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Il libro

Q uello tra Joseph Ratzinger e Georg Gänswein è stato un lungo e significativo


rapporto di profondo rispetto e stima reciproca, sin da quando, nel 2003, il
futuro Papa nominò segretario personale il giovane sacerdote tedesco. E
ancor più dopo l’elezione del cardinale Ratzinger come Benedetto XVI, don Georg
ha vissuto costantemente al suo fianco quale suo più stretto collaboratore, ma anche
confidente e consigliere, accompagnandolo durante il pontificato e nel tempo
successivo alla storica rinuncia del 2013.
Oggi, dopo la scomparsa del Papa emerito, per l’attuale prefetto della Casa
pontificia è giunto il momento di raccontare la propria verità riguardo le bieche
calunnie e le oscure manovre che hanno cercato invano di gettare ombre sul
magistero e sulle azioni del Pontefice tedesco, e di far conoscere così, finalmente, il
vero volto di uno dei più grandi protagonisti degli ultimi decenni, troppo spesso
ingiustamente denigrato dai critici come Panzerkardinal o “Rottweiler di Dio”.
Un racconto autentico e schietto in cui, coadiuvato dalla esperta penna del
vaticanista Saverio Gaeta, monsignor Gänswein propone l’autorevole ricostruzione
di un particolarissimo periodo per la Chiesa cattolica, affrontando anche gli
interrogativi su enigmatiche vicende, quali i dossier di Vatileaks e i misteri del caso
Orlandi, lo scandalo della pedofilia e i rapporti fra il Papa emerito e il successore
Francesco. Ne scaturisce l’intensa testimonianza della grandezza di un uomo,
cardinale, Papa che ha fatto la storia del nostro tempo e che emerge qui come un faro
di competenza teologica, chiarezza dottrinale e saggezza profetica.
L’autore

Georg Gänswein (Germania, 1956), sacerdote dell’arcidiocesi di Friburgo in


Brisgovia dal 1984 e dottore in Diritto canonico. Chiamato nel 1995 in Vaticano,
dapprima nella Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e
l’anno successivo in quella per la Dottrina della fede, nel 2003 divenne segretario
personale dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Dopo l’elezione al pontificato, il 19
aprile 2005, Benedetto XVI lo confermò nell’incarico e nel 2012 lo nominò prefetto
della Casa pontificia, consacrandolo arcivescovo, il 6 gennaio 2013, con il titolo di
Urbisaglia. Papa Francesco lo ha mantenuto nella responsabilità dell’ufficio,
affidandogli però, dal gennaio del 2020, il compito di dedicarsi esclusivamente al
Papa emerito.

Saverio Gaeta (Italia, 1958), giornalista professionista e laureato in Scienze della


comunicazione sociale. È stato redattore dell’Osservatore Romano, caposervizio di
Jesus, caporedattore di Famiglia Cristiana e vicedirettore di Credere. Esperto delle
tematiche relative al rapporto tra fede e scienza (miracoli, reliquie, manifestazioni
soprannaturali), ha collaborato con diverse testate cartacee, radiofoniche e televisive.
Autore di numerosi saggi, biografie e libri-intervista, con traduzioni in sedici lingue,
negli ultimi anni ha pubblicato il bestseller Il Veggente (Salani 2016), la collana
Medjugorje (San Paolo 2020-21) e, con Piemme, La profezia dei due Papi (2018).
Georg Gänswein
con Saverio Gaeta

NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ


La mia vita al fianco di Benedetto XVI
Prologo

Quando, nel febbraio del 2003, il cardinale Joseph Ratzinger mi chiese di


diventare il suo segretario privato, presentando il mio nuovo ruolo nella
Congregazione per la Dottrina della fede fece notare che entrambi eravamo
solo “provvisori”. Dinanzi allo stupore del personale per questa descrizione
alquanto strana, ci spiegò che intendeva rinunciare prima possibile alla
responsabilità della Congregazione, dopo aver portato questo pesante
fardello per ben due decenni. Questo veniva espresso con la parola
“provvisorio”: lui sarebbe stato ancora prefetto per un breve periodo e di
conseguenza io, per un medesimo tempo, il suo segretario.
In realtà, quell’annunciata provvisorietà divenne una presenza stabile per
molti anni, fino alla sua morte. Dal 1° marzo 2003 fui il suo segretario
privato per i due anni successivi, mentre era ancora prefetto dell’ex
Sant’Uffizio, fino alla morte di Papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 2005.
E lo sono rimasto poi per tutti i suoi otto anni di pontificato, fino alla
rinuncia nel 2013, e anche successivamente, durante i restanti anni della sua
vita come “Papa emerito”.
Tutte sono state esperienze di grazia che mi hanno permesso di
conoscere il vero volto di uno dei più grandi protagonisti della storia del
secolo scorso, troppo spesso denigrato dalla narrazione di media e detrattori
che lo definirono “Panzerkardinal” o “Rottweiler di Dio” per criticare
convinzioni che in realtà non facevano altro che esprimere la sua profonda
fedeltà alla tradizione e al Magistero della Chiesa e la difesa della fede
cattolica.
Questo compito impegnativo, unito a quello di prefetto della Casa
pontificia ricoperto durante il pontificato di Papa Francesco, mi ha dato
l’opportunità di prendere parte a tutti i più importanti e storici eventi
ecclesiali degli ultimi due decenni.
Momenti di gioia e delusione, entusiasmo e fatica si sono alternati. I
problemi non sono certo mancati, basti pensare al dramma degli abusi
sessuali nel clero o alle difficoltà con le finanze vaticane. Ma ci sono state
anche esperienze molto belle e preziose che hanno reso manifesta una fede
viva, soprattutto tra molti giovani nel mondo, che dà motivo di legittima
speranza per il futuro della Chiesa.
Queste pagine contengono una personale testimonianza della grandezza
di un uomo mite, di un fine studioso, di un cardinale e di un Papa che ha
fatto la storia del nostro tempo e che va ricordato come un faro di
competenza teologica, di chiarezza dottrinale e di saggezza profetica. Ma
sono anche un racconto di prima mano che cerca di far luce su alcuni aspetti
incompresi del suo pontificato e di descrivere dall’interno il vero “mondo
vaticano”.

Arcivescovo titolare di Urbisaglia


1
Il “predestinato” fuori dagli schemi

Una perenne provvisorietà


Tanti anni di frequentazione delle gerarchie vaticane mi hanno fatto
maturare un preciso convincimento: ciascun membro del Collegio
cardinalizio custodisce – nascosta in un angolino della mente e del cuore –
la consapevolezza che un giorno Cristo potrebbe chiedergli di assumere il
ruolo di suo Vicario sulla Terra.
Ma, nel contempo, mi sono anche reso conto che – a meno di seri
problemi psichiatrici – nessuno di loro ha realmente l’ambizione di sedersi
sulla Cattedra di Pietro, ben conscio dell’impegno materiale, e soprattutto
della responsabilità spirituale, che tale ufficio comporta ed esige. Di
conseguenza c’è la rimozione di qualunque pensiero in merito, agendo anzi
in modo da allontanare il più possibile da sé tale ipotesi.
Come un singolare flash, sono queste le considerazioni che mi tornano
alla mente se ripenso a quel 14 febbraio 2003, quando il cardinale Joseph
Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede,
diede un annuncio che mi riguardava personalmente e che di fatto modificò
in maniera radicale il corso della mia vita a quel tempo, ma ancor più in
seguito.
Eravamo nella pausa dei lavori del cosiddetto “congresso particolare”,
che si svolgeva ogni venerdì mattina, durante il quale ciascun collaboratore
della Dottrina della fede presentava ai superiori della Congregazione un
aggiornamento sulle tematiche delle quali si stava occupando.
Due giorni prima era stata resa nota la nomina di monsignor Josef
Clemens, da una ventina d’anni segretario particolare del cardinale
Ratzinger, come sottosegretario della Congregazione per gli Istituti di vita
consacrata e le Società di vita apostolica (il successivo 25 novembre,
Giovanni Paolo II lo avrebbe designato segretario del Pontificio Consiglio
per i Laici, con la contestuale elevazione a vescovo).
Mentre stavamo prendendo un caffè e chiacchieravamo in piccoli gruppi,
Ratzinger chiese un momento di silenzio, si schiarì la voce e si congratulò a
nome dei presenti con monsignor Clemens per la sua promozione,
ringraziandolo con calore per tutto il lavoro che aveva svolto per la
Congregazione e per lui personalmente.
Subito dopo, con un bonario sorriso, mi fece segno di avvicinarmi e
proseguì indicandomi: «Voi tutti conoscete don Giorgio (così venivo
chiamato in Congregazione): l’ho fatto venire qui al mio fianco perché così
potete vedere davanti a voi due provvisori». Si levò un brusio, poiché
l’inflessione tedesca del cardinale aveva dato a qualcuno la sensazione che
avesse pronunciato la parola “professori”, suscitando l’interrogativo di cosa
intendesse dire.
Ratzinger si accorse dell’involontario equivoco e subito chiarì: «No,
intendevo proprio “provvisori”, perché lui diventa il mio segretario
personale, ma ovviamente lo sarà soltanto per poco tempo. Sapete infatti
che sono prefetto qui da ormai 21 anni e ho sollecitato già diverse volte
Giovanni Paolo II affinché mi lasci andare in pensione, secondo le regole,
dato che da mesi ho superato i 75 anni d’età. Devo unicamente attendere la
lettera di accettazione della mia richiesta da parte di Papa Wojtyła».
Beata ingenuità, fu il bisbiglio che immediatamente serpeggiò. Anche se
il cardinale era pienamente convinto di quanto aveva affermato, nessuno
nutriva il minimo dubbio riguardo al fatto che quella lettera non sarebbe
mai giunta a destinazione, anzi che non sarebbe nemmeno mai stata scritta o
inviata.
In seguito, quando il cardinale si lasciò andare in privato a
un’osservazione sul ritardo della risposta, provai a fare una battuta per
sdrammatizzare e gli dissi che avrebbe potuto sollecitarla in uno dei
consueti incontri del venerdì pomeriggio con Giovanni Paolo II, magari
facendogli spiritosamente notare come il servizio postale dal Palazzo
apostolico al Sant’Uffizio non funzionasse a dovere. Ma lui si limitò a farmi
uno di quei suoi sorrisi a fior di labbra, per poi tacere. Capii che non
desiderava approfondire, e smisi di permettermi simili commenti.
Di fatto, si trattava dell’ennesima prova che Ratzinger viveva un po’
“fuori dal mondo (ecclesiastico)”, come scherzosamente dicevamo tra noi, e
che si muoveva su un livello decisamente più etereo rispetto agli altri
confratelli porporati, senza apparentemente rendersi conto che da molti di
loro veniva considerato il primo dei “papabili”, nella sempre più realistica
eventualità di un prossimo Conclave. O forse era soltanto un modo per
esorcizzare il timore che si potessero concretizzare davvero quelle velate
allusioni che si ascoltavano in Vaticano… Ma era una prospettiva
totalmente estranea ai suoi ragionamenti e desideri.
In effetti, lui pensava di essere riuscito a sistemare le cose in modo da
spalancare al più presto la porta a un successore. Oltre al trasferimento di
Clemens e ad alcuni avvicendamenti tra gli officiali della Congregazione (in
particolare, con l’arrivo di monsignor Charles Scicluna come promotore di
giustizia), il 10 dicembre 2002 era stata resa nota la nomina di monsignor
Tarcisio Bertone, dal 1995 segretario della Congregazione e principale
collaboratore del prefetto, come nuovo arcivescovo di Genova.
L’ingresso ufficiale di Bertone in diocesi avvenne il 2 febbraio 2003,
cosicché, il 16 febbraio seguente, il cardinale Ratzinger poté lasciarsi
andare a uno schietto commento nella lettera a Esther Betz, con cui era in
confidenza sin dai tempi del Concilio, quando la donna era corrispondente
da Roma per un giornale tedesco: «Non c’è da stupirsi che le voci si stiano
intensificando e che anche il termine del mio incarico sia imminente. Grazie
a Dio, abbiamo trovato persone nuove e buone. A ogni modo, sarei felice di
sapere che anche per me si stanno preparando tempi più tranquilli».
Nelle sue memorie, monsignor Bruno Fink – che gli fu segretario quando
era arcivescovo a Monaco e nei primi due anni in Congregazione, fino al
Natale del 1983 – ha raccontato che, appena giunti a Roma nel febbraio del
1982, il cardinale Ratzinger gli aveva detto che intendeva restare in carica
come prefetto al massimo per due mandati quinquennali, in modo da poter
rientrare nella casa che aveva fatto costruire a Pentling, nei pressi di
Ratisbona, in tempo per poter realizzare le opere teologiche che aveva in
mente.
Il 25 novembre 1991, a dieci anni esatti dalla nomina, Ratzinger aveva
provato a chiedere a Giovanni Paolo II di sollevarlo dal gravoso incarico,
spiegandogli che la morte della sorella Maria, avvenuta il 2 novembre
precedente, lo aveva privato della sua preziosa compagnia domestica,
mentre l’emorragia cerebrale che aveva subìto in settembre gli aveva
causato seri problemi di vista all’occhio sinistro e uno stato di costante
prostrazione fisica. Ma il Pontefice non intese ragioni e lo confermò
nell’incarico per altri cinque anni.
Così – tra fine 1996, quando scadeva l’ulteriore mandato, e inizio 1997,
al compimento dei 70 anni – il cardinale attuò una mossa che, un po’
ingenuamente, confidava più destinata al successo, facendo discretamente
arrivare alle orecchie di Papa Wojtyła il suggerimento di nominarlo
archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. In quei mesi era infatti
previsto il rinnovo delle cariche riguardanti l’Archivio segreto e la
Biblioteca apostolica vaticana, con la sostituzione del cardinale Luigi
Poggi, ormai quasi ottantenne.
Il salesiano Raffaele Farina, nominato il 25 maggio 1997 prefetto della
Biblioteca (e che sarebbe stato elevato alla porpora nel 2007 proprio da
Benedetto XVI), dopo qualche settimana ebbe l’occasione di un colloquio
con Ratzinger e si sentì appunto chiedere ragguagli su quali fossero i
compiti del cardinale bibliotecario: ostentando indifferenza, sembrava quasi
pregustare il dolce “pensionamento” in compagnia di libri e documenti
carichi di storia. Ma, anche in questo caso, Giovanni Paolo II tagliò corto e
non prese in considerazione l’idea.
Mostrando quasi un po’ di nostalgia, Benedetto XVI lo disse
personalmente, il 25 giugno 2007, al cardinale Jean-Louis Tauran, durante
una visita alla Biblioteca: «Confesso che, al compimento del mio
settantesimo anno di età, avrei tanto desiderato che l’amato Giovanni Paolo
II mi concedesse di potermi dedicare allo studio e alla ricerca di interessanti
documenti e reperti da voi custoditi con cura, veri capolavori che ci aiutano
a ripercorrere la storia dell’umanità e del cristianesimo. Nei suoi disegni
provvidenziali il Signore ha stabilito altri programmi per la mia persona».

Fiducioso nella Provvidenza


Giovanni XXIII aveva fatto proprio, sin dagli anni giovanili, il motto di san
Francesco di Sales: «Nulla chiedere, nulla rifiutare». Senza difficoltà, tali
parole si addicono perfettamente anche al cardinale Ratzinger,
corrispondendo sostanzialmente a quanto egli stesso scrisse, il 9 agosto
1997, ancora all’amica Betz: «Non pianifico nulla (non l’ho mai fatto, in
realtà), ma mi lascio semplicemente trasportare dalla Provvidenza, che con
me non è stata affatto cattiva, anche se tutto è andato in modo molto diverso
da come avevo immaginato».
Dai tempi del Concilio Vaticano II, infatti, Paolo VI aveva cominciato a
tenerlo d’occhio a sua insaputa, mentre Ratzinger progrediva nella carriera
accademica e pubblicava saggi sempre più qualificati, ritenendo che quello
sarebbe stato per sempre il proprio impegno. Per mantenerlo in contatto con
Roma, il Pontefice nel 1969 lo aveva nominato fra i trenta membri della
appena istituita Commissione teologica internazionale, insieme con
personalità quali Hans Urs von Balthasar, Carlo Colombo, Yves Congar,
Henri de Lubac, Jorge Medina Estevez, Karl Rahner, che un paio di volte
l’anno si riunivano in seno alla Congregazione per la Dottrina della fede.
Papa Montini non lo riteneva soltanto un autorevole teologo, ma anche
un valente pastore, al punto da invitarlo a predicare gli esercizi spirituali in
Vaticano nel 1975: «Non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio
italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così
avevo detto di no», rivelò in seguito il cardinale. In quell’anno venne così
sostituito dal carmelitano Anastasio Ballestrero, allora arcivescovo di Bari e
successivamente cardinale a Torino, mentre nel 1976 il predicatore fu il
cardinale di Cracovia Karol Wojtyła. Poi verrà recuperato, possiamo dir
così, nel 1983, allorché Giovanni Paolo II gli riproporrà l’incarico, questa
volta accolto positivamente.
Quando, il 24 luglio 1976, il cardinale Julius Döpfner morì
improvvisamente d’infarto, Paolo VI non ebbe dubbi nella valutazione della
terna di possibili candidati che gli era stata sottoposta e, il 25 marzo 1977,
decise personalmente di nominare arcivescovo di Monaco e Frisinga il
quarantanovenne Joseph Ratzinger, che non fece quasi a tempo a ricevere la
consacrazione episcopale, il 28 maggio seguente, prima di ricevere la
notizia che sarebbe stato creato cardinale.
La consapevolezza di quale fosse il compito che da quel momento gli
veniva chiesto, Ratzinger comunque la esplicitò durante la cerimonia per la
propria ordinazione episcopale, il 28 maggio 1977 nel duomo di Monaco:
«Il vescovo non agisce in nome proprio, ma è un fiduciario di un altro, di
Gesù Cristo e della Chiesa. Non è un manager, un capo per propria grazia,
bensì l’incaricato di un altro di cui è garante. Dunque non può nemmeno
cambiare opinione a piacimento e difendere ora questa ora quella causa, a
seconda di come gli sembri conveniente. Non è qui per diffondere le sue
idee private, ma è un inviato che deve trasmettere un messaggio più grande
di lui. Egli verrà misurato su questa fedeltà: essa è il suo incarico».
Il Concistoro del 27 giugno 1977 fu poco affollato: di fianco a Joseph
Ratzinger, ci furono unicamente il teologo della Casa pontificia Mario Luigi
Ciappi, il presidente della Pontificia Commissione “Iustitia et pax”
Bernardin Gantin e l’arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, oltre
all’amministratore apostolico di Praga František Tomášek, nominato in
pectore già l’anno precedente. Per Paolo VI rappresentò un Concistoro
atipico, poiché i precedenti avevano oscillato fra un minimo di 21 porporati
nel 1976 e un massimo di 34 nel 1969, passando per i 27 del 1965 e del
1967, e i 30 del 1973.
Indubbiamente la decisione si dovette alla sua volontà di elevare
rapidamente alla porpora l’ex sostituto della Segreteria di Stato Benelli, che
appena il 3 giugno precedente era stato nominato a Firenze, probabilmente
anche per le pressioni di autorevoli esponenti della Curia romana che non
ne apprezzavano il decisionismo, sfruttato invece da Papa Montini per
smontare consolidate posizioni di potere. Ratzinger venne inserito – forse
proprio per suggerimento di Benelli – anche perché dagli inizi del
Novecento la diocesi di Monaco era una sede tradizionalmente cardinalizia,
e nell’occasione non si voleva creare cardinali soltanto personalità curiali.
Commemorando quella circostanza, Ratzinger ha ricordato il grande
affetto di cui si sentì circondato dai propri diocesani: «Alla consegna della
berretta, io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri quattro
neocardinali. Nessuno di loro aveva con sé una grande famiglia. Benelli
aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto
conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo
toscano; Tomášek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere
accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre nella sua
“isola”; Gantin era del Benin e dall’Africa non era agevole venire a Roma.
Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che
venivano da Monaco e dalla Baviera. Gli applausi per me furono maggiori
che per gli altri. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche
modo confermata la sua scelta».
Nel discorso pronunciato per l’occasione, Paolo VI spiegò che la
principale dote dei neo-porporati era «l’assoluta fedeltà che da essi è stata
vissuta, in questo periodo postconciliare ricco di fermenti sani ma anche di
elementi disgregatori, in una continua disponibilità, in un diuturno servizio,
in una totale dedizione a Cristo, alla Chiesa, al Papa, senza flessioni, senza
tentennamenti, senza transazioni», specificando per Ratzinger che il suo
«alto Magistero teologico in prestigiose cattedre universitarie della
Germania e in numerose e valide pubblicazioni ha fatto vedere come la
ricerca teologica – nella via maestra della “fides quaerens intellectum” –
non possa e non debba andare mai disgiunta dalla profonda, libera, creatrice
adesione al Magistero che autenticamente interpreta e proclama la Parola di
Dio».
Sull’immaginetta-ricordo della prima Messa, ventisei anni prima,
Ratzinger aveva fatto stampare il versetto 1,24 della seconda lettera di san
Paolo ai Corinzi, presentandosi fra i «collaboratori della vostra gioia»
(adiutores gaudii vestri). Quando si trattò di scegliere il motto per lo
stemma episcopale, ci fu una significativa evoluzione, con la scelta del
versetto 8 della terza lettera di san Giovanni: «Collaboratori della verità»
(Cooperatores veritatis). Nell’autobiografia lo ha motivato come il
desiderio di «rappresentare la continuità fra il mio compito precedente e il
nuovo incarico: pur con tutte le differenze, si trattava e si tratta sempre della
stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel
mondo di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché appare
troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla, se non c’è la verità, questo
motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più
moderno, nel senso buono del termine».
Nel momento in cui anch’io ho dovuto pensare al motto per il mio
stemma, in vista della consacrazione episcopale nel gennaio 2013, non ho
dovuto rifletterci a lungo. Avevo già avuto occasione di essere partecipe di
qualche confidenza da parte di Benedetto XVI riguardo a quello che aveva
significato per lui il tema della verità, con il preciso impegno di portare a
compimento ciò che si era ripromesso di fare come «collaboratore della
verità». Individuai perciò il versetto 18,37 del Vangelo secondo Giovanni
come possibile frase: «Dare testimonianza alla verità» (Testimonium
perhibere veritati). E fui ovviamente molto contento nel vedermi sostenuto
in tale scelta dal Papa stesso, che esplicitamente espresse il proprio
apprezzamento.
Nello stemma inserii poi l’immagine del drago sconfitto da san Giorgio,
il martire del quarto secolo che, secondo la Legenda aurea, uccise nel nome
di Cristo un terrificante mostro e convertì il popolo che ne era oppresso,
cosicché quella lotta è divenuta il simbolo della lotta del Bene contro il
Male. E qualche volta mi consentivo perfino di scherzare, dicendogli che lui
aveva dovuto accontentarsi dell’orso sottomesso da san Corbiniano, mentre
il mio protettore aveva combattuto e vinto un drago!
Per lo stemma arcivescovile, il cardinale Ratzinger aveva infatti scelto
tre immagini. Due erano il moro incoronato, tradizionalmente associato ai
vescovi di Frisinga («Non si sa quale sia il suo significato: per me è
l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna
distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti “siamo uno” in Cristo», fu la
sua spiegazione), e una conchiglia («Segno del nostro essere pellegrini e
ricordo della leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello
intorno al mistero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che
giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare e cercava di
travasarla in una piccola buca, e si sarebbe sentito dire: “Tanto poco questa
buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può
afferrare il mistero di Dio”»).
La terza faceva riferimento a san Corbiniano, fondatore e patrono della
diocesi. Il 9 settembre 2006, durante il viaggio apostolico a Monaco,
Benedetto XVI rievocò il motivo di tale scelta: «Della sua leggenda mi ha
affascinato fin dalla mia infanzia la storia, secondo la quale un orso avrebbe
sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo viaggio sulle Alpi.
Corbiniano lo rimproverò duramente e, come punizione, gli mise sul dorso
tutto il suo bagaglio affinché lo portasse fino a Roma».
Nel 1977, rivelò, «mi ricordai dell’interpretazione dei versetti 22-23 del
salmo 72 che sant’Agostino, in una situazione molto simile alla mia, nel
contesto della sua ordinazione sacerdotale ed episcopale ha sviluppato:
vedendo nell’espressione “davanti a te come una bestia” (iumentum in
latino) un riferimento all’animale da tiro che allora veniva usato in
Nordafrica per lavorare la terra, ha riconosciuto in questo iumentum se
stesso come bestia da tiro di Dio, vi si è visto come uno che sta sotto il peso
del suo incarico, la sarcina episcopalis. Sullo sfondo di questo pensiero del
vescovo di Ippona, l’orso di san Corbiniano mi incoraggia sempre di nuovo
a compiere il mio servizio con gioia e fiducia – trent’anni fa come anche
adesso nel mio nuovo incarico – dicendo giorno per giorno il mio “sì” a
Dio». Con fine ironia, così Papa Ratzinger concluse il discorso: «L’orso di
san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il “Padrone” ha
deciso diversamente».

Il “profeta giusto”
Nell’agosto del 1977, Ratzinger trascorse per ferie un paio di settimane nel
seminario diocesano di Bressanone. Il cardinale Albino Luciani, patriarca di
Venezia, era a quel tempo presidente della Conferenza episcopale del
Triveneto (della quale fa parte anche l’Alto Adige). Venne a conoscenza
della presenza del giovane confratello cardinale e volle andarlo a trovare,
avendone apprezzato gli scritti teologici, e in particolare il commento alla
costituzione conciliare Lumen gentium. Conversarono in italiano, che
Ratzinger aveva imparato durante il Concilio, anche se in maniera un po’
stentata, utilizzando il metodo didattico dei dischi a 33 giri. Poi lo avrebbe
perfezionato dopo l’arrivo a Roma, parlandolo quotidianamente.
Quella fu la prima occasione di contatto fra i due, che in un’intervista
Ratzinger ricordò come l’opportunità per «ammirare la sua grande
semplicità, e anche la sua grande cultura: mi raccontò che conosceva bene
quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al
santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille
metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto».
Il 16 agosto 1977, nell’omelia di una celebrazione per la festa di san
Rocco, il patriarca Luciani riferì pubblicamente dell’incontro: «Pochi giorni
fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di
Monaco: in una Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in
parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il coraggio di
proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger mi è
parso in quella occasione un profeta giusto. Non tutti quelli che scrivono e
parlano hanno oggi lo stesso coraggio; per voler andare dove vanno gli altri,
per paura di non sembrare moderni, alcuni di essi accettano solo con tagli e
restrizioni il Credo pronunciato da Paolo VI nel 1968 alla chiusura
dell’Anno della fede; criticano i documenti papali; parlano continuamente
di comunione ecclesiale, mai però del Papa come punto necessario di
riferimento per chi vuole essere nella comunione vera della Chiesa. Altri,
più che profeti, sembrano dei contrabbandieri; approfittano del posto che
occupano, per smerciare come dottrina della Chiesa quello che è, invece,
loro pura opinione personale o anche dottrina mutuata da ideologie
aberranti e disapprovate dal Magistero della Chiesa».
Il successivo incontro personale avvenne soltanto durante il Conclave
dell’estate 1978, dopo la morte di Papa Montini il 6 agosto. Per quello che
ho potuto dedurre, la stima di Ratzinger nei confronti di Luciani lo portò a
unirsi a quanti lo ritenevano degno di essere eletto Pontefice, cosa che
accadde il 26 agosto, dopo soli quattro scrutini. E nel giorno della
celebrazione d’inizio del ministero petrino, il successivo 3 settembre, i due
scambiarono alcune parole in relazione all’imminente viaggio del cardinale
in Ecuador. Con la lettera del 1° settembre, uno dei primi atti del
pontificato, Giovanni Paolo I aveva infatti nominato l’arcivescovo di
Monaco e Frisinga come Legato pontificio al Congresso mariano di
Guayaquil, poiché da qualche anno la diocesi tedesca e quella ecuadoriana
si erano gemellate e l’arcivescovo locale Bernardino Echevarría Ruiz aveva
appunto suggerito il nome di Ratzinger come inviato.
Con parole che non risultano “di circostanza”, Papa Luciani gli scrisse:
«Abbiamo il desiderio di partecipare, in qualche modo, a queste solennità
per dar loro più importanza e splendore. Perciò, con questa lettera, ti
scegliamo, ti creiamo e ti proclamiamo nostro inviato straordinario, e ti
affidiamo la missione di presiedere queste celebrazioni in nostro nome e
con la nostra autorità. Ti distingui per la tua grande conoscenza della santa
dottrina e, come sappiamo, ardi d’amore per la Madre di Cristo Salvatore e
Madre nostra. Indubbiamente, quindi, svolgerai la funzione a te affidata con
intelligenza, saggezza e successo».
Giovanni Paolo I, per dimostrare ulteriormente il proprio affetto, il 24
settembre inviò un messaggio al Congresso, invitando a fare del motto
“L’Ecuador, per Maria a Cristo” «un intero programma di vita e di azione
apostolica: Maria, Madre di Cristo, Madre della Chiesa e Madre dolcissima
di ciascuno di noi, sia sempre il tuo modello, la tua guida, il tuo cammino
verso il Fratello maggiore e Salvatore di tutti, Gesù».
Ratzinger lo lesse pubblicamente, ringraziando a nome di tutti i fedeli il
Pontefice per la sua premurosa vicinanza. E per questo restò
particolarmente colpito alla notizia della sua morte, che lo raggiunse in un
modo un po’ strano: «Dormivo nella residenza dell’arcivescovo di Quito.
Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di
Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e
si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’
sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che
sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o
realtà. Infine scoprii che era il vescovo ausiliare di Quito, Alberto Luna
Tobar, il quale mi comunicò che il Papa era morto».
Il 6 ottobre 1978, celebrando a Monaco il pontificale in suffragio di Papa
Luciani, espresse quasi il presentimento di quanto poi sarebbe stato
confermato da Francesco con la beatificazione del 4 settembre 2022:
«L’unica grandezza nella Chiesa è di essere santi. E i suoi santi sono le
colonne di luce che ci mostrano la via. D’ora innanzi apparterrà anch’egli a
queste luci. E ciò che ci fu concesso solo per trentatré giorni emana una
luce che non può più venirci tolta».
Nella biografia su Wojtyła, George Weigel scrive che Ratzinger gli
confidò: «Eravamo convinti che l’elezione fosse avvenuta in armonia con la
volontà divina, non semplicemente con quella umana… E se, un mese dopo
essere stato eletto con la volontà divina, egli era morto, Dio intendeva
comunicarci qualcosa». Ricordando quei giorni del Conclave, il cardinale
Ratzinger confermò in seguito: «L’elezione di Luciani non fu un errore.
Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia
della Chiesa. Quella morte improvvisa aprì anche le porte a una scelta
inaspettata. Quella di un Papa non italiano. Nel Conclave precedente si
parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché
c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di
qualcosa di assolutamente nuovo».

Un binomio vincente
Il cardinale Ratzinger partì per l’Ecuador il 19 settembre 1978 e vi restò
sino alla fine del mese. Proprio in quei giorni, dalla Polonia una
delegazione di vescovi, guidata dal primate Stefan Wyszyński e dal
cardinale Karol Wojtyła, giunse in Germania per incontrare i confratelli
tedeschi. Era l’esito di un lungo cammino avviato ben tredici anni prima, il
18 novembre 1965, con la lettera firmata dai vescovi polacchi presenti al
Vaticano II: «Dai banchi del Concilio che sta per concludersi, vi tendiamo
le nostre mani accordando perdono e chiedendo perdono»; cui, il 5
dicembre successivo, i vescovi tedeschi avevano risposto: «Anche noi vi
preghiamo di dimenticare, vi preghiamo di perdonare».
Ratzinger e Wojtyła, dunque, non si incontrarono in quella occasione, e
anche ai tempi del Concilio, pur avendo collaborato entrambi alla
formulazione di alcuni documenti, non si erano mai incrociati di persona. In
seguito, il prefetto sottolineerà: «Naturalmente avevo sentito parlare della
sua opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo conoscerlo. Dal
canto suo, aveva letto la mia Introduzione al cristianesimo, che aveva anche
citato agli esercizi spirituali da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella
Quaresima del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo entrambi
di incontrarci». L’unica opportunità, di sfuggita, fu nell’ottobre del 1977,
durante il Sinodo dei vescovi sulla catechesi al quale ambedue presero
parte.
Secondo le ricostruzioni giornalistiche, nel Conclave che si svolse dal 14
al 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, e quello di
Firenze, Giovanni Benelli, partirono appaiati nelle prime votazioni e di fatto
si annullarono a vicenda. All’ottavo scrutinio emerse così il nome
dell’arcivescovo di Cracovia, senza sorprendere Ratzinger, come lui stesso
ha dichiarato: «Lo sostenevo. Il cardinale König mi aveva parlato. E, per
quanto limitata, la conoscenza personale che avevo di Wojtyła mi aveva
persuaso che fosse davvero l’uomo giusto».
Giovanni Paolo II cominciò subito a guardarsi intorno per costruire la
propria squadra nella Curia romana. Certamente voleva che Ratzinger ne
fosse al più presto uno dei titolari, al punto da invitarlo, dopo neanche un
anno, a diventare prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica,
dove stava per andare in pensione il cardinale Gabriel-Marie Garrone. Ma
l’arcivescovo di Monaco riuscì a convincerlo che «erano trascorsi appena
due anni e ritenevo impossibile lasciare così presto la sede di san
Corbiniano. La consacrazione episcopale rappresentava in qualche modo
una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di appartenenza. Dunque il
Papa soprassedette alla nomina e chiamò a quell’incarico il cardinale Baum
di Washington, preannunciandomi tuttavia sin da quel momento che in
seguito si sarebbe rivolto a me per un altro incarico».
Nell’autunno del 1980, ci furono due importanti opportunità per una più
profonda conoscenza del cardinale da parte di Giovanni Paolo II: in
Vaticano, dal 26 settembre al 25 ottobre, fu relatore generale della quinta
assemblea del Sinodo dei vescovi sul tema “La famiglia cristiana”; in
Germania, per il primo viaggio pontificio dal 15 al 19 novembre, preparò
per lui diverse bozze di discorsi e omelie. A quei giorni si riferisce
l’aneddoto che, una volta, Ratzinger mi raccontò: vedendo il Papa
affaticato, gli offrì una stanza in episcopio per una pennichella pomeridiana,
ma Wojtyła rispose sorridendo che «ci sarà tanto tempo per riposarsi in
Cielo!»; e poi gli lasciò cadere l’idea che l’avrebbe voluto a Roma come
nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede.
Il 6 gennaio 1981 il cardinale giunse in Vaticano per la consacrazione
episcopale di monsignor Ennio Appignanesi, il parroco di Santa Maria
Consolatrice a Casal Bertone della quale Ratzinger era titolare (come tutti i
porporati, in questo modo era divenuto idealmente membro del clero
romano). Giovanni Paolo II volle incontrarlo privatamente e tornò alla
carica, ma l’arcivescovo di Monaco si era preparato una via di fuga e gli
rispose che avrebbe accettato la nomina unicamente se avesse potuto
continuare a scrivere saggi teologici a propria firma, in aggiunta ai
documenti ufficiali del dicastero.
Papa Wojtyła chiese ai collaboratori di verificare e venne a sapere che
anche il cardinale Garrone, da prefetto dell’Educazione cattolica, aveva
pubblicato diversi libri: a quel punto Ratzinger sentì di non avere scampo!
In un’occasione, il cardinale mi confidò che già la nomina a Monaco
andava oltre ogni sua aspettativa, figurarsi il trasferimento a Roma in una
Congregazione… Ma poi si convinse che non poteva fare resistenza dinanzi
alla reiterata richiesta di Giovanni Paolo II e comprese che in quel ruolo
avrebbe perfino potuto proseguire meglio gli studi personali e il servizio
alla Chiesa universale.
Quarant’anni fa, porre al Pontefice una simile condizione poteva
sembrava un peccato di hybris, di superbia, atteggiamento del tutto
contrario allo stile di Ratzinger. In realtà, sin da allora lui vedeva nella
propria produzione saggistica una dote da sfruttare per farla divenire uno
strumento pastorale. Non c’era in gioco la vanagloria del grande teologo,
bensì la consapevolezza del servizio che poteva essere reso alla Chiesa.
Avrebbe vissuto il rinunciare a questa possibilità di influire a livello
personale nel dibattito teologico come un’amputazione, dannosa per sé, ma
pure per gli altri.
Ho avuto occasione di comprenderne ulteriormente le motivazioni
ragionando con lui riguardo alle critiche che gli venivano fatte quando
pubblicava i volumi su Gesù Cristo: Benedetto XVI è stato risoluto nel
contestare chi affermava che il tempo da lui dedicato alla scrittura veniva
sottratto al governo della Chiesa, poiché questo avrebbe dovuto essere il
suo compito primario. Facendo riferimento a san Bonaventura e al proprio
predecessore Benedetto XIV, mi ha sempre sottolineato che pure quella
della scrittura è una forma di governo, poiché dà cibo spirituale ai fedeli, in
aggiunta agli atti magisteriali.
Con un riferimento spero non eccessivamente azzardato, il 7 giugno
2013 ero seduto di fianco a Papa Francesco, durante l’incontro in Vaticano
con gli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti, e mentre lo ascoltavo
rispondere divertito a una ragazzina che la scelta di vivere a Santa Marta era
«per motivi psichiatrici, perché è la mia personalità», ho pensato che la
stessa osservazione avrebbe potuta farla Ratzinger, sia da cardinale sia da
Papa, riguardo la sua scelta di continuare a scrivere. In molteplici occasioni
Benedetto XVI mi ha infatti detto con forza: «Per me la scrittura non è un
impegno, ma una liberazione che mi fa bene. Non mi toglie forza, ma
piuttosto me la genera. Si tratta di due energie diverse, e ambedue devono
essere esercitate». In sostanza, direi che, senza lo sfogo della produzione
teologica, la “pentola a pressione” del suo intelletto non avrebbe avuto una
valvola di sicurezza e sarebbe esplosa.

Cane da guardia o promotore?


La nomina a prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede venne
ufficializzata il 25 novembre 1981 e l’addio a Monaco si celebrò il 28
febbraio 1982. Con una commossa immagine, Ratzinger un giorno mi ha
descritto di aver visto in quei momenti i suoi diocesani «con un occhio
ridente per la gioia della promozione del loro arcivescovo e con l’altro
piangente per il dispiacere di vederlo andar via». Il primo ministro bavarese
Franz Josef Strauss lo disse a chiare lettere: «Preferiremmo non lasciarla
andare a Roma». E lui replicò: «Rimarrò sempre bavarese anche quando
sarò in Vaticano».
Lavorando in Congregazione, ho potuto ascoltare dalla viva voce dei
colleghi più anziani i ricordi relativi ai primi tempi del prefetto, con le
speranzose attese da parte di alcuni e le acute apprensioni da parte di altri
riguardo a come avrebbe agito. Tutti avevano infatti la curiosità di vedere
concretamente i cambiamenti che avrebbe apportato, a quella che da molti
era ancora soprannominata “la Suprema”, colui che aveva ispirato il
discorso nel quale, l’8 novembre 1963, il cardinale Joseph Frings ne aveva
stigmatizzato «i modi di procedere non allineati ai tempi sotto diversi
aspetti, risultando dannosi per la Chiesa e scandalosi per molti», parole che
avevano suscitato un boato di plauso fra i partecipanti al Vaticano II.
Probabilmente Giovanni Paolo II aveva scelto un teologo e un pastore, al
contrario della tradizione che aveva privilegiato diplomatici e canonisti,
perché, quando il cardinale ne prese la guida, la Congregazione si trovava
“a metà del guado”. Il 7 dicembre 1965 Paolo VI ne aveva infatti mutato il
nome, da Sacra Congregazione del Sant’Offizio a Sacra Congregazione per
la Dottrina della fede, conservando però la presidenza del Sommo
Pontefice, mentre la direzione continuava a essere affidata a un cardinale
segretario.
Sempre Papa Montini, il 15 agosto 1967, aveva riformato la
Congregazione, stabilendo che a capo ci fosse un cardinale prefetto e
conferendole il compito di «tutelare la dottrina riguardante la fede e i
costumi in tutto il mondo cattolico». Le mansioni erano però ancora
sbilanciate sul versante negativo: «Essa prende in esame le nuove dottrine e
le nuove opinioni, in qualsiasi modo divulgate; promuove studi su questa
materia, e favorisce congressi di dotti; condanna quelle dottrine che
risultano essere contrarie ai principi della fede, dopo aver tuttavia sentito il
parere dei vescovi di quelle regioni, se ne sono interessati. Esamina con
diligenza i libri che le vengono segnalati, e, se necessario, li condannerà,
dopo aver tuttavia sentito l’autore e avergli data la facoltà di difendersi. A
essa spetta pure giudicare circa gli errori riguardanti la fede, secondo le
norme del processo ordinario».
L’impegno di Ratzinger per l’aggiornamento delle normative, in sintonia
con le richieste di Giovanni Paolo II, si concentrò dapprima sul Codice di
Diritto canonico, che venne promulgato nel 1983 e dove si può riconoscere
un suo influsso in alcuni canoni connessi con l’ecclesiologia, il Magistero,
le Conferenze episcopali, le relazioni tra i vescovi e la Curia romana.
Quindi si adoperò per la ridefinizione in positivo del compito della
Congregazione, sancito il 28 giugno 1988 all’interno della costituzione
apostolica Pastor bonus: «Promuovere e tutelare la dottrina sulla fede e i
costumi in tutto l’orbe cattolico».
Nell’adempimento di tale indirizzo, veniva precisato, «essa favorisce gli
studi volti a far crescere l’intelligenza della fede e perché, ai nuovi problemi
scaturiti dal progresso delle scienze o della civiltà, si possa dare risposta
alla luce della fede. Essa è di aiuto ai vescovi, sia singoli che riuniti nei loro
organismi, nell’esercizio del compito per cui sono costituiti come autentici
maestri e dottori della fede e per cui sono tenuti a custodire e a promuovere
l’integrità della medesima fede. Al fine di tutelare la verità della fede e
l’integrità dei costumi, si impegna fattivamente perché la fede e i costumi
non subiscano danno a causa di errori comunque divulgati. Pertanto: ha il
dovere di esigere che i libri e altri scritti, pubblicati dai fedeli e riguardanti
la fede e i costumi, siano sottoposti al previo esame dell’autorità
competente; esamina gli scritti e le opinioni che appaiono contrari alla retta
fede e pericolosi, e, qualora risultino opposti alla dottrina della Chiesa, data
al loro fautore la possibilità di spiegare compiutamente il suo pensiero, li
riprova tempestivamente, dopo aver preavvertito l’ordinario interessato, e
usando, se sarà opportuno, i rimedi adeguati; si adopera, infine, affinché
non manchi un’adeguata confutazione degli errori e dottrine pericolose, che
vengano diffusi nel popolo cristiano».
Il 22 aprile 2007, durante la visita pastorale nella diocesi di Pavia (dove
sono custodite le ossa di Agostino d’Ippona), Benedetto XVI sembrerà
quasi offrire una nota autobiografica descrivendo la vita del santo teologo
dopo la consacrazione episcopale e citando un significativo passo dai suoi
Sermoni: «Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di
Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ciò che ora costituiva la
sua quotidianità, lo ha descritto così: “Correggere gli indisciplinati,
confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori…
stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli
oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti”».
Tali parole descrivono ciò che io stesso ho potuto quotidianamente
sperimentare al fianco del prefetto, verificando la totale inconsistenza di
quelle descrizioni del “Panzerkardinal” o del “Rottweiler di Dio” spacciate
senza pudore da critici del cardinale totalmente estranei a una sua reale
conoscenza. Tutti i collaboratori riscontrarono in lui un nuovo stile, poiché
l’applicazione del regolamento di una Congregazione dipende molto da chi
la dirige e dal clima che lui riesce a creare.
Ratzinger ha sempre avuto la convinzione che, per consolidare la fiducia
reciproca, ci si debba conoscere bene. Perciò incentivò molto le personali
relazioni umane e gli incontri ad ampio raggio, per esempio con le
Commissioni teologiche delle diverse nazioni, con le Conferenze episcopali
e con i superiori generali di ordini e istituti religiosi, nell’obiettivo di
eliminare alcuni pregiudizi che nel corso del tempo si erano accumulati
sulla Congregazione.
Il cardinale inaugurò anche il metodo dell’appuntamento del venerdì con
tutti i collaboratori della Congregazione, in vista del quale entro ogni
giovedì pomeriggio ciascuno di noi doveva preparare un appunto sulle
questioni che sarebbero state discusse, cosicché lui potesse studiare quelle
note a casa, in modo da discuterne con cognizione di causa al mattino
successivo. E c’era la prassi di cominciare il dibattito a partire dal meno
alto in grado, così che non ci fosse in nessuno il timore reverenziale di
contraddire l’opinione di un officiale superiore.
Il prefetto aveva l’ultima parola, però era sempre rispettoso dei diversi
pareri, che ascoltava sino in fondo. Se la proposta di soluzione lo
convinceva, l’accettava con piacere; in caso contrario, elegantemente
ripeteva in sintesi ciò che il collaboratore aveva ipotizzato e concludeva:
«Lei ha valutato secondo una prospettiva che di per sé è giusta, ma forse
non è completa. C’è quest’altro aspetto che potrebbe portare a una diversa
soluzione, in questa maniera…». In tal modo non umiliava mai nessuno e il
risultato finale appariva a tutti il migliore.
Il lunedì c’era poi la Consulta degli esperti, sotto la guida del segretario,
e il mercoledì l’incontro dei membri cardinali e vescovi (la cosiddetta feria
quarta), presieduta dal prefetto. L’atmosfera era sempre molto serena e
informale, tanto che non di rado ci si lanciava anche una battuta. Una
caratteristica importante di Ratzinger, che non molti conoscono, era infatti il
fine senso dell’umorismo. Al punto che, il 4 gennaio 1989, ricevette con
piacere a Monaco l’onorificenza intitolata al comico Karl Valentin e nel
discorso d’accettazione richiamò l’affermazione di san Paolo «Noi stolti a
causa di Cristo» (1 Corinzi 4,10) sottolineando che «alle corti degli antichi
potentati, il giullare era spesso l’unico a potersi permettere il lusso della
verità. E, siccome per la mia occupazione mi accade di dover dire la verità,
sono davvero felice di essere stato or ora accettato nella categoria di coloro
i quali godono di quel privilegio. Chi, dicendo la verità, non si sentisse un
po’ un clown, di certo diverrebbe troppo facilmente un autocrate».
Ricordo in particolare una volta in cui lui e il cardinale Carlo Maria
Martini – due pensatori molto diversi, ma accomunati dalla reciproca stima
– si punzecchiarono a vicenda. L’arcivescovo milanese sosteneva di non
aver mai scritto un libro, mentre il prefetto ribatteva che soltanto tradotti in
tedesco ne aveva letti almeno una quindicina con la sua firma. Allora
Martini replicò: «Ma io non devo mettermi alla scrivania, come fa lei, e
faticare: parlo, mi registrano, qualcuno trascrive e redige il testo, ed è
fatta». Con un ammiccamento sornione Ratzinger concluse il simpatico
duello facendo capire che la qualità un po’ disomogenea di quelle opere gli
aveva permesso di immaginare un tale modus operandi!
2
Il filosofo e il teologo

Due anime in sintonia


«Rendo grazie a Dio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger, che è
un amico fidato»: parole scolpite nella pietra, quelle mediante le quali
Giovanni Paolo II, nel libro di memorie Alzatevi, andiamo del 2004,
rievocò il suo pluridecennale rapporto con il prefetto della Congregazione
per la Dottrina della fede. Al punto da ispirare a Joaquín Navarro-Valls, lo
storico portavoce e confidente di Papa Wojtyła, un emblematico commento:
«Non hanno precedenti le parole che il Pontefice scrisse un anno prima di
morire, dove per la prima volta menziona con una lode esplicita e molto
eloquente un collaboratore vivo, al quale esprime gratitudine per la sincera
amicizia. Proprio questo lascia pensare a un rapporto strettissimo».
Da parte sua, Benedetto XVI non ha lesinato opportunità per ricambiare.
Posso personalmente testimoniare che una delle prime sollecitudini da Papa
fu quella di adempiere quanto programmato dal suo predecessore, a
cominciare dalla visita pastorale a Bari per la conclusione del Congresso
eucaristico nazionale (29 maggio 2005) e dal viaggio apostolico a Colonia
in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2005).
Ma anche nell’ambito più privato mi diede disposizione di portare a
compimento, per quanto possibile, ciò che era rimasto in sospeso. Mi piace
ricordare qui la testimonianza del giornalista Filippo Anastasi, all’epoca
coordinatore dell’informazione religiosa nel Giornale radio Rai: «Poco
prima che morisse, avevo espresso a Wojtyła il desiderio di fargli conoscere
i miei collaboratori. Il Papa ci aveva concesso un’udienza privata, però
proprio quel giorno fu ricoverato al Gemelli, e poi sappiamo com’è finita.
Un paio di mesi dopo l’elezione di Benedetto XVI, ricevetti una telefonata
dal suo segretario: “Benedetto ha piacere e intenzione di mantenere gli
impegni del suo predecessore e quindi vi invita al Palazzo apostolico per
un’udienza privata”. E così andammo tutti».
In seguito, Papa Ratzinger volle espressamente che il suo primo viaggio
all’estero lo conducesse in Polonia, dal 25 al 28 maggio 2006. Nel discorso
alla Curia vaticana, il 22 dicembre di quell’anno, il Papa confidò che si era
trattato di «un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che Giovanni Paolo
II, durante il quarto di secolo del suo servizio, ha donato a me
personalmente e soprattutto alla Chiesa e al mondo. Il suo dono più grande
per tutti noi è stata la sua fede incrollabile e il radicalismo della sua
dedizione».
Pochi sanno che, nel museo realizzato nella casa natale di Karol Wojtyła
a Wadowice, sono esposti diversi oggetti inviati da Benedetto XVI: tre
anelli che Giovanni Paolo II gli aveva regalato quando era prefetto, tre
lettere del Pontefice polacco e una fotografia che li ritrae insieme durante la
celebrazione per il decimo anniversario del pontificato di Papa Wojtyła il 30
ottobre del 1988. Benedetto visitò personalmente quel luogo il 27 maggio
2006, durante il viaggio in Polonia, e vi lasciò un bassorilievo raffigurante
la Madonna e un pensiero nel libro degli autografi.
Tra loro c’era una chiara differenza caratteriale e di stile: in quanto a
formazione, Karol Wojtyła era un filosofo, mentre Joseph Ratzinger era un
teologo (il cardinale una volta mi raccontò che lo stesso Giovanni Paolo II
gli aveva confidato di sentirsi più ferrato riguardo alla filosofia, piuttosto
che alla teologia). In fondo, si potrebbe dire che Papa Wojtyła era più
indirizzato verso l’interrogazione filosofica e la ricerca intellettuale, mentre
Ratzinger più alla chiarezza teologica e al rigore interpretativo. Ma a tutti
noi appariva con evidenza come questi elementi si fondessero in una
complementarità.
Un’interessante sintesi è quella del professor Alfred Läpple, suo antico
responsabile nel seminario di Frisinga: «La base filosofico-teologica
comune a entrambi era il personalismo, che – all’inizio indipendente nei
due – in Polonia mosse il pensiero e la speranza in un futuro di libertà come
alternativa politico-culturale al dominio statale sovietico-marxista. Il
personalismo dialogico costituiva il permanente accordo fondamentale, che
si rafforzava reciprocamente, fra il Papa polacco e il prefetto tedesco:
l’uomo non è un qualcosa, ma è un io che nel dialogo vive come tu divino
la Persona che gli sta di fronte».
In diverse occasioni ho avuto l’opportunità di osservare come, quando
non c’era la totale condivisione di una presa di posizione o di una specifica
iniziativa, fra i due ci fosse costantemente una fiduciosa apertura di credito,
che poi ovviamente portava il cardinale a fare tutto ciò che gli competeva
per assecondare la volontà del Pontefice. In qualche modo, per Ratzinger
quegli anni rappresentarono anche una sorta di apprendistato: «Senza di lui
il mio cammino spirituale e teologico non è neanche immaginabile»,
dichiarò il 4 luglio 2015, ricevendo a Castel Gandolfo il dottorato honoris
causa dalla Pontificia università Giovanni Paolo II e dall’Accademia di
musica di Cracovia.
A tale consapevolezza attribuisco la volontà di corrispondere alla
pressante sollecitazione dell’entourage di Giovanni Paolo II, da cui,
sull’onda del «santo subito» acclamato a gran voce durante i funerali di
Papa Wojtyła, venne perorata la dispensa dai regolamentari cinque anni di
attesa per l’apertura del processo di canonizzazione. Anche Benedetto XVI
si sentì stimolato dal grande entusiasmo popolare, cosicché chiese al
cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle Cause
dei santi, di preparare il decreto che venne letto il 13 maggio 2005 nella
basilica di San Giovanni in Laterano, al termine dell’incontro con il clero di
Roma, e che ha consentito la rapida proclamazione a beato, il 1° maggio
2011, e a santo, il 27 aprile 2014, di Karol Wojtyła.
Papa Ratzinger lo ha pubblicamente dichiarato sin dai primi tempi dopo
l’elezione: «Che Giovanni Paolo II fosse un santo, negli anni della
collaborazione con lui mi è divenuto di volta in volta sempre più chiaro.
C’è innanzitutto da tenere presente naturalmente il suo intenso rapporto con
Dio, il suo essere immerso nella comunione con il Signore, da cui veniva la
sua letizia, in mezzo alle grandi fatiche che doveva sostenere, e il coraggio
con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile.
Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno
preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a
partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire
dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di primo ordine
della santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire
anche il suo indefesso impegno pastorale. Il mio ricordo di Giovanni Paolo
II è colmo di gratitudine. Non potevo e non dovevo provare a imitarlo, ma
ho cercato di portare avanti la sua eredità e il suo compito meglio che ho
potuto. Perciò sono certo che ancora oggi la sua bontà mi accompagna e la
sua benedizione mi protegge».
Di commovente intimità risultano tuttora le considerazioni che Ratzinger
propose nel testo commemorativo del ventesimo anniversario di pontificato
di Papa Wojtyła: «Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo
II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso
silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi
libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si
attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A
partire da questo centro ci si spiega perché egli, pur essendo un grande
intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede
una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità
che gli permette di comunicare con ogni singola persona».

Un appuntamento settimanale
Estremamente importante, per il consolidamento del loro legame, fu la
cosiddetta “udienza di tabella”, che alle ore 18 di ogni venerdì li vedeva
impegnati a discutere da soli non soltanto i documenti in preparazione, ma
anche la situazione più generale della Chiesa e del mondo. Ratzinger mi
raccontava poi che in varie occasioni la conversazione si era dilatata pure
all’ambito culturale, poiché Papa Wojtyła apprezzava la letteratura tedesca e
voleva confrontarsi con lui su opere di autori contemporanei che l’avevano
colpito.
Oltre a quelle udienze ufficiali, al martedì mattina il cardinale veniva
spesso convocato per incontri più informali, dove personalità ecclesiastiche
volta a volta diverse ragionavano sulle catechesi del mercoledì, su questioni
d’attualità, sulle tematiche proposte dai vescovi di una determinata nazione
in visita ad limina (l’incontro quinquennale con il Papa, N.d.A.), su nuove
riflessioni che emergevano in ambito teologico… E descriveva quegli
appuntamenti, che spesso si dilatavano al pranzo, come momenti anche di
buonumore e occasioni di sentirsi in ottima compagnia.
Ratzinger avvertiva come problematica una situazione che si era creata
con la riforma della Curia romana voluta da Paolo VI. Il sostanziale
coordinamento dei dicasteri vaticani da parte della Segreteria di Stato,
guidata da Agostino Casaroli fino al 1991 e successivamente da Angelo
Sodano, imponeva talvolta una scelta su cosa privilegiare fra la saldezza
della dottrina e la duttilità della diplomazia. Anche se il prefetto cercava di
mantenere buoni rapporti con tutti, smussando gli spigoli più acuti, ogni
tanto qualche situazione locale si imponeva maggiormente all’attenzione e
lui si trovava a dover caldeggiare con Giovanni Paolo II soluzioni
divergenti da quelle proposte dal segretario di Stato.
Ricordo per esempio, nella seconda metà degli anni Novanta, il fitto
scambio di lettere tra la Segreteria di Stato, la nostra Congregazione e la
Conferenza episcopale tedesca in relazione ai consultori ecclesiastici che in
Germania dovevano decidere se continuare a rilasciare i certificati di
colloquio alle donne che intendevano abortire. La natura di questa
attestazione risultava ambigua, poiché – anche se in origine era un modo
per aprire un dialogo e far riflettere chi voleva abortire (inoltre, grazie ai
relativi sussidi statali, permetteva ai consultori ecclesiastici di proseguire
l’attività di consulenza in favore della vita) – si era di fatto trasformata in
un’autorizzazione all’esecuzione depenalizzata dell’aborto nelle prime
dodici settimane di gravidanza.
Tra i cardinali Sodano e Ratzinger c’era diversità di vedute su come
affrontare la problematica: il primo più attento ai risvolti politici della
vicenda e ai buoni rapporti con la presidenza di quella Conferenza
episcopale, mentre il secondo aveva innanzitutto a cuore l’intera questione
etico-morale e le conseguenze dottrinali e pastorali che ne sarebbero
scaturite. Cosicché si andò avanti a lungo nel dibattito “dietro le quinte” e
alla fine, l’11 gennaio 1998, Papa Wojtyła inviò ai vescovi tedeschi una
lettera nella quale stabilì «che un certificato di tale natura non venga più
rilasciato nei consultori ecclesiali o dipendenti dalla Chiesa». Ma nel
contempo, e a mia memoria non conosco altri esempi espliciti del genere,
faceva capire a chiare lettere quanto fosse stata accesa la diatriba fra i due
blocchi di pensiero: «Da persone, che per la Chiesa e nella Chiesa si
impegnano, si è messo in guardia con forza da una simile decisione, che
lascerebbe le donne in situazioni conflittuali senza l’appoggio della
comunità di fede. Altrettanto con forza si è denunciato che il certificato
coinvolge la Chiesa nell’uccisione di bambini innocenti e rende meno
credibile la sua assoluta contrarietà all’aborto. Ho preso in seria
considerazione entrambe le voci e rispetto l’appassionata ricerca da
ambedue le parti della giusta via per la Chiesa in questa questione
importante».
In precedenza, un momento di dissonanza fra Ratzinger e Giovanni
Paolo II era stato l’incontro interreligioso per la pace del 27 ottobre 1986 ad
Assisi, al quale il cardinale non ritenne opportuno partecipare. Il rischio da
lui intravisto era che si manifestasse confusione tra le diverse espressioni di
culto dei 62 capi religiosi convenuti nella cittadina di san Francesco: di
conseguenza temeva che la sua semplice presenza potesse venire equivocata
come una valutazione favorevole. Effettivamente in alcune chiese si
svolsero cerimonie inappropriate, per esempio con l’esposizione della statua
di Budda vicino a un tabernacolo, oppure con la preparazione del calumet
della pace su un altare; e anche riguardo all’appuntamento pomeridiano
nella piazza inferiore della basilica, dove i diversi gruppi si ritrovarono
insieme, la sequenza di preghiere, seppur scandite da una pausa fra ciascuna
di esse, diede avvio a polemiche su sensazioni di sincretismo o di cedimenti
al relativismo.
Per quello che ho percepito da qualche sua confidenza in merito,
Ratzinger aveva riferito a Papa Wojtyła le proprie perplessità, ma il
Pontefice era pienamente convinto dell’opportunità di quell’incontro e gli
chiese semplicemente di contribuire alla migliore preparazione fattibile. Il
cardinale aveva chiaro il proprio compito di far presenti le possibili derive,
ma poi non si tirava indietro quando Giovanni Paolo II gli manifestava una
esplicita volontà. Secondo Ratzinger, comunque, il Papa si rese conto, con il
senno di poi, che i timori espressi dal cardinale non erano del tutto
peregrini, al punto che nella seconda edizione del 24 gennaio 2002 chiese di
curare maggiormente i dettagli delle cerimonie, cosicché Ratzinger, che
pure fino al giorno precedente non era nella lista dei partecipanti, alla fine
ritenne di poter intervenire dopo una personale richiesta del Pontefice.
I collaboratori di Papa Wojtyła ripetevano sempre che nessuna decisione
significativa era stata presa da Giovanni Paolo II senza la consultazione
previa del cardinale, e io stesso ho avuto spesso fra le mani lettere a lui
indirizzate che venivano inoltrate in Congregazione con la scritta di suo
pugno: «Chiedere al cardinale Ratzinger», «Per favore, inviare al prefetto
Ratzinger». In questi casi, noi collaboratori della Congregazione leggevamo
con attenzione la lettera per comprendere la fattispecie della richiesta e
ipotizzare una proposta da sottoporre al cardinale, in modo da consentirgli
di valutare l’opportunità di illustrarla a propria volta al Pontefice
nell’udienza settimanale.
Quando sono diventato segretario particolare del prefetto, ricevevo
frequentemente telefonate dai segretari monsignor Stanisław Dziwisz (“don
Stanislao”) e monsignor Mieczysław Mokrzycki (“don Mietek”), i quali a
nome di Papa Wojtyła chiedevano che Ratzinger si recasse nel Palazzo
apostolico per una riunione con altri cardinali o da solo con il Santo Padre.
Erano invece scarsi gli appuntamenti per pranzi di lavoro, poiché il Papa
aveva ormai difficoltà anche nella deglutizione. Però ne venne organizzato
uno quando divenni segretario particolare del cardinale, il quale volle
presentarmi ufficialmente a Giovanni Paolo II e ai suoi collaboratori
dell’Appartamento papale. Io ero abbastanza intimidito dalla circostanza,
ma sia il Papa che i segretari furono molto cordiali e dopo un po’ mi sentii
completamente a mio agio.

Le sfide del prefetto


Poco dopo il suo arrivo in Congregazione, Ratzinger si era trovato dinanzi a
una delle tematiche più spinose di quegli anni. Nel Codice di Diritto
canonico promulgato da Benedetto XV nel 1917 si stabiliva infatti, al
canone 2335, che «chi si ascrive alla massoneria o altra setta che trama
contro la Chiesa o il potere civile, incorre la scomunica riservata alla Sede
apostolica». Nel nuovo Codice, firmato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio
1983, le parole del canone 1374 risultavano decisamente più blande: «Chi
dà il nome a una associazione che complotta contro la Chiesa sia punito con
una giusta pena; chi poi tale associazione promuove o dirige sia punito con
l’interdetto». Questa innovazione aprì una polemica che coinvolse diversi
fronti, sia all’interno che all’esterno della Chiesa cattolica. Così il prefetto
ritenne opportuna una esplicita dichiarazione, approvata da Papa Wojtyła e
pubblicata il 26 novembre 1983 (il giorno precedente l’entrata in vigore del
nuovo Codice).
Il testo chiariva definitivamente che la non espressa menzione della
massoneria «è dovuta a un criterio redazionale seguìto anche per altre
associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie
più ampie», restando invece «immutato il giudizio negativo della Chiesa nei
riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono stati
sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò
l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle
associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono
accedere alla santa comunione». Per di più, essendo state rese note in quel
tempo le prese di posizione di alcuni vescovi favorevoli a una revisione del
giudizio sulla massoneria, Ratzinger affermava perentoriamente che «non
compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle
associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto
sopra stabilito».
L’anno successivo rincarò la dose con una riflessione della
Congregazione sulla «inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria», nella
quale venivano messe in luce le sue «idee filosofiche e concezioni morali
opposte alla dottrina cattolica», nonostante «il dialogo intrapreso da parte di
personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano
non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa». Dunque con la dichiarazione
del 1983, «prescindendo dalla considerazione dell’atteggiamento pratico
delle diverse logge, la sacra Congregazione ha inteso collocarsi al livello
più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul piano cioè
dell’inconciliabilità dei princìpi, il che significa sul piano della fede e delle
sue esigenze morali».
Quando venne eletto Pontefice, risultò evidente il disappunto (per non
dire altro) della massoneria nei confronti di Benedetto XVI. Perciò,
leggendo nel 2013 il caloroso saluto di Gustavo Raffi, il gran maestro del
Grande Oriente d’Italia – «Forse nella Chiesa nulla sarà più come prima. Il
nostro auspicio è che il pontificato di Francesco possa segnare il ritorno
della Chiesa-Parola rispetto alla Chiesa-istituzione, [nella speranza che] una
Chiesa del popolo ritrovi la capacità di dialogare con tutti gli uomini di
buona volontà e con la Massoneria» – fui certo che, più di un “benvenuto” a
Papa Bergoglio, che francamente non credo gli fosse particolarmente
familiare, si trattasse di un “benservito” a Papa Ratzinger!
Un’altra grande sfida per la Congregazione fu la cosiddetta “Teologia
della liberazione”, che dagli anni Settanta si stava diffondendo ampiamente
in America latina e che in Europa e America del Nord veniva interpretata
come una giusta presa di posizione in favore dei poveri. Il problema era la
parzialità della prospettiva, come Ratzinger spiegava con chiarezza: «Le
forme di aiuto immediato ai poveri e le riforme che migliorano le
condizioni venivano condannate come riformismo che ha l’effetto di
consolidare il sistema. Occorreva invece un grande rivolgimento, dal quale
doveva scaturire un mondo nuovo. La fede cristiana veniva usata come
motore per questo movimento rivoluzionario, trasformandola così in una
forza di tipo politico e indebolendo anche il vero amore per i poveri».
Il cardinale si confrontò ampiamente con Giovanni Paolo II. Avendo ben
chiara l’ideologia marxista su cui si fondava quella prospettiva teologica, il
Papa diede indicazioni molto precise, affermando che la Chiesa deve agire
per la libertà e la liberazione non in modo politico, ma risvegliando negli
uomini, attraverso la fede, le forze dell’autentica liberazione. Ha
documentato Ratzinger: «Il Pontefice ci guidò a trattare entrambi gli aspetti:
da un lato a smascherare una falsa idea di liberazione, dall’altro esporre
l’autentica vocazione della Chiesa alla liberazione dell’uomo». Da qui prese
avvio la riflessione che portò alla stesura delle due istruzioni sulla Teologia
della liberazione, Libertatis nuntius nel 1984 e Libertatis conscientia nel
1986.
Anche quando le critiche della Congregazione motivavano dei
provvedimenti nei confronti di qualche teologo, il prefetto cercava sempre
di farlo con amore e con giustizia. «I miei collaboratori e io ci sforziamo di
non perdere di vista la dignità dell’uomo che stiamo sanzionando e
facciamo in modo tale che lui stesso possa riconoscere ciò che ci preme.
Non vogliamo semplicemente colpirlo con una scomunica, ma porci al
servizio della comunità nel suo insieme e quindi, in ultima analisi, anche al
suo servizio. E ci sentiamo innanzitutto in obbligo di difendere la fede dei
semplici», ripeteva con convinzione.
Io credo che proprio per fare estrema chiarezza Ratzinger si fece
promotore nel 1990 dell’istruzione Donum veritatis sulla vocazione
ecclesiale del teologo, dove si legge che «l’esigenza critica non va
identificata con lo spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di
carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso
l’origine e le motivazioni del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo
sguardo sia purificato dalla fede. […] Il teologo, non dimenticando mai di
essere anch’egli membro del popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi
confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in
alcun modo la dottrina della fede».
Fra le tante tematiche al centro della riflessione del cardinale Ratzinger,
quella della politica e dell’impegno che i cattolici vi devono riversare a
partire dalla fede fu sempre presente. Il 26 novembre 1981, proprio il
giorno successivo alla formalizzazione della sua nomina in Vaticano,
pronunciò un’omelia da arcivescovo di Monaco, durante una celebrazione
liturgica per i deputati cattolici nel Parlamento tedesco, che in questi tempi
di crisi della diplomazia risulta quanto mai sfidante: «Lo Stato non è la
totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana.
L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera
dell’azione politica. […] Il primo servizio che la fede fa alla politica è
dunque la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono
il vero rischio del nostro tempo. […] La morale politica consiste
precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si
fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il
moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è
invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste
misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il
compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica».
Tale consapevolezza di fondo lo spinse a firmare il 24 novembre 2002,
come prefetto della Congregazione, una nota dottrinale, tuttora di estrema
attualità, sull’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica,
che era stata caldeggiata da Giovanni Paolo II per rispondere alle
sollecitazioni di vescovi di varie parti del mondo. Partendo dalla
constatazione che «la storia del XX secolo basta a dimostrare che la ragione
sta dalla parte di quei cittadini che ritengono del tutto falsa la tesi relativista
secondo la quale non esiste una norma morale, radicata nella natura stessa
dell’essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni concezione
dell’uomo, del bene comune e dello Stato», il cardinale precisava che «il
cristiano è tenuto ad ammettere la legittima molteplicità e diversità delle
opzioni temporali, ma è ugualmente chiamato a dissentire da una
concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la
stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale
a dire, di princìpi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di
fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”».
A scanso d’equivoci, Ratzinger affermava che «con il suo intervento in
questo ambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un potere
politico né eliminare la libertà d’opinione dei cattolici su questioni
contingenti. Esso intende invece istruire e illuminare la coscienza dei fedeli,
soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il
loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e
del bene comune. L’insegnamento sociale della Chiesa non è
un’intromissione nel governo dei singoli Paesi [in quanto] gli orientamenti
contenuti nella presente nota intendono illuminare uno dei più importanti
aspetti dell’unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e vita, tra Vangelo
e cultura». Tutto ciò, sempre in linea con il concilio Vaticano II, che aveva
esortato i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi
guidare dallo spirito del Vangelo».

Come un direttore d’orchestra


Per il cardinale Ratzinger, le quattordici encicliche firmate da Giovanni
Paolo II rappresentavano le molteplici tessere di un mosaico, inscindibili
l’una dall’altra all’interno del complessivo Magistero di Papa Wojtyła. In
particolare considerava la Redemptor hominis (1979), la prima in ordine
cronologico cui non aveva potuto collaborare poiché era ancora a Monaco,
il punto di partenza per tutte le altre.
In essa vedeva anticipati tutti i temi successivi della verità e del suo
legame con la libertà, con una presentazione anche dei tratti principali – il
sacrificio, la redenzione e la penitenza – della fondamentale Ecclesia de
Eucharistia (2003), insieme con un cenno all’antropologia riguardo ai
problemi sociali del nostro tempo, che caratterizza le encicliche sociali
Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus
annus (1991), dove è centrale la dignità dell’uomo che è sempre un fine e
mai un mezzo.
Ma le encicliche alle quali Ratzinger collaborò in maniera particolare e
che gli stavano più a cuore sono certamente le tre dottrinali: Veritatis
splendor (1993), Evangelium vitae (1995) e Fides et ratio (1998). In ogni
caso il prefetto era convinto che qualsiasi documento doveva essere
contestualizzato nel tempo della sua promulgazione, poiché il primo scopo
era quello di rispondere a una problematica di uno specifico momento della
Chiesa, per evitare il rischio di ridurlo a un mero esercizio teorico.
L’indicazione di Giovanni Paolo II riguardo alla Veritatis splendor fu di
affrontare la crisi interna della teologia morale nella Chiesa, riformulando la
sua prospettiva positiva dal centro della fede piuttosto che da un elenco di
divieti, ma ampliando la riflessione anche al dibattito etico di dimensioni
globali che era già all’epoca una questione di vita o di morte per l’umanità.
Il cardinale spiegò dunque che l’imitazione di Cristo e il principio
dell’amore erano stati individuati come linee guida per organizzare i vari
elementi della dottrina morale, contrastando quella razionalità positivista
incapace di riconoscere il bene come tale.
L’ardita affermazione di un teologo che «il buono è sempre solo migliore
di…» diede lo spunto a Ratzinger per sottolineare che – se il criterio
basilare diventa il calcolo delle conseguenze e se la morale viene fondata su
ciò che sembra più positivo, tenendo conto delle conseguenze prevedibili –
ciò che è morale si dissolve, poiché il bene in quanto tale non esiste,
cosicché il cristianesimo inteso come “via” sarebbe un fallimento.
In accordo con Papa Wojtyła, come spiegò lo stesso prefetto, a quel
punto «si diede con grande decisione legittimità alla prospettiva metafisica,
che è solo una conseguenza della fede nel creato. Ancora una volta,
partendo dalla fede nella creazione, riesce a collegare e fondere
antropocentrismo e teocentrismo: “La ragione trova la sua verità e la sua
autorità nella legge eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina.
[…] Infatti, la legge naturale […] non è altro che la luce dell’intelligenza
infusa in noi da Dio” (VS 40). […] Una perla dell’enciclica, significativa sia
filosoficamente che teologicamente, è il grande brano sul martirio. Se non
c’è più nulla per cui valga la pena morire, anche la vita diventa vuota. Solo
se c’è il bene assoluto, per il quale vale la pena morire, e il male eterno che
non si trasforma mai in bene, l’uomo è confermato nella sua dignità e siamo
protetti dalla dittatura delle ideologie».
Ratzinger indicava questi aspetti come fondamentali anche nella
Evangelium vitae, espressione dell’appassionato impegno di Giovanni
Paolo II per il rispetto assoluto della dignità della vita umana. Spiegava il
prefetto: «La vita umana, laddove viene trattata come una mera realtà
biologica, diventa oggetto del calcolo delle conseguenze. Ma il Papa, con la
fede della Chiesa, vede l’immagine di Dio nell’uomo, in ogni uomo,
piccolo o grande che sia, debole o forte, utile o apparentemente inutile.
Cristo, lo stesso Figlio di Dio fatto uomo, è morto per tutti gli uomini. Ciò
conferisce a ogni uomo un valore infinito, una dignità assolutamente
intoccabile».
Per il cardinale era anche importante affermare a chiare lettere che «dopo
tutte le crudeli esperienze di abuso dell’uomo, anche se le motivazioni
possono sembrare moralmente elevate, quelle parole erano e sono
necessarie. È evidente che la fede è la difesa dell’umanità. Nella situazione
di ignoranza metafisica in cui ci troviamo, e che allo stesso tempo sfocia
nell’atrofia morale, la fede si mostra la cosa umana che salva. Il Pontefice,
portavoce della fede, difende l’uomo da una morale apparente che minaccia
di schiacciarlo».
La Fides et ratio rappresentò infine una summa sul tema della verità, che
ha contraddistinto il pensiero di Giovanni Paolo II e dello stesso Ratzinger,
anche perché quel documento andava al cuore di un serio problema:
l’annuncio del messaggio cristiano in quanto verità riconosciuta veniva
definito, all’epoca e ancora oggi, come un attacco alla tolleranza e al
pluralismo.
Proprio qui entra in gioco, sosteneva il cardinale, la dignità umana
poiché, «se l’uomo non è capace di arrivare alla verità, allora tutto ciò che
pensa e fa è pura convenzione. Se la fede non ha la luce della ragione, si
riduce a pura tradizione, e così dichiara la sua profonda arbitrarietà. Ancora
una volta si vede che la fede difende l’uomo nella sua realtà di essere
umano, e giustamente il Papa ritiene che la fede sia chiamata a incoraggiare
la ragione ad avere ancora una volta il coraggio della verità. Senza ragione,
la fede viene meno; senza la fede, la ragione rischia di atrofizzarsi».
Dietro a ciascuno di questi documenti c’era sempre molto lavoro, che
Ratzinger guidava come un vero direttore d’orchestra. Dopo la stesura di un
primo schema, si chiedevano commenti e integrazioni a specifici consultori
della Congregazione, e spesso anche ad altri teologi particolarmente
competenti in una determinata materia. Poi c’era un costante vaglio da parte
dei membri cardinali e vescovi, che durante l’incontro della feria quarta
offrivano le proprie opinioni. Il prefetto forniva sempre un proprio
resoconto per iscritto, in modo che a tutti fosse chiaro il suo giudizio e si
ritrovassero nero su bianco anche i costanti avanzamenti della riflessione
comune.
In Segreteria di Stato, l’allora monsignor Paolo Sardi era incaricato di un
controllo stilistico sulla stesura finale, prima che venisse inoltrata a
Giovanni Paolo II. Oltre a formulare delle modifiche di abbellimento,
talvolta però interveniva indebitamente sul testo, cosicché fu esplicitamente
data indicazione che, quando si trattava di un documento delicato
riguardante la dottrina, la Congregazione dovesse venire sempre consultata
prima di apportare cambiamenti.

Le certezze della fede


Un faro magistrale del binomio Ratzinger-Wojtyła fu certamente la
Dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di
Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata nel contesto del grande Giubileo del
2000. All’origine di quel documento c’erano diverse sollecitazioni, da parte
di Conferenze episcopali e di singoli vescovi, in favore di un chiarimento
dei dubbi, sorti ben prima della celebrazione di quell’Anno santo, riguardo
ai rapporti ecumenici e a quelli con le altre religioni. Il testo fu cesellato
mediante un accurato studio realizzato da numerosi consultori e la bozza
venne ulteriormente migliorata durante gli incontri dei cardinali e vescovi
membri della Congregazione, fondando tutto sulla teologia conciliare di Dei
Verbum e Lumen gentium.
Ratzinger spiegò così il senso e il contenuto di questo documento: «Nel
vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il cristianesimo e le altre
religioni, si fa sempre più strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro
seguaci vie ugualmente valide di salvezza. […] La conseguenza
fondamentale di questo modo di pensare e sentire in relazione al centro e al
nucleo della fede cristiana è il sostanziale rigetto dell’identificazione della
singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio
vivente. […] Ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida
nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa
dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo
che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe
una minaccia contro la tolleranza e la libertà».
Ribadendo «la stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come
per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione
della dignità dell’uomo e allo sviluppo della civiltà», il cardinale affermò
nel contempo con forza che «la convinzione che la pienezza, universalità e
compimento della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede
cristiana non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della
Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo
pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero
Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità salvifica
del cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che
continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò la
Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evangelizzazione dei
popoli».
Ovviamente le reazioni negative non si fecero attendere. Come sempre
più spesso il prefetto ripeteva ironicamente, quasi per “esorcizzare” gli
attacchi dai fronti contrapposti, «poiché oggi per i teologi che tengono alla
propria fama sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione
negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della fede, su
questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a
salvarsi».
In quella circostanza, però, ciò che diede più fastidio fu l’accusa al
cardinale di aver forzato la mano a Giovanni Paolo II, sostenendo che si era
approfittato della stanchezza manifestata dal Pontefice in quei mesi. Fu
allora Papa Wojtyła in persona a chiedere – durante un incontro con i
cardinali Ratzinger e Re e con l’arcivescovo Bertone – di preparare un
sintetico discorso che rendesse esplicita la propria completa approvazione,
in modo da poterlo leggere durante l’Angelus domenicale del 1° ottobre
2000.
Anche in tale circostanza emerse l’aspetto conciliante e poco polemico
del cardinale, che, come rivelò in un’intervista, quando portò il testo al
Pontefice, si sentì chiedere se realmente fosse “a tenuta stagna” e non
consentisse alcuna interpretazione diversa: «Non intendevo essere troppo
brusco, e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo
averlo letto, il Papa mi chiese ancora una volta: “È veramente chiaro a
sufficienza?”. Io risposi di sì. Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto
che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il Papa aveva
prudentemente preso le distanze da quella Dichiarazione!».
Fra i compiti più significativi che, su mandato di Giovanni Paolo II,
impegnarono a fondo il prefetto c’era già stata la preparazione del
Catechismo della Chiesa cattolica, ispirato da una raccomandazione del
Sinodo dei vescovi del 1985 di realizzare una presentazione organica di
tutta la dottrina cattolica riguardo sia alla fede che alla morale. Nel luglio
del 1986 Papa Wojtyła istituì la commissione di cardinali e vescovi che si
sarebbe occupata di realizzare il documento e ne nominò presidente
Ratzinger, che per sei anni si immerse in un intenso lavoro, nell’intento di
realizzare un testo significativo per la vita corrente dei cristiani.
Quando la voluminosa opera fu pubblicata, nell’autunno del 1992,
alcune voci critiche lamentarono che la Chiesa aveva voluto dire agli
uomini soprattutto cosa non avrebbero dovuto fare, come se fosse
unicamente fissata sulla ricerca dei peccati. Il cardinale, pur considerando
queste obiezioni del tutto inappropriate e ingenerose, ritenne comunque che
in tal modo si stava avviando un interessante dibattito e decise di
intervenire personalmente in più occasioni per spiegare innanzitutto che «la
questione di cosa, come uomini, dovremmo fare per rendere giusti noi stessi
e il mondo è la questione essenziale di ogni tempo; e proprio nel nostro
tempo, a fronte di tutte le catastrofi e le minacce e nella ricerca di
un’autentica speranza con nuova passione, è vissuta come la questione
fondamentale, che riguarda ciascuno di noi».
Ratzinger si preoccupava soprattutto di far comprendere che il
Catechismo era un testo unitario: «Si leggono in modo sbagliato i passaggi
sulla morale se li si stacca dal loro contesto, cioè dalla confessione di fede,
dalla dottrina dei sacramenti e della preghiera. L’affermazione
fondamentale sull’uomo, infatti, nel Catechismo suona così: l’uomo è
creato a immagine di Dio, è a somiglianza di Dio. Tutto ciò che viene detto
sulla retta condotta dell’uomo si fonda su questa prospettiva centrale. I dieci
comandamenti sono solo un’esposizione delle vie dell’amore e li leggiamo
correttamente solo se li sillabiamo insieme con Gesù Cristo».
Una decina d’anni più tardi, nel 2002, dal Congresso catechistico
internazionale giunse la richiesta di elaborare un compendio del
Catechismo, con una formulazione più sintetica dei medesimi contenuti di
fede. Ancora una volta, al prefetto venne affidato da Giovanni Paolo II il
compito di coordinarne la realizzazione, ma quando, il 20 marzo 2005,
Ratzinger firmò l’introduzione al testo, non immaginava che proprio lui, il
successivo 28 giugno, lo avrebbe anche ufficialmente presentato da
Pontefice.
3
La caduta della scure

La campagna elettorale “a rovescio”


Nei primi mesi del 2005, mentre si aggravavano costantemente le
condizioni di salute di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger si trovò
proiettato in primo piano in alcuni eventi pubblici molto significativi. A
quel tempo, oltre al ruolo di prefetto della Congregazione più importante
nella Curia vaticana, ricopriva anche l’incarico di decano del Collegio
cardinalizio: il 30 novembre 2002 era infatti stato eletto dai confratelli al
posto del dimissionario cardinale Bernardin Gantin, che al compimento
degli ottant’anni aveva deciso di rientrare in Benin.
Quando, nella mattinata del 22 febbraio, giunse la notizia della morte di
monsignor Luigi Giussani, il cardinale non si aspettava che Giovanni Paolo
II gli chiedesse di presiederne i funerali, che si sarebbero svolti dopo due
giorni nel Duomo di Milano. Probabilmente all’origine ci fu la
consapevolezza del Papa della fraterna amicizia che da decenni legava
Ratzinger al fondatore del movimento di Comunione e liberazione.
Don Stanislao me lo comunicò telefonicamente e io subito glielo andai a
riferire, cosicché il prefetto, quello stesso pomeriggio, lavorò a casa per
stendere l’omelia. In realtà, ci fu poi qualche eccesso di protagonismo,
poiché il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo ambrosiano, volle a
ogni costo presiedere la celebrazione, mentre l’arcivescovo Stanisław
Ryłko, presidente del Pontificio consiglio per i laici, riservò a sé la lettura di
una lettera di cordoglio a firma del Pontefice. Ratzinger, con la consueta
benevolenza, non si formalizzò, limitandosi a pronunciare la programmata
omelia.
Di fatto, se si fosse trattato dell’avvio di una campagna elettorale in vista
dell’ormai prossimo Conclave, Ratzinger mostrò di volerla svolgere “al
contrario”, per convincere gli eventuali supporter ad accantonarlo, piuttosto
che a sostenerlo. Le sue parole, trasmesse in diretta sulla prima rete
televisiva della Rai, risultarono una volta ancora l’esplicitazione di un’idea
coerente, quasi a dire: «E poi non lamentatevi che non vi avevo chiarito
come la penso!».
Dopo aver affermato che «il cristianesimo non è un sistema intellettuale,
un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma un incontro, una storia d’amore,
un avvenimento», il cardinale stigmatizzò la tentazione «di trasformare il
cristianesimo in un moralismo e il moralismo in una politica, di sostituire il
credere con il fare. […] Di questo passo si cade nei particolarismi, si
perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce,
ma si divide». E concluse con una nota di crudo realismo: «Chi crede deve
attraversare anche la “valle oscura”, le valli oscure del discernimento, e così
anche delle avversità, delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche».
Appena un mese più tardi, nel Venerdì santo del 25 marzo, i suoi testi
vennero letti durante la Via crucis al Colosseo, la tradizionale cerimonia
religiosa che quell’anno si svolse tristemente nell’assenza fisica di Giovanni
Paolo, che vi assistette tramite la televisione e fu ripreso di spalle mentre
abbracciava il crocifisso all’interno della cappella privata nel Palazzo
apostolico.
Anche in questo caso la decisione era stata presa personalmente dal
Papa, e Ratzinger accolse con grande disponibilità il suo desiderio,
dedicandosi in maniera intensa alla stesura delle meditazioni e delle
preghiere. Non chiese pareri né diede il testo in lettura a qualcuno. Mi ha
strappato un sorriso, a tale proposito, l’aneddoto raccontato dal cardinale
Angelo Scola nel libro-intervista Ho scommesso sulla libertà: «Ricordo un
incontro privato con lui, negli anni Ottanta, durante il quale mi venne
spontaneo dargli un suggerimento. Al momento non reagì, ma alla fine della
conversazione, prima di congedarmi, mi disse con un tono al tempo stesso
bonario e severo: “Caro don Angelo, ricordati che non c’è peggior cosa che
dare consigli a chi non te li chiede”».
Il triduo pasquale è sempre stato un tempo liturgico percepito e vissuto
molto intensamente dal cardinale, che amava ricordare di essere nato
proprio in un Sabato santo, il 16 aprile 1927: «Al Venerdì santo, il nostro
sguardo rimane sempre puntato sul Crocifisso; il Sabato santo, invece, è il
giorno della “morte di Dio”, il giorno che esprime e anticipa l’inaudita
esperienza del nostro tempo; la sensazione che Dio è semplicemente
assente, che la tomba lo ricopre, che egli non è più desto, non parla più,
sicché non c’è più nemmeno bisogno di contestarne l’esistenza, ma si può
tranquillamente farne a meno», scrisse nella sua celebre Introduzione al
cristianesimo. E commentando i dipinti di William Congdon, nel volume Il
Sabato della storia, narrò di aver compreso sin dalla giovinezza che «il
messaggio del giorno in cui venni al mondo aveva un legame particolare
con la liturgia della Chiesa; e la mia vita era fin dall’inizio orientata a
questo singolare intreccio di oscurità e di luce, di dolore e di speranza, di
nascondimento e di presenza di Dio».
Le affermazioni di quella Via crucis rappresentano una “fotografia” del
pensiero di Ratzinger, anche come risposta alle sfide dell’attualità di quel
momento. Ovviamente l’attenzione dei mass media si focalizzò su alcune
specifiche tematiche, però ancora oggi l’intero testo merita di essere riletto
e approfondito. Era una riflessione estremamente ampia, che certamente
non aveva come obiettivo quello di togliersi qualche sassolino dalle scarpe
o di tracciare bilanci in chiaroscuro. E nel contempo non si trattava di
parole “ecclesiasticamente corrette”, visto il polverone che alzarono dentro
e fuori la Chiesa.
Di fatto, il maggior scalpore lo suscitò la meditazione della nona
stazione, quella sulla terza caduta di Gesù: «Non dobbiamo pensare anche a
quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si
abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria
del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi
senza neanche renderci conto di Lui! Quante volte la sua Parola viene
distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote!
Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel
sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!». Fu
un’esternazione del cuore, che anticipò con le parole tutte le azioni da lui
poi intraprese durante il pontificato.
Ma altri brani risultano un preciso giudizio, per stimolare una adeguata
risposta da parte della comunità ecclesiale: «Possiamo pensare, nella storia
più recente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia
abbandonato il Signore: le grandi ideologie, come la banalizzazione
dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia semplicemente andare,
hanno costruito un nuovo paganesimo, un paganesimo peggiore, che
volendo accantonare definitivamente Dio, è finito per sbarazzarsi
dell’uomo»; «Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme
che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Non è forse un
rimprovero rivolto a una pietà puramente sentimentale, che non diventa
conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e
sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita
continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui
noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio»;
sino all’accorato appello conclusivo: «Signore Gesù Cristo, ti sei fatto
inchiodare sulla croce, accettando la terribile crudeltà di questo dolore, la
distruzione del tuo corpo e della tua dignità. Ti sei fatto inchiodare, hai
sofferto senza fughe e senza compromessi. Aiutaci a non fuggire di fronte a
ciò che siamo chiamati ad adempiere. Aiutaci a farci legare strettamente a
te. Aiutaci a smascherare quella falsa libertà che ci vuole allontanare da te.
Aiutaci ad accettare la tua libertà “legata” e a trovare nello stretto legame
con te la vera libertà».
Comunque, Ratzinger era da sempre estremamente disincantato riguardo
alla prospettiva di un Conclave. Al vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli,
che nel 2004 lo stuzzicò dicendogli che aveva già preso parte a due elezioni
e forse se ne sarebbe aggiunta una terza, reagì icasticamente: «Se sarò
ancora vivo!». Nel 1997, interpellato dalla televisione bavarese sulla
responsabilità dello Spirito Santo nell’elezione del Papa, aveva chiarito:
«Lo Spirito non prende propriamente controllo della situazione, ma
piuttosto, come un buon educatore, ci lascia molto spazio, molta libertà,
senza abbandonarci completamente. Pertanto, il ruolo dello Spirito
dovrebbe essere inteso in senso molto più elastico, e non come se dettasse il
candidato per il quale votare. Probabilmente l’unica sicurezza che offre è
che non si possa rovinare tutto. Ci sono troppi esempi di Papi che
evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto…».

La sfida lanciata a Subiaco


Come decano del Collegio cardinalizio, Ratzinger veniva tenuto
costantemente al corrente del peggioramento delle condizioni di salute di
Giovanni Paolo II. Subito dopo Pasqua la situazione fu sostanzialmente
considerata irreversibile, perciò mi chiese di sfoltire l’agenda dagli impegni
che potevano essere cancellati o rimandati. L’unico dubbio riguardò un
appuntamento fuori Roma che già da tempo aveva concordato per il 1°
aprile a Subiaco, nel monastero di Santa Scolastica, per ricevere il Premio
San Benedetto “per la promozione della vita e della famiglia in Europa” e
pronunciare una conferenza sul tema “L’Europa nella crisi delle culture”.
Ratzinger ne parlò con il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, il
quale gli consigliò di andare, in modo da non suscitare quegli interrogativi
che sarebbero immediatamente sorti sulla stampa nel caso di una sua
disdetta. Nel contempo concordò che ci sarebbe stato un filo diretto
telefonico tra me e monsignor Piero Pioppo, il segretario personale di
Sodano, in modo da poter ricevere un aggiornamento se fosse successo
qualcosa di importante.
Fu una conferenza molto articolata e le parole del cardinale risultarono
ancor più significative col senno di poi. In particolare affermò che «ciò di
cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono
uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile
in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di
Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la
porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo
dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di
uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il
cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il
loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che
sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».
In quel tempo Ratzinger rifletteva molto sulla situazione dell’Europa e in
particolare lamentava lo sviluppo di «una cultura che, in un modo
sconosciuto prima d’ora all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica,
sia che venga negato del tutto, sia che la sua esistenza venga giudicata non
dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte
soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica».
In particolare era rimasto colpito dal dibattito sul preambolo della
Costituzione europea, durante il quale si era messa in luce una
contrapposizione di giudizi sul riferimento esplicito a Dio e sulla menzione
delle radici cristiane del continente: «Le motivazioni per questo duplice
“no” sono più profonde di quel che lasciano pensare le motivazioni
avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale,
la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe
essere costitutiva per l’identità europea», annotò con amarezza.
Con la lucidità che sempre lo contraddistinse, esplicitò che «la
contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse
culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio,
dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra.
Se si arriverà a uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle
grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine,
hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre –, ma sarà per lo
scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture
storiche».
Di qui un’intrigante proposta che, come un sasso nello stagno
dell’indifferenza che gli sembrava di cogliere, lanciò in particolare ai laici:
«Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme
morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur,
anche nel caso che Dio non esistesse. Il tentativo, portato all’estremo, di
plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce
sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale
dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e
dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe
comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur,
come se Dio ci fosse». Un messaggio che nel corso del pontificato ha più
volte ripreso e approfondito.
Durante l’incontro mi ero sistemato in una posizione strategicamente
laterale, con il cellulare impostato sulla vibrazione. Ed effettivamente,
quando mancava poco alla conclusione del discorso, Pioppo mi informò di
un ulteriore aggravamento del Pontefice e suggerì di tornare in serata a
Roma, piuttosto che restare anche per la Messa della mattina successiva. In
genere, quando rientravamo in auto da un viaggio, con il cardinale
commentavamo com’era andato il convegno: quella sera invece lui si chiuse
nei suoi pensieri, cosicché l’autista e io restammo in un rispettoso silenzio.
Il giorno seguente andai a lavorare come al solito in Congregazione e a
metà mattinata mi telefonò don Mietek, chiedendo di passargli il cardinale.
Poi l’ho visto andar via di corsa e ho immaginato che si recasse
nell’Appartamento papale. Nel pomeriggio di quel sabato 2 aprile non l’ho
più visto né sentito. A quel tempo abitavo a Santa Marta e durante la cena,
intorno alle 20.30, ho notato che un monsignore polacco della Segreteria di
Stato si stava alzando con aria preoccupata, senza finire di mangiare. In
quel momento ho compreso che davvero Giovanni Paolo II era agli
sgoccioli. Sono subito andato in piazza San Pietro e lì ho ascoltato
l’annuncio della morte del Pontefice. Poi sono rimasto fino a tarda sera a
pregare insieme con le decine di migliaia di persone che via via si erano
radunate sotto la finestra dalla quale eravamo abituati a vedersi affacciare
Papa Wojtyła.
Con Ratzinger ci siamo sentiti telefonicamente domenica mattina e mi ha
raccontato che il giorno precedente era stato convocato al capezzale di
Giovanni Paolo II per riceverne un’ultima benedizione. Durante il periodo
della Sede vacante tutti i capi dei dicasteri vaticani cessavano dall’incarico,
cosicché mi confermò che non sarebbe più venuto in ufficio e mi chiese di
“fargli da postino”, prelevando a casa sua le lettere da spedire e portandogli
la corrispondenza in arrivo. Perciò andavo almeno un paio di volte al giorno
nell’appartamento al quarto piano di piazza della Città Leonina 1, proprio di
fianco al colonnato di destra, dove abitava sin dall’arrivo a Roma.
Come decano, il primo suo compito fu quello previsto dalla costituzione
apostolica di Giovanni Paolo II Universi Dominici gregis di comunicare
ufficialmente la notizia della morte del Papa a tutti i cardinali, convocandoli
nel contempo per le Congregazioni del Collegio, al Corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede e ai capi supremi delle rispettive nazioni,
invitandoli ai funerali. Suoi stretti collaboratori erano l’arcivescovo
Francesco Monterisi, segretario del Sacro Collegio, e il suo vice, monsignor
Michele Castoro. Informalmente, come segretario del cardinale, mi trovai a
fare da trait d’union fra loro e Ratzinger.
In vista dei funerali, il cardinale si mise subito al lavoro per stendere
l’omelia delle esequie. La commozione che aveva pervaso il mondo intero,
mostrata plasticamente dall’interminabile fila di persone che erano giunte
da ogni angolo del globo per poter rendere omaggio al Pontefice che aveva
condotto la Chiesa nel terzo millennio (a un certo punto la lunghezza era di
5 chilometri, con un tempo di attesa di 24 ore per entrare nella Basilica
vaticana), lo aveva colpito nell’intimo e l’aveva reso consapevole della
necessità di scrivere quel testo con la mente, ma ancor più con il cuore.
Dopo qualche giorno mi consegnò alcune pagine, che lui aveva vergato a
matita ed erano poi state scritte al computer da suor Birgit Wansing
(familiarmente chiamata anche suor Brigida), spiegandomi che aveva
preferito redigere l’omelia in tedesco per poter formulare correttamente i
propri pensieri. A tradurla in italiano provvide, come di consueto,
monsignor Damiano Marzotto Caotorta, all’epoca capoufficio nella
Congregazione per la Dottrina della fede.

Una benedizione dal paradiso


In quella mattinata dell’8 aprile confluirono a Roma più di un milione di
pellegrini, mentre centinaia di milioni di spettatori di 81 nazioni poterono
assistere in diretta alla trasmissione di 137 reti televisive. Ben 169 furono le
delegazioni straniere presenti al rito (con, in particolare, 10 sovrani e 59
capi di Stato), mentre a livello religioso c’erano le rappresentanze di 23
Chiese ortodosse, di 8 Comunioni occidentali, di 3 organizzazioni cristiane
internazionali, di 17 religioni non cristiane, insieme con vari esponenti
dell’ebraismo.
Mentre i cardinali raggiungevano in processione l’altare, le raffiche di
vento toccarono eccezionalmente i 78 chilometri orari, una velocità mai più
superata in quell’intero anno a Roma, e furono capaci di sollevare in un
turbinio i paramenti dei concelebranti e di scompigliare le pagine
dell’evangeliario poggiato sulla bara di Giovanni Paolo II. Un vero e
proprio “soffio dello Spirito”, fu la definizione di molti.
Il cardinale Ratzinger cesellò l’omelia tracciando un rapido ritratto
biografico di Karol Wojtyła sulla filigrana dell’invito “Seguimi!”, fatto da
Gesù a Pietro: «Questa parola lapidaria di Cristo può essere considerata la
chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro
compianto e amato Papa Giovanni Paolo II, le cui spoglie deponiamo oggi
nella terra come seme di immortalità, con il cuore pieno di tristezza, ma
anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine. […] Nel primo periodo
del suo pontificato il Santo Padre, ancora giovane e pieno di forze, sotto la
guida di Cristo andava fino ai confini del mondo. Ma poi sempre più è
entrato nella comunione delle sofferenze di Cristo, sempre più ha compreso
la verità delle parole: “Un altro ti cingerà…”. E proprio in questa
comunione col Signore sofferente ha instancabilmente e con rinnovata
intensità annunciato il Vangelo, il mistero dell’amore che va fino alla fine».
Poi concluse con un afflato lirico, inusuale per il suo stile, ma in quel
momento vissuto intensamente, che stimolò le più profonde corde della
commozione in tutti i presenti: «Rimane indimenticabile come in questa
ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla
sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo
apostolico e un’ultima volta ha dato la benedizione “Urbi et Orbi”.
Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della
casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi
affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha guidato
ogni giorno e ti guiderà adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo
nostro Signore».
Il 14 aprile, secondo quanto prescritto dalla normativa sul Conclave, il
cappuccino Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia,
propose la prima delle due meditazioni «circa i problemi della Chiesa e la
scelta illuminata del nuovo Pontefice». A questo appuntamento nell’aula
nuova del Sinodo poterono assistere tutti i componenti del Collegio
cardinalizio, compresi gli ultraottantenni, mentre al secondo, il 18 aprile
nella Cappella Sistina con il cardinale Tomáš Špidlík, furono presenti
unicamente i conclavisti votanti.
Ampi stralci della riflessione di padre Cantalamessa vennero riportati
sulla stampa dell’epoca e, alla luce della successiva elezione di Ratzinger,
mi sembrarono molto interessanti, poiché mettevano in luce aspetti
strettamente legati alle idee e al Magistero del cardinale. Addirittura
qualche commentatore lo definì il “lodo Cantalamessa”, caricandolo quasi
della responsabilità di aver descritto un identikit del nuovo Papa.
Resta il fatto, evidente per chi avesse all’epoca buona conoscenza del
pensiero del prefetto della Dottrina della fede, che a diversi punti
sottolineati da Cantalamessa poteva essere agganciata una precisa
riflessione del teologo Ratzinger, come in estrema sintesi provo a proporre
di seguito offrendo in uno sguardo sinottico cinque esempi, con le
affermazioni del cappuccino affiancate da testi dell’allora cardinale:

«La Chiesa deve concentrare sempre più gli sforzi per creare un’alternativa
reale al mondo con una comunità, magari minoritaria, ma che ha scoperto
“la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo”.»
«Ci sono oggi dei cristiani “tagliati fuori”, che si pongono fuori da
questo strano consenso dell’esistenza moderna, che tentano nuove
forme di vita; essi, indubbiamente, non richiamano particolare
attenzione a livello dell’opinione pubblica, ma fanno qualcosa che
davvero indica il futuro.» (Il sale della terra, 1997)

«Ogni iniziativa pastorale, ogni missione, ogni impresa religiosa, anche il


Conclave può essere Babele o Pentecoste. È Babele se uno vi cerca la
propria affermazione, di farsi un nome; è Pentecoste se cerca la gloria di
Dio e l’avvento del Suo Regno.»

Già quando, dopo la morte dell’arcivescovo di Monaco nel 1976, si


diffusero voci che lui ne sarebbe stato il successore, la sua
posizione fu che «non potevo prenderle molto sul serio, dato che i
limiti della mia salute erano altrettanto noti come la mia estraneità a
compiti di governo e di amministrazione: mi sentivo chiamato a una
vita di studioso e non avevo mai avuto in mente niente di diverso.»
(La mia vita, 1997)

«La Lumen gentium ha riportato i carismi nel cuore della Chiesa. Il Signore
sembra aver voluto confermare questa decisione del Concilio perché dopo
di esso abbiamo assistito a un vasto risveglio di carismi nella Chiesa.»

«Ecco, all’improvviso, qualcosa che nessuno aveva progettato. Ecco


che lo Spirito Santo aveva chiesto di nuovo la parola. E in giovani
uomini e donne risbocciava la fede, senza “se” né “ma”, senza
sotterfugi né scappatoie, vissuta nella sua integralità come dono,
come un regalo prezioso che fa vivere.» (I movimenti ecclesiali e la
loro collocazione teologica, 1998)

«Alcuni credono che sia possibile, anzi necessario, rinunciare oggi alla tesi
dell’unicità di Cristo per favorire il dialogo tra le varie religioni. Ora,
proclamare Gesù Signore significa proprio proclamare la sua unicità. La
grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi, e in primo luogo il
Papa, è di coniugare la più leale e convinta partecipazione al dialogo
interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di
Gesù Cristo.»

«Ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella


storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è
trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di
fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito
moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la
libertà. […] La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così
come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla
promozione della dignità dell’uomo e allo sviluppo della civiltà, non
diminuisce l’originalità e l’unicità della rivelazione di Gesù Cristo e
non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa.»
(Presentazione della dichiarazione “Dominus Iesus”, 2000)

«La formula canonica attuale del rapporto fra il Papa e i vescovi è cum
Petro et sub Petro. Finora è stato accentuato soprattutto il sub Petro. I tempi
sono forse maturi per ridare tutto il suo significato al cum Petro. Si tratta di
creare organismi opportuni per attuare questo, che non potranno ispirarsi
più rigidamente a vecchie ripartizioni dell’orbe cattolico. Non possiamo più
ragionare in termini di antichi patriarcati.»

«Il primato del vescovo di Roma, nel suo senso originario, non si
oppone alla Costituzione collegiale della Chiesa, ma si tratta di un
primato di comunione che si colloca all’interno di una Chiesa che
vive e si comprende come comunità comunionale. Questa istanza
autorevole della collegialità dei vescovi non esiste per una mera
utilità umana (anche se questa la richiede), ma perché il Signore
stesso, accanto e con il ministero dei Dodici, ha istituito il ministero
speciale dell’ufficio petrino. […] Sono sempre più in dubbio che
questa (dei patriarcati, N.d.A.) possa essere la forma organizzativa
adeguata a raggruppare grosse unità continentali.» (Il nuovo popolo
di Dio, 1971 - Dio e il mondo, 2001)

Gli effimeri pronostici


Sarà che “nemo propheta in patria”, sarà che ci ha fatto velo la certezza
della volontà di Ratzinger di tornare alla tranquillità dei suoi amati studi
teologici, ma devo confessare che in Congregazione non gli accreditavamo
grandi possibilità nella successione a Giovanni Paolo II. Indubbiamente lo
consideravamo un candidato autorevole per le prime votazioni, al quale
certamente avrebbero guardato diversi cardinali che ne avevano ben
conosciuto le doti. Non pensavamo però che il suo nome avrebbe retto a
lungo nel susseguirsi degli scrutini, a causa dell’ostilità che immaginavamo
da parte di quanti non ne avevano mai apprezzato la coerenza del pensiero e
la fermezza delle posizioni teologiche.
Ancor più eravamo certi che non si sarebbe nemmeno curato di
ritagliarsi il ruolo del “popemaker”, che nel secondo Conclave del 1978
aveva caratterizzato l’austriaco Franz König, l’ispiratore dell’elezione di
Karol Wojtyła. Non era mai stato negli interessi di Ratzinger partecipare a
cordate curiali, poiché riteneva che in questo modo avrebbe perso la propria
libertà; ancor meno capeggiarne una, come pure talvolta qualche confratello
gli aveva, più o meno allusivamente, sollecitato. E pure quando si era spinto
a caldeggiare qualche nomina, lo aveva fatto con discrezione e senza
sforzarsi nel creare consenso attorno alla propria proposta, limitandosi a
segnalare la figura che riteneva più adatta a uno specifico compito.
Che anche lui fosse del tutto inconsapevole di ciò che si stava
preparando, lo documentarono diversi episodi di quei giorni. Per esempio,
ricordo bene quando monsignor Bruno Forte, il vescovo di Chieti-Vasto,
venne a portargli il libro sul Volto santo di Manoppello appena pubblicato
da «Famiglia Cristiana» e lo invitò a visitare il santuario: Ratzinger gli
assicurò che lo avrebbe fatto subito dopo il Conclave, mentre poi, per
mantenere la promessa, dovette attendere il 1° settembre 2006. E ancora il
16 aprile 2005, nel giorno del suo 78° compleanno, ribadì ai collaboratori
della Congregazione che stava ormai pregustando il tanto a lungo atteso
giorno del pensionamento.
A mia discolpa, potrei comunque dire di essere stato in buona
compagnia, visto che anche i diplomatici statunitensi dell’ambasciata
romana di via Veneto, secondo uno dei cablogrammi resi pubblici nel
database di Wikileaks, affermavano che il prefetto della Dottrina della fede
«non ha il supporto per ottenere i due terzi dei voti necessari, data la forte
opposizione delle fazioni che lo considerano troppo rigido e geloso delle
prerogative di Roma»!
Ripensando ai giorni del pre-Conclave, ho ancora negli occhi una rubrica
del «Corriere della Sera» intitolata Il borsino dei vaticanisti. Sono andato in
archivio per rinfrescarmi la memoria e sono rimasto colpito, a distanza di
quasi vent’anni, nel rendermi nuovamente conto di quanto effettivamente
anche la valutazione dei giornalisti fosse incerta riguardo al nome su cui
puntare.
Lunedì 4 aprile, subito dopo la morte di Giovanni Paolo II, il titolo era:
«Occhi puntati su Tettamanzi, l’italiano, e Arinze, l’outsider nero»; il
giorno successivo: «Arinze in testa, sale la stella di Maradiaga»; il 6 aprile
compare per la prima volta il prefetto: «Salgono Ratzinger e le quotazioni
dei sudamericani». Poi svanisce per una settimana, fin quando il 13 e il 14
viene citato come “il decano” («Occhi puntati sul decano. Cresce Sodano» e
«Una corsa a due tra il decano e un progressista»), salvo cambiare
radicalmente idea il giorno seguente: «Un patto italiano (senza Ruini)
contro Ratzinger», per poi rispuntare soltanto il giorno dell’ingresso nella
Sistina: «Il decano favorito. E spunta Sodano come terzo polo».
Rievocammo quel concitato periodo con l’attuale direttore del
«Corriere» Luciano Fontana (all’epoca era vicedirettore di Paolo Mieli) e
con l’editorialista Massimo Franco quando vennero, il 27 febbraio 2021, a
trovare il Papa emerito nel monastero “Mater Ecclesiae” con il dono di due
caricature del disegnatore Emilio Giannelli: nella prima, abbraccia
simbolicamente una piazza San Pietro gremita di fedeli; nell’altra, consegna
a Francesco le chiavi della Chiesa dicendogli: «Mi raccomando…».
Durante la cena di quella sera, commentando l’incontro, Benedetto XVI
ripensò divertito alla vignetta che Giannelli aveva pubblicato sulla prima
pagina del quotidiano milanese il 20 aprile 2005, dove il neoeletto Pontefice
si rivolgeva alla folla in piazza San Pietro e scandiva, con l’indice della
mano destra alzato a mo’ di ammonimento: «E se sbaglio, guai se mi
correggerete!». E la sua ilarità contagiò immediatamente me e le
Memores…
Successivamente ebbe la responsabilità di presiedere, fra il 4 e il 16
aprile, i dodici incontri delle Congregazioni generali dei cardinali e di
convocare tutti gli elettori, i cardinali di età inferiore agli ottant’anni, al
Conclave per l’elezione del nuovo Pontefice, che si sarebbe aperto il 18
aprile. Nell’ufficio alla Dottrina della fede mi veniva recapitata dalla
Segreteria di Stato tutta la corrispondenza da inoltrare al cardinale per la
firma, una mole di lettere impressionante. Lui lavorava a casa, leggeva,
studiava. L’arcivescovo Angelo Amato, il segretario della Congregazione,
provvedeva invece all’ordinaria amministrazione, decidendo che cosa
inoltrargli e di cosa occuparsi invece direttamente lui.
Avevamo preso l’abitudine che ogni mattina andavo ad attenderlo in auto
sotto casa, per accompagnarlo poi all’aula del Sinodo ed evitare così la
ressa dei giornalisti che cercavano di strappargli qualche dichiarazione. Lui
in quei giorni si sottrasse a ogni contatto non necessario. Non so con
certezza se abbia ricevuto visite, mi sembrava indelicato chiederglielo, ma
l’idea che mi sono fatta è che non incontrò privatamente confratelli
cardinali né partecipò a momenti conviviali di consultazione. Anzi annullò
ogni appuntamento che aveva in calendario, indicandomi di cancellarli
anche dalla mia agenda-specchio.
Qualche giorno prima dell’inizio del Conclave, il cardinale mi disse che
desiderava lo accompagnassi come assistente, secondo quanto previsto dalla
n. 46 della Universi Dominici gregis: «Per venire incontro alle necessità
personali e d’ufficio connesse con lo svolgimento dell’elezione, dovranno
essere disponibili e quindi convenientemente alloggiati in locali adatti […]
un ecclesiastico scelto dal cardinale decano, perché lo assista nel proprio
ufficio».
Nel pomeriggio di domenica 17 aprile sono andato perciò a prenderlo
sotto casa con la mia Golf e l’ho accompagnato a Santa Marta, dove
avrebbero alloggiato i cardinali partecipanti al Conclave, poi ho
parcheggiato l’auto in garage e quindi sono rientrato in una stanza diversa
da quella che occupavo normalmente, che si trovava al quarto piano, mentre
adesso ero al quinto. Non avrei avuto un compito preciso: perciò mi limitai
a dirgli che avrei badato a non intromettermi di mia iniziativa, e che quindi
mi chiamasse lui ogni qualvolta potesse avere bisogno.
Nella sala per i pasti c’erano diversi tavoli da otto posti, dove i cardinali
potevano sedersi casualmente, intrecciando le conversazioni come meglio
desideravano. Noi collaboratori – i cerimonieri, i confessori, il personale
sanitario – eravamo sistemati invece in un tavolo lungo, di lato. Potevamo
osservare cosa accadeva, ma era difficile udire qualcosa, poiché il brusio di
130 persone in diverse lingue risultava davvero “una Babele”…
Se ci fosse stato il minimo dubbio sulla volontà di Ratzinger di tirarsi
fuori dalla “corsa al pontificato”, l’omelia che pronunciò durante la Messa
“pro eligendo Romano Pontifice”, nella mattinata del 18 aprile, tranciò
radicalmente qualsiasi idea. La fermezza delle convinzioni espresse e la
forte riproposizione dei propri “cavalli di battaglia” lo avevano reso sicuro
che un significativo numero di confratelli si sarebbe adoperato per evitare la
sua elezione. Bastavano infatti 39 voti in quel Conclave, dei 115 totali nella
circostanza, per organizzare un “blocco” che avrebbe impedito il
raggiungimento dei due terzi dei voti necessari per la maggioranza richiesta.
In particolare, un paragrafo del testo fu quello sul quale tutti i mass
media si fiondarono per commentare «il manifesto di Joseph», come lo
definì Aldo Cazzullo sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del
mattino seguente. Scandì Ratzinger, nel suo ultimo discorso da cardinale:
«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso
etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi
portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico
atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura
del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come
ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo
un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero
umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e
l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata
nell’amicizia con Cristo».

Quel maglione nero


Durante le due prime tornate del Conclave, nel pomeriggio del 18 e nella
mattinata del 19, non ebbi compiti particolari da svolgere. Mi tenevo a
distanza di sguardo dal cardinale, che però non ebbe mai bisogno di me. Il
tempo lo trascorrevo pregando, leggendo e scambiando qualche parola con
il medico papale, Renato Buzzonetti, e con qualche cerimoniere pontificio.
Nella cena del 18 notai una certa agitazione tra i cardinali:
probabilmente il primo scrutinio aveva suscitato la consapevolezza
dell’importante compito cui erano chiamati. Nel pranzo del 19 mi sembrò
invece che il clima generale fosse divenuto più rilassato. Però
inaspettatamente, mentre si avviava all’ascensore per rientrare in stanza,
Ratzinger mi chiese la disponibilità ad accompagnarlo a piedi verso la
Cappella Sistina (in precedenza aveva sempre utilizzato il minibus), e
ovviamente io risposi di sì. La prima votazione pomeridiana era fissata per
le ore 16, così mi diede appuntamento nell’atrio d’ingresso di Santa Marta
alle 15.30.
Il tempo era incerto, e quando ci avviammo lungo via delle Fondamenta,
che costeggia il lato posteriore della basilica di San Pietro ed è un punto
sempre un po’ ventoso, ricordo di essere rabbrividito per l’aria fresca. Il
cardinale mi aveva detto di aver avuto freddo al mattino nella Sistina, per
cui si era messo un maglione sotto la talare porpora e la cotta bianca
previste dal cerimoniale.
Era molto pensieroso e mostrava chiaramente di non aver voglia di
parlare, così io mi limitai a camminare al suo fianco, osservandolo di
sottecchi e pregando per lui. A livello psicologico, è stata la passeggiata più
lunga e faticosa della mia vita. Intuivo di stare vivendo un momento storico
e quasi drammatico, con Ratzinger che mi dava l’impressione di camminare
verso un burrone.
Nei dintorni non c’era praticamente nessuno, tranne le guardie svizzere e
i gendarmi che controllavano i varchi d’accesso sigillati per il Conclave.
Abbiamo attraversato i cortili che conducono all’ascensore di San Damaso,
siamo saliti alla Prima loggia e l’ho accompagnato fino all’aula delle
Benedizioni, dove i cardinali dovevano radunarsi prima di avviarsi verso la
Sistina. Poi ho raggiunto il dottor Buzzonetti e con lui ho trascorso un po’
di tempo, spostandoci lentamente attraverso la sala Ducale, la sala Regia e
l’aula delle Benedizioni, dove sostavano alcuni cerimonieri, confessori e
infermieri.
Per far passare quegli interminabili minuti mi ero portato qualche libro e
alcuni fogli d’appunti, e mi venne naturale rileggere le parole che il
cardinale aveva pronunciato nel 2003, presentando il Trittico romano di
Giovanni Paolo II: «La contemplazione del Giudizio universale,
nell’epilogo della seconda tavola, è forse la parte che commuove di più il
lettore. Dagli occhi interiori del Papa emerge nuovamente il ricordo dei
Conclavi dell’agosto e dell’ottobre 1978. Poiché anch’io ero presente, so
bene come eravamo esposti a quelle immagini nelle ore della grande
decisione, come esse ci interpellavano; come insinuavano nella nostra
anima la grandezza della responsabilità. Il Papa parla ai cardinali del futuro
Conclave “dopo la mia morte” e dice che a loro parli la visione di
Michelangelo. La parola Conclave gli impone il pensiero delle chiavi,
dell’eredità delle chiavi lasciate a Pietro. Porre queste chiavi nelle mani
giuste: è questa l’immensa responsabilità in quei giorni». Pensai che in quel
momento tutto ciò stava accadendo in tempo reale, a pochi metri da me…
D’improvviso, intorno alle 17.15, nel silenzio ovattato di quelle ampie
sale, abbiamo udito un leggero applauso, che non è durato a lungo. Ci
siamo guardati l’un l’altro e tutti abbiamo compreso che il Papa doveva
essere stato eletto. L’attesa però è durata ancora poiché, ho rapidamente
focalizzato, quel primo battimani era risuonato al raggiungimento dei 77
voti necessari per l’elezione, ma poi lo spoglio delle schede era andato
avanti, con i successivi adempimenti delle verifiche procedurali e
dell’accettazione da parte dell’eletto.
Una ventina di minuti più tardi, quando nella Cappella Sistina risuonò un
secondo applauso, fummo finalmente certi che tutto si era concluso. Difatti,
dopo un po’, udimmo il rumore del chiavistello e vedemmo spuntare Attilio
Nicora (era l’ultimo in ordine di precedenza tra i cardinali diaconi e dunque
gli spettava il compito di aprire e chiudere le porte della Sistina), che ci
lasciò ancora con il fiato sospeso poiché si limitò a confermare l’elezione
del Papa, senza però rivelarne il nome.
Come in un flash, in quell’attimo mi venne in mente l’immagine del
maglione nero che Ratzinger aveva indossato sotto la talare. Raggiunsi
subito monsignor Francesco Camaldo, che era il decano dei cerimonieri e
anche il suo personale, e gli dissi: «Se il nuovo Papa è Ratzinger, per favore
assicurati che il maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie
(l’arcivescovo Piero Marini, n.d.A.) gli faccia togliere il maglione o almeno
gli rimbocchi le maniche». Lui mi assicurò che avrebbe provveduto, ma
purtroppo, nella concitazione dei successivi momenti, se ne dimenticò. E
così, più tardi, durante la benedizione dalla Loggia del novello Pontefice,
sotto i suoi paramenti apparvero quelle maniche nere che, in diretta
televisiva, fecero il giro del mondo.
La fibrillazione salì alle stelle. Sotto il Giudizio universale si scorgeva
una figura bianca seduta su un tronetto, ma il compatto blocco dei cardinali
che sfilavano per fare l’atto di obbedienza al Santo Padre impediva di
vedere bene chi fosse. Pian piano ha cominciato a diffondersi il bisbiglio
«Ratzinger, Ratzinger, Ratzinger… Benedetto, Benedetto, Benedetto…» e
tutto mi si è improvvisamente come appannato davanti agli occhi per un
misto di commozione e di apprensione.
Quando percepii il nome Benedetto, per me fu immediato il riferimento
al santo di Norcia, ben più di quello al Pontefice suo predecessore di inizio
Novecento. Proprio pochi giorni prima a Subiaco, Ratzinger aveva
affermato: «Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale,
in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più
estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire
alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con
tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo».
Lui stesso, nella prima Udienza generale del 27 aprile, dettaglierà quella
scelta fondendo le due figure: «Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per
riallacciarmi idealmente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha
guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto
mondiale. Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della
riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente
convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono
purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo
giorno con l’apporto di tutti. Il nome Benedetto evoca, inoltre, la
straordinaria figura del grande “patriarca del monachesimo occidentale”,
san Benedetto da Norcia, compatrono d’Europa [che] costituisce un
fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte
richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua
civiltà».
Nel frattempo erano giunti dalla Segreteria di Stato il sostituto Leonardo
Sandri e il segretario Giovanni Lajolo, insieme con il prefetto della Casa
pontificia James Michael Harvey, che si aggiunsero alla fila; subito dopo,
abbiamo potuto accodarci il dottor Buzzonetti e io. Quando finalmente sono
giunto al cospetto del Papa ho visto quanto fosse provato dalla tensione
dell’evento, per cui gli ho soltanto detto in tedesco: «Santo Padre, tanti
auguri per l’elezione come successore di Pietro. Le offro tutta la mia
disponibilità. Può contare su di me in vita et in morte». Non si è trattato di
un discorso particolarmente elaborato, ma lui ha compreso la mia emozione
e ha semplicemente risposto: «Grazie, grazie».
Nella vigna del Signore
Da piazza San Pietro era intanto salito il boato della folla che, dopo aver
visto alle 17.50 la fumata bianca dal camino della Sistina, alle 18.43 aveva
ascoltato dalla voce del cardinale protodiacono Jorge Arturo Medina
Estévez la comunicazione ufficiale riguardo all’identità e al nome scelto dal
neoeletto Pontefice. Con il passare dei minuti, mentre si formava la
processione per accompagnarlo alla Loggia esterna della Benedizione della
Basilica vaticana, vedevo Benedetto XVI che acquistava colore in viso e
distendeva i lineamenti.
Evidentemente la tensione si stava sciogliendo, come poco dopo
dimostrò la serenità con cui alle 18.48 pronunciò un breve saluto, prima
della benedizione apostolica: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa
Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile
lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa
lavorare e agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle
vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto
permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua santissima
Madre starà dalla nostra parte. Grazie».
Recentemente, sistemando alcune carte dell’archivio personale di
Benedetto XVI, mi sono reso conto che la sua espressione, quasi a livello di
ricordo subliminale, richiamava di fatto le parole vergate da Paolo VI nella
bolla con la quale nel 1977 aveva nominato Ratzinger arcivescovo di
Monaco e Frisinga: «Nello Spirito guardiamo a te, diletto figlio. Tu sei
fornito di straordinari doni dello Spirito e sei un maestro della teologia. […]
Ora ti chiediamo: lavora nella vigna del Signore».
Dopo un ultimo saluto alla folla, con il gesto per lui inusuale delle
braccia agitate in alto, il Papa si avviò con il cardinale Angelo Sodano, nel
suo ruolo di vicedecano del Collegio cardinalizio, verso l’ascensore e scese
nel cortile di San Damaso, dove ad attenderlo c’era l’automobile
tradizionalmente targata SCV 1, guidata da Pietro Cicchetti, che per tanti
anni sarà poi il suo fedele autista. Benedetto XVI seguì l’indicazione di
accomodarsi sul lato destro del sedile posteriore, quindi mi cercò con lo
sguardo e mi fece cenno di raggiungerlo dall’altro lato.
Quando il Papa entrò nel refettorio, i cardinali in coro intonarono Tu es
Petrus e Oremus pro Pontifice, guidati dalla possente voce dell’arcivescovo
palermitano Salvatore De Giorgi. Vicino al neoeletto, nel tavolo principale,
oltre a Sodano e a Medina Estévez, sedeva il camerlengo Eduardo Martínez
Somalo. Ma i festeggiamenti si limitarono a un brindisi, poiché Benedetto si
ritirò subito nella sua stanza per mettere a punto l’omelia che avrebbe
pronunciato in latino la mattina seguente, nella concelebrazione eucaristica
nella Cappella Sistina.
Una bozza ovviamente era stata preparata in anticipo dal competente
ufficio della Segreteria di Stato, e rimaneggiata in quel tardo pomeriggio
tenendo conto della sensibilità del nuovo Pontefice. Ma Papa Ratzinger non
si sottrasse al desiderio di arricchirla con i sentimenti di quelle intense ore,
affermando innanzitutto che convivevano nel proprio animo due sentimenti
contrastanti: «Da una parte, un senso di inadeguatezza e di umano
turbamento per la responsabilità che ieri mi è stata affidata, quale
successore dell’apostolo Pietro in questa sede di Roma, nei confronti della
Chiesa universale. Dall’altra parte, sento viva in me una profonda
gratitudine a Dio, che non abbandona il suo gregge, ma lo conduce
attraverso i tempi, sotto la guida di coloro che Egli stesso ha eletto vicari
del suo Figlio e ha costituito pastori».
Nella commossa memoria del predecessore Giovanni Paolo II affermò
«di sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi
occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento
particolarmente a me: “Non avere paura!”» e chiese al Signore «di supplire
alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso e fedele pastore del suo
gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo Spirito. Mi accingo a
intraprendere questo peculiare ministero, il ministero petrino al servizio
della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della Provvidenza
di Dio».
Espresse poi la consapevolezza che «la Chiesa di oggi deve ravvivare in
se stessa la consapevolezza del compito di riproporre al mondo la voce di
Colui che ha detto: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non
camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8,12).
Nell’intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di
far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo:
non la propria luce, ma quella di Cristo» e che al Papa «è stato affidato il
compito di confermare i fratelli (cfr. Luca 22,32)».
Ancor più significative furono le parole pronunciate durante la Messa
per l’inizio del ministero petrino, il 24 aprile. Benedetto si mise a nudo
dinanzi all’intera umanità, non per un gesto di falsa modestia o di finta
umiltà, ma per indicare realmente quale fosse l’orizzonte nel quale sentiva
di doversi immettere: «In questo momento, io debole servitore di Dio devo
assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità
umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari
amici, avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresentata da
alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche
in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. […] Il mio vero
programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non
perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa,
della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché
sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».
Cuore dell’omelia fu la spiegazione dei due segni con cui viene
rappresentata liturgicamente l’assunzione del ministero petrino. Il pallio, il
paramento liturgico a forma circolare e con due lembi pendenti davanti e
dietro, è «un’immagine del giogo di Cristo, che il vescovo di questa città, il
servo dei servi di Dio, prende sulle sue spalle. La lana d’agnello intende
rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole,
che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita».
L’anello d’oro, detto “del pescatore”, perché «la chiamata di Pietro a essere
pastore fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte,
nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla
riva il Signore Risorto. Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori
degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti,
per conquistare gli uomini al Vangelo, a Dio, a Cristo, alla vera vita».
L’incisione raffigurava appunto san Pietro mentre getta le reti.
Anche in quel caso, però, la frase che venne ripresa dai mass media fu
una sola: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi».
Certamente erano parole inquietanti, ma posso affermare con tranquillità
che in quel momento non si riferivano a specifici timori relativi al futuro del
suo pontificato, oppure a difficili problematiche di cui ovviamente aveva
consapevolezza, come gli abusi sessuali dei chierici o le difficoltà nelle
finanze vaticane. Era piuttosto la risonanza di un’immagine forte e quasi
paradossale del suo amato san Giovanni Crisostomo, il dottore della Chiesa
del IV secolo che nelle sue omelie si scagliò contro i vizi e il malaffare del
suo tempo. Nell’udienza generale del 26 ottobre 2011, citerà il suo
commento al brano evangelico in cui Gesù inviò i discepoli «come agnelli
in mezzo ai lupi» (Luca 10,3): «Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche
se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se
diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del
pastore».

La lettera di Schönborn
Ovviamente, come in tutti i più recenti Conclavi, le illazioni e le ipotesi
sull’andamento delle votazioni e sul risultato finale sono state numerose e
anche contraddittorie. Ciò che è indubitabile è la rapidità dell’elezione: per
Benedetto XVI sono stati necessari soltanto quattro scrutini (come per
Giovanni Paolo I nel 1978), un primato superato nell’ultimo secolo
unicamente da Pio XII (cui nel 1939 ne bastarono tre), mentre per gli altri si
va dai cinque di Paolo VI nel 1963 e di Francesco nel 2013 fino ai sette di
Pio X nel 1903, agli otto di Giovanni Paolo II nel 1978, ai dieci di
Benedetto XV nel 1914, agli undici di Giovanni XXIII nel 1958 e ai
quattordici di Pio XI nel 1922.
Sul fatto che il nome di Ratzinger fosse emerso sin dall’inizio come il
più votato, concordarono da subito tutte le indiscrezioni. Il cardinale Julián
Herranz, nel libro di memorie Nei dintorni di Gerico, ha dettagliato:
«Perché confluirono così rapidamente sul nome di Ratzinger più di due terzi
dei voti necessari? Si è parlato e scritto giustamente di una quadruplice
legittimità: il prestigio intellettuale del grande teologo; la legittimità
istituzionale del prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e
decano del Sacro Collegio; la legittimità romana in quanto membro della
Curia da tanti anni; e la legittimità wojtyliana dell’uomo di fiducia di
Giovanni Paolo II. Oserei aggiungere un’ulteriore ragione: la legittimità
spirituale di un sacerdote di profonda vita interiore (è un contemplativo) e,
nel contempo, di vibrante spirito apostolico, il quale, come Giovanni Paolo
II, è sempre disposto a portare la dottrina e l’amore di Cristo a tutti gli
areopaghi del mondo».
Parlando con il biografo Peter Seewald, Benedetto precisò di essere
rimasto colpito, durante il pre-Conclave, dal fatto che «molti cardinali
abbiano, per così dire, implorato colui che stava per essere eletto di
prendere su di sé la croce anche se non se ne sentiva all’altezza, di piegarsi
al voto della maggioranza di due terzi e di vedere in ciò un segno. Era un
dovere interiore, dicevano. Hanno posto il tema con tanta serietà da
convincermi che se davvero la maggioranza dei cardinali avesse espresso
questo voto la scelta sarebbe stata del Signore e io avevo il dovere di
accettare».
In particolare, nell’udienza del 25 aprile con i pellegrini tedeschi, Papa
Ratzinger confidò: «Quando, lentamente, l’andamento delle votazioni mi ha
fatto capire che, per così dire, la scure sarebbe caduta su di me, la mia testa
ha incominciato a girare. Ero convinto di aver svolto l’opera di tutta una
vita e di poter sperare di finire i miei giorni in tranquillità. Con profonda
convinzione ho detto al Signore: non farmi questo! Disponi di persone più
giovani e migliori, che possono affrontare questo grande compito con
tutt’altro slancio e tutt’altra forza. Allora sono rimasto molto toccato da una
breve lettera scrittami da un confratello del Collegio cardinalizio. Mi ha
ricordato che in occasione della Messa per Giovanni Paolo II avevo
incentrato l’omelia sulla parola che il Signore disse a Pietro presso il lago di
Genesaret: “Seguimi!”. Il confratello mi ha scritto: “Se il Signore ora
dovesse dire a te ‘seguimi’, allora ricorda ciò che hai predicato. Non
rifiutarti! Sii obbediente come hai descritto il grande Papa, tornato alla casa
del Padre”. Questo mi ha colpito nel profondo. Le vie del Signore non sono
comode, ma noi non siamo creati per la comodità, bensì per le cose grandi,
per il bene. Così alla fine non ho potuto fare altro che dire sì».
A scrivere quelle parole era stato il cardinale Christoph Schönborn, che
conosceva Ratzinger sin dal 1972, quando, da giovane domenicano, era
andato a seguirne i corsi a Ratisbona, restando poi nella cerchia ristretta dei
suoi ex allievi. Di fatto, tolti gli amici di gioventù, è stato una delle poche
persone che si scambiavano il “tu” con Ratzinger: fra loro, i cardinali
Cordes, Kasper, Meisner e Müller. Ma, per esempio, restò sempre il “lei”
con Amato, Bertone, Comastri, Ruini, Scola, Sodano e Vallini, che pure
furono tra i suoi principali riferimenti sia da cardinale sia da Papa.
Su quali parole abbia esattamente pronunciato per rispondere alla
domanda, proposta dal vicedecano Sodano, riguardo all’accettazione, sono
girate diverse varianti, tutte fantasiose, anche perché completamente
estranee alla sua sensibilità. Da quella attribuita al cardinale Michele
Giordano («Propter voluntatem Dei accepto»), alla più complessa
formulazione riferita dal cardinale Cormac Murphy-O’Connor («No, non
posso. Accetto come volontà di Dio»). Su questo posso permettermi di
essere preciso, avendolo esplicitamente chiesto al diretto interessato,
l’unico a disporre della facoltà di violare il vincolo del segreto. La sua
risposta fu semplicemente: «Accepto» (accetto, in latino); e anche
relativamente al nome si limitò a dire: «Benedictus».
In quel momento si annullava un plurisecolare pregiudizio: era infatti
esattamente da quattro secoli che non veniva eletto Papa il responsabile del
Sant’Uffizio. L’ultimo era stato Camillo Borghese (1552-1621), eletto il 16
maggio 1605 con il nome di Paolo V, quando da due anni era al vertice
dell’Inquisizione romana. Ed è singolare che anche l’ultimo decano del
Collegio cardinalizio eletto Papa prima di Ratzinger era stato responsabile
della medesima Congregazione: Gian Pietro Carafa (1476-1559), divenuto
Paolo IV il 23 maggio 1555 all’età di 79 anni.
Una curiosità di molti riguardò quale potesse essere stato il nome votato
da Ratzinger. Personalmente, alla fine mi sono convinto della
verosimiglianza di un aneddoto relativo al fatto che il cardinale Giacomo
Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1985 al 2003, avrebbe ricevuto un voto
sin dal primo scrutinio. A pranzo, dopo la terza votazione, Biffi si sarebbe
sfogato con l’arcivescovo partenopeo Giordano (secondo una testimonianza
del vaticanista Francesco Grana): «Se scopro chi è che si ostina a votarmi lo
prendo a schiaffi»; ricevendone come replica: «Siamo vicini all’elezione del
nuovo Papa ed è abbastanza evidente che sia lui a darle sempre il voto.
Vuole allora prendere a schiaffi il Papa?».
In effetti, Ratzinger aveva conosciuto molto bene il cardinale di
Bologna, che partecipava assiduamente agli incontri in Congregazione,
della quale era membro. Ne aveva letto e apprezzato numerosi libri e
riteneva molto qualificati i suoi interventi nei dibattiti della feria quarta.
Per mostrargli esplicitamente la propria stima, nel 2007 lo invitò a predicare
gli esercizi spirituali alla Curia romana: Biffi è stato così l’unico cardinale
ad averne guidati due, dopo quello del 1989 per Giovanni Paolo II. E a un
anno dalla morte, per il volume commemorativo del 2016 Ubi fides ibi
libertas, Benedetto XVI inviò un commosso messaggio: «Nella mia
memoria il cardinal Biffi è un pastore esemplare della Chiesa di Dio in
tempi tempestosi. Biffi era una personalità tutta d’un pezzo, uomo di un
coraggio straordinario, senza paura di popolarità o impopolarità, orientato
solo dalla luce della verità, che in Gesù Cristo ci appare in persona. La sua
intelligenza straordinaria e la sua formazione culturale e teologica, collegata
con una buona dose di umorismo, erano convincenti, perché era totalmente
al servizio della verità, al servizio del Signore, e così degli uomini del
nostro tempo. Mi auguro che persone di questa grandezza umana non
manchino mai nella Chiesa di Dio».

Il diario e altre polemiche


Nei giorni successivi all’elezione, un amico commentò con una battuta
forse un po’ rude, ma probabilmente espressiva di alcune sensibilità in
Conclave, che i cardinali avevano preferito “l’usato sicuro”, piuttosto che
“il nuovo che avanza”. In questo senso, a me è sembrato che non pochi
ritenessero così denso il Magistero proposto in ventisette anni da Giovanni
Paolo II da rendere necessario un tempo di assimilazione, affidando perciò
al successore il compito di favorirne la piena comprensione e di portarlo a
compimento: e chi, più che il suo strettissimo collaboratore dal punto di
vista teologico, ne avrebbe potuto essere il protagonista?
Nell’arco di qualche mese vennero poi alla luce diverse ricostruzioni
sugli scrutini, ma ciò che fece più clamore fu il diario di un misterioso
cardinale, pubblicato dal vaticanista Lucio Brunelli, che attribuiva a
Ratzinger il risultato finale di 84 suffragi su 115 votanti. Personalmente
ritengo tuttora che fosse una cifra sottostimata, a giudicare dalla gioia che
avevo visto sui volti di quasi tutti i conclavisti e da qualche frase detta a
mezza voce da molti di loro quando avevamo avuto occasione di salutarci
nei giorni successivi, come anche da altre loro dichiarazioni pubbliche e
private di cui sono venuto a conoscenza in seguito. Secondo le mie
sensazioni, fra i più attivi a muoversi nel promuoverne la candidatura erano
stati il colombiano Alfonso López Trujillo, il cileno Jorge Medina Estévez,
gli spagnoli Julián Herranz e Antonio María Rouco Varela, il tedesco
Joachim Meisner, l’austriaco Christoph Schönborn, il nigeriano Francis
Arinze e l’indiano Ivan Dias. Ma poi numerosi altri si erano convintamente
aggiunti.
Le ipotesi circolate fra i giornalisti riguardo all’autore di quel diario
coinvolsero i nomi del brasiliano Cláudio Hummes (l’obiettivo sarebbe
stato quello di rendere noto, a futura memoria, l’ottimo risultato di
Bergoglio e un ulteriore indizio poteva essere l’assenza del proprio risultato
nella prima votazione, dove avrebbe ottenuto cinque voti); dell’italiano
Mario Francesco Pompedda (il vaticanista Sandro Magister scrisse che
«voci non controllate individuano in lui il suggeritore del diario», anche se
risulta difficile che potesse compiere l’errore di attribuire al cardinale
Camillo Ruini il ruolo di “vicario apostolico” anziché di “vicario generale”
per la diocesi di Roma); del portoghese José Saraiva Martins (si sarebbe
tradito per eccesso di protagonismo quando il diario lo cita come uno dei
«possibili candidati del giorno dopo», accostati dal cardinale Martini per un
sondaggio informale); del belga Godfried Danneels (che orgogliosamente
svelò di aver partecipato dal 1999 al “gruppo di San Gallo”, per discutere su
possibili riforme progressiste nella Chiesa, con cardinali come Martini,
Silvestrini, Kasper, Lehmann e Murphy-O’Connor). Ma, ovviamente, gli
indizi sparsi nel testo potevano anche essere una “polpetta avvelenata”,
come la definiscono i cronisti più navigati, messi apposta per indirizzare i
sospetti in una direzione e distoglierli da un’altra.
Devo confessare che, nella serenità del Monastero, qualche volta ho
provato a stuzzicare Papa Benedetto riguardo a quel diario, ma lui si è
sempre limitato a stigmatizzare l’iniziativa dell’eventuale cardinale,
dicendo che – nel caso fosse stato vero – ne avrebbe dovuto rispondere alla
propria coscienza. E non si lasciò scappare alcunché riguardo a quel testo,
nemmeno per confermare o smentire le mie azzardate affermazioni: «Però
qualcuno deve pur aver parlato…», sperando almeno in un suo «Eh, sì», che
non venne mai!
Comunque, anche in seguito, mistificazioni, disinformazioni e vicende
equivoche attorno al tempo del Conclave ce ne sono state molteplici. Nel
tempo libero ho letto tanti libri, usciti successivamente all’elezione di
Benedetto XVI, che promettevano rivelazioni o fornivano valutazioni
discutibili. Io, piuttosto, ne ho tratto la consapevolezza che gli autori
avevano una pregiudiziale visione da affermare a ogni costo, anche in barba
all’evidenza. Per evitare di risultare pedante, mi limito a proporre tre
esempi di diversa natura.
Il primo è una vera e propria assurdità. L’ex frate domenicano Matthew
Fox, nel libro La guerra del Papa, denuncia che «la “smania di potere” sia
un problema che riguarda Ratzinger in modo particolare, come si può
dedurre dalla storia – vera – che segue. Pochi anni fa stavo parlando con un
teologo americano che aveva studiato sotto Ratzinger per ottenere il
dottorato in teologia in una università tedesca. Lui lo conosceva bene, ed
era così preoccupato per quel che questi stava facendo come capo
inquisitore – metteva a tacere ed espelleva teologi a destra e a manca – che
si recò a Roma apposta per affrontarlo. Lo incontrò ed ebbero una seria
conversazione in tedesco. Uscendo dal Vaticano, questo ex studente di
Ratzinger scosse la testa e disse, disgustato: “Il suo unico scopo è la
porpora”». Ora, considerando che il prefetto giunse a Roma nel 1981, e
dunque aveva già la porpora da almeno quattro anni quando questo
fantomatico ex studente lo avrebbe incontrato, si tratta di un presunto
desiderio carrieristico che lascia evidentemente il tempo che trova…
Il vaticanista Marco Politi, nel saggio Crisi di un papato, lancia una
precisa accusa: «I fautori della Chiesa in trincea non vogliono nemmeno
una pubblica discussione sul futuro Papa. Danneels fa appena in tempo a
incontrare i giornalisti in un istituto religioso non lontano dalla via Aurelia
che sugli incontri pubblici cade la mannaia. Probabilmente il cardinale
belga ha dei presentimenti, perché chiude la conferenza stampa scherzando:
“La libertà di parola è un diritto dell’uomo”. Alla riunione plenaria dei
cardinali, il giorno dopo i funerali di Papa Wojtyła, passa invece la linea
auspicata da Ratzinger che vincola i porporati al silenzio stampa». Il 7
aprile fu effettivamente annunciato che nella Congregazione generale i
cardinali avevano deciso un silenzio stampa dal giorno del funerale di
Giovanni Paolo II, l’8 aprile, fino a che non si fossero riuniti in Conclave, il
18 aprile. Peccato però che, come testimoniato dal vaticanista John Allen
nel libro The Rise of Benedict XVI, lo stesso cardinale belga Godfried
Danneels gli precisò che «Ratzinger aveva detto nelle riunioni della
Congregazione generale che era un “diritto umano” dei cardinali parlare
con chiunque volessero. Altri cardinali hanno confermato questo racconto.
Invece di un esplicito divieto, dunque, i cardinali fecero tra loro una sorta di
“accordo fra gentiluomini” in favore della discrezione».
Lo scrittore francese Olivier Le Gendre, nel libro-intervista Confession
d’un cardinal scritto con un anonimo dai tratti riconducibili in apparenza ad
Achille Silvestrini (seppur con numerosi cenni biografici incoerenti), cita
un commento del porporato riguardo ai 35-40 voti dati dai conclavisti al
cardinale Jorge Mario Bergoglio: «È un dato da tenere in considerazione per
il futuro, nel caso in cui il pontificato di Benedetto XVI non durasse a
lungo». Ma, nella biografia di Papa Francesco Tempo di misericordia, il
saggista Austen Ivereigh dettaglia autorevolmente che all’epoca Bergoglio
«era molto irritato per il fatto di essere stato ritratto come uno che doveva
fermare Ratzinger o fungere da candidato civetta contro di lui. Era così
seccato che confessò ai giornalisti di essere “confuso e un poco risentito per
quelle indiscrezioni”, che, disse, avevano fornito un falso quadro della
situazione».
4
La famiglia (pontificia e non)

Le radici nella Baviera


C’è una risposta di Benedetto XVI, nel libro-intervista Luce del mondo, che
mi sembra estremamente significativa per descrivere come l’uomo e il Papa
Joseph Ratzinger abbia costantemente percepito i rapporti umani più stretti,
che con il trascorrere degli anni si erano naturalmente evoluti dal vincolo
affettivo con i famigliari d’origine al legame del cuore con quanti
collaboravano da vicino al suo ministero: «Mi è molto cara la famiglia
pontificia. E ci sono le visite di amici dei vecchi tempi. In generale, dunque,
posso affermare di non vivere in un mondo artificiale circondato da
cortigiani, bensì – attraverso numerosi incontri – di vivere il mondo
normale direttamente e in prima persona, di sperimentare la quotidianità di
questo nostro tempo».
Il fortissimo sentimento presente all’interno del nucleo famigliare di
Ratzinger affondava le radici nella storia iniziale del ventesimo secolo, con
le vicende belliche che avevano consentito soltanto un matrimonio in età
avanzata, il 9 novembre 1920, al quarantatreenne gendarme Joseph e alla
trentaseienne casalinga Maria Paintner. La prima figlia, Maria, venne alla
luce il 7 dicembre 1921 e il secondogenito, Georg, il 15 gennaio 1924. Il
futuro Pontefice, Joseph (così annotato sul registro battesimale, com’è
usanza in Baviera al posto del più tradizionale Josef), nacque il 16 aprile
1927.
Dopo che entrambi i maschi avevano percepito la vocazione al
sacerdozio, l’ingresso in seminario rappresentò un sacrificio economico di
non poco conto, poiché l’esigua pensione del padre non era sufficiente a
saldare le due rette, nonostante le agevolazioni concesse dalla diocesi.
Perciò, sia la mamma sia la sorella cominciarono a lavorare per contribuire
al pagamento: la prima come cuoca in un albergo di Reit im Winkl, la
seconda in un ufficio di Traunstein.
Anche per questo motivo Joseph, come pure il fratello Georg (i due
condivisero la cerimonia dell’ordinazione sacerdotale, il 29 giugno 1951),
fu sempre molto grato ai genitori (papà Joseph morirà nel 1959 e mamma
Maria nel 1963) e alla sorella Maria. Nell’autobiografia La mia vita, il
cardinale confidò che «la luce della bontà della mamma è rimasta e per me
è divenuta sempre più una concreta dimostrazione della fede da cui lei si è
lasciata plasmare. Non saprei indicare una prova della verità della fede più
convincente della sincera e schietta umanità che la fede ha fatto maturare
nei miei genitori». Mentre riguardo alla sorella scrisse che «con la sua
presenza, il suo modo di vivere la fede, la sua umiltà ha preservato il clima
della fede comune, quella in cui siamo cresciuti, che è maturata con noi e si
è imposta col tempo».
Maria non si sposò mai e, dopo aver aderito a vent’anni alle terziarie
francescane con il nome di Chiara, lo accompagnerà costantemente,
curando la vita domestica nelle varie residenze in cui via via si sposterà,
sino a Roma. Sull’immaginetta-ricordo per la sua morte, avvenuta il 2
novembre 1991 dopo un ictus sopraggiunto mentre stava recandosi a
Ziegetsdorf, nel cui cimitero c’è la tomba dei genitori, si legge: «Per 34
anni ha servito il fratello Joseph in tutte le tappe del suo percorso, con
instancabile dedizione, bontà e umiltà».
Il cardinale Schönborn ha raccontato un toccante aneddoto relativo a
quel tempo: «Ratzinger aveva avuto un ictus nel settembre del 1991. Andò
in ospedale, non era grave e recuperò rapidamente. Poco più di un mese
dopo, la sua cara sorella Maria ebbe un ictus terribile e morì lo stesso
giorno. Eravamo molto commossi perché non sapevamo come Ratzinger
avrebbe reagito alla morte della sorella. Il giorno dopo il Conclave, quando
il nostro caro professore e amico è entrato nella sala per la colazione di
Santa Marta vestito di bianco, ci ha salutati e gli ho detto: “Santo Padre, ieri
durante la sua elezione ho molto pensato a sua sorella Maria e mi sono
chiesto se sua sorella avesse chiesto al Signore di prendere la sua vita e di
lasciare quella di suo fratello”. Lui mi rispose: “Penso di sì”. Questo fu il
momento più commovente di tutti i nostri incontri».
Io non ho conosciuto personalmente Maria, che morì ben prima del mio
arrivo a Roma. Però in diverse occasioni, da cardinale e da Papa, Ratzinger
me ne ha rievocato la figura con profondo affetto e ho compreso quanto
fosse intenso il legame affettivo con lei, al punto che restò molto turbato per
il fatto di non aver potuto raggiungere il suo capezzale per un ultimo saluto.
Questo episodio si è di fatto collegato a uno dei momenti più
intensamente emotivi degli ultimi anni della sua vita, quando volle a ogni
costo recarsi dal fratello, ormai in fin di vita a Ratisbona. Monsignor Georg
doveva venire in Vaticano a marzo del 2020, ma a causa del Covid non fu
possibile. Poi si ammalò e cominciò a peggiorare, e a un certo punto
Benedetto si rese conto che la situazione era divenuta critica. Però intanto il
Pontefice emerito aveva fastidi agli occhi e alle orecchie, e l’otorino si
accorse che si trattava di una forma acuta di herpes zoster (il cosiddetto
“fuoco di sant’Antonio”), che gli aveva sfigurato il viso e successivamente
gli provocò intensi dolori al trigemino (secondo il medico era segno di forte
stress). A questo si aggiungevano i problemi di deambulazione, che lo
costringevano sulla sedia a rotelle. Perciò il dottor Patrizio Polisca, suo
medico personale dal 15 giugno 2009, e gli altri specialisti interpellati non
erano favorevoli al viaggio. Ma lui fu irremovibile, cosicché, dopo aver
informato Papa Francesco (che si mise a disposizione per qualsiasi cosa
potesse essere d’aiuto), quel viaggio si fece tra il 18 e il 22 giugno 2020 –
grazie alla collaborazione dell’Aeronautica militare italiana per i voli e del
Governo bavarese per gli spostamenti in Germania – appena pochi giorni
prima della morte di monsignor Georg, il 1° luglio.
Quando, il 21 agosto 2008, era stata conferita a Georg Ratzinger la
cittadinanza onoraria di Castel Gandolfo, Benedetto XVI aveva pronunciato
parole di estrema tenerezza: «Dall’inizio della mia vita mio fratello è stato
sempre per me non solo compagno, ma anche guida affidabile. È stato per
me un punto di orientamento e di riferimento con la chiarezza, la
determinazione delle sue decisioni. Mi ha mostrato sempre la strada da
prendere, anche in situazioni difficili. Mio fratello ha accennato al fatto che
nel frattempo siamo arrivati all’ultima tappa della nostra vita, alla
vecchiaia. I giorni da vivere si riducono progressivamente. Ma anche in
questa tappa mio fratello mi aiuta ad accettare con serenità, con umiltà e
con coraggio il peso di ogni giorno».
Per Benedetto, quella perdita fu umanamente pesante, ma nel contempo
mi disse più volte di aver anche provato la consolazione del Signore, nella
certezza che Georg viveva nel Suo abbraccio. E il Papa emerito continuò a
concretizzarne la presenza anche attraverso il frequente ascolto delle
registrazioni di concerti del coro dei Regensburger Domspatzen, a lungo
diretto dal fratello.

Con l’Introduzione sotto il braccio


Come è accaduto a innumerevoli altre persone, anch’io ebbi il primo
“incontro” con Ratzinger attraverso il suo libro Introduzione al
cristianesimo. L’aveva scritto nel 1968, ma io ne venni a conoscenza
soltanto nel 1974, quando stavo per compiere 18 anni. Fu il mio parroco a
suggerirmi di leggerlo per fare più chiarezza in me stesso, in un tempo nel
quale cominciavo a prendere in considerazione l’idea di entrare in
seminario, ma nel contempo ero ancora immerso nella mia tranquilla vita a
Riedern am Wald, un piccolo paese con poche centinaia di abitanti nel sud-
ovest della Germania.
Papà Albert era fabbro e mamma Gertrud casalinga, mentre io ero il
primogenito di cinque figli (con due fratelli e due sorelle). Non conoscevo
molto del mondo e da adolescente mi piaceva fare un po’ il trasgressivo,
con lunghi capelli riccioluti e l’aria da anticonformista. Ascoltavo il rock,
dai Beatles ai Pink Floyd a Cat Stevens, ma anche la musica popolare,
tant’è che suonavo il clarinetto nella banda del paese. Con Ratzinger
talvolta ne abbiamo parlato e io, sentendolo al pianoforte, gli confermai che
aveva fatto bene a non smettere mai di esercitarsi: a me, dopo aver
abbandonato lo strumento all’ingresso in seminario, era risultato
impossibile riprenderlo in seguito, sia perché ormai mi ero “arrugginito”,
sia in quanto il clarinetto ha bisogno almeno di un piccolo gruppo con cui
suonare. Fra i miei sogni giovanili, c’era quello di diventare un agente di
Borsa e guadagnare tanti soldi. Nel frattempo frequentavo il liceo,
racimolavo qualche spicciolo consegnando la posta con la bicicletta e
facevo molto sport: sci, calcio e in seguito anche tennis.
Per non deludere il parroco, cominciai a leggere il libro di Ratzinger e
l’entusiasmante sfida che l’allora quarantunenne professore universitario a
Tubinga lanciava nella prefazione, spiegando l’intento di quel testo, mi
appassionò: «Comprendere in maniera nuova la fede, quale possibilità di
umanità autentica nel nostro mondo odierno, interpretandola, senza
degradarne il valore a chiacchiera che solo con fatica maschera un totale
vuoto spirituale».
La lettura di quelle pagine non mi risultò facile, ma comunque mi resi
conto che affrontavano questioni importanti e delicate, a partire dalla
situazione dell’uomo di fronte al problema di Dio. Però alcuni apologhi che
Ratzinger aveva inserito qua e là – come lo stolto Hans che scambiava le
sue proprietà sempre peggiorando le perdite oppure il clown che tentava
invano di lanciare l’allarme per un incendio – mi fecero comprendere che
l’autore di quel volume era una persona di spirito, capace anche di
sdrammatizzare la riflessione su fondamentali tematiche di fede.
Dopo aver superato l’esame di maturità, mi interrogai sulla strada da
intraprendere all’università e pensai di studiare teologia e filosofia a
Friburgo in Brisgovia. Contemporaneamente, decisi di entrare nel seminario
diocesano e mi ritrovai l’Introduzione come testo d’obbligo: ogni settimana
veniva assegnato un numero di pagine da leggere e poi si dialogava insieme
fra docenti e studenti. Questa volta la comprensione di quei ricchi contenuti
fu molto migliore e da allora la prospettiva presentata da Ratzinger divenne
per me una bussola dottrinale.
Una terza volta l’ho letto poco prima dell’ordinazione sacerdotale,
quando collaboravo in una parrocchia e con i fedeli abbiamo approfondito
le affermazioni del Credo, utilizzando proprio lo schema dell’Introduzione.
Una ulteriore lettura è avvenuta nel 1999, durante una settimana di esercizi
spirituali, e in quella occasione mi risuonava in mente la voce del cardinale,
come se stesse pronunciando lui quelle parole, dato che ormai lavoravo da
qualche anno in Congregazione e lo frequentavo quotidianamente. Rispetto
a tutte le circostanze precedenti, il diverso contesto e la mia maggiore
maturità hanno fatto sì che quelle riflessioni mi parlassero in modo diretto e
personale, con un vigore più nutriente per la mia vita spirituale.
In sostanza, ogni tappa è corrisposta alla sempre più precisa
contestualizzazione del fondamentale interrogativo proposto da Ratzinger:
«Quale significato e quale portata ha la professione di fede cristiana “io
credo” oggi, nelle condizioni in cui versa la nostra esistenza attuale e nella
posizione da noi assunta al presente nei confronti del reale in genere?». Mi
ha costantemente sollecitato la sua certezza che «ogni essere umano deve in
qualche maniera prendere posizione rispetto all’ambito delle decisioni
fondamentali, e nessuno è in grado di farlo se non nella forma di una fede».
E mi ha rassicurato e incoraggiato la sua spiegazione che «credere
cristianamente significa abbandonarsi con fiducia al senso che sostiene me
e il mondo; significa accoglierlo come il solido fondamento su cui io posso
stare senza timore. La fede cristiana è l’incontro con l’uomo-Gesù, e in tale
incontro percepisce il senso del mondo come persona».
Il 31 maggio 1984, solennità dell’Ascensione del Signore, venni ordinato
sacerdote dall’arcivescovo Oskar Saier, della mia diocesi di Friburgo in
Brisgovia, e pochi mesi più tardi lessi la traduzione tedesca del dialogo fra
Ratzinger e lo scrittore Vittorio Messori, pubblicato in italiano con il titolo
Rapporto sulla fede. Mi colpì la libertà con cui il prefetto parlava di tante
problematiche sia interne che esterne alla Chiesa e addirittura giungeva a
criticare talune derive successive al Concilio Vaticano II, particolarmente
negli ambiti della liturgia e della pastorale.
Ricordo che, quando comprai il libro, lo portai con me nell’escursione
che facevo nella Foresta Nera ogni martedì, il giorno in cui non avevo
impegni di insegnamento a scuola e il parroco mi esentava dal servizio in
parrocchia. Portavo con me un panino con qualcosa da bere e mi sistemavo
in un bel posto nel bosco: quella volta tornai tardissimo in canonica perché
ero rimasto assorto nella lettura fino a quando non aveva cominciato a fare
buio, tanto mi avevano appassionato quelle pagine.
Dopo due anni da viceparroco, venni inviato a Monaco di Baviera per
studiare Diritto canonico nell’università Ludwig Maximilian. Agli inizi
questa materia non era per nulla la mia passione, ma pian piano ne ho
compreso meglio il senso e lo scopo, cosicché, dopo aver conseguito la
licenza e il dottorato, nel 1993 rientrai in diocesi per volontà di monsignor
Saier, come suo collaboratore personale e con l’incarico di vicario nella
cattedrale.
Nell’autunno del 1994 venni informato che il nunzio in Germania aveva
chiesto al mio arcivescovo di inviarmi a Roma per collaborare con la
Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, dato che
serviva proprio un esperto in Diritto canonico. Monsignor Saier non era per
nulla contento di lasciarmi andare e cercò di resistere. Ma l’insistenza
vaticana fu motivata con due precisi ragionamenti: innanzitutto si sottolineò
che l’arcidiocesi di Friburgo, la più grande della Germania come numero di
battezzati dopo Colonia, non aveva mai fornito un sacerdote per gli uffici
della Santa Sede; quindi, rivolgendosi più personalmente a monsignor Saier
(che aveva espresso qualche riserva riguardo alla Curia vaticana), venne
osservato che non si può criticare il centralismo romano se poi non si è
disposti a offrire persone adatte per migliorarne la qualità.
Di fatto, era una valutazione diffusa nel mio Paese, visto che lo stesso
cardinale Ratzinger, nel libro-intervista con Vittorio Messori, aveva
affermato senza reticenza: «Dalla mia Germania, guardavo spesso con
scetticismo, magari con diffidenza e impazienza, all’apparato romano.
Arrivato qui mi sono accorto che questa Curia è ben superiore alla sua
fama. In grande maggioranza è composta da persone che vi lavorano per
autentico spirito di servizio. Non può essere altrimenti, vista la modestia di
stipendi che da noi sarebbero considerati alla soglia della povertà. E visto
anche il fatto che il lavoro dei più è ben poco gratificante, svolgendosi
dietro le quinte, in modo anonimo, a preparare documenti o interventi che
saranno attribuiti ad altri, ai vertici della struttura».
Il 7 gennaio 1995 mi presentai dunque al cardinale prefetto Antonio
María Javierre Ortas, il quale mi destinò alla sezione disciplinare, che
all’epoca si occupava fra l’altro della laicizzazione dei sacerdoti che
avevano chiesto la dispensa dal celibato e dei casi dei matrimoni rati e non
consumati. Per me non era un impegno particolarmente entusiasmante,
poiché in sostanza avevo quotidianamente a che fare con la documentazione
sulle vicende di persone la cui esistenza affrontava un momento molto
delicato, che erano deluse riguardo alla propria vocazione e incerte sul
futuro. Mi tranquillizzava però sapere che l’impegno era circoscritto a un
triennio, il limite temporale che Saier era stato disposto a concedere prima
del rientro in diocesi.

Una proroga illimitata


A quel tempo alloggiavo in Vaticano, nel Collegio teutonico situato fra
l’aula Paolo VI e il lato sinistro della Basilica vaticana. La Messa
quotidiana nella attigua chiesa dell’arciconfraternita di Nostra Signora era
alle 7 e ogni giovedì mattina veniva a celebrarla il cardinale Ratzinger, che
poi si fermava a colazione. Quando gli fui presentato, ebbi occasione di
raccontargli che avevo studiato a Monaco ed ero stato anche collaboratore
pastorale nella parrocchia di San Pietro, la più antica della città, che lui
ovviamente conosceva bene. Col passare delle settimane, le chiacchierate si
fecero più specifiche: si informava del mio lavoro al Culto divino e mi
chiedeva notizie più precise sugli studi che avevo compiuto.
Intorno a metà settembre 1995, salutandomi alla fine di quella
celebrazione, Ratzinger mi disse di andarlo a trovare in Congregazione,
perché voleva parlarmi. Non sapevo cosa pensare, così chiamai il suo
segretario, monsignor Josef Clemens, per fissare un appuntamento e – dato
che c’eravamo già conosciuti – gli chiesi amichevolmente se conoscesse il
motivo della convocazione, ma lui non ne aveva idea. Quando entrai nello
studio del prefetto ero un po’ nervoso, poiché temevo di aver combinato
qualcosa: lui invece mi accolse con molta cordialità e mi spiegò che a breve
un collaboratore di lingua tedesca sarebbe rientrato in diocesi, per cui gli
serviva un sostituto. Il mio curriculum era adatto e dunque mi chiese la
disponibilità a trasferirmi.
Ovviamente io espressi il mio entusiasmo, ma chiarii anche la necessità
che tutto venisse concordato sia con il prefetto del Culto divino, sia con il
mio arcivescovo. Ratzinger parlò personalmente con Javierre Ortas, mentre
io scrissi a Saier, il quale mi rispose che non avrebbe potuto opporsi a una
richiesta del prefetto della Dottrina della fede, confermando però la durata
triennale. Così, a marzo del 1996, mi trasferii presso l’ex Sant’Uffizio e
venni assegnato alla sezione dottrinale, quella che si occupa delle materie
che hanno attinenza con la promozione e la tutela della dottrina della fede e
della morale.
Mi trovai subito a mio agio, dato che erano ottimi sia la collaborazione
tra i vari colleghi, sia il rapporto con i superiori. Il mio compito specifico
era quello di aiutare nella preparazione delle bozze sia delle numerose
lettere che partivano dalla Congregazione come sollecitazioni di chiarimenti
o come risposte a richieste da ogni parte del mondo, sia dei documenti nei
quali la Dottrina della fede veniva coinvolta da altri organismi vaticani.
Nel 1997 mi giunse un’altra inattesa proposta, che mi riempì di gioia.
Monsignor Juan Ignacio Arrieta, l’allora decano della facoltà di Diritto
canonico della Pontificia università della Santa Croce, mi offrì un incarico
da docente. La nostra conoscenza era maturata proprio nel lavoro della
Congregazione, poiché lui veniva spesso coinvolto da una richiesta di
parere su qualcuna delle problematiche giuridiche di cui ci occupavamo.
Cosicché mi risultò ovvio rivolgermi immediatamente al cardinale
Ratzinger per averne il consenso: lui mi domandò soltanto se mi sentissi in
grado di svolgere adeguatamente quel compito, senza sottrarre tempo alla
Dottrina della fede, e alla mia risposta affermativa replicò semplicemente
con un «allora, va bene».
Dopo il preventivato triennio, il mio arcivescovo si sentì un po’ in
soggezione nei riguardi di Ratzinger e mi comunicò che, se lui avesse
chiesto il prolungamento fino al consueto quinquennio, il permesso sarebbe
stato accordato. Alla scadenza del marzo 2001, il prefetto espresse con una
lettera ufficiale il ringraziamento per la disponibilità accordata in
precedenza e sollecitò a Saier un ulteriore rinnovo di cinque anni,
ottenendolo. Così, nel 2003, potei subentrare a monsignor Clemens nel
ruolo di segretario particolare del prefetto. Quindi, prima che quella proroga
giungesse a conclusione nel marzo del 2006, il cardinale divenne Pontefice
e per l’arcivescovo non fu più il caso di sollevare problemi…
Da segretario di Ratzinger smisi di occuparmi del precedente lavoro
d’ufficio, poiché era molto impegnativo seguire la fitta corrispondenza e gli
appuntamenti del prefetto. Sin dagli inizi mi diede totale fiducia
nell’apertura della posta e nella gestione della sua agenda, di cui io avevo
un duplicato-specchio, che costantemente verificavamo per organizzare le
giornate successive. Quando non si trattava di lettere delicate, che inoltravo
direttamente a lui, provavo a imbastire una risposta o affidavo la tematica a
un collaboratore più specializzato, in modo da potergli sottoporre una bozza
sulla quale intervenire. Per ogni richiesta di colloquio preparavo invece un
memo per riferirgli di quale argomento si trattasse e se fosse una questione
istituzionale o personale.
In quel tempo abitavo a Santa Marta e talvolta il cardinale veniva a
pranzo con me nel refettorio. La nostra frequentazione, oltre che alla
Dottrina della fede, si dilatava nel tempo dei viaggi per manifestazioni
ufficiali, conferenze e celebrazioni liturgiche, nelle quali fui anche il suo
cerimoniere. Il rapporto di cordialità è gradualmente cresciuto e per lui sono
stato sino alla fine “don Giorgio” (anzi “don Ciorcio”, con la sua tipica
inflessione tedesca), anche se non ha mai voluto rivolgersi a me con il “tu”:
pure durante il tempo da Papa emerito ha continuato a dare del “lei” sia a
me, sia alle Memores, per una forma di rispetto che lo ha sempre
caratterizzato.
Devo confessare di aver provato una forte emozione quando recuperò e
mi fece leggere il testo dell’omelia che aveva pronunciato da diacono
domenica 23 aprile 1950 nella Messa dei bambini a Frisinga, incentrata
proprio sul santo del quale festeggio l’onomastico (un nome che mi ha
accomunato al fratello maggiore di Benedetto XVI): «Il drago è il terribile
incubo dell’intera umanità, è il mostro davanti al quale tremiamo, è la forza
tremenda del male che chiamiamo demonio. Chi possiede la corazza e la
spada non deve temere, perché le armi di Dio sono più forti del drago. San
Giorgio non è lì affinché noi possiamo ammirarlo, ma per farci capire che
cosa dobbiamo fare. Ci dice che c’è un drago e ci dice che siamo tutti
chiamati a diventare coloro che uccidono il drago».
In generale, Ratzinger entrava in Congregazione puntuale alle 9, dopo
aver celebrato la Messa a casa e recitato il breviario, con una precisa idea
delle questioni da affrontare in quella giornata, avendo studiato nel
pomeriggio precedente la documentazione che avevo provveduto a
fornirgli. Quando arrivava, avevamo l’abitudine di scherzare su come si
sentisse, con un “punteggio” che parafrasava cinque voti accademici:
summa cum laude, magna cum laude, cum laude, sufficit, per arrivare a non
sufficit, quando proprio tutto andava male… L’ultimo caso era abbastanza
raro, ma già il sufficit esprimeva l’implicita richiesta che non gli
sottoponessi problematiche impegnative e sostanzialmente sgradevoli. Il
voto aveva anche a che fare con la qualità del sonno nella nottata
precedente, poiché lui ebbe sempre un riposo molto precario. Una volta
Papa Francesco gli disse che dormiva soltanto sei ore, come un sasso. E
Benedetto rispose con un mesto sorriso: «Questo è un dono che il suo
predecessore purtroppo non ha avuto!».

La quotidianità del servizio


Nella serata in cui il cardinale Ratzinger venne eletto e io mi trovai
automaticamente coinvolto al suo fianco, mi resi conto di colpo che
nessuno ti insegna a fare il segretario del Papa: non c’è un manuale di
comportamento, né un tirocinio da frequentare, perché da un attimo all’altro
vieni catapultato dalla retroguardia alla prima linea. Intimamente provavo la
medesima sensazione che mi avevano descritto i miei fratelli e amici
quando si erano trovati per la prima volta un neonato in braccio e non
sapevano bene come comportarsi, temendo piuttosto di fare danni…
Agli inizi il principale aiuto me lo diede don Mietek, che come secondo
segretario mi affiancò per un paio d’anni: l’ottimo suggerimento di
sceglierlo era giunto a Benedetto dal cardinale Marian Franciszek Jaworski,
che dal 16 luglio 2007 lo accolse a Leopoli come arcivescovo coadiutore e
poi suo successore. Io dovetti imparare rapidamente tantissime cose, dalla
gestione dei rapporti con la Segreteria di Stato al coordinamento
dell’agenda del Papa in sintonia con il prefetto della Casa pontificia e il
maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie. C’erano poi anche
questioni minute, ma ugualmente importanti, come la logistica
dell’Appartamento e il disbrigo delle faccende più pratiche, compreso il
controllo finale che tutto funzionasse nello studio papale per l’Angelus
della domenica!
La giornata era davvero senza fine, cominciando con la sveglia intorno
alle 6, lo stesso orario del Papa, e poi la Messa, la meditazione e il
breviario. Dopo colazione, affrontavo la corrispondenza interna, che
giungeva in grandi borse di pelle nera, ormai sformate dal peso, mentre
Benedetto XVI andava nello studio per leggere la documentazione
riguardante le questioni più attuali e la rassegna stampa internazionale. Per
una mezz’ora lo raggiungevo, così da aggiornarlo su tutto ciò che era
importante e per dargli informazioni sugli appuntamenti che lo attendevano.
Quindi lo accompagnavo alla Seconda loggia per le udienze private, oppure
nei luoghi degli incontri con gruppi più ampi, e nel resto della mattinata
ricevevo persone e rispondevo a telefonate e mail.
Dopo il pranzo alle 13.30, una camminata di una decina di minuti sul
terrazzo, protetti da sguardi indiscreti da archi con l’edera (perché si
potrebbe essere visti dalla cupola panoramica di San Pietro), e una breve
pausa di riposo, per riprendere nuovamente con le ulteriori borse di posta
che intanto erano state depositate nel mio studio, in modo da sottoporre al
Papa i documenti che doveva personalmente leggere e firmare. Prima delle
cosiddette “udienze di tabella” con i principali responsabili vaticani, che si
svolgevano ogni giorno alle 18, lo informavo delle cose più rilevanti che
erano sopraggiunte e prendevo nota di ciò che mi chiedeva di fare al
riguardo. Per le 18.45 ci avviavamo in auto, se le condizioni atmosferiche lo
consentivano, verso la grotta di Lourdes nei Giardini vaticani, dove
facevamo una passeggiata recitando il Rosario. Con il tempo brutto, ci
recavamo nel giardino pensile all’ultimo piano, dove c’è una zona dalla
quale si domina tutta Roma.
Era questo il momento nel quale scambiavamo qualche parola in libertà
e gli raccontavo, per esempio, le domande che inviavano i bambini nelle
letterine adornate dai loro ingenui disegni: «Quando il Papa sta da solo a
casa, si toglie la veste bianca e rimane in tuta o in vestaglia? Ho letto che gli
piacciono i film di don Camillo e Peppone, è vero? Ma davvero le scarpe
rosse che indossa sono di Prada?». Ora, posso perfino consentirmi di
rispondere: no, Benedetto indossava sempre la talare bianca, perché don
Mietek aveva precisato che così faceva già Giovanni Paolo II, e lui aveva
deciso di adeguarsi; sì, tant’è nel gennaio 2011 parteciparono all’udienza
generale in Vaticano il parroco e il sindaco di Brescello, gli “eredi” dei
protagonisti di Guareschi, portando in dono il cofanetto con i cinque dvd
della saga cinematografica; no, l’associazione di idee si doveva
probabilmente al colore rosso, caratteristico di una linea della casa di moda
Prada, che aveva erroneamente spinto la rivista «Esquire» a premiare quelle
scarpe come “accessorio elegante” nel 2007.
Intorno alle 19.30 c’era la cena e dopo in genere guardavamo il
telegiornale. Infine Benedetto si ritirava in privato per qualche lettura e le
ultime preghiere, mentre io rientravo in segreteria o nella mia stanza nel
mezzanino superiore per portare a termine le ultime incombenze. Di
domenica, talvolta vedevamo un film d’epoca (ma gli piacevano anche gli
episodi di don Matteo), oppure ascoltavamo musica classica (in particolare
Mozart, Bach e Beethoven), e qualche volta era egli stesso a suonare il
pianoforte (Schubert e Mozart erano tra gli spartiti più utilizzati).
Mi sono presto reso conto che il ritmo che mi ero imposto era troppo
elevato: partire in pole position a pieno gas è una cosa, compiere tutti i giri
e arrivare al traguardo è ben altro. Ho dovuto faticare un po’ per riuscire a
trovare la giusta cadenza nella miriade di impegni quotidiani. In particolare,
nei primi mesi mi dava problemi la gestione delle innumerevoli richieste di
udienza privata e di altri incontri, tutti accompagnati da motivazioni
onorevoli: «Soltanto un’eccezione… Il Papa mi conosce da tanto tempo…
Sarà sicuramente contento di una rimpatriata…». So di aver scontentato
numerose persone, certamente degne di ogni riguardo, ma il mio compito
era quello di fare lo “spazzaneve del Papa”, per tutelarlo da una valanga di
carte e di pressioni.
Ho riscoperto in una vecchia agenda gli appunti che avevo scritto per
una breve testimonianza diversi anni fa e mi sono ritrovato in quelle parole:
«Più pulito è un vetro, più raggiunge il suo scopo. Se un vetro comincia a
sporcarsi o a rompersi, rimane sempre un vetro, ma non funziona come
dovrebbe. E io confesso francamente che ho visto, vedo e vedrò sempre il
mio ruolo, il mio servizio, come un vetro: devo lasciar entrare il sole, ma
non apparire, se possibile. Il vetro, infatti, meno appare e meglio è. Questo
è, non voglio dire il mio motto, ma la dietrologia della mia comprensione
del ruolo del segretario particolare di Sua Santità. E cercherò di mettere in
pratica questo concetto, ogni giorno, tutti i giorni, con il cuore, con il
cervello, con l’anima, con tutte le forze che ho».

Nell’Appartamento del Papa


Nella mattinata del 20 aprile 2005, il giorno successivo all’elezione, un
momento molto emozionante fu l’ingresso dalla scala Nobile
nell’Appartamento papale alla Terza loggia, dopo che il camerlengo
Martínez Somalo aveva rotto i sigilli che lui stesso aveva precedentemente
apposto sulla porta d’accesso. Benedetto XVI conosceva bene quelle stanze,
dove era entrato tante volte per dialogare con Giovanni Paolo II, e mosse i
primi passi quasi timidamente, come se non volesse rompere il delicato
equilibrio che in quel luogo si era stabilito nei quasi ventisette anni di Papa
Wojtyła. Come mi ha detto in seguito, varcando quella soglia gli erano
tornati in mente innumerevoli ricordi che quasi fisicamente gli facevano
riapparire nello sguardo della memoria il suo predecessore.
Si percepiva un forte sentore di ospedale, anche perché le finestre erano
restate chiuse a lungo e la moquette che ricopriva il pavimento si era
impregnata degli odori dei medicinali che avevano ristagnato durante la
lunga agonia del Pontefice polacco. Ci si rese tutti conto che era impossibile
trasferirsi immediatamente lì, soprattutto dopo la spiegazione dei tecnici,
che dettagliarono come da decenni non si effettuavano lavori di
ristrutturazione, al punto che l’impianto elettrico era ancora suddiviso in
due linee di differente voltaggio, mentre sul soffitto era stata realizzata
un’intercapedine con dei contenitori per raccogliere l’acqua proveniente
dalle infiltrazioni.
Facemmo anche un sopralluogo nella torre di San Giovanni, che già ai
tempi di Giovanni XXIII era stata riadattata per poter ospitare personalità
illustri in visita alla Santa Sede. Però risultava troppo umida e, per di più,
gli spazi circolari si dimostravano decisamente scomodi. Dunque la
decisione fu scontata: Benedetto si sarebbe trasferito per il momento nel
cosiddetto Appartamento patriarcale di Casa Santa Marta (quello
attualmente utilizzato da Francesco, contrassegnato dal numero 201),
mentre io mi sarei sistemato nella stanza di fianco.
A Santa Marta ci fermammo sino al 30 aprile, lo ricordo bene perché in
quella data si celebra la memoria liturgica di san Pio V, il patrono del
Sant’Uffizio. In quella decina di giorni venne effettuata una profonda
pulizia dell’Appartamento, in modo da poterci restare nel successivo paio di
mesi, cominciando pian piano a organizzarci.
L’ingegner Paolo Sagretti, responsabile della Floreria (la struttura che si
occupa fra l’altro dell’arredamento nei locali vaticani), ci spiegò che Paolo
VI aveva voluto una tonalità grigia per la tappezzeria e Giovanni Paolo II
non aveva chiesto particolari modifiche. Benedetto chiese di eliminare la
moquette e di ripristinare gli splendidi marmi risalenti al XVI secolo, che
rendevano il pavimento molto luminoso, dando per il momento soltanto una
rinfrescata alle pareti, sulle quali spiccavano alcuni quadri molto belli.
Espresse poi il desiderio che nel suo studio venissero sistemate la
scrivania, che lo aveva sempre seguìto da quando era professore in
Germania, e una parte delle librerie di piazza della Città Leonina, in modo
da avere a portata di mano i testi che potevano servirgli (dopo la rinuncia al
pontificato, tutto venne trasferito nel monastero “Mater Ecclesiae” in
Vaticano, la sua residenza fino alla morte). Benedetto amava dire che si
sentiva come circondato da amici, quando osservava i libri sugli scaffali.
Però non era gelosamente legato a essi, tant’è che da molto tempo aveva
preso la decisione che, se ne entrava uno in casa, un altro doveva uscirne in
regalo. Addirittura, in Congregazione c’era un apposito tavolo dove lui
poggiava i volumi che potevano liberamente venire prelevati da chiunque lo
desiderasse.
Dall’11 al 28 luglio ci trasferimmo a Les Combes, in Valle d’Aosta, per
una pausa di riposo che, nell’Angelus del 17 luglio, definì schiettamente
«un dono di Dio davvero provvidenziale, dopo i primi mesi dell’esigente
servizio pastorale che la Provvidenza divina mi ha affidato». In effetti era
stato un periodo decisamente intenso, e anche in quel solo mese non gli
mancò l’angoscia a causa di numerosi attentati terroristici in giro per il
mondo: il 2, l’ambasciatore egiziano sequestrato e poi ucciso in Iraq; il 7,
cinquantadue morti a Londra (e il 21 ulteriori esplosioni senza vittime); il
12, cinque morti a Netanya (Israele); il 14, assassinato il vescovo Luigi
Locati in Kenya; il 16, cinque vittime a Kusadasi (Turchia); il 23, ottantotto
morti a Sharm el-Sheikh (Egitto); il 27, due diplomatici algerini assassinati
in Iraq. Poco dopo, il 16 agosto, ci fu anche l’assassinio del fondatore della
Comunità di Taizé, frère Roger Schutz, per mano di una squilibrata, mentre
era in corso la recita dei vespri. In quella stessa mattinata, Benedetto aveva
ricevuto una sua lettera, nella quale esprimeva il desiderio di venire quanto
prima a Roma per incontrarlo e gli assicurava che «la nostra Comunità di
Taizé vuole camminare in comunione con il Santo Padre».
Il rientro dalla montagna avvenne direttamente al Palazzo apostolico di
Castel Gandolfo, dove restammo fino a tutto settembre. Al ritorno in
Vaticano trovammo tutti i lavori completati, realmente in tempo record, al
punto che Papa Benedetto volle ricevere in udienza particolare tutti quelli
che avevano collaborato alla ristrutturazione, per ringraziarli
personalmente. E lo fece con parole particolarmente amorevoli: «Sono
convinto – perché in Germania ho fatto costruire una piccola casa per me –
che altrove questi lavori sarebbero durati almeno un anno o probabilmente
di più. Posso soltanto ammirare le cose che avete fatto, come questi bei
pavimenti. Poi mi piace, in modo particolare, la mia nuova biblioteca, con
quel soffitto antico. È il momento di dire “grazie” per tutto questo, per il
vostro lavoro che mi incoraggia – come voi avete dato tutto – a dare da
parte mia, in questa ora tarda della mia vita, tutto quanto posso dare».
La configurazione dell’Appartamento era funzionale alle attività del
Papa e della famiglia pontificia. Dopo l’ingresso dalla scala Nobile, sul cui
pianerottolo vigilava sempre una Guardia svizzera, c’era un atrio con
l’ascensore. Ogni sera giungeva uno dei massimi responsabili vaticani per
l’udienza di tabella nella Biblioteca privata: lunedì il segretario di Stato,
martedì il sostituto per gli Affari generali, mercoledì il segretario per i
Rapporti con gli Stati, giovedì il prefetto della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei popoli, venerdì il prefetto della Congregazione per
la Dottrina della fede, sabato il prefetto della Congregazione per i vescovi.
Per rispetto del ruolo, il segretario di Stato lo andavo a rilevare io nel suo
appartamento alla Prima loggia e lo accompagnavo con l’ascensore Nobile,
mentre gli altri venivano autonomamente davanti all’Appartamento e
suonavano alla porta, dove li andavo ad accogliere.
Nell’atrio d’ingresso c’era la porta verso la Biblioteca privata; sempre
sull’affaccio in piazza San Pietro c’erano uno studiolo, la stanza del
segretario particolare (di fronte, verso l’interno, c’era la cappella), lo studio
privato del Papa, la camera da letto d’angolo. Sul lato verso via di Porta
Angelica si trovavano il bagno, una biblioteca più riservata (dove in
precedenza c’era lo studio medico attrezzato per Giovanni Paolo II), un
salotto, la sala da pranzo, la cucina e gli alloggi delle Memores.
In questa zona a nord-ovest è situato il cosiddetto ascensore di Sisto V,
che permette l’accesso diretto all’Appartamento dall’omonimo cortile. Ma
l’utilizzo è strettamente riservato ai possessori della chiave elettronica che
consente di aprire la portina e di avviare il meccanismo, sotto il costante
controllo della Gendarmeria: al tempo di Benedetto, come era consuetudine
durante il pontificato di Giovanni Paolo II, l’avevano soltanto i membri
della ristretta famiglia pontificia.
L’ascensore di Sisto V può fermarsi alla Prima loggia nell’appartamento
del segretario di Stato e alla Seconda loggia per consentire al Papa di recarsi
nella Biblioteca dove vengono ricevute le personalità. Dopo
l’Appartamento alla Terza loggia, prosegue verso il quarto piano, dove
c’erano le stanze dei segretari e per eventuali ospiti, e finisce sul terrazzo,
fatto realizzare da Paolo VI insieme con una struttura in muratura che noi
rinominammo “lo chalet”: c’era ancora il televisore a tubo catodico
mediante il quale Papa Montini assistette all’allunaggio della missione
Apollo 11, il 20 luglio 1969. Era stata attrezzata con una piccola cucina e un
televisore a colori ricevuti in regalo da Benedetto XVI e tradizionalmente,
ogni domenica sera, cenavamo tutti lì. C’era anche un locale con una
piccola piscina idromassaggio, voluta da Paolo VI, ma non fu mai
utilizzata.

Con tre aiutanti di camera


Per la gestione ordinaria dell’Appartamento potei immediatamente contare
su Angelo Gugel, che lavorava in Vaticano dal 1955 e nel 1978 era stato
personalmente scelto da Giovanni Paolo I come aiutante di camera poiché
gli aveva fatto da autista a Roma durante il concilio Vaticano II e diverse
volte lo aveva ospitato a cena a casa, dato che si conoscevano a livello
familiare sin da quando era vescovo di Vittorio Veneto.
Dopo la morte di Papa Luciani, Giovanni Paolo II lo aveva confermato
nell’incarico e la sua signorile figura risaltava in innumerevoli fotografie
durante tutti gli appuntamenti pubblici del pontificato. Mi raccontava che
agli inizi Papa Wojtyła gli leggeva i discorsi in italiano per farsi indicare
dove mettere il corretto accento; e poi citava aneddoti divertentissimi, come
quando il presidente Sandro Pertini si rifiutò di dire che stavano gustando a
tavola gli “strozzapreti”, poiché temeva di offendere il Pontefice che era al
suo fianco!
Fu lui, conoscendone il meccanismo, ad aiutarmi per aprire la vecchia
cassaforte a muro situata nella Biblioteca privata, della quale don Stanislao
agli inizi di giugno mi aveva fornito le due chiavi e la combinazione
durante un rapido passaggio di consegne (un’altra più piccola era nello
studio del Papa, nel caso avesse voluto custodire riservatamente qualcosa,
ma Benedetto non l’utilizzò mai). Con l’esperienza dei ventisette anni in
Vaticano come segretario di Giovanni Paolo II, don Stanislao fu molto netto
nel dirmi: «Posso suggerirti soltanto due cose. La più importante è che
dovrai fare da tetto al Santo Padre, dovrai proteggerlo da tutto ciò che può
schiacciarlo. Poi devi trovare il giusto ritmo per collaborare con lui, con il
cervello, con il cuore e anche con il fiuto per tenere sotto controllo la
situazione: tutto il mondo ora è suo amico e molti vorranno da lui
qualcosa».
All’interno della cassaforte c’era un bel disordine, con tanti oggetti che
risalivano anche ai Papi precedenti: anelli episcopali, croci pettorali,
medaglie coniate dalla Zecca vaticana per gli ultimi pontificati. È servito un
bel po’ di tempo per riuscire a fare un inventario completo, ma alla fine ci
siamo riusciti, utilizzando anche le annotazioni che si trovavano insieme a
molti degli oggetti, in modo da ricondurli il più possibile all’originario
offerente.
Don Stanislao mi consegnò inoltre una busta con le coordinate e la
consistenza del conto presso lo IOR intestato alla segreteria particolare di
Sua Santità, la cui firma era riservata al Papa, con delega soltanto al
segretario. Da questo conto, alimentato da donazioni esplicitamente
destinate alla carità del Santo Padre, venivano prelevate le somme per la
beneficenza in favore di casi particolarmente significativi, riguardo ai quali
Benedetto XVI riteneva opportuno intervenire sollecitamente e di persona.
Infine don Stanislao mi accompagnò nella piccola cappella al mezzanino
del quarto piano, che era stata allestita da monsignor Pasquale Macchi ai
tempi di Paolo VI, dove c’era una quantità enorme di reliquiari, in ordine un
po’ sparso, accumulatisi soprattutto a motivo delle moltissime beatificazioni
e canonizzazioni durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Si trovavano lì
anche numerosi calici e paramenti liturgici, che Benedetto stabilì di
conferire in gran parte al segretario di Papa Wojtyła, affinché potesse
utilizzarli come doni in memoria del santo Pontefice.
Proprio nei giorni dell’elezione, Gugel aveva compiuto settant’anni, l’età
massima per la pensione in Vaticano, ma lui accettò di restare per qualche
altro mese, in modo da consentire una ordinata transizione con il suo
successore. Nel frattempo era stato avviato qualche sondaggio per
individuare un sostituto, e il più autorevole suggerimento giunse
dall’arcivescovo James Michael Harvey, che propose Paolo Gabriele, un
dipendente vaticano assunto inizialmente come uomo delle pulizie in
Segreteria di Stato.
L’uomo aveva talvolta prestato servizio come cameriere nella residenza
in Vaticano di Harvey, all’epoca capufficio della sezione anglofona e poi
assessore, che ne aveva apprezzato i modi. Così, quando nel 1998
l’arcivescovo fu promosso alla guida della Casa pontificia, chiamò Gabriele
come collaboratore, al posto di un dipendente che era andato in pensione.
Gugel se lo affiancò per un periodo di prova e, dopo qualche settimana,
diede una valutazione non proprio favorevole. Però non c’erano altre
persone immediatamente ipotizzabili e forse in quel momento l’errore fu di
non aver cercato alternative migliori.
In seguito alle vicende del Vatileaks, quando nel 2012 Gabriele fu
condannato con le attenuanti generiche a diciotto mesi di reclusione per il
furto e la diffusione di documenti riservati della Santa Sede, gli subentrò
Sandro Mariotti (detto “Sandrone” per la sua imponente stazza), che già lo
aveva sostituito nell’anticamera pontificia, dopo essere stato a lungo in
Floreria. Devo dire che, quando gli proposi l’incarico, lui mi rispose con
molta onestà: «Non ho fatto studi particolari, sono un semplice lavoratore.
È troppo bello per me, ma non ne sono degno». Gli diedi perciò due
settimane per pensarci e per consultarsi riservatamente: alla fine, dopo aver
parlato personalmente anche con il Santo Padre, accettò e poi ha proseguito
in quel ruolo anche con Papa Francesco.
Fu dietro consiglio dell’arcivescovo Harvey pure la scelta di monsignor
Alfred Xuereb come secondo segretario al posto di don Mietek. Dal 2003
era impegnato nella Prefettura della Casa pontificia come prelato di
anticamera e si occupava di accompagnare nella Biblioteca privata della
Seconda loggia le personalità in udienza dal Santo Padre. Perciò Benedetto
lo aveva già potuto conoscere, anche perché parlava bene il tedesco, e ne
aveva apprezzato i tratti distintivi, la cortesia e la discrezione. Un suo
compito specifico fu quello di raccogliere per la preghiera personale del
Papa le intenzioni che giungevano da ogni parte del mondo e di porre i
foglietti con i nomi delle persone e i motivi della richiesta in una cassetta
accanto al suo inginocchiatoio.
Mi ha commosso quando, in un’intervista successiva alla rinuncia, ho
letto questa sua testimonianza: «Quello che mi colpiva era che il Papa, dopo
alcuni giorni, mi chiedeva: “Ha avuto poi notizie di quel signore/signora – e
specificava il cognome – di cui mi aveva parlato?”. In alcuni casi ho dovuto
rispondere che purtroppo la persona era defunta, e mi colpiva la reazione
del Santo Padre, perché di solito, quando sappiamo che qualcuno sta male e
arriva il messaggio che è morto, ci fermiamo lì. Ma non il Papa. Recitava
subito L’eterno riposo e poi invitava anche me a pregare. Quindi non solo
memoria, ma anche presenza. Il Papa, che aveva in mente mille cose e
pensieri, considerava la sua preghiera per i malati un ministero pastorale
importantissimo».

Gli altri membri della famiglia


Nel mezzanino al quarto piano, dove era ospite anche monsignor Georg
quando veniva a trovare il fratello, don Mietek continuò ad abitare nella
camera che già aveva in precedenza (e dove successivamente lo sostituì don
Alfred), mentre io mi sistemai in quella che utilizzava don Stanislao. Nei
primi mesi, aveva occupato una stanza anche la signora Ingrid Stampa, che
per una quindicina d’anni aveva fatto da governante al cardinale Ratzinger.
Qualche settimana dopo la scomparsa della sorella Maria, nel novembre
del 1991, il cardinale si era infatti trovato a parlare con il dottor Renato
Buzzonetti, che era anche il suo medico curante (oltre che di Giovanni
Paolo II), il quale gli disse che, se ne avesse avuta utilità, avrebbe potuto
presentargli la donna, all’epoca quarantunenne, che – dopo essere stata
insegnante di viola da gamba in Germania – si era trasferita a Roma e aveva
accudito fino alla morte, il precedente 24 agosto, l’arcivescovo Cesare
Zacchi, già presidente della Pontificia accademia ecclesiastica.
Il cardinale la ritenne una buona soluzione per la gestione del suo
appartamento e la risposta fu favorevole. Così la signora Stampa divenne
una presenza costante nella sua quotidianità, pur svolgendo nel contempo
lavori domestici anche nell’abitazione a Palazzo San Carlo dell’allora
monsignore Paolo Sardi (divenuto in seguito arcivescovo e cardinale), che
aveva conosciuto partecipando alle sue Messe mattutine in San Pietro.
Io non ebbi significative occasioni di frequentazione con lei fino al
momento in cui divenni segretario del prefetto, nel 2003. E dovetti con
sorpresa rendermi conto che aveva un carattere forte. Il problema era che si
sentiva in diritto di far prevalere la propria idea, e il cardinale cercava
spesso di essere accomodante pro bono pacis. Il suo più autorevole
biografo, Peter Seewald, ha esplicitamente parlato di «una caratteristica che
si sarebbe rivelata il suo tallone d’Achille. In generale Ratzinger non
concedeva facilmente la sua fiducia, ma è vero anche che non respingeva le
persone che la Provvidenza metteva sulla sua strada. Il problema
conseguente fu che si trovò quasi indifeso di fronte a quelle persone attorno
a lui che avevano la tendenza a prevaricare, a uscire dal loro ambito di
competenza, esercitando una sorta di violenza psicologica. Aveva inoltre un
forte senso di lealtà, che gli impediva di reagire a tono ai comportamenti
inadeguati».
Quando, nei primi giorni del pontificato, abbiamo cominciato a studiare
con i tecnici i lavori da eseguire nell’Appartamento, lei a un certo punto
affermò con piglio decisionista: «Bisogna invertire la camera da letto e lo
studio privato, perché Benedetto ha bisogno di più spazio e di più luce per il
suo luogo di lavoro». Monsignor Paolo De Nicolò, reggente della Casa
pontificia, e l’ingegner Sagretti incrociarono i loro sguardi stupefatti e le
spiegarono che nello studio, posto di fianco alla segreteria in modo da
permettere un immediato contatto, c’era la tradizionale finestra
dell’Angelus domenicale e che accanto alla camera da letto c’era il bagno.
Data l’insistenza della signora, alla fine De Nicolò rispose: «Bene, ci
riflettiamo e poi faremo la proposta al Papa», e ovviamente l’irragionevole
idea non andò avanti.
Il suo spirito di rivalsa nei riguardi dell’entourage papale, che secondo
lei stava soppiantandola, fu probabilmente all’origine del legame che via
via si intensificò con Josef Clemens, che avrebbe fortemente desiderato
venire nuovamente nominato da Benedetto come segretario particolare.
Personalmente avevo già percepito una certa gelosia nei miei confronti
da parte di Clemens, sin da quando lo avevo sostituito nella segreteria del
prefetto. Nonostante la promozione lo avesse condotto in un’altra
Congregazione, cercava di mantenere voce in capitolo riguardo agli
impegni di Ratzinger e con me era divenuto più brusco, mentre in
precedenza eravamo in rapporti amichevoli. La certezza di questo
cambiamento di comportamento la ebbi quando fui praticamente l’unico
della Dottrina della fede a non ricevere l’invito alla cerimonia della sua
consacrazione episcopale!
Subito dopo l’elezione di Benedetto mi giunsero notizie di sue
sgradevoli valutazioni su di me, ma non vi diedi particolare peso:
comunque, cominciai ad aguzzare le orecchie per salvaguardare il Papa da
qualsiasi mira di potere, in particolare se si trattava di “fuoco amico”
intorno a lui. Posso comunque smentire con forza la voce che qualcuno fece
girare su contrasti pubblici fra Clemens e me: addirittura si è parlato di
scontri fisici o di un rifiuto di dargli il numero del mio cellulare. Non ne
aveva bisogno, poiché il Papa stesso gli aveva dato il numero privato del
suo telefono fisso nell’Appartamento, da cui rispondeva personalmente: lui
non ha mai avuto un cellulare personale e, in caso di necessità, utilizzava il
mio o quello del secondo segretario. Oltre ai massimi vertici vaticani, lo
conoscevano soltanto pochi altri amici italiani o tedeschi e il fratello Georg,
che il Papa chiamava spesso per dargli almeno un saluto, su una linea
esclusiva per loro due.
Durante il pontificato, Benedetto volle benevolmente assecondare gli
inviti di Clemens per una cena a casa sua tre o quattro volte l’anno, in
circostanze come onomastici e compleanni o particolari festività, come
accadeva ai tempi in cui era prefetto. Però Clemens commise il grave errore
di vantarsi pubblicamente di quelle cene, alle quali partecipavano spesso la
Stampa e Sardi (oltre a qualche altro ospite), aggiungendo addirittura che il
Papa apprezzava tali occasioni «perché qui posso aprire il cuore, posso
respirare, mentre a casa è tutto un po’ opprimente». Quando Benedetto lo
venne a sapere, gli scrisse una lettera, nei suoi modi eleganti ma decisi,
invitandolo a evitare qualsiasi pubblicità riguardo al passato e comunicando
la decisione di abolire incontri futuri.
Nel 2003 Ingrid Stampa dovette assentarsi da Roma per qualche mese a
causa della malattia della mamma e a occuparsi della casa del cardinale ci
pensò Carmela Galiandro, consacrata tra le Memores Domini di Comunione
e liberazione. Ratzinger si era trovato bene, cosicché nei primi giorni del
pontificato, tramite il sostituto Sandri, fu chiesto all’allora presidente di CL
don Julián Carrón se ci fosse la possibilità di avere quattro Memores per
l’Appartamento papale. A Carmela si aggiunsero così Loredana Patrono,
Cristina Cernetti e Manuela Camagni, che purtroppo morì il 24 novembre
2010 a causa di un incidente stradale a Roma: si era recata con le amiche a
un incontro di Memores in una residenza in via Nomentana e, attraversando
la strada, fu investita da un’automobile. Le condizioni apparvero subito
gravissime e, nonostante un intervento chirurgico d’urgenza, morì poco
dopo: non potei fare altro che andare a benedirla nell’obitorio del
Policlinico.
Benedetto fu enormemente addolorato da questa disgrazia e il 29
novembre mi inviò a San Piero in Bagno di Romagna per il funerale,
durante il quale lessi il suo partecipato messaggio, nel quale fra l’altro
confidava: «Ho potuto beneficiare della sua presenza e del suo servizio
nell’Appartamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimensione
familiare. Per questo desidero ringraziare il Signore per il dono della vita di
Manuela, per la sua fede, per la sua generosa risposta alla vocazione. Il
distacco da lei, così improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci
hanno dato un grande dolore, che solo la fede può consolare».
Il 2 dicembre il Papa volle poi celebrare una Messa di suffragio nella
Cappella paolina, ricordando in particolare che nei giorni precedenti
Manuela gli aveva detto che il 29 novembre, esattamente il giorno che fu
quello delle sue esequie, avrebbe compiuto trent’anni nella comunità delle
Memores Domini, «e lo disse con grande gioia, preparandosi a una festa
interiore per questo cammino trentennale verso il Signore, nella comunione
degli amici del Signore. […] Manuela non era di quelli che avevano
dimenticato la memoria: è vissuta proprio nella viva memoria del Creatore,
nella gioia della sua creazione, vedendo la trasparenza di Dio in tutto il
creato, anche negli avvenimenti quotidiani della nostra vita, e ha saputo che
da questa memoria – presente e futuro – viene la gioia».
Per sostituirla giunse la lombarda Rossella Teragnoli, che con le altre ha
poi mantenuto la preziosa presenza delle Memores anche nel Monastero: lei
si occupava delle stanze dei segretari e del loro guardaroba, la marchigiana
Cristina di sacrestia e cappella, mentre la pugliese Loredana era più
impegnata in cucina e la conterranea Carmela collaborava con lei per la
preparazione di dolci e curava il guardaroba del Papa. Durante la giornata
veniva inoltre, sia nell’Appartamento che in Monastero, suor Birgit
Wansing, del movimento di Schönstatt, sua segretaria dal lontano 1984.
Infine, per accudire amorevolmente monsignor Georg Ratzinger nelle sue
visite in Vaticano, si univa periodicamente al gruppo suor Christina Felder,
della famiglia spirituale L’Opera.
5
Le pietre d’inciampo del complesso governo

Decisioni a 360 gradi


Sin dai primissimi giorni del pontificato, mi resi conto di quanto sia enorme
la responsabilità che grava sul Papa riguardo alle nomine, sulle quali spetta
in sostanza a lui la scelta finale: più di tremila circoscrizioni ecclesiastiche
in ogni parte del mondo, con quasi duecento rappresentanze diplomatiche,
per un totale di circa quattromila vescovi in attività, fra diocesani, ausiliari e
nunzi; e poi tutte le cariche nei molteplici organismi della Curia vaticana,
che indirizzano le attività della Santa Sede nell’ambito spirituale e
pastorale, ma anche in quello amministrativo e caritativo, tenendo conto di
un orizzonte complessivo di un miliardo e trecentomila cattolici con
tradizioni culturali, situazioni economiche e prospettive sociali del tutto
variegate.
Le decisioni sottoposte al vaglio del Pontefice erano ad ampio spettro,
secondo quanto determinato da Giovanni Paolo II all’articolo 18 della
costituzione apostolica sulla Curia romana Pastor bonus del 1988
(sostanzialmente confermate anche nella Praedicate Evangelium del 2022):
«Devono essere sottoposte all’approvazione del Sommo Pontefice le
decisioni di maggiore importanza. […] I dicasteri non possono emanare
leggi o decreti generali aventi forza di legge, né derogare alle prescrizioni
del diritto universale vigente, se non in singoli casi e con specifica
approvazione del sommo Pontefice. Sia norma inderogabile di non far nulla
di importante e straordinario, che non sia stato prima comunicato dai capi
dei dicasteri al Sommo Pontefice».
Benedetto certamente non affrontò questo compito a cuor leggero, e lo
fece seguendo l’insegnamento del suo amato san Bonaventura, per il quale
«governare non era semplicemente fare, ma era soprattutto pensare e
pregare: tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero
illuminato dalla preghiera». Sapeva bene infatti che, umanamente parlando,
è molto difficile giudicare le persone e decidere a loro riguardo, poiché,
diceva, «nessuno può leggere nel cuore dell’altro».
Mi sembra interessante, a tale proposito, recuperare un brano
dell’intervento che il 27 febbraio 2000 l’allora cardinale propose nel
convegno internazionale sull’attuazione del Concilio Vaticano II: «Noi ci
soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti
di precedenza. Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche
discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E
certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni.
Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come
tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono
distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve
parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga
in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la
correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la
direzione. In conclusione, non a caso ritorna nella tradizione evangelica in
diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l’ultimo diverrà il primo e il
primo l’ultimo, come uno specchio, che riguarda sempre tutti».
Anche se è vero che Papa Ratzinger non aveva uno spiccato interesse per
le questioni di governo, non si deve comunque dimenticare un fatto
importante: il cardinale Ratzinger fu, praticamente sin dall’inizio della sua
presenza a Roma, membro della Congregazione per i Vescovi e, quasi ogni
giovedì, partecipò alla riunione della feria quinta nella sala Bologna.
Ricevette tutti i dossier sui candidati all’episcopato, fu in diverse occasioni
anche il “ponente” (cioè il cardinale che illustra le caratteristiche degli
ecclesiastici individuati per una specifica diocesi), maturò una ricchezza di
esperienze riguardo alle persone nominate, e anche a quelle non nominate.
Da Pontefice, prima di incontrare ogni sabato sera il responsabile dei
vescovi, si preparava accuratamente leggendo la documentazione, che gli
veniva inoltrata con alcuni giorni di anticipo. Ascoltava con attenzione il
cardinale prefetto (Giovanni Battista Re fino al 2010 e successivamente
Marc Ouellet), che gli sottoponeva le varie proposte e gli comunicava chi
aveva fatto la ponenza e quali erano stati i voti finali.
Normalmente, Benedetto confermava la designazione scaturita in
Congregazione, ma prestava particolare cura quando due candidati erano
stati entrambi considerati “degni”, per individuare chi di loro fosse più
idoneo a quel particolare ufficio. Ovviamente, più la diocesi era rilevante,
per ampiezza di popolazione o per importanza storica, maggiore era
l’approfondimento che veniva svolto. Per i nunzi (i rappresentanti della
Santa Sede negli oltre 180 Stati e Organizzazioni con cui esistono relazioni
diplomatiche), invece, la presentazione gli veniva fatta dalla Segreteria di
Stato.
Ovviamente la prima nomina impegnativa riguardò la scelta del
successore alla guida della Dottrina della fede, e fin da subito cominciarono
a circolare sui giornali le ipotesi più disparate e talvolta fantasiose. In
particolare emergevano i nomi dei vescovi italiani considerati in sintonia,
sia umana sia teologica, con il cardinale Ratzinger, come per esempio
Tarcisio Bertone, Bruno Forte e Angelo Scola. Ma per ciascuno di loro
c’era un impedimento: il numero due era già un salesiano, Angelo Amato,
per cui non si sarebbe potuto affiancargli il confratello Bertone; Scola era
patriarca di Venezia da soli tre anni, mentre Forte era stato nominato
arcivescovo di Chieti-Vasto appena dieci mesi prima, e ambedue erano
teologi di fama, cosa che si preferiva evitare proprio per non favorire
indebiti paragoni con i tempi di Ratzinger.
Comunque, essendo italiano il segretario della Congregazione,
Benedetto aveva già deciso che come prefetto avrebbe chiamato un
extraeuropeo. E il suo sguardo puntò sugli Stati Uniti, per dare un segnale
forte e chiaro sulla volontà di procedere speditamente nelle indagini relative
alla pedofilia del clero, una questione particolarmente pressante in ambito
americano. Così, il 13 maggio 2005, fu resa nota dalla Sala stampa la
nomina dell’arcivescovo di San Francisco, William Joseph Levada. Molti
furono sorpresi, ma in realtà Ratzinger ne conosceva bene il curriculum: dal
1976 al 1982 aveva lavorato come officiale nella Dottrina della fede, fra il
1986 e il 1993 era stato l’unico vescovo statunitense nel Comitato editoriale
del Catechismo della Chiesa cattolica, dal 2000 era divenuto membro della
Congregazione e dal 2003 presiedeva la Commissione dottrinale della
Conferenza episcopale statunitense.

Rispettoso delle persone


Qualche spostamento, dovuto al desiderio di rimodellare alcuni dicasteri
secondo la propria visione teologica e liturgica più che per mettere in atto
una vera riforma della Curia (anche perché Benedetto riteneva che il suo
pontificato sarebbe stato breve), venne attuato evitando di penalizzare le
persone coinvolte. Ovviamente le singole sensibilità possono interpretarla
diversamente, ma per il Pontefice non fu affatto una diminutio il passaggio
dell’arcivescovo Domenico Sorrentino, segretario della Congregazione per
il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti alla guida della prestigiosa
diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, oppure il subentro del
cardinale Crescenzio Sepe alla guida dell’arcidiocesi di Napoli, dopo che
alcune problematiche emerse nella Congregazione per l’Evangelizzazione
dei popoli, di cui era prefetto, avevano suggerito l’opportunità di un
cambiamento al vertice, con l’inserimento del cardinale indiano Ivan Dias.
Anche la nomina del presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo
interreligioso Michael Louis Fitzgerald alla strategica carica di nunzio
apostolico nella Repubblica Araba d’Egitto e delegato presso
l’Organizzazione della lega degli Stati arabi (con l’annesso obiettivo di
favorire il dialogo con l’università islamica di Al-Azhar, definita “il
Vaticano dell’Islam”) fu sostanzialmente collegata al desiderio del Papa di
avviare uno snellimento dei dicasteri curiali, che vide il primo tentativo nel
marzo del 2006 con l’accorpamento del Dialogo interreligioso al Pontificio
Consiglio della Cultura, al fine, come fu precisato, «di favorire un dialogo
più intenso fra gli uomini di cultura e gli esponenti delle varie religioni».
Ma gli eventi del settembre successivo a Ratisbona, quando alcune
affermazioni di Benedetto vennero equivocate e causarono violente reazioni
nel mondo islamico, spinsero a rivedere il progetto, facendo ripristinare nel
giugno del 2007 la preesistente situazione.
Proseguendo un’usanza degli anni in cui era prefetto alla Dottrina della
fede, nella primavera del 2009 Benedetto ebbe un incontro con i cardinali
Ruini, Scola, Schönborn e Bagnasco per uno scambio di vedute informale
su alcune questioni dell’attualità ecclesiale. Contrariamente alle
indiscrezioni emerse sulla stampa, non ci fu alcun cenno riguardo al
cardinale Bertone e alla sua permanenza nell’incarico di segretario di Stato:
il Papa aveva esplicitamente chiarito che di questa tematica non si sarebbe
parlato. Dal dialogo emerse invece la problematica della fede nei Paesi
europei, divenuta sempre più flebile. A un certo punto fu Scola a lanciare
l’idea di un dicastero che si affiancasse all’Evangelizzazione dei popoli per
prendersi cura di quanti, pur essendo già stati evangelizzati, non
praticavano più.
Fu così che si avviò l’istituzione del Pontificio Consiglio per la
Promozione della nuova evangelizzazione, per la cui guida Benedetto
rifletté a lungo, scegliendo alla fine l’arcivescovo Rino Fisichella, che
conosceva e stimava a motivo di una lunga collaborazione in
Congregazione. Nel 2008 il Papa lo aveva preso in considerazione anche
come suo vicario per la diocesi di Roma, dopo il cardinale Camillo Ruini.
Bertone aveva però espresso qualche dubbio in relazione alla sua vicinanza
alla sensibilità del predecessore. Così si preferì il cardinale Agostino
Vallini, che aveva avuto maggiori esperienze pastorali come vescovo.
In ogni caso, Benedetto non ebbe mai intenzione di “blindare” le nomine
soltanto in favore di personalità ecclesiastiche totalmente in linea con la
propria visione teologica. Anzi esplicitò la convinzione che «temperamenti
e posizioni diverse dalla mia avrebbero dovuto trovare spazio nel Collegio
dei cardinali, nella misura in cui queste posizioni restavano comunque
fedeli alla Chiesa cattolica». E di fatto ben 67 dei 115 cardinali elettori
presenti nel Conclave 2013 erano stati nominati da lui.
D’altra parte, anche molti di quelli che vengono considerati esponenti
più “liberali”, per utilizzare un termine di comprensione comune, furono
promossi a ruoli importanti proprio durante il suo pontificato. Qualche
esempio soltanto: Mario Grech (vescovo di Gozo, 2005), Cláudio Hummes
(prefetto della Congregazione per il Clero, 2006), Odilo Pedro Scherer
(arcivescovo di San Paolo, 2007), Reinhard Marx (arcivescovo di Monaco e
Frisinga, 2007), Joseph William Tobin (segretario della Congregazione per
gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, 2010), João Braz
de Aviz (prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le
Società di vita apostolica, 2011), Jean-Claude Hollerich (arcivescovo di
Lussemburgo, 2011), Luis Antonio Tagle (arcivescovo di Manila, 2011),
Matteo Maria Zuppi (vescovo ausiliare di Roma, 2012).
Papa Ratzinger si era interrogato, sin dai primi giorni dopo l’elezione, se
avrebbe dovuto in qualche modo portare avanti alcune tradizioni ormai
consuetudinarie sotto Giovanni Paolo II, come la partecipazione di fedeli
alla Messa del mattino nella cappella privata, la presenza di ospiti al tavolo
della colazione e degli altri pasti, l’invito a pranzo ai parroci prima delle
visite nelle parrocchie romane, e così via. La sua risposta fu che lui e
Wojtyła avevano uno stile e una psicologia, ma anche un’età, diversi: perciò
ritenne più opportuno evitare di aprire una porta che poi pian piano avrebbe
dovuto gradualmente socchiudere, limitandosi invece a fare soltanto ciò che
poteva rimanere stabile.
Per Ratzinger i pranzi di lavoro erano una fatica, come si è evidenziato
durante il suo pontificato, quando venivano organizzati soltanto in occasioni
particolari. Una delle eccezioni a lui gradite era al ritorno da un viaggio
apostolico, quando il pranzo rappresentava l’opportunità per ricevere un
feedback da alcuni dei principali collaboratori. In genere, oltre a qualche
invitato occasionale, c’erano l’assessore per gli Affari generali della
Segreteria di Stato, Gabriele Giordano Caccia fino a metà 2009 e poi Peter
Bryan Wells; i direttori dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian,
e della Sala stampa, padre Federico Lombardi; il responsabile
dell’organizzazione Alberto Gasbarri (che Benedetto XVI definiva
affettuosamente Reisemarschall, cioè “maresciallo di viaggio”).
Li consideravamo gli incontri della “critica di manovra”, poiché
ciascuno doveva esprimere una valutazione di ciò che era andato bene o che
invece doveva essere migliorato nei successivi viaggi. Io ho imparato molto
da questi incontri, perché potevo vedere un significativo confronto di
esperienze, da cui alla fine emergeva un qualificato giudizio realmente utile
per il futuro. E si finiva sempre per raccontare ciascuno qualche aneddoto o
curiosità che consentiva di salutarci con un sorriso.

La scelta del “numero due”


Certamente, fra tutte le nomine del pontificato, la più discussa e
problematica fu quella del segretario di Stato Tarcisio Bertone, sia per le
sue caratteristiche personali ed ecclesiali, sia per il modo concreto con il
quale esercitò il suo ministero. Perciò è opportuno approfondire
adeguatamente la questione, in modo da rendere chiari la motivazione, il
contesto e l’obiettivo di tale scelta.
Il dato di fondo da cui occorre partire è a mio parere sintetizzato nella
“confessione” che Benedetto fece durante l’incontro con i sacerdoti e i
diaconi permanenti della Baviera svolto a Frisinga il 14 settembre 2006,
proprio il giorno precedente l’entrata in carica di Bertone: «Quante cose
dovrebbero essere fatte, vedo che non ne sono capace. Ciò vale anche per il
Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non
bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e
ai miei collaboratori. […] E avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i
collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare».
Perciò, prima di accogliere la rinuncia del cardinale Angelo Sodano per
raggiunti limiti di età, rifletté bene e si convinse che il suo successore
avrebbe dovuto rispondere a due requisiti: innanzitutto, possedere sia
capacità pastorali, sia conoscenze diplomatiche; allo stesso tempo essere
dotato di qualità umane che facilitassero una totale sintonia nella
condivisione quotidiana del lavoro. Così, dopo più di un anno di
pontificato, il 22 giugno 2006 venne resa nota la nomina di Bertone, che,
sebbene preceduta da numerose indiscrezioni giornalistiche, suscitò
comunque stupore.
In realtà, il suo curriculum appariva adeguato alle necessità. Negli anni
romani, aveva diretto la facoltà di Diritto canonico della Pontificia
università salesiana, insegnando anche Diritto pubblico ecclesiastico e
Diritto internazionale, materie molto affini alle questioni della diplomazia
vaticana; inoltre era stato docente di Diritto dei minori e di Legislazione e
organizzazione catechistica e di pastorale giovanile, tematiche di stretta
attualità in quel momento storico della Chiesa. Come segretario alla
Dottrina della fede aveva poi tenuto costanti rapporti telefonici ed epistolari
con i nunzi, che incontrava regolarmente nei periodici appuntamenti in
Congregazione.
L’aspetto più personale era invece perfettamente messo a punto grazie
all’ultradecennale collaborazione alla Dottrina della fede, dove Bertone, che
già dal 1984 era apprezzato consultore della Congregazione (per esempio,
nel 1988 aveva fatto parte del gruppo di periti che affiancò Ratzinger nelle
trattative per la riconciliazione con monsignor Marcel Lefebvre, il
fondatore della Fraternità sacerdotale San Pio X, sospeso da Papa Paolo VI
nel 1976 dall’esercizio del ministero sacerdotale per aver disobbedito alla
proibizione di ordinare nuovi sacerdoti), era stato nominato arcivescovo
segretario il 13 giugno 1995, anche dietro suggerimento del capufficio della
sezione disciplinare Gianfranco Girotti.
Quando il cardinale Dionigi Tettamanzi fu trasferito da Giovanni Paolo
II a Milano e si rese vacante la diocesi genovese, anche in Congregazione si
vociferava, con un modo di dire popolare, che Bertone aveva “aperto la
finestra per udire la chiamata”, per significare che si era presentato come
candidato idoneo. Lo stesso Ratzinger commentò ironicamente: «Si è
liberata una sede cardinalizia. Ci saranno candidati!», facendo capire che
nel ristretto elenco era ben presente Bertone, il quale effettivamente il 10
dicembre 2002 venne nominato arcivescovo di Genova e il 21 ottobre 2003
fu creato cardinale. In effetti si trattò di un caso eccezionale, poiché fino a
quel momento tutti i superiori della Dottrina della fede divenuti cardinali
erano rimasti nell’ambito della Curia romana.
Per di più, con un Papa tedesco e numerosi prefetti di Congregazione
stranieri, Benedetto riteneva opportuno che il segretario di Stato fosse un
italiano (Angelo Scola, che qualcuno aveva suggerito, il Papa lo vedeva
piuttosto come possibile presidente della Conferenza episcopale italiana). E
Bertone, subito dopo il Conclave, cominciò a frequentare periodicamente
l’Appartamento, avvalendosi del preesistente rapporto di confidenza che gli
permetteva di salire riservatamente, senza dare nell’occhio, tramite
l’ascensore Sisto V, suggerendo al Papa opinioni riguardo ad alcune vicende
della Curia e facendogli comprendere che poteva contare su di lui.
Ricordo che sin da maggio del 2005 alcune persone autorevoli, per
esempio il cardinale Schönborn e il vescovo Boccardo, raccontavano in
Vaticano che Bertone andava dicendo in giro con convinzione che sarebbe
diventato segretario di Stato. Bisogna comunque precisare che la sua
nomina non rappresentò una novità assoluta: anche il cardinale francese
Jean-Marie Villot, segretario di Stato dal 1969 al 1979 (con Paolo VI e nel
primo anno di pontificato di Giovanni Paolo II), era stato ausiliare a Parigi e
arcivescovo di Lione, prima di giungere in Vaticano.
Il passaggio di consegne non fu indolore. Sodano non vedeva bene che a
sostituirlo fosse un cardinale che non proveniva dalla carriera diplomatica
ed espresse i propri dubbi a Benedetto. Quando, poco prima dell’estate, si
rese conto che la decisione era ormai definitiva, chiese di poter restare fino
al viaggio in Baviera, previsto dal 9 al 14 settembre 2006; nel contempo
Bertone confidava che la nomina fosse ufficializzata al più presto.
Il Papa cominciò a dormire male per la tensione che avvertiva, cosicché
si giunse a un accordo intermedio: l’annuncio sarebbe stato fatto il 22
giugno, con l’entrata effettiva in carica spostata al 15 settembre, in modo da
contemperare le rispettive sollecitazioni. E poi ci si dovette adattare a
qualche strascico, con la prolungata occupazione dell’appartamento di
rappresentanza alla Prima loggia da parte di Sodano, costringendo Bertone
ad alloggiare per un po’ nella torre di San Giovanni, e le fastidiose opere di
ristrutturazione volute dal nuovo segretario di Stato, che per qualche tempo
crearono un rumore di fondo poco gradevole per le udienze nella Seconda
loggia.

Fra lo IOR e la sanità cattolica


Col senno di poi, un errore di valutazione compiuto da Bertone fu quello di
prendere sin dagli inizi troppi impegni esterni, con viaggi che lo
distoglievano dal compito essenziale di presiedere il lavoro della Segreteria
di Stato, con la cura delle attività riguardanti il servizio quotidiano del
Sommo Pontefice e il disbrigo degli affari che devono essere trattati con i
Governi nell’azione diplomatica della Santa Sede.
A causa di ciò, una lamentela nella sezione italiana della Segreteria di
Stato era che lavoravano più per le conferenze del segretario che per i
discorsi del Papa. Sodano era un timoniere e lavorava molte ore ogni giorno
inchiodato alla scrivania, mentre l’assenza di Bertone comportava
l’accumulo delle decisioni da prendere, cosicché la macchina ne fu
rallentata. Dopo un po’, anche Benedetto se ne rese conto e gli chiese di
diminuire quelle uscite. Ricordo che una volta commentò con un mesto
sorriso: «Quando Bertone era arcivescovo a Vercelli e a Genova stava
spesso a Roma, da segretario di Stato è spesso fuori sede…».
Di fatto, non svelo alcunché di segreto ricordando che fra i più duri
documenti resi noti durante il Vatileaks c’erano proprio quelli con le
contestazioni a Bertone provenienti dall’interno del mondo ecclesiastico e
inviati direttamente a Papa Ratzinger: da Paolo Sardi (il 5 febbraio 2009,
comunica che «da un mese il lavoro è fermo. In compenso si muove il
cardinale segretario di Stato: a parte gli spostamenti in Italia, giorni fa è
andato in Messico, al presente è in Spagna, e già si appresta ad andare in
Polonia»), a Dino Boffo (il 6 gennaio 2010, riferendosi alla divulgazione di
un falso documento sul proprio conto attribuita al direttore
dell’«Osservatore Romano» Giovanni Maria Vian, scrive che «quest’ultimo
forse poteva contare, come già in altri frangenti, di interpretare la mens del
suo superiore»); da Dionigi Tettamanzi (il 28 marzo 2011, dopo aver
ricevuto da Bertone indicazioni riguardanti l’Università Cattolica attribuite
al Papa, esprime «motivi di profonda perplessità rispetto all’ultima missiva
e a quanto viene attribuito direttamente alla sua persona»), fino alla lettera
anonima dell’estate 2011 (nella quale si lanciano velate minacce contro il
porporato, accusandolo di non saper decidere e di scegliere i collaboratori
soltanto sulla base delle personali simpatie).
Per di più, in quegli anni si andarono accavallando problematiche di
diversa natura, e non sempre Benedetto veniva messo nelle condizioni
migliori per prendere una decisione oculata. Per esempio, ai tempi di
Sodano venivano indicate, su ogni progetto che doveva ricevere una
risposta, le opinioni del segretario di Stato e dei suoi due vice, in modo che
il Papa potesse avere un quadro completo. Con Bertone questa dettagliata
valutazione previa si attenuò, limitandosi a una succinta opinione positiva o
negativa, che poi eventualmente veniva approfondita a voce nell’udienza di
tabella del lunedì.
In particolare, due questioni spinose furono la gestione dell’Istituto per
le opere di religione e il progetto di un polo sanitario cattolico, in cui il
cardinale Bertone ebbe un ampio coinvolgimento e, soprattutto per
quest’ultima iniziativa, probabilmente mostrò un eccesso di ambizione. La
condizione degli ospedali in qualche modo collegati alla Santa Sede era
troppo precaria per poterci fare carico della ristrutturazione dei bilanci e
della riorganizzazione operativa. I tentativi ci furono e le analisi vennero
condotte con molta cura, ma alla fine si preferì desistere.
Quando nel settembre del 2009 si trattò di sostituire Angelo Caloia, dopo
ben vent’anni di presidenza dello IOR , fu proprio Bertone a suggerire il
nome di Ettore Gotti Tedeschi, che nei mesi precedenti era stato consulente
nella gestione finanziaria del Governatorato della Città del Vaticano e aveva
dato un contributo per l’enciclica Caritas in veritate sulla dottrina sociale
della Chiesa. Ma con il passar del tempo il rapporto di Gotti Tedeschi con il
Consiglio di sovrintendenza si logorò, fino a giungere alla sfiducia, il 24
maggio 2012, con la rimozione dalla carica di presidente «per non avere
svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio».
Benedetto non ne venne a conoscenza a cose fatte, come qualche
giornalista riferì. Il segretario di Stato gli aveva illustrato l’intera questione
durante una udienza di tabella e il Papa aveva esplicitamente approvato.
Forse l’equivoco sorse per una errata interpretazione di una frase in una mia
intervista al «Messaggero», dove parlavo della sorpresa del Papa per l’atto
di sfiducia al professore, ma intendendo che era dovuta alla rapida, e in
qualche modo inattesa, evoluzione delle divergenze d’opinione in seno al
board dello IOR . Successive dichiarazioni di Gotti Tedeschi, invece che
tentare di rasserenare gli animi, contribuirono a intensificare la polemica,
cosicché Benedetto preferì evitare ulteriori contatti: perciò non risponde a
verità l’indiscrezione che fosse programmato un “gesto di riparazione”, con
un incontro negli ultimi tempi del suo pontificato.
Con il trascorrere degli anni, un’ulteriore critica fu l’accentramento del
potere che si verificò nelle mani di Bertone, il quale riuscì a farsi nominare
nel 2007 camerlengo di Santa Romana Chiesa (ruolo importante nel
passaggio da un pontificato a un altro) e nel 2008 presidente della
Commissione cardinalizia di vigilanza dello IOR (che fra l’altro nomina i
vertici dell’Istituto).
Nel tentativo di placare le rimostranze che mi giungevano da più parti,
ricordo che una volta ne parlai con il cardinale Raffaele Farina, suo amico
da una vita soprattutto per i comuni trascorsi alla Pontificia università
salesiana, chiedendogli di farsi carico, insieme con i confratelli Angelo
Amato ed Enrico dal Covolo, di spiegare al segretario di Stato che doveva
comportarsi con più cautela, e lui mi rispose: «Bertone fa ciò che vuole e
non riusciamo più nemmeno noi a farci ascoltare perché ha perso le
proporzioni».
Alla fine, credo che lo stesso cardinale si sia reso conto di tutto, come
testimoniato dalle parole che pronunciò a Siracusa il 1° settembre 2013,
all’indomani della nomina ufficiale da parte di Papa Francesco del suo
successore Pietro Parolin: «Certamente ho avuto i miei difetti, se dovessi
ripensare adesso a certi momenti agirei diversamente. Però questo non vuol
dire che non si sia cercato di servire la Chiesa».

L’insospettabile tradimento
In quell’orizzonte contrastato del 2011-2012 si inserì la fuga di documenti
riservati che rappresentò una delle pagine più nere per la nostra famiglia
pontificia. Di fatto, la sensazione che conservo ancora oggi dentro di me è
quella di essermi trovato nei panni di un padre che non si accorge che il
figlio ruba i gioielli della mamma e che, anche quando il furto viene alla
luce, non riesce a nutrire alcun sospetto su di lui… Tuttora, se ripenso ai
protagonisti di quella triste vicenda, non riesco a staccare da un angolino
del cervello l’idea che si sentissero in buona fede. Ma la quantità di azioni
negative che furono messe in atto fu indubbiamente qualcosa che si
approssima al diabolico.
Agli inizi, dopo che il 25 gennaio 2012 la trasmissione Gli intoccabili su
La7 aveva reso note alcune lettere dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò
relative al suo trasferimento dal Vaticano alla nunziatura della Santa Sede
negli Stati Uniti, era sembrato trattarsi unicamente dello spiacevole esito di
screzi connessi a promozioni e rimozioni in alcuni ruoli di vertice della
Curia romana. Ma la cosa si complicò quando sul quotidiano «Il Fatto»
venne pubblicato un testo che il cardinale colombiano Darío Castrillón
Hoyos aveva consegnato, il 30 dicembre 2011, in Segreteria di Stato per
informare di presunte indiscrezioni attribuite da imprenditori tedeschi al
cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina
da lui compiuto nel novembre precedente.
Secondo quelle anonime fonti, Romeo aveva fornito ai suoi interlocutori
cinesi quattro informazioni: per le questioni più importanti, Benedetto
consultava lui e il cardinale Scola; il rapporto del Papa con il segretario di
Stato era molto conflittuale e addirittura Benedetto odiava Bertone; in
segreto il Santo Padre si stava occupando della sua successione e aveva già
scelto il cardinale Scola come idoneo candidato; infine, il preannuncio della
morte del Pontefice entro dodici mesi, probabilmente a causa di un
attentato. Una rapida consultazione portò alla secca dichiarazione di padre
Federico Lombardi: «Una cosa talmente fuori dalla realtà e poco seria che
non voglio nemmeno prenderla in considerazione».
Su indicazione di Benedetto, incontrai sia Castrillón sia Romeo, e la mia
netta impressione fu che il cardinale colombiano avesse ingenuamente dato
credito a persone poco autorevoli, motivate da oscuri interessi. Romeo
precisò che ovviamente aveva avvertito la Segreteria di Stato del suo
viaggio privato: in precedenza era stato nunzio e sapeva bene come
comportarsi. La valutazione conclusiva fu che il cardinale palermitano era
stato coinvolto soltanto perché in quel periodo era la più alta personalità
ecclesiastica giunta in Cina, e nessuno di noi ebbe il minimo dubbio che le
dichiarazioni a lui attribuite fossero una totale fandonia.
Il vero “colpo di scena” fu l’intervista del 22 febbraio 2012, sempre su
Gli intoccabili, dove il cosiddetto “corvo” spiegava di far parte di un
gruppo di dipendenti che volevano far emergere la verità su vicende oscure
e scandalose. Ascoltando quella voce modificata elettronicamente, non
riconobbi inflessioni a me familiari, per cui pensai che si trattasse di una
persona che non conoscevo, se non addirittura di un attore che aveva
interpretato una testimonianza verosimile. Ma certamente rappresentava il
preannuncio di ulteriori rivelazioni, come veniva chiaramente fatto
comprendere nel corso di quella trasmissione.
Sin dagli inizi della vicenda, la Gendarmeria pontificia aveva iniziato a
indagare: il 3 febbraio il comandante Domenico Giani inviò una
informativa al promotore di giustizia Picardi e dopo tre giorni venne
formalizzata la prima denuncia contro ignoti. Ma la fuoruscita degli
ulteriori documenti spinse Benedetto a costituire, il 24 aprile, una
Commissione cardinalizia che, «in forza del mandato pontificio a tutti i
livelli» (come fu esplicitamente precisato), potesse interrogare
riservatamente chiunque venisse ritenuto in grado di offrire tasselli per il
raggiungimento della verità.
Era composta da tre autorevoli cardinali, tutti ultraottantenni e dunque in
grado di operare senza “conflitti di interessi”: Julián Herranz, esperto di
Diritto canonico, Jozef Tomko, ottimo conoscitore della Curia romana, e
Salvatore De Giorgi, più esterno all’ambito vaticano. Come segretario fu
scelto il francescano Luigi Martignani, della Segreteria di Stato. Bertone
aveva provato a suggerire che la Commissione riferisse a lui, ma Benedetto
decise invece che il rapporto fosse diretto, sorpassando il segretario di
Stato.
Fu soltanto la pubblicazione, il 19 maggio seguente, del libro Sua
Santità, firmato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, a segnare la definitiva
svolta. Appena sfogliai quel volume, mi resi conto che alcuni dei documenti
citati, e addirittura fotografati, non erano passati per altri uffici vaticani se
non il mio. Li avevo mostrati al Papa, che vi aveva apposto la sua sigla e
indicato come procedere, e li avevo conservati sullo scaffale alle spalle del
mio tavolo di lavoro.
A quel punto feci mente locale su come si svolgesse il nostro lavoro
nella stanza della segreteria situata di fianco allo studio del Papa e
visualizzai che sostanzialmente, oltre al secondo segretario Xuereb e
all’aiutante Gabriele, non vi entrava nessuno. Comunque, per affrontare di
petto la situazione, in accordo con Benedetto XVI, convocai per la
mattinata del 21 loro due, insieme con le quattro Memores e anche suor
Birgit. Chiesi a ciascuno se fosse stato lui a consegnare quei documenti, e
tutti negarono con fermezza. A quel punto fui molto duro e, rivolgendomi
direttamente a Paolo, lo accusai del furto, approfittando del fatto che nella
stanza aveva una scrivania con un computer per lavori di archiviazione.
Quando al mattino arrivava la borsa dalla Segreteria di Stato, io smistavo il
contenuto e sottoponevo al Papa la documentazione da valutare
personalmente; lui leggeva, annotava qualche appunto e talvolta domandava
chiarimenti, e alla fine mi restituiva tutto con il suo responso. Documenti e
lettere rimanevano in un posto riservato del mio ufficio, nel tempo in cui
accompagnavo Benedetto alla Seconda loggia per le udienze, fino a quando,
prima di pranzo, un addetto della Segreteria di Stato veniva a riprendere la
borsa con il materiale visionato.
Paolo veniva con noi, ma poi spesso risaliva per sbrigare i suoi compiti.
Avendo la chiave dell’ascensore Sisto V poteva salire e scendere senza dare
nell’occhio e, poiché nel frattempo anche Xuereb si muoveva, lui poteva
restare spesso solo. Pensandoci in seguito, mi sono reso conto che, dopo il
pranzo, costantemente rientrava in ufficio e se ne andava verso le 15 (in
genere, arrivava intorno alle 7 per la Messa), dando l’impressione che
dovesse recuperare lavoro arretrato, cosicché aveva tempo disponibile per
le sue “cose”.
Perciò non avevo dubbi nell’incolparlo, contestandogli che almeno due
lettere pubblicate nel volume – relative alle donazioni di un giornalista e di
un banchiere in favore della carità del Papa – certamente le aveva avute
soltanto lui per le mani, in quanto erano arrivate direttamente a me e non
erano mai uscite dall’ufficio; per di più, gli avevo chiesto personalmente di
fare la fotocopia e di abbozzare una risposta di ringraziamento. Ma lui ebbe
la prontezza di negare assolutamente il fatto, addirittura facendo l’offeso e
chiedendomi come fossero nati in me tali sospetti.
Dopo il pranzo, entrai in cappella e non mi aspettavo di trovarlo lì. Lo
avvicinai e gli chiesi di dirmi la verità su cosa avesse combinato. Fu quello
il momento in cui cominciò ad ammettere di aver incontrato Nuzzi e di
avergli consegnato qualche documento. Io restai scioccato da questa
rivelazione. In seguito ho saputo che subito dopo si recò da monsignor
Harvey per raccontargli cosa era accaduto, forse nella folle speranza di
ricevere un sostegno, lasciando anche lui senza parole.
Quello che ancora oggi mi sconcerta, quando ci ripenso, è
l’atteggiamento che Paolo mostrò quando gli comunicai la sospensione
cautelare dal lavoro, in attesa che si chiarisse la situazione. Lui sostenne che
si stava soltanto individuando un capro espiatorio e, con freddezza, affermò
di sentirsi sereno e a posto con la coscienza, avendo avuto un colloquio con
il suo padre spirituale, don Giovanni Luzi.
Effettivamente, pur permanendo qualche ombra in relazione al segreto
confessionale, durante il processo si evidenziò che il sacerdote aveva
ricevuto da Gabriele della documentazione, che dichiarò di aver bruciato
dopo essersi reso conto della provenienza illegittima e disonesta. Ma
soprattutto emerse che il sacerdote gli aveva dato la «censurabile
indicazione», come la definirono con un eufemismo i giudici vaticani, di
«attendere le circostanze e, salvo che fosse stato il Santo Padre a
chiedermelo di persona, di non affermare ancora questa mia responsabilità».

Un insieme di miserie umane


Nel frattempo, le indagini della Gendarmeria avevano puntato su Gabriele,
anche attivando discretamente una telecamera puntata sull’ingresso della
sua abitazione a pochi passi da Porta Sant’Anna, in modo da verificare
eventuali tentativi di portar via materiali compromettenti. Il 22 maggio fu
una giornata di sospensione, nella quale Giani e i suoi ragionarono su come
comportarsi, e alla fine chiesero e ottennero la perquisizione che il 23 venne
svolta sia in Vaticano che a Castel Gandolfo, dove venne trovata una vasta
documentazione, in originale e in fotocopia, di cui una significativa parte
era tratta da internet in relazione a questioni massoniche e di intelligence,
con il conseguente arresto di Paolo.
La conferma dei sospetti fu un duro colpo anche per Benedetto, che sotto
l’aspetto affettivo lo considerava quasi come un figlio, come per noi
membri della famiglia pontificia era praticamente un fratello, oltre che un
collega nel lavoro quotidiano. Il Papa volle confidare a cuore aperto i propri
sentimenti durante l’udienza generale del 30 maggio: «Gli avvenimenti
successi in questi giorni, circa la Curia e i miei collaboratori, hanno recato
tristezza nel mio cuore, ma non si è mai offuscata la ferma certezza che,
nonostante la debolezza dell’uomo, le difficoltà e le prove, la Chiesa è
guidata dallo Spirito Santo e il Signore mai le farà mancare il suo aiuto per
sostenerla nel suo cammino. Si sono moltiplicate, tuttavia, illazioni,
amplificate da alcuni mezzi di comunicazione, del tutto gratuite e che sono
andate ben oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non
risponde alla realtà. Desidero, per questo, rinnovare la mia fiducia e il mio
incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori e a tutti coloro che,
quotidianamente, con fedeltà, spirito di sacrificio e nel silenzio, mi aiutano
nell’adempimento del mio Ministero».
Nei giorni precedenti, essendo di fatto il superiore diretto di Gabriele,
avevo offerto le mie dimissioni a Benedetto, chiedendogli di assegnarmi un
altro incarico esterno alla Casa pontificia, ma lui mi rispose semplicemente
che non se ne parlava. E ancor più mi espresse la sua solidarietà agli inizi di
giugno, quando il quotidiano «la Repubblica» mostrò due documenti resi
illeggibili, ma dove era visibile la mia firma in calce. L’anonimo mittente
dichiarava: «Non pubblichiamo in modo integrale per non offendere la
persona del Santo Padre, già molto provata dai suoi inetti collaboratori. Per
correttezza ci riserviamo di pubblicare i testi integrali nel caso ci si ostini a
nascondere la verità dei fatti».
Come mostrato dai fatti successivi, questa minaccia non ha mai avuto
sviluppi, anche perché l’unico documento che avevo potuto verificare, che
portava la data del 19 febbraio 2009, era semplicemente una comunicazione
alla Segreteria di Stato relativa a impegni di lavoro. Perciò mi convinsi che
quei fogli fossero stati appositamente “sbianchettati” per far pensare a
chissà quali segreti, mentre si trattava di banalità.
Ma la cosa più assurda, connessa alla richiesta «cacciate dal Vaticano i
veri responsabili di questo scandalo: mons. Gänswein e il card. Bertone»,
era l’accusa che dal mio archivio privato «fuoriescono di continuo
innumerevoli documenti riservati a favore del segretario di Stato cardinale
Tarcisio Bertone». Ovviamente, per il suo ruolo di vertice, Bertone non
aveva alcun bisogno di me per conoscere il contenuto di documenti che
normalmente passavano prima in Segreteria di Stato, o che altrimenti il
Papa stesso gli sottoponeva nelle udienze di tabella.
Il 26 luglio 2012 si svolse un incontro a Castel Gandolfo, nel quale la
Commissione cardinalizia fece a Benedetto un resoconto a voce sui risultati
provvisori dell’inchiesta. In sostanza era emerso che c’erano state alcune
persone che, per vari interessi particolari, avevano avuto contatti con Paolo
e in qualche modo lo avevano sostenuto nella decisione di divulgare
documenti, instillandogli quei dubbi che lo condussero a scelte dannose,
senza però che ci fosse alle spalle un vero e proprio complotto.
In particolare, ci si rese conto di quanto intensi fossero stati i contatti di
Paolo con Ingrid Stampa, anche perché abitavano nel medesimo edificio.
Forse, non so dire quanto consapevolmente, si influenzò Gabriele
approfittando del suo carattere, che lo psichiatra Roberto Tatarelli definì
«contraddistinto da marcati elementi di tipo persecutorio», e che «più volte
fa riferimento a complotti e macchinazioni a favore e/o danno di personaggi
di rilievo sia laici sia, più frequentemente, prelati».
Il 6 ottobre 2012 il Tribunale vaticano condannò Paolo Gabriele a tre
anni di reclusione, ridotti a uno e mezzo per una serie di attenuanti, «per
aver operato, con abuso della fiducia derivante dalle relazioni di ufficio
connesse alla sua prestazione d’opera, la sottrazione di cose che in ragione
di tali relazioni erano lasciate o esposte alla fede dello stesso».
Nonostante per Benedetto fosse stata umanamente una grande delusione,
soprattutto perché Paolo aveva avuto costantemente la possibilità di
parlargli personalmente e chiarirsi qualsiasi dubbio, la decisione di
condonargli la pena venne presa ancor prima che lui chiedesse formalmente
la grazia, mediante una lettera a inizio settembre nella quale riconosceva il
proprio errore e implorava al Papa perdono per aver tradito la sua fiducia.
Benedetto rispose personalmente, inviandogli un libro dei Salmi con la
propria benedizione apostolica vergata sul frontespizio del volume.
Per rendere pubblicamente nota la concessione della grazia, si ritenne
però opportuno attendere un momento spiritualmente significativo e venne
scelto il periodo natalizio. Così, il 22 dicembre successivo, accompagnai il
Papa nella caserma della Gendarmeria dove era recluso e poi li lasciai soli.
Non ho mai saputo cosa si siano detti, ma ho visto Paolo molto provato e ho
avuto la sensazione che si fosse reso conto di quanti danni la sua
improvvida iniziativa avesse causato.
Ovviamente, non poteva riprendere il precedente lavoro né continuare a
risiedere in Vaticano, ma l’abbiamo aiutato trovandogli un impiego nella
nuova sede dell’ambulatorio Bambino Gesù di San Paolo. Successivamente
andò a lavorare nella segreteria dell’arciprete della basilica di San Paolo
fuori le mura, il cardinale Harvey.
Per diversi anni non ne ebbi notizie, finché a metà novembre del 2020 mi
telefonò la signora Stampa per informarmi che Paolo era gravemente
malato e per chiedermi se potessi andare a trovarlo. Per essere certo che
fosse opportuno, domandai alla moglie e lei mi confermò questo desiderio.
Lo trovai molto dimagrito e affaticato, ma fu molto contento di vedermi. Mi
disse che voleva riconciliarsi in pieno con me, parlammo confidenzialmente
a quattr’occhi e mi chiese di ricevere il Viatico; poi pregammo insieme con
la moglie e i tre figli. Qualche giorno dopo, il 24 novembre 2020, morì e io,
Harvey e De Nicolò abbiamo assistito alla Messa funebre presieduta dal
cardinale Konrad Krajewski. Successivamente non abbiamo fatto mancare
qualche aiuto alla famiglia, con la discrezione del caso.
Pochi giorni prima dell’ufficializzazione della grazia, il 17 dicembre, era
stata consegnata a Papa Benedetto la relazione della Commissione dei tre
cardinali, che alla fine aveva ascoltato una ventina di persone, compresi
tutti noi membri della famiglia pontificia. Le conclusioni furono
sufficientemente rasserenanti, poiché, alla fin fine, non si confermò alcun
sospetto di una strategia di sabotaggio per colpire il Santo Padre, il
cardinale Bertone o me. Piuttosto, emerse la miseria personale di alcuni
collaboratori vaticani, che avevano sviluppato l’idea di dover combattere
qualcosa di non ben precisato, strumentalizzando e restando poi
strumentalizzati. Ma in sostanza, come fu detto nel comunicato dopo
l’ultimo incontro del 25 febbraio 2013 con Benedetto XVI, la Commissione
rilevò «accanto a limiti e imperfezioni propri della componente umana di
ogni istituzione, la generosità, rettitudine e dedizione di quanti lavorano
nella Santa Sede a servizio della missione affidata da Cristo al Romano
Pontefice».
Il 23 marzo 2013, durante il primo incontro del Papa emerito con il suo
successore, avvenne la consegna di tutta la documentazione, immortalata
nella famosa foto con lo scatolone bianco. Per facilitarne la consultazione,
avevo preparato un dettagliato indice, al primo punto del quale c’era una
esauriente lettera di Benedetto XVI nella quale offriva la propria
valutazione dell’accaduto. C’erano poi il rapporto conclusivo dei tre
cardinali, i verbali delle audizioni con le relative cassette registrate,
memorie e relazioni presentate da alcune delle persone ascoltate.
Nelle sue osservazioni, il Papa emerito non utilizzò mai il termine
Vatileaks né avanzò proposte o suggerimenti, lasciando al nuovo Pontefice
la totale libertà di azione. Lo confermò Papa Francesco nell’intervista con
Gian Marco Chiocci del 30 ottobre 2020: «Nel passare le consegne mi
diede una scatola grande: “Qui dentro c’è tutto, ci sono gli atti con le
situazioni più difficili, io sono arrivato fino a qua, sono intervenuto in
questa situazione, ho allontanato queste persone e adesso… tocca a te”.
Ecco, io non ho fatto altro che raccogliere il testimone di Papa Benedetto,
ho continuato la sua opera».

Il mistero di Emanuela
Ovviamente, nel contesto del Vatileaks, non poteva mancare l’aggancio con
la terribile vicenda del sequestro di Emanuela Orlandi, che da decenni
riemerge periodicamente sulla stampa, con rivelazioni più o meno
attendibili e significative. Il 22 febbraio 2012 fu la volta della divulgazione,
nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, di alcuni stralci di una nota che
mi aveva inviato padre Lombardi, al tempo direttore della Sala stampa.
Dalla sintesi giornalistica, sembrava come se improvvisamente i vertici
della Santa Sede avessero concentrato una particolare attenzione su un
evento che risaliva a trent’anni prima, dato che la sparizione era avvenuta il
22 giugno 1983.
In realtà, l’antefatto era decisamente più ordinario, poiché si collegava
all’incontro che il 9 dicembre 2011 avevo avuto con Pietro Orlandi, che
desiderava consegnarmi una copia del suo libro Mia sorella Emanuela e
voleva ragguagliarmi su alcuni sviluppi del caso. Mi informò anche che
aveva invitato a partecipare all’Angelus del 18 dicembre in piazza San
Pietro quanti avevano firmato la sua petizione per sollecitare ulteriori
approfondimenti delle indagini e mi chiese di verificare la possibilità che
Papa Benedetto rivolgesse loro un saluto.
La mia conoscenza dei fatti era molto limitata, cosicché chiesi a padre
Lombardi di fornirmi una valutazione su quanto affermato nel volume,
mentre monsignor Giampiero Gloder, della Segreteria di Stato, esaminò i
dettagli della questione. La risposta di quest’ultimo, che venne poi
fotocopiata da Paolo Gabriele e resa nota nel libro di Nuzzi, fu che non
sarebbe stato opportuno un cenno pubblico, con una motivazione che risultò
ragionevole: «Il fratello della Orlandi sostiene fortemente che ai vari livelli
vaticani ci sia omertà sulla questione e si nasconda qualcosa. Il fatto che il
Papa anche solo nomini il caso può dare un appoggio all’ipotesi, quasi
mostrando che il Papa “non ci vede chiaro” su come è stata gestita la
questione».
Nell’appunto di padre Lombardi, da lui redatto tra fine dicembre 2011 e
inizio gennaio 2012 (e presumibilmente consegnato a Pietro Orlandi sempre
da Gabriele, poiché si conoscevano), era sottolineato con umana
partecipazione che «si percepisce che la tragedia della famiglia non è solo
quella di una figlia scomparsa, ma anche quella della tortura prolungata di
messaggi, rivendicazioni, informazioni contraddittorie, che tengono sempre
in dubbio e risvegliano la questione fino ai nostri giorni con presunti nuovi
elementi». Venivano quindi esaminati i diversi aspetti del tragico evento e
offerte le possibili risposte ad alcuni interrogativi proposti in quel libro.
Sviluppando tali considerazioni, il 14 aprile 2012 la Sala stampa
vaticana fornì un’ampia nota, dopo che «in alcune iniziative e interventi,
che hanno avuto eco sulla stampa, è stato avanzato il dubbio se da parte di
istituzioni o personalità vaticane si sia fatto veramente tutto il possibile per
contribuire alla ricerca della verità su quanto avvenuto», precisando che era
stato possibile «grazie ad alcune testimonianze particolarmente attendibili e
a una rilettura della documentazione disponibile, verificare nella sostanza
con quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani procedettero ad
affrontare quella situazione».
Personalmente avevo espresso la mia massima disponibilità e solidarietà
a Pietro Orlandi, come lui stesso attestò alla conduttrice Federica Sciarelli
in quella trasmissione della Rai, ma naturalmente le dichiarazioni di padre
Lombardi rappresentarono la ricostruzione più autorevole sulla quale basare
qualsiasi presa di posizione: «La sostanza della questione è che purtroppo
non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del
caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le autorità vaticane, in base ai
messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che, come
periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al Papa –
condivisero l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una
oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni
in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori dell’attentatore del Papa.
Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del
sequestro. L’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro
stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza
indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione
attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e
alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità».
Mi fu anche garantito che, nel corso degli anni, era stato fatto quanto
possibile per aiutare la famiglia Orlandi e di tutte queste informazioni feci
la dovuta comunicazione a Papa Benedetto. Pure il comandante Giani
consultò la documentazione dell’epoca e concluse che non c’era stata
alcuna notizia tenuta nascosta alla magistratura italiana e che nel frattempo
non erano maturate ulteriori ipotesi riguardo alle quali poter approfondire le
indagini in Vaticano.
Le diverse e contrastanti piste – dalla connessione con l’attentato a
Giovanni Paolo II al tentativo di avviare uno scambio con Ali Agca, dagli
scontri fra servizi segreti dell’Est e dell’Ovest alle vicende criminali della
banda della Magliana, dalle questioni connesse allo IOR del tempo di
Marcinkus ai presunti finanziamenti al movimento polacco Solidarnosc –
hanno avuto ciascuna indizi a favore e contro, senza che fossero mai
raggiunte definitive prove. E un dubbio aleggia ancora: se la sollecita e
partecipata preoccupazione di Papa Wojtyła, che lanciò un pubblico appello
sin dall’Angelus del 3 luglio 1983, abbia avuto come indesiderato corollario
gli sporchi maneggi di criminali privi di scrupoli, che si sono insinuati in
questa tragedia dove l’innocente vittima è stata una cittadina vaticana di
appena 15 anni (senza dimenticare la coetanea Mirella Gregori, anche lei
scomparsa nel nulla in quei mesi).
Da parte mia posso serenamente affermare che è totalmente inventato
quanto venne scritto dal giornalista Pino Nicotri sul sito
www.blizquotidiano.it il 13 gennaio 2015: «Qualche mese fa i magistrati
sono venuti a sapere in via confidenziale che “durante il processo la
Segreteria di Stato e la Gendarmeria del Vaticano erano semplicemente
terrorizzate dall’idea che Paolo Gabriele avesse fotocopiato anche il dossier
preparato con estrema cura da Gänswein”. Il dossier comunque non risulta
tra le fotocopie consegnate a Nuzzi e neppure tra quelle trovate
nell’appartamento in Vaticano dell’ex maggiordomo. Segno che non è stato
fotocopiato. Negli ultimi tempi però i magistrati si sono chiesti il perché di
tanta paura che ce ne fosse invece in giro una copia. Inevitabile l’ipotesi che
il dossier contenesse l’intera verità su cosa è successo e per mano di chi».
Molto più semplicemente, io non ho mai compilato alcunché in relazione al
caso Orlandi, per cui questo fantomatico dossier non è stato reso noto
unicamente perché non esiste.
Ugualmente infondata fu la polemica innescata nel dicembre del 2021
dalle dichiarazioni dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo su un paio di
incontri che aveva avuto a gennaio del 2012, nell’ufficio di piazzale Clodio,
con Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini. I vertici della
Gendarmeria si erano recati da lui per affrontare la problematica relativa
alla tomba di Renatino De Pedis, esponente della banda della Magliana,
nella cripta della basilica romana di Sant’Apollinare. Nei mesi precedenti
era stato ipotizzato che vi fosse seppellita anche Emanuela Orlandi,
cosicché si era voluta manifestare la disponibilità della Santa Sede per
l’apertura della bara e la verifica del contenuto, in modo da sgombrare il
campo da qualsiasi sospetto.
L’offerta di collaborazione, concordata con il cardinale Bertone e della
quale anch’io ero stato messo al corrente, venne però evidentemente
fraintesa, tant’è che l’ex magistrato ha impropriamente rievocato che «in
quella occasione, chiesi la possibilità del rinvenimento del corpo di
Emanuela Orlandi o almeno di sapere, di conoscere la sua fine. Si
mostrarono disponibili e mi dissero: “Le faremo sapere”». Come ribadito
più volte, questa sintetica ricostruzione è fuori dalla realtà, tant’è che in
tempi recenti pure l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe
Pignatone, ha precisato che all’epoca «il dottor Capaldo non ha mai detto
nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con
“emissari” del Vaticano», riferendone invece «solo dopo essere andato in
pensione (23 marzo 2017)».
6
Un Magistero a tutto tondo

Un pontificato cristocentrico
Ovviamente non è possibile sintetizzare in poche pagine un Magistero come
quello di Benedetto XVI, così denso dal punto di vista qualitativo, come
ampio dal punto di vista quantitativo. Però vorrei almeno sottolineare alcuni
punti essenziali del pontificato, che già rappresentano la sua più
significativa eredità. E il cuore decisivo, a mio parere, è stata la
testimonianza cristocentrica nel suo annuncio e nel suo operare.
La Parola di Dio è Cristo stesso, che è e deve essere al centro della
Chiesa e della sua vita. Considerato sotto questa luce, è cristiano colui che
crede in Gesù Cristo e vive un’amicizia personale con Lui. Anche e proprio
per questo motivo, un Papa non può precedere il Signore e voler stabilire
egli la via che Gesù stesso ha definito. Come ogni cristiano, anzi più di
chiunque altro, il Papa deve seguire Cristo, anteponendolo alla propria
persona e ai propri interessi e obiettivi.
In questo permanente rimando al Salvatore e all’annuncio cristocentrico,
si può individuare il motivo più profondo per cui Benedetto sottrasse al
logorante lavoro quotidiano del servizio petrino il tempo e l’energia per
scrivere il libro in tre volumi su Gesù di Nazaret. Come Pietro a Cesarea di
Filippi, a nome di tutti gli apostoli, testimoniò il Signore «Messia, Figlio del
Dio vivo», così anche Benedetto, come successore di Pietro, ha voluto
confessare la personale professione di fede in Cristo nell’odierna Cesarea di
Filippi, per convincere gli uomini della verità e della bellezza della fede
cristiana, per introdurli a un rapporto personale con il Signore.
Nella testimonianza del Papa per Gesù Cristo si rendono ancora una
volta visibili il significato e la necessità del servizio petrino nella Chiesa,
cosicché il ministero papale, illuminato dalla luce della fede, appare come
dono dello Spirito Santo alla comunità ecclesiale.
Papa Ratzinger è stato fermamente convinto di dover scrivere la trilogia
su Cristo come una sintesi della propria visione teologica incentrata sulla
convinzione che il messaggio salvifico di Gesù non è semplicemente una
dottrina, bensì il concreto incontro con la sua persona, con il Dio che si è
realmente fatto uomo e che continua a essere presente in ogni tempo. E lo
ha voluto fare firmando con il proprio nome, poiché metteva in gioco
l’autorevolezza della competenza e non l’autorità magisteriale.
La cosa per me impressionante era la capacità che manifestava ogni
martedì, dopo una settimana di sospensione, quando si sedeva alla scrivania
e riprendeva immediatamente a scrivere seguendo il precedente filo del
discorso, come se avesse interrotto il lavoro appena un attimo prima.
Scherzando, gli dicevo che il suo modo di agire era come quello di una
ricamatrice, che poteva fermare in qualsiasi momento la propria opera per
poi riprenderla senza difficoltà. Di fatto, il progetto è diventato una trilogia
soltanto perché Papa Ratzinger volle spezzettare l’opera in modo da essere
certo di portarne a termine almeno una parte, nella preoccupazione che l’età
e le forze non gli consentissero il definitivo completamento.
Come egli stesso scrisse nella premessa al primo volume, la riflessione
sul rapporto tra il Gesù della fede e il Gesù della storia rappresentò per lui
«un lungo cammino interiore» nella «ricerca personale del volto del
Signore». Ripensandoci, mi tornano alla mente le parole che pronunciò
davanti al Volto Santo durante il pellegrinaggio privato del 1° settembre
2006 nel santuario di Manoppello: «Per “vedere Dio” bisogna conoscere
Cristo e lasciarsi plasmare dal suo Spirito che guida i credenti “alla verità
tutta intera”. Chi incontra Gesù, chi si lascia da Lui attrarre ed è disposto a
seguirlo sino al sacrificio della vita, sperimenta personalmente, come Egli
ha fatto sulla croce, che solo il “chicco di grano” che cade nella terra e
muore porta “molto frutto”. Questa è la via di Cristo, la via dell’amore
totale che vince la morte».
E anche il 2 maggio 2010, nella meditazione dinanzi alla Sacra Sindone
durante la visita pastorale a Torino, sottolineò che «dal buio della morte del
Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della
risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli
occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. […] Questo è il
potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori” – che porta su
di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre
passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – promana
una solenne maestà, una signoria paradossale».
Nel secondo volume, a calamitare l’attenzione di Benedetto fu il tema
della risurrezione del Signore, in quanto punto decisivo del cristianesimo:
«Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente,
ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci
si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura
di Gesù come tale. […] La fede cristiana sta o cade con la verità della
testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti». Per di più, se
commentando l’Ultima Cena il Pontefice aveva già affermato che «con
l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita», qui andò ancor più a fondo
precisando che «il racconto della risurrezione diviene per se stesso
ecclesiologia: l’incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa
nascente la sua forma».
Insieme con la risurrezione, è la nascita verginale di Gesù il tema più
scandaloso per lo spirito moderno. Cosicché, nel volume conclusivo della
trilogia, quello sull’infanzia di Gesù, Papa Ratzinger volle proporre una
convinta dichiarazione: «Naturalmente non si possono attribuire a Dio cose
insensate o irragionevoli o in contrasto con la sua creazione. Ma qui non si
tratta di qualcosa di irragionevole e di contraddittorio, bensì proprio di
qualcosa di positivo: del potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l’essere.
Perciò questi due punti – il parto verginale e la reale risurrezione dal
sepolcro – sono pietre di paragone per la fede. Se Dio non ha anche potere
sulla materia, allora Egli non è Dio. Ma Egli possiede questo potere, e con il
concepimento e la risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova
creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Redentore. Per questo,
il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria sono un elemento
fondamentale della nostra fede e un segnale luminoso di speranza».
Di qui anche la sua ammirazione e devozione per la Madonna che, nel
momento dell’annuncio dell’Angelo, diviene Madre di Dio e della Chiesa
esprimendo il suo “sì” a Dio con «l’obbedienza libera, umile e insieme
magnanima, nella quale si realizza la decisione più elevata della libertà
umana». Per Papa Ratzinger, nell’Immacolata incontriamo l’essenza della
Chiesa in modo non deformato» e da Lei «dobbiamo imparare a diventare
noi stessi “anime ecclesiali”, così si esprimevano i Padri, per poter anche
noi, secondo la parola di san Paolo, presentarci “immacolati” al cospetto del
Signore, così come Egli ci ha voluto fin dal principio».

L’evangelico servizio petrino


Vigorosa e ferma in tutto il pontificato è stata la sollecitazione di Benedetto
XVI affinché al centro della vita della Chiesa tornasse a esserci una realtà
della quale soltanto la Chiesa conserva l’identità: la Parola di Dio. Essa di
certo non risiede semplicemente in un passato lontano, in un mero ricordo
storico; piuttosto, la Parola parla “al” e “nel” nostro presente e ci sollecita
nel vissuto personale e quotidiano.
Papa Ratzinger si dedicò alla Parola di Dio con la coscienza che, come
disse nell’omelia della Messa per l’inizio del ministero petrino, egli non si
proponeva alcun programma di governo, per lo meno non così come lo si
intende comunemente. Piuttosto, vedendo come compito primario del
proprio ministero quello di vincolare l’intera Chiesa alla Parola di Dio e di
garantirne l’obbedienza a essa, egli era cosciente del fatto che il suo primo
dovere consisteva nel vivere lui stesso nell’obbedienza esemplare.
Poiché ha amato così tanto la Sacra Scrittura e ha guidato gli uomini, con
l’annuncio e la predicazione, alla conoscenza del Vangelo, il suo servizio
petrino si è caratterizzato come un pontificato in tutto e per tutto
evangelico. Per questo motivo, nell’ultima udienza generale con la quale si
congedò come vescovo di Roma, Benedetto poté confessare con franchezza
di essere stato accompagnato sempre nel suo ministero di successore di
Pietro dalla solida coscienza che «la Parola di verità del Vangelo è la forza
della Chiesa, è la sua vita».
Egli intese il pontificato secondo il significato che a esso attribuiva
sant’Ignazio di Antiochia, il quale, nella sua lettera ai Romani (circa
nell’anno 110), indicò e visse la Chiesa di Roma come colei che ha la
«presidenza nell’amore», e questo nella convinzione che la presidenza nella
fede e nella sua dottrina debba essere anche e soprattutto presidenza
nell’amore; perché una fede senza amore non sarebbe fede nel Dio biblico e
la dottrina della Chiesa raggiunge i cuori degli uomini soltanto se conduce
all’amore.
Risplende qui il motivo più profondo per cui nel Magistero di Benedetto
XVI verità e amore non sono termini in contraddizione, piuttosto si esigono
e si alimentano vicendevolmente, poiché la verità senza l’amore può
diventare brutale e l’amore senza verità può diventare banale. Papa
Benedetto ha, per questo, riassunto nella loro unità inscindibile la verità
della fede nell’amore di Dio per l’uomo e nell’amore dell’uomo verso Dio e
verso i suoi fratelli, ponendo tutto il suo pontificato al servizio
dell’annuncio di questa fede.
Di fatto, il primo Sinodo dei vescovi da lui personalmente indetto ebbe a
tema proprio “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”
(ottobre 2008), con l’esplicito obiettivo di «indicare alcune linee
fondamentali per una riscoperta della divina Parola nella vita della Chiesa,
sorgente di costante rinnovamento». E nell’esortazione apostolica Verbum
Domini, che sintetizzò i frutti di quel dibattito, Benedetto volle una
specifica sottolineatura del dovere dei cristiani di annunciare la Parola di
Dio nel mondo in cui vivono e operano.
Quattro gli aspetti di particolare attenzione. Innanzitutto, la
consapevolezza che la missione della Chiesa ha come punti di partenza e di
arrivo il mistero di Dio Padre: la sua Parola coinvolge tutti i battezzati non
soltanto come destinatari ma anche come suoi annunciatori, e la credibilità
dell’annuncio della Buona Notizia dipende dalla testimonianza della vita
cristiana. In secondo luogo, l’impegno nel mondo chiede un particolare
servizio dei cristiani in favore della riconciliazione, della giustizia e della
pace tra i popoli, con una carità operosa e creativa per alleviare le
sofferenze, sia materiali sia spirituali, di quanti sono in difficoltà.
Importante, quindi, è il ruolo della Parola di Dio nel rapporto con le
culture, anche in ambienti secolarizzati e fra i non credenti, poiché la Bibbia
è universalmente riconosciuta come un “grande codice” nel quale sono
contenuti valori antropologici e filosofici che hanno influito positivamente
su tutta l’umanità: di qui l’impegno per l’inculturazione, incrementando
anche le traduzioni e la diffusione del testo. Infine, la spinta al dialogo
interreligioso, in quanto parte essenziale dell’annuncio della Parola sono
l’incontro e la collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, in
particolare con le persone appartenenti alle diverse tradizioni religiose
dell’umanità, ovviamente evitando forme di sincretismo e di relativismo e
includendo sempre un autentico rispetto per la libertà religiosa di ogni
persona.
Da quel Sinodo venne un ulteriore impulso: «Il nostro dev’essere sempre
più il tempo di un nuovo ascolto della Parola di Dio e di una nuova
evangelizzazione. Riscoprire la centralità della divina Parola nella vita
cristiana ci fa […] continuare la missio ad gentes e intraprendere con tutte
le forze la nuova evangelizzazione». Perciò Benedetto XVI, nel giugno del
2010, istituì un Pontificio Consiglio «con il compito precipuo di
promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato
il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione,
ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una
sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare
mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo».
Come il Pontefice affermò nella prima assemblea plenaria del dicastero, «il
Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per
rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e
aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo
momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova
evangelizzazione vuol dire intensificare l’azione missionaria per
corrispondere pienamente al mandato del Signore».
Però mi sembra ancor più interessante e attuale riprendere quanto
Benedetto affermò nell’ottobre del 2012, dando avvio al nuovo
appuntamento del Sinodo dei vescovi proprio sul tema “Nuova
evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana”. Si trattò di una
sintetica ma acuta riflessione sul rapporto fra nuova evangelizzazione,
evangelizzazione ordinaria e missione ad gentes, «tre aspetti dell’unica
realtà di evangelizzazione che si completano e fecondano a vicenda».
Però all’origine, chiarì, c’è sempre l’iniziativa dall’Alto: «La Chiesa non
comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Se Dio
non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio
può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la
condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli
apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto
fa Lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della fede, ma è
sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è
un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro».
Il ministero dell’annuncio
Già da professore e da cardinale prefetto, Ratzinger aveva ben chiaro il
compito specifico del suo ministero, sempre al servizio della fede e della
verità. Ancor più da Papa maturò questa consapevolezza, come dichiarò
esplicitamente a San Giovanni in Laterano il 7 maggio 2005, durante la
celebrazione di insediamento sulla Cathedra romana quale Vescovo di
Roma: «La Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di
insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere
conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici». Di fatto, come
ribadirà nel marzo del 2016 in una lettera al Centro studi di Bydgoszcz,
«non ho mai voluto sviluppare una teologia mia propria, ma ho voluto
semplicemente servire la fede della Chiesa e la sua comprensione nel nostro
tempo».
Fu perciò una felice coincidenza che, proprio nel tempo della sua
elezione al pontificato, si concludessero i lavori per la stesura del
Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, avviati nel febbraio del
2003 da Giovanni Paolo II, il quale – a dieci anni dalla promulgazione del
grande Catechismo – ne aveva voluto anche una autorevole sintesi che
contenesse gli elementi essenziali della fede e della morale cattolica,
formulati in una maniera semplice e accessibile a tutti. E presentandolo, il
28 giugno 2005, Benedetto XVI lo definì «un rinnovato annuncio del
Vangelo oggi», esposto in forma dialogica per «riproporre un dialogo ideale
tra il maestro e il discepolo, mediante una sequenza incalzante di
interrogativi, che coinvolgono il lettore invitandolo a proseguire nella
scoperta dei sempre nuovi aspetti della verità della sua fede».
Un’esigenza del cuore di Papa Ratzinger fu la coltivazione del dialogo
con l’arte, in quanto mondo della bellezza, ma anche e soprattutto egli si
adoperò per portare alla luce la bellezza della fede stessa. Perciò una
particolare sottolineatura la diede all’apparato iconografico presentato nel
Compendio, da lui espressamente voluto perché «immagine e parola
s’illuminano così a vicenda. L’arte “parla” sempre, almeno implicitamente,
del divino, della bellezza infinita di Dio, riflessa nell’Icona per eccellenza:
Cristo Signore, Immagine del Dio invisibile. Le immagini sacre, con la loro
bellezza, sono anch’esse annuncio evangelico ed esprimono lo splendore
della verità cattolica, mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello,
tra la via veritatis e la via pulchritudinis. Mentre testimoniano la secolare e
feconda tradizione dell’arte cristiana, sollecitano tutti, credenti e non, alla
scoperta e alla contemplazione del fascino inesauribile del mistero della
Redenzione, dando sempre nuovo impulso al vivace processo della sua
inculturazione nel tempo».
Sempre chiarissima in Benedetto XVI fu la convinzione che la fede
cristiana, per poter essere e rimanere una fede umana, deve cercare
costantemente il dialogo con la ragione umana. Il Pontefice era
profondamente convinto che fede e ragione dipendono l’una dall’altra e
soltanto nel dialogo reciproco possono essere superate le patologie della
ragione e possono essere evitate le malattie della fede: senza la fede, la
ragione minaccia di diventare unilaterale e unidimensionale; senza la
ragione, la fede minaccia di nascondere la propria verità e di diventare
fondamentalista.
Convinto com’era che la domanda su Dio è di vitale significato per tutte
le questioni che attengono al futuro dell’umanità, Papa Benedetto contribuì
instancabilmente a tenere viva la questione di Dio in ogni ambito della
società moderna. Il dialogo tra fede e ragione fu essenziale per lui
soprattutto perché Dio stesso è logos e l’intera creazione è testimone di
questa ragione. Il logos non è soltanto una ragione matematica, ma ha anche
un cuore ed è amore. Da ciò trasse la seguente conclusione: «La verità è
bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità».
Nel contempo, nel suo Magistero non perse mai di vista la fede dei
semplici. Si potrebbe anzi sostenere che lui era piuttosto convinto che la
verità della fede, in ultima analisi, si manifesta meglio ai cuori più umili e
può essere colta unicamente con gli occhi della fede, come egli stesso
precisò nel messaggio “Urbi et Orbi” del Natale 2010: «Se la verità fosse
solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se
invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore».
Si può tranquillamente dire che tutto questo spiega il motivo per cui
l’ultima grande iniziativa del suo pontificato fu l’indizione dell’Anno della
fede, che inaugurò mentre era ancora in carica, l’11 ottobre 2012, nel
cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, ma che
poi “lasciò in eredità” al suo successore, stabilendo che si sarebbe concluso
il 24 novembre 2013, nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re
dell’universo.
Nella lettera di indizione Porta fidei confidò di aver ricordato, sin
dall’inizio del suo ministero come successore di Pietro, «l’esigenza di
riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore
evidenza la gioia e il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo». Ma
riconobbe con grande onestà che «capita ormai non di rado che i cristiani si
diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e
politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un
presupposto ovvio del vivere comune», mentre «questo presupposto non
solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era
possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel
suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non
sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una
profonda crisi di fede che ha toccato molte persone».
Perciò Benedetto espresse la volontà di «delineare un percorso che aiuti
a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma
insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a
Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si
crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. […] La conoscenza dei
contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire
pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla
Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico
rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si
crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della
sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di
amore».
Di conseguenza, la fede «proprio perché è atto della libertà, esige anche
la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di
Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del
credere e dell’annunciare senza timore la propria fede a ogni persona. È il
dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra
testimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La stessa professione della
fede è un atto personale e insieme comunitario. […] Professare con la bocca
indica che la fede implica una testimonianza e un impegno pubblici. Il
cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è
decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo “stare con Lui”
introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede».
L’amore al primo posto
La tradizione cattolica, come richiamato anche dal Catechismo (n. 1813),
definisce le virtù teologali – cioè quelle che «fondano, animano e
caratterizzano l’agire morale del cristiano» e «sono infuse da Dio
nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare
la vita eterna» – secondo la sequenza: fede, speranza, carità. Quando
Benedetto XVI cominciò a riflettere sulla tematica da proporre
nell’enciclica di inizio pontificato, il suo pensiero corse però alla prima
Lettera di san Paolo ai Corinzi (13,13), dove l’“apostolo delle genti”
sottolineava che «ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la
speranza e la carità», aggiungendo però immediatamente: «Ma la più
grande di tutte è la carità!».
Perciò decise di partire proprio da quest’ultima virtù, con la Deus caritas
est, anche su sollecitazione dell’amico cardinale Paul Josef Cordes,
all’epoca presidente del Pontificio Consiglio “Cor unum”, che da tempo
aveva preparato una bozza sul tema della carità: fu questa la traccia di
lavoro sulla quale venne elaborata la seconda parte dell’enciclica, mentre la
prima parte fu sostanzialmente frutto del pensiero di Papa Ratzinger.
Comunque, nel suo intento iniziale, non c’era quello di realizzare una
trilogia sulle virtù, ma piuttosto di affrontare via via le tematiche più
significative per un rinnovato annuncio del Vangelo nel mondo
contemporaneo.
Datata 25 dicembre 2005, fu resa nota il 25 gennaio 2006 e in quei giorni
Benedetto spiegò che «la parola “amore” oggi è così sciupata, così
consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie
labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà
primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo
riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa
illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata questa
consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia
prima enciclica».
Benedetto XVI era consapevole che, a prima vista, il testo poteva
apparire un po’ difficile e teorico. Offrì dunque lui stesso una schematica
traccia di lettura, in una lettera pubblicata sul settimanale «Famiglia
Cristiana»: «Ho voluto rispondere a un paio di domande molto concrete per
la vita cristiana. La prima è: si può davvero amare Dio? E ancora: l’amore
può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non abbiamo? La
risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è
rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra
vita. La seconda domanda è: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci
è estraneo o addirittura antipatico? Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio, e
in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama,
benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo
altri orientamenti. Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i
suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere
amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione? Nell’enciclica ho
cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell’eros può maturare
solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario
troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro nel profondo,
nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell’altro
diventi più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma
donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova se stesso e
diviene colmo di gioia».
Proseguiva il Pontefice: «Nella seconda parte si parla della carità, il
servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel
corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore. Qui si presentano
anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre
organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi? La risposta è:
no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo
anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo
incompleto e insufficiente. La seconda domanda: non bisognerebbe
piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i
bisognosi e per questo la carità diventa superflua? Ecco la risposta:
indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della
società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di
miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così
come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la
Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello
Stato e del suo ordinamento, però partecipa appassionatamente alla
battaglia per la giustizia. Questa, però, è solo la prima metà della risposta
alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore
nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Il
mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato
dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la
luce di Dio».

Nel segno della speranza


Dopo meno di due anni (in data 30 novembre 2007), anche la seconda
enciclica Spe salvi prese spunto da un brano di san Paolo, la Lettera ai
Romani (8,24): «Nella speranza infatti siamo stati salvati». Indubbiamente
questo testo fu maggiormente collegato all’esperienza teologica più
profonda di Ratzinger, che nel 1977 aveva redatto il libro Escatologia.
Morte e vita eterna, l’unico manuale che riuscì a completare nella collana
“Piccola dogmatica cattolica”, prima della nomina ad arcivescovo di
Monaco e Frisinga. Se posso permettermi, a livello personale questa
enciclica sarebbe il testo che porterei con me nel caso del famigerato
“naufragio sull’isola deserta”, poiché – rileggendola e meditandola – fa
scoprire sempre dettagli nuovi e risponde alle domande esistenziali più
intense di qualsiasi donna e uomo di ogni tempo.
Benedetto XVI chiarì immediatamente il nocciolo della questione,
spiegando che con l’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo «ci è
stata donata una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo
affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può
essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi
possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica
del cammino». Da questo, scaturiva la sua impellente domanda: «Di che
genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo
cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E
di quale tipo di certezza si tratta?».
Papa Ratzinger andò subito al cuore di un tema che nella società
moderna viene ipocritamente accantonato perché c’è la paura di porre la
domanda e soprattutto l’incapacità di offrire una risposta: «Il vivere e
morire dell’uomo». La sua riflessione prese spunto dal dialogo nel rito del
Battesimo fra il sacerdote e i genitori: «Che cosa chiedi alla Chiesa?», «La
fede»; «E che cosa ti dona la fede?», «La vita eterna». Con arguzia,
proseguì: «Vogliamo noi davvero questo, vivere eternamente? Forse oggi
molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non
sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma
quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo,
piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare
più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare
il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo, tutto sommato,
può essere solo noioso e alla fine insopportabile».
Ed è qui che Benedetto pose una domanda fra le più intriganti del suo
pontificato, che in un certo senso, a mio modo di vedere, vale un intero
Magistero: «Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del
nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è,
in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”?». La risposta
risulta una vera “summa” della sua teologia: «La parola “vita eterna” cerca
di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è
una parola insufficiente che crea confusione. “Eterno”, infatti, suscita in noi
l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; “vita” ci fa pensare alla vita
da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è
spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per
un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto
cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo
prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo
susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di
appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità».
Ne consegue la definitiva e confortante conclusione offerta da Benedetto
XVI: «Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che,
giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande
speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande
speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e
donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere
gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della
speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e
che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme».
Tenendo ben presenti ambedue le dimensioni umane, quella materiale e
quella spirituale, Benedetto XVI volle dedicare la terza enciclica a una
tematica che ha acquisito sempre più valore con il passar del tempo: lo
sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. La Caritas in veritate
era inizialmente rivolta a commemorare nel 2007 il quarantesimo
anniversario della Populorum progressio. Ma una serie di problematiche,
fra cui i venti di crisi che colpirono l’intero ambito economico-finanziario
in quegli anni, fecero slittare i tempi di redazione, cosicché la data formale
del documento fu il 29 giugno 2009 e la presentazione avvenne il
successivo 7 luglio.
Per offrire un’analisi più adeguata, furono consultati diversi economisti:
oltre ai professori Stefano Zamagni ed Ettore Gotti Tedeschi, venne
coinvolto pure l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Il
collegamento con l’enciclica sociale di Papa Montini risultò comunque ben
chiaro, grazie a tre precedenti prospettive ribadite con forza nel nuovo testo.
Innanzitutto l’idea che «il mondo soffre per mancanza di pensiero», quindi
la consapevolezza che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso
l’Assoluto», infine il giudizio che «all’origine del sottosviluppo c’è una
mancanza di fraternità».
L’amore-carità nella verità, spiegò Benedetto, è «il principio intorno a
cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma
operativa in criteri orientativi dell’azione morale, fra cui, in particolare, la
giustizia e il bene comune» ed è anche «una grande sfida per la Chiesa in un
mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione: il rischio del nostro
tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non
corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla
quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo
con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile
conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e
umanizzante».
La crisi mondiale, sollecitò Papa Ratzinger, «ci obbliga a riprogettare il
nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno,
a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative». Soltanto
così «diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità: in questa
chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà
del momento presente».
Ma il suo principale appello fu a sperimentare la stupefacente esperienza
del dono: «La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso
non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica
dell’esistenza». E nel contempo, a mostrare «a livello sia di pensiero sia di
comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali
la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o
attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la
logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare
posto entro la normale attività economica».

Secondo il cuore di Dio


L’attenzione nei riguardi delle consacrate e dei consacrati in generale, e in
modo specifico verso i sacerdoti, caratterizzò numerose esortazioni e
iniziative di Benedetto XVI. In particolare, il segno più evidente del suo
desiderio di ricentrare l’identità del presbitero, meditando sul significato
della vita ministeriale e della formazione ecclesiastica, fu l’indizione
dell’Anno sacerdotale, che volle esplicitamente focalizzato attorno alla
figura di Jean-Marie-Baptiste Vianney, più noto come il “santo curato
d’Ars”, nella circostanza del 150° anniversario della morte.
Per Papa Ratzinger, questo umile sacerdote di un paesino francese con
poche centinaia di fedeli – dove trascorse 44 anni di ministero senza
risparmiarsi sull’altare e nel confessionale, tanto da essere indicato come
modello e patrono dei parroci – rappresentava il modello dell’«innamorato
di Cristo» e il suo successo pastorale aveva alle spalle come segreto
«l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e
vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le
persone che cercano Dio». Nelle varie riflessioni a lui dedicate, il Pontefice
mise specificamente in primo piano una sua citazione: «Un buon pastore,
un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio
possa accordare a una parrocchia e uno dei doni più preziosi della
misericordia divina».
Perciò stabilì di iniziare l’Anno sacerdotale nella solennità del
Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno 2009, in quanto giornata
tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero, con
la conclusione nella medesima solennità del 2010. Come titolo scelse
“Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote”, per evidenziare che il dono della
grazia divina precede qualsiasi risposta umana e realizzazione pastorale, e
così, nella vita del sacerdote, annuncio missionario e culto non sono mai
separabili, come non vanno mai separati identità sacramentale e missione
evangelizzatrice.
Benedetto aveva infatti maturato sempre più la consapevolezza che la
visione comune della vita nel mondo moderno comprende con difficoltà il
sacro, mentre l’unica decisiva categoria diventa la funzionalità, cosicché «la
concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua
naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale».
Riprendendo un precedente testo sul ministero e la vita del sacerdote,
spiegò con determinazione: «Non di rado, sia negli ambienti teologici,
come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si
confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del
sacerdozio. Esistono da una parte una concezione sociale-funzionale che
definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di servizio alla comunità,
nell’espletamento di una funzione; dall’altra parte, vi è la concezione
sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio
del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che
questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la
mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento».
Il preciso intento, di conseguenza, fu quello di ribadire che «il sacerdote
è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo
ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in
Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché
appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è
ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica
liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del
Cristo, nella preghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui. È questa allora
la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la
partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile
obbedienza alla Chiesa».
La sua puntualizzazione fu estremamente netta: «Il sacerdote non è
semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha
bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli
invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in
nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a
partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del
pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di
transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il
suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole
che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è
quindi non semplicemente “ufficio”, ma sacramento: Dio si serve di un
povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di
agire in loro favore».
Anche per questi motivi volle ribadire con forza l’importanza e
l’obbligatorietà dell’abito ecclesiastico, sottolineando nella nuova edizione
del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (n. 61) che «la veste
talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente
opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire
meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero
che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per
insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso
la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio.
Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e
della castità».

Il sacerdozio non è un “job”


Soprattutto nel dialogo con i sacerdoti il 10 giugno 2010 in piazza San
Pietro e nell’omelia per la Messa del giorno seguente, Papa Ratzinger non si
tirò indietro riguardo alle questioni più urgenti e problematiche, a
cominciare dall’importanza della formazione teologica: «Nel nostro tempo
dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli
attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola.
Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter
rispondere ragionevolmente, per poter dare – come dice san Pietro –
“ragione della nostra fede”». Con questi obiettivi in mente, decise di
promulgare il motu proprio Ministrorum institutio, trasferendo dalla
Congregazione per l’Educazione cattolica a quella per il Clero «la
promozione e il governo di tutto ciò che riguarda la formazione, la vita e il
ministero dei presbiteri e dei diaconi: dalla pastorale vocazionale e la
selezione dei candidati ai sacri ordini, inclusa la loro formazione umana,
spirituale, dottrinale e pastorale nei seminari e negli appositi centri per i
diaconi permanenti, fino alla loro formazione permanente».
Si soffermò poi sul valore del celibato: «Può sorprendere questa critica
permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di
moda non sposarsi. Ma il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo
per se stessi: è quindi un “no” al vincolo, un “no” alla definitività, un avere
la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un “sì”
definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del
Signore, nel suo “io”, e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia». E propose
una sfidante riflessione sulla mancanza di vocazioni: «La tentazione è
grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio
in una normale professione, in un “job” che ha le sue ore, e per il resto uno
appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra
vocazione. Ma è una tentazione che non risolve il problema. Tre punti:
ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in
maniera tale da risultare convincente; dobbiamo invitare all’iniziativa della
preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con
forza; dobbiamo avere il coraggio di parlare con i giovani se possono
pensare che Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per
aprire l’ascolto alla vocazione divina».
Non si sottrasse nemmeno a un duro giudizio sul dramma della pedofilia
nel clero, che in quei mesi esplose in diverse parti del mondo e in seguito
innescò ulteriori aspre polemiche: «Era da aspettarsi che al “nemico” questo
nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito
vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal
mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il
sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti –
soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come
compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo
contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle
persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il
possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere
che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il
cammino di preparazione a esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare
l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i
sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in
situazioni penose e nei pericoli della vita».
Benedetto individuò e valorizzò, fra gli importanti sostegni che la
comunità dei fedeli può offrire ai sacerdoti per il compimento del loro
ministero, l’esercizio della maternità spirituale di religiose e laiche,
incarnata in preghiere, penitenze, comunioni quotidiane e adorazioni
eucaristiche per la santificazione dei presbiteri. E mostrò apprezzamento
per quanto affermato dalla Congregazione per il Clero nella Lettera del
2008 in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la santificazione
sacerdotale: «Si delinea, ultimamente, una ulteriore forma di maternità
spirituale, che sempre ha silenziosamente accompagnato, nella storia della
Chiesa, l’eletta schiera sacerdotale: si tratta del concreto affidamento del
nostro ministero a un volto determinato, a un’anima consacrata, che sia da
Cristo chiamata e, quindi, scelga di offrire se stessa, le necessarie sofferenze
e le inevitabili fatiche della vita, per intercedere in favore della nostra
sacerdotale esistenza, vivendo, in questo modo alla dolce presenza di
Cristo. Una tale maternità, nella quale s’incarna il volto amorevole di
Maria, va domandata nella preghiera, poiché solo Dio può suscitarla e
sostenerla». E nell’udienza generale dedicata alla figura di santa Caterina da
Siena, il 24 novembre 2010, egli stesso sottolineò che «anche oggi la
Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di
tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per
Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette
sempre più elevate».

Il dialogo al servizio della pace


Con risoluta fedeltà al Concilio Vaticano II, Benedetto XVI pose un
particolare accento sui temi correlati al rapporto della Chiesa con il mondo
contemporaneo, cioè l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e la libertà
religiosa. Sebbene dopo tutti questi decenni il movimento ecumenico non
sia riuscito a raggiungere l’unità visibile dei cristiani, anzi quell’obiettivo
nel frattempo sia piuttosto divenuto sempre meno chiaro e realizzabile,
Papa Ratzinger restò saldo sulla necessità di mantenere il dialogo
dell’amore. Per questo motivo dedicò molto tempo a incontri con
rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, appuntamenti che sono
stati continuamente ideati, promossi e cercati, realizzando già in questo
modo un primato ecumenico.
In lui era chiarissima l’idea che «la fraternità tra i cristiani non è
semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di
indifferenza verso la verità. Essa è fondata sulla realtà soprannaturale
dell’unico battesimo, che ci inserisce tutti nell’unico Corpo di Cristo.
Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo
riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini, sottolineando la
nostra comune appartenenza a Lui». E affermò che «grazie a questo
ecumenismo spirituale (santità della vita, conversione del cuore, preghiere
private e pubbliche), la comune ricerca dell’unità ha registrato in questi
decenni un grande sviluppo, che si è diversificato in molteplici iniziative:
dalla reciproca conoscenza al contatto fraterno tra membri di diverse Chiese
e Comunità ecclesiali, da conversazioni sempre più amichevoli a
collaborazioni in vari campi, dal dialogo teologico alla ricerca di concrete
forme di comunione e di collaborazione».
Papa Ratzinger fu molto attento a promuovere anche il dialogo
interreligioso, in quanto «per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse
religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le
comunità religiose al bene comune» ed essa «nulla rigetta di quanto è vero e
santo nelle varie religioni». Ovviamente, con la lucidità dell’ex prefetto
della Dottrina della fede, fu netto nel chiarire che «quella indicata non è la
strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti,
annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita”, in
cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha
riconciliato con se stesso tutte le cose»; ma ciò «non esclude il dialogo e la
ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita
un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da
chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”».
Un particolare riscontro ci fu nell’appuntamento di Assisi dell’ottobre
2011, al quale egli invitò le Chiese cristiane, le altre religioni e anche
persone agnostiche, per sensibilizzare tutti all’impegno per l’affermazione
sempre nuova della pace nel mondo, dando insieme testimonianza pubblica
che la gemella della religione è la pace e mai la violenza. L’occasione fu il
25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace,
convocata nel 1986 da Giovanni Paolo II per testimoniare come la religione
sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto.
L’auspicio di Benedetto fu che il ricordo di quell’esperienza potesse imporsi
come «motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si
rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace». Gettando uno
sguardo retrospettivo, si pone in questo ambito anche il fatto che l’ultimo
viaggio apostolico del suo pontificato lo abbia condotto in Libano, dunque
in Medio Oriente, dove egli portò speranza a uomini sofferenti a causa del
terrore e si adoperò per la pace in quella regione duramente provata.
Per il Pontefice, tutto ciò si poneva comunque in correlazione con il
dialogo interculturale, che lui poneva persino all’inizio del rapporto fra
culture e religioni, come affermò nel dicembre del 2008 in occasione
dell’Anno europeo del dialogo interculturale: «Nel contesto odierno, in cui
sempre più spesso i nostri contemporanei si pongono le domande essenziali
sul senso della vita e sul suo valore, appare più che mai importante riflettere
sulle antiche radici dalle quali è fluita linfa abbondante nel corso dei secoli.
Il tema del dialogo interculturale e interreligioso, perciò, emerge come una
priorità per l’Unione Europea e interessa in modo trasversale i settori della
cultura e della comunicazione, dell’educazione e della scienza, delle
migrazioni e delle minoranze, fino a raggiungere i settori della gioventù e
del lavoro. Una volta accolta la diversità come dato positivo, occorre fare in
modo che le persone accettino non soltanto l’esistenza della cultura
dell’altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento».

Liberi di vivere la propria fede


In riferimento al rispetto della libertà religiosa, Papa Ratzinger, oltre a
molteplici iniziative riservate, si spese pubblicamente con dichiarazioni
coraggiose e inequivocabili, precisando che essa «non è patrimonio
esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È
elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza
intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone
sintesi e vertice». Parallelamente denunciò con forza, come fece per
esempio a gennaio del 2011, che «i cristiani sono attualmente il gruppo
religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della
propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella
paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e
del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò
non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità
umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la
realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale».
È poi fondamentale ricordare la poderosa lettera ai cattolici della
Repubblica popolare cinese, da lui scritta nel terzo anno di pontificato, con
la quale espresse «come mio intimo e irrinunciabile dovere e come
espressione del mio amore di padre, l’urgenza di confermare nella fede i
cattolici cinesi e di favorire la loro unità con i mezzi che sono propri della
Chiesa». Benedetto affermò chiaramente che «la soluzione dei problemi
esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le
legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile
un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente
in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa» e
specificamente chiese ai governanti cinesi «di garantire ai cittadini cattolici
il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà
religiosa». Purtroppo all’epoca quel testo non trovò molta risonanza, ma
tuttora rappresenta una bella testimonianza della sua preoccupazione di
pastore che, pur definendosi volentieri vescovo di Roma, aveva
contemporaneamente sempre di fronte agli occhi l’universalità della Chiesa
cattolica.
Nella complessiva azione della Chiesa in favore della pace, Papa
Ratzinger inserì anche l’impegno per la salvaguardia del creato,
puntualizzando il vero pensiero cristiano circa il tema ecologico: «Poiché la
fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non
può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio
della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere
questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non
solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti.
Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È
necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel
senso giusto». Alla base, la consapevolezza che «lo sviluppo umano
integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo
con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso
comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special
modo verso i poveri e le generazioni future».
Nessuna ambiguità, però, nella considerazione della gerarchia dei valori:
«Una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta
ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona.
Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi a una concezione
dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale
concezione elimina la differenza ontologica tra la persona umana e gli altri
esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto a eliminare l’identità e il ruolo
superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della dignità di
tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, a un nuovo panteismo con accenti
neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente
naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, a impostare
la questione in modo equilibrato, nel rispetto della “grammatica” che il
Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode
e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo
abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare».

Tra politica e cultura


Lungo il corso del pontificato, Benedetto XVI è stato chiamato a
confrontarsi con i leader politici e culturali di numerose nazioni e delle
principali istituzioni internazionali. Da tale confronto è scaturito un
consistente complesso di riflessioni sull’ordinamento politico e giuridico,
che tocca le problematiche fondamentali della società, del rapporto tra fede
e ragione, tra legge e diritto, tra giustizia e libertà religiosa.
Fra i quattro discorsi che considero più rappresentativi in questo ambito,
emblematico fu quello che pronunciò il 18 aprile 2008 dinanzi
all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel quale il
Pontefice valorizzò il progetto dei diritti umani, sviluppatosi in particolare
nel secondo dopoguerra, con l’approvazione della Dichiarazione universale
del 1948. Riassumendo i princìpi fondativi dell’Onu – il desiderio della
pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la
cooperazione umanitaria e l’assistenza – ribadì che essi «esprimono le
giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che
dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali» e sottolineò che il
rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono «servono a valutare il
rapporto fra giustizia e ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto:
la promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per
eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un
aumento della sicurezza».
Papa Ratzinger si coinvolse in prima persona in tale impegno,
confermando che «le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel
quale la Chiesa è impegnata a portare la propria esperienza “in umanità”,
sviluppata lungo i secoli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a
disposizione di tutti i membri della comunità internazionale». E precisò che
«questa esperienza e attività, dirette a ottenere la libertà per ogni credente,
cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti della persona.
Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona,
che permette a uomini e donne di percorrere il loro cammino di fede e la
loro ricerca di Dio in questo mondo. Il riconoscimento di questa dimensione
va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo
migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo sviluppo, la
cooperazione e la garanzia dei diritti delle generazioni future».
Dopo pochi mesi, nel discorso del 12 settembre 2008 al Collège des
Bernardins di Parigi, Benedetto si rivolse alle élites culturali di una Francia
oggi generalmente secolarista e diffidente verso le religioni, per descrivere
il contributo della fede cristiana allo sviluppo della civiltà europea, al
risanamento della ragione, alla rinascita di una civiltà, sepolta sotto le
rovine della devastazione della barbarie, che aveva fatto crollare vecchi
ordini e antiche sicurezze. L’esempio da lui portato fu quello dei monaci
benedettini, affascinati e impegnati in una continua ricerca di Dio
utilizzando anche le scienze profane: scrittura, studio della grammatica,
biblioteca, scuola, sono tutte componenti che fanno parte del monachesimo
occidentale. Insieme con la cultura della parola, essi espressero la cultura
del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua
formazione del mondo sono impensabili.
Ma il Papa andò più in profondità, spiegando che c’era un preciso
obiettivo di questa loro missione: «Quaerere Deum, cercare Dio. Nella
confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la
cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre,
trovare la Vita stessa. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle
essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile». Di qui la
sua sfida: «Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno
necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che
rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa
Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità
più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non
potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la
ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il
fondamento di ogni vera cultura».
Nella Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010, Benedetto si
trovò a parlare nel Parlamento più antico fra quelli delle democrazie
occidentali. Risuonano tuttora con limpidezza le parole di vivo
apprezzamento per la tradizione democratica liberale da lui pronunciate,
senza però sottacere preoccupazioni e premure affinché un’autentica libertà
di religione fosse preservata, anche nel futuro, in Occidente, da ogni forma
di sottile minaccia: «Il mondo della ragione e il mondo della fede – il
mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno
bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un
profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà. La religione, in
altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore
che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione».
In quella circostanza, Papa Ratzinger sgombrò il campo da un equivoco
persistente nella cultura contemporanea, basato sull’idea che il
cristianesimo e, in particolare, la Chiesa cattolica, intervenendo nei dibattiti
pubblici, si appellino a un “principio di autorità” nella decisione sulle
questioni giuridiche e politiche. La visione da lui proposta, invece non
permette ai fedeli di esimersi dalle fatiche, né consente loro di privarsi
dell’uso della ragione, trincerandosi dietro precetti o comandi religiosi. Per
la fiducia nutrita nella possibilità che il divino, come logos, possa essere
incontrato nella ricerca razionale della verità, Benedetto XVI non esitò a
richiamare il fatto che le fonti ultime del diritto sono da ricercarsi nella
ragione e nella natura, non in un comando, di chiunque esso sia.
Infine, nel discorso al Reichstag di Berlino del 22 settembre 2011, andò
alla radice della questione, toccando il tema del fondamento dell’ordine
giuridico e dei limiti del positivismo giuridico, dominante in tutto il
continente europeo lungo il corso del XX secolo. Dettagliando come sia
possibile riconoscere ciò che è giusto, spiegò che «nella storia, gli
ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso:
sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è
giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai
imposto allo Stato o alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento
giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e
alla ragione quali vere fonti del diritto, ha rimandato all’armonia tra ragione
oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue
le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio si evidenzia l’originalità del cristianesimo, per il
quale «la politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le
condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il
successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione
politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla
volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Servire il diritto e
combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale
del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere
finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente».

Le citazioni senza il contesto


Nel libro The Vatican Diaries del giornalista statunitense John Thavis c’è
una annotazione che mi ha colpito: «Quando Papa Benedetto arrivò alla sua
conferenza stampa nel settore economy si levò un brusio frenetico. Ecco il
motivo per cui le nostre aziende ci pagavano profumatamente: l’accesso
all’uomo in bianco. Ecco come la nostra esperienza di vaticanisti sarebbe
tornata davvero utile: pungolare il Pontefice su questioni spinose e
interpretare le sue risposte improvvisate. […] Anni prima, fare marcia
indietro quando il Papa faceva qualche gaffe era facile, semplicemente
perché i reporter non potevano inviare i loro pezzi finché l’aereo non
atterrava, diverse ore dopo. Ma il 777 di Alitalia era munito di telefoni, e il
genio era già uscito dalla lampada».
Di fatto, è la “fotografia” di uno di quei delicati momenti che hanno
periodicamente caratterizzato il rapporto dei mass media con il Magistero di
Papa Ratzinger, quando i vaticanisti andavano alla ricerca di una notizia che
potesse rappresentare “l’osso per il brodo” dei loro articoli, qualcosa che
entrasse nel trending topic di Twitter o che avviasse una polemica capace di
polarizzare per giorni l’attenzione dell’opinione pubblica. Spesso
l’estrapolazione di un singolo pensiero o citazione del Pontefice, senza
contestualizzare la complessità del suo ragionamento, innescò reazioni che
tenevano conto unicamente della stringata sintesi delle agenzie di stampa. E
l’ovvio risultato era che chiunque si sentiva autorizzato, in buona o cattiva
fede che fosse, a esprimere d’istinto la propria vibrante critica, salvo poi
doverla ritrattare una volta messo a fuoco l’intero quadro.
Un tipico esempio fu ciò che accadde nel viaggio del marzo 2009 in
Camerun e Angola, quando, durante il volo fra Roma e Yaoundé, un
reporter francese pose la domanda: «Santità, tra i molti mali che travagliano
l’Africa, vi è anche e in particolare quello della diffusione dell’aids. La
posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di esso viene
spesso considerata non realistica e non efficace. Lei affronterà questo tema,
durante il viaggio?». Coraggiosamente, Benedetto XVI non si tirò indietro,
rivendicando innanzitutto che «la realtà più efficiente, più presente sul
fronte della lotta contro l’aids è proprio la Chiesa cattolica»; poi scandì
poche, ma precise parole: «Direi: non si può superare questo problema
dell’aids solo con soldi. […] Non si può superare con la distribuzione di
preservativi: al contrario, aumentano il problema».
Come prevedibile, i titoli giornalistici risultarono tutti schierati nella
medesima direzione: «Papa in Africa: aids, i preservativi non servono»
(«Corriere della Sera»), «Contro l’aids no ai preservativi» («la
Repubblica»), «Benedetto XVI contesta l’efficacia del preservativo» («Le
Monde»), «Il Papa afferma che i preservativi non sono il modo di
combattere l’HIV » («New York Times») … Nessuno spazio, invece, per la
soluzione da lui indicata, mediante un duplice impegno: «Primo, una
umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti
con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro; secondo, una vera
amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche
con sacrifici, con rinunce personali, a essere con i sofferenti». In realtà, il
Papa fondava il proprio ragionamento su dati scientifici e sociologici, come
per esempio uno studio dell’autorevole rivista britannica «The Lancet», che
nel gennaio del 2000 affermava: «Ci sono tre modi in cui un forte aumento
dell’uso del preservativo potrebbe non influenzare la trasmissione della
malattia. In primo luogo, la promozione del preservativo si rivolge
maggiormente agli individui avversi al rischio, che contribuiscono poco alla
trasmissione dell’epidemia. In secondo luogo, l’aumento dell’uso del
preservativo aumenterà il numero di trasmissioni risultanti dal fallimento
del preservativo. In terzo luogo, esiste un meccanismo di compensazione
del rischio: un maggiore uso del preservativo potrebbe riflettere le decisioni
degli individui di passare da strategie intrinsecamente più sicure di
selezione del partner o meno partner alla strategia più rischiosa di
sviluppare o mantenere tassi più elevati di cambio del partner».

Polemiche e incomprensioni
Questo modo di agire da parte dei cosiddetti opinion leader è stato
costantemente presente in diverse circostanze, con polemiche o
incomprensioni che alla prova dei fatti si sono poi rivelate inconsistenti. La
prima avvenne il 12 settembre 2006, quando Papa Ratzinger si recò
nell’ateneo di Ratisbona, dove aveva insegnato Dogmatica e storia del
dogma dal 1969 al 1977, ricoprendo anche l’incarico di vicerettore. Era
stata una gioia per lui ricevere l’invito a pronunciare una lectio magistralis
sul tema “Fede, ragione e università” e ricordo che si preparò con molta
serietà, approntando una vera e propria lezione accademica, da considerare
perciò con un filo unitario, nell’intento di far emergere la necessità per
l’Europa di riscoprire le proprie radici cristiane.
Il dramma fu che una citazione da lui utilizzata – «Mostrami pure ciò
che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e
disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede
che egli predicava» – venne estrapolata dal contesto, il dialogo
dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un sapiente della legge
islamica, e rilanciata come un’affermazione personale del Pontefice,
diventando così un caso politico. In diversi Paesi islamici ci furono anche
gravi tumulti, che causarono persino delle vittime innocenti, e furono
necessarie due precisazioni, del direttore della Sala stampa Lombardi e del
segretario di Stato Bertone, per tamponare nell’immediato una situazione
che era divenuta incandescente. In ogni caso, nessuno di quanti avevano
letto in anticipo il testo aveva manifestato al Papa qualche perplessità in
merito, proprio perché era per tutti chiaro l’ambito in cui si sarebbe svolta
quella lettura.
Sta di fatto che, passata la tempesta e calmate le acque, soprattutto molti
studiosi islamici lessero integralmente il discorso e si resero conto della
reale consistenza di quelle parole. Ci vollero un po’ di mesi, ma alla fine
138 esponenti musulmani di 43 nazioni inviarono una lettera a Benedetto
per ribadire l’importanza di un confronto sincero e reciprocamente
rispettoso e, a dimostrazione di una ritrovata serenità, il 6 novembre 2007
giunse per la prima volta in Vaticano il re dell’Arabia Saudita Abdallah bin
Abdulaziz Al Saud, titolare anche dell’altissima carica religiosa di custode
delle due sacre moschee della Mecca e di Medina.
Un altro ambiente universitario, questa volta in Italia, fu al centro
dell’assurda contestazione che portò all’annullamento della visita di
Benedetto nell’ateneo romano La Sapienza, programmata per il 17 gennaio
2008. La preparazione era partita di lontano, addirittura l’invito ufficiale del
rettore Renato Guarini era giunto il Vaticano il 17 marzo 2006, e il saluto
alla comunità universitaria si collegava a dei restauri effettuati nella
cappella interna all’ateneo.
A innescare la polemica fu la comunicazione al Senato accademico, il 23
ottobre 2007, che il Papa avrebbe pronunciato una lectio magistralis.
Nonostante il formale chiarimento dato dal rettore il 13 novembre seguente,
specificando che si sarebbe trattato unicamente di una allocuzione, mentre
la lezione magistrale era stata affidata al professor Mario Caravale sul tema
della pena di morte, un gruppo di docenti di fisica chiese che l’evento
venisse annullato, adducendo come motivazione che Ratzinger, in un
discorso del 15 marzo 1990, aveva ripreso un’affermazione di Feyerabend:
«All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello
stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto».
Praticamente era il duplicato di quanto avvenuto a Ratisbona, poiché, in
quella conferenza sul tema “La Chiesa e la modernità” (come ricostruì il
responsabile della cappella universitaria padre Vincenzo D’Addamo), «il
relatore non condivideva la posizione del filosofo citato. Il cardinale
Ratzinger evidenziava le implicazioni, sulla Chiesa, del cambiamento di
paradigma culturale nei vari passaggi storici della modernità e considerava
l’immagine che di Chiesa derivava, sia all’interno sia all’esterno del mondo
ecclesiale. In questo contesto si collocava anche il passaggio critico su
Feyerabend, e il suo giudizio controverso, di “modernità” e di
“ragionevolezza”, del comportamento della Chiesa nei confronti di
Galileo».
In ogni caso, Benedetto preferì rinunciare alla presenza fisica e inviò il
testo scritto, che fu letto in aula magna dal prorettore alle attività sociali
Piero Marietti. E posso con serenità rispondere a Carlo Cosmelli, uno dei
fisici firmatari della lettera, che chiese provocatoriamente se avrebbe detto
le stesse cose durante l’intervento di persona: «Sì, non una virgola venne
cambiata!». Ma il Papa serbò comunque il dispiacere – più che per la
mancata accoglienza in quel centro culturale cui, non dimentichiamolo,
aveva dato vita il suo predecessore Bonifacio VIII, istituendo il 20 aprile
1303 lo “Studium Urbis” – per la chiusura intellettuale di studiosi che di
fatto avevano cancellato con un tratto di penna la libertà accademica.

Una clemenza malintesa


Su un altro piano di incomprensione si situò invece la polemica relativa alla
revoca della scomunica a quattro vescovi consacrati senza mandato
pontificio dall’arcivescovo Marcel Lefèbvre: un gesto che il Pontefice
adottò per sbloccare lo stallo che da anni perdurava nei rapporti tra la Santa
Sede e la Fraternità sacerdotale San Pio X.
Da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale
Ratzinger aveva a lungo dialogato con monsignor Lefèbvre: il 5 maggio
1988 entrambi avevano addirittura firmato un protocollo d’accordo, ma il
giorno successivo il presule francese cambiò idea e il 30 giugno procedette
all’ordinazione episcopale di Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais,
Richard Williamson e Alfonso de Galarreta, ricadendo tutti nella scomunica
latae sententiae riservata alla Sede apostolica (è la pena in cui si incorre
automaticamente dopo aver trasgredito una legge ecclesiastica, senza
necessità che venga pronunciata una esplicita sentenza).
In seguito a ulteriori colloqui, monsignor Bernard Fellay, superiore
generale della Fraternità, il 15 dicembre 2008 inviò al cardinale Darío
Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”,
una lettera nella quale affermava, tra l’altro: «Siamo sempre fermamente
determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre
forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, che è la Chiesa
cattolica romana. Noi accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi
crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative, e per
questo ci fa tanto soffrire l’attuale situazione». Di conseguenza, come gesto
di benevolenza, Benedetto XVI decise di riconsiderare la situazione
canonica dei quattro vescovi scomunicati e dispose la remissione della
censura latae sententiae.
Per comprendere quanto accadde è però necessario tenere a mente la
tempistica, ricostruita dal cardinale Castrillón: «Il 14 gennaio 2009 ho
ricevuto il decreto approvato dal Santo Padre e firmato dal cardinale Re. A
casa mia, il 17 gennaio l’ho consegnato a monsignor Fellay, pregandolo di
informare gli altri tre vescovi della Fraternità. Solo allora essi seppero che a
partire dal 21 gennaio sarebbero stati liberi dalla scomunica, e si chiese loro
di conservare il segreto fino al giorno 24, quando sarebbe stato pubblicato
ufficialmente il decreto».
Ma il 20 gennaio il settimanale tedesco «Der Spiegel» rese nota una
dichiarazione rilasciata, il 1° novembre 2008, da monsignor Williamson a
un giornalista svedese (poi trasmessa dalla rete Sveriges Television proprio
nella serata del 21 gennaio), nella quale il vescovo negava che durante
l’Olocausto fossero stati uccisi ebrei nelle camere a gas. La polemica
immediatamente divampò e oggettivamente si verificarono errori di
comunicazione a livello vaticano: ci fu una imprecisa spiegazione del senso
di quella remissione dalla scomunica, che aveva un valore unicamente
ecclesiale e non coinvolgeva altri aspetti, e soprattutto non si chiarì con
forza che quella dichiarazione Benedetto e io non la conoscevamo (e che
anzi risultava sospetta un’attesa così prolungata prima della messa in onda,
come se si fosse atteso il momento giusto…).
In aggiunta, Castrillón aveva comunicato a Benedetto e a Bertone che
Williamson era molto ammalato di cancro e in poco tempo sarebbe morto,
per cui si accelerò la procedura per consentirgli di avere rapidamente la
remissione della scomunica. La notizia risultò falsa e suscitò ulteriore
irritazione in Vaticano, ma anche nella Fraternità la presenza del vescovo
negazionista non deve essere risultata opportuna, visto che, il 24 ottobre
2012, il vescovo sarà formalmente «dichiarato escluso per decisione del
superiore generale e del suo Consiglio».
Comunque, alla fine il Pontefice decise di dare un definitivo taglio alla
questione e, con la consueta signorilità, prese sulle proprie spalle la colpa.
Ci fu un incontro nel quale si discusse a lungo, e diversi di noi ritenevamo
che chi non aveva prestato l’opportuna attenzione avrebbe dovuto assumersi
la responsabilità dell’accaduto. Ma Benedetto non volle che qualcuno
potesse sostenere che si era nascosto dietro ai collaboratori, cosicché si
ritirò nello studio e ne uscì con una lettera totalmente scritta da lui, che
venne pubblicata il 10 marzo 2009, con la presa d’atto del fatto che «il
sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso,
trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione».
Nel contempo, Papa Ratzinger volle esternare la propria tristezza perché
«anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno
le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta
all’attacco» e, citando la frase di san Paolo «se vi mordete e vi divorate a
vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!»
(Galati 5,15), concluse lucidamente: «Sono stato sempre incline a
considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si
trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma
purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come
espressione di una libertà mal interpretata».
7
La storica rinuncia che ha segnato un’epoca

I motivi della decisione


Parafrasando il famoso verso di Dante «galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse»
(Inferno V,136), si potrebbe dire che «galeotto fu il Mondiale e chi lo
indisse». Mi spiego subito: il 30 ottobre 2007 la Fifa aveva assegnato al
Brasile l’organizzazione della Coppa del mondo di calcio per il 2014,
cosicché, quando il 21 agosto 2011 a Madrid, al termine della 26 a Giornata
mondiale della gioventù, Benedetto rese noto che la sede della successiva
edizione sarebbe stata Rio de Janeiro, venne precisato anche che era stato
ritenuto opportuno anticipare la 27 a GMG al 2013, non rispettando la
consueta cadenza triennale, per evitare la coincidenza dei due affollati
eventi.
Si potrà condividere o meno la convinzione del Papa, ma – e lo dico con
estrema chiarezza per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco – fu
proprio la questione della partecipazione personale a quella GMG a
innescare in lui una riflessione, che via via si fece sempre più stringente,
riguardo alla prosecuzione o meno del suo pontificato. La gioia che aveva
visto negli occhi degli innumerevoli ragazzi e ragazze presenti sulla
spianata dell’aeroporto madrileno Cuatro Vientos, per la veglia di preghiera
e la santa Messa, avevano infatti indelebilmente consolidato la sua certezza
che un incontro dei giovani senza la presenza fisica del Pontefice sarebbe
stato monco.
Era rimasta scolpita nei suoi occhi e nella sua mente l’immagine di
quell’immenso popolo, si calcolarono due milioni di presenze, che cantava
e lo incitava sotto una tremenda tempesta. A un certo punto gli era volato
via lo zucchetto bianco dalla testa e il nubifragio lo aveva inzuppato al
punto che le scarpe rosse gli avevano macchiato perfino la pelle dei piedi.
Ma quando, sollecitato da un cardinale, ero andato a proporgli di ritirarsi,
mi aveva risposto con fermezza: «Io rimango!». E a voce alta aveva detto
sorridendo ai ragazzi: «Il Signore con la pioggia ci manda tante
benedizioni».
A Madrid, Papa Ratzinger aveva manifestato esplicitamente il proprio
pensiero: nel saluto finale, riferendosi all’appuntamento di Rio, aveva
invocato il Signore affinché spianasse «il cammino ai giovani di tutto il
mondo perché possano riunirsi nuovamente col Papa in questa bella città
brasiliana». Perciò sono tuttora convinto che, se l’appuntamento fosse
normalmente stato confermato per il 2014, Benedetto non avrebbe
indugiato nel corso del 2012 a ragionare sulla propria stanchezza fisica e
mentale, ma sarebbe tranquillamente andato avanti per tutto il 2013.
Mi sembra che possano documentarlo proprio alcune sue affermazioni di
inizio 2012. Durante il Concistoro del 18 febbraio, Benedetto
nell’allocuzione chiese di pregare per lui «affinché possa sempre offrire al
popolo di Dio la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite
fermezza il timone della santa Chiesa»: parole che non rivestono alcun
presagio di rinuncia. Il 16 aprile, giorno dell’85° compleanno, salutò i
connazionali bavaresi esprimendo un legittimo dubbio, semplicemente
collegato alla sua età avanzata: «Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del
percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta». Dall’incontro del 28
marzo con Fidel Castro, quasi suo coetaneo ma decisamente più malridotto
(infatti morì novantenne nel 2016), venne riportata la battuta del Papa:
«Sono anziano, ma posso fare ancora il mio dovere».
Purtroppo però il viaggio apostolico in Messico e a Cuba, fra il 23 e il 29
marzo 2012, lo rese all’improvviso consapevole di quanto le sue forze
stessero costantemente diminuendo, imponendogli una seria valutazione
sull’immediato futuro. Di fatto la visita pastorale era andata molto bene, ma
rispondere all’entusiasmo della gente nei tanti incontri pubblici (oltre ai
diversi appuntamenti privati), considerando la notevole differenza di fuso
orario e la tempistica dei trasferimenti in aereo e in automobile, era risultato
ovviamente molto faticoso per un uomo di ormai 85 anni.
Per di più, in Messico, il Papa inciampò in un tappetino mentre era in
bagno per farsi la barba e cadde di spalle, battendo la testa sul rialzo della
cabina della doccia. Non ebbe perdita di conoscenza o problemi particolari,
ma furono necessari un paio di punti per suturare la ferita. Nonostante la
medicazione il sanguinamento proseguì, al punto da costringere monsignor
Guido Marini a non togliergli lo zucchetto, che copriva la garza macchiata,
nei momenti in cui la liturgia lo avrebbe richiesto durante la Messa nel
Parque del bicentenario di León, tant’è che qualcuno pensò che il maestro
delle Celebrazioni si fosse distratto!
Al rientro in Vaticano, il dottor Polisca fu netto nello sconsigliare un
altro viaggio transatlantico, suggerendogli di limitarsi a percorrenze meno
impegnative. Benedetto prese sul serio questa indicazione, ampliando la
propria meditazione anche riguardo agli altri aspetti del ministero
pontificio, e dialogò più volte con il medico personale, per comprendere
bene il possibile evolversi della situazione di salute.
Come ho saputo in seguito, già nell’udienza del 30 aprile 2012 accennò
al cardinale Bertone l’idea di rinunciare al ministero petrino, ma
nell’immediato non ci furono ulteriori sviluppi. In effetti, in quell’occasione
il segretario di Stato, uscendo dall’incontro, mi aveva fatto una domanda
molto vaga: «Il Papa mi ha detto una cosa strana riguardo alla sua
stanchezza e al timore di non farcela ad andare avanti. Ne ha parlato anche
con te?». Io risposi che non sapevo nulla e non fui particolarmente colpito
da tali parole. Nel frattempo era cominciato il cosiddetto Vatileaks e i nostri
pensieri vennero assorbiti dalle preoccupazioni legate a questa vicenda e
alle contemporanee questioni relative alle polemiche attorno allo IOR e alle
notizie sullo scandalo della pedofilia nel clero.
Fra il 30 maggio e il 3 giugno andammo a Milano per il 7° Incontro
mondiale delle famiglie e anche in questo caso ci fu un clima molto festoso,
che persuase ulteriormente Benedetto riguardo alla necessità della presenza
fisica del Papa in mezzo ai fedeli. Devo però smentire una rievocazione del
gesuita Silvano Fausti in relazione all’incontro del 2 giugno,
nell’arcivescovado di Milano, fra il Papa e il cardinale Carlo Maria Martini,
che era gravemente ammalato di Parkinson e morirà il 31 agosto
successivo. Secondo padre Fausti, Martini avrebbe fatto riferimento ai
problemi della Curia vaticana, suggerendo a Benedetto di dimettersi: «È
proprio ora, sai, perché qui non si riesce a fare nulla». Io ricordo bene che il
cardinale quel giorno era sulla sedia a rotelle in pessime condizioni, non
riusciva praticamente a parlare e dalla gola gli uscivano soltanto suoni
indistinguibili. Effettivamente ci fu un incontro di pochi minuti a
quattr’occhi con Benedetto, ma non avvenne un vero dialogo, come mi
disse il Papa stesso. Purtroppo non mi è stato possibile un riscontro sulla
veridicità della cosa, poiché padre Fausti morì il 24 giugno 2015 e
l’intervista con quelle sue dichiarazioni fu resa nota, sul sito
www.glistatigenerali.com soltanto il 12 luglio 2015.
In quel periodo cominciai a notare in Benedetto una tensione inconsueta.
In particolare dopo la celebrazione della Messa in cappella, durante il
tempo del ringraziamento, lo vedevo molto concentrato nella preghiera.
Sull’inginocchiatoio si prendeva la testa fra le mani e quasi si accasciava su
se stesso, un atteggiamento estraneo al suo stile, poiché normalmente aveva
una postura più composta e rigida. Attribuii questi segnali di inquietudine
alle problematiche del momento e poi, quando dal 3 luglio ci trasferimmo a
Castel Gandolfo, pensai anche che si trattasse dello sforzo mentale che
stava compiendo per ultimare la terza parte del libro su Gesù, quella sul
periodo dell’infanzia.
Nella seconda metà di agosto cominciai a vederlo più sereno, ma a fine
mese si accese in me un piccolo campanello d’allarme, poiché il cardinale
Bertone, al termine di un’udienza, mi accennò nuovamente al fatto che il
Papa gli aveva parlato con più concretezza del suo sentirsi affaticato. Il
segretario di Stato non precisò oltre, poiché anche lui non sapeva cosa
pensare. Nel suo libro autobiografico, così ha descritto quella circostanza:
«Feci fatica a credere che avrebbe preso veramente tale decisione e, con
rispetto ma con forza, gli presentai una serie di ragionamenti che ritenevo
fossero fondati per il bene della Chiesa e per sventare una generale
depressione del popolo di Dio, davanti al suo buon Pastore».
Per il 1° ottobre era programmato il nostro rientro definitivo in Vaticano
e la settimana precedente giunse il momento in cui volle informare anche
me. Lo ricordo perfettamente: dopo la colazione del 25 settembre mi disse
di andare da lui un poco prima del consueto appuntamento mattutino, quello
in cui esaminavamo la posta e controllavamo gli eventuali appuntamenti
della giornata, anticipandomi che doveva parlarmi di un argomento
importante. Anche altre volte era accaduto qualcosa di simile, per esempio
quando c’era una problematica che doveva essere affrontata con specifica
attenzione. Perciò nuovamente non restai particolarmente impensierito da
tale richiesta.
Quando mi sedetti di fronte a lui, vidi che la sua espressione era nel
contempo seria e serena. Poi, senza giri di parole, mi disse: «Ho riflettuto,
ho pregato e sono giunto alla conclusione che, a causa del diminuire delle
forze, devo rinunciare al ministero petrino». Di getto, reagii con il cuore:
«Padre Santo, se le forze non sono più adeguate, si può diminuire il carico
di lavoro, si possono ridimensionare gli impegni nell’arco della giornata,
delegando e accentrando meno».
Con pacatezza, scandì in estrema sintesi le motivazioni della sua
decisione, dimostrandomi nei fatti quanto a lungo e con scrupolosità avesse
ponderato ogni aspetto. Immediatamente mi resi conto che ogni mio
tentativo di convincimento sarebbe stato del tutto vano. Ormai conoscevo
Benedetto a fondo, da molti anni, e sapevo bene che quando aveva preso
una decisione – particolarmente, come in questo caso, dopo intensa
preghiera e riflessione – era determinato nel portarla a compimento.
Il primo punto che mi sottopose fu proprio quello relativo alla Giornata
mondiale della gioventù, e io provai a dirgli che, con i maxischermi e i
collegamenti via internet, sarebbe stata possibile una presenza costante e in
tempo reale, calcolando che comunque la quasi totalità dei presenti lo
avrebbe guardato tramite un video anche a Rio, a motivo dell’estensione
degli spazi e del numero dei partecipanti previsti. Ma non riuscii a far
breccia nella sua considerazione che un conto era sapere che il Papa era
fisicamente lì tra loro, e un conto che invece si trovava in Vaticano e il suo
intervento era soltanto virtuale.
Benedetto mi propose poi un confronto con Giovanni Paolo II, morto
proprio a quasi 85 anni d’età, e sottolineò: «Io ormai sono Papa da tanti
anni quanti sono stati quelli della sua malattia e non vorrei finire come lui.
Del resto, quello che potevo fare l’ho fatto e per la Chiesa sarebbe meglio la
mia rinuncia, con l’elezione di un nuovo Pontefice più giovane ed energico.
È questo il momento giusto in cui, dopo che hanno trovato conclusione le
problematiche vicende di questi ultimi mesi, posso passare il timone a un
altro senza troppe difficoltà».
Di fatto, una sua evidente preoccupazione era di evitare che ci fosse
l’acquisizione di spazi di potere da parte di qualsiasi suo collaboratore, ben
consapevole com’era che Papa Wojtyła, nel tempo finale del pontificato,
non aveva più mantenuto pienamente le redini del governo. Ratzinger
all’epoca si era tenuto fuori dai giochi, ma aveva visto come
sostanzialmente i principali esponenti vaticani avevano conquistato sempre
più influenza, talvolta anche in competizione fra loro: oltre al segretario
particolare don Stanislao e al segretario di Stato Sodano, c’erano il sostituto
Leonardo Sandri e il prefetto della Congregazione per i Vescovi Giovanni
Battista Re, e poi nell’ambito italiano il presidente della Cei Camillo Ruini.
Nel 2012 le chiacchiere sul potere che avremmo esercitato il cardinale
Bertone e io già erano cominciate e Benedetto intendeva stroncarle sul
nascere!

In segreto a piccoli passi


L’idea originaria di Benedetto era di comunicare la rinuncia a conclusione
dell’udienza alla Curia romana per gli auguri natalizi, fissata quell’anno per
il 21 dicembre, indicando come data conclusiva del pontificato il 25
gennaio 2013, festa della conversione di san Paolo. Quando me lo disse, a
metà ottobre, replicai: «Santo Padre, mi permetta di dirlo, se farà così,
quest’anno non si festeggerà il Natale, né in Vaticano né altrove. Sarà come
un manto di ghiaccio su un giardino in fioritura».
Di fatto, l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’apertura del
Concilio Vaticano II, era stato inaugurato l’Anno della fede, che si sarebbe
concluso il 24 novembre 2013. Per l’occasione, Papa Ratzinger aveva
avviato la stesura di un’enciclica proprio sul tema della fede, e inoltre in
quei giorni stava correggendo le bozze del volume sull’infanzia di Gesù, in
vista dell’uscita in libreria il 21 novembre. Perciò, ragionando insieme con
il cardinale Bertone, ci trovammo d’accordo sul fatto che riguardo alla
rinuncia, pur avendo compiuto il possibile, non eravamo più in grado di
fargli cambiare opinione, mentre almeno sulla data dell’annuncio fummo
concordi nel perorare uno spostamento all’anno seguente.
Benedetto comprese le nostre motivazioni e alla fine scelse l’11 febbraio,
giorno festivo in Vaticano per l’anniversario dei Patti lateranensi fra l’Italia
e la Santa Sede, nel quale era già previsto un Concistoro cosiddetto
“bianco”, per l’annuncio di alcune canonizzazioni (mentre il Concistoro
“rosso” è quello per la creazione dei nuovi cardinali). Per di più, era anche
la memoria della beata Vergine Maria di Lourdes e in quel giorno, nel
santuario di Altötting a lui carissimo, si celebrava la Giornata mondiale del
malato: spiritualmente, il Papa esprimeva anche così la vicinanza a quanti
vivevano «un difficile momento di prova a causa dell’infermità e della
sofferenza», come aveva scritto nel messaggio per l’occasione, associandosi
idealmente alla loro fatica.
Il tempo liturgico era propizio, poiché dopo due giorni c’era il Mercoledì
delle ceneri e in questa ricorrenza poté celebrare l’ultima Messa pubblica,
lasciando intendere ancora una volta quale fosse il centro del suo
messaggio: ciò che più conta nella vita ecclesiale è la conversione a Gesù
Cristo e il volgersi verso la sua Pasqua di risurrezione, senza la quale il
cristianesimo non avrebbe alcun senso. Quindi, dal 15 al 23 febbraio, si
sarebbero tenuti gli esercizi spirituali di Quaresima per la Curia romana,
che consentivano un “cuscinetto”, un “tempo di digestione”, sia all’interno
sia all’esterno. Il predicatore sarebbe stato il cardinale Gianfranco Ravasi,
cosicché si decise di informare anche lui per tempo, in modo da consentirgli
la preparazione di meditazioni adeguate alla circostanza.
Nell’ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto informò i
componenti della Casa pontificia. Il 5 febbraio ricevette il secondo
segretario don Xuereb, che in un’intervista ha ricordato così quel momento:
«Papa Benedetto mi invita ad accomodarmi nel suo studio e mi annuncia la
grande decisione della sua rinuncia. A me, lì per lì, quasi veniva spontaneo
di chiedergli: “Ma perché non ci pensa un po’?”. Ma poi mi sono trattenuto
poiché ero convinto che aveva pregato a lungo». Nel medesimo giorno, in
un momento separato, lo disse anche a suor Birgit, mentre alle Memores
parlò il 7 febbraio: per ciascuna fu ovviamente un momento di grande
commozione.
Fra i pochi altri a essere messi a conoscenza, oltre ovviamente al fratello
Georg, ci furono monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni
liturgiche pontificie, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa
della Santa Sede. Ambedue ricevettero la notizia dal cardinale Bertone, in
modo da essere preparati il primo a guidare la cerimonia del Concistoro e il
secondo ad affrontare il prevedibile assalto dei giornalisti.
Naturalmente, venne ufficialmente informato il cardinale Angelo
Sodano, decano del Collegio cardinalizio: il Pontefice lo incontrò a
quattr’occhi l’8 febbraio e gli diede personalmente la notizia.
Contrariamente a quello che qualche giornalista ha ipotizzato, il testo che il
decano pronunciò nella sala Clementina, come risposta alla dichiarazione
della rinuncia, non era stato concordato con Benedetto (né tanto meno
scritto direttamente dal Papa): non era abitudine di Sodano far leggere i suoi
discorsi in anticipo, comportamento del resto simile a quello di Ratzinger
con Giovanni Paolo II quando era lui il decano.
Benedetto aveva cominciato a fine gennaio a stendere la bozza del testo
che avrebbe letto in Concistoro. La sua decisione di scrivere in latino fu
ovvia, poiché da sempre è questa la lingua dei documenti ufficiali della
Chiesa cattolica. La formula della rinuncia venne ultimata dal Papa il 7
febbraio. Portai personalmente il foglio nell’appartamento del cardinale
Bertone, dove lo leggemmo insieme con monsignor Giampiero Gloder,
coordinatore in Segreteria di Stato della redazione finale dei testi pontifici.
Vennero suggerite piccole correzioni ortografiche e qualche precisazione
giuridica, cosicché il testo definitivo fu pronto per domenica 10 febbraio,
quando si provvide anche alle traduzioni in italiano, francese, inglese,
tedesco, spagnolo, portoghese e polacco.
L’estrema segretezza con cui fu elaborato il testo comportò il
coinvolgimento di pochissime persone. Come è ovvio, la competenza
linguistica spesso privilegia la capacità di leggere da una lingua straniera e
di comprenderne le sfumature. Non sempre è altrettanto perfetta la scrittura
direttamente in quella lingua, particolarmente se non c’è un costante
esercizio. Perciò, cercando di dare un andamento armonioso alla
costruzione latina, non ci si accorse che una concordanza latina non era
corretta: l’accusativo commissum collegato al dativo ministerio, al posto di
commisso, nella frase «declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris
Sancti Petri, mihi per manus cardinalium die 19 aprilis MMV commissum»
(«dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San
Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005»).
Per una inappropriata digitazione, la prima versione resa nota dalla Sala
stampa recava altri due errori, come il precedente rapidamente sistemati sul
sito vaticano nel primo pomeriggio di quell’11 febbraio: un pro Ecclesiae
vitae al posto di pro Ecclesiae vita («per la vita della Chiesa»), e un hora 29
invece di hora 20. Ma questi non erano presenti sul foglio che Benedetto
tenne fra le mani, poiché, come si rileva dalla videoregistrazione, ambedue
furono invece pronunciati correttamente.
In realtà, esisteva già una lettera di rinuncia sottoscritta da Benedetto,
che l’aveva mutuata da quelle redatte da Paolo VI e da Giovanni Paolo II (è
nota una dichiarazione dell’allora cardinale Ratzinger, nell’aprile del 2002,
al «Münchner Kirchenzeitung», il settimanale diocesano dell’arcidiocesi di
Monaco e Frisinga: «Se il Papa [Wojtyła] vedesse di non poter
assolutamente farcela più, allora sicuramente si dimetterebbe»). Nel 2006,
Benedetto firmò una dichiarazione nella quale esprimeva previamente la
volontà di rinunciare nel caso in cui non fosse stato più nelle condizioni
fisiche o mentali per fare il Papa, consentendo che in quel momento venisse
divulgato il testo, in modo da rendere libera la Sede apostolica e avviare la
successione pontificia.
A evidenziarne l’opportunità era stata la lettera di un vecchio amico
medico, che aveva attirato l’attenzione sui suoi problemi di salute e sul
rischio che si ripetesse un episodio trombotico, per cui gli aveva suggerito
che sarebbe stato un atto di responsabilità fornire qualche esplicita
indicazione in merito. Anche in quel caso, Benedetto preparò il testo
personalmente, chiedendo al cardinale Julián Herranz – presidente emerito
del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi – di verificarne il contenuto
per aggiustare forma e sostanza giuridica. Una copia la trattenne proprio
Herranz, che gliela restituì nel 2013 ed è poi finita nell’archivio della
Segreteria di Stato.
Una precisa determinazione di Benedetto fu quella di porre un intervallo
di separazione fra il giorno dell’annuncio e la data di conclusione del
pontificato, poiché reputava essenziale che i cardinali potessero avere un
tempo di pausa e di preparazione, corrispondente psicologicamente in
qualche modo a ciò che in precedenza era stato il periodo dell’agonia del
Papa e dei Novendiali, i nove giorni di lutto successivi alla morte e al
funerale, durante il quale sono previste specifiche celebrazioni nella
Basilica vaticana. Inoltre doveva esserci la possibilità di rendere noto il
motu proprio Normas nonnullas, su alcune modifiche alle regole della
costituzione apostolica Universi dominici gregis relative all’elezione del
Romano Pontefice, dopo l’opportuna verifica da parte del Pontificio
Consiglio per i Testi legislativi e della Segreteria di Stato, una cosa
impossibile da fare in precedenza, poiché avrebbe dato troppo nell’occhio.

Il sorprendente annuncio
Al risveglio dell’11 febbraio 2013, dopo una notte un po’ agitata per la
tensione, mi resi conto che stavo per vivere un evento che sarebbe rimasto
nella storia. Ma sin dal primo incontro con Benedetto XVI, in cappella per
la preparazione alla Messa, potei notare che lui era invece estremamente
calmo. Certo, sul suo viso ogni tanto si palesava un attimo di sospensione,
come un flash per riflettere su ciò che stava per concretizzarsi. Ma lo
sapevo bene: una volta che aveva raggiunto una determinazione, tutto il suo
essere restava in perfetta pace.
La serenità con cui attraversò quella impegnativa giornata, e che posso
garantire si è mantenuta intatta sino alla morte, mi consente oggi di
esprimere per la prima volta – “sommessamente”, come è d’uso nel
linguaggio curiale – la convinzione che Benedetto avesse anche lui dei tratti
mistico-ascetici, in continuità spirituale con Giovanni Paolo II, e che tutte le
sue decisioni fossero dovute a un rapporto diretto con Dio, da cui realmente
si sentiva ispirato e costantemente guidato.
Del resto, lui stesso lo ha fatto capire “tra le righe” in molteplici
occasioni e forse bastava dare più attenzione e credibilità alle sue parole.
Per esempio, in Introduzione al cristianesimo (da teologo professore nel
1968) spiegò che «ciò che non può essere visto, quello che non può
assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è
anzi l’autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni altra
realtà»; in Dio e il mondo (da cardinale prefetto nel 2001), alla
sollecitazione di Peter Seewald: «Per lei che parla personalmente con Dio,
la comunicazione con lui è diventata così naturale come telefonare?»,
replicò: «Sotto certi aspetti il paragone può reggere. So che Lui è sempre
presente. E Lui sa comunque chi sono e che cosa sono. A maggior ragione
avverto l’esigenza di invocarLo, di comunicare con Lui, di parlare con Lui.
Con Lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori come su
quelle più grandi e gravose. Per me è in qualche modo normale avere
sempre la possibilità, nel quotidiano, di rivolgermi a Lui»; in Luce del
mondo (da Papa nel 2010), rispondendo alla domanda di Seewald: «Esiste
ora un suo “rapporto privilegiato” con il Cielo, qualcosa di simile a grazie
di diritto legate al suo ministero?», affermò: «Sì, a volte ho questa
impressione. Nel senso che penso: “Ecco, ho potuto fare una cosa che non
veniva da me. Ora mi affido a Te e mi accorgo che, sì, c’è un aiuto, succede
qualcosa che non viene da me”. In questo senso esiste l’esperienza della
grazia del ministero».
Anche se non mi parlò mai di esplicite illuminazioni soprannaturali,
come visioni o locuzioni interiori (del resto fu sempre molto cauto in
materia di rivelazioni private), in questo specifico caso espresse
costantemente la certezza morale che – riflettendo, pregando e soffrendo –
aveva raggiunto la convinzione di dover rinunciare per mancanza delle
forze. Oggi, riflettendoci, provo una sensazione come di un indiretto déjà-
vu, in relazione all’episodio di maggio del 1945, quando durante la guerra il
giovane Joseph decise di tornare a casa rischiando di passare per disertore e
di essere fucilato su due piedi: forse, in quella esperienza determinante che
gli salvò la vita, c’è la chiave segreta per intendere il passo che compì alla
fine del suo pontificato, quando – superando mille ostacoli e molte buone
ragioni – una seconda volta, semplicemente e rinchiudendosi nel silenzio,
decise di tornare a casa…
Quando entrai nella sala del Concistoro, subito dietro Benedetto, vidi in
attesa, allineati lungo le pareti, una cinquantina di cardinali e qualche altro
vescovo e monsignore. Mi venne spontaneo pensare che mi sarebbe
piaciuto congelare in quel momento il tempo, con i volti sorridenti e distesi
di quanti consideravano quella riunione una delle tante cerimonie che
caratterizzavano da secoli le consuetudini della Santa Sede. Il brusio di
sottofondo si tacitò immediatamente e gli sguardi di tutti si fissarono sul
Papa, per la naturale curiosità di osservare come camminava e che aspetto
aveva. La salute del Pontefice è da sempre uno dei principali argomenti di
chiacchiericcio in Vaticano…
L’appuntamento era per le 11 e si cominciò in perfetto orario. Il
Concistoro era stato convocato, secondo prassi, per il cosiddetto “voto” su
alcune cause di canonizzazione. Nella procedura per la proclamazione dei
nuovi santi è infatti prevista un’ultima tappa, quando il Pontefice conferma
il parere positivo dei cardinali e dei vescovi riguardo alla santità di un beato
e annuncia la data in cui presiederà la cerimonia. La circostanza, sebbene
relativamente rapida, è comunque un evento solenne, in quanto con il
decreto di canonizzazione il Pontefice si esprime ex cathedra, cioè esercita
la propria infallibilità, secondo la definizione del Concilio Vaticano I.
I protagonisti di quella mattinata erano Antonio Primaldo e circa
ottocento compagni testimoni della fede cristiana, martirizzati a Otranto
nell’agosto del 1480 durante un’incursione degli Ottomani sulle coste
pugliesi, Laura di Santa Caterina da Siena Montoya y Upegui (1874-1949),
fondatrice della Congregazione delle suore missionarie della Beata Vergine
Maria Immacolata e di santa Caterina da Siena, e Maria Guadalupe García
Zavala (1878-1963), cofondatrice della Congregazione delle Serve di santa
Margherita Maria e dei poveri. La data della celebrazione sul sagrato della
Basilica vaticana per la loro iscrizione nell’Albo dei santi venne fissata per
domenica 12 maggio 2013. Dopo questo annuncio, Benedetto avrebbe
dovuto alzarsi, pronunciare la formula della benedizione e andare via.
Invece, come avevo riservatamente preannunciato al cerimoniere Guido
Marini, porsi al Papa un altro foglio. Era un testo in latino che l’acustica
degli ampi spazi rendeva di non facile comprensione, ma, nell’arco di meno
di tre minuti, risuonarono alcune parole dal chiarissimo significato, che
causarono un sempre più crescente stupore nei presenti: «decisionem magni
momenti» («una decisione di grande importanza»), «ingravescente aetate»
(«per l’età avanzata», rievocando il titolo del motu proprio con cui Paolo
VI, nel 1970, aveva emanato alcune norme connesse all’età dei cardinali),
«incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum» («la mia incapacità
di amministrare bene il ministero a me affidato»), «declaro me renuntiare»
(«dichiaro di rinunciare»), «Conclave ad eligendum novum Summum
Pontificem» («il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice»).
Nella traduzione italiana, la dichiarazione integrale recitava così:
«Carissimi fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre
canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande
importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la
mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze,
per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il
ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua
essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le
parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi,
soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la
vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo,
è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli
ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia
incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben
consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di
rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me
affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28
febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà
vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per
l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi fratelli, vi ringrazio di
vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso
del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la
santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo,
e imploriamo la sua Santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà
materna i padri cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per
quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una
vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio».
In questo modo, Benedetto adempì esattamente quanto stabilito dal
Codice di Diritto canonico (can. 332 §2): «Nel caso che il Romano
Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia
fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede
invece che qualcuno la accetti». Ovviamente, per rispondere a chi tuttora
sostiene che non c’è riscontro formale di quell’atto, sul foglio vennero
apposte la data e la firma autografe del Papa e la sua dichiarazione fu
verbalizzata da un protonotario apostolico, che redasse il rogito del
Concistoro, custodito nell’apposito archivio a perpetua memoria.
Con voce a tratti rotta per l’emozione, il cardinale Sodano lesse una
risposta nella quale si alternarono passaggi nel contempo drammatici e
lirici, riuscendo, a mio parere, a trasmettere i sentimenti che aleggiavano
nella sala, misti di gratitudine e di preoccupazione, ed esprimendo anche la
consapevolezza che non si poteva mettere in discussione una convinta
decisione del Papa: «Come un fulmine a ciel sereno, ha risuonato in
quest’aula il suo commosso messaggio. L’abbiamo ascoltato con senso di
smarrimento, quasi del tutto increduli. […] A nome di questo cenacolo
apostolico, il Collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari collaboratori,
permetta che le dica che le siamo più che mai vicini, come lo siamo stati in
questi luminosi otto anni del suo pontificato. […] Quel giorno ella ha detto
il suo “sì” e ha iniziato il suo luminoso pontificato nel solco della continuità
coi suoi 265 (sic, in realtà 264, N.d.A.) predecessori sulla Cattedra di Pietro,
nel corso di duemila anni di storia, dall’apostolo Pietro, l’umile pescatore di
Galilea, fino ai grandi Papi del secolo scorso, da san Pio X al beato
Giovanni Paolo II. […] In questo mese ci saranno tante occasioni ancora di
sentire la sua voce paterna. La sua missione però continuerà. Ella ha detto
che ci sarà sempre vicino con la sua testimonianza e con la sua preghiera.
Certo, le stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà sempre
in mezzo a noi la stella del suo pontificato».
Pochi minuti più tardi, alle 11.46, Giovanna Chirri, la vaticanista
dell’agenzia giornalistica italiana Ansa che aveva assistito in Sala stampa
all’evento attraverso il circuito televisivo interno, lanciò per prima la notizia
che subito fece il giro del mondo: «+++ FLASH +++ PAPA LASCIA
PONTIFICATO DAL 28/2 +++ FLASH +++ ». Da quel momento fui subissato da
una quantità incredibile di telefonate, messaggi e mail, cui non ho
ovviamente avuto alcuna possibilità di rispondere. Ogni tanto davo uno
sguardo a quelli che provenivano da autorevoli personalità, compresi
cardinali e vescovi che non erano presenti nella sala del Concistoro, e
notavo che molti di loro esprimevano incredulità e chiedevano conferma,
come se non riuscissero proprio a ritenere possibile una tale situazione…
Comunque, per noi la giornata proseguì in una surreale routine: tutto
procedeva secondo consuetudine, ma come se l’atmosfera si fosse
improvvisamente rarefatta. Dopo il Concistoro siamo usciti verso la sala dei
Sediari e dietro di noi è stata chiusa la porta, poi con l’ascensore Sisto V
siamo saliti nell’appartamento pontificio e qui ho aiutato il Papa a togliere
la stola, la mozzetta, il rocchetto e la croce pettorale. Quindi sono tornato
alla mia scrivania, ma la testa era altrove e neanche con don Alfred ho
commentato qualcosa.
Subito è arrivata l’ora del pranzo, durante il quale ha regnato il silenzio.
Dopo una breve passeggiata sul terrazzo, il riposino pomeridiano e alle 16 il
Rosario alla grotta di Lourdes nei Giardini vaticani. Il lavoro per sistemare
la corrispondenza mi ha impegnato fino alla cena, mentre il Papa nel suo
studio esaminava documenti e rifletteva sui discorsi per gli appuntamenti
dei giorni successivi. Dopo cena, il Tg1 ha ovviamente dedicato ampio
spazio alla notizia, ma neanche in questo caso Benedetto ha espresso
qualche osservazione. L’unico con cui ha parlato quel giorno penso sia stato
il fratello, nella consueta telefonata serale, ma per quanto ne so non ha
avuto ulteriori contatti, né telefonici né di persona.

Le antiche radici dell’idea


Ancora prima di diventare lui il Papa, anzi perfino quando era arcivescovo
in Germania, Ratzinger aveva ben presente quanta fatica richiedesse la
guida della Chiesa e implicitamente si mostrava grato a Paolo VI per il
motu proprio con cui aveva stabilito che ogni vescovo fosse tenuto a
presentare le dimissioni al compimento dei 75 anni d’età e che perfino i
cardinali dovessero abbandonare ogni ufficio, compresa la possibilità di
entrare in Conclave, superati gli 80 anni.
Nell’omelia del 10 agosto 1978, pronunciata nella cattedrale di Monaco
di Baviera nella Messa di suffragio per Papa Montini, morto quattro giorni
prima a quasi 81 anni e dopo 15 anni di pontificato, commentava: «Paolo
VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva
andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste
da un altro ed essere inchiodato alla croce. Possiamo immaginare quanto
debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a se stessi. Di
non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all’ultimo, con
il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il
pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo».
Un paio d’anni più tardi, dialogando con il filosofo Ulrich Hommes su
come un cristiano debba reagire quando sente di non poter personalmente
fare più nulla, chiarì innanzitutto che «questo momento viene per ognuno,
non certo nel momento della morte, bensì in molte situazioni nel corso della
vita» e quindi affermò che «il senso della vita deve essere più forte di ciò
che noi possiamo produrre, deve essere qualcosa che già mi attende.
Dobbiamo essere consapevoli che nessun uomo può realizzare tutto; la fede
è una rinuncia a qualcosa, ma è proprio questa rinuncia che ci conduce al
cambiamento e ci consente di procedere in avanti».
Negli anni da prefetto in Vaticano, fra i temi che lo appassionarono ci fu
quello del primato petrino e della sua “struttura martiriologica”.
Riprendendo quanto aveva scritto il cardinale inglese Reginald Pole a metà
Cinquecento, Ratzinger sottolineò che «la sede del Vicario di Cristo è
quella su cui si è seduto Pietro a Roma quando vi piantò la croce di Cristo.
Da essa egli non è mai disceso durante tutto l’esercizio del suo pontificato,
bensì, innalzato con Cristo secondo lo spirito, le sue mani e i suoi piedi
erano a tal punto fissati ai chiodi che non volle andare dove lo portava la
sua volontà, ma rimanere là dove lo manteneva la volontà di Dio: là stavano
inchiodati ormai il suo sentimento e il suo pensiero».
Intervistato da Peter Seewald per il libro Dio e il mondo nel 2001,
quando Giovanni Paolo II era ormai già evidentemente malato, il cardinale
rifletté: «Possiamo chiederci se il compito non rimanga eccessivamente
oneroso. La massa dei contatti impostigli dalle responsabilità nei confronti
della Chiesa universale; le decisioni da prendere; la necessità di non
trascurare lo stato contemplativo, di radicare la propria missione nella
preghiera – tutto questo rimane un grosso dilemma». E il 7 maggio 2005 a
San Giovanni in Laterano, nell’omelia di insediamento sulla Cattedra
romana come Vescovo di Roma, Benedetto XVI non ebbe timore nel dire
che «colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la
consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e
deboli le proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di
conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli
viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella
confessione del Cristo crocifisso e risorto».
Lui è stato sempre molto consapevole che la forza dell’uomo non
proviene dalle capacità personali, bensì dalla grazia divina. In tante sue
omelie c’è questa affermazione della debolezza umana che viene sostenuta
dalla forza del Signore, per cui non mi stupì la risposta che nel luglio del
2010 diede, ancora a Seewald per il libro Luce del mondo, alla domanda se
avesse mai pensato di dimettersi: «Quando il pericolo è grande non si può
scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. È
proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la
situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un
momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si
può scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “Se ne occupi un
altro”. Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più
in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico
affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di
dimettersi».
Certamente la sua rinuncia si è posta in un contesto diverso rispetto a
quella che il 13 dicembre 1294 fece Celestino V, il Papa eremita da tanti
richiamato in questa circostanza. Però è indubbio che Benedetto ha più
volte incrociato la propria vita con quel monaco «che fece per viltade il
gran rifiuto» (Inferno III,60), come l’avrebbe apostrofato Dante nella
Divina commedia, o piuttosto che la Chiesa ha proclamato santo e che il
Martirologio romano ricorda così: «Esercitata la vita eremitica in Abruzzo,
rinomato per fama di santità e di miracoli, a 80 anni fu eletto Romano
Pontefice e assunse il nome di Celestino V, ma nello stesso anno abdicò dal
suo ufficio e preferì ritirarsi in solitudine».
Sugli schermi televisivi sono state riproposte più volte le immagini del
28 aprile 2009, quando Papa Ratzinger, durante la visita nelle zone
terremotate dell’Abruzzo, si recò nella basilica di Collemaggio a L’Aquila
per venerare le spoglie di Papa Celestino. Tutti furono colpiti dal fatto che
Benedetto depose sull’urna il suo pallio da Pontefice, ma assolutamente non
si trattò di un gesto simbolico che voleva preannunciare l’idea della
rinuncia. Piuttosto fu un garbato modo per onorare il suo santo predecessore
e riconoscerne la coraggiosa decisione, e nel contempo valorizzare con
quella esposizione un paramento che non aveva più in animo di indossare.
Infatti quel pallio era stato utilizzato da Benedetto per iniziativa del
maestro delle Celebrazioni Piero Marini, che lo aveva fatto realizzare prima
della morte di Giovanni Paolo II su un modello risalente ai primi secoli
cristiani, in relazione a una propria convinzione teologico-liturgica. Però,
incrociato sul lato sinistro con la sua forma allungata e asimmetrica, come il
carattere Ч, quel pallio risultava decisamente scomodo, poiché spesso
cadeva dalla spalla, mentre la preferenza del Pontefice andava a quello di
forma più simmetrica e ovale con il lembo pendente al centro del petto,
simile alla lettera .
Cosicché, quando l’arcivescovo diocesano Giuseppe Molinari gli
propose di fare un atto d’omaggio a Celestino V, Benedetto accettò
volentieri e partì da Roma già con la precisa idea di donare quel pallio, che
esplicitamente chiese al nuovo maestro Guido Marini di portare con sé, non
essendo previste celebrazioni che ne avrebbero richiesto l’utilizzo. E
ricordo bene come con monsignor Guido sorridemmo riguardo al modo in
cui il Pontefice aveva risolto con finezza una situazione sgradita. Benedetto
comunque non commentò in alcun modo l’episodio, poiché era appena
rimasto molto scosso dalle immagini dei danni causati dal sisma del 6 aprile
e per di più, da tedesco, provava anche costernazione per l’eccidio che era
stato compiuto proprio a Onna nel giugno del 1944 dai soldati nazisti.
Il 4 luglio 2010, poi, compì una visita pastorale a Sulmona, in occasione
degli ottocento anni dalla nascita di Celestino V. A causa del sentiero
disagevole, non poté recarsi all’eremo di Sant’Onofrio al Morrone, dove nel
1294 il monaco Pietro Angelerio venne raggiunto dai cardinali che gli
comunicarono l’elezione a Pontefice. Ma accolse l’invito del vescovo
diocesano Angelo Spina e andò a omaggiarne le reliquie nella cripta della
cattedrale.
Anche qui c’era il collegamento a un antico ricordo, poiché il battaglione
del fratello Georg, costretto nel 1942 ad arruolarsi nell’esercito tedesco
(durante la ritirata venne anche ferito), si era attestato da queste parti, lungo
la cosiddetta “linea Gustav”. Nel 2008 monsignor Georg si era recato a
rivedere quei luoghi ed era stato accolto dalla comunità locale, potendo così
fare in qualche modo anche pace con se stesso e il suo passato. Tornato in
Vaticano, Georg raccontò durante il pranzo questa sua esperienza al fratello
Joseph, il quale perciò, quando ricevette l’invito dal vescovo Spina, lo
accettò subito e volentieri.
Infine, è singolare la coincidenza tra gli ultimi giorni di Benedetto da
Pontefice e la ricognizione canonica sulle spoglie di Celestino V, prelevate
il 21 febbraio 2013 a Collemaggio, in occasione del 700° anniversario della
sua canonizzazione. Quando la reliquia è tornata nella basilica, i paramenti
settecenteschi che rivestivano il santo sono stati sostituiti con altri, di fattura
moderna ma stilisticamente ispirati a quelli dei Pontefici medioevali, per i
quali è degno coronamento il pallio lasciato da Benedetto.

Gli incompresi segni premonitori


Nei giorni successivi alla rinuncia, i mass media si sbizzarrirono nel cercare
riferimenti a quanto era avvenuto, in particolare negli ambiti del cinema e
della letteratura. Il più menzionato, ovviamente, fu il film Habemus Papam,
realizzato da Nanni Moretti appena due anni prima, con la drammatica
affermazione di Michel Piccoli: «Chiedo perdono al Signore per quello che
sto per fare… Ho capito di non essere in grado di sostenere il ruolo che mi è
stato affidato».
In quel caso, però, la situazione era stata immaginata dal regista
nell’immediato contesto del Conclave, con una crisi di panico del neoeletto
e il ricorso a una rapida e inefficace psicoterapia analitica. In sostanza, si
trattava di una manifestazione di debolezza dinanzi a una nomina inattesa.
Al contrario per Benedetto, che comunque non fece mai ricorso a
psicoanalisi o a psicofarmaci, fu evidentemente la coraggiosa presa di
coscienza della diminuzione di energie fisiche e spirituali dopo otto anni di
governo sulla cattedra di Pietro, ormai quasi ottantaseienne.
Qualcun altro recuperò un’antologia di racconti fantasy, pubblicata dalla
rivista Urania della Mondadori nel marzo del 1978 e intitolata Il dilemma
di Benedetto XVI, come l’omonimo racconto di Herbie Brennan. Qui però il
ricorso a uno psichiatra per risolvere la questione al centro della vicenda
non riguardava la permanenza o meno del Pontefice alla guida della Chiesa,
bensì la sua sanità mentale. L’obiettivo era di comprendere se fosse
concreta o illusoria la visione mistica che gli aveva imposto di agire
militarmente contro il feroce dittatore immaginario Victor Ling,
considerandolo un anticristo alla stregua di Nerone e di Hitler. E
l’evoluzione della storia seguiva, ovviamente, una strada completamente
estranea a quella percorsa da Papa Ratzinger.
Analizzando i fatti a posteriori, molti commentatori hanno invece
riconosciuto di aver sottovalutato un importante evento vaticano del
precedente novembre, quando si era svolto un mini-Concistoro con la
creazione di sei nuovi cardinali elettori, dopo che appena a febbraio ne
erano stati creati ben diciotto. All’epoca, la spiegazione dei vaticanisti
aveva fatto riferimento alla predominanza di europei (tredici, e fra loro
addirittura sette italiani) nell’appuntamento di inizio 2012, cui si era voluto
rimediare successivamente con l’inserimento di cinque extraeuropei.
Non fu però adeguatamente percepita la presenza dell’arcivescovo James
Michael Harvey, unico a ricoprire un ruolo curiale fra i nominati. È vero
che l’ecclesiastico posto a capo della Casa pontificia – denominato nel
corso del tempo maestro di camera della Corte pontificia, maggiordomo dei
Sacri Palazzi e prefetto della Casa pontificia – è quasi sempre divenuto
membro del Collegio cardinalizio, come documentano ben 92 porporati, su
un totale di 97 responsabili che si sono succeduti negli ultimi quattro secoli.
Ma questo è accaduto generalmente al termine del loro incarico, non mentre
erano ancora in attività.
In effetti, questa fu una personale idea di Benedetto XVI, il quale me
l’aveva accennata per la prima volta a fine settembre 2012, spiegandomi
che riteneva il posto di prefetto della Casa pontificia, che Harvey avrebbe
lasciato in seguito alla nomina cardinalizia, come il più adatto per me. La
mia prima sensazione fu che in tal modo riteneva che, dopo la sua rinuncia,
avrei potuto ricoprire una funzione di trait d’union con il successore.
Quando, qualche settimana più tardi, ritornò sull’argomento, lo ringraziai,
ma gli risposi che avrei accettato solo in obbedienza, poiché mi sembrava
un incarico certamente di grande prestigio ma troppo formale per le mie
caratteristiche. Poi gli ricordai che, al momento dell’elezione, gli avevo
promesso fedeltà «in vita et in morte» e che dunque desideravo continuare
il mio impegno con lui, cosa che apprezzò molto e accolse volentieri.
In realtà, già precedentemente Benedetto mi aveva espresso l’intenzione
di nominarmi segretario della Congregazione delle Cause dei santi in
sostituzione dell’arcivescovo Michele Di Ruberto (dimissionario per età
nell’autunno del 2010), elevandomi di conseguenza all’episcopato. Il Papa
ne aveva parlato anche con il cardinale prefetto Angelo Amato, che si era
mostrato pienamente d’accordo. Ma, quando lo annunciò a me, io
confermai che si sarebbe trattato di un grande onore, ma che sentivo più
importante continuare a essere fedele all’impegno preso con lui e restare
suo segretario particolare. Cosicché, la seconda volta, Benedetto fu risoluto
nel dirmi che me lo chiedeva in obbedienza e io dovetti perciò rispondere
positivamente.
Di fatto, non era consuetudine in Vaticano che il segretario particolare
del Papa diventasse vescovo mentre svolgeva ancora tale servizio, anche se
un precedente c’era stato durante il pontificato precedente, con la nomina di
don Stanislao, il più stretto collaboratore di Giovanni Paolo II (cui fu
attribuito l’inedito ufficio di prefetto aggiunto della Casa pontificia). Ma in
quella circostanza Papa Wojtyła gli affiancò nella consacrazione episcopale
anche il maestro delle Celebrazioni Piero Marini, cosa che invece Papa
Ratzinger non attuò con il nuovo maestro, monsignor Guido Marini
(omonimo, ma non parente del predecessore).
Confidenzialmente, Benedetto mi fece comprendere che tra le
motivazioni, in quel tempo che praticamente coincideva con la grazia
concessa a Paolo Gabriele, c’era anche l’intenzione di documentare
pubblicamente, ad abundantiam, che lui non condivideva le accuse che da
qualche parte mi erano state rivolte per una presunta mancata vigilanza
nella vicenda del Vatileaks, riconfermando la sua piena fiducia nei miei
confronti.
In ogni caso, non ci fu un “trattamento di favore” nei miei riguardi,
poiché la consueta inchiesta si svolse secondo le regole, con l’intervento
anche della Segreteria di Stato, e al termine mi venne comunicata la
nomina, annunciata il 7 dicembre 2012. Fra le tre diocesi titolari che mi
furono proposte, scelsi Urbisaglia, oggi piccolo Comune in provincia di
Macerata, ma durante l’Impero romano florido centro posto lungo la via
Salaria Gallica: grazie alla vicinanza a Roma ho avuto la possibilità di
recarmi in visita e idealmente “prendere possesso” della sede episcopale
(mentre le altre due diocesi storiche erano località ormai scomparse
nell’Africa del Nord e in Medio Oriente).
La mia ordinazione fu presieduta da Benedetto il 6 gennaio 2013 e
certamente, a livello personale, ha rappresentato la cerimonia liturgica più
solenne cui io abbia mai partecipato, commovente come null’altro, sia
precedentemente che in seguito. Nell’omelia, Papa Ratzinger indicò con
chiarezza che il vescovo «deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è
rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli
uomini» e deve avere «il coraggio di restare fermamente con la verità,
inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in
mezzo ai lupi». Quando il Pontefice mi diede la pax, dopo la consacrazione,
mi sussurrò una semplice ma significativa esortazione: «Da vescovo
rimanga sempre nella fedeltà al Signore».
Verso metà ottobre Benedetto mi comunicò di aver riflettuto su dove
andare a vivere dopo la rinuncia e di aver avuto l’idea di trasferirsi nel
“Mater Ecclesiae”, il monastero di clausura voluto da Giovanni Paolo II. Si
era informato e aveva scoperto che le monache Visitandine erano appena
andate via, secondo quanto concordato tre anni prima, mentre non era
ancora giunta la nuova comunità religiosa che avrebbe dovuto rimpiazzarle.
Perciò, durante un’udienza di tabella, il Papa informò il sostituto Angelo
Becciu riguardo alla rinuncia, esprimendogli anche il proprio desiderio per
l’abitazione. Con l’arcivescovo, quasi da congiurati, una sera di novembre
ci recammo senza dare nell’occhio a visitare la struttura e ci rendemmo
conto che occorreva realizzare una ristrutturazione degli spazi. Venne
incaricato un architetto per la progettazione e poco dopo cominciarono i
lavori. L’aspetto divertente fu che man mano la voce si sparse in Vaticano,
attribuendo però l’iniziativa al cardinale Bertone, che secondo la vox populi
stava preparando la residenza dove ritirarsi in pensione: di comune accordo,
lasciammo correre il pettegolezzo, in modo da depistare ogni possibile
sospetto…
Meno facile da cogliere tra i “preavvisi non rilevati” ci fu l’inusuale
concessione, nell’arco di pochissimi mesi, di diverse onorificenze mediante
le quali Benedetto volle mostrare la propria gratitudine ai principali
collaboratori laici. Il 29 settembre 2012 concesse la Commenda con placca
dell’Ordine di san Gregorio Magno al comandante Domenico Giani e lo
stesso fece il 27 novembre con Giuseppe Bellapadrona, responsabile della
fattoria pontificia di Castel Gandolfo, e il 18 gennaio 2013 con il medico
personale Patrizio Polisca; mentre il Cavalierato dell’Ordine di San
Gregorio Magno fu concesso il 15 novembre 2012 a Francesco Cavaliere e
a Sandro Mariotti, dell’Anticamera pontificia, e il 18 gennaio 2013 al
fotografo dell’Osservatore Romano Francesco Sforza. Ma erano
provvedimenti che non venivano particolarmente pubblicizzati, cosicché
non suscitarono particolari interrogativi, né posero qualcuno in stato
d’allerta.
Infine, rappresentò quasi un presagio il concerto dell’orchestra del
Maggio musicale fiorentino diretta dal maestro Zubin Mehta, che si svolse
il 4 febbraio nell’aula Paolo VI, promosso dall’ambasciata d’Italia presso la
Santa Sede in onore di Benedetto XVI e del presidente della Repubblica
italiana Giorgio Napolitano in occasione dell’84° anniversario dei Patti
lateranensi. In programma c’erano infatti due titoli che potevano essere
interpretati alla luce di quanto stava per accadere: la sinfonia da La forza
del destino di Giuseppe Verdi e la sinfonia n. 3 Eroica di Ludwig van
Beethoven!

Il congedo dal Palazzo


Non credo che Benedetto si attendesse qualche gesto da parte dei cardinali
per convincerlo a cambiare idea, ma sono certo che non sarebbe comunque
tornato indietro. Quindi, anche se qualcuno avesse provato a sondarlo, si
sarebbe reso conto dell’inutilità di un appello pubblico o qualcosa del
genere, poiché avrebbe inutilmente creato tensioni. Perciò, in quei pochi
giorni fino all’inizio degli esercizi spirituali della Curia romana, si svolsero
unicamente gli incontri già previsti in agenda.
Dopo la consueta pausa del martedì, il 13 febbraio era l’inizio del tempo
quaresimale e Papa Ratzinger utilizzò la catechesi dell’Udienza generale e
l’omelia della Messa per il Mercoledì delle ceneri per proporre alcune
riflessioni dal sapore autobiografico, incentrate sulla liturgia del giorno. Al
mattino, ai numerosi fedeli raccolti nell’aula Paolo VI, parlò del deserto
dove Gesù si ritira e viene sottoposto alle tentazioni del diavolo: «È il luogo
del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e
si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad
andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio.
[…] Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un
invito per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che
cosa conta davvero nella mia vita? […] Il nocciolo delle tre tentazioni che
subisce Gesù è la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri
interessi, per la propria gloria e per il proprio successo. E dunque, in
sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria
esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi
allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io?».
Al pomeriggio poi, nella Basilica vaticana, la sua voce risuonò ferma: «Il
“ritornare a Dio con tutto il cuore” nel nostro cammino quaresimale passa
attraverso la croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al
dono totale di sé. È un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire
sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio
che apre e trasforma il cuore. […] Gesù sottolinea come sia la qualità e la
verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto
religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento
che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e
l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il
suo Signore, nella semplicità e nella generosità. La nostra testimonianza
allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e
saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti
a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e
nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre».
Secondo consuetudine, il giorno successivo al Mercoledì delle ceneri fu
dedicato all’incontro con i sacerdoti della diocesi di Roma, un
appuntamento fissato già da diversi mesi per una riflessione intitolata
“Riviviamo il Concilio Vaticano II - Ricordi e speranze di un testimone”. La
tematica era stata scelta dai parroci romani, che desideravano ascoltare la
rievocazione di quell’evento dalla viva voce dell’ultimo protagonista ancora
in attività.
Benedetto si era preparato molto bene, aveva scritto di suo pugno
l’intero discorso e aveva fissato nella mente la sequenza di punti che
desiderava affrontare. Molti rimasero stupiti dalla lucidità con cui andò
avanti a parlare per circa un’ora senza tenere neanche un foglietto d’appunti
fra le mani. Ma la sua prodigiosa memoria e la competenza sull’argomento
gli consentirono di analizzare compiutamente ciò che accadde durante e
dopo il Concilio, esprimendo anche le proprie convinzioni riguardo
all’ermeneutica dei testi conciliari.
«Siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era
un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse
veramente una nuova Pentecoste. Si pensava di trovare di nuovo l’unione
tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità,
per aprire il vero progresso», furono le parole con cui diede avvio a
un’ampia disamina delle intenzioni dei padri conciliari: «La prima,
apparentemente semplice, era la riforma della liturgia; la seconda,
l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; infine, anche
l’ecumenismo». Le idee essenziali, spiegò, erano diverse: «Soprattutto il
Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita
cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e
nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione». Poi c’erano dei
princìpi: «L’intelligibilità e la partecipazione attiva. Purtroppo, questi
princìpi sono stati anche male intesi».
Qui esplicitò una serrata critica che già altre volte aveva manifestato e
che, come prevedibile, fu l’unico brano che fece notizia sulla stampa:
«C’era il Concilio dei Padri, il vero Concilio, ma c’era anche il Concilio dei
media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio
tramite questi, tramite i media. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava
all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che
cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel
momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di
trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, il Concilio dei
giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma
all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con
un’ermeneutica diversa: per i media, il Concilio era una lotta politica, una
lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media
prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più
confacente con il loro mondo». Ma la sua conclusione fu venata comunque
di ottimismo: «Il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a
realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza
reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e
diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della
Chiesa».
Gli esercizi spirituali per la Curia romana si tennero, fra il 17 e il 23
febbraio, nella cappella “Redemptoris Mater”. Il Papa, don Alfred e io
assistemmo dalla cappella di San Lorenzo, posta sul lato destro, dove c’era
un grande inginocchiatoio per il Papa e due piccoli per noi segretari, con le
sedie, ma senza tavolini. Il Papa non prendeva appunti, però ascoltava con
grande interesse e concentrazione le meditazioni proposte dal cardinale
Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Durante quella settimana, in tutti i pasti non parlammo mai e, per
mantenere un’atmosfera di raccoglimento, ascoltavamo musica classica.
Nella sala da pranzo c’era un impianto stereo e Benedetto dava ogni giorno
precise disposizioni su quali cd mettere: in particolare mottetti di Bach e
concerti di Mozart e Beethoven, ma non Passioni o Messe, che preferiva
riservare ad altri momenti. In quel periodo anche la corrispondenza era
filtrata e gli sottoponevo soltanto le lettere più importanti e i documenti che
richiedevano la sua firma.
Ravasi riuscì effettivamente a dare respiro, offrendo icone bibliche dal
grande valore spirituale, ma anche ben sintonizzate sul momento che
stavamo vivendo. Mi è rimasta particolarmente impressa la sua
introduzione, con il brano dell’Esodo dove Mosè prega sulla vetta di un
colle, mentre nella valle sottostante il popolo d’Israele combatte contro
Amalek. Rivolgendosi direttamente a Benedetto, sottolineò: «Questa
immagine rappresenta la sua funzione principale per la Chiesa, cioè
l’intercessione. Noi rimarremo nella “valle”, quella valle dove c’è la
polvere, dove ci sono le paure, i terrori anche, gli incubi, ma anche le
speranze, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora in avanti,
però, noi sapremo che, sul monte, c’è la sua intercessione per noi». E
concluse formulando un auspicio a nome di tutti: «Mosè aveva 120 anni
quando morì. I suoi occhi però non gli si erano mai appannati e il vigore
della sua mente non era mai venuto meno. Questo è certamente un grande
augurio che vogliamo rivolgerle. Anche perché la tradizione ebraica,
attorno a questo momento, ha intessuto dei racconti deliziosi, molto teneri
nei confronti di Mosè e di questo suo attendere tutto il percorso della sua
esistenza».
Memore di quelle parole, nell’Angelus di domenica 24 Papa Ratzinger
pronunciò un pensiero profondamente scolpito nel suo cuore e che diede il
“la” a una serie di osservazioni polemiche che non si spensero praticamente
fino al termine della sua vita: «Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a
dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non
significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio
perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso
amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla
mia età e alle mie forze».
Nella medesima linea ideale, all’Udienza generale di mercoledì 27 in
piazza San Pietro, descrisse il percorso dei suoi otto anni di pontificato:
«Un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce,
ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli
apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni
di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono
stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come
in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre
saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca
della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia
affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che
ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla
può offuscare».
Poi, tornando ancora una volta col pensiero al 19 aprile 2005, la data
dell’elezione, fece altre affermazioni sulle quali sono state versate
tonnellate d’inchiostro: «La gravità della decisione è stata proprio anche nel
fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal
Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna
privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua
vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. […] Il
“sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La
mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca
questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri,
ricevimenti, conferenze, eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in
modo nuovo presso il Signore Crocifisso».
In sostanza era una “licenza poetica”, che Benedetto utilizzò poiché
rispecchiava il suo stato d’animo di quel momento. Ma evidentemente, col
senno di poi, dopo un po’ di anni il “sempre e per sempre” acquisì una non
voluta ambiguità. Presentando un libro, provai a rendere più sfumata
quell’espressione, parlando di “pontificato allargato” e devo riconoscere
che la toppa fu peggiore del buco, come recita un simpatico proverbio.
Comunque, il significato originario era semplicemente che lui non avrebbe
più fatto il teologo o il professore, non sarebbe più tornato a quello che gli
piaceva veramente.
Per evitare ulteriori equivoci, mi limito a riportare le sagge parole di
Joaquín Navarro-Valls, lo storico portavoce di Giovanni Paolo II e anche
del primo periodo di Benedetto, nell’autobiografia A passo d’uomo: «Il
Papa in quanto tale non va mai del tutto in vacanza. Perché l’istituzione che
egli porta con sé non lo abbandona mai, essendo impressa per sempre
dentro di lui e permanendo scolpita nel suo interno dall’inizio del mandato
sino alla fine della sua vita. Essere Papa è come avere un tatuaggio
impresso definitivamente e indelebilmente nell’anima».

L’uscita di scena
L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in apnea. Al mattino,
nella sala Clementina, ci fu l’incontro di Benedetto con i cardinali presenti a
Roma. Era stato un suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo
collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la permanenza sulla
Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche della necessità di consentire ai
più lontani il tempo per sistemare le cose in diocesi prima di raggiungere
Roma. Dei 207 membri del Collegio cardinalizio, di cui 90 creati da lui nei
suoi cinque Concistori, erano presenti 144 porporati, fra i quali 103 di età
inferiore agli ottant’anni e che dunque sarebbero entrati in Conclave
(insieme agli altri che giunsero successivamente alla spicciolata).
«Per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce
della presenza del Signore risorto. La vostra vicinanza e il vostro consiglio
mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero», furono le grate parole
pronunciate da Papa Ratzinger. E, rifacendosi al teologo Romano Guardini,
propose un pensiero che gli stava molto a cuore: «La Chiesa è un corpo
vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è
nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. La
Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che – come la Vergine Maria
– accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito
Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà,
diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il
Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a
camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi. Rimaniamo uniti, cari fratelli,
in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana,
e così serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra gioia, che
nessuno ci può togliere».
A nome del Collegio, il decano Angelo Sodano propose un indirizzo di
omaggio pervaso anche di emozioni personali: «Padre Santo, con profondo
amore noi abbiamo cercato di accompagnarla nel suo cammino, rivivendo
l’esperienza dei discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver camminato con
Gesù per un buon tratto di strada, si dissero l’un l’altro: “Non era forse
ardente il nostro cuore, quando ci parlava lungo il cammino?” (Luca 24,32).
Sì, Padre Santo, sappia che ardeva anche il nostro cuore quando
camminavamo con lei in questi ultimi otto anni. Oggi vogliamo ancora una
volta esprimerle tutta la nostra gratitudine». Secondo me riuscì a esprimere
la sensibilità della stragrande maggioranza dei cardinali, rappresentandone
le emozioni che anch’io avevo percepito in seguito ad alcuni colloqui e alle
lettere giunte da numerosi di loro. Si percepiva in quell’incontro una
sincerità nel dolore, nell’incomprensione, anche nell’imbarazzo, forse
risolti poi con il trascorrere del tempo.
Devo dire però che qualche giorno più tardi, nell’omelia della Messa
“pro eligendo Romano Pontifice”, risuonarono alcune espressioni che a
molti parvero un contraltare ai buoni sentimenti precedenti. Soffermandosi
sul significato della missione del Papa, il cardinale Sodano affermò:
«L’atteggiamento fondamentale di ogni buon Pastore è dunque dare la vita
per le sue pecore. Questo vale soprattutto per il Successore di Pietro,
Pastore della Chiesa universale. Perché quanto più alto e più universale è
l’ufficio pastorale, tanto più grande deve essere la carità del Pastore». Io ero
presente a quella celebrazione e mi resi conto, per gli sguardi lanciatimi da
altri confratelli, di quanto queste parole venissero percepite anche da loro
come una non troppo velata critica. Benedetto comunque non vide la
cerimonia in televisione, né gliene accennai, poiché compresi che non
desiderava essere messo al corrente di quanto stava accadendo in vista del
Conclave.
Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già recate a Castel
Gandolfo, con don Alfred controllammo che nell’Appartamento pontificio
fosse tutto in ordine. Poco prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo
sguardo a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore Nobile. Fu un
addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire e mi colpì nell’intimo, al
punto che non potei far altro che lasciar libero corso alle lacrime.
Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la diocesi di Roma e per
la Città del Vaticano, Agostino Vallini, che si accorse del mio turbamento e
cercò di confortarmi, e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver
pianto, ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e un Papa
viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per un saluto, nel cortile di
San Damaso, c’erano i responsabili della Segreteria di Stato e altri fra i
principali collaboratori del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era
schierata con il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati
moltissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso espressero il
loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapidamente, mentre sull’account
@Pontifex di Twitter, inaugurato nel dicembre del 2012, compariva il suo
ultimo messaggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate
sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita».
Salimmo in automobile verso l’eliporto e decollammo, mentre le
campane della Basilica vaticana e delle altre chiese romane suonavano a
distesa. In elicottero, silenzio assoluto: guardavamo quello che ci scorreva
sotto gli occhi, anche perché era la prima volta che passavamo sul centro
storico di Roma, dato che in occasioni precedenti, giungendo da Ciampino
o da Castel Gandolfo, il pilota aveva percorso una rotta più limitrofa alla
città.
Soltanto mesi dopo abbiamo visto con Benedetto le immagini che erano
state trasmesse in mondovisione da un secondo elicottero che ci seguì per
tutto il viaggio, in un documentario curato dal Centro televisivo vaticano.
Per me fu molto emozionante rievocare quel giro attorno alla cupola di San
Pietro che il pilota fece senza averci preavvisati, ma il Papa emerito
mantenne il suo atteggiamento impassibile e non commentò affatto.
Giunti nella residenza di Castel Gandolfo, poco dopo le 17.30, Benedetto
si affacciò dal balcone esterno per salutare i fedeli e pronunciò le sue ultime
parole da Papa regnante: «Cari amici, sono felice di essere con voi,
circondato dalla bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto
bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi sapete che questo
mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice
della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più.
Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo
pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il
mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie
forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e
dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo
avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del mondo».
Erano momenti di tensione estrema, che anche Benedetto XVI viveva
con emozione. Parlando a braccio in italiano, fece perciò alcuni errori, poi
corretti come d’abitudine nel bollettino ufficiale della Sala stampa. Ma su
uno di questi – l’inversione tra “Sommo Pontefice” e “Pontefice Sommo” –
sarebbe poi stata ricamata un’assurda elucubrazione, affermando che, come
i già discussi errori in latino nella lettera di rinuncia, fosse in realtà un modo
per inviare un messaggio subliminale relativo all’autenticità e alla validità
della rinuncia al proprio ufficio petrino. In realtà, è sufficiente ascoltare
integralmente quel discorso per rendersi conto che, subito prima, aveva
invertito anche le parole “mio giorno” con “giorno mio”, mentre alla fine,
impartendo la benedizione, era partito con il lapsus “Sia benedetto Dio
onnipote…” al posto di “Ci benedica Dio onnipotente”.
Rientrato in casa, si ritirò in camera da letto per sistemare le cose
personali e per pregare da solo i vespri. Alle 19.30 ci fu la consueta cena e
alle 20 sentimmo il rumore della chiusura del portone. Subito dopo ci
recammo davanti al televisore per il Tg1, con i vari servizi dedicati alla
giornata. Durante il telegiornale non c’erano mai commenti, al massimo
capitava di scambiare qualche opinione durante la successiva passeggiata. E
quella sera il silenzio regnò ancor più sovrano. D’altra parte, cosa si sarebbe
potuto dire in quei frangenti? Al termine, facemmo una passeggiata
attraverso diverse stanze del primo piano: la biblioteca privata, la sala del
Concistoro, la galleria e altre sale fino alla sala degli Svizzeri, dove c’è un
bel terrazzino affacciato verso il lago Albano. Infine, recitata la compieta in
cappella, Benedetto rientrò nella sua stanza. Dopo 2.873 giorni, si
concludeva così il pontificato del 264° successore di san Pietro.
8
Il rapporto fra i due Papi

Una laboriosa telefonata


Al mattino del 1° marzo 2013, Benedetto XVI diede visibilmente inizio al
suo nuovo status, indossando unicamente la talare e lo zucchetto bianchi,
ma tralasciando – oltre ovviamente le scarpe rosse – la mantelletta
“pellegrina” e la fascia con lo stemma: di fatto, pur non essendoci alcuna
norma scritta al riguardo, informalmente questi due ornamenti vengono
rispettivamente considerati simboli dell’annuncio evangelico e del governo
pontificio.
Si era anche tolto dall’anulare destro l’anello “del pescatore”, che mi
affidò affinché lo portassi al cardinale Bertone, il quale, nella sua funzione
di camerlengo, il 6 marzo lo annullò mediante biffatura. A monsignor
Marini consegnai invece la stola “degli apostoli”, quella di colore rosso che
il Papa indossa in specifiche cerimonie. Successivamente diedi a don
Alfred, quando andò a collaborare con Papa Francesco, l’antico strumento
con il timbro a secco «Segreteria particolare di Sua Santità», utilizzato
specialmente per le pergamene con la benedizione apostolica firmata dal
Pontefice.
Da quel momento, il Papa emerito generalmente utilizzò l’anello che gli
era stato regalato dai canonici della cattedrale di Monaco quando divenne
arcivescovo diocesano, con sopra inciso un gregge. Lo scelse fra alcuni che
gli avevo sottoposto a Castel Gandolfo, preferendolo a quello datogli da
Paolo VI al momento della creazione cardinalizia, che indossò raramente.
Da cardinale aveva infatti continuato a portare l’anello regalatogli dalla
sorella e dal fratello per la consacrazione a vescovo, che però nel settembre
del 2006, quando si recò in pellegrinaggio nel famoso santuario bavarese,
volle offrire alla Madonna di Altötting, tuttora visibile all’anulare destro
della statua mariana. Negli ultimi anni utilizzò anche il dono del vescovo
emerito Gino Reali, nato nella diocesi di Norcia, il cui anello episcopale
d’argento recava simboli benedettini: «Desidero regalarglielo perché ci
unisce», gli scrisse, e Benedetto lo accettò volentieri.
Durante il tempo di avvicinamento al Conclave, non si mostrò
particolarmente interessato a quanto stava accadendo. In generale,
continuava a informarsi assistendo al Tg1 o al Tg2, a seconda dell’orario in
cui finiva di cenare, e io gli segnalavo nella rassegna stampa qualche
articolo particolarmente significativo. Ma era determinato a non influire in
alcun modo sull’elezione del nuovo Pontefice, per cui evitò qualsiasi
contatto con l’esterno, sia telefonico sia personale.
Per lui era stato sufficiente chiarire che, pur nell’originalità della
situazione del momento, il prescelto dai cardinali sarebbe stato senza
dubbio alcuno il 266° Pontefice. Lo fece in anticipo, in diverse occasioni:
«Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa» (Udienza
generale, 13 febbraio 2013); «Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e
soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad un compito così rilevante,
e per il nuovo successore dell’apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con
la luce e la forza del suo Spirito» (Udienza generale, 27 febbraio);
«Continuerò a esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi
giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo
nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto
da Lui. E tra voi, tra il Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa»
(Incontro con i cardinali, 28 febbraio).
Ad abundantiam, in quest’ultima circostanza pronunciò una significativa
aggiunta a braccio, che non era presente nel testo scritto: «al quale già oggi
prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Lo ribadì
successivamente, rivolgendosi a Francesco – negli incontri o per lettera –
con l’espressione “Santo Padre”. E poi ha sempre celebrato la santa Messa,
durante la settimana in italiano e la domenica in latino, utilizzando il
Messale romano di Paolo VI e pronunciando ovviamente la preghiera
eucaristica con l’esplicita menzione della comunione con il Papa regnante,
Francesco, come possono testimoniare tutti quelli che hanno concelebrato
con lui.
In quel periodo mi recavo ogni mattina in Prefettura e rientravo a Castel
Gandolfo nel primo pomeriggio. Ma il 13 marzo decisi di fermarmi sino
alla fumata serale, cosicché, non appena il colore bianco rese evidente che il
nuovo Papa era stato eletto, mi recai in sala Regia e quindi mi misi in fila
nella Cappella Sistina per esprimergli l’atto di obbedienza. Francesco,
quando giunsi a salutarlo, non mi lasciò nemmeno aprire la bocca per fargli
gli auguri, anticipandomi con la richiesta: «Vorrei parlare con Benedetto.
Lei può aiutarmi?». Lì dentro i cellulari non funzionavano, cosicché mi
affrettai in una stanza limitrofa, dove era stato predisposto un telefono dei
servizi tecnici.
Mentre il Pontefice proseguiva nei saluti, ho digitato il numero fisso
della residenza a Castel Gandolfo, quindi il cellulare di don Alfred, ma
nessuno rispondeva perché, come poi ho saputo, erano tutti davanti al
televisore e avevano silenziato gli apparecchi telefonici. Nessuno di loro
immaginava che potesse giungere subito una tale chiamata… A quel punto
ho avvertito Papa Francesco e lui mi ha detto di continuare a provare, in
modo da potersi mettere in collegamento più tardi, dopo essersi presentato
ai fedeli.
Alla fine ho contattato il posto di guardia della Gendarmeria pontificia e
mi ha risposto il vicecommissario Mauro De Horatis, che si è recato
fisicamente nell’Appartamento e ha avvisato della telefonata che sarebbe
arrivata appena possibile. Al rientro dalla Loggia delle benedizioni, Papa
Francesco mi ha raggiunto vicino al telefono, io ho fatto di nuovo il numero
del fisso e, dopo la risposta di don Alfred, gli ho passato la cornetta, mentre
dall’altra parte Benedetto prendeva il cordless. Ovviamente mi sono
allontanato e non ho ascoltato quanto Papa Bergoglio diceva, mentre don
Alfred sentì la risposta di Benedetto: «La ringrazio, Santo Padre, perché ha
pensato a me. Io le prometto fin da subito la mia obbedienza. Io prometto la
mia preghiera per lei!».
Dagli scarni commenti che il Papa emerito si lasciò sfuggire nei giorni
immediatamente successivi, potei comprendere che il nome di Jorge Mario
Bergoglio gli giunse inatteso. Ho pensato, ricordandomi che voci attribuite
a cardinali presenti nel Conclave del 2005 avevano citato l’arcivescovo di
Buenos Aires come un protagonista di quel momento, che forse Benedetto
si era fatto il conto che gli anni erano trascorsi anche per il confratello
argentino. Piuttosto, mi è sembrato che i suoi pronostici guardassero verso
tre figure (ben presenti, del resto, anche nei “tabellini” dei vaticanisti): il
settantunenne italiano Angelo Scola, arcivescovo di Milano, il
sessantottenne canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i
Vescovi, e il sessantatreenne brasiliano Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di
San Paolo.
Comunque Benedetto conosceva sufficientemente bene l’arcivescovo di
Buenos Aires, che curiosamente era stato protagonista di una delle sue
ultime nomine dopo la rinuncia: appena venti giorni prima, il 23 febbraio,
lo aveva infatti inserito fra i membri della Pontificia Commissione per
l’America latina, dove sarebbe dovuto rimanere fino al compimento degli
ottant’anni. Nel dicembre del 2011, quando Bergoglio compì 75 anni e
presentò la consueta lettera di dimissioni, Papa Ratzinger aveva concesso la
proroga di un biennio, usuale per i cardinali. Ma le occasioni di incontro
non erano state molte, poiché l’arcivescovo argentino non amava venire in
Vaticano.
Un significativo, anche se indiretto, rapporto fra loro si era avuto nel
2007, quando il preposito generale dei Gesuiti, padre Peter Hans
Kolvenbach – che aveva comunicato a Benedetto la volontà di dimettersi al
compimento degli ottant’anni, nel 2008, conservando il titolo di preposito
emerito – avviò la preparazione della Congregazione che avrebbe eletto il
suo successore. Papa Ratzinger espresse, tramite una lettera inviata dal
cardinale Bertone, alcune sollecitazioni, in particolare riguardo alla
preparazione spirituale ed ecclesiale dei giovani gesuiti, nonché sul valore e
sull’osservanza del quarto voto, quello della “speciale obbedienza al
Pontefice”. La Segreteria di Stato suggerì allora a padre Kolvenbach di
coinvolgere nei lavori preparatori il cardinale gesuita Bergoglio,
chiedendogli un parere sullo stato della Compagnia di Gesù e sull’ipotesi di
un commissariamento, che ogni tanto tornava ad affacciarsi. Il successore di
Kolvenbach, padre Adolfo Nicolás, racconterà che il 17 marzo 2013, nel
primo incontro con Papa Francesco, aveva ascoltato dalla sua viva voce la
confidenza che si era tenacemente opposto a questa idea, coinvolgendo lo
stesso Kolvenbach e chiedendogli di riferire a Benedetto XVI, anche a
proprio nome, l’inopportunità di procedere in questa problematica
direzione, ottenendone la promessa che ciò non sarebbe avvenuto.
Devo dire che personalmente rimasi colpito dalle parole che Papa
Francesco pronunciò il 15 marzo 2013 dinanzi ai cardinali, che non furono
“di circostanza”, ma sgorgarono realmente dal profondo del suo cuore,
come mi ripeté più volte in quei primi giorni quando gli fui spesso al fianco,
nel mio ruolo di prefetto della Casa pontificia: «Un pensiero colmo di
grande affetto e di profonda gratitudine rivolgo al mio venerato
predecessore Benedetto XVI, che in questi anni di pontificato ha arricchito
e rinvigorito la Chiesa con il suo Magistero, la sua bontà, la sua guida, la
sua fede, la sua umiltà e la sua mitezza. Rimarranno un patrimonio
spirituale per tutti! Il ministero petrino, vissuto con totale dedizione, ha
avuto in lui un interprete sapiente e umile, con lo sguardo sempre fisso a
Cristo, Cristo risorto, presente e vivo nell’Eucaristia. Lo accompagneranno
sempre la nostra fervida preghiera, il nostro incessante ricordo, la nostra
imperitura e affettuosa riconoscenza. Sentiamo che Benedetto XVI ha
acceso nel profondo dei nostri cuori una fiamma: essa continuerà ad ardere
perché sarà alimentata dalla sua preghiera, che sosterrà ancora la Chiesa nel
suo cammino spirituale e missionario».

Dall’Appartamento a Santa Marta


Per i primissimi tempi dopo l’elezione, Papa Francesco non ebbe un
segretario particolare, anche perché a Buenos Aires era abituato a gestire
direttamente lui gli appuntamenti, le telefonate e la posta. Perciò, su sua
richiesta, gli consegnai direttamente la documentazione del conto riservato
della Segreteria particolare di Sua Santità e le chiavi delle due casseforti
nell’Appartamento papale. Soltanto dopo qualche giorno venne chiamato
come segretario don Alfred, in favore del quale anche Benedetto aveva
scritto una lettera personale a Papa Francesco, e così feci con lui un
semplicissimo passaggio di consegne.
Al mattino del 15 marzo lo accompagnai anch’io nel Palazzo apostolico
per la sua presa di possesso dell’Appartamento alla Terza loggia, dopo la
rottura dei sigilli da parte del cardinale camerlengo Bertone, e gli feci
vedere come erano disposte le stanze. Gli dissi pure che non ci sarebbero
stati problemi per il trasloco da Casa Santa Marta, poiché era tutto a posto e
bastava una normale ripulitura dei locali. Sul momento non mi diede alcuna
risposta, facendomi capire che ci avrebbe pensato. Ho letto che il preposito
generale dei Gesuiti, padre Adolfo Nicolás, ricevette un invito da Papa
Bergoglio per il pomeriggio di domenica 17: «Vieni a Santa Marta, perché
domani devo trasferirmi al Palazzo apostolico e qui ho più libertà». Da
queste parole sembrerebbe di capire che avesse concluso in questa
direzione, però a me questa idea relativa al 18 marzo non fu mai esplicitata.
Dopo un paio di settimane gli riproposi l’interrogativo e il Papa mi disse
queste testuali parole: «Normalmente io dormo come un sasso, ma la notte
dopo aver visto l’Appartamento ho dormito malissimo. Rimuginavo dentro
di me che non sono abituato a vivere in spazi così ampi. Potreste trovare
una sistemazione più piccola in Vaticano?». Mi consultai con il sostituto
Becciu e concordammo sul fatto che qualsiasi soluzione – c’erano per
esempio disponibilità nel palazzo dell’Arciprete, in quello del Sant’Uffizio
o nella vecchia Santa Marta – sarebbe risultata poco funzionale e avrebbe
comunque creato problemi gestionali e di sicurezza.
Provai anche a sottoporgli la questione dal punto di vista emotivo,
dicendogli che per tutti quelli che passavano di sera davanti alla Basilica
vaticana era un punto di riferimento la luce accesa nell’Appartamento
pontificio e che ci sarebbe sicuramente stata nostalgia, se si fosse
modificata la residenza: però ebbi l’impressione che le migliaia di
chilometri di distanza da Roma non lo avevano reso partecipe di tale
sensibilità. Anche Benedetto ne fu sorpreso, ma la sua saggia conclusione
fu che, se non voleva, non lo si poteva certo obbligare!
Alla fine, la decisione fu presa direttamente da lui, con la conferma della
permanenza nell’Appartamento patriarcale di Santa Marta. Il motivo lo
spiegò il 7 giugno 2013, durante l’incontro con gli studenti delle scuole
gestite dai Gesuiti in Italia e Albania: «Per me è un problema di personalità:
è questo. Io ho necessità di vivere fra la gente, e se io vivessi solo, forse un
po’ isolato, non mi farebbe bene. Questa domanda me l’ha fatta un
professore: “Ma perché lei non va ad abitare là? (nell’Appartamento
pontificio, N.d.A.)”. Io ho risposto: “Ma, mi senta, professore: per motivi
psichiatrici”».
Non tenendo conto di questo chiarimento, soprattutto nei primi tempi ci
fu chi volle contrapporre Francesco e Benedetto anche sotto l’aspetto della
residenza, affermando che il nuovo Pontefice non voleva il fasto del
Palazzo apostolico, ma si accontentava di una stanza in albergo. Senza
alcuna polemica, devo però contestare questa interpretazione, poiché gli
spazi personali degli ultimi Pontefici – studio, salotto, stanza da letto e
bagno – sono stati equivalenti a quelli di Francesco nell’Appartamento di
Santa Marta; mentre tutti gli altri ambienti – dalla cucina alla sala da
pranzo, dalla cappella ai locali per la Segreteria particolare e gli altri
collaboratori – a Santa Marta sono ugualmente disponibili, anche se come
parte del complesso alberghiero.
Di fatto, posso testimoniare che, per come trovammo l’Appartamento
pontificio nel 2005, Giovanni Paolo II non aveva certamente vissuto in agi
principeschi. E pure i miglioramenti successivi furono poco onerosi per la
Santa Sede poiché, grazie a Dio, verso il Papa c’è molta benevolenza e
generosità anche da parte di non cattolici, cosicché diverse attrezzature di
servizio per la sua residenza vengono donate da ditte o da privati che quasi
sempre chiedono addirittura di restare anonimi. Proprio per evitare il
deterioramento delle stanze e delle suppellettili, l’Appartamento deve
comunque venire tuttora curato, dunque in gioco non c’è per nulla la
questione del risparmio economico, quanto appunto quella della psicologia
personale.
Questo aspetto della contrapposizione fra il regnante Francesco e
l’emerito Benedetto, che da opposte sponde è stato costantemente
sostenuto, ha sempre rattristato Ratzinger, soprattutto quando l’osservazione
proveniva dall’interno del Vaticano. Parafrasando il noto modo di dire, tanti
hanno provato a tirare Benedetto XVI “per la talare” (non potendolo fare
“per la giacchetta”). E non sempre era facile comprendere chi agiva in
buona fede, animato da intenzioni almeno in origine positive, e chi invece
cercava piuttosto di fomentare confusione e ribellione, per salvaguardare
consolidate posizioni di potere o per conquistarne di migliori. Tra le
migliaia di persone che spendono la vita per la Santa Sede la quasi totalità è
devota al Papa e alla Chiesa. Ma, come in tutte le grandi strutture, sono
proprio quelle poche “pecore nere” le più pericolose, capaci spesso di
mascherarsi come “angeli di luce”.
Anche a Francesco venne posta direttamente una domanda riguardo alla
questione dei “due Papi”, nella conferenza stampa del 26 giugno 2016 sul
volo di ritorno dall’Armenia, e lui efficacemente rispose: «Ho sentito – ma
non so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma
concordano con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi
perché “questo nuovo Papa…”, e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile
bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato,
perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo retto, retto,
retto!». Posso personalmente confermare che è stato così.
Tranne rari casi dei pochissimi amici di vecchia data, invitati
singolarmente, tutte le altre visite che Benedetto ha ricevuto da Papa
emerito sono state preventivamente richieste: lui in persona decideva se
accoglierle o meno, e in diverse occasioni ha rifiutato di incontrare anche
cardinali, vescovi e politici, se lo riteneva inopportuno in questa sua nuova
situazione. Soltanto qualche volta è capitato che sia giunta una lettera da
qualche autorevole personalità ecclesiastica e Benedetto abbia preferito un
incontro, piuttosto che una semplice risposta per iscritto. Comunque, è
sempre stato chiaro a tutti, senza neanche bisogno di precisarlo, che al
Monastero non si veniva a chiedere pareri sull’operato di Papa Francesco,
né tantomeno a lamentarsi di qualcosa.
Per fare un solo esempio, devo dire di aver letto con estremo stupore la
risposta che lo scrittore Vittorio Messori diede, sul «Corriere della Sera» del
2 marzo 2021, a Stefano Lorenzetto che gli chiedeva se incontrasse ancora
il Papa emerito: «Non oserei mai disturbarlo. Un giorno mi telefonò il suo
segretario Georg Gänswein: “Sua Santità la rivedrebbe volentieri, ma lei
dovrà dimenticarsi di essere un giornalista”. Peccato, perché fece commenti
sulla situazione della Chiesa che erano da prima pagina». Più recentemente,
è stata resa nota la trascrizione di alcune affermazioni che lo scrittore aveva
fatto il 23 maggio 2016, in un incontro pubblico nel Centro francescano
Rosetum a Milano, raccontando del suo incontro avvenuto alle 12.30 del 9
settembre 2015: «Il suo segretario mi ha telefonato dicendo: “Sua Santità
sarebbe lieto di rivederla in nome dei vecchi trascorsi, venga a trovarlo nel
suo ritiro, però resta inteso che Sua Santità la aspetta come amico e non
come giornalista. Il vostro sarà un incontro privato e quindi non ci saranno
cose pubbliche da propalare”. […] Quando Ratzinger mi ha chiesto il mio
parere sulla situazione attuale della Chiesa, io gli ho espresso, con sincerità,
questo clima di perplessità (per usare un eufemismo), di inquieta curiosità
su come andrà a finire, di fronte a certi esperimenti. Comunque, gli ho detto
come la pensavo ed è abbastanza significativo come, dopo avermi ascoltato,
lui abbia aperto le mani, alzato gli occhi al cielo e abbia detto: “Io posso
solo pregare”».
Ora, comprendo che suona bene poter dire di essere stato cercato dal
Papa emerito, ma in realtà Benedetto semplicemente accolse con
benevolenza il desiderio di un incontro, espresso per iscritto da Messori. E
certamente le parole a me attribuite non corrispondono a quelle realmente
da me pronunciate, poiché né in questa né in qualsiasi altra occasione mi
sono mai permesso di imporre qualcosa riguardo alla riservatezza
dell’incontro e delle tematiche trattate. Benedetto ha avuto stima di
Messori, con il quale realizzò il noto libro-intervista del 1984 Rapporto
sulla fede. Ma, almeno da quando sono stato suo segretario particolare, i
loro rapporti furono sporadici, per cui sarebbe stato decisamente improprio
da parte mia riferire la parola “amico”, una definizione che il Papa emerito
riservava a pochissime persone. E la drammatica gestualità attribuita a
Benedetto mi risulta del tutto forzata, soprattutto se caricata del relativo
giudizio di critica che viene spontaneo trarne.
Ovviamente sono state a tutti evidenti le diversità nelle modalità di
comportamento e nelle sfumature di giudizio teologico con cui entrambi i
Papi hanno rispettivamente affrontato le problematiche emerse durante i
loro pontificati. Ma Benedetto, anche se qualcuno ha provato a stuzzicarlo,
non ha mai ipotizzato spiegazioni per la strategia di Francesco. In effetti, mi
sembra che l’analisi più corretta possa individuare come problema non
tanto quello della coesistenza di due Papi, uno regnante e uno emerito,
quanto la nascita e lo sviluppo di due tifoserie, poiché con il passar del
tempo ci si rese conto sempre di più che effettivamente c’erano due visioni
della Chiesa. E queste due tifoserie – ciascuna fondandosi su affermazioni,
gesti, o anche soltanto impressioni riguardo ad atteggiamenti di Francesco e
di Benedetto (per di più, talvolta con invenzioni del tutto gratuite) – hanno
creato quella tensione che si è poi riverberata anche su quanti non erano
sufficientemente consapevoli delle dinamiche ecclesiastiche.
Il primo incontro a quattr’occhi fra loro due avvenne il 23 marzo 2013
nella biblioteca-studio di Castel Gandolfo, per la consegna della
documentazione dell’inchiesta svolta dalla Commissione cardinalizia.
Presentandogli le considerazioni che aveva espresso per iscritto, Benedetto
diede a voce qualche ulteriore dettaglio a Papa Francesco, rispondendo alle
sue richieste di chiarimento. Durante il pranzo, cui partecipammo anche
don Alfred e io, si affrontarono argomenti più generici e non
particolarmente impegnativi, come in una normale conversazione tra
commensali, in un clima di grande affabilità. E ambedue, mi venne detto
personalmente in seguito, ne rimasero molto contenti.
Qualche settimana dopo, il Papa emerito fu colpito dalla sorpresa che
ebbe al rientro in Vaticano con l’elicottero da Castel Gandolfo, il 2 maggio.
A nostra insaputa, davanti alla porta d’ingresso del Monastero c’era Papa
Francesco in attesa. Quella improvvisata gli spalancò il cuore dalla gioia,
poiché si sentì pienamente accolto «nel recinto di Pietro», in quella sua
inedita situazione. Lo sottolineò lui stesso il 28 giugno 2016, nel discorso
durante la commemorazione del 65° anniversario dell’ordinazione
sacerdotale, con parole profondamente impregnate di calore e di stima:
«Grazie soprattutto a lei, Santo Padre! La sua bontà, dal primo momento
dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta
realmente, interiormente. Più che nei Giardini vaticani, con la loro bellezza,
la sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto».
Francesco è venuto in visita diverse altre volte in Monastero, soprattutto
nei momenti di festa: onomastico e compleanno del Papa emerito, Pasqua e
Natale; nei primi tempi arrivava per un saluto anche prima di partire per un
viaggio apostolico. Lo ha sempre invitato ai Concistori per i nuovi cardinali
e, quando Benedetto non è più potuto andare per i suoi problemi alle
gambe, Francesco decise che sarebbero venuti loro. Due volte lo avemmo
ospite al “Mater Ecclesiae” a pranzo e una volta Benedetto e io andammo a
Santa Marta.
Papa Bergoglio portava generalmente in dono del vino e un barattolo di
dulce de leche, la gustosa crema a base di latte originaria dell’Argentina.
Probabilmente l’idea derivò da una volta in cui mi aveva chiesto che cosa
Benedetto mangiasse volentieri, e io avevo risposto: «I dolci», cosicché lui
deve aver mentalmente fatto riferimento a quella omonimia. Benedetto
ricambiava con il limoncello fatto dalle Memores con i limoni del nostro
giardino e con i dolci tipici della Baviera, per esempio nel tempo natalizio i
biscotti Lebkuchen.

L’enciclica e l’intervista
Il 17 ottobre 2011, con la lettera apostolica Porta fidei (datata all’11 ottobre,
per ricordare l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II),
Benedetto aveva reso nota la volontà di programmare un Anno della fede
dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Nel momento di quella
decisione non c’era ancora all’orizzonte l’idea della conclusione anticipata
del pontificato, cosicché Papa Ratzinger aveva stabilito di accompagnare
quel cammino con una enciclica sulla tematica della fede, che idealmente
avrebbe completato la trilogia delle virtù teologali.
La fatica dei mesi successivi gli impedì però di dedicarsi alla stesura
come avrebbe voluto, cosicché, approssimandosi la data prevista per la
rinuncia, si rese conto che il testo non era per nulla maturo e preferì
lasciarlo in eredità al suo successore. Il testo definitivo, sul quale avevano
intanto continuato a lavorare gli organismi competenti, venne firmato da
Papa Francesco il 29 giugno 2013 e fu pubblicato il 5 luglio seguente.
Rispetto all’ultima bozza vista da Benedetto prima della rinuncia c’erano
state alcune modifiche, in particolare inserendo nell’ultima parte tematiche
più consone al nuovo Pontefice, ma la sostanza restò la medesima.
Lo affermò pubblicamente anche Papa Bergoglio, nell’Angelus del 7
luglio: «Per l’Anno della fede, il Papa Benedetto XVI aveva iniziato questa
enciclica, che fa seguito a quelle sulla carità e sulla speranza. Io ho raccolto
questo bel lavoro e l’ho portato a termine. Lo offro con gioia a tutto il
popolo di Dio: tutti infatti, specialmente oggi, abbiamo bisogno di andare
all’essenziale della fede cristiana, di approfondirla e di confrontarla con le
problematiche attuali. Ma penso che questa enciclica, almeno in alcune
parti, può essere utile anche a chi è alla ricerca di Dio e del senso della vita.
La metto nelle mani di Maria, icona perfetta della fede, perché possa
portare quei frutti che il Signore vuole».
Sei mesi dopo l’elezione, fece notizia l’ampia intervista concessa da
Papa Francesco al direttore de «La Civiltà Cattolica» padre Antonio
Spadaro. Contrariamente a quanto fatto trapelare all’epoca, e divenuto
ormai una certezza consolidata («Arrivarono al Monastero le bozze di
un’intervista. […] Il testo si concludeva con due pagine bianche e un
appunto scritto di suo pugno da Jorge Mario Bergoglio. […] Era una
richiesta a Benedetto di inserire eventuali osservazioni critiche», ha
affermato in un recente libro anche il pur informato Massimo Franco), il
Pontefice mi consegnò la busta con una copia del quindicinale dei Gesuiti
soltanto dopo la pubblicazione, il 19 settembre 2013, chiedendomi di
riferire a Benedetto il suo desiderio che ci desse uno sguardo ed
eventualmente proponesse anche qualche commento.
Il Papa emerito prese molto sul serio la richiesta, lesse attentamente
quella trentina di pagine e appuntò le proprie riflessioni. Quindi preparò una
lettera, la cui stesura definitiva portò la data del successivo 27 settembre,
quando la diedi personalmente a Papa Francesco. Nelle prime righe
Benedetto spiegava subito la specificità delle proprie sottolineature: «Santo
Padre, vorrei dirle grazie di cuore per la trasmissione della sua lunga
intervista pubblicata su “La Civiltà Cattolica”. Ho letto il testo con gioia e
con vero guadagno spirituale e con un consenso completo. Lei mi ha
invitato anche a eventuali osservazioni critiche. In realtà sono d’accordo
con tutto quanto lei ha detto, ma in due punti vorrei aggiungere un aspetto
complementare. Il primo punto concerne i problemi legati all’aborto e
all’uso dei metodi contraccettivi. Il secondo punto concerne il problema
dell’omosessualità».
Sul primo, Benedetto precisava: «Circa i tre problemi che lei dice a
pagina 463 e seguenti, che lei non ha “parlato molto di queste cose”, che
“bisogna parlarne in un contesto” e che “una pastorale missionaria non è
ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine…
dobbiamo trovare un nuovo equilibrio…”, sono assolutamente d’accordo
con questo e io stesso ho detto queste cose molte volte con parole simili.
Anch’io, perciò, non ho parlato molto di questi temi nel mio pontificato.
Tuttavia vorrei aggiungere un aspetto complementare. Avendo vissuto 23
anni accanto al beato Giovanni Paolo II, sono stato testimone del modo
appassionato con il quale ha realizzato la lotta per la vita. Ho capito che il
Papa beato ha visto nella lotta pro vita, insieme con la lotta per i diritti
umani, un nucleo essenziale della sua missione. E ho anche capito che per
Giovanni Paolo II questo non era un moralismo, ma era la lotta per la
presenza di Dio nella vita umana. Giovanni Paolo II, così ho imparato,
aveva compreso che l’aborto e le forme di procreazione artificiale, di
manipolazione e di distruzione di vite umane, erano sostanzialmente un
“no” al Creatore. L’uomo da solo si crea e si distrugge. In questo senso la
grande lotta pro vita era la lotta per il Creatore. È vero che in diversi rami
dei movimenti pro vita questa grande prospettiva non era sufficientemente
presente e non mancavano unilateralità. Un riequilibrio è quindi necessario,
Ma la lotta pubblica contro questa negazione concreta e pratica del Dio
vivente rimane certamente una necessità».
Riguardo invece al secondo punto, sottolineava: «Alla pagina 463 lei
parla del problema difficile della pastorale per gli omosessuali. Anche qui
sono totalmente d’accordo con quanto lei dice. Già nel Catechismo della
Chiesa cattolica avevamo cercato di trovare, dopo lunghi dibattiti con
correnti diverse, l’equilibrio tra il rispetto della persona, l’amore pastorale e
la dottrina della fede. Ritrovo questo equilibrio nelle sue parole, ma anche
qui vorrei aggiungere un aspetto che risulta dai problemi della propaganda
pubblica su questo punto. La filosofia del gender che qui è in gioco ci
insegna che è la singola persona stessa che si fa uomo o donna. L’essere
uomo o donna non è più una realtà della natura che ci precede. L’uomo è un
prodotto di se stesso. La filosofia di Sartre viene concretizzata in un modo
in quel momento ancora non prevedibile. Si tratta di una radicale negazione
del Creatore e di una manipolazione dell’essere nella quale solo l’uomo è
padrone di se stesso. In questa propaganda non ci si interessa per niente del
bene delle persone omosessuali, ma di una voluta manipolazione dell’essere
e una radicale negazione del Creatore. Io so che molte persone omosessuali
con queste manipolazioni non sono d’accordo e sentono che il problema
della loro vita diventa un pretesto per una guerra ideologica. Perciò, la
resistenza forte e pubblica contro questa pressione è necessaria. Dobbiamo
realizzare questa resistenza senza perdere nella vita pastorale l’equilibrio tra
amore del pastore e verità della fede».
Prima di concludere con i saluti, il Papa emerito propose due ulteriori
precisazioni: «Santità, mi permetta ancora una breve annotazione. A pagina
464 lei dice che le questioni di mancanza di ortodossia “si trattano meglio
sul posto”. Quanto ho desiderato questo negli anni nei quali sono stato
prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Purtroppo, la mia
esperienza di 23 anni dice che normalmente i vescovi o anche le
Conferenze episcopali hanno poca voglia di prendere seriamente in mano
questi problemi e preferiscono lasciare la “patata bollente” nelle mani della
Congregazione. Infine, vorrei dire con gioia e gratitudine come sono
d’accordo con la sua distinzione tra “ottimismo” e “speranza” a pagina 470.
Ripetutamente ho detto lo stesso e sono molto felice di sentire questa
distinzione dalla bocca di Vostra Santità». Papa Francesco mi incaricò di
portare i suoi ringraziamenti a Benedetto, ma ignoro se e come abbia fatto
proprie tali considerazioni.
Il 25 novembre giunse a Benedetto una copia, rilegata in pelle bianca,
del documento che, come di consueto, era stato redatto dal Pontefice dopo il
Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2012 su “La nuova evangelizzazione per la
trasmissione della fede cristiana”. La dedica autografa recitava: «Adesso
sono lieto di far avere a Sua Santità copia dell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium. Per favore, non si dimentichi di pregare per me. Che il
Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente… e anche
filialmente, Francesco». Anche in seguito Papa Francesco ha inviato a
Benedetto tutte le sue encicliche ed esortazioni apostoliche,
accompagnandole sempre con un bigliettino di saluti e la dicitura
«filialmente e fraternamente», cui il Papa emerito ha sempre risposto
ricambiando ogni augurio. Tuttavia, richieste specifiche di osservazioni in
merito a questi testi non sono più giunte.
Alla sensibilità teologica di Benedetto, alcune affermazioni di Francesco
nella Evangelii gaudium suonarono estranee. In particolare il sogno di «una
scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini,
gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un
canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per
l’autopreservazione» (n. 27), «Le diverse linee di pensiero filosofico,
teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e
nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare
meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina
monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta
dispersione» (n. 40), «A volte, ascoltando un linguaggio completamente
ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi
utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo
di Gesù Cristo» (n. 41).
Ma la sua costante linea di condotta fu quella di dare il “beneficio
d’inventario” al primo Pontefice latino-americano nella storia della Chiesa e
di non giudicare mai le sue espressioni con lo sguardo “romanocentrico”:
«Ciascuno ha la sua natura, il suo carattere, il suo comportamento, e il
Signore lavora con qualunque persona. Se pensiamo ai dodici apostoli,
c’erano problemi di ogni tipo, ma la Chiesa è ugualmente cresciuta. Anche
nella storia dei Papi ce ne sono diversi che non sono stati santi, eppure la
Chiesa esiste ancora. Papa Francesco agisce secondo l’indirizzo che lui
ritiene sia il migliore per la Chiesa attuale, nella sua responsabilità di
successore di Pietro. Si può essere totalmente d’accordo o meno, però
questo si deve concedere a tutti i Papi, come è stato concesso a me e ai
precedenti».
D’altronde basterebbe rileggere i testi del Magistero di Papa Ratzinger
per rendersi conto della radicalità del suo pensiero riguardo al ministero
petrino (applicabile di conseguenza come giudizio riguardo ad alcune
dibattute prese di posizione del suo successore), come aveva chiarito per
esempio il 7 maggio 2005 a San Giovanni in Laterano: «La potestà di
insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza
alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono
legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso
Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì
vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola
di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come
di fronte a ogni opportunismo. […] Il Papa è consapevole di essere, nelle
sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi,
alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante
della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della
Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa
Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella
sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle
mode».

Il “pasticciaccio” di Sarah
La bomba mediatica esplose d’improvviso, il 12 gennaio 2020, con
un’intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Figaro», nella quale il
cardinale Robert Sarah, all’epoca prefetto della Congregazione per il Culto
divino e la disciplina dei sacramenti, annunciava al vaticanista Jean Marie
Guénois che, tre giorni dopo, avrebbe pubblicato con Benedetto XVI «un
libro a quattro mani dove i due prelati esprimono una medesima visione
della Chiesa e un’identica avversione per la polemica».
Sin dalla prima domanda risultavano chiari la tematica del volume, il suo
scopo e anche un giudizio di fondo: «Come si spiega il fatto che il Papa
emerito Benedetto XVI abbia pubblicato assieme a lei un’opera in difesa
del celibato sacerdotale, supplicando Papa Francesco di non modificare
questa regola nella Chiesa? Questo libro è un grido, un grido di amore per
la Chiesa, il Papa, i preti e tutti i cristiani. Noi vogliamo che questo libro sia
letto da più gente possibile. La crisi che attraversa la Chiesa è
sorprendente».
Sottolineando la co-autorialità del testo, il cardinale subito dopo
rispondeva a un delicatissimo quesito, che sostanzialmente diede il via a
immediate reazioni, ovviamente di tono positivo o negativo a seconda della
posizione di chi interveniva (e del suo relativo giudizio sull’operato di Papa
Francesco): «Il Papa si era votato al silenzio, perché esce dal suo riserbo?
Con questo libro, il Papa emerito Benedetto XVI non rompe il silenzio. Ci
offre il suo frutto. Quel che ha scritto in questo libro non è una teologia
loquace, una teologia che vuole incantare i media, ma una lettura
contemplativa delle Scritture. Non creda che agisca in polemica, né che
questa sia una disputa accademica lontana dalla realtà. Credo che, nella
preghiera, il suo cuore di padre abbia provato grande compassione per i
sacerdoti di tutto il mondo che si sono sentiti disprezzati, sconvolti e
abbandonati. Ha anche voluto rassicurare le decine di milioni di fedeli
cristiani che si sentono disorientati e perduti».
La correlazione immaginata da tutti i commentatori fu con il Sinodo dei
vescovi sull’Amazzonia, nel quale si era anche discussa la possibilità del
sacerdozio per uomini sposati. Sebbene fosse stata la proposizione più
contestata dai padri sinodali, con ben 41 contrari su 169 votanti, al n. 111
del documento finale, consegnato a Papa Francesco il 26 ottobre 2019, fu
comunque inserito il suggerimento di ordinare sacerdoti «uomini della
comunità idonei e riconosciuti, che abbiano un diaconato permanente
fruttuoso e ricevano un’adeguata formazione al sacerdozio, potendo avere
una famiglia legittimamente costituita e stabile».
Il timore dei critici era che potesse verificarsi una strumentalizzazione
della situazione nella regione amazzonica, dove venivano rilevate difficoltà
ad avere sacerdoti sufficienti per il servizio alle comunità disperse su un
vastissimo territorio. Il titolo del testo conclusivo parlava di «Nuovi
cammini per la Chiesa»: perciò qualsiasi apertura rispetto alla tradizionale
legge del celibato sacerdotale – ribadita anche recentemente dai santi Papi
Paolo VI e Giovanni Paolo II – fu considerata una possibile breccia che,
come tante altre innovazioni nella disciplina ecclesiastica, in breve tempo
da eccezione si sarebbe trasformata in regola.
Di fatto, già nei primi tempi del pontificato di Benedetto la problematica
era balzata all’attenzione mondiale, quando a fine 2006 il cardinale Cláudio
Hummes – appena nominato prefetto della Congregazione per il Clero –
ipotizzò con il quotidiano «O Estado de São Paulo» che «la mancanza di
vocazioni sacerdotali possa portare il Vaticano a discutere dell’ordinazione
degli uomini sposati». Hummes, all’epoca arcivescovo di San Paolo in
Brasile, venne chiamato in Vaticano perché era desiderio di Papa Ratzinger
ampliare le voci autorevoli da varie parti del mondo.
Per chiarire la situazione, il 4 dicembre dovette essere pubblicata dalla
Sala stampa una dichiarazione, concordata con il segretario di Stato
Bertone, nella quale il cardinale Hummes precisava che «la norma del
celibato per i sacerdoti nella Chiesa latina è molto antica e poggia su una
tradizione consolidata e su forti motivazioni, di carattere sia teologico-
spirituale sia pratico-pastorale, ribadite anche dai Papi. […] Tale questione
non è quindi attualmente all’ordine del giorno delle autorità ecclesiastiche,
come recentemente ribadito dopo l’ultima riunione dei capidicastero con il
Santo Padre».
Ma evidentemente la questione non era stata accantonata dal porporato
brasiliano, nominato da Francesco nel 2018 membro del Consiglio pre-
sinodale che preparò quell’assemblea sull’Amazzonia: in tale veste poté
avere un significativo ruolo nel processo di elaborazione dell’esortazione
apostolica post-sinodale Querida Amazonia. La pubblicazione del
documento era stabilita per la fine del 2019, ma l’approvazione definitiva di
Papa Bergoglio – come dettagliò il cardinale Michael Czerny in
un’intervista a Vatican News – si ebbe soltanto il 27 dicembre, cosicché la
pubblicazione avvenne il 12 febbraio 2020 (sebbene con la data ufficiale del
2 febbraio). Questo ritardo, in apparenza irrilevante, ebbe invece non poca
importanza nella sfortunata vicenda del libro di Sarah e delle relative
polemiche, poiché già dall’autunno era stato preventivato che questo
volume sarebbe stato inviato in libreria dalla casa editrice Fayard dopo
l’Epifania del 2020 (la data esatta fu il 15 gennaio).
Nel pomeriggio del 12 gennaio giunse in Monastero una copia-staffetta
e, non appena aprii la busta, mi si gelò il sangue: in copertina il nome
Benoît XVI spiccava in alto, con la stessa grandezza di quello del cardinale
Sarah, e le immagini erano due loro fotografie affiancate (addirittura quella
di Benedetto era ancora del tempo da Pontefice, con la mantellina ben
visibile). Portai immediatamente il volume al Papa emerito e anche lui
rimase stupefatto, comprendendo immediatamente quali polemiche ne
sarebbero scaturite. Sfogliando le pagine, non risultava infatti con chiarezza
la descrizione della diversità di intervento e, per giustificare la doppia
firma, ci si limitava alla enigmatica precisazione: «Testo scritto dal
cardinale Robert Sarah, letto e approvato da Benedetto XVI» (e anche la
Conclusione segnalava questa doppia attribuzione).
Effettivamente la prevista tempesta mediatica tuonò con tutto il vigore
possibile, sulla base dell’idea che, non essendo ancora uscita l’esortazione
post-sinodale, i due volessero fare pressione su Francesco riguardo ai temi
del celibato ecclesiastico e dell’ordinazione di uomini sposati. Benedetto
ritenne perciò necessario un chiarimento pubblico, che riassunsi nel
comunicato diffuso dalle agenzie giornalistiche il 14 gennaio: «Posso
confermare che questa mattina, su indicazione del Papa emerito, ho chiesto
al cardinale Sarah di contattare gli editori del libro pregandoli di togliere il
nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso e di togliere la sua
firma anche dall’Introduzione e dalla Conclusione. Il Papa emerito, infatti,
sapeva che il cardinale stava preparando un libro e aveva inviato il suo
breve testo sul sacerdozio autorizzandolo a farne l’uso che voleva. Ma non
aveva approvato alcun progetto per un libro a doppia firma, né aveva visto e
autorizzato la copertina. Si tratta di un malinteso, senza mettere in dubbio la
buona fede del cardinale Sarah».
Le parole erano state attentamente studiate per consentire un’onorevole
via d’uscita al cardinale, sia per l’amicizia personale con Benedetto, sia
perché all’epoca ricopriva ancora l’incarico di prefetto della Congregazione
per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e non si voleva metterlo in
difficoltà in un momento in cui la sua posizione in Vaticano era delicata. In
risposta, il cardinale emanò un suo comunicato, nel quale affermava: «A
seguito di vari scambi in vista della preparazione del libro, il 19 novembre
ho finalmente inviato al Papa emerito un manoscritto completo
comprendente, come avevamo deciso di comune accordo, la copertina,
un’Introduzione e una Conclusione comune, il testo di Benedetto XVI e il
mio testo». Ho controllato e posso ribadire che, in quell’incartamento, della
copertina non v’è traccia. Il cardinale dichiarava poi che «la polemica che
mira a sporcarmi insinuando che Benedetto XVI non era informato della
pubblicazione del libro Des profondeurs des nos coeurs è profondamente
abietta»: un patetico tentativo di spostare il tiro, poiché in questione non
c’era la conoscenza, bensì la modalità, della pubblicazione.
Comunque, nella telefonata Sarah mi aveva promesso che avrebbe agito
secondo la richiesta del Papa emerito e chiese di poterlo incontrare di
persona. L’appuntamento fu fissato in Monastero per le 17.15 del 17
gennaio e Benedetto volle che fossi presente anch’io. Il cardinale si lamentò
per l’accaduto, giunse quasi alle lacrime e poi tirò fuori dalla borsa un
foglio con la bozza di un comunicato che voleva far rilasciare con la firma
di Benedetto: «“Il sacerdozio cattolico” è probabilmente l’ultimo testo che
ho scritto prima di andare a incontrare il Signore. Approvo e accetto tutto
ciò che è contenuto in questo libro intitolato Dal profondo del nostro cuore
e ringrazio il cardinale Sarah per averlo pubblicato così come lo ha fatto,
compresa la copertina. Prego tutti di smetterla con questa assurda polemica
e calunnia che macchia questo uomo di Dio e divide la Chiesa su una
questione così essenziale. Incoraggio i sacerdoti e tutti a leggere questo
libro».
Io subito sono sbottato, sottolineando che non era mai stato emesso un
comunicato stampa del Papa emerito e attirando l’attenzione sul fatto che
qualsiasi sua presa di posizione pubblica avrebbe aggiunto benzina sul
fuoco. Per cercare una soluzione, Benedetto disse al cardinale che voleva
riflettere ed eventualmente riformulare il testo, chiedendogli di tornare
un’ora dopo, intorno alle ore 19. Al rientro di Sarah, il Papa emerito gli
spiegò che aveva fatto alcuni aggiustamenti sostanziali, in particolare
eliminando il riferimento alla copertina, ma chiarì che il suo status di Papa
emerito non gli consentiva la pubblicazione del testo senza prendere
contatti con la Segreteria di Stato e con Papa Francesco. Il cardinale mostrò
la propria delusione, ma dovette forzosamente accettare questa decisione.
Quando l’accompagnai all’uscita dal Monastero, giunse al punto di dirmi:
«Per cortesia, non lasci cadere nel cestino questo comunicato». E io reagii
con decisione: «Eminenza, lei pensa che, se Benedetto mi affida un
incarico, io potrei ingannarlo?».
La sera stessa, seguendo l’indicazione del Papa emerito, telefonai al
sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, il quale
mi disse di raggiungerlo di buon’ora il mattino successivo nel suo ufficio
alla Seconda loggia, per ragguagliarlo su quanto era accaduto, poiché alle
9.15 aveva appuntamento con il Santo Padre e gliene avrebbe parlato. Lo
attesi all’uscita dall’udienza e mi comunicò: «Papa Francesco ha deciso che
il comunicato non viene pubblicato. Lei deve riferire questo a Sarah e dirgli
che per ora non si fa nulla».
Io provvidi subito a informare il cardinale e soltanto al rientro in
Monastero venni informato che nella serata precedente, subito dopo
l’incontro, Sarah aveva pubblicato in sequenza due post su Twitter: «A
motivo delle incessanti, nauseabonde e false polemiche, che non si sono
mai arrestate dall’inizio della settimana, riguardanti il libro Dal profondo
dei nostri cuori, questa sera ho incontrato il Papa emerito Benedetto XVI» e
«Con il Papa emerito Benedetto XVI abbiamo potuto constatare come non
ci sia alcun malinteso fra noi. Sono uscito da questo bell’incontro molto
felice, pieno di pace e di coraggio».
Ovviamente la ritenni un’azione del tutto inopportuna, come lo era stata
il 14 gennaio la diffusione non autorizzata delle lettere personali che gli
aveva inviato il Papa emerito, e il mio sconcerto crebbe qualche ora più
tardi, quando il giornalista Guénois mi contattò per verificare se era vero
che Benedetto aveva letto e addirittura modificato e integrato l’intervista
che gli aveva concesso Sarah. Gli spiegai che il Papa emerito aveva visto
quel testo soltanto dopo la pubblicazione e lui mi informò che la
menzognera affermazione gliel’aveva fatta Diat, il collaboratore del
cardinale che era dietro a questo libro («Opera pubblicata sotto la direzione
di Nicolas Diat», si legge nel retrofrontespizio).
Anche Davide Cantagalli, responsabile della casa editrice che aveva
acquisito i diritti di pubblicazione per l’Italia, mi raccontò di aver contattato
Fayard e di aver ricevuto l’indicazione che copertina e testo dovevano
restare come nell’edizione originaria. Gli spiegai quanto era stato
concordato con Sarah e lui chiamò nuovamente l’editore francese,
ricevendo come replica: «Il collegamento fra noi e il cardinale è Nicolas
Diat, che ha ribadito di lasciare tutto inalterato». Alla fine, il 22 gennaio
venne emesso un comunicato distensivo, sottolineando che «l’Introduzione
e la Conclusione sono state scritte dal cardinale Robert Sarah e sono state
lette e condivise dal Papa emerito», a significare che Benedetto XVI non
aveva espresso obiezioni al testo di Sarah, anche perché il contenuto non
era particolarmente originale e innovativo.

Le spiegazioni di Benedetto
Il 12 febbraio 2020 Benedetto ricevette da Papa Francesco una copia
dell’esortazione apostolica Querida Amazonia e il giorno seguente gli
rispose con una lettera di ringraziamento. Il Papa emerito era consapevole
che quel testo era rimasto immutato dopo l’approvazione data dal Pontefice
il 27 dicembre: dunque, il volume del cardinale Sarah non aveva avuto
alcun influsso, diretto o indiretto, sull’assenza nel documento di riferimenti
all’ordinazione di uomini sposati. Sentiva comunque la necessità di chiarire
definitivamente la questione, cosicché gli assicurò: «Per lei, Santo Padre,
elaborerò una breve storia e mi permetterò di trasmetterla quanto prima».
Dopo soli quattro giorni, il 17 febbraio, la ricostruzione fu pronta e
Benedetto poté inviarla a Papa Francesco: «Caro Santo Padre, come avevo
promesso nella mia lettera del 13 febbraio scorso, le comunico oggi la storia
del mio testo sul sacerdozio cattolico pubblicato nel libro del cardinale
Sarah. Intorno al 20 luglio 2019 avevo cominciato a elaborare un testo sul
sacerdozio cattolico, senza intenzione di pubblicarlo, ma soltanto per mio
interesse personale. Il motivo fu che il Concilio Vaticano II, nel suo ottimo
decreto sul sacerdozio cattolico, non aveva toccato il punto centrale della
controversia con Lutero, cioè il fatto che la Chiesa cattolica, nel tardo
secondo secolo o all’inizio del terzo, aveva cominciato a considerare il
ministero dei presbiteri e dei vescovi anche come sacerdozio e non soltanto
come ministero pastorale, in conseguenza del fatto che la santa Eucaristia
non era soltanto considerata come cena, ma come presenza e partecipazione
al sacrificio della croce. Questo sviluppo della dottrina cattolica è stato
condannato da Lutero come ricaduta nella Legge, come errore gravissimo
incompatibile con la fine della Legge. Su questo punto centrale della
controversia tra Riforma e Chiesa cattolica, il Vaticano II non parla. Pochi
ecumenisti hanno affermato che la riforma liturgica del Vaticano II avrebbe
ritirato la dottrina sulla Messa come sacrificio e restituito l’interpretazione
della Messa come cena senza carattere sacrificale. Di conseguenza anche i
ministeri della Chiesa non sarebbero più da considerare come sacerdozio,
ma solo come servizio pastorale. Anche se questa posizione fra i teologi
cattolici è rimasta marginale, la questione non è comunque definita con
sufficiente chiarezza. Questo problema mi occupa da tanto tempo. Non
avevo intenzione di preparare un testo da pubblicare, volevo soltanto darmi
personalmente una chiarezza storico-teologica».
Definita questa premessa, Benedetto entrò nel dettaglio: «Mentre stavo
ancora lavorando su questo punto, il 5 settembre 2019 mi è arrivata una
lettera del cardinale Sarah, nella quale mi chiedeva una mia riflessione sul
sacerdozio, con particolare attenzione al celibato, all’obbedienza e alla
povertà. Sorpreso da questa richiesta, ho risposto il successivo 20 settembre
che già prima della sua lettera avevo cominciato a scrivere qualche
riflessione sul sacerdozio, ma scrivendo ho sentito sempre più che le mie
forze non mi permettono più la redazione di un testo teologico. Ho ripreso il
mio lavoro e l’ho trasmesso al cardinale, dicendo: “Lascio a lei se queste
note, la cui insufficienza sento fortemente, possono avere qualche utilità”».
In effetti, dopo una rapida revisione, il 12 ottobre Benedetto inviò a
Sarah il proprio testo, cui il cardinale diede riscontro il 31 ottobre: «Porgo
di tutto cuore il mio vivo ringraziamento per l’invio delle sue stupende e
preziose riflessioni sul sacerdozio. Sono certo che potranno essere per tutta
la Chiesa un contributo assai prezioso e soprattutto un sostegno paterno per
tutti i sacerdoti del mondo. Sono davvero grato per la sua premurosa e
paterna attenzione che sempre mi riserva e che mi commuove grandemente.
Sto studiando e lavorando per esaminare il modo migliore di presentarlo e
farlo conoscere ai sacerdoti e a tutta la Chiesa. Appena finito il progetto,
sottometterò la bozza a Vostra Santità per giudicarla e approvarla».
Proseguiva Benedetto nella spiegazione a Papa Francesco: «Sarah, grato
per il testo, mi ha trasmesso poi alcune righe nelle quali interpretava
l’intenzione particolare del mio testo per offrire così un aiuto ai lettori per
capire l’intenzione e i limiti del mio scritto. Quando il cardinale ha saputo
che in modo strettamente privato avevo scritto sette pagine come chiave di
interpretazione del mio testo, ha chiesto questo scritto. Io ho risposto che la
sua chiara interpretazione di una mezza pagina serviva meglio del mio
lungo documento di sette pagine, e che soltanto queste sue parole sono da
considerare come scritte da me (intendendo sottolineare che, oltre a quella
“mezza pagina”, nessun altro testo doveva essere attribuito a lui, N.d.A.).
Nella sua lettera del 20 novembre, il cardinale Sarah aggiungeva ancora
alcune piccole precisazioni. Alle mie riflessioni sul sacerdozio avevo
aggiunto tre interpretazioni di testi fondamentali come espressioni della mia
esperienza personale. Così pensavo di toccare anche il problema del
celibato, senza entrare nelle dispute attuali».
La lettera di Sarah del 20 novembre, cui Benedetto faceva riferimento,
permette di comprendere bene a chi siano da attribuire i singoli testi: «Il
mio desiderio è di poter far uscire la pubblicazione per il prossimo 6
gennaio, solennità dell’Epifania, sempre se Vostra Santità sia d’accordo
(dunque è chiaramente indicata la volontà di uscire dopo la prevista
pubblicazione dell’esortazione di Papa Francesco, N.d.A.). Come può
notare, il testo completo è formato da quattro parti: una introduzione, la sua
riflessione, il mio testo e una conclusione (qui si evince senza ombra di
dubbio che l’unico testo di Benedetto è “la sua riflessione”, N.d.A.). Nel
suo testo ho ardito fare alcune aggiunte che troverà in rosso. Innanzitutto ho
aggiunto un paragrafo introduttivo con l’intenzione di meglio aiutare a
entrare nella riflessione proposta. Inoltre, alla pagina 5 ho inserito una
citazione di san Clemente da Roma per sottolineare la continuità storica.
Infine, alle pagine 9 e 10 ho aggiunto una sua citazione per meglio
sottolineare la riflessione sul celibato. Come le ho già detto, la mia è
soltanto una proposta e Vostra Santità può apportare qualsiasi modifica».
Il 25 novembre il Papa emerito rispose: «Cara eminenza, di tutto cuore
vorrei dire grazie per il suo testo aggiunto al mio contributo e per tutta
l’elaborazione che lei ha fatto. Mi ha toccato profondamente come lei ha
capito le mie ultime intenzioni. Avevo scritto sette pagine di chiarimento
metodologico del mio testo e sono realmente felice di dire che lei ha saputo
dire l’essenziale in una mezza pagina. non vedo quindi una necessità di
trasmettere le sette pagine dato che lei ha espresso nella mezza pagina
l’essenziale. Da parte mia il testo può essere pubblicato nella forma da lei
prevista (il chiaro riferimento è sempre, e unicamente, al proprio testo
iniziale con l’aggiunta della mezza pagina esplicativa di Sarah, N.d.A.)».
La conclusione di quella lettera del 17 febbraio a Papa Francesco
metteva in luce tutta l’amarezza di Benedetto per l’accaduto e poneva una
definitiva pietra: «Ho già deciso di non pubblicare più niente durante la mia
vita in questa terra. Santo Padre, spero di aver chiarito la storia del mio
testo per il libro del cardinale Sarah e posso soltanto esprimere la mia
tristezza sull’abuso del mio articolo nella discussione pubblica». Non c’era
necessità di una specifica risposta, cosicché da parte di Papa Francesco ci fu
unicamente il riscontro della ricezione. Ma, per quanto ne so, comprese la
totale buona fede del suo predecessore e ne apprezzò la trasparenza nel
comportamento.
Comunque, la certezza che le cose fossero andate nel modo qui
documentato è attestata ad abundantiam da un elemento essenziale: sin dal
31 maggio 2005, Benedetto XVI-Joseph Ratzinger aveva affidato alla
Libreria editrice vaticana la gestione dei diritti d’autore e, riguardo a questo
libro, non fu mai approntato un contratto né ci furono contatti con la LEV , a
testimonianza che si trattava unicamente di una libera espressione del
pensiero del Papa emerito, limitata alle pagine del suo contributo.
Intanto, il 12 febbraio, il vaticanista Sandro Magister aveva pubblicato
sul suo blog un articolo molto dettagliato, dal titolo “Il silenzio di
Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai
pubblicata”. Commentando Querida Amazonia, pubblicata quel giorno,
sottolineava l’assenza nel testo di qualsiasi riferimento al celibato
ecclesiastico e all’ordinazione di uomini sposati, proponendo un indebito e
scorretto collegamento: «La curiosità che sorge immediata è dunque di
capire in quale misura il libro bomba scritto dal Papa emerito Benedetto
XVI e dal cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pubblicato
a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione».
Per di più, veniva presentata una drammatica ricostruzione dello scambio
telefonico avvenuto tra Benedetto e Sarah nella mattinata del 15 gennaio:
«Mentre Papa Francesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale
e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula Paolo VI, lontano
quindi dal monastero “Mater Ecclesiae” che è la residenza del Papa emerito
di cui egli è segretario, Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò
Sarah prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il cardinale
rispose. Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah la sua solidarietà. Gli
confidò di non riuscire a comprendere le ragioni di un’aggressione così
violenta e ingiusta. E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse
con entrambi in lacrime». Appena lessi queste parole, andai ovviamente a
chiedere a Benedetto cosa fosse accaduto e lui mi informò che aveva
semplicemente voluto rincuorare Sarah a livello personale dicendogli che
non comprendeva l’accanimento contro il contenuto del libro, ma una scena
così patetica non si era assolutamente verificata.
Per dare un taglio alla vicenda, il 27 febbraio ebbi un incontro
nell’appartamento del cardinale Sarah in piazza della Città leonina, alla
presenza come testimone di un sacerdote da ambedue conosciuto e stimato.
Di fatto, alle mie contestazioni riguardo al mancato adempimento della
promessa di modificare copertina e attribuzioni dei testi e alla divulgazione
dei contatti fra lui e il Papa emerito, il cardinale replicò di aver riferito tutto
a Nicolas Diat e che la responsabilità era di quest’ultimo. E quando gli
espressi tutta la mia delusione per il suo comportamento, che aveva
fortemente danneggiato sia Benedetto che me, lui balbettò che poteva
soltanto chiedere scusa per ciò che non era assolutamente nelle sue
intenzioni.

Il prefetto dimezzato
Nel mio duplice ufficio di segretario particolare del Papa emerito e di
prefetto della Casa pontificia per Papa Francesco, mi sono trovato a
ricoprire un ruolo che mi ha fatto sentire – per elevare il tono della
riflessione con un riferimento alla letteratura colta – talvolta nei panni del
goldoniano “servitore di due padroni” e talaltra come il manzoniano “vaso
di terracotta tra i vasi di ferro”.
La speranza di Benedetto che io sarei stato l’anello di collegamento fra
lui e il successore fu un po’ troppo ingenua, poiché, già dopo qualche mese,
ho avuto l’impressione che tra me e il nuovo Pontefice non si riuscisse a
creare l’opportuno clima di affidamento, necessario per poter portare avanti
in modo adeguato un tale impegno.
Probabilmente, quando ebbi la conferma quinquennale a fine 2017, volle
mantenermi nell’incarico essenzialmente per rispetto alla nomina fatta da
Benedetto, anche se fin dall’inizio era accaduto sempre più spesso che
venissi scavalcato nelle mie responsabilità, poiché Papa Francesco preferiva
piuttosto prendere accordi direttamente con il mio vice, il reggente padre
Leonardo Sapienza.
Ricordo, per esempio, la visita del 15 giugno 2014 alla Comunità di
Sant’Egidio a Trastevere: il giorno precedente, quando ci salutammo a
Santa Marta dopo le udienze, il Pontefice mi disse, alla presenza dei
comandanti della Gendarmeria e della Guardia svizzera, oltre che degli
autisti, che non era necessaria la mia presenza e che avrei potuto prendermi
un giorno libero, ribadendolo con decisione dinanzi alle mie osservazioni
stupite. Il giorno seguente ovviamente mi telefonò il fondatore Andrea
Riccardi per chiedermi se io o Benedetto avessimo qualche problema con
Sant’Egidio, poiché questa era la voce sparsa dopo che era stata notata la
mia assenza all’evento, senza che fossero state date motivazioni da
qualcuno.
Appena mi fu possibile, riferii a Papa Francesco il contenuto di questa
telefonata e gli spiegai che tutto ciò rendeva problematica la gestione
dell’ufficio e sminuiva la mia autorità, e che per di più a livello personale
mi ero sentito umiliato sia perché non mi aveva chiarito il motivo della sua
decisione, sia perché aveva parlato alla presenza di altre persone, cosicché il
pettegolezzo si era immediatamente diffuso in Vaticano, con interpretazioni
di vario tipo. Lui mi rispose che avevo ragione e che non si era reso conto
della questione, si scusò, ma poi aggiunse che le umiliazioni fanno molto
bene… E purtroppo una simile situazione si ripeté altre volte, in particolare
per le visite nelle parrocchie romane.
Che Francesco non considerasse strategica la Prefettura della Casa
pontificia lo avevo comunque compreso anche da altri segnali, in apparenza
piccoli, ma significativi invece nella dinamica curiale. Un esempio evidente
riguardò l’appartamento che tradizionalmente spetta al prefetto, situato
nella vecchia ala del Palazzo apostolico, risalente ai tempi di Papa Giulio II
e di cui la Cappella Nicolina, che talvolta viene mostrata in visite riservate
nei Musei vaticani, sarebbe la cappella privata.
Quando il mio predecessore, monsignor Harvey, divenne cardinale
arciprete di San Paolo fuori le mura, decise di andare ad abitare nel
complesso della basilica, ma era necessario ristrutturare i locali della
residenza. Perciò mi chiese di poter restare per qualche altro mese
nell’appartamento del prefetto e io ovviamente non ebbi difficoltà. I lavori
però durarono più del previsto e soltanto tre anni più tardi restituì le chiavi
al Governatorato. Dopo qualche piccola opera di rifinitura, a metà 2016
l’allora segretario generale Fernando Vérgez Alzaga mi disse che potevo
prenderne possesso, cosicché cominciai a organizzare il trasloco delle mie
cose, che fino a quel momento avevo lasciato nell’ufficio del prefetto a
Castel Gandolfo, al piano terra di Villa Barberini.
Al mattino del 22 luglio 2016 attendevo come di consueto Papa
Francesco a San Damaso, dove si prende l’ascensore Nobile. Lui scese
dall’automobile e subito mi disse: «Ho sentito che lei ha l’appartamento nel
Palazzo apostolico». Io precisai che si trattava dell’appartamento del
prefetto della Casa pontificia, assegnato temporaneamente a me per ragioni
d’ufficio. «Per favore, non ne prenda possesso ora», aggiunse. Quando lo
informai che era normale che il prefetto risiedesse lì, per poter svolgere
bene il suo compito – poiché, anche se al momento vivevo nel Monastero
con il Papa emerito, questa era comunque una residenza provvisoria –, lui
replicò: «Attenda, prima devo parlare con i miei stretti collaboratori; non
faccia nulla finché non riceverà da me una risposta». La cosa mi dispiacque
perché intuii che dietro c’era qualcuno che stava manovrando per
appropriarsi di quell’appartamento.
Il 2 settembre successivo, nella medesima circostanza, il Pontefice mi
disse: «Lei attendeva da me una risposta e ora le dico di lasciar stare.
Quando avrà bisogno di un appartamento ci penserò io». Alla mia
espressione di grande meraviglia, mi spiegò che gli era stato fatto notare
che nel Palazzo apostolico abitavano il segretario di Stato (il cardinale
Pietro Parolin) e il sostituto della prima Sezione per gli Affari generali
(all’epoca l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu), ma non il segretario
della seconda Sezione per i rapporti con gli Stati. Concluse con fermezza:
«Ho deciso»; e infatti, qualche tempo dopo, vidi che in quell’appartamento
era appunto andato ad abitare l’arcivescovo Paul Richard Gallagher.
Nel 2018 però ritenni opportuno ricordare a Papa Francesco la sua
promessa, cosicché lui diede disposizioni a monsignor Vérgez e alla fine mi
venne assegnato un appartamento nella vecchia Santa Marta, al confine con
l’aula Paolo VI. L’allontanamento fisico dal Palazzo apostolico rappresentò
comunque il preannuncio degli sviluppi successivi.
A fine gennaio 2020, sempre per restare nel paragone letterario, mi
ritrovai infatti a essere un “prefetto dimezzato”, parafrasando il titolo della
famosa opera di Italo Calvino Il visconte dimezzato. Dopo quei torridi
giorni di polemiche attorno al libro del cardinale Sarah, lunedì 20 chiesi a
Papa Francesco di potergli parlare e lui mi diede appuntamento per fine
mattinata, al termine delle udienze. Gli fornii nel dettaglio i particolari su
quanto era accaduto e gli chiesi consiglio su come agire in futuro, poiché
non sempre mi era facile riuscire a prevenire problemi come quello che si
era appena verificato. Lui mi guardò con espressione seria e disse a
sorpresa: «D’ora in poi rimanga a casa. Accompagni Benedetto, che ha
bisogno di lei, e faccia scudo».
Restai scioccato e senza parole. Quando provai a replicare, dicendogli
che lo facevo ormai da sette anni, per cui potevo continuare ugualmente
anche per il futuro, chiuse seccamente il discorso: «Lei rimane prefetto, ma
da domani non torni al lavoro». In modo dimesso replicai: «Non riesco a
capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo soltanto in obbedienza».
E lui di rimando: «Questa è una bella parola. Io lo so perché la mia
esperienza personale è che “accettare in obbedienza” è una cosa buona». La
mia preoccupazione fu riguardo al modo in cui si sarebbe comunicata la
notizia all’esterno, poiché sarebbero certamente stati sollevati interrogativi
sulla mia assenza, ma il Pontefice affermò che non era necessario fare nulla
e andò via.
Tornai al Monastero e durante il pranzo lo raccontai alle Memores e a
Benedetto, il quale commentò, tra il serio e il faceto, in modo ironico:
«Sembra che Papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi
faccia da custode!». Gli ho risposto, sorridendo anch’io: «Proprio così…,
ma dovrei fare il custode o il carceriere?». Poi ho aggiunto che
presumibilmente era un pretesto in correlazione con la spinosa vicenda
Sarah, poiché non era cambiato nulla da un giorno all’altro.
Come avevo preventivato, dopo alcuni giorni di assenza pubblica
cominciai a ricevere mail e messaggi nei quali mi veniva domandato che
fine avessi fatto, e ovviamente non risposi a nessuno. Sabato 25 gennaio
scrissi un biglietto di poche righe a Papa Francesco, comunicandogli che
stavo ricevendo queste richieste di informazione e suggerendo che ormai
erano passati diversi giorni di sospensione, dunque potevo eventualmente
riprendere il lavoro. Il 1° febbraio mi rispose per iscritto: «Caro fratello,
grazie tante per la sua lettera. Per il momento credo che è meglio mantenere
lo status quo. La ringrazio per tutto quello che fa per Papa Benedetto: che
non gli manchi nulla. Prego per lei, per favore lo faccia per me. Che il
Signore la benedica e la Madonna la custodisca. Fraternamente,
Francesco».
Il 5 febbraio l’effimera cappa di silenzio venne infranta da un articolo
del vaticanista Guido Horst sul «Tagespost», che rappresentò l’innesco
dell’incendio, con una quantità incredibile di post, commenti e variegate
opinioni su cosa fosse accaduto nei rapporti fra il Papa, me ed
eventualmente Benedetto. Mi contattò Matteo Bruni, il direttore della Sala
stampa vaticana, per informarmi che i giornalisti sollecitavano un
chiarimento e che i superiori stavano concordando una risposta. In effetti,
nel pomeriggio del 6 febbraio, i giornalisti ricevettero un comunicato
stampa, che io vidi soltanto quando fu reso noto, nel quale si diceva che
«l’assenza di monsignor Gänswein, durante determinate udienze nelle
ultime settimane, è dovuta a una ordinaria ridistribuzione dei vari impegni e
funzioni del prefetto della Casa Pontificia, che ricopre anche il ruolo di
segretario particolare del Papa emerito».
Benedetto restò dispiaciuto per questa evoluzione della vicenda e, nella
citata lettera del 13 febbraio a Papa Francesco, aggiunse un paragrafo finale
che mi riguardava: «Mi permetto ora di esprimere anche una domanda.
Monsignor Gänswein soffre profondamente e in modo crescente sotto il
peso del suo stato fuori senza prospettive di soluzione. Oso perciò pregare
Vostra Santità di chiarire la situazione con un colloquio paterno. Da parte
mia posso soltanto dire che monsignor Gänswein non ha avuto alcuna parte
nell’elaborazione del mio contributo al libro del cardinale Sarah. Avendo
visto il progetto del cardinale che sembrava fare di me un coautore del
libro, e questo in una prospettiva che poteva insinuare un’eventuale
contrarietà fra me e il suo insegnamento pontificio, Gänswein ha subito
compreso la gravità di questa ipotesi e ha chiarito con una forte insistenza
l’inaccettabilità di questa presentazione. Adesso si sente attaccato da tutte le
parti e ha bisogno di una parola paterna». Un paio di giorni più tardi, il
Pontefice mi fissò un incontro a Santa Marta, nel quale mi confermò che
non sarebbe cambiato nulla. Nessuna ulteriore risposta ebbe invece il
rinnovato appello del Papa emerito a conclusione della lettera del 17
febbraio: «Chiedo ancora umilmente una parola sua per monsignor
Gänswein».
All’inizio di settembre del 2020 fui ricoverato nel Campus biomedico e
mi venne diagnosticata una sindrome renale, che il primario di Medicina
interna associò anche a un disturbo psicosomatico. Al rientro in Monastero
dopo due settimane, Papa Francesco mi telefonò per informarsi della mia
salute e ne approfittai per chiedergli un appuntamento, che mi fissò per il 23
settembre alle ore 16. Gli dissi che avevo inteso la mia sospensione come
una punizione, ma lui mi rispose che non era così. Ribattei che tutti la
interpretavano in questo modo, a cominciare dai giornalisti, e la sua replica
fu che non dovevo preoccuparmene, poiché, mi disse testualmente, «ci sono
tanti che scrivono contro di lei e contro di me, ma non meritano
considerazione».
Tuttavia, quando provai a ipotizzare il mio rientro, se era vero che quella
non era una punizione, reagì invitandomi a non fare progetti per il futuro e
suggerendomi addirittura di dedicarmi a qualche attività pastorale, cosa che
ovviamente si scontrava con la logica che mi era stata descritta, quella di
dover restare nel Monastero al fianco di Benedetto XVI. Poi, una volta
ancora, Papa Francesco mi raccontò alcune sue faticose esperienze in
Argentina, dicendo che le volte in cui lo avevano stoppato gli erano servite
per maturare.
Alla fine, abbiamo anche ragionato sull’opportunità di nominare un pro-
prefetto, per rispondere alle necessità formali dei rapporti con le autorità
ricevute dal Santo Padre. Ma lui concluse che si poteva tranquillamente
andare avanti come stabilito in precedenza. Soltanto con la pubblicazione
nel 2022 della costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia
romana ne compresi il motivo, poiché il ruolo del Prefetto della Casa
pontificia risultava nettamente ridimensionato: nell’omologo documento
Pastor bonus del 1988 si precisava che «assiste il Sommo Pontefice sia nel
Palazzo apostolico sia quando viaggia in Roma o in Italia»; ora invece «lo
assiste solo in occasione di incontri e visite nel territorio vaticano».
Riguardo al mio futuro, comunque, quel che penso l’ho già affermato in
tempi decisamente non sospetti, addirittura nel 2016, per cui mi limito a
riproporlo: «Come pluriennale collaboratore della Congregazione per la
Dottrina della fede, segretario del cardinale Ratzinger e di Papa Benedetto,
evidentemente mi porto addosso un “marchio di Caino”. Verso l’esterno
sono perfettamente “identificabile”. Effettivamente è così: non ho mai
nascosto le mie convinzioni. In qualche modo si è riusciti a marchiarmi
pubblicamente come quello molto a destra o “falco”, senza mai citare
esempi concreti al riguardo. Lo confermo. Oggi e anche in futuro. Non ho
fatto e non faccio piani di carriera».
9
Nel Monastero il silenzio operoso

Il ritmo della preghiera


Inutile girarci attorno: anche se risulta brutale e inelegante detta così, è la
pura verità. Quando, il 28 febbraio 2013, ci trasferimmo a Castel Gandolfo,
Benedetto era intimamente convinto che la sua esistenza non sarebbe durata
a lungo. E così la pensavamo il dottor Polisca e io, che ne avevamo
percepito il progressivo deperimento, mentre pure il fratello Georg
sosteneva che Joseph sarebbe certamente morto prima di lui.
In quel periodo, l’unica circostanza nella quale facemmo riferimento alla
rinuncia fu quando agli inizi di marzo gli mostrai la famosa fotografia del
fulmine che aveva colpito la cupola di San Pietro nella serata dell’11
febbraio, scattata dal reporter Alessandro Di Meo dell’agenzia Ansa.
Ovviamente nel Palazzo apostolico avevamo udito l’imperversare del
violento temporale, ma non avevamo visto quel lampo. Restò colpito e mi
chiese se si trattasse di un fotomontaggio. Gli risposi di no e provai a
pungolarlo dicendogli: «Sembra che la natura abbia voluto dire qualcosa!».
Lui però non replicò alcunché.
Nelle prime settimane dopo la rinuncia, il Papa emerito era totalmente
esausto, camminava curvo, parlava pochissimo. Il medico non diagnosticò
problematiche di depressione psicologica, quanto un sovraffaticamento
fisico e mentale che doveva venire gradualmente smaltito. La tranquillità di
quell’ambiente lo aiutò molto, gli permise di leggere senza vincoli di tempo
(Gregorio Magno, Agostino, ma anche autori più recenti, come Romano
Guardini ed Eric Peterson) e di ascoltare musica sacra e sinfonica con un
lettore cd che aveva nella camera da letto (Bach, Mozart, Beethoven, Liszt,
Bruckner, Schubert, Brahms…). E in seguito ha ripreso anche a suonare il
pianoforte.
Di fatto, Ratzinger aveva avuto nel corso degli anni alcuni problemi di
salute, in particolare con l’ictus del 1991 che gli aveva causato una
riduzione del campo visivo nell’occhio sinistro. Qualche caduta aveva
richiesto dei punti di sutura alla testa, nel 1992 e nel 2012, e un intervento
chirurgico per ridurre una frattura al polso destro, nel 2009. Per la
stabilizzazione del ritmo cardiaco gli venne impiantato nel 2003 un
pacemaker, sostituito nell’autunno del 2012 e del 2022.
Però malattie degenerative non l’hanno mai colpito e il lento
spegnimento che lo ha condotto alla morte è stato il normale decorso
dell’invecchiamento naturale. Addirittura, da lungo tempo era iscritto nel
registro per la donazione di organi, e soltanto dopo l’elezione al pontificato
quell’autorizzazione all’espianto venne ovviamente annullata, a motivo del
nuovo status. La maggiore difficoltà negli ultimi tempi di vita riguardò la
capacità dell’eloquio, dovuta all’affaticamento polmonare. Ma lui reagì con
il consueto humor, dicendo in più occasioni: «Dio mi ha tolto la parola per
farmi apprezzare sempre più il silenzio».
La vita nel Monastero è in effetti stata scandita dalla preghiera, secondo
quanto aveva stabilito con una frase che esprimeva il suo programma di
massima: «Ogni giorno inizio dal Signore e finisco con il Signore, e
vedremo quanto dura». Un’affermazione in linea con quanto già nel 1996
aveva dichiarato a Peter Seewald nel libro-intervista Il sale della terra:
«Quanto più si diventa vecchi, tanto più ci si accorge che le forze non
bastano più a fare quello che si dovrebbe fare, che si è troppo deboli, troppo
incapaci, o anche non all’altezza delle situazioni. E allora ci si rivolge a
Dio, dicendo: “Adesso devi aiutarmi Tu, ora non ce la faccio più”».
A me piace sempre sottolineare che il “Mater Ecclesiae” non è stata una
casa “di riposo”, bensì “di lavoro” soprattutto spirituale. È unicamente
questo il senso di una mia osservazione poco compresa, quando parlai di
«un ministero papale allargato, con un membro attivo e un membro
contemplativo». La scelta di Benedetto si orientò in direzione del Colle
vaticano proprio perché lui aveva chiara la sua missione futura. Io infatti gli
avevo proposto qualche alternativa, come un edificio nel complesso di
Castel Gandolfo che era possibile rendere autonomo: gliene parlai un
pomeriggio durante la consueta passeggiata, ma lui aveva già deciso e non
ha mai avuto il minimo dubbio.
Qualche volta, da cardinale e anche durante il pontificato, il Papa
emerito si era recato nella cappella del Monastero per celebrare la Messa e,
nel tempo della riflessione sulla rinuncia, si era reso conto che quel luogo
avrebbe corrisposto perfettamente alla sua indole e al desiderio di vita
sobria che più volte aveva fatto presagire. Per esempio nell’ottobre del
2011, nel discorso ai certosini di Serra San Bruno, aveva sottolineato che
«ogni monastero è un’oasi in cui, con la preghiera e la meditazione, si scava
incessantemente il pozzo profondo dal quale attingere l’“acqua viva” per la
nostra sete più profonda». E nel marzo del 2012, ai benedettini camaldolesi
sul Celio, confidò, secondo la testimonianza del priore Enzo Gargano: «Mi
sento monaco come voi. Fra i monaci mi sento a casa».
Quando si trattò di definire esattamente il progetto di ristrutturazione del
Monastero, Benedetto mi disse che era indeciso se restare con tutte le
quattro Memores, poiché temeva di “approfittare” della loro benevolenza.
Anche dietro le mie insistenze e dopo averle consultate personalmente,
concordò che si era creata una vera e propria famiglia e che era dunque
opportuno mantenerla sino alla sua morte. Perciò il secondo piano venne
destinato alla loro vita comunitaria, con quattro stanze e il salone comune.
Al primo piano c’erano invece la camera da letto, la sala e la biblioteca
utilizzate dal Papa emerito; la mia stanza e uno studio per suor Birgit. Al
piano terra, da un lato la cappella e l’appartamento che periodicamente
ospitò monsignor Georg Ratzinger; dall’altro lato la cucina, la sala da
pranzo e il salottino di ricevimento.
Scherzando, durante il periodo di lockdown per la pandemia del Covid,
ci dicevamo che noi avevamo precorso i tempi, memori del celebre
aforisma di Cicerone all’amico Varrone: «Se accanto alla biblioteca avrai
un orto, non ti mancherà nulla». Ma in realtà, anche per Benedetto, non si è
mai trattato di una completa clausura, poiché Francesco sin dagli inizi
rivelò di aver parlato personalmente con il Papa emerito e di aver «deciso
insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse
alla vita della Chiesa». Anzi, sorridemmo per il saluto che Papa Bergoglio
gli rivolse pubblicamente il 28 settembre 2014 dal sagrato di San Pietro
nella Giornata per la terza età: «Io ho detto tante volte che mi piaceva tanto
che lui abitasse qui in Vaticano, perché era come avere il nonno saggio a
casa!», dato che Benedetto commentò simpaticamente: «Mah, in fondo
abbiamo soltanto nove anni di differenza. Forse era più corretto definirmi
“fratello maggiore”…».
Comunque, in tutti questi anni il Papa emerito è restato in costante
contatto con le vicende del mondo, contrariamente a quanto affermato da
alcuni, e purtroppo anche da Vittorio Messori nel già citato intervento del
2016 al Rosetum di Milano, quando disse che «a lui le notizie non arrivano.
Lui non vede la tv, non ascolta la radio, gli arriva solo il “Corriere della
Sera”». Ora, a parte che il quotidiano milanese è oggettivamente il più
diffuso in Italia, Benedetto ha sempre visto il telegiornale e ha potuto
consultare l’ampia rassegna stampa della Segreteria di Stato, oltre a ricevere
anche il quotidiano vaticano «L’Osservatore Romano» e quello tedesco
«Frankfurter Allgemeine Zeitung» e il settimanale cattolico «Die
Tagespost».
Inoltre lo abbiamo sempre aggiornato su ciò che poteva essere di suo
interesse o che in qualche modo lo coinvolgeva. Per esempio, io l’ho
informato sia delle serie televisive The Young Pope e The New Pope, sia del
film I due Papi, seppur senza riscontrare in lui particolare attenzione.
Quando girarono il film a Roma, l’attore Anthony Hopkins, che
interpretava la figura ispirata a Benedetto, desiderava incontrarlo, ma la
cosa non fu ritenuta opportuna poiché certamente quell’appuntamento
sarebbe stato reso noto, magari citandolo come un’approvazione implicita
della sceneggiatura, che invece propone come vere vicende mai avvenute. E
anche nel libro da cui era tratto, L’anno dei due Papi di Anthony McCarten,
si leggono affermazioni del tutto prive di fondamento, e persino squallide,
come quella che Papa Ratzinger «aveva commissionato a un profumiere la
creazione di una fragranza esclusiva, che non mancava di usare».

Una sequenza di indizi infondati


Benedetto per primo, e io in subordine, non avremmo mai pensato che i
suoi gesti e parole sarebbero stati dissezionati in maniera abnorme
nell’illusorio tentativo di avvalorare elucubrazioni personali instradate più
sulla scia del Codice da Vinci di Dan Brown che su binari logici e
ragionevoli. Talvolta mi sono addirittura trovato a pensare alla famosa frase
dei poliziotti americani: «Tutto quello che dici potrà essere utilizzato contro
di te».
La prima contestazione, cavallo di battaglia specialmente del giornalista
Andrea Cionci, ha riguardato l’utilizzo contemporaneo, nella Dichiarazione
della rinuncia, dei vocaboli latini munus e ministerium, poi entrambi tradotti
nelle lingue comuni con la parola “ministero”. Si è perfino sostenuto che, in
accordo fra Giovanni Paolo II e il prefetto Joseph Ratzinger, sin dal 1983,
con il nuovo Codice di Diritto canonico, l’incarico papale fosse stato
giuridicamente scomposto, attribuendo al primo termine il titolo petrino e al
secondo l’esercizio pratico del relativo potere (una distinzione
assolutamente inesistente in quel testo).
Decisamente un’assurda idea, fondata sull’avveniristica certezza di una
triplice sequenza di fatti. Innanzitutto l’elezione del cardinale Ratzinger al
pontificato (nel 1983 lui aveva appena 56 anni e Papa Wojtyła soltanto 63,
dunque le prospettive erano tutt’altro che in questa direzione); quindi uno
sviluppo delle vicende personali ed ecclesiali che lo avrebbe
successivamente spinto all’atto della rinuncia; infine una futura situazione
eccezionale, addirittura identificata da Cionci nella “sede impedita”, che il
Codice di Diritto canonico, al n. 412, definisce: «Se il vescovo diocesano è
totalmente impedito di esercitare l’ufficio pastorale (munere pastorali) nella
diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in
grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani». Manco a
dirlo, quanto di più lontano dalla evidente modalità con cui ha vissuto
Benedetto XVI nel Monastero, dove ha incontrato a quattr’occhi chi ha
voluto, ha scritto a chiunque desiderasse e ha pubblicato tutto ciò che ha
ritenuto opportuno.
In realtà, Benedetto volle semplicemente comunicare in uno stile
elegante la rinuncia a ciò che gli era stato conferito tramite l’elezione e la
sua accettazione, utilizzando due sinonimi. Forse un Papa canonista avrebbe
utilizzato unicamente munus. Ma Benedetto, essendo di formazione un
teologo, mise anche in questo caso in campo la propria competenza: per lui,
la parola munus era stata un’applicazione del Concilio Vaticano II con
l’obiettivo di spiegare più precisamente il concetto dei tria munera, cioè la
partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione di Cristo, sacerdotale,
profetica e regale.
Però il teologo Ratzinger non concordava con la tesi che rinveniva nei
padri della Chiesa e anche nel Catechismo del Concilio di Trento i
fondamenti della dottrina dei tria munera. Lui riteneva invece che la
teologia classica fosse estranea a questa teoria, fatta sostanzialmente propria
per la prima volta dal Magistero conciliare. Perciò ha privilegiato il
concetto di ministerium, che invece era secondo lui la parola giusta e più
forte nella tradizione teologica.
Traducendo dal latino la Dichiarazione, qualcuno ha forzato
interpretazioni diverse. Ma nessuno di noi, neanche il canonista Bertone,
ritenne possibili equivoci reali. In ogni caso, percependo qualche segnale di
osservazioni in tal senso, nell’udienza generale del 27 febbraio Benedetto
XVI chiarì ad abundantiam, utilizzando appositamente la parola “officio”
con cui il Codice di Diritto canonico traduce in italiano il termine “munus”:
«Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel
servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro».
Ugualmente per quanto concerne un’altra terminologia in latino occorre
ribadire l’intenzione di Benedetto: mi riferisco a quando puntualizzò la
convocazione del Conclave «da coloro a cui compete». È la precisa
traduzione proposta in tutte le lingue comuni e corrisponde a quanto sancito
nell’articolo 18 della costituzione apostolica Universi Dominici gregis: la
convocazione dei cardinali elettori fatta «dal Decano, o da altro cardinale a
suo nome», che sono appunto «coloro a cui compete». L’espressione venne
scelta come sinonimo della parola “cardinali”, più volte ripetuta: se si
vuole, si potrà criticare lo stile, ma non la proprietà del linguaggio.
Pure riguardo allo stemma e all’abito bianco conservati dopo la rinuncia
sono state fatte delle sottolineature ineleganti, per utilizzare un eufemismo.
Ribadisco che il Papa emerito non pensava che sarebbe vissuto così a lungo,
per cui, anche se ovviamente non poteva esplicitarlo ad alta voce, riteneva
inutile mettersi a modificare simboli che sarebbero “scomparsi”
rapidamente insieme con lui.
Ovviamente, destò curiosità la risposta che diede il 18 febbraio 2014 al
vaticanista Andrea Tornielli: «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome
Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia
non c’erano a disposizione altri vestiti». Voleva essere una battuta nel suo
sottile stile umoristico, poiché lui era consapevole di indossare la talare
bianca in modo chiaramente distinto da quello del Papa regnante: se col
senno di poi risultò un’espressione infelice, devo però sottolineare che –
una volta che l’aveva scritta – io non potevo certamente permettermi di
suggerirgli un cambiamento.
Il vero problema fu puntualizzato da Benedetto negli scambi con il
cardinale Walter Brandmüller, che gli aveva manifestato alcune perplessità
riguardo sia alla rinuncia, sia alla scelta del titolo di “Papa emerito” (e che
incarnò la figura del “fuoco amico”, facendo vedere “per caso” la
corrispondenza con il Papa emerito a un giornalista che poi la divulgò): «Se
lei conosce un modo migliore, e quindi ritiene di poter censurare quello che
ho scelto, la prego di parlarmene». L’inedita situazione, in sostanza, aveva
reso necessario prendere alcune decisioni sapendo bene che non erano
perfette. Ma qualunque scelta, ne eravamo certi, alla fine sarebbe stata
contestata da qualcuno.
Purtroppo, anch’io sono stato tirato a forza dentro queste polemiche. Di
fatto, talvolta in buona fede ma in molti altri casi no, alcune mie
dichiarazioni un po’ enfatiche sono state utilizzate come supporto per
fantasticherie prive di sostanza. In particolare, ciò accadde quando nel 2016
presentai il saggio di don Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa, sul
pontificato di Benedetto XVI. Avevo messo in conto la possibilità di
qualche incomprensione, ma l’espressione del «ministero petrino allargato»,
seppure un po’ azzardata, non mi sembrava così fuori luogo al punto da
consentire il capovolgimento del mio pensiero. La ritenevo un’immagine
utile per descrivere l’attualità che stavamo vivendo in ambito ecclesiale, e
devo dire che nel momento della conferenza non notai specifiche reazioni,
che si sono sviluppate soltanto a distanza di tempo. Comunque, posso qui
rivelare che al Papa emerito ho sempre dato i testi delle mie conferenze
soltanto dopo averli pronunciati, per non farlo sentire obbligato a mettervi
mano come professore e per poter affermare senza problemi che stavo
esprimendo il mio pensiero e non facevo da suo portavoce, come molti
hanno ipotizzato, più o meno velatamente.
In seguito è però stato raggiunto il ridicolo, quando ci si è chiesti perché
sulla mia carta da lettere ci fosse ancora il vecchio stemma episcopale,
inquartato con quello di Benedetto, affermando che nel 2017 lo avevo
sostituito inquartando quello di Francesco. La spiegazione è semplicissima,
anche perché il mio stemma l’avevo modificato subito dopo l’elezione di
Papa Bergoglio, sostituendo la metà su cui precedentemente c’era lo
stemma di Benedetto. Ma poche settimane prima mi erano stati consegnati
dalla Tipografia vaticana i fogli da lettera e i cartoncini con il vecchio
stemma (ovviamente non avrei potuto dare l’indicazione di non realizzarli,
in vista dell’imminente rinuncia di Benedetto, senza suscitare inopportuni
interrogativi…). Perciò ho continuato a utilizzarli per la corrispondenza da
segretario particolare del Papa emerito, mentre per quella da Prefetto della
Casa pontificia mi sono servito dei nuovi fogli con lo stemma cambiato.
Consideravo infatti uno spreco buttare tutto al macero, e mai avrei pensato
che questo ingenuo gesto avrebbe potuto innescare un’insensata
speculazione.

La famiglia al centro dello scontro


Nei primi tempi del pontificato di Francesco, Benedetto XVI leggeva con
attenta curiosità sull’«Osservatore Romano» tutto ciò che il successore
faceva e diceva. Ricordo che restò subito colpito dalle parole del suo primo
Angelus, il 17 marzo 2013, quando Papa Bergoglio citò un libro sulla
misericordia scritto dal cardinale Walter Kasper, anche perché lui stesso, per
esempio nel Regina Caeli del 30 marzo 2008, aveva affermato con
determinazione che «la misericordia è il nucleo centrale del messaggio
evangelico, è il nome stesso di Dio» (come ricorderà anche Francesco,
riconoscendo a Benedetto l’ispirazione del titolo per il suo libro-intervista
con Andrea Tornielli Il nome di Dio è misericordia).
Fra il 2014 e il 2015, il Papa emerito seguì con interesse le due fasi del
Sinodo sulla famiglia e, con una certa preveggenza, si rese conto – ben
prima dell’apertura dell’Assemblea sul tema “Le sfide pastorali sulla
famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014), cui fece
seguito il Sinodo ordinario su “La vocazione e la missione della famiglia
nella Chiesa nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015) – che le linee
teologico-pastorali erano già state ampiamente indicate nella relazione
presentata nel febbraio del 2014 dal cardinale Walter Kasper al Concistoro
straordinario dei cardinali.
Benedetto conosceva da decenni il porporato tedesco e qualche volta
aveva avuto anche delle dispute teologiche con lui, cosicché valutò con
qualche preoccupazione ciò che Kasper aveva detto. Di fatto, quel testo si
presentava come un faro per il successivo dibattito assembleare e lo stupore
di Benedetto fu dovuto alla scelta di Papa Francesco di far pronunciare una
simile relazione, che ovviamente avrebbe in qualche modo condizionato i
padri sinodali, dando nel contempo l’indicazione di «approfondire la
teologia della famiglia e la pastorale che dobbiamo attuare nelle condizioni
attuali. Facciamolo con profondità e senza cadere nella “casistica”, perché
farebbe inevitabilmente abbassare il livello del nostro lavoro».
L’attenzione del Papa emerito era dovuta anche al fatto che il cardinale
Kasper lo aveva direttamente chiamato in causa, sia come prefetto sia come
Pontefice, con un preciso riferimento: «Un avvertimento ci ha dato la
Congregazione per la Dottrina della Fede già nel 1994 quando ha stabilito –
e Papa Benedetto XVI lo ha ribadito durante l’incontro internazionale delle
famiglie a Milano nel 2012 – che i divorziati risposati non possono ricevere
la comunione sacramentale, ma possono ricevere quella spirituale. Certo,
questo non vale per tutti i divorziati, ma per coloro che sono spiritualmente
bene disposti. Nondimeno molti saranno grati per questa risposta, che è una
vera apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la
comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo; come può quindi
essere in contraddizione con il comandamento di Cristo? Perché, quindi,
non può ricevere anche la comunione sacramentale?».
Indubbiamente l’intera questione è seria e delicata, ma Ratzinger non si
tirò mai indietro di fronte a tali interrogativi e mantenne sempre fermo,
anche da Papa, il commento sintetico da lui proposto in relazione alla citata
lettera della Congregazione del 1994: «Una serie di obiezioni critiche
contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne problemi di carattere
pastorale. Si dice ad esempio che il linguaggio dei documenti ecclesiali
sarebbe troppo legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla
comprensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di oggi non
potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio
disponibile per le necessità di tutti gli uomini, soprattutto per quelli al
margine della società. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come
un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi pubblici persone
ferite. Si può senz’altro ammettere che le forme espressive del Magistero
ecclesiale talvolta non appaiano proprio come facilmente comprensibili.
Queste devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un
linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro rispettivo
ambiente culturale. Il contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in
proposito deve però essere mantenuto. Non può essere annacquato per
supposti motivi pastorali, perché esso trasmette la verità rivelata.
Certamente è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le
esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non può condurre a
compromessi con la verità».
In riferimento a ciò, dopo la pubblicazione nel marzo del 2016
dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia, maturò in lui
qualche perplessità leggendo il testo poiché, pur apprezzandone molti
passaggi, si interrogò sul senso di alcune note, che in genere segnalano la
citazione di una fonte, mentre in questo caso esprimevano contenuti
significativi. Seguendo il dibattito che si sviluppò nei mesi successivi,
continuava a non comprendere il motivo per cui si era lasciata aleggiare in
quel documento una certa ambiguità, consentendo interpretazioni non
univoche.
Certamente Benedetto non scrisse mai nulla a tale riguardo, né rispose
agli interrogativi che pur gli erano giunti, poiché sarebbe stata una illecita
intromissione. Però, tenendo conto di qualche fugace osservazione,
comprendevo che la sua sensibilità non condivideva la strategia di lasciar
correre varie interpretazioni per poi favorirne una, come si evidenziò con la
pubblicazione sugli Acta Apostolicae Sedis, l’organo ufficiale della Santa
Sede, della lettera inviata da Papa Bergoglio ai vescovi argentini, nella
quale si affermava che il loro commento all’esortazione «è molto buono e
spiega in modo esauriente l’VIII capitolo dell’Amoris laetitia. Non sono
possibili altre interpretazioni».
Il suo silenzio riguardo a questa vicenda divenne rigoroso quando fu resa
pubblica la lettera dei Dubia, che i quattro cardinali Walter Brandmüller,
Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner avevano inviato a
Papa Francesco nel settembre del 2016, diffondendola dopo che per un paio
di mesi non avevano ricevuto alcuna risposta. Nessuno di loro ebbe mai
occasione di parlarne al Papa emerito, né in quel periodo e nemmeno in
seguito, quando nella primavera del 2017 i porporati tornarono alla carica
chiedendo a Papa Francesco un’udienza di chiarificazione. Benedetto restò
soltanto umanamente sorpreso per l’assenza di qualsiasi cenno di replica da
parte del Pontefice, nonostante Francesco normalmente si mostrasse
disponibile a incontrare e a parlare con chiunque.
Non è comunque in riferimento a ciò, che il Papa emerito volle inviare
un messaggio di cordoglio per la scomparsa del cardinale Joachim Meisner,
nel luglio del 2017. Fu il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di
Colonia, a proporglielo, e Benedetto lo fece volentieri, per l’antica amicizia
che lo legava a Meisner al punto che, appena qualche giorno precedente la
morte, si erano sentiti telefonicamente. Proprio ricordando questo colloquio,
scrisse: «Quello che mi ha impressionato di più in queste ultime
conversazioni con il defunto cardinale era la sua rilassata serenità, la sua
gioia interiore e la fiducia che aveva trovato. Sappiamo che per lui, pastore
appassionato e padre spirituale, fu difficile lasciare l’ufficio e questo
proprio in un momento in cui la Chiesa ha bisogno di pastori convincenti e
che sappiano resistere alla dittatura dello spirito del tempo e sappiano
vivere decisamente con fede e ragione».
E fu in qualche modo anche un invito che Benedetto intese rivolgere a se
stesso la considerazione finale (che pure suscitò alcune critiche): «Ma
anche questo mi commuove, l’aver imparato a lasciarsi andare nell’ultimo
periodo della sua vita, e aver saputo viverla con la certezza profonda che il
Signore non abbandona la sua Chiesa, anche se a volte la barca sta per
capovolgersi». Citando la “barca”, il Papa emerito si riferiva alla realtà
ecclesiale tedesca, dove il cardinale Meisner aveva dovuto affrontare
situazioni difficili. D’altronde lui sapeva bene che anche Francesco aveva
stima dell’arcivescovo emerito di Colonia perché, come Papa Bergoglio mi
disse personalmente, «è sincero, chiaro, cattolico».

La lettera “sbianchettata”
Sul finire del 2017, monsignor Dario Edoardo Viganò, all’epoca prefetto
della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mi informò che la
Libreria Editrice Vaticana stava per pubblicare alcuni volumi, scritti da
diversi teologi, sul Magistero di Papa Francesco e mi chiese se sarebbe stato
possibile avere da Benedetto XVI una presentazione. Gli suggerii di
inviarmi i testi e una richiesta scritta, specificando cosa desiderasse, e il 12
gennaio 2018 mi giunse il plico che consegnai al Papa emerito.
Dopo alcuni giorni, Benedetto mi disse che aveva dato uno sguardo a
quel materiale ed era rimasto stupito per la presenza fra gli autori di Peter
Hünermann, che durante il suo pontificato, ma anche prima, era stato un
acceso avversario (proprio lui, dopo che nel 1979 ad Hans Küng era stata
revocata la facoltà di insegnare come teologo cattolico, ne aveva preso il
posto sulla cattedra dell’università di Tubinga). «Per amore di Papa
Francesco, vorrei venire incontro alla richiesta di monsignor Viganò, ma
non sono in grado di leggere adeguatamente i libretti, poiché sono troppi. E
poi non potrei tacere riguardo a Hünermann», mi precisò.
Poiché il prefetto Viganò aveva fatto la richiesta direttamente a me, a
quel punto dissi al Papa emerito che avrei potuto rispondere io,
confrontando ovviamente con lui la bozza. Ma Benedetto replicò che ci
avrebbe pensato lui e si mise al lavoro per stendere la lettera che fu inviata
il 7 febbraio con la dicitura sulla busta “personale-riservata”, poiché
Benedetto era consapevole di quanto la questione fosse delicata e
richiedesse accortezza. Viganò mi telefonò per domandare la possibilità di
citare pubblicamente la lettera e Benedetto diede l’autorizzazione.
Il 12 marzo si svolse la presentazione della collana e la sera, nel servizio
del Tg1, vedemmo la lettera poggiata sul tavolo, parzialmente nascosta
sotto la pila degli undici libretti. Ma l’attenzione era stata riservata
unicamente a due capoversi del testo: «Plaudo a questa iniziativa che vuole
opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo
un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica,
mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe
capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a
ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e
teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due
pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento».
Il giorno seguente, il vaticanista Sandro Magister mise in risalto anche
un altro brano, decisamente meno compiacente: «Tuttavia non mi sento di
scrivere su di essi “una breve e densa pagina teologica”. In tutta la mia vita
è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri
che avevo anche veramente letto. Purtroppo anche solo per ragioni fisiche
non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto
più che mi attendono altri impegni che ho già assunti».
Fu sufficiente qualche altro giorno perché venisse alla luce l’intero
documento, il cui paragrafo finale diceva: «Solo a margine vorrei annotare
la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor
Hünermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere
capeggiato iniziative antipapali. Egli partecipò in misura rilevante al
rilascio della “Kölner Erklärung” (la “Dichiarazione di Colonia”, N.d.A.),
che, in relazione all’enciclica Veritatis splendor, attaccò in modo virulento
l’autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia
morale. Anche la “Europäische Theologengesellschaft”, che egli fondò,
inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in opposizione al
Magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha
impedito quest’orientamento, rendendo quell’organizzazione un normale
strumento d’incontro fra teologi».
Non ho idea di come Magister venne a conoscenza del testo originario e
non varrebbe nemmeno la pena di smentire, ma purtroppo è necessario, che
fossi stato io a divulgarla: una bugia diffamatoria nei miei confronti, che fu
propalata pure da un responsabile di lingua tedesca della Radio Vaticana.
Questa narrazione giunse anche a Santa Marta, sostenendo che io l’avrei
fatto non soltanto per danneggiare Viganò, ma anche per attaccare l’opera
di riforma della Curia avviata da Papa Francesco, della quale la
ristrutturazione della comunicazione vaticana era ampia parte. Cosicché da
quel momento si cercò l’opportunità più adatta per una rivalsa nei miei
confronti.
Ma chi conosceva Benedetto non poteva avere la minima speranza che
facesse qualcosa ad usum delphini, tacendo la propria opinione per
compiacere il successore o qualche suo collaboratore. A prescindere dalla
qualità dei rapporti personali, il teologo Ratzinger non guardò mai in faccia
a nessuno e, nelle sue recensioni, proponeva senza scrupoli ogni
osservazione critica ritenesse opportuna, in relazione ai testi che valutava,
sempre motivando le proprie argomentazioni. Comunque, Benedetto prese
atto di questa polemica, ma senza particolare interesse, pur manifestando
dispiacere e incomprensione per l’inganno che era stato perpetrato con
l’esibizione parziale della sua lettera.
Ricordo che monsignor Viganò mi telefonò sul cellulare durante la visita
di Papa Francesco a San Giovanni Rotondo, il 17 marzo 2018, e ci demmo
appuntamento dopo il rientro a Roma, quando mi chiese cosa fare. Cercò di
giustificare l’accaduto con l’autorizzazione che gli avevamo dato, ma
ovviamente reagii controbattendo che era stata improvvidamente creata una
fake news, e da quel momento non ci siamo più sentiti. Francesco non mi
accennò mai nulla sulla questione, però ho sentito da diverse fonti, e
anch’io personalmente ho percepito, che gli era costato dover affrontare le
dimissioni che il 19 marzo il prefetto gli presentò, poi accolte il 21 marzo
con la creazione per lui del nuovo ruolo di assessore nella medesima
Segreteria.

La pacificazione interrotta
Il 16 luglio 2021 Benedetto XVI scoprì, sfogliando «L’Osservatore
Romano» di quel pomeriggio, che Papa Francesco aveva reso noto il motu
proprio Traditionis custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla
riforma del 1970. La tematica era identica a quella del motu proprio
Summorum Pontificum, che lui aveva promulgato il 7 luglio 2007, e anche
la modalità di comunicazione fu la medesima, mediante
l’accompagnamento di una lettera per illustrare i contenuti del nuovo testo.
Perciò il Papa emerito lesse con attenzione il documento, per comprenderne
la motivazione e i dettagli dei cambiamenti.
Quando gli chiesi un parere, mi ribadì che il Pontefice regnante ha la
responsabilità di decisioni come questa e deve agire secondo ciò che ritiene
come il bene della Chiesa. Ma, a livello personale, riscontrò un deciso
cambio di rotta e lo ritenne un errore, poiché metteva a rischio il tentativo di
pacificazione che era stato compiuto quattordici anni prima. Benedetto in
particolare ritenne sbagliato proibire la celebrazione della Messa in rito
antico nelle chiese parrocchiali, in quanto è sempre pericoloso mettere un
gruppo di fedeli in un angolo, così da farli sentire perseguitati e da ispirare
in loro la sensazione di dover salvaguardare a ogni costo la propria identità
di fronte al “nemico”.
Dopo un paio di mesi, leggendo quanto Papa Francesco aveva detto il 12
settembre 2021 durante la conversazione con i gesuiti slovacchi a
Bratislava, il Papa emerito corrugò la fronte dinanzi a una sua affermazione:
«Adesso spero che con la decisione di fermare l’automatismo del rito antico
si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo
II. La mia decisione è il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del
mondo fatta l’anno scorso».
E ancor minore apprezzamento riscosse in lui l’aneddoto raccontato
subito dopo dal Pontefice: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui
due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene.
Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti
ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete
studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in
diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato
il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti
“atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra».
Da perito del Vaticano II, Benedetto ricordava bene come il Concilio
avesse invece insistito sull’opportunità che «l’uso della lingua latina, salvo
diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium
36) e che tutti i seminaristi acquisissero «quella conoscenza della lingua
latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze
e i documenti della Chiesa» (Optatam totius 13). Non per nulla, aveva
annotato nel motu proprio Latina lingua, «in tale lingua sono redatti nella
loro forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale della Chiesa, i
libri liturgici del rito romano, i più importanti documenti del Magistero
pontificio e gli atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici».
Come è evidente nei suoi scritti, in particolare La festa della fede (1984)
e Introduzione allo spirito della liturgia (2000), il teologo Ratzinger agli
inizi era favorevole riguardo alla riforma liturgica: questo tema fu sempre
tra i suoi prediletti, poiché lo riteneva fondamentale per la fede cattolica, e
non per caso volle che la prima pubblicazione della sua Opera omnia fosse
quella dedicata alla liturgia, anche se nel piano progettuale era l’undicesimo
volume. Però, vedendo i successivi sviluppi di quella riforma, si rese conto
delle diversità fra ciò che il Vaticano II voleva e quanto invece fu fatto dalla
Commissione per la realizzazione della Sacrosanctum Concilium, con la
liturgia che è diventata un campo di battaglia per opposti schieramenti, in
particolare rendendo la celebrazione in latino il baluardo da difendere o il
bastione da abbattere.
Benedetto si è impegnato soprattutto affinché la liturgia fosse celebrata
nella sua bellezza, poiché essa è la celebrazione della presenza e dell’opera
del Dio vivente, vedendo nell’Eucaristia il gesto di adorazione più
elementare e grande della Chiesa. Ai suoi occhi, ogni riforma della Chiesa
doveva derivare dalla liturgia, in quanto essa soltanto può incarnare un
rinnovamento della fede che parte dal centro. E da teologo affermava:
«Come ho imparato a intendere il Nuovo Testamento come l’anima della
teologia, così ho colto la liturgia come il suo motivo di vita, senza la quale
quella inaridisce».
Fondandosi su tale consapevolezza, con il Summorum Pontificum volle
rendere più agevole la possibilità per un sacerdote di celebrare con il rito
antico, superando la necessità del riferimento al vescovo diocesano e
accordando la competenza alla Commissione “Ecclesia Dei”. Restò
comunque sempre chiaro per lui che esisteva un unico rito, seppure con la
compresenza di quello ordinario e di quello straordinario. La sua unica
motivazione era il desiderio di riparare la grande ferita che via via si era
creata, volontariamente o involontariamente che fosse.
Non fu un’operazione svolta clandestinamente, come pur qualcuno in
cattiva fede ha sostenuto. A occuparsi del testo del motu proprio fu infatti la
Congregazione per la Dottrina della fede, con il coinvolgimento dei membri
della feria quarta e della plenaria. Benedetto seguiva costantemente i
progressi del testo attraverso gli aggiornamenti che gli faceva il cardinale
prefetto Levada nelle udienze di tabella e, dopo la pubblicazione, chiese
regolarmente ai vescovi, in occasione delle visite ad limina, come
procedesse l’applicazione di quella normativa nella loro diocesi,
ricavandone sempre una sensazione positiva.
Per questo motivo a Papa Ratzinger apparve incongruo quel riferimento
alle sue «vere intenzioni», poiché, come si legge in Luce del mondo, egli
aveva voluto «rendere più facilmente accessibile la forma antica soprattutto
per preservare il profondo e ininterrotto legame che sussiste nella storia
della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sbagliato, ora invece è
tutto giusto. In una comunità, infatti, nella quale la preghiera e l’Eucaristia
sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errata quella che
prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il
proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella
Chiesa».
Restò misterioso anche per Benedetto il motivo per cui non vennero
divulgati i risultati della consultazione dei vescovi fatta dalla
Congregazione per la Dottrina della fede, che avrebbero consentito di
comprendere più precisamente ogni risvolto della decisione di Papa
Francesco. Allo stesso modo si rivelò sorprendente, per tutto il lavoro di
analisi e di approfondimento fatto in precedenza, il trasferimento e lo
spezzettamento della competenza sulla questione dalla Dottrina della fede al
Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti e a quello per gli
Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

Da sempre contro ogni abuso


L’orribile questione degli abusi sessuali compiuti da ecclesiastici ha
attraversato in filigrana gli anni vaticani di Ratzinger, che combatté
energicamente questo crimine sia da cardinale sia da Papa. In particolare,
come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (e ancor prima
da arcivescovo di Monaco), contribuì alla elaborazione del Codice di Diritto
canonico promulgato nel 1983, dove il canone 1395 afferma
perentoriamente: «Il chierico che abbia commesso altri delitti contro il sesto
precetto del Decalogo […] con un minore al di sotto dei 16 anni, sia punito
con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale, se il caso lo
comporti».
Sin da allora gli era chiara la diagnosi, che sintetizzò a Peter Seewald in
Luce del mondo: «A partire dalla metà degli anni Sessanta [il Diritto penale
canonico] semplicemente non è stato più applicato. Dominava la
convinzione che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa del diritto, ma
una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. Si spense in tal modo la
consapevolezza che la punizione può essere un atto d’amore».
Contemporaneamente vedeva che nel contesto sociale dell’epoca i criteri
validi sino a quel momento in tema di sessualità erano totalmente venuti
meno, causando conseguenze anche nella formazione e nella vita dei
sacerdoti.
Quel giudizio venne poi esplicitato nei famosi “Appunti”, inizialmente
scritti dal Papa emerito come riflessione personale, che scaturirono da una
sua preoccupazione pastorale costante, emersa con forza durante tutto il
pontificato, cioè la preoccupazione per la vita e il ministero dei presbiteri. Il
dramma degli abusi, infatti, rappresenta una crisi della credibilità
sacerdotale dinanzi al mondo, così come dell’identità degli stessi sacerdoti
riguardo alla loro missione e alla loro capacità di annunciare il Vangelo.
Quando ebbe notizia che, dal 21 al 24 febbraio 2019, si sarebbe svolta in
Vaticano una riunione dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali per
riflettere sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a
seguito dello scandalo degli abusi, Benedetto inviò il testo a Papa
Francesco, tramite il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin,
chiedendogli l’assenso a renderlo noto. Dopo alcuni giorni, il cardinale
Parolin mi telefonò a nome del Pontefice, chiedendomi di comunicare al
Papa emerito che Francesco concordava sull’idea che venisse pubblicato.
Nella sua dettagliata ricostruzione, Benedetto non si sottrasse alla dura
denuncia di quanto era stato originato dalla cosiddetta “rivoluzione del
’68”, che «voleva conquistare anche la completa libertà sessuale» e della
cui fisionomia «faceva parte il fatto che la pedofilia fosse stata
diagnosticata come permessa e conveniente» (restano ancora nella memoria
e negli archivi i “manifesti” di quel tempo firmati da noti esponenti
dell’élite culturale), mentre «nello stesso periodo si è verificato un collasso
della teologia morale cattolica che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei
processi nella società», con l’affermazione della tesi «per cui la morale
dovesse essere definita solo in base agli scopi dell’agire umano: non c’era
più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è
relativamente meglio».
Successivamente, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, «la crisi dei
fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme
drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia”
firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi
punti critici del rapporto fra Magistero episcopale e compito della teologia.
Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia
morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare a
un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il
titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva
l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone,
[…] ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore
ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita
fisica».
Facendo un salto temporale in relazione a ciò, il 5 marzo 2014 Benedetto
lesse sul «Corriere della Sera» l’intervista di Ferruccio De Bortoli a Papa
Francesco e si chiese cosa il Pontefice non avesse compreso quando,
rispondendo alla domanda sui «valori non negoziabili soprattutto in bioetica
e nella morale sessuale», aveva dichiarato: «I valori sono valori e basta, non
posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra.
Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili». Senza
permettersi di esprimere un giudizio, a livello personale il Papa emerito
intese però quell’affermazione come un cambiamento di rotta e una velata
critica nei riguardi del precedente comportamento di Giovanni Paolo II e
suo, come se volesse dire che si può negoziare su tutto.
A livello pratico, sul finire degli anni Ottanta il cardinale Ratzinger
cominciò a ricevere appelli da vescovi di varie parti del mondo (in
particolare dagli Stati Uniti), con la richiesta di aiuto nell’affronto della
problematica, in quanto il Diritto canonico non appariva comunque
sufficiente per adottare le misure necessarie, garantendo ugualmente la
protezione giuridica dell’accusato, della vittima e del bene in gioco.
Spiegò Benedetto in quegli “Appunti”: «In sé, per i delitti commessi dai
sacerdoti è responsabile la Congregazione per il Clero. Poiché tuttavia in
essa il garantismo allora dominava ampiamente la situazione, concordammo
con Papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire la competenza su
questi delitti alla Congregazione per la Dottrina della fede, con la titolatura
“Delicta maiora contra fidem”. Con questa attribuzione diveniva possibile
anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece
non sarebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Tuttavia, in
questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così
stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la
possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la
diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo».
Lo confermano le lettere, pubblicate nel dicembre del 2010
sull’«Osservatore Romano», inviate decenni prima dal cardinale Ratzinger
al confratello José Rosalío Castillo Lara, presidente della Pontificia
Commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto canonico.
In particolare, in quella del 19 febbraio 1988 lamentava che, giudicando
petizioni di dispensa dagli oneri sacerdotali da parte di ecclesiastici che si
erano resi colpevoli di comportamenti scandalosi, la riduzione allo stato
laicale veniva di fatto considerata una “grazia” e non una “punizione”,
compromettendo così il bene dei fedeli in presenza di eventi delittuosi
gravi.
Una forzatura del Codice non era però lecita, dunque Ratzinger provò a
mettere in campo l’articolo 52 della Pastor bonus, che attribuiva alla sua
Congregazione il giudizio sui «delitti più gravi commessi sia contro la
morale sia nella celebrazione dei sacramenti». Ma l’assenza di precisazione
di quali fossero questi delitti “più gravi” impediva una precisa applicazione
della norma. Dietro sua sollecitazione, il vuoto di formulazione venne
finalmente riempito ad aprile del 2001 con il motu proprio di Giovanni
Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela, cui in maggio fece seguito la
lettera De delictis gravioribus per dare esecuzione pratica alle nuove
procedure nei casi di pedofilia del clero. Quindi, nel 2003, la
Congregazione adottò linee guida interne per il trattamento dei casi di abuso
sessuale nei confronti di minori da parte di chierici, rese pubblicamente
note nel 2010 con un aggiornamento che estendeva la prescrizione da 10 a
20 anni (tra le più lunghe al mondo e per di più, nel caso di minorenni, con
decorrenza dal momento del raggiungimento della maggiore età), definendo
come delitto canonico anche il possesso di materiale pedopornografico.
L’emblematica dimostrazione del fatto che intendeva smascherare le
malefatte anche di chi in precedenza aveva goduto di protezioni ad alto
livello fu lo sviluppo dell’inchiesta su padre Marcial Maciel, il fondatore
dei Legionari di Cristo, cui fu risparmiato un processo canonico unicamente
per l’età avanzata e la salute cagionevole. Ma la documentazione raccolta
ne aveva chiaramente evidenziato la colpevolezza, cosicché a maggio del
2006 gli venne imposta una vita riservata di preghiera e di penitenza,
rinunciando a ogni ministero pubblico, fino alla morte (avvenuta il 30
gennaio 2008). Del resto, Ratzinger aveva già documentato in precedenza
come la pensasse, evitando di partecipare ai festeggiamenti che si svolsero a
Roma nell’autunno del 2004 per il sessantesimo anniversario di ordinazione
sacerdotale del sacerdote messicano, omaggiato invece dagli altri più
importanti porporati della Curia romana.
Anche Papa Francesco gliene diede una pubblica attestazione il 18
febbraio 2016, rientrando dal viaggio apostolico in Messico, in risposta alla
domanda di un giornalista sul “caso Maciel”: «Mi permetto di rendere un
omaggio all’uomo che ha lottato in un momento in cui non aveva forza per
imporsi, finché è riuscito ad imporsi. Il cardinale Ratzinger – un applauso
per lui! – è un uomo che ha avuto tutta la documentazione. Quando era
prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede ha avuto tutto nelle
sue mani, ha fatto le indagini ed è andato avanti, avanti, avanti… ma non è
potuto andare più in là nell’esecuzione. […] È stato l’uomo coraggioso che
ha aiutato tanti ad aprire questa porta. Così che voglio ricordarvelo, perché
a volte ci dimentichiamo di questi lavori nascosti che sono stati quelli che
hanno preparato le basi per scoperchiare la pentola».
Durante il pontificato, Papa Benedetto agì drasticamente per la riduzione
allo stato laicale dei sacerdoti riconosciuti colpevoli di abusi sui minori: nei
cinque anni fra il 2008 e il 2012 furono oltre 550, e tra loro figurarono
anche diversi vescovi (mentre altri vennero fatti dimettere anticipatamente
per aver coperto le responsabilità di preti della loro diocesi). Senza
dimenticare che Benedetto è stato il primo Papa a incontrare vittime di
abuso da parte di sacerdoti durante i suoi viaggi apostolici. Lo fece ben
cinque volte: negli Stati Uniti (aprile 2008), in Australia (luglio 2008), a
Malta (aprile 2010), nel Regno Unito (settembre 2010) e in Germania
(settembre 2011). E sempre lontano dai riflettori, nello stile di riservatezza
da lui voluto in quelle circostanze.

Accuse infondate da Monaco


Considerato tutto ciò, è comprensibile che Benedetto XVI sia rimasto
fortemente addolorato dalle accuse che nel 2010 vennero rivolte a suo
fratello Georg, relative al periodo in cui era stato direttore del coro di
Ratisbona. Le indagini appurarono che gli abusi erano avvenuti nella scuola
frequentata dai giovani cantori e che monsignor Georg era estraneo a tali
eventi. Ma ovviamente il suo nome fu l’unico pubblicizzato dalla stampa
descrivendo quella vicenda.
E decisamente restò ancor più scioccato nel gennaio del 2022, quando gli
addebiti lo coinvolsero in prima persona, relativamente ai cinque anni in cui
era stato arcivescovo di Monaco di Baviera fra il 1977 e il 1982, in seguito
alla presentazione del dossier di 1.893 pagine, commissionato dalla stessa
diocesi per far luce sul periodo dal 1945 al 2019: 74 anni nei quali erano
stati rilevati 497 abusi commessi da 235 persone (173 sacerdoti, 9 diaconi,
48 dipendenti scolastici e 5 referenti pastorali).
I casi nei quali a Ratzinger veniva attribuita negligenza erano
unicamente quattro, ma, quando si svolse la conferenza, su questi si
appuntò immediatamente l’attenzione delle agenzie giornalistiche e divenne
impossibile, nell’arco di poche ore, reagire al fuoco di fila di notizie che
continuavano ad andare in rete. In realtà, Benedetto aveva già in precedenza
risposto a una ventina di pagine di domande che gli erano state inviate dagli
avvocati che avevano redatto il dossier, inviando 82 pagine di risposta il 15
dicembre 2021. Ad aiutarlo dal punto di vista giuridico furono alcuni
esperti, uno dei quali commise un errore di datazione, scrivendo che nella
riunione del Consiglio dell’ordinariato del 15 gennaio 1980, nella quale uno
di quei casi era all’ordine del giorno, il cardinale era assente.
Uno sbaglio banale, del quale il Papa emerito si scusò appena ne
venimmo a conoscenza, ma che non voleva assolutamente essere un
mascheramento dei fatti. Lo certifica il verbale d’archivio di quell’incontro,
nel quale la sua presenza era segnalata nero su bianco, e ancor più lo
documenta la biografia pubblicata nel 2020 da Peter Seewald, nella quale si
legge a chiare lettere: «In veste di vescovo, durante una riunione del
Consiglio dell’ordinariato nel 1980 aveva soltanto acconsentito ad
accogliere il sacerdote in questione a Monaco affinché potesse sottoporsi a
sedute di psicoterapia» (Benedikt XVI. Ein Leben, Droemer Verlag, p. 938
dell’edizione originale tedesca; p. 1051 dell’edizione italiana Benedetto
XVI. Una vita per Garzanti). Eppure fu sufficiente per accusarlo di
menzogna, al punto che lui stesso volle confidare, nella lettera datata 6
febbraio 2022: «Mi ha profondamente colpito che la svista sia stata
utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi
come bugiardo».
Con accorate parole, Benedetto mise a nudo i propri sentimenti: «In tutti
i miei incontri, soprattutto durante i tanti viaggi apostolici, con le vittime di
abusi sessuali da parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze
di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo
trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non
l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo
spesso è accaduto e accade. Come in quegli incontri, ancora una volta posso
solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia
profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di
perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più
grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante
il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso
sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia
profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso».
Ovviamente Benedetto, il 3 febbraio, aveva trasmesso per conoscenza la
lettera a Papa Francesco. Due giorni dopo il Pontefice – che già il 26
gennaio precedente aveva comunicato telefonicamente vicinanza personale,
appoggio totale e sostegno nella preghiera – espresse il suo ringraziamento
riguardo a quel testo e confermò il sostegno umano e spirituale,
dichiarandosi anche addolorato per certi commenti di alcuni vescovi e
sacerdoti.
Il caso più citato dalla stampa fu quello riguardante un sacerdote della
diocesi di Essen che, nel 1980, doveva essere inviato a Monaco per venire
sottoposto a una terapia medica. Il suo vescovo, senza precisare la
motivazione delle cure, auspicò che gli fosse data ospitalità in una canonica
della diocesi, all’epoca guidata da Ratzinger, e nella citata riunione del 15
gennaio di quell’anno tale richiesta venne accolta. Dal verbale di quel
giorno emerge però con chiarezza che non si parlò di un impiego del
sacerdote in attività pastorali, né venne menzionata alcuna imputazione a
suo carico riguardo ad abusi sessuali su bambini.
Anche nei rimanenti tre casi non si trattò di accuse riguardanti sacerdoti
direttamente coinvolti in abusi sessuali durante il periodo di episcopato di
Ratzinger a Monaco. Uno si riferiva all’autorizzazione a tornare da
pensionato in diocesi concessa dal vicario generale a un anziano sacerdote,
che aveva concluso un periodo di detenzione per cattiva condotta sessuale,
come atto di grazia per consentirgli di morire nel suo paese natale. Un altro
riguardò un sacerdote che aveva fotografato alcune bambine mentre si
spogliavano per indossare i costumi di una rappresentazione teatrale e che
fu immediatamente spostato dal cardinale Ratzinger in una casa per anziani,
con la proibizione di avere ulteriori contatti con minori.
L’ultimo ebbe come protagonista un giovane prete, nipote di un vescovo,
che desiderava proseguire gli studi nell’università di Monaco: essendo stato
visto nuotare nudo nel locale fiume Isar, venne rispedito a casa.
Relativamente a questo caso, nel dossier si sostenne che Benedetto XVI,
nella sua memoria difensiva, avrebbe minimizzato gli eventi, poiché nel
testo si diceva che il sacerdote «è stato notato come esibizionista, ma non
come abusatore in senso proprio». In realtà si trattava di una frase avulsa
dall’intero contesto, dove il Papa emerito definiva invece con la massima
chiarezza gli abusi, esibizionismo incluso, come «terribili», «peccaminosi»,
«moralmente riprovevoli» e «irreparabili». Semplicemente, gli esperti che
avevano collaborato alla stesura intendevano soltanto offrire una
precisazione storica, ricordando che per il Diritto canonico allora vigente
l’esibizionismo non era un delitto in senso stretto, poiché la relativa norma
penale non comprendeva tra le fattispecie comportamenti di quel tipo.
Per rispetto della verità storica, è comunque opportuno specificare che
l’affermazione presente nel dossier riguardo alla conoscenza di quei casi da
parte dell’arcivescovo non era supportata da alcuna prova. Anzi, quando –
durante la conferenza stampa successiva alla presentazione del dossier –
una giornalista chiese se lo studio legale potesse dimostrare che il cardinale
Ratzinger era allora a conoscenza del fatto che il sacerdote fosse un
abusatore e che cosa significasse in quel contesto l’annotazione
«maggiormente probabile», un perito rispose candidamente:
«Maggiormente probabile significa che lo presumiamo con una maggiore
probabilità»!

“Profezie” per i nostri tempi


Nel novembre del 2004, pochi mesi prima di essere eletto al pontificato,
Joseph Ratzinger rispose con determinazione al vaticanista Marco Politi,
che lo interrogava sul suo atteggiamento dinanzi al futuro, che «ottimismo e
pessimismo sono categorie emozionali: io penso di essere realista». È stata
proprio questa la cifra che lo ha sempre guidato, sia da teologo e da
professore, come da cardinale e da Pontefice, nell’elaborazione di giudizi
qualificati e nell’esposizione di ragionevoli posizioni.
In quegli stessi giorni, usciva in libreria Senza radici, uno scambio di
idee con l’allora presidente del Senato Marcello Pera, nel quale Ratzinger
propose una perspicace analisi sugli attuali tempi, con folgoranti parole che
“fotografavano” le cause per cui la fede cristiana oggi stenta a raggiungere,
con il suo grande messaggio, gli uomini in Europa.
A suo parere, la prima motivazione era che il cristianesimo risulta un
modello di vita non convincente, poiché «sembra che limiti l’uomo in tutto,
che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà così preziosa e lo
conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello
stretto». Come risposta, indicò l’urgenza di «mostrare un modello cristiano
di vita che offra un’alternativa vivibile ai divertimenti sempre più vuoti
della società del tempo libero, che deve fare sempre più ricorso alla droga
perché è sazia dei miseri piaceri abituali. Il modello cristiano di vita deve
manifestarsi come una vita in tutta la sua ampiezza e libertà, che non
sperimenta il vincolo dell’amore come dipendenza e limitazione, ma come
apertura alla grandezza della vita».
La seconda ragione era che il cristianesimo sembra ormai superato dalla
scienza e disarmonico rispetto alla razionalità dell’età moderna, anche per
colpa di correnti teologiche che «hanno sprecato troppo tempo in piccole
schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza
impegnate nel porre le domande di fondo: Che cos’è la Rivelazione? In che
modo combaciano la Rivelazione che parte da Dio e l’elaborazione della
storia umana? Come si manifesta nella lunga via della storia, con tutti i suoi
travagli, la guida di un Altro, che agisce in questa storia e crea qualcosa di
nuovo che non può scaturire dall’agire dell’uomo stesso nella storia?».
Dunque, fu il suo auspicio, «nel confronto con la scienza e nel dialogo con i
filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che
cos’è che tiene insieme il mondo. Una valida religione civile comporterà
anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come la Ragione
stessa che precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi di
riconoscerla».
In qualche conversazione, durante i pasti o le passeggiate nei Giardini
vaticani, mi sono ritrovato ad ascoltare le sue considerazioni relative agli
incontri che aveva con i vescovi giunti da tutto il mondo in Vaticano per le
periodiche visite ad limina, dai quali era scaturita in lui la consapevolezza
di quanto fosse grande la sfida pastorale relativa a sacramenti divenuti
ormai consuetudinari: il battesimo di neonati i cui genitori non hanno
rapporti con la fede e con la comunità ecclesiale, la prima comunione di
bambini che non sanno Chi ricevono in quell’ostia consacrata, la cresima di
adolescenti per i quali questo sacramento non rappresenta la piena adesione
alla Chiesa cattolica quanto il loro congedo da essa, il matrimonio che serve
a solennizzare una festa familiare.
La sua conclusione era che occorreva rispondere alla manifesta crisi di
fede ponendo nuovamente la questione di Dio al centro della vita ecclesiale
e dell’annuncio, piuttosto che provando a mettere in campo riforme delle
strutture organizzative che comunque restano freddi organismi, sempre a
rischio di conformarsi al mainstream del mondo e del tempo. Questo
“distacco dal mondo”, però, non significa un “ritiro dal mondo”: al
contrario, è la prerogativa affinché la testimonianza missionaria della
Chiesa, anche rivedendo eventuali privilegi ottenuti nel corso del tempo,
non soltanto si manifesti più chiaramente, bensì risulti più credibile.
Ma le diagnosi risalivano a un ben lontano passato, documentando uno
sguardo incredibilmente lungimirante. Già nel 1958, in un ampio articolo
intitolato I nuovi pagani e la Chiesa, Ratzinger esprimeva la convinzione
che «con o senza il volere della Chiesa, dopo una trasformazione strutturale
interiore, presto o tardi si realizzerà pure una trasformazione esteriore verso
il “piccolo gregge”» e che alla lunga la Chiesa «non potrà evitare di dover
smantellare pezzo dopo pezzo la congruenza con il mondo per tornare a
essere ciò che è: una comunità di credenti. In effetti la sua forza missionaria
non potrà che crescere attraverso tali perdite esteriori. Solamente quando
smetterà di essere un’ovvietà a buon mercato, soltanto quando comincerà a
presentarsi di nuovo quale essa realmente è, sarà ancora in grado di
raggiungere con il suo messaggio le orecchie dei nuovi pagani, che fin qui
hanno potuto compiacersi nell’illusione di non essere per nulla pagani».
Nel 1969, poi, offrì in alcune conferenze radiofoniche su un’emittente
tedesca un’analisi nella quale sosteneva che «il futuro della Chiesa verrà
fuori dai nuovi santi. E dunque da uomini la cui capacità di percezione va al
di là delle frasi e proprio per questo sono moderni. Da uomini che sanno
vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbraccia spazi più ampi».
Come risultato, secondo la visione di Ratzinger, «uscirà, da una Chiesa
interiorizzata e semplificata, una grande forza. Gli uomini infatti saranno
indicibilmente solitari in un mondo totalmente pianificato. Essi
sperimenteranno, quando Dio sarà per loro interamente sparito, la loro
totale e paurosa povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei
credenti come qualcosa di totalmente nuovo. Come una speranza che li
riguarda, come una risposta a domande che essi da sempre di nascosto si
sono poste. A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi
molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti
con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà
alla fine: non la Chiesa del culto politico, ma la Chiesa della fede. Certo
essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo
era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e
apparirà agli uomini come la patria che a essi dà vita e speranza oltre la
morte».
La sua lucidità di osservazione gli permise di anticipare diverse questioni
che agitano i nostri giorni anche in ambito ecclesiale, come testimoniano
alcuni suoi giudizi espressi nel libro-intervista del 1996 Il sale della terra,
per esempio sul gender: «La pretesa rivoluzione contro le forme storiche
della sessualità culmina in una rivoluzione contro i presupposti biologici:
non si ammette più che la “natura” abbia qualcosa da dire; la persona
umana dovrebbe modellare se stessa a proprio piacimento; l’uomo dovrebbe
essere libero da tutti i presupposti del suo essere: egli fa di se stesso ciò che
vuole»; oppure sull’ambientalismo: «Si può fare ecologia in modo cristiano,
a partire dalla fede nella creazione, che pone dei limiti all’arbitrio
dell’uomo, che dà dei criteri alla libertà; la si può fare in modo anticristiano,
sul modello del New Age, a partire dalla divinizzazione del cosmo»; o
ancora sul culto di Gaia e della Pachamama: «L’idea di “inculturazione”, in
particolare in America latina, vuole ridestare la cultura e la religione
precolombiana, liberandosi, in qualche modo, dalla penetrazione eccessiva
di elementi europei, imposta dall’esterno. In rilievo vengono messi il culto
della Madre Terra e, in generale, quello del femminile in Dio. L’elemento
cosmico di questo rinnovamento dell’antica religione si incontra poi con le
tendenze del New Age, che mira a una fusione di tutte le religioni e a una
nuova unità di uomo e cosmo».
Questi sguardi sul futuro lo portarono gradualmente a prestare maggiore
attenzione all’ambito delle profezie mariane, che in realtà non lo avevano
mai intrigato particolarmente in gioventù. Anzi, su tutto ciò che riguardava
le rivelazioni private, il cardinale Ratzinger si mostrava cauto. Se gli eventi
andavano avanti, in Congregazione ci si occupava di raccogliere e di
esaminare accuratamente la documentazione, giungendo infine a informare
degli sviluppi anche il Santo Padre. Pure riguardo alle vicende delle
presunte apparizioni a Medjugorje, per indagare sulle quali volle comunque
costituire una Commissione internazionale di esperti (che hanno
successivamente relazionato a Papa Francesco), e delle lacrimazioni della
Madonnina a Civitavecchia affidò a qualificati teologi e canonisti il compito
di analizzare e di valutare, senza però assumere decisioni perentorie in
merito.
Più articolato fu il suo coinvolgimento riguardo alle apparizioni di
Fatima, di cui si occupò in maniera approfondita per incarico di Giovanni
Paolo II, che gli chiese personalmente di spiegare il testo della terza parte
del Segreto nella conferenza stampa del 26 giugno 2000 durante la quale
venne reso noto il documento vergato da suor Lucia il 3 gennaio 1944 (dove
riportava le parole che aveva udito dalla Vergine il 13 luglio 1917).
Sia all’epoca, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della
fede, sia in seguito da Pontefice, non dettagliò mai alcun ragionamento
sull’enigmatica descrizione: «E vedemmo in una luce immensa che è Dio:
“qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi
passano davanti” un vescovo vestito di bianco “abbiamo avuto il
presentimento che fosse il Santo Padre”». Un’immagine che, dopo la sua
rinuncia e l’elezione di Francesco, è stata interpretata da alcuni
commentatori come il presagio della coesistenza di due Pontefici, in
particolare riferendosi alle affermazioni che Papa Bergoglio ha sempre
proposto sul suo sentirsi innanzitutto Vescovo di Roma («Voi sapete che il
dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma», disse già nel suo
primo saluto dopo l’elezione).
Piuttosto, con l’andar del tempo Benedetto maturò la consapevolezza che
i preannunci della Madonna devono venire considerati con diligenza,
prestando attenzione alle sue precise parole. Per esempio, in questa parte
finale del Segreto si parla di una persecuzione della Chiesa che culmina nel
martirio di molte persone, compreso il Papa che «attraversò una grande città
mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di
pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino;
giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande
croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di
arma da fuoco e frecce».
Pur se Giovanni Paolo II aveva in qualche modo associato quelle parole
all’attentato da lui subìto il 13 maggio 1981, al punto da donare al santuario
di Fatima la pallottola che lo aveva colpito in piazza San Pietro per mano di
Ali Agca, è vero però che il Pontefice non era stato ucciso (un riferimento a
questo evento è piuttosto la profezia data dalla Vergine il 19 settembre 1846
a Mélanie Calvat e Maximin Giraud, i veggenti di La Salette in Francia: «Il
Papa sarà perseguitato da ogni parte: gli si sparerà addosso, si vorrà
metterlo a morte, ma non gli si potrà far nulla»).
Fu all’interno di tale considerazione, fondata sull’ipotesi di una profezia
non ancora realizzata e quindi spalancata su un futuro più o meno prossimo,
che il 13 maggio 2010, nell’omelia della Messa a Fatima, pronunciò parole
che ebbero risonanza: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica
di Fatima sia conclusa». A scanso di equivoci, posso comunque aggiungere
con certezza che Joseph Ratzinger non ebbe mai illuminazioni
soprannaturali riguardo a simili vicende.

La catechesi in famiglia
Il ritmo cadenzato della vita nel Monastero consentì a Benedetto la
tranquillità per una costante meditazione anzitutto della liturgia quotidiana
e, più in particolare, per la preparazione di significative omelie sulle Letture
domenicali, che le Memores hanno amorevolmente registrato e trascritto. È
stato un percorso rivolto essenzialmente alla nostra piccola famiglia (in
alcuni periodi era presente anche il fratello Georg e, molto più raramente,
qualche ospite), come il Papa emerito volle rimarcare introducendo sempre
le sue parole con un affettuoso «cari amici». Si potrebbe persino dire che, in
qualche modo, era la dilatazione dei colloqui spirituali che avvenivano
anche nella normalità della giornata domestica, a tavola o durante le
passeggiate.
Sin dal lunedì precedente si accingeva alla riflessione, utilizzando il testo
di base in greco: per l’Antico Testamento la Septuaginta e per il Nuovo
Testamento la versione curata da Erwin Nestle e Kurt Aland. Ovviamente
aveva a disposizione anche traduzioni in lingue correnti, come la Bibbia di
Gerusalemme in tedesco e il Messale in italiano realizzato nel 2008 dalla
Cei. Nei giorni successivi continuava a meditare quelle letture e il sabato
mattina, infine, dedicava un paio d’ore a scrivere su un apposito quaderno
la traccia dell’omelia, che però poi pronunciava a braccio senza avere
davanti agli occhi appunti scritti.
Talvolta, nei giorni di festa in cui nella liturgia si faceva memoria di
santi significativi, all’inizio della Messa proponeva anche un breve
richiamo alle loro figure, poiché, diceva, «i migliori interpreti del Vangelo
non sono gli esegeti con i loro studi critici, ma quelli che sono diventati
santi, con la testimonianza della loro vita».
Le prime omelie “private” da emerito le pronunciò nella cappella del
Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, in quel periodo subito dopo la
rinuncia. Furono generalmente di breve durata e Benedetto volle centrare
l’attenzione, con parole molto sentite, sugli aspetti più essenziali della fede:
«Imparate una fede gioiosa, imparate che realmente vivere con il Padre,
vivere secondo la parola di Dio, è la vera felicità e l’abbondanza della vita»
(10 marzo 2013); «Conversione non è semplicemente un atto autonomo del
soggetto, ma è il frutto di un incontro e in questo senso è un dono, che poi
implica naturalmente la mia attività: sono conquistato per conquistare» (17
marzo 2013); «Dio trova gli uomini in tutte le parti del mondo e della storia.
E così traspare la realtà della Chiesa: sul globo appare sempre povera e
semplice, ma, se vediamo il mondo nella sua totalità, vediamo una famiglia
che supera tutte le frontiere» (21 aprile 2013); «L’orazione implica due
doni: il Salvatore e lo Spirito Santo. Ma dobbiamo aggiungere che questi
due doni principali sono preceduti da un dono fondamentale: la creazione. Il
primo dono di Dio è la vita, e dobbiamo prendere atto di questa realtà» (28
aprile 2013).
Rientrati in Vaticano, la cappella del “Mater Ecclesiae” divenne il luogo
definitivo per lo sviluppo di queste riflessioni, che si dilatarono dall’ambito
catechetico alla più ampia dimensione dell’attualità, offrendo anche giudizi
precisi sulle vicende del nostro presente. Per esempio, la prima omelia in
Monastero vide il Papa emerito denunciare «la persecuzione più sottile del
cristianesimo, cioè la sua emarginazione intellettuale, con la creazione di
una cultura anticristiana» (12 maggio 2013), con una successiva
esplicitazione di «due minacce contro la Chiesa: i venti delle ideologie, che
vogliono distruggere il nostro cosmo, e le onde dei poteri politici e militari,
che sono persecuzioni e distruzione della fede» (10 agosto 2014). A chiare
lettere, stigmatizzò le leggi su aborto, suicidio assistito e matrimonio
omosessuale: «Dicono tutte e tre che io prendo per me la vita, posso
distruggerla, è mia proprietà, sovranità, autonomia. Ma, se guardiamo più in
profondità, dobbiamo dire che questa triade implica anche un no al futuro:
aborto, non vogliamo avere figli; suicidio; matrimonio omosessuale,
necessariamente senza figli» (22 settembre 2013).
Dinanzi a questa complessa situazione, siamo aiutati dalla parola del
Vangelo: «Gesù non chiede se abbiamo sale in noi, ma afferma con
decisione: “Voi siete il sale della terra” (Matteo 5,13). In sostanza, noi
cristiani dobbiamo essere sale per questa storia, dobbiamo mostrare in noi
la forza della croce di Cristo, a difesa della vita contro le forze della
distruzione. Altrimenti, sottolinea il Signore, il nostro cristianesimo sarà un
conformarsi al mondo, senza più il coraggio della passione per la verità. Un
cristianesimo che sembra moderno, all’altezza dei tempi, ma in realtà è
senza sapore e privo di ogni forza di novità» (9 febbraio 2014).
Interrogandosi sui motivi che spiegano la vittoria sorprendente del
cristianesimo, nel grande confronto tra le religioni dell’antichità, precisò
che il più importante è «la testimonianza della vita. In un mondo dove erano
normali la corruzione, la violenza, l’immoralità, la mancanza di un comune
impegno per il bene, i cristiani hanno vissuto con rettitudine, con integrità,
con bontà, soffrendo ma senza fare il male. Una tale vita era un segno così
radicale ed evidente che ha convinto, poiché un vivere così non si spiega
con le pure forze umane, ma dimostra realmente che è Dio a donare questa
vita. Così la testimonianza della vita cristiana è decisiva per la vittoria del
cristianesimo anche in futuro» (25 maggio 2014). A tale proposito, fu netto
nel ribadire che «la fede non è una invenzione nostra, ma un dono di Dio da
custodire e da vivere, perciò non è a disposizione nostra, non possiamo
cambiarla come vogliamo, è un dono di Dio e così cresce nella sua
profondità. Anche il Papa non è un monarca assoluto, che potrebbe fare
quanto vuole, ma è il garante dell’obbedienza al dono di Dio, che è il vero
tesoro del mondo» (29 giugno 2014).
Un’articolata disamina Benedetto la dedicò proprio all’immagine
evangelica del pastore che guida le pecore e alla contestazione nei tempi
moderni da parte di chi afferma che non si può mettere l’autonomia
dell’uomo sotto questo giogo: «Sì, è vero che siamo persone libere con
ragione, volontà e amore, ma è anche vero che questa nostra libertà ha
bisogno di illuminazione, poiché non conosciamo la strada e ci occorre una
bussola per trovarla. Nella sua parabola il Signore parla anche di mercenari
e di lupi, e nel nostro tempo abbiamo visto questi lupi. Pensiamo ai grandi
dittatori – Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao Tze Tung – che dicevano: noi
portiamo l’umanità alla sua vera felicità. Erano lupi, che hanno distrutto il
mondo in modo incredibile, e dietro di loro i filosofi che hanno creato
queste idealità erronee: pensiamo a Nietzsche, che ha beffeggiato i cristiani
come deboli, contrapponendo l’uomo forte che distrugge; a Marx, con la
sua promessa del paradiso senza Dio, che è divenuto un grande campo di
concentramento; a Freud, che ha messo in campo la distruzione dell’anima.
Il mondo va sempre a cadere nelle mani dei lupi e in questo momento
possiamo soltanto gridare al Signore: non lasciare la tua creatura ai lupi,
non lasciare che distruggano con le loro menzogne la verità, con il loro odio
l’amore, con la loro dispersione l’unità» (26 aprile 2015).
Di fatto, il rapporto tra libertà e sequela fu sempre uno dei suoi temi di
riflessione: «Sono due idee apparentemente contrastanti. Seguire Cristo
vuol dire camminare dietro di Lui, prendere la Sua strada, lasciare la
propria volontà e conformarsi alla Sua volontà; mentre libertà vuol dire
seguire soltanto la propria volontà, mirando a realizzare il proprio progetto
di vita. In realtà, seguire Cristo è entrare nel fuoco dell’amore e così entrare
nella libertà che ci libera da tutti i pretesti esteriori. Sant’Agostino ha
utilizzato una espressione realmente audace, ma vera: “Ama e fa’ ciò che
vuoi”. Se abbiamo il vero amore di Cristo crocifisso, facendo quanto ci dice
questo amore saremo sempre sulla retta strada, in comunione con Colui che
è l’Amore. E così comprendiamo che seguire Cristo è realizzare noi stessi,
poiché in tal modo diventiamo immagine di Dio e realizziamo pienamente
la nostra vocazione personale» (30 giugno 2013).
Fra i richiami al passato, fu particolare quello relativo a una delle frasi
che più avevano colpito negli ultimi discorsi di Benedetto da Pontefice: la
“salita sul monte”. Chiarì il Papa emerito: «Credere è uscire dalla pianura di
ogni giorno, da tutte queste cose che ci preoccupano e che oscurano il
nostro cuore, salire sul monte come Cristo è salito sul monte per pregare,
per essere col Padre, lasciando cadere tutti questi pensieri che distruggono
la nostra anima» (6 ottobre 2013). E in seguito esplicitò ugualmente il senso
del cammino a ritroso: «Anche scendere fa parte della vocazione cristiana.
Dobbiamo salire, ma dobbiamo anche sempre di nuovo avere l’umiltà, la
disponibilità a scendere nella valle della quotidianità, delle nostre
occupazioni di ogni giorno. Proprio in questa discesa siamo sulla strada di
Cristo, il quale, prima di aprire la strada in alto, è sceso dalla gloria di Dio,
è sceso fino alla croce» (16 marzo 2014).
Fra le riflessioni più articolate ci fu quella del 17 novembre 2013,
partendo dal “discorso escatologico” del brano evangelico di Luca 21, dove
Gesù «non ci offre un ritratto dell’ultimo periodo della storia, ma ci indica
alcuni elementi di questa ultima fase della storia del mondo. Se
consideriamo con un po’ di curiosità che cosa ci dice, c’è una sorpresa,
poiché non appare l’elemento fondamentale della moderna filosofia della
storia, che ha come concetto fondamentale il “progresso”. Secondo questa
visione, la storia è ascendente: ci sono aberrazioni, piccole ricadute, ma
tutto sommato alla fine si arriva alla società fraterna e giusta, a un mondo
migliore, a una specie di paradiso terrestre. Gesù invece parla di catastrofi
naturali, di violenza crescente, di guerre e anarchia, di persecuzioni e di un
raffreddarsi della fede, indicandoci sostanzialmente che la storia dell’uomo
rimane identica sino alla fine. Perciò è importante prendere sul serio quanto
Lui ci dice su come dobbiamo rispondere».
Tre gli elementi fondamentali indicati dal Papa emerito: «Innanzitutto la
sobrietà: non credere a fantasticherie, a messianismi sbagliati, ma lavorare
con pazienza e umiltà. Il lavoro è il compito dell’uomo, e non soltanto dopo
il peccato, come pensano alcuni, poiché sin da prima del peccato il Signore
incaricò l’uomo di dominare la terra, non nel senso di un abuso della
creazione, ma per dare alla creazione la perfezione voluta dal Creatore.
Lavoro implica quindi fede nella volontà di Dio e fiducia nella nostra
capacità di trasformare in positivo la terra. In secondo luogo il coraggio:
dinanzi all’odio contro la fede, la luce di Dio è più forte delle oscurità
umane. Il Dio Creatore è anche il Salvatore e non si lascia sfuggire la storia
dalle mani, poiché, anche se il potere è nelle mani della menzogna, il potere
di Dio è più forte. Infine la perseveranza: anche dopo la conversione, resta
la fatica del cammino, che occorre superare continuando a procedere sulla
strada buona».
E forse non per caso, l’ultima omelia che propose il 2 aprile 2017,
quando già ormai aveva difficoltà a parlare ad alta voce, si incentrò sul tema
della vita eterna: «L’uomo sembra fatto per vivere sempre, vuole vivere
sempre, nello stesso tempo vive in una struttura del mondo dove morire è
essenziale. Cosa dire? Il Signore, nel dialogo con Marta (Giovanni 11,21-
27), risponde a queste cose facendo un nuovo passo nella realtà umana, e
soltanto così si può superare la contraddizione. Gesù dice a Marta: “Tuo
fratello risorgerà”; e lei risponde: “So che risorgerà nella risurrezione
dell’ultimo giorno”. Ma il Signore replica: “Io sono la risurrezione e la vita;
e chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Lui ci dice, cioè, che non si tratta
di una vita che ricomincerà in un futuro indefinito, poiché non sappiamo
quando giungerà questo “ultimo giorno”. No, è una vita che comincia sin da
ora ed è indistruttibile, poiché siamo tenuti in mano da Lui e perciò non
possiamo cadere nella morte».

Un fiducioso “a Dio”
In tutti questi anni, le giornate sono sostanzialmente trascorse secondo una
scansione stabilizzata dalla consuetudine, cominciando verso le 6.30,
quando Benedetto si alzava. Negli ultimi tempi, a motivo della sua
difficoltà nei movimenti, veniva aiutato a lavarsi e a vestirsi da un religioso
della comunità dei Fatebenefratelli in attività presso la Farmacia vaticana, e
ugualmente alla sera un altro confratello lo assisteva nella preparazione per
dormire.
Alle 7.30 celebrava la santa Messa (negli anni recenti l’ho presieduta io
e lui concelebrava da seduto), seguita dalla recita delle Lodi e dalla prima
colazione. Durante la mattinata, il Papa emerito leggeva, curava la
corrispondenza e scriveva o dettava appunti, con la collaborazione di suor
Birgit. Intorno alle 12.45, recitavamo insieme l’Ufficio delle letture e l’Ora
media. Dopo il pranzo alle 13.15, un breve giro sul terrazzo e la siesta.
Nel pomeriggio, c’era la passeggiata nei Giardini vaticani con la recita
del Rosario nei pressi della Grotta di Lourdes (con orario variabile in
relazione alle stagioni), aggiungendo, in alcuni venerdì, il rito della Via
Crucis dinanzi alle belle raffigurazioni in cappella. Quando non è più
riuscito a camminare bene, le passeggiate le ha fatte in sedia a rotelle, e
negli ultimi anni ha utilizzato quella elettrica che a suo tempo aveva donato
al fratello Georg.
Al rientro in Monastero, la recita dei Vespri e qualche ulteriore
opportunità di lettura, di scrittura o di incontro con ospiti. Più recentemente,
preferiva che gli venissero letti ad alta voce articoli di giornale o libri: di
solito alternava una narrazione biografica e un saggio teologico (fra i testi
che Benedetto apprezzò tanto ci furono le memorie del cardinale George
Pell sul processo e la carcerazione in Australia).
Una volta la settimana gli veniva praticato un massaggio posturale e due
volte la settimana svolgeva gli esercizi di ginnastica respiratoria, mentre
negli altri giorni utilizzava una macchinetta che lo aiutava a eliminare il
muco bronchiale. La situazione di salute è stata tenuta costantemente sotto
controllo grazie all’assidua presenza del dottor Patrizio Polisca, il medico
personale che nel corso degli anni è divenuto un amico di fiducia,
coadiuvato da altri competenti specialisti e da alcuni fidati infermieri.
La cena era fissata per le 19.30, seguita dalla visione del telegiornale.
Quindi c’era la recita della Compieta, anche con il memento dei sacerdoti
dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera defunti negli ultimi cinquant’anni
(ricordava tanti di loro e me li descriveva con una lucidità mentale rimasta
intatta praticamente sino alla morte), e infine il riposo notturno dalle 21 in
poi.
Di domenica e nelle festività liturgiche c’era un programma un po’
diversificato, con la Messa alle 8.30 e la recita dell’Angelus alle 12,
seguendo in televisione Papa Francesco. Il pomeriggio era dedicato
all’attività culturale: nei primi tempi ascoltavamo opere liriche e concerti in
cd, mentre negli ultimi anni li abbiamo visti in dvd. Al termine, una delle
Memores leggeva ad alta voce un libro, e una delle scelte predilette da
Benedetto era la serie di racconti di Giovannino Guareschi su don Camillo e
Peppone.
Durante la settimana la dieta era la classica mediterranea: prima
colazione con un thè al limone, accompagnato da pane con marmellata e
uno yogurt; pranzo e cena con alternanza di primi di pasta o di riso, secondi
di pesce o carne bianca (più raramente un filetto), un contorno di verdure o
patate cucinate in vario modo, frutta e qualche volta un dolce. Soltanto la
cena della domenica era in stile bavarese, un po’ più rustica, con pane nero,
salsicce e salumi, talvolta il polpettone leberkäse e, ovviamente, la birra
(ma lui continuava a bere la sua consueta limonata, “macchiata” con uno
schizzo di birra). E devo dire che non ha mai avuto problemi di digestione!
La sua preparazione alla morte era cominciata da tempo, con serietà,
come confidò nel 2016 nelle ultime conversazioni con Peter Seewald: «Pur
con tutta la fiducia che ho nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi,
più si avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte è la
percezione di quante cose sbagliate si sono compiute. Perciò uno si sente
oppresso dal peso della colpa, sebbene naturalmente la fiducia di fondo non
venga mai meno».
Più di recente, nel 2022, affermò pubblicamente: «Ben presto mi troverò
di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro
alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono
comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non
è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già
patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al
contempo mio avvocato. In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara
la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di
più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare
con fiducia la porta oscura della morte».
Certamente non era angosciato dalla questione, anzi viveva questa attesa
dell’ultimo momento pregustando in qualche modo quanto la fede consente
di sperare, come scrisse in alcune lettere a vecchi amici: «La prossima volta
ci incontreremo dove potremo dirci tutto ciò che a causa dell’età oggi non
possiamo dirci di persona».
Il 24 dicembre 2022, nella cappella del “Mater Ecclesiae”, ho presieduto
la consueta Messa del mattino e il Papa emerito ha concelebrato all’altare,
seduto sulla sedia a rotelle. Alle 18.30 della sera e alle 9 di domenica 25
dicembre abbiamo celebrato nel medesimo modo le Messe di Natale,
sempre alla presenza anche delle quattro Memores e di suor Birgit. Quindi
abbiamo assistito alla benedizione “Urbi et Orbi” di Papa Francesco in
televisione e abbiamo sobriamente festeggiato la ricorrenza a pranzo.
In quelle ore, la salute del Papa emerito era sufficientemente buona,
cosicché confermai il viaggio di qualche giorno per andare a salutare i miei
familiari in Germania. Sono partito in aereo nel pomeriggio di martedì 27,
ma all’alba successiva sono stato raggiunto da una telefonata che dal
Monastero mi avvertiva dell’improvviso aggravamento delle sue
condizioni, dovuto a una crisi respiratoria. Ho subito parlato con il dottor
Polisca, che intanto era intervenuto con altri sanitari stabilizzando la
situazione, e quindi sono rientrato a Roma nella medesima mattinata.
Nel frattempo era stato avvertito Papa Francesco, il quale, al termine
dell’Udienza generale di quel mercoledì, chiese «una preghiera speciale per
il Papa emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa.
Ricordarlo – è molto ammalato – chiedendo al Signore che lo consoli, e lo
sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, sino alla fine».
Subito dopo il Pontefice si recò al capezzale di Benedetto, pregò e gli diede
la sua benedizione. Intanto la notizia aveva cominciato a diffondersi a
macchia d’olio in tutto il mondo.
Nel pomeriggio il Papa emerito aveva un grande affanno, ma era
lucidissimo. Gli proposi di amministrargli l’unzione degli infermi, e lui
accettò immediatamente. L’ultimo incontro con il suo confessore, un
penitenziere di San Pietro, era stato appena qualche giorno prima.
Da quel momento noi membri della famiglia pontificia cominciammo ad
alternarci costantemente nella sua camera da letto, al primo piano del
Monastero, insieme con gli infermieri e i medici che, fra giovedì 29 e
venerdì 30, constatarono un leggero miglioramento, anche se l’età avanzata
faceva prevedere il lento spegnimento delle sue condizioni vitali.
Non è mai stato ipotizzato un ricovero in ospedale, poiché tutto ciò che
era necessario l’avevamo già disponibile in Monastero: un medico
rianimatore, le attrezzature per la fleboclisi, il respiratore con l’ossigeno,
l’assistenza sanitaria costante. Né, sono convinto, Benedetto lo avrebbe
voluto, senza nemmeno la necessità di chiederglielo.
Intorno alle 3 del mattino di sabato 31 dicembre, memoria liturgica di
Papa san Silvestro, l’infermiere che vigilava vide Benedetto XVI rivolgere
lo sguardo al Crocifisso posto sulla parete di fronte al suo letto e lo udì
pronunciare in italiano, con un filo di voce, ma in modo ben distinguibile:
«Signore, ti amo!». Sono state le sue ultime parole comprensibili, perché
poi non è stato più in grado di esprimersi. Quando provavo a fargli qualche
domanda, la comprendeva e cercava di rispondere a cenni. Ho pregato ad
alta voce le Lodi vicino a lui, finché, intorno alle 9, è entrato in agonia.
Abbiamo cominciato a recitare le litanie e le preghiere di
accompagnamento di un morente, e gli ho impartito l’indulgenza plenaria in
punto di morte. Il suo cuore si è fermato alle 9.34. In quel momento
eravamo presenti tutti noi membri della famiglia pontificia, insieme con il
dottor Polisca e gli altri sanitari. Dopo l’ultimo respiro la preghiera finale
l’ho pronunciata in tedesco e gli ho dato la benedizione.
Immediatamente ho telefonato al cellulare a Papa Francesco, che
nell’arco di una decina di minuti è giunto in Monastero, si è seduto accanto
alla salma, ha fatto un segno di benedizione e si è soffermato in preghiera.
Con lui abbiamo concordato come dare la notizia attraverso la Sala stampa
vaticana e le procedure per l’esposizione in San Pietro, i funerali e la
sepoltura.
La sera stessa, nella celebrazione del “Te Deum”, ha proposto una sentita
testimonianza: «Con commozione ricordiamo la sua persona così nobile,
così gentile. E sentiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per
averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per tutto il bene che
ha compiuto, e soprattutto per la sua testimonianza di fede e di preghiera,
specialmente in questi ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore
e la forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il bene della
Chiesa».
Nella cappella del “Mater Ecclesiae” abbiamo allestito la camera ardente
e alle ore 20 del 31 dicembre ho celebrato la Messa di suffragio. Per tutta la
notte ci siamo poi alternati nella preghiera, in modo che fosse presente
sempre qualcuno di noi della famiglia pontificia. La mattina del 1° gennaio
2023 ho celebrato una nuova Messa e al termine hanno cominciato a
giungere per un ultimo saluto le personalità vaticane e altre persone.
All’alba del 2 gennaio ho celebrato la Messa e poi il mesto corteo della
ristretta famiglia pontificia ha accompagnato a piedi il furgone con il feretro
verso la basilica di San Pietro, all’interno della quale il corpo è stato
esposto alla devozione dei fedeli fino al 4. Nel nostro cuore e negli occhi,
tanta tristezza; ma nella mente e nel ricordo la gratitudine per il suo
esempio di grande fede e il suo insegnamento e la gioia per aver potuto
vivere accanto a lui per così tanti anni.
Giovedì 5 gennaio, Papa Francesco ha presieduto la solenne Messa
esequiale al cui termine il Papa emerito è stato seppellito all’interno delle
Grotte vaticane, nel luogo dove in precedenza erano stati collocati Giovanni
XXIII (dal 1963 al 2000) e Giovanni Paolo II (dal 2005 al 2011), prima di
essere traslati nella Basilica vaticana. All’interno della cassa, Benedetto è
stato seppellito con i suoi paramenti rossi che aveva indossato durante la
Giornata mondiale della gioventù nel 2008 in Australia e nella Domenica
delle palme del 2009, con la croce episcopale utilizzata nel tempo da Papa
emerito, l’anello raffigurante simboli benedettini, il suo rosario e un
crocifisso che è stato il mio dono per la sepoltura.
Qualcuno mi ha chiesto che cosa ne avrei fatto, dopo la morte di
Benedetto XVI, delle sue carte. In realtà, questo per me non rappresenta un
problema, poiché ho ricevuto da lui precise istruzioni, con indicazioni di
consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua
biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al
Concilio e alla corrispondenza. Per quanto riguarda poi gli altri scritti, la
loro sorte è segnata: «I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti.
Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie», ha esplicitato nero su
bianco.
Sono stato anche interpellato su quale sia il mio pensiero riguardo a una
eventuale causa di beatificazione e canonizzazione. Personalmente non ho
dubbi sulla sua santità, però, ben conoscendo anche la sensibilità
espressami privatamente da Benedetto XVI, non mi permetterò di fare alcun
passo per accelerare un processo canonico. Il mio suggerimento sarà
piuttosto di lasciar sedimentare tutte le questioni sorte in tanti anni di vita, e
particolarmente nel periodo di pontificato e di emeritato, in modo che il
giudizio sulle virtù eroiche di Joseph Ratzinger – che io reputo indiscutibili
– possa essere totalmente cristallino e ampiamente dimostrato e condiviso.
Le sue ultime volontà le racchiuse in due scritti, custoditi in una busta
che tenne sempre in un cassetto della scrivania. Le annotazioni relative ad
alcuni lasciti e doni personali, per il cui adempimento ho il compito di
esecutore testamentario, sono state via via aggiornate nel corso degli anni,
fino alla più recente aggiunta del 2021.
Il sobrio Testamento spirituale, invece, lo cesellò nella madrelingua
tedesca durante i primi mesi di pontificato, fino alla stesura definitiva
manoscritta e firmata il 29 agosto 2006 nel Palazzo apostolico di Castel
Gandolfo, senza più modifiche in seguito. Questo è il testo integrale, nella
traduzione italiana:

«Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho
percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare.
Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono,
che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di
confusione, rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e
donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo
e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la
mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.
Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo
difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno
preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei
giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a
credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie
acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia
madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare
abbastanza. Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e
con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua
vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il
cammino: senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non
avrei potuto trovare la via giusta.
Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha
sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino;
per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua
bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi
bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore
stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre
di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra
resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere
dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto
sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma
e in Italia che è diventata la mia seconda patria.
A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore
perdono.
Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli
che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella
fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza – le scienze
naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra
Scrittura) dall’altro – sia in grado di offrire risultati inconfutabili in
contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze
naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano
svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza,
ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza;
così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la
fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue
affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai sessant’anni che
accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze
bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi
che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la
generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista
(Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal
groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza
della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa,
con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.
Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante
tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti
quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera».
Postfazione

Nessuno più del suo fedele segretario particolare, l’arcivescovo Georg


Gänswein, ha conosciuto e sostenuto Benedetto XVI durante tutto il
pontificato e il tempo dell’emeritato. L’ininterrotta condivisione della vita
in Vaticano, dapprima nel Palazzo apostolico e successivamente nel
monastero “Mater Ecclesiae”, gli ha consentito di entrare in piena sintonia
con il pensiero e con l’azione di uno dei più colti e teologicamente preparati
Pontefici nella storia della Chiesa.
Joseph Ratzinger è stato un uomo e un Papa non pienamente compreso
anche per queste sue peculiari doti intellettuali e spirituali. Qualità che
disturbano l’instabile equilibrio di una società troppo sbilanciata
sull’edonismo e sull’effimero, speranzosa soltanto di «trovare un senso a
questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha» (con la felice
espressione del cantautore Vasco Rossi), o compiaciuta di essere post-
moderna e liquida, dove cioè «il cambiamento è l’unica cosa permanente e
l’incertezza è l’unica certezza» (come recita l’aforisma che sintetizza la
prospettiva del sociologo Zygmunt Bauman).
Quotidianamente a contatto, nei miei lunghi anni da vaticanista, con il
Magistero pontificio dapprima da lui ispirato, sotto san Giovanni Paolo II, e
successivamente direttamente enunciato come Benedetto XVI, ho potuto
rendermi personalmente conto di quanto l’intera esistenza di Ratzinger sia
stata connotata da una coerenza estrema.
Di fatto, l’unica sua preoccupazione è stata quella di incarnare in ogni
tappa del ministero la piena testimonianza della Verità. E proprio questo ha
stabilito il denominatore comune fra lui e monsignor Gänswein, come
evidenziato anche dalla concordanza nei loro motti episcopali:
rispettivamente, «Cooperatores veritatis» («Collaboratori della verità») e
«Testimonium perhibere veritati» («Dare testimonianza alla verità»).
Verità con la maiuscola, poiché Ratzinger-Benedetto XVI ha inteso
proporre e riattualizzare la fede di sempre; ma anche con la minuscola, in
quanto da queste pagine scaturisce tutta la freschezza della quotidianità di
un personaggio del quale si sono spesso offerte narrazioni inappropriate,
forse perché dotato di così tante sfaccettature da non poter essere racchiuso
in una sola definizione.
Il saggista Roberto Rusconi ha suggerito che Ratzinger abbia come
vissuto diverse vite: «La prima, in cui è divenuto un teologo accademico; la
seconda, in cui si è dimostrato l’inflessibile cardinale prefetto della
Congregazione per la Dottrina della fede; la terza, durante la quale è asceso
al vertice della Chiesa universale, per essere stato eletto Papa assumendo il
nome di Benedetto XVI. Peraltro, avendo egli accettato di essere assurto
anche a “Papa emerito” dopo la rinuncia al pontificato, continuando a
indossare la veste talare bianca, a lui si è aperto una sorta di quarto tempo».
L’arcivescovo Gänswein evidenzia invece qui che non si tratta di tante vite,
ma piuttosto di diverse fasi di un’unica esistenza, anche se il periodo su cui
questo libro si incentra è quello che lui ha potuto conoscere in prima
persona, a partire cioè dalla presenza in Vaticano.
Fondandomi sulla squisita disponibilità e sulla totale fiducia di don
Georg, una sola garanzia gli ho chiesto nel corso di questo lavoro: di essere
totalmente sincero; di non “indorare la pillola”, per dirla con parole più
sbrigative. Il rischio che ho più volte riscontrato in simili testi, a cavallo tra
la biografia e l’autobiografia, è infatti che l’affetto del cuore annebbi il
rigore della memoria, rendendo un pessimo servizio sia al protagonista sia
all’autore. L’indimenticabile prefetto della Dottrina della fede, il Pontefice
che ha indelebilmente legato il proprio nome con la spontanea rinuncia al
ministero petrino non ha bisogno di ciò.
È una narrazione in prima persona, non un libro-intervista, per una
precisa scelta. Avendone realizzato diversi, so bene che in quest’ultimo caso
il giornalista conduce – e qualche volta addirittura forza in maniera
determinante – il tono e il contenuto del dialogo. Nel primo caso, invece, si
assume unicamente il compito di accompagnare l’autore nell’andare più a
fondo in ciò che già desidera comunicare, riportando alla luce quelle
considerazioni che nel corso di decine di anni si sono via via cristallizzate
nella sua mente e che hanno reso di fatto monsignor Gänswein il più
autorevole testimone ed esegeta di un uomo di fede, di un sacerdote
secondo il cuore di Dio, di un protagonista della storia dei nostri difficili ed
entusiasmanti tempi. Ed è questa l’essenza delle pagine di questo libro, sul
cui risultato l’unico giudice sarà ciascun lettore.
Un’ultima annotazione. Quando scrissi nel 2010, con il postulatore
monsignor Sławomir Oder, la biografia di Giovanni Paolo II Perché è
santo, ebbi l’opportunità di consultare le testimonianze riservate offerte da
autorevoli personalità ecclesiastiche nel suo processo di canonizzazione.
Uno dei più amati figli spirituali di padre Pio da Pietrelcina raccontò una
profezia che, negli anni Sessanta, aveva ascoltato da lui riguardo al futuro
della Chiesa. Rievocando indirettamente l’incontro che qualche anno prima
aveva avuto a San Giovanni Rotondo con Karol Wojtyła, il frate
stimmatizzato gli descrisse un Papa polacco che sarebbe stato «un grande
pescatore di uomini», seguìto da un Pontefice «che avrebbe ampiamente
confermato i fratelli nella fede». E poi in un sussurro soggiunse che
ambedue un giorno sarebbero stati proclamati santi.

Saverio Gaeta
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www.edizpiemme.it

Nient’altro che la verità


di Georg Gänswein
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Published by arrangement with The Italian Literary Agency
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788858530603

COPERTINA || FOTO: © ALESSIA GIULIANI/CATHOLIC PRESS | MARZIA BERNASCONI | ART DIRECTOR: CECILIA
FLEGENHEIMER
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Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Prologo
1. Il “predestinato” fuori dagli schemi
Una perenne provvisorietà
Fiducioso nella Provvidenza
Il “profeta giusto”
Un binomio vincente
Cane da guardia o promotore?
2. Il filosofo e il teologo
Due anime in sintonia
Un appuntamento settimanale
Le sfide del prefetto
Come un direttore d’orchestra
Le certezze della fede
3. La caduta della scure
La campagna elettorale “a rovescio”
La sfida lanciata a Subiaco
Una benedizione dal paradiso
Gli effimeri pronostici
Quel maglione nero
Nella vigna del Signore
La lettera di Schönborn
Il diario e altre polemiche
4. La famiglia (pontificia e non)
Le radici nella Baviera
Con l’Introduzione sotto il braccio
Una proroga illimitata
La quotidianità del servizio
Nell’Appartamento del Papa
Con tre aiutanti di camera
Gli altri membri della famiglia
5. Le pietre d’inciampo del complesso governo
Decisioni a 360 gradi
Rispettoso delle persone
La scelta del “numero due”
Fra lo ior e la sanità cattolica
L’insospettabile tradimento
Un insieme di miserie umane
Il mistero di Emanuela
6. Un Magistero a tutto tondo
Un pontificato cristocentrico
L’evangelico servizio petrino
Il ministero dell’annuncio
L’amore al primo posto
Nel segno della speranza
Secondo il cuore di Dio
Il sacerdozio non è un “job”
Il dialogo al servizio della pace
Liberi di vivere la propria fede
Tra politica e cultura
Le citazioni senza il contesto
Polemiche e incomprensioni
Una clemenza malintesa
7. La storica rinuncia che ha segnato un’epoca
I motivi della decisione
In segreto a piccoli passi
Il sorprendente annuncio
Le antiche radici dell’idea
Gli incompresi segni premonitori
Il congedo dal Palazzo
L’uscita di scena
8. Il rapporto fra i due Papi
Una laboriosa telefonata
Dall’Appartamento a Santa Marta
L’enciclica e l’intervista
Il “pasticciaccio” di Sarah
Le spiegazioni di Benedetto
Il prefetto dimezzato
9. Nel Monastero il silenzio operoso
Il ritmo della preghiera
Una sequenza di indizi infondati
La famiglia al centro dello scontro
La lettera “sbianchettata”
La pacificazione interrotta
Da sempre contro ogni abuso
Accuse infondate da Monaco
“Profezie” per i nostri tempi
La catechesi in famiglia
Un fiducioso “a Dio”
Postfazione
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