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SE LA SPERANZA FUGGE I SEPOLCRI, LA RIMPIAZZA LA FEDE?

Paolo Branca

Premessa
 Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica di moto in moto;
e l'uomo e le sue tombe e l'estreme sembianze  e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo.

(Ugo Foscolo, I Sepolcri)

“La morte non ha bisogno di Dio, è Dio che bisogno della morte”. Quante volte amici laici,
agnostici o dichiaratamente atei, mi hanno detto questa frase, talvolta con un tono un po’ di
sufficienza, ma li ringrazio comunque perché mi hanno indotto a riflessioni che altrimenti non avrei
fatto. Come contraddirli? Per molti ‘credenti’ il timore della ‘fatal quiete’, più fatale che quieta
evidentemente, ha potuto giocare un ruolo non secondario nell’avvicinarli alla fede, o almeno alla
speranza di un Aldilà.
Ma si tratta di un approccio superficiale, persino banale a ben pensarci. La fine (come l’inizio del
resto) di ogni cosa, compresa la nostra vita, sono iscritti inesorabilmente nella dimensione dello
spazio-tempo in cui ci troviamo. Ed è bene che sia così: viste la presunzione se non l’arroganza di
troppi che pur sanno che un giorno dovranno lasciare tutto, non so immaginare le dimensioni
mostruose che potrebbero assumere altrimenti.
Ma questa considerazione ‘moralistica’ non mi appaga.
Il Cantico dei cantici afferma: “forte come la morte è l’amore / tenace come l’inferno è lo slancio
amoroso. / Le sue vampe sono fiamme di fuoco / una fiamma del Signore” (Ct 8,6-7).
Pur trattando, e non certo unicamente in forma metaforica come troppa esegesi ha fatto, dell’amore
fra un uomo e una donna, il Cantico sarebbe svilito da un’interpretazione ‘romantica’.
La morte ci atterrisce come fine di tutto, e forse per alcuni (i migliori?) perché ci induce a disperare
di rivedere persone e cose che ci son care più di noi stessi. Come dunque l’amore potrebbe essere
‘forte come la morte’? Unicamente per questo lancinante ma incerto desiderio?
Credo invece che l’amore ci spaventi ancora di più, poiché se la morte sembra annientarci, l’amore
è l’unica cosa che può trasformarci, la cosa più impegnativa, faticosa, dolorosa di ogni altra, eppur
la più feconda. Forse per questo il celebre poeta Eliot ebbe a scrivere: “Aprile è il mese più
crudele…”, il risveglio anche della natura, a primavera, comporta molta ma muta sofferenza.
Anche l’innamoramento, che dura quel che dura ma non sempre si spegne, matura e passa dalle
emozioni e dall’inconscio (che dubito alcuna Intelligenza Artificiale potrà mai riprodurre) a
comportamenti, scelte, responsabilità liberamente assunte e mantenute che possono durare anche
oltre l’orizzonte terreno.
Si può essere scettici, e con non poche ragioni, ma la fredda e precisa razionalità non saprebbero
spiegare troppe cose. Accudire il partner, i piccoli, e non per poco tempo, saranno anche istinti
primordiali per la conservazione della specie, ma si deve essere ben limitati per non comprendere
che, a differenza di altre creature, noi non mangiamo, ma ci nutriamo e abbiamo elaborato non solo
una conoscenza, ma un’arte della convivialità; non solo nasciamo, ci sposiamo, moriamo… ma
questi passaggi di stato son da sempre ritualizzati, vengono accompagnati da simboli, cerimonie,
partecipazione collettiva che purtroppo sbiadiscono davanti alla loro gestione medicalizzata,
consumistica e tecnologica, fin quasi a scomparire dall’orizzonte degli eventi quotidiani, rendendoli
più solitari, vacui o carichi di timori non altrimenti gestiti, celebrati o esorcizzati.

La strana coppia
Eros e Thanatos, dunque, spesso accoppiati e non per caso e non da ieri. L’energia che genera e
sostiene la vita e la forza che la spegne. Determinanti entrambe, ma apparentemente con finalità
diverse, per non parlare delle modalità. Anzi, parliamone. Anzitutto nessun’idea di fine può
prescindere da quella di inizio. Se non di Dio, la morte ha bisogno della vita o comunque di
qualcosa che esista e a cui porre fine, in genere di qualcosa di vitale come un vegetale o un animale,
parlare di morte di un oggetto inanimato funziona solo come metafora.
La definizione stessa di un ciclo vitale sarebbe incompleta senza citare il suo termine, così come il
suo termine non avrebbe senso se non si specificasse di cosa sia appunto il venir meno.
La vita, però, pur avendo un punto d’inizio non si esaurisce in esso, mentre la morte è un punto,
magari preceduto da invecchiamento, malattia, disgrazie che però fanno parte ancora del ciclo vitale
nonostante la loro perniciosità.
L’invecchiamento si può ritardare o comunque rendere agevole, la malattia si può curare e persino
guarire, dalle sciagure è possibile riprendersi, magari passando a una situazione migliore della
precedente… soltanto la morte è una svolta, un cambiamento di stato definitivo e irreversibile. Al
massimo la si può vedere come il male minore, se pone fine a un’esistenza talmente travagliata da
venir considerata una sorta di liberazione: “ha finito di soffrire”, “sta meglio ora di come stava
prima”…
Parliamo dunque inevitabilmente della fine di qualche cosa e non è di poco conto, quindi la
tipologia di ciò che va a terminare, non soltanto inteso astrattamente o almeno globalmente, ma
anche puntualmente: se ciò che termina è ‘vita’ da un lato è impossibile non intenderne la
conclusione come qualcosa di negativo, ma non si può evitare di prendere in considerazione che
tipo di vita va a spegnersi: di qui il delicato e tremendo dilemma dell’eutanasia. Quest’ultimo si
lega a un’altra questione: se di norma la morte è un fatto naturale (o, per chi crede – ma in maniera
assai problematica – stabilito da Dio) si può dare il diritto di sceglierla e deciderla seppur in casi
estremi ed eccezionali?
Non troviamo nella Bibbia anche l’espressione “Meglio la fine di una cosa che il suo principio”
(Qohelet, 7, 8)?
Libro enigmatico, d’accordo, ma non privo di una sua ‘saggezza’: che ne sappiamo, infatti, della
fatica e del dolore che una nuova creatura deve patire per abituarsi a stare al mondo? Provvidenza
che sia o saggezza della natura ci impediscono di ricordare, ma i molti e talvolta lunghi e strazianti
pianti dei neonati ne sono segni, in uno stato di inconsapevolezza di cui non si può che esser grati,
proprio mentre intorno a loro, da ben altro punto di vista, predominano sentimenti diversi: “La
donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il
bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv, 16,
21).
L’ultimo nemico: la stasi
Tale assolutezza si riverbera per esempio in s. Paolo “l’'ultimo nemico ad essere annientato sarà la
morte” (I Cor, 15, 26), ma non si tratta certo di una novità: innumerevoli visioni del mondo,
filosofiche o religiose, sia precedenti che successive, contemplano un ‘dopo’i che è sperato e
creduto con l’esito anche di alleggerire da subito lo spavento provocato dal pensiero della nostra
fine e ipotizza una continuazione dell’esistenza di almeno una parte di noi successiva a tale
‘passaggio’, giungendo persino a raffigurarsi nei particolari un Aldilà complesso e articolato, non
effimero né caduco come l’esistenza terrena, ma a questa spesso strettamente collegato, addirittura
dipendente da quanto in essa accaduto nei suoi esiti duraturi o infiniti
La questione dell’eternità del castigo dell’Inferno è più problematica di quanto si pensi e persino la
beatitudine senza fine del Paradiso si è prestata almeno ad aforismi che ne paventano la noiosa
staticità.
Questo punto ci pare di particolare interesse poiché, invece che soffermarsi su che cosa potrà
perdurare (ad esempio l’anima, ma non sempre il corpo), si concentra su un aspetto tipico della vita:
la sua dinamicità, che nella prospettiva ultraterrena sembra sbiadire in ossequio, ancora una volta, al
principio secondo cui ciò che è perfetto non dovrebbe patire mutamenti, segno di instabilità non
compatibile con la prospettiva dell’eternità, caratteristica del divino, ‘motore’ sì, ma appunto
‘immobile’.
Anche le religioni dell’Estremo Oriente, che pur non guardano con preoccupazione l’impermanenza
delle cose terrene, sembrano insistere sulla cessazione dell’effimero e del doloroso, sulla fusione
con un tutto indistinto che pare positivo forse anzitutto per la sua radicale difformità dalle cose
mutevoli che invece predominano in questo basso mondo, provocano sofferenza pur essendo
inconsistenti (o proprio perché lo sono, ma noi non ce ne accorgiamo) e in definitiva illusorie e
irreali. Non si tratta tuttavia di scomparire nel nulla, quanto piuttosto, come nel Taoismo, di passare
al vuoto, che nulla non è essendo paragonato, ad esempio, al centro su cui convergono tutti i raggi
della ruota di un carro…

Novissimi dinamici?
Già il greco anastatsis, che significa ‘resurrezione’, la vede come la fine della stasi indotta dalla
morte. La vita è dunque movimento. Ma anche nella prospettiva escatologica non sono mancate
teorie palingenetiche, e anche laddove si parla nelle Scritture di ‘eternità’ del premio o del castigo,
teologi pur ‘ortodossi’, coi concetti di tikkun olam (‘riparazione’ del mondo) nell’Ebraismo, di
apocatastasis (‘reintegrazione’) nel Cristianesimo e di fanà’ al-nàr (‘estinzione del fuoco’
dell’inferno) nell’Islam hanno osato ipotizzare un ruolo umano verso il recupero dell’armonia
primigenia o addirittura il termine della pena dei dannati in ossequio all’Onnipotenza della
Misericordia divina, e credo, anche per superare una bizzarra definitiva vittoria del male, visto che a
parere di molti e sulla base di espliciti versetti rivelati la maggior parte dell’umanità sarebbe vittima
definitivamente condannata per aver ceduto alle seduzioni del Nemicoii.

Come se ne esce?
Titolo di paragrafo accattivante, ma sbagliato. Dai paradossi non si esce. Vanno piuttosto percorsi
fino in fondo, per quanto sia possibile parlare del fondo di qualcosa che per sua natura fondo non
ha, e le modalità non sono logiche né uguali per tutti.
Comunque non caldi pannicelli consolatori. Le possibili piste, non dico risposte, per radicalità
dovrebbero almeno equivalere al problema. Ma purtroppo non si trovano sempre dove i toni sono i
più duri e apparentemente definitivi, come ‘razza di vipere!’ o ‘sepolcri imbiancati’! Il loro
carattere liquidatorio desta un’adesione spontanea, ma definisce un tragico fallimento e conferma la
gravità della situazione: una morte anticipata e inconsapevole, nel migliore dei casi, altrimenti
conscia e liberamente assunta per i soliti trenta denari.
Mi pare di rintracciare nei Vangeli una dura sentenza in proposito, laddove non ce la si
aspetterebbe. Non in condizioni drammatiche, ma nella quiete di una conversazione notturna, tra
amici rilassati che desiderano probabilmente solo capirsi meglio:
«Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la
voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
Gli replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e
non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e
testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho
parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?” (Gv, 3) 

Molto si manifesta pur rimanendo celato (come in ogni ri-velazione) nelle parole rivolte a
Nicodemo.
Secoli di teologia si sono affaticati sul mistero della santa Trinità, ma bisogna riconoscere che se il
Figlio ha aperto nuove strade verso il Padre, al povero Spirito “Dominum et vivificantem”
riserviamo poca attenzione e, se va bene, lo invochiamo più o meno soltanto a Pentecoste.
Il punto è che non si tratta di non morire, ma di rinascere. Una rinascita ‘spirituale’ che non si sa da
dove venga né dove vada, ma di cui è possibile sentire la voce.
Non mi arrischio a entrare nella questione del peccato originale: cosa sia stato in fondo non è tanto
importante quanto le sue conseguenze. La creazione, la vita, tutto quanto ci danno continua prova
che le cose non vanno come dovrebbero, spesso addirittura seguono la direzione opposta.
Molte filosofie e praticamente tutte le religioni, ciascuna a suo modo, cercano di essere una via per
uscire da tale situazione, che dovremmo trovare insopportabile per noi stessi (se non fossimo tanto
autoassolutori) prima ancora che per chi e ciò che amiamo e anche per tutto il resto.
Il paradosso nasce dalla libertà: la creatura migliore e che dovrebbe rappresentare il Principio della
creazione almeno custodendola, può e di fatto è anche l’antagonista di quel Principio e della propria
vocazione.

“I muti parlano…”
La metafora della voce del vento è inevitabile: è un suono, niente di ‘concreto’, ma di metafora in
metafora si passa a tutt’altro. Il Messia faceva parlare i muti, camminare gli storpi, resuscitare i
morti e vedere i ciechi nati… ma sta scritto anche: «È per un giudizio che io sono venuto in questo
mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv. 9, 39).
Tangibili segni di un ribaltamento del mondo.
La voce del vento, in fondo, è muta. Un rumore, talvolta gradevole ma che può anche essere
spaventoso, tuttavia sembra non ‘dire’ nulla.
Ecco che allora si apre una possibile ‘altra’ interpretazione: ubriachi e stanchi di parole troppo
spesso false e comunque ambigue, soprattutto incerte nelle loro conseguenze (‘dicono quello che
non fanno’ afferma a condanna dei poeti il Corano) la voce dei rinati nello Spirito, che pur non si sa
da dove venga e dove vada, diventa un’energia che trasforma e può condurre oltre persino ai riti e
alle liturgie cui ci affidiamo ancora troppo spesso come a delle specie di formule magiche, quasi
fossimo scesi dagli alberi o usciti dalle caverne l’altroieri.
Persino i discepoli stentavano a comprendere e chiedevano spiegazioni delle ‘cose della terra’:
«Anche voi siete ancora senza intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel
ventre e va a finire nella fogna? Invece ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende
immondo l'uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le
prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono
immondo l'uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l'uomo» (Mt, 15, 16-
20).
Né lui né i suoi genitori hanno peccato… peccato però che sia nato cieco, “ma è perché in lui siano
manifestate le opere di Dio” (Gv. 9, 41).
Morte compresa, tutte le manifestazioni del limite, della sofferenza, della vanità ci sono e restano
dunque, nonostante poche e temporanee eccezioni (vedi Lazzaro) che aprono fessure (dalle fessure
passa la luce, pure da quelle piccole e che restano ferite non del tutto rimarginate) e ci inducono a
concordare infine coi nostri interlocutori: ‘la morte non ha bisogno di Dio’, ma ha bisogno della vita
e della vita buona, in una relazione complementare, tanto misteriosa quanto inevitabile, necessaria
quanto le due facce di una stessa medaglia, i due tagli di una spada, la luce e le tenebre, il sì e il no,
l’essere e il non essere, le innumerevoli strade del mondo che non sai da dove vengano né dove
vadano, ma su cui cammini. E il cammino, per chi sa accorgersene, è già la meta.
i
Cfr. B. Salvarani, Dopo. Le religioni e l’aldilà, Laterza, Bari 2020.
ii Cfr. C. Raimo, Riparare il mondo, Laterza, Bari 2020; Gregorio di Nissa, L’anima e la resurrezione, a cura di S.

Lilla, Città Nuova, Roma 1981; M. Demichelis, Salvation and Hell in Classical Islamic Thought: Can Allah Save Us

All?, Bloomsbury, Londra 2018.

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