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Giuseppe Russo

Sicilia terra
di emigrazione

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Giuseppe Russo

Sicilia terra
di emigrazione
introduzione
di
Francesco Pillitteri

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A mio nonno Pietro
con riconoscenza

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Al Lettore

Questa breve storia sull’emigrazione siciliana è


stata pubblicata nel settimanale diocesano “L’Amico
del popolo”.
Non è esauriente, ma può dare a molti un
contributo per conoscere le sofferenze, i sacrifici e le
conquiste, che i nostri nonni o i nostri bisnonni hanno
sostenuto, per collocarci in un gradino superore e
avere dignità.
Questa piccola fatica l’ho voluta dedicare al mio
nonno materno, Pietro, che ha saputo sacrificare gli
anni più belli per dare dignità ai figli e ai nipoti.
Era un bell’uomo, slanciato, fisicamente
perfetto. Nei giorni di festa era elegante, mostrando
nella sua modestia una grande stima della sua dignità
di uomo.
Lo ricordo affettuoso verso di me. Qualche
volte veniva a prendermi dalle Suore a fine lezione in
via Collegio, io ero felice. Mi poneva sulle sue spalle e
mi sentivo grande, pieno di gioia.
Ricordo un suo atteggiamento di una domenica
di sole. Stavamo in fondo alla chiesa madre di Licata,
il previsto celebrava la messa di mezzogiorno. Lui alto
ed io piccolino, accanto, che non gli superavo le
gambe, quando in un bel punto si inchinò e si batté il
petto con forza e convinzione per tre volte. Questa
immagine mi restò impressa, anche se allora non capii
il gesto.

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I miei nonni non venivano dalla miseria, anzi nel
quartiere marina erano guardati come gente quasi
benestante.
Mio nonno, da giovane, lavorava al porto ed era
un ottimo manovratore del vinci, la piccola gru, che
allora stava sui vapori e si manovrava a mano: le navi
venivano a caricare lo zolfo. Per questa attività e per la
fiducia che ispirava ai comandanti delle navi, fece
diverse volte gratis la traversata Licata New York e
viceversa.
Nel grande porto americano subito trovava
lavoro per le amicizie, che si era creato, e, dopo aver
racimolato un buon gruzzoletto, tornava.
Cosi fece per diverse volte questa rotta.
Comprò case, sposò dignitosamente le figlie e i
figli dopo di avergli dato un certo benessere.
In questo clima quasi tutti i nipoti furono avviati
agli studi, divenendo uno sacerdote missionario, uno
procuratore capo della Repubblica, uno preside di
liceo, più di uno scrittore apprezzato, diversi laureati e
diplomati, che hanno occupato e occupano posti di
responsabilità.
Di nonni Pietro tante ve ne sono stati in Sicilia,
che per il grande amore verso la famiglia hanno
sacrificato la loro vita.
Grazie nonno Pietro.
Agrigento 8 dicembre 2006.
Giuseppe Russo.

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Prefazione

Numerosissimi sono gli scritti sull’emigrazione,


ma, nonostante ciò, non si può dire che l’interesse
sull’argomento si sia ridotto, giacché la storia
dell’emigrazione è un pozzo senza fondo: più la si
indaga e più mostra aspetti nuovi ed interessanti.
Inoltre parlarne è sempre utile per non perdere la
memoria storica, infatti, poco ci si ricorda che, quasi
sempre, l’emigrante è una persona disperata, che non
riuscendo a vivere nel paese natio, decide di partire,
anche rischiando la vita, per raggiungere una terra e
trovare lavoro e con esso quel poco di benessere, che
permetterà di vivere dignitosamente lui e la sua
famiglia.
Quello dell’emigrante non è un viaggio di
piacere, ma “una via crucis“ che si affronta per
necessità, con la consapevolezza di dover quanto
meno, sopportare incertezze e sacrifici.
I tanti studi, sulla materia hanno permesso la
nascita di un’ampia e valida letteratura su tanta gente,
che, oggi come ieri come anche nei secoli passati,
parte, costretta dalla povertà, dalla guerra, dalla fame,
dalle persecuzioni politiche e religiose.
I movimenti migratori, moltiplicati e facilitati
oggi dalla forte riduzione delle distanze geografiche e
della grande influenza esercitata dalla trasmissione di
messaggi comunicativi, sono stati e sono sempre una
costante risorsa e talora un’ineluttabile necessità

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sull’assetto economico, sociale e politico di tutto il
mondo.
La storia economica ha ampiamente trattato il
ruolo, che le emigrazioni hanno giocato dal punto di
vista socio-economico nei vari paesi che l’hanno
subite in entrata e in uscita.
Ciò che maggiormente non si è ancora radicato
sulla opinione comune è che l’emigrante è un essere
umano, uno come noi, giacché tutti potremmo essere
costretti ad indossare le vesti di emigranti.
Per questo motivo non saranno mai troppe le
pubblicazioni che ne parlino sia dal punto di vista
storico, che come fenomeno sociale. In questo senso è
da plaudire la iniziativa di Giuseppe Russo, che ha
voluto racchiudere nel presente volume una serie di
articoli pubblicati sulla stampa diocesana agrigentina.
Studiare l’emigrazione siciliana costituisce una
straordinaria occasione per ripensare la nostra storia,
moderna e contemporanea e le vicende di una società
tuttora travagliata da sogni e delusioni.
Questo studio diventa ancora più interessante
nella considerazione che la Sicilia è una delle poche
regioni, che, pur essendo largamente diventata terra di
immigrazione, continua ad essere terra di forte
emigrazione.
Per buona parte della società attuale, infatti, i
movimenti migratori verso la nostra terra costituiscono
una sfida e una provocazione, dimenticando che anche
i nostri padri e i nostri nonni, quando sbarcarono in
altre terre, suscitarono le stesse reazioni e che anche i

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nostri figli e i nostri fratelli che, dopo compiuti gli
studi, partono per trovare lavoro, sono anch’essi
emigranti.
Spesso abbiamo quasi dimenticato quanto la
nostra emigrazione all’estero nel passato abbia
profondamente inciso nella nostra storia sia sotto
l’aspetto economico, che sociale e demografico.
La rivisitazione del fenomeno è quindi molto
utile, perché vale a ricordare a quanti dimostrano
disprezzo verso “i clandestini“, verso quei coraggiosi
stranieri, che approdano nella nostra terra, che un
tempo eravamo noi a presentarci, con gli abiti laceri e
un fagotto sulle spalle, nelle banchine portuali di
mezzo mondo e eravamo tanto malvisti e disprezzati.
L’intolleranza e l’odio, con cui i nostri erano
accolti, sono gli stessi sentimenti, che abbiamo oggi
nei confronti degli emigrati, ed ora come allora sono
frutto della sensazione di estraneità, che essi
suscitavano, perché considerati diversi e inferiori.
Non dobbiamo mai dimenticare la triste fama
della quale erano circondati i nostri emigranti, non
solo alla fine dell’Ottocento, ma anche in tempi
relativamente recenti.
Sino alla soglia degli anni Settanta del secolo
appena trascorso ricordo di aver visto personalmente
in alcuni locali svizzeri e di altri paesi europei i cartelli
con la scritta: “E’ vietato l’ingresso agli italiani“. Ciò
avveniva, perché i nostri emigranti portavano con loro
all’estero una triste nomea generalizzata, come oggi
avviene per gli immigrati albanesi, considerati tutti

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criminali, dimenticando che fra essi esistono anche
degli onesti lavoratori.
L’emigrazione è una storia carica di verità e di
bugia, in cui non sempre puoi dire chi abbia ragione e
chi torto.
Non è possibile esprimere giudizi positivi o
negativi sul fenomeno dell’emigrazione, ma bisogna
limitarsi a conoscere le vicende e conoscendole si
constaterà che alla base c’è sempre una responsabilità
politica, giacché poco hanno fatto e fanno i Governi
per alleviarne le condizioni, per intervenire, quanto
meno, contro le tante speculazioni e i numerosi
speculatori.
Solo chi è stato costretto ad emigrare, non
importa se un secolo fa ovvero ieri, conosce quanto è
triste lasciare la propria terra, i propri ricordi,
l’ambiente in cui si è vissuto, ma la fame non conosce
legge ed è con dolore, che si è costretti a partire.
Ed emigrare non è soltanto varcare i confini, ma,
per noi, è uscire dall’Isola: anche nel contesto
nazionale del passato i siciliani hanno stentato ad
acclimatarsi, dovendo resistere a tanti pregiudizi, al
malanimo con cui spesso sono stati visti, alla
generalizzata nomea di “mafiosi“, che si portavano
dietro.
Oggi le posizioni si sono, per noi, invertite e
tutti gli emigranti da qualunque latitudine provengano
sono diventati anche per noi oggetto di polemiche,
oppure oggetto di strumentalizzazioni politiche di
corto respiro.

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Anche se tutti parlano di fraternità e di
“convivenza civile“, nei fatti, poi, come oggi negli
Stati Uniti si costruiscono centinaia e centinaia di
chilometri di alti muri per impedire il passaggio ai
poveri lavoratori che pressano dal Sud.
La causa di tutto ciò va ricercata in un istintivo
pregiudizio sul diverso, sullo straniero e dire che
l’immigrazione e l’emigrazione potrebbero
rappresentare una straordinaria occasione per ripensare
che ogni uomo è straniero in questa terra.
È l’innato egoismo umano, che non ci rende
disponibili a pensare al dovere della convivenza, che
non ci porta a studiare nuovi e veri modi di convivere
in una società aperta e bene organizzata.
Certo è dovere dei nuovi arrivati sottostare al
rispetto delle leggi, degli usi e delle tradizioni del
paese, in cui si arriva, ma è anche doveroso da parte
del residente di vedere gli immigrati come persone,
che soffrono, quanto meno di nostalgia, e che
comunque sono nostri simili che il bisogno ha fatto
allontanare dal loro paese.
Intanto, come evidenzia padre Russo, non si
parla del fatto che la Sicilia soffre di un nuovo tipo di
emigrazione, fatto di giovani qualificati, laureati e
diplomati, che non trovando una sistemazione nel loro
paese natio sono costretti ad emigrare al nord.
Il nuovo emigrato, come dice l’Autore “ parte
inosservato ed ha la facilità di adattamento, perché non
è un diverso… ma è uno stillicidio, che dissangua i
nostri paesi delle migliore forze “.

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Di loro non si occupano i mass media, né le
tante istituzioni sorte a difesa degli immigrati, ma
anche questa è emigrazione che, oltre a creare danni
irreparabili alla società e all’economia siciliana, porta
dolore, lacera affetti, divide famiglie, distrugge
tradizioni.
Francesco Pillitteri

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Spesso si celebra, si parla e non si opera.

Il 21 dicembre 2004 la Sicilia balzò alla ribalta


dell’opinione pubblica italiana per l’inaugurazione
dell’ultimo tratto di quarantuno chilometri
dell’autostrada, da Castelbuono a Furiano, senso
Palermo-Messina. Infatti i mezzi di comunicazioni
nazionali di qualunque tipo ne parlarono, mettendo in
risalto che la “A20” finalmente dopo trentacinque
anni è stata completata.
Grande furono i preparativi, come furono
numerosi gli invitati, duemilacinquecento, e poi
Berlusconi, circondato da Cuffaro, dal cardinale De
Giorgi, da Micciché, e poi… da ministri, deputati,
senatori con gli impresari e i vari funzionari addetti ai
lavori.
L’onorevole Berlusconi nel suo discorso esaltò
la tenuta e la continuità del suo governo e non fu
povero a spargere le lodi alla bellezza della Sicilia.
Infatti disse: “Voi siciliani avete davvero tutto: avete la
storia, il sole, un ambiente straordinario, delle opere
d’arte pregevolissime, testimonianze di un passato
glorioso e poi… Qui in Sicilia ci sono delle ragazze
così belle!”.
Peccato che l’onorevole Berlusconi, forse non
aveva avuto tempo di rendicontarsi sull’Istat, che il
giorno prima i giornali nazionali avevano relazionato

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specialmente su l’occupazione in Italia nel terzo
trimestre 2004.
I risultati dell’Istat per il Sud non erano
confortevoli, anzi erano allarmanti, poiché
l’occupazione aveva toccato il livello più basso degli
ultimi dodici anni con la soglia minima del 7,4%.
Oggi in Sicilia sono molti, coloro che dopo
diversi anni di una lunga attesa per una chiamata, che
mai è arrivata, si sono cancellati dalle liste di
collocamento per incrementare l’emigrazione interna
ed estera. Secondo l’Istat è proprio l’emigrazione che
si incrementa al Sud giorno per giorno, che lacera le
famiglie e spesse volte distrugge psicologicamente
degli individui, sradicandoli dal loro ambiente.
Se l’onorevole Berlusconi conoscesse questa
triste situazione, che tante famiglie siciliane
sperimentano, credo, che non avrebbe lodato la natura
e l’arte, che è in Sicilia, e nonché le “ragazze così
belle”, perché tutto ciò è gratuito. Anzi avrebbe detto
che quello che è stato realizzato è solo una piccola
parte e che bisogna muoversi nel giusto senso per
creare occupazione.
Chi non si lascia prendere dalle parole
complimentose comprende bene che certi politici
partorendo un topolino fanno apparire una grande
montagna.
Questa nostra Sicilia così ricca di bellezze e di
risorse, abbandonata dai suoi stessi figli “eccellenti”,
produce solo per molti lacrime e sofferenze.
Eppure festeggiamo, lodiamo…..

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Ma poi l’onorevole Berlusconi ha avuto un
ripensamento e ha detto: “Delle bellezze della vostra
terra è necessario far godere anche chi non ha avuto la
fortuna di nascervi. Per questo dobbiamo aumentare la
sua capacità di attrazione turistica, incrementare la
mobilità al suo interno e da e verso di essa”.
Mi auguro che questa aspirazione già non sia
andata nel dimenticatoio e che per realizzare tutto
questo l’onorevole Micciché continui con tenacia a
stare attaccato come un cane ai polpacci di
Berlusconi.
Ma nel frattempo che questo desiderio
dell’onorevole Berlusconi venga portato nella realtà,
parlerò per diverse settimane della storia
dell’emigrazione dei siciliani nel mondo. È una pagina
triste per le sofferenze subite di tanti nostri
corregionali, ma è anche per un certo senso una pagina
gloriosa, perché l’emigrazione ha portato dignità a
tanti individui, benessere alle famiglie e valuta
pregiata all’Italia.
Mi auguro che questa ricerca possa illuminare le
menti di chi ha le sorti della nostra popolazione,
continuando a percorrere questa via, appena tracciata,
dando strade veloci e sicure per incrementare il
commercio, il turismo e l’industria e fare uscire la
Sicilia dal dissanguamento giovanile. Se partono i
giovani, chi sogna, chi realizza, chi modernizza?
Con l’emigrazione la situazione siciliana è di
suicidio: si fanno i figli, si fa la scelta dello studio, si
consegue la laurea o il diploma e si parte, portando con

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sé amarezza e disprezzo, che difficilmente viene
cancellato.

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Per gli “stranieri d’Italia” vi è stata


e vi è solo amnesia.

Non fa più notizia il continuo arrivo dei


clandestini asiatici ed africani, che approdano nelle
nostre coste con imbarcazioni fatiscenti, vere carrette
umane, per poi continuare la loro avventura verso il
nord Italia o in altri paesi d’Europa.
Sono giovani uomini e donne, spesso con
bambini, che, non riuscendo a vivere dignitosamente
nei paesi natii o per la fame o per le guerre fratricide,
lasciano la propria terra in cerca di fortuna in paesi
lontani. Vi è chi parte col solo progetto di sacrificarsi
per qualche tempo per racimolare un po’ di denaro,
poi tornare e fare un salto di qualità. Vi è chi parte,
avventurandosi con la famiglia, deciso di tagliare i
rapporti con la propria terra, sradicandosi per non
tornare più.
Per tutti costoro l’emigrazione lacera gli affetti,
divide le famiglie, distrugge le tradizioni. Si lascia un
presente miserevole, ma ricco di un contesto, che dà
una certa sicurezza, e si va verso una speranza, armati
solo di nulla, per bussare alla porta ed al cuore di una
società ricca, che non sempre dà accoglienza.
Questa gente viene nelle nostre città e svolge i
lavori più umili, senza rossore, con dignità, sapendo
sopportare il nostro disprezzo, la nostra insofferenza e,

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perché no, la nostra xenofobia.
Questa triste storia dei migranti di oggi l’hanno
vissuta tanti dei nostri.
Nell’incontrare questa povera gente in me si
ravviva spesse volte il ricordo di quei nostri migranti,
che, ritornando a seconda guerra mondiale conclusa
per una visita alla loro terra e ai loro parenti,
raccontavano le loro disavventure. Il forte del loro
racconto era la prima traversata, la quarantena, il
disprezzo d’essere italiani, i lavori più umili e poi per
alcuni il salto di qualità. A noi, che li guardavamo
come persone di un gradino più alto, perché eleganti,
ricche e riuscite, pensavamo: “hanno denaro!”. Essi
capivano il nostro pensiero e allora mostravano il
pugno chiuso ben serrato e dicevano: ”Se si potessero
spremere questi dollari, gronderebbe sangue”.
Volevano indicare la tanta fatica impiegata, le tante
mortificazioni subite, quei lavori umili svolti,
l’emarginazione vissuta per anni ed anni.
Il flusso migratorio verso le Americhe in Italia
iniziò nella prima metà dell’ottocento con
l’industrializzazione. In Sicilia, invece, iniziò molto
più tardi quando il governo di Francesco Crispi non
diede una risposta adeguata ai contadini e agli
zolfatari, aggregati nei Fasci Siciliani. Anzi disciolse le
loro associazioni e li fece aggredire dall’esercito,
causando dei morti.
L’Italia ha sperimentato due guerre mondiali, è
stata governata dai liberali, dai fascisti, dai
democristiani, ma il fenomeno migratorio non è stato

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mai studiato per dare una soluzione, anzi si è lasciato
alla sua sorte tanto che oggi con un ritmo costante
continua inesorabilmente non per arricchire le
famiglie, ma forse per impoverirle.
Ne fanno testimonianza i vari pulmans, che ogni
settimana partono dai nostri paesi carichi di poveri e
no verso ogni latitudine, percorrendo il continente
europeo in cerca di un luogo tranquillo, ove trovare
lavoro e vivere sicuri. Essi sanno che il futuro del
mondo appartiene a loro, infatti gli spostamenti di
popolazione sono nati con l’uomo e costituiscono il
filo conduttore di tutta la storia umana.
La forza, però, che spinge la nostra gente a
questo andare, è l’esigenza della sopravvivenza, il
desiderio di migliorare il proprio status sociale per
riappropriarsi della dignità perduta o strappata
indegnamente. Infatti lo stomaco vuoto fa pensare: o
partire o aggredire. Molti scelgono il partire con
l’amarezza nel cuore, convinti di essere stati traditi e
con la voglia di dimostrare di essere ricchi di dignità.
Mentre in cento anni di emigrazione non è stato
studiato scientificamente questo fenomeno per non
creare ancora altri disagi, si accoglie, come se gli
appartenesse, la valuta rimessa dagli emigranti. Non si
è grati del beneficio ricavato dall’economia italiana.
Infatti coloro che sono rimasti ne hanno tratto un
grande vantaggio per la valuta fresca che arrivava.
Da un certo calcolo risulta che negli ultimi cento
anni ben ventisette milioni d’italiani hanno raggiunto
altri lidi e fra essi diversi milioni di siciliani. Nessuno

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si è preoccupato di questo problema. Solo il governo
fascista per motivi particolari politici ha cercato di
limitare questo fenomeno.
È del 1988 la legge, che stabilisce che “la politica
dell’emigrazione è una questione nazionale”.
Speriamo che non resti solo inchiostro messo sulla
carta, come sembra. È indubbio che i movimenti
migratori costituiscono una sfida e una provocazione
per la società di oggi, come lo erano anche prima, solo
che vi è stata una grave amnesia, che è opportuno
rimuovere, verso quelli che sono stati opportunamente
chiamati “stranieri d’Italia”.

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Si è scelta l’emigrazione per un lavoro


che fosse vita.

Per la sua insularità e il suo sviluppo economico


specifico la Sicilia è stata una delle ultime regioni
d’Italia a sperimentare il turbinoso movimento
migratorio. Ma, se fu una delle ultime a sperimentare
questo fenomeno, resta, però, oggi una delle regioni,
che vive ancora questo fenomeno in larga scala, anche
se sotto altri aspetti.
Il ritardo dell’ondata emigratoria in Sicilia ha le
radici nell’essere stata per molti secoli terra di
immigrazione per la sua fertilità e la sua ricchezza.
Infatti sino al XVIII secolo ha sperimentato diverse
ondate. Prima i saraceni, che per diversi secoli ne
fecero la loro terra e, poi, a partire del XII secolo i
lombardi, i veniti, i calabresi e greco-albanesi, che
fondarono interi paesi.
A questi bisogna aggiungere gli artigiani e i
commercianti genovesi, veneziani, toscani, amalfitani,
che arrivavano inizialmente per esplicare la loro
attività stagionale, ma, poi, ammaliati dal clima e
dall’ambiente rimanevano tra noi. Ne fanno
testimonianza le tante chiese o vie, che fanno
riferimento a queste comunità.
La grande emigrazione italiana va dal 1870 al
1895, che interessò inizialmente le regioni

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settentrionali, fornendo un maggior numero di
emigranti, quasi tre su quattro. Questo movimento fu
causato dalla grave crisi economica, che dopo l’unità
d’Italia colpì le nostre contrade, facendo crollare i
prezzi delle derrate alimentari, portando masse di
gente della campagna a sperimentare l’emigrazione
transoceanica a partire dalla Liguria e dal Piemonte.
Successivamente si accodò la povera gente del Veneto
e della Lombardia, e poi via via quella delle altre
regioni d’Italia. La fuga dalle campagne e dalle città
per terre lontane fu tanto intensa che si parlò di
diaspora.
Fra tutte le regioni d’Italia la Sicilia, benché
fosse una delle regioni più povere della penisola, fu
l’ultima a sperimentare la via della emigrazione di
massa. Le cause erano l’isolamento interno ed esterno,
in cui viveva, l’assenza di una tradizione migratoria e
la febbre dello zolfo, che nell’ottocento investì le
nostre popolazioni. Allora la Sicilia aveva il
monopolio mondiale dello zolfo, fornendo in
particolare le industrie tessili della Gran Bretagna e
della Francia, cosa che influenzò l’intera economia
isolana. Da tutti si parlava di zolfo e della sua richiesta
nei vari mercati mondiali. Infatti l’esportazione dello
zolfo nell’arco di pochi anni passò da poche migliaia a
milioni di tonnellate, cosa che spinse molti privati a
investire il loro denaro in questo settore, sperando in
una ventata di benessere. Anche i contadini
abbandonarono il lavoro dei campi per diventare
zolfatai, affrontando grandi sofferenze, compresa la

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realtà triste dei carusi, con la speranza di giorni
migliori.
All’inizio chi scendeva nel ventre della terra era
sordo a qualunque denunzia di sfruttamento di tipo
feudale sino ad accettare fatalisticamente le più
immane disgrazie, come le decine e decine di morti,
causate o per il crollo di una volta o per lo scoppio
dell’antimonio.
La miniera era il luogo ove si viveva la
comunanza e ove si scambiavano le opinioni, facendo
acquisire a quei lavoratori una coscienza sociale.
Infatti tra gli zolfatai fiorirono le prime associazioni
politiche, anche di tipo anarchico.
Alla fine dell’Ottocento il progresso sociale
giunse anche in Sicilia e fu piuttosto sostenuto,
giacché, sia le classi operaie sia quelle contadine,
ebbero maggiore coscienza sociale e incominciarono a
chiedere i propri diritti. Quando, però, il sognato
benessere, collegato al boom zolfifero, si trasformò in
delusione, per la concorrenza dello zolfo statunitense,
prodotto a minor costo, la gente constatò che la
speranza era morta e che la Sicilia non era redimibile.
La disperazione invase gli animi delle masse
deluse e, non trovando una soluzione alla propria
miseria dalle vuote parole della classe politica, che non
sapeva fare altro se non deprecare l’antiquato sistema
dell’estrazione e della lavorazione dello zolfo,
stigmatizzare il barbaro sfruttamento dei carusi,
condannare l’esosità degli affitti imposti dai
proprietari ai gestori delle miniere, molti si posero il

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dilemma o continuare a patire la miseria e i soprusi dei
datori di lavoro, dei proprietari, dei gabelloti e dei
campieri, o emigrare.
L’acquisita coscienza sociale e l’amore per i figli
non permettevano più alle classi lavoratrici di
continuare a subire lo strozzinaggio con sfruttamenti
inumani e salari di fame, che non permettevano la
sopravvivenza delle famiglie. Allora, constatato la fine
dell’eldorado, per non subire angherie di ogni sorta,
anche se collegate a reali crisi economiche, si scelse la
strada obbligatoria dell’emigrazione per avere un
lavoro che fosse vita.

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Preparativi, partenze, loschi agenti.

Sul finire dell’ottocento, l’emigrazione siciliana


entrò nel vorticoso flusso della grande emigrazione,
infatti passò dalle poche unità degli inizi degli anni
‘80, alle18.000 nel 1897 e, poi seguendo una linea
iperbolica alle 54.886 unità del 1902, alle 127.603 del
1905 sino alle 146.061, del 1913, divenendo così la
Sicilia la regione con più alta percentuale di
emigrazione in Italia. Bisogna, però, constatare che
mentre in questi anni il Piemonte, la Lombardia, la
Liguria e l’Emilia per lo sviluppo industriale quasi
videro estinguere questo fenomeno, la Sicilia,
impotente, lo vide aumentare.
Il flusso migratorio di milioni di siciliani, in
meno di un ventennio, mise in discussione tutto
l’assetto socio - economico dell’isola, portando
l’arcaica società rurale, in una crisi senza ritorno,
creando una vera e propria inedita, improvvisa e
silenziosa rivoluzione sociale.
La mancata volontà dei latifondisti di effettuare
le dovute trasformazioni agrarie e la mancata volontà
dei governi, spesse volte diretti da siciliani, di
industrializzare la Sicilia, non fece risolvere i gravi
problemi isolani dell’economia e del lavoro. Ecco
perché l’esodo dei contadini e degli zolfatai siciliani
verso le lontane Americhe fu così numeroso e si

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presentò come la più spettacolare manifestazione del
profondo risentimento che la classe lavoratrice aveva
accumulato contro le spoliazioni, contro l’insaziabile
ingordigia della borghesia locale e contro l’insipiente
classe dirigente italiana.
La ricca letteratura meridionalista trattò
ampiamente questo fenomeno con interventi di politici
e studiosi, divisi in emigrazionisti, che sostenevano gli
aspetti positivi delle rimesse di valuta e il conseguente
movimento negli affari, e gli antiemigrazionisti, che
sottolineavano i danni subiti dal paese per la perdita di
manodopera, stigmatizzando la speculazione nel
reclutamento e trasporto degli emigrati, che mieteva
tante vittime umane oltre ad arrecare danno
economico.
In questo periodo nacque la figura dell’agente
senza scrupoli, che reclutava gli emigranti. Era una
razza di impresari sul tipo dei negrieri del seicento e
del settecento, che era sorta d’incanto, servendosi della
disgrazia della nostra terra, poiché sempre alcuni
hanno avuto la capacità di sfruttare a proprio
vantaggio qualunque momento difficile, quale
terremoti, pestilenze, fame per arricchirsi, utilizzando
anche la pietà cristiana. Infatti si arricchivano
introducendo il bestiame umano nelle stive delle
compagnie di navigazione, ansiose di riempirle, per
impiegarlo nelle compagnie ferroviarie, nelle miniere,
nelle ferriere e in ogni dove vi era esigenza di
manodopera. Queste agenzie si qualificavano, senza
alcun ritegno, come Agenzia per spedizioni di merci e

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di persone per l’interno e per l’estero.
Questo fenomeno durò sino alla prima guerra
mondiale, quando venne soppiantato dal parente, dal
paesano, dal conoscente, che aprivano la strada
dell’emigrazione al bracciante, assicurandogli un posto
di lavoro ed ospitandolo per qualche tempo. Questo
fece evitare il rischio di cadere nelle mani degli avidi
speculatori, creando così una catena di solidarietà.
Per realizzare la partenza vendevano parte della
loro terra o ipotecavano la casa. Spesso tutta la
famiglia metteva a disposizione i propri risparmi per
consentire, almeno ad uno dei membri, di tentare la
fortuna. A partire certamente erano sempre i migliori,
le forze giovanili.
Nel 1901 con il dilatarsi del fenomeno
emigratorio e coi benefici prodotti dalle notevoli
rimesse di valuta, il Governo italiano istituì il
Commissariato Generale per l’Emigrazione con
compiti più statistici che di reale assistenza ai partenti.
Anche la Chiesa intervenne, però, creando istituzioni
assistenziali in favore degli emigranti. Basta ricordare
la Cabrini e monsignor Scalabrini.
Gli emigranti con tutto ciò, rimanevano in balia
di loro stessi, esposti a tutti i rischi, compreso quello di
cadere nelle mani di un truffatore che, raggirandolo,
s’impossessava del biglietto di viaggio o delle somme
tanto faticosamente accumulate e spariva,
costringendo il povero bracciante a ritornare al paese.
Sembra che a qualcuno capitasse di peggio: si
dice di gente che, partita dal proprio paese per il porto

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d’imbarcazione, non raggiunse mai le Americhe,
perché perdette la vita per mano di organizzazioni
criminali. Poveri disperati!
Con i guasti delle privazioni e delle fatiche subite
e con il dolore profondo, che la maschera di un forzato
sorriso mal nascondeva, partiva con il dolore di
abbandonare la famiglia e la terra natale, dolore che
non può essere mitigato dalla speranza di un avvenire
migliore.
Li sorreggeva solo la certezza che la loro vita non
sarebbe stata peggiore. Con la speranza nel cuore
partivano con la voglia di tornare presto ricchi o
magari di chiamare le loro famiglie nelle lontane
Americhe, terra che non sarebbe stata più ingrata di
quella che avevano abbandonato.

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La spartenza e il calvario prima di imbarcarsi.

È difficile poter descrivere il trauma della


spartenza! È lo sradicarsi, è il girare le spalle agli
affetti più cari, anche se nella mente e nel cuore
resteranno impressi per qualche tempo, è il farsi
coraggio nel lasciare qualcosa, che è certo per andare
incontro all’ignoto, è l’uscire da una struttura, che in
certo qual modo dà certezza, è l’abbandonare i volti, i
suoni, i colori, che formano una collocazione, con la
speranza di avere molto di più.
Vi è una ricca produzione letteraria sulla
partenza dell’emigrante e da tutti gli autori è vista
come evento luttuoso, disgrazia, perché consuma un
distacco traumatico dalla famiglia e dal paese. È un
viaggio verso l’ignoto, perché si corre il rischio di
perdersi in una terra senza confini, crocevia di
lacerazioni profonde.
Tanti hanno scritto su questa lacerazione
interiore di chi partiva e di chi restava, ma forse quello
che ha saputo meglio rappresentare questa disgrazia, è
stato Luigi Pirandello nella sua novella L'altro figlio,
ove ha saputo centrare il dolore continuo di mamma
Mariagrazia, che da un quindicennio non ha più notizie
dai due figli emigrati nelle Americhe e che contrae una
fissazione maniacale di portare lettere senza indirizzo
a tutti coloro che stanno per migrare.

29
Per far capire che cosa comportava la spartenza
basta rileggere la pagina toccante, che scrisse un
cronista nel 1905, ove descrive la partenza di un
gruppo di emigranti dalla stazione ferroviaria di
Castrofilippo in quella di Agrigento: “Affacciatomi
allo sportello, vidi una fiumana nera di contadini con
dei sacchi di tela sulle spalle, che correvano verso là
dove erano i vagoni di terza classe: donne e fanciulli li
seguivano gridando. Nel parapiglia non si capiva
bene chi fossero gli emigranti. Vi erano molti che
entravano nelle vetture coi sacchi, ma poi ne uscivano
piangendo. Tutti si abbracciavano e si baciavano in
una confusione indescrivibile. I conduttori del treno, il
capo stazione, avevano un gran lavoro per tenere
dietro quella gente, che non doveva partire, per farla
uscire dai vagoni e per tenerla lontana dal binario.
Finalmente si sentirono sbattere gli sportelli della
vettura e suonò la cornetta, che dava il segno della
partenza. Allora le donne dalle facce brune,
abbrustolite dal sole, e dai denti biancheggianti nelle
grandi bocche, rivolte dalla parte della macchina,
piangevano e gridavano a squarciagola. Dagli sportelli
si slanciavano fuori dei giovani vigorosi, che
abbracciavano le persone sottostanti. Come un’onda,
la moltitudine si infrangeva contro i vagoni, salendo
sui predellini, aggrappandosi alle maniglie. La
locomotiva fischiava, ma il macchinista non osava
mettere in moto il treno tanto era lo scompiglio. La
folla stava sempre aggrappata al treno, abbracciata
nelle ultime strette dell’addio. Il capostazione mi disse

30
che erano trenta emigranti, che partivano, con sette
donne, per l’America. Quella povera gente aspettava
da circa due mesi senza trovare posto nel piroscafo e
finalmente era giunto l’ordine di imbarcarsi a
Palermo. Quando il treno si mosse fu un grido
straziante, uno scroscio di pianto, che prorompeva da
una moltitudine nel momento di una grande sventura.
Tutti avevano le braccia levate ed agitavano i
fazzoletti. Una donna si staccò dalla folla e correva
gridando. Eravamo già fuori dalla stazione ed essa
correva sempre dicendo con voce forte: ‘salutatelo,
ricordategli che aspetto; fate che mi mandi i denari;
per il viaggio; ditegli che attendo, che, se non parto,
muoio!’. Il pianto e l’affanno del respiro le troncarono
la voce e si fermò, afferrandosi ad un palo del
telegrafo. Ma i pianti della partenza e l’accorrere dei
contadini intorno a Castofilippo non sono ancora
finiti. Lontano, sui crocicchi delle strade stanno i
cavalli in fila e sui carri la gente saluta con grida di
dolore e di festa. Quando il treno, prima che arrivasse
a Racalmuto, rallentò la corsa, tutto il popolo, che
stava davanti e intorno alla stazione, mandò un grido
lungo e confuso, che ingrossava come un rombo, fino
a che la macchina non si arrestò. Erano sei o sette
emigranti. Si ripeterono le medesime scene
commoventi dell’addio. Il treno si mosse e gli
emigranti riuscivano a stento a svincolarsi dalle mani,
che facevano siepe intorno ad ogni sportello. Il popolo
mandò il grido di un saluto doloroso e tutto svanì col
rumore del treno, che correva veloce, lasciandosi

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dietro una nube di polvere. Poi tutto si quietò. Il treno
correva solitario e quasi silenzioso”.
Così incominciava il faticoso e triste viaggio,
che sarebbe durato settimane ed anche mesi a secondo
delle diverse destinazioni, che si dovevano
raggiungere. Spesse volte si incappava in incidenti,
che avvenivano dentro gli stessi porti. Infatti le
strutture portuali non sempre erano adeguate. Bastava
una mareggiata che il piroscafo si arenasse o una nave
di grande tonnellaggio nell’eseguire la manovra di
avvicinamento ai pontili si danneggiasse. Questi
episodi ritardavano anche mesi la partenza, senza che
le compagnie si curassero dei disagi degli emigranti.
Le uniche strutture predisposte nei porti di Palermo,
Napoli e Genova, erano dei capannoni per i controlli
igienico - sanitari e per la polizia di frontiera. La folla,
che si accalcava sulle banchine di questi porti, essendo
gente mal vestita e male odorante, era guardata più con
paura che con pietà. Dovendo aspettare diversi giorni o
anche settimane, la maggior parte passavano le notti
all’aria aperta, accucciati come cani per le strade.
Solo alcuni andavano in locande o presso famiglie,
sborsando costi rilevanti. Mentre coloro, che erano
stati ingaggiati dell’agente della Compagnia dove
dovevano andare a lavorare, non avevano la possibilità
di chiedere, ma solo di accettare quello che gli
offrivano. Infatti questi emigranti venivano alloggiati
in attesa della partenza spesse volte in ambienti privi
di aria, sporchi, umidi e puzzolenti, ove la maggior

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parte dormiva per terra tra materiali fecali e urina.
Poveri uomini, di cui nessuno si prendeva cura!

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34
6

Il viaggio, odissea dell’Ulisse collettivo.

Dopo snervanti attese di diverse settimane, si


arrivava, finalmente, alle operazioni d’imbarco. Gli
emigranti, prima di salire a bordo, erano sottoposti da
un delegato di polizia, che mostrava alcuna fretta, al
controllo dei passaporti. Arrivava così il momento di
salire sulla sospirata nave e incominciare il viaggio,
che spesso avveniva con vecchi piroscafi privi dei
requisiti essenziali di sicurezza e di igiene, veri
carrette del mare.
Si legge sul giornale di bordo del piroscafo
‘Città di Torino’, che partì da Genova per New York
nel novembre 1905: “Fino ad oggi su 600 imbarcati,
vi sono stati 45 decessi dei quali: 20 per febbre
tifoidea, 10 per malattie broncopolmonari, 7 per
morbillo, 5 per influenza, 3 per incidenti di coperta”.
Infatti in questi viaggi transoceanici oltre ai naufragi si
contraevano malattie per il sovraffollamento e la
sporcizia, che, all’arrivo, gli emigranti, passando dal
controllo sanitario, venivano rigettati e costretti a
ritornare nei loro paesi.
Toccante è il racconto di Edmondo De Amicis,
che scrisse nel 1890, quando si imbarcò sulla
‘Galileo’ verso l'America del Sud, ove viaggiavano
moltissimi emigranti. È un racconto toccante sulle
esperienze degli emigranti a bordo di una nave in

35
viaggio. “Passavano operai, contadini, donne con
bambini alla mammella e ragazzetti per mano,
portando sacche e valige d’ogni forma a mano o sul
capo, materassi e coperte e il biglietto col numero
della cuccetta fra le labbra. Questa processione umana
ad un tratto veniva interrotta, perché imbarcavano gli
animali. Poi la sfilata degli emigranti ricominciava e il
grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo
enorme succhiava ancora sangue italiano.
Man mano che salivano gli emigranti passavano
davanti a un tavolino, ove era seduto l’ufficiale
commissario, che raggruppava gli emigranti a mezza
dozzina, consegnando al più anziano l’elenco, perchè
andasse a prendere il mangiare in cucina all’ora dei
pasti. Poi le famiglie venivano separate, gli uomini da
una parte e le donne e i ragazzi dall’altra, e condotte ai
dormitori. Era una pietà vedere le donne scendere
stentatamente per le scalette ripide. Quasi tutti si
trovavano per la prima volta sopra un grande
piroscafo, che sarebbe stato per loro come un nuovo
mondo, pieno di meraviglie e di misteri. Dei giovanotti
sghignazzavano, ma, in alcuni, si capiva che l’allegria
era forzata. La maggioranza mostrava stanchezza ed
apatia. Sulla panchina vi era un centinaio di persone,
pochissimi i parenti degli emigranti, i più i curiosi e
molti gli amici e i parenti della gente d’equipaggio,
assuefatti a queste separazioni. Completate le
operazioni, in un gran silenzio si sentì gridare i
marinai a poppa e a prua: “Chi non è passeggero, a
terra!”. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, le

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gomene tolte, le scale alzate, s’udì un fischio e il
piroscafo cominciò a muoversi.
Allora le donne scoppiarono in pianto, i giovani
che ridevano si fecero seri e si vide qualche uomo
barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano
sugli occhi. Il piroscafo scivolava piano piano, quasi
furtivamente, come portasse via un carico di carne
umana rubata. Pochi parlavano a bassa voce. Quando
si fu fuori del porto, era notte”.
Rattristato da questo spettacolo, il De Amicis
tornò in poppa e discese nel dormitorio di prima
classe, a cercare il suo camerino, dicendo tra sé: “Che
matta idea ti è venuta d’andare in America per
dormire ventiquattro notti in quel cubicolo
soffocante”. Se il De Amicis mostra un quasi
pentimento per un viaggio lungo, ma in prima classe,
bisogna pensare ai patimenti che i poveri emigranti
avrebbero dovuto sopportare in quelle stive buie e
maleodoranti, accampati nelle orribili cuccette, senza
neppure potere consumare i pasti in una qualunque
sala da pranzo.
Quasi un mese di viaggio per arrivare
nell’America del Sud, un mese da trascorrere nelle
viscere di una nave o sulla fredda tolda, sferzati dal
vento e dall’umidità. Era un tempo infinito per quei
poveri contadini, ancora scossi dalla tristezza della
partenza, condannati a quella forzata inattività, quasi
in balia di loro stessi, senza nessun conforto e
condannati a passare le giornate in un ozio senza
riposo. Qualcuno se ne stava fermo per ore a

37
guardare l’oceano, come se volesse vedere il fondo di
esso, ma in realtà senza fissare nulla.
Abbandonati in quella inqualificabile terza
classe, gli emigranti contadini sentivano delle musiche
e qualche acuto tenorile, che provenivano dai saloni di
prima classe, dove signore e signori, elegantemente
vestiti, ingannavano il tempo e si divertivano con
balli e spettacoli.
Ogni giorno guardavano l’orizzonte per
intravedere la terra di arrivo, la terra dove andare a
lavorare. Quelli, però, che dovevano raggiungere gli
Stati Uniti ed erano diretti a New York, non sapevano
che prima di mettere piede negli Stati avrebbero
dovuto scontare il purgatorio della quarantena ad Ellis
Island. Infatti venivano trattati come tante bestie,
rimanendo tanti giorni prima di essere osservati e
visitati, onde accertare se fossero fisicamente sani e
privi di malattie infettive.
Solo quando tutte le formalità erano esaurite, gli
emigranti venivano finalmente posti sulla banchina,
come tanti ‘pacchi postali’, con un cartello attaccato
al risvolto della giacca, che indicava il loro nome e
cognome e il luogo di destinazione.
Così finiva la prima parte della lunga odissea di
quella sorta di Ulisse collettivo, come è stato definito
il grande fiume dei nostri emigranti. Mettere piede a
terra, dopo la lunga navigazione, significava, però,
iniziare una nuova vita.

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7

“Argentina”: America povera.

L’arrivo nel nuovo paese comportava di superare


l’impatto di un mondo sconosciuto e poco
comprensibile, era quasi iniziare una nuova esistenza
da solo. Nel primo decennio del novecento
l’emigrazione per l’81% era prevalentemente
maschile, perché il programma era di andare a
raggranellare il gruzzoletto per migliorare la posizione
economica familiare e tornare. Però, quelli che sono
restati, hanno messo profonde radici, dando vita, da
principio, a collettività e, poi, a generazioni sempre
più remote dalle origini italiane.
All’inizio l’emigrazione transoceanica ebbe
come destinazione il Brasile e l’Argentina. In Brasile
si diressero i veniti con i friulani e i trentini, e poi i
piemontesi. Il flusso migratorio in Argentina iniziò
negli anni trenta dell’ottocento per un accordo
stipulato tra il Regno Sardo-Piemontese e il governo
argentino, portando a Buenos Aires migliaia e migliaia
di italiani dalle regioni settentrionali ed in particolare
dal Piemonte, dalla Lombardia e dalla Liguria, solo
all’inizio del Novecento dalla Calabria e dalla Sicilia.
L’emigrazione in Argentina fu incoraggiata dal
governo locale. Le epidemie dei decenni precedenti
avevano decimato la popolazione, tanto che in questa
vasta nazione i bianchi si erano ridotti all’inizio

39
dell’ottocento a circa un milione. Qui gli italiani
trovarono grandi spazi, tanto che prima dell’unità
d’Italia, i liguri avevano assunto il controllo della
navigazione fluviale e già nel 1850 il 10 % della
popolazione di Buenos Aieres, città che allora contava
100 mila abitanti, era composto da italiani, numero
che si incrementò col passare degli anni. Fu questa la
causa che invogliò nel 1875 don Giovanni Bosco a
mandare i salesiani.
Il richiamo verso l’Argentina fu causato dal
successo della marineria ligure, dalla vasta rete di
propaganda e di intermediazione, dalla prestigiosa
Società Geografica Italiana e dalle Compagnie di
navigazione genovesi, nonché dall’offerta
dell’abitazione in uso, degli animali da lavoro, degli
utensili e delle sementi sino al primo raccolto e per
dieci anni l’esonero da ogni imposta. Una tale politica
fece sì che in meno di un quarto di secolo gli italiani in
Argentina passarono dal 4 % al 12,5 % della
popolazione, inserendosi così bene nella società da
divenire apprezzati professionisti ed alti dirigenti
della pubblica amministrazione.
È dei primi del Novecento che in questo flusso
emigratorio si inserirono i siciliani, che a differenza
degli emigranti delle regioni centro-settentrionali, che
preferivano dedicarsi alla coltivazione della terra,
preferirono inurbarsi e dedicarsi a lavori di
manovalanza o di salariati per non americanizzarsi,
contando di poter un giorno tornare ai loro paesi. Ciò
nonostante, gli italiani si inserirono bene nella società

40
argentina e fu la massa degli emigrati italiani ad
influire sulla trasformazione etnica e culturale di
questa nazione, sino a farle meritare il carattere di
nazione bianca. Questo buono inserimento degli
italiani, però, provocò risentimenti e conflitti di classe,
ideologici e religiosi, per aver acquisito un peso
nella vita sociale. La comunità dei nostri connazionali,
benché le tante carenze esistenti al suo interno,
costituì una comunità privilegiata. Infatti riuscì ad
affermarsi economicamente e ad acquisire posti di
prestigio nel paese, creando scuole proprie, fondando
banche proprie ed editare giornali a vasta diffusione.
Questo, però, non deve far credere che tutti gli italiani
si fossero arricchiti, anzi bisogna precisare che tanti
furono coloro che non ce l’hanno fatta, che rimasero
poveri, continuando ad abitare nelle catapecchie della
periferia delle città. Da questo contesto sociale
nacquero gruppi di criminali, che fecero denigrare tutti
gli italiani da accreditati organi di stampa. Ma bisogna
dare merito ai più ambienti di aver favorito
aggregazioni di contenuto solidaristico, venendo
incontro ai molteplici bisogni degli emigrati, specie
nell’assistenza legale e nel collocamento dei
disoccupati.
A turbare la fattiva operosità degli italiani fu la
grave crisi, a carattere generale, che dopo il 1910
colpì l’economia argentina. Tale crisi ebbe infauste
conseguenze per gli ultimi arrivati, perché privi di
mezzi, non ambientati e alla mercè di speculatori. In
queste condizioni tanti furono gli italiani che

41
intrapresero la via del ritorno. Ormai l’Argentina era
diventata un paese poco vivibile, dove era
estremamente difficile trovare lavoro, tanto che
l’Argentina dai nostri in seguito fu chiamata l’America
povera.
Nel censimento del 1914 la comunità italiana
contava 930.000 unità e costituiva il 12 % della
popolazione. Ma bisogna far notare che il merito
dell’ottimo inserimento italiano nella società di questo
paese fu che i nostri emigrati mantennero l’identità
italiana, non assimilandosi totalmente con la società
argentina.
Nonostante l’avvenuto consolidamento
economico delle nostre comunità, l’emigrazione
italiana in Argentina dal 1912 al 1920, ebbe un saldo
negativo, preferendo gli Stati Uniti. Ma bisogna dire
che di Sicilia in questo grande paese molto è rimasto,
tanto che il quartiere più elegante di Buenos Aires oggi
è chiamato “Palermo”.

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8

Sull’umile opera dei contadini siciliani e no si è


costruita la società industriale statunitense.

L’emigrazione siciliana negli Stati Uniti iniziò


nello stesso periodo in cui era cominciata quella in
Argentina, ma per le molte difficoltà stentò a
decollare.
Gli Stati Uniti affondano le loro radici
demografiche nell’immigrazione, tanto da dirsi:
nazione di immigrati, poiché a formare questa nazione
sono stati cittadini provenienti da varie parti del
mondo.
Nel Settecento pochi furono gli italiani, che si
portarono in queste terre, ma lasciarono delle tracce
indelebili nella nascente cultura americana, come il
filosofo Filippo Mazzei e il librettista Lorenzo Da
Ponte. Nella metà del XIX secolo vi si recarono
qualche centinaio di fuorusciti, coinvolti nei moti
risorgimentali italiani, tra questi Giuseppe Garibaldi,
seguiti poi da un crescente numero di artigiani e
mercanti.
Questo scarso afflusso d’italiani negli Stati Uniti
fu causato dalla popolazione anglofona, che
scoraggiava l’arrivo di gente di altre etnie. Solo dopo
la Guerra Civile cominciò il grande afflusso
dell’emigrazione da ogni parte d’Europa, e dunque
anche dall’Italia. Benché questa massiccia

43
immigrazione avesse portato dei grandi benefici
all’economia statunitense, gli anglofoni guardavano i
nuovi arrivati, specialmente i siciliani, con arroganza e
disprezzo, poiché li ritenevano non educabili per il
minor grado di intelligenza, trattandosi in buona
parte di analfabeti, provenienti da ambienti del
proletariato rurale o urbano, che parlavano strani
dialetti.
A renderli invisi come diversi stava il fatto che
essi vivevano in vecchie e decrepite abitazioni e
facevano i più sporchi lavori disponibili. La situazione
dei nuovi arrivati venne aggravata da una campagna
antimmigrazione, specie verso quella italiana,
lamentando gli effetti negativi che essa stava avendo
sulla società americana. Le critiche contro il
permissivismo furono numerose ed aspre sino a
toccare vette di vero razzismo. L’eco di un tale modo
di pensare e di agire nei confronti degli immigrati
italiani da parte della opinione pubblica americana,
provocò le reazioni della stampa italiana e il giornale
di Palermo, L'Ora, quotidiano siciliano fondato dai
Florio nel 1900, aprì un vivace dibattito sulla sorte dei
nostri emigrati in America. L’avvocato e giornalista
Pietro Paternostro scriveva: “L’emigrante italiano è in
America la merce di qualità inferiore, quella che si
compra a minor prezzo e della quale l’industriale
americano si serve sia perché da questa possa ricavare
profitto, sia perché essa è atta, per la sua grande
quantità sul mercato, a dare maggiore profitto. I più
umili servigi, le imprese nelle quali l’uomo sostituisce

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la bestia, le più faticose corvee’s son compiute in
America dagli italiani”.
Ma queste polemiche non fermarono
l’emigrazione dei meridionali, che continuarono a
sbarcare numerosi negli Stati Uniti, vivendo in
condizioni poco piacevoli e subendo l’ostracismo dei
residenti. Gli americani, però, non percepivano che
era la povertà a renderli supini e disponibili ad
eseguire i lavori più sporchi e più modesti da essere
chiamati pala e piccone.
La maggioranza degli immigrati, specie i
siciliani, erano uomini soli, partiti in gruppi dai loro
paesi con l’unico scopo di accumulare quanti più
dollari per tornare e comprare terre o aprire un’attività
commerciale. Questa solitudine li rendeva chiusi nella
loro tristezza e tenaci ad accumulare, vivendo fra
privazioni e disagi, dimostrando scarso interesse a
imparare l’inglese e resistendo a ogni tipo di
assimilazione per non cadere nelle mani di sfruttatori.
Questo è il motivo per cui si crearono quelle tipiche
comunità di immigrati, legati alla lingua, agli usi e ai
costumi, nonché alle tradizioni, anche religiose, che
venivano elevate a segno di identità del gruppo,
creando mondi sociali, che erano una sorta di
prolungamento di quelli lasciati nel paese, perché
popolati da parenti e compaesani.
Nasceva, così, una solidarietà strana, un
associazionismo di fatto che, oltre ad elargire aiuti
finanziari in caso di malattia o di morte,

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sponsorizzava feste, conviviali e altre occasioni di
riunione, che mitigavano la nostalgia degli immigrati.
Per questo nacquero tante Little Italies,
riproducendo stradine simili ai vicoli di Napoli o di
Palermo, ove vi erano un ammasso di immondizie,
un’aria greve di fuliggine e di sporcizia, cattivi odori,
nessun albero, non un parco degno di questo nome,
non uno spazio per giochi dei bambini.
Anche i mestieri caratterizzavano la
provenienza degli emigrati e la dignità dell’individuo:
il sarto era napoletano o palermitano, il tessitore
lombardo, il cappellaio piemontese e così tutti gli altri
mestieri indicavano la provenienza.
Il contadino indicava il siciliano, che era buono
a scavare il terreno, a sterrare la terra per costruire le
ferrovie, a perforare le montagne, a prosciugare paludi,
ma non aveva posto nella società americana.
Oltre che nell’habitat anche nell’ambiente di
lavoro, negli Stati Uniti, il nostro contadino non
modificò molto il suo stato. La durata della giornata,
da suli a suli, fu sostituita con una giornata lavorativa
di dodici ore. Per certi aspetti il contadino si trovò
svantaggiato, giacché all’aria salubre dovette sostituire
gli ambienti malsani, anche se inconsapevolmente si
americanizzava.
Nonostante le difficili condizioni di vita e di
lavoro, centinaia e centinaia di migliaia di immigrati
italiani, lottando e lavorando indefessamente,
riuscirono a migliorare la loro posizione economica ed
alcuni raggiunsero le soglie del benessere.

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Bisogna dire se non fosse stato per i nostri
contadini sarebbero mancati i presupposti logistici
per la nascita di nuovi settori industriali. Non
sarebbero nate delle nuove industrie, se non fosse stato
per il bassissimo costo della manodopera siciliana.

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9

New Orleans e la xenofobia.

Nella seconda metà dell’ottocento Palermo


aveva frequenti collegamenti navali con New Orleans
nella Luisiana con il commercio degli agrumi. Molti
contadini siciliani, provenienti in gran numero
specialmente da Contessa Entellina, comune in
provincia di Palermo, attratti da vantaggiosi contratti
di lavoro per la coltivazione della canna da zucchero,
emigrarono e vi fondarono una delle più antiche
colonie italiane. Qui si scontrarono subito i due
profondi Sud, uno, quello siciliano, arcaico ed
arroccato in una tradizione atavica, l’altro, quello
cosiddetto americano, schiavista e razzista. Da questo
scontro nel 1891 si consumò il più grave fatto di
sangue: il linciaggio di undici siciliani.
I siciliani raggiunsero la Louisiana all’indomani
dell’abolizione della schiavitù. Uno dei pionieri fu un
certo Stefano Vaccaro da Contessa Entellina, che nel
1860 emigrò a New Orleans, riuscendo dopo un paio
di anni ad avviare una importante azienda per la
produzione e il commercio della frutta. Avendo
bisogno di manodopera la reclutò nel suo paese natio,
chiamando un centinaio di compaesani. Le lettere, che
arrivavano in Sicilia dai nuovi arrivati, cantavano le
meraviglie di quella terra e le buone possibilità di

49
lavoro, e così altri partirono per New Orleans,
formando nel 1870 una comunità di quasi duemila
siciliani, provenienti da Contessa Entellina, Piana
degli Albanesi, Termini Imerese, Poggioreale,
Corleone, Cefalù, Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano,
Trabia, Salaparuta, Caccamo, Roccamena, Sambuca di
Sicilia, Sciacca, nonché da Palermo. Vari furono i
motivi di questo grande richiamo, che nemmeno la
febbre gialla fermò: la soddisfazione dei piantatori di
canna da zucchero per il lavoro dei siciliani, il ritorno
in patria di alcuni, partiti poveri e nullatenenti, che
sfoggiavano una vita da gran signori ed infine chi,
tornando definitivamente con ricchi guadagni, acquistò
dei beni immobili.
Tutto questo benessere proveniva dal tenore di
una vita frugale e parsimoniosa, dalla capacità di
produrre autarchicamente i beni alimentari, il vestiario
e le attrezzature di lavoro. Vivendo così, alla fine
dell’ottocento, riuscirono a conquistare il monopolio
del commercio della frutta tropicale dell’America
Centrale e del mercato ortofrutticolo locale, suscitando
la gelosia degli altri gruppi etnici e attirandosi l’accusa
di essere mafiosi.
Era una colonia, antropologicamente forte, la
cui vita comunitaria faceva riferimento alla terra di
origine, poiché continuarono a vivere, mantenendo le
usanze della loro terra: le celebrazioni delle loro feste,
l’organizzazione sociale delle società di mutuo
soccorso e le Congregazioni laicali. Da questo derivò
che i primi arrivati accoglievano amorevolmente nelle

50
loro case i nuovi venuti, aiutandoli e avviandoli al
lavoro.
Col tempo l’accresciuto prestigio della comunità
siciliana dall’elite dominante di New Orleans non fu
vista di buon occhio per il potere economico
raggiunto, diffondendo pregiudizi nei loro confronti.
Col passare del tempo i risentimenti
diventarono sempre più forti e quando l’opinione
pubblica fu completamente avvelenata contro i
siciliani, quasi fu naturale che si compisse a loro
danno il più terribile misfatto.
La xenofobia contro i siciliani scoppiò nel
1891, quando fu ucciso un poliziotto americano. La
polizia locale attribuì il delitto alla famiglia Matranga,
siciliana, e accusò come mandanti undici siciliani,
originari di Caccamo, Contessa Entellina e Monreale.
L’opinione pubblica, già avvelenata contro i
siciliani, seguì con tanta curiosità le varie fasi del
processo, che, pur non avendo ancora le prove contro
gli arrestati, subito operò un crudele linciaggio. Varie
centinaia di persone armate, capeggiate da un
avvocato, con l’avallo del sindaco e della polizia
locale, assalirono il carcere e barbaramente
trucidarono gli undici siciliani. A rendere più atroce
l’inqualificato delitto fu il fatto che gli uccisi erano in
attesa di essere rilasciati, poiché non era stata provata
la loro colpevolezza, mentre le autorità municipali
favorirono e permisero il delitto.
L’eccidio di New Orleans non solo segnò
profondamente la locale comunità siculo - americana,

51
prostrandola economicamente ed anche moralmente.
Ma l’aspetto più grave fu che questi atti di ostilità e di
violenza nei confronti dei nostri emigrati ebbero più
volte a ripetersi, come nel 1899 a Tallulah, sempre
nella Louisiana, contro cinque italiani. L’accusa
assurda contro questi era stata di aver trattato i negri
alla pari dei bianchi nei loro negozi. Gli stessi
uomini addetti alla vigilanza trascinarono fuori dalle
celle gli arrestati, che erano provenienti di Cefalù, e li
fecero linciare dalla folla.
Questi inumani eccidi ebbero un’eco di sdegno a
livello mondiale e provocarono anche l’intervento
ufficiale del Governo italiano nei confronti degli Stati
Uniti. Si vociferò che vi sarebbe stata una rappresaglia
militare da parte italiana contro la città di New
Orleans, ma non si fece nulla. L’unico atto che fece il
Governo italiano fu di rompere le relazioni
diplomatiche con gli Stati Uniti. Seguì un estenuante
contenzioso internazionale sulle responsabilità statali o
federali. Poi, tutto si esaurì con la magra consolazione
di lauti indennizzi ai parenti delle vittime. Il
linciaggio del 1891 fu il segno più evidente della
radicata e diffusa animosità, esasperatamente
razzista, che si era voluta creare nei confronti dei
siciliani. Ma quello che fu più grave, è stato il
risentimento contro gli italiani del Sud, che si diffuse
in molti States, presentandoli scarsi di intelligenza,
rozzi, criminali e mafiosi.

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10

La ricca California.

Gli emigrati italiani, benché isolati e


ghettizzati, lavoravano sodo con sacrifici e rinunce,
per raggiungere un minimo di benessere. La presenza
lavorativa italiana influì positivamente non solo
nell’economia, ma anche nel trasmettere frammenti di
cultura italiana nel settore dell’agricoltura, della
cucina, dell’arte, della musica e del teatro.
Le comunità italiane sparse in tutti gli Stati,
crearono delle piccole prospere imprese commerciali
e soprattutto seppero dare all’America figli colti,
capaci e volenterosi.
Uno degli Stati, in cui primeggiò la capacità
dei nostri emigrati, fu la California, ove gli italiani
furono fra i primi colonizzatori, essendo arrivati
subito dopo il periodo della corsa all’oro, riuscendo
ad affermarsi e a primeggiare anche economicamente,
tanto che il loro benessere superò quello dei coloni
anglosassoni.
I primi ad arrivare in California furono gli
agricoltori veneti e lombardi, che nella metà
dell’Ottocento, si insediarono nel Nord dello Stato.
Qui i pionieri scelsero le terre migliori e si misero a
coltivarle senza alcun ostacolo, riportando dei buoni
frutti. La differenza tra i siciliani, sbarcati a New
Orleans, e i lombardi e i veneti arrivati in California

53
sta che questi non furono assoggettati dai proprietari
terrieri, ma furono liberi di organizzarsi e di
appropriarsi di quanta terra volevano, mentre quelli a
New Orleans dovettero lavorare alle dipendenze dei
piantatori della canna da zucchero, sostituendo i
lavoratori neri e per liberarsi dalla soggezione
dovettero lottare tra tanti sacrifici. La prosperità
dell’italiano in California derivò dall’aver trovato terre
sterminate quasi disabitate e vergini, che, trasformate
in frutteti e vigneti, produssero ricchezza. Infatti dopo
meno di un secolo oltre ottocento aziende agricole -
commerciali erano nelle mani di italiani.
Ma il merito del successo italiano in California
non si può attribuire solo ai lombardi e ai veneti, ma a
tutti gli emigrati provenienti dalle altre regioni d’Italia,
compresi i siciliani. Infatti, se i pionieri in California
furono gli italiani del Nord, alla fine dell’Ottocento la
comunità siciliana diventò molto numerosa, poiché
San Francisco si arricchì di tanti pescatori e uomini di
mare, venuti da Palermo, da Porticello, da Sant’Elia,
da Isola delle Femmine e da Santa Flavia. Non solo i
pescatori infoltirono la colonia siciliana di San
Francisco, ma tanti altri, che esplicarono varie attività.
Basta fare un giro nel porto o nelle adiacenze per
poter rilevare, attraverso le insegne commerciali,
quanto commercio, quanta attività piccolo industriale,
quanta marineria sono nelle mani dei figli o dei nipoti
di siciliani.
Anche la diffusione della cultura italiana ha
dato alla California un cospicuo contributo. A San

54
Francisco nel 1880 Giorgio Cavalli fondò una libreria
di lingua italiana nel quartiere di North Beach, libreria
che divenne un valido centro culturale per la comunità
italo – americana, che ancora oggi continua la sua
attività nello stesso posto dopo oltre cento anni.
Un ruolo rilevante ebbe la Chiesa cattolica nel
radicamento della vasta comunità italiana in San
Francisco. I salesiani italiani, venuti nel 1896, svolsero
un ruolo preminente sia nell’evangelizzazione che nel
sociale, conquistandosi le simpatie di tutti i cattolici e
non solo per il loro attivismo ed altruismo. Non
trascorse un decennio dal loro arrivo, che vi fu il
terribile terremoto del 1906, che distrusse buona parte
della città di San Francisco, facendo molti morti. In
questa occasione i salesiani si prodigarono,
nell’assistere più di trentamila famiglie,
conquistandosi le simpatie di tutti gli abitanti.
I salesiani, nelle due sedi, affidatagli
dall’autorità religiosa, quella dei Santi Pietro e Paolo e
quella del Corpus Domini non furono solo luoghi di
fede, ma furono luoghi ove si faceva comunità con le
scuole sia per i giovani e per gli adulti, insegnando la
lingua inglese per americanizzarli, con le attività
sportive e con i frequentatissimi circoli giovanili.
Anche dei volontari laici si inserirono in questo
filone. È da ricordare Nina Monaco, figlia di un
fotografo italiano, che per diversi anni, a partire dal
1900, si prodigò ad insegnare gratuitamente l’inglese,
insieme ad altri volontari.
Tutte queste circostanze fecero degli italo -

55
americani degli abili e fiorenti agricoltori, e
particolarmente degli stimati viticoltori, degli avveduti
uomini d’affari, dei pescatori provetti ed attrezzati,
nonché dei professionisti distinti.
La tradizione di lealtà, di rettitudine e di
laboriosità di tutti i nostri emigrati ha permesso che
calzaturifici come la Cataldi, ristoranti come il Fior
d’Italia Restaurant, industrie come la fabbrica di
pompe agricole Jacuzzi, nonché altre numerose
aziende abbiano, per lunghi periodi di tempo, qualcuna
anche per oltre un secolo, primeggiassero non solo in
California, ma in tutti gli Stati Uniti. Nomi come i
Molinari, i Giannini, i Capra hanno onorato l’Italia in
tutti i campi e hanno svolto ruoli, anche a livello
internazionale, nell’attività bancaria, come in quella
cinematografica e nell’arte.
Questo successo non fu solo frutto
dell’intraprendenza e dell’intelligenza degli italiani,
ma dalle diverse circostanze favorevoli, che l’emigrato
incontrò in California, mentre l’emigrato italiano
approdato negli Stati dell’Est, bagnati dall’Atlantico,
pur avendo la stessa cultura, provenendo dagli stessi
paesi ed essendo della stessa razza non ebbe lo stesso
successo, perché gli Stati dell’Est, quando giunsero gli
italiani, già erano organizzati e i nuovi arrivati
dovettero superare tante difficoltà per inserirsi e
produrre.

56
11

L’americanizzazione.

La prima guerra mondiale rallentò notevolmente


il flusso migratorio nostrano verso gli Stati Uniti, ma
subito fu ripreso al termine della conflittualità. Nel
frattempo gli emigrati dell’Italia meridionale, tranne
alcune eccezioni, avevano fatto un salto di qualità,
migliorando la loro situazione economica e culturale,
creata dall’operosità, facendo affievolire e sbiadire
quelle fosche tinte, con le quali la maldicenza li aveva
dipinto e che l’opinione pubblica aveva generalizzato.
A conflitto concluso incominciò ad affiorare un
cambiamento di rapporti verso gli italiani specialmente
dai datori di lavoro, che si erano resi conto delle loro
capacità e dell’alto rendimento. Anche il contadino
meridionale incominciò ad uscire dal suo guscio e a
tentare di conoscere i luoghi, che lo circondavano, e
gli americani stessi. Però dovette attendere ancora
molti anni per vedersi riconosciuti i suoi meriti senza
alcuna riserva.
Questo apprezzamento da parte dell’opinione
pubblica americana era stato ritardato da una certa
criminalità, nata e cresciuta tra alcuni gruppi italiani,
che l’opinione pubblica aveva generalizzato,
attribuendo il giudizio di mafiosità a tutti gli italiani.
La diffusa avversione verso i nostri emigrati non
teneva conto dell’enorme costo, che pagava l’Italia

57
con la partenza di quasi sempre dei più giovani, che si
erano formati a spese del paese natale e che poi
andavano a produrre per il paese, che li ospitava. Si
può dire che il meridione donava all’America un
capitale di uomini di alto valore economico e che
all’Italia non veniva ricambiato proporzionatamente.
Se la prima guerra mondiale rallentò il flusso
migratorio attraverso l’Atlantico, incrementò, invece,
la stabilizzazione degli italiani in terra d’America.
Pochi furono, infatti, gli italiani rientrati nel
decennio 1818-1928, anche se, a tempo della
depressione economica degli anni trenta, vi fu una
forte impennata di ritorni.
Bisogna sottolineare cha a questa svolta
contribuì il fatto che gli emigrati italiani da manovali
generici passarono a svolgere lavori qualificati o
semi-qualificati. E poi bisogna constatare che i figli
nati in America assorbirono dalla scuola, dalla strada e
dai mass media anche le idee e i sogni americani,
passando dal lavoro dei campi e delle miniere alla
produzione dell’acciaio e degli automobili, dei tessili
e della ristorazione, nonché inserendosi negli altri
settori produttivi.
Non tutti, però, riuscirono a svestirsi della
cultura secolare contadina, che contiene certi aspetti
non positivi, come la propensione alla illegalità, alla
diffidenza nei confronti della giustizia, vedendo le
leggi come realtà astratte e manifestando una convinta
convinzione che il forte domina sempre il debole e che
stare dalla parte del debole non ci si guadagna nulla.

58
Queste convinzioni aiutarono a percorrere la
strada del crimine, sicché la proibizione di produrre e
vendere bevande alcoliche al tempo del
proibizionismo, stabilite dal diciottesimo
emendamento della Costituzione americana, costituì
una fortuna inaspettata per alcuni italiani. Senza
rimorsi morali impiantarono distillerie nelle loro case
e non poche ricche famiglie cominciarono la loro
ascesa economica producendo liquore di
contrabbando.
A favorire le vie del crimine nei giovani di
seconda generazione è stata la stessa smania di
americanizzazione. Infatti ad abbracciare il crimine
contribuì il cinismo di una società volta al profitto, che
in fondo era anche il principio ispiratore della
sopraffazione di tipo mafioso. Mafia, che in America
si chiamò onorata società, o meglio ancora cosa
nostra.
Questa fetta di italiani, che si diede al crimine
colorò la copiosa letteratura americana, con le tante
Little Italy, che si formarono negli Stati Uniti, coi
rumorosi, sporchi e movimentati mercati rionali, colle
topaie e i buchi in cui vivevano negli oscuri vicoli di
New York o di altre città.
Questo lo si fece più per denigrare o per amore
di folklore che per dare atto agli immensi sacrifici che,
in silenzio, i nostri emigranti hanno dovuto
affrontare, perché i loro figli diventassero veri
americani.

59
Nonostante l’origine italiana di tante celebrità
statunitensi, gli italiani d’America non si sono mai
potuti srollare di dosso l’accusa di essere stati lenti nel
processo di assimilazione nella società americana e di
essersi con ritardo elevati nella scala socio-economica.
Quante famiglie d’italiani lottarono per uscire dalla
Little Italy e svestirsi da quei pregiudizi, lottando il
timore del nuovo.
A spingere gli italiani ad americanizzarsi
contribuì anche la fine dei grandi flussi immigratori.
Infatti nel 1921 entrò in vigore la legge Dillingham,
che stabiliva la quota dell’immigrazione europea al 3
%, portando gli Stati Uniti all’isolazionismo. Questa
fu la più importante svolta nella politica immigratoria
americana, che favorì anche l’accelerazione del
processo di americanizzazione degli italiani, poiché
veniva a mancare, fra l’altro, la linfa di collegamento
coi paesi di origine. Gli italo-americani, accettando il
modo di vita americano, incominciarono a sentirsi solo
americani, mentre i loro figli, frequentando i
colleges e non avendo radici con il passato dei loro
genitori, si considerarono americani genuini a tutti gli
effetti.

60
12

L’emigrazione dagli anni 1920 agli anni1960.

La svolta isolazionista degli Stati Uniti, voluta


dalla legge Dillingham, che riduceva l’emigrazione
europea al 3 %, estinse quasi l’afflusso verso questa
nazione.
A questa riduzione dell’afflusso emigratorio si
aggiunse dopo la prima guerra mondiale il ritorno di
molti italiani nella madrepatria per impiegare i
guadagni in terre e case.
Con i ritorni in patria non bisogna pensare che
si chiuse questa valvola, atta a soddisfare i bisogni di
quanti non trovavano lavoro in patria.
La politica liberale nazionalista dell’inizio del
novecento prima e poi quella fascista contrastarono
l’emigrazione con una legislazione di tipo assistenziale
per migliorare le condizioni di vita della povera gente
con le opere di colonizzazione e di bonifica, che
furono, almeno per la Sicilia, palliativi, che non
riuscirono a debellare la grande miseria.
Con questa legislazione, però, l’esigenza di
lasciare la terra natia in cerca di un lavoro dignitoso
per la sopravivenza non si fermò. Infatti si aprirono
altre frontiere prima con l’invasione dell’Eritrea e
della Somalia alla fine dell’ottocento, poi con la
conquista della Libia nel primo decennio del
novecento, ed infine con la conquista dell’Abissinia

61
nell’era fascista. Qui si diresse l’afflusso migratorio
italiano senza ripetere la grande emigrazione dei
decenni precedenti, benché i governi praticassero una
politica colonialista.
Questo afflusso verso i paesi d’oltremare non fu
così preponderante come quello dei francesi verso
l’Algeria, dove nel 1926 vi si trasferirono in circa
700.000. Gli italiani, che andarono in Africa,
costituirono un’entità trascurabile rispetto ai grandi
flussi migratori precedenti, che si erano diretti
nell’oltreoceano. Basti pensare che gli italiani in Libia
nel 1940 erano appena 120.000 e in Africa orientale
200.000 circa.
Questa emigrazione, che abbracciò il periodo
dagli anni venti sino alla fine della seconda guerra
mondiale, fatta specialmente da siciliani, fu dettata fra
luci ed ombre dalla politica fascista, che non dava
possibilità ad altre alternative.
Con grande forza la questione migratoria di
nuovo si presentò in Sicilia nell’immediato
dopoguerra a causa del pessimo stato dell’economia
isolana.
Infatti sull’isola gravava il divario fra ricchezza
di pochi e l’accumulo della manodopera sotto
utilizzata, che per la mancata emigrazione nel
ventennio fascista, affliggeva gli abitanti dell’isola.
A questo grave problema alla fine della guerra
bisogna aggiungere la disoccupazione degli zolfatai
causata dalla scarsa richiesta dello zolfo delle nostre
sgangherate miniere, che era stato utilizzato

62
abbondantemente dalle industrie belliche durante la
guerra, e il ritorno di chi aveva prestato il lungo
servizio militare.
Lo sbarco degli Alleati e l’occupazione della
Sicilia diedero un certa ventata di benessere illusorio,
ma con la loro partenza le popolazioni caddero in
preda della fame. Nelle città e in tutti i grossi centri
dominava lo squallore e la desolazione. Turbe di
affamati migravano da un paese all’altro in cerca di
lavoro o di alimento per alleggerire le condizioni di
vita estremamente disagiate.
I tanti problemi dell’Isola e di tutto il
Mezzogiorno venivano evidenziati con forza, ma non
si trovava una positiva soluzione. Solamente
attraverso l’assistenzialismo degli Alleati, i lavori di
ricostruzione postbellica, il mercato nero e tutto il
fiorire di microindustrie, sopperirono alla mancanza
dei prodotti, permettendo alla meglio di sopravvivere.
Tra il 1945 e il 1960, al di là dei tentativi
legislativi a realizzare una politica sociale, la questione
migratoria si pose con molta chiarezza. Infatti i primi
governi della Repubblica la videro come necessità
vitale del paese ed Alcide De Gasperi sollecitava gli
italiani a riprendere le vie del mondo. Si riaprì così di
nuovo il grande flusso emigratorio verso il Nord
Europa, il Canada, l’Argentina, il Venezuela e il Sud
Africa.
Molti all’inizio furono i siciliani, che
emigrarono in Francia. La traversata veniva fatta
clandestinamente e nei peggiori dei modi,

63
attraversando anche a piedi le Alpi innevate fra tanti
disagi e sofferenze. Tali patimenti vennero evidenziati
dai mezzi di comunicazione, che spinsero i governanti
ad intervenire per dare una certa sicurezza. Famoso
divenne il film di Pietro Germi, Il cammino della
speranza, che denunziò la piaga dell’emigrazione
clandestina. All’emigrazione verso la Francia seguì
subito dopo quella verso la Svizzera, il Belgio e la
Gran Bretagna.
Non pochi furono, però, coloro che si diressero
dal 1946 al 1950 verso l’Africa, l’Asia, l’America e
l’Australia.
L’afflusso verso le nazione estere fu subito
seguito da quello verso il nord Italia che fu più vasto
tanto che spopolò i nostri paesi, rendendoli quasi degli
ospedali geriatrici. Ad emigrare erano gli zolfatai
disoccupati, i braccianti disposti a trasformarsi in
manovali, con la prospettiva di trovare un lavoro
meglio retribuito, i mezzadri, gli affittuari, i piccoli
proprietari, che si erano indebitati, gli artigiani senza
bottega e coloro che furono diseredati dalle
conseguenze della guerra.
Ogni emigrante, con la sua storia intrecciata a un
dramma irrepetibile, fu uno sconfitto. Non avendo
fiducia di vincere la sua battaglia nel paese natio per
una sopravivenza dignitosa e, non arrendendosi, si
diresse con tutte le sue energie verso altri lidi, disposto
di affrontare qualunque sacrificio pur di ritrovare la
dignità e sentirsi un uomo libero.

64
13

L’emigrazione da noi non si è estinta.

Qualche anno fa trovandomi nella ridente


cittadina di San Giovanni in Fiore sull’alta Sila, per la
predicazione della novena di S. Giovanni Battista,
notai che un pittore locale abbellì molte pareti esterne
delle case con dei murales. Uno di questi raffigura un
giovane robusto, seduto su un masso con accanto una
valigia di cartone pronto a partire per un paese
lontano.
Volendo alzarsi per mettersi in cammino, non
riesce a farlo, perché dai suoi piedi partano delle
radici, che si sono assestate profondamente nella sua
terra.
Mi commossi e dai miei occhi sgorgarono delle
grosse lacrime.
L’autore ha saputo esprimere così bene la
solitudine di un uomo, che, trovandosi nella
impossibilità di risolvere il problema primario della
sopravvivenza nella terra natia, è spinto a partire fra
tante amarezze. Solo chi è stato costretto a lasciare la
propria terra sa quanto è triste l’emigrazione.
Oggi l’emigrazione non viene neppure più
esaltata come un fatto benefico e provvidenziale, ma
viene vista come un dramma individuale o collettivo.

65
Questo partire verso i più disparati angoli del
mondo ha sempre posto l’emigrante nella situazione di
subire abitudini, antipatie, disprezzo.
Non è sempre vero che l’emigrazione è una
normale attitudine dell’uomo, che, per realizzare i
propri progetti, sente la necessità di andare altrove. Se
è così per alcuni popoli, non lo è per il siciliano.
La scelta di emigrare per i siciliani è recente e
non è mai stata una attitudine caratteriale. Se si è
avverata, è stata determinata da fattori economici, che,
dopo avere acquisito dei riferimenti precisi, hanno
creato delle “catene migratorie”. Questa decisione di
partire per migliorare la qualità della vita ha richiesto
coraggio, spirito di iniziativa, ampia apertura mentale,
insieme alla negazione di ogni atteggiamento di
fatalismo e di rassegnazione, nella consapevolezza che
tale scelta , forse, sarebbe stata per sempre.
Da oltre un trentennio con il balzo in avanti
dell’economia italiana, sembrava che sarebbe cessata
l’emigrazione. Questa convinzione nell’opinione
pubblica fu causata dall’arrivo dal terzo mondo di
fiumi di disperati, che vedono anche nell’Italia il
nuovo Eldorado. Ma non è così. Se nelle regioni
settentrionali e centrali d’Italia si è estinta
l’emigrazione, anzi fanno richiesta di manodopera
fresca, per il mezzogiorno d’Italia ed insulare ancora
oggi è l’unica valvola di sfogo per fare abbassare la
disoccupazione e le sacche di miseria.
Infatti i siciliani continuarono e continuano ad
emigrare. Non sono i senza terra o i piccoli proprietari,

66
come negli anni 50 e 60, ma sono i giovani
qualificati, laureati e diplomati, che non trovano una
degna sistemazione nel luogo natio. Questo nuova
emigrazione non procura scalpore, non fa notizia, non
è di massa, ma è uno stillicidio, che dissangua i nostri
paesi delle migliori forze. Questa emigrazione non è
neppure notata dai nostri governanti, perché non
produce rigetti o fenomeni di xenofobia, come fu per i
loro nonni. Il nuovo emigrato parte inosservato ed ha
una facilità di adattamento, perché non è diverso.
Questa emigrazione è una malattia tremenda per
i nostri paesi. Infatti impoverisce il nostro tessuto
sociale delle forze più vive e più qualificate. È una
malattia, che porta alla morte le nostre comunità. Molti
paesi della nostra Provincia vanno verso l’estinzione.
In alcuni paesi la nascita di un bambino è diventata un
avvenimento eccezionale. Vedere un gruppetto di
bambini trasmetta gioia, ma quanti di essi resteranno
nella loro terrà?
Non nascendo bambini non si formano le classi
elementari. Cinque anni fa in un paese durante la
missione popolare visitai la scuola elementare e trovai
diciotto bambini in quinta e solo sette in prima.
Ho saputo che da qualche anno in quel paese
non si è formata la prima e poi la seconda.
Nessuno grida allo scandalo, nessuno studia il
problema per risolverlo. Ormai si vive in un fatalismo,
che non produce speranza. Siamo su una china che ci
fa scendere velocemente verso l’estinzione.

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Alcuni nostri paesi sono degli ospedali
geriatrici. Danno l’impressioni di stare in un paese
fantasma: strade vuote, case cadenti, non si sentano
grida gioiose di bambini. Si bussa e si trovano solo
vecchi sonnolenti, quando non sono dementi. È una
tristezza!
La desolazione, oltre che nell’ambiente, regna
nei loro cuori. Sono papà e mamme, che si sentono
doppiamente traditi. Una vita di sacrifici per far fare
un salto di qualità ai figli, ora soli con i figli sparsi per
il mondo o per l’Italia a guardarsi, pensando solo alla
morte.
È gente che non interessa a nessuna istituzione.
È gente abbandonata alla loro sorte. È gente che non si
sa gestire o perché mancano le forze fisiche o la testa
per governarsi.

68
14

I figli degli emigranti pieni di dignità


ritornano da turisti.

Eleganti, con tratto gentile, con un parlare


nordico e distaccato, ritornano per una visita fugace i
figli di quei emigranti, che non avevano dignità nella
loro terra natia e facevano la fame. Questi figli non si
sentono più di appartenere a una casta inferiore, ma
mostrano dignità, indipendenza di idee e uguaglianza.
Un giorno ero appena ritornato a piedi a S.
Alfonso, in Via Duomo, dopo essermi intrattenuto con
un gruppo di suore per l’amministrazione del
Sacramento della Penitenza e dopo di aver comprato
dei libri, che sento suonare alla porta. Rispondo al
citofono, gentilmente una voce giovanile mi chiedeva
se poteva visitare la chiesa.
Scendo un po’ annoiato, quando mi trovo
dinanzi al cancello due giovani felici, spigliati e
gentilmente decisi. Li faccio accomodare. Guardano,
osservano, ammirano si compiacciono della bellezza
degli stucchi e delle belle pale degli altari e poi il
giovane mi dice: “I miei genitori quaranta anni fa si
sono sposati in questa chiesa. Conserviamo ancora
delle fotografie”.
Poi incominciò a raccontare. “Mio padre è
originario di Chiusa Sclafani e mia madre di

69
Sant’Anna. Le loro famiglie si erano trasferite qui ad
Agrigento e qui si sono conosciuti. Abitavano qui
vicino in vicolo Patricolo. Quando mio padre stava a
Chiusa lavorava presso una famiglia, che lo
ricompensava non con il denaro, ma con scarpe e
vestiti dimessi dai padroni, con formaggio e qualche
altra cosa”.
È un racconto tutto distaccato, come se i fatti
appartenessero a una altra realtà di tempi molto
lontani.
“I miei, qui ad Agrigento, negli anni sessanta
non riuscivano ad avere il minimo per sopravvivere.
Già era nata mia sorella e mia madre era gravida di
me, strinsero i denti ed aspettarono che io nascessi.
Dopo qualche mese i miei emigrarono in Germania e
lasciarono me e mia sorella dalla nonna con il cuore
amareggiato. Erano poveri, non avevano un lavoro
continuo, ma sentivano dentro una gran voglia di
cambiare la loro sorte, ma specialmente quella dei loro
figli. Io crescevo e mi attaccai alla nonna, come se
fosse mia madre, e a una mia zia. Io non avevo
problemi, per me quella era mia madre. Quando dopo
un anno mia madre tornò, mi portò una automobile di
plastica rossa con pedali. Io non potevo riconoscerla,
perché non avevo avuto la possibilità di imprimermi la
sua immagine, né il suo calore. Mi prendeva in
braccio, mi baciava, mi stringeva forte forte,
facendomi tante carezze, ma per me era una estranea.
Allora io mi voltavo verso mia nonna e le tendevo le
braccia”.

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Al giovane qui gli venne un nodo in gola, gli
occhi gli arrossarono e la voce, benché controllata, era
spezzata.
“Mia madre al vedere che mi rapportavo con la
nonna, si sentì distrutta di dentro. Eppure, stando
lontano, io ero il suo pensiero, il suo desiderio, il suo
amore. Infatti contava i giorni per vedermi, toccarmi e
riabbracciarmi. Questa scena si ripeté per diversi
giorni tanto da riempirla di amarezza. Imprecò contro
la mala sorte e decise, affidandosi alla Provvidenza, di
non partire pur di stare con me e vedermi crescere
giorno per giorno. Mio padre tornò in Germania e
trovò un lavoro diverso. Una famiglia più che
benestante lo assunse al suo servizio, trattandolo con
molta dignità. Apprese la lingua tedesca a perfezione.
A vederlo non era più quello di Chiusa Sclafani o di
Agrigento, era un uomo libero, che decideva della sua
sorte”.
“Mio padre tornava ogni anno a stare con noi
per le ferie ed era una grande festa. Io ormai ero
cresciuto e avevo già frequentato alcune classi della
scuola elementare. Per ricongiungere la famiglia i miei
decisero di lasciare la Germania e di trasferirsi a
Milano. Così io e mia sorella con la mamma
partimmo. Ora da circa trenta anni viviamo a Milano.
Abbiamo trovato una degna sistemazione. Qui in
Sicilia ritorniamo di tanto in tanto nei luoghi delle
nostre radici, ove rinverdiscono tanti ricordi. Ma i
nostri figli ripeteranno questa liturgia?”.
Questa è la storia di tanti dei nostri, che sono

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partiti con le mani vuote, ma con la speranza della
riuscita. È una storia di sacrifici, di solitudine, ma
anche di conquiste, di balzi in avanti. La volontà e
l’intelligenza messa all’opera hanno portato una
trasformazione sia culturale che sociale. È gente che è
contenta di se per quello che ha saputo realizzare. Non
ha rancore, ma ha nei loro occhi la luce, i colori e nelle
loro orecchie i suoni della loro terra.

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Indice
Al Lettore
Prefazione
Spesso si celebra, si parla e non si opera
Per gli “stranieri d’Italia” vi è stata e vi è solo amnesia
Si è scelta l’emigrazione per un lavoro che fosse vita
Preparativi, partenze, loschi agenti
La partenza e il calvario prima d’imbarcarsi
Il viaggio, odissea dell’Ulisse collettivo
Argentina: “America povera”
Sull’umile opera dei contadini siciliani e no si è
costruitala società industriale statunitense
New Orleans e la xenofobia
L’americanizzazione
L’emigrazione dagli anni 1920 agli anni 1960
L’emigrazione da noi non si è estinta
I figli degli emigranti pieni di dignità ritornano da
turisti.

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Questa emigrazione è una malattia tremenda per
i nostri paesi. Infatti impoverisce il nostro tessuto
sociale delle forze più vive e più qualificate. È una
malattia, che porta alla morte le nostre comunità. Molti
paesi della nostra Provincia vanno verso l’estinzione.
In alcuni paesi la nascita di un bambino è diventata un
avvenimento eccezionale. Vedere un gruppetto di
bambini trasmetta gioia, ma quanti di essi resteranno
nella loro terrà?

Giuseppe Russo, Redentorista


Altre sue opere: “L’Uditore e i Redentoristi”
(1997); “Isidoro Fiorini, missionario redentorista”
(1999); Alla sequela del Redentore con
sant’Alfonso (2003); “Stacci di tonache al vento”
2004); “I Redentoristi ad Agrigento” (2005); “La
fede vissuta dai primi cristiani ha diffuso il
Cristianesimo” (2006).

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Questa è la trista storia dei nostri bisnonni,
nonni, genitori e fratelli. È una catena che parte da
molto lontano e che nessuno a messo mai mano
all’ascia per spezzarla. Anzi continua oggi inosservata,
quasi dà fastidio a pensarla in chi amministra la cosa
pubblica.
Continua con i figli patentati di laurea e di
diploma, che sparsi ovunque per l’Italia e l’estero
occupando posti preminenti negli uffici, negli
ospedali, nelle università. Sono diventati il sale per far
crescere altre comunità, mentre le nostre muoiono.
Da noi non vengono amministrate come si deve
nemmeno le istituzioni che già esistono. Se si ha
bisogno di un intervento chirurgico, si va altrove, se si
deve iscrive un figlio all’università, benché esista in
città la stessa facoltà, si manda altrove.
Non è una scelta per snobbare le istituzioni
locali, ma è una necessità la scelta forestiera, sia
perché abbiamo una libertà finta e sia perché si è
perduta la fiducia nelle nostre professionalità. Poiché
non sempre i migliori occupano i posti di
responsabilità.

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