alla propria
persona e ai propri interessi e obiettivi.
In questo permanente rimando al Salvatore e all’annuncio cristocentrico,
si può individuare il motivo più profondo per cui Benedetto sottrasse al
logorante lavoro quotidiano del servizio petrino il tempo e l’energia per
scrivere il libro in tre volumi su Gesù di Nazaret. Come Pietro a Cesarea di
Filippi, a nome di tutti gli apostoli, testimoniò il Signore «Messia, Figlio del
Dio vivo», così anche Benedetto, come successore di Pietro, ha voluto
confessare la personale professione di fede in Cristo nell’odierna Cesarea di
Filippi, per convincere gli uomini della verità e della bellezza della fede
cristiana, per introdurli a un rapporto personale con il Signore.
Nella testimonianza del Papa per Gesù Cristo si rendono ancora una
volta visibili il significato e la necessità del servizio petrino nella Chiesa,
cosicché il ministero papale, illuminato dalla luce della fede, appare come
dono dello Spirito Santo alla comunità ecclesiale.
Papa Ratzinger è stato fermamente convinto di dover scrivere la trilogia
su Cristo come una sintesi della propria visione teologica incentrata sulla
convinzione che il messaggio salvifico di Gesù non è semplicemente una
dottrina, bensì il concreto incontro con la sua persona, con il Dio che si è
realmente fatto uomo e che continua a essere presente in ogni tempo. E lo
ha voluto fare firmando con il proprio nome, poiché metteva in gioco
l’autorevolezza della competenza e non l’autorità magisteriale.
La cosa per me impressionante era la capacità che manifestava ogni
martedì, dopo una settimana di sospensione, quando si sedeva alla scrivania
e riprendeva immediatamente a scrivere seguendo il precedente filo del
discorso, come se avesse interrotto il lavoro appena un attimo prima.
Scherzando, gli dicevo che il suo modo di agire era come quello di una
ricamatrice, che poteva fermare in qualsiasi momento la propria opera per
poi riprenderla senza difficoltà. Di fatto, il progetto è diventato una trilogia
soltanto perché Papa Ratzinger volle spezzettare l’opera in modo da essere
certo di portarne a termine almeno una parte, nella preoccupazione che l’età
e le forze non gli consentissero il definitivo completamento.
Come egli stesso scrisse nella premessa al primo volume, la riflessione
sul rapporto tra il Gesù della fede e il Gesù della storia rappresentò per lui
«un lungo cammino interiore» nella «ricerca personale del volto del
Signore». Ripensandoci, mi tornano alla mente le parole che pronunciò
davanti al Volto Santo durante il pellegrinaggio privato del 1° settembre
2006 nel santuario di Manoppello: «Per “vedere Dio” bisogna conoscere
Cristo e lasciarsi plasmare dal suo Spirito che guida i credenti “alla verità
tutta intera”. Chi incontra Gesù, chi si lascia da Lui attrarre ed è disposto a
seguirlo sino al sacrificio della vita, sperimenta personalmente, come Egli
ha fatto sulla croce, che solo il “chicco di grano” che cade nella terra e
muore porta “molto frutto”. Questa è la via di Cristo, la via dell’amore
totale che vince la morte».
E anche il 2 maggio 2010, nella meditazione dinanzi alla Sacra Sindone
durante la visita pastorale a Torino, sottolineò che «dal buio della morte del
Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della
risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli
occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. […] Questo è il
potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori” – che porta su
di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre
passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – promana
una solenne maestà, una signoria paradossale».
Nel secondo volume, a calamitare l’attenzione di Benedetto fu il tema
della risurrezione del Signore, in quanto punto decisivo del cristianesimo:
«Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente,
ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci
si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura
di Gesù come tale. […] La fede cristiana sta o cade con la verità della
testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti». Per di più, se
commentando l’Ultima Cena il Pontefice aveva già affermato che «con
l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita», qui andò ancor più a fondo
precisando che «il racconto della risurrezione diviene per se stesso
ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa
nascente la sua forma».
Insieme con la risurrezione, è la nascita verginale di Gesù il tema più
scandaloso per lo spirito moderno. Cosicché, nel volume conclusivo della
trilogia, quello sull’infanzia di Gesù, Papa Ratzinger volle proporre una
convinta dichiarazione: «Naturalmente non si possono attribuire a Dio cose
insensate o irragionevoli o in contrasto con la sua creazione. Ma qui non si
tratta di qualcosa di irragionevole e di contraddittorio, bensì proprio di
qualcosa di positivo: del potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l’essere.
Perciò questi due punti – il parto verginale e la reale risurrezione dal
sepolcro – sono pietre di paragone per la fede. Se Dio non ha anche potere
sulla materia, allora Egli non è Dio. Ma Egli possiede questo potere, e con il
concepimento e la risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova
creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Redentore. Per questo,
il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria sono un elemento
fondamentale della nostra fede e un segnale luminoso di speranza».
Di qui anche la sua ammirazione e devozione per la Madonna che, nel
momento dell’annuncio dell’Angelo, diviene Madre di Dio e della Chiesa
esprimendo il suo “sì” a Dio con «l’obbedienza libera, umile e insieme
magnanima, nella quale si realizza la decisione più elevata della libertà
umana». Per Papa Ratzinger, nell’Immacolata incontriamo l’essenza della
Chiesa in modo non deformato» e da Lei «dobbiamo imparare a diventare
noi stessi “anime ecclesiali”, così si esprimevano i Padri, per poter anche
noi, secondo la parola di san Paolo, presentarci “immacolati” al cospetto del
Signore, così come Egli ci ha voluto fin dal principio».
Polemiche e incomprensioni
Questo modo di agire da parte dei cosiddetti opinion leader è stato
costantemente presente in diverse circostanze, con polemiche o
incomprensioni che alla prova dei fatti si sono poi rivelate inconsistenti. La
prima avvenne il 12 settembre 2006, quando Papa Ratzinger si recò
nell’ateneo di Ratisbona, dove aveva insegnato Dogmatica e storia del
dogma dal 1969 al 1977, ricoprendo anche l’incarico di vicerettore. Era
stata una gioia per lui ricevere l’invito a pronunciare una lectio magistralis
sul tema “Fede, ragione e università” e ricordo che si preparò con molta
serietà, approntando una vera e propria lezione accademica, da considerare
perciò con un filo unitario, nell’intento di far emergere la necessità per
l’Europa di riscoprire le proprie radici cristiane.
Il dramma fu che una citazione da lui utilizzata – «Mostrami pure ciò
che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e
disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede
che egli predicava» – venne estrapolata dal contesto, il dialogo
dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un sapiente della legge
islamica, e rilanciata come un’affermazione personale del Pontefice,
diventando così un caso politico. In diversi Paesi islamici ci furono anche
gravi tumulti, che causarono persino delle vittime innocenti, e furono
necessarie due precisazioni, del direttore della Sala stampa Lombardi e del
segretario di Stato Bertone, per tamponare nell’immediato una situazione
che era divenuta incandescente. In ogni caso, nessuno di quanti avevano
letto in anticipo il testo aveva manifestato al Papa qualche perplessità in
merito, proprio perché era per tutti chiaro l’ambito in cui si sarebbe svolta
quella lettura.
Sta di fatto che, passata la tempesta e calmate le acque, soprattutto molti
studiosi islamici lessero integralmente il discorso e si resero conto della
reale consistenza di quelle parole. Ci vollero un po’ di mesi, ma alla fine
138 esponenti musulmani di 43 nazioni inviarono una lettera a Benedetto
per ribadire l’importanza di un confronto sincero e reciprocamente
rispettoso e, a dimostrazione di una ritrovata serenità, il 6 novembre 2007
giunse per la prima volta in Vaticano il re dell’Arabia Saudita Abdallah bin
Abdulaziz Al Saud, titolare anche dell’altissima carica religiosa di custode
delle due sacre moschee della Mecca e di Medina.
Un altro ambiente universitario, questa volta in Italia, fu al centro
dell’assurda contestazione che portò all’annullamento della visita di
Benedetto nell’ateneo romano La Sapienza, programmata per il 17 gennaio
2008. La preparazione era partita di lontano, addirittura l’invito ufficiale del
rettore Renato Guarini era giunto il Vaticano il 17 marzo 2006, e il saluto
alla comunità universitaria si collegava a dei restauri effettuati nella
cappella interna all’ateneo.
A innescare la polemica fu la comunicazione al Senato accademico, il 23
ottobre 2007, che il Papa avrebbe pronunciato una lectio magistralis.
Nonostante il formale chiarimento dato dal rettore il 13 novembre seguente,
specificando che si sarebbe trattato unicamente di una allocuzione, mentre
la lezione magistrale era stata affidata al professor Mario Caravale sul tema
della pena di morte, un gruppo di docenti di fisica chiese che l’evento
venisse annullato, adducendo come motivazione che Ratzinger, in un
discorso del 15 marzo 1990, aveva ripreso un’affermazione di Feyerabend:
«All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello
stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto».
Praticamente era il duplicato di quanto avvenuto a Ratisbona, poiché, in
quella conferenza sul tema “La Chiesa e la modernità” (come ricostruì il
responsabile della cappella universitaria padre Vincenzo D’Addamo), «il
relatore non condivideva la posizione del filosofo citato. Il cardinale
Ratzinger evidenziava le implicazioni, sulla Chiesa, del cambiamento di
paradigma culturale nei vari passaggi storici della modernità e considerava
l’immagine che di Chiesa derivava, sia all’interno sia all’esterno del mondo
ecclesiale. In questo contesto si collocava anche il passaggio critico su
Feyerabend, e il suo giudizio controverso, di “modernità” e di
“ragionevolezza”, del comportamento della Chiesa nei confronti di
Galileo».
In ogni caso, Benedetto preferì rinunciare alla presenza fisica e inviò il
testo scritto, che fu letto in aula magna dal prorettore alle attività sociali
Piero Marietti. E posso con serenità rispondere a Carlo Cosmelli, uno dei
fisici firmatari della lettera, che chiese provocatoriamente se avrebbe detto
le stesse cose durante l’intervento di persona: «Sì, non una virgola venne
cambiata!». Ma il Papa serbò comunque il dispiacere – più che per la
mancata accoglienza in quel centro culturale cui, non dimentichiamolo,
aveva dato vita il suo predecessore Bonifacio VIII, istituendo il 20 aprile
1303 lo “Studium Urbis” – per la chiusura intellettuale di studiosi che di
fatto avevano cancellato con un tratto di penna la libertà accademica.
Il sorprendente annuncio
Al risveglio dell’11 febbraio 2013, dopo una notte un po’ agitata per la
tensione, mi resi conto che stavo per vivere un evento che sarebbe rimasto
nella storia. Ma sin dal primo incontro con Benedetto XVI, in cappella per
la preparazione alla Messa, potei notare che lui era invece estremamente
calmo. Certo, sul suo viso ogni tanto si palesava un attimo di sospensione,
come un flash per riflettere su ciò che stava per concretizzarsi. Ma lo
sapevo bene: una volta che aveva raggiunto una determinazione, tutto il suo
essere restava in perfetta pace.
La serenità con cui attraversò quella impegnativa giornata, e che posso
garantire si è mantenuta intatta sino alla morte, mi consente oggi di
esprimere per la prima volta – “sommessamente”, come è d’uso nel
linguaggio curiale – la convinzione che Benedetto avesse anche lui dei tratti
mistico-ascetici, in continuità spirituale con Giovanni Paolo II, e che tutte le
sue decisioni fossero dovute a un rapporto diretto con Dio, da cui realmente
si sentiva ispirato e costantemente guidato.
Del resto, lui stesso lo ha fatto capire “tra le righe” in molteplici
occasioni e forse bastava dare più attenzione e credibilità alle sue parole.
Per esempio, in Introduzione al cristianesimo (da teologo professore nel
1968) spiegò che «ciò che non può essere visto, quello che non può
assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è
anzi l’autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni altra
realtà»; in Dio e il mondo (da cardinale prefetto nel 2001), alla
sollecitazione di Peter Seewald: «Per lei che parla personalmente con Dio,
la comunicazione con lui è diventata così naturale come telefonare?»,
replicò: «Sotto certi aspetti il paragone può reggere. So che Lui è sempre
presente. E Lui sa comunque chi sono e che cosa sono. A maggior ragione
avverto l’esigenza di invocarLo, di comunicare con Lui, di parlare con Lui.
Con Lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori come su
quelle più grandi e gravose. Per me è in qualche modo normale avere
sempre la possibilità, nel quotidiano, di rivolgermi a Lui»; in Luce del
mondo (da Papa nel 2010), rispondendo alla domanda di Seewald: «Esiste
ora un suo “rapporto privilegiato” con il Cielo, qualcosa di simile a grazie
di diritto legate al suo ministero?», affermò: «Sì, a volte ho questa
impressione. Nel senso che penso: “Ecco, ho potuto fare una cosa che non
veniva da me. Ora mi affido a Te e mi accorgo che, sì, c’è un aiuto, succede
qualcosa che non viene da me”. In questo senso esiste l’esperienza della
grazia del ministero».
Anche se non mi parlò mai di esplicite illuminazioni soprannaturali,
come visioni o locuzioni interiori (del resto fu sempre molto cauto in
materia di rivelazioni private), in questo specifico caso espresse
costantemente la certezza morale che – riflettendo, pregando e soffrendo –
aveva raggiunto la convinzione di dover rinunciare per mancanza delle
forze. Oggi, riflettendoci, provo una sensazione come di un indiretto déjà-
vu, in relazione all’episodio di maggio del 1945, quando durante la guerra il
giovane Joseph decise di tornare a casa rischiando di passare per disertore e
di essere fucilato su due piedi: forse, in quella esperienza determinante che
gli salvò la vita, c’è la chiave segreta per intendere il passo che compì alla
fine del suo pontificato, quando – superando mille ostacoli e molte buone
ragioni – una seconda volta, semplicemente e rinchiudendosi nel silenzio,
decise di tornare a casa…
Quando entrai nella sala del Concistoro, subito dietro Benedetto, vidi in
attesa, allineati lungo le pareti, una cinquantina di cardinali e qualche altro
vescovo e monsignore. Mi venne spontaneo pensare che mi sarebbe
piaciuto congelare in quel momento il tempo, con i volti sorridenti e distesi
di quanti consideravano quella riunione una delle tante cerimonie che
caratterizzavano da secoli le consuetudini della Santa Sede. Il brusio di
sottofondo si tacitò immediatamente e gli sguardi di tutti si fissarono sul
Papa, per la naturale curiosità di osservare come camminava e che aspetto
aveva. La salute del Pontefice è da sempre uno dei principali argomenti di
chiacchiericcio in Vaticano…
L’appuntamento era per le 11 e si cominciò in perfetto orario. Il
Concistoro era stato convocato, secondo prassi, per il cosiddetto “voto” su
alcune cause di canonizzazione. Nella procedura per la proclamazione dei
nuovi santi è infatti prevista un’ultima tappa, quando il Pontefice conferma
il parere positivo dei cardinali e dei vescovi riguardo alla santità di un beato
e annuncia la data in cui presiederà la cerimonia. La circostanza, sebbene
relativamente rapida, è comunque un evento solenne, in quanto con il
decreto di canonizzazione il Pontefice si esprime ex cathedra, cioè esercita
la propria infallibilità, secondo la definizione del Concilio Vaticano I.
I protagonisti di quella mattinata erano Antonio Primaldo e circa
ottocento compagni testimoni della fede cristiana, martirizzati a Otranto
nell’agosto del 1480 durante un’incursione degli Ottomani sulle coste
pugliesi, Laura di Santa Caterina da Siena Montoya y Upegui (1874-1949),
fondatrice della Congregazione delle suore missionarie della Beata Vergine
Maria Immacolata e di santa Caterina da Siena, e Maria Guadalupe García
Zavala (1878-1963), cofondatrice della Congregazione delle Serve di santa
Margherita Maria e dei poveri. La data della celebrazione sul sagrato della
Basilica vaticana per la loro iscrizione nell’Albo dei santi venne fissata per
domenica 12 maggio 2013. Dopo questo annuncio, Benedetto avrebbe
dovuto alzarsi, pronunciare la formula della benedizione e andare via.
Invece, come avevo riservatamente preannunciato al cerimoniere Guido
Marini, porsi al Papa un altro foglio. Era un testo in latino che l’acustica
degli ampi spazi rendeva di non facile comprensione, ma, nell’arco di meno
di tre minuti, risuonarono alcune parole dal chiarissimo significato, che
causarono un sempre più crescente stupore nei presenti: «decisionem magni
momenti» («una decisione di grande importanza»), «ingravescente aetate»
(«per l’età avanzata», rievocando il titolo del motu proprio con cui Paolo
VI, nel 1970, aveva emanato alcune norme connesse all’età dei cardinali),
«incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum» («la mia incapacità
di amministrare bene il ministero a me affidato»), «declaro me renuntiare»
(«dichiaro di rinunciare»), «Conclave ad eligendum novum Summum
Pontificem» («il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice»).
Nella traduzione italiana, la dichiarazione integrale recitava così:
«Carissimi fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre
canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande
importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la
mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze,
per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il
ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua
essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le
parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi,
soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la
vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo,
è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli
ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia
incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben
consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di
rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me
affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28
febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà
vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per
l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi fratelli, vi ringrazio di
vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso
del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la
santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo,
e imploriamo la sua Santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà
materna i padri cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per
quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una
vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio».
In questo modo, Benedetto adempì esattamente quanto stabilito dal
Codice di Diritto canonico (can. 332 §2): «Nel caso che il Romano
Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia
fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede
invece che qualcuno la accetti». Ovviamente, per rispondere a chi tuttora
sostiene che non c’è riscontro formale di quell’atto, sul foglio vennero
apposte la data e la firma autografe del Papa e la sua dichiarazione fu
verbalizzata da un protonotario apostolico, che redasse il rogito del
Concistoro, custodito nell’apposito archivio a perpetua memoria.
Con voce a tratti rotta per l’emozione, il cardinale Sodano lesse una
risposta nella quale si alternarono passaggi nel contempo drammatici e
lirici, riuscendo, a mio parere, a trasmettere i sentimenti che aleggiavano
nella sala, misti di gratitudine e di preoccupazione, ed esprimendo anche la
consapevolezza che non si poteva mettere in discussione una convinta
decisione del Papa: «Come un fulmine a ciel sereno, ha risuonato in
quest’aula il suo commosso messaggio. L’abbiamo ascoltato con senso di
smarrimento, quasi del tutto increduli. […] A nome di questo cenacolo
apostolico, il Collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari collaboratori,
permetta che le dica che le siamo più che mai vicini, come lo siamo stati in
questi luminosi otto anni del suo pontificato. […] Quel giorno ella ha detto
il suo “sì” e ha iniziato il suo luminoso pontificato nel solco della continuità
coi suoi 265 (sic, in realtà 264, N.d.A.) predecessori sulla Cattedra di Pietro,
nel corso di duemila anni di storia, dall’apostolo Pietro, l’umile pescatore di
Galilea, fino ai grandi Papi del secolo scorso, da san Pio X al beato
Giovanni Paolo II. […] In questo mese ci saranno tante occasioni ancora di
sentire la sua voce paterna. La sua missione però continuerà. Ella ha detto
che ci sarà sempre vicino con la sua testimonianza e con la sua preghiera.
Certo, le stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà sempre
in mezzo a noi la stella del suo pontificato».
Pochi minuti più tardi, alle 11.46, Giovanna Chirri, la vaticanista
dell’agenzia giornalistica italiana Ansa che aveva assistito in Sala stampa
all’evento attraverso il circuito televisivo interno, lanciò per prima la notizia
che subito fece il giro del mondo: «+++ FLASH +++ PAPA LASCIA
PONTIFICATO DAL 28/2 +++ FLASH +++ ». Da quel momento fui subissato da
una quantità incredibile di telefonate, messaggi e mail, cui non ho
ovviamente avuto alcuna possibilità di rispondere. Ogni tanto davo uno
sguardo a quelli che provenivano da autorevoli personalità, compresi
cardinali e vescovi che non erano presenti nella sala del Concistoro, e
notavo che molti di loro esprimevano incredulità e chiedevano conferma,
come se non riuscissero proprio a ritenere possibile una tale situazione…
Comunque, per noi la giornata proseguì in una surreale routine: tutto
procedeva secondo consuetudine, ma come se l’atmosfera si fosse
improvvisamente rarefatta. Dopo il Concistoro siamo usciti verso la sala dei
Sediari e dietro di noi è stata chiusa la porta, poi con l’ascensore Sisto V
siamo saliti nell’appartamento pontificio e qui ho aiutato il Papa a togliere
la stola, la mozzetta, il rocchetto e la croce pettorale. Quindi sono tornato
alla mia scrivania, ma la testa era altrove e neanche con don Alfred ho
commentato qualcosa.
Subito è arrivata l’ora del pranzo, durante il quale ha regnato il silenzio.
Dopo una breve passeggiata sul terrazzo, il riposino pomeridiano e alle 16 il
Rosario alla grotta di Lourdes nei Giardini vaticani. Il lavoro per sistemare
la corrispondenza mi ha impegnato fino alla cena, mentre il Papa nel suo
studio esaminava documenti e rifletteva sui discorsi per gli appuntamenti
dei giorni successivi. Dopo cena, il Tg1 ha ovviamente dedicato ampio
spazio alla notizia, ma neanche in questo caso Benedetto ha espresso
qualche osservazione. L’unico con cui ha parlato quel giorno penso sia stato
il fratello, nella consueta telefonata serale, ma per quanto ne so non ha
avuto ulteriori contatti, né telefonici né di persona.
L’uscita di scena
L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in apnea. Al mattino,
nella sala Clementina, ci fu l’incontro di Benedetto con i cardinali presenti a
Roma. Era stato un suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo
collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la permanenza sulla
Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche della necessità di consentire ai
più lontani il tempo per sistemare le cose in diocesi prima di raggiungere
Roma. Dei 207 membri del Collegio cardinalizio, di cui 90 creati da lui nei
suoi cinque Concistori, erano presenti 144 porporati, fra i quali 103 di età
inferiore agli ottant’anni e che dunque sarebbero entrati in Conclave
(insieme agli altri che giunsero successivamente alla spicciolata).
«Per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce
della presenza del Signore risorto. La vostra vicinanza e il vostro consiglio
mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero», furono le grate parole
pronunciate da Papa Ratzinger. E, rifacendosi al teologo Romano Guardini,
propose un pensiero che gli stava molto a cuore: «La Chiesa è un corpo
vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è
nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. La
Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che – come la Vergine Maria
– accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito
Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà,
diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il
Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a
camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi. Rimaniamo uniti, cari fratelli,
in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana,
e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che
nessuno ci può togliere».
A nome del Collegio, il decano Angelo Sodano propose un indirizzo di
omaggio pervaso anche di emozioni personali: «Padre Santo, con profondo
amore noi abbiamo cercato di accompagnarla nel suo cammino, rivivendo
l’esperienza dei discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver camminato con
Gesù per un buon tratto di strada, si dissero l’un l’altro: “Non era forse
ardente il nostro cuore, quando ci parlava lungo il cammino?” (Luca 24,32).
Sì, Padre Santo, sappia che ardeva anche il nostro cuore quando
camminavamo con lei in questi ultimi otto anni. Oggi vogliamo ancora una
volta esprimerle tutta la nostra gratitudine». Secondo me riuscì a esprimere
la sensibilità della stragrande maggioranza dei cardinali, rappresentandone
le emozioni che anch’io avevo percepito in seguito ad alcuni colloqui e alle
lettere giunte da numerosi di loro. Si percepiva in quell’incontro una
sincerità nel dolore, nell’incomprensione, anche nell’imbarazzo, forse
risolti poi con il trascorrere del tempo.
Devo dire però che qualche giorno più tardi, nell’omelia della Messa
“pro eligendo Romano Pontifice”, risuonarono alcune espressioni che a
molti parvero un contraltare ai buoni sentimenti precedenti. Soffermandosi
sul significato della missione del Papa, il cardinale Sodano affermò:
«L’atteggiamento fondamentale di ogni buon Pastore è dunque dare la vita
per le sue pecore. Questo vale soprattutto per il Successore di Pietro,
Pastore della Chiesa universale. Perché quanto più alto e più universale è
l’ufficio pastorale, tanto più grande deve essere la carità del Pastore». Io ero
presente a quella celebrazione e mi resi conto, per gli sguardi lanciatimi da
altri confratelli, di quanto queste parole venissero percepite anche da loro
come una non troppo velata critica. Benedetto comunque non vide la
cerimonia in televisione, né gliene accennai, poiché compresi che non
desiderava essere messo al corrente di quanto stava accadendo in vista del
Conclave.
Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già recate a Castel
Gandolfo, con don Alfred controllammo che nell’Appartamento pontificio
fosse tutto in ordine. Poco prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo
sguardo a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore Nobile. Fu un
addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire e mi colpì nell’intimo, al
punto che non potei far altro che lasciar libero corso alle lacrime.
Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la diocesi di Roma e per
la Città del Vaticano, Agostino Vallini, che si accorse del mio turbamento e
cercò di confortarmi, e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver
pianto, ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e un Papa
viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per un saluto, nel cortile di
San Damaso, c’erano i responsabili della Segreteria di Stato e altri fra i
principali collaboratori del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era
schierata con il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati
moltissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso espressero il
loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapidamente, mentre sull’account
@Pontifex di Twitter, inaugurato nel dicembre del 2012, compariva il suo
ultimo messaggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate
sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita».
Salimmo in automobile verso l’eliporto e decollammo, mentre le
campane della Basilica vaticana e delle altre chiese romane suonavano a
distesa. In elicottero, silenzio assoluto: guardavamo quello che ci scorreva
sotto gli occhi, anche perché era la prima volta che passavamo sul centro
storico di Roma, dato che in occasioni precedenti, giungendo da Ciampino
o da Castel Gandolfo, il pilota aveva percorso una rotta più limitrofa alla
città.
Soltanto mesi dopo abbiamo visto con Benedetto le immagini che erano
state trasmesse in mondovisione da un secondo elicottero che ci seguì per
tutto il viaggio, in un documentario curato dal Centro televisivo vaticano.
Per me fu molto emozionante rievocare quel giro attorno alla cupola di San
Pietro che il pilota fece senza averci preavvisati, ma il Papa emerito
mantenne il suo atteggiamento impassibile e non commentò affatto.
Giunti nella residenza di Castel Gandolfo, poco dopo le 17.30, Benedetto
si affacciò dal balcone esterno per salutare i fedeli e pronunciò le sue ultime
parole da Papa regnante: «Cari amici, sono felice di essere con voi,
circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto
bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo
mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice
della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più.
Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo
pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il
mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie
forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e
dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo
avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo».
Erano momenti di tensione estrema, che anche Benedetto XVI viveva
con emozione. Parlando a braccio in italiano, fece perciò alcuni errori, poi
corretti come d’abitudine nel bollettino ufficiale della Sala stampa. Ma su
uno di questi – l’inversione tra “Sommo Pontefice” e “Pontefice Sommo” –
sarebbe poi stata ricamata un’assurda elucubrazione, affermando che, come
i già discussi errori in latino nella lettera di rinuncia, fosse in realtà un modo
per inviare un messaggio subliminale relativo all’autenticità e alla validità
della rinuncia al proprio ufficio petrino. In realtà, è sufficiente ascoltare
integralmente quel discorso per rendersi conto che, subito prima, aveva
invertito anche le parole “mio giorno” con “giorno mio”, mentre alla fine,
impartendo la benedizione, era partito con il lapsus “Sia benedetto Dio
onnipote…” al posto di “Ci benedica Dio onnipotente”.
Rientrato in casa, si ritirò in camera da letto per sistemare le cose
personali e per pregare da solo i vespri. Alle 19.30 ci fu la consueta cena e
alle 20 sentimmo il rumore della chiusura del portone. Subito dopo ci
recammo davanti al televisore per il Tg1, con i vari servizi dedicati alla
giornata. Durante il telegiornale non c’erano mai commenti, al massimo
capitava di scambiare qualche opinione durante la successiva passeggiata. E
quella sera il silenzio regnò ancor più sovrano. D’altra parte, cosa si sarebbe
potuto dire in quei frangenti? Al termine, facemmo una passeggiata
attraverso diverse stanze del primo piano: la biblioteca privata, la sala del
Concistoro, la galleria e altre sale fino alla sala degli Svizzeri, dove c’è un
bel terrazzino affacciato verso il lago Albano. Infine, recitata la compieta in
cappella, Benedetto rientrò nella sua stanza. Dopo 2.873 giorni, si
concludeva così il pontificato del 264° successore di san Pietro.
8
Il rapporto fra i due Papi
L’enciclica e l’intervista
Il 17 ottobre 2011, con la lettera apostolica Porta fidei (datata all’11 ottobre,
per ricordare l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II),
Benedetto aveva reso nota la volontà di programmare un Anno della fede
dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Nel momento di quella
decisione non c’era ancora all’orizzonte l’idea della conclusione anticipata
del pontificato, cosicché Papa Ratzinger aveva stabilito di accompagnare
quel cammino con una enciclica sulla tematica della fede, che idealmente
avrebbe completato la trilogia delle virtù teologali.
La fatica dei mesi successivi gli impedì però di dedicarsi alla stesura
come avrebbe voluto, cosicché, approssimandosi la data prevista per la
rinuncia, si rese conto che il testo non era per nulla maturo e preferì
lasciarlo in eredità al suo successore. Il testo definitivo, sul quale avevano
intanto continuato a lavorare gli organismi competenti, venne firmato da
Papa Francesco il 29 giugno 2013 e fu pubblicato il 5 luglio seguente.
Rispetto all’ultima bozza vista da Benedetto prima della rinuncia c’erano
state alcune modifiche, in particolare inserendo nell’ultima parte tematiche
più consone al nuovo Pontefice, ma la sostanza restò la medesima.
Lo affermò pubblicamente anche Papa Bergoglio, nell’Angelus del 7
luglio: «Per l’Anno della fede, il Papa Benedetto XVI aveva iniziato questa
enciclica, che fa seguito a quelle sulla carità e sulla speranza. Io ho raccolto
questo bel lavoro e l’ho portato a termine. Lo offro con gioia a tutto il
popolo di Dio: tutti infatti, specialmente oggi, abbiamo bisogno di andare
all’essenziale della fede cristiana, di approfondirla e di confrontarla con le
problematiche attuali. Ma penso che questa enciclica, almeno in alcune
parti, può essere utile anche a chi è alla ricerca di Dio e del senso della vita.
La metto nelle mani di Maria, icona perfetta della fede, perché possa
portare quei frutti che il Signore vuole».
Sei mesi dopo l’elezione, fece notizia l’ampia intervista concessa da
Papa Francesco al direttore de «La Civiltà Cattolica» padre Antonio
Spadaro. Contrariamente a quanto fatto trapelare all’epoca, e divenuto
ormai una certezza consolidata («Arrivarono al Monastero le bozze di
un’intervista. […] Il testo si concludeva con due pagine bianche e un
appunto scritto di suo pugno da Jorge Mario Bergoglio. […] Era una
richiesta a Benedetto di inserire eventuali osservazioni critiche», ha
affermato in un recente libro anche il pur informato Massimo Franco), il
Pontefice mi consegnò la busta con una copia del quindicinale dei Gesuiti
soltanto dopo la pubblicazione, il 19 settembre 2013, chiedendomi di
riferire a Benedetto il suo desiderio che ci desse uno sguardo ed
eventualmente proponesse anche qualche commento.
Il Papa emerito prese molto sul serio la richiesta, lesse attentamente
quella trentina di pagine e appuntò le proprie riflessioni. Quindi preparò una
lettera, la cui stesura definitiva portò la data del successivo 27 settembre,
quando la diedi personalmente a Papa Francesco. Nelle prime righe
Benedetto spiegava subito la specificità delle proprie sottolineature: «Santo
Padre, vorrei dirle grazie di cuore per la trasmissione della sua lunga
intervista pubblicata su “La Civiltà Cattolica”. Ho letto il testo con gioia e
con vero guadagno spirituale e con un consenso completo. Lei mi ha
invitato anche a eventuali osservazioni critiche. In realtà sono d’accordo
con tutto quanto lei ha detto, ma in due punti vorrei aggiungere un aspetto
complementare. Il primo punto concerne i problemi legati all’aborto e
all’uso dei metodi contraccettivi. Il secondo punto concerne il problema
dell’omosessualità».
Sul primo, Benedetto precisava: «Circa i tre problemi che lei dice a
pagina 463 e seguenti, che lei non ha “parlato molto di queste cose”, che
“bisogna parlarne in un contesto” e che “una pastorale missionaria non è
ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine…
dobbiamo trovare un nuovo equilibrio…”, sono assolutamente d’accordo
con questo e io stesso ho detto queste cose molte volte con parole simili.
Anch’io, perciò, non ho parlato molto di questi temi nel mio pontificato.
Tuttavia vorrei aggiungere un aspetto complementare. Avendo vissuto 23
anni accanto al beato Giovanni Paolo II, sono stato testimone del modo
appassionato con il quale ha realizzato la lotta per la vita. Ho capito che il
Papa beato ha visto nella lotta pro vita, insieme con la lotta per i diritti
umani, un nucleo essenziale della sua missione. E ho anche capito che per
Giovanni Paolo II questo non era un moralismo, ma era la lotta per la
presenza di Dio nella vita umana. Giovanni Paolo II, così ho imparato,
aveva compreso che l’aborto e le forme di procreazione artificiale, di
manipolazione e di distruzione di vite umane, erano sostanzialmente un
“no” al Creatore. L’uomo da solo si crea e si distrugge. In questo senso la
grande lotta pro vita era la lotta per il Creatore. È vero che in diversi rami
dei movimenti pro vita questa grande prospettiva non era sufficientemente
presente e non mancavano unilateralità. Un riequilibrio è quindi necessario,
Ma la lotta pubblica contro questa negazione concreta e pratica del Dio
vivente rimane certamente una necessità».
Riguardo invece al secondo punto, sottolineava: «Alla pagina 463 lei
parla del problema difficile della pastorale per gli omosessuali. Anche qui
sono totalmente d’accordo con quanto lei dice. Già nel Catechismo della
Chiesa cattolica avevamo cercato di trovare, dopo lunghi dibattiti con
correnti diverse, l’equilibrio tra il rispetto della persona, l’amore pastorale e
la dottrina della fede. Ritrovo questo equilibrio nelle sue parole, ma anche
qui vorrei aggiungere un aspetto che risulta dai problemi della propaganda
pubblica su questo punto. La filosofia del gender che qui è in gioco ci
insegna che è la singola persona stessa che si fa uomo o donna. L’essere
uomo o donna non è più una realtà della natura che ci precede. L’uomo è un
prodotto di se stesso. La filosofia di Sartre viene concretizzata in un modo
in quel momento ancora non prevedibile. Si tratta di una radicale negazione
del Creatore e di una manipolazione dell’essere nella quale solo l’uomo è
padrone di se stesso. In questa propaganda non ci si interessa per niente del
bene delle persone omosessuali, ma di una voluta manipolazione dell’essere
e una radicale negazione del Creatore. Io so che molte persone omosessuali
con queste manipolazioni non sono d’accordo e sentono che il problema
della loro vita diventa un pretesto per una guerra ideologica. Perciò, la
resistenza forte e pubblica contro questa pressione è necessaria. Dobbiamo
realizzare questa resistenza senza perdere nella vita pastorale l’equilibrio tra
amore del pastore e verità della fede».
Prima di concludere con i saluti, il Papa emerito propose due ulteriori
precisazioni: «Santità, mi permetta ancora una breve annotazione. A pagina
464 lei dice che le questioni di mancanza di ortodossia “si trattano meglio
sul posto”. Quanto ho desiderato questo negli anni nei quali sono stato
prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Purtroppo, la mia
esperienza di 23 anni dice che normalmente i vescovi o anche le
Conferenze episcopali hanno poca voglia di prendere seriamente in mano
questi problemi e preferiscono lasciare la “patata bollente” nelle mani della
Congregazione. Infine, vorrei dire con gioia e gratitudine come sono
d’accordo con la sua distinzione tra “ottimismo” e “speranza” a pagina 470.
Ripetutamente ho detto lo stesso e sono molto felice di sentire questa
distinzione dalla bocca di Vostra Santità». Papa Francesco mi incaricò di
portare i suoi ringraziamenti a Benedetto, ma ignoro se e come abbia fatto
proprie tali considerazioni.
Il 25 novembre giunse a Benedetto una copia, rilegata in pelle bianca,
del documento che, come di consueto, era stato redatto dal Pontefice dopo il
Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2012 su “La nuova evangelizzazione per la
trasmissione della fede cristiana”. La dedica autografa recitava: «Adesso
sono lieto di far avere a Sua Santità copia dell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium. Per favore, non si dimentichi di pregare per me. Che il
Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente… e anche
filialmente, Francesco». Anche in seguito Papa Francesco ha inviato a
Benedetto tutte le sue encicliche ed esortazioni apostoliche,
accompagnandole sempre con un bigliettino di saluti e la dicitura
«filialmente e fraternamente», cui il Papa emerito ha sempre risposto
ricambiando ogni augurio. Tuttavia, richieste specifiche di osservazioni in
merito a questi testi non sono più giunte.
Alla sensibilità teologica di Benedetto, alcune affermazioni di Francesco
nella Evangelii gaudium suonarono estranee. In particolare il sogno di «una
scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini,
gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un
canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per
l’autopreservazione» (n. 27), «Le diverse linee di pensiero filosofico,
teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e
nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare
meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina
monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta
dispersione» (n. 40), «A volte, ascoltando un linguaggio completamente
ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi
utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo
di Gesù Cristo» (n. 41).
Ma la sua costante linea di condotta fu quella di dare il “beneficio
d’inventario” al primo Pontefice latino-americano nella storia della Chiesa e
di non giudicare mai le sue espressioni con lo sguardo “romanocentrico”:
«Ciascuno ha la sua natura, il suo carattere, il suo comportamento, e il
Signore lavora con qualunque persona. Se pensiamo ai dodici apostoli,
c’erano problemi di ogni tipo, ma la Chiesa è ugualmente cresciuta. Anche
nella storia dei Papi ce ne sono diversi che non sono stati santi, eppure la
Chiesa esiste ancora. Papa Francesco agisce secondo l’indirizzo che lui
ritiene sia il migliore per la Chiesa attuale, nella sua responsabilità di
successore di Pietro. Si può essere totalmente d’accordo o meno, però
questo si deve concedere a tutti i Papi, come è stato concesso a me e ai
precedenti».
D’altronde basterebbe rileggere i testi del Magistero di Papa Ratzinger
per rendersi conto della radicalità del suo pensiero riguardo al ministero
petrino (applicabile di conseguenza come giudizio riguardo ad alcune
dibattute prese di posizione del suo successore), come aveva chiarito per
esempio il 7 maggio 2005 a San Giovanni in Laterano: «La potestà di
insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza
alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono
legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso
Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì
vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola
di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come
di fronte a ogni opportunismo. […] Il Papa è consapevole di essere, nelle
sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi,
alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante
della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della
Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa
Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella
sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle
mode».
Il “pasticciaccio” di Sarah
La bomba mediatica esplose d’improvviso, il 12 gennaio 2020, con
un’intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Figaro», nella quale il
cardinale Robert Sarah, all’epoca prefetto della Congregazione per il Culto
divino e la disciplina dei sacramenti, annunciava al vaticanista Jean Marie
Guénois che, tre giorni dopo, avrebbe pubblicato con Benedetto XVI «un
libro a quattro mani dove i due prelati esprimono una medesima visione
della Chiesa e un’identica avversione per la polemica».
Sin dalla prima domanda risultavano chiari la tematica del volume, il suo
scopo e anche un giudizio di fondo: «Come si spiega il fatto che il Papa
emerito Benedetto XVI abbia pubblicato assieme a lei un’opera in difesa
del celibato sacerdotale, supplicando Papa Francesco di non modificare
questa regola nella Chiesa? Questo libro è un grido, un grido di amore per
la Chiesa, il Papa, i preti e tutti i cristiani. Noi vogliamo che questo libro sia
letto da più gente possibile. La crisi che attraversa la Chiesa è
sorprendente».
Sottolineando la co-autorialità del testo, il cardinale subito dopo
rispondeva a un delicatissimo quesito, che sostanzialmente diede il via a
immediate reazioni, ovviamente di tono positivo o negativo a seconda della
posizione di chi interveniva (e del suo relativo giudizio sull’operato di Papa
Francesco): «Il Papa si era votato al silenzio, perché esce dal suo riserbo?
Con questo libro, il Papa emerito Benedetto XVI non rompe il silenzio. Ci
offre il suo frutto. Quel che ha scritto in questo libro non è una teologia
loquace, una teologia che vuole incantare i media, ma una lettura
contemplativa delle Scritture. Non creda che agisca in polemica, né che
questa sia una disputa accademica lontana dalla realtà. Credo che, nella
preghiera, il suo cuore di padre abbia provato grande compassione per i
sacerdoti di tutto il mondo che si sono sentiti disprezzati, sconvolti e
abbandonati. Ha anche voluto rassicurare le decine di milioni di fedeli
cristiani che si sentono disorientati e perduti».
La correlazione immaginata da tutti i commentatori fu con il Sinodo dei
vescovi sull’Amazzonia, nel quale si era anche discussa la possibilità del
sacerdozio per uomini sposati. Sebbene fosse stata la proposizione più
contestata dai padri sinodali, con ben 41 contrari su 169 votanti, al n. 111
del documento finale, consegnato a Papa Francesco il 26 ottobre 2019, fu
comunque inserito il suggerimento di ordinare sacerdoti «uomini della
comunità idonei e riconosciuti, che abbiano un diaconato permanente
fruttuoso e ricevano un’adeguata formazione al sacerdozio, potendo avere
una famiglia legittimamente costituita e stabile».
Il timore dei critici era che potesse verificarsi una strumentalizzazione
della situazione nella regione amazzonica, dove venivano rilevate difficoltà
ad avere sacerdoti sufficienti per il servizio alle comunità disperse su un
vastissimo territorio. Il titolo del testo conclusivo parlava di «Nuovi
cammini per la Chiesa»: perciò qualsiasi apertura rispetto alla tradizionale
legge del celibato sacerdotale – ribadita anche recentemente dai santi Papi
Paolo VI e Giovanni Paolo II – fu considerata una possibile breccia che,
come tante altre innovazioni nella disciplina ecclesiastica, in breve tempo
da eccezione si sarebbe trasformata in regola.
Di fatto, già nei primi tempi del pontificato di Benedetto la problematica
era balzata all’attenzione mondiale, quando a fine 2006 il cardinale Cláudio
Hummes – appena nominato prefetto della Congregazione per il Clero –
ipotizzò con il quotidiano «O Estado de São Paulo» che «la mancanza di
vocazioni sacerdotali possa portare il Vaticano a discutere dell’ordinazione
degli uomini sposati». Hummes, all’epoca arcivescovo di San Paolo in
Brasile, venne chiamato in Vaticano perché era desiderio di Papa Ratzinger
ampliare le voci autorevoli da varie parti del mondo.
Per chiarire la situazione, il 4 dicembre dovette essere pubblicata dalla
Sala stampa una dichiarazione, concordata con il segretario di Stato
Bertone, nella quale il cardinale Hummes precisava che «la norma del
celibato per i sacerdoti nella Chiesa latina è molto antica e poggia su una
tradizione consolidata e su forti motivazioni, di carattere sia teologico-
spirituale sia pratico-pastorale, ribadite anche dai Papi. […] Tale questione
non è quindi attualmente all’ordine del giorno delle autorità ecclesiastiche,
come recentemente ribadito dopo l’ultima riunione dei capidicastero con il
Santo Padre».
Ma evidentemente la questione non era stata accantonata dal porporato
brasiliano, nominato da Francesco nel 2018 membro del Consiglio pre-
sinodale che preparò quell’assemblea sull’Amazzonia: in tale veste poté
avere un significativo ruolo nel processo di elaborazione dell’esortazione
apostolica post-sinodale Querida Amazonia. La pubblicazione del
documento era stabilita per la fine del 2019, ma l’approvazione definitiva di
Papa Bergoglio – come dettagliò il cardinale Michael Czerny in
un’intervista a Vatican News – si ebbe soltanto il 27 dicembre, cosicché la
pubblicazione avvenne il 12 febbraio 2020 (sebbene con la data ufficiale del
2 febbraio). Questo ritardo, in apparenza irrilevante, ebbe invece non poca
importanza nella sfortunata vicenda del libro di Sarah e delle relative
polemiche, poiché già dall’autunno era stato preventivato che questo
volume sarebbe stato inviato in libreria dalla casa editrice Fayard dopo
l’Epifania del 2020 (la data esatta fu il 15 gennaio).
Nel pomeriggio del 12 gennaio giunse in Monastero una copia-staffetta
e, non appena aprii la busta, mi si gelò il sangue: in copertina il nome
Benoît XVI spiccava in alto, con la stessa grandezza di quello del cardinale
Sarah, e le immagini erano due loro fotografie affiancate (addirittura quella
di Benedetto era ancora del tempo da Pontefice, con la mantellina ben
visibile). Portai immediatamente il volume al Papa emerito e anche lui
rimase stupefatto, comprendendo immediatamente quali polemiche ne
sarebbero scaturite. Sfogliando le pagine, non risultava infatti con chiarezza
la descrizione della diversità di intervento e, per giustificare la doppia
firma, ci si limitava alla enigmatica precisazione: «Testo scritto dal
cardinale Robert Sarah, letto e approvato da Benedetto XVI» (e anche la
Conclusione segnalava questa doppia attribuzione).
Effettivamente la prevista tempesta mediatica tuonò con tutto il vigore
possibile, sulla base dell’idea che, non essendo ancora uscita l’esortazione
post-sinodale, i due volessero fare pressione su Francesco riguardo ai temi
del celibato ecclesiastico e dell’ordinazione di uomini sposati. Benedetto
ritenne perciò necessario un chiarimento pubblico, che riassunsi nel
comunicato diffuso dalle agenzie giornalistiche il 14 gennaio: «Posso
confermare che questa mattina, su indicazione del Papa emerito, ho chiesto
al cardinale Sarah di contattare gli editori del libro pregandoli di togliere il
nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso e di togliere la sua
firma anche dall’Introduzione e dalla Conclusione. Il Papa emerito, infatti,
sapeva che il cardinale stava preparando un libro e aveva inviato il suo
breve testo sul sacerdozio autorizzandolo a farne l’uso che voleva. Ma non
aveva approvato alcun progetto per un libro a doppia firma, né aveva visto e
autorizzato la copertina. Si tratta di un malinteso, senza mettere in dubbio la
buona fede del cardinale Sarah».
Le parole erano state attentamente studiate per consentire un’onorevole
via d’uscita al cardinale, sia per l’amicizia personale con Benedetto, sia
perché all’epoca ricopriva ancora l’incarico di prefetto della Congregazione
per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e non si voleva metterlo in
difficoltà in un momento in cui la sua posizione in Vaticano era delicata. In
risposta, il cardinale emanò un suo comunicato, nel quale affermava: «A
seguito di vari scambi in vista della preparazione del libro, il 19 novembre
ho finalmente inviato al Papa emerito un manoscritto completo
comprendente, come avevamo deciso di comune accordo, la copertina,
un’Introduzione e una Conclusione comune, il testo di Benedetto XVI e il
mio testo». Ho controllato e posso ribadire che, in quell’incartamento, della
copertina non v’è traccia. Il cardinale dichiarava poi che «la polemica che
mira a sporcarmi insinuando che Benedetto XVI non era informato della
pubblicazione del libro Des profondeurs des nos coeurs è profondamente
abietta»: un patetico tentativo di spostare il tiro, poiché in questione non
c’era la conoscenza, bensì la modalità, della pubblicazione.
Comunque, nella telefonata Sarah mi aveva promesso che avrebbe agito
secondo la richiesta del Papa emerito e chiese di poterlo incontrare di
persona. L’appuntamento fu fissato in Monastero per le 17.15 del 17
gennaio e Benedetto volle che fossi presente anch’io. Il cardinale si lamentò
per l’accaduto, giunse quasi alle lacrime e poi tirò fuori dalla borsa un
foglio con la bozza di un comunicato che voleva far rilasciare con la firma
di Benedetto: «“Il sacerdozio cattolico” è probabilmente l’ultimo testo che
ho scritto prima di andare a incontrare il Signore. Approvo e accetto tutto
ciò che è contenuto in questo libro intitolato Dal profondo del nostro cuore
e ringrazio il cardinale Sarah per averlo pubblicato così come lo ha fatto,
compresa la copertina. Prego tutti di smetterla con questa assurda polemica
e calunnia che macchia questo uomo di Dio e divide la Chiesa su una
questione così essenziale. Incoraggio i sacerdoti e tutti a leggere questo
libro».
Io subito sono sbottato, sottolineando che non era mai stato emesso un
comunicato stampa del Papa emerito e attirando l’attenzione sul fatto che
qualsiasi sua presa di posizione pubblica avrebbe aggiunto benzina sul
fuoco. Per cercare una soluzione, Benedetto disse al cardinale che voleva
riflettere ed eventualmente riformulare il testo, chiedendogli di tornare
un’ora dopo, intorno alle ore 19. Al rientro di Sarah, il Papa emerito gli
spiegò che aveva fatto alcuni aggiustamenti sostanziali, in particolare
eliminando il riferimento alla copertina, ma chiarì che il suo status di Papa
emerito non gli consentiva la pubblicazione del testo senza prendere
contatti con la Segreteria di Stato e con Papa Francesco. Il cardinale mostrò
la propria delusione, ma dovette forzosamente accettare questa decisione.
Quando l’accompagnai all’uscita dal Monastero, giunse al punto di dirmi:
«Per cortesia, non lasci cadere nel cestino questo comunicato». E io reagii
con decisione: «Eminenza, lei pensa che, se Benedetto mi affida un
incarico, io potrei ingannarlo?».
La sera stessa, seguendo l’indicazione del Papa emerito, telefonai al
sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, il quale
mi disse di raggiungerlo di buon’ora il mattino successivo nel suo ufficio
alla Seconda loggia, per ragguagliarlo su quanto era accaduto, poiché alle
9.15 aveva appuntamento con il Santo Padre e gliene avrebbe parlato. Lo
attesi all’uscita dall’udienza e mi comunicò: «Papa Francesco ha deciso che
il comunicato non viene pubblicato. Lei deve riferire questo a Sarah e dirgli
che per ora non si fa nulla».
Io provvidi subito a informare il cardinale e soltanto al rientro in
Monastero venni informato che nella serata precedente, subito dopo
l’incontro, Sarah aveva pubblicato in sequenza due post su Twitter: «A
motivo delle incessanti, nauseabonde e false polemiche, che non si sono
mai arrestate dall’inizio della settimana, riguardanti il libro Dal profondo
dei nostri cuori, questa sera ho incontrato il Papa emerito Benedetto XVI» e
«Con il Papa emerito Benedetto XVI abbiamo potuto constatare come non
ci sia alcun malinteso fra noi. Sono uscito da questo bell’incontro molto
felice, pieno di pace e di coraggio».
Ovviamente la ritenni un’azione del tutto inopportuna, come lo era stata
il 14 gennaio la diffusione non autorizzata delle lettere personali che gli
aveva inviato il Papa emerito, e il mio sconcerto crebbe qualche ora più
tardi, quando il giornalista Guénois mi contattò per verificare se era vero
che Benedetto aveva letto e addirittura modificato e integrato l’intervista
che gli aveva concesso Sarah. Gli spiegai che il Papa emerito aveva visto
quel testo soltanto dopo la pubblicazione e lui mi informò che la
menzognera affermazione gliel’aveva fatta Diat, il collaboratore del
cardinale che era dietro a questo libro («Opera pubblicata sotto la direzione
di Nicolas Diat», si legge nel retrofrontespizio).
Anche Davide Cantagalli, responsabile della casa editrice che aveva
acquisito i diritti di pubblicazione per l’Italia, mi raccontò di aver contattato
Fayard e di aver ricevuto l’indicazione che copertina e testo dovevano
restare come nell’edizione originaria. Gli spiegai quanto era stato
concordato con Sarah e lui chiamò nuovamente l’editore francese,
ricevendo come replica: «Il collegamento fra noi e il cardinale è Nicolas
Diat, che ha ribadito di lasciare tutto inalterato». Alla fine, il 22 gennaio
venne emesso un comunicato distensivo, sottolineando che «l’Introduzione
e la Conclusione sono state scritte dal cardinale Robert Sarah e sono state
lette e condivise dal Papa emerito», a significare che Benedetto XVI non
aveva espresso obiezioni al testo di Sarah, anche perché il contenuto non
era particolarmente originale e innovativo.
Le spiegazioni di Benedetto
Il 12 febbraio 2020 Benedetto ricevette da Papa Francesco una copia
dell’esortazione apostolica Querida Amazonia e il giorno seguente gli
rispose con una lettera di ringraziamento. Il Papa emerito era consapevole
che quel testo era rimasto immutato dopo l’approvazione data dal Pontefice
il 27 dicembre: dunque, il volume del cardinale Sarah non aveva avuto
alcun influsso, diretto o indiretto, sull’assenza nel documento di riferimenti
all’ordinazione di uomini sposati. Sentiva comunque la necessità di chiarire
definitivamente la questione, cosicché gli assicurò: «Per lei, Santo Padre,
elaborerò una breve storia e mi permetterò di trasmetterla quanto prima».
Dopo soli quattro giorni, il 17 febbraio, la ricostruzione fu pronta e
Benedetto poté inviarla a Papa Francesco: «Caro Santo Padre, come avevo
promesso nella mia lettera del 13 febbraio scorso, le comunico oggi la storia
del mio testo sul sacerdozio cattolico pubblicato nel libro del cardinale
Sarah. Intorno al 20 luglio 2019 avevo cominciato a elaborare un testo sul
sacerdozio cattolico, senza intenzione di pubblicarlo, ma soltanto per mio
interesse personale. Il motivo fu che il Concilio Vaticano II, nel suo ottimo
decreto sul sacerdozio cattolico, non aveva toccato il punto centrale della
controversia con Lutero, cioè il fatto che la Chiesa cattolica, nel tardo
secondo secolo o all’inizio del terzo, aveva cominciato a considerare il
ministero dei presbiteri e dei vescovi anche come sacerdozio e non soltanto
come ministero pastorale, in conseguenza del fatto che la santa Eucaristia
non era soltanto considerata come cena, ma come presenza e partecipazione
al sacrificio della croce. Questo sviluppo della dottrina cattolica è stato
condannato da Lutero come ricaduta nella Legge, come errore gravissimo
incompatibile con la fine della Legge. Su questo punto centrale della
controversia tra Riforma e Chiesa cattolica, il Vaticano II non parla. Pochi
ecumenisti hanno affermato che la riforma liturgica del Vaticano II avrebbe
ritirato la dottrina sulla Messa come sacrificio e restituito l’interpretazione
della Messa come cena senza carattere sacrificale. Di conseguenza anche i
ministeri della Chiesa non sarebbero più da considerare come sacerdozio,
ma solo come servizio pastorale. Anche se questa posizione fra i teologi
cattolici è rimasta marginale, la questione non è comunque definita con
sufficiente chiarezza. Questo problema mi occupa da tanto tempo. Non
avevo intenzione di preparare un testo da pubblicare, volevo soltanto darmi
personalmente una chiarezza storico-teologica».
Definita questa premessa, Benedetto entrò nel dettaglio: «Mentre stavo
ancora lavorando su questo punto, il 5 settembre 2019 mi è arrivata una
lettera del cardinale Sarah, nella quale mi chiedeva una mia riflessione sul
sacerdozio, con particolare attenzione al celibato, all’obbedienza e alla
povertà. Sorpreso da questa richiesta, ho risposto il successivo 20 settembre
che già prima della sua lettera avevo cominciato a scrivere qualche
riflessione sul sacerdozio, ma scrivendo ho sentito sempre più che le mie
forze non mi permettono più la redazione di un testo teologico. Ho ripreso il
mio lavoro e l’ho trasmesso al cardinale, dicendo: “Lascio a lei se queste
note, la cui insufficienza sento fortemente, possono avere qualche utilità”».
In effetti, dopo una rapida revisione, il 12 ottobre Benedetto inviò a
Sarah il proprio testo, cui il cardinale diede riscontro il 31 ottobre: «Porgo
di tutto cuore il mio vivo ringraziamento per l’invio delle sue stupende e
preziose riflessioni sul sacerdozio. Sono certo che potranno essere per tutta
la Chiesa un contributo assai prezioso e soprattutto un sostegno paterno per
tutti i sacerdoti del mondo. Sono davvero grato per la sua premurosa e
paterna attenzione che sempre mi riserva e che mi commuove grandemente.
Sto studiando e lavorando per esaminare il modo migliore di presentarlo e
farlo conoscere ai sacerdoti e a tutta la Chiesa. Appena finito il progetto,
sottometterò la bozza a Vostra Santità per giudicarla e approvarla».
Proseguiva Benedetto nella spiegazione a Papa Francesco: «Sarah, grato
per il testo, mi ha trasmesso poi alcune righe nelle quali interpretava
l’intenzione particolare del mio testo per offrire così un aiuto ai lettori per
capire l’intenzione e i limiti del mio scritto. Quando il cardinale ha saputo
che in modo strettamente privato avevo scritto sette pagine come chiave di
interpretazione del mio testo, ha chiesto questo scritto. Io ho risposto che la
sua chiara interpretazione di una mezza pagina serviva meglio del mio
lungo documento di sette pagine, e che soltanto queste sue parole sono da
considerare come scritte da me (intendendo sottolineare che, oltre a quella
“mezza pagina”, nessun altro testo doveva essere attribuito a lui, N.d.A.).
Nella sua lettera del 20 novembre, il cardinale Sarah aggiungeva ancora
alcune piccole precisazioni. Alle mie riflessioni sul sacerdozio avevo
aggiunto tre interpretazioni di testi fondamentali come espressioni della mia
esperienza personale. Così pensavo di toccare anche il problema del
celibato, senza entrare nelle dispute attuali».
La lettera di Sarah del 20 novembre, cui Benedetto faceva riferimento,
permette di comprendere bene a chi siano da attribuire i singoli testi: «Il
mio desiderio è di poter far uscire la pubblicazione per il prossimo 6
gennaio, solennità dell’Epifania, sempre se Vostra Santità sia d’accordo
(dunque è chiaramente indicata la volontà di uscire dopo la prevista
pubblicazione dell’esortazione di Papa Francesco, N.d.A.). Come può
notare, il testo completo è formato da quattro parti: una introduzione, la sua
riflessione, il mio testo e una conclusione (qui si evince senza ombra di
dubbio che l’unico testo di Benedetto è “la sua riflessione”, N.d.A.). Nel
suo testo ho ardito fare alcune aggiunte che troverà in rosso. Innanzitutto ho
aggiunto un paragrafo introduttivo con l’intenzione di meglio aiutare a
entrare nella riflessione proposta. Inoltre, alla pagina 5 ho inserito una
citazione di san Clemente da Roma per sottolineare la continuità storica.
Infine, alle pagine 9 e 10 ho aggiunto una sua citazione per meglio
sottolineare la riflessione sul celibato. Come le ho già detto, la mia è
soltanto una proposta e Vostra Santità può apportare qualsiasi modifica».
Il 25 novembre il Papa emerito rispose: «Cara eminenza, di tutto cuore
vorrei dire grazie per il suo testo aggiunto al mio contributo e per tutta
l’elaborazione che lei ha fatto. Mi ha toccato profondamente come lei ha
capito le mie ultime intenzioni. Avevo scritto sette pagine di chiarimento
metodologico del mio testo e sono realmente felice di dire che lei ha saputo
dire l’essenziale in una mezza pagina. non vedo quindi una necessità di
trasmettere le sette pagine dato che lei ha espresso nella mezza pagina
l’essenziale. Da parte mia il testo può essere pubblicato nella forma da lei
prevista (il chiaro riferimento è sempre, e unicamente, al proprio testo
iniziale con l’aggiunta della mezza pagina esplicativa di Sarah, N.d.A.)».
La conclusione di quella lettera del 17 febbraio a Papa Francesco
metteva in luce tutta l’amarezza di Benedetto per l’accaduto e poneva una
definitiva pietra: «Ho già deciso di non pubblicare più niente durante la mia
vita in questa terra. Santo Padre, spero di aver chiarito la storia del mio
testo per il libro del cardinale Sarah e posso soltanto esprimere la mia
tristezza sull’abuso del mio articolo nella discussione pubblica». Non c’era
necessità di una specifica risposta, cosicché da parte di Papa Francesco ci fu
unicamente il riscontro della ricezione. Ma, per quanto ne so, comprese la
totale buona fede del suo predecessore e ne apprezzò la trasparenza nel
comportamento.
Comunque, la certezza che le cose fossero andate nel modo qui
documentato è attestata ad abundantiam da un elemento essenziale: sin dal
31 maggio 2005, Benedetto XVI-Joseph Ratzinger aveva affidato alla
Libreria editrice vaticana la gestione dei diritti d’autore e, riguardo a questo
libro, non fu mai approntato un contratto né ci furono contatti con la LEV , a
testimonianza che si trattava unicamente di una libera espressione del
pensiero del Papa emerito, limitata alle pagine del suo contributo.
Intanto, il 12 febbraio, il vaticanista Sandro Magister aveva pubblicato
sul suo blog un articolo molto dettagliato, dal titolo “Il silenzio di
Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai
pubblicata”. Commentando Querida Amazonia, pubblicata quel giorno,
sottolineava l’assenza nel testo di qualsiasi riferimento al celibato
ecclesiastico e all’ordinazione di uomini sposati, proponendo un indebito e
scorretto collegamento: «La curiosità che sorge immediata è dunque di
capire in quale misura il libro bomba scritto dal Papa emerito Benedetto
XVI e dal cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pubblicato
a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione».
Per di più, veniva presentata una drammatica ricostruzione dello scambio
telefonico avvenuto tra Benedetto e Sarah nella mattinata del 15 gennaio:
«Mentre Papa Francesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale
e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula Paolo VI, lontano
quindi dal monastero “Mater Ecclesiae” che è la residenza del Papa emerito
di cui egli è segretario, Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò
Sarah prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il cardinale
rispose. Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah la sua solidarietà. Gli
confidò di non riuscire a comprendere le ragioni di un’aggressione così
violenta e ingiusta. E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse
con entrambi in lacrime». Appena lessi queste parole, andai ovviamente a
chiedere a Benedetto cosa fosse accaduto e lui mi informò che aveva
semplicemente voluto rincuorare Sarah a livello personale dicendogli che
non comprendeva l’accanimento contro il contenuto del libro, ma una scena
così patetica non si era assolutamente verificata.
Per dare un taglio alla vicenda, il 27 febbraio ebbi un incontro
nell’appartamento del cardinale Sarah in piazza della Città leonina, alla
presenza come testimone di un sacerdote da ambedue conosciuto e stimato.
Di fatto, alle mie contestazioni riguardo al mancato adempimento della
promessa di modificare copertina e attribuzioni dei testi e alla divulgazione
dei contatti fra lui e il Papa emerito, il cardinale replicò di aver riferito tutto
a Nicolas Diat e che la responsabilità era di quest’ultimo. E quando gli
espressi tutta la mia delusione per il suo comportamento, che aveva
fortemente danneggiato sia Benedetto che me, lui balbettò che poteva
soltanto chiedere scusa per ciò che non era assolutamente nelle sue
intenzioni.
Il prefetto dimezzato
Nel mio duplice ufficio di segretario particolare del Papa emerito e di
prefetto della Casa pontificia per Papa Francesco, mi sono trovato a
ricoprire un ruolo che mi ha fatto sentire – per elevare il tono della
riflessione con un riferimento alla letteratura colta – talvolta nei panni del
goldoniano “servitore di due padroni” e talaltra come il manzoniano “vaso
di terracotta tra i vasi di ferro”.
La speranza di Benedetto che io sarei stato l’anello di collegamento fra
lui e il successore fu un po’ troppo ingenua, poiché, già dopo qualche mese,
ho avuto l’impressione che tra me e il nuovo Pontefice non si riuscisse a
creare l’opportuno clima di affidamento, necessario per poter portare avanti
in modo adeguato un tale impegno.
Probabilmente, quando ebbi la conferma quinquennale a fine 2017, volle
mantenermi nell’incarico essenzialmente per rispetto alla nomina fatta da
Benedetto, anche se fin dall’inizio era accaduto sempre più spesso che
venissi scavalcato nelle mie responsabilità, poiché Papa Francesco preferiva
piuttosto prendere accordi direttamente con il mio vice, il reggente padre
Leonardo Sapienza.
Ricordo, per esempio, la visita del 15 giugno 2014 alla Comunità di
Sant’Egidio a Trastevere: il giorno precedente, quando ci salutammo a
Santa Marta dopo le udienze, il Pontefice mi disse, alla presenza dei
comandanti della Gendarmeria e della Guardia svizzera, oltre che degli
autisti, che non era necessaria la mia presenza e che avrei potuto prendermi
un giorno libero, ribadendolo con decisione dinanzi alle mie osservazioni
stupite. Il giorno seguente ovviamente mi telefonò il fondatore Andrea
Riccardi per chiedermi se io o Benedetto avessimo qualche problema con
Sant’Egidio, poiché questa era la voce sparsa dopo che era stata notata la
mia assenza all’evento, senza che fossero state date motivazioni da
qualcuno.
Appena mi fu possibile, riferii a Papa Francesco il contenuto di questa
telefonata e gli spiegai che tutto ciò rendeva problematica la gestione
dell’ufficio e sminuiva la mia autorità, e che per di più a livello personale
mi ero sentito umiliato sia perché non mi aveva chiarito il motivo della sua
decisione, sia perché aveva parlato alla presenza di altre persone, cosicché il
pettegolezzo si era immediatamente diffuso in Vaticano, con interpretazioni
di vario tipo. Lui mi rispose che avevo ragione e che non si era reso conto
della questione, si scusò, ma poi aggiunse che le umiliazioni fanno molto
bene… E purtroppo una simile situazione si ripeté altre volte, in particolare
per le visite nelle parrocchie romane.
Che Francesco non considerasse strategica la Prefettura della Casa
pontificia lo avevo comunque compreso anche da altri segnali, in apparenza
piccoli, ma significativi invece nella dinamica curiale. Un esempio evidente
riguardò l’appartamento che tradizionalmente spetta al prefetto, situato
nella vecchia ala del Palazzo apostolico, risalente ai tempi di Papa Giulio II
e di cui la Cappella Nicolina, che talvolta viene mostrata in visite riservate
nei Musei vaticani, sarebbe la cappella privata.
Quando il mio predecessore, monsignor Harvey, divenne cardinale
arciprete di San Paolo fuori le mura, decise di andare ad abitare nel
complesso della basilica, ma era necessario ristrutturare i locali della
residenza. Perciò mi chiese di poter restare per qualche altro mese
nell’appartamento del prefetto e io ovviamente non ebbi difficoltà. I lavori
però durarono più del previsto e soltanto tre anni più tardi restituì le chiavi
al Governatorato. Dopo qualche piccola opera di rifinitura, a metà 2016
l’allora segretario generale Fernando Vérgez Alzaga mi disse che potevo
prenderne possesso, cosicché cominciai a organizzare il trasloco delle mie
cose, che fino a quel momento avevo lasciato nell’ufficio del prefetto a
Castel Gandolfo, al piano terra di Villa Barberini.
Al mattino del 22 luglio 2016 attendevo come di consueto Papa
Francesco a San Damaso, dove si prende l’ascensore Nobile. Lui scese
dall’automobile e subito mi disse: «Ho sentito che lei ha l’appartamento nel
Palazzo apostolico». Io precisai che si trattava dell’appartamento del
prefetto della Casa pontificia, assegnato temporaneamente a me per ragioni
d’ufficio. «Per favore, non ne prenda possesso ora», aggiunse. Quando lo
informai che era normale che il prefetto risiedesse lì, per poter svolgere
bene il suo compito – poiché, anche se al momento vivevo nel Monastero
con il Papa emerito, questa era comunque una residenza provvisoria –, lui
replicò: «Attenda, prima devo parlare con i miei stretti collaboratori; non
faccia nulla finché non riceverà da me una risposta». La cosa mi dispiacque
perché intuii che dietro c’era qualcuno che stava manovrando per
appropriarsi di quell’appartamento.
Il 2 settembre successivo, nella medesima circostanza, il Pontefice mi
disse: «Lei attendeva da me una risposta e ora le dico di lasciar stare.
Quando avrà bisogno di un appartamento ci penserò io». Alla mia
espressione di grande meraviglia, mi spiegò che gli era stato fatto notare
che nel Palazzo apostolico abitavano il segretario di Stato (il cardinale
Pietro Parolin) e il sostituto della prima Sezione per gli Affari generali
(all’epoca l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu), ma non il segretario
della seconda Sezione per i rapporti con gli Stati. Concluse con fermezza:
«Ho deciso»; e infatti, qualche tempo dopo, vidi che in quell’appartamento
era appunto andato ad abitare l’arcivescovo Paul Richard Gallagher.
Nel 2018 però ritenni opportuno ricordare a Papa Francesco la sua
promessa, cosicché lui diede disposizioni a monsignor Vérgez e alla fine mi
venne assegnato un appartamento nella vecchia Santa Marta, al confine con
l’aula Paolo VI. L’allontanamento fisico dal Palazzo apostolico rappresentò
comunque il preannuncio degli sviluppi successivi.
A fine gennaio 2020, sempre per restare nel paragone letterario, mi
ritrovai infatti a essere un “prefetto dimezzato”, parafrasando il titolo della
famosa opera di Italo Calvino Il visconte dimezzato. Dopo quei torridi
giorni di polemiche attorno al libro del cardinale Sarah, lunedì 20 chiesi a
Papa Francesco di potergli parlare e lui mi diede appuntamento per fine
mattinata, al termine delle udienze. Gli fornii nel dettaglio i particolari su
quanto era accaduto e gli chiesi consiglio su come agire in futuro, poiché
non sempre mi era facile riuscire a prevenire problemi come quello che si
era appena verificato. Lui mi guardò con espressione seria e disse a
sorpresa: «D’ora in poi rimanga a casa. Accompagni Benedetto, che ha
bisogno di lei, e faccia scudo».
Restai scioccato e senza parole. Quando provai a replicare, dicendogli
che lo facevo ormai da sette anni, per cui potevo continuare ugualmente
anche per il futuro, chiuse seccamente il discorso: «Lei rimane prefetto, ma
da domani non torni al lavoro». In modo dimesso replicai: «Non riesco a
capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo soltanto in obbedienza».
E lui di rimando: «Questa è una bella parola. Io lo so perché la mia
esperienza personale è che “accettare in obbedienza” è una cosa buona». La
mia preoccupazione fu riguardo al modo in cui si sarebbe comunicata la
notizia all’esterno, poiché sarebbero certamente stati sollevati interrogativi
sulla mia assenza, ma il Pontefice affermò che non era necessario fare nulla
e andò via.
Tornai al Monastero e durante il pranzo lo raccontai alle Memores e a
Benedetto, il quale commentò, tra il serio e il faceto, in modo ironico:
«Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi
faccia da custode!». Gli ho risposto, sorridendo anch’io: «Proprio così…,
ma dovrei fare il custode o il carceriere?». Poi ho aggiunto che
presumibilmente era un pretesto in correlazione con la spinosa vicenda
Sarah, poiché non era cambiato nulla da un giorno all’altro.
Come avevo preventivato, dopo alcuni giorni di assenza pubblica
cominciai a ricevere mail e messaggi nei quali mi veniva domandato che
fine avessi fatto, e ovviamente non risposi a nessuno. Sabato 25 gennaio
scrissi un biglietto di poche righe a Papa Francesco, comunicandogli che
stavo ricevendo queste richieste di informazione e suggerendo che ormai
erano passati diversi giorni di sospensione, dunque potevo eventualmente
riprendere il lavoro. Il 1° febbraio mi rispose per iscritto: «Caro fratello,
grazie tante per la sua lettera. Per il momento credo che è meglio mantenere
lo status quo. La ringrazio per tutto quello che fa per Papa Benedetto: che
non gli manchi nulla. Prego per lei, per favore lo faccia per me. Che il
Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente,
Francesco».
Il 5 febbraio l’effimera cappa di silenzio venne infranta da un articolo
del vaticanista Guido Horst sul «Tagespost», che rappresentò l’innesco
dell’incendio, con una quantità incredibile di post, commenti e variegate
opinioni su cosa fosse accaduto nei rapporti fra il Papa, me ed
eventualmente Benedetto. Mi contattò Matteo Bruni, il direttore della Sala
stampa vaticana, per informarmi che i giornalisti sollecitavano un
chiarimento e che i superiori stavano concordando una risposta. In effetti,
nel pomeriggio del 6 febbraio, i giornalisti ricevettero un comunicato
stampa, che io vidi soltanto quando fu reso noto, nel quale si diceva che
«l’assenza di monsignor Gänswein, durante determinate udienze nelle
ultime settimane, è dovuta a una ordinaria ridistribuzione dei vari impegni e
funzioni del prefetto della Casa Pontificia, che ricopre anche il ruolo di
segretario particolare del Papa emerito».
Benedetto restò dispiaciuto per questa evoluzione della vicenda e, nella
citata lettera del 13 febbraio a Papa Francesco, aggiunse un paragrafo finale
che mi riguardava: «Mi permetto ora di esprimere anche una domanda.
Monsignor Gänswein soffre profondamente e in modo crescente sotto il
peso del suo stato fuori senza prospettive di soluzione. Oso perciò pregare
Vostra Santità di chiarire la situazione con un colloquio paterno. Da parte
mia posso soltanto dire che monsignor Gänswein non ha avuto alcuna parte
nell’elaborazione del mio contributo al libro del cardinale Sarah. Avendo
visto il progetto del cardinale che sembrava fare di me un coautore del
libro, e questo in una prospettiva che poteva insinuare un’eventuale
contrarietà fra me e il suo insegnamento pontificio, Gänswein ha subito
compreso la gravità di questa ipotesi e ha chiarito con una forte insistenza
l’inaccettabilità di questa presentazione. Adesso si sente attaccato da tutte le
parti e ha bisogno di una parola paterna». Un paio di giorni più tardi, il
Pontefice mi fissò un incontro a Santa Marta, nel quale mi confermò che
non sarebbe cambiato nulla. Nessuna ulteriore risposta ebbe invece il
rinnovato appello del Papa emerito a conclusione della lettera del 17
febbraio: «Chiedo ancora umilmente una parola sua per monsignor
Gänswein».
All’inizio di settembre del 2020 fui ricoverato nel Campus biomedico e
mi venne diagnosticata una sindrome renale, che il primario di Medicina
interna associò anche a un disturbo psicosomatico. Al rientro in Monastero
dopo due settimane, Papa Francesco mi telefonò per informarsi della mia
salute e ne approfittai per chiedergli un appuntamento, che mi fissò per il 23
settembre alle ore 16. Gli dissi che avevo inteso la mia sospensione come
una punizione, ma lui mi rispose che non era così. Ribattei che tutti la
interpretavano in questo modo, a cominciare dai giornalisti, e la sua replica
fu che non dovevo preoccuparmene, poiché, mi disse testualmente, «ci sono
tanti che scrivono contro di lei e contro di me, ma non meritano
considerazione».
Tuttavia, quando provai a ipotizzare il mio rientro, se era vero che quella
non era una punizione, reagì invitandomi a non fare progetti per il futuro e
suggerendomi addirittura di dedicarmi a qualche attività pastorale, cosa che
ovviamente si scontrava con la logica che mi era stata descritta, quella di
dover restare nel Monastero al fianco di Benedetto XVI. Poi, una volta
ancora, Papa Francesco mi raccontò alcune sue faticose esperienze in
Argentina, dicendo che le volte in cui lo avevano stoppato gli erano servite
per maturare.
Alla fine, abbiamo anche ragionato sull’opportunità di nominare un pro-
prefetto, per rispondere alle necessità formali dei rapporti con le autorità
ricevute dal Santo Padre. Ma lui concluse che si poteva tranquillamente
andare avanti come stabilito in precedenza. Soltanto con la pubblicazione
nel 2022 della costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia
romana ne compresi il motivo, poiché il ruolo del Prefetto della Casa
pontificia risultava nettamente ridimensionato: nell’omologo documento
Pastor bonus del 1988 si precisava che «assiste il Sommo Pontefice sia nel
Palazzo apostolico sia quando viaggia in Roma o in Italia»; ora invece «lo
assiste solo in occasione di incontri e visite nel territorio vaticano».
Riguardo al mio futuro, comunque, quel che penso l’ho già affermato in
tempi decisamente non sospetti, addirittura nel 2016, per cui mi limito a
riproporlo: «Come pluriennale collaboratore della Congregazione per la
Dottrina della fede, segretario del cardinale Ratzinger e di Papa Benedetto,
evidentemente mi porto addosso un “marchio di Caino”. Verso l’esterno
sono perfettamente “identificabile”. Effettivamente è così: non ho mai
nascosto le mie convinzioni. In qualche modo si è riusciti a marchiarmi
pubblicamente come quello molto a destra o “falco”, senza mai citare
esempi concreti al riguardo. Lo confermo. Oggi e anche in futuro. Non ho
fatto e non faccio piani di carriera».
9
Nel Monastero il silenzio operoso
La lettera “sbianchettata”
Sul finire del 2017, monsignor Dario Edoardo Viganò, all’epoca prefetto
della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mi informò che la
Libreria Editrice Vaticana stava per pubblicare alcuni volumi, scritti da
diversi teologi, sul Magistero di Papa Francesco e mi chiese se sarebbe stato
possibile avere da Benedetto XVI una presentazione. Gli suggerii di
inviarmi i testi e una richiesta scritta, specificando cosa desiderasse, e il 12
gennaio 2018 mi giunse il plico che consegnai al Papa emerito.
Dopo alcuni giorni, Benedetto mi disse che aveva dato uno sguardo a
quel materiale ed era rimasto stupito per la presenza fra gli autori di Peter
Hünermann, che durante il suo pontificato, ma anche prima, era stato un
acceso avversario (proprio lui, dopo che nel 1979 ad Hans Küng era stata
revocata la facoltà di insegnare come teologo cattolico, ne aveva preso il
posto sulla cattedra dell’università di Tubinga). «Per amore di Papa
Francesco, vorrei venire incontro alla richiesta di monsignor Viganò, ma
non sono in grado di leggere adeguatamente i libretti, poiché sono troppi. E
poi non potrei tacere riguardo a Hünermann», mi precisò.
Poiché il prefetto Viganò aveva fatto la richiesta direttamente a me, a
quel punto dissi al Papa emerito che avrei potuto rispondere io,
confrontando ovviamente con lui la bozza. Ma Benedetto replicò che ci
avrebbe pensato lui e si mise al lavoro per stendere la lettera che fu inviata
il 7 febbraio con la dicitura sulla busta “personale-riservata”, poiché
Benedetto era consapevole di quanto la questione fosse delicata e
richiedesse accortezza. Viganò mi telefonò per domandare la possibilità di
citare pubblicamente la lettera e Benedetto diede l’autorizzazione.
Il 12 marzo si svolse la presentazione della collana e la sera, nel servizio
del Tg1, vedemmo la lettera poggiata sul tavolo, parzialmente nascosta
sotto la pila degli undici libretti. Ma l’attenzione era stata riservata
unicamente a due capoversi del testo: «Plaudo a questa iniziativa che vuole
opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo
un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica,
mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe
capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a
ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e
teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due
pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento».
Il giorno seguente, il vaticanista Sandro Magister mise in risalto anche
un altro brano, decisamente meno compiacente: «Tuttavia non mi sento di
scrivere su di essi “una breve e densa pagina teologica”. In tutta la mia vita
è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri
che avevo anche veramente letto. Purtroppo anche solo per ragioni fisiche
non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto
più che mi attendono altri impegni che ho già assunti».
Fu sufficiente qualche altro giorno perché venisse alla luce l’intero
documento, il cui paragrafo finale diceva: «Solo a margine vorrei annotare
la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor
Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere
capeggiato iniziative antipapali. Egli partecipò in misura rilevante al
rilascio della “Kölner Erklärung” (la “Dichiarazione di Colonia”, N.d.A.),
che, in relazione all’enciclica Veritatis splendor, attaccò in modo virulento
l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia
morale. Anche la “Europäische Theologengesellschaft”, che egli fondò,
inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al
Magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha
impedito quest’orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale
strumento d’incontro fra teologi».
Non ho idea di come Magister venne a conoscenza del testo originario e
non varrebbe nemmeno la pena di smentire, ma purtroppo è necessario, che
fossi stato io a divulgarla: una bugia diffamatoria nei miei confronti, che fu
propalata pure da un responsabile di lingua tedesca della Radio Vaticana.
Questa narrazione giunse anche a Santa Marta, sostenendo che io l’avrei
fatto non soltanto per danneggiare Viganò, ma anche per attaccare l’opera
di riforma della Curia avviata da Papa Francesco, della quale la
ristrutturazione della comunicazione vaticana era ampia parte. Cosicché da
quel momento si cercò l’opportunità più adatta per una rivalsa nei miei
confronti.
Ma chi conosceva Benedetto non poteva avere la minima speranza che
facesse qualcosa ad usum delphini, tacendo la propria opinione per
compiacere il successore o qualche suo collaboratore. A prescindere dalla
qualità dei rapporti personali, il teologo Ratzinger non guardò mai in faccia
a nessuno e, nelle sue recensioni, proponeva senza scrupoli ogni
osservazione critica ritenesse opportuna, in relazione ai testi che valutava,
sempre motivando le proprie argomentazioni. Comunque, Benedetto prese
atto di questa polemica, ma senza particolare interesse, pur manifestando
dispiacere e incomprensione per l’inganno che era stato perpetrato con
l’esibizione parziale della sua lettera.
Ricordo che monsignor Viganò mi telefonò sul cellulare durante la visita
di Papa Francesco a San Giovanni Rotondo, il 17 marzo 2018, e ci demmo
appuntamento dopo il rientro a Roma, quando mi chiese cosa fare. Cercò di
giustificare l’accaduto con l’autorizzazione che gli avevamo dato, ma
ovviamente reagii controbattendo che era stata improvvidamente creata una
fake news, e da quel momento non ci siamo più sentiti. Francesco non mi
accennò mai nulla sulla questione, però ho sentito da diverse fonti, e
anch’io personalmente ho percepito, che gli era costato dover affrontare le
dimissioni che il 19 marzo il prefetto gli presentò, poi accolte il 21 marzo
con la creazione per lui del nuovo ruolo di assessore nella medesima
Segreteria.
La pacificazione interrotta
Il 16 luglio 2021 Benedetto XVI scoprì, sfogliando «L’Osservatore
Romano» di quel pomeriggio, che Papa Francesco aveva reso noto il motu
proprio Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla
riforma del 1970. La tematica era identica a quella del motu proprio
Summorum Pontificum, che lui aveva promulgato il 7 luglio 2007, e anche
la modalità di comunicazione fu la medesima, mediante
l’accompagnamento di una lettera per illustrare i contenuti del nuovo testo.
Perciò il Papa emerito lesse con attenzione il documento, per comprenderne
la motivazione e i dettagli dei cambiamenti.
Quando gli chiesi un parere, mi ribadì che il Pontefice regnante ha la
responsabilità di decisioni come questa e deve agire secondo ciò che ritiene
come il bene della Chiesa. Ma, a livello personale, riscontrò un deciso
cambio di rotta e lo ritenne un errore, poiché metteva a rischio il tentativo di
pacificazione che era stato compiuto quattordici anni prima. Benedetto in
particolare ritenne sbagliato proibire la celebrazione della Messa in rito
antico nelle chiese parrocchiali, in quanto è sempre pericoloso mettere un
gruppo di fedeli in un angolo, così da farli sentire perseguitati e da ispirare
in loro la sensazione di dover salvaguardare a ogni costo la propria identità
di fronte al “nemico”.
Dopo un paio di mesi, leggendo quanto Papa Francesco aveva detto il 12
settembre 2021 durante la conversazione con i gesuiti slovacchi a
Bratislava, il Papa emerito corrugò la fronte dinanzi a una sua affermazione:
«Adesso spero che con la decisione di fermare l’automatismo del rito antico
si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo
II. La mia decisione è il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del
mondo fatta l’anno scorso».
E ancor minore apprezzamento riscosse in lui l’aneddoto raccontato
subito dopo dal Pontefice: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui
due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene.
Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti
ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete
studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in
diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato
il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti
“atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra».
Da perito del Vaticano II, Benedetto ricordava bene come il Concilio
avesse invece insistito sull’opportunità che «l’uso della lingua latina, salvo
diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium
36) e che tutti i seminaristi acquisissero «quella conoscenza della lingua
latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze
e i documenti della Chiesa» (Optatam totius 13). Non per nulla, aveva
annotato nel motu proprio Latina lingua, «in tale lingua sono redatti nella
loro forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale della Chiesa, i
libri liturgici del rito romano, i più importanti documenti del Magistero
pontificio e gli atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici».
Come è evidente nei suoi scritti, in particolare La festa della fede (1984)
e Introduzione allo spirito della liturgia (2000), il teologo Ratzinger agli
inizi era favorevole riguardo alla riforma liturgica: questo tema fu sempre
tra i suoi prediletti, poiché lo riteneva fondamentale per la fede cattolica, e
non per caso volle che la prima pubblicazione della sua Opera omnia fosse
quella dedicata alla liturgia, anche se nel piano progettuale era l’undicesimo
volume. Però, vedendo i successivi sviluppi di quella riforma, si rese conto
delle diversità fra ciò che il Vaticano II voleva e quanto invece fu fatto dalla
Commissione per la realizzazione della Sacrosanctum Concilium, con la
liturgia che è diventata un campo di battaglia per opposti schieramenti, in
particolare rendendo la celebrazione in latino il baluardo da difendere o il
bastione da abbattere.
Benedetto si è impegnato soprattutto affinché la liturgia fosse celebrata
nella sua bellezza, poiché essa è la celebrazione della presenza e dell’opera
del Dio vivente, vedendo nell’Eucaristia il gesto di adorazione più
elementare e grande della Chiesa. Ai suoi occhi, ogni riforma della Chiesa
doveva derivare dalla liturgia, in quanto essa soltanto può incarnare un
rinnovamento della fede che parte dal centro. E da teologo affermava:
«Come ho imparato a intendere il Nuovo Testamento come l’anima della
teologia, così ho colto la liturgia come il suo motivo di vita, senza la quale
quella inaridisce».
Fondandosi su tale consapevolezza, con il Summorum Pontificum volle
rendere più agevole la possibilità per un sacerdote di celebrare con il rito
antico, superando la necessità del riferimento al vescovo diocesano e
accordando la competenza alla Commissione “Ecclesia Dei”. Restò
comunque sempre chiaro per lui che esisteva un unico rito, seppure con la
compresenza di quello ordinario e di quello straordinario. La sua unica
motivazione era il desiderio di riparare la grande ferita che via via si era
creata, volontariamente o involontariamente che fosse.
Non fu un’operazione svolta clandestinamente, come pur qualcuno in
cattiva fede ha sostenuto. A occuparsi del testo del motu proprio fu infatti la
Congregazione per la Dottrina della fede, con il coinvolgimento dei membri
della feria quarta e della plenaria. Benedetto seguiva costantemente i
progressi del testo attraverso gli aggiornamenti che gli faceva il cardinale
prefetto Levada nelle udienze di tabella e, dopo la pubblicazione, chiese
regolarmente ai vescovi, in occasione delle visite ad limina, come
procedesse l’applicazione di quella normativa nella loro diocesi,
ricavandone sempre una sensazione positiva.
Per questo motivo a Papa Ratzinger apparve incongruo quel riferimento
alle sue «vere intenzioni», poiché, come si legge in Luce del mondo, egli
aveva voluto «rendere più facilmente accessibile la forma antica soprattutto
per preservare il profondo e ininterrotto legame che sussiste nella storia
della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sbagliato, ora invece è
tutto giusto. In una comunità, infatti, nella quale la preghiera e l’Eucaristia
sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errata quella che
prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il
proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella
Chiesa».
Restò misterioso anche per Benedetto il motivo per cui non vennero
divulgati i risultati della consultazione dei vescovi fatta dalla
Congregazione per la Dottrina della fede, che avrebbero consentito di
comprendere più precisamente ogni risvolto della decisione di Papa
Francesco. Allo stesso modo si rivelò sorprendente, per tutto il lavoro di
analisi e di approfondimento fatto in precedenza, il trasferimento e lo
spezzettamento della competenza sulla questione dalla Dottrina della fede al
Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e a quello per gli
Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
La catechesi in famiglia
Il ritmo cadenzato della vita nel Monastero consentì a Benedetto la
tranquillità per una costante meditazione anzitutto della liturgia quotidiana
e, più in particolare, per la preparazione di significative omelie sulle Letture
domenicali, che le Memores hanno amorevolmente registrato e trascritto. È
stato un percorso rivolto essenzialmente alla nostra piccola famiglia (in
alcuni periodi era presente anche il fratello Georg e, molto più raramente,
qualche ospite), come il Papa emerito volle rimarcare introducendo sempre
le sue parole con un affettuoso «cari amici». Si potrebbe persino dire che, in
qualche modo, era la dilatazione dei colloqui spirituali che avvenivano
anche nella normalità della giornata domestica, a tavola o durante le
passeggiate.
Sin dal lunedì precedente si accingeva alla riflessione, utilizzando il testo
di base in greco: per l’Antico Testamento la Septuaginta e per il Nuovo
Testamento la versione curata da Erwin Nestle e Kurt Aland. Ovviamente
aveva a disposizione anche traduzioni in lingue correnti, come la Bibbia di
Gerusalemme in tedesco e il Messale in italiano realizzato nel 2008 dalla
Cei. Nei giorni successivi continuava a meditare quelle letture e il sabato
mattina, infine, dedicava un paio d’ore a scrivere su un apposito quaderno
la traccia dell’omelia, che però poi pronunciava a braccio senza avere
davanti agli occhi appunti scritti.
Talvolta, nei giorni di festa in cui nella liturgia si faceva memoria di
santi significativi, all’inizio della Messa proponeva anche un breve
richiamo alle loro figure, poiché, diceva, «i migliori interpreti del Vangelo
non sono gli esegeti con i loro studi critici, ma quelli che sono diventati
santi, con la testimonianza della loro vita».
Le prime omelie “private” da emerito le pronunciò nella cappella del
Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, in quel periodo subito dopo la
rinuncia. Furono generalmente di breve durata e Benedetto volle centrare
l’attenzione, con parole molto sentite, sugli aspetti più essenziali della fede:
«Imparate una fede gioiosa, imparate che realmente vivere con il Padre,
vivere secondo la parola di Dio, è la vera felicità e l’abbondanza della vita»
(10 marzo 2013); «Conversione non è semplicemente un atto autonomo del
soggetto, ma è il frutto di un incontro e in questo senso è un dono, che poi
implica naturalmente la mia attività: sono conquistato per conquistare» (17
marzo 2013); «Dio trova gli uomini in tutte le parti del mondo e della storia.
E così traspare la realtà della Chiesa: sul globo appare sempre povera e
semplice, ma, se vediamo il mondo nella sua totalità, vediamo una famiglia
che supera tutte le frontiere» (21 aprile 2013); «L’orazione implica due
doni: il Salvatore e lo Spirito Santo. Ma dobbiamo aggiungere che questi
due doni principali sono preceduti da un dono fondamentale: la creazione. Il
primo dono di Dio è la vita, e dobbiamo prendere atto di questa realtà» (28
aprile 2013).
Rientrati in Vaticano, la cappella del “Mater Ecclesiae” divenne il luogo
definitivo per lo sviluppo di queste riflessioni, che si dilatarono dall’ambito
catechetico alla più ampia dimensione dell’attualità, offrendo anche giudizi
precisi sulle vicende del nostro presente. Per esempio, la prima omelia in
Monastero vide il Papa emerito denunciare «la persecuzione più sottile del
cristianesimo, cioè la sua emarginazione intellettuale, con la creazione di
una cultura anticristiana» (12 maggio 2013), con una successiva
esplicitazione di «due minacce contro la Chiesa: i venti delle ideologie, che
vogliono distruggere il nostro cosmo, e le onde dei poteri politici e militari,
che sono persecuzioni e distruzione della fede» (10 agosto 2014). A chiare
lettere, stigmatizzò le leggi su aborto, suicidio assistito e matrimonio
omosessuale: «Dicono tutte e tre che io prendo per me la vita, posso
distruggerla, è mia proprietà, sovranità, autonomia. Ma, se guardiamo più in
profondità, dobbiamo dire che questa triade implica anche un no al futuro:
aborto, non vogliamo avere figli; suicidio; matrimonio omosessuale,
necessariamente senza figli» (22 settembre 2013).
Dinanzi a questa complessa situazione, siamo aiutati dalla parola del
Vangelo: «Gesù non chiede se abbiamo sale in noi, ma afferma con
decisione: “Voi siete il sale della terra” (Matteo 5,13). In sostanza, noi
cristiani dobbiamo essere sale per questa storia, dobbiamo mostrare in noi
la forza della croce di Cristo, a difesa della vita contro le forze della
distruzione. Altrimenti, sottolinea il Signore, il nostro cristianesimo sarà un
conformarsi al mondo, senza più il coraggio della passione per la verità. Un
cristianesimo che sembra moderno, all’altezza dei tempi, ma in realtà è
senza sapore e privo di ogni forza di novità» (9 febbraio 2014).
Interrogandosi sui motivi che spiegano la vittoria sorprendente del
cristianesimo, nel grande confronto tra le religioni dell’antichità, precisò
che il più importante è «la testimonianza della vita. In un mondo dove erano
normali la corruzione, la violenza, l’immoralità, la mancanza di un comune
impegno per il bene, i cristiani hanno vissuto con rettitudine, con integrità,
con bontà, soffrendo ma senza fare il male. Una tale vita era un segno così
radicale ed evidente che ha convinto, poiché un vivere così non si spiega
con le pure forze umane, ma dimostra realmente che è Dio a donare questa
vita. Così la testimonianza della vita cristiana è decisiva per la vittoria del
cristianesimo anche in futuro» (25 maggio 2014). A tale proposito, fu netto
nel ribadire che «la fede non è una invenzione nostra, ma un dono di Dio da
custodire e da vivere, perciò non è a disposizione nostra, non possiamo
cambiarla come vogliamo, è un dono di Dio e così cresce nella sua
profondità. Anche il Papa non è un monarca assoluto, che potrebbe fare
quanto vuole, ma è il garante dell’obbedienza al dono di Dio, che è il vero
tesoro del mondo» (29 giugno 2014).
Un’articolata disamina Benedetto la dedicò proprio all’immagine
evangelica del pastore che guida le pecore e alla contestazione nei tempi
moderni da parte di chi afferma che non si può mettere l’autonomia
dell’uomo sotto questo giogo: «Sì, è vero che siamo persone libere con
ragione, volontà e amore, ma è anche vero che questa nostra libertà ha
bisogno di illuminazione, poiché non conosciamo la strada e ci occorre una
bussola per trovarla. Nella sua parabola il Signore parla anche di mercenari
e di lupi, e nel nostro tempo abbiamo visto questi lupi. Pensiamo ai grandi
dittatori – Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao Tze Tung – che dicevano: noi
portiamo l’umanità alla sua vera felicità. Erano lupi, che hanno distrutto il
mondo in modo incredibile, e dietro di loro i filosofi che hanno creato
queste idealità erronee: pensiamo a Nietzsche, che ha beffeggiato i cristiani
come deboli, contrapponendo l’uomo forte che distrugge; a Marx, con la
sua promessa del paradiso senza Dio, che è divenuto un grande campo di
concentramento; a Freud, che ha messo in campo la distruzione dell’anima.
Il mondo va sempre a cadere nelle mani dei lupi e in questo momento
possiamo soltanto gridare al Signore: non lasciare la tua creatura ai lupi,
non lasciare che distruggano con le loro menzogne la verità, con il loro odio
l’amore, con la loro dispersione l’unità» (26 aprile 2015).
Di fatto, il rapporto tra libertà e sequela fu sempre uno dei suoi temi di
riflessione: «Sono due idee apparentemente contrastanti. Seguire Cristo
vuol dire camminare dietro di Lui, prendere la Sua strada, lasciare la
propria volontà e conformarsi alla Sua volontà; mentre libertà vuol dire
seguire soltanto la propria volontà, mirando a realizzare il proprio progetto
di vita. In realtà, seguire Cristo è entrare nel fuoco dell’amore e così entrare
nella libertà che ci libera da tutti i pretesti esteriori. Sant’Agostino ha
utilizzato una espressione realmente audace, ma vera: “Ama e fa’ ciò che
vuoi”. Se abbiamo il vero amore di Cristo crocifisso, facendo quanto ci dice
questo amore saremo sempre sulla retta strada, in comunione con Colui che
è l’Amore. E così comprendiamo che seguire Cristo è realizzare noi stessi,
poiché in tal modo diventiamo immagine di Dio e realizziamo pienamente
la nostra vocazione personale» (30 giugno 2013).
Fra i richiami al passato, fu particolare quello relativo a una delle frasi
che più avevano colpito negli ultimi discorsi di Benedetto da Pontefice: la
“salita sul monte”. Chiarì il Papa emerito: «Credere è uscire dalla pianura di
ogni giorno, da tutte queste cose che ci preoccupano e che oscurano il
nostro cuore, salire sul monte come Cristo è salito sul monte per pregare,
per essere col Padre, lasciando cadere tutti questi pensieri che distruggono
la nostra anima» (6 ottobre 2013). E in seguito esplicitò ugualmente il senso
del cammino a ritroso: «Anche scendere fa parte della vocazione cristiana.
Dobbiamo salire, ma dobbiamo anche sempre di nuovo avere l’umiltà, la
disponibilità a scendere nella valle della quotidianità, delle nostre
occupazioni di ogni giorno. Proprio in questa discesa siamo sulla strada di
Cristo, il quale, prima di aprire la strada in alto, è sceso dalla gloria di Dio,
è sceso fino alla croce» (16 marzo 2014).
Fra le riflessioni più articolate ci fu quella del 17 novembre 2013,
partendo dal “discorso escatologico” del brano evangelico di Luca 21, dove
Gesù «non ci offre un ritratto dell’ultimo periodo della storia, ma ci indica
alcuni elementi di questa ultima fase della storia del mondo. Se
consideriamo con un po’ di curiosità che cosa ci dice, c’è una sorpresa,
poiché non appare l’elemento fondamentale della moderna filosofia della
storia, che ha come concetto fondamentale il “progresso”. Secondo questa
visione, la storia è ascendente: ci sono aberrazioni, piccole ricadute, ma
tutto sommato alla fine si arriva alla società fraterna e giusta, a un mondo
migliore, a una specie di paradiso terrestre. Gesù invece parla di catastrofi
naturali, di violenza crescente, di guerre e anarchia, di persecuzioni e di un
raffreddarsi della fede, indicandoci sostanzialmente che la storia dell’uomo
rimane identica sino alla fine. Perciò è importante prendere sul serio quanto
Lui ci dice su come dobbiamo rispondere».
Tre gli elementi fondamentali indicati dal Papa emerito: «Innanzitutto la
sobrietà: non credere a fantasticherie, a messianismi sbagliati, ma lavorare
con pazienza e umiltà. Il lavoro è il compito dell’uomo, e non soltanto dopo
il peccato, come pensano alcuni, poiché sin da prima del peccato il Signore
incaricò l’uomo di dominare la terra, non nel senso di un abuso della
creazione, ma per dare alla creazione la perfezione voluta dal Creatore.
Lavoro implica quindi fede nella volontà di Dio e fiducia nella nostra
capacità di trasformare in positivo la terra. In secondo luogo il coraggio:
dinanzi all’odio contro la fede, la luce di Dio è più forte delle oscurità
umane. Il Dio Creatore è anche il Salvatore e non si lascia sfuggire la storia
dalle mani, poiché, anche se il potere è nelle mani della menzogna, il potere
di Dio è più forte. Infine la perseveranza: anche dopo la conversione, resta
la fatica del cammino, che occorre superare continuando a procedere sulla
strada buona».
E forse non per caso, l’ultima omelia che propose il 2 aprile 2017,
quando già ormai aveva difficoltà a parlare ad alta voce, si incentrò sul tema
della vita eterna: «L’uomo sembra fatto per vivere sempre, vuole vivere
sempre, nello stesso tempo vive in una struttura del mondo dove morire è
essenziale. Cosa dire? Il Signore, nel dialogo con Marta (Giovanni 11,21-
27), risponde a queste cose facendo un nuovo passo nella realtà umana, e
soltanto così si può superare la contraddizione. Gesù dice a Marta: “Tuo
fratello risorgerà”; e lei risponde: “So che risorgerà nella risurrezione
dell’ultimo giorno”. Ma il Signore replica: “Io sono la risurrezione e la vita;
e chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Lui ci dice, cioè, che non si tratta
di una vita che ricomincerà in un futuro indefinito, poiché non sappiamo
quando giungerà questo “ultimo giorno”. No, è una vita che comincia sin da
ora ed è indistruttibile, poiché siamo tenuti in mano da Lui e perciò non
possiamo cadere nella morte».
Un fiducioso “a Dio”
In tutti questi anni, le giornate sono sostanzialmente trascorse secondo una
scansione stabilizzata dalla consuetudine, cominciando verso le 6.30,
quando Benedetto si alzava. Negli ultimi tempi, a motivo della sua
difficoltà nei movimenti, veniva aiutato a lavarsi e a vestirsi da un religioso
della comunità dei Fatebenefratelli in attività presso la Farmacia vaticana, e
ugualmente alla sera un altro confratello lo assisteva nella preparazione per
dormire.
Alle 7.30 celebrava la santa Messa (negli anni recenti l’ho presieduta io
e lui concelebrava da seduto), seguita dalla recita delle Lodi e dalla prima
colazione. Durante la mattinata, il Papa emerito leggeva, curava la
corrispondenza e scriveva o dettava appunti, con la collaborazione di suor
Birgit. Intorno alle 12.45, recitavamo insieme l’Ufficio delle letture e l’Ora
media. Dopo il pranzo alle 13.15, un breve giro sul terrazzo e la siesta.
Nel pomeriggio, c’era la passeggiata nei Giardini vaticani con la recita
del Rosario nei pressi della Grotta di Lourdes (con orario variabile in
relazione alle stagioni), aggiungendo, in alcuni venerdì, il rito della Via
Crucis dinanzi alle belle raffigurazioni in cappella. Quando non è più
riuscito a camminare bene, le passeggiate le ha fatte in sedia a rotelle, e
negli ultimi anni ha utilizzato quella elettrica che a suo tempo aveva donato
al fratello Georg.
Al rientro in Monastero, la recita dei Vespri e qualche ulteriore
opportunità di lettura, di scrittura o di incontro con ospiti. Più recentemente,
preferiva che gli venissero letti ad alta voce articoli di giornale o libri: di
solito alternava una narrazione biografica e un saggio teologico (fra i testi
che Benedetto apprezzò tanto ci furono le memorie del cardinale George
Pell sul processo e la carcerazione in Australia).
Una volta la settimana gli veniva praticato un massaggio posturale e due
volte la settimana svolgeva gli esercizi di ginnastica respiratoria, mentre
negli altri giorni utilizzava una macchinetta che lo aiutava a eliminare il
muco bronchiale. La situazione di salute è stata tenuta costantemente sotto
controllo grazie all’assidua presenza del dottor Patrizio Polisca, il medico
personale che nel corso degli anni è divenuto un amico di fiducia,
coadiuvato da altri competenti specialisti e da alcuni fidati infermieri.
La cena era fissata per le 19.30, seguita dalla visione del telegiornale.
Quindi c’era la recita della Compieta, anche con il memento dei sacerdoti
dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera defunti negli ultimi cinquant’anni
(ricordava tanti di loro e me li descriveva con una lucidità mentale rimasta
intatta praticamente sino alla morte), e infine il riposo notturno dalle 21 in
poi.
Di domenica e nelle festività liturgiche c’era un programma un po’
diversificato, con la Messa alle 8.30 e la recita dell’Angelus alle 12,
seguendo in televisione Papa Francesco. Il pomeriggio era dedicato
all’attività culturale: nei primi tempi ascoltavamo opere liriche e concerti in
cd, mentre negli ultimi anni li abbiamo visti in dvd. Al termine, una delle
Memores leggeva ad alta voce un libro, e una delle scelte predilette da
Benedetto era la serie di racconti di Giovannino Guareschi su don Camillo e
Peppone.
Durante la settimana la dieta era la classica mediterranea: prima
colazione con un thè al limone, accompagnato da pane con marmellata e
uno yogurt; pranzo e cena con alternanza di primi di pasta o di riso, secondi
di pesce o carne bianca (più raramente un filetto), un contorno di verdure o
patate cucinate in vario modo, frutta e qualche volta un dolce. Soltanto la
cena della domenica era in stile bavarese, un po’ più rustica, con pane nero,
salsicce e salumi, talvolta il polpettone leberkäse e, ovviamente, la birra
(ma lui continuava a bere la sua consueta limonata, “macchiata” con uno
schizzo di birra). E devo dire che non ha mai avuto problemi di digestione!
La sua preparazione alla morte era cominciata da tempo, con serietà,
come confidò nel 2016 nelle ultime conversazioni con Peter Seewald: «Pur
con tutta la fiducia che ho nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi,
più si avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte è la
percezione di quante cose sbagliate si sono compiute. Perciò uno si sente
oppresso dal peso della colpa, sebbene naturalmente la fiducia di fondo non
venga mai meno».
Più di recente, nel 2022, affermò pubblicamente: «Ben presto mi troverò
di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro
alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono
comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non
è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già
patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al
contempo mio avvocato. In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara
la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di
più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare
con fiducia la porta oscura della morte».
Certamente non era angosciato dalla questione, anzi viveva questa attesa
dell’ultimo momento pregustando in qualche modo quanto la fede consente
di sperare, come scrisse in alcune lettere a vecchi amici: «La prossima volta
ci incontreremo dove potremo dirci tutto ciò che a causa dell’età oggi non
possiamo dirci di persona».
Il 24 dicembre 2022, nella cappella del “Mater Ecclesiae”, ho presieduto
la consueta Messa del mattino e il Papa emerito ha concelebrato all’altare,
seduto sulla sedia a rotelle. Alle 18.30 della sera e alle 9 di domenica 25
dicembre abbiamo celebrato nel medesimo modo le Messe di Natale,
sempre alla presenza anche delle quattro Memores e di suor Birgit. Quindi
abbiamo assistito alla benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco in
televisione e abbiamo sobriamente festeggiato la ricorrenza a pranzo.
In quelle ore, la salute del Papa emerito era sufficientemente buona,
cosicché confermai il viaggio di qualche giorno per andare a salutare i miei
familiari in Germania. Sono partito in aereo nel pomeriggio di martedì 27,
ma all’alba successiva sono stato raggiunto da una telefonata che dal
Monastero mi avvertiva dell’improvviso aggravamento delle sue
condizioni, dovuto a una crisi respiratoria. Ho subito parlato con il dottor
Polisca, che intanto era intervenuto con altri sanitari stabilizzando la
situazione, e quindi sono rientrato a Roma nella medesima mattinata.
Nel frattempo era stato avvertito Papa Francesco, il quale, al termine
dell’Udienza generale di quel mercoledì, chiese «una preghiera speciale per
il Papa emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa.
Ricordarlo – è molto ammalato – chiedendo al Signore che lo consoli, e lo
sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, sino alla fine».
Subito dopo il Pontefice si recò al capezzale di Benedetto, pregò e gli diede
la sua benedizione. Intanto la notizia aveva cominciato a diffondersi a
macchia d’olio in tutto il mondo.
Nel pomeriggio il Papa emerito aveva un grande affanno, ma era
lucidissimo. Gli proposi di amministrargli l’unzione degli infermi, e lui
accettò immediatamente. L’ultimo incontro con il suo confessore, un
penitenziere di San Pietro, era stato appena qualche giorno prima.
Da quel momento noi membri della famiglia pontificia cominciammo ad
alternarci costantemente nella sua camera da letto, al primo piano del
Monastero, insieme con gli infermieri e i medici che, fra giovedì 29 e
venerdì 30, constatarono un leggero miglioramento, anche se l’età avanzata
faceva prevedere il lento spegnimento delle sue condizioni vitali.
Non è mai stato ipotizzato un ricovero in ospedale, poiché tutto ciò che
era necessario l’avevamo già disponibile in Monastero: un medico
rianimatore, le attrezzature per la fleboclisi, il respiratore con l’ossigeno,
l’assistenza sanitaria costante. Né, sono convinto, Benedetto lo avrebbe
voluto, senza nemmeno la necessità di chiederglielo.
Intorno alle 3 del mattino di sabato 31 dicembre, memoria liturgica di
Papa san Silvestro, l’infermiere che vigilava vide Benedetto XVI rivolgere
lo sguardo al Crocifisso posto sulla parete di fronte al suo letto e lo udì
pronunciare in italiano, con un filo di voce, ma in modo ben distinguibile:
«Signore, ti amo!». Sono state le sue ultime parole comprensibili, perché
poi non è stato più in grado di esprimersi. Quando provavo a fargli qualche
domanda, la comprendeva e cercava di rispondere a cenni. Ho pregato ad
alta voce le Lodi vicino a lui, finché, intorno alle 9, è entrato in agonia.
Abbiamo cominciato a recitare le litanie e le preghiere di
accompagnamento di un morente, e gli ho impartito l’indulgenza plenaria in
punto di morte. Il suo cuore si è fermato alle 9.34. In quel momento
eravamo presenti tutti noi membri della famiglia pontificia, insieme con il
dottor Polisca e gli altri sanitari. Dopo l’ultimo respiro la preghiera finale
l’ho pronunciata in tedesco e gli ho dato la benedizione.
Immediatamente ho telefonato al cellulare a Papa Francesco, che
nell’arco di una decina di minuti è giunto in Monastero, si è seduto accanto
alla salma, ha fatto un segno di benedizione e si è soffermato in preghiera.
Con lui abbiamo concordato come dare la notizia attraverso la Sala stampa
vaticana e le procedure per l’esposizione in San Pietro, i funerali e la
sepoltura.
La sera stessa, nella celebrazione del “Te Deum”, ha proposto una sentita
testimonianza: «Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile,
così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per
averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che
ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera,
specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore
e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della
Chiesa».
Nella cappella del “Mater Ecclesiae” abbiamo allestito la camera ardente
e alle ore 20 del 31 dicembre ho celebrato la Messa di suffragio. Per tutta la
notte ci siamo poi alternati nella preghiera, in modo che fosse presente
sempre qualcuno di noi della famiglia pontificia. La mattina del 1° gennaio
2023 ho celebrato una nuova Messa e al termine hanno cominciato a
giungere per un ultimo saluto le personalità vaticane e altre persone.
All’alba del 2 gennaio ho celebrato la Messa e poi il mesto corteo della
ristretta famiglia pontificia ha accompagnato a piedi il furgone con il feretro
verso la basilica di San Pietro, all’interno della quale il corpo è stato
esposto alla devozione dei fedeli fino al 4. Nel nostro cuore e negli occhi,
tanta tristezza; ma nella mente e nel ricordo la gratitudine per il suo
esempio di grande fede e il suo insegnamento e la gioia per aver potuto
vivere accanto a lui per così tanti anni.
Giovedì 5 gennaio, Papa Francesco ha presieduto la solenne Messa
esequiale al cui termine il Papa emerito è stato seppellito all’interno delle
Grotte vaticane, nel luogo dove in precedenza erano stati collocati Giovanni
XXIII (dal 1963 al 2000) e Giovanni Paolo II (dal 2005 al 2011), prima di
essere traslati nella Basilica vaticana. All’interno della cassa, Benedetto è
stato seppellito con i suoi paramenti rossi che aveva indossato durante la
Giornata mondiale della gioventù nel 2008 in Australia e nella Domenica
delle palme del 2009, con la croce episcopale utilizzata nel tempo da Papa
emerito, l’anello raffigurante simboli benedettini, il suo rosario e un
crocifisso che è stato il mio dono per la sepoltura.
Qualcuno mi ha chiesto che cosa ne avrei fatto, dopo la morte di
Benedetto XVI, delle sue carte. In realtà, questo per me non rappresenta un
problema, poiché ho ricevuto da lui precise istruzioni, con indicazioni di
consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua
biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al
Concilio e alla corrispondenza. Per quanto riguarda poi gli altri scritti, la
loro sorte è segnata: «I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti.
Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie», ha esplicitato nero su
bianco.
Sono stato anche interpellato su quale sia il mio pensiero riguardo a una
eventuale causa di beatificazione e canonizzazione. Personalmente non ho
dubbi sulla sua santità, però, ben conoscendo anche la sensibilità
espressami privatamente da Benedetto XVI, non mi permetterò di fare alcun
passo per accelerare un processo canonico. Il mio suggerimento sarà
piuttosto di lasciar sedimentare tutte le questioni sorte in tanti anni di vita, e
particolarmente nel periodo di pontificato e di emeritato, in modo che il
giudizio sulle virtù eroiche di Joseph Ratzinger – che io reputo indiscutibili
– possa essere totalmente cristallino e ampiamente dimostrato e condiviso.
Le sue ultime volontà le racchiuse in due scritti, custoditi in una busta
che tenne sempre in un cassetto della scrivania. Le annotazioni relative ad
alcuni lasciti e doni personali, per il cui adempimento ho il compito di
esecutore testamentario, sono state via via aggiornate nel corso degli anni,
fino alla più recente aggiunta del 2021.
Il sobrio Testamento spirituale, invece, lo cesellò nella madrelingua
tedesca durante i primi mesi di pontificato, fino alla stesura definitiva
manoscritta e firmata il 29 agosto 2006 nel Palazzo apostolico di Castel
Gandolfo, senza più modifiche in seguito. Questo è il testo integrale, nella
traduzione italiana:
«Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho
percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare.
Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono,
che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di
confusione, rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e
donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo
e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la
mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.
Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo
difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno
preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei
giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a
credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie
acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia
madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare
abbastanza. Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e
con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua
vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il
cammino: senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non
avrei potuto trovare la via giusta.
Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha
sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino;
per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua
bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi
bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore
stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre
di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra
resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere
dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto
sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma
e in Italia che è diventata la mia seconda patria.
A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore
perdono.
Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli
che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella
fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza – le scienze
naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra
Scrittura) dall’altro – sia in grado di offrire risultati inconfutabili in
contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze
naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano
svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza,
ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza;
così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la
fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue
affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai sessant’anni che
accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze
bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi
che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la
generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista
(Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal
groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza
della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa,
con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.
Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante
tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti
quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera».
Postfazione
Saverio Gaeta
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COPERTINA || FOTO: © ALESSIA GIULIANI/CATHOLIC PRESS | MARZIA BERNASCONI | ART DIRECTOR: CECILIA
FLEGENHEIMER
Indice
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Prologo
1. Il “predestinato” fuori dagli schemi
Una perenne provvisorietà
Fiducioso nella Provvidenza
Il “profeta giusto”
Un binomio vincente
Cane da guardia o promotore?
2. Il filosofo e il teologo
Due anime in sintonia
Un appuntamento settimanale
Le sfide del prefetto
Come un direttore d’orchestra
Le certezze della fede
3. La caduta della scure
La campagna elettorale “a rovescio”
La sfida lanciata a Subiaco
Una benedizione dal paradiso
Gli effimeri pronostici
Quel maglione nero
Nella vigna del Signore
La lettera di Schönborn
Il diario e altre polemiche
4. La famiglia (pontificia e non)
Le radici nella Baviera
Con l’Introduzione sotto il braccio
Una proroga illimitata
La quotidianità del servizio
Nell’Appartamento del Papa
Con tre aiutanti di camera
Gli altri membri della famiglia
5. Le pietre d’inciampo del complesso governo
Decisioni a 360 gradi
Rispettoso delle persone
La scelta del “numero due”
Fra lo ior e la sanità cattolica
L’insospettabile tradimento
Un insieme di miserie umane
Il mistero di Emanuela
6. Un Magistero a tutto tondo
Un pontificato cristocentrico
L’evangelico servizio petrino
Il ministero dell’annuncio
L’amore al primo posto
Nel segno della speranza
Secondo il cuore di Dio
Il sacerdozio non è un “job”
Il dialogo al servizio della pace
Liberi di vivere la propria fede
Tra politica e cultura
Le citazioni senza il contesto
Polemiche e incomprensioni
Una clemenza malintesa
7. La storica rinuncia che ha segnato un’epoca
I motivi della decisione
In segreto a piccoli passi
Il sorprendente annuncio
Le antiche radici dell’idea
Gli incompresi segni premonitori
Il congedo dal Palazzo
L’uscita di scena
8. Il rapporto fra i due Papi
Una laboriosa telefonata
Dall’Appartamento a Santa Marta
L’enciclica e l’intervista
Il “pasticciaccio” di Sarah
Le spiegazioni di Benedetto
Il prefetto dimezzato
9. Nel Monastero il silenzio operoso
Il ritmo della preghiera
Una sequenza di indizi infondati
La famiglia al centro dello scontro
La lettera “sbianchettata”
La pacificazione interrotta
Da sempre contro ogni abuso
Accuse infondate da Monaco
“Profezie” per i nostri tempi
La catechesi in famiglia
Un fiducioso “a Dio”
Postfazione
Copyright