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Franco Forte

LA COMPAGNIA
DELLA MORTE
Questo libro è dedicato a mia moglie, Antonella,
l'unica donna della mia vita,
e ai miei figli, Valentina e Stefano.
Se dovessi combattere e morire per una causa,
come fecero i miei antenati padani,
lo farei per loro.

«Or ecco» dice Alberto di Giussano, «Ecco, io non piango più.


Venne il dì nostro, O milanesi, e vincere bisogna.» GIOSUÈ
CARDUCCI
Della Canzone di Legnano
PROLOGO

A.D. 1176
Campagne di Legnano Il rombo che si propagò nel suolo era
spaventoso, pareva l'annuncio di un terremoto di immani proporzioni
che avrebbe raso al suolo qualsiasi edificio in tutta la Padania.
Ma Rossano da Brescia sapeva che non si trattava di un fenomeno
naturale. Quella che si stava scatenando contro di loro non era la forza
imperiosa della natura, bensì la rabbia furibonda di centinaia di cavalli
lanciati al galoppo, che dissodavano il terreno con gli zoccoli ferrati.
La polvere sollevata dalla carica della cavalleria imperiale era tale
da oscurare la visuale, e il fragore così forte da costringere Rossano a
gridare gli ordini ai suoi uomini correndo lungo il cerchio compatto
dei fanti stretto attorno al Carroccio.
«Serrate i ranghi!» gridava, tenendosi il braccio ferito da cui il
sangue continuava a sgorgare. Si era stretto una cinghia di cuoio
appena sopra lo squarcio, per cercare di arrestare l'emorragia, ma
sapeva che non sarebbe servita a molto: l'unico modo per fermare il
sangue era cucire la ferita con alcuni punti di sutura.
Ma la situazione in cui si trovavano non permetteva certo di
preoccuparsi del suo braccio: entro pochi istanti la cavalleria imperiale
sarebbe calata su di loro, travolgendoli con la forza di un uragano di
carne, cuoio e ferro.
La sola speranza per Rossano e per i suoi uomini, in netta
inferiorità numerica e privi di cavalli, era arroccarsi attorno al
Carroccio come avrebbe fatto una mandria di bufali per difendersi da
un attacco, tenendo le picche e le lanzalonghe sollevate come gli aculei
di un gigantesco istrice.

Il Carroccio, il grande carro da guerra su cui svettavano il


gonfalone milanese e le araldiche della Lega Lombarda, aveva le
possenti ruote ferrate affondate nel terreno, tanto era il peso che
dovevano sostenere. Padre Ariberto, arrampicato sopra il castello di
comando, incitava gli uomini invocando la forza che il Signore avrebbe
concesso loro per resistere alla carica straripante del nemico.
«Dio è con noi!» gridava il sacerdote cercando di sovrastare il
frastuono della cavalleria imperiale in arrivo. Mentre parlava, teneva
alta la piccola croce lobata che il vescovo Intimiano aveva donato a
Milano decenni prima, un simbolo potente che confermava la
veridicità delle sue parole. «Non vi lasciate spaventare dall'invasore!
Non abbiate timore di morire per difendere la vostra terra, la vostra
dignità. Il Santo Padre ha esteso la sua benedizione su tutti voi! Viva la
Padania! Viva la Padania libera!» «Viva la Padania!» gridarono in coro
i soldati della Compagnia del Carroccio, stringendosi spalla contro
spalla mentre il terreno sotto i loro piedi vibrava così forte da farli
vacillare.
Rossano studiò la disposizione delle lunghe picche che aveva fatto
distribuire ai suoi uomini. Ognuno di loro ne aveva una in mano, con il
calzo piantato a terra e tenuto fermo dal piede sinistro, allungata verso
l'esterno con un'inclinazione sufficiente a contrapporre la punta di
ferro al petto dei cavalli, e altre due a terra, pronte a essere impugnate
nel caso in cui l'asta che reggevano si fosse spezzata. Aveva fatto
predisporre cinque linee di picchieri, in modo da opporre all'avanzata
dei cavalli un'autentica foresta di punte acuminate, ma sapeva che si
trattava di un tentativo disperato. Da quando la cavalleria lombarda si
era data alla fuga, dopo essersi lanciata allo sbaraglio contro le truppe
imperiali, che avevano retto l'impatto con ordine e avevano
contrattaccato senza dare respiro alle forze della Lega, Rossano era
rimasto solo, con i trecento fanti della Compagnia del Carroccio, a
difendere il simbolo della libertà padana e l'onore dei Comuni
Collegati che avevano osato ribellarsi al Barbarossa.
La speranza di Rossano era che la cavalleria in rotta della Lega
riuscisse a riorganizzarsi e a ricongiungersi con il grosso dell'esercito
lombardo, che stava marciando da Milano per giungere in loro
soccorso. Una speranza tenue, perché la cavalleria nemica era ormai
prossima a travolgerli, e lui non sapeva quanto avrebbero potuto
resistere, quegli uomini stanchi, sfiduciati e già provati dalla lunga
battaglia che aveva disseminato la pianura di cadaveri.
«Tenete le picche ben piantate a terra!» urlò cercando di farsi
sentire in quella bolgia infernale. Sollevò la spada e strinse i denti,
quando una fitta gli percorse il braccio ferito. Con il piatto della lama
diede dei leggeri colpi alle lance che non erano perfettamente allineate
con le altre, in modo che lo sbarramento di picche fosse uniforme.
«State in riga!» gridò ancora, mentre il nemico si avvicinava a
velocità poderosa, dando l'impressione di poter travolgere senza sforzo
ciò che restava della Compagnia del Carroccio.
Sul grande carro da guerra, padre Ariberto incitava il giovane
Egidio a suonare la Martinella, la campana che diffondeva nella valle il
richiamo disperato per il grosso dell'esercito lombardo.
È tutto inutile avrebbe voluto dirgli Rossano. Non riusciranno mai
ad arrivare in tempo.
Alberto da Giussano, il comandante in capo delle forze della Lega
Lombarda, probabilmente ancora non sapeva in quale situazione
disperata si trovasse l'avanguardia del suo esercito.
Se avesse potuto essere lì, con la potenza dei suoi novecento
cavalieri della Compagnia della Morte, forse avrebbe potuto arrestare
l'invasore germanico.
Ma fino a quando Alberto da Giussano e i suoi cavalieri non fossero
arrivati, Rossano poteva fare affidamento solo sulle proprie forze e sul
quel pugno di fanti spaventati, che avrebbero dovuto fare scudo con i
propri corpi alla carica della cavalleria imperiale.
Un'impresa impossibile, ma che nessuno di quei ragazzi coraggiosi
avrebbe abbandonato.
Quando il frastuono degli zoccoli si fece troppo forte per
continuare a ignorarlo, Rossano scrutò con rabbia l'avanguardia
corazzata del Sacro Romano Impero.
E mentre il suo grido di battaglia si levava alto nel cielo, fino a
sovrastare il fragore dei cavalli e lo squillo disperato della Martinella,
Rossano sentì che aveva desiderato a lungo quel momento: finalmente
poteva affrontare a viso aperto gli uomini che avevano annientato la
sua famiglia e che cercavano di spogliarlo anche della dignità di
possedere una patria libera e indipendente.
Quando la cavalleria imperiale si schiantò con la forza di una
valanga contro il fronte compatto di picche della Compagnia del
Carroccio, Rossano dilatò le narici e pregustò il momento in cui
avrebbe versato il sangue nemico.
Non si preoccupò neppure per un istante del fatto che molto
probabilmente anche lui sarebbe morto in quella pianura dimenticata
da Dio.
CAPITOLO PRIMO

A.D. 1174
Città di Milano Due anni prima 1
Il corsiero da guerra dilatò le froge e sbuffò impaziente, quando le
redini tirarono il morso costringendolo a fermarsi. Non era abituato a
lasciare il passo ai pedoni, e nei vicoli angusti della città non si trovava
a suo agio. Avrebbe preferito mille volte di più potersi lanciare al
galoppo su una vasta prateria, con il sudore che colava dal corpo
muscoloso e le ginocchia del guerriero che lo incitavano a correre più
veloce del vento, per non fermarsi di fronte a nulla, neppure davanti a
una foresta di picche protese verso di lui.
«Buono, Drago, stai buono.» La mano di Rossano da Brescia batté
sul collo del possente animale, e il corsiero sembrò tranquillizzarsi
subito, scuotendo la folta criniera. Le due donne che stavano
attraversando la strada, e che quando si erano accorte del gigantesco
cavallo da guerra erano sobbalzate per lo spavento, si erano date alla
fuga alzando le sottane, e Rossano trattenne una risata. Poi, con un
leggero colpo dei talloni, incitò Drago a riprendere la marcia.
Gli zoccoli ferrati sollevarono polvere dalla strada, e il cavallo
avanzò maestoso fra le due ali di folla che si aprivano al suo passaggio.
Doveva essere giorno di mercato, pensò Rossano, perché non aveva
mai visto tanta gente radunata nelle vie e nelle piazzette attorno al
palazzo consolare. La sua convocazione, insieme a quella dei tanti
uomini d'arme che circolavano ancora a Milano, aveva sorpreso
Rossano, che non riusciva a immaginare il motivo di tanta fretta. Il
ragazzo che era venuto a portargli l'ambasciata non gli aveva dato
troppe spiegazioni, limitandosi a fargli capire che l'intera città era in
subbuglio, e che il console di Milano stava ricevendo comandanti e
uomini d'arme nel suo palazzo fin dalle prime ore della mattina.
Mentre si avvicinava all'edificio, che svettava sugli altri per
imponenza e dimensioni, anche se l'intera ala ovest mostrava ancora i
segni della devastazione che era stata portata dall'esercito imperiale,
Rossano vide molti nobili locali acquartierati un po' ovunque, con i
servi e gli attendenti di campo che brulicavano loro attorno come
formiche. Poi, addossato a una delle pareti della casamatta riservata
alla guarnigione della città, scorse il cavallo maculato di Gilberto
Rocca, un capitano piacentino insieme al quale aveva già combattuto
diverse volte, e diresse Drago da quella parte.
Gilberto era seduto a terra, su una stuoia ripiegata, e stava
sgranocchiando un pezzo di carne salata guardandosi pigramente
intorno. Quando lo vide arrivare aggrottò per un attimo le
sopracciglia, poi sollevò la mano per salutarlo.
Rossano ricambiò il saluto, fermò Drago e scese da cavallo.
«Sai che cosa sta succedendo?» chiese a Gilberto mentre legava il
corsiero a un anello di sosta.
«No» rispose l'uomo alzandosi e indicando la folla che riempiva la
piazza. «È così da ieri sera. Io sono stato convocato, ma è già due volte
che cerco di farmi ricevere e non ci riesco. Mi dicono di aspettare.»
Rossano si guardò attorno con maggiore attenzione, e vide che c'erano
diversi uomini d'arme riuniti in gruppetti qua e là, intenti a discutere
animatamente.
«Sono stato convocato anch'io» disse, mentre Gilberto Rocca si
avvicinava incuriosito a Drago.
«Gran bella bestia» disse il piacentino passando la mano sul fianco
robusto del corsiero. Drago non sembrò apprezzare il gesto, perché
girò la testa verso Gilberto e sbuffò contrariato.
«Stai attento» lo redarguì Rossano, «ha un caratteraccio.»
«Perfetto per il campo di battaglia, allora.» Rossano annuì, aprì una
delle bisacce di cuoio in cui custodiva tutte le sue cose e prese lo stocco
di rappresentanza a doppio filo. Il fodero era già allacciato in vita,
insieme agli anelli per le borse con i denari e alla bisaccia con i guanti
da parata. Tirò fuori anche quelli e li indossò dopo avere sistemato lo
stocco.
«Non so se ti riceveranno» l'avvertì Gilberto Rocca. «Sono in tanti
che stanno aspettando.» «Vado a dare un'occhiata» annuì Rossano.
«Magari trovo qualcuno che conosco e riesco a strappare qualche
informazione.» «Sarebbe magnifico» consentì Gilberto tornando a
sedersi.
«Tranquillo, tengo d'occhio io il tuo stallone.» Rossano sorrise. «Ti
ringrazio, ma credo che Drago sappia badare benissimo a se stesso.»
Detto questo si allontanò, cercando di raddrizzare la schiena e di
assumere un aspetto marziale, anche se attorno vedeva tonache di
broccato e tuniche di frustagno che gareggiavano fra loro per
magnificenza, indossate da uomini infuriati per l'attesa a cui erano
costretti.
Evidentemente, la situazione doveva essere seria, perché il console
non avrebbe mai corso il rischio di inimicarsi uomini così potenti,
convocandoli al suo palazzo e poi facendoli aspettare fuori, come plebe
qualunque.
Forse non sarebbe riuscito a entrare neppure lui, ma ormai la
curiosità lo rodeva e non poteva certo rassegnarsi ad accamparsi là
fuori senza chiedere spiegazioni, in attesa che qualcuno si ricordasse
di lui.
Quando vide il picchetto di guardia schierato davanti al portone
d'ingresso del palazzo, assunse la sua espressione più determinata e si
fece avanti, spingendo all'infuori il pomo intarsiato d'argento dello
stocco di parata.
«Ci dispiace, messere, ma al momento non è consentito l'accesso al
palazzo. Il console...» «Questo me l'avete già spiegato!» l'interruppe
Rossano infuriato. Strinse l'elsa dello stocco con tanta forza da credere
che sarebbe riuscito a piegarlo, poi cercò di fare un lungo respiro e di
recuperare la calma che si confaceva al suo rango. Quei due zotici non
sapevano con chi avevano a che fare, e lui... all'improvviso Rossano si
rese conto dell'assurdità di quello che stava pensando, scosse la testa e
aprì un sorriso.
Era proprio un idiota. Là fuori, nella piccola piazza gremita come
in un giorno di mercato, c'erano arconti, margravi, prelati di rango e
nobili che potevano contare su terre, vassalli e interi eserciti, e che
avrebbero potuto ergersi in tutta la loro magnificenza ben più di
quanto potesse fare lui, cavaliere senza macchia e senza paura ma al
momento provvisto solo di un corsiero da guerra, di un elegante stocco
forgiato dagli artigiani di Crema e degli abiti che indossava.
Come pensava di poter pretendere un colloquio con il console
quando neppure quei potenti paludati erano riusciti nell'impresa?
E certo non poteva prendersela con i due uomini d'arme, che
svolgevano molto bene il loro lavoro e che non si lasciavano intimidire
da nessuno, per quanto di quei tempi non fosse impresa da poco
tenere testa a un'orda di nobiluomini inferociti.
«Perdonatemi» disse, sollevando le mani e facendo un passo
indietro. «Avete ragione, sono stato uno sciocco a insistere. Voi state
facendo il vostro dovere.» «Nessun problema, messere» disse la più
anziana delle guardie, visibilmente grata di tanta disponibilità.
Evidentemente, dovevano essere abituati a ben altro genere di
trattamento. «Se ci date il vostro nome, sarà nostra cura farlo presente
al segretario generale del console, in modo che vi inserisca nell'elenco
degli incontri.» «Vi ringrazio» disse Rossano, che all'improvviso
comprese che era quella la tattica migliore da seguire in simili
frangenti.
Se avesse sfruttato quel piccolo vantaggio, forse sarebbe riuscito a
carpire qualche informazione ai due uomini d'arme. «Il mio nome è
Rossano da Brescia, e ho già avuto modo di parlare con il console,
quando ha dato vita alle guarnigioni di rincalzo della città.»
«Benissimo» annuì la guardia. «Riferiremo senz'altro.» Rossano
sorrise ancora, fece per allontanarsi poi, quasi casualmente, indicò la
folla di notabili che brulicava nella piazza.
«Confesso di non avere mai visto tanti nobili riuniti insieme» disse.
«E davvero non vi invidio al pensiero di quello che dovete avere
passato, cercando di tenerli a bada.» Il più giovane degli uomini
d'arme fece una smorfia.
«Alcuni di loro sono degli arroganti e dei prepotenti» disse.
«Se non avessi avuto ordini precisi...» «Sono impazienti»
l'interruppe l'altra guardia, «e posso ben capirli. Qualcuno di loro è qui
da ieri sera, e non sono venuti di loro volontà, ma dietro precise
sollecitazioni da parte del console.» Rossano si accigliò. «Ecco» disse,
«è questo che non capisco.
Siamo stati tutti convocati, giusto? Allora perché farci aspettare?
Che cosa impedisce al console di cominciare a ricevere i più
autorevoli fra quegli uomini?» «Credo stiano aspettando qualcuno»
rispose la guardia più giovane.
«Esatto» annuì l'altro. «Fino a quando non arriverà, il console non
autorizzerà nessuno a entrare a palazzo.» Rossano li fissò incuriosito.
«Davvero?» disse. «E chi sarebbe costui?» Le guardie si scambiarono
una rapida occhiata, poi il più anziano dei due rispose, a voce
abbastanza bassa perché solo Rossano potesse udirlo: «Alberto da
Giussano. Il Gran Cavaliere al comando della Compagnia della
Morte».
Rossano restò suo malgrado sorpreso da quella rivelazione.
Gli avevano già parlato di Alberto da Giussano, ma non l'aveva mai
conosciuto di persona, e non credeva che si trovasse a Milano. L'ultima
volta che aveva sentito delle sue imprese e degli atti di coraggio dei
novecento uomini che formavano la temibile Compagnia della Morte,
era stato qualche mese prima, per uno scontro con le truppe del
Marchese di Monferrato, fedeli all'imperatore.
In realtà si era trattato di un atto dimostrativo, più che di una vera
e propria battaglia, ma ogni volta che la Compagnia della Morte si
muoveva, uno strano alone di leggenda la seguiva, e le sue imprese si
gonfiavano smisuratamente, sulla bocca della gente.
«Non sapete per quale motivo verrà qui?» provò ancora a chiedere,
ma i due uomini d'arme scossero la testa. «Bene, vi ringrazio»
concluse, allontanandosi verso il punto in cui Drago lo aspettava
sbuffando.
Adesso, più che l'impazienza lo rodeva la curiosità: voleva sapere
che cosa stava succedendo, e perché Alberto da Giussano fosse stato
convocato dal console di Milano insieme a tanti nobili e cavalieri.
Forse c'era di mezzo l'imperatore, quel bandito ingioiellato che si
nascondeva in Germania, al riparo oltre le
Alpi, e che Rossano avrebbe voluto avere a portata di spada, per
fargli assaggiare il filo rovente della sua rabbia.
Se era così, allora sarebbe valsa la pena aspettare anche giorni
interi accampato in quella piazza, pur di riuscire a far parte del
movimento armato che forse si stava attrezzando per contrastare
Federico I il Barbarossa.
In un primo momento non riconobbe la persona che stava
parlando con Gilberto Rocca, perché gli dava le spalle e indossava un
mantello di poco conto, ricavato da un unico pezzo di tessuto grezzo.
Pensò fosse uno dei tanti uomini d'arme che erano stati convocati dal
console e che cercavano di capire che cosa diavolo stesse succedendo,
poi un particolare lo insospettì: Drago si allungò verso il braccio dello
straniero ma, anziché morderlo come era solito fare, soffiò piano dalle
narici e strofinò il muso sulla fusciacca indossata dall'individuo.
Quando lo straniero diede un colpetto sul collo di Drago,
continuando a parlare con Gilberto Rocca come se nulla fosse, i
sospetti di Rossano divennero certezza e lo spinsero a farsi avanti con
un singulto d'ira.
«Che ci fai, qui?» ringhiò furibondo. «Non mi venire a raccontare
che sei stato convocato anche tu!» «Ehi, che succede?» chiese sorpreso
Gilberto Rocca. «Tuo fratello mi stava dicendo...» «Mio fratello è un
bugiardo» l'interruppe perentorio Rossano.
Poi si voltò verso il ragazzo con i suoi stessi occhi azzurri e i capelli
ricci, folti come un cespuglio selvatico, che lo guardava divertito. «E tu
togliti quel sorrisino dalle labbra! Mi spieghi che ci fai qui vestito in
questo modo?» Valerio si era agghindato di tutto punto, con stivali di
cuoio e calzebrache che doveva aver rubato da qualche parte, visto che
non poteva certo permettersi di acquistarle, e si comportava come se
fosse un cavaliere provvisto di investitura, anziché un semplice
sedicenne che faceva apprendistato nella bottega di un armaiolo.
«Calmati» si limitò a rispondere stringendosi nelle spalle.
«Ero solo curioso. In città non si fa altro che parlare di questa
chiamata alle armi.» «Non c'è nessuna chiamata alle armi» ribatté
Rossano. In realtà non capiva perché si comportasse in quel modo, con
il fratello minore: Valerio era sempre pieno di allegria e di
ammirazione nei suoi confronti, ma lui, da quando doveva
occuparsene come fratello e come padre, avvertiva sempre disagio
quando si trattava di tenerne a bada il comportamento irrequieto. In
fondo era solo un ragazzo, pieno di vitalità e della normale curiosità
che chiunque prova alla sua età.
Fece per aggiungere qualcos'altro, poi sollevò una mano, sbuffò e si
diresse verso le bisacce a cavallo di Drago. Ne estrasse un involto con
del pane e del lardo, e lo lanciò a Valerio, che lo prese al volo.
«Non sappiamo ancora niente» disse dopo un po', mentre il fratello
si sedeva a terra, con la schiena contro il muro su cui correva la fila di
anelli di sosta. Si rivolse anche a Gilberto Rocca: «A quanto pare è
tutto fermo, in attesa dell'arrivo di una persona».
«E chi sarebbe?» chiese sorpreso Gilberto.
«Alberto da Giussano» rivelò dopo un po' Rossano, senza riuscire a
trattenere un certo disagio. Non sapeva perché, ma aveva
l'impressione che avrebbe fatto meglio a tenere per sé
quell'informazione.
«Alberto da Giussano?» gridò Valerio saltando in piedi e facendo
girare diverse persone dalla sua parte. «Stai dicendo sul serio? Verrà
qui?» «A quanto pare» annuì Rossano guardandosi attorno con
cautela.
«Verrà da solo o con la Compagnia della Morte?» lo incalzò
Valerio, con gli occhi che luccicavano.
«Non lo so» sibilò Rossano. «E non sono così sicuro che arrivi
davvero. Forse sono solo dicerie.» «No!» esclamò Valerio. «Lo sapevo
che sarebbe successo.
Alberto da Giussano è qui per guidarci in battaglia. Con lui al
comando il Barbarossa...» «Piantala» l'interruppe seccamente
Rossano. «Non dire stupidaggini. Non ci sarà nessuna battaglia.» «E
tu come fai a dirlo?» gli chiese Valerio. «Guardati attorno!
Che ci fanno qui tutti questi cavalieri e questi nobili? E che ci fa
Alberto da Giussano a Milano? Non mi dire che sono tutte
coincidenze.»
Rossano strinse gli occhi e fissò il fratello.
«Che cosa vorresti dire?» chiese, incuriosito suo malgrado.
«Le hai sentite anche tu le voci, no?» rispose Valerio. Poi il ragazzo
si rivolse a Gilberto Rocca. «Ditemi, capitano, non si dice che il
Barbarossa sia pronto a valicare ancora le Alpi?» Gilberto si accigliò, e
anziché rispondere lanciò un'occhiata a Rossano.
«Lo sapete entrambi!» affermò Valerio soddisfatto. «L'imperatore
sta preparando una spedizione, e noi dobbiamo prepararci ad
affrontarlo!» «Se anche fosse» ribatté Rossano, «tu devi restarne
fuori.» Valerio avvampò. «Restarne fuori?» fece con rabbia. «Di che
diavolo stai parlando? Quei bastardi hanno ucciso i nostri genitori,
non solo tua moglie, e io...» Il ceffone di Rossano raggiunse Valerio in
piena faccia, e il ragazzo non crollò a terra solo perché Gilberto Rocca
l'afferrò al volo.
«Ho detto che devi restarne fuori» sibilò Rossano scrutando
minaccioso gli occhi allagati di rabbia e di vergogna del fratello.
«Non sei un uomo d'arme, né mai lo diventerai.» «Ho diritto
anch'io di vendicare i nostri genitori» ribatté rauco Valerio.
Rossano strinse i pugni e dominò a fatica l'impulso di colpire
ancora il fratello. Lo capiva, lo capiva meglio di quanto egli potesse
sospettare, e proprio per questo non voleva che condividesse con lui il
furore cocente e doloroso della vendetta. Non poteva permettere che
capitasse qualcosa anche a lui: Valerio era il solo parente che gli era
rimasto, dopo lo sfacelo che le truppe imperiali avevano portato a
Milano e nella sua vita nel 1162. A quell'epoca il fratello aveva solo
quattro anni, quindi non poteva ricordare quello che era successo, non
si risvegliava di notte in preda agli incubi, mentre le grida di tutti
coloro che conosceva e che erano stati trucidati dalle truppe imperiali
gli risuonavano nelle orecchie come se stesse rivivendo quei terribili
momenti.
Sentendo rifluire d'improvviso la rabbia, Rossano abbracciò
Valerio e lo strinse forte a sé.
«Torna a casa» mormorò. «Ti prego. Fallo per me. E per mamma e
papà.» Valerio vibrava di collera fra le sue braccia, ma poi lentamente
Rossano sentì che si calmava, che si lasciava riempire dal desiderio
di stringersi forte a lui, e finalmente comprese che poteva lasciarlo. Gli
avrebbe obbedito.
«Tuo fratello ha ragione» intervenne Gilberto Rocca. «Vedrai che
questa riunione non porterà a nulla di concreto. E in ogni caso, se
saltasse fuori qualcosa, certo non partiremmo tutti per la guerra
seduta stante.» Valerio fece una mezza smorfia, lanciò un'occhiata a
Rossano, quindi si voltò e si allontanò. Prima di infilare la viuzza che
l'avrebbe portato a casa, si fermò e si girò verso Rossano.
«Se arriverà Alberto da Giussano mi racconterai tutto, questa
sera?» chiese.
«Naturalmente» annuì Rossano con un sorriso.
Valerio fece un profondo respiro e corse via.
2
Le tre piccole ombre strisciarono furtive oltre il sagrato della
vecchia chiesa, poi andarono a raccogliersi fra gli sterpi e le piante
rampicanti aggrovigliati su ciò che restava dell'abside settentrionale.
Le macerie erano un monito alla follia umana, che aveva fatto della
guerra e della devastazione la sua principale ragione di vita, e che non
aveva risparmiato neppure la casa di Dio, nella sua cruenta marcia
distruttrice.
«E se il vecchio ci scopre?» chiese una delle ombre con un filo di
voce.
«Che cosa potrebbe farci?» rispose un'altra.
«E poi, prima dovrebbe riuscire a prenderci» concluse con un certo
cipiglio la terza ombra, che più delle altre sembrava smaniosa di
sgusciare fuori dal nascondiglio e puntare dritto all'obiettivo che si
erano prefissati in quella notte di luna piena.
«Ho sentito delle storie» ribatté la prima ombra, mostrando sotto
la luce della luna una zazzera di capelli rossi aggrovigliati di
sudiciume. «Quel vecchio non è come gli altri.» «Ma che diavolo stai
dicendo?» chiese disgustato il secondo ragazzino, dando una manata
al compagno. Negli occhi chiari come cristalli di vetro molato si
agitava lo spettro di una curiosità inarrestabile.

«Dicono che faccia delle terribili magie!» «Non dire fesserie. È un


prete, non uno stregone.» «Tu che ne sai? E se fosse...» «Piantatela!»
Il terzo ragazzo, di un paio d'anni più grande degli altri, si soffiò via dal
naso un ciuffo di capelli ribelle e sorrise, mentre scrutava nella luce
lunare. La crepa nella parete della chiesa era proprio dove gli avevano
detto, e nessuno si era preoccupato di chiuderla, né tantomeno di
ripararla. Sarebbe stato uno scherzo scivolarci dentro senza essere
visti, anche in quella nottata in cui le stelle sembravano pulviscolo
prezioso disperso nel cielo.
«Egidio, te che ne pensi del vecchio?» insistette il ragazzino con i
capelli rossi.
«Se te la fai sotto dalla paura, non c'è bisogno che tiri in ballo la
scusa del vecchio stregone» sibilò l'altro. Aveva un gran naso a patata,
e un orecchio più basso rispetto all'altro, ma le spalle larghe
incutevano soggezione. Era il figlio del fornaio, ed era abituato a
trasportare sacchi di farina fin da quando aveva cinque anni. Solo
Egidio riusciva a tenerlo a bada, sorridendo in quel modo strano che
suscitava disagio nei suoi coetanei.
«Verifichiamolo di persona» disse Egidio sentendosi scaldare
dall'eccitazione. Si voltò verso il ragazzo dai capelli rossi. «Che ne dici,
Pietro?» Poi fissò l'altro compagno, afferrandolo per le spalle. «Tu non
vedi l'ora, vero Bigio?» I due non risposero, limitandosi a scambiarsi
un'occhiata incerta, così Egidio allargò il suo sorriso e indicò la breccia
nel muro.
«Eccola là, proprio come mi avevano detto. Che cosa aspettiamo?»
Non attese la risposta dai compagni. Si guardò attorno, poi tenendosi
basso sgusciò fuori dalla nicchia d'ombra fra i rampicanti e corse verso
la feritoia nel muro, subito seguito da Bigio e Pietro, che non
avrebbero saputo dove andare e cosa fare, senza di lui.
Ci volle un po' per abituarsi al buio che regnava all'interno della
chiesa, ma quando i loro occhi cominciarono a mettere a fuoco i
contorni delle cose, i tre ragazzi restarono a guardarsi attorno con la
bocca spalancata per la meraviglia.

L'interno era stato completamente svuotato e, oltre all'altare


ricavato da un unico blocco di marmo e alle colonne che reggevano le
navate superiori, ora non c'era più nulla. Non c'erano neppure
macerie, e tutto appariva pulito e ordinato, come se l'aspetto diroccato
e fatiscente dell'esterno fosse solo un modo per celare il tesoro
prezioso che qualcuno aveva nascosto là dentro.
Egidio trattenne il fiato mentre osservava incantato l'enorme carro
di legno che era stato piazzato nel centro esatto della chiesa, così
grande da occupare tutto lo spazio fra le colonne in cui di solito si
raccoglievano i fedeli per seguire la messa.
Da molto tempo non si celebravano più funzioni, in quella chiesa, e
adesso Egidio ne comprendeva il motivo: non era sul punto di crollare,
come gli adulti gli avevano fatto credere, ma conteneva il grande carro
da guerra di cui parlavano le leggende, capace di guidare in battaglia i
guerrieri e renderli invincibili.
«Avete visto? Avevo ragione!» sibilò, sentendosi attraversare da un
brivido mentre avanzava a piccoli passi verso l'immenso carro. Le
ruote erano così grandi che lo sovrastavano: non sarebbe riuscito a
sfiorarne la sommità neppure allungando le braccia.
«Dove vai?» gli chiese Pietro con voce tremante.
Egidio gli fece segno di restare dove si trovava, mentre lui si
avvicinava al carro. Anche se i suoi amici apparivano terrorizzati, lui
non aveva paura, contrariamente a quanto si era aspettato.
La meraviglia per ciò che vedeva era superiore a qualsiasi altro
sentimento.
«Cosa fai?» lo chiamò Bigio, sull'orlo del pianto. «Andiamocene!
Potrebbe arrivare lo stregone!» Ma Egidio non l'ascoltava. Tutta la sua
attenzione era sul legno massiccio, segnato dai colpi di picca e di
spada, del carro da guerra. Stava cercando di capire come avrebbe
fatto a salirci sopra senza essere costretto ad arrampicarsi sulle ruote,
quando all'improvviso vi fu un movimento fra le ombre che
riempivano la chiesa, sulla sua destra.
«Che ci fate, qui?» La voce tuonò con uno schiocco impetuoso sotto
le arcate della navata centrale, diffondendosi come un suono di
tempesta per tutta la chiesa e investendo i tre ragazzi con rabbia.

Bigio e Pietro sobbalzarono per lo spavento, poi pallidi come


stracci ruotarono su se stessi e se la diedero a gambe, raggiungendo la
fenditura nella parete come loro unica speranza di salvezza.
Egidio, invece, restò immobile, con i muscoli contratti e il cuore in
gola per lo spavento, ma così ammaliato da quello che aveva scoperto
da riuscire a trovare in sé un coraggio che non aveva mai creduto di
possedere.
L'ombra si mosse ancora, scivolò rapida in avanti e si portò davanti
a lui, in un punto in cui un leggero raggio di luce lunare che filtrava
dall'alto riuscì a illuminarla, mostrandone le fattezze.
«Così tu sei rimasto» disse il vecchio prete scrutandolo da sotto le
folte sopracciglia, così grosse e spesse da cascargli sugli occhi.
Indossava una tonaca sbrindellata, di un ordine che Egidio non riuscì
a riconoscere, e aveva barba e capelli lunghi, arruffati e bianchi come
la neve. Gli occhi azzurri spiccavano fra le rughe che gli segnavano il
volto, e lo scrutavano piuttosto incuriositi che non malevoli. «Sei
coraggioso» continuò il vecchio annuendo piano, ed Egidio ebbe
l'impressione di veder comparire l'ombra di un sorriso, fra i peli della
barba.
«Quanti anni hai?» Egidio dovette inghiottire un paio di volte,
prima di riuscire a ritrovare la voce e quel poco di coraggio che ancora
gli restava.
«Dodici» rispose.
«E come ti chiami?» «Egidio. Figlio di Antonio Mariani, il
filatore.» Il vecchio annuì ancora, lo fissò per un attimo in silenzio, poi
si voltò a contemplare il carro da guerra.
«E così sei venuto per questo, vero?» disse.
«Sì» rispose Egidio.
«Sai che cos'è?» gli chiese il vecchio muovendo un passo verso il
carro.
Egidio sentì svanire la paura come polvere spazzata via dal vento e
si avvicinò a sua volta al carro, affiancando il vecchio prete. Aveva
capito che non era cattivo, perché negli occhi, quando parlava del
carro da guerra, aveva la stessa emozione che attraversava lui quando
lo guardava.

«Il Carroccio» rispose, ricordando le tante storie che suo padre gli
raccontava davanti al fuoco. «Il carro da guerra della città.» Il vecchio
allungò una mano e la passò con un gesto amorevole sul legno nero del
carro, indurito dal tempo e dai trattamenti con la pece.
«Non è solo un carro da guerra» spiegò, facendo segno a Egidio di
avvicinarsi e toccarlo a sua volta. «È un simbolo. La dimostrazione, a
chi è pronto a sacrificare la propria vita in nome della fede, che Dio è
sceso in campo al suo fianco.» Egidio lasciò che le parole del vecchio
prete lo avvolgessero morbidamente, permeandolo di significati che
non aveva del tutto chiari ma che contribuivano a ingigantire la sua
meraviglia.
«Perché è qui dentro?» chiese dopo un po'.
Il prete si voltò a guardarlo. Adesso il sorriso era evidente sulle sue
labbra affondate nella barba.
«Abbiamo cercato di proteggerlo» rispose. «Questa chiesa è più
solida di quanto non appaia dall'esterno.» «Tu sei il custode del
Carroccio?» chiese Egidio.
«Oh, no» rise il prete, sinceramente divertito. «Ero il parroco di
questa modesta dimora di Dio, prima che i barbari la mettessero a
ferro e fuoco.» Egidio aggrottò le sopracciglia. «Sei padre Ariberto?»
chiese sorpreso.
«Come fai a conoscere il mio nome?» «Credevamo che fossi morto.
Sei tu che mi hai battezzato.» Il vecchio annuì con un gesto lento e
solenne, poi accarezzò Egidio sulla testa.
«Sono vivo, figlio mio. E adesso mi occupo d'altro.» Tacque per un
istante, poi indicò nuovamente il Carroccio.
«Vuoi salire?» chiese.
Egidio si sentì attraversare da un lampo di eccitazione.
«Posso?» chiese.
«Ma certo» rispose divertito padre Ariberto. «Attento però a non
toccare niente.» Sul retro del carro c'era una specie di porticina
bloccata da un gancio di ferro. Quando padre Ariberto la aprì, Egidio
vide una scaletta che conduceva nella parte superiore del carro, a
un'altezza di un uomo e mezzo.
«Come si fa a spostarlo?» chiese mentre seguiva il vecchio sul
Carroccio. «Dev'essere pesantissimo!» «Ci vogliono almeno tre
pariglie di buoi» rispose il vecchio.
«Se non quattro.» Una volta sopra, Egidio ebbe l'impressione di
trovarsi a bordo di un vascello. Ci era salito una volta, quando lui e suo
padre erano andati a scaricare delle merci al Ticino. La sensazione era
la stessa, e le pareti di solido legno del carro sembravano le paratie
della barca, che s'innalzavano al punto da costringerlo a issarsi sulle
punte per poter guardare fuori.
«Da quassù i comandanti impartiscono gli ordini alle truppe» gli
spiegò il prete afferrandolo per le ascelle e sollevandolo perché potesse
guardare fuori. «Gli spalti sono alti e robusti per proteggere dagli
attacchi del nemico.» Egidio non stava più nella pelle. Aveva mille
domande da fare al prete, ma riusciva solo a guardarsi attorno
eccitato, immaginando la potenza di una simile macchina da guerra
sul campo di battaglia.
«Che cos'è quello?» chiese poi, indicando il grande palo di legno
appoggiato di traverso per tutta la lunghezza del carro, e che sporgeva
all'infuori minacciosa come la polena di una nave.
«È il pennone che regge il gonfalone della città e le insegne
dell'esercito» rispose padre Ariberto. «Quando il carro è in movimento
lo si infila in quel foro là al centro, in modo che svetti alto fino al cielo,
avvicinandosi alla gloria di Dio.» Istintivamente Egidio aveva alzato lo
sguardo fino alla volta della chiesa, ammaliato dalle immagini che gli
vorticavano nella mente.
«Guarda questa» lo riscosse il vecchio. «Il tesoro più prezioso del
Carroccio.» Si recò verso quello che sembrava un altare posto nel
mezzo del pianale del carro e indicò una croce sistemata davanti al
foro in cui veniva inserito il pennone.
«Che cos'è?» chiese Egidio ammirato.
«Questa è la croce che il vescovo Intimiano ha regalato ai milanesi
quando è stato realizzato il Carroccio» rispose, osservando la piccola
croce lobata con gli occhi lucidi. «È il simbolo della fede e dell'unità
del popolo nel nome di Dio.» «E la campana?» chiese Egidio
sentendosi girare la testa per le meraviglie a cui stava assistendo.
«Dov'è la Martinella?» Il vecchio prete lo fissò con sguardo attento.
«Sai proprio tutto, del Carroccio, vero ragazzo?» Egidio annuì.
«Mio padre me ne ha parlato spesso. Mi ha spiegato che con questo in
campo un esercito è imbattibile. E che i rintocchi della Martinella sono
in grado di infondere coraggio e vigore ai soldati, facendogli capire che
Dio è con loro e che nessuno potrà mai sconfiggerli.» Padre Ariberto
sorrise, accarezzò ancora Egidio sulla testa, poi si diresse verso l'uscita
del carro.
«Vieni con me» disse.
Egidio gli fu dietro con l'eccitazione che gli faceva rizzare i capelli
sul capo.
«Eccola» disse padre Ariberto scostando un telo polveroso e
portando alla luce una piccola campana brunita. «Questa è la
Martinella.» Egidio in un primo momento restò un po' deluso. Aveva
immaginato una campana magnifica, tutta splendente d'oro e bronzo,
così grande da poter diffondere i suoi rintocchi per chilometri. Invece
quella che aveva davanti era una normale campana non troppo
grande, alta circa la metà di lui, senza iscrizioni e motivi religiosi in
rilievo.
Padre Ariberto sorrise divertito e batté una mano sulla campana.
«Devi sentirla suonare, per renderti conto di quanto vale»
sostenne. «È stata fusa in rame, oro e argento, in modo che fosse
praticamente indistruttibile e che il suo suono risultasse così
squillante da potersi udire fin nelle contrade più remote.» Mentre la
meraviglia tornava a colmare Egidio, il vecchio prese un lembo della
sua tonaca e lo passò con cura sulla campana, vicino ai due borchioni
sulla sommità, mettendo in luce, sotto la polvere che si era depositata,
quella che sembrava una scritta incisa nel metallo.
«Vedi qui?» disse padre Ariberto. «C'è scritto FRUOS.» «Che
significa?» chiese Egidio a bocca aperta.

«Fiet Regnum Unum Ovile Sanctum» spiegò padre Ariberto.


«Ci sarà un solo regno, un santo ovile.» Egidio osservò il vecchio
prete aspettandosi un'ulteriore spiegazione, ma padre Ariberto scosse
la testa e tornò a ricoprire la campana con il telo.
«Sei ancora troppo giovane per capire» disse, «però un giorno
tutto ti sarà più chiaro.» Egidio si rabbuiò, ma non volle insistere con
il vecchio. Sapeva che l'impazienza e la curiosità erano i suoi difetti
peggiori, ma per quel giorno aveva già scoperto fin troppe meraviglie
che l'avrebbero tenuto impegnato per molto tempo, quando ne avesse
parlato con gli amici e con suo padre.
«C'è una cosa che potresti fare, però» aggiunse il prete
guardandolo dritto negli occhi.
«Che cosa?» chiese sorpreso Egidio.
«Aiutarmi a dare una bella ripulita alla Martinella, e farla tornare
all'antico splendore.» Egidio sgranò gli occhi per la felicità, ma prima
che potesse dare il suo pieno assenso, il prete lo puntò con l'indice e si
fece serio.
«Devi promettermi una cosa, però, giovanotto.» «Che cosa?» «Io ti
consentirò di venire qui ad aiutarmi a sistemare la campana e il
Carroccio, ma tu dovrai mantenere il segreto sulla loro esistenza.
Nessuno deve sapere che cosa si nasconde in questa chiesa.» «Ma
perché?» chiese esasperato Egidio.
«Perché questo è il volere di Dio» si limitò a rispondere padre
Ariberto, e dal suo sguardo Egidio comprese che non sarebbe mai
sceso a patti con lui.
«Non posso parlarne neppure con mio padre?» chiese afflitto.
«No.» Egidio accusò il colpo, restò per un momento a pensare alle
alternative, poi lanciò un'occhiata al Carroccio e comprese che dentro
di lui aveva già deciso fin dal primo momento.
«D'accordo» disse. «Non dirò niente a nessuno.» «Bene» annuì
soddisfatto il vecchio. «Allora ti aspetto qui domani. Per prima cosa
lucideremo la Martinella. Vedrai quali sorprese si celano, sotto quello
strato di muffa e polvere.»
Egidio sgranò gli occhi mentre l'eccitazione tornava a
sommergerlo, e fuggì via dalla vecchia chiesa sentendo che per lui
iniziava il periodo più felice e più intenso della sua vita.
3
Il terreno cominciò a vibrare e a tremare così forte che Rossano
balzò in piedi di scatto, convinto che un intero squadrone di cavalleria
stesse sferrando un attacco, incurante dell'esiguo spazio a disposizione
fra i vicoli stretti della città e delle donne, dei bambini e degli inermi
che inevitabilmente si sarebbero frapposti al suo cammino.
«Che diavolo succede?» esclamò sorpreso Gilberto Rocca,
portando istintivamente la mano alla spada e voltandosi insieme a
Rossano dalla parte da cui proveniva il frastuono.
Diverse persone gridarono spaventate e molti, fra nobiluomini,
cavalieri, vassalli e servitori, si diedero alla fuga, temendo di essere
sulla traiettoria della carica di cavalleria che stava sopraggiungendo, e
così facendo aprirono un corridoio che attraversava l'intera piazza,
fino al palazzo austero del console di Milano.
«È una carrozza!» constatò allibito Rossano, osservando le
evoluzioni a cassetta del conducente, che, facendo schioccare una
lunga frusta e tenendo con una mano sola le briglie, riusciva a
manovrare due pariglie di cavalli con le froge dilatate per lo sforzo e i
corpi schiumanti sudore.
Il frastuono degli zoccoli sul selciato era impressionante, e Rossano
comprese che doveva trattarsi di cavalli da guerra, abbastanza robusti
e allenati da poter trainare la carrozza chiusa e i suoi passeggeri a una
velocità altrimenti impensabile per delle comuni pariglie di palafreni.
Di chiunque si trattasse doveva avere una fretta del diavolo, e
Rossano non potè fare a meno di ammirare l'abilità del conducente,
che riuscì a condurre la carrozza nel canale che si era aperto tra la
folla, e a far fermare i corsieri proprio un istante prima che
travolgessero le guardie messe di piantone davanti al palazzo
consolare.
La carrozza era leggera ma robusta, con le ruote alte borchiate di
ferro e tendine di velluto rosso alle finestre. Non si era ancora fermata
del tutto quando lo sportello di destra si aprì e un uomo vi balzò giù
agilmente, guardandosi attorno con aria truce.
Indossava una camicia da garzone con le maniche tranciate, e
sopra un corpetto di cuoio stretto da una cintura alla vita, su cui
spiccava la custodia riversa di uno stocco da combattimento.
Gli stivali, anch'essi di cuoio nero bene ingrassato, avevano i
risvolti superiori arrotolati verso l'esterno, in modo da lasciar scorgere
la sommità del coltello da lancio infilato nel fodero cucito all'interno
dello stivale stesso.
Dagli atteggiamenti dell'uomo, dalla spada a doppio filo che
portava al fianco e dal modo in cui teneva i capelli legati in una coda
che gli cadeva sulla schiena, Rossano comprese subito che si trattava
del guardaspalle di qualche potente personaggio.
Come gran parte della folla radunata nella piazza, restò a osservare
incuriosito la carrozza, mentre la polvere sollevata dai cavalli si
depositava, e quando vide comparire l'uomo che si celava all'interno
percepì i bisbigli sorpresi che si diffusero in tutta la piazza.
«Per la miseria!» esclamò Gilberto Rocca impressionato, mentre
l'uomo sceso dalla carrozza si dirigeva a passo spedito verso l'ingresso
del palazzo consolare, seguito dal suo guardaspalle.
Rossano era riuscito a scorgerlo appena, e anche se non l'aveva
riconosciuto aveva compreso, dal modo di atteggiarsi e dagli abiti che
indossava, che doveva trattarsi di un uomo di Chiesa, forse un prelato
di rango.
«Sai chi è?» chiese a Gilberto^
«Ma certo» rispose questi. «E il cardinale Bruno Accorsi, il legato
pontificio di papa Alessandro III.» Rossano annuì lentamente,
sorpreso che un'autorità così importante facesse parte di quel
consesso, e ancora più incuriosito per quello che stava succedendo e in
cui sapeva che prima o poi sarebbe stato coinvolto, in qualche modo.
Le guardie davanti al palazzo consolare si fecero subito da parte e
si inchinarono rispettosamente, quando il cardinale Accorsi passò
senza degnarli di uno sguardo. Alle sue spalle, l'uomo con il corpetto di
cuoio e i capelli legati a coda di cavallo lo seguiva senza perdere
d'occhio chiunque accennasse al minimo movimento attorno a loro.
«Sai anche chi è il suo guardaspalle?» chiese Rossano a Gilberto
Rocca.
Il piacentino fece una smorfia.
«Da quello è meglio stare alla larga» rispose. «È Venanzio da
Urbino, lo spadaccino. Ne avrai sentito parlare.» Rossano si voltò a
guardarlo accigliato.
«Venanzio da Urbino?» disse. «Ma non era stato arrestato?
Sapevo che avrebbe dovuto essere messo sotto processo.» Gilberto
Rocca si strinse nelle spalle.
«Adesso è l'ombra del cardinale Accorsi, e questo basta» rispose.
«Non so cos'abbia dato in pegno, per salvarsi la pelle, ma certo non
vorrei trovarmelo contro. Adesso è uno che conta, e sa come far pesare
la cosa a suo vantaggio.» «Il legato pontificio sarà qui per
rappresentare papa Alessandro» sostenne Rossano. «Il che significa
che forse mio fratello non era troppo lontano dalla verità.» «Credi che
stiano cercando di mettere insieme un esercito?» chiese il piacentino.
«Non vedo altra spiegazione a... tutto questo» rispose Rossano
abbracciando con un solo gesto la piazza invasa da uomini e cavalli.
«In ogni caso, saranno loro stessi a dircelo.» «Bene, allora speriamo
che si sbrighino a farlo. Questa attesa comincia a farsi snervante.» 4
Venanzio da Urbino superò gli uomini d'arme schierati tenendosi
pronto a intervenire al primo movimento sospetto. Anche se gli era
stato spiegato che gli uomini del console avevano ricevuto ordini
precisi sulle priorità riservate al cardinale Accorsi, sapeva che qualche
traditore poteva annidarsi tra le fila delle guardie. Un disperato al
quale era stato promesso di risparmiare la vita alla sua famiglia, oltre a
un cospicuo vitalizio per moglie e figli, se si fosse immolato per
piantare un coltello nel ventre del cardinale. L'imperatore aveva molti
infiltrati nei comuni padani, gente senza scrupoli che sapeva come
convincere un uomo a offrire la propria vita per salvare quella dei suoi
cari.
Per fortuna, il cardinale scivolò silenzioso e deciso attraverso il
corridoio di guardie senza che nessuno muovesse un solo dito, e
quando finalmente raggiunsero la sala consiliare, Venanzio potè
rilassarsi e staccare la mano dalla spada che portava al fianco.
Nella grande sala con le pareti e il soffitto affrescati di recente,
forse da qualche oscuro artista che si era offerto di dare il suo
contributo per la ricostruzione della città, c'erano solo un lungo tavolo
di quercia, alcune sedie con alzata alla veneziana e poggiaschiena di
pelle, e tre uomini, tutti disarmati ma potenzialmente molto più
pericolosi di qualsiasi armigero in tenuta da combattimento.
Di fronte a una picca protesa o a una spada, Venanzio avrebbe
saputo come difendersi, ma da quegli uomini provenivano minacce
impalpabili contro cui non avrebbe saputo opporsi: quelle che
derivavano dal potere politico e spirituale.
Il cardinale Accorsi gli fece un cenno brusco, e Venanzio si fermò a
lato dell'ingresso principale, lasciando che il suo protetto raggiungesse
gli altri uomini al tavolo consiliare. Si sorprese nel constatare che non
c'erano altri guardaspalle, nella grande sala.
Solo a lui era stato concesso di entrare. Per quale motivo?
Decise di accantonare le domande per concentrarsi su quello che i
quattro dignitari si stavano dicendo: tutto sommato, Venanzio era un
uomo intelligente, e sapeva che le informazioni che poteva raccogliere
in quella sala avrebbero potuto dimostrarsi preziose. E lui non
conosceva altro padrone e altro comandamento più forte di quello che
gli derivava dalla prospettiva di arricchirsi.
Bruno Accorsi si sforzò di mostrarsi conciliante, mentre
raggiungeva il lucido tavolo consiliare attorno a cui sedevano gli altri
protagonisti di una riunione tanto delicata quanto importante. Sua
Santità papa Alessandro III gli aveva dato ordini precisi, e lui aveva già
elaborato la tattica che avrebbe seguito per cercare di mantenere la
discussione in quell'ambito che più avrebbe portato giovamento alla
causa ecclesiastica, ma sapeva che non sarebbe stato facile. Non alla
presenza di quegli uomini dagli sguardi truci, che lo accolsero con la
freddezza e il distacco tipico di chi crede di avere il coltello dalla parte
del manico, sempre e in qualsiasi occasione.
Ma Bruno Accorsi non era uomo da cedere tanto facilmente, e
l'autorità che rappresentava non era seconda a nessun'altra, in quella
sala.
«Benvenuto, Eccellenza» lo accolse servizievole il console
Gisalberti, forse l'unico che non avesse una vera parte in quel
consesso, se non quella di fare da anfitrione (e arbitro? pensò Bruno
Accorsi) per i suoi ospiti. «Vi ringraziamo di essere venuto, nonostante
il breve preavviso che siamo riusciti a concedere a Sua Santità.» Bruno
Accorsi liquidò la questione sventolando la mano ingioiellata, poi si
concentrò sugli altri interlocutori. Il conte Rodolfo Concesa era il più
appariscente, con la sua blusa di broccato prezioso importata da
qualche lontana città d'Oriente e il mantello a due colori che
richiamava le araldiche della sua casata, una fra le più antiche e
gloriose di tutta la Padania.
Sedeva sulla veneziana con lo sguardo attento, la barba ben curata
e il volto ricoperto da un sottile strato di biacca cosmetica che lo faceva
apparire più giovane di quanto fosse. Bruno Accorsi sapeva che
quell'uomo era tanto intelligente e corretto, quanto legato a princìpi di
onore che apparivano ormai vetusti in un'epoca in cui lo scontro
secolare e temporale intrideva la società a tutti i livelli.
Non bastavano più le leggi della cavalleria e dell'alta nobiltà, per
dirimere le questioni territoriali e politiche che coinvolgevano il Sacro
Romano Impero e la Santa Chiesa, e forse Rodolfo Concesa non ne
aveva ancora preso atto.
Il terzo uomo teneva un cappello floscio piumato calcato sugli
occhi, e il collo rigido della casacca di pelle tranciata gli arrivava fino
alle gote, nascondendo buona parte del viso e rendendolo pressoché
irriconoscibile, se guardato di profilo.
Diversamente dal conte non indossava il mantello, ma una blusa
tutta impolverata che aveva gettato sul tavolo, insieme alla cintura con
i foderi per la spada e gli stocchi a lama corta.
A Bruno Accorsi bastò un'occhiata all'elsa di uno di quegli stocchi
per capire che l'uomo, il marchese Obizzo di Malaspina, era tutt'altro
che una figura di poco conto, e che se si era abbigliato in quel modo
era perché non voleva dare troppo nell'occhio. Il pomello superiore era
fatto d'oro massiccio, finemente intarsiato dagli artigiani più abili di
Milano, che nonostante le persecuzioni del Barbarossa avevano
mantenuto il predominio fra i costruttori d'armi di tutta Italia, per
qualità dei materiali e pregiatezza delle finiture.
Uno stocco di quel genere valeva una piccola fortuna, e solo un
uomo molto potente poteva permettersi di portarlo infilato in un
fodero come una qualsiasi arma da difesa.
«Sua Santità ringrazia voi tutti per la disponibilità che state
mostrando nei suoi confronti» disse il cardinale Accorsi
cerimoniosamente, prendendo posto nella sedia che gli era stata
riservata. «Ci siamo tutti?» «No, Eccellenza» rispose imbarazzato il
console Gisalberti.
«Purtroppo manca ancora una persona.» «Chi?» chiese sorpreso
Accorsi.
«Uno dei nostri comandanti più valorosi. Alberto da Giussano. Ma
sarà qui a momenti. Nel frattempo, permettete che vi offra qualcosa
per ristorarvi. Il vostro viaggio dev'essere stato faticoso.» «Immagino
che la presenza di questo Alberto da Giussano sia utile per discutere di
tattiche militari» interloquì spazientito il cardinale Accorsi dopo aver
preso una mela da uno dei vassoi portati dalla servitù del console. Con
un minuscolo coltello da pietanza la tagliò in quattro, poi cominciò a
sbucciarla. «Ma per il resto direi che potremmo pure procedere in sua
assenza.» Anche gli altri uomini seduti attorno al tavolo avevano
approfittato dei vassoi carichi di frutta e delle coppe con vino e birra
per rifocillarsi, e apparvero tutti abbastanza sorpresi di quella richiesta
avanzata con tono apparentemente casuale dal cardinale.
Venanzio da Urbino pensò che il legato pontificio era un uomo
molto scaltro. Aveva aspettato il momento migliore per sferrare
l'attacco e portarsi subito in posizione di predominio in quello scontro
fra giganti. Diversamente da quanto accadeva sul campo di battaglia,
le dispute politiche o teologiche erano portate avanti accumulando
piccoli vantaggi apparentemente di poco conto, ma che se sommati
decretavano la vittoria dell'uno o dell'altro interlocutore. E questo il
cardinale Bruno Accorsi
Lo sapeva molto bene, dimostrando fin da subito di essere un
avversario formidabile per i nobili presenti.
Il console Gisalberti tossì piano, cercando di non dare a vedere la
sorpresa che quasi gli aveva fatto andare di traverso un sorso di vino,
mentre il conte Rodolfo Concesa si raddrizzò di scatto sulla veneziana,
stringendo gli occhi per fissare quelli ardenti come braci del cardinale
Accorsi. Il Marchese di Malaspina, da parte sua, raccolse da un vassoio
un grappolo di uva rossa e cominciò a spiluccarne i chicchi,
apparentemente poco interessato alla nuova piega data dal prelato alla
discussione.
«Credo che Vostra Eccellenza abbia ragione» disse Rodolfo
Concesa sporgendosi leggermente in avanti e lanciando un'occhiata
eloquente al console. «Possiamo prima affrontare qualche questione
politica di ben poco conto per il comandante Alberto da Giussano.»
«Ottimo» annuì soddisfatto il cardinale togliendo anche gli spicchi di
torsolo e i semi della mela, prima di addentare il pezzettino di polpa
che era rimasto dopo quella lunga operazione.
Venanzio faticò a reprimere una smorfia di disprezzo: nessuno, fra
le persone che conosceva, si sarebbe mai sognato di sprecare un simile
ben di Dio. Buccia e torsolo erano fra le parti più gustose e nutrienti di
una mela, e quel vezzo ostentato con tanta indifferenza gli diede
fastidio, destando la sua insofferenza.
«Se anche per voi va bene, marchese...» aggiunse il console
ingoiando in fretta il vino e pulendosi la bocca con il dorso della mano.
Obizzo di Malaspina abbozzò un sorriso, si inchinò leggermente
verso il cardinale Accorsi e rispose: «Come potrei tirarmi indietro? È
già da troppo tempo che aspetto l'inizio di questo confronto. L'ozio
non si confà al mio umore».
Venanzio vide che l'espressione del cardinale si induriva, mentre le
gote di Rodolfo Concesa si imporporavano, e intuì che in qualche
modo il marchese era riuscito a segnare un colpo a suo favore, anche
se non riusciva a comprendere di che tipo.
«Come avrete già capito, siamo qui riuniti per...» cominciò Il
console con aria grave, ma il cardinale Accorsi l'interruppe sollevando
una mano.
«Sappiamo benissimo perché siamo qui» dichiarò, tenendo gli
occhi puntati verso colui che doveva avere individuato come
l'avversario più pericoloso, ovvero il marchese Obizzo di Malaspina.
«Inutile perdere altro tempo. Andiamo al sodo.» «Allora parlate»
s'intromise Rodolfo Concesa, evidentemente irritato per la posizione
di rincalzo che gli era stata riservata.
«Se non sbaglio siete voi ad avere delega per l'avvio di una
trattativa.» «Non ci sarà nessuna trattativa» ribatté brusco il cardinale
mettendo l'accento sull'ultima parola. «Sua Santità ha già ringraziato i
Comuni della Societas Lombardiae per l'appoggio che vorrete dare alla
causa della Santa Chiesa.» «La Lega Lombarda» disse il Marchese di
Malaspina accentuando il suo sorriso sarcastico e chiamando l'alleanza
dei comuni padani con il nome in uso presso il popolo «non sta
appoggiando la causa della Santa Chiesa. O meglio, lo fa, ma in forma
subordinata a una priorità ben maggiore: l'indipendenza della Padania
dall'egemonia imperiale.» Il cardinale Accorsi non sembrò scomporsi.
«L'obiettivo finale a cui tendiamo è lo stesso» affermò. «Mi pare
sciocco perdere tempo in inutili diatribe dialettiche.» «Non si tratta di
una diatriba inutile» insistette il marchese.
«La Lega ringrazia Sua Santità per l'appoggio che ci sta dando, e il
fatto di avere eretto una città-fortezza come suggello a questa alleanza
ne è la dimostrazione pratica.» Il marchese si allungò leggermente
verso il cardinale Accorsi. «Che cosa fa, invece, la Chiesa per onorare il
patto?» Prima che il legato pontificio riuscisse a ribattere, Rodolfo
Concesa si protese in avanti, sollevando le braccia.
«Un istante, per cortesia!» gridò spazientito, frapponendosi tra i
due contendenti. «Stiamo perdendo tempo, e lo facciamo pur sapendo
che l'imperatore approfitterà di ogni istante che gli lasciamo per
organizzarsi al meglio. Non è per questo che siamo qui!» Vi fu silenzio,
poi il cardinale Accorsi parve rilassarsi e annuì lentamente.
«Avete ragione, conte. Sua Santità mi rammenta ogni giorno come
quella vostra fortezza, Alessandria, sia un monito perenne alla forza
della Santa Chiesa, e il fatto che sia stata la Societas Lombardiae a
erigerla ci mette in una posizione di debito nei vostri confronti.»
Finalmente anche il Marchese di Malaspina si rilassò, in apparenza
soddisfatto dall'ammissione del cardinale. Ma Venanzio sapeva che il
legato pontificio non era uomo da arrendersi tanto facilmente, e che
qualche altra freccia era pronta per l'arco dialettico che portava
sempre con sé.
«Tuttavia» aggiunse infatti Accorsi con tono apparentemente
conciliante, «crediamo anche che una semplice città non sia in grado
di fermare il Barbarossa, qualora decidesse di muovere l'esercito
imperiale.» «Di questo ne siamo consapevoli» annuì Rodolfo Concesa,
che sembrava avere preso in mano le redini della discussione.
«È per questo che stiamo aspettando Alberto da Giussano. Sarà lui
a guidare l'esercito che stiamo approntando.» Il cardinale annuì
interessato, ma non disse niente, come a spronare i suoi interlocutori a
continuare.
«Voi, piuttosto, Eccellenza» intervenne Malaspina, «che cosa ci
dite del Regno di Sicilia? Scenderà in campo al nostro fianco come
promesso?» Il cardinale Accorsi non mostrò di trovarsi in difficoltà nel
rispondere alla domanda, anche se persino Venanzio comprese che
non erano buone notizie, quelle che il legato pontificio stava dando
agli alleati.
«Sua Santità si sta prodigando a tutti i livelli possibili» rispose,
«ma non credo che potremo contare troppo sull'adesione del Regno di
Sicilia. Guglielmo II, il successore di Guglielmo il Malo, è troppo
giovane per governare, e tutto il regno sta patendo un momento di
riassestamento.» «Quindi saremo soli» concluse Obizzo di Malaspina
con una smorfia.
«Non credo proprio» ribatté solenne il cardinale. «Dio è dalla
nostra parte, e questo dovrebbe bastare a darci fiducia nella vittoria.»
«Questo significa che Sua Santità ci darà appoggio militare, oltre che
spirituale?» chiese il conte Concesa senza mezzi termini e guardando
dritto negli occhi il legato pontificio.
«Naturalmente» annuì il cardinale Accorsi. Poi si girò verso
Venanzio, che avvertì uno strano prurito alla nuca. «È per questo che il
capitano delle mie guardie è qui. Si unirà a voi alla testa di un
distaccamento di uomini ben preparati ed equipaggiati, e sarà al
servizio della causa.»
«Un distaccamento...» mormorò poco convinto Rodolfo Concesa.
«Di quanti uomini stiamo parlando?» «Al momento non posso dirlo»
rispose il cardinale, «ma lo farà Venanzio da Urbino non appena avrà
raggiunto il grosso delle forze.» Si voltarono tutti verso di lui, e
Venanzio sentì crescere il formicolio alla nuca.
«Comandante» disse il console Gisalberti, «potete farci una
stima?» Venanzio non aveva mai visto il fantomatico distaccamento di
uomini di cui aveva parlato il cardinale Accorsi, ma era stato
preavvertito della possibilità che venisse interrogato in proposito, e
aveva già ricevuto l'assoluzione per le menzogne che sarebbe stato
costretto a raccontare.
«Da quello che mi è dato sapere» rispose seguendo le indicazioni
che aveva ricevuto, «dovrebbe trattarsi di millecinquecento uomini, di
cui cinquecento distribuiti fra cavalleria leggera e balestrieri. Si tratta
di mercenari normanni fedeli a Sua Santità e alla nostra causa.»
Nessuno ribatté nulla, anche se le smorfie sul volto del console e dei
due rappresentanti della Lega Lombarda furono per Venanzio la
conferma che avevano digerito male la rivelazione del cardinale.
Millecinquecento uomini erano davvero ben poca cosa, rispetto a
quello che poteva mettere in campo il Barbarossa.
Per di più, lui non aveva idea se ci fossero davvero o se fosse solo
una mossa diplomatica del cardinale per prendere tempo.
«In ogni caso, come pensate di agire, quando Federico valicherà le
Alpi?» continuò Bruno Accorsi come se niente fosse, guardando
alternativamente i suoi interlocutori.
Prima che qualcuno potesse rispondere vi fu uno scalpiccio di passi
nel corridoio fuori dalla sala consiliare, e un gruppo di uomini armati
comparve, dirigendosi con determinazione verso la stanza in cui si
stava svolgendo la riunione.
Venanzio portò la mano alla spada, ma vide il console balzare in
piedi di scatto e precipitarsi ad accogliere i nuovi venuti, così
immaginò che fosse tutto a posto e si rifece da parte.
I nuovi arrivati restarono fuori dalla sala consiliare, tranne un
uomo alto e dallo sguardo determinato, con i capelli lunghi sulle spalle
e il torace ampio, muscoloso come può esserlo solo quello di chi è
abituato a maneggiare quotidianamente una spada.
Seguì il console al tavolo, e quando questi lo presentò agli altri
Venanzio si sentì attraversare da un brivido di sorpresa.
«Signori» disse Gisalberti indicando il nuovo venuto, «ho l'onore
di presentarvi Alberto da Giussano, capitano della Compagnia della
Morte e comandante in capo dell'esercito della Congregazione dei
Comuni Padani.» 5
«Ho sete» disse Rossano passandosi la lingua sulle labbra.
«Non sarebbe male andare a farsi una coppa di vino» annuì
Gilberto Rocca. «Conosci una locanda, da queste parti?» «Sì, ce ne
sono, ma non credo che sia saggio andarsene proprio adesso. E poi,
immagino che siano piene.» «Quindi? Hai un'alternativa?» «Certo»
rispose Rossano con un sorriso. «Andrò a prendere dell'acqua alla
fontanella laggiù in fondo.» Gilberto lo guardò con una smorfia.
«Acqua?» chiese disgustato. «Credevo che tu avessi sete.» Rossano
non rispose, limitandosi a ridere. In fondo, il piacentino era una
persona piacevole. Non lo assillava con chiacchiere inutili e, quando si
erano cimentati con la spada per fare un po' di esercizio nei momenti
d'ozio, si era dimostrato svelto e professionale, capace di parare con
disinvoltura i colpi portati da Rossano, che di solito mettevano in
difficoltà i suoi avversari occasionali.
L'arte della spada doveva essere praticata ogni giorno, perché
muscoli e istinto non perdessero di scioltezza, e Gilberto Rocca era
forse il compagno più abile che Rossano avesse trovato, da quando era
a Milano.
Prese dalla sella la bisaccia per l'acqua, ne svuotò ciò che restava
per terra, poi si diresse verso la fontana ricavata da un unico blocco di
pietra posta in un angolo della piazza. Qualche artista di poco conto
aveva lavorato la pietra sbozzando delle figure mitologiche, ma il
risultato non era un granché, e denotava l'approssimazione e la
mancanza di risorse con cui
Milano cercava ancora di risollevarsi, dopo che il Barbarossa
l'aveva rasa al suolo.
Una fitta trapassò il cuore di Rossano nel momento in cui la
memoria gli rievocò quel maledetto giorno del 1162, quando le forze
imperiali erano calate in città di sorpresa, caricando con la cavalleria
pesante prima e con squadre di lancieri e di picchieri poi, e seminando
il panico e la morte per le strade di Milano.
Era l'alba, e lui si era appena alzato, lasciando la moglie fra il
tepore delle coperte. Stava facendo le abluzioni del mattino quando
aveva sentito risuonare le campane delle chiese e aveva capito che era
in corso un attacco. La sorpresa gli aveva fatto commettere l'errore
fatale.
Si era vestito in fretta, aveva agguantato le armi e si era precipitato
in strada, per raggiungere la garitta in cui era distaccato presso la
guarnigione locale. Si era limitato a lanciare un grido alla moglie,
ordinandole di sbarrare la porta e restare chiusa in casa.
Quando era tornato, dopo avere combattuto per diverse ore nel
caos e nel fumo che si era sviluppato dagli incendi, aveva scoperto che
la sua abitazione non esisteva più. Il fuoco aveva divorato l'edificio e
tutti i palazzi vicini, e i cadaveri carbonizzati delle persone chiuse in
casa giacevano tra la cenere e le rovine fumanti.
Con le lacrime agli occhi Rossano aveva cercato la moglie,
arrivando a ustionarsi entrambe le mani e le braccia fino ai gomiti per
spostare travi e macerie incandescenti; quando l'aveva trovata, non
aveva potuto fare altro che inginocchiarsi accanto a lei e dare sfogo a
tutta la sua rabbia e al suo dolore. Poi, qualche ora dopo, si era avviato
barcollando verso la casa dei suoi genitori, e lì aveva trovato il fratello
Valerio, ancora vivo ma sconvolto per quello a cui aveva assistito:
nessuno era stato risparmiato, e lui si era salvato solo perché la madre
aveva avuto la prontezza d'animo di nasconderlo in una pesante cassa
di legno di quercia invecchiato e già trattato col fuoco, su cui le fiamme
non avevano fatto presa.
Lui e Valerio non erano stati i soli a perdere tutto quello che
avevano, in quella terribile giornata, e ancora adesso, dopo dodici
anni, quando si aggirava per le strade di Milano Rossano avvertiva il
puzzo degli incendi e della carne bruciata che aveva permeato per mesi
ciò che restava della città.

Quando arrivò alla fontanella, fu costretto a detergersi ancora le


lacrime dagli occhi. Lo fece con un gesto rabbioso, perché non
sopportava, dopo tanto tempo, di sentirsi sconvolgere in quel modo
dall'angoscia per la morte di Beatrice e dei genitori.
«Va tutto bene, cavaliere? Vi sentite male?» La voce riscosse
Rossano, che si girò sorpreso verso la donna che gli aveva sfiorato il
braccio.
«Sì, madamigella, scusatemi» rispose. «Sono solo molto stanco.»
Lentamente riuscì a mettere a fuoco la figura che aveva davanti, e ciò
che vide lo lasciò per un attimo senza fiato.
La ragazza era giovane, forse non ancora in età da marito, eppure i
lineamenti del viso, il seno che premeva già generoso contro l'ampia
scollatura a bordo quadro della ricca veste che indossava, e soprattutto
la profondità dello sguardo, con quella luce piena di meraviglia che le
navigava negli occhi verdi attraversati da pagliuzze dorate, la facevano
sembrare molto più matura di quanto fosse.
«Anche voi attendete di parlare con il console e con mio padre?»
chiese la fanciulla inclinando leggermente la testa di lato, in un modo
che Rossano trovò delizioso.
«Sono stato convocato, sì» rispose. «Però... non so chi sia vostro
padre.» La ragazza sgranò gli occhi, poi si portò una mano alla bocca.
«Che sciocca!» esclamò, aprendo un sorriso che per un attimo fece
tremare le gambe a Rossano. Poi allargò la gonna dell'ampia veste con
entrambe le mani e fece un inchino. «Angelica Concesa, cavaliere. Per
servirvi.» «Sono io che servo voi, madamigella» rispose Rossano,
sorpreso di non avere riconosciuto la figlia del conte Rodolfo Concesa,
uno degli uomini più noti e potenti della Padania, fra i principali
promotori della Lega che contrastava in modo strenuo e determinato
l'imperatore Federico. L'aveva vista un paio di volte, qualche anno
prima, ma... era ben altra persona! «Dovete scusarmi se non vi ho
riconosciuta subito» disse, prostrandosi in ginocchio davanti alla
ragazza, che lo guardava divertita.
«L'ultima volta che vi ho vista eravate una bambina.» «Non molto
tempo fa, allora» rise lei. «Forza, cavaliere, rialzatevi che così mi
imbarazzate.»
Rossano si tirò su e sorrise a sua volta. Ricordava una bambina, è
vero, ma adesso aveva davanti una donna. La donna più bella che gli
fosse mai capitato di incontrare.
«Spero che il console e mio padre non vi facciano aspettare ancora
troppo» disse lei. «Mi rendo conto che dev'essere un tormento
restarsene qui a far niente per tanto tempo.» «Grazie a voi, tutta la
mia stanchezza si è dileguata in un lampo» osò affermare Rossano,
mentre il cuore cominciava a battergli velocemente nel petto. Non
capiva per quale motivo si sentisse così sconvolto. Da quando era
morta Beatrice aveva conosciuto molte altre donne, e con diverse di
loro aveva provato a far nascere una relazione, ma ogni volta la forza
del ricordo lo riconduceva all'immagine della moglie, e questo bastava
per raffreddare ogni suo sentimento, rendendo i rapporti distanti e
finalizzati soltanto a brevi momenti di piacere fisico, quasi avesse
paura ad aprire ancora il suo cuore.
Ma adesso... anche solo dopo quel brevissimo scambio di battute
con Angelica Concesa, sentiva che sarebbe stato disposto a tutto pur di
poter continuare a restarle vicino, a osservarla in quegli occhi luminosi
come il cristallo, a vederla sorridere e piegare la testa di lato in quel
modo che trovava delizioso.
La ragazza reagì con un sorriso discreto a quella audace
dichiarazione, poi si voltò verso una carrozza poco distante, attorniata
da uomini d'arme con bluse scarlatte e le araldiche della sua casata.
«Adesso devo andare» disse. «Mi ha fatto piacere conoscervi,
cavaliere. Anche se ancora non mi avete detto il vostro nome.»
Rossano si sentì avvampare dalla vergogna. Angelica Concesa si era
presentata con grazia, e lui non aveva ricambiato subito, come
prevedeva il codice cavalleresco.
Tornò a inginocchiarsi, a capo chino, portando la mano destra
chiusa a pugno sul petto.
«Il mio nome è Rossano» disse. «Rossano da Brescia. E da questo
momento la mia spada è al vostro servizio.» Angelica rispose con una
risata divertita alla rappresentazione di quel rituale cavalleresco a cui
probabilmente non aveva mai assistito in vita sua, e quando alcune
voci la richiamarono dalla carrozza che l'aspettava corse via, senza
aggiungere nulla, lasciandosi dietro una scia di profumo delicato che
ebbe il potere di stordire Rossano.
Non sapeva se l'avrebbe più rivista, ma certo non avrebbe
dimenticato il colore dei suoi occhi e lo splendore del suo sorriso.
«Alberto da Giussano è arrivato» gli disse Gilberto Rocca quando
lo vide tornare con la bisaccia con l'acqua.
Rossano si guardò attorno sorpreso. «Com'è possibile?» chiese.
«Non ho visto nessuno.» «Sta circolando la voce. Dev'essere
passato da un altro ingresso del palazzo.» «E perché mai? Cos'è, non
vuole mischiarsi con la plebe?» Il piacentino si strinse nelle spalle.
Evidentemente la pensava come Rossano, e come lui parecchie altre
persone radunate nella piazza manifestavano il loro malumore
discutendo animatamente.
«Forse abbiamo fatto uno sbaglio a perdere tanto tempo» sostenne
Gilberto Rocca.
«Ormai siamo qui» ribatté Rossano, «sarebbe stupido andarsene.»
«Qualcuno lo sta facendo» gli fece notare il piacentino, indicando alle
spalle di Rossano.
Questi si voltò e vide la carrozza di Angelica Concesa, scortata dagli
armigeri con la blusa scarlatta, che si allontanava dalla piazza. La
tendina di una delle finestre si sollevò, e un volto femminile comparve,
guardando nella sua direzione. Rossano si sentì di nuovo balzare il
cuore in gola, ma poi si accorse che la ragazza che lo guardava di
sottecchi e gli sorrideva non era Angelica Concesa. Forse una delle sue
dame di compagnia, che con la curiosità tipica delle donne voleva
osservare l'uomo con cui Angelica si era intrattenuta.
«Quelli non c'entrano» disse Rossano. «A bordo c'è soltanto una
donna.» «Davvero?» chiese Gilberto con interesse. «E chi sarebbe?»
«Un angelo» rispose Rossano. «Il più bell'angelo che abbia mai visto.»
Prima che il piacentino potesse aprire bocca per fare altre domande,
due armigeri con le araldiche del console di Milano si avvicinarono a
passo di marcia e si fermarono davanti a Rossano.
«Siete voi Rossano da Brescia?» chiese uno dei due.
Rossano annuì sorpreso. «Sì, sono io.» «Seguiteci, cavaliere. Il
console vi attende.» Mentre Rossano seguiva i due armigeri verso il
palazzo, un intenso brusio si sollevò in tutta la piazza, con la gente che
si voltava a guardarli piena di curiosità e, in qualche caso, di invidia e
sdegno.
A quanto pareva, lui era il primo a essere ricevuto dal console,
anche se c'era gente ben più blasonata e importante che attendeva da
molto tempo.
Gilberto Rocca lo salutò sollevando la mano, e Rossano
contraccambiò sentendosi per qualche motivo molto più inquieto di
quanto avesse immaginato.
6
Rossano non era uomo da lasciarsi impressionare tanto facilmente,
non dopo quello che aveva passato sui campi di battaglia di mezza
penisola. Considerava l'attività di soldato di ventura un espediente
indispensabile per tirare avanti, per guadagnare abbastanza soldi per
mantenere il fratello, ospitato a casa di amici a Milano, e per
garantirgli il minimo indispensabile per vivere dignitosamente.
Non era fra coloro che approfittavano per arraffare quanto più
bottino possibile, soprattutto quando razziavano i villaggi e riuscivano
a riportare delle occasionali vittorie sui loro nemici.
Rossano credeva che gli inermi dovessero essere difesi, non
oltraggiati e derubati anche da chi si dichiarava loro difensore.
Ma nonostante la sua moralità e intransigenza, sapeva che la
guerra aveva la capacità di abbruttire anche gli uomini più retti, e non
di rado gli era capitato di assistere a scene di stupro di gruppo o a
ruberie che avrebbero fatto rabbrividire le peggion canaglie al soldo
dell'imperatore Federico.
Lui non vi aveva mai partecipato, ma non aveva mai neppure
cercato di frapporre la propria spada a quello scempio, perché sapeva
che non ne sarebbe uscito vivo. E questo non poteva permetterselo.

Da quando erano rimasti soli, lui era l'unico appoggio e tutore di


Valerio e, anche se era riuscito a convincere una coppia di vecchi amici
a tenerlo in casa con loro e a prenderlo come garzone nella bottega che
gestivano, sapeva che l'accoglienza riservata al fratello, nei tempi
difficili che gli abitanti di Milano stavano passando durante gli stenti
della ricostruzione, era resa possibile soprattutto dal denaro che lui
riusciva a fargli avere regolarmente, mese dopo mese. Se quel flusso si
fosse interrotto... probabilmente Valerio a fatica avrebbe potuto
sopravvivere nella miseria e nella tristezza che opprimevano la città
come una cappa asfissiante.
Ecco perché lui aveva continuato a passare da una guarnigione
all'altra, ricoprendo incarichi di sempre maggior prestigio ma senza
mai ostacolare la furia disumana che stravolgeva i soldati, quando si
abbandonavano alla bestialità dopo un duro combattimento.
Aveva giurato a se stesso, alla memoria dei genitori e della moglie,
Beatrice, che avrebbe fatto di tutto per continuare a restare in vita e
garantire un futuro al fratello, e più di una volta era dovuto scendere a
difficili compromessi per tenere fede a quel patto.
Così, quando entrò nella grande sala consiliare e vide gli ospiti di
rango che sedevano al tavolo con il console Gisalberti, riuscì a
mantenere salde le gambe e a seguire l'uomo d'arme che gli faceva
segno di entrare senza far trasparire le emozioni contrastanti che lo
inondavano.
Da una parte c'era il timore reverenziale per quelle personalità
importanti che lo fissavano accigliate, dall'altra la soddisfazione di
sapere che non l'avrebbero mai ricevuto per primo, se non avessero
avuto un'alta considerazione di lui e delle sue capacità di combattente.
Non vedeva altro motivo per cui quei notabili, prelati e cavalieri
desiderassero parlare con lui, quando la piazza era gremita di gran
parte della nobiltà padana e dei migliori armigeri che si fossero mai
visti a Milano.
Se lo avevano scelto come primo interlocutore, non era certo per i
suoi modi cortesi o il suo onore cavalleresco dimostrato dentro e fuori
il campo di battaglia. Era senz'altro per le sue qualità militari. A loro
servivano un braccio e una mente abituati a impugnare una spada e a
maneggiarla con l'abilità che si confaceva a un uomo d'arme.
Quando uno dei nobili si avvicinò per accoglierlo, Rossano irrigidì
la schiena e strinse le mascelle, dominando a stento la curiosità che lo
divorava.
«Prego, cavaliere, sedetevi.» L'uomo che aveva parlato era alto e
brizzolato, e mostrava un cipiglio severo che non nascondeva del tutto
un'indole compassionevole e onesta con la quale Rossano sentì subito
di poter entrare in sintonia.
«Permettete che vi presenti gli altri e che vi introduca ai nostri
ospiti» continuò l'uomo, che Rossano non aveva mai visto e di cui
quindi non conosceva il nome, anche se i lineamenti del suo viso, in
qualche modo, avevano un che di familiare. «Già conoscete il console
Gisalberti, immagino» proseguì l'uomo, e Rossano s'inchinò
rispettosamente verso il governatore di Milano. «Alla vostra destra c'è
il marchese Obizzo di Malaspina, e accanto a lui Sua Eccellenza Bruno
Accorsi, legato pontificio di Sua Santità papa Alessandro III.» Rossano
sostenne con difficoltà lo sguardo che gli lanciò il cardinale Accorsi, in
quel momento la seconda autorità più importante della Santa Chiesa,
dopo il papa stesso.
«E il cavaliere che vedete laggiù, accanto alla finestra, è Alberto da
Giussano, le cui gesta avrete senz'altro già avuto modo di apprezzare,
voi che siete un uomo d'arme.» Rossano si voltò verso l'uomo robusto,
dalle spalle larghe e dai capelli lunghi che gli cadevano sulla schiena,
intento a guardare fuori dalla finestra, apparentemente disinteressato
a quello che avveniva nella sala consiliare.
«Sono onorato di conoscervi, cavaliere» disse, esternando con
sincerità quello che provava nei confronti di un uomo e di un
comandante che, come lui, aveva sempre rifiutato di lasciarsi
annebbiare la mente dalla bestia nera e corrotta che assaliva chiunque
fosse impegnato in azioni di guerra.
Sapeva che Alberto da Giussano era un uomo temerario e di valore,
ma anche un combattente onesto e legato ai princìpi della cavalleria,
saldo nei suoi valori morali e nella fedeltà ai Comuni Padani per cui
combatteva. Se poco prima si era irritato, era solo perché Rossano era
stanco di aspettare, ma adesso che si trovava in sua presenza sentiva
prevalere in lui l'ammirazione.
«L'onore è mio» rispose inaspettatamente Alberto da Giussano
voltandosi verso di lui. «Ho saputo della battaglia di Cormano. Mi
hanno detto che è grazie a voi se la vostra compagnia è riuscita a
salvarsi e a respingere il nemico.» Rossano avvampò per l'orgoglio, ma
cercò di non dare a vedere quanto quel complimento l'avesse colpito.
Preferiva mantenere il distacco formale che quegli uomini di alto
lignaggio si aspettavano da un vero soldato.
«Mi sono battuto per dare una possibilità ai miei uomini, e per
fortuna le cose sono andate per il verso giusto» disse.
«Non siate modesto, cavaliere» intervenne l'uomo che stava
facendo da anfitrione al loro incontro. «Sappiamo tutti quale sia il
vostro valore. È per questo che vi abbiamo convocato.» Rossano si girò
a guardarlo. Allora ci aveva visto giusto. Si trattenne dal chiedere
subito che cosa volessero da lui e aspettò che l'uomo continuasse.
«Ma non vi ho ancora detto il mio nome» continuò questi senza
mostrare emozioni. «Io sono il conte Rodolfo Concesa, e mi onoro di
rappresentare l'Alto Consiglio della Lega Lombarda.» Rossano si sentì
balzare il cuore in gola. Adesso capiva perché i lineamenti dell'uomo
gli parevano familiari. C'era qualcosa della bellissima Angelica nel
disegno degli occhi e nell'espressione decisa ma benevola del conte.
All'improvviso, Rossano comprese che in quella riunione c'era
parecchio in gioco, per lui come soldato e come uomo, visto che
nonostante l'importanza della situazione in un angolo della sua mente
il sorriso di Angelica Concesa aveva continuato a splendere più radioso
di una giornata di sole.
Doveva stare attento a come giocava le sue carte, per non perdere
l'incredibile occasione che il destino, del tutto inaspettatamente, gli
presentava.

«Ormai pare certo che l'imperatore sia pronto a scendere


nuovamente in Italia» affermò Rodolfo Concesa con aria grave.
«Crediamo che questa volta sia deciso a usare il pugno di ferro, per
sedare quella che lui considera una vera e propria rivolta.» Rossano
strinse i denti con rabbia.
«Non è la prima volta che il Barbarossa usa il pugno di ferro»
sostenne, usando il termine che era in voga per indicare il sovrano di
Germania. «Spero che sia possibile opporgli una ferma resistenza.» «È
per questo che ci stiamo organizzando» intervenne il console
Gisalberti. «La ricostruzione di Milano non è ancora terminata,
nonostante siano trascorsi parecchi anni, e certo non possiamo
permettere che l'imperatore torni a compiere le sue barbare scorrerie
sulla nostra terra.» «La Lega Lombarda non piegherà la testa di fronte
a Federico I di Hohenstaufen» affermò il conte Concesa.
«E Sua Santità papa Alessandro III sarà pronto ad appoggiare la
vostra strenua resistenza» disse il cardinale Accorsi. «Il Soglio di
Pietro è in mano all'antipapa, quell'ungherese cresciuto nell'eresia che
ha osato attribuirsi un incarico che solo Dio ha il potere di conferire. E
noi dobbiamo combattere per riportare Sua Santità a Roma.» Rossano
annuì brevemente, anche se faticava a comprendere fino in fondo ciò a
cui il cardinale alludeva. Sapeva che Callisto III si era barricato nella
città papale, godendo dell'appoggio del Barbarossa e di diversi
marchesati italiani, ma non capiva come fosse possibile che il vero
papa, con tutta la potenza di cui poteva disporre, non fosse ancora
riuscito a riprendersi il Soglio di Pietro, come lo chiamava il legato
pontificio. Poi fece scivolare lo sguardo su Alberto da Giussano, che
era tornato a contemplare il paesaggio fuori dalla finestra. Non aveva
aggiunto una parola, dopo le poche che aveva scambiato con lui, e
Rossano capiva che non lo faceva per modestia o per ritrosia, ma
perché la sua mente era impegnata a studiare la situazione in tutti i
suoi aspetti, e l'impresa non doveva essere semplice.
«In che cosa posso servire la vostra causa?» si decise a chiedere,
sperando che questo avrebbe dato ad Alberto da Giussano un motivo
per intervenire.
Rodolfo Concesa aggirò il grande tavolo di quercia e raggiunse il
capitano della Compagnia della Morte. Si piegò leggermente verso di
lui, gli disse qualcosa a bassa voce, poi annuì e si fece da parte, quando
Alberto da Giussano si voltò lentamente.
«Questa volta sarà diverso» disse il condottiero con voce profonda,
senza indulgere in enfasi ma comunicando un senso di urgenza che
Rossano accolse con un fremito. «Il Barbarossa non vuole
sottomettere una città o punire qualche suo vassallo ribelle. Vuole dare
una lezione al mondo. E intende farlo distruggendo il simbolo della
lotta per l'autonomia dal potere imperiale. La Lega dei Comuni
Lombardi.» Alberto da Giussano tacque un istante, come se volesse
che tutti prendessero coscienza delle sue parole, poi riprese: «Non si
limiterà a mettere a ferro e fuoco Milano o Lodi per dare una lezione
che sia di esempio per tutti. Cercherà di cancellare le nostre città dalla
faccia della terra, e ucciderà chiunque cercherà di ostacolare il suo
cammino».
«Proprio così» annuì il legato pontificio con aria grave.
«L'imperatore vuole consolidare il suo potere sulla penisola, perché sa
che solo in questo modo potrà opporre il suo dominio a quello della
Santa Chiesa. Il Regno di Sicilia resterà a guardare, ma è ovvio che
Federico non si fermerà al di sopra della linea del Po. Dopo avere
spazzato via la Societas Lombardiae, cercherà di conquistare tutti i
porti e le città più importanti per tornare a fronteggiare Emmanuele
Comneno e l'Impero di Costantinopoli.» Rossano intuì che gli
orizzonti di ciò che stava per succedere erano molto più vasti di quanto
lui fosse in grado di comprendere, ma anziché cercare di allargare la
mente per afferrare quanto più possibile della situazione assecondò il
soldato che fremeva dentro di lui, e rivolgendosi direttamente ad
Alberto da Giussano gli chiese: «Se cercate il mio aiuto per organizzare
la difesa, sappiate che sarò onorato di prestare giuramento sotto la
vostra spada».
Quelle parole parvero scaldare il comandante padano, che si
avvicinò a Rossano e lo guardò dritto negli occhi.
«Il Barbarossa scenderà per la via della Borgogna» rivelò. «E si
troverà davanti qualcosa che non si aspetta.»
«Che cosa?» chiese sorpreso Rossano.
«Una fortezza» rispose Alberto da Giussano. «Una città così
possente e per lui inattesa che il suo esercito dovrà rallentare e
riorganizzarsi per cercare di capire come muoversi.» «E questo»
intervenne il Marchese di Malaspina «ci darà la possibilità di
preparare le nostre truppe al meglio, per non farci cogliere
impreparati.» «Di quale fortezza state parlando?» chiese Rossano.
«Di Alessandria» rispose Alberto da Giussano.
«Non credevo che esistesse veramente» disse Rossano sorpreso.
«Eccome se esiste!» esclamò il cardinale Accorsi. «Essa è un
baluardo sorvegliato da Dio, e persino l'imperatore Federico dovrà
inchinarsi alla sua potenza.» Alberto da Giussano trattenne quella che
a Rossano parve una smorfia. Evidentemente non digeriva la
prosopopea dell'alto prelato. Da uomo d'arme, Rossano sentiva di
cogliere i sentimenti del comandante, e quindi restò in attesa di altre
informazioni.
«La guarnigione di Alessandria è abbastanza preparata» disse
infatti Alberto da Giussano, «ma non ancora in modo adeguato.
Abbiamo bisogno di qualcuno capace di riorganizzarla per sostenere
l'impatto con l'esercito imperiale.» «È fondamentale che Alessandria
resista il più possibile» aggiunse il console Gisalberti. «Tutti i Comuni
stanno radunando gli uomini abili sul territorio ma, a parte alcune
compagnie di cavalieri, non abbiamo ancora una vera e propria forza
di guerra.» Rossano lanciò un'occhiata sorpresa ad Alberto da
Giussano, e questi annuì.
«È così. Alessandria può farci guadagnare tempo, darci la
possibilità di organizzare la difesa e forse portare un contrattacco.»
«Dove si trova esattamente?» chiese Rossano, che della mitica fortezza
voluta da papa Alessandro III e costruita nel giro di pochi anni aveva
sentito parlare quasi fosse una leggenda.
Era molto sorpreso che invece si trattasse di un'opera reale e
compiuta.
«Abbiamo scelto una pianura in cui la Bormida sfocia nel fiume
Tanaro» intervenne Obizzo di Malaspina, «di proprietà dei Marchesi
del Bosco. Lo scopo era di impedire le comunicazioni fra Pavia e il
Monferrato, le due sole roccaforti rimaste in mano all'imperatore sul
nostro territorio.» «E dare sostegno a Tortona» aggiunse Rodolfo
Concesa.
«Un'altra pedina importante nella difesa della Padania.» «Esatto»
annuì il Marchese di Malaspina. «La posizione di Alessandria è
strategica, in grado di impedire l'accesso alla piana lombarda da
qualsiasi direzione.» «Ma sarà ancora in costruzione, immagino» disse
Rossano.
Obizzo di Malaspina allargò un sorriso soddisfatto. «No» rispose,
«Alessandria è stata completata ed è già abitata da quindicimila anime
coraggiose. Abbiamo impiegato tutte le risorse a nostra disposizione,
per erigerla prima che Federico decidesse di scendere nuovamente in
Italia.» «Milano ha fornito parte della sua milizia» intervenne il
console Gisalberti. «E lo stesso hanno fatto Piacenza e Cremona.
In sei anni siamo riusciti a erigere bastioni così possenti che il
Barbarossa non crederà ai suoi occhi, quando se li troverà davanti.»
«Quindicimila abitanti...» mormorò Rossano impressionato.
«Vi si sono riversate le popolazioni dei paesi della zona» confermò
Obizzo di Malaspina. «Bergoglio, Rovereto, Olivia, Marengo e molti
altri. Alessandria, con i suoi bastioni, è per loro molto più sicura.» «La
città è pronta» riprese Alberto da Giussano, tornando su un terreno
più pratico, «ma non lo è altrettanto la milizia.
Soprattutto se Alessandria deve darci il tempo di riorganizzare i
Collegati padani per formare un esercito che possa avere qualche
speranza contro le forze imperiali.» «Dunque non deve solo resistere»
annuì Rossano, interpretando le parole del comandante. «Deve
fiaccare il più possibile le forze del Barbarossa.» Rodolfo Concesa
annuì soddisfatto.
«Vedo che avete scelto bene l'uomo da affiancarmi» disse rivolto
ad Alberto da Giussano. «Ha colto subito le implicazioni del suo
incarico.» Rossano scrutò il conte.
«Sarete anche voi ad Alessandria?» chiese.
«Naturalmente» rispose Rodolfo Concesa. «Io sarò il garante
politico della contesa con Federico I. Voi il braccio armato che non gli
consentirà di passare oltre tanto facilmente.» Rossano si sentì
inondare da un tumulto di emozioni. Gli veniva affidato un incarico di
straordinaria importanza, da accettare senza neppure riflettere, e che
gli avrebbe dato la possibilità di affrontare finalmente quel cane del
Barbarossa. E nel contempo avrebbe potuto farlo al fianco del padre di
Angelica Concesa, con il rango di un comandante di primo piano, che
non l'avrebbe fatto sfigurare di fronte ai tanti pretendenti che,
immaginava, fossero già in caccia di quella splendida creatura.
Con un impulso sincero si inginocchiò di fronte a quegli uomini e
abbassò il capo, offrendo se stesso e la propria vita alla causa che
rappresentavano.
«Sarò onorato di servire e combattere per la Lega Lombarda»
disse, sentendo gli occhi di tutti puntati addosso. «Disponete pure di
me come preferite.» «Alzati, Cavaliere» lo sollecitò Alberto da
Giussano prendendolo per un braccio e aiutandolo a rialzarsi. «Siamo
tutti pronti a dare la vita per questa causa. E io sono fiero di poter
contare sulla tua spada, soprattutto quando arriverà il momento di
usarla.» «Che Dio sia con voi» disse il cardinale Accorsi a suggello di
quella discussione che Rossano avrebbe ricordato per il resto della sua
vita.
8
Quando arrivò alla vecchia casa di Gabriele Mercadanti, l'uomo che
in qualche modo aveva contribuito a salvargli la vita, quando nel 1162
l'aveva trattenuto dal lanciarsi contro le furie imperiali che avevano
devastato la città e distrutto la sua famiglia, Rossano si rese conto che
c'era qualcosa che non andava.
L'edificio era basso, costruito in pietra e con il tetto di legno
ricoperto da tegole di terracotta, e mostrava ancora i segni del fuoco
che avevano raso al suolo la città, trasformandola in una distesa di
cenere e rovine fumanti. Per fortuna la casa di Gabriele era stata
costruita con criterio e, oltre alla struttura portante del tetto e alle
suppellettili interne, non aveva altre parti in legno, e quindi il fuoco
era riuscito a compiere solo per metà la sua tenace opera di
distruzione. Eppure, nonostante l'impegno che Gabriele e gli altri
abitanti del quartiere avevano messo nella ricostruzione, i lavori non
erano ancora completati e diversi edifici mostravano ancora i segni
lasciati dalle fiamme.
Nell'angolo ovest della casa, che dava su un vicolo attraversato da
un canale di scolo semicoperto, costruito secondo i nuovi dettami
dell'architettura urbana milanese, Gabriele aveva ricavato una piccola
officina con una fornace al coperto, dove aveva ripreso la tradizione di
armaiolo che coltivava fin da quando suo padre era giunto a Milano
dalla Toscana. Quando Rossano e Valerio erano rimasti senza genitori
e senza punti di riferimento nella città messa a ferro e fuoco dal
Barbarossa, Gabriele aveva accettato di tenere con sé il bambino, con
la prospettiva di farne il proprio garzone di bottega, quando avesse
ricostruito la sua officina e avesse potuto riprendere a lavorare.
Rossano non era riuscito a fermarsi: il fuoco della vendetta lo
divorava dentro, e non aveva voluto restare in quella città a macerarsi
nel ricordo della moglie e di tutte le persone care che aveva perduto.
Aveva preferito girovagare per mezza Italia, prendendo ingaggio nelle
guarnigioni di chiunque fosse stato disposto a farlo combattere contro
l'imperatore Federico e i suoi alleati, e con il tempo si era fatto un
nome come uomo d'arme di valore e di grande intelligenza tattica. E
l'incarico che aveva appena ricevuto era il suggello a tutto questo suo
impegno, alle sofferenze che aveva patito e alla determinazione che ci
aveva sempre messo, con il ricordo di Beatrice che non sbiadiva nella
sua mente.
Ma per arrivare a questo aveva dovuto abbandonare il fratello.
L'aveva lasciato da Gabriele Mercadanti sperando che crescesse
imparando un mestiere redditizio che l'avrebbe tenuto lontano dai
campi di battaglia, ma più di una volta Valerio aveva dimostrato di
avere il suo stesso temperamento combattivo e un'innata propensione
per la vita militare.
Rossano lo voleva lontano dai pericoli con cui gli uomini d'arme
erano costretti a fare i conti tutti i giorni, e quando tornava a Milano
sperava sempre di trovare Valerio cambiato, di scorgere anche in lui
quel lampo di passione per l'arte di costruire armi che risplendeva
sempre nello sguardo di Gabriele.
Così, quando si avvicinò all'officina e vide l'amico che sciacquava
da solo le botti per la forgiatura, comprese che Valerio aveva agito
ancora una volta di testa sua e non stava prestando servizio in bottega.
Probabilmente, dopo la discussione che avevano avuto qualche ora
prima, quella testa calda aveva deciso di andare a rifugiarsi da qualche
parte insieme agli amici, forse a esercitarsi con spade di legno, anziché
aiutare l'uomo che per tanti anni gli aveva dato vitto, alloggio e il
calore di un padre.
Rossano raggiunse il muro pubblico con gli anelli di sosta, scese dal
corsiero e legò Drago con due stretti giri di briglie. Poi salutò Gabriele
con un cenno della mano, mentre già annuiva di fronte alla smorfia
dell'amico.
«Non si è visto per tutta la mattina» disse Gabriele passandosi le
mani sul grembiule di cuoio che portava alla vita. «Io ce la sto
mettendo tutta, ma quel ragazzo non è portato per il lavoro di
bottega.» «Lo so» rispose Rossano abbracciando l'amico. Doveva così
tanto a quell'uomo che non sapeva come fare per dimostrargli tutto il
suo affetto e la sua gratitudine. «Mi dispiace.» Gabriele lo strinse forte
a sua volta, poi lo allontanò con una spinta.
«Mi sa tanto che ha preso da suo fratello» disse con un sorriso.
«Più cresce e più ti assomiglia.» Rossano si accigliò.
«Non lo voglio su un campo di battaglia» disse. «Non posso
permettermi di perdere anche lui.» Gabriele scosse la testa. «Capisco
quello che provi, ma ormai Valerio si è fatto uomo, e credo abbia
diritto di scegliere la sua strada.» «Perché non può diventare un
armaiolo?» chiese Rossano.
«Tu sei bravo, il migliore della città. Per lui dovrebbe essere un
onore poter imparare il mestiere e...» «Valerio ha un'altra idea delle
armi» lo interruppe Gabriele.
«Quando ne maneggia una non lo fa contemplando la perfezione
della linea o la purezza dell'acciaio. La soppesa e la giudica in base alla
sua maneggevolezza e robustezza. E non lo fa per ripicca, ma per
istinto. E una cosa che voi due avete nel sangue.» Rossano avrebbe
voluto ribattere ancora, ma si rese conto che l'amico aveva ragione,
così prese un lungo respiro e allargò a sua volta un sorriso.
«D'accordo» disse, «cercherò di digerire questa idea. Però io e te
dobbiamo fare in modo che Valerio resti qui a Milano, dopo che sarò
partito.» Gabriele lo fissò sorpreso.
«Vai già via?» chiese. «Ma se sei appena arrivato.» «Lo so, però mi
è stato affidato un nuovo incarico. Devo partire domani stesso.» «Per
dove?» «Alessandria.» Gabriele sollevò le sopracciglia.
«Alessandria?» ripetè. «E dove sarebbe?» Rossano diede una
pacca sulla spalla dell'amico e si diresse verso l'interno dell'officina.
«Un giorno te lo spiegherò» rispose. «È abbastanza complicato. Ma
adesso passiamo a qualcosa di più importante. Mi serve una spada
nuova. E magari qualcuno dei tuoi gioielli che riservi solo agli amici.»
Gabriele si illuminò di fronte a quella prospettiva, e corse nell'officina
precedendo Rossano.
«Ho giusto quello che fa per te» affermò. «Immaginavo che te ne
saresti andato presto, anche se speravo di poter godere ancora un po'
della tua compagnia, e ti ho preparato qualche sorpresa.»
«Fantastico» annuì Rossano soddisfatto. «Adoro le sorprese.
Soprattutto le tue.» Per qualche strano motivo, Rossano aveva
sempre l'impressione di entrare in un sacrario, quando affrontava
l'oscurità incerta dell'officina dell'amico. Non c'erano lumi, nonostante
là dentro ci fosse buio anche di giorno, e tutta la luce arrivava dalla
grande fornace posta sul fondo della bottega e alimentata con grossi
ceppi di legna stagionata. Quel focolare ardeva giorno e notte, perché
come Gabriele gli aveva spiegato non si poteva far scendere troppo la
temperatura, anche quando non si usava la fucina per fondere il
metallo.
Gli strumenti di lavoro erano appesi ovunque alle pareti, e Rossano
ebbe come sempre l'impressione che ci fossero decine di armi in
lavorazione, ma nessuna davvero compiuta.

«Vieni» lo sollecitò Gabriele, «da questa parte.» Trascinò Rossano


in un angolo dell'officina, dove aveva collocato un grande tavolo su cui
aveva steso un panno bianco, particolarmente pulito. E lì, in bella
vista, c'era un'esposizione di armi appena forgiate che sfolgorava con
lo splendore dell'acciaio lucidato.
Rossano osservò a bocca aperta la varietà di pugnali, spade,
spadoni e altre armi ancora che Gabriele aveva messo in bella mostra,
ordinate secondo un criterio che non gli fu immediatamente chiaro.
Questa volta l'amico aveva proprio superato se stesso.
«È incredibile» disse, affascinato dal luccichio che sfolgorava dal
metallo lucido e dagli intagli preziosi che con la pazienza di un frate
certosino Gabriele aveva inciso sulle lame, sugli elsi e sui pomelli.
«Aspetta che ti faccio vedere» annuì eccitato l'amico, prendendo in
mano un'arma dalla forma particolare, che Rossano dovette
ammettere di non saper ben riconoscere.
«Che cos'è, questo?» chiese affascinato.
Gabriele afferrò il manico dritto e robusto dell'arma e la sollevò,
mostrando la testa appuntita, molto simile a un becco d'aquila
d'acciaio. Dalla parte opposta era forgiata e lavorata a strati
sovrapposti, fino a farle assumere l'aspetto di una creatura mitologica
con le fauci spalancate.
«Ho visto per la prima volta un martello d'arme come questo nel
ducato di Padova» rispose Gabriele con orgoglio, «ma credo di averlo
migliorato parecchio, soprattutto per quanto riguarda la
maneggevolezza e il bilanciamento. Prova a sentire.» Passò l'arma a
Rossano, che l'impugnò cercando di capire come potesse essere usata.
«E una specie di mazza, vero?» disse, brandendola e provando a
farla fischiare nell'aria. Ebbe subito un'impressione di potenza e di
semplicità d'uso che lo lasciarono sorpreso. La punta a forma di becco
d'aquila poteva essere diretta contro il bersaglio con prontezza
impressionante, e il metallo affilato non avrebbe avuto problemi a farsi
strada anche attraverso uno scudo normanno o una di quelle cotte
ferrate che erano in uso nell'esercito imperiale.
«Esatto, la stai maneggiando nella maniera corretta» annuì
soddisfatto Gabriele. «Non è una spada, ma neppure una mazza,
quindi bisogna fare attenzione a mantenere un angolo d'impatto
preciso, per consentire al maglio di penetrare con forza. La parte
posteriore del martello non è solo decorativa, serve a bilanciare la
maggiore lunghezza del becco.» «Posso impugnarla con una mano
sola» fece notare Rossano ruotando il polso per verificare che il peso
non fosse eccessivo.
«Il che mi consentirebbe di tenere uno stocco con la sinistra.»
«Naturalmente» fece sempre più eccitato Gabriele. «Soprattutto se si
trattasse di uno stocco come questo.» Prese dal tavolo una spada lunga
e stretta, a doppio filo, e la porse a Rossano.
«Uno stocco da una mano e mezza» disse questi prendendo la
spada e soppesandola. Era così leggera che aveva l'impressione di
tenere in mano un pugnale, o al più una daga da parata. Invece era
uno stocco lungo più del suo braccio, con l'elsa sagomato per
raccogliere i colpi di striscio e farli scivolare di lato.
«Ci ho messo più di un mese per rifondere insieme i quattordici
strati di acciaio di cui è fatto» confermò Gabriele. «Ma l'elsa è di
bronzo, non di ferro, e l'impugnatura ha un'anima sottile di metallo
per rendere lo stocco più leggero. La cordatura che la riveste, poi, è
fatta con budella di coniglio. Difficilmente potrai trovare un materiale
più comodo e robusto.» Rossano scosse la testa mentre faceva
mulinare contemporaneamente lo stocco e il martello d'arme.
«Sei un genio» disse, rendendosi conto che avrebbe potuto
sostenere un combattimento per molto più tempo di quanto sarebbe
riuscito a fare impugnando una sola spada a due mani.
E questo gli avrebbe dato un enorme vantaggio, negli scontri corpo
a corpo.
«E adesso un po' di spazio alla vanità» squillò la voce di Gabriele,
riportandolo bruscamente nell'officina. «Guarda che meraviglia
Rossano aveva già notato quel sottile pugnale dalla lama a doppio filo
e dall'elsa sagomato in modo da protendersi in avanti con due
spuntoni ricurvi. Pareva uno spiedo da cucina, e se non fosse stato per
la qualità eccelsa dell'acciaio con cui era stato forgiato e per la finezza
degli intarsi sulla lama e sul castone dell'elsa», avrebbe creduto che
Gabriele gli stesse facendo vedere uno strumento da cuoco, anziché da
soldato. Ma non c'erano dubbi che l'interesse dell'amico fosse votato
esclusivamente alla realizzazione di straordinarie armi da guerra, e
quel pugnale era qualcosa che Rossano non aveva mai visto prima.
«Sono partito da un'idea completamente nuova» rivelò infatti
Gabriele, «che credo potrà avere successo, quando il prode Rossano da
Brescia porterà quest'arma in battaglia e dimostrerà quanto potrà
essergli utile.» Rossano osservò il pugnale senza prenderlo dalle mani
di Gabriele, che continuò a illustrare il significato della forma
particolare delle lame.
«Come vedi l'elsa non è dritta, ma prosegue le vie di fuga con altre
due lame a punta conica, che possono garantire una capacità di
perforazione incredibile. E la lama centrale, forgiata con la stessa
tecnica degli spiedi toscani, è in grado di reggere l'impatto con uno
spadone a cinquedea.» Con uno scatto improvviso, prima che Rossano
potesse aprire bocca, Gabriele si voltò e affondò un colpo verso il
pettorale di un'armatura grezza, ancora in lavorazione. Anche se non
era finita, Rossano comprese che si trattava di cuoio sovrapposto a
incrocio, e quindi capace di opporre una resistenza formidabile agli
affondi diretti da breve distanza. Nessuna spada sarebbe mai riuscita a
perforare quella corazza, eppure non restò sorpreso quando il pugnale
di Gabriele la trapassò quasi senza sforzo, affondando non solo con la
lama centrale, ma anche con i due spuntoni laterali, che nel
combattimento avrebbero portato lo sfacelo nelle carni del nemico.
«Impressionante» mormorò, mentre Gabriele estraeva l'arma e si
faceva di lato perché lui potesse esaminare i fori d'ingresso delle lame.
«Anche se i colpi inferti non sono profondi come quelli di una
spada» spiegò Gabriele, «le punte coniche scavano una doppia ferita
laterale penetrando con facilità attraverso il cuoio più resistente, e
assicurando colpi letali a distanza ravvicinata.
Con questo gioiello al fianco, non sarai mai davvero disarmato,
neppure se dovessi perdere la spada in duello.» Rossano era senza
parole: osservava il risultato del lavoro di Gabriele e si chiedeva per
quale magia quell'uomo fosse in grado di produrre simili capolavori. E
per un momento ebbe la certezza che quella sarebbe stata la strada che
suo fratello Valerio avrebbe dovuto seguire. Meglio costruire gli
strumenti per uccidere altre persone, piuttosto che essere fra coloro
che li impugnavano e che, una volta o l'altra, ne avrebbero provato
l'efficacia sulla propria carne.
«Quali posso prendere?» chiese, indicando il martello d'arme e lo
stocco ma comprendendo nel gesto anche quel magnifico pugnale a tre
lame.
«Sono tutte tue» rispose Gabriele con un sorriso. «Io e Valerio ci
abbiamo lavorato a lungo. Le abbiamo fatte per te, in previsione di
questo momento.» «Non credo di potermele permettere» protestò
Rossano.
«Immagino che il loro prezzo sia...» «Ma di quale prezzo parli?»
l'interruppe Gabriele con aria offesa. «Queste armi sono un
investimento per la mia bottega, non capisci? Quando sarai glorificato
come il più grande dei combattenti della Lega, io potrò dire che sono il
tuo costruttore d'armi, e da quel momento diventerò un uomo ricco.»
Rossano scoppiò a ridere, poi abbracciò l'amico e ancora una volta lo
strinse forte a sé.
«Non saprei come fare, senza di te» disse sincero.
«Io neppure, amico mio. Da solo non riuscirei a far conoscere le
mie meraviglie neppure assoldando un intero esercito.» Scoppiarono
entrambi a ridere, e portando con sé le armi forgiate da Gabriele
Rossano tornò nella luce del sole che sfavillava su Milano e sul suo
prossimo futuro.
«Andiamocene, dai! Se ci scoprono ce la faranno pagare!» Valerio
azzittì l'amico con un gesto del braccio, senza prestargli attenzione.
Erano nascosti dietro una catasta di pezzi di ferro arrugginito, reliquie
di un tempo in cui forgiare armi non era un'arte ma una semplice
necessità di sopravvivenza, e osservavano Gabriele e Rossano che
parlavano mentre quest'ultimo preparava il suo magnifico corsiero.
Valerio avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter montare Drago,
ma sapeva che Rossano non gliel'avrebbe mai permesso.
Bastò quel pensiero a fargli salire il sangue alla testa e a fargli
stringere i pugni per la rabbia. Sembrava che suo fratello non si
rendesse conto che ormai lui aveva sedici anni, che era diventato un
uomo e poteva disporre come meglio credeva della sua vita.
«Accidenti, mio padre mi ammazza, se scopre quello che stiamo
facendo» si lamentò Carlo mordendosi nervosamente un labbro. «A
quest'ora dovrei essere in bottega.» «Vai, allora» rispose spazientito
Valerio. «Chi ti trattiene?» L'amico parve sorpreso. «Non avevi detto
che avremmo provato quelle spade costruite da tuo zio?» «Gabriele
Mercadanti non è mio zio» sibilò Valerio infuriato.
«Va bene, scusa» annuì Carlo. «Comunque avremmo già dovuto
prendere le spade e raggiungere gli altri al campo.» «Come potevo
immaginare che sarebbe arrivato mio fratello?» protestò Valerio. «Te
l'ho detto, se vuoi andare vai. Le prenderemo un altro giorno, le
spade.» Carlo lo fissò accigliato, poi scosse la testa.
«Non ti lascio solo» ribatté. «Chissà in che pasticci saresti capace
di ficcarti, senza di me.» Nonostante tutto, Valerio sentì un sorriso
stirargli le labbra.
Si costrinse a tornare serio.
«Allora stai zitto» intimò, spingendosi ancora un po' più avanti fra
i rottami. Sia lui che Carlo stavano particolarmente attenti a come si
muovevano, perché era risaputo che tagliarsi con quel ferro
arrugginito era molto pericoloso. La ruggine si impossessava del
sangue e lo faceva imputridire, portando in qualche caso anche alla
morte. Quello era uno dei primi insegnamenti che si impartivano ai
garzoni di bottega, che fossero apprendisti armaioli o maniscalchi.
Quando raggiunsero una specie di vano ricavato fra due cumuli di
vecchie armature di cuoio, vi si rannicchiarono dentro e scrutarono
nello spiazzo antistante l'officina di Gabriele dove il grande corsiero da
guerra sbuffava e raspava il terreno con gli zoccoli, come se fosse
impaziente di lanciarsi al galoppo.
Rossano stava legando alla sella alcuni involti, e Valerio immaginò
che Gabriele gli avesse fatto dono di quei magnifici strumenti di guerra
su cui avevano lavorato per mesi, e su cui lui stesso aveva messo gli
occhi, bramando di poterli portare al fianco come un vero soldato.

Da dove si trovavano adesso, riusciva a sentire quello che Rossano


e Gabriele stavano dicendo, quindi fece segno all'amico di non
proferire parola e di starsene immobile.
«Perciò non hai idea di quando tornerai» stava dicendo Gabriele,
nascosto dalle natiche imponenti di Drago.
«No» rispose Rossano. «Ma non credo che sarà tanto presto.»
«Sempre ammesso che riusciremo a rivederti ancora, giusto?» Valerio
si sentì fermare il cuore nel petto, a quella frase.
Ascoltò la risposta del fratello come se si stesse rivolgendo a lui,
come se gli stesse spiegando il motivo per cui, ancora una volta, lo
abbandonava in quella città, senza portarselo dietro.
«Vedo che sei sempre molto ottimista» rispose Rossano,
raggiungendo l'amico e fingendo di colpirlo al ventre. «Starò via un
po', è vero, ma non mi dimenticherò di voi. E prometto che tornerò,
sano e salvo.» «Non è tanto per me» rispose Gabriele. «Devi farlo
soprattutto per tuo fratello.» «Valerio è un ragazzo in gamba, e qui con
te è al sicuro.» «Ha la tua stessa smania, Rossano. Lo capisco da come
guarda il frutto del nostro lavoro.» Rossano sbuffò spazientito.
«Questo me l'hai già detto. E io ti ho spiegato che Valerio deve restare
qui e diventare armaiolo.
Non gli permetterò di intraprendere la carriera militare.» Gabriele
tacque, e Valerio si lasciò andare a terra, stringendo i pugni sempre
più forte, mentre Carlo guardava imbarazzato da un'altra parte.
Come osava, Rossano, decidere per lui? Non era suo padre, non
aveva diritto di impedirgli di fare quello che più desiderava.
Lui sapeva di essere bravo con le armi, aveva un talento innato che
gli consentiva di battere sempre, nei duelli che improvvisava con gli
amici, i suoi avversari, anche più di uno alla volta.
Lo sapevano tutti che lui era abile almeno quanto il fratello, e non
poteva sopportare l'idea che Rossano gli imponesse di restarsene lì a
perder tempo, mentre lui andava a combattere i bastardi che avevano
ucciso i loro genitori.
Aveva il diritto di esprimere la propria rabbia e di raccogliere i
frutti della vendetta.
Quando tornò ad ascoltare quello che dicevano Rossano e
Gabriele, seppe di avere preso una decisione. E questa volta
nessuno lo avrebbe fermato.
«Dove hai detto che si trova, quella città? Come l'hai chiamata?»
Rossano era già balzato in sella, e impugnava le briglie di Drago con la
mano destra.
«Alessandria» rispose. «L'hanno chiamata così in onore del papa.»
«Il papa?» chiese Gabriele. «Quale dei due?» Rossano si accigliò, per
nulla disposto a dare corda alla battuta dell'amico.
«Di papa ce n'è uno solo» puntualizzò. «E non risponde agli ordini
di quel cane del Barbarossa.» Gabriele sollevò entrambe le mani.
«Va bene, chiedo scusa» disse. «Immaginavo che fossi sensibile
all'argomento, ma non credevo a tal punto.» «Sto andando a
combattere in nome di Alessandro III» ribatté Rossano. «Non sono
dell'umore per ridere su queste cose.» «Certo» annuì Gabriele,
dandogli una pacca sulla coscia.
«Allora cosa fai, passi più tardi per salutare Valerio?» Rossano si
guardò attorno, poi scosse la testa.
«No» rispose. «Salutamelo tu. Se avesse voluto dirmi qualcosa,
adesso sarebbe qui.» Rossano strattonò le redini, e il corsiero si mise
in cammino sbuffando.
«Mi raccomando» disse Rossano allungando la mano per stringere
un'ultima volta quella di Gabriele, «prenditi cura di lui.» «Lo farò»
annuì l'amico.
Rossano si allontanò consapevole che non sarebbe stato facile.
Il fuoco che ardeva dentro Valerio era lo stesso che bruciava anche
in lui, e quindi sapeva che cosa provava il fratello. Eppure non poteva
permettere che gli succedesse qualcosa, e il modo migliore per
proteggerlo era tenerlo lontano dai campi di battaglia.
Mentre si allontanava, diretto verso la nuova cinta muraria della
città, non si accorse delle due figure che scivolavano nell'ombra dietro
di lui.

«Sei pronto?» Carlo, che non aveva ancora compiuto diciassette


anni, si morse il labbro inferiore, divorato dall'indecisione, poi alla fine
gonfiò il petto e annuì.
«Sì» disse, «sono con te.» Valerio gli diede una pacca sulla spalla e
sorrise.
«Bene» fece soddisfatto. «Allora andiamo. Non sarà facile stargli
dietro, senza un cavallo.» «Come facciamo per il cibo e tutto il resto?»
chiese Carlo preoccupato.
«Ce la caveremo» rispose deciso Valerio, cominciando a correre
per non perdere di vista Rossano e il suo corsiero.
9
«Padre, avete sentito? Tutti i più gloriosi guerrieri sono qui, a
Milano! Forse è giunto il momento che aspettavamo!» Padre Ariberto
sorrise di fronte a tanto impeto, e sollevò le braccia cercando di
calmare la smania che pervadeva il giovane Egidio. Nella chiesa, come
sempre da quando era chiusa al culto, non c'era nessuno, a parte la
struttura enorme del Carroccio che occupava quasi tutto lo spazio
sotto la navata centrale, e le grida del ragazzo erano rimbombate come
colpi di tamburo in una giornata di festa.
«Non essere precipitoso» gli disse, mentre Egidio sgranava gli
occhi, eccitato come un bambino a cui i genitori avessero promesso
una leccornia prelibata. «Credo che sia ancora presto per pensare di
dare manforte ai nostri soldati.» «Ma c'è anche Alberto da Giussano!»
protestò Egidio. «L'ho sentito dire dal carpentiere mentre discuteva
con mio padre!» «Dove?» chiese sospettoso padre Ariberto.
«Nell'osteria di quel peccatore di Oreste Essenzi?» Il ragazzino
s'imporporò sulle gote, ma era troppo pieno d'entusiasmo per lasciarsi
smontare tanto facilmente.
«In ogni caso» continuò mettendo il broncio «credo che dovremmo
accelerare il lavoro, perché siamo indietro.» Padre Ariberto lo fissò
pieno di sorpresa. «Davvero?» chiese.
«E tu come fai a sapere che siamo in ritardo? Non ricordavo che
avessimo stabilito delle tappe da rispettare, per il nostro lavoro.» «Io
l'ho fatto!» affermò Egidio aggrottando le sopracciglia.
«E posso affermare che siamo in grande ritardo. Se andiamo avanti
così, non riusciremo a preparare il Carroccio in tempo per quando
scoppierà la guerra.» «Oh, santo cielo» rise padre Ariberto sollevando
gli occhi verso la volta della vecchia chiesa. «Tu corri troppo con la
fantasia, ragazzo. Non ci sarà nessuna guerra, almeno nei prossimi
mesi.» «Come fate a dirlo?» chiese Egidio sbuffando contrariato. «Voi
non uscite mai da questo posto, non mettete neppure il naso fuori
dalla chiesa. Che cosa ne sapete di quello che succede nel mondo?»
«Be', ci sei tu a raccontarmelo, no?» rispose imperturbabile padre
Ariberto.
Questa volta Egidio chiuse di scatto la bocca, senza ribattere nulla,
mentre incrociava le braccia sul petto e assumeva una postura che
ormai l'anziano prete conosceva molto bene: quando le cose non
andavano per il verso giusto (cioè quello che voleva lui), si chiudeva a
riccio e rifiutava di discutere o semplicemente ascoltare quello che
padre Ariberto gli diceva.
Quel ragazzino era una testa calda, un piccolo e cocciuto briccone
che rallegrava le giornate di pad re Ariberto e gli dava un grande aiuto,
quando si trattava di lavorare attorno a quel simbolo della gloria
milanese che era il Carroccio.
Mentre pensava questo, padre Ariberto si voltò a contemplare la
formidabile macchina da guerra custodita nella sua chiesa, e si rese
conto che in effetti Egidio aveva ragione. Avevano fatto progressi,
certo, che per un verso avevano del miracoloso, visto com'era ridotto il
carro, ma ancora non poteva dirsi pronto a scendere in campo, né per
dare sostegno ai soldati in battaglia ne, come in realtà lui credeva che
sarebbe stato più plausibile, per essere esposto in qualche piazza come
glorioso ricordo dei giorni in cui Dio e i milanesi avevano combattuto
fianco a fianco in nome della Fede.
Avevano smerigliato tutte le fiancate, riportando il legno all'antico
splendore, e avevano riparato il giunto di uno degli assi principali, a
cui erano connesse le grandi ruote. Ma sul castello di comando c'erano
ancora assi da riparare, corde e tiranti da sostituire, la base della croce
lobata da impregnare con la pece e il pennone portante da riparare in
più punti, soprattutto dove il legno aveva subito gravi danni a causa
dell'incuria del tempo e dei colpi ricevuti durante l'ultimo viaggio che
l'aveva condotto fin lì.
Nonostante questo, il Carroccio faceva la sua bella figura,
imponente come una nave su ruote e capace di ispirare sicurezza e
autorità, come Sua Eccellenza il vescovo Intimiano aveva immaginato
quando lo aveva commissionato ai più abili artigiani della città.
Lentamente, annuendo come se stesse rispondendo in ritardo alle
proteste veementi di Egidio, il vecchio sacerdote scosse la testa e si
portò i pugni sui fianchi.
«Forse hai ragione, ragazzo» disse, ridando energia al suo giovane
aiutante, che tornò a sgranare gli occhi eccitato.
«Non possiamo perdere tempo, dobbiamo tornare al lavoro.
C'è ancora parecchio da fare, e non dobbiamo farci trovare
impreparati, qualora la città avesse ancora bisogno di questa
meraviglia.» «Finalmente parlate come piace a me!» gridò entusiasta
Egidio lanciandosi verso il Carroccio. «Forza, sbrighiamoci! Pensate
cosa accadrebbe, se Alberto da Giussano chiedesse di vedere il nostro
carro da guerra!» Questa volta padre Ariberto non riuscì a trattenere
una risata.
Era sicuro che Alberto da Giussano non sapesse neppure
dell'esistenza di quel carro che rappresentava un tempo che non c'era
più. E forse sarebbe stato meglio che ne restasse all'oscuro ancora per
un bel po', visto che la sua discesa in campo poteva significare una sola
cosa: che il tempo della guerra era tornato, e che nessuno ne sarebbe
stato risparmiato.
CAPITOLO SECONDO

A.D.1174
Città di Ratisbona 1
La carrozza sobbalzò quando le grandi ruote saltarono su un
voluminoso escremento di cavallo essiccato.
«Maledizione» sbuffò Rainaldo di Darmstadt scostando la tenda di
frustagno rosso e guardando fuori, nel caos che dilagava per le strade
della città. Nonostante l'impegno degli stradini, era pressoché
impossibile garantire la pulizia delle principali vie cittadine, in quei
giorni in cui la Dieta di Ratisbona le aveva riempite di decine di
carrozze e cavalli giunti da tutta la Germania.
L'imperatore Federico I aveva preso alloggio nella residenza
imperiale, che distava solo qualche decina di metri dal palazzo in cui i
Pari di Germania si erano riuniti per la Dieta, ma Rainaldo di
Darmstadt e tutta la sua corte avevano dovuto trovare alloggio presso
la residenza di un margravio locale, e per raggiungerla era costretto ad
attraversare mezza città, con tutti i disagi che questo comportava.
«Dobbiamo rassegnarci, Eccellenza» affermò pacato Monsignor
Vallerò, scuotendo appena la grossa testa calva. «Ratisbona è una città
influente e prestigiosa, ma le uniche vere comodità può goderle solo
Sua Maestà Imperiale. Per noi altri... restano le sistemazioni di fortuna
che può concederci la Provvidenza.» Rainaldo di Darmstadt non
ribatté nulla. Era convinto che Monsignor Vallerò fosse un idiota, un
uomo senza nerbo e spina dorsale, e che non valesse neppure la pena
mettersi a discutere con lui di quei problemi senza importanza. Non
era irritato per le scomodità dei trasferimenti dal palazzo imperiale ai
suoi alloggi, ma per il tempo che era costretto a perdere quando il
fermento che scuoteva la città necessitava della sua presenza.
Si rivolse all'uomo che sedeva di fronte a lui nella carrozza, vestito
con abiti semplici ma che tradivano la presenza di materiali di pregio,
come i pizzi veneziani o l'oro di Persia che riluceva dai ricami della
giubba sfrisata, e che fino a quel momento non aveva pronunciato una
sola parola.
«Che cosa ne pensate, voi, della reazione dei principi di
Germania?» chiese, ignorando ostentatamente il prelato seduto alla
sua sinistra.
Ottone di Wittelsbach strinse appena gli occhi, senza mutare
espressione sul viso deciso, sostenuto da mascelle imponenti.
«Sono dei codardi» rispose, mentre Monsignor Vallerò arrossiva.
«O forse degli opportunisti.» Rainaldo di Darmstadt annuì, convinto
che Ottone di Wittelsbach avesse ragione.
«Credete la stessa cosa anche di Enrico il Leone?» chiese,
soprattutto per chiarirsi le idee su quell'uomo misterioso di cui il
Barbarossa sembrava fidarsi ciecamente, forse più di quanto si fidasse
di lui, che pure era il suo Arcicancelliere.
Ottone di Wittelsbach dilatò leggermente le narici.
«Il cugino dell'imperatore è un uomo furbo» sostenne.
«Probabilmente il Ducato di Baviera non gli basta, ma non vuole
dissanguare i suoi forzieri scendendo in campo contro i Comuni
Lombardi e il Regno di Sicilia. Probabilmente aspetta di capire chi si
indebolirà di più, in questo conflitto.» «Quindi non approvate l'idea
dell'imperatore di scendere nuovamente in Italia per far valere i suoi
diritti regi?» Ottone di Wittelsbach restò per un attimo in silenzio, poi
aprì uno strano sorriso, che fece scorrere un brivido di disagio lungo la
schiena di Rainaldo di Darmstadt.
«Certo che approvo» rispose. «Anzi, credo di avere sostenuto con
tutte le mie forze questa posizione. E sono felice che l'abbiano fatto
anche re Ladislao di Boemia e gli arcivescovi di Colonia e Treviri. Ma
questo non significa che i tempi siano maturi.» Questa volta fu il turno
di Rainaldo di accigliarsi.
«Che cosa intendete dire?» «Che senza Enrico il Leone e senza
l'appoggio degli altri principi di Germania non avremo forze sufficienti
per costringere la Lega Lombarda e papa Alessandro III a
sottomettersi alla legge imperiale.» «Non tutto il Regnum Italiae è con
quei... ribelli» esclamò indignato Monsignor Vallerò, ma né Ottone di
Wittelsbach né Rainaldo di Darmstadt gli diedero retta.
«Come fate ad affermare una cosa del genere?» chiese
l'Arcicancelliere imperiale scrutando direttamente negli occhi Ottone
di Wittelsbach.
Questi tornò a rilassarsi contro lo schienale della carrozza, allungò
una mano per scostare la tendina e guardò fuori.
«I nostri avversari hanno avuto tempo per prepararsi, mentre noi
fingevamo di ignorare il tradimento che stavano consumando.»
«Ignorare?» ribatté indignato Rainaldo. «Non sono assolutamente
d'accordo. Abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per
contrastare l'autonomia dei Comuni Padani e impedire che il Regno di
Sicilia si espandesse fino a Roma.» «Non mi pare che l'arcivescovo
Cristiano di Magonza abbia ottenuto grandi successi, in Toscana»
ribatté Ottone di Wittelsbach. «Il suo assedio di Ancona è stata una
vera idiozia, una tattica infantile e priva di qualsiasi logica.» Rainaldo
trattenne a stento la rabbia.
«Se non fosse stato per quei due traditori» disse con un sibilo,
«quel Guglielmo Marcheselli e la contessa Aldruda di Bertinoro,
adesso la Toscana sarebbe riappacificata sotto le araldiche del Sacro
Romano Impero.» Ottone reclinò appena la testa. «Ma questo non è
successo» commentò.
«Adesso anche noi siamo pronti a scendere in campo» affermò
Monsignor Vallerò, «e lo faremo con la determinazione e la forza che
contraddistinguono l'esercito imperiale.» Rainaldo, per una volta
d'accordo con il prelato, sollevò un dito e lo puntò contro Ottone di
Wittelsbach, aggiungendo: «E se Enrico il Leone perderà l'occasione
per partecipare alla riunificazione del Grande Impero, certo non sarà
Federico a consolarlo».
«Mi fa piacere cogliere tanta sicurezza nelle vostre parole,
Eccellenza» annuì Ottone di Wittelsbach. «Mi auguro soltanto che
abbiate ragione.»
«Sarà Dio a concedere all'imperatore la vittoria finale» sentenziò
Monsignor Vallerò.
A quelle parole, né Rainaldo di Darmstadt né Ottone di
Wittelsbach se la sentirono di replicare, e restarono in silenzio fino a
quando la carrozza non li portò a destinazione.
2
Rainaldo non era sicuro che fosse una buona idea disturbare
Federico I nei suoi alloggi privati, non a quell'ora della sera e non per i
motivi che lo spingevano, ma sapeva anche che non aveva scelta,
perché l'alternativa sarebbe stata rimandare all'indomani una
decisione che avrebbe potuto rivelarsi di primaria importanza per la
spedizione in Italia. Un ritardo di mezza giornata, quando c'erano in
ballo questioni così delicate per l'Impero, poteva essere considerato
intollerabile dallo stesso Federico, quando avesse avuto la mente
sgombra dai vapori del vino e dai profumi afrodisiaci delle belle donne
di cui amava circondarsi.
Rainaldo conosceva molto bene il Barbarossa, forse più di quanto
potesse vantare chiunque altro, e sapeva che avrebbe dovuto sfruttare
a fondo quella conoscenza per consolidare il potere di cui, come suo
arcicancelliere, beneficiava. Ma gestire i rapporti con un uomo come
Federico I di Hohenstaufen, re di Germania e imperatore del Sacro
Romano Impero, non era un'impresa alla portata di tutti, e persino per
un uomo nella posizione di Rainaldo sarebbe stato facile commettere
degli errori che lo avrebbero portato alla rovina.
Quando fece segno al dignitario di palazzo di farsi da parte e di
evitare di annunciarlo all'imperatore, sapeva che stava correndo un
grosso rischio, nel piombare in quel modo negli appartamenti privati,
ma era anche convinto che l'approccio diretto fosse il più indicato per
affrontare un uomo come il Barbarossa. Niente intermediari, niente
scuse, niente diplomazia. Era questo che Federico chiedeva ai suoi
vassalli, e lui era sempre riuscito a interpretarne al meglio l'umore
instabile e il carattere scostante, guidandoli passo dopo passo nella
direzione che riteneva più soddisfacente per gli obiettivi dell'Impero. E
di se stesso, naturalmente.

«Eccellenza, non so se sia il caso di...» «Lasciate fare a me» ordinò


bruscamente Rainaldo quando il dignitario di palazzo cercò di opporre
una timida resistenza alla sua avanzata decisa. Quell'uomo era sempre
stato di stanza presso la residenza imperiale di Ratisbona, e quindi
non aveva dimestichezza con il modo diretto e impetuoso con cui lui si
relazionava con l'imperatore.
Il dignitario lesse la fermezza nel suo sguardo, e con un profondo
inchino si fece da parte. Evidentemente, fra una possibile sfuriata
dell'imperatore e il rischio certo di essere imprigionato nelle segrete
del palazzo da parte dell'arcicancelliere, aveva deciso per il male meno
certo.
Rainaldo di Darmstadt scivolò via soddisfatto, raggiunse la doppia
porta di legno levigato con il simbolo della casata degli Hohenstaufen
inciso sopra, e la spalancò con un gesto deciso, pronto ad affrontare la
burrasca che si sarebbe scatenata dall'altra parte.
«Non c'è modo per tenervi a distanza! Siete peggio di una zecca,
quelle almeno i miei dottori riescono a staccarmele via a forza. Ma voi,
voi...» Federico I non terminò la frase, forse perché sapeva benissimo
che non sarebbe servito a niente.
Rainaldo affettò una leggera smorfia, portando le mani dietro la
schiena e cominciando a battere il dorso della destra contro il palmo
della sinistra.
«Stiamo vivendo un momento particolarmente delicato, Maestà»
disse, con voce ferma e autoritaria ma calibrando le parole perché non
suonassero offensive. L'imperatore apprezzava i suoi modi schietti,
senza indulgere in inutili compiacenze o, peggio, nell'universale
piaggeria e timore reverenziale con cui i vassalli di corte, di qualunque
lignaggio fossero, gli si rivolgevano. D'altro canto, Rainaldo sapeva che
il Barbarossa non era disposto a tollerare la benché minima mancanza
di rispetto nei suoi confronti anche da parte dell'uomo che aveva
nominato suo più stretto consigliere.
Occorreva dunque ponderare con accuratezza ogni parola, quando
ci si rivolgeva all'imperatore, e nel frattempo dimostrare di avere
abbastanza coraggio e intraprendenza per non lasciarsi soggiogare
dallo sguardo penetrante di quell'uomo e dal suo atteggiamento
arrogante.
Ancora una volta Rainaldo di Darmstadt si soffermò a osservare
l'uomo più potente e riverito al mondo, secondo solo, in quanto a fama
e gloria, a Dio onnipotente, e non si sorprese del fatto che anche nudo,
e nonostante l'età e la mollezza della vita di corte, Federico I avesse
una corporatura massiccia e ben proporzionata, con muscoli sviluppati
quasi quanto quelli dei soldati della sua guardia personale che
stazionavano immobili ai lati della stanza da letto, con gli occhi
ostentatamente fissi nel nulla.
Il Barbarossa non perdeva tempo a esercitarsi nell'arte della spada,
né si prodigava in lunghe cavalcate nelle immense foreste piene di
cacciagione, eppure era perfettamente in forma, tanto da fare invidia
persino a molti uomini d'arme. Evidentemente, l'attività preferita
dell'imperatore, quella in cui trascorreva molto del suo tempo, era più
che sufficiente a garantirgli anche un ottimo esercizio fisico.
Rainaldo trattenne un sorriso quando vide le gambe di due
fanciulle districarsi pigramente dalle lenzuola del grande letto a
baldacchino. Ne aveva già individuata una terza, particolarmente alta e
prosperosa come piaceva all'imperatore, rotolarsi sul materasso,
abbracciando semiaddormentata un candido cuscino. Ed era sicuro
che se avesse guardato meglio, fra le pieghe e gli anfratti del campo di
battaglia preferito dall'imperatore, ne avrebbe scovata almeno una
quarta, visto che il Barbarossa non si degnava di prodigarsi nelle sue
lunghe maratone erotiche, se non gli venivano messe a disposizione
almeno due coppie di giovani fanciulle, tutte pronte a donarsi anima e
corpo pur di compiacere il grande Federico I di Hohenstaufen.
L'imperatore afferrò con rabbia un lembo del lenzuolo, lo strappò
dando una dimostrazione notevole di forza e di energia, nonostante le
ore trascorse nell'alcova con quelle procaci giovinette, e se lo avvolse
attorno alla vita, in un gesto di pudore che sorprese Rainaldo più della
comparsa, come aveva immaginato, della quarta fanciulla da sotto le
coperte.
«Allora sbrigatevi a tediarmi con i vostri affari della massima
importanza e poi andatevene, perché qui eravamo solo all'inizio!»
ringhiò il Barbarossa andando a sedersi su una poltrona veneziana a
centina accanto a un tavolo imbandito con carni di ogni genere, frutta
e coppe di vino scuro. Stranamente Rainaldo non vide birra, e questo
lo lasciò sconcertato, perché sapeva che l'imperatore aveva una sola
debolezza capace di farlo stare lontano da un grembo femminile, e
questa era la birra forte e pastosa delle lande tedesche, che tracannava
mostrando una prodigiosa capacità di resistenza.
Prima che Rainaldo potesse aprire bocca, un altro paio di gambe
spuntò da sotto i cuscini sul letto, e una quinta ragazza, con i capelli
del colore del grano e il seno più grande e sodo che l'arcicancelliere
avesse mai visto, si tirò a sedere stirando le braccia con un lungo
sbadiglio.
«Che cosa aspettate?» lo riscosse l'imperatore sputando gran parte
del vino che stava bevendo.
«Perdonatemi, Maestà» rispose Rainaldo prodigandosi in un
profondo inchino. Non si trattava di un'inutile reverenza, ma del
tentativo da parte sua di prendere un po' di tempo, per costringere
l'erezione che gli si era gonfiata tra le gambe a tornare nella placida
indifferenza che era consona a un uomo della sua posizione, e che per
di più stava cercando di affrontare un discorso tanto delicato con un
sovrano la cui intelligenza non doveva essere sottovalutata.
Federico si accorse del suo imbarazzo e scoppiò a ridere, poi
strappò la coscia di un tacchino gigantesco e la lanciò a Rainaldo che,
sorpreso, l'afferrò al volo.
«Non c'è nulla di cui vergognarsi» sghignazzò l'imperatore
indicando le ragazze sul letto. «È stata una scelta lunga e difficile, ma
quelle pollastrelle saprebbero farlo diventare duro anche a un morto.»
Rainaldo si unì brevemente alla risata di Federico, poi si concentrò sul
volto dell'uomo che poteva ricoprirlo d'oro o farlo uccidere con un
semplice gesto della mano, e comprese ancora una volta che non
doveva lasciarsi ingannare dall'apparenza.
Tutto, in Federico I il Barbarossa, era studiato fin nei minimi
dettagli. Si era coperto con il lenzuolo, ma non abbastanza da
nascondere le braccia muscolose e il petto ampio; tracannava vino e
masticava carne come un contadino a un desco di villici, ma i suoi
occhi erano svegli e attenti e non lo perdevano di vista un solo istante;
si lasciava crescere quella scomoda barba rossa che l'aveva fatto
conoscere da tutti per quel soprannome non certo rispettoso del potere
imperiale, ma ne sfruttava l'efficacia per incutere timore fra i suoi
vassalli e lasciare che alimentasse la leggenda sul suo conto.
Tutto, insomma, faceva di quell'uomo un predatore pericoloso e
sommamente capace, e lui avrebbe dovuto sfruttare al meglio tutta la
sua abilità per cercare di portarlo nella direzione che aveva stabilito.
Un compito non certo facile ma, come aveva già sperimentato altre
volte, non impossibile. Bastava approfittare dei momenti giusti, e
anche Federico il Barbarossa poteva essere guidato come chiunque
altro.
Era questa la sua più grande abilità, e fino a quando l'avesse usata
con moderazione e accortezza, per lui la vicinanza con l'imperatore
non sarebbe stata un pericolo bensì la migliore delle opportunità.
«Ho parlato con Ottone di Wittelsbach e con re Ladislao di
Boemia» disse, per far capire subito all'imperatore che non scherzava
affatto, quando parlava di questioni di primaria importanza. «Non mi
sono sembrati particolarmente soddisfatti di quello che è stato
deciso.» Federico sbatté la coppa di vino sul tavolo, stirando le labbra
in una smorfia cruda, che avrebbe inondato di terrore qualsiasi altro
interlocutore.
«Andate subito al punto» grugnì, strizzando appena gli occhi
azzurri come ghiaccio. «Lo sapete che odio perdere tempo con le
ovvietà.» Rainaldo trattenne un moto di esultanza. Era capace di
interpretare al volo gli umori del suo imperatore, e non gli sfuggivano i
rari momenti in cui riusciva a catturare subito la sua attenzione. E
questo nonostante i piaceri della carne, del cibo e del buon vino che
aspettavano allettanti.
«Se vostro cugino, Enrico il Leone, non si schiera dalla nostra
parte, è possibile che i principi di Germania ci lascino soli. E questo
potrebbe pregiudicare la nostra discesa in Italia.» Quelle parole
aleggiarono per un momento nella stanza, mentre il Barbarossa le
soppesava con gli occhi fissi in quelli di Rainaldo. Poi l'imperatore si
voltò verso le ragazze che giacevano languide sul letto e ordinò:
«Andatevene! Subito!».
Non vi fu neppure un'ombra di esitazione, nelle fanciulle: nessuno
avrebbe avuto dubbi nell'interpretare il tono perentorio con cui
Federico aveva parlato.
Quando furono soli, il Barbarossa si alzò e cominciò a vestirsi.
«Continuate» disse. «Vi ascolto.» Rainaldo di Darmstadt prese un
lungo respiro, appoggiò su un tavolino la coscia di tacchino che aveva
tenuto fino a quel momento con due dita, e si preparò a condurre quel
delicatissimo gioco di equilibri così come aveva programmato.
3
«Com'è andata? Come ti è sembrato l'imperatore?» Rainaldo si
chiuse la porta alle spalle, vi appoggiò la schiena e finalmente riprese a
respirare.
«Letale» rispose. «Come sempre.» La donna che gli si avvicinò a
passo felpato indossava solo una vestaglia di lino grezzo, abbastanza
trasparente da mettere in evidenza il seno prosperoso ma cadente, e i
fianchi larghi, molli, che avevano già conosciuto il gonfiore della
gravidanza.
I capelli color cenere erano raccolti sulla testa, trattenuti da uno
spillone d'argento, e gli occhi celesti brillavano eccitati nella rete di
rughe che li contornava.
«Dimmi tutto» sibilò afferrando Rainaldo per le braccia e
stringendolo forte.
L'arcicancelliere vide il giovanotto robusto che giaceva fra le coltri
del grande letto di sua madre, e lo indicò con una smorfia.
«Fallo uscire.» La donna si voltò sorpresa, vide il giovane
addormentato e fece una risatina.
«Se cominci a preoccuparti per tutti i miei amanti, non riusciremo
più a parlare da madre a figlio» disse divertita, mentre si avvicinava al
ragazzo molto giovane ma dal fisico prestante e gli dava un buffetto sul
sedere, facendolo svegliare di soprassalto.
Non ebbe bisogno di dirgli nulla: il giovane si guardò attorno,
incrociò lo sguardo ostile di Rainaldo e si affrettò a scendere dal letto e
a dileguarsi in fretta, senza preoccuparsi della sua nudità.

«Devi piantarla con questi ragazzini» sbottò Rainaldo infastidito.


Sapeva che la madre ne cambiava uno al giorno, andandoli a pescare
fra i giovani della guarnigione imperiale o fra gli stallieri di corte,
eppure non riusciva ancora ad abituarsi all'idea di saperla a letto con
altri che non fosse lui stesso. Lei si concedeva molto raramente ai
piaceri della carne con lui, e si faceva trovare regolarmente insieme a
quei giovanotti, quasi li volesse sfruttare come scusa per non cedere ai
suoi insistenti tentativi di restare soli, come facevano un tempo.
Ma adesso lui era ingrassato e invecchiato, e poteva capire che la
madre fosse attirata da quei giovani aitanti. Eppure, loro non erano
lui, non avevano l'intesa che Rainaldo poteva vantare con sua madre
fin da quando, all'età di dodici anni, lei era scivolata nel suo letto e gli
aveva aperto un mondo fatto di piaceri e di un amore che non aveva
eguali.
«Il mio cucciolo è geloso?» gli chiese lei sfiorandogli con le dita una
guancia, così delicatamente da farlo rabbrividire.
Con uno scatto di orgoglio, Rainaldo le scostò la mano e andò a
versarsi una coppa di vino.
«Federico mi ha ascoltato fino in fondo» rivelò, cercando di
distogliere l'attenzione della madre dal suo imbarazzo e dalla sua
rabbia, ma imponendosi di recuperare anche il controllo su se stesso.
«E credo che seguirà i miei consigli.» «I nostri» mormorò lei con un
mezzo sorriso.
Rainaldo la fissò, cercò di sostenerne lo sguardo, ma poi abbassò
gli occhi.
«Naturalmente» assentì. «I nostri.» «Bene» fece lei andando a
sedersi sul bordo del letto e incrociando le gambe. «Raccontami
tutto.» Rainaldo trangugiò un altro lungo sorso di vino, poi cominciò a
raccontare.
«Quindi è pronto a scendere in Italia nonostante la diffidenza dei
principi tedeschi. E non si lascerà influenzare da suo cugino?»
Rainaldo sapeva che era quello il punto cruciale, e non se la sentì di
affrontarlo con leggerezza.
«Federico sa quello che c'è in ballo» rispose, mentre la madre lo
fissava attenta. «Non si tratta solo di rimettere al loro posto i Comuni
Lombardi, c'è di mezzo l'idea stessa di Impero Universale per il quale
si sta battendo.» La madre si alzò annuendo.
«Gli serve il controllo sui Comuni del Nord Italia, ma anche sul
Regno di Sicilia. Solo così potrà sconfiggere il papato nella contesa per
la potestà civile e spirituale sui territori assoggettati all'Impero.»
Rainaldo si rese conto che la madre era una donna pericolosa almeno
quanto Federico I, anche se l'aspetto molle e trasandato non le
conferiva l'aura minacciosa che trasudava da ogni poro
dell'imperatore. Quei due erano molto simili, seppure così diversi, e lui
si trovava nel mezzo di due predatori affamati, armato soltanto della
sua intelligenza e della sua abilità diplomatica.
Ma se al Barbarossa riusciva a tenere testa, nonostante il terrore
che gli infondeva anche solo guardarlo, con la madre gli era
praticamente impossibile riuscire a tenere sotto controllo l'avida
astuzia che l'animava. O, peggio ancora, a contrastarla.
Non capiva esattamente dove lei volesse arrivare, con quelle sottili
manovre politiche che esercitava sfruttando il suo ruolo di
arcicancelliere, ma immaginava che fosse tutto calcolato per ottenere
maggiore potere per lei e per la sua corte di oscuri vassalli.
«Credo che metterà presto in movimento l'esercito» affermò
Rainaldo, suo malgrado soddisfatto di poter dimostrare alla madre
quanto fosse stato abile nel manovrare Federico come lei gli aveva
chiesto. «E questo anche se non può contare su forze soverchianti.»
«Ottimo» annuì la madre andando a piluccare in un cesto pieno di
grappoli d'uva. «Proprio come avevo sperato.» Rainaldo si accigliò.
«Il rischio è molto elevato» disse, pur sapendo che la madre non
ammetteva il contraddittorio, soprattutto con lui. «Se i Comuni
riuscissero ad avere la meglio su...» «Sciocchezze» l'interruppe lei
bruscamente. «Questa è un'ipotesi che non merita alcuna
considerazione.» «Quindi a te non interessa che l'imperatore sia
sconfitto» disse Rainaldo, cominciando a comprendere un po' più a
fondo gli intricati giochi di potere della madre. «Potrebbe essere
sufficiente un rallentamento nella sua ostinata corsa verso la
supremazia totale.»
«La visione del Sacro Romano Impero che ossessiona il Barbarossa
potrebbe portarci alla rovina» mormorò la madre stringendo gli occhi
e fissando Rainaldo con una durezza che lui non le aveva mai visto.
«Noi non possiamo permetterlo.» «Noi chi?» chiese Rainaldo,
all'improvviso terrorizzato dalla consapevolezza di essere appena un
piccolo ingranaggio all'interno di un meccanismo diabolico di cui solo
la madre possedeva la completa percezione.
Lei sembrò avvertire il suo disagio, quindi gli si avvicinò e lo
accarezzò ancora sulla guancia, con un tocco pieno di calore e di
affetto.
«Sono tua madre» gli ricordò. «Di me puoi fidarti, lo sai.» Prima
che Rainaldo potesse obiettare qualcosa, lei si alzò sulle punte dei
piedi e lo baciò. Così a lungo e così intensamente che Rainaldo
dimenticò all'istante tutte le congetture che gli avevano tormentato
l'anima, e si abbandonò alla passione che tornava a gonfiargli i lombi.
CAPITOLO TERZO

A.D. 1174
Città di Alessandria 1
«Pazzesco. Chi avrebbe mai detto che si potesse costruire una
simile fortezza in così poco tempo?» Venanzio da Urbino aveva
l'abitudine di sghignazzare sempre, quando parlava, qualsiasi cosa
dicesse, a meno che non si stesse rivolgendo a qualche personaggio di
rilievo. Il suo atteggiamento sarcastico e strafottente aveva il potere di
indispettire Rossano, che però per tutto il viaggio da Milano aveva
cercato di mantenersi calmo e distaccato. Non voleva compromettere i
rapporti con l'uomo che gli era stato affiancato dal cardinale Accorsi in
persona, e con il quale avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto, nei
mesi a venire. Portare a termine il suo incarico nel migliore dei modi
era una priorità assoluta per Rossano, e non sarebbero certo bastati i
modi scostanti di Venanzio da Urbino a distoglierlo dai suoi propositi.
Questa volta, però, nelle parole di Venanzio non c'era il solito tono
di velato disprezzo o di narcisistica superiorità, ma qualcosa che
poteva assomigliare a sincera meraviglia, e questo costrinse Rossano a
osservare con attenzione ciò che si delineava oltre la collina su cui si
stava arrampicando il convoglio di cui facevano parte.
Venanzio da Urbino si era allontanato dalla pista per contemplare
la valle del Tanaro che si stendeva oltre le alture, e Rossano l'aveva
seguito quasi per istinto, sorprendendosi di covare per quell'uomo un
sospetto che andava oltre la ragionevolezza, visto che si trattava di un
rappresentante della Santa Sede.
Ma quando l'aveva affiancato sentendolo parlare in quel modo, non
aveva potuto fare a meno di girare lo sguardo nella stessa direzione in
cui guardava Venanzio e trattenere il respiro per la sorpresa.
Alessandria, la città consacrata a baluardo dell'opposizione della
Padania alle truppe imperiali, si ergeva più vasta e fortificata di quanto
Rossano avesse immaginato. Pareva impossibile che fosse stata
costruita in così pochi anni, e che fosse animata da un fermento di
uomini, cavalieri e carri che brulicavano dentro e fuori le grandi mura
come formiche indaffarate.
«Guarda che roba» mormorò Venanzio da Urbino, per una volta
misurato e dimentico della sua aria strafottente. «Non ho mai visto
torrioni di quello spessore.» Rossano annuì lentamente, cercando di
cogliere in un solo colpo d'occhio lo spettacolo che gli si presentava
davanti. La cerchia muraria di Alessandria era stata completata prima
ancora che l'architettura interna della città fosse compiuta, tant'è che
dal punto di osservazione in cui si trovavano era possibile scorgere
numerosi palazzi e edifici ancora in costruzione, come in costruzione
era un intero quartiere nella parte occidentale della città, a ridosso del
castello e del palazzo ducale, che svettavano oltre i contrafforti di
sostegno.
Le torri, le palizzate, i baluardi e i dongioni erano stati eretti ad
altezze tanto elevate che nessuna macchina da guerra sarebbe stata in
grado di aggredire, così come nessuna torre d'assalto sarebbe riuscita
ad ancorare i ponti romani ai corridoi di ronda oltre i merli, per
consentire alle truppe assedianti di penetrare in città.
L'ingresso principale alla fortezza era ricavato sopra una motta
fortificata, un rilievo contornato da un fossato e da una robusta
palizzata, alto forse una quindicina di metri rispetto al piano del
terreno, con una torre quadrangolare di legno e pietra entro la quale
era stato ricavato il ponte levatoio, sul quale si affacciavano due torri
gemelle di sorveglianza e ai cui lati si allargavano le ali di pietra dei
bastioni, che dopo aver circondato tutta Alessandria si riunivano in
un'altra motta fortificata dalla parte opposta della città.
Quelli erano i due soli ingressi visibili, così ben fortificati e
sorvegliati che nessuno sarebbe mai riuscito a penetrarli, neppure
disponendo del più grande esercito che avesse mai battuto quelle
lande.

«Il fossato è stato riempito con pali appuntiti e rostri, vedi?» disse
Venanzio allungando il braccio per indicare un punto dell'opera di
difesa in cui si riusciva a scorgerne il fondo. «Quando lo riempiremo
d'acqua diventerà una trappola letale.» Rossano comprese che
Venanzio da Urbino aveva ragione.
Il fossato era abbastanza largo da impedire di predisporre un ponte
mobile, soprattutto sotto il tiro degli arcieri che dagli spalti imponenti
avrebbero potuto colpire facilmente e da posizioni sicure. E per
impedire che fosse attraversato a piedi 0 a nuoto, gli architetti avevano
fatto piantare sul fondo file e file di picche acuminate puntate verso
l'alto, che sarebbero arrivate a un palmo dalla superficie dell'acqua,
una volta che lo scavo fosse stato riempito. Nessuno avrebbe potuto
calarsi là dentro senza restare impalato.
Ma quello che più impressionò Rossano fu la quantità di torrette
circolari che sorgevano a intervalli regolari fra le mura stesse, che
avrebbero consentito alle truppe di acquartierarsi in numero ingente
su tutto il perimetro di difesa, e di spostarsi lungo gli ampi
camminamenti dei bastioni per portare rinforzo alle zone più a rischio
durante un assedio.
«Magnifico!» esultò Venanzio dando uno strappo alle redini e
affondando gli speroni per costringere il cavallo a partire al galoppo.
«Andiamo, quella meraviglia ci aspetta!» Rossano restò ancora un
istante a osservare lo spettacolo della roccaforte di Alessandria, e si
sentì contagiare dalla stessa eccitazione che doveva aver inondato
Venanzio.
Spronò a sua volta Drago, e raggiunse la carrozza su cui
viaggiavano il conte Rodolfo Concesa e sua figlia Angelica.
Voleva rendere anche loro partecipi della meraviglia che l'aveva
colmato.
Venanzio da Urbino l'aveva preceduto ancora una volta. Cavalcava
a schiena dritta accanto alla carrozza dei Concesa, e discuteva con il
conte mantenendo un tono sussiegoso che scatenò T
1 ira di Rossano. Avrebbe voluto raggiungere quel buffone e fargli
rimangiare tutta la falsa cortesia e sottomissione che ostentava davanti
al conte, ma poi intravide il pallido volto di Angelica che si protendeva
verso il finestrino della carrozza, per ascoltare
Venanzio e interagire con la sua risata deliziosa, e comprese che
avrebbe solo fatto una figura da sciocco.
Decise così che avrebbe serbato buona memoria di quel Venanzio
da Urbino servizievole e accomodante per la prossima volta in cui
avesse mostrato boria e disprezzo a un suo commento. Avrebbe saputo
come ribattere a tono a quello sfrontato senza pudore, e non avrebbe
esitato a far valere la sua autorità, visto che era lui il comandante
incaricato della guarnigione di Alessandria. A tutti gli effetti, Venanzio
da Urbino era al suo servizio, per quanto gli fosse stato affiancato
come "consigliere" di valore.
Sulle reali capacità di Venanzio, Rossano covava mille dubbi, e
certo non sarebbe stato disposto ad accettare tanto facilmente i suoi
consigli.
Rabbiosamente diede uno strappo alle redini e fece scartare Drago,
allontanandosi dalla carrozza dei Concesa da cui provenivano la risata
cristallina di Angelica e quella odiosa di Venanzio da Urbino.
2
Quando Valerio mise la testa fuori dalla grande cesta di legna in cui
si erano infilati lui e Carlo, non riuscì a evitare un moto di sorpresa.
«Che c'è?» gli chiese l'amico, che dalla posizione in cui si trovava
non riusciva a vedere niente. «Siamo arrivati?» Valerio osservò le
mura immense che si inarcavano sopra di lui, mentre il carro su cui si
erano nascosti percorreva la strada che costeggiava il fossato. Non
aveva mai visto bastioni così possenti, e all'improvviso ebbe la certezza
di avere fatto la scelta giusta.
«Allora? Dimmi qualcosa!» «Stai zitto!» intimò all'amico tornando
a ficcarsi nella cesta.
Sapeva che se li avessero scoperti per loro sarebbero stati guai, e
non voleva rovinare tutto proprio adesso che erano giunti a
destinazione.
«Ho visto le mura» disse, eccitato ma costringendosi a restare
fermo, mentre il rollio del carro si faceva meno percettibile, come se le
grandi ruote si fossero inoltrate su una strada ben pavimentata e priva
di buche. «Sono immense, non si riesce neppure a vederne la
sommità!» Carlo scalpitava accanto a lui, gli occhi sgranati.
«Sei sicuro che sia Alessandria?» chiese.
«No, come faccio a saperlo?» sbuffò Valerio. «Però mio fratello ha
detto che era diretto qui, quindi non vedo quale altro posto possa
essere.» «Fammi vedere!» esclamò Carlo inerpicandosi verso la bocca
della cesta, chiusa da un coperchio di rami intrecciati.
«No!» cercò di fermarlo Valerio. «Stiamo per entrare in città, se ci
vedono...» Ma Carlo non lo ascoltò, e dopo essersi districato fra i
ciocchi di legno (parte dei quali avevano gettato fuori del carro per
guadagnarsi uno spazio un po' più confortevole durante il viaggio) si
issò su, scostò il coperchio e guardò fuori.
«Per la miseria» disse, e Valerio, dopo essersi morso le labbra, non
riuscì più a resistere alla curiosità e lo raggiunse per guardare fuori.
Il carro stava passando attraverso quella che sembrava
un'immensa porta ricavata in una torre con le mura spesse almeno tre
piedi. Dall'alto pendevano catene e corde, e i due ragazzi riuscirono a
scorgere le punte acuminate del cancello sospeso sopra di loro, che
una volta abbassato non avrebbe consentito a nessuno di attraversare
il ponte levatoio che conduceva in città.
«Ce l'abbiamo fatta» sibilò felice Carlo.
Valerio annuì, dimentico per un istante della prudenza che avrebbe
dovuto farli essere più accorti, e osservò la moltitudine di persone e di
guardie armate che si accalcava oltre il ponte levatoio. Due uomini
robusti con indosso un elmo senza visiera gridavano ordini, e il flusso
di carri, persone e bestie che transitavano sul ponte seguiva le loro
indicazioni, muovendosi ordinato e a velocità costante.
«Guarda quei soldati» mormorò Valerio indicando alcuni armigeri
che sorvegliavano il transito da un camminamento ricavato sulle
mura, a mezza altezza rispetto ai merli superiori.
Indossavano delle giubbe di cuoio nero, con un'araldica in verde e
oro dipinta sul petto. «Devono far parte della guarnigione della città.»
«Allora dovremmo scendere e chiedere informazioni a loro» fece
Carlo eccitato.
«Non so se è una buona idea» ribatté Valerio. «Prima forse
dovremmo...» Non riuscì a concludere la frase perché il carro si fermò
con uno scossone e diverse grida si alzarono poco distanti, mentre
numerosi uomini si avvicinavano correndo.
«Accidenti» sibilò Valerio tornando a nascondersi nella cesta.
«Che succede?» chiese Carlo, imitando l'amico anche se non era
riuscito a vedere niente.
«Credo che vogliano scaricare il carro» rispose Valerio, e a
conferma delle sue parole avvertirono i rumori della ribalta che veniva
abbassata e di qualcuno che montava sopra.
«Cominciamo da questi cestoni!» urlò una voce. «Portateli alla
falconiera.» Vi fu un certo trambusto tutto intorno a loro, poi
all'improvviso la cesta venne sollevata e sballottata da una parte
all'altra, fino a quando Valerio comprese che chi la stava
maneggiando, forse trovandola inaspettatamente più pesante delle
altre, aveva perso la presa e la stava facendo precipitare a terra.
L'impatto fu meno tremendo di quanto si era aspettato, ma il
coperchio rotolò via e lui e Carlo caddero fuori insieme ai ciocchi di
legno.
«Ehi, e questi chi sono?» L'uomo che aveva parlato era vestito
come un garzone, con le braccia muscolose ricoperte da una patina di
sudore. Osservò con sguardo torvo Valerio e Carlo, poi cominciò a
gridare per richiamare l'attenzione degli altri lavoranti, o forse delle
guardie armate.
«Filiamocela!» gridò Valerio afferrando Carlo per un braccio e
strattonandolo via.
I due si diedero alla fuga imboccando la prima strada che videro,
proprio mentre dietro di loro scoppiavano le prime imprecazioni e
qualcuno, forse il padrone del carro, si lamentava a gran voce di essere
stato derubato.
Con il cuore che martellava all'impazzata, ma più eccitato che
spaventato, Valerio condusse Carlo in una serie di vicoli affollati fino a
quando non ebbe la certezza di avere seminato chi avesse voluto
inseguirli.

Si fermarono appoggiandosi alla parete di legno di una casa, e


ripresero fiato ridendo come matti.
«Siamo grandi!» esclamò Carlo felice, saltellando come un
bambino e allargando le braccia per comprendere in un unico gesto
tutto ciò che li circondava. «E questo posto è magnifico!» Valerio
aveva ancora il respiro corto, ma sorrise e annuì all'amico, quando si
rese conto che Carlo aveva ragione.
Non sapeva che cosa avrebbero fatto, adesso che si trovavano ad
Alessandria, ma certo non rimpianse neppure per un istante la vita di
bottega nell'armeria di Gabriele. Gli dispiaceva un po' per l'uomo che
per lui era stato un amico e quasi un padre per tanti anni, ma ormai si
sentiva un uomo in diritto di decidere autonomamente che cosa fare
della sua vita.
«Andiamo» disse dopo un po', incamminandosi nella direzione in
cui andava la maggior parte dei passanti.
«Dove?» chiese Carlo, guardandosi attorno con gli occhi sgranati,
come se si trovasse in un mondo fiabesco.
«Non lo so» rispose Valerio. «Da qualche parte. Dobbiamo capire
come fare per farci assoldare nella guarnigione della città.» «Credi che
sarà possibile?» «Perché no? C'è sempre bisogno di uomini d'arme,
soprattutto in fortezze come questa.» «Ma noi non siamo uomini
d'arme» protestò Carlo, mentre un'ombra gli oscurava il volto.
«Sì che lo siamo» ribatté Valerio convinto. «Ci siamo esercitati a
lungo. Sono sicuro che potremmo avere la meglio su parecchi di quei
grassi soldati abituati a fare solo ronde di guardia.» Indicò con un dito
alcuni armigeri seduti sui gradini di un minuscolo corpo di guardia,
con le spade abbandonate contro le mura o per terra, e i cinturoni
aperti per dare sollievo alle pance prominenti.
«È vero!» annuì Carlo ringalluzzito dalle parole dell'amico.
«Sfidiamone qualcuno a tenzone. Così dimostreremo quanto
valiamo e ci assolderanno subito.» Valerio sorrise divertito.
«Non credo che sarà così semplice» disse. «Però non dobbiamo
neppure scoraggiarci. Proviamo a vedere se con un po' di astuzia e di
intraprendenza riusciamo a ottenere quello che vogliamo.»
«Sei tu il capo» annuì Carlo convinto. «Comanda e io ti seguirò.»
Scoppiarono a ridere entrambi, poi si azzittirono quando sbucarono
all'improvviso in una grande piazza su cui si affacciava quello che
doveva essere il palazzo del console di Alessandria.
«Forse ci siamo» disse Valerio. «Se siamo fortunati, abbiamo già
raggiunto il posto giusto.» Carlo non ribatté nulla. Si limitò a seguire
Valerio mentre questi si faceva largo tra la folla e si dirigeva verso un
edificio laterale al castello, che aveva l'aspetto di un complesso di stalle
e di alloggi militari.
3
«Ecco, mio signore, questa è la piazzetta per le esercitazioni, e
laggiù ci sono il deposito per le armi e la lavanderia. Le stalle sono
separate, dopo la falconaia e gli alloggi per la guarnigione.» Il tono
dell'uomo che gli stava illustrando la situazione degli acquartieramenti
militari era rispettoso e conciliante, ma il modo in cui teneva la
schiena dritta e le braccia contratte aveva fatto capire subito a Rossano
che non gradiva molto il suo arrivo. E naturalmente Rossano lo
comprendeva, perché non era mai piacevole vedersi assegnare un
nuovo comandante all'improvviso, per di più in previsione di un
grosso spostamento di truppe che sarebbero affluite un po' da tutta
Italia, dando vita a una guarnigione che non avrebbe avuto eguali in
nessun altro dei Comuni Padani.
L'uomo, Tarcisio Bonassei da Verona, aveva il comando della
milizia di Alessandria fin da quando erano stati costruiti gli edifici per
la guarnigione e, adesso che finalmente la città assurgeva a punto
nevralgico nella contesa con le truppe imperiali, il suo ruolo veniva
bruscamente ridimensionato, per divenire il sottoposto di uno
sconosciuto condottiero di cui non aveva mai sentito parlare, e a cui
avrebbe anche dovuto fare da balia per i primi tempi, fino a quando
non si fosse ambientato nel vasto complesso militare costruito nel
cuore di Alessandria.
Rossano comprendeva tutto questo, per cui non reagiva ai modi
bruschi di Tarcisio Bonassei e cercava anzi di mostrarsi il più possibile
conciliante, anche se non era disposto a rinunciare all'autorità che gli
spettava.
«Quanti sono gli uomini addestrati per il combattimento?» chiese
mentre osservava alcuni armigeri che si allenavano nella piazzetta,
suddivisi in gruppetti schierati in circolo per formare delle piccole
arene separate. «Intendo quelli che sareste disposto a far schierare sul
campo di battaglia domani stesso, se ciò fosse necessario.» Tarcisio
aggrottò le sopracciglia, si fermò e fissò Rossano.
«Mi state dicendo che le truppe imperiali potrebbero essere qui da
un momento all'altro?» chiese.
«No» rispose Rossano. «Crediamo che sia ancora presto. Ma prima
o poi succederà, e io devo sapere di quanti uomini potrò disporre nei
prossimi mesi. Voglio partire dalla situazione attuale e dare inizio a
serrati turni di addestramento, per far crescere la guarnigione fino al
numero di truppe che ci servirà quando arriverà il momento di
affrontare l'imperatore.» Tarcisio Bonassei restò in silenzio per un
attimo, sembrò considerare a fondo le parole di Rossano, quindi
distese le rughe che aveva sulla fronte.
«Non si tratta solo di voci, allora» disse, abbandonando il tono
rigido e formale che aveva mantenuto fino a quel momento.
«Stiamo davvero per entrare in guerra.» «Sì» annuì Rossano.
«Alessandria dovrà ergersi come baluardo per rallentare la marcia
dell'esercito imperiale. I Comuni si stanno organizzando, stanno
mettendo insieme un esercito come mai si era visto prima, ma hanno
bisogno di tempo, e noi dobbiamo riuscire ad assicurarglielo. È per
questo che dobbiamo fare il massimo per essere pronti il prima
possibile.» Rossano tacque, e Tarcisio fece un profondo respiro,
consapevole forse per la prima volta della gravità della situazione.
«Ho capito» disse, lanciando un'occhiata agli uomini che si
allenavano con la spada o al tiro con l'arco. «Allora la situazione non è
delle migliori.» Questa volta fu il turno di Rossano di accigliarsi.
«Cosa vorresti dire?» chiese, passando al tu informale che vigeva
fra soldati e sperando che Tarcisio lo cogliesse per quello che era: un
segnale di dialogo e distensione fra due uomini che in quella
situazione non potevano permettersi di farsi la guerra a vicenda.
L'ex comandante della guarnigione si strinse nelle spalle, poi indicò
la piazzetta delle esercitazioni e i pochi armigeri che si esibivano in
affondi, parate e schivate.
«Direi che al momento sono queste le uniche truppe affidabili di
cui possiamo disporre» affermò. «Più forse qualche altro rincalzo fra
gli uomini di ronda o sugli spalti. Ma senza contarci troppo.» Rossano
si guardò attorno sconcertato.
«Non capisco» disse dopo un po'. «Mi avevano assicurato che
Alessandria poteva contare su una guarnigione di mille uomini.
Tutti soldati addestrati e perfettamente capaci...» «Chi ti ha dato
queste informazioni non viene ad Alessandria da almeno cinque anni»
l'interruppe Tarcisio amareggiato. Era passato anche lui al tu, e questo
era buon segno, ma al momento Rossano era più preoccupato per il
significato delle parole dell'uomo che per il buon andamento dei loro
rapporti personali.
«Spiegati, per cortesia» lo esortò.
Tarcisio gli lanciò una breve occhiata, poi scostò lo sguardo e lo
tenne piantato a terra, come se si vergognasse di quello che stava per
dire.
«Fin dal giorno della sua fondazione, Alessandria è stata gravata
dall'idea che si tratti di una fortezza strategica, indispensabile per
poter controllare la regione e il passaggio di truppe da e verso le Alpi.»
«Ed è così, infatti» annuì Rossano. «Ma perché dici "gravata"?»
Tarcisio sollevò lo sguardo. Adesso sembrava esserci collera nei suoi
occhi.
«Perché si è formata un'aura oscura, attorno a questa città.
Negli anni ho sentito chiamare Alessandria in molti modi. La
fortezza sacrificabile, la roccaforte dei morti viventi...» «Sciocchezze!»
grugnì Rossano. «Io vedo soltanto una città progettata con
intelligenza, e mura formidabili costruite per resistere al più potente
degli eserciti. Dovrebbe essere un onore poter militare nella
guarnigione di una simile fortezza.» «All'inizio è stato così» confermò
Tarcisio. «Gli uomini d'arme venivano da tutta l'Italia, anche dal
Regno di Sicilia e dall'Impero d'Oriente. Ma restavano qui poco,
quando si rendevano conto che non c'erano battaglie da combattere o
eserciti da respingere.
Molto meglio andare a cercare gloria nelle truppe veneziane, o fra
le milizie normanne.» «Quindi cos'è successo?» chiese Rossano.
Tarcisio allargò le braccia. «I migliori se ne sono andati, stanchi di
trascorrere le giornate a esercitarsi in inutili combattimenti con le
armi di legno. Quelli che sono rimasti erano proprio coloro che
cercavano di restarsene il più lontano possibile dai campi di battaglia,
al sicuro dietro i bastioni della città. Con il tempo si sono rammolliti,
sono ingrassati, e adesso non sappiamo neppure se potremmo usarli
come vedette, figurarsi armarli di tutto punto e spedirli sugli spalti a
combattere. Quelli su cui possiamo davvero contare sono quasi tutti
qui, quelli che vedi.» Rossano strinse i denti e cercò di riflettere su
quanto aveva ascoltato da Tarcisio. Sapeva che le guarnigioni delle
città fortificate non erano del tutto adatte al combattimento, proprio
perché impigrivano dietro la convinzione che bastassero delle mura
solide a garantire loro la sicurezza, ma non pensava che anche
Alessandria potesse trovarsi nella stessa situazione, visto che era stata
eretta come baluardo a difesa della Padania, e quindi immaginava che
fosse stata dedicata molta più attenzione alle truppe di stanza in città.
Ma evidentemente non era andata così, e adesso toccava a lui porre
rimedio alla situazione.
«Dammi dei numeri» chiese a Tarcisio mentre si incamminavano
verso il complesso dell'armeria. «Su quanti uomini validi possiamo
contare?» «Un centinaio» rispose Tarcisio. «Forse centoventi, se
comprendiamo alcuni rincalzi che svolgono mansioni diverse ma che
potremmo rendere operativi in tempi brevi.» Rossano si sentì cogliere
dalle vertigini, ma mantenne il passo svelto e sicuro, cercando di non
digrignare i denti per la rabbia.
«E gli uomini arruolati ma fuori forma?» chiese. «Quanti sono?»
«Ah, per quello ti basterà fare un paio di giri nelle taverne della città,
per scoprirlo. Vedrai che...» «Quanti sono?» chiese ancora Rossano,
fermandosi di botto.
«Ecco...» rispose Tarcisio a disagio. «Forse duecento. Anche
trecento, se comprendiamo le nuove leve che non abbiamo mai avuto il
tempo di addestrare come si deve.»
«Bene» annuì Rossano rimettendosi in cammino. «Allora li voglio
tutti radunati qui subito. Nessuno escluso.» Tarcisio lo fissò a bocca
aperta. «E nelle garitte chi ci mettiamo?» chiese. «Sugli spalti? Nei
percorsi di ronda?» «Mettici gli uomini abili al combattimento»
rispose Rossano.
«Con loro parlerò oggi pomeriggio. Spiegherò la situazione e
chiederò la loro collaborazione.» «Che cosa intendi fare?» chiese
Tarcisio, nella cui voce ormai non c'era più la minima traccia del
disagio che aveva manifestato all'arrivo di Rossano.
«Dobbiamo far tornare questa guarnigione all'altezza delle mura
che deve difendere» rispose Rossano convinto, dirigendosi verso
l'arena in cui i soldati provavano finte e affondi. «E non abbiamo
molto tempo a disposizione.» Tarcisio lo seguì con affanno, ma si
bloccò sorpreso quando vide Rossano togliersi il corpetto di cuoio,
slacciare le cordicelle della camicia e sfilarsela per restare a torso
nudo.
«Voi due» disse Rossano indicando i due armigeri più vicini, che si
muovevano interpretando quelli che parevano passi di un ballo di
corte, anziché le mosse di un combattimento. «Restate qui e
preparatevi a darmi dimostrazione di ciò che sapete fare.» Poi si
rivolse a Tarcisio: «Porta gli altri a sostituire gli uomini meno esperti e
raduna tutti qui. In fretta».
Tarcisio annuì sorpreso leccandosi le labbra, poi cominciò a
sbraitare ordini verso i soldati che osservavano la scena confusi, senza
capire esattamente che cosa stesse succedendo.
Rossano sfilò la spada dal fodero, si tolse il cinturone e andò a
prendere uno dei copripunta di sughero che si usavano nelle
esercitazioni.
«Forza» disse rivolto a uno dei duellanti. «Ho bisogno di scaldarmi
un po'.» Si mise in posizione di guardia, con la spada protetta dal
sughero livellata in avanti e l'altro braccio proteso all'indietro e
leggermente piegato, come insegnava la scuola milanese.
L'armigero scambiò un'occhiata incerta con il suo compagno, poi si
mise a sua volta in posizione di guardia e fronteggiò Rossano, con una
postura che non pareva così salda sulle gambe come la situazione
avrebbe richiesto.

Il conte Rodolfo Concesa, adesso console di Alessandria, allungò


una mano e pescò uno strano frutto dal cesto che era stato preparato
in onore del suo arrivo.
«Sapete che cos'è questo?» chiese osservando il piccolo frutto
scuro e lucido.
Venanzio da Urbino si trattenne dal mostrarsi contrariato. Aveva
seguito il conte nel palazzo consolare, anziché preoccuparsi di
sistemare le sue cose negli alloggi che gli erano stati riservati, non
certo per rispondere a indovinelli sui vari tipi di frutta esotica che gli
addetti al palazzo erano riusciti a recuperare per compiacere il loro
nuovo signore. Era lì per due motivi, anzi tre.
Prima di tutto procurarsi la fiducia del conte Concesa, come gli era
stato raccomandato dal cardinale Accorsi, in modo da essere il solo
intermediario con cui il nobiluomo avrebbe interagito, quando ci
fossero state da discutere questioni militari.
«Cercherà di coinvolgere anche Rossano da Brescia» gli aveva fatto
notare il legato pontificio. «Ma voi dovrete essere abbastanza abile da
lasciare a Rossano gli incarichi pratici del comando della milizia, e fare
in modo che per le questioni politiche, tattiche e strategiche il conte e
il consiglio cittadino si rivolgano a voi, anche come rappresentante di
Sua Santità.» Venanzio aveva capito subito che si trattava di un
incarico difficile, ben al di là delle sue modeste capacità diplomatiche,
e aveva cercaco di protestare, facendo presente al cardinale che lui era
un uomo d'arme, poco incline a quelle schermaglie politiche, ma
Bruno Accorsi aveva sorriso e gli aveva mostrato una bisaccia di pelle
gonfia di denari.
«Queste sono per voi» aveva dichiarato facendo tintinnare le
monete d'oro. «Sono sicuro che saprete guadagnarvele. Dovrete solo
entrare nelle grazie di Rodolfo Concesa il tempo necessario perché una
delegazione papale vi raggiunga ad Alessandria, per occuparsi
direttamente delle questioni politiche che riguardano la vostra
missione e sgravarvi da questa noiosa incombenza.» «Quanto
tempo?» aveva chiesto Venanzio, affascinato dall'inconfondibile
tintinnio dell'oro.
«Poche settimane» era stata la risposta del cardinale Accorsi, e
questo era bastato a fargli prendere una decisione.

Ma il secondo motivo per cui si trovava lì, al cospetto di un uomo i


cui modi affettati gli causavano un certo malessere di stomaco, oltre a
una sorda rabbia che cercava di tenere a freno pensando a quanto
avrebbe ricavato da tutta quella faccenda, era tentare di capire quanta
libertà di movimento avrebbe avuto per poter avvicinare la bellissima
Angelica Concesa, un tipino altezzoso e dai modi fin troppo raffinati
per un uomo come lui, ma che per qualche motivo riusciva a fargli
bollire il sangue quando sorrideva o lo fissava con i suoi magnifici
occhi color smeraldo.
Venanzio era abituato alle baldracche dei casermaggi, o tutt'al più
alle sguattere di corte che negli ultimi tempi, da quando era stato
preso a servizio dal cardinale Accorsi, riusciva a corteggiare con la
spavalderia e il prestigio che gli venivano dal suo incarico. Adorava
corteggiare quelle puttanelle, e possederle in qualche angolo delle
cucine dei palazzi pontifici o nelle stalle. Poi, naturalmente, si
dimenticava di loro per passare alla preda successiva, se possibile più
sfrontata e succulenta della precedente.
Non avrebbe potuto comportarsi nello stesso modo con Angelica
Concesa, questo era chiaro, eppure per la prima volta nella sua vita
sentiva che il desiderio che lo bruciava dentro non era solo di
prevaricazione. Non voleva conquistare Angelica per il gusto di
sottometterla, bensì per qualcosa di più velato, di più misterioso, che
ancora non riusciva a comprendere del tutto, dal momento che di
quella ragazzina vivace ricordava soprattutto il sorriso e la luce dello
sguardo, piuttosto che il sedere o il seno florido.
Inizialmente si era un po' preoccupato per quegli strani pensieri
che lo tormentavano, ma poi, quando aveva cercato di capire quello
che gli stava succedendo, si era sentito ridicolo e aveva cominciato a
sghignazzare con disprezzo.
«Non ti starai mica innamorando, vero?» aveva chiesto alla sua
immagine riflessa in uno specchio, ed era andato avanti a ridere per
parecchio tempo, forse per celare la strana risposta che dentro di sé
aveva dato a quella domanda.
Adesso cercava di non pensare a queste cose, ma non poteva fare a
meno di avere la mente concentrata su Angelica Concesa, e di provare
il desiderio di capire dove lei fosse, cosa stesse facendo, e come poterla
raggiungere, anche solo per scambiare due parole.
Non sapeva come si sarebbe comportato se lei avesse deciso di
accettare la sua compagnia, perché non era abituato a parlare con le
donne: di solito le baciava con impeto, e poi le trascinava in qualche
angolo appartato per soddisfare le sue voglie.
Ma con Angelica l'impresa sarebbe stata molto più difficile, e lui
non sapeva come avrebbe reagito, quando fossero stati soli e avesse
letto nei suoi occhi lo stesso desiderio che lui provava al semplice
ricordo della pelle candida della ragazza.
Ma di questo si sarebbe occupato a tempo debito. Adesso era lì a
sopportare i manierismi sofisticati di Rodolfo Concesa solo perché
capiva che era il conte il suo unico viatico per poter accedere
all'intimità di Angelica. Se avesse conquistato la fiducia del padre
come armigero, come delegato papale e come persona, allora il gioco
sarebbe stato molto più facile.
C'era poi il terzo motivo, che non doveva considerare meno
importante degli altri due: Rossano da Brescia. Il cardinale Accorsi
l'aveva messo in guardia contro il nuovo comandante della
guarnigione di Alessandria: «È uno spadaccino abile, ma soprattutto
un uomo capace di entrare nel cuore dei suoi soldati, e conquistarli.
Non possiamo permettere che il bastione più avanzato della difesa
della Lega sia nelle mani di un uomo così fedele al suo incarico e di
princìpi saldi e morigerati. Abbiamo bisogno di poter contare su un
certo controllo diretto, e di mantenere la situazione abbastanza fluida
e malleabile da poterla governare in base alle necessità di Sua
Santità».
Venanzio da Urbino aveva capito poco delle parole del cardinale,
così aveva strizzato gli occhi e aveva posto una domanda diretta, che
avrebbe sciolto qualsiasi dubbio: «Volete che sia io a controllare la
guarnigione? Questo anche se Rossano da Brescia ha ricevuto un
incarico ufficiale dal Consiglio della Lega?».
Il cardinale Accorsi aveva annuito senza rispondere, e questo a
Venanzio era bastato.
Ora si trovava lì, al cospetto di Rodolfo Concesa, perché capiva che
la partita con Rossano da Brescia era molto più complicata di quanto
lo stesso cardinale avesse potuto immaginare.
Non si trattava solo di sostituirlo nel cuore della milizia che
difendeva Alessandria, ma anche in quello della donna che
Rossano gli contendeva sentimentalmente, per quanto ancora il
comandante non si fosse espresso apertamente con Angelica.
Venanzio l'aveva capito subito, fin dal primo momento in cui aveva
visto come Rossano osservava di sottecchi la figlia del conte, ogni volta
che gli era possibile.
Fra loro due, quindi, c'era in gioco una posta multipla e di grande
valore, e il solo modo che aveva Venanzio per cercare di metterlo da
parte e sopravanzarlo era entrare nelle grazie di Rodolfo Concesa, per
quanto quella prospettiva gli causasse una certa qual nausea.
Così si concentrò sul frutto che il conte stringeva con due dita
mentre glielo mostrava, e anche se sapeva che si trattava di un dattero,
una prelibatezza che arrivava dal lontano Oriente, scosse la testa e
ammise la sua ignoranza: «Non l'ho mai visto prima» disse.
«Dev'essere davvero raro e prezioso.» «Oh, sì, potete ben dirlo» annuì
divertito il conte lanciando il dattero a Venanzio. «Assaggiatelo,
sentirete che prelibatezza.» Venanzio morsicò il frutto, il cui sapore
dolciastro e appiccicoso non gli era mai piaciuto, e si finse sorpreso.
«Davvero squisito» affermò. «Di quale frutto si tratta, se mi è
permesso chiederlo?» Rodolfo Concesa scoppiò a ridere, poi afferrò a
sua volta un dattero e se lo ficcò in bocca, cominciando a succhiarlo
soddisfatto.
«Li chiamano frutti della passione, anche se non hanno altro
effetto che quello di regalare momenti di autentico appagamento al
palato. Il nome volgare è datteri. Provengono da Costantinopoli.»
Venanzio annuì, dando l'impressione di essere sempre più sorpreso,
poi raccolse la coppa di vino che la servitù di palazzo gli aveva versato
e ne bevve un lungo sorso, per cancellare il sapore stucchevole del
dattero.
«Una vera prelibatezza» mentì, sciacquandosi la bocca con il vino
nero e corposo che producevano da quelle parti e che, quello sì, lo
sorprese positivamente. «Credo però che non potrei mai
permettermene un cesto.» Il conte rise di nuovo, poi all'improvviso
cambiò discorso, con l'alterigia comune agli uomini abituati a
condurre le conversazioni secondo i propri ritmi e i propri flussi di
pensiero.

«Credo che ci vorrà parecchio lavoro per dare una sistemata a


questa città, anche se i presidi militari mi sembrano all'altezza.
Voi che ne dite?» Venanzio celò un sospiro dietro la coppa di vino,
si pulì la bocca con l'avambraccio, poi parlò con la sicurezza che gli
veniva dal poter finalmente affrontare un argomento di cui si riteneva
esperto.
Mentre la discussione fra lui e il conte proseguiva, Venanzio
continuò a chiedersi dove fosse la dolce Angelica, e come avrebbe
potuto fare per incontrarla al più presto. Da solo.

5
«Madamigella, presto, correte!» Angelica osservò sorpresa la sua
giovane dama di compagnia, che di solito era seria e compassata come
una tutrice e che di rado lasciava sfogo all'esuberanza della sua età.
Verusca aveva le gote imporporate, e sgranava gli occhi mentre
procedeva spedita verso di lei, con una mano sul seno e l'altra che
fendeva l'aria in preda a una strana agitazione.
«Che succede?» le chiese Angelica divertita, guardandosi attorno
per vedere se c'era qualcun altro che potesse assistere a quello strano
siparietto.
«Venite a vedere!» l'incalzò Verusca, eccitata come una bambina.
«Aspetta, calmati» le disse Angelica afferrandola per entrambe le
braccia. «Si può sapere che succede?» «Ricordate quell'uomo?» le
chiese inaspettatamente Verusca.
«Quello che avete incontrato a Milano, alla fontana davanti al
palazzo del console Gisalberti?» «Certo» rispose Angelica, adesso assai
più interessata a quanto agitava la sua giovane dama di compagnia.
Come avrebbe potuto dimenticare lo sguardo intenso di quell'uomo, le
sue spalle larghe, il portamento eretto e i modi gentili con cui si era
rivolto a lei? Ancora non aveva voluto confessarlo apertamente a se
stessa, ma Angelica negli ultimi giorni non aveva fatto altro che
pensare a lui, con il cuore che le batteva nel petto e una strana
sensazione di calore che la pervadeva, anche se non capiva
esattamente perché. Osservò più attentamente Verusca, poi le chiese:
«Sai per caso dove si trova? L'hai visto?».
«Sì, madamigella!» rispose Verusca imporporandosi di nuovo.
«È un uomo bellissimo, forte e autorevole, e io...» «Dove?» le
chiese Angelica con un'improvvisa nota di urgenza nella voce. «Dove
l'hai visto?» «Qui» rispose la damigella. «Lui è qui.» Angelica la
osservò sorpresa.
«Qui ad Alessandria, intendi?» «No, madamigella! O meglio, sì, ma
non solo.» «Si può sapere che cosa...» Anziché rispondere alla
domanda, Verusca afferrò Angelica per una mano e corse via,
strattonandola e costringendola a seguirla.
«Venite!» continuava a ripetere, tutta eccitata. «Guardate voi
stessa!» Angelica si lasciò trascinare fino a uno dei corridoi del palazzo
dove a tratti si aprivano grandi finestre ad arco che davano sul cortile
posteriore, nel quale sapeva che c'erano gli acquartieramenti della
guarnigione della città.
Continuava a non capire che cosa intendesse suggerirle Verusca,
ma quando lei si avvicinò a una finestra e guardò fuori, portandosi
entrambe le mani alla bocca, avvertì il battito del cuore accelerare.
Si avvicinò lentamente alla finestra, appoggiò le mani contro una
colonnina tortile che ne decorava la struttura portante, e guardò fuori.
In un primo momento non vide nulla di particolare, e un senso di
delusione la invase mentre contemplava alcuni soldati che, come
sempre, trascorrevano parte della giornata nello spiazzo riservato
all'addestramento militare.
Poi, proprio nel momento in cui stava per girarsi verso Verusca e
chiederle quale scherzo avesse deciso di farle, intravide l'armigero a
torso nudo che, nel centro dello spiazzo, stava duellando con un altro
soldato. Il sole si rifletteva sulla sua schiena e sulle spalle forti, mentre
l'uomo si muoveva come se danzasse, con leggerezza, senza sollevare
la polvere come faceva il suo avversario, che Angelica comprese subito
trovarsi in grosse difficoltà.

Quando l'uomo a torso nudo fece una specie di piroetta per evitare
un affondo impacciato e balzò di lato per cogliere di sorpresa il suo
avversario, Angelica finalmente potè vederlo in viso, e il cuore riprese
a batterle con forza nel petto.
«È lui, non è vero?» mormorò Verusca.
Angelica annuì lentamente, mentre sentendosi rimescolare dentro
non riusciva a staccare gli occhi dal petto sudato dell'uomo, sul quale i
muscoli guizzavano pieni di forza, ogni volta che muoveva la spada.
Era proprio lui, non aveva alcun dubbio in proposito, e solo dopo
aver superato la gioia e la vertigine che l'avevano colta, si chiese come
mai fosse giunto là.
«Chi è?» chiese a Verusca. «Perché è qui ad Alessandria?» La
dama di compagnia scosse appena le spalle minute.
«Non ricordate?» rispose. «Si chiama Rossano da Brescia, ed è il
nuovo comandante della guarnigione. Quando me ne hanno parlato
non pensavo che potesse trattarsi dello stesso giovane che avete
conosciuto a Milano.» Angelica, continuando ad ammirare il corpo
perfetto dell'uomo e il modo agile ed elegante con cui si muoveva,
avvertì crescere ancora quel calore che già altre volte l'aveva turbata,
soprattutto quando, nel sonno, ricordava lo sguardo che lui le aveva
rivolto a Milano, prima che lei lo salutasse.
«È stato arruolato da mio padre, dunque» disse, costringendosi a
voltare lo sguardo verso Verusca. Aveva bisogno di saperne il più
possibile su Rossano da Brescia, e la damigella avrebbe potuto
ricoprire un ruolo fondamentale in questo compito.
«Credo di sì» rispose Verusca. Poi la giovane tornò a guardare
nell'arena militare e si emozionò di nuovo. «È davvero bellissimo, non
trovate?» Angelica annuì, però colse qualcosa di strano nella voce di
Verusca, e finalmente comprese per quale motivo lei era così
sconvolta.
Non le aveva fatto vedere Rossano da Brescia non perché aveva
capito che a lei piaceva e che lo ricordava ogni volta che le era
possibile, ma perché a sua volta nutriva una forte passione nei
confronti del nuovo comandante della guarnigione.
«Verusca» le chiese, costringendola a voltarsi verso di lei.
«Devo forse intendere che ti sei innamorata di Rossano da
Brescia?»
La damigella, se possibile, divenne ancora più rossa in viso e
abbassò gli occhi.
«Io...» provò a dire, ma non le uscì altro dalla gola.
Angelica la osservò sorpresa, incapace di continuare la
conversazione. Aveva conosciuto Rossano solo per un breve istante, e
dunque era impossibile che si fosse innamorata di quell'uomo, anche
se il turbamento che avvertiva in tutto il corpo quando pensava a lui
era abbastanza chiaro, ma adesso non poteva credere che la sua
damigella di compagnia provasse gli stessi sentimenti per l'uomo che
le tormentava dolcemente il sonno.
«Rispondimi» disse dopo un po', con maggior foga, perché non
poteva restare nel dubbio. «Sei innamorata di Rossano da Brescia?»
Verusca sollevò lo sguardo, esitò, poi allargò un timido sorriso.
«Sì» confessò. Poi, sgravata finalmente da quel peso, parve
rianimarsi e si rivolse ad Angelica con gli occhi sgranati. «Voi che ne
pensate, madamigella? Credete che il mio sia un amore folle? Che
dovrei contrastarlo prima di soccombervi?» Un'ombra di paura le
attraversò il viso, ma poi sembrò distendersi e sorrise di nuovo.
«In fondo non è un nobile né un cavaliere di prestigio» disse, quasi
parlasse a se stessa, «quindi non dovrebbe trovare svilente trascorrere
un po' di tempo insieme a me, se io dovessi piacergli.» Angelica si sentì
salire le lacrime agli occhi, e con rabbia le ricacciò indietro. Che cosa le
stava succedendo? Perché non scoppiava a ridere e non incoraggiava
Verusca in quell'amore, com'era nella sua natura, come aveva sempre
fatto? Perché il solo pensiero che un'altra donna fosse affascinata da
Rossano da Brescia le faceva tanto male?
Scosse la testa e fissò Verusca.
«Come puoi esserne innamorata?» le chiese, rendendosi conto che
stava parlando anche a se stessa. «L'hai visto solo una volta, per di più
da lontano. Tu eri nella carrozza, quando io sono andata alla fontana.»
«Mi è bastata una sola occhiata» rispose Verusca, con uno strano
sguardo sognante che trafisse il petto di Angelica come una lama
affilata. «Un'occhiata che lui ha ricambiato, me ne sono accorta. Da
allora non riesco a fare a meno di pensare continuamente a lui.»
Angelica si sentì gelare.

«Ti ha guardata?» le chiese, cercando di non lasciar trasparire


l'angoscia che la stava attanagliando.
«Sì!» esclamò Verusca, adesso più simile a una bambina eccitata
che alla composta dama di compagnia che da due anni l'affiancava
come una madre e come un'amica. «Non ho dubbi, su questo. Mi ha
guardata e mi ha sorriso. E l'ha fatto in un modo che il cuore di una
donna non può confondere né ignorare.» Angelica si sentì mancare,
ma riuscì a tenersi aggrappata alla colonnina giusto il tempo per
riprendersi. Si augurò che Verusca non si fosse accorta di nulla, quindi
si staccò dalla finestra e si diresse il più velocemente possibile verso le
sue stanze.
«Che succede?» le chiese Verusca seguendola preoccupata.
«Ho forse detto qualcosa di...» «No» l'interruppe Angelica.
«Scusami, sono solo molto stanca e ho ancora parecchie cose da fare.»
«Posso occuparmene io» disse Verusca, tornando la damigella
diligente abituata a prendersi cura di lei.
«Faccio da sola» rispose Angelica con impeto e rabbia
sproporzionate, e quando vide che Verusca ammutoliva si voltò e corse
via, con le lacrime che tornavano a salirle agli occhi e un terribile senso
di frustrazione che le rendeva molli le ginocchia.
Riuscì a raggiungere appena in tempo le sue stanze, si barricò
dentro e finalmente diede sfogo al pianto che le era cresciuto dentro,
prepotente e in qualche modo liberatorio, mentre si abbandonava
esausta sul grande letto a baldacchino che le era stato preparato con
tanta cura dalla stessa Verusca e dalle altre damigelle di palazzo.
6
Rossano aveva affrontato entrambi gli armigeri che, quella
mattina, gli erano sembrati i migliori tra coloro che si stavano
addestrando nell'arena. La delusione, per lui, era stata grande quando
si era reso conto, dopo pochi affondi e qualche parata di stampo
classico, che non erano assolutamente al livello che si attendeva.
Il suo primo avversario era impacciato nei movimenti, lento di
gambe e incapace di sfruttare la sua pur bassa statura per mantenere
un buon equilibrio durante gli attacchi che sferrava in maniera goffa e
ampiamente prevedibile.
Rossano non aveva voluto approfittare del giovane, immaginando
che fosse anche emozionato e intimorito dalla prova che gli veniva
chiesta all'improvviso, senza che nessuno lo avesse preparato. Si era
quindi mosso con calma, cercando di spiegare all'uomo, mossa dopo
mossa, in che cosa sbagliava e come avrebbe potuto migliorare i suoi
colpi, se solo avesse rilassato un po' di più i muscoli e si fosse lasciato
guidare dall'istinto.
Il suo secondo sfidante era stato un po' più impegnativo, forse
perché aveva avuto il tempo di abituarsi all'idea che presto sarebbe
toccato a lui affrontare Rossano, il suo nuovo comandante, e dare
dimostrazione del proprio valore. Aveva poi ascoltato con attenzione i
suggerimenti che Rossano aveva dato al suo compagno d'arme, e aveva
potuto osservarlo mentre danzava agile e sicuro senza trascinare i
piedi nella polvere. Così, quando infilò la protezione di sughero sulla
punta della spada e si mise in posizione di guardia, non aveva lo
sguardo sperduto e angosciato del suo compagno, e aveva potuto dare
sfoggio di alcuni colpi e parate che Rossano aveva giudicato egregi,
seppure portati con troppa fretta e adombrati dall'incertezza.
«Dovete lasciare spazio all'istinto» aveva ripetuto Rossano per
l'ennesima volta, parando un affondo a mezzo busto e ruotando polso
e bacino per portarsi sul fianco dell'avversario e mimare un fendente
che gli avrebbe tagliato di netto il braccio all'altezza della spalla.
Mentre Rossano cercava di spiegare come l'arte della spada non
fosse solo calcolo e precisione, ma anche il risultato di una miscela di
tecnica e istinto, Tarcisio Bonassei aveva radunato gli uomini meno
esperti della guarnigione e li aveva fatti schierare attorno al punto in
cui i duellanti si prodigavano in affondi e parate.
Quando finalmente tutti gli uomini in forze ad Alessandria furono
nella piazza d'arme, Rossano abbassò la spada e fece segno al suo
avversario, stremato e con il corpo lucido di sudore, che potevano
fermarsi.
Poi chiamò Tarcisio e indicò gli uomini schierati, tutti con l'aria
incerta e preoccupata di chi da troppo tempo aveva smesso di
esercitarsi.

«Falli dividere in quattro gruppi» ordinò Rossano. «Poi tracciate


dei quadrati e fai in modo che si dispongano tutti intorno.
Li voglio a torso nudo, ognuno con la propria spada e le protezioni
di sughero inserite.» Mentre Tarcisio abbaiava gli ordini, che gli
uomini eseguirono sconcertati ma in silenzio, Rossano andò a
prendere alcuni sacchi di canapa che aveva visto accatastati in un
angolo.
Dopo che furono tracciati i quadrati di allenamento, Rossano tagliò
i sacchi con il coltello, ricavandone dei quadrati larghi una spanna. Poi
andò a sistemarli nel primo dei quadrati, muovendosi come un
ballerino sulla polvere per individuare la posizione esatta in cui
collocarli.
Quando ebbe terminato, si voltò a guardare gli uomini a torso nudo
che lo circondavano e che, ordinatamente schierati intorno alle arene
appena tracciate, parlottavano fra loro sottovoce.
A parte due o tre soldati particolarmente giovani e snelli, la
maggioranza esibiva pance prominenti, barbe incolte e nasi arrossati
dal pessimo vino servito nelle bettole dei quartieri più poveri della
città.
«Non mi sembrate in buona forma» disse rivolgendosi a tutti senza
eccezione. «E questo non solo non vi fa onore, ma mette in pericolo la
vostra vita e quella di tutti i cittadini di Alessandria.» Tacque per un
istante, mentre sulla piazza d'arme calava il silenzio e tutti
distoglievano lo sguardo.
«Forse non avete idea di quello che sta per succedere» continuò
Rossano, passando in rassegna quei volti sudati e pieni d'imbarazzo.
«Così ve lo spiegherò io.» Tacque ancora, poi fece segno a Tarcisio di
raggiungerlo.
«Dimmi, comandante» fece l'uomo prodigandosi in un leggero
inchino.
«Manda a prendere dei bastoni. Ne servono una ventina, alti metà
di un uomo e abbastanza spessi da poterli impugnare come una
spada.» «Sì, comandante» annuì Tarcisio. Si voltò, chiamò con un
cenno un paio dei suoi ufficiali più fidati e si allontanò con loro in
direzione degli alloggiamenti militari.
Rossano tornò a rivolgersi alla folla che lo scrutava muta.
«Alessandria non è una semplice fortezza» spiegò loro. «È un
baluardo che è stato eretto per fronteggiare chiunque cerchi di
invadere i Comuni Padani scendendo dalle Alpi.» I soldati si
scambiarono occhiate preoccupate, ma restarono in silenzio,
attendendo che Rossano continuasse.
«Io sono qui per questo» aggiunse. «Per garantire alla Lega dei
Comuni che Alessandria riuscirà a opporre una valida resistenza alle
forze imperiali che caleranno dalla Germania.» Si fermò ancora,
lasciando che quegli sprovveduti recepissero queste informazioni
nuove per loro.
«Federico I il Barbarossa sta mettendo insieme un potente
esercito» riprese dopo un po'. «E cercherà di attraversare questa valle
per portare i suoi uomini a fronteggiare le truppe collegate, che
Alberto da Giussano sta radunando e organizzando.» Questa volta il
brusio attorno a Rossano divenne un forte clamore, mentre tutti gli
uomini parlavano fra loro preoccupati e sorpresi.
«Per troppo tempo siete rimasti qui a poltrire!» li azzittì alzando
imperiosamente la voce. «È giunto il momento che torniate a svolgere
il compito che vi compete, quello di soldati della guarnigione della
fortezza. Per il giorno in cui l'imperatore comparirà all'orizzonte,
dovrete essere pronti ad affrontarlo, altrimenti non solo Alessandria
sarà spazzata via, ma tutti i Comuni conosceranno la furia delle truppe
imperiali.» Mentre il panico, l'incertezza e lo stupore crepitavano fra le
fila degli armigeri schierati, Tarcisio fu di ritorno con i suoi uomini,
tutti carichi di bastoni come aveva chiesto Rossano.
«Questi vanno bene?» «Sì» annuì Rossano. «Fanne piantare uno
su ogni pezzo di canapa che ho steso per terra. Fra poco inizieremo
l'addestramento.» Mentre Tarcisio obbediva agli ordini senza chiedere
spiegazioni, anche se era evidente che non aveva la più pallida idea di
che cosa passasse per la mente a Rossano, questi sollevò le braccia per
indurre tutti al silenzio.
«Predisporremo turni di guardia e di addestramento in modo che
tutti possiate trascorrere qualche ora ogni giorno in questa arena»
rivelò. «Mi occuperò personalmente di seguire la vostra preparazione.
Non sappiamo quando il Barbarossa arriverà con il suo esercito, ma
per allora pretendo che tutti voi torniate a essere consapevoli del
vostro ruolo e riusciate a tornare quei soldati di cui adesso siete solo
delle pallide ombre. È chiaro?» Nessuno rispose, e mentre gli occhi si
abbassavano e le mani stringevano nervosamente le impugnature delle
spade, Rossano si avvicinò a Tarcisio e indicò i due uomini con cui
aveva duellato qualche tempo prima.
«Loro ci aiuteranno nell'addestramento» disse. «Come si
chiamano?» «Quello più basso di statura è Bartolomeo Tucci, l'altro si
chiama Fulvio.» «Bene» annuì Rossano. «Di' loro di venire qui.
Iniziamo subito gli esercizi. Vi spiegherò esattamente quello che
dobbiamo fare.» 7
«Tenete i piedi ben saldi e le gambe leggermente piegate» ripetè
per l'ennesima volta, mentre osservava la goffaggine con cui alcuni
uomini della guarnigione impugnavano le spade e cercavano di seguire
le sue istruzioni. «Vedete l'asta di legno davanti a voi? Dovete farla
corrispondere al centro esatto del vostro corpo, in modo che la mano
che impugna la spada si trovi a destra, mentre l'altra, con lo scudo o
per bilanciamento, sia a sinistra. Tutto chiaro?» Qualcuno mugugnò,
qualcun altro provò impacciato ad avvicinarsi al palo conficcato a
terra, sfiorandolo con il naso e privandosi così di una parte della
visuale.
Rossano chiuse gli occhi esasperato, si portò davanti a una delle
aste d'allenamento e assunse la posizione di guardia classica, con una
gamba leggermente più indietro dell'altra, il braccio destro proteso in
avanti con la spada livellata, e il sinistro spinto all'infuori e con il
gomito piegato, la mano diretta verso l'alto, per bilanciare il leggero
scompenso in avanti del corpo.
Il palo era a una spanna dal suo naso, perfettamente allineato con
il piano di simmetria verticale del suo corpo.
«Questa è la posizione» disse. «Non è troppo difficile. Forza,
riprovate.» Mentre gli uomini cercavano di imitare quello che avevano
visto, un ragazzo lentigginoso di non più di vent'anni gli mostrò la
spada, che reggeva con la mano sinistra e chiese, imbarazzato: «I
mancini come devono comportarsi?».
Rossano chiuse gli occhi e trattenne la rabbia. Non gli era mai
capitato di avere a che fare con gente tanto inesperta e incapace.
Cominciava a essere seriamente preoccupato, perché con una
milizia del genere non sarebbe riuscito a tenere testa a una sola
compagnia di fanti imperiali, altro che bloccare il Barbarossa in quella
valle per dare tempo ad Alberto da Giussano di organizzare l'esercito.
«Non cambia nulla» rispose dopo un po', quando si fu calmato.
Sapeva che sarebbe stato inutile prendersela con quegli uomini:
negli anni trascorsi nella guarnigione non avevano mai avuto
occasione di impegnarsi in battaglia, e la solidità delle mura aveva
fatto credere loro che non avessero bisogno di tenersi in allenamento.
Raggiunse il ragazzo, lo portò davanti a un bastone e lo aiutò ad
assumere la postura corretta.
«Ecco, così, vedi?» gli disse dopo che il giovane fu in posizione di
guardia. «È tutto uguale, semplicemente devi scambiare la posizione
della parte sinistra del corpo con quella a destra. E viceversa.»
«D'accordo» rispose il giovane, provando a piegare le gambe e ad
abbozzare qualche breve affondo mantenendosi con il naso in perfetto
allineamento con il bastone.
Per lo meno questo non è goffo come gli altri pensò Rossano.
«Bene, adesso cercate tutti di mettervi in posizione» disse
rivolgendosi al grosso del gruppo di cui si stava occupando
personalmente. Gli altri uomini erano stati affidati a Tarcisio, a
Bartolomeo e a Fulvio, oltre che a un paio di altri armigeri fra i più
esperti della guarnigione, che avevano dimostrato a Rossano di non
avere perso del tutto l'abilità nel maneggiare la spada e i princìpi
basilari del combattimento corpo a corpo.
Uno di questi, Gustavo da Avignone, gli aveva chiesto: «Perché
dobbiamo insegnare agli uomini il combattimento ravvicinato?
In fondo dobbiamo difendere una fortezza, e forse sarebbe meglio
dedicarci ad approfondire le tecniche per resistere a un assedio».
Rossano aveva inclinato appena la testa.
«Ottima domanda» aveva risposto, mentre parava un banale
affondo di Gustavo e gli allargava la spada con un colpo secco laterale,
aprendo una vera e propria voragine nella linea di guardia
dell'avversario. «In realtà, però, credo che dovremo essere pronti a
tutto, anche a un'invasione della città. Non ci troveremo di fronte un
nemico qualsiasi, ma l'imperatore Federico in persona, che come sai
non perdona nulla a chi osa fronteggiarlo.» Gustavo si era accorto di
essere rimasto allo scoperto, e con un guizzo istintivo era corso ai
ripari, riuscendo a mettere in campo una parata di traverso che aveva
piacevolmente sorpreso Rossano, anche se il colpo che aveva portato
era finalizzato solo a vagliare le capacità di reazione dell'uomo.
Dopo quel colpo, aveva comunque compreso che poteva arruolare
Gustavo da Avignone fra i pochi che avrebbero potuto dargli una mano
nell'addestramento, così aveva fatto cenno di abbassare la spada.
«L'esercito imperiale è molto forte, bene organizzato e
determinato» aveva continuato, rivolgendosi a Gustavo ma anche agli
altri uomini che li osservavano in silenzio. «Probabilmente resterà
sorpreso di fronte ai bastioni di questa città, che non possono essere
valicati impunemente, ma sono sicuro che in qualche modo il
Barbarossa riuscirà a fare irrompere i suoi uomini oltre le mura, e a
quel punto non avremo altra possibilità che affrontarli corpo a corpo.»
Nessuno osò ribattere, ben sapendo come si erano comportate le
milizie imperiali durante le altre calate in Italia, con città rase al suolo
nonostante difese a torto ritenute insuperabili. Alessandria era stata
costruita con una concezione nuova, coraggiosa e imponente, ed era
chiaro che avrebbe potuto opporre maggiore resistenza agli uomini e
alle macchine da guerra del Barbarossa, ma nessuno avrebbe
scommesso sul fatto che sarebbe riuscita a tenere fuori l'esercito
imperiale a tempo indefinito.
«In ogni caso» aveva continuato Rossano detergendosi il sudore
dalla fronte, «ha ragione Gustavo, quando dice che dovremmo
dedicarci anche alle tecniche di difesa dagli spalti.
Ce ne occuperemo subito dopo aver dato una sana strigliata a quei
pelandroni, senza dimenticare che sarà essenziale riuscire a trovare il
maggior numero possibile di validi arcieri e balestrieri da disporre
sulle merlature.»
«A questo posso pensare io» aveva detto Tarcisio. «Sono arciere di
formazione, e credo di avere ancora una buona tecnica e un'ottima
mira.» «Bene» aveva annuito Rossano dandogli una pacca sulla spalla.
«Allora adesso mettiamoci al lavoro.» Per tutta la giornata gli armigeri
della guarnigione si erano alternati in brevi duelli, finte, affondi e
parate che svolgevano all'interno dei quadrati tracciati nella piazza
d'arme. I bastoni che erano serviti a impostare le posizioni nella
postura di guardia della scuola milanese, che Rossano considerava fra
le più semplici e le più efficaci, erano stati tolti, per lasciare un po' di
libertà di movimento e dare la possibilità, a chi ne era in grado, di
sfruttare l'istinto per distinguersi.
E in effetti le cose erano sembrate subito migliorare, facendo tirare
a Rossano un grosso sospiro di sollievo: una ventina di uomini,
seppure impacciati dal grasso e dalla facilità con cui si stancavano e
perdevano fiato, avevano cominciato a riesumare le tecniche apprese
ai tempi del primo addestramento militare, e almeno cinque o sei di
costoro, una volta riscaldati e divenuti un po' più sicuri di se stessi,
avevano dimostrato di disporre di una certa abilità nel maneggiare la
spada, riuscendo a mettere in difficoltà i loro addestratori.
Rossano li aveva quindi "arruolati" fra i suoi collaboratori,
affidando loro altri uomini a cui illustrare i princìpi fondamentali
dell'arte della spada.
I risultati migliori, e per certi versi sorprendenti, erano arrivati
invece dal gruppo di arcieri che Tarcisio Bonassei aveva radunato, e
che dopo avere recuperato archi, balestre e dardi, avevano cominciato
a dare dimostrazione delle proprie capacità tirando contro bersagli
posti a cinquanta passi di distanza.
Con sorpresa di Rossano ben pochi erano i colpi che andavano a
vuoto, e quando Tarcisio aveva fatto spostare i bersagli a settanta
passi, il comandante si era concentrato sul gruppo di arcieri, affidando
gli armigeri che duellavano agli altri addestratori.
Settanta passi erano una distanza d'allenamento discreta, questo
Rossano lo sapeva, e restò ad ammirare le traiettorie delle frecce e dei
dardi delle balestre nell'aria, scoprendo che anche in questo caso
erano davvero pochi i colpi che mancavano il bersaglio.

«Buona prova, vero comandante?» gli disse Tarcisio affiancandolo.


«Almeno su questo fronte non siamo messi troppo male.» Rossano
annuì, osservando con attenzione un uomo robusto, dal ventre
prominente e dalle braccia colossali, fra le cui dita l'arco a un'asta e
mezza pareva un'arma giocattolo. La prima volta che l'aveva visto
tirare aveva avuto la sensazione che il gigante avrebbe spezzato l'arco
in due, grazie alla forza poderosa delle braccia, invece la corda si era
tesa quasi con delicatezza, raggiungendo la posizione limite a un
centimetro dal petto dell'uomo, e quando il dardo era scoccato aveva
compiuto una parabola perfetta, andando a colpire il bersaglio quasi
nel centro del grande cerchio di paglia e canne intrecciate.
Il gigante aveva scosso la testa come se non fosse stato soddisfatto
del tiro, aveva raccolto un'altra freccia, aveva messo in tensione la
corda con una facilità sconcertante, poi aveva lasciato partire il colpo
allargando un sorriso ancora prima che il dardo centrasse il bersaglio.
«Chi è quell'uomo?» chiese Rossano mentre il gigante afferrava
una balestra, metteva in tensione la corda tirandola con due sole dita e
inseriva un quadrello nell'incavo di lancio.
«L'hai notato, vero?» sorrise Tarcisio. «Si chiama Sebastiano
Ardenghi, e fino a qualche anno fa era uno dei cuochi di palazzo.»
Rossano lo guardò perplesso. «Un cuoco?» chiese.
«Esatto. E anche piuttosto bravo, da quello che si dice. Ma da
quando ha scoperto l'arte del tiro con l'arco...» Tarcisio scosse la testa
con un sorriso. «Ha lasciato tutto e non pensa ad altro.
Credo sia uno dei pochi, in questa piazza d'arme, che speri di poter
presto affrontare qualcuno per dimostrare la propria abilità.» Rossano
tornò a concentrarsi sul gigante, che dopo avere atteso il suo turno si
era posizionato con il piede sinistro leggermente avanzato e il destro
arretrato, la balestra appoggiata alla spalla e il testone reclinato per
osservare il bersaglio attraverso le tacche di mira all'altezza dell'asta di
tiro e della punta dell'arma.
Aspettò solo pochi secondi, poi lasciò partire il colpo e si tirò su per
guardare la corsa del quadrello.
Il dardo, anche stavolta, colpì il bersaglio nel centro esatto, facendo
cadere la freccia che lui stesso vi aveva infisso precedentemente.
Un coro di grida si alzò per inneggiare a quel colpo da maestro, ma
Sebastiano Ardenghi non mostrò di volersi pavoneggiare con i
compagni. Sorrise a un paio di loro, mormorò qualche parola, poi si
appartò in un angolo per regolare le corde che registravano la tensione
di lancio della balestra.
Rossano annuì e disse a Tarcisio, indicando il gigante: «Prendilo
con te come addestratore. Ci servono molti più arcieri di quelli che
vedo qui. E forse qualcuno di quei goffi schermidori sarà più utile con
un arco o una balestra in mano, che con una spada.» Rossano concesse
a tutti una pausa per la cena, ma proibì agli uomini sposati di tornare a
casa e agli uomini d'arme che alloggiavano nei casermaggi di andare a
stendersi per riprendere fiato.
Capiva che erano tutti stanchi, per non dire stremati, ma aveva
ancora parecchie cose da insegnare loro, e voleva approfittare di ogni
momento di luce possibile per fare chiarezza su alcune tattiche che gli
stavano a cuore, e in cui presto li avrebbe voluti vedere impegnati.
Una di queste l'aveva vista utilizzare dai berberi Almohadi contro
un assalto della cavalleria normanna, con risultati che Rossano aveva
sempre considerato prodigiosi.
Quando Tarcisio e alcuni dei suoi arrivarono con le lunghe pertiche
che aveva fatto raccogliere, e con una decina di scudi, porse le picche a
una ventina fra gli uomini più robusti.
«Ecco un caso in cui la stazza assume grande importanza» disse,
facendo scoppiare una salva di risate. Rossano azzittì tutti sollevando
le braccia. «A parte gli scherzi, una parte di voi si allenerà con queste
lanzalonghe, per mettere in pratica una tattica capace di dare filo da
torcere a un assalto di cavalleria pesante.» Un mormorio sorpreso
attraversò le fila di soldati schierati in cerchio attorno a Rossano. Li
aveva voluti tutti lì, anche gli uomini di ronda sugli spalti, decidendo
di lasciare solo poche sentinelle sulle torri d'osservazione visto che
pareva improbabile che l'imperatore scegliesse proprio quel momento
per invadere la valle del Tanaro.

«Guardate, queste picche sono abbastanza robuste da resistere


all'impatto frontale con un cavallo, e siccome possono arrecare gravi
ferite, costringono i cavalieri a indietreggiare oppure a rischiare di
essere sbalzati di sella.» Mentre parlava, Rossano aveva impugnato a
due mani una delle aste e l'aveva sollevata, inclinandola in avanti e
calcando con il piede sulla base della picca, per tenerla ferma.
«Quello che è fondamentale» continuò «è che ci siano almeno due
file di picchieri, una dietro l'altra, in grado di mantenere sollevate le
lance con inclinazioni diverse: la prima fila deve immaginare di
arrestare la corsa dei cavalli al galoppo, mentre la seconda deve
contrapporsi ai cavalieri, che devono capire subito che potrebbero
finire impalati se dovessero essere sbalzati di sella.» Rossano chiamò
un paio degli uomini più robusti e li fece mettere in posizione, con le
punte delle picche protese all'altezza del garrese di un cavallo e il calzo
ben piantato a terra. Poi ne chiamò altri due e li fece mettere dietro i
compagni, con le lance conficcate a terra e sollevate oltre le loro teste.
«Ecco» annuì Rossano, «così. Il baluardo che si verrà a creare sarà
capace di fermare l'assalto della cavalleria, anche perché incuterà
timore nei cavalieri, che ci penseranno due volte prima di gettarsi con
le loro cavalcature contro una simile trappola.» I mugugni che
avevano attraversato le fila degli astanti si trasformarono ben presto in
mormorii sorpresi, quando quello che stava dicendo Rossano si fece
strada nei loro cervelli.
«È importante, però, che le lance siano ben piantate a terra»
continuò Rossano, «e che nessuno abbandoni lo schieramento, perché
una sola falla nello sbarramento potrebbe compromettere tutto,
consentendo alla cavalleria di sfondare.» «Non dev'essere facile tenere
a lungo in posizione quelle aste» disse qualcuno dalla folla, che
Rossano non riuscì a individuare.
Comunque annuì, perché chiunque avesse parlato aveva ragione.
«Proprio per questo ho detto che mi servono persone robuste»
rispose. «Un uomo corpulento può essere svantaggiato in un duello
corpo a corpo, ma è eccellente per mantenere in posizione delle picche
come queste. Naturalmente occorrono altri accorgimenti, come quelli
che ho visto usare dai picchieri berberi, ma risolveremo anche questo
problema.» «Quali accorgimenti?» chiese un'altra voce.
«Prepareremo un sistema di cinghie di cuoio con cui affrancare le
aste al corpo dei picchieri dopo che saranno state piantate a terra»
rispose Rossano. «E faremo delle impugnature di corda lungo l'asta,
per rendere più salda la presa.» «Perché non attacchiamo dei rostri
lungo le lance?» chiese un altro. «Potrebbero rendere quelle picche
ancor più letali.» «No» scosse la testa Rossano. «Non possiamo
appesantirle troppo. Sarà già difficile sfruttarle a fondo così, se
esageriamo rischiamo di farle diventare inutilizzabili.» «Ma come
possiamo difenderci dagli arcieri e dai balestrieri?» chiese un'altra
voce anonima.
Rossano indicò gli scudi accatastati a terra.
«Questi sono pavesi» rispose. «Di solito li usano i balestrieri, per
avanzare e mantenersi al riparo mentre scagliano i loro dardi.
Io ho visto i picchieri berberi tenerli accanto a sé e usarli per
difendersi da quadrelli e frecce, pur senza abbandonare la posizione a
istrice delle lanzalonghe. E quando erano troppo stanchi, c'erano dei
loro compagni che li affiancavano e si incaricavano di difenderli da
eventuali attacchi di arcieri e balestrieri.» Un mormorio sorpreso
corse fra gli uomini, ma nessuno ebbe altro da aggiungere, e Rossano
si preparò a farli dividere in squadre, per cominciare subito a
verificare chi potesse essere più adatto a ricoprire il ruolo di picchiere.
In quel momento, però, nell'arena si levò un grido, e il frastuono di un
cavallo al galoppo fece gelare il sangue nelle vene di tutti i presenti.
Rossano si voltò allarmato, e vide un enorme corsiero da guerra
dirigersi a tutta velocità contro i quattro uomini armati di picche che
avevano ascoltato le sue parole e che restavano schierati in posizione.
Qualche metro prima che il cavallo rovinasse addosso alle picche
protese, i quattro soldati abbandonarono terrorizzati la presa e si
diedero alla fuga.
Il corsiero calpestò con gli zoccoli alcune aste, spezzandole, poi si
fermò bruscamente quando il suo cavaliere tirò le redini con forza.
«Davvero una tattica prodigiosa, comandante!» affermò Venanzio
da Urbino scendendo da cavallo e andando incontro a Rossano con un
sorriso sarcastico sulle labbra. «Peccato che nessuno riesca a restare
imperturbabile di fronte alla carica di un corsiero da guerra.» Si voltò
a indicare il cavallo che sbuffava ancora, con le froge dilatate. «E
quello era solo uno, senza corazza e senza un guerriero armato in
sella.» Quando tornò a fissare Rossano, il sorriso si era trasformato in
una smorfia di disgusto. «La vostra tattica, comandante, mi pare
destinata a fallire miseramente, di fronte a una carica della cavalleria
imperiale.» Rossano lo osservò in silenzio per qualche istante, poi
allargò le braccia e disse: «Visto che siete così competente, quale
tattica consigliate?».
Venanzio da Urbino sorrise. «La più semplice» rispose. Poi
continuò rivolgendosi alla platea di armigeri che lo osservava in
silenzio, ancora scossa dalla sua esibizione: «Restarcene al sicuro
dietro i bastioni di questa città, e fare in modo che nessuno riesca a
superarli».
Un brusio corse di bocca in bocca, mentre Rossano osservava la
reazione dei suoi uomini. Aveva speso parecchie energie per cercare di
far aprire loro gli occhi, ma si rese conto che a Venanzio da Urbino
erano bastate poche parole per portarli dalla sua parte.
Decise che non aveva nessuna intenzione di proseguire in una
disputa che si sarebbe rivelata dannosa in ogni caso. Era lui il
comandante della milizia, e Venanzio, per quanto arrogante e
sbruffone, doveva adeguarsi alle sue decisioni.
Stava per liquidare il delegato pontificio, quando Tarcisio si fece
avanti e fronteggiò a muso duro Venanzio da Urbino.
«Come vi permettete di rivolgervi in questo modo al nostro
comandante?» disse, vibrando di collera. «Vi ricordo che Rossano da
Brescia è anche il vostro capitano.» Venanzio osservò divertito
Tarcisio, inclinando appena la testa in quel modo che Rossano gli
aveva già visto fare più volte, poi si sciolse il corpetto di cuoio e si
rivolse a Rossano.
«Bene, comandante» disse. «A quanto pare non è solo l'arte della
guerra, quella che state insegnando a questi uomini, ma anche il
rispetto per le gerarchie e per i loro superiori.» «Siete arrivato nel
momento meno opportuno» ribatté Rossano cercando di mitigare la
tensione che si avvertiva nell'aria.
«Siamo tutti molto stanchi, dopo una dura giornata trascorsa fra la
polvere.» «Oh, me lo immagino» disse Venanzio senza allentare il suo
sorriso minaccioso. «Ma credo di poter dare il mio contributo alla
causa, comandante.» «In che modo?» gli chiese stupito Rossano.
Con un unico, velocissimo gesto, Venanzio sfoderò la spada, ruotò
su se stesso e protese l'arma fino a portarne la punta a meno di un
palmo dal collo di Tarcisio, che si irrigidì per la sorpresa.
«Credo di sapermela cavare bene con la spada» spiegò Venanzio,
abbassando lo stocco e andando a raccogliere una protezione di
sughero. «Ma ho bisogno di capire quanto ci sarà da sudare con questi
uomini, prima di mettermi al vostro servizio.» «Ce la stiamo cavando
benissimo da soli» rispose Rossano.
«Credo che potrete...» «Voglio battermi con quest'uomo» lo
interruppe Venanzio tornando a puntare la spada verso Tarcisio. «Se
lui è il vostro braccio destro, allora saprò di quale pasta sono fatti gli
altri uomini della guarnigione.» Rossano fece per ribattere con rabbia
che era lui a decidere come e quando impegnare i suoi uomini sulla
piazza d'addestramento, ma Tarcisio, che aveva ripreso il controllo di
sé, sfoderò a sua volta la spada, ne coprì la punta con la guarnizione di
sughero e si mise in posa di guardia, proprio davanti a Venanzio.
Rossano incontrò gli occhi di Tarcisio, e comprese che si stava
comportando nella maniera corretta. Tutti li stavano guardando, e se
lui avesse protetto Tarcisio impedendogli di misurarsi con Venanzio,
non avrebbe fatto altro che danneggiarne la reputazione e l'autorità.
Del resto, si trattava solo di una dimostrazione, dunque non aveva
nulla da temere, anche se l'arroganza di Venanzio lo disturbava
sempre di più.
«D'accordo» disse, «proverete a incrociare le spade. Ma solo come
ulteriore esercizio a beneficio degli uomini, che potranno così riposarsi
un attimo.» «Benissimo» ridacchiò Venanzio da Urbino. «Io sono
pronto.»
«Anch'io» disse Tarcisio, piegando le gambe e preparandosi ad
affrontare il suo avversario.
Rossano strinse le mascelle trattenendo la rabbia. Nonostante i
modi altezzosi e la protervia, era noto che Venanzio era uno
spadaccino preparato e sicuro di sé, altrimenti non avrebbe mai messo
in gioco la sua reputazione di fronte a tutti in quel modo.
E questo avrebbe significato un'umiliazione, per Tarcisio, se fosse
stato sconfitto troppo facilmente.
Ma ormai lui non poteva fare altro che guardare e arbitrare quella
contesa cercando di evitare danni ulteriori.
8
Nella piazzetta d'armi avevano smesso tutti di esercitarsi, per
radunarsi attorno ai due contendenti che si affrontavano con calma,
seppure in modo completamente diverso.
Venanzio da Urbino scivolava elegantemente sulle punte dei piedi,
senza mai perdere contatto con il terreno mentre cercava il punto
d'appoggio migliore per bloccare la posizione di guardia e provare un
affondo, oppure parare una stoccata.
Da parte sua, Tarcisio Bonassei si stava dimostrando più agile e
determinato di quanto Rossano avesse pensato, capace di cambiare
posizione di guardia e strategia di combattimento a seconda della
situazione.
Tarcisio non era avventato, e anzi cercava di dosare le proprie forze
e la sua capacità di interpretare le mosse di Venanzio per conquistare
senza fretta tanti piccoli vantaggi, che evidentemente sperava di
sfruttare in un'unica mossa conclusiva, quando avesse ritenuto che era
arrivato il momento.
Venanzio da Urbino, invece, che non aveva mai abbandonato quel
sorrisino sarcastico che aveva innescato il moto di collera di Tarcisio,
ostentava un'aria spavalda e sbarazzina che Rossano aveva subito
capito non essere altro che un modo per confondere l'avversario,
illuderlo di avere di fronte un rivale mediocre e più facile da battere
del previsto. In realtà la sua capacità di mantenere sempre un perfetto
equilibrio e la giusta posizione di guardia era tradita dal modo in cui
muoveva i piedi e le gambe, con una interessante combinazione di
mosse che Rossano intuì appartenere a diverse scuole d'arme, prima
fra tutte quella veneziana. La sua tattica, apparentemente, era perfetta
per quel genere di combattimenti dimostrativi: prima lo studio attento
dell'avversario, poi la ricerca della migliore posizione di attacco,
quindi l'affondo nel momento in cui il rivale avesse lasciato scoperto
un pertugio nella propria posizione di guardia.
Ma dato che Tarcisio non era un novellino e dimostrava di saperci
fare con l'arte della spada, Venanzio aveva deciso di adattare la sua
strategia alla situazione, e anziché accanirsi nella ricerca di un punto
debole nel suo avversario aveva deciso di distrarlo e di tenerlo in uno
stato di continua tensione, accentuando il suo modo di fare
strafottente e guardandosi attorno come se non prestasse attenzione
alle stoccate di assaggio portate da Tarcisio.
In un primo momento Rossano aveva deplorato l'atteggiamento di
Venanzio, convinto che Tarcisio avrebbe approfittato di un momento
di distrazione di quello sbruffone per aggirarlo con agilità e portare un
colpo risolutivo, che avrebbe messo fine al duello. Poi aveva compreso
che tutte le mosse, le smorfie e l'aria arrogante di Venanzio da Urbino
erano solo un modo ben studiato per cercare di ingannare l'avversario
e volgere all'improvviso la situazione a suo favore.
«Credevo che l'arte della spada fosse dominio di uomini duri e
abituati a mordere la polvere, non di ballerini da palcoscenico!» disse
infatti rivolto alla folla che seguiva l'incontro, scatenando l'ilarità
generale. Si era persino girato di tre quarti, prestando platealmente il
fianco a Tarcisio, che però ebbe il buon senso di capire che si trattava
di un'esca, e anziché tentare l'affondo scivolò di lato, tornando a
fronteggiare l'avversario.
Rossano aveva già combattuto con uomini di quel genere, di solito
nobili abituati a incrociare la spada per divertimento o per esibizione,
non certo per versare il sangue, e sapeva che quegli atteggiamenti
erano dettati più che altro dalla consapevolezza che la loro vita non era
in pericolo, e che dunque il massimo che poteva accadere loro era di
subire una ferita nell'orgoglio.
Ma chi combatteva per non vedersi squarciare le carni non poteva
perdere tempo a indulgere in certi manierismi, e sapeva che la
stanchezza era il principale nemico di ogni schermidore: più a lungo si
protraeva un duello, più difficile sarebbe stato tenere salda la spada e
muoversi con la lucidità necessaria.
E Venanzio da Urbino, nonostante i modi assai poco guerreschi,
cercava di muoversi tenendo ben presente questa cognizione, come si
rese presto conto Rossano: faceva scivolare i piedi sul terreno, anziché
sollevarli; teneva la spada quasi sempre abbassata, con la punta che
toccava terra, per distribuirne il peso anche sul terreno; molleggiava le
gambe ma senza piegarle troppo, per non mettere in tensione i
quadricipiti. Insomma, tutto all'apparenza faceva credere che si
trattasse di un avversario stupido e supponente, eppure le sue reali
abilità erano pronte a emergere quando fosse arrivato il momento
giusto.
Rossano avrebbe voluto avvertire Tarcisio di usare la massima
cautela, di non lasciarsi ingannare dall'apparente faciloneria di
Venanzio, ma ormai era troppo tardi. Anche se il suo attendente non
era un soldato alle prime armi e se fino a quel momento aveva dato
l'impressione di avere individuato le trappole disseminate da
Venanzio, ben presto le sue mosse cominciarono a farsi più veloci e
sicure, più spavalde, come se avesse deciso che era arrivato il
momento di smetterla con quella buffonata e far pagare a Venanzio la
sua tracotanza.
O forse, più semplicemente, Tarcisio cominciava a stancarsi, e
aveva capito che non avrebbe potuto continuare quel balletto di
affondi e parate per troppo tempo ancora.
Così, mentre Venanzio esagerava le sue esibizioni con il corpo e con
la spada per strappare qualche risata alla folla che seguiva lo scontro,
decise all'improvviso di provare a porre termine al duello.
Rossano lo capì quando gli vide stringere gli occhi e abbassare il
baricentro di equilibrio spostando rapidamente un piede in avanti e
piegandosi sulle gambe. Venanzio stava facendo divertire gli astanti
osservando Tarcisio con una smorfia preoccupata, e quando abbassò
ancora una volta la spada, sfiorando il terreno con la protezione di
sughero sulla punta, prestò per un brevissimo istante il fianco a un
affondo a braccio teso, che in condizioni normali avrebbe portato il
ferro del suo avversario a trapassarlo da parte a parte.
Tarcisio vide lo spiraglio, che ormai attendeva da tempo, e
approfittando del fatto che era già nella posizione giusta per sferrare
l'attacco, strinse gli occhi, caricò il peso del corpo sul piede avanzato e
livellò la spada, spingendola in avanti con uno scatto fulmineo, che
impressionò per velocità lo stesso Rossano, che pure aveva previsto il
colpo.
Ma quello che accadde in seguito sorprese ancora di più Rossano,
che non si era aspettato una reazione tanto fulminea ed efficace da
parte di Venanzio da Urbino.
Questi, infatti, abbandonò all'istante l'aria spavalda che gli tirava i
lineamenti e, cogliendo con la coda dell'occhio l'affondo di Tarcisio,
ruotò rapidissimo su se stesso, offrendo al colpo portato dal suo
avversario una parata castigliana tanto spettacolare quanto di grande
effetto, che gli consentì, con un'agile torsione del braccio insieme a un
mezzo passo laterale, non solo di portarsi fuori dalla traiettoria
dell'affondo, ma addirittura di andare in contrattacco, lasciando che
l'energia raccolta nel colpo di parata si traducesse in un fendente
laterale velocissimo e micidiale, diretto verso il collo di Tarcisio,
rimasto scoperto nella concitazione del colpo che aveva sferrato.
Accadde tutto in una manciata di secondi, tanto che molti degli
spettatori non si erano resi conto di quello che stava succedendo. La
spada di Venanzio compì una parabola stretta e puntò dritta verso il
collo di Tarcisio, che solo in quel momento capì di essere stato tratto
in inganno.
Il filo laterale della lama non era coperto dalla guarnizione di
sughero, e quel colpo avrebbe tranciato di netto la testa a Tarcisio, se
un'altra spada non fosse comparsa all'improvviso dal nulla,
allungandosi a bloccare il fendente e deviandolo quanto bastava
perché il colpo mancasse il bersaglio.
Venanzio da Urbino, sorpreso di non veder sgorgare il sangue, si
girò di scatto verso Rossano, che aveva allungato d'istinto la spada, e
lo assalì come se si trovasse di fronte un nemico sul campo di
battaglia. La rabbia furibonda che gli dilatava le pupille era il segnale
che quell'uomo era molto più folle e pericoloso di quanto Rossano
avesse potuto immaginare.
«Mettiamo le protezioni per evitare che qualcuno si faccia male»
disse Rossano pronto a fronteggiare l'attacco di Venanzio, qualora
avesse voluto proseguire nella sua follia. «Qui stiamo tutti dalla stessa
parte.»
Per un momento sulla piazza d'armi scese il silenzio, poi
all'improvviso la postura rigida e carica di energia furibonda di
Venanzio si sciolse con un sorriso sarcastico, e Rossano comprese che
il duello era terminato.
«Come avete visto, basta poco per mettere in difficoltà questi
uomini» disse Venanzio riprendendo il suo atteggiamento sfrontato.
Tolse la protezione di sughero e rinfoderò la spada mentre Tarcisio lo
fissava sconvolto, consapevole di avere rischiato la vita. «Fossi in voi
programmerei sessioni di esercizio serrate.
Hanno bisogno di lavorare parecchio.» «Perché non ci aiutate?» gli
chiese Rossano, rinfoderando a sua volta la spada.
Venanzio lo fissò divertito. «Non è questo il mio compito» rispose
allontanandosi.
Rossano non cercò di trattenerlo. Quando se ne fu andato, si voltò
verso Tarcisio e gli chiese: «Tutto bene?».
L'uomo annuì massaggiandosi il collo, proprio nel punto in cui
stava per affondare la lama di Venanzio.
«Sì» rispose. «Grazie al tuo intervento.» «Tieniti alla larga da
quell'uomo» si raccomandò Rossano.
«È pericoloso.» «L'ho visto. E stai attento anche tu, perché credo
che non dimenticherà quello che hai fatto.» «Peggio per lui» fece
Rossano. «Quando vorrà incrociare la spada con me, io sarò qui ad
attenderlo.» Tarcisio non ribatté nulla, limitandosi ad annuire. Poi
indicò le baracche dei casermaggi.
«Vado a dare un'occhiata alle nuove reclute» disse. «Dovrebbero
esserci un po' di ragazzini che scalpitano per indossare la giubba della
guarnigione.» «Dovremo organizzare una forte campagna di
reclutamento» fece Rossano. «Siamo ancora troppo pochi.» «Non sarà
facile» rispose Tarcisio. «Ormai tutti gli uomini validi sono stati
individuati. Resta qualche ragazzino che nei prossimi mesi potrebbe
entrare in età per proporsi, ma non ci conterei troppo.» «Avete
provato con gli artigiani e i garzoni di bottega?» «Sì» annuì Tarcisio.
«Abbiamo lasciato solo le persone necessarie a garantire
l'approvvigionamento essenziale della città, tutti gli altri sono stati
arruolati, anche a forza.»
Rossano strinse le mascelle. Non pensava che la situazione fosse
già così difficile. Anzi, sperava di poter rinfoltire le fila della
guarnigione proponendo delle diarie di guerra ai proprietari di negozi
e botteghe perché concedessero ai loro uomini validi di impugnare le
armi.
«Va bene» disse, «allora vai. Penserò io a continuare qui.» Tarcisio
Bonassei annuì e si allontanò, mentre Rossano tornava a rivolgersi ai
soldati ancora schierati attorno a lui, che lo osservavano con un certo
disagio.
«Che cosa aspettate?» chiese loro. «Forza, tornate ai vostri posti.
Finché ci sarà luce, nessuno dovrà allontanarsi.» Gli uomini ripresero
l'addestramento in silenzio, troppo stanchi e sfiduciati persino per
protestare.
Rossano li osservò socchiudendo gli occhi. Su un punto Venanzio
aveva ragione: quegli uomini avevano bisogno di estremo esercizio,
prima di essere pronti ad affrontare le forze imperiali. E lui era deciso
a mettercela tutta per aiutarli.
9
«Forza, ragazzi, da questa parte! Mettetevi in fila!» L'uomo che
gridava era un colosso impressionante, così grosso che Valerio
immaginò sarebbe stato capace di sollevare con due sole dita uno
spadone longobardo a due mani, e farlo volteggiare con la massima
disinvoltura.
Fin da quando l'aveva visto ne aveva provato soggezione, e si
rendeva conto che anche gli altri giovani radunati come lui e Carlo
nello stanzone del reclutamento cercavano di tenersi alla larga da quel
bestione, obbedendo con la massima rapidità agli ordini che lasciava
tuonare con voce possente.
«Tu, che diavolo fai lì impalato? In riga!» Il colosso sferrò una
pedata a un tizio alto e allampanato che si guardava attorno
frastornato e che non era riuscito a seguire i movimenti del gruppo,
restando un passo all'esterno della fila di giovani aspiranti soldati.
Valerio cercò di non attirare l'attenzione dell'uomo sistemandosi
perfettamente in riga con Carlo, alla sua sinistra, e con il ragazzo
robusto e con il viso deturpato dall'acne che se ne stava impettito alla
sua destra, tutto teso e rigido per cercare di guadagnare qualche
centimetro in altezza.
In effetti era piuttosto basso, anche se il collo taurino e i muscoli
robusti del petto e delle braccia contribuivano a dare l'impressione che
fosse ancora più tarchiato.
«Spogliatevi, adesso, forza!» ordinò il colosso fissandoli con una
smorfia truce. «Buttate i vostri stracci per terra, davanti a voi.»
«Pidocchi compresi?» domandò qualcuno dalle retrovie, facendo
scoppiare un coro di risate.
Il gigante aprì quello che forse voleva essere un sorriso, ma che
risultò un ghigno terrificante, e chiuse i pugni sui fianchi.
«Naturalmente» rispose. «Anche i pidocchi. Altrimenti come
facciamo a mettere insieme la cena che vi spetta questa sera?» Le
risate scemarono nel grande stanzone, mentre qualcuno si chiedeva se
stesse scherzando o dicesse sul serio.
Carlo diede di gomito a Valerio, guardandolo preoccupato.
«Sei sicuro che abbiamo fatto la scelta giusta?» chiese. «Non mi
pare che la guarnigione di Alessandria sia il massimo. Forse...» «No»
l'interruppe Valerio, «abbiamo fatto bene. È qui che si è diretto mio
fratello, il che significa che è qui che ci sarà da combattere e da
ricoprirsi di gloria.» «Già» mugugnò Carlo, che non pareva troppo
convinto.
«Spero proprio che tu abbia ragione.» «Adesso pensa a spogliarti»
ribatté Valerio sfilandosi i vestiti, «altrimenti quello ti mangia vivo.»
Carlo lanciò un'occhiata al colosso che li stava passando in rassegna
con lo sguardo, un'espressione minacciosa disegnata sul volto, e si
sbrigò a togliersi i vestiti di dosso.
Quando furono rimasti nudi, nello stanzone calò un imbarazzato
silenzio, mentre tutti cercavano di coprirsi l'inguine come meglio
potevano, sotto lo sguardo impietoso e divertito degli armigeri che
sovrintendevano alle operazioni di reclutamento.
Trascorse una manciata di minuti senza che accadesse nulla, poi
una porta sul fondo si aprì e un uomo entrò a passo di marcia,
andando a prendere posto dietro a uno scrittoio sul lato occidentale
del locale.
Fece un cenno al colosso, che lo raggiunse e confabulò con lui per
qualche istante, prima che il gigante tornasse verso di loro e,
indicando il primo della fila, ordinasse: «Tu, fatti avanti e scandisci il
tuo nome».
Il ragazzo si guardò attorno intimorito, poi uscì dall'allineamento e
si portò di fronte al colosso, tenendo gli occhi fissi sulla paglia lurida
che ricopriva il pavimento.
«Sono Martino De' Capistei, mio signore» disse con voce tremante,
tenendo le mani a coppa sui genitali.
«Che cos'hai lì di così prezioso da tenerlo nascosto?» gli chiese il
gigante.
Martino De' Capistei sgranò gli occhi, divenne rosso per
l'imbarazzo e scosse la testa.
«Niente, mio signore» rispose.
Il colosso lanciò un'occhiata al nuovo venuto, che gli fece cenno di
proseguire con un leggero movimento del capo, quindi parlò a Martino
rivolgendosi a tutti i presenti.
«Siete qui per diventare dei soldati» ringhiò. «E un buon soldato
non teme di mostrarsi per quello che è. Anzi, va fiero dei suoi attributi
e li espone con orgoglio, pronto a sacrificarli per la causa.» Detto
questo si portò proprio davanti a Martino De' Capistei e si piegò per
fissarlo dritto negli occhi. «Tu, ragazzo, sei pronto a giurare fedeltà
alle araldiche per cui chiedi di essere arruolato?» «Sì, mio signore»
balbettò il ragazzo.
«Allora togli quelle mani e mostraci i tuoi attributi!» ringhiò il
colosso con voce così forte che Martino quasi crollò all'indietro, come
investito da un vento di tempesta.
Quando si fu ripreso, spostò le mani e scoprì l'inguine, cercando di
dominare la vergogna che gli imporporava le gote.
«Bene!» grugnì il colosso. «Adesso capisco perché esitavi a
mostrare il tuo spadino. Rinfodera il pugnale e corri a quel tavolo,
ragazzo, sei arruolato!» Mentre Martino De' Capistei correva via
sollevato, il colosso chiamò il secondo della fila.
Valerio restò a osservare con attenzione quella strana procedura, e
non riuscì a comprendere quali fossero i criteri per cui
quell'energumeno determinava chi fosse adeguato a essere arruolato e
chi invece dovesse riprendersi vestiti e pidocchi e andarsene senza
neppure avere la possibilità di chiedere spiegazioni.

Aveva visto promuovere un paio di ragazzi molto giovani ed esili,


che non sarebbero mai riusciti a sollevare una spada neppure
impugnandola a due mani, e bocciarne altri grandi e grossi che a suo
parere sarebbero stati ottimi picchieri o arcieri.
Qualcuno aveva cercato di protestare, ma il colosso era sempre
stato irremovibile, e non appena decideva che qualcuno non poteva
recarsi al tavolo dell'arruolamento, gli armigeri intervenivano e
costringevano il malcapitato ad andarsene il più velocemente
possibile.
Quando arrivò il suo turno di presentarsi davanti al gigante,
Valerio si mosse senza esitazioni, guardandolo dritto negli occhi e
senza coprirsi i genitali con le mani.
«Il tuo nome, ragazzo» chiese il colosso, per nulla impressionato
dalla determinazione con cui Valerio si era fatto avanti.
«Valerio» rispose questi.
«Valerio e poi?» «Valerio da Milano.» L'energumeno annuì, diede
un'occhiata veloce a Valerio, senza soffermarsi su nessun punto in
particolare, poi alzò una mano per fare cenno agli armigeri che
potevano accompagnarlo alla porta. Prima che potesse pronunciare
parola, però, Valerio si rivolse all'uomo che sedeva dietro allo scrittoio
e che assisteva alle procedure senza mai intervenire, limitandosi a
commentare con qualche breve cenno del capo le occhiate
interrogative che di tanto in tanto il colosso gli rivolgeva.
«Non so perché quest'uomo ritenga che io non sia adatto a entrare
a far parte della guarnigione» disse, mentre un brusio sorpreso si
alzava nella sala, «ma sono pronto a dimostrare il mio valore. Anche
sfidando questo bestione in duello.» Il colosso lo guardò sorpreso,
colto per una volta alla sprovvista, ma si riprese in fretta e si avventò
contro Valerio, agguantandolo per il collo. Valerio si era aspettato una
reazione, ma non così rapida e determinata, da parte di un uomo tanto
grosso, che sperava fosse molto più lento e impacciato.
«Se vuoi te lo spiego io perché non ce ne frega niente che dimostri
il tuo valore, ragazzo» ringhiò il gigante mentre lo sollevava da terra
con una mano sola, apparentemente senza sforzo.

Valerio provò a liberarsi scalciando e tirando pugni contro quel


braccio grande e solido come un ramo di quercia, ma ottenne solo di
restare senza fiato, sospeso a una spanna dal pavimento.
«Mettilo giù, Diego» ordinò con calma l'uomo seduto dietro allo
scrittoio.
Il colosso si voltò a guardarlo sorpreso, ma obbedì all'istante,
posando a terra Valerio. Quando la morsa che gli aveva stretto il collo
si allentò, Valerio risucchiò l'aria con un rantolo, poi cominciò a
tossire mentre i polmoni gli andavano in fiamme.
«Valerio da Milano» lo chiamò l'uomo dietro al tavolo. «Vieni qui.»
Valerio restò ancora qualche istante piegato in due, cercando di
tornare a respirare normalmente, poi lanciò un'occhiata furiosa contro
il colosso e si raddrizzò. Quindi si girò in direzione dello scrittoio, e
senza curarsi della propria nudità si avvicinò al tavolo, sotto gli occhi
di tutti.
«Diego è un soldato di grande esperienza» disse l'uomo,
scrutandolo con attenzione. «Se ha deciso di respingerti l'avrà fatto
per un buon motivo, non credi?» «Vorrei solo sapere quale, mio
signore» riuscì a dire Valerio, con la gola che gli bruciava.
«Per esempio potrebbe avere notato i segni che hai sulle mani»
disse l'uomo. «Quelle bruciature mi fanno pensare che tu sia un
garzone di bottega, forse di un'officina d'armi.» «È così, mio signore»
annuì Valerio, suo malgrado sorpreso.
«Quindi Diego potrebbe avere capito che il tuo lavoro è troppo
importante per potercene privare. Siamo in tempo di guerra, e un
buon armaiolo può avere più valore di un soldato.» Valerio restò in
silenzio. Non si era aspettato una simile argomentazione, e tutta la sua
determinazione scomparve dietro un'ombra di indecisione.
«Comunque, mi pare di capire che la tua è stata una scelta
convinta» continuò l'uomo. «Spiegami perché aspiri così tanto a
entrare a far parte della guarnigione.» «Perché credo di essere portato
per l'arte della guerra, mio signore» rispose Valerio recuperando un
po' della sua determinazione. «Non tornerò comunque a lavorare in
bottega.» «Dici di essere di Milano.»
«Sì, mio signore.» «Quindi è lì che lavori?» «Non più» rispose
Valerio. «Adesso sono un uomo d'arme. E se non troverò ingaggio qui
andrò dove i miei servigi potranno essere apprezzati.» L'uomo non
disse nulla per un po', poi socchiuse gli occhi e chiese: «Sai leggere,
ragazzo?».
«Qualche parola, signore» rispose Valerio sorpreso. «Abbastanza
per quello che mi serviva per il lavoro.» L'uomo annuì, poi alzò un
braccio e indicò un punto alle spalle di Valerio.
«Riesci a vedere cosa c'è scritto laggiù, su quel gonfalone appeso al
muro?» Valerio si voltò, continuando a non capire il significato delle
domande dell'uomo, e osservò il gonfalone che gli era stato indicato. Si
trovava dalla parte opposta della grande sala, forse a una cinquantina
di passi di distanza. Valerio non riconobbe le araldiche, anche perché il
tessuto era piuttosto vecchio e malconcio, sbrindellato in più punti.
Ma una scritta campeggiava in alto e in basso, in caratteri elaborati
che riproducevano quello che a Valerio sembrò un motto latino.
«No, mio signore» confessò alla fine, rendendosi conto che leggere
quella frase era per lui un'impresa impossibile. Non tanto perché non
vedesse quello che c'era scritto, ma perché le poche parole che aveva
imparato a riconoscere erano quelle che servivano a preparare gli
stampi per le incisioni nel bronzo sulle spade e sulle armi
commissionate dai clienti di rango della bottega di Gabriele
Mercadanti. «Non capisco che cosa c'è scritto.» «Non riesci a vedere
quelle scritte o semplicemente non le capisci?» insistette l'uomo.
Valerio lo guardò sorpreso.
«Certo che le vedo» rispose. «Ma non sono così ferrato nella lettura
da comprenderne il significato.» L'uomo annuì ancora, questa volta
aprendo un leggero sorriso.
«Leggi le lettere che riconosci, allora» ordinò. «Ad alta voce.»
Valerio tornò a voltarsi verso il gonfalone, si concentrò e cercò di
individuare tutti i segni scritti che Gabriele gli aveva insegnato a
mettere insieme per formare le parole dei motti e delle frasi latine di
cui di solito si componevano quelle incisioni.
«La prima in alto è una erre, mio signore, seguita da una e e poi da
una pi. Non riconosco l'altra lettera, però...» «Va bene così»
l'interruppe l'uomo, apparentemente soddisfatto. «È evidente che ci
vedi molto bene. Io riesco a malapena a distinguere il gonfalone, da
questa distanza, figurarsi leggere quello che c'è scritto sopra.» Alcuni
armigeri scoppiarono a ridere, a quelle parole, ma Valerio, che
continuava a non capire quello che stava succedendo, restò in silenzio,
lo sguardo basso ma pronto a rispondere ad altre domande che gli
dovessero venire rivolte.
L'uomo dietro allo scrittoio scosse ancora la testa, poi fece segno al
colosso di raggiungerlo.
«Ditemi, mio signore» fece questi avvicinandosi a lunghi passi.
«Diego, ti affido questo ragazzo» disse l'uomo, facendo balzare il
cuore in gola a Valerio per la sorpresa. «Credo che sarà un'ottima
vedetta.» Il gigante esitò solo per un istante, poi chiese:
«L'addestriamo per le mura cittadine o lo mandiamo fuori?».
«Abbiamo bisogno di occhi buoni agli avamposti più avanzati»
rispose l'uomo dietro il tavolo. «Verifica se questo ragazzo può farci
comodo.» Il gigante annuì piegando il capo e ordinò ad alcuni armigeri
di portare le divise della guarnigione.
«Trova la misura che ti si addice» ordinò a Valerio. «E aspettami di
là.» Valerio obbedì, frastornato ma felice, e prima di allontanarsi si
girò verso l'uomo dietro al desco e gli disse: «Grazie, mio signore. E...
posso sapere il vostro nome?».
«Sono Tarcisio Bonassei» rispose l'uomo. «Ma non ringraziarmi,
ragazzo. Ti auguro di non dover mai rimpiangere il tuo lavoro in
bottega.» Valerio venne spinto via dalle guardie. Prima di uscire dallo
stanzone si voltò a lanciare un'occhiata a Carlo: era arrivato il suo
turno di portarsi davanti all'energumeno, e Valerio si rese conto che
l'amico era terrorizzato. Non sapeva se avrebbe avuto ancora la
possibilità di rivederlo.
CAPITOLO QUARTO

A.D. 1174
Francia meridionale, via Francigena e valico del Monginevro 1
La polvere sollevata dalle colonne di uomini, cavalli e carri era così
fitta e persistente che si sarebbe vista a chilometri di distanza, e questo
non contribuiva a migliorare l'umore di Ottone di Wittelsbach, mentre
cavalcava verso la tenda eretta in fretta e furia per ospitare un
consiglio di guerra straordinario.
Ottone sapeva che sarebbe stato presente l'intero stato maggiore
dell'esercito imperiale, oltre a Federico I in persona e al suo
arcicancelliere, quel Rainaldo di Darmstadt il cui sguardo penetrante
da rapace aveva sempre il potere di trasmettergli un senso
d'inquietudine.
Quando Ottone era stato convocato, mentre si intratteneva con due
giovani fanciulle su uno dei carriaggi nelle retrovie, la sua sorpresa era
stata tale che era balzato giù ancora a torso nudo, e aveva fatto sellare
il cavallo imprecando contro i suoi attendenti che si erano fatti cogliere
impreparati: avrebbero dovuto intercettare il messo imperiale e
impedirgli di vedere a quali attività era dedito, pur sapendo benissimo
che anche tutti gli altri dignitari al seguito del Barbarossa erano
impegnati a far passare il tempo in modi analoghi al suo. Quando un
esercito di quelle proporzioni si muoveva, non era possibile percorrere
più di una decina di chilometri al giorno: non c'erano solo i campi
notturni da smontare e caricare sui carri degli approvvigionamenti, ma
anche i cavalli da alternare al lavoro di tiro, le vedette da mandare in
avanscoperta, la cavalleria leggera in esplorazione per una vasta area,
per costringere i villaggi e le abitazioni disseminate sul territorio a
prostrarsi al passaggio dell'imperatore e dare quanto richiesto dagli
ufficiali della logistica per rifornire le scorte di armi e viveri, per
riparare carri o ferrare cavalli e provvedere a quanto serviva per
mantenere uomini, animali e carriaggi sempre alla massima efficienza.
E poi, diverse ore prima del tramonto e sulla scorta delle indicazioni
che arrivavano dagli esploratori, bisognava trovare il posto adatto per
fermarsi di nuovo, erigere gli accampamenti, predisporre le vedette e i
turni di guardia e garantire all'imperatore il massimo dell'agio e della
sicurezza, nella sua grande tenda collocata al centro del campo
militare.
Una macchina prodigiosa che procedeva con lentezza ma senza mai
fermarsi, abituata a gestirsi da sola, e dunque senza che le alte
gerarchie nobili e militari dovessero intervenire per dare
costantemente ordini e indicazioni agli ufficiali di truppa O di
sussistenza.
Il che significava che uomini come Ottone di Wittelsbach si
annoiavano a morte, durante quelle lunghe marce a passo di lumaca, e
dovevano in qualche modo far passare il tempo.
I duelli di spada servivano a mantenere il fisico in forma e la mente
pronta, ma Federico era famoso in tutto il mondo civilizzato per la
qualità delle prostitute che faceva reclutare al seguito del suo esercito e
che metteva a disposizione degli ufficiali, dei comandanti e dei nobili;
per quanto Ottone considerasse certi privilegi una forma di debolezza
da contrastare in tutti i modi, alla fine aveva ceduto anche lui alla
curiosità e all'entusiasmo dei racconti che gli erano stati fatti da altri
dignitari con cui si ritrovava a cenare. Aveva fatto in modo che solo
pochi fra i suoi attendenti più fidati fossero al corrente dell'incontro
che avrebbe avuto quel pomeriggio, su un carro che si sarebbe
appartato in un boschetto sulle rive di un torrente, guardato a vista dai
migliori uomini della sua guardia personale, e aveva appena
cominciato a gustare con sorpresa le deliziose promesse di piacere di
due giovinette di non più di trent'anni insieme, quando il messo
imperiale era arrivato a spron battuto e l'aveva convocato per il
consiglio di guerra straordinario.
Ottone sapeva che era impossibile celare a Federico qualsiasi
movimento, per quanto organizzato con cura e discrezione, ma restò
comunque sorpreso dal fatto che il messo imperiale fosse riuscito a
trovarlo con tanta disinvoltura, come se fosse perfettamente a
conoscenza non solo di dove si trovasse, ma anche di che cosa stesse
facendo e con chi.
Mentre l'inquietudine per quei pensieri gli chiudeva lo stomaco,
Ottone balzò a cavallo, fece segno agli armigeri della sua scorta di
serrare i ranghi e seguì il messo imperiale verso la tenda che il
Barbarossa aveva fatto erigere sulla sommità di una piccola collina che
dominava tutta la valle circostante.
Il cordone delle terribili guardie imperiali era più stretto e nervoso
del solito, al punto che diverse picche calarono verso Ottone di
Wittelsbach e i suoi uomini, quando si avvicinarono, anche se era
impossibile che non l'avessero riconosciuto.
Il messo imperiale si fece avanti, a braccio alzato, e le picche
scivolarono di lato, consentendo a Ottone di entrare in uno stretto
corridoio di soldati armati di tutto punto. Quando anche gli uomini
della sua scorta provarono a seguirlo, le picche tornarono a livellarsi,
chiudendo il passaggio.
«Questo che cosa significa?» chiese sorpreso Ottone.
Il messo s'inchinò profondamente e indicò verso la tenda, la cui
entrata era presidiata da altre due guardie imperiali.
«Vostra Eccellenza è atteso» si limitò a rispondere, e Ottone
comprese che non sarebbe riuscito a cavare nulla da quell'uomo,
neppure sotto tortura. Evidentemente era successo qualcosa, e
Federico aveva diramato ordini precisi ai suoi uomini, ai quali neppure
un condottiero di alto lignaggio come lui sarebbe riuscito a sottrarsi.
«Va bene» disse, controllando la rabbia che lo pervadeva.
«Vediamo che succede.» Si diresse a passo di marcia verso
l'ingresso della tenda, e non si fermò di fronte allo sguardo truce dei
due armigeri, anzi li sfidò silenziosamente a provare a fermarlo. I
militari restarono immobili fino all'ultimo istante, poi scattarono
insieme, sollevando le picche e lasciandolo passare.
Ottone scostò il telone d'ingresso con entrambe le mani, ed entrò
nella luce morbida delle candele che anche in pieno giorno
illuminavano la tenda allestita per il consiglio di guerra.
Contrariamente a quanto si era aspettato, non c'era nessuno.
Nessuno a parte il Barbarossa e il suo arcigno cancelliere, Rainaldo
di Darmstadt.
«Finalmente» sbuffò l'imperatore agitando una coppa piena di
vino verso Ottone. «Erano davvero così belle quelle due puttanelle?
Tanto da farvi esitare anche di fronte agli ordini del vostro
imperatore?» Ottone si sentì arrossire, più per la rabbia che per la
vergogna, e irrigidì la schiena.
«Sono venuto subito» rispose. Poi si guardò attorno, nella grande
tenda vuota. «Credevo che Sua Maestà avesse indetto un consiglio di
guerra.» «È così, infatti» intervenne Rainaldo di Darmstadt, mellifluo
ma pericoloso come una vipera della Foresta Nera. «Non si tratta,
però, di un consiglio di guerra allargato agli altri comandanti e
dignitari.» «Per quale motivo?» chiese sorpreso Ottone di
Wittelsbach.
«Perché ho bisogno del tuo aiuto» rispose il Barbarossa vuotando
tutto d'un fiato la coppa di vino e gettandola in un angolo.
«E perché non mi fido degli altri.» «Non capisco, Maestà» disse
Ottone, suo malgrado costretto a dimenticare la rabbia e a
concentrarsi sull'espressione stravolta dei lineamenti dell'imperatore.
Doveva essere successo qualcosa di grave, e questo spiegava persino i
modi bruschi con cui era stato convocato e costretto a recarsi subito lì,
oltre alla diffidenza degli uomini della scorta imperiale.
«Qualcuno, oggi, ha cercato di uccidere il nostro imperatore» si
decise finalmente a rivelare Rainaldo di Darmstadt. «Sua Maestà
Federico I è vivo solo perché Dio ha intercesso per lui.» Ottone di
Wittelsbach restò a fissare a bocca aperta l'arcicancelliere imperiale e
il Barbarossa, poi annuì lentamente e girò Lo sguardo verso il tavolo su
cui era appoggiata la brocca con 10 vino.
«Bevete» ordinò l'imperatore. «E versatene un'altra coppa anche
per me.» «Non posso credere che vostro cugino sia coinvolto» disse
Ottone di Wittelsbach, sinceramente costernato.
Federico I trangugiò un altro sorso di vino, lasciando che il liquido
scuro gli imperlasse la barba folta, e aprì un sorriso sarcastico.
«Mio cugino, se potesse, mi mangerebbe il fegato» ribatté, mentre
Rainaldo di Darmstadt sorbiva il vino scuro di Germania a piccoli
sorsi, come se fosse un tributo che doveva assolvere come parte
integrante del suo incarico, non certo per piacere personale.
Ottone di Wittelsbach scosse la testa turbato. Non provava una
particolare affezione per il Barbarossa, a parte una sincera lealtà
dovuta al sovrano che guidava la sua Germania alla conquista del
mondo, eppure la scoperta che Federico fosse scampato per miracolo a
un feroce attentato l'aveva profondamente turbato.
Anche perché l'assassino aveva agito indisturbato, nel bel mezzo
dell'esercito imperiale che muoveva in guerra. Una vera follia, che
dava la misura di come l'Impero non fosse per nulla stabile e di quanti
avvoltoi fossero pronti a calare sulla preda, qualora il pugno di ferro
del Barbarossa si fosse allentato o addirittura fosse scomparso per
sempre.
«In ogni caso, non abbiamo le prove che vostro cugino, Enrico il
Leone, sia davvero coinvolto in tutto questo» affermò Rainaldo di
Darmstadt con tono apparentemente distaccato.
Federico sventolò una mano in aria, irritato.
«Lui è un Welfen» ribatté con disprezzo, come se questo spiegasse
tutto.
Ottone di Wittelsbach annuì fra sé. Sapeva che la situazione
familiare dell'imperatore era quanto mai intricata. L'augusta madre,
Giuditta di Baviera, apparteneva alla dinastia dei Welfen, da sempre
rivale di quella del marito, Federico II duca di Svevia, e l'aver
assegnato a Federico il regno di Germania aveva portato solo a
continue frizioni tra le due casate, che si erano poi ripercosse in tutto il
mondo conosciuto. I Welfen, noti anche come Guelfi, avevano ottenuto
un riconoscimento importante quando Enrico il Leone era stato
nominato sovrano della Sassonia e della Baviera; ma l'elezione di
Federico a re di Germania aveva innalzato la sua casata, quella
comunemente detta dei Ghibellini, a un gradino più alto rispetto ai
Welfen, e questo non era mai andato giù a Giuditta di Baviera e ad
Enrico il Leone.
Eppure, nessuno avrebbe osato accusare il Duca di Sassonia e di
Baviera di un atto così grave come il tentativo di omicidio
dell'imperatore, almeno in assenza di prove schiaccianti e
incontrovertibili.

Ma, a quanto pareva, all'imperatore non servivano prove per


accusare il cugino di aver tentato un regicidio.
«Quel soldato che ha cercato di infilzarmi» continuò il Barbarossa
rivolgendosi a Rainaldo di Darmstadt. «È ancora vivo?» «No, mio
signore» rispose l'arcicancelliere. «Si è tolto la vita quando ha capito
che l'avremmo catturato.» Federico sputò per terra e guardò Ottone di
Wittelsbach.
«Carne da macello» affermò. «Sapevano che sarebbe stato
impossibile farmi fuori in quel modo.» «Che cosa volete dire,
Maestà?» chiese turbato Ottone.
«Quella non era l'opera di un sicario, era un avvertimento» rispose
con una smorfia l'imperatore.
«Un avvertimento da parte di chi?» «Voi dovrete fare in modo che
una cosa del genere non accada mai più» s'intromise Rainaldo di
Darmstadt. «Poco importa per quale motivo l'attentato a Sua Maestà è
stato organizzato in quel modo. E men che meno ci serve una
conferma su chi ne sia stato il mandante. Adesso abbiamo solo bisogno
della tranquillità necessaria per continuare la spedizione.» «È vero»
annuì il Barbarossa accigliato. «Stiamo per entrare in guerra, abbiamo
dei conti in sospeso in Italia, e non ho intenzione di concedere a mio
cugino l'opportunità di guastarmi la festa.» «Farò del mio meglio,
Maestà» rispose Ottone inchinandosi.
Poi però rialzò lo sguardo e strinse appena le palpebre. «Questo
significa che vostro cugino non manderà le truppe promesse?» «Lui
non ha mai promesso niente!» ringhiò il Barbarossa, facendo volare
dall'altra parte della tenda la coppa piena di vino. «Si è preso gioco di
me e degli altri Pari di Germania, e adesso sconterà la sua arroganza.»
Ottone non disse nulla, e Rainaldo si fece avanti, parlando con voce
pacata: «La sconfitta dei Comuni Padani e l'assoggettamento di papa
Alessandro III rivestono un ruolo fondamentale nei giochi di potere
fra Guelfi e Ghibellini» disse, con la sua consueta capacità di
sintetizzare e chiarire le situazioni politiche più intricate. «Per non
parlare del fatto che anche Venezia e il Regno di Sicilia potranno
essere sottomessi alla legge imperiale, consentendoci di estendere il
nostro dominio fino alle porte di Costantinopoli.»
Ottone di Wittelsbach annuì, però comprese che il gioco sarebbe
stato meno facile di quanto prospettava l'arcicancelliere imperiale.
«Quale sarà il mio compito in tutto questo, Maestà?» chiese,
rivolto al Barbarossa.
A rispondere fu ancora Rainaldo di Darmstadt.
«Fate ciò che vi ha chiesto l'imperatore» disse. «Vegliate sulla sua
sicurezza e non permettete che le meschine pretese dinastiche dei
Weifen interferiscano con la missione divina a cui è votata questa
spedizione.» Ottone restò suo malgrado impressionato dalla
prosopopea delle parole di Rainaldo di Darmstadt.
«Contate su di me» rispose, piegandosi in un profondo inchino.
A quel punto Federico I lo congedò con un gesto, e Ottone uscì
dalla tenda. Fece in tempo, però, a intercettare lo sguardo che
Rainaldo di Darmstadt gli lanciò con discrezione, e che per lui risultò
molto chiaro.
"Dobbiamo parlare a quattr'occhi" diceva quello sguardo, e Ottone
si rese conto che anche per lui era necessario.
Quando fu di nuovo a cavallo aspettò ad affondare gli sproni, fino a
quando non vide uscire Rainaldo dalla tenda imperiale, salire a sua
volta in sella a un palafreno e fargli cenno di seguirlo.
Evidentemente, la posta in gioco era più alta di quanto persino
l'imperatore Federico ritenesse lecito supporre.
Rainaldo lo ricevette a bordo di un carro delle salmerie che i suoi
uomini, con velocità sorprendente, avevano svuotato e attrezzato con
due poltroncine rivestite di velluto rosso e un piccolo tavolino su cui
campeggiavano una brocca di vino e un cesto pieno di frutta.
«Se c'è una cosa buona del paese che stiamo andando a riportare
all'ordine, è il vino proveniente dalle sue colline» esordì Rainaldo
facendo segno a Ottone di sedersi e porgendogli una coppa piena di un
robusto liquido ambrato. «Molto meglio di quella brodaglia tedesca
che Sua Maestà continua a prediligere.» Ottone di Wittelsbach accettò
la coppa con un cenno secco del capo, senza fare commenti. Non era
mai riuscito a comprendere esattamente tutti gli aspetti, le allusioni e i
sottintesi impliciti nelle parole dell'arcicancelliere, neppure quando
riguardavano questioni apparentemente leziose come il vino. Preferì
quindi restare in silenzio, e lasciare che fosse Rainaldo a condurre la
discussione, fino a quando non fosse stato chiaro dove intendeva
andare a parare.
«L'attentato di oggi è piuttosto preoccupante» disse
l'arcicancelliere, mostrando la volontà di andare subito al dunque.
«È vero» annuì Ottone, «ma adesso sarà mio compito fare in modo
che non si ripetano più situazioni del genere.» «Non è questo che mi
preoccupa» ribatté Rainaldo sorbendo a piccoli sorsi il vino italiano.
«Il fatto è che l'imperatore non si rende conto di quello a cui stiamo
andando incontro.» Ottone di Wittelsbach si accigliò.
«Non capisco» disse, senza nascondere il suo stupore.
Rainaldo fece un lungo respiro, raccolse uno strano frutto dal cesto
posto al centro del tavolo e se lo ficcò in bocca. Attese di averlo
inghiottito tutto, prima di continuare a parlare.
«I Comuni Padani stanno reclutando un esercito» disse.
«Molto più numeroso e ben organizzato di quanto sia mai
accaduto.» «Questo lo sapevamo» ribatté Ottone senza aver inteso.
«Ne abbiamo già parlato durante i consigli di guerra, e lo stato
maggiore imperiale ha stabilito che le proporzioni saranno comunque
di uno a tre in nostro favore.» «Forse è così» annuì Rainaldo. «O forse
no.» «Che cosa intendete dire?» chiese Ottone, che cominciava a
irritarsi per il sussiego mostrato dall'arcicancelliere.
«Che dobbiamo aspettarci una resistenza superiore a quella
ipotizzata dagli strateghi imperiali» rispose. «Già a partire dalle prime
città che incontreremo oltre il valico.» Ottone di Wittelsbach scosse la
testa poco convinto.
«Abbiamo già raso al suolo Susa una volta, non credo che sarà
difficile averne nuovamente ragione. E anche se Enrico il Leone non
manterrà fede agli impegni e non manderà le sue truppe, sono
convinto che niente riuscirà a fermare il Barbarossa, quando avrà
superato anche l'esile ostacolo di Asti. A quel punto, i Comuni
Lombardi cadranno uno dopo l'altro.» «Prima dovremo superare
Alessandria, però» ribatté Rainaldo con aria grave.
Ottone di Wittelsbach lo fissò sorpreso.
«Di che state parlando?» chiese.
L'arcicancelliere sospirò. «Vedo che non siete stato informato»
disse.
«Informato di cosa?» ringhiò Ottone.
«I Comuni hanno eretto una fortezza nella valle del Tanaro, subito
dopo Asti» rivelò Rainaldo. «Una città con bastioni che si dice siano
insuperabili, costruita al solo scopo di fermare la nostra avanzata.»
«Che sciocchezza è mai questa?» sbottò Ottone. «Non ho mai sentito
parlare della fortezza cui accennate.» «È di costruzione abbastanza
recente» annuì Rainaldo. «E di concezione spavalda, da quello che mi
dicono.» «Una fortezza» ripetè Ottone, suo malgrado sconcertato da
quella novità. «Per quale motivo nessuno ne ha accennato, durante gli
ultimi consigli di guerra?» Rainaldo si strinse nelle spalle, sorbendo
un altro sorso di vino.
«Sua Maestà si ostina a non voler considerare Alessandria un
problema» rispose. «Questo nonostante l'evidenza.» «Perché non
dovrebbe avere ragione?» chiese Ottone. «Una fortezza in più non
cambierà le sorti della guerra.» «Forse» annuì Rainaldo. «O forse sì.»
«Spiegatevi, per cortesia.» Rainaldo si sporse leggermente verso di lui,
fissandolo dritto negli occhi.
«Il fattore tempo è essenziale» affermò. «I miei informatori mi
hanno fatto sapere che l'esercito della Lega si sta organizzando e che le
sue fila ingrossano sempre più, giorno dopo giorno. Sono coinvolti
tutti i Comuni che hanno preso le distanze dall'imperatore, da Venezia
a Crema, da Lodi a Brescia, da Mantova a Parma e Piacenza. Più
tempo trascorrerà dal momento in cui riusciremo ad affrontarli, più
saranno forti e bene organizzati, e potranno prepararsi su un terreno
che conoscono meglio dei nostri strateghi.» Rainaldo s'interruppe, e
Ottone lo fissò sconcertato.
«Credete davvero che potrebbero fermarci?» chiese, vergognandosi
quasi del significato delle sue parole.

«Non dirò mai nulla del genere» rispose Rainaldo alzando


entrambe le mani. «Soprattutto in presenza di Sua Maestà.» Strinse
nuovamente gli occhi, trasformandoli in due linee sottili. «Ma avanzo
l'ipotesi con voi, visto che siete il condottiero più vicino al Barbarossa e
potrete certamente fare in modo che vi ascolti. Arrivare impreparati a
questo confronto potrebbe significare perdere buona parte della
supremazia che ancora possiamo mettere sul campo.» Rainaldo
tacque, e Ottone aprì la bocca per replicare, ma poi la richiuse di
scatto. Aveva capito il significato delle parole dell'arcicancelliere, e si
rese conto che sarebbe stato inutile continuare a discuterne con lui.
Rainaldo di Darmstadt era un politico, un dignitario di corte, non un
militare, e proprio per questo non avrebbe destato l'attenzione
dell'imperatore sui problemi connessi con le strategie della spedizione
che aveva avuto inizio.
Eppure, l'arcicancelliere era consapevole che l'imperatore stava
rischiando molto, con quella discesa in Italia, e aveva bisogno che
qualcuno facesse comprendere a Federico I quanto fosse
indispensabile non sottovalutare i Comuni Lombardi proprio adesso
che avevano messo insieme una coalizione capace di aggregare le forze
di buona parte delle più importanti città italiane.
«D'accordo» disse, afferrando per la prima volta la sua coppa di
vino e bevendone un lungo sorso. «Parlerò con gli altri comandanti e
raccoglierò informazioni su questa fortezza. Poi convocherò un
consiglio di guerra per attirare l'attenzione dell'imperatore sul
problema.» «Bene» annuì Rainaldo, visibilmente sollevato. «Non
dubito che saremo in grado di riportare a più miti consigli quei ribelli
padani, ma adesso che so di poter contare su di voi, mi sento molto più
tranquillo.» «E io vi ringrazio per avermi messo al corrente di questi
sviluppi di cui non ero a conoscenza.» Rainaldo s'inchinò leggermente,
e Ottone lo imitò, seppure con la schiena più rigida di quanto avesse
voluto.
Adesso per lui iniziava una missione ben più difficile e importante
di quella di guidare l'esercito contro la Lega Lombarda: capire perché
non era stato avvertito prima della presenza di quella misteriosa
fortezza eretta a baluardo della Padania, e soprattutto cercare di
convincere l'imperatore a rallentare l'avanzata dell'esercito per
considerare il problema e ponderarne i rischi tattici e strategici.
Un compito che per certi versi gli appariva impossibile, conoscendo
il temperamento del Barbarossa e la sua convinzione di poter superare
qualsiasi ostacolo grazie all'intercessione divina dovuta alla sua carica
regale. Per di più, ormai gli esploratori dell'avanguardia dovevano già
essere in prossimità dei valichi alpini, e questo avrebbe significato
raggiungere un punto oltre il quale non sarebbe più stato possibile fare
marcia indietro.
2
Dopo che Ottone di Wittelsbach si fu allontanato, Rainaldo
terminò di bere il pregevole vino italiano e disse: «Allora, Monsignore,
che cosa ne dite?».
Sul fondo del carro, una mano scostò la pesante tenda di velluto
nero che celava una nicchia nascosta, e Monsignor Vallerò comparve
scuotendo la testa.
«La situazione è più grave di quello che pensavo» rispose.
Rainaldo annuì. «Avete ragione. I segnali che avevamo percepito a
Ratisbona sembravano meno preoccupanti, invece...» Non concluse la
frase, e Monsignor Vallerò giunse le mani sul petto, dando
l'impressione di volersi concentrare in preghiera.
Invece sospirò e sollevò lo sguardo, fissando l'arcicancelliere.
«Chi può avere tenuto nascoste certe informazioni allo stato
maggiore imperiale?» chiese. «Chi sta tramando alle spalle di Sua
Maestà?» «Non è questa la domanda che dobbiamo porci» rispose
Rainaldo. Si versò un'altra coppa di vino, ma non accennò a offrirlo al
Monsignore. «Piuttosto, sarebbe utile capire perché qualcuno sta
cercando di impedire al Barbarossa di riaffermare la Constitutio de
Pacis sui territori padani.» Monsignor Vallerò scrutò attentamente
Rainaldo, senza dire nulla, poi all'improvviso parve capire ciò a cui
alludeva l'arcicancelliere e arrossì.

«Non penserete...» provò a dire, ma Rainaldo l'interruppe con un


sorriso ironico.
«No, Monsignore, io non penso nulla. Però se voi doveste dubitare
della lealtà di qualche alto prelato della vostra congregazione o di
qualche dignitario di Germania che dovesse avere dimenticato che
Alessandro III non è più papa, visto che non possiede il benestare
dell'imperatore... allora diciamo che sarei lieto se me ne faceste
menzione, in modo da poter intervenire con misure efficaci per
arrestare il dilagare dell'eresia. Altrimenti, Sua Maestà potrebbe
pensare che la Chiesa stia cercando di riunificarsi anche senza il suo
consenso.» «Alessandro III non rappresenta nostro Signore in terra»
affermò deciso Monsignor Vallerò. «E io sono indignato dal fatto che
voi possiate sospettare...» «Io non sospetto niente» l'interruppe
ancora una volta Rainaldo di Darmstadt. «Io constato dei fatti. Fatti
così gravi che potrebbero pregiudicare l'affermazione del diritto
imperiale alla sovranità terrena e spirituale, a cui voi dovreste essere
fedele per giuramento.» «Ed è così!» affermò Monsignor Vallerò
raddrizzando la schiena.
«Quindi posso contare su di voi per garantire a Sua Maestà
l'appoggio di cui ha bisogno?» «Naturalmente.» Rainaldo di
Darmstadt vuotò la coppa di vino, cercando con quel gesto di
nascondere il lampo di trionfo che doveva avergli illuminato lo
sguardo. Ormai aveva individuato tutti i fili che componevano
l'intricato ordito dello scenario politico che gettava ombra sull'esercito
imperiale, e sentiva di essere finalmente in grado di poterli manovrare
tutti con pochi, semplici gesti, facendo in modo che Federico I non si
accorgesse delle sue manipolazioni. L'imperatore doveva rivolgere la
sua energia verso i ribelli padani, senza perdere tempo nelle futili, per
quanto pericolose, manovre politiche che cercavano di aprirsi una
strada alle sue spalle per imporre logiche che andavano oltre la
comprensione del sovrano.
Quello era il terreno su cui Rainaldo si muoveva con agio e assoluta
padronanza, e in fondo era per questo che il Barbarossa l'aveva
nominato suo arcicancelliere.

Soddisfatto per i risultati che aveva ottenuto, Rainaldo si versò


l'ennesima coppa di vino. Poi la mostrò al prelato, che sedeva ancora
davanti a lui a mani giunte.
«Davvero non ne gradite un sorso?» chiese, divertito
dall'espressione intransigente del Monsignore.
Vallerò non si degnò neppure di rispondere. Si alzò e in tutta fretta
scese dal carro, mentre Rainaldo si rilassava e chiudeva gli occhi per
gustare senza altri pensieri la fragranza di quell'ottimo vino, forte
eppure nobile come un nettare creato appositamente per gli uomini
più potenti della terra.
Fra i quali, naturalmente, lui sapeva di avere un ruolo di
primissimo piano.
3
«Perché dobbiamo essere sempre noi, quelli che vanno allo
sbaraglio?» grugnì Fiorenzo Motta dalle retrovie, facendo risuonare il
suo vocione profondo.
«Taci!» ringhiò subito Beato Marchesini, il comandante del
drappello, scrutando preoccupato i contrafforti della montagna sulla
quale si stavano arrampicando. A quelle altitudini la neve era sempre
in agguato, pronta ad abbattersi al minimo rumore su chi cercava di
attraversare gli impervi canaloni scavati dall'erosione nella parete
rocciosa.
«Credete che ci sia pericolo di una valanga?» chiese Valerio a bassa
voce. Cavalcava subito dietro il comandante, e cercava di non tremare
per il freddo e per la paura che lo avvolgevano come un gelido sudario.
Quando fantasticava sulle imprese in battaglia in cui si sarebbe
distinto, non immaginava certo che per lui ci sarebbe stato prima un
periodo così difficile come recluta della guarnigione.
Era stata affidata anche a lui una livrea con i colori della città di
Alessandria, ma da quando era stato assegnato ai servizi di vedetta e di
esplorazione, non aveva mai avuto modo di impugnare la spada per
esercitarsi con i compagni o, addirittura, affrontare il nemico, come
aveva sempre sognato. Purtroppo, sembrava che l'unica dote di cui
potesse andare fiero, e che i suoi superiori non mancavano mai di
elogiare, fosse la vista acutissima, che gli permetteva di distinguere
chiaramente oggetti e persone a distanze che agli altri parevano
inaccessibili.
Dopo avere dimostrato di possedere quell'inequivocabile dono di
natura, Valerio era stato assegnato alle pattuglie più avanzate, che
perlustravano e tenevano incessantemente d'occhio i valichi di
montagna attraverso cui, si diceva, l'esercito imperiale sarebbe presto
dilagato in Italia.
Nonostante l'insofferenza di Valerio per un incarico che non
prevedeva il contatto con il nemico («Voi siete qui per guardare e
riferire, non per ingaggiare battaglia» era stato il primo
comandamento impartito da Beato Marchesini), si rendeva conto
dell'importanza di tenere sotto controllo il territorio, per evitare che le
forze imperiali potessero sferrare un micidiale attacco a sorpresa.
L'esercito padano non era ancora pronto, da quello che si diceva nei
casermaggi che aveva frequentato negli ultimi mesi, e la sola speranza
che avevano di potersi opporre al Barbarossa era che tutti gli uomini a
disposizione di Alberto da Giussano, il comandante in capo
dell'esercito della Lega, fossero riuniti e schierati su un unico fronte,
pronti a combattere il nemico e a ricacciarlo nei freddi territori di
Germania. Ma se Federico I fosse riuscito a valicare le Alpi e a
riversare i suoi uomini in Padania sferrando un attacco senza
preavviso, per tutti loro sarebbe stata la fine.
Beato Marchesini non si stancava mai di ripetere quel concetto,
quando riuniva sotto il suo comando le staffette e le vedette al
completo.
«Voi siete gli occhi e le orecchie di Alberto da Giussano» spiegava
loro, riempiendoli di orgoglio e di soddisfazione, «e sarà per merito
vostro se il nostro esercito riuscirà a organizzarsi prima di essere colto
di sorpresa dal nemico.» Pur conscio della responsabilità del suo
incarico, Valerio non poteva fare a meno di cullare il suo più grande
desiderio, ovvero poter essere uno dei novecento temerari che
cavalcavano al fianco di Alberto da Giussano, nella Compagnia della
Morte, il reparto più ardito, più forte e di tutto l'esercito padano,
considerato imbattibile.
Ma sapeva anche che si trattava di un sogno impossibile da
realizzare, perché solo i cavalieri più esperti e audaci potevano
aspirare a entrare a far parte della Compagnia della Morte, e solo dopo
aver ottenuto la massima fiducia da Alberto da Giussano in persona,
che li conosceva e li selezionava uno per uno.
Al momento quindi doveva accontentarsi del ruolo che era stato
scelto per lui, e cercare di comportarsi il meglio possibile.
Beato Marchesini gli aveva spiegato che lui era un caso eccezionale,
una vedetta come non ne aveva mai viste, in tanti anni di servizio. E
quindi non si sarebbe fatto scrupolo di sfruttare le sue qualità, anche
se si rendeva conto che era ancora poco esperto e che avrebbe avuto
bisogno di restare un po' di più di rincalzo, anziché andare subito allo
sbaraglio, ma la posta in gioco era troppo importante, e lui aveva
bisogno degli occhi migliori a disposizione.
«E se non dovessero passare da qui?» aveva chiesto Valerio una
volta, durante una delle riunioni a cui Marchesini concedeva a tutti,
anche all'ultima delle reclute, di esprimere il proprio pensiero.
«Questo è il valico più rapido e più sicuro, per l'imperatore» aveva
risposto il comandante. «L'esercito imperiale l'ha già sfruttato altre
volte, perché non è possibile organizzare una difesa su questi
contrafforti e perché i valichi sono ravvicinati e abbastanza comodi per
i carriaggi, il che significa che nell'arco di una settimana l'intero
esercito imperiale potrebbe trovarsi sul suolo italiano.» «Conosciamo
il percorso più probabile che potrebbero seguire?» aveva chiesto
Fiorenzo Motta, con il suo vocione squillante.
«Naturalmente» era stata la risposta di Beato Marchesini. Il
comandante aveva raccolto una pergamena dalla cassa con i
documenti di servizio e l'aveva spiegata sul tavolo. Poi aveva indicato il
percorso disegnato sulla mappa, partendo da un punto oltre i valichi di
montagna, nel regno di Borgogna.
«Questa è la via Francigena» aveva spiegato. «Dalla Borgogna
all'Italia ci sono solo tre percorsi accessibili: il Monginevro, il
Moncenisio e il Gran San Bernardo. Di questi, solo il primo consente il
valico delle Alpi a un esercito in pieno assetto di battaglia.» «Qual è la
prima città che li dovrà affrontare?» aveva chiesto una delle staffette
più giovani, che ancora non aveva avuto l'occasione di uscire in
missione.

«Oulx» aveva risposto Beato Marchesini, indicando con il dito un


cerchio sulla mappa. «Seguendo il corso della Dora Riparia si arriva a
Susa, e qui la via Francigena si congiunge con il percorso più impervio
che scende dal Moncenisio.» «Non c'è modo di organizzare una difesa
lì?» aveva chiesto Valerio, pur rendendosi conto che la sua domanda
poneva il punto su una questione che di certo non riguardava
direttamente il loro incarico di staffette e vedette.
Ma Beato Marchesini aveva deciso di rispondergli ugualmente,
scuotendo la testa.
«Susa è già stata rasa al suolo una volta dal Barbarossa,
dimostrando che lassù è praticamente impossibile costruire una valida
difesa.» «Quindi dove potremo affrontarli?» aveva chiesto qualcun
altro, lasciandosi prendere dalla stessa smania che divorava Valerio.
Beato Marchesini aveva sospirato, studiando la mappa. Poi aveva
ripreso a indicare con il dito.
«Dopo Susa c'è Bussoleno, sulla riva destra della Dora» aveva
spiegato «poi giù verso Avigliana e Rivoli, dove la via Francigena si
divide in due rami: uno diretto a Torino e uno, più a sud, a Chieri,
verso Asti e Alessandria.» «Alessandria!» aveva gridato Valerio quasi
senza accorgersene, e comprendendo solo in quel momento per quale
motivo Rossano era partito senza indugio verso l'incarico che gli era
stato assegnato presso la guarnigione della fortezza.
«Esatto» aveva annuito il comandante. «E secondo me è qui che
potrebbe avvenire lo scontro. Nella valle del Tanaro.» «E Chieri?»
aveva chiesto qualcuno. «Torino, Asti, tutte le altre città sul cammino
dell'esercito imperiale?» Beato Marchesini non aveva risposto,
limitandosi a scrutare accigliato la grande pergamena, e un brusio
intimorito si era diffuso nella stanza.
«In ogni caso» aveva ripreso dopo un po', «ancora non sappiamo
se passeranno effettivamente da qui. E se questo succederà, saremo
noi a darne conferma ad Alberto da Giussano.» Qualcuno aveva
fischiato impressionato, e Valerio si era sentito percorrere per la prima
volta da un brivido di eccitazione e di paura insieme.

«Quindi è possibile che saremo noi i primi a entrare in contatto con


le avanguardie imperiali?» aveva chiesto sgranando gli occhi.
«Credo proprio di sì» aveva risposto il comandante. «Però
ricordate quello che vi ho detto...» «Noi siamo qui per guardare e
riferire, non per ingaggiare battaglia» l'avevano anticipato in coro
tutte le vedette e le staffette riunite.
Da allora era passato parecchio tempo, e le aspettative di Valerio si
erano molto ridimensionate. Adesso era stata organizzata un'altra
spedizione, per cercare di spingere il più avanti possibile i migliori
occhi dell'esercito padano, e per evitare i sentieri confortevoli dei
valichi, dove avrebbero potuto essere intercettati dalle staffette
nemiche. Beato Marchesini aveva deciso di portare i suoi uomini su un
tratturo che si inerpicava lungo i contrafforti della montagna, per
aggirare le Alpi fin dove era possibile cavalcare e poi guadagnare una
posizione di osservazione che avrebbe consentito loro di tenere sotto
controllo almeno due dei passi più importanti, spingendo lo sguardo
fin quasi nei territori dell'Impero.
Valerio era stato scelto per fare parte di quella spedizione, e se in
un primo momento si era sentito eccitato per l'importanza e la
pericolosità della missione, adesso sentiva che la paura stava
cominciando a prendere il sopravvento.
Non era mai stato a quelle altitudini, e le montagne erano sempre
state solo delle forme indistinte all'orizzonte, che si alzavano
minacciose come i denti smussati di un gigante.
Adesso che si trovava fra la neve, il ghiaccio e la roccia affilata,
tremava per il freddo e per il timore che da un momento all'altro
potesse succedere una delle cose terribili che i suoi compagni più
anziani gli avevano raccontato nelle lunghe notti di veglia trascorse
accanto ai fuochi. Per esempio che una parte della montagna si
staccasse dall'alto e gli piombasse addosso, trascinandoli tutti
nell'abisso che si apriva oltre lo stretto margine del sentiero che
stavano percorrendo.
«No, non credo che ci sia il pericolo di una valanga» rispose il
comandante tranquillizzandolo, «ma sarebbe meglio che quel bestione
di Fiorenzo Motta la smettesse di parlare. Il suo vocione lo si può
sentire fin oltre le Alpi.»
Qualcuno ridacchiò mentre la tensione che aveva afferrato il
gruppo si scioglieva, e Fiorenzo Motta si limitò a grugnire,
trattenendosi però dal ribattere: lui per primo aveva un vero e proprio
terrore per le valanghe.
Cavalcarono ancora per qualche ora, facendo la massima
attenzione a dove i cavalli posavano gli zoccoli, poi finalmente il
sentiero deviò bruscamente e sfociò in una stretta radura che si
incuneava nel fianco della montagna. Lì gli alberi erano radi, ma l'erba
cresceva rigogliosa, e Beato Marchesini ordinò di far rifocillare i
cavalli.
«Due di voi vengano con me» ordinò subito dopo aver messo piede
a terra. Puntò un dito verso Valerio e poi verso Fiorenzo Motta. «Tu e
tu. Seguitemi.» Valerio affidò il proprio cavallo a un compagno e
raggiunse di corsa il comandante, mentre Fiorenzo Motta lo seguiva
borbottando.
«Voglio il massimo silenzio» ordinò Marchesini incamminandosi
lungo uno stretto sentiero che qualcuno aveva intagliato direttamente
nella roccia, e che portava sul versante opposto della montagna.
Dopo avere camminato per quasi dieci minuti, mentre grosse
nuvole grigie correvano attorno e di tanto in tanto li sommergevano,
sbucarono in una piazzola scavata nella parete, dove Valerio riconobbe
con stupore una piccola garitta di osservazione.
«Ecco» disse il comandante, «questa è la vostra assegnazione.
Stabilite turni da quattro ore come al solito. Domani vi sarà dato il
cambio.» Né Valerio né Fiorenzo Motta replicarono: si limitarono a
sfilarsi le bisacce da tracolla e a verificare la situazione all'interno della
garitta. Lassù avrebbe fatto un gran freddo, ma tutto sommato quel
posto era meglio di molti altri in cui avevano prestato servizio.
Prima che Marchesini se ne andasse, Valerio indicò davanti a sé,
verso l'abisso che costeggiava la montagna, e si strinse nelle spalle.
«Che cosa dobbiamo sorvegliare, da quassù?» chiese. Dalla garitta
si scorgeva solo l'ammasso di nuvole che si muoveva pigro lungo i
fianchi della montagna, così fitto da non consentire di vedere nulla a
una distanza superiore a dieci braccia.

«Aspettate che il vento sia favorevole, poi ve ne accorgerete»


rispose il comandante. Detto questo fece dietro front e tornò a
inerpicarsi lungo il sentiero che conduceva alla radura con i cavalli.
Rimasti soli, Valerio e Fiorenzo si sistemarono come meglio
poterono.
«Comincio io» disse Valerio, seguendo un rituale che conoscevano
molto bene.
Fiorenzo Motta annuì, si distese nell'angolo più riparato della
garitta, si gettò addosso la coperta e si addormentò subito, come anni
di servizio di vedetta gli avevano insegnato.
Valerio restò solo a contemplare la muraglia di nubi che fluttuava
grigia e persistente davanti a lui, celando qualsiasi cosa.
Stava sognando di impegnare in combattimento tre cavalieri
imperiali, affrontandone uno con la spada, tenendone a bada un altro
con lo stocco e sferrando un calcio agli stinchi di un terzo per farlo
crollare a terra, quando si sentì colpire al fianco. In un primo
momento non comprese che cosa stava succedendo, e andò avanti a
combattere come un leone, nonostante i colpi al fianco si facessero
sempre più forti e insistenti, fino a quando si svegliò di soprassalto,
balzando a sedere sul suo giaciglio improvvisato.
«Alla buonora» grugnì Fiorenzo Motta. «Quando dormi non è
facile riportarti fra i vivi.» Valerio si massaggiò il fianco indolenzito,
dove lo stivale di cuoio del compagno aveva colpito duro.
«Che diavolo succede?» chiese, sfregandosi gli occhi per cercare di
scacciare le ultime spire del sonno che lo avvolgeva.
«È già finito il mio turno di riposo?» «No» rispose Fiorenzo Motta.
«Ma c'è una cosa che devi vedere.» «Che cosa?» sbuffò Valerio irritato.
Quel bestione l'aveva svegliato proprio sul più bello, e non era sicuro
che sarebbe riuscito una seconda volta a condurre con tanta maestria
un duello contro tre avversari, per quanto solo in sogno.
«Il vento è favorevole» si limitò a ribattere Fiorenzo. «Proprio
come aveva detto il comandante.»
Incuriosito, Valerio si tirò su e uscì dalla garitta scavata nella
roccia. Faceva molto freddo, lassù, e il vento soffiava di traverso e
impetuoso, come se volesse tagliargli il viso con le lame di un pugnale
affilato.
Fiorenzo Motta si allontanò di qualche passo in direzione dello
strapiombo su cui si affacciava la minuscola piazzola di osservazione, e
quando Valerio lo raggiunse restò a guardare a bocca aperta.
Il vento aveva spazzato via la muraglia di nubi dense e scure che
avevano formato un diaframma davanti a loro, quando erano arrivati,
occultando qualsiasi cosa si potesse osservare dalla garitta. Ora, però,
al suo posto c'era un paesaggio mozzafiato, di una bellezza
straordinaria, che Valerio contemplò dimenticandosi persino di
respirare.
«L'avresti mai detto?» chiese Fiorenzo Motta, che manifestava la
sua meraviglia scuotendo piano il testone.
Valerio non rispose, limitandosi a muovere a sua volta il capo in
segno di diniego.
Davanti a lui la montagna si allargava su uno strapiombo sempre
più vasto, che diverse centinaia di metri più in basso digradava in una
valle suddivisa da una cresta rocciosa altissima e affilata, che arrivava
quasi fino all'altezza dello spiazzo su cui sostavano loro due.
In una delle due metà della valle scorreva un torrente, lungo un
percorso tortuoso e ripidissimo che faceva viaggiare l'acqua a velocità
prodigiosa, sollevando creste di spuma ogni volta che incontrava un
ostacolo. Dalla distanza a cui si trovavano, Valerio non poteva capire
quanto fosse grande. Ovunque, alberi altissimi si inerpicavano sui
fianchi rigogliosi della montagna, dando quasi l'impressione che
entrambe le valli fossero foderate di un muschio verdissimo e
brillante.
La neve spolverava qua e là i contrafforti e imbiancava
completamente le guglie asimmetriche della cresta rocciosa centrale,
così come tutte le cime delle montagne che facevano da corollario a
quel passaggio scavato dal torrente attraverso le Alpi.
«Fantastico» disse dopo un po' Valerio, soggiogato dal paesaggio
che si stendeva sotto di loro. Chiunque avesse costruito quella
minuscola garitta di osservazione l'aveva fatto con la consapevolezza
che da quel punto sarebbe stato possibile tenere d'occhio qualsiasi
movimento nelle due valli sottostanti, a patto di avere lo sguardo
molto acuto.
«Sono quelli i valichi da cui passerà l'esercito imperiale?» chiese
Fiorenzo Motta.
«Immagino di sì» rispose Valerio. «Altrimenti non capisco perché
ci abbiano assegnato proprio qui.» «Noi siamo gli occhi migliori di
tutto l'esercito padano» affermò Fiorenzo con orgoglio. «Non ci
avrebbero fatto venire fin quassù per niente.» «Giusto» annuì Valerio,
lasciando correre lo sguardo sui declivi macchiati dalla neve e dai
sempreverdi che crescevano rigogliosi, «e noi non dobbiamo
deluderli.» «Che cosa intendi fare?» gli chiese Fiorenzo.
«Seguiamo gli ordini» rispose Valerio tornando nella garitta e
sistemandosi sotto la coperta. Tremava per il freddo, e aveva ancora
un velo di sonno negli occhi, per quanto lo scenario che aveva
contemplato fosse magnifico. «Svegliami quando sarà terminato il mio
turno di riposo.» Fiorenzo Motta andò a sistemarsi all'esterno della
garitta, su un masso dall'aspetto confortevole, e strizzò gli occhi per
poter distinguere anche il minimo movimento nelle valli sottostanti.
Valerio sapeva che non si sarebbe mosso da quella posizione per
nulla al mondo, fino a quando non fosse arrivato il suo turno di
riposare e quello di Valerio di vegliare sulla valle e sulle sorti del loro
popolo.
Dopo avere emesso un grugnito di assenso e di soddisfazione,
Valerio si distese e si riaddormentò subito, cercando di tornare con la
mente al momento in cui sferrava il calcio agli stinchi del suo terzo
avversario, per metterlo fuori combattimento mentre si prendeva cura
degli altri due temibili nemici che cercavano inutilmente di sfiancarlo.
Le nuvole non erano scomparse del tutto. Erano asserragliate in
alto, appena sopra le vette più basse della catena montuosa che si
estendeva per decine di chilometri, e parevano in attesa di capire quali
fossero gli umori del vento, per cavalcarlo e farsi trasportare nei
canaloni e negli anfratti scavati nella roccia.
Durante il suo turno di guardia Valerio era rimasto a osservare
affascinato quei continui spostamenti, rendendosi conto che in
montagna il clima subiva cambiamenti così repentini e imprevedibili
da non consentire di valutare la durata del bel tempo, della pioggia o
della neve.
Nelle ultime due ore aveva visto scatenarsi temporali improvvisi,
ricomparire il sole come se qualche creatura gigantesca avesse fatto a
brandelli le nuvole con le mani, e poi persino scendere qualche fiocco
di neve, che aveva assaggiato accogliendolo con la bocca aperta.
Adesso sedeva sul masso individuato da Fiorenzo avvolto nella
coperta fino alle orecchie, perché il vento aveva ripreso a fischiare la
sua melodia nei contrafforti e a tagliare l'aria con invisibili lame
affilate. Ancora un paio di turni, pensò Valerio, poi sarebbero tornati
nella radura lasciando le consegne ad altri due compagni.
Aveva fame, e voleva mettere sotto i denti qualcosa di un po' più
consistente delle cipolle e del pane raffermo che componevano la loro
razione di cibo per i turni di guardia. Ma soprattutto aveva bisogno di
scaldarsi il corpo all'interno, e non conosceva rimedio migliore del
vino caldo e speziato che Oscar, il vivandiere della compagnia, teneva
sempre pronto su un letto di braci senza fumo.
Stava pensando agli effetti benefici che il vino avrebbe avuto sul
suo umore e sul suo corpo, quando gli parve di cogliere un movimento.
Era stata solo una vaga impressione, dovuta più che altro all'istinto
da vedetta che negli ultimi mesi aveva imparato ad affinare grazie ai
consigli di Beato Marchesini e dei compagni, e per un istante cercò di
capire se si fosse trattato solo di un'illusione.
Il movimento che aveva percepito era nella valle più a occidente,
quella attraversata dal letto impetuoso del torrente, e forse poteva
essere stato causato da qualche animale di montagna, uno stambecco o
addirittura un orso, tutte bestie che popolavano quelle cime impervie.
Stava ormai per convincersi di essersi sbagliato, quando colse di
nuovo il movimento, questa volta in modo più nitido e ripetuto: c'era
qualcuno o qualcosa che avanzava fra gli alberi, a pochi passi dalla riva
occidentale del torrente.
Come gli era stato insegnato, Valerio si concentrò, stringendo gli
occhi quel tanto che sarebbe bastato a consentirgli la migliore visuale,
poi quando ebbe conferma che non si era sbagliato corse a svegliare
Fiorenzo Motta. Beato Marchesini era sempre stato chiaro con loro:
«Non appena effettuate un avvistamento, chiamate subito il vostro
compagno. Quattro occhi possono mettere a fuoco dettagli che
sfuggirebbero a due soltanto».
Fiorenzo reagì subito quando Valerio lo scosse a una spalla, e non
disse nulla quando vide l'espressione del suo viso. Si alzò in fretta e lo
seguì fino al miglior punto di osservazione, dove Valerio si fermò
puntando il dito verso la valle con il torrente.
Come consuetudine Valerio non spiegò a Fiorenzo che cosa avesse
visto, ma aspettò che il compagno confermasse il suo avvistamento.
«Due uomini» disse Fiorenzo dopo un po', stringendo e
distendendo gli occhi nel tentativo di trovare la migliore messa a
fuoco. «Forse tre. Procedono distanziati nel bosco, sulla sponda
occidentale del fiume.» Valerio annuì eccitato. Adesso aveva la
conferma che la sua vista non si era ingannata.
«Mi sembra di vedere dei cavalli» disse dopo un po', mentre lui e
Fiorenzo si concentravano nello scrutare la valle da una distanza che
per molti sarebbe risultata impossibile. «Procedono a piedi, ma
tengono i cavalli alla briglia.» «Sì» annuì Fiorenzo, che ci vedeva bene
quasi quanto Valerio, anche se nelle gare di esercitazione non riusciva
mai a prevalere sulla giovane recluta. «Però guarda lassù, nel canalone
orientale, dove c'è quella specie di pista di ghiaia.» Valerio, sorpreso,
spostò lo sguardo dove indicava Fiorenzo, e con il cuore in gola si rese
conto che il compagno aveva ragione.
C'erano almeno altri tre uomini che si muovevano circospetti lungo
il canalone, tenendo i cavalli alla briglia per non rischiare di scivolare
lungo il declivio.
«Sei uomini in tutto» disse. Poi tornò a osservare la valle con il
torrente, e quasi gli prese un colpo: c'era un uomo in piedi su un
grande masso, con le mani a coppa attorno al viso, che si guardava
attorno con lenti movimenti del capo.
«A terra!» gridò Valerio trascinando con sé Fiorenzo. «C'è una
vedetta!» I due restarono sdraiati immobili per qualche minuto, poi
Valerio sollevò la testa con cautela, cercando di non fare gesti
bruschi. Sapeva che da quelle distanze non era tanto la sagoma di un
corpo a rivelare la presenza di un uomo, quanto la velocità con cui si
spostava, che contrastava con l'immobilità dello sfondo. Muovendosi
molto piano, riduceva le possibilità che la vedetta nemica si accorgesse
di lui.
Quando fu a portata di sguardo verificò se l'uomo fosse ancora in
osservazione, ma si rese conto che era sparito.
«Che dici?» chiese a Fiorenzo, che aveva molta più esperienza di
lui.
«Potrebbero essere gli esploratori imperiali» rispose Fiorenzo
Motta, tenendo basso il suo vocione potente. «Però dovremmo
raccogliere delle prove certe, prima di far scattare l'allarme.» Valerio
scosse la testa. «Sette uomini!» esclamò. «In questi canaloni
dimenticati da Dio. Chi diavolo potrebbero essere?» Fiorenzo Motta
parve rimuginare la cosa per un po', poi tornò a guardare verso la valle
tagliata in due dalla cresta rocciosa.
«Hai ragione, la penso anch'io come te» disse alla fine. «Ma
prendiamoci ancora qualche minuto. Se sono esploratori, allora
torneranno per marcare la pista e si dirigeranno ovunque. Se poi
appartengono all'esercito imperiale, allora saranno tre volte di più di
quelli che abbiamo visto.» «Va bene» annuì Valerio. «Ma appena
abbiamo la conferma che si tratta del nemico, dobbiamo correre dal
comandante per avvertirlo.» «Lo farai tu» disse Fiorenzo, che in virtù
della sua anzianità era il più alto in grado fra loro due. «Io resterò qui
a tenere d'occhio quello che succede là sotto.» Non videro più nessuno
per un tempo che parve loro fin troppo lungo, poi quando stavano per
rialzarsi da terra ed esprimere il loro disappunto, Valerio colse un altro
movimento e lo indicò subito a Fiorenzo.
«Sono loro!» esclamò a bassa voce. «Guarda, c'è anche
l'osservatore.» Fiorenzo appoggiò la mano di taglio sulla fronte, per
ripararsi dai riflessi del sole che spesso riusciva a ritagliarsi dei
brandelli di spazio fra le nubi, e annuì.

«Sì, hai ragione. E guarda a nord, dove il canalone s'infila fra le


montagne. Cos'è quello? Non riesco a distinguerlo.» Valerio strinse un
po' di più gli occhi e si sforzò di capire. Non era facile, vista la distanza,
ma dopo un po' credette di sapere di che cosa si trattava.
«E un carro di esplorazione» spiegò a Fiorenzo. «Appesantito con
sacchi di sabbia, per saggiare il terreno e verificare se è in grado di
reggere il peso delle salmerie con i vettovagliamenti.» «Allora non ci
sono più dubbi» affermò Fiorenzo.
«Quelle sono le avanguardie dell'esercito imperiale» annuì Valerio.
«Sono arrivati prima di quanto pensassimo.» «Vai ad avvertire il
comandante!» ordinò Fiorenzo Motta.
Valerio balzò in piedi, eccitato e con il cuore in gola, e restando il
più possibile curvo per non farsi scorgere dagli osservatori nemici, che
di sicuro stavano tenendo d'occhio tutto il corollario di montagne che
circondava la valle, si lanciò lungo il sentiero che l'avrebbe portato alla
radura in cui avevano fatto sosta Beato Marchesini e le altre vedette.
Avrebbe voluto gridare, mettere subito in allerta il suo
comandante, ma per qualche strano motivo aveva continuato a restare
curvo e a immaginare che ci fosse qualche osservatore nemico pronto a
cogliere i suoi movimenti. Probabilmente fu questo a salvargli la vita.
Subito dopo il sentiero, che si inerpicava sul costone della
montagna aggirando una sporgenza rocciosa, c'era una specie di
avvallamento poco profondo in cui Valerio, entrando a schiena curva,
scomparve alla vista di chiunque si trovasse dall'altra parte. Stava per
arrampicarsi fuori da quella fossa e mettersi a gridare per avvertire i
compagni, quando sentì le voci. Erano brusche e intermittenti, come
se qualcuno stesse abbaiando degli ordini, e di certo non erano in
lingua padana. Paralizzato dall'angoscia, Valerio restò accucciato nella
depressione per qualche istante, poi sollevò con cautela la testa e
osservò quello che stava succedendo nella radura.
I corpi dei suoi compagni, tutti senza vita, erano stati accatastati su
un lato dello spiazzo. Alcuni avevano la testa spaccata, altri erano
crivellati da frecce con l'impennaggio nero e bianco dell'esercito
imperiale. Mentre Valerio osservava con le lacrime agli occhi e un
terrore profondo che gli faceva galoppare il cuore, si rese conto di non
riuscire a scorgere da nessuna parte il corpo di Beato Marchesini. Con
un soprassalto di speranza immaginò che forse il comandante era
riuscito a mettersi in salvo, ma quando un altro uomo avanzò a cavallo
nella radura gridando ordini, scoprì dove fosse finito l'uomo che gli
aveva insegnato tutto dell'arte dell'osservazione. Beato Marchesini era
legato per i polsi alla sella del cavallo del soldato imperiale che gridava
ordini, e sembrava privo di sensi, se non addirittura morto, mentre
veniva trascinato sull'erba e sulle pietre che costellavano lo spiazzo.
Stringendo i denti per la rabbia, Valerio cercò di capire quale fosse
la situazione. I nemici non si erano accorti del sentiero accidentato che
portava alla garitta, e quindi credevano di avere eliminato
completamente la pattuglia di esploratori padani. Sarebbe stata una
mossa di grande efficacia, per l'esercito imperiale, privare il nemico
degli "occhi" e delle "orecchie" mandati in avanscoperta, e adesso quei
maledetti cercavano di far sparire i corpi accatastandoli in un punto da
cui sarebbe stato facile farli precipitare nel vuoto. Nessuno avrebbe
mai più saputo nulla di quegli uomini.
Ma avevano fatto male i loro conti, perché Valerio e Fiorenzo Motta
erano ancora vivi, e se non si facevano cogliere di sorpresa avrebbero
potuto volgere quella situazione in favore dell'esercito padano.
Prima di tutto, però, Valerio doveva riuscire a battersela, ben
sapendo che presto il nemico avrebbe individuato il sentiero per la
garitta. E poi doveva tornare indietro ad avvertire Fiorenzo, che era
ancora all'oscuro di tutto.
Si guardò attorno tenendosi al riparo di una roccia sporgente, e
contò gli esploratori nemici. Erano sette, oltre all'uomo a cavallo che
trascinava Beato Marchesini. Troppi perché lui e Fiorenzo potessero
affrontarli, anche riuscendo a coglierli di sorpresa.
Che fare, allora? Valerio cercò di immaginare quello che avrebbe
fatto suo fratello in quella situazione, e si sentì spezzare il cuore
quando comprese che Rossano non avrebbe avuto dubbi: avrebbe
estratto la spada e sarebbe balzato fuori per affrontare quei maledetti,
e li avrebbe uccisi a uno a uno, vendicando così la morte dei bravi
compagni.

Ma lui non era Rossano, e non sarebbe riuscito ad avere ragione


neppure di uno di quegli uomini, le cui braccia robuste e i volti duri
indicavano che erano abituati a confrontarsi con il nemico in lotte
all'ultimo sangue.
No, doveva accantonare assurdi atti di coraggio e raggiungere
Alessandria il prima possibile, per dare l'allarme. Doveva agire
d'astuzia, non di forza, e fare in modo che fosse Alberto da Giussano a
vendicare l'uccisione dei suoi compagni.
Quando si fu convinto di questo, Valerio tornò ad abbassarsi nella
depressione, raggiunse la parte opposta dell'avvallamento e si inerpicò
lungo il sentiero che aggirava la montagna.
Si augurò che qualche esploratore nemico non fosse riuscito a
individuare la massa enorme di Fiorenzo Motta e a coglierlo di
sorpresa.
«Vai tu. Io cercherò di coprirti le spalle e di trattenerli il più
possibile.» «Che cosa?» Valerio era sconcertato. Non aveva nessuna
intenzione di lasciare lì Fiorenzo Motta a morire mentre lui
approfittava della situazione per darsela a gambe. « Piantala di dire
stupidaggini e seguimi.» «Dove?» ribatté Fiorenzo. Indicò il punto in
cui avrebbero potuto scivolare lungo il fianco della montagna, fino a
una sorta di pista percorribile che correva venti metri più in basso.
Valerio si era sentito allargare il cuore, quando aveva visto quella
inaspettata via di fuga, ma non appena aveva spiegato il suo piano a
Fiorenzo, il colosso aveva scosso il testone e aveva estratto dal fodero il
minuscolo stocco da combattimento che ognuno di loro portava alla
cintola. «Credi davvero che io sia in grado di scendere da lì? Non
potrei mai farcela, con la mia stazza.» Valerio lo guardò sorpreso, e si
rese conto che Fiorenzo aveva ragione. Era molto più grosso di lui,
doveva pesare una trentina di chili di più, e per lui sarebbe stata
un'impresa calarsi lungo il costone della montagna per raggiungere la
via di fuga. Eppure, non aveva nessuna intenzione di lasciarlo lì a
morire, anche perché con quello stocco non sarebbe riuscito a ottenere
nulla contro i nemici, quando avessero scoperto il sentiero e avessero
raggiunto la garitta.
«Non ti lascerò qui a fare l'eroe da solo» disse con una smorfia,
estraendo a sua volta lo stocco. «In ogni caso, non riusciresti a
rallentare nessuno, con quello spillone, quindi visto che devo morire
preferisco farlo in combattimento, piuttosto che infilzato da qualche
dardo mentre faccio lo stambecco.» Fiorenzo Motta lo guardò senza
capire, e Valerio lo puntò con lo stocco.
«Abbiamo poco tempo, deciditi» ringhiò, questa volta serissimo.
«O scendi con me, oppure restiamo qui insieme ad affrontare quei
bastardi.» «Ma ti ho detto che non ce la posso fare!» ribatté Fiorenzo.
«Ed è fondamentale che tu riesca a dare l'allarme. La mia vita non
vale quella del nostro popolo!» Per un istante Valerio si sentì colmare
dall'indecisione. Sapeva che Fiorenzo aveva ragione, e ogni secondo
che lasciava trascorrere era tempo perso verso la salvezza della sua
gente. Ma non poteva credere che non ci fosse un'altra soluzione. A un
certo punto, con la coda dell'occhio vide qualcosa sopra la testa di
Fiorenzo, sollevò lo sguardo e si sentì illuminare da un'idea folgorante.
«Forse non c'è bisogno di sacrificare nessuno dei due!» esclamò,
mentre Fiorenzo lo guardava sorpreso.
L'esploratore imperiale avanzava con cautela, a torso nudo e con
una cinghia di cuoio legata attorno alla fronte, per trattenere i capelli
folti che gli ricadevano in una treccia sulla schiena. Proveniva da un
villaggio nei Balcani, da una zona impervia che a rilievi altissimi e
affilati alternava dolci pendii che digradavano fino al mare, e
conosceva molto bene le insidie della montagna.
Dietro di lui altri cinque esploratori, armati di spade e di corti archi
da cavallo, procedevano facendo attenzione a ogni segnale che il loro
compagno più avanzato avrebbe fatto al minimo accenno di pericolo o
di contatto con il nemico.
Quando il sentiero voltò bruscamente e raggiunse uno stretto
spiazzo di osservazione, l'esploratore comprese che si erano lasciati
sfuggire almeno due vedette nemiche. Dopo avere verificato che non ci
fosse più nessuno, lanciò un fischio di richiamo ai compagni, e quando
gli altri lo raggiunsero indicò le coperte gettate in un angolo e ordinò
di guardare da ogni parte, perché era sicuro che gli uomini che erano
stati lì fino a poco tempo prima non potevano essersi volatilizzati.
O si erano nascosti da qualche parte, oppure si erano arrampicati
sulla parete della montagna, per portarsi più in alto oppure più in
basso rispetto allo spiazzo di osservazione. Mentre gli altri esploratori
controllavano con cautela ogni nicchia e anfratto nella roccia, lui si
diresse verso un punto del costone che dava sull'abisso in cui aveva
riconosciuto una sorta di scalino naturale, che avrebbe permesso a un
uomo di calarsi agevolmente, potendo fare affidamento su appigli
solidi. Si sdraiò a terra, scivolò fino all'orlo della piattaforma rocciosa e
si sporse all'infuori con cautela. Gli ci volle solo qualche secondo per
individuare la vedetta nemica, un ragazzino alto e ossuto che si stava
facendo scivolare con mosse affannate e inesperte lungo la parete della
montagna. Scoprì i denti in un sorriso sarcastico, pensando che quel
novellino non sarebbe neppure riuscito a raggiungere la via di fuga
diversi metri più sotto, perché avrebbe presto perso l'appiglio e
sarebbe precipitato nel vuoto, quindi si tirò su e chiamò i compagni.
«Sono laggiù» disse. «Non andranno lontano.» «Quanti ne vedi?»
gli chiese uno dei compagni raggiungendolo.
«Uno solo. L'altro probabilmente è già caduto di sotto.» «Non
possiamo rischiare» grugnì un altro degli esploratori, armando l'arco
con uno dei corti dardi con l'impennaggio imperiale. «Dobbiamo
prenderli tutti e due.» Provò a scagliare la freccia, ma risultò subito
chiaro che da quella distanza non sarebbero mai riusciti a colpire il
nemico.
«Se l'altro è caduto, sarà impossibile ritrovarne il corpo» grugnì un
esploratore.
«Allora prendiamo quel ragazzino laggiù e facciamolo parlare.
Lui ci dirà dov'è finito il suo compagno.» Annuirono tutti, e il
mercenario balcano allargò ancora di più il suo sorriso.
«Vado io» disse, consapevole che nessuno l'avrebbe contraddetto.
Lui sapeva arrampicarsi sulle rocce come uno stambecco, e gli erano
bastate poche occhiate per capire subito quali sarebbero stati gli
appigli più sicuri per scivolare veloce lungo la parete della montagna e
raggiungere la vedetta nemica prima che riuscisse ad arrivare a
destinazione.
Si girò per spiegare ai compagni che avrebbero fatto meglio a
tornare indietro e avvertire gli altri, quando all'improvviso notò il
movimento sopra di loro, dove alcuni enormi blocchi di roccia
sembravano essersi scossi come per opera di una magia o di un
terremoto, che però lui non aveva sentito sotto i piedi.
«Attenti!» gridò, quando le rocce si mossero ancora e d'un tratto,
come spinte da qualcuno dotato di una forza immensa, franarono
dall'alto investendo lui e i suoi compagni con una valanga di pietre e
massi senza possibilità di scampo.
Fiorenzo Motta si era arrampicato come gli aveva consigliato
Valerio, e alla fine era riuscito ad arrivare nel punto in cui alcune
enormi rocce parevano appoggiate in bilico sul costone della
montagna.
«Credi di farcela a smuoverle e a farle cadere di sotto?» gli aveva
chiesto Valerio indicandole.
«Sì» aveva risposto lui dopo avere valutato peso e dimensioni dei
massi. Erano molto grandi, ma lui conosceva la sua forza e sapeva che
se si fosse appoggiato con tutto il peso del corpo sarebbe riuscito a
farle franare sulla piattaforma di osservazione, investendo i nemici che
fossero arrivati seguendo le loro tracce.
«Bene» aveva annuito Valerio, «allora possiamo fare così. Io
scendo e cerco di nascondermi per raggiungere Alessandria il prima
possibile. Tu devi riuscire a rallentare quei bastardi facendo franare
quelle rocce nel momento giusto.» L'aveva guardato negli occhi e gli
aveva chiesto ancora: «Pensi di farcela?».
«Fidati di me» aveva risposto Fiorenzo, e Valerio aveva annuito.
Quindi si era diretto verso l'orlo della piattaforma rocciosa e dopo
avergli fatto un cenno di assenso con la testa aveva cominciato a
calarsi di sotto.
Sentendo il cuore che gli martellava nel petto, Fiorenzo aveva
cominciato ad arrampicarsi. L'impresa era stata più ardua e difficile di
quanto avesse immaginato, ma era servita anche a fargli comprendere
che non sarebbe mai riuscito a seguire Valerio nella discesa: sarebbe
caduto di sotto come uno di quei massi che voleva far precipitare sulla
testa del nemico.
Adesso che aveva finalmente raggiunto il punto individuato da
Valerio, si sentì sollevato e sicuro di potercela fare: i massi erano
molto grandi, ma poggiavano su un basamento di roccia friabile che
avrebbe ceduto facilmente, quando lui avesse cominciato a spingere.
Era importante, però, che scegliesse con cura il momento esatto per
scatenare la frana, perché non poteva correre il rischio che qualcuno
riuscisse a mettersi all'inseguimento di Valerio, o che gli arcieri
riuscissero a colpirlo a distanza.
Restò in attesa respirando con la bocca aperta, con le mani che
sanguinavano per lo sforzo che aveva fatto ad arrampicarsi, e il primo
esploratore nemico comparve pochi minuti dopo, molto prima di
quanto avesse immaginato. Valerio era davvero in pericolo:
l'avrebbero senz'altro avvistato, e da dove si trovava lui non poteva
sapere se sarebbe stato un bersaglio facile per gli arcieri oppure no.
Dimenticando il dolore alle mani e la stanchezza, Fiorenzo si appoggiò
con il corpo al più grosso dei massi, quello che aveva avvistato come il
migliore da smuovere per primo. Caduto quello, la frana si sarebbe
innescata da sola, per il peso delle rocce stesse. Pregò Dio perché gli
desse la forza necessaria per far precipitare di sotto quel masso,
mentre altri esploratori nemici raggiungevano lo spiazzo di
osservazione e guardavano dappertutto.
Fiorenzo aspettò che fossero tutti riuniti sul promontorio, poi
quando ebbe la certezza che nessun altro sarebbe arrivato, provò a
saggiare la resistenza del masso alle sue spinte. Il panico lo sommerse
quando si rese conto che il blocco di roccia era più solido e pesante di
quanto avesse immaginato. Provò a spingere ancora, ma il masso
neppure si mosse.
Trattenendo un gemito di disperazione, Fiorenzo vide i nemici
avvicinarsi all'orlo della piattaforma e indicare verso il basso,
presumibilmente in direzione di Valerio, che non poteva avere già
raggiunto la via di fuga. Uno dei guerrieri imperiali provò a scagliare
un dardo, ma un altro gesticolò in direzione del baratro e sembrò
prepararsi per scendere di sotto, all'inseguimento di Valerio.
Ora tutto dipendeva da lui, e Fiorenzo, con le lacrime agli occhi per
la rabbia, si lanciò contro il masso con tutta la forza che possedeva,
ringhiando come un orso infuriato. Quasi restò sorpreso quando
all'improvviso sentì la roccia muoversi.
Galvanizzato da quel successo fece peso con tutto il corpo, e
tendendo i muscoli del collo riuscì a imprimere una spinta tale che
all'improvviso buona parte della parete della montagna sembrò
precipitare di sotto.

Fiorenzo lanciò un grido di esultanza, riuscendo a restare in


equilibrio per un pelo, senza cadere insieme ai sassi e alle rocce, e
osservò l'effetto devastante che la frana provocava sugli esploratori
nemici.
Solo quando ebbe la certezza che erano stati tutti travolti e spazzati
via, si accasciò contro la parete del monte e tornò a respirare.
Valerio vide le dita della mano destra scivolare lentamente sulla
roccia, anche se la stava stringendo così forte da farsele sanguinare, ed
ebbe la certezza che sarebbe caduto. Aveva pensato di poter
sconfiggere la natura, di essere in grado, lui che non era mai stato
prima a quelle altezze, di scendere lungo il costone della montagna
come avrebbe fatto un montanaro provetto, e adesso la sua stupidità
stava per essere punita.
Con il terrore che gli serrava le viscere, pensò alla missione che gli
era stata affidata da Fiorenzo e al sacrificio che probabilmente il suo
compagno stava facendo per consentirgli di fuggire. Non poteva
rischiare di perdere tutto! Mentre lacrime di rabbia gli salivano agli
occhi, Valerio comprese che avrebbe dovuto stringere i denti e lottare,
con tanta forza ed energia come non aveva mai fatto in vita sua.
Emettendo un gemito dal petto dolorante, piantò il piede su uno
spuntone roccioso, staccò la mano destra dalla presa malferma e caricò
tutto il corpo sulla sinistra, mentre cercava disperatamente di trovare
un altro appiglio abbastanza solido da sostenere il suo peso.
Per un istante pensò che non ce l'avrebbe fatta e che sarebbe
precipitato, ma poi all'improvviso le sue dita avvertirono qualcosa
spuntare dalla roccia, l'afferrarono con la forza della disperazione e
strinsero, consentendogli di ritrovare l'equilibrio ed evitare la caduta.
Mentre respirava per il sollievo, fradicio di sudore nonostante la
temperatura freddissima, si rese conto di essersi appeso alle radici
sporgenti di una pianta, che dopo avere bucato la roccia si allungavano
di una spanna nel vuoto, prima di tornare ad affondare nella parete.
Mentre riprendeva fiato e cercava di capire quanto gli restava
prima di raggiungere la rampa sottostante, che gli avrebbe consentito
di poter tornare a camminare, avvertì un sibilo poco lontano dalla
testa e si girò di scatto verso l'alto. Dalla posizione in cui si trovava non
era facile distinguere il bordo della piattaforma su cui c'era la garitta,
ma intuì che qualcuno si stava sporgendo all'infuori, e quando vide
l'estremità di un corto arco da guerra comprese che gli esploratori
imperiali stavano cercando di centrarlo con i loro dardi.
Si appiattì il più possibile contro la parete rocciosa, poi ricominciò
a scendere, sospinto dalla paura e dalla disperazione, dimenticando il
dolore alle dita e alle braccia e facendo soltanto attenzione a restare il
più possibile fuori dal tiro delle frecce.
La discesa era più lenta e complicata di quanto avesse immaginato,
ma si rese conto ben presto che non sarebbe stato facile, per quegli
uomini lassù, centrarlo a distanza. Avrebbero dovuto calarsi a loro
volta lungo il costone della montagna, se volevano sperare di fermarlo.
Rassicurato da quella constatazione, accelerò la discesa, badando a
non commettere errori fatali. Poi, all'improvviso, avvertì un rombo e
sentì tremare la parete rocciosa.
Una frana! pensò terrorizzato, poi ricordò che Fiorenzo Motta
avrebbe dovuto far precipitare delle rocce sui nemici, e un singulto di
eccitazione lo pervase. Il loro piano stava funzionando!
Quando le prime pietre cominciarono a cadérgli attorno, per lo
smottamento provocato da Fiorenzo, Valerio si rese conto che doveva
spostarsi il più possibile di lato, per non rischiare di essere investito a
sua volta dai massi che sarebbero precipitati.
Cercò freneticamente altri appigli, e riuscì a compiere un balzo
decisivo alla sua destra appena in tempo per evitare il corpo di un
esploratore imperiale che precipitava urlando nel baratro. Ben presto
ne seguirono altri due, e poi una quantità tale di sassi, terra e pezzi di
roccia, che Valerio fu costretto a schiacciarsi contro la parete e a
chiudere gli occhi, pregando di non venire investito.
Dopo qualche minuto, quando il rombo delle pietre che cadevano si
attenuò e la terra smise di ruscellargli addosso, Valerio riaprì gli occhi
e si guardò attorno, sorpreso di essere ancora vivo.
Ce l'aveva fatta! Era riuscito a spostarsi quel tanto che bastava per
evitare la valanga, seppure di un soffio.
Si allungò all'infuori per verificare che i nemici non fossero più in
grado di nuocergli, ma il cuore gli balzò in gola per lo spavento: c'era
ancora qualcuno, lassù, e lo fissava sporgendosi dalla terrazza
rocciosa.
«Che ti è successo, ragazzo, ti sei congelato per il freddo?» La voce
di Fiorenzo Motta arrivò portata dal vento, meravigliosamente
liberatoria. Valerio lanciò un grido di esultanza e sollevò una mano,
facendo segno al compagno che andava tutto bene.
«Muoviti, per Dio!» tuonò Fiorenzo. «Non puoi restartene lì
appeso per tutto il giorno!» Valerio rise sentendosi inondare di nuove
energie e riprese a scendere, fino a quando, dopo un tempo che gli
parve interminabile, riuscì a posare i piedi sul corridoio di roccia che
fiancheggiava la montagna. Era abbastanza largo da consentirgli
persino di correre.
Prima di allontanarsi guardò ancora verso l'alto, individuò il
faccione di Fiorenzo Motta e lo salutò sollevando entrambe le mani. Se
anche avesse gridato, il compagno non l'avrebbe sentito. Nonostante
questo Valerio urlò, quasi più per se stesso che per l'amico: «Tornerò a
prenderti! Anche a costo di dovermi arrampicare di nuovo e portarti
giù in spalla!».
Fiorenzo lo salutò con una mano, poi scomparve. Valerio si prese il
tempo per tirare un po' il fiato, poi tenendosi rasente la parete rocciosa
cominciò a dirigersi verso est, sapendo che senza un cavallo avrebbe
impiegato parecchi giorni prima di riuscire a raggiungere gli
avamposti padani.
CAPITOLO QUINTO

A.D. 1174
Città di Alessandria 1
Angelica Concesa vide arrivare il manipolo di guardie e si sentì
balzare il cuore in gola. Mentre abbassava lo sguardo per cercare di
non apparire impudente, osservò l'uomo che guidava il drappello, e un
senso di sollievo la percorse quando si accorse che non si trattava di
Rossano da Brescia. Gli armigeri si spostarono di lato, senza rallentare
il passo ma concedendo ampio spazio ad Angelica e alle sue ancelle per
attraversare il corridoio e dirigersi verso la grande sala cerimoniale,
dove le nobildonne di palazzo si riunivano per chiacchierare e
scambiarsi gli ultimi pettegolezzi.
Mentre Angelica lasciava placare i battiti del cuore, si disse che era
davvero una sciocca a emozionarsi tanto al solo pensiero di doversi
imbattere in quell'uomo. In fondo, non avevano più scambiato una
sola parola da quando, quasi cinque mesi prima, si erano incontrati a
Milano, dal momento che lei faceva di tutto perché questo non
accadesse. Sapeva che Verusca era riuscita ad avvicinarlo più di una
volta, e dai dettagliati resoconti di quegli incontri aveva avuto la
certezza che Rossano provava un certo interesse per la sua dama di
compagnia, forse ricambiava persino i sentimenti che quella fanciulla
tanto determinata nutriva per lui.
E come darle torto, visto che Verusca era una donna alta e con
magnifici capelli folti, il portamento fiero di una nobildonna e il viso
cesellato nella porcellana? Angelica sapeva di essere bella, ma
riconosceva nella sua damigella, che aveva un paio d'anni più di lei, un
modo estremamente sensuale di muoversi e di rivolgersi agli uomini,
che inevitabilmente sembravano soccombere alla forza maliziosa del
suo sguardo.
A diciassette anni compiuti, Angelica ancora non aveva baciato un
uomo, e si rendeva conto di essere estremamente impacciata e
insicura, quando i sentimenti in qualche modo entravano in gioco.
Eppure aveva fama di essere una giovane vivace e sbarazzina, che non
si fermava di fronte a nulla e che perseguiva i suoi scopi con una
determinazione che a volte diventava cocciutaggine. Era sempre stata
così, fin da bambina, e anche quando aveva avvicinato Rossano da
Brescia alla fontana davanti al palazzo consolare di Milano, l'aveva
fatto con la spregiudicatezza di un tempo che ormai considerava
svanito: da quando aveva incrociato il suo sguardo e si era resa conto
di essersene innamorata, per lei tutto era cambiato.
Quello che prima faceva con facilità, esibendo un sorriso
sbarazzino, adesso era frenato dal timore costante che lui potesse
comparire da dietro un angolo e sorprenderla, giudicando
negativamente il suo comportamento. Così, da qualche tempo
Angelica portava la mano davanti alla bocca, quando rideva, proprio
come le damigelle che aveva sbeffeggiato e deriso per tanta pudicizia;
se le giornate erano particolarmente calde evitava di disfarsi dello
scialle o della sopraveste per scoprire le spalle; se vedeva qualche
amica con cui era particolarmente in confidenza non l'afferrava più
per mano per trascinarla in corse sfrenate sotto l'occhio di tutti, ma si
appartava con lei per chiacchierare compunta, atteggiandosi a
madamigella di alto rango come la sua condizione imponeva, anche se
si era sempre ribellata ai formalismi di palazzo.
Suo padre aveva colto con soddisfazione quel suo repentino
cambiamento, e non perdeva occasione per complimentarsi con lei e
con la stessa Verusca, a cui attribuiva la riuscita di quel piccolo
miracolo inatteso.
Nessuno, neppure le sue amiche più intime o le damigelle di
compagnia con cui trascorreva buona parte della giornata, si era mai
accorto della verità, e la stessa Angelica faticava a credere che un uomo
potesse avere tanta influenza su di lei, al punto da farle cambiare così
radicalmente stile di vita.
Nonostante si interrogasse tutti i giorni su quello che le stava
succedendo, e su quanto fosse stupido e incoerente quel suo modo di
reagire al sentimento non ricambiato per un uomo che non la degnava
neppure di uno sguardo, Angelica sentiva che non poteva fare nulla
per calmare le palpitazioni del cuore quando pensava a lui o quando
immaginava di doverlo incontrare a palazzo o durante una delle sue
escursioni in città.
Anzi, erano proprio quei sussulti di eccitazione e di aspettativa che
le sembravano i momenti più belli delle sue giornate, e per quanto si
vergognasse di tanta debolezza non riusciva a imporsi di dimenticare
Rossano da Brescia, magari per concentrarsi sui tanti altri spasimanti
che le ronzavano intorno, fastidiosi come mosconi in un'afosa giornata
estiva.
Soprattutto un uomo, Venanzio da Urbino, la irritava e la faceva
sentire a disagio, quando la avvicinava per raccontarle facezie di cui
non le importava nulla, oppure quando suo padre, che sembrava
approvare le insistenze di quell'uomo, lo invitava a cena per discutere
di argomenti oziosi, di cui lei non riusciva mai a comprendere il
significato. Venanzio cercava di farle capire il suo interesse per lei, ma
Angelica lo teneva a distanza, con modi cortesi e decisi, che non
ammettevano dubbi.
Anche perché, per lei, i veri problemi non arrivavano dalle
attenzioni di Venanzio da Urbino, ma dall'insistenza di Verusca nel
cercare di coinvolgerla nei rapporti fra lei e Rossano da Brescia, senza
rendersi minimamente conto dei sentimenti che Angelica provava per
quell'uomo.
Il giorno prima la sua damigella di compagnia l'aveva raggiunta
trafelata e le aveva fatto segno di vestirsi. Fuori il tempo era incerto,
soffiava un vento freddo e tagliente che preannunciava pioggia, ma
Verusca non era sembrata preoccupata.
«Dove mi vuoi portare?» le aveva chiesto Angelica, sorpresa.
«Vestiti, dài» l'aveva esortata Verusca porgendole il mantello
foderato con il collo alto, che l'avrebbe difesa dal vento. «Lo vedrai con
i tuoi occhi.» «Non fare la misteriosa con me» aveva cercato di
difendersi Angelica, ma Verusca aveva sorriso di nascosto e l'aveva
trascinata fuori, senza rispondere a nessuna delle sue domande.
Una volta all'esterno del palazzo, le due ragazze si erano inoltrate
lungo uno dei vicoli che conducevano ai quartieri occidentali, le teste
affondate negli alti baveri dei mantelli e attente a non calpestare i
rivoli maleodoranti di liquidi che fuoriuscivano dai canali di scolo
ricavati nell'acciottolato.
«Dove stiamo andando?» aveva chiesto Angelica, sconcertata ma
suo malgrado eccitata per quella escursione improvvisa e un po'
avventata. Non era da Verusca agire in quel modo, lei che fra tutte le
sue dame di compagnia era la più compunta e rispettosa delle ferree
regole di palazzo. Avrebbe dovuto capire subito che c'era di mezzo
Rossano da Brescia, l'uomo per cui Verusca le aveva confessato un
amore travolgente, ma si era fatta cogliere impreparata, e ormai si
lasciava trascinare dalla sua damigella di compagnia come un ramo
nella corrente.
Dopo avere attraversato alcuni quartieri abitati dagli appartenenti
alle ricche corporazioni dei commercianti, erano sbucate in una
grande piazza che Angelica non aveva mai visto, e finalmente Verusca
si era fermata, stringendole le mani con forza. Era pervasa da un
tremito di eccitazione, e Angelica fu in qualche modo contagiata da
quel suo inconsueto modo di fare.
Per un momento era tornata a sentirsi la ragazza sbarazzina di
qualche mese prima, quando avrebbe fatto inorridire Verusca e le altre
damigelle di compagnia con qualcuna delle sue improvvisate fughe da
palazzo per andare a visitare i quartieri poveri della città.
Nella piccola piazza c'era parecchia gente, e solo quando Verusca
l'aveva trascinata in mezzo alla folla, portandola nelle prime file, si era
resa conto di quello che stava succedendo: si stava svolgendo una
parata d'arme, con soldati a piedi che sfilavano davanti al pubblico.
Non c'erano gonfaloni e araldiche di casata, e gli armigeri
indossavano divise da combattimento. Sorpresa, Angelica aveva
chiesto a Verusca che cosa stesse succedendo.
«È una marcia a ranghi serrati» aveva risposto la damigella
guardandosi intorno come se fosse alla ricerca di qualcuno in
particolare. «Serve per verificare la preparazione della guarnigione. I
soldati che vi partecipano sono pronti per andare in battaglia.»
Angelica aveva osservato accigliata gli uomini armati, e aveva
finalmente compreso per quale motivo sembravano ignorare la folla ed
erano concentrati a muoversi tutti insieme, seguendo gli ordini
scanditi da un ufficiale a cavallo.
«Eccoli!» aveva gridato Verusca strattonandola ancora e rischiando
quasi di farla cadere. «Sono laggiù! Vieni!» Angelica l'aveva seguita
senza capire, fino a quando erano sbucate in uno spiazzo mantenuto
libero da alcune guardie. Oltre la fila di uomini armati Angelica aveva
intravisto una specie di impalcatura di legno, sulla quale erano sedute
diverse persone che assistevano da posizione privilegiata alle manovre
militari.
Con sorpresa, Angelica aveva riconosciuto subito due degli uomini
presenti: Rossano da Brescia e Venanzio da Urbino.
Mentre il cuore aveva ripreso a martellarle nel petto, Verusca aveva
cominciato a sventolare un fazzoletto all'indirizzo dei due.
Ben presto Venanzio da Urbino aveva colto il movimento, e con un
sorriso era sceso dall'impalcatura, per avvicinarsi a loro. Si era rivolto
ad Angelica, ignorando Verusca, dopo essersi prodigato in un inchino
eccessivo: «Così siete venuta, madamigella.
La vostra presenza ci onora».
Poi si era girato verso i due armigeri più vicini, facendo loro segno
di scostarsi per lasciarle passare.
A disagio, Angelica aveva trattenuto Verusca, cercando di spiegarle
con gli occhi che non aveva nessuna intenzione di andare a sedersi
accanto a Venanzio da Urbino, ma in quel momento Rossano da
Brescia era comparso come d'incanto e aveva preso una mano di
Verusca, portandosela alle labbra e sfiorandola appena in un gesto
galante.
«È una sorpresa vedervi qui» aveva detto con un sorriso sincero, e
Angelica si era sentita travolgere dalle vertigini. «Anche se non credo
che queste manovre militari possano destare l'interesse di due
madonne come voi.» «Sono stato io a invitarle» aveva interloquito
Venanzio senza staccare gli occhi da Angelica. «In questo modo
potremo trascorrere qualche ora più piacevole, mentre osserviamo i
progressi compiuti dagli uomini addestrati dal nostro prode
comandante.» Angelica avrebbe voluto dire qualcosa, rifiutare con la
massima cortesia l'invito, ma Verusca l'aveva anticipata balzando in
avanti e trascinandola con sé oltre il cerchio di guardie.
«Sono sicura che sarà divertente» aveva detto, scoccando uno
sguardo d'intesa a Rossano e lasciandosi prendere sottobraccio per
farsi condurre sulla tribuna. I due si erano allontanati, lasciando
Angelica in preda alle vertigini.

Non mi ha degnata neppure di un'occhiata aveva pensato lei


sentendosi pervadere dall'angoscia. Ha occhi solo per Verusca.
Mentre Angelica era impegnata a trattenere le lacrime che le
premevano ai bordi delle palpebre, Venanzio da Urbino si era prodotto
in un altro inchino e le aveva preso delicatamente una mano.
«Non abbiate timore, madonna» l'aveva rassicurata. «Con me siete
in buone mani.» Angelica l'aveva seguito mentre l'intera piazza le
girava attorno come una trottola, sicura che da un momento all'altro le
forze le sarebbero venute meno, facendola cadere a terra priva di sensi.
Niente, in quel momento, le era sembrato più piacevole dell'idea di
annegare in un abisso infinito di tenebra, in cui non ci sarebbe stato
spazio per il dolore e per il senso di impotenza che l'attanagliavano.
Adesso, a un giorno di distanza, Angelica credeva di avere superato
la crisi, anche se si irrigidiva al semplice suono di passi in marcia e
all'idea di incontrare Rossano.
Era furiosa con se stessa, perché non credeva di meritare un simile
trattamento da parte di un uomo, eppure si rendeva conto che tutto
scivolava nei contorni sfumati della follia: la sua passione insana per
un soldato di ventura; la consapevolezza che lui era attratto da
un'altra; la rabbia per il fatto che Rossano non le concedeva le
attenzioni che lei desiderava, quasi fosse un obbligo, per lui, doverla
accontentare.
Con l'angoscia che tornava a premerle alla gola, Angelica si diresse
verso la sala delle udienze, da cui usciva un brusio intenso simile a
quello emesso da un nugolo di vespe, poi quando vide Verusca in
lontananza si fermò e si girò di scatto, con l'intenzione di tornare alle
sue stanze e barricarsi dentro.
«Angelica!» la chiamò Verusca bloccandola a metà del primo
passo. «Aspetta!» La damigella di compagnia la raggiunse di corsa e la
prese sottobraccio. Da quando erano entrate in confidenza e Angelica
aveva chiesto a Verusca di trattarla come un'amica, lei sembrava avere
preso molto sul serio quelle sue proposte, abbandonando ogni gesto
affettato o dettato dai modi di palazzo. Si comportava davvero come la
sua migliore amica, anche se nei confronti delle altre damigelle
continuava ad atteggiarsi come un'altezzosa dama di corte.
E se quel comportamento ad Angelica era subito piaciuto,
contribuendo a renderla più serena e allegra, adesso sembrava volersi
ritorcere contro di lei, pugnalandola alla schiena.
«Che cosa vuoi?» chiese irrigidendosi più del dovuto, e dominando
a stento l'impulso di strappare via il braccio dalla presa di lei.
«Com'è andata, ieri, fra te e Venanzio da Urbino?» le domandò
Verusca piena di aspettative.
«Non c'è stato niente, fra me e quel... quel bellimbusto» rispose
Angelica acida.
Verusca parve accorgersi del suo atteggiamento ostile e si rabbuiò.
«Che succede?» le chiese. «Credevo che la corte di Venanzio ti
avrebbe fatto piacere. È per questo che ieri...» «Lascia stare ieri»
l'interruppe irritata Angelica. «E non ti permettere mai più di
organizzare incontri con altri uomini a mia insaputa.» «Ma io...»
provò a difendersi Verusca, sinceramente sconcertata.
«Tu, piuttosto, ti sei divertita con il tuo uomo?» sbottò
istintivamente Angelica, come se la sua voce provenisse da una
distanza remota, così acida e piena di cattiveria che ne rimase
sorpresa.
«Il mio uomo?» rispose confusa Verusca. Poi sembrò illuminarsi.
«Se ti riferisci a Rossano da Brescia, allora guarda che ti sbagli»
continuò sfoderando un sorriso radioso. «Non è ancora il mio uomo.
Quando vi abbiamo lasciati si è limitato ad accompagnarmi a palazzo e
si è congedato. Però prima di andarsene mi ha guardata in modo
inequivocabile. Sono sicura di piacergli.» Le strinse un braccio con
sguardo complice. «Forse non ci vorrà molto, prima che diventi
davvero il mio uomo.» Angelica strinse i denti. Avrebbe voluto dire
qualcosa di cattivo, per far capire a quella stupida che a lei non
importava nulla delle smancerie di Rossano nei suoi confronti, e per
farle morire quel sorriso beato che aveva sulle labbra, ma alla fine si
accontentò di scuotere la testa e di districarsi lentamente ma con
fermezza da Verusca.

«Bene» concluse, dirigendosi verso i suoi appartamenti. «Sono


felice per te. Adesso però vorrei che tu facessi sellare il mio palafreno.
Ho intenzione di fare una cavalcata fino al fiume.» «Una cavalcata?»
fece perplessa Verusca. «Ma non mi sembra il momento più adatto. E
poi io dovrei cercare di...» «Cavalcherò da sola» l'interruppe decisa
Angelica, con un tono di voce che non ammetteva repliche.
«Va bene» annuì confusa Verusca, che pareva non capire il motivo
dell'ostilità di Angelica. «Hai bisogno d'altro?» «No» rispose Angelica.
«Fai sellare Reginaldo, è il mio preferito.» Stavano per svoltare il
corridoio che portava all'ala ovest del palazzo, quando all'improvviso
una figura si stagliò davanti ad Angelica, che quasi vi andò a sbattere
contro.
«Perdonatemi, madonna» disse l'uomo, sorpreso e spaventato per
quello scontro fortuito almeno quanto lei.
«Rossano!» esclamò Verusca arrossendo tutta. «Che ci fate qui?»
Rossano da Brescia si scostò da loro e si produsse in un inchino
impacciato.
«Sono stato convocato dal conte» rispose. «Perdonate la mia
goffaggine.» «Oh, ma non è successo niente» rise Verusca con voce
melliflua. «Vero, Angelica?» Afferrò Rossano per un braccio e lo
trascinò via. «Ci penso io ad accompagnarvi dal conte» aggiunse poi.
«E farò in modo che Reginaldo sia pronto fra dieci minuti» concluse
strizzando l'occhio ad Angelica e scomparendo dietro l'angolo con
Rossano.
Angelica restò immobile a fissare il nulla, con il cuore che le
pulsava nelle tempie senza sapere se era per via dello spavento che
l'aveva fatta sobbalzare o per il fatto di essersi ritrovata così
all'improvviso davanti a Rossano.
Quando però le tornò alla mente il modo in cui Verusca l'aveva
trascinato via, e il fatto che lui non si era soffermato ancora al suo
cospetto per avere conferma del suo stato di salute, le lacrime
tornarono a premere con forza.
Io sono la contessina di palazzo! esclamò indignata dentro di sé.
Non può trattarmi così!
Prima che qualcuno potesse accorgersi che ormai la sua lotta per
frenare le lacrime era perduta, Angelica fuggì via, in direzione delle
sue stanze, dimenticando che aveva chiesto di cavalcare Reginaldo e
desiderando soltanto, con il tipico slancio melodrammatico della sua
età, di morire.
2
Rossano era rimasto molto turbato dall'incontro inatteso avuto con
Angelica, e ancora faticava a riprendersi. Per un istante, brevissimo
ma intenso, aveva incrociato lo sguardo con quello limpido e carico di
meraviglia di lei, lo stesso che ricordava nei suoi sogni e che lo
riportava al giorno in cui l'aveva conosciuta. Nelle sue fantasie riusciva
a mantenere lo sguardo fisso nel suo abbastanza a lungo da farle
capire con la sola forza del pensiero quanto fosse innamorato, quanto
avrebbe desiderato poter accostare la bocca alla sua e suggere l'aroma
inebriante che era certo si sarebbe sprigionato dalle sue labbra.
Nella realtà, invece, Angelica Concesa era molto cambiata dal
giorno in cui, in modo spregiudicato e inatteso, gli aveva rivolto la
parola a Milano. Adesso sembrava ignorarlo, lo evitava ogni volta che
si incrociavano a distanza, e non posava più i suoi occhi di smeraldo
nei suoi. Pareva che la sfida ingaggiata da Rossano con Venanzio da
Urbino volgesse ormai in favore di quell'arrogante bellimbusto, e lui
non poteva fare altro che prenderne atto.
Del resto, poteva capire Angelica. Lui era un soldato di ventura
senza alcun possedimento e nessuna prospettiva per il futuro se non
incrociare la spada con qualche avversario in battaglia, mentre
Venanzio da Urbino, per quanto di umili origini, era il braccio destro
del cardinale Accorsi, e questo faceva di lui una persona influente,
destinata prima o poi a ottenere qualche feudo o addirittura un titolo,
in nome del Santo Padre.
Rodolfo Concesa, che doveva avere una certa influenza sulla figlia,
non avrebbe mai acconsentito a concedere la mano di Angelica a un
semplice uomo d'arme, mentre Rossano sospettava che fosse
compiaciuto per il fatto che Venanzio da Urbino mostrasse interesse
nei suoi confronti.
Così, Rossano aveva perso ben presto ogni speranza di fare breccia
nel cuore di quella meravigliosa fanciulla, anche se non poteva evitare
di sentirsi pugnalare direttamente al cuore ogni volta che lei lo
ignorava o che si accompagnava con Venanzio.
Il giorno prima, quando l'aveva vista arrivare con Verusca alla
parata d'arme che aveva organizzato per inaugurare un nuovo
drappello della guarnigione, aveva creduto per un istante che anche
Angelica avesse cercato il suo sguardo, ma poi Venanzio l'aveva presa
sottobraccio, e lui aveva maledetto quel bastardo senza Dio che si era
messo sulla sua strada e gli portava via l'unica donna che Rossano
avesse sinceramente desiderato dopo la morte della moglie.
Forse è meglio così si disse mentre entrava nello studio privato del
console, dove era atteso. Aveva lasciato Verusca prima del corridoio
presidiato da due guardie armate, un po' sorpreso dalla quantità di
sorrisi che lei gli rivolgeva. La damigella di compagnia di Angelica
mostrava un certo interesse verso di lui, ma Rossano non aveva mai
creduto di piacerle davvero. Pensava che lei fosse semplicemente
gentile nei suoi confronti, com'era costume delle dame di palazzo. Ma
forse c'era qualcos'altro, e per la prima volta Rossano si soffermò a
pensare alle forme del corpo di Verusca e al colore dei suoi occhi.
Non era bella come Angelica, ma senz'altro era una donna che non
passava inosservata.
Però per lui sarebbe stata solo un ripiego, e questo non poteva
tollerarlo.
Rossano accantonò la cosa scuotendo vigorosamente la testa, poi
varcò la soglia dello studio del conte. Mentre si apprestava a inchinarsi
davanti agli uomini d'alto rango che erano presenti, vide chi altri c'era
nella sala e si bloccò per la sorpresa.
«Che diavolo ci fai tu, qui?» chiese Rossano senza riuscire a
credere ai propri occhi. Se non si fosse trovato alla presenza delle
persone più importanti di Alessandria, probabilmente si sarebbe
stropicciato gli occhi, per riaprirli sicuro che quell'assurda apparizione
sarebbe scomparsa.
Invece non potè fare altro che tenere lo sguardo puntato sull'ultima
delle persone al mondo che avrebbe pensato di incontrare quel giorno:
suo fratello Valerio.

«Che vi prende, capitano?» gli chiese sorpreso Rodolfo Concesa,


scuotendolo dallo stupore che l'aveva paralizzato.
«Questo ragazzo...» iniziò a dire Rossano, sentendo che la voce gli
usciva a fatica dalla gola.
«Ebbene?» volle sapere Venanzio da Urbino, che lo osservava
divertito.
«È mio fratello» concluse Rossano, avvertendo un moto di rabbia
montargli in petto. «Non dovrebbe essere qui, e io...» «Questo ragazzo
ha portato un messaggio di grande importanza» l'interruppe
infastidito il console. «Che sia vostro fratello o meno, adesso conta ben
poco. Ascoltate quello che ha da dire.» Rossano chiuse la bocca e fissò
Valerio stringendo le palpebre. Non avrebbe saputo cos'altro
aggiungere, anche perché la testa gli girava per la confusione e la
sorpresa. Valerio avrebbe dovuto essere a Milano, a casa di Gabriele
Mercadanti. Com'era possibile che si trovasse lì, al cospetto del
console? E qual era il messaggio tanto importante di cui era latore, lui
che lavorava come apprendista nella bottega di un maestro d'armi?
«Abbiamo incrociato le avanguardie imperiali» disse Valerio, senza
avere il coraggio di sostenere lo sguardo di Rossano.
«Come vi ho già detto stanno attraversando i valichi del
Monginevro, e presto trasferiranno i carriaggi e il grosso dell'esercito
in Italia.» Rossano aveva ascoltato a bocca aperta. Non sapeva più che
cosa pensare, e la sua mente non riusciva a concentrarsi su più di un
problema alla volta.
«Gli esploratori imperiali?» mormorò. «Ma che cosa...» Solo in
quel momento si accorse di un altro particolare stupefacente: Valerio
indossava la giubba con i colori della guarnigione di Alessandria, ma
con le calzebrache leggere e la cintura con gli accessori in dotazione
alle vedette e agli esploratori. E all'improvviso comprese tutto.
«Ti sei arruolato» disse incredulo. «Mi hai seguito fin qui e ti sei
fatto arruolare nella guarnigione.» «Sono una staffetta» annuì Valerio,
rosso in viso per l'emozione. «E una vedetta, anche. Dicono che sono
molto bravo e...» «Chi ti ha autorizzato a lasciare Milano?»
l'interruppe duro Rossano. «Avevo un accordo con Gabriele, e tu a
quest'ora dovresti essere laggiù a imparare un mestiere.»
Prima che Valerio potesse aprire bocca, il console sbatté con forza
una mano sul tavolo che fungeva da scrittoio.
«Insomma!» ringhiò, facendo sobbalzare tutti. «La vogliamo
finire? Non abbiamo alcun interesse nelle vostre diatribe personali,
capitano. Qui c'è in gioco la sopravvivenza delle nostre città e della
nostra gente. E questo ragazzo ha corso come un pazzo per giorni
interi, prima di riuscire a farci avere informazioni preziose. Ascoltatelo
e basta!» Rossano sobbalzò ancora, a quell'ultimo ordine abbaiato dal
conte con una determinazione che rasentava la rabbia, e all'improvviso
capì che Concesa aveva ragione.
Abbiamo incrociato le avanguardie imperiali aveva detto Valerio, e
lui non aveva colto subito le implicazioni delle sue parole, sorpreso
com'era per esserselo trovato di fronte all'improvviso.
Ma adesso che il conte l'aveva fatto tornare con i piedi per terra, si
rese conto che doveva accantonare le questioni personali e
concentrarsi sul discorso di Valerio.
«Quanti ne avete visti?» chiese dopo che Valerio ebbe ripetuto per
filo e per segno tutta l'avventura che aveva vissuto fra le montagne.
Rossano era rimasto molto impressionato, un po' per il terribile
pericolo a cui il fratello era andato incontro, un po' per l'audacia e le
capacità che Valerio aveva dimostrato, nonostante fosse arruolato
nella guarnigione solo da poco tempo. Lo aveva sempre considerato
come il fratello minore, da difendere e proteggere dopo quello che era
accaduto alla loro famiglia, e non si era reso conto di quanto fosse
cresciuto, di quanto gli assomigliasse, per temperamento e
testardaggine. Rossano avrebbe ripreso il discorso a tu per tu con
Valerio, quando fossero usciti da lì, ma sapeva che al posto del fratello
probabilmente si sarebbe comportato allo stesso modo. Non sarebbe
riuscito a restarsene a Milano a fare niente, mentre l'intera Padania si
mobilitava per prepararsi ad affrontare l'invasore. Eppure non poteva
rischiare che anche a Valerio capitasse qualcosa, e il solo pensiero
della fine che avrebbe potuto fare tra quelle montagne, se non fosse
stato abbastanza fortunato, gli ghiacciò il sangue nelle vene.
«Una decina, forse anche di più» rispose Valerio, rigido e impettito
come se si trovasse al cospetto di una corte reale.
«Come fai a essere certo che fossero le avanguardie dell'esercito
imperiale?» chiese Venanzio da Urbino. «Non potevano essere dei
semplici esploratori? Il Barbarossa ne manda continuamente a
verificare la situazione dei valichi.» «Avevano un carro di sondaggio,
mio signore» rispose sicuro Valerio, lasciando ancora una volta
sorpreso Rossano per il piglio che dimostrava. Suo malgrado si sentì
riempire di orgoglio per il modo in cui il fratello aveva risposto a
Venanzio, che da come lo guardava non sembrava avere la minima
idea di che cosa fosse un carro di sondaggio.
«È un carro che viene usato per verificare la consistenza del
terreno e la praticabilità delle strade» spiegò anticipando Valerio.
«Serve a garantire che una carovana di una certa consistenza possa
transitare per un valico o per un guado con sicurezza.» «Questa è la
prova del fatto che l'esercito imperiale era a ridosso di quegli
esploratori?» chiese Rodolfo Concesa.
Rossano si rese conto che c'era una sola risposta a quella domanda,
e si sentì riempire d'inquietudine. Lanciò un'occhiata a Valerio, che se
ne stava immobile con lo sguardo rivolto a terra, e annuì.
«Sì, mio signore» rispose. «Su questo non ci sono dubbi.» Il
console sbatté ancora la mano sul ripiano del tavolo e strinse le labbra
con rabbia.
«Allora il momento è arrivato» disse.
Nessuno aggiunse altro, e dopo un po' Rodolfo Concesa tornò a
rivolgersi a Valerio.
«Vai, tu, hai fatto un ottimo lavoro» disse. «Cerca di riposarti.»
«Devo tornare dai miei compagni, eccellenza» ribatté Valerio. «Ho il
permesso di rifocillarmi e poi di rimettermi in viaggio?» Rossano ebbe
la tentazione di intervenire, ma si rese conto che non stava a lui
rispondere alle richieste del fratello.
Il console scrutò Valerio per un istante, poi si rivolse a Rossano.
«Capitano, siete voi il comandante della guarnigione» disse.
«Che cosa rispondete a questo giovane valoroso?» Rossano strinse
i denti, fissò Valerio quindi annuì.
«D'accordo» disse. «Vai. Ma prima cerca di riposare un po'.» «Va
bene» disse Valerio illuminandosi. Scappò via dopo essersi inchinato
davanti al conte e a Venanzio da Urbino, e mentre passava davanti a
Rossano gli strizzò l'occhio.
«Torniamo a noi» lo riscosse il conte quando restarono soli.
«Capitano, a che punto è l'addestramento della guarnigione?» «Siamo
a buon punto, eccellenza.» «Davvero?» intervenne sarcastico
Venanzio. «A me non pare proprio.» «Se vi foste degnato di passare
per la piazza d'arme, qualche volta nell'ultimo mese» ribatté Rossano
con durezza, «forse vi sareste accorto dei progressi compiuti dai miei
uomini.» «Non c'era bisogno di...» provò a rispondere Venanzio, ma il
console l'azzittì sollevando bruscamente la mano.
«Risparmiatemi queste liti da pollaio» sbuffò contrariato.
«Voglio sapere se saremo in grado di affrontare l'esercito del
Barbarossa, quando sarà qui.» Sia Rossano sia Venanzio tacquero,
consapevoli che le loro diatribe personali dovevano essere
accantonate, di fronte a una simile prospettiva.
«Mi auguro che potranno esserlo» si decise alla fine a rispondere
Rossano, consapevole che la verità sarebbe stata l'arma migliore da
usare con un uomo come Rodolfo Concesa. «Lo capiremo solo alla
prova dei fatti.» «Quanto tempo ci metteranno ad arrivare?» chiese
Venanzio da Urbino.
«Manderò altri esploratori, e rafforzeremo i posti di guardia»
rispose Rossano. «Appena avremo chiara la situazione ve lo farò
sapere.» «Ottimo» annuì il conte. «Non dimentichiamo, comunque,
che prima di raggiungere Alessandria l'esercito imperiale dovrà
vedersela con Torino e Asti.» Venanzio da Urbino fece una smorfia, e
per una volta Rossano sentì di pensarla allo stesso modo del delegato
papale.
«Non ci farei molto conto, Eccellenza» disse Venanzio. «La sola
speranza di fermare Federico I è Alessandria, grazie ai suoi bastioni.»
«Senza dimenticare il fattore sorpresa» aggiunse Rossano.
«Da quello che so il Barbarossa e i suoi generali potrebbero non
essere a conoscenza dell'esistenza di questa città. Se così fosse,
avremmo un altro piccolo vantaggio da sfruttare.»
«Già» annuì il conte, scuro in viso. «Sperando che questo possa
bastare.» Nessuno aggiunse altro, e quando il console fece segno di
lasciarlo solo, Rossano e Venanzio uscirono uno dopo l'altro.
Rossano corse subito via, alla ricerca di Valerio. Si augurava che
suo fratello non se la fosse già svignata, ma dentro di lui sapeva che al
suo posto non sarebbe rimasto lì ad aspettare di farsi fare la paternale.
Mai come in quel momento si rese conto di quanto il fratello gli
assomigliasse. E questo lo riempì di un misto di timore e di orgoglio.
3
Tarcisio Bonassei aveva radunato tutti gli uomini validi nel piazzale
d'arme, suddividendoli secondo le istruzioni che gli aveva dato
Rossano. Al centro il grosso delle forze a disposizione della
guarnigione cittadina, duecento uomini addestrati a occupare le
posizioni di difesa sugli spalti. Oltre a loro, sul fondo dello
schieramento, c'erano i quaranta giovani di età compresa fra sedici e
diciotto anni che non erano adibiti a incarichi militari, ma a cui era
stato affidato il compito di spegnere eventuali incendi che fossero
divampati a causa dei proietti incendiari scagliati dal nemico, oppure
di rifornire i calderoni con l'olio bollente e le scorte di pietre da lancio.
Dovevano occuparsi anche di fare da staffette e da collegamento fra i
punti critici della città, per comunicare il più velocemente possibile gli
ordini dei comandanti e riferire sullo stato dell'assedio e dei presidi in
difficoltà sugli spalti.
Alla sinistra dello schieramento di uomini vestiti con le giubbe
della guarnigione, molte delle quali realizzate direttamente dai soldati
stessi o dalle loro mogli, c'era il manipolo di cinquanta arcieri dotati
degli archi lunghi di tipo inglese che Rossano era riuscito a far
costruire dagli artigiani della città, e con i quali i suoi uomini si erano
impratichiti grazie a lunghi ed estenuanti allenamenti. Non era facile
controllare quegli archi alti quasi quanto un uomo e dotati di dardi
lunghi e spessi, scagliati tendendo corde ricavate dalle interiora di
coniglio, trattate e intrecciate fra loro per risultare più dure e
resistenti. Quelle armi formidabili potevano far compiere alle frecce
lunghe traiettorie ad arco dopo averle scagliate direttamente
dall'interno delle mura della città, senza costringere gli arcieri a salire
sugli spalti e a esporsi ai dardi del nemico. E una volta raggiunto
l'apice della parabola di volo, la caduta in picchiata le trasformava in
una pioggia letale per qualsiasi esercito, anche quello dotato delle
robuste corazze imperiali da combattimento.
Rossano contava di sfruttare al massimo quella risorsa, per quanto
non fosse riuscito a trovare più di cinquanta uomini da addestrare nel
tiro con l'arco lungo, un'arma che esigeva una grande forza di gambe e
di braccia e una particolare abilità nell'intuire la traiettoria di tiro
anche senza poter vedere il nemico. Gli arcieri avrebbero seguito le
indicazioni di alcune vedette predisposte sugli spalti, che a loro volta
avrebbero riferito gli ordini di tiro da parte dei comandanti di squadra,
che Rossano aveva già individuato e suddiviso in modo che ce ne
fossero due per ogni torre di guardia.
I comandanti, a loro volta, avrebbero fatto capo a lui e a Tarcisio,
che avrebbero diretto le operazioni da una garitta di comando
predisposta sugli spalti.
Infine, sulla piazza d'arme c'era anche l'ultimo reparto addestrato
da Rossano, trenta uomini schierati ordinatamente alla destra del
grosso della guarnigione. Si trattava di un gruppo misto, formato da
armigeri individuati con pazienza da Tarcisio Bonassei per la loro
abilità nel tiro con l'arco normanno o con la balestra, oppure nell'uso
del giavellotto a punta morbida.
Le loro posizioni sugli spalti erano state scelte con cura da
Rossano, in modo che dieci di loro fossero sempre pronti a presidiare
gli angoli più esposti, mentre altri dieci restavano pronti di rincalzo,
per sostituire eventuali morti o feriti, e gli ultimi dieci si riposavano,
per dare il cambio ai compagni ogni quattro ore e garantire sempre
forze fresche sui bastioni.
Rossano sapeva che quei trenta tiratori scelti sarebbero stati una
risorsa formidabile, per la difesa della città. Ne aveva visti alcuni in
azione durante l'assedio di Marignano, qualche anno prima, e si era
reso conto di quanto fossero micidiali, se usati nel modo giusto. Il loro
compito era semplice, e non ammetteva distrazioni: dovevano colpire i
nemici che spingevano le macchine da guerra verso gli spalti della
città, oppure le squadre che durante gli assalti alle mura trasportavano
le rampe di assedio. A Marignano, i più abili fra quei tiratori si erano
mostrati decisivi quando il comandante della guarnigione cittadina
aveva ordinato loro di colpire selettivamente i portatori di stendardi,
ignorando anche le avanguardie dell'esercito nemico e preoccupandosi
soltanto di abbattere chiunque cercasse di far tornare a sventolare le
araldiche, che non avevano solo un ruolo di incitamento dell'esercito,
ma anche una funzione strategica, per portare gli ordini dei
comandanti dalla retroguardia fino al fronte d'assalto che si batteva
sotto le mura.
Far scomparire dal campo di battaglia quegli stendardi e quelle
araldiche aveva creato una tale confusione nell'esercito nemico da
provocare più danni di quelli che mille arcieri avrebbero potuto
ottenere scagliando ripetutamente i loro dardi dagli spalti.
Consapevole di questo, Rossano aveva incaricato Sebastiano
Ardenghi, l'uomo robusto che dopo avere fatto il cuoco di palazzo si
era dimostrato un arciere formidabile, di selezionare i migliori tiratori
della guarnigione e di addestrarli nell'arte di colpire il bersaglio a
grandi distanze. Quei trenta uomini allineati alla sua destra erano il
meglio che Sebastiano era riuscito a trovare, e Tarcisio aveva garantito
di persona sulla loro abilità.
«Perché fai allenare i lancieri con quei giavellotti a punta
morbida?» gli aveva chiesto un giorno Tarcisio, osservando quelle
armi agili e leggere volare verso i bersagli sotto l'occhio attento di
Sebastiano Ardenghi.
Rossano aveva accennato un mezzo sorriso.
«Tu sai leggere?» aveva chiesto al suo attendente.
Tarcisio l'aveva guardato come se scherzasse. «No, naturalmente»
era stata la sua risposta.
«Io sì» aveva ribattuto lui. «E ti assicuro che le migliori tattiche di
guerra sono racchiuse in libri scritti migliaia di anni fa.» «Hai letto su
un libro come usare quei giavellotti?» gli aveva chiesto Tarcisio ancora
più sorpreso.
«Esatto» era stata la risposta di Rossano. «I soldati romani erano
abilissimi nel lancio del giavellotto, e usavano queste armi con la
punta morbida per evitare che il nemico raccogliesse i giavellotti che
mancavano il bersaglio per scagliarli contro di loro. Quando un'arma
di questo tipo colpisce un uomo, oppure lo manca cadendo a terra o
infrangendosi contro uno scudo, la punta si piega o si spezza,
impedendo che l'arma possa essere riutilizzata.» Tarcisio aveva
osservato stupito i lancieri agli ordini di Sebastiano, poi aveva scosso
la testa e fatto un grande sospiro.
«Credevo di sapere tutto sull'arte della guerra» aveva mormorato
sconsolato, «ma mi sa che adesso mi toccherà imparare a leggere, se
vorrò recuperare terreno.» Rossano aveva sorriso, ben sapendo che
Tarcisio era molto più in gamba di quanto mostrasse: assorbiva ogni
suo insegnamento con avidità professionale, e lo faceva proprio con
una naturalezza che a volte Rossano gli invidiava.
Non avrebbe avuto bisogno di leggere nulla, fino a quando poteva
restargli accanto e imparare da lui.
Adesso, anche Tarcisio osservava con aria critica ma con evidente
orgoglio i trecento uomini che sostavano sul piazzale, consapevole
come lui che si doveva essere fieri dei progressi incredibili che avevano
compiuto, ma altrettanto del fatto che erano troppo pochi per sperare
di tenere testa all'esercito imperiale.
Rossano incrociò le braccia dietro la schiena, e con aria grave lasciò
spaziare lo sguardo sui suoi uomini, mentre il fiato gli si condensava
davanti alla bocca per il freddo che da qualche settimana era sceso a
valle imbiancandola.
«Il Barbarossa ha valicato le Alpi, scendendo dal passo del
Monginevro» esordì con voce abbastanza alta perché potessero
sentirlo tutti. «Sappiamo che Asti è caduta, opponendo una debole
resistenza, e che l'esercito imperiale sarà presto in vista di
Alessandria.» Un brusio di sorpresa, di timore e di eccitazione si
diffuse fra i soldati, mentre la durezza delle parole di Rossano li
investiva come la corrente di un fiume in piena. Se fino a un istante
prima tremavano tutti per il freddo, adesso era la paura a scuoterli
dall'interno.
«Quando arriveranno, noi dovremo essere pronti ad accoglierli»
continuò Rossano dopo aver dato loro il tempo di assimilare la notizia.
Da settimane ne parlavano in continuazione, ma adesso quello che era
stato soltanto un evento possibile si stava trasformando in una dura
realtà da affrontare a nervi saldi. Il fatto che l'inverno fosse giunto con
tanta veemenza, imbiancando di neve le montagne fin dove poteva
arrivare lo sguardo e brinando l'erba al mattino, aveva contribuito a
diffondere un clima di tetro pessimismo, e adesso Rossano stava
dando loro la conferma che la guerra era ormai imminente.
«Che fine hanno fatto le truppe papali?» chiese qualcuno dal
grosso del gruppo centrale. «Qui non se ne è vista l'ombra.» Il brusio
crebbe in un moto di rabbia trattenuta a stento.
Rossano annuì, consapevole che il problema solleticava anche la
sua, di rabbia. Venanzio da Urbino era stato convocato più volte da
Rodolfo Concesa e da lui stesso, per chiedere notizie dei
millecinquecento uomini che papa Alessandro III avrebbe dovuto far
confluire su Alessandria per dare un contributo energico alla causa
della Lega, ma il braccio destro del legato pontificio aveva sempre
procrastinato una risposta ufficiale, dichiarando che Sua Santità stava
ancora discutendo con le massime autorità padane l'entità e le
modalità dell'intervento della Santa Sede nel conflitto.
«Non contate sull'aiuto di nessuno» rispose Rossano con la sua
consueta franchezza. «Dobbiamo fare affidamento solo sulle nostre
forze.» «Trecento uomini contro quanti?» intervenne Sebastiano
Ardenghi strizzando le palpebre. «Cinquemila? Diecimila? Come
potremo resistere?» Rossano sollevò le braccia per placare il furore
che cominciò a serpeggiare fra gli uomini alle parole dell'arciere.
«Alessandria non è Asti» disse. «Non è nessuna delle fortezze che
l'esercito imperiale ha affrontato e sconfitto. L'imperatore avrà vita
difficile, quando si troverà sotto le nostre mura. Anche se dovesse
disporre di centomila uomini.» Aveva parlato con abbastanza energia
e determinazione da far placare il fragore di rabbia e di paura che
aveva riempito la piazza d'arme. Adesso tutti lo fissavano concentrati,
emettendo fiato che condensava all'istante, e Rossano comprese che
avrebbe dovuto approfittare di quel momento di totale attenzione.
«Noi combattiamo per una causa» esclamò con convinzione.
«Combattiamo per le nostre famiglie e per la nostra stirpe.
L'invasore è qui solo per avidità, per seguire le mire espansionistiche
di un tiranno. E Dio non lo favorirà. Anche se siamo in pochi, siamo
bene addestrati, e le mura di Alessandria sono state costruite per
resistere all'impatto con il più potente degli eserciti.
Facciamo vedere a quel cane del Barbarossa e ai suoi uomini ciò di
cui siamo capaci! Facciamo in modo che sia costretto a tenere fermo il
suo esercito in questa valle il più a lungo possibile, mentre i Comuni
Lombardi organizzano il contrattacco.
Facciamogli vedere chi siamo!» La sua voce era stata un crescendo,
insieme alla smorfia determinata che gli aveva irrigidito i lineamenti
del viso, e quando terminò di parlare la piazza si riempì del boato di
trecento uomini che all'improvviso avevano dimenticato la paura e
non vedevano l'ora di iniziare a combattere. Per dimostrare a se stessi
e alla loro gente che non avevano paura di morire, se la posta in gioco
era la libertà del loro popolo.
Rossano li osservò mentre sollevavano le armi verso il cielo e
gridavano per incitarsi a vicenda, e con un moto d'orgoglio sollevò a
sua volta la spada per unirsi ai cori di battaglia che, ne era sicuro, si
sarebbero potuti sentire fino a chilometri di distanza dalle mura della
città.
Forse fino al punto in cui i primi esploratori imperiali stavano
cautamente rasentando le rive del Tanaro per segnalare ai comandanti
dell'esercito del Barbarossa le insidie che si celavano in quella valle.
4
Venanzio da Urbino sentì esplodere il boato dalla piazza d'arme e si
avvicinò a una finestra per osservare quello che stava succedendo.
Spifferi ghiacciati passavano dalle fessure del telaio di ferro su cui
erano stati montati col piombo i vetri lavorati dagli artigiani milanesi,
e Venanzio rimpianse il clima della sua città natale, mentre guardava
fuori stringendosi nella guarnacca di frustagno.
Come aveva immaginato, quell'esaltato di Rossano da Brescia stava
incitando i quattro scapestrati di cui era formata la guarnigione della
città, facendo credere loro che avrebbero avuto la possibilità di opporsi
all'avanzata del Barbarossa.
La smorfia che gli comparve sul volto conteneva tutto il disprezzo e
il sarcasmo che Venanzio non poteva concedersi il lusso di esprimere
al cospetto dei suoi superiori. Eppure sapeva perfettamente come
sarebbero andate le cose: l'esercito imperiale avrebbe attraversato la
valle del Tanaro come l'onda di un fiume in piena, trascinando via
chiunque avesse cercato di opporsi al suo cammino.
Federico I disponeva di un esercito imponente, formato da migliaia
di fanti e da non meno di mille cavalieri, la cui forza di penetrazione
era considerata devastante. Oltre tutto, al seguito del Barbarossa
c'erano poderose macchine da guerra, trabucchi capaci di sommergere
Alessandria con pietre gigantesche e torri di assalto che si sarebbero
fatte beffe dei bastioni della città.
E questo povero illuso crede di fronteggiarlo con trecento armigeri
dell'ultima ora pensò sprezzante, mentre nella piazza d'arme Rossano
da Brescia si univa ai cori di guerra levati dagli uomini della
guarnigione.
Venanzio sapeva che erano tutti già morti, trecento cadaveri buoni
solo a concimare la terra ghiacciata di quella valle, su cui il Barbarossa
avrebbe presto piantato i suoi vessilli.
Scosse la testa con rabbia, rendendosi conto che la cosa migliore da
fare, per lui, sarebbe stata balzare in sella al cavallo e filarsela il più in
fretta possibile da quella tomba a cielo aperto.
Eppure sapeva di non poterlo fare. Per qualche motivo che gli era
del tutto oscuro, il cardinale Accorsi voleva che lui restasse lì, a fargli
da occhi e orecchi per quello che sarebbe successo non appena
l'esercito imperiale avesse invaso la valle del Tanaro.
Venanzio sapeva di non poter contare su un contraddittorio, con il
legato pontificio. Quell'uomo emanava ordini e basta.
Inutile cercare di mettersi di traverso, né tantomeno provare a
comprendere tutti gli intricati percorsi delle strategie della Santa
Chiesa.
Papa Alessandro III aveva garantito il suo appoggio a quella
coalizione di straccioni che tentava di opporsi al dominio imperiale, e
non stava certo a lui cercare di capirne le motivazioni.
Lo scenario politico all'interno del quale Sua Santità si muoveva,
con l'appoggio del fedele cardinale Accorsi e di tutti i suoi scagnozzi
imporporati, era qualcosa che Venanzio non riusciva neppure a
concepire, figurarsi cercare di interpretare.
Fosse stato per lui avrebbe piantato tutto e sarebbe tornato agli agi
che la sua carica di ufficiale pontificio poteva garantirgli, ma l'ultimo
messaggio che gli era stato fatto recapitare proprio quella mattina dal
cardinale Accorsi era perentorio e non ammetteva discussioni: lui
doveva restare lì, garantire il massimo appoggio al conte Rodolfo
Concesa e, soprattutto, osservare e riferire.
Ma certo pensò Venanzio con un altro moto di rabbia,
allontanandosi dalla finestra che dava sulla piazza d'arme, farò la
conta dei morti e riferirò i numeri ogni giorno.
Stringendosi nel pastrano procedette lungo i corridoi su cui ancora
non erano stati appesi gli arazzi e i quadri che il console aveva fatto
trasferire dai suoi possedimenti per dare al palazzo la dignità che gli si
confaceva, e si concentrò sui problemi che avrebbe dovuto cercare di
risolvere nelle prossime ore.
Rossano dà Brescia non gli dava pace, continuando a chiedere con
insistenza quando sarebbero arrivati i millecinquecento uomini
promessi da papa Alessandro III, e lui non poteva gridargli in faccia
che avrebbe fatto meglio a dimenticarsi quei rinforzi, perché mai erano
esistiti e mai sarebbero arrivati. Ma non poteva farlo, perché anche
Rodolfo Concesa pativa la stessa ansia di Rossano, e si faceva
promotore a sua volta di continue richieste di aggiornamento e di
spiegazioni da inviare, tramite Venanzio, al cardinale Accorsi.
Quando aveva provato a chiedere istruzioni più precise in merito, il
cardinale aveva risposto come al solito, con poche parole concise ma
estremamente chiare: prendere tempo, continuare a garantire
l'appoggio della Chiesa e riferire.
Venanzio, che non aveva dimestichezza con i giochi della politica e
preferiva affrontare i problemi a muso duro, all'occorrenza sfoderando
la spada, non riusciva a essere a proprio agio, ogniqualvolta si trovava
davanti al conte e a Rossano da Brescia e doveva cercare di
ammorbidire la loro irritazione, garantendo che Sua Santità si stava
muovendo su più fronti contemporaneamente e che presto avrebbe
mandato gli uomini promessi. Lui sapeva che non era vero, e se non gli
risultava troppo difficile mentire, non riusciva a digerire il fatto di
doversi mostrare condiscendente e sottomesso a quei due pur di
mantenere la situazione di stallo imposta dal cardinale Accorsi.
E poi c'era Angelica Concesa.

Quella sgualdrinella non cedeva alle sue insistenze, e più passava il


tempo più Venanzio si innervosiva. Si rendeva conto che presto il
conte avrebbe compreso la verità, ovvero che Alessandria era destinata
a dover fronteggiare con le sole proprie forze l'avanzata imperiale,
senza poter contare sull'aiuto di nessuno, men che meno della Santa
Chiesa, e questo avrebbe irrimediabilmente compromesso i buoni
rapporti che ancora, in qualche modo, lo legavano a lui. A quel punto,
per Venanzio sarebbe stato difficile conquistare la mano di Angelica.
Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, mentre pensava alla figura
slanciata della giovane pulzella altolocata. Fino a qualche tempo prima
non avrebbe mai neppure immaginato che le sue dita potessero
sfiorare una donna con la pelle tanto delicata e profumata. Ma da
quando aveva avuto la fortuna di finire sotto l'ala protettiva del
cardinale Accorsi, la sua vita era cambiata, e il profumo delle donne
con cui andava a letto era migliorato sempre più, fino ad avvicinarlo a
quello che era sempre stato un sogno, per lui: mettere le mani sulla
carne bianca e delicata di una ragazza nobile.
Dentro di lui sapeva che il desiderio che provava per Angelica non
aveva niente a che fare con i sentimenti: voleva solo dimostrare a se
stesso di poter giacere anche con merce prelibata e di altissimo rango,
che i suoi vecchi compagni di scorribanda non si sarebbero mai
neppure sognati.
Per questo si sentiva percorrere da una tensione perfino esagerata.
In fondo, a lui sarebbe bastato poter strappare di dosso i vestiti a
quella puttanella e giacere con lei per una notte, per poterlo raccontare
agli amici. Non voleva perdere tempo in quelle lunghe e asfissianti
procedure di corteggiamento a cui le pulzelle di corte sembravano
abituate, e soprattutto odiava l'idea di dover raggiungere i suoi
obiettivi passando necessariamente per le grazie del conte, che
esercitava un controllo costante nei confronti di chiunque avvicinasse
la figlia.
Venanzio aveva assistito a un duro scontro fra il console e Rossano
da Brescia, a quel proposito, e aveva capito che non sarebbe servito a
nulla cercare di opporsi a Rodolfo Concesa; aveva sfruttato l'occasione
per entrare nelle grazie del conte e fargli capire che come braccio
destro del legato pontificio poteva essere un pretendente di tutto
rispetto per la sua preziosissima figlia.

All'inizio il gioco gli era sembrato anche divertente, ma poi


Venanzio si era stufato, e adesso bramava solo di poter mettere le
mani su quel fiore ingioiellato e ricoperto di biacca cosmetica per
vedere come avrebbe reagito ai giochetti che aveva intenzione di
mettere in atto con lei.
Ma il messaggio del cardinale Accorsi di quella mattina gli aveva
raffreddato i bollenti spiriti, raggelandolo persino più del vento che
scendeva dalle montagne: non poteva semplicemente trascinare in una
stanza Angelica Concesa, strapparle a morsi la verginità e poi filarsela
da Alessandria ben sapendo che presto ci avrebbe pensato il
Barbarossa a far sparire ogni traccia e a risolvere i suoi problemi con il
conte.
Lui doveva restare lì. Per osservare e riferire. Il che significava che
aveva le mani legate anche con Angelica, e che avrebbe dovuto
continuare a sopportare le accuse di Rossano da Brescia e le richieste
insistenti del console.
Sbuffando contrariato, Venanzio da Urbino rabbrividì,
maledicendo la fretta con cui era stato costruito quel palazzo, che non
disponeva di camini nei corridoi e si ergeva come un blocco di ghiaccio
in quella maledetta città ai piedi delle montagne.
Stringendosi nella guarnacca si diresse verso l'ala in cui
risiedevano i servitori e le dame di compagnia. Aveva già individuato
un paio di servette che gli avevano sorriso con malizia, mostrando il
ben di dio che nascondevano sotto le sottane. Con quel genere di
donne poteva tornare a essere se stesso, e bastò il pensiero a fargli
scorrere lunghi brividi di eccitazione nelle vene, scaldandolo.
A quella puttanella di Angelica Concesa avrebbe pensato più tardi.
Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento buono per averla
tutta per sé, senza il problema di doversi giustificare con
quell'altezzoso imbecille di suo padre.
5
A Federico I di Hohenstaufen piaceva cavalcare alla testa del suo
esercito, soprattutto durante le manovre di avvicinamento al campo di
battaglia. Dopodiché, naturalmente, era solito attestarsi con il suo
stato maggiore su un rilievo alle spalle degli uomini schierati, in modo
da poter osservare in sicurezza e con ampia visuale le manovre messe
in campo dai suoi generali. Ma fino a quando non fosse arrivato il
momento della battaglia, il Barbarossa pretendeva di procedere alla
testa dell'esercito, circondato da uno schieramento compatto della sua
guardia personale e dai principali fra i nobili, gli attendenti e i vassalli
imperiali a cui concedeva di cavalcare al suo fianco.
Fra questi, Ottone di Wittelsbach era senz'altro quello a cui
Federico I si rivolgeva più spesso per discutere questioni di tattica di
combattimento e di strategia militare, forse perché, insieme a re
Ladislao di Boemia e a pochi altri, non era uomo che indulgesse in
vuoti ossequi all'imperatore, e piuttosto che compiacerlo cercava di
fargli notare i punti deboli delle sue decisioni, o di suggerire strade
alternative, a volte anche più efficaci di quelle che lo stesso Barbarossa
aveva escogitato.
E questo comportamento, contrariamente a quanto ci si potesse
aspettare da un uomo come Federico I di Hohenstaufen, non solo non
pregiudicava i buoni rapporti di Ottone di Wittelsbach con
l'imperatore, ma suscitava un sentimento di ammirazione e di rispetto
che molti altri vassalli imperiali invidiavano.
«Se un uomo non ha il coraggio di sostenere fino in fondo le
proprie idee, allora si astenga dal parlare in mia presenza» era una
battuta che l'imperatore si lasciava sfuggire di frequente, durante i
consigli di guerra.
Ma era anche vero che pochi osavano criticare le decisioni prese da
Federico I, perché se non lo si faceva con la piena consapevolezza di
disporre di una valida alternativa, allora si correva il rischio non solo
di dover tacere per sempre in presenza di Sua Maestà, ma forse anche
di essere estromessi dalla ristretta cerchia di potenti che circondava
l'imperatore.
Ottone di Wittelsbach, d'altro canto, aveva un'arma formidabile
dalla sua: quando ragionava, in termini di tattiche militari, non lo
faceva per compiacere l'imperatore, ma per ottenere i risultati migliori
sul campo di battaglia. E la sua preparazione, accompagnata da una
mente scaltra e duttile, era sempre stata in grado di sostenerlo con
autorevolezza, durante le dispute con il Barbarossa.
Quel giorno, Ottone cavalcava a schiena dritta sul suo corsiero da
guerra, con indosso i paludamenti leggeri adatti alle lunghe cavalcate,
mentre i suoi scudieri procedevano insieme al grosso dei carriaggi
facendo attenzione che le sue armi e l'armatura fossero al sicuro su un
carro guardato a vista giorno e notte. Non era infrequente che, negli
eserciti in movimento, alcuni soldati si dedicassero a furti mirati di
armi, armature e altri oggetti preziosi custoditi sui grandi carri da
trasporto, per poi disertare e ricavare ottimi guadagni rivendendo in
qualche città il loro bottino.
Ogni nobile als eguito dell'imperatore, ogni vassallo reale e ogni
cavaliere, aveva con sé abbastanza armi di valore da poter far
diventare ricco qualsiasi balordo che si fosse aggregato all'esercito solo
per poter compiere qualche furto e poi filarsela alla chetichella, e
Ottone di Wittelsbach si era raccomandato con i suoi scudieri affinché
il carro con il suo equipaggiamento fosse controllato a vista in ogni
istante.
Accanto a Ottone cavalcava Rainaldo di Darmstadt,
l'arcicancelliere del Barbarossa, con il suo solito atteggiamento
attento, quasi sospettoso, che gli faceva ruotare continuamente gli
occhi da una parte all'altra, come se si aspettasse di riuscire a tenere
sotto controllo tutti quegli uomini potenti che circondavano
l'imperatore con la sola forza dello sguardo.
Mentre Ottone di Wittelsbach si sentiva perfettamente a suo agio a
cavalcare nella nube di polvere sollevata dalle avanguardie
dell'esercito imperiale, che battevano continuamente il territorio per
decine di chilometri davanti al grosso degli uomini in movimento,
Rainaldo di Darmstadt pareva soffrire le lunghe ore trascorse con le
terga adagiate sulla dura sella di cuoio, e la sua espressione, fra il
preoccupato e il disgustato, lasciava intendere che avrebbe preferito
mille volte di più poter seguire il suo signore all'interno di una comoda
carrozza con i sedili imbottiti, e con un vassoio carico di frutta e
mandorle sempre a disposizione.
Ma Federico I non era uomo da concedere simili raffinatezze ai
suoi collaboratori, quando guidava l'esercito in battaglia, e questo era
un altro elemento che lo accomunava al carattere schietto e
pragmatico di Ottone di Wittelsbach.
Adesso poi che procedevano a ranghi serrati verso il loro prossimo
obiettivo, dopo essersi lasciati alle spalle importanti capisaldi della
difesa nemica come Susa e Asti, entrambe rase al suolo con estrema
facilità, Ottone sapeva che Rainaldo non aveva speranza alcuna di far
riposare il suo grasso fondoschiena. Ogni successo in battaglia serviva
solo a dare più energia a Federico, spingendolo ad accelerare la marcia
dell'esercito per raggiungere il prossimo campo di battaglia, dove si
sarebbe battuto come un leone per conquistare l'ennesima vittoria.
In effetti, si rese conto Ottone, nonostante il Barbarossa non fosse
riuscito a ottenere l'appoggio di tutti i Grandi di Germania, l'esercito
che aveva raccolto era davvero imponente, e difficilmente la coalizione
dei Comuni Lombardi avrebbe potuto opporsi alla sua avanzata.
Una prima dimostrazione l'avevano avuta proprio ad Asti, una città
fortificata che avrebbe dovuto opporre molta più resistenza di quanto
in realtà era accaduto, anche grazie alle intelligenti tattiche che
Federico aveva messo in campo, e che Ottone aveva appoggiato in
pieno. La netta vittoria riportata nella conquista di Asti aveva fatto
crescere il morale degli uomini, che adesso affrontavano quella nuova
impegnativa marcia con il cuore più leggero e, soprattutto, le tasche
gonfie di tesori: il Barbarossa aveva infatti concesso che si compissero
razzie nelle città e nei villaggi incontrati fin dal passaggio oltre il valico
del Monginevro, e questo aveva consentito a molti di rastrellare oro,
armi, oggetti preziosi e tutto quello che poteva essere trasportato sui
carri. L'imperatore aveva poi chiuso un occhio nei confronti di coloro
che avevano approfittato della situazione per stuprare donne e
giovinette, uccidere contadini e poveri artigiani solo per il gusto di
farlo, oppure depredare chiese, monasteri e abbazie degli addobbi
sacri, senza dimenticare di ripulirne le ricche dispense.
«Sono tutti servi del finto papa» aveva risposto l'imperatore
quando alcuni nobili avevano chiesto come affrontare la delicata
questione, e Monsignor Vallerò aveva messo il suo suggello a quella
dichiarazione offrendo un'assoluzione generale a tutti gli uomini
dell'esercito per i peccati da loro commessi, purché avvenuti in zona di
guerra.
Adesso il Barbarossa non vedeva l'ora di potersi misurare ancora
con le forze nemiche, magari in uno scontro campale che avrebbe
messo fine una volta per tutte alla lotta che vedeva scontrarsi il Sacro
Romano Impero con i ribelli padani.

Ottone di Wittelsbach stava pensando a tutto questo quando


all'improvviso ci fu un certo trambusto nelle fila di uomini davanti a
lui, tutti appartenenti alla guardia personale dell'imperatore. Un
messaggero era arrivato a spron battuto, e adesso stava riferendo
qualcosa a Federico, dopo essere sceso da cavallo ed essersi
inginocchiato davanti al suo signore.
Dal punto in cui si trovava, Ottone di Wittelsbach non riuscì a
percepire le parole dell'uomo, ma quando vide irrigidirsi il volto
dell'imperatore capì che non si trattava di buone notizie.
Federico ascoltò ancora per un attimo, pose qualche brusca
domanda al messaggero, poi sollevò un braccio con il pugno chiuso e
scese da cavallo. Aveva appena dato l'ordine di fermare l'esercito e di
far erigere la grande tenda circolare all'interno della quale si sarebbe
tenuto un improvvisato consiglio di guerra.
Rainaldo di Darmstadt camminava nervosamente avanti e indietro,
strascicando i piedi nella polvere, mentre alcuni giovani scudieri reali
srotolavano la grande pergamena sul tavolo del consiglio di guerra,
fatto arrivare in tutta fretta dai carriaggi delle retrovie insieme alla
struttura portante della tenda imperiale.
Stava cercando di capire come affrontare la situazione. Non appena
i generali e i condottieri più importanti dell'esercito si erano riuniti
all'ombra della tenda di Federico, l'imperatore aveva dato subito la
ferale notizia, senza por tempo in mezzo: «I Padani hanno costruito
una nuova fortezza» aveva esordito, mentre ancora si toglieva i pesanti
guanti da cavallo e due paggi imperiali lo aiutavano a sganciare la cotta
di maglia ferrata che da tre generazioni gli Hohenstaufen si passavano
di padre in figlio. «A quanto pare non sarà un avversario facile quanto
Susa o Asti. I messaggeri riferiscono di bastioni imponenti e di una
collocazione strategica, in prossimità del guado del Tanaro.» Fra i
nobili convocati per il consiglio di guerra si era diffuso un mormorio di
sorpresa, ma nessuno aveva osato sollevare domande, a parte Ottone
di Wittelsbach, che con sguardo torvo si era rivolto al comandante
degli esploratori imperiali, Reinhardt von Sapperthem.
«Com'è possibile che i vostri uomini non abbiano individuato
prima quella fortezza?» aveva chiesto.
Reinhardt von Sapperthem non si era lasciato intimidire, e
raddrizzando la schiena aveva risposto guardando direttamente
l'imperatore: «Ci siamo spinti in ricognizione fino a dove è stato
possibile. Abbiamo raggiunto Asti, oltre non era possibile andare. Del
resto, chi avrebbe mai immaginato che avrebbero eretto una fortezza
in così poco tempo?».
Prima che Ottone di Wittelsbach o qualcun altro potesse
continuare nella discussione, Federico I aveva sollevato un braccio e
aveva ordinato di spiegare sul tavolo da guerra la mappa della regione,
compilata con cura dai cartografi imperiali.
Mentre i paggi obbedivano, srotolando con cautela la pergamena,
Rainaldo di Darmstadt aveva camminato su e giù per la grande tenda
reale cercando di fingersi impressionato e sorpreso almeno quanto gli
altri. Aveva scambiato una rapida occhiata con Ottone di Wittelsbach,
e aveva avuto la certezza che anche il fedele vassallo dell'imperatore
avrebbe taciuto il fatto che lui era a conoscenza dell'esistenza di quella
fortezza.
Quello che Ottone non sapeva era che Rainaldo non aveva altre
informazioni in proposito, e si interrogava sull'esistenza di Alessandria
esattamente come lui. Una fortezza eretta dal nulla nel giro di pochi
anni, e collocata in un punto strategico per chiudere ogni via
d'ingresso alla Padania. Era questo che lo tormentava, e i suoi
informatori non erano riusciti a rispondere a nessuna delle sue
domande.
In quel momento, Rainaldo avrebbe voluto potersi consultare con
la madre: lei avrebbe saputo trovare una spiegazione ragionevole, e
avrebbe saputo suggerirgli le mosse migliori da compiere per evitare
che quella delicata situazione si ritorcesse contro di lui. Se Ottone
avesse parlato, il Barbarossa non avrebbe mai creduto che lui non
sapeva molto di più sull'esistenza della fortezza, e probabilmente
l'avrebbe messo ai ceppi.
Quindi Rainaldo si augurò che Ottone di Wittelsbach tacesse, e nel
frattempo cercò di riordinare tutte le informazioni di cui era in
possesso per fare luce su quello che stava accadendo, in modo da
restare sempre avanti di un passo rispetto a Federico, per impedire
che l'imperatore si lasciasse sopraffare dall'ira e prendesse decisioni
avventate, che avrebbero potuto pregiudicare la spedizione in Italia.
Qualsiasi altro condottiero, infatti, avrebbe mandato gli esploratori a
cercare un percorso alternativo per aggirare la misteriosa fortezza e
trovare un passaggio oltre il Tartaro che avrebbe consentito all'esercito
di puntare direttamente su Legnano e Milano, le due città più
importanti della Lega Lombarda con le quali avrebbe dovuto esserci il
primo, fondamentale scontro in campo aperto. Ma il Barbarossa non
avrebbe mai accettato di lasciarsi alle spalle una città fortificata
intatta, l'avrebbe considerato un insulto personale e un atto di
codardia.
Rainaldo sapeva che era per questo che il consiglio di guerra era
stato convocato: Federico aveva bisogno di escogitare un modo per
assediare e conquistare la fortezza nel minor tempo possibile,
dimostrando che niente e nessuno poteva opporsi all'avanzata
dell'imperatore.
Rainaldo si lasciò scappare un gemito, mentre pensava alle
conseguenze di un simile atteggiamento: ci sarebbero voluti giorni,
forse settimane, per avere ragione di quella fortezza, se era così
imponente come riferivano gli esploratori e come già ne aveva avuto
notizia dai suoi informatori, e questo avrebbe dato il tempo all'esercito
padano e ad Alessandro III di organizzarsi al meglio per la difesa,
attenuando l'effetto sorpresa che fino a quel momento aveva sempre
giocato a loro favore.
Eppure, Rainaldo si rendeva conto che fra tutti i presenti lui
sarebbe stato l'ultimo a cui Federico avrebbe prestato attenzione: lo
considerava un valido collaboratore e una mente scaltra, ma solo
quando si trattava di affrontare le intricate questioni politiche per le
quali il Barbarossa provava una vera e propria avversione. Quando
c'erano in ballo operazioni militari, non era del suo consiglio che
l'imperatore aveva bisogno.
Quando finalmente la grande mappa fu stesa e tenuta in tensione
dai paggi imperiali, il Barbarossa si avvicinò per osservare le
caratteristiche del prossimo campo di battaglia, mentre Reinhardt von
Sapperthem illustrava la posizione della nuova fortezza.
Rainaldo, sentendosi stringere la gola da un senso di panico, cercò
di pensare in fretta a come agire. Quando incontrò di nuovo lo sguardo
di Ottone di Wittelsbach, comprese che la sua sola speranza di
manovrare l'imperatore era affidata a quell'uomo.
Se riusciva a convincerlo dell'importanza di non perdere tempo in
inutili assedi a città fortificate erette nel mezzo del nulla, forse anche il
Barbarossa avrebbe capito che in quella campagna il fattore tempo era
essenziale.
«Tutti i ponti sul Tanaro sono stati distrutti» riferì Reinhardt von
Sapperthem. «Spero che i nostri esploratori riescano a individuare un
guado agevole, anche se in questa stagione le acque del fiume sono
particolarmente impetuose.» Federico Barbarossa osservava accigliato
la grande mappa disegnata dai suoi cartografi, come se ancora non
riuscisse a capacitarsi del fatto che nessuno si fosse accorto
dell'esistenza di quella fortezza. Reinhardt von Sapperthem aveva
sistemato un sasso in corrispondenza del punto in cui sorgeva la città
fortificata, e a tutti era chiaro che si trattava di una posizione
strategica, che avrebbe impedito all'esercito imperiale di attraversare
la valle, a meno di spostarsi per parecchi chilometri a sud, alla ricerca
di un altro passaggio non presidiato.
E se il nemico era riuscito a erigere quella città in così poco tempo,
non era detto che non ce ne fossero altre, in prossimità dei guadi di cui
parlava il comandante degli esploratori.
«Ho saputo da uno dei miei uomini che la fortezza si chiama
Alessandria» aggiunse Reinhardt Von Sapperthem, dosando con
cautela le parole. «In onore di Alessandro III.» Un silenzio carico di
disagio scese nella grande tenda, e Rainaldo osservò con attenzione il
volto dell'imperatore, cercando di decifrarne i pensieri. Ma dietro a
quella barba folta l'espressione di Federico I era assolutamente
imperscrutabile.
«Ottone, voi che cosa suggerite?» chiese a un certo punto
l'imperatore, senza staccare gli occhi dalla mappa. Il silenzio nella
grande tenda venne sostituito all'istante da un forte brusio, mentre
tutti osservavano Ottone e attendevano la sua risposta.
Rainaldo sentì accelerare i battiti del cuore.
Nella discussione che aveva preceduto quei momenti aveva provato
a fare qualche intervento astuto, rivolgendosi soprattutto a Ottone di
Wittelsbach, e per un momento aveva avuto l'impressione che questi
avesse compreso ciò a cui mirava, ma il valente generale dell'esercito
imperiale non si era ancora pronunciato in modo deciso come solo lui
era capace. Ora ne avrebbe avuto l'occasione, e Rainaldo trattenne il
respiro augurandosi di avere interpretato correttamente l'occhiata che
Ottone di Wittelsbach gli aveva rivolto prima che l'imperatore Lo
interpellasse.
«Sarò schietto, Vostra Maestà» disse Ottone piegandosi sulla
mappa.
«È ciò che desidero» annuì il Barbarossa.
Ottone di Wittelsbach indicò con un dito il sasso che rappresentava
Alessandria.
«Quella fortezza è un'esca» affermò, facendo sospirare di sollievo
Rainaldo, «e io credo che sia stata eretta al solo scopo di ritardare la
nostra avanzata e dare il tempo all'esercito padano di organizzarsi per
la difesa.» «Quindi cosa suggerite?» chiese re Ladislao.
«Passiamo oltre» propose senza indugio Ottone di Wittelsbach.
«Troviamo un guado più a valle e aggiriamo la fortezza.
Poi affrontiamo il nemico nella pianura padana, prima che abbia Il
tempo di predisporre una valida difesa.» «Io concordo pienamente,
Maestà» intervenne di slancio Rainaldo, pur rendendosi conto che
nessuno sembrava averlo sentito.
«E lascereste una testa di ponte alle spalle del nostro esercito?»
chiese il Marchese di Monferrato, mostrandosi disgustato e sorpreso al
tempo stesso. «In quella città potrebbero esserci migliaia di soldati,
per quello che ne sappiamo. Se li lasciamo liberi di attaccarci alle
spalle, non avremmo scampo, saremmo racchiusi in una morsa.»
«Non mi sembra un'eventualità plausibile» intervenne re Ladislao di
Boemia, come sempre pacato ma risoluto. «Se il nemico avesse la
possibilità di tenere migliaia di uomini racchiusi all'interno di una
fortezza, allora significa che potrebbe contare su un numero dieci volte
superiore di fanti e arcieri da schierare sul campo di battaglia. Il che, a
mio parere, è abbastanza ridicolo.» «Sono d'accordo con voi» ribatté
seccamente il Marchese di Monferrato. «Ciò nonostante, ritengo sia un
errore strategico lasciarci alle spalle un presidio nemico di quella
entità. Non sappiamo cosa potrebbe succedere, in caso di ritirata, e
non possiamo correre il rischio di vederci chiudere l'accesso ai valichi
alpini.» «Vedo che non avete molta fiducia nella forza del nostro
esercito» commentò acido l'imperatore. «In ogni caso, marchese,
credo che abbiate ragione. Non sarebbe prudente oltrepassare quella
città senza sincerarci del pericolo che potrebbe rappresentare per la
nostra retroguardia.» «Allora mandate un paio di squadroni d'assalto
a saggiare le difese della fortezza, mentre il resto dell'esercito cercherà
un guado più a sud, per potersi assestare senza problemi oltre il corso
del Tanaro» suggerì Ottone di Wittelsbach.
«No» ribatté l'imperatore, facendo balzare il cuore in gola a
Rainaldo di Darmstadt. «Non lascerò che si dica che il Barbarossa ha
avuto timore di confrontarsi con una fortezza nemica. Una città che è
stata chiamata Alessandria al solo scopo di sfidarmi e di sbeffeggiarmi.
Se la lasciassimo intatta, le altre città padane potrebbero fare
altrettanto, e anziché predisporre un esercito per una battaglia
campale, convincersi ad asserragliarsi dietro i loro bastioni. In questo
modo, ci vorrebbero mesi, forse anni, prima di riuscire ad aprirci una
strada per il Regno di Sicilia.» Nonostante tutto, Rainaldo si rese
conto che l'imperatore aveva ragione. Le sue mire egemoniche non si
limitavano solo alla Lega Lombarda, e dovevano contemplare uno
scenario molto più vasto, che avrebbe comportato lunghi tempi di
attuazione e spese esorbitanti per il tesoro reale. Prima si concludeva
l'operazione punitiva contro i Comuni ribelli della Padania, prima
Federico avrebbe potuto rivolgere la sua attenzione al Regno di Sicilia
e, da lì, a Costantinopoli e ai vasti territori dell'Impero d'Oriente.
«Dunque guaderemo in prossimità della fortezza nemica» disse
Ottone di Wittelsbach, che aveva capito che era inutile discutere con il
Barbarossa, quando Sua Maestà aveva preso una decisione definitiva.
«Esatto» annuì Federico, allontanandosi dalla mappa e facendo
capire che il consiglio di guerra era terminato. «Scoprite quando è il
momento migliore per attraversare il fiume e portate l'esercito
sull'altra riva. Capiremo ben presto quanto valgono le difese di quella
fortezza.» Rainaldo di Darmstadt non sapeva che cosa pensare. Il suo
tentativo di convincere l'imperatore ad aggirare Alessandria, grazie
all'intercessione dell'unico uomo di guerra che il Barba rossa sembrava
tenere in considerazione, era stato un insuccesso, eppure per qualche
motivo non riusciva a rammaricarsi della scelta di Federico di dare
inizio all'assedio. Alessandria non era solo un baluardo difensivo
molto avanzato, di questo doveva dare atto all'imperatore: era un
simbolo, eretto per sfidare apertamente l'Impero e la sua pretesa di
dominare il mondo.
La sfida che si sarebbe combattuta in quella valle non era per un
banale scopo di conquista, ma coinvolgeva tutte le forze che si erano
schierate sul campo di battaglia: il Sacro Romano Impero, la Lega
Lombarda e l'ostinato Alessandro III, che non solo non aveva accettato
la decisione di Federico di nominare un papa appellandosi al suo
diritto divino di stabilire le più alte cariche secolari e temporali, ma
aveva anche avuto l'ardire di scomunicare l'imperatore, e di dichiararsi
il solo, legittimo papa sulla terra, per investitura divina.
Nonostante queste intricate dispute teologiche e politiche fossero il
pane preferito di Rainaldo, quel giorno l'arcicancelliere si sentiva
particolarmente a disagio. Da una parte perché non aveva considerato
la possibilità che l'esercito imperiale fosse costretto a fermarsi così
presto, per mettere sotto assedio una città le cui mura erano
probabilmente solide e difficili da espugnare, dall'altra perché non
poteva contare sui preziosi consigli di sua madre, che mai come in quel
momento avrebbe voluto lì accanto a sé.
Un punto in particolare lo angosciava: qual era la direzione giusta
da prendere? Assediare Alessandria, raderla al suolo per dimostrare
che Dio stava dalla parte dell'imperatore e non da quella del falso
papa, oppure ignorare quel simbolo pretestuoso e accelerare la marcia
contro i Comuni Padani, per sottometterli con la forza e tornare a
imporre il pugno di ferro imperiale?
Ognuna di queste alternative, si rendeva conto, aveva dei lati
positivi e altri negativi. Assediare Alessandria avrebbe significato
concedere parecchio tempo alla Lega Lombarda per organizzarsi;
d'altra parte, lasciare intatto il simbolo del loro disprezzo per
l'imperatore avrebbe significato infondere fiducia e sicurezza al
nemico, e portarlo a impegnarsi con maggior vigore nello scontro.
E Rainaldo sapeva che i popoli padani non erano inclini a
sottomettersi tanto facilmente. Erano uomini forti, ambiziosi e
consapevoli della propria capacità e del proprio ingegno, e se avevano
deciso di opporsi al volere imperiale, spalleggiati da quel fantoccio di
Alessandro III, era perché nutrivano grande fiducia nelle proprie
forze. Per questo se Federico avesse spazzato via la loro magnifica
fortezza-simbolo e poi avesse proseguito con decisione verso Legnano
e Milano, forse sarebbe stato più facile averne ragione nello scontro
conclusivo, se il morale dell'avversario fosse stato abbattuto.
Mentre si dibatteva fra questi dubbi, Rainaldo attraversava a passo
strascicato il grande accampamento imperiale, che si estendeva fino a
dove poteva giungere lo sguardo. Aveva freddo, anche se era abituato
al clima ben più rigido della Germania del Nord, dove l'imperatore
amava trascorrere buona parte dell'anno, e il terreno era gelato,
preannunciando un inverno particolarmente rigido.
I soldati stavano preparando i fuochi di bivacco e sceglievano i
punti migliori per la sistemazione notturna. I più fortunati di loro
avrebbero eretto delle tende confezionate con tela grezza, all'interno
delle quali si sarebbero protetti meglio dal freddo, ma la maggior parte
degli uomini si sarebbe sistemata a terra sulle coperte da viaggio,
stringendosi in gruppi di quattro o cinque attorno a ogni cerchio di
sassi in cui le braci avrebbero arso per tutta la notte.
Soffiandosi il fiato caldo nelle mani, Rainaldo pensò che almeno lui
avrebbe passato la notte al caldo e nell'agio, a bordo del carro in cui
aveva fatto sistemare le sue cose.
Mentre l'attività nell'accampamento ferveva, con i sergenti di
squadra che lanciavano ordini per tenere unite le rispettive
compagnie, ovunque sorgevano rastrelliere di picche appoggiate le une
contro le altre a formare piramidi di legno e acciaio. I carri con le
salmerie e le vettovaglie si erano distribuiti per tutto l'accampamento,
e i cucinieri stavano già cominciando ad accendere i fuochi per fare
bollire le zuppe di fagioli, fave e cipolle che costituivano il rancio
comune dei soldati. Gli ufficiali avrebbero cenato sotto alcune tettoie
erette per l'occasione, mentre i nobili, i condottieri più valorosi e i
vassalli dell'imperatore si sarebbero riuniti sotto la grande tenda
comune con il desco imperiale. Ovunque, mercanti di birra, di vino e
di cibarie si muovevano come formiche, concludendo ottimi affari con
quei soldati che erano riusciti a razziare un po' di bottino durante le
incursioni effettuate nella marcia di avvicinamento al Tanaro e che
non ne potevano più di mangiare zuppa di fave e cipolle. Rainaldo vide
grosse pagnotte e forme di formaggio passare rapidamente di mano,
mentre i commercianti si arricchivano senza dare troppo nell'occhio. A
contribuire all'impressione di disordine e di degrado tipico di qualsiasi
accampamento militare, a cui Rainaldo di Darmstadt non era ancora
riuscito a fare l'abitudine, centinaia di prostitute di ogni età e aspetto
si muovevano da un cerchio di militari all'altro, offrendo i loro servigi
in cambio di qualche moneta di rame o di ferro. Le più scrupolose
accompagnavano i loro clienti dietro a qualche cespuglio o in qualcuna
delle rade macchie di arbusti che chiazzavano la vallata, mentre le più
spregiudicate non esitavano ad alzare le sottane e a concedersi
direttamente in mezzo alla soldataglia, spesso chiedendo qualche
monetina in più a chi voleva assistere allo spettacolo.
Rainaldo osservò disgustato una ragazza molto giovane dal seno
ancora acerbo lavorare di mano due arcieri che l'affiancavano bevendo
birra, mentre cavalcava un altro soldato sdraiato sotto di lei.
Lui non aveva mai approvato tutta quella promiscuità durante le
campagne militari: era convinto che in quel modo gli uomini si
indebolissero, e che non potessero arrivare pronti al momento della
battaglia. D'altra parte, l'imperatore non solo tollerava quel
comportamento da parte dei suoi uomini, ma non faceva nulla per
evitare che orde di prostitute e di mercanti si unissero all'esercito in
marcia.
Rainaldo lanciò un'occhiata verso ovest, là dove le mandrie al
seguito dell'esercito venivano accudite al pascolo da uno stuolo di
bovari, incaricati di tenere in salute le bestie che avrebbero fornito il
cibo per i ricchi banchetti di Sua Maestà e dei suoi vassalli, e
all'improvviso si immobilizzò per la sorpresa. Vide una donna seduta
su un masso a poche decine di passi, che sghignazzava mentre contava
delle monete facendole cadere in una bisaccia di pelle che teneva in
grembo. La donna era anziana, aveva i capelli grigi scarmigliati tenuti
insieme da un bastoncino infilato di traverso, e l'espressione che
ostentava sul volto attraversato da profonde rughe era volgare e
rapace.
Davanti a lei, un soldato si stava dando da fare su una giovane
prostituta sdraiata supina a terra, su una coperta lercia e lacera in più
punti, mentre altri armigeri osservavano la scena e pregustavano il
momento in cui fosse toccato il loro turno. La ragazza aveva gambe
lunghe e snelle, incredibilmente bianche e lisce, prive della minima
peluria. Prima di poter giacere con lei, i soldati porgevano alla megera
le monete che servivano per la prebenda pattuita.
Rainaldo osservò ancora per un po' la scena, poi sentendosi
rimescolare il sangue si avvicinò alla vecchia. Quando si aggirava per
l'accampamento, Rainaldo indossava sempre un lungo mantello di
lana grezza, intrecciato a maglia grossa perché fosse caldo e resistente,
più che elegante, e dunque la donna non comprese chi fosse, quando
alzò lo sguardo su di lui.
«Vuoi partecipare anche tu, messere?» sghignazzò mostrando due
file ancora sorprendentemente sane di denti fra le gengive arrossate.
«Sono solo tre monete di rame per una copula. E visto che mi sembri
una persona importante, potrai passare davanti a tutti, se paghi
subito.» «Ti darò un fiorino d'oro» farfugliò Rainaldo a voce così bassa
da faticare lui stesso a comprendere quello che stava dicendo.
La vecchia, però, sbarrò gli occhi sorpresa, lasciando intendere che
aveva capito benissimo. Prima che potesse balbettare qualcosa,
Rainaldo continuò: «Non mi interessa la ragazza. Voglio te. Seguimi».
Fece per voltarsi, ma la donna lo trattenne per un braccio.
«Stai dicendo sul serio, mio signore?» chiese sconcertata. «Io non
esercito più da molto tempo, e le mie ragazze sono molto più belle e
floride. Forse...» «Ho detto che non mi interessano» l'interruppe
Rainaldo, guardandosi attorno circospetto, come se temesse che
qualcuno potesse riconoscerlo. Per fortuna, i pochi soldati che
stazionavano da quelle parti erano tutti concentrati ad ammirare le
lunghe gambe della giovane baldracca a terra, e quindi nessuno si era
accorto di lui. «Seguimi e avrai il tuo fiorino d'oro.» La vecchia,
seppure ancora sconcertata e riluttante, scattò in piedi, quando
Rainaldo ruotò sui tacchi e si allontanò a passo svelto. Mentre si
dirigeva verso il carro in cui aveva predisposto il suo giaciglio per la
notte, seguito a una certa distanza dalla vecchia, sentiva crescere
dentro di sé l'eccitazione. Quella donna era incredibilmente
somigliante a sua madre. Forse solo un po' meno in carne e con
qualche dente in meno, ma nella semioscurità del carro quelle
differenze sarebbero pressoché scomparse, e Rainaldo avrebbe avuto
l'illusione di poter giacere ancora con sua madre, e dimenticare per
qualche momento gli assilli di quella spedizione che si stava facendo
più complicata del previsto.
6
Rossano da Brescia stava cercando di togliere alcune brutte
macchie di ruggine dall'impugnatura di ferro di una delle sue asce da
guerra, quando un uomo della guarnigione arrivò trafelato a
chiamarlo.
«Comandante!» gridò. «Presto, venite! È arrivato un messaggero.
Ha chiesto di voi. Ed è ferito!» Rossano balzò in piedi con il cuore in
gola. Un messaggero?
Ferito? Si augurò che non si trattasse di Valerio.
Abbandonò l'ascia da guerra e seguì il soldato fino al posto di
guardia accanto alla motta della porta ovest. Quando raggiunse il
capannello di persone che circondava il messaggero steso a terra,
comprese che il giovane era stato tirato giù da cavallo e sistemato nella
maniera più comoda possibile. Questo gli fece capire che le ferite
dovevano essere gravi.
«Manda a chiamare un cerusico!» ordinò all'armigero che era
venuto a cercarlo. Poi si fece largo fra la piccola folla di soldati e con
un'ansia terribile diede un'occhiata al messaggero sdraiato a terra, in
una pozza del suo stesso sangue che si allargava lentamente.
Non era Valerio, e Rossano si sentì inondare dal sollievo. Poi però
si rese conto che il giovane sdraiato a terra era in condizioni
gravissime, e non sarebbe sopravvissuto ancora per molto.
Aveva una freccia che gli trapassava il torace da parte a parte,
probabilmente dopo avergli perforato un polmone.
Rossano si chinò sul ragazzo e osservò la ferita. La freccia era stata
spezzata nella parte superiore, ma la punta quadrata di ferro gli usciva
dal petto, insieme a un flusso continuo di sangue, pompato dai battiti
del cuore. Il ragazzo era molto giovane, forse della stessa età di
Valerio, e quando si accorse di lui cercò di aprire la bocca per dire
qualcosa.
«Stai tranquillo» gli disse Rossano prendendogli una mano e
stringendogliela. «Sta arrivando un chirurgo, ti guariranno.» Sapeva
che era una menzogna, perché nessuno poteva guarire una ferita del
genere. Se soltanto avessero provato a estrarre la freccia, il ragazzo
sarebbe morto sul colpo. In definitiva, se era ancora vivo era proprio
grazie al legno del dardo, che in qualche modo impediva all'emorragia
di allagargli i polmoni di sangue. Rossano aveva già visto molte ferite
come quella, e sapeva che non lasciavano scampo. Le frecce a punta
quadrata erano usate per trapassare le cotte di maglia ferrata o le
corazze di cuoio, e se colpivano un bersaglio senza protezione
causavano ferite devastanti, che raramente permettevano a un uomo
di sopravvivere.
Ma il ragazzo lo guardava con gli occhi sbarrati, tendendosi verso
di lui, e Rossano comprese che aveva un messaggio da riferirgli,
qualcosa di così importante che era più spaventato dall'idea di non
riuscire a parlare che di morire.
«D'accordo» disse, chinandosi verso il giovane e avvicinandogli
l'orecchio alle labbra. «Parla piano e con calma, senza avere fretta. Che
cosa vuoi dirmi?» Il messaggero fece alcuni respiri affannosi, ingoiò
qualcosa che aveva in gola, e che Rossano immaginò fosse un rigurgito
di sangue, poi riuscì a dire, con voce abbastanza chiara da poterlo
capire: «L'esercito imperiale è qui... accampato oltre il guado delle
pietre bianche. Le loro staffette...». Un singulto di tosse lo interruppe,
e il giovane sputò sangue. Rossano gli strinse più forte la mano,
cercando di fargli capire che era lì accanto a lui, ma comprese che il
ragazzo non sarebbe più riuscito a continuare.
In quel momento qualcuno arrivò facendosi largo a gomitate fra la
piccola folla che si era raccolta attorno a loro, e Rossano vide che si
trattava di Fidelio Giberti, il maniscalco che si occupava anche di
ricomporre fratture e cucire tagli. Giberti si inginocchiò accanto al
giovane messaggero ed esaminò la ferita accigliato.

«Non c'è niente da fare» disse subito, confermando quello che


Rossano già sapeva. «Se tocco quella freccia, muore.» «Quanto potrà
resistere, ancora?» chiese Rossano, vedendo che il giovane cercava di
respirare affannosamente, mentre il sangue gli usciva da naso e bocca.
Il maniscalco scosse la testa e si alzò in piedi. «Non molto» rispose.
«Ha una emorragia. Mi stupisce che sia ancora vivo.» Rossano tornò a
guardare il giovane, vide che aveva lo sguardo spaventato fisso su di
lui, e gli fece un cenno con la testa.
«Sei stato bravo e molto coraggioso» gli disse. «E il tuo messaggio
è arrivato. Grazie a te, il nemico non ci coglierà di sorpresa.» Il giovane
parve distendersi, a quelle parole, accennò a un sorriso, tossì e sputò
grosse boccate di sangue, poi si fece immobile, lo sguardo ancora
puntato verso Rossano.
Questi allungò una mano, gli abbassò le palpebre e si rialzò in
piedi.
«Dategli una buona sepoltura» ordinò ai suoi uomini. Poi vide che
uno dei soldati aveva in mano il pezzo di freccia che era stato tagliato
per sdraiare il messaggero a terra e se lo fece consegnare.
Si trattava di legno di cedro, abbastanza resistente e flessibile da
risultare ideale per una freccia da guerra. L'impennaggio era nero,
come quello di molti squadroni di arcieri imperiali che si affidavano
agli artigiani fiamminghi. Era un'ulteriore prova che il Barbarossa li
aveva finalmente raggiunti.
«Fate rientrare tutte le staffette, i mercanti e i liberi cittadini che si
trovano all'esterno dei bastioni e rinforzate i posti di guardia» ordinò
gettando a terra il pezzo di freccia e ruotando su se stesso. «Io vado ad
avvertire il console. La città sta per essere messa sotto assedio.» La
voce si diffuse in fretta, e il rientro in città di uomini, carri, soldati e
bestiame, che normalmente esercitavano le loro attività al di fuori
della cinta muraria, avvenne con grande velocità ma anche con un
certo ordine.
Rossano, dopo avere avvertito Rodolfo Concesa, aveva diramato
secchi ordini ai suoi uomini, predisponendo fin da subito turni di
guardia sugli spalti e un intervento deciso fra gli abitanti di
Alessandria per creare dei corridoi di ingresso facilitato e per tenere
sotto controllo il panico che avrebbe potuto diffondersi.
Per fortuna, le schiere dell'esercito imperiale non erano ancora
visibili, e questo consentì a Rossano e ai suoi di controllare i pochi casi
di terrore che si manifestarono fra la popolazione, e limitarsi a
coordinare il rientro in città di tutti coloro che stazionavano fuori le
mura. Come accadeva in qualsiasi grande città, all'esterno era sorto un
vero e proprio quartiere abitato dalle persone più povere, che non
potevano permettersi una casa all'interno dell'abbraccio protettivo
delle mura, formato da baracche di vecchie assi di legno e rami tenuti
insieme da fango e argilla. Qua e là i mercanti avevano organizzato
piccoli mercati, ed era stata eretta persino una stamberga un po' più
grande della media degli altri edifici, in cui venivano serviti birra
scadente, sidro di mele e vino annacquato. Quando però si diffuse la
voce che l'assedio stava per avere inizio, tutti abbandonarono le loro
capanne e la taverna improvvisata dopo avere raccolto i propri averi e
averli caricati su carri comuni o esserseli gettati in spalla.
Nessuno protestava, nessuno cercava di approfittare della
situazione per depredare i deboli e gli indifesi, e di questo
comportamento Rossano fu particolarmente lieto. Durante situazioni
analoghe in altre città aveva assistito a scene terribili, con ruberie,
assassinii e stupri che avvenivano sotto la luce del sole, mentre il
panico e l'isteria si diffondevano in modo incontrollabile.
Ma i cittadini di Alessandria erano preparati a quell'evento,
sapevano che la città era stata costruita proprio per affrontare un
assedio prolungato, e avevano fiducia nei possenti bastioni che
formavano una barriera apparentemente invalicabile.
Rossano aveva spedito staffette verso la valle dove l'esercito
imperiale avrebbe provato a guadare il fiume, ordinando loro di darsi
frequentemente il cambio per poter portare notizie fresche in città più
volte al giorno. Quello era il solo modo per capire quanto velocemente
si stavano spostando le truppe del Barbarossa, e sfruttare tutto il
tempo a loro disposizione per attivare le misure difensive della città.
Quando il console Rodolfo Concesa lo convocò a palazzo per un
rapido consiglio di guerra, Rossano aveva già la situazione sotto
controllo, e poteva dirsi soddisfatto del modo in cui i suoi uomini
avevano reagito all'emergenza.

I lunghi giorni di addestramento avevano dato i loro frutti, anche


se la prova più difficile da affrontare doveva ancora arrivare. Neppure
lui sapeva come avrebbero reagito, quando gli stendardi e le araldiche
dell'esercito imperiale fossero spuntati all'orizzonte e la valle del
Tanaro si fosse riempita di migliaia di uomini armati.
Ma a questo avrebbe pensato a tempo debito.
Per raggiungere la sala predisposta per il consiglio di guerra,
nell'ala ovest del palazzo, Rossano fu costretto a entrare nel vestibolo
principale, e da lì attraversare il piano terra dell'edificio, un unico
grande locale con un solo immenso camino, sul cui pavimento i servi
del conte gettavano continuamente manciate di paglia pulita, dopo
avere rastrellato quella sporcata dall'inarrestabile viavai di persone
che domandavano udienza al console.
In un angolo del locale un uomo sedeva a un pesante tavolo di
legno, con l'aria perennemente imbronciata, e riceveva i questuanti
facendoli chiamare a gran voce dal suo assistente.
Una vera e propria folla stazionava in modo permanente in quella
zona dell'edificio: erano contadini, mercanti, braccianti e artigiani di
ogni genere che si recavano dal console per chiedere aiuto per i loro
problemi, assistenza in caso di controversie legali oppure
semplicemente per cercare lavoro come garzoni, stallieri o quant'altro
fosse disponibile.
Alessandria era ancora in piena espansione, e Rodolfo Concesa
aveva ordinato che tutti venissero ascoltati, perché c'era bisogno di
persone di valore da inserire nel tessuto sociale della cittadina per
farla crescere.
L'uomo delegato a questo importante incarico non sembrava
particolarmente felice del lavoro cui doveva dedicarsi, e di
conseguenza procedeva con i suoi ritmi, ascoltando uno alla volta i
questuanti e disponendo per conto del console in fatto di dispute
legali, oppure consigliando come poteva chi cercava lavoro o altro
genere di aiuti. Sul tavolone aveva un grosso vaso di argilla in cui
chiunque si presentava al suo cospetto doveva far cadere una moneta
di rame, come compenso per il servigio che gli veniva richiesto.
Naturalmente, dato che la maggior parte di quelle persone erano
braccianti o contadini, il pavimento tutto attorno al tavolo del
segretario era pieno di ortaggi, prosciutti, cesti di uova e di cipolle,
vasellame e mercanzie di vario tipo, lasciati in omaggio da coloro che
non disponevano di conio. Rossano quel giorno vide persino una capra
e diverse galline, che i servitori rincorrevano per portarle nei recinti
del palazzo, insieme agli altri animali.
Dovette farsi largo per raggiungere l'ampia scalinata di pietra che
sul fondo del locale si inerpicava verso l'alto, sorvegliata da due
armigeri con lo sguardo severo e l'aria attenta. Al primo piano del
palazzo c'erano gli appartamenti privati della famiglia del console, la
biblioteca, gli alloggi per gli ospiti illustri e un paio di sale cerimoniali
che venivano sfruttate per i banchetti ufficiali o per le riunioni del
consiglio di guerra.
Quando gli armigeri lo videro, si fecero subito da parte, ritirando le
picche che tenevano incrociate a sbarrare il passo. Rossano salì i
gradini a due alla volta, impaziente di mettersi al tavolo con Rodolfo
Concesa e con gli altri che sarebbero stati presenti alla riunione per
organizzare la difesa della città. Lui aveva già le idee chiare,
naturalmente, ma sapeva che nobili, notabili e prelati cercavano
sempre di dire la loro anche in merito alle questioni militari, e un
leggero senso d'inquietudine lo assalì, quando rammentò che anche
Venanzio da Urbino sarebbe stato presente. Quell'idiota avrebbe
cercato di mettergli i bastoni fra le ruote, indipendentemente da quello
che lui avrebbe proposto, e questo solo per rivalsa nei suoi confronti.
Ma Rossano non era disposto a lasciarsi intimidire da nessuno, non
quando la posta in gioco era così alta: non si trattava solo di assicurare
la migliore difesa ad Alessandria, ma anche di erigere una barriera
tanto forte e inespugnabile da garantire ad Alberto da Giussano e agli
altri condottieri della Lega Lombarda di prepararsi allo scontro con
l'esercito del Barbarossa.
Confidando sul fatto che almeno questo principio non sarebbe
stato messo in discussione, Rossano affrontò l'ultimo gradino della
rampa, svoltò a destra per raggiungere la sala del consiglio di guerra e
trasalì, quando una figura uscì all'improvviso da una nicchia piena
d'ombra e gli si parò davanti.
Rossano portò d'istinto la mano alla spada, ma quando riconobbe
la persona che era apparsa dal nulla s'immobilizzò, senza sapere se
essere più sorpreso o più contento.

«Madonna Angelica» disse, inchinandosi con deferenza.


«Perdonatemi, non vi avevo vista.» Angelica Concesa fece un passo
avanti, entrando in piena luce, e lui si sentì ancora una volta mancare
il fiato, quando constatò quanto fosse bella e quanto fosse intenso il
colore dei suoi occhi.
«Perdonatemi voi, comandante» disse la giovane con il volto
contratto. Rossano si accorse solo in quel momento che aveva
un'espressione spaventata, e si stringeva le mani appena sotto il seno
con un nervosismo che lui non le aveva mai visto. Angelica continuò:
«So che vi state recando alla riunione indetta da mio padre. Posso
chiedervi solo qualche istante, prima che andiate?».
Nonostante l'urgenza che lo angustiava, Rossano si rese conto che
l'idea di potersi appartare con Angelica per qualche minuto gli faceva
accelerare i battiti del cuore.
Negli ultimi tempi non aveva visto spesso la contessina, impegnato
soprattutto ad addestrare i suoi uomini e a tenere a bada le smancerie
di Verusca, la dama di compagnia di Angelica che non nascondeva di
avere un debole per lui. Quella ragazza era molto carina, e il suo
atteggiamento provocatorio e sensuale aveva acceso più di una volta il
desiderio in Rossano, ma ogni volta che incontrava lo sguardo di
Angelica, seppure di sfuggita, si rendeva conto che non c'era
nessun'altra che volesse davvero, oltre a lei.
L'impresa sembrava impossibile, anche perché Rossano aveva
avuto l'impressione che Venanzio da Urbino corteggiasse
ostentatamente Angelica, con il consenso del console stesso, ma giorno
dopo giorno si era reso conto, con uno strano miscuglio di
soddisfazione e di perplessità, che la contessina non solo non dava
corda a Venanzio, ma anzi lo respingeva in modo sempre più aperto e
deciso, provocando anche l'imbarazzo del delegato pontificio.
Ecco perché aveva ricominciato a sperare, anche se non riusciva a
capire come avrebbe potuto fare per avvicinare Angelica Concesa e
rivolgersi a lei con quella spontanea naturalezza con cui avevano
chiacchierato a Milano.
Così non poteva credere che adesso fosse lei a chiedergli di
appartarsi per poter parlare lontano da occhi indiscreti. Con il cuore in
gola per l'emozione, Rossano la seguì lungo un breve corridoio, e poi
in una stanza a cui Angelica ebbe accesso grazie a una chiave che
portava appesa al collo.
Quando si trovò dall'altra parte, Rossano scoprì con sorpresa che si
trattava di una camera da letto. Era piccola, ma addobbata con gusto
ed eleganza da una mano femminile, come potevano confermare i
broccati alle finestre e i tappeti distribuiti un po' ovunque.
Quasi certamente, si trattava dell'alloggio privato di Angelica.
«Allora è così, comandante? Stiamo per entrare in guerra?»
Mentre gli rivolgeva la domanda, Angelica aveva sgranato gli occhi e
giunto le mani sul petto, e se non avesse avuto l'urgenza di raggiungere
gli altri notabili della città in quello che sarebbe stato un agitato
consiglio di guerra, Rossano avrebbe dimenticato il mondo e si
sarebbe convinto di trovarsi in Paradiso, al cospetto della più radiosa
delle creature.
Invece, cercò di tenere sotto controllo l'emozione e annuì con
severità, perché sapeva che le preoccupazioni di Angelica erano
fondate.
«Sì, madonna» rispose. «Purtroppo l'esercito imperiale sta per
arrivare alle porte di Alessandria. Dobbiamo prepararci all'assedio,
sperando che l'imperatore non abbia portato con sé nuove e devastanti
macchine da guerra con cui aprirsi un varco nei bastioni.» Angelica si
portò una mano alla bocca, spaventata, ma quel gesto ebbe il potere di
sciogliere ancora di più il cuore di Rossano, che dovette fare uno sforzo
per costringersi a non aprire le braccia e stringere a sé la giovane in un
abbraccio protettivo.
"Voi non avrete nulla da temere, perché vi proteggerò a costo della
vita" avrebbe voluto dirle, ma ricordò che lei non aveva mai espresso
alcun interesse nei suoi confronti, a parte quella prima volta a Milano,
in cui lui si era illuso di avere fatto colpo sulla giovane contessina.
«Non temete» le disse, scegliendo con attenzione le parole perché
non ci fossero malintesi, «la guarnigione ha ricevuto un ottimo
addestramento, e adesso è pronta ad affrontare il nemico.» «Ma siete
certo che il Barbarossa attaccherà la città?» chiese
Angelica, con l'aria sperduta e fragile di un cerbiatto attorniato da
lupi famelici.
«I nostri esploratori ci hanno confermato che stanno dirigendo da
questa parte» confermò Rossano. «E non credo che l'imperatore
passerebbe oltre, correndo il rischio di lasciare una simile testa di
ponte alle spalle del suo esercito.» Fece una pausa, poi si decise a dirle
la verità: «Credo che non se ne andranno fino a quando non avranno
conquistato Alessandria e raso al suolo ogni singolo edificio, per
dimostrare la potenza dell'Impero e lanciare un monito a chiunque
cercherà di contrastarne l'avanzata».
Angelica si lasciò scappare un gemito e lo guardò disperata.
«Allora siamo perduti» mormorò.
Rossano questa volta non riuscì a trattenersi: allargò le braccia e
offrì ad Angelica un cantuccio in cui potersi rannicchiare, per cercare
conforto. Sapeva che era una mossa azzardata, e che lei avrebbe potuto
equivocare, ma quando Angelica si tuffò tra le sue braccia senza
esitare, appoggiando la testa contro il suo petto, si sentì inondare dal
sollievo.
Angelica tremava leggermente, e lui la strinse piano, cercando di
darle conforto. Poi, all'improvviso, lei si districò dalle sue braccia con
un brivido.
«Mi dispiace» disse imbarazzata. «Non volevo approfittare di voi.»
Rossano cercò di sembrare tranquillo e disse: «È mio dovere
proteggervi, madonna».
La battuta riuscì a strappare un sorriso ad Angelica, che smise di
tremare.
«Quindi secondo voi abbiamo una speranza di riuscire a
resistere?» chiese con uno strano tono, come se in realtà non fosse
quello il suo vero interesse.
Sorpreso dal suo strano atteggiamento, Rossano rispose:
«Abbiamo una possibilità, sì. Le mura sono robuste, gli uomini bene
addestrati. Se ci limiteremo a difenderci e non ci lanceremo in inutili
atti di coraggio, allora non sarà facile per il Barbarossa penetrare in
città».
Mentre parlava, Rossano si rese conto che aveva espresso il suo
principale timore, ovvero che qualcuno cercasse di approfittare della
situazione per compiere qualche assurda sortita contro l'esercito
imperiale, forse per dimostrare soltanto il propri^ ardimento, senza
tenere in considerazione le esigenze della città.
Ricordava che diverse fortezze erano state conquistate proprio a
seguito di azioni del genere, quando qualche cavaliere particolarmente
borioso aveva ordinato di aprire le porte e si era scagliato all'esterno
con i suoi uomini, per sfidare apertamente il nemico e cercare di
rientrare in città dopo avere raccolto un po' di gloria.
Con quella imprudenza avevano ottenuto solo di concedere uno
spiraglio alle forze nemiche per infilarsi in città, e da lì dilagare senza
più ostacoli.
Rossano avrebbe impedito che una cosa del genere accadesse ad
Alessandria.
«Ne sono sollevata» disse Angelica tirando un sospiro. «So che
siete un buon comandante, e quindi sono lieta di poter contare sulla
vostra protezione.» Rossano restò sorpreso ma anche molto deliziato
da quell'affermazione, e si inchinò leggermente per nascondere il
rossore che doveva avergli imporporato il viso.
«Mi auguro che vorrete vegliare anche su di me, oltre che sulla
vostra Verusca» continuò Angelica distogliendo lo sguardo.
Rossano si accigliò. «Verusca?» chiese senza capire. «La vostra
dama di compagnia?» «Naturalmente» rispose Angelica. «Lo sanno
tutti che fra voi e Verusca...» «Fra me e Verusca non c'è assolutamente
niente» la interruppe Rossano, con più impeto di quanto avrebbe
voluto. «E se dovessi offrire il mio corpo per fare da scudo a qualcuna,
lo offrirei a voi, non certo alla vostra dama di compagnia.» Per un
istante ci fu silenzio. Rossano si rese conto solo dopo del significato di
quello che aveva detto, e dunque restò in attesa di una reazione da
parte di Angelica trattenendo il fiato. Lei lo fissava con un'espressione
a metà fra la sorpresa e il compiacimento, e quando alla fine stirò le
labbra in un sorriso, arrossendo a sua volta d'imbarazzo, Rossano
comprese che fra loro due la magia del primo incontro a Milano era
miracolosamente ricomparsa.
«Davvero fareste questo per me?» chiese Angelica guardandolo con
un'espressione suadente e provocante.
«Posso giurarlo, madonna» rispose Rossano, sentendo galoppare il
cuore come durante una carica di cavalleria.

All'improvviso, spinti al medesimo istante da uno stesso impulso,


si mossero l'uno verso l'altra e si abbracciarono. Si tennero stretti per
qualche istante, come se non credessero a quello che stava
succedendo, poi si staccarono leggermente e Rossano baciò Angelica
sulle labbra, beandosi della loro morbidezza.
«Che sciocca sono stata» gli disse lei quando, dopo un tempo che a
Rossano parve meravigliosamente lungo, si allontanarono l'uno
dall'altra. «Per tutto questo tempo ho creduto che tu fossi interessato a
Verusca.» Rossano si sentiva girare la testa, ed era così felice da avere
quasi dimenticato il consiglio di guerra a cui era atteso.
«Verusca?» disse confuso. «Assolutamente no! Fin dal momento in
cui mi hai rivolto la parola, quel giorno a Milano, non ho fatto che
pensare a te.» Lei gli si strinse ancora addosso, felice e radiosa come
non l'aveva mai vista.
«Non credevo che anche tu...» iniziò a dire Rossano. Poi finse di
accigliarsi e la guardò nei magnifici occhi verdi. «E Venanzio da
Urbino? Che cosa mi dici di quel gaglioffo con cui facevi la
sdolcinata?» Angelica scoppiò a ridere. «Lo facevo solo per farti
ingelosire!» confessò, e Rossano la vide così bella che avrebbe potuto
credere a qualsiasi cosa lei gli avesse detto.
Le prese il viso fra le mani, e lentamente l'attirò a sé. Questa volta,
il bacio che si scambiarono non era solo delizioso, ma permeato da una
carica così sensuale che Rossano ebbe l'impulso di sollevarla fra le
braccia e gettarla sul letto, per poi lanciarsi su di lei. Comprese che lei
non avrebbe opposto resistenza, se ci avesse provato, anzi la luce che
aveva negli occhi gli palesava quanto desiderasse fare all'amore con
lui, ma con un sussulto si bloccò, allontanandosi di un passo da lei.
«Che succede?» gli chiese Angelica.
«Tuo padre» disse Rossano, accigliato. «Non accetterà mai che io ti
faccia la corte.» Lei gli gettò le braccia al collo e lo baciò sul naso,
sollevandosi sulle punte dei piedi.
«A mio padre lascia che ci pensi io» disse con un sorriso
malandrino. «Ti assicuro che so come convincerlo a fare ciò che
voglio.»
Rossano si sentì sommergere da un senso di sollievo. Poi si irrigidì
ancora.
«Se non vado al consiglio di guerra, però» ribatté, «mi sbatterà
fuori dalla guarnigione prima che il Barbarossa sia qui.» Angelica si
illuminò. «Potrei venire con te!» Rossano scosse la testa divertito.
«Stavo scherzando. Il mio incarico è sovrintendere alle difese
cittadine, e tu sei la figlia del console. Non possiamo andarcene.» Lei
si rabbuiò, poi annuì come una scolaretta a cui avessero chiesto di
mettersi a studiare un brano in latino. Rossano la trovò deliziosa.
«Adesso devo andare» le disse, prendendole entrambe le mani.
«Tu mi aspetterai qui?» «Sì» rispose lei, con i grandi occhi verdi
sgranati che contenevano tutta la promessa del suo amore.
Quasi senza poter credere a quello che stava succedendo, Rossano
la baciò ancora, poi uscì dalla stanza premurandosi di verificare che
non ci fosse nessuno che potesse vederlo.
7
Rodolfo Concesa vestiva in maniera elegante, come sempre, forse
persino eccessivamente raffinata, visto l'argomento della riunione.
Accanto a lui, dietro al lungo tavolo di legno formato da un unico,
enorme piano di quercia sostenuto da sei gambe a incrocio, sedeva
Venanzio da Urbino, con la giubba a due colori su cui spiccavano le
araldiche papali e l'aria annoiata di chi crede che quel genere di
incontri sia solo tempo sprecato.
A sorpresa, il terzo uomo presente era il marchese Obizzo di
Malaspina, che Rossano non aveva visto arrivare in città, e che non
immaginava avrebbe dato il suo contributo alla difesa di Alessandria.
«Finalmente siete arrivato» commentò brusco il console,
scoccandogli un'occhiata di fuoco. Poi indicò una pergamena distesa
sul tavolo che raffigurava molto schematicamente il perimetro della
cinta muraria e tutti gli ingressi in città, oltre alle motte difensive e ai
punti strategici in cui erano stati piazzati i calderoni per l'olio bollente.
«Stavamo cercando di fare il punto sulle difese della piazzaforte, e sui
punti deboli che il nemico potrebbe prendere d'assalto.» Rossano
annuì. Era in imbarazzo per il suo ritardo, ma sapeva che il conte non
era uomo che gradisse le giustificazioni a posteriori, e quindi preferì
restarsene zitto e concentrarsi sul disegno dei bastioni di Alessandria.
Aveva già avuto modo di vedere quella mappa, che era stata vergata
sulla pergamena dai frati amanuensi sulla base delle indicazioni dei
mastri costruttori che avevano eretto la città.
Accanto a ogni torretta di guardia, motta, ponte levatoio o
merlatura, i frati avevano scritto con la loro calligrafia elaborata le
descrizioni degli elementi di difesa su cui poteva contare la fortezza,
anche se avevano usato il latino, che Rossano non conosceva e che
quindi era stato costretto a farsi tradurre da padre Adriano, il
sacerdote della guarnigione che diceva messa nella cappella militare.
Era così venuto a conoscenza di ogni segreto, dei punti forti dei
bastioni ma anche di quelli più deboli, per i quali aveva già organizzato
una difesa adeguata.
«Credo di conoscere molto bene la situazione» disse, avvicinandosi
al tavolo. «Tutto sommato, sono convinto che al momento Alessandria
non abbia un vero tallone d'Achille, anche se ci sono diversi punti che
meritano maggiore attenzione e che ho già provveduto a rinforzare.»
«Dove, per esempio?» chiese sorpreso Rodolfo Concesa.
Rossano allungò un dito e lo picchiò su un paio di punti a ovest dei
bastioni, dove le mura si assottigliavano per dare spazio alla motta
fortificata d'ingresso in città.
«I costruttori non avevano previsto che ci sarebbe stato un fossato
di difesa esterno» spiegò. «Come vedete, il disegno è stato ritoccato in
seguito, tant'è che le descrizioni del fossato sono in un inchiostro e in
una calligrafia diversi da quelli del resto della mappa.» Si chinarono
tutti sul tavolo per osservare meglio, e Rossano studiò le loro
espressioni.
Venanzio accennò un mezzo sorriso di scherno, come se quel
problema non lo riguardasse, e scosse la testa divertito, senza fare
commenti. Rodolfo Concesa e il Marchese di Malaspina si
scambiarono invece un'occhiata perplessa, consapevoli di non avere
avuto il benché minimo sospetto di quel problema.

«Dunque è qui che si concentreranno gli attacchi del nemico?»


chiese Obizzo rivolgendosi a Rossano.
«Se i generali imperiali possiedono una mappa come questa, allora
direi di sì» rispose Rossano. «Ma non credo che siano a conoscenza
delle difese della città. Anzi, da quello che sappiamo non erano a
conoscenza neppure dell'esistenza della stessa Alessandria, fino a
qualche giorno fa.» «Quindi pensate che potrebbero non accorgersi di
questo punto debole nella nostra difesa?» chiese Rodolfo Concesa.
Rossano si strinse nelle spalle.
«Qualche tempo fa mi sono spinto a cavallo fino alla catena di
colline a monte del Tanaro, e ho cercato di capire se da quella distanza
sarebbe stato possibile rendersi conto dell'errore commesso da chi ha
progettato in seguito la motta, scavando il fossato che ha indebolito i
bastioni.» Tacque un istante, e quando comprese che erano tutti in
attesa che continuasse, scosse appena la testa e disse: «Non sono
riuscito a notare nulla di strano, anche se non sono un mastro
costruttore e dunque non ho la loro esperienza nel giudicare la
consistenza di un bastione difensivo».
Venanzio da Urbino sventolò una mano in aria con fare annoiato.
«L'imperatore Barbarossa dispone dei più abili genieri militari»
ricordò loro. «Dovremmo dare per scontato che siano in grado di
individuare quei punti deboli e concentrare lì gli sforzi dell'assedio.»
«E quello che ho pensato anch'io» annuì Rossano, facendo comparire
una smorfia infastidita sulle labbra di Venanzio.
«Per questo ho predisposto un sistema di calderoni mobili per
l'olio bollente che possono essere riforniti grazie a un argano
trasportabile. E sempre in quel punto ho fatto predisporre dai miei
uomini delle impalcature di sostegno al cerchio di mura più interno,
che dovrebbe essere il più debole, in modo da rinforzare la capacità di
resistenza ai colpi di trabucco.» «Ottimo» grugnì il conte mentre
Obizzo di Malaspina lanciava una strana occhiata a Rossano, che lui
interpretò a mezzo tra il compiaciuto e il sorpreso. Forse il marchese
non era mai stato del tutto convinto delle sue capacità, e adesso quella
dimostrazione di competenza l'aveva piacevolmente colto di sorpresa.

«In ogni caso» intervenne Venanzio da Urbino, «sono sicuro che


tutte queste strategie difensive risulteranno inutili, se non facciamo in
modo di colpire l'esercito imperiale prima che predisponga l'assedio.»
«Che cosa volete dire?» gli chiese il console sorpreso. Rossano scrutò
Venanzio cercando di capire se stesse facendo semplicemente il
gradasso o fosse davvero convinto della sciocchezza che aveva detto.
Il delegato pontificio si alzò in piedi, aggirò il tavolo e andò a
picchiare il dito proprio sul punto che rappresentava il corso del
Tanaro, all'altezza dell'unico guado percorribile in tutta la valle.
«Passeranno di qui» disse, ostentando una sicurezza che a Rossano
parve sfrontata. «E quando saranno a metà del guado diventeranno
vulnerabili. Se predisponiamo i nostri arcieri e balestrieri nei punti
adatti, proteggendoli con barriere di legno e scudi, sono sicuro che
riusciremo a infliggere ingenti perdite a Sua Maestà e al suo potente
esercito.» Quando Venanzio tacque, nessuno ebbe nulla da ribattere.
Persino Rossano restò qualche secondo a considerare quella
suggestiva ipotesi, poi scosse la testa con decisione.
«No» disse, «non è una tattica praticabile.» «Davvero?» chiese
Venanzio divertito. «E perché mai? Ho visto eserciti all'apparenza
invincibili venire sbaragliati come niente, in una situazione del genere.
Non è facile guadare un fiume, soprattutto quando si devono
trasportare macchine da guerra. E se riusciamo a decimare l'esercito di
Federico, otterremo una duplice vittoria: da un punto di vista militare
ma anche morale.» «In effetti non mi pare una strategia del tutto
sbagliata» intervenne Rodolfo Concesa senza staccare gli occhi dalla
mappa.
«Consentitemi di dissentire» ribatté Rossano. «La nostra
guarnigione dispone al massimo di cinquanta fra arcieri e balestrieri, e
nessuno di loro è addestrato per combattere su terreno aperto. Gli
abbiamo insegnato a essere potenti e rapidi nel tiro dall'interno delle
mura o dagli spalti, e in una situazione come quella prospettata da
Venanzio da Urbino non potrebbero arrecare alcun danno all'esercito
imperiale.» «Cinquanta arcieri?» chiese Obizzo di Malaspina sorpreso.
«Sono solo queste le forze su cui possiamo contare?»
«Sì, Eccellenza» rispose Rossano. Poi lanciò un'occhiata di traverso
a Venanzio. «Credevamo che Sua Santità Alessandro III avrebbe
contribuito a rafforzare le difese cittadine, ma così non è stato.» «Non
pensavo che la situazione fosse tanto tragica» grugnì Rodolfo Concesa
con una smorfia.
«Non lo è, infatti» affermò Rossano. «A patto di usare le nostre
forze nel modo in cui le ho predisposte, seguendo rigorosamente le
procedure di difesa a porte sbarrate.» «Sciocchezze» provò a
interloquire Venanzio con sufficienza. «Datemi quegli arcieri e io vi
dimostrerò che sarà possibile fiaccare abbastanza il nemico da indurlo
a girare al largo da Alessandria.» Rossano strinse i denti cercando di
imporsi la calma.
«Dobbiamo restare al riparo delle mura» spiegò, mostrando
apertamente che le parole di Venanzio non avevano alcun valore, per
lui. «E sfruttare le difese dei bastioni per resistere il più possibile e
infliggere il maggior numero di perdite al nemico.» Piantò gli occhi in
quelli annoiati di Venanzio e continuò: «Il nostro compito non è
sconfiggere il Barbarossa, cosa che sarebbe assolutamente impossibile,
ma tenerlo impegnato il più a lungo possibile».
«Questo non significa che non si possa indebolirlo un po'» protestò
Venanzio, cambiando all'improvviso tattica. «Anzi, fiaccare l'esercito
imperiale potrebbe essere una buona mossa per indurlo a infuriarsi
contro di noi e costringerlo a impegnarsi in un lungo assedio, anche se
a ranghi ridotti. Due obiettivi in uno, insomma.» Rossano fece per
ribattere ancora, ma Rodolfo Concesa lo fermò alzando una mano.
«Quali potrebbero essere le conseguenze di una tattica come quella
proposta dal delegato pontificio?» chiese.
Rossano ci pensò su un attimo, poi rispose convinto: «Nessuno dei
nostri arcieri sopravviverebbe». Quando vide che Venanzio infuriato
cercava di protestare, continuò: «L'esercito imperiale è famoso per due
cose: la potenza della cavalleria pesante e l'efficacia dei suoi arcieri e
balestrieri, quasi tutti genovesi e fiamminghi. I nostri cinquanta
uomini, per quanto Protetti da barriere trasportabili di legno e dai
pavesi, verrebbero letteralmente sommersi da una pioggia di frecce e
dardi, se si avvicinassero a distanza di tiro». Fissò Venanzio da Urbino
mentre si rivolgeva a Concesa e a Malaspina. «Avete mai visto l'effetto
del tiro a raffica di migliaia di arcieri imperiali? Niente può
sopravvivere.» «Se è così, allora siamo perduti comunque» sbuffò
Venanzio.
«Che cosa impedirà a quei formidabili arcieri di sommergere
l'intera Alessandria sotto le loro frecce?» «Dietro i bastioni saremo
protetti» rispose Rossano, comprendendo di avere messo Venanzio
con le spalle al muro. «Tutti i tetti e le pareti delle case sono stati
calafati con fango secco, in modo che il fuoco non possa attecchire. Per
di più, crediamo che il tempo potrebbe giocare a nostro favore: fa già
molto freddo, e più ci addentreremo nell'inverno, più ci sarà la
possibilità di trarre vantaggio da neve e gelate che metterebbero al
sicuro le costruzioni dai proietti incendiari. Oltre a questo, ho fatto
predisporre tettoie di difesa su tutti i camminamenti e su buona parte
degli spalti, oltre che sopra i punti in cui predisporremo i calderoni per
l'olio e la pece bollente. I nostri balestrieri e arcieri potranno tirare
restandosene al coperto, guidati dalle vedette sugli spalti. In questo
modo, riusciremo ad annullare quasi del tutto la potenza di lancio del
nemico.» Rossano tacque e prese respiro, accorgendosi solo in quel
momento di avere fatto tutta una tirata, forse per non lasciare il tempo
a Venanzio di intervenire.
Rodolfo Concesa e Obizzo di Malaspina lo guardarono annuendo,
si scambiarono un'occhiata quindi presero la loro decisione.
«Molto bene» disse il console, sancendo la conclusione del
consiglio di guerra, «procederemo come indicato dal comandante
Rossano. Aggiornateci al più presto sulla situazione della difesa
cittadina, e non abbiate timore a chiederci qualsiasi cosa.» Rossano
annuì con un leggero inchino, mentre Venanzio se ne andava
mostrando un'espressione stizzita. In realtà, sapeva che il delegato
pontificio non avrebbe mai voluto attuare sul serio la sua tattica,
soprattutto se gli fosse stato chiesto di coordinarla direttamente.
Aveva solo voluto mettere i bastoni fra le ruote a Rossano, forse per
screditarlo di fronte ai due nobiluomini, ma la sua tattica gli si era
ritorta contro.

Prima di lasciare a sua volta la sala, Rossano fu attraversato da un


pensiero. Aspettò che anche Obizzo di Malaspina fosse uscito, poi
fermò il conte Concesa e gli disse: «Eccellenza, credo che dovreste
insistere con Venanzio da Urbino perché solleciti Sua Santità a
mandarci i millecinquecento uomini che aveva promesso.
Sarebbero...».
«Quegli uomini non arriveranno mai perché non sono mai esistiti»
lo interruppe Concesa. Fece un sorriso amareggiato e appoggiò una
mano sul braccio di Rossano. «Siete un ottimo soldato, comandante,
ma politicamente parlando mi sembrate molto ingenuo. Nessuno di
noi si aspettava che Alessandro III inviasse davvero un aiuto militare.»
«Ma...» provò a dire Rossano.
«Non può farlo» lo interruppe ancora Concesa. «In caso contrario,
sancirebbe il suo pieno appoggio alla Lega Lombarda contro
l'imperatore. Così, invece, può combattere il Barbarossa, e nel
frattempo muovere le sue pedine in modo da continuare a intrattenere
rapporti segreti con l'imperatore e discutere con lui dei delicati
equilibri politici che questa guerra potrebbe alterare in modo
significativo.» Rossano fece per ribattere ancora, ma si rese conto che
quelle manovre politiche erano davvero al di là della sua
comprensione, così chiuse la bocca e annuì.
«Il Marchese di Malaspina sarà con noi?» chiese poi.
Rodolfo Concesa scosse la testa. «Partirà fra poco. Deve andare a
riferire al Consiglio dei Collegati.» Rossano chinò il capo, stringendo le
labbra, poi salutò il console e si allontanò dalla sala. Prima di correre a
verificare insieme a Tarcisio Bonassei gli ultimi lavori che aveva
commissionato ai carpentieri intorno alle mura cittadine, aveva
qualcosa di più urgente da fare. Facendo attenzione a non essere
seguito o osservato da alcuno, si diresse verso gli appartamenti privati
di Angelica, e con il cuore che gli rintronava nelle tempie bussò alla
sua porta, chiedendosi se gli avrebbe aperto o se il loro incontro di
qualche ora prima fosse stato solo un sogno.
Attese per qualche secondo, impaziente, poi la porta si aprì e il
sorriso sfolgorante di Angelica lo inondò di una luce così intensa da
farlo rabbrividire.
CAPITOLO SESTO

A.D. 1174
Città di Milano 1
I vessilli garrivano nel vento ghiacciato, e lo schioccare dei tessuti
con le insegne dei Comuni Lombardi causava un vero frastuono, che
incuteva soggezione a chi osservava lo schieramento di cavalieri
radunati nella piazza.
Egidio si sentiva attraversare da un brivido di eccitazione fin da
quando aveva saputo che Alberto da Giussano e i suoi indomabili
Cavalieri della Morte erano tornati a Milano, per consultarsi con gli
altri comandanti della Lega Lombarda e arruolare quanti più uomini
possibile nell'esercito che stavano mettendo insieme.
Aveva provato anche lui a offrirsi per entrare in qualcuna delle
compagnie che si stavano formando, ma gli era stato detto che era
troppo giovane, ed era stato allontanato nonostante le sue
esclamazioni di protesta. Quando era tornato quasi in lacrime da
padre Ariberto, questi gli aveva messo una mano sulla spalla,
comprensivo, e gli aveva spiegato che prima o poi sarebbe arrivato
anche il suo turno di combattere per il Signore e per la sua gente.
«Io voglio arruolarmi adesso!» aveva gridato in risposta Egidio. «Il
Barbarossa sta arrivando, servono tutti gli uomini validi.» «Ma è
proprio questo il punto» aveva sorriso padre Ariberto.
«Tu ancora non sei un uomo, e non puoi pretendere di crescere a
tuo piacimento. Lascia che la volontà di Dio segua la sua strada.»
Egidio non aveva ribattuto nulla. Ogni volta che iniziava una
discussione con padre Ariberto, sapeva che sarebbe sconfinata in
qualche frase fatta sulla volontà divina e sull'impossibilità degli
uomini di comprendere le infinite vie del Signore.
Da parte sua, sapeva che erano tutte scuse, un modo fin troppo
facile per districarsi dalle discussioni scomode. E poi, padre Ariberto
aveva ancora bisogno di lui per lavorare al Carroccio, e quindi era
chiaro che non avrebbe fatto nulla per aiutarlo a farsi arruolare.
Eppure, Egidio era convinto che un modo dovesse esserci.
Era giovane, certo, ma aveva visto spesso trombettieri e scudieri
della sua età seguire i loro signori in battaglia, tenendosi nelle retrovie
per non essere d'intralcio, ma potendo in quel modo imparare molto
sull'arte della guerra.
Tutti i comandanti con cui aveva cercato di parlare non lo avevano
degnato di attenzione, così Egidio aveva deciso di tentare un'ultima,
disperata mossa. Sapeva che Alberto da Giussano era un condottiero
tanto abile in battaglia quanto buono e giusto, e se lui fosse riuscito ad
avvicinarlo, anche solo per pochi istanti, era certo che sarebbe riuscito
a convincerlo a prenderlo con sé.
Così, stringendosi nella sua giacchetta di frustagno, aveva seguito
gli stendardi che garrivano nel vento e, mischiandosi alla folla eccitata
che seguiva la lunga fila di soldati a cavallo, era arrivato nella grande
piazza in cui Alberto da Giussano aveva fatto radunare la sua
Compagnia della Morte.
Trattenendo il fiato per la meraviglia, Egidio osservò gli enormi
corsieri da guerra montati da quei guerrieri imponenti, i volti duri,
decisi, dei Cavalieri della Morte, le loro giubbe di cuoio nero e le spade
legate al fianco, pronte a essere impugnate per fare scempio del
nemico. Di fronte a quello spettacolo Egidio dimenticò il freddo che
stringeva Milano in una morsa compatta, e smise persino di battere i
denti.
La Compagnia della Morte era lo squadrone di cavalieri più arditi
di tutta la Lega Lombarda, e forse del mondo intero. Aveva sentito
raccontare gesta incredibili riguardo a quegli uomini, che avevano
votato se stessi e la loro vita alle araldiche per cui combattevano, e che
niente avrebbe intimidito o convinto a battere in ritirata. Ognuno di
quegli uomini sarebbe stato disposto ad affrontare da solo tutto
l'esercito imperiale, senza il minimo cenno di paura, portando con sé,
prima di morire, così tanti nemici da meritare i massimi onori dopo la
sua morte persino dall'avversario.
Egidio avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di poter entrare a far parte
della Compagnia della Morte, ma sapeva che per il momento non
aveva alcuna speranza. Alberto da Giussano selezionava
scrupolosamente i suoi uomini, e li sceglieva solo fra i guerrieri più
forti e valorosi che dimostravano la loro lealtà e il loro valore.
Però, si disse cercando di farsi coraggio mentre scivolava attraverso
la folla, forse il grande condottiero l'avrebbe preso nella Compagnia
come scudiero, o come trombettiere, oppure affidandogli qualsiasi
altra incombenza avesse voluto, e lui l'avrebbe accettata senza battere
ciglio.
Stava pensando ancora a questo, con un misto di eccitazione e di
timore, all'idea di doversi confrontare con Alberto da Giussano in
persona, quando si sentì afferrare per la collottola e strattonare
bruscamente all'indietro.
«Dove credi di andare, ragazzo?» lo apostrofò una voce, ed Egidio
si voltò sorpreso.
Padre Ariberto lo sovrastava, esibendo una grinta che lui non gli
aveva mai visto.
«Lasciatemi stare» protestò Egidio. «Voi non siete mio padre.»
«Ah, ma posso portarti da lui di peso e spiegargli quello che stavi
facendo» ribatté il prete. «Hai idea di come reagirebbe?» Egidio si
sentì travolgere dal panico. Suo padre non era uomo a cui fosse
possibile spiegare le sue aspirazioni. Più che le parole era abituato a
usare le mani, e lui sapeva perfettamente come sarebbe andata a
finire, se padre Ariberto avesse vuotato il sacco.
«Non gli direte niente, vero?» implorò, cambiando
immediatamente atteggiamento Padre Ariberto sembrò ammorbidirsi
e aprì un mezzo sorriso.
«Sei proprio deciso a unirti a quei guerrieri, vero?» gli disse,
accennando con il mento ai cavalieri che invadevano la piazza.
Dall'alto, qualche solitario fiocco di neve cominciò a scendere
leggero.

Egidio annuì, anche se sapeva che quell'ammissione sarebbe


servita solo a far divertire padre Ariberto e a dargli un ulteriore motivo
per deriderlo.
Invece, sorprendentemente, il prete strinse gli occhi, assumendo
un'espressione assorta.
«In realtà, credo che non dispiacerebbe neppure a me unirmi ad
Alberto da Giussano» disse, facendo quasi sobbalzare Egidio per la
sorpresa.
«State dicendo sul serio?» chiese trattenendo il fiato.
Padre Ariberto incrociò le braccia sul petto.
«Mi hai mai sentito mentire, ragazzo?» chiese. «E poi, sono
convinto che i nostri soldati potrebbero combattere molto meglio e con
più fortuna, se beneficiassero dell'appoggio di Nostro Signore.» «Che
cosa intendete fare?» gli chiese Egidio, che non stava più nella pelle.
«Credo di sapere come convincere Alberto da Giussano a prenderci
con lui» rispose il prete con uno strano sorriso.
«Come?» esclamò Egidio eccitato.
«Te lo spiegherò più tardi» rispose padre Ariberto. «Adesso, però,
cerchiamo di avvicinarci un po' di più. Voglio sentire cos'ha da dire il
nostro prode condottiero.» Ancora stordito dal modo inaspettato con
cui padre Ariberto aveva reagito alla sua ossessione, Egidio seguì il
prete nel varco che questi si apriva attraverso la folla, e in breve tempo
arrivarono in un punto da cui era possibile osservare quello che stava
succedendo nella piazza.
Alberto da Giussano era lì, in sella al suo destriero, e si rivolgeva
con voce tonante ai suoi uomini e a gran parte della città di Milano che
si era riversata nella piazza e nelle strade limitrofe, mentre la neve
cominciava a posarsi sulla sua magnifica giubba nera.
«Abbiamo bisogno di tutti gli uomini abili e coraggiosi» ripetè
ancora una volta Alberto da Giussano, mentre la folla, trascinata
dall'ardore delle sue parole e dalla forza che tutta la sua figura
esprimeva, lo acclamava e gridava il proprio consenso.
«Ci servite tutti, perché l'usurpatore è ormai alle porte, e noi lo
ricacceremo nella sua terra fetida, da dove non avrà mai più il coraggio
di uscire!»
Mille mani si sollevarono, mille bocche lasciarono erompere grida
di giubilo. Egidio vide sorpreso che persino le donne cercavano di
attirare l'attenzione del condottiero, quasi fossero pronte a impugnare
una spada e a seguirlo sui campi di battaglia.
«Un oratore formidabile» annuì padre Ariberto compiaciuto.
«Sono sorpreso che ancora non sia riuscito a mettere insieme il più
grande esercito che si sia mai visto.» «Siamo rimasti in pochi» grugnì
Egidio. «Voglio dire, gli uomini validi, quelli davvero capaci di
combattere.» Padre Ariberto lo guardò sollevando un sopracciglio.
«E tu saresti fra questi?» chiese con una leggera aria di scherno.
Egidio avvampò di collera e di vergogna, ma non ribatté nulla,
perché sapeva che il prete aveva ragione. Era ancora troppo giovane
perché Alberto da Giussano potesse prenderlo sotto il suo comando.
«Avevate detto che sapevate come fare per farci arruolare» sibilò.
«Vi siete già rimangiato la parola?» «Non essere troppo frettoloso e
troppo aggressivo, ragazzo» lo redarguì padre Ariberto. «Risparmia le
tue energie per quando arriverà il momento.» «Che cosa intendete
fare» chiese Egidio mentre un altro boato saliva dalla folla, in risposta
a un grido di battaglia lanciato da Alberto da Giussano e dai suoi
cavalieri.
«Seguimi» rispose padre Ariberto. «Dobbiamo sistemare alcune
cose, prima di affrontare il grande condottiero.» Egidio sgranò gli
occhi, mentre si metteva all'inseguimento del prete, che aveva fatto
dietro front e si stava allontanando a gran velocità.
«Intendete davvero andare a parlarci? E come pensate che possa
accettare di ascoltarvi? Come facciamo a convincerlo a prenderci con
lui?» «Pensavo che l'avessi già capito, mio focoso amico» rispose
divertito padre Ariberto. Egidio ebbe l'impulso di chiedere ancora
spiegazioni, ma si rese conto che sarebbe stato inutile: quando padre
Ariberto decideva di fare il misterioso, non c'era nulla che potesse
convincerlo a desistere. Molto meglio seguirlo e scoprire che cosa
aveva in mente.

Alla testa del corteo di cavalieri procedeva il comandante delle


guardie personali di Alberto da Giussano. Come gli altri uomini della
Compagnia della Morte indossava una giubba di cuoio nero e spallacci
rinforzati, ma niente cotta di maglia ferrata, per non intralciare
l'agilità di movimento durante la cavalcata e il combattimento. Al
fianco portava una spada a una mano e mezza, e quello che sembrava
uno sfondagiaco, con il quale sarebbe stato facile penetrare anche nella
corazza più robusta. La neve gli si era accumulata sui capelli e sulle
spalle, ma l'uomo non sembrava farci caso.
Egidio osservò il cavaliere con un misto di invidia e di emozione,
cercando di immaginarsi al posto di quel valoroso guerriero, pronto a
dare la vita in qualsiasi momento, pur di difendere il suo comandante
e le araldiche per cui combatteva.
Alberto da Giussano procedeva poco più indietro, seduto con la
schiena dritta sul suo magnifico destriero, e pareva ancora più alto di
quanto in realtà non fosse, forse perché tutta la sua figura sprigionava
un'aura di forza e di possanza che lo faceva sembrare il cavaliere più
imponente che Egidio avesse mai visto.
Quando il cavallo del comandante del drappello d'avanguardia
raggiunse il punto stabilito, Egidio trattenne il fiato.
Non era del tutto sicuro che il piano di padre Ariberto avrebbe
funzionato, per quanto il prete avesse espresso la massima
tranquillità, mentre si adoperavano nei preparativi.
Per qualche minuto non successe nulla, ed Egidio temette che
all'ultimo istante l'eclettico prete con cui aveva stretto un singolare
rapporto di fiducia e di amicizia avesse deciso di tirarsi indietro, ma
poi ecco che all'improvviso nelle strade risuonò il rintocco di una
campana, che fece scartare i cavalli e costrinse i cavalieri a trattenere
gli animali tirando le redini.
«Che succede?» gridò uno degli uomini che circondavano Alberto
da Giussano, ma prima che qualcuno potesse rispondere la figura alta
e allampanata di padre Ariberto comparve da dietro un angolo e si
frappose alla Compagnia della Morte.
«Salute a voi, guerrieri di Nostro Signore. Che Dio sia con voi!»
Padre Ariberto aveva indossato i suoi paramenti più puliti, e aveva
sollevato le braccia al cielo mentre gridava il suo saluto.
Era un'apparizione che faceva impressione, dovette constatare
Egidio, tutto nero sullo sfondo bianco della neve che aveva ricoperto le
strade.
Il comandante dell'avanguardia, dopo avergli lanciato un'occhiata
piena di sospetto, rimise al passo il cavallo che sbuffava irrequieto e si
spinse in avanti, raggiungendo padre Ariberto.
«Chi sei?» gli chiese in tono brusco, mentre Alberto da Giussano,
fermo qualche decina di passi più indietro, osservava la scena in
silenzio.
Egidio vide che padre Ariberto mostrava un largo sorriso e
incrociava le braccia sul petto, e comprese che era arrivato il suo
momento. Corse via lasciando il prete che rispondeva al cavaliere con
tono bonario.
«Ho un dono per voi, miei gloriosi guerrieri. Un simbolo della
potenza di Dio e degli uomini che gli hanno giurato fedeltà in terra.»
Egidio svoltò in un paio di vicoli, fino a quando raggiunse il punto
convenuto. I buoi erano aggiogati, e lui balzò a cassetta impugnando le
lunghe briglie e il pungolo che gli sarebbe servito per spingere le bestie
a mettersi in cammino.
Non era riuscito a sentire la risposta del cavaliere all'offerta che gli
era stata fatta da padre Ariberto, ma sapeva che ben presto quegli
uomini avrebbero abbandonato ogni diffidenza nei loro confronti,
quando avessero visto quello che avevano preparato per loro.
«Facci largo, padre» ripetè il comandante dell'avanguardia,
spazientito. «Ti ringraziamo per l'appoggio che ci hai concesso, ma
adesso dobbiamo andare.» «Fatemi parlare con il vostro prode
condottiero» ribatté padre Ariberto continuando a sorridere fiducioso.
«Sono certo che lui non ignorerà il dono che la città di Milano intende
fargli.» Il cavaliere sbuffò impaziente, mentre il cavallo, sotto di lui,
dilatava le froge e calpestava la neve come se fosse pronto a partire alla
carica e travolgere padre Ariberto.
Prima che l'uomo potesse aggiungere qualcosa, si sentì un
frastuono provenire da una via laterale, e una pariglia di buoi
comparve avanzando lentamente verso di loro.

«Che diavolo succede?» ringhiò il cavaliere sfoderando la spada,


allarmato. Dietro di lui, altri cavalieri della Compagnia della Morte
brandirono gli spiedi e si predisposero a rispondere a un attacco, ma
padre Ariberto sollevò ancora le braccia al cielo e cercò di
tranquillizzarli.
«Non abbiate timore!» gridò. «Non si tratta di un'imboscata!
Questo è il nostro dono per il glorioso Alberto da Giussano!» Si
voltò a indicare i buoi che avanzavano nel fango, e quando una
seconda pariglia di buoi comparve dietro la prima, seguita dalla mole
imponente del Carroccio guidato da Egidio, tutti compresero che un
avvenimento straordinario stava per accadere.
«Un carro da battaglia» mormorò Alberto da Giussano osservando
sorpreso le grandi ruote ferrate e la struttura imponente, simile quasi
allo scafo di una nave su ruote, del carro che Egidio aveva guidato con
l'emozione che gli martellava nelle tempie al ritmo del battito del suo
cuore.
Lui e padre Ariberto avevano lavorato giorno e notte per diverse
settimane, prima di concludere che finalmente il Carroccio era a posto,
pronto a tornare sui campi di battaglia.
Egidio non aveva idea di come avrebbe fatto padre Ariberto a
sfruttare le potenzialità di quell'immenso carro da battaglia, ma non si
era mai posto il problema, perché aveva fiducia nel vecchio prete e gli
credeva, quando lui gli ripeteva che presto il Carroccio sarebbe tornato
ad assicurare la protezione della gloria di Dio ai loro soldati.
E quando, qualche ora prima, padre Ariberto gli aveva spiegato il
suo piano, non aveva potuto fare a meno di ammirare quel vecchio
prete, furbo e scaltro come una volpe. Avevano recuperato le pariglie
di buoi con una certa fatica, assicurando ai proprietari che sarebbero
stati ricompensati dieci volte tanto il loro valore, e dopo avere
trascinato il Carroccio fuori dalla chiesa in cui era rimasto per tanti
anni, avevano issato il pennone centrale, vi avevano legato i vessilli e le
araldiche della città e avevano predisposto tutto per poter tagliare la
strada al corteo guidato da Alberto da Giussano.
Se in un primo momento il comandante del drappello
all'avanguardia si era dimostrato diffidente, Egidio aveva esultato
quando aveva visto Alberto da Giussano staccarsi dal gruppo alla
retroguardia e affiancare padre Ariberto, osservando il Carroccio con
evidente sorpresa.
«Avete ragione, mio signore» rispose padre Ariberto compiaciuto.
«Questo è un carro da guerra. Ma non un carro come tanti. Si tratta
del Carroccio voluto dal vescovo Intimiano, che ha guidato gli eserciti
milanesi al trionfo in molte battaglie. La gloria di Dio Nostro Signore
ha voluto che risorgesse in occasione dell'impresa che state per
compiere, e noi siamo fieri di offrirlo al vostro comando, perché siamo
certi che grazie a esso l'esercito padano sarà ancora più forte e
imbattibile.» Alberto da Giussano non disse nulla, si limitò ad
ammirare il Carroccio con aria insieme sorpresa e soddisfatta, come se
lo ritenesse un buon segno per la sua impresa. Avrebbe dovuto opporsi
all'esercito imperiale, sulla cui forza nessuno aveva dubbi, e l'avrebbe
fatto con un numero esiguo di uomini, potendo contare solo sul valore
e sullo spirito di sacrificio di quei soldati disposti a dare la propria vita
per il sogno di libertà del loro paese.
Ma il Carroccio rappresentava qualcosa di veramente importante:
era il segnale che Dio era con loro, e avrebbe saputo infondere forza e
coraggio agli uomini che Alberto da Giussano avrebbe guidato in
battaglia.
Tutte queste considerazioni passarono sul volto del condottiero in
maniera così evidente che Egidio non ebbe dubbi su quello che il
comandante stava pensando.
Quando padre Ariberto gli fece un cenno, abbandonò le briglie dei
buoi e corse sul carro, dirigendosi verso il punto in cui riluceva la
Martinella, la campana che lui stesso aveva pulito e lucidato facendola
tornare all'antico splendore.
La suonò con forza, lasciando che i rintocchi potenti di quella
campana santificata si diffondessero su tutta Milano, e comprese che
padre Ariberto aveva scelto ancora una volta il momento migliore per
sorprendere Alberto da Giussano e i suoi uomini.
«Udite questo suono angelico, mio signore!» gridò il prete facendo
scorrere brividi di eccitazione sulla pelle di Egidio e, immaginò, anche
sui cavalieri della Compagnia della Morte che li osservavano. «Esso
chiama le anime di Dio a raccolta, e le sprona a combattere contro
l'invasore!» Alberto da Giussano sorrise e pose una mano sulla spalla
di Padre Ariberto.

«Sei un grande attore, padre» gli disse divertito. «E forse anche un


grande stratega. E io ti ringrazio per questo dono tanto imprevisto
quanto gradito. Il nostro esercito sarà ancora più forte, con questo
carro da guerra in appoggio alla fanteria.» «Noi saremmo onorati di
poter servire sotto il vostro comando» rispose padre Ariberto, mentre
Egidio non stava più nella pelle. «La potenza del Carroccio, la gloria di
Dio e l'ardimento della gioventù vi seguiranno ovunque voi vogliate.»
Alberto da Giussano scoppiò a ridere, poi fece un segnale ai suoi
uomini, che si rimisero in marcia.
«Per il momento aspettateci qui» disse a padre Ariberto.
«E lustrate ancora un po' quella campana. Quando arriverà il
momento, il Carroccio sarà alla testa dei nostri fanti, ve lo prometto.»
Padre Ariberto annuì con un inchino, poi si voltò e fece l'occhiolino a
Egidio, che per un momento credette di essere sul punto di svenire per
l'emozione.
Sarebbe andato in battaglia con Alberto da Giussano! E l'avrebbe
fatto al riparo delle murate prodigiose del Carroccio!
CAPITOLO SETTIMO

A.D. 1174
Città di Alessandria 1
Quando il primo lancio di catapulta del nemico compì un'alta
parabola nel cielo insanguinato dall'alba, Rossano lo seguì con
apprensione, mentre tutto intorno a lui gli uomini della guarnigione
correvano come formiche indaffarate su e giù per gli spalti, obbedendo
agli ordini dei capisquadra e andando a prendere posizione.
Accanto a lui c'erano Tarcisio Bonassei e uno dei suoi attendenti,
che reggeva le piccole bandierine colorate con le quali avrebbe
segnalato gli ordini di Rossano ai capitani di compagnia, che a loro
volta li avrebbero passati ai comandanti di squadra, giù fino all'ultimo
assistente di scuderia. In quel modo, un solo ordine poteva
raggiungere tutti gli uomini che componevano la guarnigione cittadina
nell'arco di pochi secondi, permettendo di reagire all'istante alle
situazioni di emergenza.
Mentre seguiva la traiettoria del grande masso lanciato per
calibrare la forza di tiro delle catapulte sistemate dai difensori di
Alessandria, Rossano cercò di comprendere ancora una volta, in un
solo colpo d'occhio, tutto l'esercito imperiale schierato nella valle.
Quando si era recato sugli spalti, alle prime luci dell'alba, aveva
trattenuto il fiato in attesa di poter valutare le forze di cui disponeva il
nemico, e quando aveva visto i fanti imperiali schierati ordinatamente,
le macchine da guerra già cariche di proietti e pronte a scagliare su
Alessandria tonnellate di pietre gigantesche, gli squadroni di cavalleria
predisposti sui rilievi della valle, si era sentito assalire dal timore. Era
stato solo un attimo, ma quella sensazione gli attanagliava ancora le
viscere.

«Sono più di quanti mi aspettassi» aveva commentato Tarcisio


accanto a lui.
Rossano aveva annuito senza dire niente, contemplando il
formidabile schieramento di uomini disseminato su tutta la valle.
Federico Barbarossa aveva portato con sé non solo le forze regolari
dell'esercito imperiale, ma decine di compagnie di mercenari
rastrellate ovunque fosse stato possibile. Gli stendardi, i vessilli che
garrivano nel vento erano così tanti che era pressoché impossibile
individuarli tutti, ma Rossano aveva riconosciuto compagnie di
picchieri di Berna, balestrieri guasconi e genovesi, arcieri fiamminghi
e un'infinità di squadroni di mercenari ungheresi, bulgari, bessarabi,
serbi e boemi.
Tarcisio aveva stimato che ci fossero diecimila uomini, disposti in
formazione da battaglia nella valle, a distanza di sicurezza dalle
catapulte della città, ma dopo il primo istante di angoscia Rossano
aveva recuperato il suo solito sangue freddo e aveva provato a valutare
le forze che il Barbarossa aveva messo in campo, giungendo alla
conclusione che in realtà erano state schierate in modo da apparire più
numerose. Cercando di essere ottimista, immaginò che non ci fossero
più di ottomila uomini, al comando dell'imperatore.
Il che era un'ottima notizia, per lui che avrebbe dovuto sostenerne
l'impatto durante l'assedio, e per l'esercito lombardo, che non si
sarebbe trovato davanti forze soverchianti. Alberto da Giussano
doveva aver già radunato qualche migliaio di uomini, che insieme alla
sua Compagnia della Morte avrebbero potuto opporsi al Barbarossa
con maggiore efficacia di quanto l'imperatore avesse immaginato,
soprattutto se Alessandria riusciva a resistere abbastanza a lungo e a
infliggere forti perdite all'esercito di Federico.
Con questo animo combattivo Rossano aveva assistito al primo
lancio di catapulta nemico, e adesso si sentiva pronto a coordinare la
difesa delle mura insieme a Tarcisio Bonassei e agli altri comandanti
di compagnia schierati lungo tutto il perimetro.
Quando il proietto si schiantò sulla città, colpendo un torrione di
avvistamento che svettava sui camminamenti occidentali dei bastioni,
Rossano e Tarcisio si scambiarono un'occhiata soddisfatta: la grossa
pietra si era frantumata in mille pezzi, senza arrecare alcun danno al
robusto torrione esagonale.
«Non vedo trabucchi» commentò soddisfatto Rossano, che sapeva
come quelle micidiali armi da guerra fossero troppo grandi e
ingombranti per essere trasportate. L'esercito imperiale aveva
preferito puntare sulle catapulte, che potevano scagliare solo proietti
più piccoli e da distanza minore, ma assicuravano maggiore
manovrabilità e facilità di spostamento. E questa era una fortuna,
perché nessuno avrebbe potuto giurare che i bastioni di Alessandria
sarebbero riusciti a resistere al lancio dei massi giganteschi che i
trabucchi erano in grado di far volare per distanze incredibili.
«Saranno costretti ad avvicinare prima del previsto le torri
semoventi» disse Tarcisio, dando un'occhiata alle squadre di arcieri
schierate sotto le tettoie rinforzate, con migliaia di frecce pronte in
grossi barilotti che fungevano da faretre di legno.
«Aspettiamo a mettere in posizione i balestrieri» annuì Rossano
soffiandosi aria calda nelle mani, mentre altri due proietti si alzavano
dalle macchine da guerra nemiche, diretti verso punti diversi dei
bastioni. Evidentemente, i generali imperiali volevano saggiare la
robustezza delle mura, prima di dare avvio alla gragnola vera e propria
di massi.
«Quanto materiale da lancio avranno a disposizione?» chiese
Tarcisio, che probabilmente stava seguendo lo stesso filo di pensieri di
Rossano. Indicò con il braccio la valle del Tanaro, sommersa da uno
strato di neve e ghiaccio. «Qua attorno non c'è granché per rifornirsi. I
miei uomini hanno frantumato tutte le pietre di una certa consistenza
che hanno trovato. Quei bastardi dovranno attingere alle scorte che
hanno portato dalla Germania.» «Non sottovalutare i genieri
imperiali» lo redarguì Rossano mentre i due proietti colpivano le
mura, facendo tremare i bastioni ma senza procurare danni evidenti.
«Sono sicuro che avranno già organizzato delle carovane di
approvvigionamento dalle montagne. Le Alpi non sono troppo
lontane, e là possono trovare tutto il materiale che vogliono.» Tarcisio
annuì, consapevole che Rossano aveva ragione.
«Faccio preparare le nostre catapulte e le baliste?» chiese.
«No» rispose Rossano. «Sarebbe inutile e rischioso. Non abbiamo
la gittata delle loro macchine da guerra, e se le montiamo adesso
rischiamo di esporle ai colpi del nemico.» Tarcisio parve confuso.
«Che possiamo fare, allora?» «Niente» disse Rossano. «Fino a
quando si limiteranno a lanciare da quella distanza possiamo solo
augurarci che le mura tengano. A quel punto, il Barbarossa si renderà
conto che non gli servirà a nulla continuare con questa tattica, e farà
avanzare l'esercito.» Tarcisio annuì ancora. «Allora comincerà il
divertimento» disse, con uno strano sorriso tirato sulle labbra.
Rossano non replicò nulla. Tornò a guardare oltre i merli dei
bastioni e seguì la traiettoria di un nugolo di altri proietti che si alzò
all'improvviso da tutto lo schieramento nemico.
Sapeva che quel martellamento di colpi sarebbe continuato per
parecchie ore ancora, fino a quando non fosse stato dimostrato al
Barbarossa e ai suoi generali che quelle enormi pietre non sarebbero
bastate ad aprire un varco nelle possenti mura di Alessandria.
All'improvviso ci fu un movimento convulso sugli spalti, alla sua
sinistra, e Rossano si girò accigliato. Stava per chiedere che cosa stesse
succedendo, quando una giovane staffetta arrivò di corsa e gli disse,
ansimando: «Mio signore, sono rientrate alcune vedette
dell'avanguardia. Hanno dovuto combattere, per riuscire a farsi largo
fino alla città, e alcuni di loro non ce l'hanno fatta. Uno è ferito
gravemente!».
Rossano si sentì stringere il cuore in una morsa di ghiaccio.
Valerio era una vedetta dell'avanguardia, ed era probabile che fosse
tornato dai suoi compagni, dopo essersi allontanato da Alessandria.
«Accompagnami da loro» ordinò, mentre si augurava che Valerio
non fosse fra le vedette che erano cadute nel tentativo di raggiungere
la città.
Erano tutti giovanissimi, ragazzini di massimo diciotto anni, ed
erano stati radunati nel piccolo ospitale ricavato accanto alla cappella
militare. La paglia sul pavimento era pulita, cambiata poco prima
dell'inizio dell'assedio, in previsione dei feriti che presto sarebbero
arrivati per farsi medicare o sistemare le ossa rotte. Oltre a padre
Adriano, c'erano due suore e Fidelio Giberti, il maniscalco.
Proprio il corpulento omaccione, aiutato da una delle suore, si
stava occupando del ragazzo ferito, che perdeva sangue dalla schiena e
gridava come un vitello a cui stessero per recidere la carotide.
Rossano entrò con affanno nel piccolo ospitale e cercò subito di
capire se il ragazzo era Valerio. Giaceva a faccia in giù, su un
improvvisato giaciglio di paglia e canne intrecciate, e l'impennaggio di
una freccia svettava su un'asta lorda di sangue che gli entrava nella
schiena. Il maniscalco non aveva spezzato l'asta, e questo stava a
indicare che considerava la ferita molto grave, al punto da non voler
rischiare di compromettere la situazione estraendola.
«Si chiama Sidro» disse una voce da un angolo dell'ospitale,
facendo sussultare Rossano. Questi si voltò verso gli altri ragazzi che
sedevano con la schiena appoggiata contro il muro, e riconobbe chi
aveva parlato: era Valerio, con la zazzera di capelli sudici e il viso
smagrito, ricoperto dalla polvere.
Il ragazzo ferito lanciò un altro grido, questa volta più debole, e
Rossano si rese conto che non ce l'avrebbe fatta. Si avvicinò a Valerio e
gli si accucciò accanto.
«Stai bene?» gli chiese.
Il fratello annuì. «Sono morti tutti» rivelò, con un groppo in gola.
«Anche il nostro comandante. È rimasto indietro con i soldati di
appoggio, per darci il tempo di fuggire...» Non riuscì più a continuare:
la voce gli si spezzò e Valerio si piegò in avanti, facendosi accogliere
dalle braccia protese di Rossano, che lo strinse a sé con forza.
Il fragore delle grandi pietre scagliate dal nemico cominciava a
farsi sempre più forte e serrato, e il pavimento vibrava, tanta era la
forza degli impatti contro le mura della fortezza, ma Rossano sapeva
che per il momento erano al sicuro. L'ospitale si trovava in un punto
ben riparato, fra la cappella militare costruita in solida pietra e i
casermaggi, che erano stati rinforzati accumulando sacchi di sabbia e
terra davanti alle pareti.
I preparativi per affrontare l'assedio erano andati avanti giorno e
notte per settimane, e Rossano era sorpreso dall'efficienza dimostrata
dai cittadini di Alessandria. Si erano occu pati loro dell'apprestamento
e del rafforzamento delle difese cittadine, mentre gli uomini della
guarnigione si sottoponevano ai lunghi turni di addestramento con
Rossano e Tarcisio Bonassei. Adesso quasi tutti gli edifici della città,
realizzati per lo più con assi di legno e canne, erano stati ricoperti da
fango secco, che insieme alla neve che era caduta avrebbe protetto le
abitazioni dal fuoco, e i punti più deboli dei pochi edifici di pietra
erano stati rinforzati con i sacchi di terra e sabbia.
Lungo tutte le strade erano stati scavati canaletti in cui poter far
scorrere acqua per spegnere eventuali incendi ed essere di conforto
agli assetati e ai feriti, e gli animali erano stati messi al sicuro
all'interno di stalle con i tetti rinforzati e ricoperti da strati di terriccio
e pietre.
Rossano era sicuro che il nemico non sarebbe riuscito a ottenere
niente, con i lanci a distanza, e che presto avrebbe dovuto predisporre
le torri di assalto e far avanzare le squadre con gli arpioni e le scale
uncinate. A quel punto, lui avrebbe dato il via alle manovre difensive
per cui i suoi uomini si erano allenati tanto a lungo.
«Resta qui» disse a Valerio, staccandolo con delicatezza dal suo
abbraccio e guardandolo negli occhi. «Sei al sicuro. Io devo andare.»
Valerio annuì. Poi cercò di capire come stesse Sidro, ma Rossano vide
che il ragazzo giaceva ormai immobile, con la lunga freccia ancora
conficcata nella schiena. Il maniscalco e la suora si erano allontanati, e
adesso padre Adriano si apprestava a recitare una breve preghiera per
quel ragazzo.
Valerio chiuse gli occhi e strinse le ginocchia al petto. Rossano si
rialzò, gli lanciò un'ultima occhiata poi corse via, diretto al suo posto
di comando, mentre la terra tremava così forte sotto i suoi piedi da far
credere che si fosse scatenato un terremoto.
«Com'è la situazione?» chiese a Tarcisio quando l'ebbe raggiunto
nella garitta di comando.
«Tanto rumore, ma poca sostanza» sorrise il suo attendente
indicando i punti in cui i grandi massi lanciati dalle catapulte si
schiantavano contro i bastioni della città. I colpi non arrivavano a
caso, questo era chiaro: il nemico stava cercando di martellare i punti
che considerava più deboli ed esposti ai colpi da lunga distanza, ma
nonostante questo le mura apparivano ancora integre, senza segni di
cedimento.
«Hanno tirato colpi più lunghi?» chiese girandosi a osservare
dall'alto i tetti delle case, che apparivano intatti.
«No» rispose Tarcisio. «Stanno ancora saggiando i bastioni.
Non ho visto neppure proietti incendiari.» «Per quelli devono
avvicinarsi, e di parecchio» gli ricordò Rossano. «Al che diventeranno
vulnerabili.» «Non vedo l'ora di provare quelle armi che hai fatto
costruire.» Rossano annuì. «Vedremo presto se funzioneranno oppure
no.» L'occasione capitò prima del previsto. I generali imperiali, resisi
conto che i colpi da lunga distanza non sortivano alcun effetto,
dovevano avere compreso che non avevano altra scelta che avvicinarsi
per scagliare proietti incendiari e attaccare i bastioni con le torri
semoventi. Queste erano state assemblate in tutta fretta dai loro
genieri, con un'abilità che lasciò affascinato Rossano. Alte oltre trenta
piedi e dotate di ruote rinforzate, erano in grado di avvicinarsi ai
bastioni sospinte dai più robusti fra i guerrieri imperiali. Avrebbero
scavalcato il fossato di difesa grazie a lunghe assi fatte scorrere da
sotto la base della torre, abbastanza robuste da reggerne il peso. La
parte frontale delle torri era protetta da scudi di cuoio sistemati come
le scaglie di un gigantesco drago, e questo assicurava la massima
protezione dalle frecce e dai dardi delle balestre scagliati dalle mura
della città. Sulla cima delle torri, al riparo di un'altra fila di scudi alti
quanto un uomo, gli assalitori erano pronti a lanciare le passerelle di
legno e a tuffarsi sugli spalti di Alessandria, mulinando le spade.
Parecchi arcieri erano sistemati in garitte laterali, in modo da poter
appoggiare l'assalto dei fanti coprendoli con il lancio ripetuto di dardi
sui difensori nemici.
Rossano sapeva che quel genere di torre era un'arma formidabile, e
quando le vide spuntare a decine lungo tutto lo schieramento nemico,
comprese che il Barbarossa non voleva correre il rischio di trascinare
l'assedio troppo a lungo. Aveva intenzione di risolvere a suo favore la
faccenda il prima possibile, per potersi dedicare all'invasione della
Padania senza dare il tempo alla Lega Lombarda di riorganizzarsi.

Ma l'imperatore aveva fatto male i suoi calcoli. Non sapeva che


Rossano era lì, e lui non era disposto a rendergli la vita facile.
«Preparate le catapulte e portate le baliste sugli spalti» ordinò.
«Voglio anche gli arcieri e i balestrieri in posizione.» Tarcisio annuì
seccamente e ripetè gli ordini al suo attendente, che sventolò le
bandierine di segnalazione per comunicare con i comandanti di
squadra.
«Nessuno scocchi un singolo dardo senza il mio ordine» precisò
Rossano mentre scrutava con attenzione le torri d'assalto nemiche che
avanzavano lentamente e, alle loro spalle, le catapulte con i proietti
incendiari che cominciavano a essere caricate.
«Ci siamo» mormorò Tarcisio mentre la prima palla infuocata si
staccava dalla catapulta e volava verso la città, diretta oltre le mura per
precipitare sui tetti delle case e degli edifici.
2
Gli uomini della guarnigione e tutti i cittadini validi erano già
pronti da tempo, quando il diluvio di pietre e fuoco si abbatté sulla
città, ed entrarono in azione dimostrando un'efficienza encomiabile.
Sfidando il pericolo dei proietti incendiari e delle pietre scagliate dalle
catapulte nemiche, si erano organizzati in squadre provviste di secchi
con i quali raccoglievano l'acqua dai canaletti per gettarla sui primi
princìpi d'incendio, o anche solo sulle grandi matasse di rami e cuoio
impastati di pece e resina che si sfaldavano in volo o a contatto con i
bersagli, diffondendo ovunque cascate di scintille e lapilli di fuoco.
Diversi uomini erano provvisti di pale con le quali raccoglievano
sabbia e terra da grossi mucchi collocati in posizione opportuna, che
poi gettavano su tutti i frammenti infuocati che piovevano dal cielo.
Per fortuna, il freddo giocava in loro favore, mantenendo la neve
caduta nei giorni precedenti, che contribuiva a rendere difficile
l'innesco degli incendi.
Rossano restò a osservare attento il modo in cui i suoi uomini
reagivano in quei primi momenti, durante i quali si aveva
l'impressione che dal cielo piovessero schegge roventi in grado di
bruciare qualsiasi cosa, e quando ebbe la conferma che la situazione
era sotto controllo e che i danni erano davvero minimi, fece segno a
Tarcisio di ordinare ai comandanti di squadra di caricare le baliste e le
catapulte e di prepararsi a lanciare.
Le torri semoventi nemiche erano ancora abbastanza lontane, ma
lui voleva saggiare la validità di quelle armi che aveva fatto costruire
seguendo i consigli di alcuni genieri militari che aveva interrogato in
passato. Rossano era sempre stato affascinato dalla capacità
dell'ingegno umano di costruire formidabili macchine di morte, e
quando aveva avuto a portata di mano qualcuno che conosceva le
tecniche di costruzione di catapulte, baliste, trabucchi e mangani, non
si era lasciato sfuggire l'occasione. Aveva imparato molto, ma non
aveva mai avuto la possibilità di provare a sfruttare sul campo di
battaglia quello che aveva appreso.
Nei mesi precedenti, però, aveva rispolverato quelle vecchie
nozioni, e insieme ad alcuni artigiani alessandrini aveva costruito
catapulte a torsione, baliste per lanciare grandi frecce sfruttando la
tensione di corde ricavate intrecciando capelli di donna, mangani
dotati di fionde che potevano scagliare massi grandi quanto la testa di
un uomo direttamente dall'interno delle mura, guidati da osservatori
sugli spalti.
Tutte armi che avevano molto impressionato Tarcisio e gli altri
ufficiali della guarnigione, ma per cui Rossano non aveva alcuna
evidenza che fossero realmente efficaci. Le avevano provate,
naturalmente, facendo allenare gli uomini preposti a caricarle e a
lanciare nel minor tempo possibile, ma una cosa era effettuare lanci
nel vuoto, un'altra era sfruttare la potenza di quelle armi per colpire il
nemico.
Rossano non aveva un' idea precisa di quale effetto avrebbero
avuto quelle macchine da guerra, e ormai era arrivato il momento di
cercare di capirlo.
Attese che le torri semoventi arrivassero all'altezza di alcuni segnali
che aveva a suo tempo fatto sistemare sul terreno oltre le mura, poi
sollevò un braccio e si preparò a dare l'ordine. Sopra di lui, il cielo
aveva assunto una tinta amaranto e petali roventi cadevano ovunque,
dando l'impressione che l'inferno avesse aperto le porte lasciando
fuggire i demoni che custodiva.
Rossano attese fino all'ultimo, poi quando vide che sulle garitte
laterali gli arcieri nemici si preparavano a incoccare le frecce per
riversare sui bastioni una pioggia di dardi, decise di sfruttare la
potenza di tiro delle baliste per verificarne l'efficacia da quella
distanza, quando ancora il nemico non era in grado di agganciare i
bastioni.
«Tirare!» gridò, abbassando di scatto il braccio, e grazie alle
bandierine di segnalazione il suo ordine arrivò quasi istantaneamente
ai comandanti delle squadre addette alle catapulte e alle baliste.
Dai cortili interni della città le grosse pietre che erano state
rastrellate in tutta la valle nelle settimane precedenti all'assedio
cominciarono a volare in strette parabole, per poi ripiombare sulle
torri semoventi e sui guerrieri che le spingevano da dietro grazie a
lunghe pertiche. Da parte loro, le baliste scaricarono i grossi dardi,
lunghi quanti un uomo e spessi come un braccio, dotati di punte di
ferro rinforzato, direttamente contro le scaglie di cuoio a protezione
delle torri.
In entrambi i casi, gli impatti furono terrificanti, e gli effetti delle
macchine da guerra fatte costruire da Rossano devastanti.
«È splendido» mormorò Tarcisio a bocca aperta. «Funzionano!»
Rossano cercò di restare impassibile, mentre osservava lo sfacelo
provocato dalle catapulte e dalle baliste, ma dentro di sé esultava come
un ragazzino.
I proietti lanciati dalle catapulte cadevano quasi
perpendicolarmente sui tetti delle torri e sugli uomini che le
spingevano, seminando il panico e frantumando legno e ossa senza
difficoltà.
Le torri semoventi non erano state costruite per resistere a un
attacco del genere, e quelle che vennero colpite subirono subito grossi
danni, con i tetti che crollavano e pietre, uomini e armi che cadevano
dall'alto sfracellandosi al suolo.
Le baliste, poi, completarono l'opera in modo ancora più micidiale.
Potendo essere puntate direttamente contro le torri dagli spalti su cui
erano state trasportate, difficilmente mancavano il bersaglio, e l'effetto
dei grandi dardi acuminati era terrificante: attraversavano le
protezioni di cuoio delle torri con facilità, e trapassavano le carni degli
assaltatori ammassati dietro facendo erompere ruscelli di sangue, che
seminavano il panico fra il nemico.
«Continuate a lanciare!» gridò Rossano, sapendo che l'effetto
terrificante delle loro macchine da guerra non sarebbe durato troppo a
lungo. Il nemico si sarebbe ritirato e avrebbe ricompattato le fila,
studiando nuove tattiche di assedio, quindi loro dovevano cercare di
fare più danni possibile finché potevano contare sul fattore sorpresa.
I suoi uomini si impegnarono allo spasimo, ma Rossano si rese
conto che le torri nemiche erano troppe e che dopo i primi successi
ottenuti con le baliste e le catapulte non era più così facile correggere il
tiro e colpire rapidamente e in maniera devastante. I lanci diventavano
sempre più imprecisi e radi, e le baliste cominciarono a perdere
efficacia, quando i generali imperiali ordinarono di far retrocedere le
torri, portandole fuori traiettoria.
Alla fine, quando tutti i bersagli furono fuori tiro, Rossano e
Tarcisio esaminarono ciò che restava sul terreno del primo tentativo di
assedio nemico, e si resero conto che c'erano un centinaio di corpi
mutilati e i resti di sette torri nemiche che erano riusciti a colpire.
«Gli abbiamo fatto capire che non avranno vita facile» commentò
soddisfatto Tarcisio, ma Rossano si rese conto che avevano sprecato
una grossa occasione. Se avesse avuto più fiducia in quelle armi, se ne
avesse fatte costruire di più, più grandi e potenti... ma ormai era
inutile recriminare.
«Signore, ho il rapporto dai comandanti di squadra» disse una
voce alle sue spalle.
«Riferisci» annuì Tarcisio all'attendente che li aveva raggiunti.
«Due catapulte non hanno resistito alla tensione e si sono spaccate.
Gli artigiani cercheranno di aggiustarle, ma mi è stato detto che non
sarà facile, perché hanno ceduto i bracci di sforzo.» «E le baliste?»
chiese Rossano, che sapeva come fossero il vero punto debole del loro
schieramento difensivo.
«Ne sono rimaste integre solo tre» rispose l'attendente,
confermando i suoi peggiori sospetti. «Tutte le altre hanno avuto
problemi.» L'uomo tacque per un istante, poi continuò, come se
volesse alleggerire la tensione sul volto di Rossano: «Mi hanno
assicurato però che potranno essere tutte riparate. Non sanno in
quanto tempo, ma forse oggi stesso potranno tornare in efficienza».
Rossano annuì, poi si voltò nuovamente verso la valle del
Tartaro, dove l'esercito imperiale si stava leccando le ferite prima
di studiare una nuova strategia di attacco. E questa volta l'offensiva
sarebbe stata più prudente e accorta, per cercare di saggiare le reali
forze della città e non esporsi troppo al tiro delle macchine da guerra
che avevano fatto strage.
«Forse siamo riusciti a guadagnare un po' di tempo» disse
Rossano, cercando di mostrarsi ottimista. Si rivolse all'attendente che
restava in attesa di ordini: «Vai dai comandanti e dì di fare il possibile
per riportare alla massima efficienza le loro macchine da guerra. Ne
avremo bisogno al più presto».
L'uomo assentì e scappò via.
Tarcisio affiancò Rossano e contemplò a sua volta lo schieramento
nemico.
«Ho idea che sarà un assedio molto lungo e difficile.» Rossano non
ribatté nulla. Sapeva che Tarcisio aveva ragione.
3
Angelica sentì qualcosa fischiare sopra la sua testa, alzò il viso
spaventata e per un momento credette che il sole stesse per
precipitarle addosso. Poi la palla di fuoco si sfaldò in mille pezzi, che
piovvero tutto intorno a lei come se il Signore avesse dato inizio al
giorno del giudizio.
Era terrorizzata per quello che vedeva, per le grida e i richiami che
si alzavano da ogni parte, per le urla di spavento di chi, come lei, non
essendo coinvolto nella difesa della città era stato colto di sorpresa,
sotto quella pioggia di pietre che si schiantavano facendo tremare la
terra e nelle scie infuocate dei proietti incendiari.
Per un momento le sembrò di essere al centro di una sacra
rappresentazione, di quelle che i commedianti inscenavano nei teatri a
cielo aperto. Solo che il rombo delle pietre che colpivano le strade e i
tetti delle case, gli inneschi del fuoco che uomini forniti di secchi pieni
d'acqua o di sabbia cercavano di domare subito, prima che si
propagassero, le grida dei feriti che di tanto in tanto echeggiavano nei
vicoli erano quanto di più reale e lontano da una messinscena avesse
mai visto.
L'assedio era cominciato, e le forze imperiali sembravano decise a
mettere a ferro e fuoco Alessandria in breve tempo. Lei non riusciva a
comprendere come fosse possibile difendersi, contro un attacco così
terribile e di vasta portata.
Eppure, Rossano si era sempre mostrato sicuro e tranquillo, con
lei, garantendole che i bastioni avrebbero retto all'assalto delle
macchine da guerra del Barbarossa, e che nella città si trovavano al
sicuro.
Guardandosi attorno nella devastazione che pioveva implacabile
dal cielo, Angelica si disse che forse Rossano le aveva mentito per non
farla stare in apprensione, ma ormai la verità era lampante.
Per questo lei aveva disobbedito agli ordini del padre e aveva
ignorato le preghiere di Rossano, ed era corsa fuori dal palazzo
consolare, l'edificio più solido e sicuro di tutta la città, dopo le motte
fortificate e il castello del Governatore, ancora in costruzione.
Quando aveva sentito piovere i primi massi lanciati dalle catapulte
e aveva sentito tremare i pavimenti delle sue stanze, si era diretta alle
finestre e aveva cercato di scorgere il punto delle mura in cui Rossano
aveva fatto costruire la garitta di comando. Sapeva che lui era là,
esposto in maniera assurda al tiro del nemico, e dopo qualche minuto
di pura angoscia non era più riuscita a restarsene là dentro a far
niente, impotente, e aveva deciso di sgattaiolare fuori, per andare alla
ricerca di Rossano.
Aveva bisogno di lui, del conforto della sua presenza, e anche se
sapeva che sarebbe stata d'impaccio, soprattutto adesso che l'assedio
aveva avuto inizio, il desiderio impellente di trovarsi accanto a lui
l'aveva fatta tremare dalla testa ai piedi, convincendola che non
avrebbe potuto attendere oltre.
Così si era avventurata per i vicoli della città, osservando
preoccupata gli uomini che correvano in tutte le direzioni inseguendo
gli ordini urlati dai capisquadra, e quando alle pietre si erano uniti i
proietti incendiari, aveva capito di avere commesso un errore.
Lei non aveva la più pallida idea di come comportarsi, in una
situazione del genere. Era sconvolta dall'orrore per ciò che vedeva, le
gambe le tremavano e il peso allo stomaco le fece capire che non
sarebbe riuscita ad avanzare ancora per molto, SoPraffatta dal terrore.

Si guardò attorno disperata, senza sapere a chi chiedere aiuto, e in


quel momento un sibilo fortissimo divenne un urlo rabbioso, che si
tramutò in uno schianto a pochi passi da lei.
Cadde a terra per la forza d'urto, mentre una pioggia di lapilli
incandescenti la investiva.
Angelica urlò quando alcuni tizzoni ardenti le bruciarono la pelle, e
con uno sforzo disperato rotolò via, spegnendo nella neve e nel fango
alcune fiamme che avevano attecchito sull'orlo della sua veste.
Il frastuono dell'impatto del proietto incendiario l'aveva
frastornata, e un fischio nelle orecchie le impediva di sentire quello
che gridavano gli uomini che correvano ovunque intorno a lei,
gettando secchiate d'acqua contro i princìpi d'incendio e soccorrendo i
feriti.
Lentamente, con la testa che le girava, Angelica si rialzò,
constatando con sollievo che non era ferita e che le gambe le
reggevano ancora. Provò a orientarsi, cercando di capire da che parte
fossero i bastioni con la garitta di comando di Rossano, ma intorno a
lei c'era solo una gran confusione e molto fumo, che si alzava dai resti
dei proietti incendiari e da alcuni edifici che erano stati bagnati per
spegnere le fiamme.
Un capogiro le diede una sensazione di nausea, e Angelica credette
che sarebbe caduta a terra, ma all'improvviso si sentì afferrare per un
braccio e sostenere in piedi.
«Che ci fate voi, qui?» le chiese una voce che avvertì attutita, come
se provenisse da una distanza remota. Sbatté le palpebre un paio di
volte, poi girò lo sguardo verso il suo soccorritore.
Venanzio da Urbino la osservava con una strana espressione, a
metà fra il divertito e il disgustato. Continuava a trattenerla per un
braccio, e quando lei cercò di divincolarsi, dicendo che stava bene e
che non era ferita, lui anziché lasciarla aumentò la stretta, fino quasi a
farle male.
«Lasciatemi!» gridò esasperata Angelica, guardandosi attorno per
cercare aiuto. «Vi ho detto che sto bene!» «A me non pare proprio,
madonna!» ribatté Venanzio con aria di scherno. Anche lui si
guardava attorno, ma la sua espressione era quella di chi stava
cercando di capire se qualche importuno testimone avrebbe potuto
rendersi conto di quello che stava per fare.

Angelica sentì correrle un brivido lungo la schiena.


Venanzio da Urbino aveva cercato di farle capire che era disposto a
corteggiarla in forma ufficiale, con il permesso del conte Concesa, ma
quando lei aveva ribattuto gelida che non avrebbe mai accettato, aveva
reagito in modo strano. Dapprima si era irrigidito, poi aveva stretto i
denti come se stesse cercando di trattenere una reazione violenta, che
avrebbe potuto abbattersi anche contro di lei. Per un momento
Angelica aveva avuto paura, poi Venanzio si era inchinato, aveva
stirato le labbra in un sorrisetto maligno e si era allontanato senza dire
una parola.
Da allora non l'aveva più visto, se non di sfuggita, e lei aveva
creduto che il problema di quell'uomo volgare e infido fosse
definitivamente tramontato, soprattutto da quando Rossano aveva
inaspettatamente ricambiato il suo amore.
Ma adesso riconobbe la stessa perfida espressione che Venanzio
aveva avuto nel momento di congedarsi da lei dopo il suo rifiuto.
Quando lui la strattonò ancora, trascinandola con modi bruschi
verso un edificio poco distante, comprese che Venanzio aveva
intenzione di approfittare del momento di confusione e di panico che
si era diffuso in città per soddisfare il suo desiderio di vendetta.
«Lasciatemi!» gridò ancora, disperata. Poi, quando comprese che
lui non l'avrebbe ascoltata, alzò la voce e cominciò a chiamare aiuto,
piantando i piedi per terra e opponendosi con tutte le sue forze a
Venanzio da Urbino.
«State zitta!» ringhiò lui colpendola con un manrovescio e
facendola crollare a terra.
Venanzio le fu sopra, l'afferrò per le braccia e tirò per risollevarla,
ma Angelica reagì con prontezza, come le era stato insegnato dai suoi
tutori fin da bambina: sferrò un calcio contro i testicoli di Venanzio, e
lo colpì in pieno.
Il delegato papale grugnì di dolore, sorpreso da quella mossa, che
lo costrinse a piegarsi in due lasciando la presa su Angelica. Lei ne
approfittò per trascinarsi il più lontano possibile, ma quando provò a
mettersi in ginocchio un capogiro le fece mancare il terreno sotto le
gambe.
«Lurida puttana!» urlò Venanzio poco distante da lei.
Angelica lo vide avvicinarsi a piccoli passi, con le mani ancora
strette sui testicoli e il viso infuocato di rabbia, e comprese che se non
fosse fuggita l'avrebbe uccisa.
Facendo appello a tutte le sue energie si trascinò in piedi, poi corse
verso l'edificio più vicino, rischiando di inciampare a ogni passo. Alle
sue spalle, Venanzio da Urbino si mise all'inseguimento sbuffando e
soffiando come un toro infuriato.
4
Mentre gli ultimi proietti descrivevano alte traiettorie sopra la
città, Rossano comprese che Alessandria aveva dato una magnifica
prova di forza e resistenza ai generali imperiali, che adesso avrebbero
dovuto cambiare strategia di attacco. Sapeva che le scorte di macigni
da scagliare contro i bastioni e di proietti incendiari non erano
illimitate, e il nemico non avrebbe potuto continuare a mantenere il
ritmo di lancio di quel primo attacco.
Le catapulte imperiali avrebbero continuato a martellare la città in
maniera incessante, non tanto per causare darmi gravi quanto per
demoralizzare gli assediati e tenerli sempre sotto pressione, ma il
tentativo di aprire una breccia nelle mura fortificate era fallito, e
adesso Rossano sapeva che l'assedio si sarebbe protratto a lungo,
assumendo un andamento più tradizionale.
Il che era proprio quello che lui voleva: Alessandria era stata
costruita a quello scopo, e gli architetti della Lega avevano avuto
ragione.
Sentendosi soddisfatto per come i suoi uomini avevano reagito
all'impatto con il nemico, si girò ancora una volta a contemplare i
danni subiti dai quartieri che erano stati più esposti all'attacco delle
catapulte. Non si vedevano incendi da nessuna parte, a dimostrazione
del fatto che le squadre antincendio erano state organizzate con
criterio, e gli edifici parevano tutti integri, a parte qualche caseggiato
con il tetto sfondato e le pareti crollate. Poca roba, a confronto con il
diluvio di pietre e palle infuocate che si era riversato sulla città.
Inoltre, adesso i suoi uomini potevano contare su numerosi proietti
da adattare alle loro catapulte, per rispedirli all'esercito nemico che li
aveva scagliati.
Mentre vagava con lo sguardo sulla città, all'improvviso notò
qualcosa. C'erano un uomo e una donna, vicino a uno degli edifici più
colpiti, e sembravano litigare. O meglio, la donna cercava di difendersi
dall'uomo, che sembrava intenzionato ad aggredirla. Rossano strinse
gli occhi per poter mettere meglio a fuoco, e con un brivido di terrore
si rese conto che la donna era Angelica, e l'uomo che la strattonava
rudemente era Venanzio da Urbino. Quando vide scattare il braccio
del delegato papale, che colpì Angelica al viso facendola cadere a terra,
Rossano lanciò un urlo e si tuffò lungo la scalinata che conduceva alla
base degli spalti.
Doveva raggiungere il posto di comando di Rossano. Quella era la
sua unica speranza. Nella concitazione dell'assedio nessuno le sarebbe
venuto in soccorso, e Venanzio da Urbino non si sarebbe fermato di
fronte alle sue suppliche: quell'uomo era una belva e un assassino, lei
lo aveva capito da tempo, e se fosse riuscito a metterle le mani addosso
avrebbe prima approfittato di lei e poi l'avrebbe uccisa.
Così, barcollando e gemendo per la paura e il dolore che le
paralizzava il viso nel punto in cui Venanzio l'aveva colpita, si trascinò
verso un edificio a pochi passi di distanza, dove forse avrebbe potuto
trovare rifugio, nascondendosi quanto bastava per recuperare un po'
di forze, prima di tornare a cercare la garitta di Rossano.
Sopra di lei, macigni grandi quanto un uomo e palle infuocate
continuavano ad attraversare il cielo fischiando, e quando toccavano
terra lasciavano erompere tempeste di neve, fango e fuoco.
I massi che si spaccavano lanciavano ovunque pietre e schegge
acuminate, che si piantavano negli edifici delle case o nei corpi degli
sventurati che si trovavano sulla loro traiettoria. Più di una volta
Angelica sentì alcune di quelle saette passarle accanto, e prima che
riuscisse a raggiungere l'edificio, che sembrava una stalla o un
magazzino chiuso, dotato di un paio di finestroni sprangati
dall'interno, una vampa di fuoco le cadde davanti, bloccandole il
cammino e strappandole un grido di terrore.
Retrocedette di alcuni passi, per cercare di aggirare il proietto
incendiario caduto dal cielo e che ardeva come un cespuglio infernale,
ma quando si girò si trovò davanti il ghigno rabbioso di Venanzio da
Urbino, e lei non riuscì a sottrarsi alla sua presa.

«Venite qui, madonna» ringhiò lui, stringendole così forte il


braccio da farle correre una scossa di dolore in tutto il corpo.
Angelica trattenne le lacrime e cercò di districarsi ancora dalla
presa dell'uomo, ma il delegato pontificio non aveva intenzione di
lasciarla andare di nuovo.
«Non voglio farvi niente» disse lui, guardandola con
un'espressione folle sul volto. «Voglio solo baciarvi.» Quest'uomo è
pazzo pensò Angelica rabbrividendo.
Mentre la città intorno a loro aveva smesso all'improvviso di
tremare e di scuotersi sotto l'attacco dell'esercito imperiale, lei ebbe la
certezza che Venanzio non l'avrebbe mai lasciata andare. Non fino a
quando non avesse soddisfatto il suo folle desiderio.
Così, fece la prima cosa che le venne in mente, un atto disperato di
cui non voleva immaginare le conseguenze, ma forse il solo che
avrebbe potuto darle una possibilità di salvarsi. Smise di dibattersi e di
cercare di sottrarsi alla presa di Venanzio, quindi gli si strinse contro,
alzò il viso verso di lui e lo baciò.
«Ecco» gli disse dopo, cercando di trattenere il tremito di disgusto
che l'aveva attraversata, più atroce del colpo ricevuto da Venanzio e
del fuoco che le aveva incendiato il vestito. «Adesso potete lasciarmi.»
Venanzio da Urbino la guardò sorpreso, leccandosi le labbra.
Poi fece erompere una risata gutturale, piena di cattiveria e di
sarcasmo.
«Ma come, madamigella» disse, tornando a stringerle con forza il
braccio. «Abbiamo appena cominciato e volete già smettere?
Eppure mi era sembrato che vi fosse piaciuto.» L'attirò ancora a sé,
con uno strappo doloroso. «O vi state prendendo gioco di me?»
Angelica si sentì svuotare da ogni energia. Quello che aveva fatto non
era bastato, anzi aveva attizzato un altro fuoco nei lombi di Venanzio, e
adesso lui non l'avrebbe più lasciata andare fino a quando non l'avesse
spento del tutto, dentro di lei.
Quando il delegato pontificio la strattonò ancora, per trascinarla in
un vicolo in cui avrebbe potuto abusare indisturbato di lei, Angelica si
rese conto che non avrebbe più potuto opporre resistenza.
«Venite con me, madonna» sghignazzava Venanzio trascinandola
per un polso. «Vedrete che ci divertiremo.»
«Lei non va da nessuna parte» ringhiò una voce che Angelica faticò
a riconoscere. All'improvviso sentì che Venanzio da Urbino le lasciava
il polso, e quando si girò per cercare di capire che cosa stesse
succedendo, vide baluginare l'acciaio delle spade.
Rossano era arrivato in suo soccorso, e adesso stava incrociando la
lama con il delegato pontificio.
Per un momento non seppe se essere più sollevata o angosciata per
l'arrivo di Rossano: Venanzio era un pazzo, e non avrebbe esitato a
ucciderlo, se ne avesse avuto la possibilità.
«Toglimi le mani di dosso» sibilò Venanzio da Urbino puntellando
il piede di appoggio e preparandosi ad attaccare.
Rossano l'aveva già visto all'opera, sapeva che era un bravo
spadaccino, ma sapeva anche che era un uomo collerico, facile a
lasciarsi prendere dalla rabbia e guidare dall'istinto, più che dalla
ragione. Per questo non aveva dubbi che avrebbe battuto quel
miserabile.
«Come hai osato picchiare Angelica Concesa?» disse, cercando di
dominare la rabbia che gli rimescolava il sangue e che rischiava di
portarlo sullo stesso piano di Venanzio. Con la coda dell'occhio cercò
di assicurarsi che Angelica stesse bene, mentre si preparava ad
affrontare lo slancio del suo avversario.
Venanzio volle approfittare di quel momento per scagliarsi in
avanti, piegando la gamba destra avanzata dopo aver compiuto un
saltello che lo portò direttamente nella guardia di Rossano.
Questi però si attendeva una mossa del genere, e con un ringhio
aveva parato la stoccata, per poi ruotare su se stesso e menare un
fendente dettato non tanto dal calcolo ma da quel fuoco di rabbia che
lo divorava dentro e che aveva covato per troppo tempo nei confronti
di quell'ignobile individuo.
Naturalmente Venanzio non ebbe problemi a intercettare il suo
colpo, e con una mossa agile scartò via, per tornare a puntargli contro
la spada mentre cercava di annichilirlo con uno sguardo torbido,
carico d'odio.
«Smettetela!» gridò a sorpresa Angelica, con la voce stridula e le
lacrime agli occhi. «Che cosa state facendo, in nome di Dio?» Rossano
sbatté le palpebre, confuso, e si rese conto dell'assurdità della
situazione. Qualcosa sibilò sopra la sua testa, così vicino da farlo
sussultare, e con uno schianto andò a colpire un edificio dalla parte
opposta della strada, distruggendo parte del tetto e facendo piovere
tutt'intorno una cascata di detriti e neve.
La città era sotto assedio, e lui stava combattendo all'interno delle
mura contro qualcuno che avrebbe dovuto essere suo alleato, il
rappresentante del papa ad Alessandria.
Ritornato consapevole della responsabilità del suo grado, Rossano
si raddrizzò e abbassò la spada, ma quando guardò Angelica e vide il
segno del manrovescio che aveva ricevuto da Venanzio da Urbino, la
rabbia tornò a sommergerlo. Dovette stringere i denti, per cercare di
controllarla. Si voltò verso il suo avversario, che teneva ancora l'arma
in posizione di guardia, e lo puntò con un dito.
«Pagherai per quello che hai fatto» disse mentre un altro proietto
attraversava sibilando l'aria sopra di loro e si schiantava da qualche
parte, sollevando una nuvola di fumo.
«Andiamo via!» gridò spaventata Angelica, avvicinandosi a
Rossano e afferrandolo per un braccio. «Ti prego!» «Sì, codardo,
vattene» sibilò Venanzio sarcastico. «Altrimenti non ci sarà più
nessuno a comandare le difese di questa città.» Prima che Rossano
potesse replicare, Angelica lo strattonò ancora, e lui si decise a
rinfoderare la spada e ad allontanarsi con lei, cingendole le spalle.
Quando furono abbastanza lontani, Rossano scosse la testa
infuriato.
«Avresti dovuto lasciarmelo ammazzare» disse, pur sapendo che
era una sciocchezza.
Angelica tremò, provò a dire qualcosa ma non le riuscì. Rossano si
rese conto che era provata e terrorizzata. La strinse più forte a sé, poi
addolcì il tono della voce.
«Perdonami» le disse. «Adesso ti porto al sicuro. Venanzio non ti
toccherà mai più.» Lei assentì con un gemito, e Rossano l'accompagnò
fino al palazzo consolare, dove l'affidò a una dama di compagnia che
era accorsa spaventata, quando vide come era ridotta.
«Adesso che cosa farai?» gli chiese Angelica prima di rifugiarsi
nelle sue stanze.
Rossano strinse i denti. «Ne parlerò con tuo padre» rispose.
«Anche se questo non è il momento migliore per cominciare una
disputa con il delegato papale.» «Lascia stare» mormorò lei, affranta.
«Non ne vale la pena. In fondo non è successo niente, Venanzio non
mi ha fatto davvero male.» Rossano le sollevò delicatamente il viso,
mettendo in mostra la tumefazione che aveva sulla guancia.
«E questa?» disse. «Ti giuro che pagherà per quello che ha fatto.»
Angelica non ribatté nulla. Si limitò ad abbassare la testa e a lasciarsi
trascinare via, quando la dama di compagnia l'abbracciò.
Rossano la guardò allontanarsi, poi ruotò sui tacchi deciso a
rintracciare Rodolfo Concesa per riferirgli quanto era successo.
Con sua sorpresa si trovò di fronte un uomo, una delle guardie di
palazzo, che l'aveva raggiunto in silenzio.
«Il signor conte la desidera in Consiglio» riferì il soldato.
Rossano annuì e si diresse a passo di marcia verso la sala
consiliare. Fuori del solido palazzo del console, la città tremava sotto i
colpi scagliati dal nemico a cadenza quasi regolare.
Quando entrò nella sala del consiglio, Rossano si diresse subito
verso Rodolfo Concesa e aprì la bocca per metterlo al corrente di
quello che era successo, ma ciò che vide lo bloccò per la sorpresa. Oltre
al console, a Tarcisio Bonassei e al comandante della guardia
personale del conte, c'era un'altra persona presente nella sala, l'ultimo
uomo che Rossano avrebbe mai pensato di vedere lì in quel momento.
Venanzio da Urbino.
Il delegato pontificio lo fissò con una strana aria soddisfatta che
fece montare nuovamente la collera in Rossano.
«Che cosa ci fa lui, qui?» chiese puntando l'indice contro Venanzio,
pronto a sguainare di nuovo la spada e mettere fine una volta per tutte
al sorrisetto sarcastico che stirava le labbra sottili di quel bastardo.
«Ha cercato di...» «So tutto» l'interruppe bruscamente Rodolfo
Concesa, portandosi davanti a Rossano.
Questi lo guardò senza capire.
«Eccellenza, quell'uomo ha aggredito vostra figlia!»
«Ha solo cercato di riportarla a palazzo» ribatté Concesa. «E io
gliene sono grato. Non so per quale motivo mia figlia abbia deciso di
commettere la pazzia di uscire dalle sue stanze durante l'attacco
nemico, mettendo a repentaglio la sua vita, ma credo sia stato per voi,
comandante.» Rossano aprì la bocca per replicare, ma si rese conto
che il conte era convinto di quel che diceva. Pensava davvero che
Venanzio da Urbino avesse cercato di aiutare Angelica, e che la colpa
del fatto che lei si fosse avventurata per le strade di Alessandria fosse
sua.
«Quell'uomo l'ha colpita» balbettò confuso, cercando di riordinare
le idee, di capire che cosa fosse successo e perché il conte lo stesse
affrontando come se fosse lui il colpevole di ciò che era accaduto.
«È vero» annuì Venanzio, abbassando il capo in un finto gesto di
afflizione. «Ho colpito madonna Angelica. Ma come ho spiegato al
conte, sono stato costretto a farlo. Non avevo altro modo per cercare di
strapparla a un pericolo tanto grande. Non so che cosa le fosse preso,
era come impazzita, continuava a ripetere il vostro nome, comandante,
incurante dei massi e dei proietti incendiari che le piovevano intorno,
e che per un vero miracolo non l'hanno uccisa. Così ho creduto di...»
«Basta così» l'interruppe il conte, alzando una mano. «Avete fatto
bene, ve l'ho già detto. Giudico il comportamento di mia figlia
imperdonabile, e se per farle ritrovare la ragione siete stato costretto a
colpirla, io ritengo che abbiate fatto la cosa giusta.» Rossano non
riusciva a credere alle proprie orecchie. Guardò costernato Rodolfo
Concesa, poi intercettò la luce di trionfo negli occhi di Venanzio e
comprese di essere stato ingannato.
Quel verme era riuscito a raggiungere il conte prima di lui, e aveva
raccontato ciò che era successo girando a suo favore gli avvenimenti.
Venanzio era molto più astuto di quanto avesse pensato: si era reso
conto che non aveva altra scelta che tentare quella strada, piuttosto
che lasciare che Rossano lo denunciasse.
E Rodolfo Concesa sembrava avere creduto alla sua versione.
«Eccellenza» urlò furibondo, «non lasciatevi ingannare!
Quest'uomo sta mentendo. Io ho visto quello che ha fatto, ho visto
come ha trattato vostra figlia. E Angelica lo confermerà.
Chiamatela, ascoltate dalle sue parole quello che è accaduto.»
Il conte sventolò irritato una mano e tornò dietro il grande tavolo
di quercia delle riunioni, sedendosi sul suo scranno.
«Conosco molto bene mia figlia, comandante» ribatté con una
smorfia. «Questo genere di atteggiamenti ribelli non le è inusuale.» Lo
fissò con aria ostile. «Soprattutto quando si innamora.
Sarebbe capace di dire e fare qualsiasi cosa, pur di proteggere
l'uomo per cui ha perso la testa.» Rossano lo guardò a bocca aperta,
incapace di pensare che la questione dovesse finire in quel modo, ma
Rodolfo Concesa comprese che stava per ribattere e lo azzittì con un
cenno secco della mano.
«Adesso basta» ordinò. «Non vi ho convocati qui per parlare di mia
figlia. Angelica è un problema mio, e so come affrontarlo.
Adesso abbiamo ben altro di cui discutere.» Venanzio da Urbino
annuì con un sorriso soddisfatto, e Rossano comprese di avere perduto
quella battaglia. Sarebbe stato inutile continuare a insistere,
soprattutto con un uomo come il conte Rodolfo Concesa. Ora, doveva
tornare a concentrarsi sull'assedio e sui grossi problemi che bisognava
affrontare.
L'esercito imperiale era alle porte della città, avrebbe pensato in
seguito a rendere la pariglia a Venanzio da Urbino.
Indipendentemente da quello che il console pensava, lui conosceva la
verità, e non avrebbe lasciato che il delegato pontificio la passasse
franca.
Lo guardò dritto negli occhi, facendogli capire che la partita fra
loro era solo rimandata.
«Dobbiamo mandare una staffetta ad avvertire Alberto da
Giussano e tutto il Consiglio della Lega Lombarda» affermò il conte.
«È fondamentale che sappiano dell'inizio dell'assedio, e che accelerino
le operazioni di reclutamento e addestramento delle truppe. Potremo
riferire che i bastioni della città hanno tenuto bene al primo attacco, e
che ci sono ottime speranze che il Barbarossa non riesca a
disimpegnarsi tanto presto, in questa valle.» Rossano fissò sorpreso
Concesa.
«Avete ragione, Eccellenza» disse, quando si accorse che nessun
altro fra i presenti aveva da sollevare obiezioni. «Ma come possiamo
fare uscire indenne una staffetta dalla città?

Il nemico avrà predisposto squadre di vedetta in ogni angolo della


valle, chiudendo qualsiasi via di fuga da Alessandria.» Rodolfo
Concesa annuì, poi fece un cenno al comandante della sua guardia
personale, che si avvicinò e srotolò sul tavolo una carta pergamena.
«Esiste un passaggio» rivelò il conte prendendo tutti di sorpresa.
«È segnato su questa carta, che gli architetti della città hanno redatto
in un'unica copia segreta, che mi è stata consegnata quando ho
assunto l'incarico di Governatore e console di Alessandria.» Rossano si
allungò sorpreso, osservando con attenzione la mappa. Era stata
disegnata con una certa abilità, con la stessa tecnica impiegata dai frati
amanuensi per scrivere i libri sacri, e le poche parole che riuscì a
riconoscere erano scritte in latino.
Concesa puntò un dito verso la parte della mappa che riproduceva i
bastioni orientali della città, e batté il polpastrello su una riga
tratteggiata che passava sopra le mura e continuava oltre, fino a una
formazione di colline che era stata disegnata con cura da chi aveva
preparato la mappa.
«Eccolo» disse il conte. «È un passaggio sotterraneo, che parte
dalle segrete del castello e si spinge fino alle colline a est della città, in
una posizione che dovrebbe trovarsi al di là delle linee nemiche. Può
essere percorso agevolmente da un uomo a piedi, e consentirebbe alla
staffetta di allontanarsi indisturbata da Alessandria per andare a
portare il messaggio ad Alberto da Giussano.» «Perché nessuno mi ha
mai parlato di questo passaggio?» chiese Rossano. «Sono il
comandante della difesa cittadina, e questa è una falla nel sistema di
sicurezza della città che...» «Non è una falla, è una benedizione» lo
interruppe Venanzio da Urbino. «Grazie a questo condotto, anche noi
potremo metterci in salvo, nel caso Alessandria dovesse capitolare.»
Rossano strinse gli occhi carico di rabbia.
«La città non capitolerà, ve lo posso garantire» affermò con voce di
ghiaccio.
«In ogni caso» intervenne il console, «adesso potremo sfruttarlo
per mandare la nostra staffetta, non convenite?» Rossano fece un
profondo respiro, studiò ancora per un attimo la mappa, poi annuì.

«Sì» disse, «avete ragione. Dobbiamo farlo.» «Bene» annuì


Concesa, soddisfatto.
«Quanto è lungo il condotto?» chiese ancora Rossano.
«Quasi ottomila passi» rispose Concesa. Poi, considerando
conclusa la riunione, fece un cenno al comandante della sua guardia.
Questi prese la mappa e la arrotolò con cura.
«Occupatevene voi, comandante Rossano. E poi riferitemi.» Con
quelle parole il conte li congedò, e Rossano, dopo un breve inchino,
uscì dalla stanza insieme a Tarcisio Bonassei, che aveva assistito alla
riunione senza dire una parola.
Non si voltò per vedere che cosa facesse Venanzio da Urbino, ma si
ripromise di occuparsi di lui non appena ne avesse avuto la possibilità,
senza che questo significasse dover venire meno al suo incarico
principale: assicurare la salvaguardia di Alessandria e dei suoi
abitanti.
«Chi credi che potremmo mandare?» gli chiese Tarcisio
strappandolo ai suoi pensieri.
Rossano si voltò a guardarlo, e all'improvviso si rese conto
dell'opportunità che gli capitava per le mani.
«Ci penso io» rispose.
Raggiunse il basso edificio costruito accanto al complesso con i
casermaggi e le stalle della guarnigione. Si trattava di una sola grande
stanza con il pavimento ricoperto di paglia, in cui alloggiavano
scudieri, staffette e vedette, oltre a qualche giovane stalliere addetto al
rifornimento della biada per i cavalli. I palafrenieri dormivano
direttamente nelle stalle, mentre i cani si muovevano liberamente da
uno stanzone all'altro, sdraiandosi dove riuscivano a trovare un posto
libero.
Durante il tragitto per raggiungere l'edificio Rossano aveva
scrutato il cielo, accorgendosi che i proietti incendiari erano
praticamente scomparsi, e che il nemico si limitava a lanciare di tanto
in tanto qualche grosso masso sfruttando la potenza di tiro delle
catapulte più grandi. Quei colpi provocavano ben pochi danni, ma
incutevano un timore costante nella popolazione, che preferiva
restarsene rintanata in casa. Era questo, naturalmente, lo scopo
principale di quel martellamento: seminare il panico e costringere gli
assediati a stare sul chi vive giorno e notte. Se il Barbarossa avesse
utilizzato le tattiche di assedio tipiche degli eserciti germanici, quei
colpi non avrebbero cessato di piovere sulla città neppure di notte,
ottenendo un grande effetto: nel silenzio notturno il frastuono dei
massi che cadevano sui tetti o contro le pareti degli edifici avrebbe
tenuto sveglia gran parte della popolazione, e nessuno, fra gli armigeri
della guarnigione, sarebbe riuscito a chiudere occhio.
Rossano entrò nella baracca e si guardò intorno. Le vedette e le
staffette si erano riunite tutte in un angolo della sala, attorno a un
cerchio di pietre piatte usate come ripiani di appoggio. Stavano
giocando a dadi, facendo rotolare cubetti di legno incisi sui lati con
numeri romani. Le esclamazioni che si accompagnavano al lancio dei
dadi fecero comprendere a Rossano che quei ragazzi erano abbastanza
giovani e spensierati da riuscire a divertirsi anche sotto la pioggia di
macigni scagliata dal nemico.
Individuò quasi subito Valerio, che se ne stava accucciato in un
angolo insieme a un compagno grande e grosso, dall'aria minacciosa.
Quando lo vide, Valerio scattò in piedi e corse verso di lui.
«Rossano! Stai bene!» esclamò, abbracciandolo.
Rossano contraccambiò l'abbraccio del fratello e allargò un sorriso.
«Sto bene, certo, che cosa credevi?» disse. «I comandanti se ne
stanno al riparo, durante gli assedi.» Valerio fece una smorfia.
«Conoscendoti, immagino che te ne sarai rimasto per tutto il tempo in
piedi sugli spalti, con il petto ben esposto al nemico.» Rossano rise
divertito. «Mi credi così stupido?» Valerio lo abbracciò ancora, poi
fece segno all'amico di farsi avanti.
«Questo è il mio compagno di squadra» disse, presentandolo a
Rossano. «Si chiama Fiorenzo Motta, ed era con me quando abbiamo
individuato le staffette nemiche.» Rossano annuì verso il colosso.
«Ben fatto» disse. «Grazie a voi siamo riusciti a prepararci in tempo.»
Fiorenzo Motta non disse nulla, limitandosi ad accennare un sorriso
imbarazzato, così Valerio tornò alla carica.
«Come mai sei qui?» chiese. «Che cosa ti ha strappato dai tuoi
importanti incarichi di comando?» Rossano lo guardò. Valerio stava
crescendo in fretta. Ormai era diventato alto quasi quanto lui, e se
fosse andato avanti di quel passo l'avrebbe ben presto superato, anche
se era di corporatura più snella.
«Ho un incarico da affidarti» disse.
Valerio si accigliò, sorpreso.
«Un incarico?» chiese. «Ma siamo sotto assedio.» Poi parve
illuminarsi. «Ti hanno parlato della mia vista miracolosa, vero?
Ti servo sugli spalti? Lo sai che sono in grado di distinguere un
topo a mille passi di distanza e...» «Ho bisogno della nostra migliore
staffetta» l'interruppe Rossano, serio, per fargli capire che si trattava
di una questione importante.
«Una staffetta?» Valerio si voltò a lanciare un'occhiata a Fiorenzo
Motta, forse per carpire dall'espressione dell'amico se gli stesse
sfuggendo qualcosa. Ma anche il colosso sembrava sorpreso quanto
lui. «Come possiamo uscire dalla città?» «C'è una galleria» rispose
Rossano. «Un passaggio segreto che potrà garantirti di superare lo
schieramento nemico. Se starai attento e sarai fortunato, potrai
allontanarti non visto.» Valerio sgranò gli occhi.
«Stai dicendo sul serio?» chiese. «Mi vuoi affidare un incarico...
pericoloso?» Rossano non riuscì a trattenere un sorriso.
«Devi inoltrarti nel condotto e poi correre a Milano» continuò.
«Non c'è spazio per un cavallo, nel passaggio, quindi dovrai andare
a piedi.» «A Milano» disse Valerio mentre l'eccitazione gli brillava
negli occhi. «Quale messaggio devo portare? E a chi?» Rossano lo
guardò fisso. Sapeva che quello era il momento più delicato, in cui
avrebbe capito se Valerio si rendeva conto del piccolo inganno che lui
stava intessendo.
«Devi andare da Alberto da Giussano e comunicargli che è iniziato
l'assedio di Alessandria. Digli che le difese stanno reggendo molto
bene, e che Rossano da Brescia ti ha incaricato di rassicurarlo sul fatto
che l'esercito imperiale non avrà vita facile, qui. Questo dovrebbe
garantirgli abbastanza tempo per mettere insieme una forza
consistente con cui ricacciare il Barbarossa oltre le montagne.»
Quando ebbe terminato di parlare, su di loro calò il silenzio.

Valerio lo guardava come se non credesse alle proprie orecchie, e


accanto a lui Fiorenzo Motta fissava i due fratelli a bocca aperta.
Poi Valerio gonfiò il petto carico d'orgoglio.
«Grazie» mormorò, cercando di trattenere l'emozione che gli
faceva tremare la voce. «Saprò meritarmi la tua fiducia, te lo giuro.»
Rossano annuì, sollevato. Come aveva immaginato, Valerio aveva colto
solo l'aspetto eroico della faccenda. Non aveva considerato l'elemento
che interessava davvero a Rossano: grazie a quell'incarico Valerio si
sarebbe allontanato da Alessandria, e almeno per qualche tempo
sarebbe stato al sicuro.
Ma questo non gliel'avrebbe certo spiegato lui.
«Ottimo» disse, dandogli una pacca sulla spalla. «Allora comincia
a prepararti. Ti aspetta un viaggio molto lungo e pericoloso. Mangia
qualcosa di nutriente, devi essere in forma, prima di partire.» Fece per
andarsene, prima che le sue reali intenzioni diventassero manifeste
agli occhi del fratello, ma Valerio l'afferrò per un braccio.
«Fiorenzo può venire con me?» gli chiese.
Rossano, che non si era aspettato quella domanda, lanciò
un'occhiata al colosso. Questi assentì, a conferma che non si trattava di
una semplice richiesta di Valerio, ma anche di una sua scelta. Fu sul
punto di rifiutare, perché Valerio si sarebbe mosso più velocemente e
con maggiore agilità se fosse stato solo, ma subito comprese che
Fiorenzo Motta rappresentava una garanzia di sicurezza per il fratello.
«D'accordo» disse. «È inteso che non farete parola con nessuno
dell'incarico che vi ho affidato. Quando siete pronti venite alla mia
garitta. Vi farò guidare da uno dei miei attendenti nel punto in cui si
apre il passaggio segreto.» Mentre si allontanava, Rossano sentì
Valerio e Fiorenzo Motta esultare alle sue spalle, cercando di tenere le
voci basse ma senza riuscire a controllare l'entusiasmo per l'incarico di
grande prestigio che era stato loro affidato.
Rossano sorrise soddisfatto. Tutto era andato per il meglio.
Adesso doveva solo augurarsi che quei due raggiungessero Milano
senza incidenti.

Venanzio da Urbino provò a trattenersi ancora un attimo con


Rodolfo Concesa, dopo che Rossano e Tarcisio Bonassei se ne furono
andati, ma il console di Alessandria sollevò subito gli occhi su di lui e
disse, con voce fredda e severa: «Anche se ho preso le vostre difese,
oltre che per le esigenze di servizio non intendo avere più niente a che
fare con voi».
Venanzio provò a ribattere, mentre un senso di nausea gli
tormentava le viscere, ma il conte lo puntò con un dito e continuò, con
un'asprezza mai sentita: «Nessuno può permettersi di alzare le mani
su mia figlia senza il mio consenso. Consideratevi dispensato da
qualsiasi incarico di collegamento con il console di questa città. La
situazione è tale da impedirmi di fare richiesta alla Santa Sede di un
nuovo delegato pontificio, ma come ho detto non intendo più avere
alcun genere di rapporto con voi.
Adesso andate».
L'ordine di Rodolfo Concesa era stato netto e perfettamente chiaro:
per quanto Venanzio non fosse ufficialmente al suo servizio, il conte
poteva decidere di esonerarlo dal suo incarico di collegamento con la
Santa Sede, e lui non poteva opporsi in alcun modo a quella decisione.
Se avesse potuto entrare in contatto con il cardinale Accorsi, forse
sarebbe riuscito a farsi dare il suo appoggio, e costringere in qualche
modo Concesa a recedere dalla sua decisione, ma mentre usciva dalla
sala consiliare masticando rabbia si disse che in fondo a lui non
fregava nulla di quel maledetto incarico.
Gli era stato affidato anche se aveva cercato di far capire al
cardinale che non era la persona adatta a quel genere di incombenze:
lui era un uomo d'arme, abituato più a maneggiare la spada che a
usare la lingua nelle dispute politiche e religiose in cui i nobili di alto
rango erano soliti prodursi. Eppure, si era fatto ammaliare dalla
speranza che l'incarico che gli veniva affidato gli avrebbe garantito un
enorme potere, e la possibilità di approfittarne al meglio.
Di certo non aveva messo in conto l'eventualità di restare
imprigionato dietro i bastioni di quella città per chissà quanto tempo,
in attesa di capire se sarebbe stato passato da parte a parte dal ferro
della soldataglia imperiale, oppure schiacciato da qualcuno di quei
proietti che continuavano a cadere dall'alto.
E poi c'era Angelica. Quella deliziosa puttanella della quale era
rimasto stregato suo malgrado, e che gli aveva fatto credere di essersi
invaghita di lui. L'aveva seguita come un idiota fino a quella lurida
città in capo al mondo, e dopo che aveva cercato in tutte le maniere di
essere gentile con lei, di fare il signore, si era visto respingere per
quell'insulso spadaccino da quattro soldi di Rossano da Brescia.
Ormai non c'era più niente che lo legava a quella città, meno che
mai la fedeltà verso il popolo della Lega Lombarda. Anzi, tutto
sommato a Venanzio non era mai interessato nulla neppure della
Santa Sede: aveva colto quell'incredibile opportunità di ricchezza e
prestigio quando gli era capitata, ma adesso non avrebbe avuto il
minimo rimorso ali idea di piantarli tutti in asso e tornare a fare la vita
che più gli piaceva.
Mentre entrava nel suo alloggio, uno strano sorriso gli tirò le
labbra.
Forse c'era ancora qualcosa che avrebbe potuto fare. Qualcosa di
molto divertente, che gli avrebbe dato la possibilità di guadagnare
parecchio denaro e di vendicarsi di Rossano da Brescia, di Rodolfo
Concesa e di quella stronzetta di sua figlia.
Dalla piccola scrivania appoggiata contro una parete, che non
aveva mai avuto modo di usare, estrasse un rotolo di pergamena e un
pezzetto di carboncino. Venanzio sapeva disegnare, e aveva una
memoria di ferro. Usò il carboncino per tracciare con una certa
sicurezza alcune linee sulla pergamena, riproducendo quasi alla
perfezione la mappa che il conte custodiva tanto gelosamente, senza
dimenticare di segnare il percorso del passaggio segreto che dal
castello conduceva oltre le linee del nemico.
Quando ebbe finito, si rese conto di avere fatto un buon lavoro, e
soddisfatto lo ripose in una nicchia sicura ricavata sotto un'asse del
pavimento, in cui aveva già infilato alcuni oggetti d'oro che aveva
rubato nei mesi precedenti.
Adesso avrebbe dovuto muoversi con una certa accortezza per
mettere in atto il suo piano, ben sapendo che non sarebbe stato facile.
Soprattutto perché Rossano da Brescia aveva un conto in sospeso con
lui, e prima o poi avrebbero dovuto fronteggiarsi a viso aperto.
Nel frattempo, lui si sarebbe mosso con la massima discrezione,
ben sapendo che fuori delle mura della città c'era qualcuno che
avrebbe pagato a peso d'oro le informazioni di cui lui era in possesso.
Il problema era riuscire a entrare in contatto con la persona giusta. E
soprattutto, doveva impadronirsi della mappa originale della città, con
i sigilli del console. Non sarebbe stato troppo difficile: nella sua lunga
carriera di ladro e assassino aveva compiuto imprese ben più
complicate. A quel punto, niente avrebbe potuto fermarlo.
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Il comandante delle staffette non aveva voluto che portassero
granché con loro: la bisaccia con i viveri e l'acqua, per non essere
costretti a fermarsi a cercare da bere o da mangiare; il coltello a doppia
lama in dotazione a tutte le staffette; una coperta leggera da usare
come giaciglio e per ripararsi durante le veglie notturne, che avrebbero
trascorso dandosi il cambio ogni quattro ore; e infine il piccolo involto
di panno che conteneva il dispaccio vergato su pergamena dallo
scrivano del console con il messaggio da portare ad Alberto da
Giussano. Per non correre rischi, Rossano aveva fatto redigere due
copie identiche del messaggio, che erano state consegnate una a
Valerio e l'altra a Fiorenzo Motta.
«Se dovessero intercettarvi» aveva ordinato il comandante delle
staffette, «dividetevi e cercate di arrivare a destinazione ognuno per
conto proprio. Ricordate che questa missione è più importante delle
vostre stesse vite.» Valerio aveva gonfiato il petto per l'orgoglio e aveva
scrutato suo fratello, che assisteva in silenzio alla cerimonia di
preparazione per la loro sortita. Sul volto di Rossano riusciva a leggere
preoccupazione ma anche un sentimento che immaginò fosse di
compiacimento, per come lui era riuscito a fare progressi in così poco
tempo da quando aveva indossato l'uniforme.
Finalmente pronti, si erano diretti tutti verso il castello ancora in
costruzione. Il loro drappello contava, oltre a lui, Fiorenzo, Rossano e
il capitano delle staffette.
Con discrezione, quando erano ormai quasi giunti al castello,
Rossano si era avvicinato a lui e gli aveva chiesto come si sentisse.
«Sono pronto» era stata la risposta decisa di Valerio. Lo pensava
sul serio e, anche se si sentiva scuotere da fremiti di paura, sapeva che
sarebbe stato in grado di portare a termine la missione. Anche a costo
della vita, come gli aveva ricordato il suo comandante.
«Bene» aveva annuito Rossano con una strana espressione.
«Però ricorda una cosa. Quando sarai là fuori, potrai contare solo
su te stesso. E non credere neppure per un istante che questa missione
valga davvero più della tua vita.» L'aveva guardato direttamente negli
occhi. «Niente può valere più della vita di un ragazzo. Soprattutto se si
tratta di mio fratello.» Valerio l'aveva osservato sorpreso per un
istante, poi Rossano era scoppiato a ridere, gli aveva scompigliato i
capelli con una manata e l'aveva stretto con forza a sé. Dopo un
momento di imbarazzo, Valerio aveva ricambiato la stretta, e Rossano
gli aveva mormorato: «Stai attento, mi raccomando. Non fare l'eroe
per niente».
Valerio si era districato assentendo, poi era sceso nei sotterranei.
Il passaggio segreto era raggiungibile attraverso un breve corridoio
che si apriva direttamente dal casotto sotterraneo delle guardie. Una
pesante porta di legno rinforzato da borchie di ferro era già stata
saldata a giunti molto robusti, capaci di resistere all'impatto con un
ariete di medie dimensioni. Rossano fece segno di aprirla dopo che
alcuni balestrieri furono disposti in posizione, pronti a trafiggere
chiunque si fosse fatto trovare, a sorpresa, dall'altra parte.
Ma quando il catenaccio venne fatto scorrere nelle guide e la
pesante porta spalancata da due gendarmi, si trovarono davanti solo la
nera apertura di un condotto buio che si allungava nel sottosuolo.
Il comandante delle staffette fece accendere un paio di torce, che
consegnò a Valerio e a Fiorenzo Motta con aria solenne.
«Adesso dovrete cavarvela da soli» disse. «Sappiate che abbiamo
tutti fiducia nelle vostre capacità, e che nessuno dubita che riuscirete a
portare a termine con onore la missione.» Valerio guardò Rossano, che
gli sorrise con orgoglio, e alla fine fece un cenno a Fiorenzo,
spronandolo a muoversi.
Quando furono nel condotto, la pesante porta si richiuse alle loro
spalle, lasciandoli soli, nel buio e nel silenzio del passaggio dalla volta
semicircolare, da cui stillavano grosse gocce d'acqua che formavano
pozzanghere sul pavimento.
«Ci siamo» mormorò Fiorenzo prendendo un lungo respiro.
«Diamoci una mossa» annuì Valerio mettendosi in cammino.
«Prima usciamo da qui sotto, meglio sarà per entrambi.» Mentre si
inoltravano nella galleria tenendo alte le torce, tutta la loro fiducia e
decisione sembrarono scomparire all'istante, sostituite da un senso di
timore e di oppressione che rendeva difficile persino respirare.
Eppure, Valerio sapeva che non avrebbe mai potuto rinunciare a
quella missione, non adesso che aveva finalmente la possibilità di
mettersi in luce agli occhi del fratello e dei comandanti dell'esercito dei
Comuni Padani.
«Canta qualcosa» disse a Fiorenzo.
«Sei matto?» protestò sorpreso il suo compagno.
«No» rispose Valerio. «Voglio solo essere certo che non siamo nei
corridoi dell'inferno.» Fiorenzo borbottò qualcosa, poi, dopo un
istante di indecisione, intonò una volgare ballata popolare, di quelle
che si cantavano sempre fra commilitoni, per tenersi svegli durante le
ronde notturne.
«A bassa voce» ordinò Valerio. «Con quel vocione potrebbero
sentirti a chilometri di distanza.» Fiorenzo obbedì, e in quel clima
opprimente i due avanzarono nel passaggio umido e buio che
sembrava non dovesse avere mai fine.
Quando le vedette lombarde li avevano intercettati, intimandogli
l'alt e tenendoli sotto il tiro degli archi, Valerio e Fiorenzo Motta
avevano compreso di avercela fatta.
«Siamo staffette padane!» aveva gridato Valerio mostrando la
pergamena con il suggello di ceralacca su cui il console Rodolfo
Concesa aveva impresso il proprio sigillo. «Veniamo da Alessandria e
abbiamo un messaggio importante per Alberto da Giussano!» Le
vedette avevano esaminato con una ragionevole diffidenza le loro
credenziali, poi quando era stato chiaro che non mentivano li avevano
accolti calorosamente, scortandoli fino a un avamposto alle porte di
Novara. Una volta lì, Valerio e Fiorenzo avevano potuto mangiare in
abbondanza e bere vino forte, mentre raccontavano con dovizia di
particolari la situazione dell'assedio di Alessandria e la loro pericolosa
missione segreta, l'interminabile marcia nella galleria affondata nelle
tenebre, la sensazione di dover cadere in un'imboscata da un momento
all'altro, la corsa disperata che per sette notti li aveva visti percorrere
la distanza che separava Alessandria da Novara.
Intorno a loro si era formato un capannello di armigeri che li
ascoltavano a bocca aperta, e Valerio non si era mai sentito così
importante come in quel momento.
Poi, quando si erano riposati abbastanza, avevano chiesto di poter
ripartire: il loro messaggio aveva la precedenza su tutto.
Il comandante dell'avamposto aveva fatto preparare due cavalli
robusti, abituati a percorrere velocemente grandi distanze, e aveva
messo a loro disposizione un piccolo drappello di scorta, anche se
ormai si trovavano in pieno territorio padano. Ma evidentemente il
comandante dell'avamposto voleva avere una piccola parte nella loro
importante missione, e quindi si era offerto di guidare personalmente
il drappello.
Valerio e Fiorenzo avevano accettato divertiti, consapevoli che il
loro ingresso a Milano sarebbe stato grandioso, a cavallo di quei
formidabili destrieri e con un seguito così numeroso di armigeri
bardati di tutto punto.
E in effetti il loro arrivo nella città che Alberto da Giussano aveva
eretto a quartier generale delle operazioni di reclutamento degli
uomini che avrebbero formato l'esercito padano non era passato
inosservato. Centinaia di persone si erano radunate per strada,
acclamandoli come personalità importanti anche se non avevano la
minima idea di chi fossero, e quando erano arrivati davanti al palazzo
consolare avevano trovato ad attenderli il console Gisalberti in
persona, con il suo seguito di scrivani e tutta la guardia schierata in
pompa magna.
Il console aveva chiesto di poter vedere subito il dispaccio di cui
erano portatori, e questo aveva fatto capire a Valerio e Fiorenzo che la
voce del loro arrivo si era propagata a velocità maggiore di quanto
avessero potuto fare i destrieri su cui avevano cavalcato.
«Siamo spiacenti, Eccellenza» aveva risposto Valerio cercando di
tenere sotto controllo il tremito che sentiva nella voce, «ma abbiamo
ordini precisi. Il conte Rodolfo Concesa ha chiesto di consegnare il suo
messaggio direttamente nelle mani del comandante Alberto da
Giussano.» Il console di Milano non aveva gradito molto quella
risposta, ma non aveva potuto fare altro che annuire seccamente e
ordinare a uno dei suoi vassalli di andare ad avvertire Alberto da
Giussano.
E ora, finalmente, dopo sette giorni di viaggio trascorsi correndo di
notte e cercando di riposare di giorno, intervallando i turni di guardia,
seppure stremati e con il desiderio di dormire per una settimana
intera, Valerio e Fiorenzo aspettavano nella sala consiliare in perfetto
silenzio, rigidi sull'attenti in una postura che voleva essere marziale
ma che, se ne rendevano conto loro per primi, rendeva ancora più
evidente il loro aspetto lacero e i tratti smagriti del viso.
Stringevano entrambi in mano la copia del messaggio consegnato
loro dal conte Concesa, perché sapevano che Alberto da Giussano
avrebbe voluto vederli entrambi, per avere la certezza che il console di
Alessandria avesse seguito le procedure stabilite per il contatto diretto
fra le massime gerarchie della Lega Lombarda: procedure che erano
un valido elemento di sicurezza quando notizie importanti dovevano
viaggiare da un presidio all'altro, da un comandante all'altro.
Quando la porta sul fondo della sala si aprì e un uomo entrò a
passo di marcia, seguito dal console Gisalberti e dai funzionari di
palazzo, Valerio e Fiorenzo si irrigidirono ancora di più, emozionati
all'idea di trovarsi al cospetto di Alberto da Giussano.
«Accomodatevi, ragazzi» disse l'uomo che li accolse con un ampio
sorriso indicando le sedie disposte attorno al grande tavolo che
troneggiava al centro della sala. «Dovete essere molto stanchi. Mi
hanno raccontato della vostra impresa, e sono felice di potervi
accogliere sani e salvi.» Valerio e Fiorenzo assentirono senza sapere
che cosa rispondere, poi si sedettero impacciati al cospetto di Alberto
da Giussano.
Il comandante dell'esercito padano era un uomo imponente ma
dall'aspetto cordiale, che dimostrava sincera gratitudine nei loro
confronti. Questo bastò a Valerio per ridargli fiducia e un po' di sangue
freddo.
«Veniamo per conto del console Rodolfo Concesa di Alessandria»
riuscì a pronunciare, con la voce che gli tremava ma con il cipiglio
serio che conveniva alla situazione. Tese il rotolo di pergamena verso
Alberto da Giussano, dando di gomito a Fiorenzo quando questi tardò
a imitarlo. «Ecco il suo dispaccio, in duplice copia come convenuto.»
Alberto da Giussano raccolse entrambe le pergamene, lanciò
un'occhiata veloce al sigillo del conte Concesa, poi le passò al console
Gisalberti, che con un grugnito di soddisfazione si affrettò a lacerare la
ceralacca e a srotolarle entrambe.
Mentre il console leggeva uno dei dispacci, Alberto da Giussano
raccolse l'altro e lesse a sua volta. Poi, i due si scambiarono
un'occhiata.
«Così ci siamo» disse Alberto da Giussano con voce bassa e
profonda.
Gisalberti annuì, senza replicare nulla.
Dopo un istante di silenzio il comandante dell'esercito padano si
alzò di scatto in piedi e si rivolse a Valerio e Fiorenzo, che attendevano
seduti rigidi sulle loro sedie.
«Andate a riposare» disse, ammorbidendo il tono di voce.
«E chiedete pure qualsiasi cosa. Farò il possibile per cercare di
esaudirla.» Alberto da Giussano fece per allontanarsi, e con il cuore in
gola Valerio si alzò di scatto e lo intercettò, con un coraggio che non
credeva di possedere.
«Eccellenza!» l'interpellò. «Io ho una sola cosa da chiedervi.»
Alberto da Giussano lo fissò incuriosito.
«Parla, ragazzo» si limitò a dire.
«Prendetemi con voi» chiese Valerio. Poi indicò Fiorenzo Motta:
«Prendeteci con il vostro esercito. Siamo giovani, ma ormai crediamo
di avere fatto abbastanza esperienza. Potremmo essere utili alla
causa».
Alberto da Giussano lo guardò per un istante, accigliato, spostò lo
sguardo su Fiorenzo Motta che era balzato in piedi a sua volta e
attendeva con ansia una risposta, quindi assentì con un cenno secco
del capo.

«E sia» disse. «Avete dimostrato il vostro valore, e io ho bisogno di


uomini in gamba. Vi farò assegnare a una delle mie squadre.» Detto
questo se ne andò, mentre Valerio e Fiorenzo si scambiavano uno
sguardo pieno di incredula meraviglia. Avrebbero voluto mettersi a
gridare e a saltare dalla gioia, ma compresero che quello non era il
momento adatto.
Quando fossero rimasti soli avrebbero dato sfogo a tutta la loro
felicità... per il momento dovevano solo restare immobili al proprio
posto e aspettare che qualcuno si prendesse cura di loro, spiegandogli
che cosa dovevano fare per indossare le giubbe dell'esercito padano.
CAPITOLO OTTAVO

A.D. 1175
Città di Alessandria Cinque mesi dopo 1
Come l'esperienza aveva già insegnato a Rossano, un assedio
poteva diventare estremamente noioso. Dopo la sfuriata iniziale, ben
rintuzzata dalla guarnigione di Alessandria, l'esercito imperiale aveva
provato a sferrare ancora una decina di attacchi in grande stile,
facendo ricorso soprattutto alla potenza di tiro delle catapulte e
cercando di avvicinare quanti più uomini possibile ai bastioni per
tentare la scalata alle mura imponenti della città.
Ma se i massi scagliati da lunga distanza si erano dimostrati
inefficaci e parecchio imprecisi, i tentativi di assalto alle pareti verticali
della fortezza avevano causato solo molte perdite fra i nemici, che
cercavano di proteggersi dal lancio di pietre e di olio bollente dagli
spalti grazie all'utilizzo di coperture di legno rivestite di cera, oppure,
più semplicemente, con gli scudi d'assalto. Sotterfugi che riuscivano a
garantire una certa sicurezza lungo il tragitto per raggiungere i
bastioni, ma che si dimostravano del tutto inadeguati quando i soldati
imperiali erano costretti a issare le scale d'abbordaggio o a lanciare gli
arpioni a cui erano legate lunghe corde provviste di nodi per potersi
arrampicare. A quel punto gli assalitori dovevano uscire allo scoperto,
e diventavano facile bersaglio per gli uomini di Rossano, che si
dimostravano ogni giorno sempre più abili e sicuri di sé nel colpire il
nemico senza esporsi al lancio delle frecce e dei dardi delle balestre.
Per quanto riguardava le poderose torri d'assalto imperiali, era
ormai evidente che non erano in grado di resistere all'impatto con gli
arpioni scagliati dalle baliste che Rossano aveva fatto collocare sugli
spalti, che in questo si erano dimostrate un'arma decisiva, al di là di
qualsiasi aspettativa.
Senza le torri, per gli assaltatori imperiali diventava davvero
difficile escogitare qualche tattica efficace per potersi portare a ridosso
delle mura e, soprattutto, scalarle fino agli spalti.
Solo una volta ci erano andati molto vicini, prendendo di sorpresa
Rossano e i suoi uomini, ma da allora non erano più riusciti a ripetere
l'impresa.
Qualche generale imperiale, probabilmente esasperato per la
situazione di stallo che perdurava ormai da qualche mese e che niente
sembrava in grado di smuovere, aveva messo in pratica una tattica
tanto ardita da risultare quasi vincente: nottetempo aveva fatto
avanzare uno squadrone di uomini completamente nudi e con il corpo
cosparso di fango, che senza essere visti erano riusciti ad arrivare a
ridosso della motta di nordest. Una volta lì erano scivolati all'interno
del fossato di difesa, avevano evitato le picche acuminate piantate sul
fondo, e quando erano arrivati dall'altra parte avevano cominciato a
scavare in silenzio, con l'intenzione di realizzare un tunnel che sarebbe
passato direttamente sotto l'ala ovest della motta, che era stata
costruita senza fondamenta sopra un rialzo artificiale del terreno.
Quegli uomini avevano lavorato alacremente per tutta la notte, poi
prima dello spuntare dell'alba avevano occultato la galleria con una
copertura di legni intrecciati su cui avevano sparso terra e sabbia, in
modo che non fosse individuabile dall'alto.
Avevano proceduto in quel modo per due o tre giorni almeno,
arrivando a scavare abbastanza da giungere fin quasi sotto il perimetro
interno delle mura, e se non fosse stato per un puro caso, forse
sarebbero davvero riusciti ad aprire un varco che avrebbe permesso
nottetempo a soldati armati di penetrare in città, seminando lo
scompiglio.
Erano stati scoperti perché una delle reclute più giovani fra quelle
addestrate da Tarcisio Bonassei, mentre si trovava sugli spalti della
motta, aveva litigato con un coetaneo, e durante la colluttazione era
andata a sbattere contro un parapetto, perdendo l'usbergo di cuoio che
era caduto oltre il torrione. Impauriti per quello che avevano
combinato - il loro comandante di squadra era molto pignolo e ligio
alla forma, e compiva ispezioni a ogni turno di ronda per verificare che
tutti indossassero l'armatura d'ordinanza - i due giovani si erano sporti
a guardare, per cercare di capire dove fosse finito l'usbergo. Era notte
fonda, e non era possibile scorgere nulla, ai piedi delle mura e nel
fossato che correva lungo il perimetro della motta, così uno dei due
giovani aveva acceso una torcia e l'aveva lanciata di sotto, per cercare
di illuminare il terreno.
Quello che avevano visto, quando la torcia era caduta a pochi passi
da dove i soldati nemici stavano scavando alacremente, li aveva
lasciati a bocca aperta, e subito avevano dato l'allarme.
Quando, il mattino dopo, Tarcisio aveva mandato due uomini a
controllare quello che stavano facendo i nemici alla base della motta,
avevano scoperto il tunnel e la copertura di legni intrecciati, e avevano
riferito ogni cosa.
Da quel momento Rossano aveva predisposto turni di vedetta con il
lancio di torce oltre le mura a intervalli regolari, scongiurando
definitivamente qualsiasi altro tentativo di penetrare in città in quel
modo. Ma parlando con Tarcisio Bonassei aveva convenuto che il
nemico era arrivato molto vicino a ottenere un risultato imprevisto,
penetrando in città nel modo più semplice che potesse essere
escogitato durante un assedio.
Dopo quell'episodio, l'assedio si era trasformato in una sequenza di
ronde, veglie e servizi di routine sugli spalti che avevano diffuso un
senso di tranquillità ma anche di noia in buona parte della
guarnigione.
Anche il lancio di proietti si era pressoché arrestato, e quei pochi
che cadevano durante la giornata non provocavano danni rilevanti: era
chiaro che venivano lanciati al solo scopo di tenere occupate le grandi
macchine da guerra imperiali e dare una parvenza di attività durante
quel lungo assedio ormai in stallo.
Rossano aveva quasi smesso di recarsi alla garitta di comando,
limitandosi a tenere una staffetta sempre pronta ad accorrere a
chiamarlo, nel caso il nemico si fosse risvegliato all'improvviso e
avesse tentato qualche assalto ai bastioni. Ma negli ultimi tre mesi non
era mai stato chiamato, il che dimostrava che i generali imperiali
erano a corto di strategie da applicare per migliorare le loro tattiche
d'assalto.
Così Rossano aveva potuto concentrarsi su altri problemi che lo
pressavano da vicino, e che ben presto aveva cominciato a considerare
più importanti: l'impossibilità di frequentare Angelica Concesa e il
comportamento sempre più ambiguo e sfuggente di Venanzio da
Urbino.
«Sarò qui fra poco, d'accordo?» disse Rossano.
Tarcisio Bonassei sorrise. «Prenditi pure tutto il tempo che ti serve.
Non credo che il nemico abbia intenzione di scatenare un attacco
proprio adesso.» «Non si sa mai» ribatté Rossano puntando l'indice su
Tarcisio.
«Ricordati quello che ti ho detto.» «Mai fidarsi del Barbarossa,
certo» assentì Tarcisio.
Rossano sorrise a sua volta, poi si allontanò dal posto di comando
che avevano ricavato in una delle basse palazzine di legno accanto alla
foresteria della guarnigione. Si diresse verso il palazzo consolare
cercando di trattenere l'emozione, anche se non era affatto certo che
sarebbe riuscito a vedere Angelica.
Negli ultimi cinque mesi, da quando Venanzio da Urbino l'aveva
aggredita, facendo poi credere a Rodolfo Concesa di avere voluto solo
proteggerla, il console aveva imposto alla figlia di restarsene chiusa
nelle sue stanze, e soprattutto di non avere più frequentazioni con lui.
Rossano avrebbe voluto protestare, ma era stata la stessa Angelica,
tramite una lettera che gli aveva fatto consegnare da una delle sue
dame di compagnia, a supplicarlo di non entrare in conflitto con suo
padre. Lei lo conosceva, sapeva che era un uomo magnanimo, disposto
al perdono, ma non tollerava di essere sfidato o contraddetto, e se
Rossano l'avesse affrontato di petto, avrebbe ottenuto solo di irritarlo
e di spingerlo a irrigidirsi ancora di più nelle sue posizioni.
"È meglio se lasciamo passare un po' di tempo e lo facciamo
calmare" aveva scritto Angelica con la sua calligrafia elegante, e
Rossano si era reso conto che aveva ragione. Soprattutto perché il
conte aveva già fin troppe preoccupazioni, con l'assedio in corso.
Così Rossano aveva tenuto a freno l'impazienza e il suo desiderio
spasmodico di vedere Angelica, di stringerla fra le braccia e di
appoggiare le labbra su quelle dolci e morbide di lei, e si era adoperato
per compiacere in tutti i modi il conte. Per fortuna, contrariamente a
quanto si era aspettato, Venanzio da Urbino non sembrava più tanto
nelle grazie del console, che durante le periodiche riunioni con i
comandanti della guarnigione per fare il punto sull'assedio lo trattava
con freddezza, trascurando del tutto il fatto che Venanzio
rappresentasse papa Alessandro.
Questo atteggiamento del conte aveva dato una certa soddisfazione
a Rossano, ma nel contempo aveva provocato in lui un ulteriore senso
d'inquietudine, soprattutto quando si era reso conto che Venanzio da
Urbino reagiva da par suo all'indifferenza del console: se ne stava in
disparte a braccia conserte, torvo e sempre pronto a intervenire per
mettere in discussione qualsiasi suggerimento di tattica militare o di
semplice logistica avanzato da Rossano o da qualcuno degli altri
comandanti.
L'isolamento di Venanzio aveva però provocato un'altra
conseguenza assai apprezzata da Rossano: il delegato pontificio non
ronzava più attorno ad Angelica.
Ma anziché approfittare della situazione per poter godere in
tranquillità della compagnia della donna che amava, Rossano era
costretto a starle lontano, e a poter interagire con lei solo di sfuggita,
per lettera o escogitando rocamboleschi incontri segreti durante i quali
avevano sempre il timore di essere scoperti.
Anche quel giorno Rossano aveva ricevuto da Verusca un biglietto
scritto velocemente da Angelica, in cui lei gli spiegava che avrebbero
potuto incontrarsi nella cappella di palazzo, dove si sarebbe recata per
pregare. Rossano aveva ringraziato Verusca, che da quando aveva
compreso che lui e Angelica si amavano si era rassegnata a fare da
amica e da complice alla contessina, e li aiutava come poteva quando si
trattava di coprirli durante i loro fugaci incontri d'amore.
Rossano non era per niente soddisfatto di quei sotterfugi e del
modo in cui riusciva a frequentare Angelica, e ogni volta che poteva
cercava di convincerla che forse era arrivato il momento di affrontare
di nuovo suo padre e spiegargli quello che provavano l'uno per l'altra,
in modo che lui potesse perdonarli per quello che era accaduto tanti
mesi prima, dar loro la sua benedizione e permettere loro di vivere una
relazione serena, come entrambi sognavano.
Ma Angelica lo guardava con quegli occhi verdi come smeraldi e lo
pregava di avere pazienza, di attendere ancora. Prima di avventurarsi
in una cosa del genere voleva essere sicura di avere ottenuto il pieno
perdono del padre, e ancora non si sentiva tranquilla, da questo punto
di vista.
Rossano, immancabilmente, cedeva di fronte alla profonda
dolcezza di quello sguardo, e si rassegnava a darle ascolto e a
rimandare ancora il momento in cui avrebbe affrontato Rodolfo
Concesa.
Ma ormai erano trascorsi cinque mesi, e lui non ce la faceva più ad
aspettare. Mentre raggiungeva la piccola cappella del palazzo
consolare, dotata di un ingresso esterno presidiato da una guardia,
Rossano si ripromise di persuadere una volta per tutte Angelica a
dargli fiducia. Questa volta non si sarebbe fatto convincere dai suoi
sguardi languidi e timorosi: voleva poter vivere con lei alla luce del
sole, tenerla per mano davanti a tutti e, non appena possibile,
chiederla in moglie al conte.
Fu con queste precise intenzioni che si introdusse nella cappella
dopo un segno d'intesa con il soldato all'ingresso.
Attese qualche istante per abituarsi all'oscurità che regnava
all'interno, schiarita solo da qualche candela davanti all'altare, poi si
guardò attorno, alla ricerca di Angelica. Quando incontrò i suoi
magnifici occhi verdi, si sentì balzare il cuore in gola per l'emozione,
ma prima che potesse fare un solo passo in avanti, si accorse dalla sua
espressione che c'era qualcosa che non andava.
«Comandante Rossano» fece una voce dall'oscurità, nel punto in
cui una figura era prostrata su un inginocchiatoio. «Siete venuto anche
voi a chiedere perdono per i vostri peccati?» Rossano si irrigidì e si
inchinò di fronte al conte Rodolfo Concesa, scrutando Angelica con la
coda dell'occhio.
«O siete forse venuto qui per qualche altro motivo?» continuò il
console alzandosi e avvicinandoglisi.
Rossano fece per dire qualcosa, ma intercettò l'espressione
preoccupata di Angelica, che lo supplicava con lo sguardo di non fare
pazzie, e ricacciò in gola il bel discorsetto che si era preparato.
«No, Eccellenza» rispose, «stavo solo facendo un controllo di
routine. Non voglio che i miei uomini si rilassino troppo.» Rodolfo
Concesa lo fissò con sospetto, poi lanciò un'occhiata di
disapprovazione ad Angelica, che si limitò ad abbassare lo sguardo,
quindi tornò all'inginocchiatoio.

«Come vedete, comandante, qui è tutto sotto controllo» disse, con


un tono tale da far capire a Rossano che era formalmente congedato.
«Per fortuna ho deciso all'ultimo momento di unirmi alle preghiere di
mia figlia. Non si sa mai quali incontri si possono fare anche nella
cappella di palazzo.» Stringendo i denti per la rabbia e la delusione,
Rossano fece dietro front e uscì, rendendosi conto che Angelica aveva
ragione quando sosteneva che suo padre non era ancora pronto a
contemplare la possibilità di una loro unione.
Quando fu fuori, si chiese se lo sarebbe mai stato.
2
Venanzio da Urbino afferrò il grosso boccale di vino, lo guardò con
disgusto, poi lo scagliò contro la parete dall'altra parte della stanza. Le
due ragazze in camera con lui strillarono spaventate, coprendosi il
seno con le mani. Erano nude, e sedevano sul giaciglio su cui Venanzio
consumava le sue notti tormentate.
«Perché avete smesso di toccarvi?» ringhiò Venanzio imbufalito.
Sedeva su una sedia davanti al desco sporco di chiazze di vino e di
cibo, a torso nudo e con le calzebrache slacciate, il pene floscio che gli
pendeva fra le gambe. «Non siete nemmeno capaci di farmelo rizzare»
biascicò, afferrando un altro boccale e versandosi il vino nero e
pastoso con cui amava ottenebrarsi la mente in quegli ultimi mesi.
«Andatevene! Mi fate schifo!» Le due ragazze balzarono in piedi di
scatto, come se non avessero atteso altro, raccolsero i loro vestiti e
fuggirono. Venanzio bevve un lungo sorso di vino, ruttò, fece una
smorfia quando l'acidità dello stomaco gli salì in gola, poi andò a
sdraiarsi sul giaciglio, senza preoccuparsi di riallacciarsi le brache.
Da diverso tempo ormai trascorreva le sue giornate in quella stanza
di una locanda di cui non ricordava neppure il nome.
Era abbastanza grande, non troppo lurida e continuamente
rifornita di vino, e per Venanzio era un ambiente molto più
confortevole del suo alloggio a palazzo, dove non avrebbe mai potuto
permettersi di ubriacarsi tutti i giorni, orinare negli angoli e scagliare i
boccali di vino o qualsiasi altro oggetto gli fosse capitato fra le mani
contro le pareti.
Una volta ogni tre giorni il locandiere mandava sua moglie, una
donna tozza e grassa dall'aria perennemente imbronciata, a pulire la
stanza e a cambiare la paglia per terra, e lui la osservava con un
sorrisetto sarcastico, pronto a insozzare immediatamente la camera
non appena lei se ne fosse andata.
Una volta, la donna l'aveva trovato sdraiato completamente nudo
sul pagliericcio, talmente ubriaco da non avere neppure la forza per
rialzarsi e tentare di ricomporsi, ma stringendo le labbra sottili si era
data da fare come sempre, ignorandolo, pulendo pavimento e pareti
dalle chiazze di vino e vomito che lui disseminava ovunque.
Venanzio, osservandola, era scoppiato a ridere.
«E così che scopi con tuo marito?» le aveva chiesto, con la voce
impastata. «In fretta e furia e con quella smorfia incazzata sul viso?»
La donna non aveva risposto. Si era limitata a muoversi ancora più
velocemente e a rassettare con assai meno cura del solito, poi era
uscita scuotendo la testa.
«Devi essere brava a succhiarlo» le aveva gridato dietro Venanzio
con rabbia, scagliando contro la porta il boccale di vino che reggeva
con mani tremanti. «Rapida e letale come un sicario.» Venanzio
sapeva che l'oste non avrebbe mai né potuto né voluto cacciarlo dalla
locanda, anche se probabilmente la moglie gli chiedeva di farlo ogni
giorno. Ma lui era il delegato pontificio ad Alessandria, e pagava la sua
permanenza in quella camera pulciosa con denaro sonante.
Venanzio si alzò dal giaciglio e tornò al desco al centro della stanza,
sul quale l'oste faceva portare ogni giorno un barilotto di vino nero, in
modo che lui non ne restasse mai sprovvisto.
Mentre si riempiva l'ennesimo boccale, strinse i denti al ricordo
dell'uomo che l'aveva costretto a rintanarsi in quella fogna.
Era stato a causa di Rossano da Brescia se lui aveva perso ogni
dignità e aveva deciso di affogare nel vino la sua rabbia e il suo
malcontento.
Il comandante della guarnigione lo lasciava fuori da ogni decisione
di guerra, e per quanto lui avesse cercato di protestare e di portare le
sue ragioni al console Concesa, era chiaro che quei due erano in
combutta per tenerlo a distanza. Non si rendevano conto di quanto
fosse grave il loro comportamento: quando lui avesse fatto rapporto al
cardinale Accorsi, avrebbero pagato per tanta sfrontatezza.
Venanzio buttò giù un sorso di vino e scosse la testa
sghignazzando.
Ma chi voleva prendere in giro? Sapeva benissimo che a Sua
Eccellenza Bruno Accorsi non fregava niente di come il console Lo
trattava. Quell'uomo aveva a cuore solo i suoi interessi personali, e la
missione che gli era stata affidata era solo di facciata.
Per questo avevano scelto lui, che non aveva nessuna competenza
strategica, politica e diplomatica: era carne sacrificabile, il pegno da
pagare per poter restare vicino alla zona di guerra, dimostrare
l'impegno della Santa Sede e nel frattempo evitare di perdere pedine
importanti in quel sottile gioco di rapporti di potere.
E lui si era fatto ingannare come uno stolto, abbagliato dal
miraggio di un incarico di prestigio che l'avrebbe sollevato dalla sua
condizione di rude uomo d'arme.
Venanzio sghignazzò ancora guardandosi attorno. Che illuso era
stato. Quello era il suo ambiente, quel genere di tuguri i soli posti in
cui si trovava davvero a suo agio.
Poteva vestirsi da damerino, profumarsi con quegli unguenti
esotici che arrivavano da paesi sconosciuti e fingersi uno di quei
pavoni imbellettati che frequentavano le corti dei nobili, ma non
avrebbe mai smesso di essere Venanzio da Urbino, l'uomo a cui
piaceva ubriacarsi e fornicare con le peggiori baldracche della città, il
sicario prezzolato che aveva ucciso decine di persone per ordine del
potente cardinale Accorsi, lo spadaccino implacabile che non
concedeva alcuna possibilità di salvezza agli avversari che incontrava.
Lui era questo, e quindi Rossano da Brescia non aveva nulla a che
fare con la sua decisione di rinchiudersi là dentro a ubriacarsi e a
vomitare.
Eppure, il fremito della vendetta, l'odio bruciante che avvertiva per
il comandante della guarnigione era tale che Venanzio non aveva mai
smesso di pensare a come fare per disfarsi di Rossano e nel frattempo
salvare la pelle.
In realtà, non era solo di Rossano che avrebbe voluto vendicarsi.
Anche Rodolfo Concesa, con i suoi modi altezzosi, avrebbe dovuto
pagare. Per non parlare di Angelica, quella sgualdrinella che l'aveva
prima illuso e poi rifiutato con sdegno.
Da mesi Venanzio covava dentro di sé l'idea di disfarsi in un colpo
solo di tutti coloro che lo circondavano con il loro disprezzo e la loro
protervia, anzi sognava di poter radere al suolo l'intera città con un
colpo di spada, e di stagliarsi sulle macerie di Alessandria urlando nel
vento il suo grido di vendetta.
Ma sapeva che non era un piano facile da mettere in atto.
Anzi.
Possedeva la chiave per scoperchiare lo scrigno del tradimento e
causare la fine della città, ma gli era altrettanto chiaro che avrebbe
dovuto muoversi con estrema cautela, perché in gioco c'era anche la
sua vita e, per quanto fosse pazzo e pieno di rabbia, Venanzio non
aveva nessuna intenzione di lasciarci la pelle e di restare sepolto a sua
volta sotto le macerie frutto della sua perfidia.
Da mesi preparava con scrupolo le sue mosse, nei rari momenti di
lucidità che riusciva a mantenere tra una sbornia e l'altra, e ormai
credeva che fosse arrivato il momento per mettere in atto il suo piano.
«Corrado!» chiamò, sputacchiando saliva e grumi di mosto.
«Dove diavolo ti sei cacciato?» La porta si aprì di scatto, e un
giovane dall'aria spaventata mise la testa dentro.
«Sono qui, mio signore.» «Entra!» ringhiò Venanzio, riempiendosi
di nuovo il bicchiere.
Bevve un lungo sorso, poi scrutò con aria torva il suo giovane
scudiero, uno dei pochi di cui si fidasse ancora. «Ti ricordi quello di
cui abbiamo parlato?» gli chiese.
«Certo, Eccellenza» annuì il ragazzo, ossequioso. «È tutto già
pronto.» «E tu?» gli chiese Venanzio. «Tu sei pronto?» Il ragazzo
assunse un'espressione determinata e piena di cupidigia che a
Venanzio ricordò se stesso a quell'età, quindici anni prima. Per questo
Corrado gli piaceva: perché non eseguiva i suoi ordini per lealtà, ma
perché era sicuro di poterne ricavare un adeguato compenso, e magari
di poterne approfittare per guadagnare ancora di più, persino oltre
quelle che erano le sue aspettative.

Il ragazzo era avido e affamato di potere, e l'aria dimessa e i modi


ossequiosi che ostentava nei suoi confronti erano solo una maschera
che indossava per cercare di celare la luce perfida che gli brillava nello
sguardo.
Venanzio lo fissò e sorrise, consapevole che anche Corrado era
carne sacrificabile, esattamente come lui lo era stato per il cardinale
Accorsi.
«Bene» annuì, riempiendo un altro boccale di vino e passandolo al
ragazzo. «Allora bevi con me. Ti servirà per darti forza, perché questa
notte metteremo all'opera il nostro piano.» Rossano vide il proietto
compiere un'alta parabola, rallentare la sua corsa sino quasi a fermarsi
per un istante nel cielo terso, per poi piombare verso il basso con un
sibilo. Andò a schiantarsi contro un basso edificio costruito a ridosso
dei casermaggi, in cui erano conservati i finimenti per i cavalli e gli
attrezzi che i palafrenieri usavano per strigliare gli animali.
Nell'impatto il masso si sbriciolò in mille pezzi, facendo schizzare
schegge dappertutto. Quando la polvere sollevata dallo schianto tornò
a posarsi a terra, Rossano constatò che i danni causati erano minimi.
Anche le schegge di pietra non avevano fatto troppa strada,
dimostrandosi innocue.
«Stanno usando un tipo di pietra abbastanza fragile» constatò
soddisfatto Tarcisio Bonassei, come sempre al fianco di Rossano.
«Devono essere in difficoltà con gli approvvigionamenti.» Rossano
annuì. I colpi da lunga distanza si erano diradati al punto che la
popolazione di Alessandria non faceva quasi più caso ai radi proietti
che piovevano dall'alto, sapendo che le probabilità di essere colpiti
erano davvero minime. Da qualche settimana, poi, le pietre che si
schiantavano sui tetti della città o contro le mura degli edifici più alti
erano di un materiale friabile che sollevava gran polveroni e faceva
schizzare schegge ovunque, ma che in definitiva si stava dimostrando
incapace di arrecare seri danni. Il che era un segnale forte che
l'esercito imperiale aveva difficoltà a recuperare materiale di qualità
da consegnare alle squadre che governavano le catapulte.
«Ordina ai comandanti di intensificare i turni di guardia sugli
spalti» disse Rossano crucciato. Per quanto la situazione dell'assedio
fosse ideale, con quel lungo stallo che dava tempo ad Alberto da
Giussano di preparare l'esercito, lui era inquieto, e non riusciva a
trovare la necessaria tranquillità che sarebbe stata consona a un uomo
della sua esperienza.
«Di che cosa hai paura?» gli chiese sorpreso Tarcisio. «Pensi che
possano tentare una sortita?» Rossano si strinsenelle spalle. Era
evidente che non credeva neppure lui alle proprie congetture, ma
rispose comunque con fermezza: «Ho già visto applicare una tattica
del genere. Prima si allenta la tensione, poi si dà l'impressione di
addormentarsi, e tutto questo solo per fare in modo che gli assediati
rilassino le misure di sicurezza. A quel punto si lancia un attacco in
grande stile, cogliendo di sorpresa il nemico».
Tarcisio Bonassei osservò scettico Rossano, ma non ribatté nulla.
Probabilmente aveva capito che il comandante aveva altri pensieri
per la testa. E infatti gli appoggiò una mano su una spalla e gli chiese:
«Che cosa ti tormenta? E per via di Angelica Concesa?».
Rossano guardò l'amico e si rese conto di essere diventato
trasparente. Le espressioni del suo viso tradivano i suoi pensieri, e
Tarcisio era ormai in grado di interpretarle.
«Sì» si decise infine ad ammettere, «direi proprio che tormento è
la parola giusta. Ma questa è una faccenda personale, e ti assicuro che
non lascio che mi influenzi quando sono sugli spalti.» «Che cosa,
allora?» insistette Tarcisio. «Non dico che tu stia dando ordini
sbagliati, però ho l'impressione che la tua mente sia da un'altra parte.»
Rossano sospirò. «Hai ragione» ammise. «In questa tranquillità, ho il
tempo per farmi venire altri crucci. Forse esagerati, però sufficienti a
rendermi inquieto.» «Stai pensando a Venanzio da Urbino, vero?»
Rossano sorrise sorpreso. «Hai imparato a leggermi nella mente?»
chiese.
«No, è solo che quell'uomo preoccupa anche me.» Rossano guardò
interessato l'amico. «Perché?» «Perché sparisce per giorni interi, e
quando ricompare è più torvo e irascibile di prima. Ha già attaccato
briga con un paio dei miei ragazzi, ed era sempre ubriaco fradicio.»
Rossano annuì, sentendo che l'inquietudine che lo divorava stava
finalmente prendendo forma.
«L'ho visto anch'io» rivelò. «Proprio l'altro giorno. Barcollava
mentre usciva dalla taverna dello Stambecco. C'era un giovane a
sorreggerlo, uno del suo seguito. Ho provato a seguirlo, perché non mi
fido per niente di quell'uomo, e l'ho visto infilarsi in casa di Madama
Claudia.» «Questo non è strano» annuì Tarcisio. «Le migliori ragazze
della città sono da Madama Claudia.» «Venanzio da Urbino è il
delegato pontificio» ribatté Rossano.
«Ti pare normale che trascorra le giornate ubriacandosi e
infilandosi nel giaciglio di qualche prostituta? Potrebbe permettersi
molto di più.» «Evidentemente, non va più troppo d'accordo con chi lo
ospita.» Rossano sospirò, rendendosi conto che Tarcisio aveva fatto
centro un'altra volta.
«Ed è questo che mi preoccupa di più» confessò. «Venanzio ha un
conto aperto con me, dopo quello che è successo, e non credo che
abbia perdonato ad Angelica la figura che gli ha fatto fare.
E per ultimo, il conte Concesa, anche se in un primo momento l'ha
difeso, adesso lo ignora e non lo convoca neppure più alle riunioni del
consiglio di guerra.» «È stato messo in disparte» disse Tarcisio,
stringendosi nelle spalle. «È quello che si merita. E questo
spiegherebbe le sue ubriacature e il motivo per cui sparisce per giorni
interi: forse ha vergogna di farsi vedere in giro.» «Almeno per ora
quell'uomo non mi lascia tranquillo» replicò Rossano.
«Che cosa intendi dire? Non è meglio se si è tolto di mezzo?
Adesso non potrà più darci fastidio.» «Quando uno come Venanzio
da Urbino ingurgita fiele, puoi stare certo che cercherà di sputartelo
addosso, prima o poi» sentenziò Rossano.
«Credi che stia meditando vendetta?» chiese Tarcisio, arrivando
subito al punto.
«Esatto» annuì Rossano. «E non sapere dove si trovi e che cosa stia
facendo non mi piace.» «Perché non incarichiamo qualcuno di tenerlo
d'occhio?» propose Tarcisio. «Qualcuno che lo segua con discrezione e
che non lo perda mai di vista. Così saremmo informati dei suoi
spostamenti e di qualsiasi cosa quel cane stia escogitando.»
Rossano annuì. «Ottima idea. Non credevo di dover arrivare a
questo punto, ma ormai non mi lascia altra scelta.» «Avvertiamo
anche il console?» «No» fece Rossano. «Magari Venanzio si sta solo
consumando nel vino, senza nient'altro per la testa che assurdi sogni
di vendetta. Per il momento procediamo con cautela. Trova qualcuno
che sia in grado di svolgere bene l'incarico, senza essere visto.» «So chi
fa al caso nostro» annuì Tarcisio. «Vado subito ad avvertirlo.» Quando
Tarcisio si fu allontanato, Rossano fece un lungo sospiro. Venanzio da
Urbino era uno dei suoi crucci, questo era vero, ma non il principale.
Quello che lo teneva sveglio di notte era il pensiero di Angelica, dei
suoi occhi verdi che rilucevano nel buio, mentre lui tendeva le mani
senza riuscire a raggiungerli.
Ma non c'era solo il desiderio di lei a inquietarlo. Sarebbe stato
disposto ad attendere con fiducia, se si fosse trattato solo di
riconquistare la stima del conte; no, la realtà era che Rossano aveva
paura. Paura per Angelica, perché non si fidava del Barbarossa e
sapeva che prima o poi quel demonio avrebbe escogitato qualcosa per
penetrare in città.
L'esercito imperiale, anche se per il momento non sembrava in
grado di nuocergli, aveva raso al suolo fortezze anche più poderose di
Alessandria, e lui lo sapeva bene. Fino a quel momento avevano
beneficiato del fattore sorpresa, e quello che giocava in loro favore era
che Rossano non aveva bisogno di affrontare Federico in campo
aperto, ma solo di tenerlo inchiodato il più a lungo possibile in quella
valle. Il che significava che prima o poi Alessandria avrebbe potuto
capitolare, e lui non considerava irrealistica quell'eventualità, anzi
cercava di tenerla sempre presente, per contrastarla ogniqualvolta
fosse stato necessario. Se fosse caduto nella tentazione di credere
Alessandria invincibile, allora il Barbarossa avrebbe avuto ragione di
lui in tempi ancora più rapidi.
Il fatto quindi che Rossano sapesse che prima o poi l'esercito
imperiale avrebbe potuto far irruzione in città, portando lo scempio,
non lo tranquillizzava affatto. Non era tanto per sé, quanto per il
pensiero che Angelica era bloccata all'interno delle mura, e che la
soldataglia del Barbarossa non avrebbe fatto distinzioni fra lei e le
altre donne del popolo, anzi ci avrebbe preso ancora più gusto nel
sollazzarsi in branco con le carni giovani e fresche di una donna come
Angelica Concesa. E questo Rossano non poteva permetterlo. Non
dopo quello che era successo a Milano e a sua moglie. Anche in
quell'occasione aveva esitato fino all'ultimo all'idea di far partire
Beatrice, di farla allontanare da Milano. Era convinto di poterla
proteggere, se lei gli fosse stata accanto, e invece aveva commesso un
errore imperdonabile, che aveva dato in pasto la moglie alle bestie che
componevano l'esercito imperiale.
Il solo pensiero che una cosa del genere potesse ripetersi con
Angelica era per lui insopportabile.
Doveva convincere Rodolfo Concesa ad abbandonare la città con il
suo seguito. Era il solo modo che aveva per allontanare Angelica,
anche contro la sua volontà.
Forse non si sarebbero mai più rivisti, ma questo era il solo modo
per offrirle quella sicurezza che non era riuscito a garantire a sua
moglie.
Stringendo i pugni con forza, Rossano comprese che aveva già
esitato troppo. Doveva convincere subito Rodolfo Concesa ad
abbandonare la città, fin tanto che il condotto segreto sembrava
ancora integro e percorribile all'insaputa del nemico.
«Non osate mai più chiedermi una cosa del genere!» L'espressione
offesa del console era una maschera di rabbia e di vergogna, come se il
solo fatto di aver dovuto ascoltare la proposta di Rossano fosse per lui
un'ingiuria mortale.
«Non pensate solo a voi, Eccellenza» ribatté Rossano dando fondo
a tutto il suo coraggio. «Pensate a vostra figlia. E a tutto il vostro
seguito.» Quando aveva chiesto udienza a Rodolfo Concesa, Rossano
era rimasto sorpreso nel costatare che il console aveva deciso di
riceverlo subito, nei suoi appartamenti privati. Il conte si era mostrato
di umore disteso e ben disposto nei suoi confronti, e questo aveva dato
il coraggio a Rossano di affrontare subito l'argomento che gli stava a
cuore. Il fiero cipiglio del console, quando aveva terminato il suo
discorso, l'aveva invece lasciato sorpreso.

«E voi credete che l'incolumità di mia figlia o delle persone che


formano il mio seguito sia da preferire all'onta che macchierebbe il
mio casato per sempre, se dovessi abbandonare Alessandria durante
l'assedio?» Rossano restò per un istante in silenzio, poi scosse la testa
ostinato.
«Non ci resta molto tempo, Eccellenza» disse cercando di
controllare la voce. «Prima o poi il nemico scoprirà l'esistenza del
passaggio segreto, e allora non avremo più alcuna possibilità di farvi
uscire dalla città.» «Io non voglio uscire dalla città!» ribatté con
durezza il console.
«Né lo farà alcuno del mio seguito. Questo dev'essere chiaro.»
Rossano aprì la bocca per protestare ancora, ma Rodolfo Concesa lo
anticipò con ira.
«Adesso andate, comandante» ordinò. «E preoccupatevi di
garantire la miglior difesa alla nostra città, anziché oltraggiare l'onore
della mia casata.» Rossano si sentì avvampare per la rabbia e la
vergogna, ma di fronte alla determinazione del console si rese conto di
non poter fare nulla, così ruotò su se stesso e se ne andò stringendo i
pugni.
3
Le due figure si mossero velocemente nel buio, cercando di evitare
le chiazze di luce che la luna piena gettava sulla città.
Raggiunsero il cantiere meridionale del castello, in cui da prima
dell'assedio non lavorava più nessuno, e sgattaiolarono all'interno
dell'edificio da una porticina sgangherata priva di chiavistelli.
«Da questa parte» biascicò Venanzio da Urbino afferrando Corrado
per un lembo del mantello e strattonandolo rudemente.
Aveva già percorso diverse volte quella strada, per trovare una via
di accesso ai sotterranei del castello che non potesse essere scorta dalle
garitte di osservazione o da quei pochi uomini d'arme che qualche
idiota aveva messo di piantone al terrapieno su cui si ergevano le mura
incomplete del castello.
Procedettero in silenzio per una decina di passi poi, quando
arrivarono alla scala di legno che conduceva nei sotterranei, Venanzio
si fermò e bloccò Corrado con una mano.
«Da questo momento non voglio sentirti dire una parola» ordinò.
Era ubriaco come al solito, ma, in previsione della missione che aveva
deciso di compiere quella notte, prima di uscire dalla stanza lurida in
cui alloggiava aveva immerso la testa nel catino dell'acqua,
trattenendo il respiro quanto bastava per smaltire almeno un poco i
vapori del vino.
Aveva ancora i capelli bagnati, ma non se ne curava.
Corrado annuì con aria attenta, dando l'impressione di pendere
dalle sue labbra, e Venanzio si rese conto che quel piccolo bastardo si
stava prendendo gioco di lui. Considerava quell'incarico poco più che
uno scherzo da ragazzi, e fremeva all'idea di mettersi in luce, per
dimostrare il suo valore e garantirsi un'adeguata ricompensa.
Venanzio trattenne una smorfia, perché sapeva benissimo che al
suo posto si sarebbe comportato nello stesso modo, però adesso la
testa gli pulsava, i capelli gli sgocciolavano fastidiosamente sulle spalle
e quel brivido che sentiva serpeggiargli lungo la schiena era, suo
malgrado, di timore.
Solo adesso, forse, si rendeva pienamente conto di quello che stava
facendo: non tradiva solo la città di Alessandria, il console Rodolfo
Concesa e tutti gli uomini della guarnigione, ma anche il cardinale
Accorsi e il Santo Padre, che in un modo o nell'altro si erano schierati
con i Comuni Collegati.
«Al diavolo!» grugnì dando una manata a Corrado e spingendolo
giù per la scala. Non aveva chiesto lui di essere nominato delegato
pontificio, e in fin dei conti non gli importava niente di chi avrebbe
vinto quella guerra. La sola cosa che contava, come sempre, era
schierarsi dalla parte giusta nel momento giusto. E visto che non
c'erano dubbi su chi avrebbe vinto la guerra, lui non era disposto a
immolarsi per una causa in cui non credeva.
Mille volte meglio passare dalla parte del vincitore, e garantirsi
un'adeguata ricompensa per i servigi che sarebbe stato in grado di
fornire al Barbarossa.
Seguì Corrado nei sotterranei, poi quando vide le due guardie che
Rossano aveva fatto sistemare accanto alla robusta porta corazzata che
dava accesso al passaggio segreto, aprì il mantello e slegò la borsa che
teneva allacciata in vita.

I due uomini d'arme li scrutarono sospettosi, poi quando


riconobbero Venanzio lo salutarono con un inchino.
Tenendo la borsa con le monete bene in vista, Venanzio si avvicinò
ai due uomini, lanciò un'occhiata incuriosita alla porta alle loro spalle
e disse, indicandola: «Dall'aspetto parrebbe robusta».
«Sì, Eccellenza» annuì uno dei due soldati. «Anche se credo che
basterebbero un paio di uomini con un ariete, per buttarla giù.»
«Davvero?» chiese sorpreso Venanzio. «Ma c'è abbastanza spazio per
governare un ariete, dall'altra parte?» Le due guardie si scambiarono
un'occhiata, e Venanzio comprese che avevano capito quale fosse il suo
gioco. Così mostrò la borsa con le monete e sorrise.
«Siete in gamba» disse, inclinando appena la testa. «Ma io non sto
cercando di ingannarvi. Sono dalla vostra parte, lo sapete.» «Che cosa
desiderate, Eccellenza?» chiese l'altra guardia, corrugando le
sopracciglia in un'espressione guardinga.
Venanzio aprì la borsa e si versò su una mano le monete.
L'argento splendette rigoglioso pur nella tenue luce delle torce
appese alle pareti. Di fronte a una simile somma, che quei due non
avrebbero potuto guadagnare neppure in dieci anni di servizio, la
diffidenza delle guardie si attenuò, e l'ombra del desiderio passò nei
loro occhi, esattamente come Venanzio si era aspettato.
«Adesso vi spiego perché sono qui» disse, tornando a infilare le
monete nella borsa, una dopo l'altra, in modo che avessero il tempo
per contarle e comprendere quale somma esorbitante stesse offrendo
per la loro compiacenza e il loro silenzio. «Questo ragazzo deve recarsi
al mio maniero, per sovrintendere ad alcuni affari della massima
importanza che mi riguardano. Io non posso abbandonare la città,
ovviamente, e non gradisco l'idea che il console o il comandante
Rossano sappiano di questa mia iniziativa privata, in un momento così
delicato.» Si fermò e scrutò le due guardie, per cercare di capire se
stavano seguendo il suo ragionamento o se, com'era più probabile,
erano ancora abbagliati dal luccichio delle monete.
«Se voi mi aiuterete, garantendomi la massima discrezione, io ve
ne sarò immensamente grato» concluse, mostrando la borsa con il
denaro in maniera eloquente. «Che cosa ne dite?» Alla domanda
diretta, i due uomini esitarono. Poi il primo che aveva risposto a
Venanzio si passò la lingua sulle labbra e chiese: «Ci garantite che non
ci saranno sorprese?».
Venanzio scoppiò a ridere, sinceramente divertito dall'idiozia di
quell'uomo, ma sfruttò la cosa a suo vantaggio rispondendo:
«Assolutamente, soldato, come puoi pensare una cosa del genere? Io
sono il delegato pontificio. Potrei ordinarvi in qualsiasi momento di
aprire quella porta e lasciar passare il mio scudiero, ma non intendo
procedere in maniera ufficiale.
Sono amareggiato da questi sotterfugi che mi tocca escogitare, ma
tengo alle mie proprietà, e questo incarico lontano dalle mie terre,
costretto ad Alessandria da un assedio che pare non avere mai fine, mi
sta danneggiando enormemente». S'interruppe e li guardò cercando di
assumere la sua espressione più innocente.
«Quello che voglio è solo che Corrado corra dai miei vassalli e
sovrintenda ai miei beni come gli ho spiegato. Non credo che la
sicurezza della città ne risentirà.» Alzò di nuovo la borsa, facendo
tintinnare le monete. «E voi, in cambio del vostro silenzio, diventerete
ricchi.» La guardia esitò ancora un istante, ma l'altra ruppe gli indugi e
si fece avanti, allungando una mano.
«Saremo felici di aiutarvi, Eccellenza» disse, afferrando la borsa
con una luce di cupidigia negli occhi.
«Molto bene» annuì soddisfatto Venanzio. Si girò verso Corrado e
lo strinse per le spalle. «Ricordi tutto quello che ti ho detto?» gli
chiese.
«Sì, Eccellenza» rispose il giovane. «Fidatevi di me, sistemerò ogni
cosa.» «Molto bene» disse Venanzio abbracciandolo. «Allora vai.
Attendo tue notizie.» Corrado gli indirizzò un sorriso complice, poi
si avvicinò alla porta, che i due gendarmi aprirono dopo aver fatto
scorrere i pesanti catenacci. Quando fu immerso nel buio del condotto,
Venanzio gli gridò dietro, con una sorprendente vena teatrale che non
credeva di possedere: «Mi raccomando, stai attento. Là fuori il nemico
potrebbe essere in agguato».
A stento si trattenne dallo sghignazzare, quando Corrado
scomparve nel buio e le guardie richiusero la porta, quindi si voltò e si
allontanò in fretta, lasciando quei due idioti a disputarsi le monete
d'argento con cui lui aveva comprato la distruzione della città. E,
naturalmente, la loro stessa fine.
«Sei sicuro che fosse Venanzio da Urbino?» chiese per l'ennesima
volta Tarcisio Bonassei.
Il ragazzo che era corso da loro a tutta velocità confermò ancora
una volta, ansimando a bocca aperta. «Sì, mio signore» boccheggiò.
«Non posso essermi sbagliato. L'ho seguito fino al castello, e poi sono
rimasto lì ad aspettare. Quando è uscito era solo e rideva. Era ubriaco,
proprio come l'avevo visto questo pomeriggio, quando per un attimo è
uscito dalla locanda.» Tarcisio lanciò un'occhiata a Rossano, che si
avvicinò al ragazzo e gli mise una mano sulla spalla.
«Hai fatto un buon lavoro, Jacopo. Non dubitiamo che tu abbia
ragione. Tarcisio ti ha scelto perché sa che hai gli occhi buoni e sei un
ragazzo sveglio.» Jacopo assentì con un sorriso pieno di orgoglio.
«Adesso però spiegami una cosa» continuò Rossano. «Hai detto
che Venanzio da Urbino si è recato al castello insieme a quel suo
giovane scudiero, Corrado da Casciago. È così?» «Sì» confermò
Jacopo. «Quei due sono sempre insieme. Da quando tengo d'occhio il
delegato pontificio mi sono accorto che non frequenta nessun altro,
solo Corrado. Si appoggia a lui come a una stampella, e non potrebbe
fare altrimenti, perché è sempre ubriaco e senza aiuto non riuscirebbe
ad andare da nessuna parte.» «Però tu l'hai visto uscire da solo dal
castello e andarsene con le sue gambe» puntualizzò Tarcisio.
«Sì, signore» annuì Jacopo. «Barcollava ancora, si vedeva che era
ubriaco, però sembrava... un po' più lucido del solito.» «E Corrado da
Casciago?» chiese Rossano.
«Non l'ho più visto. Per un momento sono stato in dubbio se
seguire Venanzio o aspettare di vedere se ricompariva Corrado, ma poi
ho ricordato i vostri ordini e mi sono messo alle calcagna del delegato
pontificio.» «Hai fatto bene» annuì Tarcisio.

«Adesso lasciaci soli» lo congedò Rossano con un'altra pacca sulle


spalle.
«Devo tornare alla locanda dove alloggia Venanzio?» chiese il
ragazzo.
«No» rispose Rossano. «Vai a riposarti. Hai fatto un ottimo lavoro,
ci sei stato prezioso.» Jacopo sorrise soddisfatto e si allontanò per
tornare ai casermaggi.
Tarcisio affrontò subito Rossano: «Dobbiamo intervenire. Quel
bastardo deve avere organizzato qualcosa».
«Che cosa?» gli chiese Rossano, accigliato. Sapeva che non poteva
fidarsi di Venanzio, per questo gli aveva fatto mettere Jacopo alle
costole, in modo da tenerne d'occhio i movimenti in ogni istante, ma
ancora non gli era assolutamente chiaro che cosa diavolo stesse
escogitando il delegato pontificio.
«Non lo so» ringhiò Tarcisio, «però è evidente che non si è recato
per caso al castello. E poi, dov'è finito quel suo scudiero?» «Ci sono
due dei nostri là sotto, vero?» chiese Rossano.
«Naturalmente» confermò Tarcisio. «Sorvegliano la porta del
passaggio segreto.» «Non più così segreto, a quanto pare» commentò
Rossano.
Tarcisio lo fissò sorpreso. «Stai dicendo che sono andati là sotto
per quello?» Poi parve illuminarsi. «Forse Venanzio ha provato a
fuggire. I nostri l'hanno bloccato e lui è stato costretto a tornare
indietro.» «E Corrado?» gli ricordò Rossano. «Che fine ha fatto?»
«Forse è stato bloccato dai nostri uomini» rispose Tarcisio. «O peggio
ancora c'è stata una colluttazione e Corrado è rimasto ferito, oppure è
stato ucciso.» «Inutile perdere tempo con queste congetture» tagliò
corto Rossano. «Andiamo laggiù e cerchiamo di capire che cosa può
essere successo.» Quando i due uomini d'arme li videro arrivare,
Rossano comprese subito che i suoi peggiori sospetti erano
confermati.
Quegli uomini non erano né sorpresi né agitati per una
colluttazione, erano spaventati. Quando piantò gli occhi in quelli del
soldato più anziano, questi non riuscì a reggere il suo sguardo e fissò il
pavimento.

«Dov'è Corrado da Casciago?» chiese subito Tarcisio Bonassei,


rivolgendosi ai due con impeto. «E di che cosa avete discusso, con
Venanzio da Urbino?» Le due guardie deglutirono a vuoto, si
scambiarono una rapida occhiata piena di terrore ma non risposero, le
lingue legate dal peso della loro colpa.
«L'avete fatto passare, vero?» disse Rossano. Anche se erano state
pronunciate come una domanda, le sue parole non avevano bisogno di
risposta. Bastava annusare il panico che attanagliava quei due, per
averne conferma.
Si girò a guardare Tarcisio stringendo i denti.
«Sta complottando qualcosa» disse. «Per questo ha fatto uscire il
suo scudiero.» «Possibile che sia un traditore?» fece Tarcisio sorpreso.
«Quell'uomo non ha anima e non ha scrupoli, ma è pur sempre il
delegato pontificio. Rappresenta il Santo Padre!» Rossano prese un
lungo respiro. Non sapeva che cosa pensare.
Anche lui faticava a credere che Venanzio stesse mettendo in atto
un qualche tipo di tradimento. Avrebbe creduto di più all'ipotesi che
quel codardo stesse cercando di darsela a gambe, ma quello che era
accaduto là sotto non confermava questa ipotesi, e rendeva tutta la
faccenda ancora più misteriosa.
Tornò a fissare le due guardie che tenevano gli occhi puntati a
terra.
«Che cosa vi ha detto?» chiese con tono fermo e duro per far
comprendere che non l'avrebbero fatta franca, e che conveniva loro
collaborare, se non volevano finire impiccati per tradimento.
Il più anziano sollevò lo sguardo, e con aria implorante scosse la
testa.
«Ci ha assicurato che voleva solo prendersi cura dei suoi averi,
delle sue terre» confessò.
«È per questo che ha fatto uscire Corrado?» volle sapere Tarcisio.
«Sì» annuì l'altro soldato, consapevole che restare in silenzio
avrebbe solo aggravato la loro posizione. «Venanzio ci ha detto che il
suo scudiero aveva dei compiti da svolgere nelle terre di sua proprietà.
Gli abbiamo creduto!» Tarcisio li guardò con una smorfia di disgusto.
«Quanto vi ha pagato, quel cane?»
I due esitarono, poi estrassero le borse e le mostrarono ai loro
superiori.
Tarcisio gliele strappò di mano, poi le consegnò a Rossano, che non
ebbe bisogno di aprirle per comprendere che Venanzio aveva speso
parecchio per comprare quei due. Forse perfino troppo.
«Va bene» disse. «Voi due consideratevi agli arresti.» Poi si rivolse
a Tarcisio. «Fagli dare il cambio e sbattili dentro. Penseremo poi cosa
farne di loro.» «E Venanzio?» chiese Tarcisio preoccupato. «Credi
davvero che abbia mandato fuori Corrado per prendersi cura delle sue
terre?» «Non lo so» rispose Rossano. «Ma se non fosse così, quale
potrebbe essere il suo intento?» Tarcisio non rispose, consapevole di
quello a cui voleva arrivare Rossano.
Questi lo fissò per qualche istante. «Tu sistema questi due» disse a
Tarcisio indicando le guardie. «Io andrò a parlare con il console. Forse
è arrivato il momento di considerare Venanzio da Urbino per quello
che è: una minaccia per questa città.» 4
Mentre percorreva il corridoio superiore del palazzo consolare,
l'unico edificio di pietra della città su più piani, a parte il castello
ancora in costruzione, Rossano sentì accelerare il battito del cuore.
Sperava di incontrare Angelica, in modo da poter scambiare con lei
qualche parola o un semplice, fugace sguardo, ma alla fine si ritrovò
davanti alla porta della sala delle udienze presidiata da due soldati
senza che lei fosse comparsa.
Rossano era in pena per Angelica, perché sapeva che viveva
confinata nelle sue stanze, con il divieto di uscire dal palazzo e di
frequentare chiunque, eccetto le sue dame di compagnia. E
conoscendo Angelica, doveva essere lacerata dal furore,
dall'umiliazione e dal desiderio irrefrenabile di disobbedire agli ordini
del padre e fuggire, per inseguire un miraggio di libertà facendo
svolazzare le sue eleganti vesti.
Ma dove avrebbe potuto andare? Non c'era modo di abbando nare
la città sotto assedio, se non attraverso il passaggio segreto che portava
oltre le linee nemiche, ma per potersi allontanare incolume Angelica
aveva bisogno della benedizione del padre e di una scorta armata che
solo Rossano avrebbe potuto metterle a disposizione.
Fronteggiando la dura realtà, consapevole che non aveva alcuna
alternativa a restarsene chiusa nelle sue stanze come una graziosa
belva in gabbia, Angelica evitava di uscire e di percorrere i lunghi
corridoi di palazzo. E in quel modo rendeva impossibile per loro due
incontrarsi, quelle poche volte in cui Rossano si recava a colloquio con
il conte.
Trattenendo l'impulso di girare su se stesso e andare a bussare alla
porta di Angelica, Rossano raggiunse i due uomini di piantone e li
salutò con un gesto brusco del capo. I soldati scattarono sull'attenti,
apparentemente turbati dal suo arrivo, e Rossano comprese che le voci
su quello che era successo ai loro due commilitoni nei sotterranei del
castello avevano già fatto il giro della guarnigione.
«Annunciatemi a Sua Eccellenza» ordinò quando si rese conto che
i due, immobili come statue di gesso, avevano dimenticato di bussare
alla porta della sala consiliare.
Quando questa finalmente si aprì, Rossano entrò cercando di
allontanare il pensiero di Angelica e concentrandosi su quello che
aveva da dire al console. Era fondamentale che il conte si rendesse
conto del pericolo rappresentato da Venanzio da Urbino e lo
autorizzasse a prendere provvedimenti.
«Quello che dite è assurdo» fece Rodolfo Concesa senza alzare lo
sguardo dal foglio di preziosa pergamena su cui stava annotando
qualcosa con la sua calligrafia elaborata ed elegante.
L'aveva ricevuto degnandolo appena di un'occhiata, mentre seduto
allo scrittoio faceva scorrere la lunga penna d'oca con la punta rivestita
d'argento sulla pergamena ruvida. L'inchiostro tracciava righe su righe
di parole scritte in una lingua che Rossano non riuscì a comprendere, e
pareva che quella lunghissima lettera non dovesse avere mai fine.
Rossano aveva spiegato al conte quello che era accaduto nei
sotterranei del castello, l'atteggiamento sospetto di Venanzio da
Urbino, la scomparsa di Corrado da Casciago.

«Ritengo che Venanzio stia escogitando qualcosa di pericoloso»


aveva concluso, cercando di restare sul vago in modo che fosse il
console a trarre le dovute conclusioni. Aveva imparato, dopo anni di
frequentazione di nobili e personaggi d'alto rango, che preferivano
essere informati e giungere loro a tracciare il quadro conclusivo,
anziché lasciare che qualcuno lo rappresentasse per loro.
All'improvviso Rodolfo Concesa aveva sollevato per un attimo gli
occhi dalla pergamena, l'aveva fissato senza mostrare particolare
sorpresa, e gli aveva chiesto: «Continuate, comandante.
Quale opinione vi siete fatto di tutto questo?».
Così Rossano era stato costretto ad arrivare subito al punto,
rispondendo senza mezzi termini: «Credo che Venanzio da Urbino stia
cercando il modo per fuggire da Alessandria. E forse anche per
consegnare la città in mano al nemico, in cambio di un salvacondotto
per se stesso».
Il conte aveva risposto senza alzare lo sguardo dal tavolo,
continuando a scrivere con calma, e questo aveva fatto irritare
Rossano.
Possibile che quell'uomo non si rendesse conto di quale pasta era
fatto Venanzio? Non aveva mai collaborato all'addestramento degli
uomini della guarnigione, né aveva dato il suo contributo nelle
riunioni tattiche e strategiche che periodicamente il console
convocava, limitandosi a starsene in disparte, a lanciare commenti
sarcastici al suo indirizzo o a criticare le sue scelte. E per quanto
riguardava i famosi millecinquecento uomini che avrebbe dovuto far
arrivare in appoggio grazie all'intercessione di Alessandro III, non se
ne era mai vista alcuna traccia, esattamente come Rossano aveva
sempre immaginato.
«Venanzio da Urbino è una canaglia» affermò a un tratto Rodolfo
Concesa, facendo sussultare Rossano per la sorpresa.
«Su questo non ci sono dubbi. Ma non credo che sia disposto a
mettere in gioco tutto per...» tornò a guardare Rossano, infilando la
penna d'oca nel calamaio d'argento. «Per che cosa, comandante?
Spiegatemelo voi.» «Per vendetta» rispose senza esitazione Rossano.
«Venanzio è convinto di avere subito una grave umiliazione a causa
mia e... anche a causa di Angelica.» Rodolfo Concesa si accigliò.
«Ancora con quella storia?» disse.

«Sì, Eccellenza» annuì Rossano. «Credo sia stato quell'episodio a


scatenare il desiderio di rivalsa di Venanzio.» «Non gli ho mai fatto
credere che avrebbe potuto aspirare alla mano di mia figlia.» «Lo so,
Eccellenza, ma Venanzio...» Il console sollevò una mano,
interrompendolo. All'improvviso sembrava che si fosse reso conto
della gravità della situazione, e avesse abbandonato del tutto il cipiglio
altezzoso con cui aveva ricevuto Rossano. Era evidente che ancora non
gli perdonava il sentimento che provava per Angelica, ma adesso c'era
qualcosa di più importante da considerare, c'era in gioco la
sopravvivenza della città.
«Venanzio da Urbino è il delegato pontificio» disse a bassa voce,
come se parlasse con se stesso, più che con Rossano. «Non possiamo
farlo imprigionare senza avere delle prove concrete del suo
tradimento.» «Forse c'è un modo per capire se ha davvero in mente di
consegnare la città al Barbarossa» disse Rossano.
Il console lo scrutò sorpreso.
«E quale sarebbe?» «Non si è recato nel passaggio sotterraneo per
una gita di piacere. Evidentemente sta seguendo un piano. E io credo
di sapere quale.» «Volete degnarvi di parlarmene?» chiese Rodolfo
Concesa con una punta di irritazione.
«C'è solo un modo perché Venanzio riesca a fuggire da Alessandria
senza rischiare di essere catturato dal nemico e finire impiccato. Non
potrebbe tornare da Alessandro III, perché anche lì lo attenderebbe la
stessa sorte, quindi tutto il suo piano dev'essere improntato a un unico
scopo.» «Quale?» lo sollecitò il console, trattenendo un gesto
d'impazienza.
«Ingraziarsi il Barbarossa consegnandogli Alessandria su un piatto
d'argento» rispose tutto d'un fiato Rossano. «In modo da ottenere
l'immunità dall'imperatore, e forse anche una lauta ricompensa.»
Rodolfo Concesa lo fissò per qualche istante, poi aprì una smorfia
eloquente.
«State dicendo un mucchio di sciocchezze, comandante, ve ne
rendete conto? Secondo voi io dovrei presentarmi da papa Alessandro
III con un'accusa del genere nei confronti di un suo delegato
ufficiale?» «Posso capire che non sia facile da credere» annuì Rossano,
«ma vi assicuro che non c'è altra spiegazione.» «E quale sarebbe il
piano di Venanzio da Urbino, secondo voi?» gli chiese Concesa, non
per indulgenza nei suoi confronti ma perché era un uomo intelligente e
nonostante tutto cercava di dominare la rabbia che gli stava salendo in
corpo.
«Ha un solo modo per consegnare a Federico la città» rispose
Rossano. «Deve fargli avere la mappa di Alessandria, e indicargli il
passaggio segreto che dalle colline conduce nei sotterranei del castello.
Per questo ha mandato fuori il suo scudiero. Per chiedere un incontro
con il Barbarossa o con qualcuno dei suoi generali.» Rodolfo Concesa
prese un lungo respiro, poi scosse la testa con forza.
«Ho l'impressione che stiate vaneggiando, comandante» disse,
facendo crollare ogni speranza in Rossano, che per un momento aveva
pensato che nonostante tutto il conte fosse propenso a credergli.
«Portatemi le prove di quello che dite, e forse potremo affrontare
Venanzio per esigere una spiegazione.» Rossano lo guardò sbalordito.
«Intendete dire che non volete fare niente?» Concesa girò su di lui uno
sguardo pungente, più duro di quanto Rossano si fosse aspettato.
«Siete voi il comandante della guarnigione» ribatté. «A voi è
affidato l'incarico di proteggere la città. Mi aspetto che prendiate tutte
le misure necessarie per farlo, senza perdere tempo in inutili contese
con Venanzio da Urbino.» Rossano fece per replicare, ma si rese conto
che non sarebbe servito a nulla. Il conte si era rimesso a scrivere senza
degnarlo più di un'occhiata, e lui interpretò quell'atteggiamento come
un brusco segno di congedo.
«Come desiderate, Eccellenza» disse a denti stretti, uscendo a
passo spedito dalla sala consiliare.
Una volta fuori si trattenne a stento dal prendere a pugni il muro,
consapevole che non sarebbe servito neppure a sfogare la sua rabbia.

Si guardò attorno, poi comprese che aveva un solo modo per


trovare le prove del tradimento di Venanzio e portarle al cospetto del
console. Ma non sarebbe riuscito a farcela da solo.
Aveva bisogno di aiuto.
Venanzio si appoggiò allo stipite della porta e barcollò all'interno
della sudicia bettola, dove lo accolse il solito puzzo di sudore, orina e
vino di pessima qualità. Chiazze di vomito sporcavano il pavimento,
aggrovigliando la paglia lurida in masse rivoltanti, che nessuno si
preoccupava di ripulire. Del resto, sarebbe stato inutile: in posti come
quello, gli ubriachi bevevano e vomitavano giorno e notte, e il solo
modo per ripulire un po' sarebbe stato chiudere la taverna per un paio
di giorni e lavare pareti e pavimento con acqua e sapone, ma
probabilmente un procedimento del genere non era mai stato attuato
da quando la locanda era stata costruita sette anni prima.
Sorridendo all'idea dei palazzi sontuosi e dei personaggi d'alto
rango che si era abituato a frequentare da quando si era accodato al
cardinale Accorsi, Venanzio caracollò all'interno della locanda
raggiungendo il bancone, al quale si aggrappò come un naufrago che
incontra uno scoglio fra i marosi.
«Oste!» gridò, cercando di trattenere la nausea che aveva ripreso a
tormentarlo. Quando si ubriacava non poteva diminuire all'improvviso
la quantità di vino che ingurgitava, perché altrimenti, dopo qualche
ora in cui si sentiva relativamente più lucido, nausea e diarrea lo
assalivano con impeto, costringendolo a stringersi la testa con le mani
per non farla scoppiare.
Venanzio conosceva un solo modo per debellare quei sintomi
feroci, ovvero ingurgitare altro vino nero come le sue budella, fino a
tornare a galleggiare nella foschia torbida in cui dolore, vertigini e il
desiderio di vomitare si confondevano in una marea pastosa che gli
saliva fino agli occhi, e che lo faceva sentire finalmente in pace.
Quando il locandiere si avvicinò, portando con sé una brocca del
suo vino peggiore, Venanzio sorrise soddisfatto. Afferrò la brocca e
bevve direttamente da lì, senza aspettare che l'oste gli versasse il vino
in un boccale.
«Avete fatto una passeggiata, Eccellenza?» gli chiese il locandiere
con una strana espressione. Venanzio colse il modo strascicato e
strafottente con cui aveva pronunciato la parola Eccellenza, ma non vi
fece caso. Al suo posto, probabilmente l'avrebbe trattato nello stesso
modo.
«A te che diavolo importa?» chiese leccandosi il vino dalla barba
incolta che si era fatto crescere.
«A me nulla» rispose l'oste stringendosi nelle spalle, «ma a quanto
pare qualcuno ha a cuore i vostri spostamenti.» Nonostante il dolore
alla testa, Venanzio si concentrò immediatamente sull'uomo,
fissandolo con attenzione.
«Di che cosa parli?» gli chiese.
«Ho visto un ragazzo» rispose l'oste, chinandosi verso di lui e
parlando a bassa voce. «Vi seguiva. Su questo non ci sono dubbi.»
«Quando l'hai visto?» volle sapere Venanzio.
«Quando siete uscito. Il ragazzo era seduto a un tavolo, non vi
staccava gli occhi di dosso. Si è alzato immediatamente, quando vi ha
visto uscire insieme al vostro scudiero, e vi ha seguito fuori.
Da come si muoveva, ho capito che stava cercando di non farsi
scorgere da voi.» Venanzio non disse nulla, limitandosi a leccarsi
piano le labbra.
Poi estrasse una moneta dalla borsa e la lanciò all'oste.
«Ti ringrazio per l'informazione» disse, allontanandosi.
«E il vostro vino?» chiese l'oste soddisfatto.
«Bevilo tu» rispose Venanzio, uscendo più velocemente che poteva
dalla taverna.
Una volta fuori si guardò attorno con circospezione, cercando di
scacciare il velo di nebbia che gli offuscava la vista. Aveva ancora mal
di testa, e delle fitte gli trapassavano lo stomaco, ma all'improvviso gli
era passata la voglia di bere.
Chi poteva avergli messo una spia alle costole? La risposta arrivò
all'istante, senza incertezze: Rossano da Brescia. Quel cane non si era
mai fidato di lui, e l'aveva fatto seguire per studiarne le mosse.
Venanzio diede un calcio a un ciottolo per terra, infuriato. Negli
ultimi tempi era stato sempre così ubriaco da non accorgersi neppure
di essere seguito, e quell'idiota di Corrado... sapeva solo pensare a
quello che avrebbe guadagnato aiutandolo, accecato dalla sua avidità.
Era stato uno stolto, e adesso rischiava di compromettere tutto.

Velocemente tornò all'interno della taverna, salì le scale che


portavano al piano superiore, dove c'erano le poche stanze concesse in
affitto o in cui le prostitute che esercitavano nel locale portavano i loro
clienti, afferrò la propria spada e poi tornò di sotto. Sapeva che aveva
una sola speranza, e doveva approfittarne subito, prima che Rossano
capisse quello che intendeva fare e lo intercettasse, stravolgendo i suoi
piani.
Prima di riuscire a trovare il coraggio di bussare, Rossano
trattenne il respiro, poi si rese conto che quello che stava facendo era
troppo importante per farsi distrarre dai sentimenti, e il suo pugno si
abbatté con forza contro la porta.
Dovette aspettare solo una manciata di secondi, poi l'uscio si
spalancò e gli occhi verdi di Angelica lo fissarono pieni di sorpresa.
«Rossano...» mormorò, con una miscela di emozioni che
percorsero in fretta il suo volto delizioso: stupore, poi risentimento,
quindi rabbia e infine qualcosa che Rossano non riuscì a interpretare
del tutto, ma che si augurò fosse un guizzo di piacere per il fatto di
rivederlo, seppure in quelle modalità poco consone al decoro di una
damigella. «Che ci fai, qui?» «Perdonami, Angelica» disse lui,
guardandosi attorno e facendosi avanti per entrare nella stanza.
Presa alla sprovvista da quel suo atteggiamento sfrontato, Angelica
arrossì mentre si faceva da parte per farlo entrare, ma non cercò di
opporsi.
«Verusca è qui» l'avvertì, «potrebbe arrivare da un momento
all'altro.» «Allora le chiederemo di aiutarci» ribatté subito Rossano,
cercando di farle capire che non stava scherzando e che non era lì per
qualche strano gioco d'amore.
«Che cosa succede?» chiese lei, interpretando correttamente il suo
sguardo.
«Ho bisogno del tuo aiuto» rispose Rossano. «Subito.» «Di che si
tratta?» Angelica lo fissava seria, senza lasciar trasparire i suoi veri
sentimenti, e Rossano si rese conto che non aveva idea se lei fosse
irritata con lui per la segregazione a cui era costretta, o se invece fosse
felice all'idea di potergli parlare di nuovo, a una distanza tale da
poterlo toccare, come non succedeva da molto tempo.
«Devo accedere alla stanza del tesoro di tuo padre» le spiegò subito
Rossano, capendo che non sarebbe servito a nulla tergiversare, non
con gli occhi intelligenti di Angelica piantati addosso. «Non voglio
certo derubarlo, tranquilla. Mi serve una mappa che conserva nel
forziere cittadino.» Angelica sgranò appena gli occhi, aprì la bocca
come per dire qualcosa, poi la richiuse.
«Aspettami qui» disse, voltandosi e correndo nella stanza attigua al
salottino in cui avevano parlato. Rossano restò in attesa con
impazienza, poi Angelica tornò insieme a Verusca, che pareva a disagio
per la situazione disdicevole in cui la coinvolgevano.
«Verusca ci coprirà le spalle» affermò Angelica sicura. «Così
potremo muoverci con una certa tranquillità.» «Sai dove si trova la
stanza del tesoro?» le chiese Rossano.
Verusca si portò una mano alla bocca, quando sentì quelle parole,
ma Angelica la ignorò e rispose: «Naturalmente. Tu limitati a starmi
dietro e non dire niente. Questo è terreno mio, comandante».
Rossano ebbe l'impulso di sorridere, davanti a tanta
determinazione, ma poi incrociò lo sguardo spaventato di Verusca e
fece un cenno ad Angelica. Lei si voltò verso la sua dama di compagnia
e la strinse per le spalle, senza dire una parola.
Verusca la guardò per un istante, poi fece un lungo respiro e annuì,
ricomponendosi come meglio poteva.
«Bene» disse Angelica. «Andiamo.» Venanzio da Urbino scese con
cautela i gradini che portavano nel sotterraneo del castello. Cercava di
non inciampare nei propri piedi, anche se la tensione aveva dissolto i
fumi del vino e adesso si sentiva un po' più lucido.
Era infuriato: con se stesso, con Rossano da Brescia e con tutti
coloro che cospiravano contro di lui per rendergli la vita difficile.
«Ve la farò pagare» farfugliò mentre si avvicinava di soppiatto
all'ingresso del condotto segreto. Quando si sporse oltre una colonna
per osservare le guardie che presidiavano la porta chiodata e
inchiavardata, si accorse che non erano più le stesse che aveva corrotto
per far uscire Corrado.
«Che diavolo significa?» si chiese tornando ad appiattirsi dietro la
colonna. Cercò di calmarsi e di concentrarsi. Non era detto che il
cambio dei soldati significasse che qualcuno aveva scoperto il suo
giochetto. Lui non era più a conoscenza dei turni di guardia da
parecchi mesi, ormai, e quindi poteva trattarsi di un normale
avvicendamento.
Ma se non era così? Se davvero Rossano o Tarcisio Bonassei
avevano scoperto che aveva corrotto quegli uomini? Questo significava
che avrebbe dovuto muoversi con cautela, perché probabilmente i
nuovi soldati avevano ricevuto severe istruzioni, e sarebbero stati
pronti ad affrontarlo, se lui avesse cercato di corrompere anche loro.
Non sapeva quale ipotesi fosse più probabile, quindi decise di
comportarsi come se dovesse affrontare la soluzione peggiore.
Tornò indietro e si diresse al casotto del cambio della guardia in
fondo al corridoio, dove si avvicendavano gli uomini che
organizzavano i turni di piantone al castello. Scrutò da fuori le ombre
che si muovevano nella garitta, definite dalla luce del camino, e contò
quattro uomini. Più i due di piantone alla porta, facevano sei, troppi
per poterli affrontare tutti. Doveva escogitare qualcosa, un trucco per
distrarli, e in fretta.
Forse avrebbe potuto appiccare un fuoco all'esterno del casotto, in
modo da richiamare tutti gli uomini per cercare di spegnerlo, anche
quelli di guardia al passaggio. In quel modo Rossano avrebbe capito
che era stato lui a organizzare tutto, per fuggire attraverso la galleria,
ma ormai sarebbe stato troppo tardi.
Difficile che il comandante della guarnigione immaginasse quali
erano i suoi veri propositi: avrebbe pensato che era un vigliacco, e che
si era dato alla fuga per salvare la pelle, non certo per andare a
consegnare al Barbarossa il segreto per penetrare in città.
Venanzio si convinse. Sì, era una mossa azzardata ma che avrebbe
potuto dare buoni frutti.
Si guardò intorno e individuò subito diversi pezzi di legno che
avrebbero fatto al caso suo. I sotterranei del castello erano ancora
pieni di impalcature e di zone in cui i lavori erano stati solo iniziati, e
per lui sarebbe stato facile recuperare quanto bastava per appiccare un
incendio che avrebbe fatto accorrere gli uomini di presidio.
Angelica gli fece segno di fermarsi un attimo, si guardò attorno
circospetta, poi sgattaiolò in una stanza che dava direttamente negli
appartamenti privati di suo padre.
Rossano era sorpreso dalla determinazione e dall'abilità con cui
Angelica si muoveva, dimostrando di conoscere alla perfezione ogni
passaggio del grande palazzo.
Prima l'aveva fatto passare dalle sue stanze, fino a una porticina
che conduceva a un corridoio di servizio usato dai servi per spostarsi
con discrezione da una stanza all'altra, poi era balzata con grazia in un
paio di altri ambienti che Rossano non era riuscito a riconoscere, fino
a quando erano entrati in quella camera dalle pareti spoglie, in cui
erano accatastate casse e contenitori di ogni genere.
«Dove siamo?» si decise finalmente a chiederle Rossano, che aveva
ormai perso il senso dell'orientamento.
Angelica gli fece segno di abbassare la voce, poi rispose in un
sussurro: «Dietro quella porta c'è la camera da notte di mio padre.
Non credo che lui sia qui, data l'ora, ma non si può mai sapere».
«La stanza del tesoro è vicino alla camera da letto di tuo padre?»
chiese sorpreso Rossano. Di solito i nobili facevano costruire la camera
che custodiva i loro averi lontana dagli alloggi personali, per non
rischiare che qualche malintenzionato capitasse ai piedi del loro letto.
Angelica sorrise. «Questo palazzo non ha una stanza del tesoro»
rispose. «È stato costruito in fretta, senza indulgere in certe
comodità.» Rossano la guardò senza comprendere. «Allora...» iniziò,
allargando le braccia, ma Angelica l'azzittì portandosi un dito alle
labbra.
«Quello che cerchi è qui» rispose accostando l'orecchio alla porta e
restando in ascolto. «Mio padre ha deciso di tenere il suo forziere
sempre sott'occhio.» Aspettarono ancora qualche istante, con Angelica
che cercava di capire se ci fosse qualcuno, nella stanza dall'altra parte,
poi lentamente aprì la porta e sporse il capo nella camera da notte del
padre.
«Via libera» disse facendo segno a Rossano di seguirla.
La stanza era arredata con gusto ma in modo sobrio, quasi
spartano, per un uomo dell'importanza di Rodolfo Concesa.
Si notava la mancanza di una donna, e Rossano ricordò che il conte
era rimasto vedovo qualche anno prima, e non si era più risposato. Per
la giovane età, Angelica non era in grado di compensare le cure di una
moglie, e dunque la stanza era arredata con un grande letto a
baldacchino, una scrivania robusta, un cassettone, un paio di sedie a
centone e un'enorme cassapanca.
L'unico stipo era appoggiato contro la parete di fronte.
Senza esitare, Angelica si diresse verso il cassettone, poi chiese a
Rossano di darle una mano.
«Che cosa vuoi fare?» chiese lui, nervoso. Se il console li avesse
scoperti là dentro... nessuna scusa sarebbe valsa a proteggerlo dalla
sua furia.
«Spostiamolo» rispose Angelica afferrando il pesante cassettone.
Rossano fece forza con le gambe e, insieme a quella vulcanica
ragazza, riuscì a spostare il cassettone quanto bastava per mettere alla
luce una piccola nicchia scavata nel muro. Là dentro c'era una custodia
di legno, che Angelica prese e aprì, mostrandone il contenuto a
Rossano.
«La chiave del forziere» disse con un sorriso.
Era chiaro che Angelica si stava divertendo, per quell'eccitante
diversivo. Forse non capiva la gravità della situazione, ma Rossano
non se la sentì di riprenderla per questo.
«Dove si trova?» chiese con urgenza. Voleva uscire al più presto da
lì, se possibile con la prova che gli serviva per dimostrare al console
che aveva ragione.
Angelica si diresse allo stipo, lo aprì, poi introdusse la chiave nella
serratura di quella che pareva una cassa costruita direttamente sul
fondo, ma che Rossano riconobbe subito per quello che era. Il forziere,
infatti, era fasciato di ferro e rinforzato sugli angoli, in modo che non
fosse possibile staccarlo troppo facilmente dallo stipo o sfasciarlo. Se
qualcuno avesse voluto rubarlo, avrebbe dovuto portarsi via l'intero
stipo, e l'operazione non sarebbe stata tanto semplice.

11
«Ecco qua» disse Angelica facendosi da parte e mostrandogli il
forziere aperto. «Adesso cerca tu quello che ti serve.» Rossano prese
un lungo respiro e si avvicinò. Nel forziere non c'era molta roba:
qualche borsa di monete, diverse pergamene legate e chiuse da sigilli
di ceralacca, e alcune custodie di panno in cui probabilmente il conte
aveva riposto oggetti di valore.
Rossano ignorò quel piccolo tesoro, e si mise alla ricerca della
mappa della città che aveva visto arrotolare dall'attendente di Rodolfo
Concesa.
Ispezionò più volte il contenuto del forziere, ma non trovò nulla.
Allora cominciò a estrarre le pergamene sigillate e gli oggetti avvolti
nel panno, lentamente, verificando tutto quello che raccoglieva, fino a
quando il forziere fu vuoto.
«Qui non c'è» disse, sentendo aumentare l'inquietudine. Se aveva
ragione, e Venanzio da Urbino aveva rubato la mappa della città per
consegnarla al Barbarossa, lui aveva adesso la prova per condannarlo,
ma Alessandria correva un grave pericolo.
«E se mio padre avesse messo quel documento da qualche altra
parte?» Rossano scosse la testa. «Non credo» disse. «È troppo
prezioso per rischiare di tenerlo fuori del forziere.» «Allora andiamo
da mio padre e spieghiamogli che è sparito» affermò decisa Angelica.
Rossano la guardò, mentre rimetteva tutto nel forziere.
«Ci andrò io» rispose. «Tu tornerai nelle tue stanze.» Angelica
avvampò. «Cosa?» strillò. «Ti sono servita fino adesso e poi ti sbarazzi
di me come se niente fosse?» «Non è così» ribatté Rossano. «Voglio
solo tenerti alla larga da possibili guai con tuo padre.» «I rapporti tra
me e mio padre non ti riguardano!» sibilò lei.
«Sì, invece!» sbottò Rossano. «È proprio a causa di questi vostri
rapporti che io e te non possiamo frequentarci, non lo capisci?
Non voglio che tuo padre creda che stiamo complottando alle sue
spalle.» Angelica fece per rispondere, tutta rossa in viso come le
accadeva sempre quando si irritava, ma poi sgranò gli occhi e si
irrigidì.
«E quello che state facendo?» chiese una voce alle spalle di
Rossano, facendolo sobbalzare. «State complottando contro di me?»
Rossano si voltò, e si trovò davanti lo sguardo duro di Rodolfo
Concesa. Il conte era entrato senza fare rumore, silenzioso come un
gatto, e Rossano si diede dello stupido per essersi fatto cogliere in
flagrante in quel modo.
Eppure sapeva che non poteva esitare. Non con quello che c'era in
ballo.
«Probabilmente non sarà facile giustificare il mio comportamento,
Eccellenza» disse cercando di contenere il tremito nella voce. «Ma vi
assicuro che Angelica non c'entra nulla. Sono stato io a costringerla a
darmi una mano.» «Tu non mi hai affatto costretta» intervenne con
foga Angelica.
«E non siamo né ladri né cospiratori. Digli quello che abbiamo
scoperto.» Il conte li osservava con un misto di rabbia e sorpresa, ma
anche con quella che Rossano comprese essere curiosità. Il che poteva
giocare a suo favore.
«La mappa della città» disse, senza tergiversare oltre. «È
scomparsa. E io sono sicuro che l'abbia presa Venanzio da Urbino.» Vi
fu un attimo di silenzio, poi il console si accigliò, e l'ira sembrò
scomparire dal suo volto.
«Ciò che dite è molto grave» asserì. «Ma possiamo verificare subito
se siete nel giusto o no.» Si diresse verso lo stipo, osservò il forziere e
vi frugò dentro per un po', poi scosse la testa e guardò Rossano.
«Siete sicuro che sia stato Venanzio?» «Non posso averne la
certezza» rispose Rossano, «ma direi che è arrivato il momento di
verificarlo.» Rodolfo Concesa si tirò su e strinse i denti. «Sbrigatevi a
farlo, comandante. Se Venanzio da Urbino si è davvero impossessato
della mappa della città, siamo tutti in pericolo.» Rossano fece
convocare da Tarcisio Bonassei i migliori fra gli uomini di cui
potevano disporre al di fuori dei turni di ronda sugli spalti, e li
sguinzagliò per tutta la città, con l'ordine di rintracciare e arrestare
Venanzio da Urbino. Chiunque si fosse opposto al provvedimento
avrebbe dovuto essere fermato e arrestato a sua volta, senza riguardi
per nessuno.
«Io e te andiamo al castello» disse a Tarcisio quando gli uomini si
furono allontanati.

«Credi che se la sia data a gambe?» chiese Bonassei sfoderando la


spada.
Rossano non rispose. In realtà non sapeva che cosa pensare.
Perché Venanzio non aveva approfittato subito del passaggio
segreto per scappare? Perché si era limitato a corrompere le guardie
per far fuggire Corrado da Casciago? Di che cosa era latore, lo scudiero
del delegato pontificio?
Ancora non poteva saperlo. L'unica possibilità per fare chiarezza e
cercare di recuperare la mappa di Alessandria era trovare Venanzio da
Urbino e costringerlo a parlare.
Quando arrivarono all'imbocco della scalinata che conduceva nei
sotterranei, si resero conto subito che era successo qualcosa.
Il sotterraneo era invaso dal fumo, e si sentivano le grida di
richiamo degli uomini, impegnati a spegnere gli ultimi residui di un
incendio.
Mentre correvano verso la porta della galleria, Rossano e Tarcisio
constatarono che il fuoco aveva aggredito la garitta del cambio di
guardia, annerendone la facciata, e si era poi inerpicato su alcune
impalcature di sostegno nella parte dei sotterranei ancora in
costruzione.
Si scambiarono un'occhiata.
«È stato lui?» chiese Tarcisio.
Rossano non rispose. Accelerò il passo e raggiunse la porta che
dava sulla galleria segreta. Era chiusa a chiave, e una delle guardie la
stava presidiando guardandosi attorno nervosa.
Dell'altro armigero non c'era traccia.
«Che cosa sta succedendo?» gli chiese Rossano, andando a
controllare la solidità del catenaccio. «Dov'è il tuo compagno?»
L'uomo li guardò spaventato, il volto sporco di fuliggine.
«Abbiamo visto il fumo» rispose, agitato, «poi le fiamme.
Erano dappertutto. Siamo accorsi e abbiamo aiutato gli altri a
spegnere l'incendio.» Rossano lo fissò con sospetto. «Avete
abbandonato il vostro posto di guardia?» chiese.
«Solo per poco» affermò il soldato. «C'era un sacco di fumo, non si
capiva niente!» «Come mai adesso sei solo?» gli chiese Tarcisio.

«Bernardo è rimasto ferito, lo stanno curando. Io sono tornato


subito qui, come da consegna.» «La porta era aperta o chiusa, quando
sei tornato?» volle sapere Rossano.
«Era chiusa, comandante» rispose il soldato, e a Rossano parve
sincero.
«Va bene» assentì, dando un'altra occhiata al catenaccio e facendo
poi segno a Tarcisio di uscire da là sotto.
Quando furono fuori, respirò l'aria fresca della sera e sputò per
terra, per togliersi dalla bocca il sapore del fumo e della cenere.
«Fai controllare la situazione dei sotterranei» ordinò a Tarcisio.
«E continua le ricerche di Venanzio in tutta la città.» «Credi che
non c'entri niente con l'incendio?» gli chiese Tarcisio.
Rossano esitò. «Non lo so» rispose poi. «L'unica cosa che possiamo
fare è cercarlo. Se non lo troviamo, allora sapremo che è stato lui.»
«Ma come può avere fatto?» esclamò esasperato il console. Era
infuriato, ma anche seriamente preoccupato per come si erano messe
le cose. «Siete certi che non sia nascosto in qualche buco qui in città?
Non può essersi dileguato nel nulla!» Rossano strinse i denti,
consapevole che la rabbia che scuoteva Rodolfo Concesa era la
medesima che azzannava le sue viscere.
«Abbiamo frugato ovunque, Eccellenza, e ormai ne sono sicuro.
Venanzio da Urbino è fuggito, allontanandosi dalla città.» «E ha
portato con sé la mappa segreta» sibilò il conte.
Rossano non disse nulla, conscio della gravità della situazione.
«Dite che ha appiccato lui l'incendio, per distrarre le guardie e
andarsene senza essere visto» continuò Concesa, come se volesse
ripercorrere passo dopo passo quello che era successo, incapace di
credere al tradimento del delegato pontificio.
«Sì, Eccellenza» rispose Rossano, «credo sia andata così.» «Ma
come ha fatto a chiudersi la porta alle spalle? I due uomini d'arme si
sono allontanati solo per un istante, mi avete detto. Ma quando uno
dei due è tornato al suo posto la porta era chiusa. Come ha fatto
Venanzio ad aprirla, infilarsi nel passaggio e poi richiudere quella
maledetta porta, sistemando il catenaccio dall'interno?» Rossano
sospirò: «Evidentemente ha pagato qualcuno per aiutarlo. Qualcuno
che nella confusione ha richiuso la porta dopo che lui si è introdotto
nel passaggio, senza farsi vedere».
Si strinse nelle spalle. «Oppure è riuscito a corrompere ancora le
guardie di piantone, questo non possiamo saperlo.» «Dovete
assolutamente scoprirlo!» ringhiò furibondo il console.
«Ormai non ha più importanza» ribatté Rossano. «Venanzio è
fuori, e probabilmente sta portando la mappa al Barbarossa.» Rodolfo
Concesa lo fissò gonfiando le mascelle. Poi annuì e parve calmarsi.
«Avete ragione» disse, con tono di voce più controllato. «Ormai
quel che è fatto è fatto. Adesso dobbiamo preoccuparci di difendere la
città.» «Non solo la città, Eccellenza» ne approfittò Rossano,
comprendendo che il momento era propizio per chiedere al console
quello che gli stava a cuore.
«Che cosa intendete dire?» «L'integrità della galleria è a rischio.
Quando il nemico ne scoprirà l'esistenza, saremo costretti a chiuderlo
facendo franare la volta. A quel punto diventerà inservibile, e noi non
avremo più alcuna via di fuga dalla città.» Rodolfo Concesa lo fissò
attentamente per qualche istante, poi annuì.
«State pensando ad Angelica, vero?» disse.
«Sì, Eccellenza» rispose Rossano. «Non c'è più tempo, dovete
mettere in salvo vostra figlia, subito.» Attese qualche istante una
reazione del console, poi quando vide che Concesa restava in silenzio,
fissando cupo il pavimento, comprese che era arrivato il momento di
insistere.
«Lasciate che Angelica e le sue dame di compagnia abbandonino la
città con una scorta armata» continuò. «Voi invece restate. Non credo
che qualcuno potrebbe considerare disonorevole per la vostra casata
mettere in salvo la vostra unica figlia.» Un profondo silenzio cadde
nella stanza. Poi alla fine Rodolfo Concesa sollevò gli occhi e guardò
Rossano.

«Avete ragione, comandante» ammise. «Non ha senso che mia


figlia venga immolata sull'altare di questa causa. Le araldiche della
mia casata non subiranno alcuna ingiuria, se deciderò di mettere al
sicuro Angelica. Ma io resterò.» Rossano assentì. «Se voi resterete, la
guarnigione manterrà alto il morale, e forse riusciremo davvero a
tenere lontano gli uomini del Barbarossa. Ma non ha senso correre il
rischio di vedere Angelica fra le mani di quei barbari assassini, se
dovessero fare irruzione.» Il conte si portò una mano al viso e se la
passò sugli occhi, come se solo in quel momento gli fosse venuto in
mente il terribile scenario che Rossano prospettava.
«Garantirete voi un'efficiente scorta armata per mia figlia?» chiese.
«Naturalmente» rispose Rossano, sentendo accelerare il battito del
cuore.
«Chi lo dirà ad Angelica?» chiese Rodolfo Concesa con una strana
espressione sul viso.
Rossano esitò un istante, senza capire, poi il conte sollevò una
mano.
«Lo farò io, naturalmente. Però so già che affrontare mia figlia sarà
più difficile che scontrarmi con tutto l'esercito imperiale.» «Avrete
bisogno anche voi di una scorta armata» disse Rossano.
Rodolfo Concesa sorrise.
«Mi sa proprio di sì, comandante. E composta anche dai vostri
uomini migliori.» Detto questo, il console raddrizzò la schiena e tornò
a mostrare l'espressione sicura e severa che lo contraddistingueva.
«Dovremo fare in fretta, però» aggiunse. «E subito dopo voi farete
chiudere il condotto segreto. Non possiamo rischiare che il nemico lo
sfrutti per compiere un'incursione in città.» «Io aspetterei,
Eccellenza» lo contraddisse a sorpresa Rossano.
«Che cosa avete in mente?» gli chiese il console.
«Potrebbe trattarsi di un'ottima occasione per assestare un duro
colpo all'esercito imperiale» rispose. «Se cercheranno di entrare
pensando di coglierci di sorpresa, si accorgeranno che non sarà tanto
facile, e che la manovra gli si ritorcerà contro.»
Rodolfo Concesa lo fissò con un misto di sospetto e ammirazione,
poi fece un cenno con il capo e gli diede una pacca sulla spalla.
«Bene, comandante» disse, «voi pensate a come accogliere quei
banditi nel migliore dei modi, io cercherò di non farmi sbranare da
mia figlia.» Nonostante la tensione del momento, Rossano e il conte si
lasciarono con il sorriso sulle labbra.
«Vigliacco, maledetto, traditore!» Angelica si scagliò contro di lui
non appena lo vide, ma per fortuna Verusca e un'altra delle sue dame
di compagnia riuscirono a fermarla appena in tempo, altrimenti le
unghie affilate come artigli sarebbero affondate nel viso di Rossano.
Per un momento lui pensò che forse sarebbe stato meglio così, che
avrebbe preferito veder sgorgare il proprio sangue, piuttosto che il
fiume di lacrime che all'improvviso eruppe dagli occhi della sua amata.
Angelica si accasciò nella stretta di Verusca, che fece segno all'altra
damigella di allontanarsi, mentre abbracciava stretta la sua protetta.
Si trovavano nei sotterranei del castello, adesso liberi dal fumo
dell'incendio ma con l'aria ancora impregnata dell'odore di legno
bruciato e cenere. Rossano aveva istruito a dovere gli uomini che aveva
incaricato di fare da scorta ad Angelica e alle sue damigelle, e stavano
aspettando davanti alla porta del condotto l'arrivo della contessina.
Quando lei era finalmente giunta, insieme alle sue damigelle, a un
paio di bauli con le cose essenziali di cui non poteva disfarsi e scortata
dalla guardia personale di Rodolfo Concesa, aveva stravolto all'istante
l'aria dimessa e avvilita con cui si trascinava, per scagliarsi contro di
lui come se avesse visto la persona che più odiava al mondo. Adesso,
però, era tornata a lasciarsi sopraffare dall'angoscia e dalla
mortificazione.
Rossano, con il cuore a pezzi per quello che vedeva, cercò di
mantenersi impassibile. Lo stava facendo per lei, perché sapeva che
non sarebbe stata al sicuro, in città, e che la sola speranza che gli
restava di portarla in salvo, di non farle fare la fine di Beatrice, era
farla fuggire finché era ancora in tempo, finché il passaggio segreto era
ancora sicuro.

Non sapeva quando Venanzio da Urbino sarebbe riuscito a far


sapere all'imperatore di quel passaggio, ma non voleva correre rischi.
Angelica doveva andarsene subito, e mostrarsi indulgente con lei,
disposto a parlarle e a mostrarle il suo amore, sarebbe solo servito a
far ritardare la sua partenza. Anche a costo di farsi odiare sul serio da
Angelica, Rossano sapeva che avrebbe dovuto dimostrarsi il più freddo
e distaccato possibile, per rendere più rapida la loro separazione.
Ma quando Angelica sollevò lo sguardo e lo fissò con gli occhi
allagati di lacrime, si sentì morire per la disperazione.
«Lo stai facendo per me, vero?» gli chiese lei con un sussurro.
«Dimmelo.» Rossano restò in silenzio, reggendone lo sguardo a
fatica. Pòi si voltò e fece segno ai suoi uomini di prendere in custodia
la contessina e le sue damigelle.
Angelica però non voleva darsi per vinta. Si divincolò da Verusca e
gli corse incontro, fissandolo con rabbia.
«Lo so che mi ami» gli disse, «e che mi stai cacciando solo perché
non vuoi che mi accada qualcosa. Ma quello che non capisci è che io
preferirei restare qui a morire con te, piuttosto che rimanere sola.»
Quelle parole bruciarono come fuoco nell'anima di Rossano, che per
un momento fu tentato di afferrare Angelica e stringerla con forza,
dichiarandole tutto il suo amore; ma era già passato per quella strada,
e il solo risultato che aveva ottenuto era che sua moglie era stata
barbaramente violentata e poi uccisa, e lui non era riuscito a
difenderla. Non poteva rischiare di trovarsi ancora in quella
situazione.
«Io non ti amo» disse con un sibilo, cercando di non tagliarsi la
lingua mentre emetteva quelle parole false e pungenti. «Penso ancora
a mia moglie. È lei nei miei pensieri, sempre.» Angelica restò a
guardarlo per un tempo che gli parve infinito, poi, all'improvviso, si
allontanò da lui.
«D'accordo» disse, con un filo di voce. «Ho capito. Ma sappi una
cosa, Rossano da Brescia.» Tacque, fissandolo con la massima
attenzione, poi, inaspettatamente, mostrò un pallido sorriso. «Io non
ti credo. E tornerò da te quando meno te lo aspetterai.» Detto questo si
voltò bruscamente, fece segno a Verusca di seguirla e si inoltrò nel
passaggio buio scavato sottoterra. La scorta armata non perse tempo e,
ben presto, scomparvero tutti nella galleria, lasciando Rossano in un
abisso di sconcertato tormento.
Che cosa aveva voluto dire, Angelica? Non lo sapeva, ma quando
vide che i suoi uomini richiudevano la porta e la sprangavano
dall'interno, cercò per l'ennesima volta di convincersi di avere fatto la
cosa giusta.
Angelica già gli mancava, ma adesso lui avrebbe potuto
concentrarsi sulla difesa di Alessandria senza il pensiero di ciò che
sarebbe potuto accadere alla contessina se gli usurpatori del
Barbarossa fossero riusciti a penetrare in città.
Una ben magra consolazione...
5
Rainaldo di Darmstadt cercò di trattenere l'eccitazione che lo
faceva tremare e corse fuori della tenda allacciandosi il cinturone
attorno alla vita prominente. Alla fine, dopo tre mesi trascorsi nel
carro che aveva fatto attrezzare con le migliori comodità possibili,
aveva dovuto abdicare da quella scelta coraggiosa e in controtendenza
rispetto a quanto erano soliti fare i generali al seguito dell'imperatore,
e chiedere che anche a lui venisse eretta una tenda da campo. Per
quanto grezzi e spartani, quei padiglioni erano senz'altro più comodi e
ariosi rispetto allo spazio angusto offerto dal carro. Quando era
risultato chiaro che l'assedio si sarebbe protratto ancora a lungo, vista
la qualità delle difese di Alessandria e la testardaggine del Barbarossa,
che non avrebbe mai accettato di andarsene con la coda fra le gambe,
Rainaldo aveva dovuto rinunciare al suo innato desiderio per lo sfarzo
e le comodità, abbandonando il carro imbottito di raso e velluti che
aveva sempre rappresentato una sorta di simbolo per tutti, il suo modo
per far capire che l'assedio sarebbe durato ragionevolmente poco e che
quindi non aveva senso trasferirsi in una dimora più ampia ma anche
più stabile come una tenda.
Ma ormai Rainaldo aveva rinunciato ai simboli e ai messaggi da
indirizzare alle truppe. L'assedio si era dimostrato un vero e proprio
disastro, uno spreco di energie, mezzi e risorse senza pari, che stava
costando all'esercito imperiale buona parte della sua credibilità e,
soprattutto, degli approvvigionamenti.
Le scorte al seguito dell'esercito erano infatti state calcolate per
una veloce incursione in Italia, che quindi non prevedeva un assedio
più lungo di un paio di settimane, e nessun bastione abbastanza
robusto da resistere alle potenti macchine da guerra che i genieri
imperiali avevano fabbricato mettendo in pratica il meglio dell'arte
militare.
I calcoli erano risultati sbagliati, e ormai da più di un mese
l'assedio era solo nominale: il lancio di proietti sulla città era cessato
fin da quando era risultato troppo dispendioso andarsi a rifornire di
pietre fin sui contrafforti delle montagne, le torri di assalto erano state
tutte distrutte con facilità sorprendente dalle baliste nemiche, e
qualsiasi tentativo di valicare i bastioni con le lunghe scale uncinate o
con le corde annodate scagliate dalle fiocine veniva sventato con
piogge di olio bollente o pece infuocata. Quella città sembrava non
avere punti deboli, era in grado di resistere ai colpi delle catapulte più
potenti, e non c'era alcun modo per avvicinare gli arieti alle solide
porte chiodate e abbatterle.
Più volte Rainaldo si era detto che a quel punto sarebbe stato
meglio abbandonare l'assedio e proseguire per gli altri Comuni Padani,
fintanto che l'esercito era ancora abbastanza integro e in grado di
prevalere in uno scontro tradizionale a campo aperto. Era sicuro che
non avrebbero incontrato altre fortezze come Alessandria, sul loro
cammino, e che quindi quella sarebbe stata l'unica mossa possibile per
uscire dallo stallo.
Ma naturalmente Federico I il Barbarossa non voleva neppure
sentir parlare di quell'eventualità. Aveva convocato decine di volte i
suoi generali, negli ultimi mesi, per interminabili consigli di guerra
durante i quali non aveva fatto altro che sbraitare per tutto il tempo,
insoddisfatto delle tattiche improvvisate che gli venivano proposte per
cercare di avere ragione di quella fortezza inespugnabile. E quando
qualcuno osava mettere costantemente in dubbio che fosse possibile
conquistare Alessandria, l'imperatore diventava una belva assetata di
sangue: Rainaldo aveva assistito a ben tre esecuzioni, una delle quali a
danno di uno dei comandanti più valenti della cavalleria imperiale.
Un fatto, questo, che aveva disseminato il terrore nei generali
dell'esercito, che cominciavano a credere che l'imperatore fosse
impazzito e che prima o poi li avrebbe portati tutti alla rovina.
«Non lascerò che quella città resti in piedi!» sbraitava il Barbarossa
ogni volta che qualcuno cercava di riportarlo alla ragione.
«Diventerebbe il simbolo della nostra sconfitta, dell'onta e del
disonore che ci sommergerebbero per sempre, annientando qualsiasi
credibilità nel Sacro Romano Impero e in me, l'imperatore!» Preso
dalla disperazione, Rainaldo aveva segretamente mandato un
messaggero da sua madre, con una richiesta di aiuto impellente: aveva
bisogno di uno dei suoi preziosi consigli, perché non poteva continuare
ad assistere impotente a quello scempio.
Voleva fare qualcosa, ma non riusciva a ragionare con la mente
abbastanza fredda, lì nel caos del fronte. Quando, dopo più di tre
settimane, la risposta della madre era finalmente arrivata, Rainaldo
non aveva creduto a ciò che leggeva. Lei gli ingiungeva di non
immischiarsi nelle strategie militari dell'imperatore, perché era troppo
pericoloso. Nessuno sarebbe riuscito a riportare alla ragione il
Barbarossa, e dunque lui doveva appoggiarlo in ogni occasione, anche
a costo di assecondarlo nel raggiungere prima la disfatta. La sua vita
era più importante di qualsiasi cosa, persino della buona riuscita dei
piani di espansione dell'imperatore.
Rainaldo non avrebbe mai immaginato che le cose fossero così
tragiche, ma se sua madre gli imponeva un simile comportamento, era
perché da lontano aveva una visuale più coerente e obiettiva di quello
che stava succedendo, e quindi riusciva a giudicare meglio di lui quale
sarebbe stata la strategia migliore da seguire.
Così Rainaldo aveva rinunciato a cercare di convincere Federico ad
affrontare con più calma e ragionevolezza la situazione, e si era tirato
in disparte, limitandosi a osservare le manovre esagitate dei generali e
dei condottieri imperiali, che capivano come il loro onore e la loro
stessa vita fossero ogni giorno sempre più a rischio.
Poi, del tutto inaspettatamente, il cielo carico di nuvole di tempesta
si era squarciato grazie a un potente raggio di sole, e adesso Rainaldo
aveva finalmente qualcosa di concreto in mano con cui potersi di
nuovo fare avanti.
Non era uno sprovveduto, e non avrebbe commesso alcun gesto
avventato, ma sapeva che quello che aveva da proporre all'imperatore
era così importante che forse avrebbero potuto davvero mettere fine a
quel maledetto assedio. E con esso a tutti i problemi che ormai da
settimane non lo facevano più dormire la notte.
Così aveva chiesto all'attendente in capo dell'imperatore di
convocare un consiglio di guerra straordinario, anche a costo di
buttare giù dal letto Federico e tutti i suoi generali.
Il messaggio che aveva da riferire era troppo importante per
indugiare anche solo un secondo di più.
Quando entrò nella tenda dell'imperatore, dove Federico si era
ormai abituato a convocare i consigli di guerra, Rainaldo restò
sorpreso nel constatare che erano già tutti presenti, radunati attorno al
grande tavolo su cui era stesa la mappa della valle del Tanaro, con la
pianta di Alessandria disegnata con tanta cura da poter scorgere ogni
minima rientranza e sporgenza dei bastioni.
«Non servirà a niente, Maestà» stava dicendo Ottone di
Wittelsbach, compunto ma deciso come sempre. Era il solo che
riuscisse ancora ad affrontare a viso aperto il Barbarossa, che sedeva
ingrugnito sul suo scranno di legno, abbastanza alto da permettergli di
avere sotto gli occhi la grande mappa. «Sarà l'ennesima carneficina.
Avanti di questo passo, non avremo più uomini per poter continuare la
campagna.» Nessuno dei generali e dei nobili che sostavano attorno al
tavolo ebbe l'ardire di aggiungere qualcosa, in attesa della reazione di
Federico, che dopo essersi passato il dorso della mano sulla barba
sporca di vino, sputò per terra con evidente disprezzo.
«Farò venire dei rinforzi» affermò, con una sicurezza che era
dettata più dalla rabbia che dalla ragione. «In ogni caso, non lascerò
che quella maledetta città resti in piedi. Non intendo mettere a
repentaglio il mio onore di fronte al mondo.» Rainaldo sospirò e si
avvicinò, fremendo per l'impazienza ma cercando di contenersi.
Sapeva che avrebbe dovuto giocare bene le sue carte per ottenere il
massimo risultato con il minimo sforzo: il che significava guadagnare
per sé il merito della straordinaria opportunità che stava per offrire
all'imperatore.

«Non potremmo provare con il fuoco greco?» chiese re Ladislao di


Boemia, senza sollevare lo sguardo dalla mappa. «Ormai l'inverno è
finito, il fuoco dovrebbe attecchire bene e...» «Piantatela!» gridò il
Barbarossa scagliando a terra la coppa di vino che reggeva fra le mani.
«Non stiamo studiando una strategia militare, ci stiamo muovendo
come ciechi! Se nessuno ha la più pallida idea di come si possa
abbattere quella città, allora andatevene! Sono stanco dei vostri inutili
suggerimenti!» «Vostra Maestà Imperiale» disse Rainaldo,
approfittando del momento di pesante silenzio che era sceso nella
tenda dopo la sfuriata di Federico. «Forse ho io una soluzione
interessante.» Si voltarono tutti a guardarlo, chi con sorpresa, chi con
evidente disprezzo. Il Barbarossa si leccò le labbra e fece una smorfia,
ma non sogghignò, perché ormai lo conosceva troppo bene per non
comprendere che quel suo colpo di teatro era stato architettato ad arte
per sorprenderlo. E per compiacerlo.
«Tu?» gli chiese. «E quale sarebbe?» Rainaldo avanzò lentamente,
gustando ogni singolo istante di quel momento di gloria. Era
circondato dai più valorosi generali e vassalli militari dell'imperatore,
eppure era lui a fornire finalmente la chiave per accedere ad
Alessandria.
Si avvicinò alla mappa distesa sul tavolo, prese uno dei pezzetti di
carboncino che servivano agli architetti imperiali per aggiungere
ulteriori particolari al disegno, poi con mano sicura tracciò una doppia
riga che partendo da un punto della città fortificata si spingeva in linea
retta fino alle colline disposte a occidente, in una zona ben al di là delle
linee degli assedianti.
«Questa, Vostra Maestà» rispose alla fine, dopo che ebbe terminato
il disegno, «è una galleria segreta che conduce direttamente nei
sotterranei del castello di Alessandria, passando sotto i bastioni.»
Come si era aspettato, nella tenda scoppiò il pandemonio. Tutti si
rivolsero a lui contemporaneamente, chiedendo spiegazioni,
insultandolo, urlando per sfogare la loro frustrazione. Finché il
Barbarossa non li azzittì alzandosi in piedi e avvicinandosi a Rainaldo.
L'imperatore arrivò a meno di una spanna dal suo naso, lo fissò di
sbieco e mostrò un mezzo sorriso, sepolto dalla peluria rossastra della
barba incolta.

«Non ci stai prendendo in giro, vero?» chiese, esternando il


pensiero di tutti coloro che si trovavano in quel momento nella tenda
imperiale.
«No, mio signore» rispose Rainaldo sorridendo a sua volta.
Estrasse dalla bisaccia che portava alla vita il rotolo di pergamena
che aveva tenuto per il colpo di scena finale e lo porse a Federico.
«Questa è la mappa originale di Alessandria» spiegò. «Ne sono
appena venuto in possesso. Guardatela, Maestà, e vi accorgerete che il
passaggio segreto che ho riprodotto vi è segnato in maniera
inconfutabile.» Mentre un forte brusio tornava ad alzarsi, il
Barbarossa strappò la pergamena dalle mani di Rainaldo e, con
impazienza, la srotolò sul tavolo. Tutti vi si piegarono sopra per
guardarla, e le esclamazioni di rabbia e di indignazione si
trasformarono in mormorii eccitati e pieni di meraviglia.
«Dove l'hai presa?» gli chiese l'imperatore con una luce di trionfo
negli occhi. Rainaldo, che conosceva bene quell'espressione, seppe di
avere vinto. Il Barbarossa gli sarebbe stato riconoscente, per
quell'inattesa possibilità di riscatto che lui gli offriva su un piatto
d'argento. Molto riconoscente.
«Stenterete a crederlo, Maestà» rispose Rainaldo con una risatina.
«Un traditore è riuscito a mettersi in contatto con me e mi ha
consegnato questa mappa. In cambio, chiede la vostra benevolenza.»
Federico si raddrizzò e lo fissò sorpreso.
«Un traditore?» chiese. «E chi sarebbe?» Questa volta Rainaldo
non seppe trattenere una risata.
«Venanzio da Urbino» rivelò poi. «Il delegato pontificio ad
Alessandria.» «Che cosa?» tuonò Ottone di Wittelsbach. «E voi vi
fidate di quell'uomo? Potrebbe essere una trappola!» Rainaldo scosse
la testa. «No, Eccellenza, non credo. Conosco bene il cardinale Accorsi,
a cui Venanzio da Urbino prestava i suoi servigi, e vi posso assicurare
che non sarebbe mai in grado di mettere in atto un simile piano.»
«Allora perché quest'uomo ha deciso di tradire Alessandro III?» chiese
poco convinto re Ladislao.
«Proprio adesso, poi» continuò Ottone di Wittelsbach. «Quando
ormai pare assodato che l'assedio ristagni.»
Rainaldo strinse gli occhi. «Venanzio da Urbino è un uomo avido e
corrotto» rispose. «Ha capito che il nostro esercito riuscirà comunque
ad avere la meglio sulla Lega Lombarda, e ha deciso di vendere
Alessandria in cambio della salvezza e della benevolenza di Sua
Maestà.» «Parla più chiaramente» sbuffò il Barbarossa. «Che cosa
pretende da me, quest'uomo?» «Un titolo nobiliare e il consolato,
Maestà. In una città qualsiasi a vostra scelta fra quelle che
conquisteremo in questa campagna.» Il Barbarossa sembrò
rimuginare per un istante sulla richiesta, poi sbuffò e tornò a
contemplare la pergamena consegnatagli da Rainaldo.
«Se questo passaggio esiste davvero» rispose, con una luce avida
nello sguardo, «allora ricoprirò quell'uomo d'oro.» Fece una smorfia
piena di sarcasmo. «Tutta roba che porteremo via agli abitanti di
Alessandria, naturalmente.» 6
Quando arrivarono in vista di Milano, Angelica ebbe l'impressione
di trovarsi davanti a un gigantesco formicaio. Tutto intorno alle mura
ancora in costruzione c'erano decine di operai al lavoro, donne che
andavano avanti e indietro portando caraffe di acqua e di vino, focolai
accesi ovunque per scaldare le zuppe in enormi pignatte, in modo da
poter servire i pasti a muratori e carpentieri. Era evidente con quale
fermento la città cercava di ricostruire le proprie difese, in vista di un
possibile arrivo dell'esercito imperiale, che già una volta aveva raso al
suolo Milano e che si annunciava più potente e pericoloso che mai.
Angelica osservò le impalcature che erano state erette ovunque, gli
operai al lavoro, e si sorprese di come in pochi mesi i milanesi fossero
già riusciti a innalzare buona parte della cerchia dei bastioni. Altre
squadre di carpentieri erano al lavoro per scavare e ampliare il grande
fossato che correva all'esterno, procedendo in direzione opposta alla
crescita delle mura, in modo che gli operai non si intralciassero a
vicenda.
Per quanto tutti si dessero da fare, però, era evidente che ci
sarebbero voluti ancora parecchi mesi, prima che Milano potesse
disporre di una barriera difensiva capace di opporre una valida
resistenza al Barbarossa. Mentre avanzava insieme a Verusca, alle
altre dame di compagnia e alla scorta armata che Rossano le aveva
messo a disposizione, Angelica paragonò i possenti bastioni di
Alessandria, che erano riusciti davvero a fermare l'imperatore, ai tratti
ancora in costruzione delle mura milanesi, e non potè fare altro che
emettere un sospiro di angoscia.
«Questa è gente dall'animo forte» commentò Verusca al suo fianco,
come se le avesse letto nel pensiero. «Non si faranno certo intimidire
dal Barbarossa.» Angelica annuì, e comprese che forse era quello il
vero significato di tanto fermento: non la speranza di erigere in tempo
una barriera capace di fermare l'esercito imperiale, ma la
dimostrazione prima di tutto a loro stessi che i milanesi non erano
disposti ad arrendersi di fronte a nessuno, e che avrebbero combattuto
fino alla morte, pur di difendere la loro città e il loro territorio.
Angelica si sentì invadere da un afflato di orgoglio, per quella gente
a cui lei stessa apparteneva, avendo avuto i natali proprio a Milano,
poi subito dopo il suo volto si irrigidì in una espressione piena d'ira:
come avrebbe potuto dare il suo contributo, se era circondata da
uomini che non pensavano ad altro che a proteggerla?
Lei era una donna, certo, ma sapeva di essere abbastanza forte e
determinata, e non sopportava l'idea che Rossano avesse deciso per lei
quale dovesse essere il suo ruolo in quella guerra.
«Verusca» disse, lanciando un'occhiata di sottecchi agli armigeri
che la scortavano, «tu mi devi aiutare.» La sua dama di compagnia si
accigliò.
«Che cosa dovrei fare?» chiese, piena di sospetto.
«Appena saremo in città voglio che tu e le altre ragazze distraiate
gli uomini della scorta» rispose Angelica, con determinazione, per far
capire a Verusca che non stava affatto scherzando. «Io ne approfitterò
per allontanarmi non vista.» Verusca sgranò gli occhi spaventata.
«E dove vorresti andare?» chiese. «Non è sicuro aggirarsi per la
città da sola, lo sai. E poi a palazzo ci aspettano, il conte tuo padre mi
ha dato un messaggio da consegnare al console Gisalberti.» Angelica
sorrise, cercando di tranquillizzarla.
«Non voglio fare pazzie» disse. «Ho solo bisogno di stare un po' da
sola, e di guardarmi attorno. Qui sono tutti in attività, non voglio
rinchiudermi in una stanza a fare niente!» Verusca la fissò per qualche
istante, chiaramente poco convinta, poi assentì.
«D'accordo, però vengo anch'io con te.» «No» replicò Angelica.
«Senza il tuo aiuto non riuscirei ad allontanarmi. E poi ho bisogno che
tu tenga tranquillo Gisalberti per un po'.» Verusca si portò una mano
alla bocca.
«Allora fai sul serio» mormorò. «Che cos'hai in mente?» Angelica
distolse lo sguardo, per non tradire le sue intenzioni.
«Niente di speciale» rispose. «Voglio solo guardarmi intorno.
E godermi un po' di libertà, dopo tutto il tempo che sono rimasta
rinchiusa nelle mie stanze.» Verusca non ribatté nulla, e lei comprese
che non le aveva creduto. Ma non aveva importanza. Ormai era decisa
a fare quello che aveva rimuginato durante tutto il lungo viaggio fino a
Milano. Così Rossano avrebbe capito che non era tanto facile
sbarazzarsi di lei.
Ovunque c'erano uomini, donne e ragazzini che correvano da tutte
le parti, che si lanciavano grida e richiami. Se non fosse stato per
l'esercito imperiale alle porte, e la mancanza di addobbi di qualsiasi
genere, Angelica avrebbe detto che si stava organizzando una festa di
paese. Tutta quella frenesia, infatti, tutta quella eccitazione non si
esprimeva in volti cupi e preoccupati, ma al contrario dava vita a
un'allegria contagiosa e quasi surreale, che ben presto ebbe il potere di
infonderle il coraggio di cui aveva bisogno per portare a compimento il
suo piano.
In realtà la difficoltà principale, per lei, era proprio cercare di
capire come fare per dare sostanza alla rabbia che sentiva dentro, al
desiderio di dimostrare a Rossano e a suo padre che non era una
donnetta qualunque dedita ai ricami e alle chiacchiere, ma che sapeva
lottare e che avrebbe potuto dire la sua, nello scontro che presto
avrebbe visto contrapposta la sua gente a Federico Barbarossa.
Una parte di lei capiva che si stava imbarcando in una vera e
propria follia, eppure il solo pensiero di andare a rinchiudersi in
qualche stanza riccamente addobbata del palazzo consolare, mentre i
cittadini di Milano e di tutte le altre città collegate si preparavano a
combattere e a morire per la loro causa, la nauseava.
Raddrizzò quindi la schiena, e s'immerse nel caos che febbricitava
per le strade cercando di capire come essere partecipe anche lei di
quell'esaltazione collettiva che in preparazione dello scontro decisivo
cercava di incanalare ogni sforzo nella difesa della città. Verusca e le
altre ragazze erano state brave a distrarre la scorta, e lei non aveva
avuto difficoltà a scivolare via non vista, per confondersi tra la folla
che animava i vicoli della città.
Quando sbucò in una piccola piazza al centro della quale una
fontana faceva zampillare un rigagnolo d'acqua, vi si diresse
rendendosi conto di essere assetata. Ma, prima di raggiungere la
fontana, si accorse che diverse persone si ammassavano attorno a un
banchetto poco più in là, dove un giovane alto e con un naso enorme
arringava la folla, chiamando le donne a raccolta.
Quando gli occhi sporgenti ma gentili del ragazzo si posarono su di
lei, Angelica li vide brillare.
«Madamigella!» gridò il giovane indicandola con un dito lungo e
secco come un rametto d'albero. «Siete anche voi qui per contribuire
alla causa, non è vero?» Poi si girò entusiasta verso la piccola folla che
lo circondava, indicando Angelica. «Avete visto?» strillò. «Anche una
dama di così nobile lignaggio ha deciso di aiutarci! Forza, allora,
donne, fatevi sotto! Non vorrete essere da meno, vero?» Mentre tutti i
presenti si giravano verso Angelica, per scrutarla incuriositi, lei si
chiese come avesse fatto, quel giovane, a capire che era una dama, e
non una donna qualsiasi del popolo.
Eppure per il viaggio da Alessandria aveva indossato degli abiti
dozzinali, che adesso sfoggiavano uno strato di polvere spessa almeno
un dito. E i suoi capelli... santo cielo, non voleva neppure pensare a
come dovevano essere ridotti! Eppure, il giovane non aveva avuto
esitazioni e l'aveva riconosciuta subito per una dama di rango.

Era ancora immersa nei suoi dubbi quando il ragazzone alto e


allampanato la raggiunse con due lunghe falcate. Si inchinò in maniera
goffa, strappando risate a molti di coloro che assistevano alla scena, e
rivolse ad Angelica un sorriso così genuino da farlo sembrare per un
istante persino bello, nonostante il nasone.
«Siete qui per donare i vostri capelli ai mastri armaioli, non è vero,
madamigella?» le chiese il giovane, facendole cenno con la mano verso
il banchetto alle sue spalle.
Adesso che si era prodotto un varco tra la folla, Angelica riuscì a
vedere che cosa si celava oltre il capannello di persone nella piazza. Un
uomo, provvisto di grosse forbici da stalliere, stava tagliando i capelli a
una ragazza seduta su uno sgabello. Le lunghe ciocche castane
cadevano in una cesta ai piedi dell'uomo, andando a depositarsi su una
grande massa di capelli già tagliati.
Angelica rivolse un'occhiata incuriosita al giovane allampanato.
«Perché raccogliete quei capelli?» gli chiese, a voce abbastanza
bassa perché solo lui potesse sentirla.
Il ragazzo, che era più sveglio di quanto non sembrasse, comprese
che lei non voleva rovinargli l'effetto che aveva ottenuto sulle altre
donne, che adesso si avvicinavano con più convinzione al banchetto,
per offrirsi volontarie, e rispose a sua volta a bassa voce.
«Ne abbiamo bisogno per costruire corde per le balestre e per gli
archi, madamigella. Non c'è niente di meglio dei capelli, per costruire
archi potenti e della massima precisione.» Sorpresa ma eccitata
all'idea di poter finalmente contribuire in maniera concreta alla
chiamata alle armi a cui tutta la città stava rispondendo, Angelica
prese sottobraccio il giovane e sorrise.
«Benissimo, messere» disse, avviandosi con lui verso il banchetto.
«Sarà per me un onore offrire alla causa la mia capigliatura.» «Ne
faremo le balestre più potenti di tutta Milano!» esclamò felice il
giovane, facendosi largo tra la folla per condurre Angelica dal tosatore.
«E voi non esitate!» gridò di slancio Angelica alle altre donne
presenti, che la guardavano divertite ma ancora dubbiose. Si sedette
sullo sgabello lasciato libero dalla ragazza con i capelli castani e fece
cenno al tosatore di cominciare. «Noi donne non potremo impugnare
archi e spade» continuò, sentendosi pervadere da una sorta di estatica
eccitazione. «Ma almeno così i nostri uomini avranno qualcosa di noi
da portare in battaglia!» Quando il primo colpo di forbici le portò via
una lunga ciocca dei suoi meravigliosi capelli che ogni giorno le sue
dame di compagnia le acconciavano con cura, Angelica non avvertì
alcun dispiacere. Anzi, si sentì finalmente parte della sua città e della
sua gente come non lo era mai stata prima.
Ormai non ricordava più da quanto tempo si aggirava nei vicoli e
nelle strade della città, e neppure sapeva dove si trovava, visto che da
quando erano in atto i lavori di ricostruzione la fisionomia stessa di
Milano sembrava essere molto cambiata, rispetto a quella che
ricordava quando vi aveva vissuto da bambina.
Ma non le importava. Era ancora raggiante, piena di euforia e di
eccitazione per quello che aveva fatto, e anche se la curiosità di
guardarsi a uno specchio per capire come stava con i capelli tagliati
corti era fortissima, quello che più l'inebriava era l'idea di essere
diventata parte, con quel piccolo atto di sacrificio, del sentimento di
unione e compattezza che permeava tutti coloro che la circondavano.
Non aveva più paura di fare brutti incontri, e anzi, adesso che
aveva i capelli conciati in quel modo, che di sicuro dovevano darle
l'aspetto più di un giovane adolescente, che di una contessina, si
muoveva spavalda, alla ricerca di altre attività in cui lanciarsi senza
esitazione.
Il tosatore aveva avuto parecchio lavoro, dopo che lei si era alzata
dallo sgabello e aveva mostrato la sua nuova zazzera, incitando ancora
le donne che guardavano a farsi avanti, a dare il loro contributo.
Quando si era allontanata, il giovane allampanato l'aveva ringraziata
baciandole goffamente una mano, e lei aveva ringraziato lui con un
sorriso e un bacio soffiato dalle punte delle dita.
«Ho perso i miei capelli» gli aveva detto, «ma ho guadagnato
un'intera città.» Da quel momento non aveva fatto altro che girare
dando una mano a chi aveva bisogno di portare acqua ai carpentieri,
oppure rimestando le zuppe nei paioli accesi un po' ovunque, e
arrivando persino ad aiutare alcuni uomini a sollevare una pesante
trave, quando quelli, pensando che fosse un ragazzo, gli avevano
chiesto di dar loro una mano.
Adesso era quasi sera, e lei non aveva nessuna intenzione di
tornare a palazzo, anche se immaginava in quale stato di terrore e di
tensione dovesse trovarsi Verusca, che probabilmente era incollata a
una finestra nella speranza di vederla comparire da un momento
all'altro.
Sapeva che nonostante tutto non sarebbe stato prudente, per lei,
restare fuori anche di notte, ma aveva ancora qualche ora di luce
davanti, e voleva approfittarne fino all'ultimo.
Quando vide alcuni uomini che cercavano di spostare un grosso
bue da un vicolo in cui l'animale si era quasi incastrato, si precipitò per
dare una mano, ma si sentì afferrare al volo da una forte presa sul
braccio.
«Ehi, tu, dove vai?» gli chiese un giovane guardandola con
attenzione.
«Hanno bisogno di aiuto» rispose Angelica cercando di ispessire il
tono della voce.
«Anche noi» rispose un altro giovanotto che comparve da dietro il
primo. Indossavano entrambi una strana giubba a due colori, che lei
ricordava di avere già visto, anche se non esattamente dove.
«Che cosa vi serve?» chiese, rendendosi conto che la fissavano
come se notassero qualcosa di strano in lei ma non riuscissero a
capacitarsi di che cosa fosse.
«Siamo in guerra, ricordi?» le disse il primo ragazzo, che Angelica
trovò avere un aspetto familiare. Lo guardò attentamente, notando gli
occhi azzurri e il cespuglio di capelli crespi, ma quando, con un
sussulto, comprese a chi credeva che assomigliasse, scosse la testa
come a scacciare quell'impressione. Il giovane continuò: «Abbiamo
bisogno di giovani audaci, veloci nella corsa e con la vista buona. Non
ti andrebbe di diventare una staffetta della Compagnia del
Carroccio?».
Angelica lo guardò sorpresa.
«Siete arruolatori?» chiese.
«Naturalmente» annuì l'altro ragazzo, divertito. «Siamo staffette
della Compagnia del Carroccio, e abbiamo bisogno di tutti i giovani in
gamba della città. Tu che ne dici, credi di essere all'altezza?»
Angelica si sentì balzare il cuore in gola. Non poteva credere di
avere davvero la possibilità di concretizzare la sua folle idea.
«Certo!» rispose con foga. «Sono veloce nella corsa, ci vedo
benissimo e so cavalcare.» Il primo ragazzo, quello che nonostante
tutto continuava a inquietarla per l'incredibile somiglianza che aveva
con Rossano, la guardò perplesso.
«Sai cavalcare?» le chiese. «Com'è possibile? Dove hai imparato?»
Sull'onda dell'entusiasmo Angelica fece per rispondere, ma poi si rese
conto che stava per dire una sciocchezza. Non poteva far sapere che
era cresciuta nella tenuta di campagna di suo padre, dove cavalcava
ogni giorno sui palafreni di famiglia.
«Ho fatto il palafreniere, per qualche tempo» mentì, stringendosi
nelle spalle.
Il secondo ragazzo scoppiò a ridere. «Allora potrai esserci molto
utile.» Diede di gomito al compagno. «Ne abbiamo di cavalli da
strigliare, vero Valerio?» L'altro annuì, poi tornò a concentrarsi su
Angelica.
«Mi sembri molto giovane» le disse. «Quanti anni hai?» «Sedici»
rispose lei, improvvisando. Non aveva la più pallida idea se potesse
essere presa per un sedicenne, ma in quel momento era così che si
sentiva: un ragazzino di sedici anni pronto a tutto e disposto a fare
qualsiasi cosa, pur di arruolarsi nell'esercito che avrebbe marciato
contro il Barbarossa.
«Magari sai suonare anche il tamburo?» le chiese il ragazzo che si
chiamava Valerio.
Angelica si illuminò. «Sì» rispose. «Ho partecipato a diverse feste
di contrada come tamburino. So suonare perfettamente il bendir.» I
due giovani si scambiarono un'occhiata perplessa, poi sorrisero
apertamente.
«Questo è un giorno fortunato, allora» disse Valerio posandole un
braccio su una spalla e trascinandola via con sé. «Avevamo proprio
bisogno di un ragazzino pieno di risorse come te! Considerati
arruolato nella Compagnia del Carroccio!» Angelica li seguì senza
fiatare, dimenticando completamente che a palazzo il console
Gisalberti, Verusca e tutte le sue dame di compagnia dovevano essere
disperati, forse convinti che lei fosse caduta preda di qualche brigante
o stupratore, e fosse ormai perduta.
7
Mentre si avvicinava a quella che sembrava la fine del condotto
sotterraneo, Dietrich Manster si sentì percorrere da una scossa di
eccitazione. Aveva chiesto lui di poter essere all'avanguardia
dell'incursione, con la sua squadra di mercenari bessarabi pronti a
tutto pur di intascare il premio che l'imperatore aveva promesso. A
Dietrich non interessava il conio, lui voleva dimostrare di essere il
migliore, e voleva azzannare il nemico per poter gustare il sapore del
sangue e della vittoria. Non c'era niente che gli procurasse maggior
piacere che affondare la spada nel cuore degli avversari, e adesso che
l'imperatore aveva trovato quel passaggio per penetrare nel ventre
della città, sapeva che niente avrebbe potuto fermarli.
Si erano mossi con cautela ma rapidamente nel buio, evitando di
accendere torce per non farsi individuare da eventuali sentinelle
disposte nel passaggio, ma non avevano trovato nessuno.
Sogghignando con i denti guasti che Dietrich si strappava via da solo,
quando gli si frantumavano fra le gengive, sollevò il pugno, nel segnale
che imponeva ai suoi uomini di fermarsi. Poco più avanti intravedeva
qualcosa, una vaga luminosità nel buio che li circondava.
Il traditore aveva detto che la galleria terminava nelle segrete del
castello, a cui si poteva accedere dopo aver superato una robusta porta
inchiavardata. Dall'altra parte c'erano almeno due soldati di piantone,
e poco oltre un corpo di guardia con diverse sentinelle in attesa del
cambio. Non c'erano turni di ronda, là sotto, e Dietrich aveva pensato
che quei buffoni fossero degli incapaci. Erano riusciti a evitare di farsi
trucidare solo perché si nascondevano come topi dietro le loro
possenti mura, ma quando si fossero trovati davanti i musi sporchi e
imbestialiti dei suoi mercenari bessarabi, avrebbero abbandonato le
spade e se la sarebbero data a gambe levate.
Fiutando l'odore del sangue, del cuoio e del metallo che si
sprigionavano in ogni battaglia, mischiati a quello rancido del sudore,
Dietrich sentì aumentare l'eccitazione. Avanzò ancora tenendosi
rasente la parete del passaggio, e quando raggiunse il termine della
galleria ebbe la conferma che il traditore non aveva mentito. La porta
era alta quanto un uomo, di costruzione recente, inchiavardata alla
roccia con robuste piastre di ferro. Il legno era fasciato d'acciaio, e al
posto della serratura dall'altra parte doveva esserci un catenaccio
spesso quanto un braccio.
Dietrich si tranquillizzò e sollevò di nuovo la mano per chiamare gli
uomini.
«Portate l'ariete» sussurrò nel silenzio più assoluto.
Due uomini si fecero avanti, così alti e robusti da essere costretti a
tenere piegate le spalle, per non cozzare con il capo contro la volta.
Reggevano un lungo palo di legno con una testa ferrata sulla sommità,
sagomata rozzamente a forma d'ariete, con tanto di corna ricurve.
Dietrich sapeva che un paio di colpi bene assestati da quei due giganti
avrebbero ridotto in frantumi la porta, consentendo di fare irruzione
nel castello.
Loro erano l'avanguardia, incaricata di aprire la strada al grosso del
battaglione d'assalto che li seguiva pochi passi più indietro, al
comando di Ottone di Wittelsbach.
Dietrich si rese conto per l'ennesima volta che quella era
l'occasione della sua vita per mettersi in luce agli occhi
dell'imperatore: se l'incursione fosse andata a buon fine, oltre all'oro
promesso come ricompensa, il suo prestigio sarebbe cresciuto in
maniera smisurata, e gli avrebbero potuto finalmente assegnare il
comando di uno squadrone d'assalto, come da tempo sentiva di
meritare.
Leccandosi le labbra per l'impazienza, Dietrich ordinò ai giganti
bessarabi di abbattere la porta. L'ora del sangue era arrivata, e lui
intendeva goderne ogni singolo istante.
Ottone di Wittelsbach sentì rimbombare il colpo d'ariete come un
lampo che squarciasse una notte di tempesta. Si propagò nel passaggio
fino alla coda del battaglione di cui era al comando, duecento uomini
più indietro, e subito venne seguito da un altro colpo, forse ancora più
forte del precedente. Il rumore del legno che andava in frantumi gli
arrivò chiaro alle orecchie, e finalmente comprese che Dietrich e i suoi
mercenari ce l'avevano fatta.
Quando brandelli di luce si diffusero nel condotto, lanciando
ombre spettrali ovunque, Ottone avvertì le urla strozzate di uomini che
venivano fatti a pezzi dai colpi di spada. Dietrich e i suoi, come
convenuto, non avevano lanciato il grido di battaglia, quando si erano
riversati nei sotterranei del castello, e se si erano mossi con la velocità
e la spietata efficienza di cui li sapeva capaci, nessuno, in città, avrebbe
avuto il minimo sospetto di quello che stava succedendo là sotto.
Quando vide che anche l'ultimo incursore all'avanguardia era
scomparso, Ottone diede il segnale ai suoi attendenti, e lasciò sfilare il
grosso del battaglione all'interno dei sotterranei del castello. Lui
sarebbe venuto per ultimo, come consuetudine per i generali imperiali,
scortato dalla sua guardia personale. E avrebbe constatato con i suoi
occhi gli effetti della distruzione che presto si sarebbe diffusa a
macchia d'olio per la città.
Quando avvertì il primo colpo d'ariete, Rossano fece segno a
Tarcisio e ai suoi di restare immobili, e strinse la spada con la mano
destra e lo stocco a tre lame con la sinistra. Il secondo colpo, portato
con una violenza incredibile, fece letteralmente a pezzi la porta
rinforzata, scagliando schegge di legno e pezzi di ferro ovunque. Pochi
secondi dopo un uomo dalle spalle possenti, con il torso nudo fasciato
da un doppio cinturone di cuoio intrecciato sul petto, balzò all'interno
del sotterraneo, impugnando la spada e pronto ad affrontare gli
armigeri che credeva piazzati di guardia alla porta.
Quando vide che non c'era nessuno, gli occhi carichi di odio
selvaggio si riempirono di sospetto, ma ormai per lui e per gli uomini
che lo seguivano brandendo le spade era troppo tardi.
Rossano alzò la mano con lo stocco, e una selva di dardi partì dalle
balestre puntate verso l'imbocco della galleria, affondando nel petto e
nelle gole degli incursori imperiali.
A quel punto Rossano aveva immaginato che i nemici, resisi conto
di essere caduti in un'imboscata, avrebbero cercato di darsi alla fuga,
tornando indietro. Era già pronto a ordinare ai due uomini che
impugnavano le torce di dare fuoco alla miscela di pece e resina che
aveva fatto versare nel condotto di scolo scavato al centro della
galleria, ma con sorpresa si avvide che i soldati imperiali non
intendevano assolutamente ritirarsi. Traboccarono nei sotterranei del
castello scavalcando i corpi senza vita dei loro compagni, e si
scagliarono contro i balestrieri più vicini, cogliendoli di sorpresa
mentre cercavano di ricaricare le armi.
«Avanti!» gridò Rossano abbandonando ogni indugio e guidando i
suoi fuori dai ripari che avevano approntato nel sotterraneo. Aveva
fatto scendere là sotto dieci balestrieri e cinquanta dei suoi spadaccini
più esperti, ma all'improvviso sembrò che non fossero in numero
sufficiente per arrestare l'avanzata di quelle furie scatenate a torso
nudo.
Rossano li riconobbe per quello che erano solo quando fu a
contatto di spada con uno di essi, che lo fissò con le narici dilatate e
un'ombra di follia che gli navigava negli occhi: mercenari bessarabi,
combattenti esperti e disposti a tutto, per un pugno di monete d'oro.
Quando l'avversario si scagliò su di lui facendo ricorso solo alla
forza bruta, Rossano non perse tempo a dare sfoggio della sua abilità
di spadaccino. Liquidò l'uomo scansandone l'attacco con una torsione
del busto e affondandogli lo stocco nel fianco, facilitato dall'assoluta
mancanza di una postura di guardia.
Quelle belve assetate di sangue non avevano alcun rudimento del
combattimento corpo a corpo: si limitavano a sovrastare gli avversari
con la loro stazza e a terrorizzarli con smorfie terrificanti.
Per fortuna, Tarcisio e i suoi uomini erano preparati ad affrontare
simili rivali, e ben presto ebbero la meglio, riuscendo a proteggere i
balestrieri che erano rimasti esposti all'attacco nemico. Ma la
situazione si stava facendo difficile, perché dall'antro spalancato del
passaggio continuavano a riversarsi nemici, che impiegavano solo
pochi istanti per rendersi conto che i corpi che giacevano a terra non
appartenevano ai soldati della guarnigione della città, come si
attendevano, ma ai loro stessi compagni.
«Continuate a tirare!» gridò Rossano rivolto ai balestrieri, che
esitavano a scagliare i dardi per il timore di colpire anche qualche loro
commilitone. Poi fece segno a Tarcisio di fare arretrare i suoi e di
preparare le torce per innescare il fuoco nel condotto.
La manovra ottenne subito dei risultati, anche se uno degli
armigeri della guarnigione cittadina venne raggiunto a un braccio da
un dardo scoccato con troppa fretta. Rossano corse ad afferrarlo per le
spalle e lo trascinò via, mentre un nugolo di micidiali quadrelli
sibilanti colpiva i soldati imperiali che sciamavano dall'ingresso del
passaggio. Ben presto i corpi ammassati a terra furono così tanti che
Rossano comprese che il nemico non sarebbe più riuscito a passare, se
non prima arrestandosi per spostare i cadaveri dei compagni. Ma
ormai l'effetto sorpresa era esaurito, e non sarebbero stati così sciocchi
da farsi massacrare uno dopo l'altro.
«Le torce!» gridò rivolto a Tarcisio, che subito sollevando una
mano diede il segnale convenuto agli uomini in attesa. Questi
abbassarono le torce verso il condotto di scolo che attraversava il
pavimento dei sotterranei e si dirigeva in tutte le direzioni, per
raccogliere l'acqua che sgocciola all'interno degli ambienti scavati
sottoterra. Quando la miscela di pece e resina prese fuoco, le fiamme si
propagarono a velocità sorprendente, appiccando incendi ovunque
trovassero materiale infiammabile, come le giubbe di stoffa grezza dei
soldati riversi al suolo, e diffondendo un fumo denso e nero che presto
fece lacrimare e tossire Rossano, nonostante la pezza di tessuto
inumidito che lui e i suoi uomini si erano prontamente legati su naso e
bocca.
Non osò immaginare l'effetto che il fuoco e il fumo avrebbero
provocato nella trappola micidiale del passaggio.
Ottone di Wittelsbach si sentiva eccitato. Nonostante non fosse un
uomo d'arme, ma un condottiero di alto lignaggio che incrociava la
spada solo con nobili avversari in occasione di sfide all'ultimo sangue o
durante i tornei organizzati dall'imperatore, la situazione in cui si
trovava riusciva a stimolare i suoi istinti più oscuri, spingendolo a
impugnare la spada e ad attendere con impazienza che i suoi uomini
sciamassero nei sotterranei del castello, facendogli strada. Voleva
rendersi realmente conto di quello che stava succedendo, e una parte
di lui desiderava di poter partecipare ai combattimenti, per dimostrare
a se stesso e all'imperatore di avere nella distruzione di Alessandria un
merito personale, e non solo come comandante dell'operazione.
«Avanti!» gridò cercando di instillare negli uomini un maggiore
entusiasmo, impaziente di condurli fino al cuore della città.

Era così esaltato da quei pensieri e da quell'insieme di emozioni,


che all'improvviso ebbe l'impressione di avvertire persino l'odore del
fumo degli incendi che avrebbero raso al suolo ogni edificio di
Alessandria. Un odore intenso e pungente, che gli dilatò le narici e
contribuì ad accrescere la sua eccitazione.
Poi, però, avvertì delle urla davanti a lui, che non erano né di
battaglia né di vittoria, e comprese che qualcosa non stava andando
secondo i piani. L'odore di fumo si fece più intenso, gli occhi
cominciarono a lacrimargli, e Ottone si rese conto che non erano
impressioni, ma la realtà.
«Presto, mio signore, retrocedete!» Il grido arrivò dal comandante
delle sue guardie, che procedeva un passo davanti a lui reggendo una
torcia. Si era voltato a guardarlo, e nei suoi occhi Ottone percepì
sgomento e paura.
«Che cosa sta succedendo?» chiese sorpreso. «Perché...» Prima che
potesse finire, vide un lampo di luce propagarsi nella galleria,
rischiarando le pareti di roccia e i volti terrorizzati dei suoi soldati, che
si stavano riversando verso di lui.
«Il fuoco!» gridò il comandante delle sue guardie spingendolo con
una certa violenza per scuoterlo dalla paralisi che l'aveva colto.
«Hanno appiccato il fuoco nel passaggio!» Ottone si sentì invadere da
una paura che non aveva nome, e sospinto dalle sue guardie cominciò
a correre. Alle sue spalle le urla si alzavano sempre più stridule, la luce
delle fiamme diventava più intensa e il fumo lo avvolgeva spesso e
bruciante, facendolo tossire. Si voltò indietro solo una volta, mentre
correva e barcollava in preda alla paura e alla confusione, e ciò che
vide gli restò impresso nella memoria come un incubo: fiamme roventi
che inondavano il passaggio con un ruggito infernale, fumo denso
come pece che si ammassava sulla volta e consumava l'aria a
disposizione, i volti ustionati di soldati che correvano in preda al
panico, le sue guardie personali che li tenevano a distanza con le
spade, ferendoli e uccidendoli quando non riuscivano a fermarli, per
garantire la sua incolumità.
Quando finalmente, dopo un tempo che gli parve infinito, Ottone
di Wittelsbach sbucò all'aperto, crollò a terra senza fiato, boccheggiò
cercando di strisciare via mentre uomini impazziti e con le giubbe in
fiamme correvano ovunque intorno a lui, e si piegò per vomitare.

Quando si rialzò, con l'amaro del fiele in bocca e le grida di dolore


dei pochi sopravvissuti che lo circondavano, Ottone prese coscienza
della disfatta.
Venanzio da Urbino li aveva ingannati. E l'ultima speranza di
conquistare Alessandria si era consumata nella strage dei suoi uomini
migliori.
Ma soprattutto, adesso Ottone sapeva che cosa lo aspettava: la
rabbia furibonda e incontrollata del Barbarossa, che forse non avrebbe
esitato a far impiccare anche lui.
«Tutti fuori!» gridò Rossano cercando di coprirsi la bocca come
meglio poteva. «Avanti gli uomini con i secchi!» Mentre i balestrieri e i
soldati che avevano affrontato gli incursori imperiali uscivano
tossendo e cercando di trasportare i feriti, coloro che erano stati
incaricati di tenersi pronti con i secchi pieni d'acqua per spegnere
l'incendio entrarono di corsa, con pezze bagnate legate su naso e
bocca. Aveva fatto preparare venti uomini fra i più robusti, per
quell'incarico, ma con sconcerto si rese conto che non sarebbero
bastati: il fuoco si era propagato a velocità prodigiosa, attecchendo
sulle divise dei soldati imperiali e ovunque aveva potuto trovare
qualcosa da bruciare. Il fumo acre e spesso si stava accumulando e
rendeva sempre più difficile respirare e scorgere i contorni delle cose,
malgrado le fiamme diffondessero una luce intensa, illuminando a
giorno il sotterraneo.
«Fai venire altri uomini!» gridò a Tarcisio, che boccheggiava e
tossiva accanto a lui. «Formiamo una catena con i secchi, altrimenti
qui brucia tutto!»
Tarcisio obbedì e corse via. Ovunque c'erano uomini in movimento,
secchiate d'acqua lanciate sulle fiamme, che sfrigolavano e davano
l'impressione di spegnersi per un attimo, vomitando colonne di fumo,
ma che riprendevano subito dopo ad ardere furibonde. Rossano lanciò
un'occhiata alla porta che conduceva nel passaggio sotterraneo, oltre
la catasta di cadaveri carbonizzati che ne ostruiva l'imboccatura, e
comprese che ben pochi fra gli incursori imperiali che si trovavano là
dentro erano sopravvissuti all'inferno che aveva scatenato. La galleria
era una fornace in cui i corpi dei nemici bruciavano come su pire
funerarie, e il fumo permeava qualsiasi cosa, impedendo di respirare.
La loro era stata una vittoria completa, che aveva portato all'uccisione
di decine e decine di soldati nemici, e se fossero riusciti a spegnere le
fiamme evitando il crollo del castello, quella notte avrebbero potuto
festeggiare.
Non prima, naturalmente, di avere opportunamente rimosso i
cadaveri dal sotterraneo e avere chiuso l'ingresso del passaggio con la
pesantissima parete di legno rinforzato che Rossano aveva fatto
preparare dai carpentieri. Dubitava che dopo quella batosta i
comandanti imperiali avessero voglia di ritentare l'impresa, ma non
era sua intenzione correre rischi.
Quando finalmente vide arrivare molti altri uomini forniti di
secchi, che si disponevano per formare una catena umana, Rossano
corse a prendere posizione davanti a tutti, incaricandosi
personalmente di lanciare l'acqua sui punti critici in cui si era
sviluppato l'incendio. Con gli occhi che gli bruciavano si mise al
lavoro, mentre la consapevolezza di avere vinto e di avere assestato un
duro colpo al Barbarossa lo permeava di gioia feroce.
Adesso quei cani sapevano che cosa li aspettava, se avessero
provato ancora a introdursi in città.
Quando Ottone di Wittelsbach era entrato nella tenda imperiale,
Rainaldo aveva seriamente temuto per la sua vita. Non che gli stesse
particolarmente a cuore il destino di quell'uomo integerrimo e spesso
troppo duro da piegare ai voleri della Corona, ma era stanco delle
esecuzioni sommarie che avevano riempito di cadaveri illustri i
pennoni appesi in ogni parte del campo, e soprattutto non voleva che
quel gioco al massacro continuasse troppo a lungo, perché prima o poi
sarebbe potuto toccare anche a lui.
Rainaldo continuò a spostare lo sguardo dall'espressione crucciata
del Barbarossa al volto sporco di fuliggine di Ottone, pieno di dignità e
fermezza malgrado quello che Rainaldo immaginò dovesse essere un
terremoto di emozioni. Dei duecento uomini che avevano partecipato
all'incursione, erano scampati al massacro solo in quarantasette, e per
stessa ammissione di Ottone diversi di loro erano stati uccisi dalla sua
guardia personale, per evitare che li travolgessero durante la fuga
disordinata nel passaggio invaso dal fuoco.
Federico aveva ascoltato il resoconto di quello che era successo
paonazzo in volto, poi era scattato in piedi e aveva affrontato a muso
duro Ottone di Wittelsbach, sputandogli in faccia tutta la sua rabbia e
la sua frustrazione. Era stato in quel momento che Rainaldo aveva
capito che l'imperatore non avrebbe fatto impiccare colui che
considerava il suo generale più valente: quando decideva di disfarsi di
qualcuno, Federico non perdeva tempo a sfogarsi in reprimende ormai
inutili.
L'esempio concreto l'avevano avuto tutti pochi minuti prima,
quando, dopo essersi sfogato contro Ottone di Wittelsbach, il
Barbarossa era tornato sul suo scanno e aveva ordinato ai suoi
attendenti di far entrare il traditore.
Venanzio da Urbino, legato e denudato come l'ultimo degli schiavi,
era stato trascinato dentro dalle guardie imperiali, e Federico gli aveva
rivolto una sola, lunga occhiata piena di furore e di disprezzo. Poi,
senza perdere tempo in chiacchiere, aveva fatto un cenno con la mano,
e il comandante delle sue guardie aveva sfoderato un coltellaccio, con
il quale aveva aperto la gola del traditore, senza dargli neppure il
tempo di cercare di spiegare quello che era successo.
Adesso, mentre il sangue di Venanzio da Urbino imbrattava i
tappeti preziosi della tenda imperiale e Federico pareva essersi
calmato, lo scambio di sguardi fra l'imperatore e Ottone di Wittelsbach
sembrava continuare sul filo di una sfida molto pericolosa.
Dopo avere dato l'ennesima occhiata a entrambi, Rainaldo si fece
coraggio, sollevò le mani e avanzò di un passo.
«Vostra Maestà» esordì, cercando di dominare il tremito che
avvertiva nella voce. Dopo tutto, era stato lui a credere per primo al
traditore, e quindi a innescare quel vero e proprio disastro militare e
strategico che avrebbe potuto compromettere seriamente non solo
l'assedio di Alessandria, ma tutta la campagna dell'imperatore in
Italia. Eppure, lui era il solo, in quel momento, che sembrava
ragionare con la testa, anziché spinto dalla rabbia e dal desiderio di
vendetta, e sapeva che avrebbe dovuto approfittarne per non
complicare ulteriormente la situazione. «È evidente che anche
Venanzio da Urbino è stato tratto in inganno. Non mi è sembrato
uomo disposto a immolarsi per la causa di Alessandria.» Federico
Barbarossa si voltò a guardarlo, gli occhi di ghiaccio privi di
espressione. Quello fu il segnale che poteva continuare, ma anche
l'avvertimento chiaro da parte dell'imperatore che, se avesse trovato
poco pertinente il suo intervento, correva il rischio di finire sul più alto
dei pennoni esposti nel campo.
«Abbiamo perso molti uomini valorosi, è vero» proseguì cercando
di calmarsi e di lasciare spazio al suo innato senso diplomatico, «ma
questo non ha compromesso la vostra campagna militare in Italia.»
«Ha compromesso l'assedio a questa lurida città» sibilò Federico
senza sganciare gli occhi dai suoi.
«Se non avessimo saputo del passaggio, avremmo centocinquanta
uomini in più tra le nostre fila» ribatté Rainaldo, «ma saremmo
comunque nella stessa situazione in cui ci troviamo adesso.» Tacque, e
attese la reazione del Barbarossa. Questi lo fissò ancora per un istante,
poi all'improvviso parve rilassarsi e si lasciò andare contro lo schienale
dello scanno, passandosi una mano sulla folta barba rossiccia.
«Avrei preferito ottenere qualche risultato» mormorò, con un tono
abbastanza conciliante da far capire a Rainaldo che poteva continuare
nel suo ragionamento.
«Torneremo qui quando avremo sistemato i ribelli padani» osò
affermare Rainaldo, lanciando un'occhiata a Ottone di Wittelsbach,
che ascoltava impassibile. «L'importante è muovere subito le truppe e
dirigerci verso Milano. Non possiamo permettere che l'esercito della
Lega si rafforzi abbastanza da riuscire a respingerci. Quello sarebbe il
vero disastro.» Federico Barbarossa assentì suo malgrado.
«Come sempre hai ragione» sibilò amaro. «Ma questa è la seconda
sconfitta che patisco in breve tempo, dopo la disfatta subita da
Cristiano di Magonza ad Ancona.» «I due episodi non sono da mettere
in relazione» lo contraddisse Rainaldo, adesso più spavaldo. Aveva
capito che l'imperatore sembrava essersi stancato di quel gioco al
massacro, e forse pensava seriamente che era arrivato il momento di
rimettersi in marcia.
«Come possiamo fidarci a lasciare un simile caposaldo intatto alle
nostre spalle?» intervenne re Ladislao di Boemia, anche se non era
stato interpellato. «Potremmo trovarci accerchiati.»
«No» lo contraddisse Ottone di Wittelsbach, che sembrava avere
ripreso un po' di coraggio. «Se la guarnigione di Alessandria fosse
stata abbastanza consistente, non si sarebbero limitati a dare fuoco al
tunnel e a farci fuggire. Ci avrebbero inseguito, e avrebbero cercato di
assestare un colpo decisivo al nostro esercito, cogliendoci di sorpresa.»
Re Ladislao suo malgrado si dichiarò d'accordo, e Rainaldo sospirò. Le
cose si stavano mettendo meglio di quello che credeva. Alla fine, il
tradimento di Venanzio da Urbino era servito a qualcosa, dopo tutto.
«Proseguiamo per Milano» disse, cercando di apparire deciso e
convincente. «Sconfiggiamo l'esercito della Lega Lombarda in un
combattimento in campo aperto e poi radiamo al suolo le città che non
accetteranno di sottomettersi al dominio imperiale.» «Dopodiché
torneremo qui» aggiunse il Barbarossa fissandolo con uno sguardo che
non ammetteva repliche. «Ed elimineremo ogni traccia dell'esistenza
di questa città. Per sempre.» Rainaldo si inchinò in segno di
obbedienza. Mentre Federico scioglieva il consiglio di guerra, lui esultò
dentro di sé. Aveva raggiunto l'obiettivo che si era prefisso.
Quando fu fuori vide che la testa di Venanzio da Urbino era stata
conficcata su un palo, dopo essere stata staccata di netto dal corpo.
Rainaldo sorrise e ironicamente chinò il capo anche verso quel
disgraziato, che senza saperlo aveva davvero immolato la vita per una
giusta causa.
La sua, naturalmente.
8
«Comandante, comandante! Venite a vedere, presto!» Rossano
impiegò qualche secondo a capire che quelle grida erano indirizzate a
lui. Si levò a sedere sullo spartano giaciglio di paglia e rametti
intrecciati che si era fatto preparare in un angolo della garitta di
comando, e si guardò attorno sorpreso.
Dalle finestre filtrava un debole chiarore, il che gli fece
comprendere, considerato anche il freddo che gli condensava il
respiro, che doveva essere appena spuntata l'alba.

«Comandante!» lo riscosse ancora l'uomo che aveva spalancato


con furia la porta, svegliandolo.
«Che succede?» chiese Rossano balzando in piedi e afferrando il
cinturone con la spada, quando riconobbe uno degli uomini del turno
di guardia sugli spalti.
«Una cosa incredibile!» esclamò l'armigero facendogli segno con
impazienza di seguirlo.
Rossano per non perdere tempo si trattenne dal rivolgergli altre
domande e, dopo essersi infilato gli stivali, seguì l'uomo fuori della
garitta, diretto verso la scala di pietra che conduceva al camminatolo
principale dei bastioni. Lassù, notò subito, c'era parecchia
concitazione: tutti gli uomini di guardia si erano riuniti in quell'unico
punto, lasciando sguarnite le postazioni di vedetta e persino le garitte
con le baliste e le bandierine di segnalazione.
«Che diavolo sta succedendo, qui?» ringhiò Rossano correndo su
per le scale. Possibile che il nemico avesse deciso di sferrare un nuovo
attacco? E se era così, perché non squillavano le trombe di allarme e i
comandanti non accorrevano ai loro posti?
«Rossano!» lo chiamò una voce dagli spalti. «Vieni a vedere!»
Riconobbe Tarcisio Bonassei, che si sporgeva oltre le merlature dei
bastioni come tutti gli altri, scrutando nella valle del Tanaro come se
stesse osservando qualcosa di incredibile.
Rossano lo raggiunse, e con il fiatone per la corsa si sporse a sua
volta per scoprire che cosa ci fosse di così sconvolgente da spingere
perfino Tarcisio a ignorare i regolamenti e le procedure di difesa.
Fece ruotare lo sguardo sull'ampia valle che si estendeva fino al
corso serpeggiante del fiume, mentre le prime luci del sole
diffondevano un chiarore lattescente e facevano sollevare dalla terra
una tenue bruma mattutina.
Quello che vide lo lasciò senza fiato.
«È straordinario» mormorò Tarcisio accanto a lui, guardandolo
come se non volesse credere ai propri occhi.
Rossano provò a dire qualcosa, ma era rimasto senza parole, di
fronte a quello spettacolo. La valle del Tanaro era distesa davanti a
loro, piatta e regolare fino al fiume, e per la prima volta dopo sei mesi
non era costellata dalle sagome di migliaia di tende da campo erette
fin dove poteva arrivare lo sguardo.

La valle era vuota, e non c'era più alcuna traccia dell'esercito


imperiale, a parte centinaia di fuochi di bivacco ancora accesi, da cui
salivano pigre volute di fumo.
«Se ne sono andati» aggiunse Rossano dopo un tempo che gli
parve infinito. «Hanno tolto l'assedio.» «Devono averlo fatto questa
notte» annuì Tarcisio. «Guarda, hanno lasciato accesi i fuochi in modo
che le nostre vedette non immaginassero cosa stava succedendo.»
Rossano si voltò verso Tarcisio, sentendo crescere l'eccitazione.
«Se ne sono andati...» ripetè, quasi senza credere alle sue parole.
A quel punto Tarcisio fece qualcosa che ruppe ogni indugio, e
scatenò una gioia irrefrenabile negli uomini ammassati sugli spalti,
che guardavano increduli ciò che restava dell'accampamento nemico:
si tolse dalla testa il berretto con la piuma che indossava sempre,
quando era di servizio, e lo lanciò in aria accompagnando il gesto con
un grido di esultanza che subito si propagò sulle mura, mentre coloro
che lo circondavano si univano a lui con urla liberatorie.
Quando non gli restò più fiato nei polmoni, Tarcisio si lanciò
contro Rossano e lo abbracciò, stringendolo forte.
«Ce l'abbiamo fatta!» esclamò felice, mentre la città si risvegliava
insonnolita e sorpresa per quel baccano che proveniva dagli spalti. «Li
abbiamo sconfitti!» «No» lo contraddisse Rossano, sorridendo
comunque a sua volta. «Non li abbiamo sconfitti, solo trattenuti e
ostacolati.
Adesso, però, Alberto da Giussano e gli altri comandanti della Lega
dovrebbero poter disporre di un esercito abbastanza numeroso da
contrastare l'avanzata del Barbarossa.» Tarcisio lo guardò senza
comprendere.
«Non credi che quei cani se ne siano tornati in Germania?» chiese.
«No» rispose Rossano. «Conosco l'imperatore, e so che
sceglierebbe di morire, piuttosto che tornarsene alla sua reggia con la
coda fra le gambe. A quest'ora starà dirigendo verso Milano, per
affrontare l'esercito padano.» Tarcisio interpretò nella maniera
corretta la luce che gli brillava nello sguardo, perché gli chiese: «Tu
cercherai di unirti ad Alberto da Giussano, vero?».

«Vieni anche tu con me» gli propose Rossano. «Abbiamo bisogno


di uomini validi e di comandanti esperti.» Tarcisio scosse la testa,
confuso.
«E Alessandria?» ribatté.
«Lo so, perdonami» l'interruppe Rossano. «Sono uno sciocco. Tu
devi restare e continuare a mantenere un occhio vigile sulla tua città. Il
Barbarossa non è certo uomo di cui ci si possa fidare.» «Tu, invece?»
«Io correrò a Milano. Il mio compito qui è esaurito. Dovrei riuscire a
muovermi molto più in fretta dell'esercito imperiale.» «Angelica ti
starà aspettando» gli ricordò Tarcisio, e Rossano sorrise al pensiero.
«Grazie per l'aiuto che mi hai dato» gli disse stringendogli una
spalla.
«Grazie a te per tutto quello che ci hai insegnato» rispose Tarcisio
ricambiandolo con un abbraccio.
Mentre le grida di festa crescevano e si moltiplicavano attorno a
lui, a mano a mano che la notizia della fine dell'assedio si propagava in
città, Rossano si diresse ai suoi alloggi per prendere le sue cose e far
preparare Drago. Prima di lasciare Alessandria avrebbe chiesto
l'autorizzazione di Rodolfo Concesa, considerando che adesso la sua
priorità era raggiungere Milano e assicurare la sua spada ad Alberto da
Giussano e alla difesa della libertà dei Comuni Padani. E naturalmente
avrebbe fatto di tutto per proteggere Angelica.
Quando la piccola porta di scolta si aprì, consentendo a Rossano di
uscire dalla città dopo più di sei mesi di assedio, le impronte dei suoi
passi furono le prime a depositarsi sullo strato di polvere che si era
accumulato sulla motta, dove un ponte levatoio permetteva di
scavalcare il fossato esterno. Da quando era stata costruita,
quell'uscita non era mai stata utilizzata, e Rossano l'aveva fatta
presidiare da una guarnigione di sei uomini che si davano il cambio
ogni quattro ore.
«Abbassate il ponte!» ordinò quando fu fuori insieme a Drago ed
ebbe verificato che non c'era nessuno in vista. Se quella era una
trappola escogitata dal Barbarossa, era davvero stata congegnata con
grande astuzia, perché non c'era traccia non solo delle tende da campo
e delle rastrelliere di picche e armi accatastate ovunque, ma neppure
dei carriaggi di trasporto e di ciò che restava delle macchine da guerra
che le baliste di Alessandria avevano reso inutilizzabili.
Mentre dall'interno azionavano l'argano che faceva scendere il
ponte fino alla piattaforma posta dall'altra parte del fossato, Rossano
accarezzò lentamente Drago, cercando di calmarlo.
Dopo tanti mesi di inattività, rinchiuso in una stalla insieme ad
altri cavalli nervosi, il corsiero tremava per il desiderio di lanciarsi al
galoppo.
«Adesso avrai di che sfogarti» gli mormorò Rossano, affrontando il
ponte a piedi e trattenendo Drago per il morso. «Fammi prima dare
un'occhiata.» Quando fu dall'altra parte, si girò verso gli spalti della
motta difensiva e fece segno di rialzare il ponte. Dai bastioni della città
decine di uomini lo guardavano trepidanti, in attesa di comprendere se
si trattava di una diabolica trappola escogitata dall'imperatore, o se
davvero la città era salva.
Rossano restò un attimo fermo, guardandosi intorno nella leggera
nebbia mattutina che si alzava dal terreno umido. Poi si girò verso
Drago.
«Ce la fai a stare calmo?» gli chiese. Quando il cavallo sbuffò,
Rossano sorrise, gli diede una pacca sul collo quindi balzò in sella,
tenendo corte le briglie. Un leggero colpo con i talloni fu sufficiente
per far avanzare il corsiero in mezzo a quello che restava del grande
accampamento nemico.
Mentre lo attraversava tenendo sotto controllo il fremito di Drago,
Rossano scrutava con attenzione i segni del lungo assedio portato
dall'imperatore. Armi abbandonate, picche spezzate, scudi perforati
dai colpi delle balestre, cotte di maglia insanguinate. Qua e là c'erano
le fosse delle latrine comuni, che i soldati imperiali erano stati
costretti, viste le dimensioni del campo, a costruire fra una fila di
tende e l'altra, e da cui salivano vapori maleodoranti. I fuochi erano
ancora pieni di braci ardenti, ma non c'era traccia dei sostegni per i
tegami da cucina o le pignatte per l'acqua calda, e questo era il segnale
più importante per capire che non si trattava di una messa in scena.
Quei cani se ne erano andati per davvero, e Rossano potè finalmente
tornare a respirare. Prima di rivolgere agli uomini ammassati sugli
spalti il segnale che avevano convenuto per la conferma della fine
dell'assedio, volle però raggiungere il punto in cui era stata eretta la
tenda da campo dell'imperatore. Si trattava di un grande spiazzo sulla
sommità di un rilievo, circondato da decine di fuochi in cerchio, che
dimostravano come quel punto dell'accampamento fosse stato
sorvegliato accuratamente da decine di guardie armate.
Quello era il luogo in cui il Barbarossa aveva bivaccato, studiando
con i suoi generali il modo più efficace per abbattere le mura di
Alessandria.
Mentre si avvicinava, Rossano si accorse di una lunga picca
piantata a terra, sulla cui sommità campeggiava qualcosa che, in un
primo momento, immaginò fosse una sorta di elmo piumato ma poi, a
mano a mano che si avvicinava, riconobbe come una testa umana
conficcata sul bastone, un macabro trofeo esposto al pubblico ludibrio.
Mentre Drago fremeva sempre più nervoso, Rossano raggiunse
l'asta e vi girò attorno, fino a quando ebbe di fronte il volto della testa
impalata. Fu con una certa sorpresa, e uno strano guazzabuglio di
emozioni, che si rese conto che si trattava di Venanzio da Urbino.
Il traditore aveva ricevuto il giusto premio per il suo misfatto,
evidentemente come conseguenza dell'ira dell'imperatore per il
fallimento dell'incursione. Rossano osservò ancora per qualche istante
la testa di Venanzio, senza provare alcuna pietà per quell'uomo
subdolo che non era mai riuscito a digerire, quindi voltò Drago e si
diresse verso il punto più alto del rilievo su cui era stata eretta la tenda
imperiale.
Una volta lassù estrasse dalla bisaccia un fazzoletto rosso e lo
sventolò in aria, dando il segnale: l'assedio era stato definitivamente
tolto, e la città era salva.
Non riuscì a vedere come festeggiavano i suoi uomini sugli spalti,
ma immaginò Tarcisio che si toglieva ancora il berretto e lo lanciava in
aria, liberando il suo grido di gioia e di esaltazione.
Con un sorriso sulle labbra, diede di talloni a Drago e lo spinse
verso il Tanaro, dove si allungava la pista che lo avrebbe portato a
Milano.
Per lui la guerra non era affatto finita. Anzi, iniziava solo adesso:
lui non vedeva l'ora di poter incrociare di nuovo la spada con gli
invasori imperiali, per ricacciarli donde erano venuti.
Angelica Concesa, che adesso si faceva chiamare Angelo, stava
vivendo un'esperienza incredibile, che le aveva impedito quasi di
dormire quella notte. Il suo inganno sembrava avere funzionato alla
perfezione, tanto che ormai tutti i giovani arruolati nella Compagnia
del Carroccio, dato che era la più giovane del gruppo, l'avevano presa
in simpatia. La caserma in cui vedette, staffette, tamburini e
trombettieri vivevano tutti insieme, con gli stallieri e i palafrenieri
della Compagnia, era attraversata da un fremito continuo di allegria e
di eccitazione, come se tutti quei giovani soldati non si stessero
preparando per la guerra ma per una spedizione in una meravigliosa
terra sconosciuta. Angelica respirava quella stessa atmosfera, e si
rendeva conto sorpresa che era l'ambiente in cui aveva sempre sognato
di poter crescere, anche se era prettamente maschile e non offriva le
comodità di cui aveva sempre beneficiato alla corte di suo padre.
Dopo avere trascorso la prima notte nei casermaggi, l'indomani
mattina, all'alba, Angelica era sgattaiolata via, ed era corsa al palazzo
consolare, dove era riuscita a farsi scorgere da Verusca e ad appartarsi
con lei. La dama di compagnia non aveva creduto ai suoi occhi, ed era
rimasta senza parole quando Angelica le aveva spiegato quello che
stava facendo.
«E se ti scoprono?» aveva chiesto spaventata.
Angelica si era stretta nelle spalle. «Allora mi sbatteranno fuori e io
tornerò qui. Ma stai tranquilla, credo che a nessuno passi per la testa
che potrei essere una ragazza.» Verusca aveva insistito perché lei
abbandonasse la folle impresa in cui si era cacciata, ma Angelica le
aveva chiesto di avere fiducia in lei. Aveva bisogno del suo aiuto per
fare in modo che il console Gisalberti non si preoccupasse troppo e,
soprattutto, non mandasse un messaggero da suo padre per avvertirlo
della sua scomparsa. La situazione era delicata, e la notizia che
l'imperatore aveva rinunciato all'assedio di Alessandria si era diffusa
in fretta, e Verusca aveva cercato di farle capire che adesso per lei
sarebbe stato più sicuro restare a palazzo, in attesa che Rossano da
Brescia la raggiungesse, ma Angelica le aveva preso le mani nelle sue e
aveva sorriso.
«No, amica mia» aveva obiettato, «Rossano non verrà da me.
Fino a quando mi crederà al sicuro starà in pace, e si concentrerà
su quello che più gli sta a cuore: combattere il Barbarossa.» «E tu vuoi
fare altrettanto» aveva commentato Verusca con le lacrime agli occhi.
«È il solo modo che ho per stargli vicino» aveva risposto Angelica,
e Verusca si era portata le mani alla bocca, per trattenere un gemito.
«Mi aiuterai con il console Gisalberti?» le aveva chiesto Angelica.
«Che cosa devo dirgli?» «Che sono andata da mia zia, la contessa
Aldruda di Bertinoro.
Là starò al sicuro, più che qui a Milano.» «E io? Perché non sono
venuta con te?» «Perché ti ho chiesto io di restare» aveva risposto
Angelica.
«Dovrai ricongiungerti con mio padre, per prenderti cura di lui.
Queste sono le mie volontà.» Verusca aveva scosso la testa, poco
convinta. «Non ci crederà mai.» «Be', tu provaci» aveva concluso
Angelica. L'aveva salutata con un bacio sulla fronte, poi si era
dileguata, tornando nella bolgia frenetica della caserma.
Adesso, mentre strigliava un giovane palafreno dotato di una
magnifica criniera, pensava che alla fine tutto doveva essere andato
per il meglio, e che Verusca non aveva confessato la verità al console
Gisalberti.
«Ehi, Angelo, vieni qui!» Era stato Valerio a chiamarla, uno dei
ragazzi che l'avevano reclutata e di cui aveva sentito dire meraviglie:
era stato lui a scoprire per primo gli esploratori imperiali sulle
montagne, riuscendo a sfuggire al loro inseguimento e portando la
notizia che il Barbarossa stava valicando le Alpi. Ed era stato lui a
informare Alberto da Giussano che Alessandria era sotto assedio.
Saputo questo, Angelica aveva capito dove aveva già visto il
giovane: nel palazzo consolare, quando era stato ricevuto da suo padre
insieme a Rossano.
Già allora lei aveva notato la somiglianza fra Rossano e Valerio, ma
non aveva intuito che i due potessero essere fratelli.
Quando l'aveva capito, mentre ascoltava i racconti delle altre
staffette riguardo alle imprese di Valerio, che era diventato un po' il
loro idolo, si era sentita balzare il cuore in gola, e non aveva potuto
credere alla sua fortuna.
Non sapeva che Rossano avesse un fratello, e adesso che l'aveva
conosciuto, ravvisava lo stesso impeto e la stessa rabbia nei confronti
dell'imperatore, che aveva sterminato la loro famiglia, e il desiderio di
vendetta che lo consumava.
«Forza, vieni!» la chiamò Valerio, e lei abbandonò la spazzola da
striglia e si avvicinò al gruppo di ragazzi che seguiva Valerio.
«Che succede?» gli chiese, incuriosita.
«Ti porto a vedere una cosa» le rispose Valerio.
«Che cosa?» Valerio non rispose, limitandosi a sorridere e
allontanandosi, subito seguito dalle altre staffette. Angelica gli fu
dietro.
Uscirono dalle stalle, attraversarono il grande spiazzo che era stato
attrezzato per l'addestramento e raggiunsero una costruzione che
Angelica aveva già intravisto, ma di cui non era riuscita a comprendere
lo scopo.
Valerio li condusse a una porticina sul retro dell'edificio, che era
stretto e lungo e con il soffitto altissimo, e bussò tre volte, con quello
che sembrava un gesto convenuto.
Dopo qualche secondo la porta si aprì, e un ragazzino dallo sguardo
sveglio li scrutò con severità.
«Eccoci, Egidio» lo salutò Valerio.
«Quanti ne hai portati?» gli chiese il ragazzino, che non doveva
essere più grande di Angelica, o meglio, di Angelo, il tamburino di cui
lei aveva vestito i panni.
«Sette» rispose Valerio. «Forza, facci entrare, prima che ci veda
qualcuno.» Egidio esitò un istante, poi con aria solenne spalancò la
porta e consentì a tutti di entrare.
«Mi raccomando, non toccate niente» li avvertì dandosi una certa
importanza. Era evidente che si compiaceva di essere al centro
dell'attenzione, e lei si rese conto che anche Valerio, per quanto più
grande di Egidio e fra i più autorevoli giovani della Compagnia del
Carroccio, pendeva dalle sue labbra, pieno di aspettativa e di
eccitazione.

Si trovavano in una stanzetta angusta, illuminata da una singola


candela, stipata di attrezzi da falegname e carpentiere.
«Da questa parte» ordinò Egidio aprendo una porta sul lato
opposto della stanza.
«Padre Ariberto c'è?» chiese Valerio.
«Sei matto?» rispose Egidio. «Anzi, facciamo in fretta, perché
potrebbe tornare da un momento all'altro. Se ci scopre...» Nessuno
aggiunse altro, e i ragazzi passarono nel locale attiguo, che era un
unico stanzone lungo e stretto interamente occupato da quello che
Angelica pensò fosse un barcone. Dopo un istante di sorpresa, però, si
rese conto che nessun barcone sarebbe stato costruito su ruote e
avrebbe avuto sul davanti il grande timone del carro con le corregge
dei gioghi.
«Ecco il Carroccio» disse Egidio gonfiando il petto d'orgoglio.
«Avete finito di metterlo a posto?» chiese Valerio a bassa voce,
come se si trovasse in una cattedrale.
«Quasi» rispose Egidio. «Restano solo da sistemare i gonfaloni
della Compagnia e le araldiche dei Comuni di Lodi e Legnano.»
«Quindi siamo pronti per la battaglia!» esclamò un altro dei giovani
ammirando l'immenso carro da guerra.
Egidio lo squadrò con un ghigno. «Sarà Alberto da Giussano a
dirlo» rispose. «Noi siamo pronti.» Valerio si voltò verso Angelica e le
sorrise.
«Allora, che ne pensi?» le chiese. «Questo è il carro da guerra della
nostra Compagnia. Come ti sembra?» Angelica osservò il Carroccio
cercando le parole giuste, poi si strinse nelle spalle e rispose:
«Imponente. Capace di spaventare qualsiasi avversario».
«È quello che ci auguriamo tutti» commentò una voce alle loro
spalle, facendoli sobbalzare.
«Padre Ariberto!» esclamò Egidio diventando paonazzo per la
vergogna. «Io...» «Non ti devi scusare» l'interruppe il sacerdote
avanzando con il sorriso sulle labbra. «Ma adesso fai uscire tutti,
perché dobbiamo apportare gli ultimi accorgimenti, prima di trasferire
il Carroccio a Legnano, dove il comandante della Compagnia lo
ispezionerà.»
Valerio e le altre staffette sgranarono gli occhi.
«È stato finalmente nominato?» chiese Valerio eccitato. «Chi sarà
il nostro comandante?» Padre Ariberto sorrise. «Be'» rispose, «tu
dovresti conoscerlo molto bene.» 9
Nel lungo tragitto da Alessandria Drago aveva avuto modo di
sfogare la sua impazienza e di allenare di nuovo la sua possente
muscolatura e, quando Rossano fece il suo ingresso a Legnano, il
corsiero esibiva con orgoglio tutta la sua stazza.
In quella furiosa cavalcata Rossano si era trovato più di una volta
quasi a diretto contatto con gli esploratori imperiali, anche se era
sempre riuscito a evitarli grazie all'astuzia, alla prudenza e a un paio di
colpi di fortuna. Naturalmente sapeva che gli esploratori del
Barbarossa erano abituati a spingersi molto avanti rispetto al grosso
dell'esercito, ma era rimasto sorpreso quando li aveva trovati ben oltre
la linea di avanzata che credeva plausibile per un esercito in marcia.
Poi, una mattina, era incappato in qualcosa che aveva spiegato in
parte la celerità delle forze imperiali, e gli aveva fatto comprendere la
nuova strategia di Federico. Al limitare di una foresta aveva scorto
delle colonne di fumo levarsi verso il cielo, e anche se questo avrebbe
rallentato il suo trasferimento, Rossano era andato a dare un'occhiata.
Restando nascosto dietro a una folta macchia di rovi aveva visto alcuni
genieri imperiali dare fuoco a ciò che restava delle pesanti macchine
da guerra che, smontate e caricate sui carri, avrebbero rallentato
l'avanzata delle truppe.
Così Rossano aveva capito che Federico non intendeva perdere
altro tempo attaccando città fortificate: voleva costringere la Lega
Lombarda a misurarsi con lui in campo aperto, e cercava di accelerare
la marcia dei suoi uomini per impedire che i Comuni Collegati
radunassero un esercito abbastanza forte da poterlo contrastare.
Secondo i calcoli di Rossano, il Barbarossa poteva contare su
almeno cinquemila uomini, ed era possibile che in quello stesso
momento altri rinforzi stessero arrivando da Oltralpe, passando per la
via dei Grigioni. Se quelle truppe fossero riuscite a congiungersi con
l'esercito guidato dal Barbarossa, e poi con le milizie messe a
disposizione dai pavesi e dal Marchese di Monferrato, che ancora
dichiaravano la loro ostilità alla Lega Lombarda, allora l'imperatore
avrebbe potuto contare su più di diecimila uomini, il che lo avrebbe
reso praticamente imbattibile.
Rossano non sapeva di quali forze poteva disporre l'esercito
lombardo, ma non credeva che Alberto da Giussano sarebbe stato in
grado di radunare un numero altrettanto elevato di soldati; e in ogni
caso l'addestramento delle milizie imperiali era superiore a quello
delle forze che potevano mettere in campo i Comuni Lombardi, e
questo avrebbe significato un enorme vantaggio per gli invasori, in
uno scontro in campo aperto.
D'altro canto, mentre cavalcava ventre a terra, Rossano sapeva che
non sarebbe stato possibile, neppure per i Comuni Collegati,
organizzare la difesa nelle città fortificate, perché non erano ancora
state ricostruite tutte, dopo le incursioni imperiali degli anni passati, e
perché ben poche potevano disporre di bastioni abbastanza imponenti
da fermare l'impeto del Barbarossa.
Lo scontro sarebbe avvenuto in campo aperto, e la sola speranza
per la Lega di avere ragione dell'invasore era riuscire a prevenirne le
mosse, impedendo che le milizie imperiali si riunissero con quelle di
Pavia e del Monferrato in un unico, possente esercito.
Quando finalmente arrivò a Legnano, stanco ma sicuro di avere
anticipato di qualche giorno anche le staffette più avanzate
dell'imperatore, Rossano andò dritto al palazzo del console, cercando
di capire quale fosse la situazione dell'esercito lombardo e dove si
trovasse Alberto da Giussano.
Quando Drago si fermò davanti agli anelli di sosta nella piazza
principale della città, Rossano balzò a terra, legò frettolosamente le
briglie del cavallo, poi si diresse verso il palazzo togliendosi la polvere
di dosso.
Restò sorpreso quando, a pochi passi dall'ingresso dell'edificio, si
accorse che un manipolo di guardie armate lo stava presidiando.
Avevano le spade sfoderate, e si guardavano attorno con aria attenta,
come se si aspettassero un attacco da un momento all'altro.

Quando Rossano si avvicinò, una delle guardie lo puntò con la


spada e lo fissò stringendo le mascelle.
«Fermo là! » gridò. «Non muovere un solo passo!» Rossano si
bloccò sorpreso, mentre altre spade gli si rivolgevano contro. Fece per
protestare, cercando di spiegare chi fosse e che cosa volesse, quando
una voce eruppe alle spalle del manipolo armato, costringendo i
soldati ad abbassare le spade.
«Lasciatelo passare!» ordinò la voce, che Rossano credette di
riconoscere.
La schiera di guardie si aprì, e un uomo avanzò a lunghe falcate
verso di lui. Quando questi gli tese le mani per accoglierlo, Rossano si
avvide che era Alberto da Giussano.
La fortuna sembrava essere dalla sua parte.
«Comandante, grazie a voi e al coraggio degli abitanti di
Alessandria, gli invasori sono rimasti bloccati abbastanza a lungo da
consentirci di mettere insieme un numero sufficiente di truppe.
Adesso sono convinto che potremo tenere testa al Barbarossa, e se
combatteremo con il coraggio che voi avete dimostrato, li ricacceremo
da dove sono venuti.» Rossano ascoltò le parole di Alberto da
Giussano con un misto di meraviglia e di commozione. Era soddisfatto
per gli elogi che gli venivano rivolti, ma soprattutto era contento che
tutto fosse andato come previsto, e che l'esercito della Lega fosse
pronto a opporsi all'imperatore.
«Di quanti uomini potremo disporre?» chiese, mentre Alberto da
Giussano afferrava una brocca di vino e se ne versava una abbondante
coppa.
«Servitevi, comandante» rispose il condottiero con un sorriso,
indicando il vino. «Avete cavalcato a lungo, avete bisogno di
rifocillarvi.» «Grazie» disse Rossano. Mentre assaggiava il vino, di
qualità eccellente, Alberto da Giussano fece un cenno a uno dei suoi
attendenti, che li raggiunse e distese una pergamena sul tavolo davanti
a loro.
«I nostri uomini si stanno spostando a ranghi serrati» spiegò
Alberto da Giussano indicando un punto della mappa tracciata sulla
pergamena. «L'intenzione è di congiungerci tutti qui, in questa valle
tra l'Olona e il Ticino.»
Rossano osservò la mappa e annuì.
«Da quello che ho potuto capire, il Barbarossa sta cercando di
raggiungere i suoi alleati. Forse vuole congiungersi ai pavesi passando
per Seprio, e lì aspettare l'arrivo delle forze del Marchese di
Monferrato.» «Lo credo anch'io» disse Alberto da Giussano. «Secondo
voi di quanti uomini dispone l'imperatore?» «Cinquemila, forse
seimila» rispose Rossano. «Ma immagino che i rinforzi siano già in
cammino dalla Germania.» Alberto da Giussano bevve un altro sorso
di vino, poi scosse la testa.
«Meno di quanti lo stesso Barbarossa si aspetti» disse. «Da quello
che sappiamo, Enrico il Leone non è disposto a partecipare a questa
guerra.» «Quindi anche con i pavesi e con gli uomini del Marchese di
Monferrato, non potranno essere più di ottomila uomini» fece
Rossano.
«Esatto» annuì Alberto da Giussano. «E noi contiamo già settemila
fanti e più di mille cavalieri. Per di più ci muoviamo sul nostro
terreno.» Il sorriso soddisfatto di Alberto da Giussano, constatò
Rossano, non era spavaldo né immotivato: era la naturale conseguenza
dei calcoli che un condottiero di valore sapeva fare prima di ogni
battaglia decisiva.
«Mi auguro che abbiate un incarico anche per me» disse Rossano
sentendo accelerare i battiti del cuore. Non aveva nessuna intenzione
di restare a guardare, voleva partecipare agli scontri in prima linea, e
se Alberto da Giussano non gli avesse proposto un incarico di
prestigio, sarebbe stato disposto a schierarsi insieme alla truppa, pur
di lanciarsi contro le avanguardie imperiali.
Ma Alberto da Giussano lo sorprese ancora una volta.
«Naturalmente, comandante» rispose. «Come forse avrete saputo,
siamo riusciti a rimettere in perfetta efficienza il Carroccio, il grande
carro da guerra che ha già guidato gli eserciti padani verso la vittoria.»
Rossano annuì. Aveva sentito raccontare tante storie incredibili, sui
poteri del Carroccio, su come fosse in grado di accrescere le forze dei
soldati e renderli invincibili. Naturalmente sapeva che erano soltanto
leggende, ma da parte sua credeva di capire perché quel pesante carro
da guerra fosse entrato nell'immaginario delle milizie lombarde: la sua
sola presenza era in grado di instillare fiducia negli uomini, li spingeva
a combattere in nome di una fede e di una causa simboleggiate dagli
stendardi che garrivano al vento dal pennone maestro, e al di là delle
credenze popolari era una presenza reale, manifesta e imponente,
attorno a cui i soldati potevano stringersi a ranghi serrati e lottare fino
alla morte.
«Non l'ho ancora visto» disse Rossano, «però ne ho sentito parlare.
Sarebbe magnifico poter contare sull'appoggio morale del Carroccio.»
«Non solo morale, comandante» sorrise Alberto da Giussano.
«Io ho visto quale effetto fa sul nemico quel carro gigantesco, e vi
assicuro che anche da un punto di vista strategico può risultare
fondamentale. Da lassù si riesce ad avere sott'occhio tutto il campo da
battaglia, e gli ordini possono essere impartiti con facilità e grande
rapidità.» Rossano apprezzò le doti di intelligenza e di senso pratico
dell'uomo, qualità fondamentali per un condottiero.
«Ebbene» continuò Alberto da Giussano, «ho allestito una
compagnia di picchieri scelti formata da trecento dei nostri uomini
migliori, la Compagnia del Carroccio, e sarei onorato se voi voleste
esserne il comandante.» Rossano si sentì balzare il cuore in gola per la
sorpresa e l'eccitazione. Cercando di apparire controllato, inclinò
appena il capo e disse: «Vi ringrazio per l'onore che mi fate,
comandante.
Accetto senz'altro, e prometto di mettere il mio cuore e la mia
spada al vostro servizio».
«Al servizio del nostro popolo» lo corresse Alberto da Giussano con
un sorriso, alzando la coppa di vino per suggellare l'incarico affidato a
Rossano.
Questi sollevò a sua volta il calice, poi i due comandanti bevvero
insieme il vino nero delle colline piacentine.
«Adesso rifocillatevi e riposate» concluse Alberto da Giussano
alzandosi. «Poi fatemi sapere quando intendete assumere il comando
della Compagnia del Carroccio. Vi presenterò personalmente agli
uomini.» Rossano scattò in piedi a sua volta.
«Non ho bisogno di riposare» ribatté, senza mentire. Era pervaso
da una tale energia che avrebbe potuto lanciarsi in battaglia in quello
stesso momento. «Con il vostro permesso, vorrei prendere servizio fin
d'ora.» Alberto da Giussano rise, circondandogli le spalle con un
braccio.
«Voi mi assomigliate, comandante» disse compiaciuto. «Allora
andiamo. La Compagnia del Carroccio vi attende.» Quando vide il
grande carro da guerra, Rossano non seppe se mostrare meraviglia o
diffidenza. Era senz'altro imponente, e trasmetteva una sensazione di
potenza che avrebbe giovato alle truppe della Lega, ma era anche
evidente che si trattava di una struttura enorme, difficile da manovrare
e che si sarebbe spostata con grande lentezza, ostacolando le
operazioni dell'esercito. Si chiese quanto ci avessero messo a portarlo
fino a Legnano.
«Non diffidate del Carroccio, comandante» esclamò all'improvviso
una voce come se gli avesse letto nel pensiero, facendolo sobbalzare
per la sorpresa. «Per quanto sia lento e pesante, la sua vera forza sta
nella carica morale che riesce a infondere ai nostri uomini, e nella
soggezione che può incutere nel nemico.» L'uomo che aveva parlato si
trovava sulla tolda del Carroccio, indossava l'abito talare e mostrava
un'espressione cordiale e pacata, eppure estremamente sicura di sé.
Dopo avere sorriso a Rossano scese da una scaletta e lo raggiunse,
profondendosi in un lungo inchino. Accanto a lui, un ragazzo piuttosto
giovane si muoveva come se fosse la sua ombra, tenendosi
leggermente in disparte.
«Sono onorato di fare la vostra conoscenza, comandante» aggiunse
il prete. «Mi hanno riferito meraviglie sul vostro conto.» «Questi è
padre Ariberto» lo presentò Alberto da Giussano.
«Ha rimesso in sesto lui il Carroccio, e sarà la nostra guida
spirituale.» «Non dimentichiamo il prode Egidio» sorrise il prete,
indicando il ragazzo che aveva accanto e che divenne paonazzo per la
vergogna. «Senza di lui, il Carroccio non avrebbe mai ripreso l'antico
splendore.» Rossano annuì senza dire nulla. Lanciò un'altra occhiata
al carro da guerra, ammirando la robustezza delle fiancate e il
pennone centrale, su cui svettavano il gonfalone papale e le insegne
della Lega. C'erano diverse altre persone arrampicate sul Carroccio, fra
le quali vide dei ragazzi molto giovani che li osservavano eccitati.
«Quei giovanotti sono decorativi o hanno un compito specifico?»
chiese, senza abbandonare la sua espressione turbata.
Continuava ad avere in mente la cavalleria corazzata imperiale, e si
chiedeva come fosse possibile sfruttare quel bestione per trarne il
massimo vantaggio, quando fosse arrivato il momento dello scontro.
Padre Ariberto sorrise ancora. «Quelli sono i tamburini della
Compagnia» rispose. «Arruolati a tutti gli effetti. Staranno sul castello
di comando per diffondere i vostri ordini, comandante.» Rossano lo
guardò, e comprese che il prete stava cercando di fargli capire
qualcosa. Prima che padre Ariberto continuasse, sentì finalmente di
afferrare il senso delle sue parole, e della stessa presenza del Carroccio
tra le fila dell'esercito della Lega.
Non si trattava di una vera e propria macchina da guerra, e lui non
doveva considerarlo uno strumento da battaglia, valutandone i limiti e
i pregi sul campo, come aveva fatto fin da quando l'aveva visto.
Il Carroccio era un simbolo, aveva lo stesso potere e lo stesso
effetto di uno stendardo sbandierato sulle truppe in movimento, e la
sua sola presenza sarebbe stata un elemento formidabile per dare
vigore alle truppe e, nel frattempo, far capire al nemico che i Lombardi
non combattevano per semplice obbedienza o per il conio che
richiamava i mercenari, ma per una causa comune, per un ideale, per
un valore di libertà che quel carro gigantesco impersonava in tutto il
suo vigore.
«Avrete tempo per abituarvi a padre Ariberto e ai suoi sermoni» lo
riscosse Alberto da Giussano dandogli una pacca sulla spalla. «Adesso
è tempo che conosciate i vostri uomini e vi prepariate per muovervi al
più presto.» Rossano lo guardò sorpreso.
«Siamo pronti ad affrontare il Barbarossa, allora?» chiese.
«Abbiamo individuato il terreno ideale per lo scontro con
l'invasore» rispose Alberto da Giussano. «Vorrei che la vostra
compagnia lo presidiasse il prima possibile, in modo da anticipare le
mosse delle forze imperiali.»
«Magnifico» annuì Rossano, sentendo montare l'eccitazione
dentro di sé. «Saremo pronti a partire domani stesso.» Alberto da
Giussano sorrise. «E io sono sicuro che i vostri uomini saranno pronti
a seguirvi, comandante, ma prima accertatevi delle condizioni della
Compagnia. È fondamentale che siate in grado di muovervi con
celerità e con la migliore organizzazione possibile... nonostante
quello.» Aveva indicato il Carroccio, e Rossano annuì comprendendo
quello che voleva dirgli.
«Me ne occuperò subito» rispose senza esitazioni.
«Bene» disse Alberto da Giussano. «Io devo tornare a Milano.
La mia Compagnia della Morte mi aspetta.» «E il resto
dell'esercito?» chiese Rossano.
«Conto di far muovere il grosso già domani stesso, per potermi
riunire alla vostra Compagnia in un paio di giorni. A quel punto
potremo assestarci e aspettare l'arrivo delle truppe imperiali.» «Il
Carroccio non sarà d'intralcio, state tranquilli» affermò pacato padre
Ariberto. «E quando l'esercito si compatterà, vedrete che saprà
beneficiare della forza di spirito che il carro di Dio saprà infondere ai
nostri uomini.» Né Rossano né Alberto da Giussano replicarono, e i
due comandanti si salutarono con un gesto del capo. Rimasto con
padre Ariberto, e con tutti gli uomini della Compagnia del Carroccio
schierati ordinatamente davanti a lui, Rossano prese un profondo
respiro e si preparò a chiamare a raccolta i capitani di squadrone, per
conoscerli personalmente e farsi spiegare quali erano i punti di forza e
quelli più deboli della Compagnia che aveva l'onore di comandare.
Quando lo vide comparire, al fianco di Alberto da Giussano,
Angelica si sentì mancare. Fu soltanto un istante, ma bastò a farle
capire che non doveva mai perdere il controllo di se stessa, se voleva
continuare a fingere di essere un maschio.
Dentro di sé maledì la debolezza innata delle ragazze, che
nonostante l'impegno e gli sforzi continui riusciva a farle mancare il
respiro e renderle molli le gambe, ogniqualvolta pensava a Rossano. E
adesso, vederselo comparire davanti per lei fu un'emozione troppo
intensa per riuscire a tenerla sotto controllo, e quasi rischiò di doversi
appoggiare a uno dei suoi compagni tamburini, per restare salda sulle
gambe.
Per fortuna, l'apparizione di Alberto da Giussano aveva fatto
correre brusii eccitati tra le fila dei trecento uomini che componevano
la Compagnia del Carroccio, e anche lì sul grande carro da guerra c'era
chi aveva trattenuto il respiro alla vista del comandante dell'esercito
lombardo. Così, Angelica immaginò che nessuno dovesse essersi
accorto del suo mancamento, e cercando di restare all'ombra del
gonfalone papale osservò Rossano che parlava con padre Ariberto,
guardandosi attorno con la sua aria intelligente e pronta a cogliere
tutti i particolari che gli erano necessari per ambientarsi nella nuova
situazione.
Quando aveva visto che sarebbe stato lui il nuovo comandante
della Compagnia del Carroccio, Angelica non aveva saputo se esultare
o mettersi a piangere. Adesso aveva la certezza che avrebbe potuto
restargli sempre vicino, ma era anche vero che in questo modo da un
momento all'altro correva il rischio di essere scoperta.
Era chiaro che se Rossano avesse saputo di quello che aveva
combinato, si sarebbe infuriato con lei, e nonostante la felicità di
rivederla (cosa di cui restava certa, dopotutto) l'avrebbe fatta subito
accompagnare a Milano da una scorta armata, naturalmente "per il
suo bene".
Angelica strinse i pugni con rabbia. Non sopportava la
consuetudine che i maschi fossero sempre pronti a ordinare alle donne
quello che dovevano fare, invocando come scusa il loro desiderio di
proteggerle. Lei non era un cavallo, non era una compagnia di soldati
in attesa di ordini, era una persona capace di pensare e di prendere
decisioni, e non riteneva giusto che dovessero essere altri a spiegarle
quello che era meglio fare per la sua stessa incolumità.
Era così assorta da quei pensieri, che sobbalzò di nuovo, quando si
accorse che Rossano stava guardando dritto dalla sua parte, dopo
averla indicata con un cenno del mento. Possibile che si fosse già
accorto di lei?
In preda al panico cercò di farsi più piccola e di calarsi ancora di
più nell'ombra proiettata dal gonfalone, ma poi si accorse che Rossano
era intento a parlare con padre Ariberto, e che aveva indicato solo il
Carroccio, non direttamente lei.

Mentre i battiti del cuore si acquietavano piano piano, comprese


che non sarebbe stato facile restare vicina al suo amato cercando nel
frattempo di rendersi invisibile ai suoi occhi. Avrebbe voluto
chiamarlo a gran voce e buttargli le braccia al collo, sentire la sua
stretta intorno al corpo, ma per il momento doveva accontentarsi di
stargli vicino e di osservarlo a distanza.
Sempre meglio, concluse tra sé, che restarsene chiusa in una stanza
in un palazzo vuoto mentre lui andava a combattere senza alcuna
garanzia che potesse tornare vivo.
Se dovevano morire, stabilì per l'ennesima volta, allora l'avrebbero
fatto insieme. Ma se dovevano vincere e salvarsi, allora lei voleva
essere al suo fianco, quando avrebbe levato la spada al cielo facendo
erompere il grido della vittoria.
I capisquadra erano giovani di rango, provenienti dalle migliori
famiglie milanesi che avevano messo a disposizione della Lega non
solo i loro averi, ma anche i loro figli, per ricacciare l'invasore tedesco
oltre le Alpi.
«Questi uomini sarebbero disposti a morire, pur di difendere gli
stendardi della loro città» gli aveva spiegato padre Ariberto mentre lo
accompagnava al grappolo di tende allestito nell'accampamento fuori
Legnano in cui si erano acquartierate le forze dei Comuni Collegati.
Rossano aveva annuito senza lasciarsi troppo influenzare dalle
parole del prete, ma quando era entrato nella tenda e li aveva trovati
tutti lì, ordinatamente radunati attorno al tavolo su cui era dispiegata
una pergamena con la mappa del terreno di battaglia, si era
silenziosamente compiaciuto. Erano tutti correttamente abbigliati,
senza essere troppo vistosi ma lasciando intendere quale fosse il loro
lignaggio, e ostentavano un'aria marziale adeguata alla situazione.
Rossano suppose che non dovessero avere molta esperienza di
battaglia, ma confidò nel coraggio che sarebbe loro derivato dalla
convinzione di combattere per un ideale e per la sopravvivenza della
loro stessa gente.
Padre Ariberto glieli presentò a uno a uno, poi all'improvviso
chiamò un ragazzo che se ne stava un po' in disparte e gli fece segno di
avvicinarsi.
«Questo è il nuovo comandante delle staffette della Compagnia»
disse il prete con un sorriso, mentre il ragazzo faceva un passo avanti e
si portava in un punto in cui Rossano potè vederlo chiaramente. «È un
ragazzo molto in gamba. Pieno di coraggio e di forza, anche se forse un
po' avventato.» Quando Rossano si rese conto di chi aveva davanti,
restò per un istante immobile.
«Deve avere preso da suo fratello» continuò padre Ariberto con un
sorriso. «Almeno da quello che mi dicono.» Rossano trattenne un
lungo respiro, poi scosse la testa.
«Valerio» disse, percorso da uno strano tumulto di emozioni.
Da una parte era felice di rivederlo vivo, dall'altra si rendeva conto
che essere il capo della squadra di staffette in carico alla sua
Compagnia era un incarico di prestigio, ma anche molto pericoloso.
«Sono contento che sia tu il nostro comandante» disse Valerio
interrompendo i suoi pensieri.
Rossano lo fissò, e si rese conto che suo fratello era sulle spine.
Forse aspettava di capire quale avrebbe potuto essere la sua reazione.
Sapeva che lui aveva sempre agito per cercare di proteggerlo, e adesso
trovarselo lì in prima linea insieme a lui doveva essere un piccolo
trauma.
Rossano cercò di considerare la cosa con obiettività. Ormai Valerio
era diventato un uomo, e aveva dimostrato sul campo le sue qualità.
Lui aveva cercato di tenerlo lontano dai pericoli il più possibile, e come
risultato l'aveva solo incitato a fare di testa sua. Adesso Valerio era lì,
di fronte a lui, e aspettava di capire come avrebbe reagito di fronte alla
dimostrazione pratica che non sarebbe servito a nulla cercare di
convincerlo a farsi da parte.
Una volta compreso questo, Rossano, senza dire una parola, fece
un passo avanti e abbracciò il fratello.
Il grido di gioia che esplose nella tenda sorprese per primo
Rossano, ma questo non bastò a convincerlo ad allentare l'abbraccio
che lo legava al fratello.
«Anch'io sono contento che tu sia qui con me» mormorò a Valerio,
che tremava nelle sue braccia. «Insieme combatteremo per la nostra
città e la nostra gente. E vinceremo.» Valerio non rispose nulla,
limitandosi a stringerlo ancora più forte.
CAPITOLO NONO

A.D. 1176
Campagne di Legnano 1
Dall'alto della collina si poteva scorgere tutta la lunga serpentina di
fanti in movimento, con i carri delle salmerie alla retroguardia e il
Carroccio, trascinato da tre pariglie di buoi, che procedeva nel centro
dello schieramento, circondato dalle unità di cavalleria al comando di
Umberto da Collaredo. Rossano non era troppo convinto della
necessità di adeguare il passo dei suoi uomini e delle altre due
compagnie di cui gli era stato affidato il comando a quella
mastodontica macchina da guerra, perché in quel modo avrebbero
impiegato molto più del necessario per raggiungere il luogo in cui
attestarsi in attesa dell'arrivo di Alberto da Giussano.
Del resto, non sarebbe stato facile spiegare a quei settecento
cavalieri, ai mille fanti e a tutti gli ufficiali di collegamento, che il
Carroccio era solo un simbolo, non una vera macchina da guerra, e
quindi per quanto importante per il morale degli uomini, avrebbe
potuto procedere alla retroguardia, e raggiungerli quando avessero
presidiato il terreno e impostato le prime difese.
Le staffette che aveva mandato in avanscoperta avevano riferito
che gli esploratori imperiali erano assai più avanzati di quanto
avrebbero potuto aspettarsi, e quindi il tempo che rimaneva loro non
era molto. Se non disponevano la prima linea di difesa in maniera
adeguata, rischiavano di perdere quel poco vantaggio che avrebbero
potuto ottenere sfruttando nel modo migliore la conformazione del
terreno di battaglia.
Rossano aveva provato a sottoporre il problema a padre
Ariberto, ma il prete si era limitato a sospirare e a sorridergli,
facendogli capire che a volte certe decisioni, per quanto all'apparenza
semplici, possono risultare estremamente difficili da mettersi in atto.
Soprattutto se riguardavano la fede nel Signore e negli atti della
Provvidenza.
«Vedete la piccola croce esposta sul ponte di comando?» gli aveva
detto padre Ariberto. «Quanto credete che possa valere, come arma da
guerra?» Rossano aveva osservato la croce lobata che splendeva nel
sole, e aveva annuito, facendo comprendere al prete che aveva inteso
perfettamente. La croce del vescovo Intimiano non sarebbe servita a
contrastare l'affondo di una spada, ma avrebbe potuto spingere tutti i
trecento giovani della Compagnia della Morte a combattere con vigore,
se padre Ariberto l'avesse sollevata al cielo per mostrarla durante la
battaglia.
Così Rossano aveva deciso di rinunciare al progetto di far spostare
il Carroccio alla retroguardia, e si era rassegnato a rallentare
l'andatura dei suoi uomini, consolandosi all'idea che in quel modo
sarebbero arrivati più freschi sul campo di battaglia, e avrebbero
potuto lavorare meglio per preparare il terreno. Rossano aveva già
discusso con Alberto da Giussano e con gli altri generali della Lega su
quello che era più urgente fare per sfruttare al massimo il campo di
battaglia. I fanti avrebbero dovuto scavare buche irte di pali appuntiti
sul fondo, sollevare argini di terra e predisporre muretti di pietra in
modo da incanalare la cavalleria imperiale verso zone prestabilite della
grande pianura in cui sarebbe avvenuto lo scontro, dopo averle fatte
presidiare da arcieri e balestrieri schierati dietro ripari di terra. I
picchieri avrebbero innalzato barriere difensive nei punti in cui la
cavalleria nemica avrebbe fatto irruzione, in modo da costringere i
cavalli a calpestarsi e a spingersi a vicenda per passare, e solo al
termine di quel percorso di morte i fanti avrebbero eretto l'ultimo
sbarramento, atterrando i cavalieri superstiti e uccidendoli prima che
potessero ricompattarsi.
Apparentemente il piano era perfetto, e poteva contare su un altro
elemento in loro favore: l'irruenza con cui l'esercito imperiale,
convinto della propria superiorità, avrebbe attaccato non appena li
avesse visti, senza considerare adeguatamente il terreno dello scontro.

Naturalmente, qualsiasi tattica di guerra poteva essere sovvertita in


ogni momento, ed era per questo che i cavalieri della Compagnia della
Morte, guidati da Alberto da Giussano, si sarebbero attestati su un
rilievo a est del campo di battaglia, pronti a lanciarsi come un fiume in
piena contro qualsiasi tentativo nemico di colpire l'esercito lombardo
sui fianchi aggirando gli ostacoli disseminati da Rossano.
Tutto questo, però, poteva essere realmente valutato solo quando
l'avanguardia padana avesse raggiunto il luogo prestabilito e avesse
cominciato a predisporre gli sbarramenti difensivi. Per questo
Rossano non riusciva ad allentare la tensione che avvertiva a fior di
pelle, quando osservava il passo di marcia delle tre compagnie al suo
comando. Si muovevano troppo piano, rallentate proprio dal carro che
rappresentava il simbolo della loro forza e del loro coraggio.
Lanciò un'occhiata a Umberto da Collaredo, che cavalcava rigido e
impassibile alla testa dei suoi uomini, e comprese che stava facendo
uno sforzo enorme per cercare di mantenere la calma. I possenti
corsieri da guerra sbuffavano impazienti, con le froge dilatate e il
desiderio di aggredire il terreno con gli zoccoli ferrati, per lanciarsi alla
carica. Anche Drago fremeva sotto di lui, e Rossano doveva tenerlo
quieto con continue pacche rassicuranti sul collo.
Stava ancora pensando a come risolvere la situazione, quando
all'improvviso avvertì il frastuono sollevato da alcuni cavalli lanciati al
galoppo, e voltandosi si accorse che tre uomini si stavano avvicinando
alla massima velocità.
«Comandante!» gridò il primo dei cavalieri, che immediatamente
Rossano riconobbe come suo fratello Valerio. «Abbiamo incrociato gli
esploratori imperiali!» Rossano trattenne Drago per le redini, quando
Valerio e le altre staffette si fermarono accanto a lui, sollevando un
turbine di polvere.
«Ne siete sicuri?» chiese al fratello.
«Sì» rispose Valerio. «E non erano esploratori d'avanguardia.
Procedevano a gruppi di quattro!» Rossano sentì accelerare le
pulsazioni, quando comprese quello che voleva dire Valerio. Gli
esploratori imperiali a largo raggio si muovevano da soli, per poter
coprire la più vasta area di territorio possibile. Quelli che avanzavano
in gruppo non erano l'avanguardia, bensì le staffette incaricate di
portarsi quasi a contatto con il nemico, e riferire ai comandanti
imperiali l'entità delle sue forze.
«Come possono essere già qui?» chiese Rossano sorpreso.
«Il Barbarossa non può avere fatto marciare l'esercito giorno e
notte!» «Ho visto gli stendardi di due soli squadroni di cavalleria»
rispose Valerio.
Rossano strinse i denti. «Allora significa che sono un'avanguardia,
mandata a presidiare il campo di battaglia esattamente come stiamo
facendo noi. Sei sicuro di non avere visto fanteria?» Valerio scosse la
testa. «Conosco bene le araldiche imperiali.
Al momento si stanno avvicinando solo reparti di cavalleria.»
Indicò le altre due staffette al suo fianco. «Anche i miei ragazzi
confermano. Niente fanteria, almeno a ridosso di questa
avanguardia.» «Che cosa intendete fare, comandante?» chiese
Umberto da Collaredo, che li aveva raggiunti appena in tempo per
cogliere le ultime parole di Valerio.
Rossano lanciò un'occhiata al Carroccio e al lento serpente di fanti
in movimento e non ebbe più dubbi.
«Di quanti cavalieri potete disporre?» chiese.
«Settecento» rispose Umberto da Collaredo.
Rossano lo guardò. «Credete siano pronti allo scontro?»
«Naturalmente» annuì senza esitazioni Umberto da Collaredo.
«Volete che li intercettiamo?» «Dovete impedire che raggiungano
il campo di battaglia prima della nostra fanteria» ordinò Rossano.
«Farò aumentare il ritmo di marcia ai miei uomini, in modo da
arrivare sul luogo convenuto prima possibile, ma ho bisogno che voi
fermiate la cavalleria imperiale e vi accertiate della consistenza del
nemico.» «Sarà fatto» annuì seccamente Umberto da Collaredo.
«Vuoi che mandi qualcuno dei miei ad avvertire Alberto da
Giussano?» chiese Valerio.
«No, non ancora» rispose deciso Rossano. «Dobbiamo capire se
l'esercito imperiale si trova dietro questa avanguardia oppure no.
Potrebbe trattarsi di una manovra per spingerci a muovere l'esercito e
farlo cadere in una trappola.» Scosse la testa. «Prima verifichiamo con
chi abbiamo a che fare, poi presidiamo il terreno e facciamo avere ad
Alberto da Giussano informazioni corrette per spostare il grosso delle
truppe.» Al grido dei capisquadra, il piccolo drappello di cavalieri
imperiali completò la manovra di accerchiamento della collina e si
dispose in due file compatte, aspettando che gli ufficiali verificassero
la posizione degli stendardi e ordinassero il ricongiungimento della
colonna, per riprendere la marcia a ranghi serrati.
Uomini e cavalli erano stanchi, ma il capitano Gustav von
Schenker, agli ordini del generale Ottone di Wittelsbach, non aveva
nessuna intenzione di concedere loro il tempo di riposarsi.
Le staffette avevano segnalato il nemico in avvicinamento, e lui
aveva ricevuto ordini precisi dal suo comandante: attestare le truppe
in posizione favorevole e ingaggiare battaglia contando sul fattore
sorpresa, in attesa che il grosso dell'esercito piombasse addosso ai
ribelli con tutta la sua forza d'urto. Naturalmente, von Schenker
sapeva che quella manovra avrebbe rappresentato la morte di gran
parte della sua compagnia, visto che le staffette avevano segnalato un
numero di soldati nemici di gran lunga superiore a quello su cui lui
poteva contare, ma non pensò neppure per un istante di disobbedire
agli ordini e ripiegare, in attesa del ricongiungimento con il resto
dell'esercito. Se l'imperatore riteneva giusto il loro sacrificio, lui aveva
intenzione di onorare fino in fondo il suo dovere, conquistandosi sul
campo la gloria che si addiceva a ogni buon soldato disposto a morire
per l'Impero.
«Capitano, abbiamo la conferma dell'avvistamento!» abbaiò il suo
attendente arrivando a tutta velocità e fermando il corsiero con uno
strappo deciso delle redini. «Sono oltre quell'avvallamento!» Gustav
von Schenker scrutò nella direzione indicata, le mascelle contratte e gli
occhi serrati per mettere meglio a fuoco l'orizzonte.
«Quanti sono?» chiese.
«Seicento, forse di più. Solo cavalleria leggera. Hanno lasciato più
indietro la fanteria e... un carro da guerra.» Gustav von Schenker si
accigliò.
«Che significa?»
L'attendente non si scompose. «Un carro su ruote, trascinato da
pariglie di buoi» rispose, riportando fedelmente quello che gli era stato
riferito dagli esploratori. «Trasporta le araldiche e le insegne dei
ribelli.» «Ci sono balestrieri, arcieri?» chiese von Schenker sorpreso.
«Trabucchi o qualche altra diavoleria da lancio?» «Sembrerebbe di
no, capitano. Solo dei tamburini e un prete.» «Un prete» mormorò
von Schenker cercando di capire che cosa avrebbe potuto trovarsi
davanti. Sapeva che era stupido sottovalutare il nemico, anche se si
trattava di truppe scombinate messe insieme per l'occasione. Aveva
ancora ben vivo nella memoria il modo in cui i padani si erano opposti
ai loro tentativi di conquistare Alessandria, e sapeva che doveva
aspettarsi altre sorprese da quella gente, disposta a tutto pur di
perseverare nel proprio assurdo atto di ribellione.
«Avanziamo ancora» ordinò alla fine, facendo ruotare il cavallo per
portarsi alla testa dei suoi uomini. «Raggiungiamo quelle alture laggiù
e attestiamoci prima che arrivi il nemico.» L'attendente assentì e corse
via, trasmettendo gli ordini ai sergenti di squadra.
La doppia fila di cavalieri parve scuotersi con un fremito, e si
rimise in marcia di buon passo, mentre gli incursori si aprivano a
ventaglio per battere il terreno alla ricerca del punto più favorevole in
cui prepararsi allo scontro.
Quando Rossano vide la depressione che affondava leggermente
verso il centro della pianura, racchiusa a est e a ovest da due barriere
quasi impenetrabili di vegetazione, e con un unico sbocco a nord, che
si inerpicava su una successione di bassi rilievi che non consentivano
di spingere più in là lo sguardo, comprese che, se non fossero riusciti a
passare oltre, si sarebbero trovati in una posizione svantaggiata.
Gli esploratori imperiali intercettati da Valerio dovevano avere
riferito ai loro comandanti quello che avevano visto, e Rossano sapeva
che a quel punto lo scontro con i cavalieri di Umberto da Collaredo
sarebbe stato inevitabile. Non sapeva quale sarebbe stato il rapporto di
forza fra i due schieramenti, ma si augurò che i cavalieri lombardi
riuscissero a tenere impegnato il nemico abbastanza a lungo, perché la
loro situazione non era delle migliori.

La marcia forzata a cui aveva costretto gli uomini gli aveva fatto
guadagnare abbastanza terreno, ma Rossano sapeva che non era
ancora sufficiente. Dovevano superare quella depressione e
raggiungere i rilievi a nord, per conquistare una posizione
sopraelevata rispetto al nemico.
Non sarebbe stato facile spingere il Carroccio fin lassù, però lui non
voleva dare inizio alla battaglia senza che il possente carro da guerra
avesse preso posizione. Aveva bisogno di ogni possibile elemento di
forza a sua disposizione, e il Carroccio avrebbe potuto dimostrarsi
prezioso, nel momento dello scontro.
«Dobbiamo fermarci, comandante?» chiese uno dei suoi ufficiali di
collegamento. «Gli uomini sono stanchi, e credo che anche i buoi siano
al limite.» Rossano lanciò un'occhiata al Carroccio che arrancava nella
polvere a qualche centinaio di metri di distanza, e scosse la testa.
«No» disse. «Non possiamo farlo. Non sappiamo se Umberto da
Collaredo e i suoi riusciranno a fermare la cavalleria imperiale. Se così
non fosse, verremmo attaccati in una posizione estremamente
sfavorevole. Non possiamo rischiare. Ordinate ai capisquadra di
aumentare l'andatura.» I suoi attendenti compresero subito che la sua
decisione non era dettata dall'imprudenza o dall'impazienza, ma da
un'attenta considerazione della situazione.
«Fate diramare gli ordini a voce, senza usare i tamburini» aggiunse
Rossano scrutando con apprensione verso le colline all'orizzonte, da
cui il nemico sarebbe potuto comparire in qualsiasi momento. «E fate
schierare due squadre di lancieri sul fianco occidentale, in prossimità
della foresta. Voglio falangi compatte sulle ali, e la Compagnia del
Carroccio a presidiare il carro.» Quando ebbe terminato, gli attendenti
si lanciarono verso i reparti per far circolare gli ordini, e Rossano fece
un segno a Valerio, che insieme alle sue staffette aspettava
leggermente in disparte.
Quando il fratello l'ebbe raggiunto, Rossano indicò a nord, verso il
punto in cui le alture scivolavano dolcemente nella depressione
davanti a loro.
«Ormai dovrebbero essere giunti a contatto» disse, indicando con
il braccio. «Gli uomini di Umberto da Collaredo dovrebbero essere in
supremazia numerica, ma non mi fido degli imperiali.» Valerio scrutò
a sua volta, poi annuì.
«Vuoi che mandi qualcuno dei miei a dare un'occhiata?» chiese.
Rossano scosse la testa. «In questa situazione sarebbe troppo
pericoloso. Al posto dei comandanti imperiali avrei fatto presidiare le
foreste ai margini delle colline da qualche incursore bene addestrato,
per cogliere di sorpresa un eventuale aggressore proveniente dalle
alture.» Valerio si accigliò. «Allora cosa dobbiamo fare?» «Passate da
dietro» rispose Rossano indicando la grande foresta che si estendeva a
ovest dando l'impressione di non finire mai.
«Aggirate l'avanguardia imperiale e andate a dare un'occhiata a
quello che sta succedendo. Ho bisogno di sapere se Umberto da
Collaredo sarà in grado di fermarli oppure no.» «Nient'altro?» chiese
Valerio.
Rossano lo fissò, poi sorrise. Valerio aveva fatto progressi
incredibili da quel giorno ormai lontano in cui l'aveva lasciato a
Milano credendolo al sicuro.
«Pensi di riuscire a stabilire a quale distanza si trova il grosso
dell'esercito imperiale?» chiese.
«Secondo te sono vicini?» «Non lo so» rispose Rossano. «Ma è
importante che tu lo scopra.» «D'accordo» annuì Valerio. «Andrò
personalmente.» Rossano ebbe l'impulso di chiedergli di non farlo, di
incaricare qualcuno dei suoi uomini, ma poi si rese conto che sarebbe
stato come umiliarlo. Valerio avrebbe potuto fraintendere, e credere
che non avesse fiducia in lui.
«D'accordo» annuì alla fine. «Ma stai attento. Mi servi vivo.
Con quelle informazioni.» Valerio sorrise, poi si allontanò per
andare a organizzare i suoi.
Nel frattempo, il Carroccio avanzava, adesso un poco più spedito
grazie all'aiuto di alcuni soldati che si erano uniti ai buoi nello sforzo
di spingerlo oltre una lieve pendenza del terreno.
Rossano non sapeva se ce l'avrebbero fatta a metterlo in posizione
in tempo. Eppure dovevano provarci, perché solo così avrebbero avuto
qualche speranza di formare uno schieramento tanto solido da
impedire all'esercito del Barbarossa di tracimare oltre quella valle.

«Perché non scendiamo?» chiese Angelica a Manlio Chiossa, il


tamburino a cui era stata affiancata e che insieme a lei osservava gli
uomini intenti a spingere il Carroccio. Da qualche decina di metri il
terreno aveva cominciato a salire, e anche se la pendenza era minima,
il peso colossale del carro era tale che le pariglie di buoi riuscivano a
smuovere a fatica le enormi ruote fasciate di ferro. I comandanti della
Compagnia avevano cominciato a gridare ordini, sistemando diverse
squadre a protezione del carro su tutti i lati, come se temessero un
attacco da un momento all'altro, poi avevano incaricato una decina fra
gli uomini più robusti di spingere il Carroccio. Nonostante questo, il
carro si muoveva lentamente, arrancando sulla pista mentre il
conducente dei buoi urlava e pungolava a sangue i poveri animali.
Angelica non riusciva a capire perché, di fronte a tanta fatica, lei,
gli altri tamburini, padre Ariberto e il giovane Egidio fossero costretti a
restarsene sul castello di comando. Se fossero scesi, ci sarebbe stato
meno peso da spostare.
Manlio Chiossa la guardò come se avesse detto qualcosa di
sacrilego.
«Sei pazzo?» le rispose. «Noi dobbiamo stare qui. Se il nemico
attacca, chi credi che potrebbe dare l'allarme al resto della
Compagnia?» «Potremmo farlo da terra, no?» ribatté Angelica. «Che
bisogno c'è di restare quassù a fare peso?» Manlio non la degnò
neppure di una risposta e la ignorò, sporgendosi oltre la fiancata del
Carroccio per osservare il movimento delle ruote.
«Adesso sembra che vada più veloce» affermò.
Angelica si sporse a sua volta, ma non vide nessun cambiamento
nell'andatura di quel colosso su quattro ruote. Anzi, incrociò la smorfia
tesa di uno degli uomini che spingevano il carro, e comprese che per
loro la fatica non era per nulla terminata, anzi sembrava aumentare
passo dopo passo.
Sentendosi scuotere dalla rabbia, Angelica guardò verso il punto in
cui aveva visto allontanarsi Rossano, insieme ai suoi attendenti di
campo. Forse avrebbe dovuto interpellarlo, spiegargli l'assurdità di
quella situazione, in modo che intervenisse d'autorità per costringere
coloro che facevano da zavorra a scendere, e magari a dare una mano a
spingere. Ma il pensiero di come avrebbe reagito Rossano, quando si
fosse accorto della sua presenza fra i soldati, la costrinse a rinunciare.
Per fortuna, qualche istante dopo il conducente dei buoi gridò che
la pendenza era terminata, e che adesso le bestie sarebbero riuscite a
trainare il Carroccio da sole. Quando i soldati si sganciarono stremati,
lei sospirò per loro, calmandosi e tornando a sedere al suo posto,
accanto a Manlio Chiossa.
«Perché ti agiti tanto?» le chiese lui. «Dovresti essere contento che
non ci fanno fare i lavori pesanti. Noi siamo tamburini, non soldati.»
Angelica gli scoccò un'occhiataccia, ma non rispose. Quando girò lo
sguardo verso il punto più alto della tolda di comando, presidiato da
padre Ariberto, si accorse che lui la stava guardando divertito.
Per un istante ebbe l'impressione che il prete avesse capito chi era
in realtà, ma poi lo vide rivolgersi a Egidio per dirgli qualcosa, e il
battito del cuore le si placò nel petto.
A quanto pareva, il suo travestimento stava funzionando.
E fra poco sarebbe stato troppo tardi anche per Rossano per
costringerla a tornare indietro.
Valerio si mosse rapido attraverso il fogliame, facendo attenzione a
non fare rumore e restando al riparo del sottobosco. Aveva ordinato
alle altre vedette di allargarsi il più possibile, per coprire un'ampia
area della foresta e al contempo fare in modo che, se qualcuno di loro
fosse stato scoperto, gli altri avrebbero potuto fuggire per andare a
riferire a Rossano. Avevano lasciato i cavalli legati poco lontano, e
adesso si muovevano tutti a piedi, per spostarsi con maggiore agilità
nel fitto della boscaglia.
Valerio non aveva ancora incrociato esploratori nemici, anche se
potevano essere nascosti fra i cespugli esattamente come lui, per
quanto le vedette imperiali fossero solite spostarsi a cavallo, non a
piedi. Quando, all'improvviso, avvertì dei rumori, si bloccò,
trattenendo il respiro per poter ascoltare meglio. Con cautela scostò le
frasche e riuscì a dare un'occhiata dalla parte da cui proveniva lo
strepito: si trovava quasi a diretto contatto con lo schieramento
nemico.
Com'era possibile che fossero avanzati così in fretta? E per quale
motivo erano soli? Di solito le compagnie di cavalleria non
procedevano senza la protezione degli arcieri e la possibilità di
ripiegare dietro le falangi dei picchieri.
Immaginò che il grosso dello schieramento imperiale si trovasse
poco lontano, e che quel manipolo di cavalieri, qualche centinaio in
tutto, dovesse essere una specie di avanguardia incaricata di sondare il
terreno in attesa dello scontro. Strinse gli occhi per cercare di vedere
meglio, e trovò una posizione da cui poteva avere una visuale più
ampia. Quando ebbe sott'occhio tutto il movimento di truppe nemiche,
si accorse che si trattava di una semplice compagnia di cavalleria
leggera, senza arcieri e fanteria di supporto, e con un numero ridotto
di esploratori.
Che cosa diavolo hanno intenzione di fare? si chiese. Perché
correvano in quel modo?
Probabilmente Rossano aveva ragione: gli esploratori imperiali
dovevano avere individuato il terreno migliore per attestare un
caposaldo difensivo in attesa dell'arrivo del grosso dell'esercito, e la
loro fretta era dettata dal fatto che sapevano degli spostamenti degli
uomini guidati da Rossano, e cercavano di anticiparli con la cavalleria
prima che ne prendessero possesso. Le alture a sud sarebbero state un
grosso vantaggio, per la cavalleria, e se Umberto da Collaredo non li
preveniva, si sarebbe trovato in difficoltà.
Provò a cercare con lo sguardo qualche traccia della cavalleria
padana, ma si rese conto che ancora non era in vista. Probabilmente
Umberto da Collaredo stava procedendo piano, con cautela, senza
stancare i cavalli, che voleva nel pieno delle forze per quando ci
sarebbe stato l'impatto con il nemico. Per questo lui e le altre vedette
erano riusciti ad anticiparli, correndo al massimo della velocità
attorno alla foresta. A quel punto, però, gli uomini di Collaredo
rischiavano di trovarsi in un punto più basso rispetto alle alture che
presto i cavalieri imperiali avrebbero raggiunto. Sarebbero stati in
superiorità numerica, da quello che poteva giudicare, ma negli scontri
fra cavalleria Valerio sapeva che una maggiore velocità di corsa
garantita da un pendio poteva essere un grosso vantaggio rispetto agli
avversari.

Stringendo i denti, Valerio retrocedette lentamente fra i cespugli e


strisciò via, per andare a riferire quello che aveva visto. Del grosso
dell'esercito imperiale non c'era traccia, e lui ritenne che sarebbe stato
più utile avvisare Rossano del rischio che Umberto da Collaredo e i
suoi non riuscissero a resistere a lungo alla carica della cavalleria
nemica.
Il che significava che presto la Compagnia del Carroccio avrebbe
dovuto ingaggiare battaglia.
Stava ancora pensando a questo quando all'improvviso un'ombra
gli sbarrò il passo. Valerio fece appena in tempo a mettere a fuoco la
figura che lo fronteggiava, quando avvertì il fischio lacerante di una
mazza ferrata che ruotava sopra di lui. Se la palla del mazzafrusto
l'avesse colpito, gli avrebbe fracassato le ossa, uccidendolo all'istante.
Ma ormai Valerio non aveva più tempo per pensare. Doveva agire
in fretta, e tentare di sottrarsi al colpo che stava per ucciderlo.
Umberto da Collaredo cercò di tenere a freno l'esuberanza del suo
destriero, imponendogli una falcata controllata, per evitare che si
lanciasse al galoppo stancandosi troppo presto. Sapeva che una delle
armi vincenti di qualsiasi cavaliere era l'energia che la propria
cavalcatura poteva profondere durante la battaglia, soprattutto se lo
scontro avveniva con altre compagnie di cavalleggeri.
«Stringete la formazione!» gridò ai suoi uomini quando vide che le
ali dell'incolonnamento si stavano attardando rispetto alla punta del
cuneo che avanzava verso le alture. Nel momento dell'impatto con lo
schieramento avversario sarebbe stato importante contare sulla
compattezza dei suoi settecento cavalieri, per penetrare il più a fondo
possibile nelle linee nemiche e mettervi scompiglio.
Il rumore sollevato dagli zoccoli dei cavalli era formidabile, e
trasmise un'impressione di forza e di sicurezza a Umberto da
Collaredo, che dovette faticare per reprimere il grido di incitamento al
galoppo che gli ribolliva in gola.
Quando raggiunsero le alture che ondulavano l'orizzonte, ordinò ai
capitani di formazione di seguire il piano che avevano studiato, e il
cuneo della cavalleria padana si divise in due, per aggirare i rilievi e
colpire il nemico dai fianchi, se si fosse trovato dall'altra parte.
Umberto da Collaredo ebbe appena il tempo di verificare che la
manovra di aggiramento si stesse compiendo in perfetto ordine,
quando avvertì esplodere le grida dei sergenti della cavalleria
imperiale. Si voltò per stabilire quale fosse la situazione, e si accorse
solo in quel momento che il nemico gli stava tendendo un'imboscata.
Gustav von Schenker osservò soddisfatto la cavalleria nemica
aggirare il fronte compatto di colline sui due fianchi, per cercare di
sfruttare quella barriera naturale per attaccare sui lati, esattamente
come lui si era aspettato. Erano circa un centinaio di più degli uomini
su cui lui poteva contare, ma dalla posizione in cui si trovavano
avrebbero potuto colpirli con una violenza devastante. La cavalleria
imperiale, infatti, anziché inerpicarsi sulle alture e valicarle, si era
attestata sui rilievi in prossimità della cima delle colline, in modo che,
non vista, fosse pronta a sfruttare la posizione sopraelevata per
caricare in velocità il nemico. Gustav von Schenker aveva già applicato
con successo quella tattica diverse volte, e non se ne era mai pentito.
Quando vide che il grosso della cavalleria padana stava ormai per
tracimare nella pianura dietro le colline, lanciò l'ordine ai suoi capitani
e segnalò di attaccare.
Le grida di battaglia dei reparti imperiali si alzarono in un
frastuono formidabile, a cui presto si aggiunse il rombo degli zoccoli
che frantumavano il terreno.
Gustav von Schenker sollevò la spada, e governando le briglie con
una mano sola si lanciò verso la testa dello schieramento nemico, dove
individuò subito l'uomo che doveva essere al comando della cavalleria
padana. Un'altra testa da aggiungere alla sua personale collezione!
«Ricompattate, ricompattate!» gridò Umberto da Collaredo
cercando di trattenere il cavallo, che si era sollevato sulle zampe
posteriori e cercava di disarcionarlo, spaventato dalle urla e dal
frastuono che era esploso all'improvviso.
Vide gli squadroni imperiali affondare nel fianco della formazione
dei suoi con velocità devastante, e si rese conto che la superiorità
numerica su cui sperava di fare affidamento veniva cancellata in un
solo colpo: i cavalieri padani, travolti dall'alto, non fecero neppure in
tempo a voltare gli animali per cercare di opporsi al nemico e vennero
scaraventati a terra con violenza, in un tumulto di grida, polvere e
sangue che seguiva le evoluzioni delle spade che falciavano senza
pietà.
Per fortuna, Umberto da Collaredo e una ventina dei suoi cavalieri
riuscirono a spingersi abbastanza avanti da evitare l'impatto con il
nemico, e dopo una stretta conversione si lanciarono nella mischia,
aggredendo gli attaccanti alle spalle e riuscendo ad allentare la morsa
del nemico.
Umberto non sapeva che cosa stesse accadendo sull'altro versante
delle alture, dove l'altra metà dei suoi uomini stava subendo lo stesso
tipo di attacco, ma si augurò che i comandanti di squadrone avessero
avuto il tempo per reagire e riorganizzarsi, come stava facendo lui con
i suoi.
Ormai non aveva più senso sbraitare ordini, perché i due
schieramenti si erano mischiati in un furioso combattimento corpo a
corpo in sella ai cavalli, e Umberto da Collaredo si rese conto che non
poteva fare altro che attuare una tattica di difesa.
Quando vide volteggiare una spada verso di lui, parò il colpo, poi
diede di speroni nel fianco del destriero e spinse il cavallo in avanti,
trascinando l'arma del nemico che aveva agganciato con l'elsa della
spada. Sentì l'uomo gridare, quando il braccio si torse fin quasi a
spezzarsi. A quel punto mollò la presa, sfilò lo stocco con la mano
sinistra e affondò sdraiandosi sul collo del destriero avversario,
colpendo il rivale all'inguine, nel punto esposto sotto la cotta di cuoio.
L'uomo gridò di dolore, cercò di bloccare lo stocco con la mano, ma
quando Umberto lo estrasse con forza una parabola di sangue gli fece
comprendere di avere troncato l'arteria femorale, il che non dava più
scampo al suo avversario.
Si voltò cercando di individuare un altro bersaglio, quando
all'improvviso si vide arrivare addosso un cavallo bardato con
finimenti di pregio, il frontale della testa adornato dallo stemma della
cavalleria imperiale. Riconobbe l'uomo quando ne incontrò lo sguardo
pieno d'odio e cattiveria: era Gustav von Schenker, che aveva
conosciuto personalmente alla corte dell'imperatore, prima che la
Padania decidesse di ribellarsi alla protervia del Barbarossa. E sapeva
che era un combattente formidabile.
Quando comprese che sarebbe stato inutile cercare di sfuggire
all'impatto, Umberto da Collaredo fece l'unica mossa che avesse un
senso: diede uno strappo alle briglie e cercò di opporre il muso del
cavallo alla furia del destriero di von Schenker. Il colpo fu tremendo,
ma per fortuna l'istinto aveva fatto scartare all'ultimo istante il
corsiero imperiale, e Umberto era riuscito a reggersi in sella.
Vide Gustav von Schenker affondare la spada verso di lui, senza
neppure attendere che la sua cavalcatura ritrovasse il perfetto
equilibrio sulle zampe, e cercò di parare di piatto, mentre
abbandonava lo stocco per tenersi alle briglie. Una pioggia di scintille
lo investì, quando la lama di von Schenker incontrò la sua, e subito
cercò di portare un colpo d'affondo per non dare tempo al suo
avversario di riorganizzarsi. Von Schenker parò con disinvoltura, poi
sfruttò la potenza del suo destriero per incalzarlo e spingerlo
all'indietro.
Umberto da Collaredo ringhiò infuriato, si sollevò sulle staffe e
provò a colpire l'ufficiale imperiale alle gambe, ma questi scartò di lato
e il colpo fu intercettato dallo schiniere della sella.
Umberto cercò di voltarsi per attaccare di nuovo, ma solo all'ultimo
si accorse del suo errore: von Schenker non era rimasto ad aspettare, e
con uno strappo delle redini aveva ruotato il destriero per travolgerlo.
La manovra riuscì alla perfezione, e Umberto da Collaredo si sentì
mancare la sella sotto il sedere, quando il suo cavallo scivolò sulle
zampe e crollò a terra, portandolo con sé.
L'impatto fu durissimo, e Umberto avvertì una fitta lancinante alla
gamba rimasta sotto il cavallo mentre questi stramazzava a terra. Ma
non ebbe il tempo di pensare al dolore, perché Gustav von Schenker gli
fu di nuovo addosso, piegandosi sul fianco del cavallo per cercare di
colpirlo con un fendente a tutto braccio.
Umberto parò il primo colpo con un ringhio disperato,
impossibilitato a muoversi, poi, mentre la vista gli si offuscava per il
dolore e la fatica, vide la punta della spada di von Schenker arrivare
dritta verso di lui e affondargli nel petto, trapassando con facilità la
scarsa protezione offerta dalla giubba che indossava.
Mentre il sangue gli saliva alla gola, Umberto da Collaredo si
guardò attorno. I suoi uomini stavano combattendo bene, riuscendo a
respingere gli attacchi del nemico e incalzandolo con vigore, dopo il
primo momento di sbandamento. Avrebbe voluto sorridere, e sputare
un getto di sangue verso Gustav von Schenker che lo fissava tronfio
dall'alto del suo cavallo, in attesa di vederlo morire, quando
all'improvviso percepì un rombo propagarsi nel terreno sotto di lui.
Torse il collo, e con un gemito di disperazione si avvide di quello che
stava succedendo: la cavalleria imperiale non si era spinta troppo
lontano dal grosso dell'esercito, e adesso la fanteria pesante nemica
stava tracimando nella pianura.
Avrebbero spazzato via i suoi uomini con facilità impressionante, e
poi avrebbero proseguito fino a travolgere Rossano da Brescia e il
resto dell'avanguardia padana.
Mentre Gustav von Schenker scendeva da cavallo e gli si avvicinava
per dargli il colpo di grazia, Umberto da Collaredo maledì Federico I il
Barbarossa e giurò ancora una volta fedeltà all'esercito padano e ai
Comuni Collegati.
2
Vessilli, stendardi, lance e alighieri. Comparvero oltre il crinale
delle alture che cingevano l'orizzonte a nordest, e si disposero a
semicerchio su una vasta area, componendo uno schieramento che a
Rossano parve troppo slegato. Le araldiche e le insegne degli
squadroni imperiali non erano numerose, e riguardavano solo due o
tre compagnie di cavalleria, da quello che poteva vedere. Però...
dov'erano Umberto da Collaredo e i suoi uomini? Non vedeva neppure
uno dei vessilli della cavalleria dei Comuni.
Quando, all'improvviso, decine di cavalieri lombardi comparvero
da dietro le alture, con i destrieri spinti al massimo della velocità e le
araldiche abbandonate, comprese che lo scontro con l'avanguardia
imperiale doveva essere stato durissimo, e la cavalleria padana era in
rotta. Dei settecento uomini di cui poteva disporre Umberto da
Collaredo se ne vedevano al massimo un centinaio, impegnati in una
corsa frenetica e scombinata, che portava dritto verso di loro.
E alle loro spalle i vessilli imperiali sferzavano il vento impegnati in
un inseguimento crudele, votato a fare strage di chiunque si fosse
frapposto alla loro carica.
«I capitani ai loro posti!» urlò Rossano comprendendo che doveva
aspettarsi il peggio. Erano ancora bloccati al centro della leggera
depressione che saliva fino alle alture, e ormai non avrebbero più fatto
in tempo a presidiare il campo di battaglia com'era stato pianificato.
Dovevano arroccarsi lì, in attesa di capire come si sarebbe comportato
il nemico, e nel frattempo dare sostegno agli uomini di Collaredo in
rotta. «Voglio due linee di picchieri schierate in fronte! Due
compagnie di balestrieri ai fianchi, con i pavesati a supporto! Subito!»
Gli attendenti di Rossano scattarono, diramando gli ordini e facendo
schierare in modo ordinato i fanti che stavano ancora marciando
incolonnati. Il Carroccio venne sospinto fino a un punto in cui il
terreno era in piano, e quindi le pariglie di buoi slegate e portate alla
retroguardia.
Mentre le truppe si muovevano frenetiche, obbedendo alle grida
dei capitani e dei sergenti, i tamburini cominciarono a suonare i brevi
stacchi di rullo che consentivano agli ordini di propagarsi più
velocemente tra gli uomini.
Rossano si voltò a verificare la velocità di avvicinamento dei
cavalieri di Collaredo, e comprese che non sarebbe riuscito a
organizzare uno schieramento difensivo abbastanza compatto da
reggere l'urto con la cavalleria imperiale.
«Portate davanti le lanzalonghe!» urlò, scendendo da cavallo per
correre dai capitani che gridavano come ossessi mentre il panico
cominciava a diffondersi fra gli uomini. «Voglio cinque linee di difesa!
I rincalzi e le riserve vadano a prendere le picche dai carri!
Ci servono tutte le lance lunghe di cui possiamo disporre!» Mentre
il frastuono dei cavalli in avvicinamento diveniva sempre più forte,
facendo tremare il terreno, Rossano non smise un istante di diramare
ordini, correndo da una compagnia all'altra per dare vigore agli
uomini e far capire ai comandanti che dovevano essere loro i primi a
dimostrare sangue freddo e a muoversi con determinazione. Se si
diffondeva il panico, per loro sarebbe stata la fine.

«Dite ai tamburini di suonare a raffica» ordinò al sergente di


collegamento che presidiava il Carroccio, mentre gli schieramenti
cominciavano a prendere posizione. Poi corse da Drago, che sbuffava e
raspava il terreno con gli zoccoli, nervoso, balzò in sella per poter
avere una visuale maggiore dell'orizzonte, e si rese conto che il tempo
a loro disposizione era finito.
«Aprite un varco sul fianco sinistro!» gridò quando si accorse che
gli uomini di Collaredo erano ormai a tiro d'arco. «Voglio una squadra
di balestrieri a copertura!» I capitani sbraitarono gli ordini, e le truppe
si mossero ordinatamente, senza lasciarsi impressionare dall'arrivo
frenetico della cavalleria padana allo sbando. Crearono un passaggio
nello schieramento all'interno del quale gli uomini di Collaredo
avrebbero dovuto infilarsi, per guadagnare le retrovie dove fermarsi e
far riposare i cavalli. Rossano sapeva che per almeno un'ora non
avrebbe più potuto contare sul loro appoggio, ma sperava di poter
usufruire degli squadroni di Collaredo quando la fanteria imperiale
avesse deciso di avanzare, dopo gli assalti della cavalleria pesante.
«Dov'è Collaredo?» gridò uno dei suoi attendenti, osservando
nervoso i cavalieri in avvicinamento, che non accennavano a voler
rallentare il galoppo. Rossano strinse gli occhi, e si rese conto che non
c'era traccia del comandante lombardo.
«Pronti a chiudere lo schieramento!» ordinò, consapevole che gli
uomini del Barbarossa non erano soliti fare prigionieri, sul campo di
battaglia. «Aspettiamo che siano passati tutti.» «Perché non
rallentano?» chiese un sergente dei picchieri, faticando a mantenere i
suoi uomini al loro posto.
Rossano strinse i denti con rabbia. Gli inseguitori imperiali erano
abbastanza lontani, perché i fuggitivi non diminuivano la velocità?
Così rischiavano di non riuscire a incanalarsi ordinatamente nel varco
che Rossano aveva fatto aprire, travolgendo i loro stessi compagni.
«Aprite le fila!» urlò quando si rese conto che gli uomini di
Collaredo non avrebbero trattenuto l'impeto. Non stavano cercando di
guadagnare le retrovie per ricompattarsi e riprendere le forze, in attesa
di tornare nuovamente in battaglia. Erano allo sbando, senza il punto
di riferimento del loro comandante rappresentavano ormai un
pericolo per gli uomini di Rossano.

Quando i cavalli stremati e ricoperti di schiuma arrivarono


all'altezza dello schieramento lombardo, con in sella cavalieri lordati di
sangue e i volti stravolti dal terrore, Rossano comprese che non
sarebbe stato possibile evitare l'impatto. Gridò ancora rivolto ai
comandanti delle falangi più esterne e alle squadre di balestrieri, nel
tentativo di organizzare una ritirata ordinata, ma quando i cavalieri di
Collaredo irruppero alla massima velocità, il panico ebbe la meglio, e
tutto il fianco sinistro della formazione padana si disintegrò in una
fuga a precipizio, mentre gli zoccoli dei cavalli frantumavano il terreno
senza preoccuparsi di scansare i soldati che non riuscivano a spostarsi
in tempo.
Rossano avvertì le urla degli uomini calpestati, lo schianto delle
ossa e delle cotte ferrate, vide cavalli inciampare sui cadaveri e
precipitare a terra, facendo volare i loro cavalieri in mezzo ai picchieri
e ai balestrieri, che si davano alla fuga in maniera disordinata, senza
preoccuparsi dei varchi che si aprivano nello schieramento difensivo.
«Fermateli!» ringhiò Rossano indicando i picchieri che
abbandonavano le lanzalonghe e correvano verso il bosco.
«Ricompattate! Ricompattate!» Mentre il caos travolgeva il fianco
sinistro delle linee lombarde, Rossano percepì dei movimenti con la
coda dell'occhio, e quando si voltò comprese che ormai era troppo
tardi per cercare di porre rimedio a quello sfacelo.
La cavalleria imperiale gli era a ridosso, e presto avrebbe
approfittato dello scollamento delle truppe padane per penetrare con
forza e spaccarne in due lo schieramento, rendendolo vulnerabile
all'avanzata della fanteria pesante, che già s'intravedeva brulicare dalle
alture a nord.
Sbuffando per la rabbia e la frustrazione, Rossano diede uno
strappo alle redini e lanciò Drago verso il Carroccio, dove la sua
compagnia si era attestata in formazione difensiva e non sembrava
dare segno di scomporsi. Da quel punto avrebbe potuto farsi un'idea
più precisa della situazione, e cercare di riorganizzare le truppe per
affrontare l'assalto che presto il grosso dell'esercito imperiale avrebbe
sferrato, approfittando di quel momento di sbandamento che aveva
aperto enormi varchi nelle schiere padane.
«Comandante, attento!» sentì gridare, ma non fece in tempo ad
accorgersi di quello che stava succedendo. L'impatto che lo disarcionò
da cavallo fu tremendo, ma per sua fortuna Rossano atterrò su una
spalla e riuscì a rotolare via, attenuando la caduta ed evitando di
fratturarsi l'osso del collo.
Nonostante il lampo di dolore che gli attraversò il corpo, riuscì a
rimettersi subito in piedi, e ad affrontare il cavaliere imperiale che
l'aveva disarcionato e che adesso lo caricava lancia in resta.
Con la spada sguainata Rossano attese fino all'ultimo istante, poi si
gettò di lato sferrando un fendente contro le ginocchia del cavallo, che
assorbirono l'impatto con un rumore di ossa spezzate.
Il cavaliere imperiale franò a terra con un grido, ma riuscì a sua
volta a rialzarsi e ad estrarre la spada, affrontando Rossano nella
bolgia che si era scatenata in quella parte dello schieramento. I
balestrieri erano impossibilitati a tirare, a quella distanza ravvicinata,
e i picchieri non potevano sfruttare le lanzalonghe per difendersi dai
cavalieri nemici, ma dopo i primi momenti di panico e di incertezza,
una formazione di roncolieri era riuscita a chiudere i varchi, e adesso
incalzava i cavalieri imperiali mirando a disarcionarli, per metterli
fuori combattimento in un furioso corpo a corpo.
L'uomo che fronteggiava Rossano indossava un gambeson
realizzato con crine di cavallo e fibre intrecciate, che gli proteggeva il
busto meglio di un'armatura, pur pesando molto meno e
consentendogli quindi di muoversi con agilità. Ma senza il suo cavallo
era in difficoltà: quando si fece sotto Rossano comprese che non era
uno spadaccino abituato ai combattimenti a distanza ravvicinata.
Mentre tutto intorno a lui i comandanti e i capitani di squadra
urlavano ordini ai loro uomini, cercando di riportarli in fila e di
ricompattare lo schieramento, Rossano affrontò con rabbia il cavaliere
nemico, ricordando la ferocia con cui le truppe imperiali mettevano a
ferro e fuoco gli ostacoli che incontravano sul loro cammino.
A Milano, quando Federico il Barbarossa aveva distrutto la città,
Rossano aveva visto i soldati imperiali uccidere uomini, donne e
bambini, senza alcuna distinzione, aveva visto stuprare giovani e
vecchie per le strade, aveva visto appiccare il fuoco alle case pur
sapendo che dentro c'era della povera gente che si nascondeva in
preda al terrore.
Ma adesso le cose erano cambiate, e lui non avrebbe avuto alcuna
pietà dell'invasore germanico.
Si fece sotto al cavaliere che ostentava una guardia normanna, fintò
sulla destra, volteggiò sul piede sinistro e senza soluzione di continuità
portò un affondo diretto al costato dell'uomo, che sgranando gli occhi
sorpreso vide la punta della spada di Rossano infilarsi in un varco
della sua guardia e aprirsi una strada di dolore e sangue.
Il nemico cadde a terra aggrappandosi alla spada, e Rossano non
perse tempo a sincerarsi che fosse morto. Gli puntò un piede sul petto
e tirò con forza, liberando la spada e rinfoderandola senza neppure far
scolare il sangue. Poi cercò Drago nella confusione, ma si rese conto
che il corsiero doveva avere ceduto all'istinto ed era fuggito, cercando
di mettersi in salvo.
Mentre alle sue spalle il cavaliere imperiale moriva soffocato nel
proprio sangue, Rossano corse verso la Compagnia del Carroccio,
schierata ordinatamente in cinque file attorno al grande carro da
guerra, e comprese che avrebbe dovuto giocarsi il tutto per tutto lì, con
l'aiuto di Dio e della dedizione sino alla morte per la propria causa che
infervorava quei giovani milanesi.
Prima di raggiungerli, però, diede un'occhiata intorno, spingendo
lo sguardo fino alle propaggini della foresta più lontana.
Dov'è Valerio? si chiese con angoscia. Aveva bisogno di lui per
avvertire Alberto da Giussano che l'esercito imperiale si era mosso più
velocemente di quanto avessero immaginato.
Valerio conosceva molto bene quell'arma micidiale. Quando aveva
lavorato come apprendista da Gabriele Mercadanti, aveva costruito
diversi mazzafrusto snodati a due o più teste, e sapeva che l'impatto
della palla ricoperta da punte acuminate, collegata all'impugnatura di
legno tramite una catena di ferro, sarebbe stato in grado di fracassargli
il cranio con un solo colpo. Così, quando avvertì il fischio lacerante
della mazza che volteggiava in aria e poi si dirigeva con uno scatto
verso di lui, non provò neppure a parare il colpo. Se l'avesse fatto con il
braccio, il mazzafrusto gliel'avrebbe ridotto in frantumi, e non aveva
tempo per cercare di sfoderare la daga in dotazione alle staffette.

Lanciando un grido di rabbia e di paura insieme, si tuffò contro le


gambe dell'avversario, cercando di sottrarsi al colpo e nel frattempo
provando con una mossa disperata a far cadere a terra il nemico.
Quando sentì che gli spuntoni della palla di ferro gli colpivano la
giubba sulla schiena, strappandone brandelli ma senza azzannargli la
carne, trattenne un grido di esultanza e spinse con tutto il corpo contro
le ginocchia dell'uomo, che si fece cogliere di sorpresa da quella mossa
inusuale.
Valerio portò velocemente la mano alla daga, la sfilò dalla cintura e
l'allargò su un fianco, ricordando come faceva suo fratello quando si
allenava con lui nella scherma.
«Se sei troppo vicino a un avversario non cercare di colpirlo di
fronte, allarga il raggio d'azione distendendo all'infuori il braccio.»
Rammentava perfettamente non solo le sue parole ma anche la botta
tremenda che gli aveva dato al costato con la spada di legno che
usavano in allenamento, e stringendo i denti mentre aspettava da un
momento all'altro di sentir fischiare ancora il mazzafrusto, allargò più
che potè il braccio, piegò il polso e affondò la punta della daga verso il
fianco dell'avversario.
Sorpreso, avvertì il rumore raschiante della lama che affondava
nella giubba dell'uomo e poi, dopo una leggera resistenza, nella carne.
Un fiotto caldo gli inondò la mano e il polso, e Valerio comprese che
era il sangue del soldato imperiale.
Rabbrividendo per il pericolo che correva, rotolò via, portandosi il
più lontano possibile dall'uomo, casomai avesse cercato di colpirlo
ancora con il mazzafrusto, ma quando fu a distanza di sicurezza e lo
guardò, si rese conto che era morto.
La daga era affondata nel fianco fino all'elsa, e Valerio non perse
tempo a cercare di estrarla. Balzò in piedi e corse al cavallo, che lo
attendeva ancora legato a un albero dove lo aveva lasciato.
Aveva ucciso un uomo, e l'aveva fatto in un combattimento corpo a
corpo. Cercò di non analizzare i sentimenti contrastanti che lo
pervadevano, e con un balzo fu in groppa al cavallo, dopo averlo
slegato.
Si lanciò verso la pianura in cui Rossano e gli altri uomini
dell'esercito padano attendevano di scontrarsi con le truppe imperiali,
e capì dal frastuono che si propagava nell'aria che la battaglia era
cominciata.

Dei cavalieri di Umberto da Collaredo non c'era più traccia:


avevano superato lo sbarramento della fanteria padana, creando
scompiglio e morte tra le fila dei loro stessi compagni, poi si erano dati
alla fuga, disperdendosi in tutte le direzioni. Rossano se ne rese conto
con rabbia, ma non perse tempo a recriminare.
Non sarebbero comunque bastati, quei pochi cavalieri spaventati e
ricoperti di sangue, per arrestare l'avanzata dell'esercito imperiale.
Salì sul castello di comando del Carroccio, da dove si poteva avere
una visuale migliore del campo di battaglia, e si accorse che la fanteria
pesante del Barbarossa stava tracimando dalle alture. Migliaia e
migliaia di soldati bene addestrati e con un equipaggiamento migliore
di quello di cui potevano disporre i suoi uomini, supportati da squadre
di arcieri, balestrieri e dalla cavalleria. Dopo il primo assalto condotto
dall'avanguardia che aveva inseguito ciò che restava dello squadrone
di Umberto da Collaredo, i trombettieri avversari avevano fatto
squillare gli ordini e la fanteria pesante si era portata avanti, mentre la
cavalleria, con una tattica ben collaudata, si ritirava sui fianchi, pronta
a intervenire con affondi in grado di indebolire le ali dello
schieramento avversario.
Rossano conosceva alla perfezione quelle strategie di guerra: lui
stesso le aveva applicate quando era al servizio del Marchese di
Monferrato, i cui stendardi garrivano insieme a quelli delle compagnie
imperiali. E quindi sapeva quanto potessero essere efficaci, se non
venivano contrastate con fermezza e senza cedere al panico.
Ma dalle alture continuavano ad arrivare uomini, una moltitudine
così numerosa che Rossano non poteva pensare di affrontarla con
raziocinio, non con le forze esigue che gli erano rimaste. I suoi uomini
avrebbero dovuto fare appello a tutto il coraggio di cui disponevano,
arroccarsi in una posizione di difesa e cercare di resistere in qualche
modo alle ondate d'assalto del nemico, nella speranza che Alberto da
Giussano e il grosso dell'esercito lombardo li raggiungessero il prima
possibile.
«Serrate le fila!» gridò quando vide che i picchieri sbandavano, di
fronte all'imponente schieramento nemico. Si voltò verso il gruppo di
tamburini rannicchiato in un angolo del carro, e ne indicò uno: «Tu,
suona l'ordine di raggruppamento! E non smettere fino a quando non
te lo dirò io!».
Il giovane tamburino annuì a testa china, si sistemò il bendir al
collo e cominciò a suonare la sequenza ritmica che ordinava ai
comandanti di squadra di far stringere gli uomini, serrando i ranghi.
«Non temete, comandante» tuonò una voce alle spalle di Rossano.
«Dio è con noi, e darà agli uomini la forza necessaria per resistere
all'invasore!» Padre Ariberto si stagliò sul ponte di comando,
sollevando la croce del vescovo Intimiano in modo che tutti potessero
vederla.
Poi si girò verso il ragazzo che sedeva spaventato ai piedi della
Martinella, la campana di chiamata a raccolta attorno al Carroccio, e
gli parlò con voce potente, sicura: «Suona la campana, Egidio! Fallo
più forte che puoi, e non smettere! Fai giungere la sua voce fino all'alto
dei Cieli!».
Rossano, in un'altra situazione, avrebbe ignorato il fervore del
prete, concentrandosi sulle strategie da mettere in campo per la
battaglia, ma in quel momento aveva bisogno di qualsiasi stimolo fosse
in grado di dare energia agli uomini e di spronarli a combattere con
coraggio.
Quando i rintocchi della Martinella si aggiunsero al pulsare ritmico
del tamburo, più forti e intensi di quanto Rossano avrebbe
immaginato, una strana eccitazione si impadronì di lui, facendogli
accapponare la pelle.
«Viva la Padania!» gridò padre Ariberto sollevando ancora più alta
la croce, proprio sotto il gonfalone della città di Milano che garriva nel
vento. «Viva la Padania libera!» Il grido di risposta che si alzò dalle
truppe lombarde schierate ebbe il potere di far scorrere nuovo vigore
in Rossano, un'energia che avrebbe saputo incanalare nel modo
migliore per farla erompere contro il nemico.
Proprio in quel momento l'esercito imperiale si schiantò contro la
prima fila dello schieramento lombardo, e la battaglia infuriò senza
risparmio, mentre la Martinella incitava tutti a combattere e a morire
nel nome della Padania libera.
Il fianco sinistro, già indebolito dalla carica di cavalleria e senza il
supporto dei balestrieri, che vistosi a mal partito se l'erano data a
gambe, fu il primo a cedere all'impatto con le falangi dei picchieri
imperiali. Rossano ordinò ai tamburini di segnalare ai comandanti di
squadra di far retrocedere le truppe, in modo che convergessero verso
il centro per andare a irrobustire il cuore dello schieramento, ma ben
presto si rese conto che la fanteria leggera del Barbarossa, traboccata
come un'orda di cavallette da dietro la testa di ponte della fanteria
pesante che aveva ormai sfondato, stava facendo strage dei suoi
uomini, impegnandoli in un furioso corpo a corpo in cui l'abilità dei
soldati imperiali, sottoposti a un lungo addestramento, si dimostrò
ben presto vincente. Le truppe padane combattevano con coraggio e
con sprezzo del pericolo, incitate dal suono della Martinella e dalle
urla di padre Ariberto, che non smetteva di invocare la protezione e il
sostegno del Signore, ma non avrebbero potuto reggere a lungo il
confronto con le efficaci manovre delle falangi imperiali.
«Portate le lanzalonghe» ordinò Rossano ai suoi attendenti,
balzando giù dal Carroccio per potersi muovere fra la truppa. I
trecento uomini della Compagnia del Carroccio si stringevano attorno
al carro da guerra, ancora non coinvolti nella furibonda battaglia che
imperversava intorno a loro, ma Rossano sapeva che presto la fanteria
imperiale avrebbe sfondato, e lui doveva impedire che il cerchio di
protezione che aveva fatto predisporre intorno al Carroccio si
disgregasse.
All'improvviso, aveva capito che il Carroccio era divenuto una
pedina fondamentale anche per il nemico: dopo avere perforato il
fianco sinistro del loro schieramento, infatti, la fanteria imperiale
aveva compiuto una manovra a tenaglia, convergendo verso il carro da
guerra. Anche l'ala destra della avanguardia lombarda aveva subito
una dura sorte, dopo essere stata fiaccata da un'autentica pioggia di
dardi scagliata dagli arcieri e dai balestrieri imperiali. E dopo avere
sfondato anche da quella parte, il nemico stava cercando di convergere
verso il centro, puntando con decisione al Carroccio.
Rossano aveva capito che anche il Barbarossa considerava quel
carro, che sosteneva le insegne padane e papali, come il simbolo dei
suoi oppositori: qualora se ne fosse impossessato, avrebbe dato vigore
ai suoi uomini, e avrebbe avuto un'arma poderosa da ostentare quando
avesse proseguito verso Milano e le altre città padane, per
sottometterle al suo dominio.
«Distribuitele agli uomini!» ringhiò Rossano quando arrivarono i
fasci di lanzalonghe, le lunghe e robuste picche predisposte per
formare una barriera impenetrabile, loro unica speranza di resistere
all'urto con l'esercito imperiale. «Voglio tutti in formazione! Cinque
cerchi serrati!» I capitani urlarono gli ordini, che si diffusero come un
fremito lungo la Compagnia del Carroccio. Mentre sovrintendeva
personalmente alla disposizione degli uomini, Rossano lanciò
un'occhiata attorno, per verificare quanto ci sarebbe voluto prima che
la fanteria imperiale arrivasse a contatto.
Con sollievo si accorse che le truppe lombarde non si erano sfaldate
del tutto, ma anzi reagivano con rabbia e con energia inattesa alla
preponderanza del nemico. Diversi plotoni erano raggruppati agli
ordini dei capitani di compagnia e combattevano come singole unità
arroccate in nuclei compatti che riuscivano a opporre una strenua
resistenza agli assalti della fanteria nemica.
Rossano sentì il cuore accelerare, quando si rese conto che ancora
non tutto era perduto. Le grida di padre Ariberto, gli stendardi padani
che garrivano sul Carroccio, il frastuono dei tamburi stavano
ottenendo il loro scopo, e i soldati padani combattevano come Rossano
non avrebbe mai creduto possibile.
All'improvviso, mentre picchiava con il piatto della spada contro
alcune picche che non erano bene allineate nello schieramento dei suoi
uomini, vide Valerio. Suo fratello stava cercando di attraversare di
corsa un corridoio che si era aperto fra due ali di combattenti, per
raggiungere il Carroccio. Rossano provò a gridargli di fare in fretta, e
quando ormai era convinto che Valerio sarebbe riuscito a districarsi
indenne dalla bolgia infernale dei combattimenti, vide due fanti
imperiali sganciarsi dalla loro compagnia e bloccargli la strada,
affrontandolo con gli spadoni sguainati.
E Valerio era disarmato.
Stava per farcela! Vide Rossano che sbraitava ordini ai suoi uomini,
che avevano sollevato una vera foresta di picche creando uno
sbarramento simile al corpo di un immenso istrice, e si rese conto che
se fosse riuscito a raggiungere il Carroccio avrebbe avuto una speranza
di salvarsi.

Il suo cavallo era stato abbattuto da un verrettone scagliato da una


balestra, e quando era crollato a terra, Valerio era riuscito a
proteggersi la testa con le braccia, procurandosi un sacco di
escoriazioni ma evitando di farsi male sul serio.
A piedi non avrebbe potuto aggirare il campo di battaglia, anche
perché avrebbe corso il rischio di imbattersi in qualche pattuglia di
cavalleria che operava a largo raggio, proprio per fare piazza pulita di
eventuali disertori o di chiunque avesse cercato di allontanarsi dai
combattimenti.
Così aveva deciso di attraversare direttamente lo schieramento di
soldati in lotta, approfittando dei corridoi che si erano creati quando i
capitani lombardi avevano riunito i loro uomini in gruppi compatti per
opporsi alla carica dei fanti imperiali.
E adesso la sua manovra, per quanto ardita, stava per concludersi
nel migliore dei modi: mancava solo una decina di metri per
raggiungere Rossano.
Fu in quel momento che due soldati imperiali comparvero davanti
a lui come materializzati dal nulla. Impugnavano enormi spadoni a
due mani, e li facevano volteggiare con disinvoltura, gonfiando i
possenti muscoli delle braccia.
Valerio comprese di essere perduto, ma quando il primo spadone
calò su di lui dopo avere tracciato un'ampia parabola nell'aria, reagì
d'istinto, gettandosi di lato e scansando il colpo grazie alla sua agilità.
In quel momento il secondo soldato imperiale, con una smorfia
irridente sul volto grifagno e mostrando una ghirlanda di denti marci,
sollevò a sua volta la spada e la calò contro Valerio a una velocità tale
che lui non sarebbe riuscito a evitarla.
Fece per chiudere gli occhi, ormai rassegnato alla morte, ma una
pioggia di scintille divampò nell'aria, quando un'altra spada si
frappose a quella del soldato imperiale.
«Scappa!» gridò Rossano, apparso come per incanto proprio nel
momento in cui Valerio credeva di dover emettere l'ultimo respiro.
Vide che il fratello riusciva con uno sforzo estremo ad allontanare
l'energumeno che stava per ucciderlo, ma poi si rese conto che anche
l'altro soldato imperiale, dimenticandosi all'istante di lui, dirigeva la
sua furia contro Rossano.

«Scappa, maledizione!» ruggì Rossano all'indirizzo di Valerio,


quando vide che se ne stava immobile a fissarlo con gli occhi sgranati.
L'altro soldato imperiale ruotò lo spadone contro di lui, e Rossano
fu costretto a parare il colpo facendo forza con il braccio e puntellando
i piedi, per non essere scaraventato a terra. Quando anche l'altro fante
imperiale cercò di colpirlo, si dimenticò di Valerio e si concentrò nel
difendersi dall'attacco dei due avversari.
Erano molto forti e sicuri di sé, come tutti i soldati che amavano
combattere con quegli spadoni a due mani, enormi e pesanti più del
doppio di una spada normale, e Rossano contò sulla propria agilità per
sottrarsi ai colpi e attaccare non appena vedeva un varco.
Riuscì a ferirli entrambi al fianco, affondando la punta della spada
di qualche centimetro, ma non bastò a fermarli. Pur perdendo sangue,
i due continuarono a incalzarlo, sferrando colpi poderosi che lo fecero
retrocedere. Quando uno dei due, convinto di averlo stremato e di
poterlo abbattere, sollevò lo spadone sopra la testa per sferrare il colpo
definitivo, Rossano si lanciò in avanti piegandosi sulle gambe, distese
il braccio e affondò la spada nel ventre dell'uomo, abbastanza da avere
la certezza di provocare una ferita mortale. L'uomo, però, contro ogni
logica e dimostrando una forza sovrumana, abbandonò lo spadone,
che gli cadde dietro la schiena, afferrò la spada di Rossano e diede uno
strappo furibondo, riuscendo a disarmare Rossano e facendolo cadere
a terra.
Con un ringhio l'altro soldato ne approfittò per sferrare un
fendente contro la testa di Rossano, che riuscì a evitarlo per un soffio.
La punta dello spadone era però diretta dall'alto verso il basso, con
un'inclinazione che la portò a colpire Rossano nella parte alta della
spalla, facendo sbocciare un fiore di sangue e causandogli un dolore
lancinante.
Rossano rotolò via, tamponando la ferita con la mano, e si accorse
che il suo avversario non aveva perso tempo a valutare i danni portati
dal suo affondo: con un lungo passo in avanti era tornato a sovrastarlo,
e adesso era pronto a colpirlo di nuovo, per affettarlo come un quarto
di bue.
Prima però che potesse caricare la forza necessaria nelle braccia,
l'uomo sgranò gli occhi, balbettò qualcosa sorpreso e cadde sulle
ginocchia, vomitando un fiotto di sangue. Quando si accasciò a terra
accanto a lui, Rossano vide che aveva lo spadone del suo compagno
d'armi piantato nella schiena. Subito dietro, Valerio lo osservava
ansimando. Era stato lui a raccogliere l'arma dell'altro fante imperiale
e a usarla per colpire l'uomo che stava per uccidere il fratello.
«Siamo pari» disse con un sorriso tirato.
Rossano si alzò, andò a recuperare la sua spada estraendola dal
ventre del guerriero imperiale riverso a terra, quindi corse via, verso
l'istrice di picche formato dalla Compagnia del Carroccio, trascinando
con sé Valerio.
«Mi serve il tuo aiuto» gli disse, mentre attorno a loro la battaglia
infuriava con ferocia.
«Sono qui per questo» rispose spavaldo Valerio.
Mentre passavano lo sbarramento di lanzalonghe innalzato dai
suoi uomini, Rossano guardò il fratello.
«Credi di farcela a prendere un cavallo e provare a fuggire?» gli
chiese.
Valerio lo guardò sorpreso e infuriato.
«Stai ancora cercando di proteggermi?» gridò. «Non credi che
ormai sia degno di combattere al tuo fianco?» Rossano l'afferrò per le
spalle e lo scosse, per ottenere tutta l'attenzione necessaria.
«Non sto cercando di allontanarti» affermò. «Ho bisogno che tu
vada ad avvertire Alberto da Giussano. Se non arrivano in tempo, per
noi sarà finita.» Valerio aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la
richiuse.
«Perché vuoi che vada io?» chiese dopo un po'.
«Perché sei il solo di cui mi fido» rispose Rossano. «E il solo che
potrebbe farcela.» Il lampo di orgoglio e di determinazione che
attraversò gli occhi di Valerio fece comprendere a Rossano che stava
facendo la cosa giusta. Solo lui sarebbe riuscito a raggiungere Alberto
da Giussano per chiedere soccorso.
«Conta su di me» rispose Valerio con una luce decisa nello
sguardo. Poi osservò il sangue che gli ruscellava dalla spalla e
aggiunse: «Tu fatti sistemare quella ferita».
Rossano assentì, poi gli indicò uno dei cavalli che scalpitavano
impauriti, legati agli anelli inchiodati al Carroccio.

«Vai, allora» disse. «Non c'è più tempo.» Valerio corse via, e
Rossano tornò a concentrarsi sulla battaglia.
Era evidente che ormai la fanteria padana non era più in grado di
resistere alla pressione dell'esercito imperiale. Doveva richiamare i
superstiti e farli arroccare dietro l'istrice di picche della Compagnia del
Carroccio, nella speranza che Valerio riuscisse a evitare le pattuglie di
cavalleria del Barbarossa e raggiungesse per tempo Alberto da
Giussano.
Proprio in quel momento, però, mentre stava per ordinare ai
tamburini di suonare la ritirata, udì lo squillo delle trombe imperiali, e
vide che la fanteria nemica cominciava a retrocedere ordinatamente,
abbandonando il combattimento per assumere una posizione di difesa
mentre si ritirava.
Che cosa stava succedendo?
La risposta arrivò poco dopo, quando la terra cominciò a tremare e
Rossano avvertì il frastuono. Quelli erano zoccoli.
Centinaia di zoccoli ferrati che pestavano il terreno mentre la
cavalleria pesante imperiale si avvicinava, prendendo il posto della
fanteria per sferrare la carica risolutiva.
«Serrate i ranghi!» gridò ignorando le fitte alla spalla e correndo a
prendere posizione dietro i suoi picchieri.
Il momento decisivo era giunto.
Gustav von Schenker fermò soddisfatto il cavallo davanti alla fila di
soldati in uniforme nera che componevano la guardia imperiale e
salutò con un cenno secco del capo Victor Albert Rochard, il
comandante della scorta personale dell'imperatore. Questi scambiò
un'occhiata con alcuni attendenti di campo di Federico I, poi fece
segno a von Schenker che poteva passare.
Come capitano della cavalleria imperiale, Gustav aveva
l'autorizzazione a restare in sella anche in presenza dell'imperatore, e
quando si avvicinò al Barbarossa si prodigò in un inchino portando
dietro la schiena la mano sinistra e trattenendo le briglie con la destra,
come imponevano le regole della cavalleria germanica.
«Avete fatto un buon lavoro» disse Federico I senza staccare gli
occhi dal campo di battaglia. Come sempre, i generali imperiali
avevano collocato su un'altura il posto di osservazione dell'imperatore,
e dal punto in cui si trovavano si poteva godere di una visuale
completa della valle in cui si stavano svolgendo gli scontri.
«Sempre ai vostri ordini, Maestà» rispose von Schenker. Sapeva
che il Barbarossa non l'aveva fatto chiamare per congratularsi con lui
per la scaramuccia che aveva dato avvio al conflitto. Evidentemente,
c'era qualcos'altro che premeva all'imperatore.
«Avete visto quel carro laggiù?» gli chiese Federico, senza indicare
né con il braccio né con il mento.
«Il Carroccio» s'intromise Rainaldo di Darmstadt, l'arcicancelliere
imperiale, che per l'occasione aveva indossato una cotta di maglia
ferrata sopra la veste rigonfia per il pancione prominente. Gustav
trattenne il disgusto che quell'uomo gli faceva formicolare tutto il
corpo al solo vederlo, e rispose rivolgendosi direttamente
all'imperatore.
«Sì, Maestà, l'ho visto.» «Dobbiamo conquistarlo» ordinò il
Barbarossa in tono tranquillo.
Gustav von Schenker si accigliò appena. «La mia è una compagnia
di cavalleria leggera» disse. «Per spazzare via quel carro da guerra...»
«Sua Maestà non vi ha chiesto di spazzarlo via, capitano» l'interruppe
Rainaldo di Darmstadt. «Vi ha ordinato di conquistarlo.» Questa volta
von Schenker non poté continuare a ignorare l'arcicancelliere.
«Non capisco» disse, augurandosi che la sua franchezza venisse
riconosciuta dall'imperatore, uomo d'arme e d'azione come lui, che
non indugiava nei tortuosi meandri della politica e della diplomazia.
Rainaldo di Darmstadt sospirò, e anziché rispondere lanciò
un'occhiata al Barbarossa.
«Voi parteciperete alla carica della cavalleria pesante» spiegò
l'imperatore, «ma farete in modo che i vostri uomini penetrino nella
difesa del nemico e si impossessino del Carroccio. Dovete uccidere
tutti coloro che sono sul carro, e fare in modo che né i vessilli della
Lega Lombarda né il gonfalone papale vengano danneggiati. Voglio il
Carroccio perfettamente integro, così come lo vedo adesso.» Gustav
von Schenker girò lo sguardo verso il punto in cui il carro da guerra
padano era arroccato, circondato da un istrice di picche, e annuì con il
capo.
«Sarà fatto» proclamò, tenendo per sé i mille dubbi che lo
assillavano. Come pensavano che sarebbe stato possibile trattenere
l'impeto della cavalleria pesante, quando avrebbe attaccato? Se
l'avessero fatto, non sarebbe riuscita a sfondare, e le lanzalonghe
nemiche avrebbero continuato a proteggere l'integrità del Carroccio.
Ma se la cavalleria corazzata si lanciava con tutta la sua forza contro
quel manipolo di soldati spaventati, niente sarebbe stato in grado di
fermarla, e nell'impeto avrebbe travolto qualsiasi cosa si trovasse sul
suo cammino. Naturalmente il Carroccio avrebbe resistito alla carica,
ma nella bolgia che sarebbe seguita Gustav riteneva un'impresa quasi
impossibile cercare di preservare il grande carro da guerra e portarlo
intatto all'imperatore.
«Un'altra cosa, von Schenker» lo chiamò l'imperatore,
strappandolo dai suoi pensieri.
«Al vostro servizio, Maestà.» «Fate tacere quella maledetta
campanella.» Gustav von Schenker guardò per un istante l'imperatore,
cercando di capire che cosa si nascondesse sotto l'espressione torva
sepolta nella barba rossiccia, poi vi rinunciò e si limitò ad annuire con
un cenno della testa.
«Potete andare» lo congedò Rainaldo di Darmstadt, e Gustav voltò
il cavallo e corse ad avvisare i suoi uomini di prepararsi per l'attacco.
In ogni caso, partecipare all'assalto della cavalleria pesante era una
prova a cui non si sarebbe sottratto per nulla al mondo.
Si sarebbe preoccupato in seguito di rispettare la promessa che
aveva fatto all'imperatore, mettendo in salvo quello stupido carro e i
gonfaloni dei traditori. E facendo tacere la campana che rintoccava
ininterrottamente fin da quando era cominciata la battaglia.
Il rombo che si propagò nel suolo era spaventoso, pareva
l'annuncio di un terremoto di immani proporzioni, che avrebbe raso al
suolo qualsiasi edificio in tutta la Padania.
Ma Rossano sapeva che non si trattava di un fenomeno naturale.
Quella che si stava scatenando contro di loro non era la forza
imperiosa della natura, bensì la rabbia furibonda di centinaia di cavalli
lanciati al galoppo, che dissodavano il terreno con gli zoccoli.
La polvere sollevata dalla carica della cavalleria imperiale era tale
da oscurare la visuale, e il fragore così forte da costringere Rossano a
gridare gli ordini ai suoi uomini correndo lungo il cerchio compatto
dei fanti stretto attorno al Carroccio.
«Serrate i ranghi!» urlava, tenendosi il braccio ferito da cui il
sangue continuava a sgorgare. Si era stretto una cinghia di cuoio
appena sopra lo squarcio, per cercare di arrestare l'emorragia, ma
sapeva che non sarebbe servita a molto: l'unico modo per fermare il
sangue era cucire la ferita con alcuni punti di sutura.
Ma la situazione in cui si trovavano non permetteva certo di
preoccuparsi del suo braccio: entro pochi istanti la cavalleria imperiale
sarebbe calata su di loro, travolgendoli con la forza di un uragano di
carne, cuoio e ferro.
La sola speranza per Rossano e per i suoi uomini, in netta
inferiorità numerica, era arroccarsi attorno al Carroccio, spingendo
all'infuori gli aculei come avrebbe fatto un istrice per difendersi da un
attacco.
Il grande carro da guerra su cui svettavano il gonfalone milanese e
le araldiche della Lega Lombarda aveva le possenti ruote ferrate
affondate nel terreno, tanto era il peso che dovevano sostenere. Padre
Ariberto, arrampicato sopra il castello di comando, non smetteva di
incitare gli uomini invocando la forza che il Signore avrebbe concesso
loro per resistere alla carica straripante del nemico.
«Dio è con noi!» gridava il sacerdote cercando di sovrastare il
frastuono della cavalleria imperiale in arrivo. Mentre parlava, teneva
alta la piccola croce lobata del vescovo Intimiano, un simbolo potente
che confermava la veridicità delle sue parole.
«Non vi lasciate spaventare dall'invasore! Non abbiate timore di
morire per difendere la vostra terra, la vostra dignità. Il Santo Padre
ha esteso la sua benedizione su tutti voi! Viva la Padania!
Viva la Padania libera!» «Viva la Padania!» gridarono in coro i
soldati della Compagnia del Carroccio, stringendosi spalla contro
spalla mentre il terreno sotto i loro piedi vibrava così forte da farli
vacillare.
Rossano studiò la disposizione degli aculei dell'istrice, le
lanzalonghe ben piantate a terra con un'inclinazione sufficiente a
contrapporre la punta al petto dei cavalli. A terra, insieme ad altre due
picche di riserva, aveva fatto distribuire gli alighieri, delle lance che
avevano nella parte posteriore della lama un uncino con il quale era
possibile disarcionare gli uomini a cavallo.
In tutto poteva contare su cinque linee di picchieri, in modo da
opporre all'avanzata dei cavalli un'autentica foresta di punte
acuminate, ma sapeva che si trattava di un tentativo disperato.
Da quando la cavalleria lombarda si era data alla fuga, erano
rimasti solo i trecento fanti della Compagnia del Carroccio e un
centinaio di superstiti alla furiosa battaglia campale con il grosso
dell'esercito nemico. Quattrocento uomini per difendere il simbolo
della libertà padana e l'onore dei Comuni Collegati che avevano osato
ribellarsi al Barbarossa.
La speranza di Rossano era che Valerio riuscisse a raggiungere
Alberto da Giussano, per farlo accorrere in loro soccorso. Una
speranza tenue, perché la cavalleria nemica era ormai prossima a
travolgerli, e lui non sapeva quanto avrebbero potuto resistere quegli
uomini stanchi, sfiduciati e già provati dalla lunga battaglia che aveva
disseminato la pianura di cadaveri.
«Tenete le picche ben piantate a terra!» urlò per l'ennesima volta,
cercando di farsi sentire in quella bolgia infernale. Sollevò la spada e
strinse i denti, quando una fitta gli percorse il braccio ferito. Con il
piatto della lama diede dei leggeri colpi di spada alle lance che non
erano perfettamente allineate, in modo che lo sbarramento di picche
fosse uniforme.
«State in riga!» gridò ancora, mentre il nemico si avvicinava a
velocità poderosa, dando l'impressione di poter travolgere senza
alcuno sforzo ciò che restava della Compagnia del Carroccio.
Sul grande carro da guerra padre Ariberto incitava il giovane
Egidio a suonare la Martinella, per diffondere nella valle il loro
disperato richiamo d'aiuto.
è tutto inutile avrebbe voluto dirgli Rossano. Non riusciranno mai
ad arrivare in tempo.
Se Alberto da Giussano fosse stato lì, con la potenza dei suoi
novecento Cavalieri della Morte, forse avrebbe potuto arrestare
l'invasore germanico.
Ma fino a quando il comandante della Lega e i suoi cavalieri non
fossero arrivati, Rossano doveva fare affidamento solo sulle proprie
forze e su quel pugno di fanti spaventati, che avrebbero dovuto fare
scudo con i propri corpi alla carica della cavalleria imperiale.
Un'impresa impossibile, ma che nessuno di quei ragazzi coraggiosi
avrebbe abbandonato.
Quando il frastuono degli zoccoli si fece troppo forte per
continuare a ignorarlo, Rossano scrutò con rabbia l'avanguardia
corazzata del Sacro Romano Impero.
E mentre il suo grido di battaglia si levava alto nel cielo, fino a
sovrastare il fragore dei cavalli e lo squillo disperato della Martinella,
Rossano sentì che aveva desiderato a lungo quel momento: finalmente
poteva affrontare a viso aperto gli uomini che avevano annientato la
sua famiglia e che cercavano di spogliarlo anche della dignità di
possedere una patria.
Quando la cavalleria imperiale si schiantò con la forza di una
valanga contro il fronte compatto di picche della Compagnia del
Carroccio, Rossano dilatò le narici e pregustò il momento in cui
avrebbe versato il sangue nemico.
Non si preoccupò neppure per un istante del fatto che molto
probabilmente anche lui sarebbe morto in quella pianura dimenticata
da Dio.
4
I primi assalti furono ancora più devastanti di quanto Rossano
aveva immaginato.
La cavalleria imperiale impiegava corsieri da guerra con un'altezza
al garrese pari quasi a quella di un uomo, e tutti avevano coperture di
cuoio e maglia di ferro per il corpo, oltre a elaborati frontali su cui
erano intagliati i simboli delle compagnie a cui appartenevano.
In ben diversa occasione Rossano avrebbe ammirato il modo
superbo con cui i cavalieri imperiali riuscivano a galoppare
accomunati, tendendo in avanti le lance d'assalto e attaccando a
ondate i gruppi di fanti padani che cercavano di opporre una strenua
resistenza. Nonostante Rossano avesse cercato di richiamare tutti
attorno al Carroccio, facendo suonare dai tamburini la ritirata, diverse
compagnie erano rimaste isolate e non avevano fatto in tempo a
scivolare dietro l'istrice erto di picche che circondava il Carroccio,
ultimo baluardo difensivo che l'avanguardia padana poteva frapporre
all'avanzata dell'esercito imperiale.
Adesso, di quelle compagnie non restavano che mucchi di cadaveri,
i resti sanguinolenti di uomini calpestati dai cavalli, trapassati dalle
lance o feriti gravemente dai colpi di taglio delle spade nemiche. In
quel paesaggio infernale ben pochi cavalli nemici giacevano a terra
agonizzanti, oppure si aggiravano sperduti sul campo di battaglia alla
ricerca dei loro cavalieri, stramazzati a terra e confusi con i mucchi di
corpi dei fanti padani.
Agli ordini di un abile comandante, la cavalleria imperiale aveva
fatto piazza pulita di chiunque si trovasse al di fuori dell'istrice
protettivo intorno al Carroccio, e una volta avuto campo libero si era
disposta in falangi di una cinquantina di cavalieri ciascuna che
avevano cominciato a lanciarsi contro la barriera difensiva fatta
erigere da Rossano.
Questi era rimasto sorpreso dal coraggio e dalla veemenza con la
quale i cavalieri si lanciavano contro i rostri puntati delle picche
padane, senza curarsi di venire impalati e gridando urla di battaglia
ogni volta che venivano colpiti o sbalzati di sella.
A ondate successive avevano cominciato a sfaldare i cerchi difensivi
esterni dell'istrice, passando anche sopra i corpi dei loro stessi
compagni, pur di cercare di aprirsi un varco nel perimetro delle picche
padane.
Rossano aveva continuato a urlare ordini correndo da una parte
all'altra del cerchio di picchieri predisposto attorno al Carroccio,
rendendosi conto che gli attacchi della cavalleria erano studiati per
cercare di travolgere ogni volta quel punto del loro schieramento che
sembrava mostrare segni di cedimento.
«Serrate i ranghi!» ripeteva all'ossessione, mentre padre Ariberto,
dal castello di comando del Carroccio, assicurava gli uomini che Dio
era con loro, e che con il loro sacrificio avrebbero guadagnato il
Paradiso.
Rossano continuava a perdere sangue, e quando provò a stringere
ancora la cinghia di cuoio sopra la ferita, ebbe un mancamento, e
dovette appoggiarsi con la schiena al Carroccio, per non crollare a
terra.
Ruggendo di rabbia impugnò ancora la spada e scosse la testa,
come a voler scacciare la vertigine, anche se sapeva che era il segno
che le forze gli stavano sfuggendo inesorabilmente dal corpo, insieme
al sangue. Lui non poteva crollare svenuto, non adesso. Vedeva i suoi
uomini arretrare metro dopo metro, e gli aculei dell' istrice spezzarsi
sotto le ondate d'assalto della cavalleria nemica.
Ma era anche vero che questa volta per i cavalieri imperiali le cose
non erano tanto facili. Grazie allo schieramento a istrice, le
lanzalonghe erano micidiali, e trafiggevano uomini e cavalli senza
risparmio, inondando la pianura del sangue dei nemici. La tattica
escogitata da Rossano funzionava, anche se la cavalleria imperiale non
allentava la pressione e si lanciava coraggiosamente in avanti,
lasciandosi falcidiare pur di erodere uomo dopo uomo le risorse di cui
la Compagnia del Carroccio poteva disporre.
Rossano chiuse gli occhi, si appoggiò ancora per un istante al carro
da guerra, poi prese un lungo respiro. Devo farcela pensò infuriato. Gli
uomini hanno bisogno di me.
Fece per muovere un passo, ma all'improvviso uno dei tamburini
balzò giù dal Carroccio e gli porse una fiasca con dell'acqua.
«Bevi, comandante» gli disse. «E lascia che ti chiuda la ferita.»
Rossano, pur con la vista annebbiata, ebbe l'impressione di avere già
visto quel ragazzo. Bevve avidamente l'acqua che gli porgeva, poi
lanciò un grido quando lui allungò le mani e gli infilò un ago d'osso
nella carne, cominciando a cucire la ferita con un filo di sutura
ricavato da budella di coniglio.
«Che cosa sei, il figlio di un aggiustaossa?» chiese Rossano,
cercando di ignorare il dolore.
«No» rispose il tamburino, tenendo la testa voltata mentre Lo
ricuciva con abilità.
Rossano osservava il collo del ragazzo, e quando riconobbe Il
biancore di quella pelle serica, ebbe un sussulto.
«Angelica!» gridò.
«Stai fermo» ordinò lei lasciandosi finalmente guardare in viso.
«Ho quasi finito.» Rossano aveva il sangue agli occhi, non riusciva
quasi neppure a parlare. Attorno a lui la cavalleria imperiale
continuava ad avanzare metro su metro, falciando le linee esterne
dell'istrice e massacrando i suoi uomini, e lui era lì, appoggiato contro
il
Carroccio, a farsi cucire il braccio da una donna che credeva al
sicuro, lontana da quel massacro.
Una donna che si era travestita da tamburino e che si era tagliata i
capelli per assomigliare a un ragazzo.
Com'è possibile che stia davvero accadendo? si chiese.
«Come hai fatto a...» cominciò a dire, più confuso e disorientato
che infuriato. Ma Angelica l'interruppe seccamente, tirando il filo di
sutura e annodando l'ultimo punto, con una fitta che gli percorse tutto
il braccio e gli fece mancare un'altra volta il fiato.
«Ti avevo detto di stare fermo e zitto» lo ammonì lei. Poi fece un
passo indietro e lo guardò con i suoi occhi verdi e intensi.
«Volevo stare con te» confessò, mentre gli smeraldi annegavano
nelle lacrime. «Se devi morire, allora voglio morire anch'io.
Al tuo fianco.» «No!» urlò Rossano afferrandola per le braccia. «Tu
non morirai! Non lo permetterò ancora! Io...» All'improvviso, Rossano
tacque: aveva compreso che non aveva senso discutere con Angelica.
Se voleva proteggerla, se voleva salvarla dalla carica degli invasori
germanici, doveva dimenticarsi di lei e tornare a combattere.
«Torna sul carro!» le gridò, spingendola via. «E resta al riparo!» Si
voltò senza aspettare di vedere se Angelica gli obbediva, e corse
dall'unico capitano che vedeva ancora in piedi, ferito e ricoperto di
sangue ma pronto a sbraitare ordini ai suoi uomini, se allentavano i
ranghi.
«Facciamoli retrocedere!» gridò, rendendosi conto che ormai
restava una sola fila di picchieri a fronteggiare la cavalleria imperiale.
Il fatto che ci fossero montagne di corpi di cavalli e cavalieri riversi a
terra, molti dei quali agonizzanti, era una ben magra consolazione
all'idea che presto gli invasori germanici avrebbero spazzato via
l'ultimo baluardo che restava della Compagnia del Carroccio e si
sarebbero impossessati delle araldiche della Lega e del gonfalone
papale.
Eppure ancora non tutto era perduto. La tattica dell'istrice aveva
funzionato, e i cavalieri avversari adesso erano poche decine, non più
la possente schiera che aveva dato l'impressione di poterli spazzare via
con facilità.

«Il Signore è con noi!» gridava padre Ariberto dall'alto del


Carroccio, instancabile, e forse per la prima volta Rossano si rese
conto che quelle invocazioni avevano davvero il potere di rinsaldare la
fede in se stessi dei soldati.
«Falli stringere!» ordinò al capitano superstite, mandandolo
sull'altro versante del Carroccio in modo che tutto il cerchio di
picchieri si muovesse all'unisono, con ordine. «Tutti con la schiena
contro il carro!» Mentre gli uomini cominciavano a retrocedere,
incalzati dagli ultimi cavalieri imperiali, stremati ma infuriati, Rossano
lanciò un'occhiata al ponte di comando del Carroccio, alla ricerca di
Angelica. Con un balzo del cuore, si accorse che lei lo guardava a occhi
sgranati, tenendosi con entrambe le mani al parapetto.
«Stai giù!» le urlò Rossano, reprimendo a stento il desiderio
struggente di correre ad abbracciarla.
Quando il cerchio di picchieri si fu stretto attorno al Carroccio,
come un'ultima linea di difesa estrema, Rossano gonfiò il petto e si
disse che era arrivato il momento tanto atteso. Stavano per morire, ma
l'avrebbero fatto infliggendo al nemico perdite tali da indebolirlo e
infiacchirlo, quando Alberto da Giussano fosse arrivato per vendicarli.
Gustav von Schenker si deterse il sudore dalla fronte, poi si guardò
attorno ansimando. Lo spettacolo che si presentava davanti ai suoi
occhi, adesso che la furia del combattimento si era acquietata dentro
di lui consentendogli di osservare con più calma il campo di battaglia
era spaventoso. Grovigli di corpi, carcasse di cavalli, sangue a fiumi
che aveva trasformato il terreno in una palude fangosa, coperta di
centinaia di cavalieri imperiali morti, trafitti dalle lanzalonghe
avversarie, schiacciati dai loro stessi cavalli o calpestati dagli zoccoli
dei corsieri superstiti. Un girone dell'inferno che aveva il suo fulcro nel
Carroccio, l'immenso carro da guerra che svettava al centro di quella
valle colma del sangue e delle grida dei feriti che arrancavano nella
poltiglia. Intorno al carro, l'istrice erto di picche che era vittima e
causa di quella strage era ormai ridotto a un solo cerchio di aste di
diverse lunghezze, sorrette da uomini che avevano i volti cosparsi di
sangue e le braccia che tremavano per lo sforzo di mantenere in
posizione le picche.
Eppure erano ancora vivi, disposti a morire pur di difendere il
simbolo della loro ribellione. E sul Carroccio gli stendardi garrivano
nel vento, un prete continuava a urlare a squarciagola invocando
l'aiuto di Dio, e quella maledetta campanella squillava.
Gustav von Schenker si rese conto che della possente cavalleria
imperiale non erano rimasti che pochi combattenti disorientati, che
affondavano gli speroni a sangue nei loro cavalli cercando di spingerli
ad attaccare ancora, stolidamente, senza rendersi conto che ormai non
aveva più senso continuare e che avrebbero dovuto retrocedere, per
lasciare il campo alla fanteria.
Non sarebbe stato facile stringere il Carroccio in una morsa finale,
perché i cadaveri di uomini e animali sul terreno fangoso erano così
tanti da impedire di muoversi con ordine e mantenendo i ranghi.
Gustav era ben consapevole di questo, e del fatto che dei suoi stessi
uomini ne rimanevano vivi e in grado di combattere solo una
manciata, alcuni ancora a cavallo, altri appiedati e disorientati.
L'attacco era fallito, e la cavalleria imperiale era stata decimata.
Restavano alcuni reparti di cavalleria leggera alla retroguardia, ma
l'arma più potente su cui poteva contare l'esercito del Sacro Romano
Impero era stata spazzata via.
Quando von Schenker sentì squillare ancora la campanella sul
Carroccio, in quella maniera ossessiva e irritante, strinse i denti per la
rabbia e diede di speroni, lanciando in avanti il cavallo.
Aveva promesso a Sua Maestà che l'avrebbe fatta tacere, e niente
gli avrebbe impedito di portare a termine il suo incarico.
Anche i tamburini erano stremati, e ormai nella valle risuonava
solo il richiamo stridulo della Martinella, che il giovane Egidio non
smetteva di suonare, spronato dall'instancabile padre Ariberto.
Rossano si rese conto che se un pugno di soldati della Compagnia del
Carroccio resisteva ancora agli assalti imperiali, lo dovevano anche a
loro, al coraggio e alla fiducia che avevano saputo infondere nei
soldati, e alla promessa che il loro sacrificio non sarebbe stato vano e
avrebbe avuto la più grande delle ricompense nel Regno dei Cieli.
Ma adesso la situazione era diversa. I pochi uomini che gli
restavano erano sfiniti, riuscivano a malapena a sostenere le picche, e
molti di loro erano feriti, alcuni così gravemente che era un vero
miracolo che riuscissero ancora a reggersi in piedi.
Eppure, nessuno di loro sembrava disposto a cedere. Niente li
avrebbe più spaventati, neppure la fanteria imperiale che avanzava
scavalcando i morti e aggirando i cumuli di carcasse, e avrebbero
combattuto fino al loro ultimo respiro, esattamente come avrebbe fatto
lui. Rossano cercò ancora una volta lo sguardo di Angelica, e quando lo
incontrò, quando vide la sua espressione, comprese di essere un uomo
fortunato. Sarebbe morto insieme ai suoi uomini, combattendo fino
alla fine, ma l'avrebbe fatto con il conforto della donna che amava.
Angelica sembrava un ragazzino, e forse gli sgherri imperiali
l'avrebbero risparmiata.
Stava ancora pensando a questo, quando con la coda dell'occhio
percepì un movimento.
Un cavaliere imperiale si stava lanciando a tutta velocità verso di
loro, seguendo un percorso libero fra i grovigli di corpi che ricoprivano
il terreno. Era diretto verso un punto a sud dello schieramento
difensivo, dove due picchieri reggevano ciò che restava delle loro
lanzalonghe, spezzoni di aste che a fatica avrebbero potuto fermare la
carica di un corsiero da guerra.
Che cosa diavolo sperava di fare? Perché si lanciava in quel modo,
pur sapendo che sarebbe incorso in morte certa?
«Attenzione, laggiù!» gridò Rossano indicando il cavaliere lanciato
al galoppo. «Serrate la fila!» Ma era troppo lontano, e prima che gli
uomini potessero stringersi opponendo una valida resistenza, il
cavaliere imperiale franò su di loro, lasciando che il suo animale si
impalasse sugli spezzoni di picche protesi e volando fino al Carroccio
con una mossa preordinata, la spada ben stretta in mano.
Soltanto in quel momento Rossano comprese quello che voleva
fare: salire sul Carroccio e impossessarsi delle insegne della Lega.
Angelica sentì gridare alle sue spalle e sobbalzò. Si girò cercando
istintivamente il corto pugnale che aveva alla cintola, ma quando si
trovò di fronte il viso ricoperto di sangue di un soldato imperiale
materializzatosi dal nulla, non seppe fare altro che gridare.

Manlio Chiossa, che si trovava ancora più vicino all'assalitore,


cercò di colpirlo con il pugnale, ma l'uomo parò facilmente il suo
affondo, e poi con un urlo selvaggio lo trapassò da parte a parte con la
spada, facendo schizzare il sangue ovunque.
Angelica, terrorizzata per quello che vedeva, provò a fuggire, ma
scivolò su una chiazza di sangue e cadde a terra, battendo duramente
la testa.
Non perse i sensi, ma si rese conto di non avere più la forza per
cercare di rialzarsi. Alle sue spalle il soldato imperiale avanzò, la
raggiunse, ma anziché finirla la scavalcò e procedette verso la parte
opposta del Carroccio, dove Egidio continuava a suonare la Martinella.
Lo vide afferrare l'altro tamburino per la casacca, sollevarlo e
lanciarlo oltre la murata, e affrontare con un ringhio padre Ariberto,
che gli si era opposto tenendo alta la croce.
Angelica cercò disperatamente di rialzarsi, scivolò ancora sul
sangue di Manlio Chiossa, e lacrime di rabbia e di dolore le
annebbiarono la vista, mentre il grido di padre Ariberto si levava alto
su quella valle di morte.
Non era una delle sue invocazioni a Dio. Era il grido di chi si sente
attraversare le viscere da una lama di ferro e sa di essere sul punto di
morire.
Egidio non sentiva più le braccia. Stava suonando la Martinella da
ore, fin da quando gli era stato chiesto di chiamare a raccolta gli
uomini attorno al Carroccio, e aveva cercato di alternare il braccio
destro e il sinistro, ma ormai era allo stremo.
Eppure non aveva nessuna intenzione di smettere. Non fino a
quando gli uomini della Lega morivano sotto gli assalti dell'esercito
imperiale e il suono della Martinella era la sola cosa che riuscisse a
infondere loro un po' di coraggio, quasi fosse la voce stessa di Dio che
li accompagnava al sacrificio estremo.
Padre Ariberto gli aveva spiegato l'importanza di quella campana:
aveva un potere strategico, quando diffondeva gli ordini dei
comandanti o richiamava le truppe, e uno sovrumano, quando
ricordava agli uomini che il Signore era con loro.
Se la Martinella avesse smesso di suonare, questo avrebbe
significato la fine di ogni speranza, e lui non poteva permetterlo.
Così, nonostante le fitte di dolore alle braccia, Egidio aveva
continuato a scuotere il battente, diffondendo i rintocchi della
Martinella per tutta la valle.
Quando vide il soldato imperiale comparire all'improvviso davanti
a lui, ricoperto di sangue e con la spada sguainata, Egidio sentì salire
le lacrime agli occhi, e comprese che tutto era perduto.
Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a vedere quello che
succedeva sul campo di battaglia, e lo intuiva solo dal modo in cui
padre Ariberto incitava i soldati, sporgendosi con la croce oltre il
parapetto.
Ma adesso non vedeva il prete da nessuna parte, e davanti a lui la
figura terrificante di quel guerriero insanguinato era la dimostrazione
che la battaglia era perduta.
Eppure, nonostante questo, Egidio non smise di suonare la
Martinella. Chiuse gli occhi e si disse che avrebbe continuato a farlo
fino a quando la spada del soldato imperiale non fosse calata su di lui,
per ucciderlo o staccargli il braccio in un sol colpo.
Rossano si rese conto che non avrebbe fatto in tempo a raggiungere
la scaletta che dava accesso al castello di comando del Carroccio. Vide
uno dei tamburini volare oltre la murata, e trattenne il fiato fino a
quando non si accorse che non era Angelica. Corse lungo il fianco del
Carroccio, disperato, poi strappò via dalla carcassa di un cavallo una
picca spezzata, abbastanza leggera da essere scagliata come una lancia.
Quando vide padre Ariberto stagliarsi davanti al cavaliere
imperiale, gli urlò di farsi da parte, ma nel frastuono delle grida di
battaglia della fanteria nemica che si stava avvicinando il prete non
riuscì a sentirlo. Rossano comprese che il cavaliere stava per affondare
il colpo nel corpo del sacerdote, così scagliò la picca con tutta la forza
che aveva, cercando di colpirlo dal basso, ma lo spezzone di lancia
andò a infrangersi contro uno dei cavi che mantenevano in posizione
l'albero maestro, mancando così il guerriero nemico, che spinse in
avanti il braccio e trapassò padre Ariberto da parte a parte.
Rossano lanciò un grido disperato, corse ancora più avanti, strappò
dalle mani di uno dei suoi uomini un altro spezzone di lancia e cercò
un punto da cui avrebbe potuto avere in traiettoria il cavaliere
imperiale senza ostacoli in mezzo.

Quando lo vide sollevare la spada per colpire il giovane Egidio, che


coraggiosamente continuava a far rintoccare la Martinella, Rossano
scagliò l'arma, con tutta la rabbia e la forza di cui poteva disporre.
Egidio riaprì gli occhi, quando si sentì inondare da qualcosa di
caldo e umido. Si leccò le labbra, e scoprì con disgusto che si trattava
di sangue, ma non era il suo, come aveva pensato in un primo
momento.
Il guerriero nemico era ancora in piedi davanti a lui, però restava
immobile, senza calare il fendente che lo avrebbe ucciso. Perché?
Quasi senza rendersene conto, Egidio si arrese alla stanchezza e
abbandonò il braccio lungo il corpo, stremato. La Martinella smise di
suonare.
Se era questo che il guerriero imperiale voleva, allora aveva vinto.
Con le lacrime agli occhi Egidio lo guardò ancora, e proprio in quel
momento l'uomo crollò a terra, lasciando schizzare ovunque una
pioggia di sangue. Egidio si ritrasse, spaventato, e si accorse che il
guerriero lo fissava con uno sguardo pieno di odio e di malvagità.
Eppure non avrebbe più potuto fargli del male, perché quello che
restava di una picca gli passava il collo da parte a parte, facendolo
boccheggiare tra i fiotti del suo stesso sangue.
Quando ebbe l'ultimo spasmo e si irrigidì, Egidio comprese di
essere salvo. Cercò di sollevare il braccio per riprendere a suonare la
Martinella, ma si rese conto di non farcela.
Era esausto.
Quel grido. E poi il silenzio. Il silenzio dell'unica voce che Angelica
avrebbe voluto continuare a sentire, nella bolgia infernale dei
combattimenti. Il grido di speranza e di furore della Martinella, che
all'improvviso si era acquietato.
Cercando di fare attenzione a dove metteva le mani, Angelica si tirò
in piedi. Manlio Chiossa giaceva poco distante da lei, con gli occhi
sbarrati verso il cielo e una smorfia di dolore sulle labbra contratte.
Ma dov'era il guerriero nemico? Dov'era l'uomo che era riuscito a
balzare sul Carroccio spada in pugno, e che l'aveva ignorata per
dirigersi verso la parte opposta del carro, là dove Egidio suonava
instancabile la Martinella?
E dov'era padre Ariberto? Perché non sentiva più la sua voce
profonda incitare i soldati a combattere per il Signore, a morire per
l'eterna salvezza?
Quando finalmente riuscì a rimettersi in piedi, Angelica si accorse
che la testa le girava. Aveva preso una brutta botta, picchiando il capo
sul pavimento, ma non aveva perso completamente i sensi. Adesso,
barcollando un po', si diresse verso il punto in cui era stata collocata la
Martinella.
Vide quasi subito padre Ariberto, disteso a terra nel lago del
proprio sangue, e lo soccorse facendolo voltare sulla schiena. Il prete si
teneva le mani premute sul ventre, da dove colava un rivolo di sangue
scuro, ma nonostante il dolore che le allagava gli occhi di lacrime,
Angelica si accorse che era ancora vivo. «Restate fermo, padre!» disse
con fermezza mentre il vecchio sacerdote staccava una mano dalla
ferita per stringerle un braccio, le parole che gli gorgogliavano in gola.
«Ci penso io a curarvi.» «No...» riuscì a biascicare padre Ariberto,
guardandola con un lampo di supplica negli occhi. «La Martinella...
suona la Martinella...» Un colpo di tosse lo squassò, poi padre Ariberto
si accasciò fra le braccia di Angelica, lo sguardo fisso verso un punto
del cielo.
Lei gli mise due dita sul collo, cercò le pulsazioni della carotide, ma
non avvertì nulla. Allora si tirò su, e si voltò verso il punto in cui Egidio
aveva smesso di suonare la campana.
Vide il nemico arrovesciato a terra, con l'asta di una picca che gli
spuntava dal collo. Nessun dubbio che fosse morto. Lo raggiunse e lo
scavalcò, trattenendo a stento l'impulso di sputargli addosso, poi si
accucciò accanto a Egidio.
Il ragazzo era spaventato ed esausto, ma sembrava incolume.
«Sei ferito?» gli chiese, tastandolo.
«No» rispose lui guardandola smarrito, come se ormai non si
rendesse conto neppure di dove si trovasse.
«Allora devi riprendere a suonare la Martinella» gli ordinò
Angelica.
Egidio la guardò disperato.
«Padre Ariberto» chiese. «Dov'è padre Ariberto?»
\\Ebbe quella premonizione come un lampo, e istintivamente fece
arretrare il cavallo, come a volersi allontanare da quella collina
maledetta, su cui il Barbarossa scalpitava urlando ordini che gli
sbandieratori riportavano istantaneamente.
Ma a chi? si chiese Rainaldo. A chi erano diretti quegli ordini di
distruzione totale? E verso chi era più infuriato il Barbarossa?
Tutta la sua politica espansionistica passava per l'Italia del Nord, e
senza quella pedina fondamentale nelle sue mani, il Sacro Romano
Impero sarebbe rimasto confinato oltre le Alpi, senza alcuna
possibilità di estendersi verso Costantinopoli fermando le mire
espansionistiche di Emmanuele Comneno, il subdolo imperatore
d'Oriente che mirava alla corona d'Italia. E una volta limitato alla
Germania, l'Impero si sarebbe lentamente accartocciato su se stesso,
consumandosi in una serie di dispute fra i Pari di Germania, in cui
Federico Barbarossa si sarebbe distinto solo per crudeltà e
ostinazione.
In quel momento Rainaldo di Darmstadt vide la fine del Sacro
Romano Impero come lo conosceva, e non badando alle conseguenze
del suo gesto fece ruotare il cavallo e lo lanciò al galoppo verso i passi
montani, senza preoccuparsi di prendere provviste o anche solo
dell'acqua da bere.
Voleva fuggire il prima possibile da quella valle infernale in cui il
Barbarossa avrebbe consumato se stesso e ogni sua ambizione.
E voleva tornare da sua madre, per rifugiarsi nella coppa fra i suoi
seni e lasciare che fosse lei ad affrontare le conseguenze della rabbia
forsennata dell'imperatore.
L'impatto con la fanteria imperiale fu meno traumatico di quanto
Rossano aveva immaginato. La difficoltà dei soldati di muoversi
compatti su quel terreno scivoloso e ricoperto di cadaveri li aveva
costretti a disunirsi, formando gruppi di attacco che non riuscivano a
investire l'ultimo cerchio di difesa della Compagnia del Carroccio con
la forza d'urto che i loro comandanti avevano previsto.
Rossano se ne rese conto subito, e lanciando un grido di sfida
spronò i suoi uomini a restare compatti e a livellare le lanzalonghe,
opponendo l'ultima strenua barriera all'avanzata del nemico.

Quando poi la Martinella riprese a far udire la sua voce, dapprima


con rintocchi stentati, poi con energia sempre maggiore, lungo tutto il
cerchio di soldati della Compagnia del Carroccio corse un brivido di
coraggio e di esaltazione, e Rossano comprese che quel miracolo che
padre Ariberto aveva dato per certo era davvero avvenuto.
Lanciò un'altra occhiata al castello di comando del Carroccio, su
cui non scorgeva più nessuno, e si trattenne dal correre a vedere che
cosa potesse essere successo ad Angelica. Sapeva che lei
probabilmente era morta, passata da parte a parte da quello spietato
cavaliere nemico che era riuscito a scavalcare gli aculei dell'istrice, ma
non voleva pensarci, non poteva farlo, adesso che la battaglia stava
vivendo le sue fasi conclusive.
Lui e i suoi uomini avrebbero resistito ancora a lungo, lo sapeva,
ma mai abbastanza da costringere le forze imperiali a ritirarsi.
Quindi dovevano pensare solo a combattere e a uccidere più
avversari possibile, nella speranza di fiaccare l'esercito imperiale
quanto bastava per renderlo vulnerabile alla carica di Alberto da
Giussano e dei suoi, quando fossero arrivati.
Fu con quello spirito che Rossano si tuffò in avanti quando vide che
due fanti imperiali erano riusciti a farsi largo nella linea difensiva,
abbattendo un giovane picchiere che combatteva con il braccio sinistro
quasi staccato dalla spalla. Li affrontò ghignando, scansando il colpo
portato da uno dei due e colpendo il secondo al ventre dopo avere
ruotato su se stesso. Mentre il soldato colpito cadeva trattenendo le
viscere che erano fuoriuscite dalla spaventosa ferita, Rossano si
preparò a finire anche il secondo, ma all'improvviso qualcuno
comparve alle spalle del soldato imperiale e gli affondò la spada nella
schiena, facendolo stramazzare a terra con la bocca piena di sangue.
Rossano sorrise al giovanissimo soldato che era arrivato in suo
soccorso, felice di vedere che non era il solo a disporre ancora di un po'
di energie, ma poi si bloccò stupefatto, quando si rese conto che lo
sguardo che lo fronteggiava era quello radioso ma deciso di Angelica.
«Voglio combattere anch'io» affermò lei con un lampo di sfida.
«Ti credevo morta» mormorò, lasciando che il desiderio di
proteggerla a tutti i costi gli scivolasse via dalla mente. Era felice di
vederla, e ringraziò Dio per l'opportunità che gli dava di poterle
parlare ancora.
Angelica gli si avvicinò, si sollevò sulle punte e lo baciò. Un bacio
casto, veloce, ma pieno di tutto l'amore che lei provava per lui, e che
inondò Rossano con un fremito.
«Se dobbiamo morire» concluse lei decisa, «allora voglio farlo al
tuo fianco.» Rossano assentì, era quello che desiderava anche lui.
«Non fare pazzie, però» le disse. «Limitati a starmi vicino e a
intervenire solo se è necessario.» Angelica sorrise. «Non sono matta»
rispose. «Lo so che da sola non potrei ammazzarne neppure uno, di
quei bestioni.» Rossano si strinse nelle spalle. «Però posso farlo io.»
Mentre la Martinella diffondeva il suo messaggio in tutta la valle,
Rossano abbracciò Angelica, la baciò ancora, poi tornò a tuffarsi nei
combattimenti che infuriavano a pochi passi da loro.
Mulinò la spada e colpì di taglio un fante nemico che stava
cercando di introdursi nel cerchio difensivo padano. Angelica, dietro
di lui, si avvicinò al soldato e lo finì tagliandogli la gola, mentre
Rossano si occupava di fermare la carica di un altro guerriero nemico.
Il sangue imperiale avrebbe continuato a scorrere ancora per molto
tempo.
«Comandante, la sentite?» Alberto da Giussano fece segno al suo
attendente di tacere, poi si sollevò sulle staffe e tese le orecchie nel
vento che batteva la valle.
«È la Martinella!» gridò Valerio eccitato. «Sta suonando, il che
significa che stanno combattendo ancora!» Alberto da Giussano
sollevò la mano guantata e strinse il pugno.
«Compagnia della Morte!» gridò. «Per sant'Ambrogio!» «Per
sant'Ambrogio!» risposero in coro i novecento cavalieri al suo seguito,
sguainando le spade e sollevando gli stendardi.
«Formazioni d'assalto!» ordinò Alberto da Giussano.
«Formazioni d'assalto!» ripeterono l'ordine i capitani di squadra,
facendo scorrere il comando lungo il serpente di cavalieri che si
snodava fino all'orizzonte.
Quando gli squadroni ruppero la formazione per ricomporsi nei
gruppi che avrebbero raggiunto il campo di battaglia a ondate
successive, in modo da non dare tregua al nemico, il vento girò
definitivamente nella loro direzione, e tutti avvertirono distintamente i
rintocchi della Martinella che li chiamavano disperatamente.
«Al galoppo!» ordinò alla fine Alberto da Giussano, sollevando
ancora una volta il pugno guantato.
Il rombo che scosse la terra fece salire le lacrime agli occhi a
Valerio, mentre si accodava ai cavalieri della Compagnia della Morte
lanciati in soccorso di Rossano e dei pochi valorosi che ancora
combattevano per proteggere le insegne lombarde.
Le falangi imperiali strinsero sui fianchi, poi si adeguarono alla
formazione a cerchio tenuta dalla Compagnia della Morte, avanzando
metro dopo metro sui corpi dei loro stessi compagni morti.
Rossano combatteva come un ossesso, quasi senza avvertire la
fatica e rendendosi conto a malapena degli uomini che uccideva, degli
arti che amputava, del sangue che faceva sgorgare dalle gorgiere e
dagli inguini degli avversari, quando colpiva con fredda efficienza nei
punti più esposti dei fanti nemici. Mantenendosi appena dietro
l'ultima linea dell'istrice di picchieri, cercava di arginare l'avanzata dei
soldati imperiali che riuscivano a fare breccia e uccidevano uno dopo
l'altro gli ultimi, coraggiosi fanti lombardi che restavano a protezione
del Carroccio.
Nonostante questa emorragia continua, però, gli uomini del
Barbarossa non riuscivano a guadagnare troppo terreno, e per ogni
fante della Compagnia del Carroccio che andava a raggiungere i suoi
compagni sul terreno intriso di sangue, almeno quattro o cinque
imperiali finivano impalati dalle picche e dagli alighieri, oppure feriti
gravemente dai colpi di spada e di stocco.
Sul grande carro da guerra, Egidio continuava a suonare la
Martinella, e questo, si rese conto Rossano, dava la carica e
l'irresistibile illusione che potessero combattere per sempre, fino a
quando l'ultimo di loro, ma anche l'ultimo degli imperiali, fosse
crollato nella morchia sanguinolenta.

Quando vide stagliarsi nel cielo gli stendardi della guardia


personale dell'imperatore, Rossano trattenne l'impulso di lanciarsi
fuori dal cerchio dei picchieri e correre alla ricerca del Barbarossa.
Sapeva che sarebbe stata una mossa folle, che lo avrebbe portato a
morte certa, ma vedere Federico I così vicino, a portata della sua
spada, gli riempì la bocca di fiele.
Provò a cercare Angelica con lo sguardo, ma prima che potesse
ruotare completamente su se stesso avvertì delle grida provenire da un
plotone della retroguardia imperiale.
«Attenzione!» gridò ai suoi uomini, andando a recuperare uno
scudo abbandonato da un fante che gorgogliava a terra, con lo stomaco
attraversato dall'asta di una picca. «Verrettoni in arrivo! Sollevate gli
scudi!» In quello stesso istante la fanteria nemica si aprì in più punti,
lasciando avanzare i balestrieri che si erano mossi restando al coperto,
per non farsi vedere, e Rossano comprese che molti dei suoi non
sarebbero riusciti a recuperare in tempo un pavese dietro a cui
ripararsi.
Urlando per la rabbia fu tentato di scagliare via lo scudo e lanciarsi
contro i balestrieri più vicini, che si erano già messi in posizione e
stavano caricando le loro micidiali armi con i dardi, pronti a fare
scempio dei lombardi, ma Angelica gli fu addosso e lo strattonò per un
braccio.
«Ascolta!» gridò, guardandolo eccitata. «Sono cavalli al galoppo!»
Rossano cercò di tenerla al riparo del pavese, ma all'improvviso si
accorse che i balestrieri imperiali, quasi tutti mercenari boemi o
svizzeri, avevano inaspettatamente disarmato gli archi delle balestre e
si stavano dando alla fuga, mentre i capitani dell'esercito imperiale
facevano correre per tutto lo schieramento nemico ordini secchi e
perentori, che provocarono un brusco cambiamento di posizione da
parte delle falangi che stringevano in una morsa il Carroccio.
Incredulo, Rossano provò a tendere l'orecchio nel caos del campo
di battaglia, e pur dietro le grida degli ufficiali imperiali, il frastuono di
migliaia di soldati che si muovevano all'unisono, il fragore delle armi e
lo scampanellio ritmico della Martinella, comprese che Angelica aveva
ragione.
«È Alberto da Giussano!» gridò, sentendo il terreno vibrare sotto
l'impeto della Compagnia della Morte lanciata alla carica.
«Sono qui!» Mentre il grosso dell'esercito imperiale compiva una
vera e propria conversione, dimentico ormai di loro e del Carroccio,
Rossano avvertì il grido che si accompagnava alla carica poderosa
della cavalleria lombarda.
«Per sant'Ambrogio!» ruggivano centinaia di uomini tutti insieme,
traboccando all'improvviso nella valle e attaccando la fanteria
imperiale da più punti, in ondate continue e coordinate che ne
producevano lo sfacelo.
«Per sant'Ambrogio!» gridò a sua volta Rossano sollevando la
spada e ignorando le fitte che gli provenivano dalla spalla che aveva
ripreso a sanguinare. «Per sant'Ambrogio!» L'euforia percorse come
una scossa la linea di picchieri della Compagnia del Carroccio, esausti
e provati ma all'improvviso carichi di un'energia che era capace di
decuplicare le loro forze.
«Per sant'Ambrogio!» gridarono come un uomo solo, rompendo la
formazione a cerchio attorno al Carroccio e unendosi a Rossano per
lanciarsi in battaglia e portare aiuto alla cavalleria padana.
«Mi ami?» chiese Rossano ad Angelica, afferrandola per le spalle.
Lei, sorpresa, annuì nel frastuono che li circondava.
«Allora vai sul carro e resta nascosta» le ordinò Rossano.
«Fallo per me. Fallo per noi due.» Angelica si morse un labbro, poi
assunse un'espressione determinata e disse: «Tu però torna da me.
Vivo!».
Rossano la baciò, poi la spinse via e si girò, cercando con lo
sguardo gli stendardi che segnalavano la presenza della guardia
imperiale.
Il Barbarossa era lì. E lui l'avrebbe raggiunto.
Ottone di Wittelsbach trattenne a stento la rabbia, quando si rese
conto che il Barbarossa non aveva nessuna intenzione di ascoltarlo.
«Dove sono i miei alfieri?» gridava l'imperatore inferocito,
snudando la spada e sollevando al cielo l'acciaio perfettamente
lucidato, che mandava riflessi accecanti. «Guardia imperiale, a me!»
Venti uomini in nero armati sino ai denti e catafratti di placche di
ferro sul petto, sulla schiena e sulle gambe, strinsero i ranghi attorno a
Federico I di Hohenstaufen, re di Germania e sovrano del Sacro
Romano Impero, costringendo Ottone a farsi da parte.
«Vostra Maestà!» cercò di chiamarlo Ottone di Wittelsbach,
rendendosi conto della follia che riluceva negli occhi del Barbarossa.
«Dobbiamo ritirarci! Adesso!» Ottone sapeva di rischiare molto, con
quell'affermazione, forse la sua stessa vita, ma fin da quando aveva
visto piombare sul suo esercito la cavalleria nemica, con ondate
progressive su entrambi i fianchi dello schieramento, aveva compreso
che la battaglia era perduta, anche se apparentemente l'esercito
imperiale aveva ancora la superiorità numerica.
Ma Ottone sapeva che in combattimento non sempre il numero era
garanzia di successo. Potevano molto di più il coraggio, la
determinazione e la convinzione di poter vincere, e in questo caso era
il nemico a contare su quei fattori, dopo che l'istrice di difesa del
Carroccio aveva resistito agli attacchi della cavalleria imperiale,
decimandola, e l'assalto della Compagnia della Morte guidata da
Alberto da Giussano aveva prodotto la disfatta dei ranghi delle truppe
imperiali.
Pochi capitani riuscivano ancora a tenere a freno le milizie
mercenarie che, vista la malpartita, cercavano di abbandonare il
campo, e non sarebbe bastata la furia del Barbarossa e della sua
guardia personale a ribaltare le sorti dello scontro.
Se avessero ripiegato immediatamente ricompattandosi oltre le
alture a nord, forse avrebbero avuto la possibilità di resistere agli
assalti del nemico e contrattaccare, per cercare di guadagnare uno
stallo onorevole che avrebbe potuto dare il via a trattative con i
Comuni Padani.
Ma Federico I non sembrava avere alcuna intenzione di ordinare la
ritirata. E quando voltò lo sguardo gelido e colmo di follia verso di lui,
Ottone si rese conto che avrebbe potuto ordinare agli uomini della sua
guardia di ucciderlo seduta stante per avere solo osato sollevare una
proposta del genere.
«Non vi credevo un codardo» sibilò il Barbarossa sputando le
parole con rabbia. «Andatevene! Piegheremo da soli questi maledetti
ribelli!»
Senza aspettare una risposta, l'imperatore diede uno strappo alle
briglie e si lanciò verso la mischia, subito seguito dalle ombre nere
della sua guardia personale.
Ottone di Wittelsbach restò a guardarlo per un istante,
sinceramente tentato di prenderlo in parola, ma poi ricordò di avere
giurato sulla Corona la sua fedeltà all'imperatore, e dopo avere fatto
segno ai suoi di seguirlo, spronò il destriero per cercare di raggiungere
il Barbarossa nel pieno della battaglia, augurandosi di arrivare in
tempo per sottrarlo a morte certa.
Rossano riuscì ad avanzare a fatica, non tanto per la resistenza
opposta dagli avversari, che per la verità sembravano più interessati ad
arretrare e a cercare di sottrarsi alla carica dei cavalieri lombardi,
quanto per le vertigini che gli facevano girare la testa e gli facevano
scivolare il terreno sotto i piedi.
Un terreno viscido e orribile, sul quale il sangue correva in
rigagnoli scuri e maleodoranti, e in cui era facile imbattersi in qualche
arto amputato, in teste spaccate e in viscere riverse nel fango.
Doveva avere perso molto sangue, perché le forze cominciavano a
mancargli e il braccio ferito gli pulsava senza più trasmettere dolore.
Un brutto sintomo, questo Rossano lo sapeva: se non si avverte più il
dolore di una ferita, è perché il cervello è troppo stremato per
distinguere fra dolore e stanchezza.
Quando un soldato imperiale lo attaccò dal fianco, cercando di
infilzarlo con uno spiedo a doppio filo, Rossano gridando parò il colpo
con la spada. Poi ruotò su se stesso e si avventò contro l'uomo
brandendo lo sfondagiaco, che penetrò nella cotta di cuoio fino all'elsa.
Mentre si ritraeva, evitando il fiotto di sangue fuoriuscito dalla bocca
del suo avversario, Rossano vide all'improvviso tutto nero, come se un
prodigio avesse coperto il sole, immergendo il mondo nel buio.
Fu solo un istante, poi la luce tornò a ferirgli gli occhi, con il lampo
abbacinante di un riflesso sull'acciaio. Rossano inspirò
profondamente, cercando di recuperare le forze, ma quando mise a
fuoco l'oggetto che spandeva quei riflessi, ebbe un singulto di sorpresa.
Si trattava di una spada, un'arma così lucida e perfetta, con il filo
smerigliato e privo di intaccature, che solo una persona su quel campo
da battaglia poteva possedere.

Federico I il Barbarossa, imperatore di Germania e assassino del


Sacro Romano Impero.
Rossano dilatò le narici per raccogliere quanta più aria poteva, poi
cercò di valutare la situazione a mente serena, scacciando le vertigini e
tenendo a bada come un cavallo imbizzarrito la rabbia che voleva farlo
correre in avanti alla cieca, brandendo la spada.
L'imperatore stava combattendo nella calca, circondato da un
manipolo di soldati vestiti completamente di nero, con le araldiche del
casato degli Hohenstaufen che risaltavano sulle pettorine protettive di
cuoio. La guardia imperiale, i macellai personali dell'imperatore,
splendidamente addestrati per consentire al Barbarossa di fare
scempio degli avversari senza neppure rendersi conto che gli uomini
che abbatteva venivano prima feriti seriamente dai suoi sgherri, in
modo da rendergli il compito estremamente facile.
Rossano comprese che sarebbe stata una pazzia cercare di
attaccare direttamente il Barbarossa. Gli uomini della guardia, per
quanto impegnati su tutti i fronti dai cavalieri di Alberto da Giussano e
dalla fanteria lombarda che aveva raggiunto il campo di battaglia,
unendosi agli scontri, non lo perdevano mai di vista, e si stringevano
attorno all'imperatore, assicurandogli una protezione di carne, cuoio e
acciaio che nessuno sarebbe stato in grado di attraversare.
Rossano si guardò attorno, cercando di capire come muoversi.
Non voleva perdere l'occasione che aspettava da tanto tempo di
trovarsi faccia a faccia con il Barbarossa, e nel contempo non aveva
nessuna intenzione di immolarsi sulle spade della sua guardia.
Doveva agire con cautela, e impedire che Federico se la filasse,
quando avesse compreso che le sue mire espansionistiche erano
destinate a crollare in quella valle ricoperta di sangue.
A un certo punto vide un cavaliere avanzare al passo, impegnato in
uno scontro con uno dei pochi cavalieri imperiali sopravvissuti, e lo
riconobbe con sorpresa: era Gilberto Rocca, il piacentino che aveva
incontrato a Milano il giorno della chiamata alle armi da parte del
console Gisalberti.
Corse verso di lui scavalcando corpi e carcasse di cavalli, e sferrò
un colpo contro il garrese del cavallo del nemico, facendolo crollare. In
un balzo fu addosso al cavaliere imperiale, che bestemmiava con la
gamba sinistra incastrata sotto il cavallo, e gli tagliò la gola con un
colpo netto.
«Grazie» gli disse Gilberto Rocca, guardandolo con un sorriso.
Era ricoperto di sangue, e sulla coscia aveva una profonda ferita.
«Sarei probabilmente riuscito a liberarmene da solo.» «Lo so»
annuì Rossano. Poi indicò la ferita. «Quella non mi piace. Non
resisterai a lungo, se continui a perdere sangue in quel modo.» «Tu
non mi sembri messo meglio» rise il piacentino puntando la spada
verso la ferita sulla spalla di Rossano.
«Mi serve il tuo aiuto» disse Rossano rompendo gli indugi.
Gilberto Rocca lo guardò sorpreso, si leccò le labbra, poi si guardò
attorno, come se cercasse di stabilire qual era la situazione sul campo
di battaglia. Come sempre, quando ci si trovava nel mezzo di uno
scontro campale, non era possibile capire con certezza quali erano gli
equilibri dei combattimenti. Poi, riportò gli occhi su Rossano e assentì
seccamente.
«Cosa devo fare?» chiese.
«Trova altri cavalieri» rispose. «Prima che puoi. E attaccate laggiù,
sul fianco sinistro.» Il piacentino seguì la direzione indicata da
Rossano, vide la guardia imperiale che faceva strage di soldati
lombardi, proteggendo una figura in sella a un cavallo bianco dalla cui
spada si spandevano riflessi accecanti, e corrugò la fronte. Poi, dopo
aver rivolto un cenno d'intesa a Rossano, affondò i talloni nei fianchi
del cavallo, spronandolo ad avanzare nel fango insanguinato che
sembrava avere intenzione di tracimare dalla valle per inghiottire il
mondo.
Rossano cercò di scacciare un'altra vertigine, poi riprese ad
avanzare lentamente verso il Barbarossa, evitando i combattimenti
con gli avversari e augurandosi che Gilberto Rocca riuscisse a trovare
al più presto altri cavalieri con cui scagliarsi contro la barriera
protettiva che assicurava l'incolumità dell'imperatore.
«Uccidetelo!» sentì urlare con rabbia, e in quel momento comprese
che non sarebbe più riuscito ad avvicinarsi senza essere costretto a
combattere.
Mentre due cavalieri interamente bardati di nero si facevano largo
tra i fanti imperiali e padani che incrociavano le spade con rabbia
furibonda, Rossano decise di non restare ad aspettarli, e di
approfittare della fanghiglia in cui affondavano gli zoccoli dei cavalli
per cercare di aprirsi un varco tra la scorta del Barbarossa.
Il primo cavaliere si piegò sul dorso del destriero per allungare il
braccio armato, ma Rossano ebbe buon gioco a schivare l'affondo e a
colpire di rimessa, costringendo l'uomo a far voltare il cavallo dalla
parte in cui reggeva la spada. Immaginando come si sarebbe
comportato il suo avversario, Rossano scartò di lato, passò sotto il
muso del cavallo e quando fu dall'altra parte fece partire un fendente
diretto al ginocchio del cavaliere, unica parte scoperta che aveva a tiro
di spada.
Il grido lancinante che eruppe dalla gola dell'uomo, quando carne,
tendini e cartilagini esplosero in un'eruzione scarlatta, fece
comprendere a Rossano che poteva occuparsi dell'altro cavaliere. Fece
appena in tempo a voltarsi, quando vide calare dall'alto un tremendo
colpo assestato con una mazza ferrata.
Lo parò all'ultimo istante, tremando sulle gambe e stringendo i
denti per il dolore che gli attraversò tutto il corpo, a partire dalla
sutura sulla spalla.
Ma riuscì a non cadere, e con un ruggito di rabbia ruotò su se
stesso e affondò lo sfondagiaco nel collo del cavallo, una magnifica
bestia pezzata che in un'altra occasione avrebbe ammirato con invidia.
Il destriero lanciò un nitrito acuto e s'impennò, cercando di
sottrarsi a un altro colpo portato da Rossano, e il cavaliere che aveva in
sella fu costretto a tenersi con entrambe le mani alle briglie per non
cadere. Era quello che aspettava Rossano: dimenticandosi del cavallo
scivolò nella melma putrida, afferrò l'uomo per un gambale e tirò con
forza, disarcionandolo. La guardia imperiale cadde di schiena nel
fango, cercò di rimettersi in piedi, ma Rossano fu lesto a schiacciarlo a
terra con un piede e a conficcargli la spada in gola, azzittendo il grido
di rabbia che l'uomo stava per lanciargli contro.
Dopo avere estratto la lama Rossano si fermò un istante per
riprendere fiato, ma un movimento alle sue spalle lo fece voltare di
scatto, pronto ad affrontare la carica di un altro cavaliere imperiale.

Invece vide Gilberto Rocca arrivare al galoppo insieme a un pugno


di uomini della Compagnia della Morte, e assistette al veemente
attacco contro il fianco della guardia imperiale del Barbarossa.
Questi, adesso visibile anche da Rossano, latrava ordini nella sua
dura lingua, lasciando che il suo cavallo calpestasse i feriti che si
trascinavano nel fango, alcuni dei quali appartenenti al suo stesso
esercito.
L'impatto di Gilberto Rocca e dei suoi uomini fu devastante, perché
del tutto inatteso, e il cerchio delle guardie imperiali si scompose per
dare vita a uno schieramento compatto da opporre alla cavalleria
nemica.
Rossano non perse tempo e scattò verso l'imperatore, che
continuava a urlare ordini che nessuno ascoltava e che adesso,
finalmente, era solo, a poche decine di passi da lui.
Quando il Barbarossa girò lo sguardo di fuoco su di lui, Rossano
ebbe un istante di esitazione. Da quegli occhi divampava una tale
rabbia e una tale minaccia, da dare l'impressione di poter incenerire
qualsiasi avversario senza neppure alzare la spada, ma quando a
Rossano tornò alla mente il sorriso di Beatrice, e la smorfia scomposta
che le aveva visto sul viso, quando l'aveva trovata mezza nuda per
terra, con le vesti lacerate e il corpo ricoperto di sangue, si sentì
montare una rabbia furibonda agli occhi, e Federico I il Barbarossa
cessò di incutergli timore.
Stringendo la spada nella destra e lo sfondagiaco nella sinistra,
Rossano si fece sotto, tenendo d'occhio gli zoccoli del possente
destriero, che sbuffava con le froge dilatate e che avrebbe potuto
dimostrarsi ben più pericoloso dell'imperatore.
La spada scintillante e finemente decorata del Barbarossa si levò
un paio di volte, mentre Federico richiamava a sé gli uomini della
guardia, ma Rossano si accorse che Gilberto Rocca e i suoi avevano
sfruttato al meglio l'effetto sorpresa, e adesso la lotta che avevano
ingaggiato con i pretoriani dell'imperatore era così serrata da non
consentire a nessuna delle guardie imperiali di staccarsi per venire in
soccorso del Barbarossa.
Rossano strinse i denti e fissò l'imperatore, che sembrò
comprendere il pericolo e reagì all'istante, lanciando un urlo e
affondando gli speroni nei fianchi del destriero, che scattò in avanti,
deciso a ridurre Rossano in poltiglia.
Questi riuscì a scansare solo in parte l'enorme bestia, e quando
accusò il colpo del garrese alla spalla ferita, urlò di dolore, mentre le
gambe gli cedevano. Crollò in ginocchio, con le lacrime agli occhi non
tanto per il dolore, quanto per la rabbia e la frustrazione, e riuscì a
percepire il fendente menato dall'imperatore solo con la coda
dell'occhio.
Reagì d'istinto, sollevando la spada e fermando il colpo con lo
slancio dell'elsa. Era troppo debole, però, per resistere all'impatto, e il
Barbarossa riuscì, con una torsione del polso, a strappargli via la
spada.
Rossano avvertì il ruggito di trionfo dell'imperatore, annaspò nel
fango e nel sangue, e cercò di tirarsi in piedi, per affrontare quel cane
con l'ausilio del solo sfondagiaco. Non gli importava di morire, ma se il
Barbarossa si fosse fatto abbastanza sotto per cercare di finirlo, lui
avrebbe potuto balzargli addosso e piantargli il pugnale nel ventre.
Aspettò fino all'ultimo istante, poi quando vide la punta della spada
imperiale tuffarsi con decisione verso di lui, lanciò un grido e scartò di
lato, consumando le sue ultime energie per afferrare il polso del
Barbarossa e avvicinarsi abbastanza per colpirlo a morte.
Ormai Federico I era nelle sue mani. Lo comprese anche dallo
sguardo pieno di terrore che il Barbarossa piantò su di lui, mentre
cercava sorpreso di liberarsi dalla sua stretta.
Rossano sorrise, dilatando le narici, ma quando affondò lo
sfondagiaco verso la placca pettorale del Barbarossa, un'ombra calò su
di lui, e un colpo formidabile lo scaraventò lontano, facendogli perdere
la presa sul braccio di Federico I.
Rossano rotolò a terra, si deterse il fango che gli aveva imbrattato il
viso, e cercando di ignorare il dolore che gli artigliava il braccio guardò
chi l'aveva colpito. Era un uomo dallo sguardo duro, con una corazza
di cuoio sulla quale risaltavano le araldiche della sua casata.
«Ben fatto, Wittelsbach!» sentì urlare il Barbarossa, e vide che
l'imperatore era pronto a lanciare di nuovo il corsiero contro di lui.
Questa volta Rossano non sarebbe riuscito a sottrarsi ai colpi micidiali
degli zoccoli del cavallo. Era troppo stanco, e non sentiva più il braccio
ferito.

Urlando di rabbia provò ancora una volta a tirarsi in piedi, ma il


suo corpo non rispondeva più.
Il Barbarossa caricò con una luce omicida negli occhi, e Rossano
pensò che quell'uomo fosse pazzo. Un folle che, per uno strano gioco
del destino, era stato messo sullo scranno del Sacro Romano Impero.
Era ormai convinto di dover soccombere all'attacco
dell'imperatore, quando altre grida risuonarono tutt'intorno, e un
cavallo si avventò come una furia contro il destriero del Barbarossa.
Rossano vide tutto in una nebbia scarlatta che gli offuscava la vista,
ma non ebbe dubbi che non si trattava di un sogno.
Alberto da Giussano era comparso dalla guazza umida di sangue
che galleggiava sul campo di battaglia spronando il suo destriero, la
spada alta sopra la testa, che calò di taglio contro il generale imperiale
che cercò di frapporsi alla sua carica, facendolo crollare a terra con
uno spruzzo di sangue. Poi, sullo slancio dell'attacco, andò ad
affrontare il Barbarossa, che reagì con rabbia ma anche con
disordinata sorpresa all'aggressione del comandante in capo
dell'esercito lombardo.
Le loro spade si incrociarono solo una volta, facendo sprizzare una
cascata di scintille, poi Alberto da Giussano si piegò di lato e affondò la
punta della lama nel collo del destriero imperiale, Uccidendolo sul
colpo.
Il grande corsiero da guerra stramazzò al suolo, e Rossano vide
l'imperatore volare via dalla sella e cadere in un groviglio di corpi e
feriti.
Alberto da Giussano cercò di avanzare nella melma, di scavalcare il
destriero del Barbarossa per raggiungere l'imperatore, ma
all'improvviso due guardie imperiali si fecero sotto, attaccandolo su
due fronti.
Rossano ebbe un mancamento, poi scosse la testa con rabbia e
tentò ancora di rimettersi in piedi a prezzo di uno sforzo terribile, ma
quando cercò traccia dell'imperatore, si accorse che si era dileguato fra
ciò che restava del suo esercito allo sbando, che si stava ritirando verso
le alture a nord.
Rossano cadde ancora sulle ginocchia, e alzò verso il cielo un grido
di rabbia e di frustrazione che gli lacerò l'anima.
Quando Alberto da Giussano e i suoi uomini lo affiancarono, dopo
essersi sbarazzati delle ultime guardie imperiali, Rossano si lasciò
andare definitivamente, e crollò privo di sensi.
Il contatto lieve della mano fresca gli trasmise una sensazione di
benessere, e Rossano riaprì gli occhi. Angelica era davanti a lui, con le
iridi di smeraldo che sfolgoravano tra le lacrime.
Anche così, con i capelli tagliati corti e il viso sporco di polvere e
rigato dalle lacrime, era di una bellezza straordinaria, e Rossano si
sentì mancare il fiato.
«Siamo vivi» mormorò lei, a voce così bassa che Rossano dovette
sollevare leggermente la testa per sentirla. Il dolore che gli esplose
nella spalla, però, fu tale da costringerlo a lasciarsi andare di nuovo.
«Stai fermo, comandante» lo redarguì un'altra voce, più forte e
decisa. «Sei in buone mani, lascia che questo... tamburino ti curi come
si deve.» Nel campo visivo di Rossano comparve un altro volto noto.
Alberto da Giussano sorrideva, nonostante lo squarcio al
sopracciglio che qualcuno gli aveva ricucito sommariamente.
«Qual è la situazione?» chiese Rossano con grande difficoltà.
Era come se avesse della limatura di ferro in gola, e non riusciva a
parlare.
«Non senti la Martinella?» rispose Alberto da Giussano.
Rossano cercò di schiarirsi la mente, poi tese le orecchie e
finalmente riuscì a mettere ordine nel caos di rumori ovattati che
avvertiva attorno a lui.
La campana del Carroccio suonava a più non posso, ma il ritmo dei
rintocchi era cambiato, rispetto a quello frenetico che aveva scandito
buona parte della battaglia. Adesso era più giocoso, meno squillante e
sincopato, e Rossano lo riconobbe subito: erano i rintocchi della
vittoria, e questo gli fece salire le lacrime agli occhi per la gioia.
«Ce l'abbiamo fatta» mormorò sfinito, mentre le dita sottili di
Angelica gli sfioravano il viso.
«Non ancora, comandante» ribatté Alberto da Giussano alzandosi
in piedi. «L'esercito imperiale è in rotta, e noi dobbiamo cercare di
dargli il colpo di grazia. Per ogni uomo che riusciremo ad abbattere, il
Sacro Romano Impero potrà contare su un soldato in meno, quando
cercherà ancora di violare il suolo padano.»
Rossano pensò al Barbarossa, a come quel vigliacco era fuggito,
anziché continuare a battersi con lui, e si sentì scuotere da un fremito
di rabbia. Questo gli diede la forza per tirarsi su un gomito e fissare
Alberto da Giussano.
«Dovete trovarlo» ruggì. «Federico è ancora vivo. Non dovete
permettere che torni in Germania.» «Tu pensa a riposare» lo redarguì
Alberto da Giussano. «Avrò ancora bisogno di un condottiero
formidabile come te, per guidare le truppe della Padania libera.»
Rossano non seppe se sorridere o scuotere la testa, poi una vertigine lo
abbatté e ricadde a terra, scosso da alcuni colpi di tosse.
«La ferita è infiammata» gli spiegò Angelica, «e tu hai perso troppo
sangue. Devi riposare.» Rossano annuì. Poi riaprì gli occhi e la fissò.
«Potrò farlo meglio, con una moglie al mio fianco» disse.
Con un sorriso, si rese conto che le lacrime che vide sgorgare dagli
occhi di Angelica non erano di rabbia o di dolore. Erano il più bel sì
che un uomo avesse mai potuto desiderare.
PERSONAGGI PRINCIPALI

Personaggi realmente esistiti ALESSANDRO II (ROLANDO


BANDINELLI). Il papa che si oppose al Barbarossa.
ARCIVESCOVO CRISTIANO DI MAGONZA. Vicario Imperiale.
Assediò Ancona nel 1173, ma senza successo.
CALLISTO III (GIOVANNI DA STRUMA). L'antipapa ungherese
barricato nella città papale.
CONTE RODOLFO CONCESA. Console di Alessandria.
CONTESSA ALDRUDA DI BERTINORO. Aiutò la popolazione di
Ancona a difendersi da Cristiano di Magonza.
EMMANUELE COMNENO. Imperatore d'Oriente.
FEDERICO I DI HOHENSTAUFEN detto IL BARBAROSSA.
Imperatore del Sacro Romano Impero.
MARCHESE DI MONFERRATO. Alleato del Barbarossa.
MARCHESE OBIZZO DI MALASPINA. Un potente dell'epoca, che
prima si schierò con il Barbarossa (1168), poi aderì alla Lega
Lombarda.
OTTONE DI WITTELSBACH. Generale dell'esercito imperiale.
RE LADISLAO DI BOEMIA. Al seguito del Barbarossa nella discesa
in Italia.

Personaggi di fantasia ANGELICA CONCESA. Figlia del console di


Alessandria, Rodolfo Concesa.
BEATO MARCHESINI. Comandante delle vedette lombarde.
CARDINALE BRUNO ACCORSI. Legato pontificio di papa
Alessandro III, sua anima oscura e consigliere più fidato.
CONSOLE GISALBERTI. Console di Milano.
EGIDIO MARIANI. Il ragazzo della Martinella.
FIORENZO MOTTA. Vedetta lombarda, compagno di Valerio.
GILBERTO ROCCA. Soldato di ventura piacentino.
GUSTAV VON SCHENKER. Capitano della cavalleria imperiale.
MONSIGNOR VALLERÒ. Alto prelato dell'antipapa.
PADRE ARIBERTO. Il vecchio prete che prese in custodia il
Carroccio.
RAINALDO DI DARMSTADT. Arcicancelliere del Barbarossa.
Ispirato alla figura realmente esistita di Rainaldo di Dassel,
arcicancelliere e vescovo di Colonia, morto di malaria nel 1168.
REINHARDT VON SAPPERTHEM. Comandante degli esploratori
imperiali.
ROSSANO DA BRESCIA. Soldato di ventura lombardo.
TARCISIO BONASSEI. Comandante della guarnigione di
Alessandria prima di Rossano, poi suo collaboratore.
UMBERTO DA COLLAREDO. Capitano della cavalleria lombarda.
VALERIO. Fratello di Rossano da Brescia.
VENANZIO DA URBINO. Spadaccino e guardaspalle del cardinale
Accorsi.
Delegato pontificio ad Alessandria.
VERUSCA. Damigella di compagnia di Angelica Concesa.
Dell'esistenza di ALBERTO DAGIUSSANO, comandante della
Compagnia della Morte, infine, non ci sono prove storiche certe.
Nota dell'Autore

Questo libro riporta fatti veri, anche se alcune situazioni e


l'introduzione di personaggi di fantasia non possono renderlo un atto
di documentazione storica. Si tratta di un romanzo, il tentativo
attraverso un'opera narrativa di rendere un momento epico della
storia italiana e del Nord Italia, l'unica occasione in cui il potente
esercito del Sacro Romano Impero venne sconfitto in uno scontro
campale.
Prima di lasciarvi, consentitemi di ringraziare le persone che mi
hanno dato la possibilità di scrivere questa bellissima storia, pur con
tutte le licenze che ogni romanziere è costretto a sfruttare, quando si
tratta di descrivere un frammento di storia medievale: Sergio "Alan
D." Altieri, maestro di scrittura e editor formidabile; Ferruccio
Parazzoli, il vero ispiratore di questo romanzo; Piergiorgio Nicolazzini,
il mio infaticabile agente; Marzia Mortarino, che ha contribuito a dare
dignità al mio testo, e tutti coloro, in Mondadori, che mi hanno dato
fiducia.

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