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I DIALOGHI

Sono dieci opere (un totale di dodici libri) di argomento filosofico. Sono dialoghi totalmente diversi da quelli di
Platone e Cicerone.

In questi due ultime autori, il dialogo si svolge tra due o più personaggi in una cornice “drammatica” e in
un’ambientazione storica. Seneca invece parla sempre in prima persona, con interlocutore il dedicatario
dell’opera; uno è ad una donna dell’alta società romana, uno alla madre Elvira e un altro ad un potente liberto
dell’imperatore, mentre gli altri sette sono su argomenti diversi. I Dialoghi di Seneca risentono di un’altra
tradizione, ovvero quella della diatriba cinico-stoica:

1) Impostazione discorsiva;
2) Interlocutore diretto;
3) Interlocutore fittizio che pone domande e obiezioni (portavoce delle opinioni comuni o di posizioni
diverse da quelle di Seneca), che non sempre si identifica con il dedicatario.

I DIALOGHI DI IMPIANTO CONSOLATORIO

L’opera più antica è la Consoltio ad Marciam (“Discorso consolatorio rivolto a Marcia”). Qui Seneca consola
Marcia, donna dell’alta società romana, sofferente per la perdita del figlio Metilio. L’opera rientra nella
tradizione della “consolazione filosofica”, rappresentata prima dalla Consolatio di Cicerone. Si riprende il
repertorio topico dei filosofi di varie scuole per consolare chi ha subito un lutto: da qui il messaggio che la morte
non è un male, ma la fine di tutto e del passaggio ad una vita migliore. Il tutto si conclude con l’elogio a Metilio e
con la sua apoteosi, immaginando che il nonno Cremuzio lo accolga in cielo (influsso del Somnium Scipionis
ciceroniano). L’opera ha un carattere retorico sia nei temi (tradizionali e convenzionali) e nello stile, elaborato e
sostenuto.

Al periodo dell’esilio in Corsica appartengono le altre due Consolationes, scritte nel 42-43 e nel 43-44.

La Consolatio ad Helviam matrem (“Discorso consolatorio rivolto alla madre Elvia”): rivolto alla madre che
soffriva per la sua condanna e la sua lontananza. Si sviluppa la topica consolatoria della tradizione filosofica
greca riguardo all’esilio, considerandolo come se non fosse un male. Infatti Seneca, seguendo la scia stoica,
considera l’esilio come un mutamento di luogo, che non può togliere all’uomo la virtù; del resto Seneca
(secondo la dottrina del cosmopolitismo stoico) aveva come patria il mondo intera. Dopodiché si sviluppano temi
più specifici e personali: invita la madre a seguire l’esempio di donne nobili e coraggiose, a cercar confronto negli
studi e nell’affetto degli altri famigliari, invitandola a pensare che il figlio (Seneca) stava bene e si stava
dedicando alla filosofia per la ricerca della verità. E’ una delle opere migliori per il tono improntato ad affettuosa
intimità, ma anche a nobile dignità. Il filosofo trasmette di sé l’immagine di un uomo che, nonostante la
sventura, mantiene una virile e magnanima serenità, in piena coerenza con la dottrina che professa.

Consolatio ad Polybium (“Discorso consolatorio a Polibio”): qui si rivolge ad un potente liberto


dell’imperatore Claudio. Trattandosi di una consolatio mortis, essa rievoca i luoghi comuni già sviluppati
nella Consolatio ad Marciam: l’ineluttabilità del destino e la dimostrazione razionale che la morte non è
un male. Nonostante ciò, il grado alto del liberto e della sua vicinanza con l’imperatore, configuravano
l’opera come una supplica verso l’imperatore di richiamo dall’esilio. In essa l’elemento encomiastico
assume un rilievo assolutamente preponderante. Infatti il filosofo scrive elogi non solo a Polibio e del
fratello morto, ma anche a Claudio per le imprese militari, alla giustizia e alla clemenza, e nella parte finale
lo introduce a parlare (figura della prosopopea), facendogli rievocare personaggi della casa giulio-claudia
che avevano saputo far fronte con esemplare forza d’animo a gravi lutti familiari.
I DIALOGHI-TRATTATI

Il De Ira (tre libri) sono dialoghi dove il filosofo affronta l’ira, passione tra le più odiose e pericolose. Sene
afferma (stoicismo) che l’ira non è né accettabile né utile, perché prodotta da un impulso che offusca la
ragione, ed infatti è molto simile alla follia. Esempio spiccante è quello di Caligola, imperatore vittima
dell’odio di Seneca, che porta numerose prove della sua ira e lo descrive come una belva assetata di
sangue.

Il De Brevitate vitae (La brevità della vita): risala al 49, anno in cui Seneca tornò a Roma, ed è dedicata
all’amico paolino. Il filosofo dice che gli uomini sbagliano a lamentarsi della brevità del tempo assegnato
dalla natura alla loro esistenza: “la vita, se sai farne buon uso, è lunga” scriverà infatti, dicendo che la
maggior parte degli uomini la spreca in occupazioni inutili. Tali uomini li chiama occupati, ovvero
“affaccendati”, che sono contrapposti al saggio, l’unico che conosce la rettitudine. Il tempo lo spreca chi
non si dedica alla ricerca della verità e della saggezza. Coloro che non hanno tali obbiettivi, ma in
circostanze o oggetti che non dipendono da lui, si priva di assicurarsi l’autarkeia, l’autosufficienza, ovvero la
libertà da ogni condizionamento esteriore, garante della pace e serenità.

Il De Vita beata (“La felicità”): al fianco di Nerone, quindi quando era al potere, Seneca scrisse tale opera.
E’ divisa in due parti.

1) La prima è di carattere teoretico: viene esposta la dottrina morale stoica, ovvero la felicità nella vita
secondo la ragiona, e che indica il sommo bene nella virtù: polemizza infatti con gli epicurei che
identificano il sommo bene con il piacere (voluptas).

2) La seconda parte è anch’essa caratterizzata dalla polemica, ma con implicazione personali. Infatti
respinge chi accusa i filosofi d’incoerenza, rinfacciando loro che non vivono secondo i precetti che
professano. L’autore, nonostante non parli di sé stesso esplicitamente, attacca specialmente coloro
che lo accusavano, quando era al potere, di possedere enormi ricchezze e di condurre una vita
dispendiosa e lussuosa, in contrato con la dottrina stoica che prevedeva una vita semplice. Seneca
non nega le basi delle accuse, ma si difende dicendo di non essere raggiunto a raggiungere i propri
obbiettivi. Elabora tale difesa con eloquenza e vigore, sostenendo di non amare le ricchezze e di
non soffrirne quando non è, ma ammettendo di preferire di possederle perché gli danno più campi
dove esercitare la virtù. Tuttavia il suo disagio rimane evidente dinanzi agli attacchi ispirati
dall’invidia, ma non del tutto infondati.

Il De constantia sapientis (“La costanza del saggio”): dedicato ad Anneo Sereno, Seneca dimostra la testi stoica
del saggio che non può essere colpito da alcun oltraggio né offesa, perché dotato di superiorità morale che lo
rende invulnerabile dinanzi a qualsiasi attacco dall’esterno: egli infatti non può subire alcun danno, perché
l’unico bene consiste nella virtù che nessuno può togliergli.

Il De tranquillitate animi (“La tranquillità dell’animo”): dedicata anche questa ad Anneo Sereno. L’autore
immagina di chiedere a lui consiglio ed aiuto, in quanto tormentato da instabilità spirituali e spinto in direzioni
diverse da impulsi contrastanti. Dopo aver spiegato per bene i “sintomi”, indica alcuni rimedi pratici che aiutano
a ritrovare la “tranquillità dell’animo” (in greco euthymia): l’impegno nella vita attiva per il bene comune,
l’amicizia dei buoni, la frugalità, la parsimonia e la serena accettazione delle avversità e della morte.

Il De otio (“La vita contemplativa”): opera lacunosa, anche qui ci si rivolge ad Anneo Sereno. Si affronta
l’argomento dell’impegno e del disimpegno, ovvero la superiorità della vita attiva o di quella contemplativa,
chiedendosi se il saggio debba o no partecipare alla politica attiva. Sostiene la validità della scelta dell’ otium
ricorrendo alla posizione stoica secondo cui il saggio deve impegnarsi politicamente a meno che le circostanze
non lo impediscano, l’unica simile a quella epicurea. E’ infatti praticamente impossibile, dice Seneca, trovare uno
stato in cui il filosofo possa agire coerentemente con i suoi principi.
Il De providentia (“La provvidenza”): Seneca risponde all’amico Lucilio (destinatario delle Epistole) che gli chiede
perché i buoni vengano colpiti dai mali e se è vero quanto afferma lo stoicismo, ovvero che l’universo sia retto
dalla provvidenza divina. Il filosofo risponde che quelli che l’uomo considera mali non lo sono veramente, ma
sono semplicemente prove a cui gli dei sottopongono i buoni per temprarli e par aiutarli a perfezionarsi
moralmente.

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