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Indice
Prefazione
O pranzo d’ ’oo Sciabbàdde
A partire dalla tavola
Cibo, cultura, religione
Tavola o altare? Il regime alimentare dell’uomo nella Bibbia
ebraica
L’ospite (in)atteso
«Per distinguere il puro dall’impuro». Mangiare cosa, mangiare
come
Le regole alimentari ebraiche
«La lingua kòsher»
’O ’nvitato a pranzo
Un assaggio… bibliografico
«I piatti sono i mattoni del mondo
più piatti conosci
più è grande la tua casa
se ne perdi qualcuno
è come una crepa sul muro della tua stessa casa».
Allan Bay1

«Ogni cucina ha il suo odore.


Ogni cucina prende l’odore di chi la usa».
Jenny Bassani Liscia

«Benedetto Colui dei cui beni abbiamo mangiato


e per la cui grande bontà viviamo!»
Benedizione ebraica

1. Allan BAY, Le ricette degli altri, Feltrinelli, Milano, 2005, p.8.


Prefazione

In testa a queste semiserie note d’introduzione, mi preme far sapere che


sono un vecchio ebreo trasgressivo e peccatore. Come molti ebrei italiani
della mia generazione, ho continuato per decenni a violare gagliardamente
una larga parte dei 613 comandamenti che il grande Maimonide raccolse e
ordinò nel Sèfer HaMizvòt. E anche ai precetti alimentari della nostra
tradizione ho riservato per lungo tempo un rispetto tiepidissimo. Ora
tuttavia, varcata da qualche anno la soglia degli ottanta, devo laicamente
riconoscere che l’ossequio verso alcuni di quei precetti sta recando
giovamento – miracoli della senescenza? – al mio equilibrio fisico e
mentale.
Ciò detto, sono ben consapevole che l’origine della normativa ebraica circa
la kashrùt (che significa “adeguatezza a una fruizione sicura”) si perde nelle
tenebre dell’antichità. Le regole alimentari trasmesse dalla Torah, delle
quali la kashrùt rappresenta la sostanza, sono senza dubbio tradizioni
remotissime. Passate oralmente di padre in figlio (ma soprattutto,
immagino, di madre in figlia), esse confluirono e trovarono una chiara
codificazione nel Talmud babilonese (primi secoli dell’era volgare), per poi
trascorrere di qui, molto più tardi, nello Shulchan Aruch (“La Tavola
Apparecchiata”): il più autorevole testo liturgico e giuridico dell’ebraismo
ortodosso, compilato nella seconda metà del XVI secolo da Rav Yosef
Karo.
Attraverso la riproposizione esegetica e la riflessione attorno a questi
documenti fondativi, generazioni successive di rabbini sono venute
elaborando un sistema di norme minuzioso e sofisticato, teso a
regolamentare con grande scrupolo il rapporto tra gli ebrei e il cibo. Il
concetto di fondo è costituito dalla separazione tra alimenti fruibili (kashèr)
e quelli non fruibili.
Le carni di talune specie di bestiame, come i maiali, non sono e non
potranno mai essere kashèr, mentre per altri tipi di animali, come i bovini e
i polli, si richiede che siano macellati secondo rigide, inderogabili
procedure, e che vengano controllati con attenzione per stabilire le loro
provenienze e la loro conformità a stringenti requisiti di fruibilità. Si esige
altresì che le carni kashèr siano tenute separate da alimenti targati come
“latte”, nel cui novero figurano con significativo rilievo i formaggi. Oltre
agli alimenti classificati rispettivamente come “carne” e come “latte”, la
normativa della kashrùt contempla una terza categoria, quella delle vivande
definite parvé, o neutrali, il cui consumo è consentito in combinazione con
cibi appartenenti sia all’una sia all’altra delle categorie dianzi citate.
I criteri che ispirano alcune di queste classificazioni possono sembrare
bizzarri e arbitrari. I pesci e le uova sono, chissà perché?, parvé. In nessun
caso gli insetti sono kashèr e tuttavia il miele, che è il prodotto di un insetto,
viene considerato ora parvé ora kashèr. Per quanto concerne il latte, perché
lo si classifichi kashèr occorre che se ne conosca in termini certificati la
provenienza, nel senso che deve essere stato con sicurezza munto da
animali che gli ebrei osservanti considerano fruibili al consumo.
Dietro tali e altre simili distinzioni, spesso peregrine e apparentemente
estrose, si stende lo sconfinato retroterra di diatribe nelle quali stuoli di
rabbini sono andati confrontandosi e spesso scontrandosi con superciliosa
determinazione nel corso di svariati secoli.
Quanti sono in tutta Italia, tra ebrei e non-ebrei, coloro che riescono a
orientarsi con disinvoltura in questo ostico paesaggio? A voler essere
ottimisti, i non-ebrei si contano sulle dita di una mano sola, e si dà il caso
che uno di costoro sia un mio caro amico. Sto parlando di Gianpaolo
Anderlini, cioè proprio di colui che si è dato la pena di scrivere il presente
libro, nel quale egli disputa con spirito sottile, profonda erudizione e
pazienza infinita attorno alla Bibbia e alle tradizioni alimentari che essa
veicola e la cui osservanza essa continua a ispirare.
Il testo di Anderlini è davvero una miniera preziosa, colma di notizie poco
frequentate. Solamente un biblista di lungo corso poteva radunare su questa
specifica tematica una messe tanto doviziosa di passi scritturali,
individuando per ciascuno di essi l’interpretazione più congrua rispetto a
tutto ciò che direttamente attiene o sta attorno alla kashrùt.
Grazie a una capacità di analisi ampia e competente, l’amico Gianpaolo
studia ogni risvolto, anche il più recondito, della cultura ebraica relativa
all’alimentazione, osservandone gli aspetti di maggiore rilievo, dai criteri di
selezione delle vivande kashèr alle modalità della loro conservazione, alle
loro preparazioni, alle possibilità/difficoltà del loro combinarsi, alle loro
virtù nutritive.
Sembra pertanto difficilissimo cogliere, nelle pagine di un libro cosiffatto,
la presenza di una sia pur minima lacuna. Ebbene, io mi picco di averne
trovata una, che qui di seguito volentieri mi permetto di colmare, offrendola
gratuitamente ad Anderlini quale ‘paragrafo aggiuntivo’ al suo testo: un
paragrafo che mi accingo a comporre nel segno di un adeguamento alle
esigenze, reali o presunte, della contemporaneità. La chiave di lettura che
oso proporre all’amico Gianpaolo è dunque quella di una sorta di
‘aggiornamento’: una “strategia dello spirito” la cui necessità fa oggi
capolino presso tutte le nostre vetuste tradizioni religiose, non sempre con
risultati esaltanti, e che nella fattispecie proverò a mettere in opera con un
approccio che sembrerà qua e là rifarsi ad alcuni aspetti del talmudico
pilpul.
Che titolo vogliamo dare a questo mio ‘paragrafo aggiuntivo’? Propongo di
chiamarlo “kashrùt e Coca-Cola”.
È noto che gli ebrei ortodossi, quando hanno sete, sogliono spegnerla né
più né meno come fanno tutti gli altri esseri umani, ossia concedendosi il
contenuto di una lattina di Coca-Cola. Ma che cosa c’è davvero dentro
quella lattina? Quali sono gli ingredienti di cui si compone la bevanda? Si
dice che a saperlo vi siano due dirigenti aziendali di altissimo livello, ma
che oltre a loro non vi sia alcun altro essere umano, giacché Coca-Cola
pretende che la sua “formula” sia e debba rimanere per sempre uno dei
segreti più impenetrabili del Pianeta.
Non è ben chiaro, allora, chi possa mai dare al nostro ideale ebreo
ortodosso la certezza che il contenuto della sua lattina sia kashèr. L’unico
che potrebbe dargli tale certezza sarebbe un rabbino al quale, per avventura,
Coca-Cola concedesse la facoltà di esercitare una supervisione sui propri
processi di produzione: ma si tratta di un’ipotesi delirante, tant’è che
l’etichetta della lattina di cui stiamo parlando non offre, a proposito di
kashrùt, alcuna evidenza scritta. Le molte domande che la questione solleva
la rendono, come ben si vede, avvolta in un alone di mistero, che non
manca di conferirle un certo fascino.
Circola da tempo una leggenda metropolitana secondo la quale tra Coca-
Cola e un’eminente autorità rabbinica disponibile a certificare che la
bevanda è kashèr, si sarebbe trovato il modo di aggirare ogni possibile
impedimento grazie a uno stratagemma ingegnoso: Coca-Cola avrebbe
sottoposto all’analitico scrutinio del rabbino un elenco molto lungo di
ingredienti, soltanto alcuni dei quali sono realmente contenuti nella
bevanda; dopo avere esaminato con scrupolo e da cima a fondo l’intera
lista, l’autorevole rabbino avrebbe accertato la totale conformità di tutti gli
ingredienti elencati alle regole alimentari ebraiche; e in tal modo Coca-Cola
si sarebbe trovata nella felice condizione di proseguire indisturbata nella
normale attività produttiva, con la tranquilla coscienza di poter annoverare
tra i propri clienti anche quegli ebrei che esigono di sorbire bevande kashèr
e soltanto kashèr.
La leggenda che ho sin qui rammentato presenta, per più d’un verso, tratti
di verosimiglianza. E tuttavia non mi sento – molto ebraicamente – né di
escludere che i percorsi veraci di questa vicenda siano stati in realtà di
tutt’altra natura, né di considerare chiarito una volta per sempre il
misterioso rapporto fra kashrùt e Coca-Cola. In questa chiave forzatamente
problematica e interrogativa – e con una pressante richiesta di perdono
rivolta all’amico Anderlini – prendo provvisorio congedo dal mio
“paragrafo aggiuntivo”.
Coltivo l’illusione che, grazie a esso, alcuni fra i lettori del presente libro
affrontino con letizia inedita le arsure delle prossime estati, nella
rassicurante certezza che potranno d’ora in poi placare i tormenti della sete
consumando una bevanda certificata come kashèr da un’eminente autorità
rabbinica.
Bruno Segre
O pranzo d’ ’oo Sciabbàdde2

 
 
 
 
 
Bottarga: rizzo ‘ngkrasso co’ la crosta
mongkàna3 allessa e olivi (dolci e amari)
cicorietta ‘nzalta e ovatosta
ché aliciotti co’ ‘a ‘innìvia ereno cari.
Poi bucaletti, fatti venire apposta
vivi vivi ‘n dispenza a li Chiavari
da lo compare, là, de quella posta
mia de bottega, ch ’i maneggia ‘affari.
Poi uva, frutti secchi e moscardini4.
E certo vino, ohé! … cért’acquavita,
fss…! che me ne scolai tre bicchierini!
… Café… e mai pèjo! e così s’è assopita
‘sta stimana… e ce ne destini
cent’altri Dio, se ce vorà da’ vita.
Crescenzo Del Monte
2. Crescenzo Del Monte, Sonetti giudaico-romaneschi sonetti romaneschi
prose e versioni, Giuntina, Firenze, 2007, p. 330. Il sonetto «Il pranzo del
Sabato» porta la data del 23 agosto 1925.
3. Vitella da latte.
4. Dolce casalingo.
A partire dalla tavola

Si vive per mangiare o si mangia per vivere?


Ognuno di noi, di fronte a una tavola imbandita, può riconoscersi nell’una
o nell’altra opzione, ma non può rinunciare al cibo; anzi con il cibo e con la
tavola deve confrontarsi ogni giorno della sua vita in modo consapevole o
anche inconsapevole.
Comunque ci si ponga, il cibo parla di noi, del nostro essere gli uomini che
siamo, della nostra salute, della nostra cultura, della nostra visione del
mondo, del nostro rapporto con gli altri esseri viventi e, eventualmente,
anche della nostra fede.
C’è chi sostiene che il cibo sia essenzialmente ciò che si mangia in quanto
«buono da mangiare»; chi ritiene, invece, che il cibo sia prima di tutto
qualcosa di simbolico «buono da pensare» e chi, ancora, ipotizza che sia
l’una e l’altra cosa, dando la preminenza all’uno o all’altro aspetto a
seconda dell’approccio antropologico, etnologico o sociologico seguito.
Che cos’è, allora, il cibo?
Per Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, il cibo non è il semplice nutrirsi,
per istinto biologico o compulsiva voglia, e non è solamente il prodotto
dell’arte del cucinare (ars coquinaria o arte culinaria), ma è un elemento,
legato a luoghi, sapienza antica e cultura, determinante nella definizione
dell’identità umana:
Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, poiché ciò che mangiamo è sempre
un prodotto culturale. Se accettiamo una contrapposizione concettuale tra Natura e Cultura (come
tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale), il cibo è la risultante di una serie di processi (culturali,
nel senso che introducono elementi artificiali nella naturalità delle cose) che lo trasformano da base
completamente naturale (la materia prima) a prodotto di una cultura (ciò che si mangia).5

Ci si può chiedere perché ci sia una così grande varietà di cibi (e di cucine)
nel mondo e perché un gruppo umano utilizzi un determinato cibo mentre
un altro lo rifiuta. La risposta non è univoca perché diverse possono essere
le modalità di indagine in un arco di possibilità che va dal semplice influsso
dell’ambiente al condizionamento simbolico-religioso.
Marvin Harris, ad esempio, ritiene che i fattori nutritivi siano di gran lunga
più determinanti di quelli simbolici e che la scelta, in buona parte, sia frutto
di un’attenta valutazione dell’uso corretto delle risorse:
[…] le differenze sostanziali tra le cucine del mondo si possono fare risalire ai condizionamenti
ambientali e alle diverse possibilità offerte dalle diverse zone. Per esempio, […] le cucine che
ricorrono maggiormente alla carne si accompagnano a una densità demografica relativamente bassa
e alla presenza di terre non strettamente necessarie, o inadatte, alla coltivazione. All’opposto, le
cucine che ricorrono maggiormente ai vegetali si accompagnano a un’elevata densità demografica,
con popolazioni il cui habitat e la cui tecnologia per la produzione del cibo non possono sostenere
l’allevamento di animali da carne senza ridurre la quantità di calorie e di proteine disponibili per
l’uomo. Nel caso dell’India […] la scarsa praticabilità in termini ambientali, dell’allevamento di
animali da carne supera a tal punto i vantaggi nutritivi del consumo di carne che questa finisce per
essere evitata: diventa cioè cattiva da mangiare e, pertanto,cattiva da pensare.6

Harris può essere nel vero, ma quello che emerge nel sistema alimentare
umano è la stretta e necessaria relazione tra mangiare e pensare, tra il
nutrire lo stomaco “di gruppo” e la mentalità “di gruppo”. Il cibo,
qualunque sia la modalità di scelta, si carica sempre di valenze simboliche e
culturali che danno forza e senso a un determinato regime alimentare.
Pertanto, per l’uomo il mangiare non non è solo l’atto del nutrirsi, ma è
l’insieme degli usi, dei significati, dei valori e delle procedure che i diversi
gruppi umani hanno elaborato e sedimentato, nel tempo e alle diverse
latitudini, per soddisfare le esigenze alimentari e, insieme, per determinare
l’identità personale e di gruppo da una parte, e per separare la propria
identità da quella degli altri e di altri gruppi. Diviene, come sostiene Roland
Barthes, un sistema semiologico di significazione, fondato, come ogni
sistema comunicativo, sulla distinzione saussuriana tra Langue e Parole:
La “Lingua” alimentare è costituita: 1) dalle regole d’esclusione (tabù alimentari); 2) dalle
opposizioni significanti di unità ancora da determinare (per esempio del tipo: salato/zuccherato); 3)
dalle regole d’associazione, sia simultanea (al livello di una pietanza), sia successiva (al livello di
un menu); 4) dai protocolli d’uso, che forse funzionano come una specie di retorica alimentare. Per
quanto concerne la ‘parola’ alimentare, molto ricca, essa comprende tutte le variazioni personali (o
familiari) di preparazione e di associazione (si potrebbe considerare la cucina di una famiglia,
soggiacente a un certo numero di abitudini, come un idioletto).7

Esiste, di conseguenza, un lingua (langue) alimentare con sue precise


regole, che sono in parte simili a quelle del linguaggio; regole tramandate,
di generazione in generazione, nell’uso collettivo e continuamente innovate
dalla forza creativa e comunicativa (parole) dell’individuo e del gruppo
ristretto (tradizioni famigliari e scelte personali).
Il cibo, dunque, sia che si affronti l’argomento dal punto di vista della
storia dell’alimentazione, sia che si privilegi il punto di vista della
gastronomia o, ancora, dell’antropologia culturale, è elemento decisivo
nella definizione dell’approccio dell’uomo al mondo, agli altri uomini e,
anche, a Dio (o, più in generale, allo spazio del sacro). In quanto tale, può
essere motivo d’incontro, ma può essere, come di fatto a volte avviene,
anche la causa prima di separazione e di divisione.
È motivo d’incontro come scrive Massimo Montanari:
Esattamente come il linguaggio, la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è
depositaria delle tradizioni e dell’identità di gruppo. Costituisce pertanto uno straordinario veicolo
di autorappresentazione e di comunicazione: non solo è strumento di identità culturale, ma il primo
modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui sembra più
facile – anche se solo all’apparenza – che decodificarne la lingua. Più ancora della parola, il cibo si
presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e
contaminazioni.8

È vero che il cibo può essere un ottimo mediatore culturale e che ogni
storia alimentare è, anche (e soprattutto), il racconto di incroci e di
contaminazioni, ma è anche vero che la cucina può essere il luogo più
impenetrabile del mondo, di cui si conserva gelosamente il segreto, e il cibo
il territorio che si situa oltre un confine che non si può (o che, a volte, non si
vuole) attraversare.
Il rapporto con il cibo, infatti, non è solo una scelta individuale o prassi di
gruppo dettata da fattori sia commerciali sia culturali o da precauzioni
igieniche o salutiste; il cibo, fin dai primordi, fin dal tempo dell’irruzione
del cotto e della raccolta, è dato essenziale nella storia dell’umanità e,
quando si carica di valenze identitarie o quando si fa espressione di
appartenenza religiosa, diviene, necessariamente perché non negoziabile,
linea di demarcazione e di separazione facilmente definibile e verificabile,
perché. Senza cibo, infatti, non c’è vita e la quotidiana necessità
d’alimentarsi obbliga molto spesso al confronto con gli altri, confronto dal
quale la differenza e la distanza emergono sempre.
Il modo di cibarsi è specchio di una visione del mondo e degli altri esseri
viventi (di cui ci si ciba o ci si astiene dal cibarsi), è linea che traccia il
confine che separa il sacro dal profano, il lecito dal tabù, il puro
dall’impuro, il gradevole dal disgustoso, il commestibile dal dannoso, il
cotto dal crudo, l’umano dal ferino, l’essere di un gruppo e l’essere di un
altro gruppo.
Ecco, allora, che quando cerchiamo di conoscere in profondità persone
appartenenti a una tradizione religiosa o anche culturale diversa dalla
nostra, corriamo il rischio di dovere limitare il nostro approccio a una
prossimità, superficiale o intensa, che forse deve rinunciare alla convivialità
e allo scambio reciproco attorno a una tavola imbandita. Dobbiamo, allora,
mettere in conto che un ebreo, ortodosso o semplicemente osservante, o un
musulmano, difficilmente sederà alla nostra tavola, non per un
atteggiamento di rifiuto del dialogo o per una necessità identitaria
irrinunciabile, ma per il fatto che le regole alimentari prescritte dalla
«religione» ebraica e da quella musulmana non possono essere osservate,
nello spirito e nella lettera, da chi ebreo o musulmano non è. Non solo per
ignoranza della norma, ma per l’impossibilità da parte nostra di osservare la
kashrùt9, prescritta a un ebreo, o le regole della cucina halal10, a cui si
deve attenere un musulmano.
Lasciando lo spazio dell’accoglienza alle scelte delle singole persone e alle
occasioni d’incontro e di condivisione che la vita loro offre, nelle pagine
che seguono si cercherà di partire dalla tavola imbandita per presentare
quelle che, in modo improprio, possiamo definire le “regole alimentari”
ebraiche, così come fissate dai precetti divini, contenuti nella Bibbia
ebraica, nella tradizione che li interpreta e li vive, e negli usi tramandati
dalle diverse comunità, in terra d’Israele o sparse nelle diverse diaspore. Il
tutto con lo sguardo di un osservatore che dall’esterno guarda con
l’acquolina in bocca i manicaretti di un sontuoso e succulento banchetto a
cui non è, ma a cui vorrebbe essere invitato.
***
Un altro sapore nel piatto
Sbirciando una merenda nel giardino dei Finzi Contini
Ecco come Giorgio Bassani descrive una merenda ai bordi del campo da
tennis nel giardino dei Finzi Contini:
Era stracolmo, il vassoio: di panini imburrati all’acciuga, al salmone affumicato, al caviale, al
fegato d’oca, al prosciutto di maiale; di piccoli vol-au-vents ripieni di battuto di pollo misto a
besciamella; di minuscoli buricchi11 usciti di certo dal prestigioso negozietto cascèr che la signora
Betsabea (Da Fano) conduceva da decenni in via Mazzini a delizia e gloria dell’intera cittadinanza.
E non era finita. […]
Lei, la figlia, si era a sua volta tirato dietro, giù per il sentiero che portava dalla magna domus al
tennis, un carrello con le ruote gommate, carico anche questo di caraffe, cuccume, bicchieri e tazze.
E dentro le cuccume di porcellana e di peltro era contenuto del tè, del latte, del caffè; dentro le
imperlate caraffe di cristallo di Boemia della limonata, del succo d’uva, dello Skiwasser: una
bevanda dissetante, composta d’acqua e sciroppo di lampone in parti uguali, con aggiunti una fetta
di limone e qualche chicco d’uva, che Micòl prediligeva su tutte, e di cui si mostrava
particolarmente orgogliosa.
Oh, lo Skiwasser! Nelle pause del gioco, oltre ad addentare qualche panino che sempre, non senza
ostentazione di anticonformismo religioso, sceglieva tra quelli al prosciutto di maiale, spesso Micòl
tracannava a piena gola un intero bicchiere del suo caro «beverone», incitandoci di continuo a
prenderne anche noi «in omaggio» – diceva ridendo –«al defunto Impero austro-ungarico»».12

Il vassoio e le bevande sono invitanti, ma non tutto è secondo le regole


della kashrùt ebraica.
Spero che, al termine della lettura del libro, chi vorrà rileggere questa
pagina (e altre del romanzo), possa riconoscere ciò che di quella merenda
rispetta la kashrùt e ciò che, invece, non è ammissibile sulla tavola di un
ebreo.
5. Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di una nuova gastronomia,
Einaudi, Torino, 2005, p. 32.
6. Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini
alimentari, Einaudi, Torino, 1990, p. 6.
7. Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 1966, p.29. Il
traduttore ha utilizzato «lingua» e «parola», ma sarebbe più corretto
mantenere la terminologia in uso negli studi linguistici: langue e parole.
8. Massimo Montanari, Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi,
Laterza, Bari-Roma, 2006, p. VIII.
9. Kashrùt indica le regole per definire ciò che è kashèr. Kashèr (kòsher
nella pronuncia ashkenazita) significa «adatto, idoneo» e sta a indicare le
caratteristiche che rendono un prodotto alimentare idoneo al consumo.
10. Halal in arabo significa «lecito, permesso» ed indica, in generale, ciò
che è consentito secondo la legge islamica, e, in particolare, il cibo che
rispetta le prescrizioni.
11. La ricetta delle «buricche ferraresi» è riportata in: Giuliana Ascoli
Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica, Giuntina, Firenze, 1987, p.
86. Il termine compare nella forma maschile (buricchi) e in quella
femminile (buricche); deriva, con buona probabilità, dalle burichitas degli
ebrei levantini.
12. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini (1962), in Id., Il romanzo
di Ferrara, vol. I, Mondadori, Milano 1991, p. 418-419.
Cibo, cultura, religione

«Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei» è una verità che fin dai tempi
antichi l’uomo ha compreso, ma che trova la sua formulazione definitiva
nella Fisiologia del gusto di Jean Anthelme Brillat-Savarin, opera di
fondamentale importanza per lo sviluppo della cucina francese, pubblicata
nel dicembre del 1825, due mesi prima della morte dell’autore.
Se l’uomo è ciò che mangia e se, in specifici contesti, ciò che si mangia e
come lo si mangia è determinato da rigide norme fissate dalla tradizione,
per capire il senso e il valore della vita di una persona o la forma specifica
di una cultura o gli elementi che fondano una determinata organizzazione
sociale, sarà dal cibo che si deve partire e dalle norme che, nei singoli
contesti e alle diversi latitudini, ne regolamentano la produzione e il
consumo.
Se abbandoniamo, per un attimo, il sentire globalizzante che caratterizza il
moderno approccio al cibo, il fast food, la cucina etnica e la cucina fusion, e
ci chiediamo quali sono gli elementi che determinano il pregiudizio nei
confronti di chi «non è come noi», scopriremo che ciò, che maggiormente
influisce, è legato alla cucina e agli odori che essa porta con sé. Il
meccanismo che noi applichiamo agli altri, si ritorce contro di noi quando
diventiamo, a nostra volta, gli altri. Chi, infatti, viaggiando all’estero non si
è mai stato apostrofato col classico «italiano mangiapasta» e non si è sentito
vittima del pregiudizio, con tutto ciò che porta con sé?
La genesi del pregiudizio parte da lontano, forse fin dall’origine stessa
della differenziazione delle culture (e delle rispettive colture).
Chi era, infatti, il barbaro nel mondo antico? Non solo chi non parlava la
lingua greca, e poi quella romana, ma chi non si nutriva come gli altri
uomini. Nel IV secolo dell’evo volgare, così Ammiano Marcellino
descriveva gli usi alimentari degli Unni, quelli che allora erano considerati i
barbari più barbari di tutti:
Anche se hanno lineamenti umani, sebbene deformi, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver
bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne
semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei
cavalli.13

Allo stesso modo, il pregiudizio nei confronti degli ebrei, quella


giudeofobia che poi diverrà antigiudaismo e, in tempi tragici,
antisemitismo, si fonda sulla distanza necessaria che separava e separa gli
ebrei dagli altri popoli soprattutto negli usi alimentari e nei divieti a questi
collegati. Fin dal mondo antico, ciò che identificava gli ebrei nei confronti
degli altri popoli, con cui venivano a contatto, era il divieto di cibarsi di
carne di maiale, interpretato, da chi ebreo non era, in vari modi, molti dei
quali spesso negativi e dileggiatori.
Così Diodoro Siculo riporta l’episodio della profanazione del Santuario di
Gerusalemme da parte di Antioco IV Epifane, sovrano seleucide, nel 167
a.E.V.:
Antioco, detestando la loro misantropia contro tutti i popoli, volle abolire le loro pratiche. Immolò
perciò una grande scrofa alla statua di Mosè e sull’altare che stava nel cortile all’esterno, ne versò
sopra loro il sangue, e, cucinatane la carne, ordinò che con il sugo si imbrattassero i loro libri sacri
contenenti le leggi che insegnavano ad odiare gli stranieri, e fece spegnere la lampada che
chiamano perenne e che bruciava continuamente nel tempio, e costrinse i sommi sacerdoti e gli altri
giudei a cibarsi di quelle carni.14

A questo sovvertimento della legge ebraica e al tentativo di cancellazione


della diversità necessaria del popolo di Dio, si opposero i Maccabei, che
guidarono la rivolta contro Antioco IV, lo sconfissero e lo cacciarono da
Gerusalemme. Nell’anno 165 a. E.V. il Santuario venne purificato e il culto
riprese, come si ricorda ogni anno nella festa di Chanukkà, la festa della
nuova dedicazione del Santuario.
La politica antigiudaica di Antioco IV fa del maiale, come confermato da
altre fonti storiche15, l’elemento di contaminazione più evidente e, nel
segno del disprezzo, attraversa la storia e giunge fino a noi. Si pensi a
quanto accaduto a Roma qualche giorno prima della celebrazione del 27
gennaio 2014, quando, con chiaro intento antisemita, tre pacchi, contenenti
teste di maiale, furono recapitati alla Sinagoga, all’Ambasciata israeliana e
al Museo della Storia a Trastevere, dove era in corso una mostra sulla
Memoria della Shoà. Si pensi, inoltre, spostando l’attenzione al campo
islamico che condivide con l’ebraismo il divieto di utilizzo del maiale, ai
diversi episodi, di chiara matrice xenofoba, per non dire islamofoba, che
hanno visto il tentativo di contaminare con carne di maiale quelle aree che
erano state destinate alla costruzione di moschee.
Di diversa natura, ma ugualmente significative, sono altre testimonianze
come quella, relativa ad ambito musulmano, che troviamo nei mosaici di
San Marco a Venezia. In uno di questi è istoriato il furto del corpo di San
Marco dalla chiesa di Alessandria d’Egitto, in cui il santo evangelista era
venerato. I mercanti veneziani, per coprire il misfatto, utilizzarono
l’espediente di ricoprire il corpo del santo con carne di maiale. L’iscrizione
così recita: «Marcum furantur, kanzir ii vociferantur».16
Il maiale, secondo il sentire popolare e anche dei dotti, è il tratto distintivo
che separa la «cucina» degli ebrei (e poi dei musulmani) da quella dei greci
e dei romani, prima, e dei cristiani, dopo. Ma è, d’altronde, vero che il
problema è più vasto e si estende alla netta separazione, in campo
alimentare e non solo, del popolo ebraico rispetto ai popoli in mezzo ai
quali ha vissuto e vive nelle sue diaspore.
Ariel Toaff, riferendosi al cotesto medievale, afferma:
I divieti alimentari ebraici, la dettagliata classificazione delle carni considerate corrotte e impure, la
lunga teoria di vivande depennate dalla lista dei cibi commestibili secondo i riti del giudaismo,
suscitavano nel mondo cristiano dispetto e fastidio. E tuttavia anche le preferenze culinarie degli
ebrei, la scelta di cibi considerati particolarmente ghiotti e appetitosi ai loro palati, la presenza
costante sulla loro tavola di pietanze, verso le quali non nascondevano la loro ingordigia, facevano
nascere sovente la diffidenza e il sospetto, cui si accompagnavano strampalate esegesi
teologiche.17

C’è, da parte dei cristiani, la non comprensione dell’applicazione da parte


degli ebrei dei precetti della «legge mosaica» superata, a loro dire, dalla
venuta del Messia e c’è, anche, il pregiudizio nei confronti dell’ebreo
«carnale», che non sa sottrarsi, a differenza del cristiano, ai piaceri e alle
lusinghe della «carne» e, in particolare, alle ghiottonerie della tavola.
Per controbattere il pregiudizio o per giustificare le norme alimentari che
separano l’ebreo dagli altri, la tradizione ebraica ha elaborato diverse
risposte. Una di queste ritiene che le prescrizioni alimentari contenute nella
Torà abbiano un fondamento medico e igienico e che il loro scopo sia
quello di prevenire malattie e di favorire la salute.
Rambam, acronimo di rabbi Mosè ben Maimon, conosciuto anche con il
nome di Maimonide, medico, filosofo, «teologo» ed esegeta, così giustifica
le proibizioni alimentari:
Tutto ciò che la Torà proibisce tra gli alimenti, è riprovevole. Non c’è dubbio che tra quanto ci è
vietato non vi è nulla che non sia dannoso. Gli animali proibiti sono generalmente considerati dalla
Torà come abominevoli a causa della loro sporcizia e perché si cibano di cose che suscitano
ribrezzo. È noto infatti che la Torà rifugge anche solo dalla vista di ciò che è sporco. Se la carne di
maiale fosse permessa, i mercati e le abitazioni sarebbero più sporchi della latrine […]. Le
caratteristiche degli animali permessi stanno ad indicare qual è la specie pregiata e qual è quella
scadente. La carne migliore è quella che ci è stata permessa. Su questo punto nessun medico ha dei
dubbi.18

Altri Maestri, invece, ritengono che i precetti della Torà non abbiano alcun
intento igienico in quanto finalità della Torà non è quella di fornire
all’uomo un prontuario sulla salute, ma di renderlo consapevole delle scelte
che è chiamato a compiere per essere santo lungo la via tracciata da Dio.
Altri, ancora, ritengono che la Torà abbia un intento pedagogico e che Dio,
di conseguenza, intenda insegnare all’uomo, tramite i precetti, la corretta
via di comportamento. In particolare, i divieti alimentari riguardanti animali
carnivori, predatori e rapaci, devono insegnare all’uomo che non deve
«nutrirsi» di violenza; per converso, gli animali permessi, vale a dire i
quadrupedi ruminati con l’unghia del piede divisa, sono erbivori che non
fanno uso di violenza perché non uccidono altri animali per alimentarsi.
Queste riflessioni, sia destinate a un pubblico di non ebrei sia rivolte a
coloro che intendono seguire i dettami della tradizione, sono importanti
perché ci fanno conoscere come, nel susseguirsi delle generazioni, si siano
poste le domande e si siano trovate diverse risposte, a volte contrapposte,
mai definitive. Cerchiamo, allora, facendo ricorso anche ai contributi
elaborati dalla riflessione di parte ebraica, di approfondire il ruolo delle
regole alimentari ebraiche e, più nello specifico, il significato vero e ultimo
del cibarsi.
Partiamo da una semplice domanda.
Perché gli ebrei mangiano seguendo le regole della kashrùt? Utilizziamo la risposta data dal
rabbino Elio Toaff:

Cosa vuol dire mangiare kasher?


Mangiare kasher vuol dire mangiare cibi che sono perfettamente sani. Secondo, vuol dire che un
ebreo, poiché è obbligato a mangiare in una determinata maniera, si dovrà trovare sempre con altri
ebrei perché altrimenti un’alimentazione kasher non può sussistere. E quindi è anche una forma di
aggregazione.

Cos’è la cucina kasher?


Per esempio gli animali devono essere scannati perché nella Torà c’è scritto: «Non vi ciberete di
sangue perché il sangue è la sede della vita e non mangerete l’anima insieme con la carne».

Ma perché gli ebrei non possono mangiare carne di maiale o crostacei?


Per creare una separazione. Non è come qualcuno sostiene che dal punto di vista igienico non sono
consigliabili, questo non è vero. È solo una regola: «Non mangiate queste cose perché dovete
essere separati dagli altri».

Quindi gli altri mangiano maiale e gli ebrei no.


Noi non lo mangiamo perché abbiamo una regola da seguire altrimenti non saremmo più ebrei, che
hanno capito che il loro sacerdozio verso l’umanità richiede anche l’osservanza di una regola.19

Al monte Sinàì, Dio ha dato al popolo ebraico la Torà come regola da


seguire. Questa regola impone obblighi, divieti e limitazioni, che si fanno
chiari ed evidenti nell’ambito alimentare e che richiedono una separazione
del popolo ebraico dagli altri popoli; non come contrapposizione, ma come
dinamica del confronto e della testimonianza per fare in modo che i popoli e
gli uomini che non conoscono il Dio Uno, che ha creato il mondo e vi
provvede, lo possano incontrare nell’ebreo che accetta il giogo della Torà e
anche in ogni giusto che vive sotto il sole.
Le regole alimentari, allora, divengono la chiave per leggere il rapporto che
lega il popolo ebraico a Dio e al mondo creato, nel segno della dignità
dell’uomo che è fatto di polvere della terra e di cielo, e che, come tale, può
sprofondare nella carnalità terrestre o elevarsi, anima e corpo, verso l’alto.
Questo duplice cammino possibile si realizza, in primo luogo, nel cibo.
L’uomo, infatti, può mangiare in preda alla sfrenata e sregolata brama
dell’appetito o può, seguendo i precetti dati da Dio, fare della tavola e del
cibo il luogo e il momento in cui la sua adesione a Dio si fa carne, sangue e,
anche, anima; proprio come è insegnato nel libro dei Proverbi: «Il giusto
mangia con l’intento di saziare la sua anima» (Pr 13,25).
Mangiando i cibi permessi l’uomo non indurisce il suo cuore e si rende
disponibile ad accogliere Dio e a cibarsi della parola che esce dalla sua
bocca, come è detto:
2 Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni
nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti
osservato o no i suoi comandi. 3 Egli, dunque, ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha
nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti
capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del
Signore (Dt 8, 2-3).
Quella parola che esce dalla bocca di Dio deve farsi carne e sangue,
penetrare nelle nostre membra per essere la forza del corpo e dello spirito
che rende l’uomo capace di farsi, in tutto e per tutto, Torà vivente.
È detto nel libro del profeta Ezechiele:
1 Mi disse: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla
alla casa d’Israele». 2 Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3 dicendomi: «Figlio
dell’uomo, nutri il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai e fu per
la mia bocca dolce come il miele (Ez 3, 1-2).

Chi si nutre della Torà, vive della Torà e per la Torà.


Chi mangia secondo le regole della kashrùt, si nutre, non solo
metaforicamente, della Torà, perché ogni sua azione, ogni sua parola e ogni
suo pensiero si fanno, attorno alla tavola imbandita, azione, parola e
pensiero di Torà. Non è, infatti, un caso che una delle più importanti opere,
in cui viene codificata la normativa halakicha, si chiami Shulchan ‘aruk,
«Tavola imbandita»,20 e che l’adattamento, che di essa fece in ambito
ashkenazita rabbi Moshè Isserles,21 porti il nome di Mappà, «Tovaglia».
In questo quadro d’insieme di terra e di cielo, umano e divino, carnale e
spirituale, di fame e di sazietà, si pone il senso primo della cucina ebraica, o
meglio: delle «cucine» ebraiche; limitate nella scelta dei «materiali» e nel
loro utilizzo dalle regole della kashrùt, ma estremamente creative e capaci
di cucinare, a ogni latitudine e in ogni tempo, piatti che sono il frutto di una
sapienza insieme culinaria, gastronomica, culturale, religiosa e spirituale.
La tavola, dunque, è il luogo dell’equilibrio tra tradizione e innovazione,
tra separatezza e osmosi; tra il corpo e l’anima, perché, come insegna lo
Zohar, quando si mangia si combatte quella guerra che permette all’uomo di
superare l’istinto animale di sopravvivenza, per essere, in tutto e per tutto
«essere umano», con ciò che di terra e di cielo porta dentro di sé, in modo
che ciò che è di cielo, e quindi spirituale e divino, possa prevalere e
guidarlo.
Ma la tavola oltre a essere, come la Torà, cammino interiore, è anche
territorio di confine, nel quale la distanza tra ciò che ammesso e ciò che non
è ammesso si stempera fino ad annullarsi. E questo avviene quando e dove
è in gioco la vita di un essere vivente (e non solo dell’uomo). La tradizione
ebraica insegna che è possibile andare oltre le prescrizioni della Torà, in
particolare per quanto riguarda lo shabbàt e le prescrizioni alimentari,
quando è a rischio una vita, come è detto:
Osserverete le mie leggi e i miei statuti, compiendo i quali l’uomo ha la vita. Io sono il Signore (Lv
18,5).

Il passo della Torà, come interpretato dalla tradizione, ci insegna che


l’uomo deve vivere grazie ai precetti e non morire in essi e per essi.22 Per
questo la tradizione ebraica ritiene che il salvataggio di una vita (piqqùach
ha-nèfesh) abbia il sopravvento sulle prescrizioni negative contenute nella
Torà e discute, in particolare, gli aspetti specifici legati all’osservanza dello
shabbàt. Lo stesso principio può, però, applicarsi, per analogia, a ogni caso
in cui sia in pericolo una vita per malattia o per incidente o in ogni altra
situazione di comprovata gravità.
Come per lo shabbàt, così anche per il cibo, a riguardo del quale ci viene in
soccorso un controverso episodio narrato nella Bibbia ebraica:
2 Davide si recò a Nob dal sacerdote Achimèlek. Achimèlek, turbato, andò incontro a Davide e gli
disse: «Perché sei solo e non c’è nessuno con te?» 3 Rispose Davide al sacerdote Achimèlek: «Il re
mi ha ordinato e mi ha detto: Nessuno sappia niente di questa cosa per la quale ti mando e di cui ti
ho dato incarico. Ai miei uomini ho dato appuntamento al tal posto. 4 Ora però se hai a
disposizione cinque pani, dammeli, o altra cosa che si possa trovare». 5 Il sacerdote rispose a
Davide: «Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri: se i tuoi giovani si sono almeno
astenuti dalle donne, potete mangiarne». 6 Rispose Davide al sacerdote: «Ma certo! Dalle donne ci
siamo astenuti da tre giorni. Come sempre quando mi metto in viaggio, i giovani sono mondi,
sebbene si tratti di un viaggio profano; tanto più oggi essi sono mondi». 7 Il sacerdote gli diede il
pane sacro, perché non c’era là altro pane che quello della presentazione, ritirato dalla presenza del
Signore, per essere sostituito con pane fresco nel giorno in cui si toglie. (1 Sam 21,2-7).

Il passo biblico, di cui fa uso anche rabbi Yeshùa di Nazaret (Gesù per i
cristiani) nel Vangelo,23 ha dato luogo, nell’ambito della tradizione ebraica,
a varie interpretazioni. Coloro che ritengono che si tratti dei pani di
presentazione, che erano posti per una settimana sulla tavola nel Santuario e
che, dopo la loro sostituzione, erano riservati esclusivamente ai sacerdoti,24
vedono nell’operato di Achimelek una prefigurazione del principio del
piqqùach ha-nèfesh, in quanto il sacerdote ha contravvenuto alla
prescrizione contenuta nella Torà allo scopo di evitare che David e i suoi
compagni potessero morire di fame o ricevere grave danno dalla mancanza
prolungata di cibo.
Questo ci insegna che il compiere i precetti della Torà, oggi come allora,
comporta sempre una scelta che può portare, nel territorio di confine in cui
è in gioco la vita, anche a respingere, nei limiti e con le modalità fissate
dalla tradizione, l’urgenza del precetto, in modo che l’uomo possa
conservare la vita in questo mondo per lodare e santificare il nome di Dio e
per guadagnare la vita nel mondo a venire.
Tutto avviene sotto lo sguardo provvidente del Signore, come è detto nel
Salmo:
18. Ecco l’occhio del Signore è su quelli che lo temono,
per coloro che sperano nella sua grazia,
19. per liberare la loro anima dalla morte,
per mantenerli in vita in tempo di carestia. (Sal 33,18-19).

***
Un altro sapore nel piatto
La tavola degli altri è sempre la più ghiotta
Tre spunti di lettura.
Primo spunto. Una storiella, come la racconta Moni Ovadia, per rendere
più digeribili le pietanze imbandite:
Rabbi Landau ha sempre sofferto in segreto per non aver mai potuto mangiare carne di maiale. Così
un giorno sale su un aereo e vola verso una remota isola tropicale.
«Nessuno lo potrà mai qui trovare», pensa.
A sera, va a chiudersi nel miglior ristorante del luogo e ordina del maiale arrosto. Mentre aspetta
che lo servano, sente una voce chiamarlo per nome: solleva gli occhi e vede venirgli incontro
Moyshele, uno dei membri della sua sinagoga. Proprio in quel momento il cameriere poggia sul suo
tavolo un vassoio con un intero maialino arrosto con una mela in bocca.
«Il suo maiale, signore».
Rabbi Landau è imbarazzatissimo.
«No lo è incredibile?» si rivolge a Moyshele.«Tu lo ordini una mela, e guarda qvi come ti lo
portano!»25

Secondo spunto. Primo Levi così traccia in Argon, il primo racconto del
Sistema periodico, la figura del padre, «piuttosto superstizioso che
religioso», che non sa resistere alle lusinghe del prosciutto:
 
Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia: percorrevamo
lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a
sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i
salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che
comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio
nell’infrangere le regole del Kasherút, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla
tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di
sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.26

Terzo spunto. Nel romanzo L’amore offeso, Edith Bruck ci racconta, oltre
alle vicende amorose, anche il rapporto della protagonista con il cibo, in
particolare con il cibo non kashèr, con quella fetta di prosciutto di maiale,
che non riesce a mangiare, perché, come afferma, lei non è religiosa ma lo
sono il suo palato e il suo stomaco:
«Ah già il mio nome. È un nome non nome. Vengo da una famiglia di liberi pensatori. Nome di un
nonbattezzato come me. Mia madre suonava Schubert quando col dito rimase sul tasto del sol per la
dolorosa avvisaglia del parto. E per gioco o non trovando di meglio, mi chiamarono proprio Sol.
Sono stati previdenti, sono un solitario. Ma dimmi di te. Niente prosciutto, vero?» si sciolse in un
sorriso ironico, mentre io lo guardavo come se invece della bocca avesse aperto il cuore, tanto era
tenera la sua espressione.
«Se ci tieni l’assaggio» acconsentii e lasciai che mi infilasse una fetta in bocca dove la rigiravo
incapace di masticarla, di inghiottirla, e come una selvaggia finii per risputarla.
«Non volevo farti violenza. Non dovevi accettarla. Scusa, scusa» disse con esagerato senso di
colpa.
«Me la sono fatta io la violenza».
«Per un laico è difficile capire che non si mangi qualcosa di buono per motivi religiosi».
«Io non sono religiosa, ma lo è il mio palato, il mio stomaco alimentato fin da bambina con cibi
kasher».
«E cosa vuol dire kasher, che lingua è?» «Yiddish. Quella lingua bastarda mista, dal sapore unico,
che si parlava nei villaggi e nei ghetti dell’Europa orientale. Una lingua uccisa con coloro che
l’avevano parlata».27

13. Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XXXI, 2.


14. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, XXXIV-XXXV, 1, 3-4.
15. 1 Maccabei 1,44-49: «44 Antioco, per mezzo dei suoi corrieri, mandò a
Gerusalemme e nelle città della Giudea alcune lettere con l’ordine di
seguire le leggi straniere, 45 di abolire nel tempio ogni genere di sacrifici e
di non riconoscere più i giorni di sabato e delle feste. 46 Inoltre per
profanare il tempio e per corrompere i fedeli, 47 fece costruire altari,
santuari e tempietti per gli idoli e volle che fossero immolati porci e altri
animali impuri. 48 Proibì il rito della circoncisione e impose pratiche che
rendevano tutti impuri. 49 Dovevano dimenticare la legge e abbandonare le
tradizioni».
16. «Rubano il corpo di Marco, vanno dicendo che è carne di maiale». In
questo modo i mercanti riuscirono ad evitare i controlli.
17. Ariel Toaff, Mostri giudei. L’immaginario ebraico dal Medioevo alla
prima età moderna, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 113.
18. Rambam (Maimonide), Guida dei perplessi, III, 48.
19. Elio Toaff con Alain Elkann, Essere ebreo, Bompiani, Milano, 1994,
pp.35-36.
20. L’autore dell’opera è Yosef Qaro (1488-1575).
21. Moshè Isserles (REMA) visse a Cracovia tra il 1525 e il 1572.
22. Cfr bJomà 85b.
23. Riporto il passo del Vangelo: 23 In giorno di sabato Gesù passava per i
campi di grano, e i discepoli, camminando, cominciarono a strappare le
spighe. 24 I farisei gli dissero: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che
non è permesso?» 25 Ma egli rispose loro: «Non avete mai letto che cosa
fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi
compagni? 26 Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote
Abiatàr, e mangiò i pani dell’offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito
mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?» 27 E diceva loro: «Il sabato
è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! 28 Perciò il Figlio
dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,23-28; cfr. Mt 12,25-26; Lc 6,
2-4).
24. Cfr Lv 24, 5-9.
25. Moni Ovadia, Il conto dell’ultima cena. Il cibo, lo spirito e l’umorismo
ebraico, Einaudi, Torino, 2010, pp. 66-67.
26. Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, 1975, p. 20.
27. Edith Bruck, L’amore offeso, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 25-26. Più
avanti, nel corso della storia, la protagonista affermerà: «Elogiamo il riso, il
prosciutto che ho imparato a gustare, a scegliere anch’io, chiedendo
perdono ancora a mia madre che mi rinnegherebbe» (p. 88).
Tavola o altare? Il regime alimentare dell’uomo nella Bibbia
ebraica

Seguendo il racconto tracciato dalla Bibbia ebraica nella Genesi e


nell’Esodo, la storia dell’umanità, dal sesto giorno della creazione fino ai
piedi del monte Sinài, è segnata dal susseguirsi, in tre tappe distinte, delle
prescrizioni relative a tre diversi regimi alimentari:
– il regime alimentare vegetariano (per non dire vegano) dato ad Adamo ed
Eva ed ai loro discendenti;
– il regime alimentare, che prevede, con specifiche limitazioni, l’uso della
carne animale, concesso da Dio a Noè e ai suoi figli dopo il diluvio;
– il regime alimentare prescritto ai figli di Israele col dono della Torà al
monte Sinài.
Prima tappa. L’uomo è uscito vegetariano dalle mani di Dio.
Ad Adamo ed Eva, capostipiti dell’umanità, Dio prescrive una dieta
vegetariana rigida (a essere più precisi: una dieta vegana), che li accomuna
a tutti gli altri esseri viventi, costituti, secondo il racconto biblico, dalle
bestie selvatiche, dai volatili del cielo e dagli esseri che strisciano sul suolo
terrestre:
E Dio disse: Ecco io vi do ogni erba che produce seme, che è sulla faccia della terra ed ogni albero
in cui è il frutto dell’albero, che produce seme: sarà per voi cibo.
E a tutte le bestie selvatiche, a tutti i volatili del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sul suolo, in
cui è alito di vita, ( io do) in cibo ogni erba verde. E così fu (Gn 1, 29-30).

Così commenta Rashì:


«Sarà per voi cibo - La Scrittura ha posto sullo stesso piano di Adam ed Eva il bestiame e le fiere
per quanto riguarda il cibo e non ha permesso ad Adam e a sua moglie di uccidere alcuna creatura e
di mangiarne la carne, anzi tutti insieme avrebbero dovuto mangiare ogni erba verde. Ma quando
vennero i figli di Noè permise loro in aggiunta di cibarsi di carne, come è detto: Quanto si muove
ed ha vita vi servirà di cibo. Vi do tutto questo come già l’erba verde (Gn 9,3), che ho permesso ad
Adam ha-rishon28, così io do a voi ogni cosa (Gn 9,3)».
C’è un disegno nella creazione che configura un orizzonte di rispetto della
vita di ogni essere dotato di «anima vivente» (nefesh chay), sia esso l’uomo,
siano essi gli animali:
Nessuno ha diritto di togliere la vita a un altro essere vivente. L’ordine morale della creazione
prevede che l’uomo sia vegetariano, e che ugualmente lo sia ogni animale. La ragione di un
orientamento così netto, che non lascia adito a dubbi di sorta sulla ripulsa della violenza, è iscritta
nel termine di cui il biblista si serve per tratteggiare l’essere vivente. La Bibbia (Genesi, 1,21-14)
usa la definizione nefesh chay («anima vivente») per indicare sia gli uomini sia gi animali,
rivelando così la decisone suprema di attribuire loro statuto di inviolabilità. Spegnendo la vita di un
animale, si provoca l’estinzione di un’anima al pari di quanto accade se si uccide un esser
umano.29

Pertanto, nelle dodici generazioni che vanno da Adamo a Noè, uomo e


animali provano, con scarsi risultati (per colpa dell’uomo, s’intende) a
vivere in un regime di non violenza e di pace, che non prevede l’uccisione
di animali da parte dell’uomo per cibarsi della loro carne e nemmeno
l’uccisione di un animale da parte di un altro animale per cibarsene.
Sembra, comunque, che, stando alla lettera del testo biblico, l’equilibrio tra
l’uomo e gli altri essere viventi sia garantito anche da un’equa spartizione
tra uomini ed animali delle risorse vegetali che la terra produce:
Da notare che il cibo così dato è solo vegetale. Inoltre, esso non è uguale per gli uni e per gli altri:
agli umani i cereali e i frutti degli alberi; agli animali ogni erba verde, cioè, probabilmente, il resto
della vegetazione. Il dettaglio suggerisce immediatamente che, nella creazione di Dio, umani e
animali non hanno da lottare gli uni contro gli altri per garantirsi il proprio cibo.30

Questa distinzione è posta in evidenzia dall’esegesi moderna, mentre la


tradizione rabbinica insiste sulla comunanza di cibo tra uomo e animali,
quell’ogni erba verde di cui si parla in Gen 1,30 (a proposito degli animali)
e in Gen 9,3 (a riguardo dell’uomo).
Adamo, tuttavia, nel Gan Eden31 è sottoposto a un regime di doppia
limitazione alimentare, che lo distingue dagli altri esseri viventi: oltre alla
non ammissibilità della carne animale, gli è vietato cibarsi dei frutti
dell’albero della conoscenza del bene e del male:
Il Signore Dio ordinò ad Adam dicendo: di ogni albero del Giardino potrai mangiarne liberamente,
ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti. (Gn 2, 16-17)
Eva e Adamo trasgredirono e mangiarono di quel frutto. Non è cosa di
poco conto che la cacciata di Adamo ed Eva dal Gan Eden dipenda dalla
trasgressione di una proibizione alimentare, a significare che la prima forma
di fedeltà o di trasgressione passa da uno dei bisogni primari dell’uomo,
l’alimentazione, e non da pulsioni sessuali, come, invece, lascia intendere la
tradizione cristiana. La trasgressione, inoltre, non altera il rapporto con gli
altri esseri viventi, in quanto Adamo ed Eva non si cibano di carne animale,
ma si pone come cifra della dimensione umana nel segno della libertà di
scelta e della capacità di controllo delle pulsioni.
Seconda tappa. La carne concessa.
Quella trasgressione “alimentare” provoca la cacciata dal Gan Eden e la
condanna di Adamo e della sua discendenza a procacciarsi il cibo con il
duro e faticoso lavoro del suolo e, dal quel momento, inizia la storia
dell’umanità, ovvero: delle «generazioni dei figli di Adamo» (Gen 5,1).
Una storia che si fa subito tragica e violenta, e che trascina con sé tutta la
terra, come è detto: «E Dio vide che la terra era corrotta, che ogni creatura
seguiva una via di corruzione sulla terra» (Gen 6,12).32 Il testo dice
espressamente che ogni creatura (lett.: ogni carne) seguiva la via del male e
della violenza, di conseguenza il diluvio spazzerà via ogni essere vivente
per dare luogo a una nuova creazione e a un nuovo patto di Dio con l’uomo
e con tutti gli esseri viventi. Ed è in virtù di questo patto che Noè e la sua
discendenza ottengono da Dio il permesso di cibarsi della carne degli
animali, cioè di altri esseri viventi, ed è solo da quel momento che si apre
un nuovo capitolo nella storia dell’umanità e del mondo creato, capitolo che
traccia in modo definitivo, a partire dalle modalità di alimentazione, la
separazione dell’uomo dagli altri esseri viventi e la sua contrapposizione a
loro:
1 Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. 2
Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli
del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. 3 Quanto si
muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. 4 Soltanto non
mangerete la carne con la sua vita (Gn 9,1-4).

Come va interpretato questo passo della Scrittura? Anche in questo caso,


seguendo la lettura del passo proposta da una parte della tradizione
rabbinica,33 il permesso di cibarsi di carne è accompagnato da una doppia
limitazione: è proibito togliere un membro a un animale ancora vivo, come
se il testo dicesse: «Non mangerete la carne finché in essa è la sua vita», ed
è proibito prendere sangue a un animale ancora vivo. Questo precetto è dato
da Dio all’umanità intera per evitare che l’uomo compia atti crudeli nei
confronti degli animali sia quando li alleva, sia quando li uccide per
nutrirsene. Ai figli di Noè non è prescritta nessuna modalità di macellazione
«rituale», come invece sarà prescritta ai figli d’Israele, ma è loro indicato
che le necessità alimentari non possono in alcun modo non rispettare la
dignità dell’animale, che è un essere vivente creato da Dio, al pari
dell’uomo. L’uomo, quindi, è tenuto a non seviziare gli animali, a non
sbranarli e a non cibarsi del loro sangue.
Nel racconto biblico relativo a Noè e al diluvio c’è un altro elemento
importante. Quando Dio ordina a Noè di fare salire sull’arca coppie di
animali, questi sono distinti in animali puri e animali non puri (si badi: il
testo non parla di animali impuri, ma di animali non puri, utilizzando una
significativa litote!)34:
Di ogni animale puro prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina, e degli animali che
non sono puri, un paio, il maschio e la sua femmina (Gn 7,2).

Perché Dio ordina a Mosé di prendere sette paia degli animali puri e un solo paio degli animali non
puri?
Così risponde Rashì:

Animale puro – sono gli animali che in futuro sarebbero stati puri per Israele; apprendiamo così che
Noè studiava la Torà.
Sette paia – (erano tanti) in modo che Noè potesse offrirne in sacrificio una volta uscito dall’arca
(Rashi su Genesi 2,7).

Noè, infatti, quando esce dall’arca, costruisce un altare e vi offre in olocausto animali puri, cioè
idonei al sacrificio:

Noè costruì un altare per il Signore e prese da tutti gli animali puri e da tutti gli uccelli puri e li offrì
in olocausto sull’altare (Gn 8,20).
La distinzione fra animali puri e non puri è finalizzata, in primo luogo, non alla alimentazione, ma
al sacrificio. Ai figli di Noè, infatti, sono permessi, dopo l’uscita dall’arca e il nuovo patto che Dio
stringe con loro, sia animali puri sia animali non puri, come è detto: «Tutto ciò che si muove, che
ha vita, vi servirà di cibo» (Gen 9,3); la distinzione, pertanto, ha a che fare non con l’alimentazione,
ma con lo spazio del sacro e con le modalità di relazione fra ciò che è in basso, sulla terra, e ciò che
è in alto, nei cieli.

Terza tappa. «L’ebraismo vien mangiando» (o non mangiando).


Quando il Santo, benedetto egli sia, dona la Torà ai figli di Israele dal
monte Sinài, porta a compimento il cammino: ai figli di Israele è prescritto
un nuovo e particolare regime alimentare che è in diretta continuità e
contiguità con il regime sacrificale che sarà in vigore al Santuario di
Gerusalemme. Lo spazio del sacro esce dal recinto confinato del luogo di
culto e si estende alla tavola e alla vita intera, in quanto, sia a tavola sia in
ogni momento e in ogni luogo della vita, è data all’ebreo una modalità
univoca di risposta a Dio nel segno dei precetti positivi e negativi contenuti
nella Torà.
Anche se si deve riconoscere che tutti gli animali sacrificabili sono kashèr,
mentre non tutti gli animali kashèr sono sacrificabili, è però vero che gli
animali kashèr, quindi adatti all’alimentazione umana, rappresentano una
estensione analogica del gruppo degli animali sacrificabili, estensione che
include, in particolare, gli animali selvatici con le stesse caratteristiche degli
animali allevati sacrificabili. Detto in alte parole: per il culto al Santuario
non è dato di depredare il mondo naturale che è al di fuori del diretto
controllo dell’uomo, mentre per l’alimentazione umana ciò è concesso, ma
a determinate condizioni che limitano il libero (o meglio: arbitrario) e
sregolato accesso dell’uomo ai beni del mondo.
La tavola, quindi, è il luogo che svela in modo definitivo la dimensione
santa del cibo e mette a nudo la reale capacità dell’uomo di godere dei beni
del mondo seguendo le limitazioni che i precetti pongono e impongono.
Allo stesso tempo, la tavola è luogo della condivisione del cibo nel segno
della convivialità e dell’accoglienza, e si fa altare sul quale il sacrificio è il
pane che spezziamo, intingiamo e condividiamo.
Così insegna il Talmud:
Chi prolunga il suo stare a tavola35: potrebbe presentarsi un povero e così potrebbe offrirgli del
cibo, secondo quanto sta scritto: L’altare era di legno, alto tre cubiti (Ez 41,22), e ancora è scritto:
E mi disse: Questa è la tavola che sta al cospetto del Signore (Ez 41,22). Il passo inizia con l’altare
e termina con la tavola. Rabbi Yochanan e rabbi Eliezer hanno entrambi detto: Quando esisteva il
Santuario, l’altare espiava le colpe di Israele e ora è la tavola dell’uomo ad espiare le sue colpe
(bBerakot 55a).

Come è da intendere questo passo del Talmud e in particolare il detto attribuito a Rabbi Yochanan e
a rabbi Eliezer?
Così risponde Elena Bartolini:
 
Il significato di questa affermazione va colto in due sensi: in primo luogo perché assumere cibo
comporta la preghiera che precede e segue questo atto (Dt 8,10 e 12,7); in secondo luogo perché
consumando i doni di Dio si gode e si celebra secondo la stessa dinamica dei così detti sacrifici
pacifici di comunione. In altri termini: attorno alla tavola si costruisce una piccola comunità in cui
non devono mancare i poveri e gli ospiti, ed è il cibo ad essere ora l’elemento di comunione che
una volta era costituito dai sacrifici detti shelamin.36

La comunità che si raccoglie attorno alla tavola è una comunità santa, in


quanto, nel santuario della casa, quella è veramente la tavola che sta al
cospetto del Signore (Ez 41,22), ed è una comunità ospitale, pronta ad
accogliere con mano aperta il povero e il bisognoso, per compiere la parola
del Signore, come è detto: «Se ubbidirete al Signore, vostro Dio, mettendo
in pratica tutti questi comandi che oggi vi ordino, non ci sarà nessun povero
tra voi» (Dt 15,4).
***
Un altro sapore nel piatto
Quale tavola è un altare?
 
Nei Racconti dei chassidim di Martin Buber è riportato un testo, «Il seder
dell’uomo ignorante», che ci costringe a riflettere e a chiederci quale tavola
sia veramente un altare. Quella di rabbi Levi Isacco, che ha seguito tutte le
norme prescritte, o quella di Haim l’acquaiolo, che, pur nella sua ignoranza
e stordito dall’alcol, ha vissuto in profondità il senso della festa?
Leggiamo il racconto:
Una volta Rabbi Levi Isacco aveva tenuto il Seder della prima notte di Pesah con tutte le intenzioni,
così che alla sua tavola ogni parola ed ogni rito si illuminò della santità del suo segreto significato.
Dopo la festa, sul fare dell’alba, Rabbi Levi Isacco sedeva nella sua stanza ed era lieto ed
orgoglioso che il Seder di quella notte gli fosse riuscito così felicemente. Ma ecco una voce gli
disse: «Di che ti vanti? Più grato mi è il Seder di Haim l’acquaiolo, che il tuo». Il Rabbi adunò la
gente di casa ed i discepoli e chiese dell’uomo di cui gli era stato fatto il nome. Nessuno lo
conosceva. Per ordine dello zaddik alcuni discepoli andarono a cercarlo. Dovettero cercare a lungo
prima che al margine della città, dove abitano i poveri, indicassero loro la casa di Haim l’acquaiolo.
Bussarono alla sua porta. Usci una donna e chiese che volessero. Quando l’ebbe saputo se ne
meravigliò e disse: «Sì, Haim l’acquaiolo è mio marito. Ma non può venire con voi; ieri ha bevuto
molto ed ora lo smaltisce dormendo, e se anche lo svegliate non sarà capace di muovere i piedi».
Quelli risposero soltanto: «Il rabbi l’ha ordinato», entrarono e lo scossero fino a che si destò. Egli li
guardò battendo gli occhi, non capì perché avessero bisogno di lui e volle rimettersi a dormire. Ma
essi lo sollevarono dal letto, lo presero in mezzo a loro e lo portarono quasi di peso dallo zaddik.
Questi gli fece dare una sedia accanto a sé e disse: «Rabbi Haim, dilettissimo, a quale mistero era
rivolta la vostra intenzione quando avete fatto la ricerca dei hamez?»

L’acquaiolo lo guardò con occhi imbambolati, scosse la testa e rispose: «Signore, ho cercato in tutti
gli angoli e l’ho raccolto».
Stupito lo zaddik continuò: «E quale santo intendimento avevate in mente quando avete bruciato il
hamez prima di Pesah?»
«Signore, ho dimenticato di bruciarlo. E, ora ricordo, è ancora sulla trave».
Quando il Rabbi udì questo, perse ogni sicurezza, ma continuò a domandare: «Ed ora ditemi
questo, Rabbi Haim, come avete fatto il Seder?» Fu allora come se qualcosa si destasse negli occhi
e nelle membra dell’uomo, ed egli disse in tono umile: «Rabbi, vi dirò la verità. Vedete, io ho
sempre sentito dire che è proibito bere l’acquavite durante gli otto giorni di Pesah e così ieri
mattina ho bevuto da averne abbastanza per otto giorni. Allora mi sono sentito stanco e mi sono
addormentato. Poi mia moglie mi ha svegliato ed era sera, e lei mi ha detto: “Perché non fai il
Seder come tutti gli altri Ebrei?” Io ho detto: “Che vuoi da me? Io sono un ignorante figlio di un
ignorante e non so che dire e che fare. Ma vedi, questo lo so: i nostri padri e le nostre madri erano
prigionieri degli zingari, e noi abbiamo un Dio che ci ha condotto in libertà. E vedi, ora siamo di
nuovo prigionieri, e io so e te lo dico, Dio condurrà anche noi in libertà”. E allora ho visto lì il
tavolo, e la tovaglia splendeva come il sole, e sopra c’erano piatti con mazzot ed uova ed altre
vivande, e c’erano bottiglie di vino rosso, ed ho mangiato le mazzot con le uova ed ho bevuto il
vino, ed ho dato da mangiare e da bere a mia moglie. E allora mi ha assalito la gioia, ed ho alzato il
bicchiere a Dio ed ho detto: “Vedi Dio che bevo questo bicchiere alla tua salute! E tu chinati verso
di noi e liberaci!” Così siamo stati a tavola e abbiamo bevuto e ci siamo rallegrati innanzi a Dio. E
poi ero stanco, mi sono steso e mi sono addormentato».37

Quale tavola è veramente un altare?


La tradizione chassidica ci insegna che osservare i precetti è necessario ma
non sufficiente. Sono l’intenzione e lo sguardo del cuore rivolto a Colui che
è in alto a dare senso al nostro fare e al nostro ascoltare, e anche al nostro
vivere il tempo della festa. Se così non fosse, la via che porta a Dio sarebbe
fondata solo sulla sapienza e sulla conoscenza e non sull’amore.
 
28. Nella tradizione ebraica la locuzione Adam ha-rishon, «il primo
Adam», è utilizzata per indicare Adam, il primo uomo creato da Dio, e per
distinguerlo dall’adam che indica l’umanità, in generale.
29. Moni Ovadia, Il conto dell’ultima cena. Il cibo, lo spirito e l’umorismo
ebraico, Einaudi, Torino, 2010, p. 95.
30. André Wénin, «Mitezza e violenza: il cibo vegetale e carneo in Gen 1-
9», in Parola Spirito e Vita, n. 53 (2006) , p. 13.
31. Il Gan Eden è il cosiddetto paradiso terrestre.
32. Cfr Rashi ad locum; bSanhedrin 108a.
33. Cfr. bSanhedrin 59a; Rashi su Genesi 9,4. Il passo viene così inteso:
«non mangerete la carne con la sua anima, (non mangerete) il suo sangue».
34. Gli animali non puri non hanno in sé e per sé nulla di negativo, non
sono solamente idonei per essere sacrificati al Signore.
35. Il passo discute il secondo elemento di un detto di Rav Yehudà,
riportato nella pagina precedente del Talmud: «Ci sono tre cose che
allungano i giorni e gli anni dell’uomo che le prolunga: chi prolunga la
preghiera, chi prolunga il suo stare a tavola, chi prolunga lo stare in bagno»
(bBerakòt 54b).
36. Elena Bartolini, Santità del cibo e santità della vita: cibi “puri” e cibi
“impuri”, in Parola Spirito e Vita, 53 (2006/1), pp. 56-57.
37. Martin Buber, I racconti dei chassidim, Garzanti, Milano, 1989, pp.
264-265.
L’ospite (in)atteso

Nella tradizione ebraica la tavola e la cucina non sono solo il luogo del
cibo preparato e consumato secondo le regole che ne determinano
l’ammissibilità (kashrùt); sono, prima di tutto, il punto da cui tutto parte e
tutto ritorna, e che concentra, nella convivialità e nella condivisione, le
forze, le energie e le speranze di ogni uomo e della sua famiglia.
Attorno alla tavola imbandita e nel cibo, come insegna il Talmud, si
compie quel miracolo che consente all’uomo di avere un solo cuore, rivolto
esclusivamente al Signore e pronto a vivere le sfide della vita:
Ha detto rabbi Avdimi da Haifa: Prima di mangiare e bere l’uomo ha due cuori, dopo avere
mangiato e bevuto ha un cuore solo, come è detto: Un uomo vuoto ha il cuore diviso (Gb 11,12)
(bBava batra 12b).

Le parole di rabbi Avdimi ci invitano a riflettere sull’importanza


fondamentale del cibo nella vita dell’uomo. Alimentarsi non è solo un fatto
di natura, legato alla carnalità e al vitalismo del corpo umano; il cibo è
elemento centrale nell’equilibrio dell’esperienza umana, in tutte le sue
componenti, in quanto libera l’uomo dall’oppressione delle esigenze
primarie del corpo e gli consente di dedicarsi, con cuore unito e non più
diviso, alla ricerca del bene e alla visione del bello, in tutte le loro forme.
Allo stesso tempo, il cibo è via che conduce a Dio, in quanto, secondo la
tradizione ebraica, tutto ciò che ha a che fare con la sfera alimentare deve
rispondere ai precetti della Torà. La cucina è, pertanto, segno di separazione
e di appartenenza; è quotidiana «catechesi» che coinvolge tutta la famiglia
nella definizione dell’identità ebraica e, nello stesso tempo, è la chiave di
volta che regge il farsi continuo della vita, proprio perché ricostruisce e
cementa i mattoni del corpo, secondo i comandi di Dio, nel segno
dell’obbedienza al Creatore e della rinuncia, consapevole e volontaria, a ciò
che da Dio non è concesso all’uomo.
C’è, dall’antichità ai giorni nostri, un fil rouge che caratterizza la tradizione
e la storia delle comunità ebraiche: la famiglia, la casa, la cucina e la tavola
hanno un ruolo centrale, a tal punto che si può affermare che l’ebraismo è
sopravvissuto, nelle varie diaspore per più di duemila anni, grazie alla
specificità delle regole alimentari e alla separazione della cucina ebraica
rispetto a quella delle altre nazioni.
La casa, come afferma Ernest Gugenheim, è un «santuario in scala ridotta»
e la tavola è l’altare:
La casa, più della sinagoga, è il centro della vita religiosa, il luogo privilegiato per l’esercizio e lo
sviluppo della religiosità. La casa, Miqdash me’at, santuario in scala ridotta, in passato includeva
anche alcune prerogative del Beth hammiqdash, il Tempio, e in seguito ne ha ereditato anche i
simboli. È così che la tavola intorno a cui si riunisce la famiglia per i pasti diventa l’altare
domestico. Prima di sedersi per i pasti, tutti devono lavarsi le mani, come il sacerdote che un tempo
doveva fare le abluzioni rituali prima di ogni sacrificio. Si tratta di un gesto rituale più che igienico
[...]. Il nutrimento e quindi il pasto hanno un ruolo molto importante all’interno della vita religiosa.
La salute è infatti per l’ebreo lo stato normale, naturale, mentre la malattia è qualcosa che lo sottrae
dall’osservanza della norma religiosa. Gli atti del mangiare, del bere, del dormire hanno lo scopo di
meglio disporlo al servizio di Dio: questi atti diventano pertanto mitzvoth, precetti.38

La tavola/altare attorno alla quale si riunisce la famiglia, pronta a nutrirsi


del cibo permesso per prepararsi a vivere la quotidiana fedeltà dei precetti,
fa emergere, tra le parole e i gesti dei commensali e tra gli odori e i sapori
dei cibi, il valore «pedagogico» delle prescrizioni alimentari contenute della
Torà.
Il capitolo del Levitico, in cui sono riportate le caratteristiche degli animali
permessi per l’alimentazione, inizia con queste parole:
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne, dicendo loro: Parlate ai figli d’Israele, dicendo: questi sono
gli esseri viventi che mangerete fra tutti i quadrupedi che sono sulla terra (Lv 11,1-2).

I precetti dati da Dio ai figli di Israele non sono, in particolare quelli


negativi, ordini vessatori o arbitrari volti a limitare la libertà dell’uomo, ma
costituiscono il cammino di santità e di fedeltà che porta, attimo dopo
attimo (e nel caso del cibo: boccone dopo boccone), l’uomo a Dio. È una
via di santità che non comporta l’esclusione del (o dal) mondo, anzi è
compartecipazione, piena e totale, dell’uomo alla vita e al mondo, secondo
il progetto e il piano di Dio. Nel precetto, dunque, c’è l’amore gratuito di
Dio per l’uomo e la risposta dell’uomo alla chiamata di Dio Creatore, qui e
ora.
Il precetto, come insegna il midrash, non è un’imposizione ma un viatico
che accompagna, nel travagliato cammino della vita, l’uomo che sceglie di
seguire la via di Dio e di aderire a lui:
A cosa si può paragonare? Ad un medico che andò a fare visita a due malati. Il primo dei due era in
pericolo di vita, disse pertanto ai figli: Dategli da mangiare tutto quello che vuole. Il secondo,
invece, aveva speranza di sopravvivere, disse ai figli: Questo lo può mangiare, quest’altro no
(Midrash Tanchuma, Sheminì, 10).

L’uomo, che sceglie, in piena libertà, il giogo del regno dei Cieli e il giogo
dei precetti, ha la possibilità di dominare quella spinta interiore che lo porta
al male, di dare voce all’anelito al bene e di guadagnarsi, di conseguenza, la
vita in questo mondo e nel mondo a venire. Ma se, in molti casi, non ha
rilevanza il contenuto del precetto, in quanto è l’adesione a Dio il fine del
precetto stesso, per quanto riguarda le regole alimentari il contenuto dei
precetti assume un rilievo eccezionale, in quanto determina, ogni giorno, di
generazione in generazione, il rapporto dell’uomo col proprio corpo, con la
terra e le sue risorse, con Dio, a cui appartiene tutto quanto la terra contiene.
Nella Bibbia, infatti, è detto: «Al Signore appartiene la terra e tutto ciò che
è in essa, il mondo e i suoi abitanti» (Salmo 24,1). Ma è anche detto: «I cieli
sono i cieli del Signore, ma la terra egli l’ha data ai figli dell’uomo» (Salmo
115,16). I due passi sembrano in contraddizione, ma la tradizione ebraica ci
insegna che il primo indica la sovranità di Dio sul mondo da lui creato,
mentre il secondo chiarisce quale deve essere il rapporto corretto dell’uomo
con quel mondo che Dio gli ha dato in consegna.
Come può, infatti, l’uomo usare la terra e ciò che contiene? L’uomo può
usare i beni del mondo, e di conseguenza anche il cibo, solo dopo avere
recitato la benedizione prescritta. Pertanto, secondo l’interpretazione data
dai Maestri, il primo passo biblico si riferisce al tempo che precede la
benedizione, mentre il secondo riguarda il tempo che viene dopo la
benedizione che l’uomo deve rivolgere a Dio (benedizione ascendente) per
potere fare uso in modo corretto dei beni del mondo per vivere lui e la sua
famiglia.
Nel Talmud così viene indicato il ruolo centrale della benedizione:
Hanno insegnato i nostri maestri: È vietato all’uomo godere dei beni di questo mondo senza dire
una benedizione. Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, commette un atto
sacrilego. Qual è il rimedio di questo fatto? Deve recarsi da un Saggio. Anche se va da un Saggio,
questi cosa potrà fare per lui dato che ha già commesso un atto proibito? Ma, al riguardo, ha detto
Ravà: Deve andare da un Saggio prima (di commettere un atto sacrilego) in modo tale che gli
insegni le benedizioni ed egli non commetta un atto sacrilego. Ha detto rav Jehudà in nome di
Shemuel: Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, è come se facesse uso di
cose consacrate al Cielo, come è detto: Del Signore è la terra e ciò che essa contiene (Sal 24,1).
Rabbi Levì ha messo in contrapposizione due testi. In un testo è scritto: Del Signore è la terra e ciò
che essa contiene (Sal 24,1), in un altro è scritto: I cieli sono i cieli del Signore ma la terra l’ha
data ai figli dell’uomo (Sal 115,16). Non c’è contraddizione: il primo testo si applica a prima della
benedizione, il secondo a dopo la benedizione.
Ha detto rav Chaninà bar Papa: Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, è
come se depredasse il Santo benedetto egli sia e la comunità di Israele, come è detto: Chi depreda il
padre o la madre e dice: Ciò non è un delitto, è un compagno del distruttore (Pr 28,24). Il padre è il
Santo benedetto egli sia, come è detto: Non è lui tuo padre che ti ha creato? (Dt 32,6); la madre è la
comunità di Israele, come è detto: Ascolta figlio mio l’ammonimento di tuo padre e non
abbandonare l’insegnamento di tua madre (Pr 1,8) (bBerakòt 35a-b).

Il mondo creato è cosa consacrata a Dio e l’uomo non può farne uso a suo
piacimento; quindi, anche se Dio gli ha dato la terra perché la custodisca, la
lavori con fatica e da essa tragga il sostentamento necessario, l’uomo può
goderne e saziarsene solo dopo la benedizione. La benedizione, infatti,
introduce nel mondo una separazione temporale: prima e dopo, e concede
all’uomo di godere in modo proprio di ciò che lo circonda, senza essere
sacrilego, senza appropriarsi delle cose del cielo come un ladro che
furtivamente e volontariamente deruba il suo Creatore.
L’uomo, quando mangia il cibo che il Creatore gli ha concesso, non lo fa
per sfamarsi, ma per essere nella condizione ottimale per amare Dio «con
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le sue forze»(Dt 6,5). Nel piatto,
quindi, non ci sono solo le vivande, ma, se è possibile dirlo, c’è la presenza
di Dio, la Shekinà. E quando, seguendo le regole della kashrùt, l’ebreo
mangia, compie, qui e ora, il cammino inverso rispetto a quello descritto nel
libro dell’Esodo a riguardo dei nobili di Israele, saliti con Mosè ed Aronne
sul monte Sinài, dei quali è detto: «Essi videro Dio e mangiarono e
bevvero» (Es 24,11), alla presenza di Dio39. Essi prima videro Dio e poi
mangiarono e bevvero; l’uomo, invece, nella quotidianità della vita e della
tavola, prima mangia e beve e, poi, vede Dio (o, forse, mentre mangia, vede
Dio).
E come può l’uomo vedere Dio (o meglio: la Shekinà) seduto alla sua
mensa?
L’uomo, quando mangia e beve secondo i precetti interpretati dalla
tradizione e gli usi locali determinati dalle singole comunità, non solo
mangia e beve, ma, se è possibile dirlo, vede Dio, vale a dire: percepisce la
presenza della Shekinà, lì, al suo fianco, seduto alla tavola, come un
membro della famiglia, ad osservare quelle divine pietanze e a gioire della
fedeltà dell’uomo e della bontà del creato. E questo, in particolare, nella
tavola dello Shabbàt e dei giorni festivi.
È detto, infatti:
Poi disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che
nulla hanno di preparato, perché questo giorno è santo per il Signore nostro; non vi rattristate,
perché la gioia del Signore è la vostra forza» (Neh 8,10)

La gioia del Signore è la gioia che egli concede nel giorno di festa a coloro
che la celebrano seguendo tutte le prescrizioni40; ma, se è possibile dirlo, è
anche la gioia che il Signore stesso prova vedendo come i suoi figli gli sono
fedeli e come sanno gustare la pienezza del giorno festivo nel cibo prelibato
che consumano e che sanno condividere con gli altri.
Egli, allora, è veramente l’ospite (in)atteso al quale siamo disposti a fare
posto nel nostro cuore, perché a lui va il nostro pensiero mentre mangiamo
e mentre recitiamo la benedizione; come, invece, è atteso, nel Sèder
pasquale, l’arrivo di Elia, che tarda anche se è in quella sera, ai nostri
giorni, che deve giungere ad annunciare la venuta del Re Messia.
Così Rav Luciano Caro descrive il senso profondo di quell’attesa:
Elia è tra gli invitati alla cena pasquale, il famoso Seder. Noi mettiamo i posti a tavola per i
convitati, e anche un posto vuoto con un bicchiere, per Elia, perché potrebbe arrivare ad annunciare
che viene il Messia. Ci aspettiamo che Elia venga soprattutto in circostanze di tensione. E cosa
c’entra la cena pasquale? È perché noi diciamo che nella notte di Pasqua gli Ebrei sono stati redenti
dalla schiavitù egiziana e, nella stessa circostanza, ci sarà comunicata la redenzione finale. Quindi
se il Messia viene e l’annunciatore del Messia viene, dovrà essere sicuramente la sera di Pesach.
Ma anche in questo caso qualcuno vede l’aspetto negativo; cioè il bicchiere è messo in modo
accusatorio, per sottolineare il ritardo di Elia. Tutti gli anni c’è il suo bicchiere pronto, ma lui non
arriva.41

Quella sera, il bicchiere in più sul tavolo è il segno dell’ospite atteso che
non viene; mentre il nostro cuore, che gioisce, si sazia e si fa uno, è, ad ogni
pasto, l’indizio della presenza di quell’ospite (in)atteso che ci accompagna,
anche se nel silenzio e nell’assenza.
***
Un altro sapore nel piatto
Non sempre è festa
Così Giorgio Bassani descrive, nel Giardino dei Finzi Contini, la cena
pasquale (sèder) del 1939, celebrata in un clima di timore e di paura,
alimentato dalle leggi razziali emanate nell’autunno precedente. In quel
sèder, celebrato un sera sola e non due, come invece prevede la halakà fuori
dalla terra d’Israele, non si respira più il clima gioioso e festoso dei tempi
precedenti, conditi da merende e da banchetti di ben altro sapore e tenore:
A casa nostra, quell’anno, la Pasqua fu celebrata con una cena sola anziché con due successive
[…]. Non fu una cena allegra. Al centro del tavolo, il canestro che custodiva insieme coi «bocconi»
rituali la terrina del haròset, i cespi d’erba amara, il pane àzzimos, e l’uovo sodo riservato a me, il
primogenito, troneggiava inutilmente sotto il fazzoletto di seta bianco e azzurro ricamato
quarant’anni prima dalla nonna Ester. Per quanto apparecchiato con ogni cura, anzi proprio per
questo, il tavolo del tinello aveva assunto un aspetto assai simile a quello che offriva le sere del
Kippùr, quando veniva preparato soltanto per Loro, i morti famigliari, le cui ossa giacevano laggiù,
nel cimitero al termine di via Montebello, e tuttavia erano ben presenti, qui, in ispirito e in effige.
Qui, ai loro posti, questa sera sedevamo noi, i vivi. Ma ridotti di numero rispetto a un tempo, e non
più lieti, ridenti, vocianti, bensì tristi e pensierosi come morti. Io guardavo mio padre e mia madre,
ambedue in pochi mesi molto invecchiati; guardavo Fanny, che aveva ormai quindici anni, ma,
come se un arcano timore ne avesse arrestato lo sviluppo, non ne dimostrava più di dodici:
guardavo ad uno ad uno, in giro, zii e cugini gran parte dei quali, di lì a qualche anno, sarebbero
stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e non lo immaginavano, no certo, che sarebbero finiti
così; guardavo infine me, riflesso dentro l’acqua opaca della specchiera di fronte, non diverso dagli
altri, anch’io già un po’ canuto, preso anche io nel medesimo ingranaggio, e tuttavia riluttante, non
ancora rassegnato. Io non ero morto, mi dicevo, io ero ancora ben vivo!42

38. Ernest Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina,


Firenze, 1994, p.51.
39. Un’altra interpretazione del testo non parla di un pasto al cospetto di
Dio, ma del fatto che nonostante abbiano visto Dio sono rimasti vivi, e
l’essere in vita è garantito dal mangiare e dal bere che ne è seguito, una
volta scesi dal monte Sinài.
40. Dt 16,14: «Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo
schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova che
saranno entro le tue città».
41. Rav Luciano Caro, «Il profeta Elia», in
http://www.aecfederazione.it/elia.html.
42. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, Einaudi, Torino, 1962,
pp. 185;186-187.
«Per distinguere il puro dall’impuro». Mangiare cosa, mangiare
come

Di fronte al cibo l’uomo, nella storia e nelle diverse culture, ha sempre


mantenuto un atteggiamento che può essere così riassunto: si mangia ciò
che è ritenuto gradevole e sano, non si mangia ciò che provoca repulsione e
disgusto, o che, soprattutto, è ritenuto nocivo e pericoloso per la salute. È il
cosiddetto «dilemma dell’onnivoro» di fronte all’infinita varietà di ciò che è
mangiabile e di ciò che non lo è, in sé e per sé, o di ciò che è mangiabile e
non lo è sulla base di scelte culturali e religiose.
Anche la tradizione ebraica ha affrontato il tema del disgusto per
determinati cibi, si tratti di animali o di insetti, e il tema del cibo nocivo,
determinati, l’uno e l’altro, per contrapposizione a ciò che è ritenuto
gustoso e salutare non in sé ma perché permesso o vietato dai precetti della
Torà.
Famoso è un passo del profeta Isaia, relativo al tema del disgusto
alimentare dettato da motivi religiosi e culturali:
Coloro che si santificano e si purificano nei giardini dietro una che sta in mezzo43, coloro che
mangiano carne di maiale, cose abominevoli44 e topi finiranno insieme - oracolo del Signore (Is
66,17).

Il versetto pone in parallelismo il culto idolatrico, nella prima parte, e il


cibo immondo e disgustoso, nella seconda parte, per insegnarci che la vita
può essere contaminata, nella sua più intima essenza, in due luoghi mai
contrapposti: il luogo di culto e la tavola. Il luogo di culto può abbruttire il
cuore e con esso il corpo, la tavola il corpo e con esso il cuore.
Nella medesima linea di riflessione, arricchita dal disgusto per ciò che non
sarà più appetibile per i figli d’Israele perché non ammesso dai precetti, così
osserva il Talmud:
Così ha detto il Santo benedetto egli sia: Se io avessi fatto uscire Israele dall’Egitto, anche solo per
questo motivo, perché non si rendessero impuri con gli animali brulicanti, questo sarebbe stato un
motivo sufficiente (bBava metsia 61b).
Dio ha fatto uscire i figli d’Israele dall’Egitto per liberarli da un doppia
schiavitù: dal duro lavoro imposto loro da Faraone e dal cibo d’Egitto,
allettante e deviante. I figli d’Israele, per essere pronti a ricevere la Torà al
Monte Sinài, devono uscire completamente dall’Egitto, nel cuore e nel
corpo, pronti a seguire Dio e a cibarsi solo di ciò che è puro e permesso.
Per quanto riguarda il cibo nocivo, è esemplare un episodio raccontato
nella Bibbia ebraica a proposito del profeta Eliseo, il quale risolve un caso,
diremmo oggi, di intossicazione alimentare con un espediente che sembra
dettato da una sapienza popolare di vecchia data e che nulla ha di
miracoloso:
Eliseo tornò in Gagala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano
seduti davanti a lui, egli disse al suo servo: «Metti la pentola grande cuoci una minestra per i figli
dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite
selvatica: da essa colse cetrioli selvatici45 e se ne riempì il mantello. Ritornò e getto i frutti a pezzi
nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che
appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c’è la morte, uomo di Dio!» Non ne
potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina». Versatala nella pentola, disse:
«Datene da mangiare alla gente». Non c’era più nulla di cattivo nella pentola (2 Re 4, 38-41).

La via del cibo piacevole e sicuro non è, però, una chiave di lettura
sufficiente per comprendere a fondo il senso delle regole alimentari
ebraiche. I precetti relativi all’alimentazione, dati da Dio dal monte Sinài,
hanno una motivazione igienica? Derivano da precise scelte «ecologiche»?
Rispondono a un sostrato tradizionale o folklorico oppure rappresentano un
diverso livello nel rapporto fra Dio e l’uomo? Vale a dire: il precetto è
normalizzazione, nella sua assunzione nella sfera religiosa, di buone
pratiche, di tradizioni arcaiche o di tabu alimentari oppure è espressione, in
forma di parole ordinate e prescritte, del divino che si dà all’uomo e, quindi,
di una dimensione altra?
Anche se alcuni maestri hanno cercato una motivazione che dia un senso
unitario alle regole alimentari46, la tradizione ebraica ha insistito sul fatto
che il precetto, in sé e per sé, assume valore, non in relazione al suo
contenuto, ma solo per il fatto che è ordine che viene dalla bocca del Santo
benedetto egli sia. Pertanto, il contenuto del precetto non è, in sé e per sé, la
fonte dell’agire dell’uomo; quello che conta è la risposta dell’uomo come
adesione a Dio e come riconoscimento, di precetto in precetto, dell’assoluta
dipendenza dell’uomo da Dio Creatore.
Le prescrizioni alimentari rientrano nei 613 precetti; fanno, quindi, parte
della Torà, che non è un cammino etico (o delle buone pratiche), per seguire
il quale non c’era bisogno di alcuna rivelazione divina; è, invece, il difficile
percorso dell’ascolto, della fedeltà e della fiducia completa in Dio, precetto
dopo precetto, scelta dopo scelta, azione dopo azione, e, anche e soprattutto,
piatto dopo piatto, boccone dopo boccone.
Questa linea di pensiero è tracciata in modo chiaro dalla tradizione ebraica.
Così, infatti, hanno insegnato i Maestri:
Disse (Yochanan ben Zakkaj) ai discepoli: Per la vostra vita, il morto non rende impuri e le acque
non purificano, ma quanto ha detto il Santo benedetto egli sia: Ho decretato i miei decreti e ho
prescritto le mie prescrizioni e l’uomo non può violare il mio decreto (Bemidbar rabbà 19,8).

Un altro insegnamento, relativo alla shechità, la macellazione rituale


prescritta dalle norme della kashrùt, precisa che il punto di forza del
precetto non è nel contenuto della norma e nemmeno nella modalità di
compimento:
Ha detto Rav: I precetti non sono stati dati se non con lo scopo di purificare per mezzo loro gli
uomini. Forse importa al Santo benedetto egli sia che chi scanna l’animale lo colpisca al collo47 o
lo colpisca alla nuca? Così si può concludere che i precetti non sono stati dati se non con lo scopo
di purificare per mezzo loro gli uomini (Bereshit rabbà 44,1).

Rav48, nella pagina citata del Talmud, discute le parole di un versetto dei
Salmi: «La parola del Signore è purificata, egli è scudo per tutti coloro che
si rifugiano in lui» (Sal 18, 31 = 2Sam 22,3) e intende dire che la Torà è
data agli uomini per far sì che coloro che la seguono ne siano purificati
come in un crogiolo.
Qual è, allora, il valore profondo del compiere il precetto? Una risposta ce
la fornisce un detto attribuito a rabbi Eleazar ben Azarià, maestro tannaita
della seconda generazione (fine del I sec. E.V.):
Rabbi Eleazar ben Azarià era solito dire: Per quale motivo l’uomo non deve dire: Non mi piace
vestire stoffe miste, non mi piace mangiare carne di maiale, non mi piace commettere infrazioni
sessuali? Se queste cose mi piacessero, che cosa farei? Deve invece dire: Me l’ha prescritto il mio
Padre che è nei cieli. Così dice infatti la Scrittura: Vi ho separati dagli altri popoli perché siate miei
(Lv 20,26). Ne deriva che (Israele) in questo modo si tiene lontano dalla trasgressione e può
accogliere su di sé il (giogo) del regno dei cieli (Sifrà, Qedoshim, 10, 22).

Così è detto nella Torà, nel passo citato direttamente da rabbi Eleazar ben Azarià :
Io sono il signore vostro Dio che vi ho distinti dagli altri popoli e voi distinguerete il quadrupede
puro dall’impuro, i volati impuri da quelli puri e non renderete abominevoli le vostre persone con il
cibarvi di animali e di volatili e di qualsiasi essere che brulica sulla terra che io ho distinto per voi
affinché li consideriate impuri, e mi sarete santi, perché santo sono io il Signore e vi ho distinti
dagli altri popoli affinché apparteniate a me (Lv 20, 24b-26).
 
Il midrash si interroga sul senso profondo del passo: per quale motivo,
dopo che in Levitico 11 erano già stati elencati gli animali puri e impuri,
viene ripetuto «Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro» (Lv 20, 24)?
Non erano sufficienti le indicazioni specifiche, categoria per categoria, già
riportate? Così dicendo, la Torà, che è la parola di Dio, cosa vuole
insegnarci?
Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro – Era necessario dire di distinguere fra una mucca e
un asino? Non erano già state definite le rispettive caratteristiche? Se le cose stanno così, perché è
detto: Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro? Per fare in modo che tu distingua ciò che è
puro per te da ciò che è impuro per te, l’animale cui è stata recisa la maggior parte della trachea
dall’animale cui è stata recisa metà. La differenza che separa il primo caso (che è permesso) dal
secondo (che è vietato) è lo spessore di un capello (Sifrà, Qedoshim, 10, 19)

La riflessione del midrash ci insegna che la Torà non è un trattato


scientifico di classificazione degli esseri viventi (elenco degli animali
ammessi e di quelli non ammessi) e non è nemmeno un semplice codice del
diritto o un manuale contenente le norme a cui attenersi, è un cammino di
vita e, di conseguenza, ogni azione assume valore in relazione alla scelta
che l’uomo (ogni uomo) è chiamato a compiere: il distinguere ciò che è
permesso da ciò che è vietato dipende dalla valutazione e dalla decisione
dell’uomo, nell’alveo della tradizione e nel rispetto delle modalità
interpretative fissate dai Maestri. Nello specifico, il midrash ci insegna che
l’animale puro non è puro in sé e per sé, ma lo diviene al termine di un
percorso che prevede diverse scelte, valutazioni e azioni da parte
dell’uomo. E molte di queste scelte, valutazioni e azioni obbligano a
prestare attenzione ad ogni singolo aspetto e ai particolari, anche quelli che
potrebbero sembrare insignificanti perché la differenza tra ciò che è
permesso e ciò che è vietato, tra ciò che è kashèr e ciò che è tarèf, è nello
spessore di un capello; per insegnarci che Dio non è nelle grandi cose, ma è
nelle piccole cose e nei particolari,49 così come è «in una voce di silenzio
sottile» (1 Re 19,12) e non nel turbine o nel vento impetuoso.
In questa prospettiva di scelta finalizzata a mantenere quella distanza
necessaria corrispondente allo spessore di un capello, come deve rapportarsi
con i beni del mondo l’uomo che vuole mettere in pratica i comandi della
Torà?
Fine della Torà non è l’astensione dal cibo o la rinuncia per dare spazio ad
una dimensione spirituale non terrena, una sorta di anoressia per il regno dei
cieli. Astenersi dal cibo o digiunare in giorni non prescritti non dà merito
alcuno, perché l’uomo è chiamato a nutrirsi e a mantenere in salute il
proprio corpo per essere pronto a vivere nel mondo e del mondo; ogni scelta
ed ogni azione che non va in questa direzione è un atto di ribellione nei
confronti di Dio. Dio, infatti, non ha ordinato di astenersi dal cibo o di
rinunciarvi in vista di un bene superiore, ma di non mangiare cibo che non
corrisponda alle regole della kashrùt e di digiunare esclusivamente nei
pochi giorni fissati nell’arco dell’anno, in particolare a Yom kippùr.
Ecco, pertanto, di cosa l’uomo dovrà rendere conto nel mondo a venire, in
giudizio al cospetto del Santo, benedetto egli sia:
Rabbi Chizqijà e rabbi Kahen hanno detto in nome di Rav: Nel tempo futuro all’uomo sarà chiesto
ragione di tutto ciò che ha trovato gradevole e non ha mangiato (jQiddushin 4; 66b).

E, ancora, nella Bibbia ebraica, Qohelet afferma:

Va’, mangia con gioia il tuo pane e bevi con cuore lieto il tuo vino, perché Dio ha già gradito le tue
opere (Qoh 9,7).

Quella che si prospetta, dunque, è un’ascesi fondata sul «qui e ora», sulla
terra e i sui suoi beni, sul pane e sul vino, sulla gioia e sulla sazietà, sia del
corpo sia del cuore, di ogni uomo che «ha fame e sete di ascoltare la parola
del Signore» (Am 8, 11), quella parola che ci è tanto vicina da essere nella
nostra bocca e nel nostro cuore, come è detto:
11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. 12 Non è
nei cieli, perché tu dica: Chi salirà per noi nei cieli, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo
eseguire? 13 Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e
farcelo udire e lo possiamo eseguire? 14 Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,11-14).

Qual è la parola di Dio che, giorno dopo giorno, consapevolmente o


inconsapevolmente, è sulla bocca e nel cuore di ogni uomo?
Il cibo, che, come la Torà, è dato all’uomo perché di esso e con esso viva.
***
Un altro sapore nel piatto
Non tutti i polli sono un pollo
 
Liliana Treves Alcalay, nel capitolo Un pollo di nome Kashèr, così
racconta fatti avvenuti nel 1948, in una Milano che, per ebrei e non ebrei,
vede un lento ritorno alla «normalità» dopo le tragedie della guerra e della
Shoà. Ritorno alla normalità, per una famiglia ebrea, significava, anche e
soprattutto, la possibilità di trovare cibo kashèr. Il pollivendolo, in via
Urbano III, proprio sotto casa, vendeva uova di giornata delle quali era
garantita la kashrùt.50 Liliana, allora bambina, ha un confronto-scontro col
pollivendolo che non sa darsi ragione della diversità degli usi della famiglia
di quella bambina:
Un giorno mia madre mi mandò a prendere le uova. «Quante te ne do?» mi chiese burbero il
pollivendolo.
«La mamma mi ha dato i soldi per dieci uova» risposi porgendogli il denaro. L’uomo si tolse la
matita da dietro l’orecchio, fece il conto sulla carta di giornale e verificò che la somma fosse giusta.
Infine accese la macchinetta, vi collocò le uova e le esaminò sotto la luce, una per una, e poi le
incartò.
Mentre mi consegnava il pacchetto disse guardandomi fisso negli occhi:
«Vendo anche i polli e le galline, sai, non soltanto le uova…
Dillo alla tua mamma. Mangiate il pollo a casa vostra?»
«Certo, signore, che lo mangiamo… il venerdì sera… » risposi alludendo alla cena tradizionale
dello Shabbàt.
Aggrottò le ciglia:
«Il venerdì sera? Proprio di venerdì? Bella roba… Ma lo sai che di venerdì non si mangia la carne,
eh?»
«Davvero?» cascai letteralmente dalle nuvole. «Invece noi lo mangiamo solo di venerdì».
Vidi balenargli negli occhi un guizzo di rabbia e di stupore: «Ehi ti piscinin fa› minga la furbetta
sai… Non far troppo la spiritosa con me, sai… Con chi credi di parlare, con un tuo amico?»
Mi allarmai vedendolo così adirato. Non capivo cosa gli fosse preso, tutto d’un tratto dal momento
che non gli dicevo niente di offensivo. «In ogni caso,» proseguì «se mangiate il pollo, allora com’è
che tua madre non lo compra mai da me?»
Invece di rispondergli di domandarlo a lei, come sarebbe stato più giusto - e chiudere così
l’argomento che si era già protratto abbastanza - risposi che eravamo ebrei e che mangiamo un
pollo di nome kashèr.
Non l’avessi mai detto! Rosso in volto dall’ira lo vidi sporgersi dal bancone e urlare:
«Cos’hai detto? Cos’hai detto? Ripeti un po’ cos’hai detto. Mi prendi in giro? Con chi credi di
parlare, eh?»
Sentii un brivido percorrermi la schiena. Ero spaventata della sua reazione. Ma mi feci forza e
ripetei, ancora una volta, con voce tremante:
«Ho detto che noi ebrei mangiamo un pollo di nome kashèr». Rimase a scrutarmi per qualche
secondo, curvo in avanti sul bancone, poi si rialzò ed esplose con voce stridula, dando prova della
sua rinomata ottusità:
«Ah sì? Ah sì? Glielo andate forse a domandare, voialtri, prima di mangiarli… Tu come ti chiami?
Tu come ti chiami? Non mi dirai che i vostri polli hanno un nome speciale, eh?»
Preferii tacere per non irritarlo ulteriormente ma lui insisteva: «Allora dimmi un po›. Se il vostro
pollo si chiama in quella maniera lì» tentò invano di ripetere la parola «vuoi dirmi come si chiama
quello che mangio io?»
Ero incerta sul da farsi. Dovevo rispondergli o dovevo correre via con il mio pacchetto delle uova
in mano? Preferii la coerenza e gli risposi:
«Tarèf, si chiama tarèf» e scappai via».51

43. Il testo fa riferimento a culti idolatrici.


44. Il termine utilizzato nel testo ebraico (shèqetz), compare sette volte in
Levitico 11 per indicare animali non ammessi tra i pesci, gli uccelli, gli
insetti e gli animali che strisciano sulla terra.
45. La parola è attestata solo in 2 Re 4,39. Secondo la tradizione rabbinica
si tratta di funghi velenosi (Rashi). Secondo gli esegeti moderni, la pianta è
identificabile con la coloquintide (Citrullus colocynthis), le cui foglie
assomigliano a quelle della vite e i cui frutti hanno forte potere purgativo. In
1Re 6,18; 7,24 è riportata una parola, derivante dalla stessa radice, che
probabilmente indica un ornamento a forma della foglia della pianta sopra
indicata. La Bibbia rabbinica italiana traduce con «coloquintidi» e in nota
indica: «Pianta medicinale delle cucurbitacee» (La Bibbia ebraica. Profeti
anteriori, Firenze, Giuntina, 2003, p. 267). Dai semi di questa pianta veniva
estratto un tipo di olio (cfr. mShabbat II,2).
46. Sa’adia Gaòn, ad esempio, sostiene che i divieti alimentari hanno lo
scopo di evitare che l’uomo trasformi in divinità alcuni animali.
47. Così è richiesto dalla Torà, come indicato in bChullin 27a.
48. Rav è Abba Arika, maestro della prima generazione di amorei in terra
di Babilonia.
49. Mi sia consentito citare in nota un detto del Vangelo, che, forse, va
nella medesima direzione: «Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto;
e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto» (Lc 16,10).
50. Liliana Treves Alcalay così racconta: «Il pollivendolo possedeva un
piccolo apparecchio, dalla forma rettangolare, dotato di una lampadina dalla
luce molto intensa. Si introduceva l’uovo dentro la macchinetta e si
spingeva un pulsante. Un fascio luminoso raggiungeva l’uovo rendendolo
quasi trasparente e rivelando con certezza, un’eventuale fecondazione» (Un
pollo di nome Kashèr. Ricordi del dopoguerra, Giuntina, Firenze, 2009, p.
123).
51. Liliana Treves Alcalay, Un pollo di nome Kashèr. Ricordi del
dopoguerra, Giuntina, Firenze, 2009, pp. 124-125.
Le regole alimentari ebraiche

Le regole alimentari, come del resto tutti i precetti ebraici, si inseriscono in


un quadro normativo specifico, che viene descritto da Leon da Modena52
con queste parole:
Non tutte le cose, che dagl’Hebrei vengono oggi dì effettuate, circa a’ Riti loro, sono d’ugual
autorità, né ugualmente da tutti in un’istesso modo eseguite. Perché è da sapere, che in tre ordini si
dividono, li primi sono precetti della Legge scritta, così è detta da loro, ciò, che si contiene nel
Pentateuco, cioè cinque libri scritti da Mosè, 248 affermativi, et 365 negativi, che sono insieme
613, chiamati Mizuod de oraità, che vuol dire Comandamenti legali. Li secondi della Legge a
bocca, che così appellano la dichiarazione fatta da’ Rabini e Dottori, in ogni età, a quello, che fu
scritto da Mosè, molte e altre ordinazioni, e che non hanno numero, nomati Mizvuod Derabanan
comandamenti de’ Savj […]. Terzi alcune cose in diversi tempi, e luoghi diversamente poste in uso,
o di nuovo introdotte, e però detti Minhaghim, usanze. Ora queste usanze, siccome sono nate
dall’essere l’Ebraismo sparso in diversi paesi, e preso il nome e costumi degl’habitanti, così è
avvenuto, che in ciò che si contiene nella Legge scritta da Mosè e in quella a bocca de’ Savj […]
non v’è differenza rilevante e quasi nulla tra niuna Nazione d’Ebrei, benché molto dilungati, e
remoti gli uni dagli altri, ma in ciò che s’appartiene a questa terza parte de gli usi solamente si trova
varietà e non poca. E specialmente trà queste trè che ora fanno che principali, Levantini, Tedeschi e
Italiani […].53

Vedremo, ora, seguendo l’indicazione di Leon da Modena, quali sono,


all’interno delle regole alimentari ebraiche e nella loro applicazione pratica,
gli elementi che dipendono dalla Torà scritta, quali da quella orale e quali,
invece, quelli che provengono dagli usi «locali» (minhagim). È vero, infatti,
che se i precetti della Torà e le determinazioni halachike hanno validità per
tutti gli ebrei, pur se con varianti legate ai tempi e alle diverse tradizioni
interpretative, gli usi «locali» possono in parte differenziarsi e dare luogo a
specificità sedimentate nel tempo e, anche se apparentemente marginali, pur
sempre significative.
All’interno di questo quadro normativo durevole e stabile, la varietà delle
«cucine ebraiche» è testimone, dallo Yemen fino alla Lituania passando per
il Magreb e per l’intera Europa, dell’infinita variabilità degli usi alimentari
e della sapienza culinaria che attraversa le generazioni e giunge, di tavola in
tavola, di nonna in nipote, di madre in figlia, fino a noi.
Quali sono le regole alimentari della «cucina ebraica»? Rav Riccardo Di
Segni, al cui libro rimando per un approfondimento dei singoli aspetti, così
individua le principali norme:
 

1. la distinzione tra animali permessi e animali proibiti;


2. il permesso di consumare solo gli animali uccisi con una tecnica rituale
particolare, la shechitàh;
3. il divieto di bere il sangue;
4. il divieto di consumare alcune parti di grasso;
5. la proibizione di mangiare membra tolte ad animali viventi;
6. il divieto di mangiare il nervo sciatico;
7. l’obbligo di scegliere, tra gli animali permessi, solo quelli indenni da
malattie e da difetti fisici di vario tipo;
8. il divieto di mescolare carne con latticini;
9. il divieto di consumare sostanze che mettono in pericolo la salute e la
vita.54
Considerata la complessità del sistema normativo che regolamenta la
kashrùt, ci limiteremo ad affrontare, tra quelli indicati, tre aspetti specifici:
1. gli animali ammessi
2. le modalità di macellazione e le parti vietate
3. la cucina e la tavola kashèr.
1. Gli animali ammessi
Le norme relative agli animali puri e idonei per l’alimentazione dei figli di
Israele e agli animali impuri e, pertanto, sono permessi, sono riportate nella
Torà in due diverse parashòt55:
- al termine della parashà Sheminì56 (Levitico 9,1 - 11,47) al capitolo 11
- nel cuore della parashà Re’è57 (Deuteronomio 11,26 - 16,17) al capitolo
14, 3-21.
Essendo le parashòt la suddivisione del testo dei cinque libri della Torà
nelle 54 parti che caratterizzano la lettura sinagogale, di settimana in
settimana, nell’arco dell’anno, quel processo di separazione e di inclusione
è un tratto significativo e sedimentato del testo biblico, e, in quanto tale,
portatore di insegnamenti che il testo stesso ci invita a ricercare.
Sia nella parashà Sheminì sia nella parashà Re’è l’insieme dei precetti
relativi alle regole alimentari appare, a una prima lettura, non direttamente
collegato al resto della parashà. Ma, dato che nella Parola di Dio nulla è
detto a caso, occorre chiedersi quali sono i motivi profondi che legano
insieme le parti delle singole parashòt, per comprendere in modo più
profondo la finalità dei precetti alimentari.
Il contenuto della parashà Sheminì è il seguente:
Aronne dopo i sette giorni di consacrazione, benedice il popolo, e la gloria del Signore appare in
una grande luce nel Santuario. Ma i figli di Aronne, Nadav e Avihù, appena consacrati,
presentarono sull’altare un incensiere con un ‘fuoco diverso’ da quello che era stato loro
comandato. L’errore viene punito dal Signore con la morte. La Parashà termina con una dettagliata
descrizione degli animali permessi e di quelli proibiti nell’alimentazione ebraica.58

Luogo sacro, sacrificio, culto e cibo sono elementi fortemente correlati.


Sono rigide regole, che non limitano la libertà, ma che definiscono il
cammino di santità che lega, dal Santuario alla tavola, l’uomo a Dio.
Nella parashà Re’è, invece, a precedere la parte riguardante le regole
alimentari sono le prescrizioni relative al luogo di culto e alle modalità per
evitare l’idolatria, una volta che il popolo di Israele ha preso possesso della
terra di Canaan.
In entrambe le parashòt quello che emerge, pertanto, è il ruolo specifico
svolto dalle regole alimentari e dalla mensa domestica: come corretto deve
essere il culto praticato nel Santuario e come in ogni modo deve essere
evitata l’idolatria in tutte le sue forme, così deve essere l’approccio alla
sfera alimentare, ovvero allo spazio del «santo» nella quotidianità. La sfera
alimentare, infatti, diviene la traccia, iscritta nel nostro corpo, delle scelte
operate per servire Dio proprio a partire dal bisogno più elementare e
vitalistico del nutrirsi e del bere.
Il senso profondo di questo cammino è chiarito da un versetto della
parashà Re’è:
Perché tu sei un popolo santo per il Signore tuo Dio ed il Signore ti ha scelto, per essere un popolo
di sua proprietà, fra tutti i popoli che sono sulla faccia del suolo terrestre (Dt 14,2).

«Tu sei un popolo santo» non indica una caratteristica innata del popolo
ebraico e, in quanto tale, trasmessa di generazione in generazione, ma è un
processo continuo che conduce alla santità, giorno dopo giorno, precetto
dopo precetto e, a tavola, boccone dopo boccone.
È, poi, interessante osservare che nella parashà Sheminì si ha il mezzo
esatto delle parole della Torà, cioè dei primi cinque libri della Bibbia
ebraica. E questo non è un mero dato statistico o computistico, segnalato
dai Masoreti sul margine del testo manoscritto, ma un elemento portatore di
significato pregnante nell’ambito della forma scritta della parola che Dio ha
consegnato all’uomo.
Quali sono le parole fra le quali è posto il mezzo? Parole straordinarie:
«Cercando ricercò (daròsh daràsh)» (Lv 10,16). Questo ci insegna che la
vita dell’uomo deve essere, in ogni momento e in ogni azione, ricerca di
Dio; la via privilegiata, lungo la quale compie i suoi passi la ricerca, è la
halakà, vale a dire: la via del precetto, nella prospettiva del fare e
dell’ascoltare, come è detto:
Prese (Mosè) il libro del Patto e lo proclamò nelle orecchie del popolo ed essi dissero: Tutto ciò che
il Signore ha pronunciato, noi faremo e ascolteremo (Es 24,7).

Da dove parte e dove si conclude questa ricerca del senso del fare e dell’ascoltare?
Dal cibo e nel cibo. Dalla tavola e sulla tavola, il luogo della santità della singola persona, della
famiglia di cui fa parte e, famiglia e famiglia, della comunità.
E, in mezzo, nel tempo che non è tavola, stanno la vita, lo studio, la preghiera, il lavoro (e tutto ciò
che è della persona e della comunità), da compiere, con le forze che il cibo ci fornisce, nel nome
dei Cieli.

1.1. Animali terrestri, ovvero: i quadrupedi


Nella parashà Sheminì e nella parashà Re’è l’elencazione degli animali
ammessi inizia con il bestiame (behemà) che è sulla terra, i quadrupedi;
seguono poi le indicazioni relative agli animali acquatici e, quindi, ai
volatili. Le indicazioni seguono, quindi, l’ordine inverso rispetto ai giorni
della creazione: gli animali terrestri, infatti, sono stati creati, prima
dell’uomo, il sesto giorno; gli animali che vivono nelle acque e, nell’ordine,
quelli che volano nel cielo, il quinto giorno.
Quali sono i quadrupedi ammessi? Così prescrive la Torà:
Parlate ai figli di Israele dicendo: Questi sono gli animali che potete mangiare di tutto il bestiame
che è sulla terra. Ogni animale del bestiame che ha l’unghia bipartita e divisa da una fessura, che
rumina, lo potrete mangiare (Lv 11,2-3).

Fra i quadrupedi, ovvero fra gli animali di grossa e di piccola taglia, che
vivono sulla terra, sono ammessi quelli che presentano unitamente le due
caratteristiche seguenti:
- sono ruminanti
- hanno lo zoccolo diviso in due (unghia fessa).
Secondo un regola pratica, si tratta degli animali, sia allevati sia selvatici,
che non presentano i denti incisivi superiori. Ecco un elenco, non esaustivo,
dei quadrupedi ammessi: antilope, alce, bue, bufalo, camoscio, capra,
capriolo, cervo, daino, gazzella, pecora, renna, stambecco delle Alpi. Si
tratta di animali appartenenti, secondo la classificazione scientifica, alla
famiglia dei cervidi e alla famiglia dei bovidi.
Tutti i quadrupedi, che non presentano nessuna delle due caratteristiche o
solo una delle due, sono impuri, quindi non permessi. Il passo biblico
elenca alcuni di questi animali:
4 Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello,
perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, è impuro per voi; 5 l’ìrace59, perché rumina, ma non ha
l’unghia divisa, è impuro per voi; 6 la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, è impura
per voi; 7 il maiale, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, è impuro per voi. 8
Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; sono impuri per voi (Lv 11,4-8).

È interessante osservare che gli animali puri presentano una caratteristica


particolare: sono gli esseri viventi che hanno conservato esclusivamente la
dieta vegetariana che Dio aveva assegnato, nell’opera della creazione,
all’uomo e agli altri esseri viventi. Il cibarsi esclusivamente d’erba
rappresenta lo stato di pace primordiale degli esseri viventi con la terra e
con gli altri viventi; non comporta, in rapporto col regime carnivoro, la
violenza del vivente sull’altro vivente, non porta allo spargimento del
sangue e tanto meno a pratiche alimentari, come lo sbranare e il dilaniare,
che possiamo considerare degradanti, per l’animale ucciso e per chi se ne
ciba. Inoltre non induce, in rapporto col regime onnivoro, a fare di tutto
nutrimento, anche di ciò che è ripugnante.
L’uomo, pertanto, cibandosi solo degli animali permessi, pur in una catena
necessaria di violenza, non ingurgita quella rapacità, che è propria
dell’animale carnivoro che mangia un altro animale col suo sangue, cioè
con la sua vita. È questo, in altre parole, sia un freno alla violenza, in
quanto l’uomo non deve mangiare la violenza che è nella carne dell’animale
carnivoro, sia un invito all’uso razionale dei beni del mondo, in quanto
l’uomo non deve porsi al vertice di una catena alimentare illogica e
devastante, soprattutto se osservata con l’occhio moderno dell’ecologia; un
carnivoro che mangia un altro carnivoro è un controsenso energetico che
incide in modo determinante sull’equilibrio ambientale.
La Torà, nel limitare le specie di animali terrestri permessi per il consumo
alimentare dell’uomo e nel definirne le specifiche caratteristihce, determina
per il popolo d’Israele, che è una piccola ma indispensabile parte
dell’umanità, una condizione che prefigura, in misura ridotta ma efficace,
quella dimensione «edenica» che sarà propria, secondo le parole del profeta
Isaia, dei tempi del Messia:
6 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. 7 La vacca e l’orsa
pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme ai loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il
bue. 8 Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di
serpenti velenosi. 9 Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte,
perché a saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare (Is 11, 6-9).

1.2. Animali acquatici, ovvero: i pesci


Il secondo gruppo di animali ammessi è costituito da quelli che stanno
nelle acque di mari e di fiumi, i pesci.
Così prescrive la Torà:
 
Questo potrete mangiare di tutti gli animali che stanno nelle acque: ogni animale che ha pinne e
squame nelle acque sia nei mari sia nei fiumi lo potrete mangiare (Lv 11,9)

Sono ammessi tutti i pesci che hanno pinne e squame facilmente


rimovibili; tutti gli altri animali acquatici, pesci e non, non sono permessi,
in particolare: molluschi, crostacei e cetacei.
Come è possibile riconoscer i pesci permessi? Rav Riccardo Di Segni
riporta una regola pratica:
La tradizione stabilisce la regola che quando un pesce ha le pinne può anche avere le squame, ma
quando ha le squame ha sicuramente le pinne. La regola è utile perché consente di individuare
subito l’animale permesso, anche se se ne vede solo una trancia, e senza sapere che pesce è.60

Molte specie sono ammesse da tutte le comunità ebraiche; alcune, invece,


sono controverse, come il pesce spada, il pesce San Pietro e lo storione.
Per quanto riguarda le uova di pesce, «sono permesse o proibite come il
pesce da cui derivano».61 Ad esempio, la bottarga è di norma permessa in
quanto prodotta con uova di pesce ammesso; per quanto riguarda il caviale,
la discussione è aperta, perché alcune comunità ebraiche ammettono
specifiche varietà di storione ed altre no.62
1.3. Gli esseri viventi del cielo, ossia: gli uccelli
Seguono, nell’ordine di entrambe le parashòt, le indicazioni relative ai
volatili.
Così prescrive la Torà in modo lapidario:
Mangerete ogni uccello puro (Dt 14,11).

Le parole della Torà non indicano quali sono gli uccelli puri; il testo
biblico, nei versetti che seguono, riporta esclusivamente la lista degli uccelli
non ammessi (Lv 11,13-16)63; ne deriva che sono ammessi gli uccelli, che
non hanno le caratteristiche di quelli inseriti nella lista.
A quale categoria appartengono gli uccelli vietati? Secondo la tradizione,
appartengono alla categoria dei rapaci.
Così insegna il midrash halakà:
Gli elementi che indicano la purità del bestiame e degli animali sono indicati nella Torà, gli
elementi relativi agli uccelli non sono indicati nella Torà. Hanno detto i Sapienti: Ogni rapace è
impuro, come è detto: aquila. Come va interpretato il termine aquila? Non ha il gozzo proprio degli
uccelli e non ha il dito posteriore sporgente e non ha il ventricolo asportabile ed è rapace e mangia
cose impure. Tutti gli uccelli che hanno queste caratteristiche sono vietati, quelli che non le hanno
sono ammessi. (Sifrè Devarìm § 103).

Quali sono, seguendo le determinazioni fissate dalla tradizione ebraica, le


caratteristiche degli uccelli «non rapaci» e, quindi, ammessi? Affidiamoci,
ancora una volta, alle parole di rav Riccardo Di Segni e rimettiamoci alle
indicazioni operative che fornisce:
Se l’animale non è ‘rapace’, è kashèr quando ha uno di questi tre segni:
- un dito della zampa è diretto posteriormente
- ha il gozzo (estroflessione a sacco dell’esofago)
- ha il ventricolo avvolto da una membrana che può essere tolta con facilità con le mani.
In realtà, oggi, questi segni non sono decisivi. Ogni comunità ha mantenuto una sua tradizione in
base alla quale mangia alcune specie di uccelli e altre no; ed è questa tradizione che, nel dubbio che
deriva dall’impossibilità di classificare esattamente l’animale in base ai segni tradizionali, stabilisce
in definitiva se un animale si può mangiare o no.64

L’esclusione dei rapaci e degli uccelli che mangiano cose impure, carogne
di altri animali in particolare, ci riporta alle osservazione fatte per gli
animali quadrupedi: l’ordine del mondo, voluto da Dio, si rispecchia, anche
e soprattutto, nel regime alimentare. L’uomo ha da Dio il permesso di
nutrirsi utilizzando i beni del mondo, ma non di cibarsi di animali che
praticano la violenza o che si rendono impuri perché si nutrono di cose
impure.
Come per gli animali terrestri, così anche per gli uccelli del cielo.
1.4. Animali brulicanti e striscianti
Al termine del capitolo del Levitico relativo alle norme riguardanti gli
animali ammessi e quelli non ammessi, viene riportata questa formula
classificatoria generalizzante:
46 Questa è la legge che riguarda i quadrupedi, gli uccelli, ogni essere vivente che si muove nelle
acque e ogni essere che brulica per terra, 47 perché sappiate distinguere ciò che è immondo da ciò
che è mondo, l’animale che si può mangiare da quello che non si deve mangiare (Lv 11,46-47).

Come risulta da questi versetti e dai precedenti, a fianco delle prescrizioni


relative agli animali di grossa taglia, agli uccelli e ai pesci, la Torà dedica
particolare attenzione alle prescrizioni riguardanti gli animali brulicanti
(shèrets) nelle acque, nel cielo e sulla terra.
Nelle acque, come è detto:
e tutti quelli che non hanno pinne e squame nei mari e nei fiumi, tra tutti quelli che brulicano nelle
acque e tra tutti gli animali che stanno nell’acqua, sono per voi impuri (Lv 11,10).

Nel cielo, come è detto:


Ogni animale brulicante volante che cammina su quattro zampe sarà abominevole per voi (Lv
11,20).

E, ancora, sulla terra, come è detto:


E ogni animale brulicante che brulica sulla terra è immondo: non se ne mangerà; ogni animale che
cammina sul ventre ed ogni animale che cammina su quattro zampe, compresi tutti quelli che
hanno molte gambe, tra tutti gli animali brulicanti che brulicano sulla terra, non li mangerete,
perché sono immondi (Lv 11,41-42).

A parte alcuni tipi di locuste che sono permesse dalla Torà (Lv 11, 22), tutti
gli animali acquatici che non siano pesci con pinne e squame, i rettili, i
piccoli mammiferi, gli insetti e i vermi sono espressamente e ripetutamente
vietati. Anzi particolare attenzione è richiesta per evitare che insetti e vermi
possano contaminare il cibo e le bevande.
Osserva rav Riccardo Di Segni a riguardo delle locuste:
Alcune comunità (dello Yemen e del Marocco) hanno conservato questa tradizione e nella pratica
consentono il consumo di una sola specie, la locusta o cavalletta del deserto (Scistocerca gregaria).
In Europa il consumo di questa specie è proibito; sia perché la tradizione si è ormai persa, sia
perché nel costume europeo questi animali, almeno tra gli ebrei, generano disgusto, e quindi
rientrano nella proibizione di mangiare o di fare cose disgustose.65

A fianco degli usi delle comunità yemenite e maghrebine, vorrei riportare


l’esempio di Yochanan ha-matvil, Giovanni Battista, il quale, secondo il
Vangelo, si cibava, nel rispetto delle prescrizioni della Torà, di locuste e di
miele selvatico:
4 Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo
cibo erano locuste e miele selvatico.66 5 Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la
Giudea e dalla zona adiacente il Giordano; 6 e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da
lui nel fiume Giordano (Mt 3, 4-6).

2. Le modalità di macellazione
Perché un animale permesso sia kashèr, è necessario che venga macellato e
preparato secondo le modalità codificate in modo particolareggiato nelle
prescrizioni halakiche contenute nella Torà orale.
La macellazione e la preparazione della carne animale prevedono alcune
fasi che debbono susseguirsi nell’ordine e nel rispetto delle relative
prescrizioni:
- la shechità , la macellazione rituale
- la bediqà, «ispezione», il controllo sanitario e la ricerca delle
imperfezioni
- il niqqùr, «pulizia», l’eliminazione delle parti grasse vietate e del nervo
sciatico
- la “kasherizzazione”, la spurgatura del sangue residuo tramite il processo
di salatura o di arrostitura.
2.1. La shechità e il divieto di mangiare il sangue
L’animale permesso, perché possa essere utilizzato nel consumo alimentare
umano, deve essere macellato secondo le modalità halakiche che
regolamentano la shechità e con l’intento di ridurre al minimo le sofferenze
dell’animale:
La macellazione di un animale a scopo alimentare segna il passaggio della sua carne dal mondo
animale a quello umano e in quanto il corpo dell’animale diventerà cibo per l’uomo e dopo la
digestione di quest’ultimo si trasformerà in muscolo o nervo o altro dell’uomo. La Torà desidera
che questo passaggio sia caratterizzato da un atto intenzionale e conscio da parte di membro del
Patto d’Israele e non da una forza meccanica o dovuta al caso. L’apparato digestivo e respiratorio
rappresentano l’essenza della vita dell’animale, pertanto la recisione dell’esofago e della trachea
simboleggiano la cessazione della vita dell’animale e il suo passaggio sotto il dominio di chi ha
eseguito quest’atto. Ma quest’atto deve dimostrare la sua caratteristica umana e perciò deve essere
un taglio netto e non uno strappo o un stritolamento che sono atti di cui anche l’animale è capace. E
siccome simboleggia un atto di possesso deve essere eseguito senza esitazione e senza il concorso
d’altre forze.67

La shechità, atto necessario e volontario, la cui esecuzione è regolata da


una complessa normativa stabilita dalla tradizione, su quale passo biblico si
appoggia?
Nella Torà scritta Dio ordina ai figli di Israele di macellare gli animali
«come prescritto», seguendo, cioè, le stesse prescrizioni da usare per gli
animali da offrire in sacrificio:
Quando il Signore tuo Dio avrà allargato i tuoi confini, come ti ha detto, e tu dirai: Voglio mangiare
carne, perché la tua anima desidera mangiare carne, secondo ogni desiderio della tua anima
mangerai carne. Qualora sia troppo lontano da te il luogo che il Signore tuo Dio ha scelto per
stabilirvi il suo nome, macellerai (come in sacrificio) animali del tuo bestiame di grossa taglia e di
piccola taglia, che il Signore ti ha dato, così come ti ho prescritto e potrai mangiare dentro le tue
porte secondo il desiderio della tua anima (Dt 12, 20-21).

Il passo, come osserva Rashì nel suo commento, contiene più di quanto
dice:
Qualora sia troppo lontano da te il luogo – e non vi ti potrai recare per offrire sacrifici di
comunione ogni giorno come ora che la Tenda procede assieme a voi.
E macellerai come ti ho prescritto – questo insegna che c’è una prescrizione relativa alla
macellazione con la quale si indica come si debba uccidere l’animale e queste prescrizioni relative
alla macellazione rituale contenute nella Torà orale sono state dette a Mosè al Sinài.

C’è nella Torà, come sottolinea Rashì, una progressiva concessione ai figli
di Israele relativa alle modalità di utilizzo alimentare della carne degli
animali permessi. Uccidere un animale, anche per ricavarne cibo, non è un
atto che rientra nella normalità, anzi si inserisce nel campo
dell’eccezionalità e della dimensione del «santo», che è al di fuori del
controllo diretto dell’uomo. Dal dono della Torà al monte Sinài alla presa di
possesso della terra d’Israele, durante il periodo del deserto, ai figli di
Israele erano concesse solo le carni degli animali sacrificati (sacrifici di
comunione). Dopo la conquista della terra, la lontananza del luogo unico di
culto non permetteva più di utilizzare la carne di animali sacrificati nella
dieta quotidiana; da questo momento è consentito cibarsi della carne degli
animali permessi, non sacrificati sull’altare ma macellati secondo le stesse
regole, così come ordinato da Dio. Ed è proprio da questo ordine divino che
dipendono le regole halakiche relative alla shechità stabilite dalla Torà
orale. Anzi, dato che la Torà è una sola, scritta e orale insieme, le
prescrizioni determinate dai Maestri sono già contenute nella parola data da
Dio a Mosè, secondo la formula: torà le-moshè missinay, «è Torà data a
Mosè dal Sinai».
Perché la macellazione deve avvenire col rito della shechità e non in altro
modo? La shechità è attenzione specifica al valore della vita dell’animale. Il
midrash, nel commentare Esodo 11,5, in cui è preannunciata la piaga della
morte dei primogeniti d’Egitto dall’uomo fino al bestiame, si chiede quale
sia la colpa degli animali tale da condurli alla morte:
Se l’uomo ha peccato, gli animali domestici in cosa hanno peccato?68 (Pesiqtà de-rav Kahanà, 7,9;
65b)

La sorte di dolore e di morte, che è comune a uomini e animali, non è certo


determinata dal peccato o dalla trasgressione di questi ultimi. La morte
degli animali per sacrificio, per alimentazione, per interventi diretti
dell’uomo sulla natura (peggio ancora per puro divertimento dell’uomo),
può essere determinata dalla necessità, ma, in ogni modo e anche dopo il
permesso dato all’uomo di cibarsi di carne animale, è un atto violento
«contro natura». L’uomo, pertanto, quando uccide un animale, o per
sacrificio o per alimentazione, deve essere cosciente del fatto che sta
alterando il corso di quella vita, e che il dolore e la morte di ogni essere
vivente sono una profonda ferita nella creazione.
La shechità, pertanto, è un argine alla violenza e alla crudeltà dell’uomo
nei confronti della vita animale:
Uccidere un animale per mangiare le sue carni non è un atto lecito; e se non è più il sacrificio che
può espiare la colpa...è necessario segnalare sempre questa idea con un rito, che è la shechitàh.
L’uccisione dell’animale non deve essere fatta in maniera arbitraria, ma deve essere sacralizzata.
Questo perché la morte di un essere vivente non deve mai diventare un atto semplice, ordinario
routinario. La shechitàh si impone come un atto educativo, che deve far pensare, che deve
insegnare, che comunque non deve fare dimenticare la crudeltà dell’azione.69

Tutto deve essere fatto per salvaguardare la dignità della vita animale e per
contenerne le sofferenze inevitabili nel segno di una sacralità che non
giustifica l’uccisione, ma che la rende possibile per farne un sacrificio da
offrire e consumare sull’altare della tavola.
La shechità non può essere demandata alle mani di chiunque, ma deve
essere eseguita da una persona esperta che conosca le prescrizioni
specifiche della halakà e che abbia una specifica preparazione, lo shochèt.
Questi deve utilizzare un coltello affilato che non presenti alcuna
imperfezione nella lama70. Il taglio deve recidere con un solo colpo,
preciso e deciso, senza pressione e schiacciamento, trachea ed esofago in
modo da provocare una morte dell’animale rapida e il meno dolorosa
possibile. Lo shochèt deve attenersi in modo scrupoloso alle norme per
evitare che un’infrazione o un’imprecisione possa rendere l’animale
macellato nevelà, «carogna di animale morto», e, di conseguenza, non più
idoneo.
La recisione delle arterie carotidi e delle vene giugulari porta, inoltre, ad un
rapido, anche se non totale, dissanguamento. Di conseguenza, la shechità è
il primo e necessario passo per ottemperare al divieto di mangiare il sangue
dell’animale71:
E non mangerete il sangue né di uccelli né di animali domestici in ogni luogo in cui risiederete (Lv
7,26).

La Torà, oltre alla shechità, prescrive il rito della copertura del sangue per
gli uccelli e per i quadrupedi selvatici, che non appartengono alle specie
destinate al sacrificio:
 
E ogni uomo dei figli d’Israele e ogni forestiero che risiede tra di voi, che prende con la caccia un
animale o un uccello che si può mangiare, verserà il suo sangue e lo coprirà con la polvere (Lv 17,
13).

Se il sangue degli animali sacrificati veniva spruzzato in espiazione


sull’altare, il sangue degli animali cacciati doveva essere versato a terra e
ricoperto a significare che la vita dell’animale viene riconsegnata alla terra
e al ciclo biologico. La distinzione si mantiene anche per il consumo
alimentare: la shechità si applica agli animali domestici, la shechità e la
copertura del sangue agli animali cosiddetti selvatici.
Va, inoltre, aggiunto che la shechità non provoca il dissanguamento
completo, per cui, al termine del processo di macellazione e di controllo
dell’animale, sono prescritte regole pratiche di khasherizzazione finalizzate
all’eliminazione completa del sangue dalla carne. La tradizione indica due
modalità: la salatura e l’arrostitura.
La salatura prevede un complesso procedimento in tre tempi: un primo
lavaggio della carne, la salatura ed un secondo lavaggio; l’arrostitura
consiste nel mettere a diretto contatto la carne col fuoco, evitando, però, che
il sangue venga cucinato con la carne stessa.
2.2. L’animale tarèf, ovvero le alterazioni dell’animale
La Torà vieta espressamente di mangiare carogne di animali morti (nevelà)
e la carne di un animale «sbranato» (terefà).72
Il divieto relativo al divieto di cibarsi della carogna di animale morto
(nevelà) lo troviamo nel seguente versetto del Deuteronomio:
Non dovrete mangiare alcun carogna animale (nevelà); la darai al forestiero che vive nelle tue città
e la mangerà oppure la venderai allo straniero perché tu sei un popolo santo per il Signore tuo Dio
(Dt 14,21).

Nessuno fra gli animali terrestri e i volatili permessi73 può essere utilizzato
per il consumo alimentare di un ebreo, se muore accidentalmente o se non
viene macellato secondo le regole prescritte della shechità.
Il divieto relativo all’animale «sbranato» (terefà) è riportato nel seguente
passo dell’Esodo:
Voi sarete per me uomini di sanità e non mangerete carne sbranata nella campagna, la getterete al
cane (Es 22,30).

Rashi, nel commentare le prime parole del versetto, sottolinea l’importanza


di queste prescrizioni:
Se siete santi e vi astenete dagli abomini delle carogne animali (nevelà) e degli animali sbranati
(terefà), voi siete miei; se non lo fate, non siete miei (Rashi su Es 22,30).

La tradizione ebraica interpreta la proibizione in un senso più ampio


rispetto al significato letterale del passo biblico, che fa riferimento ai danni
provocati da un animale assalitore, ed estende il divieto agli animali che
presentino alterazioni, malformazioni o danni che possano mettere in
pericolo la vita dell’animale stesso.
Si devono prendere in considerazione quelle malformazioni o quelle lesioni
che possono portare alla morte dell’animale nell’arco di un anno. Se le
lesioni o le malformazioni sono chiaramente identificabili, l’animale non va
macellato perché tarèf. La shechità, infatti, è un rito che pone l’animale
nella sfera del sacro e lo sottrae alla violenza, alla cupidigia o all’interesse
economico. Non appartiene allo spazio del sacro, e di conseguenza al
consumo alimentare prescritto ai figli d’Israele, sacrificare o macellare un
animale con malformazioni, non integro o visibilmente ammalato.
Diverso è il caso delle malformazioni e delle imperfezioni che possono
essere individuate solo post mortem. Pertanto, dopo la shechità, si procede
all’analisi dettagliata dell’animale e dei suoi organi vitali (viscere e polmoni
in particolare) e alla ricerca di quelle lesioni che possono rendere l’animale
tarèf, escludendone la carne dal consumo alimentare.74 Tale analisi,
chiamata bediqà ed effettuata da un bodèq, «controllore», è di fondamentale
importanza per determinare la kashrùt dell’animale macellato e segue le
minuziose indicazioni e le classificazioni contenute nel Talmud e nelle
opere halakiche successive.75
2.3. Le parti proibite: grasso (chèlev) e nervo sciatico
La Torà vieta di consumare il grasso degli animali destinati al sacrificio
(bovini, ovini e caprini domestici):
Di quella vittima offrirà, come sacrificio consumato dal fuoco per il Signore, il grasso che copre le
interiora, tutto il grasso che vi è sopra, i due reni col loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al
lobo del fegato, che si distaccherà al di sopra dei reni; il sacerdote li brucerà sull’altare: è un cibo
consumato dal fuoco per il Signore in odore soave76. Tutto il grasso appartiene al Signore. Questa
è una legge perenne per tutte le vostre generazioni: in tutti i luoghi in cui abiterete non mangerete
né grasso (chèlev) né sangue (dam) (Lv 3,14-17).

Tale prescrizione è vincolante anche nel consumo profano, al di fuori della


sfera sacrale del Santuario: non è permesso mangiare il grasso di animali
appartenenti alle specie sacrificabili (bovini, ovini e caprini domestici),
mentre è permesso mangiare il grasso degli animali selvatici e dei volatili.
Di quale parte grasse si tratta? Sono le parti grasse indicate in Esodo 29,13
e in Levitico 3,14:
- il grasso addominale,
- il grasso che avvolge i reni,
- il grasso dei fianchi.
Questi parti grasse devono essere eliminate con cura e attenzione:
l’operazione è chiamata niqqùr, «pulizia», ed è eseguita da persona esperta.
Il divieto di cibarsi di tali parti grasse, come indicato dal passo di Levitico
sopra riportato, sembra rientrare nella cosiddetta «cucina del sacrificio»,
che riserva alla divinità parti specifiche della vittima offerta.77 La
tradizione ebraica, per non confondere il precetto della Torà con gli usi
delle nazioni idolatriche, lo ha interpretato seguendo altre vie che
evidenziano la non idoneità delle parti grasse al consumo umano o che
sottolineano l’aspetto simbolico del divieto.78
Riporto la riflessione di Itzchak Siegelmann:
Il grasso, il chelev, simboleggia la riserva del capitale della bestia in quanto è l’accumulo del
risparmio determinato dall’eccesso delle entrate (quanto mangiato) sul consumato dal metabolismo
dell’animale. Questa riserva rappresenta, in un certo senso, lo scopo della sua vita: l’accumulo di
risorse egoistico. Questa caratteristica è in netto contrasto con l’operare altruistico che deve
caratterizzare l’agire dell’Ebreo. L’assorbimento dei grassi “egoistici” che il metabolismo
trasformerebbe in parte dell’uomo corromperebbero la natura altruistica dell’Ebreo e perciò devono
essere eliminati dalla sua dieta.79

Un’ulteriore proibizione è costituita dal divieto di cibarsi del nervo sciatico


dei quadrupedi. La proibizione deriva dal racconto biblico della lotta
notturna di Giacobbe, che da quel momento prese anche il nome di Israele,
con un misterioso «uomo» e della zoppìa che ne derivò:
23 Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il
guado dello Iabbok. 24 Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi.
25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26 Vedendo che
non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di
Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27 Quegli disse: «Lasciami andare, perché è
spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28 Gli
domandò: «Come ti chiami?» Rispose: «Giacobbe». 29 Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe,
ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30 Giacobbe allora gli
chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?» E qui lo benedisse. 31
Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la
mia vita è rimasta salva». 32 Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.
33 Per questo i figli d’Israele, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra
l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel
nervo sciatico (Gn 32,23-33).

Il passo biblico è di particolare importanza, perché è l’unico caso in cui il


testo della Torà fornisce un’interpretazione di un precetto alimentare: il
divieto di mangiare il nervo sciatico è legato alla storia ancestrale del
popolo d’Israele, all’eroismo solitario di Giacobbe che, secondo una
modalità interpretativa della tradizione ebraica, combatte tutta la notte
contro ciò e contro chi vuole minare la sua discendenza.80
Sulla base di questo precetto è vietato il nervo sciatico di entrambe le cosce
dei quadrupedi. L’escissione del nervo sciatico, che è un’operazione
complessa e delicata, deve essere effettuata durante il niqqùr, dopo la
rimozione delle parti grasse proibite.
2.4. Carne, latte e latticini
In tre passi della Torà (Es 23, 19; 34, 26; Dt 14,21) viene riportato un
precetto che ha avuto particolare rilevanza nello sviluppo delle norme
relative alla kashrùt: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es
23,19).
La tradizione ebraica non si è interrogata sul senso letterale del precetto,
ma ha cercato di chiarire per quale motivo sia ripetuto tre volte nella Torà.
La discussione è riportata nel Talmud:
È stato insegnato nella scuola di rabbi Jishmael: Il precetto Non cucinerai il capretto nel latte di
sua madre è ripetuto tre volte. La prima per vietare di cibarsi (di carne insieme al latte), la seconda
per vietare di trarre giovamento (dalla carne cotta nel latte), la terza per vietare di cuocere (la carne
nel latte anche senza mangiarne o trarne giovamento) (bChullin 115b).

Dalla triplice ripetizione del precetto ne derivano tre specifici divieti:


il divieto di cucinare la carne nel latte,
il divieto di mangiare carne assieme al latte o ai latticini,
il divieto di trarre giovamento dalla mescolanza di carne e latte.
Le prescrizioni rabbiniche, finalizzate a creare «una siepe attorno alla
Torà», hanno esteso i confini del precetto, dando alla cucina ebraica una
forte connotazione volta a separare in modo netto la carne dal latte e dai
suoi derivati, e a definire le caratteristiche proprie dei prodotti derivati da
latte per evitarne la contaminazione nelle fasi della lavorazione (esempio:
formaggi con caglio animale).
Osserva Lucia Levi:
Un’altra originale particolarità della cucina ebraica è derivata dal precetto biblico: «Non cucinare
un capretto nel latte di sua madre» (Esodo, XXII, 19) allargato dalla millenaria tradizione d’Israele,
santa come la parola biblica, nel senso che non si devono né cuocere, né condire carni con prodotti
latticini, né mangiare carne e latticini nello stesso pasto; l’osservanza più rigida richiede anzi
stoviglie e biancheria speciale per i latticini.
Per questo il burro kasher dev’esser di puro fior di latte e il formaggio e la ricotta si possono
mangiare solo se sono confezionati con caglio vegetale.81

Si ha, per così dire, una doppia cucina ed una doppia tavola.
Una cucina per la carne e una cucina per il latte e i suoi derivati (tovaglie,
posate, stoviglie e recipienti nettamente separati, frigorifero con due parti
nettamente distinte, eccetera).
Non è ammesso mangiare nello stesso pasto carne82 e latte o latticini
kashèr83, per cui esiste una casistica particolare per regolamentare le
diverse occorrenze e per stabilire anche l’intervallo di tempo necessario per
potersi cibare di latte o latticini dopo avere mangiato carne o viceversa84.
Si ha, inoltre, un’attenzione rigorosa nell’individuare i cibi che contengono
latte o i suoi derivati e i cibi che contengono carne. Con la stessa
meticolosità sono individuati anche quegli alimenti che non contengono né
latte né carne (= cibo parvè85) e, di conseguenza, consumabili unitamente
alla carne o al latte e ai suoi derivati.
3. Stesse regole, usi diversi
Se tante (e quelle sopra indicate sono solo una parte) sono le norme e le
limitazioni, si potrebbe giungere, in modo frettoloso, alla conclusione che la
cucina ebraica sia residuale e minimale, perché costretta a utilizzare solo il
poco permesso al confronto dell’infinità di cibi e di ingredienti che la terra e
il lavoro dell’uomo producono, e povera di sapori. Nella realtà dei fatti, le
tradizioni alimentari ebraiche sono varie e variegate e direttamente
ricollegabili con le diverse aree geografiche e culturali (e di conseguenza
anche alimentari) nelle quali, nel corso della storia e nelle tante diaspore, le
comunità si sono trovate a vivere. Pertanto, nel pieno rispetto delle norme
fissate dalla Torà, le diverse comunità hanno elaborato tradizioni culinarie e
usi alimentari, che utilizzano ingredienti, sapori, spezie, colori ed odori che
direttamente indicano il luogo di provenienza di quella specifica ricetta o di
quella specifica tradizione alimentare. È quell’insieme di elementi che, in
una determinata area fanno della cucina ebraica la cucina ebraica
askenazita, sefardita, levantina, magrebina, yemenita, mediorientale,
italiana…
È evidente che le comunità ashkenazite, vissute per secoli nell’Europa
centro-orientale, hanno elaborato piatti ben diversi da quelli propri delle
comunità sefardite, vissute nel bacino del Mediterraneo e rimaste per lungo
tempo a contatto col mondo arabo. Ogni gruppo, ogni comunità, anche
quando, per sfuggire a persecuzioni o per altri motivi, lascia le terre del
precedente esilio, porta con sé gli usi alimentari divenuti tradizionali. Si
pensi, ad esempio, alla situazione della comunità ebraica di Livorno nata e
cresciuta a partire dal 1593, con l’emanazione da parte di Ferdinando I de’
Medici delle Lettere Patenti, con le quali si invitavano gli ebrei a fare
commercio nella città. Ebrei portoghesi, marrani, ebrei magrebini, di Tunisi
in particolare, vi si stabilirono con le loro imprese commerciali e vi
portarono usi alimentari propri delle terre di provenienza: gli ebrei
magrebini di Tunisi portarono il cuscussù, i portoghesi le uva filate, gli
spagnoli le roschette86. E, una volta a Livorno, fecero propri anche piatti
della tradizione locale e italiana, come, ad esempio, il caciucco87.
Le peculiari caratteristiche della comunità livornese sono evidenziate da
un’ebrea ferrarese, lì trasferitasi dopo il matrimonio:
Un nuovo mondo in tutti i sensi. Gente diversa, diversi cibi, le abitudini, le tradizioni religiose
familiari. Perfino il cuscùs non conoscevo. Nemmeno l’avevo sentito nominare. La prima volta lo
assaggiai in casa Liscia. Ne parlavano tutti con grande entusiasmo e, come succede per tutte le cose
troppo reclamizzate, ne rimasi delusa. Non lo capii subito. Non ero abituato a mescolare tanti cibi
nello stesso piatto. Ma il cuscùs ha uno strano potere, quello di entrare in punta di piedi nelle
sensazioni che ci sono abituali e conquistarci a poco a poco per sempre.88
Inoltre, questo vivere delle comunità ebraiche, pur se separate, a contatto
con altri gruppi e altre popolazioni, ha creato processi osmotici di reciproca
influenza89: dove si coltivano patate e rape, si useranno in pietanze kashèr;
dove, invece, si coltiva la melanzana o il pomodoro, saranno questi ad
essere utilizzati; dove si usano determinati condimenti, se kashèr, saranno
quelli ad essere utilizzati; dove si usano certe spezie, anche la cucina
ebraica ne farà uso. Ma si ha anche il processo inverso: piatti della cucina
ebraica passano alla cucina dei non ebrei. Si pensi, per limitarci
all’orizzonte italiano, alla spongata di Brescello di sicura origine ebraica,
alla torta sbrisolona del montavano, ai carciofi alla giudìa, al salame d’oca,
al bianco mangiare, alla torta di tagliatelle e altro ancora.
Chi volesse, però, ricercare l’elemento caratterizzante della cucina ebraica,
al di là delle regole e della «varietà e non poca» degli usi di cui parlava
Leon da Modena, troverebbe che il piatto, o più in generale la tavola
imbandita, è luogo evocativo ed educativo, che, in particolare, nel sabato e
nei giorni di festa, richiama elementi caratteristici e fondanti di quella
specifica ricorrenza, illustra episodi biblici o della tradizione e della storia
ebraica, mantiene vivo l’interesse per la fede e la cultura, rafforza il senso
di identità e, a volte, si trasforma, come è giusto a tavola, in gioco e gioia.
Alcuni esempi.
Le orecchie di Hamàn
I dolcetti, propri della festa di Purìm, «Sorti»,90 richiamano le
caratteristiche, anche trasgressive, di questa giornata, in cui si legge il
Rotolo di Ester e in cui si fa memoria, con gioia dirompente anche senza
freni, dello scampato pericolo di allora, pericolo che derivava dalle
macchinazioni del perfido Hamàn, sventate (almeno quella volta nella storia
ebraica) da Mardocheo e da Ester. È la festa del doppio e del travisamento,
dell’inversione dei ruoli e del superamento del limite. È la festa del
banchetto e del vino; è la festa dei doni, da fare soprattutto ai poveri (Est
9,22); e quello è l’unico giorno dell’anno in cui la tradizione ebraica invita
espressamente a bere vino in abbondanza e ad ubriacarsi a tal punto da non
riuscire più a distinguere fra il «maledetto Hamàn» e il «benedetto
Mardocheo» (bMegillà 7b).
Questa la ricetta, secondo la tradizione sefardita italiana91.
Gli orecchi d’Amàn si gustano per la festa di Purìm e si chiamano così perché hanno la forma delle
orecchie di maiale92 a dileggio del terribile infido Amàn ministro del re Assuero che, per colpa
sua, aveva firmato il consenso di uccidere tutti gli Ebrei del suo regno. È una dolce vendetta93 di
cui gli Ebrei si accontentano.
Zucchero 1 cucchiaio// uovo 1// olio 1 cucchiaio// farina 150 gr. Circa.
Impastare con cura tutti gli ingredienti e spianare la pasta o con il matterello o con la macchina.
Con la rotellina tagliare la pasta a losanghe con i lati un po’ incurvati a forma di orecchie. Friggerle
in padella in abbondante olio e cospargerle di zucchero a velo oppure di miele diluito in pochissima
acqua riscaldata in un tegamino.94

Nella storia narrata nel Rotolo di Ester, Hamàn finisce impiccato al palo
che aveva preparato per Mardocheo (Est 7,10); sulla tavola di Purìm viene,
come si addice alle caratteristiche carnacialesche e trasgressive della festa,
bonariamente sbeffeggiato e deriso: «Ci volevi morti, ti è andata male… e
io ti mangio!»
La minestra di Esaù
Sulla tavola ebraica non è solo il giorno della festa a trovare posto, a volte
riempiono il piatto anche le saghe, le storie, i personaggi, di cui si parla nel
TaNak, la Bibbia ebraica, in particolare nei primi cinque libri. Fra i tanti
casi che divengono, attorno alla tavola e sulla tavola, oggetto di racconti e
di interpretazioni, si segnala la vicenda di un altro malvagio, il figlio
primogenito d’Isacco, quell’Esaù, che ha un posto ben più importante e
determinante di quello del perfido Hamàn. Egli, fratello di Giacobbe, fu suo
rivale e nemico, a tal punto e con tale veemenza e pervicacia da divenire il
nemico ed il malvagio per antonomasia.
Nel libro della Genesi, Bereshìt («In principio»), si narra di Esaù che,
sfinito ed affamato, cedette la primogenitura a Giacobbe per un piatto di
lenticchie rosse:
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla campagna ed era
sfinito. Disse a Giacobbe: ‘Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono
sfinito’. Per questo fu chiamato Edom . Giacobbe disse: ‘Vendimi subito la tua primogenitura’.
Rispose Esaù: ‘Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?’. Giacobbe allora disse:
‘Giuramelo subito’. Quegli giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. Giacobbe diede ad Esaù
il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù
aveva disprezzato la primogenitura (Gn 25, 29-34).

E questa è una possibile versione di quella minestra di lenticchie rosse, in


uso presso la comunità ebraica di Milano:
Per 6 persone
500g di lenticchie rosse
1 cipolla
2 litri circa di acqua, brodo vegetale o brodo di carne
1 cucchiaino di cumino
succo di 1 limone
olio di oliva
sale e pepe

Lavate bene le lenticchie rosse e versatele in una pentola con la cipolla tritata, l’acqua, sale e
pepe e portate ad ebollizione.
Coprite, abbassate il fuoco e fate cuocere per circa 30 minuti. Le lenticchie rosse devono
spappolarsi. Se la zuppa è troppo spessa, aggiungete acqua o brodo.
Insaporite con il cumino, il succo di limone e aggiustate con sale e pepe.
Servite la zuppa in piatti singoli su cui aggiungerete 1 cucchiaio di olio di oliva.
Volendo potete preparare una versione più ricca di questa minestra aggiungendo delle
polpettine di carne.95

Mentre si gusta la minestra, si parla, si discute, si chiede e si ottiene


risposta.
Il piatto è un caldo e prelibato midrash e, cucchiaiata dopo cucchiaiata,
mentre si ritemprano le forze e ci si sazia, si penetra, più in profondità (con
la mente e con la pancia), il senso della Scrittura e della storia.
La challà, pane di shabbàt
La cucina di shabbàt è uno degli elementi più forti e significativi nella
tradizione gastronomica (e non solo) del popolo ebraico. Lo shabbàt, col
suo ritmo dalla cadenza ebdomadaria, riporta, di sette giorni in sette giorni,
l’uomo al cospetto di Dio Creatore: riposo, pace e gioia sono il segno
dell’adesione completa ai ritmi che Dio ha inscritto nel mondo creato e
l’uomo, rinunciando ad ogni atto o azione che possa modificare lo stato
delle cose, riconosce la propria limitatezza e si affida, in tutto e per tutto, a
Dio.
Di shabbàt non si può accendere e spegnere il fuoco, e tanto meno
cucinare; pertanto, dato che il cibo è elemento fondamentale per celebrare
in pienezza il giorno festivo, le diverse tradizioni ebraiche hanno elaborato
piatti ricchi e succulenti, preparati prima dell’inizio dello shabbàt, da
conservare al caldo del forno o da servire freddi: cholent, gefilte fish, dafina
o hamin…
Elemento fondamentale della tavola di shabbàt è la challà, il pane da
utilizzare nella qaballàt shabbàt, «accoglienza del sabato», da celebrarsi il
venerdì sera al tramonto che segna l’ingresso nella festa (‘èrev shabbàt)96.
La challà, o meglio le challòt, perché due devono essere i pani, è preparata
con farina bianchissima a ricordo della manna ed in numero di due ad
indicare la doppia razione di manna del venerdì; è di forma intrecciata per
richiamare il serto nuziale, in quanto lo shabbàt è paragonato a una
fidanzata o ad una sposa. Nella preparazione del pane è indispensabile che
la massaia prelevi una piccola parte della pasta e la bruci nel fuoco,
recitando la benedizione prescritta97, a ricordo delle primizie del pane che
venivano portate al Santuario di Gerusalemme (Nm 15,20).
Le due challòt sono poste, ricoperte di una bianca tovaglietta ricamata98,
sulla tavola apparecchiata del venerdì sera e, prima della cena, che
costituisce il primo pasto di shabbàt, dopo il Qiddùsh, o benedizione del
vino, il capofamiglia recita la benedizione sul pane99 e ne distribuisce un
pezzo a tutti i commensali.
Questa è la ricetta della challà.
 
Lievito di birra un cubetto, cioè 25 gr. // acqua mezzo bicchiere // zucchero un cucchiaio
abbondante // olio di oliva tre cucchiai // sale un cucchiaio // un uovo // farina 250 gr. // un uovo
sbattuto per dorare // sesamo quattro cucchiaini.

Sciogliere il lievito con l’acqua tiepida e lo zucchero. Aspettare 15 minuti, indi aggiungere gli altri
ingredienti, impastare il tutto in un’insalatiera e capovolgere il panetto sulla spianatoia. Impastare
ancora per alcuni minuti e rimetterlo nell’insalatiera infarinata e coperta con un tovagliolo umido.
Lasciar lievitare per un’ora abbondante in luogo tiepido. Trasferire nuovamente l’impasto lievitato
sulla spianatoia continuando a lavorarlo. Dividerlo in tante parti per quanti pani si desiderano. Si
modella delle trecce a quattro capi, si pongono sulla carta da forno nella teglia, si spennellano con
uovo battuto, si lasciano lievitare per un’altra ora, dopo averli cosparsi di semi di sesamo.
Introdurre la teglia nel forno a 180 gradi e lasciar cuocere per circa mezz’ora finché i pani avranno
raggiunto un bel colore dorato.100

Le due challòt e il calice di vino del Qiddush sono elemento indispensabile per accogliere lo
shabbàt e per iniziare a gustarne la delizia.

Senza pane e senza vino non c’è festa.


 
Charòset, argilla dolce tra erbe amare

Nella settimana dedicata alla festa di Pèsach, la Pasqua ebraica, valgono


regole di kashrùt più strette e vincolanti per determinare l’ammissibilità del
pane, del cibo e del vino. Si può mangiare solo pane azzimo ed è proibito
tutto ciò che è lievitato.
Particolare importanza ha il Sèder pasquale, nel corso del quale, nella
prima sera del periodo festivo (e anche nella seconda nell’ebraismo della
Diaspora), si fa memoria dell’uscita dall’Egitto con gesti simbolici, con la
lettura della Haggadà, con quattro calici di vino, col cibo e con la gioia
trasbordante del canto e della danza.
Per celebrare il Sèder, «ordine», secondo la ritualità prescritta, è necessario
predisporre al centro della tavola un vassoio contente tre azzime intere, uno
zampino d’agnello arrostito, erbe amare (sedano e lattuga), aceto, un uovo
sodo e charòset. Ognuno di questi elementi ha un valore simbolico: le tre
azzime rappresentano le tre componenti di Israele (sacerdoti, leviti e
popolo); lo zampino d’agnello ricorda il sacrificio pasquale che si offriva al
Santuario di Gerusalemme; le erbe amare sono segno dell’amarezza della
schiavitù in Egitto; l’aceto è simbolo dell’asprezza con la quale furono tratti
i figli d’Israele in Egitto; l’uovo sodo è probabilmente il cibo del lutto per la
distruzione del Santuario.
E il charòset?
La parola richiama l’argilla con quale in Egitto i figli d’Israele
fabbricavano i mattoni:
Il Charòset, mescolanza di mele, noci, vino e spezie, rappresenta il miscuglio di argilla e paglia con
cui costruivamo i mattoni durante la nostra schiavitù. Richiama anche alla mente le donne di Israele
che partorivano i figli di nascosto, ai piedi dei meli dell’Egitto, e come il melo, che prima produce
il frutto e poi germoglia le foglie per proteggerlo, partorivano senza alcun garanzia di salvezza.
Questa devozione meravigliosa ed attiva raddolcì la sofferenza della schiavitù, nello stesso modo in
cui il charòset raddolcisce le erbe amare. Il modello della nostra celebrazione è la mescolanza di
amaro e dolce, tristezza e gioia, racconti di dolore che terminano in preghiera.101

In che momento si mangia il charòset?


Dopo il ricordo dell’uscita dall’Egitto e prima di consumare il pasto serale,
sopra una foglia lattuga (erba amara) si pone un po’ di charòset e si mangia
dopo avere recitato la benedizione prescritta; si prende, quindi, una foglia di
lattuga, sopra alla quale si pone un po’ di charòset e un pezzo della terza
azzima, si mangia il tutto dopo avere recitato le seguenti parole:
In ricordo del Santuario come faceva Hillel il Vecchio, che le avvolgeva e la mangiava in solo
boccone, per compiere quanto è detto: Lo (= agnello pasquale) mangeranno su azzime e erbe
amare (Nm 9,11).
Le ricette del charòset sono infinite, legate alle tradizioni locali e agli usi e
ai gusti, nel rispetto della kashrùt, delle singole famiglie, come osserva
Jenny Bassani Liscia:
Ogni città e ogni famiglia ha il «suo Haròset». Dipende dalla sua provenienza e dalla disponibilità
delle materie prime.102

A conferma di questa varietà, la ricetta del charòset è l’unica, nella Cucina


nella tradizione ebraica di Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, a presentare otto
varianti. Ne riporto due.
Prima variante.
Haroseth N.1 (Padova)

Ingredienti:
350 gr. di castagne secche
500 gr di mele
200 gr. di noci sgusciate
200 gr. di datteri
200 gr. di prugne secche
200 gr. di uvetta senza semi
odore di cannella

Lessate le castagne, ammollate in acqua le uvette e le prugne; snocciolate datteri e prugne. Pelate le
mele e tritate tutto col tritacarne, bagnate con succo d’arancia e spolverizzate di cannella. Al
momento di servire unitevi un po’ di vino chasher. Volendo potete aggiungere due o tre banane,
anch’esse tritate. Cuocete a fuoco lento sempre mescolando per dieci minuti.103

Seconda variante.

Haroseth N. 6 (Nord Africa)

Ingredienti:
60 gr. di pinoli
1 tuorlo d’uovo sodo
½ bicchiere di zucchero
1 mela grattugiata
½ bicchiere di mandorle tritate
½ bicchiere di noci grattugiate
succo e grattatura di un limone
cannella
 
Mescolate insieme tutti gli ingredienti e mettete i pinoli infilzati in piedi sopra all’impasto.104

Chi mangia il charòset assieme all’azzima e all’erba amara loda e benedice


la sapienza di Hillel il Vecchio, che ci fa comprendere come, anche
nell’angustia, nel dolore e nella desolazione, il fare memoria dell’uscita
dall’Egitto e il rimanere fedeli a Dio addolcisce l’amaro della vita,
nell’attesa di potere celebrare le feste, finalmente liberi, l’anno prossimo a
Gerusalemme.
Le tagliatelle per Shabbàt Beshallàch
Nella tradizione ebraica italiana diverse comunità hanno l’uso di preparare
un piatto speciale per il sabato in cui si legge la parashà Beshallàch (Es
13,17-17,16)105, sezione del libro dell’Esodo in cui si narra, nella prima
parte, l’uscita dall’Egitto, l’inseguimento da parte di Faraone e delle sue
truppe, il passaggio del Mar Rosso, la disfatta degli egiziani travolti dalle
acque del mare.
Il piatto è conosciuto con diversi nomi, fra i quali il più significativo è
«Ruota di Faraone», che ricorda in modo diretto i fatti narrati nella parashà.
Fra le diverse ricette, la più elaborata è completa è quella riportata da
Giuliana Ascoli Vitali-Norsa106:
Per 6 persone
4 uova
farina quanto basta (circa 400 gr.)
sugo d’arrosto o grasso d’oca 1
100 gr. di uvetta
100 gr. di pinoli
pezzetti di salsiccia cascer o salame d’oca (facoltativo)

Con solo uova e farina, senz’acqua, fate una sfoglia sottile e tagliatene delle tagliatelle molto sottili.
Cuocete le tagliatelle in acqua abbondante e salata e toglietele appena alzeranno il bollore. Prima di
scolarle versate un po’ d’acqua fredda nella pentola. A parte preparate in un piatto grande il grasso
d’oca o il sugo d’arrosto, versatevi le tagliatelle, muovetele bene con due forchette e lasciatele
riposare. Preparate a parte dei pezzetti di salsiccia o di prosciutto d’oca, unitevi uva passa e pinoli.
In una teglia fate uno strato di tagliatelle, poi un po’ di composto, e ancora tagliatelle e così via.
Cuocete al forno in modo che sia rosolato da tutte e due le parti.

Variante n. 1
Non piacendo a tutti il sapore del dolce col salato, si possono fare anche col solo sugo d’arrosto (o
grasso d’oca) e salame.

Variante n. 2
Quando le tagliatelle saranno pronte, invece di cuocerle al forno si possono rosolare in una padella
di ferro. L’operazione è un po’ più laboriosa ma vengono molto saporite.
Metterete le tagliatelle ben condite nella padella unta d’olio; quando si sarà formata una crosticina
scura, volterete il pasticcio con l’aiuto di un piatto; lasciate formare di nuovo la crosta e poi con la
forchetta la romperete un po’ in modo che vada a finire dentro al pasticcio e ne farete formare una
di nuova. Potete fare questa operazione due o tre volte in modo che anche nell’interno del pasticcio
ci siano delle tagliatelle un po’ croccanti.107

Jenny Bassani Liscia, nel ricordare gli usi della comunità di Ferrara, così spiega il significato
allegorico e «teologico» del piatto:

La forma rotonda dovuta alla teglia rappresenterebbe le ruote dei carri dei soldati egiziani che
rincorrevano gli Ebrei in fuga nel deserto, i taglierini le onde del Mar Rosso, i pinoli le teste dei
cavalli, le uvette le teste degli Egiziani affogati nel Mar Rosso. Per dire la verità, la cosa è un po’
macabra, ma a noi bambini sembrava molto divertente.108
 

In questo modo la tavola diviene, soprattutto per i bambini, il luogo in cui


il cibo, la Parola di Dio, la tradizione e l’interpretazione sono una cosa sola.
Sedere attorno alla tavola imbandita non significa solo vivere secondo le
regole della kashrùt, è, anche e soprattutto, il momento in cui si possono
porre le domande ed ascoltare le risposte. E questo, in particolare, nello
shabbàt beshallàch, in cui la lettura sinagogale richiama il passaggio del
Mar Rosso e la morte degli egiziani che inseguivano il popolo d’Israele. È il
momento per insegnare ai figli, che gustano quel piatto, che Dio, creatore
del mondo e padre di tutti gli uomini, non si compiace della morte di
nessuno, nemmeno della morte dei nemici o dei malvagi.
Attorno a quella tavola, mangiare è realmente, e non in modo simbolico,
nutrirsi della parola di Dio, per essere pronti a compierla e a studiarla ogni
giorno della vita.
I carciofi alla giudìa
È il piatto forte della cucina giudaico-romana, conosciuto ed osannato
come una delle prelibatezze della sapienza culinaria ebraica, a cui è
impossibile resistere.
La ricetta, come sottolinea Ariel Toaff, «esigeva l’esecuzione di mani
esperte», secondo le seguenti indicazioni:
I carciofani sono boni pigliandoli nella loro stagione, la qual comincia a Roma a mezzo febbraro e
dura per tutto giugno. Per farli alla giudea se devono mondare e poi tagliare le cime delle foglie
pungenti e dure in foggia de spirale, e cussì se lascieno le parti più tenere e bianche. E poi
frigendole in oglio bogliente nella patella, rimanendo teneri i pedoni d’essi carciofani, se coprono
con pevere, sale overo sugo de melangole.109

Per chi volesse seguire nel dettaglio le varie fasi, riporto le parole di
Luciano Rebora,110 poeta e giornalista, il quale scrisse un’ode, tra il serio e
il faceto, dedicata ai carciofi alla giudìa.
Si prendono carciofi romaneschi
grossi, teneri e freschi,
e si levano lor le prime foglie
poscia a quelle che restano si toglie,
mediante un affilato coltellino,
la parte dura per lasciar la molle.
Dopo aver tornito per benino
le panciute corolle,
si immergono nell’acqua d’un catino,
dal succo di limone acidulata,
poi si dà lor col panno un’asciugata,
si schiacciano un pochino sul tagliere,
si condiscon col pepe e col sale,
si mettono a giacere nel tegame ospitale
e immerse in abbondante olio d’olivo
si fanno cuocer sopra un fuoco vivo.

A cottura ultimata troveremo


che il carciofo somiglia a un crisantemo
dalla corolla tonda e spampanata;
allora con la mano
spruzzeremo (tenendoci lontano)
sopra l’olio bollente acqua gelata
e il carciofo nell’olio scoppiettante
presto diverrà d’oro croccante.

A questo punto il piatto è bello a posto


pronto a dar molti punti al pollo arrosto,
al timballo, al budino, allo sformato,
ed ogni morto appetito
verrà rimesso a nuovo e invigorito
ché tale piatto è (chi lo nega ha torto)
roba da far risuscitare un morto.

Questi sono i carciofi alla giudia


dal torso snello e dal sapor gustoso
chiamati in romanesco sciccheria;
dan lustro e vanto alla gastronomia,
riconcilian la sposa con lo sposo,
ammansiscono la suocera più arpia,
e a pranzo, a cena, a casa e all’osteria,
oro croccante, amor d’ogni goloso,
questi sono i carciofi alla giudia.111

E, per finire, prima di gustare quest’oro croccante, vediamo come va servito:


E infine: servite! Accomodate i vostri carciofi in trionfo su di un bel piatto da portata, di quelli che
si usavano una volta (una pesciera farà bene all’occasione). Per carità non indugiate nella
tentazione di servirli nel cuki di scolatura con lo scottex unticcio in bella mostra! È una storia
vecchia: la tradizione è l’interiorizzazione della memoria di piccoli atti rituali, di figure
professionali si direbbe oggi con un ruolo ben specifico e altamente specialistico. Quale
interiorizzazione più efficace dell’ingurgitazione voluttuosa di in carciofo di zia Sarina? E che cosa
si interiorizza se non l’immagine trionfale della teoria di carciofi in bella mostra sul grande piatto il
cui arrivo è l’avvenimento centrale della cena? E volete rovinarvi la professionalità trascurando un
dettaglio d’immagine così significativo come la presentazione del prodotto? Siamo seri.112

E, per dirla con le parole di Pablo Neruda:


Così termina
in pace
la carriera
del vegetale armato
che si chiama carciofo,
poi
brattea dopo brattea
spogliamo
la delizia
e mangiamo
la pacifica pasta
del suo cuore verde.113

***
Un altro sapore nel piatto
Cibo e ospitalità prima di tutto
 
Nella Bibbia ebraica si narra di un prelibato banchetto che Abramo offrì,
alle Querce di Mamre, a tre misteriosi ospiti:
1 Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda
nell’ora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di
lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo:
«Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. 4 Si
vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. 5 Permettete che
vada a prendere un boccone di pane, ristorerete il vostro cuore, dopo potrete proseguire, perché è
ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». 6
Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina,
impastala e fanne focacce». 7 All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono
e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese panna e latte fresco insieme con il vitello,
che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero,
quelli mangiarono. (Gen 18,1-8).
Il racconto si presta a molte interpretazioni e si apre ad altrettante domande
irrisolte, come – ad esempio – chi fossero quei tre uomini, che fine abbiano
fatto le focacce di Sara, delle quali non si fa menzione nel corso del
banchetto, e, ancora, se il cibo offerto da Abramo fosse o non fosse kashèr.
Ma quello che emerge e ci trascina è il canto di gioia dell’ospitalità:
Abramo corre incontro agli ospiti, li invita a fermarsi da lui, propone loro di
rinfrancarsi con un po’ di pane, va in fretta dalla moglie per farsi preparare
focacce, corre all’armento per prendere un giovane vitello e cucinarlo, lo
serve agli ospiti assieme ai prodotti migliori del gregge (panna e latte
fresco) e, mentre quelli mangiano all’ombra ristoratrice dell’albero, resta in
piedi accanto a loro, pronto a portare altro cibo e altra bevanda.
Si può leggere il tutto in chiave spirituale e sostenere che l’atteggiamento
di Abramo deve essere quello di chiunque si appresta ad accogliere Dio
nella propria vita, ma non si può non riconoscere che, in primo luogo, qui si
parla del dovere (anzi: della gioia incontenibile) dell’ospitalità, rivolta a
chiunque stia in piedi davanti a noi all’ingresso della nostra tenda.
Abramo, allora, ci invita a fare della tavola il luogo dell’accoglienza e a
condividere il cibo in modo che chi bussa alla nostra porta trovi una mano
ospitale e possa ristorarsi per poi continuare il cammino.
Il cibo è dato all’uomo perché possa saziare, in ordine crescente
d’importanza, se stesso, la sua famiglia e il suo prossimo.
52. Leon da Modena (Yehudà Aryè mi-Modena, 1574-1648), rabbino di
Venezia, fu ingegno versatile sia negli studi ebraici sia in altri campi
(musica, teatro, editoria).
53. Rabi Leon Modena, Historia de’ riti ebraici. Vita et osservanza degli
Ebrei di questi tempi, Modena, Capponi, 1728, pp. 7-8. Per una edizione
digitale: http://sammlungen.ub.uni-
frankfurt.de/freimann/content/titleinfo/419102.
54. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 12.
55. Le parashot (sing.: parashà) sono le sezioni in cui sono suddivisi i
cinque libri della Torà per il ciclo annuale di lettura sinagogale.
56. Sheminì è l’ottavo giorno, che indica l’ingresso in servizio, come
sacerdoti, di Aronne e dei suoi figli.
57. La parola re’è, che significa «vedi», segna l’inizio del primo versetto
della parashà: «Vedi, io oggi pongo dinanzi a voi la benedizione e la
maledizione» (Dt 11,26).
58. Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, Giuntina, Firenze, p.
139.
59. Nel testo ebraico il nome dell’animale shafàn, variamente interpretato e
tradotto. Per un discussione, vedi: Marvin Harris, Buono da mangiare.
Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi, Torino, 1992, pp. 70-
72.
60. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 30.
61. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 50.
62. Per un approfondimento su alcuni usi delle comunità italiane vedi:
Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni Lamed,
Roma 1996 (5756), p. 48-49.
63. In Lv 11,13: «E questi considererete come abominevoli tra i volatili,
non verranno mangiati, sono abominevoli». Segue l’elenco delle specie non
ammesse.
64. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), p. 26.
65. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), p. 51.
66. Cfr Mc 1,6.
67. Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione rituale», articolo
reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html.
68. Nel Talmud e nel Midrash la domanda si incontra tutte le volte in cui si
commenta un passo biblico in cui la sorte dell’uomo è accomunata a quella
degli animali.
69. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), pp. 56-57.
70. Cfr. E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina,
Firenze, 1994, p. 55: «Il suo strumento è un coltello di forma particolare, il
challaf, di cui esistono tre misure, una per gli animali grandi, una per quelli
piccoli e una per i volatili. Lo shochet deve verificare l’affilatura del
coltello prima di usarlo poiché la minima irregolarità invaliderebbe la
macellazione. Il coltello è in acciaio e la sua lunghezza deve essere
perlomeno uguale al doppio di quella del collo dell’animale».
71. Il divieto di mangiare il sangue è ripetuto più volte nella Torà: Lv 3,16;
17, 10-12.14; Dt 12, 16.23. La proibizione era già stata data ai figli di Noè:
Gn 9,4.
72. La prescrizione è ripetuta in vari passi della Torà: Lv 17,15; 22,8.
73. La norma non si applica ai pesci.
74. «Un animale treifa ovvero malato, è già destinato ad essere cibo per la
terra o per gli altri animali (il campo e il cane del versetto) e perciò inadatto
al consumo umano» (Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione
rituale», articolo reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html).
75. La tradizione ebraica, in particolare nel trattato Chullin del Talmud
babilonese, elenca settanta condizioni che possono rendere terefà l’animale
macellato (cfr Rambam, Hilkòt shechità, 10,11).
76. Queste parole sono espunte nella traduzione della Bibbia della CEI.
77. Per una analisi del mondo greco vedi Marcel Detienne, Jean-Pierre
Vernant, La cucina del sacrificio nel mondo greco, Boringhieri, Torino,
1982,
78. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), pp. 63-64 e note.
79. Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione rituale», articolo
reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html.
80. Per una discussione delle interpretazioni del precetto vedi: Riccardo Di
Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni Lamed, Roma, 1996
(5756), pp. 73-74.
81. Lucia Levi, «Prefazione», in Ines De Benedetti, Poesia nascosta, La
Zisa, Palermo, 2013 (prima edizione: Israel, Firenze, 1931), p. 18.
82. Dal divieto sono esclusi i pesci, in quanto esseri viventi ai quali non è
dato, in Genesi 1, il regime vegetariano, riservato agli esseri viventi che
popolano la terra e volano nel cielo.
83. Il latte kashèr deve provenire da animali ammessi. Il Talmud prescrive
che alla mungitura debba essere presente un ebreo osservante.
84. L’intervallo di tempo di norma è fissato in sei ore; secondo alcune
tradizioni, l’intervallo può essere di un’ora o di tre ore.
85. Parvé, ossia: «neutrale», sta a indicare cibo, di norma certificato da
autorità rabbiniche, che non contiene né carne né latte e i suoi derivati e
che, di conseguenza, può essere accompagnato a carne o a latte e latticini.
Sono cibi parvè: il pesce, le uova, la verdura e la frutta, i cereali. Per
prodotti industriali occorre la certificazione.
86. Ciambelle di pasta sia dolce sia salata.
87. «Gli Ebrei di Livorno asseriscono che il caciucco è nato come piatto
ebraico. Se così fosse, qualche pesce consentito dalla dietetica ebraica ci
sarebbe rimasto. Il caciucco livornese è composto quasi esclusivamente da
molluschi, crostacei e pesci non kashèr» (Jenny Bassani Liscia, La storia
passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p. 67).
88. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p.
63.
89. Nell’area italiana, ad esempio, la specificità della cucina ebraica è stata
intesa e apprezzata da chi ebreo non è, tanto da dare luogo all’espressione
«mangiare alla giudea», che non significa mangiare kashèr, ma piuttosto
secondo gli usi e i gusti propri degli ebrei (ad esempio: i carciofi alla giudia,
il salame d’oca, le azzime, la zucca barucca, eccetera).
90. È il «carnevale» ebraico e si celebra il 14 del mese di Adar.
91. Nella tradizione ashkenazita il dolce prende il nome di Hamantaschen,
«tasche di Haman» ed è accompagnato spesso da un gustoso ripieno.
92. Altri parlano di orecchie d’asino, ma la cosa non è importante, perché il
dolce ha tante varianti e tante forme.
93. Elena Loewenthal scrive a proposito: «I biscotti d’occasione sono
proprio a sua (= di Aman) immagine, come a dire: ‘Ahmmm… ti mangio!’,
per la gioia e il tripudio di tutti» (Buon appetito Elia! Manuale di cucina
ebraica, Baldini e Castoldi, Milano, 1998, pp. 199-200).
94. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p.
52.
95. Joan Rundo, La cucina ebraica in Italia, Sonda, Casale Monferrato,
2003, p. 109; l’autrice riporta che la ricetta è propria di ebrei egiziani
presenti nella comunità di Milano. Per una versione più elaborata della
ricetta cfr. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
La Giuntina, Firenze, 1987, p. 65.
96. Secondo la tradizione ebraica la giornata va da tramonto a tramonto: lo
shabbàt, inizia, il venerdì sera diciotto minuti prima del tramonto.
97. «Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, re del mondo, che ci hai
comandato di separare la challà».
98. Simbolicamente la tovaglietta bianca rappresenta la rugiada che al
mattino ricopriva la manna.
99. «Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, re del mondo, che fai uscire il
pane dalla terra».
100. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 70.
101. Haggadàh di Pesach. Raccontare per essere liberi, Carucci, Roma
1986 (5746), p. 43.
102. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 55.
103. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
Giuntina, Firenze, 1987, p. 353.
104. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
Giuntina, Firenze, 1987, p. 354.
105. Beshallàch è la prima parola di Es 13,17: «Quando lasciò partire».
106. Altre versioni del piatto si possono trovare in: Jenny Bassani Liscia,
La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p. 50; Claudia Roden, The
Book of Jewish Food, Knopf, New York, 2006, p. 476.
107. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica, La
Giuntina, Firenze, 1987, p.50.
108. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 50.
109. Ariel Toaff, Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal
Rinascimento all’età moderna, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 34. Alla nota
25, riportata a p. 37, l’Autore così precisa: «Nota manoscritta in margine al
foglio di guardia di manoscritto di mia proprietà, contenente l’ordine festivo
delle preghiere secondo il rito di Roma, datato presumibilmente alla prima
metà del Cinquecento, e già appartenuto al prof. Yoseph Seromenta».
110. Luciano Folgore (Roma 1888 - 1966), è lo pseudonimo del poeta
Omero Vecchi. Fu futurista entusiasta e poi favolista, narratore, umorista e
parodista.
111. La poesia è pubblicata in Guida gastronomica d’Italia, TCI, Milano,
1931, pp. 322-323.
112. Sandra Di Segni, L’ebraismo vien mangiando, Giuntina, Firenze,
1999, pp. 22-23.
113. Pablo Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, traduzione di
Giovanni Battista De Cesare, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi), 2003.
«La lingua kòsher»

Al termine del cammino, un racconto chassidico apre la tavola ad altre


prospettive.
Rabbi Yaakov Yitzchak di Przysucha, lo Yid HaKodesh, una volta ordinò al suo discepolo più
anziano, Rabbi Simcha Bunem, di fare un viaggio fino ad un villaggio lontano. Richiestogli lo
scopo del viaggio, lo Yid HaKodesh rimase in silenzio. Rabbi Simcha Bunem prese con sé alcuni
chassidim e si mise in viaggio. Il cielo volgeva già al crepuscolo quando arrivarono a destinazione.
Poiché nel villaggio non c’era alcuna locanda, Rabbi Simcha Bunem ordinò al suo cocchiere di
fermarsi alla prima casetta. Bussò alla porta e fu invitato ad entrare insieme ai suoi studenti.
Quando chiesero se potevano unirsi al loro ospite per la cena, l’uomo rispose che non aveva latte o
formaggi, poteva offrire loro solo carne. Immediatamente i chassidim bombardarono l’uomo con
domande relative al grado di kashrut. Chi era lo shochèt? I polmoni dell’animale erano esenti dal
benché minimo difetto? E la carne era stata salata a sufficienza sì da eliminare ogni residuo di
sangue, come previsto dalla legge? L’interrogatorio sarebbe andato avanti se una voce imperiosa,
proveniente dal fondo della casetta non li avesse apostrofati. Spostarono così la loro attenzione dal
padrone di casa all’uomo vestito come un mendicante che sedeva vicino al focolare, fumando la
pipa. ‘Miei cari chassidim’ disse il mendicante ‘siete molto scrupolosi per quanto riguarda ciò che
mettere in bocca. Tuttavia, non vi interrogate affatto su quello che esce dalla vostra bocca!’.
Quando Simcha Bunem ebbe udito queste parole, comprese il motivo del suo viaggio. Fece un
cenno di assenso rispettoso verso il mendicante, ringraziò il padrone di casa per la sua premura e
ritornò al suo carro dicendo ai suoi studenti: ‘Andiamo, siamo pronti per tornare a Przysucha’. 114

Le parole del mendicante richiamano, per assonanza e consonanza, un


detto di rabbi Yeshùa di Nazaret (Gesù per i cristiani) sul puro e
sull’impuro:
Poi riunita la folla disse: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca dell’uomo rende
impuro l’uomo, ma quello che esce dalla sua bocca rende impuro l’uomo!» (Matteo 15, 10-11).

Gesù di Nazaret e il mendicante ci mettono in guardia da un pericolo che


può annidarsi nella cosiddetta ortoprassi: il ritenere che il meticoloso
compimento del precetto sia, in sé e per sé, sufficiente per determinare e
definire la risposta e l’adesione a Dio. Chi, infatti, pensa di avere percorso il
cammino di santità prescritto dalla Torà perché ha compiuto,
scrupolosamente e con il massimo dell’impegno, uno o più precetti, è in
errore, in quanto i precetti della Torà non sono che uno strumento
pedagogico finalizzato a guidare l’uomo nella quotidiana scelta che gli
permette di andare a Dio con tutta la sua anima, con tutto il suo cuore, con
tutte le sue forze.
I precetti sono una tratto sostanziale del cammino, dell’itinerarium hominis
in Deum, ma non sono tutto il cammino. Ad ogni generazione e ad ogni
uomo è lasciato uno spazio di scelta e di crescita, al di là del precetto: lo
spazio che ci lega al mondo e agli altri uomini, lo spazio che può essere
vissuto solo qui e ora, con la consapevolezza che si va a Dio in ogni cosa,
con ogni cosa (anche la più piccola e, apparentemente, insignificante), in
ogni uomo, con ogni uomo; in ogni situazione, nella buona e nella cattiva
sorte; nel bene e, forse, anche, nel male; nella preghiera di lode e nel grido
disperato.
La Scrittura ci insegna a riguardo di Noè: «Noè camminò con Dio» (Gn
6,9).
La vita è un cammino da compiere con Dio, come Noè, per essere giusti e
perfetti: perfetti nel compiere la volontà di Dio, giusti verso gli uomini, gli
animali e il mondo. Come Noè, ognuno di noi è chiamato a rendere
testimonianza della propria adesione a Dio e del proprio cammino alla
ricerca della giustizia e della verità, con la consapevolezza che anche
nell’errore o nella trasgressione sta il senso e il peso del cammino, qui ed
ora, con questa carne di terra che non vuole (ancora) farsi di cielo.
Dice ancora la Scrittura:
Noè, uomo del suolo, cominciò a piantare una vite. Bevve il vino e si ubriacò e si denudò nel
mezzo della tenda (Gn 9,20-21).

Come per Noè, così per ognuno di noi, nell’indeterminatezza del nostro
oggi, sta il rischio della vita e della scelta. Tutti, forse, siamo tentati, come
lo fu Noè, dalla smodatezza e siamo inclini alla trasgressione, a partire
proprio dalla tavola, dal cibo e dal vino, con le conseguenze anche
degradanti che ciò comporta, come per Noè così anche per noi. La
tradizione ebraica ci insegna che è dalla tavola e dal cibo che parte il nostro
quotidiano essere uomini al cospetto del mondo creato, degli altri esseri
viventi, degli altri uomini e (per chi crede) di Dio.
Dio ci conceda che, a differenza di Noè che «che si denudò nel mezzo della
tenda, per noi l’errore o la trasgressione sia solo nel bere vino e magari
nell’ubriacarci, una volta l’anno, a Purìm o a Carnevale.
Ma solo fino a quel punto e nulla di più.
 
Bete’avòn, «Buon appetito»!
***
Ad libitum
Le divine pietanze
 
Ancora un racconto chassidico per lasciarci col sapore in bocca di cose
buone e sante.
Rabbi Yaacov Shimshon di Kosov amava condividere con i suoi discepoli le storie dei grandi
Rebbe e dei loro chassidim. Una volta, dopo la preghiera del mattino, accadde che il Rebbe iniziò a
raccontare una storia dopo l’altra senza fermarsi. Sia lui che i suoi chassidim erano giunti ad un tale
stato di estasi divina che persero ogni cognizione del tempo. Passò il giorno e solo nel tardo
pomeriggio il Rebbe narrò il suo ultimo racconto. Lentamente, Rabbi Yaakov e i suoi discepoli
tornarono alle loro incombenze quotidiane e si resero conto che non .avevano fatto né la colazione
né il pranzo. Uno dei discepoli si alzò in piedi e rese omaggio al suo Rebbe, dicendo: «Fino ad
oggi, Rebbe, non riuscivo a capire veramente Moshè Rabbeinu115 quando diceva che, mentre era
sul Monte Sinai, non aveva mangiato pane né bevuto acqua. Ora so cosa vuole dire essere pieni
della Presenza stessa di Dio e non sentire alcun bisogno di mangiare o di bere». Rabbi Yaakov fece
un cenno di apprezzamento verso il suo discepolo e disse: «La tua interpretazione è notevole, figlio
mio, ma non è possibile che Mosè più che rallegrarsi di aver fatto a meno del cibo, lo stesse
rimpiangendo? Noi sappiamo che ogni cosa in questo mondo ha in sé una scintilla del Divino e che
solo quando una cosa viene utilizzata nel modo giusto, questa scintilla viene sollevata e riportata a
Dio, dal Quale era originata.116 Questo non è meno valido per il cibo e le bevande di quanto lo sia
per i libri o gli strumenti in genere. Mosè si rese conto che, in quei quaranta giorni sul Monte Sinai,
non aveva né mangiato né bevuto e, quindi, non era riuscito a sollevare le scintille divine del pane e
dell’acqua. Nel Mondo a Venire, queste scintille si lagneranno presso il Santo che Mosè ha fatto
loro un danno, anteponendo il suo amore per Dio alla loro liberazione».117

I maestri del cassidismo ci insegnano che non è vero che la mistica non
mastica pane. Il digiuno, anche nell’estasi al cospetto di Dio, non è la via
dell’umana esperienza in un mondo popolato, anche a nostra insaputa, di
scintille divine. L’uomo, pertanto, deve farsi parte del mondo per ritrovarvi
quelle scintille divine ovunque sparse, anche nel pane e nel cibo; quando
usa le cose del mondo con cura e con amore, fa in modo che le scintille del
divino si liberino e ritornino al Creatore.
Questo ci insegna che le cose del mondo e la natura non sono sacre ma
sante e che a loro si deve andare come si va a Dio; la tavola, allora, è
veramente un altare nel santuario del mondo e il cibo è veramente
preghiera, sia che si sia uomini di fede sia che ci si senta solamente parte di
un tutto da rispettare e di un mondo da calpestare con orma leggera.
Forse (come spero) chi mangia prega davvero due volte.
114. Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, pp. 71-72.
115. «Mosè nostro maestro».
116. «Scintille di Dio: il cabbalista Yitzchak Luria (1534-1572) insegnava
che tutte le cose contengono una scintilla del Divino, e che la più
importante opera spirituale sta nel liberare queste scintille per farle tornare a
Dio, utilizzando le cose di questo mondo in modo giusto e appropriato», in
Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, p. 170 n. 2.
117. Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, pp. 169-170.
’O ’nvitato a pranzo118

Magna, magna, Moscè, ’un fa’ complimenti!


Beve! sente ’sto vino d’ ’ii Castelli.
… Assaja ’sta pasticcia, è bona. … E senti
’sti ngkozzamòdde…!119 te’, pigliet’ ’ii scélli.
… Magna co’ ’i mani, stamo fra parenti!...
… Vàrdeme ’sta carciòfela, chi belli
fogli ’nnorati! assaja. … E ’sti torzélli?120
… Ché grèvi! manco toccheno li denti.
… Te piace più caciotta o marzolina?
… ’N altra récchia-d’Amànne! … un’altra frutta…
Bè, u’ mmicchierin de grappa: è sopraffina!
… Sgrùulla…! ’Un te piglià’ cosa, rutta, rutta!
… E mo ’a gioncata121… Eh? una cucchiarina!
Ma mette tutto jò, tanta se butta!
… Ché troppa! tutta, tutta.
Tanto mo, un bob cafè… e un bon chalòmme…122
e domana va tutto pe’ macòmme.123
Crescenzo Del Monte
118. Crescenzo Del Monte, Sonetti giudaico-romaneschi sonetti
romaneschi prose e versioni, Giuntina, Firenze, 2007, p. 319. Il sonetto
porta la data del 29 aprile 1924.
119. Spezzatino di pollo o tacchino.
120. Indivia soffritta in padella.
121. Formaggio fresco tenero.
122. Sonno.
123. In quel luogo (consueto).
Un assaggio… bibliografico

Claudio Aita, Viaggio illustrato nella cucina ebraica, Nardini, Firenze,


2004.
Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi (a cura di),
Banchetti letterari. Cibi, pietanze e ricette nella letteratura italiana da
Dante a Camilleri, Carocci, Roma, 2011.
Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica, Giuntina,
Firenze, 1987.
Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000.
Ines De Benedetti, Poesia nascosta. Le ricette della cucina tradizionale
ebraica, La Zisa, Palermo, 2013 (I ed.: Israel, Firenze, 1931).
Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni Lamed,
Roma 1996 (5756).
Sandra Di Segni, L’ebraismo vien mangiando, Giuntina, Firenze, 1999.
Elena Loewenthal, Buon appetito, Elia! Manuale di cucina ebraica,
Baldini e Castoldi, Milano, 1998.
Moni Ovadia, Il conto dell’ultima cena. Il cibo, lo spirito e l’umorismo
ebraico, Einaudi, Torino, 2010.
Deborah Pavanello, Cibo per l’anima. Il significato delle prescrizioni
alimentari nelle grandi religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 2005.
Claudia Roden, The Book of Jewish Food, Knopf, New York, 2006.
Joan Rundo, La cucina ebraica in Italia, Sonda, Casale Monferrato, 2003.
Massimo Salani, A tavola con le religioni. Ebraismo, EDB, Bologna, 2014.
Rossella Tammam Vaturi, La cucina ebraica tripolina, Giuntina, Firenze,
2005.
Ariel Toaff, Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal
Rinascimento all’età moderna, Il Mulino, Bologna, 2000.

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