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Dello stesso autore

nella collezione Oscar


I miracoli di Padre Pio
Padre Pio. L'uomo della speranza
Padre Pio. Un santo tra noi
Il Papa buono. La storia di Giovanni XXIII
Rol. Il grande veggente
nella collezione Ingrandimenti
Padre Pio. Il santo dei miracoli (con Roberto Allegri)

Renzo Allegri
Il Papa di Fatima
Vita di Karol Wojtyia
OSCAR MONDADORI
Š 2006 ArnoJdo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Ingrandimenti marzo 2006 I edizione Oscar
saggi marzo 2007
ISBN 978-88-04-56606-9
Questo volume č stato stampato presso Mondadori
Priming S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy
www.librimondadori.it

Indice

I Nel Segreto di Fatima.


II Interminabile Via Crucis.
III ŤSanto, santo subitoť.
IV I miracoli di Papa Wojtyla.
V L'eterno Nemico.
VI ŤLei deve abortireť.
VII "Oh, madre, mio spento amore...".
VIII Speciale scuola di vita.
IX Edmund, medico ed eroe.
X Canti/ balli e tanti sogni.
XI Il Teatro della Parola Věvente.
XII Un sarto che parlava con Dio.
XIII La notte del dolore disperato.
XIV Sulle orme di frate Alberto.
XV Il Nemico vuole uccidere.
XVI La tentazione del Carmelo.
XVII In marcia con i giovani.
XVIII Ostacoli insormontabili.
XIX Padre Pio sapeva.
XX Arcivescovo con il voto dei comunisti.
XXI L'arcivescovo di ferro.
XXII Habemus Papam.
XXIII Rivoluzionario scomodo.
XXIV Una mano spara, l'altra salva.
XXV Pellegrino a Fatima.
XXVI La consacrazione della Russia.
XXVII Una luce colma di speranza.
XXVIII Una rosa bianca dalla Russia.
Bibliografia.

Il Papa di Fatima

A mia moglie Vittorina che, con la sua grande


ammirazione per Papa Wojtyla, mi č stata preziosa
guida di conoscenza

I Nel Segreto di Fatima

Erano le 21.37 di sabato 2 aprile 2005. Giovanni Paolo II,


dopo 72 ore di
agonia, esalň il suo ultimo respiro.
Piazza San Pietro era gremita di fedeli, accorsi da ogni
parte. Settantamila, secondo le cronache
di quei giorni. La folla era andata via via ingrossandosi a
partire da giovedě sera, quando le
condizioni del Papa erano state dichiarate gravissime.
Era una folla in gran parte costituita da
romani, ma anche da pellegrini giunti da lontano.
Molti i giovani. Soprattutto i Papaboys, i giovani del
movimento che si era formato intorno a Papa
Wojtyla fin dagli anni Ottanta e che seguiva il Pontefice
ovunque. Erano i ragazzi per i quali il
Papa aveva inventato le gmg, "Giornate mondiali della
gioventů". Giovani che egli amava chiamare
Sentinelle del mattino, ai quali aveva affidato le sorti
dell'avvenire, e che a ogni appello del
Pontefice accorrevano numerosi come sciami di
cavallette.
Saputo che Giovanni Paolo II stava male, i Papaboys si
erano mobilitati, erano partiti con i
sacchi a pelo, le chitarre ed erano giunti in piazza San
Pietro trasformandola in un vivace
campeggio. La loro presenza nella grande piazza era
iniziata fin da giovedě 31 marzo, da quando
cioč le notizie sulla salute del Pontefice erano diventate
allarmanti. Con il passare delle ore,
il numero era aumentato e alla sera del sabato
costituivano una gran parte della folla presente.
ŤE' morto il Papať
I Papaboys erano radunati a gruppi sotto le finestre del
Palazzo apostolico. Pregavano, cantavano
e ogni tanto chiamavano a gran voce il Papa, per fargli
sentire la loro presenza. Gridavano
"Giovanni Paolo" e poi battevano quattro volte le mani e
poi ancora "Giovanni Paolo" seguito da
colpi di mano. Cori da stadio: ricordavano quelli felici dei
vari raduni oceanici delle Giornate
mondiali della gioventů, quando i ragazzi gridavano in
rima: "Johan Paul II, we love you"
(Giovanni Paolo, noi ti vogliamo bene) e lui rispondeva:
"Johan Paul II, he loves you" (E' lui a
voler bene a voi). Ma quella sera, sotto le finestre di un
Pontefice in agonia, i cori sembravano
fuori posto. Qualcuno aveva anche protestato. Erano
intervenuti gli addetti alla Sicurezza. Poi
era arrivata un'informazione del portavoce del Vaticano,
Joaquin Navarro-Valls, il quale aveva
detto che il Papa sentiva le voci dei giovani e, tra indicibili
difficoltŕ, era riuscito a
formulare, a piů riprese, una frase diretta a loro: "Vi ho
cercato, adesso siete venuti da me e
per questo vi ringrazio". Quella frase aveva stroncato ogni
protesta.
I Papaboys, commossi per quelle parole, avevano
continuato i loro canti e le loro grida di
richiamo con maggior amore. Grida che, con il passare
delle ore, sembravano disperati scongiuri
contro l'inevitabile che si avvicinava.
Verso le 21.15 era iniziata in piazza San Pietro la recita di
un Rosario per Giovanni Paolo II,
guidata dal cardinale Edmund Szoka, presidente del
Governatorato dello Stato della Cittŕ del
Vaticano, uno dei prelati presenti. A un certo momento,
qualcuno si accorse che nell'appartamento
papale si erano, all'improvviso, accese troppe luci. In
quelle stanze era accaduto qualche cosa.
"E' morto il Papa." La frase percorse la folla come un
brivido. Veniva ripetuta, sussurrata,
gridata, e molti occhi si riempirono di lacrime.
I canti e le grida dei Papaboys tacquero all'improvviso. La
piazza fu invasa da un silenzio
pesante, quasi irreale. Si
udivano sommessi sospiri, qualche singhiozzo, e si
vedevano volti contratti, rigati dalle
lacrime.
Una ventina di minuti piů tardi arrivň lo scarno
comunicato ufficiale del portavoce del
Vaticano: "Il Santo Padre č deceduto questa sera alle
21.37 nel suo appartamento privato. Si
sono messe in moto tutte le procedure previste nella
Costituzione apostolica Universi Dominici
gregis promulgata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio
1996". Leonardo Sandri, sostituto della
segreteria di Stato, si rivolse con voce commossa alla
folla. Aveva accanto il cardinale Angelo
Sodano. Le sue parole furono accolte da un lungo
applauso e nuovamente da un fiume di lacrime.
Nessuno si vergognava di piangere. Molti guardavano la
finestra illuminata al terzo piano del
Palazzo apostolico. Poi cominciarono a suonare le
campane di San Pietro, seguite da quelle di
tutte le chiese di Roma. Campane che suonavano a
morto.
Con piazza San Pietro erano collegate le televisioni e le
radio di tutto il mondo. Da quando le
condizioni di salute del Papa si erano aggravate, la sala
stampa del Vaticano aveva dato
l'accredito a seimila tra giornalisti, fotografi, operatori
radiofonici e televisivi accorsi da
ogni parte del globo. Ma molti altri erano arrivati all'ultimo
momento senza accredito. Fin
dalle prime ore del mattino, piazza San Pietro si era
trasformata in un'enorme sala stampa a
cielo aperto. Le telecamere della cnn, nbc, BBC, Sky,
France 2 e di tantissime altre emittenti
avevano invaso le vie adiacenti alla basilica. Numerosi, in
largo Giovanni xxiii, i minipalchi
allestiti per trasmettere le dirette tv. Lungo via della
Conciliazione, giornalisti e cameraman
erano a caccia di interviste e commenti. Tutti gli operatori,
immediatamente, presero contatto
con le loro redazioni e la notizia della morte del Papa,
attraverso l'etere, si trasformň in una
valanga di emozioni dolorose per l'intero pianeta.
Il mondo intero. Proprio cosě. Non č una frase di
circostanza. E' una realtŕ. Per la morte di
Giovanni Paolo II, infatti, si verificň un evento unico nella
storia dell'umanitŕ. Da giorni,
alcuni miliardi di uomini erano fortemente uniti da
sentimenti
di compassione e di amore verso la stessa persona che
stava morendo. Tutti i giornali del mondo
seguivano l'agonia del Papa, esprimendo sentimenti di
grande ammirazione. Perfino alcuni giornali
cinesi. E quando si diffuse la notizia che Giovanni Paolo II
era morto, alcuni miliardi di
persone, appartenenti a tutte le religioni, a tutte le razze,
a tutte le categorie sociali, si
trovarono uniti nel piangerlo. Un evento emotivo,
amoroso, mai accaduto prima e che forse
difficilmente potrŕ ripetersi.
Ha colpito e stupito il mondo
E' giŕ trascorso un anno da quella notte e il mondo non ha
dimenticato. Altri personaggi
importanti sono scomparsi nello stesso periodo e in
seguito, ma di essi non vi č quasi ricordo. Di
Giovanni Paolo II si continua a parlare e a scrivere. Il
flusso quotidiano di pellegrini che si
recano sulla sua tomba nelle Grotte Vaticane č sempre
intenso. Sfiora, e in certi giorni supera
abbondantemente, le ventimila presenze.
Alcuni media laici, nazionali e internazionali, che nel
periodo della morte e dei funerali di
Giovanni Paolo II furono "costretti" dalla grandiositŕ
dell'evento a interessarsene, concedendogli
ampio spazio proprio per esigenza di cronaca, avevano
poi fatto intendere di essere stanchi e di
voler chiudere l'argomento. Ma non hanno potuto perché
le notizie, le iniziative che riguardano
Papa Wojtyla si moltiplicano e non si possono ignorare. E'
come se Giovanni Paolo II fosse sempre
vivo.
Su di lui vengono scritti articoli quasi ogni giorno. Si
pubblicano biografie e saggi. Ogni
aspetto della sua esistenza terrena č stato oggetto di
interesse di studiosi e commentatori, e
continua a esserlo. Benedetto xvi, il suo successore sul
trono di Pietro, ne richiama
costantemente la memoria affermando che Giovanni
Paolo II č la sua guida, il suo modello. In
un'intervista esclusiva concessa alla Televisione di Stato
polacca in occasione della Giornata
del Papa, celebrata in Polonia il 16 ottobre 2005, ha fatto
questa straordinaria dichiarazione:
ŤGiovanni Paolo II ci ha lasciato tanti documenti che
rappresentano un patrimonio ricchissimo
che non č ancora sufficientemente assimilato nella
Chiesa. Io considero proprio una mia missione
essenziale e personale di non emanare tanti nuovi
documenti, ma di fare in modo che questi
documenti siano assimilati, perché sono un tesoro
ricchissimo, sono l'autentica interpretazione
del Vaticano IIť.
A Giovanni Paolo II sono state dedicate piazze, strade,
scuole, aeroporti, sale congressi.
Moltissime altre iniziative per ricordarlo sono in progetto.
Le trasmissioni televisive che
parlano di lui registrano sempre ottimi indici di ascolto.
Sono stati realizzati documentari,
videocassette, dvd e vari film. Alcuni con mezzi
economici, tecnici e budget da kolossal
hollywoodiani.
Un interesse di tali proporzioni č giustificato soprattutto
dal fatto che Giovanni Paolo II,
con un'esistenza fuori di ogni schema, ha colpito e stupito
il mondo intero, ed č logico quindi
che il ricordo permanga vivo.
Papa Wojtyla, infatti, č stato senza alcun dubbio un uomo
unico. Con caratteristiche fisiche e
intellettuali mitiche. Da giovane era bello, atletico, forte,
sportivo, affascinante e colto.
Durante gli anni del liceo e quelli dell'universitŕ, fece
l'attore dimostrando doti artistiche
giudicate straordinarie. Quando la Polonia venne invasa
dai nazisti, per evitare di essere
deportato nei lager, lavorň come operaio prima in una
cava di pietra poi in una fabbrica.
Scrisse drammi, che vengono ancora rappresentati, e
versi di alto valore letterario. In Polonia
Wojtyla č considerato un poeta nazionale. Ma fu anche
un filosofo di fama mondiale, un teologo,
uno storico. E poi, per quasi ventisette anni č stato la
guida suprema dei cattolici e la guida
spirituale cui guardavano moltissimi anche non cattolici.
Record da leggenda
Da Pontefice, si č conquistato il titolo di "Papa dei
record". E' stato il primo Papa non
italiano dopo 450 anni. Il primo Papa polacco della storia.
Il primo Papa proveniente da un
Paese comunista. Il primo e unico Papa ad aver visitato
nazioni ancora sotto il regime
ateistico. Il primo Papa della storia ad aver
voluto entrare, da Papa, in una sinagoga, ad aver parlato
in una chiesa protestante, a essere
andato a visitare una moschea, ad aver visitato un Paese
ortodosso. Il primo Papa che abbia voluto
assistere a un concerto rock in suo onore e a una partita
di calcio; il primo che abbia voluto
farsi operare in un ospedale, come un malato qualunque.
Anche la sua permanenza sul trono di Pietro č stata da
record. Giovanni Paolo II ha regnato,
infatti, per 26 anni, 5 mesi e 17 giorni, risultando, per
durata di tempo, il secondo (escluso san
Pietro) nella storia della Chiesa, dopo Pio ix che ha
regnato per 31 anni e 7 mesi. E in tutto
questo tempo non si trova un giorno, un solo giorno, in
cui Wojtyla non abbia inventato qualche
cosa per attrarre l'attenzione della gente su Dio, su Gesů,
sull'aldilŕ, la Vita eterna, il Regno
cui sono destinati tutti gli esseri viventi, stabilendo anche
in questo un record di zelo
apostolico degno dei piů grandi santi della storia.
Per diffondere ovunque la veritŕ evangelica, in cui
credeva con estrema passione, č stato un
pellegrino infaticabile. Ha percorso piů di un milione e
duecentomila chilometri, tre volte la
distanza Terra-Luna e trenta volte il giro del mondo. Ma
pur viaggiando tanto, ha trovato il
tempo, rubandolo al riposo e al sonno, per produrre una
grande mole di documenti dottrinali. Ha
pubblicato 14 Encicliche, 15 Esortazioni, 11 Costituzioni,
43 Lettere apostoliche, 28 Motu
proprio, e innumerevoli interventi. Gli amanti delle
statistiche hanno calcolato che nei suoi
discorsi ha pronunciato circa diciotto milioni di parole e
letto ottantamila pagine di discorsi.
Per i viaggi, per l'attivitŕ intensa e continua, č stato anche
il Papa che ha incontrato il
maggior numero di persone. Anzi, č l'uomo della nostra
epoca che ha incontrato in assoluto il
maggior numero di persone. Si calcola ancora che, da
Papa, abbia incontrato circa 300 milioni di
persone. In Vaticano ha tenuto 1112 udienze pubbliche
che hanno visto la partecipazione di 17
milioni di individui. Nelle udienze private ha incontrato
1475 capi di Stato.
Ma tutte queste cifre, che sono giŕ di per se stesse
eloquentissime, vanno ingigantite perché
nella nostra epoca, dominata dalla televisione e da altri
mezzi di comunicazione, ogni gesto di
un personaggio popolare viene diffuso e raggiunge folle
immense. Ogni udienza, ogni incontro,
ogni discorso di Giovanni Paolo II veniva trasmesso in
diretta dalla televisione, o registrato
e poi riproposto in video, ed, documentari, filmati,
arrivando cosě a un pubblico incalcolabile,
disperso anche nelle zone piů remote del pianeta.
A guardare la storia dell'umanitŕ, riflettendo su questi dati,
ci si sente privilegiati di aver
vissuto sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Se poi si
ha avuto la fortuna di incontrarlo,
di vederlo da vicino, di parlare con lui, di baciargli la
mano, di sentire la sua stretta forte
e calorosa, di guardare in quei suoi occhi fermi e infiniti,
dove ci si perdeva, allora il
privilegio si trasforma in una "grazia", in un "dono" perché
da lui emanava un carisma
coinvolgente che nessuno potrŕ piů dimenticare.
Ma pochi sanno che...
Di fronte a questi aspetti meravigliosi e grandiosi della
vita di Giovanni Paolo II si comprende
perché di lui si č parlato e scritto tanto e si continua a
farlo.
Per questo si potrebbe pensare che non ci sia piů niente
di inedito da raccontare. Mettersi,
quindi, a scrivere un nuovo libro su di lui potrebbe
sembrare una velleitŕ assurda.
Ma, a nostro modesto avviso, le cose non stanno proprio
cosě. C'č un aspetto della vita di Papa
Wojtyla poco investigato, ed č quello mistico. Cioč quel
lato della sua esistenza terrena che č
stato il fulcro, il perno, il centro, la ragione di ogni sua
azione e della sua stessa
esistenza: Dio.
Wojtyla č stato un uomo di Dio, ha vissuto per Dio, in
stretta relazione con Dio. Perň, questa
sua "stretta relazione", a un'analisi anche superficiale, si
presenta subito particolare, fuori
di ogni schema e insieme sconcertante. Tanto
sconcertante da essere ritenuta "incredibile". I
biografi, infatti, la trascurano. Stupiti e invaghiti dalla
girandola di eventi grandiosi che si
sono verificati nella sua storia terrena, e dagli aspetti
eccezionali della sua attivitŕ di
Pontefice, non si soffermano
quasi mai su quella "particolaritŕ" della sua relazione con
Dio. Le stesse autoritŕ ecclesiastiche
la guardano con timore e ne parlano poco.
Forse il termine "mistico" non č il piů adatto per indicare
quella "caratteristica spirituale"
della vita di Wojtyla su cui desideriamo soffermare la
nostra attenzione con questo libro. Forse
bisognerebbe ricorrere ad altre parole o a frasi composte,
articolate.
Il termine, che deriva dal greco mystikós (nascosto), ha
assunto vari significati lungo il corso
del tempo e nel contesto delle varie ideologie o culture
cui veniva riferito. Noi lo intendiamo
come lo usavano san Tommaso d'Aquino, san Bonaven-
tura da Bagnoregio, grandi teologi del Duecento,
cioč dando a esso una valenza prettamente cristiana. Per
questi autori, "mistica" era la
"conoscenza sperimentale di Dio", "l'esperienza di
incontro immediato e totalizzante con Dio". La
quale, in genere, č sempre accompagnata da singolari
carismi ("doni gratuiti") che da essa
derivano, doni dello Spirito Santo che abilitano chi li
accoglie a un particolare servizio
ecclesiale.
Tutti i santi, in genere, posseggono un corredo spirituale
di questo genere, con aspetti piů o
meno eclatanti. E rutti vengono gratificati da "doni"
speciali, come miracoli, visioni, estasi,
scrutazione dei cuori eccetera.
Anche in Karol Wojtyla si trova tutto questo. Una vita
mistica molto intensa, unita a una
vulcanica attivitŕ. E si trovano anche i "doni", compresi i
miracoli, le visioni, le locuzioni
interiori. Ma in Wojtyla si trova anche di piů, molto di piů.
E' noto che Giovanni Paolo II si era riconosciuto in quel
"vescovo vestito di bianco" di cui si
parla nella terza parte del famoso Segreto di Fatima.
Quella parte che, rimasta inedita fino al
giugno del 2000, venne resa pubblica proprio per volere
di Giovanni Paolo II. Ebbene, quel
segreto fu rivelato dalla Vergine ai tre veggenti
nell'apparizione del 13 luglio 1917. Cioč
tre anni prima che Karol Wojtyla venisse al mondo.
Questo significa che di Wojtyla, la Vergine
Santa, Dio, Gesů, insomma coloro che abitano nella
dimensione della Realtŕ suprema, si
erano interessati quando lui non era ancora stato pensato
dai suoi genitori per avere un posto
in questo nostro mondo.
E' vero che ogni essere vivente č stato previsto, come
dice san Paolo, prima della creazione del
mondo. Ma in questo specifico caso, l'esistenza di
Wojtyla č stata, in un certo senso, anche
"annunciata" al mondo prima della sua nascita.
Karol, perciň, č venuto tra noi con una precisa grande
missione da svolgere, una missione che,
come vedremo, riguardava la salvezza dell'umanitŕ.
Certo, per chi non crede, queste congetture sono fantasie
da non prendere neppure in
considerazione. E anche chi crede fatica ad ammetterle.
Si tratta infatti di cose che
sconcertano, sbalordiscono, fanno paura. Perň, non si
possono ignorare perché hanno fondamenti
forti come la roccia.
Quella Signora vestita di sole
Per capire meglio la portata di questa enorme vicenda,
vogliamo richiamare sinteticamente la
storia dell'apparizione nella quale la Madonna a Fatima
ha parlato di quel "vescovo vestito di
bianco".
Le apparizioni della Vergine a Fatima iniziarono il 13
maggio 1917. Tre bambini, Lucia,
Francesco e Giacinta, che avevano rispettivamente dieci,
otto e sette anni, mentre si trovavano
in una localitŕ di campagna, Cova di Iria, a pascolare le
pecore, videro una bellissima Signora,
"piů luminosa del sole", la quale, dopo aver detto loro che
veniva "dal cielo", aggiunse: ŤSono
venuta a chiedervi di venire qui per sei mesi consecutivi,
il giorno 13, a questa stessa orať.
Alla terza apparizione, il 13 luglio, la Madonna rivelň ai tre
bambini il famoso Segreto,
passato alla storia come il "Segreto di Fatima". Un
segreto, diviso in tre parti, che ha segnato
la vita spirituale del mondo cattolico per tutto il Ventesimo
secolo.
I segreti hanno un formidabile potere d'attrazione
psicologica. Tutti volevano conoscere il
contenuto di quel segreto. Le autoritŕ religiose, quelle
civili, i parenti, la gente, e tutti
tormentavano quei poveri bambini nella speranza di
riuscire a
farli parlare. I tre piccoli veggenti furono addirittura
imprigionati per quel segreto, ma non
cedettero. Solo nel 1927, Lucia, che nel frattempo era
rimasta l'unica in vita, ricevette il
permesso dalla Vergine di rivelarne due parti, mentre la
terza doveva rimanere sconosciuta fino al
1960 e poi poteva essere svelata a discrezione del Papa.
Allora, fine anni Venti, poche autoritŕ ecclesiastiche
credevano alle apparizioni di Fatima.
Perciň passarono anni prima che quelle due parti del
Segreto, rivelate da Lucia al proprio
vescovo, venissero divulgate. E la terza, che poteva
essere svelata dopo il 1960, rimase inedita
fino al 2000.
Perň la morbosa curiositŕ del mondo non venne mai
meno. Su quel Segreto, sia prima che venisse
rivelato, sia dopo, sono stati scritti innumerevoli articoli e
libri con mille congetture e
supposizioni, anche le piů strampalate. E si continua a
scrivere e a fare ipotesi, perché molti,
anche autorevoli studiosi, ritengono che non se ne abbia
ancora compreso il profondo e totale
significato.
Profezie enigmatiche
Come giŕ detto, il Segreto di Fatima č costituito da tre
parti. La prima riguarda la visione
dell'inferno. La Madonna mostrň ai tre bambini una scena
terrificante, con fuoco, persone che vi
cadevano dentro come scintille e demoni dalle orribili
forme che torturavano quelle povere persone.
E la Vergine disse: "Avete visto l'Inferno dove cadono le
anime dei poveri peccatori. Per
salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al
mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che
vi dirň, molte anime si salveranno e avranno pace".
Nella seconda parte, la Madonna, sempre in riferimento
alla cattiveria degli uomini che offendono
Dio, fece una serie di previsioni riguardanti la vicende
politiche e sociali dell'Europa. Disse
che la Prima guerra mondiale stava per finire, ma che ne
sarebbe scoppiata una seconda, "ancora
peggiore". Poi parlň dell'avvento del comunismo, la sua
diffusione nel mondo, la persecuzione
della Chiesa, la fine dell'ideologia. Ognuna di queste
previsioni era corredata da brevissimi ma
concreti dettagli storici, e tutte poi si sono realizzate quasi
alla lettera. In questa parte,
almeno negli scritti di suor Lucia, vi č anche
l'affermazione della Vergine che dice:
"Finalmente il mio Cuore Immacolato trionferŕ. Il Santo
Padre mi consacrerŕ la Russia che si
convertirŕ e sarŕ concesso al mondo un periodo di pace".
La Russia viene citata due volte
direttamente, e una indirettamente quando si parla del
comunismo che lě nasce e da lě invade il
mondo.
Sintetizzando, il Segreto era una fotografia del conflitto
tra Bene e Male come si sarebbe
presentato nel Ventesimo secolo. E la Vergine, Madre di
Gesů e del genere umano, indica ai
veggenti che cosa devono fare i buoni, che cosa deve
fare la Chiesa per vincere il Male, per
impedire che guerre, odi, ideologie distruggano nazioni,
popoli, e tante persone si perdano per
sempre. Il Messaggio di Fatima, in realtŕ non fa che
riproporre il nucleo principale della
Veritŕ evangelica: l'uomo č figlio di Dio, destinato al
Paradiso, deve vivere secondo Veritŕ in
questo mondo per raggiungere la sua patria eterna.
Niente guerre, niente divisioni, niente odi,
niente sovvertimento della Veritŕ. Bisogna combattere il
Nemico, Satana, che vuole la
distruzione del genere umano e insegna l'odio, la morte.
Chi segue Satana finisce nell'Inferno,
immagine simbolica di estrema distruzione, di totale
fallimento, di perdita del Regno dei Cieli.
La terza parte, rivelata da Giovanni Paolo II nel 2000, č
una "visione". Forse cronologicamente
si collocava prima delle ultime parole della Vergine,
riferite al trionfo del suo Cuore.
I tre bambini videro "un angelo con una spada di fuoco
che emetteva fiamme che sembrava
dovessero incendiare il mondo ma si spegnevano al
contatto dello splendore che Nostra Signora
emanava dalla sua mano destra verso di lui". Poi, "in una
luce immensa che č Dio, vedemmo un
vescovo vestito di bianco. Abbiamo avuto il
presentimento che fosse il Santo Padre. Vari altri
vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una
montagna ripida, in cima alla quale c'era
una grande croce di tronchi grezzi come se fosse di
sughero con la corteccia; il Santo
Padre, prima di arrivarvi, attraversň una grande cittŕ
mezza in rovina e, mezzo tremulo, con passo
vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le
anime dei cadaveri che incontrava nel suo
cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in
ginocchio ai piedi della grande Croce venne
ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi
di arma da fuoco e frecce, e allo
stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi,
sacerdoti, religiosi e religiose e varie
persone secolari, uomini e donne di varie classi e
posizioni".
Una visione enigmatica, inquietante, conseguenza diretta
di quanto spiegato nella seconda parte,
ma qui con riferimento soprattutto al Papa e alla Chiesa.
E' una fotografia della storia della
persecuzione della Chiesa nel Ventesimo secolo, ma che
continua anche nel nostro tempo. E dopo
l'attentato subito in piazza San Pietro il 13 maggio 1981,
Giovanni Paolo II si riconobbe in quel
"vescovo vestito di bianco" che cade sotto i colpi di
pistola che erano destinati a ucciderlo.
Seguendo il "vescovo vestito di bianco"
Si sa, come vedremo ampiamente in seguito, che Papa
Wojtyla lesse gli scritti di suor Lucia subito
dopo l'attentato del maggio 1981. Ma si sa anche che in
seguito ebbe vari colloqui con la veggente
di Fatima, che certamente gli hanno fornito altre
informazioni che noi non conosciamo.
Nel 2000, quando il Papa decise di rendere pubblica la
terza parte del Segreto, e di far sapere
al mondo che si era riconosciuto in quel "vescovo vestito
di bianco", erano passati diciannove
anni dall'attentato in piazza San Pietro. Per diciannove
anni, quindi, Giovanni Paolo II aveva
riflettuto e meditato su quanto gli era accaduto e sulle
rivelazioni di Fatima. La sua convinzione, perciň, di
rendere pubblica quella parte del Segreto era ben
motivata. Ma dare credito a quelle rivelazioni e affermare
di "riconoscersi" in quel "vescovo vestito di bianco" voleva
dire schiudere scenari sconcertanti, impensabili, che
fanno addirittura spavento, perché vanno oltre il tempo,
oltre la realtŕ della vita quotidiana su questo pianeta.
Papa
Wojtyla lo sapeva bene, ma ha voluto farlo. Forse anche
contro la volontŕ di molti collaboratori.
E la sua decisione induce a ritenere che avesse motivi
ben precisi e concreti.
Va sottolineato che quelle decisioni del Papa hanno avuto
e continuano ad avere un peso enorme.
Furono decisioni ufficiali, pubbliche, precedute e seguite
da due importanti documenti: il
discorso di presentazione della rivelazione dell'ultima
parte del Segreto fatto a Fatima dal
segretario di Stato del Vaticano, cardinale Sodano, alla
presenza del Papa stesso, davanti a due
milioni di persone e in presa diretta televisiva. E poi, il
mese successivo, il documento di
spiegazione e interpretazione di quella parte del Segreto,
presentato nel corso di una
conferenza stampa a Roma, dal cardinale Ratzinger, che
era prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, ex Sant'Uffizio.
Questi interventi hanno attribuito al Segreto e al
Messaggio di Fatima, un valore ufficiale come
non era mai accaduto prima nella storia della Chiesa per
delle apparizioni della Madonna. Mai,
infatti, la Santa Sede si era espressa in modo cosě
esplicito nei riguardi di una "rivelazione
privata", pronunciandosi con parere favorevole in forma
solenne, redigendo appunto un documento
ufficiale. Ed č stata la prima volta che la Chiesa ha
ufficialmente riconosciuto l'incisivitŕ
storica di una profezia la cui fonte č un'apparizione della
Vergine. Profezia che il cardinale
Sodano ha definito "la piů grande dei tempi moderni".
E nello stesso tempo, questi interventi ufficiali hanno
inserito, in modo esplicito, la vita di
Karol Wojtyla nel "Segreto di Fatima". Riconoscendo la
validitŕ profetica di quel segreto, hanno
confermato che lui, Papa Wojtyla, ha avuto un ruolo
preciso nella storia, preannunciato da quel
Segreto ancora prima che egli venisse al mondo.
Un nuovo sentiero
Partendo da questi dati oggettivi, risulta evidente che
gran parte dell'esistenza di Karol
Wojtyla č da riscrivere. O almeno, da ripensare, da
rivedere. Le varie biografie e ricostruzioni
della sua vita in genere non prendono in considerazione i
fatti cui abbiamo accennato proprio
perché, a esaminarli a fondo, suscitano enormi
interrogativi riguardanti il destino, il libero
arbitrio, il fine ultimo dell'esistenza, il valore delle
apparizioni, delle previsioni e delle
profezie. Ma non ci sono alternative: sono fatti che si
sono verificati e che il Papa ha voluto
far conoscere. Ignorarli significa trascurare quell'aspetto
del nostro mondo che č strettamente
legato al soprannaturale, il quale, secondo gli
insegnamenti della fede cristiana, č una
dimensione reale, piů reale di quella fisica, perché eterna
e destinata a noi per sempre, fuori
del tempo.
Ecco, quindi, che si delinea un modo nuovo e in un certo
senso inedito di raccontare la vita di
Papa Wojtyla. Secondo il nostro modesto parere, per
capire Giovanni Paolo II, bisogna "filtrare"
i fatti della sua esistenza, i suoi insegnamenti che
riguardano anche il nostro futuro immediato,
insomma, il "suo vero significato nella storia del nostro
tempo", attraverso il Segreto di Fatima.
Segreto preso nel suo insieme, che comprende non solo
la citazione del "vescovo vestito di bianco"
vittima di un attentato mortale, ma anche la visione
dell'Inferno, i mezzi che Dio suggerisce per
la salvezza dei peccatori, le profezie sul destino
dell'Europa, in particolare quelle riguardanti
il comunismo e la Russia, profezie che solo in parte si
sono giŕ realizzate.
Dopo essersi riconosciuto in quel "vescovo vestito di
bianco", Papa Wojtyla ha fatto del
Messaggio di Fatima il faro della sua esistenza. Il fatto
che l'attentato alla sua vita fosse
avvenuto il 13 maggio, giorno del sessantaquattresimo
anniversario della prima apparizione della
Madonna a Fatima, lo fece riflettere. Seppe dai medici
che la pallottola entrata nel suo addome lo
avrebbe dovuto uccidere ma, procedendo incredibilmente
a zigzag, aveva evitato gli organi vitali.
Capě subito di che natura era quello "strano
comportamento" e disse: ŤUna mano ha sparato e
un'altra mano ha guidato il proiettileť. Piů volte espresse
la convinzione di essere stato
salvato da un intervento miracoloso della Vergine, e lo ha
anche scritto nel suo testamento.
Ebbene, da allora egli ha studiato a fondo il contenuto di
quel Segreto e ha cercato, con passione
e determinazione, di realizzare tutto ciň che la Vergine
aveva chiesto e che non era stato
realizzato dai precedenti pontefici, in particolare la
consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di Maria. Egli credeva nelle previsioni della
Madonna, si batte con ogni energia per
scuotere i credenti, spingerli alla preghiera, alla
penitenza, alla fede, come la Madonna aveva
chiesto, per evitare quella catastrofe nucleare che la
cattiveria degli uomini, guidati dal
Maligno, aveva preparato e stava per abbattersi sul
mondo. Per salvare l'umanitŕ, sull'esempio
di Gesů, Wojtyla offrě la propria vita, entrando cosciente
nel mistero della sofferenza, vissuta
come mezzo di redenzione. E da allora la sua esistenza
fu un calvario di sofferenze. Un calvario
che egli ascese lentamente, nel corso di ventiquattro
lunghi anni, fino a diventare un autentico
crocefisso.
ŤLei ha buona intuizioneť
Questa č la vera vita di Giovanni Paolo II, ed č in questa
direzione che tentiamo di muoverci in
queste pagine. Una scelta forse temeraria. Ma siamo
confortati da una frase dell'uomo che piů di
ogni altro ha conosciuto Giovanni Paolo II, il suo
segretario, monsignor Stanislaw Dziwisz, oggi
arcivescovo di Cracovia. Gli abbiamo chiesto di leggere
parte di questo libro, quando era ancora
in lavorazione, e monsignor Dziwisz ci ha risposto con
una gentile lettera, che contiene una
frase molto significativa: "Lei ha buona intuizione per
quanto riguarda il legame che unisce le
apparizioni della Madonna a Fatima con l'attentato a
Giovanni Paolo II, e specialmente il terzo
segreto, che rimane sempre mistero della Divina
Misericordia".
Del resto, che in questi fatti, cioč nel legame tra il Segreto
di Fatima e l'attentato del 1981,
si debba cercare la chiave della vita di Papa Wojtyla,
soprattutto la chiave di lettura del suo
pontificato, lo ha indicato lui stesso nel testamento. Si
tratta di un documento breve, scritto
nel corso degli esercizi spirituali del 1979, e riletto e
riconfermato ogni anno, sempre nel
corso
degli esercizi spirituali, con piccoli aggiornamenti
apportati nel 1980, 1982, 1985 e 2000.
Gli Esercizi spirituali costituiscono una consuetudine
ascetica che tutti i sacerdoti e i
religiosi annualmente praticano. Per una settimana si
ritirano da ogni attivitŕ per riflettere,
pregare, nel silenzio piů assoluto. In genere meditano
sulla loro vita e sulla morte. Sono giorni
di intensa interioritŕ.
Wojtyla tracciň quel testamento nel corso dei primi
esercizi spirituali che faceva da Papa, e cioč
nel marzo 1979. In seguito, per due volte, nelle note di
aggiornamento, ricordň l'attentato che
aveva subito.
Nel 1982 scrisse: "L'attentato alla mia vita il 13.V. 1981 in
qualche modo ha confermato
l'esattezza delle parole scritte nel periodo degli esercizi
spirituali del 1980 (24.II-1.III)". Il
riferimento riguarda una dettagliata, sia pur sintetica
analisi che egli aveva fatto sul difficile
periodo della vita della Chiesa di quegli anni, definendolo
"un periodo di persecuzione tale, da
non essere inferiore a quelle dei primi secoli, anzi li
supera per il grado della spietatezza e
dell'odio".
Il secondo richiamo all'attentato del 1981 lo fece nel
2000, anno del grande Giubileo da lui
voluto. Ricordň le parole che gli aveva detto il cardinale
Stefan Wyszynski, primate della
Polonia, subito dopo la sua elezione. "Il compito del
nuovo Papa sarŕ di introdurre la Chiesa nel
Terzo millennio." Questo egli aveva fatto. Riflettendo sul
secolo che se ne era andato, su quello
che iniziava, e sul fatto che egli aveva ottant'anni ed era
pieno di sofferenze e di acciacchi, si
chiedeva se non fosse giunto il momento di lasciare
l'incarico. Ma rispondeva a se stesso citando
l'attentato del 1981. In quell'occasione era stato salvato
miracolosamente dal Signore perché
doveva svolgere una missione speciale. Quindi, doveva
restare al proprio posto,
sicuro che la Provvidenza gli avrebbe dato le forze
necessarie. Scrisse: "Nel giorno del 13 maggio
1981, il giorno dell'attentato al Papa durante l'udienza
generale in piazza San Pietro, la Divina
Provvidenza mi ha salvato in modo miracoloso dalla
morte. Colui che č unico Signore della vita e
della morte, Lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un
certo
modo me l'ha donata di nuovo. Da questo momento essa
ancora di piů appartiene a Lui. Spero che
Egli mi aiuterŕ a riconoscere fino a quando devo
continuare questo servizio, al quale mi ha
chiamato nel giorno 16 ottobre 1978. Gli chiedo di volermi
richiamare quando Egli stesso vorrŕ.
'Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore... siamo
del Signore' (cfr. Rm 14,8). Spero
anche che fino a quando mi sarŕ donato di compiere il
servizio petrino nella Chiesa, la
Misericordia di Dio voglia prestarmi le forze necessarie
per questo servizio". Sono parole che
indicano chiaramente come Wojtyla fosse convinto che si
trovava sul trono di Pietro e che era
sfuggito alla morte nell'attentato del 1981 per eseguire
precisi disegni della Provvidenza. E,
quindi, anche se la malattia lo aveva fortemente colpito,
anche se alcuni cardinali gli avevano
suggerito di dimettersi, egli capiva che doveva continuare
il suo mandato. E cosě fece.

II Interminabile Via Crucis

Per tutta la notte del 2 aprile 2005, piazza San Pietro


rimase un luogo di preghiera e di lacrime.
Subito dopo che i media avevano dato la notizia della
morte di Giovanni Paolo II, dal fondo di via
della Conciliazione cominciň ad arrivare altra gente.
Singole persone, piccoli gruppi, nuclei
familiari. Giovani coppie con i bambini in braccio. Ma
anche anziani, che si trascinavano con
affanno. Facce smarrite, il dolore sincero del popolo.
Entravano nella grande piazza, sostavano guardando le
luci dell'appartamento papale e qualcuno si
inginocchiava piangendo. Poi si confondevano con la folla
dolente, all'incirca settantamila
persone, che sostava in quella piazza da ore. Si
sentivano preghiere in tutte le lingue,
inframmezzate da canti dolenti.
Preghiere nella notte
Per tutta la notte in quella grande piazza progettata da
Bernini si tenne la veglia funebre per
Papa Wojtyla. Ogni tanto, qualche sacerdote al microfono
parlava alla folla invitandola a recitare
delle preghiere. Anche i Papaboys si facevano sentire
intonando dei canti. Ma ora erano canti
tristi, sussurrati. Tutta quella gente era lě perché sentiva
un richiamo, sentiva di essere legata
a quell'uomo in maniera misteriosa e forte.
Nella zona riservata ai telecronisti, il lavoro era febbrile.
Grazie a loro, la veglia di piazza San Pietro si allargava a
un pubblico vasto, enorme, sparso in
tutto il mondo. Impossibile dare delle cifre. Dove arrivava
la notizia, iniziava una mobilitazione
di preghiera, di compartecipazione. Nelle famiglie, nelle
chiese, nelle piazze. Quella stessa
sera, in molte cittŕ d'Europa erano state organizzate
Messe e riunioni di preghiera per la salute
del Papa. Dopo la notizia della morte di Giovanni Paolo II,
quelle riunioni si sono trasformate
in veglie funebri proseguite senza orario, per tutta la
notte.
Molti di coloro che avevano appreso il triste annuncio
nelle loro case, raggiungevano la chiesa
piů vicina, la parrocchia dove alcuni fedeli si erano giŕ
radunati o cominciavano a farlo.
Grazie proprio ai potenti mezzi moderni di
comunicazione, quella notte divenne la piů globale
veglia funebre che ci sia mai stata nella storia.
Le luci nell'appartamento papale rimasero accese fino al
mattino. Molti dalla piazza
continuavano a guardare lassů, immaginando o sperando
che il Papa fosse spiritualmente a quella
finestra dove appariva spesso.
Nell'appartamento papale si notava un viavai febbrile.
Subito dopo che Giovanni Paolo II aveva
esalato l'ultimo respiro, la sua camera fu invasa dalle
persone che sostavano a quel piano del
palazzo. Corsero a rendere omaggio a Papa Wojtyla il
cardinale Angelo Sodano, segretario di
Stato, il cardinale Joseph Ratzinger, decano del collegio
cardinalizio; il cardinale Eduardo
Martinez Somalo, camerlengo di Santa Romana Chiesa,
e vari membri della Famiglia pontificia.
Era presente il dottor Renato Buzzonetti, direttore di
Sanitŕ e Igiene dello Stato di Cittŕ del
Vaticano, che con i suoi collaboratori dovette fare la
constatazione della morte.
Una povera larva d'uomo
Finite le visite di compianto, iniziň l'opera della
preparazione della salma. Il cerimoniale
pontificio prevede, per simili circostanze, che, dopo due
giorni dal decesso, ce ne siano altri
tre di camera ardente in San Pietro, aperta a tutti i fedeli.
Quindi, il corpo del Pontefice deve
restare insepolto per quasi una settimana. Un tempo, i
papi defunti venivano imbalsamati. Pio x
abolě questa consuetudine e da allora si ricorre ad altri
accorgimenti scientifici.
Il compito di preparare il corpo di Giovanni Paolo II fu
affidato a un gruppo di esperti di
anatomia patologica. La tecnica, importata dall'America
del Sud, č costituita da iniezioni per via
arteriosa di un liquido a base di formaldeide, che
garantisce l'aspetto igienico e un colorito piů
roseo alla salma.
Davanti agli esperti e a quanti partecipavano alla
composizione della salma, Giovanni Paolo II
apparve in tutta la sua fragilitŕ umana.
Ventisei anni e mezzo prima, quell'uomo si era affacciato
sulla piazza di San Pietro per il suo
primo saluto alla folla dopo l'elezione a Pontefice, ed era
robusto, possente, bello, aitante, un
atleta, un ciclone di energia. Ora, disteso sul suo letto di
morte, appariva una povera larva
umana. Sul corpo portava i segni e la devastazione di
lunghe malattie.
Come scrisse nel certificato di morte il dottar Renato
Buzzonetti, Giovanni Paolo II era stato
stroncato da "shock settico" e "collasso cardiocircolatorio
irreversibile". Ma in quel medesimo
comunicato, aggiunse che Papa Wojtyla era affetto da
"morbo di Parkinson", "pregressi episodi di
insufficienza respiratoria acuta e conseguente
tracheotomia", "ipertrofia prostatica benigna
complicata da urosepsi" e "cardiopatia ipertensiva e
ischemica". Negli ultimi mesi di vita, il
Papa aveva perso quasi venti chili.
La sua esistenza da Pontefice, iniziata all'insegna di una
prestanza fisica che aveva stupito il
mondo, si era trasformata in fretta in un calvario, come
quello descritto da suor Lucia nella
terza parte del Segreto di Fatima. "Vedemmo un vescovo
vestito di bianco... salire una montagna
ripida, in cima alla quale c'era una grande croce...
Attraversň una grande cittŕ mezza in rovina
e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e
di pena, pregava per le anime dei
cadaveri che incontrava nel suo cammino..."
Quei colpi mortali
Il martirio fisico di Papa Wojtyla era iniziato il 13 maggio
1981, con l'attentato in piazza San
Pietro, che lo aveva portato a un passo dalla morte.
Alle 17 di quel pomeriggio, Giovanni Paolo II, in piedi
sulla sua jeep bianca, stava
attraversando piazza San Pietro gremita da quarantamila
fedeli, giunti da ogni parte per
assistere all'udienza generale del mercoledě.
Improvvisamente risuonarono dei colpi di
rivoltella. Il Papa si accasciň tra le braccia del segretario,
monsignor Stanislaw Dziwisz.
Quel giorno, vale la pena ripeterlo, ricorreva il
sessantaquattresimo anniversario della prima
apparizione della Madonna a Fatima. Il Papa fu salvato al
Policlinico Gemelli con un intervento
chirurgico durato cinque ore, ma, come ammisero gli
stessi medici, anche per misteriose
circostanze che avevano del prodigioso. Da allora, la sua
esistenza č stata costellata di
continue sofferenze e acciacchi. Il suo fisico atletico era
stato irrimediabilmente compromesso.
Dopo quell'attentato, Papa Wojtyla lesse gli scritti di suor
Lucia. Riflessioni e meditazioni lo
portarono a convincersi che quell'attentato aveva a che
fare con il Segreto di Fatima. Si rese
conto che era stato salvato per intervento miracoloso
della Vergine. Scrisse nel suo libro
Memoria e identitŕ: "In tutto ciň che mi č successo proprio
in quel giorno, ho avvertito una
straordinaria protezione e premura materna. Essa si č
dimostrata piů forte del proiettile
micidiale".
Nei giorni che seguirono l'attentato, Papa Wojtyla riflette
su ciň che gli era capitato. Volle
parlare apertamente e a lungo con i medici che lo
avevano operato. Si rese conto che il suo
fisico era stato compromesso per sempre. Non sarebbe
piů stato l'atleta infaticabile, ma un uomo
sofferente.
Iniziň a guardare la vita con occhi diversi. Meditň sulla
sofferenza fisica. Ma anche sul
mistero cristiano della sofferenza. Forse maturň in quelle
giornate le stupende riflessioni che
si trovano a conclusione dell'ultimo capitolo di Memoria e
identitŕ,
dedicato appunto all'attentato del 1981. Sono riflessioni
che Giovanni Paolo II fece a distanza di
tanto tempo da quella data. Quando lui stesso era
diventato sofferenza. Ma svelano con quale
spirito e con quali motivazioni č vissuto per tanti anni,
come un autentico crocefisso.
"Non vi č male da cui Dio non possa trarre un bene piů
grande. Non c'č sofferenza che Egli non
sappia trasformare in strada che conduce a Lui.
Offrendosi liberamente alla passione e alla morte
di croce, il Figlio di Dio ha preso su di sé tutto il male del
peccato. La sofferenza di Dio
crocifisso non č soltanto una forma di sofferenza accanto
alle altre, un dolore piů o meno grande,
ma č una sofferenza di grado e misura incomparabili.
"Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo
senso alla sofferenza, l'ha introdotta in
una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello
dell'amore. E' vero, la sofferenza entra nella
storia dell'uomo con il peccato delle origini. E' il peccato
quel 'pungiglione' (cfr. 1 Cor
15,55-56) che ci infligge dolore, che ferisce mortalmente
l'essere umano. Ma la passione di Cristo
sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla
sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro.
Ha introdotto nella storia umana, che č storia di peccato,
una sofferenza senza colpa, affrontata
unicamente per amore. E' questa la sofferenza che apre
la porta alla speranza della liberazione,
dell'eliminazione definitiva di quel 'pungiglione' che strazia
l'umanitŕ. E' la sofferenza che
brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore e trae
anche dal peccato una multiforme
fioritura di bene."
Sofferenza come amore. Giovanni Paolo II divenne un
missionario della sofferenza. Iniziň la
scalata di quella "montagna ripida" di cui parlň la Vergine
nel Segreto. Abbracciň con trasporto
la sua croce, accettň il suo calvario divenendo simile a
Cristo. In altra parte del libro
scrisse: "Vivo nella costante consapevolezza che in tutto
ciň che dico e faccio in adempimento
della mia vocazione e missione, del mio ministero,
accade qualche cosa che non č esclusivamente
iniziativa mia. So di non essere io solo ad agire in ciň che
faccio come successore di Pietro".
Il "Vaticano 3"
Dopo l'attentato, Giovanni Paolo II rimase ricoverato al
policlinico Gemelli per ventun giorni.
Sembrava che tutto fosse a posto, invece, appena un
mese dopo, fu nuovamente ricoverato per
un'infezione da Cytomegaiovirus, contratta in seguito a
trasfusione durante l'intervento del 13
maggio. E fu necessaria una lunga degenza in ospedale,
cinquantacinque giorni, e un nuovo
intervento, a completamento del primo, che egli volle
fosse eseguito il 5 agosto, festa della
Madonna della neve.
Il 12 luglio 1992 fu sottoposto a una nuova operazione
per l'asportazione di un tumore benigno
all'intestino, e rimase ricoverato diciotto giorni.
L'11 novembre dell'anno successivo scivolň nell'Aula
delle Benedizioni in Vaticano e riportň la
lussazione della spalla destra e tornň al policlinico
Gemelli.
Il 7 aprile 1994 inciampň durante una gita sul Gran Sasso
e il giorno successivo inaugurň il
Giudizio universale restaurato senza poter muovere la
mano destra.
La sera del 28 aprile 1994 scivolň nel bagno
dell'appartamento privato e si fratturň il collo
del femore destro. Il giorno dopo venne operato e rimase
al Gemelli ventinove giorni.
Scherzando, poiché tornava spesso in quell'ospedale,
dove era sempre pronta una stanza a lui
riservata, disse che il policlinico Gemelli era il "Vaticano
3", cioč la terza delle sue
abituali residenze papali. La prima era quella in San
Pietro, per il governo della Chiesa; la
seconda, a Castel Gandolfo per il riposo; la terza, il
policlinico Gemelli per curare il male e
il dolore.
Il 25 dicembre 1995, mentre era alla finestra del suo
appartamento per la benedizione Urbi et
Orbi, accusň un malore e dovette rientrare. Si ripresentň
alla folla venti minuti dopo, dicendo:
ŤVi auguro di nuovo Buon Natale e vi prego di scusarmi:
anche il Papa si puň ammalareť.
Il 6 ottobre 1996 venne nuovamente ricoverato per
un'appendicectomia e gli furono tolte anche la
cistifellea e alcune aderenze intestinali.
Il 12 gennaio 1998 ebbe un capogiro e perse l'equilibrio
nella Cappella Sistina.
Il 12 giugno 1999, in visita in Polonia, cadde nella
nunziatura di Varsavia e si ferě sopra la
tempia destra.
Tre giorni dopo, il 15 giugno, colpito dalla febbre, fu
costretto a letto e la Messa per i mille
anni del vescovado di Cracovia fu celebrata dal
segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano.
Incidenti, ricoveri, interventi chirurgici, ma era il morbo di
Parkinson la nube nera che
incombeva sempre piů minacciosa sulla esistenza di
Wojtyla. I primi sintomi erano apparsi verso la
fine degli anni Ottanta. Piů volte, negli anni Novanta, si
sono rincorse indiscrezioni e ipotesi
su quella malattia, soprattutto perché le riprese impietose
delle telecamere rivelavano la sua
crescente sofferenza, acuita dalle ricorrenti debilitazioni
dovute alle massicce dosi di
antibiotici. La malattia progrediva inesorabile. La mano
sinistra del Papa tremava sempre piů. La
mobilitŕ del viso svaniva. Il volto era come ingessato. La
parola diventava sempre piů difficile.
Solo gli occhi continuavano a essere vivi. Papa Wojtyla
era diventato una maschera di sofferenza.
Ma continuň imperterrito la sua missione. Mai nascose il
suo male. Mai chiese di non essere
ripreso in primo piano dalla televisione. Il mondo intero č
stato testimone dalla devastazione
progressiva compiuta dai Parkinson sul volto del Papa.
Le sue labbra erano diventate incapaci di
articolare le parole e di trattenere il liquido salivare. Molti
credenti guardavano le immagini
televisive inorriditi. Qualcuno, con sentimenti di
compassione, sperava che Wojtyla si dimettesse.
Ma egli conosceva bene la missione che gli era stata
affidata e mai prese in considerazione la
possibilitŕ di ritirarsi. Ripeteva: ŤResterň al mio posto
finché Dio vorrŕť. ŤGesů non č sceso
dalla croce. E io lo stesso.ť
L'ultima corsa
Il calvario di sofferenze divenne drammatico negli ultimi
mesi di vita.
Il 31 gennaio 2005, la sala stampa della Santa Sede
comunicň che le udienze previste per quel
giorno erano sospese a causa di una sindrome
influenzale che aveva colpito Giovanni Paolo II e
successivamente annunciň il rinvio degli appuntamenti
previsti e la sospensione dell'udienza
generale di mercoledě 2 febbraio.
Ma il quadro clinico si complicň subito per via di una
laringotracheite acuta e di una crisi di
laringospasmo e la sera del primo febbraio, verso le 23, il
Papa fu ricoverato d'urgenza al
Gemelli.
Il ricovero improvviso, nel cuore della notte, costituě un
forte allarme per l'opinione pubblica
e i media di mezzo mondo cominciarono a spedire a
Roma i loro inviati. Era ormai certo che al
Papa restava ben poco da vivere.
Da quel giorno, la salute di Wojtyla divenne argomento da
prima pagina. Ogni giorno si leggevano
e si sentivano notizie sempre piů allarmanti.
Il Vaticano emetteva rari bollettini ufficiali, improntati alla
prudenza e all'ottimismo.
Bollettini che erano in netto contrasto con le informazioni
dei media, che avevano invece un
tono fortemente drammatico. Si vociferava di dimissioni
del Papa, di un Papa che non poteva piů
parlare, che non riusciva piů neppure a scrivere, e quindi
in realtŕ non poteva reggere la
Chiesa.
In questa altalena di informazioni non si sapeva quali
fossero realmente le condizioni del
Pontefice. I giornali si arrampicavano sui vetri. Temendo
di perdere qualche novitŕ importante,
davano ascolto alle ipotesi piů disparate affidandosi a
"voci", "si dice", facendo
"supposizioni", "illazioni", perché l'ufficio stampa del
Vaticano era piuttosto reticente. Uno
dei piů importanti quotidiani italiani uscě addirittura con la
notizia della morte del Papa,
quando Giovanni Paolo II era ancora vivo.
Poiché queste informazioni coinvolgevano la capacitŕ del
Pontefice di reggere le sorti della
Chiesa, e anche per consegnare alla storia la veritŕ, il
Vaticano, dopo la morte del Papa, ha
voluto pubblicare una relazione dettagliata e precisa di
quanto era avvenuto negli ultimi mesi
di vita di Giovanni Paolo II. E ha voluto pubblicarla negli
Acta apostolicae Sedis,
in italiano, quasi a voler sottolineare la volontŕ che ai
fedeli venisse raccontata la storia
reale del "calvario fisico" di Wojtyla. Calvario veramente
drammatico, ma che non lo privň mai
della luciditŕ mentale.
Gli Acta apostolicae Sedis costituiscono, fin dalla loro
fondazione, 1909, una raccolta mensile
dell'attivitŕ della Santa Sede, contenente gli atti del Papa
(Encicliche, brevi, allocuzioni),
delle sacre congregazioni (decreti, nomine, ecc.) e dei
tribunali ecclesiastici: in pratica, i
documenti piů importanti che riguardano la vita della
Chiesa. Sono redatti con pignoleria notarile
direttamente dalla segreteria di Stato e destinati alla
storia.
Volendo riferire, in queste pagine, la cronaca degli ultimi
mesi di vita di Giovanni Paolo II con
lo scopo di dare ai lettori informazioni precise e sicure,
abbiamo scelto di seguire le
indicazioni offerte dagli Acta Apostolicae Sedis anche se
qualche episodio, qualche dettaglio
ampiamente dato dai giornali e dalle televisioni non ha
trovato riscontro in questo documento.
Ecco, quindi, ricostruito, per i nostri lettori, l'iter clinico
degli ultimi mesi di vita di
Giovanni Paolo II, seguendo le informazioni della fonte
piů autorevole e ufficiale della Santa
Sede.
Al Gemelli, dopo il ricovero urgente del 31 gennaio, il
Santo Padre venne ospitato nella camera a
lui riservata al decimo piano del Policlinico, nell'ambito del
dipartimento di emergenza, diretto
dal professor Rodolfo Proietti. Fu sottoposto alle
opportune terapie di assistenza respiratoria
e ai necessari controlli clinici.
L'evoluzione clinica risultň positiva e sabato 5 febbraio il
Santo Padre potč seguire in
televisione la cerimonia svoltasi nell'Aula Paolo vi per la
festa della Madonna della Fiducia,
patrona del Seminario romano maggiore.
La permanenza in ospedale fu prolungata di qualche
giorno per consentire la stabilizzazione del
quadro clinico. Quotidianamente il Papa concelebrava la
Santa Messa nella sua stanza. Il
mercoledě delle Ceneri, nel corso dell'Eucaristia, volle
che le ceneri gli fossero imposte dal
suo segretario.
Completati gli accertamenti diagnostici, inclusa la Tac
total body, che consentivano di
escludere altre patologie, il 10 febbraio il Santo Padre, in
auto, rientrava in Vaticano verso
le 19.40. Un rientro che ne volle sottolineare l'effettivo
recupero fisico, proprio anche per
mettere fine al continuo rincorrersi delle voci sulle sue
possibili dimissioni, sulla sua
capacitŕ di una guida diretta degli affari della Chiesa. Per
questo il Papa tornň in Vaticano in
Papamobile, sotto gli occhi delle telecamere di tutto il
mondo.
L'addio senza poter parlare
Ma il recupero fisico fu solo apparente e di brevissima
durata.
Dopo una decina di giorni, infatti, si verificava una
ricaduta della patologia respiratoria con
fasi alterne, strettamente controllate dal personale
medico vaticano, che assisteva in
permanenza il Papa.
Il quadro clinico si andava via via complicando per il
rinnovarsi degli episodi di insufficienza
respiratoria acuta, causati da una giŕ preesistente e
documentata stenosi funzionale della
laringe.
Una nuova crisi si verificň nella serata del 23 febbraio e,
pur adeguatamente fronteggiata, rese
indilazionabile un secondo ricovero presso il policlinico
Gemelli, che avvenne alle 11.50 di
giovedě 24 febbraio.
Quella sera stessa fu necessario praticare al Santo Padre
una tracheotomia, che venne effettuata
dal professor Gaetano Paludetti, ordinario di clinica
odontoiatrica dell'Universitŕ Cattolica
del Sacro Cuore, e dal dottor Angelo Campioni, primario
otorinolaringoiatra dell'ospedale San
Giovanni di Roma e specialista della direzione di Sanitŕ e
Igiene dello Stato di Cittŕ del
Vaticano.
Il decorso postoperatorio si svolse senza complicazioni,
permettendo che si iniziasse presto la
riabilitazione del respiro e della fonazione.
Il 6 marzo, il Santo Padre, indossando la casula rosa,
celebrava la Santa Messa della IV
domenica di Quaresima nella
piccola cappella annessa alla sua stanza e pronunciava
la formula della benedizione finale con
voce flebilissima ma con discreta dizione.
Domenica 13 marzo il Papa rientrava in Vaticano alle
18.40 circa, accolto dal cardinale Angelo
Sodano, suo segretario di Stato, e dai collaboratori.
Appena rientrato nel suo appartamento, volle
recarsi in cappella per la recita delle Lamentazioni, che in
lingua polacca commemorano la
Passione del Signore.
L'assistenza medica era costantemente assicurata da
un'equipe vaticana composta da dieci
rianimatori, da specialisti di cardiologia, di
otorinolaringoiatria e di medicina interna,
coadiuvati da quattro infermieri professionali, sotto la
direzione del medico personale di Sua
Santitŕ, il dottor Renato Buzzonetti. Nell'appartamento del
Papa era stata allestita una sala di
assistenza medica completa di attrezzatura e
strumentazione per ogni esigenza tecnica.
Nei giorni successivi proseguiva la lenta ripresa del
Pontefice, resa difficile dalla
deglutizione molto difficoltosa, dalla fonazione assai
stentata, dal deficit nutrizionale e dalla
notevole astenia.
Domenica 20 marzo e mercoledě 23, il Santo Padre
compiva un'apparizione alla finestra del suo
studio, muta, limitandosi alla benedizione con la mano
destra.
Il Venerdě santo, come tutto il mondo ha potuto vedere in
televisione, per la prima volta da
quando era Papa, non potč partecipare direttamente alla
tradizionale Via Crucis. La seguě in
collegamento televisivo dalla cappella del suo
appartamento.
Il giorno di Pasqua, 27 marzo, il Papa si tratteneva per
circa tredici minuti dinanzi alla
finestra del suo appartamento, aperta su piazza San
Pietro gremita di fedeli in attesa del
consueto messaggio pasquale. Teneva in mano i fogli del
testo, che, sul sagrato della basilica,
veniva letto con voce commossa dal cardinale Angelo
Sodano, segretario di Stato.
Al termine, il Papa tentň di pronunciare le parole della
benedizione apostolica, senza successo
e, in silenzio, con la mano destra benedisse la cittŕ e il
mondo.
Alle 21.37, l'ultimo respiro
Il 30 marzo veniva comunicato che era stata intrapresa la
nutrizione enterale mediante il
posizionamento permanente di un sondino nasogastrico.
Lo stesso giorno, mercoledě, il Santo Padre si presentava
alla finestra del suo studio e, senza
parlare, benediceva la folla che, attonita e dolente,
l'attendeva, in piazza San Pietro.
Fu l'ultima apparizione pubblica.
Giovedě 31 marzo, poco dopo le 11, il Santo Padre, che
si era recato in cappella per la
celebrazione della Santa Messa, fu colto da un brivido
squassante, seguito da un forte e
improvviso attacco di febbre che raggiunse i 39,6 gradi.
Poco dopo, subentrava un gravissimo
shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a
un'accertata infezione delle vie
urinarie.
Immediatamente furono presi tutti gli appropriati
provvedimenti terapeutici e di assistenza
cardiorespiratoria. Veniva rispettata l'esplicita volontŕ del
Santo Padre di non essere
trasferito al Gemelli ma di rimanere nella sua abitazione,
ove era peraltro assicurata una
completa ed efficiente assistenza.
Nel tardo pomeriggio venne celebrata la Santa Messa ai
piedi del letto del Papa. Questi
concelebrava con gli occhi socchiusi, ma, al momento
della consacrazione, sollevň debolmente il
braccio destro per due volte, cioč sul pane e sul vino.
Accennň anche il gesto di battersi il
petto durante la recita dell'Agnus Dei. Alle 19.17, fece la
santa Comunione. Al termine della
Messa, il cardinale di Leopoli dei Latini gli amministrava
l'Unzione degli infermi.
Successivamente, il Santo Padre chiedeva di celebrare
"l'ora eucaristica" di meditazione e
preghiera.
Venerdě 1° aprile, alle 6 del mattino, il Papa, cosciente e
sereno, concelebrň la Santa Messa.
Verso le 7.15 ascoltň la lettura delle quattordici stazioni
della Via Crucis facendo il segno
della croce per ogni stazione. Successivamente espresse
il desiderio di ascoltare la lettura
dell'Ora terza dell'Ufficio divino e di brani della Sacra
Scrittura.
Con il passare delle ore, la situazione diventava sempre
piů grave, caratterizzata dall'allarmante
compromissione dei parametri biologici e vitali. Si
instaurava un ingravescente quadro clinico di
insufficienza cardiocircolatoria, respiratoria e renale.
Il Papa, con visibile partecipazione, si associava alla
continua preghiera di coloro che lo
assistevano.
Alle 7.30 di sabato 2 aprile, veniva celebrata la Santa
Messa alla presenza del Santo Padre, che
cominciava a mostrare un'iniziale compromissione della
coscienza. Nella tarda mattinata, egli
ricevette per l'ultima volta il cardinale segretario di Stato e
poi si verificň un brusco rialzo
della temperatura.
Verso le 15.30, con voce debolissima e parola biascicata,
in lingua polacca, il Santo Padre
disse: ŤLasciatemi andare alla casa del Padreť.
Poco prima delle 19 entrava in coma. Il monitor
documentava il progressivo esaurimento delle
funzioni vitali.
Secondo una tradizione polacca, venne acceso un
piccolo cero che illuminava la penombra della
camera, ove il Papa andava spegnendosi.
Alle 20, ai piedi del letto del Pontefice morente iniziava la
celebrazione della Santa Messa della
Festa della Divina Misericordia. Il rito era presieduto da
monsignor Stanislaw Dziwisz con la
partecipazione del cardinale Marian Jaworski e dei
vescovi monsignor Stanislaw Rylko e monsignor
Mieczyslaw Mokrzycki.
Canti religiosi polacchi accompagnavano la celebrazione
e si fondevano a quelli dei giovani e
della moltitudine dei fedeli, raccolti in preghiera in piazza
San Pietro.
Alle 21.37 Giovanni Paolo II si addormentava nel Signore.
Il decesso, constatato dal dottor Renato Buzzonetti, era
accertato anche mediante l'esecuzione
dell'elettrocardiotanatogramma protratto per oltre venti
minuti primi, come da norma vaticana.
Strane ma significative coincidenze
Questa č la cronaca esatta di come Giovanni Paolo II
visse le ultime fasi della sua malattia e
di come lasciň il mondo terreno.
All'esterno del Palazzo apostolico, la folla in piazza San
Pietro e quella enorme sparsa in
tutto il mondo che seguiva attraverso i mezzi di
comunicazione, visse l'agonia del Papa con
grande partecipazione. Radio e televisioni davano
aggiornamenti continui. Sui teleschermi si
alternavano esperti medici per spiegare alla gente il
significato delle varie fasi
dell'evoluzione della malattia, suggerendo ipotesi e
speranze.
La sera del 31 marzo, quando le condizioni del Papa
precipitarono all'improvviso, venne diffuso
un bollettino ufficiale, letto dal portavoce Joaquin
Navarro-Valls: ŤIl Santo Padre nella
giornata di oggi č stato colpito da un'affezione altamente
febbrile provocata da un'infezione
documentata delle vie urinarie. E' stata iniziata
un'appropriata terapia antibiotica; il quadro
clinico č strettamente controllato dall'equipe medica
vaticana che lo ha in curať.
Quella dichiarazione arrivň come una bomba. Tutti si
resero conto che la situazione stava
precipitando. Commentando la comunicazione, i vari
medici erano concordi nel ritenere che la
situazione fosse disperata. ŤCon un quadro clinico del
genereť disse in televisione uno
specialista Ťil Papa non arriverŕ a domani.ť
Il giorno dopo era venerdě. Ma molti credenti,
conoscendo la grande devozione mariana di
Wojtyla, dicevano: ŤVedrai che la Madonna lo porterŕ in
cielo sabato mattinať.
Nelle biografie dei santi si trovano diverse coincidenze
del genere. Persone vissute santamente,
che erano devotissime di Maria, sono spirate all'alba di
sabato, giorno dedicato alla Vergine, o
alla vigilia di una solennitŕ mariana.
Karol Wojtyla aveva una devozione tenerissima verso la
Madonna. L'aveva coltivata fin da
ragazzo. Il motto da lui scelto per il suo stemma
vescovile, motto conservato anche nello stemma
papale, Totus tuus (tutto tuo), era un atto di
completo abbandono alla Madre Celeste. Ripeteva
spesso quelle due parole, le aveva fatte dipingere
accanto a una immagine della Madonna sotto le finestre
del suo appartamento, si trovano ripetute
anche nel suo testamento. Chi conosceva bene il
Pontefice, non aveva dubbi sul fatto che la
Vergine sarebbe venuta a prenderlo per portarlo in
Paradiso all'alba del sabato.
Quindi, nonostante i medici, il giovedě sera, viste le
condizioni in cui versava, avessero
affermato che non sarebbe arrivato al giorno dopo, molti
erano certi che sarebbe vissuto fino a
sabato.
Come abbiamo giŕ detto riferendo la cronaca degli ultimi
giorni di vita del Papa, il venerdě
mattina Giovanni Paolo II era ancora vivo. Anzi, le sue
condizioni si erano stabilizzate al punto
che potč concelebrare la Messa e poi seguire la Via
Crucis. Solo nel tardo pomeriggio di venerdě,
ci fu un peggioramento. Wojtyla trascorse la notte in
grande affanno. Al sabato mattina sembrava
proprio alla fine, ma tenne duro. Verso le 13.30 mormorň
in polacco: ŤLasciatemi andare alla casa
del Padreť. Perse conoscenza, ma si riprese ancora.
Intorno alle 20 di sabato, nella sua camera fu
celebrata la Santa Messa della Vigilia della Festa del
giorno successivo.
Il 2 aprile 2005 era la prima domenica dopo Pasqua. Un
tempo, era chiamata Domenica in albis.
Giovanni Paolo II l'aveva fatta diventare anche la Festa
della Divina Misericordia. Una ricorrenza
a lui particolarmente cara che celebra una devozione in
un certo senso moderna, nuova: l'infinita
misericordia di Dio. E' una devozione ancora poco
conosciuta, suggerita da Gesů stesso a una
giovane suora polacca, Faustina Kowalska, morta a
trentatré anni, nel 1938.
Fin da giovane Karol Wojtyla aveva sentito parlare di
questa umile suora, sua conterranea, e ne
aveva letto i diari. Si era entusiasmato della devozione
alla Divina Misericordia che la suora
aveva il compito di far conoscere, e, con il passar degli
anni, continuň a studiare e
approfondire il senso di quella devozione.
E si rese conto che era la conseguenza logica, naturale,
dell'amore di Dio per gli uomini. Un
amore infinito, "pazzesco" si potrebbe dire. Per la
salvezza degli uomini, Dio aveva
mandato suo Figlio, Gesů, su questa terra non come
trionfatore, ma come vittima. Gesů era stato
condannato come un malfattore e morě crocifisso sulla
croce. Solo un amore infinito puň essere
all'origine di un comportamento di questo genere. E un
amore infinito č anche un abisso di
misericordia verso la persona amata anche quando
questa č ingrata e cattiva.
I diari di suor Faustina sono pieni di frasi di Gesů che
grondano d'amore straziante per gli
uomini. Ecco qualche esempio:
Il Mio Cuore č stracolmo di tanta Misericordia per le
anime e soprattutto per i poveri peccatori.
Oh! se riuscissero a capire che Io sono per loro il migliore
dei Padri; che per loro č scaturito
dal Mio Cuore Sangue e Acqua, come da una sorgente
strapiena di Misericordia; che per loro
dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia
desidero colmare le anime di grazie, ma non
vogliono accettarle.
Figlia Mia, credi forse di aver scritto abbastanza sulla Mia
Misericordia? Quello che hai
scritto č appena una gocciolina di fronte a un oceano.
Io sono l'Amore e la Misericordia stessa; non c'č miseria
che possa misurarsi con la Mia
Misericordia. Né la miseria l'esaurisce, poiché dal
momento che si dona, aumenta.
Figlia Mia, parla a tutto il mondo della Mia inconcepibile
Misericordia. Desidero che la Festa
della Misericordia sia di riparo e rifugio per tutte le anime
e specialmente per i poveri
peccatori. In quel giorno sono aperte le viscere della Mia
Misericordia, riverserň tutto un mare
di grazie sulle anime che si avvicineranno alla sorgente
della Mia Misericordia.
Karol Wojtyla lesse e rilesse i diari di suor Faustina. Lui, il
grande devoto della Madonna,
alla quale affidava tutto se stesso, tutta la sua attivitŕ con
la frase Totus tuus, sentiva,
nelle confidenze di Gesů a suor Faustina, che la Divina
Misericordia non era altro che la
conseguenza pratica, concreta dell'Amore infinito di Dio.
L'abisso dell'amore che aveva salvato
il mondo. Divenuto Papa, divenne anche "missionario"
della Divina
possibile raccontarlo. Nessuno lo saprŕ mai con
precisione. Nessun giornale, nessuna immagine
televisiva, nessuna ricerca statistica ha potuto dare, di
quell'evento, un'idea che si avvicinasse
alla realtŕ.
Si sapeva che le ferrovie avevano raddoppiato i treni per
Roma, che le compagnie aeree
organizzavano voli speciali, che i pullman provenienti da
ogni parte erano un numero spropositato,
ma non si sapeva niente dei viaggi privati, delle auto, dei
pulmini di piccoli gruppi, amici,
parenti, che si organizzavano senza alcuna pubblicitŕ e
alcun censimento. Ciň che era diffuso
dagli organi di stampa rappresentava solo la punta di un
iceberg dalle dimensioni incalcolabili
che resteranno tali per sempre.
Un'emozione che cambia la vita
La gente si muoveva per andare a Roma perché attratta
da qualche cosa di misterioso che proveniva
dalla salma di Giovanni Paolo II. Non c'entravano piů solo
la religione, la fede, l'appartenenza
alla Chiesa cattolica. L'evento colpiva
indiscriminatamente. Quel flusso di pellegrini che si
accalcavano verso San Pietro per rendere omaggio a
Papa Wojtyla era sě composto in gran parte da
cattolici, ma c'erano persone appartenenti a tutte le
religioni, oltre che atei, agnostici e
indifferenti. Anch'essi attratti da quel corpo senza vita, ma
che continuava a emanare una forza
irresistibile e inspiegabile.
Tutti quelli che decisero di mettersi in viaggio per la
capitale sapevano a che cosa andavano
incontro. Televisioni, radio, giornali, siti Internet, telefonini
continuavano a informare sulla
situazione. Giŕ nella giornata di mercoledě, Roma era
paralizzata dal traffico. Le auto e i
pullman non potevano entrare in cittŕ, e venivano
convogliati in grandi aree periferiche destinate
a punti di raccolta. Le stazioni e gli aeroporti erano
congestionati. Le zone intorno a San Pietro
sembravano un formicaio. C'era gente dappertutto. Un
bivacco enorme. E in mezzo a quel bivacco,
il serpentone della folla incolonnata dentro le transenne
che si muoveva lentamente verso la
basilica.
L'attesa, in piedi, sotto il sole o nel freddo della notte,
prima di raggiungere San Pietro era
in media di tredici ore, ma si arrivň anche a
ventiquattr'ore.
Le autoritŕ avevano reclutato un esercito di volontari che
prestavano aiuto e assistenza,
distribuivano bibite, coperte, e intervenivano in caso di
malori e svenimenti. Un'organizzazione
esemplare, ma che non poteva cancellare i disagi enormi
di quell'attesa.
Preoccupati, i responsabili diramavano appelli, invitando
la gente a non mettersi in viaggio per
Roma, a starsene a casa, a guardare le cerimonie in
televisione. A un certo momento annunciarono
che le persone che stavano arrivando a Roma non
sarebbero mai potute entrare nella basilica e
che quindi affrontavano inutilmente un viaggio pieno di
disagi enormi. Ma la gente partiva lo
stesso. ŤE' importante andare lŕť dicevano. ŤPazienza se
non possiamo vedere il Papa.ť
Si sa per certo che, in quei tre giorni, riuscirono a passare
di fronte alla salma di Giovanni
Paolo II un milione e duecentomila persone. Entravano in
basilica ventunomila individui l'ora,
trecentocinquanta il minuto. La basilica rimase aperta al
pubblico ininterrottamente, giorno e
notte, tranne tre ore ogni notte, dalle due alle cinque del
mattino, per poter compiere i
necessari interventi di pulizia. Ma il numero dei pellegrini
che raggiunsero la capitale in
quella settimana sfiorň i quattro milioni. Una cifra mai
vista e che neppure si poteva
immaginare.
Che senso dare a un evento del genere? Quale
spiegazione?
Chi č rimasto a casa ha potuto seguire le cerimonie, e
tutto il movimento intorno a San Pietro,
in maniera straordinaria. La televisione, anzi le televisioni
hanno offerto servizi continui e
ammirevoli per serietŕ, fattura, precisione. Stare seduti nel
salotto della propria casa,
comodi, tranquilli, e insieme essere virtualmente presenti
a Roma, era il massimo. Invece,
milioni di persone hanno voluto rinunciare a questa
comoditŕ e si sono messi in viaggio
affrontando chilometri e chilometri, senza dormire, senza
riposare, e poi ore e ore di attesa,
in piedi,
sotto il sole di giorno e al freddo di notte, per passare,
senza potersi fermare, davanti a
quella salma, vederla, salutarla, magari scattare una foto
con il telefonino e poi riprendere il
viaggio di ritorno, senza neppure una sosta in albergo. Un
viaggio che comportava due, tre e anche
quattro giorni di fatica disumana ininterrotta. Che cosa
puň aver spinto un numero cosě elevato di
giovani, adulti, ragazzi, vecchi ad affrontare fatiche
massacranti di questo genere?
Impossibile dare una risposta.
In varie occasioni, anche a mesi di distanza, ho parlato
con chi ha vissuto quell'esperienza e,
pur confermando che si č trattato di uno sforzo immane,
tutti mi hanno sempre detto che sarebbero
stati pronti a ripeterlo subito.
Di fronte a quel corpo, pur potendo vederlo anche solo
per qualche istante, hanno provato le
sensazioni piů forti della loro vita, un'emozione che non
dimenticheranno mai. I sacrifici, le ore
di attesa, la fatica spaventosa affrontata, sono ricordi giŕ
sbiaditi. Mentre quel brivido fisico
e spirituale di fronte alla salma del Papa resta intatto e a
molti ha cambiato la vita.
Il mondo come una sola famiglia
Alle 22 di giovedě 7 aprile, il serpentone di pellegrini che
lentamente si muoveva dentro le
transenne per andare a rendere omaggio a Giovanni
Paolo II venne "reciso" in fondo a via della
Conciliazione. Scelta dolorosa, perché decine di migliaia
di persone vedevano cosě sfumare il
desiderio di salutare il Papa, ma scelta necessaria. Il
giorno successivo, alle 10, si tenevano i
funerali di Giovanni Paolo II e bisognava preparare la
piazza.
A Roma faceva freddo e tirava un forte vento. Ma le
intemperie non scoraggiarono la gente. Le
strade, i vicoli, le piazzette, i sottopassaggi, gli angoli piů
remoti delle zone adiacenti San
Pietro si trasformarono ancora una volta in un enorme
dormitorio all'addiaccio. Moltissimi i
pellegrini polacchi e spagnoli.
Alle 4 del mattino c'era giŕ una folla pronta a prendere
posto nella piazza che era stata
ripulita. Alle 6 in punto furono accese le luci e aperte le
transenne. Alle 7.30 iniziarono ad
arrivare gli invitati, che occupavano i posti riservati.
Un'ora prima dell'inizio della Messa la
piazza era piena, soprattutto di giovani.
La celebrazione iniziň alle 10. Dodici sediari portarono la
bara con il corpo di Giovanni Paolo
II Una bara semplice, di legno di cipresso, che fu posta a
terra, di fronte all'altare, con
appoggiato sopra solo il Vangelo, che il vento impetuoso
continuava a sfogliare nervosamente.
Il rito, presieduto dal cardinale Joseph Ratzinger, era
concelebrato da 157 cardinali. Erano
presenti 700 tra arcivescovi e vescovi e 3000 tra prelati e
sacerdoti.
Da ogni parte del globo erano giunti i potenti della terra.
Per quella cerimonia Papa Wojtyla
aveva il mondo ai suoi piedi. Nella zona riservata alle
autoritŕ, avevano preso posto, in ordine
alfabetico, per non fare torto a nessuno, 169 delegazioni
straniere, con 10 monarchi, 59 capi di
Stato, 3 principi ereditari, 17 capi di governo, 3 consorti di
capi di Stato, 8 vice capi di
Stato, 6 vice primo ministro, 4 presidenti di Parlamento,
12 ministri degli Esteri, 13 ministri,
24 ambasciatori, 10 presidenti, direttori generali e
segretari generali di organizzazioni
internazionali.
La prima delegazione ad arrivare in piazza San Pietro fu
quella del Venezuela, seguita da quella
del Sudan, e successivamente da quella polacca. Poi il
premier Silvio Berlusconi, il commissario
generale dell'Onu Kofi Annan e il presidente dell'Ucraina
Viktor Yushenko. Quindi il presidente
francese Jacques Chirac, il premier spagnolo Zapatero
con il re Juan Carlos e la regina Sofia,
il presidente siriano Bashar al-Assad, accompagnato
dalla moglie Assma, e il presidente
dell'Afghanistan Hamid Karzai. E poi Tony Blair con la
moglie Cherie. Il principe Carlo
d'Inghilterra, salutato da monsignor Harvey che lo
ringraziň per aver deciso, in onore del Papa,
di rinviare di un giorno il matrimonio con Camilla.
Successivamente arrivarono il presidente del
Brasile Luiz Inŕcio Lula da Silva con a fianco la moglie
Marisa Leticia. Quasi per ultimi, i tre
presidenti
americani: George W. Bush, e i suoi due predecessori,
Bill Clinton e George Bush senior.
Erano presenti anche le delegazioni di 23 Chiese
ortodosse e Chiese ortodosse orientali, 8 Chiese
e comunioni ecclesiali d'Occidente e 3 organizzazioni
cristiane internazionali.
Hanno inoltre partecipato varie delegazioni ed esponenti
dell'ebraismo e 17 delegazioni di
religioni non cristiane e di organizzazioni per il dialogo
interreligioso.
Tutti uniti in un piccolo spazio. Uno vicino all'altro. Il posto
era stato assegnato con un
criterio alfabetico, in modo da non scontentare nessuno.
Accadde cosě che si trovarono vicini
nemici acerrimi, capi di nazioni in guerra, esponenti di
ideologie contrapposte. Ma in quel luogo,
davanti a quella salma, erano solo persone, e quando
nella Messa giunse il momento della pace si
strinsero la mano, come non avrebbero fatto neppure
davanti al plotone di esecuzione. ŤEra una
scena da Giudizio universaleť commentň qualcuno.
Dire quanti pellegrini fossero giunti a Roma per i funerali
del Papa, č impresa ardua. Abbiamo
controllato decine di cronache di quei giorni, consultando
i piů autorevoli giornali, senza
riuscire a farcene un'idea precisa perché le cifre ballano
da due a cinque milioni. Probabilmente
č possibile affermare che i fedeli presenti in piazza San
Pietro, in via della Conciliazione e
nelle vie adiacenti raggiunsero i settecentomila, e forse di
piů. Ma quantificare gli altri
pellegrini, quelli bloccati in periferia perché il traffico era in
tilt, quelli che si erano
radunati davanti ai ventinove maxischermi eretti in luoghi
strategici, quelli che stavano nelle
chiese, negli istituti religiosi, o semplicemente chiusi nei
pullman con i quali avevano raggiunto
Roma, č veramente impossibile. Certe fonti affermano
che solo i polacchi arrivati a Roma erano piů
di un milione. Resta il fatto che quei funerali sono stati un
evento unico che forse non si
ripeterŕ mai piů.
Alle 10.40 il cardinale decano Joseph Ratzinger, che
presiedeva le esequie, iniziň l'omelia,
durata una ventina di minuti e interrotta per tredici volte
dagli applausi dei fedeli. Egli
ricordň
l'affetto di Giovanni Paolo II per i giovani, che "amava
definire futuro e speranza della Chiesa",
oltre alle "difficili prove degli ultimi mesi" affrontate dal
Papa malato. Nella piazza
apparvero diversi striscioni con la scritta "Santo subito", e
la folla cominciň a ripetere a
gran voce: "Santo, santo subito". Il cardinale Ratzinger
lasciň che la gente esprimesse tutto il
suo affetto per Giovanni Paolo II e poi, in risposta a quelle
grida, disse: ŤPossiamo essere
sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra
della casa del Padre, ci vede e ci
benediceť.
Dopo la Comunione, i porporati concelebranti
circondarono il feretro del Papa per l'ultima
preghiera. Poi, al canto del Magnificat, i sediari ripresero
la bara e portandola a spalle si
avviarono verso la basilica. Giunti davanti alla porta
centrale, si voltarono, per mostrare per
l'ultima volta il Santo Padre alla folla che rappresentava la
Chiesa universale. E la folla
rispose con un ultimo interminabile applauso,
accompagnato questa volta anche da molte lacrime,
mentre la campana grande di San Pietro suonava
lentamente a morto. Poi il feretro č stato
portato nelle Grotte Vaticane per la sepoltura.
Il rito durň circa tre ore. In quelle tre ore il mondo era
collegato con Roma. Milioni di fedeli
seguirono la cerimonia di fronte ai maxischermi nelle
Filippine. Ottocentomila polacchi si erano
radunati nella spianata di Blonia. Nonostante la differenza
di orario, la cerimonia venne
trasmessa in diretta dalle piů importanti reti televisive
pubbliche e private del mondo.
Comprese le Tv arabe satellitari del Qatar al-Jazira e di
Dubai al-Arabiya, e quella di Israele.
In seguito, al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni
sociali arrivarono le comunicazioni di
137 catene televisive di 81 Paesi che informavano di aver
trasmesso la cerimonia funebre di
Wojtyla. Certamente piů di tre miliardi di persone furono
raggiunte dalla diretta televisiva.
Via Internet, attraverso la pagina web della Santa Sede,
le esequie furono seguite da un milione
trecentomila persone. Per alcune ore si verificň sulla terra
l'evento degli eventi: una enorme
parte dell'umanitŕ si č trovata unita, quasi abbracciata,
come una grande famiglia che piange e ricorda il grande
padre.
Solo i russi e i cinesi vennero esclusi da questa
partecipazione globale. I loro governi non
permisero i collegamenti televisivi in diretta con Roma.
L'ombra inquietante
Questo dato, che nell'insieme del tripudio universale č
passato quasi inosservato, ha invece una
capitale importanza per chi guarda alla vita di Giovanni
Paolo II alla luce del Segreto di Fatima.
La Russia č la nazione dove si č sviluppato il comunismo,
ideologia indicata dalla Vergine a
Fatima come fonte di divisioni, guerre fratricide,
distruzioni, persecuzioni, fame e morte. E la
Russia ha poi diffuso questa ideologia nel mondo. La
Cina č la nazione con oltre un miliardo di
persone dove questa ideologia č tuttora imperante.
Dall'insieme del Segreto, si capisce che il cambiamento
nel mondo, l'arrivo del "periodo di pace"
e del "trionfo del Cuore Immacolato di Maria" č
misteriosamente legato alla Russia, alla sua
conversione. Come abbiamo visto nel capitolo primo, la
seconda parte del Segreto di Fatima termina
con queste frasi della Vergine: ŤFinalmente il mio Cuore
Immacolato trionferŕ. Il Santo Padre mi
consacrerŕ la Russia che si convertirŕ e sarŕ concesso al
mondo un periodo di paceť.
Dopo l'attentato del 1981, Giovanni Paolo II aveva
"scoperto" l'importanza e la validitŕ contenute
nel Messaggio di Fatima. Decise di "ascoltare" le
indicazioni della Vergine. Anzi, aveva fretta di
farlo. Pur tra grandi difficoltŕ, nel 1984 aveva consacrato
la Russia al Cuore Immacolato di
Maria. E come sostengono tutti gli esperti di questioni
politico-militari, nei mesi successivi fu
raggiunto il punto di massima tensione fra Est e Ovest, e
venne evitata per miracolo una guerra
nucleare.
E poi iniziň la distensione: l'arrivo al potere sovietico di
Gorbaciov, nel 1985, e nei cinque
anni successivi, quasi come per incanto, cadde il Muro di
Berlino e crollarono tutti i regimi
comunisti dell'Est. I supremi capi del Cremlino si recarono
a Roma, in Vaticano, incontrarono il
Papa. In Russia, e nei Paesi satelliti dell'ex impero
sovietico, tornň la libertŕ religiosa.
Molti pensarono che il "periodo di pace" promesso dalla
Madonna a Fatima fosse alle porte. Ma
le cose non stavano proprio cosě. In realtŕ, nella Russia
postcomunista emersero quasi subito
altre grandi difficoltŕ, incompatibili con lo spirito del
Vangelo, del Regno di Dio: la
divisione astiosa tra ortodossi e cattolici. Una divisione
cosě radicata da impedire la visita
del Papa in quella nazione anche se questi era stato
invitato dalle supreme autoritŕ dello
Stato. I capi della politica si aprivano al dialogo: quelli
religiosi, appartenenti alla stessa
fede, si facevano la guerra.
Giovanni Paolo II si rese conto che non poteva esserci il
"trionfo del Cuore Immacolato di
Maria" in una famiglia divisa. Una madre non puň gioire,
celebrare un trionfo quando i suoi
figli si odiano. Per questo aveva tentato in ogni modo di
andare pellegrino a Mosca, per
abbracciare il patriarca ortodosso, per ripristinare l'unitŕ
dei credenti in Gesů, ma senza
riuscirci mai.
Cosě aveva cercato in ogni modo di iniziare un dialogo
con le autoritŕ cinesi, dialogo che si
era interrotto nel 1951 quando, con la presa di potere da
parte di Mao due anni prima, l'allora
nunzio apostolico Riberi venne espulso e fu costretto a
trovare riparo a Taiwan. Giovanni Paolo
II sognava di poter fare un viaggio a Pechino. Era un suo
desiderio grandissimo e lo confidava a
tutti. Ma non gli fu concesso di realizzarlo. Morě con
queste due spine nel cuore.
Molti speravano che la morte del Papa fosse l'occasione
per far cadere i pregiudizi in Russia e
rompere il ghiaccio per iniziare a stabilire contatti
diplomatici con la Cina. Subito dopo la
scomparsa di Giovanni Paolo II sembrava che questo
fosse possibile, e poteva essere il suo primo
grande miracolo. Infatti, Alessio II, patriarca ortodosso di
tutte le Russie, in un messaggio di
condoglianze inviato al cardinal Ratzinger, scrisse: "Il
papato di Giovanni Paolo II ha segnato
un'epoca nella vita della Chiesa cattolica romana e in
generale nella storia moderna.
La persona, l'attivitŕ e le idee di Giovanni Paolo II hanno
avuto un forte impatto sul mondo.
Nella lotta contro la malattia č rimasto fedele al suo
dovere servendo coraggiosamente il gregge
dei fedeli fino all'ultimo giorno. Le sofferenze, per le quali
il Papa non si č mai lamentato,
hanno fornito ispirazione a molti".
Alessio II aveva non poco contribuito a quelle sofferenze.
Le sue dichiarazioni sembravano frutto
di un ripensamento, un gesto di apertura. Ma poi č
accaduto proprio il contrario. Il patriarca,
ossessionato dalla paura di perdere fedeli a favore del
cattolicesimo, ha fatto pesare sul governo
russo le sue preoccupazioni. Come si era opposto al
viaggio di Giovanni Paolo II a Mosca, temendo
che suscitasse troppo interesse tra gli ortodossi, cosě
impose al governo di non dare spazio
televisivo ai funerali del grande Pontefice. E Putin, che
aveva sempre dimostrato una sincera
ammirazione per Wojtyla, per questioni di opportunitŕ č
stato costretto a cedere. La nazione
nominata dalla Madonna a Fatima, che, nel disegno
profetico del Segreto, sta come "porta di
passaggio" per la pace nel mondo, non ha celebrato il
Papa di Fatima nel giorno del suo funerale.
E cosě la Cina. La grande nazione orientale che ha
ereditato dalla Russia l'ideologia comunista,
si č comportata nello stesso modo. Alla morte del Papa
sembrava pronta ad aprire quelle porte che
aveva negato al Pontefice polacco vivo. Subito dopo la
scomparsa di Wojtyla, Liu Jianchao,
portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, espresse
al Vaticano le condoglianze della Cina.
Perň, con una precisazione: ŤSiamo desiderosi di
migliorare le relazioni con il Vaticano sulla
base di due principi: che il Vaticano ponga fine alle
relazioni diplomatiche con Taiwan e si
impegni a non interferire negli affari interni cinesiť.
Per dimostrare che il loro desiderio era sincero, il governo
cinese inviň a Roma un'equipe della
cctv, l'emittente controllata dal Partito comunista, con i
suoi migliori giornalisti e
teleoperatori per garantire una diretta dell'evento dei
funerali di Giovanni Paolo II. Non era mai
accaduto prima che una televisione cinese avesse ripreso
eventi religiosi in Vaticano. Ma
quando le autoritŕ cinesi seppero che alle esequie ci
sarebbe stato anche il presidente di
Taiwan, fecero subito marcia indietro, bloccando tutte le
notizie su Internet e cancellando anche
la diretta giŕ programmata.
Il Papa del Segreto di Fatima, colui che era stato scelto
per la grande missione della salvezza
dell'umanitŕ, per la sconfitta dell'ideologia materialistico-
atea e per la pace nel mondo, e
aveva dato la vita per questo progetto, non riuscě, da
vivo, a vederlo realizzato. Come Mosč,
arrivň "vicino" alla terra promessa, ma senza potervi
entrare. Racconta il Deuteronomio, al
capitolo 34: Mosč salě dalle steppe di Moab sul monte
Nebo, in cima al Pisga, che č di fronte a
Gerico. Jahvč gli fece vedere la terra promessa, e Mosč
morě in quel luogo.
E' logico che la pace e il trionfo della Madre non si
possano realizzare finché i credenti, i
figli della stessa madre, sono divisi tra di loro e si fanno la
guerra. Il testo di quel
Segreto, quindi, non puň riguardare solo avvenimenti
passati, come vorrebbero alcuni
commentatori. Ma riguarda certamente anche vicende
ancora da venire.

IV I miracoli di Papa Wojtyla

Un dato č certo: a Giovanni Paolo II sono stati attribuiti


numerosi miracoli. Miracoli avvenuti
nei giorni della sua agonia subito dopo
la morte, ma anche prima, nel corso del
suo pontificato.
Nei giorni dell'agonia, della morte e
dei funerali di Giovanni Paolo II, i media diedero spazio a
racconti di guarigioni prodigiose
ottenute per intercessione di Papa Wojtyla.
Sacerdoti, religiosi, guide spirituali, presenti a Roma, e
che hanno seguito il fenomeno delle
masse in marcia per rendere omaggio alla salma del
Papa defunto, hanno testimoniato di clamorose
conversioni, cambiamenti di vita, autentici miracoli
spirituali. Monsignor Stanislaw Dziwisz, il
segretario di Wojtyla, ha dichiarato in un'intervista:
ŤSembrerŕ strano, ma molti gruppi di
preghiera legati a Giovanni Paolo II sono nati proprio quel
2 aprile, non solo in Polonia ma in
tutto il mondo. Si tratta soprattutto di giovani che
spontaneamente si sono riuniti e hanno deciso
di continuare a incontrarsi nel nome di Karol Wojtylať.
Ma i miracoli dello spirito, benché in realtŕ siano i piů
importanti, non fanno notizia sui
giornali in quanto non presentano le caratteristiche della
"clamorositŕ" materiale, fisica. I
media si sono interessati soprattutto delle guarigioni.
Diverse persone hanno dichiarato di aver
vinto in quei giorni, pregando Giovanni Paolo II, malattie
per le quali soffrivano da anni e le
loro storie sono state riportate. Ma per valutare
l'importanza e la validitŕ di quelle vicende
bisognerebbe ricontrollarle a distanza di tempo. Cosa
purtroppo difficile perché nella grande
marea di informazioni di quei giorni, anche fatti cosě
importanti sono stati citati di sfuggita
senza riferimenti concreti.
Segni e carezze di Dio
Quando venne eletto Papa, Karol Wojtyla impressionň il
mondo per il suo aspetto fisico. Sembrava
piů un attore che un Papa, un atleta piuttosto che un
ecclesiastico. Le sue scorribande sugli
sci al Terminillo, le nuotate nella piscina che si era fatto
costruire in Vaticano
scandalizzarono molti pii tradizionalisti, ma
entusiasmarono molti altri credenti che in quel
comportamento sentivano il Pontefice piů vicino alla vita
della gente. Nessuno, forse, allora,
immaginava che, sotto quell'aspetto apparentemente
rivoluzionario per la Chiesa, si celasse giŕ
un autentico santo. Ma Karol Wojtyla era, come vedremo,
pieno di Dio fin dalla sua infanzia.
Il termine "miracolo" suscita sempre un istintivo interesse.
Le persone, credenti e non
credenti, sono molto sensibili di fronte a questi argomenti.
Un fatto prodigioso che si verifica
e non ha giustificazioni razionali impressiona e fa
riflettere.
I media se ne impossessano sempre in modo quasi
morboso. Si vergognano anche di mostrare tanto
interesse, e fanno autocritica, fingendo distacco,
scetticismo, ma sparano titoli vistosi.
Il popolo accorre. Per assurdo, sono le autoritŕ
ecclesiastiche le piů restie a entusiasmarsi di
queste vicende. Adottano una prudenza estrema. E
giusta. Non amano che si parli tanto di
miracoli, per evitare che poi quei discorsi si trasformino in
illusioni o favoriscano
superstizioni.
Per la Chiesa, il criterio di valutazione di un episodio
inspiegabile si basa soprattutto sul
tempo: attendere, valutare e rivalutare. lě tempo aiuta a
far cadere le illusioni e a far
emergere la realtŕ vera.
Chi non crede, naturalmente, non č interessato a queste
tematiche se non per affermare che si tratta di abbagli, di
isterismi, di suggestioni, di
manipolazioni della realtŕ e cose del genere. Ma anche il
non credente in genere si ostina nella
critica contro questi temi con tale aggressivitŕ da far
sospettare che ne sia attratto.
Non č facile dare una definizione del miracolo. San
Tommaso d'Aquino parlava dei miracoli come di
"fatti che vanno al di lŕ dell'ordine della natura e che sono
provocati direttamente da Dio".
Sant'Agostino diceva: "I miracoli sono carezze divine,
segni della potenza e dell'amore salvifico
di Dio e stimoli per l'uomo a elevarsi nel Regno delle cose
celesti".
Commentando queste parole di sant'Agostino, Giovanni
Paolo II scrisse: "A questo pensiero possiamo
ricollegarci nel riaffermare lo stretto legame dei 'miracoli-
segni' compiuti da Gesů con la
chiamata alla fede. Infatti, tali miracoli dimostravano
l'esistenza dell'ordine soprannaturale,
che č oggetto della fede. A coloro che li osservavano, e
particolarmente a chi personalmente li
sperimentava, essi facevano constatare quasi con mano
che l'ordine della natura non esaurisce
l'intera realtŕ. L'universo in cui vive l'uomo non č
racchiuso soltanto nel quadro dell'ordine
delle cose accessibili ai sensi e allo stesso intelletto
condizionato dalla conoscenza sensibile.
Il miracolo č 'segno' che questo ordine viene superato
dalla 'Potenza dall'alto', e quindi le č
anche sottomesso. Questa 'Potenza dall'alto', cioč Dio
stesso, č al di sopra dell'intero ordine
della natura. Essa dirige quest'ordine e nello stesso
tempo fa conoscere che, mediante
quest'ordine e al di sopra di esso, il destino dell'uomo č il
'Regno' di Dio. I miracoli di Cristo
sono 'segni' di questo Regno".
E' Dio, quindi, che opera i miracoli, come segni,
indicazioni che aiutano l'uomo a comprendere la
veritŕ per dirigere i suoi passi verso il Regno. I miracoli
sono le parole di Dio. E Dio li
compie per sua diretta iniziativa, ma spesso anche
sollecitato dai suoi amici, che sono le
persone piů vicine a Lui, legate a Lui da un colloquio
intenso e continuo. I santi, per
intenderci.
Leggendo le biografie dei santi, ci si imbatte in molti
episodi misteriosi, avvenuti quando
erano in vita e che hanno le caratteristiche di questi
eventi: interventi prodigiosi di Dio,
sollecitati dalle preghiere del santo.
Per il nostro tempo, basti pensare a Padre Pio da
Pietrelcina e ai numerosissimi episodi
prodigiosi che furono attribuiti al suo intervento presso
Dio quando viveva a San Giovanni
Rotondo.
Il dossier dei prodigi
Questi eventi si sono verificati anche nel corso
dell'esistenza di Giovanni Paolo II.
Soprattutto dopo la sua elezione a Pontefice.
Le persone al corrente di questi fatti hanno osservato che
le guarigioni prodigiose, ottenute
per intercessione di Papa Woj-tyla, si sono verificate
soprattutto negli ultimi anni di vita del
Pontefice, quando le sue sofferenze erano piů intense,
quasi ci fosse un rapporto tra le
sofferenze da lui patite per amore e le grazie ottenute da
Dio.
Nei giorni che seguirono la morte di Giovanni Paolo II, i
media hanno parlato di un misterioso
dossier riguardante i miracoli attribuiti all'intercessione di
Papa Wojtyla. Non č stato reso
pubblico dal Vaticano, ma non ne č stata neppure
smentita l'esistenza. Sembra fosse conservato
presso la segreteria di Stato.
Io stesso ho avuto modo di sentir parlare di questo
dossier due anni prima che Giovanni Paolo II
morisse. Interpellai padre Giovanni D'Ercole, capo Ufficio
degli Affari generali della
segreteria di Stato di Giovanni Paolo II, per conoscere se
fossero vere le notizie che
circolavano riguardanti uno di quei miracoli attribuiti
all'intercessione del Papa. E padre
Giovanni D'Ercole, sacerdote molto conosciuto e molto
stimato per la sua preparazione teologica
e per il suo carisma, confermando quel fatto mi disse
appunto che esistevano molti altri casi
simili, la cui documentazione era conservata in un dossier
presso la segreteria di Stato.
Padre Giovanni D'Ercole mi spiegň che in Vaticano
arrivavano molte lettere indirizzate al Papa, e,
tra esse, anche di ammalati che si raccomandavano alle
sue preghiere. Alcune di quelle lettere
contenevano delle strazianti tragedie umane. Il Papa
aveva chiesto ai suoi collaboratori di
segnalargli sempre i casi piů drammatici. Egli si faceva
consegnare le lettere contenenti quelle
storie dolorose, e le teneva sull'inginocchiatoio nella
cappella privata. Ogni volta che vi si
fermava a pregare, raccomandava all'amore di Dio quelle
povere persone sofferenti. Poi accadeva
che, magari dopo diverso tempo, arrivavano messaggi di
ringraziamento per la grazia ricevuta.
All'inizio del pontificato di Papa Wojtyla, alcune di quelle
misteriose guarigioni attribuite
alla sua intercessione finirono sui giornali, suscitando
grande scalpore. Allora Giovanni Paolo II
intervenne proibendo ai suoi collaboratori di parlare di
quei fatti. Ma questi non volevano che le
testimonianze andassero perdute. Cominciarono a
metterle da parte, e nacque cosě il famoso
dossier.
Chi ha potuto vederlo, ha raccontato che i documenti che
raccoglie sono centinaia, provenienti da
ogni parte del mondo. Si tratta in prevalenza di lettere,
bigliettini, piccoli messaggi. Ma ci
sarebbero anche relazioni mediche e testimonianze
importanti di ecclesiastici: religiosi, parroci,
vescovi e anche cardinali. Per la maggior parte, quelle
lettere raccontano di guarigioni da
malattie, soprattutto tumori, ma contengono anche storie
di conversioni.
Le guarigioni sarebbero avvenute in maniera assai
variegata, da un contatto diretto con Wojtyla,
da una sua carezza sulla parte del corpo dolorante, da
una richiesta di preghiera e spesso
dall'uso di oggetti che il Papa aveva toccato o benedetto,
come la corona del Rosario che, in
genere, veniva distribuita durante le udienze.
Alcune guarigioni si verificarono anche nel corso delle
udienze generali, ma la Santa Sede č
sempre intervenuta cercando di tenere tutto in sordina.
Nell'aula Nervi, si legge in una delle
lettere del dossier, una donna, cieca dalla nascita,
avrebbe
acquistato la vista dopo aver baciato la mano destra di
Wojtyla. Un'altra, paralizzata dalla
nascita alle gambe, si sarebbe alzata da sola e avrebbe
iniziato a camminare dopo il saluto al
Papa.
Altri miracoli si sarebbero verificati anche attraverso la
televisione. In molte lettere si
racconta, infatti, che spesso durante le celebrazioni
presiedute da Giovanni Paolo II e
trasmesse in tv, sarebbero avvenute guarigioni
inspiegabili. C'č persino la storia di un
esorcista che ringrazia Wojtyla per aver guarito una
persona posseduta dal demonio usando il
Rosario benedetto dal Papa.
Osservando le migliaia di foto di Giovanni Paolo II
scattate in giro per il mondo, a contatto
con la gente, si vede che aveva l'abitudine di imporre le
mani sugli ammalati. Un gesto
spontaneo e affettuoso, ma anche antico e simbolico, che
rinvia a Gesů. Gli evangelisti Marco e
Luca, in varie occasioni, nei loro Vangeli, riferiscono che
Gesů, prima di guarire un ammalato,
imponeva su di lui le mani. E negli Atti degli Apostoli si
legge che, dopo la Pentecoste, anche
gli Apostoli imponevano le mani sugli ammalati
guarendoli.
Nei primi secoli del cristianesimo, questo gesto era una
prerogativa dei Pontefici, soprattutto
subito dopo la loro elezione. E, come raccontano i libri dei
Padri della Chiesa, molti ammalati
guarivano.
Papa Wojtyla l'aveva ripristinato. Lo compiva con grande
spontaneitŕ, di slancio. Teneva le sue
mani sul capo della persona e socchiudeva gli occhi
certamente pregando, invocando l'aiuto del
Signore. Se si trattava di bambini, aggiungeva anche un
bacio sulla fronte. E da quei gesti, da
quei baci, scaturiva a volte il prodigio.
La storia di Kay Kelly
Alcune di quelle guarigioni, verificatesi in pubblico,
finirono, come giŕ detto, sui giornali.
Ricordo un fatto che, come giornalista, seguii di persona.
Accadde pochi mesi dopo che Karol
Wojtyla era diventato Papa.
Riguardava una giovane donna inglese, Kay Kelly, di
Liverpool. Nel 1978 aveva trascorso un lungo
periodo al Clatterbridge Hospital di Liverpool, dove le
avevano diagnosticato un cancro diffuso in
tutte le ghiandole linfatiche e nel midollo spinale. Poco
prima di Natale di quell'anno, i medici
la dichiararono inguaribile e venne dimessa dall'ospedale
perché potesse morire serenamente a
casa, assistita dal marito e dai tre figli.
A casa, le condizioni della Kelly peggiorarono. Un giorno,
guardando alla televisione alcune
immagini del nuovo Papa, fu come folgorata. E sentě
dentro di sé un grandissimo desiderio di
andare a Roma. Disse ai familiari che, come ultimo
desiderio prima di morire, voleva recarsi a
Roma per vedere Giovanni Paolo II.
Le sue condizioni erano molto gravi, ma i familiari
l'accontentarono. Lasciarono passare la
rigida stagione invernale e a marzo organizzarono il
viaggio. Debolissima, il corpo emaciato
tormentato da continui dolori, Kay Kelly fu portata a Roma
in barella e il 14 marzo 1979 potč
finalmente vedere il Papa durante l'udienza generale del
mercoledě nella Sala Nervi in Vaticano.
Il Pontefice era stato informato della presenza di quella
donna. I suoi collaboratori gliela
indicarono tra i numerosi malati. Egli si avvicinň,
l'abbracciň, le depose sulla fronte un bacio,
colmo di calore e di compassione.
Kay Kelly si sentě subito rinata. Come raccontň in
seguito, abbracciando il Papa aveva avvertito
un calore fortissimo, e da quel momento i dolori erano
scomparsi. Era arrivata a Roma in barella e
tornň a casa camminando normalmente sulle sue gambe.
Fisicamente si sentiva bene. La malattia che la stava
uccidendo sembrava essersi misteriosamente
fermata. Kay iniziň una nuova vita, dedicandosi a
un'attivitŕ di beneficenza con un vigore e una
resistenza piů simili a quelli di un atleta che a quelli di una
donna data per spacciata dagli
specialisti. La sua casa divenne una specie di centro di
preghiera. Molti ammalati andavano a
trovarla ricevendo conforto e speranza. Si registrarono
anche numerose conversioni.
Alcuni anni dopo, come Kay Kelly stessa raccontň, volle
chiedere al suo medico, il dottor Edwards,
che ne fosse stato della diagnosi di cancro diffuso che lui
aveva fatto. ŤGli ho ricordato
ancheť aggiunse la Kelly Ťche mi aveva mandato a casa,
verso la fine del 1978, dandomi soltanto
poche settimane di vita. Che cosa era successo di quella
diagnosi, dunque? Il dottor Edwards non
mi ha dato una risposta. E' un tipo molto scettico, ai
miracoli non crede. Eppure non riusciva a
spiegarsi la mia sopravvivenza. "Clinicamente sei un
fenomeno inspiegabile" mi disse. "La mia
diagnosi di quattro anni fa sembra errata o perlomeno
affrettata. Le cellule cancerose attive
sono scomparse, e c'č stata una completa regressione
del male." E qui il medico si fermň. Di piů
non disse. Io la risposta ce l'ho: il fatto che io sia qui a
parlare, a muovermi, a vivere, č
dovuto a un intervento divino. Io sono una persona
qualsiasi, non so spiegare certi fatti con
belle parole. Perché sia stata prescelta proprio io, non lo
so: non sono migliore di tante altre
persone. Eppure Dio sembra servirsi di me per dar forza,
coraggio e speranza ad altri malati.ť
Un bacio alla bimba irlandese
Le guarigioni prodigiose attribuite all'intercessione di
Giovanni Paolo II e riferite dai
giornali nel corso del suo pontificato sono numerose.
Molte si verificarono durante i suoi
viaggi apostolici. Sempre nel 1979, l'anno della
guarigione di Kay Kelly, la stampa riferě di un
altro "miracolo", che si sarebbe verificato in Irlanda,
durante la visita del Papa, nel corso
del suo terzo viaggio apostolico, che aveva come meta gli
Stati Uniti.
Due giovani sposi irlandesi, Bernhard e Mary, avevano
avuto in quei giorni una bambina, nata
perň con gravissime malformazioni renali. I medici
avevano detto ai due giovani sposi che la
figlia non poteva sopravvivere e che sarebbe morta nel
giro di qualche settimana. Bernhard e
Mary, disperati, fecero appello alla loro fede religiosa.
Avevano letto sui giornali la storia
di Kay Kelly, e quando il Papa arrivň a Dublino corsero
con la loro piccola ammalata.
Non fu possibile per loro essere ricevuti dal Pontefice, ma
erano riusciti ad avere un posto in
prima fila lungo un percorso che il Papa avrebbe fatto a
piedi. Al passaggio di Giovanni Paolo II
tutta la gente stendeva le braccia per poterlo toccare.
Bernhard alzň con fede la sua bambina
gridando al Papa di pregare per lei. Giovanni Paolo II si
fermň, prese la bambina in braccio e la
baciň sulla fronte. I medici, in seguito, constatarono che il
male della piccola era totalmente
scomparso.
ŤA Lourdes il bambino guarirŕť
Altre guarigioni, sempre nel corso di quel viaggio, si
verificarono a Washington e a Boston. In
realtŕ, ogni viaggio apostolico di Giovanni Paolo II aveva il
suo presunto miracolo. Impossibile
ricordarli tutti. E poi, si trattava di semplici cronache, dove
veniva riferito il fatto cosě come
si era verificato da poco, ma che restava privo di quella
documentazione medica necessaria per
constatare se poteva ritenersi prodigioso.
Una guarigione veramente straordinaria e ampiamente
documentata con varie relazioni inviate alla
Santa Sede e con lunghi racconti da parte dei
protagonisti e dei testimoni diretti, riguarda un
giovane australiano, Emile Barbara, che di professione
ora fa l'avvocato a Melbourne. Sua madre,
Rosemary, č stata capodipartimento al ministero
dell'Istruzione australiana.
Emile nacque nel 1967 affetto da paralisi cerebrale
infantile, una malattia che comporta gravi
disturbi di tipo motorio, ma anche respiratorio, con
problemi che riguardano la parola e la
deglutizione. Questi bambini rischiano spesso di morire
soffocati.
Emile rimase in ospedale per diversi mesi, sottoposto a
tutte le analisi e ai test piů moderni,
e quando venne finalmente dimesso i medici dissero ai
suoi genitori che il bambino non avrebbe
mai camminato. E dissero anche che non esistevano cure
per poterlo aiutare, quindi dovevano
rassegnarsi: il figlio sarebbe vissuto su una sedia a
rotelle.
Infatti, anche se i genitori di Emile non si rassegnarono e
continuarono a far vedere il bambino ai piů celebri
specialisti, Emile crebbe tra grandi
difficoltŕ di ogni genere: non poteva reggersi in piedi,
quindi non riusciva a camminare, né a
parlare, e mangiando rischiava sempre di soffocarsi con il
cibo.
I genitori di Emile erano molto religiosi. Quando il figlio
era ormai grandicello, decisero di
portarlo a Lourdes, sperando in un miracolo della
Madonna.
Intanto era diventato Papa Karol Wojtyla. Anche in
Australia i giornali avevano raccontato fatti
di guarigioni prodigiose ottenute per sua intercessione. La
signora Barbara decise perciň di
fare tappa a Roma, nel suo viaggio verso Lourdes.
Il 7 aprile 1980 era nella capitale con suo figlio, che aveva
giŕ tredici anni ma che non
camminava e non parlava. Lo portň in piazza San Pietro
su una sedia a rotelle. Riuscě ad avere
un posto vicino alle transenne che delimitavano lo spazio
dove sarebbe passato il Papa. Giovanni
Paolo II, vedendo qual bambino si fermň, lo accarezzň,
ascoltň la madre che tra le lacrime gli
accennň il dramma familiare. Il Papa baciň Emile e disse
alla madre: ŤVada a Lourdes e vedrŕ che
il bambino camminerŕť.
Sembravano parole di consolazione, invece risultarono
una autentica profezia. Emile andň a
Lourdes e quando tornň in Australia riprese a camminare
normalmente. Oggi č un brillante
avvocato.
ŤMi accarezzň l'occhio malatoť
Rita, una signora romana, nel 1974 era stata colpita agli
occhi da un herpes violento, con
conseguenti dolori lancinanti e il pericolo di restare cieca
per sempre. Doveva recarsi tutti i
giorni all'ospedale per le medicazioni e portare l'occhio
bendato. I medici le avevano detto che
non esistevano cure efficaci. L'herpes poteva regredire e
anche scomparire per un certo periodo,
per poi ricomparire. Doveva augurarsi che la situazione
non degenerasse, attaccando anche
l'altro occhio, provocando glaucoma e portandola alla
cecitŕ totale.
La vita della signora Rita era diventata un incubo. Aveva
consultato specialisti di fama internazionale, ma nessuno
le dava speranza. Si aggrappň alla fede.
Pregava. Dopo l'elezione a Pontefice di Karol Wojtyla
cominciň a sentire il desiderio di chiedere
aiuto alle preghiere del Papa. Nel gennaio del 1979 si
recň a un'udienza del mercoledě, insieme
alle sue due figlie. ŤMi ero sistemata nelle prime fileť
raccontň la signora Rita Ťcon la speranza
che il Papa passasse vicino. E fui fortunata. Giovanni
Paolo II passň da quelle parti, prese in
braccio la mia figlia piů piccola e rivolto a me, vedendo
che avevo l'occhio bendato, mi disse:
"Tu sei buona, dirň una preghiera per te". Mi accarezzň
l'occhio malato e poi riprese il suo
cammino. Tornai a casa e sentivo che l'occhio non aveva
piů niente. Mi tolsi la benda, e il mio
occhio era completamente normale: niente piů gonfiore,
niente tracce di sangue. L'occhio era
improvvisamente guarito e da allora non ho piů accusato
alcun disturbo.ť;
La sua matto sul capo
Angelica Maria Bedoya č una bella ragazza di vent'anni.
Vive a Caacupé, cittadina del Paraguay a
una cinquantina di chilometri dalla capitale, dove si trova
un famoso santuario mariano dedicato a
Nuestra Senora de los Milagros. E' studentessa
universitaria. Era nata affetta da idrocefalia. Una
malattia da cui non si guarisce. I genitori avevano cercato
aiuto presso molti specialisti, ma
dovevano rassegnarsi. La loro bambina non poteva
guarire.
Nel maggio del 1988, Giovanni Paolo II andň a visitare il
Paraguay. Il 18 di quel mese era il suo
compleanno e, devotissimo della Madonna, volle andare
a celebrare la Messa al santuario della
Vergine di Caacupé. La mamma di Angelica, piena di
fede, pensň che il Papa poteva compiere il
miracolo e guarire sua figlia. Si rivolse al vescovo di
quella diocesi, monsignor Demetrio Aquino.
Gli raccontň la storia e gli chiese di aiutarla ad avvicinare
il Papa per chiedergli di pregare
per sua figlia. Il vescovo, commosso dalle sofferenze di
quella donna e dallo stato della
bambina, fece da tramite e le introdusse nella
sacrestia del santuario quando il Papa stava per
prepararsi alla Messa. Giovanni Paolo II
ascoltň la storia, poi accarezzň la piccola e, tenendole la
mano sulla testa, socchiuse gli
occhi e pregň a lungo. Poi benedisse lei e i suoi genitori.
La bambina si riprese e guarě
completamente. Lo scorso anno ha portato a termine le
scuole superiori come miglior allieva
dell'istituto e vincendo due medaglie d'oro.
L'arcivescovo testimone del prodigio
Di una straordinaria guarigione avvenuta in Messico al
termine del viaggio compiuto in quella
nazione da Giovanni Paolo II nel maggio del 1990 fu
testimone il cardinale Javiar Lozano
Barragŕn, presidente del Pontificio Consiglio per gli
Operatori Sanitari e che allora era
arcivescovo di Zacatecas, la cittadina dove si verificň il
prodigio.
Poche ore dopo la morte di Giovanni Paolo II, il cardinale
Barragŕn venne intervistato dalla
televisione messicana, ed egli volle ricordare quel fatto
prodigioso accaduto sotto i suoi
occhi, e cioč la guarigione di un bambino di cinque anni,
ammalato di leucemia. ŤIl Papa lo
prese in braccio, lo baciň sulla testa completamente priva
di capelli per le cure
chemioterapiche e il bambino guarěť disse Sua Eminenza
Javiar Lozano Barragŕn. E aggiunse anche
che il bambino, di nome Heron Badillo, continuava a stare
bene e abitava a Rio Grande, cittadina
a due ore di macchina da Zacatecas.
Le parole del cardinale fecero immediatamente il giro del
mondo. Il giorno dopo, uno stuolo di
fotografi, giornalisti e telecronisti erano a Rio Grande per
conoscere il "miracolato" di
Giovanni Paolo II e si trovarono di fronte un giovanottone
di vent'anni, studente di ingegneria,
alto un metro e ottanta, che era il ritratto della salute.
Nel 1989, Heron aveva quattro anni e pesava ventidue
chili. Cominciň a stare male. Dolori
diffusi, mancanza di energie, vistoso deperimento. I
genitori lo portarono dal medico, venne
sottoposto ad alcuni esami e la risposta fu tremenda:
Heron era affetto da leucemia
linfoblastica. La madre, intervistata
dopo la morte del Papa, raccontň che i medici non erano
affatto ottimisti. Anzi non davano
speranze di guarigione, ma era doveroso tentare e
iniziarono le cure chemioterapiche. Un ciclo di
sei mesi, che aveva fatto perdere al bambino tutti i capelli
e gli aveva tolto completamente
l'appetito. Heron era dimagrito di otto chili. Era pelle e
ossa. Spaventati, i genitori lo
portarono a casa. Erano convinti che il figlio fosse alla
fine dei suoi giorni e non volevano che
morisse in ospedale.
Sentendo che, nel maggio 1990, Giovanni Paolo II
avrebbe visitato la vicina cittŕ di Zacatecas,
decisero di rivolgersi a lui per chiedergli la grazia della
guarigione di Heron.
In Messico Papa Wojtyla era amato da tutti. Qui il Papa
aveva compiuto il suo primo viaggio
internazionale nel 1979 ed era andato a pregare nel
santuario della Madonna di Guadalupe,
amatissimo da tutti i messicani, soprattutto dai
campesinos, i contadini, i poveri, che hanno per
la Vergine di Guadalupe, apparsa a un indio nel 1531,
con le sembianze di una ragazza mericcia
dalla pelle scura, una venerazione infinita e dolcissima e
la chiamavano affettuosamente "la
Morenita". Avendo Giovanni Paolo II dimostrato anche lui
grande devozione per la Vergine di
Guadalupe, acquistň subito la simpatia di tutti i messicani.
Nel 1990, Papa Wojtyla tornava in Messico per la
seconda volta e subito era andato al santuario
di Guadalupe dove aveva proclamato ufficialmente beato
Juan Diego, l'indigeno che aveva avuto le
apparizioni della Madonna nel Sedicesimo secolo.
Questo gesto aveva ancora aumentato l'amore dei
campesinos, degli indios, dei creoli, dei meticci per
Giovanni Paolo II. Ovunque si recasse,
trovava folle enormi ad attenderlo. Avvicinarlo era
un'impresa impossibile.
Quando i genitori di Heron chiesero aiuto ai sacerdoti
della loro parrocchia a Rio Grande, si
sentirono rispondere che era praticamente impossibile
ottenere un incontro con il Papa, ma dissero
anche che avrebbero fatto di tutto per trovare un biglietto
in modo che fossero presenti tra la
gente ammessa all'aeroporto di Zacatecas dove il Papa
sarebbe arrivato. Perň aggiunsero che
anche questo risultava difficile essendo i biglietti giŕ tutti
distribuiti.
I genitori di Heron, Maria e Felipe Badillo, attesero con
fiducia pregando la Madonna di
Guadalupe. E quando la fede č grande muove le
montagne, il giorno dopo, i biglietti erano giŕ
stati trovati. Il 12 maggio, all'alba, Maria e Felipe con il
figlioletto partirono dalla loro
cittadina e raggiunsero Zacatecas. Riuscirono a trovare
un posto proprio a ridosso delle
transenne. Heron teneva tra le mani una colomba bianca
che avrebbe dovuto liberare in segno di
festa all'arrivo del Papa.
L'attesa fu lunga. Quando l'aereo di Giovanni Paolo II
atterrň, la signora Maria cominciň a
tremare per l'emozione. Pregava intensamente chiedendo
a Dio la grazia che il Papa passasse
vicino a lei, in modo da fargli vedere il bambino. E, con
incredibile sorpresa, tutto si svolse
secondo i suoi desideri. Giovanni Paolo II vide la colomba
bianca in mano a Heron, notň la testa
completamente calva del bambino e il suo viso gonfio,
intuě il dramma e si avvicinň sorridente.
Disse a Heron di liberare la colomba e poi lo accarezzň
sulla testa e lo baciň. Un fotografo
scattň un'immagine proprio mentre il Pontefice baciava
Heron.
La cerimonia continuň secondo il programma stabilito. Al
termine, la famiglia Badillo riprese la
via del ritorno. La signora Maria continuava a piangere
per l'emozione. Heron era molto stanco e
durante il viaggio si addormentň in braccio alla madre.
Arrivati a casa, il bambino si svegliň.
Aveva il viso sereno, rilassato. Disse alla madre: ŤHo
fame, voglio del polloť. I coniugi
Badillo si guardarono stupiti. Erano mesi che Heron
rifiutava ogni tipo di cibo e per fargli
ingoiare qualche cosa bisognava faticare. Gli prepararono
il pollo e lui mangiň con appetito.
Poi si addormentň di nuovo. Da allora non ebbe piů alcun
fastidio. I suoi genitori non lo
portarono piů all'ospedale e lui si riprese; in poco tempo
si ristabilě ed č sempre stato bene.
Un regalo per suor Hermelinda
Il giorno successivo la morte di Giovanni Paolo II, una
suora colombiana, Hermelinda
Trespalacios, della Congregazione Sorelle Povere di san
Pietro Claver, volle prendere contatto
con dei giornalisti: ŤHo qualche cosa di importante da
raccontare su Giovanni Paolo IIť disse.
Ricevette alcuni rappresentanti della stampa colombiana
nella sede del suo convento a Medellin,
quattrocento chilometri dalla capitale Bogotŕ. ŤHo
novant'anniť disse, sorridendo felice. ŤE se
sono viva e in forma lo devo a Giovanni Paolo II.ť
Raccontň che fino al 1985 la sua vita era stata un
tormento. Era affetta da una malattia
misteriosa che le procurava dolori tremendi all'orecchio.
Non solo dolori, ma anche giramenti di
testa, perdita di equilibrio per cui anche la sua attivitŕ ne
era compromessa. Aveva tentato tutte
le cure possibili. Aveva consultato tutti i medici, gli
specialisti. Era stata ricoverata spesso
negli ospedali e ogni volta veniva dimessa con
l'affermazione: ŤIl suo male č incurabileť.
ŤNell'estate del 1985 ero a Roma, nella nostra casa
madre, per festeggiare le nozze d'oro della
mia vita religiosať raccontň suor Hermelinda.
ŤConoscendo la mia ammirazione per Giovanni Paolo II,
la madre supcriora volle farmi un grande regalo: un
incontro con il Papa. Il Santo Padre si
trovava a Castel Gandolfo. La madre superiora ottenne
che io con altre quindici consorelle
potessimo andare ad ascoltare la Messa nella cappella
privata del Papa e poi essere ricevute da
lui in udienza privata.
ŤEro felicissima. Era il regalo piů bello che potessi avere
per quella mia ricorrenza. E pensai
subito anche di chiedere al Papa di pregare per la mia
salute. Lo consideravo un santo ed ero
certa che lui potesse farmi la grande grazia della
guarigione.
ŤAl mattino, al momento della partenza per Castel
Gandolfo, stavo malissimo e quasi non ero in
grado di salire in macchina. Ma volli andare ugualmente,
sapendo che non avrei mai piů avuto
un'occasione del genere.
ŤIl viaggio fu per me dolorosissimo. Ascoltai la Messa
con la testa che mi girava e con dolori
lancinanti dentro le orecchie.
ŤTerminata la Messa, il Santo Padre ci ricevette in un
grande salone. Ci fece un discorsetto e
poi cominciň a distribuire a ciascuna di noi dei Rosari
come ricordo. Quando arrivň il mio
turno, allungai la mano, ma invece di prendere il Rosario
che
il Papa mi porgeva, gli afferrai la mano e la strinsi forte
dicendo: "Santo Padre, beneditemi.
Soffro da molti anni di dolori terribili che mi impediscono
di compiere il mio apostolato". Lui
rimase ad ascoltarmi e, quando ebbi finito, disse: "Prega,
sorella". Non sapevo che fare e
recitai l'atto di contrizione, come se mi fossi confessata.
Quando ebbi finito, il Papa, con
dolcezza mise la sua mano sulla mia fronte, socchiuse gli
occhi e rimase per qualche attimo in
preghiera. Quindi, mi sorrise ancora e mi diede il Rosario.
Tornai a Roma piena di gioia, una
gioia cosě grande che mi impediva di pensare ai miei
dolori. Per la veritŕ, non li sentivo piů.
Da allora, la malattia č scomparsa e non ho piů avuto
niente. Il Papa mi diede tali energie che
sono arrivata a novant'anni e mi sento ancora giovane.ť
La leucemia era scomparsa
Padre Giovanni D'Ercole, religioso della Congregazione
Figli della Divina Provvidenza, capo
Ufficio degli Affari generali della segreteria di Stato di
Giovanni Paolo II, ha pubblicamente
testimoniato, in un'intervista di alcuni anni fa, una
prodigiosa guarigione attribuita alle
preghiere di Papa Wojtyla. Guarigione di cui egli stesso č
stato testimone, e lo č tuttora,
perché, essendo amico del guarito, constata
continuamente gli effetti prodigiosi di quel
misterioso cambiamento verificatosi nel 1993.
Il "miracolato" si chiama Ange Aurelien Mottet. E' nato nel
1972 in Costa d'Avorio, come la
madre, mentre il padre č un cittadino svizzero. Ange
Aurelien č cresciuto in Costa d'Avorio,
dove allora padre Giovanni d'Ercole era missionario e fu
cosě che conobbe Aurelien e divenne
amico della sua famiglia.
A diciotto anni, il ragazzo si trasferě in Svizzera per poter
frequentare l'universitŕ. E un
brutto giorno dell'estate del 1992 cominciň ad accusare
strani dolori diffusi in tutto il corpo.
Si fece visitare, ma poiché i dolori invece di diminuire
aumentavano, accompagnati da una
stanchezza che gli impediva di stare in piedi, il ragazzo
telefonň a sua madre, la quale,
attraverso l'aiuto di un'amica, lo fece ricoverare in un
ospedale
di Losanna per accertamenti. I medici constatarono che
Aurelien era stato colpito da una forma
perniciosa di leucemia, cosě aggressiva da risultare
incurabile.
La mamma di Aurelien, informata, si precipitň
immediatamente in Svizzera e parlň con i medici,
che le confermarono la gravitŕ della situazione: ŤSuo
figlio non potrŕ arrivare alla fine
dell'annoť.
Disperata, la signora Mottet, credente, si aggrappň alla
preghiera. Si ricordň del missionario
italiano che aveva conosciuto in Costa d'Avorio e che
lavorava in Vaticano. Gli telefonň e gli
disse: ŤHo scritto una lettera per il Papa, gliela deve
consegnareť.
Nella lettera raccontava al Santo Padre ciň che era
accaduto e gli chiedeva di pregare per
Aurelien. Padre Giovanni D'Ercole consegnň
personalmente la lettera al Papa. Giovanni Paolo II,
dopo averla letta, pronunciň queste precise e significative
parole: ŤDica al ragazzo che, quando
sarŕ guarito, venga a trovarmiť.
La certezza della guarigione inclusa nelle parole del Papa
diede grande gioia e grande speranza
alla signora Mottet e anche al giovane ammalato, che
affrontň tutte le cure con il morale alto. E
i medici constatarono che il suo fisico rispondeva in modo
meraviglioso ai farmaci. Anzi,
rispondeva in maniera positiva cosě stupefacente da
risultare inspiegabile. Nell'aprile del 1993,
Aurelien era completamente guarito e da allora non ha
avuto piů niente. Nel 2002 č andato a
salutare il Papa.
Guarito due volte
Don Alessandro Overa č un giovane sacerdote
napoletano. Nel 1998, quando era stato ordinato da
soli due anni, cominciň ad avvertire strani dolori. Andň a
farsi visitare e i medici gli
diagnosticarono un tumore. Don Alessandro si spaventň,
venne preso dallo sconforto, perché in
quello stesso periodo anche sua madre era in ospedale
con un tumore. Ma poi si affidň a Dio e
cercň conforto nella preghiera.
Pregava soprattutto pensando a Giovanni Paolo II. Lo
aveva
conosciuto quando era seminarista riportandone una
profonda impressione. Provava ammirazione e
devozione per Papa Wojtyla e lo pregava come se fosse
giŕ santo.
Affrontň l'intervento chirurgico, che andň bene, e riprese
l'attivitŕ del suo apostolato. E,
insieme a lui, guarě anche la madre. Si sentiva
particolarmente fortunato ed era felice. Ma nel
gennaio 2003, tornarono i dolori, ancora piů forti, anzi
fortissimi, insopportabili, e i medici
trovarono nel suo addome un secondo tumore. Questa
volta la situazione si presentava molto
complicata e sembrava disperata. Don Alessandro fu
visitato da vari specialisti, in diversi
ospedali d'Italia, e tutti restavano perplessi e non davano
speranze.
Ancora una volta, don Alessandro dovette aggrapparsi
alla preghiera. Chiedeva intensamente a Dio
la guarigione, e la chiedeva per intercessione di Giovanni
Paolo II.
Un giorno ricevette la visita in ospedale di un suo amico
sacerdote, don Bruno Forte, che era
allora un famoso teologo, docente universitario e che ora
č arcivescovo di Chieti. Sentendo
quanta devozione l'ammalato aveva per Giovanni Paolo
II, don Bruno disse all'amico: ŤNei
prossimi giorni vedrň il Papa e gli parlerň di teť. E cosě
fece. Giovanni Paolo II, dopo aver
ascoltato, disse: ŤDica a don Alessandro che pregherň
per luiť. Don Bruno tornň a trovare
l'amico e gli riferě la risposta del Pontefice. Don
Alessandro racconta: ŤProvai una gioia
grandissima. E quel giorno i dolori lancinanti che pativo
sparironoť. Nei giorni successivi,
l'ammalato venne sottoposto ad altri esami e analisi,
anche la tac, e del tumore non c'era piů
traccia.
L'amico chirurgo e il cardinale
Giovanni Paolo II era legato da profonda amicizia con il
professor Francesco Crucitti, il
chirurgo che lo aveva operato il 13 maggio 1981, dopo
l'attentato in piazza San Pietro. Era
stato il professore a osservare come il proiettile che era
entrato nell'addome del Papa avesse
tenuto un percorso anomalo, a zigzag, evitando di colpire
organi vitali. Sembrava proprio
che quel proiettile fosse stato guidato. E lo disse al Papa.
Giovanni Paolo II si fece fare da lui
una relazione dettagliata, perché aveva capito che quel
proiettile era stato "guidato" dalla
Madonna. La Vergine gli aveva salvato la vita.
E anche il professor Crucitti aveva capito che in quella
situazione c'era stato veramente
l'intervento del Cielo. Quando il Papa era stato colpito, lui
si trovava fuori Roma. Venne
avvertito per telefono. Si diresse a tutta velocitŕ verso il
policlinico Gemelli. E, con
grandissima sorpresa, trovň la strada stranamente libera,
i semafori tutti verdi; potč arrivare
all'ospedale in tempo da record. Pochi minuti dopo,
sarebbe stato troppo tardi.
Tra i due, Giovanni Paolo II e il professor Crucitti,
testimoni di cose strane e misteriose, c'era
una profonda intesa.
Quel grande e straordinario medico morě nel 1998. Negli
ultimi giorni era caduto in uno stato di
coma irreversibile, ma, grazie alla preghiere di Giovanni
Paolo II, prima di morire uscě dal coma
per poter parlare con la moglie e con i figli.
Anche un cardinale, cioč un principe della Chiesa, ha
voluto testimoniare pubblicamente di essere
stato miracolosamente "aiutato a guarire" da Giovanni
Paolo II. Si tratta del cardinale Francesco
Marchisano, arciprete della patriarcale Basilica Vaticana,
presidente dell'Ufficio del Lavoro
della Sede apostolica, vicario generale emerito del Santo
Padre per la Cittŕ del Vaticano e amico
di Wojtyla fin dal 1962.
Subito dopo la morte del Pontefice, Sua Eminenza
Francesco Marchisano, predicando durante una
Messa in suffragio del Papa defunto, aveva ricordato con
quale sollecitudine e quale delicatezza
Giovanni Paolo II si era interessato di lui, dopo un
intervento chirurgico particolarmente
delicato. I giornali si sono subito impadroniti avidamente
dell'episodio, titolando che il
cardinale Marchisano era stato "miracolato" da Papa
Wojtyla. Ma Sua Eminenza, da me interpellato
per avere una conferma di quel prodigio, ha voluto fare
una precisazione. Mi disse di non aver
mai affermato di essere stato "miracolato", nel senso
clamoroso che si dŕ in genere a questo
termine: ŤSono stato aiutato a credere che il Signore mi
avrebbe guarito, cosa che si č
verificata puntualmenteť.
Si tratta di una precisazione sottile, ma molto importante,
che mette bene a fuoco lo spirito
con cui Papa Wojtyla avvicinava gli ammalati. Il Pontefice
era costantemente in colloquio con il
soprannaturale, "viveva" di soprannaturale e quindi
credeva ciecamente che Dio, Gesů, la
Madonna, i santi ci possono veramente aiutare, quando li
preghiamo. A volte con interventi
clamorosi, eclatanti, ma molto piů spesso con interventi
semplici, che arrivano attraverso le
vicende quotidiane della vita. Spesso si sente dire, dopo
un intervento chirurgico, che
l'operazione era perfettamente riuscita ma che l'ammalato
non ce l'ha fatta ed č morto. Il
cristiano crede nella scienza medica, se ne serve
diligentemente, ma sa che possono sorgere
inconvenienti, imprevisti, e chiede l'aiuto a Dio per poterli
evitare. E Dio aiuta, eccome.
Ecco quindi il racconto preciso che mi ha fatto il cardinale
Marchisano di quella sua
guarigione, anzi lo ha scritto di suo pugno.
"Ero stato operato alla carotide e, purtroppo, mi hanno
paralizzato la corda vocale destra.
Sbagli che possono fare anche i medici. Perň io, quando
mi sono svegliato dalla narcosi, ero
totalmente muto.
"Ritorno a casa e alcuni giorni dopo il Papa mi invita a
pranzo e dice: 'Ho saputo che č stato
operato, ma che cosa č successo?'. Io non riuscivo quasi
a parlare.
"Ci sediamo a tavola. Il Papa č stato tutto il tempo del
pranzo con la mano all'orecchio
sinistro per sentire cosa dicevo. Alla fine si alza e, come
un padre, viene verso di me e
incomincia ad accarezzarmi il collo dove mi avevano
operato, per due, tre minuti, e continua a
dirmi: 'Non abbia paura, il Signore le rimanderŕ la voce...
Vedrŕ, vedrŕ, farň anch'io una
preghiera'.
"Come un padre. Io ero cosě fuori di me stesso nel
vedere il Papa trattarmi come un figlio che
l'ho abbracciato e gli ho dato due baci forti forti. Il Papa mi
ha detto: 'Oh grazie!'."
E la conclusione, che il cardinale fa solo intendere, sta
nel fatto che, dopo quell'incontro, in
poco tempo egli č guarito, ha
ritrovato la sua voce. Certo, ha seguito il normale decorso
postoperatorio, prendendo le medicine
e facendo gli esercizi indicati. Ma il lieto e felice risultato
potrebbe essere proprio frutto
anche di quella preghiera del Papa. Certamente quella
preghiera ha portato il suo contributo
perché, come ha detto Gesů, "chiedete e otterrete,
bussate e vi sarŕ aperto". Dio ascolta sempre
la preghiera.
Vox populi vox Dei
Riferendo i vari prodigi di cui si veniva a conoscenza, i
giornali si chiedevano se questi fatti
miracolosi fossero la prova inconfondibile della santitŕ di
Giovanni Paolo II Alcuni dei
"miracolati" intervistati dicevano di essere a disposizione
per andare a testimoniare in un
eventuale processo di canonizzazione. Qualcuno, anzi, si
dichiarava sorpreso perché, pur avendo
inviato alla Santa Sede tutti gli incartamenti medici della
guarigione ottenuta, non era stato
convocato in Vaticano.
Il fatto č che la Chiesa, nei suoi processi per proclamare
la santitŕ di una persona, non prende
mai in considerazione fatti prodigiosi o miracoli che siano
stati ottenuti per intercessione del
candidato alla santitŕ quando questi era in vita. La Chiesa
prende in considerazione solo i
miracoli attribuiti all'intercessione di una persona, quando
questa č morta. E ciň perché se il
miracolo arriva significa che colui che č morto č giŕ in
paradiso, č in perfetta sintonia con Dio,
č, quindi, santa. Il miracolo, compiuto da Dio per
intercessione di quella data persona, č una
specie di firma divina, un timbro che giunge dall'aldilŕ a
confermare il giudizio che la Chiesa si
č fatto su quella persona.
Nel caso di Giovanni Paolo II, i prodigi che gli sono stati
attribuiti, quando era in vita, sono
certamente un segno della sua amicizia con Dio, della
sua vita santa. Ma la conferma assoluta che
egli č nella gloria, quindi č santo, viene dai miracoli che
Dio compie, per sua intercessione, ora
che č scomparso.
Monsignor Stanislaw, che fu segretario di Wojtyla per
quasi quarant'anni, in un'intervista ha
detto che di questi miracoli,
attribuiti a Giovanni Paolo II dopo la sua morte, ce ne
sono giŕ diversi. Ha anche indicato il
caso di una suora francese. Miracolo strepitoso. Si
tratterebbe della guarigione improvvisa,
avvenuta nell'ottobre scorso, di una malata di cancro. Al
momento in cui scriviamo, non ci sono
altri particolari certi su questo o altri miracoli attribuiti a
Wojtyla dopo la sua morte,
perché, essendo il processo di beatificazione in corso, c'č
l'obbligo della segretezza affinchč
tutti gli esperti che esaminano la causa, e in particolare il
miracolo, possano lavorare in
serenitŕ e senza condizionamenti.
Comunque, che Giovanni Paolo II sia santo, e un grande
santo, nessuno ha dubbi. Papa Benedetto
xvi, proprio perché convinto che il suo predecessore č
santo, ha giŕ fatto una straordinaria
deroga alle regole del diritto canonico che disciplinano i
processi di beatificazione. Le norme
vigenti stabiliscono che si possa aprire la causa solo
dopo che sono passati cinque anni dalla
morte del candidato alla canonizzazione. La causa di
Giovanni Paolo II č stata aperta il 28
giugno 2005, quindi appena tre mesi dopo la sua
scomparsa.
E poi, in un certo senso, si potrebbe anche affermare che
la proclamazione della santitŕ di
Giovanni Paolo II č giŕ avvenuta. Non secondo le regole
canoniche, ma secondo il sistema antico
della vox populi vox Dei (voce del popolo, voce di Dio).
Questo detto antichissimo, ha un profondo significato per
i cattolici. La Chiesa č una societŕ
fondata da Gesů, costituita dal popolo di Dio, che viene
guidato dallo Spirito Santo, attraverso
i pastori legittimi. Quindi, se nella Chiesa vi č una
convinzione universale, va presa in
considerazione. Lo Spirito Santo non permette che la
Chiesa nel suo insieme si sbagli. Proprio
seguendo questo criterio, nel primo Millennio di
cristianesimo, venivano proclamati i santi. E
quel lontano rito popolare si č ripetuto per Giovanni Paolo
II. "Santo subito" si leggeva su
molti striscioni in piazza San Pietro durante il funerale di
Papa Wojtyla. "Santo subito"
gridava di tanto in tanto la folla. E alla folla si sono
aggiunti anche i pastori. Durante
l'omelia, tenuta dal cardinale Ratzinger, č accaduto,
infatti, un qualche
cosa di straordinario, che ha veramente dell'incredibile, il
cui significato non potrŕ mai piů
essere cancellato.
Il cardinale Joseph Ratzinger, in quel momento, durante
la celebrazione di quella Messa,
rappresentava la Chiesa. Egli era il decano del collegio
cardinalizio, titolo che gli conferiva
l'autoritŕ di parlare in nome degli altri cardinali nel periodo
in cui non c'era il Papa. Inoltre,
non va dimenticato che il cardinale Ratzinger, celebre
teologo, da ventiquattro anni era il
Prefetto della Dottrina della Fede, quindi un uomo rigido,
che difendeva l'ortodossia al millesimo
di millimetro, e non avrebbe mai pronunciato una parola
che non fosse in perfetta sintonia con la
veritŕ. Ebbene, egli, durante l'omelia della Messa delle
esequie di Giovanni Paolo II, rispondendo
alle grida della folla che affermavano "Santo subito", ha
proclamato, davanti a tutte le autoritŕ
della Chiesa radunate intorno alle spoglie di Giovanni
Paolo II, e davanti al mondo intero
collegato per radio e per televisione, che Papa Wojtyla
era giŕ in cielo. ŤPossiamo essere sicuriť
ha detto senza esitazioni Ťche il nostro amato Papa sta
adesso alla finestra della casa del Padre,
ci vede e ci benedice.ť E le sue parole sono state accolte
da un applauso festoso e dalla
ripetizione del grido "Santo subito, santo subito", che in
un crescendo si č diffuso in pochi
secondi in tutta la piazza. Il cardinale ha atteso a lungo,
prima di riprendere il discorso, quasi
a voler che quel grido confermasse e ribadisse le sue
affermazioni.
Certo, giuridicamente la Chiesa seguirŕ la prassi stabilita
dai canoni per arrivare alla festa
solenne e ufficiale della santificazione di Giovanni Paolo
II. Ma quanto accadde quel giorno, 8
aprile 2005, non potrŕ mai essere cancellato e ha il valore
di una collettiva proclamazione come
avveniva appunto nei primi tempi del cristianesimo.

V L'eterno Nemico

Suor Lucia di Fatima, quando, nelle sue memorie, svela


le prime due parti del famoso Segreto,
inizia riferendo una visione. La Madonna "aperse le
mani... il riflesso della luce immensa che
la circondava sembrava penetrare nella terra e vedemmo
come un mare di fuoco e sommersi in
questo fuoco i demoni e le anime come se fossero delle
braci trasparenti...".
La Vergine fece vedere ai tre piccoli veggenti l'Inferno, e il
destino delle persone che nella
vita scelgono di seguire il Male combattendo il Bene. Una
visione terribile, che riempě di
"spavento e di terrore" i piccoli veggenti. Un episodio
molto scomodo delle apparizioni di
Fatima, tanto scomodo che solo raramente č ricordato da
coloro che scrivono o parlano di quegli
eventi.
Veritŕ di Fede
Nella cultura contemporanea, ogni richiamo che si
riferisce all'Inferno, al Male, alla condanna
eterna per chi sceglie liberamente il Male, a Satana
principe del Male, č considerato un
retaggio antico, medievale. E, quindi, sorpassato.
Cosě pensano la maggior parte delle persone che si
ritengono colte, ma anche molti credenti e
perfino diversi teologi. Eppure, per la dottrina cattolica,
l'esistenza del Demonio e
dell'Inferno sono veritŕ di Fede, quindi fanno parte delle
realtŕ certe e assolute, che il
cristiano deve credere. Si trovano ribadite
nei documenti del Concilio Vaticano II, nel catechismo
della Chiesa cattolica, nell'insegnamento
dei Papi.
Forse, la ragione per cui la Madonna a Fatima iniziň la
consegna ai veggenti di quel Segreto che
conteneva profezie sul futuro del mondo mostrando
l'Inferno e parlando dei demoni, sta nel fatto
che l'umanitŕ cominciava a perdere la fede in quelle realtŕ.
Tra i cristiani si stava diffondendo
l'opinione che Satana fosse uno spauracchio per bambini
e l'Inferno una fantasia dei vecchi santi
che si maceravano nel deserto. Convinzione deleteria e
fuorviante, e la Madre, premurosa e
preoccupata, volle richiamare con forza l'attenzione su
quella veritŕ.
Prima di procedere nel racconto della vita di Giovanni
Paolo II, č importante chiarire i contenuti
di quella visione perché hanno conseguenze molto
concrete sull'intera esistenza di Wojtyla, sulle
vicende storiche e sociali in cui egli č vissuto, sulle
ideologie che ha aspramente combattuto.
Giovanni Paolo II č una delle figure principali di quel
Segreto, uno degli attori protagonisti.
Egli si č riconosciuto in quel "vescovo vestito di bianco" di
cui parla suor Lucia nella terza
parte del Segreto. E, come abbiamo giŕ detto, questo
significa che la Madonna, nel 1917, quindi
tre anni prima che Karol Wojtyla nascesse, lo aveva
scelto come suo collaboratore nella missione
di salvezza del mondo. Wojtyla non č dunque estraneo al
significato della visione dell'Inferno
presentata ai tre piccoli veggenti. Anzi.
La storia piů antica
Per capire, bisogna sintetizzare il senso preciso della
veritŕ cristiana su Satana. E bisogna
partire da un'antica storia. Con il termine "storia" non si
intende qualche cosa di leggendario,
un mito, ma un evento lontano, sperduto nella notte dei
tempi, che perň si č realmente verificato.
Un evento, quindi, "storico".
Me lo illustrň con forza ed efficacia un vecchio esorcista
che incontrai tanti anni fa, quando
feci un'inchiesta sul Demonio, che poi fině in un mio libro
dal titolo Cronista all'inferno.
Erano gli anni Settanta, e allora la crisi della fede in
Satana tra i cattolici era molto
diffusa. Per gran parte dei teologi d'avanguardia, Satana
era un personaggio irreale, una
"figura letteraria". Il nuovo catechismo olandese, voluto e
approvato dall'episcopato di quella
nazione, lasciava sul Diavolo piena libertŕ, sostenendo:
ŤCredere o no a Satana non intacca la
fedeť. Il teologo cattolico laico americano H.A. Kelly,
allora molto noto, aveva pubblicato un
libro sul Diavolo in cui affermava che "la demonologia
tradizionale č nata da dati biblici mal
compresi". E il famoso teologo svizzero Herbert Haag, in
un suo saggio dal titolo La
liquidazione del Diavolo, sosteneva che "occorre liquidare
per sempre questo personaggio inutile
e scomodo".
Eppure, c'era giŕ stato il Concilio Vaticano II che, pur con
molta stringatezza, aveva ribadito
le veritŕ fondamentali su questo argomento. Nella
Costituzione Gaudium et Spes,
documento che tratta della dottrina sull'uomo e sul
mondo, i Padri conciliari avevano fatto
queste drammatiche affermazioni: "Tutta intera la storia
umana č, infatti, pervasa da una lotta
tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta
cominciata fin dall'origine del mondo, che
durerŕ, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno".
Il senso di quella lotta cominciata fin dall'inizio me lo
spiegň appunto quel vecchio esorcista
che intervistai per la mia inchiesta sul demonio.
ŤIo sono un prete all'antica e non me ne vergognoť mi
disse. ŤLa veritŕ č stabile, non puň
cambiare seguendo le mode. Ciň che ha insegnato Gesů,
č stato ripetuto dagli Apostoli, dai Padri
della Chiesa, dai Concili, dai Papi.ť
Alto, inagrissimo, indossava un cappotto nero sulla
tonaca. Non voleva parlare del Demonio, ma
mi ricevette perché gli ero stato raccomandato da un suo
amico vescovo. Entrň subito in
argomento. ŤPer quanto riguarda Satana, il pensiero
della Chiesa dedotto dalla Sacra Scrittura,
dal Vangelo e dalla Tradizione, č sempre stato chiaro e
preciso. Satana č una realtŕ. Negare
questa veritŕ significa mettersi fuori della Chiesa.
ŤI materialisti non ammettono neppure lontanamente
l'esistenza di Satana. Per loro non esiste Dio, non esiste
l'aldilŕ, non esistono gli spiriti,
buoni o cattivi che siano, e non esiste Satana. Hanno
risolto il problema cancellando tutto ciň
che non passa attraverso i sensi.
ŤIl cristiano ha certezze concrete. Una visione della storia
precisa. Non č una certezza la sua
basata su dimostrazioni scientifiche, su ragionamenti
logici, ma una certezza "rivelata", cioč
"raccontata" da persone ispirate da Dio.
ŤSan Giovanni nella sua Apocalisse racconta che in
principio Dio ha creato il mondo, poi ha creato
i puri spiriti, gli angeli, i quali, in un momento imprecisato
dei secoli, hanno combattuto tra
loro una grande battaglia. Alcuni di questi puri spiriti,
capeggiati da Lucifero, l'angelo piů
"luminoso", piů vicino a Dio, si sono ribellati rifiutando di
accettare il grande progetto divino
riguardante l'uomo, che non era ancora stato creato. Tra
gli angeli fedeli e quelli ribelli č
scoppiata una guerra. I ribelli hanno perso e sono stati
costretti ad andarsene diventando
antagonisti della volontŕ di Dio. Lucifero, il capo, č
diventato Satana, e i suoi seguaci i
demoni, cioč gli spiriti del male.
ŤDa allora, gli angeli decaduti hanno sempre combattuto
contro Dio. Ma non possono fare del danno
al Creatore dell'universo, né agli angeli. L'unico loro
terreno di battaglia č l'uomo.ť
Il campo di battaglia č l'uomo
ŤL'uomo, infatti, č un essere particolare formato di
materia e di spirito e dotato di una facoltŕ
misteriosa e meravigliosa: il libero arbitrio. Inferiore ai puri
spiriti, angeli o demoni, per
intelligenza, l'uomo č superiore a loro per il dono della
libertŕ. E' destinato alla vita eterna,
ma deve passare per l'esperienza di questo mondo, che č
una prova generale della vera vita.
Durante la sua esperienza nel tempo, l'uomo, scegliendo
con la sua intelligenza e volontŕ, puň
orientarsi verso il Bene, Dio, o verso il Male, Satana, e
decidere cosě quale debba essere poi
la sua condizione nell'eternitŕ.
ŤCome ho detto, Satana non puň fare del male a Dio che
č
l'Essere Supremo, né agli angeli, né a nessun essere che
si trova nella luce, cioč nella vita
autentica, quella dell'aldilŕ. Lassů gli esseri hanno una
visione totale e limpida della Veritŕ.
Il Maligno se la prende perciň con l'uomo che, non
avendo una visione perfetta della realtŕ, č
fragile. L'uomo conosce la Veritŕ suprema attraverso la
rivelazione. Una rivelazione fattagli
dal Figlio di Dio, che gli ha chiesto di credere sulla parola.
ŤQuella dell'uomo č una condizione difficile, confusa,
precaria ma č la sua posizione attuale
nella storia. Se cammina verso il Bene, si realizzerŕ e
preparerŕ la sua vita eterna nella Luce;
se camminerŕ verso il Male, si autodistruggerŕ e preparerŕ
la sua rovina eterna. Le forze del
Bene lo aiutano perché segua la strada della Luce; quelle
del Male lo spingono dalla parte
opposta. Lui č libero di scegliere, e il suo destino dipende
unicamente dalla sua scelta.
ŤEccoť concluse il vecchio esorcista Ťquesta č, in parole
semplici, la visione storico-teologica
della realtŕ universale e della condizione umana. Una
visione raccontata chiaramente nella
Bibbia, nel Vangelo, ribadita nei tanti documenti della
Chiesa, anche in quelli recenti del
Concilio Vaticano II.
ŤBadi bene: queste non sono veritŕ opinabili, rivelazioni
private, fatte da qualche santo o da
apparizioni piů o meno attendibili. Queste sono veritŕ
storiche, della storia "totale", quella
che abbraccia la realtŕ visibile e invisibile, la vita presente
e quella futura, gli uomini e
gli angeli, Dio e Satana. Sono state raccontate all'uomo
da Dio stesso.
ŤIn queste veritŕ c'č la chiave di lettura dei fondamentali
problemi del mondo: il male, la
sofferenza, l'ingiustizia, le malattie, la menzogna, le
guerre, la morte. Per quanto malvagio,
cattivo, depravato possa essere un uomo non potrŕ mai,
da solo, compiere certi crimini che fanno
orrore. Pensi ai lager nazisti, alle epurazioni staliniane,
alle stragi dei trafficanti di
droga, per citare alcuni esempi. Ma lui, il Maligno, non si
ferma di fronte a niente. E' lui che
guida, che progetta, che agisce. E l'uomo, ogni singolo
individuo, č libero di stare dalla parte
del Male o da quella del Bene. Su questo si basa la sua
incalcolabile grandezza.ť
Il vecchio esorcista, nella lunga conversazione che allora
mi concesse, citava Padri della Chiesa,
documenti conciliari, prese di posizione di Papi, e in
particolare di Paolo vi, che aveva avuto il
coraggio, proprio all'inizio degli anni Settanta, di
contrastare apertamente il dilagare delle
opinioni dei teologi all'avanguardia su questo argomento.
Credere nel Demonio era diventato
ridicolo. Chi esprimeva questa sua fede, veniva deriso
anche dentro la stessa Chiesa.
Nel 1972, Paolo vi fece due interventi decisi. Il primo il 29
giugno, festa dei santi Apostoli
Pietro e Paolo. Nell'omelia della Messa, nella basilica di
San Pietro, parlň esplicitamente e
senza remore di Satana. Lo chiamň "Nemico degli
uomini", "essere preternaturale" e lo accusň di
voler distruggere i frutti portati dal Concilio: ŤCrediamoť
disse Ťin qualcosa di preternaturale
venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti
del Concilio ecumenico, e per
impedire che la Chiesa prorompesse nell'inno della gioia
di aver ricevuto in pienezza la coscienza
di séť. E aggiunse, riferendosi ai dubbi che
serpeggiavano tra gli stessi teologi: ŤHo la
sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di
Satana anche nel tempio di Dioť.
Le reazioni del mondo furono violente. La stampa dileggiň
il Papa. Gli intellettuali, che fino
a quel momento avevano dimostrato simpatia per lui,
considerandolo uomo di grande cultura e aperto
ai problemi del mondo, si ricredettero. Vittorio Gorresio,
famoso giornalista, scrisse sulla
"Stampa" di Torino: "Se Paolo vi crede ancora nel
Demonio, ogni suo colloquio in questo mondo
diventa difficilissimo".
Ma Paolo vi non si scompose e tornň sull'argomento il 15
novembre 1972, durante l'udienza del
mercoledě. ŤSatanať spiegň Ťč il nemico numero uno, č il
tentatore per eccellenza. Sappiamo cosě
che questo Essere oscuro e conturbante esiste davvero
e...
agisce ancora... č l'insidiatore sofistico dell'equilibrio
morale dell'uomo... il perfido e
astuto incantatore che in noi sa insinuarsi, per via dei
sensi, della fantasia, della
concupiscenza, della logica utopistica, o dei disordinati
contatti sociali... per introdurvi
deviazioni... Esce dal quadro dell'insegnamento biblico ed
ecclesiastico chi si rifiuta di
riconoscere la realtŕ del Demonio.ť
Il vecchio esorcista non potč citare Giovanni Paolo II
perché la nostra conversazione avvenne
alcuni anni prima che Wojtyla diventasse Papa. Ma
Giovanni Paolo II continuň con forza la presa
di posizione di Paolo vi. I suoi interventi su questo tema
furono frequenti. Approfittava di
ogni occasione per richiamare con estrema chiarezza
l'attenzione dei credenti sulla realtŕ
satanica. Molti lo accusarono di essere un "restauratore
di dottrine tradizionali sorpassate",
ma imperterrito continuň per la sua strada. Soprattutto
dopo l'attentato del 1981.
Nell'estate del 1986, in sette lezioni nell'arco di sette
settimane, svolse un vero corso di
catechismo su esseri "visibili e invisibili", su angeli e
demoni. ŤStudiare questo capitolo di
dottrinať disse Ťvuol dire prepararsi alla condizione di
lotta che č propria della vita della
Chiesa in questo tempo ultimo.ť
Nel 1987, visitando il santuario dell'Arcangelo San
Michele sul Gargano, invocň l'aiuto del
"grande lottatore contro il dragone, il capo dei demoni",
che č "tuttora vivo e operante nel
mondo" con la sua "azione infestatrice e oscura", da
"astuto incantatore".
Durante un'udienza ha spiegato a turisti e pellegrini che
anche nell'epilessia ci puň essere
l'azione diabolica: ŤSiamo al margine di un mondo
oscuroť disse Ťove č ben possibile che si
infiltri e operi il Malignoť.
Nella sua Enciclica sullo Spirito Santo, dedica a Satana,
padre della menzogna, alcune pagine.
E' lui il supremo tentatore, la "vera" chiave di lettura dei
tempi presenti. In questa vigilia
del Terzo millennio, infatti, la sua peccaminositŕ "trova la
massima espressione": che si
incarna in quel "materialismo dialettico e storico
riconosciuto come sostanza vitale del
marxismo".
Parlando dell'ultima guerra mondiale, chiamň
esplicitamente in causa il Maligno: ŤL'abisso
morale raggiunto con la
guerra ci fa toccare con mano la potenza del principe di
questo mondo che puň sedurre le coscienze
con la menzogna, con il disprezzo dell'uomo e del dirittoť.
ŤE' stato il Malignoť
Giovanni Paolo II era cresciuto nella piů tenera devozione
alla Madonna. Sapeva che la Vergine
Maria, la madre di Gesů, č la "vincitrice" di Satana, č la
"donna coronata di stelle che schiaccia
la testa al serpente", come si legge nell'Apocalisse. A
Maria aveva consacrato tutto se stesso e
la sua attivitŕ contro l'ideologia ateistica comunista. Il
motto della sua vita e del suo
ministero sacerdotale era Tutus tuus, un affidamento
totale alla Madre.
Dopo l'attentato del 1981, queste convinzioni si
rafforzarono. Egli ebbe ancor piů chiara la
visione della battaglia invisibile che si stava combattendo
nel mondo. E anche di quella che il
Maligno combatteva contro di lui, proprio per il ruolo che
dalla Vergine gli era stato assegnato.
L'attentato era stato un ennesimo colpo del Maligno.
Papa Wojtyla lo disse chiaramente. Durante il
processo ad Ali Agca, il giovane turco che gli aveva
sparato, in Vaticano tutti si meravigliavano
perché Giovanni Paolo II non seguiva il processo, non
leggeva i giornali, non si interessava
assolutamente della vicenda. Il cardinale polacco Deskur,
suo amico, un giorno gli chiese perché.
ŤE' stato il Maligno a compiere quell'attoť disse Wojtyla.
ŤE il Maligno puň cospirare in migliaia
di modi e nessuno mi interessa.ť
Satana č un essere intelligentissimo, proprio perché puro
spirito. Anche se si č ribellato a Dio,
diventando suo nemico, ha conservato la sua natura ed č
in grado di sapere tutto, anche il futuro.
Egli conosceva quello che la Vergine predisse ai tre
veggenti a Fatima. Conosceva perfettamente la
storia che si sarebbe verificata nel Ventesimo secolo,
perché ne era il protagonista occulto nello
scatenare guerre, divisioni, odi, morti, ideologie; tutto ciň
che in qualche modo poteva
allontanare l'umanitŕ da Dio.
Sapeva benissimo che la Madonna aveva scelto Karol
Wojtyla per guidare, in un momento cruciale
del Novecento, gli uomini verso il Bene. E sapeva che gli
uomini hanno il dono del libero
arbitrio, quindi non era certo di poter continuare a
ingannarli sempre e definitivamente.
Ascoltando il messaggero inviato dalla Vergine, Karol
Wojtyla appunto, molti potevano cambiare
condotta, mentalitŕ, capire, scegliere il Bene. Perciň, fin
dall'inizio il Maligno si č prefisso
di distruggere quel suo nemico, di vanificarne la missione,
e ha provato a farlo in mille modi.
L'attentato in piazza San Pietro č stato il piů eclatante,
forse quello estremo, ma giŕ in altre
occasioni il Maligno aveva cercato l'eliminazione fisica di
Karol Wojtyla.
Questo č lo scenario della vita di Giovanni Paolo II
osservato alla luce del Segreto di Fatima.
Qualcuno dirŕ che č un'esagerazione. Se si ammette che
il "vescovo vestito di bianco" di cui
parlň la Vergine nel 1917, č Giovanni Paolo II, come egli
stesso ha riconosciuto, non ci sono
alternative: Satana, fin dall'inizio, ha visto in quella
persona il suo nemico numero uno e lo
ha trattato come tale.

VI ŤLei deve abortire;


Il futuro Giovanni Paolo II non doveva venire al mondo.
Mille difficoltŕ hanno ostacolato la sua
nascita. Era come se misteriose forze oscure si fossero
accanite contro la famiglia Wojtyla, in
particolare contro la madre del futuro Papa, quasi a voler
impedire la nascita di Karol. La donna
si era sposata nel 1904, ma diede alla luce il bambino,
che sarebbe diventato Giovanni Paolo II,
solo nel 1920, cioč sedici anni dopo il matrimonio, e il
parto avvenne contro il parere di tutti i
medici, che volevano farla abortire.
"Sono difficoltŕ normali che si verificano in molte famiglie"
potrebbe osservare qualcuno. E'
vero, ma viene spontaneo anche pensare che quelle
negativitŕ, quelle avversitŕ, cosě come si sono
presentate e come si sono realizzate, siano state messe
in atto da "quel Nemico" che conosceva
bene il futuro, conosceva il significato e lo scopo delle
apparizioni di Fatima, sapeva a quale
missione il bambino sarebbe stato chiamato e cercava di
impedire che tutto questo si realizzasse.
Emilia e Karol senior
;[
La madre del futuro Giovanni Paolo II si chiamava Emilia
Kaczorowska. Era figlia di un sellaio
lituano ed era nata in Slesia il 26 marzo 1884. Aveva otto
fratelli. La famiglia si era trasferita
a Cracovia quando lei era ancora piccola.
Emilia non ebbe un'infanzia serena. I documenti che
parlano di lei sono rarissimi. Si sa perň che
fu bersagliata da dolori e disgrazie. In pochi anni, perse
quattro fratelli e anche la madre.
Crebbe in un collegio delle suore della Misericordia. Potč
frequentare solo le scuole
elementari. Poi dovette pensare a guadagnarsi da vivere,
imparň il mestiere di sarta e lavorava
per aiutare la famiglia a far crescere i fratelli piů piccoli.
Era gracile e cagionevole di
salute.
Il padre del futuro Papa si chiamava Karol Wojtyla.
Era nato il 18 agosto 1879 a Lipnik, una trentina di
chilometri da Wadowice, dove sarebbe
andato a vivere dopo il matrimonio. Era figlio di un sarto e
anche lui aveva imparato il
mestiere del padre, ma lo aveva poi abbandonato per la
carriera militare.
Aveva frequentato le scuole elementari e anche tre classi
di ginnasio. Era dotato quindi di una
buona istruzione, superiore alla media dei giovani di
allora.
Nel 1900, fu chiamato a fare il soldato nell'armata
austriaca e vi rimase anche al termine del
tempo obbligatorio, continuando nella carriera militare e
raggiungendo il grado di
sottufficiale.
Questo tipo di carriera gli dava la possibilitŕ di uscire dalla
vita grama del paese e gli
permetteva anche di poter continuare a studiare, cosa
che amava moltissimo.
Durante la Prima guerra mondiale si dimostrň molto
coraggioso, compiendo azioni eroiche che
furono pubblicamente premiate con la croce di ferro al
merito.
Karol ed Emilia si conobbero nella Chiesa cattolica di
Cracovia che entrambi frequentavano.
Emilia si innamorň subito di quel giovane soldato.
Secondo un rapporto dell'esercito austriaco, sappiamo
che era giudicato dai suoi superiori
"onesto, leale, serio, educato, modesto, retto,
responsabile, generoso e instancabile". Tutte
doti preziose, immediatamente apprezzate dalla giovane.
Era anche un bell'uomo, come dimostrano
alcune fotografie che ce ne hanno tramandato
l'immagine.
Maria Janina Kaczorowa, una vicina di casa dei coniugi
Wojtyla a Wadowice, ancora in vita quando
Wojtyla junior venne eletto Papa, cosě descrisse il papŕ
del Pontefice polacco: ŤEra alto, con
spalle molto dritte e aveva un incedere armonioso. Gli
stivali lunghi e la divisa militare con le
scintillanti tre stellette di sottufficiale sul colletto gli
davano fascino ed eleganza. Era molto
ammirato dalle ragazzeť.
Karol ed Emilia si sposarono il 10 febbraio 1904 a
Cracovia, nella chiesa militare della cittŕ
intitolata ai santi Pietro e Paolo. Vissero per qualche
tempo a Cracovia e poi si trasferirono a
Wadowice, una cinquantina di chilometri a nordest.
Anche di Emilia ci sono alcune foto e da quelle immagini
si deduce che era molto bella. Stando
alle testimonianze della vicina di casa, Maria Janina,
"Emilia Kaczorowska era la piů bella ed
elegante giovane donna di Wadowice. Era snella, aveva
profondi occhi neri e un sorriso disarmante.
Di carattere era gaia e sempre serena. Vestiva
modestamente, ma era distinta, molto femminile. Si
confezionava lei stessa i vestiti. Aveva capelli lunghi e si
pettinava, come si usava allora,
puntandoli tutti in alto".
Due maternitŕ a rischio
Il 27 agosto 1906, Emilia diede alla luce un maschietto, al
quale fu dato il nome di Edmund, ma in
famiglia lo chiamavano Mundek. E giŕ fin da quel primo
parto la sua salute, gracile e cagionevole,
venne compromessa. I medici le dissero che si doveva
accontentare di quel bambino perché
successive maternitŕ avrebbero potuto avere
conseguenze molto deleterie sul suo fisico.
La vita dei coniugi Wojtyla trascorreva serena. Lo
stipendio di Karol non era pingue ma
sufficiente. Emilia lo amministrava con oculatezza.
Lavorava anche lei come sarta contribuendo
al bilancio familiare. Amava vestire bene il suo bambino e
comprava qualche vestitino nei negozi
piů importanti di Cracovia.
Edmund crebbe sano. Era vispo e intelligente. Quando
iniziň ad andare a scuola, studiava con
profitto. Emilia decise che quel suo ragazzo doveva
frequentare l'universitŕ e diventare
importante. Era orgogliosa di lui.
Nel 1914 Emilia rimase di nuovo incinta. La gravidanza
questa volta fu difficile, il parto
complicato, e nacque una bambina che visse poco
tempo. Non si sa quanto. Forse poche ore o pochi
giorni. Non esistono
notizie precise in merito. Nei registri parrocchiali non si
trovano documenti che la ricordino.
Non č stata registrata nel libro dei battesimi.
Probabilmente venne battezzata in privato, a
casa, dagli stessi genitori, come č previsto anche dalla
Chiesa nei casi
di emergenza, cioč quando il neonato č in pericolo di vita.
Per questo non ci sono tracce del
suo battesimo e neppure della sua nascita.
Non si sa neppure dove sia stata sepolta, perché nei
registri del cimitero non si trovano
indicazioni di quella bimba.
Si sa che era stata chiamata Olga. Emilia aveva voluto
dare alla sua bambina quel nome che le
ricordava la sorella maggiore, che aveva tanto amato e
che era morta a soli ventidue anni. Uno
dei tanti lutti familiari che avevano segnato la sua
infanzia. Lutto dolorosissimo seguito, poco
tempo dopo, da quello della madre, morta a trentanove
anni.
La morte della piccola Olga segnň profondamente il cuore
di Emilia. Un dolore profondo, che non
potč mai dimenticare. Talmente profondo che non parlava
di quella bimba se non in rare
occasioni. Solo con persone che conosceva si č lasciata
andare, manifestando quanto grande fosse
la pena che la morte di quella figlia aveva lasciato in lei.
Emilia, infatti, non rivelň mai le circostanze della morte di
Olga e neppure la data della sua
scomparsa. Come abbiamo detto, non č mai stato trovato
il certificato di battesimo e neppure la
registrazione anagrafica della neonata.
Non si č mai saputo dove sia stata sepolta. La piccola
salma non č stata trovata quando venne
eretta la tomba di famiglia a Cracovia. E quando
casa di Wojtyla a Wadowice fu trasformata in museo, il
nome della piccola Olga non č stato
inciso nella targa d'ingresso, insieme a quello degli altri
componenti della famiglia.
L'unica testimone che ha sentito, qualche volta, Emilia
parlare della sua Olga fu la vicina di
casa, Maria Janina, la quale ha raccontato che
ricordando la morte della bambina, la signora
Wojtyla provava ancora un dolore tremendo. Eppure, la
piccola Olga era una presenza viva nella
famiglia. Karol junior, futuro Papa, che nacque sei anni
dopo la sorellina e quindi non la conobbe
mai, vi era affezionato. Certamente aveva imparato ad
amarla dalle parole di sua madre. La amava
cosě tanto da ricordarla anche nel testamento. Andando
con il pensiero alla sua vita passata,
scrisse nell'ultimo paragrafo che aggiunse al testamento
durante gli esercizi spirituali del 2000:
ŤA misura che si avvicina il limite della mia vita terrena
ritorno con la memoria all'inizio, ai
miei genitori, al fratello e alla sorella (che non ho
conosciuto, perché morě prima della mia
nascita)... ť.
18 maggio 1920
Quella difficile maternitŕ compromise ulteriormente la
salute di Emilia. Da allora, la donna
cominciň a soffrire di fortissimi mal di schiena che le
impedivano perfino di reggersi in piedi.
Inoltre, veniva presa da improvvisi capogiri che le
facevano perdere conoscenza. Quando
sopraggiungevano quelle crisi, doveva restare a letto
anche per quattro, cinque giorni di fila. E
a volte doveva essere trasportata a Cracovia, per essere
assistita da medici specialisti. Le
assenze duravano anche una settimana e allora era il
marito a sbrigare le faccende domestiche,
fare da mangiare a Edmund, lavare i piatti e pulire la
casa.
I medici dicevano che aveva i reni compromessi e il cuore
malandato. Doveva condurre un'esistenza
tranquilla, serena, non doveva affaticarsi e, naturalmente,
neppure lontanamente pensare ad altre
maternitŕ.
Alla fine del 1919, Emilia si accorse di aspettare un nuovo
bambino. Aveva giŕ trentacinque anni
e mezzo e la nuova gravidanza si annunciň subito
difficile. I medici dissero che sarebbe stata
fatale per lei e per il nascituro: doveva, quindi,
interromperla. Doveva cioč abortire.
Il problema era grave. Emilia conosceva bene le proprie
condizioni di salute. Avrŕ di sicuro
riflettuto sulle parole dei medici. Sapeva il rischio che
correva e avrŕ pensato a suo marito,
a suo figlio Edmund che aveva allora quattordici anni, e
anche a se stessa. Non č facile
accettare di morire a trentacinque anni.
Se Emilia avesse dato ascolto ai medici, non avremmo
mai avuto un Papa di nome Karol Wojtyla.
Ma era una donna di grande fede. Neppure per un attimo
prese in considerazione la prospettiva
dell'aborto. Con semplicitŕ estrema, si affidň al buon Dio.
Mai, per nessuna ragione al mondo,
avrebbe impedito a quel suo bambino di nascere: per lui,
era disposta a morire.
I nove mesi di gestazione furono pieni di complicazioni
per la salute di Emilia. Il parto si
presentň difficile, ma il bambino nacque sano e robusto.
Era il 18 maggio 1920.

VII 'Oh, madre, mio spento amore...

I coniugi Wojtyla erano andati ad abitare a Wadowice


subito dopo il matrimonio e cioč nel 1904.
Non si sa quale sia stata la loro prima abitazione. Si sa
perň che nel 1919 la famiglia si
trasferě in un appartamento della casa di proprietŕ di
Chaim Bla-muth, in Rynek 2, ora diventata
Koscielna 7.
Si trattava di una piccola palazzina, ora trasformata in un
museo dedicato a Giovanni Paolo II.
Davanti c'era un cortile piccolo, attorniato da case.
L'appartamento della famiglia Wojtyla, al primo piano, era
costituito da due stanze e un piccolo
cucinino. Dalla finestra si poteva vedere il muro grigio
della parrocchiale, la chiesa di Santa
Maria. Su quel muro, vicino all'orologio solare, si leggeva:
"Il tempo passa, l'eternitŕ ci
aspetta". La chiesa era cosě vicina all'appartamento che,
quando essi tenevano le finestre aperte,
potevano seguire le preghiere e i canti delle funzioni
religiose.
Ricordo di una grande vittoria
Il 18 maggio 1920, era un mercoledě. I biografi di Karol
Wojtyla riferiscono che egli venne alla
luce verso il tramonto.
Lui stesso ha raccontato agli amici che sua madre, finito il
travaglio, disse alla levatrice di
aprire la finestra della camera da letto perché il bambino
sentisse i canti che si eseguivano
nella vicina chiesa in onore della Madonna, nella funzione
serale di maggio. Furono le campane e i
cori mariani, quindi, i
primi suoni che il futuro Papa polacco ascoltň alla sua
entrata in questo mondo.
Ma in quel giorno venne anche contagiato
dall'entusiasmo patriottico del padre, Karol Wojtyla
senior che, come abbiamo detto, era un ufficiale
dell'esercito.
Insieme a tutta la nazione, il tenente Wojtyla proprio quel
giorno festeggiava la vittoria. La
vittoria polacca riportata dal maresciallo Józef Pitsudski
contro i russi. Quel giorno, infatti,
Józef Pitsudski, eroe nazionale, a capo dei suoi soldati
rientrava trionfante a Varsavia dopo
aver inflitto, a Kiev, in Ucraina, la sconfitta determinante
all'Armata Rossa di Lenin nella
guerra per l'indipendenza polacca. E, secondo alcuni,
proprio per onorare il maresciallo
Pitsudski, volle dare al figlio, oltre che il proprio nome,
Karol, anche quello di Józef. Il
futuro Papa, colui che il mondo ricorda come uno dei
principali combattenti dell'ideologia
comunista, iniziava la sua esistenza terrena con un nome
che ricordava il condottiero polacco
che aveva sconfitto Lenin in battaglia.
Secondo altri, perň, Karol Wojtyla senior chiamň il figlio
anche con il nome di Józef in onore
dell'imperatore Francesco Giuseppe. Ma alla signora
Emilia piaceva chiamare i figli con
diminutivi e vezzeggiativi e, per lei, Karol junior fu sempre
Lolek, oppure Lolus.
Il bambino fu battezzato un mese dopo la nascita e
precisamente il 20 giugno 1920.
Negli atti della chiesa parrocchiale di Wadowice si legge:
"Certificato di nascita e di
battesimo. Nell'anno del Signore millenovecentoventi
(1920) il giorno diciotto (18) del mese di
maggio, nato al n. 2 della casa, fu battezzato il giorno 20
giugno del medesimo anno, secondo il
rito romano-cattolico dal reverendissimo Franciszek Zak,
Karol Jozef, di religione cattolica, di
sesso maschile e di legittimo matrimonio. Padre: Wojtyla
Karol, ufficiale dell'esercito, figlio
di Maciej e di Anna Przeczka. Madre: Kaczorowska
Emilia, figlia di Feliks e di Maria Scholz.
Padrini: Jozef Kuczmierczyk, Maria Wiadrowska moglie di
Leone".
Maria era sorella di Emilia Kaczorowska, quindi zia
bambino. Mentre Jozef Kuczmierczyk era cognato
delle due sorelle. Anzi cognato due volte, avendo sposato
prima Olga, la loro sorella maggiore, e
poi, rimasto vedovo, aveva sposato l'altra sorella,
Melena-Augusta.
Jozef Kuczmierczyk era benestante. Possedeva un
ristorante famoso a Cracovia, frequentato da una
clientela affezionata e importante. Tra i suoi clienti piů
illustri vantava l'attore Solski e lo
scrittore Stanislaw Wyspiariski, drammaturgo e artista di
grande valore.
Giovanni Paolo II ha ricordato spesso il giorno e il luogo
del suo battesimo. Visitando la chiesa
di Wadowice, durante il suo primo viaggio in Polonia da
Papa nel 1979, disse: ŤQuando col pensiero
mi rivolgo indietro a guardare il lungo cammino della mia
vita, considero come l'ambiente, la
parrocchia, la mia famiglia mi hanno condotto al fonte
battesimale della chiesa di Wadowice, dove
il 20 giugno 1920 mi fu concessa la grazia di divenire
figlio di Dio e di acquistare la fede nel
mio Redentore. Questo fonte battesimale l'ho giŕ baciato
una volta solennemente nel millennio del
battesimo della Polonia, quando ero arcivescovo di
Cracovia. Poi l'ho fatto per la seconda volta
nel cinquantesimo anniversario del mio battesimo,
quando ero ormai cardinale. Oggi desidero
baciarlo ancora una volta come Papa, successore di san
Pietroť.
Il calvario di Emilia
Lolek cresceva sano e robusto. Era un bambino dal
temperamento allegro, vivace, estroverso.
L'esistenza di Emilia, invece, appariva gravemente
compromessa. Quella terza maternitŕ, che i
medici le avevano sconsigliato, era stata letale. I disturbi
al cuore e ai reni erano peggiorati.
Le gonfiavano le gambe e le impedivano di restare a
lungo in piedi.
Doveva egualmente provvedere alla casa e ai figli. Anzi,
ora che la famiglia era aumentata, il
lavoro era cresciuto, ma le sue energie andavano via via
sparendo.
Con l'aumento della famiglia anche lo stipendio del marito
non bastava piů. Ed Emilia sentiva il
dovere di contribuire con il suo lavoro alle spese. Aveva
rispolverato la macchina per cucire e
aveva ripreso a fare dei lavoretti da sarta per i vicini,
guadagnando cosě qualche cosa.
Ma anche questo impegno le era diventato faticoso. Nelle
ore libere avrebbe dovuto riposarsi
invece di lavorare. Per fortuna c'era Edmund a darle una
mano. Il primogenito aveva quattordici
anni piů di Karol, era un giovanotto robusto e
servizievole. Frequentava il liceo a Wadowice, ma
nel pomeriggio era a casa e aiutava la mamma.
Tutti i giorni la signora Emilia faceva una breve
passeggiata spingendo la carrozzina con il
piccolo Lolek. Era seguita sempre anche da Edmund. Il
ragazzo portava giů la carrozzina dalle
scale dell'abitazione, interveniva quando la strada era
disagiata, e la spingeva lui stesso
quando vedeva che la
mamma era stanca.
Come abbiamo giŕ detto, ogni tanto, Emilia era costretta a
essere ricoverata in ospedale per i
suoi disturbi, e allora toccava a Edmund accudire il
fratello.
Nel 1924, Edmund, finite le scuole superiori, si iscrisse
all'universitŕ a Cracovia. Nonostante
le difficoltŕ economiche, i coniugi Wojtyla volevano che il
loro figlio potesse continuare gli
studi. Era risultato il migliore al liceo di Wadowice.
Sognava di diventare medico, per
esercitare una professione che fosse utile ai sofferenti, e
mamma e papŕ erano orgogliosi di
lui. Per questo decisero di affrontare dei sacrifici
economici.
Con la partenza di Edmund per Cracovia, Emilia perse un
aiuto preziosissimo. Tutti i piccoli
lavori faticosi necessari in casa, che prima svolgeva il
ragazzo, ora toccavano a lei. E con il
suo fisico malato erano un peso gravoso.
Soffriva e taceva. Ma i suoi disturbi peggioravano. Il
marito era costretto a chiedere spesso ai
superiori di assentarsi dal lavoro per motivi familiari,
perché la sua presenza era necessaria
in casa. E vedendo che la situazione si aggravava
sempre di piů, nel 1927 chiese di poter andare
in pensione anticipatamente.
Fu accontentato e l'esercito lo mandň a riposo
promuovendolo, per meriti
di condotta esemplare, al grado di capitano. Da quel
momento, la gente
di Wadowice, quando voleva indicarlo, diceva con grande
rispetto: "il
Capitano". Quel titolo era prestigioso e conferiva a Karol
Wojtyla un
alone di leggenda.
Ma se il titolo era prestigioso, l'importo della pensione del
capitano
era modesto. Inferiore allo stipendio che prendeva, e
quindi in
famiglia si dovettero fare altri sacrifici. Egli perň non si
lamentava
perché era necessario stare accanto alla moglie che
ormai aveva
bisogno di molta assistenza.
ŤSopportava il dolore con fedeť
Intanto il piccolo Lolek aveva cominciato ad andare a
scuola.
Frequentava la locale scuola elementare situata al primo
piano
dell'edificio dell'amministrazione cittadina, in piazza del
Mercato, a
un minuto a piedi da casa sua.
Fin dall'inizio si rivelň uno scolaro molto dotato. Aveva
qualche
difficoltŕ in matematica, ma riuscě a riprendersi.
Si conserva ancora la sua pagella, portata a casa dopo il
primo
quadrimestre della prima elementare. Eccone il
contenuto:
Comportamento: molto buono Applicazione: buona
Religione: molto buono
Lingua polacca: buono Matematica: buono Disegno:
molto buono Canto:
molto buono Ginnastica: molto buono Assenze: venti,
tutte
giustificate.
Le assenze, tutte giustificate, erano dovute alla salute
della mamma.
Quando Emilia era colta dai suoi terribili dolori che la
tenevano a
letto, e suo marito non poteva stare in casa dal lavoro, e
Edmund era
a Cracovia, toccava al piccolo Lolek rimanere in casa e,
in qualche
modo, dare un aiuto alla mamma
inferma. Anche per questo motivo, per impedire cioč che
il bambino
perdesse troppe lezioni, nel 1927 Karol Wojtyla senior
chiese di
andare in pensione.
Lolek aveva fatto amicizia con un coetaneo, Jerzy Kluger,
ragazzo
ebreo, figlio del presidente della comunitŕ ebraica di
Wadowice, che
era anche un noto avvocato. I due erano diventati
inseparabili,
trascorrevano il tempo libero a giocare insieme.
Un'amicizia che č
durata per sempre.
Jerzy Kluger raccontň che giocavano spesso nella piazza
della
cittadina, a un isolato dall'appartamento dei Wojtyla, dove
vedevano
spesso il poliziotto della cittŕ, Cwick. Un giorno, quando
avevano
sei, sette anni, cominciarono a discutere sulla spada del
poliziotto.
Lolek sosteneva che fosse di legno mentre Jerzy diceva
che era di
acciaio. L'uomo era lě, seduto su una panchina, vicino a
loro, che
faceva un sonnellino. Decisero di verificare. Si
avvicinarono e
cercarono di sfilargliela dal fodero, ma persero l'equilibrio,
barcollarono e caddero addosso al poliziotto che si
svegliň di
soprassalto mettendo in fuga i due ragazzi.
Il tempo che Lolek trascorreva con Jerzy era sereno. A
volte egli
andava anche a casa dell'amico, dove la nonna del
ragazzo lo aveva
preso in simpatia e gli preparava una tazza di té e una
fetta di
torta. Ma queste visite erano rare perché non voleva
allontanarsi
dalla mamma che aveva sempre piů bisogno di lui.
La salute di Emilia, infatti, peggiorava a vista d'occhio. Lei
cercava di tenere nascosti i propri malanni, per non
diventare di
peso, ma soffriva molto.
Lo ha testimoniato la sua vicina di casa, ricordando gli
ultimi anni
di vita della signora Wojtyla.
Avvicinata nel 1985, quando aveva giŕ ottantaquattro
anni, da Roman
Antonj Gajczak, Maria Janina parlň a lungo di Emilia,
permettendo che
i suoi ricordi fossero registrati, e fornendo in questo modo
preziosissimi dettagli, che furono poi consegnati allo
scrittore
cattolico italiano Luciano Bergonzoni per un suo libro
sulla mamma
del Papa.
ŤAbitavamo nella stessa viať raccontň la donna. ŤEmilia
era una
persona molto calma e bene educata.-. Era molto gaia e
viveva secondo
la volontŕ di Dio, anche se inferma. Non so di che fosse
inferma:
questo per me era un segreto, perché non mi permettevo
di
chiederglielo. Direi di cuore e di reumatismi. Qualche
volta non
riusciva a stare in piedi, perň io non osavo chiedere nulla:
lei era
piů anziana di me.
ŤSopportava il dolore con fede. Non parlava mai dei suoi
disturbi e
riusciva sempre a tenere un sorriso dolce e sereno sulle
labbra, anche
nei momenti di maggior sofferenza.
ŤParlavamo di tutto, come succede tra vicine di casa:
soprattutto di
Karol, che amava tanto. Le dispiaceva di essere cosě
debole di salute.
ŤSi vestiva molto modestamente, soprattutto di colori
pastello, aveva
i capelli lunghi, si pettinava come usava allora, puntati
tutti in
alto. Era giŕ leggermente brizzolata. La voce era gentile e
calma. A
volte dicevo alla signora Emilia: "La prego, mi fermi
quando parlo
troppo e in fretta". Lei rispondeva: "Non fa niente". Era
molto
silenziosa ma anche molto femminile.
ŤNon posso dire che fosse di poche parole. Era molto
educata, tipica
donna di quei tempi. Era molto benvoluta: anche le
persone
sconosciute si accorgevano di questa sua tranquillitŕ
interna e della
sua religiositŕ.
ŤMi diceva: "Signora Janina, lei č cosě giovane, ma viene
il momento
che ogni persona si deve rassegnare quando capitano le
disgrazie".
Emilia fu molto addolorata perché in passato aveva perso
la
figlioletta di nome Olga. Non si sa niente circa quel fatto.
E'
capitato anche a me che ho perso il mio primo figlioletto
di tre
mesi, sepolto nel cimitero a Wadowice.
ŤAlla signora Wojtyla era capitata la stessa disgrazia, ma
non so se
la sua bimba sia morta dopo la nascita oppure sia nata
morta. Non ho
mai osato domandarlo. Io ho una figlia e la signora
Wojtyla sapeva
come amavo la mia bambina, e come ringrazio Dio che
sia viva ancora.
Una volta le dissi che il mio primo figlio, un maschietto,
era morto.
Allora lei mi chiese come fosse successo, e io le
raccontai tutto, la
malattia e poi la morte. Si č molto commossa e cercava di
consolarmi
dicendo: "Vedrŕ, avrŕ ancora un altro figlio..." ed č proprio
ciň che
avvenne in seguito.
ŤQualcuno ricorda quando portarono via Emilia per
curarla ospedale.
aveva le gambe che non la reggevano piů e la schiena
dolorante.
A Wadowice la gente diceva che soffriva di una malattia
alla spina
dorsale oppure di cuore. Poi č morta.ť
ŤLa tua mamma č mortať
La terribile disgrazia si verificň il 13 aprile 1929.
Quella mattina, Lolek, che non aveva ancora nove anni,
si alzň presto
come al solito per andare a scuola. La mamma,
sofferente, volle
preparargli la colazione e poi lo baciň e abbracciň prima
di farlo
uscire dalla porta di casa. Probabilmente sentiva che non
lo avrebbe
piů visto vivo.
Verso mezzogiorno qualcuno andň a scuola a parlare con
il preside.
Questi si recň nella classe della terza elementare.
Quando entrň,
tutti i ragazzi si alzarono. Egli parlň sottovoce
all'insegnante che
si rivolse a Karol Wojtyla invitandolo ad andare con lui. Il
ragazzo
sbiancň, non disse niente, ma ebbe un terribile presagio.
Fuori dalla scuola c'era una signora, vicina di casa, che lo
attendeva. ŤLa tua mamma č stata portata all'ospedale,
ma, purtroppo,
č mortať disse sbrigativamente la donna. Il ragazzo le si
mise
accanto camminando in silenzio e con lei tornň a casa.
Emilia aveva quarantacinque anni e il certificato di morte
parla di
miocardite e nefrite, cioč infiammazione al cuore e ai reni.
I funerali vennero celebrati il 16 aprile.
Non si č mai saputo quale dolore abbia provato il piccolo
Lolek. Deve
essere stato tremendo, tale da provocare un profondo
shock che
cancellň in lui ogni ricordo della madre.
Aveva quasi nove anni, nell'aprile del 1929. A quell'etŕ i
ricordi
sono vividi e bene impressi nella mente di un ragazzo e
permangono
anche in etŕ avanzata. Wojtyla ha dimostrato di
ricordare molte cose di quegli anni e anche di molto
prima. Ma niente
della madre.
Nel suo libro Dono e mistero scrisse: "Non avevo ancora
fatto la prima
Comunione quando perdetti la mamma: avevo appena
nove anni. Non ho
perň chiara consapevolezza del contributo, sicuramente
grande, che
ella dette alla mia educazione religiosa".
Tutti gli amici di Karol Wojtyla sono concordi nel dire che
egli
rimase sconvolto dalla perdita della madre al punto di non
riuscire
quasi mai a parlare di lei.
Il suo amore tenero e vivo lo dimostrň tenendo sempre
con sé alcuni
oggetti che le erano appartenuti: un tavolino e la cesta di
vimini che
Emilia usava per raccogliere la biancheria. Su un tavolo,
nella sua
camera da letto, sia in Vaticano come a Castel Gandolfo,
ha sempre
avuto una piccola fotografia dove la madre č accanto al
papŕ,
fotografia scattata pochi giorni dopo il loro matrimonio.
Nel 1939, quando erano passati dieci anni da quel tragico
evento,
egli, ormai grande e giŕ affermato poeta, scrisse alcuni
versi in
ricordo di sua madre. Versi che sono una dolce
preghiera, ma intrisa
di un incancellabile dolore:
Sulla tua tomba bianca
Fioriscono bianchi fiori della vita.
Oh, quanti anni sono stati senza di te,
Quanti anni fa?
Sulla tua tomba bianca
Da tanti anni giŕ chiusa:
Come se in alto qualcosa si innalzasse,
Come la morte incomprensibile.
Sulla tua tomba bianca,
O madre, mio spento amore,
Con tanto affetto filiale
Faccio preghiera:
Dio, donale eterno riposo.

VIII Speciale scuola di vita

Un giorno, Giovanni Paolo II disse a un suo amico


giornalista
francese, Andre Frossard: ŤLa morte di mia madre č
sempre
profondamente scolpita nella mia menteť.
Il dolore per quella perdita fu, quindi, enorme. La morte,
passandogli accanto, lo aveva spaventato. Anzi, lo aveva
sconvolto.
Lolek aveva solo nove anni e, come č facile capire, a
quell'etŕ non
si riesce a ragionare sulla morte della propria mamma.
Quella tragedia aveva letteralmente frastornato il suo
animo e la sua
mente in modo tale da cancellare i ricordi, da offuscare le
immagini,
portando un malessere diffuso, indistinto, come una
malattia di
fondo.
Protetto da due mamme invisibili
Situazione fisica e psicologica assai pericolosa in un
bambino, che
avrebbe potuto provocare danni rilevanti nel suo
carattere.
Tutti gli psicologi, i pedagoghi, gli educatori sono
d'accordo nel
sostenere che i bambini, per crescere bene, hanno un
bisogno
essenziale della presenza materna. Nessun'altra persona
č in grado di
sostituire la mamma.
E la mancanza della madre, negli anni della fanciullezza
e della
prima adolescenza, potrebbe risultare deleteria per la
formazione del
futuro uomo, creando soprattutto squilibri affettivi ed
emotivi. Se
poi questa mancanza si verifica attraverso
una tragedia, una morte improvvisa, il trauma potrebbe
essere
insanabile.
Il rischio di simili conseguenze era evidente anche per il
piccolo
Lolek. Se ne accorsero gli insegnanti, i vicini di casa, i
parenti.
Dopo la morte della mamma, Karol junior appariva
profondamente
cambiato. Era caduto in una specie di depressione:
parlava poco, non
rendeva a scuola, non amava giocare.
E il Nemico, quel Qualcuno che conosceva la missione
segreta cui
Wojtyla era chiamato, cercň di sfruttare appieno la
situazione per
impedire che quella missione venisse compiuta.
Quello stato di cose era ideale per sferrare un nuovo
attacco. Questa
volta, un attacco psicologico. Bisognava compromettere
l'equilibrio
emotivo del bambino, cercando di fargli perdere la fiducia
in se
stesso, negli altri, in Dio. Doveva diventare un bambino
chiuso,
solitario, triste, pessimista. Le conseguenze caratteriali
poi, in etŕ
adulta, avrebbero proliferato spontaneamente.
Ma, oltre al terribile Nemico, su Lolek vegliava anche la
Madre
Celeste. E ora vegliava su di lui anche la sua mamma
terrena, la
signora Emilia, che, trovandosi nella dimensione dello
spirito, aveva
una conoscenza perfetta della situazione.
Possiamo immaginare che le due mamme abbiano
lavorato insieme,
suggerendo al papŕ, al capitano Wojtyla, le decisioni
giuste da
prendere per il piccolo.
Il capitano era un uomo riservato. Educato alla dura
disciplina
militare, non manifestava con facilitŕ i propri sentimenti. Il
dolore
per la perdita della moglie era stato cosě forte che in
poche
settimane i suoi capelli erano diventati completamente
bianchi. Ma
capě subito che non poteva pensare a se stesso, doveva
preoccuparsi
per i figli, soprattutto per il piů piccolo.
Pellegrini a Kalwaria
Per prima cosa, cercň aiuto nella preghiera. Decise di
fare un
pellegrinaggio con i due figli al santuario mariano di
Kalwaria
Zebrzydowska, dove si venera la Madonna protettrice
della Polonia.
E' il santuario polacco per eccellenza, il centro piů sacro
della
Polonia. Una specie di Gerusalemme polacca. Si trova
sulle pendici
dei monti Beschidi, a una decina di chilometri da
Wadowice, sulla
strada per Cracovia, ed č carico di un potente
simbolismo.
E' costituito da una basilica, dedicata alla Santa Croce,
costruita
nel 1658 sulle pendici dei monti Beschidi dai monaci
cistercensi, e
da altre quarantasei cappelle, sparse nei campi e nei
boschi,
collegate tra di loro da strade.
Ventiquattro di quelle cappelle riguardano Gesů, sono
dedicate alle
varie fasi della sua vita terrena e della sua Passione;
ventuno,
invece, sono dedicate alla Madonna, alle fasi della sua
vita terrena.
Le due vie, la Via di Nostro Signore e la Via di Nostra
Signora, si
sviluppano nel vasto territorio, ognuna per proprio conto,
ma a un
certo momento si incrociano e in quel punto sorge una
cappella piů
grande, dedicata all'Assunzione in cielo della Madonna,
per
significare che solo attraverso lei si raggiunge il Regno
promesso da
Gesů.
In quel luogo, a ogni primavera, si ripete la sacra
rappresentazione
della passione di Cristo, e, in agosto, quella della morte e
Assunzione in cielo della Vergine Santissima.
Alla vigilia dell'Assunzione, il 14 agosto, decine di migliaia
di
pellegrini accompagnano la Vergine al sepolcro. La
veglianl tutta la
notte fra canti e preghiere, e il giorno dopo celebrano il
suo
trionfo sulla morte e la sua Assunzione in cielo.
Ogni famiglia polacca va in pellegrinaggio almeno una
volta l'anno
al santuario di Kalwaria. E certamente vi era giŕ stato
diverse volte
anche il piccolo Lolek insieme ai suoi genitori.
Giovanni Paolo II lo ha esplicitamente ricordato durante il
suo primo
viaggio in Polonia, dopo l'elezione a Pontefice. Volle far
tappa a
Kalwaria e, parlando da quel santuario, disse: ŤNon so
come devo
ringraziare la Provvidenza divina, perché posso ancora
una volta
visitare questo posto, Kalwaria
Zebrzydowska, santuario della Madre di Dio. Ho visitato
questo
santuario varie volte, cominciando dall'etŕ della mia
infanzia e
adolescenza. L'ho visitato particolarmente spesso come
arcivescovo di
Cracovia e come cardinale. Venivamo qui con i sacerdoti,
concelebrando
la Messa davanti alla Madre di Dioť.
Subito dopo la morte della moglie, il capitano Wojtyla
volle portare i
figli in quel luogo sacro in modo che potessero riflettere,
meditare e
trovare nella fede la forza per superare il loro grandissimo
dolore.
Sentiva che non era in grado di spiegare, con le proprie
parole,
tutti i significati della tragedia che si era abbattuta sulla
loro
famiglia. Non era sufficiente piangere per quanto era
accaduto,
bisognava anche sperare, capire la realtŕ invisibile. Ed
egli pensň
che, con la preghiera, proprio in quel luogo sacro, forse le
sue
parole avrebbero acquistato forza, luce, sarebbero state
capaci di
trasmettere ai figli la veritŕ del mistero spirituale in cui
credeva,
ma che non riusciva a raccontare nella sua pienezza.
Per dodici anni alla scuola del capitano
La vita doveva andare avanti, nonostante tutto. Edmund
si recň a
Cracovia per riprendere gli studi di medicina all'universitŕ.
Lolek
riprese a frequentare le lezioni della terza elementare a
Wadowice.
Il capitano stava chiuso in casa per svolgere, ora, anche i
compiti
che prima erano riservati a sua moglie.
Avrebbe potuto riprendere moglie, per dare una mamma
al piccolo
Lolek. Era consuetudine, allora, che un uomo rimasto
vedovo si
risposasse. Lo avevano fatto anche suo suocero, il padre
di Emilia, e
suo cognato, Jozef Kuczmierczyk.
Probabilmente, il capitano prese in considerazione anche
questa
possibilitŕ, ma la scartň. Nessuno poteva prendere il
posto di Emilia
nella sua casa.
E poi, intuiva che Lolek era un bambino speciale. I
genitori hanno di
queste intuizioni e non si sbagliano. Lolek doveva essere
cresciuto
con tutti i riguardi possibili. Il capitano perciň decise che si
sarebbe dedicato lui stesso al figlio. Per Lolek sarebbe
stato papŕ e
anche mamma. Nessuno avrebbe potuto
aiutare quel bambino, capirlo, guidarlo come avrebbe
potuto fare lui.
Si rimboccň le maniche, soffocň nel profondo del cuore il
grande
dolore, e, com'era sua abitudine, preparň un piano,
organizzň la
propria vita con regole precise, pianificň le sue giornate e
quelle
di Lolek. Per dodici anni, dal 1929 al 1941, Karol Wojtyla
senior fu,
per Lolek, padre, mamma, amico, maestro, esempio,
modello e compagno
di giochi. I due divennero inseparabili.
Ciň che il capitano fece concretamente per il proprio
figlio, non lo
si saprŕ mai. Le testimonianze di coloro che hanno potuto
vedere,
sono meravigliose.
Per la gente che non lo conosceva, quell'ex ufficiale in
pensione
poteva sembrare un po' strano. La sua vita era
riservatissima. Non
parlava quasi mai con nessuno. Non usciva quasi mai di
casa. Ma chi
lo conosceva bene capiva che egli stava sacrificando
ogni attimo
della sua esistenza per far crescere bene il piccolo Lolek.
Con il figlio aveva costituito una specie di comunitŕ
religiosa,
guidata da un orario ferreo, militare. Sveglia alle sei,
colazione,
Messa in parrocchia. Poi, Lolek andava a scuola e Karol
provvedeva a
riassettare la casa, a fare il bucato, a rammendare i vestiti
ea
cucinare. Nel pomeriggio, dopo pranzo, Lolek poteva
dedicarsi per due
ore a giocare con gli amici, quindi studiava con il padre.
Verso
sera, andavano di nuovo in chiesa insieme, cenavano,
facevano una
breve passeggiata e andavano a dormire.
A volte, soprattutto nelle sere invernali, quando non era
possibile
passeggiare all'aperto, se ne stavano in casa impegnati in
lunghe
discussioni. Il capitano parlava di storia della Polonia, di
letteratura, leggeva al figlio poesie e le commentavano
insieme.
Karol senior insegnň al piccolo Lolek la lingua tedesca e
per lui
confezionň un vocabolario polacco-tedesco. Gliela
insegnň cosě bene
che, qualche anno dopo, quando frequentava il liceo,
Karol junior potč leggere la Critica della ragion pura di
Kant nella lingua originale, lasciando
i compagni e anche i professori a bocca aperta.
Tutti i giorni lo stesso orario. Solo alla domenica
pranzavano insieme in una trattoria, e poi
andavano a fare una lunga passeggiata lungo il fiume
Skawa.
Ma tutto questo avveniva in un'atmosfera di profonda
serenitŕ, di meravigliosa comprensione, di
perfetto scambio affettivo. Le loro giornate non erano mai
noiose, tristi, malinconiche. Il
capitano era un uomo molto attento, generoso, altruista, e
sapeva adattarsi alle esigenze del
figlio. Parlava sě di storia e di letteratura, ma anche di
sport, di musica, di divertimenti.
Spesso padre e figlio andavano al cinema insieme, cosa
che piaceva moltissimo a Lolek. Giocavano
assieme. Zbigniew Sitkowski, un suo coetaneo, raccontň
che, a volte, recandosi a far visita
all'amico, sentiva un gran fracasso nella casa, con grida e
passi di corsa. Entrando, trovava
padre e figlio zuppi di sudore, intenti a giocare, nel
piccolo soggiorno, con un pallone di
stracci.
Neppure un momento della giornata andava perduto.
Karol aiutava Lolek nei compiti, approfondiva
con lui i libri di testo, le materie scolastiche.
Era per il figlio anche un impareggiabile maestro di vita
spirituale. I compagni di scuola di
Lolek affermarono che, spesso, andando in chiesa,
vedevano i due Wojtyla, padre e figlio,
inginocchiati l'uno accanto all'altro, immersi nella
preghiera. E anche questi gesti erano di una
spontaneitŕ commovente.
Il Papa, nei suoi ricordi, pur conservando quella estrema
riservatezza che lo ha caratterizzato
per le cose della famiglia, ha lasciato scritte parole che
sono un autentico monumento per il
suo papŕ.
Nel suo libro autobiografico Dono e mistero afferma: "La
mia riconoscenza va soprattutto a mio
padre, rimasto precocemente vedovo. Era un uomo
profondamente religioso. Potevo quotidianamente
osservare la sua vita, che era austera. Di professione era
militare e quando restň vedovo, la
sua divenne una vita di preghiera costante. Mi capitava di
svegliarmi di
notte e di trovare mio padre in ginocchio, cosě come in
ginocchio lo vedevo sempre nella chiesa
parrocchiale. Tra noi non si parlava di vocazione al
sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in
qualche modo il primo seminario, una sorta di seminario
domestico".
All'amico Andre Frossard, confidň: ŤMio padre era una
persona meravigliosa e quasi tutti i miei
ricordi dell'infanzia sono legati a lui. I fatti dolorosi, che lo
hanno colpito, hanno aperto in
lui immense profonditŕ d'animo. Tutti i suoi pensieri e
grattacapi si trasformavano nella
preghiera. Lo vedevo spesso inginocchiato a pregare.
Tutto ciň ha avuto una decisiva influenza
sulla mia gioventů. Era cosě esigente con se stesso che
non doveva per niente esserlo nei
confronti di suo figlio. Il suo esempio bastava per
insegnare la disciplina e il senso del
dovere. Era una persona eccezionaleť.
Sulle spalle di Edmund
Insieme a suo padre, Lolek ebbe, come valido esempio,
sostegno e educatore, il fratello
maggiore.
Edmund era sempre stato vicino al piccolo Lolek, anche
quando era viva la mamma. A causa dei
suoi malanni fisici, la signora Emilia non poteva sollevare
pesi, fare sforzi fisici, e quindi,
quando c'era da spingere la carrozzella con il neonato
Edmund si faceva sempre avanti.
Dopo la morte della mamma, anche Edmund si rese
conto delle difficoltŕ psicologiche che il
fratellino stava attraversando. Lo prese sotto la propria
protezione. Divenne il suo compagno
ideale. Se il papŕ si era fatto anche mamma di Lolek,
Edmund gli divenne amico, esempio, guida.
Quando tornava dall'universitŕ, invece di pensare a se
stesso, agli amici, alle ragazze, ai
divertimenti, dedicava tutto il suo tempo a Lolek.
Alla morte della mamma, Edmund aveva ventitré anni ed
era studente universitario di medicina.
Tutte le persone che lo conobbero bene, sono concordi
nel descriverlo come un ragazzo sano,
intelligentissimo, forte, equilibrato, obbediente e molto
religioso.
Un testimone di quegli anni lo descrive come un
giovanotto robusto e pieno di energia, con gli
occhi azzurri, i capelli biondi, un aspetto da atleta. Serio,
estroverso, educato, affascinante,
sportivo, amante del tennis, del calcio, del bridge e degli
scacchi.
ŤEdmund somigliava molto al suo papŕť raccontň la
vicina di casa Maria Janina Ťperň era piů
robusto, piů maschile. Aveva occhi pensosi, era molto
calmo ed equilibrato. Aveva un modo di fare
irreprensibile.ť
Lolek adorava il fratello maggiore. Lo considerava il suo
idolo, l'esempio da imitare. Da grande,
voleva diventare proprio come lui.
I vicini di casa raccontavano che, quando Edmund
tornava da Cracovia per le vacanze, i due
diventavano inseparabili. Giocava a calcio con il fratellino,
lo portava in giro per la campagna
tenendolo cavalcioni sulle spalle. Fu lui che gli trasmise
l'entusiasmo per la vita all'aria
aperta, l'amore per la natura e anche la passione per la
montagna e per gli sci.
Con l'aiuto del fratello e del padre, Lolek ricominciň a
crescere bene e a poco a poco riuscě a
superare lo smarrimento provocato dalla morte della
mamma. Riprese fiducia in se stesso e nella
vita. Non dimenticň la mamma, ma riuscě a vincere la
depressione in cui era caduto subito dopo la
sua scomparsa.
L'amore e la sollecitudine di cui era circondato avevano
neutralizzato il pericolo che potesse
risentire psicologicamente della mancanza della madre.
Il dolore persistette sempre, rimanendo grandissimo. Un
giorno, quando era cardinale, parlando con
il suo amico, il giornalista francese Frossard, disse: ŤI
ragazzi cresciuti dal padre si
accorgono con dispiacere di essere stati privati della
mammať. Anche lui, quindi, si era accorto
perfettamente di quella mancanza.
L'assenza della madre, perň, lo aiutň molto a prendere
coscienza, a poco a poco, della presenza
della Madonna nella vita delle persone. Era ancora molto
piccolo, ma non ci sono limiti di tempo
per le comunicazioni tra madre e figlio, anche tra la
Madre Celeste e i suoi figli in questo
mondo. E giŕ fin da quell'etŕ egli cominciň a coltivare con
particolare cura la devozione alla
Madonna.
Inoltre, la mancanza della madre, e le lunghe riflessioni
che fece sulla sua condizione, lo
aiutarono a sviluppare una particolare sensibilitŕ per i
problemi delle donne, delle madri,
della maternitŕ, della vita.
I biografi di Karol Wojtyla si sono soffermati parecchio su
questo fatto.
Alcuni hanno messo in evidenza come egli, da Papa,
abbia dato grande importanza nel suo
magistero alle donne e ai loro problemi. Probabilmente lo
ha fatto pensando proprio a sua madre.
Il ruolo delle donne, e in particolare la loro dedizione alla
maternitŕ, sono stati uno dei temi
pastorali principali dell'insegnamento di Giovanni Paolo II.
La sua opposizione all'aborto, la
determinazione nel voler proteggere i bambini non ancora
nati, l'esaltazione delle madri che
muoiono nel dare alla luce un figlio o una figlia, hanno
senz'altro legami con la propria
esperienza, con il ricordo della madre che ha sacrificato
la propria vita perché il figlio
potesse venire al mondo e vivere.
Ogni volta che esalta le madri che muoiono per dare alla
luce un figlio, nelle sue parole č
possibile cogliere l'eco della tragedia che ha segnato la
sua stessa vita.
Fu lui a voler beatificare, nel 1995, e poi a proclamare
santa, nel 2003, Gianna Beretta Molla,
pediatra, che in un certo senso aveva affrontato una
vicenda simile a quella di sua madre.
Mentre era incinta del quarto figlio, Gianna Beretta fu
colpita da tumore, ma scelse di portare
a termine la gravidanza piuttosto di ricorrere all'aborto
che avrebbe forse potuto salvarle la
vita. E' stato notato che, parlando della vicenda della
dottoressa Beretta Molla, a Giovanni
Paolo II si arrossavano gli occhi e tremava la voce.
Un colpo mortale
Il magnifico lavoro educativo compiuto dal capitano e da
Edmund aveva portato grande luce e forza
nel piccolo Lolek. Egli ora cresceva bene e sano. Tutto
questo, perň, non piaceva al Nemico, che
aveva sperato di servirsi della morte della mamma per
sconvolgere la mente del ragazzo, in modo da
rendere precaria la grande missione cui era chiamato.
Vedendosi sconfitto, cercň di colpire duro.
Spesso, soprattutto nei giorni festivi, il capitano andava a
pranzo con il figlio in una
trattoria vicino a casa. Era amico del proprietario, il signor
Alojzy Banas, e di sua moglie
Maria, e Lolek giocava col il loro figlio, Bogusraw, che
aveva solo qualche anno piů di lui.
Finito il pranzo, il capitano si fermava a chiacchierare con
i proprietari del locale e i due
ragazzi giocavano insieme.
Un giorno accadde un fatto gravissimo che poteva finire
in tragedia.
Il poliziotto del quartiere, quando smontava dal servizio,
era solito andare a bere qualche
bicchiere in quella trattoria. Si intratteneva a volte a lungo
e, quando si accorgeva di avere
bevuto troppo, prima di uscire chiedeva ad Alojzy di
custodirgli la pistola perché, sapendo di
essere un po' brillo, temeva di usarla magari a sproposito.
Il signor Banas sorrideva e poneva la
rivoltella nel cassetto, dove teneva i soldi. Il giorno dopo il
poliziotto veniva a riprendersela.
In genere, prima di consegnargliela toglieva le pallottole e
l'arma era cosě scarica.
Quell'arma esercitava un fascino misterioso su Bogusraw
Banas. Gli piaceva guardarla, toccarla,
prenderla in mano, anche se doveva farlo di nascosto
perché i suoi genitori piů volte gli avevano
detto che non doveva assolutamente avvicinarsi a
quell'oggetto.
Una domenica pomeriggio, dopo che il poliziotto aveva
consegnato l'arma, approfittando del fatto
che nella trattoria non c'era nessuno, Bogusraw volle far
vedere la pistola al suo amichetto,
Karol Wojtyla. I due entrarono furtivi nella trattoria.
Bogusraw si avviň sicuro verso il cassetto
dove sapeva che
si trovava la rivoltella e, raggiante e orgoglioso, la prese
per mostrarla all'amico.
Volle fargli vedere che era anche capace di farla
funzionare. Sapendo che era sempre scarica,
puntň l'arma contro Karol: "Mani in alto o sparo", disse
sorridente e premette il grilletto. La
rivoltella aveva il colpo in canna. Una potente
deflagrazione lacerň l'aria. Accorsero i genitori
di Bogusraw, il padre di Karol, le altre persone che
stavano chiacchierando fuori dalla
trattoria. I due ragazzi erano pallidi come cadaveri. Il
proiettile aveva sfiorato la testa di
Lolek ed era andato a conficcarsi nel muro. Il colpo era
stato sparato da un metro di distanza e
tutti si convinsero che solo un miracolo aveva impedito
che colpisse il bersaglio.

IX Edmund, medico ed eroe


Il 1930 fu un anno molto importante per Lolek. A maggio
compě dieci anni, a giugno fině le scuole
elementari e venne ammesso al ginnasio con il massimo
dei voti. Il mese successivo faceva il suo
primo viaggio a Cracovia. Accompagnato dal padre,
andava all'universitŕ per assistere alla
cerimonia di laurea di Edmund, che diventava cosě
medico.
Quel viaggio fu pieno di suggestioni straordinarie per
Lolek. Ammirň con soggezione l'austero
edificio dell'antico Collegium Majus, dove si trovava la
facoltŕ di Medicina.
Assistette alla solenne cerimonia con orgoglio. Gli occhi
fissi sul fratello, sui professori, nel
loro caratteristico abito accademico. Si commosse
quando tutti i presenti, professori, compagni di
corso, parenti, applaudirono con entusiasmo sentendo
che al giovane Wojtyla veniva conferita la
menzione d'onore: magna cum laude.
Anche il capitano aveva le lacrime agli occhi. Pensava
forse a quanto sarebbe stata felice sua
moglie, la signora Emilia, che piů di ogni altro aveva
insistito perché suo figlio potesse
frequentare l'universitŕ. Quel traguardo, raggiunto con tale
onore, era una grande soddisfazione
per tutta la famiglia.
Ed era anche un ottimo investimento per il futuro. Con un
figlio medico, il capitano, pensionato
con uno stipendio da fame, poteva guardare all'avvenire
con una certa tranquillitŕ. Suo figlio
medico poteva agevolmente permettersi di provvedere a
lui, quando sarebbe diventato vecchio, e
anche all'avvenire del piccolo Lolek.
Il Nemico non dorme
Nel 1930, Lolek iniziň anche a fare il chierichetto. Sempre
in quell'anno, a Wadowice arrivň un
giovane sacerdote, padre Kazimierz Figlewicz, che aveva
la responsabilitŕ dei chierichetti e
insegnava catechismo alle scuole medie. Fu quindi molto
vicino a Lolek, sia come assistente sia
come insegnante di religione. Anzi, padre Kazimierz
Figlewicz divenne il confessore e il
direttore spirituale di Lolek e continuň a esserlo per molti
anni, fino a quando Karol non
divenne sacerdote.
Ricordando quegli anni a Wadowice, padre Kazimierz
Figlewicz lasciň scritto: "Giovane sacerdote,
mi trovavo nella parrocchia a Wadowice quale vicario.
Nell'anno 1930 ho insegnato religione nel
ginnasio. Mi sono trovato a insegnare nella prima classe,
e da qui č cominciata la mia lunga
conoscenza con l'allievo Karol Wojtyla. A dieci anni, Karol
era un ragazzo abbastanza alto ma
piuttosto grassottello, un ragazzo vivace, svelto,
intelligente e buono. Come carattere era un
ottimista, perň, osservandolo con attenzione, si notava
l'ombra della tristezza dovuta
all'immatura morte della madre, scomparsa da appena un
anno. Notai anche che era leale nei
confronti dei suoi compagni di classe e con i professori,
non aveva conflitti di nessun genere,
studiava con profitto".
Il dottor Edmund Wojtyla aveva un grande ideale:
dedicarsi ai sofferenti non solo per dovere
professionale ma anche per vocazione cristiana come gli
aveva insegnato la madre.
Si era laureato con una tesi dal titolo "Gli effetti e le
conseguenze della malattia alle
coronarie" e per questo scelse di continuare gli studi per
specializzarsi in cardiologia. Questo
avrebbe comportato ancora qualche anno di sacrifici, ma
poi egli avrebbe potuto essere un medico
di grande prestigio.
Frequentň dei corsi presso la clinica pediatrica di
Cracovia, poi entrň come interno
all'ospedale di Bielsko, nella Slesia, assistente in
cardiologia.
Non aveva molto tempo libero, anche perché era un
medico che lavorava con passione e si dedicava
agli ammalati senza
orario. Ma i rapporti con la famiglia divennero egualmente
piů frequenti. Quando poteva, Edmund
raggiungeva Wadowice per stare con il padre e il fratello,
e Lolek, accompagnato dal padre, andava
spesso a trovare Edmund in ospedale.
Tutto procedeva bene. La famiglia Wojtyla stava
superando il dolore per la perdita di Emilia.
Edmund era l'orgoglio dell'ospedale di Bielsko. Lolek, il
migliore degli allievi del ginnasio
statale maschile Marcin Wadowita di Wadowice.
Il capitano seguiva, nella riservatezza e nel silenzio, quei
due figli meravigliosi che gli
stavano dando tante soddisfazioni. Se ne stava in
disparte, cercava di aiutarli adempiendo a tutte
quelle mansioni umili ma necessarie in una casa, che in
genere sono affidate alla madre. E
soprattutto pregava, per ringraziare il Signore di quei
doni, di quella serenitŕ.
Ringhiava invece il Nemico, il Maligno che, conoscendo
la missione riservata dal Cielo a Karol
Wojtyla, voleva impedire che questi la potesse compiere.
La rabbia del Maligno colpiva alla cieca.
Aveva giŕ attentato alla vita di Lolek. Ora gli stava
preparando un altro grande dolore.
A qualcuno potrebbe sembrare eccessiva questa nostra
insistenza nel voler vedere la presenza di
Satana in ogni disavventura legata alla vita di Karol
Wojtyla. Ricordiamo che il Maligno, che Gesů
chiama "omicida fin dall'inizio", tentň perfino di distogliere
Gesů stesso dalla missione
affidatagli dal Padre.
Certo, la potenza di Satana non č infinita. La teologia
insegna che il "principe del Male" č una
creatura, quindi un essere limitato. E' potente perché č
"puro spirito", ma resta pur sempre una
creatura. Come si legge nel catechismo della Chiesa
cattolica, la "sua azione č in grado di
causare gravi danni di natura spirituale e indirettamente
anche di natura fisica per ogni uomo e
per la societŕ", ma questa azione ha dei limiti che
vengono stabiliti da Dio.
Si legge ancora nel catechismo della Chiesa cattolica che
l'azione di Satana "č permessa dalla
divina Provvidenza, la quale guida la storia dell'uomo e
del mondo con forza e dolcezza.
La permissione divina dell'attivitŕ diabolica č un grande
mistero, ma 'noi sappiamo che tutto
concorre al bene di coloro che amano Dio' (Rm 8,28)".
ŤTuo fratello sta morendoť
Alla fine di novembre del 1932, nell'ospedale di Bielsko fu
ricoverata una ragazza di nome Anna.
Aveva ventun anni ed era stata colpita da scarlattina
settica.
Una malattia infettiva, che viene trasmessa da ammalato
o da portatore sano. A quei tempi era
una malattia mortale, perché non esistevano gli
antibiotici. Ogni ospedale aveva un reparto
riservato per questi casi, in locali isolati, dove l'assistenza
medica era pressoché
inesistente, affidata a qualche persona caritatevole.
Quando Anna venne ricoverata all'ospedale di Bielsko, si
verificň la normale procedura. Fu messa
in isolamento e praticamente abbandonata. Nessun
medico, conoscendo bene quanto fosse pericoloso
il contagio, volle prendersi cura di lei. Farlo, significava
rischiare la vita. Tutti perciň se
ne stavano alla larga, affidando le cure indispensabili a
qualche infermiere.
Il dottor Edmund Wojtyla trovň quell'atteggiamento
ingiusto. Riteneva assurdo che si
abbandonasse un ammalato a se stesso, in balia di dolori
atroci, solo per paura del contagio, e
si offrě volontario per assistere la ragazza.
Conosceva bene il rischio gravissimo cui andava
incontro. Sapeva anche che, verso quella
ragazza, non aveva obblighi professionali perché non era
una sua paziente e non faceva parte del
reparto di cardiologia dove lavorava. Ma riteneva suo
dovere di medico, un dovere dettato
soprattutto da un grande altruismo e dalla coscienza
cristiana, non abbandonare un ammalato
gravissimo.
Dalle testimonianze pubblicate dai giornali di allora, si
ricava che il dottor Edmund Wojtyla
assistette quella ragazza con grandissimo impegno,
tentando in tutti i modi di strapparla alla
morte.
Rimase accanto a lei giorno e notte, anche dopo che si
era
reso conto che non c'era piů niente da fare. Rimase lě per
confortarla,
per impedirle che si spaventasse di fronte al grande
passo estremo.
E venne contagiato. Quando se ne accorse, era troppo
tardi. La malattia
fu inesorabile.
Ancora una volta, Lolek, tornando da scuola, trovň
qualcuno con il volto
funereo che gli disse a bruciapelo che suo fratello stava
per morire.
Ancora una volta, vide il papŕ con gli occhi rossi di pianto
e il viso
sconvolto, che gli disse: ŤPreparati, dobbiamo andare da
tuo fratello
che sta maleť.
Insieme partirono per l'ospedale di Bielsko. Un viaggio
silenzioso e
dolorosissimo, e lě si trovarono di fronte alla tragedia piů
inattesa
che potessero immaginare.
Edmund, quel giovane robusto, sano, sempre sorridente,
generoso, che
tutti invidiavano, stava morendo. Una terribile malattia lo
aveva
colpito e lo stava distruggendo con dolori atroci. I suoi
colleghi
medici si davano da fare, ma il male era inarrestabile.
Il capitano e Lolek non potevano avvicinare il loro caro,
parlargli,
consolarlo, perché c'era il pericolo di contagio. Per tre
giorni, Edmund
rimase in agonia, un'agonia atroce. Per tre giorni il
capitano e Lolek
restarono fuori da quella camera di isolamento,
piangendo e senza
poter dare alcun conforto al loro caro. Edmund spirň la
sera del 4
dicembre 1932.
Commozione ed elogi
La morte del giovane medico fece una grande
impressione, come si
ricava dalle cronache del tempo.
Un giornale intitolň l'articolo che ricordava l'accaduto "La
morte di un
medico sul posto del lavoro". Un altro giornale, "Itaco",
molto
popolare, scrisse: "Il dottore Edmund Wojtyla č morto il 4
dicembre 1932
dopo una grave malattia durata solo quattro giorni: una
malattia
infettiva. Dieci giorni prima aveva passato la notte
accanto a una
paziente ammalata di scarlattina lottando contro la morte,
senza perň
riuscirci. Da lei č rimasto contagiato e condannato a
morte". E
poi, a seguire, un
lungo articolo biografico del dottor Wojtyla, ricordando la
sua
passione per la medicina e la sua affabilitŕ per ogni
ammalato. La
direzione dell'ospedale di Bielsko fece stampare un
manifesto che venne
affisso ai muri all'interno dell'ospedale e anche in giro per
la cittŕ:
"Dal giorno 4 dicembre 1932, alle ore 19, riposa nelle
braccia del
Signore, dopo aver ricevuto l'Olio Santo, offrendo la sua
giovane vita
per l'umanitŕ sofferente il dottor Edmund wojtyla, di
ventisei anni,
assistente all'ospedale comunale in Bielsko. Oppressi
dalla tristezza e
dal dolore per la scomparsa del caro collega e
amatissimo collaboratore,
preghiamo l'Altissimo per il suo riposo eterno".
I funerali si svolsero il 6 dicembre. La notizia della morte
del
giovane diffusa dai giornali, e soprattutto il modo in cui
era
avvenuto il decesso, avevano colpito e commosso la
popolazione di
Bielsko, e il rito funebre fu seguito da una grande folla.
Prima che la bara fosse calata nella terra, varie
personalitŕ presero
la parola.
Tra esse anche un collega di Edmund, il dottor Bruckner.
Il suo
discorso, pur in uno stile forse un po' retorico per il nostro
tempo,
fa capire ancora una volta chi era veramente questo
straordinario
giovane: ŤAnche se non eri un soldato che porta la morte
con arnese
assassino, sei un eroe. Sei un martire della tua giovane
etŕ, perché
sei caduto durante un combattimento con la morte. Ti ha
vinto, ti ha
stretto al suo gelido ventre, perché tu, caro collega, hai
osato
provare a strappare una ragazza giovane dai suoi artigli!
Sei partito
per sempre... Tu che da giovane sei passato per la dura
scuola della
vita, hai cominciato a lavorare e hai capito il detto di
Mickiewicz:
"Morite, miei canti, raccogliete ora i miei frutti". E'
avvenuto un
misterioso fatto grandioso, per il quale non la gente, ma
l'Onnipotente ti giudicherŕ. Nel combattimento con la
morte, contro la
grave malattia, in quella danza infernale con la morte, il
tuo sguardo
che si spegneva cercava aiuto da noi. Vedo sempre il tuo
viso
sofferente, sento le tue parole sussurrare fino all'ultimo
momento, con
le labbra bruciate dalla febbre: "Perché proprio io?"ť.
Il dottor Bruckner, che era stato uno dei medici che
avevano assistito
il collega, ricordava le ultime parole di Edmund:
"Signore, perché proprio io?". Parole drammatiche, che
facevano capire quanto grande fossero il
suo dolore e il suo sgomento.
Edmund aveva sofferto giŕ tanto nella sua vita. Si era
sacrificato con generositŕ e aveva grandi
ideali di altruismo da realizzare. Ma il Signore era venuto
a prenderlo, anche se aveva soltanto
ventisei anni, e Edmund non riusciva a capire. Quando
era in perfetta salute ripeteva spesso:
ŤLa vera preghiera č attendere che Dio venga quando e
come vuoleť. Stupenda frase, piena di
saggezza evangelica, ma in realtŕ, quando poi Dio arriva,
la morte si presenta, lo sgomento č
sempre immenso. Anche Gesů sulla croce aveva gridato:
ŤDio mio, perché mi hai abbandonato?ť.
Il 22 dicembre di quell'anno, la Giunta comunale della cittŕ
di Bielsko, in una riunione pubblica,
volle commemorare ufficialmente Edmund Wojtyla con un
discorso pronunciato dal borgomastro, il
dottor Kobiela.
Dopo aver ricordato la tragica fine del giovane medico e
averne tracciato un sintetico profilo
biografico e professionale, il borgomastro disse: ŤIl dottor
Wojtyla era sempre felice di portare
aiuto ai suoi malati non solo con la sua indubbia
sapienza, che cercava di approfondire studiando,
ma stando loro vicino come un amico, perciň era molto
amato e stimato. Con la morte prematura del
dottor Wojtyla, la societŕ di Bielsko ha perso un
bravissimo medico, dal quale poteva attendersi
molto. Della sua persona, del suo sacrificio sul lavoro,
delle sue doti, del suo meraviglioso
carattere, avremo un infinito ricordo. Lode al suo ricordo!
ť.
Un vuoto incolmabile
Il capitano Wojtyla e suo figlio Lolek seguirono con
commozione tutte le varie manifestazioni di
cordoglio che, anche se non servivano ad attutire il loro
dolore, erano pur sempre un segno di
grande stima e affetto.
A esequie concluse, vollero a loro volta esprimere un
pubblico ringraziamento attraverso un
comunicato sui giornali: "Ringraziamo vivamente per
l'aiuto e le premure avute, nonostante il
pericolo per la loro vita e salute, durante la malattia del
compianto congiunto dottor Edmund,
medico dell'ospedale cittadino a Bielsko, in Slesia, ed
esprimiamo dal profondo del cuore un
ringraziamento ai signori medici di questo ospedale: al
primario dottor Reinprecht; ai dottori
Reachow, Gross, Glasner, Bruckner; alle gentili
infermiere, sorelle caposala, Zuzanna, Kec.
Ringraziamo ancora per la partecipazione ai funerali del
compianto Edmund: il parroco Kasperlik,
il prefetto dottor Bochenski, il borgomastro dottor Kobiela,
i rappresentanti del consiglio
comunale di Bielsko, il direttore dottor Reinprecht, i
medici dottor Walach presidente del Circolo
polacco, dottor Popiolek presidente del coro polacco, le
infermiere, gli impiegati e funzionari
dell'ospedale, funzionari del pronto soccorso e tutti quelli
che hanno preso parte al funerale.
Ringraziamo per l'elogio funebre, pronunciato sulla tomba
di Edmund dal parroco Kasperlik, dal
dottor Bruckner e dal dottor Walach".
Quando tornarono nel loro appartamento a Wadowice,
Lolek e il capitano avevano il cuore straziato.
Tra le mura domestiche si abbracciarono forte,
abbandonandosi a un pianto dirotto. Erano trascorsi
solo tre anni dall'altra tragedia che aveva colpito la loro
famiglia, la morte della mamma. Ora
se n'era andato anche Edmund. La loro famiglia era stata
dimezzata. Solo la loro grande fede e la
preghiera riuscirono a impedire che quel dolore
diventasse disperazione.
Anche questo lutto lasciň un segno indelebile nel cuore
del piccolo Lolek. A scuola il ragazzo era
tornato a essere triste.
"Fui mandato a insegnare religione al ginnasio di
Wadowice nel dicembre 1932" scrisse padre
Zacher. "C'era un ragazzo con una faccia triste e
intelligente. Domandai allora agli altri chi
fosse. 'E' Lolek Wojtyla' mi risposero, e mi spiegarono
che era triste perché era appena morto il
suo unico fratello."
Da Papa, Karol Wojtyla, conversando con il suo amico, lo
scrittore francese Andre Frossard, gli
disse: ŤProbabilmente la morte di mio fratello mi colpě
piů di quella di mia madre, a causa delle
circostanze cosě particolari e cosě tragiche, e poi perché
ero piů grandeť.
Un cristiano esemplare
Edmund Wojtyla non fu solo un medico generoso e
credente, pronto ad aiutare il prossimo nel nome
di Dio. Era anche un medico impegnato sul piano sociale,
uno studioso dei problemi della povera
gente, che si batteva per trovare soluzioni piů giuste e piů
organizzate. Fu, infatti, un
antesignano della medicina sociale.
Dai giornali del tempo e dai discorsi ufficiali che vennero
pronunciati dalle autoritŕ alle sue
esequie, si ricava che Edmund Wojtyla faceva parte di un
movimento all'avanguardia per quei tempi.
Era impegnato in progetti di assistenza medica a favore
dei meno abbienti. Con altri amici si
stava, infatti, adoperando per far sorgere, nell'ospedale di
Bielsko, un reparto speciale per
l'assistenza medica a favore degli operai, dei poveri e dei
nullatenenti.
Era impegnato anche a diffondere le idee in cui credeva.
Scrivendo un articolo per una delle
pubblicazioni che si interessavano di questi argomenti,
aveva sintetizzato il suo pensiero in
questo modo: "La medicina sociale č una disciplina sorta
dall'esigenza di adottare, a difesa della
salute, provvidenze sociali integrative di quelle igienico-
sanitarie. Ciň implica la necessitŕ di
conoscere le reazioni dell'essere umano nell'ambiente
sociale.
"Ogni individuo, infatti, va considerato non a sé stante,
avulso dalla societŕ nella quale vive,
il che sarebbe una mera astrazione, ma come un essere
che dai fattori sociali (economici,
professionali, familiari, ereditari eccetera) riceve continui
stimoli materiali e psichici che
possono influire spiccatamente sulla sua salute e ai quali
egli deve adattarsi il piů serenamente
possibile.
"Pertanto, la medicina sociale studia i rapporti fra la
salute e l'ambiente sociale e,
praticamente, si occupa dei mezzi, tanto individuali
quanto collettivi, per prevenire gli effetti
sfavorevoli dell'ambiente sociale sulla salute, e per
sviluppare quelli favorevoli, e ciň a
qualunque classe gli individui appartengano. In ultima
analisi, la medicina sociale compendia
tutti gli
studi e le opere d'indole profilattica, educativa,
assistenziale, di competenza del medico, e
anche le provvidenze di ordine politico, economico,
giuridico, che hanno bisogno del sussidio
delle cognizioni mediche per evolversi a beneficio della
sanitŕ pubblica".
Il dottor Edmund Wojtyla, per come visse e per come
morě, fu un cristiano esemplare. Una di
quelle persone che potrebbero essere elevate alla gloria
degli altari. Egli sacrificň la propria
vita per salvare una persona ammalata. Sapeva che
quella malattia era contagiosa. E la sua
scelta fu meditata, cosciente, libera, suggerita da quei
principi evangelici che avevano
ispirato sempre la sua esistenza.
Karol Wojtyla non dimenticň mai il gesto eroico di
Edmund.
Nel 1992, quando gli venne presentato un libretto in cui si
tracciava un profilo del dottor
Edmund Wojtyla e che aveva in copertina la fotografia
dell'eroico medico, Giovanni Paolo II si
portň subito alle labbra quell'immagine e la baciň con
trasporto.
Ha sempre conservato, in un cassetto della propria
scrivania, lo stetoscopio che apparteneva a
suo fratello: lo conservava come un tesoro prezioso.
Sono piccoli segni che dimostrano quanto
Giovanni Paolo II sia sempre stato attaccato alla memoria
di quel fratello morto eroicamente.

X Canti, balli e tanti sogni

Nel 1934, Karol Wojtyla, quattordicenne, scoprě


all'improvviso il teatro.
Giŕ da tempo conosceva la letteratura romantica polacca.
Suo padre, nelle lunghe serate fredde
degli inverni, gli leggeva opere intere di poesia, di
narrativa, e spesso insieme facevano lunghe
e infuocate discussioni per commentare, per capire, per
approfondire quei testi.
Attore di straordinario talento
Lo scrittore piů amato da Lolek era Henryk Sienkiewicz,
premio Nobel per la Letteratura nel 1905,
autore tra l'altro del famoso romanzo storico Quo vadis?,
commossa evocazione del cristianesimo
primitivo nella Roma di Nerone, al tempo cioč delle
persecuzioni.
Il capitano aveva letto al figlio per intero quel romanzo,
ma anche altre opere importanti di
Sienkiewicz, in particolare la celebre trilogia formata da
Col ferro e col fuoco, Il diluvio e
Il signor Wolodyjowski, vasto ciclo narrativo costruito sul
tormentato periodo di storia polacca
tra il 1648 e il 1673, al tempo cioč delle guerre cosacche,
dell'invasione svedese e delle guerre
contro la Turchia.
Lolek si entusiasmava e si commuoveva sentendo quelle
gloriose vicende incentrate sulla difesa
della fede e della patria.
Insieme alle opere di Sienkiewicz, il capitano introdusse il
figlio alla lettura delle opere
dei poeti-drammaturghi del movimento romantico
polacco, in special modo Adam Mickiewicz, poeta e
patriota, amico di Puskin; Juliusz Slowacki e Cyprian
Kamil Norwid, amico di Chopin.
Ancora adolescente, Lolek conosceva a memoria intere
opere di questi autori: Pati Tadeusz di
Mickiewicz, Kordian di Slowacki, Promethidion di Norwid,
e amava recitarle in casa o tra gli amici
che, come lui, erano appassionati di letteratura
romantica.
Ma nel 1934, la sua fervida intelligenza fu catturata dalle
rappresentazioni teatrali,
dall'azione drammatica che si svolge sul palcoscenico e
questa attenzione si trasformň di colpo
in una passione totale, assoluta, esaltante.
Va precisato che Wadowice godeva, in quegli anni, fama
di essere un centro culturale tra i piů
attivi della Polonia. Aveva importanti compagnie di teatro
con attori professionisti e altre
con attori dilettanti, che mettevano in scena opere di buon
livello, sia nei locali pubblici,
teatri e scuole, sia nelle chiese, negli oratori e perfino in
case private.
Lolek divenne un assiduo frequentatore di quegli
spettacoli. Andava a vederli con suo padre,
dopo aver letto e studiato in casa i testi che venivano
recitati. E ben presto si trovň
coinvolto personalmente nell'allestimento di quelle opere.
A Wadowice era consuetudine che le scuole avessero la
loro compagnia teatrale e periodicamente
mettessero in scena degli spettacoli.
Nel 1935, la scuola dove Lolek studiava, il liceo Martin
Wadowita, in collaborazione con il
liceo femminile Moscicka, allestě l'Antigone di Sofocle.
Lolek ne fu il protagonista, rivelandosi un attore dalle
grandi possibilitŕ, e da quel momento,
i suoi impegni sul palcoscenico si susseguirono
ininterrottamente, uno dopo l'altro, sempre piů
importanti, non solo con la compagnia della scuola, ma
anche con quelle di attori
professionisti, con quelle della sua chiesa.
Come attore, Lolek diventava sempre piů bravo. Aveva
una voce profonda, un modo di porgere
elegante e misurato, una capacitŕ innata di dare spessore
e senso ai testi come nessun altro. In
poco tempo divenne l'attore giovane piů conosciuto di
Wadowice.
La sua fama oltrepassň anche i confini della cittadina
natale e la compagnia di cui Lolek faceva
parte veniva chiamata a esibirsi in altri teatri, in altre cittŕ.
A Wadowice arrivavano personaggi
importanti, appartenenti al mondo del teatro nazionale,
per vedere e sentire Karol Wojtyla.
La sua passione per le rappresentazioni aumentava e si
allargava. Cominciň anche a curare la
regia, le scene, i testi delle opere che erano allestite.
Divenne il direttore del gruppo teatrale
della sua scuola.
La sua memoria era prodigiosa. Nella primavera del
1937, la compagnia di Wojtyla stava allestendo
Balladyna di Slowacki, un testo che l'autore aveva
ricavato mettendo insieme personaggi e
situazioni ripresi da antiche ballate polacche e da celebri
opere come Macbeth, Re Lear e Sogno di
una notte di mezza estate. Wojtyla interpretava la parte
del protagonista, Kirbor.
Due giorni prima di andare in scena, l'attore impegnato
nella parte di Kostryn, parte egualmente
molto importante, quasi quanto quella del protagonista, fu
costretto a gettare la spugna. Non era
possibile trovare, nello spazio di ventiquattr'ore, un
sostituto. Dopo tanto lavoro, tante
fatiche, lo spettacolo non poteva essere rappresentato e
tutti i componenti la compagnia erano
molto delusi e addolorati, ma Karol salvň la situazione.
ŤNel testo Kostryn entra in scena dopo che Kirbor, la mia
parte, č morto. Quindi posso fare
anche la parte di Kostrynť disse ai suoi compagni.
ŤMa come farai a impararla in ventiquattr'ore?ť chiesero
costernati i suoi compagni.
ŤLa conosco giŕť rispose. ŤL'ho imparata assistendo alle
prove.ť
Lo spettacolo andň in scena regolarmente. Karol si esibě
in due ruoli diversi, ottenendo un
successo strepitoso e la sua fama di attore andň alle
stelle.
La passione per il ballo
Non era solo il teatro ad appassionare Karol in quegli
anni. Egli era attratto da tutto quello
che poteva in qualche modo richiamarsi all'arte, alla
bellezza, alla poesia, alla musica.
Aveva un animo romantico, appassionato. Non era piů un
bambino, si era fatto grande, era
diventato un giovanotto, alto, robusto, sano, pieno di
energie. Sentiva la vita pulsare dentro
di sé, mille idee gli frullavano per la testa. Aveva superato
le tristezze provocate dalle
disgrazie familiari e si abbandonava alla vita che gli
sorrideva. I vicini di casa raccontarono
in seguito che lo sentivano spesso cantare in casa e
mentre usciva frettoloso per andare alle
prove teatrali.
Il suo impegno scolastico era sempre al massimo. I
risultati in classe lo vedevano costantemente
al primo posto, ma non era il classico secchione, solitario,
triste, chiuso in se stesso e
sempre chino sui libri.
Era un giovane dotato di una straordinaria intelligenza
tanto che, un giorno, uno dei suoi
professori ebbe a dire: ŤDi tutti i miei allievi, Karol č il piů
prossimo al genioť. Ma era
anche un giovane con un'incredibile voglia di vivere, di
divertirsi, di fare, di giocare, di
cantare. Un giovane che sapeva comunicare con tutti,
che socializzava subito, al primo incontro.
Giocava a calcio nella squadra giovanile di Wadowice.
Giocava in porta, era cosě bravo che lo
chiamavano "Martyna", un calciatore popolare a quel
tempo. Faceva escursioni sulle montagne,
nuotava come un pesce nel fiume Skawa, scriveva
poesie, componeva canzoni, ed era un formidabile
ballerino.
In Polonia, allora, il ballo era una passione popolare. Era
largamente diffusa la grande
tradizione austroasburgica, amante della musica classica,
dei walzer straussiani, delle mazurke,
delle polonaise, ma anche dei "riti" con cui si svolgono le
serate danzanti.
Karol aveva seguito un corso per imparare le regole
tradizionali: come si invita una ragazza al
ballo, come la si deve tenere tra le braccia, come la si
riporta al suo posto salutandola con un
inchino.
Questa atmosfera di cerimonie romantiche piaceva
moltissimo a Lolek ed
era diventato un ballerino elegantissimo. Frequentava le
feste da ballo,
al club e nelle case private, ottenendo anche lě il
successo che aveva
in teatro. Essendo poi famoso per la sua cultura, per la
sua
intelligenza, per la sua simpatia e per il suo fascino fisico,
era
considerato il re delle feste, e tutti lo invitavano.
Questa situazione, apparentemente innocente, simpatica,
affascinante,
nascondeva in realtŕ insidie pericolose. Soprattutto se si
tiene conto
della missione che era misteriosamente stata affidata a
Wojtyla ancora
prima della sua nascita.
Karol non era piů un bambino paffutello e sognatore. Era
diventato un
giovanotto con un eccezionale fisico da atleta. Un
ragazzo attraente,
dai lineamenti armoniosi, solidi, compatti. Aveva un fisico
mozzafiato,
che mandava in visibilio le sue coetanee. Ci sono
parecchie
testimonianze che documentano come, in quegli anni del
liceo, fosse il
giovane piů ammirato e desiderato dalle sue coetanee.
Anche a Wadowice, come in tutte le cittŕ di questo
mondo, i ragazzi e
le ragazze di quell'etŕ sentivano una forte attrazione gli
uni per le
altre.
Si frequentavano, organizzavano festicciole per stare
insieme, per
divertirsi, per bere, per fumare, per flirtare. Nascevano
amicizie,
relazioni, innamoramenti, fidanzamenti.
E l'attrazione fisica, il frequentarsi,
le festicciole, le gite portavano spesso alle prime
esperienze sessuali.
Anche a Wadowice, come in tutti i centri cattolici del
mondo, quelle
esperienze erano proibite, considerate peccaminose. Ma
anche a
Wadowice, come in tutto il mondo, quelle esperienze
erano assai diffuse
tra i giovani. Tenute segrete, ma assai diffuse.
In cittŕ c'era un luogo, chiamato "Viale dell'amore", dove i
ragazzi,
con il favore delle tenebre, portavano le loro fidanzatine
per
scambiarsi quelle affettuositŕ che avrebbero creato
scandalo se fossero
state scoperte.
Anche le festicciole in famiglia, le gite scolastiche erano
occasioni
ambite dai ragazzi e dalle ragazze proprio per avere
l'occasione di
flirtare.
Ignorare questo aspetto della vita dei giovani,
significherebbe chiudere
gli occhi su una delle realtŕ piů normali e certamente piů
diffuse.
Si potevano salvare da queste consuetudini i giovani
emarginati, coloro
che avevano problemi psicologici, complessi, che non
riuscivano a
socializzare. Spesso, questi individui si chiudono in loro
stessi, non
frequentano i compagni e finiscono per diventare
misantropi, pessimisti,
invidiosi e a volte anche cattivi. C'erano anche a
Wadowice ragazzi con
queste difficoltŕ, ma non era il caso di Karol Wojtyla.
C'erano certamente anche ragazzi e ragazze che
sceglievano la castitŕ,
la mortificazione per motivi religiosi. Giovani che volevano
intraprendere una vita ecclesiastica, la vita religiosa.
Questi se ne
stavano alla larga dalle feste, dalle gite, cioč fuggivano le
occasioni.
Karol Wojtyla apparteneva alla categoria dei giovani
allevati con severi
principi morali, con delle convinzioni religiose molto
sentite e
assimilate, ma non era il tipo che se ne stava chiuso in
casa, lontano
dai coetanei.
E non pensava neppure a diventare prete. Il suo sogno,
allora, era
quello di fare l'attore, il drammaturgo, il regista, e di
scrivere
poesie e drammi. Amava quindi il mondo dello spettacolo
e viveva immerso
in quel mondo.
Wojtyla era, perciň, molto esposto alle tentazioni e ai
pericoli. Era
il re delle feste, circondato da sollecitazioni sensuali,
affettive,
romantiche ed erotiche.
Karol ebbe una vera fidanzata?
Data questa situazione, il suo famoso Nemico, quello di
cui ogni tanto
parliamo in questo libro, gongolava.
Aveva il coltello per il manico. Stava preparando un
nuovo formidabile
attacco, questa volta attraverso l'illusione e il fascino dei
sensi,
della bellezza, dell'arte. Per il giovane Karol Wojtyla, data
l'inesperienza, il carattere e l'entusiasmo, quella
era forse l'insidia piů pericolosa, in quanto mascherata
con le cose piů belle che la vita possa
offrire.
Cadere in una simile trappola a sedici-diciotto anni era
perciň facile. Anzi, si potrebbe dire che
fosse quasi normale. Ci sono caduti grandi santi quali
sant'Agostino, san Francesco d'Assisi, che
furono negli anni giovanili i protagonisti delle feste e
dell'arte del loro tempo. Non ci sarebbe
stato niente di male se anche Karol Wojtyla, il re delle
feste e dello spettacolo di Wadowice,
avesse ceduto alle lusinghe da cui era avvolto.
Abbiamo detto che Lolek era affascinato dalle feste, dai
divertimenti, dal ballo, e non era
insensibile alla bellezza femminile.
Sentiva forte l'attrazione verso l'altro sesso. Perň riusciva
a ragionare con un equilibrio e una
coerenza ammirevoli, tenendo la sua passione per il
teatro e la sua gioia di vivere entro i
limiti consentiti dai principi morali e religiosi che aveva
assimilato e che erano l'ossatura
della sua filosofia di vita.
Se si fosse lasciato andare ai giochi erotici con qualcuna
delle ragazze che stravedevano per
lui, l'avrebbe usata, trattandola come un oggetto.
Sapeva bene che quella ragazza era invece una persona,
figlia di Dio, essere infinito. Sapeva
che non c'č amore piů grande per una ragazza del
rispetto, dell'attesa per capire se sia la
donna con cui si vuole condividere tutta la vita.
Principi straordinari, che Wojtyla ha sempre cercato di
diffondere nei suoi insegnamenti, nei
suoi libri e, da Papa, con i bellissimi discorsi alle folle dei
ragazzi di rutto il mondo in
occasione delle Giornate mondiali della gioventů.
Sono principi oggettivamente giusti che affascinano, ma
difficili da mettere in pratica.
Eppure, Karol Wojtyla ci riuscě.
Anche in questo campo ha sconfitto il suo implacabile
Nemico che pensava invece di avere partita
vinta e di riuscire finalmente a compromettere la grande
missione cui quel giovane era
destinato.
Quando Karol Wojtyla venne eletto Papa, nell'ottobre
1978, ero a Roma, inviato speciale del
giornale per cui allora lavoravo.
Passata la sorpresa iniziale dell'elezione di un pontefice
straniero, che fu grandissima,
cominciarono a circolare le prime indiscrezioni su chi
fosse quel Karol Wojtyla.
I polacchi presenti a Roma, sacerdoti e laici,
raccontavano come egli, oltre che cardinale di
Cracovia, fosse professore di filosofia, di teologia
all'Universitŕ di Lublino, e poeta e
drammaturgo molto apprezzato dai critici. Inoltre era un
appassionato sportivo, un nuotatore,
uno scalatore di montagne, un provetto sciatore.
Arrivavano dalla Polonia foto che lo ritraevano in
borghese sulle montagne insieme a gruppi di
ragazze e ragazzi, in calzoncini corti, canottiera, fisico
prorompente, muscoloso. Foto del
genere, riguardanti un ecclesiastico, un cardinale della
Santa Romana Chiesa, erano
assolutamente impensabili, allora, in Italia.
Quelle immagini andavano a ruba. Ce n'erano a
centinaia. I rotocalchi cominciarono a farne
incetta e a pubblicarle.
Ricordo che, nei giornali, si sceglievano quelle piů
credibili, quindi quelle meno
"scandalistiche", per citare il termine esatto con cui
venivano classificate, allora, nelle
redazioni dei giornali laici. Ma in pochi giorni quella marea
di foto sparirono, diventarono
preziose, per averle bisognava pagare milioni di vecchie
lire.
E subito nacquero morbose curiositŕ sulla vita privata di
quel Papa, cosě diverso da come
l'immaginario collettivo era abituato a pensare.
I giornalisti si scatenarono a scavare nella vita privata di
Papa Wojtyla.
Sulla scorta delle foto viste, scavavano nella sua
giovinezza, cercavano le persone che aveva
frequentato, i componenti delle compagnie teatrali dove
aveva recitato.
L'immagine di quel giovane bello, bravo, intelligente,
fascinoso, accendeva le fantasie.
Tutti volevano trovare le fidanzate del futuro Papa.
Si arrivň perfino a parlare di una fantomatica moglie, una
ragazza che il giovane Wojtyla avrebbe sposato a
Cracovia, all'inizio degli anni Quaranta, e che
poi era stata arrestata dai nazisti e portata in un lager in
Germania dove era morta di stenti.
E proprio dopo la drammatica fine della giovane moglie,
secondo le voci che circolavano, Wojtyla
aveva deciso di diventare sacerdote.
Ginka e Halina
Per la veritŕ, la gente non si scandalizzava affatto
leggendo storie del genere. Riguardavano il
periodo in cui Karol Wojtyla non era sacerdote e sognava
di diventare un grande attore.
Anzi, sentendo quei racconti, molti, soprattutto coloro che
si dichiaravano indifferenti verso la
religione e la Chiesa, i cosě detti "lontani dalla fede",
esprimevano giudizi positivi.
ŤFinalmente uno che ha esperienzať dicevano.
ŤCertamente questo Papa sarŕ in grado di capire i
problemi del sesso, del matrimonio, delle famiglie, del
celibato del clero.ť Karol Wojtyla,
quindi, alla luce di quelle fantasie, attirava simpatia anche
da questo punto di vista.
Anche i credenti erano aperti verso questa realtŕ. ŤNella
storia della Chiesať dicevano Ťci sono
parecchi esempi di "santi peccatori". Cioč santi che
ebbero una giovinezza normale, a volte
anche dissoluta, e che poi si convertirono diventando
santi straordinari. Quindi, avere un Papa
che, da giovane, č stato un affascinante uomo di mondo,
č forse positivo.ť
Nelle osterie romane, nei bar e anche nei ristoranti di
lusso queste discussioni erano
diventate normali, a volte vivacissime, ma sempre con
grande rispetto per il nuovo Papa.
Perň, man mano che le ricerche per trovare notizie sulle
fidanzate del giovane Wojtyla, o sulla
sua fantomatica moglie, progredivano, non si arrivava a
niente di concreto.
Attraverso fotografie di scena, vennero individuate alcune
ragazze che gli erano state molto
vicine negli anni giovanili. Due in particolare. Ginka Beer
e Halina Królikiewicz.
Ginka aveva due anni piů di Karol ed era molto brava
nella
recitazione. Abitava al piano sopra l'appartamento della
famiglia Wojtyla. Era bellissima. Una
ragazza ebrea dagli stupendi occhi scuri e i capelli neri
come l'ebano, eterea.
I compagni di quel tempo, come Jerzy Kluger,
raccontarono che Karol si presentava sempre con lei
alle prove e le faceva
tutti i favori possibili, come, per esempio, dare la sciolina
ai suoi sci e questo era un segno
che ne era innamorato.
Prima dell'occupazione nazista della Polonia, la famiglia
di Ginka decise di andarsene via e
Karol soffrě molto nel perdere quella compagna.
Anche Halina Królikiewicz era molto bella e sapeva
recitare
con grande talento, tanto che divenne poi una famosa
attrice
professionista. Era figlia del preside del liceo femminile.
Dopo
la partenza di Ginka, le attenzioni affettive di Karol
Wojtyla si concentrarono su Halina. I
compagni erano certi che i due fossero molto attratti l'una
dall'altro, ma nello stesso tempo
anche in competizione fra loro: erano i giovani attori piů
bravi di tutta Wadowice.
La loro amicizia divenne via via piů intensa da far
sospettare, durante gli anni della guerra,
quando entrambi vivevano a Cracovia, che fossero
fidanzati.
Dopo che Karol Wojtyla era diventato Papa, le due
ragazze furono rintracciate dai giornali e
sottoposte a interviste a volte impietose. Raccontarono
della loro amicizia, dissero che Karol
era un ragazzo stupendo, che faceva innamorare tutte le
coetanee, ma che era anche un individuo
speciale, diverso da tutti.
ŤCertoť commentavano cinici i cronisti Ťle due ragazze
non vogliono parlare, non vogliono
raccontare la veritŕ, non vogliono creare scandali, č ovvio.
Forse il Vaticano avrŕ comperato il
loro silenzio a peso d'oro.ť
Una lettera autografa per smentire
La curiositŕ su questo argomento non si č mai assopita.
Ogni tanto, nel corso degli anni,
c'era sempre qualche rotocalco, italiano o straniero, che
riprendeva il tema, che aggiungeva
particolari, insinuazioni, fantasie. Il Vaticano non č mai
intervenuto e tanto meno il Papa.
Perň, a un certo momento, Giovanni Paolo II ha creduto
opportuno intervenire di persona e chiarire
esplicitamente anche questo aspetto della sua vita
privata.
Lo ha fatto in occasione del suo cinquantesimo anno di
sacerdozio, nel 1996, quando scrisse il
libro autobiografico Dono e mistero. In quelle pagine ha
raccontato alcuni aspetti della sua vita
giovanile e della sua vocazione sacerdotale.
Toccando, di proposito, anche se brevemente,
l'argomento delle sue amicizie femminili, dichiarň:
"In quel periodo della mia vita, la mia vocazione
sacerdotale non era ancora matura, anche se
intorno a me non pochi erano del parere che dovessi
entrare in seminario. E forse qualcuno avrŕ
supposto che, se un giovane con cosě chiare inclinazioni
religiose non entrava in seminario, era
segno che in gioco vi erano altri amori o predilezioni. Di
fatto, a scuola avevo molte colleghe e,
impegnato com'ero nel circolo teatrale scolastico, avevo
svariate possibilitŕ di incontri con
ragazzi e ragazze. Il problema tuttavia non era questo. In
quel periodo ero preso soprattutto
dalla passione per la letteratura, in particolare per quella
drammatica, e per il teatro".
Una risposta soffice ma precisa alle varie insinuazioni e
dicerie. Karol a scuola aveva, allora,
"molte colleghe e svariate possibilitŕ di incontri con
ragazzi e ragazze", ma era tutto preso
dalla passione per il teatro. Tante amicizie, quindi, lo
ammette, lo dichiara per iscritto, ma
niente di particolarmente serio.
Che significato dare a queste affermazioni? Che genere
di amicizie erano quelle del giovane
Wojtyla con le "colleghe"? Lo ha chiarito in maniera
inequivocabile e definitiva lo stesso Papa,
in una lettera personale inviata a un carmelitano, padre
Wladyslaw Kluz.
In uno scritto biografico sul Papa, questo carmelitano
aveva fatto intendere che Karol Wojtyla,
da giovane, si era lasciato vincere dalle tentazioni della
carne, aveva quindi avuto delle
relazioni sentimentali, sessuali, erotiche con alcune
coetanee, ma che di queste mancanze poi
si pentiva ottenendo il perdono nella confessione.
La frase incriminata era pressappoco questa: "La
confessione era il mezzo attraverso il quale il
giovane Wojtyla 'riacquistava' la grazia di Dio".
Il termine "riacquistava" era una chiara ammissione che
Wojtyla la grazia l'aveva perduta,
commettendo un peccato mortale. E, per Wojtyla, allora,
gli unici peccati che presumibilmente
poteva commettere erano quelli legati al quinto
comandamento, non commettere atti impuri, cioč
non avere relazioni illecite con le ragazze e cose del
genere. Era ovvio. Un giovane come lui
non andava certo a rubare, non bestemmia non
trascurava la Messa, non aveva ucciso eccetera.
Era, invece, assediato dalle ragazze, era giovane, bello, e
poteva quindi aver ceduto alle
tentazioni della carne.
Come ho giŕ piů volte ripetuto, se questo fosse accaduto,
non avrebbe rappresentato niente di
straordinario o di clamoroso, considerando l'etŕ e le
circostanze. Forse avrŕ pensato in questo
modo anche il reverendo Kluz, notando nella biografia del
Papa quelle sue considerazioni, ma la
cosa, proprio perché proveniva da un sacerdote, e quindi
poteva avere una forte credibilitŕ, non
piacque a Giovanni Paolo II. Era una supposizione falsa,
perciň il Papa prese la penna e gli
rispose di persona.
Questo particolare, cosě importante, lo hanno rivelato gli
scrittori Cari Bernstein e Marco
Politi, autori di una poderosa biografia di Giovanni Paolo
II dal titolo Sua Santitŕ. I due
scrittori hanno incontrato padre Kluz, hanno visto la
lettera scritta dal Papa e ne citano
alcuni passi che sono un documento straordinario.
A proposito della frase "La confessione era il mezzo
attraverso il quale il giovane Wojtyla
'riacquistava' la grazia di Dio", Giovanni Paolo II ha voluto
precisare in quella lettera a
padre Kluz: "Il verbo 'riacquistare' implica che io avessi
perso, con un peccato grave, la
grazia di Dio. Chi le ha detto che in gioventů io abbia
commesso dei peccati mortali? Non č mai
accaduto. Lei non crede, padre, che un giovane uomo
possa vivere senza commettere peccati
gravi?".
Tali parole hanno un valore enorme per la conoscenza di
Karol Wojtyla. Da questa dichiarazione si comprende
come egli sia stato protetto e seguito dalla
Madonna. La Vergine gli aveva affidato una grande
missione per la salvezza del mondo. Lo aveva
scelto per quella missione prima ancora che venisse al
mondo. Era quindi un suo figlio prediletto
e lo ha seguito e protetto come solo una madre sa
proteggere i figli. Nella Chiesa ci sono santi
peccatori straordinari. Ma la Madonna ha voluto che
questo suo figlio fosse un santo immune da
qualunque peccato grave.

XI Il Teatro della Parola Vivente

14 maggio 1938, Karol Wojtyla terminň il liceo superando


la maturitŕ classica a pieni voti.
Aveva deciso senza esitazioni che cosa avrebbe fatto
nella sua vita: sarebbe stato un uomo di
teatro. Attore, regista, autore. Il teatro era la sua
passione, sarebbe diventata la sua
professione.
Naturalmente voleva essere uomo di teatro ad altissimo
livello. Sceglieva questa forma d'arte per
esprimere se stesso come uomo e come cristiano. Il
teatro, quindi, come missione. Perciň, voleva
prepararsi nel modo migliore e cosě aveva deciso di
trasferirsi a Cracovia per studiare
letteratura all'Universitŕ Jagellonica.
La vocazione nascosta
L'ultimo anno di liceo comprendeva, in Polonia, anche la
preparazione alla Cresima.
In quella nazione, dove il cristianesimo era ancora molto
vivo, la Cresima veniva impartita quando
i giovani erano in grado di capirne il significato.
Alla fine del liceo, i ragazzi si preparavano per entrare
nell'agone dell'esistenza, per
affrontare l'universitŕ o il lavoro professionale, e
cominciavano a pensare anche a formarsi una
famiglia. Stavano per diventare uomini, indipendenti e
responsabili, e la Chiesa polacca aveva
programmato che in quel particolare periodo ricevessero
il sacramento della Cresima,
che č il sacramento della ''confermazione", dell'investitura
a essere nella vita "soldati di
Cristo".
Karol Wojtyla fu cresimato il 3 maggio 1938.
Alcuni giorni dopo, arrivň in visita a Wadowice
l'arcivescovo di Cracovia, monsignor Adam Stefan
Sapieha. Un uomo intelligente, austero, carismatico, che
tutti chiamavano "il principe".
Discendente da un'antica famiglia nobile, legato da
amicizie e conoscenze alle piů importanti
personalitŕ della Polonia, aveva lavorato per diversi anni
in Vaticano, come segretario di Pio
x, che lo aveva consacrato vescovo nella Cappella
Sistina nel 1911.
Il suo viaggio a Wadowice rientrava nelle normali "visite
pastorali" previste dal codice di
Diritto canonico per i responsabili di una diocesi.
Si fermň in parrocchia ma, avendo una particolare
attenzione per il mondo giovanile, volle
andare a visitare anche le scuole.
Fu ricevuto al liceo Marcin Wadowita, e il compito di
dargli il benvenuto fu affidato a Karol
Wojtyla, che era il miglior allievo e anche il piů noto per
via della sua carriera di attore.
Karol salutň l'arcivescovo con un discorso in latino e il
prelato, che era una persona molto
attenta, rimase colpito dal comportamento e dall'aspetto
di quel ragazzo.
Chiese informazioni a padre Zacher, professore di
religione in quel liceo, che descrisse
all'arcivescovo la figura del giovane Wojtyla,
decantandone le qualitŕ di intelligenza e anche
quelle spirituali.
ŤChe cosa farŕ dopo la maturitŕ classica?ť chiese
l'arcivescovo.
ŤVuole iscriversi all'Universitŕ di Cracoviať rispose padre
Zacher.
ŤNon pensa che se ne potrebbe fare un prete?ť ribattč
l'arcivescovo.
Padre Zacher rimase qualche attimo in silenzio e poi
disse: ŤSarebbe un prete straordinario, ma
non credo proprio che diventerŕ mai sacerdote perché la
sua mente e il suo cuore sono tutti
presi dalla passione per il teatro. Sarŕ un grande attoreť.
ŤPeccatoť concluse Sapieha.
Tutte le persone che a Wadowice conoscevano a fondo il
giovane Wojtyla erano convinte che aveva
le qualitŕ per diventare un ottimo ecclesiastico, ma
sapevano che egli aveva scelto il teatro.
Questa scelta aveva, in realtŕ, anche un fondo religioso.
Karol considerava il teatro una
missione patriottica e spirituale, una testimonianza di
fede.
Negli ultimi anni di liceo, aveva fatto amicizia con un
professore che a sua volta era un
"ammalato" di teatro.
Ammalato, ma anche grande esperto.
Si chiamava Mieczyslaw Kotlarczyk, era nato a
Wadowice e aveva diciannove anni piů del futuro
Pontefice. Aveva studiato letteratura all'Universitŕ di
Cracovia e si era laureato con
la tesi sulla critica teatrale del primo Ottocento. Poi era
tornato a Wadowice come insegnante
di letteratura e dedicava tutto il tempo libero a una sala
teatrale che suo padre gestiva in
cittŕ. Scriveva su pubblicazioni culturali nazionali, parlava
alla radio, era aggiornatissimo
sugli ultimi sviluppi dei teatri tedeschi e si teneva in
contatto con Juliusz Osterwa, celebre
attore polacco e direttore del Teatro nazionale di
Cracovia.
Anche Mieczyslaw Kotlarczyk era un uomo
profondamente credente e aveva del teatro una
concezione
quasi religiosa. Lo considerava un esercizio ascetico,
mistico, una missione per trasmettere la
Parola di Dio.
Ciň che contava soprattutto, nella concezione teatrale di
Kotlarczyk, era la "Parola", Verbum in
latino, quindi il testo.
L'attore doveva diventare uno strumento perfetto e umile
per trasmettere la "Parola", doveva
essere una specie di sacerdote laico che serviva la
"Parola".
La "Parola", nella concezione teologica di san Giovanni
Evangelista, č Dio stesso. Egli,
infatti, inizia il suo Vangelo in questo modo: "In principio
era la Parola, e la Parola era
presso Dio, e la Parola era Dio". Ispirandosi a queste
intuizioni teologiche, Mieczyslaw
Kotlarczyk aveva elaborato le sue teorie e fondato il
Teatro della Parola Vivente.
Idee affascinanti, che furono subito accolte con
entusiasmo dal giovane Wojtyla e che egli
elaborň e sviluppň con passione soprattutto durante gli
anni universitari.
Da Papa, nel suo libro autobiografico Dono e mistero,
scriverŕ: "La parola, prima di essere
pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell'uomo
come dimensione fondamentale della sua
esperienza spirituale. In ultima analisi, essa rimanda
all'imperscrutabile mistero di Dio stesso.
Riscoprendo la parola attraverso gli studi letterari e
linguistici, non potevo non avvicinarmi al
mistero della Parola, di quella Parola cui ci riferiamo ogni
giorno nella preghiera dell'Angelus:
'E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi' (Gv 1, 14). Capii piů tardi che gli
studi di Filologia polacca preparavano in me il terreno per
un altro genere di interessi e di
studi. Predisponevano il mio animo ad accostarsi alla
filosofia e alla teologia".
Alla conquista di Cracovia
L'incontro di Wojtyla con Kotlarczyk fu provvidenziale.
Impedě a Karol di privilegiare gli
spettacoli frivoli, che pure gli piacevano, come le canzoni
e i balli, per indirizzare invece la
propria attenzione verso una cultura piů solida, quel
teatro appunto dai contenuti sociali,
patriottici e religiosi.
Fin dai primi anni di liceo, aveva cominciato a frequentare
sempre piů assiduamente l'appartamento
di Kotlarczyk per discutere con lui di teatro e del
significato della lingua nella societŕ polacca
A poco a poco, tra i due nacque una vera amicizia, che
continuň, attraverso lettere frequenti,
anche quando Karol lasciň Wadowice per studiare
all'universitŕ.
In cittŕ prese alloggio, assieme a suo padre, in una casa
di proprietŕ dei suoi parenti, in via
Tyniecka, al numero 10. Era una costruzione che risaliva
alla fine della Prima guerra mondiale,
e il loro appartamentino era nel seminterrato, mentre ai
piani superiori abitavano i suoi
parenti.
La zona era bella, lungo il fiume Vistola, tra il verde, ma il
seminterrato sembrava una
cantina. Due stanze, piů cucina e bagno. Locali bui e
umidi. D'inverno molto freddi, nonostante
la stufa sempre accesa. Gli amici che andavano a trovare
Lolek avevano preso l'abitudine di
chiamare quell'appartamentino "la catacomba".
Lolek era abituato ai sacrifici, e non fece caso a quei
disagi. Del resto, per tutto il giorno,
e spesso anche la sera fino a tardi, se ne stava in giro.
Ma il capitano soffriva di reumatismi
e quell'umiditŕ era per lui veleno. Anche lui perň non si
lamentava.
Karol junior fu subito conquistato dalla cittŕ. L'austera
universitŕ, fondata nel 1364, era uno
dei centri culturali piů prestigiosi d'Europa. In quello
stesso ateneo aveva studiato anche
Copernico. Il colle di Wawel, con il castello, sede dei re,
la cattedrale, il Palazzo vescovile,
le tombe dei santi, dei re, i monumenti gotici, le piazze
medievali, le torri, ma anche i
mercatini, i negozietti, i bar, le bettole, i ristorantini, i
ritrovi culturali, tutto piaceva a
Karol ed egli voleva vedere, visitare, gustare tutto.
Oltre a dedicarsi allo studio delle materie di corso, Lolek
cominciň a prendere contatti con
gruppi di giovani intellettuali. In particolare, poeti e attori.
In poco tempo fece importanti amicizie. Divenne membro
del circolo "Cultori di studi polacchi".
Uno dei primi ragazzi che conobbe, e di cui divenne
amico, fu Juliusz Kydryriski, il quale lo
presentň ad altri suoi amici, a vari club e anche a una
famiglia della buona societŕ, gli
Szkocki, che avevano una villa sulla Vistola, chiamata
"Sotto i tigli".
Tutte le sere in quella casa si davano convegno poeti,
artisti, musicisti. Si conversava di
letteratura, di filosofia, di arte. Si tenevano concerti, si
recitavano poesie, era un vero
centro culturale e Karol si fece subito benvolere in
famiglia, e fině per diventarne il
beniamino tanto che poteva chiamare "nonna" la padrona
di casa.
Alla fine del primo anno di permanenza a Cracovia, Karol
Wojtyla era giŕ molto conosciuto.
Partecipň ad alcune messinscene di una compagnia di
teatro sperimentale, nota come "Studio 39".
Lo spettacolo fu rappresentato nel cortile dell'Universitŕ e
vi assistettero anche molti
professori. Tra il pubblico c'era pure Juliusz Osterwa,
celebre attore e direttore del Teatro
nazionale di Cracovia, che sarebbe poi diventato amico di
Wojtyla.
A Cracovia, Karol aveva ripreso i contatti con padre
Kazimierz Figlewicz, che all'inizio degli
anni Trenta era stato suo insegnante di religione e suo
confessore a Wadowice.
Lo ritrovň a Wawel, con l'incarico di custode della
cattedrale, e aveva ripreso a frequentarlo
regolarmente. Ogni primo venerdě del mese si recava da
lui per confessarsi, poi serviva la Messa e
faceva la Comunione.
Ogni volta si fermava a lungo incantato in quel luogo,
cuore della fede della Polonia, ma anche
della storia e dell'arte.
La cattedrale di Wawel č un vero prodigio architettonico.
Sorge sull'omonimo colle, dove si trova
anche il castello, sede dei re. Al suo interno vi sono le
tombe di quasi tutti i re della Polonia.
Karol sostava nella bellissima cappella di Sigismondo.
Ammirava la torre dell'orologio in cui si
trova "Zygmunt", la piů famosa campana polacca, fusa da
re Sigismondo il Vecchio con i cannoni
conquistati ai Wlochy. Quella campana suona solo
durante le grandi feste civili e religiose e
quando la sua voce profonda si spande per il cielo di
Cracovia, ogni cittadino sente il cuore
battere forte.
Karol conosceva la storia, le tradizioni, i personaggi
evocati da quel luogo perché li aveva
incontrati nei poemi, nei romanzi, che aveva letto fin da
bambino e poi nei drammi che aveva
interpretato in teatro.
400 chilometri di fuga inutile
Era nella cattedrale di Wawel anche il primo settembre
1939.
Era salito sul colle di mattino presto, e la chiesa era
completamente deserta. Si trovava bene
in quel silenzio profondo e denso di ricordi.
Come al solito, aveva ascoltato la Messa e fatto la
Comunione, perché quel giorno era il primo
venerdě del mese. Poi, mentre passeggiava lentamente
per le navate in penombra, cominciň a
sentire dei colpi micidiali. Corse fuori.
Dal colle vedeva la distesa della cittŕ, e nel cielo uno
stormo di aerei che scendevano in
picchiata per sganciare bombe. Avevano preso di mira le
caserme di via Warszawska. Le sirene
d'allarme ululavano. Sentiva gli scoppi, gli spari della
contraerea. Era il primo attacco dei
tedeschi su Cracovia.
Karol pensň al suo papŕ, solo, nel seminterrato in via
Tyniecka. Salutň padre Figlewicz e si
avviň di corsa verso casa.
Lo trovň che stava bene. Per fortuna le bombe non erano
cadute su quella zona della cittŕ. Ma si
rese conto che non era prudente rimanere a Cracovia.
Dalla radio aveva appreso che i nazisti stavano
invadendo la Polonia. Le truppe tedesche erano
entrate e marciavano verso Cracovia. La radio invitava
tutti gli uomini e i giovani sopra i
quattordici anni a scappare e a dirigersi verso est.
Raccomandava anche di non servirsi del
treno, perché erano presi di mira dal fuoco nemico.
Karol era indeciso sul da farsi. Aiutň intanto l'amico
Juliusz lydryriski a portare mobili e
suppellettili della sua famiglia fuori cittŕ. Nel frattempo la
radio informava che le truppe
tedesche erano ormai alle porte di Cracovia. La gente
aveva paura. Molti fuggivano senza una
meta. Gli aerei tedeschi tornavano con frequenza a
sganciare bombe. Karol decise di portare suo
padre al sicuro.
Mise in una valigia le poche cose necessarie e poi si
incamminň a piedi, con il padre, verso
est.
Il capitano non stava bene. La permanenza a Cracovia, in
quelle stanze buie e umide, aveva
inciso sulla sua salute. Era precocemente invecchiato.
Non aveva forza. Si sentiva esausto e
camminava con fatica accanto al figlio.
Appena fuori cittŕ, i due trovarono un camionista che
diede loro un passaggio. Sobbalzando
continuamente su quel mezzo, non certo comodo,
percorsero un bel po' di strada, ma poi dovettero
riprendere il cammino a piedi.
Ogni tanto facevano delle lunghe soste. Cercavano
rifugio per la notte nelle case dei contadini.
A volte, durante il giorno, dovevano interrompere il loro
cammino, abbandonare la strada per
sfuggire ai mitragliamenti degli aerei tedeschi che
sparavano inesorabilmente su ogni persona.
In un paio di giorni arrivano a circa duecento chilometri a
est di Cracovia scoprendo, perň, di
aver fatto tutta quella fatica inutilmente.
Da oriente, infatti, stavano arrivando le truppe russe e
quindi bisognava tornare indietro. Si
accodarono alla fiumana di profughi che, come loro,
erano costretti a riprendere la via del
ritorno in cittŕ, e rifecero, tra mille difficoltŕ, i duecento
chilometri. Una marcia massacrante,
soprattutto per il capitano.
Giunti a Cracovia, la trovarono giŕ occupata dai tedeschi.

XII Un sarto che parlava con Dio

Le truppe tedesche avevano invaso la Polonia senza


alcuna dichiarazione di guerra. Da tempo
Hitler pensava di allargare i propri territori verso est per
aumentare le entrate di derrate
alimentati a favore della Germania, e decise di mettere in
pratica il suo piano.
Contemporaneamente la Russia volle salvaguardare i
propri confini. Allora era alleata della
Germania. Tra le due nazioni c'era un patto di non
aggressione.
Ma Stalin non si fidava di Hitler e voleva mettere un
"cuscinetto" protettivo tra l'Unione
Sovietica e le truppe tedesche. Per questo, sedici giorni
dopo che la Germania aveva invaso la
Polonia a est, Stalin fece invadere la Polonia a ovest. I
francesi e gli inglesi, alleati della
Polonia, risultarono latitanti. Non mossero un dito,
lasciando quella nazione in balia di due
pazzi spregiudicati.
I giorni dell'invasione
Per la Polonia iniziň l'inferno. Contava allora 35 milioni di
abitanti. Alla fine del conflitto,
1945, aveva perduto il diciotto per cento della
popolazione. Sei milioni di cittadini erano morti
in soli sei anni. Inoltre, proprio in Polonia ebbero luogo i
maggiori massacri di ebrei.
L'invasione fu rapidissima.
Il primo settembre 1939 ci furono i primi bombardamenti e
le truppe tedesche varcarono i
confini.
Il 6 settembre 1939 i tedeschi erano giŕ a Cracovia.
Il 17 settembre l'armata sovietica attraversava la frontiera
orientale della Polonia.
Nella notte tra il 17 e il 18 settembre il governo polacco al
completo, insieme al cardinale
primate della Chiesa cattolica in Polonia, Augustyn Hlond,
fuggirono riparando in Romania.
Il 19 settembre, fuggě anche il comandante in capo della
forze armate polacche, lasciando
l'esercito in balia di se stesso.
Varsavia tentň di resistere, ma i tedeschi interruppero il
rifornimento idrico delle cittŕ e
quello alimentare, e il 27 settembre dovette soccombere.
Il 5 ottobre Hitler era a Varsavia dove passň in rassegna
le truppe tedesche, quasi a voler
sancire la vittoria.
Ai primi di novembre, tedeschi e sovietici si divisero il
territorio polacco.
I sovietici si tennero le zone dell'Ucraina occidentale e
della Russia Bianca, fino alla linea
Curzon, cioč quel confine orientale della Polonia che era
stato proposto, nel dicembre del 1919,
dalle potenze alleate per iniziativa del segretario agli
Esteri britannico George Curzon.
I tedeschi incorporarono al Reich le regioni occidentali e
centrali e istituirono sui rimanenti
territori un Governatorato generale con capitale Cracovia.
Alcune zone del Paese, come Wadowice,
entrarono a far parte del Terzo Reich, mentre il resto del
Paese fu trasformato in una colonia
nazista. Sul castello di Wawel, la dimora dei sovrani
polacchi, cominciň a sventolare la
bandiera con la svastica.
Il comando del Governatorato generale fu affidato a Hans
Frank, un personaggio ambiguo e
contraddittorio che condivideva perň in pieno con Hitler le
ideologie di sterminio.
Nato nel 1900, giurista, Frank fu tra i primi a aderire al
Partito nazionalsocialista e nel
1930 fu eletto al Reichstag. Dal 1936 al 1939 fu ministro
della Giustizia del Reich, presidente
dell'Accademia tedesca del Diritto e poi Hitler gli affidň il
Governatorato generale della
Polonia occupata.
Nei sei anni di governo egli cercň di eliminare la classe
intellettuale e fu tra i responsabili
dello sterminio della popolazione ebraica.
Arrestato al termine della guerra, venne processato dal
tribunale internazionale di Norimberga,
condannato a morte e impiccato il 16 ottobre 1946.
Il regno del terrore
Fin dal suo arrivo a Cracovia, Frank fece intendere che i
nazisti volevano far sparire la
Polonia. Distribuě una specie di vademecum tra i suoi
collaboratori. Con un linguaggio crudele e
cinico, spiegava la filosofia dell'occupazione e gli obiettivi
che bisognava raggiungere.
"Il polacco non gode di alcun diritto. Il suo unico dovere č
di obbedire a quello che gli
ordiniamo. Bisogna ricordargli continuamente che il suo
dovere č l'obbedienza. (...)
"Obiettivo primario del nostro piano č eliminare il piů
rapidamente possibile tutti i politici,
preti e capi fomentatori di guai che cadranno nelle nostre
mani.
"Io riconosco apertamente che qualche migliaio di
polacchi cosiddetti importanti dovrŕ pagare
con la vita ma non dovete lasciare che simpatie personali
vi trattengano dal vostro dovere, che
č di assicurarvi che trionfino i fini del nazionalsocialismo e
che la nazione polacca non sia
mai piů in grado di opporre resistenza. (...)
"Ogni traccia di cultura polacca deve essere cancellata.
"Quei polacchi che abbiano aspetto nordico verranno
portati in Germania per lavorare nelle
nostre fabbriche.
"I bambini di aspetto nordico saranno tolti ai loro genitori
e allevati come operai tedeschi. Il
resto? Lavorerŕ. Mangerŕ poco. E alla fine morirŕ. Non
esisterŕ mai piů una Polonia."
Iniziň il regno del terrore.
Ogni piů piccola infrazione poteva essere punita con la
morte immediata o la deportazione nei
campi di concentramento.
La popolazione doveva sopravvivere con 900 calorie prň
capite il giorno.
L'istruzione secondaria e superiore fu abolita.
Partecipare ad attivitŕ culturali era considerato un delitto.
Il grande teatro polacco Slowacki venne ribattezzato
Staatstheater ed era riservato solo ai
tedeschi.
Proibite le esecuzioni musicali di autori polacchi,
compreso Chopin. Le biblioteche distrutte, i
libri bruciati, abbattute le statue dei poeti e dei patrioti.
Lotta alla Chiesa
I nazisti guardavano con odio soprattutto alla Chiesa
cattolica, che in Polonia prosperava come in
nessun'altra nazione europea.
Allora la Chiesa polacca contava 5100 parrocchie, aveva
11.300 sacerdoti, 17.000 suore, oltre 25
milioni di credenti praticanti. Al termine dell'occupazione
nazista si dovette registrare che
3646 sacerdoti erano finiti nei campi di concentramento e
2647 di essi erano stati uccisi. Le
suore imprigionate furono 1117, e di esse 238 erano state
uccise e altre 25 erano morte di
stenti. Solo nel campo di concentramento a Dachau, i
tedeschi avevano deportato 1474 sacerdoti
polacchi.
Con l'occupazione nazista, anche l'Universitŕ Jagellonica
fu chiusa.
Il 6 novembre 1939 i nazisti arrestarono 184 professori
facenti parte del corpo accademico della
prestigiosa universitŕ e li deportarono nel campo di
concentramento di
Sachsenhau-sen-Oranienburg.
Fu un fatto clamoroso che scosse l'opinione pubblica
mondiale. Ci furono proteste
internazionali. Tre capi di Stato, Mussolini per l'Italia,
Franco per la Spagna e Horthy per
l'Ungheria, cercarono di mediare ottenendo la liberazione
di centoventi di quei professori, ma
gli altri rimasero prigionieri e quasi tutti morirono nel
lager.
Dopo l'arresto dei professori, i nazisti saccheggiarono i
locali dell'universitŕ devastando
biblioteche e laboratori.
Lolek dovette pensare a un lavoro.
Secondo le regole dettate da Hans Frank, ogni uomo
sano tra i quattordici e i sessantanni doveva
avere un'occupazione. Chi ne era sprovvisto, veniva
ucciso o deportato.
Subito, Lolek riuscě a trovare un impiego come fattorino
per le consegne di un ristorante. E
poiché era abbastanza leggero, gli permetteva di avere
del tempo libero e continuare a studiare
per suo conto.
Ma all'inizio del 1940, quando i controlli dei tedeschi si
fecero piů rigidi, dovette trovarsi
un'occupazione sicura. Con l'aiuto di amici, fu assunto
come operaio dall'industria chimica
Solvay.
Operaio per 1500 giorni
Quando scrittori e conferenzieri affrontano l'argomento di
Karol Wojtyla operaio, ne parlano in
genere come di un impegno passeggero, durato poco
tempo, semiclandestino, e quindi privo di
orari e di veri sacrifici. Quasi che quel periodo sia stato
una specie di volontariato del
giovane Wojtyla.
Niente di piů sbagliato.
Karol Wojtyla iniziň a lavorare alla Solvay a vent'anni e vi
rimase fino a ventiquattro. Quattro
anni durissimi.
Il primo lo trascorse nella cava della Solvay. Era un pozzo
profondo decine di metri dal quale
si estraeva calcare, da utilizzare nella produzione della
soda. Il compito di Lolek era quello
di caricare i vagoncini di materiale.
Raggiungeva la cava a piedi, che distava circa una
mezz'ora dalla sua casa.
Era poco vestito, perché non c'erano soldi da spendere, e
calzava zoccoli di legno.
Il freddo, quel primo inverno, raggiunse i trenta gradi sotto
zero. Lolek, certe mattine, prima
di uscire, era costretto a spalmarsi il viso con la vaselina,
o con il grasso di maiale, per
impedire che si congelasse. Tenendo conto che la sua
razione di cibo consisteva in qualche
patata condita con un po' di cipolla e qualche pezzo di
pane duro, si puň immaginare quanto
fosse insopportabile quella temperatura polare.
La giornata lavorativa iniziava all'alba e terminava alle tre
del pomeriggio con un intervallo di
quindici minuti per la colazione, intorno alle dieci.
Il salario, inagrissimo, era l'unico reddito di cui lui e suo
padre potevano disporre perché la
pensione del capitano era stata cancellata.
Karol, che era un giovane alto e robusto, costretto a
lavorare duramente, avrebbe avuto bisogno di
un cibo nutriente e abbondante. Ma i nazisti passavano
soltanto l'equivalente di 700 calorie il
giorno prň capite. Il che significa un nutrimento da fame.
Lolek poi pensava soprattutto al padre, ormai vecchio e
malato, e gli passava il cibo piů
nutriente e sostanzioso, tenendo per sé quello scadente.
Si puň quindi facilmente capire come il
suo fisico abbia sofferto e che sentisse maggiormente i
rigori del freddo e la fatica.
Quei quattro anni da operaio furono realmente durissimi.
Per fortuna, dopo un anno, fu trasferito
dalla cava allo stabilimento della Solvay, per occuparsi
della depurazione dell'acqua. Gli stenti
erano sempre enormi, i sacrifici pure, la fame restava
endemica, le forze deboli, ma ora poteva
almeno stare al coperto e quindi mitigare le conseguenze
del freddo d'inverno e del caldo
d'estate.
Alla Solvay era, perň, costretto a fare anche dei turni di
notte, che gli pesavano soprattutto
perché doveva lasciare suo padre solo a casa.
Per quattro anni ininterrotti, Karol Wojtyla tenne questo
ritmo di lavoro. Il che significa per
1500 giorni, uno in fila all'altro senza mai una pausa.
Il "filo mariano"
In quel periodo ci fu una svolta importante nella vita
spirituale del futuro Papa.
Fin da ragazzo egli aveva sviluppato nel suo cuore una
materna devozione alla Madonna.
Si dice che fosse stata sua madre a inculcargliela e che,
dopo
la sua morte, la devozione alla Madonna fosse diventata
nel suo cuore piů intensa quasi per
compensazione. Lolek avrebbe trasferito alla Madre
Celeste quell'affetto e quella tenerezza che
non poteva piů avere per la sua madre terrena.
A Wadowice, quando era studente liceale, si era iscritto al
Sodalizio di Maria, un'associazione
maschile di giovani che si proponevano di diffondere la
devozione alla Madonna.
Durante il liceo, era stato eletto per due anni consecutivi
presidente di quell'associazione.
Quella sua devozione, cosě spontanea e insieme cosě
intensa, aveva probabilmente anche origini
profonde e misteriose. Ancora, infatti, non sapeva che,
prima che lui nascesse, la Vergine Maria
aveva parlato di lui con i tre bambini di Fatima, come
anticipato nei capitoli precedenti. La
Madonna aveva quindi un progetto grande per questo
ragazzo, ed č lecito pensare che ne seguisse
la crescita e la formazione con particolare riguardo.
Il Papa stesso, in seguito, conosciuto il Segreto di Fatima,
e dopo l'attentato del 1981,
riconoscendosi in quel "vescovo vestito di bianco" che
cade sotto i colpi dei soldati, di cui
parla appunto la Terza parte, si convinse che la sua vita
era stata guidata proprio dalla
Vergine. E nel suo libro autobiografico, Dono e mistero,
indica la devozione alla Madonna come
fonte della sua vocazione sacerdotale e di tutto quello
che poi ne č seguito.
"Parlando delle origini della mia vocazione sacerdotale"
scrisse Wojtyla in quel libro "non
posso dimenticare il 'filo mariano'. La venerazione alla
Madre di Dio nella sua forma
tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di
Wadowice. Ricordo, nella chiesa
parrocchiale, una cappella laterale dedicata alla Madre
del Perpetuo Soccorso, dove di mattina,
prima dell'inizio delle lezioni, si recavano gli studenti del
ginnasio. Anche a lezioni
concluse, nelle ore pomeridiane, vi andavano molti
studenti per pregare la Vergine.
"Inoltre, a Wadowice, c'era, sulla collina, un monastero
carmelitano, la cui fondazione risaliva
ai tempi di san Raffaele Kalinowski. Gli abitanti di
Wadowice lo frequentavano in gran numero, e
ciň non mancava di riflettersi in una diffusa
devozione per lo scapolare della Madonna del Carmine.
Anch'io lo ricevetti, credo all'etŕ di dieci
anni, e lo porto tuttora. Si andava dai carmelitani anche
per confessarsi.
"Fu cosě che, tanto nella chiesa parrocchiale quanto in
quella del Carmelo, si formň la mia
devozione mariana durante gli anni dell'infanzia e
dell'adolescenza fino al conseguimento della
maturitŕ classica.
Il trasferimento a Cracovia, la vita universitaria, il contatto
con il mondo giovanile della
grande cittŕ, la guerra, le preoccupazioni avrebbero in un
certo modo potuto raffreddare quella
istintiva devozione mariana che il giovane Wojtyla aveva
assimilato a Wadowice.
Invece la intensificarono.
Appena giunto a Cracovia, Lolek cominciň a frequentare
la parrocchia del quartiere dove era
andato ad abitare. La chiesa era quella di San Stanislao
Kostka, gestita dai salesiani.
Come era abituato a fare a Wadowice, ogni mattina Lolek
si recava in quella chiesa e restava a
lungo inginocchiato a pregare.
Quel giovane cosě compito e dal fisico prestante, che
pregava con tanta concentrazione, fu notato
non solo dai sacerdoti, ma anche da un personaggio laico
strano e misterioso, Jan Tyranowski.
Era un tipo magro, goffo, curvo, con capelli grigiastri
pettinati all'indietro. La sua voce aveva
toni acuti, quasi come quella di una ragazza. Qualcuno lo
considerava un po' matto. Gli stessi
sacerdoti della parrocchia non avevano una grande
considerazione per lui. Invece, Jan Tyranowski
era uno spirito illuminato e il giovane Wojtyla lo intuě
subito.
"Tyranowski" scrisse in seguito Giovanni Paolo II "era una
persona che si distingueva da tutte
le altre. Di professione era impiegato, anche se aveva
scelto di lavorare nella sartoria di suo
padre. Affermava che il lavoro di sarto gli rendeva piů
facile la vita interiore.
Era un uomo di una spiritualitŕ particolarmente profonda."
Jan Tyranowski avvicinň il giovane Wojtyla. Non si sa che
cosa gli disse, ma tra i due nacque
subito un'intesa.
Uno strano movimento clandestino
Dopo l'invasione, la Chiesa polacca attraversava momenti
di estrema difficoltŕ.
I nazisti avevano arrestato moltissimi sacerdoti. Anche gli
otto salesiani che lavoravano a San
Stanislao erano finiti in campo di concentramento, tranne
uno. Questi, per cercare di tenere
viva la fede nella sua parrocchia, soprattutto tra i giovani,
chiese aiuto ai laici e si rivolse
anche a Jan Tyranowski.
Lo strano sarto si dedicava giŕ a una sua piccola iniziativa
spirituale tra i ragazzi, che aveva
chiamato Rosario Vivente. Anzi, in varie occasioni aveva
anche parlato con i religiosi della
parrocchia di questo suo lavoro, ma senza essere preso
in considerazione. Ora perň quella sua
attivitŕ diventava preziosissima e fu pregato di coltivarla
con grande diligenza.
Il Rosario vivente era un'iniziativa mariana per dare
concretezza alla propria fede. Gli
iscritti si impegnavano soprattutto a mettere in pratica,
nella vita di tutti i giorni, gli
insegnamenti che venivano dalla preghiera e dalla lettura
del Vangelo e di altri libri a
carattere spirituale.
Durante l'invasione tedesca, il movimento divenne, per
forza, clandestino, ma acquistň, per
questo, piů fascino e piů concretezza.
Chi vi aderiva sapeva di rischiare molto. Le riunioni erano
sempre segrete.
Gli aderenti erano divisi in gruppi di quindici individui.
Ogni gruppo era guidato da un capo,
che rispondeva direttamente al fondatore.
Negli anni dell'invasione, il movimento contava circa una
sessantina di aderenti, il piů giovane
dei quali aveva quattordici anni, ed erano guidati da
quattro capi: uno di essi era Ka-rol
Wojtyla.
Jan Tyranowski incontrava il gruppo al completo una
volta al mese, ma era sempre disponibile a
ricevere chiunque avesse avuto bisogno di parlare con
lui.
Per quei giovani era un vero padre spirituale, una guida di
grandissimo valore che amavano e
seguivano con ardore.
I suoi insegnamenti erano elementari.
Diceva che bisognava avere idee chiare e concrete sulle
veritŕ della fede, e su come si deve agire
per metterle in pratica con determinazione.
Suggeriva di fare l'esame di coscienza tutti i giorni e di
annotare quotidianamente su un
quaderno le proprie azioni e se si erano rispettati i
propositi fatti.
ŤLe veritŕ religioseť affermava Ťnon sono "limitazioni o
interdizioni" bensě mezzi per dare
forma a una vita che, tramite la grazia, diviene
partecipazione alla vita di Dio.ť
Tyranowski era un tipo carismatico. Riusciva a
trasmettere entusiasmo. Da lui, Karol Wojtyla
apprese certe abitudini di controllo e di disciplina nella
vita spirituale, che conservň poi per
sempre.
"Imparai cosě i metodi elementari di autoformazione che
avrebbero poi trovato conferma e sviluppo
nell'itinerario educativo del seminario" ha scritto Giovanni
Paolo II. "Tyranowski, che era venuto
formandosi sugli scritti di san Giovanni della Croce e di
santa Teresa d'Avila, mi introdusse
nella lettura, straordinaria per la mia etŕ, delle loro opere"
Fu lui, infatti, a favorire, nel giovane Wojtyla, la
conoscenza del misticismo spagnolo e in
particolare, appunto, delle opere di questi due santi.
Opere che ebbero, poi, sulla sua formazione
spirituale e sul suo pensiero teologico una grande
influenza.
Cosě nacque il motto Totus tuus
Jan Tyranowski contribuě molto anche alla "maturazione"
della devozione alla Madonna di Karol
Wojtyla.
Fu lui a suggerire a Lolek, in quegli anni di guerra, la
lettura delle opere del grande mariologo
francese san Luigi Maria Grignion de Montfort, in
particolare il famoso Trattato, che č ancora
fondamentale nella storia della mariologia. Quelle letture
aiutarono Wojtyla a passare da una
devozione mariana istintiva a quella teologica, che lo
accompagnerŕ per tutta la vita. Gli
scritti sulla Vergine di Karol Wojtyla, discorsi, Esortazioni,
documenti, Encicliche hanno
risentito di quelle lontane letture.
Tutti sanno che il motto pontificio di Giovanni Paolo II,
inserito anche nello stemma del suo
papato, č Totus tuus. Frase che č ricorsa spesso nei suoi
discorsi, pronunciata nei momenti piů
drammatici della sua esistenza, come l'attentato del 1981,
e incisa anche sul muro del Palazzo
vaticano, sotto le finestre del suo studio. Ebbene, quella
frase, quello slogan ebbe le sue
origini proprio a Cracovia quando Karol Wojtyla, ancora
laico, incontrando il sarto mistico,
diede una svolta importante alla propria devozione
mariana. Svolta che Giovanni Paolo II ha
voluto ricordare e sottolineare nel libro Dono e mistero,
ritenendo quel cambiamento di
importanza fondamentale per la sua
vita.
"A Cracovia" scrisse il Papa "nel periodo in cui andava
configurandosi la mia vocazione
sacerdotale, anche grazie all'influsso di Jan Tyranowski, il
mio modo di comprendere il culto
della Madre di Dio subě un certo cambiamento. Ero giŕ
convinto che Maria ci conduce a Cristo, ma
in quel periodo cominciai a capire che anche Cristo ci
conduce a sua Madre.
"Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in
discussione il mio culto per Maria ritenendo
che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per
compromettere la supremazia del culto dovuto a
Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di san Luigi Maria
Grignion de Montfort che porta il
titolo di Trattato della vera devozione alla Santa Vergine.
In esso trovai la risposta alle mie
perplessitŕ. Sě, Maria ci avvicina a Cristo, ci conduce a
Lui, a condizione che si viva il suo
mistero in Cristo.
"Il trattato di san Luigi Maria Grignion de Montfort puň
disturbare con il suo stile un po'
enfatico e barocco, ma l'essenza delle veritŕ teologiche in
esso contenute č incontestabile.
L'autore č un teologo di classe. Il suo pensiero
mariologico č radicato nel Mistero trinitario e
nella veritŕ dell'Incarnazione del Verbo di Dio.
"Compresi allora perché la Chiesa reciti l'Angelus tre
volte al giorno. Capii quanto cruciali
siano le parole di questa preghiera: 'L'Angelo del Signore
portň l'annuncio a Maria. Ed ella
concepě per opera dello Spirito Santo. (...) Eccomi, sono
la serva del Signore. Avvenga di me
secondo la tua parola (...). E
il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi'.
Parole davvero decisive! Esprimono il
nucleo dell'evento piů grande che abbia avuto luogo nella
storia dell'umanitŕ.
"Ecco spiegata la provenienza del Totus tuus.
L'espressione deriva da san Luigi Maria Grignion de
Montfort. E' l'abbreviazione della forma piů completa
dell'affidamento alla Madre di DiO che suona
cosě: 'Totus Tuus ego sum et omnia mea Tua sunt.
Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum,
Maria'.
"Cosě, grazie a san Luigi, cominciai a scoprire tutti i tesori
della devozione mariana da
posizioni in un certo senso nuove: per esempio, da
bambino ascoltavo Le ore sull'Immacolata
Concezione della Santissima Vergine Maria, cantate nella
chiesa parrocchiale, ma soltanto dopo mi
resi conto delle ricchezze teologiche e bibliche in esse
contenute. La stessa cosa avvenne per i
canti popolari, per esempio per i canti natalizi polacchi e
le lamentazioni sulla Passione di Gesů
Cristo in Quaresima, tra le quali un posto particolare
occupa il dialogo dell'anima con la Madre
Dolorosa.
"Fu sulla base di queste esperienze spirituali che venne
delineandosi l'itinerario di preghiera e
di contemplazione che avrebbe orientato i miei passi sulla
strada verso il sacerdozio, e poi in
tutte le vicende successive fino a oggi."
ŤLa preghiera č l'unica arma che funzionať
Karol Wojtyla rimase all'interno del Rosario vivente per
tutto il periodo bellico.
Come tutte le associazioni cattoliche, anche questa era
proibita dai tedeschi. Essi consideravano
i gruppi giovanili fertile terreno di complotti. Una volta la
Gestapo fece irruzione
nell'appartamento di Tyranowski durante una riunione.
Nessuno sa che cosa il sarto disse per
scongiurare l'arresto di tutti i presenti. Ci fu una lunga
discussione, al termine della quale i
poliziotti se ne andarono.
In realtŕ, l'associazione era effettivamente anche un po'
sovversiva, nel senso che i ragazzi
che vi partecipavano erano polacchi attaccati alla loro
patria e, nelle aspirazioni, nei
progetti, nei desideri, nei sogni la patria libera era la meta
da raggiungere a ogni costo.
Nelle loro discussioni spesso parlavano di come si
sarebbe potuto ricostruire il Paese dopo
l'invasione nazista.
Molti di loro erano in contatto con i partigiani. A volte
qualcuno spariva e andava sulle
montagne a raggiungere le truppe della Resistenza. Poi
magari tornava portando idee e animando
conversazioni che puntavano a opporre all'invasore una
resistenza violenta. Solo il carisma del
sarto mistico riusciva a liberare quelle discussioni
dall'odio e a far prevalere, alla fine, il
saggio equilibrio cristiano.
Karol Wojtyla stava con Tyranowski. Il suo patriottismo
era profondamente sentito ma guidato
dagli insegnamenti del Vangelo. Non appoggiň mai la
resistenza armata e violenta, e neppure il
sabotaggio clandestino.
Credeva nella resistenza tramite la cultura e soprattutto
tramite la preghiera.
ŤLa preghiera č l'unica arma che funzionať ripeteva agli
amici che volevano fare qualche
attentato contro i nazisti. Oppure: ŤRicordati che abbiamo
il dovere di pregare Dio di
concederci la forza per sopportare tutto questoť.
Non era, il suo, un quietismo religioso, come ha detto
qualcuno. Egli era sempre sulla breccia.
In prima fila, ma disarmato, privo di violenza. Subiva la
violenza e non la ricambiava. Fu
membro anche dell'UNlA, un movimento clandestino di
resistenza culturale formato da giovani
cattolici di varie estrazioni.
L'organizzazione aveva anche una componente militare,
con circa ventimila uomini. Wojtyla aderě
alla componente culturale, ne condivideva le idee che
influenzarono a lungo la sua filosofia, ma
non partecipň mai ad azioni militari di nessun genere.
Quel periodo di attivitŕ clandestina, di resistenza culturale,
di discussioni
politico-religiose, di incontri notturni per pregare insieme,
e il sentirsi responsabile di
altri quindici ragazzi nell'ambito del Rosario vivente,
furono elementi determinanti per la
formazione spirituale di Karol Wojtyla.
Ma anche la cronaca quotidiana di quegli anni di guerra e
di sudditanza nazista. Il lavoro di
fabbrica, con le discussioni e le conversazioni con i
compagni, la fatica fisica aggravata dalla
mancanza di cibo e di vestiti, le sofferenze, le umiliazioni,
le angherie continue dall'invasore,
le tragedie che quotidianamente si vedevano per strada:
pestaggi, retate, arresti, sommarie
esecuzioni. Tutto era fonte di riflessioni e di meditazione
per il giovane Wojtyla.
Un giorno, mentre passeggiava con il padre, vide due
anziani coniugi ebrei inseguiti da soldati
delle ss che sparavano contro quei due poveretti per
spaventarli, per farli correre. Quelle due
persone si tenevano per mano e fuggivano con la bocca
aperta perché non avevano piů fiato e poi si
accasciavano al suolo sfiniti. I soldati ridevano e Karol e
suo padre avevano le lacrime agli
occhi.
Erano situazioni che facevano ribollire il sangue,
spingevano alla ribellione, alla rivolta. Ma
bisognava ragionare, riflettere. E per Wojtyla il vero
maestro, la guida sicura in quella bolgia
infernale, fu Jan Tyranowski. Quel laico timido, che per
guadagnarsi da vivere faceva il sarto.
Uno che lavorava sodo tutti i giorni e, oltre alla sua
professione, svolgeva, di nascosto,
clandestinamente, l'attivitŕ di maestro spirituale.
"Una luce meravigliosa celata infondo alla vita"
Ma chi era veramente Jan Tyranowski? Come mai si č
trovato sulla strada di Karol Wojtyla? Perché
il futuro Papa fu educato e formato soprattutto da quel
sarto mistico?
Certamente, Jan Tyranowski fu un docile strumento nelle
mani di chi sapeva quale missione doveva
un giorno svolgere quel giovane di nome Karol Wojtyla.
Al termine della guerra, quando Wojtyla entrň in
seminario, Jan Tyranowski si ammalň. Il suo
compito era finito. Tra il 1945 e il 1947 rimase a letto
quasi un anno. Probabilmente aveva un
cancro diffuso. Gli venne anche amputato un braccio.
Sopportň ogni sofferenza senza lamentarsi
mai. Consolava coloro che andavano a trovarlo. Morě nel
marzo 1947.
Morě sorridendo agli amici e stringendo un crocefisso sul
petto.
Wojtyla non potč partecipare ai funerali. Era a Roma dove
studiava i mistici spagnoli, alla cui
conoscenza era stato introdotto proprio da Jan. E, in una
commemorazione scritta, affermň:
"Tyranowski era uno di quei santi sconosciuti, celati come
una luce meravigliosa celata in fondo
alla vita, a una profonditŕ dove generalmente regna la
notte".

XIII La notte del dolore disperato

L'attivitŕ di Karol Wojtyla durante la guerra era frenetica.


Si lasciava coinvolgere da mille
iniziative e tutte allo scopo di rendersi utile agli altri.
Quell'innato ardore di altruismo che
c'č sempre nel cuore dei giovani era, in lui, altissimo. E si
sacrificava senza misura per
seguirlo.
Aveva interessi spirituali, patriottici, lavorava come
operaio per vivere, ma la sua passione
restava il teatro.
Con alcuni amici universitari, Juliusz Kydryriski, Tadeusz
Kwiatkowski, Danuta Michalowska, aveva
fondato un gruppo teatrale e una sera alla settimana si
radunavano in casa di Kydryriski per
recitare i classici.
Quelle recite divennero un appuntamento fisso, seguito
da altri giovani appassionati, una trentina
circa. Ma erano incontri pericolosi, proibiti dai tedeschi.
Scrittore di drammi
Le atrocitŕ che Karol vedeva sul lavoro, per la cittŕ durante
le retate dei nazisti, i pestaggi,
le uccisioni di innocenti, freddati per strada, le umiliazioni
cui erano sottoposti anziani
intellettuali, la fame delle masse, l'indigenza dilagante,
erano esperienze che straziavano il
suo animo. Dentro di sé fremeva, ma non poteva fare
niente se non pregare e attendere.
Questa pressione interiore lo indusse a scrivere. Fu
proprio allora, all'inizio dell'occupazione
tedesca, che egli cominciň a cimentarsi come
drammaturgo.
Il suo primo lavoro si intitolava David, lo scrisse tra
novembre e dicembre del 1939, ma č
andato perduto. Non si sa niente quindi del suo
contenuto.
Subito dopo, all'inizio del 1940, scrisse Giobbe, che
invece č stato conservato, rappresentato
varie volte in Polonia e qualche anno fa messo in scena
anche in Italia in uno spettacolo curato
da Ugo Pagliai e Carlo Rao.
Ispirandosi alla vicenda biblica di Giobbe, Wojtyla si
interroga sulle sofferenze che
affliggono l'umanitŕ da sempre, su Dio, sul mistero della
sofferenza redentrice di Cristo.
Egli stesso annotň, a fianco del testo, alcune parole che
costituiscono una chiave di lettura:
"Queste cose stanno accadendo nei nostri giorni, nel
tempo di Giobbe, della Polonia e del mondo.
Queste cose stanno accadendo nel tempo dell'attesa, nel
tempo della nostalgia, del testamento di
Cristo forgiato nel dolore della Polonia, del mondo".
Nell'estate del 1940, Wojtyla portň a termine Geremia,
dramma anch'esso d'ispirazione biblica,
ma ambientato nella Polonia del 1500.
Sempre in quel periodo, ebbe frequenti contatti con il
famoso attore e regista Juliusz Osterwa,
al quale i nazisti avevano vietato di lavorare.
Osterwa era direttore del Teatro nazionale polacco e
inoltre aveva fondato una sua compagnia, il
Teatro Reduta, per far conoscere i classici della
drammaturgia polacca a un vasto pubblico.
Ora, perň, non potendo lavorare liberamente, cercava di
realizzare altri progetti, sempre legati
al teatro.
Si avvicinň al gruppo clandestino dei giovani di Wojtyla e
andava a vedere gli spettacoli che si
allestivano in casa di Juliusz Kydryriski.
Si entusiasmň per Karol e volle coinvolgerlo in particolare
nelle nuove traduzioni in polacco
contemporaneo dei capolavori del teatro mondiale.
Karol diede a quell'impresa un contributo notevole,
soprattutto nella traduzione dell'Edipo di
Sofocle, dimostrando di avere una perfetta conoscenza
del greco antico.
A ventun anni, solo al mondo
A Natale del 1940, Karol Wojtyla senior, si ammalň. Il
freddo, l'umiditŕ di quell'appartamento
seminterrato, il cibo scadente e scarso avevano debilitato
il fisico del vecchio capitano.
Loěek era preoccupato. Soprattutto perché non poteva
stare sempre accanto al padre e assisterlo.
Tutti i giorni doveva andare al lavoro. Ogni assenza
doveva essere segnalata ai nazisti che
avrebbero cominciato a sospettare, avrebbero indagato e
magari avrebbero scoperto le sue attivitŕ
teatrali, il suo lavoro nell'associazione del Rosario
Vivente, attivitŕ proibite, per le quali si
rischiava la vita.
Tutte le mattine, quindi, Lolek si alzava presto, sistemava
l'anziano genitore, e poi andava in
fabbrica.
Quando tornava, nel pomeriggio, correva nella stanza del
padre con il cuore in gola. Temeva sempre
che potesse accadere qualche cosa di irreparabile.
Gli amici di Lolek cercavano di aiutarlo, di dargli una
mano Soprattutto la famiglia di Juliusz
Kydryrěski. Tornando dal lavoro, Karol faceva sempre la
strada insieme a Juliusz e si fermava
nella casa dell'amico perché la madre gli preparava la
cena e gli dava qualcosa da portare al
capitano. Inoltre, tutti i pomeriggi, la sorella, Maria,
andava con lui, e rimaneva qualche ora
nel suo appartamento per riassettarlo e scaldare il cibo
per il capitano.
Il 18 febbraio 1941 era un giorno gelido. Karol, come al
solito, si alzň molto presto. Gli
sembrava che le condizioni di salute di suo padre fossero
peggiorate, ma questi lo rassicurň,
dicendogli che si sentiva bene. Allora il giovane preparň
la colazione, la portň al padre a
letto, gli stette vicino, lo aiutň a mangiare e poi uscě.
Trascorse una giornata triste, pensando a lui.
Finito il turno, andň a casa dei Kydryriski per prendere la
cena e qualche medicina per il papŕ.
Poi si affrettň verso casa, insieme a Maria.
Entrati nell'appartamentino, la ragazza si diresse in
cucina,
La notte del dolore disperato 167
mentre Karol si recň dal padre, la cui camera era in fondo
al buio corridoio.
Il capitano era morto. Era stato fulminato da un attacco
cardiaco mentre aveva tentato di
alzarsi.
Maria raccontň che Lolek scoppiň in un pianto dirotto. Tra
le lacrime e i singulti si
rimproverava di non essere stato presente alla morte del
padre. Diceva che al momento della
morte non aveva potuto essere accanto neanche a sua
madre, e neppure al fratello Edmund e ora lo
stesso era accaduto per suo padre. Le persone a lui piů
care se ne erano andate da questo mondo
senza che lui avesse potuto essere loro vicino. Si sentiva
colpevole e singhiozzava.
Dopo un po', corse alla chiesa di San Stanislao Kostka a
chiamare il sacerdote affinchč venisse
a dare una benedizione al defunto. Si rimproverava
anche perché suo padre era morto senza aver
potuto ricevere gli ultimi sacramenti.
Maria, intanto, era tornata a casa ad avvertire i suoi
dell'accaduto.
Juliusz si recň dall'amico e rimase con lui tutta la notte,
mentre Lolek restň in ginocchio
davanti alla salma del padre, pregando e parlando con
l'amico per dare sfogo al proprio
terribile dolore.
I funerali furono celebrati il 22 febbraio da padre
Figlewicz. Il capitano venne sepolto nella
sezione militare del cimitero di Rakowice.
La morte del padre fu un colpo tremendo per Karol
Wojtyla. Non aveva ancora ventun anni, ed era
giŕ completamente solo al mondo. Aveva perduto tutti i
componenti della sua famiglia.
Ora pensava solo al teatro
I Kydryriski, vedendo quanto Karol era prostrato dal
dolore, lo invitarono a stare un po' a casa
loro, e lui accettň.
Vi rimase cinque mesi. Non se la sentiva di tornare
nell'appartamento di via Tyniecka dove aveva
cessato di vivere suo padre. Ma non si lasciň sopraffare
dalla pena. Riprese subito
la sua attivitŕ: lavoro in fabbrica, impegni con il Rosario
vivente, con il teatro. Le sue
giornate erano piene e spesso restava sveglio fino a tardi
anche di notte.
Perň era cambiato. Quell'allegria spensierata che l'aveva
sempre contraddistinto era sparita. Gli
amici lo vedevano spesso silenzioso e triste. Cercavano
di essergli vicini, di farlo parlare,
volevano che si confidasse, ma il suo animo era
impenetrabile. Di una cosa erano certi: ora amava
ancor di piů il teatro. Alle prove, era infaticabile. Era
diventato esigentissimo nei confronti di
se stesso, pretendeva la perfezione.
L'attrice Halina Królikiewicz dirŕ in seguito: ŤA ogni
interpretazione il modo in cui Wojtyla
recitava la sua parte diventava piů ascetico, piů
profondoť. E l'altra attrice della compagnia,
Danuta Michalowska: ŤLa sua era una recitazione piena
di tensione/ in cui Karol non perdeva un
solo accento, una sola pausa che potesse essere
sfruttata per accrescere le emozioni
dell'ascoltatoreť.
Tutti gli amici di Wojtyla erano convinti che, finita la
guerra, Karol sarebbe stato il nuovo
grande astro del teatro polacco.
Nel luglio del 1941, il professor Mieczyslaw Kotlarczyk
dovette lasciare Wadowice. Era diventato
troppo pericoloso per un intellettuale in vista come lui
vivere in una cittŕ che era stata
assorbita dal Reich.
Decise di trasferirsi, con la moglie Zofia, a Cracovia.
Chiese aiuto all'amico Wojtyla che si
offrě di ospitarlo nel suo appartamento e cosě anche
Karol approfittň per lasciare la famiglia
dei Kydryriski e tornare a vivere nella casa paterna.
A Cracovia, Kotlarczyk trovň lavoro come tranviere, e in
seguito come impiegato, ma continuň a
interessarsi di teatro.
Divenne la guida della compagnia teatrale fondata da
Karol Wojtyla, dando alla produzione un
significato ideologico, che mirava a sviluppare la
resistenza intellettuale della Polonia contro
l'invasore.
Come egli diceva, l'attivitŕ teatrale doveva essere "una
protesta contro lo sterminio della
cultura della nazione polacca sul suo stesso suolo, una
forma di movimento di resistenza
clandestina contro l'occupazione nazista". La compagnia
prese allora il nome di Teatro
Rapsodico.
A dicembre del 1941, Kotlarczyk fu raggiunto anche da
Maria, sua sorella minore, che aveva
sedici anni, e dovette fuggire da Wadowice,
attraversando di notte il fiume Skawa, per non
finire in un campo di concentramento in Germania. Cosě,
nel piccolo appartamento di via
Tyniecka, si ritrovarono in quattro.
Nel libro Dono e mistero, Giovanni Paolo II, ricordando
quel periodo, scrisse: "Abitavamo
insieme. Io lavoravo come operaio, Mieczyslaw
Kotlarczyk inizialmente come tranviere e, in
seguito, come impiegato in un ufficio. Condividendo la
stessa casa, potevamo non solo continuare
i nostri discorsi sul teatro, ma anche tentarne attuazioni
concrete, che assumevano appunto il
carattere di teatro della parola. Era un teatro molto
semplice. La parte scenica e decorativa
era ridotta al minimo; l'impegno si concentrava
essenzialmente nella recitazione del testo
poetico".
La casa di Wojtyla divenne una scuola. Tutto il lavoro
veniva realizzato insieme, dalla
scrittura dei testi alle scene. Temi, dialoghi, personaggi,
ideologie, obiettivi, tutto usciva
da lunghe discussioni, che a volte duravano anche
settimane.
Le prove si tenevano il mercoledě e il sabato, nella cucina
gelida, illuminata da una candela.
I giovani attori arrivavano guardinghi, alla chetichella.
Incombeva sempre il timore di
un'irruzione o di una retata dei nazisti.
Mantenere il segreto intorno a quegli incontri teatrali era
indispensabile; si rischiavano
altrimenti gravi punizioni e anche la deportazione nei
lager.
Le recite avvenivano in case private, davanti a un ristretto
gruppo di conoscenti e di invitati,
i quali avevano uno specifico interesse per la letteratura
ed erano, in qualche modo, degli
"iniziati".
Quel gruppo, costituito da ragazzi e ragazze, visse
un'esperienza sublime, che nessuno di essi
potč dimenticare mai. Uniti da una passione, da un
entusiasmo cosě grandi da sfidare
la morte. Passione per l'arte, tensione emotiva, carica
sentimentale, rischio, clandestinitŕ.
Karol, oltre a essere l'elemento di spicco nelle recite, era
il capo carismatico di quei giovani.
Kotlarczyk era l'ideologo, l'organizzatore. Karol l'anima
del gruppo.
La sua passione per il teatro aumentava sempre piů
insieme alla sua bravura e sembrava che proprio
quella passione fosse l'elemento che riusciva a lenire il
dolore per la perdita del padre e la
solitudine di essere rimasto solo al mondo.
Nessuno avrebbe potuto immaginare, invece, che,
proprio in quel periodo, spinto da quella
situazione di grande frustrazione, egli stava maturando
altre fondamentali decisioni.

XIV Sulle orme di frate Alberto

La prima importante produzione che il Teatro Rapsodico


realizzň dopo l'arrivo di Mieczyslaw
Kotlarczyk a Cracovia fu il dramma di Slowacki il Re-
Spirito.
Venne messo in scena quattro volte a partire dal 1°
novembre 1941.
Karol Wojtyla sosteneva il ruolo di re Boleslao l'Audace, e
le diede un'interpretazione che
impressionň vivamente coloro che poterono assistere alle
rappresentazioni.
Non furono molti gli spettatori perché lo spettacolo si
teneva in case private, nelle ore
pomeridiane, in modo da poter terminare prima del
coprifuoco, ma a Cracovia si parlň parecchio di
quella interpretazione cosě intensa e originale.
Seguirono Beniowski, altro poema di Slowacki; poi Inni, di
Jan Kasprowicz; L'ora di VJyspiariski,
un'antologia di brani tolda tre opere di Wyspiariski; L'ora
di Norwid, altro lavoro antologico;
Pati Tadeusz, di Mickiewicz; Samuel Zborowski di
ělowacki, in cui Wojtyla recitava la parte del
nobile polacco nel Sedicesimo secolo, in rivolta contro
l'ordine costituito del suo tempo.
ŤNei piani di Dio nulla č casualeť
Quella fu l'ultima produzione cui Karol Wojtyla partecipň.
Al termine della terza rappresentazione di
quell'allestimento, nell'aprile del 1943, egli
abbandonň definitivamente
l'attivitŕ e i sogni di attore, perché aveva scoperto un'altra
vocazione.
Scrisse in Dono e mistero: "Devo ammettere che tutta
quella esperienza teatrale mi si č impressa
profondamente nell'animo, anche se a un certo momento
mi resi conto che in realtŕ non era quella
la mia vocazione".
La morte del padre aveva svegliato nel cuore di Karol
problemi profondi.
Il capitano, con la sua saggezza illuminata, la sua
silenziosa dolcezza e la sua cristallina
struttura morale, era stato un esempio fulgido e un punto
di riferimento granitico per Lolek.
Sia nell'infanzia come nella prima giovinezza. Perderlo, e
perderlo in un momento cosě drammatico
della vita del Paese, aveva significato per lui sentirsi
proprio crollare il mondo addosso.
Raramente Karol Wojtyla ha palesato i propri sentimenti e
le proprie sofferenze per la morte dei
suoi cari.
Ha vissuto quei tragici avvenimenti nella solitudine,
pregando e piangendo per se stesso, ma anche
lungo il corso del tempo della sua vita si č sempre tenuto
tutto dentro.
Poche parole ha detto e scritto per la perdita della madre,
qualche cosa di piů per quella del
fratello, quasi niente per il padre.
Ma questo significa che il dolore era talmente profondo e
intimo da non riuscire neppure a
esternarlo senza il timore di profanare la memoria di chi
aveva tanto amato e continuava ad amare.
Dopo la sua elezione a Pontefice, confidň all'amico
francese Andre Frossard: ŤA vent'anni avevo
giŕ perso tutti coloro che amavo, e perfino coloro che
avrei potuto amare, come la mia sorellina
maggiore che, mi dissero, era morta sei anni prima della
mia nascitať.
I mesi trascorsi in casa della famiglia Kydryriski, che
aveva voluto ospitarlo per non
lasciarlo solo nell'appartamento di via Tyniecka subito
dopo la morte del capitano, gli erano
serviti per riflettere.
Durante le notti insonni rivedeva la sua esistenza:
dall'infanzia alla maturitŕ. Dalla morte
della mamma a quella del fratello, del padre. Rifletteva
sulla guerra, sulle atrocitŕ, sui
pericoli che aveva superato. Si chiedeva perché non
fosse finito in un campo di concentramento
come tanti suoi compagni.
Cominciň a vedere dei "segni" in tutte le vicende che lo
avevano riguardato. Cominciň a pensare
che la vita di ciascuno č guidata, ha un disegno preciso e
che le vicende, le occasioni, i fatti
ci aiutano a capire quale sia la nostra vera strada.
"La definitiva maturazione della mia vocazione
sacerdotale avvenne nel periodo della Seconda
guerra mondiale, durante l'occupazione nazista" ha
raccontato Giovanni Paolo II
nell'autobiografia. "Una semplice coincidenza temporale?
O c'era un nesso piů profondo tra ciň
che maturava dentro di me e il contesto storico?
"E' difficile rispondere a siffatta domanda. Certo, nei piani
di Dio nulla č casuale. Ciň che
posso dire č che la tragedia della guerra diede al
processo di maturazione della mia scelta di
vita una colorazione particolare. Mi aiutň a cogliere da
un'angolatura nuova il valore e
l'importanza della vocazione. Di fronte al dilagare del
male e alle atrocitŕ della guerra, mi
diventava sempre piů chiaro il senso del sacerdozio e
della sua missione nel mondo."
ŤIl Signore vuole che io diventi sacerdoteť
E devo qui citare ampiamente le confidenze di Wojtyla
fatte in quel suo libro, in quanto non
esiste nessun altro documento che riveli ciň che accadde
nel suo intimo in quel periodo.
"Lo scoppio della guerra mi allontanň dagli studi e
dall'ambiente universitario" ha scritto il
Papa. "In quel periodo persi mio padre, l'ultima persona
che mi restava dei miei piů stretti
familiari. Anche questo comportava, oggettivamente, un
processo di distacco dai miei progetti
precedenti; in qualche modo era come venir sradicato dal
suolo sul quale fino a quel momento era
cresciuta la mia umanitŕ.
"Non si trattava perň di un processo soltanto negativo.
Alla
mia coscienza, infatti, nel contempo si manifestava
sempre piů una luce: il Signore vuole che io
diventi sacerdote. Un giorno lo percepii con molta
chiarezza: era come un'illuminazione interiore,
che portava in sé la gioia e la sicurezza di un'altra
vocazione. E questa consapevolezza mi riempě
di una grande pace interiore. "Questo accadeva sullo
sfondo degli avvenimenti terribili che
andavano svolgendosi intorno a me a Cracovia, in
Polonia, nell'Europa e nel mondo.
"Fui coinvolto direttamente soltanto in una piccola parte di
quanto sperimentarono, a partire dal
1939, i miei connazionali. Penso in special modo ai miei
coetanei della maturitŕ a Wadowice, amici
a me molto cari, tra i quali alcuni ebrei.
"Ci fu chi scelse il servizio militare giŕ nel 1938. Sembra
che il primo a morire in guerra sia
stato il piů giovane della classe. In seguito venni a
conoscere soltanto a grandi linee la sorte
di altri caduti sui vari fronti, o morti nei campi di
concentramento, o finiti a combattere presso
Tobruk e Montecassino, o deportati nei territori
dell'Unione Sovietica: in Russia e in Kazakistan.
Appresi queste notizie prima gradualmente, poi piů
compiutamente a Wadowice nel 1948, durante il
raduno dei colleghi in occasione del decimo anno dalla
maturitŕ.
"Del grande e orrendo theatrum della Seconda guerra
mondiale mi fu risparmiato molto. Ogni giorno
avrei potuto essere prelevato dalla casa, dalla cava di
pietra, dalla fabbrica per essere portato
in un campo di concentramento. A volte mi domandavo:
tanti miei coetanei perdono la vita, perché
non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto del
grande male della guerra, nella mia vita
personale tutto volgeva in direzione del bene costituito
dalla vocazione."
Quando fu pienamente convinto della sua vocazione
sacerdotale, Karol avvertě gli amici, dicendo
loro che lasciava la compagnia del Teatro Rapsodico.
Tutti si meravigliavano. Sapevano che era molto sensibile
alla religione, che frequentava la
chiesa, ma sapevano anche che tutto il suo entusiasmo e
i suoi interessi erano rivolti verso
l'arte: la poesia, la letteratura, il teatro. Il piů contrario fu
Kotlarczyk.
Anche lui era credente, cattolico praticante, ma era
convinto che la vocazione di Karol fosse
quella del teatro, vocazione religiosa e sociale, che gli
avrebbe permesso, attraverso il
teatro, di portare un grande contributo alla sua patria.
Per tutta una notte, Kotlarczyk e gli altri amici di Wojtyla
rimasero a discutere con lui per
cercare di convincerlo a cambiare idea, ma inutilmente: la
decisione era irrevocabile.
Il fascino del poverello di Cracovia
Oltre che la guerra, le esperienze in fabbrica, la morte del
padre, nella maturazione di Wojtyla
verso il sacerdozio ebbe un ruolo importante anche
l'incontro con un personaggio storico, che
egli cominciň a conoscere a fondo in quel periodo
leggendone la biografia. Si tratta di frate
Alberto, un religioso polacco vissuto nell'Ottocento e che
Papa Wojtyla ha fatto beato nel 1983
e poi santo nel 1989.
"Mi domando" ha scritto Giovanni Paolo II nel suo libro
"quale ruolo abbia svolto nella mia
vocazione la figura del santo frate Alberto. Adam
Chmielowski: era questo il suo nome, e non era
sacerdote.
"Tutti in Polonia sanno chi egli sia stato. Nel periodo della
mia passione per il Teatro
Rapsodico e per l'arte, la figura di quest'uomo
coraggioso, che aveva partecipato
all''insurrezione di gennaio (1864) perdendo una gamba
durante i combattimenti,
esercitava su di me un fascino spirituale particolare.
"E' noto che frate Alberto era pittore: aveva compiuto i
suoi studi a Monaco. Il patrimonio
artistico da lui lasciato dimostra che aveva un grande
talento. Ebbene, quest'uomo a un certo
punto della sua vita rompe con l'arte, perché comprende
che Dio lo chiama a compiti ben piů
importanti.
"Venuto a conoscenza dell'ambiente dei miserabili di
Cracovia, il cui punto d'incontro era il
pubblico dormitorio, detto anche 'posto di riscaldamento',
in via Krakowska, Adam Chmielowski
decide di diventare uno di loro, non come elemosiniere
che arriva da fuori per distribuire dei
doni, ma come uno che dona se stesso per servire i
diseredati."
Nato nel 1845, Adam Chmielowski rimase orfano
bambino e fu cresciuto da parenti.
Dopo le scuole elementari, per due anni frequentň una
scuola agraria e nel 1863, quando aveva solo
diciassette anni, partecipň all'insurrezione contro il
dominio russo. Rimase ferito in battaglia e
subě l'amputazione della gamba sinistra.
Dopo la repressione della rivolta, frequentň un istituto
d'arte a Varsavia, poi andň a studiare
pittura a Parigi e Monaco. Divenne un valente artista.
Tenne la sua prima mostra a Cracovia nel
1870. Per dieci anni continuň a mietere successi e
affermazioni, ma quella vita non gli dava piena
soddisfazione.
Nel 1880 decise di entrare nei gesuiti, ma vi rimase solo
sei mesi. Un forte esaurimento lo
costrinse a tornare nel mondo.
Quattro anni dopo, a Cracovia, spinto sempre da
quell'insoddisfazione interiore che lo pungolava,
cominciň a interessarsi dei poveri, in particolare dei
senzatetto.
Era la sua strada. Nel 1887, indossato un semplice saio,
assunse il nome di "frate Alberto". Un
anno dopo pronunciň i voti di fronte al cardinale Albin
Dunajewski, che aveva anch'egli
partecipato alla rivolta antirussa del 1864. Fondň in
seguito i Fratelli albertini e, qualche
anno dopo, le Suore albertine e, vivendo in radicale
povertŕ, dedicň il resto della sua vita ai
poveri e ai senzatetto. Morě il giorno di Natale del 1916.
"Nella storia della spiritualitŕ polacca, il santo frate Alberto
occupa un posto speciale" ha
scritto Giovanni Paolo II. "Per me, la sua figura č stata
determinante, perché trovai in lui un
particolare appoggio spirituale e un esempio nel mio
allontanarmi dall'arte, dalla letteratura e
dal teatro, per la scelta radicale della vocazione al
sacerdozio."
Ecco quindi svelato un altro "segreto" della vita di Karol
Wojtyla.
Egli afferma esplicitamente che frate Alberto "č stato
determinante" per la sua scelta di
diventare sacerdote.
Proprio mentre si dedicava con tutto se stesso al teatro e
alla letteratura, ha incontrato quel
personaggio, che era stato un grande artista, ma che
aveva sperimentato come l'arte non poteva
riempire pienamente le aspirazioni della sua anima.
Sentiva una certa affinitŕ con quell'uomo. Si rispecchiava
nella sua passione per l'arte ma
anche nel suo amore per i poveri e per i valori dello
spirito.
Wojtyla non lo dimenticň piů.
"Una delle gioie piů grandi che ho avuto da Papa" ha
scritto Giovanni Paolo II "č stata quella
di innalzare questo poverello di Cracovia in tonaca grigia
agli onori degli altari, prima con la
beatificazione a Blonie Krakowskie, durante il viaggio in
Polonia del 1983, poi con la
canonizzazione a Roma, nel novembre del memorabile
anno 1989.
"Molti autori della letteratura polacca hanno immortalato
la figura di frate Alberto. Anch'io,
da giovane sacerdote, nel periodo in cui ero vicario
presso la chiesa di San Floriano a
Cracovia, gli dedicai un'opera drammatica intitolata II
Fratello del nostro Dio, pagando in tal
modo il debito di gratitudine che avevo contratto con lui."
Sull'esempio di frate Alberto, Karol Wojtyla rinunciň
all'arte per diventare sacerdote.
Ma non dimenticň mai ciň che il teatro gli aveva dato, e
che si era, in un certo senso,
"connaturato" con il suo proprio essere: la capacitŕ di
comunicare attraverso l'azione e la
parola.
Karol Wojtyla, da sacerdote, da vescovo, da cardinale e
da Papa fu sempre uno straordinario
comunicatore. Il suo modo di parlare, di porgere, di
trasmettere ebbe sempre l'eleganza, la
chiarezza, la forza di un grande attore.
Anche quando era diventato vecchio, quando la malattia
e gli acciacchi avevano piegato e
sformato il suo fisico, giganteggiava in ogni
manifestazione.
Era presente sempre, senza mai defezioni, a programmi
fisicamente massacranti. A volte,
l'impegno richiedeva sei, sette ore di permanenza
continua davanti alle folle, sotto l'occhio
impietoso delle telecamere, per cerimonie religiose
gigantesche. Giovanni Paolo II, infermo,
tremante, non ha mai rinunciato
a presenziare. Cosě come solo in casi rari ha cancellato i
viaggi internazionali che erano stati
previsti.
Uno degli ultimi grandissimi spettacoli mondiali che lo
videro protagonista indiscusso fu il
Grande Giubileo del 2000.
Alcuni degli appuntamenti di quel Giubileo saranno
ricordati nella storia, come, per esempio,
l'incontro con i giovani a Tor Vergata, in agosto, con due
milioni di presenze, la coraggiosa
celebrazione dei martiri del Ventesimo secolo al
Colosseo, il 7 maggio, la cerimonia della
beatificazione di Francesco e Giacinta Marto a Fatima, il
13 maggio eccetera. Eventi che hanno
commosso non solo i partecipanti ma anche milioni e
milioni di persone che li hanno seguiti alla
televisione.
Le cerimonie avevano la solennitŕ e il fascino delle
antiche sacre rappresentazioni.
Guardandole, veniva spontaneo pensare che il regista
dovesse essere lui, Karol Wojtyla, che da
giovane era stato uno straordinario drammaturgo. Quei
quadri cosě vivi, cosě forti, essenziali ma
potenti, erano certamente stati pensati e immaginati da
un poeta, da un grande uomo di teatro,
quale era stato e continuava a essere Karol Wojtyla.

XV Il Nemico vuole uccidere

"Nel suo strato piů profondo, ogni vocazione sacerdotale


č un grande mistero, č un dono che supera
infinitamente l'uomo" ha scritto Giovanni Paolo II parlando
della propria vocazione. E quando
egli, giovane operaio a Cracovia, si trovň catapultato in
quel mistero e prese coscienza di quel
dono, non ebbe alcuna esitazione a cambiare la propria
vita, a rivoluzionarla, a buttare
all'aria sogni e progetti coltivati per anni e iniziare un
nuovo cammino, con nuovi obiettivi da
raggiungere.
Seminarista clandestino
Una mattina dell'autunno del 1942, approfittando che era
libero perché in fabbrica, quella
settimana, faceva il turno di notte, raggiunse a piedi la
residenza dell'arcivescovo di Cracovia
e chiese di parlare con sua eccellenza Adam Sapieha.
Fu accolto da un sacerdote che, gentilmente e con tatto,
gli chiese per quale motivo volesse
incontrare l'arcivescovo.
ŤVorrei diventare sacerdoteť disse Karol Wojtyla.
Il suo interlocutore sorrise. Era padre Jan Piwowarczyk, il
rettore del seminario.
Rimasero a parlare a lungo. Wojtyla gli raccontň della
propria vita.
Padre Piwowarczyk sapeva giŕ molto di lui, della sua
attivitŕ, della sua fede. Al termine del
colloquio, lo accompagnň dall'arcivescovo e Karol fu
ufficialmente accolto in seminario.
Un seminario, per la veritŕ, inesistente.
Subito dopo l'occupazione tedesca, la Gestapo aveva
cercato di prendere sotto il proprio controllo
il seminario di Cracovia, con l'intento di degradarlo a una
sorta di scuola professionale
clericale.
L'obiettivo che i nazisti volevano raggiungere in Polonia
era quello di distruggere tutto, in
particolare la Chiesa cattolica. Squalificare il seminario,
che per la serietŕ degli studi e il
prestigio dei professori era una facoltŕ dell'Universitŕ
Jagellonica, significava squalificare la
Chiesa polacca.
Ma l'arcivescovo Sapieha si oppose con tutte le sue
forze. Rifiutň qualunque ingerenza della
Gestapo nelle cose della Chiesa, e tali erano il suo
coraggio, la sua forza morale, la sua
autoritŕ, che il feroce Hans Frank, dittatore del
Governatorato generale, non riuscě mai a
piegarlo.
Per cercare di raggiungere i propri obiettivi, il governo
nazista continuava a emettere
provvedimenti legislativi, ma l'arcivescovo aggirava
sempre l'ostacolo.
A un certo momento i tedeschi proibirono l'ammissione di
nuovi seminaristi, pena la fucilazione.
L'arcivescovo, per salvare la vita ai suoi giovani fu
costretto a cedere, ma solo in parte.
Rimandň a casa i piů giovani e tenne gli studenti di
teologia, e li assunse come "segretari
parrocchiali" sistemandoli nelle varie parrocchie della cittŕ,
da dove ogni tanto si recavano in
arcivescovado per seguire le lezioni. Un giorno perň i
nazisti tesero un agguato a quei ragazzi
e ne arrestarono cinque, che furono immediatamente
fucilati. Per evitare altre tragedie,
l'arcivescovo stabilě che il seminario entrasse in completa
clandestinitŕ. I candidati sarebbero
stati accettati in segreto. Avrebbero continuato a vivere a
casa, compiendo il loro normale
lavoro, senza parlare con nessuno della loro nuova
posizione, studiando nel tempo libero e
presentandosi ogni tanto ai professori per gli esami. Cosě
sarebbero riusciti a sfuggire alla
Gestapo e a tempo debito, si sperava, avrebbero portato
a termine gli studi e sarebbero stati
ordinati sacerdoti.
Karol Wojtyla fu uno dei primi dieci allievi del seminario
clandestino. Quel giorno, prima di
lasciare l'arcivescovado, ricevette dal rettore alcuni libri di
filosofia e di teologia. Tornň
nel suo appartamento e quella sera stessa riprese il suo
lavoro, nel turno di notte alla Solvay.
Da allora chiese e ottenne di poter lavorare
preferibilmente nei turni di notte. Poteva
dedicarsi indisturbato allo studio dei grossi volumi di
filosofia e di teologia che gli erano
stati dati in arcivescovado.
L'amore di Irka
La sua vita era radicalmente cambiata. Esteriormente
tutto procedeva come prima. Vestiva in
borghese, andava in fabbrica, frequentava gli amici,
continuava la sua attivitŕ al Rosario
vivente. Ma il fine di quanto faceva, l'obiettivo da
raggiungere, il senso di ogni cosa non
avevano piů niente a che fare con il suo passato.
Tutto perň si svolgeva in gran segreto. In arcivescovado
gli era stato specificato che nessuno
doveva sapere che egli ora era un seminarista. Se fosse
stato scoperto, sarebbe stato fucilato o
spedito in un lager.
I compagni di fabbrica si erano accorti che qualche cosa
era cambiato. Vedevano che Karol
pregava con maggior frequenza di prima. Che leggeva
volumi ponderosi scritti in latino. Lo
prendevano bonariamente in giro chiamandolo "il
Pretino". Ma gli volevano bene e cercavano anche
di aiutarlo, lavorando al suo posto per permettergli di
trascorrere piů tempo su quei grossi
libri. Cosě, spesso accadeva che egli potesse restare
seduto tra le tubature o sulla piattaforma
del serbatoio che alimentava la caldaia, immerso nello
studio, mentre il suo compagno svolgeva
anche il lavoro che avrebbe dovuto fare lui.
Era dimagrito parecchio, dopo la morte del padre. Aveva
assunto un aspetto austero, che
aumentava il suo naturale fascino.
Le donne addette alla cucina della mensa della Solvay
avevano un debole per lui. Quando
potevano, cercavano di dargli qualche fetta di pane piů
grossa.
Ammiravano la sua bellezza, ma sapevano che era
anche un
giovane molto buono. La sua generositŕ verso i poveri era
diventata leggendaria. Un giorno arrivň
al lavoro livido di freddo: aveva regalato la giacca a un
barbone incontrato per strada. Un suo
compagno di lavoro, Jozef Krasuski, raccontň che una
ragazza della mensa, Irka Dabrowsk, di
diciotto anni, figlia di un dirigente della Solvay, si era
perdutamente innamorata di Karol.
Per la festa del proprio compleanno, Irka l'aveva invitato,
ma lui aveva risposto che non poteva
andare.
Jozef lo rimproverava: ŤE' carina, č brava, ti vuole bene,
accontentala. Qui tutti abbiamo una
gran fame; almeno tu, per una sera, mangerai bene e a
sazietŕť.
Alla fine Karol aveva accettato, ma, forse per scoraggiare
la ragazza, si presentň alla festa con
la tuta da lavoro e gli zoccoli di legno. ŤE l'unico vestito
pulito che hoť aveva detto. ŤLo
tengo per le grandi occasioni.ť
Irka ci rimase male, ma continuň a fargli una corte
spietata.
Travolto da un camion militare
Ogni giorno, prima di rientrare nel suo appartamento,
Karol andava al cimitero a pregare sulla
tomba del padre.
Al mattino, spesso si recava nella residenza
dell'arcivescovo Sapieha per assisterlo nella
celebrazione della Messa e poi si fermava a fare
colazione con lui. A Sapieha piaceva parlare
con quel giovanotto e, conoscendolo, intuiva quanto
grande fosse il suo spirito. Anche
l'arcivescovo aveva cominciato a fare progetti su Wojtyla.
Il 29 febbraio 1944 accadde qualche cosa che avrebbe
potuto mettere la parola fine a tutta
questa storia. Ancora uno di quegli incidenti terribili, che
certamente vanno ascritti al caso,
ma che potrebbero anche essere frutto di quel suo
implacabile Nemico, di cui abbiamo parlato
altre volte in queste pagine.
Erano le tre del pomeriggio. Karol aveva terminato il suo
turno di lavoro alla Solvay e si
incamminava per andare al cimitero a pregare sulla
tomba del padre, come faceva tutti i giorni.
La strada era invasa da camion e macchine militari
tedeschi. Era in atto il trasferimento di un
reparto di soldati da una parte all'altra della cittŕ.
Karol procedeva guardingo, tenendosi sul ciglio della
strada. Ogni tanto guardava all'indietro
per vedere se quel serpentone d'acciaio avesse una fine.
Ma la colonna, che provocava un
frastuono assordante e fumo nauseante e irrespirabile,
sembrava interminabile.
A una curva, un camion sbandň sulla destra, prese in
pieno Karol Wojtyla scaraventandolo
nell'adiacente fossato che costeggiava la via.
Il camionista si accorse certamente dello sbandamento e
vide l'uomo che aveva investito alle
spalle, facendogli fare un volo per aria e buttandolo nel
fossato, ma non si fermň. Succedeva
tutti i giorni che qualche polacco perdesse la vita investito
da automezzi militari, ma i
polacchi non contavano niente. Il camion continuň la sua
corsa, la colonna continuň a
serpeggiare per la via, Wojtyla era spanto tra l'erba, nel
fango.
Per fortuna alla scena assistette anche una donna che
abitava in una delle case vicine e che in
quel momento era, per caso, alla finestra.
La donna si precipitň di corsa sul luogo dell'incidente.
Cercň tra l'erba e trovň il giovane
tutto insanguinato e privo di conoscenza.
Si mise a gridare verso gli automezzi militari che
continuavano a passare. Riuscě a fermare la
macchina di un ufficiale tedesco. Questi osservň il corpo
del ragazzo pieno di ferite e si
accorse che respirava ancora. Mosso a pietŕ dalle
richieste della donna, fermň un camion e gli
ordinň di portare il ferito nel vicino ospedale.
Karol venne ricoverato. Aveva una commozione
cerebrale e ferite in varie parti del corpo. Rimase
in coma due giorni, poi riprese conoscenza.
Fu curato in ospedale per due settimane e poi dovette
fare un mese di convalescenza. Se quella
donna non lo avesse visto mentre veniva investito e non
avesse avuto il coraggio di sfidare i
tedeschi per soccorrerlo, Papa Giovanni Paolo II non
sarebbe esistito.
La Domenica nera
Sei mesi piů tardi, le forze avverse scatenarono ancora
un attentato alla vita di Karol Wojtyla,
ma ancora una volta non riuscirono nel loro intento. Karol
era protetto e si salvň in modo
misterioso.
Il primo di agosto 1944 ci fu l'insurrezione di Varsavia.
L'esercito clandestino polacco, aiutato
dalla gente, tentň di liberare la cittŕ dalle truppe naziste. I
partigiani si aspettavano l'aiuto
dei russi e di altre nazioni che invece non mossero un
dito. Varsavia lottň per un mese e poi, per
ordine di Hitler, fu rasa al suolo.
Nei giorni che seguirono l'insurrezione, i tedeschi
temevano che l'esempio di Varsavia venisse
imitato anche da altre cittŕ e per prevenire questo pericolo
organizzarono feroci rappresaglie,
retate massicce, deportazioni in massa.
Il 6 agosto la rappresaglia si scatenň a Cracovia.
Era il giorno della Festa della Trasfigurazione e per gli
abitanti di Cracovia diventň la Domenica
nera.
Gli uomini della Gestapo setacciarono tutti gli
appartamenti e arrestarono ottomila tra uomini e
giovani, portandoli in carcere. Molti di loro poi furono
spediti nei campi di concentramento, da
cui non tornarono.
Wojtyla era nel suo appartamento di via Tyniecka. Udiva
le urla degli arrestati e i passi dei
soldati tedeschi che salivano e scendevano le scale dello
stabile. Li sentiva nelle stanze sopra
di lui.
Era inginocchiato per terra e pregava. Se i nazisti fossero
entrati, sarebbe stata la fine. Ma
non si sa per quale ragione, i soldati tedeschi "non
videro" la porta del suo appartamento.
Continuarono a passare davanti a quell'ingresso, senza
notarlo e quindi senza entrare.
Wojtyla rimase inginocchiato per molte ore anche dopo
che i soldati se ne erano andati. Ora
pregava per ringraziare Dio della protezione ricevuta.
Sapeva che se lo avessero trovato non
sarebbe mai diventato sacerdote.
Per cinque mesi, recluso nei sotterranei
Il giorno successivo l'arcivescovo inviň dei suoi
collaboratori fidati ad avvertire i dieci
seminaristi clandestini, che vivevano nelle loro case, di
andare da lui. La situazione era
diventata pericolosissima, e non voleva che rischiassero
la vita.
I giovani riuscirono a raggiungere il palazzo con difficoltŕ,
perché le vie erano sorvegliate
dalle guardie della Gestapo.
Quando ci furono tutti, l'arcivescovo disse loro: ŤE' troppo
pericoloso per voi vivere in cittŕ.
D'ora in poi resterete sempre qui con meť. Diede loro
delle vecchie tonache e procurň a ciascuno
dei documenti falsi. In caso di una perquisizione tedesca,
dovevano dichiarare di essere dei
sacerdoti.
Ogni mattina, due funzionari della Gestapo andavano alla
Solvay a controllare il registro delle
presenze degli operai in fabbrica. Si accorsero che non
compariva piů la firma di Karol Wojtyla
e avvertirono il comando.
Fu ordinata un'inchiesta. Le guardie andarono piů volte a
bussare all'appartamento di via
Tyniecka, interrogarono i vicini, volevano sapere dove
fosse finito. La vicenda si era fatta
seria e rischiava di portare le guardie della Gestapo nel
palazzo arcivescovile. Bisognava
impedirlo.
Padre Figlewicz, che aveva continui contatti con i
tedeschi, fu incaricato di risolvere quel
problema. Egli incontrň il direttore della Solvay, che ormai
non poteva piů fare niente perché
il caso era giŕ nelle mani della polizia segreta tedesca.
Karol Wojtyla era di nuovo in un
gravissimo pericolo. Padre Figlewicz dovette ricorrere a
tutti i suoi contatti segreti con la
Gestapo per salvare il giovane, e ci riuscě. I documenti, le
carte, le denunce, gli ordini di
cattura che portavano il nome di Karol Wojtyla vennero
distrutti. Di lui non rimase nessuna
traccia in mano ai tedeschi, era come se non fosse mai
esistito.
Iniziň per Karol Wojtyla l'esperienza di seminarista.
Era giŕ al terzo anno di studi teologici, ma non era mai
vissuto in comunitŕ, come avviene in un
seminario vero.
Ora, finalmente, per la prima volta, si sentiva parte di
un'istituzione
della Chiesa, un seminario appunto, dove c'era un rettore,
che era l'arcivescovo Sapieha, un
direttore spirituale e dei professori.
Per la prima volta si trovava con altri compagni e
conduceva una vita comunitaria, come quelle dei
religiosi in un monastero.
Sveglia alle sei, meditazione, Messa, colazione, e poi le
lezioni fino a mezzogiorno. Pranzo,
ancora preghiere, studio, meditazione, cena.
Tutto a orario. E tutto dentro quelle mura, senza mai
poter uscire, anzi, senza mai poter neppure
guardare fuori dalle finestre. Le tende erano
perennemente abbassate, nessuno doveva sospettare
che in quelle stanze dell'arcivescovado c'erano dei
giovani seminaristi. Sarebbero stati arrestati
e uccisi.
Vivevano praticamente nei sotterranei del palazzo. Erano
degli autentici sepolti vivi. Rimasero
in quella condizione per cinque mesi, cioč fino al 17
gennaio 1945, quando l'Armata Rossa
sovietica entrň in Cracovia costringendo i nazisti ad
andarsene.
In quell'occasione Karol Wojtyla venne liberato dai
comunisti.
Era il primo contatto che egli aveva con quella ideologia
atea, che avrebbe poi combattuto per il
resto della sua vita.
E fu, in un certo senso, un incontro felice. Infatti, oltre a
essere stato salvato dai comunisti
sovietici, Wojtyla fece, in quei giorni, un'esperienza che
rimase molto impressa nella sua mente.
Strinse amicizia con un soldato dell'Armata Rossa. Un
giovane che era stato educato, nelle scuole,
all'ateismo, ma che ricordava di aver sentito, quando era
bambino, i suoi nonni parlare di Dio.
E quel nome gli era rimasto impresso nella mente. A
scuola gli avevano insegnato che Dio non
esiste ed egli riteneva che questo fosse vero, ma aveva
dei dubbi e voleva saperne di piů.
Karol Wojtyla ascoltň attentamente quel soldato e rimase
poi a lungo a parlare con lui. A sera
scrisse in un suo quaderno: "Durante il nostro lungo
colloquio imparai moltissimo su come Dio si
imprime nelle menti umane anche in condizioni
decisamente contrarie".

XVI La tentazione del Carmelo

Con la fine della guerra, tutti i patrioti polacchi


cominciarono a pensare alla ricostruzione.
Ma le loro aspettative furono ancora una volta deluse e
tradite. Liberata dall'invasione
nazista, la Polonia venne venduta ai russi sovietici.
Divenne una colonia di Stalin.
ŤDesidero chiudermi in un monasteroť
Karol Wojtyla non ebbe tempo per soffermarsi sulle
discussioni politiche che in quel periodo
coinvolgevano tutti i polacchi. Era preso dai suoi studi
teologici per concludere la
preparazione al sacerdozio.
Riprese a frequentare l'universitŕ per portare a termine il
terzo e il quarto anno di teologia.
Come sempre, era anche impegnato nelle organizzazioni
del volontariato.
All'universitŕ, era stato eletto vicepresidente della societŕ
di aiuto fraterno degli studenti,
che si interessava degli studenti poveri. E si impegnava in
prima persona in questa attivitŕ.
All'inizio dell'inverno, il suo amico Mieczyslaw Kotlarczyk
gli aveva regalato un bel maglione
di lana che gli era molto piaciuto e lo aveva subito
indossato dicendo che gli faceva tanto
bene, lo teneva finalmente caldo, ma due giorni dopo non
lo aveva piů: lo aveva regalato a un
barbone, incontrato per strada.
Il 18 febbraio 1946, l'arcivescovo Adam Sapieha fu
nominato cardinale.
Era stato l'eroe della resistenza cattolica durante
l'occupazione nazista. Il primate di Polonia,
cardinale Augustyn Hlond, era fuggito nel settembre
1939, insieme all'intero governo della Polonia.
Sapieha, invece, era rimasto al suo posto, sfidando
l'invasore e difendendo con i denti il popolo.
Ora Papa Pio XII riconosceva il suo coraggio e la sua
fedeltŕ alla Chiesa e lo premiava
nominandolo cardinale.
Nel marzo 1946, il neocardinale si recň a Roma per
ricevere dal Papa il cappello cardinalizio.
Ritornare a Roma, dove aveva lavorato, da giovane, per
diversi anni, accanto a Pio x, come suo
segretario, e dove era stato dallo stesso Pontefice
consacrato vescovo, ebbe l'effetto, per
l'ormai vecchio arcivescovo, di un salutare tuffo nel
passato.
Si sentě ringiovanito, carico di nuove energie, e quando
rientrň in Polonia era pieno di idee e di
progetti.
Aveva deciso che alcuni dei suoi giovani sacerdoti, scelti
tra i piů dotati, dovessero
trascorrere almeno due anni nella Cittŕ eterna per
respirare l'atmosfera di universalitŕ che
regnava nella capitale della cristianitŕ. E decise che il
primo dovesse essere Karol Wojtyla.
Informň Karol che era, allora, studente e
contemporaneamente assistente ai corsi teologici
dell'Universitŕ Jagellonica. Ma si meravigliň perché,
invece di sentirlo entusiasta di
quell'occasione, lo trovň perplesso.
Wojtyla disse al cardinale che forse non era il soggetto
adatto per quell'incarico. Gli pareva,
infatti, di sentire dentro di sé una nuova chiamata.
Desiderava sempre diventare sacerdote, ma
stava pensando che forse era chiamato a svolgere la sua
missione piů nella preghiera e nella
contemplazione che non nell'attivitŕ frenetica del mondo.
Si sentiva, cioč, chiamato
insistentemente verso il chiostro e voleva farsi
carmelitano scalzo.
Il cardinale ascoltava in silenzio e con il viso
imperturbabile le confidenze di Wojtyla.
Karol continuň dicendo che prima ancora di decidere di
diventare sacerdote, aveva iniziato la
lettura delle opere di san
Giovanni della Croce e di santa Teresa d'Avila. Nel corso
degli anni, aveva letto Ascesa al
Monte Carmelo, Notte oscura dell'anima, Cantico
spirituale, Fiamma d'amor viva, e altri classici
della mistica del Sedicesimo secolo, e ne era stato
conquistato. Aveva poi continuato a
riflettere e a rileggere quelle opere. Ora, all'universitŕ
aveva cominciato anche a scrivere un
libro su san Giovanni della Croce, incoraggiato dai suoi
professori di teologia, e aveva inoltre
iniziato lo studio della lingua spagnola per poter rileggere
le opere del grande mistico nella
lingua originale.
ŤPenso di essere proprio chiamato a vivere nel
monastero del Carmeloť disse Wojtyla concludendo
la sua lunga confessione.
Il cardinale Sapieha continuň a osservare il suo giovane
seminarista rimanendo in silenzio.
Forse rifletteva. Poi, come se avesse preso una decisione
disse laconicamente: ŤBisogna prima
finire quello che si č cominciato. Preparati al sacerdozio e
poi andrai a completare gli studi
teologici a Romať.
La prima Messa il giorno dei morti
Karol Wojtyla aveva imparato, proprio dalla lettura delle
opere di san Giovanni della Croce, che
uno dei concetti fondamentali per la vita dello spirito č
l'obbedienza ai superiori. La voce dei
superiori č voce di Dio. Si tranquillizzň. Gli pareva di aver
fatto bene a esprimere al
cardinale le proprie aspirazioni, ma ora era suo dovere
obbedire.
Continuň a studiare con impegno.
A luglio fece gli ultimi esami. I voti furono brillanti, come
sempre. Dei ventisei esami dati
all'universitŕ, in diciannove materie era stato classificato
"eccellente", in sei "molto buono"
e in una, psicologia, "buono".
Il cardinale Sapieha disse che bisognava accelerare i
tempi della sua ordinazione sacerdotale in
modo che potesse iniziare l'anno accademico a Roma,
nella sessione autunnale del 1946.
Il 13 ottobre, dopo un ritiro di sei giorni, Karol Wojtyla
ricevette l'ordine del suddiaconato;
il 20 ottobre il diaconato e il
primo di novembre, Festa di Tutti i Santi, lui solo fu
ordinato sacerdote, con una solenne
cerimonia officiata dal cardinale, nella propria cappella
privata, in arcivescovado.
Erano presenti alcuni amici e qualche parente, tra i quali
sua zia Maria Wiadrowska, sorella di
sua madre e sua madrina al battesimo.
Il 2 novembre, don Karol Wojtyla celebrň la sua prima
Messa.
Poiché quel giorno č dedicato dalla Chiesa al ricordo dei
defunti, e a ogni sacerdote č consentito
di celebrare tre messe, Wojtyla potč celebrare tre prime
messe. Le celebrň nella cripta di san
Leonardo, nella cattedrale di Wawel, offrendole ai suoi
cari defunti: la madre, il fratello e il
padre.
Nei giorni successivi celebrň una Messa nella parrocchia
di San Stanislao, una a Wadowice, una
nella cattedrale di Wawel e l'11 novembre amministrň il
suo primo battesimo a una bambina di
nome Monika, figlia di due suoi amici e colleghi nella
compagnia del Teatro Rapsodico: Halina
Królikiewicz, attrice con la quale aveva fatto spesso
coppia sul palcoscenico, e suo marito,
Tadeusz Kwiatkowski.
Il 15 novembre 1946, don Karol Wojtyla saliva sul treno
per andare a Roma. Era la prima volta
che usciva dalla Polonia.
Il viaggio, via Parigi, fu assai lungo.
Ogni fermata costituiva per il giovane Wojtyla una
emozione. Osservava tutto. Imparava a
conoscere cittŕ che aveva solo sentito nominare. Non
aveva la possibilitŕ di scendere dal treno
per visitarle, ma la sua mente assetata di sapere
assimilava informazioni, sensazioni, emozioni
anche solo guardando il paesaggio, le costruzioni, le
persone, il loro modo di vestire, di
gesticolare, il suono delle voci. Aveva una piccola guida
turistica che consultava in
continuazione.
Il treno attraversň la Cecoslovacchia, poi entrň in
Germania e quindi in Francia. Fece lunghe
soste a Praga, a Norimberga e a Strasburgo.
A Parigi, Wojtyla si fermň alcuni giorni, ospite del
seminario polacco in quella cittŕ.
Poi ripartě per Roma dove giunse alla fine di novembre.
Prese alloggio presso i Padri
pallottini, in attesa di sistemarsi
nel collegio belga, dove il cardinale Sapieha aveva
predisposto che fosse ospite per tutto il
tempo della sua permanenza nella Cittŕ eterna.
[espiro universale
La Roma del dopoguerra non era una cittŕ comoda e
ricca, ma era sempre bella e piena di fascino.
Il collegio belga non offriva un'ospitalitŕ di lusso, le stanze
erano spoglie, fredde d'inverno
e caldissime d'estate, il cibo scadente e scarso, ma,
come sempre, Karol Wojtyla sembrava non
accorgersi delle difficoltŕ, mentre era tutto preso dagli
aspetti positivi.
Si spostava per l'Urbe per visitare le bellezze artistiche,
per conoscere il patrimonio
culturale e storico, le memorie del cristianesimo primitivo,
la storia dei martiri che fin da
ragazzo tante volte aveva letto nel Quo vadis? di
Sienkiewicz, lo scrittore polacco che tanto
amava.
Ogni domenica si recava a San Pietro.
Sentiva in quella chiesa battere il cuore della cristianitŕ. Si
fermava a guardare i turisti,
provenienti da tutto il mondo. Sostava per ore, nell'attesa
di poter vedere il Papa che scendeva
in basilica per le cerimonie religiose.
Roma gli dava un respiro universale inebriante.
Al collegio c'erano sacerdoti e seminaristi di varie nazioni,
con i quali poteva parlare e
discutere.
All'Angelicum, l'universitŕ vaticana che frequentava,
aveva professori di altissimo livello che
provenivano da Paesi europei, ma anche dall'America.
Ascoltandoli, seguendoli, conversando con
loro, assimilava esperienze, idee, progetti, culture che
appartenevano a mondi diversi e che
portavano alla sua mente nuovi orizzonti di conoscenza.
Approfittň subito per perfezionare la sua conoscenza del
francese e del tedesco che aveva
studiato con il papŕ, e dello spagnolo che aveva invece
appreso da solo. Ma cominciň anche lo
studio dell'inglese e dell'italiano.
Quando aveva dei giorni liberi, come le vacanze di
Natale, Pasqua e quelle estive, organizzava
viaggi in giro per l'Italia per conoscere i luoghi storici piů
rinomati.
Durante l'estate del 1947 si recň a Parigi, poi nei Paesi
Bassi.
Si interessava delle nuove correnti teologiche, ma anche
delle varie esperienze pastorali, in
particolare di quelle operanti in Francia, in Belgio e in
Olanda, come il movimento dei preti
operai, il movimento della Gioventů operaia cristiana.
Ebbe modo di conoscere i fondatori e i
principali esponenti di quei movimenti e in seguito rimase
sempre in contatto con loro.
Per un mese, in Belgio svolse il compito di cappellano di
una comunitŕ di minatori polacchi.
Scese nelle miniere, frequentava le famiglie. Esperienze
pastorali straordinarie.
Tornato a Roma, riprese gli studi e preparň la tesi.
La maggior parte dei suoi studi continuava a essere
rivolta alla teologia mistica. Infatti,
aveva scelto come tema della tesi di laurea "La dottrina
della fede secondo san Giovanni della
Croce". Era attratto da tutto quello che poteva riguardare
la mistica.
A San Giovanni Rotondo
Qualcuno gli parlň di Padre Pio da Pietrelcina.
Seppe cosě che in Puglia, sul Gargano, viveva un frate
cappuccino che dal 1918 aveva sul proprio
corpo i segni della Passione di Cristo. Era cioč uno
stigmatizzato.
Egli sapeva bene quale valore mistico avessero le
stigmate. Anche santa Teresa d'Avila,
l'eminente riformatrice del Carmelo, grandissima santa,
proclamata Dottore della Chiesa nel
1970, aveva le stigmate.
Certo, riguardo a Padre Pio sentiva giudizi positivi ed
entusiastici ma anche giudizi negativi
e squalificanti.
C'erano ecclesiastici che ammiravano il frate con le
stigmate, ma altri che dicevano fosse un
imbroglione.
Molti citavano il giudizio di padre Agostino Gemelli, un
celebre scienziato, laureato in
medicina e psichiatria, ateo in gioventů e poi convertitosi
e diventato religioso francescano
come Padre Pio. Gemelli, che era il fondatore
dell'Universitŕ Cattolica del Sacro Cuore,
sosteneva che le stigmate del frate di San Giovanni
Rotondo erano frutto di isterismo, e il suo
giudizio faceva testo, soprattutto negli ambienti cattolici.
Karol Wojtyla ascoltava tutti, ma non era tipo da lasciarsi
facilmente suggestionare. Valutava
ogni giudizio, soppesava le ragioni su cui era basato, e
soprattutto cercava di poter constatare
di persona.
Decise di andare a San Giovanni Rotondo.
Il primo tempo libero che aveva a disposizione erano le
vacanze di Pasqua del 1948 e decise di
trascorrerle in quel luogo.
Organizzň il viaggio insieme a un connazionale, che
studiava a Roma come lui. Non si conosce
molto di quella visita di Wojtyla a Padre Pio, ma
abbastanza per dire che fu importantissima.
Si sa che egli si fermň a San Giovanni Rotondo quasi una
settimana. Aveva preso alloggio in una
pensioncina di fronte alla chiesetta, ma trascorreva quasi
tutto il giorno in convento. Ebbe
modo, cosě, di incontrare varie volte il Padre, di parlare
con lui, di osservarlo, di andare a
confessarsi da lui.
E' noto che Padre Pio aveva il dono della "scrutazione dei
cuori" e anche quello della
preveggenza. Nell'incontro a quattr'occhi,
rivelava particolari della vita della persona che aveva di
fronte, particolari che riguardavano
spesso il futuro e che poi si realizzavano alla lettera. Le
biografie di Padre Pio sono piene di
episodi legati a questi suoi doni carismatici, ricordati
anche nel corso del rito della sua
canonizzazione.
Sorge perciň spontanea la domanda: Padre Pio fece
qualche rivelazione al giovane Karol Wojtyla?
Di preciso non si sa niente.
Quando Wojtyla venne eletto Papa, un'agenzia di
stampa, riferendo di quel lontano incontro,
affermň che in quell'occasione Padre Pio aveva predetto
a Wojtyla il pontificato. La notizia
venne ripresa dai giornali di tutto il mondo.
Tre anni dopo, quando ci fu l'attentato al Papa in piazza
San Pietro, i giornali rilanciarono la
profezia fatta da Padre Pio nel
1948 aggiornandola con altri particolari. Riferirono che gli
avrebbe detto: "Vedo che indossi una
veste bianca e che questa veste č macchiata di sangue".
E anche questa volta la notizia fu ripresa
massicciamente dalla stampa internazionale.
Non ci sono fonti sicure su queste voci. Probabilmente
sono frutto di leggende metropolitane. Ci
sono state anche delle smentite, soprattutto dopo
l'attentato del 1981.
Tuttavia, ricordo bene che nell'ottobre del 1978, cioč
subito dopo che Karol Wojtyla era
diventato Papa, queste voci avevano una certa credibilitŕ.
Ero a Roma, come tanti altri giornalisti, impegnato a
raccogliere informazioni per scrivere
articoli sul nuovo Pontefice. Un monsignore polacco che
conosceva bene Wojtyla mi riferě un
particolare curioso. Disse che, da giovane sacerdote e
poi professore all'Universitŕ di Lublino,
Karol amava scherzare su questo tema, soprattutto con
gli amici. Quando lo lodavano e gli facevano
complimenti per i suoi libri, i suoi successi, egli
rispondeva ridendo che un giorno sarebbe forse
diventato Papa. E aggiungeva che questo gli era stato
predetto da un santo. Ma ci rideva sopra,
ritenendo la cosa assurda e impossibile. Perň, dopo
essere diventato vescovo, cominciň a evitare
di fare riferimenti a quella profezia e dopo la sua elezione
a cardinale non ne parlň mai piů.
Probabilmente anche questi dettagli non troveranno mai
conferme precise.
Una cosa tuttavia č certa. Da quella visita, Karol Wojtyla
riportň un'impressione straordinaria.
Si convinse che quel religioso era veramente un uomo
"segnato" da Dio, un grande santo.
Se ne andň da San Giovanni Rotondo con questa
sicurezza, che non vacillň mai. Divenne un
ammiratore fedele di Padre Pio e rimase tale per tutta la
vita. Un fedele convinto. Al punto
che, come vedremo, in un momento molto drammatico,
quando una persona che gli stava a cuore
stava per morire, ricorse a lui chiedendogli un aiuto e
ottenne un grande miracolo.
E' noto che, dopo la morte di Padre Pio, Wojtyla, che
allora era cardinale, fu tra i primi a
darsi da fare per promuovere la
causa della beatificazione del "frate con le stigmate". E
poi, diventato Papa, quando la causa
era ferma perché incontrava enormi difficoltŕ, si espose
personalmente per farla andare avanti.
Se non ci fosse stato Giovanni Paolo II, probabilmente
Padre Pio non sarebbe ancora stato
proclamato santo.
E qui sorgono altre domande: per quali ragioni Karol
Wojtyla, dopo quella visita a San Giovanni
Rotondo, si convinse in modo cosě deciso della santitŕ di
Padre Pio? Che cosa aveva visto? Che
cosa gli aveva detto il Padre? E perché negli anni
successivi, benché egli vivesse in Polonia,
una nazione allora tagliata fuori dal resto del mondo
cattolico in quanto sotto il regime
comunista, quindi dove non giungevano notizie dagli altri
Paesi cattolici, continuň ad avere
vivissimo il ricordo di Padre Pio, al punto che, come ho
accennato e come racconterň, quindici
anni dopo quell'unica visita, al suo primo ritorno in Italia,
si rivolse immediatamente al Padre
per raccomandargli di pregare per una situazione
gravissima?
Tanta fiducia, tanto attaccamento, tanta stima non
trovano giustificazioni se non in una
esperienza straordinaria, sconvolgente, vissuta di
persona, che ha lasciato un segno indelebile.
Quindi, č certo che in quell'incontro tra Padre Pio e il
giovane Wojtyla accadde qualche cosa di
straordinario che egli non ha piů potuto dimenticare.
La profezia del cardinale Sapieha
Il 14 giugno 1948 don Karol Wojtyla superň gli esami del
dottorato. Il 19 giugno sostenne la
discussione della tesi ottenendo il massimo dei punti,
cinquanta cinquantesimi, ma non gli venne
conferito il dottorato. Per ottenere il titolo, secondo le
regole vigenti allora all'Angelicum,
lo studente doveva pubblicare la tesi, ma Wojtyla non
aveva soldi per sostenere una simile
spesa.
Al rientro in patria, perň, sottopose la tesi alla facoltŕ di
teologia dell'Universitŕ
Jagellonica che, dopo averla esaminata, nel dicembre
1948, gli conferě il titolo di dottore in
teologia.
Nei due anni trascorsi a Roma, Wojtyla aveva maturato
ottime esperienze intellettuali, aveva
conosciuto studiosi di fama internazionale, aveva messo
alla prova se stesso comprendendo di
possedere delle doti non comuni che gli avrebbero
permesso di intraprendere una sicura carriera
scientifica.
Ma si era mosso anche in campo pastorale. Aveva
avvicinato i promotori di iniziative
d'avanguardia, come quella dei preti operai e dei giovani
operai cattolici in Francia, e piů
strettamente la realtŕ mistica, con la conoscenza di Padre
Pio e l'approfondimento delle opere di
san Giovanni della Croce.
Rientrando in patria, certamente avrŕ valutato quelle
esperienze, anche in vista del proprio
futuro. Che cosa avrebbe voluto portare avanti e
sviluppare nella sua Polonia? L'attivitŕ
pastorale, particolarmente interessante dato il regime
politico che si stava instaurando in quel
Paese, oppure quella scientifica?
Era cosciente di essere dotato per entrambe le cose. Ma
dentro di sé sentiva fortissimo il
richiamo della vita contemplativa, della vita monastica. In
realtŕ, in quei due anni a Roma e in
giro per l'Europa, si era rafforzata la sua vocazione
mistica, l'aspirazione di dedicare il
proprio tempo alla contemplazione e alla preghiera.
Ancora una volta si rivolse al cardinale Sapieha
chiedendogli di avere il permesso per entrare
nel Carmelo come monaco. E ancora una volta il
cardinale gli rispose con un secco "no".
Ma ora la convinzione del giovane Wojtyla era assai forte.
Non riuscě a rassegnarsi a quel
rifiuto. Pensava che forse il suo superiore non avesse
compreso bene, non avesse giudicato nel
modo corretto quella sua aspirazione. Non era un
capriccio, un richiamo passeggero. Si sentiva
proprio chiamato alla vita contemplativa.
Non riuscendo a convincere il cardinale di Cracovia,
Wojtyla ricorse anche al superiore dei
carmelitani di Polonia e questi caldeggiň la sua richiesta
fino al punto di parlarne
personalmente con Sapieha. Questi ascoltň
pazientemente, ma poi disse di nuovo: ŤNoť. E poi, con
tono profetico, aggiunse: ŤAbbiamo pochi preti e Wojtyla
č molto necessario alla nostra diocesi.
E in futuro sarŕ necessario alla Chiesa universaleť.
Se Karol Wojtyla avesse ottenuto il permesso di entrare
nel Carmelo, con molta probabilitŕ non
sarebbe mai diventato Papa.
Nella storia della Chiesa ci sono stati dei papi che erano
prima monaci. Ma la strada normale
per il papato č quella della gerarchia ecclesiastica. Uno
diventa vescovo, poi cardinale e tra i
cardinali viene scelto il Papa. Se Wojtyla si fosse chiuso
in un monastero, sarebbe certamente
diventato un santo, un santo monaco, ma difficilmente
Papa della Chiesa cattolica.
Non sarebbe quindi potuto diventare quel "vescovo
vestito di bianco" visto dai veggenti di
Fatima, nel quale Giovanni Paolo II si č poi riconosciuto.
Quel suo desiderio, quindi, per
quanto santo, poteva essere una tentazione. Un desiderio
suscitato da quel Nemico che non voleva
a nessun costo che egli diventasse la persona scelta
dalla Vergine per la missione che voleva
realizzare nel mondo.
Ancora una volta, Karol Wojtyla dovette fare appello allo
spirito di obbedienza e ricordarsi che
la voce dei superiori č la voce di Dio. Non diede piů
ascolto a quei desideri mistici. Ma, come
i grandi santi, riuscě a far coincidere un'esistenza
frenetica di attivitŕ con una di intensa
preghiera come quella dei monaci. Pochi uomini di
Chiesa hanno potuto competere con lui per
attivismo. E pochi hanno potuto farlo per tempo dedicato
alla preghiera.
Negli uffici dei servizi segreti russi, nell'ex palazzo del
kgb, si trova un voluminoso dossier
riguardante Giovanni Paolo II. Da alcuni rapporti, forniti
dalle spie sovietiche che agivano in
Vaticano negli anni Ottanta, si ricava che Karol Wojtyla
dedicava, allora, alla preghiera non
meno di sei, sette ore al giorno.
La sua giornata iniziava alle cinque, e iniziava nella
cappella privata con la preghiera. Un'ora
di meditazione per prepararsi alla Messa. E poi dopo la
Messa ancora meditazione fino alle otto
e mezzo. Nel corso della giornata, tutti i momenti liberi li
dedicava alla preghiera. E anche
alla sera, dopo cena, restava a lungo in quella sua
cappella. A volte, l'intensitŕ della sua
preghiera era tale che i collaboratori lo sentivano
lamentarsi e gemere. In certe occasioni,
vedendo che si attardava
molto, entravano nella cappella e lo trovavano disteso sul
pavimento di marmo freddo, immobile,
come morto, con le braccia tese a formare una croce.
Negli ultimi anni della sua vita, la preghiera era diventata
continua. Malattie, acciacchi, dolori
di ogni genere tormentavano il suo fisico. Dopo essersi
rotto la spalla nel 1993, aveva confidato
a un amico: ŤPer me questa č solo un'altra occasione per
unirmi piů intimamente al mistero della
Croce di Cristo, in comunione con tanti fratelli e sorelle
sofferentiť. Quando riusciva a malapena
a reggersi in piedi e si muoveva a piccoli passi, con fatica
estrema, qualcuno lo aveva definito
"un crocifisso che cammina".
Anche se non aveva potuto scegliere la vita
contemplativa in un monastero, č vissuto nel mondo
pregando come un vero contemplativo.
XVII In marcia con i giovani

Il primo incarico che don Karol Wojtyla ricevette al suo


rientro in patria dopo gli studi a Roma
fu quello di cappellano nella chiesa dell'Assunzione di
Nostra Signora, a Niegowic, piccolo paese
isolato, ai piedi dei Carpazi, a circa cinquanta chilometri
da Cracovia.
Il parroco di quella chiesa si chiamava monsignor
Kazimierz Buzala, era un uomo di cui il
cardinale Sapieha aveva grande fiducia.
ŤMi inginocchiai e baciai la terrať
Wojtyla partě per quell'incarico con il cuore pieno di
emozioni. Era il suo primo contatto da
sacerdote con delle persone di cui la Chiesa lo rendeva
responsabile davanti a Dio. A quelle
persone aveva deciso di dedicare la sua vita, e sentiva di
amarle, ancor prima di averle
incontrate. La fede gli richiamava alla mente una veritŕ
esaltante: sarebbe stato legato a loro
non per un periodo piů o meno lungo, un anno, due anni,
dieci anni, ma per sempre, per l'eternitŕ,
e quindi provava un'emozione straordinaria.
La carica emotiva che riempiva il suo cuore in
quell'occasione la si riscontra anche nel modo in
cui, molti e molti anni dopo, ricordň quel giorno. Nella sua
autobiografia Dono e mistero, scritta
nel 1996, e cioč quarantotto anni dopo quel suo viaggio
a Niegowic, Giovanni Paolo II rievoca con precisione
minimi dettagli, segno che erano ancora vivi
nella sua memoria.
"Accettai la destinazione con gioia" ha scritto Giovanni
Paolo II. "Mi informai subito come
giungere a Niegowic e mi detti da fare per essere lŕ nel
giorno stabilito. Andai da Cracovia a
Gdów in autobus, da lě un contadino mi diede un
passaggio con il carretto verso la campagna di
Marszowice, dopo di che mi consigliň di prendere a piedi
una scorciatoia attraverso i campi.
Scorgevo giŕ in lontananza la chiesa di Niegowic. Era il
tempo della mietitura. Camminavo tra
campi di grano con le messi in parte giŕ mietute, in parte
ancora ondeggianti al vento. Quando
giunsi finalmente nel territorio della parrocchia di
Niegowic, mi inginocchiai e baciai la terra.
Avevo imparato questo gesto da san Giovanni Battista
Maria. Vianney. In chiesa sostai davanti al
Santissimo Sacramento e poi mi presentai al parroco,
monsignor Kazimierz Buzala, decano di
Niepolomice e parroco di Niegowic, il quale mi accolse
molto cordialmente e dopo un breve
colloquio mi mostrň l'abitazione del vicario.
Nelle parole di Giovanni Paolo II si sente l'ansia di
raggiungere Niegowic, e si sente che egli ha
ancora negli occhi il paesaggio, l'incontro con la
parrocchia. Lo si vede che bacia la terra, e si
ferma, addirittura prima di presentarsi in canonica, a
salutare Gesů, il suo vero superiore, il
suo vero compagno, la persona con cui vuole vivere in
comunione continua. In quei gesti si
trovano la sua mentalitŕ, le sue convinzioni, il suo stile di
vita.
Don Karol portava con sé un piccolo bagaglio costituito
quasi esclusivamente da libri. Aveva
ventotto anni e nessun attaccamento alle cose materiali
di questa terra.
Indossava una veste talare logora, scarpe consumate e
sformate. Non aveva esigenze alimentari,
non sentiva la necessitŕ di vivere comodamente. La
parrocchia di Niegowic, come il paese, era di
tipo rurale. Non c'era elettricitŕ, né acqua corrente, né
fognature.
Oltre a dire la Messa, il compito di Wojtyia consisteva
nell'insegnare religione agli alunni
delle cinque scuole elementari del luogo e di quelle dei
paesi confinanti. Si spostava su un
carretto trainato dal cavallo. Faceva lunghe passeggiate
in mezzo alla natura meditando, e per
tenersi in forma fisicamente, andava a lavorare nei campi
aiutando cosě i contadini. Trascorreva
lunghe ore in chiesa, inginocchiato davanti all'altare.
Gli abitanti di Niegowic constatarono con sorpresa che
don Karol Wojtyia viveva con loro e come
loro. Cioč, in modo semplice e povero. Donava alle
persone indigenti tutto quello che aveva.
Regalň a un'anziana signora, che era stata derubata, un
bel cuscino e una trapunta nuova che i
parrocchiani gli avevano appena donato. Dormiva spesso
disteso sul nudo pavimento.
Non aveva dimenticato nessuna delle sue esperienze
giovanili. Neppure la sua passione per il
teatro, e nella parrocchia organizzň un circolo teatrale,
guidando i giovani nell'allestimento
di un dramma, L'ospite, in cui interpretň egli stesso il
ruolo del protagonista, l'ospite
appunto, un mendicante che alla fine si rivela essere
Gesů.
Si ricordava anche dell'insegnamento ricevuto dal sarto
mistico Jan Tyranowski, morto da circa
un anno, e fondň a Niegowic un gruppo del Rosario
Vivente.
Volevano uno scandalo
La presenza di Wojtyia aveva portato una ventata di
efficienza in quel luogo di campagna. Se ne
erano accorti soprattutto i giovani che avevano
cominciato a frequentare la parrocchia con
entusiasmo e con la voglia di intraprendere nuove
iniziative. La chiesa era una vecchia
costruzione di legno e Wojtyla era riuscito a trovare il
modo di farne costruire una nuova in
mattoni.
Tanto fervore e tanto movimento perň destavano sospetti
nei nuovi padroni del Paese.
Dopo la guerra, le nazioni dell'Europa dell'Est erano
praticamente tutte cadute sotto l'influsso
dell'Unione Sovietica, quindi dell'ideologia comunista.
Nei vari Paesi erano andati al governo uomini legati a
Stalin.
E ovunque si era instaurata una lotta aperta contro la
religione e in particolare contro la Chiesa
cattolica.
Bloccare ed eliminare la Chiesa cattolica era la parola
d'ordine per il comunismo. In Iugoslavia,
il vescovo di Zagabria fu condannato nel 1946 a sedici
anni di lavori forzati con l'accusa di
collaborazionismo con i fascisti durante la guerra. Il
giorno di Santo Stefano del 1948, il
cardinale Józef Mindszenty, primate d'Ungheria, fu
arrestato con la falsa accusa di tradimento e
venne condannato all'ergastolo. In Cecoslovacchia, lo
stesso inverno, l'arcivescovo Josef Beran fu
condannato a quattordici anni. In Ungheria e in
Cecoslovacchia migliaia di preti, monaci e suore
vennero arrestati.
In Polonia, cercare di eliminare la Chiesa cattolica
risultava difficile. Il popolo polacco,
cattolico al novantacinque per cento, era sempre rimasto,
lungo il corso della sua storia, fedele
alla religione cattolica. Lo sapevano i dirigenti comunisti e
decisero di piegarlo egualmente,
magari ricorrendo a metodi diversi da quelli usati nelle
nazioni vicine.
Miravano soprattutto ad assicurarsi l'adesione dei giovani.
Per questo a loro non piacevano le
attivitŕ di tipi come Karol Wojtyla. Non aveva importanza
se Wojtyla agiva in un piccolo centro.
Sapevano che da Niegowic poteva benissimo essere
trasferito a Cracovia. Bisognava fermarlo.
I dirigenti comunisti polacchi decisero di sciogliere anche
a Niegowic l'associazione cattolica
formata da Wojtyla per sostituirla con un gruppo
socialista. Vi inviarono degli osservatori con
l'ordine di raccogliere informazioni per creare uno
scandalo e squalificare quel sacerdote. Ma i
due incaricati per questa operazione non riuscirono a
trovare niente cui appigliarsi. La
condotta di Wojtyla in mezzo a quei ragazzi e ragazze era
irreprensibile.
Presero allora di mira un giovane che, essendo capace di
scrivere a macchina, era diventato una
specie di segretario di Wojtyla. Si chiamava Stanislaw
Wyporek. Gli fecero molte promesse perché
tradisse don Karol, ma rifiutň. Qualche sera piů tardi
arrivarono dei poliziotti che lo
fermarono per strada,
lo costrinsero a salire sulla loro auto e, arrivati in
campagna, lo pestarono a sangue.
ŤSi rovineranno con le loro stesse maniť disse profetico
Wojtyla quando andň a trovare il suo
giovane amico ricoverato in ospedale. In quel paesino ai
piedi dei Carpazi, i comunisti avevano
giŕ incontrato il prete che avrebbe dato loro molto filo da
torcere fino alla loro distruzione.
Una lotta chiara e scientifica
Wojtyla rimase a Niegowic solo otto mesi, poi il cardinale
lo richiamň a Cracovia, affidandogli
un incarico molto piů importante. Doveva essere la guida
dei giovani universitari che avevano
come centro di incontro la chiesa di San Floriano.
Le pressioni del regime comunista sulla Chiesa polacca si
stavano intensificando. E per riuscire
ad aver successo i comunisti ricorrevano all'inganno, alla
mistificazione. Avevano favorito la
formazione in Polonia di un'associazione di sacerdoti
patrioti, che aderivano al movimento Pax,
di ispirazione cattolica ma remissivo verso lo Stato.
Attraverso quel movimento, miravano a
creare un'opinione pubblica rassegnata.
Fingendo di voler salvaguardare la libertŕ religiosa, il
governo comunista, appena andato al
potere, aveva emanato un decreto che mirava in realtŕ a
rafforzare il suo controllo sulla
Chiesa. Riconosceva la supremazia papale in materia di
giuriIsdizione ecclesiastica, come nella
nomina dei vescovi, e permetteva il culto pubblico, i
pellegrinaggi; consentiva alla Chiesa di
gestire l'istruzione religiosa nelle scuole statali,
conservare la sua presenza in ospedali e
prigioni, pubblicare giornali e mantenere il controllo sulla
nomina del clero parrocchiale e del
personale dei seminari. Aveva anche permesso che
continuasse la sua attivitŕ l'Universitŕ
cattolica di Lublino, che era diventata cosě l'unica
istituzione del genere in attivitŕ in tutto
l'universo comunista. In cambio, la Chiesa doveva
collaborare. Doveva esortare i fedeli a
lavorare per la ricostruzione sociale, doveva scoraggiare
attivitŕ ostili alla Repubblica
popolare.
La Chiesa polacca aveva accettato le offerte del governo,
perché rifiutarle significava scegliere
il martirio. Ma la cosa non era piaciuta a Roma. Si
pensava che la Chiesa polacca avesse concesso
troppo al regime comunista. I responsabili della Chiesa
polacca invece ritenevano che, in quel
modo, cioč con una certa tregua nelle ostilitŕ, potevano
trovare il tempo e la possibilitŕ per
organizzarsi e prepararsi alla lotta.
A Cracovia, il vecchio cardinale Sapieha disse che
bisognava formare nuovi quadri dirigenti,
costituiti da giovani laici, imperterriti nella fede e agguerriti
sul piano culturale. E per
questo disegno decise di servirsi di Karol Wojtyla.
Conosceva l'attivitŕ del giovane sacerdote nel piccolo
paese di Niegowic. Sapeva che i comunisti
lo tenevano sotto controllo. Approfittň di quella situazione
per riportarlo a Cracovia, dove
poteva realizzare meglio i suoi progetti.
Sapieha aveva visto giusto. Infatti, la Chiesa polacca potč
organizzarsi e diventare forte.
Quando, qualche anno dopo, il governo comunista se ne
accorse, era tardi. I comunisti allora
decretarono la separazione fra Chiesa e Stato, chiusero i
seminari minori, sciolsero le
associazioni cattoliche, decisero che i vescovi e i parroci
sarebbero stati nominati e rimossi
dallo Stato e che tutti i sacerdoti avrebbero dovuto
pronunciare un giuramento di fedeltŕ alla
Repubblica. I vescovi, guidati dal primate Wyszyriski,
dissero no, ci furono arresti, venne
arrestato lo stesso cardinale Wyszyriski, ma la Chiesa
polacca non si piegň.
L'attivitŕ di Karol Wojtyla a San Floriano ebbe un valore
importantissimo per la storia della
Chiesa polacca. In principio si presentň all'insegna della
novitŕ. Una novitŕ fuori dagli schemi
che a qualcuno non piaceva affatto, ma che con il passar
del tempo risultň vincente.
Wojtyla non era cresciuto in un seminario e non aveva
assimilato la mentalitŕ e le tradizioni
ecclesiastiche che venivano tramandate in quelle
istituzioni. Egli ragionava con la testa di un
laico, quindi con una grande libertŕ. Studiava la situazione
in modo oggettivo, scientifico e
preparava dei piani per raggiungere direttamente lo
scopo.
Si rese conto che i comunisti, per smantellare la societŕ e
la religione, puntavano soprattutto
sulla distruzione della famiglia.
Vedevano in uomini e donne saldi nell'amore delle loro
famiglie un pericolo. La loro politica
della casa, i ritmi di lavoro e gli orari scolastici miravano
perciň a separare il piů spesso
possibile i genitori dai figli. Il lavoro a turni impediva alle
famiglie di stare insieme. La
giornata lavorativa aveva inizio alle sei o alle sette del
mattino, quindi i bambini, prima
dell'etŕ scolare, dovevano essere affidati ad asili gestiti
dallo Stato. Le scuole stesse furono
raggruppate, cosicché, per frequentarle, gli scolari
venivano portati via dalle loro comunitŕ
locali. Fu emanata una legge permissiva che considerava
l'aborto un mezzo di controllo delle
nascite.
Wojtyla si rese conto che bisognava contrapporre a
queste idee iniziative che invece
rafforzassero le radici familiari e costituissero punti saldi
di riferimento per l'aggregazione
basata sui valori morali e spirituali della famiglia.
Tutto doveva avvenire, secondo Wojtyla, in modo chiaro
e scientifico. Era finita l'epoca delle
pie esortazioni. Bisognava sapere, essere informati,
conoscere l'avversario e conoscere
soprattutto i fondamenti delle proprie convinzioni.
Un giorno alcuni giovani di Niegowic andarono a trovarlo
a San Floriano. Videro che, sugli
scaffali della sua libreria, Wojtyla aveva le opere di Marx,
Lenin e Stalin. ŤSi č convertito al
comunismo?ť gli chiesero scherzando. ŤSe vuoi
sconfiggere il nemicoť rispose Wojtyla Ťdevi
sapere che cosa pensa.ť
7 primi Wojtylaboys
A San Floriano, Karol Wojtyla avviň corsi di conferenze,
incontri, ritiri spirituali, attivitŕ
artistiche e culturali.
La prima sua iniziativa era costituita da un coro, per
eseguire i canti tradizionali polacchi.
Un legame con la tradizione. Da giovane era stato un
formidabile ballerino e aveva anche
composto canzoni. Le conoscenze musicali ora gli
tornarono utili. La musica affascinava i
ragazzi e il coro di San Floriano ebbe successo.
Dal coro, si passň al gruppo. La gioventů ama vivere in
gruppo, avere un gruppo di appartenenza.
Wojtyla, con il suo fascino e il suo carisma, riuscě a
crearne uno che faceva tendenza.
All'inizio, quel gruppo venne chiamato Rodzinka, "piccola
famiglia", poi diventň Paczka,
"pacchetto", "branco", e molto piů tardi Srodovisko
Wojtyla, cioč "ambiente Wojtyla".
Karol Wojtyla cercava di educare i suoi giovani non con le
solite conferenze settimanali, ma
soprattutto attraverso conversazioni a tu per tu, e con il
vivere insieme.
Poiché tutto ciň era difficile da realizzare a Cracovia,
dove i servizi segreti seguivano ogni
cosa, si intrufolavano in ogni angolo, decise di portare,
periodicamente, i suoi giovani sulle
montagne.
Il pretesto era quello di trascorrere una settimana di
vacanza, dormendo in tenda, facendo
escursioni, sciando, attraversando fiumi e laghi in canoa.
In realtŕ, in quei luoghi lontani da occhi indiscreti, da
orecchie che avrebbero potuto udire, dal
controllo del regime, egli poteva discutere, parlare, agire
liberamente. I giovani potevano vivere
in pieno le loro idee e la loro fede. Vivere un'esperienza
simile in mezzo alla natura ne
aumentava il fascino.
Quelle gite divennero una tradizione. Wojtyla vi
partecipava in borghese, come un laico qualunque.
Era proibito agli uomini di chiesa svolgere delle attivitŕ
fuori dagli ambienti parrocchiali. Se
fosse stato scoperto, poteva essere arrestato. Per questo
si camuffava, con indumenti trasandati,
a volte maglietta e calzoncini corti, come uno del gruppo.
Per evitare di essere identificato, o
che qualcuno potesse avanzare sospetti sulla sua identitŕ,
si faceva chiamare "zio".
Tutti coloro che parteciparono a quelle gite non le hanno
mai piů dimenticate. Erano incontri
rivoluzionari e bellissimi. Di un fascino straordinario. Si
parlava e si discuteva camminando
sulle montagne o vogando in canoa.
Wojtyla aveva organizzato un metodo di lavoro tutto
particolare. Ogni giorno egli stava con un
gruppo, che poteva essere costituito anche solo da due,
tre ragazzi e ragazze. Discuteva con
loro, pranzava con loro, camminava con loro. Tutto il
giorno, in modo che gli argomenti
potessero essere approfonditi in ogni aspetto.
Uno dei temi piů sentiti era quello riguardante la
sessualitŕ. Tema fondamentale per la
formazione dei giovani, perché sta alla base
dell'innamoramento, del matrimonio e quindi della
famiglia, ma che viene quasi sempre considerato un tabů.
Il clero di allora evitava simili argomenti. Se per caso li
affrontava, lo faceva seguendo
tradizioni vecchie e piene di reticenze, di falsi pudori. Un
modo di parlare che i giovani non
recepivano affatto.
Wojtyla, invece, non avendo frequentato il seminario, non
aveva problemi del genere. Pose
quell'argomento tra i principali del suo metodo educativo.
I suoi giovani dovevano conoscere a
fondo la sessualitŕ, in tutti i suoi aspetti fisici, emotivi,
passionali, ma soprattutto
dovevano conoscere il fine della sessualitŕ nell'ambito del
disegno di Dio.
Egli sosteneva e insegnava che il matrimonio č una vera
e propria vocazione, come quella
sacerdotale. Che "l'istinto sessuale č un dono di Dio".
ŤL'uomoť spiegava Ťpuň offrire questo
istinto a Dio solo attraverso un voto di verginitŕ. Puň
offrirlo a un altro essere umano con la
consapevolezza che lo offre a una persona. Non puň
essere un atto casuale. Dall'altra parte c'č
un essere umano che non va ferito, che si deve amare.
Solo una persona puň amare una persona.
Amare significa desiderare il bene dell'altro, offrire se
stessi per il bene dell'altro. Quando,
come esito del dono di se stessi per il bene di un altro,
nasce una nuova vita, quella donazione
di sé deve scaturire dall'amore. In questo campo non si
deve separare l'amore dal desiderio. Se
rispettiamo il desiderio all'interno dell'amore, non
violeremo l'amore...ť
Ascoltando questi insegnamenti, i giovani sentivano che
don Karol Wojtyla parlava un linguaggio
per loro comprensibile. Anzi, ne erano attratti, perché
affrontava tematiche che sentivano
fondamentali per la loro esistenza e ascoltavano
incantati, facevano mille domande.
Un libro sull'amore
Per quel tempo, le idee e i metodi educativi di Wojtyla
erano insoliti, e perciň anche guardati
con un certo sospetto. Qualche anno piů tardi, quando
era professore universitario, raccolse
quelle sue teorie e quei suoi insegnamenti in un libro,
Amore e responsabilitŕ, che, alla
pubblicazione, fece scalpore, suscitň molte critiche e
polemiche da parte del clero tradizionale,
ma che fině per diventare un testo di capitale importanza
educativa.
Vi si affrontavano decisamente, e senza remore, temi
come l'eccitazione sessuale, i problemi delle
mogli sessualmente insoddisfatte che fingono l'orgasmo,
il dovere dell'uomo di preoccuparsi,
nell'atto sessuale, che la sua compagna raggiunga il
godimento.
Wojtyla sosteneva che, nel matrimonio, l'uomo e la donna
sono uguali, affermazione d'avanguardia
per quei tempi. Affermava che "i rapporti sessuali al di
fuori del matrimonio causano sempre
oggettivamente torto alla donna, anche quando essa vi
acconsente, li desidera persino". Educava i
suoi giovani alla tenerezza nei confronti delle fidanzate.
ŤSenza la tenerezzať diceva Ťl'uomo
tenderŕ soltanto a sottomettere la donna alle esigenze del
suo corpo e della sua psiche.ť
Ecco un brano di quel libro, dove si affronta il tema dei
rapporti sessuali, che fa comprendere
quanto il linguaggio di Wojtyla fosse chiaro e fortemente
innovativo.
Bisogna tener conto del fatto che, in questi rapporti, la
donna prova una naturale difficoltŕ a
adattarsi all'uomo, il che č dovuto alla divergenza del loro
ritmo fisico e psichico- E' quindi
necessaria un'armonizzazione, che non puň aver luogo
senza uno sforzo di volontŕ, soprattutto da
parte dell'uomo e, sempre da parte dell'uomo, senza
un'attenta osservazione della donna.
Quando essa non trova nei rapporti sessuali la naturale
soddisfazione, legata all'acme
dell'eccitazione sessuale (...) c'č da temere che essa non
senta pienamente l'atto coniugale, che
non v'impegni la propria personalitŕ totale, il che la rende
particolarmente soggetta alla nevrosi
e determina una frigiditŕ sessuale.
Questa frigiditŕ (...) risulta talvolta da un complesso o da
una mancanza di impegno di cui č
responsabile la donna stessa. Ma, talvolta, č la
conseguenza dell'egoismo dell'uomo che,
cercando la propria soddisfazione, spesso in maniera
brutale, non sa e non vuol capire i
desideri soggettivi della donna, né le leggi oggettive del
processo sessuale che si svolge in
essa.
Con quella sua attivitŕ pastorale, Wojtyla formň dei
giovani nuovi, con una mentalitŕ diversa di
concepire la vita e la religione, con uno stile di vita che
era quello specifico dell'ambiente
Wojtyla". Il gruppo andň crescendo.
Tra quei giovani si formarono delle coppie, che poi si
sposarono, misero al mondo dei figli.
Wojtyla seguiva tutti con l'amore di un vero padre. Anche
da vescovo, da cardinale, trovava
sempre tempo per andare a trovare quei suoi ragazzi,
divenuti ormai grandi, per sentire i loro
problemi, per battezzare i loro figli. Anche da Papa
conservň per loro una particolare
attenzione.
E quei giovani, a loro volta, furono come un seme che
sparse le idee e lo stile "Wojtyla"
nell'ambiente del lavoro, nell'ambito delle loro famiglie, in
seno ai gruppi che frequentarono
in seguito. Ancora oggi, in Polonia, esistono gruppi che si
ispirano a quella lontana e
primitiva esperienza, che Karol Wojtyla aveva chiamato
Rodzinka, "piccola famiglia".

XVIII Ostacoli insormontabili

La mattina del 23 luglio 1951 su Cracovia si diffuse la


voce cavernosa di "Zygmunt", la campana
fusa da re Sigismondo il Vecchio con i cannoni
conquistati ai Wlochy. Ma non erano rintocchi di
gloria. La celebre campana suonava a morto.
La gente si interrogava preoccupata, e poi venne a
sapere che il cardinale Adam Stefan Sapieha
aveva chiuso per sempre i suoi stanchi occhi. Aveva
ottantaquattro anni.
Cracovia pianse il vecchio e indomito principe. Colui che
era stato il capo spirituale del popolo
polacco nella Resistenza contro la Germania nazista
durante la Seconda guerra mondiale.
Baziak e Wyszyriski
Pianse anche Karol Wojtyla. Il cardinale Sapieha era
stato come un padre per lui. Lo aveva
incontrato subito dopo la perdita del proprio papŕ, quando
era rimasto solo al mondo e aveva
capito che Dio lo chiamava al sacerdozio. Era andato a
confidarsi con l'arcivescovo e da quel
momento Sapieha divenne il suo nuovo padre, il "padre
spirituale", la guida, il punto di
riferimento per la nuova vita che aveva intrapreso. Il
"Principe" aveva sostituito, in un certo
senso, il "Capitano".
Una folla immensa rese omaggio alla salma del cardinale
che rimase esposta nella cattedrale di
Wawel. Anche i giornali
di regime lo commemorarono. La cerimonia funebre fu
imponente e il corpo venne sepolto nel
pavimento di marmo di fronte al sarcofago di san
Stanislao.
Una sola persona poteva prendere il posto del Principe,
in quel momento difficile della storia
della cittŕ, ed era monsignor Eugeniusz Baziak, il vescovo
che Sapieha stesso aveva voluto
accanto a sé nei suoi ultimi anni di vita.
Con quella sua scelta, il cardinale Sapieha aveva fatto
intendere che, secondo lui, in un
momento cosě difficile, Baziak era l'uomo giusto per
reggere le sorti della diocesi di Cracovia.
Non erano indicazioni nepotistiche, di preferenza umana,
ma indicazioni profetiche per il bene
del Paese sotto il regime comunista.
Monsignor Baziak, infatti, portava sul suo corpo le
stigmate della persecuzione comunista. Nato
nel 1890, aveva avuto un'esistenza travagliata. Infanzia
povera, difficoltŕ per poter studiare,
carriera complicata.
Era stato nominato arcivescovo di rito latino nel 1945 a
L'vov, cittŕ che usciva da uno
spaventoso incubo. Durante la guerra era stata teatro di
una autentica "mattanza" di ebrei, con
inenarrabili scene di violenza e di crudeltŕ.
L'vov č da noi conosciuta con il nome di Leopoli. Grande
cittŕ della parte occidentale
dell'Ucraina, non lontana dalla catena montuosa dei
Carpazi, che segnano il confine con la
Moldavia e la Polonia. Cittŕ con una storia molto
tormentata. E' tra le piů antiche
dell'Ucrania. Venne fondata dal principe Daniele
Romanovic a metŕ del 1200, che le diede il nome
del proprio figlio Lev. Lungo il corso della storia fu presa
dai polacchi, dagli ottomani, dai
tartari, dagli svedesi, dagli austriaci. Dopo la Prima guerra
mondiale, passň alla Polonia. Alla
fine delia Seconda guerra mondiale, per i nuovi confini
della Polonia stabiliti con il trattato
di Potsdam, tornň all'Ucraina, quindi sotto l'Urss.
Baziak era stato nominato arcivescovo quando la cittŕ era
ancora polacca. Ed era una nomina prestigiosa perché
quella
arcivescovile risale al 1412. Ma poco dopo la nomina, con
il passaggio della cittŕ sotto l'Urss, per Baziak
cominciarono i guai. Dapprima fu internato, poi
espulso. Fu allora che il cardinale Sapieha lo invitň a
Cracovia e lo tenne presso di sé come suo
aiuto personale per il governo della diocesi.
Alla morte di Sapieha, da tre anni la Chiesa polacca era
guidata da Stefan Wyszyriski, il grande
cardinale, destinato a mantenere quell'incarico per oltre
trent'anni e che Giovanni Paolo II
indicň come il "primate del secolo".
Nato nel 1901, professore di Scienze sociali, aveva un
passato di patriota. Durante l'invasione
nazista aveva fatto parte della Resistenza, come
cappellano clandestino, e il suo nome di
battaglia era suor Cecilia. Dopo la guerra, voleva
riprendere la sua professione di docente, ma
nel 1946 Pio XII l'aveva nominato vescovo e due anni piů
tardi, nel novembre 1948, arcivescovo di
Varsavia e primate di Polonia.
Wyszynski non ebbe dubbi nel sostenere la candidatura
di Baziak al posto del cardinale Sapieha.
Ma il governo comunista, ricordando che Baziak era stato
condannato dal Partito comunista in
Ucraina ed espulso dall'Urss, mise il veto. La Chiesa non
cedette. Baziak rimase al suo posto,
anche se non potč mai fregiarsi ufficialmente del titolo di
arcivescovo di Cracovia. La diocesi
di Cracovia, da un punto di vista giuri-dico-storico, rimase
vacante, cioč senza arcivescovo,
per dodici anni.
ŤLei deve insegnareť
Al momento della morte del cardinale Sapieha, la
pressione stalinista sulla Chiesa polacca era
al culmine.
Baziak, sostenuto dal Papa ma inviso al governo del suo
Paese, dovette affrontare situazioni
molto tese.
Egli riteneva che il suo compito fosse quello di resistere a
ogni costo e dimostrare agli
avversari di essere un uomo intransigente, duro,
irriducibile. Venne arrestato, ma non si
intimorě. Tornato libero, governň la Chiesa con forza e
con rigore, dimostrando un atteggiamento
fermo anche nei confronti dei collaboratori.
Appena nominato arcivescovo di Cracovia, decise che
Karol Wojtyla dovesse tornare alla vita
accademica.
Era certamente un'idea suggerita giŕ dal cardinale
Sapieha, che il Principe forse voleva
realizzare gradualmente, ma i tempi diventavano sempre
piů difficili in Polonia.
Monsignor Baziak propose a Wojtyla di prendere un
secondo dottorato, di pubblicare la tesi e
questa seconda laurea gli avrebbe aperto le porte per
diventare professore universitario.
Wojtyla non era d'accordo. Non voleva chiudere la sua
attivitŕ pastorale con i giovani, che
riteneva molto importante e molto confacente con le
proprie aspettative.
Baziak riconobbe l'importanza di ciň che Wojtyla stava
facendo con i giovani. Gli promise che
avrebbe potuto continuare in quell'apostolato, sia pure
ridimensionandolo leggermente, ma doveva
impegnarsi anche a conseguire un nuovo dottorato.
La Chiesa polacca aveva bisogno che egli diventasse
esponente degli intellettuali. E, com'era
sua abitudine, Baziak concluse la conversazione dando
degli ordini precisi: ŤLe concedo due anni
di tempo per scrivere e difendere la nuova tesiť.
Wojtyla abbandonň la casa parrocchiale a San Floriano
per trasferirsi in un appartamento nella
cittŕ vecchia, iniziando una nuova esistenza, quella
dell'intellettuale.
Il tema che doveva svolgere per la sua nuova tesi era
"Valutazioni sulla possibilitŕ di
costruire un'etica cristiana sulle basi del sistema di Max
Scheler".
Max Scheler, filosofo tedesco, nato nel 1874 e morto nel
1928, ha dedicato gran parte della sua
ricerca ad applicare l'indagine fenomenologia al mondo
dei valori, giungendo alla determinazione
di una gerarchia oggettiva, dal livello piů basso dei valori
sensibili a quello supremo dei
valori religiosi.
Wojtyla era quindi invitato da Baziak a diventare un
filosofo. Dovette immergersi nello studio
della fenomenologia, per iniziare poi una sua ricerca di
tipo etico, che lo portň a diventare un
vero filosofo nel settore, tra i piů rappresentativi del
nostro tempo.
La ricerca di Wojtyla era quindi difficile e complicata. Ma
egli la svolse con il solito, totale
impegno, ottenendo il solito, straordinario successo.
In quegli stessi anni, visto che era costretto a fare vita
sedentaria, vita di studio, Karol
Wojtyla riprese anche a scrivere poesie e drammi.
E cominciň a pubblicare i propri lavori. Non voleva perň
che si confondesse la sua attivitŕ di
sacerdote, filosofo e teologo, con quella di letterato, per
cui le poesie e i drammi li pubblicava
con uno pseudonimo. Ne aveva scelti due: Andrzej
Jawien e Stanislaw Andrzej Gruda.
La nuova esistenza, tranquilla, ordinata, che prevedeva il
rispetto di un orario giornaliero
ferreo, di tipo militare, come aveva imparato da suo
padre, fině per piacergli.
Corrispondeva, in realtŕ, in pieno alle sue aspirazioni.
Aveva la possibilitŕ di portare avanti il
discorso educativo con i gruppi di giovani che erano nati
dal movimento che portava il suo nome.
Poteva dedicasi alla poesia e alla drammaturgia, e inoltre
si dedicava alla ricerca scientifica
che, per quanto difficile e ostica, gli dava grandi
soddisfazioni e prestigio.
Nei due anni concessi da monsignor Baziak, Wojtyla
aveva portato a termine il compito che gli era
stato assegnato. E appena terminata la tesi, prima ancora
che la discutesse, gli venne affidato un
corso di etica sociale alla facoltŕ di teologia dell'Universitŕ
Jagellonica di Cracovia.
Professore universitario
Iniziň le lezioni nell'ottobre 1953. Qualche mese dopo
discusse la tesi e l'universitŕ gli conferě
il suo secondo dottorato. Ma prima che potesse essere
formalmente nominato docente, il regime
comunista polacco soppresse la facoltŕ di Teologia della
Jagellonica.
Wojtyla continuň a tenere i suoi corsi di Etica sociale
nell'Istituto di teologia presso il
seminario di Cracovia. Contemporaneamente, perň,
passň a insegnare all'Universitŕ di Lublino,
che
era in quegli anni una roccaforte straordinaria della
cultura cattolica. Era l'unica universitŕ
gestita dalla Chiesa cattolica presente nell'immenso
territorio dominato dal comunismo ateo.
Sorta nel 1918 per opera del sacerdote polacco Idzi
Radziszewski, l'Universitŕ di Lublino aveva
giŕ una storia complicata.
La sua nascita era stata curiosamente favorita dallo
stesso Lenin. Dopo la Rivoluzione d'ottobre
del 1917, e quindi con l'inizio della persecuzione ufficiale
a ogni tipo di religione in Russia,
Lenin aveva permesso a Idzi Radziszewski di portare in
Polonia la biblioteca e le attrezzature
scientifiche dell'Accademia polacca di teologia di
Pietroburgo che doveva essere chiusa.
Nel 1939, l'universitŕ era stata chiusa dai nazisti, e i suoi
professori deportati, torturati e
uccisi. Al termine della guerra, aveva riaperto. Le lezioni
erano riprese tra mille difficoltŕ,
perché ora era avversata e ostacolata dallo stalinismo.
Ma riuscě a sopravvivere e non fu mai
soppressa.
In quella universitŕ si era laureato in diritto canonico
anche Stefan Wyszyriski, che poi, tra
il 1946 e il 1948, quando Karol Wojtyla studiava a Roma,
era stato vescovo di Lublino, prima di
diventare arcivescovo di Varsavia e primate di Polonia.
Wojtyla cominciň la sua attivitŕ di docente universitario a
Lublino alla fine del 1954.
Insegnava etica e filosofia. E rimase >rofessore in
quell'universitŕ fino a quando venne eletto
papa, cioč per ventiquattro anni.
Come abbiamo detto, erano tempi duri per la Chiesa
cattolica in Polonia. Il regime arrestava
sacerdoti e vescovi. Due sacerěoti, amici di Wojtyla,
furono condannati a morte. Il rettore
dell'Universitŕ di Lublino e nove professori vennero
arrestati. Lo stesso primate Wyszyriski,
che era stato fatto cardinale nel gennaio del 1953, venne
arrestato nella notte tra il 25 e il
26 settembre di quell'anno e internato prima in un ex
monastero nel nord-ovest della Polonia e
poi in un convento nel Sud del Paese. Insegnare a
Lublino era pericoloso, ma Wojtyla non temeva.
Non volle perň trasferirsi definitivamente nella sede
dell'universitŕ perché desiderava continuare
a portare avanti i suoi impegni con i giovani del gruppo a
Cracovia. Per cui, durante l'anno
accademico, si recava a Lublino ogni due settimane. Per
non perdere tempo, viaggiava di notte, in
treno, dedicando le ore del viaggio alla lettura o alla
meditazione.
A Lublino non aveva un appartamento fisso. Dormiva in
una delle stanze che, all'interno
dell'universitŕ, erano riservate ai professori di passaggio.
Si adattava a quella che trovava
libera. Una volta, non essendoci camere disponibili,
dormě su un tavolo in cucina.
Dopo la sua elezione a Pontefice, i suoi allievi
raccontarono che era sempre vestito male.
Indossava una vecchia tonaca, logora, e un cappotto
anch'esso vecchio. Versava il suo stipendio a
un fondo per borse di studio destinate ad aiutare studenti
poveri. Mangiava pochissimo e quando
capitava. Godeva di una grande popolaritŕ tra gli studenti.
Durante la buona stagione, amava tenere le sue lezioni
all'aperto, in collina o su sentieri di
montagna.
Gli piaceva insegnare. Sembrava che con l'incarico
all'Universitŕ di Lublino, avesse trovato la
sua definitiva sistemazione per la vita. Quel prestigioso
insegnamento andava ad aggiungersi alle
altre sue passioni: gli impegni tra i giovani e l'attivitŕ
artistica di poeta e drammaturgo.
Sono di quegli anni molte delle sue composizioni poetiche
che furono poi pubblicate sulla
rivista "Znak" e sul settimanale "Tygodnik Powszechny".
In quel periodo concluse anche la
stesura del dramma Fratello del nostro Dio, che si ispira
alla vita di frate Alberto e al quale
lavorava da tempo. Scrisse poi La bottega dell'orefice,
meditazione poetica sul mistero del
matrimonio, suggerita dalle conversazioni che
intratteneva con i giovani del suo gruppo.
Professore universitario, educatore, scrittore, poeta.
Inoltre era sacerdote con un grande
impegno nel ministero della Confessione. Sembrava che
tutte le sue aspirazioni giovanili
avessero trovato un pieno compimento.
Si dedicava con passione alle varie attivitŕ. La
soddisfazione per quanto faceva poteva essere
sottolineata anche dal suo modo di vivere. Libero e senza
alcun attaccamento al denaro o alla
carriera. Una libertŕ gioiosa che esternava portando, al
posto del tradizionale copricapo
ecclesiastico nero, un elegante berretto color rosso
porpora e occhiali cerchiati di corno. Si
concedeva, insomma, un atteggiamento da poeta, da
artista.
Vescovo contro il volere del primate
Ma la professione universitaria raramente porta un
ecclesiastico a diventare Papa.
Non bisogna dimenticare che nel 1917 la Madonna,
apparendo a Fatima, aveva confidato ai tre
piccoli veggenti un segreto, e che in quel segreto si
parlava di un ''vescovo vestito di bianco"
che avrebbe collaborato con lei a far cadere il comunismo
e a far trionfare il suo Cuore
Immacolato. E che, a un certo momento, quel vescovo
sarebbe stato vittima di un attentato
mortale. Sappiamo anche che, in seguito, da Pontefice,
Karol Wojtyla, dopo aver rischiato la
vita nel 1981 in piazza San Pietro, si era riconosciuto in
quel "vescovo".
Ma se continuava a fare il professore universitario come
sarebbe diventato Papa? Era necessario
che egli entrasse a far parte della gerarchia ecclesiastica.
Ma prima doveva diventare vescovo.
Allora avrebbe cominciato ad avere delle possibilitŕ di
carriera: venire nominato cardinale e
quindi essere nella condizione di poter diventare Papa.
La sua nuova prestigiosa sistemazione professionale, in
cui si sentiva pienamente soddisfatto,
non faceva che allontanarlo dalla meta profetizzata.
Ma c'era un altro ostacolo ancor piů grosso, anzi che
pareva assolutamente insormontabile ed era
costituito dal cardinale Stefan Wyszyriski, primate della
Chiesa in Polonia, responsabile della
nomina dei vescovi.
E' noto che Wyszynski diverrŕ, in seguito, uno dei grandi
amici ed estimatori di Wojtyla. Colui
che, profeticamente, gli predisse che avrebbe traghettato
la Chiesa nel Terzo millennio.
Ma, allora, anni Cinquanta, il primate di Polonia non
aveva molta stima del professor Wojtyla.
Probabilmente non si conoscevano bene. Erano inoltre
caratteri molto diversi. Pratico, concreto,
interessato ai problemi sociali, Wyszyriski. Teorico,
filosofo, poeta, mistico, Wojtyla.
In quegli anni di rapporti estremamente ostili tra Chiesa
polacca e regime, Wyszyriski aveva
ottenuto pieni poteri da parte del Papa.
Il governo comunista approfittava di ogni occasione per
mettere veti, suscitare attriti,
difficoltŕ. Chiudeva sedi culturali, associazioni, stroncava
iniziative, voleva togliere ossigeno
alla Chiesa per farla morire. Si intrometteva soprattutto
nella nomina dei vescovi, cercando di
impedire che arrivassero ai vertici delle diocesi personalitŕ
importanti.
La nomina dei vescovi costituiva una lotta subdola e
logorante tra Chiesa e regime comunista.
Quando Wyszynski proponeva un nome, il governo
metteva subito il veto.
Per ovviare a questo ping-pong, Pio xII aveva concesso a
Wyszyriski il privilegio straordinario di
tenere a portata di mano un elenco di candidati
all'episcopato, sui quali c'era giŕ il placet del
Papa.
Quando si doveva procedere a una nomina, Wyszyriski
mandava un messaggio segreto a Roma con
l'informazione e dopo aver ricevuto dal Pontefice una
conferma in codice, iniziava le trattative
con il governo.
Dapprima proponeva dei nomi fasulli, che i comunisti
bocciavano immediatamente. Allora, il
primate, dopo molte trattative, fingeva di essere costretto
a ripiegare su persone di secondo
piano, e il governo, ritenendo di aver vinto, cedeva. In
realtŕ, era stato turlupinato perché
l'eletto faceva parte della lista segreta, giŕ approvata dal
Papa, era cioč proprio la persona
che Wyszyriski voleva diventasse vescovo.
Perň, nella lista segreta dei futuri vescovi polacchi, che
Wyszyriski aveva presentato al Papa,
non figurň mai il nome di Karol Wojtyla.
Wyszyriski conosceva bene l'attivitŕ didattica di Wojtyla.
Sapeva quanto fosse apprezzato
all'Universitŕ di Lublino.
Probabilmente poteva immaginare che un giorno il
professor Wojtyla sarebbe potuto diventare
rettore di quell'universitŕ. Ma non lo riteneva adatto a
governare una diocesi, quindi a
diventare vescovo. E senza l'appoggio di Wyszyriski
nessuno in Polonia poteva essere nominato
tale.
Ma, se non diventava vescovo, Wojtyla non sarebbe mai
diventato neppure Papa. E Qualcuno
desiderava che le cose andassero in modo diverso.
Monsignor Baziak, con tutte le traversie che aveva subito
da parte dei comunisti, il carcere, le
privazioni, le umiliazioni, i dispiaceri, sentiva che non
sarebbe vissuto a lungo.
Conosceva bene i problemi di Cracovia e conosceva
bene gli avversari, i dirigenti comunisti
della cittŕ. Si guardava intorno per vedere chi, tra i suoi
collaboratori, avrebbe potuto
prendere il suo posto in quell'ora difficile.
Ricordava gli insegnamenti del cardinale Sapieha e la
stima che quell'uomo carismatico aveva per
Wojtyla. Baziak si convinse che Karol Wojtyla poteva
essere l'uomo adatto a tenere viva la
Chiesa a Cracovia, combattendo contro il regime
comunista.
Sapeva anche che il Papa, in quel periodo difficile, aveva
riservato solamente al primate,
Stefan Wyszyriski, l'incarico straordinario di nominare i
vescovi. Probabilmente parlň con il
primate scoprendo che questi non ne voleva sapere di
Wojtyla. Dunque, Baziak decise di
intromettersi in una vicenda che non avrebbe dovuto
riguardarlo e scrisse direttamente a Pio XII.
Non si sa che cosa gli disse, ma la sua lettera deve
essere stata convincente.
All'inizio del luglio 1958, Wyszyriski ricevette da Roma un
telegramma firmato da Pio XII, che
diceva: "Su richiesta del-'arcivescovo Baziak, nomino don
Karol Wojtyla vescovo ausiliare di
Cracovia. Voglia gentilmente esprimere la sua
approvazione per questo incarico".
Wyszyriski lesse e rilesse quel telegramma e appariva
molto contrariato. Conosceva la stima che
Baziak aveva per Wojtyla, ma sapeva anche di avere
avuto dal Papa un incarico speciale
per cui solo lui era responsabile della nomina dei vescovi.
Era la prima volta che veniva
scavalcato in modo deciso.
Ma non riusciva a capire soprattutto per quale ragione
questo fosse accaduto. Il Papa era al
corrente di quanto fossero diventati complicati in Polonia i
rapporti tra la Chiesa e lo Stato, e
si chiedeva perché Pio XII non gli avesse chiesto
consiglio, invece di inviargli un telegramma con
un ordine preciso da eseguire.
ŤDove devo firmare? ť
In data 4 luglio, il cardinale Wyszyriski inviň a sua volta
un telegramma a Karol Wojtyla
convocandolo a Varsavia per comunicazioni urgenti.
Il professor Wojtyla era in vacanza sui laghi Masuri, con i
giovani del suo gruppo. Ricevette il
telegramma rientrando la sera alla base
dell'accampamento, dopo una giornata trascorsa in canoa
a
discutere con alcuni ragazzi. L'indomani disse loro che
doveva assentarsi per qualche giorno, ma
che sarebbe tornato al piů presto.
Arrivň a Varsavia l'8 luglio. Andň dritto al Palazzo
arcivescovile.
ŤHo qui un'interessante letterať disse Wyszyriski, dopo
averlo ricevuto nel suo studio privato,
e gliela lesse.
Come Wyszyriski stesso annotň nei suoi diari, in genere
le reazioni dei candidati a cariche
cosě importanti erano sempre le stesse. Stupore e la
richiesta di riflettere per qualche giorno,
di consigliarsi con il proprio direttore spirituale.
Atteggiamenti comprensibili, ma che
infastidivano il cardinale, uomo di azione repentina. Ed
egli, di fronte a quelle obiezioni,
ribatteva con tono asciutto: ŤSe lei č una persona matura,
dovrebbe sapere quello che vuoleť.
Un giorno un candidato disse: ŤDevo chiedere consiglio a
Gesů nelle mie preghiereť. E
Wyszyriski, visibilmente contrariato, rispose: ŤC'č una
cappella nel mio appartamento, si
accomodi. Ma per piacere non ci metta piů di quindici
minuti perché non ho tempo da perdere e
non ne ha nemmeno Gesůť.
Era curioso di sentire la reazione di Wojtyla. Osservava
indagatore quel sacerdote di trentotto
anni, seduto di fronte a lui. Sapeva che aveva interrotto le
vacanze sui laghi Masuri per venire
a Varsavia. Era un giovane atletico, abbronzato, pieno di
salute, e sembrava molto sicuro di sé.
ŤAccetta l'incarico?ť chiese il cardinale.
Ci furono solo pochi secondi di silenzio e poi la voce
pastosa e ferma di Wojtyla: ŤDove devo
firmare?ť.
Wyszyriski, questa volta sorpreso, gli indicň il punto del
foglio dove doveva apporre la sua
firma di accettazione.
Mezz'ora dopo, Karol Wojtyla bussava alla porta del
convento delle orsoline che sorgeva vicino
all'arcivescovado. Chiese alla suora che gli aveva aperto
dove fosse la cappella. Vi entrň senza
dire una parola, si inginocchiň nel primo banco, davanti al
tabernacolo.
Passň un'ora, ne passarono due, quel prete era sempre
lŕ. Le suore cominciarono a diventare
curiose. Andavano a spiare. Una di loro lo riconobbe.
ŤQuello č il famoso professor Wojtyla, che
insegna all'Universitŕ di Lublinoť disse alle altre.
Tutte le furono intorno a fare domande. Insegnare in
quella universitŕ cattolica, in quel
periodo, costituiva un titolo di grande prestigio. La suora
allora raccontň tutto ciň che sapeva.
Disse che il professor Wojtyla aveva anche fama di
essere un poeta, un drammaturgo. La madre
supcriora decise di invitarlo a cena. Aspettň ancora un po'
e poi entrň in cappella e gli si
avvicinň.
Wojtyla pregava tenendo il volto tra le mani.
ŤReverendo, saremmo molto onorate se volesse venire a
cena con la nostra comunitŕ.ť
Wojtyla la guardň. ŤIl mio treno parte dopo la
mezzanotteť rispose. ŤDesidererei restare qui, a
pregare. Ho ancora tante cose da dire al Signore.ť
Uscě da quella cappella per andare alla stazione dopo le
23.30. Erano trascorse otto ore da
quando si era inginocchiato in quel banco davanti al
tabernacolo.
XIX Padre Pio sapeva

Monsignor Baziak era felice che Wojtyla fosse diventato


vescovo. Sapeva di aver realizzato, con la
sua raccomandazione a Pio XII, un desiderio del
cardinale Sapieha.
Fu lui a celebrare la consacrazione, il 28 settembre 1958,
giorno di San Venceslao. Tenne la
solenne cerimonia nella cattedrale di Wawel, gremita da
una folla di amici ed estimatori del
neovescovo.
Totus tuus. Tutto tuo
Wojtyla era ormai assai noto a Cracovia, dove predicava,
teneva conferenze, ritiri spirituali per
professionisti, in particolare medici, e dove aveva anche
insegnato all'universitŕ. Era amato e
stimato, e in quel giorno di grande festa tutti si erano
radunati intorno a lui per dimostrargli
quanto gli volevano bene.
Secondo un'antichissima tradizione, ogni nuovo vescovo,
quando viene consacrato, sceglie un motto
da inserire nel proprio stemma episcopale, ed č, in
genere, una frase che rappresenta uno stile di
vita, un ideale cui ispirare la propria azione pastorale.
Wojtyla scelse Totus tuus, "rutto tuo". Parole che fanno
parte della formula di affidamento alla
Madonna di san Luigi Maria Grignion de Montfort, che
anch'egli aveva fatto sua ai tempi del
Rosario vivente con Jan Tyranowski. Fin da allora, la
Madre di Dio era diventata per Wojtyla la
protettrice, l'ispiratrice di ogni
atto della sua vita. Ora, chiamato a esercitare la pienezza
del sacerdozio nella guida del popolo
di Dio, ribadiva il totale affidamento a Maria anche per la
sua attivitŕ di vescovo della
Chiesa.
Non tutti, perň, a Cracovia, erano felici della nomina di
Wojtyla. Certi conservatori a
oltranza guardavano con sospetto il suo comportamento.
Le gite in montagna con ragazzi e
ragazze, con coppie di fidanzati, la facilitŕ con cui si
vestiva in borghese, erano criticati.
Per loro Wojtyla era un "prete troppo moderno", troppo
aperto al dialogo con i comunisti, troppo
mondano, un prete che non dava fiducia.
La sua opposizione al comunismo era sě netta, ma
ragionata. Wojtyla non si lasciava prendere da
iniziative emozionali, pregiudiziali, ma affrontava
l'avversario sul piano intellettuale, con
freddezza, sconcertandolo sempre.
I comunisti avevano capito che era un nemico difficile, ma
nello stesso tempo non riuscivano a
inquadrarlo perfettamente. E qualcuno dei dirigenti si era
perfino illuso di poterlo manipolare,
e gli dimostrava, in certe occasioni, fiducia e rispetto. Ed
era proprio questo atteggiamento a
mettere in allarme chi invece rifiutava in modo totale il
dialogo e il confronto con gli
avversari politici.
Passati i festeggiamenti per la nomina a vescovo,
monsignor Karol Wojtyla riprese la sua vita di
sempre. Lezioni all'universitŕ, conferenze, ritiri, prediche,
studio, molta attivitŕ nella
direzione spirituale attraverso la confessione, gite in
montagna con i giovani del suo
movimento. E continuň a scrivere poesie e a lavorare a
qualche dramma.
Le sue giornate erano piene. Si alzava prestissimo e di
sera andava a letto molto tardi.
Gli impegni di collaborazione con l'arcivescovo
aumentavano sempre piů. Doveva spesso
sostituirlo, soprattutto negli impegni fuori Cracovia.
La salute di monsignor Baziak era ormai compromessa.
Abituato ad affrontare i sacrifici delle
prigioni, si teneva sulla breccia, ma il fisico era molto
malandato. E, infatti, la notte tra
il 14 e il 15 giugno 1962 morě. Aveva settantadue anni.
Venne sepolto con grande solennitŕ, e
sulla sua lapide i polacchi vollero che fosse scritto il titolo
che il governo gli aveva sempre
negato, quello di arcivescovo di Cracovia.
Un mese piů tardi, il 16 luglio, il capitolo della cattedrale
di Cracovia, costituito dai
sacerdoti anziani, elesse Wojtyla vicario capitolare e
amministratore temporaneo dell'arcidiocesi.
Avrebbe cioč retto la diocesi di Cracovia fino a quando
non fosse stato eletto il successore di
Baziak. Anzi, il successore di Sapieha perché, per il
governo polacco, Baziak non fu mai
arcivescovo. Il regime non aveva mai ratificato la nomina
e, da un punto di vista giuridico, la
diocesi di Cracovia era vacante, era cioč senza
arcivescovo, dal 1951.
A Roma per il Concilio
A Roma, intanto, stava per iniziare un evento
straordinario per la Chiesa cattolica, l'apertura
del Concilio Vaticano II.
Il Concilio č un incontro di tutti i vescovi del mondo con il
vescovo di Roma, il Papa, per
discutere di problemi della Chiesa. Nella storia ne erano
stati indetti venti. L'ultimo, il
Concilio Vaticano I, risaliva al 1870. Era stato indetto da
Pio ix e sospeso per l'occupazione di
Roma da parte delle truppe italiane.
Annunciato da Papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, il
XXI Concilio ecumenico fu preparato con
un lavoro febbrile, durato quasi quattro anni, cui
parteciparono i vescovi di tutto il mondo.
L'inizio era fissato per l'11 ottobre 1962.
Per i vescovi dei Paesi sotto i regimi comunisti era
un'occasione per poter andare a Roma. Non
tutti poterono farlo. La delegazione polacca era costituita
dal cardinale Wyszyriski e da
ventiquattro vescovi. Per Wojtyla era la sua prima uscita
dalla Polonia dal 1946, quando era
stato a Roma per completare gli studi teologici.
Partě con grande entusiasmo. E anche con una certa
emozione. Gli piaceva tornare nella Cittŕ
eterna, dove era vissuto per due anni.
A Roma prese alloggio presso il collegio polacco, che si
trova sul colle Aventino, in un posto
bellissimo, pieno di sole, di verde, da dove si puň godere
la veduta di tutta la cittŕ.
Partecipň alla Messa dell'apertura del Concilio celebrata
nella Basilica di San Pietro,
riportandone una grande emozione.
In quell'enorme basilica, cuore della cristianitŕ, erano
radunati 2381 Padri conciliari. Lungo
i lati della navata centrale erano stati collocati palchi con
dieci file digradanti di posti.
Wojtyla era collocato nei posti all'ingresso della basilica,
essendo egli un vescovo di nomina
recente. Ma da quella posizione poteva osservare l'intera
basilica con un suggestivo panorama di
mitrie bianche, interrotte qua e lŕ dai copricapo neri e
bombati dei patriarchi delle Chiese
orientali. In un settore separato c'erano centouno
osservatori di altre confessioni cristiane, e
qualche centinaio di teologi ed esperti.
Una brutta notizia
Tutte le mattine, monsignor Wojtyla si recava alle
assemblee con entusiasmo. Era felice.
Ma tra tante gioie e soddisfazioni, una sera, rientrando
nel collegio polacco, trovň una lettera
con una dolorosa notizia: la dottoressa Wanda
Poltawska, quarantanni, moglie del suo amico
Andrzej Poltawsky, era in fin di vita.
Che fosse ammalata, Wojtyla lo sapeva. Ma quando
aveva lasciato la Polonia erano ancora in corso
esami e accertamenti e si pensava che la scienza medica
potesse salvarla. Invece, ora non
c'erano piů speranze. Il tumore che aveva colpito quella
donna, era ormai diffuso. La dottoressa
Poltawska era ricoverata in ospedale, dove i medici
avevano deciso di tentare un intervento
chirurgico estremo, ma le speranze di guarigione erano
quasi inesistenti.
Karol Wojtyla conosceva bene quella donna. Era una
delle sue migliori collaboratrici. Medico e
psichiatra, lo aiutava soprattutto nei problemi riguardanti
la famiglia. Era stata una sua
valida consulente, soprattutto per la stesura del libro
Amore e
responsabilitŕ. Lavorando con lei, Wojtyla aveva imparato
ad apprezzarne la fede e l'impegno
cristiano.
Wanda e suo marito Andrzej erano stati tra i primi giovani
a far parte di quel gruppo che Wojtyla
aveva chiamato Rodzinka, "piccola famiglia". Fin dall'etŕ
di ventun anni, egli era solo al mondo.
Wanda e Andrzej, e le loro quattro bambine, erano
diventati la sua famiglia.
Wojtyla nutriva una grande stima per Wanda, e anche
una grande ammirazione- La considerava uno
straordinario esempio di coraggio e di fede cristiana. Una
consigliera preziosissima. Divenuto
Papa, Wojtyla la volle a Roma come membro del
Pontificio Consiglio della Famiglia, consultore
del Pontificio Consiglio per gli Operatori salutari, e la
nominň anche membro ad honorem della
Pontificia Accademia per la Vita. In Polonia, inoltre,
mantenne l'incarico di direttore
dell'Istituto di Teologia della Famiglia alla Pontificia
Accademia di Teologia di Cracovia. E per
tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, la dottoressa
Poltawska fu un personaggio molto
importante e molto presente a Roma, anche se
pochissimi sapevano chi realmente fosse.
Di rado, infatti, Wanda parlava di se stessa. E' sempre
stata schiva e riservata. Ma la sua
esistenza č quella di una autentica eroina e martire.
Quando si ammalň, nel 1962, pur essendo ancora
giovane, aveva giŕ alle spalle un passato terribile
e straordinario insieme, che Karol Wojtyla conosceva
bene. All'inizio della Seconda guerra
mondiale, quando la Polonia venne invasa dai tedeschi,
era stata arrestata. Aveva solo diciotto
anni e affrontň torture terribili per non tradire i compagni
di fede politica, Poi fu deportata in
un lager, in Germania, dove per quasi cinque anni venne
martoriata nel fisico e nello spirito e
riuscě a sopportare tutto senza odio, con fede cristiana.
Sofferenze indicibili
"Una sera" scrisse Wanda in un suo piccolo libro di
memorie pubblicato in Polonia "studiavo a
casa quando all'ingresso una voce maschile, in polacco,
risuonň strana e aggressiva:
'Chi di voi č Wanda?'. E cosě cominciň. Mi alzai, uscii (...)
e sono tornata solo adesso, dopo
quasi cinque anni di campo di concentramento."
Dopo l'arresto, la ragazza, che faceva parte della
Resistenza, fu portata al comando della
Gestapo e sottoposta a un interrogatorio che durň alcuni
giorni. Venne picchiata, violentemente,
con pugni in faccia, nello stomaco, minacciata con una
rivoltella. Ma non si impaurě mai.
"Dall'interrogatorio uscii con la coscienza pulita, non dissi
una parola in piů di quanto
realmente volessi, nessuno per colpa mia in alcun modo
č stato accusato."
Venne rinchiusa in una cella zeppa di persone. "Nella
prigione c'erano pidocchi, pulci,
sporcizia, non c'era l'acqua ed era scoppiato il tifo. Di
notte, a volte, all'improvviso,
accendevano le luci facendoci stare sull'attenti,
cominciavano a chiamare alcune di noi. Dopo,
in cella, non si dormiva piů, si pregava per quelle che
erano andate via. E, poco dopo, sotto le
nostre finestre sentivamo i colpi d'arma da fuoco
dell'esecuzione."
Dopo quasi sette mesi, le prigioniere vennero caricate su
un treno merci e inviate in Germania,
nel famigerato lager di Rarensbrůck, dove i medici
tedeschi facevano esperimenti su cavie umane.
"Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti
picchiavano a sangue. Fummo spogliate nude,
ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano
distruggere la nostra personalitŕ."
Cominciarono i lavori pesanti. "Caricavano una quantitŕ
(misurata di pesi sulle nostre spalle (...) Ricordo di aver
portato sulle mie spalle ottanta
chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una
casa a due piani: mi sentivo
morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro
di me c'era un'altra prigioniera e
l'avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Avevamo
accanto le sorveglianti con terribili cani
che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava
un poco. Le mani sanguinavano. Al
mattino la sabbia era bagnata e pesante, durante il giorno
si asciugava con il vento, si alzava,
entrava negli occhi, nella bocca, nelle orecchie."
Un tormento terribile era costituito dal freddo. "Dove
dormivamo, pendevano dal soffitto i ghiaccioli. Sulle
nostre coperte c'era la brina e la
sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo
le finestre dei due lati del dormitorio
per colpirci con le correnti d'aria,
"Nelle baracche dove andavamo a lavorare era, invece,
molto caldo. La baracca era superaffollata e
sudavamo. Indossavamo vestiti leggeri, con le maniche
corte. Il mio turno terminava alle cinque
del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli
stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e
ore al gelo.
"Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte.
Ci buttavamo sulle brande e dopo un'ora
suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli.
Ritornavamo nel dormitorio e dopo un'altra
ora ancora la sirena per l'appello. Non si riusciva a
chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A
volte, durante gli appelli si dormiva in piedi, a occhi aperti,
e qualcuna cadeva a terra
tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era piů
forte del desiderio di dormire. Eravamo
magre come scheletri. Neanche la vista delle donne
nude, in coda per il bagno, terribilmente
magre, causava piů disgusto. Guardavamo con
indifferenza la nostra magrezza e quella delle altre,
cosě come la perdita dei seni e la morte. Per la fame
eravamo diventate ladre, ci rubavamo un
tozzo di pane, litigavamo per poche briciole."
A un certo momento un gruppetto di quelle ragazze
venne portato nel padiglione dell'infermeria.
Tra esse, anche Wanda.
"Eravamo cavie umane"
Le ragazze furono accuratamente lavate. Un'infermiera
depilň le loro gambe, praticň delle
iniezioni che fecero perdere la coscienza e quando le
ragazze si svegliarono si trovarono con le
gambe ingessate.
Che cosa era accaduto? Non lo sapevano. Vennero
riportate nel dormitorio su una sedia a rotelle,
messe a letto e quando, nel corso della notte, terminň
l'effetto del potente sonnifero,
cominciarono dolori lancinanti.
Iniziň cosě il martirio. Quelle ragazze diventarono delle
cavie umane per atroci esperimenti
medici.
Gli interventi chirurgici alle gambe si succedettero a
periodi fissi. Le ferite praticate erano
trattate con medicinali particolari che producevano
infezioni, cancrene. In quello stato, le
vittime venivano abbandonate sole nel dormitorio, senza
alcuna assistenza.
Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si lasciava
cadere dal letto e, aggrappandosi alle
brande delle compagne, raggiungeva quelle piů sofferenti
per dare loro un po' di conforto,
bagnando i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi,
confortando chi stava morendo.
Di giorno arrivavano i medici che osservavano le ferite e
ordinavano altri esperimenti. Le
povere cavie umane venivano riportate nel padiglione
dell'infcrmeria e sottoposte ad altre
orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni
di batteri nelle ferite. Un
calvario spaventoso e interminabile.
Ogni tanto una ragazza moriva. Se ne andarono in
questo modo in molte. Wanda le ricorda nel
libro, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché
furono vittime innocenti, uccise da un
odio assurdo, freddo, cinico, umanamente inconcepibile.
L'esasperazione e l'odio delle sopravvissute era indicibile.
Ma Wanda, anche in quella tremenda
situazione, riusciva a mantenere il suo equilibrio cristiano.
"Non provavo odio e neanche adesso
lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e
cercavo in loro le persone."
Questa, in una rapidissima sintesi, l'incredibile e orribile
esperienza che Wanda Poltawska
fece, dai diciotto ai ventidue anni, nel lager di
Ravensbruck. Un'esperienza capace di
distruggere qualsiasi equilibrio psichico, ma non quello di
una donna forte, con il cuore saldo
nella fede. Wanda, sopravvissuta a quegli orrori, decise di
dedicare il resto della sua vita
agli altri.
Tornata a casa, riprese gli studi universitari, si laureň in
medicina e si specializzň in
psichiatria. E fu in quegli anni che conobbe Karol Wojtyla.
Divenne una del suo gruppo. Si sposň
con Andrzej, professore di filosofia, ebbe quattro figlie.
Data la sua preparazione medica, e la sua fede cristiana,
divenne la consulente scientifica di
Karol Wojtyla per i problemi della famiglia. Insieme
scrissero libri, tennero conferenze,
convegni, seminari, ritiri spirituali ai giovani. E ora, ecco
che, a soli quarant'anni, con
quattro figlie ancora piccole, si trovava in fin di vita. Per i
medici era spacciata.
Che la malattia fosse grave, irreversibile, lo confermň lei
stessa, in seguito, in un suo
scritto: "A causa di una malattia ero ricoverata in
ospedale, in attesa di subire un intervento
che mi avrebbe permesso di vivere ancora un anno, forse
un anno e mezzo, finché cioč non si
fossero manifestate le metastasi. Accettavo l'operazione
per non tralasciare nessuno dei mezzi che
la scienza mi metteva a disposizione, perché ritenevo mio
dovere vivere il piů a lungo possibile,
perché avevo i figli ancora piccoli".
Karol pensň a Padre Pio
Monsignor Karol Wojtyla, nella sua stanza romana sul
colle Aventino, lesse e rilesse la lettera
che gli era giunta da Cracovia con le drammatiche notizie
sulla salute di Wanda. Era profondamente
addolorato. Come faceva sempre in simili occasioni, si
rifugiň nella preghiera. Solo Dio poteva
illuminare e dare significato alla tragedia che si
prospettava. Wojtyla si mise a pregare
intensamente. E mentre pregava si ricordň di Padre Pio, il
frate cappuccino, stigmatizzato, che
egli aveva conosciuto a San Giovanni Rotondo nel 1948.
Quel religioso era un santo. Bisognava
rintracciarlo e chiedergli di pregare per Wanda.
A questo punto della storia si inserisce un episodio che
definire clamoroso č dire poco. Non solo
per l'esito che ebbe sulla malattia di Wanda Poltawska,
ma per il significato a favore della tesi
che ho voluto sottolineare in questo libro, e cioč che Karol
Wojtyla era una persona speciale,
misteriosamente scelta dalla Madonna per una grande
missione a favore dell'umanitŕ e
misteriosamente protetta dal Cielo per tutto il corso della
sua vita. Infatti, in
quell'occasione, Padre Pio, il grande
santo carismatico, non solo accettň di pregare per Wanda
intercedendone presso Dio la
guarigione, ma diede una straordinaria testimonianza di
quanto Karol Wojtyla fosse tenuto in
considerazione nell'aldilŕ.
In quegli anni, 1962, Padre Pio era "in disgrazia". La
Chiesa lo guardava con sospetto. Su di
lui pendevano accuse gravissime. Due anni prima, e
precisamente nell'estate del 1960, Papa
Giovanni XXIII aveva autorizzato una visita apostolica per
far luce su presunte vicende
scandalose che dovevano coinvolgere anche Padre Pio.
Si trattava di misere calunnie, come in
seguito la storia ha dimostrato, ma quella visita apostolica
aveva dato esito sfavorevole al
religioso e il Sant'Uffizio aveva emesso contro di lui dei
provvedimenti disciplinari molto
severi, riservati solo a sacerdoti ribelli e colpevoli.
Karol Wojtyla era certamente al corrente di tutto questo.
E se non lo era, in quanto le notizie
nel 1960 non erano giunte in Polonia, venne informato
quando chiese agli amici come poteva far
giungere a Padre Pio una lettera urgente. Gli amici gli
avranno certamente riferito che non era
prudente scrivere a Padre Pio, perché quel religioso era
nel mirino del Sant'Uffizio. Ma Wojtyla
non tenne in alcuna considerazione quelle
raccomandazioni. Aveva di Padre Pio una opinione tutta
sua, inattaccabile dalle chiacchiere. Era certo che quel
religioso fosse un uomo di Dio, e
ricorse fiducioso al suo intervento.
Su un foglio intestato Curia metropolitana cracoviensis, la
diocesi di Cracovia, scrisse in
latino una breve lettera che porta la data del 17 novembre
1962.
Venerabile padre, ti chiedo di pregare per una madre di
quattro ragazze, che ha quarant'anni e
vive a Cracovia, in Polonia. Durante l'ultima guerra fu per
cinque anni nei campi di
concentramento in Germania e ora si trova in gravissimo
pericolo di salute, anzi di vita a causa
di un cancro. Prega affinchč Dio, con l'intervento della
Beatissima Vergine, mostri misericordia
a lei e alla sua famiglia. In Cristo obbligatissimo, Karol
Wojtyla.
La lettera venne consegnata ad Angelo Battisti, che
lavorava alla segreteria di Stato, in
Vaticano, ma che era anche amministratore della Casa
Sollievo della Sofferenza, e quindi una delle
persone che poteva avvicinare facilmente Padre Pio.
ŤA questo non si puň dire di noť
E qui divento a mia volta testimone. Nel 1983, Battisti,
che stava molto male di salute, volle
vedermi. Mi conosceva perché da tempo, come
giornalista, mi interessavo di Padre Pio e sul frate
con le stigmate avevo giŕ scritto alcuni libri. Andai a
trovarlo a casa sua, a Roma. Mi consegnň
un grosso plico, che aveva giŕ preparato. Lo aprii.
Conteneva vari documenti riguardanti la vita
di Padre Pio e la collaborazione che Battisti aveva dato
per tanti anni alla Casa Sollievo della
Sofferenza. In quel plico, c'erano anche le fotocopie di
due lettere che Karol Wojtyla aveva
scritto a Padre Pio nel 1962. E Battisti,
consegnandomele, volle raccontarmi che cosa era
accaduto
quando egli le aveva portate a Padre Pio.
ŤLa prima lettera mi fu consegnata da un cardinale nella
tarda mattinata del 18 novembre 1962ť mi
raccontň. ŤQuel cardinale mi disse che si trattava di una
vicenda della massima importanza e che
quindi dovevo partire subito e consegnare la lettera
proprio nelle mani del Padre.
ŤNon avevo mai ricevuto incarichi cosě urgenti in
Vaticano. Andai a casa, presi la mia auto e
partii immediatamente. Arrivato a San Giovanni Rotondo,
andai nella cella di Padre Pio. Gli porsi
la lettera dicendo che si trattava di cosa urgente.
Ť"Apri e leggi" disse il Padre. Aveva la testa piegata sul
petto e stava, come sempre, pregando.
ŤAprii la busta e gli lessi la lettera. Il padre ascoltň in
silenzio senza dire niente. Quando
ebbi finito di leggere quelle poche righe, rimase ancora in
silenzio. Poi, alzando la testa e
fissandomi intensamente con quei suoi occhi terribili, mi
disse: "Angiolino, a questo non si puň
dire di no". Piegň di nuovo la testa sul petto e riprese a
pregare.
ŤRisalii in macchina per tornare a Roma. Durante il
viaggio
continuavo a riflettere su quella frase. Conoscevo Padre
Pio da anni e sapevo che ogni sua
parola aveva sempre un profondo significato. Continuavo
a chiedermi: "Ma perché ha detto: 'A
questo non si puň dire di no?". Chi era quel vescovo
polacco? Io lavoravo in segreteria di
Stato, ma non lo avevo mai sentito nominare. Arrivato a
Roma chiesi ai miei colleghi se
conoscevano il vescovo Wojtyla, ma nessuno ne sapeva
niente.ť
Dopo undici giorni, e precisamente il 28 novembre, Karol
Wojtyla scrisse una nuova lettera a
Padre Pio.
Venerabile padre, la donna abitante a Cracovia in
Polonia, madre di quattro ragazze, il giorno
21 novembre, prima dell'operazione chirurgica č guarita
all'improvviso. Rendiamo grazie a Dio. E
anche a te padre venerabile porgo i piů grandi
ringraziamenti a nome della stessa donna, di suo
marito e di tutta la sua famiglia. In Cristo, Karol Wojtyla,
vescovo capitolare di Cracovia.
Anche questa volta la lettera fu immediatamente
consegnata ad Angelo Battisti con l'incarico di
portarla a San Giovanni Rotondo.
ŤPartii subito perché anche quella volta, in Vaticano, mi
avevano fatto una grande frettať mi
raccontň Battisti. ŤArrivato a San Giovanni Rotondo,
entrai nella cella di Padre Pio, gli feci
vedere la lettera ed egli di nuovo mi disse: "Apri e leggi".
ŤQuesta volta lessi con molta curiositŕ anch'io, perché
volevo sapere che cosa ci fosse ancora
di tanto importante, e sentendo quella notizia veramente
straordinaria, incredibile, guardai
verso il Padre come per congratularmi con lui. Ma Padre
Pio era immerso nella preghiera.
Sembrava non avesse udito la mia voce mentre leggevo
la lettera. Attesi in silenzio che mi
dicesse qualcosa oppure che mi ordinasse di tornare a
Roma. Dopo qualche minuto il Padre disse:
"Angelino, conserva queste lettere, perché un giorno
diventeranno importanti".
ŤTornai a Roma, tenni sempre con me quelle lettere,
come mi aveva ordinato Padre Pio. Passarono
sedici anni e mi ero
quasi dimenticato di averle. Ma la sera di lunedě 16
ottobre 1978/ quando dalla loggia centrale
della Basilica di San Pietro sentii il cardinale Felici
annunciare al mondo il nome del nuovo Papa
che era stato eletto al posto di Giovanni Paolo i, mi venne
quasi un colpo. Il nuovo Papa era
Karol Wojtyla. Quel vescovo polacco che mi aveva dato
la lettera da portare a Padre Pio per
chiedere la guarigione di una donna di Cracovia. Pensai
immediatamente alla frase di Padre Pio:
"A questo non si puň dire di no" e mi vennero le lacrime
agli occhi.ť
Il fatto, la guarigione improvvisa della dottoressa Poltaw-
ska, guarigione constatata dai medici
prima che la donna entrasse in sala operatoria, č
indubbiamente un qualcosa di clamoroso. La
dottoressa č ancora in vita mentre scriviamo e sta
benissimo.
Ma ciň che piů interessa in questo libro č la frase di Padre
Pio: "A questo non si puň dire di
no". Eravamo nel novembre 1962. Karol Wojtyla era un
semplice vescovo, che in Italia nessuno
conosceva. Padre Pio, il santo veggente, ascoltando le
parole con le quali Wojtyla gli chiedeva di
intercedere presso Dio per avere un miracolo, replicň: "A
questo non si puň dire di no". Perché?
Che cosa sapeva Padre Pio di quel giovane vescovo
polacco? E perché quel giovane vescovo aveva
tanto credito in Cielo?

XX Arcivescovo con il voto dei comunisti


Con l'inizio del 1963, al rientro dalla prima sessione al
Concilio Vaticano II, il cardinale
Wyszyriski cominciň a esaminare la pratica riguardante la
nomina del successore di monsignor
Baziak alla guida della diocesi di Cracovia.
Si trattava di una nomina particolarmente delicata. Nel
1951, alla morte del cardinale Sapieha,
egli, d'accordo con Pio XII, aveva scelto per quella carica
monsignor Baziak, ma il governo
comunista della cittŕ aveva messo il veto. La Chiesa non
aveva voluto fare marcia indietro, e cosě
Baziak aveva governato di fatto la diocesi, ma
ufficialmente la sede arcivescovile di Cracovia era
rimasta vacante.
Il Nemico si serve perfino del cardinale
Wyszynski non voleva che la vicenda si ripetesse. Dopo
Varsavia, Cracovia era la diocesi
metropolita piů importante della Polonia. Doveva essere
funzionante a tutti gli effetti. Cercava
perciň un vescovo che fosse all'altezza di quell'incarico e
sul quale non arrivasse il veto del
governo.
A Cracovia, tutti si aspettavano la nomina di monsignor
Wojtyla. Le autoritŕ ecclesiastiche di
quella cittŕ avevano giŕ espresso il loro parere subito dopo
la morte di Baziak nominando
Wojtyla vicario capitolare. Wojtyla quindi esercitava giŕ la
funzione di amministratore
dell'arcidiocesi, anche se in
forma temporanea. Il gradimento espresso dal capitolo
metropolitano era un palese atto di fiducia
e un segnale eloquente.
Un segnale perň che il primate della Chiesa polacca, il
cardinale Wyszyriski, non sembrava
intenzionato a recepire. In quegli anni, egli mostrava
diffidenza verso quel giovane vescovo,
professore di filosofia a Lublino, che amava sciare in
montagna e attraversare fiumi e laghi in
canoa. Come abbiamo visto, anche la nomina di Wojtyla
a vescovo non era partita da Wyszyrěski, Il
primate considerava Wojtyla troppo giovane, un po'
astratto, immerso nelle sue elucubrazioni
filosofiche e poetiche, quindi poco adatto al governo di
una diocesi. Dunque, non aveva proprio
alcuna intenzione di nominarlo arcivescovo di Cracovia.
Un atteggiamento che Wyszyriski, negli anni successivi,
sviluppando una piů approfondita
conoscenza, cambierŕ totalmente diventando un grande
ammiratore di Wojtyla. E durante il conclave
del 1978 sarŕ il suo piů autorevole sostenitore. Ma, allora,
all'inizio del 1963, erano divisi da
una barriera di incomprensioni e di pregiudizi che
sembrava invalicabile.
Agli effetti del cammino di Wojtyla verso il papato, la
nomina ad arcivescovo di Cracovia era un
passaggio essenziale. L'arcivescovo di una cittŕ
importante come Cracovia era senz'altro destinato
a diventare cardinale e di conseguenza a entrare nel
collegio dei principi della Chiesa che
avrebbero eletto il futuro Papa e a essere insieme un
soggetto di elezione.
L'atteggiamento ostile di Wyszynski era perciň assai
nocivo. E non sembri eccessivo al lettore, se
supponiamo che anche quella opposizione possa essere
stata provocata e favorita dal famoso
Nemico. Impedendo che Wojtyla diventasse cardinale,
ostacolava quella missione che la Madonna
aveva previsto per lui fin dal 1917. Il Nemico conosceva il
futuro, e voleva che non si
realizzasse.
Secondo le procedure che erano state concordate tra
Chiesa e Stato in Polonia in quel periodo di
regime comunista, la nomina degli arcivescovi destinati a
governare le diocesi spettava alla
Chiesa, quindi al Papa, ma il governo si riservava il diritto
di dare il placet o di mettere il
veto. In pratica, il primate di Polonia presentava una terna
di nomi e il governo sceglieva tra
essi chi avrebbe avuto la carica.
A ogni nomina sorgevano sempre nuove difficoltŕ da parte
del governo, che voleva in questo modo
comandare in ambito ecclesiastico. E le difficoltŕ
diventavano enormi, quando si trattava di
scegliere cariche estremamente importanti, come quella
di un arcivescovo metropolita.
All'inizio del 1963, il primate Wyszynski presentň tre
candidati per il governo della diocesi di
Cracovia, e il governo comunista li bocciň tutti e tre. Fra
quei nomi, non figurava monsignor
Wojtyla.
Wyszynski incassň il colpo e cominciň a preparare
un'altra terna di nomi. Intanto il 3 giugno
1963 moriva Giovanni XXIII. Il cardinale Wyszynski si
recň a Roma per i funerali e per il
conclave, dal quale uscě Pontefice l'arcivescovo Montini,
che prese il nome di Paolo vi.
Durante la sua permanenza a Roma, Wyszynski affrontň,
con i polacchi che lavoravano in Vaticano,
anche la nomina dell'arcivescovo di Cracovia.
Probabilmente ne parlň anche con il nuovo Papa e
rientrando in patria aveva pronta una nuova terna di
candidati. La presentň alle autoritŕ
comuniste che ancora una volta bocciarono tutti e tre i
candidati. E anche in questa terna non
figurava affatto il nome di Karol Wojtyla.
Wyszynski, quindi, non voleva proprio che Wojtyla
diventasse arcivescovo. A Cracovia invece la
stima nei confronti di Wojtyla continuava a crescere.
Vedendo che, per ben due volte, il nome di
Wojtyla non era stato inserito nella rosa dei candidati alla
carica di arcivescovo, una
delegazione della diocesi di Cracovia si recň a Varsavia
per chiedere formalmente al primate di
prendere in considerazione il vicario capitolare, cioč Karol
Wojtyla.
A ottobre, Wyszynski doveva tornare a Roma per la
seconda sessione al Concilio Vaticano II.
Prima di partire presentň alle autoritŕ comuniste la sua
terza terna di candidati alla carica di
arcivescovo di Cracovia. E questa volta inserě anche il
nome di Wojtyla. Mentre era a Roma,
seppe che i comunisti avevano scelto Wojtyla.
ŤE nostroť dicevano i comunisti
La scelta di Wojtyla da parte dei dirigenti comunisti aveva
uno scopo politico ben preciso- Si
erano accorti che tra il primate di Varsavia e il professore
di Lublino non correva una buona
intesa. Decisero perciň di favorire Wojtyla alla guida della
prestigiosa diocesi di Cracovia,
pensando che Wojtyla, una volta diventato arcivescovo, si
sarebbe messo contro il primate, facendo
in questo modo il loro gioco.
Inoltre, pensavano che Wojtyla fosse malleabile,
conciliante. Era giovane, era un poeta, uno che
non si interessava di politica, un soggetto, secondo loro,
che avrebbero potuto manovrare e
utilizzare anche contro il primate, che invece era
giudicato un uomo di ferro, intrattabile.
Si potrebbe, in un certo senso, dire che Wojtyla divenne
arcivescovo di Cracovia soprattutto per
merito dei comunisti. L'uomo che avrebbe contribuito piů
di ogni altro a far cadere il comunismo,
sarebbe stato favorito, nella sua carriera ecclesiastica,
dai comunisti stessi.
Si racconta che l'ideologo del Partito comunista di
Cracovia, Zenon Kliszko, si fosse vantato di
aver bocciato personalmente i sei candidati presentati da
Wyszyriski nelle due prime terne. E
sembra che avesse piů volte affermato in pubblico, quasi
volesse inviare un messaggio al primate:
ŤO ci danno Wojtyla o non avranno mai il placet per
nessun altroť.
Il direttore del carcere di Danzica aveva, tra i suoi reclusi,
anche un detenuto illustre:
l'abate benedettino Piotr Rostworowski. Quando seppe
dell'elezione di Wojtyla, andň nella cella
dell'abate dicendogli: ŤFinalmente una buona notiziať e
gli comunicň che Wojtyla sarebbe stato
l'arcivescovo di Cracovia. Ma erano passati soltanto
quattro mesi quando tornň in quella cella
affermando: ŤQuel Wojtyla ci ha traditiť.
In un rapporto dei servizi segreti del regime comunista di
quegli anni, si legge che "Wojtyla č
uno dei pochi intellettuali all'interno dell'episcopato
polacco (...) Egli non č cosě impegnato
in attivitŕ antistatali (...) Manca di qualitŕ organizzative e di
comando, e questa č la sua
debolezza nella rivalitŕ con
Wyszyriski (...) Noi dobbiamo assisterlo nel risolvere
problemi dell'arcidiocesi(...) E dobbiamo
continuare a dimostrare in ogni occasione la nostra ostilitŕ
verso Wyszyriski. Ma non in modo da
costringere Wojtyla a dimostrare solidarietŕ verso
Wyszyriski".
Il disegno comunista era quindi chiaro. Ma non funzionň. I
comunisti non avevano fatto bene i
conti, perché non avevano capito niente di Karol Wojtyla.
Padre Andrzej Bardecki scrisse: "Lo
Spirito Santo puň operare la Sua volontŕ 'ottenebrando'
oltre che illuminando la mente degli
uomini".
La nomina di Karol Wojtyla ad arcivescovo di Cracovia
venne firmata da Paolo vi il 30 dicembre
1963. La notizia fu divulgata ufficialmente il 19 gennaio
1964. L'8 marzo ci fu il solenne
insediamento.
Per quella cerimonia, Wojtyla organizzň uno spettacolo di
grandissimo rilievo scenico, ma anche
carico di un simbolismo storico e religioso
impressionante.
Si presentň al popolo che gremiva la cattedrale di Wawel
indossando paramenti sacri che erano un
concentrato della storia polacca: la pianeta d'oro era stata
donata all'arcidiocesi da Anna
Jagellona, sposa del re Stefano I Bŕthory, e sopra
indossava un pallio donato dalla regina
Jadwiga nel Sedicesimo secolo. La mitria era quella di
Andrzej Lipski, suo predecessore come
vescovo nel Diciassettesimo secolo; il pastorale risaliva al
regno di Giovanni Sobieski, il re
che aveva sconfitto i turchi nella battaglia di Vienna nel
1683; l'anello era appartenuto al
quarto successore di san Stanislao, il vescovo Maurizio,
morto nel 1118. Il calice scelto per la
Messa era quello usato negli anni centrali della dinastia
jagellonica.
Prima di entrare nella cattedrale, Wojtyla attese che gli
venissero portate in una teca le
reliquie di san Stanislao martire che baciň devotamente.
Entrato nella cattedrale gotica, si
fermň a pregare sul sepolcro del santo, poi davanti alla
croce nera della beata regina Edvige, e
infine nella cappella del Santo Sacramento. Andň a
baciare l'altare e poi venne insediato sul
trono, la cathedra arcivescovile, dove ricevette l'omaggio
dei vescovi ausiliari, dei sacerdoti, delle autoritŕ. Quindi
fece il suo discorso.
Parlň dello stato d'animo in cui si sentiva in quel
momento, in quel luogo dove palpitava
"l'intero passato della nostra nazione". Spiegň il compito
che aveva ricevuto dal Papa. Come
intendeva svolgerlo e si soffermň a sottolineare che egli
non aveva, come potrebbero avere i
governi di una nazione, "piani quinquennali da
realizzare". Il suo programma "era eterno tracciato
da Dio e da Gesů Cristo". E intendeva realizzarlo "con
fervore nuovo e disponibilitŕ nuova",
secondo il processo di rinnovamento che stava indicando
il Concilio Vaticano II

XXI L'arcivescovo di ferro

Nel 1964, quando fu nominato arcivescovo, Karol Wojtyla


non aveva ancora quarantaquattro anni.
Tre anni dopo, nel 1967, sarebbe diventato cardinale.
Sentiva l'importanza della grande responsabilitŕ che la
Chiesa gli aveva affidato e in cuor suo
era pronto a compiere il proprio dovere fino al martirio.
Nella sua vita non si era mai interessato di vicende
amministrative, di rapporti giuridici e
sociali tra Chiesa e Stato. Non erano argomenti
confacenti alla sua mentalitŕ. Ma dovette imparare
a farlo, per difendere i diritti della Chiesa in quel regime
ateistico, e imparň in fretta e bene.
I primi ad accorgersene furono proprio i dirigenti del
Partito comunista. Constatarono che aveva
una rara capacitŕ di apprendere le regole e di affrontare
poi le questioni. E constatarono
soprattutto che avevano a che fare con un uomo
inflessibile, impenetrabile a qualunque influenza
che non fosse perfettamente in sintonia con la propria
vocazione. Anche di fronte ai pericoli piů
gravi, alle minacce piů temibili, Wojtyla andava per la sua
strada e nessuno riusciva a fermarlo.
Protagonista al Concilio
Tutti i calcoli che i comunisti avevano fatto caldeggiando
la sua candidatura ad arcivescovo,
finirono nel nulla. Avevano pensato che fosse una
persona malleabile e si rivelava invece proprio
il contrario. Il capo del partito polacco, Zenon Kliszko,
cercň di avere un incontro a quattrocchi con Wojtyla, e
uscě da quel colloquio frastornato e
confuso.
Anche il cardinale Wyszyriski si rese conto che
monsignor Wojtyla era ben diverso da come aveva
pensato. Prese atto con piacere di questa constatazione
e iniziň a cambiare opinione e
atteggiamento verso il giovane arcivescovo.
Nell'ottobre del 1964, i vescovi polacchi tornarono a
Roma per la sessione del Concilio Vaticano
II, e anche in quella sede il nuovo arcivescovo ebbe
modo di farsi notare.
Dagli Atti del Concilio risulta che Karol Wojtyla pronunciň
sette discorsi in assemblea plenaria e
presentň tredici dichiarazioni scritte.
Nel corso di discussioni complicate e difficili, per
argomenti sui quali l'assemblea del Concilio
era divisa in fazioni, Wojtyla esercitň un determinante
ruolo di mediatore, dimostrando una
maturitŕ e una capacitŕ di dialogo e di convincimento
straordinari.
Papa Paolo vi apprezzň molto gli interventi
dell'arcivescovo di Cracovia.
Terminato il Concilio, volle conoscerlo meglio e da allora
Wojtyla divenne il suo punto di
riferimento per i problemi della Chiesa in Polonia.
Wyszyriski rimase il primate ufficiale,
Wojtyla divenne il consigliere prezioso. Ma anche Paolo
vi ricorreva a lui per consigli, ed ebbe
un valido aiuto nella stesura definitiva dell'Enciclica
Humanae vitae. Durante un incontro, per
dimostrargli la sua stima, Papa Montini volle regalare a
Wojtyla una pietra che lui stesso aveva
tolto dalla tomba di san Pietro.
Anche Wyszyriski, che era un uomo intelligente e
carismatico, si rese conto del valore di
Wojtyla, e capě che, in quei tempi tanto difficili per la
Chiesa polacca, aveva tutte le doti
per diventare il primate di Polonia, e si preparava giŕ per il
passaggio delle consegne.
Nell'ottobre del 1965, i vescovi polacchi andarono a
Roma per l'ultima sessione del Concilio
Vaticano II, che l'8 dicembre, solennitŕ dell'Immacolata, fu
chiuso. Tornato in patria, Wojtyla
cominciň a dedicarsi con tutto se stesso al suo popolo.
La lettera per la Quaresima del 1964
Nel 1966 la Polonia celebrava mille anni della sua storia
cristiana. La Chiesa polacca
desiderava dare la massima importanza a quella
ricorrenza, per richiamare i fedeli a riflettere
sulle proprie radici religiose, ma il governo ostacolava
ogni iniziativa. E Wojtyla scese
apertamente in campo, armato del suo carisma, che
divenne uno strumento micidiale contro il
regime comunista.
Wojtyla non era un anticomunista viscerale, emotivo,
politico. Lo era sul piano razionale e
filosofico. Aveva una concezione dell'uomo e della sua
dignitŕ che era esattamente il contrario
di quello della ideologia marxista-leninista. I comunisti
erano, per lui, figli di Dio come
tutti gli esseri umani, e quindi suoi fratelli. E come tali li
trattava. Ma fratelli impregnati
di errori e di una carica distruttiva che egli voleva
cambiare. Si opponeva a loro non con
astio, ma con il ragionamento basato su convinzioni
pensate che non era possibile cambiare senza
mettersi contro la veritŕ. Per cui, le sue posizioni erano
ferme come roccia.
I comunisti polacchi, che avevano creduto fosse
malleabile, almeno piů malleabile del primate
Wyszyriski, e per questo ne avevano sollecitato la nomina
ad arcivescovo, scoprirono invece che
era un uomo di ferro e quindi un avversario molto
temibile.
Ne ebbero una prima prova pochi mesi dopo che Wojtyla
era stato nominato arcivescovo.
L'8 marzo 1964, Wojtyla aveva assunto ufficialmente la
nuo-a carica, con una solenne cerimonia
in cattedrale, e nei giorni successivi decise di inviare una
lettera pastorale alla diocesi,
in occasione della Quaresima.
Poiché la Quaresima iniziava proprio in quei giorni,
Wojtyla non aveva molto tempo per preparare
la lettera. Poi bisognava stamparla perché ne
occorrevano numerose copie. Voleva inviarla,
infatti, non solo a tutte le parrocchie, alle varie chiese non
parrocchiali, alle comunitŕ
religiose ma anche alle singole
famiglie. Per ottenere la carta, stampare e spedire, perň,
occorrevano i permessi
dell'amministrazione civile. E il governo comunista non gli
diede nessun permesso. Anzi, non gli
permise neppure di ciclostilare quella lettera. In questo
modo gli impediva di farla giungere a
destinazione.
Era il primo sgarbo. La prima presa di posizione
burocratica del governo nei confronti del nuovo
arcivescovo. Wojtyla non perse tempo in discussioni.
Mise in moto un suo esercito personale:
mobilitň una squadra di suore dattilografe che, lavorando
giorno e notte, a turni, riuscirono a
preparare, in un paio di giorni, quelle centinaia di copie
che gli servivano. E poi le fece
recapitare alle varie destinazioni a mano, perché sapeva
che le poste avevano l'ordine di sabotare
la corrispondenza delle organizzazioni cattoliche. I
dirigenti comunisti capirono che quell'uomo
era un duro.
La Madonna nera pellegrina
Il comunismo cercava di sradicare il popolo dalle vecchie
tradizioni, religiose e civili. Un
popolo senza radici č un popolo senza forza e senza
personalitŕ. L'arcivescovo Wojtyla, invece,
decise di aggrapparsi alla storia, alle tradizioni, al glorioso
passato della Polonia. Sapeva che
in quel passato tutti i polacchi si trovavano uniti, anche le
nuove generazioni che avevano
abbracciato le teorie del comunismo.
Si battč, quindi, per mantenere la celebrazione delle feste
patronali, i tradizionali
pellegrinaggi ai santuari mariani, le processioni, in
particolare quella del Corpus Domini, che
era sempre stata molto sentita dal popolo polacco. Il
regime aveva tentato di abolirla, ma le
autoritŕ ecclesiastiche, sostenute massicciamente dal
popolo, si erano opposte.
Furono costrette a cedere sul percorso, che venne
limitato alle strade nelle vicinanze delle
chiese, ma almeno la processione si poteva fare.
Nel 1966, quando iniziarono i festeggiamenti per i mille
anni della Polonia cristiana,
l'arcivescovo Wojtyla decise che fulcro e centro delle
manifestazioni doveva essere il santuario
di
Czestochowa, il piů famoso santuario mariano polacco,
dove si venera la Madonna nera, Regina
della Polonia.
Si tratta di un'immagine antichissima, dipinta su legno,
che la tradizione fa risalire
all'evangelista san Luca. Sarebbe stato lui, medico e
anche pittore, a dipingere quel ritratto
della Madonna, quando la madre di Gesů era ancora in
vita.
Dopo innumerevoli peripezie in Oriente,
nel 326 quel quadro fině nelle mani di sant'Elena, che lo
aveva trovato durante un suo
pellegrinaggio a Gerusalemme. La regina lo regalň al
figlio, l'imperatore Costantino, che lo
portň a Costantinopoli, dove divenne famoso per i
numerosi prodigi che gli venivano attribuiti.
Durante il periodo dell'iconoclastia, il quadro fu nascosto
per evitare che venisse distrutto.
Intorno al 980, passň a Kiev, in Ucraina. Anna, sorella
dell'imperatore Basilio n, andň sposa a
Vladimiro, principe di Kiev, e portň in dote, con molti altri
preziosi cimeli, il ritratto della
Madonna. Nel 988, il principe Vladimiro si convertě al
cristianesimo, con tutto il suo popolo, e
il ritratto della Madonna divenne oggetto personale del
tesoro dei principi russi, che in
seguito lo regalarono alla Chiesa.
Verso il 1382, Ladislao, principe di Opola, viceré di
Leopoli, sottrasse l'immagine ai monaci
basiliani che la custodivano, e la trasferě a Czestochowa,
collocandola nel monastero dove
attualmente si trova.
Quel quadro č il simbolo della storia della Polonia. Lungo
il corso dei secoli, i polacchi hanno
sempre pregato davanti a quell'immagine quando si sono
trovati in difficoltŕ e la Madonna li ha
sempre protetti, tanto che quell'immagine č stata
proclamata "Regina della Polonia". Non esiste
un solo polacco che non sia andato, almeno una volta, in
pellegrinaggio a Czestochowa. Per
questo Wojtyla volle che le celebrazioni del Millenario
cristiano fossero dedicate alla Madonna
nera che era anche il simbolo patriottico dell'unitŕ polacca.
Fece preparare una copia di quel ritratto, la benedisse nel
corso di una solenne cerimonia e poi
la inviň pellegrina in giro per la nazione. La Madonna
nera andava a visitare le parrocchie, le
cittŕ, le famiglie polacche. Il popolo, vedendo
quell'immagine, si commuoveva. Ovunque, il quadro era
accolto con devozione e solennitŕ. La gente
sentiva profondamente il significato di quel simbolico
pellegrinare della Madre verso i suoi
figli. L'iniziativa stava ottenendo un successo clamoroso.
Ma era uno smacco per il governo comunista. Bisognava
correre ai ripari. Nelle cittŕ dove
arrivava la Madonna nera, si riempivano le chiese. Era
necessario offrire delle
contromanifestazioni, per distrarre il popolo. I comunisti
provarono di tutto, ma senza successo.
Allora il governň emanň una legge in cui proibiva di
portare in giro immagini sacre. La copia
del quadro della Madonna nera dovette tornare a
Czestochowa. Wojtyla ebbe una grande intuizione.
Diede ordine che si continuassero le manifestazioni cosě
come erano state programmate. E poiché
era proibito portare in processione l'immagine della
Regina della Polonia, si portava in
processione la cornice del quadro, la cornice vuota.
L'iniziativa ebbe l'effetto di una bomba. Ovunque arrivava,
la cornice vuota del quadro della
Madonna nera trovava folle enormi ad accoglierla. La
gente guardava quella cornice e piangeva
pensando che la "Regina" non poteva visitare il suo
popolo. Wojtyla partecipň a cinquantasette di
quelle manifestazioni tenendo discorsi infuocati, che si
richiamavano alla storia, ai diritti di
libertŕ religiosa, alla dignitŕ umana.
Il culmine delle celebrazioni doveva tenersi il 3 maggio
1966, al santuario di Czestochowa, dove
sarebbe dovuto arrivare anche Papa Paolo vi. Ma il
governo era intervenuto ancora una volta
rifiutando il visto d'ingresso in Polonia al Pontefice.
Come sempre, Wojtyla trovň il modo di sfruttare quella
difficoltŕ, facendola diventare un evento
di fede per i credenti e uno smacco per gli avversari
politici.
La grande festa rimase fissata per il 3 maggio. La
processione prevista si svolse regolarmente.
Partě dalla basilica e si diresse verso le mura, dove era
stato eretto un altare, accanto al
quale Wojtyla aveva fatto mettere un trono. Il trono
papale era vuoto e a tutti i partecipanti
veniva consegnato un foglio in cui si leggeva: "Vediamo
vicino all'altare il trono pontificio.
Il Papa Paolo vi avrebbe dovuto trovarsi oggi in mezzo a
noi. Avrebbe dovuto celebrare
l'Eucaristia e parlarci in polacco. Benché tutto il popolo
abbia invitato il Santo Padre con
telegrammi e lettere, egli purtroppo non č potuto venire.
Perché Gesů, che vive nella Chiesa
nella persona del Papa, non č stato invitato dalle autoritŕ
del nostro Paese. Gli č stata
sbarrata la via della Polonia, cosě la nostra celebre
ospitalitŕ č venuta meno". E anche in
quell'occasione la cerimonia ebbe una carica emotiva
incredibile.
ŤQuesta č una cittŕ di figli di Dioť
Era proibito alla Chiesa istituire nuove parrocchie o
costruire chiese senza il permesso del
governo. Ma Wojtyla, a partire dal 1962, quando divenne
vescovo, al 1978, quando fu eletto Papa,
riuscě a creare nella sua diocesi di Cracovia undici nuove
parrocchie e dieci nuovi centri
parrocchiali, cioč centri che erano in attesa di diventare
parrocchie.
Per ottenere questi risultati, aveva messo a punto una
strategia "assillante", che mirava a
sfiancare l'avversario. Ogni anno presentava una media
di circa trenta richieste di permessi
edilizi riguardanti chiese o edifici parrocchiali. Il governo li
bocciava inesorabilmente e
l'anno successivo Wojtyla presentava altre trenta richieste
e riformulava quelle che erano giŕ
state bocciate. Dopo qualche anno, quel gioco era
diventato un'autentica trappola per il
governo. Le richieste erano un numero enorme e i
permessi concessi zero. Wojtyla teneva
costantemente al corrente la popolazione di ogni
iniziativa. Di fronte all'opinione pubblica, il
governo faceva la figura dell'aguzzino e quindi, almeno in
parte, era costretto a cedere.
Contemporaneamente, l'arcivescovo cercava di creare
dei "fatti compiuti". Con l'aiuto di
coraggiosi sacerdoti, formava delle "parrocchie di fatto".
Il governo costruiva nuovi quartieri e nuove cittŕ, ma
senza chiese. Wojtyla inviava dei
sacerdoti che facevano apostolato di porta in porta e, alla
domenica, radunavano i fedeli
all'aperto, in un campo, in un capannone, nei cortili, per
celebrare la
Messa. Lui stesso, nelle ricorrenze religiose importanti,
andava a celebrare l'Eucaristia in
quelle comunitŕ senza chiesa. E dopo qualche tempo,
quando quei raduni erano diventati abituali,
si rivolgeva al governo, dicendo che in quel dato quartiere
c'era una "parrocchia di fatto" che
chiedeva di essere riconosciuta e di avere la sua chiesa.
Il governo naturalmente ignorava la
richiesta o la respingeva, ma Wojtyla tornava all'attacco
con una insistenza e una metodicitŕ
spaventose.
E poiché con lo stesso zelo difendeva i diritti degli operai,
dei disoccupati, dei poveri, degli
ebrei, degli intellettuali invisi al regime, degli emarginati di
ogni tipo, aveva sempre il popolo
dalla sua parte e perciň il governo era perdente in
partenza.
Una delle battaglie piů lunghe e piů difficili la condusse a
Nowa Huta, la cittŕ operaia modello,
senza chiese, costruita dai comunisti alla periferia di
Cracovia. La nuova cittŕ era piena di
enormi condomini, alcuni dei quali contavano fino a 450
appartamenti. E i condomini erano stati
edificati con criteri tali che impedivano ai nuclei familiari di
avere contatti tra di loro.
Le costruzioni erano fatte a moduli non comunicanti. Ogni
modulo ospitava tre, quattro
appartamenti. Se una persona avesse voluto andare a
trovare un vicino, che stava a pochi metri,
nel modulo adiacente, non poteva farlo percorrendo
orizzontalmente l'asse dell'edificio. Doveva
prendere le scale o l'ascensore, scendere a terra, entrare
nella serie di moduli dove si trovava
la persona che voleva visitare, prendere le scale o
l'ascensore e raggiungere l'appartamento. In
pratica, era come intraprendere un viaggio, e questo
toglieva la voglia di comunicare. E quando
la gente non comunica si sente sola, si sente debole,
diventa facile preda dei dittatori.
Nel 1951, Nowa Huta contava cinquemila persone.
Vent'anni dopo, gli abitanti erano diventati
centosettantamila. Di chiese, neppure una. La chiesa č
simbolo di comunitŕ, di aggregazione, e
i comunisti non volevano che ci fossero aggregazioni
indipendenti dal loro controllo.
Wojtyla decise di costruire una grande chiesa a Nowa
Huta.
Cominciň come al solito, con il creare delle "parrocchie di
fatto". Lui stesso andava ogni
Natale a celebrare la Messa di mezzanotte all'aperto, nei
campi vicino a quell'immenso alveare
di cemento. E ogni anno vi era una folla sempre piů
numerosa che assisteva alla sua Messa sotto
le stelle.
Il 13 ottobre 1967, quattro mesi dopo che era stato
nominato cardinale, riuscě a ottenere
l'autorizzazione per costruire una chiesa. Il governo non
poteva piů respingere le richieste che
gli inviava.
Il giorno dopo, presiedette alla cerimonia di apertura del
cantiere. Diede il primo colpo di
piccone per lo scavo delle fondamenta.
Il disegno delia nuova chiesa era pronto da tempo.
Wojtyla aveva voluto una struttura a forma di
arca, che avrebbe dovuto simboleggiare la Madonna,
Regina della Polonia, "arca dell'alleanza",
che salva il suo popolo. La chiesa infatti si chiama Chiesa
dell'Arca. Volle che, nelle
fondamenta, fosse inserita la pietra avuta in dono da
Paolo vi e che il Papa aveva tolto dalla
tomba di san Pietro in Vaticano.
Quella chiesa č un capolavoro di solidarietŕ. Venne
costruita con dieci anni di lavoro di
volontari provenienti da tutta la Polonia e anche da altri
Paesi europei. Dieci anni di lavoro
contrastato in mille modi dalle autoritŕ governative, ma
mai interrotto.
La parte esterna č decorata con due milioni di ciottoli
levigati, estratti dai letti dei fiumi
polacchi. All'interno, domina un grandioso crocifisso in
acciaio, forgiato dagli operai delle
acciaierie Lenin di Nowa Huta. Il tabernacolo, donato
dalla diocesi di Sankt Pňlten, in Austria,
č modellato a forma di sistema solare e nella sua
decorazione fu incluso un frammento di roccia
lunare donato a Paolo vi da un astronauta americano. Le
campane sono un dono degli olandesi.
All'inaugurazione, il 15 maggio 1977, il cardinale tenne un
discorso molto duro nei confronti
del governo, in difesa del popolo, dell'uomo, delle
persone. Parlando di Nowa Huta, che
finalmente aveva una sua chiesa, disse: ŤQuesta non č
una cittŕ di persone alle quali si puň
fare ciň che si vuole, che
possono essere manipolate secondo le leggi o le regole
della produzione e del consumo. Questa č
una cittŕ di figli di Dioť.
La battaglia per la costruzione della chiesa a Nowa Huta
č una delle tante intraprese e vinte da
Karol Wojtyla in Polonia durante il regime comunista.
Egli era diventato una spina nel fianco per il suo governo.
Era impossibile battersi contro di
lui. Impossibile smontare la sua caparbietŕ, la sua
insistenza, la sua resistenza fisica e morale.
Era un filosofo che aveva argomenti a non finire per tener
testa a tutti i sofistici ragionamenti
dei politici; era un poeta che aveva fantasia da vendere
per inventare trappole e gabole contro la
burocrazia; era un attore, un drammaturgo in grado di
rappresentare, come nessun altro avrebbe
saputo fare, il dramma del suo popolo, le sofferenze, le
umiliazioni, pronunciando discorsi che
infiammavano gli animi. Wojtyla era diventato, per il
regime comunista, un avversario temibile e
pericoloso, e per questo trattato anche da loro con
rispetto e soggezione.
Secondo le testimonianze dei suoi collaboratori, le
giornate del cardinale a Cracovia avevano un
ritmo massacrante.
Alle cinque e mezzo era giŕ nella cappella della sua
residenza. Alle sette, si recava nella
chiesa francescana dall'altro lato della strada dove si
fermava a lungo in preghiera. Tornava alle
otto per la colazione. Dopo andava di nuovo in cappella,
chiudeva la porta e lavorava fino alle
undici.
Sul lato sinistro della cappella, si era fatto costruire una
sedia con un inginocchiatoio e un
tavolino di legno, in modo che potesse scrivere e pregare
nello stesso tempo.
Dopo le undici del mattino riceveva nel suo studio
chiunque volesse parlare con lui. il pranzo
era all'una e mezzo.
I pomeriggi erano spesso dedicati alle visite alle 329
parrocchie dell'arcidiocesi. Le sere
riservate alle discussioni sui problemi della Chiesa
polacca con i suoi amici e collaboratori.
Tutti gli volevano bene. E anche molti comunisti, sia pure
segretamente, lo ammiravano.

XXII Habemus Papam

Nel 1978, il cardinale Karol Wojtyla in Polonia era un


personaggio molto popolare. Fuori dai
confini nazionali, invece, era quasi sconosciuto per via
della Cortina di ferro che bloccava
notizie e avvenimenti.
Solo in certi ambienti intellettuali d'Occidente si
conoscevano la sua attivitŕ a favore della
Chiesa polacca e le sue opere letterarie. Era noto il libro
Persona e atto, il suo lavoro
filosofico Geiů prestigioso, con il quale si č assicurato un
posto nella ricerca speculativa del
Novecento. Dopo la pubblicazione di quell'opera, il
cardinale Wojtyla veniva chiamato a tenere
conferenze negli Stati Uniti, in Australia, in vari Paesi
europei. Con una certa frequenza
veniva anche in Italia, soprattutto per fermarsi a Roma, in
Vaticano, dove per alcuni anni tenne
gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia pontificia.
Luciani: trentatré giorni di pontificato
Il 6 agosto 1978, Paolo vi, che si trovava nella residenza
di Castel Gandolfo, morě. Da qualche
tempo le sue condizioni fisiche erano precarie, soprattutto
per una serie di problemi artrosici,
ma non ci si aspettava la sua fine cosě improvvisa.
I funerali vennero celebrati il 12 agosto e il 25 del mese i
cardinali entrarono in conclave. Si
trattň di un conclave molto breve, uno dei piů brevi della
storia. Il giorno successivo, 26
agosto, venne eletto Papa Albino Luciani, patriarca di
Venezia, che prese il nome di Giovanni
Paolo I.
Il mondo cattolico si trovň di fronte a un Papa inatteso,
semplice, fisicamente fragile, dal
sorriso franco e incantevole, tanto da essere passato alla
storia come il Papa del sorriso.
Ma rimase sul trono di Pietro solo trentatré giorni. La
mattina del 29 settembre, suor Vincenzina,
che abitualmente gli portava il caffč, entrando nella sua
camera lo trovň morto.
La scomparsa di Giovanni Paolo I, avvenuta
all'improvviso, nel cuore della notte, suscitň
grandissimo scalpore in tutto il mondo cattolico. Ma
anche in quello laico. Soprattutto per le
strane voci che iniziarono subito a circolare. Si parlava di
infarto, ma anche di omicidio.
L'omicidio di un Papa, nel cuore della notte, in Vaticano,
era una vicenda da Medioevo. E le voci
che si rincorrevano, avevano acceso le fantasie,
richiamando una morbosa curiositŕ sullo Stato
pontificio.
Giovanni Paolo I aveva soltanto sessantasei anni. Le
visite mediche fatte pochi giorni prima lo
indicavano perfettamente sano. Da allora sono stati scritti
migliaia di articoli e anche diversi
libri sulla sua misteriosa morte. La tesi ufficiale resta
quella dell'infarto, ma non viene
escluso l'assassinio.
Insieme alle varie ipotesi sulla morte di Papa Luciani,
circolarono voci di altri misteri.
Misteri legati a Fatima e che coinvolgevano, in un certo
senso, anche Karol Wojtyla.
Si raccontava che nella primavera del 1977 il cardinale
Albino Luciani, allora patriarca di
Venezia, aveva guidato un pellegrinaggio a Fatima.
Mentre si trovava al santuario delle
apparizioni, gli era stato recapitato un messaggio: suor
Lucia, l'ultima superstite dei tre
veggenti di Fatima, voleva vederlo. Era andato da lei. La
visita si era protratta per oltre due
ore. Luciani era uscito dal colloquio sconvolto. Alcuni
mesi piů tardi avrebbe confidato al
fratello Edoardo: ŤContinuo a pensare a ciň che mi ha
detto suor Luciať. E sembra, come si seppe
da diverse indiscrezioni, che suor Lucia lo avesse
ricevuto chiamandolo "Santo Padre". E gli
avesse annunciato l'elezione a Pontefice dicendogli che il
suo pontificato sarebbe stato
molto breve e che dopo di lui sarebbe arrivato uno
straniero, il cardinale di Cracovia.
Sembra inoltre che, dopo quel viaggio a Fatima, tra
Luciani e Wojtyla si fossero intensificati
scambi di informazioni. Pare anche che Wojtyla sia
andato alcune volte a Venezia e vi si sia
fermato, ospite del patriarca. Un'amica della famiglia
Luciani faceva collezione di francobolli
stranieri. Il patriarca le inviava perciň le buste delle lettere
che riceveva dall'estero. E
quella signora si č trovata ad avere sette buste di lettere
inviate da Wojtyla a Luciani.
Nelle biografie di Luciani, quando si arriva al capitolo
della sua scomparsa, si leggono
testimonianze che fanno anche riferimento a Wojtyla.
Subito dopo la sua elezione, Giovanni Paolo
I avrebbe detto a Vincenza Taffarel, la religiosa che lo
assisteva da anni: ŤSu questa sedia
rimarrň poco, perché presto ci sarŕ uno stranieroť. Due
sere prima di morire, durante la cena,
al segretario, monsignor John Magee, disse: ŤC'erano
altri cardinali piů degni di me per questo
incarico. E poi, Paolo vi aveva giŕ indicato il suo
successore. Durante il conclave, stava
proprio di fronte a me nella Cappella Sistina. Ma lui verrŕ
presto perché io me ne vadoť. Nella
stanza della Cappella Sistina di fronte a quella occupata
da Luciani durante il conclave
alloggiava proprio Karol Wojtyla.
Il cardinale Jaime Sin, arcivescovo di Manila, in un
discorso pronunciato nella sua cittŕ il
giorno prima della morte di Giovanni Paolo I rivelň in
pubblico che Papa Luciani gli aveva
detto: ŤIl mio pontificato sarŕ breveť.
ŤHo paura di accettareť
Si racconta che Wojtyla abbia ricevuto la notizia della
scomparsa di Papa Luciani mentre stava
per prendere il caffč nella sua residenza di Cracovia.
Divenne pallido e il cucchiaino che aveva
in mano gli cadde sul tavolo. Non disse una parola, ma si
ritirň nella sua cappella privata dove
rimase per parecchie ore.
Non sappiamo niente di quel tempo trascorso davanti
all'altare. Avrŕ ripensato alle parole che
gli aveva detto Padre
Pio nel 1948? A ciň che gli aveva confidato Luciani dopo
il suo incontro con suor Lucia?
Nelle ore successive scrisse quella che viene indicata
come la sua ultima poesia prima di
diventare Papa. Un brano che si intitola Stanislao. In
seguito, Wojtyla spiegň di averla scritta
"per pagare il mio debito a Cracovia". La poesia ha per
tema il martirio, ed č un commiato da
Cracovia. Si racconta che, mentre la componeva, gli si
spezzň la penna tra le mani. E anche questi
segni sono emblematici, misteriosi. Il tema del martirio fa
ricordare quanto si legge nel testo
del Segreto di Fatima a proposito di quel "vescovo vestito
di bianco"; e anche la penna che si
spezza č un segno di morte.
Il 2 ottobre 1978, il cardinale Wojtyla lasciň Cracovia e si
recň a Varsavia. Il giorno dopo
partě in aereo per Roma insieme al cardinale Wyszyriski
Arrivarono in Vaticano intorno alle undici
e andarono nella basilica di San Pietro a rendere
omaggio alla salma di Giovanni Paolo I.
Il 14 ottobre, alle 16.30, dopo la Messa dello Spirito Santo
in San Pietro, i centoundici
cardinali che avrebbero dovuto eleggere il nuovo Papa
entrarono in conclave. Wojtyla rischiň di
arrivare in ritardo, perché era andato a far visita a un
amico.
Non si sa che cosa sia realmente accaduto tra le mura
della Cappella Sistina. Come č noto, i
cardinali sono tenuti al segreto piů assoluto su quanto
avviene in quella speciale riunione.
Qualcosa perň trapela sempre.
Sembra che due fossero i candidati piů quotati per salire
sul trono di Pietro: il cardinale
Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze e giŕ sostituto
presso la segreteria di Stato del
Vaticano, e il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di
Genova.
Nelle prime votazioni pare che Benelli avesse raggiunto
settantacinque voti su centoundici. Era
a un passo dall'elezione. Ma non riuscě a superare quella
soglia. Allora i cardinali cercarono
un altro candidato. Pensarono a qualcuno che non
provenisse dall'Italia.
Karol Wojtyla aveva giŕ ottenuto una manciata di voti
anche nel conclave precedente, quando era
stato eletto Luciani. Il suo nome tornň ancora alla ribalta.
Sembra che giŕ nella mattina del 16 ottobre i voti a suo
favore fossero molto significativi. A
pranzo, Wojtyěa appariva teso e preoccupato. Dopo
pranzo fu visto agitato nella stanza del
cardinale Wyszyriski. Parlottarono. Si racconta che il
cardinale gli abbia detto: ŤTi prego, se
ti eleggono non rifiutareť. Wojtyla ebbe quasi un
mancamento. Crollň tra le braccia del primate
scoppiando in lacrime.
Alla settima votazione, Wojtyla venne eletto, ma egli
rifiutň. All'ottava, ottenne centoquattro
voti su centoundici. Era quasi l'unanimitŕ e non potč
sottrarsi al suo dovere.
Qualche ora dopo, presentandosi davanti alla gente,
disse tra l'altro: ŤHo paura ad accettare
questo incaricoť.
Perché tanta paura? Perché lui, uomo forte, deciso,
coraggioso, crollň quasi svenuto nelle
braccia di Wyszyriski quando si accorse che stava per
diventare Papa? Sentiva la grande
responsabilitŕ che comportava quella carica, o c'erano
altre preoccupazioni? Ricordava forse
certe lontane profezie di Padre Pio? Ricordava le
confidenze avute da Luciani dopo che questi
aveva incontrato suor Lucia a Fatima?
ŤSe mi sbaglio, mi corriggereteť
Alle 18.18 del 16 ottobre 1978, dal fumaiolo della
Cappella Sistina si levň la caratteristica
fumata bianca, che annunciava come i centoundici
cardinali della Chiesa cattolica, da due giorni
riuniti in conclave, avevano eletto il nuovo Papa.
Moltissimi italiani erano davanti ai televisori. Anch'io stavo
seduto, con altri colleghi
giornalisti, davanti a un gigantesco televisore, nella
redazione del giornale dove allora
lavoravo. Si discuteva animatamente. Si facevano i nomi
dei cardinali che potevano essere stati
scelti.
Quella era un'elezione particolare, che arrivava soltanto
cinquanta giorni dopo la precedente.
Per questo, quando il collegamento diretto televisivo con
piazza San Pietro aveva fatto vedere
la fumata bianca, si era diffusa un'attesa spasmodica.
Alle 18.43 le telecamere inquadrarono, sulla loggia
centrale di San Pietro, il gruppo degli
ecclesiastici che, secondo la tradizione, venivano a
rivelare al popolo il nome dell'eletto. Il
cardinale protodiacono, Pericle Felici, annunciň:
ŤHabemus
Papam. Abbiamo il Papa. Sua Eminenza Reverendissima
monsignore Karol, cardinale di Santa Romana
Chiesa, Wojtyla, che ha preso il nome di Giovanni Paolo
IIť.
Nella redazione dove mi trovavo ci fu un attimo di
silenzio. Quel nome era sconosciuto. Nessuno lo
aveva mai sentito prima. Consultando l'elenco dei
cardinali pubblicato sui giornali, apprendemmo
che Karol Wojtyla era polacco, arcivescovo di Cracovia.
Non faceva parte del gruppo dei papabili
conclamato dai media. Non c'erano note biografiche
caratteristiche su di lui. Un nome, quindi, a
sorpresa. Assolutamente inatteso nell'ambiente
giornalistico, e ancor piů inatteso dalla gente
comune.
Una collega si attaccň al telefono, compose il numero per
chiedere la linea internazionale, e
alla persona che rispose domandň di poter parlare con
urgenza con l'arcivescovado di Cracovia.
Dopo qualche minuto arrivň la comunicazione. Quella mia
collega disse in inglese che cosa era
accaduto a Roma, ma dall'altra parte del filo non
capivano l'inglese. Allora parlň in francese,
niente; tentň in italiano e l'italiano lo comprendevano un
poco. Finalmente riuscirono a percepire
la notizia. Ci fu un attimo di silenzio. Poi una richiesta di
chiarimento e allora qualcuno gridň,
si sentirono voci concitate, commosse, gioiose e la
comunicazione cadde. Credo proprio che sia
stata quella mia collega a dare l'annuncio a Cracovia che
il loro cardinale era stato eletto Papa.
Come si seppe in seguito, le radio e le televisioni di
mezzo mondo avevano interrotto i loro
abituali programmi e si erano collegati con piazza San
Pietro. Sul video si vedeva che l'ampio
piazzale davanti alla basilica di San Pietro si andava via
via animando. I romani, quando
avevano sentito quel nome, si erano fortemente
incuriositi, ma avevano intuito che stava
accadendo qualche cosa di straordinario e correvano in
piazza.
Un'ora dopo la fumata bianca, alle 19.20, le finestre della
loggia si aprirono e finalmente
comparve il neoeletto.
Il cerimoniale prevedeva che il Papa non parlasse, ma
desse soltanto la benedizione apostolica
in latino. Wojtyla perň percepiva uno strano sconcerto tra
la gente, una tensione provocata dal
fatto che lui era straniero. "Perché un Papa straniero?"
sembrava chiedersi la folla. Erano
infatti 450 anni che non veniva eletto un pontefice non
italiano. E Wojtyla decise di cancellare
subito quella specie di imbarazzo. Si avvicinň al
microfono pronto a parlare. Il maestro delle
cerimonie si agitava, ma il gesto del Papa era deciso.
ŤSia lodato Gesů Cristoť disse con voce ferma e
armoniosa, che solo leggermente tradiva una
parvenza di emozione. Una voce che pareva, in realtŕ,
quella di un manager, di un capo di Stato,
di uno abituato a parlare alle folle. E continuň: ŤCarissimi
fratelli e sorelle, siamo ancora
tutti addolorati dopo la morte del nostro amatissimo Papa
Giovanni Paolo I. Ed ecco che gli
Eminentissimi Cardinali hanno chiamato un nuovo
vescovo di Roma. Lo hanno chiamato da un Paese
lontano... lontano, ma sempre cosě vicino per la
comunione nella fede e nella tradizione
cristianať.
Si sentiva l'accento straniero, ma la pronuncia era di una
chiarezza esemplare. Le parole
"chiamato da un Paese lontano" palesarono un velo di
commozione e il popolo romano lo sentě e
rispose con un caloroso applauso.
Il Papa continuň: ŤHo avuto paura nel ricevere questa
nomina, ma l'ho fatto nello spirito
dell'ubbidienza verso Nostro Signore Gesů Cristo e nella
fiducia totale verso la sua Madre, la
Madonna Santissima. Non so se posso bene spiegarmi
nella vostra... nostra lingua italianať. E
anche queste parole, o meglio la correzione "vostra" in
"nostra lingua italiana" scatenarono un
nuovo immenso applauso, intervallato da grida di "viva il
Papa".
Giovanni Paolo II aveva giŕ conquistato i romani, ma
anche gli italiani che seguivano il
discorso in televisione. E ancor piů grande, piů caloroso
fu l'applauso che seguě la frase
successiva. Disse infatti il Papa: ŤSe mi sbaglio, mi
configgereteť, frase
che č rimasta storica, riferita sempre, ogni volta che si č
trattato di ricordare l'elezione di
Giovanni Paolo II.
L'atmosfera era ormai surriscaldata di affetto e di
simpatia. Il Papa continuň a parlare,
interrotto da applausi: ŤE cosě mi presento a voi tutti, per
confessare la nostra fede comune, la
nostra speranza, la nostra fiducia nella Madre di Cristo e
della Chiesa, e anche per incominciare
di nuovo su questa strada della storia e della Chiesa, con
l'aiuto di Dio e con l'aiuto degli
uominiť.
ŤParti subito per Romať mi disse il direttore del giornale.
E un simile ordine venne certamente
dato da molti altri direttori, in Italia e all'estero. Sentendo
parlare quell'uomo aitante,
atletico, dal viso asciutto e abbronzato, avevano capito
che sul trono di Pietro era arrivato un
Pontefice tanto diverso da quelli della tradizione.
Quell'uomo emanava un fascino particolare, era
un Papa nuovo, aveva uno stile inusitato, era un
personaggio. I direttori dei giornali lo avevano
percepito. Infatti, quando arrivai a Roma, mi trovai con
colleghi che giungevano da ogni parte del
mondo.

XXIII Rivoluzionario scomodo

Dopo un solo anno di pontificato, Papa Giovanni Paolo II


aveva raggiunto una popolaritŕ mondiale.
I giornali e la televisione avevano contribuito a fare di lui
un personaggio molto amato. Ma anche
la sua persona e il suo stile di vita sportivo e
anticonformista.
Fisicamente, aveva l'aspetto di un atleta. La sua voce e il
suo modo di parlare e di gestire
erano quelli di un attore. Le idee, le iniziative, i progetti,
quelli di un innovatore, di un
intellettuale dalla cultura solida, che parlava otto lingue ed
era pieno di fantasia e di
creativitŕ.
ŤSi preparano tempi difficiliť
Erano soprattutto la sua prestanza ed efficienza fisica che
incantavano. Il giorno dopo il
conclave cominciň a uscire dalle mura del Vaticano e si
fece portare al policlinico Gemelli per
trovare un amico malato. Una settimana dopo si recň in
elicottero al santuario della Mentorella, a
cinquanta chilometri da Roma, dove da cardinale amava
ritirarsi a pregare. Incontrando il
sindaco di Roma, esponente del Partito comunista, lo
abbracciň. Ricevette in udienza il vescovo
Lefebvre, che era stato sospeso a divinis. Decise di
andare a fare un viaggio in Messico, Paese
anticlericale, dove ai preti era proibito portare in pubblico
la veste talare, che non aveva
relazioni diplomatiche
con la Santa Sede, e i suoi collaboratori, compreso il
segretario di Stato, appresero la notizia
dai giornali.
Alla fine di gennaio del 1979 andň a Santo Domingo e in
Messico; a giugno in Polonia, a settembre
in Irlanda, a ottobre negli Stati Uniti e alla fine di
novembre in Turchia.
Paolo vi, in quindici anni, aveva intrapreso nove grandi
viaggi fuori dall'Italia; Papa Wojtyla ne
aveva fatti giŕ cinque in un anno, richiamando attorno a
sé folle immense, tanto che un giornale
americano scrisse: "E' il personaggio dell'anno piů visto di
persona da milioni di uomini e donne".
Quella popolaritŕ era un fatto di un'importanza enorme.
Ogni parola del Papa, grazie alla sua
fama, raggiungeva un pubblico immenso. Ma non piaceva
a tutti. Il popolo dei cattolici esultava.
Molte persone nell'ombra tramavano. E anche tra coloro
che gli vivevano accanto.
Me lo disse un monsignore polacco nel dicembre del
1979. Fui mandato a Roma dal giornale dove
allora lavoravo per un articolo consuntivo sul primo anno
di pontificato del nuovo Papa. Un
articolo che doveva rispecchiare la meraviglia, la
sorpresa, la novitŕ, il successo di Giovanni
Paolo II. Ma, a Roma e in Vaticano, confrontandomi con
varie fonti di informazione, delineai un
quadro preoccupante perché evidenziava appunto che
Papa Wojtyla, esaltato dalle folle, non lo era
affatto da certi ambienti di potere, anche ecclesiastici.
Difficile esprimere, oggi, un giudizio su quanto raccolsi in
quell'inchiesta giornalistica.
Quando venne pubblicata, suscitň polemiche, ma ciň che
avevo scritto risultň, poi, perfettamente
azzeccato.
ŤIl successo di Giovanni Paolo II, il suo ascendente sulle
folle e soprattutto sui giovani
disturbano, infastidiscono e preoccupanoť mi disse quel
monsignore polacco, amico del Papa, che
non volle che scrivessi il suo nome proprio perché era
polacco.
Con l'elezione di Papa Wojtyla, i polacchi erano diventati
persone di potere in Vaticano. Il
Papa dava loro molta fiducia, occupavano posti
importanti, e per questo erano malviste.
Avvicinai un noto giornalista, Benny Lai, esperto della
politica della Santa Sede, decano dei
vaticanisti con un'esperienza di oltre trent'anni di
consuetudine nei palazzi papali, autore di
importanti libri. Aveva fama di essere sempre molto
informato. Godeva della fiducia di parecchi
cardinali.
<Per Papa Wojtyla si preparano tempi difficiliť mi disse.
<Le masse lo esaltano, ma i centri di
potere lo contestano. Le critiche serpeggiano e
aumentano sempre piů. E' mia impressione che
queste critiche, provenienti da destra e da sinistra, stiano
per coalizzarsi e allora ci saranno
giorni duri. Papa Wojtyla ha vissuto la sua Domenica
delle Palme, cioč i giorni del trionfo; ora
si sta avvicinando la settimana di Passione.
ŤQuesto č un Papa scomodo per tuttiť continuň l'illustre
collega. ŤNon va bene ai conservatori
né ai progressisti; non piace alla Curia ed č guardato con
sospetto dagli enti cattolici. A
rigor di logica, non doveva essere il personaggio ideale
dei conclavisti. A quanto si č potuto
sapere, i cardinali volevano un Papa italiano, anziano e
moderato; questo č giovane, straniero e
attivissimo.ť
Critiche velenose
Come sempre, i giudizi di Benny Lai erano fondati. In
Vaticano serpeggiava il malumore e il
malcontento. Da quando era arrivato Wojtyla, i
cambiamenti erano all'ordine del giorno. Sembrava
che per ogni dicastero, ogni congregazione, ogni
prefettura, ogni ufficio, fosse passato un
vento vivificatore. Dappertutto si lavorava a pieno ritmo,
come nessuno aveva mai visto in
quegli ambienti. Gli orari non erano piů rispettati perché
era necessario fare sempre
straordinari. Tutto quello che avveniva intorno a Papa
Wojtyla era imprevisto, apparentemente
senza regole.
L'accusa piů grave che veniva mossa al Papa polacco in
Vaticano era quella che in un anno di
pontificato non aveva fatto niente di concreto. Su dodici
mesi, si diceva nei corridoi dei
palazzi della Santa Sede, il Papa era stato assente da
Roma un mese e mezzo per compiere i
cinque viaggi in giro per il mondo.
molto altro tempo lo aveva impiegato per preparare gli
itinerari e i discorsi, che scriveva
personalmente in polacco seguendone le traduzioni nelle
varie lingue. Praticamente, non gli era
rimasto il tempo di governare e poiché la Chiesa č
monolitica, cioč tutte le decisioni devono
essere prese dal Papa, ogni attivitŕ era rimasta
paralizzata.
Dicevano che nei suoi viaggi Giovanni Paolo II aveva
avuto sě la presenza di milioni di persone,
ma non aveva avuto l'adesione. Era andato in Ucanda,
ma il terrorismo continuava a imperversare;
era andato in America, ma i problemi che travagliavano
quelle comunitŕ cattoliche continuavano;
era stato alle Nazioni Unite, ma i suoi appelli non
avevano avuto esito.
Lo chiamavano il "Papa del no". Durante quel suo primo
anno di pontificato, aveva detto no
all'aborto, no al divorzio, no alla pillola, no al sacerdozio
alle donne, no all'omosessualitŕ, no
al matrimonio dei preti, no alle esperienze
prematrimoniali, attirandosi in questo modo le
ire di tutti quei movimenti impegnati nella rivendicazione
di varie libertŕ.
In America erano diventate roventi le polemiche sul libro
del gesuita John J. McNeil dal titolo
La Chiesa e l'omosessualitŕ, in cui l'autore sosteneva che
la Chiesa avrebbe dovuto giudicare
allo stesso modo le relazioni omosessuali ed
eterosessuali.
In quei giorni, a Roma, si stava discutendo sul caso
Schillebeeckx, il teologo olandese
sottoposto
a indagine presso la Congregazione per la Dottrina della
Fede, per chiarire alcune sue
affermazioni teologiche. Tutti i movimenti d'avanguardia
accusavano violentemente il Papa di
favorire un ritorno a un conservatorismo giudicato rigido e
assurdo.
Ma anche i conservatori non erano dalla parte di Giovanni
Paolo II. Si scandalizzavano perché
aveva rotto certi cliché, certi schemi considerati sacri.
Criticavano il suo comportamento
personale, il suo modo di lavorare senza burocrazia. Il
fatto che spesso interveniva per
risolvere personalmente i problemi senza ricorrere alle
tradizionali vie. Gli rinfacciavano di
aver ricevuto il vescovo ribelle Lefebvre senza che
nessuno in Vaticano lo sapesse, neppure la
segreteria di Stato.
Lo scandalo della piscina
Dicevano che il suo ritmo di lavoro era mostruoso. I Papi
avevano sempre tenuto le udienze al
mattino, Giovanni Paolo II le teneva anche nel pomeriggio
e perfino alla sera.
Era abitudine che il pontefice pranzasse nel suo
appartamento con il suo segretario. Giovanni
Paolo II, invece, aveva sempre ospiti. A volte anche
cinque o sei. Li invitava
all'ultimo
momento, mettendo in difficoltŕ le suore addette al
servizio. Poiché la cucina dell'appartamento
papale non era attrezzata per tante persone, Giovanni
Paolo II si era rivolto personalmente
all'ospizio di Sant'Anna, all'interno del Vaticano, dove
vengono ospitati prelati e monsignori
di passaggio. Quell'ospizio, che č una specie di casa-
albergo, č dotato di una cucina grande e
il Papa quando aveva ospiti telefonava alle suore di
Sant'Anna e andava a pranzare in una
saletta da loro.
Durante le vacanze di quell'anno, il Papa aveva avuto
una trentina di ospiti fissi nella sua
residenza estiva di Castel Gandolfo, scandalizzando tutta
la Curia.
Giovanni Paolo II era criticato anche perché seguiva tutto
quello che veniva scritto su di lui.
Se c'erano trasmissioni televisive che lo riguardavano,
voleva vederle. Spesso interveniva
facendo scrivere agli interessati per chiarire o correggere.
Chiedeva continue relazioni e
raccoglieva una quantitŕ incredibile di informazioni sui
problemi piů svariati. Era insomma un
lavoratore che sfiancava i collaboratori e molti di essi
mordevano il freno.
C'era poi la questione della piscina. Il Papa aveva chiesto
che gli venisse costruita una
piscina, e la sua richiesta era diventata un grosso
scandalo all'interno della Chiesa.
Anzi, le piscine dovevano essere due: una in Vaticano e
una a Castel Gandolfo. Quando gli
dissero che forse non era conveniente per un Papa
spendere soldi per lo sport, mentre nel mondo
tanta gente moriva di fame, sembra che Giovanni Paolo II
abbia risposto: ŤCosta piů una piscina
o un altro conclave?ť, facendo intendere che la costruiva
per la propria salute.
La notizia che il Papa voleva la piscina era stata resa
pubblica da lettere anonime di
dipendenti
del Vaticano che si lamentavano per gli stipendi bassi e
che tentavano in quel modo una specie
di ricatto.
Era vero che gli stipendi delle persone che lavoravano in
Vaticano erano congelati dal 1969,
salvo
ritocchi annuali di contingenza, ed erano piuttosto bassi.
Ma andava tenuto presente che nessuno
di loro pagava tasse e avevano parecchie agevolazioni.
Alcuni giornali avevano speculato su
quell'argomento, e Papa Wojtyla si era mostrato molto
sensibile al problema, permettendo, per la
prima volta nella storia del Vaticano, l'istituzione di un
comitato dei lavoratori, che era
l'equivalente di un autentico sindacato.
Ascoltando tutte quelle critiche, che provenivano da vari
ambienti vaticani, e sentendo con
quanta
animositŕ e a volte livore venivano riferite ai giornalisti, mi
resi conto che l'ambiente nel
quale Giovanni Paolo II lavorava non era certo a lui
favorevole.
ŤAnche noi giornalistiť mi disse ancora Benny Lai
Ťall'inizio eravamo felicissimi perché questo
Papa ci forniva un'enorme quantitŕ di materiale per i nostri
articoli. Ma ora abbiamo cominciato a
essere troppo esigenti.
ŤDurante il viaggio di ritorno dalla Turchia, sull'aereo del
Papa č accaduto uno spiacevole
inconveniente. Giovanni Paolo II aveva preso l'abitudine
di trascorrere parte dei viaggi tra noi
giornalisti fermandosi a parlare con tutti. Era un gesto
altamente democratico da parte sua e
molto utile per noi. Anche questa volta aveva lasciato il
suo scompartimento, aveva attraversato
quello riservato ai cardinali e si era affacciato alla carlinga
dove si trovavano una sessantina
tra giornalisti, fotoreporter, radio e cineoperatori.
ŤAppena apparso, quelli delle prime file si sono alzati,
assediandolo di domande e impedendogli
di proseguire. I giornalisti rimasti dietro dopo un po' hanno
cominciato a lamentarsi. Una
giornalista tedesca ha gridato: "Ma questa non č
democrazia". Il Papa ha risposto: "Non č
democratico il comportamento di questi giornalisti, ma
non č democratico neanche protestare in
quel modo". Ha girato le spalle ed č tornato nel suo
scompartimento.
ŤIl gesto ha provocato una reazione impensabile.
All'indirizzo del Papa sono volate le bestemmie
piů orribili e le espressioni piů sconce, in tutte le lingue.
Lui probabilmente non le ha
sentite perché era lontano; ma i cardinali, nello
scompartimento attiguo, hanno dovuto sorbirsi
quello show blasfemo fino a Roma.ť
ŤAria nuova e grandi progettiť
ŤSento in giro tante critiche ma io vedo all'orizzonte un
pontificato straordinarioť mi disse
ancora Benny Lai. ŤSento aria nuova e fermento di
grandi progetti. Paolo vi aveva tolto il
potere al collegio cardinalizio. Giovanni Paolo II, invece,
gli ha ridato l'antica importanza,
reintegrando anche gli ultraottantenni.
ŤPer la prima volta, il mese scorso, il Papa ha radunato a
Roma il plenum dei cardinali e si č
parlato delle finanze dello Stato vaticano, argomento mai
toccato da nessun altro Papa in
precedenza. I cardinali hanno voluto sapere tutto
sull'amministrazione economica della Chiesa e
il Papa ha autorizzato i responsabili a fornire tutte le
spiegazioni. E' un fatto, questo, di
estrema importanza e avrŕ conseguenze non indifferenti.
ŤUn altro fatto per me estremamente importante č legato
all'ultimo viaggio del Papa in Turchia.
ŤI suoi denigratori hanno rilevato con soddisfazione che č
stato un viaggio fallito, in quanto č
mancata la partecipazione del pubblico. Niente folle,
niente discorsi, niente entusiasmo.
ŤMa quel viaggio ha segnato l'inizio del dialogo concreto
per l'unitŕ con gli ortodossi ed č
stata la prima mossa per la realizzazione di un progetto
che Papa Wojtyla aveva rivelato durante
il viaggio in Polonia: cioč la riunione dell'Europa orientale
e occidentale sotto il segno del
cristianesimo. Io sono certo che una delle tappe dei futuri
viaggi di Papa Wojtyla sarŕ Mosca,
anche se quella tappa non č molto vicina.
ŤE' chiaro come il sole che questo genere di Ostpolitik di
Papa
Wojtyla non va a danno dei perseguitati della fedeť
concluse il celebre vaticanista. ŤSu questo
punto nessuno puň muovere critiche a Giovanni Paolo II,
che ha trascorso la vita sotto il regime
comunista. Perň ci sono interessi tremendi in gioco, e ci
sono forze che stanno tentando di tutto
per impedire la realizzazione di questo disegno.ť
Proprio in quei giorni, a Roma, circolava la notizia che
autoritŕ polacche e russe stavano
attuando un piano per contrastare la grande popolaritŕ del
Papa nei Paesi comunisti con la
diffusione di notizie false. Si diceva che era stata fondata
un'agenzia internazionale di
informazioni, con sede a Roma, che doveva raccogliere e
divulgare tutto quello che in qualche
modo poteva screditare il Pontefice.
Uno dei giornalisti polacchi, che faceva parte di
quell'agenzia, confidandosi con un collega
italiano, aveva detto: ŤIl mio compito č difficile. Quando
mi metto a tavolino, non so mai cosa
scrivere. I miei articoli devono rispettare queste tre
esigenze: non posso parlare bene di
questo Papa perché il mio governo me lo ha proibito; non
posso parlarne male perché in Polonia
succederebbe una guerra civile; non posso tacere perché
č il polacco piů famoso nel mondoť.
Un amore vero e travolgente
In quella mia inchiesta avvicinai Claudio Sorgi, giovane
teologo e scrittore, diventato poi
monsignore e docente alla Pontificia Universitŕ
Lateranense. Era un ottimo giornalista e stava
dalla parte di Wojtyla. ŤLe maggiori reazioni contro il
Papa sono venute dalla sua presa di
posizione circa le piů elementari veritŕ del cristianesimoť
mi disse. ŤAttraverso un decreto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Papa
ha richiamato l'attenzione del mondo
sulla sopravvivenza dell'anima dopo la morte, sulla
resurrezione dei morti (che per la Chiesa si
riferisce all'uomo integralmente) e sulle veritŕ di fede
riguardanti il Paradiso, il Purgatorio
e l'Inferno. In molti ambienti culturali, anche di ispirazione
cattolica, questi
temi sono considerati sorpassati, roba da Medioevo, e
invece
sono di fondamentale importanza nell'economia
spirituale.
Con essi si afferma che la realtŕ assoluta dell'uomo non
sta
nella sua esperienza terrena, ma in quella eterna.
Vengono,
quindi, condannate tutte le ideologie legate al
materialismo.
Lo č evidente che questo dia molto fastidio. Su questo
campo
ci saranno lotte dure nei prossimi anni. E' il terreno di
battaglia
dove si scontrano il Bene e il Male, o meglio, Dio e il
Maligno,
come ha accennato il Papa stesso nel giorno
dell'Immacolata
nella chiesa di Santa Maria Maggiore affermando che
"tempi
duri, tempi di conflitto sono alle porte".ť
ŤLei viaggia spesso al seguito del Papať dissi a don
Claudio Sorgi Ťquindi puň osservarlo da
molto vicino. Qual č, secondo lei, il segreto del suo
fascino sulle folle?ť
ŤIo credo che il segreto del suo fascino stia nella sua
bontŕ. E' un uomo che non ha pudore dei
suoi sentimenti. Ama e fa sentire il suo amore; soffre e fa
sentire la sua sofferenza. La folla
capta questi sentimenti integri, e rimane affascinata. Ogni
individuo, pur trovandosi in mezzo a
una moltitudine, ha l'impressione di essere amato
singolarmente da lui. E' una situazione
psicologica difficile da spiegare, ma tutti la provano
seguendo il Papa.
ŤHo assistito a moltissimi episodi di straordinaria bontŕ
del Papa nei confronti della gente.
ŤUn fatto che non potrň mai dimenticare č accaduto
durante la sua visita alla chiesa di Santa
Croce in Gerusalemme, qui a Roma.
ŤMentre girava all'interno per incontrare i vari gruppi
parrocchiali, č stato fermato da una
donna anziana che teneva per mano un figlio giŕ adulto e
afflitto da gravi handicap. Con molta
serenitŕ ma anche con dolore straziante, quella donna ha
cominciato a raccontare la sua storia.
Era vedova da molti anni e ammalata. Temeva di morire,
ed essendo l'unico sostegno per il figlio
minorato, chiese al Papa di pregare Dio affinchč il figlio
morisse anche soltanto poche ore
prima di lei. Il Papa restň immobile ad ascoltare quella
tragedia. Man mano che la donna parlava,
il suo volto diventava triste. Non riuscě
a dire nessuna parola. Con le lacrime che gli scendevano
sulle guance, accarezzň il volto di
quella donna e quello di suo figlio, poi li benedisse.
ŤUn altro episodio che mi ha profondamente colpito
accadde durante la visita all'ospedale del
Bambino Gesů, il Natale dello scorso anno.
ŤIl Papa si fermava a ogni letto. Arrivato da una bambina
che aveva il volto completamente
deturpato da un tumore e saputo che aveva pochi giorni
di vita, la prese in braccio e rimase a
lungo con lei coccolandola come avrebbe fatto un papŕ.
ŤProprio quando č accanto agli ammalati, il Papa
manifesta tutta la ricchezza del suo cuore. Si
lascia vincere dalla tenerezza, e spesso il suo volto č
bagnato di pianto.ť
XXIV Una mano spara, l'altra salva

13 maggio 1981. Era un mercoledě. Alle 17, Giovanni


Paolo II scese in piazza San Pietro per
l'udienza generale, come tutti i mercoledě. In piedi sulla
sua jeep bianca, stava attraversando la
piazza gremita da quarantamila fedeli, giunti da ogni
parte per vedere e ascoltare il Papa. Si
fermava a stringere mani e a benedire bambini.
Alle 17.17 si era fermato per prendere in braccio una
bambina, l'aveva baciata e mentre la stava
restituendo al suo papŕ si sentirono due spari. Il Pontefice
si accasciň tra le braccia del
segretario, monsignor Stanislaw Dziwisz, emettendo un
gemito di dolore. La sua veste bianca,
all'altezza dell'addome, si colorň di rosso.
Qualcuno aveva attentato alla vita del Pontefice. Le
immagini del Santo Padre, che cade
all'indietro colpito a morte, furono trasmesse dalle
televisioni di tutto il mondo. L'umanitŕ
restň attonita e incredula.
Strano percorso della pallottola
Quell'episodio resta uno dei fatti di cronaca piů eclatanti
del Ventesimo secolo. Ma anche uno dei
piů enigmatici e, per molti aspetti, misteriosi. Lo rivelerŕ in
seguito lo stesso Giovanni Paolo
II: ŤUna mano ha sparato, un'altra mano ha deviato la
pallottolať. Intendendo dire che "qualcuno"
voleva uccidere Giovanni Paolo II, ma una presenza
invisibile č intervenuta
per impedire che le pallottole colpissero organi vitali
provocando la morte del Pontefice.
L'attentatore, Ali Agca, un giovane turco di ventitré anni,
aveva sparato da una distanza di sei
metri e aveva sparato per uccidere. Due colpi. Una
pallottola aveva ferito il Pontefice al gomito
destro, l'altra aveva colpito l'indice sinistro del Papa e poi
si era infilata nel suo addome.
I soccorsi furono immediati.
L'autista della jeep partě come un razzo per raggiungere
la piů vicina ambulanza, parcheggiata
vicino al portone di bronzo. Ma non era attrezzata come
unitŕ di rianimazione e il Papa venne
trasferito su una seconda ambulanza. In quindici minuti si
trovava giŕ al policlinico Gemelli.
Il sangue usciva abbondantemente dalla ferita. La
pressione sanguigna era crollata e il polso
risultava quasi impercettibile. Il Papa era praticamente
moribondo. Il suo segretario gli
amministrň l'Estrema Unzione, ma il Santo Padre non era
cosciente.
Fu immediatamente portato in sala operatoria e
sottoposto a un delicato intervento chirurgico
eseguito dall'equipe del professor Francesco Crucitti.
Quando il professor Crucitti, primario chirurgo del
Gemelli, incise con il bisturi, trovň, come
egli stesso raccontň in seguito: ŤSangue, molto sangue,
ce n'erano forse tre litriť. In pratica,
il Papa aveva perduto il sessanta per cento del suo
sangue.
La pallottola gli aveva devastato l'addome. Si dovette
procedere all'aspirazione del sangue per
poter fermare l'emorragia che costituiva il pericolo piů
immediato. Poi furono fatte delle
trasfusioni che migliorarono le condizioni del ferito,
permettendo l'intervento chirurgico vero
e proprio.
Esplorando l'addome del Papa, il professore trovň diverse
lesioni gravi, provocate dal
passaggio del proiettile. La pallottola aveva perforato il
colon e causato cinque ferite
all'intestino tenue.
Karol Wojtyla rimase sotto i ferri dei chirurghi per cinque
ore. Gli vennero asportati
cinquantacinque centimetri di intestino.
Alle 0.45 del 14 maggio i medici emisero un bollettino in
cui si diceva che l'intervento
chirurgico era riuscito bene e che le condizioni del ferito
erano soddisfacenti.
Giovanni Paolo II rimase quattro giorni in sala di
rianimazione. Quando era ormai fuori
pericolo, chiese al professor Crucitti i dettagli
dell'intervento.
Il professore confessň di aver avuto molta paura e gli
riferě in quali condizioni aveva trovato
il suo addome.
Aggiunse di aver osservato una cosa "assolutamente
anomala e inspiegabile". La pallottola si era
mossa, nel ventre del Papa, a zigzag, evitando gli organi
vitali. Era passata a un soffio
dall'aorta centrale: se l'avesse raggiunta, il Santo Padre
sarebbe morto dissanguato ancora
prima di arrivare in ospedale. Aveva evitato la spina
dorsale e tutti gli altri principali
centri nervosi: se li avesse colpiti, Giovanni Paolo II
sarebbe rimasto paralizzato. ŤSembrať
concluse il professore Ťche quella pallottola sia stata
guidata per non provocare danni
irreparabili.ť
"Quel vescovo vestito di bianco"
Quelle parole suonarono come un campanello d'allarme
alle orecchie del Papa.
Qualcuno richiamň la sua attenzione sul fatto che
l'attentato si era verificato il 13 maggio,
anniversario della prima apparizione della Madonna a
Fatima.
Giovanni Paolo II si ricordň che in Vaticano esisteva
l'incartamento della Terza parte del
famoso Segreto di Fatima, che allora nessuno ancora
conosceva. Si fece portare in ospedale
quelle carte e le lesse attentamente.
Fu colpito soprattutto dal racconto centrale, dove trovň un
chiaro accenno all'attentato.
Abbiamo giŕ riferito nel primo capitolo il testo di quella
parte del Segreto di Fatima. Ma č
bene richiamarla anche qui, integralmente, per capire
meglio. Ecco quindi ciň che scrisse Lucia.
Scrivo in atto di obbedienza a Voi mio Dio, che me lo
comandate per mezzo di sua Ecc.za Rev.ma il
Signor Vescovo di Leiria e della Vostra e mia Santissima
Madre.
Dopo le due parti che giŕ ho esposto, abbiamo visto al
lato sinistro di Nostra Signora un poco piů
in alto un angelo con una spada di fuoco nella mano
sinistra; scintillando emetteva fiamme che
sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si
spegnevano al contatto dello splendore che Nostra
Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui:
l'angelo indicando la terra con la mano
destra, con voce forte disse: ŤPenitenza, Penitenza,
Penitenza!ť.
E vedemmo in una luce immensa, che č Dio, qualcosa di
simile a come si vedono le persone in uno
specchio quando vi passano davanti, un vescovo vestito
di bianco. Abbiamo avuto il presentimento
che fosse il Santo Padre. Vari altri vescovi, sacerdoti,
religiosi e religiose salire una montagna
ripida, in cima alla quale c'era una grande croce di tronchi
grezzi come se fosse di sughero con
la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversň
una grande cittŕ mezza in rovina e
mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di
pena, pregava per le anime dei
cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla
cima del monte, prostrato in ginocchio ai
piedi della grande croce, venne ucciso da un gruppo di
soldati che gli spararono vari colpi di
arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli
uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti,
religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e
donne di varie classi e posizioni.
Sotto i due bracci della croce c'erano due angeli ognuno
con un innaffiatoio di cristallo nella
mano, nei quali raccoglievano il sangue dei martiri e con
esso irrigavano le anime che si
avvicinavano a Dio.
Karol Wojtyla meditň a lungo su quelle parole. Lesse e
rilesse anche i passi del Segreto che
precedevano la visione dell'attentato: l'annuncio della fine
della Prima guerra mondiale, ma
anche quello dell'inizio della Seconda guerra mondiale,
una guerra che "sarŕ ancor peggiore"
della prima. E la nascita, in Russia, dell'ideologia del
materialismo ateo, che "spargerŕ per il
mondo i suoi errori, promuovendo guerre e persecuzioni: i
buoni saranno martirizzati, il Santo
Padre dovrŕ soffrire molto, varie
nazioni saranno annichilite... Infine il mio Cuore
Immacolato trionferŕ...". Il tutto preceduto
dalla visione dell'Inferno.
In ospedale, Giovanni Paolo II continuň a meditare sul
contenuto di quel documento.
Prese contatti con suor Lucia, la veggente che era ancora
viva, per avere chiarimenti.
Si riconobbe in quel "vescovo vestito di bianco". E cosě
facendo, dovette ammettere che la sua
esistenza era stata vista prima ancora che lui fosse nato.
Nel 1917, la Madonna aveva parlato di
lui con i tre piccoli veggenti. Riconobbe anche gli altri
eventi storici annunciati dalla
Madonna nel 1917, soprattutto quelli legati al
"materialismo ateo", che egli, nato e cresciuto
in un Paese comunista, conosceva bene.
Giovanni Paolo II si mostrň subito sicuro di aver avuto
salva la vita per intervento
straordinario della Madonna di Fatima. La coincidenza
dell'attentato con il giorno
dell'anniversario dell'apparizione a Fatima lo aveva
fortemente impressionato.
"E' stato il Maligno"
L'attentatore intanto era stato arrestato.
Subito dopo aver sparato, le persone che gli erano
intorno avevano cercato di immobilizzarlo. Ci
era riuscita una suora. ŤAveva una forza tremendať disse
in seguito Ali Agca. ŤNon so come, ma
le sue mani erano come tenaglie e, da sola, mi
immobilizzo.ť Si seppe poi che quella suora, per
una curiosa coincidenza, si chiamava Lucia. Come la
veggente del Segreto di Fatima.
I magistrati italiani e i servizi segreti di mezzo mondo
cominciarono a indagare per capire chi
fosse quel giovane turco che aveva sparato al Papa e
soprattutto volevano sapere chi avesse
armato la sua mano. I turchi? I bulgari? I sovietici? Gli
americani?
Anche in Vaticano si susseguivano vertici ai massimi
livelli per capire, ma il Papa,
stranamente, non volle mai sapere niente di queste
indagini.
Quattro giorni dopo l'attentato, era domenica. Giovanni
Paolo II chiese di parlare, attraverso
l'altoparlante, sia pure per pochi secondi, alla gente che
sostava davanti all'ospedale.
Accennando all'attentatore disse: ŤPrego per il fratello
che mi ha colpito, al quale ho
sinceramente perdonatoť.
Anche in seguito, dopo essere uscito dall'ospedale, e
durante le varie fasi del processo ad Ali
Agca, non volle mai sapere niente. Era un
comportamento insolito. In genere, seguiva sui giornali
tutto quello che riguardava la sua persona e la sua attivitŕ.
Ma dell'attentato, da cui era uscito
vivo per miracolo, non parlava né chiedeva. I suoi amici e
i suoi piů stretti collaboratori,
conoscendolo bene, si meravigliavano. Un giorno, il
cardinale polacco Andrzej Deskur, che oltre a
essere suo connazionale era anche un suo grande
amico, decise di domandargli perché si
disinteressasse completamente dell'attentato. Giovanni
Paolo II rispose: ŤE' stato il Maligno a
compiere quell'atto. E il Maligno puň cospirare in migliaia
di modi, nessuno dei quali mi
interessať.
In quell'occasione, confidandosi con l'amico, il Papa
aveva manifestato i suoi pensieri, le sue
convinzioni profonde riguardo all'attentato. Ali Agca era
un killer professionista, aveva eseguito
una commissione che era stata ideata e finanziata da
potenze legate al Maligno.
Era certo che a volere la sua morte non erano stati dei
nemici di questo mondo, ma il Nemico, il
Maligno, colui che da sempre č contro Dio e contro
l'uomo, l'autore vero di tutti i disastri
indicati dalla Madonna apparsa a Fatima.
Ora Giovanni Paolo II conosceva anche la Terza parte
del Segreto di Fatima. Si era riconosciuto in
quel "vescovo vestito di bianco", che cade colpito a
morte. E riflettendo sulla propria esistenza,
sui vari pericoli cui era sempre misteriosamente
scampato, sul percorso tortuoso e strano che
aveva seguito la sua vocazione e la sua carriera
ecclesiastica, certamente aveva capito di essere
stato seguito da una mano materna che lo aveva guidato,
protetto, indirizzato, e che quando era
stato necessario era intervenuta miracolosamente a
fermare l'opera
del Nemico, come era accaduto con la pallottola
dell'attentato in piazza San Pietro. E tutto
questo doveva avere uno scopo preciso, un fine, un
obiettivo.
Papa Wojtyla intuě che, forse, la sua vera missione
incominciava allora. Varie cose chieste
dalla Vergine nel 1917 non erano state realizzate. Forse
era chiamato a compierle. Forse doveva
iniziare un percorso spirituale diverso da quello che
aveva progettato. E accettň.
L'accettazione era da sempre implicita nel suo desiderio
di corrispondere alla chiamata di Dio.
Ma ora, la storia aveva una trama scritta, svelata. Vedeva
davanti a sé "una montagna ripida, in
cima alla quale c'era una grande croce di tronchi grezzi
come se fosse di sughero con la
corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversň
una grande cittŕ mezza in rovina e
mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di
pena, pregava per le anime dei
cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla
cima del monte, prostrato in ginocchio ai
piedi della grande croce, venne ucciso da un gruppo di
soldati che gli spararono vari colpi
d'arma da fuoco e frecce...".
Gli spari li aveva giŕ sentiti. Ma forse non erano quelli
definitivi. Il linguaggio delle
profezie, si sa, non descrive mai in senso fotografico i
dettagli degli avvenimenti futuri. I
tre piccoli veggenti nel 1917 avevano visto un quadro
complessivo che sintetizzava una serie di
vicende complesse. Comunque, Giovanni Paolo II aveva
capito che il suo compito era quello di
arrivare su quella montagna perché lassů, dove "allo
stesso modo" morivano "gli uni dopo gli
altri i vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e varie
persone secolari, uomini e donne di
varie classi e posizioni", c'era la salvezza, c'era la grande
croce, con accanto "due angeli
ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei
quali raccoglievano il sangue dei
martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano
a Dio".
Giovanni Paolo II vedeva in quella scena il mistero della
sofferenza che salva, della sofferenza
redentrice, del Calvario, il mistero di Cristo, che era morto
in croce per la salvezza del
mondo.
Coincidenza Medjugorje
Il Papa rimase in ospedale ventidue giorni.
Il 3 giugno, venne dimesso e tornň in Vaticano. Si stava
riprendendo. Ma subito si verificň un
nuovo gravissimo pericolo per la sua vita: era stato
colpito da una grave infezione al polmone
destro.
Il 10 giugno aveva quasi quaranta di febbre. Veniva
curato con antibiotici e altri medicinali
specifici, ma inutilmente. I medici cominciarono a temere
di nuovo per la sua vita. Era sempre piů
debole, aveva il viso terreo e scavato, gli occhi infossati.
Il 12 giugno ci fu un concitato consulto medico in
Vaticano. Si tentň una nuova cura, ma ancora
senza alcun esito positivo. Il 20 giugno, la situazione era
drammatica e il Papa venne di nuovo
ricoverato al Gemelli.
Una serie di esami clinici sofisticati misero in evidenza il
nuovo nemico. Si chiamava
Cytomegalovirus. Subito dopo l'attentato, con le
trasfusioni di sangue, il Papa aveva contratto
questo virus.
Scoperto il nemico, fu iniziata la cura giusta. La sera del
24 giugno, la temperatura di Karol
Wojtyla era tornata nella norma, il Papa era di nuovo fuori
pericolo.
E qui si inserisce un'altra misteriosa coincidenza. Proprio
quel pomeriggio, in un paesino
dell'Erzegovina, regione che allora faceva parte della
Iugoslavia comunista, un gruppo di
ragazzini, due maschi e quattro femminucce, tornarono a
casa spaventati dicendo di aver visto
una strana signora. E iniziava cosě il fenomeno delle
apparizioni della Madonna di Medjugorje,
fenomeno che ha interessato e continua a interessare
milioni e milioni di persone nel mondo.
I teologi che hanno seguito la vicenda, hanno sempre
affermato che č la continuazione di Fatima.
Che il messaggio della Madonna a Medjugorje prosegue
e completa quello che la Vergine aveva
comunicato a Fatima.
La Chiesa non si č pronunciata sull'attendibilitŕ del
fenomeno.
Ma al cronista spetta notare che quelle apparizioni sono
iniziate il 24 giugno 1981 e che, in
quello stesso giorno, la salute del Papa, che era
compromessa da un male misterioso, sorto in
seguito all'attentato del 13 maggio (anniversario della
prima apparizione della Madonna a
Fatima), iniziň a migliorare. I medici scoprirono, il 24
giugno, il nuovo nemico che minacciava
la salute del Papa, un virus stranissimo, e cominciarono a
curarlo efficacemente. Giovanni Paolo
II doveva vivere perché la sua strada verso la "grande
croce in cima alla montagna" era lunga. E
percorrendo quella strada lui avrebbe compiuto la sua
missione di salvezza.
Giovanni Paolo II per questa seconda degenza rimase in
ospedale fino al 14 agosto, vigilia della
solennitŕ dell'Assunzione in Cielo di Maria. Poi venne
trasferito nella sua residenza estiva di
Castel Gandolfo per la convalescenza.
Altre visioni
La coincidenza dell'attentato al Papa con il 13 maggio,
giorno dell'anniversario della prima
apparizione della Madonna a Fatima, nel 1917, fece
nascere molte leggende. Circolarono presunte
profezie, attribuite a suor Lucia e alle apparizioni di
Fatima. Nessuna basata su documenti
attendibili.
Nelle memorie scritte da suor Lucia, perň, si trovano altri
accenni a visioni avute dai tre
pastorelli al tempo delle apparizioni, riguardanti il Papa
sofferente.
Nella Terza parte delle sue memorie, Lucia racconta:
Un giorno andammo a passare le ore della siesta sul
pozzo dei miei genitori. Giacinta si sedette
sulle lastre del pozzo. Francesco venne con me a cercare
del miele selvatico, tra le spine di un
pruneto che c'era presso una vicina scarpata. Dopo
qualche tempo, Giacinta mi chiama.
ŤNon hai visto il Santo Padre?ť
ŤNo.ť
ŤNon so come sia stato, io ho visto il Santo Padre in una
casa molto grande, inginocchiato
davanti a un tavolo con la faccia tra le mani, in pianto.
Fuori della casa c'era molta gente,
alcuni
tiravano sassi, altri imprecavano e dicevano molte
parolacce. Povero Santo Padre! Dobbiamo pregare
molto per lui...ť
In un'altra occasione, andammo alla grotta del Cabeço.
Arrivati lě, ci prostrammo per terra a dire
le preghiere dell'Angelo. Dopo un po', Giacinta si alza e
mi chiama: ŤNon vedi tante strade, tanti
sentieri e campi pieni di persone che piangono di fame e
non hanno niente da mangiare? E il Santo
Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di
Maria, in preghiera? E tanta gente in
preghiera con lui?ť.
Alcuni giorni dopo mi chiese: ŤPosso dire di aver visto il
Santo Padre e tutta quella gente?ť.
ŤNo. Non vedi che fa parte del Segreto? Che cosě lo
scoprirebbero subito?ť
ŤVa bene, allora non dirň niente.ť
Questi due episodi, e soprattutto la frase di suor Lucia in
risposta a Giacinta "Non vedi che fa
parte del Segreto?", sono indicativi per un dettaglio: il
Segreto aveva come soggetto proprio un
Papa. Lucia invita Giacinta a tacere anche su quelle sue
visioni personali, proprio perché
riguardano il Papa e potrebbero contribuire a far capire il
contenuto del Segreto che allora non
doveva essere ancora rivelato.
Si č pensato che la visione di Giacinta si riferisse a Pio
XII, o a Paolo vi, pontefici che hanno
sofferto molto per accuse, offese, calunnie ricevute nel
corso della loro permanenza sul trono di
Pietro. Ma, a guardare l'esistenza di Giovanni Paolo II,
con l'attentato subito in piazza San
Pietro, e gli anni di sofferenze fisiche sempre piů atroci
che seguirono, si č portati a
concludere che il Papa di quelle visioni fosse proprio lui.
ŤPerché lei non č morto?ť
Nel dicembre 1983, due anni e mezzo dopo l'attentato,
Giovanni Paolo II volle andare in carcere
per incontrare l'uomo che aveva tentato di ucciderlo. Ali
Agca chiese meravigliato al Papa:
ŤPerché lei non č morto? Io so di aver mirato giusto. So
che il proiettile era devastante e
mortale. Perché allora non č morto? Che cos'č quello che
dicono di Fatima?ť.
Il Papa avrŕ certamente dato delle risposte. Risposte che
non conosciamo nella loro formulazione
esatta, ma che possiamo immaginare dopo che Giovanni
Paolo II, nel suo ultimo libro, Memoria e
identitŕ, ha ampiamente accennato a quell'incontro.
"Durante il tempo di Natale del 1983 ho
fatto una visita all'attentatore nella prigione" ha scritto
Giovanni Paolo II. "Abbiamo parlato
a lungo. Ali Agca, come tutti dicono, č un assassino
professionista. Questo vuol dire che
l'attentato non fu un'iniziativa sua, che fu qualcun altro a
idearlo, che qualcun altro l'aveva
a lui commissionato. Durante tutto il colloquio apparve
chiaro che Ali Agca continuava a
domandarsi come mai l'attentato non gli era riuscito.
Aveva fatto tutto ciň che si doveva,
curando ogni minimo dettaglio. E tuttavia la vittima
designata era sfuggita alla morte. Come
poteva essere accaduto questo?
"La cosa interessante č che quell'inquietudine l'aveva
portato al problema religioso. Si
chiedeva come stessero le cose con quel Segreto di
Fatima, in che cosa consistesse tale Segreto.
Fu il punto principale del suo interesse; prima di tutto
voleva sapere questo. Forse, attraverso
quelle domande insistenti, egli manifestava di aver
percepito la cosa veramente importante.
Probabilmente Ali Agca aveva intuito che al di sopra del
suo potere, al di lŕ del potere di
sparare e di uccidere, vi era una potenza piů alta. E allora
aveva cominciato a cercarla. Il mio
augurio č che l'abbia trovata."

XXV Pellegrino a Fatima

Mentre era ancora degente in ospedale, Giovanni Paolo II


aveva cominciato a organizzare un viaggio
a Fatima per andare a ringraziare la Madonna della
grazia ricevuta.
Volle che il suo pellegrinaggio di ringraziamento si
verificasse il 13 maggio 1982, un anno esatto
dopo l'attentato e sessantacinquesimo anniversario della
prima apparizione della Madonna a Fatima.
E fu nel corso di quel viaggio che egli, con il suo
comportamento, i suoi discorsi - la passione,
la forza, l'accoratezza con cui li pronunciň -, fece capire
che il mondo era in grave, gravissimo
pericolo.
ŤSono venuto con la corona in manoť
L'occasione del viaggio era fornita dal desiderio di
ringraziare la Madonna perché gli aveva
salvato la vita nell'attentato di un anno prima.
Il Santo Padre lasciň Roma in aereo la mattina del 12
maggio, atterrň a Lisbona dove venne
accolto dalle autoritŕ e giŕ in serata era a Fatima.
Quel viaggio era molto diverso dagli altri che Papa
Wojtyla aveva compiuto, da quando era sul
trono di Pietro, in giro per il mondo; e diverso anche da
quelli che avrebbe compiuto in seguito.
Non era, infatti, solo il viaggio del Papa che andava a
visitare una nazione, un popolo; era il
viaggio di un uomo che compiva un pellegrinaggio di
ringraziamento perché la Madonna gli aveva
salvato la vita. E di un uomo che aveva anche scoperto
una dimensione della propria esistenza che
forse mai avrebbe immaginato potesse esistere.
Parlando, quella sera stessa, alla folla radunata per la
veglia notturna, disse: ŤDesidero farvi
una confidenza. Era giŕ molto tempo che avevo
intenzione di venire a Fatima. Da quando avvenne il
noto attentato sulla piazza di San Pietro, un anno fa, al
riprendere conoscenza, il mio pensiero
si rivolse immediatamente a questo santuario per deporre
nel cuore della Madre Celeste il mio
ringraziamento per avermi salvato dal pericolo...
ŤHo visto in tutto ciň che stava succedendo - non mi
stanco di ripeterlo - una speciale
protezione della Madonna. E nella coincidenza - non ci
sono semplici coincidenze nei disegni
della Divina Provvidenza - ho visto anche un appello e,
chissŕ, un richiamo all'attenzione verso
il messaggio che da qui partě tramite tre pastorelli, figli di
umile gente di campagna, i
pastorelli di Fatima, come sono universalmente
conosciuti...
ŤE sono qui per ascoltare nuovamente, a nome della
Chiesa intera, il messaggio risuonato
sessantacinque anni or sono sulle labbra della Madre
comune, preoccupata per la sorte dei suoi
figliť.
Quando parla in pubblico, un Papa soppesa sempre ogni
parola. E lo fece certamente anche
Giovanni Paolo II in quell'occasione. In quel suo discorso
ricordava la propria vicenda,
l'attentato, ma lo legava subito al significato generale
delle apparizioni di Fatima, al
messaggio dato dalla Madonna all'umanitŕ attraverso i tre
pastorelli.
E nel suo modo di parlare si trovava un preciso
riconoscimento delle apparizioni. Riconoscimento
personale, naturalmente. Ma, provenendo dal Pontefice,
capo della Chiesa, di altissimo valore.
Nel 1930, il vescovo di Leiria, dopo aver esaminato a
lungo gli eventi che si erano realizzati a
Fatima nel 1917, aveva detto di ritenere "degne di fede"
le apparizioni e aveva permesso il
culto alla Madonna in quel luogo.
Paolo vi, nel suo viaggio a Fatima nel 1967, aveva parlato
di "culto della Madonna nato a Fatima".
Karol Wojtyla, per la prima volta, pose l'accento sulla
certezza che, in quelle apparizioni,
fosse presente la Madonna e che fosse stata Lei, in
persona, a dare il messaggio ai tre bambini.
Il Papa disse di voler "ascoltare nuovamente, a nome
della Chiesa intera, il messaggio" e affermň
che quel messaggio era stato pronunciato "dalle labbra
della Madre comune". E disse ancora che la
Madre era "preoccupata per la sorte dei suoi figli".
Quella sera, il Papa rimase a pregare, in silenzio, davanti
alla statuetta della Madonna, sul
luogo delle apparizioni, per quaranta minuti. Poi partecipň
alla processione notturna, con le
candele accese.
Un'immensa folla era lě, con lui. Un milione di persone,
arrivate da ogni parte, alcuni scalzi,
con i piedi sanguinanti, sfiniti dalla stanchezza, inzuppati
di pioggia, ma pieni di fede, di
quella fede popolare che i teologi spesso contestano ma
che, nella sua forza istintiva e semplice,
sembra avere le caratteristiche di un cordone ombelicale
della creatura con il proprio creatore.
ŤSono venuto, come la maggior parte di voiť disse il
Papa Ťcon la corona in mano, il nome di
Maria sulle labbra e il cantico della misericordia di Dio nel
cuore. Egli anche a me ha fatto
grandi cose.ť
ŤTestimone di minacce quasi apocalittiche...ť
Al mattino del giorno 13, prima di iniziare le cerimonie al
santuario, Giovanni Paolo II volle
incontrare suor Lucia.
Nel 1967, in occasione della visita a Fatima di Paolo vi,
suor Lucia aveva chiesto di essere
ricevuta dal Papa, ma Montini le aveva risposto di
rivolgersi al proprio vescovo. Altri tempi.
Le apparizioni di Fatima, pur considerate autentiche,
venivano, dalla Chiesa ufficiale, tenute
lontane, considerate "cose private" e quindi non
dovevano interessare troppo un Pontefice. La
Chiesa, insomma, aveva pur sempre paura di
compromettersi.
Pellegrino a Fatima 283
Giovanni Paolo II, invece, aveva superato questo timore.
Fu lui a voler incontrare suor Lucia.
Volle rimanere a parlare con lei, a quattrocchi, senza
testimoni e senza interprete. E volle poi
che la suora gli stesse vicino e si fece varie volte
fotografare con lei. Anche questo
atteggiamento era un gesto di riconoscimento, di "voler
dare grande importanza" a Lucia e a
quanto lei aveva detto e scritto per anni, quasi che lui, il
Papa, adesso, dopo l'attentato, ne
conoscesse il valore autentico.
Durante la Messa, celebrata all'aperto e seguita
dall'immensa folla radunata nella grande
spianata, il Papa aprě il suo cuore a quella gente, palesň
a tutti quali pensieri e quali
preoccupazioni aveva nell'animo. Ed erano pensieri e
preoccupazioni gravissimi.
Parlň con toni apocalittici come non aveva mai fatto.
Accennň a immani pericoli imminenti. Si
rivolse alla Madonna, la pregň e la supplicň con una
insistenza quasi disperata.
Espresse dolore di fronte al dilagante sbandamento
morale, causa prima dell'allontanamento
dell'uomo dal suo Creatore.
ŤCome non sentirsi sgomenti di fronte al dilagare del
secolarismo e del permissivismo, che tanto
gravemente insidiano i valori fondamentali della norma
morale cristiana?... Nutro fiducia che
questo mio gesto valga a risvegliare nei credenti un
rinnovato senso di responsabilitŕ,
inducendo ciascuno a interrogarsi lealmente sulla propria
coerenza con i valori del Vangelo.ť
Ma poi, volendo compenetrarsi con tutta quella gente,
volendo presentarsi a Dio e alla Madonna,
in un'ora cosě grave, solo come uomo, uno dei tanti di
quella umanitŕ confusa e sbandata,
abbandonň il normale modo di esprimersi di un oratore,
rinunciň a fare analisi della societŕ e
delle condizioni del mondo da osservatore, da sacerdote,
da pastore, e continuň il suo discorso
in forma di preghiera, di dialogo di un figlio con la madre.
ŤAccogli, o Madre di Cristo, questo grido carico della
sofferenza di tutti gli uomini... Il
successore di Pietro si presenta qui anche come
testimone delle immense sofferenze
dell'uomo,
come testimone delle minacce quasi apocalittiche che
incombono sulle nazioni e sull'umanitŕ.ť
Disse "minacce quasi apocalittiche". Usň proprio i termini
che si trovavano nelle lettere di Lucia
e nelle "illazioni" sul contenuto del famoso Segreto, che
da tempo circolavano tra i gruppi di
credenti in Fatima, ma che, da coloro che non credevano,
erano giudicate fantasiose, esagerate,
fanatiche, prive di ogni fondamento. Ora, il Papa, in
pubblico, durante una cerimonia religiosa
trasmessa dalle televisioni, dava credito a quelle
preoccupazioni apocalittiche, di cui si
presentava in qualitŕ di testimone. Aveva perciň prove
certe che quelle minacce fossero reali.
La richiesta di Gesů
Da anni Lucia ripeteva che la Madonna chiedeva che la
Chiesa facesse un atto di consacrazione
della Russia al suo Cuore Immacolato. Presentava quella
consacrazione come una condizione, un
passaggio necessario per ottenerne poi la conversione. E
specificava che quella consacrazione
doveva essere fatta dalla Chiesa, cioč dal Papa in unione
con tutti i vescovi.
Una richiesta per la veritŕ molto impegnativa da un punto
di vista giuridico e teologico. Nel
senso che, per adempierla, tutta la Chiesa docente,
quindi il Papa unito con tutti i vescovi,
doveva credere nel richiedente, doveva cioč ritenere
autentiche, o per lo meno degne di grande
attenzione, le apparizioni della Madonna a Fatima e
anche quelle private che Lucia aveva avuto in
seguito. Infatti, Lucia, nel 1934, nel sollecitare la
consacrazione della Russia, aveva detto che
era Gesů stesso a chiederla perché "voleva che tutta la
Chiesa riconoscesse la grandezza del Cuore
di sua Madre".
Ma tutti quei vescovi, sacerdoti, teologi che, per principio,
non prendono in considerazione le
apparizioni private, non davano credito neppure alle
apparizioni di Fatima e tanto meno alle
apparizioni private che suor Lucia diceva di continuare ad
avere. Perciň non erano assolutamente
disposti ad accettare una cosa del genere. Per questo
forse quella consacrazione
non venne mai eseguita nel modo richiesto, cioč fatta dal
Papa in unione con tutta la Chiesa,
in unione quindi con i vescovi del mondo intero.
Pio XII, nel 1942, aveva fatto una consacrazione del
mondo, tenendo presenti forse anche le
richieste di suor Lucia, perché questo pontefice credeva a
Fatima. In quella consacrazione era
compresa anche la Russia, ma non era la consacrazione
richiesta dal Cielo.
Quindi, in realtŕ, quella consacrazione, richiesta da tanti
anni, non era mai stata eseguita. E
Giovanni Paolo II, in quel suo pellegrinaggio del 1982,
conosceva evidentemente cose che altri
non sapevano. Per questo prese in considerazione
perfino la richiesta della consacrazione della
Russia. E, pur non potendo agire in nome di tutti i
vescovi, con i quali non aveva ancora avuto
il tempo per potersi consultare, volle farla, sia pure in
modo non diretto, ma inserendola in
una consacrazione globale del mondo, come del resto
aveva fatto Pio XII nel 1942.
Con tono accoratissimo pregň la Madonna per "il mondo
del Secondo millennio che sta per
terminare, il mondo contemporaneo, il nostro mondo
odierno". E poi pronunciň l'esplicita formula
di consacrazione: ŤAbbraccia, con l'amore della Madre e
della Serva del Signore questo nostro
mondo umano, che ti affidiamo e consacriamo, pieni di
inquietudine per la sorte terrena ed
eterna degli uomini e dei popoli. In modo speciale ti
affidiamo e consacriamo quegli uomini e
quelle nazioni che di questo affidamento e di questa
consacrazione hanno particolarmente
bisogno...ť.
E chi erano quegli uomini e quelle nazioni che
dell'affidamento e della consacrazione alla
Madonna avevano piů bisogno? Certamente i popoli sotto
il regime comunista. E perché il Papa non
disse esplicitamente la Russia, come la Madonna aveva
piů volte chiesto a suor Lucia?
Probabilmente il Papa non volle nominare esplicitamente
la Russia proprio perché, come ho detto,
in quel momento non aveva il consenso di tutta la Chiesa.
Ma nel suo cuore c'era giŕ il
proposito di compiere, al suo ritorno a Roma, quella
consacrazione tanto richiesta. Era convinto
che fosse necessaria.
ŤDalla guerra nucleare liberaciť
Continuando nella sua accorata preghiera alla Madonna,
Giovanni Paolo II disse ancora: ŤAiutaci a
vincere la minaccia del male, che cosě facilmente si
radica nei cuori degli stessi uomini d'oggi e
che nei suoi effetti incommensurabili giŕ grava sulla
nostra contemporaneitŕ e sembra chiudere le
vie verso il futuroť.
Il male sembra chiudere le vie del futuro! Espressione
terribile, che fotografava una realtŕ
veramente apocalittica. Il male che nei suoi effetti
incommensurabili giŕ grava... Giovanni Paolo
II, uomo ottimista e guerriero per natura, non avrebbe
pronunciato mai quelle parole se non avesse
avuto la visione chiara di un immane pericolo.
ŤDalla fame e dalla guerra, liberaci!ť continuň il Papa,
proseguendo nella sua intensa supplica
alla Vergine.
ŤDalla guerra nucleare, da un'autodistruzione
incalcolabile, da ogni genere di guerra, liberaci!ť
E anche qui va sottolineata la frase "dalla guerra
nucleare". Era il pericolo varie volte
descritto nelle indiscrezioni sul Segreto e anche nelle
indiscrezioni sul pensiero di suor Lucia.
Indiscrezioni che ogni volta venivano smentite,
ufficialmente, ma che, nelle parole del Papa
pronunciate quel giorno a Fatima, trovarono invece
conferma.
E Giovanni Paolo II continuň: ŤDai peccati contro la vita
dell'uomo sin dai suoi albori, liberaci!
ŤDa ogni genere di ingiustizia nella vita sociale, nazionale
e internazionale, liberaci!
ŤDal tentativo di affossare nei cuori umani la veritŕ stessa
di Dio, liberaci!
ŤAccogli, o Madre di Cristo, questo grido carico della
sofferenza di tutti gli uomini, carico
della sofferenza di intere societŕ (...)
ŤCon che cosa si presenta oggi, davanti alla Genitrice del
Figlio di Dio, nel suo santuario di
Fatima, Giovanni Paolo II, successore di Pietro,
prosecutore dell'opera di Pio, di Giovanni, di
Paolo e in particolare erede del Concilio Vaticano II? Si
presenta rileggendo con trepidazione
quella chiamata materna alla penitenza, alla conversione:
quell'appello ardente del Cuore di Maria
risuonato a Fatima sessantacinque anni fa. Sě, lo rilegge
con la trepidazione nel cuore, perché
vede quanti uomini e quante societŕ, quanti cristiani siano
andati nella direzione opposta a
quella indicata dal Messaggio di Fatima. Il peccato ha
guadagnato un cosě forte diritto di
cittadinanza nel mondo e la negazione di Dio si č cosě
ampiamente diffusa nelle ideologie, nelle
concezioni e nei programmi umaniť.
Le parole del Papa avevano la forza drammatica di un
grido disperato. Raramente, forse, era
risuonata sulla faccia della terra una preghiera cosě
intensa, cosě accorata come quella che
Giovanni Paolo II rivolse quel giorno alla Madre di Dio e
degli uomini. Una preghiera che il
Papa volle fare a nome di tutti, quale rappresentante
dell'umanitŕ, "successore di Pietro,
prosecutore dell'opera di Pio, di Giovanni, di Paolo e in
particolare erede del Concilio
Vaticano II". Cioč, il rappresentante dell'umanitŕ che
calpestava la terra in quel momento, in
quel giorno, e alla quale egli indicava come segno di
salvezza il messaggio che la Vergine aveva
dato tanti anni prima in quel luogo.
L'offerta della propria vita
Eravamo nel 1982. Ancora lontani dalla caduta del Muro
di Berlino, dalla caduta del comunismo,
dal conoscere, in modo concreto, indiscutibile, che quella
ideologia, come era stato previsto
dalla Madonna nel 1917, aveva seminato i suoi errori nel
mondo, aveva portato alla distruzione
nazioni intere, e, nei Paesi che l'avevano adottata, erano
stati sacrificati a essa milioni di
persone. Perň il Papa sapeva (e lo sappiamo anche noi
adesso, perché ce lo hanno rivelato gli
storici) che in quei primi anni Ottanta, il mondo stava
vivendo il periodo di massima tensione
fra Est e Ovest, periodo in cui lo scontro nucleare
sembrava ormai inevitabile.
Bisognava scongiurare quella immane tragedia a ogni
costo. Le trame politiche, le sollecitudini
diplomatiche sembravano inutili. Solo un intervento
soprannaturale poteva fermare la catastrofe. Di questo
era convinto il Papa e questo intervento
sollecitava disperatamente.
Giovanni Paolo II non era persona che si accontentasse
di gesti e di parole. E' lecito supporre
che egli, quel giorno, in quel pellegrinaggio, si sia offerto
vittima per la salvezza
dell'umanitŕ. E non č fantasioso immaginare che le
sofferenze che, in seguito, si sono abbattute
su di lui per un quarto di secolo, fino alla sua morte, siano
state il prezzo del riscatto che
egli ha voluto pagare per la salvezza del mondo.
In quella sua prima visita a Fatima, Giovanni Paolo II
volle lasciare un ricordo, che era anche un
segno, una testimonianza. Regalň alla Madonna la
pallottola da cui era stato colpito
nell'attentato dell'anno precedente. La pallottola era
entrata nel suo corpo, ma, come aveva
testimoniato il chirurgo, guidata da una mano misteriosa,
aveva compiuto, all'interno di quel
corpo, un percorso a zigzag per evitare di ledere organi
vitali.
Quella pallottola venne incastonata nella corona che sta
sulla testa della statuetta della
Madonna di Fatima. Si tratta di una corona speciale,
molto preziosa, tutta d'oro, che pesa 1200
grammi ed č arricchita da 313 perle e da 2676 pietre
preziose. E' stata offerta alla Madonna di
Fatima dalle donne del Portogallo e viene posta sulla
testa della statuetta solo nei giorni 12 e
13 di ogni mese. Negli altri giorni dell'anno č custodita in
cassaforte.
Ebbene, nel 1982 a quella corona č stato aggiunto un
ultimo cimelio. Non č di materiale pregiato
ma, per i significati misteriosi che rappresenta, č
senz'altro il piů prezioso della collezione:
la pallottola, appunto, che avrebbe dovuto uccidere
Giovanni Paolo II. Una pallottola di nove
millimetri, che ora, con il suo colore scuro e opaco, č lŕ, al
centro della corona, che sovrasta,
quasi minacciosa, lo sfolgorěo scintillante delle perle e
delle pietre preziose. Quando la corona
viene posta sul capo della statuetta, la pallottola sta a
pochi centimetri dalla testa della
Madonna. Ma č inoffensiva, domata, vinta, come lo č il
serpente che la Vergine schiaccia con il
suo piede fin dalla notte dei tempi.
XXVI La consacrazione della Russia

L'obiettivo che Papa Wojtyla voleva raggiungere dopo il


suo pellegrinaggio a Fatima, era,
dunque, la consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di Maria. Consacrazione che, secondo
suor Lucia, la veggente di Fatima, era stata
esplicitamente richiesta dalla Madonna "per evitare
la guerra e impedire che la Russia spargesse i suoi errori
nel mondo".
La vicenda della consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di Maria č un vero rebus. A
esaminarla freddamente, come un qualsiasi fatto della
storia, si resta perplessi e sconcertati.
La Madonna la chiese nel 1929, ma nessuno dei papi
predecessori di Giovanni Paolo II riuscě a
realizzarla in modo conforme alla richiesta. Solo Papa
Wojtyla, con grande fatica, ci riuscě,
sia pure non completamente, nel 1984. Perň, dalla
richiesta fatta dalla Vergine erano passati
ben cinquantacinque anni, cioč oltre mezzo secolo. Un
tempo praticamente infinito.
ŤE' arrivato il momentoť
La prima volta che la Madonna parlň ai tre veggenti di
Fatima della consacrazione della Russia
al suo Cuore Immacolato fu nel corso dell'apparizione del
13 luglio 1917.1 tre bambini non
sapevano cosa fosse la Russia. Pensarono, come in
seguito disse Lucia, che si trattasse di una
signora poco esemplare che portava quello strano nome.
Quel giorno, la Madonna confidň ai tre veggenti il famoso
Segreto di Fatima. Disse loro che la
guerra (la Prima guerra mondiale) stava per finire, ma gli
uomini, con il loro comportamento
cattivo, ne avrebbero provocata una seconda ancor piů
terribile. Questa seconda guerra sarebbe
scoppiata sotto Pio XI. La Madonna aggiunse, perň, che
si poteva impedirla. E le parole precise
della Vergine, riportate da suor Lucia in una delle sue
Memorie, furono queste: ŤPer impedirla
verrň a chiedere la consacrazione della Russia al mio
Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice
nei primi sabati. Se accetteranno le mie richieste, la
Russia si convertirŕ e avranno pace, se no,
spargerŕ i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e
persecuzioni alla Chiesa. I buoni
saranno martirizzati. Il Santo Padre avrŕ molto da soffrire,
varie nazioni saranno distrutte.
Finalmente, il mio Cuore Immacolato trionferŕ. Il Santo
Padre mi consacrerŕ la Russia, che si
convertirŕ, e sarŕ concesso al mondo un periodo di paceť.
Nel 1917, quindi, la Vergine non chiese la consacrazione
della Russia. Disse che sarebbe venuta
a chiederla, senza precisare quando.
E venne a chiederla a suor Lucia nel 1929.
Precisamente nel corso di una visione la notte del 13
giugno 1929, nella cappella della Casa di
Tuy, in Spagna, dove Lucia era suora. Nel suo resoconto,
la religiosa racconta di aver avuto la
visione della Madonna che era accompagnata dalla
Santissima Trinitŕ.
"Io avevo chiesto e ottenuto il permesso dalle mie
superiore e dal confessore di fare l'Ora Santa
dalle undici a mezzanotte, tra ogni giovedě e venerdě.
Stando una notte sola, m'inginocchiai tra
le due balaustre nel mezzo della cappella per recitare,
prostrata, le orazioni dell'Angelo.
Sentendomi stanca, mi alzai e continuai a recitarle con le
braccia aperte a forma di croce.
L'unica luce era quella della lampada. Improvvisamente
tutta la cappella s'illuminň d'una luce
soprannaturale e sull'altare apparve una croce di luce che
arrivava fino al soffitto..."
Suor Lucia descrive dettagliatamente la lunga
apparizione, piena di immagini simboliche e
conclude: "Compresi che mi
veniva mostrato il Mistero della Santissima Trinitŕ, e
ricevetti luci su questo Mistero che non
mi č permesso rivelare. Poi la Madonna mi disse: 'E'
arrivato il momento in cui Dio chiede che
il Santo Padre faccia, in unione con tutti i vescovi del
mondo, la consacrazione della Russia al
Mio Cuore Immacolato, promettendo di salvarla con
questo mezzo. Sono tante le anime che la
giustizia di Dio condanna per i peccati commessi contro
di Me, che vengo a chiedere riparazione:
sacrificati per questa intenzione e prega'. Informai di tutto
il confessore, che mi ordinň di
scrivere ciň che la Madonna voleva che si facesse.
"Piů tardi, per mezzo di una comunicazione intima, la
Madonna mi disse lamentandosi: 'Non
vollero soddisfare la Mia richiesta... Come il re di Francia,
si pentiranno e lo faranno, ma
sarŕ tardi. La Russia avrŕ giŕ sparso i suoi errori per il
mondo, provocando guerre,
persecuzioni alla Chiesa: il Santo Padre avrŕ molto da
soffrire'".
L'accenno al re di Francia, riguarda quanto aveva fatto
santa Margherita Alacoque con i messaggi
che Gesů, nelle apparizioni, le aveva detto di far giungere
al "Re Sole", Luigi xvi di Francia.
Furono ascoltati quando era troppo tardi e Luigi venne
ghigliottinato.
Come si ricava da questo scritto, suor Lucia aveva quindi
informato il proprio confessore, il
quale, a sua volta, aveva informato il vescovo di Leiria-
Fatima, monsignor Giuseppe da Silva
Correia, perché questa era la prassi giuridica da seguire.
Una prassi burocratica, lenta. E
infatti, il vescovo di Leiria-Fatima soltanto nel 1937
scrisse a Pio xi informandolo della
richiesta, ma non accadde niente.
Il 2 dicembre 1940, suor Lucia scrisse a Pio XII in merito
alle richieste della Madonna e di
Gesů e aggiunse: "In varie comunicazioni intime, il
Signore non ha cessato di insistere in
questa richiesta. Ultimamente promise che se Vostra
Santitŕ si degnerŕ di fare la consacrazione
del mondo al Cuore Immacolato di Maria,
con menzione speciale della Russia ordinando che in
unione a Vostra Santitŕ la facciano tutti i
vescovi del mondo, abbrevierŕ i giorni di tribolazione con
cui ha
determinato punire le nazioni dei loro delitti, mediante la
guerra, la fame e varie persecuzioni
alla Santa Chiesa e a Vostra Santitŕ...".
Cominciň Pio XII
Pio XII credeva alle apparizioni di Fatima. Era stato
consacrato vescovo il 13 maggio 1917,
proprio il giorno in cui la Madonna apparve la prima volta
a Fatima. Dimostrň sempre rispetto e
stima per gli avvenimenti di Fatima. Quando seppe delle
richieste della Vergine, decise di dare
una risposta positiva, ma anch'egli si trovň di fronte a
enormi difficoltŕ burocratiche.
Volle mettere in atto subito una iniziativa personale. Lo
fece il 31 ottobre 1942, nel messaggio
radiofonico al Portogallo, per il venticinquesimo
anniversario delle apparizioni di Fatima. Ma non
trovň il modo di nominare la Russia. Ripetč la
consacrazione l'8 dicembre 1942, per la Festa
dell'Immacolata, sempre senza poter nominare la Russia.
Tornň a ripetere la consacrazione il 7
luglio 1952, durante il giorno dei santi slavi Cirillo e
Metodio, e questa volta nominň la Russia:
ŤCome pochi anni fa abbiamo consacrato tutto il mondo
al Cuore Immacolato della Vergine Madre di
Dio, cosě al presente, in modo specialissimo,
consacriamo tutti i popoli della Russiať. Ma erano
iniziative personali, non fatte in "unione con tutti i
vescovi", come aveva chiesto la Madonna.
Poi venne Giovanni XXIII, che certamente aveva una
grandissima devozione alla Madonna, ma non
prese in considerazione le richieste di Fatima.
Paolo vi, invece, fece un atto di consacrazione del mondo
il 21 novembre 1964, alla chiusura
della terza sessione del Concilio Vaticano II, e lo ripetč il
13 maggio 1967, nel cinquantesimo
anniversario delle apparizioni di Fatima, richiamandosi,
tutte e due le volte, alle
consacrazioni fatte da Pio XII, ma senza mai nominare la
Russia.
Giovanni Paolo I, che regnň per soli trentatré giorni, non
ebbe tempo di fare niente.
Giovanni Paolo II cominciň a prenderla in considerazione
dopo l'attentato del 1981, cioč quando, leggendo
attentamente gli incartamenti del famoso
Segreto, scoprě che quell'attentato ne faceva parte.
Forse ebbe anche lunghi colloqui
chiarificatori con suor Lucia. E subito cominciň a
impegnarsi per realizzare la richiesta della
Vergine. Ma eravamo giŕ nel 1981: era trascorso piů di
mezzo secolo da quando la Madonna aveva
fatto la sua richiesta.
Vari tentativi
Monsignor Paolo Hnilica, vescovo cecoslovacco che
tanto ha lavorato per la Chiesa del Silenzio
nei Paesi sotto il regime comunista, e per questo era
molto amico di Wojtyla, che aveva
conosciuto quando era ancora cardinale a Cracovia, č
stato un testimone diretto del travaglio
affrontato da Giovanni Paolo II per arrivare a adempiere il
desiderio della Madonna. Conoscitore
delle profezie di Fatima, amico di suor Lucia, grande
devoto della Madonna, monsignor Hnilica č
sempre stato un promotore indefesso dello spirito di
Fatima. E, come egli stesso afferma, ha piů
volte ricordato a Giovanni Paolo II che bisognava fare la
consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di Maria.
ŤLa prima volta lo feci qualche settimana dopo che Karol
Wojtyla era diventato Ponteficeť mi ha
raccontato monsignor Hnilica. ŤGli dissi: "Sono felice
della sua elezione. Sono sicuro che Dio
l'ha scelta perché lei deve fare la consacrazione della
Russia al Cuore Immacolato di Maria. Se
questo non avverrŕ, il suo pontificato non sarŕ completo".
E lui mi rispose: "Io sono pronto a
farlo se tu convinci i vescovi a unirsi a me".
ŤTornai sul discorso andando a trovarlo al policlinico
Gemelli dopo l'attentato. "La Madonna si
riferiva a lei, quando a Fatima disse che il Santo Padre
avrŕ molto da soffrire" gli dissi.
Ť"Tutti i Pontefici hanno sempre molto da soffrire per la
Chiesa" mi rispose.
ŤGli ricordai allora la visione avuta da Giacinta. La
piccola pastorella aveva visto il Santo
Padre colpito a morte con la veste bianca sporca di
sangue. E lui disse: "Sě, questo particolare
del sangue potrebbe riferirsi all'attentato".
ŤKarol Wojtyla rimase in ospedale piů di due mesi e
soffrě moltissimo. Sorgevano sempre nuove
complicazioni e nuove infezioni. Voleva morire. Diceva
che, in quelle condizioni, non sarebbe
servito granché alla Chiesa, perciň pregava perché il
Signore lo prendesse in Cielo. Ma aggiungeva
sempre: "Sia fatta la volontŕ di Dio".
ŤQuando finalmente uscě dall'ospedale, gli regalai una
statuetta della Madonna di Fatima. La
benedisse e la baciň sul cuore. Mi disse: "In questi mesi
di sofferenza e di lotta tra la vita e
la morte ho capito che l'unica soluzione ai gravi problemi
del mondo di oggi č la preghiera.
Bisogna salvare l'umanitŕ dalla guerra micidiale e
dall'ateismo militante che si sta diffondendo,
per arrivare poi alla conversione della Russia, come ha
detto la Madonna". E io gli ricordai
ancora la consacrazione chiesta dalla Vergine come
mezzo per arrivare alla conversione della
Russia.
ŤL'8 dicembre 1981, il Papa andň a celebrare la Messa a
Santa Maria Maggiore. E fece una preghiera
per tutti i Paesi dell'Est, una preghiera di "affidamento" di
quei Paesi alla Madonna. In
sacrestia gli dissi: "Padre Santo, i messaggi della
Madonna di Fatima chiedono la consacrazione
della Russia, non un affidamento". "Lo so" mi rispose "ma
molti teologi sono contrari a usare la
parola consacrazione."
ŤIl 13 maggio 1982, il Papa andň pellegrino a Fatima e
c'ero anch'io. A mezzogiorno il vescovo di
Fatima disse che, alle 17, il Papa si sarebbe recato a
pregare sul luogo delle apparizioni e che i
vescovi e i cardinali presenti potevano, se volevano,
unirsi a lui.
ŤAlle 17 eravamo tutti presenti. Io ero accanto al
cardinale Franciszek Macharski, arcivescovo di
Cracovia. Il Papa arrivň tutto concentrato. Non salutava
nessuno. Mi passň accanto senza vedermi,
ma, fatti alcuni passi, tornň indietro e mi disse in polacco:
"Tu oggi sei il piů contento,
felice e soddisfatto tra i vescovi presenti". Appena si
allontanň, tutti mi vennero intorno a
chiedere che cosa avesse detto. Non volevo tradurre, ma
il cardinale Macharski lo fece. Rimasero
male: "Tutti noi siamo felici" dicevano. Anch'io non
riuscivo a capire il senso. Ma poi,
guardando il testo della preghiera che il Papa avrebbe
recitato, e che io avevo in polacco,
capii. In quella preghiera faceva la consacrazione della
Russia. Ma era un'iniziativa personale.
Non era fatta in unione con tutti i vescovi, come aveva
chiesto la Madonna.ť
Difficoltŕ ideologiche
Le apparizioni della Vergine, di Gesů, dei santi, con i
rispettivi messaggi, sono considerate
dalla Chiesa "vicende private", alle quali si puň anche non
credere. Non fanno parte, cioč, di
quel patrimonio di veritŕ dogmatiche che sono l'ossatura
della Fede e che ogni cattolico deve
professare. Per questo, molte autoritŕ ecclesiastiche, pur
dimostrando rispetto per i veggenti
di Fatima, non diedero molto peso alle loro rivelazioni.
Tennero una posizione di grande
prudenza, di distacco. Ritenevano impossibile che si
potesse evitare la guerra, la diffusione di
errori, la distruzione di nazioni con un semplice rito, la
consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di Maria.
Magari, le singole persone potevano anche credere alle
parole di suor Lucia. Magari molti
desideravano fare quella consacrazione. Ma il Papa
come avrebbe potuto giustificare una cosa del
genere davanti al mondo intero? Il Papa č anche un capo
di Stato. Proporre la consacrazione
della Russia era come discriminarla, colpevolizzarla
davanti al mondo. E poi non bisogna
dimenticare che non pochi vescovi e sacerdoti e cattolici
laici, soprattutto dei Paesi del Terzo
mondo, guardavano, allora, al comunismo come a
un'ideologia sociale di liberazione della classe
operaia, del proletariato, dei poveri. Era il tempo della
"teologia della liberazione". Quei
movimenti vedevano nel capitalismo, nelle ideologie
basate sul libero mercato, sulla
competizione uno sfruttamento dell'operaio, del
contadino, del povero. E vedevano nel comunismo
una grande speranza. Quindi, guardavano alla Russia
con simpatia.
Giovanni Paolo II, dopo l'attentato, si era convinto che la
richiesta della Madonna riguardo
alla Russia si doveva soddisfare. Ma non riusciva
neppure lui a trovare il modo. In quegli
anni, il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, aveva
definito l'Urss "l'impero del Male".
La frase aveva fatto il giro del mondo. L'iniziativa del
Papa, quindi, poteva essere male
interpretata, anche nell'ambito specifico della Chiesa.
In attesa, perciň, di trovare l'occasione giusta e di
raggiungere l'intesa spirituale con tutti i
vescovi, girava il mondo compiendo, in ogni nazione,
degli atti di affidamento e di consacrazione
di tutti gli uomini, di tutte le nazioni, comprendendo anche
la Russia, che perň non nominava mai.
Nei santuari del mondo e a Lourdes
Dopo il pellegrinaggio a Fatima, sempre nel corso del
1982, si recň in Gran Bretagna, in
Argentina, in Spagna e ovunque ripeteva l'atto di
consacrazione.
Dal 2 al 10 marzo del 1983, visitň il Centroamerica, una
zona tra le piů tormentate del mondo. Si
fermň in otto nazioni: Costa Rica, Nicaragua, Panama, El
Salvador, Guatemala, Honduras, Belize e
Haiti. Viaggio burrascoso, dove incontrň anche pesanti
contestazioni. L'8 marzo fece tappa nel
santuario della Veneratissima Madonna di Suyapa,
cittadina nei pressi della capitale
dell'Honduras, dove pronunciň l'atto di affidamento e di
consacrazione alla Madonna di tutte le
nazioni visitate, aggiungendo sempre le parole che
riguardavano tutto il mondo per poter inserire
anche la Russia
Dal 16 al 23 giugno 1983, tornň a visitare la Polonia, e
trascorse gran parte di quei giorni nel
santuario preferito di Czestochowa, dove naturalmente
ripete la consacrazione.
Il 14 e il 15 agosto 1983 era a Lourdes, in Francia,
pellegrino in quel celebre santuario sorto in
seguito alle apparizioni della Madonna a Bernadette
Soubirous nel 1858. Quello č il santuario
emblematico degli ammalati. Ci si sarebbe aspettati che
Giovanni Paolo II incentrasse i suoi
discorsi sulle sofferenze fisiche, sul mistero della
sofferenza, della malattia. Invece, anche a
Lourdes, Giovanni Paolo II trovň il modo di parlare di
Fatima, della Russia, dei grandissimi
pericoli che gravavano sul mondo e della necessitŕ di
pregare tanto la Vergine per essere
protetti e liberati.
ŤSia benedetta la Madonnať disse arrivando a Lourdes
Ťche ci ottiene tante grazie e che ha
permesso anche a me, dopo l'attentato in cui sono stato
salvato, di venire finalmente sin qui,
per attingere a mia volta alla sorgente e qui radunare i
fedeli, secondo la missione di Pastore
universale affidata all'apostolo Pietro.ť
A Lourdes, Giovanni Paolo II volle parlare al mondo non
solo con dei discorsi, ma anche con il
suo comportamento. Appena arrivato venne accolto dalle
autoritŕ che volevano fargli conoscere
bene la cittŕ, ma egli disse al sindaco: ŤDa buon
pellegrino devo prima recarmi nei recinti del
santuario e il mio soggiorno tanto breve non mi darŕ il
piacere di uscire. Scusatemi se non
prolungo la visita della vostra bella cittŕť.
Giovanni Paolo II manifestň con queste parole la
concretezza del suo amore per la Vergine. Come
un figlio che torna a casa e non vuole perdere temppo
con estranei, ma desidera correre subito
dalla madre. Parlando della propria devozione alla
Madonna, confidň: ŤSi tratta di una devozione
fondamentale della mia vita, e io vorrei trascinare la
Chiesa nella preghiera, nella preghiera
marianať.
Il rettore della basilica accompagnň Giovanni Paolo II
subito alla grotta, nel luogo dove la
Madonna apparve. Il Papa sapeva di essere spiato dalle
telecamere, dai fotografi, dai
giornalisti, ma si comportň d'istinto, come un pellegrino
qualunque. Si inginocchiň, baciň la
terra, posň la sua mano su quella roccia, volle accendere
un cero e bere un bicchiere d'acqua
attinta alla sorgente miracolosa. Si comportava proprio
come un qualunque pellegrino per
dimostrare che quei gesti di antica tradizione, usuali per
la gente semplice, anonima, non sono
da disprezzare, ma sono gesti di preghiera, di devozione
profonda, se compiuti con fede e con
amore. Disse ai fedeli: ŤMi sono fatto pellegrino come
tutti voi e vivrň con voi molto
semplicemente una tipica giornata di pellegrinaggioť.
Alla sera partecipň alla grande processione con le torce
accese, cantň con la folla il
tradizionale e caratteristico Ave Maria e poi fece il suo
discorso. Un discorso infuocato, che
non si fermň alle tematiche specifiche del dolore, della
malattia, ma
si agganciň a forme di dolore ancor piů gravi di quelle
fisiche, ancor piů devastanti, come la
persecuzione a causa della propria fede religiosa, la
privazione della libertŕ religiosa presente
soprattutto nei Paesi dell'Est. Non nominň mai la Russia
né il comunismo, ma quei nomi serpeggiano
in tutte le frasi del suo discorso accorato.
ŤLe persecuzioni per la fede prendono oggi forme diverse
di discriminazione. Esse sono a volte
applicate nello stesso tempo in cui č riconosciuto il diritto
alla libertŕ religiosa, alla libertŕ
di coscienza, e questo sia nella legislazione dei diversi
Stati che nei documenti di carattere
internazionale (...)
ŤOggi, alla prigione, ai campi di concentramento o di
lavoro forzato, all'esilio, si sono
aggiunte altre pene meno evidenti, ma piů sottili. Non la
morte cruenta, ma una specie di morte
civile. Si tratta di credenti costretti a riunirsi
clandestinamente perché la loro comunitŕ
religiosa non č autorizzata. Si tratta di vescovi, di
sacerdoti, di religiosi, ai quali č proibito
esercitare il ministero nelle chiese o nelle pubbliche
riunioni. Si tratta di religiose disperse
che non possono vivere la loro vita consacrata. Si tratta di
giovani generosi, impediti d'entrare
in un seminario o in un luogo di formazione religiosa per
realizzare la propria vocazione...
ŤQui, tempo fa, la Bella Signora parlava con una
semplice adolescente di Lourdes, Bernadette
Soubirous, recitava con lei il Rosario, la incaricava di
alcuni messaggi. Venendo in
pellegrinaggio a Lourdes desideriamo entrare
nuovamente nel quadro di questa straordinaria
vicinanza che qui non č mai cessata, anzi si č
consolidata. La vicinanza di Maria č come l'anima
di questo santuario. Noi veniamo in pellegrinaggio a
Lourdes per essere vicini a Maria. Veniamo in
pellegrinaggio a Lourdes per avvicinarci al mistero della
Redenzione. Nessuno piů di Maria si č
immerso nell'intimo del mistero della Redenzione. E
nessuno piů di Lei puň riavvicinare a noi
questo mistero. Maria si trova nel cuore stesso del
mistero.ť
Lettera ai vescovi del mondo
Il mese successivo, dal 10 al 13 settembre 1983,
Giovanni Paolo II era in Austria per celebrare il
terzo centenario della vittoria dell'Europa cristiana
sull'invasione dei turchi. I suoi discorsi
erano rivolti all'Europa, "questa Europa unita e formata
dalla fede in Cristo". Sulla collina di
Kahlenberg, dove ci sono i monumenti di re Giovanni in
Sobieski e di sua moglie Maria Casimira,
il Papa polacco volle ricordare l'apporto fondamentale
dato dai suoi connazionali per la
battaglia decisiva, "battaglia che ha salvato la cultura e il
cristianesimo dell'Europa".
Ricordň un dettaglio mariano di quella vittoria, poco noto:
ŤE' molto significativo il fatto che
re Giovanni Sobieski, durante il suo cammino verso
Vienna, si sia fermato a Jasna Gňra, dove si
č confessato e ha partecipato a piů messe. Si č
inginocchiato a Cracovia nella chiesa dei
carmelitani davanti al quadro della Signora di Cracovia e
ha stabilito la partenza da questa
cittŕ il giorno dell'Assunzione. Ha poi pregato davanti al
quadro miracoloso a Piekary Slaskie.
I liberatori erano coscienti che il loro successo dipendeva
dall'aiuto del Cielo. Non volevano
iniziare il combattimento senza aver prima implorato
l'aiuto di Dio. E questa implorazione li
seguiva in battaglia: "Gesů e Maria, aiutateci"ť.
Da Kahlenberg, il Papa raggiunse in elicottero il santuario
di Mariazell, il piů antico
dell'Austria e il piů grande luogo di pellegrinaggio
dell'Europa centrale.
Nella sua preghiera, Giovanni Paolo II raccomandň alla
Madre delle Grazie l'Austria, l'Europa ma
anche, come faceva sempre, tutto il mondo.
Il 16 ottobre 1983 volle ripetere l'atto di affidamento e di
consacrazione alla Madonna del
mondo intero, quello che aveva fatto a Fatima, a Lourdes,
a Mariazell, in piazza San Pietro,
assieme ai cardinali e ai vescovi che erano a Roma per
partecipare al Sinodo dei vescovi. In
quell'occasione il Papa non era solo, ma attorniato da
tanti vescovi e cardinali, quindi aveva
vicino a sé che pregavano la Madonna con lui, molti
rappresentanti della Chiesa. Era un nuovo
passo verso quell'unitŕ dei vescovi che la Vergine aveva
chiesto e che egli inseguiva.
L'8 dicembre di quello stesso anno decise di fare il
grande tentativo. Inviň una lettera a tutti i
vescovi della terra, invitandoli a unirsi a lui, il 25 marzo
1984, per fare l'atto di
consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria.
Era l'invito decisivo ai rappresentanti della Chiesa per
esaudire, finalmente, la richiesta della
Madonna riguardante la consacrazione della Russia. Ma
come comunicare ai vescovi quella specifica
intenzione? Come giustificare la scelta della Russia?
Perché nominare la Russia e non le altre
nazioni? Come giŕ detto, non erano pochi i vescovi che
vedevano nel comunismo non una ideologia da
condannare, ma una ideologia socialmente
raccomandabile. La questione era molto piů delicata,
ingarbugliata di quanto si potesse pensare.
Per convincere i vescovi, e comunicare loro il significato
preciso di quella consacrazione, il
Papa, in quella sua lettera, dovette ricorrere ad acrobazie
di accostamenti concettuali. Prese lo
spunto dalla Festa dell'Immacolata Concezione, giorno in
cui č datata la lettera, e scrisse: ŤIn
questo giorno, la Chiesa medita la potenza salvifica della
Redenzione di Cristo nel concepimento
della Donna destinata a essere la madre del Redentoreť.
E invitň tutti i vescovi della Terra a
unirsi a lui per celebrare quella potenza salvifica il 25
marzo 1984, Festa dell'Annunciazione e
anniversario dell'apertura dell'Anno Santo della
Redenzione, che aveva aperto proprio il 25 marzo
1983.
Poi continuň: ŤCari fratelli miei, nel contesto dell'Anno
Santo della Redenzione, desidero
professare questa potenza insieme con Voi e con la
Chiesa intera. Desidero professarla mediante
l'Immacolato Cuore della Genitrice di Dio, che in misura
particolarissima ha sperimentato questa
potenza salvifica.
ŤLe parole dell'atto di consacrazione e di affidamento,
che allego, corrispondono, con piccoli
cambiamenti, a quelle che pronunciai a Fatima il giorno
13 maggio 1982. Non posso sottrarmi alla
convinzione che il ripetere questo atto nel corso
dell'Anno Giubilare della Redenzione corrisponda alle
aspettative di molti cuori umani,
desiderosi di rinnovare alla Vergine Maria la
testimonianza della loro devozione e di confidarle
le afflizioni per i molteplici mali del presente, i timori per le
minacce che incombono
sull'avvenire, le preoccupazioni per la pace e la giustizia
nelle singole nazioni e nel mondo
intero.
ŤLa data piů conveniente per questa comune
testimonianza sembra essere la solennitŕ
dell'Annunciazione del Signore nel corso della Quaresima
del 1984. Sarň grato se in tale giorno
vorrete rinnovare questo atto insieme con me, scegliendo
il modo che ognuno di voi riterrŕ piů
adattoť.
Come si vede, nella lettera ai vescovi Giovanni Paolo II
non fece alcun cenno alla Russia. Il
Papa non poteva farlo.
I vescovi avevano la possibilitŕ di capire che quell'atto di
affidamento e di consacrazione
riguardava anche la Russia, leggendo la formula. In essa,
infatti, vi era un punto che si
riferiva in modo preciso alla Russia, senza perň che
venisse nominata. Era il punto dove Papa
Wojtyla ricordava le due consacrazioni fatte da Pio xii.
ŤQuarant'anni fa, e poi ancora dieci
anni dopo, il tuo servo, il Papa Pio XII, avendo davanti
agli occhi le dolorose esperienze della
famiglia umana, ha affidato e consacrato al tuo Cuore
Immacolato tutto il mondo, specialmente i
popoli che per la loro situazione sono particolare oggetto
del tuo amore e della tua
sollecitudine.ť
Andando a vedere il testo usato da Pio XII per la
consacrazione del 1952, si trova che la Russia
č esplicitamente nominata. Aveva detto, infatti, in quella
formula Pio XII: ŤCome pochi anni fa
abbiamo consacrato tutto il mondo al Cuore Immacolato
della Vergine Madre di Dio, cosě, al
presente, in modo specialissimo, consacriamo tutti i
popoli della Russiať.
Tutto qui. Nessun'altra indicazione. Perň, la lettera
arrivava ai vescovi dopo una lunga e
delicata trattativa diplomatica, che Wojtyla aveva
realizzato attraverso fidi collaboratori, i
quali avevano parlato chiaro ai vescovi, e quindi tutti
sapevano il fine vero di quella
cerimonia.
25 marzo 1984
Per il giorno stabilito, Giovanni Paolo II trasformň piazza
San Pietro in un grande santuario
mariano all'aperto. Aveva fatto venire da Fatima la
statuetta della Madonna che si venera in quel
santuario e l'aveva fatta esporre accanto all'altare, eretto
di fronte alla basilica. Questa volta
era la Madonna che si era fatta pellegrina, e da Fatima
era andata a Roma. La piazza era gremita
da oltre centocinquantamila fedeli venuti da ogni parte. I
vescovi di tutto il mondo erano al
corrente della cerimonia ed erano stati invitati a unirsi
spiritualmente al Papa. Si compiva in
quel preciso momento una preghiera che coinvolgeva il
mondo cattolico in modo globale.
Giovanni Paolo II presiedette la solenne concelebrazione
eucaristica. Al termine del rito, si
inginocchiň davanti alla statuetta di Fatima e lesse il
solenne atto di consacrazione, che egli
stesso aveva composto e che era, sostanzialmente,
quello giŕ pronunciato a Fatima il 13 maggio
1982. Nel capitolo precedente abbiamo citato alcuni passi
di quella preghiera che qui vogliamo
riferire integralmente.
"Sotto la Tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre
di Dio!" Pronunciando le parole di questa
antifona, con la quale la Chiesa di Cristo prega da secoli,
ci troviamo oggi dinanzi a Te,
Madre, nell'Anno Giubilare della nostra Redenzione.
Ci troviamo uniti con tutti i Pastori della Chiesa, in un
particolare vincolo, costituendo un
corpo e un collegio, cosě come per volontŕ di Cristo gli
Apostoli costituivano un corpo e un
collegio con Pietro.
Nel vincolo di tale unitŕ, pronunziamo le parole del
presente atto, in cui desideriamo
racchiudere, ancora una volta, le speranze e le angosce
della Chiesa per il mondo contemporaneo.
Quarantanni fa, e poi ancora dieci anni dopo, il tuo servo,
il Papa Pio XII, avendo davanti agli
occhi le dolorose esperienze della famiglia umana, ha
affidato e consacrato al tuo Cuore
Immacolato tutto il mondo, specialmente i popoli che per
la loro situazione sono particolare
oggetto del tuo amore e della tua sollecitudine.
Questo mondo degli uomini e delle nazioni abbiamo
davanti agli occhi anche oggi: il mondo del
Secondo millennio che sta per terminare, il mondo
contemporaneo, il nostro mondo!
La Chiesa, memore delle parole del Signore: "Andate (...)
e ammaestrate tutte le nazioni (...)
Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo" (Mt 28,19-20), ha ravvivato, nel
Concilio Vaticano II, la coscienza della sua missione in
questo mondo.
E perciň, o Madre degli uomini e dei popoli, Tu che
conosci tutte le loro sofferenze e le loro
speranze, Tu che senti maternamente tutte le lotte tra il
Bene e il Male, tra la Luce e le
Tenebre, che scuotono il mondo contemporaneo, accogli
il nostro grido che, mossi dallo Spirito
Santo, rivolgiamo direttamente al Tuo Cuore: abbraccia
con amore di Madre e di Serva del Signore
questo nostro mondo umano, che Ti affidiamo e
consacriamo, pieni di inquietudine per la sorte
terrena ed eterna degli uomini e dei popoli.
In modo speciale Ti affidiamo e consacriamo quegli
uomini e quelle nazioni, che di questo
affidamento e di questa consacrazione hanno
particolarmente bisogno.
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di
Dio! Non disprezzare le suppliche di
noi che siamo nella prova!
Ecco, trovandoci davanti a Te, Madre di Cristo, dinanzi al
tuo Cuore Immacolato, desideriamo,
insieme con tutta la Chiesa, unirci alla consacrazione
che, per amore nostro, il Figlio tuo ha
fatto di se stesso al Padre: "Per loro - egli ha detto - io
consacro me stesso, perché siano
anch'essi consacrati nella Veritŕ" (Gv 17,19). Vogliamo
unirci al nostro Redentore in questa
consacrazione per il mondo e per gli uomini, la quale, nel
suo Cuore divino, ha la potenza di
ottenere il perdono e di procurare la riparazione.
La potenza di questa consacrazione dura per tutti i tempi
e abbraccia tutti gli uomini, i popoli
e le nazioni, e supera ogni male, che lo spirito delle
tenebre č capace di ridestare nel cuore
dell'uomo e nella sua storia e che, di fatto, ha ridestato
nei nostri tempi.
Oh, quanto profondamente sentiamo il bisogno di
consacrazione per l'umanitŕ e per il mondo: per
il nostro mondo contemporaneo, in unione con Cristo
stesso! L'opera redentrice di Cristo,
infatti, deve essere partecipata al mondo per mezzo della
Chiesa.
Lo manifesta il presente Anno della Redenzione: il
Giubileo straordinario di tutta la Chiesa.
Sii benedetta, in questo Anno Santo, sopra ogni creatura
Tu, Serva del Signore, che nel modo piů
pieno obbedisci alla divina chiamata!
Sii salutata Tu, che sei interamente unita alla
consacrazione redentrice del Tuo Figlio!
Madre della Chiesa! Illumina il Popolo di Dio sulle vie
della fede, della speranza e della caritŕ!
Aiutaci a vivere nella veritŕ della consacrazione di Cristo
per l'intera famiglia umana del mondo
contemporaneo.
AffidandoTi, o Madre, il mondo, tutti gli uomini e tutti i
popoli, Ti affidiamo anche la stessa
consacrazione del mondo, mettendola nel Tuo Cuore
materno.
Oh, Cuore Immacolato! Aiutaci a vincere la minaccia del
Male, che cosě facilmente si radica nei
cuori degli uomini d'oggi e che nei suoi effetti
incommensurabili giŕ grava sulla vita presente e
sembra chiudere le vie verso il futuro! Dalla fame e dalla
guerra, liberaci!
Dalla guerra nucleare, da un'autodistruzione incalcolabile,
da ogni genere di guerra, liberaci!
Dai peccati contro la vita dell'uomo sin dai suoi albori,
liberaci! Dall'odio e dall'avvilimento
della dignitŕ dei figli di Dio, liberaci!
Da ogni genere d'ingiustizia nella vita sociale, nazionale e
internazionale, liberaci!
Dalla facilitŕ di calpestare i comandamenti di Dio, liberaci!
Dal tentativo di offuscare nei
cuori umani la veritŕ stessa di Dio, liberaci! Dallo
smarrimento della coscienza del bene e del
male, liberaci!
Dai peccati contro lo Spirito Santo, liberaci! Liberaci!
Accogli, o Madre di Cristo questo grido
carico della sofferenza di tutti gli uomini! Carico della
sofferenza di intere societŕ!
Aiutaci con la potenza dello Spirito Santo a vincere ogni
peccato: il peccato dell'uomo e il
"peccato del mondo", il peccato in ogni sua
manifestazione.
Si riveli, ancora una volta, nella storia del mondo l'infinita
potenza salvifica della
Redenzione potenza dell'Amore misericordioso! Che esso
arresti il Male! Trasformi le coscienze!
Nel Tuo Cuore Immacolato si sveli per tutti la luce della
Speranza!
Il progetto di Madre Teresa
In quello stesso giorno, mentre il Papa pregava a Roma,
il vescovo cecoslovacco, monsignor Pavel
Hnilica, amico personale di Wojtyla, era entrato, in
incognito, in Russia, e al momento della
consacrazione pronunciata da Giovanni Paolo II in piazza
San Pietro era in una delle chiese del
Cremlino trasformate in museo, e in unione spirituale con
il Pontefice ripetč, in quella sede,
la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di
Maria.
ŤFu Madre Teresa ad avere l'idea di quella spedizioneť
mi ha raccontato monsignor Hnilica. ŤLei
era nata a Skopje, nel Kosovo, ed era quindi di sangue
slavo. Per questo si considerava quasi
imparentata con il popolo russo e soffriva molto nel
sentire che il comunismo sovietico
perseguitava spietatamente ogni forma di religione.
ŤTra noi parlavamo spesso della Russia. Lei conosceva
bene ciň che la Madonna aveva detto
durante le apparizioni a Fatima, e cioč che in Russia
sarebbe sorto un movimento ideologico
ateo, che avrebbe sparso errori in tutto il mondo, ma che
alla fine "la Russia si sarebbe
convertita e ci sarebbe stato il trionfo del suo Cuore
Immacolato".
ŤUn giorno, rientrando da Fatima, dove avevo incontrato
suor Lucia, raccontai a Madre Teresa
quanto la veggente mi aveva detto. E mi soffermai su un
particolare che aveva colpito anche me.
E cioč che la Madonna di Fatima, nelle varie apparizioni,
quelle ufficiali nel 1917 e quelle
private a suor Lucia negli anni successivi, si era
interessata della Russia per ben ventidue
volte. "Questa insistenza" dissi a Madre Teresa "č la
prova di una sollecitudine materna
straordinaria da parte della Madonna per il popolo russo."
Anche Madre Teresa fu colpita da quel
particolare e nel suo cuore nacque un grande desiderio di
lavorare per la conversione della
Russia.
ŤDa allora cominciň a dedicarsi a questo progetto con
tutta se stessa. Pregava, faceva pregare
le sue suore, inviava segretamente in Russia Rosari,
Vangeli, immaginette sacre e, soprattutto,
cercava di diffondere in Russia la devozione alla
"medaglia miracolosa".
ŤSi tratta di una medaglietta, di forma ovale, che č stata
coniata su precisa indicazione della
Vergine stessa. Apparendo a Parigi, nel 1830, a una
giovane religiosa, suor Caterina Labouré, che
oggi č santa, la Madonna disse che desiderava venisse
coniata quella sua medaglia e indicň come la
voleva. E' l'unico caso che si conosca in cui la Madonna
stessa abbia dato disposizioni per la
realizzazione di una medaglia che la riguarda. La suora,
che era molto giovane e sconosciuta, si
confidň con i propri superiori, i quali non presero in
considerazione la cosa perché la ritenevano
assurda. Ma poi, come tutte le vicende che vengono dal
Cielo, il progetto andň avanti, la medaglia
venne coniata, venne diffusa e in pochi anni raggiunse
una vastissima popolaritŕ, e si palesň cosě
portentosa da essere definita "medaglia miracolosa".
ŤMadre Teresa aveva una profonda devozione per quella
medaglia. La riteneva un oggetto caro alla
Madonna e quindi atto a tener vivi i contatti con lei. Ne
portava sempre molti esemplari con sé e
li distribuiva a tutti quelli che chiedevano preghiere.
Raccomandava di portarla al collo o
tenerla in tasca, come segno di protezione. E molte di
quelle medagliette le fece arrivare
clandestinamente anche in Russia.
ŤNel 1984, quando seppe che il Santo Padre avrebbe
fatto la consacrazione del mondo e della
Russia al Cuore Immacolato di Maria, mi disse che
bisognava portare una di quelle medaglie
miracolose all'interno del Cremlino, quasi a voler
consacrare, con quel gesto, il Cremlino, cioč
la capitale dell'ateismo, alla Madonna. E mi chiese se me
la sentivo di realizzare quel suo
progetto.
ŤLe risposi che, per la veritŕ, io ero la persona meno
adatta a fare una cosa del genere, perché
nei Paesi dell'Est ero considerato il nemico numero uno
del comunismo, e in Cecoslovacchia, a
causa della mia attivitŕ anticomunista, ero stato
condannato a morte. Entrare in Unione
Sovietica era per me impossibile, ma se lei mi avesse
assistito con la sua preghiera ero pronto
a imbarcarmi in quell'impresa.ť
La Messa dentro il Cremlino
ŤMadre Teresa cominciň a organizzare il viaggio. Fece
tutto lei. Aveva buoni contatti con il
console russo a Calcutta. Non so che cosa gli abbia
detto, ma mi fece ottenere il visto per
entrare in Unione Sovietica.
ŤOrganizzň il viaggio in modo che io fossi a Mosca il 25
marzo di quell'anno, Festa
dell'Annunciazione, quando il Papa avrebbe consacrato la
Russia al Cuore Immacolato di Maria. E
voleva che, nel momento in cui il Papa a Roma recitava
la preghiera di consacrazione, io fossi
all'interno del Cremlino e pregassi spiritualmente unito al
Papa, e deponessi in quel luogo una
delle famose "medagliette miracolose".
ŤNon so se Madre Teresa abbia confidato questo suo
progetto a Giovanni Paolo II. Ma tra loro
c'era una tale confidenza, una tale sintonia che credo lo
abbia fatto. Comunque, consegnandomi
la medaglietta che dovevo portare dentro il Cremlino, mi
disse che era stata benedetta dal Papa.
ŤA metŕ febbraio 1984 partii da Roma per Calcutta.
Avevo con me un mio fidato collaboratore.
Madre Teresa volle preparare la spedizione con molte
preghiere. Per un mese intero, io e lei
pregammo insieme perché tutto potesse realizzarsi
secondo le nostre intenzioni. La Madre faceva
pregare anche le sue suore "per una sua particolare
intenzione". Al di fuori di noi due, nessuno
era al corrente di ciň che stavamo per fare. Come ho
detto, la madre, attraverso il console
russo, aveva fatto preparare il visto d'ingresso in Unione
Sovietica e i biglietti d'aereo. Io e
il mio collaboratore figuravamo essere due turisti che da
Calcutta andavano a Roma, via Mosca, e
si sarebbero fermati tre giorni a Mosca per visitare i
musei della cittŕ.
ŤIl 23 marzo Madre Teresa ci accompagnň all'aeroporto
di Calcutta. Quando la salutai, era
commossa. Mi strinse le mani con affetto e volle darmi il
suo Rosario personale.
ŤIl viaggio fu tranquillo. Arrivammo a Mosca alle quattro
del mattino del 24 marzo. Il
funzionario di dogana ebbe dei dubbi sulla mia vera
identitŕ. Quando gli presentai il
passaporto, cominciň a farmi un sacco di domande. Io
fingevo di
non capire. Il mio passaporto, falso naturalmente, era
italiano, e per questo non volevo far
capire che conoscevo il russo. Il soldato insisteva con
domande in russo e io rispondevo in
italiano dicendo che non capivo niente, ma lui aveva dei
sospetti. Cominciň allora a fare tutta
una serie di telefonate. Ma erano le cinque del mattino e
nessuno rispondeva. Io aspettavo fuori
dal suo ufficio, dove c'erano quindici gradi sotto zero.
Cominciavo a preoccuparmi, e allora tirai
fuori dalla tasca il Rosario di Madre Teresa e cominciai a
pregare. Mi sentivo giŕ in Siberia. Ma
avevo anche tanta fiducia nelle preghiere di Madre
Teresa. E dicevo anche: "Signore, sia fatta la
volontŕ Tua!". Poi il soldato ritornň da me, cercando
ancora di chiedermi a gesti se il passaporto
era il mio. Io dicevo di sě con la testa. Alla fine, mise il
timbro sul passaporto e mi cacciň
via.
ŤIo e il mio collaboratore andammo in albergo e poi
cominciammo a visitare la cittŕ, con molta
discrezione, ognuno per proprio conto. Ci informammo
per sapere come si potesse entrare nel
Cremlino. E, guarda caso, proprio in quei giorni il
Cremlino era aperto ai turisti.
ŤIl Cremlino č una cittadella, circondata da mura,
all'interno della cittŕ di Mosca. Una specie
di fortezza che si estende su una superficie di ventotto
ettari. In antico era il cuore civile e
religioso della cittŕ. Vi erano, infatti, i palazzi imperiali e
alcune tra le chiese piů
importanti di Mosca, tra cui la cattedrale dei Patriarchi
ortodossi, detta anche chiesa della
Dormizione di Maria. Dopo la Rivoluzione bolscevica del
1917, queste chiese vennero chiuse al
culto e trasformate in museo.
ŤIl mio progetto, concordato con Madre Teresa, era
questo: il 25 marzo, al mattino, quando il
Papa a Roma iniziava la cerimonia della consacrazione
della Russia, io sarei andato, come turista,
a visitare il Cremlino e mi sarei fermato nella cattedrale
dei Patriarchi. Fingendo di essere
interessato ai preziosissimi tesori d'arte che vi sono
contenuti, mi sarei intrattenuto in
preghiera e avrei cercato di deporre, in un angolo
nascosto, la medaglietta miracolosa che mi
aveva consegnato Madre Teresa.ť
ŤQuella mattina avevo una paura tremenda. Per fortuna,
c'erano parecchi turisti che andavano a
visitare il Cremlino e, sentendomi in mezzo a tanta gente,
mi pareva di essere un po' protetto.
Visitai alcuni palazzi, mi fermai nella chiesa
dell'Arcangelo, e poi entrai nella cattedrale dei
Patriarchi. La visitai attentamente per vedere dove avrei
potuto deporre la medaglietta.
ŤAnche se trasformata in museo, la chiesa era
conservata come un tempo e tenuta benissimo.
Notai, seguendo la descrizione di una guida, che vi erano
ancora i troni dove, durante le
cerimonie religiose, prendevano posto lo zar, la zarina e il
patriarca. Quello del patriarca era
al centro. Decisi che la "medaglietta miracolosa" l'avrei
messa sotto quel trono, pregando
affinchč il patriarca di Mosca avesse potuto tornare presto
a celebrare i riti religiosi in quel
luogo.
ŤApprofittando di un momento in cui ero rimasto solo in
quella chiesa museo, mi concentrai e
celebrai la Messa in segreto. Cioč feci la consacrazione,
servendomi di una briciola di pane e
una goccia di vino che avevo portato con me. Furono
attimi di intensa commozione religiosa.
Erano settantasei anni che non si celebrava una Messa in
quel luogo. Poi, adagio adagio mi
avvicinai al trono dei patriarchi, notai una piccola fessura
nel pavimento di legno e vi cacciai
dentro la medaglietta miracolosa. Mi fermai ancora un
poco, pregando, e poi rientrai in albergo
dove mi attendeva il mio accompagnatore. Nel
pomeriggio tornammo in Italia.ť

XXVII Una luce colma di speranza


La consacrazione del mondo e della Russia alla
Madonna, fatta in piazza San Pietro il 25 marzo
1984, aveva dato una grande gioia al cuore di Giovanni
Paolo II. Egli aveva la consapevolezza di
aver realizzato un desiderio della Madonna. Un desiderio
forse difficile da capire appieno. Per
questo i suoi predecessori non se ne erano occupati con
determinazione. Ma Wojtyla era convinto
che bisognava fidarsi delle parole della Vergine che, fin
dal 1929, era venuta a chiedere a suor
Lucia, la veggente di Fatima, quella consacrazione.
Giovanni Paolo II riprese la sua marcia di pellegrino in
giro per il mondo. Marcia che, se prima
aveva lo scopo di preparare la consacrazione del mondo
e della Russia alla Madonna, ora aveva
quello di ripeterla per tenerne vivi i significati e il fine
specifico. Cosě, a ogni viaggio, una
tappa doveva essere riservata a un santuario mariano,
dove il Papa si fermava a pregare la Madonna
e ad affidare a lei i problemi e le speranze della nazione
che aveva visitato, non dimenticando
mai il mondo e la Russia. Era cosě meticoloso nel voler
realizzare questi appuntamenti da
infastidire qualche suo collaboratore il quale vedeva, in
tanto zelo, quasi una fissazione
maniacale.
L'esercito silenzioso che salva
Il 2 maggio 1984, Giovanni Paolo II affrontň il suo
ventunesimo viaggio apostolico recandosi in
Estremo Oriente per
visitare la Corea del Sud, Papua Nuova Guinea, le Isole
Salomone, la Thailandia, e ovunque
ripeteva l'atto di affidamento e di consacrazione. Il 6
maggio lo fece nella cattedrale di
Seoul; l'8 maggio a Mount Hagen, in Papua Nuova
Guinea; il 9, a Honiara, nelle Isole Salomone;
l'11 a Bangkok, in Thailandia.
Il 15 giugno 1984 visitava la Svizzera e si fermň a
Einsiedeln, al santuario di Nostra Signora
degli Eremiti. Un santuario la cui origine risale a prima del
Mille, e che č sempre stato uno
dei piů attivi centri di diffusione mariana.
Il 10 settembre 1984 era in Canada e si fermň a compiere
l'atto di consacrazione nel santuario
di Notre-Dame du Cap, nel promontorio della Maddalena.
Il 12 ottobre lo ripetč a Santo Domingo.
Tre mesi dopo, il 26 gennaio 1985, a Caracas, in
Venezuela.
Il 14 maggio di quell'anno visitava Maastricht, cittŕ
olandese dove con l'omonimo trattato č
nata l'Unione Europea, e Papa Wojtyla, indefesso
sostenitore delle radici cristiane dell'Europa,
nel corso della sua visita apostolica nei Paesi Bassi,
Lussemburgo e Belgio, volle andare a
pregare nel santuario mariano Stella Maris, uno dei piů
antichi e caratteristici dell'Europa.
Il 9 agosto 1985 pregava nel santuario mariano di
Togoville, in Africa; il 13 agosto, a Douala,
nel Camerun; l'8 settembre nel Liechtenstein.
A febbraio del 1986 faceva l'atto di affidamento alla
Madonna a Bombay, in India. Il 4 luglio
era nel santuario di Chiquinquirŕ, in Colombia. Il 2 maggio
1987, in Germania per una visita
pastorale, e fece tappa al santuario di Kevelaer, dedicato
alla Madonna Consolatrice degli
Afflitti.
A voler elencare i santuari mariani che Giovanni Paolo IIi
ha visitato, con lo spirito del
pellegrino, con l'amore di un figlio devoto e umile, non si
finirebbe mai.
Negli anni che seguirono il suo pellegrinaggio a Fatima
del maggio 1982, le visite ai santuari
avevano una intensitŕ particolare.
A ogni tappa, Papa Wojtyla era come impaziente di
ripetere, in quel luogo, l'atto di affidamento
e di consacrazione. Era come se fosse sospinto da
importanti scadenze, come se si
sentisse in ritardo su una tabella di marcia per
raggiungere uno scopo.
E in ogni luogo la sua preghiera era appassionata, quasi
angosciata.
Papa Wojtyla non solo compiva l'atto di affidamento e di
consacrazione,
ma cercava di coinvolgere la gente a pregare con lui, a
unirsi a lui
nel realizzare ogni giorno il Messaggio di Fatima con la
recita del
Rosario e la conversione del cuore.
Il suo esempio e le sue parole esercitavano un forte
richiamo.
Soprattutto sui giovani. A essi il Papa affidava il compito
di essere
divulgatori della parola di Dio, della devozione alla
Madonna.
Nelle cittŕ dove si fermava sorgevano gruppi di preghiera,
movimenti
spirituali, che a loro volta diventavano fonte per altre
iniziative
spirituali. Ma molto piů numerose erano le intese e le
sintonie che
nascevano istintive. Giovanni Paolo II era come un fiume
in piena, un
vento impetuoso, una benedizione. "Toccava" gli spiriti,
suscitando
desideri di cambiamenti. Al suo passaggio lasciava
eserciti di
individui sconosciuti, in prevalenza sofferenti, ammalati,
handicappati, emarginati, sconfitti dalla vita, che in lui
trovavano
speranza e giustificazione. Per le loro sofferenze fisiche e
morali
assomigliavano giŕ molto a Cristo, ed egli li aiutava a
prenderne
coscienza.
Grazie all'opera di Giovanni Paolo II e dei milioni di
persone che
accoglievano la sua parola, il mondo cambiava.
Lentamente, ma
cambiava. Un cambiamento sotterraneo, non
sbandierato, non gridato,
ma vero, profondo, autentico. Si moltiplicavano le
conversioni.
Cresceva il numero di coloro che avevano capito
l'importanza della
preghiera, della penitenza, della rettitudine. Cresceva il
Bene per
contrastare il Male.
Ed era ciň che Papa Wojtyla voleva. Creare un'onda di
Bontŕ, di
Amore, di Veritŕ, per fermare la catastrofe che i seguaci
del Male
stavano preparando. Probabilmente, a un certo momento,
quest'onda
ebbe un peso importante e si verificarono le condizioni
indicate
dalla Vergine per provocare un'inversione di rotta nella
spirale
della distruzione. E accaddero eventi che fino a qualche
anno prima
erano impensabili.
Rivoluzione storica
A partire dalla data della consacrazione della Russia al
Cuore
Immacolato di Maria, 25 marzo 1984, le vicende politiche
internazionali iniziarono a decongestionarsi. Come tutti gli
storici
oggi confermano, proprio in quegli anni la tensione
politica tra Est
e Ovest aveva raggiunto l'acme. Il mondo era sull'orlo di
una guerra
nucleare, che sembrava inevitabile. Ma, all'improvviso,
arrivň un
cambiamento inspiegabile. Nuovi leader, nuove idee di
far politica,
nuovi orientamenti soprattutto nei Paesi dell'Est e, in
breve tempo,
alcuni anni soltanto, si verificň una rivoluzione senza
precedenti:
l'Unione Sovietica, che era diventata uno dei piů rigidi e
crudeli
imperi totalitari della storia, si dissolse. E senza
spargimento di
sangue.
Il primo colpo, che diede uno scossone micidiale al
grande Impero
russo, venne da un gravissimo incidente, verificatosi nel
maggio 1984
all'arsenale di Severomorsk, nel Mare del Nord, dove i
sovietici
avevano ammassato una quantitŕ incredibile di potenziale
bellico, con
missili antiaerei e antinave. Quella perdita tolse all'istante
ai
russi il controllo militare dell'Atlantico declassando la loro
potenza offensiva.
Contemporaneamente, nello spazio di tredici mesi,
scomparvero gli
ultimi due terribili dirigenti comunisti della vecchia
guardia,
legati alle tradizioni dei metodi staliniani: Andropov, che
morě il 9
febbraio 1984, dopo soli due anni di governo, e
Cernenko, eletto al
suo posto, che guidň l'impero per un solo anno, morendo
il 10 marzo
1985.
Al posto di Cernenko, venne eletto Michail Gorbaciov. Era
il piů
giovane membro del Politburo, e, proprio per questione di
etŕ, aveva
cominciato ad avere responsabilitŕ politiche nel Partito
dopo la
morte di Stalin. Era l'uomo nuovo del comunismo e aveva
grandi
ambizioni riformiste e di modernizzazione. Con
successive tappe, la
glasnost ("apertura"), la perestrojka ("ristrutturazione") e
Yuskorenie ("accelerazione" dello sviluppo economico),
egli condusse
l'Unione Sovietica alla fine della Guerra fredda,
arrestando la corsa
agli armamenti ed
eliminando il rischio di un conflitto nucleare. L'11 ottobre
1986,
Gorbaciov e il presidente statunitense Ronald Reagan si
incontravano a
Reykjavik (in Islanda) per discutere la riduzione degli
arsenali
nucleari installati in Europa. Nel 1987 si arrivň alla firma
del
trattato di non proliferazione nucleare. Nel 1990 a
Gorbaciov venne
attribuito il premio Nobel per la pace.
Pur non rinnegando mai le sue idee leniniste, Gorbaciov
si aprě al
dialogo anche con la Chiesa cattolica. Nel giugno 1988,
in occasione
delle celebrazioni del Battesimo della Russia, il cardinale
Agostino
Casaroli, allora segretario dello Stato vaticano, incontrň
Gorbaciov a
Mosca e gli consegnň un messaggio personale di
Giovanni Paolo II. La
cordialitŕ e la correttezza che caratterizzarono l'incontro
fecero
comprendere che si stava per imboccare, finalmente, la
strada del
dialogo. L'anno successivo, Gorbaciov era a Roma, dove
avvenne lo
storico incontro in Vaticano con Papa Wojtyla.
Tra il 1989 e il 1990, tutti gli Stati satelliti dell'Urss si
resero
autonomi e crearono governi democratici seguiti a libere
elezioni.
Cominciň la Polonia seguita da Ungheria,
Cecoslovacchia, Bulgaria,
Romania e dalla caduta del famoso Muro di Berlino che
divideva in due
una stessa nazione, la Germania. Era la fine dell'Era dei
blocchi,
dell'epoca della Guerra fredda. Le spinte liberalizzatori e
riformiste di Gorbaciov crearono molte aspettative anche
nelle
quindici repubbliche che costituivano lo Stato federale
sovietico.
L'Unione Sovietica era un complesso di nazioni ed etnie
diversissime
tra di loro, tenute insieme con la forza e la repressione.
Era cosě
anche nell'Ottocento con gli zar e lo fu ancor di piů con il
regime
comunista di Lenin, di Stalin e dei loro successori. Ma il
vento di
tolleranza portato da Gorbaciov
scatenň il desiderio di libertŕ e anche l'Unione Sovietica si
disgregň, coinvolgendo nella sua sorte lo stesso
Gorbaciov che, nel
frattempo aveva avuto la soddisfazione di ricevere il
premio Nobel
per la pace.
A Fatima con il sorriso
Tutti questi cambiamenti ebbero riflessi sul mondo intero,
su tutta
l'umanitŕ. E' impossibile valutarne il valore oggettivo.
Gli storici li esaminano e li giudicano seguendo
naturalmente
ragionamenti complessi, ed č giusto. Ma non vanno
trascurati neppure
quegli elementi misteriosi che indicano, a chi č aperto alle
dimensioni extratemporali della realtŕ umana, come in
tutta la
vicenda forse non furono estranee forze particolari,
provenienti dal
mondo dello spirito.
Alcuni studiosi di ispirazione cattolica hanno rilevato
segni e
coincidenze che richiamano le profezie della Madonna
fatte a Fatima
nel 1917, e vedono in questi segni la firma della
Provvidenza e della
Madonna stessa. Osservando le date dei piů importanti
eventi di
questo enorme cambiamento, si constata che si sono
verificati in
giorni molto significativi per i cattolici, come feste
celebrative di
Cristo, della Madonna, o ricorrenze di eventi straordinari.
L'incendio dell'arsenale Severomorsk, per esempio,
avvenne il 13
maggio, anniversario della prima apparizione della
Madonna a Fatima e
dell'attentato al Papa in piazza San Pietro.
L'Unione Sovietica cessň di esistere quando i presidenti
di Russia,
Ucraina e Bielorussia, al termine di una riunione, ne
annunciarono
formalmente la dissoluzione: e questo accadde l'8
dicembre 1991. L'8
dicembre č la Festa dell'Immacolata Concezione e viene
spontaneo il
richiamo alla consacrazione della Russia al Cuore
Immacolato di
Maria, tanto richiesta dalla Madonna e da Gesů
attraverso suor Lucia,
e realizzata da Giovanni Paolo II.
Il segno definitivo che indicava la fine e la sconfitta del
comunismo
sovietico si ebbe il giorno in cui venne ammainata la
bandiera rossa
che per molti decenni aveva sventolato sul Cremlino, e al
suo posto
venne issata la bandiera nazionale russa. E questo
avvenne il 25
dicembre 1991, giorno in cui la Chiesa cattolica celebra in
tutto il
mondo una delle sue feste religiose piů importanti, il
Natale di
Gesů.
Coincidenze? Certo, probabilmente sono solo
coincidenze. Ma
potrebbero essere anche dei segni.
Nel 1991, Giovanni Paolo II tornň pellegrino in Portogallo.
Il viaggio,
il cinquantesimo fuori dall'Italia, si svolse dal 10 al 13
maggio. Il
Papa volle dedicare due giorni agli abitanti degli
arcipelaghi
dell'Atlantico, Madeira e Azzorre, per poi essere presente
a Fatima il
13.
Papa Wqjtyla sapeva di non poter celebrare quella data in
nessun altro
luogo che non fosse Fatima. Non solo perché, come
aveva piů volte
affermato, era convinto che la Madonna di Fatima gli
aveva salvato la
vita, ma anche perché l'attentato, accaduto il 13 maggio,
gli aveva
aperto gli occhi sulla realtŕ di Fatima. Sull'importanza di
ciň che la
Madonna aveva detto nel 1917, e che si era poi
realizzato. Le ultime
realizzazioni erano appena accadute, ne era stato
testimone diretto
lui stesso, e non aveva timori o esitazioni nel riconoscerlo
pubblicamente.
Anzi, era questo il motivo principale della sua nuova visita
a Fatima.
In questo pellegrinaggio, la vicenda personale, la grazia
della vita
ottenuta per intercessione della Vergine, passava in
secondo piano
perché la caduta dell'impero sovietico era molto piů
importante.
Appena arrivato in Portogallo, Papa Wojtyla disse:
ŤVengo per recarmi
per la seconda volta a Fatima per ringraziare Nostra
Signora per la
protezione data alla Chiesa in questi anni, che hanno
registrato
rapide e profonde trasformazioni sociali, consentendo che
si aprano
nuove speranze per molti popoli oppressi da ideologie
atee che
impedivano la pratica della fede (...) Mi spinge inoltre a
questo
santuario il desiderio di rinnovare la mia gratitudine per la
speciale protezione della Vergine Madre, che mi ha
salvato la vita
nell'attentato di dieci anni fa in piazza San Pietroť.
Volle evidenziare subito che, prima di ringraziare la
Vergine che gli
aveva salvato la vita, desiderava ringraziarla per "le
rapide e
profonde trasformazioni sociali" che si erano verificate nei
Paesi
dell'Est. Non aveva dubbi, quindi, sul fatto che tutto quello
che era
accaduto in Unione Sovietica e nei mondo era da
attribuire alla
protezione della Madonna.
ŤSiate forti per la lottať
Molti dei pellegrini presenti a Fatima con il Papa,
ricordavano il
tono drammatico dei discorsi che aveva tenuto in quel
santuario nel
maggio del 1982. E si meravigliarono nel sentire che ora,
invece,
parlava con grande serenitŕ. Le sue prime parole, appena
toccato il
suolo portoghese all'aeroporto di Lisbona erano una
specie di
leitmotiv. ŤCom grande alegria volto a este Portugal
bemamado...ť
Stato d'animo sereno, anzi allegro, pieno di riconoscenza
verso la
Vergine che aveva operato e stava operando tanti grandi
cambiamenti
nel mondo.
Certo, Giovanni Paolo IIi non dimenticava la realtŕ
contingente
dell'uomo. Le sue parole denunciarono ancora situazioni
gravi,
sbandamenti morali, pericoli. Ricevendo il Corpo
diplomatico a
Lisbona, ammoně con forza:
ŤSia garantito il rispetto dei diritti dell'uomo, individuali e
sociali, sempre e integralmente, non solo per motivi di
convivenza
politica, ma in virtů del rispetto profondo che č dovuto a
qualsiasi
persona, perché creatura di Dio, dotata di una dignitŕ
unica e
chiamata a un destino trascendente. Ogni offesa rivolta a
un essere
umano č anche un'offesa a Dio e si risponderŕ di essa di
fronte al
Signore, giusto giudice delle azioni e delle intenzioniť.
Rivolto ai giovani, a Sŕo Měguel, isola delle Azzorre
dedicata a san
Michele, l'arcangelo che sconfisse gli angeli ribelli. ŤState
in
guardiať disse. ŤState in guardia contro il richiamo di un
mondo che
vuole sfruttare e manipolare la vostra ricerca onesta e
generosa di
felicitŕ e di orientamento. Vi vengono fatte "proposte
grandiose" che
si risolvono in nulla, lasciandovi
delusi (...).
ŤSiate forti anche per la lotta, non per la lotta contro
l'uomo, ma
contro il Male, o meglio, chiamandolo per nome, contro il
primo
artefice del Male, siate forti per la lotta contro il Maligno.
La
tattica di quest'ultimo consiste nel non rivelarsi
apertamente,
affinché il male innestato sin dall'inizio riceva il suo
sviluppo
dall'uomo stesso, dai sistemi stessi e dalle relazioni
interumane,
tra le classi e tra le nazioni per diventare sempre
piů peccato strutturale. Dunque, affinchč l'uomo si senta
in un certo
senso liberato dal peccato e, al tempo stesso, sempre di
piů sia in esso
sprofondato (...).
ŤE' necessario risalire costantemente alle radici del male
e del
peccato, giungere ai suoi meccanismi nascosti. Giovani,
voi siete forti
e vincerete il Maligno, se la parola di Dio rimarrŕ in voi. In
questo
modo riuscirete gradualmente a modificare il mondo, a
trasformarlo, a
renderlo piů umano, piů fraterno, verso la civiltŕ
dell'amore.ť
Raccomandazioni, ammonimenti, consigli, ma suggeriti
con serenitŕ,
ottimismo, fiducia. Per far capire meglio il suo pensiero e
il suo
stato d'animo, ricordň un episodio della vita di
sant'Agostino.
ŤDinanzi agli sconvolgimenti che scuotono qui e lŕ i
diversi
continenti, dinnanzi al ritmo incalzante del sovvertimento
di cose e
di valori, che insidiano le certezze e perfino la vita delle
nazioni,
faccio mia la speranza di sant'Agostino, dinanzi all'assalto
dei
Vandali della cittŕ di Ippona, quando un gruppo allarmato
di cristiani
della sua Chiesa lo cercň: "Non abbiate paura, cari figli" li
rassicurň il santo vescovo "questo non č un mondo
vecchio che si
conclude, č un mondo nuovo che ha inizio". Una nuova
aurora sembra
sorgere nel Cielo della storia, invitando i cristiani a essere
luce e
sale di un mondo che ha enorme bisogno di Cristo,
redentore
dell'uomo.ť
Nove anni prima, in quello stesso luogo, con voce rotta
dall'angoscia, Giovanni Paolo II aveva gridato verso la
Vergine di
Fatima: ŤDalla guerra nucleare, da un'autodistruzione
incalcolabile,
da ogni genere di guerra, liberaci!ť.
Ora invece diceva: ŤUna nuova aurora sembra sorgere
nel Cielo della
storiať.
Il pericolo apocalittico della guerra nucleare era passato.
Le
tensioni tra Est e Ovest si erano dissolte allontanando ciň
che dieci
anni prima sembrava inevitabile. Ed era logico che nel
cuore del Papa
l'angoscia avesse lasciato il posto a una grande
speranza.
ŤTu ti sei mostrata madreť
Sulla spianata di Fatima quel 13 maggio c'erano non
meno di un
milione di pellegrini.
ŤDa Fatimať disse il Papa Ťsembra diffondersi una luce
consolatrice
colma di speranza. Che illumina i fatti che caratterizzano
la fine
di questo Secondo millennio. Gli avvenimenti, che hanno
segnato il
1989 e i primi mesi del 1990, hanno provocato una vera e
propria
svolta storica di questo difficile Ventesimo secolo. Si apre
ora
una prospettiva inedita nel cammino delle nazioni.ť
Parlando ai vescovi del Portogallo, disse: ŤMolte cose
cambieranno
nel panorama europeo e mondialeť.
Erano presenti gli ambasciatori di numerosi Paesi, tra
essi anche
Gennadij Gerasimov, ex portavoce del Cremlino,
diventato
rappresentante sovietico a Lisbona. C'erano tanti giovani
provenienti
dalla Russia e dai Paesi dell'ex Unione Sovietica. La
televisione
russa trasmise in differita parte delle cerimonie che si
svolsero nel
santuario. E anche questi erano segni assolutamente
inimmaginabili
pochi anni prima.
Al termine della lunga cerimonia eucaristica, Giovanni
Paolo II
volle ripetere l'atto di affidamento e di consacrazione che,
questa
volta, aveva come obiettivo principale il "ringraziamento"
alla
Madonna per quanto era accaduto. Ancora una volta, la
Vergine Maria
si era mostrata madre premurosa per i suoi figli, li aveva
salvati e
il Papa desiderava esaltare e magnificare questa sua
tenerissima
maternitŕ. Ecco qualche brano di quella preghiera che egli
stesso
aveva composto per l'occasione:
Santa Madre del Redentore, Porta del Cielo, Stella del
Mare,
soccorri il tuo popolo che anela a risorgere. Ancora una
volta ci
rivolgiamo a te, Madre di Cristo e della Chiesa, raccolti ai
tuoi
piedi nella Cova da Iria, per ringraziarti di quanto tu hai
fatto in
questi anni difficili per la Chiesa, per ciascuno di noi e per
l'intera umanitŕ
Monstra te esse Matrem! Quante volte ti abbiamo
invocato! E oggi
siamo qui a ringraziarti, perché sempre ci hai ascoltato.
Tu ti sei
mostrata Madre:
Madre della Chiesa, missionaria sulle vie della terra verso
l'atteso
Terzo millennio cristiano;
Madre degli uomini, per la costante protezione che ci ha
evitato
sciagure e distruzioni irreparabili e ha favorito il progresso
e le
moderne conquiste sociali;
Madre delle nazioni, per i mutamenti insperati che hanno
ridato fiducia
a popoli troppo a lungo oppressi e umiliati;
Madre della vita, per i molteplici segni con cui ci hai
accompagnati,
difendendoci dal male e dal potere della morte;
Madre mia da sempre, e in particolare da quel 13 maggio
1981, in cui
ho avvertito, accanto a me, la tua presenza soccorritrice;
Madre di ogni uomo, che lotta per la vita che non muore.
Madre
dell'umanitŕ riscattata dal sangue di Cristo. Madre
dell'amore
perfetto, della speranza e della pace, Santa Madre del
Redentore.
Monstra te esse Matremě Sě, continua a mostrarti Madre
per tutti,
perché il mondo ha bisogno di te. Le nuove situazioni dei
popoli e
della Chiesa sono ancora precarie e instabili. Esiste il
pericolo di
sostituire il marxismo con un'altra forma di ateismo, che
adulando la
libertŕ tende a distruggere le radici dell'umana e cristiana
morale.
Madre della Speranza, cammina con noi! Cammina con
l'uomo di
quest'ultimo scorcio del Ventesimo secolo, con l'uomo di
ogni razza
e cultura, di ogni etŕ e condizione. Cammina con i popoli
verso la
solidarietŕ e l'amore, cammina con i giovani, protagonisti
di futuri
giorni di pace. Hanno bisogno di te le nazioni che di
recente hanno
riacquistato spazi di libertŕ e ora sono impegnate a
costruire il
loro avvenire. Ha bisogno di te l'Europa che, dall'Est
all'Ovest, non
puň ritrovare la sua vera identitŕ senza riscoprire le
comuni radici
cristiane. Ha bisogno di te il mondo, per risolvere i tanti e
violenti conflitti che ancora lo minacciano (...).
ŤTutto si collega alla consacrazione del 1984ť
Nella sua preghiera, Giovanni Paolo II ringrazia la
Madonna di
essersi mostrata ancora una volta "Madre" e di aver
salvato gli
uomini.
Non aveva dubbi che l'intervento della Vergine avesse
allontanato la
catastrofe nucleare. Per ottenere quella grazia,
aveva tanto accoratamente pregato nel suo precedente
viaggio a Fatima
e aveva fatto tanto pregare nel mondo. Aveva anche
realizzato la
consacrazione del mondo che la Vergine stessa aveva
chiesto.
In varie pubblicazioni si trovano riportate delle frasi
attribuite
a suor Lucia, frasi che confermerebbero la convinzione di
Papa
Wojtyla, e cioč che la Madonna aveva salvato il mondo
da una
catastrofe nucleare. Si parla di una lettera che la suora
avrebbe
scritto e di una affermazione che avrebbe fatto in una
delle sue rare
interviste. Lucia avrebbe scritto: "In seguito alla solenne
consacrazione, effettuata da Giovanni Paolo II il 25 marzo
1984, in
unione con tutti i vescovi, fummo risparmiati dalla Terza
guerra
mondiale, la quale avrebbe portato la distruzione di gran
parte
dell'umanitŕ". E nell'intervista avrebbe detto: ŤLa
consacrazione del
1984 ha evitato una guerra atomica che sarebbe
accaduta nel 1985ť.
Monsignor Tadeusz Kondrusiewicz che dopo la caduta
del comunismo
divenne l'amministratore apostolico di Mosca e di tutta la
Russia,
mise in relazione i cambiamenti nei Paesi dell'Est con
quella
consacrazione. Trovandosi pellegrino a Fatima in data 13
ottobre
1991, venne intervistato da "Voz de Fatima" e disse:
ŤSono convinto
di affermare che tutto si collega alla consacrazione del
mondo al
Cuore Immacolato di Maria fatta da Giovanni Paolo II nel
1984ť.
Sempre in quell'occasione, scrisse nel libro degli ospiti
illustri
del santuario: "Nel 1917, nell'anno dell'avvento in Russia
del
comunismo e del belligerante ateismo, Maria a Fatima
annunciava il
ritorno della Russia a Dio. Dopo settantaquattro anni di
pesanti e
sanguinose prove, la Russia si risveglia e rivolge il suo
sguardo a
Dio (...). Ringrazio tutti coloro che nel corso di tre
generazioni
hanno pregato per la conversione della Russia di cui noi
siamo
testimoni".
La gioia di Giovanni Paolo II e la sua riconoscenza alla
Madonna per
quanto era accaduto trova riscontro anche in un'iniziativa
che volle
attuare mentre si trovava a Fatima. Dal 28 novembre al
14 dicembre di
quell'anno era in programma a
Roma il Sinodo dei vescovi, e Giovanni Paolo II volle
inviare una
lettera a tutti i vescovi d'Europa da Fatima. Il pretesto era
di
''mettere in risalto alcuni aspetti'" riguardanti la
"preparazione
all'assemblea speciale per l'Europa del Sinodo dei
vescovi". Ma č chiaro
che quella lettera, un atto ufficiale del suo ministero,
avrebbe potuto
scriverla da Roma, al suo rientro. Volle inviarla da Fatima,
proprio per
sottolinearne l'importanza nella storia della Chiesa e degli
eventi che
erano ancora in corso. Nel 1984, aveva chiesto a tutti i
vescovi del
mondo di essere uniti a lui il 25 marzo mentre compiva la
consacrazione
del mondo e della Russia al Cuore Immacolato di Maria.
Ora li
ringraziava, ed era come se avesse voluto dire loro:
"Avete visto?
Abbiamo fatto bene ad ascoltare la richiesta della
Vergine. Guardate
come ci ha ricambiato".
All'inizio di quella lettera, Giovanni Paolo II afferma che il
Sinodo
dei vescovi vuole "rispondere ai segni dei tempi", e indica
quali
siano i segni dei tempi, cioč tutti gli eventi che ruotano
intorno ai
fatti accaduti tra il 1989 e il 1991. ŤTale assemblea, nella
prospettiva dell'inizio ormai prossimo del Terzo millennio
dalla
nascita del Cristo Signore, vuole rispondere ai segni dei
tempi, nei
quali per noi si manifesta la misericordiosa Provvidenza
divina. Il
luogo stesso dal quale ne ho annunciato la convocazione,
Velehrad in
Moravia, legato alla Missione degli Apostoli degli Slavi,
allude
all'importanza e alle ragioni del raduno. Ne parla altresě
la data,
22 aprile 1990, cosě vicina e connessa alla nuova
situazione,
creatasi con gli avvenimenti degli ultimi mesi dell'anno
1989.ť
Le vicende della storia, nelle varie nazioni del mondo,
hanno
continuato lungo il loro corso. Non limpido e lineare come
il Papa
sperava, ma caotico, come č sempre stato. Non sono
arrivati
cambiamenti miracolosi nella vita dei popoli, ma ancora
guerre,
attentati terroristici, stragi, morti, feriti, sangue, odi, fame,
ingiustizie. Tanto e tanto dolore. E Giovanni Paolo II non
si č
demoralizzato, scoraggiato. Ma ha continuato il suo
compito, la sua
missione: sempre presente, sempre pronto a consolare, a
dare
coraggio, a spiegare, a sostenere, a indicare
la via, a intraprendere viaggi per andare a portare la veritŕ
di
Cristo. E soprattutto, sempre pronto a soffrire, a
realizzare in se
stesso, sulla propria pelle, il mistero della sofferenza,
della croce
che diventa forza redentrice. Mai si č fermato, perché
sapeva bene
che la lotta contro il Male non avrŕ mai fine in questo
mondo. Ma
compito del cristiano č "lottare". Parlando ai giovani
nell'isola di
Sŕo Miguel aveva detto: ŤSiate forti anche per la lotta,
non per la
lotta contro l'uomo, ma contro il Male, o meglio,
chiamandolo per
nome, contro il primo artefice del Male, siate forti per la
lotta
contro il Malignoť. E aveva dato loro una missione:
ŤVincerete il
Maligno, se la parola di Dio rimarrŕ in voi. In questo modo
riuscirete gradualmente a modificare il mondo, a
trasformarlo, a
renderlo piů umano, piů fraterno, verso la civiltŕ
dell'amoreť.

XXVIII Una rosa bianca dalla Russia

La speranza manifestata da Giovanni Paolo II nei suoi


discorsi a Fatima,
durante il suo secondo pellegrinaggio in quel santuario, il
13 maggio
1991, aveva sorpreso molti osservatori. La frase "Da
Fatima sembra
diffondersi una luce consolatrice colma di speranza" che
egli aveva
pronunciato con grande enfasi davanti a un milione di
pellegrini, veniva
ripetuta come uno slogan. Fatima era indicata da Karol
Wojtyla come un
punto di riferimento per un mondo nuovo, il mondo del
Terzo millennio
cristiano.
Come ho piů volte ricordato in queste pagine, la Madonna
apparendo
a Fatima nel 1917, aveva elencato una serie di eventi
dolorosi che
avrebbero tormentato il Ventesimo secolo, ma aveva
terminato dicendo:
ŤFinalmente, il mio Cuore Immacolato trionferŕ. Il Santo
Padre mi
consacrerŕ la Russia, che si convertirŕ, e sarŕ concesso al
mondo un
perěodo di paceť.
Un trionfo che non si puň celebrare
Le profezie della Vergine, riguardanti la Prima e la
Seconda guerra
mondiale, l'avvento del comunismo in Russia e nel
mondo, con tutte le
conseguenze di carattere sociale e ideologico, la
persecuzione della
Chiesa, la distruzione di intere nazioni eccetera, si erano
realizzate quasi alla lettera. E nel corso degli anni Ottanta
si
stava realizzando anche la parte conclusiva. Nel 1984, il
Papa aveva
fatto la consacrazione della
Russia al Cuore Immacolato di Maria, e quattro anni dopo
erano
iniziati incredibili cambiamenti. In breve tempo, era
caduto il Muro
di Berlino, erano caduti i regimi comunisti, nei Paesi
dell'Est era
tornata la tolleranza ideologica anche nei confronti della
religione,
molte chiese erano state riaperte e in esse si era ripreso
a
celebrare le antiche liturgie con grande concorso di
popolo. I
credenti erano usciti dalle catacombe, la Chiesa del
Silenzio ora
poteva parlare e agire, molte persone dell'ex Unione
Sovietica
ritrovavano la fede.
Nel cuore dei devoti di Fatima regnava un'ottimistica
euforia. Molti
dicevano convinti: ŤSi sta veramente realizzando l'ultima
parte delle
profezie di Fatima: la conversione della Russia e la pace
nel mondoť.
Sembrava che anche Giovanni Paolo II avesse nel suo
animo quello
stesso sentimento.
Il Papa era pienamente convinto che i cambiamenti
straordinari che si
erano verificati in quegli anni nel mondo comunista
andavano
attribuiti alla protezione materna della Madonna, e lo
diceva. Ma
sapeva anche che il Male, o meglio il Maligno non era
stato
sconfitto. Satana, il "Principe di questo mondo", aveva
forse perduto
una battaglia, ma era sempre in agguato, giŕ in azione
con altri
inganni e lusinghe per confondere e allontanare gli uomini
dalla
veritŕ. Il Papa lo aveva detto a Fatima, parlando ai
giovani.
Infatti, il Maligno era giŕ all'opera.
La Madonna aveva detto: ŤFinalmente, il mio Cuore
Immacolato
trionferŕ. Il Santo Padre mi consacrerŕ la Russia, che si
convertirŕ,
e sarŕ concesso al mondo un periodo di paceť.
Il Santo Padre aveva consacrato la Russia alla Madonna.
Il comunismo
era caduto. I popoli dell'ex Unione Sovietica potevano ora
ritrovare
la fede dei padri. I pochi che l'avevano conservata nel
segreto dei
loro cuori potevano proclamarla apertamente. Ma, con la
libertŕ
religiosa, erano risorti anche gli antichi problemi della
divisione
dei credenti. Divisione tra cattolici, ortodossi, protestanti,
cioč
divisione tra i seguaci dello stesso Dio, dello stesso
Salvatore
Gesů, tra i credenti nella stessa fede.
In un mondo globalizzato come quello moderno, dove le
politiche spingono
le nazioni a cercare l'aggregazione e la collaborazione
per poter essere
piů forti e avere un maggiore benessere materiale, le
divisioni tra i
cristiani risultano quasi inconcepibili.
I cristiani condannano l'ateismo, il materialismo,
l'indifferenza
religiosa, ma poi vivono divisi tra loro non pensando che
la divisione
tra fratelli č, in un certo senso, peggiore dell'ateismo, del
materialismo, dell'indifferenza religiosa. La Chiesa dei
credenti
costituisce il Corpo Mistico di Cristo. Quando i credenti
sono divisi,
lacerano il Corpo Mistico di Cristo, lo feriscono, lo
uccidono.
Caduto il regime ateistico, nei Paesi dell'ex Unione
Sovietica si
rafforzň la divisione tra i cristiani. ŤLa Russia si convertirŕ
e
infine il mio Cuore Immacolato trionferŕť, era il desiderio
espresso
dalla Madonna a Fatima. Ma, alla luce delle astiositŕ
riaccese,
soprattutto tra cattolici e ortodossi, quel trionfo pareva
ancora
lontano. Non puň trionfare il cuore di una madre quando i
suoi figli
sono divisi all'interno della famiglia.
Una madre, in situazioni del genere, soffre, piange, non
pensa al
trionfo.
La strada quindi per arrivare alla conclusione indicata
dalla Madonna
a Fatima si presentava lunga e difficile. Lo sapeva
Giovanni Paolo
II. Ma aveva fede nelle promesse della Vergine. Gli eventi
che si
erano giŕ verificati costituivano la prova che la Madonna
era madre
premurosa e attenta. Bisognava, perciň, andare avanti.
Obiettivo Mosca
Il nuovo obiettivo da raggiungere era, quindi, l'unitŕ dei
cristiani.
Era necessario incontrare i fratelli delle Chiese cristiane
separate
da Roma e realizzare l'abbraccio della pace. Bisognava
chiudere quasi
mille anni di divisioni e di odi. Papa Wojtyla riprese la sua
missione di pellegrino. Ormai sentiva il peso degli anni.
Le
conseguenze fisiche dei suoi vari acciacchi lo
tormentavano. Si
manifestavano giŕ i primi morsi del morbo di Parkinson.
Ma non poteva
fermarsi. La sua missione non era finita. Riprese il
cammino, avendo
sempre ben presente il problema dell'unitŕ delle Chiese
cristiane.
Soprattutto l'unitŕ con la Chiesa ortodossa russa, perché
in Russia
doveva realizzarsi il "trionfo del Cuore di Maria". Ora piů
che mai
Papa Wojtyla voleva andare a Mosca.
Lungo il corso della storia del cristianesimo, Mosca č
stata spesso
messa in contrapposizione a Roma. Qualcuno l'ha
chiamata la Terza
Roma, in quanto č stata il piů importante centro della
cristianitŕ
dopo Roma e Costantinopoli. A Mosca risiede il patriarca
della
maggiore Chiesa ortodossa. Per diverse ragioni storiche,
che sarebbe
lungo spiegare, quella Chiesa č risultata la piů riluttante al
dialogo con la Chiesa di Roma. E specialmente dopo il
crollo del
comunismo, quella riluttanza č apparsa molto forte.
Alcuni dei viaggi compiuti da Giovanni Paolo II in quegli
anni
riguardavano le nazioni dell'Est europeo, liberate dai
regimi
comunisti. Il Papa andň in Albania, in Croazia, in Bosnia-
Erzegovina,
in Lituania, in Lettonia, in Estonia, nella Repubblica Ceca,
in
Slovenia, in Ungheria, in Bulgaria, nell'Azerbaigian, in
Slovacchia,
in Ucraina, in Geňrgia, in Armenia, nel Kazakistan. In
ognuna di
quelle nazioni cercava l'abbraccio con gli ortodossi per
lanciare
messaggi al patriarca di Mosca. Ma Mosca non recepiva.
Era una
fortezza inespugnabile.
Il Papa si aggrappava come sempre all'aiuto della
Madonna. In ogni
nazione si fermava nei vari santuari mariani. Li
conosceva tutti. Li
visitň tutti. Pregň
accoratamente in tutti.
Ma niente servě a smuovere gli ortodossi fedeli al
patriarcato di
Mosca dalle loro posizioni. Non volevano dare credito al
vegliardo
Pontefice romano. Mosca rimase un sogno per Papa
Wojtyla. Da quella
battaglia uscě sconfitto.
E' uno dei misteri irrisolti della vita di Karol Wojtyla. Tutta
la
sua esistenza si svolse nella luce del Segreto di Fatima.
Lui, Papa
slavo, aveva contribuito in modo determinante a far
crollare le
ideologie ateistiche del Ventesimo secolo. Soprattutto nei
Paesi dell'Est. Sembrava che il suo viaggio a Mosca,
l'abbraccio con il
patriarca ortodosso, il trionfo della Madonna in quella
nazione fossero
la logica conclusione di quanto era giŕ avvenuto. Ma non
fu cosě. Non fu
concesso a Papa Wojtyla di vedere la conclusione
positiva del Segreto di
Fatima. Quelle frasi della Madonna piene di speranza:
"Alla fine il
mio cuore trionferŕ e il mondo avrŕ un periodo di pace",
non si
realizzarono.
Eppure, Giovanni Paolo II non perse mai, nemmeno per
un istante, la
speranza di poter raggiungere quel traguardo.
Con il passare degli anni, il suo fisico si era indebolito,
riempiendosi di ferite. Il Papa era diventato sempre piů
conforme a
quel "vescovo vestito di bianco" (di cui si parla nella
Terza parte
del Segreto di Fatima), che "mezzo tremulo con passo
traballante,
afflitto di dolore e di pena, sale una montagna ripida sulla
quale c'č
una grande croce".
Giovanni Paolo II saliva con coraggio eroico verso quella
croce. Non
si fermň mai. Le gambe non lo reggevano, e si faceva
sostenere. La
voce era scomparsa, e cercava di parlare facendosi
vedere. Anche
quando l'infermitŕ lo aveva ridotto all'immobilitŕ quasi
assoluta,
continuň a sperare che arrivasse un segnale da Mosca
per poter andare
in quella cittŕ.
Il segnale non arrivň, e Papa Wojtyla se ne andň con
questa amarezza
nel cuore.
Dopo la sua morte ci č stato rivelato un episodio che
dimostra come
Giovanni Paolo II sognň il viaggio a Mosca fino agli ultimi
giorni
della sua vita. Era pronto a partire anche da infermo.
La morte č arrivata prima
ŤPapa Wojtyla era arrivato molto vicino alla realizzazione
di quel
suo grande sognoť mi ha raccontato don Sergio
Mercanzin, direttore di
Russia ecumenica. ŤLe trattative avevano imboccato una
strada
percorribile e, se la malattia non fosse precipitata, Papa
Wojtyla
sarebbe potuto andare a Mosca il 10 giugno 2005.ť
Don Sergio Mercanzin č un personaggio ecclesiastico
che vive
riservato, e quindi non č molto conosciuto dal grande
pubblico, ma ha
sempre svolto uno straordinario lavoro di collegamento
con gli
ortodossi russi. Nel 1976, quando era un giovane
sacerdote, ha
fondato e poi sempre diretto un'associazione che si
chiama Russia
ecumenica. Attraverso quest'associazione, ha sempre
tenuto preziosi
contatti con il mondo religioso, cattolico e ortodosso, che
soffriva
sotto il regime comunista, in quella che era chiamata la
Chiesa del
Silenzio.
Per volere di don Sergio, e dei suoi superiori ecclesiastici,
Russia
ecumenica č rimasta sempre un'associazione non
istituzionalizzata dal
Vaticano, lasciata libera di proposito, e per questo in
condizioni di
lavorare con grande scioltezza. Don Sergio ha potuto
cosě aiutare
migliaia di persone fuggite dall'Unione Sovietica. Gente
semplice e
anche personaggi importanti, scrittori, artisti, politici. In
forma
segreta, faceva da tramite tra Giovanni Paolo II e i
perseguitati
russi. Ha incontrato il Papa molte volte. E' il sacerdote
che ha
accompagnato da Giovanni Paolo II Andrej Sacharov, la
moglie e la
figlia adottiva, Aleksandr Solzenicyn, ed era molto legato
a Irina
Alberti, amica di Wojtyla, che a Parigi aveva un grande e
importante
centro in difesa dei dissidenti sovietici.
E con questo suo intenso lavoro sotterraneo con
importanti
personalitŕ dell'Est si č creato una potente rete di
conoscenze e di
amici in Russia, conoscenze e amici che lo hanno poi
aiutato nello
straordinario progetto del viaggio del Papa
a Mosca.
ŤE' notoť mi ha raccontato don Sergio Ťche il Papa non
riusciva a
combinare il viaggio a Mosca per la contrarietŕ del
patriarca
ortodosso, Sua Santitŕ Alessio II, patriarca di Mosca e di
tutte le
Russie. Il quale, a sua volta, probabilmente non nutriva
personali
antipatie per Papa Wojtyla, ma si trovava aggrovigliato in
difficili
situazioni storiche, politiche e ideologiche, che non gli
permettevano di agire come magari avrebbe ritenuto
opportuno.
ŤNelle sue decisioni, Alessio II non poteva prescindere
dai numerosi
problemi che esistono ancora in Russia. Problemi
che nascono dalle varie correnti ideologiche presenti
nella Chiesa
ortodossa russa.
ŤUno dei punti fondamentali di divisione tra ortodossi e
cattolici č
costituito dal primato di Pietro. Cioč dal fatto che i cattolici
ritengono che il Papa sia il rappresentante di Cristo in
terra e quindi
capo di tutte le Chiese. Mentre per gli ortodossi tutti i
vescovi sono
alla pari. Il loro patriarca č un vescovo che coordina gli
altri e tale
ritengono il Papa. Se Giovanni Paolo II andava a Mosca,
avrebbe avuto un
accoglienza strepitosa. Il suo carisma, la sua popolaritŕ, il
successo
avrebbero oscurato il prestigio del patriarca. Era come se
Alessio II
avesse ammesso la supremazia del Papa di Roma. E
questo avrebbe
provocato conseguenze gravissime soprattutto tra gli
ortodossi
tradizionalisti.
ŤAnch'io, come tutti, sognavo che quel viaggio potesse
avvenire. Ne
parlavo con amici ortodossi che vivono in Russia e anche
loro erano
convinti che l'incontro tra Giovanni Paolo II e Alessio II
poteva
essere una tappa importantissima nel cammino dell'unitŕ
delle Chiese.
Bisognava perciň trovare un'occasione che permettesse
ad Alessio II
di invitare il Papa insieme ad altre autoritŕ religiose, in
modo che
il Papa romano non fosse a Mosca come "protagonista"
di una sua
propria iniziativa, ma fosse uno dei tanti ospiti del
patriarca.
Progetto ardito, non facile da realizzare.ť
L'incontro era fissato
ŤVerso la fine del 2004, parlando con un'autoritŕ della
Chiesa
ortodossa, seppi che Alessio II avrebbe festeggiato, il 10
giugno
2005, quindici anni della sua elezione a patriarca della
Chiesa
ortodossa russa. Certamente a Mosca sarebbero stati
organizzati dei
festeggiamenti. Sarebbero stati invitati i capi delle varie
Chiese
cristiane del mondo per celebrare insieme una grande
cerimonia
religiosa. Ho pensato subito al Papa. Mi sono detto che
quella era
l'occasione d'oro. Alessio II avrebbe potuto invitare il
Papa come
uno dei tanti patriarchi e il Papa avrebbe potuto andare
finalmente a
Mosca.
ŤMa il Papa avrebbe accettato una cosa del genere?
Pensando alla
straordinaria umiltŕ di Wojtyla, che nei suoi viaggi
apostolici non
aveva esitato a chiedere pubblicamente perdono per
mancanze commesse
dalla Chiesa nei secoli passati, ero convinto che avrebbe
detto di
sě. Ma bisognava saperlo con certezza. Mi sono
consigliato con varie
autoritŕ del Vaticano, ma ricevevo risposte negative. Tutti
sostenevano che il Papa non poteva accettare di andare
a Mosca
invitato come un qualsiasi altro patriarca. Mi sono rivolto
al
cardinale Walter Kasper, che presiede il Pontificio
Consiglio per la
Promozione dell'Unitŕ dei cristiani. Lui poteva parlare
direttamente
con il Papa. Ero cosciente che la mia idea poteva
sembrare utopica,
o ingenua. Ma Kasper č un uomo eccezionale, aperto e
ha capito
subito. Ci pensň e poi mi incoraggiň. "Se lo invitano, il
Papa dirŕ
di sě" affermň. E disse quelle parole con totale sicurezza.
Era quasi
un comando. Come se mi avesse detto: "Vai avanti
sicuro". Uscii dal
suo studio con le ali ai piedi.
ŤCominciň la lunga trafila dei contatti per far giungere ad
Alessio
II l'idea e fargli sapere che Giovanni Paolo II avrebbe
gradito e
accettato l'invito. Sono stato aiutato da uno straordinario
personaggio russo, di cui sono amico da tempo, il
professor Valentin
Nikitin, filosofo, teologo, poeta, scrittore e membro
dell'Accademia
russa delle Scienze. Importante intellettuale, impegnato in
politica
e prestigioso esponente della Chiesa ortodossa. E'
conosciuto e
stimato dal patriarca, che nel 2002 gli ha conferito il
prestigioso
Ordine di san Daniele il Moscovita. Il professor Nikitin si
fece
immediatamente appassionato promotore della mia
proposta presso il
patriarcato di Mosca. E miracolosamente non incontrň né
incredulitŕ
né opposizione. Ma apprezzamenti e perfino entusiasmo.
Giŕ sentivo
vicino il traguardo. Incredibile! Il patriarca avrebbe invitato
a
Mosca Giovanni Paolo II per la festa del 10 giugno 2005.
Poi,
purtroppo, le condizioni di salute di Papa Wojtyla
precipitarono. Ma,
se non fosse sopraggiunta la morte, Papa Wojtyla
sarebbe stato
invitato a Mosca e c'č da giurarci che avrebbe trovato il
modo di
andarci, anche se fosse stato costretto a fare il viaggio in
barella.ť
Quando ci fu l'apertura delle Grotte Vaticane per
permettere ai fedeli
di rendere omaggio al grande Papa, era stato
severamente proibito di
lasciare fiori sulla tomba, altrimenti, ogni giorno, ce ne
sarebbero
stati a tonnellate. L'unico vaso di fiori permesso era quello
ufficiale del Vaticano, in testa alla tomba. I custodi
avevano
l'ordine di non fare eccezione per nessuno. E la tomba
appariva sempre
nella sua nuda solennitŕ marmorea. Ma, dopo un paio di
giorni, su
quella lapide nuda, č comparsa una rosa bianca. Solitŕria,
umile,
enigmatica. Era sull'angolo sinistro, in basso, della
grande lapide ed
č rimasta lŕ per alcuni giorni e poi, ormai appassita, č
stata tolta.
ŤDopo i funerali di Giovanni Paolo IIť mi ha raccontato
ancora don
Sergio Mercanzia Ťil mio amico professor Nikitin mi ha
mandato una
poesia scritta per la morte del Papa e poi mi ha chiesto di
portare
sulla tomba di Giovanni Paolo II una rosa bianca. "A
nome mio" mi
disse "ma anche a nome di chi tu sai." Non ha aggiunto
altro. Ma il
tono della voce e la commozione che ho sentito in quel
tono mi hanno
fatto capire a chi si riferivano quelle sue parole. Corsi a
realizzare
quel meraviglioso gesto. E anche in Vaticano trovai
comprensione.
Quella rosa č rimasta per alcuni giorni lŕ, su quella tomba
bianca.
Vederla e sapere che cosa significava era per me una
emozione
grandissima.ť

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