Sei sulla pagina 1di 11

GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno del 1798 a Recanati, piccolo paese delle Marche dal conte Monaldo e
da Adelaide dei Marchesi Antici. Il padre, dotato di squisiti gusti letterari e artistici, riuscì a collezionare
un'importante biblioteca domestica, contenente migliaia di libri e che vedrà il giovane Giacomo frequentatore
assiduo, tanto che a tredici anni iniziò a studiare da autodidatta e si dilettava di letture greche, francesi e inglesi
e imparò il latino, il greco e l’ebraico. Prima di inizare il suo studio da autodidatta fu affidato a un precettore che
si occupò della sua formazione basata su dogmi religiosi e sulla filosofia illuminista. Nella biblioteca di casa
trascorre i "sette anni di studio matto e disperatissimo" nella volontà di impossessarsi del più ampio universo
possibile: sono anni che compromettono irrimediabilmente la salute e l'aspetto esteriore di Giacomo, i
cosiddetti.
Nel frattempo nasce nel 1817 un’amicizia con Pietro Giordani cui inizia uno scambio epistolare molto intenso e
nel quale possiamo rintracciare i tratti della sua personalità solitaria e malinconica e i tratti della sua poetica.
Quest’amicizia sarà determinante per la crescita intellettuale e personale di Giacomo, e che lo porterà a
rifiutare con forza dalle idee cattoliche e reazionarie della sua famiglia. Sarà infatti proprio Pietro che lo
introduce ai criteri del purismo e del canone neoclassico orientandolo verso opinione laiche e antilegittimiste.
Mentre egli si avvia alla poetica, la sua famiglia progetta per lui una carriera ecclesiastica alla quale però
Leopardi non si sente particolarmente avvezzo e si inizia a dedicare a riflessioni filosofiche producendo varie
opere di erudizione non primve di tratti originali, trauzioni e adattamenti dal greco o dal latino che saranno
importantissime per raffinare il suo stile.
L’esperienza poetica di Leopardi inizia nel 1816 a Recanati con il componimento poetico “Il primo Amore” a
seguito dell’esperienza amorosa per la cugina. Le datazioni sono ricavate dallo “Zibaldone” che è una sorta di
diario di 5 mila pagine e dalle novecento lettere di corrispondenza leopardiana.
Nel 1816 c’è un altro documento chiamato “Appressamento alla morte” che ha un rilievo maggiore rispetto a
“Primo amore”.
La sua poetica è inizialmente neoclassica enel dibattito tra classicisti e romantici si schiera dalla pare dei
classicisti respingendo l’esigenza romantica di adattarsi ala mentalità contemporanea ma a differenza dei
classicisti non si richiama a norme estetiche assolute e atemporali, ma rivela una frattura tra la sensibilità degli
antichi e quella dei moderni. L’imitazione dei classici serve a liberare l’uomo dalla corruzone e
dall’incivilimento cantato dai romantici recuperando la materia antica e primitiva di poesia frutto di una felice
comunanza con la natura, spezzata dalla crescita della ragione.
Nell’estate di questo stesso anno inizia a scrivere i primi appunti in quella specie di ‘diario intellettuale’ che
sarà poi lo Zibaldone scritto tra il 1821 e il 1823, dove Leopardi annota spunti creativi, teorie estetiche e
letterarie e ragionamenti filosofici e materiale da cui attingere per la stesura delle sue opere. Tutte le riflessioni
sono datate. Lo stile è sintetico e scorrevole. Il lessico utlizzato nello Zibaldone è un lessico semplice, spesso
fatto di abbreviazioni in quanto ciò che scriveva era una sorta di appunti che l’autore scriveva per chiarire
principalmente le idee a se stesso.. Nello specifico, i temi trattati sono: la religione cristiana, la natura delle
cose, il piacere, il dolore, l’orgoglio, l’immaginazione, la disperazione e il suicidio, le illusioni della ragione,
lo stato di natura del creato, la nascita e il funzionamento del linguaggio (con anche diverse annotazioni
etimologiche). Va da sé che ci sia un filo di conduttore all’interno dell’opera che mostra anche l’evoluzione del
pensiero leopardiano, che lo stesso autore avrà cura nel mostrarlo, riordinando ad un certo punto lo
Zibaldone stesso e inserendo riferimenti a suoi pensieri precedenti, rendendolo nel tempo un’opera organica. Il
pensiero mostrato è continuamene in evoluzione, ricco di svolte e contraddizioni e ripensamenti.
Tra i temi maggiormente trattati, il dolore, il ricordo e la poesia sono capisaldi fondamentali: il dolore
viene inteso come la legge della realtà ed è universale. Esso riguarda “non gli individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi”. Questi temi possono essere inseriti nel più ampio contesto del grande tema
letterario Leopardiano: il “rapporto tra l’uomo e la natura”: inizialmente un rapporto benevolo tra l’essere
umano e la natura, che nella visione romanticamente cupa di Leopardi va poi negli anni a trasformarsi in uno
scontro che vede l’uomo succube di un’esistenza soggetta e destinata alla sofferenza. Nell’ultima fase la natura
assume l’immagine di una madre assassina che crea per distruggere. (anche in “A Silvia”)
Inizialmente Leopardi vede nella ragione la causa storica dell’infelicità umana, infatti la definisce “nemica
della natura” perché distrugge il “piacer vano delle illusioni” dimostrandone l’inconistenza e la falsità . La
ragione determina lo sviluppo della civiltà , della filosofia e delle cognizioni esatte. Quindi essa annienta
l’immaginazione, la virtù , l’amor patrio, l’eroismo uniche fonti di felicità , senza le quali la vita è arida e piena
solo di noia. Di qui la superiorità degli antichi che ritenevano reali i sogni dell’immaginazione e si trovavano
quindi più vicini alla natura. Questo fa si che Leopardi si trovi a metà strada tra i classicisti e i romantici perché
da un lato come i romantici attacca la ragione, dall’altro come i classicisti ne considera valide le sue scoperte.
Dunque la ragione rende vane le illusioni ed è per questo che attacca anche il suo tempo considerando il
periodo della Restaurazione come un epoca caratterizzata dalla tirannide e dal servilismo. Da qui il suo
pessimismo storico.
La "Teoria del piacere", spiegata in un passo dello Zibaldone, sostiene che l'uomo nella sua vita tende sempre
a ricercare un piacere infinito come soddisfazione di un desiderio illimitato ma che esista uno sproporzione tra
questa e l’effettiva possibilità che l’uomo ha di soddisfare questa aspirazione nella sua vita il desdierio èiltato
ma nella vita invece tutto è limitato ecco perché secondo Leopardi non è possibile essere felici in quanto la
felicità è illimitata e non si può inserire nella realtà . Dunque la felicità sa nella ricerca di questo piacere ma pi il
suo raggiungimento non è possibile perché il piacere è circoscritto e limitato, ci può sembrare soddisfacene
masubito dopo iniziamo a sentire un senso di vuoto e insoddisfazione che ci rende infelici. Esso viene cercato
soprattutto grazie alla facoltà immaginativa dell'uomo che può concepire le cose che non sono reali. Poiché
grazie alla facoltà immaginativa l'uomo può figurarsi piaceri inesistenti e figurarseli come infiniti in numero,
durata ed estensione, non bisogna stupirsi che la speranza sia il bene maggiore e che la felicità umana
corrisponda all'immaginazione stessa. La natura fornisce tale facoltà all'uomo come strumento per giungere
non alla verità , ma ad un'illusoria felicità . Dalla teoria del piacere Leopardi desume gran parte della sua poetica:
egli sente che è difficile fare poesia in un epoca in cui le illusioni e l’immaginazione sono spente dalla ragione.
Egi vuole quindi creare un arte che abbia “sembianze di infinito” grazie alla messa a punto di procedimenti di
“vaghezza” e di “indefinito”. L’infinito sarà un concetto centrale della poetica leopardiana che verrà espresso
mediante le scelte linguistiche dell’autore: egli distingue infatt tra “termini” e “Parole proprie”: i termini sono le
parole dotate di un significato univoco, è il linguaggio scientifico e esatto; le “parole proprie” sono quelle dotate
di un ampia gamma di significati con i quali l’autore vuole comunicare diverse sfumature e destare idee vaghe e
indefinite permettendo al lettore di sfruttare la sua immaginazione e di vagare con la mente in quegli
“interminati spazi”. Vediamo con il linguaggio leopardiano sarà caratterizzato da parole vaghe, indefinite e
grandi “sovrumani silenzi”, “interminati spazi” “profondissima quiete”, tutte parole che sembrano essere
difficili da percepire dalla limitata mente umana e che generano un senso di immensità .
Sono due i generi lirici a cui fa riferimento Leopardi: da una parte abbiamo le Canzoni (la canzone libera
leopardiana è un vero e proprio genere letterario e iniziatore di un genere lirico) e gli Idilli.
Sono due generi lirici diversi che, in effetti, trattano tematiche talvolta diverse ma quello che li differenzia
sostanzialmente è l’adozione di un linguaggio lirico profondamente diverso.

 CANZONI: Le canzoni (1824) tentano la via della poesia difficile e ardita e hanno un impianto stilistico e
linguistico classicheggiante, aulico, formale. Il linguaggio è ricco di metafore e similitudini oscure e
complesse che hanno nessi allusivi e simbolici e devono arricchire i versi di sfumature suggestive. Nelle
canzoni si ripetono moduli della poesia neoclassica con tematiche come: l’esaltazione del mondo
antico contrapposto ai tempi presenti, l’esaltazione della bellezza e della poeticità della mitologia
antica a fronte della non poeticità dei tempi presenti ad esempio nella canzone “Alla Primavera o delle
favole antiche” . Lo stesso dicasi di un altro ciclo di canzoni chiamato “Il ciclo di Aspasia” del quale fanno
parte anche alcune canzoni che parlano della bellezza femminile in uno stampo prettamente
neoclassico (un po’ come le odi foscoliane). Si respira quell’aria neoclassica dell’esaltazione della
bellezza ma a differenza dell’impianto neoclassico foscoliano, Leopardi trova sempre il modo per
introdurre il dolore e il raffronto con la bruttezza della modernità . Leopardi come intellettuale del
risorgimento e dell’8oo fu invidiato da molti, infatti le sue opere non vennero divulgate subito, subirono
in parte anche la censura e un’opera importante quali saranno appunto “Le operette morali” (che
vengono pubblicate quasi in contemporanea con la prima edizione dei Promessi Sposi) subirono la
concorrenza dei Promessi Sposi e non vennero quasi per nulla lette dal grande pubblico.
All’interno di queste canzoni troviamo il tema della natura che ritornerà anche negli Idilli oppure
nell’ultimo canto di Saffo, dove Leopardi fa esprimere alla grande poetessa della lirica greca Saffo,
nativa dell’isola di Lesbo, le sofferenze del suo animo. Saffo morirà suicida. Sappiamo grazie alla
tradizione antica che si getterà dalla Rupe di Leucade perchè respinta dall’uomo che amava. Allo stesso
modo, quindi, con il tema della morte e del dolore, termina anche un’altra canzone leopardiana che è
“Bruto Minore”che si uccide quando la repubblica romana cade sotto la dittatura di Cesare. in entrambi
troviamo monologhi finali di stampo alfieriano con l’eroe che esprime il suo dolore e inveisce contro il
destino prima di porre coraggiosamente fine alla sua vita. Questi temi come questo della sofferenza e
della morte sono presenti anche nelle canzoni (come negli idilli) ma sono espressi in moduli stilistici
diversi e anche con una versificazione diversa. Il senso della vaghezza o indefinitezza che è una cifra
caratterizzante nella poesia leopardiana (“O vaghe stelle dell’Orsa Maggiore”) soprattutto è di alcuni
idilli, lo ritroviamo anche nelle canzoni. L’ultimo canto di Saffo termina proprio con la vaghezza che si
scaglia su un notturno lunare che crea un contrasto tra la sofferenza affidata alle loro parole estreme e
la distante serenità del mondo naturale. Questo momento della giornata è molto caro a Leopardi:la
notte e la luna come astro.
Le canzoni trattano questi temi, ma in particolare 5 canzoni trattano un altro tema, ovvero quello di
natura politica e civile: “All’Italia” – “Sopra il monumento di Dante” – “A un vincitore nel pallone” –
“Nelle nozze della sorella Paolina” e l’ultima “Ad Angelo Mai” chepiù che politica è una canzone che
possiamo definire civile, perché troviamo la figura di Angelo Mai che scopre in una biblioteca, tra
scaffali polverosi, alcuni manoscritti di Cicerone riportandoli per la prima volta alla luce. Di questa
figura Leopardi si serve per celebrare i tempi antichi ma soprattutto la profonda cultura degli antichi a
fronte dell’ignoranza e della pochezza dei moderni. In pratica ce l’aveva a morte con i contemporanei,
ma soprattutto con una classe sociale che egli riteneva quasi inesistente in Italia: (si può leggere
soprattutto in un suo saggio “Sopra i costumi degli italiani”) la Borghesia italiana che egli ritiene una
classe di inetti. Una classe che non ha saputo diventare classe dirigente del paese a fronte della classe
borghese inglese tedesca e francese.
Alle canzoni come quella “All’Italia”gli tirarono addosso il sospetto dei legittimisti italiani proprio
perché quelle erano canzoni che inneggiavano all’unità d’Italia in un periodo in cui quell’unità era
profondamente contrastata e avversata (periodo dei moti risorgimentali, tra il 20 e il 21). Queste
canzoni furono interpretate politicamente e Leopardi ne subì le conseguenze.

 IDILLI: Quasi contemporaneamente alle canzoni Leopardi sperimenta un altro genere: gli Idilli, (il
primo e il più grande idillio che Leopardi abbia mai scritto, cioè “L’Infinito”che è datato 1819) nel quale
il linguaggio si abbassa, il paesaggio di fondo diventa Recanati quindi la natura diventa quella
recanatese e le immagini diventano familiari, intime e di vita quotidiana -“Il Passero solitario”, “A
Silvia”.L’Idillio nasce come bozzetto di vita campestre nel quale la natura è amena, serena, accogliente e
in quanto tale questa poetica del genere letterario viene mutuata anche dai poeti dell’arcadia
settecentesca. Infatti, anche nell’arcadia troviamo questo bozzetto di vita campestre e una concezione
della natura serena e rasserenatrice, fresca, fatta di ombre, di alberi, di ruscelli e di sole. Leopardi dà
inoltre una definizione propria di idillio concependo l’idilio come una poesia che esprime situazioni,
affezioni, avventure storiche dell’animo del poeta. Questo genere che ci viene da Teocrito e Mosco
della letteratura greca attraversa i secoli, viene ripreso dai poeti arcadici nel 700 e giunge a Leopardi
nell’800. E inoltre er stato già anticipato da Monti che però a livello tematico era più vicino al romanzo
sentimentale. “Nella penna” di Leopardi il genere viene completamente stravolto: (i generi letterari,
infatti, non si cristallizzano mai nelle forme specifiche, noi dobbiamo sempre seguire l’evoluzione,
perché pur permanendone alcune caratteristiche fondamentali è sempre un prodotto dei tempi e degli
uomini e quindi muta al mutare della sensibilità di ogni epoca storica) abbassamento di tono, sintassi
lineare, uso di un lessico di vita quotidiana e luso dell’endecasillabo sciolto: “sempre caro mi fu
quest’ermo colle e questa siepe, che da tanta parte. Dell' ultimo orizzonte il guardo esclude” (“sempre
caro” ci porta in una dimensione di intimità familiare, di cose viste tutti i giorni, di quotidianità –
“questo” l’uso degli aggettivi dimostrativi rappresenta qualcosa di vicino dello spazio e nel
tempo/qualcosa che sto guardando che rientra nell’abitualità dei gesti quotidiani)
Gli idilli rappresentano quei componimenti che maggiormente differenziano Leopardi da tutta la tradizione
lirica italiana fino a Foscolo. Gli idilli leopardiani sono qualcosa di diverso rispetto alla tradizione lirica italiana
e particolarmente esemplare è “l’Infinito” che è una delle prime poesia che Leopardi scrive perché è databile al
1819 e già però risulta compiuta sotto il profilo della poetica leopardiana. Nell’infinito troviamo il senso e il
sentimento profondo della poetica leopardiana. I temi trattati all’interno degli idilli sono: il contrasto tra la
quiete notturna e l’affanno e l’angosca della giornata come nel caso de “La sera del dì di festa” o “Alla luna”, la
poesia d’infinito, l’attesa del piacere.
LE OPERETTE MORALI
Dal 1823 Leopardi esce da Roma e infatti molte cose cambiano nella sua vita, soprattutto vediamo una svolta
nel suo pensiero. Il conflitto tra natura e ragione è mutato di significato e di valore e Leopardi ora sostiene che
tutto ciò che esiste è composto solo da aggregazioni di materia, la quale è in grado di pensare e di sentire e
giunge alla conclusione che il dolore umano risiede nella contraddizione tral sistema della natura, ossia il
funzionamento complessivo dell’universo inanimato e le vite dei singoli individui messi da questa in condizione
di soffrire. Decide di abbandonare la poesia e inizia la sua fase di “silenzio poetico” che va dal 1821 al 1828 in
cui si dedica solo a riflessioni filosofiche e approfondisce la propria meditazione sul fine della vita universale e
sul destino dell’uomo. Questo silenzio poetico lo troviamo nella “epistola in endecasillabi sciolti al conte Pepoli
in cui scrive di voler abbandonare la poesia. Poi scriverà nella lettera alla sorella Paolina di aver ripreso a
comporre versi alcuni anni dopo e scrive una seconda parte dei “Canti”.
In questo periodo scrive una serie di prose di carattere satirico e nelle operette morali fa una riflessione
filosofica sulla vita, sul dolore dell’esistenza umana e sul rapporto dell’uomo con la natura.(Quello che manca a
Leopardi per essere filosofo è un sistema di pensiero)
Le operette vengono scritte dal 1824 (anno in cui avviene questa svolta filosofica in Leopardi) e pubblicate nel
1827. La prima edizione contiene sono 20 operette, poi una seconda e una terza che completano la raccolta e
nel 1834 sarà quella definitiva in quanto l’autore aveva dato un ulteriore sistemazione a questi testi e sarà
pubblicata da Antonio Ranieri. Ma l’autore torna di nuovo sull’opera. Inizialmente quste operette dovevano
essere pubblicate a puntate su una collana chiamata “Biblioteca amena” ma l’autore non accettò questa
soluzione in quanto non approvava la sede editoriale e lo stesso titolo della collana faceva pensare alla
trattazione di temi leggeri e non di temi morali e filosofici e poi perché sosteneva che le operette erano legate
tra loro e tutte insieme erano una sorta di sistema filosofica e quindi pubblicate una per volta non sarebbero
state comprese adeguatamente.
Ma una prima traccia dell’intenzione dell’autore di voler scrivere queste prose la troviamo nei “Disegni
Letterari” una sorta di Piano di Studi foscoliano: in uno dei disegni letterari del 1820 scrive “Dialoghi satirici
alla maniera di Luciano, piccole commedie o scene di commedie” e pianifica una raccolta di operette sottoforma
di dialogo, prosa, narrazione e prosa lirica anche se la maggior parte sono in forma didialogo. DI questo
progetto dei dialoghi satirici ne parla anche nella lettera a Pietro Giordani e nello Zibaldone in cui scrive
riflessioni su questi dialoghi satirici.
Il termine “operette” allude al tono che l’autore vuole dare a questa sua prosa: quello della leggerezza
apparente proveniente dall’uso dell’ironia e rappresentano talvolta situazioni paradossali a limite tra l’ironia e
il comico, il reale e il fantastico ma nelle quale l’autore affronta il dramma dell’esistenza umana e quindi temi
profondi ma appaiono leggeri grazie alle scelte linguistiche. Sono frequentate anche da personaggi non reali
come ad esempio folletti e sono situate in spazi irreali, come quello che circonda l’islandese nell’operetta
“Dialogo della natura e di un islandese”, ha un’origine reale ma assume connotati fantastici. In alcuni di
personaggi l’autore si proietta come nel caso del “Passeggere” o dell’ “Islandese” e si nasconde dietro questi
personaggi per esprimere le proprie riflessioni unendo ad esse la fantasia e l’immaginazione e assume altre
identità. La lingua utilizzata è quella classica e aulica perché il suo obbiettivo era quello di crear una prosa che
sapesse d’antico. I temi affrontati sono principalmente quello dell’infelicità umana e del vano affannarsi degli
uomini nella ricerca della ricchezza e dell’affermazione di sé. Affronta poi il problema della natura e il mito del
progresso e della civiltà , il tema della virtù e la critica dell’antropocentrismo, la morte, l’universo come
creazione e distruzione ciclica.

Fonti e modelli delle “Operette Morali”


Leopardi ancora una volta attinge all’antichità e prende spunto soprattutto ai dialoghi di uno scrittore della
letteratura greca che è Luciano di Samosata (120-180 d.C.). Sono dialoghi dal tono satirico, pungente e ironico.
Come fonti più moderne troviamo alcuni scritti di Voltaire (ambito illuministico). In queste operette morali
troviamo anche la combinazione di generi letterari diversi: dialogo, riflessione introspettiva, satira, racconti
fantastici. Infatti le operette morali si aprono con un racconto mitologico che è “La storia del genere umano”
dove si narra la storia della civiltà umana intesa come progressivo approccio alla verità , quella verità che poi
provoca al dolore e ne anticipa anche le tematiche. La progressione sempre più invadente della ragione apre
agli uomini la visione veritiera della propria storia: visione di dolore. Ci sono anche delle situazioni divertenti
come nel ”Dialogo tra la moda e la morte” dove Leopardi prende in giro la presenza della moda (tema
contemporaneo) nell’età contemporanea, cioè l’affannarsi degli uomini a seguire la moda che coincide poi con
la morte. La Moda e la Morte in questo dialogo sono personificate e le troviamo entrambe con la “M” maiuscola
che dialogano tra di loro (racconti fantastici). La Moda rincorre la Morte e addirittura la convince che è sua
sorella perché la Moda fa in modo che noi continuamente cambiamo mentalità , usanza, usi e costumi e in questa
corsa al continuo cambiamento si genera la fine di tutto perché ogni volta che si cambia qualcosa di prima
muore. L’età contemporanea è quindi adoratrice della moda, e quindi il secolo della morte.
In un altro dialogo troviamo un altro personaggio di fantasia: il mago Malambruno che fa un incantesimo al
diavolo Farfarello (nomi di fantasia). Dopo aver respinto tutte le offerte del demone, Malambruno gli chiede di
farlo felice per un momento di tempo ma Farfarello risponde “io non posso” e spiega al mago in che cosa
consiste l’infelicità umana: Farfarello non può far felice il mago Malambruno perché l’uomo è infelice per sua
natura e quindi la felicità è impossibile proprio come lo è il piacere. L’unica cosa che il demone può concedergli
è la morte prima del tempo perché la non-vita è la non-felicità e dunque è felicità . Tutto ciò non ha logica,
proprio perché Leopardi non ha costruito un sistema filosofico, Leopardi è un poeta e la poesia non ci offre
quasi mai delle soluzioni.
In queste operette troviamo due alter-ego di Leopardi: uno è nel ”Dialogo di Federico Ruysch e delle sue
mummie”. Questo anatomista Federico Ruysch dialoga con i suoi cadaveri (racconto fantastico perché i cadaveri
si animano) che raccontano dei segreti arcani della vita, i morti parlano della vita perché dalla condizione di
“morto” possono finalmente guardare con occhi sgombri la vita e definirne la natura. Lo possono fare proprio
perché la morte libera dal dolore. Inoltre, spiegano all’anatomista, che il trapasso (passaggio dalla vita alla
morte) non è un passaggio doloroso ma è “piuttosto piacere che altro”. Di nuovo ritroviamo la teoria di piacere
che è pausa dal dolore.
Le operette morali, nella prima edizione (1827), si concludono con Leopardi che entra in dialogo vestendo la
maschera di Eleandro (etimologia del nome: dal greco, colui che compatisce gli uomini) che dialoga con
Timandro (colui che stima gli uomini) ed è proprio Timandro che spiega quello che è il significato delle
operette morali: cioè, spiegare a tutti l’infelicità necessaria di tutti i viventi cercando di riderne, non a caso
questi personaggi un po’ comici, un po’ folli, un po’ fiabeschi. Nella seconda edizione delle operette morali,
quella del 1834, Leopardi introduce un altro suo alter ego che è Tristano. Qui il discorso si fa politico perché
Leopardi polemizza attraverso la maschera di Tristano contro i riformisti fiorentini che animavano nei loro
discorsi una rivista intitolata “L’Antologia”, una delle riviste più importanti del periodo. I riformisti avevano per
loro natura una visione ottimistica e riformatrice della società e invece ancora una volta Leopardi ribatte
dicendo che l’unica cosa certa è l’infelicità ed è la verità della situazione umana. La poesia ancora una volta non
offre soluzione ma ci fa vedere, di fatto, la condizione umana.
Leopardi decide di dare sistematicità alla sua lirica e di formarne un volume che contiene canzoni e idilli nella
sequenza che lui stesso volle dare, intitolato: “I Canti”.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE


L’operetta fu scritta nel maggio del 1824 ed è anche una delle operette più significative e racconta di un
viaggiatore nativo della desolata Islanda, dopo aver passato la vita a tentare invano di sottrarsi ai pericoli e alle
asprezze del mondo naturale, si imbatte nella natura in persona. Egli è in cerca disperatamente di un po’ di
felici, di serenità e mostra alla natura come essa sia indifferente alle sorti dell’uomo. Subito si lamenta con lei
delle proprie disavventure e del trattamento che riserva agli uomini, per sentirsi rispondere che il mondo non è
fatto per loro, essere a lei del tutto indifferenti, e che la vita dell’intero universo è solo un perpetuo circuito di
produzione e distrazione, che funziona col patimento dei viventi. L’islandese chiede allora “a chi piace o a chi
giova codesta vita infelicissima dell’universo”, ma la sua domanda resta senza risposta. Qui come in altre
operette, il senso ultimo dell’esistenza umana rimane un mistero. La scelta dell’silandese è probabilmente
ispisrata a Voltaire che aveva scritto un’opera sull’Islanda. I temi portanti sono quindi l’llusione di poter trovare
la felictà, il rapporto uomo-natura e la visione meccanicistica della vita. L’opera diventa espressione del
pessimismo cosmico leopardiano che trova concretezza nella concezione che l’esistenza sia solo sofferenza e
morte e che l’universo è solo un ciclo continuo di creazione e distruzione.

Il dialogo si articola in tre parti e un epilogo:

 PRIMA PARTE: il narratore ci presenta i due protagonisti, l’islandese, un viaggiatore instancabile che
ha visitato la maggior parte del mondo e arrivando in un luogo incontaminato in cui non vi era mai stato
nessuno e vive un’esperienza simile a quella di Vasco da Gama che per primo aveva circumnavigato il
mondo e la Natura, una forma “smisurata di donna” seduta e appoggiata a una montagna e con i capelli
neri. La sua descrizione con pochi tratti sottolineano l’indifferenza e la staticità di essa. E l’islandese ha
infatti la sensazione di avere di fronte un’enorme statua simile a quelle dell’isola di Pasqua. In questa
prima parte le battute sono brevi e lo scambio del dialogo è veloce e già si chiariscono le posizioni dei
due personaggi: quella dell’Islandese in continua fuga e ricerca di serenità per sfuggire la natura quella
della Natura che vuole sottolineare la sua potenza sulla terra che spiega soprattutto nei luoghi deserti
della quale l’islandese ha paura. La Natura chiede quindi all’Islandese cosa lo spinge a fuggirla.

 SECONDA PARTE: è la parte argomentativa ed è strutturata infatti in battute del dialogo più lunghe
elunghi monologhi dell’islandese. Si inscena il tema portante del dialogo il contrasto tra la ragione e la
natura e l’inesorabilità del destino dell’uomo. L’islandese nella lunga risposta alla natura afferma che
egli è consapevole dell’irrealizzabilità del piacere e quindi non cerca la felicità o il piacere stesso ma una
serenità , un modo per tenersi lontano dalle sofferenze. Ha vagato in cerca di questa pace ma non è
riuscito a ottenerla. Egli passa in rassegna tutte le possibili condizioni i vita sperimentate, ricercando la
solitudine e scelgie infatti l’isola deserta seguendo il principio di Epicuro di vivere lontano dalle
inquietudini e dai turbamenti optando per la Padeia, ossia l’assenza di turbamento. Ma tutte le sue
condizioni sperimentate sono fallimentari e nessuna gli ha concesso davvero pace nonostante egli
avesse scelto di accontentarsi del minimo. Ogni soluzione che cerca per evitare la sofferenza ne causa
un’altra perché la natura continua a perseguitarlo: nella sua isola faceva freddo era costretto a
riscaldarsi ma quel fuoco lo inaridiva e quindi gli causava un'altra sofferenza. Dunque risponde alla
natura dicendo che essa è nemica di tutti gli esseri viventi e “carnefice della sua sessa famiglia” perché
la natura da la vita all’uomo ma gliela toglie anche quindi è madre e matrigna allo stesso tempo,
contrasto tra la madre buona che dà la vita e la matrigna cattiva che dà la sofferenza.

 TERZA PARTE: si inscena il drammatico contrasto tra la Natura e l’Islandese in cui abbiamo la risposta
della Natura e l’exemplum dell’islandese. Ella risponde alle riflessioni dell’islandese dicendo che essa è
indifferente alle sorti dell’uomo e che non dipendono da lei le sorti positive né negative dell’uomo. Ma
‘uomo e l’intero universo soggiacciono a un’ineluttabile legge a un perpetue circuito di produzione e di
distruzione, la legge dell’universo la cui esistenza è una condanna a soffire e a morire.
 EPILOGO: l’opera termina con una riflessione amara e una nota favolistica con una duplice ipotesi. Il
povero islandese sfuggito alle peripezie finisce in preda di due leoni affamati. Da qui si può dedurre
dunque che quel concetto di creazione e distruzione ha come scopo quello del beneficio altrui: il leone
trae beneficio nel mangiare l’essere umano perché è la sua natura e dunque questa riflessione evidenzia
l’alternanza continua dei cicli di via dell’universo. La seconda interpretazione invece è più ironica e
fantasiosa: il corpo mummificato dell’islandese è esposto in quale museo a testimonianza per i posteri
che l’uomo solo trasformandosi in materia inerte può trovare collocazione nella storia del cosmo in
quanto la natura ignora le sofferenze ei drammi dell’uomo. Da qui emerge quindi la concezione
meccanicistica della realtà secondo cui l’esistenza non è altro che un continui ciclo di nascita-cresci-
morte-ritorno alla tera e ri-inizio del ciclo.
DIALOGO DI UN VENDITORE DI ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE
Il dialogo è uno degli ultimi scritti dall’autore e uno dei più brevi e fu infatti scritto nel 1832. Il dialogo è
incentrato su uno scambio di battute brevi tra il Passeggere, nel quale possiamo riconoscere l’autore stesso, e
un Venditore di Almanacchi, simbolo dell’uomo comune che non si pone nessun tipo di interrogativo
esistenziale ma che vive alla giornata e prende la vita cosi com’è.

Il ritmo è incalzante segnato proprio dallo scambio rapido di battute e rappresenta una sorta di piccolo pezzo di
vita condiviso tra i due personaggi, un momento rapido di scambio che è segnato dal ritorno poi alla scena
iniziale con la ripetizione della stessa frase da parte del Venditore a simboleggiare questa ciclicità e che nulla è
cambiato in quanto ognuno resta saldo sulle proprie condizioni. Il dialogo con il Passeggere e quindi appunto
una parentesi nella sua vita e terminato tutto ritorna come prima saldo nella sua speranza di un domani
migliore rappresentato dagli almanacchi, ossia dei calendari che riportano le festività e le fasi della luna che era
di buon auspicio acquistare alla fine dell’anno come augurio di un anno migliore.

Tra i due personaggi si insaura un rapido dialogo dal tono apparentemente leggero in cui il passeggere cerca di
far cambiare idea al venditore di almanacchi circa lo scopo della vita umana. Il venditore fa però la stessa vita
da 20 anni e spera sempre in un futuro migliore edivero e gli interrogativi esistenziali del passeggere non se li è
mai posti. Ma il Passeggere, alter ego di Leopardi a cui l’autore mette in bocca le sue prsonali riflessioni, sa bene
chel’attesa della felicità in cui spera il venditore, ossia la sua speranza del domani migliore, è solo una pura
illusione in quanto l’infelicità è radicata nella condizione umana, e questo è un elemento della sua poetica e del
suo pessimismo cosmico che ritroviamo in questo dialogo. La felicità per Leopardi sta infatti nell’attesa del
piacere e nella sua continua ricerca, ma una volta ottenuta questa felicità già l’uomo si sente di nuovo infelice
(Come ne “IL sabato del villaggio” dove la felicità sta nell’attesa del giorno di festa, e non nel giorno di festa
stesso). Dunque al pessimismo e alla rassegnazione del passeggere si contrappongono l’ingenuità e l’ottimismo
fiducioso del Venditore di almanacchi che in maniera molto tranquilla, quaisi come senza scomporsi, ascolta le
riflessioni del passante e risponde alle sue incalzanti domande rimanendo sulle sue posizioni che si risolvono
nella speranza che il nuovo anno sia migliore del precedente e in virtù di questa logica, il venditore non sarebbe
disposto neanche a tornare indietro nel passato in quanto egli coglie la vita così come “dio gliela manda”, coglie
la vita di tutti i giorni e vive alla giornata senza porsi troppe domande. La predisposizione d’animo del
venditore è quella che: il passato è ormai passao e abbiamo una proiezione ottimistica in un futuro migliore.
Restando il venditore delle sue posizioni, il dialogo si conclude con l’acquisto di un almanacco da parte del
passante come segno di magnanimità di chi si sente superiore ma anche fraternamente vicino a coloro che
vivono la loro vita ingenuamente e inconsapevoli della tragicità dell’esistenza umana.
EDIZIONE DEI CANTI
Ad una prima edizione curata dall’editore Piatti 1831, segue una seconda a Napoli per Starita nel 1835 che in
seguito viene ampliata con importanti testi cosicché l’edizione finale dei Canti è considerata quella pubblicata
nel 1845 (edizione definitiva)
Il libro è aperto dalle canzoni e dagli idilli, in particolare con la canzone “All’Italia” dal tono aulico e politico,
dove l’Italia è paragonata a una bellissima donna. Successivamente le canzoni e gli idilli assumono il senso di un
variegato ritratto della propria giovinezza e infatti ci colloca ”Il passero solitario”, lamento sulla gioventù che
vien meno, rappresentata dalla solitudine istituita tra il comportamento di un piccolo uccello che si tiene
lontano dai giochi degli altri e la propria adolescenza solitaria di studioso. Seguono le opere della feconda
stagione creativa compresa tra Pisa e Recanati:i canti pisano recanatesi. Queste sono poesie segnate da una
nuova musica verbale, sperimentazione della canzone libera che è un verso di endecasillabi e settenari che si
alternano liberamente collegati da rime sciolte da ogni schema predeterminato. È una misura che lascia fluire
spontaneità e naturalezza. La successione delle poesie sembra quasi lo svolgimento di un romanzo
autobiografico in versi in cui Leopardi si racconta, il libro accompagna infatti la vita dell’autore e cresce con lui
di edizione in edizione.
Ci sono idilli con un tono completamente diverso come ad esempio in “A Silvia”dove si abbassa il tono, e l’io
lirico diventa molto più presente e penetrante nella lettura di chi lo ascolta. Il metro è quello dell’endecasillabo
sciolto e in questo Leopardi adotta il metro che poi sarà anche di tutti gli altri poeti romantici. In questo idillio
troviamo un linguaggio vago che serve a disegnare le struggenti emozioni: i “pensieri soavi” e “i dolci sogni”
sorti nella prima giovinezza e l’amaro disinganno del presente. In”A Silvia” ritroviamo il sentimento della
natura leopardiana in tutta la sua ricca gamma, della natura bella che accoglie l’uomo in un clima rasserenatore,
fino alla natura che si scopre crudele e che fa morire Silvia che è la trasfigurazione poetica di una ragazza reale
morta prematuramente, che dovrebbe essere nella realtà Teresa Fattorini, una fanciulla che serviva la casa
Leopardi.
Questa sintesi tra lirica e filosofia è espressa anche nel canto “Canto di un pastore errante dell’Asia Minore” in
cui il nomade rivolge alla luna delle domande esistenziali attraverso un canto malinconico vago e indefinito
Negli idilli ci troviamo in una dimensione più intima e quotidiana, il paesaggio è familiare e di solito notturno,
ma non mancano anche paesaggi più luminosi come ad esempio nel“Il sabato del villaggio” oppure “La quiete
dopo la tempesta” dove abbiamo un cambiamento paesaggistico che rimanda la natura a molte tinte. Con con
queste due ultime poesie si torna e Recanati, una Recanati d’oggi descritta con i suoi semplici abitanti
campagnoli con il massimo livello di realismo.
In seguito Leopardi stringe due relazioni: l’amicizia con Antonio Ranieri che lo assisterà fino alla morte e
l’amore non corrisposto per la nobile Fanny Targioni Tozzetti che gli ispira una serie di liriche pubblicate nella
seconda edizione dei Canti caratterizzate da una poetica nuova: definizione dei “Canti fiorentini” che furono poi
pubblicate a Napoli nell’edizione del 35. Sorge cosi una poesia meditativo, più spoglia di immagini che esprime
il nascere e lo spegnersi di un amore. Leopardi canta i due “fratelli” Amore e Morte, celebrando nel primo “il
piacer maggiore” che si possa provare e nella seconda la facoltà di annullare ogni dolore. La morte non è, come
nella tradizione, una figura macabra, ma “una bellissima fanciulla”.
Ormai a disagio nell’ambiente fiorentino, Leopardi nel 1833 si trasferisce con Ranieri a Napoli dove completa
un poema eroico e satirico in ottave, i “Paralipomeni alla Batracomiomachia” (cioè Appendice alla Guerra dei
topi e delle rane): esso allude alla situazione politica e culturale italiana.
Fra il 1834 e 1837 scrivealtri vari componimenti: “Palinodia al Marchese Gino Capponi” e due poesiesepolcrali,
“Il tramonto della luna” e “La Ginestra” un poemetto in strofe di endecassilabi e settenari pubblicato solo
nell’edizione postuma dei Canti (1845).
La Ginestra o Il Fiore del Deserto è praticamente il testamento spirituale di Giacomo Leopardi. Nella canzone
si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il
monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva.  Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla
lava impietrata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Il vesuvio incarna
l’indifferenza della natura che agisce distruggendo ciò che la circonda.
Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua consolante
presenza ma – ben più drammaticamente – la presenza dell'uomo in questi luoghi. La ginestra diviene simbolo
della condizione umana.
Nelle operette morali e nei Canti troviamo le stesse tematiche: natura, morte, rimembranza ecc. ma affrontante
in modo diverso. Dunque la vera rivolta, la vera lotta che l'uomo deve ingaggiare è contro la natura
crudele che non esita a devastare ogni opera umana con la sua inarrestabile forza. Se da un lato i romantici e
Manzoni scrivono per il proprio tempo, Leopardi scrive contro le tendenze dell’epoca e non segue le preferenze
del grande pubblico. Riprende dunque il linguaggio della poesia che non può seguire quello che lui definisce il
“parlar prosaico e volgare” e ai suoi versi Leopardi da una patina di assolutezza fuori dal tempo, al di là di ogni
distinzione tra moderno e antico.
A SILVIA
La lirica viene scritta dopo il periodo del “Silenzio poetico” e fa parte dei canti Pisano-Recanatesi, dei Grandi
Idilli, e siamo quindi nella seconda parte della poesia leopardiana, nella sua maturità quando Leopardidopo il
periodo di cupo pessimismo testimoniato dall Operette Morali, ornò a scrivere versi. Venne scritto a Pisa in soli
due giorni ed è incentrato sulla figura di Silvia, alter ego della giovane Teresa Fattorini, figlia del cocchiere della
famiglia Leopardi, morta a 21 anni. Il nome Silvia è probabilmente ispirata alla ninfa protagonista dell’Aminta
di Tasso.
I motivi fondamentali del testo sono presenti anche in una lunga nota dello Zibaldone in cui Leopardi scriv delle
riflessioni sulle fanciulle tra i 16 e i 18 anni dicendo che esse hanno un qualcosa di divino, spontaneità e
freschezza perché colte nel fiore della gioventù . Da questa schiera di fanciulle sembra sia uscita Silvia che vive
un’ adolescenza durante la quale sogna, fa progetti per ilfuturo ed è felice e serena finchè la morte nonla
strappa alla vita e le impedisce di realizzare questi suoi sogni. Silvia è inoltre proiezione dell’autore e la lirica
non è ispirata da un sentimento d’amore ma dal parallelismi con l’autore. Silvia è colta nella sua adolescenza
fatta di sogni e speranza, simbolo della giovinezza e indirettamente della speranza che però a causa della morte
non è messa in condizione di poterli realizzare. Come Leopardi, che anche se non muore, vede comunque
crollare le sue illusioni a contatto col vero e con la razionalità della vita adulta. Quindi come la morte per Silvia
non le permette di realizzare i propri sogni, così la vita adulta viene vista come una morte per l’autore, una
morte delle illusioni e delle speranza. Il canto è tradotto il due aspetti opposti: quello dell’attesa fiducia delle
speranza accompagnate da immagini liete e da parole vaghe fonte di immaginazione e dall’apparir del vero,
sottolineato da un lessico che denuncia delusione e dolore. L’autore fonde in questo componimento riflessioni
esistenziali e elementi autobiografici.
Il componimento è una canzone (che rinnova in maniera più libera in quanto la canzone tradizionale era
caratterizzata da isostrofismo) libera composta da 6 strofe di varia lunghezza (anisostrofismo) in cui si
alternano liberamente endecasillabi e settenari. Unico schema icorrente è la presenza di un settenario alla fine
di ogni strofa. La lirica è scritta con schema di rima libero e si può dividere in due macroaree:
 PRIMA PARTE: la prima parte comprende le prime tre srofe in cui il poeta rievoca il passato e
l’ambiente familiare di Recanati, descritto qui come un paesaggio ameno “ciel sereno”, “vie dorate”,
“orti”. L’autore inoltre ripercorre il motivo della rimembranza: il poeta sul filo del ricordo ci fornisce un
ritratto di Silvia che rimane piuttosto vago, nell’aspetto e nei tratti giovanili e nelle sue abitudini alle
quali l’autore fa solo un accenno.
o 1^ STROFA: in apertura di testo troviamo un’apostrofe “Silvia” quasi come a richiamarla in vita,
ma lui si rivolge a lei senza far capire al lettore che lei sia morta. Si apre con Silvia e si chiude
con “salivi” che è anagramma di Silvia. Inoltre il lessico scelto in tutta la lirica è essenzialmente
aulico con inversioni e anastrofi che nobilitano la forma troviamo molti riferimenti
petrarcheschi come “rimembri” al v1 e “occhi fuggitivi” al v4 in quanto anche Petrarca definì gli
occhi della sua Laura in tal modo nel 23esimo componimento del Canzoniere. Ci presenta già la
figura di Silvia come lieta e pensosa, un ossimoro che contrappone la spensieratezza della
gioventù e l’incertezza del futuro, in attesa del futuro e di realizzare i suoi sogni. Il riferimento
agli occhi è inoltre essenziale nella poetica leopardiana e infatti nello Zibaldone definsice gli
occhi come la parte più espressiva del viso.

Silvia ricordi ancora quel tempo della tua vita mortale quando la bellezza splendeva nei occhi
ridenti e fuggitivi e tu lieta e pensosa ti accingevi a varcare la soglia della giovinezza?

o 2^STROFA: dopo aver introdotto Silvia l’autore ripercorre l’atmosfera serena che si respirava
nella casa paterna intorno alla quale si diffondeva il canto della giovane. L’autore presenta le
abitudini di Silvia e le sue occupazioni consuete: Silvia tesseva e cantava felice inconsapevole del
suo destino “vago avvenir” al v12. Questi brevi squarci descrittivi realizzati come descrizioni
sensoriali (sentiamo la voce di Silvia, l’odore della primavera) e il poeta fa in modo che tutti i
sensi del lettore siano coinvolti per far sì che percepisca le sensazioni da lui prvate. Tali
descrizioni suggeriscono un ambiente sereno, abbiamo “maggio odoroso” al v13 e la primavera
è un momento di rinascita e di vita e viene a coincidere con la gioventù che è la parte più bella
della vita. Dunque vi è questa analogia ripresa direttamente dalla poesia classica.

Le stanze silenziose e le vie intorno risuonavano del tuo continuo canto, quando occupata in
lavori femminili, sedevi assai contenta di quel futuro indefinito che avevi in mente. Era il mese
di maggio profumatoe tu eri solia trascorere il giorno in questo modo.
o 3^STROFA: è incentrata sull’io poetico, sull’autore stesso e definisce le sue occupazioni
consuete: gli studi definiti attraverso l’ipallage di “sudate carte”, in quanto non sono le carte ad
essere sudate ma il poeta che si impegna negli studi (chiasmo al v 15-16 studi leggadri
SostAgg/Agg Sost). Le sue occupazioni sono però scandite dal canto della donna e dalla visione
di Silvia che lavora alla “faticosa tela”, altra ipallage in quanto non è la tela ad essere affaticata
ma Silvia. L’ultimo verso sembra il verso “trasumanar …” di Dante in cui le parole che l’uomo ha
a disposizione non possono rendere determinati sentimenti e al verso di Petrarca del
Canzoniere “Lingua mortal al suo stato divino giunge non pote” in cui dice che è impossibile
esprimere ciò che si prova. I sentimenti di Leopardi infatti non possono essere resi con le parole
erchè troppo profondi e complessi.

Io, lasciando talvolta gli amati studi e gli impegni faticosi, in cui si consumava la mia giovinezza e
la parte migliore di me, dai balconi della casa paterna, tenevo l’orecchio al suono della ua voce e
alla mano agile che percorreva la tela faticosa. Guardavo il cielo sereno e le vie illuminate dal
sole e gli orti e da una parte il mare in lontananza e dall’altra il monte. Nessuna parola può
esprimere quello che io sentivo nel cuore.

 SECONDA PARTE: la seconda parte è la parte meditativa della lirica e comprende le ultime tre strofe ed
è incentrata sulla consapevolezza del presene, duro, tragico e disincantato che si contrappone
all’idilliaco passato descritto in precedenza. Il disincanto nasce dalla scoperta del vero, dalla
constatazione che le speranze e le illusioni giovanili sono vane e risultano vane dalla presenza della
ragione dell’età adulta come nel caso del poeta che è una sorte di morte spirituale per lui e che quindi si
paragona alla morte fisica di Silvia. Il discorso che fa parte dal soggettivo e arriva a una dimensione
universale.
o 4^STROFA: segna il passaggio dal ricordo idilliaco del passato alla costatazione della disillusa
reltà e ritorna la concezione della natura che inganna l’uomo con una serie di interrogativi privi
di risposta che rendono ancora più amaro il contrasto tra il mondo sognato dai due e la dura
realtà che spegne ogni speranza.

che pensieri dolci, che speranze, che sentimenti, Silvia mia. Come ci sembravano a quel tempo la
vita umana e il destino. Quando ripenso a una speranza così grande ho una sensazione di
angoscia e riprendo a soffrire per la mia sventura. O natura, o natura perché non dai ciò che
prometti? Perché di tanto in tano inganni i tuoi figli?

o 5^STROFA: la perdita delle illusioni e delle speranze viene paragonata a una morte e ciò che è
morte spirituale per il poeta è morte fisica per Silvia che materialmente non ha avuto la
possibilità di vivere la sua vita: l’autore elenca tutte le cose di cui è stata privata la donna come i
complimenti, l’amore, le compagne, la giovinezza nella sua totalità.

prima che l’inverno inaridisse l’erba, perivi combattuta e vinta da un male implacabile e non
vedevi il fiore dei tuoi anni, non ti addolcivano il cuore con i dolci complimenti ora per i tuoi
capelli neri, ora per i tuoi sguardi timidi e che facevano innamorare né le compagne parlavano
d’amore con e nei giorni di festa.

o 6^STROFA: troviamo esplicitato il parallelismo tra la morte di Silvia e la morte spirituale


dell’autore con la morte della speranza. La strofa si conclude con una serie di interrogativi senza
risposta che segnano il passaggio dalla dimensione individuale a quella universale. Questi
interrogativi lasciano una visione amara della vita e del destino dell’uomo costretto a vivere
secondo la cieca legge della natura. L’immagine finale è quella di una fredda e grigia tomba che
si contrappone al calore e ai profumi della prima parte. Dunque abbiamo 3 protagonisti:
l’autore, Silvia e la Speranza che è personificata nella stessa Silvia.

poco dopo si sarebbe spenta anche la mia dolce speranza; anche alla mia vita il destino negò la
giovinezza. Ahimè, come, come sei svanita, cara compagna dei miei anni giovanili, mia rimpianta
speranza. Questo è quel mondo, questi i piaceri l’amore,gli impegni, gli avvenimenti dei quali
parlammo insieme? Questo è il destino degli uomini? Tu infelice, cadesti all’apparire della verità
e con la mano indicavi da lontano la fredda morte e una tomba spoglia.

Potrebbero piacerti anche