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LA COMPAGNIA
DELLA MORTE
Questo libro è dedicato a mia moglie, Antonella,
l'unica donna della mia vita,
e ai miei figli, Valentina e Stefano.
Se dovessi combattere e morire per una causa,
come fecero i miei antenati padani,
lo farei per loro.
A.D. 1176
Campagne di Legnano Il rombo che si propagò nel suolo era
spaventoso, pareva l'annuncio di un terremoto di immani proporzioni
che avrebbe raso al suolo qualsiasi edificio in tutta la Padania.
Ma Rossano da Brescia sapeva che non si trattava di un fenomeno
naturale. Quella che si stava scatenando contro di loro non era la forza
imperiosa della natura, bensì la rabbia furibonda di centinaia di cavalli
lanciati al galoppo, che dissodavano il terreno con gli zoccoli ferrati.
La polvere sollevata dalla carica della cavalleria imperiale era tale
da oscurare la visuale, e il fragore così forte da costringere Rossano a
gridare gli ordini ai suoi uomini correndo lungo il cerchio compatto
dei fanti stretto attorno al Carroccio.
«Serrate i ranghi!» gridava, tenendosi il braccio ferito da cui il
sangue continuava a sgorgare. Si era stretto una cinghia di cuoio
appena sopra lo squarcio, per cercare di arrestare l'emorragia, ma
sapeva che non sarebbe servita a molto: l'unico modo per fermare il
sangue era cucire la ferita con alcuni punti di sutura.
Ma la situazione in cui si trovavano non permetteva certo di
preoccuparsi del suo braccio: entro pochi istanti la cavalleria imperiale
sarebbe calata su di loro, travolgendoli con la forza di un uragano di
carne, cuoio e ferro.
La sola speranza per Rossano e per i suoi uomini, in netta
inferiorità numerica e privi di cavalli, era arroccarsi attorno al
Carroccio come avrebbe fatto una mandria di bufali per difendersi da
un attacco, tenendo le picche e le lanzalonghe sollevate come gli aculei
di un gigantesco istrice.
A.D. 1174
Città di Milano Due anni prima 1
Il corsiero da guerra dilatò le froge e sbuffò impaziente, quando le
redini tirarono il morso costringendolo a fermarsi. Non era abituato a
lasciare il passo ai pedoni, e nei vicoli angusti della città non si trovava
a suo agio. Avrebbe preferito mille volte di più potersi lanciare al
galoppo su una vasta prateria, con il sudore che colava dal corpo
muscoloso e le ginocchia del guerriero che lo incitavano a correre più
veloce del vento, per non fermarsi di fronte a nulla, neppure davanti a
una foresta di picche protese verso di lui.
«Buono, Drago, stai buono.» La mano di Rossano da Brescia batté
sul collo del possente animale, e il corsiero sembrò tranquillizzarsi
subito, scuotendo la folta criniera. Le due donne che stavano
attraversando la strada, e che quando si erano accorte del gigantesco
cavallo da guerra erano sobbalzate per lo spavento, si erano date alla
fuga alzando le sottane, e Rossano trattenne una risata. Poi, con un
leggero colpo dei talloni, incitò Drago a riprendere la marcia.
Gli zoccoli ferrati sollevarono polvere dalla strada, e il cavallo
avanzò maestoso fra le due ali di folla che si aprivano al suo passaggio.
Doveva essere giorno di mercato, pensò Rossano, perché non aveva
mai visto tanta gente radunata nelle vie e nelle piazzette attorno al
palazzo consolare. La sua convocazione, insieme a quella dei tanti
uomini d'arme che circolavano ancora a Milano, aveva sorpreso
Rossano, che non riusciva a immaginare il motivo di tanta fretta. Il
ragazzo che era venuto a portargli l'ambasciata non gli aveva dato
troppe spiegazioni, limitandosi a fargli capire che l'intera città era in
subbuglio, e che il console di Milano stava ricevendo comandanti e
uomini d'arme nel suo palazzo fin dalle prime ore della mattina.
Mentre si avvicinava all'edificio, che svettava sugli altri per
imponenza e dimensioni, anche se l'intera ala ovest mostrava ancora i
segni della devastazione che era stata portata dall'esercito imperiale,
Rossano vide molti nobili locali acquartierati un po' ovunque, con i
servi e gli attendenti di campo che brulicavano loro attorno come
formiche. Poi, addossato a una delle pareti della casamatta riservata
alla guarnigione della città, scorse il cavallo maculato di Gilberto
Rocca, un capitano piacentino insieme al quale aveva già combattuto
diverse volte, e diresse Drago da quella parte.
Gilberto era seduto a terra, su una stuoia ripiegata, e stava
sgranocchiando un pezzo di carne salata guardandosi pigramente
intorno. Quando lo vide arrivare aggrottò per un attimo le
sopracciglia, poi sollevò la mano per salutarlo.
Rossano ricambiò il saluto, fermò Drago e scese da cavallo.
«Sai che cosa sta succedendo?» chiese a Gilberto mentre legava il
corsiero a un anello di sosta.
«No» rispose l'uomo alzandosi e indicando la folla che riempiva la
piazza. «È così da ieri sera. Io sono stato convocato, ma è già due volte
che cerco di farmi ricevere e non ci riesco. Mi dicono di aspettare.»
Rossano si guardò attorno con maggiore attenzione, e vide che c'erano
diversi uomini d'arme riuniti in gruppetti qua e là, intenti a discutere
animatamente.
«Sono stato convocato anch'io» disse, mentre Gilberto Rocca si
avvicinava incuriosito a Drago.
«Gran bella bestia» disse il piacentino passando la mano sul fianco
robusto del corsiero. Drago non sembrò apprezzare il gesto, perché
girò la testa verso Gilberto e sbuffò contrariato.
«Stai attento» lo redarguì Rossano, «ha un caratteraccio.»
«Perfetto per il campo di battaglia, allora.» Rossano annuì, aprì una
delle bisacce di cuoio in cui custodiva tutte le sue cose e prese lo stocco
di rappresentanza a doppio filo. Il fodero era già allacciato in vita,
insieme agli anelli per le borse con i denari e alla bisaccia con i guanti
da parata. Tirò fuori anche quelli e li indossò dopo avere sistemato lo
stocco.
«Non so se ti riceveranno» l'avvertì Gilberto Rocca. «Sono in tanti
che stanno aspettando.» «Vado a dare un'occhiata» annuì Rossano.
«Magari trovo qualcuno che conosco e riesco a strappare qualche
informazione.» «Sarebbe magnifico» consentì Gilberto tornando a
sedersi.
«Tranquillo, tengo d'occhio io il tuo stallone.» Rossano sorrise. «Ti
ringrazio, ma credo che Drago sappia badare benissimo a se stesso.»
Detto questo si allontanò, cercando di raddrizzare la schiena e di
assumere un aspetto marziale, anche se attorno vedeva tonache di
broccato e tuniche di frustagno che gareggiavano fra loro per
magnificenza, indossate da uomini infuriati per l'attesa a cui erano
costretti.
Evidentemente, la situazione doveva essere seria, perché il console
non avrebbe mai corso il rischio di inimicarsi uomini così potenti,
convocandoli al suo palazzo e poi facendoli aspettare fuori, come plebe
qualunque.
Forse non sarebbe riuscito a entrare neppure lui, ma ormai la
curiosità lo rodeva e non poteva certo rassegnarsi ad accamparsi là
fuori senza chiedere spiegazioni, in attesa che qualcuno si ricordasse
di lui.
Quando vide il picchetto di guardia schierato davanti al portone
d'ingresso del palazzo, assunse la sua espressione più determinata e si
fece avanti, spingendo all'infuori il pomo intarsiato d'argento dello
stocco di parata.
«Ci dispiace, messere, ma al momento non è consentito l'accesso al
palazzo. Il console...» «Questo me l'avete già spiegato!» l'interruppe
Rossano infuriato. Strinse l'elsa dello stocco con tanta forza da credere
che sarebbe riuscito a piegarlo, poi cercò di fare un lungo respiro e di
recuperare la calma che si confaceva al suo rango. Quei due zotici non
sapevano con chi avevano a che fare, e lui... all'improvviso Rossano si
rese conto dell'assurdità di quello che stava pensando, scosse la testa e
aprì un sorriso.
Era proprio un idiota. Là fuori, nella piccola piazza gremita come
in un giorno di mercato, c'erano arconti, margravi, prelati di rango e
nobili che potevano contare su terre, vassalli e interi eserciti, e che
avrebbero potuto ergersi in tutta la loro magnificenza ben più di
quanto potesse fare lui, cavaliere senza macchia e senza paura ma al
momento provvisto solo di un corsiero da guerra, di un elegante stocco
forgiato dagli artigiani di Crema e degli abiti che indossava.
Come pensava di poter pretendere un colloquio con il console
quando neppure quei potenti paludati erano riusciti nell'impresa?
E certo non poteva prendersela con i due uomini d'arme, che
svolgevano molto bene il loro lavoro e che non si lasciavano intimidire
da nessuno, per quanto di quei tempi non fosse impresa da poco
tenere testa a un'orda di nobiluomini inferociti.
«Perdonatemi» disse, sollevando le mani e facendo un passo
indietro. «Avete ragione, sono stato uno sciocco a insistere. Voi state
facendo il vostro dovere.» «Nessun problema, messere» disse la più
anziana delle guardie, visibilmente grata di tanta disponibilità.
Evidentemente, dovevano essere abituati a ben altro genere di
trattamento. «Se ci date il vostro nome, sarà nostra cura farlo presente
al segretario generale del console, in modo che vi inserisca nell'elenco
degli incontri.» «Vi ringrazio» disse Rossano, che all'improvviso
comprese che era quella la tattica migliore da seguire in simili
frangenti.
Se avesse sfruttato quel piccolo vantaggio, forse sarebbe riuscito a
carpire qualche informazione ai due uomini d'arme. «Il mio nome è
Rossano da Brescia, e ho già avuto modo di parlare con il console,
quando ha dato vita alle guarnigioni di rincalzo della città.»
«Benissimo» annuì la guardia. «Riferiremo senz'altro.» Rossano
sorrise ancora, fece per allontanarsi poi, quasi casualmente, indicò la
folla di notabili che brulicava nella piazza.
«Confesso di non avere mai visto tanti nobili riuniti insieme» disse.
«E davvero non vi invidio al pensiero di quello che dovete avere
passato, cercando di tenerli a bada.» Il più giovane degli uomini
d'arme fece una smorfia.
«Alcuni di loro sono degli arroganti e dei prepotenti» disse.
«Se non avessi avuto ordini precisi...» «Sono impazienti»
l'interruppe l'altra guardia, «e posso ben capirli. Qualcuno di loro è qui
da ieri sera, e non sono venuti di loro volontà, ma dietro precise
sollecitazioni da parte del console.» Rossano si accigliò. «Ecco» disse,
«è questo che non capisco.
Siamo stati tutti convocati, giusto? Allora perché farci aspettare?
Che cosa impedisce al console di cominciare a ricevere i più
autorevoli fra quegli uomini?» «Credo stiano aspettando qualcuno»
rispose la guardia più giovane.
«Esatto» annuì l'altro. «Fino a quando non arriverà, il console non
autorizzerà nessuno a entrare a palazzo.» Rossano li fissò incuriosito.
«Davvero?» disse. «E chi sarebbe costui?» Le guardie si scambiarono
una rapida occhiata, poi il più anziano dei due rispose, a voce
abbastanza bassa perché solo Rossano potesse udirlo: «Alberto da
Giussano. Il Gran Cavaliere al comando della Compagnia della
Morte».
Rossano restò suo malgrado sorpreso da quella rivelazione.
Gli avevano già parlato di Alberto da Giussano, ma non l'aveva mai
conosciuto di persona, e non credeva che si trovasse a Milano. L'ultima
volta che aveva sentito delle sue imprese e degli atti di coraggio dei
novecento uomini che formavano la temibile Compagnia della Morte,
era stato qualche mese prima, per uno scontro con le truppe del
Marchese di Monferrato, fedeli all'imperatore.
In realtà si era trattato di un atto dimostrativo, più che di una vera
e propria battaglia, ma ogni volta che la Compagnia della Morte si
muoveva, uno strano alone di leggenda la seguiva, e le sue imprese si
gonfiavano smisuratamente, sulla bocca della gente.
«Non sapete per quale motivo verrà qui?» provò ancora a chiedere,
ma i due uomini d'arme scossero la testa. «Bene, vi ringrazio»
concluse, allontanandosi verso il punto in cui Drago lo aspettava
sbuffando.
Adesso, più che l'impazienza lo rodeva la curiosità: voleva sapere
che cosa stava succedendo, e perché Alberto da Giussano fosse stato
convocato dal console di Milano insieme a tanti nobili e cavalieri.
Forse c'era di mezzo l'imperatore, quel bandito ingioiellato che si
nascondeva in Germania, al riparo oltre le
Alpi, e che Rossano avrebbe voluto avere a portata di spada, per
fargli assaggiare il filo rovente della sua rabbia.
Se era così, allora sarebbe valsa la pena aspettare anche giorni
interi accampato in quella piazza, pur di riuscire a far parte del
movimento armato che forse si stava attrezzando per contrastare
Federico I il Barbarossa.
In un primo momento non riconobbe la persona che stava
parlando con Gilberto Rocca, perché gli dava le spalle e indossava un
mantello di poco conto, ricavato da un unico pezzo di tessuto grezzo.
Pensò fosse uno dei tanti uomini d'arme che erano stati convocati dal
console e che cercavano di capire che cosa diavolo stesse succedendo,
poi un particolare lo insospettì: Drago si allungò verso il braccio dello
straniero ma, anziché morderlo come era solito fare, soffiò piano dalle
narici e strofinò il muso sulla fusciacca indossata dall'individuo.
Quando lo straniero diede un colpetto sul collo di Drago,
continuando a parlare con Gilberto Rocca come se nulla fosse, i
sospetti di Rossano divennero certezza e lo spinsero a farsi avanti con
un singulto d'ira.
«Che ci fai, qui?» ringhiò furibondo. «Non mi venire a raccontare
che sei stato convocato anche tu!» «Ehi, che succede?» chiese sorpreso
Gilberto Rocca. «Tuo fratello mi stava dicendo...» «Mio fratello è un
bugiardo» l'interruppe perentorio Rossano.
Poi si voltò verso il ragazzo con i suoi stessi occhi azzurri e i capelli
ricci, folti come un cespuglio selvatico, che lo guardava divertito. «E tu
togliti quel sorrisino dalle labbra! Mi spieghi che ci fai qui vestito in
questo modo?» Valerio si era agghindato di tutto punto, con stivali di
cuoio e calzebrache che doveva aver rubato da qualche parte, visto che
non poteva certo permettersi di acquistarle, e si comportava come se
fosse un cavaliere provvisto di investitura, anziché un semplice
sedicenne che faceva apprendistato nella bottega di un armaiolo.
«Calmati» si limitò a rispondere stringendosi nelle spalle.
«Ero solo curioso. In città non si fa altro che parlare di questa
chiamata alle armi.» «Non c'è nessuna chiamata alle armi» ribatté
Rossano. In realtà non capiva perché si comportasse in quel modo, con
il fratello minore: Valerio era sempre pieno di allegria e di
ammirazione nei suoi confronti, ma lui, da quando doveva
occuparsene come fratello e come padre, avvertiva sempre disagio
quando si trattava di tenerne a bada il comportamento irrequieto. In
fondo era solo un ragazzo, pieno di vitalità e della normale curiosità
che chiunque prova alla sua età.
Fece per aggiungere qualcos'altro, poi sollevò una mano, sbuffò e si
diresse verso le bisacce a cavallo di Drago. Ne estrasse un involto con
del pane e del lardo, e lo lanciò a Valerio, che lo prese al volo.
«Non sappiamo ancora niente» disse dopo un po', mentre il fratello
si sedeva a terra, con la schiena contro il muro su cui correva la fila di
anelli di sosta. Si rivolse anche a Gilberto Rocca: «A quanto pare è
tutto fermo, in attesa dell'arrivo di una persona».
«E chi sarebbe?» chiese sorpreso Gilberto.
«Alberto da Giussano» rivelò dopo un po' Rossano, senza riuscire a
trattenere un certo disagio. Non sapeva perché, ma aveva
l'impressione che avrebbe fatto meglio a tenere per sé
quell'informazione.
«Alberto da Giussano?» gridò Valerio saltando in piedi e facendo
girare diverse persone dalla sua parte. «Stai dicendo sul serio? Verrà
qui?» «A quanto pare» annuì Rossano guardandosi attorno con
cautela.
«Verrà da solo o con la Compagnia della Morte?» lo incalzò
Valerio, con gli occhi che luccicavano.
«Non lo so» sibilò Rossano. «E non sono così sicuro che arrivi
davvero. Forse sono solo dicerie.» «No!» esclamò Valerio. «Lo sapevo
che sarebbe successo.
Alberto da Giussano è qui per guidarci in battaglia. Con lui al
comando il Barbarossa...» «Piantala» l'interruppe seccamente
Rossano. «Non dire stupidaggini. Non ci sarà nessuna battaglia.» «E
tu come fai a dirlo?» gli chiese Valerio. «Guardati attorno!
Che ci fanno qui tutti questi cavalieri e questi nobili? E che ci fa
Alberto da Giussano a Milano? Non mi dire che sono tutte
coincidenze.»
Rossano strinse gli occhi e fissò il fratello.
«Che cosa vorresti dire?» chiese, incuriosito suo malgrado.
«Le hai sentite anche tu le voci, no?» rispose Valerio. Poi il ragazzo
si rivolse a Gilberto Rocca. «Ditemi, capitano, non si dice che il
Barbarossa sia pronto a valicare ancora le Alpi?» Gilberto si accigliò, e
anziché rispondere lanciò un'occhiata a Rossano.
«Lo sapete entrambi!» affermò Valerio soddisfatto. «L'imperatore
sta preparando una spedizione, e noi dobbiamo prepararci ad
affrontarlo!» «Se anche fosse» ribatté Rossano, «tu devi restarne
fuori.» Valerio avvampò. «Restarne fuori?» fece con rabbia. «Di che
diavolo stai parlando? Quei bastardi hanno ucciso i nostri genitori,
non solo tua moglie, e io...» Il ceffone di Rossano raggiunse Valerio in
piena faccia, e il ragazzo non crollò a terra solo perché Gilberto Rocca
l'afferrò al volo.
«Ho detto che devi restarne fuori» sibilò Rossano scrutando
minaccioso gli occhi allagati di rabbia e di vergogna del fratello.
«Non sei un uomo d'arme, né mai lo diventerai.» «Ho diritto
anch'io di vendicare i nostri genitori» ribatté rauco Valerio.
Rossano strinse i pugni e dominò a fatica l'impulso di colpire
ancora il fratello. Lo capiva, lo capiva meglio di quanto egli potesse
sospettare, e proprio per questo non voleva che condividesse con lui il
furore cocente e doloroso della vendetta. Non poteva permettere che
capitasse qualcosa anche a lui: Valerio era il solo parente che gli era
rimasto, dopo lo sfacelo che le truppe imperiali avevano portato a
Milano e nella sua vita nel 1162. A quell'epoca il fratello aveva solo
quattro anni, quindi non poteva ricordare quello che era successo, non
si risvegliava di notte in preda agli incubi, mentre le grida di tutti
coloro che conosceva e che erano stati trucidati dalle truppe imperiali
gli risuonavano nelle orecchie come se stesse rivivendo quei terribili
momenti.
Sentendo rifluire d'improvviso la rabbia, Rossano abbracciò
Valerio e lo strinse forte a sé.
«Torna a casa» mormorò. «Ti prego. Fallo per me. E per mamma e
papà.» Valerio vibrava di collera fra le sue braccia, ma poi lentamente
Rossano sentì che si calmava, che si lasciava riempire dal desiderio
di stringersi forte a lui, e finalmente comprese che poteva lasciarlo. Gli
avrebbe obbedito.
«Tuo fratello ha ragione» intervenne Gilberto Rocca. «Vedrai che
questa riunione non porterà a nulla di concreto. E in ogni caso, se
saltasse fuori qualcosa, certo non partiremmo tutti per la guerra
seduta stante.» Valerio fece una mezza smorfia, lanciò un'occhiata a
Rossano, quindi si voltò e si allontanò. Prima di infilare la viuzza che
l'avrebbe portato a casa, si fermò e si girò verso Rossano.
«Se arriverà Alberto da Giussano mi racconterai tutto, questa
sera?» chiese.
«Naturalmente» annuì Rossano con un sorriso.
Valerio fece un profondo respiro e corse via.
2
Le tre piccole ombre strisciarono furtive oltre il sagrato della
vecchia chiesa, poi andarono a raccogliersi fra gli sterpi e le piante
rampicanti aggrovigliati su ciò che restava dell'abside settentrionale.
Le macerie erano un monito alla follia umana, che aveva fatto della
guerra e della devastazione la sua principale ragione di vita, e che non
aveva risparmiato neppure la casa di Dio, nella sua cruenta marcia
distruttrice.
«E se il vecchio ci scopre?» chiese una delle ombre con un filo di
voce.
«Che cosa potrebbe farci?» rispose un'altra.
«E poi, prima dovrebbe riuscire a prenderci» concluse con un certo
cipiglio la terza ombra, che più delle altre sembrava smaniosa di
sgusciare fuori dal nascondiglio e puntare dritto all'obiettivo che si
erano prefissati in quella notte di luna piena.
«Ho sentito delle storie» ribatté la prima ombra, mostrando sotto
la luce della luna una zazzera di capelli rossi aggrovigliati di
sudiciume. «Quel vecchio non è come gli altri.» «Ma che diavolo stai
dicendo?» chiese disgustato il secondo ragazzino, dando una manata
al compagno. Negli occhi chiari come cristalli di vetro molato si
agitava lo spettro di una curiosità inarrestabile.
«Il Carroccio» rispose, ricordando le tante storie che suo padre gli
raccontava davanti al fuoco. «Il carro da guerra della città.» Il vecchio
allungò una mano e la passò con un gesto amorevole sul legno nero del
carro, indurito dal tempo e dai trattamenti con la pece.
«Non è solo un carro da guerra» spiegò, facendo segno a Egidio di
avvicinarsi e toccarlo a sua volta. «È un simbolo. La dimostrazione, a
chi è pronto a sacrificare la propria vita in nome della fede, che Dio è
sceso in campo al suo fianco.» Egidio lasciò che le parole del vecchio
prete lo avvolgessero morbidamente, permeandolo di significati che
non aveva del tutto chiari ma che contribuivano a ingigantire la sua
meraviglia.
«Perché è qui dentro?» chiese dopo un po'.
Il prete si voltò a guardarlo. Adesso il sorriso era evidente sulle sue
labbra affondate nella barba.
«Abbiamo cercato di proteggerlo» rispose. «Questa chiesa è più
solida di quanto non appaia dall'esterno.» «Tu sei il custode del
Carroccio?» chiese Egidio.
«Oh, no» rise il prete, sinceramente divertito. «Ero il parroco di
questa modesta dimora di Dio, prima che i barbari la mettessero a
ferro e fuoco.» Egidio aggrottò le sopracciglia. «Sei padre Ariberto?»
chiese sorpreso.
«Come fai a conoscere il mio nome?» «Credevamo che fossi morto.
Sei tu che mi hai battezzato.» Il vecchio annuì con un gesto lento e
solenne, poi accarezzò Egidio sulla testa.
«Sono vivo, figlio mio. E adesso mi occupo d'altro.» Tacque per un
istante, poi indicò nuovamente il Carroccio.
«Vuoi salire?» chiese.
Egidio si sentì attraversare da un lampo di eccitazione.
«Posso?» chiese.
«Ma certo» rispose divertito padre Ariberto. «Attento però a non
toccare niente.» Sul retro del carro c'era una specie di porticina
bloccata da un gancio di ferro. Quando padre Ariberto la aprì, Egidio
vide una scaletta che conduceva nella parte superiore del carro, a
un'altezza di un uomo e mezzo.
«Come si fa a spostarlo?» chiese mentre seguiva il vecchio sul
Carroccio. «Dev'essere pesantissimo!» «Ci vogliono almeno tre
pariglie di buoi» rispose il vecchio.
«Se non quattro.» Una volta sopra, Egidio ebbe l'impressione di
trovarsi a bordo di un vascello. Ci era salito una volta, quando lui e suo
padre erano andati a scaricare delle merci al Ticino. La sensazione era
la stessa, e le pareti di solido legno del carro sembravano le paratie
della barca, che s'innalzavano al punto da costringerlo a issarsi sulle
punte per poter guardare fuori.
«Da quassù i comandanti impartiscono gli ordini alle truppe» gli
spiegò il prete afferrandolo per le ascelle e sollevandolo perché potesse
guardare fuori. «Gli spalti sono alti e robusti per proteggere dagli
attacchi del nemico.» Egidio non stava più nella pelle. Aveva mille
domande da fare al prete, ma riusciva solo a guardarsi attorno
eccitato, immaginando la potenza di una simile macchina da guerra
sul campo di battaglia.
«Che cos'è quello?» chiese poi, indicando il grande palo di legno
appoggiato di traverso per tutta la lunghezza del carro, e che sporgeva
all'infuori minacciosa come la polena di una nave.
«È il pennone che regge il gonfalone della città e le insegne
dell'esercito» rispose padre Ariberto. «Quando il carro è in movimento
lo si infila in quel foro là al centro, in modo che svetti alto fino al cielo,
avvicinandosi alla gloria di Dio.» Istintivamente Egidio aveva alzato lo
sguardo fino alla volta della chiesa, ammaliato dalle immagini che gli
vorticavano nella mente.
«Guarda questa» lo riscosse il vecchio. «Il tesoro più prezioso del
Carroccio.» Si recò verso quello che sembrava un altare posto nel
mezzo del pianale del carro e indicò una croce sistemata davanti al
foro in cui veniva inserito il pennone.
«Che cos'è?» chiese Egidio ammirato.
«Questa è la croce che il vescovo Intimiano ha regalato ai milanesi
quando è stato realizzato il Carroccio» rispose, osservando la piccola
croce lobata con gli occhi lucidi. «È il simbolo della fede e dell'unità
del popolo nel nome di Dio.» «E la campana?» chiese Egidio
sentendosi girare la testa per le meraviglie a cui stava assistendo.
«Dov'è la Martinella?» Il vecchio prete lo fissò con sguardo attento.
«Sai proprio tutto, del Carroccio, vero ragazzo?» Egidio annuì.
«Mio padre me ne ha parlato spesso. Mi ha spiegato che con questo in
campo un esercito è imbattibile. E che i rintocchi della Martinella sono
in grado di infondere coraggio e vigore ai soldati, facendogli capire che
Dio è con loro e che nessuno potrà mai sconfiggerli.» Padre Ariberto
sorrise, accarezzò ancora Egidio sulla testa, poi si diresse verso l'uscita
del carro.
«Vieni con me» disse.
Egidio gli fu dietro con l'eccitazione che gli faceva rizzare i capelli
sul capo.
«Eccola» disse padre Ariberto scostando un telo polveroso e
portando alla luce una piccola campana brunita. «Questa è la
Martinella.» Egidio in un primo momento restò un po' deluso. Aveva
immaginato una campana magnifica, tutta splendente d'oro e bronzo,
così grande da poter diffondere i suoi rintocchi per chilometri. Invece
quella che aveva davanti era una normale campana non troppo
grande, alta circa la metà di lui, senza iscrizioni e motivi religiosi in
rilievo.
Padre Ariberto sorrise divertito e batté una mano sulla campana.
«Devi sentirla suonare, per renderti conto di quanto vale»
sostenne. «È stata fusa in rame, oro e argento, in modo che fosse
praticamente indistruttibile e che il suo suono risultasse così
squillante da potersi udire fin nelle contrade più remote.» Mentre la
meraviglia tornava a colmare Egidio, il vecchio prese un lembo della
sua tonaca e lo passò con cura sulla campana, vicino ai due borchioni
sulla sommità, mettendo in luce, sotto la polvere che si era depositata,
quella che sembrava una scritta incisa nel metallo.
«Vedi qui?» disse padre Ariberto. «C'è scritto FRUOS.» «Che
significa?» chiese Egidio a bocca aperta.
A.D.1174
Città di Ratisbona 1
La carrozza sobbalzò quando le grandi ruote saltarono su un
voluminoso escremento di cavallo essiccato.
«Maledizione» sbuffò Rainaldo di Darmstadt scostando la tenda di
frustagno rosso e guardando fuori, nel caos che dilagava per le strade
della città. Nonostante l'impegno degli stradini, era pressoché
impossibile garantire la pulizia delle principali vie cittadine, in quei
giorni in cui la Dieta di Ratisbona le aveva riempite di decine di
carrozze e cavalli giunti da tutta la Germania.
L'imperatore Federico I aveva preso alloggio nella residenza
imperiale, che distava solo qualche decina di metri dal palazzo in cui i
Pari di Germania si erano riuniti per la Dieta, ma Rainaldo di
Darmstadt e tutta la sua corte avevano dovuto trovare alloggio presso
la residenza di un margravio locale, e per raggiungerla era costretto ad
attraversare mezza città, con tutti i disagi che questo comportava.
«Dobbiamo rassegnarci, Eccellenza» affermò pacato Monsignor
Vallerò, scuotendo appena la grossa testa calva. «Ratisbona è una città
influente e prestigiosa, ma le uniche vere comodità può goderle solo
Sua Maestà Imperiale. Per noi altri... restano le sistemazioni di fortuna
che può concederci la Provvidenza.» Rainaldo di Darmstadt non
ribatté nulla. Era convinto che Monsignor Vallerò fosse un idiota, un
uomo senza nerbo e spina dorsale, e che non valesse neppure la pena
mettersi a discutere con lui di quei problemi senza importanza. Non
era irritato per le scomodità dei trasferimenti dal palazzo imperiale ai
suoi alloggi, ma per il tempo che era costretto a perdere quando il
fermento che scuoteva la città necessitava della sua presenza.
Si rivolse all'uomo che sedeva di fronte a lui nella carrozza, vestito
con abiti semplici ma che tradivano la presenza di materiali di pregio,
come i pizzi veneziani o l'oro di Persia che riluceva dai ricami della
giubba sfrisata, e che fino a quel momento non aveva pronunciato una
sola parola.
«Che cosa ne pensate, voi, della reazione dei principi di
Germania?» chiese, ignorando ostentatamente il prelato seduto alla
sua sinistra.
Ottone di Wittelsbach strinse appena gli occhi, senza mutare
espressione sul viso deciso, sostenuto da mascelle imponenti.
«Sono dei codardi» rispose, mentre Monsignor Vallerò arrossiva.
«O forse degli opportunisti.» Rainaldo di Darmstadt annuì, convinto
che Ottone di Wittelsbach avesse ragione.
«Credete la stessa cosa anche di Enrico il Leone?» chiese,
soprattutto per chiarirsi le idee su quell'uomo misterioso di cui il
Barbarossa sembrava fidarsi ciecamente, forse più di quanto si fidasse
di lui, che pure era il suo Arcicancelliere.
Ottone di Wittelsbach dilatò leggermente le narici.
«Il cugino dell'imperatore è un uomo furbo» sostenne.
«Probabilmente il Ducato di Baviera non gli basta, ma non vuole
dissanguare i suoi forzieri scendendo in campo contro i Comuni
Lombardi e il Regno di Sicilia. Probabilmente aspetta di capire chi si
indebolirà di più, in questo conflitto.» «Quindi non approvate l'idea
dell'imperatore di scendere nuovamente in Italia per far valere i suoi
diritti regi?» Ottone di Wittelsbach restò per un attimo in silenzio, poi
aprì uno strano sorriso, che fece scorrere un brivido di disagio lungo la
schiena di Rainaldo di Darmstadt.
«Certo che approvo» rispose. «Anzi, credo di avere sostenuto con
tutte le mie forze questa posizione. E sono felice che l'abbiano fatto
anche re Ladislao di Boemia e gli arcivescovi di Colonia e Treviri. Ma
questo non significa che i tempi siano maturi.» Questa volta fu il turno
di Rainaldo di accigliarsi.
«Che cosa intendete dire?» «Che senza Enrico il Leone e senza
l'appoggio degli altri principi di Germania non avremo forze sufficienti
per costringere la Lega Lombarda e papa Alessandro III a
sottomettersi alla legge imperiale.» «Non tutto il Regnum Italiae è con
quei... ribelli» esclamò indignato Monsignor Vallerò, ma né Ottone di
Wittelsbach né Rainaldo di Darmstadt gli diedero retta.
«Come fate ad affermare una cosa del genere?» chiese
l'Arcicancelliere imperiale scrutando direttamente negli occhi Ottone
di Wittelsbach.
Questi tornò a rilassarsi contro lo schienale della carrozza, allungò
una mano per scostare la tendina e guardò fuori.
«I nostri avversari hanno avuto tempo per prepararsi, mentre noi
fingevamo di ignorare il tradimento che stavano consumando.»
«Ignorare?» ribatté indignato Rainaldo. «Non sono assolutamente
d'accordo. Abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per
contrastare l'autonomia dei Comuni Padani e impedire che il Regno di
Sicilia si espandesse fino a Roma.» «Non mi pare che l'arcivescovo
Cristiano di Magonza abbia ottenuto grandi successi, in Toscana»
ribatté Ottone di Wittelsbach. «Il suo assedio di Ancona è stata una
vera idiozia, una tattica infantile e priva di qualsiasi logica.» Rainaldo
trattenne a stento la rabbia.
«Se non fosse stato per quei due traditori» disse con un sibilo,
«quel Guglielmo Marcheselli e la contessa Aldruda di Bertinoro,
adesso la Toscana sarebbe riappacificata sotto le araldiche del Sacro
Romano Impero.» Ottone reclinò appena la testa. «Ma questo non è
successo» commentò.
«Adesso anche noi siamo pronti a scendere in campo» affermò
Monsignor Vallerò, «e lo faremo con la determinazione e la forza che
contraddistinguono l'esercito imperiale.» Rainaldo, per una volta
d'accordo con il prelato, sollevò un dito e lo puntò contro Ottone di
Wittelsbach, aggiungendo: «E se Enrico il Leone perderà l'occasione
per partecipare alla riunificazione del Grande Impero, certo non sarà
Federico a consolarlo».
«Mi fa piacere cogliere tanta sicurezza nelle vostre parole,
Eccellenza» annuì Ottone di Wittelsbach. «Mi auguro soltanto che
abbiate ragione.»
«Sarà Dio a concedere all'imperatore la vittoria finale» sentenziò
Monsignor Vallerò.
A quelle parole, né Rainaldo di Darmstadt né Ottone di
Wittelsbach se la sentirono di replicare, e restarono in silenzio fino a
quando la carrozza non li portò a destinazione.
2
Rainaldo non era sicuro che fosse una buona idea disturbare
Federico I nei suoi alloggi privati, non a quell'ora della sera e non per i
motivi che lo spingevano, ma sapeva anche che non aveva scelta,
perché l'alternativa sarebbe stata rimandare all'indomani una
decisione che avrebbe potuto rivelarsi di primaria importanza per la
spedizione in Italia. Un ritardo di mezza giornata, quando c'erano in
ballo questioni così delicate per l'Impero, poteva essere considerato
intollerabile dallo stesso Federico, quando avesse avuto la mente
sgombra dai vapori del vino e dai profumi afrodisiaci delle belle donne
di cui amava circondarsi.
Rainaldo conosceva molto bene il Barbarossa, forse più di quanto
potesse vantare chiunque altro, e sapeva che avrebbe dovuto sfruttare
a fondo quella conoscenza per consolidare il potere di cui, come suo
arcicancelliere, beneficiava. Ma gestire i rapporti con un uomo come
Federico I di Hohenstaufen, re di Germania e imperatore del Sacro
Romano Impero, non era un'impresa alla portata di tutti, e persino per
un uomo nella posizione di Rainaldo sarebbe stato facile commettere
degli errori che lo avrebbero portato alla rovina.
Quando fece segno al dignitario di palazzo di farsi da parte e di
evitare di annunciarlo all'imperatore, sapeva che stava correndo un
grosso rischio, nel piombare in quel modo negli appartamenti privati,
ma era anche convinto che l'approccio diretto fosse il più indicato per
affrontare un uomo come il Barbarossa. Niente intermediari, niente
scuse, niente diplomazia. Era questo che Federico chiedeva ai suoi
vassalli, e lui era sempre riuscito a interpretarne al meglio l'umore
instabile e il carattere scostante, guidandoli passo dopo passo nella
direzione che riteneva più soddisfacente per gli obiettivi dell'Impero. E
di se stesso, naturalmente.
A.D. 1174
Città di Alessandria 1
«Pazzesco. Chi avrebbe mai detto che si potesse costruire una
simile fortezza in così poco tempo?» Venanzio da Urbino aveva
l'abitudine di sghignazzare sempre, quando parlava, qualsiasi cosa
dicesse, a meno che non si stesse rivolgendo a qualche personaggio di
rilievo. Il suo atteggiamento sarcastico e strafottente aveva il potere di
indispettire Rossano, che però per tutto il viaggio da Milano aveva
cercato di mantenersi calmo e distaccato. Non voleva compromettere i
rapporti con l'uomo che gli era stato affiancato dal cardinale Accorsi in
persona, e con il quale avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto, nei
mesi a venire. Portare a termine il suo incarico nel migliore dei modi
era una priorità assoluta per Rossano, e non sarebbero certo bastati i
modi scostanti di Venanzio da Urbino a distoglierlo dai suoi propositi.
Questa volta, però, nelle parole di Venanzio non c'era il solito tono
di velato disprezzo o di narcisistica superiorità, ma qualcosa che
poteva assomigliare a sincera meraviglia, e questo costrinse Rossano a
osservare con attenzione ciò che si delineava oltre la collina su cui si
stava arrampicando il convoglio di cui facevano parte.
Venanzio da Urbino si era allontanato dalla pista per contemplare
la valle del Tanaro che si stendeva oltre le alture, e Rossano l'aveva
seguito quasi per istinto, sorprendendosi di covare per quell'uomo un
sospetto che andava oltre la ragionevolezza, visto che si trattava di un
rappresentante della Santa Sede.
Ma quando l'aveva affiancato sentendolo parlare in quel modo, non
aveva potuto fare a meno di girare lo sguardo nella stessa direzione in
cui guardava Venanzio e trattenere il respiro per la sorpresa.
Alessandria, la città consacrata a baluardo dell'opposizione della
Padania alle truppe imperiali, si ergeva più vasta e fortificata di quanto
Rossano avesse immaginato. Pareva impossibile che fosse stata
costruita in così pochi anni, e che fosse animata da un fermento di
uomini, cavalieri e carri che brulicavano dentro e fuori le grandi mura
come formiche indaffarate.
«Guarda che roba» mormorò Venanzio da Urbino, per una volta
misurato e dimentico della sua aria strafottente. «Non ho mai visto
torrioni di quello spessore.» Rossano annuì lentamente, cercando di
cogliere in un solo colpo d'occhio lo spettacolo che gli si presentava
davanti. La cerchia muraria di Alessandria era stata completata prima
ancora che l'architettura interna della città fosse compiuta, tant'è che
dal punto di osservazione in cui si trovavano era possibile scorgere
numerosi palazzi e edifici ancora in costruzione, come in costruzione
era un intero quartiere nella parte occidentale della città, a ridosso del
castello e del palazzo ducale, che svettavano oltre i contrafforti di
sostegno.
Le torri, le palizzate, i baluardi e i dongioni erano stati eretti ad
altezze tanto elevate che nessuna macchina da guerra sarebbe stata in
grado di aggredire, così come nessuna torre d'assalto sarebbe riuscita
ad ancorare i ponti romani ai corridoi di ronda oltre i merli, per
consentire alle truppe assedianti di penetrare in città.
L'ingresso principale alla fortezza era ricavato sopra una motta
fortificata, un rilievo contornato da un fossato e da una robusta
palizzata, alto forse una quindicina di metri rispetto al piano del
terreno, con una torre quadrangolare di legno e pietra entro la quale
era stato ricavato il ponte levatoio, sul quale si affacciavano due torri
gemelle di sorveglianza e ai cui lati si allargavano le ali di pietra dei
bastioni, che dopo aver circondato tutta Alessandria si riunivano in
un'altra motta fortificata dalla parte opposta della città.
Quelli erano i due soli ingressi visibili, così ben fortificati e
sorvegliati che nessuno sarebbe mai riuscito a penetrarli, neppure
disponendo del più grande esercito che avesse mai battuto quelle
lande.
«Il fossato è stato riempito con pali appuntiti e rostri, vedi?» disse
Venanzio allungando il braccio per indicare un punto dell'opera di
difesa in cui si riusciva a scorgerne il fondo. «Quando lo riempiremo
d'acqua diventerà una trappola letale.» Rossano comprese che
Venanzio da Urbino aveva ragione.
Il fossato era abbastanza largo da impedire di predisporre un ponte
mobile, soprattutto sotto il tiro degli arcieri che dagli spalti imponenti
avrebbero potuto colpire facilmente e da posizioni sicure. E per
impedire che fosse attraversato a piedi 0 a nuoto, gli architetti avevano
fatto piantare sul fondo file e file di picche acuminate puntate verso
l'alto, che sarebbero arrivate a un palmo dalla superficie dell'acqua,
una volta che lo scavo fosse stato riempito. Nessuno avrebbe potuto
calarsi là dentro senza restare impalato.
Ma quello che più impressionò Rossano fu la quantità di torrette
circolari che sorgevano a intervalli regolari fra le mura stesse, che
avrebbero consentito alle truppe di acquartierarsi in numero ingente
su tutto il perimetro di difesa, e di spostarsi lungo gli ampi
camminamenti dei bastioni per portare rinforzo alle zone più a rischio
durante un assedio.
«Magnifico!» esultò Venanzio dando uno strappo alle redini e
affondando gli speroni per costringere il cavallo a partire al galoppo.
«Andiamo, quella meraviglia ci aspetta!» Rossano restò ancora un
istante a osservare lo spettacolo della roccaforte di Alessandria, e si
sentì contagiare dalla stessa eccitazione che doveva aver inondato
Venanzio.
Spronò a sua volta Drago, e raggiunse la carrozza su cui
viaggiavano il conte Rodolfo Concesa e sua figlia Angelica.
Voleva rendere anche loro partecipi della meraviglia che l'aveva
colmato.
Venanzio da Urbino l'aveva preceduto ancora una volta. Cavalcava
a schiena dritta accanto alla carrozza dei Concesa, e discuteva con il
conte mantenendo un tono sussiegoso che scatenò T
1 ira di Rossano. Avrebbe voluto raggiungere quel buffone e fargli
rimangiare tutta la falsa cortesia e sottomissione che ostentava davanti
al conte, ma poi intravide il pallido volto di Angelica che si protendeva
verso il finestrino della carrozza, per ascoltare
Venanzio e interagire con la sua risata deliziosa, e comprese che
avrebbe solo fatto una figura da sciocco.
Decise così che avrebbe serbato buona memoria di quel Venanzio
da Urbino servizievole e accomodante per la prossima volta in cui
avesse mostrato boria e disprezzo a un suo commento. Avrebbe saputo
come ribattere a tono a quello sfrontato senza pudore, e non avrebbe
esitato a far valere la sua autorità, visto che era lui il comandante
incaricato della guarnigione di Alessandria. A tutti gli effetti, Venanzio
da Urbino era al suo servizio, per quanto gli fosse stato affiancato
come "consigliere" di valore.
Sulle reali capacità di Venanzio, Rossano covava mille dubbi, e
certo non sarebbe stato disposto ad accettare tanto facilmente i suoi
consigli.
Rabbiosamente diede uno strappo alle redini e fece scartare Drago,
allontanandosi dalla carrozza dei Concesa da cui provenivano la risata
cristallina di Angelica e quella odiosa di Venanzio da Urbino.
2
Quando Valerio mise la testa fuori dalla grande cesta di legna in cui
si erano infilati lui e Carlo, non riuscì a evitare un moto di sorpresa.
«Che c'è?» gli chiese l'amico, che dalla posizione in cui si trovava
non riusciva a vedere niente. «Siamo arrivati?» Valerio osservò le
mura immense che si inarcavano sopra di lui, mentre il carro su cui si
erano nascosti percorreva la strada che costeggiava il fossato. Non
aveva mai visto bastioni così possenti, e all'improvviso ebbe la certezza
di avere fatto la scelta giusta.
«Allora? Dimmi qualcosa!» «Stai zitto!» intimò all'amico tornando
a ficcarsi nella cesta.
Sapeva che se li avessero scoperti per loro sarebbero stati guai, e
non voleva rovinare tutto proprio adesso che erano giunti a
destinazione.
«Ho visto le mura» disse, eccitato ma costringendosi a restare
fermo, mentre il rollio del carro si faceva meno percettibile, come se le
grandi ruote si fossero inoltrate su una strada ben pavimentata e priva
di buche. «Sono immense, non si riesce neppure a vederne la
sommità!» Carlo scalpitava accanto a lui, gli occhi sgranati.
«Sei sicuro che sia Alessandria?» chiese.
«No, come faccio a saperlo?» sbuffò Valerio. «Però mio fratello ha
detto che era diretto qui, quindi non vedo quale altro posto possa
essere.» «Fammi vedere!» esclamò Carlo inerpicandosi verso la bocca
della cesta, chiusa da un coperchio di rami intrecciati.
«No!» cercò di fermarlo Valerio. «Stiamo per entrare in città, se ci
vedono...» Ma Carlo non lo ascoltò, e dopo essersi districato fra i
ciocchi di legno (parte dei quali avevano gettato fuori del carro per
guadagnarsi uno spazio un po' più confortevole durante il viaggio) si
issò su, scostò il coperchio e guardò fuori.
«Per la miseria» disse, e Valerio, dopo essersi morso le labbra, non
riuscì più a resistere alla curiosità e lo raggiunse per guardare fuori.
Il carro stava passando attraverso quella che sembrava
un'immensa porta ricavata in una torre con le mura spesse almeno tre
piedi. Dall'alto pendevano catene e corde, e i due ragazzi riuscirono a
scorgere le punte acuminate del cancello sospeso sopra di loro, che
una volta abbassato non avrebbe consentito a nessuno di attraversare
il ponte levatoio che conduceva in città.
«Ce l'abbiamo fatta» sibilò felice Carlo.
Valerio annuì, dimentico per un istante della prudenza che avrebbe
dovuto farli essere più accorti, e osservò la moltitudine di persone e di
guardie armate che si accalcava oltre il ponte levatoio. Due uomini
robusti con indosso un elmo senza visiera gridavano ordini, e il flusso
di carri, persone e bestie che transitavano sul ponte seguiva le loro
indicazioni, muovendosi ordinato e a velocità costante.
«Guarda quei soldati» mormorò Valerio indicando alcuni armigeri
che sorvegliavano il transito da un camminamento ricavato sulle
mura, a mezza altezza rispetto ai merli superiori.
Indossavano delle giubbe di cuoio nero, con un'araldica in verde e
oro dipinta sul petto. «Devono far parte della guarnigione della città.»
«Allora dovremmo scendere e chiedere informazioni a loro» fece
Carlo eccitato.
«Non so se è una buona idea» ribatté Valerio. «Prima forse
dovremmo...» Non riuscì a concludere la frase perché il carro si fermò
con uno scossone e diverse grida si alzarono poco distanti, mentre
numerosi uomini si avvicinavano correndo.
«Accidenti» sibilò Valerio tornando a nascondersi nella cesta.
«Che succede?» chiese Carlo, imitando l'amico anche se non era
riuscito a vedere niente.
«Credo che vogliano scaricare il carro» rispose Valerio, e a
conferma delle sue parole avvertirono i rumori della ribalta che veniva
abbassata e di qualcuno che montava sopra.
«Cominciamo da questi cestoni!» urlò una voce. «Portateli alla
falconiera.» Vi fu un certo trambusto tutto intorno a loro, poi
all'improvviso la cesta venne sollevata e sballottata da una parte
all'altra, fino a quando Valerio comprese che chi la stava
maneggiando, forse trovandola inaspettatamente più pesante delle
altre, aveva perso la presa e la stava facendo precipitare a terra.
L'impatto fu meno tremendo di quanto si era aspettato, ma il
coperchio rotolò via e lui e Carlo caddero fuori insieme ai ciocchi di
legno.
«Ehi, e questi chi sono?» L'uomo che aveva parlato era vestito
come un garzone, con le braccia muscolose ricoperte da una patina di
sudore. Osservò con sguardo torvo Valerio e Carlo, poi cominciò a
gridare per richiamare l'attenzione degli altri lavoranti, o forse delle
guardie armate.
«Filiamocela!» gridò Valerio afferrando Carlo per un braccio e
strattonandolo via.
I due si diedero alla fuga imboccando la prima strada che videro,
proprio mentre dietro di loro scoppiavano le prime imprecazioni e
qualcuno, forse il padrone del carro, si lamentava a gran voce di essere
stato derubato.
Con il cuore che martellava all'impazzata, ma più eccitato che
spaventato, Valerio condusse Carlo in una serie di vicoli affollati fino a
quando non ebbe la certezza di avere seminato chi avesse voluto
inseguirli.
5
«Madamigella, presto, correte!» Angelica osservò sorpresa la sua
giovane dama di compagnia, che di solito era seria e compassata come
una tutrice e che di rado lasciava sfogo all'esuberanza della sua età.
Verusca aveva le gote imporporate, e sgranava gli occhi mentre
procedeva spedita verso di lei, con una mano sul seno e l'altra che
fendeva l'aria in preda a una strana agitazione.
«Che succede?» le chiese Angelica divertita, guardandosi attorno
per vedere se c'era qualcun altro che potesse assistere a quello strano
siparietto.
«Venite a vedere!» l'incalzò Verusca, eccitata come una bambina.
«Aspetta, calmati» le disse Angelica afferrandola per entrambe le
braccia. «Si può sapere che succede?» «Ricordate quell'uomo?» le
chiese inaspettatamente Verusca.
«Quello che avete incontrato a Milano, alla fontana davanti al
palazzo del console Gisalberti?» «Certo» rispose Angelica, adesso assai
più interessata a quanto agitava la sua giovane dama di compagnia.
Come avrebbe potuto dimenticare lo sguardo intenso di quell'uomo, le
sue spalle larghe, il portamento eretto e i modi gentili con cui si era
rivolto a lei? Ancora non aveva voluto confessarlo apertamente a se
stessa, ma Angelica negli ultimi giorni non aveva fatto altro che
pensare a lui, con il cuore che le batteva nel petto e una strana
sensazione di calore che la pervadeva, anche se non capiva
esattamente perché. Osservò più attentamente Verusca, poi le chiese:
«Sai per caso dove si trova? L'hai visto?».
«Sì, madamigella!» rispose Verusca imporporandosi di nuovo.
«È un uomo bellissimo, forte e autorevole, e io...» «Dove?» le
chiese Angelica con un'improvvisa nota di urgenza nella voce. «Dove
l'hai visto?» «Qui» rispose la damigella. «Lui è qui.» Angelica la
osservò sorpresa.
«Qui ad Alessandria, intendi?» «No, madamigella! O meglio, sì, ma
non solo.» «Si può sapere che cosa...» Anziché rispondere alla
domanda, Verusca afferrò Angelica per una mano e corse via,
strattonandola e costringendola a seguirla.
«Venite!» continuava a ripetere, tutta eccitata. «Guardate voi
stessa!» Angelica si lasciò trascinare fino a uno dei corridoi del palazzo
dove a tratti si aprivano grandi finestre ad arco che davano sul cortile
posteriore, nel quale sapeva che c'erano gli acquartieramenti della
guarnigione della città.
Continuava a non capire che cosa intendesse suggerirle Verusca,
ma quando lei si avvicinò a una finestra e guardò fuori, portandosi
entrambe le mani alla bocca, avvertì il battito del cuore accelerare.
Si avvicinò lentamente alla finestra, appoggiò le mani contro una
colonnina tortile che ne decorava la struttura portante, e guardò fuori.
In un primo momento non vide nulla di particolare, e un senso di
delusione la invase mentre contemplava alcuni soldati che, come
sempre, trascorrevano parte della giornata nello spiazzo riservato
all'addestramento militare.
Poi, proprio nel momento in cui stava per girarsi verso Verusca e
chiederle quale scherzo avesse deciso di farle, intravide l'armigero a
torso nudo che, nel centro dello spiazzo, stava duellando con un altro
soldato. Il sole si rifletteva sulla sua schiena e sulle spalle forti, mentre
l'uomo si muoveva come se danzasse, con leggerezza, senza sollevare
la polvere come faceva il suo avversario, che Angelica comprese subito
trovarsi in grosse difficoltà.
Quando l'uomo a torso nudo fece una specie di piroetta per evitare
un affondo impacciato e balzò di lato per cogliere di sorpresa il suo
avversario, Angelica finalmente potè vederlo in viso, e il cuore riprese
a batterle con forza nel petto.
«È lui, non è vero?» mormorò Verusca.
Angelica annuì lentamente, mentre sentendosi rimescolare dentro
non riusciva a staccare gli occhi dal petto sudato dell'uomo, sul quale i
muscoli guizzavano pieni di forza, ogni volta che muoveva la spada.
Era proprio lui, non aveva alcun dubbio in proposito, e solo dopo
aver superato la gioia e la vertigine che l'avevano colta, si chiese come
mai fosse giunto là.
«Chi è?» chiese a Verusca. «Perché è qui ad Alessandria?» La
dama di compagnia scosse appena le spalle minute.
«Non ricordate?» rispose. «Si chiama Rossano da Brescia, ed è il
nuovo comandante della guarnigione. Quando me ne hanno parlato
non pensavo che potesse trattarsi dello stesso giovane che avete
conosciuto a Milano.» Angelica, continuando ad ammirare il corpo
perfetto dell'uomo e il modo agile ed elegante con cui si muoveva,
avvertì crescere ancora quel calore che già altre volte l'aveva turbata,
soprattutto quando, nel sonno, ricordava lo sguardo che lui le aveva
rivolto a Milano, prima che lei lo salutasse.
«È stato arruolato da mio padre, dunque» disse, costringendosi a
voltare lo sguardo verso Verusca. Aveva bisogno di saperne il più
possibile su Rossano da Brescia, e la damigella avrebbe potuto
ricoprire un ruolo fondamentale in questo compito.
«Credo di sì» rispose Verusca. Poi la giovane tornò a guardare
nell'arena militare e si emozionò di nuovo. «È davvero bellissimo, non
trovate?» Angelica annuì, però colse qualcosa di strano nella voce di
Verusca, e finalmente comprese per quale motivo lei era così
sconvolta.
Non le aveva fatto vedere Rossano da Brescia non perché aveva
capito che a lei piaceva e che lo ricordava ogni volta che le era
possibile, ma perché a sua volta nutriva una forte passione nei
confronti del nuovo comandante della guarnigione.
«Verusca» le chiese, costringendola a voltarsi verso di lei.
«Devo forse intendere che ti sei innamorata di Rossano da
Brescia?»
La damigella, se possibile, divenne ancora più rossa in viso e
abbassò gli occhi.
«Io...» provò a dire, ma non le uscì altro dalla gola.
Angelica la osservò sorpresa, incapace di continuare la
conversazione. Aveva conosciuto Rossano solo per un breve istante, e
dunque era impossibile che si fosse innamorata di quell'uomo, anche
se il turbamento che avvertiva in tutto il corpo quando pensava a lui
era abbastanza chiaro, ma adesso non poteva credere che la sua
damigella di compagnia provasse gli stessi sentimenti per l'uomo che
le tormentava dolcemente il sonno.
«Rispondimi» disse dopo un po', con maggior foga, perché non
poteva restare nel dubbio. «Sei innamorata di Rossano da Brescia?»
Verusca sollevò lo sguardo, esitò, poi allargò un timido sorriso.
«Sì» confessò. Poi, sgravata finalmente da quel peso, parve
rianimarsi e si rivolse ad Angelica con gli occhi sgranati. «Voi che ne
pensate, madamigella? Credete che il mio sia un amore folle? Che
dovrei contrastarlo prima di soccombervi?» Un'ombra di paura le
attraversò il viso, ma poi sembrò distendersi e sorrise di nuovo.
«In fondo non è un nobile né un cavaliere di prestigio» disse, quasi
parlasse a se stessa, «quindi non dovrebbe trovare svilente trascorrere
un po' di tempo insieme a me, se io dovessi piacergli.» Angelica si sentì
salire le lacrime agli occhi, e con rabbia le ricacciò indietro. Che cosa le
stava succedendo? Perché non scoppiava a ridere e non incoraggiava
Verusca in quell'amore, com'era nella sua natura, come aveva sempre
fatto? Perché il solo pensiero che un'altra donna fosse affascinata da
Rossano da Brescia le faceva tanto male?
Scosse la testa e fissò Verusca.
«Come puoi esserne innamorata?» le chiese, rendendosi conto che
stava parlando anche a se stessa. «L'hai visto solo una volta, per di più
da lontano. Tu eri nella carrozza, quando io sono andata alla fontana.»
«Mi è bastata una sola occhiata» rispose Verusca, con uno strano
sguardo sognante che trafisse il petto di Angelica come una lama
affilata. «Un'occhiata che lui ha ricambiato, me ne sono accorta. Da
allora non riesco a fare a meno di pensare continuamente a lui.»
Angelica si sentì gelare.
A.D. 1174
Francia meridionale, via Francigena e valico del Monginevro 1
La polvere sollevata dalle colonne di uomini, cavalli e carri era così
fitta e persistente che si sarebbe vista a chilometri di distanza, e questo
non contribuiva a migliorare l'umore di Ottone di Wittelsbach, mentre
cavalcava verso la tenda eretta in fretta e furia per ospitare un
consiglio di guerra straordinario.
Ottone sapeva che sarebbe stato presente l'intero stato maggiore
dell'esercito imperiale, oltre a Federico I in persona e al suo
arcicancelliere, quel Rainaldo di Darmstadt il cui sguardo penetrante
da rapace aveva sempre il potere di trasmettergli un senso
d'inquietudine.
Quando Ottone era stato convocato, mentre si intratteneva con due
giovani fanciulle su uno dei carriaggi nelle retrovie, la sua sorpresa era
stata tale che era balzato giù ancora a torso nudo, e aveva fatto sellare
il cavallo imprecando contro i suoi attendenti che si erano fatti cogliere
impreparati: avrebbero dovuto intercettare il messo imperiale e
impedirgli di vedere a quali attività era dedito, pur sapendo benissimo
che anche tutti gli altri dignitari al seguito del Barbarossa erano
impegnati a far passare il tempo in modi analoghi al suo. Quando un
esercito di quelle proporzioni si muoveva, non era possibile percorrere
più di una decina di chilometri al giorno: non c'erano solo i campi
notturni da smontare e caricare sui carri degli approvvigionamenti, ma
anche i cavalli da alternare al lavoro di tiro, le vedette da mandare in
avanscoperta, la cavalleria leggera in esplorazione per una vasta area,
per costringere i villaggi e le abitazioni disseminate sul territorio a
prostrarsi al passaggio dell'imperatore e dare quanto richiesto dagli
ufficiali della logistica per rifornire le scorte di armi e viveri, per
riparare carri o ferrare cavalli e provvedere a quanto serviva per
mantenere uomini, animali e carriaggi sempre alla massima efficienza.
E poi, diverse ore prima del tramonto e sulla scorta delle indicazioni
che arrivavano dagli esploratori, bisognava trovare il posto adatto per
fermarsi di nuovo, erigere gli accampamenti, predisporre le vedette e i
turni di guardia e garantire all'imperatore il massimo dell'agio e della
sicurezza, nella sua grande tenda collocata al centro del campo
militare.
Una macchina prodigiosa che procedeva con lentezza ma senza mai
fermarsi, abituata a gestirsi da sola, e dunque senza che le alte
gerarchie nobili e militari dovessero intervenire per dare
costantemente ordini e indicazioni agli ufficiali di truppa O di
sussistenza.
Il che significava che uomini come Ottone di Wittelsbach si
annoiavano a morte, durante quelle lunghe marce a passo di lumaca, e
dovevano in qualche modo far passare il tempo.
I duelli di spada servivano a mantenere il fisico in forma e la mente
pronta, ma Federico era famoso in tutto il mondo civilizzato per la
qualità delle prostitute che faceva reclutare al seguito del suo esercito e
che metteva a disposizione degli ufficiali, dei comandanti e dei nobili;
per quanto Ottone considerasse certi privilegi una forma di debolezza
da contrastare in tutti i modi, alla fine aveva ceduto anche lui alla
curiosità e all'entusiasmo dei racconti che gli erano stati fatti da altri
dignitari con cui si ritrovava a cenare. Aveva fatto in modo che solo
pochi fra i suoi attendenti più fidati fossero al corrente dell'incontro
che avrebbe avuto quel pomeriggio, su un carro che si sarebbe
appartato in un boschetto sulle rive di un torrente, guardato a vista dai
migliori uomini della sua guardia personale, e aveva appena
cominciato a gustare con sorpresa le deliziose promesse di piacere di
due giovinette di non più di trent'anni insieme, quando il messo
imperiale era arrivato a spron battuto e l'aveva convocato per il
consiglio di guerra straordinario.
Ottone sapeva che era impossibile celare a Federico qualsiasi
movimento, per quanto organizzato con cura e discrezione, ma restò
comunque sorpreso dal fatto che il messo imperiale fosse riuscito a
trovarlo con tanta disinvoltura, come se fosse perfettamente a
conoscenza non solo di dove si trovasse, ma anche di che cosa stesse
facendo e con chi.
Mentre l'inquietudine per quei pensieri gli chiudeva lo stomaco,
Ottone balzò a cavallo, fece segno agli armigeri della sua scorta di
serrare i ranghi e seguì il messo imperiale verso la tenda che il
Barbarossa aveva fatto erigere sulla sommità di una piccola collina che
dominava tutta la valle circostante.
Il cordone delle terribili guardie imperiali era più stretto e nervoso
del solito, al punto che diverse picche calarono verso Ottone di
Wittelsbach e i suoi uomini, quando si avvicinarono, anche se era
impossibile che non l'avessero riconosciuto.
Il messo imperiale si fece avanti, a braccio alzato, e le picche
scivolarono di lato, consentendo a Ottone di entrare in uno stretto
corridoio di soldati armati di tutto punto. Quando anche gli uomini
della sua scorta provarono a seguirlo, le picche tornarono a livellarsi,
chiudendo il passaggio.
«Questo che cosa significa?» chiese sorpreso Ottone.
Il messo s'inchinò profondamente e indicò verso la tenda, la cui
entrata era presidiata da altre due guardie imperiali.
«Vostra Eccellenza è atteso» si limitò a rispondere, e Ottone
comprese che non sarebbe riuscito a cavare nulla da quell'uomo,
neppure sotto tortura. Evidentemente era successo qualcosa, e
Federico aveva diramato ordini precisi ai suoi uomini, ai quali neppure
un condottiero di alto lignaggio come lui sarebbe riuscito a sottrarsi.
«Va bene» disse, controllando la rabbia che lo pervadeva.
«Vediamo che succede.» Si diresse a passo di marcia verso
l'ingresso della tenda, e non si fermò di fronte allo sguardo truce dei
due armigeri, anzi li sfidò silenziosamente a provare a fermarlo. I
militari restarono immobili fino all'ultimo istante, poi scattarono
insieme, sollevando le picche e lasciandolo passare.
Ottone scostò il telone d'ingresso con entrambe le mani, ed entrò
nella luce morbida delle candele che anche in pieno giorno
illuminavano la tenda allestita per il consiglio di guerra.
Contrariamente a quanto si era aspettato, non c'era nessuno.
Nessuno a parte il Barbarossa e il suo arcigno cancelliere, Rainaldo
di Darmstadt.
«Finalmente» sbuffò l'imperatore agitando una coppa piena di
vino verso Ottone. «Erano davvero così belle quelle due puttanelle?
Tanto da farvi esitare anche di fronte agli ordini del vostro
imperatore?» Ottone si sentì arrossire, più per la rabbia che per la
vergogna, e irrigidì la schiena.
«Sono venuto subito» rispose. Poi si guardò attorno, nella grande
tenda vuota. «Credevo che Sua Maestà avesse indetto un consiglio di
guerra.» «È così, infatti» intervenne Rainaldo di Darmstadt, mellifluo
ma pericoloso come una vipera della Foresta Nera. «Non si tratta,
però, di un consiglio di guerra allargato agli altri comandanti e
dignitari.» «Per quale motivo?» chiese sorpreso Ottone di
Wittelsbach.
«Perché ho bisogno del tuo aiuto» rispose il Barbarossa vuotando
tutto d'un fiato la coppa di vino e gettandola in un angolo.
«E perché non mi fido degli altri.» «Non capisco, Maestà» disse
Ottone, suo malgrado costretto a dimenticare la rabbia e a
concentrarsi sull'espressione stravolta dei lineamenti dell'imperatore.
Doveva essere successo qualcosa di grave, e questo spiegava persino i
modi bruschi con cui era stato convocato e costretto a recarsi subito lì,
oltre alla diffidenza degli uomini della scorta imperiale.
«Qualcuno, oggi, ha cercato di uccidere il nostro imperatore» si
decise finalmente a rivelare Rainaldo di Darmstadt. «Sua Maestà
Federico I è vivo solo perché Dio ha intercesso per lui.» Ottone di
Wittelsbach restò a fissare a bocca aperta l'arcicancelliere imperiale e
il Barbarossa, poi annuì lentamente e girò Lo sguardo verso il tavolo su
cui era appoggiata la brocca con 10 vino.
«Bevete» ordinò l'imperatore. «E versatene un'altra coppa anche
per me.» «Non posso credere che vostro cugino sia coinvolto» disse
Ottone di Wittelsbach, sinceramente costernato.
Federico I trangugiò un altro sorso di vino, lasciando che il liquido
scuro gli imperlasse la barba folta, e aprì un sorriso sarcastico.
«Mio cugino, se potesse, mi mangerebbe il fegato» ribatté, mentre
Rainaldo di Darmstadt sorbiva il vino scuro di Germania a piccoli
sorsi, come se fosse un tributo che doveva assolvere come parte
integrante del suo incarico, non certo per piacere personale.
Ottone di Wittelsbach scosse la testa turbato. Non provava una
particolare affezione per il Barbarossa, a parte una sincera lealtà
dovuta al sovrano che guidava la sua Germania alla conquista del
mondo, eppure la scoperta che Federico fosse scampato per miracolo a
un feroce attentato l'aveva profondamente turbato.
Anche perché l'assassino aveva agito indisturbato, nel bel mezzo
dell'esercito imperiale che muoveva in guerra. Una vera follia, che
dava la misura di come l'Impero non fosse per nulla stabile e di quanti
avvoltoi fossero pronti a calare sulla preda, qualora il pugno di ferro
del Barbarossa si fosse allentato o addirittura fosse scomparso per
sempre.
«In ogni caso, non abbiamo le prove che vostro cugino, Enrico il
Leone, sia davvero coinvolto in tutto questo» affermò Rainaldo di
Darmstadt con tono apparentemente distaccato.
Federico sventolò una mano in aria, irritato.
«Lui è un Welfen» ribatté con disprezzo, come se questo spiegasse
tutto.
Ottone di Wittelsbach annuì fra sé. Sapeva che la situazione
familiare dell'imperatore era quanto mai intricata. L'augusta madre,
Giuditta di Baviera, apparteneva alla dinastia dei Welfen, da sempre
rivale di quella del marito, Federico II duca di Svevia, e l'aver
assegnato a Federico il regno di Germania aveva portato solo a
continue frizioni tra le due casate, che si erano poi ripercosse in tutto il
mondo conosciuto. I Welfen, noti anche come Guelfi, avevano ottenuto
un riconoscimento importante quando Enrico il Leone era stato
nominato sovrano della Sassonia e della Baviera; ma l'elezione di
Federico a re di Germania aveva innalzato la sua casata, quella
comunemente detta dei Ghibellini, a un gradino più alto rispetto ai
Welfen, e questo non era mai andato giù a Giuditta di Baviera e ad
Enrico il Leone.
Eppure, nessuno avrebbe osato accusare il Duca di Sassonia e di
Baviera di un atto così grave come il tentativo di omicidio
dell'imperatore, almeno in assenza di prove schiaccianti e
incontrovertibili.
A.D. 1174
Città di Alessandria 1
Angelica Concesa vide arrivare il manipolo di guardie e si sentì
balzare il cuore in gola. Mentre abbassava lo sguardo per cercare di
non apparire impudente, osservò l'uomo che guidava il drappello, e un
senso di sollievo la percorse quando si accorse che non si trattava di
Rossano da Brescia. Gli armigeri si spostarono di lato, senza rallentare
il passo ma concedendo ampio spazio ad Angelica e alle sue ancelle per
attraversare il corridoio e dirigersi verso la grande sala cerimoniale,
dove le nobildonne di palazzo si riunivano per chiacchierare e
scambiarsi gli ultimi pettegolezzi.
Mentre Angelica lasciava placare i battiti del cuore, si disse che era
davvero una sciocca a emozionarsi tanto al solo pensiero di doversi
imbattere in quell'uomo. In fondo, non avevano più scambiato una
sola parola da quando, quasi cinque mesi prima, si erano incontrati a
Milano, dal momento che lei faceva di tutto perché questo non
accadesse. Sapeva che Verusca era riuscita ad avvicinarlo più di una
volta, e dai dettagliati resoconti di quegli incontri aveva avuto la
certezza che Rossano provava un certo interesse per la sua dama di
compagnia, forse ricambiava persino i sentimenti che quella fanciulla
tanto determinata nutriva per lui.
E come darle torto, visto che Verusca era una donna alta e con
magnifici capelli folti, il portamento fiero di una nobildonna e il viso
cesellato nella porcellana? Angelica sapeva di essere bella, ma
riconosceva nella sua damigella, che aveva un paio d'anni più di lei, un
modo estremamente sensuale di muoversi e di rivolgersi agli uomini,
che inevitabilmente sembravano soccombere alla forza maliziosa del
suo sguardo.
A diciassette anni compiuti, Angelica ancora non aveva baciato un
uomo, e si rendeva conto di essere estremamente impacciata e
insicura, quando i sentimenti in qualche modo entravano in gioco.
Eppure aveva fama di essere una giovane vivace e sbarazzina, che non
si fermava di fronte a nulla e che perseguiva i suoi scopi con una
determinazione che a volte diventava cocciutaggine. Era sempre stata
così, fin da bambina, e anche quando aveva avvicinato Rossano da
Brescia alla fontana davanti al palazzo consolare di Milano, l'aveva
fatto con la spregiudicatezza di un tempo che ormai considerava
svanito: da quando aveva incrociato il suo sguardo e si era resa conto
di essersene innamorata, per lei tutto era cambiato.
Quello che prima faceva con facilità, esibendo un sorriso
sbarazzino, adesso era frenato dal timore costante che lui potesse
comparire da dietro un angolo e sorprenderla, giudicando
negativamente il suo comportamento. Così, da qualche tempo
Angelica portava la mano davanti alla bocca, quando rideva, proprio
come le damigelle che aveva sbeffeggiato e deriso per tanta pudicizia;
se le giornate erano particolarmente calde evitava di disfarsi dello
scialle o della sopraveste per scoprire le spalle; se vedeva qualche
amica con cui era particolarmente in confidenza non l'afferrava più
per mano per trascinarla in corse sfrenate sotto l'occhio di tutti, ma si
appartava con lei per chiacchierare compunta, atteggiandosi a
madamigella di alto rango come la sua condizione imponeva, anche se
si era sempre ribellata ai formalismi di palazzo.
Suo padre aveva colto con soddisfazione quel suo repentino
cambiamento, e non perdeva occasione per complimentarsi con lei e
con la stessa Verusca, a cui attribuiva la riuscita di quel piccolo
miracolo inatteso.
Nessuno, neppure le sue amiche più intime o le damigelle di
compagnia con cui trascorreva buona parte della giornata, si era mai
accorto della verità, e la stessa Angelica faticava a credere che un uomo
potesse avere tanta influenza su di lei, al punto da farle cambiare così
radicalmente stile di vita.
Nonostante si interrogasse tutti i giorni su quello che le stava
succedendo, e su quanto fosse stupido e incoerente quel suo modo di
reagire al sentimento non ricambiato per un uomo che non la degnava
neppure di uno sguardo, Angelica sentiva che non poteva fare nulla
per calmare le palpitazioni del cuore quando pensava a lui o quando
immaginava di doverlo incontrare a palazzo o durante una delle sue
escursioni in città.
Anzi, erano proprio quei sussulti di eccitazione e di aspettativa che
le sembravano i momenti più belli delle sue giornate, e per quanto si
vergognasse di tanta debolezza non riusciva a imporsi di dimenticare
Rossano da Brescia, magari per concentrarsi sui tanti altri spasimanti
che le ronzavano intorno, fastidiosi come mosconi in un'afosa giornata
estiva.
Soprattutto un uomo, Venanzio da Urbino, la irritava e la faceva
sentire a disagio, quando la avvicinava per raccontarle facezie di cui
non le importava nulla, oppure quando suo padre, che sembrava
approvare le insistenze di quell'uomo, lo invitava a cena per discutere
di argomenti oziosi, di cui lei non riusciva mai a comprendere il
significato. Venanzio cercava di farle capire il suo interesse per lei, ma
Angelica lo teneva a distanza, con modi cortesi e decisi, che non
ammettevano dubbi.
Anche perché, per lei, i veri problemi non arrivavano dalle
attenzioni di Venanzio da Urbino, ma dall'insistenza di Verusca nel
cercare di coinvolgerla nei rapporti fra lei e Rossano da Brescia, senza
rendersi minimamente conto dei sentimenti che Angelica provava per
quell'uomo.
Il giorno prima la sua damigella di compagnia l'aveva raggiunta
trafelata e le aveva fatto segno di vestirsi. Fuori il tempo era incerto,
soffiava un vento freddo e tagliente che preannunciava pioggia, ma
Verusca non era sembrata preoccupata.
«Dove mi vuoi portare?» le aveva chiesto Angelica, sorpresa.
«Vestiti, dài» l'aveva esortata Verusca porgendole il mantello
foderato con il collo alto, che l'avrebbe difesa dal vento. «Lo vedrai con
i tuoi occhi.» «Non fare la misteriosa con me» aveva cercato di
difendersi Angelica, ma Verusca aveva sorriso di nascosto e l'aveva
trascinata fuori, senza rispondere a nessuna delle sue domande.
Una volta all'esterno del palazzo, le due ragazze si erano inoltrate
lungo uno dei vicoli che conducevano ai quartieri occidentali, le teste
affondate negli alti baveri dei mantelli e attente a non calpestare i
rivoli maleodoranti di liquidi che fuoriuscivano dai canali di scolo
ricavati nell'acciottolato.
«Dove stiamo andando?» aveva chiesto Angelica, sconcertata ma
suo malgrado eccitata per quella escursione improvvisa e un po'
avventata. Non era da Verusca agire in quel modo, lei che fra tutte le
sue dame di compagnia era la più compunta e rispettosa delle ferree
regole di palazzo. Avrebbe dovuto capire subito che c'era di mezzo
Rossano da Brescia, l'uomo per cui Verusca le aveva confessato un
amore travolgente, ma si era fatta cogliere impreparata, e ormai si
lasciava trascinare dalla sua damigella di compagnia come un ramo
nella corrente.
Dopo avere attraversato alcuni quartieri abitati dagli appartenenti
alle ricche corporazioni dei commercianti, erano sbucate in una
grande piazza che Angelica non aveva mai visto, e finalmente Verusca
si era fermata, stringendole le mani con forza. Era pervasa da un
tremito di eccitazione, e Angelica fu in qualche modo contagiata da
quel suo inconsueto modo di fare.
Per un momento era tornata a sentirsi la ragazza sbarazzina di
qualche mese prima, quando avrebbe fatto inorridire Verusca e le altre
damigelle di compagnia con qualcuna delle sue improvvisate fughe da
palazzo per andare a visitare i quartieri poveri della città.
Nella piccola piazza c'era parecchia gente, e solo quando Verusca
l'aveva trascinata in mezzo alla folla, portandola nelle prime file, si era
resa conto di quello che stava succedendo: si stava svolgendo una
parata d'arme, con soldati a piedi che sfilavano davanti al pubblico.
Non c'erano gonfaloni e araldiche di casata, e gli armigeri
indossavano divise da combattimento. Sorpresa, Angelica aveva
chiesto a Verusca che cosa stesse succedendo.
«È una marcia a ranghi serrati» aveva risposto la damigella
guardandosi intorno come se fosse alla ricerca di qualcuno in
particolare. «Serve per verificare la preparazione della guarnigione. I
soldati che vi partecipano sono pronti per andare in battaglia.»
Angelica aveva osservato accigliata gli uomini armati, e aveva
finalmente compreso per quale motivo sembravano ignorare la folla ed
erano concentrati a muoversi tutti insieme, seguendo gli ordini
scanditi da un ufficiale a cavallo.
«Eccoli!» aveva gridato Verusca strattonandola ancora e rischiando
quasi di farla cadere. «Sono laggiù! Vieni!» Angelica l'aveva seguita
senza capire, fino a quando erano sbucate in uno spiazzo mantenuto
libero da alcune guardie. Oltre la fila di uomini armati Angelica aveva
intravisto una specie di impalcatura di legno, sulla quale erano sedute
diverse persone che assistevano da posizione privilegiata alle manovre
militari.
Con sorpresa, Angelica aveva riconosciuto subito due degli uomini
presenti: Rossano da Brescia e Venanzio da Urbino.
Mentre il cuore aveva ripreso a martellarle nel petto, Verusca aveva
cominciato a sventolare un fazzoletto all'indirizzo dei due.
Ben presto Venanzio da Urbino aveva colto il movimento, e con un
sorriso era sceso dall'impalcatura, per avvicinarsi a loro. Si era rivolto
ad Angelica, ignorando Verusca, dopo essersi prodigato in un inchino
eccessivo: «Così siete venuta, madamigella.
La vostra presenza ci onora».
Poi si era girato verso i due armigeri più vicini, facendo loro segno
di scostarsi per lasciarle passare.
A disagio, Angelica aveva trattenuto Verusca, cercando di spiegarle
con gli occhi che non aveva nessuna intenzione di andare a sedersi
accanto a Venanzio da Urbino, ma in quel momento Rossano da
Brescia era comparso come d'incanto e aveva preso una mano di
Verusca, portandosela alle labbra e sfiorandola appena in un gesto
galante.
«È una sorpresa vedervi qui» aveva detto con un sorriso sincero, e
Angelica si era sentita travolgere dalle vertigini. «Anche se non credo
che queste manovre militari possano destare l'interesse di due
madonne come voi.» «Sono stato io a invitarle» aveva interloquito
Venanzio senza staccare gli occhi da Angelica. «In questo modo
potremo trascorrere qualche ora più piacevole, mentre osserviamo i
progressi compiuti dagli uomini addestrati dal nostro prode
comandante.» Angelica avrebbe voluto dire qualcosa, rifiutare con la
massima cortesia l'invito, ma Verusca l'aveva anticipata balzando in
avanti e trascinandola con sé oltre il cerchio di guardie.
«Sono sicura che sarà divertente» aveva detto, scoccando uno
sguardo d'intesa a Rossano e lasciandosi prendere sottobraccio per
farsi condurre sulla tribuna. I due si erano allontanati, lasciando
Angelica in preda alle vertigini.
A.D. 1174
Città di Milano 1
I vessilli garrivano nel vento ghiacciato, e lo schioccare dei tessuti
con le insegne dei Comuni Lombardi causava un vero frastuono, che
incuteva soggezione a chi osservava lo schieramento di cavalieri
radunati nella piazza.
Egidio si sentiva attraversare da un brivido di eccitazione fin da
quando aveva saputo che Alberto da Giussano e i suoi indomabili
Cavalieri della Morte erano tornati a Milano, per consultarsi con gli
altri comandanti della Lega Lombarda e arruolare quanti più uomini
possibile nell'esercito che stavano mettendo insieme.
Aveva provato anche lui a offrirsi per entrare in qualcuna delle
compagnie che si stavano formando, ma gli era stato detto che era
troppo giovane, ed era stato allontanato nonostante le sue
esclamazioni di protesta. Quando era tornato quasi in lacrime da
padre Ariberto, questi gli aveva messo una mano sulla spalla,
comprensivo, e gli aveva spiegato che prima o poi sarebbe arrivato
anche il suo turno di combattere per il Signore e per la sua gente.
«Io voglio arruolarmi adesso!» aveva gridato in risposta Egidio. «Il
Barbarossa sta arrivando, servono tutti gli uomini validi.» «Ma è
proprio questo il punto» aveva sorriso padre Ariberto.
«Tu ancora non sei un uomo, e non puoi pretendere di crescere a
tuo piacimento. Lascia che la volontà di Dio segua la sua strada.»
Egidio non aveva ribattuto nulla. Ogni volta che iniziava una
discussione con padre Ariberto, sapeva che sarebbe sconfinata in
qualche frase fatta sulla volontà divina e sull'impossibilità degli
uomini di comprendere le infinite vie del Signore.
Da parte sua, sapeva che erano tutte scuse, un modo fin troppo
facile per districarsi dalle discussioni scomode. E poi, padre Ariberto
aveva ancora bisogno di lui per lavorare al Carroccio, e quindi era
chiaro che non avrebbe fatto nulla per aiutarlo a farsi arruolare.
Eppure, Egidio era convinto che un modo dovesse esserci.
Era giovane, certo, ma aveva visto spesso trombettieri e scudieri
della sua età seguire i loro signori in battaglia, tenendosi nelle retrovie
per non essere d'intralcio, ma potendo in quel modo imparare molto
sull'arte della guerra.
Tutti i comandanti con cui aveva cercato di parlare non lo avevano
degnato di attenzione, così Egidio aveva deciso di tentare un'ultima,
disperata mossa. Sapeva che Alberto da Giussano era un condottiero
tanto abile in battaglia quanto buono e giusto, e se lui fosse riuscito ad
avvicinarlo, anche solo per pochi istanti, era certo che sarebbe riuscito
a convincerlo a prenderlo con sé.
Così, stringendosi nella sua giacchetta di frustagno, aveva seguito
gli stendardi che garrivano nel vento e, mischiandosi alla folla eccitata
che seguiva la lunga fila di soldati a cavallo, era arrivato nella grande
piazza in cui Alberto da Giussano aveva fatto radunare la sua
Compagnia della Morte.
Trattenendo il fiato per la meraviglia, Egidio osservò gli enormi
corsieri da guerra montati da quei guerrieri imponenti, i volti duri,
decisi, dei Cavalieri della Morte, le loro giubbe di cuoio nero e le spade
legate al fianco, pronte a essere impugnate per fare scempio del
nemico. Di fronte a quello spettacolo Egidio dimenticò il freddo che
stringeva Milano in una morsa compatta, e smise persino di battere i
denti.
La Compagnia della Morte era lo squadrone di cavalieri più arditi
di tutta la Lega Lombarda, e forse del mondo intero. Aveva sentito
raccontare gesta incredibili riguardo a quegli uomini, che avevano
votato se stessi e la loro vita alle araldiche per cui combattevano, e che
niente avrebbe intimidito o convinto a battere in ritirata. Ognuno di
quegli uomini sarebbe stato disposto ad affrontare da solo tutto
l'esercito imperiale, senza il minimo cenno di paura, portando con sé,
prima di morire, così tanti nemici da meritare i massimi onori dopo la
sua morte persino dall'avversario.
Egidio avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di poter entrare a far parte
della Compagnia della Morte, ma sapeva che per il momento non
aveva alcuna speranza. Alberto da Giussano selezionava
scrupolosamente i suoi uomini, e li sceglieva solo fra i guerrieri più
forti e valorosi che dimostravano la loro lealtà e il loro valore.
Però, si disse cercando di farsi coraggio mentre scivolava attraverso
la folla, forse il grande condottiero l'avrebbe preso nella Compagnia
come scudiero, o come trombettiere, oppure affidandogli qualsiasi
altra incombenza avesse voluto, e lui l'avrebbe accettata senza battere
ciglio.
Stava pensando ancora a questo, con un misto di eccitazione e di
timore, all'idea di doversi confrontare con Alberto da Giussano in
persona, quando si sentì afferrare per la collottola e strattonare
bruscamente all'indietro.
«Dove credi di andare, ragazzo?» lo apostrofò una voce, ed Egidio
si voltò sorpreso.
Padre Ariberto lo sovrastava, esibendo una grinta che lui non gli
aveva mai visto.
«Lasciatemi stare» protestò Egidio. «Voi non siete mio padre.»
«Ah, ma posso portarti da lui di peso e spiegargli quello che stavi
facendo» ribatté il prete. «Hai idea di come reagirebbe?» Egidio si
sentì travolgere dal panico. Suo padre non era uomo a cui fosse
possibile spiegare le sue aspirazioni. Più che le parole era abituato a
usare le mani, e lui sapeva perfettamente come sarebbe andata a
finire, se padre Ariberto avesse vuotato il sacco.
«Non gli direte niente, vero?» implorò, cambiando
immediatamente atteggiamento Padre Ariberto sembrò ammorbidirsi
e aprì un mezzo sorriso.
«Sei proprio deciso a unirti a quei guerrieri, vero?» gli disse,
accennando con il mento ai cavalieri che invadevano la piazza.
Dall'alto, qualche solitario fiocco di neve cominciò a scendere
leggero.
A.D. 1174
Città di Alessandria 1
Quando il primo lancio di catapulta del nemico compì un'alta
parabola nel cielo insanguinato dall'alba, Rossano lo seguì con
apprensione, mentre tutto intorno a lui gli uomini della guarnigione
correvano come formiche indaffarate su e giù per gli spalti, obbedendo
agli ordini dei capisquadra e andando a prendere posizione.
Accanto a lui c'erano Tarcisio Bonassei e uno dei suoi attendenti,
che reggeva le piccole bandierine colorate con le quali avrebbe
segnalato gli ordini di Rossano ai capitani di compagnia, che a loro
volta li avrebbero passati ai comandanti di squadra, giù fino all'ultimo
assistente di scuderia. In quel modo, un solo ordine poteva
raggiungere tutti gli uomini che componevano la guarnigione cittadina
nell'arco di pochi secondi, permettendo di reagire all'istante alle
situazioni di emergenza.
Mentre seguiva la traiettoria del grande masso lanciato per
calibrare la forza di tiro delle catapulte sistemate dai difensori di
Alessandria, Rossano cercò di comprendere ancora una volta, in un
solo colpo d'occhio, tutto l'esercito imperiale schierato nella valle.
Quando si era recato sugli spalti, alle prime luci dell'alba, aveva
trattenuto il fiato in attesa di poter valutare le forze di cui disponeva il
nemico, e quando aveva visto i fanti imperiali schierati ordinatamente,
le macchine da guerra già cariche di proietti e pronte a scagliare su
Alessandria tonnellate di pietre gigantesche, gli squadroni di cavalleria
predisposti sui rilievi della valle, si era sentito assalire dal timore. Era
stato solo un attimo, ma quella sensazione gli attanagliava ancora le
viscere.
A.D. 1175
Città di Alessandria Cinque mesi dopo 1
Come l'esperienza aveva già insegnato a Rossano, un assedio
poteva diventare estremamente noioso. Dopo la sfuriata iniziale, ben
rintuzzata dalla guarnigione di Alessandria, l'esercito imperiale aveva
provato a sferrare ancora una decina di attacchi in grande stile,
facendo ricorso soprattutto alla potenza di tiro delle catapulte e
cercando di avvicinare quanti più uomini possibile ai bastioni per
tentare la scalata alle mura imponenti della città.
Ma se i massi scagliati da lunga distanza si erano dimostrati
inefficaci e parecchio imprecisi, i tentativi di assalto alle pareti verticali
della fortezza avevano causato solo molte perdite fra i nemici, che
cercavano di proteggersi dal lancio di pietre e di olio bollente dagli
spalti grazie all'utilizzo di coperture di legno rivestite di cera, oppure,
più semplicemente, con gli scudi d'assalto. Sotterfugi che riuscivano a
garantire una certa sicurezza lungo il tragitto per raggiungere i
bastioni, ma che si dimostravano del tutto inadeguati quando i soldati
imperiali erano costretti a issare le scale d'abbordaggio o a lanciare gli
arpioni a cui erano legate lunghe corde provviste di nodi per potersi
arrampicare. A quel punto gli assalitori dovevano uscire allo scoperto,
e diventavano facile bersaglio per gli uomini di Rossano, che si
dimostravano ogni giorno sempre più abili e sicuri di sé nel colpire il
nemico senza esporsi al lancio delle frecce e dei dardi delle balestre.
Per quanto riguardava le poderose torri d'assalto imperiali, era
ormai evidente che non erano in grado di resistere all'impatto con gli
arpioni scagliati dalle baliste che Rossano aveva fatto collocare sugli
spalti, che in questo si erano dimostrate un'arma decisiva, al di là di
qualsiasi aspettativa.
Senza le torri, per gli assaltatori imperiali diventava davvero
difficile escogitare qualche tattica efficace per potersi portare a ridosso
delle mura e, soprattutto, scalarle fino agli spalti.
Solo una volta ci erano andati molto vicini, prendendo di sorpresa
Rossano e i suoi uomini, ma da allora non erano più riusciti a ripetere
l'impresa.
Qualche generale imperiale, probabilmente esasperato per la
situazione di stallo che perdurava ormai da qualche mese e che niente
sembrava in grado di smuovere, aveva messo in pratica una tattica
tanto ardita da risultare quasi vincente: nottetempo aveva fatto
avanzare uno squadrone di uomini completamente nudi e con il corpo
cosparso di fango, che senza essere visti erano riusciti ad arrivare a
ridosso della motta di nordest. Una volta lì erano scivolati all'interno
del fossato di difesa, avevano evitato le picche acuminate piantate sul
fondo, e quando erano arrivati dall'altra parte avevano cominciato a
scavare in silenzio, con l'intenzione di realizzare un tunnel che sarebbe
passato direttamente sotto l'ala ovest della motta, che era stata
costruita senza fondamenta sopra un rialzo artificiale del terreno.
Quegli uomini avevano lavorato alacremente per tutta la notte, poi
prima dello spuntare dell'alba avevano occultato la galleria con una
copertura di legni intrecciati su cui avevano sparso terra e sabbia, in
modo che non fosse individuabile dall'alto.
Avevano proceduto in quel modo per due o tre giorni almeno,
arrivando a scavare abbastanza da giungere fin quasi sotto il perimetro
interno delle mura, e se non fosse stato per un puro caso, forse
sarebbero davvero riusciti ad aprire un varco che avrebbe permesso
nottetempo a soldati armati di penetrare in città, seminando lo
scompiglio.
Erano stati scoperti perché una delle reclute più giovani fra quelle
addestrate da Tarcisio Bonassei, mentre si trovava sugli spalti della
motta, aveva litigato con un coetaneo, e durante la colluttazione era
andata a sbattere contro un parapetto, perdendo l'usbergo di cuoio che
era caduto oltre il torrione. Impauriti per quello che avevano
combinato - il loro comandante di squadra era molto pignolo e ligio
alla forma, e compiva ispezioni a ogni turno di ronda per verificare che
tutti indossassero l'armatura d'ordinanza - i due giovani si erano sporti
a guardare, per cercare di capire dove fosse finito l'usbergo. Era notte
fonda, e non era possibile scorgere nulla, ai piedi delle mura e nel
fossato che correva lungo il perimetro della motta, così uno dei due
giovani aveva acceso una torcia e l'aveva lanciata di sotto, per cercare
di illuminare il terreno.
Quello che avevano visto, quando la torcia era caduta a pochi passi
da dove i soldati nemici stavano scavando alacremente, li aveva
lasciati a bocca aperta, e subito avevano dato l'allarme.
Quando, il mattino dopo, Tarcisio aveva mandato due uomini a
controllare quello che stavano facendo i nemici alla base della motta,
avevano scoperto il tunnel e la copertura di legni intrecciati, e avevano
riferito ogni cosa.
Da quel momento Rossano aveva predisposto turni di vedetta con il
lancio di torce oltre le mura a intervalli regolari, scongiurando
definitivamente qualsiasi altro tentativo di penetrare in città in quel
modo. Ma parlando con Tarcisio Bonassei aveva convenuto che il
nemico era arrivato molto vicino a ottenere un risultato imprevisto,
penetrando in città nel modo più semplice che potesse essere
escogitato durante un assedio.
Dopo quell'episodio, l'assedio si era trasformato in una sequenza di
ronde, veglie e servizi di routine sugli spalti che avevano diffuso un
senso di tranquillità ma anche di noia in buona parte della
guarnigione.
Anche il lancio di proietti si era pressoché arrestato, e quei pochi
che cadevano durante la giornata non provocavano danni rilevanti: era
chiaro che venivano lanciati al solo scopo di tenere occupate le grandi
macchine da guerra imperiali e dare una parvenza di attività durante
quel lungo assedio ormai in stallo.
Rossano aveva quasi smesso di recarsi alla garitta di comando,
limitandosi a tenere una staffetta sempre pronta ad accorrere a
chiamarlo, nel caso il nemico si fosse risvegliato all'improvviso e
avesse tentato qualche assalto ai bastioni. Ma negli ultimi tre mesi non
era mai stato chiamato, il che dimostrava che i generali imperiali
erano a corto di strategie da applicare per migliorare le loro tattiche
d'assalto.
Così Rossano aveva potuto concentrarsi su altri problemi che lo
pressavano da vicino, e che ben presto aveva cominciato a considerare
più importanti: l'impossibilità di frequentare Angelica Concesa e il
comportamento sempre più ambiguo e sfuggente di Venanzio da
Urbino.
«Sarò qui fra poco, d'accordo?» disse Rossano.
Tarcisio Bonassei sorrise. «Prenditi pure tutto il tempo che ti serve.
Non credo che il nemico abbia intenzione di scatenare un attacco
proprio adesso.» «Non si sa mai» ribatté Rossano puntando l'indice su
Tarcisio.
«Ricordati quello che ti ho detto.» «Mai fidarsi del Barbarossa,
certo» assentì Tarcisio.
Rossano sorrise a sua volta, poi si allontanò dal posto di comando
che avevano ricavato in una delle basse palazzine di legno accanto alla
foresteria della guarnigione. Si diresse verso il palazzo consolare
cercando di trattenere l'emozione, anche se non era affatto certo che
sarebbe riuscito a vedere Angelica.
Negli ultimi cinque mesi, da quando Venanzio da Urbino l'aveva
aggredita, facendo poi credere a Rodolfo Concesa di avere voluto solo
proteggerla, il console aveva imposto alla figlia di restarsene chiusa
nelle sue stanze, e soprattutto di non avere più frequentazioni con lui.
Rossano avrebbe voluto protestare, ma era stata la stessa Angelica,
tramite una lettera che gli aveva fatto consegnare da una delle sue
dame di compagnia, a supplicarlo di non entrare in conflitto con suo
padre. Lei lo conosceva, sapeva che era un uomo magnanimo, disposto
al perdono, ma non tollerava di essere sfidato o contraddetto, e se
Rossano l'avesse affrontato di petto, avrebbe ottenuto solo di irritarlo
e di spingerlo a irrigidirsi ancora di più nelle sue posizioni.
"È meglio se lasciamo passare un po' di tempo e lo facciamo
calmare" aveva scritto Angelica con la sua calligrafia elegante, e
Rossano si era reso conto che aveva ragione. Soprattutto perché il
conte aveva già fin troppe preoccupazioni, con l'assedio in corso.
Così Rossano aveva tenuto a freno l'impazienza e il suo desiderio
spasmodico di vedere Angelica, di stringerla fra le braccia e di
appoggiare le labbra su quelle dolci e morbide di lei, e si era adoperato
per compiacere in tutti i modi il conte. Per fortuna, contrariamente a
quanto si era aspettato, Venanzio da Urbino non sembrava più tanto
nelle grazie del console, che durante le periodiche riunioni con i
comandanti della guarnigione per fare il punto sull'assedio lo trattava
con freddezza, trascurando del tutto il fatto che Venanzio
rappresentasse papa Alessandro.
Questo atteggiamento del conte aveva dato una certa soddisfazione
a Rossano, ma nel contempo aveva provocato in lui un ulteriore senso
d'inquietudine, soprattutto quando si era reso conto che Venanzio da
Urbino reagiva da par suo all'indifferenza del console: se ne stava in
disparte a braccia conserte, torvo e sempre pronto a intervenire per
mettere in discussione qualsiasi suggerimento di tattica militare o di
semplice logistica avanzato da Rossano o da qualcuno degli altri
comandanti.
L'isolamento di Venanzio aveva però provocato un'altra
conseguenza assai apprezzata da Rossano: il delegato pontificio non
ronzava più attorno ad Angelica.
Ma anziché approfittare della situazione per poter godere in
tranquillità della compagnia della donna che amava, Rossano era
costretto a starle lontano, e a poter interagire con lei solo di sfuggita,
per lettera o escogitando rocamboleschi incontri segreti durante i quali
avevano sempre il timore di essere scoperti.
Anche quel giorno Rossano aveva ricevuto da Verusca un biglietto
scritto velocemente da Angelica, in cui lei gli spiegava che avrebbero
potuto incontrarsi nella cappella di palazzo, dove si sarebbe recata per
pregare. Rossano aveva ringraziato Verusca, che da quando aveva
compreso che lui e Angelica si amavano si era rassegnata a fare da
amica e da complice alla contessina, e li aiutava come poteva quando si
trattava di coprirli durante i loro fugaci incontri d'amore.
Rossano non era per niente soddisfatto di quei sotterfugi e del
modo in cui riusciva a frequentare Angelica, e ogni volta che poteva
cercava di convincerla che forse era arrivato il momento di affrontare
di nuovo suo padre e spiegargli quello che provavano l'uno per l'altra,
in modo che lui potesse perdonarli per quello che era accaduto tanti
mesi prima, dar loro la sua benedizione e permettere loro di vivere una
relazione serena, come entrambi sognavano.
Ma Angelica lo guardava con quegli occhi verdi come smeraldi e lo
pregava di avere pazienza, di attendere ancora. Prima di avventurarsi
in una cosa del genere voleva essere sicura di avere ottenuto il pieno
perdono del padre, e ancora non si sentiva tranquilla, da questo punto
di vista.
Rossano, immancabilmente, cedeva di fronte alla profonda
dolcezza di quello sguardo, e si rassegnava a darle ascolto e a
rimandare ancora il momento in cui avrebbe affrontato Rodolfo
Concesa.
Ma ormai erano trascorsi cinque mesi, e lui non ce la faceva più ad
aspettare. Mentre raggiungeva la piccola cappella del palazzo
consolare, dotata di un ingresso esterno presidiato da una guardia,
Rossano si ripromise di persuadere una volta per tutte Angelica a
dargli fiducia. Questa volta non si sarebbe fatto convincere dai suoi
sguardi languidi e timorosi: voleva poter vivere con lei alla luce del
sole, tenerla per mano davanti a tutti e, non appena possibile,
chiederla in moglie al conte.
Fu con queste precise intenzioni che si introdusse nella cappella
dopo un segno d'intesa con il soldato all'ingresso.
Attese qualche istante per abituarsi all'oscurità che regnava
all'interno, schiarita solo da qualche candela davanti all'altare, poi si
guardò attorno, alla ricerca di Angelica. Quando incontrò i suoi
magnifici occhi verdi, si sentì balzare il cuore in gola per l'emozione,
ma prima che potesse fare un solo passo in avanti, si accorse dalla sua
espressione che c'era qualcosa che non andava.
«Comandante Rossano» fece una voce dall'oscurità, nel punto in
cui una figura era prostrata su un inginocchiatoio. «Siete venuto anche
voi a chiedere perdono per i vostri peccati?» Rossano si irrigidì e si
inchinò di fronte al conte Rodolfo Concesa, scrutando Angelica con la
coda dell'occhio.
«O siete forse venuto qui per qualche altro motivo?» continuò il
console alzandosi e avvicinandoglisi.
Rossano fece per dire qualcosa, ma intercettò l'espressione
preoccupata di Angelica, che lo supplicava con lo sguardo di non fare
pazzie, e ricacciò in gola il bel discorsetto che si era preparato.
«No, Eccellenza» rispose, «stavo solo facendo un controllo di
routine. Non voglio che i miei uomini si rilassino troppo.» Rodolfo
Concesa lo fissò con sospetto, poi lanciò un'occhiata di
disapprovazione ad Angelica, che si limitò ad abbassare lo sguardo,
quindi tornò all'inginocchiatoio.
11
«Ecco qua» disse Angelica facendosi da parte e mostrandogli il
forziere aperto. «Adesso cerca tu quello che ti serve.» Rossano prese
un lungo respiro e si avvicinò. Nel forziere non c'era molta roba:
qualche borsa di monete, diverse pergamene legate e chiuse da sigilli
di ceralacca, e alcune custodie di panno in cui probabilmente il conte
aveva riposto oggetti di valore.
Rossano ignorò quel piccolo tesoro, e si mise alla ricerca della
mappa della città che aveva visto arrotolare dall'attendente di Rodolfo
Concesa.
Ispezionò più volte il contenuto del forziere, ma non trovò nulla.
Allora cominciò a estrarre le pergamene sigillate e gli oggetti avvolti
nel panno, lentamente, verificando tutto quello che raccoglieva, fino a
quando il forziere fu vuoto.
«Qui non c'è» disse, sentendo aumentare l'inquietudine. Se aveva
ragione, e Venanzio da Urbino aveva rubato la mappa della città per
consegnarla al Barbarossa, lui aveva adesso la prova per condannarlo,
ma Alessandria correva un grave pericolo.
«E se mio padre avesse messo quel documento da qualche altra
parte?» Rossano scosse la testa. «Non credo» disse. «È troppo
prezioso per rischiare di tenerlo fuori del forziere.» «Allora andiamo
da mio padre e spieghiamogli che è sparito» affermò decisa Angelica.
Rossano la guardò, mentre rimetteva tutto nel forziere.
«Ci andrò io» rispose. «Tu tornerai nelle tue stanze.» Angelica
avvampò. «Cosa?» strillò. «Ti sono servita fino adesso e poi ti sbarazzi
di me come se niente fosse?» «Non è così» ribatté Rossano. «Voglio
solo tenerti alla larga da possibili guai con tuo padre.» «I rapporti tra
me e mio padre non ti riguardano!» sibilò lei.
«Sì, invece!» sbottò Rossano. «È proprio a causa di questi vostri
rapporti che io e te non possiamo frequentarci, non lo capisci?
Non voglio che tuo padre creda che stiamo complottando alle sue
spalle.» Angelica fece per rispondere, tutta rossa in viso come le
accadeva sempre quando si irritava, ma poi sgranò gli occhi e si
irrigidì.
«E quello che state facendo?» chiese una voce alle spalle di
Rossano, facendolo sobbalzare. «State complottando contro di me?»
Rossano si voltò, e si trovò davanti lo sguardo duro di Rodolfo
Concesa. Il conte era entrato senza fare rumore, silenzioso come un
gatto, e Rossano si diede dello stupido per essersi fatto cogliere in
flagrante in quel modo.
Eppure sapeva che non poteva esitare. Non con quello che c'era in
ballo.
«Probabilmente non sarà facile giustificare il mio comportamento,
Eccellenza» disse cercando di contenere il tremito nella voce. «Ma vi
assicuro che Angelica non c'entra nulla. Sono stato io a costringerla a
darmi una mano.» «Tu non mi hai affatto costretta» intervenne con
foga Angelica.
«E non siamo né ladri né cospiratori. Digli quello che abbiamo
scoperto.» Il conte li osservava con un misto di rabbia e sorpresa, ma
anche con quella che Rossano comprese essere curiosità. Il che poteva
giocare a suo favore.
«La mappa della città» disse, senza tergiversare oltre. «È
scomparsa. E io sono sicuro che l'abbia presa Venanzio da Urbino.» Vi
fu un attimo di silenzio, poi il console si accigliò, e l'ira sembrò
scomparire dal suo volto.
«Ciò che dite è molto grave» asserì. «Ma possiamo verificare subito
se siete nel giusto o no.» Si diresse verso lo stipo, osservò il forziere e
vi frugò dentro per un po', poi scosse la testa e guardò Rossano.
«Siete sicuro che sia stato Venanzio?» «Non posso averne la
certezza» rispose Rossano, «ma direi che è arrivato il momento di
verificarlo.» Rodolfo Concesa si tirò su e strinse i denti. «Sbrigatevi a
farlo, comandante. Se Venanzio da Urbino si è davvero impossessato
della mappa della città, siamo tutti in pericolo.» Rossano fece
convocare da Tarcisio Bonassei i migliori fra gli uomini di cui
potevano disporre al di fuori dei turni di ronda sugli spalti, e li
sguinzagliò per tutta la città, con l'ordine di rintracciare e arrestare
Venanzio da Urbino. Chiunque si fosse opposto al provvedimento
avrebbe dovuto essere fermato e arrestato a sua volta, senza riguardi
per nessuno.
«Io e te andiamo al castello» disse a Tarcisio quando gli uomini si
furono allontanati.
A.D. 1176
Campagne di Legnano 1
Dall'alto della collina si poteva scorgere tutta la lunga serpentina di
fanti in movimento, con i carri delle salmerie alla retroguardia e il
Carroccio, trascinato da tre pariglie di buoi, che procedeva nel centro
dello schieramento, circondato dalle unità di cavalleria al comando di
Umberto da Collaredo. Rossano non era troppo convinto della
necessità di adeguare il passo dei suoi uomini e delle altre due
compagnie di cui gli era stato affidato il comando a quella
mastodontica macchina da guerra, perché in quel modo avrebbero
impiegato molto più del necessario per raggiungere il luogo in cui
attestarsi in attesa dell'arrivo di Alberto da Giussano.
Del resto, non sarebbe stato facile spiegare a quei settecento
cavalieri, ai mille fanti e a tutti gli ufficiali di collegamento, che il
Carroccio era solo un simbolo, non una vera macchina da guerra, e
quindi per quanto importante per il morale degli uomini, avrebbe
potuto procedere alla retroguardia, e raggiungerli quando avessero
presidiato il terreno e impostato le prime difese.
Le staffette che aveva mandato in avanscoperta avevano riferito
che gli esploratori imperiali erano assai più avanzati di quanto
avrebbero potuto aspettarsi, e quindi il tempo che rimaneva loro non
era molto. Se non disponevano la prima linea di difesa in maniera
adeguata, rischiavano di perdere quel poco vantaggio che avrebbero
potuto ottenere sfruttando nel modo migliore la conformazione del
terreno di battaglia.
Rossano aveva provato a sottoporre il problema a padre
Ariberto, ma il prete si era limitato a sospirare e a sorridergli,
facendogli capire che a volte certe decisioni, per quanto all'apparenza
semplici, possono risultare estremamente difficili da mettersi in atto.
Soprattutto se riguardavano la fede nel Signore e negli atti della
Provvidenza.
«Vedete la piccola croce esposta sul ponte di comando?» gli aveva
detto padre Ariberto. «Quanto credete che possa valere, come arma da
guerra?» Rossano aveva osservato la croce lobata che splendeva nel
sole, e aveva annuito, facendo comprendere al prete che aveva inteso
perfettamente. La croce del vescovo Intimiano non sarebbe servita a
contrastare l'affondo di una spada, ma avrebbe potuto spingere tutti i
trecento giovani della Compagnia della Morte a combattere con vigore,
se padre Ariberto l'avesse sollevata al cielo per mostrarla durante la
battaglia.
Così Rossano aveva deciso di rinunciare al progetto di far spostare
il Carroccio alla retroguardia, e si era rassegnato a rallentare
l'andatura dei suoi uomini, consolandosi all'idea che in quel modo
sarebbero arrivati più freschi sul campo di battaglia, e avrebbero
potuto lavorare meglio per preparare il terreno. Rossano aveva già
discusso con Alberto da Giussano e con gli altri generali della Lega su
quello che era più urgente fare per sfruttare al massimo il campo di
battaglia. I fanti avrebbero dovuto scavare buche irte di pali appuntiti
sul fondo, sollevare argini di terra e predisporre muretti di pietra in
modo da incanalare la cavalleria imperiale verso zone prestabilite della
grande pianura in cui sarebbe avvenuto lo scontro, dopo averle fatte
presidiare da arcieri e balestrieri schierati dietro ripari di terra. I
picchieri avrebbero innalzato barriere difensive nei punti in cui la
cavalleria nemica avrebbe fatto irruzione, in modo da costringere i
cavalli a calpestarsi e a spingersi a vicenda per passare, e solo al
termine di quel percorso di morte i fanti avrebbero eretto l'ultimo
sbarramento, atterrando i cavalieri superstiti e uccidendoli prima che
potessero ricompattarsi.
Apparentemente il piano era perfetto, e poteva contare su un altro
elemento in loro favore: l'irruenza con cui l'esercito imperiale,
convinto della propria superiorità, avrebbe attaccato non appena li
avesse visti, senza considerare adeguatamente il terreno dello scontro.
La marcia forzata a cui aveva costretto gli uomini gli aveva fatto
guadagnare abbastanza terreno, ma Rossano sapeva che non era
ancora sufficiente. Dovevano superare quella depressione e
raggiungere i rilievi a nord, per conquistare una posizione
sopraelevata rispetto al nemico.
Non sarebbe stato facile spingere il Carroccio fin lassù, però lui non
voleva dare inizio alla battaglia senza che il possente carro da guerra
avesse preso posizione. Aveva bisogno di ogni possibile elemento di
forza a sua disposizione, e il Carroccio avrebbe potuto dimostrarsi
prezioso, nel momento dello scontro.
«Dobbiamo fermarci, comandante?» chiese uno dei suoi ufficiali di
collegamento. «Gli uomini sono stanchi, e credo che anche i buoi siano
al limite.» Rossano lanciò un'occhiata al Carroccio che arrancava nella
polvere a qualche centinaio di metri di distanza, e scosse la testa.
«No» disse. «Non possiamo farlo. Non sappiamo se Umberto da
Collaredo e i suoi riusciranno a fermare la cavalleria imperiale. Se così
non fosse, verremmo attaccati in una posizione estremamente
sfavorevole. Non possiamo rischiare. Ordinate ai capisquadra di
aumentare l'andatura.» I suoi attendenti compresero subito che la sua
decisione non era dettata dall'imprudenza o dall'impazienza, ma da
un'attenta considerazione della situazione.
«Fate diramare gli ordini a voce, senza usare i tamburini» aggiunse
Rossano scrutando con apprensione verso le colline all'orizzonte, da
cui il nemico sarebbe potuto comparire in qualsiasi momento. «E fate
schierare due squadre di lancieri sul fianco occidentale, in prossimità
della foresta. Voglio falangi compatte sulle ali, e la Compagnia del
Carroccio a presidiare il carro.» Quando ebbe terminato, gli attendenti
si lanciarono verso i reparti per far circolare gli ordini, e Rossano fece
un segno a Valerio, che insieme alle sue staffette aspettava
leggermente in disparte.
Quando il fratello l'ebbe raggiunto, Rossano indicò a nord, verso il
punto in cui le alture scivolavano dolcemente nella depressione
davanti a loro.
«Ormai dovrebbero essere giunti a contatto» disse, indicando con
il braccio. «Gli uomini di Umberto da Collaredo dovrebbero essere in
supremazia numerica, ma non mi fido degli imperiali.» Valerio scrutò
a sua volta, poi annuì.
«Vuoi che mandi qualcuno dei miei a dare un'occhiata?» chiese.
Rossano scosse la testa. «In questa situazione sarebbe troppo
pericoloso. Al posto dei comandanti imperiali avrei fatto presidiare le
foreste ai margini delle colline da qualche incursore bene addestrato,
per cogliere di sorpresa un eventuale aggressore proveniente dalle
alture.» Valerio si accigliò. «Allora cosa dobbiamo fare?» «Passate da
dietro» rispose Rossano indicando la grande foresta che si estendeva a
ovest dando l'impressione di non finire mai.
«Aggirate l'avanguardia imperiale e andate a dare un'occhiata a
quello che sta succedendo. Ho bisogno di sapere se Umberto da
Collaredo sarà in grado di fermarli oppure no.» «Nient'altro?» chiese
Valerio.
Rossano lo fissò, poi sorrise. Valerio aveva fatto progressi
incredibili da quel giorno ormai lontano in cui l'aveva lasciato a
Milano credendolo al sicuro.
«Pensi di riuscire a stabilire a quale distanza si trova il grosso
dell'esercito imperiale?» chiese.
«Secondo te sono vicini?» «Non lo so» rispose Rossano. «Ma è
importante che tu lo scopra.» «D'accordo» annuì Valerio. «Andrò
personalmente.» Rossano ebbe l'impulso di chiedergli di non farlo, di
incaricare qualcuno dei suoi uomini, ma poi si rese conto che sarebbe
stato come umiliarlo. Valerio avrebbe potuto fraintendere, e credere
che non avesse fiducia in lui.
«D'accordo» annuì alla fine. «Ma stai attento. Mi servi vivo.
Con quelle informazioni.» Valerio sorrise, poi si allontanò per
andare a organizzare i suoi.
Nel frattempo, il Carroccio avanzava, adesso un poco più spedito
grazie all'aiuto di alcuni soldati che si erano uniti ai buoi nello sforzo
di spingerlo oltre una lieve pendenza del terreno.
Rossano non sapeva se ce l'avrebbero fatta a metterlo in posizione
in tempo. Eppure dovevano provarci, perché solo così avrebbero avuto
qualche speranza di formare uno schieramento tanto solido da
impedire all'esercito del Barbarossa di tracimare oltre quella valle.
«Vai, allora» disse. «Non c'è più tempo.» Valerio corse via, e
Rossano tornò a concentrarsi sulla battaglia.
Era evidente che ormai la fanteria padana non era più in grado di
resistere alla pressione dell'esercito imperiale. Doveva richiamare i
superstiti e farli arroccare dietro l'istrice di picche della Compagnia del
Carroccio, nella speranza che Valerio riuscisse a evitare le pattuglie di
cavalleria del Barbarossa e raggiungesse per tempo Alberto da
Giussano.
Proprio in quel momento, però, mentre stava per ordinare ai
tamburini di suonare la ritirata, udì lo squillo delle trombe imperiali, e
vide che la fanteria nemica cominciava a retrocedere ordinatamente,
abbandonando il combattimento per assumere una posizione di difesa
mentre si ritirava.
Che cosa stava succedendo?
La risposta arrivò poco dopo, quando la terra cominciò a tremare e
Rossano avvertì il frastuono. Quelli erano zoccoli.
Centinaia di zoccoli ferrati che pestavano il terreno mentre la
cavalleria pesante imperiale si avvicinava, prendendo il posto della
fanteria per sferrare la carica risolutiva.
«Serrate i ranghi!» gridò ignorando le fitte alla spalla e correndo a
prendere posizione dietro i suoi picchieri.
Il momento decisivo era giunto.
Gustav von Schenker fermò soddisfatto il cavallo davanti alla fila di
soldati in uniforme nera che componevano la guardia imperiale e
salutò con un cenno secco del capo Victor Albert Rochard, il
comandante della scorta personale dell'imperatore. Questi scambiò
un'occhiata con alcuni attendenti di campo di Federico I, poi fece
segno a von Schenker che poteva passare.
Come capitano della cavalleria imperiale, Gustav aveva
l'autorizzazione a restare in sella anche in presenza dell'imperatore, e
quando si avvicinò al Barbarossa si prodigò in un inchino portando
dietro la schiena la mano sinistra e trattenendo le briglie con la destra,
come imponevano le regole della cavalleria germanica.
«Avete fatto un buon lavoro» disse Federico I senza staccare gli
occhi dal campo di battaglia. Come sempre, i generali imperiali
avevano collocato su un'altura il posto di osservazione dell'imperatore,
e dal punto in cui si trovavano si poteva godere di una visuale
completa della valle in cui si stavano svolgendo gli scontri.
«Sempre ai vostri ordini, Maestà» rispose von Schenker. Sapeva
che il Barbarossa non l'aveva fatto chiamare per congratularsi con lui
per la scaramuccia che aveva dato avvio al conflitto. Evidentemente,
c'era qualcos'altro che premeva all'imperatore.
«Avete visto quel carro laggiù?» gli chiese Federico, senza indicare
né con il braccio né con il mento.
«Il Carroccio» s'intromise Rainaldo di Darmstadt, l'arcicancelliere
imperiale, che per l'occasione aveva indossato una cotta di maglia
ferrata sopra la veste rigonfia per il pancione prominente. Gustav
trattenne il disgusto che quell'uomo gli faceva formicolare tutto il
corpo al solo vederlo, e rispose rivolgendosi direttamente
all'imperatore.
«Sì, Maestà, l'ho visto.» «Dobbiamo conquistarlo» ordinò il
Barbarossa in tono tranquillo.
Gustav von Schenker si accigliò appena. «La mia è una compagnia
di cavalleria leggera» disse. «Per spazzare via quel carro da guerra...»
«Sua Maestà non vi ha chiesto di spazzarlo via, capitano» l'interruppe
Rainaldo di Darmstadt. «Vi ha ordinato di conquistarlo.» Questa volta
von Schenker non poté continuare a ignorare l'arcicancelliere.
«Non capisco» disse, augurandosi che la sua franchezza venisse
riconosciuta dall'imperatore, uomo d'arme e d'azione come lui, che
non indugiava nei tortuosi meandri della politica e della diplomazia.
Rainaldo di Darmstadt sospirò, e anziché rispondere lanciò
un'occhiata al Barbarossa.
«Voi parteciperete alla carica della cavalleria pesante» spiegò
l'imperatore, «ma farete in modo che i vostri uomini penetrino nella
difesa del nemico e si impossessino del Carroccio. Dovete uccidere
tutti coloro che sono sul carro, e fare in modo che né i vessilli della
Lega Lombarda né il gonfalone papale vengano danneggiati. Voglio il
Carroccio perfettamente integro, così come lo vedo adesso.» Gustav
von Schenker girò lo sguardo verso il punto in cui il carro da guerra
padano era arroccato, circondato da un istrice di picche, e annuì con il
capo.
«Sarà fatto» proclamò, tenendo per sé i mille dubbi che lo
assillavano. Come pensavano che sarebbe stato possibile trattenere
l'impeto della cavalleria pesante, quando avrebbe attaccato? Se
l'avessero fatto, non sarebbe riuscita a sfondare, e le lanzalonghe
nemiche avrebbero continuato a proteggere l'integrità del Carroccio.
Ma se la cavalleria corazzata si lanciava con tutta la sua forza contro
quel manipolo di soldati spaventati, niente sarebbe stato in grado di
fermarla, e nell'impeto avrebbe travolto qualsiasi cosa si trovasse sul
suo cammino. Naturalmente il Carroccio avrebbe resistito alla carica,
ma nella bolgia che sarebbe seguita Gustav riteneva un'impresa quasi
impossibile cercare di preservare il grande carro da guerra e portarlo
intatto all'imperatore.
«Un'altra cosa, von Schenker» lo chiamò l'imperatore,
strappandolo dai suoi pensieri.
«Al vostro servizio, Maestà.» «Fate tacere quella maledetta
campanella.» Gustav von Schenker guardò per un istante l'imperatore,
cercando di capire che cosa si nascondesse sotto l'espressione torva
sepolta nella barba rossiccia, poi vi rinunciò e si limitò ad annuire con
un cenno della testa.
«Potete andare» lo congedò Rainaldo di Darmstadt, e Gustav voltò
il cavallo e corse ad avvisare i suoi uomini di prepararsi per l'attacco.
In ogni caso, partecipare all'assalto della cavalleria pesante era una
prova a cui non si sarebbe sottratto per nulla al mondo.
Si sarebbe preoccupato in seguito di rispettare la promessa che
aveva fatto all'imperatore, mettendo in salvo quello stupido carro e i
gonfaloni dei traditori. E facendo tacere la campana che rintoccava
ininterrottamente fin da quando era cominciata la battaglia.
Il rombo che si propagò nel suolo era spaventoso, pareva
l'annuncio di un terremoto di immani proporzioni, che avrebbe raso al
suolo qualsiasi edificio in tutta la Padania.
Ma Rossano sapeva che non si trattava di un fenomeno naturale.
Quella che si stava scatenando contro di loro non era la forza
imperiosa della natura, bensì la rabbia furibonda di centinaia di cavalli
lanciati al galoppo, che dissodavano il terreno con gli zoccoli.
La polvere sollevata dalla carica della cavalleria imperiale era tale
da oscurare la visuale, e il fragore così forte da costringere Rossano a
gridare gli ordini ai suoi uomini correndo lungo il cerchio compatto
dei fanti stretto attorno al Carroccio.
«Serrate i ranghi!» urlava, tenendosi il braccio ferito da cui il
sangue continuava a sgorgare. Si era stretto una cinghia di cuoio
appena sopra lo squarcio, per cercare di arrestare l'emorragia, ma
sapeva che non sarebbe servita a molto: l'unico modo per fermare il
sangue era cucire la ferita con alcuni punti di sutura.
Ma la situazione in cui si trovavano non permetteva certo di
preoccuparsi del suo braccio: entro pochi istanti la cavalleria imperiale
sarebbe calata su di loro, travolgendoli con la forza di un uragano di
carne, cuoio e ferro.
La sola speranza per Rossano e per i suoi uomini, in netta
inferiorità numerica, era arroccarsi attorno al Carroccio, spingendo
all'infuori gli aculei come avrebbe fatto un istrice per difendersi da un
attacco.
Il grande carro da guerra su cui svettavano il gonfalone milanese e
le araldiche della Lega Lombarda aveva le possenti ruote ferrate
affondate nel terreno, tanto era il peso che dovevano sostenere. Padre
Ariberto, arrampicato sopra il castello di comando, non smetteva di
incitare gli uomini invocando la forza che il Signore avrebbe concesso
loro per resistere alla carica straripante del nemico.
«Dio è con noi!» gridava il sacerdote cercando di sovrastare il
frastuono della cavalleria imperiale in arrivo. Mentre parlava, teneva
alta la piccola croce lobata del vescovo Intimiano, un simbolo potente
che confermava la veridicità delle sue parole.
«Non vi lasciate spaventare dall'invasore! Non abbiate timore di
morire per difendere la vostra terra, la vostra dignità. Il Santo Padre
ha esteso la sua benedizione su tutti voi! Viva la Padania!
Viva la Padania libera!» «Viva la Padania!» gridarono in coro i
soldati della Compagnia del Carroccio, stringendosi spalla contro
spalla mentre il terreno sotto i loro piedi vibrava così forte da farli
vacillare.
Rossano studiò la disposizione degli aculei dell'istrice, le
lanzalonghe ben piantate a terra con un'inclinazione sufficiente a
contrapporre la punta al petto dei cavalli. A terra, insieme ad altre due
picche di riserva, aveva fatto distribuire gli alighieri, delle lance che
avevano nella parte posteriore della lama un uncino con il quale era
possibile disarcionare gli uomini a cavallo.
In tutto poteva contare su cinque linee di picchieri, in modo da
opporre all'avanzata dei cavalli un'autentica foresta di punte
acuminate, ma sapeva che si trattava di un tentativo disperato.
Da quando la cavalleria lombarda si era data alla fuga, erano
rimasti solo i trecento fanti della Compagnia del Carroccio e un
centinaio di superstiti alla furiosa battaglia campale con il grosso
dell'esercito nemico. Quattrocento uomini per difendere il simbolo
della libertà padana e l'onore dei Comuni Collegati che avevano osato
ribellarsi al Barbarossa.
La speranza di Rossano era che Valerio riuscisse a raggiungere
Alberto da Giussano, per farlo accorrere in loro soccorso. Una
speranza tenue, perché la cavalleria nemica era ormai prossima a
travolgerli, e lui non sapeva quanto avrebbero potuto resistere quegli
uomini stanchi, sfiduciati e già provati dalla lunga battaglia che aveva
disseminato la pianura di cadaveri.
«Tenete le picche ben piantate a terra!» urlò per l'ennesima volta,
cercando di farsi sentire in quella bolgia infernale. Sollevò la spada e
strinse i denti, quando una fitta gli percorse il braccio ferito. Con il
piatto della lama diede dei leggeri colpi di spada alle lance che non
erano perfettamente allineate, in modo che lo sbarramento di picche
fosse uniforme.
«State in riga!» gridò ancora, mentre il nemico si avvicinava a
velocità poderosa, dando l'impressione di poter travolgere senza
alcuno sforzo ciò che restava della Compagnia del Carroccio.
Sul grande carro da guerra padre Ariberto incitava il giovane
Egidio a suonare la Martinella, per diffondere nella valle il loro
disperato richiamo d'aiuto.
è tutto inutile avrebbe voluto dirgli Rossano. Non riusciranno mai
ad arrivare in tempo.
Se Alberto da Giussano fosse stato lì, con la potenza dei suoi
novecento Cavalieri della Morte, forse avrebbe potuto arrestare
l'invasore germanico.
Ma fino a quando il comandante della Lega e i suoi cavalieri non
fossero arrivati, Rossano doveva fare affidamento solo sulle proprie
forze e su quel pugno di fanti spaventati, che avrebbero dovuto fare
scudo con i propri corpi alla carica della cavalleria imperiale.
Un'impresa impossibile, ma che nessuno di quei ragazzi coraggiosi
avrebbe abbandonato.
Quando il frastuono degli zoccoli si fece troppo forte per
continuare a ignorarlo, Rossano scrutò con rabbia l'avanguardia
corazzata del Sacro Romano Impero.
E mentre il suo grido di battaglia si levava alto nel cielo, fino a
sovrastare il fragore dei cavalli e lo squillo disperato della Martinella,
Rossano sentì che aveva desiderato a lungo quel momento: finalmente
poteva affrontare a viso aperto gli uomini che avevano annientato la
sua famiglia e che cercavano di spogliarlo anche della dignità di
possedere una patria.
Quando la cavalleria imperiale si schiantò con la forza di una
valanga contro il fronte compatto di picche della Compagnia del
Carroccio, Rossano dilatò le narici e pregustò il momento in cui
avrebbe versato il sangue nemico.
Non si preoccupò neppure per un istante del fatto che molto
probabilmente anche lui sarebbe morto in quella pianura dimenticata
da Dio.
4
I primi assalti furono ancora più devastanti di quanto Rossano
aveva immaginato.
La cavalleria imperiale impiegava corsieri da guerra con un'altezza
al garrese pari quasi a quella di un uomo, e tutti avevano coperture di
cuoio e maglia di ferro per il corpo, oltre a elaborati frontali su cui
erano intagliati i simboli delle compagnie a cui appartenevano.
In ben diversa occasione Rossano avrebbe ammirato il modo
superbo con cui i cavalieri imperiali riuscivano a galoppare
accomunati, tendendo in avanti le lance d'assalto e attaccando a
ondate i gruppi di fanti padani che cercavano di opporre una strenua
resistenza. Nonostante Rossano avesse cercato di richiamare tutti
attorno al Carroccio, facendo suonare dai tamburini la ritirata, diverse
compagnie erano rimaste isolate e non avevano fatto in tempo a
scivolare dietro l'istrice erto di picche che circondava il Carroccio,
ultimo baluardo difensivo che l'avanguardia padana poteva frapporre
all'avanzata dell'esercito imperiale.
Adesso, di quelle compagnie non restavano che mucchi di cadaveri,
i resti sanguinolenti di uomini calpestati dai cavalli, trapassati dalle
lance o feriti gravemente dai colpi di taglio delle spade nemiche. In
quel paesaggio infernale ben pochi cavalli nemici giacevano a terra
agonizzanti, oppure si aggiravano sperduti sul campo di battaglia alla
ricerca dei loro cavalieri, stramazzati a terra e confusi con i mucchi di
corpi dei fanti padani.
Agli ordini di un abile comandante, la cavalleria imperiale aveva
fatto piazza pulita di chiunque si trovasse al di fuori dell'istrice
protettivo intorno al Carroccio, e una volta avuto campo libero si era
disposta in falangi di una cinquantina di cavalieri ciascuna che
avevano cominciato a lanciarsi contro la barriera difensiva fatta
erigere da Rossano.
Questi era rimasto sorpreso dal coraggio e dalla veemenza con la
quale i cavalieri si lanciavano contro i rostri puntati delle picche
padane, senza curarsi di venire impalati e gridando urla di battaglia
ogni volta che venivano colpiti o sbalzati di sella.
A ondate successive avevano cominciato a sfaldare i cerchi difensivi
esterni dell'istrice, passando anche sopra i corpi dei loro stessi
compagni, pur di cercare di aprirsi un varco nel perimetro delle picche
padane.
Rossano aveva continuato a urlare ordini correndo da una parte
all'altra del cerchio di picchieri predisposto attorno al Carroccio,
rendendosi conto che gli attacchi della cavalleria erano studiati per
cercare di travolgere ogni volta quel punto del loro schieramento che
sembrava mostrare segni di cedimento.
«Serrate i ranghi!» ripeteva all'ossessione, mentre padre Ariberto,
dal castello di comando del Carroccio, assicurava gli uomini che Dio
era con loro, e che con il loro sacrificio avrebbero guadagnato il
Paradiso.
Rossano continuava a perdere sangue, e quando provò a stringere
ancora la cinghia di cuoio sopra la ferita, ebbe un mancamento, e
dovette appoggiarsi con la schiena al Carroccio, per non crollare a
terra.
Ruggendo di rabbia impugnò ancora la spada e scosse la testa,
come a voler scacciare la vertigine, anche se sapeva che era il segno
che le forze gli stavano sfuggendo inesorabilmente dal corpo, insieme
al sangue. Lui non poteva crollare svenuto, non adesso. Vedeva i suoi
uomini arretrare metro dopo metro, e gli aculei dell' istrice spezzarsi
sotto le ondate d'assalto della cavalleria nemica.
Ma era anche vero che questa volta per i cavalieri imperiali le cose
non erano tanto facili. Grazie allo schieramento a istrice, le
lanzalonghe erano micidiali, e trafiggevano uomini e cavalli senza
risparmio, inondando la pianura del sangue dei nemici. La tattica
escogitata da Rossano funzionava, anche se la cavalleria imperiale non
allentava la pressione e si lanciava coraggiosamente in avanti,
lasciandosi falcidiare pur di erodere uomo dopo uomo le risorse di cui
la Compagnia del Carroccio poteva disporre.
Rossano chiuse gli occhi, si appoggiò ancora per un istante al carro
da guerra, poi prese un lungo respiro. Devo farcela pensò infuriato. Gli
uomini hanno bisogno di me.
Fece per muovere un passo, ma all'improvviso uno dei tamburini
balzò giù dal Carroccio e gli porse una fiasca con dell'acqua.
«Bevi, comandante» gli disse. «E lascia che ti chiuda la ferita.»
Rossano, pur con la vista annebbiata, ebbe l'impressione di avere già
visto quel ragazzo. Bevve avidamente l'acqua che gli porgeva, poi
lanciò un grido quando lui allungò le mani e gli infilò un ago d'osso
nella carne, cominciando a cucire la ferita con un filo di sutura
ricavato da budella di coniglio.
«Che cosa sei, il figlio di un aggiustaossa?» chiese Rossano,
cercando di ignorare il dolore.
«No» rispose il tamburino, tenendo la testa voltata mentre Lo
ricuciva con abilità.
Rossano osservava il collo del ragazzo, e quando riconobbe Il
biancore di quella pelle serica, ebbe un sussulto.
«Angelica!» gridò.
«Stai fermo» ordinò lei lasciandosi finalmente guardare in viso.
«Ho quasi finito.» Rossano aveva il sangue agli occhi, non riusciva
quasi neppure a parlare. Attorno a lui la cavalleria imperiale
continuava ad avanzare metro su metro, falciando le linee esterne
dell'istrice e massacrando i suoi uomini, e lui era lì, appoggiato contro
il
Carroccio, a farsi cucire il braccio da una donna che credeva al
sicuro, lontana da quel massacro.
Una donna che si era travestita da tamburino e che si era tagliata i
capelli per assomigliare a un ragazzo.
Com'è possibile che stia davvero accadendo? si chiese.
«Come hai fatto a...» cominciò a dire, più confuso e disorientato
che infuriato. Ma Angelica l'interruppe seccamente, tirando il filo di
sutura e annodando l'ultimo punto, con una fitta che gli percorse tutto
il braccio e gli fece mancare un'altra volta il fiato.
«Ti avevo detto di stare fermo e zitto» lo ammonì lei. Poi fece un
passo indietro e lo guardò con i suoi occhi verdi e intensi.
«Volevo stare con te» confessò, mentre gli smeraldi annegavano
nelle lacrime. «Se devi morire, allora voglio morire anch'io.
Al tuo fianco.» «No!» urlò Rossano afferrandola per le braccia. «Tu
non morirai! Non lo permetterò ancora! Io...» All'improvviso, Rossano
tacque: aveva compreso che non aveva senso discutere con Angelica.
Se voleva proteggerla, se voleva salvarla dalla carica degli invasori
germanici, doveva dimenticarsi di lei e tornare a combattere.
«Torna sul carro!» le gridò, spingendola via. «E resta al riparo!» Si
voltò senza aspettare di vedere se Angelica gli obbediva, e corse
dall'unico capitano che vedeva ancora in piedi, ferito e ricoperto di
sangue ma pronto a sbraitare ordini ai suoi uomini, se allentavano i
ranghi.
«Facciamoli retrocedere!» gridò, rendendosi conto che ormai
restava una sola fila di picchieri a fronteggiare la cavalleria imperiale.
Il fatto che ci fossero montagne di corpi di cavalli e cavalieri riversi a
terra, molti dei quali agonizzanti, era una ben magra consolazione
all'idea che presto gli invasori germanici avrebbero spazzato via
l'ultimo baluardo che restava della Compagnia del Carroccio e si
sarebbero impossessati delle araldiche della Lega e del gonfalone
papale.
Eppure ancora non tutto era perduto. La tattica dell'istrice aveva
funzionato, e i cavalieri avversari adesso erano poche decine, non più
la possente schiera che aveva dato l'impressione di poterli spazzare via
con facilità.