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PORTA PATET… COR MAGIS

PERIODICO DELLA R∴L∴ FIORENZA N° 1141 – OR∴ DI FIRENZE

ANNO XVIII - N° 313 07 2020 III MESE, ANNO 6020 V∴ L∴

A proposito della Solidarietà


del Fr∴ G. C. Lucchi ~ R.L. G. Mameli n° 1192 – Or. di Sassari

Un discorso per Iniziati non necessita di molte parole ma di


concetti basilari semplici quanto essenziali che si rifanno al
nostro primo gesto verso la comunione Massonica scelta,
spontaneamente, quando bussammo alle porte del Tempio.
Portavamo con noi l’ansia della conoscenza, il dubbio
dell’incertezza, la titubanza dell’inadeguatezza, la perplessità
dell’incognito, il tumulto del cuore e trovammo il Silenzio. Imparammo ad ascoltarlo, a
riconoscerlo, a cercarlo. Noi fummo la domanda. Nostra fu la risposta e lentamente un mondo
sconosciuto e impensabile divenne casa, asilo, Mare e riposo.
Iniziammo a capire che non era la sapienza, né la ricerca di senso, né l’ipotetica destinazione che
ci legava e ci rendeva “Uno”, ma l’acquisita capacità di Sentire e di sentirci Unità; uomini diversi
ogni volta armonizzano la propria pietra al costruendo edificio che andrà oltre il tempo, mentre
l’appartenenza ci identifica. Questa è la Loggia.
Sin dall’inizio fummo vagliati, ancor prima di iniziare la nostra strada in virtù di un’Etica che
ampliava il nostro respiro verso l’altro, che avremmo tutelato e difeso, consolato ed accolto,
sostenuto e protetto.
L’altruismo che è alla base della Solidarietà, si oppone come concetto all’egoismo, perché vive la
comunione di un insieme e vi partecipa in quanto sentimento scaturito dalla commozione, che
spinge alla relazione e all’impegno. La Cura, parola ormai desueta, verso una persona, verso il
proprio ambito, implica necessariamente la gratuità: non può esserci compenso se non di tipo
etico.
Di tutte le libertà quella dal bisogno è fondamentale, perché l’indigenza ti impedisce di essere.
Una Loggia che si riconosca come un Corpo unico, non può attendere la preghiera del bisogno,
perché il dolore di un singolo crea la sofferenza dell’insieme che può, se ragionevolmente
disponibile, compiere quel gesto incommensurabile per un uomo verso un Fratello.
Quando si può, si deve.
Il mistero dell’Illuminazione ~ del Fr∴ Osvald Wirth1

Se alcuni uomini si rivelano più chiaroveggenti di altri e possono istruire e guidare utilmente i
loro simili, da dove attingono la comprensione superiore e la lucidità sorprendente di cui danno
prova? Nessuno dubita che perseveranti studi, una lunga esperienza e profonde meditazioni li
preparano a questo compito; ma, alla fin fine, la loro superiorità si basa sull’affinamento delle loro
facoltà pensanti. Essi sono diventati più accessibili alle vibrazioni della luce iniziatica, da cui ala
loro iniziazione a Misteri non ancora rivelati agli animi comuni.
Ora, dobbiamo far risalire al Logos di Platone, al suo Grande Architetto o Demiurgo, la luce che
illumina progressivamente l’Iniziato? Più modestamente possiamo fermarci a colui che i massoni
chiamano Maestro Hiram. Ma come dobbiamo figurarci questa misteriosa entità?
Lungi dall’essere un personaggio, egli è una personificazione. Ma di che? Del pensiero iniziatico,
di quell’insieme di idee che sopravvivono anche quando nessun cervello vibra più sotto la loro
influenza. Ciò che è prezioso non muore e sussiste allo stato latente, sino al giorno in cui si offrono
delle possibilità di manifestazione. Allora Hiram risuscita nella persona di ogni nuovo maestro.
Le aspirazioni generose, i sogni sublimi di uomini che soffrirono a causa dell’imperfezione delle
condizioni umane si traducono, nell’ambiente psichico del pianeta, con una tensione persistente
di cui i pensatori subiscono l’influenza. Sopra le nostre teste, nell’azzurro dell’idealità, aleggia,
come una nuvola luminosa, il patrimonio intellettuale e morale del genere umano. Ogni pensiero
che si pone al di sopra della grettezza delle preoccupazioni egoiste, tende ad allacciare un rapporto
con questa fonte di illuminazione. Perciò nessuna idea geniale ci è strettamente personale.
Quando pensiamo, facciamo delle evocazioni, evochiamo ciò che preesiste.
In questa condizione, i Maestri del nostro pensiero, i nostri Iniziatori, sono di ordine spirituale,
ma li offenderemmo, se nei loro riguardi cadessimo in un misticismo grossolano.
Spirito vivente del Massonismo, Hiram non è un vano fantasma: è una forza che illumina e quindi
che conduce. Gli dobbiamo tutto ciò che, in Massoneria, si cela sotto il velo dell’anonimato, al
punto che a nessun autore potrebbero essere attribuite le opere più notevoli. Fra queste, nessuna
è più degna di ammirazione quanto i nostri rituali dei primi tre gradi, tali e quali si presentano a
noi alla fine del secolo XVIII o all’inizio del XIX. Ora, cosa inconcepibile, nessuno li ha redatti: si
sono redatti, per così dire, da soli, sotto la mano di innumerevoli copisti che li trascrivevano
ritoccandoli su tale o talaltro punto, secondo il proprio sentimento e considerando il gusto del
tempo. Come poté nascere un Capolavoro da una collaborazione così aleatoria? Poiché, non
dobbiamo nasconderlo, il rituale inglese originale è lontano dall’avere il valore iniziatico, della
ineguagliabile sintesi di cui il Libro dell’Apprendista, il Libro del Compagno e il Libro del
Maestro, si sforzano di far apprezzare la coordinazione veramente magistrale.
Osserviamo, a questo proposito, come «immutabili» usi si sono trasformati insensibilmente.
Secondo autentici documenti dei sec. XVI e XVII, allora si praticava una sola cerimonia iniziatica,
se non dovunque, per lo meno in Scozia, paese a cui, tuttavia, si appellano i trentatre gradi del rito
detto «scozzese».
Si pretendeva così, in virtù di una ricezione unica, «fare dei
massoni» iniziati ai misteri corporativi che godevano dei propri
diritti di operai. Le formalità consistevano nella preparazione del
recipiendario privo dei metalli e parzialmente dei suoi abiti, poi
introdotto in loggia con gli occhi bendati. Ivi, camminava nelle
tenebre alla ricerca della luce che gli era concessa dopo alcune
domande e risposte, dopo di che il neofita prestava il giuramento
piegando il ginocchio destro che, nudato, toccava il suolo
poggiando sopra una squadra di ferro aperta. Nello stesso tempo
stendeva la mano destra sulla Bibbia aperta, mentre con la
sinistra appoggiava la punta di un compasso sulla parte del cuore scoperta.
Rialzatosi, il nuovo fratello veniva istruito sommariamente di ciò che doveva sapere. I riti di
apertura e di chiusura dei Lavori, costituiscono tutto ciò che la Massoneria moderna ha ricevuto
dalla Massoneria antica. Questo cerimoniale rudimentale fu sviluppato in Inghilterra nel 1717.
Prima se ne ricavò il rituale del grado di Apprendista, poi quello di Compagno; ma i massoni
inglesi non seppero ampliarli che aggiungendo fioriture prive di valore iniziatico.
Non fu così in Francia dove si rendeva necessario un rifacimento profondo del rituale, in quanto
era intraducibile. Infatti il testo inglese è pieno di forme arcaiche, che sono bellissime
nell’originale, ma diventano grottesche tradotte letteralmente in un'altra lingua. Per questo
motivo i Francesi cercarono di adattare il rituale al loro gusto. Essi lo fecero ispirandosi all’idea
che avevano delle antiche iniziazioni. Qui ci fu l’intervento dei Maestri poiché il rituale francese
fu messo a punto con una tale competenza che nessuna delle menti più brillanti dell’epoca
possedeva. I riformatori massoni del XVIII secolo, infatti, disdegnavano la modestia dei gradi
operai; essi non desideravano altro che gerarchie cavalleresche che sovrapponevano dignità
sempre più sfarzose. Nessun autore massone seppe apprezzare, allora, il ternario fondamentale,
nei cui confronti tutti i gradi pretesi superiori si rivelarono di una pietosa inferiorità.
In realtà, fu lo spirito della pura Iniziazione che ispirò la catena degli oscuri Massoni incaricati di
copiare i rituali per le nuove logge. Ciascuno credeva di fare bene ritoccando qualche parte del
testo, introducendovi una piccola variante giudicata più adatta o apportandovi una riparazione
ritenuta di buon effetto. Alla lunga prevalsero modifiche molto più importanti.
Dapprima la ricezione corporativa il cui formalismo non richiedeva né prove vere e proprie né
purificazioni, venne trasformata in una Iniziazione analoga a quella dei Misteri greco-romani.
A tal fine si credette di dover purificare il recipiendario con i quattro Elementi.
La camera dalle imposte chiuse, dove si effettuava la preparazione del postulante, divenne poi una
cripta funeraria, tomba del futuro Iniziato, condannato a morire al mondo profano al fine di
rinascere ad una vita superiore. Così ci si rappresentava la classica prova della terra che si
esprimeva con la discesa simbolica agli inferi e con la decomposizione del chicco di grano, affidato
piamente al solco per obbedire a Cerere. La redazione del testamento, uso ignorato dagli
Anglosassoni, fu una felice innovazione, come le iscrizioni del Gabinetto di Riflessione ed il suo
arredamento: pane, brocca dell’acqua, teschio, zolfo e sale.
Il Loggia, il candidato compie, con gli occhi bendati, tre viaggi, durante i quali è purificato
successivamente dall’Aria, dall’Acqua e dal Fuoco, come esigono le tradizioni iniziatiche, in modo
assoluto in concordanza su questo punto, poiché ad Eleusi si riteneva che il germe, dopo essersi
sviluppato nella terra, esca all’aria dove l’acqua caduta dal cielo fornisce alla pianta la linfa
feconda, finché il calore del sole non la inaridisce, completando la maturazione del nuovo seme.
Dal canto suoi l’Ermetismo sottopone la materia della Grande Opera prima alla putrefazione che
uccide il soggetto, diventato nero come la testa del corvo, poi alla sublimazione con lo scopo di
liberare la parte volatile o aerea, quindi all’abluzione, lavaggio da cui deriva il colore bianco, in
ultimo alla calcinazione, con cui il fuoco è attivato sino ad ottenere il colore rosso, segno del
compimento felice delle prime operazioni.
Poiché lo scopo del secondo grado è, soprattutto, quello di far comprendere il primo, il Compagno
deve viaggiare per la sua istruzione. La scelta degli utensili che deve imparare a maneggiare è
molto ingegnosa. L’istinto iniziatico degli autori dei nostri rituali non si è smentito, così come
sugli sviluppi della Stella Fiammeggiante, la lettera G e la glorificazione del Lavoro. Tutte queste
«fantasie» francesi, tra le quali non dobbiamo dimenticare il calice dell’amarezza, sono segnate
da un sapere molto superiore a quello che regnava nelle Logge, anche in quelle più illuminate.
Allora sarebbe stato il Diavolo a dettarle oppure un demonio parente di quello di Socrate?

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1Joseph Paul Osvald Wirth (1860-1943) esoterista, astrologo e scrittore svizzero, fu iniziato alla massoneria il 28
gennaio 1884 nella loggia La Bienfaisance Châlonnaise del Grande Oriente di Francia.
Tornato a Parigi e diventato il segretario di Stanislas de Guaita, si affiliò alla loggia Les Amis
Triomphants. Non soddisfatto, però, nel 1889 si affilia alla loggia Le Travail et les Vrais
Amis Fidèles, della Grande Loggia Simbolica Scozzese, della quale sarà a più riprese
il Maestro venerabile. Questa loggia entrerà nella Grande Loggia di Francia verso la fine
del 1898.
I suoi studi, sempre nel solco dell'esoterismo, si diressero soprattutto verso la Massoneria e
l'Astrologia. Nell'opera Le Symbolisme Hermétique, dans ses rapports avec la Franc-
Maconnerie et l'Alchimie, del 1910, cercò di penetrare i segreti e i significati dell'Alchimia, o
"Arte Regia". Credendo nella universalità del simbolo, Oswald Wirth si sforzò di ricondurre i
diversi insegnamenti esoterici ad una matrice comune, tramite l'uso di un sistema generale
di simboli derivati dal "pensiero magico".
Quando disegnai questa tavola, nel giugno dello scorso anno, non potevo immaginare che le Sorelle
dell’Ordine della Stella d’Oriente - Capitolo Beatrice n° 9, stavano lavorando su un tema con riferimenti
comuni ai miei. Nell’autunno seguente infatti ci invitarono a partecipare ad una rappresentazione - nel
vero senso della parola - del frutto del loro lavoro: “Il Sonno della Ragione”.
Sorpreso dalla coincidenza del tema ed in parte toccato dalla drammaticità di certi passaggi, non
espressi commenti né manifestai il mio compiacimento per ciò che era stato profondamente “vissuto”
dalle Sorelle, convinto che non avrei potuto “reagire” in modo più consono, se non ricambiando l’invito
con l’esposizione della mia tavola nel tentativo di ricreare nuovamente il clima e l’eggregore di quella
notevole serata. Purtroppo il susseguirsi di eventi imprevedibili non ha consentito la concretizzazione di
questo progetto ed il lungo intervallo ha vanificato il senso di continuità che avrebbe arricchito l’impegno
comune: mi resta la pur sempre affascinante convinzione che questa identità di pensiero sia una
componente importante del nostro “incomunicabile segreto”.

LILITH ESISTEVA PRIMA DI EVA? ~ del Fr∴ Giovanni Calamai


Alla cara Luna che mi ha preceduto in un altro viaggio…

“Il domenicano stava puntando l’indice ossuto verso quella minuta, povera figura dai lunghi capelli corvini scomposti
sulle spalle: ella era in piedi al centro della sala, semplicemente coperta più che vestita, da un panno di lana grezza. Il
frate stava enunciando, con soddisfatta cattiveria l’elenco dei “peccati” che la donna, sotto tortura aveva confessato di
avere commesso, crimini avallati poi da testimoni prezzolati, per ottenere dal tribunale la sua condanna al rogo…”
Si stava delineando, in modo drammatico uno dei periodi più oscuri dell’era moderna nei
confronti di esseri umani, particolarmente concentrato sulla figura femminile, ritenuta causa di
tentazioni, fonte di perversione, ricettacolo di ogni male, strega, megera, incantatrice… e
quant’altro. Mai prima di allora la mentalità ottusamente patriarcale, aveva relegato la condizione
della donna tanto in basso da giustificarne l’eliminazione fisica per puritanesimo o futili motivi
religiosi o, peggio ancora, per sete di conoscenza, atteggiamenti sicuramente suggeriti da Satana.
Perché la donna doveva essere considerata inferiore all’uomo?

La ricerca di una risposta ci rimanda al titolo di questa tavola che la saggezza del Maestro
Venerabile mi ha assegnato. Prendere in esame questa intrigante possibilità, per quello che è
scritto nella Bibbia, ci induce nostro malgrado a considerare anche l’ipotesi che nell’opera del
Grande Architetto dell’Universo, ritenuta perfetta in tutte le sue manifestazioni, qualcosa non
abbia funzionato nel verso giusto, proprio nella realizzazione del suo massimo capolavoro: l’essere
umano.
Nella Genesi (1,27) è scritto testualmente: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio
lo creò; maschio e femmina li creò.”
Ecco un primo esempio di contraddizione: in base a quale logica dobbiamo considerare
l’immagine di Dio come quella di un uomo, e per giunta un vecchio, dalla lunga barba bianca e la
folta canizie immacolata, tipici dei lineamenti umani? E’ responsabilità degli artisti che hanno
consolidato questa sembianza ancestrale costruita appositamente sulla loro somiglianza fisica,
senza alcuna rimarchevole diversità?
Non sarebbe stato più ricco di significati, ad esempio, ricondurre il concetto del Creatore a quello
di uno spirito invisibile indefinito, come ad esempio una fonte inesauribile di luce o un raggio
dominante l’intera rappresentazione? Forse perché si tratta di concetti inconcepibili alla nostra
mente? Sappiamo che in alcune religioni, come l’ebraismo, è proibito scrivere o semplicemente
pronunciare il nome di Dio!
Negli affreschi della Cappella Sistina pensiamo che l’intento di Michelangelo, seppure
condizionato dall’atavico potere dell’immagine maschile di un dio-vecchio che avvicina la sua
mano a quella di Adamo, fu quello di rendere comprensibile a tutti, anche i più semplici e meno
istruiti, il concetto tangibile di Dio, come del resto quello di tutta la corte celeste dipinta negli
affreschi. Riferendoci ancora alla creazione dell’uomo, secondo un’ottica primitiva potrebbe
ipotizzarsi la realizzazione iniziale di un androgino, oppure, secondo logica, il Grande Architetto,
come è avvenuto per tutti gli altri esseri viventi, potrebbe aver creato in modo paritetico il maschio
e la femmina con lo stesso fango, insufflando nei due pupazzi il suo spirito vitale. Ecco Lilith e
Adamo, prendere consistenza, una coppia perfetta, con gli stessi diritti, uguali desideri, identici
in tutto tranne che nel sesso, come è caratteristica di tutti gli esseri viventi atti alla riproduzione.
Questa “scomoda” eventualità non poteva essere passivamente assimilata dall’antico ambiente
patriarcale, dominante in tante storiche civiltà. La donna non poteva essere uguale all’uomo, ma
doveva essergli inferiore e sottomessa: a rafforzare questo concetto contribuì anche la pressione
di quelle religioni ossessionate dalla sensualità femminile che, rappresentava il concetto del male
assoluto. La donna era ritenuta l’unica in grado di pervertire, la sola che con arti demoniache
poteva indurre il maschio a peccare e condurlo alla rovina; era considerata fonte di stregoneria e
di depravazione. La si incolpava di traviare gli uomini con la sua lussuria ed ancor peggio era
ritenuta untrice maledetta per le malattie veneree che poteva trasmettere e spietata assassina nel
caso infausto di aborti…
In tempi “moderni” la considerazione di questo “male” è divenuta “solo” riprovevole da quando
la scienza ha offerto alla donna la possibilità di reagire alla supremazia maschile quando questa
si manifestasse violenta, manesca e tirannica, e di liberarsi da una prigionia psichica millenaria,
al solo scopo di affermare finalmente la propria individualità e la propria indipendenza.
Rimaniamo pertanto affascinati dal coraggio di questa ribellione, le cui origini si perdono nella
notte dei tempi. Arriviamo perfino a individuare nella violenza di Adamo nei confronti di Lilith il
primo tentativo di sottomissione e di violenza contro la donna, nella storia dell’umanità, e ci
chiediamo come Iddio possa aver concepito la sua errabonda e
peccaminosa condanna perpetua per il solo fatto di non aver ceduto
all’uomo.
La storia di Lilith ha origini mesopotamiche e si riferisce, quindi, alla
prima donna comparsa sulla terra insieme ad Adamo, che non accettò
di essergli inferiore, rifiutando di lasciarsi sottomettere. Fu questa la
causa per cui essa lo abbandonò nell’Eden, prima ancora che si
“compisse il peccato originale”. Il mito ce la rappresenta costretta a
vagare sulle rive di un pelago circondata da scorpioni e serpenti
velenosi, maledetta da Dio per la sua superbia e, per sua specifica
volontà, intenta in accoppiamenti osceni con demoni e spiriti malvagi.
Ecco dunque “giustificata” la manomissione postuma degli antichi testi
per poterli modificare ad usum delphini, come ci sono ufficialmente
pervenuti e che ci rende addirittura incredibile pensare a quale razza di
empie manipolazioni operate sull’argomento ci abbiano condizionato
per secoli.
La Bibbia ci narra di un Dio, “sorpreso da questo imprevisto” e costretto
a ricorrere all’artificioso torpore del sonno per creare Eva da una costola
di Adamo, rendendola succuba dell’uomo in modo tale che egli non
potesse essere nuovamente abbandonato, ed assicurando allo stesso di
poter contare, traendone beneficio, su una sottomissione duratura.
Nel Sacro Testo infatti Adamo riconosce così la sua femmina:
«Questa volta essa è carne dalla mia carne, ossa dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché
dall’uomo è stata tolta.»
“Questa volta” significa il rimedio ad un evento anteriore ed è la conferma
che si è già verificato un caso precedente? O, peggio ancora, si tratta di
un esperimento mal riuscito? Potrebbe essere una giustificazione ma se
è stata una forzatura si tratta allora dell’azione di un Dio fallace?
Qualche commentatore, irriverente quanto me, ipotizza che, per
rappresaglia, Lilith fosse tornata nell’Eden di nascosto, assumendo le
sembianze del serpente tentatore, solo per vendicarsi di Adamo e della
sua prepotenza.
Nell’immaginario ebraico Lilith diviene quindi un demone, simbolo di
adulterio e lussuria fino a patire, nel cristianesimo, una sorta di damnatio
memoriae, tale da essere paragonata agli angeli di Lucifero ribellatisi a
Dio ed eterni peccatori, la cui colpa è stata quella di avere convinto l’uomo
a dissentire, a pensare con la propria mente, a decidere del proprio
destino. Entrambi, in definitiva, si sono battuti insieme per un principio
di libertà ottenibile solo tramite la conoscenza. Non importa affatto se il
prezzo pagato è stato quello di perdere l’immortalità!
Una serie di dubbi si addensa al nostro orizzonte: le religioni monoteiste
soffocano i fedeli o li salvano dalle tenebre del peccato? La fede è un
limite al progresso umano? Gli angeli “ribelli” sono entità oscure o
portatori di luce? Essi incarnano la dannazione o la vera libertà? E’
possibile una coesistenza tra fede e ragione?
L’emancipazione femminile, già in atto fino dal XIX secolo ha assunto oggi una realtà del tutto
impensabile alcuni decenni orsono. Recentemente la scienza ha dimostrato che la donna utilizza
l’apparato cerebrale in modo diverso dall’uomo, forse in modo più completo, probabilmente a un
livello più intenso: cosa che ci fa apprezzare ancora di più la sublime qualità della creazione.
Il mito di Lilith ci narra dell’amore che si nasconde dietro la forza femminile, poiché essere donna
comprende inestimabili valori, il primo dei quali è il privilegio di essere la creatura capace di
procreare, di dar vita ad altri esseri umani, sviluppando un amore di madre di cui che essa sola
conosce il significato ed al contempo un amore di donna che la rende coraggiosa e forte compagna
di vita, orgogliosa, capace, libera e indipendente come ha diritto di essere ogni creatura umana su
questa terra.
Cari Fratelli… e se condividessimo con Lilith lo svolgimento del lavoro all’interno nelle nostre
logge?

AD 1562: UNA TRAGEDIA TOSCANA


“Erano partiti in cinque: a Palazzo tornarono soltanto in due.”
Questa laconica frase, nella sua cruda durezza riassume la tremenda
disgrazia che a metà del XVI secolo colpì la famiglia Medici, in particolare
il Duca Cosimo il quale in pochi giorni perse due figli adorati e l’amatissima
moglie. Tre terribili lutti susseguitisi a breve distanza l’uno dall’altro, tra il
novembre e il dicembre dell’Anno Domini 1562.
Agli inizi di ottobre, Cosimo aveva deciso di partire per un giro nella regione
portando con sé, avventatamente, la moglie Eleonora e tre dei suoi figli
(Giovanni, Ferdinando e Garzia). Scelse la Maremma, località bellissima,
affascinante e selvaggia sia per sorvegliare i lavori di bonifica programmati
in quell’area che per rafforzare, con la presenza della famiglia, la propria
autorità in quei luoghi poco frequentati e malsani.
Seppure sconsigliato da amici e cortigiani di intraprendere quel viaggio, il Duca volle partire
ugualmente, anche perché l’obiettivo finale, una volta giunto a Livorno, sarebbe stato quello di
imbarcarsi per incontrare Francesco, il figlio primogenito, ospite all’epoca della corte spagnola.
La storia ufficiale ci racconta che i principi Giovanni e Garzia, morirono in seguito all’infezione
malarica contratta in quei luoghi, seguiti a breve distanza dalla stessa loro madre, già indebolita
nel fisico dalla tubercolosi ormai cronica. I cerusici del tempo ritennero causa di quelle morti i
miasmi delle paludi che esalavano un’aria corrotta, nociva, praticamente una “mal aria” da cui fu
dato il nome al malanno che procurava la letale febbre. Quelle paludi erano infestate da un
temibile insetto, allora sconosciuto, l’anofele responsabile della trasmissione del plasmodium
malariae, contro la quale non esisteva, in quel periodo, alcuna difesa né rimedio efficace.
…Tuttavia nel libro genealogico della famiglia Medici, conservato nell’Archivio di Stato del
Comune di Firenze, accanto ai nomi di Giovanni e di Garzia è scritta un’annotazione che lascia
alquanto perplessi:
“Giovanni, nato nel 1543, fu da suo fratello Garcia accidentalmente ucciso nella
caccia a Pisa nel 1562 e Garzia, nato nel 1547, pochi giorni in seguito la morte del
fratello fu questi da Cosimo I suo padre ammazzato con uno stiletto”.
Questo incredibile appunto sui fatti contrasta sostanzialmente con le cronache storiche delle quali
siamo a conoscenza. Dunque, i due principi furono vittime di febbre maligna o furono uccisi?
Cosa successe veramente durante quel viaggio maledetto?
Tra l’altro, dagli scritti di Bernardo Canigiani, letterato, membro della neonata Accademia della
Crusca fiorentina e ambasciatore presso la casa d’Este, si evince che la causa di morte venne
attribuita ad una malattia, il Male del Castrone (o Castione) una forma epidemica piuttosto diffusa
in quel periodo. Nel vocabolario della Crusca, alla voce Mal del Castrone si legge un sintetico:
“tosse, infreddatura con catarri”. Per mera curiosità siamo andati ad approfondire l’indagine ed
abbiamo trovato un’ulteriore definizione di questo poco noto “morbo” dell’epoca, estrapolata dal
libro “Istoria del Granducato di Toscana” di Riguccio Galluzzi del 1841:
Ma dove non trovò adito la peste, s’insinuò facilmente un’altra malattia
epidemica, denominata il male del castrone. Questo male che si crede avere avuto
i suoi principi nell’Inghilterra, dopo aver percorso la Spagna e la Francia giunse
finalmente ad affliggere l’Italia; attaccava repentinamente la testa, produceva le
convulsioni e il delirio e indeboliva talmente la macchina umana che la rendeva
incapace di qualunque operazione; non sempre cagionava la febbre ma
ordinariamente dolori di testa e una continua vigilia. Pochi ne furono esenti e se
fosse stato mortale, com’era furioso avrebbe prodotto eventi funesti non meno
della peste medesima. In Toscana ebbe principio verso la fine di Luglio e in
Firenze fra la plebe più miserabile e mancante di aiuti ne perì assai: opinarono i
medici che le emissioni di sangue per la vena fossero perniciose e se ne astennero.
Il Granduca istesso ne fu attaccato e dopo quattro giorni di dolori e di vigilia ne
rimase libero.
Probabilmente anche questa poteva essere considerata tra le cause del
decesso. Ciononostante, permangono subdole dicerie secondo le quali il
duplice omicidio sembra essere stato la conseguenza di una banale lite
durante una battuta di caccia nella campagna pisana.
Sarebbe scoppiato un violento diverbio tra i fratelli in merito a chi dei due
apparteneva il cane che aveva fiutato la selvaggina: la lite degenerò fino al
punto che il giovane Garzia, in un impeto di rabbia, ferì ad una gamba il
fratello Giovanni procurandogli un profonda lacerazione che, nonostante
le cure prestate, ne causò la morte, di lì a pochi giorni, per il sopravvenire
di setticemia. Il padre Cosimo, sconvolto da quel tragico destino che gli
aveva strappato per sempre il prediletto Giovanni, avrebbe a sua volta
ucciso Garzia a colpi di pugnale.
In conseguenza di questa tragedia, la madre Eleonora sarebbe morta di crepacuore.
La tremenda ipotesi di questo duplice delitto, nacque molto probabilmente con il solo scopo di
infamare la Signoria dei Medici, secondo le correnti politiche e sociali di allora.
Cosimo, infatti, nonostante fosse uomo lungimirante e innovatore non era ben visto dai
concittadini, né tanto meno lo era sua moglie, la marchesa Eleonora, considerata troppo altezzosa
e distante dal popolo.
Comunque sia, inspiegabile resta il fatto che la salma del diciannovenne Don Giovanni Medici,
seppure insignita del galero cardinalizio, fu traslata a Firenze già chiusa nella cassa, ed egli venne
inumato nelle Cappelle Medicee, senza alcuna pompa funebre. Il corpo di Don Garzia, invece, da
Pisa fu riportato a Firenze nel cuore della notte e anch’esso sepolto in fretta e furia privo degli
onori normalmente riservati a un principe. Perché? Si doveva forse nascondere qualcosa di
orrendo? Per quale motivo le salme non dovevano essere esposte al cordoglio cittadino?
Esami necroscopici accurati sui resti mortali dei due principi sono stati eseguiti nel 2006 ed
hanno dimostrato la presenza di antigeni della malaria nelle ossa. Purtroppo la precedente
esumazione del 1947 eseguita in assenza di tecniche scientifiche e con assai poca perizia aveva
procurato danni irreversibili ai poveri resti perché si potessero svolgere indagini più approfondite,
rese ancor più difficili dalla mancanza degli abiti e di accessori vari, trafugati chissà come e da chi.
A tale proposito, durante una prima ricognizione delle salme dei Medici, effettuata già nel 1857,
così vennero trovate le spoglie di Garzia:
«[...] Il cadavere dell’infelice giovanetto trovammo ridotto in ossa, con un berretto
di velluto sul teschio. È vestito di un giubbetto di raso rosso ornato di piccole righe
fatte con filo d’oro, e su quello ha una sopra veste con maniche, composta della
medesima stoffa e ornata di velluto dello stesso colore. I calzoni sono fatti secondo
il costume spagnolo, ma le strisce, che un dì furono legate insieme, vi pendono
scucite. Le calze sono consunte; delle scarpe non resta che il suolo. Nella medesima
cassa furon trovati dei frammenti di un altro corpo…»
Fatto sta che il risultato dell’autopsia più recente conferma che i principi
furono contagiati dalla malaria ma non dimostra con certezza che ne siano
morti.
Rimane pertanto l’ipotesi che le cause dei decessi non fossero dovute solo al
morbo… ma il quadro formulato ha le sembianze di un delitto fin troppo
efferato per apparire reale e troppo romanzesco per poter essere preso in
seria considerazione. Il tutto forma un ulteriore mistero che avvolge Casa
Medici e che, difficilmente, si potrà mai chiarire.
E’ da sottolineare comunque la “bizzarria” del carattere delle genti
fiorentine (nei secoli passati come oggi) che, in grado di esprimere cose
meravigliose in tutti i campi, furono anche capaci di divenire esempi di
eccessi d’ogni genere, credibili o meno, ma che per il solo fatto d’essere in
discussione, contribuiscono a rendere la loro città, un modello unico al mondo.

QUANDO IL WIRELESS CI METTE LO ZAMPINO… ~ del Fr∴ Rolando Goretti - (2ª parte)
(N.d.R.) - Riprendiamo l’interessante ricerca del Fr∴ Rolando (Porta Patet n° 310 04 2020), con la vicenda che
segue, introdotta dall’ultima frase della prima parte…

- «Di lì a poco un'altra notizia ghiotta per l'opinione pubblica riguardò un'altra nave, questa
volta non si trattava di una collisione ma della descrizione da parte del marconista di un
triste fatto di cronaca (quello del titolo di testa).»
Questa storia vera, avvincente e poliziesca ha per protagonisti tre personaggi: il Dottor Hawley
Harvey Crippen, la sua seconda moglie Cora Turner e la futura assistente del dottor Crippen, la
giovane signorina Ethel Le Neve.
E’ opportuno quindi prendere conoscenza dei particolari…
Hawley Harvey Crippen era nato a Coldwater nel Michigan nel 1862 nel
mezzo delle due Guerre di Secessione. La sua famiglia era arrivata in quel
luogo, descritto nelle memorie come una colonia di “metodisti”, molto
tempo prima, dalla estremità occidentale dello stato di New York.
I Crippen col tempo si erano creati una discreta reputazione diventando
una famiglia agiata e numerosa che contribuì generosamente anche
all’edificazione della chiesa del paese (uno dei componenti della famiglia
era uno spiritista). Il nonno di Crippen, Philo, arrivò a Coldwater con i
suoi fratelli nel 1835 e, dopo un breve ma assiduo corteggiamento ad una
tale signorina Sophia Smith, la sposò di lì a poco. Aprirono un drugstore,
una sorta di supermercato dove potevi trovare di tutto, anche i
medicinali. L'attività prosperò fino a diventare il punto di riferimento per
l'intero paese. I fratelli Crippen si impegnarono anche in diverse altre attività: uno aprì un mulino,
uno un negozio di frutta e verdura, un altro diventò un buon suonatore di organo esibendosi nella
chiesa metodista del paese, costruita anche con la loro donazione.
Philo Crippen e la moglie ebbero un figlio, Myron che sposò una certa Andresse Skinner che, oltre
ad integrarsi nell'impero commerciale creato dalla famiglia, ricoprì l'incarico di agente delle tasse
nella circoscrizione cittadina e fu anche rappresentante di macchine da cucire.
Nel 1862 nacque il loro primo figlio, Hawley Harvey, proprio nel bel mezzo di una grande crisi,
con la guerra di secessione in corso. La guerra però non condizionò più di tanto l'infanzia di
Hawley che crebbe tranquillo e sereno in una bella casa, al 66 di North Monroe. L'infanzia felice
contribuì a formargli un carattere mite e dolce che espresse anche nei momenti più tragici della
sua vita. La famiglia era molto unita e ruotava intorno a nonno Philo, che ne era il centro di
gravità; uomo austero e tutto di un pezzo, quando entrava in una stanza la sua presenza incuteva
timore e i presenti cessavano subito di sorridere.
In una rara foto dell'epoca, è ritratto in seconda fila insieme ad altre persone della città – è il più
anziano, alto e calvo con ciuffi di capelli bianchi ai lati del cranio e alla mascella, aveva grandi
orecchie e un grande naso, tratti genetici riscontrabili nel nipote Hawley che però, purtroppo, non
ereditò dal nonno Philo né il carattere, né la statura: dai modi educati, era piccolo, pallido, miope
e remissivo… bersaglio continuo dei bulletti del luogo. Nonostante ciò la sua infanzia e la sua
adolescenza furono serene.
Nel 1882, a vent’anni, Crippen si iscrisse alla scuola di omeopatia dell'Università del Michigan -
all'epoca quella specialità era di gran moda fra medici e pazienti.
Fu Samuel Hahnemann, famoso medico tedesco, iniziatore dell'omeopatia, che riassunse il
proprio pensiero in tre parole: similia similibus curentur - “i simili si curino coi simili”. Il suo
trattato “Organon - L'arte di Guarire”, pubblicato nel 1810 divenne la “bibbia” degli omeopatici
nei due secoli successivi. Durante gli studi Hawley si rese conto che forse in Inghilterra avrebbe
avuto l’occasione di sviluppare maggiormente i suoi studi e di mettere in pratica le sue già ampie
conoscenze nel campo omeopatico. Con questo intento, dopo appena un anno lasciò la scuola
senza diplomarsi e si trasferì a Londra.
Non fu accolto come sperava, dovette accontentarsi di lavorare come tirocinante in alcuni ospedali
della capitale.
Il suo modo affabile e le sue capacità gli valsero finalmente una sistemazione stabile presso uno
di quelli, il “St Mary of Bethlehem”, un ospedale per le malattie mentali, soprannominato
“Bedlam” (baraonda) anche per il fatto che pochi medici si impegnavano in una carriera dentro a
un manicomio. La pazzia era ritenuta incurabile e i medici di allora si limitavano soltanto a sedare
i pazienti dai loro disturbi mentali, evitando che potessero nuocere a se stessi e agli altri.
Crippen aveva dalla sua un bagaglio di conoscenze sulle sostanze medicinali che piacque ai
dirigenti dell'ospedale. L'Omeopatia gli permise d’acquisire un’ampia conoscenza non solo degli
oppiacei ampiamente utilizzati, ma anche dei veleni come l'aconito, l'atropina e le tossine
dell'edera velenosa. Tutte sostanze letali ma se dosate e mischiate in giuste dosi con altre, erano
un valido antidoto per placare le crisi dei pazienti. Al suo assortimento Crippen aggiunse una
nuova sostanza medicinale, il butilbromuro di ioscina, che conosceva al tempo dei suoi studi in
America e che impiegò lì per la prima volta per curare la nevrastenia.
I risultati medici furono palesemente positivi ed egli era benvoluto dai suoi superiori, ma
l'ambiente londinese continuava ad essergli freddo e ostile come il suo clima, motivo per cui decise
di ritornare negli Stati Uniti.
Si iscrisse quindi alla scuola medica dell'ospedale omeopatico di Cleveland e studiò chirurgia,
dichiarando in seguito che non operò mai alcun paziente, né tantomeno effettuò la dissezione di
un cadavere.
Gli abitanti di Coldwater conoscevano bene i Crippen e si aspettavano molto anche da lui, tanto
che i giornali locali si interessavano a tutto ciò che li riguardava, seguivano gli spostamenti e le
loro iniziative. Il 21 Marzo 1884 il Courier riportava: “Hawley Crippen, figlio di Myron Crippen
è tornato in città” ...Era tornato per il funerale della nonna, la moglie del nonno Philo, morta
pochi giorni prima. Il giorno seguente, lo stesso giornale riportava in un trafiletto “La settimana
prossima Hawley Crippen si diplomerà al Medical College di Cleveland”.
Quel diploma gli aprì la strada della professione di medico omeopatico consentendogli di avviare
un piccolo studio medico a Detroit.
Col tempo, però, Hawley si accorse che quella città non offriva molte possibilità per la sua nuova
attività, così decise di trasferirsi a New York per studiare oftalmologia al New York Ophthalmic
Hospital, un rinomato ospedale oftalmico. Non fu una scelta casuale. Pochi decenni prima
quell'ospedale aveva iniziato le cure con il nuovo metodo omeopatico sostituendo il vecchio
metodo della medicina allopatica: cambiamento che aveva comportato il licenziamento di tutti i
dottori che non fossero a conoscenza della medicina omeopatica, tranne Crippen che si dimostrò
un valido e volenteroso allievo.
Crippen si diplomò nel 1887 e intorno ai 25 anni fu assunto come medico presso lo Hahnemann
Hospital di New York potendo finalmente mettere in pratica le suo abili doti mediche. Lì conobbe
una ragazza originaria di Dublino, una certa Charlotte Jane Bell, che prestava servizio come
infermiera. I due si innamorarono e in poco tempo convolarono a nozze, poco prima del Natale
del 1887.
Hawley covava da tempo l'idea di praticare l'attività di medico in proprio, tanto che convinse
Charlotte a trasferirsi in California, a San Diego, per aprire uno studio privato.
Il clima mite dell'inverno californiano fu particolarmente propizio alla coppia tanto che Charlotte,
rimasta incinta e il 19 Agosto del 1889 diede alla luce un bel maschietto che fu chiamato Otto.
Con l’arrivo del neonato crebbero le esigenze familiari e la necessità di spazio, tanto che decisero
di trasferirsi a Salt Lake City, in una casa più adatta a loro tre.
La tranquillità familiare e la fiorente attività medica fecero il resto. Charlotte rimase incinta per
la seconda volta ma, quando mancavano pochi giorno al parto, a causa di un colpo apoplettico,
improvvisamente Charlotte morì. Era il Gennaio del 1892.
Crippen sconvolto, affidò il piccolo Otto ai nonni, nel frattempo trasferitisi a Los Angeles, facendo
ritorno a New York.
Non riaprì lo studio, ma trovò impiego presso lo studio del Dott. Jeffrey, affittando una stanza
presso l'abitazione del dottore. Fino a quella data era stato protagonista di se stesso e della sua
carriera medica fatta di successi e soddisfazioni: purtroppo la vita gli aveva riservato anche una
grave perdita che contribuì a far cambiare per
sempre la sua vita.
In quello stesso anno, al di là dell'oceano in un
piccolo paese in provincia di Bologna, adagiato
alle pendici dell'appennino Tosco Emiliano, un
ragazzo di 18 anni animato da una forte
passione per la propagazione dei fenomeni
elettrici nell’etere stava replicando le
esperienze di Heinrich Rudolf Hertz: questo
ragazzo si chiamava Guglielmo Marconi.

(segue)
Siamo lieti di pubblicare la prima parte di una interessante tavola sul “Simbolismo dei
numeri” tracciata dal Fr∴ Sergio Israel della R∴L∴ Avalon n° 1173 all’Or. di Milano: l’ottimo
lavoro che proponiamo alla vostra attenzione, preceduto da un’introduzione del Fr∴ Sergio,
si compone di una trilogia piuttosto articolata che, in questa pubblicazione, verrà a sua volta
divisa a seconda dell’ ampiezza degli argomenti trattati.

«Cari fratelli,
questa tavola è stata suddivisa in una trilogia corrispondente ai tre gradi di apprendimento della
maestria massonica, dallo sgrossamento della pietra cruda alla rianimazione di Hiram. In questa prima
parte lavoreremo la pietra grezza cercando di sgrossarla e tratteremo, a volo di uccello, delle simbologie
numeriche nelle varie culture.
I fratelli perdoneranno un approccio non precisamente canonico ad un tema altamente stimolante […].
I fratelli più esperti perdoneranno della tavola, la profondità “riportata” quando esista e l’assenza quasi
totale di profondità originale. Per approccio non propriamente canonico intendo una relazione in cui,
sia il linguaggio, sia la trattazione, non è forse esotericamente conforme ai modelli attesi.
Ma il punto è che la mia percezione della riflessione esoterica, in questo stadio del mio cammino di
libero muratore, pretende essere insieme tradizionalistica e, in qualche modo, rivoluzionaria, quanto
probabilmente quella di ognuno di noi. Nel senso di produrre il massimo sforzo possibile nel conciliare
un “sapere universale”, proprio della tradizione, con le impennate del dubbio ed una fervente apertura
verso il “nuovo”.
Tutto ciò lungo il proprio individuale e insieme condiviso percorso di ricerca di Vera Luce, nell’io
interno e negli impegnativi lavori architettonici del nostro tempio.
Un viaggio iniziatico dell’intimo più profondo, in una dimensione straordinariamente ossimorica, che
accosta il pellegrinaggio individuale dentro il tempio, alla partecipazione iniziatica con il tempio.
Questo preambolo valoriale sul carattere proattivo della contraddizione, apparentemente fuori tema, ci
introduce invece nel vivo della trattazione, lungo la quale mi piacerebbe riuscire a suscitare qualche
creativo dubbio, a sviluppare una consapevolezza esoterica delle conviventi contraddizioni che
incontreremo, o meglio la percezione misterica delle antinomie del sapere.
Entrando, infatti, nel vivo del tema, oggetto di questa tavola ci ripromettiamo di far emergere alcune
domande che ci serviranno da traccia per una riflessione su alcuni aspetti dell’immenso sapere esoterico
legata alla simbologia dei numeri, della scrittura e delle forme geometriche.»

IL SIMBOLISMO DEI NUMERI ~


del Fr∴ Sergio Israel – R.L. Avalon n° 1173 – Or. di Milano
“I numeri sono il linguaggio universale offerto dalle divinità agli
umani come riconferma della verità” (Sant’Agostino).
La pirite può cristallizzare nelle forme di un Esaedro, di un Ottaedro e di un Dodecaedro
irregolare. Pitagora, figlio di un orefice di Samo, in gioventù aveva senz’altro visto nella bottega
del padre frammenti di quarzo, di berillio, di granati e di altri minerali, i cui cristalli
richiamavano forme geometriche. Per la stretta analogia tra forme geometriche e numeri che
Pitagora evidenziò, il ritrovamento in natura della pirite, presente in ampi filoni dell’entroterra
della Magna Grecia, dove nacque la Scuola Pitagorica, ha certamente rafforzato la teoria della
loro doppia natura, in quanto Principi Universali e allo stesso tempo Entità Fisiche di
costituzione della struttura dell’ Universo, di un mondo dominato non dal caos delle forze
oscure, bensì dalla bellezza e dall’armonia dei numeri e dalle loro divine proporzioni.
La raffigurazione completa della Tetraktys rappresenta la sintesi del Tutto, l'Unità e la
molteplicità, la materia che si differenzia. Per i pitagorici infatti il 10 simboleggia l'Universo.
La tetraktys
Richiamo qui brevemente la Teoria pitagorica della Tetraktys, così efficacemente illustrata
nella Tavola “La stella fiammeggiante” del Fratello Fabio Monteleone perché è la base del
modello proposto dai pitagorici per un’interpretazione della realtà,
con marcate aspirazioni alla trascendenza divina.
Pitagora diceva che tutto è numero, che Dio è numero, in quanto
comune denominatore di tutte le parti di cui l’universo è composto.
La magia di queste armoniche corrispondenze lo indusse ad
esplorare, con una visione olistica della realtà, insieme alla
matematica, la filosofia, la medicina, l’astronomia e la musica
gettando le basi del sapere scientifico.
“O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgente
dell'eterno flusso della creazione”, era questo il contenuto principale del giuramento degli
iniziati della Scuola Pitagorica e delle loro preghiere quotidiane.
Ritroviamo in questo mantra l’ispirazione orfica e l’influenza induista (Vedica e Brahmana)
sulla formazione Pitagorea, che, conducendo ad una forma di panteismo trascendente-
immanente, secondo cui Dio non solo si rivela, ma anche si realizza nelle cose, influenzerà il
panteismo di Maimonide e di Baruch Spinoza, quello di Giordano Bruno e il panteismo
moderno di Tolland che, in forme diverse, interesserà varie correnti idealiste della modernità,
dal panenteismo includente di Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov, fondatore dello
Chassidismo, al pensiero contemporaneo della New Age.
La scuola pitagorica considerava, l’universo intero costituito di armonia e numeri e che,
pertanto, l’aspetto sostanziale della realtà fosse la matematica. I numeri, le figure geometriche
e la musica erano, per così dire, modalità meditative che davano significato al cosmo, aiutando
a capirne i ritmi e a contemplare l’armonia del firmamento.
Il numero dunque non andava pensato come semplice cifra ma appariva dotato di forma, e tra
queste forme-numeri si scoprì che esistevano rapporti inaspettati e meravigliosi. Ad esempio
la serie dei numeri quadrati, la serie dei numeri cubici e dei numeri piramidali.
Altro esempio di magia dei numeri è anche il famoso teorema che lega l’ipotenusa di un
triangolo rettangolo ai suoi cateti, sulla cui simbologia, come vedremo ci si può sbizzarrire.
I numeri perciò non erano stati gettati a caso nel mondo, ma decidevano non solo la forma degli
oggetti ma anche determinavano le regole dell’armonia musicale.
Tutto ciò mostrava che era possibile ridurre il reale a serie di rapporti numerici e che questo
conferiva ai numeri un carattere divino. Questo non solo per i Pitagorici: non a caso l’intero
quarto libro della Bibbia si chiama “I Numeri”.
La divina proporzione
Luca Pacioli, matematico nasce nel 1445 a Borgo S. Sepolcro (ove 29 anni prima era nato anche
Pier della Francesca, autore, tra l’altro di una “De prospectiva pingendi” assai prossima ai temi
trattati nella “De divina proportione” del Pacioli).
Pacioli definì il rapporto aureo tra un segmento e una sua parte la “divina proporzione”,
definizione che avrebbe perpetuato la fama della sezione aurea.
Com’è noto questo rapporto è un numero irrazionale scoperto da Leonardo Fibonacci,
matematico (1170), considerato il creatore della matematica frattale. Di lui è nota la
successione numerica che prende il suo nome e la cui aurea ratio corrisponde a 1,61803…
costante rintracciabile un po’ ovunque. Basti pensare alla piramide di Cheope (può dimostrare
che gli Egizi conoscevano il numero aureo o che, più semplicemente avessero un ottimo senso
estetico) ma anche a innumerevoli opere d’arte. L’artista che forse ne fece maggiore ricorso fu
Leonardo Da Vinci, che sicuramente lo conosceva avendo illustrato il “De divina proportione”
dell’amico Pacioli) a partire dal suo “Uomo Vitruviano”, il cui ombelico divideva l’uomo in
modo aureo.
Lo stesso numero si ritrova poi in natura, per esempio nelle spirali dei semi del girasole, nei
petali di alcuni fiori a dimostrazione dell’importanza rivestita dai numeri nell’Universo.
Da Giotto e Cimabue, da Pier della Francesca a Paolo Uccello, dallo scalone vinciano di Chateau
Chambord nella Loire, alla Monna Lisa e all’ Annunciazione, all’ uomo vitruviano o dal
prototipo di elicottero di Château du Clos Lucé in
Amboise, giù giù, passando per Mozart, Bartok e
Debussy, fin dalla sua apparizione la sequenza di
Fibonacci ha giocato un ruolo decisivo nella
descrizione della realtà e del suo rapporto col
sogno. Anche nelle più contemporanee creazioni in
ambito artistico e architettonico la magica
successione non smette di cogliere continui
successi.
Da Kandinsky a Mondrian a Max Bill a Esher è tutto
un rifiorire nelle arti visive degli influssi della ratio
aurea. Un ramo del cubismo, autoproclamatosi
“Sezione Aurea”, si basava sull’ideale della ricerca di forme universali. Questa sezione era
guidata da Marcel Duchamp, e ad essa parteciparono nomi illustri come Le Corbusier, Juan
Gris e Fernand Léger.
Lo stesso Le Corbusier utilizzò la magica successione per realizzare il suo Modulor, che altro
non era se non una scala di grandezze relativa alle proporzioni del corpo umano di vitruviana
memoria.
Ancora ai nostri giorni il divino rapporto vive nelle realtà e nei gesti della quotidianità. Il 29
Settembre u.s., pochi mesi fa, si è chiusa a Roma una Mostra organizzata dal GOI sui 60 Disegni
che Leonardo eseguì per il manoscritto di Luca Pacioli
e della quale ha pubblicato anche un catalogo. Pochi
sanno che nella cultura rock alcune pietre miliari che
hanno delineato il successo di famosi gruppi musicali
inglesi e americani sono ispirati a Fibonacci. La
celeberrima ‘Firth of fifth’ dei Genesis, con riferimento
al 6° numero della serie di Fibonacci, si ispira al Firth
of Forth (e non fourth) che è il nome dell’estuario del
Forth di Edinburgo. Ma l’intera partitura, peraltro
assai complessa, nella sua ouverture, è contraddistinta
da cadenze e sezioni che Tony Banks ha voluto scrivere nascondendo i riferimenti matematici
dentro la intricata architettura del brano. Addirittura un gruppo elettrorock si è voluto
chiamare Fibonacci’s.
I Pitagorici avevano identificato la sezione aurea o la divina proporzione attraverso lo studio
del pentagono, dove è ricavabile dalle intersezioni tra loro di ognuna delle dieci diagonali.
Questa, dunque, ben rappresenta, la relazione tra l’uomo e la natura, o tra Dio e il creato.
Il concetto fu ripreso dal pensiero ermetico ed esoterico rinascimentale: la sezione aurea,
secondo un’opinione diffusa dell’epoca, rappresenterebbe la connessione armonica tra il
macrocosmo (l’universo, il tutto) e il microcosmo (l’uomo, la parte del tutto). In definitiva ogni
numero era carico di un suo significato particolare: per esempio come l’uno era un richiamo
alla divinità e all’intelligenza, il 7 indicava le criticità della vita, come il parto settimino, la
perdita del primo dente da latte a 7 anni, la pubertà a quattordici, la maturità a 21, ma anche la
fine di una settimana e l’inizio di un’altra, oltre ai significati che vedremo nello specifico.
Citeremo qui solo alcune delle corrispondenze simboliche, finalizzate alla trattazione, non
senza rilevare le loro intrinseche concatenazioni.
(segue)

Cielo e terra, dei e uomini sono tenuti insieme dall’ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine: ed è proprio
per tale ragione… che essi chiamano questo tutto “cosmo”».
ZANARA
Il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano è composto da sette isole, isolotti minori, alcuni dei
quali ospitano fari dismessi, e da una serie di scogli chiamati “formiche”, nella punta nord
dell’isola maggiore, l’Elba, che con i suoi 225
chilometri quadrati è la terza isola italiana in
ordine di grandezza. Non tutti però sono a
conoscenza della possibile esistenza di
un’ottava isola di discreta grandezza,
segnalata esattamente a metà rotta fra Giglio e
Giannutri: ‘possibile esistenza’ perché oggi
non più visibile dato che scomparve
misteriosamente trecento e più anni or sono.
Ma… è esistita davvero? Dapprima emersa dai
flutti e poi inghiottita dal mare stesso? Frutto
di invenzione rinascimentale o di un
fenomeno tellurico transitorio? Mitica
leggenda o tragica realtà? La zona,
denominata anche “secca delle vedove”
sarebbe tristemente nota per numerose inquietanti sparizioni di imbarcazioni e inspiegabili
naufragi avvenuti con mare calmo; in queste acque, proprio nel secolo scorso, sparì un gruppo di
sette pescatori i cui corpi non furono mai ritrovati,
così come le tracce del relitto.
Questa porzione di mare è nota tra i subacquei come
“fondale di mezzocanale” e qui, con una immersione
fino ad una profondità di circa trenta metri si riesce
ad esplorare una piattaforma che rappresenta un
mondo meraviglioso senza pari per fauna e flora
mediterranea.
L’ipotetica esistenza di quest’isola tornò alla ribalta
nel Gennaio del 2012, all’indomani del tragico
naufragio della Costa Concordia avvenuto nei pressi
dell’Isola del Giglio.
Ci fu chi ipotizzò che la nave avesse urtato gli scogli immersi di un’isola non segnalata, emergente
dai fondali e sulla stampa e sulle televisioni locali apparve anche un nome: Zanàra (o Zanèra).
Certamente siamo a livello di pura fantasia, non suffragato da alcuna valida prova scientifica o da
testimonianze storico-letterarie a riprova della infondatezza di questa ipotesi; tuttavia è lecito
porsi alcune domande di fronte a documentazioni antiche che invece comproverebbero l’esistenza
di questa zona. Nel periodo greco-romano non c’è alcuna prova della presenza “dell’ottava isola”:
nella Roma antica le isole che formano l’arcipelago toscano risultano sette, con nomi latini a noi
ben noti - almeno cinque - per l’assonanza con quelli della lingua italiana:
Orgon (Gorgona), Capraria (Capraia), Ilva (Elba), Planasia (Pianosa), Igilium (Giglio), Oglasa
(Montecristo) e Artemisia (Giannutri)
Solo fra gli scritti di Mamiliano da Palermo, un santo eremita del V secolo, compare il nome
dell’isola Zanàra, dove l’anacoreta avrebbe soggiornato e vissuto per un certo periodo durante il
suo viaggio verso l’isola di Oglasa, sua meta finale.
Con un balzo temporale di alcuni secoli addietro scopriamo che lo scienziato e cartografo
fiammingo Gerhard Kremer (Gerardo Mercatore) riporta sulle sue mappe un’isola situata di
fronte al promontorio dell’Argentario. Siamo in pieno XVI secolo e una delle rappresentazioni
cartografiche più autorevoli e diffuse, la “proiezione di Mercatore” appunto, pubblicata nel 1569,
attesta la credibilità del geografo, ed è tale che ancora oggi consente di realizzare carte ideali per
la navigazione marittima con bussola.
Possibile quindi che Kremer abbia preso un abbaglio o che si sia addirittura inventato l’isola, e se
così fosse, a quale scopo? L’isola risulta riprodotta anche sulle Carte Vaticane e su quelle del
Granducato di Toscana oltre che su carte di diversi geografi dell’epoca. Il fatto che altri cartografi
abbiano disegnato la medesima isola con lo stesso nome è spiegabile: spesso questi autori si
copiavano fra loro evitando onerose interviste a lontani testimoni oculari o controlli con
rilevamento diretto sugli stessi luoghi geografici, per non dire che ancor più spesso sfruttavano la
fama di chi, più meritevole li aveva preceduti.
Nel XVIII secolo, con l’aggiornamento di mappe sempre più precise, l’isola improvvisamente
scompare dalle carte come se non fosse mai esistita. Non vi è però alcuna traccia che dia credibilità
all’esistenza di questa terra misteriosa che riguarda la sua comparsa prima e la sua scomparsa
successivamente. Una stretta analogia, anche se più
vicina a noi nel tempo, si può fare con l’isola
Ferdinandea, nel canale di Sicilia, al largo di
Agrigento: questa apparve nel 1831 per poi
scomparire nello stesso anno.
Un fenomeno, questo, ampiamente documentato e
derivato da una attività vulcanica presente in quel
fondale marino, attività che sembrano non essere
mai state presenti al largo della Toscana. Quale
possibile causa a determinare un fenomeno del
genere, ad esempio, potremmo prendere l’attività
dell’enorme Marsili, il vulcano sottomarino che
insieme al gemello Vavilov, due giganti sommersi di 50 chilometri di diametro al largo di
Campania, Calabria e Sicilia, il cui magma, in piena evoluzione da secoli li fa ritenere molto
pericolosi in caso di collasso.
Un ultima ipotesi alquanto “sfacciata”: se invece Mercatore si fosse sbagliato nel trascrivere il
posizionamento dell’isola sarda di Asinara, o parte di essa riportandone l’ubicazione molto più a
nord-est davanti all’Argentario a diverse miglia di distanza? Lo stesso nome di Zanara ha una
forte assonanza con Asinara (in latino Sinuaria) e potrebbe confermare ipotesi del genere.
E’ anche possibile che nei secoli successivi a Mercatore, i cartografi, dotati di mezzi e strumenti
più avanzati e precisi si siano resi conto del macroscopico errore e che lo abbiano “coperto”
facendo semplicemente affondare e sparire l’isola dalle carte, nell’intento di salvaguardare la
fama dell’illustre scienziato fiammingo, senza infangare la sua memoria... o no?

E’ graditissimo un contributo da parte dei Fratelli per arricchire i contenuti di questo nostro
Periodico, che deve essere lo strumento di tutta la Loggia. I vostri pensieri possono raggiungere
la nostra redazione attraverso l’indirizzo di posta elettronica:
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R∴L∴ FIORENZA N° 1141


OR∴ DI FIRENZE

“Fratelli, separiamoci in pace”

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