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dicembre 2017

Fantasmi neoliberali

Premessa 3
William Davies Lo stato neoliberale 8
S.M. Amadae Neoliberalismo e governamentalità 35
Lapo Berti Ripartire da Foucault. Economia
e governamentalità 49
Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri “It’s still
day one.” Dall’imprenditore di sé alla start-up
esistenziale 79
Mauro Bertani Individui molecolari e trasformazioni
della soggettività 109

CONTRIBUTI
Rita Fulco Lotta disarmata. Politica e religione
in Simone Weil 133
Elettra Stimilli Jacob Taubes: genealogia
di un percorso antinomico 149
Emiliano De Vito Appunti di storia naturale.
Warburg, Benjamin e Pauli 173
François Jullien, Elena Nardelli Dialogo
su una nuova etica della traduzione 193
“It’s still day one.”
Dall’imprenditore di sé alla start-up
esistenziale
MASSIMILIANO NICOLI
LUCA PALTRINIERI

1.
Se entrate nella sede parigina di Amazon.
com, a Clichy, una volta superati i con-
trolli di sicurezza vi troverete in una sala
d’attesa molto confortevole, dotata di divano, poltrone, cucina e
macchine del caffè. Se poi vi guardate intorno, mentre attendete
che vi venga stampato il badge che vi consentirà di passare gli ul-
teriori tornelli, noterete, un po’ dappertutto, degli schermi fissa-
ti alle pareti sui quali scorrono le ultime notizie riguardanti la vi-
ta aziendale. Noterete inoltre che tale flusso di notizie è regolar-
mente intervallato da una frase che ricorre senza sosta: “It’s still
day one” – letteralmente, “è ancora il giorno 1”.
Qualsiasi dipendente di Amazon, interrogato a proposito, po-
trà spiegarvi il significato di questo ritornello: è un invito a lavo-
rare come se fosse sempre il primo giorno, come se Amazon fos-
se nata ieri – anzi, no, oggi stesso – mantenendo uno spirito start-
up pure all’interno di un simile colosso del commercio elettroni-
co.1 Del resto, è lo stesso fondatore e CEO di Amazon, Jeff Bezos,
a illustrare il concetto nella lettera agli azionisti pubblicata il 12
aprile 2017:2 il giorno 2 è la stasi, la lentezza, il declino, la morte;
il giorno 1 è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, di-
namismo, vitalità. Ecco perché bisogna riuscire a conservare una

1. Sulle reali condizioni di lavoro nei magazzini di Amazon, esistono diverse inchieste
giornalistiche, come quella di Jean-Baptiste Malet, “En Amazonie”. Un infiltrato nel “mi-
gliore dei mondi” (2013), trad. di L. Minuto, Kogoi, Roma 2013.
2. Disponibile sul sito di Amazon: <amazon.com/p/feature/z6o9g6sysxur57t>.

aut aut, 376, 2017, 79-108 79


mentalità da start-up anche in un’impresa che nel 2015 ha fattu-
rato 79,3 miliardi di dollari.3
Concetti non dissimili da quelli rapidamente enucleati da Be-
zos nella sua lettera agli azionisti erano già stati espressi in Italia
il 22 novembre 2016 da Diego Piacentini – “commissario straor-
dinario per l’attuazione dell’Agenda digitale” per il governo ita-
liano – al “Bocconi Start-up Day”, iniziativa annuale dell’Uni-
versità Bocconi “finalizzata a promuovere l’imprenditorialità e
le start-up e a valorizzare le molteplici attività promosse dall’A-
teneo in tali ambiti”.4 Non a caso, Piacentini è attualmente in
aspettativa da Amazon.com, dove ha lavorato per sedici anni, ri-
coprendo il ruolo di Senior Vice President International.5 Titolo
del suo speech alla Bocconi: Una start-up a Palazzo Chigi.6
Era stato l’ex primo ministro italiano Matteo Renzi a convin-
cere il supermanager di Amazon a tornare in Italia per “aiutare
il Paese a non perdere il treno dell’innovazione e del digitale” e
per “costituire una sorta di start-up all’interno di una macchina
antica come l’amministrazione statale”.7 Del resto, la passione di
Renzi per l’innovazione digitale e il mondo start-up è nota e ben
testimoniata dalla scelta di un incubatore, l’H-Farm in provincia
di Treviso, come luogo della sua prima visita ufficiale in qualità
di presidente del Consiglio,8 ma soprattutto dai provvedimenti
del suo governo in termini di detassazioni, agevolazioni negli in-
vestimenti, disciplina agevolata del lavoro.9
Come fanno notare Alessandro Gerosa e Adam Arvidsson in

3. E. Scarci, Amazon entra nella top ten dei retailer globali e cresce in Italia, “Il Sole-24
ore”, 19 gennaio 2017.
4. <startupday.unibocconi.it/Home>.
5. <teamdigitale.governo.it/it/people/1-profile.htm>.
6. <unibocconi.it/wps/wcm/connect/ev/Eventi/Eventi+Bocconi/Bocconi+Start-
up+Day+2016>.
7. Intervista di Mario Calabresi a Diego Piacentini del 30 settembre 2016, disponibi-
le su “Repubblica.it”: <repubblica.it/economia/2016/09/30/news/digitale_diego_piacen-
tini-148802419/>.
8. Il senso di Renzi per le start-up: <ilfattoquotidiano.it/2014/02/27/il-senso-di-renzi-
per-le-start-up/896231/>.
9. Per una sintesi di tali provvedimenti, si veda EconomyUp, Innovazione e start-up, le
15 eredità del governo Renzi: <economyup.it/startup/innovazione-e-startup-le-15-eredita-
del-governo-renzi/>.

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un articolo pubblicato sul sito “cheFare”, attento alle start-up in
Italia, la stagione di investimenti pubblici era già iniziata con il go-
verno Monti e il suo ministro per lo Sviluppo economico Corra-
do Passera, il quale aveva prima di tutto costituito una task force
incaricata di redigere un rapporto sulle start-up come volano del-
la crescita.10 Al rapporto, pubblicato nel 2012 e intitolato Restart,
Italia!,11 ha fatto seguito una serie di misure, proseguite dai gover-
ni successivi, aventi lo scopo di “rafforzare la molto fragile econo-
mia della conoscenza nazionale che, in assenza di un sistema di ri-
cerca e innovazione funzionante, in Italia stenta a emergere e par-
rebbe frenare quel naturale spirito di auto-imprenditorialità e di
auto-realizzazione con cui vengono contraddistinte le nuove gene-
razioni di nativi digitali”.12
Sempre Gerosa e Arvidsson sottolineano come diverse misu-
re di sostegno alla creazione di imprese e di start-up siano state
intraprese da tutti i paesi dell’Unione europea per far fronte alla
disoccupazione seguita alla crisi del 2008, come testimoniato an-
che dal rapporto 2016 di Eurofound (Fondazione europea per il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) intitolato So-
stegno alle start-up per i giovani nell’UE: dall’attuazione alla valu-
tazione.13 In Francia, per esempio, dopo aver creato nel 2008 lo
statuto giuridico dell’auto-entrepreneur (l’auto-imprenditore) per
rispondere alla crisi promuovendo la creazione di micro-impre-
se individuali,14 uno dei principali fronti di investimento per far
ripartire la crescita economica è costituito proprio dall’ecosiste-

10. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, “cheFare”, 17 feb-


braio 2017.
11. Il rapporto è disponibile sul sito del ministero: <sviluppoeconomico.gov.it/images/
stories/documenti/rapporto-startup-2012.pdf>.
12. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit.
13. Eurofound, Start-up support for young people in the EU: From implementation to
evaluation, 13 aprile 2016, <eurofound.europa.eu/publications/report/2016/labour-mar-
ket-business/start-up-support-for-young-people-in-the-eu-from-implementation-to-eva-
luation>.
14. Sulla storia dell’introduzione del regime dell’auto-entrepreneur, si veda S. Abdel-
nour, A. Lambert, “L’entreprise de soi”, un nouveau mode de gestion politique des classes
populaires? Analyse croisée de l’accession à la propriété et de l’auto-emploi (1977-2012),
“Genèses”, 95, 2014.

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ma delle start-up. Nel 2013 il governo francese ha creato il mar-
chio French Tech per sostenere e valorizzare le start-up francesi
nell’ambito del più ampio progetto “République numérique” di
conversione digitale dello stato.
Fare della Francia una “start-up nation” è del resto il caval-
lo di battaglia del neopresidente Emmanuel Macron (ma era sta-
to già Hollande in visita nella Silicon Valley nel 2014 a parlare di
“start-up République”15), il quale non cessa di affermare la pro-
pria volontà di favorire la moltiplicazione delle start-up attraver-
so ingenti finanziamenti, agevolazioni fiscali e semplificazione del
diritto del lavoro. Lo stesso Macron, quando era ancora ministro
dell’economia, dell’industria e del digitale nel governo Valls, ave-
va firmato la prefazione di un libro che s’intitola significativamen-
te L’État en mode start-up – lo stato in modalità start-up – e che
prefigura una rinnovata età dell’oro per lo stato, una volta che es-
so si sia appropriato delle nuove tecnologie e che il governo si sia
trasformato sul modello delle piattaforme digitali.16 Che sia l’im-
presa o lo stato, è lo spirito start-up che si tratta di diffondere
dappertutto, quello spirito che Macron definisce in termini di co-
raggio, audacia, agilità “quasi animale” di inventare e reinventare
il proprio progetto, sete di imparare, di scoprire, di agire in mo-
do differente – e le start-up possono essere “una scuola di succes-
so”, soprattutto per le zone rurali e i quartieri più poveri.17 Per la
Francia, come per Amazon, c’est encore le jour 1.
È evidente che il termine start-up è divenuto una sorta di si-
gnificante vuoto che oggi può ospitare facilmente tutto ciò che ri-
manda all’innovazione digitale, alla creazione di imprese innova-
tive, all’integrazione di nuove tecnologie. Ma “start-up” è anche
il nome della declinazione più aggiornata di quello spirito eroico
che da sempre caratterizza il personaggio dell’imprenditore, ma
che dovrebbe appartenere a tutti: il presidente e cofondatore del

15. J. Ponthus, Hollande, VRP de la “start-up République” à San Francisco, “Reuters”, 12


febbraio 2014.
16. Y. Algan, T. Cazenave, L’État en mode start-up, Eyrolles, Paris 2016.
17. S. Mundebeltz-Gendron, Emmanuel Macron: La France doit devenir en 5 ans la na-
tion des start-up, “L’usine digitale”, 10 maggio 2017.

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social network LinkedIn, Reid Hoffman, invita chiunque a gesti-
re la propria carriera, il proprio curriculum vitæ, e quindi la pro-
pria vita come una start-up, anche se non ne fonderà mai una.18
Inoltre, si è cominciato da qualche tempo a parlare di bolla delle
start-up.19 La ricerca condotta da Gerosa e Arvidsson presso l’U-
niversità di Milano sulle start-up italiane mostra che le loro per-
formance sono nettamente inferiori a quelle delle PMI non innova-
tive, e che l’occupazione realmente generata è soprattutto quella
tossica, precaria e malpagata della cosiddetta Gig-Economy, l’eco-
nomia dei “lavoretti”.20 Il problema è strutturale, e riguarda il fat-
to che il modello importato dalla Silicon Valley non mira tanto a
creare una moltitudine di piccole imprese sostenibili sul mercato,
quanto un cosiddetto “unicorno”, cioè la start-up in grado di in-
ventare un modello di business e monopolizzare un intero settore
garantendo generose rendite di tipo finanziario agli investitori.21
Non è dunque sul piano della performance economica genera-
le e della capacità di essere all’altezza delle promesse di crescita e
di occupazione che è possibile rendere conto del successo politi-
co e culturale di tutto ciò che ruota intorno al significante start-
up nella fase attuale del neoliberalismo politico ed economico.
Come nel caso dell’arcinota ingiunzione a divenire “imprenditori
di se stessi”, l’analisi critica deve collocarsi probabilmente a livel-
lo della “condizione soggettiva neoliberale” e della “razionalità”22
più generale che la governa, piuttosto che nella dispersione delle

18. R. Hoffman, B. Casnocha, The Start-Up of You. Adapt to the Future, Invest in Yourself
and Transform your Career, Crown Business, New York 2012. Il libro ha riscosso un successo
planetario, ed è anche un sito: <thestartupofyou.com/>. È stato tradotto in italiano (Restia-
mo in contatto. La vita come impresa, trad. di M. Vegetti, EGEA, Milano 2012), ma preferiamo
citarlo con il titolo originale, anche se il sottotitolo italiano è molto ben scelto.
19. J.-Y. Archer, Faut-il craindre une bulle des start-up?, “Les Echos”, 3 maggio 2016.
20. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit. Si veda anche,
sempre sul sito “cheFare”, R. Ciccarelli, È il capitalismo digitale, baby, 13 febbraio 2017.
21. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit. Significativo
che lo stesso Macron sia stato definito un “unicorno” della politica da Claude Perdriel,
proprietario del settimanale economico “Challenges” ed ex proprietario del settimanale
“Le Nouvel Observateur”. Si veda S. Mundebeltz-Gendron, Emmanuel Macron: La France
doit devenir en 5 ans la nation des start-up, cit.
22. Su questo punto si veda L. Paltrinieri, L’impresa e la filosofia politica. Verso un ap-
proccio genealogico, “Officine filosofiche”, 3, 2016, in particolare le pp. 40-41.

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singole politiche economiche. In primo luogo, il termine raziona-
lità non può comprendere solo il dominio della ragione strumen-
tale – sulla scia delle opere di Max Weber e della Scuola di Fran-
coforte – ma anche le dimensioni progettuali, programmatiche,
persino oniriche che organizzano l’azione governamentale.23
In questo senso l’analisi della razionalità non si occupa tanto
di misurare lo scarto tra il sogno e la realtà, quanto di identifica-
re l’“immaginario” proposto al soggetto neoliberale. Non è ne-
cessario, per esempio, che la gestione del sé come un’impresa24 si
estenda effettivamente a ogni minimo aspetto dell’esistenza: essa
può restare in una certa misura allo stato di programma non re-
alizzato senza tuttavia cessare di costituire un ideale da raggiun-
gere, capace come tale di mobilitare le coscienze e orientare le
azioni. Di conseguenza, ogni individuo tende a integrare questi
schemi di comportamento non tanto come obblighi, ma come
ethos, insieme di valori, principî, regole di condotta che gli per-
mettono di valutare la sua esistenza e le sue azioni giorno dopo
giorno, come una pietra di paragone.25
In secondo luogo, le razionalità potrebbero essere definite co-
me dei percorsi intellettuali collettivi, prima condivisi all’interno
di un certo gruppo culturale o scientifico e poi diffusi in tutta la
società sotto forma di evidenze che strutturano le azioni razio-
nalmente regolate dei governanti così come dei governati.26 Da
questo punto di vista, l’analisi della razionalità potrà identifica-
re i presupposti comuni (e spesso irriflessi) a posizioni politiche
agli antipodi. Per esempio, espressioni come “spirito di impresa”,
“spirito start-up” o “innovazione” colonizzano non solo il discor-
so economico ma anche quello mediatico e politico, presentan-
23. M. Foucault, “La poussière et le nuage”, in M. Perrot, L’impossible prison. Recher-
ches sur le système pénitentiaire au XIXe siècle, Seuil, Paris 1980, pp. 29-39.
24. B. Aubrey, L’entreprise de soi, Flammarion, Paris 2000; W. Bridges, Creating You
& Co. Learn to Think Like the CEO of Your Own Career, Perseus Books, Cambridge 1997.
25. Sull’ethos imprenditoriale in una prospettiva weberiana, si può vedere O. Lopez-
Ruiz, Os executivos des transnacionais e o espirito do capitalismo. Capital humano e empre-
endedorismo como valores sociais, Azougue Editorial, Rio de Janeiro 2007.
26. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neo-
liberista (2009), trad. di R. Antoniucci e M. Lapenna, DeriveApprodi, Roma 2013, pp.
287-341.

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dosi come un orizzonte che trascende le differenze fra destra e si-
nistra e capace di creare consenso unanime intorno a determina-
ti obiettivi politici: favorire la creazione di impresa, aumentare il
commitment dei lavoratori, migliorare la composizione del capita-
le umano sintonizzando formazione superiore e impresa ecc.
Lo “spirito imprenditoriale” e l’“innovazione” non rinviano
più semplicemente alle utopie manageriali di immarcescibili gu-
ru come Peter Drucker, o a processi di “distruzione creatrice” di
schumpeteriana memoria:27 sono i “concetti organizzatori” di un
neoliberalismo che promette un “ritorno ai fatti”, all’oggettivi-
tà, al “concreto” economico, e che dettano al tempo stesso il rit-
mo della produzione intellettuale di un’intera società.28 Così lo
“spirito di iniziativa e l’imprenditorialità” fanno parte delle otto
competenze chiave per l’apprendimento permanente che l’Unio-
ne europea raccomanda dal 2006 ai governi di tutti i paesi mem-
bri, sulla base di una politica educativa largamente condivisa che
prevede la diffusione in tutta la popolazione di comportamenti
imprenditoriali, al di là dell’effettiva creazione di impresa.29
Ma le razionalità, in terzo luogo, devono anche essere descrit-
te come schemi riflessivi che provengono dalle pratiche, diven-
tano oggetto di elaborazione teorica, vengono integrati all’inter-
no di dispositivi concreti per essere infine re-iniettati all’interno
di altre pratiche. Le teorie dell’impresa, per esempio, dall’“istitu-
zionalismo” di Thorstein Veblen e Ronald Coase fino all’“impre-
sa in rete” o all’“impresa digitale” di oggi, non sono solo tentati-

27. Di Peter Drucker, probabilmente il guru manageriale più influente degli anni ot-
tanta, cfr. soprattutto Innovazione e imprenditorialità (1985), ed. it. a cura di G. Mauriel-
lo, ETAS, Milano 1986. Di J. Schumpeter, cfr. in particolare Capitalismo, socialismo, demo-
crazia (1942), trad. di E. Zuffi, ETAS, Milano 1984, capitolo VII: “Il processo di distruzio-
ne creativa”.
28. Cfr. I. Hacking, “Historical meta-epistemology”, in L. Daston, W. Carl, Wahrheit
und Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1999, pp. 53-76; sulla razionalità
come etica del ricercatore, cfr. L. Daston, P. Galison, Objectivity, MIT Press, Boston 2010.
29. “Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006,
relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE)”: <eur-
lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:32006H0962>. Si veda anche C. Ver-
zat, Esprit d’entreprendre es-tu là? Mais de quoi parle-t-on, “Entreprendre & innover”, 27,
2015, pp. 81-92.

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vi di descrivere il reale e costituirlo come oggetto scientifico, ma
anche di influenzarlo. In questo caso, razionalità non significa
solo abbordare un oggetto come il management per descriverlo e
farne teoria, ma anche esportare la logica manageriale per appli-
carla ad altre attività al di fuori del mondo dell’impresa.
Una precisa razionalità collega la sempre fiorente letteratura
sul management di sé30 e la diffusione dello statuto di auto-entre-
preneur in Francia, così come la proliferazione delle partite IVA
in Italia: la posta in gioco è quella di promuovere l’autonomia
e l’indipendenza del lavoratore invitandolo a essere proprieta-
rio, padrone e responsabile di se stesso. Così, le continue riforme
del mercato del lavoro e l’incentivazione al lavoro indipendente
e alla creazione di impresa che hanno caratterizzato trent’anni di
politiche neoliberali a livello europeo hanno presupposto e ge-
nerato allo stesso tempo la figura performativa dell’imprenditore
di se stesso, le cui condizioni di possibilità sono state contempo-
raneamente il consolidamento di un immaginario eroico dell’im-
prenditore31 e l’esistenza di dispositivi estremamente concreti di
governo del lavoro. La “razionalità start-up” sembra essere l’ulti-
mo episodio di questa recente vicenda storica, ma per compren-
derla criticamente sarà necessario ripercorrere questo andirivie-
ni fra condizione soggettiva e razionalità di governo facendo una
rapida digressione nella storia delle pratiche di produzione di
forme della soggettività attraverso il lavoro, per poi ritornare al
neoliberalismo e alla contemporaneità.

2. Curiosamente possiamo trovare una specie di antecedente sto-


rico all’attuale situazione di atomizzazione della forza-lavoro e di
riduzione di ciascun lavoratore a un imprenditore formalmente
indipendente che contratta la vendita della propria forza-lavoro
con i proprietari dei mezzi di produzione: il prefordismo. Nel corso
del XIX secolo, nell’Occidente in fase di industrializzazione, la rela-

30. T. Le Texier, Le management de soi, “Le Débat”, 183, 2015, pp. 75-86.
31. Su questo immaginario si veda C. Jones, A. Spicer, Unmasking the Entrepreneur,
Edgar Elder, Chelthenam 2009.

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zione del lavoratore con il datore di lavoro non rientra ancora nel
quadro di una relazione di subordinazione, e il contratto di lavoro
è in realtà un contratto individuale di natura commerciale che non
prevede necessariamente la concentrazione di manodopera nella
manifattura – vista come focolaio di pericoli morali, economici e
politici.32 La vera e propria subordinazione salariale deve ancora
essere inventata, così come la figura dell’operaio di fabbrica che
attraverserà il Novecento.
All’epoca, personaggi ibridi e inquieti popolano i luoghi della
produzione: l’“operaio-contadino”, più legato alla terra che alla
fabbrica e pronto a lasciarla non appena si presenti l’occasione;
l’“operaio delle popolazioni fluttuanti”, miserabile, senza legge,
e in continuo movimento; l’“operaio professionale”, indipenden-
te, dotato di savoir-faire ricercato ma “il cui talento è proporzio-
nale alla sua resistenza a ogni disciplina”.33 In questo momen-
to, i regolamenti di fabbrica fanno da supplenza a un contratto
di lavoro che non esiste ancora, ma in essi dimora un’ambiguità:
il datore di lavoro continua a considerare il lavoratore come un
imprenditore-appaltatore e la relazione di lavoro come una rela-
zione commerciale ordinaria, e tuttavia egli cerca di imporre un
rapporto di subordinazione attraverso la normatività dei regola-
menti di fabbrica.34
Il gioco non funziona, il potere del regolamento e dei sorve-
glianti si arresta sui cancelli dell’atelier, e nulla impedisce ai lavora-
tori di praticare ciò che Michel Foucault ha definito l’“illegalismo

32. G. Bloy, Un espace et un temps pour les ressources humaines: le rôle des règlements
d’atelier dans la formation du collectif de travail et de l’appartenance d’entreprise, “Entrepri-
se et histoire”, 26, 2000, p. 33; cfr. anche F. Ewald, L’État providence, Grasset, Paris 1986,
pp. 98-99.
33. G. Bloy, Un espace et un temps pour les ressources humaines, cit., p. 35. Cfr. anche
D. Poulot, Le Sublime, ou le travailleur comme il est en 1870 et ce qu’il pourrait être, con
un saggio di A. Cottereau, F. Maspero, Paris 1980; R. Castel, Le metamorfosi della questio-
ne sociale. Una cronaca del salariato (1995), a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, Sellino,
Avellino 2007; G. Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella sto-
ria italiana, Bruno Mondadori, Milano 2007; B. Scacciatelli, “Les sublimes, figure de l’au-
tonomie ouvrière”, in S. Bouquin (a cura di), Résistances au travail, Syllepse, Paris 2008,
pp. 67-78.
34. G. Bloy, Un espace et un temps pour les ressources humaines cit., p. 38.

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della dissipazione”: l’ozio, la pigrizia, il rifiuto del lavoro e della fa-
miglia, la festa, l’ebbrezza, il nomadismo.35 Il problema più grave
che il capitalismo deve affrontare agli albori dell’industrializzazio-
ne è quello di fissare “l’instabilità operaia”, ostacolarne il nomadi-
smo, “infeudare” una forza-lavoro mobile e recalcitrante all’inter-
no dell’impresa.36 I regolamenti di fabbrica agiscono “in esteriori-
tà”, sanzionando i comportamenti dannosi rispetto alla proprietà,
al capitale fisso del padrone, ma nulla possono sul piano del rap-
porto che i lavoratori intrattengono con se stessi e la propria forza-
lavoro. Essi non possono, per esempio, obbligare un operaio a la-
vorare più di quanto abbia strettamente bisogno per guadagnarsi
da vivere,37 né a moralizzare la propria condotta al di fuori del luo-
go di lavoro in modo da non disperdere le proprie energie al di là
del ciclo di produzione e riproduzione.
È un problema che concerne la volontà dell’operaio e le sue
abitudini, la sua “anima”:38 l’obiettivo delle istituzioni padrona-
li nella seconda metà del XIX secolo è quello di prendere in carico
l’intera esistenza del lavoratore e di dotarlo di quell’“essere che
gli manca e che solo potrà renderlo produttivo”.39 A questo com-
pito di supplenza psicologica risponde l’estensione nei luoghi di
lavoro delle tecniche disciplinari elaborate nei conventi, nell’e-
sercito, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri40 – e sarà l’inge-
gner Friedrick Winslow Taylor a dare una sistemazione organica
a tutti i tentativi di disciplina del lavoro che lo hanno preceduto

35. M. Foucault, La società punitiva. Corso al Collège de France, 1972-1973 (2013),


trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 203-213.
36. Cfr. R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale, cit., p. 306; F. Ewald, L’État
providence, cit., p. 119; Y. Moulier-Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato (1998), trad.
di L. Campagnano et al., Manifestolibri, Roma 2002, pp. 19-23.
37. Già Max Weber notava giustamente come la pratica del cottimo si scontrasse con-
tro la resistenza dei lavoratori che preferivano lavorare quanto bastava per soddisfare i
propri bisogni tradizionali. Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo
(1904-1905), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2011, pp. 82-83.
38. F. Ewald, L’État providence, cit., p. 120.
39. Ibidem; si veda anche P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx
(2012), trad. di G. Morosato, ombre corte, Verona 2013; A. Gramsci, Quaderno 22. Ameri-
canismo e fordismo, Einaudi, Torino 1977.
40. Si veda naturalmente M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione
(1975), trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993.

88
nel corso del XIX secolo.41 L’incorporazione di tali tecniche nel si-
stema macchinico fordista metterà a punto un paradigma di pro-
duzione e di controllo del lavoro operaio che – con tutti i suoi in-
toppi, riaggiustamenti, ricomposizioni42 – costituirà la cifra della
messa al lavoro degli uomini e delle donne per la maggior parte
del Novecento, senza peraltro mai scomparire del tutto.
Ma un dispositivo di controllo del lavoro e della produzione
che agisce all’interno di una più ampia razionalità di governo de-
gli individui non può limitarsi al piano microscopico del potere di-
sciplinare. Altre misure, di carattere più generale e macropoliti-
co, devono contribuire a fissare una certa “funzione soggetto” al-
la singolarità somatica43 facendo in modo che essa funzioni come
principio di individualizzazione e di organizzazione dei compor-
tamenti. Non solo l’individuo deve reperire nella disciplina del la-
voro gli strumenti per fabbricare le proprie buone abitudini e la
propria moralità, occorre anche che egli trovi la soddisfazione dei
propri bisogni, dall’alloggio alla salute, dall’istruzione dei suoi figli
a un invecchiamento e una morte dignitosi, nel lavoro produttivo.
Il magistrale lavoro di dissezione storica svolto da Robert Ca-
stel in Le metamorfosi della questione sociale – che affonda le
radici nel cantiere di ricerca sulla “società punitiva” aperto da
Foucault nel 1973 al Collège de France44 – situa puntualmente la
genealogia dello stato sociale e l’invenzione della società salariale
all’interno della tensione, tutta da mediare, fra l’istanza di mora-
lizzazione delle popolazioni attraverso il lavoro e la lotta di clas-
se che mira alla trasformazione rivoluzionaria della società.45 In

41. Cfr. F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro (1947), trad. di F. Garella, L.
Grandi, L. Zannini, ETAS, Milano 2004; M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015,
pp. 55-92.
42. Cfr. G. Maifreda, La disciplina del lavoro, cit.; M. Nicoli, Le risorse umane, cit., pp.
120-132.
43. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-1974 (2003),
trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, lezione del 21 novembre 1974.
44. Id., La società punitiva, cit.
45. R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale, cit., p. 319. Si possono vedere an-
che F. Ewald, L’État providence, cit.; J. Donzelot, L’invention du social. Essai sur le declin
des passions politiques, Fayard, Paris 1984; N. Rose, Governing the Soul. The Shaping of the
Private Self, Free Association Books, London 19992, pp. 61-79.

89
altri termini, la subordinazione oggettiva e soggettiva all’impre-
sa implicata dal rapporto di lavoro è compensata da un “contrat-
to psicologico” – per usare un termine che proviene dalle scienze
manageriali46 – che ripaga la dedizione al lavoro con strumenti di
riduzione dell’insicurezza e della precarietà dell’esistenza opera-
ia: la certezza del salario, l’accesso alle cure mediche, ai consumi
e alla proprietà immobiliare, la previdenza sociale ecc.
Dalla razionalizzazione del lavoro alle città operaie, dalle as-
sicurazioni alle casse di risparmio, dalla formazione alla pensio-
ne e fino ai contatti collettivi del lavoro, lo stato – spinto dalle
iniziative filantropiche padronali da un lato e dalle lotte operaie
per l’autogestione e il mutualismo dall’altro47 – si farà mediato-
re e garante in nome di un’istanza di stabilità che percorre la ra-
zionalità di governo liberale dominante in Occidente nel XX se-
colo. All’interno di questo “dispositivo di stabilità”,48 che arti-
cola l’uno sull’altro il piano microfisico della disciplina del lavo-
ro e quello macropolitico delle misure di governo che investono
la popolazione, si installa e si demoltiplica una forma della sog-
gettività incentrata sul primato della produttività49 e della pre-
stazione.
Il “principio di prestazione”, di cui per primo ha parlato Mar-
cuse in Eros e civiltà,50 si trova di fronte il personaggio del dissipa-
tore di cui parla Foucault nel 1973 e che costituisce il nemico della
letteratura edificante e delle misure padronali di governo dei lavo-
ratori nel XIX secolo, oltre che il protagonista della pamphlettisti-

46. D.M. Rousseau, Psychological Contracts in Organizations: Understanding Written


and Unwritten Agreements, Sage, Thousand Oaks 1995; M. Nicoli, L. Paltrinieri, “Qu’est-
ce qu’une critique transformatrice? Contrat psychologique et normativité d’entreprise”, in
C. Laval, L. Paltrinieri, F. Taylan (a cura di), Marx & Foucault. Lectures, usages, confronta-
tions, La Découverte, Paris 2015, pp. 323-338.
47. R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale, cit., p. 314; A. Gueslin, L’inven-
tion de l’économie sociale. Le XIXe siècle français, Économica, Paris 1987, pp. 115-149.
48. M. Nicoli, Le risorse umane, cit., pp. 103-119.
49. P. Macheray, Il soggetto produttivo, cit.
50. H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), trad. di L. Bassi, Einaudi, Torino 2001, pp. 80-
89; citato in F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017, pp.
47-53. Ringraziamo Federico Chicchi e Anna Simone per averci inviato in anteprima il lo-
ro libro, da cui abbiamo tratto molte idee e riferimenti.

90
ca anti-lavorista dell’epoca.51 L’esistenza scandalosa del dissipato-
re che attenta alla propria forza-lavoro si radica in tutto un modo
di esistenza, in forme collettive di rifiuto e di sabotaggio del lavo-
ro.52 Essa ostacola la sintetizzazione della vita in lavoro produttivo,
contesta la traduzione del principio di realtà in prestazione lavora-
tiva, sabota la naturalizzazione del lavoro come essenza dell’uomo.
Certo, il dissipatore, come il disertore, è un personaggio per-
dente, che si scioglie nel bagno di realtà del principio di prestazio-
ne. Ciò che per Marcuse è un più di repressione, un intensificatore
del principio di realtà che perpetua “la dominazione e la fatica del
lavoro”,53 e che per Foucault è piuttosto un “supplemento di codi-
ce” a funzione moralizzatrice,54 una procedura di individualizzazio-
ne, una tecnologia di produzione di sé ad alto gradiente disciplina-
re, si impone su scala globale nella società industriale e salariale. Le
associazioni popolari di lavoratori indipendenti e “uguali”, per la
produzione e per il consumo, create per esempio dagli operai fran-
cesi tra il 1848 e la Comune di Parigi per rifiutare la filantropia pa-
dronale e auto-organizzare in modo cooperativo e mutualistico le
proprie condizioni materiali di vita e di lavoro55 senza consegnarle
al principio di prestazione, saranno superate dalla funzione media-
trice dello stato sociale o riassorbite nel produttivismo dei sociali-
smi reali, mentre in Occidente l’invenzione del management scien-
tifico prepara l’avvento della società delle risorse umane.
Con l’invenzione della società salariale basata sul contratto di
lavoro subordinato e sui suoi supplementi d’anima, la relazione

51. È d’obbligo il riferimento a P. Lafargue, Il diritto all’ozio (1883), trad. di R. Rinal-


di, Feltrinelli, Milano 1971.
52. M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 207-208. Si veda anche S. Bouquin (a cu-
ra di), Résistances au travail, cit.
53. H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 83.
54. M. Foucault, La società punitiva, cit., pp. 307-308.
55. Si vedano G. Allegri, R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è
il nostro futuro: precari, autonomi, freelance per una nuova società, Ponte alle Grazie, Mila-
no 2013, pp. 151-164 e, degli stessi autori, La furia dei cervelli, manifestolibri, Roma 2011,
pp. 67-78. Si vedano inoltre: A. Gueslin, L’invention de l’économie sociale, cit., pp. 115-
149; La parole ouvrière. 1830-1851, testi scelti e presentati da Alain Faure et Jacques Ran-
cière, La fabrique, Paris 2007; J. Rancière, La nuit des proletaires. Archives du rêve ouvrier,
Fayard, Paris 2006; P. Rosanvallon, L’État en France de 1789 à nos jours, Seuil, Paris, 1990.

91
di lavoro smette di essere considerata una relazione di scambio
fra agenti liberi e diventa una relazione gerarchica e d’autorità
fra coloro che danno ordini (proprietà e management) e lavora-
tori dipendenti.56 Nello stesso tempo, nella vulgata economica e
manageriale del XX secolo, la razionalità spontanea del mercato
e la razionalità organizzatrice del governo dell’impresa sono per
lo più descritte come due logiche eterogenee e potenzialmente
contraddittorie, opposte fra loro come le caselle nere e bianche
di una scacchiera.57 Come scrive Alfred Chandler in The Visible
Hand, la mano del manager, diversamente dalla mano del merca-
to, è ben visibile, dal momento che il lavoro in azienda risponde
a ordini strutturati che provengono da un’autorità gerarchica.58
Eppure, come notava Bruno Trentin,59 che i lavoratori abbando-
nino i propri diritti di liberi cittadini sulla soglia dell’impresa per
accettare di entrare in un rapporto di subordinazione all’insegna
della prestazione non è cosa che vada da sé – e infatti deve esse-
re accompagnata da adeguati dispositivi di compensazione, dalla
certezza del reddito all’accesso ai consumi.
Il fatto che la relazione di lavoro sia pensata a partire dalla su-
bordinazione e dalla dipendenza rientra all’interno di quella se-
parazione fra sfera produttiva e riproduttiva che possiamo ritro-
vare – se seguiamo il filo della critica femminista del liberalismo
– fino all’interno dello spazio domestico sotto forma di divisio-
ne del lavoro maschile/femminile.60 L’individuo produttivo libe-
rale del XX secolo vive e lavora in un mondo strutturato in spazi

56. H.A. Simon, A Formal Theory of the Employment Relationship, “Econometrica”,


3, 1951, pp. 293-305. Simon sviluppa in questo articolo idee già proposte da R. Coase in
The Nature of the Firm (cfr. O.E. Williamson, S.G. Winter, The Nature of the Firm. Ori-
gins, Evolution and Developments, Oxford University Press, New York 1993).
57. Su questo punto, si veda M. Nicoli, L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri,
“aut aut”, 362, 2014, pp. 49-74.
58. A. Chandler, La mano invisibile. La rivoluzione manageriale nell’economia america-
na (1977), trad. di P. Morganti, Franco Angeli, Milano 1992.
59. B. Trentin, La città del lavoro. La sinistra e la crisi del fordismo, Feltrinelli, Mila-
no 1997.
60. Cfr. per esempio G. Fraisse, Les deux gouvernements: la famille et la Cité, Galli-
mard, Paris 2000; T. de Lauretis, Theorie queer et cultures populaires. De Foucault à Cro-
nenberg, la Dispute, Paris 2007, pp. 37-93; S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il
corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano-Udine 2015.

92
(e tempi) compartimentati: interno ed esterno della casa, privato
e pubblico, mercato e lavoro, spazio del consumo libero e spazio
del lavoro subordinato ecc. La razionalità liberale è una razionali-
tà della divisione, della separazione fra sfere distinte: essa assegna
esperienze e finalità in contraddizione a spazi separati. Governa
separando. In questo senso, la forma della soggettività che corri-
sponde a questa fase del liberalismo contiene (almeno) il due, è
divisa al suo interno: un soggetto delle istituzioni democratiche,
che è anche un soggetto economico, libero, razionale, autodeter-
minantesi sul mercato, e un soggetto lavoratore che accetta di es-
sere assoggettato e diretto una volta varcata la soglia dell’azienda.
Nel sistema capitalista della libera impresa, ogni individuo fa
contemporaneamente esperienza della subordinazione nel qua-
dro delle relazioni di lavoro produttivo o riproduttivo, e della
“libertà” in quanto consumatore in un mercato. La società libe-
rale che si incardina sul rapporto salariale e la relazione di la-
voro subordinato promette libertà, autonomia e democrazia –
nel quadro delle relazioni di scambio – nello stesso momento in
cui – nel quadro delle relazioni di lavoro – sottomette la vita alla
presa di un’autorità e di una forma di governo incompatibili con
i valori di democrazia e autodeterminazione.
In tale situazione, l’idea di soggettivazione forte espressa dal-
la nozione di “carattere” sembrerebbe una risposta alla minac-
cia schizofrenica rappresentata dal continuo passaggio attraver-
so tali spazi eterogenei. Il “carattere” come aggregato permanen-
te di aspetti emotivi, credenze, attitudini che determinano un ha-
bitus costituisce la verità da cercare al fondo dell’io, dal momen-
to che la vita quotidiana e “superficiale” non fornisce che delle
esperienze contraddittorie e disperse61 – da cui il proliferare di
“psicologie della profondità” che cercano la coerenza dell’io in
un’unità individuale situata al di sotto della superficie screziata

61. Sulla nozione di carattere si veda l’introduzione del libro di R. Sennett, L’uomo
flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1998), trad. di M. Ta-
vosanis, Feltrinelli, Milano 2006, e S. Haber, Au-delà du caractère. Sombart, Weber et la
question des racines subjectives de la participation au capitalisme, “Terrains/Théories”, in
corso di pubblicazione.

93
di un’esperienza disseminata in spazi e tempi separati. Ma il sog-
getto produttivo e prestazionale che rimbalza fra produzione e
consumo nella società industriale avanzata e dei “trenta gloriosi”
trova nelle faglie della sua stessa costituzione il modo di conte-
stare l’ordine delle cose che lo fa esistere come tale.62
In una delle scene finali del film di Elio Petri La classe opera-
ia va in paradiso, Lulù, il protagonista, si sbarazza dell’orribile e
inutile paccottiglia con cui ha riempito la casa grazie al suo lavo-
ro di operaio. Intuisce che questi oggetti, simboli dell’aspirazione
al benessere piccolo-borghese, l’hanno inchiodato all’esperienza
del lavoro alienato. Il rovescio della proprietà, della “libera con-
dotta” in quanto consumatore in un mercato, è l’accettazione del
rapporto di subordinazione del lavoro dipendente, quell’esisten-
za da operaio che Lulù, passato dallo stakanovismo allo sciope-
ro a oltranza, ormai rigetta integralmente. Il rifiuto del lavoro e lo
spettro della dissipazione si manifestano ancora una volta contro
il lavoro produttivo e la sua mise en abîme attraverso il consumo.
Le teorie e le pratiche di autogestione così come l’esperienza
dell’esercizio della democrazia nei luoghi di lavoro nel corso de-
gli anni sessanta – a cui il film si ispira – e settanta erano del resto
fondate sull’utopia di un’esplosione di quelle distinzioni e sul-
la conseguente liberazione del soggetto dall’andirivieni fra la sfe-
ra del lavoro e quella del consumo. Tuttavia, più ancora dei mo-
vimenti di liberazione del/dal lavoro di quegli anni, sarà il neo-
liberalismo – insieme alle trasformazioni dell’impresa neoliberale
– che riuscirà a confondere le separazioni che hanno strutturato
l’esistenza del soggetto produttivo novecentesco.

3. Prima di tutto, se definiamo l’impresa come quello spazio


separato dal mercato la cui organizzazione è fondata sulla su-
bordinazione gerarchica, il neoliberalismo è stato il suo primo
agente di distruzione.63 In effetti, il costruzionismo neoliberale

62. M. Nicoli, Le risorse umane, cit., pp. 133-140.


63. Cfr. L. Paltrinieri, Managing Subjectivity. Neoliberalism, Human Capital and Em-
powerment, “Fudan Journal of the Humanities and Social Sciences”, in corso di pubbli-
cazione.

94
ha mostrato come “la frontiera edificata tra la cooperazione
organizzativa e la competizione sui mercati non è un dato di
natura”,64 e quando l’impresa inizia a essere teorizzata – come nel
caso della “teoria dell’agenzia” – come un “nodo di contratti”,
allora l’opposizione fra un “dentro” dell’impresa e un “fuori” del
mercato non ha più ragion d’essere.65 E la teoria, del resto, non
fa che riflettere la finanziarizzazione delle grandi corporations e
il trionfo dell’azionariato e della valorizzazione a breve termine,
la delocalizzazione della produzione materiale e la logica delle
esternalizzazioni, la disseminazione delle attività di ricerca e
sviluppo, marketing e vendita lungo una catena di valore ormai
interamente globalizzata.66
Tutto ciò determina delle conseguenze paradossali. Da un la-
to, la governance dell’impresa ricalca sempre di più il modello
della concorrenza e del mercato: piuttosto che tendere all’inte-
grazione verticale delle diverse fasi della produzione e della di-
stribuzione, le unità di produzione vengono messe in competi-
zione fra loro per migliorare la performance.67 Dall’altro lato, si
tende a un alleggerimento delle gerarchie attraverso la messa in
opera di pratiche “collaborative” e “cooperative”, attraverso le
quali si conferiscono quote sempre più ampie di autonomia ai la-
voratori.68 L’“intra-imprenditorialità”, per esempio, intende in-
coraggiare la pratica di creazione d’impresa da parte dei lavora-
tori dipendenti di grandi gruppi, trasformandoli di fatto in lavo-
ratori salariati indipendenti.69

64. I. Bruno, “Quand s’associer c’est concourir. Les paradoxes de la coopétition”, in


F. Cochoy (a cura di), Du lien marchand: comment le marché fait société. Essai(s) de socio-
logie économique relationniste, Presses Universitaires de Mirail, Toulouse 2012, pp. 54-78.
65. M. Jensen, W. Meckling, Theory of the Firm: Managerial Behaviour, Agency Cost
and Ownership Structure, “Journal of Financial Economics”, 4, 1976, pp. 305-360.
66. G.F. Davis, The Vanishing American Corporation. Navigating the Hazards of a New
Economy, Berret-Koheler Publishers, New York 2016.
67. M. Aoki, Horizontal vs Vertical Information Structure of the Firm, “American Eco-
nomic Review”, 5, 1986, pp. 971-983.
68. Per fare un solo esempio, cfr. il best-seller di B.M. Carney e I. Getz, Liberté & Cie.
Quand la liberté des salariés fait la bonheur des entreprises, Fayard, Paris 2012.
69. Cfr. P. Malizia, Non solo soft. Attori, processi, sistemi: un approccio sociologico,
Franco Angeli, Milano 2003; J. Morgan, Il futuro del lavoro. Le persone, i manager, le im-
prese (2014), trad. a cura di ADAPT, Franco Angeli, Milano 2016.

95
Se il taylorfordismo si appropriava dei saperi operai per inte-
grarli nelle procedure produttive prescritte e adattare ogni gesto
alla cadenza della macchina industriale, il “neomanagement” a
marca neoliberale insiste piuttosto sull’autonomia e la responsa-
bilizzazione dei lavoratori, facendo appello al loro spirito di ini-
ziativa e di impresa. Non si tratta più di spogliarli dei loro sape-
ri, quanto di accrescere le loro “competenze” e di attribuire loro
maggiori margini di manovra e decisione, quando non di promuo-
vere la self-leadership. Come noto, le teorie manageriali descrivo-
no questo processo con il nome di empowerment, termine preleva-
to dai movimenti radicali di emancipazione che designa il proces-
so di acquisizione di potere decisionale da parte dei lavoratori.70
Questa trasformazione si situa nel contesto delle politiche neo-
liberali del lavoro fondate sulla teoria del “capitale umano”, se-
condo cui più l’individuo consuma prodotti e attività culturali, più
arricchisce il proprio spirito dentro e fuori i luoghi di lavoro, più
egli aumenta il valore del proprio portafoglio di competenze rela-
zionali, culturali, emotive – ovvero le soft skills che costituiscono
ormai l’atout più ricercato dalle imprese e dal management.71
Costruito ad hoc contro Marx e la contraddizione fondamen-
tale fra capitale e lavoro, il concetto di capitale umano è fonda-
to sulla circolarità di una risorsa – la risorsa umana – che ha una
capacità pressoché magica di autovalorizzazione: più la si impie-
ga, più essa si valorizza, in una confusione crescente fra lavoro e
formazione.72 La nozione di risorsa umana fa evaporare la distin-
zione fra spazio domestico e spazio professionale, vita privata e

70. M.-H Bacqué, C. Biewer, L’empowerment, une pratique émancipatrice, La Décou-


verte, Paris 2013; J. Rappaport, In Praise of Paradox: A Social Policy of Empowerment Over
Prevention, “American Journal of Community Psychology”, 1, 1981, pp. 1-25; in italiano,
C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona, Raf-
faello Cortina, Milano 1995.
71. Ernst & Young Advisory (rapporto), La révolution des métiers – Nouveaux métiers,
nouvelles compétences: quels enjeux pour l’entreprise?, 2016, p. 23, <ey.com/Publication/
vwLUAssets/EY-revolution-des-metiers/$FILE/EY-revolution-des-metiers.pdf>.
72. Cfr. L. Paltrinieri, “Biopolitics in the twenty-first century. The Malthus-Marx de-
bate and the human capital issue”, in P. Bonditti, D. Bigo, F. Gros, Foucault and the Mo-
dern International. Silences and Legacies for the Study of World Politics, Palgrave MacMil-
lan, New York 2017, pp. 255-274.

96
vita professionale, dal momento che il capitale umano si valoriz-
za senza sosta e dappertutto, all’esterno del luogo di lavoro e an-
cora di più attraverso le tecnologie informatiche. Il management
neoliberale introduce nel regno della subordinazione il principio
di scelta tipico dell’agire soggettivo nel mercato, per fare del la-
voro un’esperienza di realizzazione in cui l’individuo si gioca il
senso di tutta la propria esistenza. Il lavoro indipendente e l’im-
prenditorialità divengono, a partire da questo momento, non so-
lo un rimedio più o meno esplicito alla disoccupazione e alla cri-
si dell’impiego, ma anche le avanguardie profetiche di una nuova
economia in grado di superare finalmente la contraddizione fra
capitale e lavoro.73
Le critiche alla concezione foucaultiana della governamen-
talità neoliberale che rimproverano a Foucault di aver fret-
tolosamente appiattito quest’ultima sulla figura della “libera
impresa”74 o di aver accolto senza riserve l’idea di un governo in-
diretto come alternativa governamentale al sistema disciplinare
incorporato dall’État providence,75 evitano precisamente la que-
stione centrale della natura individuale dell’iniziativa nella sua
articolazione con la soggettivazione neoliberale. L’iniziativa in-
dividuale dei neoliberali, infatti, non sorge da una piena liber-
tà soggettiva infine ritrovata al di là di qualsiasi determinazio-
ne disciplinare: se, nelle analisi di Sorvegliare e punire, le disci-
pline costituivano il “sottosuolo delle libertà formali e giuridi-
che” dell’individuo liberale,76 la “libertà” di scelta dei neoliberali
si incarna in una nuova forma di cittadinanza economico-politi-
ca, quella dell’“imprenditore di sé”77 che gestisce la propria vi-

73. Si veda lo studio del McKinsey Global Institute sul lavoro indipendente, Indipen-
dent Work: Choice, Necessity and the Gig Economy, Full report, 2016, citato in F. Chicchi,
A. Simone, La società della prestazione, cit., pp. 100-103.
74. S. Audier, Néo-libéralisme(s). Une archéologie intellectuelle, Grasset, Paris 2012,
pp. 22-34.
75. G. de Lasganerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la
théorie et la politique, Fayard, Paris 2012.
76. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 242.
77. Cfr. Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004),
trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 176-193; Cfr. anche U. Brökling,
The Entrepreneurial Self: Fabricating a New Type of Subject, Sage, Los Angeles 2015.

97
ta come un’impresa, ovvero applicando alla sua stessa esisten-
za i principi della gestione razionale del lavoro inventati all’inter-
no dell’impresa capitalista, fino alla sovrapposizione della vita e
dell’impresa.
Secondo le nuove tecniche manageriali, ogni individuo è chia-
mato a trasformarsi in manager di se stesso, a conoscersi, a con-
trollarsi, a organizzarsi per essere più efficace e performati-
vo nel lavoro ma anche e soprattutto nella vita. Occorre dun-
que apprendere a gestire in modo manageriale i comportamen-
ti, le emozioni, le motivazioni, le competenze; ad autogovernarsi
e autovalutarsi incessantemente, a porsi sempre nuovi obiettivi,
a costruire il proprio network.78 Come ha scritto André Gorz, la
principale forma di valorizzazione dell’economia neoliberale è la
produzione di sé, vale a dire “prodursi come attività vivente, co-
me individuo-impresa e quindi come lavoratore performante, nel
lavoro come nello sport, nell’attività ludica o nell’attività artisti-
ca, attraverso tutte le attività attraverso le quali si cerca di realiz-
zarsi e si apprende a competere con gli altri”.79
A questo punto, una volta venuta meno la centralità della fab-
brica fordista e del contratto di lavoro a tempo indeterminato, il
principio di prestazione si riannoda a un altro elemento moraliz-
zante che percorre la storia del capitalismo: la weberiana “ascesi
intramondana”. È noto come per Weber il lavoro in quanto vo-
cazione, Beruf, e la sua autodisciplina non solo promuovono la
produttività e l’efficacia capitalista del lavoro, ma costituiscono
anche la professione come una sorta di “tecnologia del sé” – per
dirla con Foucault – che permette a ciascun individuo di rispon-
dere all’angosciosa domanda che concerne l’identità e il proprio
posto nella società. Il lavoro produttivo indefesso come condotta
di vita è il solo mezzo per acquisire la consapevolezza della pre-

78. T. Le Texier, Le management de soi, cit. Cfr. anche M. Zangaro, Subjectividad y tra-
bajo. Una lectura foucaltiana del management, Herramienta Ediciones, Buenos Aires 2011.
79. A. Gorz, La personne devient une entreprise. Note sur le travail de production de soi,
“Revue du MAUSS”, 18, 2001, pp. 61-66.

98
destinazione e dello stato di grazia, evacuando l’angoscia del non
sapere se si sarà salvati o meno.80
In modo simile, in epoca neoliberale – nel momento in cui
ciascuno è sollecitato a divenire imprenditore di se stesso –, la
vocazione etica del lavoratore, il successo e la realizzazione nel
lavoro come epifania della grazia prendono la forma della gestio-
ne oculata di sé e del proprio capitale umano, della produzione
di se stessi come soggetti di una performance di successo.81 Le
tecnologie neomanageriali non costituiscono soltanto una mo-
dalità di implementazione delle prestazioni dell’impresa: esse di-
vengono, per l’individuo, un’occasione e una promessa di realiz-
zazione, un pacchetto di strumenti per lavorare su se stessi, per
fabbricare un’autentica “immagine di sé” da offrire al riconosci-
mento – o all’invidia – altrui.
Come abbiamo cercato di argomentare altrove,82 i termini di
quel contratto psicologico che nella società salariale scambiava
fedeltà all’impresa con certezza dell’impiego mutano per offri-
re, in cambio del lavoro indefesso che non ammette alcuna dis-
sipazione di energie, la possibilità di prodursi, autentificarsi e ri-
conoscersi come imprenditore ed efficace manager di sé e del-
la propria esistenza. Non a caso, il processo storico di estensio-
ne globale della razionalità di governo neoliberale incentrata
sull’imprenditore di sé si dispiega parallelamente a quella “cultu-
ra del narcisismo”83 e a quella “tirannia dell’intimità”84 che regi-
strano l’invasione della società da parte dell’Io – la lacaniana “Io-
crazia”85 –, oltre che un prepotente ritorno sulla scena dell’Auto-
re, dell’autobiografia, dell’esame di sé e della confessione in let-

80. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., pp. 214-237.
81. Cfr. su questo punto i saggi contenuti in E. Pezet (a cura di), Management et con-
duite de soi. Enquête sur les ascèses de la performance, Vuibert, Paris 2007. Cfr. anche M. Ni-
coli, L’etica del lavoro intellettuale e lo spirito del capitalismo, “aut aut”, 365, 2015, pp. 7-20.
82. M. Nicoli, L. Paltrinieri, Qu’est-ce qu’une critique transformatrice?, cit.
83. C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disil-
lusioni collettive (1979), trad. di M. Bocconcelli, Feltrinelli, Milano 1995.
84. R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico (1976), trad. di F. Gusmeroli, Bruno Mon-
dadori, Milano 2006.
85. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991),
a cura di A. Di Ciaccia, trad. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 72.

99
teratura e in politica, dove la lotta per la trasformazione della
società sublima neanche troppo pudicamente in sforzo per la re-
alizzazione di se stessi.
Insomma, come scrivono Federico Chicchi e Anna Simone,
“nel capitalismo neoliberale il principio di prestazione entra a
far parte dell’agire soggettivo attraverso l’interiorizzazione di re-
sponsabilità individuale; tale responsabilità è in primo luogo ri-
volta nei confronti della propria dotazione di capitale umano, che
deve essere continuamente rinnovato, accresciuto e ricostituito,
nelle sue diverse componenti qualitative, a seconda delle esigen-
ze che di volta in volta il mercato richiede”.86 Tutto – o molto
– cambia rispetto alle figure tradizionali della società industria-
le novecentesca, ma uno degli effetti della razionalità di gover-
no neoliberale – forse il principale – resta l’assoggettamento del
tempo della vita al tempo del lavoro produttivo, la trasformazio-
ne della vita in una forza-lavoro che nel frattempo si è fatta hu-
man capital e human resource, la diffusione in tutti gli strati del-
la società – a cominciare dal lavoro intellettuale87 –, di quell’anti-
co culto del lavoro (e della performance) che traduce in senso di
colpa ogni istante rubato al lavoro indefesso.
Dissipare il proprio capitale umano, sottrarsi all’imperati-
vo della sua valorizzazione, resta il peccato più grave, o quan-
to meno un gesto orrendo di auto-sabotaggio, sanzionato dal
punto di vista economico, stigmatizzato dal punto di vista mora-
le. Per di più, quando diventa difficile distinguere il lavoro co-
me impiego destinato a produrre un reddito dal lavoro asceti-
co di produzione di sé, quando le trasformazioni cosiddette co-
gnitive del lavoro, l’incertezza occupazionale e il bisogno di ag-
giornare continuamente la propria dotazione di capitale umano
che traluce nel curriculum producono un rinnovato “attacca-
mento al lavoro”,88 quest’ultimo diventa ultra-lavoro – “lavo-

86. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, cit., pp. 68-69.


87. Cfr. il fascicolo monografico di “aut aut”, 365, 2015, intitolato Intellettuali di se
stessi, a cura di D. Gentili e M. Nicoli.
88. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, cit., p. 91.

100
ro smisurato”,89 nel doppio senso che non finisce mai e che è
impossibile da misurare secondo le tradizionali teorie del va-
lore. È il motivo per cui in anni recenti si è parlato di “ultra-
soggettivazione”90 in merito al soggetto di prestazione neolibe-
rale e autoimprenditoriale: una fabbricazione di soggettività che
non tende tanto a un solido e stabile possesso di sé – e a un dif-
ferimento del godimento – quanto a un continuo al di là, a un
infaticabile superamento di sé, a un’iperattività in cui risiede il
godimento stesso.
Eppure, anche questa volta, la forma egemone della soggettività
si incrina, è forata, come probabilmente la fase specifica del neo-
liberalismo che l’ha creata.91 La crisi che la colpisce è una crisi di
stanchezza – di più – l’imprenditore di sé è esausto.92 L’ultra-lavo-
ro (su di sé) neoliberale e la corsa frenetica alla performance pro-
ducono sintomaticamente un plus di iperattività, di “bulimia di la-
voro” di “bougisme”:93 avere un’agenda ingolfata di impegni pro-
fessionali è motivo di vanto, e mostrarsi nelle reti sociali alle pre-
se con estenuanti carichi di lavoro è una specie di pratica di inte-
grazione sociale. Ma questo tipo di rilancio sull’ultra-lavoro non
rappresenta che l’altra faccia degli “infarti psichici del soggetto di

89. Ivi, pp. 98 e 106.


90. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, cit., p. 449.
91. Un articolo di Jonathan Ostry, Prakash Loungani e Davide Furceri, pubblicato su
“Finance & Development” alla fine di maggio 2016 e significativamente intitolato Neolibe-
ralism, Oversold? ha suscitato un certo dibattito negli ambienti economici. Gli autori, tut-
ti economisti del Fondo monetario internazionale, esprimono più di qualche dubbio sulle
politiche di austerità, di deregulation del mercato del lavoro e di “liberazione” dei flussi fi-
nanziari che l’FMI predica da anni in tutto il mondo, evidenziando gli effetti politici ed eco-
nomici nefasti dell’agenda neoliberale in molti paesi. L’articolo riflette peraltro dibattiti che
da tempo si svolgono all’interno dell’FMI, ed è significativo il fatto che la categoria “neo-
liberalismo” sia impiegata in senso critico al di fuori degli ambienti della critica militante.
Si vedano: J.D. Ostry, P. Loungani, D. Furceri, Neoliberalism, Oversold?, “Finance & De-
velopment”, giugno 2016, pp. 38-41; S. Donnan, IMF Economists Put Neoliberalism Under
the Spotlight. Is the Fund Throwing Darts at Wider Area of Economic Orthodoxy?, “Finan-
cial Times”, 26 maggio 2016; A. Chakrabortty, You’re Witnessing the Death of Neoliberalism
– from Within, “The Guardian”, 31 maggio 2016.
92. Cfr. R. Ciccarelli, L’emergenza delle nostre vite minuscole, “aut aut”, 365, 2015, pp.
37-53.
93. C. Dejours, Le choix. Souffrir au travail n’est pas une fatalité, Bayard, Montrouge
2015, p. 53 (citato in F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, cit.). Cfr. anche, del-
lo stesso autore, Souffrance en France. La banalisation de l’injustice sociale, Seuil, Paris 2009.

101
prestazione”,94 delle sue depressioni e della sua conseguente (au-
to)medicalizzazione.95 Inchiodato alla responsabilità individuale
della valorizzazione del proprio capitale umano, l’imprenditore di
sé – ben lungi dal mettere in discussione il contesto sociale ed eco-
nomico in cui opera e a cui invece sceglie di adeguarsi – soggettiva
il proprio fallimento e si deprime, si medicalizza e, se ci riesce, ri-
comincia con un ulteriore supplemento di iperattività.
In questa fase di crisi di stanchezza che potrebbe ostacolare
l’accelerazione dei processi di valorizzazione capitalista, se non
alimentare pratiche collettive di ripensamento delle forme di
produzione e distribuzione della ricchezza – come il reddito di
base incondizionato –, occorre sostenere e incentivare il rilan-
cio sull’ultra-lavoro o, al limite, favorire processi di cambiamen-
to e di riconversione professionale che restino a un livello impo-
litico e strettamente individuale, esistenziale, se non spirituale. È
qui che incontriamo la razionalità start-up da cui siamo partiti,
quella che meglio corrisponde alla ultra-soggettivazione neolibe-
rale del cambiamento, dell’innovazione e del superamento di se
stessi, quella capace di accogliere e valorizzare nel suo immagi-
nario il fallimento come cifra del successo a venire, trasformando
persino una citazione di Samuel Beckett in uno slogan del nuo-
vo management del sé: “Ever tried. Ever failed. No matter. Try
again. Fail again. Fail better”.96

4. Il già citato best-seller The Start-Up of You di Reid Hoffman e


Ben Casnocha si apre con la seguente constatazione: “Siamo tutti
imprenditori non perché dobbiamo avviare un’impresa ma per-
ché la volontà di creare fa parte del nostro DNA, e la creazione è
l’essenza dell’imprenditoria”. E subito dopo: “Nel corso dei secoli

94. A. Simoncini, “Spettacolo. Vecchi e nuovi scenari dello spettacolo”, in S. Cingari,


A. Simoncini (a cura di), Lessico post-democratico, Perugia University Press, Perugia 2016,
p. 116 (citato in F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, cit.).
95. Cfr. A. Ehrenberg, “Nervosité dans la civilisation: du culte de la performance à
l’effondrement psychique”, in Y. Michaud (a cura di), L’individu dans la société d’aujour-
d’hui, Odile Jacob, Paris 2002.
96. Cfr. A. Gerosa, A. Arvidsson, Start-Up in Italia: limiti e potenzialità, cit. e N. Beau-
man, Fail Worse, “The New Inquiry”, 9 febbraio 2012.

102
ci siamo dimenticati di essere imprenditori. Ci siamo comportati
come lavoratori”.97 Ma gli autori non si fermano a questa (non
originale) naturalizzazione della condizione imprenditoriale: è
necessario tutto un lavoro su di sé per superare la pura e semplice
imprenditoria e fare propria una nuova condizione in cui la vita e
la carriera sono concepite come delle “start-up” in piena crescita.
Bisogna, prima di tutto, imparare a considerare la propria vi-
ta come un work-in-progress, un’opera di continuo perfeziona-
mento di sé, come tale destinata a restare incompiuta. Bisogna,
inoltre, concentrarsi quotidianamente su di sé per migliorare le
proprie competenze e capacità: anche qui il lavoro è senza fine e
presuppone la capacità di conciliare gli obiettivi esistenziali con
la flessibilità necessaria ad adattarsi ai continui cambiamenti del
mercato delle competenze. Bisogna, infine, saper accettare il ri-
schio come aspetto essenziale dell’esistenza che espone inevita-
bilmente quest’ultima alle dimensioni dell’incertezza e dell’im-
previsto. “Trasformarsi o morire”, “uscire dai sentieri battuti”,
“vivere nell’incertezza, nel rischio, nell’innovazione continua e di
rottura”, avere “la capacità di cambiare radicalmente se stessi”,
essere “sempre in stato di urgenza” e all’interno di un cantiere
permanente di sviluppo personale, e poi energia, resistenza allo
stress, fatica, solitudine, individualismo, adrenalina, entusiasmo,
visione, talento, audacia, creatività – questi alcuni dei ritornelli
della copiosa manualistica elaborata da esperti, giornalisti, “im-
prenditori seriali”, consulenti, startuppers di successo.98
Certo, si tratta di un insieme di consigli assai banali, tipici di
quei manuali di self-help che rappresentano la caricatura post-mo-

97. R. Hoffman, B. Casnocha, The Start-Up of You, cit., p. 3.


98. Qualche titolo, oltre a quello di Hoffman e Casnocha: S. Blank, B. Dorf, Start-Up:
guida alla creazione di imprese innovative (2012), trad. di B. Festini, EGEA, Milano 2013; P.
Carreras, Lancer sa start-up aux États-Unis, Eyrolles, Paris 2016; E. Ries, Partire leggeri: il
metodo Lean Startup. Innovazione senza sprechi per nuovi business di successo (2011), trad.
di M. Vegetti, ETAS, Milano 2012; J.-L. Beffa, Se transformer ou mourir. Les grands groupes
face aux start-up, Seuil, Paris 2017; J.-B. Rudelle, On m’avait dit que c’était impossible. Le
manifeste du fondateur de Criteo, Stock, Paris 2015; A. Tsagliotis, Start-up attitude, Dunod,
Paris 2017. Particolarmente interessante è S. Bourguignon, Portraits de startupers #2017,
Maxima-Laurent du Mesnil éditeur, Paris 2017, che raccoglie ventotto contributi di perso-
nalità dell’ecosistema start-up e ottantanove “autoritratti” di startuppers francesi.

103
derna delle antiche “arti di vivere”. Tuttavia manifestano una tra-
sformazione essenziale dell’impresa di sé neoliberale: qui non si
tratta tanto di gestire in modo manageriale ogni aspetto della vita
secondo un calcolo costi-benefici, di pianificare la propria esisten-
za per ottenere risultati misurabili e raggiungere obiettivi consape-
volmente fissati attraverso un esercizio di autocontrollo, quanto di
accettare di esporre il proprio capitale individuale al rischio specu-
lativo. La scelta delle parole non è innocente: laddove l’“impresa
di sé” degli anni ottanta rinviava pur sempre alla costruzione di un
Io solido e destinato a permanere nel tempo, il significante “start-
up” rimanda all’incompiutezza della sperimentazione.
Come detto all’inizio, infatti, la vocazione di una start-up non
è quella di durare istituendosi e consolidandosi nel tempo, bensì
di restare allo stadio di progetto sperimentale e di pura virtuali-
tà prima di essere scalata, venduta – e non le si chiede nemmeno
di generare profitti, ma piuttosto rendita finanziaria. È per que-
sto che per Hoffman e Casnocha, l’investitore del proprio capi-
tale umano, fisico e sociale, non è tanto un individuo parsimo-
nioso e calcolatore, concentrato sul suo career plan, quanto uno
sperimentatore del cambiamento continuo; in un mondo che si
trasforma incessantemente, la conoscenza di sé e delle proprie
passioni così come il proprio progetto di carriera non possono
più fondarsi sull’introspezione: l’identità personale si costruisce
piuttosto attraverso la sperimentazione.99
Queste considerazioni di ordine “eroico”, insieme alle testi-
monianze offerte dalla già fiorente “memorialistica” start-up, ci
segnalano i tratti di un nuova forma della soggettività i cui lavori
di costruzione sono in corso. Una volta di più, l’idea dell’esisten-
za di una verità inconscia che minaccia la padronanza del sogget-
to è evacuata, e accanto alla “soggettività verticale” che cerca di
raggiungere la verità della propria esistenza attraverso l’indagi-
ne psicologica, emerge una sorta di modello orizzontale di uni-
ficazione e articolazione di molteplici esperienze d’investimento
su di sé. Laddove l’ordine psichico si fondava su un’unità indivi-

99. R. Hoffman, B. Casnocha, The Start-up of You, cit.

104
duale da cercare nelle profondità del sé al di là delle separazio-
ni strutturanti la vita quotidiana, il soggetto start-up deve creare
un’unità superficiale, un sé sperimentale la cui verità non sareb-
be celata nelle profondità della struttura psichica, ma risiedereb-
be nella capacità di gestire “in superficie” molteplici progetti esi-
stenziali, di coordinare sul piano orizzontale del project manage-
ment gli investimenti e le performance. Il virgiliano “Flectere si
nequeo superos, Acheronta movebo” ripreso da Freud come in-
segna della psicoanalisi100 è ribaltato, o piuttosto appiattito: la ve-
rità del soggetto non è il frutto né di una discesa, né di uno sca-
vo, essa ha piuttosto la forma di un obiettivo da raggiungere nel
futuro, della remunerazione degli investimenti effettuati su di sé.
Il concetto di investimento e quello di indebitamento, che gli
è fratello, sono decisivi. Se il valore di un capitale – come inse-
gnava già nel 1906 Irving Fisher, padre della teoria quantitativa
della moneta e profeta dell’attualizzazione – va calcolato a parti-
re dai flussi di reddito futuri che è in grado di generare,101 il va-
lore di un capitale umano dipenderà dalla capacità del soggetto
di gestire il proprio portfolio di investimenti su di sé. Ciò rende
la gestione dei rischi uno dei capitoli fondamentali della manage-
rializzazione del “sé orizzontale”.
In una società che si presenta meno come una “immensa ac-
cumulazione di merci” che come una collezione diversificata di
titoli di investimento,102 ogni individuo dovrà essere in grado di
diversificare i propri investimenti su di sé e di assumere l’incer-
tezza costitutiva della propria condizione come un’opportunità
di investimento speculativo più che un pericolo da fuggire. Al-
lo stesso modo, il debito e l’indebitamento – per quanto da ri-
connettere al senso di colpa cristiano e alla sussunzione della vi-

100. E citato da Michel Foucault all’inizio di Nascita della biopolitica, cit., p. 13, ol-
tre che in La volontà di sapere (1976), trad. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Mila-
no 1998, pp. 70-71.
101. I. Fisher, La natura del capitale e del reddito (1911), prima traduzione italiana au-
torizzata dall’autore, UTET, Torino 1922.
102. I. Ascher, Portfolio Society. On the Capitalist Mode of Prediction, Zone Books,
New York 2016.

105
ta al potere della finanza103 – si colloca all’interno dell’orizzonte
della sperimentazione e della presa di rischio del soggetto start-
up: non c’è innovazione di successo senza la postura sperimenta-
le dell’investitore, e non c’è sperimentazione possibile senza che
il rischio dell’indebitamento non sia compreso come un’oppor-
tunità di valorizzazione. Non è certo per caso che l’indebitamen-
to è divenuto una prassi assolutamente normale per finanziare i
propri studi, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma non solo: in
quanto apertura di uno spazio “vuoto” e rischioso, esso assume
la funzione pedagogica di rendere possibile la presa di rischio
che trasforma l’individuo neoliberale in soggetto.104
Certo, la scatola di attrezzi della soggettività neoliberale com-
prende ancora strumenti per la ricerca interiore e l’esplorazione
di sé, così come una topologia dell’alto e del basso, della super-
ficie e della profondità, del falso e del vero sé che si distribuisco-
no in verticale – materia che alimenta senza sosta la psicologiz-
zazione e la terapeutizzazione della società, così come i coaching
ad alto coefficiente psy che non hanno abbandonato le psicologie
della profondità. Tuttavia, la ricerca del sé, la sua costruzione, la
sua messa in discorso, così come il soddisfacimento degli appeti-
ti narcisistici, si collocano sempre di più sul piano della gestione
orizzontale di progetti e di investimenti diversificati.
Per restare all’interno della metafora dei piani geometrici, ci
sembra che sia all’opera una torsione del tradizionale piano ver-
ticale della soggettività verso l’orizzontalità di un sé che si rico-
nosce autenticamente come superficie di un investimento conti-
nuo – il che è l’autentica verità profonda che si scopre e si risco-
pre attraverso l’ultra-lavoro di realizzazione di sé. Dopo le cop-
pie dentro/fuori, obbedienza/disobbedienza, assoggettamento/
soggettivazione, la razionalità neoliberale confonde la coppia su-

103. Cfr. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoli-
berista (2011), trad. di A. Cotulelli e E. Turano Campello, DeriveApprodi, Roma 2012; E.
Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011, e della stessa
autrice, Debito e colpa, Ediesse, Roma 2015.
104. Cfr. J.-F. Bissonnette, Du tremplin au levier: de l’endettement spéculatif des étu-
diants dans l’université néolibérale, “Terrains/Théories”, in corso di pubblicazione; J. Wil-
liams, The Pedagogy of Debt, “College Literature”, 4, 2006, pp. 155-169.

106
perficie/profondità deformando la topologia classica della sog-
gettività verticale – o, meglio, proiettando la verticalità di un sog-
getto tradizionalmente organizzato secondo una superficie visibi-
le e un fondo invisibile su un piano orizzontale di creazione con-
tinua di start-up esistenziali. La questione della verità del sog-
getto non è certo obliterata, ma ricollocata, in questa torsione
tra verticale e orizzontale, a livello della capacità individuale di
investire su di sé. Del resto, già l’ascesi intramondana descrit-
ta da Weber era – se vogliamo – una specie di paradossale ascesi
orizzontale, nella misura in cui non incontrava la consapevolez-
za della grazia nell’abisso di una profondità ignota, ma nell’este-
riorità delle opere, della realizzazione di sé, del successo e – oggi
– della performance e del circolo, che si vorrebbe virtuoso, debi-
to-investimento.
Insomma, nell’epoca della razionalità start-up, ci sembra che
la governamentalità neoliberale risponda alla crisi del soggetto-
imprenditore con: 1) un rilancio sulla questione cruciale dell’in-
vestimento su di sé – da cui la moltiplicazione dei dispositivi di
valutazione meritocratica105 in grado di restituire all’individuo
una misura della remunerazione degli investimenti effettuati, sul
modello della valutazione finanziaria;106 2) una modellizzazione
psicologica del soggetto come gestore multitasking107 di una suc-
cessione di diversi e complessi progetti esistenziali da articolare
e coordinare nello stesso tempo108 – da cui l’invenzione di nuove
tecnologie di quantificazione e minuziosa tracciabilità del sé in
grado di coadiuvare l’individuo nel suo sforzo di gestione e (au-

105. Cfr. V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012; “aut aut” ha dedicato al
tema della valutazione il fascicolo 360 del 2013, All’indice. Critica della cultura della valuta-
zione, a cura di Alessandro Dal Lago.
106. Cfr. L. Paltrinieri, Quantifier la qualité. Le “capital humain” entre économie, démo-
graphie et éducation, “Raisons politiques”, 52, 2013, pp. 89-107; M. Feher, S’apprécier, ou
les aspirations du capital humain, “Raisons politiques”, 28, 2007, pp. 11-31.
107. B.-C. Han, La società della stanchezza (2010), trad. di F. Buongiorno, Nottetem-
po, Roma 2012.
108. Della vita come successione di progetti avevano già parlato Luc Boltanski e Ève
Chiapello in Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi, Mimesis, Milano-
Udine 2014, pp. 134-135. Si veda anche il più recente B.-C. Han, Psicopolitica: il neoliberi-
smo e le nuove tecniche del potere (2014), trad. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma 2016.

107
to)controllo;109 3) una declinazione del soggetto-imprenditore in
quanto instancabile sperimentatore che contempla il fallimento
individuale come momento necessario del proprio percorso indi-
viduale di realizzazione performativa di sé – da cui l’enorme dif-
fusione di psicofarmaci e droghe prestazionali come doping ne-
cessario allo svolgimento delle proprie attività quotidiane, perso-
nali e professionali. The start-up of you: l’ultimo episodio dell’an-
tica storia della trasformazione di ogni istante della vita in una
forma specifica di forza-lavoro performante e produttiva, e di
naturalizzazione dell’idea borghese che la libertà – come avrebbe
detto Adorno – non sia altro che una forma di “superattività”.110
Giunti alla fine di questo testo, anche noi ci sentiamo un po’
stanchi (per non parlare della stanchezza del nostro eventuale
lettore o lettrice). Per di più, di fronte al discorso galvanizzan-
te della start-up esistenziale o delle nazioni start-up – con tutta
quella genealogia della morale imprenditoriale che esso sotten-
de – il nostro senso di spossatezza non fa che aumentare. E ci ri-
troviamo così passatisti e reazionari da pensare che per trasfor-
mare la nostra condizione di forzati del lavoro su di sé sia neces-
sario ascoltare le voci di quei lavoratori indipendenti francesi –
ma anche italiani, inglesi, tedeschi – che abbiamo già incontrato
in questo testo,111 e che nel XIX secolo si sono organizzati in co-
operative e società di mutuo soccorso per sottrarre la loro vita al-
la presa del lavoro come vocazione, prestazione, morale. Sono
loro, insieme ai tanti altri che hanno spezzato la continuità della
storia del lavoro nel XX secolo – e non Jeff Bezos – che sembrano
sussurrarci in un orecchio: eh, sì, it’s still day one.

109. Cfr. A. Maturo, Doing Things with Numbers. The Quantified Self and the Gamifi-
cation of Health, “Journal of Medical Humanities & Social Studies of Science and Techno-
logy”, 1, 2015, citato in F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, cit., p. 78; A.
Greenfield, Radical Technologies. The Design of Everyday Life, Verso, London-New York
2017, pp. 34-36.
110. T.W. Adorno, Minima moralia (1951), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1954, p. 153.
111. Cfr. supra, p. 91 e nota 55.

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