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Sbobinatore: M.B.

Revisore: M.V.
Materia: Anatomia Patologica II
Docente: W. Vermi, P.L. Poliani
Data:21/10/2020
Lezione n°: 8
Argomenti: neoplasie del SNC (gliomi) e
terapia molecolare

TUMORI PRIMITIVI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE

1.1 Generalità
Innanzitutto, i tumori del sistema nervoso centrale (intesi come tumori
primitivi del lineage delle cellule cerebrali) sono tumori di origine
neuroepiteliale. Tra questi troviamo i gliomi, gli astrocitomi, gli
oligodendrogliomi, ependimomi e forme miste.
Avremo poi tumori che nascono dalla componente che ha preso una
differenziazione in senso neuronale e quindi avremo i tumori
neuronali e i glioneuromi (che sono forme miste).
Vi sono inoltre tumori della regione pineale (rari), tumori embrionali e
dei plessi corioidei.
Nel grande capitolo dei tumori del sistema nervoso centrale entrano
anche quelli delle meningi (anche se non di origine neuroepiteliale),
i linfomi cerebrali e tumori delle cellule germinali.
I linfomi cerebrali sono quasi sempre diffuse large cells: linfomi di tipo
B a grandi cellule anaplastici.
I tumori delle cellule germinali sono importanti nei soggetti giovani; si
sviluppano lungo la linea mediana, infatti nella ghiandola pineale possono localizzarsi seminomi o germinomi
(tumori germinali extra-testicolari che possono localizzarsi anche nel mediastino).
Infine troviamo i tumori della regione sellare e metastatici (trattati nelle precedenti lezioni).

1.2 Tumori neuroepiteliali


Per classificare questo genere di lesioni bisogna tenere conto
delle cellule da cui derivano. Si possono identificare
principalmente tre grosse famiglie tumorali:
- Tumori di origine gliale: derivano o dall’astrocita o
dall’oligodendrocita (cellule completamente diverse
anche se con un’origine comune)
- Tumori di origine neuronale: derivano da precursori del
neurone; tra questi troviamo il neurocitoma o il
medulloblastoma
- Tumori di origine ependimale (ependimomi): derivano
dalle cellule dell’ependima (rivestimento dei ventricoli
cerebrali). Il precursore cellulare di questo tessuto è
peculiare, infatti questi precursori abbandonano il
differenziamento in senso neuronale o astrocitario gliale per prendere la via differenziava della glia
radiale dando poi l’ependima. Il tumore che da qui deriva presenta perciò una caratteristica che gli
altri non hanno: la positività per l’EMA (marker epiteliale).

Incidenza
Quando parliamo di tumori primitivi del sistema nervoso centrale parliamo
soprattutto di tumori gliali; tra questi i più rappresentati sono l’astrocitoma
(in tutti i suoi gradi) e l’oligodendroglioma.
Anche per questi tumori è necessario fare un discorso legato all’età, che
diventa un fattore essenziale nell’algoritmo diagnostico del patologo.
Tra 0-20 anni infatti i tumori più frequenti sono il medulloblastoma,
l’atrocitoma pilocitico, il glioma ottico e l’ependimoma.

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Tra i 40-60 anni invece, i tumori più rappresentati sono il tumore gliale maligno (o glioblastoma) che sta
diventando frequente anche nelle fasce d’età più elevate.

Effetto massa
I tumori cerebrali si sviluppano all’interno di uno
spazio chiuso che è la scatola cranica; questo fa si
che essi generino un cosiddetto effetto massa
importante.
A volte a essere responsabile della clinica del
paziente è più l’effetto edemigeno/effetto massa
che non il nodulo in sé con le sue caratteristiche.
Talvolta può essere anche piccolo, ma portare a un
quadro neurologico importante a causa della
crescita espansiva che sposta e schiaccia il
parenchima circostante.
Esempio tipico sono i gliomi, una neoplasia
sottocorticale profonda della sostanza bianca che
possono crescere in maniera espansiva dando
dismetria dei ventricoli, perché crescono
dislocando le strutture.

Caratteri di malignità
- Malignità clinica: si relaziona alla sede; un tumore che è istologicamente benigno ma che cresce in
una zona in cui ci sono centri vitali come il tronco encefalico diventa clinicamente maligno. In questo
caso la prognosi diventa infausta, nonostante l’istologia favorevole.
La sede non si collega solo alla compromissione di aree critiche per la vita, ma anche con la possibilità
di resecare chirurgicamente la massa.
Si sa che di fronte a un organo si hanno dei limiti di resezione; nel cervello questi limiti sono ancora
più stringenti, non si può resecare qua e là ma bisogna tenere conto dell’area topografica.
Ci sono aree che non sono aggredibili chirurgicamente (tronco encefalico o aree profonde della base).
Appare ovvio che ciò risulta un problema, dal momento che la chirurgia risulta il più importante
presidio terapeutico; se un tumore cresce molto è essenziale la sua rimozione.
- Malignità biologica: fa riferimento al grading e all’istologia del tumore; è il tumore in sé ad essere
aggressivo, perché infiltra o è di altro grado o altro

Quadro clinico
Il quadro clinico è strettamente legato alla sede d’origine del tumore:
- Lobo frontale: Convessità frontale: crisi oculogire
Faccia mesiale: crisi comiziali, disturbi psichici, disturbi sfinterici e dell’olfatto, afasia
motoria, atassia motoria
Regione posteriore: crisi convulsive, sindrome piramidale

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Il lobo frontale, pur essendo zona più o meno silente, ha comunque ovviamente una sua funzione per
cui si evidenzierà una sintomatologia, in special modo quando la massa è più posteriore e dunque
vicina alle aree motorie.
- Lobi occipitali: essendo deputati alla visione la sintomatologia comprenderà emianopsia,
allucinazioni visive, sindrome da ipertensione endocranica
- Lobi temporali: crisi epilettiche, allucinazioni olfattive e gustative, allucinazioni visive, allucinazioni
uditive o vertiginose, afasia sensoriale.
I lobi temporali sono frequentemente sede di neoplasia (forse i più coinvolti). Questo fatto è anche
“favorevole” perché il chirurgo può essere più radicale in questa zona che in altre (lo stesso vale per
il lobo frontale). Addirittura a questo livello si può pensare di fare delle polectomie in casi selezionati.
- Lobi parietali: disturbi della sensibilità, asomatognosia, afasia sensoriale.

Per quanto riguarda l’imaging è già stato più volte sottolineato come questo sia estremamente importante
nella guida alla diagnosi patologica, tramite la definizione della sede, grandezza, densità, ecc.
È anche vero però che molte lesioni entrano in diagnosi differenziale con altre, in particolare è difficile
distinguere tra metastasi, ascessi o linfomi perché appaiono radiologicamente simili.

Biopsia sterreotassica

La biopsia stereotassica è una procedura utilizzata dai neurochirurghi per ottenere un frammento istologico.
Sotto guida strumentale il chirurgo entra con un ago e preleva un frustolo di tessuto neoplastico da inviare
all’anatomopatologo. La manovra risulta invasiva e quindi può presentare problematicità non solo per la
manovra in sé, ma anche in termini di rappresentatività del tessuto. La regola vuole che si facciano due
prelievi. Uno viene inviato in estemporanea e permette al patologo di valutare quanto il tessuto sia adeguato
per poter fare diagnosi e si procede con il prelievo del secondo frammento. Nel caso non sia adeguato le
cause possono essere le più varie: la lesione è piccola, oppure è troppo profonda rispetto al prelievo che
invece viene fatto più perifericamente. In questo caso si pone un problema di rappresentatività perché il
tumore alla periferia appare più di basso grado mentre in profondità compaiono elementi di malignità; o
ancora il tessuto prelevato è necrotico e non si può fare diagnosi perché non c’è tessuto vitale.
Qualora il chirurgo invii pochissimo materiale non si esegue il taglio al criostato, perché si rischierebbe di
consumare il materiale e perdere elementi informativi. In questo caso si allestisce un citologico, ovvero uno
striscio perché può essere più rappresentativo.
Il professore riferisce che lui personalmente allestisce sia uno striscio che un’estemporanea al criostato
(quando il materiale è sufficiente) perché l’associazione dei due preparati aumenta la quantità di informazioni.

1.3 Classificazione dei tumori (un concetto in evoluzione)


La classificazione dei tumori cerebrali è in continua evoluzione; questo perché anche le tecniche e le
conoscenze scientifiche si evolvono nel tempo.
I volumi che classificano i tumori cerebrali sono stilati dalla WHO e sono stati pubblicati nel 1979, 1993, 2000,
2007, 2016 e l’anno prossimo uscirà la quinta edizione.1

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Curiosità: nonostante quello del 2016 sia il quinto volume in realtà esso è stato chiamato “quarta edizione revised”. Questo
perché la WHO rilascia periodicamente la classificazione di tutti i tumori (SNC, mammella, test-collo, ecc) in maniera
sequenziale. Siccome quando è stato pubblicato il volume del 2016 dovevano ancora uscire i quinti volumi di altri organi è stato
deciso di nominarlo in questo modo. Non si è potuto aspettare di pubblicarlo seguendo il giusto ordine perché al tempo vi erano
troppe incomprensioni tra i patologi e la sua pubblicazione è stata anticipata.
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Il professore affronta l’argomento presentando un lungo excursus storico pubblicato su “Brain pathology” da
Scheithauer (un riferimento tra i neuropatologi).
Il primo a fare una classificazione dei tumori cerebrali fu Bailey nel 1948. La sua classificazione era
esclusivamente basata sulla morfologia del tumore.
Nel 1979, con l’avvento dell’immunoistochimica, la classificazione venne rivista, visto che a quel punto era
possibile utilizzare marcatori per identificare il fenotipo cellulare.
Nel primo volume WHO erano messe a confronto due scuole:
- la scuola dei neurologi, guidata da Zulch
- la scuola degli anatomopatologi, guidata da Rubistein
Queste due scuole guardavano ai tumori con una prospettiva diversa, tant’è che c’era un’entità molto
pleomorfa di tumore cerebrale che Zulch considerava come sarcoma (originante dai vasi) mentre Rubistein
considerava quel tumore un glioma. Al tempo per accontentare entrambi lo stesso tumore venne classificato
all’interno di due capitoli diversi (nel capitolo dei tumori mesenchimali come mostrocellular sarcoma e nel
capitolo dei gliomi come glioma). La diatriba venne risolta grazie all’impiego dell’immunoistochimica; tramite
questa tecnica si scoprì che il tumore era GFAP+, tipica positività dei gliomi. Oggi il tumore è chiamato
glioblastoma a cellule giganti, un’entità rara dalle cellule veramente grandi, molto pleomorfe, debolmente
positive alla GFAP, p53 mutato e correlato a una prognosi favorevole.

L’immunoistochimica ha portato negli anni alla modifica della classificazione, fino agli anni 2000, quando si
affaccia nel panorama scientifico una nuova tecnologia in grado di leggere il codice genetico (tant’è vero che
la versione WHO del 2000 è chiamata “Pathology and Genetics”).
A quel punto la lesione non viene più valutata solo dal punto di vista morfologico e immunofenotipico, ma
anche molecolare, che non ha solo valenza diagnostica ma anche prognostica e predittiva; tale tecnologia
infatti permette di individuare quelle variazioni molecolare che gli anglosassoni definiscono druggable, ovvero
aggredibili da una terapia farmacologica (target therapy).
Un esempio a tal proposito è il glioblastoma caratterizzato dalla metilazione del gene MGMT. Tale mutazione
è predittiva della risposta del tumore alla temozolomide. Il farmaco è la terapia gold standard di prima linea
utilizzato per la cura di questa neoplasia. Esso è un alchilante in grado di legare il DNA e romperlo. Il gene
MGMT produce una proteina che ripara il DNA, ma quando la sequenza è metilata la proteina corrispondente
non viene prodotta e la cellula risulta più sensibile alla temozolomide.
Quindi a oggi, di fronte alla diagnosi di glioblastoma anaplastico si fa sempre la valutazione della metilazione
del gene MGMT, per poter individuare quei pazienti responsivi alla terapia. Situazione analoga si ha per le
mutazioni del gene BRAF, ulteriore target terapeutico.
A oggi quindi sul referto l’anatomopatologo non può più semplicemente limitarsi ad elencare gli aspetti
morfologici, ma dovrà aggiungere anche quelli immunofenotipici e molecolari (specificando se si tratta di
amplificazioni, delezioni, overespressioni, mutazioni puntiformi) creando una cosiddetta diagnosi integrata.
Tutto questo ha imposto delle ulteriori revisioni nel 2007 e 2014 (un gruppo di esperti si riunì nella famosa
Riunione di Harlem per identificare linee guida a tal proposito; queste vennero poi riprese nel WHO 2016).

Da notare come tra i primi due volumi passino molti anni, ma successivamente l’intervallo di tempo tra una
pubblicazione e l’altra si accorcia. I tempi corrono sempre più in fretta perché l’avanzamento tecnologico ha
un andamento esponenziale.

Ciò che è stato appena detto non vale solo per gli anatomopatologi, ma anche per i neuroradiologi.
Anche questi parlano sempre più di genomica, infatti attraverso spettroscopia sono in grado di valutare i
picchi di colina o altre sostanze e sulla base di ciò identificare/predire alcune forme di glioblastoma legate a
particolari mutazioni; oppure la PET che non è mai stata molto utilizzata, adesso comincia ad affacciarsi
come possibile tecnica avanzata per arrivare a diagnosi di precisione.
Il tutto ha come fine ultimo la creazione di una medicina di precisione, che permetta di identificare quei
pathway molecolari modificati, target di terapia farmacologica (mTOR, tirosin-kinasi, BRAF, EGFR, ecc).

Oggi la situazione si complica ulteriormente perché le informazioni molecolari stanno aumentando e si parla
di classificazione molecolare legata al profilo di metilazione.
Esiste un sito (molecularneuropathology.org) messo a disposizione dall’università di Heidelberg, che
permette di utilizzare un algoritmo per valutare il profilo di metilazione del DNA, dopo aver caricato dati
provenienti da una NGS.
Attualmente, nell’attesa dell’ultima edizione, per la diagnosi si seguono linee guida pubblicate su giornali di
alta rilevanza in campo neuropatologico come “Brain pathology”.

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1.4 Gliomi
I gliomi si distinguono in 2 categorie:
- LOW GRADE GLIOMA: gliomi di primo e secondo grado
- HIGH GRADE GLIOMA: gliomi di terzo e quarto grado (anaplastico e maligno)

Distribuzione: principalmente sono sopratentoriali in regione frontale e temporale, rari nelle regioni
sottotentoriali e in particolare nel midollo.

I gliomi di grado I comprendono 3 entità:


- Astrocitoma pilocitico
- PXA: xantoastrocitoma pleomorfo (di cui esiste una variante anaplastica che però è di grado III, non
esiste una variante di grado II)
- SEGA: astrocitoma a cellule giganti subependimale
Questi tumori non sono particolarmente infiltranti e hanno una crescita espansiva. I tumori di grado II invece
sono tumori che infiltrano, diffondendo nel parenchima. L’infiltrazione fa la differenza tra grado I e II.

1.4.1 Astrocitoma pilocitico


È un tumore ben circoscritto che si compone di una parte cistica a cui si associa
un nodulo inframurale solido.
Ha pari incidenza tra uomini e donne e si presenta in giovane età, infatti è un tumore
pediatrico.
La localizzazione preferenziale è in fossa posteriore, ovvero nel cervelletto.
Esistono astrocitomi sovratentoriali, ma nell’adulto. Nel bambino sono quasi sempre
in fossa posteriore.
Tramite imaging è possibile vedere un nodulo che prende contrasto accanto a
un’ampia cavità cistica.

Caratteristiche istopatologiche
il tumore si chiama pilocitico perché presenta cellule chiamate piloidi, ovvero astrociti fusati con nucleo
allungato con un citoplasma scarso e fusato.
Sono visibili all’interno del campo fibre di Rosenthal: formazioni allungate o tortuose intensamente eosinofile
che altro non sono che prodotti di degradazione dell’astrocita. Inoltre, sono presenti corpi granulari
eosinofili.
Questi due elementi sono il risultato di un processo di invecchiamento del tumore, in quanto questo,
crescendo lentamente, va incontro a degenerazione.
Questi due elementi suggeriscono che ci si trova davanti a un tumore di basso grado; nei tumori ad alto grado
infatti queste peculiarità vengono perse.
Spesso sono presenti vasi con una parete molto ialina, con aspetto angiomatoso o addirittura proliferanti.
Questi si trombizzano e danno sanguinamenti causa di emorragia intracranica (spesso segno d’esordio).
La proliferazione vascolare nel contesto dell’astrocitoma pilocitico non fa grading (al contrario dei tumori di
grado superiore).
Il tumore si caratterizza anche per l’avere una certa eterogeneità architetturale. Non sono presenti solo
cellule piloidi, ma si presentano anche aree più lasse con aspetto secretorio/cistico; è quindi bifasico.
Inoltre alcune volte le cellule possono diventare più tondeggianti e ricordare gli oligodendrociti anche se siamo
ancora nel contesto pilocitico.

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Markers: GFAP+, OLIG2+, ATRX+ (preservato), IDH1- (non mutato). Talvolta è possibile utilizzare la
colorazione per i neurofilamenti ed evidenziare il parenchima neuronale infiltrato dal tumore.
In associazione all’immunoistochimica, si presenta la diagnosi molecolare con la ricerca del prodotto di
fusione BRAF-KIAA, che è presente in una discreta percentuale di pazienti. Questa mutazione porta all’up-
regulation di BRAF e quindi potrebbe essere una lesione target per i farmaci BRAF inhibitors.

Anche in questo caso, come si è spesso visto per altre neoplasie, ci sono pilociti con un’ottima prognosi e
altri molto preoccupanti, in cui si trovano mitosi, pleomorfismo, anaplasia, alta densità cellulare. Nonostante
queste caratteristiche di malignità essendo un tumore pilocitico è intrinsecamente di grado I e non si può
cambiare il grading. Di fronte a una situazione del genere si aggiunge una nota al referto in cui si attesta che
queste caratteristiche sono presenti e si suggerisce un follow up più stretto del paziente.

Diagnosi Differenziale
La principale diagnosi differenziale viene fatta con la gliosi; la gliosi cronica di tipo piloide è molto simile dal
punto di vista istologico al tumore.
Ulteriore diagnosi differenziale la si fa rispetto alle lesioni presenti nella sindrome di Labrune.
A tal proposito il professore propone un caso clinico:
1991, paziente maschio 24 anni.
Il paziente presentava una lesione cerebellare nodulo-cistica.
Data l’età, la presenza di fibre di Rosenthal, corpi eosinofili, calcificazione e GFAP+ la diagnosi fu: astrocitoma
pilocitico.Il paziente venne operato e fece la radioterapia neoadiuvante.
Successivamente il paziente sviluppò svariate lesioni cistiche sopratentoriali asportate attraverso 6 interventi.
A ogni asportazione si presentavano le stesse caratteristiche istologiche, ma dato gli interventi e le
radioterapie subite la diagnosi fu: pseudocisti post-attiniche, non da astrocitoma pilocitico.
In realtà il paziente aveva la sindrome di Labrune, una neuroencefalopatia con cisti e calcificazioni descritta
per la prima volta nel 1996 (5 anni dopo il primo intervento del paziente).
La diagnosi di certezza è arrivata nel 2018, dopo la pubblicazione di un lavoro che identificava la mutazione
responsabile della sindrome sul gene SNORD118. Sottoposto il paziente a un’indagine molecolare, venne
proprio individuata questa alterazione.

1.4.2 SEGA (astrocitoma a cellule giganti subependimale)


Il SEGA è un tumore che nasce a livello periventricolare ed è correlato a una
sindrome: la sclerosi tuberosa.
Quest’ultima è una malattia autosomica dominante dovuta alla mutazione dei geni
TSC1 e TSC2 codificanti per amartina e tuberina.
La malattia è caratterizzata da lesioni tumorali in diversi distretti e a livello nervoso
sono individuabili 3 lesioni:
- Tuberi corticali: un difetto della citoarchitettura della corteccia che si presenta
con noduli. Questa lesione è dovuta a un difetto di migrazione della
popolazione neuronale
- SEN (o noduli subependimali): noduli che si affacciano all’interno dei
ventricoli laterali
- SEGA: che è un’evoluzione del SEN

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Caratteristiche istopatologiche
il tumore è formato da grosse cellule che hanno un aspetto epitelioide, con un nucleo centrato e, a volte,
un nucleolo prominente e citoplasma molto eosinofilo (non ricordano molto degli astrociti).

Marker: GFAP+ e sinaptofisina+ (entrambi parzialmente)

Negli anni si è discusso se esistano forme di SEGA sporadiche (non collegate alla sindrome). Esistono dei
lavori pubblicati, ma molti (professore compreso) non ritengono che esistano.

La mutazione dei geni della sclerosi tuberosa porta all’up-regulation del pathway di mTOR che è target di
terapia. mTOR, quando up-regolato durante l’embriogenesi, è importantissimo per favorire la proliferazione
e la migrazione. Questo giustifica l’esistenza di queste 3 lesioni nella sindrome; il difetto di migrazione porta
ai tuberi corticali e la proliferazione delle cellule staminali periventricolari porta ai SEN.

Esistono pubblicazioni che prendono in esame modelli murini di sclerosi tuberosa che presentano la sola
mutazione di TSC1 in grado di sviluppare solo lesioni cerebrali.
In questi topi le sole alterazioni che si presentano sono i tuberi e i SEN, ma non i SEGA. Questo perché il
SEGA è un tipico tumore double hits: necessita di una seconda mutazione per sviluppare la lesione.
Per dimostrare ciò si sono incrociati i topi TSC1-mutati con dei topi PTEN-mutati; la prole ha sviluppato SEGA
istologicamente sovrapponibili a quelli umani.
Altri gruppi di studio hanno dimostrato che il secondo colpo mutazionale può essere a carico di BRAF.
Il fatto interessante è che le mutazioni di PTEN o BRAF non sono presenti nei SEN.
Ciò significa che l’up-regulation di mTOR porta solo ai tuberi e ai SEN, successivamente il secondo colpo
mutazionale porta all’evoluzione dei SEN ai SEGA.
Questo è l’unico esempio di tumore cerebrale se ha una lesione precorritrice non neoplastica.

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Questo tumore è considerato un astrocitoma, però fenotipicamente è molto ibrido e secondo il professore
sarebbe da considerare come una mTOR-patia legata alla staminalità. È come se le cellule rimanessero in
uno stato “committed” verso il gliale senza mai arrivarci. Le cellule del tumore sono indifferenziate, tant’è vero
che esprimono marker di staminalità.

Queste sindromi mettono in relazione la neoplasia con il concetto di neurogenesi. Permettono quindi di
imparare molto non solo su quale sia la via di sviluppo della neoplasia, ma anche della normale ontogenesi
cerebrale (perché i pathway attivi nei tumori sono quelli attivi nelle cellule staminali).
Non è raro trovare pazienti con disordini dello sviluppo che hanno particolari mutazioni e che negli anni poi
sviluppano neoplasie in varie aree del corpo; in questi casi le neoplasie si legano alle alterazioni delle cellule
staminali.

1.4.3 PXA (Xantoastrocitoma pleomorfo)


Il tumore si localizza principalmente a livello sottocorticale (è quindi un tumore superficiale) che avendo un
rapporto con la corteccia è in grado di diffondere a livello piale e nello spazio di Virchow-Robin.

Caratteristiche istopatologiche:
Lo xantoastrocitoma pleomorfo è un tumore pleomorfo, ricco di cellule atipiche, binucleate/plurinucleate,
con pseudoinclusi, nuclei bizzarri (lobulati o giganti).
Il tumore è definito xantomatoso perché le cellule che lo formano hanno un citoplasma ampio e schiumoso.
All’interno del tumore si individua una componente infiammatoria di tipo linfocitico a livello perivascolare.
Si individuano corpi granulari eosinofili (prodotti di degradazione) e c’è un’assenza virtuale di mitosi (al
massimo 1-2 mitosi/10 campi di osservazione).
L’utilizzo della colorazione argentica porta a un reticolo molto fitto che quasi circonda la singola cellula o
piccoli gruppi. Ciò rappresenta una peculiarità di questo tumore.
L’atipia è correlata alla degenerazione cellulare e non correlano con un’aggressività biologica intrinseca alla
neoplasia, motivo per cui nonostante l’atipia il tumore è di grado I.

Marker: GFAP+ in modo focale, gli elementi con citoplasma granuloso sono sinaptofisina+
A oggi l’elemento più importante per la diagnosi è la ricerca della mutazione BRAFv600e. Il 60% dei casi è
positivo alla mutazione e hanno prognosi migliore, indipendentemente dalla terapia (BRAF mutato è target
terapeutico).

Ci sono caratteristiche che fanno sospettare una


prognosi peggiore:
- Indice mitotico elevato: >5mitosi/10 campi di
osservazione
- Componente small cells: si individuano alcune
aree con piccole cellule immature
- Componente fusata: il tumore diventa
sarcomatoso
- Caratteristiche rabdoidi
- Necrosi
Di fronte a tutte queste caratteristiche il PXA diventa
anaplastico (III grado).

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Durante la lezione il professore presenta un caso clinico risalente al 2013.
Paziente maschio 25 anni.
Il ragazzo si presenta con cefalea e disartria.
In RMN si individua una lesione cerebellare che risale verso l’alto attraverso il peduncolo, caratterizzata da
un aumento della perfusione con compresenza di zone cistiche e solide.
I neuroradiologi posero diagnosi di emangioblastoma oppure tumore maligno di origine glioneuronale.
All’istologia si notarono elementi gliali allungati, presenza di corpi granulari eosinofili, inclusioni nucleari e la
presenza di figure mitotiche.
All’immunoistochimica il tumore risultava GFAP+, sinaptofisina focalmente positiva, MIB elevato nelle aree
ipercellulate, p53+ nelle aree più cellulate e Ki67+ con percentuali del 12-18% nelle aree più cellulate
(proliferante). Inoltre erano presenti 2-3 mitosi/10 campi di osservazione.
Al tempo venne fatta la diagnosi di PXA, nonostante gli elementi maligni, perché non esisteva ancora la
variante anaplastica nella classificazione. Venne comunque suggerito un follow up stretto del paziente.
Il paziente venne operato con resezione sub-totale. Dopo 4 mesi si presentò recidiva che all’estemporanea
mostrava ancora le stesse caratteristiche istologiche.
La seconda asportazione fu pressoché radicale e seguì un’ulteriore analisi immunoistochimica con l’analisi
di BRAF (per il quale era positivo) e IDH1 (per il quale era negativo).
A questo punto la diagnosi definitiva fu di PAX anaplastico (anche se all’epoca tale dicitura veniva usata solo
per le metastasi, non per i tumori primitivi).
Il paziente venne successivamente trattato con temozolomide, ma il paziente morì dopo un anno a causa
della progressione della malattia.
Alla luce della positività a BRAF, il vemurafenib sarebbe stata la terapia di prima istanza a cui sottoporre il
paziente, il trattamento però ai tempi non era utilizzato (fu un trattamento sperimentale) e solo nel 2016 venne
approvato.

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BIOMARCATORI COME BERSAGLI MOLECOLARI DI TERAPIA

I biomarcatori sono molecole che vengono valutate in quanto bersagli di terapia farmacologica. Questo vale
solo per alcune neoplasie e ad oggi la valutazione anatomopatologica di queste si arricchisce di una
valutazione molecolare, proprio per questo motivo.
Il paziente può ricevere un test che valuti queste alterazioni in due modi:
- Reflex: il test aggiuntivo viene fatto contestualmente alla diagnosi. Il paziente può ad esempio
presentare un quadro di neoplasia polmonare avanzata (identificato attraverso una biopsia
diagnostica) e pertanto non può andare a chirurgia radicale. In questo caso la prima linea di terapia
comprende chemioterapia e terapia a bersaglio molecolare.
Quindi contemporaneamente alla richiesta di diagnosi viene inviata la richiesta per il test molecolare
all’anatomo patologo
- A distanza: la valutazione molecolare viene fatta dopo anni dalla diagnosi. In questo caso il paziente
è già stato operato per una neoplasia precoce, senza fare terapia adiuvante successivamente. Il
paziente rimane libero da malattia per alcuni anni, dopodiché recidiva. Il paziente a questo punto verrà
candidato per una terapia sistemica che prevede anche la terapia a bersaglio molecolare.
Per poterla fare sarà quindi necessario recuperare materiale d’archivio conservato nell’anatomia
patologica e su questo eseguire il test molecolare.

2.1 Evoluzione molecolare


Siamo abituati ormai da anni al concetto di evoluzione di neoplasia in termini clinici e istologici. Se guardiamo
un tumore primitivo e le sue metastasi a distanza di anni è possibile tracciare delle differenze morfologiche,
che però non sono informative ai fini terapeutici.
Queste differenze morfologiche sono accompagnate da più pesanti differenze molecolari. Questo è il
concetto di evoluzione molecolare.
Se poi il paziente va incontro a una terapia sistemica la pressione farmacologica aggiuntiva opera una
selezione del clone più resistente.
Quindi evoluzione molecolare vuol dire anche selezione (concetto preso dalla teoria evoluzionistica di
Darwin). Alcuni cloni dominanti cominciano a prendere strade divergenti rispetto alla neoplasia primitiva.

Il professore a questo punto mostra un filmato (https://www.youtube.com/watch?v=FJK-l1jBGn8), di cui è


riportata la trascrizione alla fine della sbobina per chi fosse interessato.

Il filmato essenzialmente riassume i dati circa l’evoluzione molecolare degli ultimi 10 anni.
La sintesi:
Noi partiamo da uno stato 0 di una neoplasia primitiva che ha un landscape/panorama mutazionale di un
certo tipo. Questo panorama mutazionale comprende due tipologie di mutazioni:
- Mutazioni drive: importanti per la fitness della cellula tumorale, senza le quali la cellula non diventa
tumorale (nel senso pieno del termine).
- Mutazioni passenger: frutti di n replicazioni cellulari, conseguenti all’alterazione dei meccanismi di
riparo. Sono definite passenger perché non conferiscono un vantaggio intrinseco alla fitness della
cellula tumorale, tuttavia sono importanti perché possono conferire un vantaggio rispetto alla
mutazione drive
Quindi da una parte ci saranno mutazioni che servono alla cellula per sopravvivere, indipendentemente dal
microambiente che la circonda; avremo quindi mutazioni fondamentali per la sopravvivenza tumorale.
Dall’altra parte avremo mutazioni che migliorano la cellula avvantaggiandola rispetto alle cellule non
trasformate.
In questo panorama evolutivo, però, la cellula si costruisce una trappola: l’evento mutazionale può anche
portare a un cambiamento proteico con formazione di un nuovo epitopo. La formazione del neoepitopo può
diventare un mezzo di riconoscimento da parte del sistema immunitario.

Sapere cosa accade dal punto di vista mutazionale interessa perché da 15 anni a questa parte si è
evidenziato che alcune di queste alterazioni hanno un’utilità clinica, ovvero abbiamo dei farmaci, talvolta di
prima linea, contro le neoplasie.
Questi farmaci sono approvati dall’AIFA non solo in termini di efficacia, ma anche in termini di sostenibilità
economica. Questo significa che il nostro SSN ritiene sostenibile trattare i pazienti con questi farmaci. Nelle

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finestre temporali in cui questa sostenibilità non viene approvata le case farmaceutiche possono rendere
disponibili i farmaci gratuitamente.
Le mutazioni drive sono tumore specifiche?
Alcune lo sono altre, invece, sono molto trasversali. Vi sono mutazioni driver comuni a neoplasie che non
hanno nulla a che fare l’una con l’altra, la cui cellula d’origine è totalmente diversa.
Questi eventi mutazionali potrebbero (teoricamente) permetterci un domani di trattare tumori totalmente
diversi (per sede o istologia) con gli stessi farmaci.
Questo ha generato negli USA svariati trial clinici a “istologia agnostica”: trial in cui si accettavano tutte le
neoplasie recanti una determinata mutazione. Il limite dei trial sta nel fatto che vi sono eventi mutazionali che,
anche se trasversali, hanno incidenza diversa tra le diverse neoplasie. Se si fa un trial agnostico bisogna
tenere conto delle diverse frequenze, perché se no si rischia di non trattare i pazienti, o comunque di trattarne
troppo pochi se la mutazione non è frequente.
Questi trial hanno però evidenziato che l’evento mutazionale A non si comporta nello stesso modo in tumori
diversi e quindi avere la stessa mutazione non implica automaticamente che i pazienti risponderanno al
farmaco.
Questo significa che ancora non si può sperare in un mondo ideale dove la genomica “vince” e dove quindi
il dato molecolare è sufficiente. L’istologia è ancora importante; infatti il trattamento di un melanoma BRAF-
mutato non è lo stesso di un carcinoma del colon BRAF-mutato.

Ulteriore scoperta emersa da questi trial svela che approcci genomici considerati dispersivi, si sono invece
rivelati estremamente informativi. Gli studi di genomica fatti su gran parte delle neoplasie umane hanno
svelato nuovi marker molecolari.
Sulla base di ciò le agenzie regolatrici del farmaco hanno cominciato a predisporre degli accessi “fast-track”
per alcuni farmaci. Dove si identifica un farmaco efficace contro eventi mutazionali a bassa frequenza viene
data una rapida approvazione (se questo risulta efficace nelle fasi precliniche).
Non si può pensare di organizzare trial clinici con numeri sufficienti se la mutazione è a bassa frequenza.

2.2 Alterazioni molecolari nel carcinoma non a piccole cellule del polmone
Il carcinoma non a piccole cellule del polmone comprende 4 principali mutazioni che possono essere target
molecolari di terapia:
- Mutazione di EGFR
- Riarrangiamenti di ALK
- Riarrangiamenti di ROS, alterazioni di RET, BRAF G12C, amplificazioni o exon skipping di MET
- Alterazioni di PD-1/PD-L1 (anche se qui si entra nel campo dell’immunoterapia)

Questo significa che abbiamo più opzioni terapeutiche per il paziente con questo tipo di tumore. Questo risulta
molto importante se si considerano i dati di mortalità di questi pazienti prima della target-therapy.
Prima di ciò i pazienti venivano indirizzati alla radio/chemioterapia.

Fare un’analisi dei biomarcatori, quindi, significa eseguire un test genetico che identifichi le mutazioni sopra
elencate. Questo pone delle problematiche, infatti è necessario avere un materiale biologico adeguato su cui
fare il test, avere le metodiche pronte e validate analiticamente e clinicamente e un personale in grado di fare
queste analisi.
Non sono test facili da eseguire e neanche da interpretare. Spesso il paziente arriva alla terapia sistemica
con diagnosi fatta su materiale esiguo (2-3 vetrini di citologico o una piccola broncobiopsia o agobiopsia).
Quindi di fronte a un farmaco approvato, validato e testato il problema maggiore sta nella diagnosi, ovvero
nell’avere a disposizione un laboratorio con esperienza che possa identificare queste alterazioni.
Nonostante ciò, oggi non è immaginabile (almeno nel nostro Paese), trattare un paziente con
adenocarcinoma del polmone senza aver eseguito dei test molecolari, perché significherebbe togliere chance
di sopravvivenza al paziente.
Di fatti oggi la frequenza di tutte queste mutazioni nel contesto dell’adenocarcinoma polmonare si atesta
intorno al 30-40%. L’indagine molecolare fa la differenza.

Questo viene anche esplicitato dalle linee guida. Di fronte a un non small cells cancer è necessario
distinguere tra:
- Istologia squamosa: in questo caso le opzioni terapeutiche sono limitate. Si sottopone il paziente a
chemio/radioterapia oppure immunoterapia anti-checkpoint.

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Fa eccezione il tumore squamocellulare del non fumatore, perché i pochi casi non correlati al fumo
hanno teoricamente la stessa possibilità di avere le alterazioni molecolari delle neoplasie non
squamose.
- Istologia non squamosa (adenocarcinomi): si fanno approfondimenti che vadano a ricercare tutte le
alterazioni precedentemente elencate su cui si può fare target-therapy.
Se non si evidenziano tali mutazioni si prende la strada della chemio/radioterapia o
dell’immunoterapia.

Per fare queste indagini è necessaria una metodica che permetta di ricercare tutti i geni nello stesso momento
in modo da guadagnare tempo e risparmiare materiale.
Pertanto, oggi vengono usati approcci di sequenziamento di ultima generazione ad alta densità ce
permettono di identificare tutte le alterazioni a partire da un singolo campione di DNA.
Una frazione di pazienti arriva alla terapia sistemica con materiale insufficiente per eseguire i test. A questo
punto le opzioni sono due:
- Si ripete il prelievo bioptico. Questo vale se il paziente è fit e se la sente
- Biopsia liquida. Si ricerca il DNA libero circolante. Su alcuni marker la biopsia liquida può quasi essere
comparata alla biopsia tissutale, ma per altri le garanzie analitiche sono significativamente inferiori
rispetto al tessuto.

La storia della terapia a bersaglio molecolare nel polmone comincia con EGFR.
Questi recettori sono formati da omo/eterodimeri di catene, attivati da ligandi esogeni che agiscono in modo
promiscuo. Una volta agganciata la porzione extracellulare una cascata di tirosin-kinasi; il pathway di
trasduzione comprende RAS e JACK-STAT.
Ad oggi abbiamo una serie di alterazioni del recettore EGFR (in generale di svariati recettori per l’epitelial
grow factor) identificate in varie neoplasie e che portano a un unico denominatore comune: aumento della
trasduzione del segnale nei pathway attivati da questo recettore.
Le alterazioni del recettore sono:
- Overespressione di EGFR: accade ad esempio nel glioblastoma come conseguenza dell’aumento del
numero di copie del gene
- Mutazioni gain of function per mutazione nel dominio tirosin-kinasico: il recettore risulterà
costitutivamente attivo. Accade di frequente nei tumori del polmone.

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- Mutazioni gain of function per delezione della porzione extracellulare: la mancanza della porzione
extracellulare conferisce un’attivazione costitutiva del recettore anche in assenza di ligando. Tipica
mutazione di EGFR III nei glioblastomi
- Elevata produzione di ligandi: in questo caso il recettore e le vie di segnale a valle sono intatte, ma si
ipotizza che ci sia un aumento di ligandi nel microambiente (non è propriamente dimostrato, ma lo si
ipotizza perché i pazienti rispondono al blocco recettoriale).

I primi dati emersi negli studi su inibitori di EGFR furono sconfortanti. Si osservavano risposte a volte
sporadiche e a volte più frequenti, ma sempre su percentuali non rilevanti di pazienti.
A quel punto si capì che bisognava entrare nel dettaglio del tumore del singolo paziente.
Nel 2004 emersero infatti 3 studi che suggerivano che i
farmaci inibitori di EGFR funzionavano solo su un sottogruppo
di pazienti: quello con mutazioni attivatorie.
Le mutazioni attivatrici del gene sono 3:
- Alterazione dell’esone 18 in posizione 719
- Delezione dell’esone 19 in posizione 746 o 747 (più
frequente, rappresenta il 45-50% degli eventi)
- Sostituzione di base nell’esone 21 in posizione 858
(la posizione identifica la tripletta che corrisponde
all’aminoacido. Se si ha una delezione in 746 vorrà dire
che gli aminoacidi compresi tra 746, che è l’inizio, e dove
finisce non saranno più presenti. Questo avrà un
corrispettivo effetto sulla proteina. L’alterazione solo in 858
cambia la tripletta e porterà a un cambio amminoacidico).

La principale metodica utilizzata per identificare queste mutazioni è l’elettroferogramma, che valuta una
sequenza attraverso il metodo Sanger.
Ogni picco colorato rappresenta una base; il rosso è la timina, il blu la citosina, il nero la guanina e il verde
l’adenina. Ogni posizione deve avere un solo picco, se ci sono più picchi allora c’è un’alterazione. Questo
doppio picco avviene perché il profilo rappresenta una media degli alleli catturati dallo strumento. Se uno dei
due è deleto metà del campione presenterà uno switch del frame di lettura e dal punto in cui la delezione
avviene in avanti si riscontreranno doppi picchi.
Se invece siamo di fronte a una sostituzione avremo un doppio picco solo nel punto dove la sostituzione è
avvenuta. Nella sostituzione dell’esone 21 ad esempio la T viene sostituita con una G e la tripletta passa da
CTG a CGG (L>R).
Questo cambio amminoacidico è la più importante motivazione per la cellula per diventare tumorale.

Inizialmente per individuare la mutazione si pensò di poter utilizzare anche l’immunoistochimica, ma gli studi
hanno dimostrate che non ci sono anticorpi specifici affidabili, quindi l’unico metodo disponibile è la
valutazione degli acidi nucleici con ricerca della mutazione. Visto che si parla di mutazioni puntiformi non
sarà possibile utilizzare una metodica di FISH, ma come detto è necessario utilizzare metodiche a più alta
sensibilità.

Inizialmente i trial vennero fatti su donne asiatiche, non fumatrici con adenocarcinoma, quindi inizialmente
venivano tipizzate dal punto di vista molecolare solo questo sottogruppo di persone.
Successivamente questa “selezione” è stata scardinata e ad oggi tutti i pazienti con carcinoma non a piccole
cellule vengono tipizzati (con l’esclusione di chi ha un tumore squamocellulare legato al fumo).

Sappiamo che c’è una correlazione tra tumore e dato mutazionale, grazie ai modelli murini.

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Se induco nel topo l’evento mutazionale (generalmente in modo selettivo nel polmone attraverso un
transgene controllato da una proteina inducibile nello pneumocita), dal punto di vista istologico il polmone
dell’animale va incontro a iperplasia, foci di carcinoma bronchioloalveolare fino all’adenocarcinoma invasivo.
Lo stesso meccanismo è inducibile attraverso la somministrazione di antibiotici, perché questi inducono la
mutazione. Sospeso l’antibiotico la mutazione non è più indotta e il tumore regredisce.
Con il farmaco c’è una differenza: si inibisce la funzione tirosin-kinasica, ma non la si annulla totalmente.
Da qui nasce il concetto di oncogenic addiction: la cellula tumorale dipende in modo fondamentale
dall’oncogene. Se induco la mutazione si avrà trasformazione tumorale, se si “toglie” la mutazione si avrà la
regressione del tumore.
Quindi non si tratta di una semplice correlazione, la mutazione è l’evento fondante la trasformazione.
Diventa quindi ancora più pressante individuare quei pazienti EFGR-mutati.

Il campione da analizzare viene valutato in termini di qualità. Talvolta si ha la


fortuna di avere più campioni ottenuti con metodi di prelievo diversi per lo
stesso paziente e sarà necessario scegliere quale tra di essi si presta meglio
all’analisi molecolare. (Per quanto riguarda EGFR il discorso non conta,
perché la mutazione è driver ed è quindi presente in tutti i campioni; il
problema di eterogeneità si presenta quando si ricercano mutazioni
passenger.)
Poi viene estratto il DNA, vene amplificata la sequenza di interesse e infine
viene fatta l’indagine che si ritiene più opportuna in quel setting.
La scelta dell’indagine è decisa in base a:
- Tipo di campione
- Quanti marcatori sono richiesti (che cambiano in base all’esperienza
degli oncologi e alla presenza di farmaci approvati e pagati dal SSN
nel nostro paese).

La metodica deve avere quindi determinate caratteristiche:


- Deve essere in gradi di identificare quel che ci serve; essendo le mutazioni tante è necessario che le
possa identificare tutte
- Sensibilità analitica; è essenziale sapere quale sia la sensibilità della metodica, perché se la sensibilità
è troppo alta si rischia di perdere informazioni arrivando a un falso negativo.
Inoltre la sensibilità della metodica è influenzata dal fenomeno di diluizione: se il DNA mutato è diluito
con DNA non mutato, la mutazione diventa sempre meno rilevabile, finché non si arriva sottosoglia.
Nel contesto dell’elettroferogramma la soglia è del 20%, quindi se le cellule tumorali sono meno del
20% del campione c’è il rischio che non vengano detectate le mutazioni.
Quindi i test devono essere eseguiti con la consapevolezza che un determinato campione ha bisogno
di una determinata metodica, mentre un altro campione ne necessiterà un’altra.

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Trascrizione del video:
What is the future of tumoral heterogeneity?
I think the future of tumor heterogeneity is really understanding the clinical significance of heterogeneity so:
what does heterogeneity have to do with survival after targeted therapy in particular. And here I think
we're going to see a number of studies asking this question. One of the first and largest studies to do this is
a study called tracer X and this is a study funded out of the UK cancer research. The primary investigator is
Charles Swanson and professor Swanton in this study, which is a nine-year study looking at eight hundred
and fifty patients with non-small cell lung cancer, ask a very simple question and that is: the
finding/assessment of heterogeneity, how does that impact a patient's response to a targeted therapy?
so he is going to stratify patients by the presence or the absence of heterogeneity for specific driver
mutations and then follow those patients over time and after they receive the appropriate medication the
targeted therapy for their driver mutation he will see if his hypothesis is true (which is that the patients who
have a high degree of heterogeneity will do more poorly over time versus the patients who are more
homogeneous for these driver events).
This is quite an important study because it's never been done before and the entire community of oncology
and pathology looks forward to the results of this study and other studies that will pursue similar designs.
What are the implications of heterogeneity for pathology?
in clinical practice today we don't sample enough of the tumor so this is basic but important that pathologists
in the future might need to take more samples of tumors and more biopsies of patients. so for example in the
case of renal cell cancer (which was the topic of professors Swantons study) the practice today is to take
just a few samples of even large renal cancers. In the future, if we were to follow dr. Swanson's method, we
should be taking 12 or more samples of the tumor to sample the regional heterogeneity that is likely present
in these cancers.
Another implication for pathology is on the reporting, so if we're going to the pathologist take more samples
and test more samples for biomarkers, pathologists need an easy way to report those results to oncologists
and to patients, so this may mean that pathologists of the future actually have to include branched evolution
clonal maps in their pathology report and of course they'll need informatic tools and computerized tools to
help them integrate all this data into a report that's understandable and useful.
A third implication for pathologists is the availability of tools. Clearly pathologists, if they're going to
comprehensively assess heterogeneity in tumors, they need assays and tests that allow them to do that in a
simple routine and standardized way. I think chromogenic insight to molecular assays will be particularly
important. a nice example here is there her to do LISH assay which is a chromogenic method that allows
pathologists to count copies of HER2 on chromosome 17 in tumors, including when those genes are
heterogeneous. If we look at the 2013 ASCO cap2 guidelines this update actually recommends that
pathologists scan the entire breast cancer slide looking for heterogeneity so they do not miss a second
population of cells that might be amplified.
In this way I think the advent of novel technologies and tools that enable pathologists to assassin document
heterogeneity will be particularly important in the future.
What is the big question for anatomic pathology?
The big question regarding heterogeneity and anatomic pathology in particular is whether the regional or
spatial heterogeneity, as described by Professor Swanton, is all that matters or is it also important to capture
microscopic heterogeneity? (Meaning the heterogeneity that can be seen by pathologists day in and day out
as subtle changes in gene expression or gene copy number on a cell by cell basis).
If this sort of intra-regional heterogeneity is as important as the spatial heterogeneity, that Professor Swanton
has studied, this would be very important especially since the field of pathology excels at documenting cell
by cell differences. This could be an area where pathologists in particular contribute to the field of
heterogeneity in oncology in general,
If it turns out that this microscopic heterogeneity has clinical associations (meaning that the heterogeneity the
pathologist can assess and determine is as important or perhaps a surrogate for the regional heterogeneity)
that can be captured by simply taking samples from different parts of tumors.

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