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I diritti e i doveri

costituzionali

Lezione XVIII

Prof. Antonio Gusmai


«Diritti e doveri» nella logica «tri-funzionale della società»
Dopo l’enunciazione dei principi fondamentali, la prima parte della Costituzione è dedicata ai
«diritti e ai doveri dei cittadini»: essa categorizza i diritti e i doveri a seconda che riguardino i
«rapporti civili», i «rapporti etico-sociali», i «rapporti economici» e i «rapporti politici».
La tematica dei diritti e dei doveri deve essere compresa tenendo a mente la grande teoria tri-
funzionale della società. Come hanno messo bene in luce coloro che hanno studiato la struttura
delle società umane (si pensi ad Émile Benveniste e, soprattutto, a Georges Dumézil), non esiste
società se non è garantita: a) la funzione economica; b) la funzione culturale; c) la funzione
politica o di governo. Tale schema funzionale triadico è stato incarnato, sino a pochi anni fa, da
strutture sociali di tipo catastale e cetuale (in Europa, il modello è stato questo sino alla
Rivoluzione francese). Come in un alveare (si pensi alle funzioni delle api) ciascun essere umano
aveva “diritti” e “doveri” tendenzialmente predeterminati.
Oggi, in cui le società moderne sono pluraliste e fondate sull’uguaglianza, le tre funzioni citate
(economiche, culturali e politiche) debbono essere lette nella logica popperiana della costante
oscillazione tra società «chiuse» e «aperte». Soltanto in quest’ottica può assumere concreto
signi cato la condizione giuridica del cittadino, ossia lo status di cittadinanza nella realtà della
dimensione costituzionale.
A monte, diritti e doveri, vivono anch’essi una continua oscillazione tra forze conservatrici e forze
innovatrici. Ed è in tale prospettiva che vanno studiati.

Prof. Antonio Gusmai


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L’alveare, modello di società «organica» o «chiusa»


Solitamente, la società chiusa si rappresenta come un organismo. Questa rappresentazione, nelle teorie
politiche, si denomina organicismo. L’organicismo è un concetto di grande importanza e molto usato.
Si può comprendere il signi cato pensando a un esempio classico di società organica: l’alveare.
L’alveare è necessario alle api. Fuori di esso, l’ape isolata muore. L’ape singola esiste solo sul tavolo
dell’entomologo. L’alveare dà vita alle api, ma richiede a ciascuna di esse lo svolgimento di un compito
nell’interesse della sopravvivenza dell’alveare intero. Ci sono l’ape regina con i fuchi che ne
costituiscono la corte, le api guerriere e le api operaie: tutte svolgono una funzione essenziale alla
quale sono predestinate dalla nascita, perché nessuna di esse può cambiare il proprio destino
sovvertendo i ruoli (se potessero farlo, tutte forse deciderebbero di trasformarsi in regine e nessuna si
occuperebbe più della difesa, del nutrimento e della riproduzione; ma in tal modo l’alveare, e con esso
le api, morirebbe). La vita dell’alveare si svolge dunque secondo una legge naturale, che non è
stabilita ma è subita dalle api. È una legge in essibile, necessaria, che sarebbe follia cercare di
modi care.
Non importa se uno studioso di etologia potrebbe avere qualcosa da obiettare a questa ricostruzione
dell’alveare. Quel che importa è che questa è un’idea comune, che frequentemente è stata estesa alla
società umana per raf gurarla come società chiusa. Per esempio, all’inizio del XIX secolo, per
combattere le idee rivoluzionarie «individualiste» francesi, si riportano in vita le antiche concezioni
organiche della società umana. Essa, in analogia con l’alveare, fu concepita come collaborazione di tre
«ordini» naturali e necessari. Il loro compito sso - si disse - è di garantire rispettivamente l’unità del
gruppo e la sua continuità nel tempo (il re, la corte, i giudici), la difesa (l’esercito), il nutrimento (i
lavoratori). Si trattò di una delle tante teorie che concepiscono la società umana, non diversamente da
quella animale, come un organismo che vive secondo una propria legge naturale e immutabile.
Prof. Antonio Gusmai
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…segue: i caratteri fondamentali delle società «chiuse»


L’organicismo assume come punto di partenza la totalità dell’organismo e afferma che l’organismo è
qualcosa di diverso dalla pura e semplice somma delle parti: è un’unità che ha un’esistenza propria, che
precede e comprende gli individui e può pretendere da loro tutto ciò che serve alla propria vita, alla propria
prosperità, alla propria potenza. Analiticamente, le caratteristiche delle società organiche sono le seguenti.

A) La società è necessaria alla vita individuale: la società è necessaria agli uomini che la compongono,
come l’organismo lo è per i singoli organi. Il cuore, il fegato ecc. non esistono fuori dall’organismo e, staccati
da esso, muoiono; la stessa cosa vale per gli individui nella società.
B) L’individuo vive in funzione della società: l’essere umano non vive per sé, per il suo interesse
particolare, ma vive per la società cui appartiene e di cui è un dipendente o un funzionario, così come il cuore
pompa il sangue, il fegato lo depura ecc., non nel proprio interesse ma in in funzione dell’intero organismo.
Gli organi devono funzionare bene af nché l’organismo non ne risenta e af nché l’organismo in buona salute,
a sua volta, possa dare energia e vita ai suoi organi.
C) La società è un’organizzazione differenziata, nella quale ciascun individuo e ciascuna classe sociale
sono destinati a compiti speci ci. Tra di essi non c’è uguaglianza, ma differenziazione.
D) Il compito delle componenti della società è obbligato, non può essere scelto dai singoli. Le singole parti
non possono modi carlo o scambiarselo, così come il cuore non può fare ciò che fa il fegato e viceversa.
E) La vita della società, in ne, è regolata da una legge naturale, necessaria, non stabilita ma subita dagli
uomini. Il contenuto di questa legge sono rapporti concreti tra individui legati tra loro per ragioni biologiche.

La teoria organicista della società può essere maggiormente compresa attraverso il confronto con la
concezione opposta, l’individualismo, il quale rovescia il rapporto tra il tutto e le parti, attribuendo loro il
primato sulla società.
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Le società «aperte», fondate sugli individui


Alla concezione organicista della società si contrappone quella che assume come punto di partenza le sue
singole parti, gli individui in sé considerati. Si parla perciò di visione «atomistica»: gli individui, come gli atomi,
precedono le realtà più complesse. La società è vista, dunque, come la somma dei rapporti che gli individui
stabiliscono volontariamente tra loro: dipende dagli individui, dalle loro decisioni; è una struttura non naturale,
ma arti ciale, che gli uomini costruiscono per servirsene ai propri scopi. È come un orologio, fatto di ruote e
ingranaggi collegati tra loro in vista di uno scopo preciso; cosicché, se qualche elemento funziona male, può
essere riparato, modi cato o, eventualmente, sostituito.
Secondo la concezione atomistica della società, essa, con le sue innumerevoli strutture collettive (famiglia,
associazioni varie, formazioni sociali d’ogni genere), è creata e trasformata dagli uomini secondo i propri
progetti: è un meccanismo, non un organismo. Usando ancora un’immagine antropomorfa, il losofo inglese
Thomas Hobbes (1588-1679), nel suo celebre trattato di loso a politica Il Leviatano (1651), ha parlato di
«uomo arti ciale»: la struttura sociale è arti ciale perché sono gli individui a costituirla così come essi vogliono
che sia.
Si noti: secondo le concezioni individualiste, gli ingranaggi del meccanismo (per restare nella metafora) non
sottomettono integralmente gli individui al loro funzionamento. Se così fosse, si correrebbe il rischio di ridurre gli
uomini a semplici rotelle, a robot disumani, spersonalizzati, anonimi, privi di libertà e volontà. Per le concezioni
fondate sugli individui che assegnano il primato agli uomini invece che all’organizzazione, la società è un
insieme di rapporti, strutture, uf ci (le ruote e gli ingranaggi della metafora) che non assorbe totalmente il tempo,
l’intelligenza, l’attività, i sentimenti, in una parola la vita degli esseri umani. Solo questa autonomia individuale
consente loro di non identi carsi interamente con la società, permette a ciascuno di avere un osservatorio
personale dal quale guardarla, come qualcosa che è al di fuori di sé stessi; di sottoporla a critica e,
eventualmente, di agire per modi carla: permette insomma alle parti di avanzare pretese nei confronti del tutto.
In ciò sta il primato dell’uomo sulla società, primato che è la caratteristica principale dell’individualismo.
In questa caratteristica c’è un rischio per la vita sociale: l’eccesso di individualismo, cioè l’egoismo. Esso
minerebbe alla base le possibilità di costituire società, sarebbe la premessa all’anarco-individualismo e alla lotta
di tutti contro tutti. Prof. Antonio Gusmai
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…segue: i caratteri fondamentali delle società «aperte»
Raf gurare la società come prodotto della libera creatività degli uomini signi ca attribuire a essa
caratteri che sono l’esatto opposto di quelli sopra indicati a proposito dell’organicismo. Queste le
caratteristiche.

I) La società non è indispensabile alla vita individuale. Gli uomini vivono una loro libera vita
individuale, che esiste prima e indipendentemente dalla società. Questa è formata dalla volontà di
quelli. Gli uomini possono uscire dalla società o trasformarla quando essa non corrisponde più alle
loro esigenze. La società è il prodotto degli uomini, non l’opposto: non è vero, cioè, che gli uomini
esistono solo in quanto «parti» di organismi sociali. Gli uomini vengono prima, la società dopo.
II) La società vive in funzione degli uomini. La società serve agli uomini, è uno strumento della
loro vita. È la società che deve funzionare bene nell’interesse degli uomini, non il contrario.
III) La società è un’organizzazione libera. Nella società non esistono compiti naturali prestabiliti,
ma sono gli uomini che li determinano e li modi cano liberamente.
IV) Gli uomini scelgono i loro compiti sociali. Spetta a loro, e non alla natura o alla nascita,
scegliere e distribuire i diversi compiti sociali, perché nessuno è predestinato ad alcunché e tutti
sono autorizzati a cercare la posizione sociale che reputano più conveniente e a lottare per
ottenerla.
V) La società si basa su una legge arti ciale. Il funzionamento della società non è regolato da una
legge naturale concreta e necessaria, che sta sopra gli uomini, ma da leggi astratte ch’essi
stabiliscono e, quando occorre, cambiano. La società non ha una legge, ma siamo noi a dovergliela
dare.
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La società e la costante tensione tra “organicismo” e “individualismo”


Volendo fare sintesi, si può dire così.
Secondo l’organicismo, la società è una struttura di relazioni chiuse; l’essere umano è
dominato dalle esigenze biologiche naturali e il soddisfacimento di tali esigenze determina
necessariamente le forme della vita sociale (tesi sostenuta ancora oggi da alcuni neuroscienziati,
che negano l’esistenza del libero arbitrio: “l’uomo è i suoi neuroni”, sostengono. Nient’altro).
Secondo l’individualismo, invece, la società è una struttura di relazioni aperte; l’essere umano
è in grado di dominare i propri bisogni elementari ed è quindi in grado di organizzare liberamente la
propria vita sociale in vista di questi (tesi sostenute da quanti ritengono che “l’uomo è la sua
cultura”: la sua visione del mondo - e, dunque, la sua creazione - dipende esclusivamente da essa).
Se l’uomo fosse solo animale, avrebbero ragione gli organicisti; se fosse solo libertà creatrice, puro
spirito, avrebbero ragione gli individualisti.
È chiaro però che gli uomini non sono interamente né una cosa né l’altra, ma una miscela di
entrambe le condizioni. Le società umane portano i segni di tutte e due le concezioni; dipende
dagli uomini e dal loro grado di civiltà la prevalenza dei caratteri dell’uno o dell’altro tipo di società.
Vi è instabilità permanente perché vi è contrasto tra due forze opposte, sempre in azione. La
libertà creatrice dell’uomo deve farsi strada tra le dif coltà che la sua natura biologica gli pone
continuamente di fronte; viceversa, i caratteri organici della società devono continuamente
combattere contro l’aspirazione degli uomini alla libertà. La piena vittoria della società organica
equivarrebbe a degradare l’uomo, contro la sua natura di essere dotato di libertà; ma la piena
vittoria della libertà creatrice negherebbe l’altra faccia della medaglia, la realtà biologica dell’uomo.

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…pertanto: la storia delle società umane è una continua


oscillazione tra i due principi della “apertura” e della “chiusura”
Tali principi diventano forze che muovono la storia quando trovano gruppi,
ceti, classi, partiti che li assumono come criteri della loro azione, della loro
politica. Appare allora il loro signi cato storico, al di là di quello concettuale-
astratto di cui si è parlato n qui: la società chiusa è il programma delle
forze conservatrici che operano per il mantenimento dello status quo,
temendo la libertà e le sue opere e, col mutamento, la perdita delle proprie
posizioni di potere; la società aperta è invece il programma politico delle
forze innovatrici che operano per il superamento dell’immobilità e per il
cambiamento sociale.
Ottenuto lo scopo, le parti spesso s’invertono, come mostrano tutti gli
esempi storici di movimenti politici che, affermatisi in nome della società
aperta contro le cristallizzazioni del passato, poi, una volta consolidatisi,
«chiudono» le istituzioni per impedire ulteriori cambiamenti. Così, nel corso
della storia, queste due grandi concezioni della vita sociale - organicismo e
individualismo - si scambiano continuamente le vesti.
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Diritti «individuali» e «collettivi»
Fatta un po’ di chiarezza sulla struttura sociale, è possibile adesso passare allo studio dei diritti e doveri
costituzionali. Un’importante distinzione è tra i diritti (e i doveri) riconosciuti agli individui e i diritti (e i doveri)
riconosciuti a organizzazioni d’individui. Le organizzazioni di individui sono denominate dall’art. 2 Cost.
«formazioni sociali». Esse, nella strutturazione della società, si collocano, anche se talora solo
temporaneamente (come le «riunioni»), tra il singolo individuo e lo Stato. Si può dire che vi è come una
gradazione che inizia dall’individuo singolo, prosegue con la formazione sociale più piccola, la famiglia, e poi
con quelle più ampie, come le associazioni, il sindacato, il partito, la chiesa, ecc. e giunge no allo Stato (lo
«Stato comunità»), che è l’organizzazione politica più ampia. La protezione delle formazioni sociali giunge al
punto di considerarle, esse stesse, titolari di diritti costituzionali. Si pensi ai diritti della famiglia (art. 29 Cost.),
delle associazioni (art. 18 Cost.), dei sindacati (art. 39 Cost.), dei partiti politici (art. 49 Cost.), delle Chiese
(artt. 7 e 8, comma 2 Cost.).
Si comprende quanto le formazioni sociali siano rilevanti. Se non ci fossero, ciascun cittadino sarebbe solo di
fronte allo Stato (lo «Stato apparato») e sarebbe perciò esposto al potere soverchiante di quest’ultimo. Invece,
l’unione reciproca di più individui moltiplica, per così dire, la capacità di partecipazione alla vita pubblica e la
forza di ciascuno di essi, tramite il collegamento con la forza degli altri.
Si deve però ribadire che le formazioni sociali sono previste dall’art. 2 Cost. come mezzi di sviluppo della
personalità dei singoli. Ciò signi ca che il ne ultimo è sempre la persona. Perciò, i diritti delle formazioni
sociali non si possono trasformare in poteri che soffocano coloro che ne fanno parte. Ad esempio,
l’appartenenza agli ordini religiosi è perpetua per la Chiesa, ma per lo Stato è sempre revocabile. Questo
perché, secondo il diritto dello Stato, nessuno può essere costretto a stare in strutture collettive dalle quali
intende uscire (anche se ha pronunciato un voto religioso di appartenenza). La famiglia è un luogo di crescita
delle persone, ma non può diventare un luogo di sofferenza in cui l’autoritarismo e la prepotenza di qualcuno
schiacciano la personalità degli altri. Quando ciò avviene, è possibile sciogliere il vincolo coniugale (il divorzio) o
sottrarre i gli alle violenze dei genitori, attraverso provvedimenti dei giudici minorili. Se un’associazione viola i
diritti degli associati, questi possono, oltre che uscirne, rivolgersi anche a un giudice per ottenere il rispetto dei
propri diritti nei confronti dell’associazione stessa.
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Diritti «negativi»
I diritti sono pretese garantite dal diritto. Il contenuto delle pretese può essere «negativo» o «positivo». Si tratta di
una distinzione molto importante.
I diritti negativi si denominano così perché consistono in pretese di non essere impediti, di essere lasciati
tranquilli nello svolgimento della propria libertà (per esempio, di non essere arrestati, di non essere ostacolati nel
manifestate il proprio pensiero etc.). A questi diritti corrisponde l’altrui dovere di astensione da interferenze,
impedimenti, turbative. Allo Stato si chiede di non ingerirsi nell’ordine sociale, ma di essere il garante delle sue libere
dinamiche, intervenendo solo per prevenire e reprimere gli abusi. Si tratta della concezione propriamente liberale
dello Stato (Stato-gendarme o Stato-guardiano notturno), il cui obiettivo è la garanzia del libero e ordinato sviluppo
delle energie sociali. Perciò, si dice che i diritti negativi sono «diritti a non» (subire limitazioni). La libertà ch’essi
proteggono è invece la «libertà di» (poter fare quel che si vuole, nel rispetto della legge). Esempi di libertà negative
sono: la libertà personale (ex art. 13 Cost. garantita da una doppia «riserva»: assoluta di legge e di giurisdizione); la
libertà di domicilio (ex art. 14 Cost., il domicilio comprende ogni luogo in cui si esprime la vita privata del singolo); la
libertà di comunicazione (ex art. 15 Cost., tutela oggi anche il diritto alla privacy); la libertà di circolazione e
soggiorno (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e di associazione (art. 18 Cost.); la libertà di culto
(art. 19 Cost.).
I diritti negativi, dunque, si affermano nell’Ottocento, quando il regime liberale si accontentava di assicurare
l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge (c.d. «formale») e lasciava all’intraprendenza dei singoli il compito di
soddisfare i propri bisogni primari, trascurando il fatto che solo una minoranza aveva i mezzi economici per farlo. Ciò
corrispondeva a una precisa ideologia, secondo la quale ognuno è arte ce della propria vita e della propria fortuna.
Gli infelici, i diseredati, i poveri dovevano imputare solo a se stessi la propria condizione. L’autore che meglio di ogni
altro teorizzò questa posizione, avendo grande successo tra le classi agiate, fu il losofo Herbert Spencer. Egli
auspicava che i soggetti più deboli fossero lasciati a loro stessi e quindi «naturalmente» eliminati dai più forti. Nella
sua visione completamente estranea alla solidarietà tra gli uomini, la sopraffazione dei forti sui deboli si giusti cava in
nome del miglioramento della razza umana e dell’esigenza che solo i più «adatti» alla vita sociale potessero diffondere
la propria discendenza. Con questi concetti, Spencer esportò le concezioni evoluzionistiche di Charles R. Darwin
dall’ambito della biologia a quello della sociologia e della politica.
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Diritti «positivi» o «sociali»
Con la Costituzione repubblicana, sotto le in uenze del pensiero socialista e cristiano e con l’accesso
allo Stato democratico delle classi più povere, prevalgono idee del tutto diverse da quelle vigenti
nell’Ottocento liberale.
L’indigenza, infatti non è - o, si auspica, non dovrebbe più essere - considerata una colpa dei singoli
ma, principalmente, una responsabilità della società. Le cause che producono squilibri, ingiustizie,
emarginazione etc., sono infatti attribuite ai meccanismi della società (si pensi agli effetti del capitalismo
spinto moderno). Da ciò scaturisce l’esigenza di una politica sociale dello Stato. Questa politica è
essenziale per il mantenimento della democrazia. Invero, non c’è democrazia reale se non in una
società nella quale tutti siano liberati dalla schiavitù dei bisogni minimi vitali e possano così partecipare
alla vita politica e sociale del Paese.
Grazie alla positivizzazione del principio di uguaglianza di tipo sostanziale (art. 3, comma 2,
Cost.), si affermano dunque i «diritti positivi», che invece comportano la pretesa di ottenere qualcosa
da parte dello Stato. Come, per esempio, prestazioni e servizi per la sicurezza della vita e per il
soddisfacimento di bisogni essenziali. Si pensi al diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute,
all’assistenza, alla sicurezza sociale etc. Perciò, questi sono «diritti a» (ottenere prestazioni). La
libertà che essi proteggono è la «libertà da» (dal bisogno, dall’ignoranza, dalle malattie). Non ci si
accontenta dell’astensione dello Stato e delle garanzie (formali) contro gli abusi: si richiede, invece, che
esso operi positivamente per dare ai singoli ciò di cui hanno bisogno, per promuovere il loro benessere.
Si chiede dunque allo stato di «fare», cioè di destinare risorse pubbliche e promuovere attività per
creare posti di lavoro, costruire ospedali, istituire scuole, pagare insegnanti e medici, etc. Poiché l’opera
dello Stato è rivolta, in questi casi, a promuovere una società in cui i bisogni essenziali siano garantiti a
tutti, i diritti positivi si dicono «sociali» e lo Stato stesso si denomina Stato di benessere (o Welfare
State).
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Segue: i servizi sociali
Lo strumento con cui i diritti sociali sono resi concreti è costituito dalla rete
dei «servizi sociali». Si tratta di un complesso di servizi, di cui alcuni sono riservati
ai soli lavoratori e loro familiari, altri all’intera comunità: il ramo del diritto che ne
studia l’organizzazione è la legislazione sociale.

I principali meccanismi attraverso cui si svolge la protezione della sicurezza sociale


sono i seguenti:

1) la previdenza sociale (ex art. 38, comma 2, Cost., si pensi all’Istituto nazionale
della previdenza sociale, all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni
del lavoro, dunque alle assicurazioni contro le invalidità, alle pensioni di vecchiaia e
di anzianità, alle indennità per la disoccupazione involontaria).
2) l’assistenza sanitaria (ex art. 32 Cost., corollario del diritto alla salute, unico
diritto che la Costituzione de nisce «fondamentale»);
3) l’assistenza sociale (ex art. 38, comma 1, Cost., il legislatore ha creato un
complesso sistema assistenziale per gli anziani, contro la povertà, a favore dei
disabili, contro le dipendenze, per gli immigrati).
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Qual è la differenza tra diritti «negativi» e


«positivi»?
Esiste una differenza essenziale tra i diritti «negativi» e i diritti «positivi». I
primi possono essere fatti valere direttamente davanti ai giudici,
chiedendo condanne di persone e annullamenti di atti (chiedendo cioè la
salvaguardia della non interferenza); i secondi, invece, richiedono la messa
in atto di politiche sociali (politiche del lavoro, sanitarie, dell’istruzione etc.).
In altri termini, mentre i diritti negativi si rivolgono contro il potere pubblico,
temendone gli abusi, i diritti sociali si rivolgono innanzitutto alla legge e poi
all’Amministrazione pubblica. Mentre i garanti dei diritti negativi sono i
giudici, i garanti dei diritti positivi o «sociali» sono, in n dei conti, i
cittadini stessi, i quali, con il proprio voto, possono orientare il Parlamento e il
Governo verso scelte politiche adeguate ai diritti stessi.

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Segue: tutti i diritti «costano»
La protezione dei diritti, in realtà, comporta sempre delle spese. Ma c’è una differenza tra i «diritti
negativi», che implicano la predisposizione di apparati per la prevenzione e la repressione in caso
di violazione (forze dell’ordine, tribunali, carceri etc.), e i «diritti positivi», che richiedono apparati non
per le violazioni ma per l’attuazione (investimenti produttivi, ospedali, scuole, strutture previdenziali).
Lo Stato sociale è dunque quello che si impegna in politiche di promozione dei diritti positivi. Tale
impegno implica la disponibilità di grandi risorse nanziarie cui lo Stato provvede attraverso il
prelievo tributario o attraverso l’indebitamento (emissione di «titoli» del debito pubblico). In ogni caso
ciò si traduce in pressione scale (anche l’indebitamento nisce per trasformarsi, prima o poi, in imposte
e tasse per ripagare coloro che hanno prestato denaro allo Stato, sottoscrivendo i titoli del suo debito).
Se la richiesta di servizi sociali è crescente, si determina uno squilibrio tra le risorse reperibili e le spese
necessarie. Quando si rompe l’equilibrio strutturale tra le entrate e le spese, si determina quella che
si è chiamata la «crisi scale», dalla quale deriva l’impossibilità di dare risposta alle richieste di
prestazioni «che costano» e quindi la riduzione dei diritti sociali.
La situazione in Italia è aggravata da una distorta concezione dello Stato sociale e da una falsa
interpretazione delle norme costituzionali che prevedono i relativi diritti. Invero, i diritti sociali, a
differenza dei diritti negativi, non spettano a tutti indifferentemente. Secondo la Costituzione, essi
devono valere a proteggere soltanto, o con precedenza, coloro che si trovano in condizioni di bisogno.
La c.d. «universalità» delle prestazioni si traduce in «Stato assistenziale», che è una degenerazione
dello Stato sociale. Le prestazioni indifferenziate a favore di chi può come di chi non può, oltre a pesare
in maniera insostenibile sulla nanza pubblica, violano il principio di uguaglianza, trattando in modo
uniforme situazioni diverse. L’art. 3, comma 2, Cost., richiede che l’impegno della Repubblica a
protezione dei cittadini si concentri a favore delle categorie meno favorite, senza estensioni
indiscriminate.
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Le libertà e i diritti non sono mai illimitati.


I diritti e libertà costituzionali non conoscono illimitatezza. Essi possono, come visto, trovare limitazioni anzitutto
nelle risorse economiche disponibili. Ma, giuridicamente, anche nelle «riserve di legge» e «di
giurisdizione» previste dalla Costituzione (ad. es, l’art 13 Cost. prevede entrambe le riserve - di legge e di
giurisdizione - non solo a garanzia, ma anche a limitazione della libertà personale). In alcuni casi, come per
l’iniziativa economica (art. 41) e per la proprietà privata (art. 42), la Carta fondamentale pretende che l’esercizio
delle libertà e dei diritti sia «funzionale» per la collettività. L’attività economica dei privati, ad esempio, non
deve essere concepita soltanto come realizzazione dell’interesse individuale agli utili d’impresa, in quanto, dice
la Costituzione, essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» e, pertanto, la legge «può
determinare programmi e controlli per indirizzarla a ni sociali».
Non solo: tutti i diritti subiscono, nella pratica, «bilanciamenti». Ciò signi ca che, attraverso l’attività
interpretativo-applicativa, i giudici «relativizzano i diritti», al ne di evitare che la necessaria coesistenza di
diversi interessi possa condurre alla soppressione di alcune libertà a vantaggio “assoluto” di altre. Nella realtà
della dimensione giuridica, i diritti si “combinano” tra di loro, si “compromettono”. Nessun diritto e nessuna
libertà può «tiranneggiare», sino a comprimere totalmente la garanzia di un’altra libertà o di un altro diritto
costituzionalmente tutelato (Corte cost., sent. n. 85 del 2013). Ad esempio: il diritto di impresa può collidere con
il diritto alla salute della popolazione che vive nelle vicinanze di fabbriche inquinanti e questo può collidere col
diritto al lavoro di quanti sono impiegati nella produzione (si pensi al caso Ilva di Taranto); il diritto del concepito
di venire al mondo (che la Consulta ha tratto dall’art. 2 Cost.) può collidere con la salute della gestante, quando
la gravidanza è a rischio (Corte cost., sent. n. 27 del 1975); il diritto al riposo settimanale (domenicale) dei
lavoratori (art. 37, u.c., Cost.) può contrastare con le esigenze di buon funzionamento di imprese che utilizzano
impianti a ciclo continuo, etc.
In conclusione, nei giudizi di bilanciamento, un diritto (e la corrispondente libertà) può temporaneamente
prevalere su un altro diritto (in relazione a quel singolo caso concreto), ma mai annichilirlo del tutto.

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La crescita esponenziale dei c.d. «nuovi diritti»
L’evoluzione della coscienza sociale e, soprattutto, il progresso scienti co e tecnologico
hanno portato, negli ultimi anni, a far dichiarare ai giudici l’esistenza di «nuovi diritti» (e
corrispondenti libertà) costituzionali.
Si pensi al diritto fondamentale all’abitazione, all’alimentazione adeguata, al proprio decoro e
alla reputazione, alla riservatezza, alla procreazione, all’identità sessuale,
all’autodeterminazione terapeutica etc. Tutti questi diritti oggi esistono al di là di una speci ca
previsione costituzionale. Per questo si de niscono «nuovi».
In merito, parte della dottrina e della giurisprudenza hanno ritenuto che tali diritti trovano
nell’art. 2 Cost. la loro giusti cazione. Tale principio fondamentale, infatti, stabilendo che «la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», ammette che “i diritti”
«preesistano» “al diritto”: l’ordinamento giuridico, in sostanza, sarebbe chiamato a
riconoscerli in quanto già affermatisi nella realtà sociale.
Questa tesi, che vede nell’art. 2 Cost. un «catalogo aperto di diritti», viene spesso associata
all’ideologia giusnaturalista. In realtà, si tratta semplicemente di prendere atto dell’esistenza
di una dimensione dinamica del diritto che siologicamente porta la comunità, attraverso i
giudici, ad avanzare pretese giuridiche di rilevo costituzionale non ancora positivizzate - in via
generale - dal legislatore.
Il fatto che nel nostro ordinamento si neghi ancora la valenza di fonte del diritto alla
giurisprudenza, porta studiosi e tecnici a erroneamente “licenziare” la questione come
«giusnaturalista». Quando, invece, la questione è al massimo riconducibile a parte del
pensiero «giusrealista».
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I doveri costituzionali
Sinora s’è trattato dei diritti, ossia di situazioni giuridiche che ampliano le possibilità di individui e
formazioni sociali. Ma, af nché possano essere soddisfatte, nel miglior modo possibile, le pretese
della comunità, è indispensabile che essa adempia ad una moltitudine di doveri (si pensi
all’importanza del dovere-obbligo di non circolare a causa dell’emergenza Covid-19, o al dovere
di vaccinarsi).
Uno Stato privo del potere di imporre doveri non sarebbe nemmeno immaginabile. Anzi, si
può aggiungere, che mentre non si può immaginare uno Stato in cui non esistano doveri, è
perfettamente immaginabile uno Stato che non riconosce alcun diritto ai suoi «sudditi» (lo Stato è
nelle mani di un despota o di un tiranno). I doveri (come soggezione al potere statale) sono la
situazione primordiale e ineliminabile in cui si trovano i singoli nei confronti dello Stato. I
doveri sono sempre esistiti e sempre esisteranno, in qualunque Stato. I diritti sono invece una
conquista, ottenuta nel corso della storia attraverso le Costituzioni.
Perché allora la Costituzione prevede più diritti che, come si vedrà, doveri? Il fatto è che i diritti,
per esistere, devono essere proclamati dalla Costituzione, che vincola anche lo Stato a
rispettarli. I doveri possono essere invece imposti dallo Stato in base ai propri ordinari
poteri, anche se non trovano alcuna base nella Costituzione (alla sola condizione che non
violino i diritti che la Costituzione espressamente garantisce). Si tratta di una lista potenzialmente
quasi in nita (si pensi ai doveri imposti dal codice penale, al dovere di eseguire gli ordini legittimi
delle pubbliche autorità, al dovere di prestare testimonianza sotto giuramento etc.).
Il potere dello Stato di imporre l’osservanza di doveri ai singoli non si basa, dunque, su speci che
norme costituzionali, ma sul semplice fatto che lo Stato esiste.
Prof. Antonio Gusmai
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Segue: che cosa si intende per «doveri verso lo Stato»?
Dipende, occorre distinguere. Nello Stato autoritario, si tratta di doveri nei confronti dello «Stato-
apparato»; nello Stato totalitario, nei confronti dello «Stato-tutto»; nello Stato repubblicano, i doveri
sono stabiliti a vantaggio dello «Stato-comunità», cioè a favore di tutti i cittadini, e sono fatti valere
concretamente dallo Stato-apparato con i suoi organi. Questo punto è essenziale. Se lo si dimentica, i
doveri possono sembrare solo pretese vessatorie che i cittadini sono autorizzati moralmente a cercare
di raggirare e trasgredire. Diverso è, invece, se ci si rende conto che si sottostà a doveri perché ciò è
nell’interesse di tutti e, alla ne, anche di se stessi (si pensi, ancora, all’importanza del dovere di
vaccinarsi durante una pandemia).

Ad ogni modo, la Costituzione contiene i seguenti riferimenti ai doveri, tutti non facilmente traducibili
in ben precise regole di comportamento:

1) i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.);


2) il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale e spirituale della società ( art. 4, comma 2, Cost.);
3) il dovere di fedeltà alla Repubblica (art. 54 Cost.);
4) il sacro dovere di difesa della patria (art. 52 Cost.);
5) il dovere di pagare le imposte e le tesse (art. 53 Cost.).

A garanzia dei cittadini, l’art. 23 Cost. detta una disciplina generale degli obblighi e dei doveri speci ci
di prestazione personale e patrimoniale. È prevista una riserva di legge (relativa) la quale vieta
l’esercizio di qualsiasi potere autoritario, se non è fondato sulla legge (principio di legalità).
Prof. Antonio Gusmai
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