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Bottarga: rizzo ‘ngkrasso co’ la crosta
mongkàna3 allessa e olivi (dolci e amari)
cicorietta ‘nzalta e ovatosta
ché aliciotti co’ ‘a ‘innìvia ereno cari.
Poi bucaletti, fatti venire apposta
vivi vivi ‘n dispenza a li Chiavari
da lo compare, là, de quella posta
mia de bottega, ch ’i maneggia ‘affari.
Poi uva, frutti secchi e moscardini4.
E certo vino, ohé! … cért’acquavita,
fss…! che me ne scolai tre bicchierini!
… Café… e mai pèjo! e così s’è assopita
‘sta stimana… e ce ne destini
cent’altri Dio, se ce vorà da’ vita.
Crescenzo Del Monte
2. Crescenzo Del Monte, Sonetti giudaico-romaneschi sonetti romaneschi
prose e versioni, Giuntina, Firenze, 2007, p. 330. Il sonetto «Il pranzo del
Sabato» porta la data del 23 agosto 1925.
3. Vitella da latte.
4. Dolce casalingo.
A partire dalla tavola
Ci si può chiedere perché ci sia una così grande varietà di cibi (e di cucine)
nel mondo e perché un gruppo umano utilizzi un determinato cibo mentre
un altro lo rifiuta. La risposta non è univoca perché diverse possono essere
le modalità di indagine in un arco di possibilità che va dal semplice influsso
dell’ambiente al condizionamento simbolico-religioso.
Marvin Harris, ad esempio, ritiene che i fattori nutritivi siano di gran lunga
più determinanti di quelli simbolici e che la scelta, in buona parte, sia frutto
di un’attenta valutazione dell’uso corretto delle risorse:
[…] le differenze sostanziali tra le cucine del mondo si possono fare risalire ai condizionamenti
ambientali e alle diverse possibilità offerte dalle diverse zone. Per esempio, […] le cucine che
ricorrono maggiormente alla carne si accompagnano a una densità demografica relativamente bassa
e alla presenza di terre non strettamente necessarie, o inadatte, alla coltivazione. All’opposto, le
cucine che ricorrono maggiormente ai vegetali si accompagnano a un’elevata densità demografica,
con popolazioni il cui habitat e la cui tecnologia per la produzione del cibo non possono sostenere
l’allevamento di animali da carne senza ridurre la quantità di calorie e di proteine disponibili per
l’uomo. Nel caso dell’India […] la scarsa praticabilità in termini ambientali, dell’allevamento di
animali da carne supera a tal punto i vantaggi nutritivi del consumo di carne che questa finisce per
essere evitata: diventa cioè cattiva da mangiare e, pertanto,cattiva da pensare.6
Harris può essere nel vero, ma quello che emerge nel sistema alimentare
umano è la stretta e necessaria relazione tra mangiare e pensare, tra il
nutrire lo stomaco “di gruppo” e la mentalità “di gruppo”. Il cibo,
qualunque sia la modalità di scelta, si carica sempre di valenze simboliche e
culturali che danno forza e senso a un determinato regime alimentare.
Pertanto, per l’uomo il mangiare non non è solo l’atto del nutrirsi, ma è
l’insieme degli usi, dei significati, dei valori e delle procedure che i diversi
gruppi umani hanno elaborato e sedimentato, nel tempo e alle diverse
latitudini, per soddisfare le esigenze alimentari e, insieme, per determinare
l’identità personale e di gruppo da una parte, e per separare la propria
identità da quella degli altri e di altri gruppi. Diviene, come sostiene Roland
Barthes, un sistema semiologico di significazione, fondato, come ogni
sistema comunicativo, sulla distinzione saussuriana tra Langue e Parole:
La “Lingua” alimentare è costituita: 1) dalle regole d’esclusione (tabù alimentari); 2) dalle
opposizioni significanti di unità ancora da determinare (per esempio del tipo: salato/zuccherato); 3)
dalle regole d’associazione, sia simultanea (al livello di una pietanza), sia successiva (al livello di
un menu); 4) dai protocolli d’uso, che forse funzionano come una specie di retorica alimentare. Per
quanto concerne la ‘parola’ alimentare, molto ricca, essa comprende tutte le variazioni personali (o
familiari) di preparazione e di associazione (si potrebbe considerare la cucina di una famiglia,
soggiacente a un certo numero di abitudini, come un idioletto).7
È vero che il cibo può essere un ottimo mediatore culturale e che ogni
storia alimentare è, anche (e soprattutto), il racconto di incroci e di
contaminazioni, ma è anche vero che la cucina può essere il luogo più
impenetrabile del mondo, di cui si conserva gelosamente il segreto, e il cibo
il territorio che si situa oltre un confine che non si può (o che, a volte, non si
vuole) attraversare.
Il rapporto con il cibo, infatti, non è solo una scelta individuale o prassi di
gruppo dettata da fattori sia commerciali sia culturali o da precauzioni
igieniche o salutiste; il cibo, fin dai primordi, fin dal tempo dell’irruzione
del cotto e della raccolta, è dato essenziale nella storia dell’umanità e,
quando si carica di valenze identitarie o quando si fa espressione di
appartenenza religiosa, diviene, necessariamente perché non negoziabile,
linea di demarcazione e di separazione facilmente definibile e verificabile,
perché. Senza cibo, infatti, non c’è vita e la quotidiana necessità
d’alimentarsi obbliga molto spesso al confronto con gli altri, confronto dal
quale la differenza e la distanza emergono sempre.
Il modo di cibarsi è specchio di una visione del mondo e degli altri esseri
viventi (di cui ci si ciba o ci si astiene dal cibarsi), è linea che traccia il
confine che separa il sacro dal profano, il lecito dal tabù, il puro
dall’impuro, il gradevole dal disgustoso, il commestibile dal dannoso, il
cotto dal crudo, l’umano dal ferino, l’essere di un gruppo e l’essere di un
altro gruppo.
Ecco, allora, che quando cerchiamo di conoscere in profondità persone
appartenenti a una tradizione religiosa o anche culturale diversa dalla
nostra, corriamo il rischio di dovere limitare il nostro approccio a una
prossimità, superficiale o intensa, che forse deve rinunciare alla convivialità
e allo scambio reciproco attorno a una tavola imbandita. Dobbiamo, allora,
mettere in conto che un ebreo, ortodosso o semplicemente osservante, o un
musulmano, difficilmente sederà alla nostra tavola, non per un
atteggiamento di rifiuto del dialogo o per una necessità identitaria
irrinunciabile, ma per il fatto che le regole alimentari prescritte dalla
«religione» ebraica e da quella musulmana non possono essere osservate,
nello spirito e nella lettera, da chi ebreo o musulmano non è. Non solo per
ignoranza della norma, ma per l’impossibilità da parte nostra di osservare la
kashrùt9, prescritta a un ebreo, o le regole della cucina halal10, a cui si
deve attenere un musulmano.
Lasciando lo spazio dell’accoglienza alle scelte delle singole persone e alle
occasioni d’incontro e di condivisione che la vita loro offre, nelle pagine
che seguono si cercherà di partire dalla tavola imbandita per presentare
quelle che, in modo improprio, possiamo definire le “regole alimentari”
ebraiche, così come fissate dai precetti divini, contenuti nella Bibbia
ebraica, nella tradizione che li interpreta e li vive, e negli usi tramandati
dalle diverse comunità, in terra d’Israele o sparse nelle diverse diaspore. Il
tutto con lo sguardo di un osservatore che dall’esterno guarda con
l’acquolina in bocca i manicaretti di un sontuoso e succulento banchetto a
cui non è, ma a cui vorrebbe essere invitato.
***
Un altro sapore nel piatto
Sbirciando una merenda nel giardino dei Finzi Contini
Ecco come Giorgio Bassani descrive una merenda ai bordi del campo da
tennis nel giardino dei Finzi Contini:
Era stracolmo, il vassoio: di panini imburrati all’acciuga, al salmone affumicato, al caviale, al
fegato d’oca, al prosciutto di maiale; di piccoli vol-au-vents ripieni di battuto di pollo misto a
besciamella; di minuscoli buricchi11 usciti di certo dal prestigioso negozietto cascèr che la signora
Betsabea (Da Fano) conduceva da decenni in via Mazzini a delizia e gloria dell’intera cittadinanza.
E non era finita. […]
Lei, la figlia, si era a sua volta tirato dietro, giù per il sentiero che portava dalla magna domus al
tennis, un carrello con le ruote gommate, carico anche questo di caraffe, cuccume, bicchieri e tazze.
E dentro le cuccume di porcellana e di peltro era contenuto del tè, del latte, del caffè; dentro le
imperlate caraffe di cristallo di Boemia della limonata, del succo d’uva, dello Skiwasser: una
bevanda dissetante, composta d’acqua e sciroppo di lampone in parti uguali, con aggiunti una fetta
di limone e qualche chicco d’uva, che Micòl prediligeva su tutte, e di cui si mostrava
particolarmente orgogliosa.
Oh, lo Skiwasser! Nelle pause del gioco, oltre ad addentare qualche panino che sempre, non senza
ostentazione di anticonformismo religioso, sceglieva tra quelli al prosciutto di maiale, spesso Micòl
tracannava a piena gola un intero bicchiere del suo caro «beverone», incitandoci di continuo a
prenderne anche noi «in omaggio» – diceva ridendo –«al defunto Impero austro-ungarico»».12
«Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei» è una verità che fin dai tempi
antichi l’uomo ha compreso, ma che trova la sua formulazione definitiva
nella Fisiologia del gusto di Jean Anthelme Brillat-Savarin, opera di
fondamentale importanza per lo sviluppo della cucina francese, pubblicata
nel dicembre del 1825, due mesi prima della morte dell’autore.
Se l’uomo è ciò che mangia e se, in specifici contesti, ciò che si mangia e
come lo si mangia è determinato da rigide norme fissate dalla tradizione,
per capire il senso e il valore della vita di una persona o la forma specifica
di una cultura o gli elementi che fondano una determinata organizzazione
sociale, sarà dal cibo che si deve partire e dalle norme che, nei singoli
contesti e alle diversi latitudini, ne regolamentano la produzione e il
consumo.
Se abbandoniamo, per un attimo, il sentire globalizzante che caratterizza il
moderno approccio al cibo, il fast food, la cucina etnica e la cucina fusion, e
ci chiediamo quali sono gli elementi che determinano il pregiudizio nei
confronti di chi «non è come noi», scopriremo che ciò, che maggiormente
influisce, è legato alla cucina e agli odori che essa porta con sé. Il
meccanismo che noi applichiamo agli altri, si ritorce contro di noi quando
diventiamo, a nostra volta, gli altri. Chi, infatti, viaggiando all’estero non si
è mai stato apostrofato col classico «italiano mangiapasta» e non si è sentito
vittima del pregiudizio, con tutto ciò che porta con sé?
La genesi del pregiudizio parte da lontano, forse fin dall’origine stessa
della differenziazione delle culture (e delle rispettive colture).
Chi era, infatti, il barbaro nel mondo antico? Non solo chi non parlava la
lingua greca, e poi quella romana, ma chi non si nutriva come gli altri
uomini. Nel IV secolo dell’evo volgare, così Ammiano Marcellino
descriveva gli usi alimentari degli Unni, quelli che allora erano considerati i
barbari più barbari di tutti:
Anche se hanno lineamenti umani, sebbene deformi, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver
bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne
semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei
cavalli.13
Altri Maestri, invece, ritengono che i precetti della Torà non abbiano alcun
intento igienico in quanto finalità della Torà non è quella di fornire
all’uomo un prontuario sulla salute, ma di renderlo consapevole delle scelte
che è chiamato a compiere per essere santo lungo la via tracciata da Dio.
Altri, ancora, ritengono che la Torà abbia un intento pedagogico e che Dio,
di conseguenza, intenda insegnare all’uomo, tramite i precetti, la corretta
via di comportamento. In particolare, i divieti alimentari riguardanti animali
carnivori, predatori e rapaci, devono insegnare all’uomo che non deve
«nutrirsi» di violenza; per converso, gli animali permessi, vale a dire i
quadrupedi ruminati con l’unghia del piede divisa, sono erbivori che non
fanno uso di violenza perché non uccidono altri animali per alimentarsi.
Queste riflessioni, sia destinate a un pubblico di non ebrei sia rivolte a
coloro che intendono seguire i dettami della tradizione, sono importanti
perché ci fanno conoscere come, nel susseguirsi delle generazioni, si siano
poste le domande e si siano trovate diverse risposte, a volte contrapposte,
mai definitive. Cerchiamo, allora, facendo ricorso anche ai contributi
elaborati dalla riflessione di parte ebraica, di approfondire il ruolo delle
regole alimentari ebraiche e, più nello specifico, il significato vero e ultimo
del cibarsi.
Partiamo da una semplice domanda.
Perché gli ebrei mangiano seguendo le regole della kashrùt? Utilizziamo la risposta data dal
rabbino Elio Toaff:
Il passo biblico, di cui fa uso anche rabbi Yeshùa di Nazaret (Gesù per i
cristiani) nel Vangelo,23 ha dato luogo, nell’ambito della tradizione ebraica,
a varie interpretazioni. Coloro che ritengono che si tratti dei pani di
presentazione, che erano posti per una settimana sulla tavola nel Santuario e
che, dopo la loro sostituzione, erano riservati esclusivamente ai sacerdoti,24
vedono nell’operato di Achimelek una prefigurazione del principio del
piqqùach ha-nèfesh, in quanto il sacerdote ha contravvenuto alla
prescrizione contenuta nella Torà allo scopo di evitare che David e i suoi
compagni potessero morire di fame o ricevere grave danno dalla mancanza
prolungata di cibo.
Questo ci insegna che il compiere i precetti della Torà, oggi come allora,
comporta sempre una scelta che può portare, nel territorio di confine in cui
è in gioco la vita, anche a respingere, nei limiti e con le modalità fissate
dalla tradizione, l’urgenza del precetto, in modo che l’uomo possa
conservare la vita in questo mondo per lodare e santificare il nome di Dio e
per guadagnare la vita nel mondo a venire.
Tutto avviene sotto lo sguardo provvidente del Signore, come è detto nel
Salmo:
18. Ecco l’occhio del Signore è su quelli che lo temono,
per coloro che sperano nella sua grazia,
19. per liberare la loro anima dalla morte,
per mantenerli in vita in tempo di carestia. (Sal 33,18-19).
***
Un altro sapore nel piatto
La tavola degli altri è sempre la più ghiotta
Tre spunti di lettura.
Primo spunto. Una storiella, come la racconta Moni Ovadia, per rendere
più digeribili le pietanze imbandite:
Rabbi Landau ha sempre sofferto in segreto per non aver mai potuto mangiare carne di maiale. Così
un giorno sale su un aereo e vola verso una remota isola tropicale.
«Nessuno lo potrà mai qui trovare», pensa.
A sera, va a chiudersi nel miglior ristorante del luogo e ordina del maiale arrosto. Mentre aspetta
che lo servano, sente una voce chiamarlo per nome: solleva gli occhi e vede venirgli incontro
Moyshele, uno dei membri della sua sinagoga. Proprio in quel momento il cameriere poggia sul suo
tavolo un vassoio con un intero maialino arrosto con una mela in bocca.
«Il suo maiale, signore».
Rabbi Landau è imbarazzatissimo.
«No lo è incredibile?» si rivolge a Moyshele.«Tu lo ordini una mela, e guarda qvi come ti lo
portano!»25
Secondo spunto. Primo Levi così traccia in Argon, il primo racconto del
Sistema periodico, la figura del padre, «piuttosto superstizioso che
religioso», che non sa resistere alle lusinghe del prosciutto:
Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia: percorrevamo
lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a
sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l’Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i
salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che
comprasse quest’ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio
nell’infrangere le regole del Kasherút, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla
tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di
sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità.26
Terzo spunto. Nel romanzo L’amore offeso, Edith Bruck ci racconta, oltre
alle vicende amorose, anche il rapporto della protagonista con il cibo, in
particolare con il cibo non kashèr, con quella fetta di prosciutto di maiale,
che non riesce a mangiare, perché, come afferma, lei non è religiosa ma lo
sono il suo palato e il suo stomaco:
«Ah già il mio nome. È un nome non nome. Vengo da una famiglia di liberi pensatori. Nome di un
nonbattezzato come me. Mia madre suonava Schubert quando col dito rimase sul tasto del sol per la
dolorosa avvisaglia del parto. E per gioco o non trovando di meglio, mi chiamarono proprio Sol.
Sono stati previdenti, sono un solitario. Ma dimmi di te. Niente prosciutto, vero?» si sciolse in un
sorriso ironico, mentre io lo guardavo come se invece della bocca avesse aperto il cuore, tanto era
tenera la sua espressione.
«Se ci tieni l’assaggio» acconsentii e lasciai che mi infilasse una fetta in bocca dove la rigiravo
incapace di masticarla, di inghiottirla, e come una selvaggia finii per risputarla.
«Non volevo farti violenza. Non dovevi accettarla. Scusa, scusa» disse con esagerato senso di
colpa.
«Me la sono fatta io la violenza».
«Per un laico è difficile capire che non si mangi qualcosa di buono per motivi religiosi».
«Io non sono religiosa, ma lo è il mio palato, il mio stomaco alimentato fin da bambina con cibi
kasher».
«E cosa vuol dire kasher, che lingua è?» «Yiddish. Quella lingua bastarda mista, dal sapore unico,
che si parlava nei villaggi e nei ghetti dell’Europa orientale. Una lingua uccisa con coloro che
l’avevano parlata».27
Perché Dio ordina a Mosé di prendere sette paia degli animali puri e un solo paio degli animali non
puri?
Così risponde Rashì:
Animale puro – sono gli animali che in futuro sarebbero stati puri per Israele; apprendiamo così che
Noè studiava la Torà.
Sette paia – (erano tanti) in modo che Noè potesse offrirne in sacrificio una volta uscito dall’arca
(Rashi su Genesi 2,7).
Noè, infatti, quando esce dall’arca, costruisce un altare e vi offre in olocausto animali puri, cioè
idonei al sacrificio:
Noè costruì un altare per il Signore e prese da tutti gli animali puri e da tutti gli uccelli puri e li offrì
in olocausto sull’altare (Gn 8,20).
La distinzione fra animali puri e non puri è finalizzata, in primo luogo, non alla alimentazione, ma
al sacrificio. Ai figli di Noè, infatti, sono permessi, dopo l’uscita dall’arca e il nuovo patto che Dio
stringe con loro, sia animali puri sia animali non puri, come è detto: «Tutto ciò che si muove, che
ha vita, vi servirà di cibo» (Gen 9,3); la distinzione, pertanto, ha a che fare non con l’alimentazione,
ma con lo spazio del sacro e con le modalità di relazione fra ciò che è in basso, sulla terra, e ciò che
è in alto, nei cieli.
Come è da intendere questo passo del Talmud e in particolare il detto attribuito a Rabbi Yochanan e
a rabbi Eliezer?
Così risponde Elena Bartolini:
Il significato di questa affermazione va colto in due sensi: in primo luogo perché assumere cibo
comporta la preghiera che precede e segue questo atto (Dt 8,10 e 12,7); in secondo luogo perché
consumando i doni di Dio si gode e si celebra secondo la stessa dinamica dei così detti sacrifici
pacifici di comunione. In altri termini: attorno alla tavola si costruisce una piccola comunità in cui
non devono mancare i poveri e gli ospiti, ed è il cibo ad essere ora l’elemento di comunione che
una volta era costituito dai sacrifici detti shelamin.36
L’acquaiolo lo guardò con occhi imbambolati, scosse la testa e rispose: «Signore, ho cercato in tutti
gli angoli e l’ho raccolto».
Stupito lo zaddik continuò: «E quale santo intendimento avevate in mente quando avete bruciato il
hamez prima di Pesah?»
«Signore, ho dimenticato di bruciarlo. E, ora ricordo, è ancora sulla trave».
Quando il Rabbi udì questo, perse ogni sicurezza, ma continuò a domandare: «Ed ora ditemi
questo, Rabbi Haim, come avete fatto il Seder?» Fu allora come se qualcosa si destasse negli occhi
e nelle membra dell’uomo, ed egli disse in tono umile: «Rabbi, vi dirò la verità. Vedete, io ho
sempre sentito dire che è proibito bere l’acquavite durante gli otto giorni di Pesah e così ieri
mattina ho bevuto da averne abbastanza per otto giorni. Allora mi sono sentito stanco e mi sono
addormentato. Poi mia moglie mi ha svegliato ed era sera, e lei mi ha detto: “Perché non fai il
Seder come tutti gli altri Ebrei?” Io ho detto: “Che vuoi da me? Io sono un ignorante figlio di un
ignorante e non so che dire e che fare. Ma vedi, questo lo so: i nostri padri e le nostre madri erano
prigionieri degli zingari, e noi abbiamo un Dio che ci ha condotto in libertà. E vedi, ora siamo di
nuovo prigionieri, e io so e te lo dico, Dio condurrà anche noi in libertà”. E allora ho visto lì il
tavolo, e la tovaglia splendeva come il sole, e sopra c’erano piatti con mazzot ed uova ed altre
vivande, e c’erano bottiglie di vino rosso, ed ho mangiato le mazzot con le uova ed ho bevuto il
vino, ed ho dato da mangiare e da bere a mia moglie. E allora mi ha assalito la gioia, ed ho alzato il
bicchiere a Dio ed ho detto: “Vedi Dio che bevo questo bicchiere alla tua salute! E tu chinati verso
di noi e liberaci!” Così siamo stati a tavola e abbiamo bevuto e ci siamo rallegrati innanzi a Dio. E
poi ero stanco, mi sono steso e mi sono addormentato».37
Nella tradizione ebraica la tavola e la cucina non sono solo il luogo del
cibo preparato e consumato secondo le regole che ne determinano
l’ammissibilità (kashrùt); sono, prima di tutto, il punto da cui tutto parte e
tutto ritorna, e che concentra, nella convivialità e nella condivisione, le
forze, le energie e le speranze di ogni uomo e della sua famiglia.
Attorno alla tavola imbandita e nel cibo, come insegna il Talmud, si
compie quel miracolo che consente all’uomo di avere un solo cuore, rivolto
esclusivamente al Signore e pronto a vivere le sfide della vita:
Ha detto rabbi Avdimi da Haifa: Prima di mangiare e bere l’uomo ha due cuori, dopo avere
mangiato e bevuto ha un cuore solo, come è detto: Un uomo vuoto ha il cuore diviso (Gb 11,12)
(bBava batra 12b).
L’uomo, che sceglie, in piena libertà, il giogo del regno dei Cieli e il giogo
dei precetti, ha la possibilità di dominare quella spinta interiore che lo porta
al male, di dare voce all’anelito al bene e di guadagnarsi, di conseguenza, la
vita in questo mondo e nel mondo a venire. Ma se, in molti casi, non ha
rilevanza il contenuto del precetto, in quanto è l’adesione a Dio il fine del
precetto stesso, per quanto riguarda le regole alimentari il contenuto dei
precetti assume un rilievo eccezionale, in quanto determina, ogni giorno, di
generazione in generazione, il rapporto dell’uomo col proprio corpo, con la
terra e le sue risorse, con Dio, a cui appartiene tutto quanto la terra contiene.
Nella Bibbia, infatti, è detto: «Al Signore appartiene la terra e tutto ciò che
è in essa, il mondo e i suoi abitanti» (Salmo 24,1). Ma è anche detto: «I cieli
sono i cieli del Signore, ma la terra egli l’ha data ai figli dell’uomo» (Salmo
115,16). I due passi sembrano in contraddizione, ma la tradizione ebraica ci
insegna che il primo indica la sovranità di Dio sul mondo da lui creato,
mentre il secondo chiarisce quale deve essere il rapporto corretto dell’uomo
con quel mondo che Dio gli ha dato in consegna.
Come può, infatti, l’uomo usare la terra e ciò che contiene? L’uomo può
usare i beni del mondo, e di conseguenza anche il cibo, solo dopo avere
recitato la benedizione prescritta. Pertanto, secondo l’interpretazione data
dai Maestri, il primo passo biblico si riferisce al tempo che precede la
benedizione, mentre il secondo riguarda il tempo che viene dopo la
benedizione che l’uomo deve rivolgere a Dio (benedizione ascendente) per
potere fare uso in modo corretto dei beni del mondo per vivere lui e la sua
famiglia.
Nel Talmud così viene indicato il ruolo centrale della benedizione:
Hanno insegnato i nostri maestri: È vietato all’uomo godere dei beni di questo mondo senza dire
una benedizione. Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, commette un atto
sacrilego. Qual è il rimedio di questo fatto? Deve recarsi da un Saggio. Anche se va da un Saggio,
questi cosa potrà fare per lui dato che ha già commesso un atto proibito? Ma, al riguardo, ha detto
Ravà: Deve andare da un Saggio prima (di commettere un atto sacrilego) in modo tale che gli
insegni le benedizioni ed egli non commetta un atto sacrilego. Ha detto rav Jehudà in nome di
Shemuel: Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, è come se facesse uso di
cose consacrate al Cielo, come è detto: Del Signore è la terra e ciò che essa contiene (Sal 24,1).
Rabbi Levì ha messo in contrapposizione due testi. In un testo è scritto: Del Signore è la terra e ciò
che essa contiene (Sal 24,1), in un altro è scritto: I cieli sono i cieli del Signore ma la terra l’ha
data ai figli dell’uomo (Sal 115,16). Non c’è contraddizione: il primo testo si applica a prima della
benedizione, il secondo a dopo la benedizione.
Ha detto rav Chaninà bar Papa: Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione, è
come se depredasse il Santo benedetto egli sia e la comunità di Israele, come è detto: Chi depreda il
padre o la madre e dice: Ciò non è un delitto, è un compagno del distruttore (Pr 28,24). Il padre è il
Santo benedetto egli sia, come è detto: Non è lui tuo padre che ti ha creato? (Dt 32,6); la madre è la
comunità di Israele, come è detto: Ascolta figlio mio l’ammonimento di tuo padre e non
abbandonare l’insegnamento di tua madre (Pr 1,8) (bBerakòt 35a-b).
Il mondo creato è cosa consacrata a Dio e l’uomo non può farne uso a suo
piacimento; quindi, anche se Dio gli ha dato la terra perché la custodisca, la
lavori con fatica e da essa tragga il sostentamento necessario, l’uomo può
goderne e saziarsene solo dopo la benedizione. La benedizione, infatti,
introduce nel mondo una separazione temporale: prima e dopo, e concede
all’uomo di godere in modo proprio di ciò che lo circonda, senza essere
sacrilego, senza appropriarsi delle cose del cielo come un ladro che
furtivamente e volontariamente deruba il suo Creatore.
L’uomo, quando mangia il cibo che il Creatore gli ha concesso, non lo fa
per sfamarsi, ma per essere nella condizione ottimale per amare Dio «con
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le sue forze»(Dt 6,5). Nel piatto,
quindi, non ci sono solo le vivande, ma, se è possibile dirlo, c’è la presenza
di Dio, la Shekinà. E quando, seguendo le regole della kashrùt, l’ebreo
mangia, compie, qui e ora, il cammino inverso rispetto a quello descritto nel
libro dell’Esodo a riguardo dei nobili di Israele, saliti con Mosè ed Aronne
sul monte Sinài, dei quali è detto: «Essi videro Dio e mangiarono e
bevvero» (Es 24,11), alla presenza di Dio39. Essi prima videro Dio e poi
mangiarono e bevvero; l’uomo, invece, nella quotidianità della vita e della
tavola, prima mangia e beve e, poi, vede Dio (o, forse, mentre mangia, vede
Dio).
E come può l’uomo vedere Dio (o meglio: la Shekinà) seduto alla sua
mensa?
L’uomo, quando mangia e beve secondo i precetti interpretati dalla
tradizione e gli usi locali determinati dalle singole comunità, non solo
mangia e beve, ma, se è possibile dirlo, vede Dio, vale a dire: percepisce la
presenza della Shekinà, lì, al suo fianco, seduto alla tavola, come un
membro della famiglia, ad osservare quelle divine pietanze e a gioire della
fedeltà dell’uomo e della bontà del creato. E questo, in particolare, nella
tavola dello Shabbàt e dei giorni festivi.
È detto, infatti:
Poi disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che
nulla hanno di preparato, perché questo giorno è santo per il Signore nostro; non vi rattristate,
perché la gioia del Signore è la vostra forza» (Neh 8,10)
La gioia del Signore è la gioia che egli concede nel giorno di festa a coloro
che la celebrano seguendo tutte le prescrizioni40; ma, se è possibile dirlo, è
anche la gioia che il Signore stesso prova vedendo come i suoi figli gli sono
fedeli e come sanno gustare la pienezza del giorno festivo nel cibo prelibato
che consumano e che sanno condividere con gli altri.
Egli, allora, è veramente l’ospite (in)atteso al quale siamo disposti a fare
posto nel nostro cuore, perché a lui va il nostro pensiero mentre mangiamo
e mentre recitiamo la benedizione; come, invece, è atteso, nel Sèder
pasquale, l’arrivo di Elia, che tarda anche se è in quella sera, ai nostri
giorni, che deve giungere ad annunciare la venuta del Re Messia.
Così Rav Luciano Caro descrive il senso profondo di quell’attesa:
Elia è tra gli invitati alla cena pasquale, il famoso Seder. Noi mettiamo i posti a tavola per i
convitati, e anche un posto vuoto con un bicchiere, per Elia, perché potrebbe arrivare ad annunciare
che viene il Messia. Ci aspettiamo che Elia venga soprattutto in circostanze di tensione. E cosa
c’entra la cena pasquale? È perché noi diciamo che nella notte di Pasqua gli Ebrei sono stati redenti
dalla schiavitù egiziana e, nella stessa circostanza, ci sarà comunicata la redenzione finale. Quindi
se il Messia viene e l’annunciatore del Messia viene, dovrà essere sicuramente la sera di Pesach.
Ma anche in questo caso qualcuno vede l’aspetto negativo; cioè il bicchiere è messo in modo
accusatorio, per sottolineare il ritardo di Elia. Tutti gli anni c’è il suo bicchiere pronto, ma lui non
arriva.41
Quella sera, il bicchiere in più sul tavolo è il segno dell’ospite atteso che
non viene; mentre il nostro cuore, che gioisce, si sazia e si fa uno, è, ad ogni
pasto, l’indizio della presenza di quell’ospite (in)atteso che ci accompagna,
anche se nel silenzio e nell’assenza.
***
Un altro sapore nel piatto
Non sempre è festa
Così Giorgio Bassani descrive, nel Giardino dei Finzi Contini, la cena
pasquale (sèder) del 1939, celebrata in un clima di timore e di paura,
alimentato dalle leggi razziali emanate nell’autunno precedente. In quel
sèder, celebrato un sera sola e non due, come invece prevede la halakà fuori
dalla terra d’Israele, non si respira più il clima gioioso e festoso dei tempi
precedenti, conditi da merende e da banchetti di ben altro sapore e tenore:
A casa nostra, quell’anno, la Pasqua fu celebrata con una cena sola anziché con due successive
[…]. Non fu una cena allegra. Al centro del tavolo, il canestro che custodiva insieme coi «bocconi»
rituali la terrina del haròset, i cespi d’erba amara, il pane àzzimos, e l’uovo sodo riservato a me, il
primogenito, troneggiava inutilmente sotto il fazzoletto di seta bianco e azzurro ricamato
quarant’anni prima dalla nonna Ester. Per quanto apparecchiato con ogni cura, anzi proprio per
questo, il tavolo del tinello aveva assunto un aspetto assai simile a quello che offriva le sere del
Kippùr, quando veniva preparato soltanto per Loro, i morti famigliari, le cui ossa giacevano laggiù,
nel cimitero al termine di via Montebello, e tuttavia erano ben presenti, qui, in ispirito e in effige.
Qui, ai loro posti, questa sera sedevamo noi, i vivi. Ma ridotti di numero rispetto a un tempo, e non
più lieti, ridenti, vocianti, bensì tristi e pensierosi come morti. Io guardavo mio padre e mia madre,
ambedue in pochi mesi molto invecchiati; guardavo Fanny, che aveva ormai quindici anni, ma,
come se un arcano timore ne avesse arrestato lo sviluppo, non ne dimostrava più di dodici:
guardavo ad uno ad uno, in giro, zii e cugini gran parte dei quali, di lì a qualche anno, sarebbero
stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e non lo immaginavano, no certo, che sarebbero finiti
così; guardavo infine me, riflesso dentro l’acqua opaca della specchiera di fronte, non diverso dagli
altri, anch’io già un po’ canuto, preso anche io nel medesimo ingranaggio, e tuttavia riluttante, non
ancora rassegnato. Io non ero morto, mi dicevo, io ero ancora ben vivo!42
La via del cibo piacevole e sicuro non è, però, una chiave di lettura
sufficiente per comprendere a fondo il senso delle regole alimentari
ebraiche. I precetti relativi all’alimentazione, dati da Dio dal monte Sinài,
hanno una motivazione igienica? Derivano da precise scelte «ecologiche»?
Rispondono a un sostrato tradizionale o folklorico oppure rappresentano un
diverso livello nel rapporto fra Dio e l’uomo? Vale a dire: il precetto è
normalizzazione, nella sua assunzione nella sfera religiosa, di buone
pratiche, di tradizioni arcaiche o di tabu alimentari oppure è espressione, in
forma di parole ordinate e prescritte, del divino che si dà all’uomo e, quindi,
di una dimensione altra?
Anche se alcuni maestri hanno cercato una motivazione che dia un senso
unitario alle regole alimentari46, la tradizione ebraica ha insistito sul fatto
che il precetto, in sé e per sé, assume valore, non in relazione al suo
contenuto, ma solo per il fatto che è ordine che viene dalla bocca del Santo
benedetto egli sia. Pertanto, il contenuto del precetto non è, in sé e per sé, la
fonte dell’agire dell’uomo; quello che conta è la risposta dell’uomo come
adesione a Dio e come riconoscimento, di precetto in precetto, dell’assoluta
dipendenza dell’uomo da Dio Creatore.
Le prescrizioni alimentari rientrano nei 613 precetti; fanno, quindi, parte
della Torà, che non è un cammino etico (o delle buone pratiche), per seguire
il quale non c’era bisogno di alcuna rivelazione divina; è, invece, il difficile
percorso dell’ascolto, della fedeltà e della fiducia completa in Dio, precetto
dopo precetto, scelta dopo scelta, azione dopo azione, e, anche e soprattutto,
piatto dopo piatto, boccone dopo boccone.
Questa linea di pensiero è tracciata in modo chiaro dalla tradizione ebraica.
Così, infatti, hanno insegnato i Maestri:
Disse (Yochanan ben Zakkaj) ai discepoli: Per la vostra vita, il morto non rende impuri e le acque
non purificano, ma quanto ha detto il Santo benedetto egli sia: Ho decretato i miei decreti e ho
prescritto le mie prescrizioni e l’uomo non può violare il mio decreto (Bemidbar rabbà 19,8).
Rav48, nella pagina citata del Talmud, discute le parole di un versetto dei
Salmi: «La parola del Signore è purificata, egli è scudo per tutti coloro che
si rifugiano in lui» (Sal 18, 31 = 2Sam 22,3) e intende dire che la Torà è
data agli uomini per far sì che coloro che la seguono ne siano purificati
come in un crogiolo.
Qual è, allora, il valore profondo del compiere il precetto? Una risposta ce
la fornisce un detto attribuito a rabbi Eleazar ben Azarià, maestro tannaita
della seconda generazione (fine del I sec. E.V.):
Rabbi Eleazar ben Azarià era solito dire: Per quale motivo l’uomo non deve dire: Non mi piace
vestire stoffe miste, non mi piace mangiare carne di maiale, non mi piace commettere infrazioni
sessuali? Se queste cose mi piacessero, che cosa farei? Deve invece dire: Me l’ha prescritto il mio
Padre che è nei cieli. Così dice infatti la Scrittura: Vi ho separati dagli altri popoli perché siate miei
(Lv 20,26). Ne deriva che (Israele) in questo modo si tiene lontano dalla trasgressione e può
accogliere su di sé il (giogo) del regno dei cieli (Sifrà, Qedoshim, 10, 22).
Così è detto nella Torà, nel passo citato direttamente da rabbi Eleazar ben Azarià :
Io sono il signore vostro Dio che vi ho distinti dagli altri popoli e voi distinguerete il quadrupede
puro dall’impuro, i volati impuri da quelli puri e non renderete abominevoli le vostre persone con il
cibarvi di animali e di volatili e di qualsiasi essere che brulica sulla terra che io ho distinto per voi
affinché li consideriate impuri, e mi sarete santi, perché santo sono io il Signore e vi ho distinti
dagli altri popoli affinché apparteniate a me (Lv 20, 24b-26).
Il midrash si interroga sul senso profondo del passo: per quale motivo,
dopo che in Levitico 11 erano già stati elencati gli animali puri e impuri,
viene ripetuto «Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro» (Lv 20, 24)?
Non erano sufficienti le indicazioni specifiche, categoria per categoria, già
riportate? Così dicendo, la Torà, che è la parola di Dio, cosa vuole
insegnarci?
Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro – Era necessario dire di distinguere fra una mucca e
un asino? Non erano già state definite le rispettive caratteristiche? Se le cose stanno così, perché è
detto: Distinguerete il quadrupede puro dall’impuro? Per fare in modo che tu distingua ciò che è
puro per te da ciò che è impuro per te, l’animale cui è stata recisa la maggior parte della trachea
dall’animale cui è stata recisa metà. La differenza che separa il primo caso (che è permesso) dal
secondo (che è vietato) è lo spessore di un capello (Sifrà, Qedoshim, 10, 19)
Va’, mangia con gioia il tuo pane e bevi con cuore lieto il tuo vino, perché Dio ha già gradito le tue
opere (Qoh 9,7).
Quella che si prospetta, dunque, è un’ascesi fondata sul «qui e ora», sulla
terra e i sui suoi beni, sul pane e sul vino, sulla gioia e sulla sazietà, sia del
corpo sia del cuore, di ogni uomo che «ha fame e sete di ascoltare la parola
del Signore» (Am 8, 11), quella parola che ci è tanto vicina da essere nella
nostra bocca e nel nostro cuore, come è detto:
11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. 12 Non è
nei cieli, perché tu dica: Chi salirà per noi nei cieli, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo
eseguire? 13 Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e
farcelo udire e lo possiamo eseguire? 14 Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,11-14).
«Tu sei un popolo santo» non indica una caratteristica innata del popolo
ebraico e, in quanto tale, trasmessa di generazione in generazione, ma è un
processo continuo che conduce alla santità, giorno dopo giorno, precetto
dopo precetto e, a tavola, boccone dopo boccone.
È, poi, interessante osservare che nella parashà Sheminì si ha il mezzo
esatto delle parole della Torà, cioè dei primi cinque libri della Bibbia
ebraica. E questo non è un mero dato statistico o computistico, segnalato
dai Masoreti sul margine del testo manoscritto, ma un elemento portatore di
significato pregnante nell’ambito della forma scritta della parola che Dio ha
consegnato all’uomo.
Quali sono le parole fra le quali è posto il mezzo? Parole straordinarie:
«Cercando ricercò (daròsh daràsh)» (Lv 10,16). Questo ci insegna che la
vita dell’uomo deve essere, in ogni momento e in ogni azione, ricerca di
Dio; la via privilegiata, lungo la quale compie i suoi passi la ricerca, è la
halakà, vale a dire: la via del precetto, nella prospettiva del fare e
dell’ascoltare, come è detto:
Prese (Mosè) il libro del Patto e lo proclamò nelle orecchie del popolo ed essi dissero: Tutto ciò che
il Signore ha pronunciato, noi faremo e ascolteremo (Es 24,7).
Da dove parte e dove si conclude questa ricerca del senso del fare e dell’ascoltare?
Dal cibo e nel cibo. Dalla tavola e sulla tavola, il luogo della santità della singola persona, della
famiglia di cui fa parte e, famiglia e famiglia, della comunità.
E, in mezzo, nel tempo che non è tavola, stanno la vita, lo studio, la preghiera, il lavoro (e tutto ciò
che è della persona e della comunità), da compiere, con le forze che il cibo ci fornisce, nel nome
dei Cieli.
Fra i quadrupedi, ovvero fra gli animali di grossa e di piccola taglia, che
vivono sulla terra, sono ammessi quelli che presentano unitamente le due
caratteristiche seguenti:
- sono ruminanti
- hanno lo zoccolo diviso in due (unghia fessa).
Secondo un regola pratica, si tratta degli animali, sia allevati sia selvatici,
che non presentano i denti incisivi superiori. Ecco un elenco, non esaustivo,
dei quadrupedi ammessi: antilope, alce, bue, bufalo, camoscio, capra,
capriolo, cervo, daino, gazzella, pecora, renna, stambecco delle Alpi. Si
tratta di animali appartenenti, secondo la classificazione scientifica, alla
famiglia dei cervidi e alla famiglia dei bovidi.
Tutti i quadrupedi, che non presentano nessuna delle due caratteristiche o
solo una delle due, sono impuri, quindi non permessi. Il passo biblico
elenca alcuni di questi animali:
4 Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello,
perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, è impuro per voi; 5 l’ìrace59, perché rumina, ma non ha
l’unghia divisa, è impuro per voi; 6 la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, è impura
per voi; 7 il maiale, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, è impuro per voi. 8
Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; sono impuri per voi (Lv 11,4-8).
Le parole della Torà non indicano quali sono gli uccelli puri; il testo
biblico, nei versetti che seguono, riporta esclusivamente la lista degli uccelli
non ammessi (Lv 11,13-16)63; ne deriva che sono ammessi gli uccelli, che
non hanno le caratteristiche di quelli inseriti nella lista.
A quale categoria appartengono gli uccelli vietati? Secondo la tradizione,
appartengono alla categoria dei rapaci.
Così insegna il midrash halakà:
Gli elementi che indicano la purità del bestiame e degli animali sono indicati nella Torà, gli
elementi relativi agli uccelli non sono indicati nella Torà. Hanno detto i Sapienti: Ogni rapace è
impuro, come è detto: aquila. Come va interpretato il termine aquila? Non ha il gozzo proprio degli
uccelli e non ha il dito posteriore sporgente e non ha il ventricolo asportabile ed è rapace e mangia
cose impure. Tutti gli uccelli che hanno queste caratteristiche sono vietati, quelli che non le hanno
sono ammessi. (Sifrè Devarìm § 103).
L’esclusione dei rapaci e degli uccelli che mangiano cose impure, carogne
di altri animali in particolare, ci riporta alle osservazione fatte per gli
animali quadrupedi: l’ordine del mondo, voluto da Dio, si rispecchia, anche
e soprattutto, nel regime alimentare. L’uomo ha da Dio il permesso di
nutrirsi utilizzando i beni del mondo, ma non di cibarsi di animali che
praticano la violenza o che si rendono impuri perché si nutrono di cose
impure.
Come per gli animali terrestri, così anche per gli uccelli del cielo.
1.4. Animali brulicanti e striscianti
Al termine del capitolo del Levitico relativo alle norme riguardanti gli
animali ammessi e quelli non ammessi, viene riportata questa formula
classificatoria generalizzante:
46 Questa è la legge che riguarda i quadrupedi, gli uccelli, ogni essere vivente che si muove nelle
acque e ogni essere che brulica per terra, 47 perché sappiate distinguere ciò che è immondo da ciò
che è mondo, l’animale che si può mangiare da quello che non si deve mangiare (Lv 11,46-47).
A parte alcuni tipi di locuste che sono permesse dalla Torà (Lv 11, 22), tutti
gli animali acquatici che non siano pesci con pinne e squame, i rettili, i
piccoli mammiferi, gli insetti e i vermi sono espressamente e ripetutamente
vietati. Anzi particolare attenzione è richiesta per evitare che insetti e vermi
possano contaminare il cibo e le bevande.
Osserva rav Riccardo Di Segni a riguardo delle locuste:
Alcune comunità (dello Yemen e del Marocco) hanno conservato questa tradizione e nella pratica
consentono il consumo di una sola specie, la locusta o cavalletta del deserto (Scistocerca gregaria).
In Europa il consumo di questa specie è proibito; sia perché la tradizione si è ormai persa, sia
perché nel costume europeo questi animali, almeno tra gli ebrei, generano disgusto, e quindi
rientrano nella proibizione di mangiare o di fare cose disgustose.65
2. Le modalità di macellazione
Perché un animale permesso sia kashèr, è necessario che venga macellato e
preparato secondo le modalità codificate in modo particolareggiato nelle
prescrizioni halakiche contenute nella Torà orale.
La macellazione e la preparazione della carne animale prevedono alcune
fasi che debbono susseguirsi nell’ordine e nel rispetto delle relative
prescrizioni:
- la shechità , la macellazione rituale
- la bediqà, «ispezione», il controllo sanitario e la ricerca delle
imperfezioni
- il niqqùr, «pulizia», l’eliminazione delle parti grasse vietate e del nervo
sciatico
- la “kasherizzazione”, la spurgatura del sangue residuo tramite il processo
di salatura o di arrostitura.
2.1. La shechità e il divieto di mangiare il sangue
L’animale permesso, perché possa essere utilizzato nel consumo alimentare
umano, deve essere macellato secondo le modalità halakiche che
regolamentano la shechità e con l’intento di ridurre al minimo le sofferenze
dell’animale:
La macellazione di un animale a scopo alimentare segna il passaggio della sua carne dal mondo
animale a quello umano e in quanto il corpo dell’animale diventerà cibo per l’uomo e dopo la
digestione di quest’ultimo si trasformerà in muscolo o nervo o altro dell’uomo. La Torà desidera
che questo passaggio sia caratterizzato da un atto intenzionale e conscio da parte di membro del
Patto d’Israele e non da una forza meccanica o dovuta al caso. L’apparato digestivo e respiratorio
rappresentano l’essenza della vita dell’animale, pertanto la recisione dell’esofago e della trachea
simboleggiano la cessazione della vita dell’animale e il suo passaggio sotto il dominio di chi ha
eseguito quest’atto. Ma quest’atto deve dimostrare la sua caratteristica umana e perciò deve essere
un taglio netto e non uno strappo o un stritolamento che sono atti di cui anche l’animale è capace. E
siccome simboleggia un atto di possesso deve essere eseguito senza esitazione e senza il concorso
d’altre forze.67
Il passo, come osserva Rashì nel suo commento, contiene più di quanto
dice:
Qualora sia troppo lontano da te il luogo – e non vi ti potrai recare per offrire sacrifici di
comunione ogni giorno come ora che la Tenda procede assieme a voi.
E macellerai come ti ho prescritto – questo insegna che c’è una prescrizione relativa alla
macellazione con la quale si indica come si debba uccidere l’animale e queste prescrizioni relative
alla macellazione rituale contenute nella Torà orale sono state dette a Mosè al Sinài.
C’è nella Torà, come sottolinea Rashì, una progressiva concessione ai figli
di Israele relativa alle modalità di utilizzo alimentare della carne degli
animali permessi. Uccidere un animale, anche per ricavarne cibo, non è un
atto che rientra nella normalità, anzi si inserisce nel campo
dell’eccezionalità e della dimensione del «santo», che è al di fuori del
controllo diretto dell’uomo. Dal dono della Torà al monte Sinài alla presa di
possesso della terra d’Israele, durante il periodo del deserto, ai figli di
Israele erano concesse solo le carni degli animali sacrificati (sacrifici di
comunione). Dopo la conquista della terra, la lontananza del luogo unico di
culto non permetteva più di utilizzare la carne di animali sacrificati nella
dieta quotidiana; da questo momento è consentito cibarsi della carne degli
animali permessi, non sacrificati sull’altare ma macellati secondo le stesse
regole, così come ordinato da Dio. Ed è proprio da questo ordine divino che
dipendono le regole halakiche relative alla shechità stabilite dalla Torà
orale. Anzi, dato che la Torà è una sola, scritta e orale insieme, le
prescrizioni determinate dai Maestri sono già contenute nella parola data da
Dio a Mosè, secondo la formula: torà le-moshè missinay, «è Torà data a
Mosè dal Sinai».
Perché la macellazione deve avvenire col rito della shechità e non in altro
modo? La shechità è attenzione specifica al valore della vita dell’animale. Il
midrash, nel commentare Esodo 11,5, in cui è preannunciata la piaga della
morte dei primogeniti d’Egitto dall’uomo fino al bestiame, si chiede quale
sia la colpa degli animali tale da condurli alla morte:
Se l’uomo ha peccato, gli animali domestici in cosa hanno peccato?68 (Pesiqtà de-rav Kahanà, 7,9;
65b)
Tutto deve essere fatto per salvaguardare la dignità della vita animale e per
contenerne le sofferenze inevitabili nel segno di una sacralità che non
giustifica l’uccisione, ma che la rende possibile per farne un sacrificio da
offrire e consumare sull’altare della tavola.
La shechità non può essere demandata alle mani di chiunque, ma deve
essere eseguita da una persona esperta che conosca le prescrizioni
specifiche della halakà e che abbia una specifica preparazione, lo shochèt.
Questi deve utilizzare un coltello affilato che non presenti alcuna
imperfezione nella lama70. Il taglio deve recidere con un solo colpo,
preciso e deciso, senza pressione e schiacciamento, trachea ed esofago in
modo da provocare una morte dell’animale rapida e il meno dolorosa
possibile. Lo shochèt deve attenersi in modo scrupoloso alle norme per
evitare che un’infrazione o un’imprecisione possa rendere l’animale
macellato nevelà, «carogna di animale morto», e, di conseguenza, non più
idoneo.
La recisione delle arterie carotidi e delle vene giugulari porta, inoltre, ad un
rapido, anche se non totale, dissanguamento. Di conseguenza, la shechità è
il primo e necessario passo per ottemperare al divieto di mangiare il sangue
dell’animale71:
E non mangerete il sangue né di uccelli né di animali domestici in ogni luogo in cui risiederete (Lv
7,26).
La Torà, oltre alla shechità, prescrive il rito della copertura del sangue per
gli uccelli e per i quadrupedi selvatici, che non appartengono alle specie
destinate al sacrificio:
E ogni uomo dei figli d’Israele e ogni forestiero che risiede tra di voi, che prende con la caccia un
animale o un uccello che si può mangiare, verserà il suo sangue e lo coprirà con la polvere (Lv 17,
13).
Nessuno fra gli animali terrestri e i volatili permessi73 può essere utilizzato
per il consumo alimentare di un ebreo, se muore accidentalmente o se non
viene macellato secondo le regole prescritte della shechità.
Il divieto relativo all’animale «sbranato» (terefà) è riportato nel seguente
passo dell’Esodo:
Voi sarete per me uomini di sanità e non mangerete carne sbranata nella campagna, la getterete al
cane (Es 22,30).
Si ha, per così dire, una doppia cucina ed una doppia tavola.
Una cucina per la carne e una cucina per il latte e i suoi derivati (tovaglie,
posate, stoviglie e recipienti nettamente separati, frigorifero con due parti
nettamente distinte, eccetera).
Non è ammesso mangiare nello stesso pasto carne82 e latte o latticini
kashèr83, per cui esiste una casistica particolare per regolamentare le
diverse occorrenze e per stabilire anche l’intervallo di tempo necessario per
potersi cibare di latte o latticini dopo avere mangiato carne o viceversa84.
Si ha, inoltre, un’attenzione rigorosa nell’individuare i cibi che contengono
latte o i suoi derivati e i cibi che contengono carne. Con la stessa
meticolosità sono individuati anche quegli alimenti che non contengono né
latte né carne (= cibo parvè85) e, di conseguenza, consumabili unitamente
alla carne o al latte e ai suoi derivati.
3. Stesse regole, usi diversi
Se tante (e quelle sopra indicate sono solo una parte) sono le norme e le
limitazioni, si potrebbe giungere, in modo frettoloso, alla conclusione che la
cucina ebraica sia residuale e minimale, perché costretta a utilizzare solo il
poco permesso al confronto dell’infinità di cibi e di ingredienti che la terra e
il lavoro dell’uomo producono, e povera di sapori. Nella realtà dei fatti, le
tradizioni alimentari ebraiche sono varie e variegate e direttamente
ricollegabili con le diverse aree geografiche e culturali (e di conseguenza
anche alimentari) nelle quali, nel corso della storia e nelle tante diaspore, le
comunità si sono trovate a vivere. Pertanto, nel pieno rispetto delle norme
fissate dalla Torà, le diverse comunità hanno elaborato tradizioni culinarie e
usi alimentari, che utilizzano ingredienti, sapori, spezie, colori ed odori che
direttamente indicano il luogo di provenienza di quella specifica ricetta o di
quella specifica tradizione alimentare. È quell’insieme di elementi che, in
una determinata area fanno della cucina ebraica la cucina ebraica
askenazita, sefardita, levantina, magrebina, yemenita, mediorientale,
italiana…
È evidente che le comunità ashkenazite, vissute per secoli nell’Europa
centro-orientale, hanno elaborato piatti ben diversi da quelli propri delle
comunità sefardite, vissute nel bacino del Mediterraneo e rimaste per lungo
tempo a contatto col mondo arabo. Ogni gruppo, ogni comunità, anche
quando, per sfuggire a persecuzioni o per altri motivi, lascia le terre del
precedente esilio, porta con sé gli usi alimentari divenuti tradizionali. Si
pensi, ad esempio, alla situazione della comunità ebraica di Livorno nata e
cresciuta a partire dal 1593, con l’emanazione da parte di Ferdinando I de’
Medici delle Lettere Patenti, con le quali si invitavano gli ebrei a fare
commercio nella città. Ebrei portoghesi, marrani, ebrei magrebini, di Tunisi
in particolare, vi si stabilirono con le loro imprese commerciali e vi
portarono usi alimentari propri delle terre di provenienza: gli ebrei
magrebini di Tunisi portarono il cuscussù, i portoghesi le uva filate, gli
spagnoli le roschette86. E, una volta a Livorno, fecero propri anche piatti
della tradizione locale e italiana, come, ad esempio, il caciucco87.
Le peculiari caratteristiche della comunità livornese sono evidenziate da
un’ebrea ferrarese, lì trasferitasi dopo il matrimonio:
Un nuovo mondo in tutti i sensi. Gente diversa, diversi cibi, le abitudini, le tradizioni religiose
familiari. Perfino il cuscùs non conoscevo. Nemmeno l’avevo sentito nominare. La prima volta lo
assaggiai in casa Liscia. Ne parlavano tutti con grande entusiasmo e, come succede per tutte le cose
troppo reclamizzate, ne rimasi delusa. Non lo capii subito. Non ero abituato a mescolare tanti cibi
nello stesso piatto. Ma il cuscùs ha uno strano potere, quello di entrare in punta di piedi nelle
sensazioni che ci sono abituali e conquistarci a poco a poco per sempre.88
Inoltre, questo vivere delle comunità ebraiche, pur se separate, a contatto
con altri gruppi e altre popolazioni, ha creato processi osmotici di reciproca
influenza89: dove si coltivano patate e rape, si useranno in pietanze kashèr;
dove, invece, si coltiva la melanzana o il pomodoro, saranno questi ad
essere utilizzati; dove si usano determinati condimenti, se kashèr, saranno
quelli ad essere utilizzati; dove si usano certe spezie, anche la cucina
ebraica ne farà uso. Ma si ha anche il processo inverso: piatti della cucina
ebraica passano alla cucina dei non ebrei. Si pensi, per limitarci
all’orizzonte italiano, alla spongata di Brescello di sicura origine ebraica,
alla torta sbrisolona del montavano, ai carciofi alla giudìa, al salame d’oca,
al bianco mangiare, alla torta di tagliatelle e altro ancora.
Chi volesse, però, ricercare l’elemento caratterizzante della cucina ebraica,
al di là delle regole e della «varietà e non poca» degli usi di cui parlava
Leon da Modena, troverebbe che il piatto, o più in generale la tavola
imbandita, è luogo evocativo ed educativo, che, in particolare, nel sabato e
nei giorni di festa, richiama elementi caratteristici e fondanti di quella
specifica ricorrenza, illustra episodi biblici o della tradizione e della storia
ebraica, mantiene vivo l’interesse per la fede e la cultura, rafforza il senso
di identità e, a volte, si trasforma, come è giusto a tavola, in gioco e gioia.
Alcuni esempi.
Le orecchie di Hamàn
I dolcetti, propri della festa di Purìm, «Sorti»,90 richiamano le
caratteristiche, anche trasgressive, di questa giornata, in cui si legge il
Rotolo di Ester e in cui si fa memoria, con gioia dirompente anche senza
freni, dello scampato pericolo di allora, pericolo che derivava dalle
macchinazioni del perfido Hamàn, sventate (almeno quella volta nella storia
ebraica) da Mardocheo e da Ester. È la festa del doppio e del travisamento,
dell’inversione dei ruoli e del superamento del limite. È la festa del
banchetto e del vino; è la festa dei doni, da fare soprattutto ai poveri (Est
9,22); e quello è l’unico giorno dell’anno in cui la tradizione ebraica invita
espressamente a bere vino in abbondanza e ad ubriacarsi a tal punto da non
riuscire più a distinguere fra il «maledetto Hamàn» e il «benedetto
Mardocheo» (bMegillà 7b).
Questa la ricetta, secondo la tradizione sefardita italiana91.
Gli orecchi d’Amàn si gustano per la festa di Purìm e si chiamano così perché hanno la forma delle
orecchie di maiale92 a dileggio del terribile infido Amàn ministro del re Assuero che, per colpa
sua, aveva firmato il consenso di uccidere tutti gli Ebrei del suo regno. È una dolce vendetta93 di
cui gli Ebrei si accontentano.
Zucchero 1 cucchiaio// uovo 1// olio 1 cucchiaio// farina 150 gr. Circa.
Impastare con cura tutti gli ingredienti e spianare la pasta o con il matterello o con la macchina.
Con la rotellina tagliare la pasta a losanghe con i lati un po’ incurvati a forma di orecchie. Friggerle
in padella in abbondante olio e cospargerle di zucchero a velo oppure di miele diluito in pochissima
acqua riscaldata in un tegamino.94
Nella storia narrata nel Rotolo di Ester, Hamàn finisce impiccato al palo
che aveva preparato per Mardocheo (Est 7,10); sulla tavola di Purìm viene,
come si addice alle caratteristiche carnacialesche e trasgressive della festa,
bonariamente sbeffeggiato e deriso: «Ci volevi morti, ti è andata male… e
io ti mangio!»
La minestra di Esaù
Sulla tavola ebraica non è solo il giorno della festa a trovare posto, a volte
riempiono il piatto anche le saghe, le storie, i personaggi, di cui si parla nel
TaNak, la Bibbia ebraica, in particolare nei primi cinque libri. Fra i tanti
casi che divengono, attorno alla tavola e sulla tavola, oggetto di racconti e
di interpretazioni, si segnala la vicenda di un altro malvagio, il figlio
primogenito d’Isacco, quell’Esaù, che ha un posto ben più importante e
determinante di quello del perfido Hamàn. Egli, fratello di Giacobbe, fu suo
rivale e nemico, a tal punto e con tale veemenza e pervicacia da divenire il
nemico ed il malvagio per antonomasia.
Nel libro della Genesi, Bereshìt («In principio»), si narra di Esaù che,
sfinito ed affamato, cedette la primogenitura a Giacobbe per un piatto di
lenticchie rosse:
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla campagna ed era
sfinito. Disse a Giacobbe: ‘Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono
sfinito’. Per questo fu chiamato Edom . Giacobbe disse: ‘Vendimi subito la tua primogenitura’.
Rispose Esaù: ‘Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?’. Giacobbe allora disse:
‘Giuramelo subito’. Quegli giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. Giacobbe diede ad Esaù
il pane e la minestra di lenticchie; questi mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto Esaù
aveva disprezzato la primogenitura (Gn 25, 29-34).
Lavate bene le lenticchie rosse e versatele in una pentola con la cipolla tritata, l’acqua, sale e
pepe e portate ad ebollizione.
Coprite, abbassate il fuoco e fate cuocere per circa 30 minuti. Le lenticchie rosse devono
spappolarsi. Se la zuppa è troppo spessa, aggiungete acqua o brodo.
Insaporite con il cumino, il succo di limone e aggiustate con sale e pepe.
Servite la zuppa in piatti singoli su cui aggiungerete 1 cucchiaio di olio di oliva.
Volendo potete preparare una versione più ricca di questa minestra aggiungendo delle
polpettine di carne.95
Sciogliere il lievito con l’acqua tiepida e lo zucchero. Aspettare 15 minuti, indi aggiungere gli altri
ingredienti, impastare il tutto in un’insalatiera e capovolgere il panetto sulla spianatoia. Impastare
ancora per alcuni minuti e rimetterlo nell’insalatiera infarinata e coperta con un tovagliolo umido.
Lasciar lievitare per un’ora abbondante in luogo tiepido. Trasferire nuovamente l’impasto lievitato
sulla spianatoia continuando a lavorarlo. Dividerlo in tante parti per quanti pani si desiderano. Si
modella delle trecce a quattro capi, si pongono sulla carta da forno nella teglia, si spennellano con
uovo battuto, si lasciano lievitare per un’altra ora, dopo averli cosparsi di semi di sesamo.
Introdurre la teglia nel forno a 180 gradi e lasciar cuocere per circa mezz’ora finché i pani avranno
raggiunto un bel colore dorato.100
Le due challòt e il calice di vino del Qiddush sono elemento indispensabile per accogliere lo
shabbàt e per iniziare a gustarne la delizia.
Ingredienti:
350 gr. di castagne secche
500 gr di mele
200 gr. di noci sgusciate
200 gr. di datteri
200 gr. di prugne secche
200 gr. di uvetta senza semi
odore di cannella
Lessate le castagne, ammollate in acqua le uvette e le prugne; snocciolate datteri e prugne. Pelate le
mele e tritate tutto col tritacarne, bagnate con succo d’arancia e spolverizzate di cannella. Al
momento di servire unitevi un po’ di vino chasher. Volendo potete aggiungere due o tre banane,
anch’esse tritate. Cuocete a fuoco lento sempre mescolando per dieci minuti.103
Seconda variante.
Ingredienti:
60 gr. di pinoli
1 tuorlo d’uovo sodo
½ bicchiere di zucchero
1 mela grattugiata
½ bicchiere di mandorle tritate
½ bicchiere di noci grattugiate
succo e grattatura di un limone
cannella
Mescolate insieme tutti gli ingredienti e mettete i pinoli infilzati in piedi sopra all’impasto.104
Con solo uova e farina, senz’acqua, fate una sfoglia sottile e tagliatene delle tagliatelle molto sottili.
Cuocete le tagliatelle in acqua abbondante e salata e toglietele appena alzeranno il bollore. Prima di
scolarle versate un po’ d’acqua fredda nella pentola. A parte preparate in un piatto grande il grasso
d’oca o il sugo d’arrosto, versatevi le tagliatelle, muovetele bene con due forchette e lasciatele
riposare. Preparate a parte dei pezzetti di salsiccia o di prosciutto d’oca, unitevi uva passa e pinoli.
In una teglia fate uno strato di tagliatelle, poi un po’ di composto, e ancora tagliatelle e così via.
Cuocete al forno in modo che sia rosolato da tutte e due le parti.
Variante n. 1
Non piacendo a tutti il sapore del dolce col salato, si possono fare anche col solo sugo d’arrosto (o
grasso d’oca) e salame.
Variante n. 2
Quando le tagliatelle saranno pronte, invece di cuocerle al forno si possono rosolare in una padella
di ferro. L’operazione è un po’ più laboriosa ma vengono molto saporite.
Metterete le tagliatelle ben condite nella padella unta d’olio; quando si sarà formata una crosticina
scura, volterete il pasticcio con l’aiuto di un piatto; lasciate formare di nuovo la crosta e poi con la
forchetta la romperete un po’ in modo che vada a finire dentro al pasticcio e ne farete formare una
di nuova. Potete fare questa operazione due o tre volte in modo che anche nell’interno del pasticcio
ci siano delle tagliatelle un po’ croccanti.107
Jenny Bassani Liscia, nel ricordare gli usi della comunità di Ferrara, così spiega il significato
allegorico e «teologico» del piatto:
La forma rotonda dovuta alla teglia rappresenterebbe le ruote dei carri dei soldati egiziani che
rincorrevano gli Ebrei in fuga nel deserto, i taglierini le onde del Mar Rosso, i pinoli le teste dei
cavalli, le uvette le teste degli Egiziani affogati nel Mar Rosso. Per dire la verità, la cosa è un po’
macabra, ma a noi bambini sembrava molto divertente.108
Per chi volesse seguire nel dettaglio le varie fasi, riporto le parole di
Luciano Rebora,110 poeta e giornalista, il quale scrisse un’ode, tra il serio e
il faceto, dedicata ai carciofi alla giudìa.
Si prendono carciofi romaneschi
grossi, teneri e freschi,
e si levano lor le prime foglie
poscia a quelle che restano si toglie,
mediante un affilato coltellino,
la parte dura per lasciar la molle.
Dopo aver tornito per benino
le panciute corolle,
si immergono nell’acqua d’un catino,
dal succo di limone acidulata,
poi si dà lor col panno un’asciugata,
si schiacciano un pochino sul tagliere,
si condiscon col pepe e col sale,
si mettono a giacere nel tegame ospitale
e immerse in abbondante olio d’olivo
si fanno cuocer sopra un fuoco vivo.
***
Un altro sapore nel piatto
Cibo e ospitalità prima di tutto
Nella Bibbia ebraica si narra di un prelibato banchetto che Abramo offrì,
alle Querce di Mamre, a tre misteriosi ospiti:
1 Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda
nell’ora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di
lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo:
«Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. 4 Si
vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. 5 Permettete che
vada a prendere un boccone di pane, ristorerete il vostro cuore, dopo potrete proseguire, perché è
ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». 6
Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina,
impastala e fanne focacce». 7 All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono
e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese panna e latte fresco insieme con il vitello,
che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero,
quelli mangiarono. (Gen 18,1-8).
Il racconto si presta a molte interpretazioni e si apre ad altrettante domande
irrisolte, come – ad esempio – chi fossero quei tre uomini, che fine abbiano
fatto le focacce di Sara, delle quali non si fa menzione nel corso del
banchetto, e, ancora, se il cibo offerto da Abramo fosse o non fosse kashèr.
Ma quello che emerge e ci trascina è il canto di gioia dell’ospitalità:
Abramo corre incontro agli ospiti, li invita a fermarsi da lui, propone loro di
rinfrancarsi con un po’ di pane, va in fretta dalla moglie per farsi preparare
focacce, corre all’armento per prendere un giovane vitello e cucinarlo, lo
serve agli ospiti assieme ai prodotti migliori del gregge (panna e latte
fresco) e, mentre quelli mangiano all’ombra ristoratrice dell’albero, resta in
piedi accanto a loro, pronto a portare altro cibo e altra bevanda.
Si può leggere il tutto in chiave spirituale e sostenere che l’atteggiamento
di Abramo deve essere quello di chiunque si appresta ad accogliere Dio
nella propria vita, ma non si può non riconoscere che, in primo luogo, qui si
parla del dovere (anzi: della gioia incontenibile) dell’ospitalità, rivolta a
chiunque stia in piedi davanti a noi all’ingresso della nostra tenda.
Abramo, allora, ci invita a fare della tavola il luogo dell’accoglienza e a
condividere il cibo in modo che chi bussa alla nostra porta trovi una mano
ospitale e possa ristorarsi per poi continuare il cammino.
Il cibo è dato all’uomo perché possa saziare, in ordine crescente
d’importanza, se stesso, la sua famiglia e il suo prossimo.
52. Leon da Modena (Yehudà Aryè mi-Modena, 1574-1648), rabbino di
Venezia, fu ingegno versatile sia negli studi ebraici sia in altri campi
(musica, teatro, editoria).
53. Rabi Leon Modena, Historia de’ riti ebraici. Vita et osservanza degli
Ebrei di questi tempi, Modena, Capponi, 1728, pp. 7-8. Per una edizione
digitale: http://sammlungen.ub.uni-
frankfurt.de/freimann/content/titleinfo/419102.
54. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 12.
55. Le parashot (sing.: parashà) sono le sezioni in cui sono suddivisi i
cinque libri della Torà per il ciclo annuale di lettura sinagogale.
56. Sheminì è l’ottavo giorno, che indica l’ingresso in servizio, come
sacerdoti, di Aronne e dei suoi figli.
57. La parola re’è, che significa «vedi», segna l’inizio del primo versetto
della parashà: «Vedi, io oggi pongo dinanzi a voi la benedizione e la
maledizione» (Dt 11,26).
58. Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, Giuntina, Firenze, p.
139.
59. Nel testo ebraico il nome dell’animale shafàn, variamente interpretato e
tradotto. Per un discussione, vedi: Marvin Harris, Buono da mangiare.
Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi, Torino, 1992, pp. 70-
72.
60. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 30.
61. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma 1996 (5756), p. 50.
62. Per un approfondimento su alcuni usi delle comunità italiane vedi:
Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni Lamed,
Roma 1996 (5756), p. 48-49.
63. In Lv 11,13: «E questi considererete come abominevoli tra i volatili,
non verranno mangiati, sono abominevoli». Segue l’elenco delle specie non
ammesse.
64. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), p. 26.
65. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), p. 51.
66. Cfr Mc 1,6.
67. Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione rituale», articolo
reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html.
68. Nel Talmud e nel Midrash la domanda si incontra tutte le volte in cui si
commenta un passo biblico in cui la sorte dell’uomo è accomunata a quella
degli animali.
69. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), pp. 56-57.
70. Cfr. E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina,
Firenze, 1994, p. 55: «Il suo strumento è un coltello di forma particolare, il
challaf, di cui esistono tre misure, una per gli animali grandi, una per quelli
piccoli e una per i volatili. Lo shochet deve verificare l’affilatura del
coltello prima di usarlo poiché la minima irregolarità invaliderebbe la
macellazione. Il coltello è in acciaio e la sua lunghezza deve essere
perlomeno uguale al doppio di quella del collo dell’animale».
71. Il divieto di mangiare il sangue è ripetuto più volte nella Torà: Lv 3,16;
17, 10-12.14; Dt 12, 16.23. La proibizione era già stata data ai figli di Noè:
Gn 9,4.
72. La prescrizione è ripetuta in vari passi della Torà: Lv 17,15; 22,8.
73. La norma non si applica ai pesci.
74. «Un animale treifa ovvero malato, è già destinato ad essere cibo per la
terra o per gli altri animali (il campo e il cane del versetto) e perciò inadatto
al consumo umano» (Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione
rituale», articolo reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html).
75. La tradizione ebraica, in particolare nel trattato Chullin del Talmud
babilonese, elenca settanta condizioni che possono rendere terefà l’animale
macellato (cfr Rambam, Hilkòt shechità, 10,11).
76. Queste parole sono espunte nella traduzione della Bibbia della CEI.
77. Per una analisi del mondo greco vedi Marcel Detienne, Jean-Pierre
Vernant, La cucina del sacrificio nel mondo greco, Boringhieri, Torino,
1982,
78. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni
Lamed, Roma, 1996 (5756), pp. 63-64 e note.
79. Itzchak Siegelmann, «Shechità. La macellazione rituale», articolo
reperibile online al seguente indirizzo:
http://www.morasha.it/zehut/is01_macellazione.html.
80. Per una discussione delle interpretazioni del precetto vedi: Riccardo Di
Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Edizioni Lamed, Roma, 1996
(5756), pp. 73-74.
81. Lucia Levi, «Prefazione», in Ines De Benedetti, Poesia nascosta, La
Zisa, Palermo, 2013 (prima edizione: Israel, Firenze, 1931), p. 18.
82. Dal divieto sono esclusi i pesci, in quanto esseri viventi ai quali non è
dato, in Genesi 1, il regime vegetariano, riservato agli esseri viventi che
popolano la terra e volano nel cielo.
83. Il latte kashèr deve provenire da animali ammessi. Il Talmud prescrive
che alla mungitura debba essere presente un ebreo osservante.
84. L’intervallo di tempo di norma è fissato in sei ore; secondo alcune
tradizioni, l’intervallo può essere di un’ora o di tre ore.
85. Parvé, ossia: «neutrale», sta a indicare cibo, di norma certificato da
autorità rabbiniche, che non contiene né carne né latte e i suoi derivati e
che, di conseguenza, può essere accompagnato a carne o a latte e latticini.
Sono cibi parvè: il pesce, le uova, la verdura e la frutta, i cereali. Per
prodotti industriali occorre la certificazione.
86. Ciambelle di pasta sia dolce sia salata.
87. «Gli Ebrei di Livorno asseriscono che il caciucco è nato come piatto
ebraico. Se così fosse, qualche pesce consentito dalla dietetica ebraica ci
sarebbe rimasto. Il caciucco livornese è composto quasi esclusivamente da
molluschi, crostacei e pesci non kashèr» (Jenny Bassani Liscia, La storia
passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p. 67).
88. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p.
63.
89. Nell’area italiana, ad esempio, la specificità della cucina ebraica è stata
intesa e apprezzata da chi ebreo non è, tanto da dare luogo all’espressione
«mangiare alla giudea», che non significa mangiare kashèr, ma piuttosto
secondo gli usi e i gusti propri degli ebrei (ad esempio: i carciofi alla giudia,
il salame d’oca, le azzime, la zucca barucca, eccetera).
90. È il «carnevale» ebraico e si celebra il 14 del mese di Adar.
91. Nella tradizione ashkenazita il dolce prende il nome di Hamantaschen,
«tasche di Haman» ed è accompagnato spesso da un gustoso ripieno.
92. Altri parlano di orecchie d’asino, ma la cosa non è importante, perché il
dolce ha tante varianti e tante forme.
93. Elena Loewenthal scrive a proposito: «I biscotti d’occasione sono
proprio a sua (= di Aman) immagine, come a dire: ‘Ahmmm… ti mangio!’,
per la gioia e il tripudio di tutti» (Buon appetito Elia! Manuale di cucina
ebraica, Baldini e Castoldi, Milano, 1998, pp. 199-200).
94. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p.
52.
95. Joan Rundo, La cucina ebraica in Italia, Sonda, Casale Monferrato,
2003, p. 109; l’autrice riporta che la ricetta è propria di ebrei egiziani
presenti nella comunità di Milano. Per una versione più elaborata della
ricetta cfr. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
La Giuntina, Firenze, 1987, p. 65.
96. Secondo la tradizione ebraica la giornata va da tramonto a tramonto: lo
shabbàt, inizia, il venerdì sera diciotto minuti prima del tramonto.
97. «Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, re del mondo, che ci hai
comandato di separare la challà».
98. Simbolicamente la tovaglietta bianca rappresenta la rugiada che al
mattino ricopriva la manna.
99. «Benedetto sei Tu, Signore, nostro Dio, re del mondo, che fai uscire il
pane dalla terra».
100. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 70.
101. Haggadàh di Pesach. Raccontare per essere liberi, Carucci, Roma
1986 (5746), p. 43.
102. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 55.
103. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
Giuntina, Firenze, 1987, p. 353.
104. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica,
Giuntina, Firenze, 1987, p. 354.
105. Beshallàch è la prima parola di Es 13,17: «Quando lasciò partire».
106. Altre versioni del piatto si possono trovare in: Jenny Bassani Liscia,
La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000, p. 50; Claudia Roden, The
Book of Jewish Food, Knopf, New York, 2006, p. 476.
107. Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica, La
Giuntina, Firenze, 1987, p.50.
108. Jenny Bassani Liscia, La storia passa dalla cucina, ETS, Pisa, 2000,
p. 50.
109. Ariel Toaff, Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal
Rinascimento all’età moderna, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 34. Alla nota
25, riportata a p. 37, l’Autore così precisa: «Nota manoscritta in margine al
foglio di guardia di manoscritto di mia proprietà, contenente l’ordine festivo
delle preghiere secondo il rito di Roma, datato presumibilmente alla prima
metà del Cinquecento, e già appartenuto al prof. Yoseph Seromenta».
110. Luciano Folgore (Roma 1888 - 1966), è lo pseudonimo del poeta
Omero Vecchi. Fu futurista entusiasta e poi favolista, narratore, umorista e
parodista.
111. La poesia è pubblicata in Guida gastronomica d’Italia, TCI, Milano,
1931, pp. 322-323.
112. Sandra Di Segni, L’ebraismo vien mangiando, Giuntina, Firenze,
1999, pp. 22-23.
113. Pablo Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, traduzione di
Giovanni Battista De Cesare, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi), 2003.
«La lingua kòsher»
Come per Noè, così per ognuno di noi, nell’indeterminatezza del nostro
oggi, sta il rischio della vita e della scelta. Tutti, forse, siamo tentati, come
lo fu Noè, dalla smodatezza e siamo inclini alla trasgressione, a partire
proprio dalla tavola, dal cibo e dal vino, con le conseguenze anche
degradanti che ciò comporta, come per Noè così anche per noi. La
tradizione ebraica ci insegna che è dalla tavola e dal cibo che parte il nostro
quotidiano essere uomini al cospetto del mondo creato, degli altri esseri
viventi, degli altri uomini e (per chi crede) di Dio.
Dio ci conceda che, a differenza di Noè che «che si denudò nel mezzo della
tenda, per noi l’errore o la trasgressione sia solo nel bere vino e magari
nell’ubriacarci, una volta l’anno, a Purìm o a Carnevale.
Ma solo fino a quel punto e nulla di più.
Bete’avòn, «Buon appetito»!
***
Ad libitum
Le divine pietanze
Ancora un racconto chassidico per lasciarci col sapore in bocca di cose
buone e sante.
Rabbi Yaacov Shimshon di Kosov amava condividere con i suoi discepoli le storie dei grandi
Rebbe e dei loro chassidim. Una volta, dopo la preghiera del mattino, accadde che il Rebbe iniziò a
raccontare una storia dopo l’altra senza fermarsi. Sia lui che i suoi chassidim erano giunti ad un tale
stato di estasi divina che persero ogni cognizione del tempo. Passò il giorno e solo nel tardo
pomeriggio il Rebbe narrò il suo ultimo racconto. Lentamente, Rabbi Yaakov e i suoi discepoli
tornarono alle loro incombenze quotidiane e si resero conto che non .avevano fatto né la colazione
né il pranzo. Uno dei discepoli si alzò in piedi e rese omaggio al suo Rebbe, dicendo: «Fino ad
oggi, Rebbe, non riuscivo a capire veramente Moshè Rabbeinu115 quando diceva che, mentre era
sul Monte Sinai, non aveva mangiato pane né bevuto acqua. Ora so cosa vuole dire essere pieni
della Presenza stessa di Dio e non sentire alcun bisogno di mangiare o di bere». Rabbi Yaakov fece
un cenno di apprezzamento verso il suo discepolo e disse: «La tua interpretazione è notevole, figlio
mio, ma non è possibile che Mosè più che rallegrarsi di aver fatto a meno del cibo, lo stesse
rimpiangendo? Noi sappiamo che ogni cosa in questo mondo ha in sé una scintilla del Divino e che
solo quando una cosa viene utilizzata nel modo giusto, questa scintilla viene sollevata e riportata a
Dio, dal Quale era originata.116 Questo non è meno valido per il cibo e le bevande di quanto lo sia
per i libri o gli strumenti in genere. Mosè si rese conto che, in quei quaranta giorni sul Monte Sinai,
non aveva né mangiato né bevuto e, quindi, non era riuscito a sollevare le scintille divine del pane e
dell’acqua. Nel Mondo a Venire, queste scintille si lagneranno presso il Santo che Mosè ha fatto
loro un danno, anteponendo il suo amore per Dio alla loro liberazione».117
I maestri del cassidismo ci insegnano che non è vero che la mistica non
mastica pane. Il digiuno, anche nell’estasi al cospetto di Dio, non è la via
dell’umana esperienza in un mondo popolato, anche a nostra insaputa, di
scintille divine. L’uomo, pertanto, deve farsi parte del mondo per ritrovarvi
quelle scintille divine ovunque sparse, anche nel pane e nel cibo; quando
usa le cose del mondo con cura e con amore, fa in modo che le scintille del
divino si liberino e ritornino al Creatore.
Questo ci insegna che le cose del mondo e la natura non sono sacre ma
sante e che a loro si deve andare come si va a Dio; la tavola, allora, è
veramente un altare nel santuario del mondo e il cibo è veramente
preghiera, sia che si sia uomini di fede sia che ci si senta solamente parte di
un tutto da rispettare e di un mondo da calpestare con orma leggera.
Forse (come spero) chi mangia prega davvero due volte.
114. Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, pp. 71-72.
115. «Mosè nostro maestro».
116. «Scintille di Dio: il cabbalista Yitzchak Luria (1534-1572) insegnava
che tutte le cose contengono una scintilla del Divino, e che la più
importante opera spirituale sta nel liberare queste scintille per farle tornare a
Dio, utilizzando le cose di questo mondo in modo giusto e appropriato», in
Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, p. 170 n. 2.
117. Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario, Giuntina, Firenze,
2005, pp. 169-170.
’O ’nvitato a pranzo118