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Francesco De Sanctis: “Le Stanze” – Quattrocento letterario

1. Nel secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una
specie di Pompei, da visitare e studiare. L’Italia ritrova i suoi antenati e l’impulso dato dal
Petrarca per la poesia e dal Boccaccio per la letteratura diventa una febbre. La nuova era fu
chiamata Rinascimento. Roma era la capitale del mondo, gli stranieri erano barbari e gli
italiani restavano gli antichi romani con sangue latino. La loro lingua era il latino, anche se
la lingua parlata era il volgare, un latino usato dal volgo. La storia ricorda con gratitudine
gli Aurispi, i Guarini, i Bracciolini che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli
scopritori sono insieme scrittori e professori. Pullulano i latinisti e i grecisti, stimolati non
solo dalla fame, ma anche dal guadagno. Sorgono centri letterari nelle grandi città: Roma,
Napoli, Ferrara e sopratutto Firenze. E quei centri si organizzano e diventano accademie:
la Pontaniana (Giovanni Pontano) a Napoli, l’Accademia Neoplatonica (Marsilio Ficino) a
Firenze, la Romana (Pomponio Leto) a Roma. La filosofia neoplatonica prende il posto di
quella aristotelico-tolemaica e nasce lo stimolo a scoprire le bellezze dell’Oriente (notevole
la dottrina di Pico della Mirandola che notificava l’Oriente come culla della società). La
cultura acquista una fisionomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare si scosta dagli
elementi locali e municipali e prende aria italiana. L’Italia però è dei letterati, il suo centro
di gravità nelle corti. Non viene dal popolo e non si cala in esso: il popolo è coperto dalla
voce dei cortigiani e dei letterati che in versi latini zittiscono la plebe. C'è un ritorno del
mecenatismo augusteo (anticipato dal Petrarca): i letterati servivano chi pagava meglio,
erranti per le corti, si vendevano all’incanto.
2. Questa stanchezza e servilità di carattere, con una profonda indifferenza religiosa, morale e
politica è costume e abito sociale e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinica.
È una letteratura senza veli, più spacciata in latino che in volgare. Ciò che importa non è
cosa si deve dire, ma come si deve dire. La bella unità della vita è rotta; il letterato non ha
obbligo di avere delle opinioni, a lui spetta solo dargli la veste. Il suo cervello è un ricco
emporio di frasi, di sentenze, di elegante. Il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonia:
forme vuote e staccate da ogni contenuto.
Il movimento sorto a Bologna e a Firenze era intellettuale: si cercava negli antichi forma e
scienza; sorge la critica. I testi antichi non vengono più confusi e considerato un unico
ammasso, ma vengono criticati, commentati e studiati. Libri di grammatica e retorica
vengono pubblicati. Spicca tra tutti l’opera Eleganze di Lorenzo Valla. Effetti sono una
certa stanchezza di produzione, inerzia del pensiero, imitazione delle forme antiche,
uomo e natura viste alla maniera classica. I classici verranno in seguito incolpati di questo
Quattrocento vuoto e senza sintesi, ma essi sono innocenti poiché la colpa è da additare ai
limiti intellettuale dei letterati che dei testi latini non poterono che riprodurre solo il
meccanismo esteriore: sotto quel meccanismo c'è il vuoto. L’ossessione per la forma
ucciderà il contenuto.
3. Nel Duecento e nel Trecento, caratterizzati da mistiche astrazioni e disputazioni sottili, il
latino fu scolastico, mentre nel Quattrocento fu idillico, artistico e vivo, nel quale il dolore
era elegiaco e il piacere idillico. La vita era un riso della natura e dell’anima. Espressione di
questo latino artistico è Giovanni Pontano nei suoi Amori e nei suoi Bagni di Baia, ove è
tutto vezzeggi e languori. Nella Lepidina la crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie
dell’immaginazione e i profumi dell’eleganza, negati agli illepidi atque inelegantes. Spirito
ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta. Accanto al latino
figurativo del Pontano, si trova la semplicità del Poliziano, ispirato dalla natura nella stesura
del suo Rusticus. Il suo latino non cade nel vuoto, è modulato con grazia e i suoi canti non
solo stimati come lavori di pura erudizione e imitazione. Il latino era dunque stimato come
la lingua della cultura e della scienza, intesa da tutti gli uomini istruiti.
4. Queste tendenze trovavano naturale resistenze a Firenze, dove il volgare aveva messo delle
radici ferree, illustrato da tanta gloria. Grandissima era l’ammirazione dei classici,
frequentatissimi gli Studii del Landino, del Crisolora, del Poliziano: si disputava di
Platone e Aristotele, preferendo il primo, intriso di plotinismo, e si parlava di volgare come
lingua nazionale. Si spiegavano Dante e Petrarca (Filefo e Landino) e si sosteneva
(Leonardo Bruni) che il volgare era il latino dell’antica Roma. Vi erano anche degli
oppositori; si sosteneva che Dante era un ignorante e uno spropositato.
Certamente il vezzo del latino introduceva nel volgare forme, vocaboli e frasi pedanti e
latineggianti. Ma il volgare non morì, poiché non era facile guastare una lingua così legata
alla vita.
5. La forza della lingua volgare era che rifletteva la vita pubblica e privata poiché divenuta
parte inseparabile della società nelle sue usanze e nei suoi sentimenti. Se gli uomini colti
scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita quotidiana adoperavano
il volgare. Il mondo ascetico e mistico scolastico del secolo passato era ritenuto il rozzo e
barbaro e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è
straniera l'anima. Era uno strato di produzione di sviluppo il mondo profano, la gaia scienza
dava i suoi colori anche alle cose sacre. La lauda tende al rispetto, la leggenda tende alla
novella. La leggenda è un racconto meraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico
con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Esempi di leggende sono quelle scritte dal
Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che compare nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo.
Con la sua natia rozzezza è andata via anche la semplicità, l'unzione, ogni sentimento
liturgico e ascetico. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe
mutazioni nello stato dei personaggi morale o materiale; i contorni sono chiari e decisi,
l'azione è tutta esteriore e superficiale e si ferma solo quando un'amputazione improvvisa
provoca esplosioni liriche di gioia, dolore, meraviglia. Questa è la lirica superficiale propria
del Boccaccio.
La lirica è sacra di nome e non a quella elevazione dell'anima verso un mondo superiore,
propria dell'Alighieri. C'è la preghiera ma non c'è il sentimento l'azione è pedestre e
borghese, non trasformata dall'immaginazione, non animata dal sentimento. C'erano le
confraternite che davano queste rappresentazioni, ma si andava a queste rappresentazioni
sacre come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi. Il mistero era per essi un piacevole
esercizio dell'immaginazione. Se quelle rappresentazioni non poterono mai acquistare la
serietà e la profondità di un vero mondo drammatico su perché manco all'Italia un ingegno
drammatico. I più pensano che la colpa ad abitare a latino poiché a tiro a segno mini corti e
il mistero fu trascurato come cosa del popolo. Ma la verità è che il povero latino non potevo
uccidere nulla, perché nulla c'era: nessuna serietà di sentimento religioso, politico, morale,
pubblico e privato, da cui potessi uscire fuori il dramma. Il mistero è un aborto, è materia
sacra che non dici più nulla la mente al cuore. La serietà e la solennità della materia era in
flagrante contraddizione con quella forma tutto senso è tutta superficie. Ma il mistero ci fu e
ci fu un ingegno a realizzarlo. Quel mistero fu l'Orfeo e quelli ingegnoso di Angelo
Poliziano.
6. Angelo Poliziano (1454 - 1494) fu la più spiccata espressione della letteratura
quattrocentesca. C'è già l'immagine schietta del letterato, fuori da ogni partecipazione alla
vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religioso o politico o morale, cortigiano, amante del
quieto vivere e che alterna ore di studio e di lieto ozio. Comincio la sua vita letteraria
voltando l'Iliade in latino. Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore. Si
trova da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. Il suo studio e la sua villetta di
Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placito. Aveva uno squisito sentimento
della forma nella pieni differenza di ogni contenuto. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il
Medioevo era un mondo in tutto estraneo alla sua cultura e al suo sentire. Il lui è tutto il
sentimento della bella forma. Questo era la cultura, l'umanità, il Risorgimento, orgoglio di
una società erudita, artistica, digli che, sensuale, qual è il Boccaccio aveva abbozzato e che
ora si specchia nel Poliziano come suo modello ideale. Si dice che il cardinale Gonzaga,
rientrando in patria, per ornare le pubbliche feste, chiede al Poliziano di scrivere per lui
un'opera e angelo scrive l'Orfeo. L'Orfeo di Poliziano è l'evoluzione quattrocentesca del
Ninfale e dell’Ameto di Boccaccio. Orfeo è il grande protagonista di questo è il regno della
cultura, venuto dall'antichità giovane e glorioso nei carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo
fondatore dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere gli
uomini impietosisce la morte. Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il
regno dell'umanità, inaugurando l'umanesimo. Sembrano ritornati i tempi di Atene e Roma.
Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell'arte, la sola
religione sopravvissuta, e si vive nell'immaginazione. È un mondo mobile e superficiale; la
parola e come ebbra e si esala nel suono e nel canto, il pensiero appena iniziale incalzato
dalle onde musicali, la tragedia è un elegia, l'inno è un idillio, e ne esce fuori un mondo
idillico- elegiaco, che ti lusinga, ti accarezza. Questo mondo non ha altra serietà, se non
quella che gli dall'immaginazione. La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili: il
settenario ammorbidisce l'endecasillabo, la ballata dà le ali all'ottava, le rime si annodano
nei più voluttuosi intrecci; il dialetto ora è nella sua grazia, la lingua ora nella sua maestà.
7. L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel
mondo borghese della cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproduce le giostre, il
mondo profano dei romanzi e delle novelle, la cavalleria. Le giostre sono dei duelli nel
torneo medievale tra due cavalieri singoli in onore della loro amata: erano in realtà una
rappresentazione teatrale e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi dei
romanzi. Le Stanze per la giostra di Giuliano de' Medici, opera incompiuta del Poliziano,
a causa della morte improvvisa, avvenuta nel 1476, di Giuliano, è uno dei residui di questa
cultura cortigiana. Nella giovane mente del Poliziano non c'è il romanzo: c'è Claudiano,
Stazio, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio e infine il Petrarca. C'è tutto un mondo di
immagini fluttuanti, sciolte, disseminate. È un mondo che viene fuori da un legame
artificiale e meccanico poiché la giostra non è il motivo di questo mondo, è una semplice
occasione. Il contesto è frivolo e la trama debole. La sua validità è nell'opera stessa, nello
spirito che la muove ed è in quel vivo sentimento della natura e della bellezza che il
Boccaccio tanto elogiava nelle sue opere. Non si hanno non si hanno più gli schizzi di
Dante, ma i quadri del Boccaccio (Foscolo), non più la faccia di Giotto virgola ma la figura
del Perugino (Carducci). La sensualità filtrata tra tanta dolcezza di note lascia in fondo la
sua parte grossolana ed esce fuori purificata; nel Poliziano l'immaginazione come un
crogiuolo, dove l'oro ro si affina. La sensuale e volgare Griseida spoglia in quel crogiuolo la
sua parte terrena e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni bel
allegorico dantesco e petrarchesco. Simonetta Cattaneo fu una gentildonna italiana tra le
più note del Rinascimento, amata da Giuliano de' Medici e da Sandro Botticelli, morta
improvvisamente il 26 aprile del 1476 di tisi o peste. Tra il poeta suo mondo non c'è
comunicazione diretta: Ci stanno Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio che gli
prestano loro immagini e loro colori. Ciò che riceve esce dalla sua stampa come una nuova
creazione scienze mitologiche classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo. Ciò che
prova non è sensualità, ma voluttà, sensazione alzata sentimento, che fondò il plastico e te
ne fa sentire la musica interiore. Il sentimento che ne esce ti chiude nella contemplazione e ti
tieni avvinghiato come se fosse il tuo mondo, da guardare con meraviglia nella sua varietà.
Il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente musicale, ma il
corpo. Il periodo e l'ottava di Boccaccio sono divenute la base della nuova letteratura.
L'ottava del Boccaccio diffusa, pedestre, insignificante, qui si pizza, prendo una fisionomia.
La stanza però non ti danno insieme ma le parti; non ti da la profondità, ma la superficie,
quello che si vede. Deve essere l'anima cogliere l'insieme tramite la voluttà, nuova musa
della letteratura. In Dante non c'è voluttà ma ebbrezza, poiché molto trascendente. In
Boccaccio c'è sensualità, non voluttà. Essa è l'ideale della carne o del senso, è il senso
trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Nelle Stanze, per via della
tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e delicatezza nell'eleganza e nella
pulizia della forma, possiamo definirla una voluttà idillica. L'Orfeo e le Stanze
rappresentano i due modelli di questa letteratura che, iniziata dal Boccaccio, andrà fino al
Metastasio.
8. Lorenzo Il Magnifico (1449-1492) non aveva la cultura e l’idealità del Poliziano, ma aveva
molto spirito ed immaginazione, qualità della borghesia italiana. Cristiano e platonico in
apparenza, epicureo e indifferente in realtà, allegro, compagnevole, ora scriveva laude e
strambotti, ora si abbandonava ad orge notturne e disputazioni accademiche. Alla violenza
psicologica che esercitava sul popolo succedeva la malizia: Lorenzo riuscì a personificare
tutto il popolo fiorentino, diventando lui stesso il popolo, e ad ucciderlo. Esordì con il
sonetto, petrarchista, ma incapace di rendere quell’analisi psicologica, quel miscuglio di
sensuale, idillico, elegiaco del maestro. Del Petrarca rimane, grazie ai sonettisti, solo il
cadavere: sfuse immagini vuote ed insofferenti. Di lui mancano l’immaginazione, la
malinconia e l’estasi; del suo mondo restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello
spirito. Il sonetto e la canzone sono considerate quasi consacrate ed inalterabili, ma un
nuovo spirito si fa spazio con l’ottava rima (o stanza). Modello di questo genere è la Selva
d’Amore di Lorenzo, composizione a stanze, alquanto sazievole, di cui spicca il soverchio
naturalismo.
9. La differenza con il Poliziano è che il Magnifico è un acuto osservatore naturalista,
amante delle bella forma, ma il Poliziano è l’artista, che rappresenta il sentimento e
l’armonia della natura. Nel genere dell’alta poesia idillica, il cui modello è il Ninfale di
Boccaccio, oltre al Petrarca, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare le sue
fiamme poetiche per tutta la vita. La donna cala dalle nubi dantesche e acquista una storia
umana. L’Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere. La
Nencia è il capolavoro, sembra una novella boccaccesca, ove Lorenzo lascia la mitologia e
gli amori sentimentali e idillici ed entra nel vivo della società, rappresentando gli amori di
Vallera e Nencia, due contadini. Qui l’idillio si accompagna al sale comico. Si parla di
idealità comica: caricatura fatta con brio e grazia. Il poeta è qui voce di quella società
licenziosa e burlevole. I Beoni o il Simposio non sono che una parodia della Commedia e
dei Trionfi: le immagini sacre di Dante sono torte a significare le sconcezze e le turpitudini
dell’ebbrezza.
10. Lo stesso spirito è nelle ballate e nei canti carnascialeschi: sensualità illuminata
dall'allegria e dall’umor comico. Il mondo convenzionale dei trovatori è andato via con il
suo vocabolario. Allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l’amore non è
un affetto, ma un divertimento. Il motto comune è la brevità della vita, l’orrore della
vecchiezza, il dover cogliere la rosa mentre è fiorita. Questo perpetuo carnevale si
manifesta nei Canti Carnascialeschi di Lorenzo de’ Medici, con i suoi carri ora con
rappresentazioni mitologiche (come il Trionfo di Bacco e Arianna), ora con corporazioni di
arti e mestieri. Motivo generale è l’amor licenzioso, stuzzicato con equivoci e allusioni che
mettono in moto l’immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in
trionfo. In questa plebea pozzanghera finiscono serenate, mattinate, dipartite, ritornate,
lettere, strambotti, cacce, mascherate, frottole, ballate: è il mondo del Boccaccio e del
Sacchetti, ma che perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie. La più schietta voce, in mezzo a
letterati corrotti, era quella di Angelo Poliziano, che di rado capita negli equivoci. Nelle sue
ballate prevale la gentilezza e la grazia delle montanine del Sacchetti. Nelle sue Lettere e
nei suoi Rispetti non si trovano né novità di idee, immagini o situazioni né una particolare
impronta personale, come nel Petrarca. Si trova però il repertorio segreto del popolo, che
traduce in forma elegante il repertorio comune della plebe. I motivi sono semplici e comuni,
come la bellezza della dama o del damo, lo sperare, l’incitare, la dipartita, la gelosia ecc...
Le forme restano uguali: stanze con rime variamente alternate, canzonette di settenari o
ottonari, la ripigliata (vezzo toscano).
Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l’aria di chi vuole far
parte di quella vita, Angelo vela con un manto di porpora tutte le più frivole apparenze.
All’idealità del Poliziano si accosta solo La Canzona di Bacco.
11. Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario dei canti popolari, sparsi in dialetto e in
volgare. Questa letteratura profana e proibita i tempi del Boccaccio ora è il passatempo
furtivo anche di donne colte ed eleganti. Era alla moda i romanzo francesi con le loro
traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo si moltiplicarono con i
rispetti i romanzi. Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti e le compagnie
di ventura ne davano qualche reminiscenza. La maggiore attrattiva era la libertà delle
invenzioni: si empivano le carte di folle e di sogni... e chi le diceva più grosse era stimato
più. Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l'effetto si cercava nella varietà e
nel meraviglioso degli accidenti. Il romanzo era penetrato in tutti gli strati della società e
dalle corti scendeva nei più umili villaggi; la plebe aveva i suoi cantastorie, le corti i suoi
novellatori. La cavalleria aveva il suo centro negli eroi di Carlo Magno e nei paladini
della Tavola Rotonda.
12. Matteo Maria Boiardo (1441-1494), conte di Scandiano, crebbe nella corte estense,
divenuta centro letterario importante accanto a Napoli, Roma, Firenze. Il Boiardo,
dottissimo di latino, studioso di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento
impresso dal Boccaccio e dalla letteratura toscana. Nei suoi sonetti, canzoni, ballate è facile
vedere un non so che di astratto e rigido, impacciato quasi. In quel secolo di parodie lui
rappresenta un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, ma i passatempi
e gli scherzi non erano il suo elemento. Allora venne salutato con l’appellativo di Omero
italiano, poiché narrava con la sua serietà. Il mondo omerico è un organismo vivente, dove
sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono realizzati perfettamente e armonizzati: il
mondo cavalleresco è sotto le forme epiche il mondo plebeo dell’immaginazione, sciolto da
leggi spaziali e temporali. Il miracolo continua: non è fatto da santi, ma da maghi e maghe.
Il fine del miracolo è sorprendere i lettori con la straordinarietà degli eventi. I motivi
delle azioni sono da cercare nel libero gioco delle passioni e dei caratteri sotto l’influsso di
potenze occulte: è il mondo del Boccaccio reso moderno dal Boiardo. A quest’ultimo
mancano due cose, che sarebbero state essenziali per il suo Orlando Innamorato:
l’immaginazione e lo spirito. Matteo ha molta inventiva, anche se prende spunto da altri
poemi (L’Orlando), tenta talora con lo scherzo, ma rimane un tentativo abortito. La fantasia
non gli appartiene. A questo grande inventore di magie, la natura negò la magia dello
stile. E così scade nel volgare facendo diventare Orlando un babbeo e Angelica una poco di
buono: mancano le gradazioni e le mezze tinte.
13. Luigi Pulci (1432-1484) rallegrava le feste i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo
Morgante. Ritroviamo la fisionomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello
fino a Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in dritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, ne
sviluppa le tendenze con più energia. Prende il romanzo come lo trova per le vie, un
miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio. Dà un mondo rimpicciolito, fatto
borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduto la loro aureola. Di caratteri e
passioni non si parla più due punti è un mondo superficiale e mobilissimo. Sono
rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito: è la cavalleria com'era
veduta e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare, un buffone plebeo; il
cibo è la nuova religione e il nuovo protagonista. Qui il buffone è un uomo colto, che parla a
un pubblico colto, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la
plebe che gli crede. La parodia è ancora più comica virgola dissimulata con molta cura, è
posto e più sovente nella natura stessa del fatto senza alcun artificio di forma. La plebe non
analizza né descrive, ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva. La forma è tutto esteriore e
rapida. L'ottava non è periodo e le rime non hanno gioco: frettolosi, poco curati, gli uni
addossati agli altri, tutto il quadro è un verso solo. Il dialetto è maneggiato maestrevolmente
per la proprietà dei vocaboli. Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore
si volge in tragedia. La tragedia da burla se non c'è sentimento. Il Pulci è plebe, poiché a
forza di rappresentarla è divento lui stesso il cotale. Ha l'angustia di un'immaginazione
plebea, visto che i suoi personaggi non hanno molta ricchezza di carattere e i suoi paladini
sono tutti a uno stampo. Il protagonista però è lo scudiero, non il cavaliere. Morgante
rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, buono,
fedele e coraggioso. Margutte é la plebe nella sua degenerazione corruzione, ignobile,
bastardo, ladro, fraudolento.
14. Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che si trova in Inferno
XXVII, qui prende aria paesana, diventa un buon compagnone. È il nuovo spirito del secolo:
motteggiatore, ironico e libero pensatore, teologo, astrologo, spiega la Bibbia a modo suo,
vede la filosofia a fascio con l’astrologia e le arti di gabbare l’uomo. E conosce la verità non
per ragione, ma per esperienza, confermandone l'autorità con le Scritture. E afferma che
piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione come fecero gli antichi romani, sui
quali piove tanta grazia celeste, e che al di là delle Colonne d’Ercole c’è un altro emisfero,
abitato come il suo. Rinaldo si lancerà nell’impresa di conquistare questo remoto emisfero, a
mo’ di Cristoforo Colombo, ma anni prima della sua spedizione. Il dotto Astarotte era in
realtà il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
È qui che il secolo volta le spalle alle forme scolastiche e alla contemplazione ascetica e si
getta nelle esplorazioni della natura e dell’uomo. La fisica, la storia naturale, la nautica, la
geografia prendono il posto della filosofia. Ma, come ogni autore di questo secolo, al Pulci
manca l’elevatezza d’animo che rende eloquente l’uomo quando gli lampeggiano nuovi
orizzonti. E il suo Astarotte riesce l’eco volgare e confusa di un secolo ancora
inconsapevole di sè.
15. Leon Battista Alberti (1404-1472) è colui che riesce ad abbracciare tutte le innovazioni del
secolo. Pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato. Nativo di Genova, educato a
Bologna, vissuto a Firenze assieme al Ficino, al Landino, al Filefo, celebrato come uomo
dottissimo e di miracoloso ingegno. Tra le sue opere tecniche si trovano le Piacevolezze
matematiche, i libri Dell’Architettura, i Rudimenti, gli Elementi di pittura, la Statua. Pratico
di latino, come dimostra nel Philodoxios (che addirittura venne attribuito a uno scrittore
latino, tanto la lingua era idillica e modellata sul latino classico), e di volgare, in prosa e in
verso, come dimostra negli Intercenali, negli Apologhi, nel Momo (dove rappresenta sè
stesso), nelle Egloghe, nelle Elegie. Platone era di moda e anch’egli platonizzò. Ma al suo
ingegno così pratico non poteva andare bene il misticismo platonico, che faceva andare in
visibilio il Ficino, che seguì come artista nella Tranquillità dell’animo e nei libri della
Famiglia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, poiché amante del discorrere alla familiare e
alla buona, alieno alle pedanterie scolastiche.
16. Battista ha già tutta la fisionomia dell’homo novus. La scienza è in lui amabile e familiare.
Lascia le discussioni teologiche e ontologiche, concentrandosi sulle investigazioni morali e
fisiche, mediante l’esperienza. Anima idillica e tranquilla, alieno alle agitazioni politiche,
ritirato nella pace e negli affetti familiari, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, formò una
filosofia conforme, di cui la base è l’aurea mediocritas. Il suo amore campestre non ha nulla
di sentimentale e di indefinito. Il vero protagonista è l’uomo, sottratto alle tempeste della
vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra i campi. Egli predilige
l’atarassia, mediante la quale l’uomo deve tenere lontane da sé le passioni e i turbamenti
dell’animo. Questo equilibrio metà epicureo è quella pace che Dante cercava nell’altro
mondo e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli
antichi moralisti e che Lorenzo Valla definisce voluttà. Il concetto ascetico secondo cui
l’uomo non può conseguire la felicità in terra è alieno nel Quattrocento, che non nega, ma
nemmeno afferma il cielo e si occupa della terra. Egli non dà una filosofia rigoroso, poiché
in realtà non è il filosofo: egli è l’artista e il pittore della vita. Non ha vuota esteriorità, ma
il vero ideale dell’uomo savio e felice. È l’onesto borghese idealizzato, purgato ed
emendato, toltasi l’aria beffarda e licenziosa. La sua pazienza e la sua uguaglianza
dell’animo è la genialità della nuova letteratura, impressa dalle forme del Boccaccio e del
Sacchetti prima, del Poliziano e del Battista poi, che si innamora delle forme riposate e
terse, il cui equilibrio interno si manifesta nella grazia e nella bellezza. Il suo sentimento
religioso si trasforma in sentimento artistico e muove l’anima come architettura e musica. I
suoi ragionamenti non sono originali e profondi, sembrano uscire più dalla memoria che
dall’intelletto. Nelle sue opere si trova una latinità temperata dalla vivezza e dalla grazia
paesana, evidente nella miscela tra voci, collocamento semantico e intreccio del periodo
latini. Egli, dunque, rimane inferiore al Boccaccio e lontano dalla perfezione.
17. Non rimane nessuna opera integrale del Battista, solo bei frammenti di trentacinque opere.
Il secolo finisce e non si ha ancora il libro del secolo. De Sanctis divide la prima letteratura
in due secoli: il PRIMO SECOLO comprende Duecento e Trecento (Dante e la Commedia,
opera fondamentale, Petrarca e il Canzoniere, transizione tra i due secoli) e il
SECONDO SECOLO che comincia con Boccaccio e ha la sua sintesi nel Cinquecento.
18. Il Quattrocento è un secolo di gestazione e di elaborazione. È il passaggio dall’età eroica a
quella borghese, dalla società cavalleresca a quella civile, dalla fede al libero esame,
dall’ascetismo e dal simbolismo allo studio diretto della natura e dell’uomo, dalla
barbaria scolastica alla cultura classica. Hai i frammenti, manca il libro; hai l’analisi,
manca la sintesi. Il grande uomo del secolo fu Angelo Poliziano, che con le Stanze si
accostò di più all’ideale classico. L’eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la
licenza dei costumi ed uno spirito beffardo. Aveva provato a turbare gli animi ormai classici
ed idillici Gerolamo Savonarola, volendo mettere a rogo tutti gli autori, considerati
peccatori, volgari, poiché considerati la causa del male. Ma era impossibile imbarbarire
l’Italia, orgogliosa della sua civiltà.
Spuntava già la nuova generazione di intellettuali che sintetizzeranno nel Cinquecento tutti
gli ideali quattrocenteschi: essi si chiameranno Niccolò Machiavelli, Francesco
Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo,
Berni e rappresenteranno una continuazione, un correre non interrotto intorno allo
stesso ideale.

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