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QUANTI MILIONI DI PERSONE MORIRONO DURANTE LA STORIA DEL COLONIALISMO?

Joana Gorjão Henriques

In Mozambico le opinioni sul rqazzismo e sulle tracce lasciate dal periodo coloniale possono cambiare a
seconda della generazione, a seconda di chi ha vissuto l’apartheid e di chi è nato dopo l’indipendenza.
“Possiamo dire che siamo stati colonizzati da un paese periferico – e questo ci porta d avere una mentalità
periferica”.

Sulla tavola della famiglia Quelhas, ci sono piatti di varie origini: la bebinca (un dolce tipico di Goa),un dolce
di mandioca e cocco e matapa (piatti tipici mozambicani), chamuças (specialità indiana). Possiamo trovare
anche la mandioca fritta, melanzane, mango e papaya.

Celisa Quelhas (n. 1953)è un’ impiegata contabile nata a Goa; il marito, Antonio (n.1947) è un ingegnere
portoghese; i figli sono mozambicani, cosi come la nuora Tasia.

Nel soggiorno ci sono vari antipasti, una ciotola con disegni del pittore mozambicano Malangatana che si
distingue per i suoi colori vivi. “Facciamo un mix di piatti Goesi, Portoghesi e Mozambicani”, spiega Celisa,
indicando il tavolo.

Solitamente, le riunioni familiari si tengono a casa sua la domenica. Tuttavia,oggio, una sera di Maggio, la
rimpatriata è a casa del figlioNuno (n. 1978), manager di una società di investimenti e padre di una bimba di
qualche mese.

E’ un’abitazione sita nel Barrio do Triunfo, nella Costa do Sol, poco distante dal famoso Mercato del Pesce,
dove mozambicani e stranieri mangiano pesce e molluschi freschi. Situata a su, è considerata una delle
zone più ricche della città. E’ consuetudine vedere la security davanti alle porte di casa che si susseguono in
linea retta, quella di Nuno non fa eccezione.

Celisa e i fratelli sono nati a Goa, che hanno lasciato nel 1962, dopo l’annessione all’India del territorio. I
genitori erano infermieri, furono in Portogallo e poi in Mozambico. Dopo l’indipendenza, il 25 giugno 1975,
le famiglie di Celisa e Antonio, tornarono in Portogallo, ma i due finirono per restare e sposarsi un paio di
anni dopo essersi conosciuti, nel 1973.

“Già la famiglia di mio padre era costituita da una grande diversità culturale, ha origini ebree e altre”, dice
Nuno con gli occhi fissi sul padre. “In Mozambico ci sono molte persone con influenze multietniche, già
esistenti molto prima che il Portogallo arrivasse in Mozambico. La componente araba, infatti, aveva già
preso il sopravvento”.

Il 1973, la popolazione bianca del Mozambico era di 190 mila persone (2.3% della popolazione), secondo un
grafico riportato dalla ricercatrice Cláudia Castelo nel PASSAGENS PARA ÁFRICA – il censimento del 1970
indicava un totale di 8 milioni di abitanti in Mozambico. Attualmente, il 99% della popolazione
mozambicana è nero, secondo il censimento del 2007, lo 0.4% di razza mista e lo 0.6% di altre razze.

Celisa e Antonio non hanno mai subito della pressione sociale a causa delle loro origini differenti, dato che
in Mozambico “c’erano molte famiglie miste”- bianchi con neri, bianchi di diverse origini con africani e
asiatici. “Non ho mai sentito parlare di razzismo e posso anche dire che non ho mai sentito parlare di razza
nella mia famiglia. A casa mia sono sempre entrate persone di tutte le classi”. Sottolinea Celisa. Ricorda
nache che, nel 1963, guardando la targhetta dell’ufficio dove il padre lavorava, ha visto scritto:
“ambulatorio indigeno” e ha capito che “in quell’ambulatorio lavoravano solo persone nere”.
Nemmeno Antonio Quelhas ha mai sentito che ci fosse una differenziazione di razza. Apparteneva alla
popolazione locale, dove c’era “una mescolanza di persone africane, goesi, nere, hindu e mussulmane” e
“un capo, che ero io, con una formaione superiore”. “In ambito lavorativo, c’era qualche discriminazione,
ma erano regole imposte dal governo; da una certa altezza, si diceva che i bianchi che stavano qua erano
bianchi di classe inferiore”.

Dalle generazioni più anziane a quelle più giovani, nella casa della famiglia Quelhas, la percezione è che ci
sia e ci fosse un’armonia razziale nel paese. Nuno ha studiato in Sud Africa, Svizzera, Inghilterra e non teme
di affermare che "il Mozambico è il paese più multietnico" che conosce. “Ho vissuto a Londra e ci sono leggi
che creano l’integrazione razziale. In Mozambico le persone convivono senza alcuna regola. Un partito
come il Frelimo -Fronte per la Liberazione del Mozambico-, che assunse il potere dopo il 1975, non avrebbe
raggiunto un governo multirazziale se non fosse stato intrinseco. I paesi lusofoni (di lingua portoghese)
sono tra quelli con più mescolanza di etnie e il Mozambico è dove ciò avviene in modo organico”, dice.

Gli amici di Nuno e Tasia, mozambicani neri, suonano al campanello. Sono venuti a cena, è venerdì. 

Sfiducia nei portoghesi

Il teatro è chiuso ma il direttore del gruppo Gungu, Gilberto Mendes (1966), ci fa fare una visita guidata. È
una star a Maputo, lo fermano per strada per salutarlo. Nell'edificio, che porta il suo nome, situato nel
centro della città,  hanno luogo anche di programmi televisivi. Drammaturgo e regista, autore di più di 60
spettacoli, ha censurato un'opera teatrale, O JULGAMENTO , per aver ritratto un processo di corruzione
mozambicano. Ha già affrontato più volte la questione razziale nei suoi spettacoli. 

Una delle opere di Gungu è la caricatura di una donna portoghese bianca, che riesce, senza avere qualifiche
professionali per farlo, a farsi assumere per lavorare in un hotel e ottenere un’altra ambita stella per la
struttura. “Il modo migliore per spiegare è usare esempi razziali, non in senso peggiorativo ma in analogia”,
spiega Gilberto Mendes.   

Una delle idee per affrontare la questione razziale è nata grazie a un amico portoghese che ha deciso di
viaggiare da Lisbona a Maputo in auto. La traversata è durata due anni e quando è arrivato Gilberto
Mendes ha scherzato: “Questo è uno scherzo bianco. Se fosse stato un uomo di colore a fare un viaggio del
genere, sarebbe morto molto tempo fa”. Ha messo in piedi, poi, spettacolo che, diceva "cose che, tra
virgolette, possono essere fatte da alcuni e non possono essere fatte da altri, che noi guardiamo e sentiamo
di appartenere ad una determinata razza", spiega.

E gli spettacoli hanno successo perché c'è ancora un pregiudizio nell’inconscio mozambicano che si traduce
in piccoli esempi come il fatto che “se un nero aprisse un ristorante, non avrebbe successo come se fosse
un bianco”, osserva. "Se le persone non hanno una formazione adatta a capire questi cliché, finiscono per
essere fuorviate e rispettare alcuni, a discapito di altri".

Nel 2013, secondo l'Osservatorio sull'emigrazione, in Mozambico c'erano poco più di 24 mila portoghesi. È
normale vedere per le strade di Maputo i portoghesi e l'immagine che abbiamo è che la maggior parte di
loro occupi posizioni di alto livello

Nel parco dove troviamo Calton Cadeado, che si trova in una delle zone alte e nobili della città, si possono
vedere ragazzi con le loro tate, in divisa, che distinguono in maniera evidente la divisione delle classi —
alcune divise ricordano l’immaginario coloniale ed è, infatti, comune che vengano vendute per le strade di
Maputo nel mercato parallelo. Calton Cadeado è a capo del dipartimento di Pace e Sicurezza presso
l'Istituto superiore di relazioni internazionali. 

Nato a Beira, ha incentrato la sua ricerca sulla popolazione e ci da una lettura di alcuni discorsi sulla
questione razziale, come la percezione che ci sia una discriminazione che privilegia i bianchi, giunti in
numero maggiore negli ultimi anni a causa della ricchezza naturale del Paese: “È ancora troppo presto per
dire che i bianchi sono venuti per il controllo. Nella teoria della cospirazione, nessuno lo toglie dalla testa
dei mozambicani”, considera. Ma non nota la tensione razziale in Mozambico – e se esiste, sarà in spazi
urbani come Maputo, anche perché le élites nere e bianche si mescolano negli stessi posti, negli stessi
ristoranti, negli stessi circoli intellettuali, sostiene. 

Per lui, nel discorso sulle identità, compare in primo luogo la questione dell'etnia, poi della regione e solo
per ultima, la razza.

In relazione ai portoghesi, potrebbe esserci una sfiducia e il fantasma di chi è tornato per recuperare la
proprietà smarrita, dice - inoltre, l'idea che i portoghesi furono obbligati a lasciare il paese entro 24 ore e
portare con sé solo 20 chili ha creato il sentimento di perdita, sottolinea. Calton Cadeado non pensa che
questa sfiducia sia significativa. Se fossero visti come i cattivi, i portoghesi sarebbero stati, più tardi,
“protetti” dal discorso insistente di Samora Machel (1933-1986) sul fatto che la lotta era stata contro il
sistema – Samora sarebbe, inoltre, criticato per avere troppi bianchi nel tuo governo, ricorda. 

Il rapporto oggi tra portoghesi e mozambicani non è di uguaglianza, ci sono molti che guadagnano più dei
nativi, soprattutto nelle multinazionali, dice. “La spiegazione che mi viene in mente per la differenza
salariale è che chi finanzia detta le regole. L'altra idea è che ci sia un prosciugamento del capitale, che torna
al luogo di origine” — ma quest'ultima è ancora solo un'ipotesi di ricerca che si sta approfondendo.

La redazione del settimanale Savana si trova nel quartiere Polana. È una casa dove alla porta ci sono
venditori che improvvisano una piccola libreria con libri stesi sul marciapiede di cemento. Nelle vicinanze,
una "installazione" con sneakers di marchi internazionali, nuove, fa la svolta - i colori vivaci di sneakers
uniche, in attesa di essere comprate, rendono l'immagine originale. Fernando Lima, direttore, è seduto alla
sua scrivania, su cui sono sparsi molti giornali. È figlio di portoghesi. “Ci sono già stati movimenti che hanno
provato a stabilire la definizione di nazionalità mozambicana su base razziale. Il fatto che la stessa legge
sulla nazionalità sia incorporata nella Costituzione è un eccesso, ma riflette quanto sia sensibile la questione
della razza in Mozambico”, contestualizza. “Il Mozambico è indipendente, con un background razziale
completamente distorto. Al Portogallo piaceva presentarsi come un paese non razzista, ad oggi non è vero:
c'era il razzismo, c'era la discriminazione razziale. In effetti, grande maggioranza della popolazione nera non
aveva documenti di identità come portoghesi - solo gli assimilati ed erano una minoranza. Questo significa
discriminazione a scuola e sul lavoro”.

Quindi un movimento di liberazione ha dovuto fare i conti con questo passato di oppressione e umiliazione
basato sulla razza, ma allo stesso tempo non ha alienato comunità diverse: c'erano diversi gruppi di origine
asiatica, con background religiosi diversi, musulmani e indù. Le minoranze non nere avevano un tenore di
vita migliore, una maggiore ascesa economica e un maggiore potere di difendersi in termini di opportunità
di lavoro, ricorda.

Non è cresciuto in un ambiente privilegiato, nonostante fosse bianco. “Le mie origini erano umili, sotto il
mantello coloniale che dava più privilegi alla mia famiglia, ma ciò non toglie che sono figlio di un lavoratore
portuale. A differenza della stragrande maggioranza della popolazione bianca del Mozambico, io ero
dall'altra parte della barricata: ero un leader studentesco fin dal liceo e all'epoca dell'indipendenza non
appartenevo alla stragrande maggioranza delle persone che dovevano fare il loro scegliere se restare o
andare perché loro avevo già fatto la scelta molto tempo prima. Tutta la famiglia e gli amici se ne sono
andati. 

Da parte di padre molte persone si recavano in Mozambico per lavorare negli insediamenti, lui stesso aveva
una famiglia che non sapeva né leggere né scrivere “e molti non indossavano nemmeno le scarpe”. Ricorda:
“Andavo a scuola, all'università e sono figlio di persone che fanno la quarta elementare. Abbiamo guardato
alla società portoghese con una certa superbia”, ricorda. D'altra parte, il Mozambico era incollato al Sud
Africa, un paese già sviluppato. “A proposito, abbiamo bevuto Coca-Cola, che non esisteva nemmeno in
Portogallo. Ci chiamavano 'Coca-Cola'".

Fernando Lima è stato il primo della sua famiglia ad essere mozambicano. Essere bianchi e mozambicani
genera, “a volte”, sorpresa. “Non è sempre stato così. Durante i primi anni di indipendenza, non ho mai
sentito il colore della mia pelle messo in discussione”. Oggi è consuetudine che la polizia e gli uffici pubblici
richiedano il passaporto al posto della carta d'identità. "Questo significa che il mio interlocutore presume
che io non sia mozambicano"

La nuova ondata di emigrazione portoghese, che nulla ha a che vedere con il colonialismo o il Mozambico, è
divisa in diversi gruppi, analizza: quelli che si integrano pacificamente e quelli che creano qualche
problema, le persone che appartengono agli strati più bassi della popolazione migrante e che spesso
vengono a lavorare nell'edilizia. A questo proposito, “la tolleranza verso i portoghesi è zero”. Esempio:
l'espulsione dell'allenatore portoghese Diamantino Miranda nel 2013, dopo aver detto che tutti i
mozambicani sono “ladri”. E poi c'è il gruppo di coloro che hanno vissuto in Sud Africa e si sono trasferiti in
Mozambico dopo la fine dell'apartheid negli anni '90, portando con sé “alcuni tic colonialisti” che ancora
hanno. 

Per il resto, Fernando Lima dice che in generale i rapporti sono pacifici e molti indossano le maglie dei club
portoghesi, tifano club portoghesi, riempiono ristoranti e caffè durante le partite. "Siamo molto meglio
della maggior parte dei paesi africani" in termini di relazioni razziali. "Un sudafricano e dello Zimbabwe
viene qui e la sua bocca si spalanca perché alle nostre feste ci sono persone di tutte le razze".

Tuttavia, è difficile per lui accettare la mitezza del colonialismo portoghese. Quando ha iniziato ad andare a
scuola, era pienamente consapevole di vivere in un paese a maggioranza nera, ma a scuola non solo i neri
erano una minoranza, ma erano anche seduti in fondo ai banchi.

I suoi genitori erano conservatori e le conversazioni spesso finivano con Fernando Lima che lasciava il
tavolo e le riunioni di famiglia: vedeva spesso ridicolizzato il fatto che difendeva la non
discriminazione. C'era discriminazione nella sua famiglia, “in modo completamente aperto”, ricorda. “Devi
vedere che se un dipendente rompeva due bicchieri, la signora lo portava in amministrazione e il
dipendente riceveva circa sei sculacciate in modo che non se ne andasse la prossima volta. Non lo dico per
aver sentito, ho guardato queste situazioni, ero nell'amministrazione e ho visto. Se oggi lo racconti a un
bambino, lui pensa che sia finzione". 

L'antirazzismo di Samora Machel

Dopo l'indipendenza c'è stato un forte discorso antirazzista, veicolato dall'idea che la tribù dovrebbe essere
uccisa per far nascere la nazione, ricorda Tomás Vieira Mário (n. 1959), giornalista e professore al
Politecnico, nonché presidente del Consiglio di regolamentazione. 

Tomás Vieira Mário ha scelto la fortezza di Maputo per la conversazione, un luogo con simbolismo coloniale
per ciò che rappresenta della potenza militare. La rocca è oggi accessibile, ma c'è poca gente, soprattutto se
paragonata alla zona circostante del centro, dove i mercanti si sparpagliavano per le strade, vendendo
spesso le stesse cose dei negozi di fronte: pettini, spazzolini da denti e altro. , libri, scarpe, batterie, vestiti,
telefoni cellulari, schede di ricarica, tutto e altro ancora. Tra le spesse mura e i mattoni arancioni, Tomás
Vieira dice, con la sua voce delicata e pacata, che Samora Machel aveva deliberatamente creato un governo
con questo carattere di antirazzismo. “Samora Machel diceva: siamo antirazzisti. Questo era in qualche
modo associato al fatto che eravamo circondati da due paesi razzisti, 

Tanto che, allo stesso tempo, “si sentiva che 'sembra che l'indipendenza non valesse la pena perché il
governo aveva troppi bianchi di origine asiatica'”.
Ai tempi di Samora Machel era “quasi un crimine” usare qualsiasi tipo di espressione connotata di
razzismo. "Questo non vuol dire che non ci fosse un vulcano in attesa dell'opportunità di eruttare - quando
è morto è apparso". 

Il giornalista sottolinea che dopo il colonialismo «c'è sempre una specie di sbornia che viene a galla» e lui
stesso ricorda molte canzoni sull'«uomo bianco che ci opprimeva». Frelimo, invece, “le proibiva”.

Oggi questa sbornia si fa sentire molto meno, anche perché le persone che hanno vissuto il colonialismo
tendono a essere una minoranza perché il Mozambico è un paese giovane. In altre parole, “le opportunità
di oggi hanno ben poco a che fare con il colonialismo portoghese”, considera.

Non che le storie di discriminazione del periodo coloniale siano state dimenticate, almeno per te. Tomás
Vieira ricorda il caso di uno zio che aveva messo da parte dei risparmi e li aveva tenuti all'ufficio postale di
un villaggio di Inhambane. Lo zio aveva deciso di aprire un'attività e ha chiesto il permesso
all'amministratore del distretto, ma ha ricevuto una risposta negativa perché non era comune che i neri si
occupassero del commercio. Volevano costringerlo a unirsi a PIDE in cambio dell'apertura del negozio, ma
ha rifiutato. Poi ha sentito “merda nera” e i soldi sono stati presi dall'ufficio postale: non aveva risparmi e
nessun negozio. 

Dalla sua biografia, Tomás Vieira Mário dice di essere diventato uno degli unici tre studenti neri della scuola
secondaria di Maxixe, perché studiare era costoso ma suo padre, un contadino, poteva
permetterselo. “C'era razzismo nell'accesso alle risorse e nella capacità di superare la vita e
svilupparsi”. Qualcosa che non era ufficiale come in Sud Africa e in Rhodesia. “Mio zio aveva un detto: chi
puliva Lourenço Marques [ora Maputo] non vedeva mai chi era sporco e viceversa. Cioè, c'era una parte
che veniva all'alba e se ne andava prima che i residenti si svegliassero”.  

Il primo uomo di colore ad entrare in una scuola superiore è stato Joaquim Chissano, nel 1957, dice Tomás
Vieira. Non erano nemmeno 60 anni fa, e questo è molto recente. Qual era la possibilità che, in
Mozambico, a quel tempo, i neri potessero superare la barriera dell'ignoranza?

Peggio dell'apartheid sudafricano

A 76 anni Joaquim Chissano mantiene uno spirito critico. L'uomo succeduto a Samora Machel nel 1986,
dopo la sua morte, e che avrebbe vinto il titolo di "architetto di pace", è stato il vincitore delle prime
elezioni multipartitiche nel 1994. Dopo l'indipendenza, il Mozambico ha adottato un sistema marxista-
leninista guidato di Frelimo, alleato sovietico e nato dal gruppo che aveva combattuto il colonialismo
portoghese. Con la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana) è scoppiata una guerra civile durata 16
anni, che ha ucciso un milione di persone e ne ha sfollate altre milioni. Chissano ha scontato due mandati e
se ne è andato nel 2004. Oggi presiede una fondazione e si dedica all'agricoltura.

Nel 2010 ha pubblicato il libro Vidas, Lugares e Tempos , dove afferma che il razzismo in Mozambico, negli
anni Quaranta e Cinquanta, era «peggio dell'apartheid in Sud Africa», perché nonostante la legge dicesse
che non c'era segregazione, «tutto era ben separato”. E descrive: “Quartieri dai canneti ai neri, quartieri
indigeni ancora chiamati così, 'Quartieri indiani', documenti indigeni diversi dalla carta d'identità per i
bianchi, scuole primarie per i neri, accesso all'istruzione secondaria difficile per i neri e ingresso quasi
impossibile per liceo fino al 1951”. 

Il ritratto è tutt'altro che blando. E il ritratto vivente che Chissano dipingerà anche per noi. Ci accoglie nel
suo ufficio a Sommerchield, uno dei quartieri più chic di Maputo, un ufficio che è una struttura con diverse
stanze, un giardino ben curato e una piscina. Gli spazi pubblici qui sono ben tenuti, in contrasto con lo
sporco e le pietre sulla strada in alcune parti della città. Chissano parla molto pensieroso. “Apartheid
significa sviluppo separato e in Mozambico semplicemente non c'era sviluppo per gli altri. Quando abbiamo
iniziato la nostra lotta di liberazione, avevamo due persone formate con un dottorato, il Dr. [Eduardo]
Mondlane e il dott. [Domenica] Arouca. Inoltre c'erano i servizi igienici per gli “europei” e per i “non
europei”. “In questa cosa della provocazione, a volte andavamo nel bagno degli europei”, ricorda con una
risata.

Chissano ha vissuto diverse situazioni di discriminazione. Quando Maputo era Lourenço Marques, sedeva in
un posto vacante su un autobus; un giovane bianco è entrato e il bigliettaio gli ha ordinato di alzarsi per
fargli spazio – “e questo è successo ai vecchi, hanno dovuto fare spazio ai bianchi”. C'era un cinema per i
bianchi, dove venivano proiettati buoni film, e un cinema per i neri, dove venivano proiettati film più piccoli,
ricorda. C'era il sistema di assimilazione e quindi l'assimilato poteva andare al cinema per i bianchi, ma
doveva mostrare il documento di assimilazione. “È stato umiliante dover dimostrare di aver già assimilato i
valori dei bianchi”. In un ristorante, una volta gli è stato chiesto: "Ti dispiace sederti dietro?"

Chissano ricorda di aver vissuto con gli angolani di Luanda, negli anni '60, “che furono sorpresi da quello
che stava succedendo a Maputo” perché non c'era un così forte apartheid nella loro città. La scusa che
esisteva in epoca coloniale per giustificare il razzismo era che si verificava "discriminazione involontaria
basata sulle differenze di reddito economico", osserva. Ma «questa giustificazione non regge. Ora che
siamo indipendenti, abbiamo raggiunto quei livelli. Quindi è perché non c'erano incentivi per queste
persone per andare avanti nella vita. Erano le stesse persone!”

Oggi non ci sono problemi razziali in Mozambico, dice. La discriminazione è gradualmente svanita: i gruppi
razziali coesistono in base alle somiglianze, ma non si tratta di razzismo ma di complicità, osserva. Si
sviluppò una politica deliberata di non razzismo, non etnia, non tribalismo. Perché l'esperienza del passato
è stata notevole. "Io e tutti coloro che hanno partecipato alla lotta ce ne siamo sbarazzati molto tempo fa". 

Abbiamo lasciato la spaziosa camera, che si affaccia sul giardino, dopo più di un'ora di
conversazione. Joaquim Chissano ha un'auto che ti aspetta. “Il razzismo continua ad esistere a causa delle
sequele. 'Noi neri' o 'noi bianchi' deve finire. Ma una volta individuato questo, bisogna creare la volontà
politica di porre fine al razzismo”, conclude.

Altrove in città, in uno dei campus dell'Università Eduardo Mondlane, Inês Raimundo (n. 1962), geografa
con un dottorato di ricerca in Migrazioni e vicedirettore per gli studi post-laurea presso la Facoltà di Lettere
e Scienze Sociali, ci racconta ciò che considera essere la permanenza di un apartheid in Mozambico, in cui le
razze vivono separate e difficilmente si mescolano, anche adesso. “Ciò che crea queste differenze è il
potere economico, ma quelli con un potere economico debole sono ancora i neri”, sottolinea. I
mozambicani di origine bianca e indiana detengono il potere; avere accesso a lavori più retribuiti. "Il negro
è lì, in periferia." 

A Maputo, questa divisione può essere vista ad occhio nudo, sostiene. "Le questioni razziali finiscono per
confondersi con le questioni economiche". Ecco perché ha già sentito discriminazioni nel servizio nei negozi
di abbigliamento, per esempio. “Perché succede in un Paese africano è la parte più difficile. Siamo stati
mentalizzati che siamo di una razza inferiore. Ci vorrà molto tempo”. 

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