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Roberto Terrosi

Prima della campagna


Che cosa c’è prima della campagna? Da un punto di vista naturalistico la risposta potrebbe essere la
natura selvaggia, sia essa ricca di foreste lussureggianti o invece arida e desertica. Tuttavia, da un punto
di vista antropologico e filosofico la risposta è: il paradiso terrestre, l’Eden, la terra pura, dove non c’è
dolore e non c’è morte, o meglio non c’è la coscienza di essi. Con l’avvento della conoscenza tale incanto
si rompe e si è precipitati dalla condizione naturale di un ominide animale tra gli animali alla tragicità
dell’esistenza umana condannata fin dalla nascita al dolore e alla morte.
Questo passaggio è una sorta di creazione o comunque di antropogenesi. Nei racconti della creazione
delle civiltà antiche, la condizione edenica non è ancora chiaramente umana. Anche nella Bibbia la
condizione umana vera e propria comincia dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Adamo prima di tale
momento appartiene a una sorta di pre-umanità. I primi esseri che nascono nella condizione di
mortalità propria dell’uomo sono Abele, un pastore, e Caino, un contadino: due figure che mediano il
loro rapporto con la natura attraverso il lavoro. Il lavoro è connesso ontologicamente alla finitudine
umana, così come lo sono il tempo e lo spazio misurabili. Un essere immortale non si cura di lavorare e
non tiene conto del tempo e dunque neanche dello spazio sul quale dispiega la sua azione temporale.
Tutto ciò invece diviene significante con la morte. Chi sa che morirà considera l’importanza del tempo e
pone in primo luogo le attività destinate al sostentamento e per questo quindi tende alla misurazione di
tempi e spazi. In questa condizione, lo spazio assoggettato al lavoro umano diviene campagna, sia
nell’accezione agricola sia pastorale. La Bibbia, dunque, ponendo all’origine dello sviluppo umano
l’omicidio del pastore nomade Abele ad opera del contadino stanziale Caino, ci dice due cose: una che la
campagna e il lavoro agricolo che essa presuppone sono intrinsecamente connessi a quello che
Heidegger chiamò essere-per-la-morte; l’altra, è che stiamo parlando del passaggio a una condizione
stanziale tipica del neolitico.
Il neolitico è la fondazione della civiltà, ma questa fondazione è frutto di un grande dolore, che
riecheggia nell’assassinio fondatore perpetrato da Caino. Questo ricorda anche l’assassinio di Osiride da
parte del fratello Seth, eroe culturale fondatore dell’agricoltura, così come ricorda l’assassinio di Remo
da parte del gemello Romolo. Non c’è campagna senza morte. Senza la morte invece c’è l’Eden, il
paradiso terrestre, ovvero il naturale indeterminato. Il naturale puro, ancora incontaminato dal
carattere antropico, è dunque immortale.

Morte e resurrezione
Se la campagna è una natura caratterizzata dalla consapevolezza della morte e della necessità del lavoro
umano, essa però costituisce anche un antidoto all’angoscia che tale consapevolezza genera. La
campagna è anche il luogo di formazione dei culti misterici o proto-misterici. Anch’essi derivano forse
dalla Mesopotamia, dove troviamo il mito della morte del pastore Tammuz-Dumuzi, che viene obbligato
1
dalla dea Inanna-Ishtar a sostituirla nel mondo infero. L’alternanza del principio maschile femminile
viene associata anche qui nella “scienza del concreto” al ciclo morte-rinascita della vegetazione e
dunque a una possibilità di rinascita per l’iniziato. Fatto ancor più interessante, la nascita del culto
misterico è direttamente connessa al mito del già ricordato Osiride, inventore dell’agricoltura, che
finisce smembrato come Orfeo. Quest’ultimo è connesso invece a un ambito pastorale oltre che
all’ambito infero1. Di ambito agricolo invece sono poi Dioniso e Demetra madre di Proserpina e dea
delle messi. Ogni mito rimescola a suo modo le carte con varianti che ritroviamo in altri miti che
attraversano tutta l’Asia fino ad arrivare in Giappone. Orfeo ed Euridice ricordano Izanami e Izanaghi.
Seth è simile al dio Susanoo (come ebbe già a notare Lévi-Strauss2), poi il periodo di nascondimento
della dea Demetra con conseguente carestia nelle campagne ricorda quello della dea Amaterasu.

Il dualismo città/campagna
Una volta il filosofo Mario Perniola organizzò un convegno intitolato “Natura, coltura, cultura”3, in cui
la coltura, che è l’ambito della coltivazione e della campagna, stava in una posizione intermedia, tra la
città luogo della cultura e la selva luogo della natura. Quindi la campagna in questa visione aveva una
differenza solo di grado con la città e la selva, come se fosse metà natura e metà cultura. Questa
osservazione sembra piena di buon senso, però le cose forse stanno in modo più complesso. Infatti, la
città non è tutta cultura per la semplice ragione che non si può avere un uomo completamente culturale,
privo di istinti, di passioni e di esigenze fisiologiche. Quindi anche il luogo dell’uomo per quanto lo si
voglia razionalizzare deve sempre avere uno spazio per l’irrazionale naturale. Anzi tanto più lo si vuole
arginare e tanto più lo si concentra conferendogli anche potere. Da questo punto di vista la città è come
una cellula (ad es. Un uovo, che ha un tuorlo e un albume che sono funzionali e complementari). Questo
spazio irrazionale è il sacro, che dunque contiene le forze selvagge della natura e le riconverte in
elementi funzionali alla coesione sociale. Da esso si generano poi tutte le istituzioni come dall’uovo gli
organi. Con la complessità sociale poi questi organi permettono il controllo sociale anche in condizioni
di maggiore entropia e quindi permettono che questa forza selvaggia sia meno concentrata, tanto che
più aumenta la complessità dell’organizzazione sociale e più diminuisce la forza del sacro, fino a
diventare una mera ombra di ciò che era, ponendo le condizioni per forme sacrali di seconda
generazione e di secondo livello che però non possiamo illustrare qui. Quindi la città tende a
secolarizzarsi con la sua espansione, salvo però dare luogo a forme di sacralità di altro tipo.

Figura 1. Veduta della città di Mari (ricostruzione)

1 In questo senso non si può escludere che il mito di Orfeo sia stato creato a partire da una variazione del tema del mito
di Tammuz, in quanto entrambi sono pastori che vanno nel mondo infero per liberare una donna. Tuttavia ciò che prima
è stato fatto per costrizione, dopo viene fatto per amore, e al primo sacrificio del pastore per la donna-dea, qui si
sostituisce quello della donna, che non riesce ad uscire dall’Ade. Questo significa che i due miti sono separati da una
mutata concezione del potere femminile, accettato nel mondo arcaico e rifiutato nel mondo classico. Questa mutazione
segue una generale mutazione culturale che è attestata da altri miti e soprattutto dalla tragedia greca. Se il mondo arcaico
era basato su un equilibrio di poteri magico-sacrali tra uomini e donne, il passaggio al mondo classico attesta invece il
passaggio a una concezione maschilista, in cui il ruolo della donna viene assoggettato a quello maschile, in cui
l’insubordinazione femminile viene descritta come indice dell’intrinseca negatività del femminile, il quale si manifesta
non a caso con atti di efferata violenza come nel caso di Medea o delle Baccanti.
2 C. Lévi-Strauss, L’altra faccia della luna. Scritti sul Giappone, Milano: Bompiani, 2015.
3 Cfr., Agalma n. 4, “Natura, coltura, cultura” 2002, atti del convegno tenuto a Tor Vergata nel Febbraio 2002.

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Figura 2. L'acropoli di Troia (ricostruzione)

Dunque, la città intrattiene direttamente un rapporto con la selva addirittura dal suo interno. La
campagna è il presupposto per la formazione della città. Ma poi la città, una volta sviluppatasi
ridefinisce la campagna come area da cui trarre le risorse per il sostentamento. Da una parte quindi la
città sfrutta la campagna ma dall’altra le permette di praticare tecniche di coltivazioni più efficaci. In
questo senso allora la campagna è la necessaria propaggine della città e si oppone alla natura selvatica
insieme alla città. La campagna idilliaca anche nei suoi pascoli celebrati dai poeti arcadici continua ad
essere lo spazio della morte e non il paradiso terrestre, né la giungla impenetrabile. Quindi tali spazi
continuano, nonostante la loro apparente naturalezza ad essere spazi antropizzati. È questo il senso del
famoso epitaffio “et in arcadia ego”4.

Figura 3. Guercino, Et in Arcadia Ego (1618-22)

Topi di campagna e topi di città


Si narra che Esopo abbia scritto le celebri favole nel VI sec. A.C. e che fosse uno schiavo forse africano.
In quell’epoca le città greche si stavano velocemente sviluppando ma forse le favole di cui parla vengono
dal Medio oriente dove c’erano antiche città che avevano già permesso un vagheggiamento della
campagna come topos letterario. Quindi Esopo non avrebbe inventato tutte queste favole ma le avrebbe
solo raccolte come è avvenuto anche nel Cunto de li cunti5, magari adattandole alla sensibilità greca.
Quindi il cliché del contadino tranquillo e sereno e della vita di campagna è molto antico e anche duro a

4 In questo senso la nostra interpretazione si discosta notevolmente dalla quella di Panofsky in cui si intende
oltrepassare il discorso tradizionale del memento mori attraverso una presunta sensibilità elegiaca che permette
nonostante la morte l’apprezzamento per la natura. Significativa a questo riguardo è la conclusione del saggio di
Panofsky: “Se Guercino dice: ‘Anche nell’Arcadia c’è la morte’, Fragonard gli risponde: ‘Anche nella morte può esserci
un’Arcadia’.” E. Panofsky, ‘Et in Arcadia Ego’: Poussin and the Elegiac Tradition, 1936.
5 Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, Napoli, 1634.

3
morire, così come il cliché del cittadino più ricco ma stressato. Si tratta però di un luogo comune spesso
contraddetto dall’evidenza storica.

Una vita non idilliaca


I luoghi comuni sulla vita di campagna hanno mostrato di essere più immutabili di quanto non lo sia la
campagna stessa. Le campagne intanto hanno sempre risentito nelle guerre del passaggio delle truppe
da cui subivano razzie e violenze. I contadini sono stati cacciati dalle loro terre in molte occasioni e la
campagna è divenuta luogo di sfruttamento intensivo. Un primo caso ci stato riportato nel periodo della
repubblica romana, quando i patrizi arricchitisi con le guerre e con grandi disponibilità di schiavi,
hanno cacciato i contadini dalle campagne per creare grandi latifondi coltivati dagli schiavi. I contadini
cacciati invece si riversarono a Roma dove diventarono il cosiddetto proletariato urbano. Di tali
questioni cercarono di occuparsi i Gracchi, con tutte le ben note conseguenze. La campagna diviene così
luogo di dislocazione, per i contadini cacciati, ma anche per gli schiavi che li sostituiscono e che non
hanno nessun rapporto con il territorio e non vorrebbero essere lì.

L’estetica elegiaca
Quindi la campagna diviene luogo di schiavismo ma nonostante ciò, proprio in questo periodo
assistiamo al tentativo più ideologico di costituire la campagna come luogo di tranquillità e di intimità. I
Gracchi avevano dato avvio a una serie di lotte tra optimates (aristocratici) e populares (classe media)
che sfociarono in guerre civili con Mario contro Silla o Cesare contro Pompeo. Alla fine di queste lotte,
dopo l’assassinio di Cesare e la distruzione dell’esercito aristocratico, Ottaviano volle fare una politica di
pacificazione e di svelenimento delle passioni politiche. A tal fine il suo amico Mecenate ideò una
politica culturale che si servì degli ideali di serenità dell’epicureismo proprio per propagandare una vita
lontana dall’impegno politico (sostenuto invece dallo stoicismo) e di ritorno al privato, che passava per
l’idealizzazione della vita in campagna, lontano dallo stress della città per dedicarsi agli affetti familiari
e agli amici fidati. Tali ideali furono propagandati tramite la ripresa dell’elegia greca di Callimaco e della
poesia idilliaca di Teocrito proposta da poeti come Tibullo, Properzio e Virgilio a cui si aggiunsero anche
le satire di Orazio. Questa campagna e questi pascoli però sono una costruzione completamente
letteraria (anche se sorretta da nozioni talora solide come nel caso di Virgilio) e hanno lo scopo di
proporre la campagna come estetica d’evasione.

La campagna alla fine dell’impero


L’impero, dopo la crisi del terzo secolo, comincia a subire un degrado inarrestabile delle sue istituzioni.
La realtà sociale diventa un mix di culture e si afferma uno standard culturale imperiale fatto di
letteratura ellenista e pragmatismo romano. Nelle città l’unione sociale si sfalda e si afferma
l’individualismo. I lavori sono affidati a schiavi o a proletari dislocati, l’esercito è costituito sempre più
da ex barbari. I popoli italici si disabituano all’uso delle armi. Nessuno a più voglia di sacrificarsi per
qualcun altro che pensa solo a se stesso. Così quando si arena la fase espansiva dell’impero e si pone il
problema della difesa del limes contro le pressioni dei barbari questo è sempre un problema di qualcun
altro. La risposta alla pressione barbarica cioè non avviene a livello sociale, ma il popolo si limita ad
invocare un generale forte che salvi con i suoi eserciti la situazione. Ma questi eserciti fatti di barbari
sono sempre meno efficaci contro gli altri barbari che talora hanno anche militato nelle file romane.

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Figura 4. Villa del Colombarone (ricostruzione 3D)

Inoltre, sempre più spesso gli eserciti vengono mossi per sistemare questioni di successione al trono. Le
città divengono luoghi insicuri e anche i commerci hanno problemi, così si assiste a una fuga dei nobili
nelle loro residenze di campagna che divengono delle grandi farm. Questo è il fenomeno delle ville che
annuncia già il successivo feudalesimo col suo rapporto tra nobili e servi della gleba. Quindi la
campagna viene vista come rifugio e come antidoto alla crisi della città. Questa volta, tale movimento,
che è reale, non è accompagnato a un’idealizzazione letteraria, che adesso è monopolizzata dall’ascesa
del cristianesimo, il quale vede le campagne come luogo infestato da rozzi politeisti, chiamati per questo
“pagani”, da “pagus”, villaggio di campagna6. Ma la campagna è anche il luogo dove i cristiani
costruiscono i loro monasteri, luoghi dove vivere secondo gli insegnamenti del Vangelo, ma che
attraggono soprattutto nobili, che talora sono grandi latifondisti con folle di schiavi. Due di questi
decisero di donare tutti i loro immensi possedimenti ai cristiani, liberando per l’occasione i loro schiavi,
e cioè delle persone che vivevano lì da tempo come i servi della gleba e la cui liberazione si risolse per
l’ennesima volta nella cacciata dalle terre in cui vivevano. Non stupisce allora se questi servi si opposero
vivamente alla loro liberazione.

Figura 5. Villa di Minori vicino Amalfi (ricostruzione 3D)

La distruzione
Quando i barbari riuscirono a sfondare le difese sul limes, ebbero praticamente campo libero. Le città
romane, pur popolose non erano capaci di organizzare una resistenza, e i romani erano invece gravati

6 Un’altra teoria vuole che “paganus” indicasse semplicemente l’uomo comune, come “idiótes” in Grecia, che poi ha
assunto un valore negativo di persona ignorante e stupida. Alcuni invece, pur ammettendo l’uso di “paganus” per definire
l’uomo ordinario, sostengono che poi con il cristianesimo comunque assunse un’accezione negativa, dal momento che la
gente dei villaggi era più attaccata alla tradizione politeista.
5
dal fatto che i loro servi di origine barbara tendevano a fraternizzare con i barbari. I generali poi,
quando erano capaci, erano osteggiati dalle trame della corte, che ne temeva il potere. Ezio fu fatto
uccidere dall’imperatore, il barbaro ma leale Stilicone7 fu fatto uccidere dagli ambienti patrizi, che lo
accusavano di fare il doppio gioco. Gli ultimi grandi generali, infatti, furono di origini barbariche. Ormai
l’Italia era nelle mani dei barbari che deposero l’ultimo imperatore d’Occidente e rimandarono le
insegne a Costantinopoli stabilendo la capitale a Ravenna. Oggi un approccio revisionista tenta di
addossare la colpa della distruzione italiana ai Romani d’Oriente guidati da Belisario, scambiando così i
liberatori con gli invasori per assolvere questi ultimi. La ragione è quella di cercare di creare
un’immagine dell’identità italiana antiromana e barbarica sul modello di quella di Stati come Francia,
Germania e Gran Bretagna, tentativo in realtà ridicolo perché è chiaro che i romani altri non erano che
gli italiani di allora.
Belisario riuscì a liberare l’Italia, ma il progetto non andò avanti, sia perché Belisario prima e Narsete
poi rischiarono di essere visti come concorrenti dell’imperatore, sia perché l’impero non aveva più i
fondi necessari a organizzare una risposta ai nuovi barbari che poi scesero in Italia. Questi barbari,
chiamati longobardi per le lunghe barbe, erano una popolazione molto simile ai vichinghi8. Esso
trovarono un’Italia praticamente disarmata e poterono dedicarsi indisturbati al saccheggio e alla
distruzione. Le campagne, che erano state un rifugio alla crisi delle città, non riuscirono più a
sopravvivere senza i commerci che comunque la città gli assicurava e così al declino delle città seguì
anche quello delle campagne, che si ridussero a un'economia di sopravvivenza, con la pratica
dell’autarchia. Seguirono poi i cosiddetti secoli bui. Gli accusatori dei Romani d’Oriente (oggi chiamati
bizantini), dovrebbero ricordare che, mentre l’Italia giaceva nelle peggiori condizioni economiche
dall’età del bronzo, nell’Impero Romano d’Oriente la vita invece continuava a scorrere in relativa
tranquillità, con agricoltura e commerci. L’apice della distruzione comunque fu nuovamente toccato nel
IX e X secolo quando anche il Meridione d’Italia fu distrutto dalla guerra contro gli arabi, di cui stavolta
si accusano gli arabi e non i cristiani. Le campagne furono ridotte in uno stato tale che prima furono
abbandonate dal contado e poi infine anche dai monaci tornando così allo stato selvatico.

La natura medievale
La natura dell’alto medioevo dunque è selvaggia e la campagna è minimale. Nel basso medioevo però,
proprio grazie al commercio con gli arabi scacciati dall’Italia, l’economia rifiorisce e anche l’agricoltura.
Si formano i liberi comuni e i servi della gleba vi si rifugiano per ottenere libertà e protezione,
protezione che gli viene accordata perché la nascente borghesia artigianale e commerciale ha bisogno di
manodopera. Qualcosa di simile accadde anche in Germania dove fu coniato il detto "Stadtluft macht
frei” (l’aria della città rende liberi). Le città italiane non erano molto grandi, ma in Europa solo Parigi
era più grande delle città italiane. Bologna che pure contava poco più di 50.000 abitanti, era fitta di
torri e a vedere le ricostruzioni sembra una sorta di Manhattan del Medioevo. Allora non stupisce che vi
sia nata la prima università.

Figura 6. Ricostruzione di Bologna nel basso medioevo

7 In realtà Stilicone era semibarbaro nel senso che il padre era vandalo, ma la madre era romana della Pannonia, però
questo non bastava a farlo considerare un romano.
8 Venivano infatti da una zona collocata tra l’attuale Danimarca e la Germania del nord, ma li differenziavano dai

vichinghi la loro totale mancanza di confidenza con la navigazione.


6
C’è dunque in Italia una forte cultura urbana che suscita anche dei contraccolpi soprattutto in ambito
religioso con mistici come San Bernardo, Gioacchino da Fiore e soprattutto San Francesco. È proprio
quest’ultimo che, in reazione all’ipocrisia della vita urbana, riscopre una spiritualità quasi panteista, in
cui la natura genericamente intesa diviene, in quanto creato, sorella dell’uomo. L’aspetto interessante
per noi è che, in questo modo, Francesco non distingue più campagna e selva, ma considera
semplicemente la città, luogo del peccato, in opposizione alla natura, luogo del creato, in cui, non
essendoci libero arbitrio, anche la violenza è innocente. La campagna, invece, viene rivalutata in ambito
laico, ad esempio a Siena. Qui viene commissionato a Lorenzetti un grande affresco, in cui troviamo
l’opposizione di città e campagna risolta sotto il comun denominatore del buon governo. Parliamo
dell’opera nota come Gli effetti del buon governo. Questo dipinto è importante perché è il primo vero e
proprio paesaggio della cultura post-classica in Occidente. Dal francescanesimo invece non si sviluppò
nonostante l’ampia influenza culturale, alcuna tendenza realmente paesaggistica. Il paesaggio in
Occidente infatti nasce soprattutto per merito della cultura nordica e non è un caso che esso in Italia si
attesti soprattutto nel Veneto.

Figura 7. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, Siena (1338-39)

Il paesaggio è dunque un frutto della sensibilità borghese e cristiana, che oppone, non tanto luoghi
antropizzati a luoghi selvaggi, ma la città a tutto il resto, che viene unificato proprio dal fatto di essere
una sorta di sfondo visto dalla prospettiva della città.

La campagna dell’età moderna: da luogo simbolico a tabula rasa.


Se l’immagine della campagna classica era stata supportata teoricamente dal passaggio dallo stoicismo
all’epicureismo, il movimento tipico dell’età moderna, che trasforma la campagna in paesaggio dal
punto di vista estetico e in semplice territorio dal punto di vista economico, viene sorretto dal passaggio
dalla filosofia neoplatonica a quella aristotelica e dunque all’empirismo.

Figura 8. Giorgione e Tiziano, Concerto campestre (1509 ca.)

7
Infatti, il paesaggio si afferma prima nel veneto dominato dall’aristotelismo padovano, e poi in Nord-
Europa insieme al diffondersi dell’empirismo. L’aristotelismo è già una forma di empirismo, in quanto
mette al centro l’esperienza, cosa che fanno i veneti, preferendo l’attenzione al colore a quella fiorentina
per il disegno (connesso all’idea). L’empirismo però fa un passo ulteriore, nega l’idea aristotelica di
sostanza per limitarsi alla sola impressione sensibile (veduta), che si imprime su una mente che,
originariamente, è, secondo una formula della scolastica, una tabula rasa o nelle parole di Locke a
blank slate. Questo significa che il paesaggio non è rappresentazione di case, alberi, colline e boschi che
esistono come cose separate in se stesse nella realtà, ma è semplicemente un insieme di impressioni
sensibili che vengono unificate nello spazio bianco (tabula rasa) della tela (che è come quello della
mente) e riconosciute come cose solo a posteriori quando possono esserlo. Questo permette di dare
spazio ad esempio anche a forme confuse, indistinte e indeterminate (Turner). Allo stesso modo ciò è la
premessa al diffondersi della camera obscura e della concezione della pittura come rappresentazione
ottica. Non dimentichiamo infatti che le prime macchine fotografiche furono costruite da artisti.

Questo approccio trova un parallelo nella concezione economica moderna del territorio, come semplice
capitale fondiario da cui trarre profitto. In questo caso il blank slate non è più una condizione di
partenza, dato che le terre sono occupate dal contado, ma un obiettivo. Allora si ricorre prima alla
recinzione dei terreni e poi a un’azione più sistematica di cancellazione della presenza umana, nota
come “clearing of estates”. In questa operazione ancora una volta i contadini vengono cacciati dalle loro
terre per riversarsi nelle città, dove li aspetta non solo una vita misera, ma anche tutta una serie di
vessazioni di cui hanno parlato Thomas More nell’Utopia9 e Karl Marx nel primo libro del Capitale10.

Figura 9. Anton S. Pitloo, Veduta di Bacoli, Napoli (primi XIX sec.)

Industria e turismo
Heidegger nella Questione della tecnica, rileva come con l’industrializzazione si assista a un ulteriore
passo avanti nella cancellazione della campagna e nello sfruttamento della natura, in quanto essa viene
ridotta a risorsa estrattiva. A questo corrisponde anche la de-estetizzazione del territorio che diviene
squallido, insignificante e demondizzato, cosa resa ancor più drammatica dall’inquinamento. La città
industriale stessa, da luogo di incontro, diviene una macchina di produzione e consumo. Allora per
sfuggire a questa de-estetizzazione e trovare dei paesaggi “umanamente” apprezzabili, tanto da
sembrare pitture (pittoreschi), occorre andare lontano in paesi meno pre-capitalisti come l’Italia o
addirittura premoderni come l’Oriente (esotismo). Il turismo infatti nasce con il Grand Tour che era il
viaggio che i nordeuropei, come Goethe, Byron, Turner, Corot, facevano in Italia tra la fine del Seicento
(quando era ancora un viaggio di apprendistato) alla metà dell’Ottocento (quando assume invece un
senso di svago estetico).

9 T. More, Utopia (1516), Roma-Bari: Laterza, 1981, libro I, pp. 24 e sgg.,


10 C. Marx, Il Capitale, libro I, (1867), Torino: UTET, 1974, ebook 2013, cap. XXIV §2 “Espropriazione delle terre rurali”.
8
Figura 10. Antonio Fontanesi, Aprile (1872-73)

Globalizzazione e post città


Nel frattempo, il turismo è diventato globale, ma anche l’industrializzazione e lo svilimento delle
campagne ha subìto la stessa sorte. Diventa sempre più difficile trovare un luogo “altro”, e nel frattempo
i contadini vengono dislocati a livello globale da pratiche di modernizzazione brutali, che portano
talvolta più problemi di quelli che risolvono (Vandana Shiva)11, e da nuove pratiche di recinzione di
grandi proporzioni note come land grabbing. A questa riduzione delle campagne a mero fondo
sfruttabile (Bestand)12 corrisponde anche la destrutturazione dell’unità della città, che non ha più né
centro né confini. La città cessa di essere un microcosmo e si trasforma in una texture urbana attrezzata
con determinati servizi che tendono anch’essi ad essere sempre più deterritorializzati. Dai negozio di
quartiere si è passati agli shopping center e oggi anche questi sono in crisi per via dello shopping on
line. Sempre più servizi passano così dal territorio alla rete, depauperando lo spazio reale. Lo spazio
pubblico è stato destrutturato (col venir meno dei luoghi di socializzazione) per essere sostituito da
luoghi di consumo come le catene internazionali di caffè e ristorazione, in cui bisogna pagare solo per
condividere la presenza altrui. Le cosiddette “smart city” non fanno che accelerare questo processo
perché non considerano gli aspetti antropologici e simbolici che caratterizzano l’esistenza umana. La
post-città quindi è una realtà urbana priva di identità, di spazi sociali, discontinua, con aree in
decomposizione, luoghi in abbandono, e in tal senso è disorientata e deterritorializzata. Al suo margine
non c’è più la campagna, perché essa sfuma in altrettanto anonime zone industriali che hanno le stesse
caratteristiche di testurizzazione e discontinuità anche quando si tratta di industria agricola. Le zone più
interne inoltre si impoveriscono a causa del trapianto verso le texture urbane dove trovare servizi e
lavoro anche a costo di una vita disumana.

Figura 11. Porto Torres area industriale

11 Cfr., V. Shiva, Terra madre. Sopravvivere allo sviluppo, Torino: UTET, 2002.
12 Cfr., M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano: Mursia, 1976.
9
Così dalle campagne si ha l’ennesimo movimento di dislocazione e sradicamento. Tutto questo spazio è
fondamentalmente post-human. Diventa sempre più difficile evadere da questo spazio anonimo senza
finire in un altro spazio anonimo. Lo spazio turistico diviene subito esperienza preconfezionata e il
turista vi passa come tra le vetrine dello shopping mall. Oggi poi tutta questa esperienza non è unificata
altro che nell’occhio di un visitatore spesso distratto e ignorante, che non sa neanche cosa vuole vedere
e che è sopraffatto dall’insignificanza delle proprie esperienze. Si presenta così una situazione di
individualismo, narcisismo e di frammentazione sociale simile a quella che precedette le invasioni
barbariche. Infatti, chi si sacrificherebbe oggi per difendere qualcuno che non ha mai pensato altro che
a se stesso? Non resta allora che fuggire nelle campagne, prima che arrivino i barbari. Per fuggirvi però
bisognerebbe reinventarle e reinventare le campagne non significa solo comprarsi un terreno, significa
ritrovare il ruolo antropico della “coltura”, il suo senso simbolico, perché la campagna è quel luogo della
natura dove c’è la morte ma dove c’è anche la promessa della rinascita.
Kyoto, 20 Maggio, 2018

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