Sei sulla pagina 1di 3

tand-up, integrate da valutazioni critiche e analisi retrospettive, e

mi sono reso conto che avevamo bisogno di qualcuno in grado di


assicurare l’efficienza del processo. Non un manager, piuttosto un
leader al servizio dei collaboratori, una via di mezzo tra il capitano e
l’allenatore. Poiché guardavamo tutti i giorni gli All Blacks, ho chiesto
ai miei programmatori come dovevamo chiamare quella figura. Sono
stati loro a suggerire il titolo di “Scrum Master”, una figura che doveva
facilitare le riunioni, garantire la trasparenza, e soprattutto aiutare il
team a scoprire quali erano gli ostacoli che si frapponevano al
raggiungimento dei suoi obiettivi. La parte critica del suo lavoro era
far capire ai colleghi che spesso gli ostacoli non consistono
semplicemente nel malfunzionamento della macchina o nella ottusità
di quel tale della contabilità , ma nel processo in sé. Il compito dello
Scrum Master era guidare il team verso il miglioramento continuo,
ossia chiedere regolarmente ai suoi membri: “Come possiamo fare
meglio il nostro lavoro?”.
Idealmente, alla fine di ogni iterazione, di ogni Sprint, il team
dovrebbe analizzare se stesso a fondo – nelle sue interazioni, pratiche
e processi – e porsi due domande: “Cosa possiamo modificare nel
nostro modo di lavorare?” e “Qual è il nostro più grande limite?”. Se a
queste domande si dà una risposta franca e diretta, il team può andare
a una velocità che va oltre ogni immaginazione.

NON PRENDETEVELA CON IL GIOCATORE, MA CON IL GIOCO

Si scopre in molti casi che il morale depresso, la scarsa coesione e la


produttività insufficiente del team si basano su un grosso equivoco sul
modo di lavorare degli esseri umani. Quante volte, conversando con
un collega, avete cominciato a criticare un altro compagno di lavoro
che “non fa la sua parte”, “è una zavorra” o “prende decisioni idiote”?
Oppure, dovendo affrontare un problema in gruppo, vi siete messi a
cercare un colpevole?
Sono disposto a scommettere che avete partecipato tutti a qualche
riunione di questo tipo. E che, almeno una volta, hanno dato la colpa a
voi. Ma sono anche disposto a scommettere che quando il presunto
colpevole è un altro, non esitate a metterla sul personale, mentre se gli
accusati siete voi, citate immediatamente i fattori situazionali che
hanno causato il problema e le ragioni che vi hanno indotto ad agire in
quel modo. E sapete una cosa? Quando parlate di voi stessi, avete
perfettamente ragione. Quando parlate degli altri, tuttavia,
commettete uno degli errori più comuni – e distruttivi – che possano
fare gli esseri umani nel giudicare gli errori altrui. Ha persino un
nome: “errore fondamentale di attribuzione”.
Alcuni studi affascinanti su questo tema vengono illustrati nel libro
Induction: Processes of Inference, Learning, and Discovery, di John H.
Holland et al. Una ricerca citata in quel libro è stata pubblicata nei
primi anni Settanta, perciò è tutt’altro che nuova. È una vecchia
dinamica che si riproduce in continuazione. E ha che fare con le
motivazioni umane. Comunque sia, quei ricercatori hanno riunito un
campione di studenti universitari di sesso maschile e hanno posto loro
un paio di domande molto semplici: “Perché hai scelto questa facoltà ?”
e “Perché esci proprio con quella ragazza lì?”. Poi gli hanno fatto le
stesse domande sul loro migliore amico. Dalle risposte emergevano
differenze importanti. Quando parlavano di sé, gli studenti tendevano
a dare delle spiegazioni. Dicevano, per esempio: “I laureati in chimica
sono molto ben pagati”, oppure “La mia ragazza è una persona molto
affettuosa”. Ma quando parlavano degli amici, ne citavano le capacità e
i bisogni: per esempio, “È sempre stato bravo in matematica”, o “Non
sa stare da solo e ha bisogno di una donna che si prenda cura di lui” 10.
Questa percezione del mondo è divertente quando la vedete negli
altri, perché appare evidente che stanno sbagliando giudizio. Ma
prima di mettervi a ridere, dovete ammettere che lo fate regolarmente
anche voi. Lo fanno tutti. Tutti noi pensiamo di reagire a una
situazione, mentre siamo convinti che gli altri agiscano sulla base del
proprio carattere. Un curioso effetto collaterale è che quando ci
chiedono di descrivere i nostri tratti di personalità e quelli dei nostri
amici, ci dipingiamo sempre come persone molto più noiose. Diciamo
di avere una personalità molto meno ricca e spumeggiante rispetto ai
nostri amici.
Gli autori di Induction tracciano un parallelismo interessante tra il
modo erroneo con cui valutiamo le motivazioni sociali e la visione del
mondo fisico che hanno i non scienziati o coloro che apprezzano la
fisica a livello meramente intuitivo.
Il fisico intuitivo potrebbe spiegare perché una pietra cade
affermando che la gravità è una sua caratteristica intrinseca, anziché
una delle tante forze che agiscono sulla pietra stessa. Nello stesso
modo, quando parliamo degli altri, facciamo riferimento alle loro
caratteristiche intrinseche anziché vedere quelle caratteristiche in
relazione all’ambiente esterno. In realtà , sono proprio le interazioni
con l’ambiente che influenzano il nostro comportamento. È il sistema
circostante, e non una qualità intrinseca, a spiegare il nostro
comportamento. La finalità di Scrum è modificare questo sistema.
Invece di cercare dei colpevoli, premia il comportamento positivo
focalizzando le persone sull’obiettivo di lavorare assieme e di fare le
cose.
La dimostrazione più celebre di questa reazione umana ai sistemi è
probabilmente l’esperimento Milgram sull’obbedienza alle figure di
autorità , condotto nei primi anni Sessanta alla Yale University.
L’esperimento era semplice e, in un’ottica contemporanea, piuttosto
crudele. Era anche devastante e suggestivo, e viene citato al primo
anno di tutti i corsi di psicologia. Il dottor Stanley Milgram, un
professore di Yale, poneva una domanda che allora era perfettamente
appropriata. Tre mesi prima che iniziassero gli esperimenti, Adolf
Eichmann, l’architetto dell’Olocausto, era andato sotto processo.

Potrebbero piacerti anche