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CALCONDILA (Calcocondila, Χαλκονδύλης Χαλκοκανδύλης), Demetrio


Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

di Armando Petrucci

CALCONDILA (Calcocondila, Χαλκονδύλης Χαλκοκανδύλης), Demetrio. - Nacque


ad Atene nell'agosto del 1423 da Basilio, di nobile famiglia ateniese; suo zio Giorgio,
padre del ben noto storico Laonico, era il capo del partito nazionalista greco nel
ducato dominato dalla famiglia fiorentina degli Acciaiuoli ed uno degli uomini più
eminenti della città.
Quando nel 1435 Antonio I Acciaiuoli morì, dopo aver destinato il ducato ai nipoti
Neri ed Antonio, la vedova Maria Melissena, imparentata con i Calcondila, tentò di
rovesciare la situazione politica a favore suo e del partito ellenico, inviando Giorgio
Calcondila presso il sultano Murad II, al fine di ottenere da questo il riconoscimento
del governo del ducato per sé e per lo stesso Calcondila. Ma in Atene i partigiani degli
Acciaiuoli si impossessarono dell'Acropoli, scacciarono la duchessa e insediarono al
potere i due nipoti del defunto duca. Risultato di tali rivolgimenti politici fu il bando
della famiglia del C. da Atene; il ramo principale dei Calcondila si rifugiò con
Giorgio nel Peloponneso, ove nel 1447 Ciriaco d'Ancona incontrava il giovane
Laonico alla corte di Mistrà insieme con il venerando Gemisto Pletone. Si ignora però
se anche Demetrio, ancora fanciullo nel 1435, sia stato colpito dal bando insieme con
il padre e gli altri familiari, anche se è molto probabile che così fosse; e si ignora
anche dove, in qual modo e sotto quali maestri egli abbia ricevuto l'educazione
filosofica e letteraria che gli permise più tardi di insegnare in Italia.
Certo è che sia nell'Atene degli Acciaiuoli, sia soprattutto nella Mistrà dei Paleologhi
e del Pletone non mancavano né maestri, né scuole di retorica e di filosofia, e che il
suo stesso zio Giorgio era conosciuto come uomo di superiore dottrina; da una
testimonianza epistolare del Campano pare comunque di poter dedurre che il C. aveva
compiuto in Grecia studi filosofici di orientamento platonico e che aveva appreso
anche il latino (Cammelli, p. 7). Nel 1449, a ventisei anni, il C. lasciava Atene, ove
evidentemente soggiornava non sappiamo da quanto tempo, e giungeva, dopo una
sosta a Ragusa, in Roma. Ivi, fra il 1450 e il 1452, si faceva allievo di Teodoro Gaza,
completando evidentemente la sua conoscenza della filosofia platonica; nel 1452 era a
Perugia, ove insegnò con tutta probabilità lingua e filosofia greche privatamente ed
ebbe fra i suoi allievi G. A. Campano; quindi dovette ritornare a Roma, ove assai
probabilmente dal 1455 in poi, entrò a far parte della cerchia di letterati greci e italiani
che si raccoglieva intorno al Bessarione, con il quale, comunque, stando alla invero
tarda testimonianza contenuta in una sua lettera del 1472 al Lorenzi (Noiret, Huit
lettres, p. 491), non pare abbia mai avuto intima dimestichezza o rapporti di diretto
discepolato.
Nel 1462 il C. ormai quarantenne diede per la prima volta prova di sé in campo
letterario, intervenendo pubblicamente in difesa di Teodoro Gaza, suo maestro, contro
un altro letterato greco, Michele Apostolis, il quale da Creta aveva spedito al
Bessarione un opuscolo in cui si attaccavano violentemente alcune argomentazioni
filoaristoteliche recentemente esposte dal pur platonico Gaza. Il Bessarione, che
stimava il Gaza profondamente, non apprezzò né il tono, né gli argomenti dell'opera
inviatagli, che contrastava nella sostanza con il suo personale progetto culturale di
conciliazione in un superiore equilibrio storico-critico delle due opposte tendenze,
filoaristotelica da un lato e filoplatonica dall'altro, che si erano cristallizzate da tempo
nella tradizione filosofica bizantina e che ancora si contrapponevano, sia in Grecia, sia
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nella "diaspora" d'Italia. Probabilmente anche per compiacere il Bessarione, oltre che
per difendere il maestro offeso, il C. scrisse in questa occasione un opuscolo, di cui
non conosciamo né il titolo, né il testo; anche se la violentissima replica
dell'Apostolis, che ci è pervenuta, permette di intuire qualche elemento della struttura
e delle argomentazioni adoperate dal Calcondila.
Nell'ottobre del 1463 il C. trovava finalmente un'onorevole e stabile sistemazione con
la nomina a professore di greco nell'università di Padova, ove ebbe come allievi
Giano Lascaris, Giovanni Lorenzi, insieme con il quale rivide nel 1466 un codice
dell'AntologiaPlanudea (oggi Laur. 31.28), e altri minori letterati, come A. Baldo e A.
Brenta. Ben poco si conosce circa la permanenza del C. in Padova, e nulla delle
caratteristiche che ebbe il suo insegnamento o degli autori che lesse e commentò; ma
ceno è che fra il 1471 ed il 1472, per ragioni che ignoriamo, egli cominciò a cercare
una nuova e migliore sistemazione, ricorrendo per questo all'intercessione di amici
influenti. Nella prima metà del 1472 rifiutò un'offerta, fattagli pervenire dal vecchio
maestro T. Gaza, di recarsi a Roma come insegnante privato di greco di un giovane
Carafa, nipote del cardinale di Napoli Oliviero; e fu deluso da un incontro bolognese
con il Bessarione, dal quale probabilmente si aspettava molto di più che un freddo e
formale saluto. Deluso anche nella prospettiva di sostituire a Firenze l'Argiropulo, al
cui posto, sia pure con funzioni non ufficiali, si era praticamente insediato nel 1471
Andronico Callisto, il C. dovette rimanere a Padova sino al 1475, quando proprio la
partenza del Callisto da Firenze, per l'ottenuta chiamata a Milano, rese libera quella
ambitissima sede. Fu nell'estate di quell'anno Francesco Filelfo, antico titolare della
cattedra fiorentina, ad officiare sia a Milano (senza successo), sia a Firenze la
candidatura del C., dopo che era sfumata la possibilità di un ritorno dell'Argiropulo in
quest'ultima città; e nell'agosto del 1475 il C. stesso, munito di calorose lettere
commendatizie del famoso umanista indirizzate ad Alamanno Rinuccini e a Donato
Acciaiuoli, si presentò nella città del Magnifico.
La nomina del C. a professore di greco nello Studio fiorentino, avvenuta nel settembre
di quell'anno stesso, e la morte del vecchio suo maestro T. Gaza, collocabile:
ugualmente nel 1475, possono essere assunti come i segni di una importante svolta
nella vita dell'ormai cinquantaduenne letterato, giunto all'apice della fortuna
accademica senza avere ancora prodotto alcuna opera di vero rilievo, né aver
apportato alcun nuovo contributo alla estensione in Italia della conoscenza della
cultura greca classica; poiché, proprio mentre la scomparsa del Gaza, seguita di poco
a quella del Bessarione (1472), segnava il progressivo inaridirsi della presenza attiva
in Italia della tradizione filosofica e culturale greca di schietta impronta bizantina,
l'inserimento del C. nell'ambiente fiorentino, ove la lezione di Aristotele e quella di
Platone venivano ormai assorbite in maniera del tutto indifferenziata e
sostanzialmente mistificante attraverso le successive e più o meno abili mediazioni
degli Argiropulo e dei Ficino, rappresentò l'assunzione dell'apporto greco a livello
puramente e limitatamente strumentale da parte di una classe dirigente che stava
risolvendo con i propri mezzi i problemi del rapporto con il messaggio classico e della
migliore utilizzazione di tale messaggio nel quadro armonico della società signorile.
A questo punto il problema di un eventuale legame più o meno diretto e più o meno
determinante del C. con il Ficino, con l'Accademia platonica e con i dibattiti filosofici
che agitavano l'ambiente intellettuale fiorentino del tempo appare inesistente e al
contrario il silenzio delle fonti a tale proposito in sé eloquentissimo; poiché non
sembra casuale che di lui non si conoscano né l'argomento dei vari corsi annuali, né
contributi di scritti, di traduzioni, di presenza a quelle dispute letterarie, reali o fittizie,
che segnavano in Firenze i tempi della movimentata vita culturale nell'ultima età
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medicea; né la scarna notizia di aumenti salariali; o il ritratto che di lui eseguì nel coro
di S. Maria Novella il Ghirlandaio e che lo raffigura insieme con il Ficino, il Landino
e il Poliziano; o le notizie di letture di classici diversi (Platone, Aristotele, Eschine,
Polibio, Proclo, ecc.) condotte sui libri della biblioteca medicea, possono bastare a
colmare la lacuna e a rendere il senso di un attivo contributo personale. Che si esplicò,
invece, ampiamente e, a quanto pare, proficulmente, a livello di insegnamento
linguistico e di lettura dei classici, se è vero, com'è vero, che il C. fu maestro di greco
al Poliziano (sia pure per pochissimi anni), a Pico, a Giovanni de' Medici (poi Leone
X), a M. Adriani, al Reuchlin, allo stesso Martillo, e a molti altri, più o meno giovani
e spesso stranieri, attratti a Firenze dal desiderio di apprendere la magica lingua "ex
ore" di uno degli ultimi illustri greci pubblicamente insegnanti.
Il suo arrivo e la sua prima attività didattica a Firenze furono salutati proprio dal
Poliziano con tre epigrammi greci di pura e vuota intonazione encomiastica; e lo
stesso episodio della revisione della versione latina dell'opera platonica, affidata dal
Ficino a lui, come ad altri letterati, non supera i limiti di una riconosciuta competenza
di carattere linguistico.
A Firenze, di certo, il C. fu subito circondato di stima e di rispetto anche in ambito
pubblico e nella cerchia stessa del Magnifico; tanto che il Filelfo poté indirizzargli nel
maggio del 1477 un enfatico appello affinché inducesse Lorenzo e la Repubblica a
prendere le armi contro il Turco, fattosi particolarmente minaccioso contro le coste
italiane. Nel 1484, a sessantuno anni, il C. in Firenze prese anche moglie (di cui si
ignora nome e casato) e vi ebbe i primi quattro dei suoi dieci figli. Ma non molto
buoni debbono essere stati i suoi personali rapporti con i colleghi dello Studio, alcuni
dei quali, come il Landino, sembra lo abbiano volutamente ignorato; e fra i quali, dal
1480 in poi, venne gradualmente crescendo l'influenza e la fama del Poliziano.
Proprio le vicende del confronto fra l'illustre e anziano maestro greco e il giovane
italiano, allievo prima e collega poi, malamente ricoscuibili dagli indiretti accenni dei
protagonisti e dalla tarda testimonianza del Giovio, possono dare la misura del
progressivo estraniamento del C. dalle più fervide correnti del movimento intellettuale
fiorentino dell'epoca laurenziana. Assai presto il Poliziano cominciò ad invadere il
terreno del collega, leggendo autori greci: e nel 1486-87, aprendo il corso su Omero
con l'orazione famosissima sul poeta greco, egli esaltava, a confronto dell'Atene
caduta in mano ai barbari, quella Firenze, i cui cittadini ormai erano divenuti
autonomamente provetti conoscitori della lingua e della letteratura greche e che
poteva essere considerata bene a ragione la nuova Ellade; così, nelle parole del
massimo esponente della filologia umanistica del tempo, il contributo di quei Greci,
che il Gaza aveva giudicato "maiores, praeceptores fautoresque totius Italicae
nationis" (Garin, La letteratura, p.65), veniva negato anche nel suo più limitato
aspetto strumentale, sul piano didattico-linguistico, l'operazione di assunzione del
messaggio ellenico giudicata conclusa, il ruolo sociale dei sopravvissuti esponenti
della cultura bizantina degradato a quello di sradicati esuli.
Inizia allora, probabilmente proprio come implicita reazione ad orgoglioso manifesto
di autonomia bandito dal Poliziano, la fase di più intensa e proficua attività letteraria
del C., con la preparazione e la pubblicazione in Firenze della prima edizione a
stampa dei poemi omerici, compiuta il 9 dic. 1488 con i caratteri greci di D. Damila, a
spese di B. e di N. Nerli e con il contributo di G. Acciaiuoli.
L'opera comprende, oltre alla dedica di B. Nerli a Piero de' Medici, e ad una breve
prefazione del C., i testi su Omero di Erodoto, di Plutarco e di Dione Crisostomo,
l'Iliade, l'Odissea, la Batracomiomachia egli Inni, senza note introduttive, commento
o argomenti. Dal punto di vista testuale il opera del C. sembra essersi limitata alla
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scelta dei manoscritti adoperati per la stampa, certamente recenti ed appartenenti per
l'Iliade alla famiglia e, per gli Inni alla famiglia f; qualche suo intervento sul testo,
anche sulla base di un confronto con il vecchio e vasto commento di Eustazio da
Tessalonica (dal C., evidentemente, adoperato con ampiezza pure sul piano didattico),
pare possa essere identificato, per esempio nell'Iliade; ma, almeno per quanto riguarda
gli Inni, il testo della famiglia f fu riprodotto a stampa persino nella punteggiatura,
senza correggere neppure gli evidenti errori rivelati dalla metrica. Ciononostante,
proprio questa edizione degli Inni, per la scarsità e la rarità della tradizione
manoscritta precedente, ebbe notevole successo e fu riprodotta anche in alcuni codici
della fine del sec. XV (Vat. gr. 1880 e Vat. Reg. gr. 91). L'assenza di revisione critica
del testo omerico, in contrasto con quanto asserito nella prefazione del Nerli, non può
essere imputata soltanto alla necessità di rispondere rapidamente con una clamorosa
iniziativa alle affermazioni del Poliziano; bensì soprattutto alla evidente estraneità del
C., e in genere della tradizione letteraria tardobizantina, cui egli apparteneva, ad ogni
dimensione di filologia formale e di indagine critica della trasmissione dei testi,
estraneità che finì per costituire il limite primo di questa e di altre sue più tarde
iniziative di editore e curatore di testi.
La difficoltà dei rapporti con i colleghi fiorentini spingeva nel frattempo il C. a
cercarsi altrove una nuova sistemazione, ed egli volse a Roma la sua attenzione,
recandovisi nell'ottobre del 1488, facendosi ricevere da Innocenzo VIII e premendo
sull'antico allievo G. Lorenzi, allora bibliotecario della Vaticana, per ottenere almeno
il posto di maestro di greco del giovane cardinale Giovanni de' Medici, già suo allievo
a Firenze; ma ogni progetto romano andò rapidamente in fumo, mentre d'altra parte
egli nell'estate del 1490 respingeva l'offerta di una cattedra di lettere greche e latine
fattagli pervenire dalla Repubblica di Ragusa. L'anno appresso al C. riusciva
finalmente di cambiare per l'ultima volta sede di insegnamento, accettando l'offerta
della cattedra di greco in Milano, inviatagli da Ludovico il Moro nel luglio del 1491
tramite il suo oratore in Firenze A. Talenti, dopo complesse trattative condotte anche
da Branda da Castiglione e dal segretario ducale B. Calco, e dopo che il Magnifico
ebbe dato il suo assenso in data 20 agosto. Il C. lasciò in settembre Firenze e il 6 nov.
1491 tenne in Milano, dinanzi ad un selezionato pubblico di curiali e di letterati, la
sua prima lezione "in laude de lettere" (Cammelli, 1954, p. 111).
A Milano il C., liberato dal confronto diretto con il Poliziano e, assai presto (nel
1494), anche di quello del Merula, poté esplicare con maggiore libertà e peso il suo
magistero, che del resto meglio s'adattava al raffinato e cosmopolita ambiente della
corte del Moro che non a quello fiorentino, troppo aperto a scontri e dibattiti di
generale impegno e ormai privo anche della equilibratrice presenza del Magnifico.
Chiamato a far parte della cancelleria ducale, impegnato in due diversi corsi di
lezione, l'uno pubblico e l'altro, per allievi maturi e scelti, privato, il C. fu presto
circondato di discepoli di alto livello, da B. da Castiglione a G. G. Trissino, da G. M.
Cattaneo a B. Giovio, a S. Negro, a G. G. Giraldi, al Reuchlin, che da Firenze volle
seguire a Milano il vecchio maestro. E a Milano il C. curò altre due importanti prime
edizioni a stampa di testi greci: le Orazioni di Isocrate nel 1493 e il lessico
enciclopedico Suda nel 1499.
L'Isocrate (Indice generale degli incunaboli, n 5421), dopo alcune antiche biografie,
contiene ventuno orazioni, prive di ogni commento; il testo, secondo il metodo già
sperimentato nell'Omero fiorentino, è basato su di un codice appartenente alla
tradizione più recente; l'edizione ebbe notevole fortuna e fu riprodotta nella più nota
aldina del 1513e in altre stampe successive. Probabilmente di maggiore rilievo e
significato sul piano culturale generale risultò l'edizione del grande lessico Suda
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(Hain, n. 15135; British Museum Catalogue, VI, 792), checostituiva una "summa" del
sapere scolastico bizantino e che il C., senza alcuno scrupolo di rispetto testuale,
infarcì di glosse e di interpolazioni estratte sia dal lessico erroneamente attribuito allo
Zonara, sia, in minore parte, da Paolo Egineta. L'opera di aggiustamento e di
aggiornamento del testo così compiuta, sulla base del confronto di numerosi esemplari
e di fonti diverse, è esaltata dal prefatore G. M. Cattaneo ed è giustificata dallo stesso
editore come necessaria per accrescere pregio ad un libro utile non soltanto ai filologi
e agli studiosi del mondo classico, ma a tutti gli uomini colti; ove di una tradizione
culturale quale quella ellenica viene colto, nello specchio deformante
dell'enciclopedismo bizantino, soltanto l'aspetto brutamente antiquario.
Nel 1494 e sempre a Milano il C. pubblicava l'unica opera interamente sua che ci sia
rimasta, e cioè un manuale scolastico per l'apprendimento della lingua greca: gli
᾿Ερωτήματα (Indice generale degli incunaboli, n. 3404).
Il manuale del C. non era la prima grammatica greca ad essere stata pubblicata in
Italia, poiché era stata preceduta sia da quella del Crisolora, sia da quella del Lascaris;
e di queste, del resto, ricalca ampiamente l'impostazione e lo schema. L'appartenenza
ad una tradizione didattica di notevole livello pratico, la suddivisione in capitoli brevi
e chiari, la tecnica della domanda e risposta, l'uso di esempi stereotipi ma
mnemonicamente efficaci fanno comunque del manualetto del C. uno strumento
scolastico di buon livello, arricchito, rispetto ai testimoni precedenti, di una lunga e
complessa trattazione sulle forme verbali, che godette autonomamente di lunga
fortuna e fu più volte riprodotta a stampa.
La sostituzione del dominio francese a quello sforzesco e gli sconvolgimenti che
accompagnarono quegli eventi coinvolsero anche il vecchio maestro ateniese, fuggito
dal Milano a Ferrara nel 1500, angosciato per la sorte dell'edizione del Suda, nella
quale aveva impegnato i suoi capitali, e aspirante alla cattedra veneziana lasciata
vacante quell'anno stesso dalla morte di Giorgio Valla. Ma già nel marzo del 1501 il
C. fu richiamato da Giorgio d'Amboise, legato di Luigi XII, a riprendere in Milano il
suo insegnamento, interrotto del resto per brevissimo tempo; e a Milano nel giugno
seguente, ad ormai settantotto anni, si vide nascere il decimo ed ultimo figlio,
Tolomeo.
La gratitudine per i nuovi dominatori e l'antica abitudine all'ossequio letterario
indussero il C. ad affrontare in quegli anni la sua ultima fatica di cui si abbia notizia:
la traduzione in latino del parziale compendio delle Storie romane di Cassio Dione
redatto da G. Xifilino nel sec. XI; traduzione che egli fece in tempo a dedicare
all'arcivescovo di Parigi E. Poncher nel 1504, ma non a pubblicare.
Conservata in due codici coevi e originali (ma non autografi) della Biblioteca
nazionale di Napoli (V G 2 e V G 3), di cui il secondo più completo del primo, la
versione del C., che contiene le biografie imperiali da Pompeo e Giulio Cesare sino ad
Alessandro Severo, meccanicamente ricalcata sul testo greco, priva di ogni
adattamento e di ogni concessione a sia pur minime esigenze stilistiche, risulta redatta
in un latino sciatto, a volte scorretto, sempre squallidamente scolastico. Se sue, vanno
collocate nel periodo milanese della vita del C. anche due traduzioni in latino di
opuscoli galenici (De oculis e De anatomicis aggregationibus)edite soltanto nel sec.
XVI con l'attribuzione ad un Demetrio greco non meglio specificato, ripetuta anche in
un manoscritto ambrosiano (D 239inf.); che il C. nutrisse interesse a Galeno, ne
possedesse e studiasse i testi, è del resto confermato da una testimonianza epistolare
di G. Budé (Cammelli, 1954, p. 122).
Preceduto nella tomba da ben tre dei suoi dieci figli, il C. venne a morte in Milano
all'età di ottantotto anni il 9 genn. 1511; fu seppellito nella chiesa di S. Maria della
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Passione, fuori di porta Tosa; il Trissino, uno degli ultimi e più fedeli scolari, dettò la
sobria epigrafe.
La presenza di un letterato della "diaspora" bizantina nel panorama culturale del
Rinascimento italiano non va di certo misurata soltanto dalle opere effettivamente
scritte o dall'intensità e durata dell'attività didattica; bensì anche, e in alcuni casi
soprattutto, dall'apporto diretto e personale fornito alla conoscenza di testi della
tradizione greca classica (o anche medievale) poco noti o ignoti, sia mediante la copia
di un certo numero di manoscritti, sia attraverso il trasferimento o la formazione nella
penisola di una propria più o meno ricca biblioteca. Da questo punto di vista
pochissimo sappiamo di un eventuale contributo del C.; risulta da una sua lettera al
Lorenzi che a Firenze aveva copiato di sua mano uno Strabone per il Magnifico
(Noiret, Huit lettres, p. 487);di lui rimangono inoltre autografi un codice contenente
l'Antologiapianudea (è il già ricordato Laur. 31.28), un Aristotele (Par. gr. 2023), un
Pindaro (Par. gr. 2793) e un Euripide (Par. gr. 2808), e forse altri non ancora
riconosciuti, che certamente non bastano a collocarlo fra i copisti più attivi del
periodo. Pochissimo sappiamo altresì della formazione e della sorte della sua
biblioteca privata e nulla di eventuali trasferimenti di codici dalla Grecia all'Italia
avvenuti per suo tramite. Esiste una tradizione secondo la quale la sua biblioteca
(nella quale sarebbe confluita anche quella del suo maestro T. Gaza) sarebbe finita per
eredità al genero Giano Parrasio e si troverebbe perciò compresa fra i manoscritti di
quest'ultimo passati al Seripando, quindi al monastero napoletano di S. Giovanni a
Carbonara e infine alla Biblioteca nazionale di Napoli; ma l'unico codice napoletano
che con assoluta sicurezza risulta passato dalle mani del C. a quelle del Parrasio è uno
dei due contenenti la versionelatina di Cassio Dione (e precisamente il V G 3), cui il
Parrasio stesso accennava in una epistola del 1505 al Pio (Cammelli, 1954, p. 132); né
è fondata la leggenda secondo la quale al C. si dovrebbe l'arrivo in Italia del famoso
Dioscoride napoletano del sec. VII, conservato parimenti presso la Biblioteca
nazionale di Napoli (Vindob. gr. 1).
Secondo una testimonianza riportata dal Giovio, Poliziano avrebbe giudicato il C.
"aridus atque ieiunus" (Cammelli, 1954, p. 85); ma probabilmente il giudizio più
esatto ed equilibrato sull'operosità di questo grande signore dell'ultimo ellenismo
ateniese fu quello espresso da Erasmo, il quale, dopo averlo elogiato come "probus"
ed "eruditus", ne rilevava sconsolatamente l'irrimediabile "mediocritas" intellettuale
(Opus epistolarum, II, p. 265).
Fonti e Bibl.: Le epistole del C., greche e latine, o a lui dirette non sono state finora
raccolte in un organico corpus;ne sono pubblicate, oltre che nel Cammelli, anche in
H. Noiret, Huit lettres inédites de D. C., in Mélanges d'archéologie et d'histoire,
VII(1887), pp. 472-500; in E. Legrand, Bibliographie hellènique…, I, Paris 1885,
passim (per le edizioni); II, ibid. 1885, pp. 255, 304-311, 322-324, 330-333, 396; Id.,
Cent dix lettres grecques de Francois Philelphe, in Publications de l'Ecole des
langues orientales vivantes, s.3, XII (1892), pp. 190-194, 347-350; J. E. Powell, Two
letters of Andronicus Callistus to D. C., in Byzantinisches und Neugriechisches
Jahrbuch, 1939, pp. 14-20; lettere 0 versi al C. indirizzati sono ricordati in P. O.
Kristeller, Iter Italicum, I, London-Leiden 1963; II, ibid. 1967, ad Indices.Tra le fonti,
si ricordano ancora: Opus epistolarum Des Erasmi Roterodami, a cura di P. S. Allen,
II, Oxonii 1910, p. 265; e i documenti pubblicati da G. D'Adda, Indagini storiche,
artistiche e bibliografiche sulla libreria visconteo-sforzesca del castello di Pavia, II,
Milano 1879, pp. 141 e 142, e da A. Badini-Confalonieri, Giorgio Merula e D. C.,
Torino 1887, passim.Per la biografia del C. resta fondamentale la monografia di G.
Cammelli, I dotti bizantini e le origini dell'Umanesimo, III, D. C., Firenze 1954, con
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ampia bibliografia; ma utile può essere ancora il ricorso a G. K. Hypereides,


Μιχαήλου ᾿Αποστόλη πονήματα τρία Smirne 1876; L. Voltz, Zur Ueberlieferung der
griechischen Grammatik in byzantinischer Zeit, in Neue Jahrbücher für Philologie
und Paedagogik, CXXXIX(1889), pp. 579-599; D. G. Kampouroglous, Οί
Χαλκοκόνδυλαι. Μονογραϕία…. Atene 1926, pp. 171-211; J. Hutton, The Greek
Anthology in Italy to the year 1800, Ithaca, New York 1935, pp. 30, 36, 100, 124; G.
Cammelli, Calcondiliana, in Miscellanea G. Mercati, III, Città del Vaticano 1946, pp.
252-72. Per i manoscritti e la biblioteca del C., oltre la vecchia testimonianza di B.
Montfaucon, Palaeographia graeca, Parisiis 1708, p. 98, vedi M. Vogel-V.
Gardthausen, Die griechischen Schreiber des Mittelalters und der Renaissance,
Hildesheim 1966, p. 107; l'erronea tradizione circa il Dioscoride napoletano è ripetuta
in Mostra storica nazionale della miniatura. Catalogo, Firenze 1953, p. 6 n. 4. Per un
giudizio sulle edizioni curate dal C., vedi: IsocratisOpera omnia, a cura di E. Drerup,
I, Lipsiae 1906, pp. LVII s., CLXV; Suidae Lexicon, a cura di A. AdIer, I, Lipsiae
1928, p. XI; T. W. Allen, Homeri Ilias, I, Prolegomena, Oxonii 1931, pp. 248-249;
Homère, Hymnes, a cura di J. Humbert, Paris 1936, pp. 11-12. Della bibliografia più
recente si ricordano infine R. Ridolfi, Lo "stampatore del Virgilius, C. 6061" e l'ediz.
principe di Omero, in La Bibliofilia, LVI(1954), pp. 85-101; A. Pertusi, ᾿Ερωτήματα.
Per la storia e le fonti delle prime grammatiche greche a stampa, in Italia medievale
e umanistica, V(1962), pp. 321-351; I. Maier, Ange Politien. La formation d'un poète
humaniste (1469-1480), Genève 1966, pp. 31-34, 114, 148, 421; E. Garin, La
letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, III, Milano 1966, pp.
37-73 (sui dotti bizantini in Italia); D. G. Geanakoplos, Bisanzio e il Rinascimento,
Roma 1967, ad Indicem;F.R. Hausmann, D. C., Demetrio Castreno, Pietro Demetrio,
Demetrio Guazzelli?, in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXXII (1970),
pp. 607-611; M. Ferrari, Le scoperte a Bobbio nel 1493, in Italia medievale e
umanistica, XIII(1970), p. 161; A. Verde, LoStudio fiorentino. 1473-1503, II, Firenze
1973, pp. 178 s.

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