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Era il 6 luglio 2013, un sabato. So bene che per molti di voi la cosa
sarebbe passata inosservata, ed avrebbe prevalso spontaneamente il buon
cuore, la comprensione, il sentiamoci tutti uguali e solidali. E'
naturalmente quello che avrei pensato anch'io se allora lo avessi potuto
vedere, chiuso nella sua piccola auto, lanciato verso le meritate vacanze,
muovere avanti e indietro nella sua piccola testa i soliti pensieri, gli stessi
che avreste trovato uno, due, dieci, venti anni prima.
Bloccato nel traffico intenso del fine settimana lungo l'autostrada A10
direzione Genova, Carlo sognava.
Il tempo, inesorabile censore, aveva emesso da tempo, appunto, la sua
inesorabile sentenza. A Carlo era stata lasciata libera solo la piazzola dei
sogni.
Gli esami erano finiti il giorno prima e subito era partito.
Ripensava ai colleghi conosciuti in commissione. Il presidente ormai
vicino alla pensione, brontolone e scostante, il collega di matematica,
corretto e distaccato come un bravo impiegato intento a stilare i sui
rapporti riservati, e soprattutto Viola, la collega di inglese, la sola presenza
amichevole e sorridente in quella riunione di morti viventi, una simpatica
ragazza non molto alta e dalle floride forme giunoniche.
Ci sono storie – si diceva, ripensando a Viola – che partono da sole e storie
che hanno bisogno di una piccola spinta per decollare, anzi di uno slancio
energico capace di farle alzare in volo.
Su quella carreggiata diritta, nella confusione delle auto stracariche e degli
automobilisti inferociti, era come se si aprisse in lui una luminosa galleria
di ricordi da percorrere e ripercorrere con immutato piacere. Era il modo
migliore per riempire le tante ore vuote del lungo viaggio verso Deiva
Marina.
Sarebbe stata un'impresa molto difficile – pensava Carlo nel gioco delle
sue fantasie - far capire a un extraterrestre che cosa erano in Italia gli
Esami di stato. Sarebbe apparso sicuramente come un bizzarro spettacolo,
una specie di rituale o una grandiosa opera buffa in cui erano coinvolti
migliaia di giovani abitanti della penisola italiana. Ed anche quei
volenterosi extraterrestri - sorrideva Carlo – avrebbero provato uno
spontaneo moto di pietà verso gli insegnanti nominati, interni ed esterni,
rassegnati al loro tedioso ed inutile compito, sopportato con stoica apatia.
Come lui, Viola era ancora una docente instabile ed itinerante, senza una
sede definitiva. E come lui - lo ripeteva a se stesso per la millesima volta -
viveva sola, tranquillamente single, o almeno così gli aveva detto.
Ripensando a quella intesa speciale, vedeva loro due come abili nuotatori
capaci di emergere insieme, con le loro teste accostate, dal piatto mare
soporifero in cui tutta la commissione d'esame, per giorni e giorni, era
rimasta quotidianamente immersa. E con un rapido montaggio, da questi
piacevoli fotogrammi di potenziale storia futura il pensiero sfrecciava
verso il passato, a una scena che gli capitava spesso di rivivere, quando,
non molti anni prima, era stato davvero ad un passo dal consolidare
un'ottima intesa con Anna, un'amica della sua cara cugina di Chiavari.
C'era stata anche allora – e, nel ricordo, lo sottolineava adesso con ironia -
una spontanea convergenza delle loro anime che avrebbe potuto
trasformarsi quasi senza sforzo in una duratura unione, una lunga vita
insieme, lui ed Anna, della quale era in grado di vedere, come in uno
scorcio rapidissimo, tutti i futuri sviluppi. Con un certo fastidio rispuntava
allora la domanda: che cosa era mancato? La risposta ai suoi occhi
appariva scontata: sempre e soltanto la sua terribile timidezza.
Fece un rapido calcolo. All'epoca di quel promettente incontro finito nel
nulla lui aveva trentasette anni... Dunque erano già passati cinque anni! E
con un clic automatico la sua mente completò: sembra ieri.
Immerso nel caldo afoso di mezzogiorno, nella noia spessa del viaggio
solitario lungo la linea retta dell'autostrada, sempre in direzione di Genova,
nulla era cambiato. Carlo tornava e ritornava a darsi la medesima risposta.
La timidezza, soltanto la timidezza, sgretolava ogni ponte che aveva
provato a lanciare verso le donne che aveva conosciuto. Chissà – si diceva
- forse questa volta, con Viola, sarebbe stato diverso. Valeva comunque la
pena di non rinunciare, come era sempre accaduto. Continuava a ripeterlo
a se stesso. Doveva provare a mettercela tutta, andare fino in fondo. Ma la
buona volontà non bastava, lo sentiva. E con un moto pendolare ripartiva
da capo.
Coniugare i verbi al condizionale passato era la cosa che gli riusciva
meglio: sarei andato, avrei mangiato, avrei incontrato, sarei stato, e così
via. Ne era tranquillamente consapevole, e il professore di italiano che era
dentro di lui aggiungeva e precisava: ancor meglio me la cavo con i verbi
servili: sarei potuto andare, avrei potuto mangiare, avrei voluto incontrare,
avrei potuto eccetera eccetera. Era questo – lo vedeva - lo stile costante
degli infiniti bilanci della propria vita che lui si costringeva a fare.
Carlo controllava ogni momento l'orologio sul cruscotto. Cullato dal
ronfo regolare del motore manteneva la bassa velocità della sua piccola
utilitaria e continuava a sognare. I suoi pensieri, adesso, si spingevano in
avanti verso le serene giornate che stavano per aprirsi. La costa scoscesa, il
silenzio, la pace. Bagni su bagni, un piacere immenso che avrebbe
consentito un riposante oblio. Già pregustava le tante ore ed ore disteso al
sole, immerso nel dolce far niente. Tra poco avrebbe anche rivisto i vecchi
amici della giovinezza, le amicizie veramente inossidabili.
In quel momento, però, poco oltre Alessandria, non c'era ancora niente di
tutto questo e Deiva Marina, il suo paese natale, era ancora troppo lontana.
Carlo non era abituato a viaggiare da solo. Quel lungo silenzio diveniva
sempre più intollerabile. Con un gesto automatico ripetuto migliaia di
volte, spinse nel lettore delle musicassette – un raro lusso molto vintage
offerto dalla sua vecchia auto immatricolata nel 1993 – un venerato
cimelio musicale degli anni '70 che custodiva gelosamente, uno dei tanti di
cui andava fiero. Dalle casse malconce proruppe un bel pezzo sincopato e
la voce gutturale di Barry White lo ricaricò un poco; ma la noia che aveva
dominato le lunghe giornate degli esami pareva averlo seguito di soppiatto
e ancora stazionava all'intorno come fumo tossico nell'auto di un fumatore
incallito. Troppo soffocante e limacciosa ebbe di nuovo il sopravvento.
Dopo pochi minuti di musica assordante, pigiò con un gesto di fastidio il
pulsante di deiezione, la musica si interruppe e fu sostituita da un
notiziario, la voce concitata di uno speaker. Quel tono allarmato suonò
dentro di lui come un segnale di pericolo e ascoltò con attenzione le prime
parole. Era accaduto qualcosa di importante, non capiva bene dove
esattamente, probabilmente in Africa, sì, in Nigeria, una strage, all'alba un
commando di estremisti islamici aveva fatto irruzione in una scuola, una
quarantina i morti, bruciati vivi, in buona parte studenti. Quelle parole
tremende bloccarono per un secondo il rollio degli innocui pensieri che si
erano mossi dentro di lui fino a quel momento. Come accade spesso in
simili casi, confrontò istintivamente la propria vita e quella di quei
disgraziati, lui in viaggio verso il mare e la morte terribile di quegli
innocenti. Ebbe per qualche istante la sensazione di qualcosa di già
vissuto, il senso sfuggente di una piccola vergogna che non si poteva più
cancellare, insieme alla confusa sensazione di una perdita che era rimasta
indietro, in un punto lontano del suo passato ormai definitivo ed
immutabile. Faticava a ricordare quando e dove aveva già vissuto e
pensato tutto questo, molti anni prima. Sentiva che era un ricordo
importante, che gli apparteneva nel profondo, ma in quel momento
l'attenzione ottusa del suo stupido impegno nella guida, lo sguardo fisso
sulla strada, non consentiva una nitida messa a fuoco. Poi ecco,
improvvisamente farsi avanti l'immagine precisa di quel giorno. Era stato
il suo primo viaggio importante, frutto di tanti mesi di risparmi, anno
2001, gli Stati Uniti. L'11 settembre era a New York, i primi giorni di una
splendida vacanza. Lui stava uscendo dalla metropolitana e vedeva quella
massa di gente correre con il volto stravolto, guardandosi alle spalle.
Girato l'angolo, vide anche lui la punta della Torre bruciare. Nella sua
mente era allora scattato un automatismo, si era subito preoccupato
stupidamente, in quella tragedia, della cosa più squallida e
insignificante.«Ma che sfortuna, adesso mi rovino la vacanza.» Subito se
ne era vergognato. Anche ora, nel caldo del piccolo abitacolo, il ricordo
riportava a galla quella vergogna, gliela riconsegnava come se lui fosse
ancora a New York, la vedeva riflessa davanti a sé nella sorte di quei
poveri studenti nigeriani. Ma – si chiedeva – che cosa avrebbe potuto fare
allora e che cosa poteva fare adesso? Saliva dentro di lui uno sconsolato
senso di impotenza, come se la rinuncia a qualsiasi tentativo di risposta gli
apparisse inevitabile.
Soffocato dall'inquietudine, spense la radio, si rifiutò di ascoltare. Lo si
può capire, lo avreste giustificato anche voi. Con un'ampia virata, la sua
mente planò di nuovo con moto deciso sul terreno abituale e rassicurante
dei sogni ad occhi aperti.
A risvegliarlo quasi subito intervenne il suono fastidioso del telefonino.
Inutile dire che Carlo, nel suo amore per un passato che forse non c'era mai
stato – le tante cose logore ed usate di cui si circondava stavano a
dimostrarlo – odiava i telefonini, soprattutto i modelli più recenti pieni di
giochi e funzioni varie. Coerente fino in fondo con i suoi principi - giusti o
demenziali che fossero - si era adattato a portare con sé un vecchio
modello della fine degli anni '90 appartenuto a sua sorella, giusto per le
impellenti necessità imposte dal suo doppio lavoro. Come tanti altri,
infatti, da qualche tempo Carlo aveva abbinato alle entrate ufficiali, ma
non sempre sicure, della sua occupazione di insegnante precario, una
piccola integrazione abbastanza vantaggiosa come consulente e
collaboratore di una piccola casa editrice di Torino, proprietà di un suo
vecchio amico dell'era ormai lontana degli studi universitari. Benché molto
piccola, era abbastanza conosciuta e apprezzata, soprattutto per l'ottima
cura dei testi pubblicati.
Il telefono continuava a suonare. Afferrato con un moto di fastidio
l'apparecchio, in pochi secondi la mente di Carlo entrò in azione. Controllò
il display. Era il numero delle Edizioni Beccalossi. Quella in arrivo era
dunque effettivamente una telefonata di lavoro. Valeva la pena rispondere.
E Carlo, controvoglia, si rassegnò a farlo.
«Pronto...?»
«Che fai vecchio lavativo, sei ancora tutto impegnato a riposarti?».
Riconobbe subito dal tono la voce del suo amico, nonché editore e datore
di lavoro, Renato Beccalossi. Era una sua caratteristica. La sua aria allegra
e scanzonata aveva ingannato spesso più di un interlocutore, che la
scambiava, sbagliando, per una sicura prova di ostentata superficialità.
Sotto quella superficie si nascondeva invece una volontà di ferro, molto
abile nel tessere sinuosamente le vie migliori per il raggiungimento dei
propri obbiettivi.
«Sei ancora a scuola a far finta di lavorare o ti stai già riposando in
proprio a casa tua? Ma cosa fate voi insegnanti tutta l'estate mentre gli
altri ruscano?»
«Non credere, è dura anche per noi. Con questo caldo a scuola si moriva.
Ho finito gli esami proprio ieri.»
Il tono di Renato, dietro la patina divertita della sua voce, lasciò trapelare
un forte interesse. «E adesso dove sei?»
Un poco seccato, Carlo assunse scherzosamente un timbro didattico:
«Sono in macchina e sto andando a Deiva Marina. Non se ne può più per il
caldo. E il traffico sta aumentando. Tra poco inizierà il tratto tremendo
dell'autostrada verso Genova e non posso rischiare la pelle con questo coso
in mano». L'altro ridacchiava. «Non possiamo riparlarne tra un po'?» buttò
lì Carlo; ma evidentemente Renato non lo aveva nemmeno ascoltato,
perché subito sbottò: «Stai andando a trovare i tuoi al paesino au bord de
la mer? Ma è perfetto!»
Carlo restò un poco interdetto.
«Scusa, e perché?»
Renato cambiò immediatamente tono, passando in un attimo dal faceto al
professionale. «Se mi dai tempo un secondo, adesso ti spiego. E fai
attenzione alle curve.»
Fu così che Carlo sentì per la prima volta pronunciare il nome dello
scrittore americano Thomas McWine. Un caso letterario esploso all'inizio
degli anni '50, divenuto poi un' enigma nei decenni successivi.
«Al successo clamoroso del suo primo romanzo – a Hollywood ne hanno
ricavato anche un film abbastanza famoso – non sono seguite altre
pubblicazioni.» spiegò il suo amico Renato. «Proprio per questo motivo,
per un certo tempo la sua figura negli Stati Uniti ha acquisito contorni
leggendari...»
Carlo lo interruppe subito, come se volesse far risaltare la propria
competenza: «Un po' come è accaduto per altri famosi scrittori americani
come Salinger o Pynchon?» Questa vicenda incominciava ad incuriosirlo
ed era evidente che Renato se ne era perfettamente accorto.
«Esatto, ma con un'impronta ancora più morbosa alimentata dai giornali
scandalistici. Pynchon è sicuramente un'altra cosa.».
Carlo si accorse di aver aperto un capitolo pericoloso che rischiava di
andare per le lunghe. Non era il caso di lanciarsi in una discussione
letteraria nel traffico sempre più intenso e con una mano sola sul volante.
Renato, intanto, aveva continuato a spiegare come per quasi un trentennio
ciclicamente rispuntasse ogni tanto da qualche parte la ricerca più o meno
pretenziosa delle vere ragioni che avevano spinto il misterioso scrittore ad
abbandonare gli Stati Uniti e a trasferirsi in Italia.
«L'interrogativo sempre uguale – qui, sicuro dell'effetto ormai raggiunto,
Renato sottolineò abilmente le sue ultime parole con una lunga pausa – la
domanda sibillina che concludeva tutte quelle ricostruzioni più o meno
fantasiose, pubblicate anche su giornali importanti, era all'incirca sempre
la stessa... » Ancora una pausa. «Non vedo l'ora di sentirla...» sussurrò
Carlo col tono di chi ne ha abbastanza. La telefonata si stava protraendo
troppo e il peso del cellulare sembrava aumentare con il passare dei
minuti. Un po' risentito Renato lo bloccò subito.«No, Carlo, bravo
insegnante di lettere e apprezzato collaboratore delle Edizioni Beccalossi,
qui non è il caso di scherzare, perché la cosa si fa seria, soprattutto per
noi.» Un tantino intimidito Carlo tacque e Renato, padrone della scena,
concluse rapidamente.
«L'ipotesi solleticante che periodicamente è ricomparsa su quotidiani,
riviste e pubblicazioni titolate, riguardo al destino di quel grande giovane
scrittore scomparso nel nulla, era sempre questa: probabilmente ha scritto
molto altro, ma, per segreti motivi, forse di protesta, ha scelto di rinunciare
a qualsiasi pubblicazione dei suoi lavori; la futura riscoperta ci riserverà
grandi sorprese. Questo, come ti dicevo, più o meno fino alla metà degli
anni '80.»
«Perchè... dopo?» chiese quasi automaticamente Carlo. E l'amministratore
unico delle Edizioni Beccalossi concluse teatralmente «Poi, come accade
di solito, a poco a poco ci si dimenticò di lui».
Renato – il compagno di tante bevute negli anni dell'università lo ricordava
bene – era un affabulatore abilissimo e l'interesse di Carlo, dopo la
veniale manifestazione di insofferenza, era di nuovo cresciuto.
«La domanda che allora potresti farmi – marcò infine Renato, come se gli
apparisse scontata la risposta – è sicuramente questa: noi che cosa
c'entriamo? Qui sta il bello. Cerco di spiegartelo ancora più chiaramente.»
Senza perdere di vista la strada davanti a sé e la lunga fila continua di auto
sfreccianti che superavano la sua utilitaria troppo lenta, Carlo, vincendo la
stanchezza, cercò di mantenere viva la concentrazione.
«Un amico con i contatti giusti» continuò Renato, «mi ha passato una
dritta in esclusiva molto promettente». Carlo non riuscì a frenare un
sorriso. Conosceva già le “dritte” di Renato dal tempo lontano
dell'università. Erano quasi sempre inconsistenti. Veramente – rise Carlo -
erano dritte troppo curve, ripiegate sulla sua presunzione.
L'intraprendente editore torinese riassunse velocemente la questione.
«Questo scrittore, McWine, ha vissuto per tantissimi anni in Italia,
precisamente in un piccolo paese dell'Umbria che si chiama Monastico. E'
morto circa un mese fa. Gli eredi americani, che prima nessuno aveva mai
visto, come era prevedibile si sono fatti subito vivi. E a provvedere allo
sgombero e alla ripulita della casa per la vendita immediata è stato
incaricato un amico del mio amico, un imprenditore umbro, che mi ha fatto
un po' casualmente una bella soffiata.» Renato tacque per un momento,
come se volesse caricare le sue parole di suspense. «Svuotando lo
scantinato è saltata fuori una cassa piena di fogli accatastati confusamente,
manoscritti e dattiloscritti. Il mio amico, quando è venuto a saperlo,
conoscendo da un pezzo qual è il mio mestiere mi ha subito passato questa
utile informazione.» Renato concluse, scandendo con sicurezza le ultime
parole. «Pensa, nessuno oltre a noi lo sa.» E poi, sbrigativamente aggiunse:
«Almeno per quanto ne so io». Il futuro editore di successo tacque, come
conquistato dal proprio discorso e dalle ipotesi luminose che si
dispiegavano ai suoi occhi: un'ascesa clamorosa, internazionale, di cui
tutti avrebbero parlato, l'evento letterario dell'anno.
Ma il silenzio si protraeva. Un po' interdetto Renato chiese: «E allora?»
Carlo ancora taceva e infine la semplice osservazione con cui ruppe il suo
lungo silenzio, molto spontanea, raggelò un poco l'esaltazione dell'amico:
«E io che c'entro? Che cosa potrei fare?» Senza dar peso alla nota risentita
che risuonava chiaramente dietro a queste domande superflue, Renato,
riassumendo rapidamente la sua veste neutra e professionale, riprese e
chiarì: «Ecco l'idea che ti passo. Scendi in Umbria, trovi questo paesino e
prelevi la cassetta o baule che sia. Mi hanno assicurato che è facilmente
trasportabile. Poi, con calma, darai un'occhiata a quelle carte e comincerai
a lavorarci sopra. Tu sei quello che, nella nostra squadra, conosce meglio
l'inglese. Ricordiamo tutti le tue ottime traduzioni. Anche questa volta
potrebbe uscirne qualcosa di buono, molto buono.»
Subito, con una domanda molto ragionevole, Carlo seccamente lo
interruppe di nuovo: «Un momento. Perché dovrebbero dare tutta quella
roba proprio a me?» Con la sicurezza di chi vede raggiunto lo scopo che
aveva programmato, Renato tagliò corto e fornì al suo amico quel
chiarimento definitivo, che – a pensarci – era implicito fin dall'inizio nel
suo lungo discorso.
«Non preoccuparti. E' già tutto organizzato. Ho già lasciato il tuo nome.
Basterà che ti presenti all'albergo che c'è in paese. Troverai una persona
che provvederà a tutto.»
Ecco! Renato si era scoperto. Non gli stava chiedendo se poteva rendersi
disponibile per questo incarico, ma lo stava sottilmente imponendo, dando
per scontata la sua disponibilità. Carlo, troppo stanco, non se la sentiva più
di polemizzare. Era ormai vicino al livello di guardia. E allora, senza
lasciare il tempo di aggiungere altro, si rassegnò.
«Va bene. Ci andrò.»
Appagato, come chi ha raggiunto la meta, Renato chiuse in fretta, gli
augurò buon viaggio e lo salutò.
Nella testa del professore, iniziò a muoversi lo sciabordio di tante ipotesi,
tutte ugualmente possibili. Rifletteva sulla strana vicenda che Renato gli
aveva raccontato. Qualcosa non tornava. “I grandi scrittori – rifletteva –
lasciano sempre qualcosa, opere incompiute o abbandonate; ma non è
davvero questa la situazione che mi ha descritto Renato: questo famoso
romanziere americano completamente dimenticato, è stato l'autore di un
unico romanzo dal successo strepitoso.”
«La prima domanda che allora gli farei – disse ad alta voce toccando il
sedile accanto – se questo scrittore fosse qui in viaggio con me, è questa:
hai continuato a scrivere? Possibilissimo, in effetti, che uno scrittore cessi
di scrivere. E poi subito la domanda numero due: perché, allora, se hai
continuato a scrivere, non hai più pubblicato nulla?»
Naturalmente, per il famoso McWine, la pubblicazione di qualunque cosa
avesse scritto, fosse anche la lista della spesa, sarebbe stata facilissima.
Carlo era particolarmente affascinato dalla terza domanda che allora
necessariamente seguiva.
«Ma, se hai scelto di non pubblicare i tuoi scritti, questo significa che hai
scelto di farti dimenticare?»
Carlo scuoteva la testa, contrariato. Era tutto assurdo, l'esatto contrario di
quello che tutti gli scrittori avrebbero fatto, a qualunque latitudine.
Carlo continuava a borbottare tra sé: «Anche quelli che si mantengono
nascosti, che odiano la celebrità, voglio alimentare la vita delle loro opere,
e questo è possibile solo facendole circolare. Tutti tentano in ogni modo
di consolidare la propria fama e, come si dice, di passare ai posteri; ai
posteri l'ardua sentenza... ma perché sentenza ci sia – osservava con
perspicacia - occorre anzi tutto essere ricordati. E allora?»
C'era qualcosa di assurdo in tutta la faccenda. Iniziava a dubitare del
frettoloso entusiasmo del suo amico, quella sicurezza troppo sbrigativa
riguardo allo straordinario ritrovamento di carte inedite.
Molto probabilmente quel viaggio indesiderato che gli era stato
subdolamente imposto si sarebbe rivelato il classico buco nell'acqua.
Anzi, pensò ridendo, un bel buco nel mare, che avrebbe provveduto lui
stesso a scavare l'indomani con qualche splendido tuffo. Non era certo il
caso di affrettarsi, meglio prendersela comoda passando almeno qualche
giorno tranquillo. Renato non aveva indicato nessuna data precisa. Quando
doveva andare in Umbria? Si accorse di aver dimenticato di chiederglielo.
Ma che importava?
Controllò con molta attenzione un cartello stradale che stava superando.
Sì, mancava poco. L'incanto del mare che già da parecchio splendeva tra i
suoi pensieri, lo abbagliava.
Si voltò di scatto verso il sedile accanto. Beffardo, immerso tronfiamente
nel sole, il telefonino silenzioso lo stava osservando. «E tu adesso stai
zitto!», urlò scagliandolo indietro. Poi, come liberato da un grosso peso,
trasse un profondo sospiro di sollievo e finalmente si rilassò al pensiero
che presto sarebbe arrivato.
- II -
E' il 24 maggio 1970, una domenica. Puntualissimo alle ore 7.30 il volo
Pan Am proveniente da New York atterra a Roma. E' una splendida
giornata di sole che già preannuncia l'estate. Attraverso le grandi vetrate
l'uomo aitante di una cinquantina d'anni, ma molto ben portati,
perfettamente visibile nel suo sgargiante vestito azzurro, ha seguito il lento
avvicinamento dell'aereo, la dolce discesa, il leggero contatto con il suolo,
l'arresto. Ora attende nell'ampio atrio degli arrivi la comparsa del suo
vecchio amico Thomas McWine. Non lo rivede da parecchio, pregusta il
piacere dell'incontro, si domanda curioso, sfregando inconsapevolmente la
pancia con una mano, se lo troverà un po' ingrassato, come purtroppo sta
accadendo a lui.
La folla si addensa, sono in molti ad attendere i viaggiatori provenienti da
New York. Colleghi, amici, parenti, qualche tonaca, incaricati delle
agenzie turistiche con vistosi cartelli in mano. Tutti si assiepano verso il
varco che si aprirà tra poco. Anche Philip, l'uomo elegante amico di
McWine, si fa avanti e cerca di mantenersi bene in vista. Ecco i primi, i
più frettolosi, poi tutti gli altri. Ed infine i più lenti che escono alla
spicciolata, senza fretta. Tra questi Philip riconosce subito l'inconfondibile
profilo dell'amico. Il caso ha deciso che, senza saper nulla l'uno dell'altro,
indossino vestiti quasi identici, un elegante completo estivo, solo il colore
è diverso. Quello di McWine è bianco. Si vedono e si sorridono da
lontano. Philip agita la mano, cerca di richiamare l'attenzione con ampi
gesti, anche se non sarebbe necessario. Si capisce, dal modo in cui si
muovono e sorridono, che sono entrambi molto felici.
«Welcome in Rome!» urla Philip accentuando comicamente il suo accento
del Tennessee, non appena Thomas è più vicino. Si abbracciano con forza.
Hanno pochi anni di differenza, ma Thomas sembra più giovane, forse per
la corta barba bionda e i capelli più lunghi che gli coprono le orecchie, o
forse anche per il suo fisico più esile.
E' Philip a guardarsi intorno e a richiamare l'attenzione del fattorino
affinché trasporti la pesante valigia. E' solo il bagaglio essenziale, le cose
che servono immediatamente. Tutto il resto arriverà con comodo via mare.
Infatti Thomas McWine non è un turista come tanti che si affollano intorno
a loro, anche se il suo aspetto potrebbe ingannare. Vacanze romane, la
dolce vita, non sono questi i suoi progetti. E' una intenzione maturata da
tempo, vuole vivere in Italia. Perché? Probabilmente in quel momento
neanche lui saprebbe dirlo. Per tutto il viaggio quella è stata la domanda
che gli ha girato a lungo in testa e ha riempito i suoi sogni confusi nel
sonno spezzato, sullo scomodo sedile. Sto facendo una cosa assurda, si è
detto. Ma so che è esattamente quello che devo fare. Infatti, le ragioni per
questo passo drastico sono tante, ma in quel momento, nella gioia
dell'incontro, preferisce non pensarci, restano nascoste al fondo della sua
mente.
Philip tiene un braccio sulle spalle dell'amico, lo guida verso l'uscita. Si
vede che è a suo agio e conosce perfettamente la strada. Vive a Roma
ormai da molti anni, come addetto alle pubbliche relazioni nell'ambasciata
statunitense. In realtà, i suoi incarichi sono anche altri, non tutti alla luce
del sole. Ha capelli molto corti, biondi e imbrillantinati, una lunga cicatrice
gli segna la guancia sinistra, un souvenir dalla guerra di Corea.
Scendono lungo le scale mobili, escono sull'ampio piazzale.
«Quali novità mi porti dall'America? Qualcosa sta cambiando. Nixon si è
dato da fare, ci ha portati sulla luna, speriamo che ci porti fuori dal
Vietnam. Laggiù siamo nella merda fino al collo.» Philip è ossessionato
dalla politica, coinvolto in prima persona.
Un sorriso ironico passa per un istante sul volto di Thomas, conosce
abbastanza bene la brutalità dell'amico. Solo apparenza. Si ferma sul
marciapiede assolato, lo trattiene per un secondo.
«Lasciamo perdere tutto questo, non roviniamoci la giornata. Piuttosto
cosa mi racconti sulla tua ricerca della mia futura sistemazione? Sei stato
bravissimo, ti ringrazio.»
L'altro lo guarda, allargando le braccia. «E gli amici che ci stanno a fare?
A dirti la verità, la cosa mi ha anche divertito. Tante telefonate e un bel po'
di viaggetti verso quelle terre selvagge. In realtà la distanza da Roma non è
molta. E – a proposito – laggiù si mangia benissimo.»
Ridono tutti e due incamminandosi verso i parcheggi. Quasi al centro
spicca il rosso di una spider decappottabile. Quando le sono accanto
Philip, con evidente compiacimento, estrae dalla tasca il mazzo di chiavi.
Thomas lo guarda stupito.
«Non farti strane idee sul mio conto in banca» dice Philip ridendo. «E' una
gentile concessione dell'ambasciata. Mi serve.»
Salgono. Philip fa rombare con gusto il potente motore, volgendosi verso
l'amico, silenziosamente invitandolo con lo sguardo ad apprezzare il suono
ruggente. «Saremo laggiù in un attimo.».
In pochi minuti sono già su una strada poco trafficata scandita da un filare
continuo di pini marittimi. Philip guida sicuro.
Thomas si gode il piccolo viaggio. Si guarda attorno, lo colpisce il colore
della luce, la luce italiana, diversa da tutti i posti in cui è stato in
precedenza. Quello che sto facendo – pensa – è un po' un ritorno alle
origini. Da queste terre proveniva mia madre, la sua famiglia.
In un lampo doloroso si accende nella sua mente il ricordo della madre.
Come un'onda che trascina via dalla riva, sente tutto il peso della sua
perdita. E' morta da poco, senza soffrire. Anche questa è una delle ragioni
per cui ha deciso di partire. Chiudere con gli Stati Uniti, dove è nato, è
cresciuto, ha incontrato un enorme e imprevedibile successo con il suo
primo libro. Dove gli anni, poi, sono volati stancamente tutti uguali,
concludendo ben poco dei tanti progetti che aveva in testa. Ecco la svolta,
l'Italia, ripartirà da capo, senza fretta. Guarda l'amico che, tranquillo,
continua a guidare silenzioso.
«Dove si trova il bel posto che mi hai trovato, dove vivrò i miei prossimi
anni?» chiede.
Philip si volta ridendo. «E pensare che io, all'inizio pensavo scherzassi.
Quando mi hai raccontato come, con un impulso improvviso, avevi fatto
un cerchio sulla carta geografica che avevi di fronte – la stavi consultando
per preparare il tuo nuovo romanzo, mi hai detto – e avevi pensato “Ecco
andrò a vivere più o meno qui”, come se fosse la cosa più normale del
mondo decidere di tagliare tutti i ponti e iniziare una vita completamente
nuova in un posto che nemmeno si conosce. Thomas, sei proprio tu!»
Philip continua a ridacchiare batte una mano sulla coscia dell'amico e
ripete divertito: «Più o meno, davvero, più o meno...»
Thomas cerca di spiegarsi, avverte il bisogno di chiarirsi anzi tutto con se
stesso. Pensa al modo incredibile in cui è arrivato a ciò che ora sta
vivendo, come l'inclinazione casuale di poche pietre che produce la caduta
di un' intera parete.
«Vedi, Phil, questi posti hanno sempre avuto un significato per la mia
famiglia, qui mia madre era vissuta da bambina e spesso mi raccontava
qualcosa. Era come un'immagine mitica, abbastanza confusa se le
chiedevo qualche dettaglio. Ricordava qualche nome. Assisi – la città del
santo poverello, diceva – Spoleto, Norcia. Ma se le chiedevo quale fosse il
nome del suo paese non lo ricordava, gliene uscivano diversi,
probabilmente tutti storpiati.
Avevo solo capito che era un piccolo borgo, poche case, in una zona molto
boscosa. Lei non ci era più tornata.»
Philip lo interrompe. «Piccolo borgo, poche case, in mezzo ai boschi. Caro
Tom è quello che ti abbiamo trovato!».
Con un ampio gesto della mano indica tutto intorno. «Certo non possiamo
garantirti che sia proprio quello il posto esatto, al cento per cento. Diciamo
un dieci, un cinque per cento. Vabbè non esageriamo. Come dicono qui in
Italia, è come cercare un ago in un pagliaio.» Thomas lo ferma. «Non ha
importanza. E' un colpo di dadi, l'inizio di una nuova partita. Per me è
importante quello che significa.»
Philip guarda l'amico con aria fintamente sconsolata. «Dovevi proprio
essere mal messo per arrivare a simili decisioni.» Thomas non risponde.
Da un po' di tempo si sono inoltrati in una valle stretta e ombrosa, molto
suggestiva. La piccola strada tortuosa costeggia un torrente tra due alte
pareti di roccia. Si percepisce, qui, il dominio della natura.
Infine, quando la gola si apre, ecco una città turrita, in alto. Spoleto, legge
Thomas con piacere sul cartello stradale, ad alta voce.
Philip lo guarda soddisfatto. «Siamo quasi arrivati. Si trova qui vicino,
dietro la montagna.»
«E come si chiama?» chiede Thomas.
«Monastico.»
Thomas riflette un poco. Poi dice, come tra sé e sé: «Monastico... mi piace
questo nome. Fa pensare a un luogo solitario, appartato. Monos, monaco.
Sì, è proprio quello che voglio.»
«Ed è esattamente quello che stai per avere. Lo scoprirai tra poco.»
«Immagino che per te è stato un grosso impegno trovarlo.»
«Ma no, per nulla, anzi è stato divertente, e si sono divertiti anche gli
uomini che avevo incaricato della ricerca. Ho dei contatti in queste zone, e
sono stati ben felici di fare questa esplorazione per me.» Philip è
compiaciuto delle sue parole, lo si vede bene. Aggiunge. «Qui le case
costano molto poco. Te le tirano dietro per pochi dollari.»
«Ti ringrazio. Non vedo l'ora di vedere tutto questo con i miei occhi.»
La spider rossa fila via veloce. McWine nota che da parecchio tempo non
hanno quasi incontrato altre auto. Indicando davanti a sé, dice: «Sembra
davvero di essere a Manhattan.» L'altro ride. «La tranquillità non ti
mancherà mai da queste parti!». La strada ora è più larga e procede diritta
sotto il fianco della montagna. Si intravedono, al lato opposto della stretta
pianura, linee ondulate di verdi colline uscite direttamente da certi quadri
del Rinascimento italiano che McWine ricorda di aver visto al
Metropolitan Museum. Sempre più vicina si delinea sul fianco della
montagna una splendida città circondata da mura e ricca di campanili.
«Quella è Assisi» indica Philip con la mano.
«E questo, dall'altro lato, cos'è?» C'è una distesa di croci e una piccola
cappella poco lontano. «Un cimitero di guerra, degli Alleati. Qui gli
scontri con i tedeschi sono stati molto duri.»
Queste ultime parole dell'amico sono come una piccola fiammella che
accende nuovi ricordi. Nella mente di Thomas ricompare sua madre. Lei
aveva vissuto vicino a quei luoghi durante la guerra, gliene aveva parlato
quando lui era bambino, come se gli raccontasse una favola. I buoni e i
cattivi in lotta tra loro e la libertà che era stata conquistata. Gli aveva
descritto le difficoltà e le sofferenze patite in quegli anni difficili,
paragonando tutto questo alla tranquillità e al benessere della loro vita in
America. Si insinua nella sua mente una nota malinconica. Ora lei non c'è
più, pensa. Ma qui intorno è ancora presente, questi sono i suoi luoghi. Le
labbra di McWine si muovono senza suono, bisbigliano silenziosamente il
suo nome, con un sorriso appena accennato. Adanella Ciancaleoni. Non
era mai riuscito a pronunciarlo bene, troppo complicato per un americano
come lui. E lei si divertiva – gli ritorna in mente con affetto - glielo faceva
ripetere in una specie di gara, mentre lui si confondeva sempre di più,
sbagliando gli accenti e masticando la catena delle sillabe. Sua madre
allora rideva e, alla fine, accentuando comicamente un sospiro, concludeva
sempre allo stesso modo: «Wonderful Italy!» con una lieve sfumatura di
nostalgia. Lei era arrivata a New York subito dopo la prima guerra
mondiale, ancora bambina. E l'immagine dell'Italia che conservava
gelosamente dentro di sé assumeva i contorni leggendari della lontananza,
come il luogo privilegiato della sua infanzia. Quanto era diverso, in questo,
suo padre! Nella mente di McWine la sua figura si è fatta meno netta, la
sua morte è ormai un evento lontano.
E' così, si dice. E sente ancora più forte una tranquilla sicurezza per ciò che
sta realizzando, la scelta più giusta.
Proprio in quel momento Philip interrompe il lungo silenzio.
«Tom, se ricordo bene, tu hai studiato in Italia, vero?
«Sì, praticamente ho passato qui quattro anni bellissimi nella mia
adolescenza. Un'idea di mia madre con la complicità dei suoi parenti
italiani. Mio padre non voleva, ma lei ha insistito. Diceva, «Devi far
crescere bene anche la tua parte italiana. Sei già stato in America sin
troppo tempo. Vedrai l'Italia ti piacerà. Così ho fatto le high school in
Italia, in un college del nord. Ricordo le montagne, innevate buona parte
dell'anno.
«Ma allora l'avrai girata parecchio l'Italia, immagino?»
«Per niente, questa è la prima volta.»
Philip ride e lo guarda sorpreso. «Eppure, dal modo in cui descrivi certi
piccoli paesi dell'Italia centrale, tra la costa e le montagne, avrei detto il
contrario. Sai, mi capita a volte, vedendo qualcuno di quei borghi, di
ricordare quelle tue descrizioni così vivide e partecipi nel tuo famoso
romanzo, Miserere.»
Thomas si volta di scatto. La nota beffarda avvertibile nelle ultime parole
dell'amico lo ha ferito. Fa finta di niente.
«Tutto merito dei miei genitori. La famiglia di mia madre Adanella era
originaria di queste parti. E mio padre Ethan era stato in Italia durante la
guerra, come giornalista al seguito della IV armata. Me ne ha parlato tante
volte, racconti anche raccapriccianti sulle dure condizioni della
popolazione durante l'occupazione tedesca. Lui ha visto realmente quello
che io poi ho raccontato nel mio romanzo: un piccolo paese appena
abbandonato dai tedeschi, i morti per le strade, la disperazione dei
parenti.» Thomas riflette un attimo e poi aggiunge: «E' un po' come se io
ci fossi stato insieme a lui. Quando ho scritto il libro, mi è bastato
ricordare. E' un po' come se Miserere l'avesse scritto lui.»
«A proposito, non mi hai ancora detto niente su quello che stai facendo.
Che cosa hai in serbo?»
La strada inizia a salire lungo i dolci tornanti verso Assisi. Philip ha
buttato lì questa domanda con un tono casuale e disinteressato, ma è da
parecchio che gli gira ossessivamente in testa. Vuole capire che cosa si
nasconda – perché c'è sempre qualcosa che si nasconde, Philip ne è
convinto – dietro la vita enigmatica dell'amico.
Thomas tace, guarda in alto e si sfrega nervosamente le mani. Con una
smorfia amara, liquida il discorso con una battuta. «Questa è davvero la
domanda da un milione di dollari! Se me la proponessero a un quiz
televisivo credo che sarei subito eliminato!» Cerca di ridere, ma è chiaro il
suo imbarazzo. Philip se ne accorge e cerca di venirgli in aiuto. Dice
ridendo: «E' quello che succede a tutti!» Ma, se Thomas lo osservasse in
quel momento, abbassando lo sguardo, vedrebbe chiara sul suo volto
l'insoddisfazione per la sua risposta.
L'amico precocemente famoso è sempre stato per Philip un oggetto
misterioso, come l'imprevedibile traiettoria di un proiettile invisibile.
Pensa a loro due ventenni: lui metodico, impegnato negli studi e l'altro
distratto da mille cose, inquieto e ribelle. Poi, incredibilmente, senza che
nessuno nella cerchia del college ne sapesse nulla, sbuca fuori
all'improvviso quel romanzo che tutti vogliono leggere. L'irrequieto e
inconcludente Thomas McWine diviene l'argomento del giorno di cui tutti
parlano. I giornali lo celebrano come il “giovane promettente scrittore per
un'epoca nuova”. Chi ha mai avuto – riflette Philip – una strada così
aperta e libera, la gloria al primo colpo? Eppure Thomas non ne fa nulla o
quasi. Philip, anche adesso, mentre viaggia con lui seduto accanto, non lo
sopporta. Non riesce ad accettare che non ci sia una spiegazione
ragionevole. Non è abituato a fermarsi davanti ai misteri inspiegabili.
Scava scava e troverai la strada: è sempre stato il suo motto.
Hanno abbandonato da un po' di tempo la strada principale e si stanno
addentrando tra i fitti boschi dietro la montagna.
«Accidenti, queste strade sembrano tutte uguali, come fai a ricordartene
così bene?» domanda Thomas, indicando lo stretto percorso che si apre
davanti a loro. E' palese a tutti e due il suo desiderio di cambiare discorso.
Philip si volge verso di lui e sorride con sicurezza.
«Segreti del mestiere! Se passo in un posto lo ricordo per sempre.»
«Non so se saprei fare altrettanto» constata Thomas, fingendo una grande
ammirazione per la preziosa dote dell'amico.
Philips accelera su un corto rettilineo finalmente in piano.«Siamo quasi
arrivati.».
Infatti già si intravede di fronte, sulla piccola collina verso cui è diretta la
strada, quasi nascosto tra la fitta cortina dei lecci, il profilo arroccato di un
paese, con un tozzo campanile al centro. In pochi minuti l'auto si ferma
sulla piazzetta che si apre di fronte alla chiesa.
Phillip, volgendosi con un' aria fintamente supponente formula ad alta
voce una domanda. «Tu sai, caro Tom, che ci troviamo in una nazione
profondamente cattolica. E quale sarà mai, secondo te, la massima autorità
che potremo trovare in questo luogo?»
Ridendo, subito si dà da solo la risposta. «Il parroco!» Thomas lo guarda
divertito e aggiunge: «Caro Phil, io so qualcosa di più. Dove ci troviamo in
questo momento?» Philip riflette, un po' disorientato. «In Umbria?»
Thomas agitando un dito in segno di riprovazione, precisa: «Risposta
insufficiente! Noi siamo nell'antico stato della Chiesa, il regno del papa!»
E scoppia anche lui in una fragorosa risata. «Scusa Phil, a parte gli scherzi,
perché me lo hai chiesto?»
Philip subito chiarisce. «Sarà da lui che dovremo recarci per avere le
chiavi del tuo regno. Della tua casa tra i boschi!». E aggiunge. «Gli sono
state lasciate dai vecchi proprietari, una garanzia di fiducia.»
E' questione di pochi minuti, già erano attesi, Don Mario li accoglie con
grande cordialità. «Se volete, posso accompagnarvi io alla casa. Si trova
un po' fuori del paese.» Il vecchio parroco ha parlato in italiano. Senza
lasciare all'amico il tempo di intervenire, Thomas risponde con ottima
padronanza: «La ringrazio, ci è davvero utile e ci fa molto piacere.»
Thomas lo dice con un sorriso sulle labbra. E' chiaro la soddisfazione che
sta provando nell'usare dopo anni questa lingua che ha amato, la lingua che
era stata di sua madre e dei suoi avi, quella che lei gli aveva insegnato in
tante fredde serate invernali, per mantenere un piccolo legame – diceva –
con la sua terra. «Sai davvero parlare molto bene l'italiano!» esclama
Philips. «Me la cavo abbastanza.» si schernisce Thomas con un sorriso.
La spider rossa, più adatta ai rettilinei autostradali che a quella dissestata
stradina in terra battuta, procede lentamente. La nuova casa di Thomas è
meno lontana dal paese di quanto lui si aspettasse. Meglio – si dice –
potrò spostarmi a piedi senza problemi. Thomas la vede da lontano sul
ripido crinale; una lunga fila di cipressi accompagna la strada sulla salita.
E' una piccola casa colonica, come se ne vedono tante tra Umbria e
Toscana, quasi in cima ad una collina circondata dai boschi. Una fitta
macchia di alberi proietta la sua ombra su un fianco. La solitudine sembra
che aleggi nell'aria. E questo a Thomas piace, è ciò che voleva.
Il tempo di scaricare i bagagli e Philip è già in macchina. Thomas lo
guarda sorpreso. «Non ti fermi un poco?» Philip avvia il motore. «Ma no,
non è il caso. Debbo riportare don Mario alla sua chiesa e non posso
proprio fermarmi di più. Mi aspettano a Roma. Ti lascio le chiavi, dentro è
tutto a posto. Abbiamo acquistato la casa con tutti i mobili che già vi si
trovavano. Ho provveduto, qualche giorno fa a farla sistemare. Ormai, qui,
non servirei più a molto.» Thomas sta ancora ringraziando, quando la
spider rossa si allontana, Philip lo saluta con un ampio gesto del braccio e
si avvia verso la stretta discesa. Ancora agita la mano quando è a una
settantina di metri.
Thomas si guarda intorno, improvvisamente solo sul piccolo spiazzo
erboso di fronte alla casa. La guarda con una nuova curiosità, come se
appena in quel momento si facesse concreta. Ancora non la conosce, ma la
sente come una presenza amichevole, tutta da scoprire.
Qui starò bene – si dice avvicinandosi verso l'ingresso. E' certo che questa
solitudine benigna lo accompagnerà negli anni a venire.
Maria, con la sua borsa capiente, è intenta da più di un'ora alla raccolta
delle erbe. Gli serviranno per il pranzo di domani. Lungo le siepi, vicino
al ruscello, ha trovato i luppoli, ed ora il declivio del prato poco distante da
casa gli ha offerto ciò che più gli serviva: cicoria e finocchi selvatici.
Serviranno per condire i succulenti piatti umbri che sa preparare sin da
quando era bambina. Come gli accade spesso, muovendosi lentamente
lungo il prato, riflette su se stessa, sul piccolo mondo in cui è sempre
vissuta, come se la luce ormai bassa del tramonto spargesse su di lei
questi pensieri più lenti e tranquilli. I tanti impegni della piccola locanda
la costringono a fare tutto in fretta, senza respiro. Maria indugia nella
raccolta, è uno dei momenti belli della giornata. Sa bene che non può
tardare. Ormai ha imparato che chi si siede a tavola pretende di essere
subito servito. Purtroppo i clienti sono ancora pochi, meno degli anni
passati. Ma siamo soltanto all'inizio della bella stagione, si dice. La
Madonna ci aiuterà.
Primo, suo marito, che ha una volontà di ferro, ha voluto lanciarsi in
questa impresa: la loro bella pensioncina completa di un ottima trattoria
molto apprezzata nei dintorni. Il nome l'ha scelto lui: Vallechiara. A
Maria piace. Chiara è anche il nome della santa che Maria ama di più. E'
vissuta ad Assisi, subito dietro il monte. Basta rivolgersi a lei con le
preghiere, guardando la cima più alta di fronte a Monastico per averla
vicina, in aiuto. Maria ne è profondamente convinta ed è stata favorevole
fin dall'inizio a ciò che il marito le ha proposto di creare dal niente, la
pensione Vallechiara. Uno sforzo molto impegnativo in questo piccolo
borgo lontano da Assisi e dalle principali città. I clienti sono ancora pochi
– si ripete di nuovo – ma sicuramente aumenteranno. Bisogna pazientare,
non avere fretta, confidare nella Provvidenza. Non bisogna lasciarsi
trascinare dalle preoccupazioni. Lo ripete di nuovo con forza a se stessa,
quasi volesse fissare in questo modo una sicurezza che le sta sfuggendo.
Intanto, quasi senza accorgersi, tutta presa dai suoi pensieri, si è avvicinata
alla strada che, un poco più in alto, con un'ampia curva porta verso il
paese. Con il piccolo falcetto sta tagliando sul bordo un bel mazzo di
strigoli. Serviranno per le torte salate, riempite di prosciutto crudo e
scaldate sotto la cenere.
Alzando gli occhi incontra quelli di un uomo che non conosce,
sicuramente un forestiero. E' fermo, in alto, dinanzi a lei, sul bordo della
strada. Indossa un elegante vestito bianco, certo poco adatto per la
campagna che c'è intorno, dove è così facile sporcarsi. Maria è colpita dai
suoi capelli biondi e piuttosto lunghi. Gli ricorda un attore che ha visto
spesso in televisione. Ma quell'aspetto, il bianco del vestito soprattutto,
evoca nella sua mente anche l'immagine di un angelo, come lo
immaginava da bambina. Fermo sul ciglio l'uomo la sta osservando,
probabilmente già da un poco. Maria prova un istintivo moto di paura, si
ritrae e allontana il suo sguardo. Sente però una voce gentile e sicura,
l'uomo allarga le braccia in un gesto di discolpa. «Scusi signora, mi spiace
averla spaventata. Mi serve un'informazione, per favore.». L'uomo ha
pronunciato queste parole molto lentamente, si capisce che non è italiano.
Maria si sposta, sale a sua volta sul bordo della strada. «Mi dica, se posso
esserle utile...»
L'uomo indica dietro di sé. «La mia nuova casa è laggiù a circa un
chilometro. Sono arrivato da poco. Mi servirebbe qualcosa da mangiare.
Può dirmi dove posso trovare un negozio?»
A Maria quel modo di parlare così strascicato le appare insolito. Non ha
mai sentito niente di simile. Questo la diverte. Risponde allora con
sicurezza. «Non si preoccupi, qui troverà tutto. E' un piccolo posto isolato,
ma non ci manca niente.» L'uomo sorride, ha colto una nota di fierezza
nelle ultime parole di Maria.
«Sono sicuro che qui starò molto bene. Grazie.»
Sta per incamminarsi verso il paese quando Maria aggiunge
frettolosamente: «E c'è anche un'ottima trattoria dove potrà assaggiare
tante cose buone. E' il benvenuto.»
L'uomo ride, trova quella donna davvero simpatica.
«Ci andrò sicuramente.» La saluta con la mano.
-3-
Era il 7 luglio 2013, una domenica. Carlo stringeva il volante e non si dava
pace. In quel momento avrebbe potuto essere sulla scogliera, disteso al
sole e pronto per il primo bagno della stagione. E invece... Ho ceduto
troppo in fretta, si diceva. Il solito Carlino remissivo, Carlino timidino.
Signorsì signor capitano, comandi! Da più di un'ora un loop lamentoso si
riavvolgeva senza fine nella sua mente.
Per fortuna in questo viaggio che gli appariva sempre più demenziale non
era più solo. Seduto accanto a lui, gasato come se andasse a una festa, Elia
guardava fuori e commentava. «Sembra di essere in un film! Una
telefonata nella notte e... Tac! Scatta una storia. E' pazzesco quello che ci
hai raccontato ieri sera. Mi piace l'idea di essere in prima fila! Mancano
solo Coca-Cola e pop-corn.» Troppo alto per quella piccola utilitaria, stava
tutto rattrappito sul sedile, con le ginocchia bloccate e la testa a un
centimetro dal tettuccio. Era la scomodità fatta persona, ma si vedeva che
era contento.
«Ma tu questo strano scrittore che andiamo a scovare, lo hai conosciuto?»
«Non sapevo nemmeno che esistesse. Ho conosciuto anch'io tutta la
faccenda soltanto ieri, molto all'ingrosso; Renato non si è sprecato nel
darmi tutte le informazioni. Renato...»
«Fammi capire,» chiese Elia con tono fintamente riflessivo, come se si
interrogasse su questioni profondissime, «andiamo in un paesino
dell'Umbria che non sai nemmeno dove sia e lì dovremmo – forse, chissà,
in qualche modo, se tutto va bene – incontrarci con una persona che tu
nemmeno conosci, per prendere una scatola che non si sa bene che cosa
contenga.» E guardandolo di sottecchi aggiunse. «Carlo, dimmi la verità.
Ma sei sicuro che tutta questa impresa non sia soltanto un bello scherzo
che ti ha preparato il tuo amico editore?»
Carlo si irrigidì immediatamente. «Ti prego caro Elia di non chiamarlo più
mio amico. Grazie.» Più calmo aggiunse. «Per quanto riguarda quello che
tu chiami “lo scherzo”, non credo proprio. Dovevi sentirlo, come era
deciso. Fanatico.». Elia si mise a ridere, vedendo sul volto dell'amico una
stizza che non gli era abituale. «Carlo, hai presente quel vecchio film che
ci era piaciuto tanto? Amici miei?» Carlo lo guardò divertito. «Bene –
continuò Elia – c'era un personaggio interpretato da Tognazzi, mi pare si
chiamasse conte Mascetti, se ricordo bene. Prendeva in giro chiunque lo
ascoltasse, ad esempio un vigile, e lo rintronava con una sequenza
rapidissima di parole senza senso. Solo per dirti, a me pare che il tuo
editore sia un parente stretto del conte Mascetti.»
Carlo restò un attimo zitto e finse di riflettere con un dito che ticchettava
sul labbro; poi, come se avesse ponderato abbastanza le diverse possibilità
rispose: «A dire il vero ho pensato anch'io la stessa cosa, all'inizio. Non
proprio la supercazzola di Tognazzi, perché le parole di Renato – almeno
questo – avevano un senso, ma mi è subito sembrata una richiesta assurda,
fatta giusto per vedere come reagivo. Ho capito abbastanza in fretta, ieri
sera, che non era così. Quello ci crede. Ci crede e basta. E' convinto di aver
trovato la scala giusta per il successo.»
Battendo le mani, Elia scoppiò in una sonora risata. «Allora cerchiamo
almeno di divertirci noi!»
Carlo si voltò verso di lui con tutta la serietà del professore e scandì:
«Sicuramente non mancherà la materia prima.» Risero insieme. Era
davvero una bella fortuna averlo come compagno di viaggio in quella
avventura insensata, almeno l'atmosfera adesso era allegra. Andava
riconosciuto onestamente il merito di Elia in tutto questo.
«Ti debbo ringraziare, Elia. La tua compagnia mi dà un gran piacere!»
Se questo era vero in quel momento, non sempre però era stato così. Tante
volte – Carlo lo aveva detto anche agli altri amici– la compagnia di Elia lo
imbarazzava, soprattutto quel suo modo di fare frenetico e disordinato,
come se qualcuno lanciasse a casaccio tutti gli oggetti sottomano, senza
alcuna attenzione al pericolo di chi sta intorno.
Gli venne da pensare alle tante occasioni in cui l'amico aveva dato prova
del suo carattere poco affidabile. Elia, figlio unico, aveva qualche anno in
meno di lui. Come succede spesso, con il passare degli anni la differenza d'
età era divenuta irrilevante. Ma Carlo ricordava bene quando, giovane
universitario ormai aperto alla cultura e al mondo –andava a Genova ogni
due o tre giorni! – vedeva quel ragazzino iperattivo girare per Deiva,
apparentemente senza scopo. Anche Elia aveva poi iniziato l'università,
con buoni risultati – la facoltà di matematica, se ricordava bene – ma,
guarda caso, non li aveva mai terminati. La piccola azienda familiare nel
settore oleario era stata la sua oasi di salvezza. Il padre, uomo dal carattere
duro e deciso, sapeva come tenerlo a freno, e Elia si era adattato a questo
ruolo, un figlio perennemente sotto tutela. Cinque anni prima – Carlo lo
ricordava molto bene, perché era stato coinvolto in prima persona – Elia
aveva attraversato una fase difficile, fatta di scontri e tensioni continue con
la sua famiglia, e soprattutto con il padre. Se n'era andato di casa, aveva
combinato ben poco ed era infine ritornato come il figliol prodigo alla casa
dei suoi.
Carlo guardò di nuovo l'amico seduto accanto. La corta barbetta ed i
capelli ricciuti disegnavano una sorta di profilo greco.
«Ma, Elia, venir via così all'improvviso, non ti crea problemi? Sai, il
lavoro, la sorpresa per i tuoi.»
Elia, appoggiandogli una mano sulla spalla, spiegò. «Caro il mio Carlino,
è vero che qualche volta, anzi abbastanza spesso, mi sembri un gran
coglione e ti prendo in giro. Ma ti voglio un gran bene, non potevo lasciarti
andar via così, in questo stato, tutto solo.» E aggiunse, per tranquillizzarlo
del tutto: «Non preoccuparti per il mio lavoro. La nostra è una piccola
azienda familiare. Sai, me lo dice spesso anche mio padre: “Elia Elia
lavoreremmo bene anche senza di te.” Non ha una grande opinione dei
miei contributi alla gestione.» E scoppiò in una sonora risata .
Tacquero per un poco e Carlo ripensò a quanto le opinioni, anzi – si
disse – i pregiudizi che ci fabbrichiamo sugli altri siano campati in aria. Le
nostre vite si sfiorano, si lanciano piccoli segnali, poi ognuno gira e rigira,
come una specie di impasto artigianale, quello che gli è arrivato e si
fabbrica così un'immagine che gli appare presuntuosamente vera. Ma, alla
resa dei conti, che cosa sappiamo veramente gli uni degli altri?
E in questo modo, anche il comportamento di Elia era stato incasellato,
catalogato, giudicato. Ne aveva una prova proprio in quel momento. Dietro
la scorza appariscente della frenesia dell'amico c'era un cuore gigantesco.
Questa era la cosa che veramente contava.
A vincere gli eccessi del sentimentalismo che stava crescendo gli bastò
tuttavia uno sguardo verso il sedile accanto.
«Cosa stai facendo con le mie cassette?». Scattò in Carlo il solito
automatismo: la difesa di ciò che per lui era un bene prezioso, e che per gli
altri probabilmente non valeva nulla.
«Rimetti subito tutto al suo posto!» urlò verso il vicino. Elia lo guardò
allibito. A lui tutta quella foga per delle vecchie audiocassette rovinate era
assolutamente incomprensibile, gli sembrava un'esagerazione. Anche
Carlo si era accorto di aver esagerato. Ammonì silenziosamente se stesso:
“OK, stai calmo, e vediamo di non litigare subito. Ricordati che cosa è
successo con Sandro. Per fortuna è tutto risistemato. Non deve più
succedere.”
Già, Sandro. L'associazione fu spontanea, gli ritornò alla mente il dramma
che stava vivendo. Si voltò per farsi dire qualcosa di più, qualche notizia
più precisa, ma sicuramente Elia in quel momento aveva tutt'altro per la
testa.
«Ehi, perché non ci fermiamo al prossimo autogrill?»
«Così presto?»
«Giusto per un caffeuccio. Non lo dici sempre anche tu? Non bisogna aver
fretta.»
Carlo lo guardò e sorrise. «Al prossimo, allora.»
Avevano ormai alle spalle la lunga sequenza di gallerie, e stavano
avvicinandosi a Carrara lungo l'autostrada diritta e poco trafficata. Carlo
guidava rilassato, si erano diradate le tensioni e le inquietudini del giorno
prima, e gli sprazzi di divertimento offerti dalla conversazione con Elia gli
avevano fatto dimenticare la rabbia che lo accompagnava nei primi
chilometri. Era una bella domenica estiva, una giornata di sole non ancora
cocente ed afoso, come spesso ne offre il mese di luglio. Buttando
un'occhiata all'interno delle auto che lo superavano, Carlo guardava con
invidia quella gente che, dall'aspetto già balneare, rivelava la sua
indiscutibile direzione, sicuramente verso le belle spiagge della Versilia. E
invece lui... ma scacciò subito i pensieri tristi e ossessivi che si stavano di
nuovo insinuando nella sua mente. «Che importa! Tra poco sulle spiagge
ci sarò anch'io!» Lo disse ad alta voce con una buffa aria di sfida, che fece
di nuovo ridere l'amico.
«Di sicuro, nessuno te lo toglie un bel bagnetto. Ma per restare alle
questioni più attuali, Allora, questo caffè, manca tanto?»
Per fortuna c'era Elia.
La pioggia era stata intensa, per fortuna il temporale era finito velocemente
senza far danni. La luce estiva aveva ritrovato le sue forze, ma con una
nota di dolcezza che si rifletteva nell'aria e dava a quell'ora del tardo
pomeriggio un fascino inafferrabile. Vera sedeva sulla stretta panca vicino
all'ingresso e osservava il gelsomino fiorito carico d'acqua e le gocce lente
che cadevano con ritmo leggero dai suoi rami. L'insegna della piccola
pensione, illuminata fiocamente dal lampione pubblico che si era acceso
poco più avanti, era come il segnale di un avamposto inaspettato. Tutto
attorno, infatti, sul pendio sempre più scosceso che circondava le poche
case del paese, dominavano i boschi.
«Vera, hai controllato che sia tutto a posto, che non manchi nulla nelle
stanze?»
«Sì, mamma, ho fatto tutto.»
Maria, sua madre, doveva sempre accertarsi che ogni cosa nella loro
piccola pensione funzionasse perfettamente. Vera lo sapeva e la
assecondava.
Per Vera, quello era uno dei momenti tranquilli della giornata. I pochi
clienti non erano ancora rientrati – quasi sicuramente buona parte di loro
aveva trascorso l'intera giornata ad Assisi. La preparazione della cena era
da sempre un'incombenza che la madre aveva riservato per sé. Non che
non si fidasse di lasciare Vera in cucina, ma sicuramente la qualità della
tradizione umbra, che un cartello in evidenza all'ingresso sottolineava, era
pienamente garantita da quella donna energica e precisa di 64 anni. Lei e la
madre, a volte, riflettevano su quella scelta forse temeraria che era loro
parsa la più naturale: gestire la piccola pensione interamente da sole. Le
stanze erano poche, si trattava della vecchia casa di famiglia risistemata e
modernizzata.
Vera osservava la strada bagnata e rifletteva. Spesso, le capitava di
pensare, in momenti come questo, alle opportunità che si era lasciata alle
spalle scegliendo di vivere accanto alla madre Maria nel loro vecchio
borgo. Era una piccola evasione che concedeva a se stessa, immaginare
quale vita avrebbe potuto essere la sua se non avesse deciso cinque anni
prima, alla morte improvvisa del padre, di ritornare a Monastico,
immergendosi totalmente nel ritmo quotidiano della gestione della loro
piccola impresa. Il fratello era lontano, in Australia, non se ne curava. A
lei era parso un dovere indiscutibile, garantire alla madre il suo aiuto.
Sapeva bene che era pericoloso lasciarsi andare a simili considerazioni
sulle vite alternative, un esercizio inutile che aveva come unico risultato la
malinconia. Il sole che si intravedeva basso al bordo delle colline e la
leggerezza dell'aria rinfrescata dalla pioggia recente erano come una porta
aperta per i voli dell'immaginazione. Se non fossi qui, adesso...
Scacciò questi pensieri. Aveva imparato con gli anni ad essere molto
severa con se stessa e sapeva come vincere quelle tentazioni di evasione.
Era un ammonimento costante che si rivolgeva, una cautela di fronte a
quello che le sembrava il rischio peggiore: baloccarsi con la vita anziché
viverla. Lo vedeva come un'inaccettabile viltà di fronte a ciò che la vita
offre, bello o brutto che sia. Le promesse vanno mantenute e le scelte che
facciamo vanno rispettate fino in fondo, a qualunque costo. Come?
Bastava obbligarsi a scendere sulla terra, guardarsi intorno, accettarsi.
Appoggiando le mani sul legno della stretta panca usurato dal tempo, le
ritornò alla mente la figura esile e sottile del vecchio americano morto da
poco, che tutti in paese avevano sempre chiamato il Professore. Anche lui,
quando scendeva in paese, amava sedere come lei in quel momento,
guardando con tranquillo distacco la piazzetta di fronte, chiacchierando
volentieri con chi capitava. Il suo viso magro e la folta zazzera
precocemente imbiancata le incutevano, quando era bambina, un'istintiva
soggezione, nonostante la sua grande cordialità. Un senso di mistero si
accendeva nella sua immaginazione quando, senza farsi scorgere, fissava
le rughe profonde che gli scolpivano lo sguardo come un marinaio
consumato dal vento, bloccato sulla terra ferma. Un involontario sorriso le
illuminò il volto al ricordo delle tante volte in cui la madre partiva in
bicicletta, mugugnando tra sé parole incomprensibili, per portare al
Professore il pranzo preparato con cura. Capitava anche, un po' meno
spesso, che fosse lui a fermarsi a mangiare quel buon cibo che tanto
apprezzava nella loro pensione. Fin da piccola – le venne da pensare – si
era abituata alla vista quasi quotidiana di quello strano signore, così
diverso dagli altri che vivevano in paese. Avvertì in quel momento il senso
di una perdita, come se un piccolo vuoto si fosse aperto nel suo paesaggio
quotidiano. Ripensò a lui con affetto, rivivendo le tante volte in cui si era
fermato a giocare e scherzare con lei.
Si accorse solo ora dei due che, discutendo animatamente, si avvicinavano.
Il più piccolo indicava la pensione, l'altro scrollava la testa, poco convinto.
Gli venne da ridere, pensando a scene simili che ogni tanto si ripetevano.
Qualche viaggiatore sprovveduto capitava per caso in paese, girando per
quelle strade apparentemente tutte uguali che si intersecavano dietro il
monte. Non capiva bene dove si trovasse e con un sospiro di sollievo
otteneva informazioni per ritornare verso le zone più familiari e
conosciute.
Vera notò che il più piccolo di quei due stava guardando insistentemente
dalla sua parte. Indossava un vecchio paio di jeans e una giacchetta bianca
che gli stava un po' stretta. L'altro, più disinvolto, camminava e parlava in
continuazione voltandosi indietro. Una cosa che parve a Vera abbastanza
buffa, come certe scene nei film comici quando i protagonisti litigano e
discutono senza cavar nulla dal loro indaffararsi. Notò la faccia simpatica
di quello più alto, dominata da un imponente naso, il suo goffo modo di
agitarsi. L'altro, un uomo di una quarantina d'anni un po' appesantito,
sembrava non curarsi di ciò che gli stava dicendo l'amico e procedeva
titubante ed incerto verso di lei.
Quando furono abbastanza vicini, fu quello alto a parlare con tono gentile
e una voce bella e robusta.
«»Scusi signora, ci sono anche altri alberghi in questo paese?»
A Vera venne quasi da ridere a quella strana idea, ma rispose come se
quella fosse stata la domanda più normale del mondo.
«No, questo è l'unico. Anzi, chiamarlo albergo è un po' esagerato. E' solo
una piccola pensione familiare.»
Trionfante, Elia si rivolse allora all'amico. «Vedi? Non ci si poteva
sbagliare!»
Vera riusciva ancora a trattenere il riso.
«Cercate qualcuno?»
Fu Carlo a rispondere velocemente, imponendosi sulla foga dell'altro.
«Sì, è così. Purtroppo non sappiamo bene chi sia!»
Questa battuta involontaria fece ridere insieme Elia e Vera, anche Carlo si
unì subito a loro, consapevole dell'assurdità apparente di quello che aveva
appena detto.
«No, mi sono spiegato male» aggiunse ridendo. «Noi sappiamo che qui c'è
qualcuno che ci sta aspettando, ma non sappiamo chi esattamente sia.» E
commentò a bassa voce «Sì, la situazione è più o meno questa.»
Vera si offrì gentilmente. «Se mi dite di che cosa si tratta, forse vi potrei
aiutare!»
Elia intervenne subito con la sua solita sicurezza. «Dovremmo ritirare
qualcosa, non sappiamo bene, un baule o una cassa, che è stata messa da
parte per un editore di Torino. Già è stato predisposto tutto.»
Vera rise con ancora più gusto. «Ah, ma allora siete voi?»
«Gli incaricati del ritiro? Si siamo noi. E mi pare di capire che lei forse sa
chi dovremmo incontrare,» disse Carlo. Si sentiva rassicurato. Forse ce
l'avevano fatta.
Vera rise di nuovo. «Ma certo che la conosco, quella persona! Sono io!»
Carlo e Elia si guardarono, sentendosi un po' idioti.
Fu di nuovo Elia a vincere per primo quella spiacevole sensazione
battendo una gran manata sulle spalle dell'amico. «Bingo!»
Anche Carlo sorrise all'idea del facile successo della loro impresa e si
impegnò ad esporre nel modo più chiaro e sintetico possibile il compito
che gli era stato assegnato.
Vera lo ascoltò con attenzione, poi spiegò. «Il signor Volpi mi ha lasciato
detto qualche giorno fa che presto sarebbe passato qualcuno con questo
incarico. Anche lui non aveva saputo dire chi e quando sarebbe passato,
ma sapendo che la pensione è sempre aperta non se ne era fatto un
problema.»
«Che dice? Allora possiamo andare?» Intervenne un po' troppo
sbrigativamente Carlo, che si vedeva sulla strada del ritorno e da tempo
ormai sognava la spiaggia del giorno dopo.
Forse Vera già aveva pensato a questa possibilità. Inutile fare le cose in
fretta. Si era fatto tardi e, soprattutto, due potenziali clienti inaspettati
potevano far comodo alla situazione un po' incerta della pensione
Vallechiara, anche solo per una notte. Con tono tranquillo espose la
situazione. «E' meglio andare domani. La casa dello scrittore, noi lo
chiamavamo il Professore, è un po' lontana e la stradina per arrivarci è
parecchio disagevole, meglio non avventurarci a quest'ora. Perché non vi
fermate qui? Abbiamo una bella stanza libera. Andremo con comodo
domani mattina.»
Elia non lasciò a Carlo il tempo di rispondere. «Benissimo, così ci si riposa
e si riparte tranquilli! Che ne dici Carlo?»
La risposta era naturalmente scontata. Carlo si consolò all'idea dell'ottima
cena che avrebbero potuto mangiare. Già si spandeva nell'aria un
profumino delizioso.
- IV -
E' il 24 maggio 1971, un lunedì. E' passato un anno dal suo arrivo. Seduto
sul piccolo patio erboso di fronte alla casa, lui vede Maria sulla sua
vecchia bicicletta avvicinarsi sulla breve salita. Forse non oserebbe
ammetterlo con se stesso, ma da quasi un'ora sta lì seduto sulla comoda
poltrona di vimini, con la splendida vista delle colline verdeggianti tutto
intorno, in paziente attesa dell'arrivo di lei, pregustando il piacere del loro
veloce incontro come uno dei momenti più belli della giornata.
Lei alza gli occhi e lo vede, lassù in cima, tutta impegnata sui pedali,
arrancando a zig-zag sulla strada dissestata; ancora non è vicina, ma già gli
sorride. Anche lei forse non lo ammetterebbe mai, nemmeno con se stessa,
ma desidera incontrarlo, stare un poco con lui, parlargli e ascoltarlo, così
diverso da suo marito e da tutti gli altri, così solo.
Nella luce tersa di mezzogiorno, sotto un cielo azzurro e un sole già caldo
che preannuncia l'estate, lei ha abbandonato il viottolo più ampio che con
poca strada porterebbe al castelletto medievale mezzo diroccato in mezzo
al bosco, e prosegue su quello più piccolo e stretto che sale direttamente
verso la casa dello scrittore. Affrontando l'ampia curva del tornante finale,
fa un cenno con la mano quando è ormai vicina. Anche lui la saluta con il
braccio levato e la attende in piedi sorridendo.
«Buon anniversario!» lei grida con la sua bella voce, quasi cantando,
quando è ormai vicina. Lui resta interdetto per pochi attimi, poi ricorda.
Gli ritorna in mente quel giorno, terso e pieno di sole come oggi, la sua
inquietudine per la brusca giravolta che aveva impresso alla vita, i discorsi
di Philip pieni di sottintesi e anche lo spaesamento che aveva provato nel
ritrovarsi solo in quel luogo sconosciuto. Poi, il caso aveva posto sul suo
cammino Maria e con lei tutto era cambiato. Il tempo aveva iniziato a
volare.
«Ecco qui, ancora caldo, il tuo buon pranzetto! Ti ho portato qualcosa da
leccarti i baffi, anzi la barba!» Maria lo guarda ridendo. Il suo sorriso è
radioso, una luce gioiosa attraversa i suoi occhi.
«Alle tue cose buone mi dedicherò dopo con la giusta attenzione! Ma
adesso stiamo un po' insieme. Mi sei mancata.»
«Da ieri?» Lei ride ancora, come in un gioco scherzoso divenuto abituale
tra loro.
«Sempre!» Lui risponde con una posa fintamente altera e le cinge le spalle
con un braccio, incurante degli occhi indiscreti che potrebbero esserci
attorno. Lei è abituata da tempo a quel gesto affettuoso.
Nei mesi precedenti Thomas si è accordato con Primo, suo marito. Maria
provvede a portargli un buon pranzo cinque volte la settimana. Thomas –
sempre intento a fare mille cose, come Robinson sulla sua isola – non ama
cucinare e si accontenta delle poche pietanze fredde e frugali che conserva
a volte per giorni nel suo frigorifero perennemente vuoto. Gli piace
quell'aria quasi eremitica che ha improntato la sua vita in Umbria sin
dall'inizio.
«Ma come farai a vivere solitario in quel posto?» Glielo hanno chiesto
quasi tutti gli amici americani nelle costose telefonate transcontinentali,
immaginando luoghi sperduti e impervi. Ed ogni volta lui li ha rassicurati:
«Tranquilli, non sono un anacoreta in mezzo al deserto!» In realtà, la vita
solitaria lo affascina da sempre. Già da ragazzo leggeva avidamente il
racconto di Thoreau al lago di Walden. Era per lui un personaggio
esemplare, con il quale immedesimarsi, l'espressione più tangibile di
un'enorme forza d'animo. Chi vive completamente solo non deve rendere
conto a nessuno di se stesso, se non a Dio, ama ripetere. E questo, secondo
Thomas McWine, è il segno più chiaro della vera libertà, esattamente la
cosa che più aveva desiderato e che più gli era mancata.
Thomas conosce bene le leggende che per anni hanno circolato sul suo
conto, le domande curiose sulla sua vita alimentate dai giornali.
Si era divertito qualche volta a seguire ed annotare le illazioni più
strampalate e ogni tanto gli era passata per la testa la tentazione di
costruirne lui stesso di ancora più fantasiose.
Meglio questa vita, questo luogo, questa gente – pensa ora afferrando la
borsa che Maria gli sta porgendo.
Maria lo guarda perplessa, vede come una nube scura nei suoi occhi, lo
sguardo farsi improvvisamente severo. Teme che sia rivolto a lei, come se
qualcosa non lo soddisfacesse. «Va tutto bene?», chiede. Lui ripete, e
questa volta con un sorriso: «Sempre». Come vinto da un impulso
irrefrenabile la bacia. Lei lo segue in casa.
– 5-
“Esisto ancora? Non lo so, non so chi sono. Sento che qualcosa ubbidisce
alla mia volontà. Ho un corpo. Sono un corpo? C'è qualcosa intorno,
posso vedere, ho uno sguardo, mi appartiene. Ci sono altri accanto a me.
Altri corpi come il mio. Anche loro immobili, bloccati. Anche loro possono
solo guardare. Vedo che sono stato visto, i nostri sguardi si incontrano,
solo gli occhi si muovono, nessun altro movimento è possibile. Anche loro
osservano spaventati tutto intorno. Siamo vivi. Almeno questo. Mi sforzo,
provo a parlare. Ci riesco.”
E' l' 11 marzo 1972, un sabato. E' una giornata fredda e ventosa, con
intermittenti scrosci di pioggia, un tempo adatto a restare in casa al caldo
della stufa. Lo pensa McWine raccogliendo a manciate dagli scaffali i
tantissimi fogli di appunti che sparge disordinatamente sulla tavola. E' ciò
che da tempo aveva intenzione di fare ed ha colto l'invito di quella grigia
giornata per procedere in questo compito che un poco lo angoscia. E'
sempre difficile vedere se stessi rispecchiati nei propri fallimenti. Come
aveva letto da qualche parte, un dente marcio lo si può estrarre e tutto
finisce lì. Ma con le illusioni è diverso, perché anche da morte continuano
a marcire e puzzare dentro di noi. Impossibile sfuggirne il lezzo e il
sapore. E' esattamente ciò che avverte in quel momento, di fronte a quel
vecchio scaffale. Quei fogli sono i testimoni silenziosi del suo passato, di
tanti errori che ora vorrebbe dimenticare. Perché li ho portati con me? Si
chiede. E mormora con un sorriso rassegnato: «Già, è il mio cimitero degli
elefanti. I loro fantasmi mi seguiranno ovunque vada.» Il suo sguardo è
perso tra i ricordi, come preso in un incantesimo che immobilizza lo
scorrere del tempo.
Qualcuno batte alla porta, poi una voce affannata, che McWine conosce
bene, dice: «Sono io.» . McWine, come se si risvegliasse in quel momento,
è sorpreso, incerto, non prevedeva la sua visita.
Maria è stremata, deve aver salito tutta la strada quasi di corsa. «Calmati
un poco. Poi mi dirai cosa ti ha spinto a venire qui all'improvviso»
Maria tronca le sue ultime futili parole con un'unica frase:«Thomas,
aspetto un figlio. Ne sono sicura.». Lui la guarda perplesso, incerto, come
se non avesse capito, come se il fiume su cui stava tranquillamente
navigando si fosse avvicinato senza preavviso ad una cascata impetuosa.
Maria resta in silenzio, aspetta che lui dica qualcosa.
Thomas appare confuso, come se fosse costretto a vestire un abito che non
gli si addice, che lo imbarazza, obbligandolo a recitare un ruolo
imprevedibile che mai prima di allora aveva vissuto.
«E allora?» Le sue parole quasi non si sentono.
Maria lo guarda esterefatta.
«Solo questo sai dirmi?»
Con un brusco gesto della mano Thomas si stropiccia gli occhi, come se
cercasse disperatamente di svegliarsi.
«Perdona la mia stupidità. E' la sorpresa. Volevo dirti... che cosa
potremmo fare?»
Un lampo beffardo attraversa gli occhi di lei. La sua voce si incrina.
«Potremmo?»
Nel mentre si è fatta avanti, gli è ormai vicina.
«Riguarda solo me. Non sono venuta per chiederti qualcosa, ma solo per
dirtelo, farlo sapere a te per primo.»
Thomas nota lo sforzo con cui lei sta cercando di essere chiara, tranquilla,
anche se le parole le escono con fatica. Prova un istintivo moto di
protezione. Protende il braccio per cingerle le spalle, ma lei lo ferma.
«No, tu non c'entri.»
Si siede, con lo sguardo fisso a terra, le sue parole sono appena mormorate.
«Ci sono i giorni ordinari e i giorni di festa. Tu sei stato la mia festa, che
tengo stretta dentro di me, solo per me stessa.» Lo guarda teneramente,
riflette, poi lentamente continua.
«Ma in qualunque giorno nasca un bambino, è sempre lui, non importa da
dove venga. E' della madre, è lei che lo mette al mondo con la sua carne.
Per questo non provo sensi di colpa.»
Maria ora è serena, contenta di quello che ha saputo afferrare con le sue
parole nel mare confuso che si agita dentro di lei. I suoi occhi ritornano
luminosi. Continua con dolcezza.
«Sì, non provo sensi di colpa. Non so se il bimbo che sta arrivando sia tuo
o di Primo. Il caso ha deciso, o la Provvidenza, non so. Primo ci tiene
tanto, già temeva che non avremmo avuto figli, perché il tempo passava.
Voglio un erede, diceva, maschio o femmina che sia è lo stesso. Sarà
contento, adesso, quando glielo dirò.»
McWine l'ha ascoltata in silenzio, come se la voce del destino avesse
annunciato attraverso quelle parole la sua sentenza. Che cosa farà, ora?
Continua a chiederselo e non sa rispondere.
Impacciato, le ha afferrato le mani che ora stringe in una stretta quasi
dolorosa. Poi con fatica la sua voce finalmente riesce a dire ciò che sta
pensando dal primo momento in cui lei ha parlato.
«Potrò vederlo?»
Maria lo guarda sorridendo. «Certo, quando vorrai. Lui crescerà in questi
luoghi, tra queste persone. E se tu ci sarai ancora...»
Thomas la interrompe con foga.
«Naturalmente! Resterò qui. Ora ho una ragione in più per non andarmene
mai.»
Si abbracciano come due naufraghi appena giunti sulla riva.
E' quasi sera. Dal momento in cui Maria lo ha salutato, molte ore prima,
Thomas McWine non è più riuscito a far nulla.
I fogli che appartengono al suo passato, che con diligenza al mattino
aveva iniziato a risistemare, giacciono ancora disordinatamente sulla
tavola dove erano stati abbandonati. Thomas non ha pranzato. Grosse nubi
grigie si muovono veloci nel vento di tramontana ancora teso e nella sua
mente. Con il suo vecchio giaccone addosso, Thomas si è seduto sulla
poltrona di vimini ormai logora, fuori sull'erba ancora bagnata, e ha
passato il tempo a riflettere.
Con calma ha esaminato la situazione, le alternative possibili, le scelte più
ragionevoli, ha elaborato piani e proposte. Tutto questo gli ha portato
perlomeno un po' di tranquillità, ciò di cui più sentiva il bisogno, ma non
gli ha dato l'unica risposta che servirebbe in quel momento: che cosa fare?
Il sole è ormai tramontato da un pezzo, l'aria si fa gelida, ma è come se
Thomas non avvertisse tutto questo. E' come se anche i suoi pensieri
fossero raggelati e si insinuasse inavvertitamente in lui il soffio
agghiacciato proveniente da anni lontani. Rivede in un lampo se stesso,
giovane, sicuro di sé, e poi quello che invece è stato. «Sì, io sono l'uomo
della rinuncia, la mia vita ne è tappezzata.» La voce, nello scandire queste
parole gli si incrina. «Non ho mai saputo decidere, sono sempre fuggito.»
Ride beffardo. Si afferra il volto, sconvolto. La solitudine ora lo opprime.
Si alza, chiude la porta di casa e si avvia verso il paese.
Scende lungo il ripido viottolo illuminando la strada con la sua piccola
lampada che disegna un cerchio nelle tenebre fitte e senza luna. In alto le
stelle brillano terse nel cielo di nuovo sereno.
Alla fioca luce dei pochi lampioni vede sulla porta della chiesa ancora
aperta il vecchio parroco sempre più curvo. Era stata la prima persona che
aveva incontrato, ricorda. Lo saluta da lontano.
Come seguendo una traccia invisibile, giunge di fronte al solo luogo in cui
desidera trovarsi in quel momento. Voci concitate ed allegre giungono
attutite attraverso la porta. C'è un'aria di festa diffusa nella sala calda ed
accogliente. Ai tavoli i numerosi avventori ridono di gusto. Bottiglie di
vino circolano tra di loro.
«Buona sera, professore! Che cosa posso portarle? Un bel rosso
dell'Umbria? Oggi si festeggia, offre la casa!»
Primo è quasi irriconoscibile, non sta in sé dalla gioia. E' un uomo non
molto alto, con grossi baffi neri che quasi nascondono la bocca, in genere
piuttosto taciturno, come tanti altri in paese. Ora, invece, si muove
frenetico, spostandosi tra i tavoli, senza mai smettere di parlare. E' quasi
palpabile la schietta cordialità che cerca con piacere di comunicare a tutta
la sala. Qualcuno urla: «Alla salute del neo-papà!» E un'altra voce gli
risponde: «Attenzione, che lui manco ci crede ancora!» seguita dalla
rombante risata di tutti, che alzano i bicchieri brindando insieme.
McWine gira lo sguardo intorno. Maria non c'è.
Maria si è isolata in cucina con il pretesto del notevole impegno di quella
serata speciale. Ascolta, attutite, le risate e le grida incomprensibili. Gira
con foga la pietanza che sta preparando, il suo sguardo è fisso, incerto,
perduto tra i tanti pensieri preoccupati che si muovono dentro di lei. Sul
suo viso cereo tutto questo si disegna nella fitta rete di rughe che increspa
la sua fronte. Per questo ha preferito rimanere sola, non vuole testimoni in
quell'ora difficile.
Sente Primo nella sala che incita gli altri a bere con lui. Riconosce
improvvisamente una voce per lei inconfondibile. Si accosta alla porta per
ascoltare meglio e sente Thomas complimentarsi con il marito. «Grazie
Primo, un ottimo vino. Alla sua salute, sono contento per lei.»
Non le sembra possibile: perché è venuto? L'ansia incomincia a salirle
dentro. Con una zuppiera calda in mano – un utile pretesto – esce in sala
e lentamente si avvicina alle spalle dell'uomo biondo che è entrato nel suo
cuore.
«Ecco la minestra di verdure che aveva chiesto, l'ho fatta come piace a
lei.»
E bisbigliando, senza attendere oltre, aggiunge: «Perché sei venuto?»
La risposta di lui è già nel sorriso con cui la guarda. Primo si è fermato e li
sta osservando. Thomas mantiene la calma e riesce a rispondere a voce alta
nel modo più scontato. «Grazie signora, davvero gentile. Le sue minestre
sono sempre buonissime. Me la gusterò fino in fondo.» Ma in un soffio
bisbiglia la sua vera risposta: «Non sono riuscito a fare a meno di
rivederti.» Maria resta un attimo incerta, come sospesa nel vuoto, il viso
mostra solo a lui un subitaneo turbamento nei suoi occhi. Ma sono pochi
attimi, subito si ricompone.
«La ringrazio, professore, il piacere è tutto mio nel vederla contento. Buon
appetito.»
Thomas la segue con lo sguardo mentre si allontana. Primo è di nuovo
indaffarato. E' bastata questa piccola scena conclusa senza drammi a far
capire a Thomas la reale situazione in cui si trovano. Il cuore semplice di
Maria non vuole inutili sconvolgimenti, lacerazioni romantiche fatte in
nome di un amore folle. La sua vita è questa, – lui pensa – e vuole
conservarla.
Bene – si dice – saprò adattarmi anche a questo. Almeno per una volta
non fuggirò. Alza il bicchiere ancora colmo e brinda con tutti gli altri.
-7-
Carlo alzò il capo e si guardo attorno. Con un po' di fatica era riuscito a
tradurre l'intera pagina. Con qualche piccola licenza, ammetteva ora con se
stesso.
Corrugando la fronte, contemplò con aria perplessa il risultato dei suoi
sforzi. Aveva l'impressione che quello che aveva davanti non potesse
essere l'opera di uno scrittore affermato. Gli sembrava piuttosto un
tentativo approssimativo di costruire una storia sulla falsariga di tanti
romanzi fantascientifici ed apocalittici che circolavano in giro.
Pensò ai tre personaggi con quei buffi nomi. Dietro l'indubbia tensione
drammatica del loro dialogo, gli parevano delineati in modo sbrigativo e
poco credibile. “Forse McWine era un po' fuori allenamento.” pensò con
un sorriso. I suoi occhi caddero su qualcosa al fondo del foglio, alcune
parole un tantino sbiadite scritte a matita. Well, but no tears! Riconobbe
con assoluta certezza la tipica inclinazione della grafia di Thomas McWine
che aveva già visto su tanti altri fogli contenuti nella scatola. Battendo il
pugno sul tavolo esclamò con un moto di gioia: «Ecco la prova!» Quelle
poche parole ridavano forza alla sua traballante sicurezza. Ora tutto gli
sembrava chiaro. Thomas McWine aveva probabilmente scritto The
Notebooks of Waste in tempi diversi, ritornandoci sopra con quelle
annotazioni in vista di una futura pubblicazione.
In quel momento lo sgradevole suono del cellulare interruppe le sue
riflessioni. Stizzito, Carlo controllò sul display chi mai lo stesse
chiamando a quell'ora impossibile. Era Silvia.
«Scusa, ti ho svegliato?» esordì senza preamboli con i suoi soliti modi
spicci.
Contento di sentire quella voce amica che spezzava la sua notturna
solitudine, rispose scherzoso con tono assonnato: «Sì, come tutti i giorni
ero già a letto dalle nove.»
«Accidenti! Scusa.» bisbigliò l'altra con voce titubante.
Carlo rise di gusto e subito chiarì con la sua voce normale: «Ma no, è solo
uno scherzo scemo che faccio ogni tanto. Stavo ancora lavorando sul
dattiloscritto dello scrittore americano cercando di capirci qualcosa.
Dimmi tutto.»
«E' che non ho resistito...» disse rapidamente Silvia eccitata, subito
interrompendosi per parecchi secondi.
Carlo guardò il suo cellulare. «Pronto? Ci sei ancora?»
«Ma sì, sto cercando di mettere in ordine le cose che volevo subito dirti»
rispose sbrigativamente. «Andiamo subito al sodo. Tu navighi sul Web?»
«No, non molto spesso. Uso il mio portatile prevalentemente per lavoro.»
«E quindi suppongo che non sai niente?»
«Di cosa?»
«Ecco, se tu lo usassi come tutti un po' più spesso ti saresti di certo
preoccupato di fare una banale ricerca su Google e sui social networks
inserendo il nome dello scrittore. E' quello che molto semplicemente ho
fatto io...»
«E che cosa hai trovato di tanto sconvolgente?» scandì Carlo con un filo di
scetticismo.
«E' esplosa una vera e propria mania. In America se ne parla tantissimo.
Lo chiamano in genere “Il mistero McWine”. Non ti dico la quantità di
supposizioni che sono state fatte riguardo alla sua “fuga in Italia”, come
viene chiamata.»
Carlo si bloccò interdetto. Ricordava di aver dato un'occhiata alla scheda
biografica dello scrittore su Wikipedia, giusto per rendersi conto di chi
fosse stato. Era quindi a conoscenza dell'essenziale: l'unico libro
pubblicato da McWine, la sua presenza pubblica negli anni '60 e poi
l'improvviso trasferimento in Italia. Fine. Più o meno le cose che gli aveva
detto Renato a luglio nella sua demenziale telefonata.
Sì diede involontariamente dell'idiota.
Sì, la cosa che aveva fatto Silvia era la più ovvia nell'era di Internet. E lui
non ci aveva neppure pensato. Un pensiero gli balenò in mente. Guardò
con occhi nuovi il dattiloscritto che aveva davanti come se fosse una
bomba pronta ad esplodere. “Chissà se Renato se lo aspettava!” pensò.
Avevano estratto il jolly e la partita era tutta nello loro mani.
«Caspita. Vuol dire che quello che che ho qui davanti a me è ancora più
grosso di quanto pensassi!» esclamò sottolineando volutamente con ironia
le ultime parole.
«Bé, direi proprio di sì.» osservò Silvia senza dar peso alla battuta ormai
stantia.
«Mi raccomando, Carlo, vedi di fare tutto per bene.» Silvia non
dimenticava mai di elargire i suoi consigli.
«E soprattutto non parlarne troppo in giro.» Senza nominarlo, entrambe
pensarono all'antipatico collega e alla loro superficialità nel parlare delle
imprese estive di Carlo durante il collegio docenti.
«Ciao. Ci vediamo domani a scuola. Ne riparliamo» chiuse in fretta Silvia.
«Buona notte...» rispose Carlo con uno sbadiglio.
- VIII -
E' il giorno di Natale del 1972. E' un lunedì nuvoloso che minaccia altra
neve. Gelida soffia la tramontana. L'inverno è stato precoce; già dalla fine
di ottobre un manto bianco ha avvolto le colline. Monastico è in festa.
Uomini, donne e bambini, come ogni Natale, sono in fermento per
preparare la tradizionale processione di angeli e pastori. L'intero paese è
mobilitato da giorni nei preparativi. Tutti vi partecipano con impegno ed
allegria, chi come comparsa e chi, con ruoli ambitissimi, come
personaggio principale. Le vie sono gremite di gente. Negli ultimi anni, la
fama si è diffusa e i turisti non mancano.
E' quasi mezzogiorno, la messa solenne è terminata da poco e la campana
suona a festa per annunciare l'inizio della sacra rappresentazione. La folla
si assiepa lungo la strada che verrà percorsa, attende con curiosità il
passaggio del corteo. Angeli e pastori avanzano compatti verso la
capanna costruita al margine del paese. Intonano canti accompagnati da
trombe e tamburi. Qualcuno, di soppiatto, saluta amici e parenti.
Il lungo corteo procede lentamente; in testa c'è il vecchio parroco un po'
claudicante, che avanza solennemente. Su un cuscino rosso che porta tra
le mani è posta una piccola veste bianca ricamata d'oro. Accanto a lui,
piccoli angeli impersonati dai bambini della scuola elementare spargono
tutto intorno petali di fiori secchi.
Thomas McWine si è già avvicinato al punto d'arrivo e attende. Canti e
suoni giungono attutiti e lontani. La Sacra famiglia non ha ancora preso
posto nel piccolo locale, accanto al bue e all'asinello.
Thomas, in piedi poco distante dalla capanna, si guarda intorno. Ha sempre
assistito volentieri a questa rappresentazione, sin da quando era giunto in
paese tre anni prima.
Il cattolicesimo – riflette sedendosi più comodamente – non è stato solo
culto dell'autorità e superstizione; c'è anche questo, ed è bello: la capacità
di rendere tangibile il mistero, ciò che più è venuto a mancare nell'America
calvinista figlia dei Padri Pellegrini. Abbiamo perso il calore della vita –
pensa – la capacità di trasformare gli astratti concetti della dottrina in
immagini che arrivano al cuore.
La processione si sta lentamente approssimando, cresce il fermento intorno
alla piccola costruzione. Rapidamente alcuni si avvicinano alla mangiatoia
fatta di poche assi e vi sistemano stoffe spesse e calde. Una donna che ha
atteso poco discosta si avvicina con un bambino. Thomas, con
commozione, riconosce immediatamente Maria con suo figlio nato ad
ottobre. L'ansia si impadronisce di lui, lo rende inquieto. Le sue mani si
contraggono. Quel bambino forse è mio figlio, – pensa – Maria non
dovrebbe portarlo in giro con questo gelo.
Maria culla il bambino tra le braccia, rimboccandogli uno scialle di lana
intorno al viso, gli bisbiglia qualcosa. Thomas continua ad osservarla con
attenzione. Immersa nella contemplazione del minuscolo viso Maria non si
è ancora accorta della sua presenza. Thomas nota una donna dai capelli
rossi che ha visto qualche volta in giro per il paese avvicinarsi rapidamente
a Maria. Sembra adirata con lei, le parla con foga nel dialetto locale
agitando le mani., forse gli rinfaccia qualcosa. Thomas non la capisce, ma
vede Maria farsi pallida. Sorpresa ed incerta sfugge lo sguardo aggressivo
dell'altra, poi in pochi istanti si tranquillizza e di nuovo sicura di sé le
domanda: «Perchè mi dice questo?» La donna non risponde, fissa Maria
un'ultima volta, poi si allontana.
Istintivamente Thomas prova la tentazione di intervenire. Ma con quale
diritto potrebbe intromettersi, chiedere conto di ciò che è accaduto?
Qualcuno discute la scena con i vicini.
«Quella donna ha ragione! Probabilmente si è lamentata per il modo in cui
quella madre sta esponendo il suo bambino a questo freddo tremendo!»
Thomas sente altri che assentono.
«Dovrebbero togliere il figlio a chi si comporta così!»
Qualcuno lo dice con forza proprio accanto a lui con tono sarcastico e
sprezzante.
Thomas si volta di scatto. Vede un quarantenne con una macchina
fotografica al collo , piccolo e tarchiato; tiene in mano un taccuino su cui
ha annotato qualcosa. Nella foga del momento Thomas non riesce ad
esprimersi come vorrebbe. Scandisce le parole.
«Non è un' idiota! Io la conosco bene!»
L'uomo che ha parlato lo guarda ironico. «Non ho detto questo, scusi se
le ho mancato di rispetto. Ma ha visto anche lei che cosa è successo»
Thomas capisce di avere esagerato. Effettivamente la stessa idea circolava
nella sua mente appena un attimo prima. Il vicino continua a guardarlo con
uno sguardo bonario e comprensivo. Quasi sicuramente è un italiano del
sud, pensa Thomas. Con il volto sorridente e additando se stesso risponde:
«Nessun problema. Avevo pensato anch'io la stessa cosa.» Ridono
insieme.
«Lei è americano, vero? Ho orecchio per le lingue.»
«Certo, ma continui pure a parlarmi in italiano. Mia madre era italiana,
questa è un po' la mia seconda patria.»
«Complimenti, Parla bene l'italiano!»
Thomas continua a sorridere e indicando il taccuino chiede: «E' un
giornalista?»
L'altro ride di nuovo. «Più o meno!»
Thomas lo guarda divertito. Il caso gli ha fatto incontrare una persona
simpatica. «In che senso più o meno?»
Lo sconosciuto finge di riflettere. «Vede, c'è effettivamente qualcosa in
comune tra quello che faccio io e un giornalista: tutti e due diciamo di
amare tanto la verità e vogliamo solo i fatti, però non resistiamo alla
tentazione di romanzare un poco la realtà.» Ridono di nuovo.
«Di che cosa si occupa allora?»
«Sono un antropologo, insegno all'Università di Napoli, quando non sono
in giro per il mondo a studiare le bizzarrie delle società umane. Cerco di
capire gli usi e i costumi dei popoli, soprattutto la loro mentalità. Scusi,
non mi sono ancora presentato. Alfonso Di Giacomo.»
«Onorato, mi chiamo Thomas McWine. E, mi dica, crede di esserci
riuscito, a capire tutte quelle cose difficili che ha elencato?».
Alfonso assume scherzosamente la posa del professore, e dopo un attimo
di sospensione sentenzia ridendo: «Mi pare proprio di no!»
Thomas continua a guardarlo interessato come se si aspettasse qualcosa
di più di una semplice battuta. L'altro nota questo e continua: «Vede,
secondo me non è ancora nato l'uomo capace di capire veramente se stesso
e gli altri. Gli uomini – non so se lei è d'accordo – sono troppo strani.
Credono facilmente cose assurde, superstiziose. Ma soprattutto gli uomini
hanno tanta, tantissima paura. La paura è la regina delle nostre società .»
Alfonso dice queste ultime parole con aria rassegnata come se rivivesse
dentro di sé preoccupazioni e dolori del passato. Non sta più scherzando.
Thomas percepisce questo velo di amarezza e ne è catturato. Sono
riflessioni che fa spesso anche lui, che lo hanno sempre affascinato.
Non segue più con lo sguardo il corteo sempre più vicino, si è anche
dimenticato per qualche istante di Maria, che poco prima ha deposto il suo
piccolo nella mangiatoia. Intorno crescono la concitazione e il rumore.
Una chiacchierata casuale iniziata per passare il tempo dell'attesa si sta
trasformando in una vera discussione. Entrambi avvertono istintivamente
la loro intesa. Ognuno dei due percepisce nell'altro la capacità di capirlo.
Thomas ne gioisce, come se ritrovasse in quel momento un cibo che gli era
molto mancato. La vita tranquilla e solitaria nel piccolo borgo non offre
spesso simili occasioni.
«Vede – riprende lo studioso, indicando Maria – quella donna laggiù si
guarderebbe bene nella sua vita quotidiana dal fare quello che sta facendo.
Ma nella dimensione del sacro tutto cambia, siamo inconsapevolmente
soggiogati. Ho visto in Nuova Guinea rituali orrendi fatti da persone che
un attimo dopo salivano in macchina o fumavano una sigaretta come se
niente fosse.»
Thomas lo ferma, ha lui in mente la conclusione giusta. La chiave di tutto
è in quella parola.
«Inconsapevolmente lei ha detto. E forse siamo anche inconsapevoli di
essere inconsapevoli!» L'antropologo fa un segno d'assenso con la testa e
lo continua a guardare con il suo sguardo ammiccante. Poi domanda, con
finta ingenuità: «Ma inconsapevoli di che cosa?»
«Della molla segreta che ci spinge a fare, pensare, volere, credere. E in
tutti scatta allo stesso modo.»
Alfonso lo interrompe. «Anche in questo momento, in questo piccolo
paese, accade esattamente quello che lei ha detto.» Guarda Maria che è
sempre vicina alla capanna, poi gira gli occhi tutto intorno.«E' come se li
vedessi all'opera nelle menti di queste persone, i miti della nascita e della
morte, le credenze ancestrali tramandate da generazioni.»
Notando lo sguardo perplesso di Thomas, si interrompe per un attimo, poi
chiede: «La sto annoiando? Mi scusi, faccio troppo il professore. Lo studio
dei miti è il mio pane quotidiano. Lei se ne è mai interessato?»
Thomas riflette un attimo. E' un discorso impegnativo, non è nemmeno
sicuro di aver capito bene quello che l'altro ha detto. Ma sente che è un
problema che lo coinvolge direttamente, qualcosa che tocca da vicino il
centro profondo della sua vita. Il frastuono intorno a loro continua a
crescere. Autenticamente interessato, Alfonso attende pazientemente una
risposta. Thomas cerca allora di spiegare ciò che ha in mente
«Io amo le storie. Ho sempre amato sentirle e raccontarle.»
Si interrompe per un secondo, gli occhi gli si contraggono, come se stesse
cercando di fissare meglio dentro di sé il senso di quest'ultima
osservazione. Con un lampo ironico nello sguardo riprende, alzando la
voce nello sforzo di farsi sentire.
« Cosa sono i miti? Sono storie bellissime! Non possiamo farne a meno.
Circolano ancora adesso e non ce ne accorgiamo. Come se fossero parte
dell'aria che respiriamo. Eppure sicuramente ci sono stati alcuni
tantissimo tempo fa che hanno raccontato per primi ognuna di queste
storie. Ma è importante il loro nome, la fama ? Non basta la potenza di
quello che hanno creato? »
«Bella domanda!» risponde Alfonso alzando anche lui la voce. «Lei che ne
pensa?» Il suo tono oscilla quasi inavvertitamente tra la serietà e lo
scherzo.
Anche Thomas ci prende gusto, sta al gioco. «Succede che gli uomini non
capiscono qualcosa. Bene, allora cosa fanno? E' semplice: si mettono a
raccontare. Per questo, in qualunque posto e in qualunque tempo andiamo
– diecimila, mille cento, dieci, due anni fa, è lo stesso – c'è sempre
qualcuno che racconta. Non è importante il suo nome! E' indispensabile
che ci sia sempre qualcuno che sappia raccontare! Per questo i narratori
sono indispensabili!»
La voce di Thomas quasi non si sente più, ma l'altro ha capito. La sua
grossa testa si muove con un rapido segno di assenso.
Alfonso guarda l'orologio. C'è qualche impegno che lo attende, dovrà
affrettarsi. Ma la persona con cui sta conversando ormai da parecchio
tempo lo incuriosisce. Gli viene spontanea un'ultima domanda.
«Mi pare di capire che pure lei allora è un narratore. Uno scrittore?»
Thomas ha avvicinato l'orecchio per sentire meglio. Con un moto di
sorpresa si drizza in piedi di fronte ad Alfonso ed esclama: «Come si dice
in Italia, questo è un bel punto interrogativo! Lo sono stato, questa è
l'unica cosa sicura. Adesso: chissà! Da parecchio tempo la fonte
dell'ispirazione, come si dice, si è asciugata.» Ride e con un tono
fintamente esagerato aggiunge: «Cerco un'altra fonte in mezzo al deserto!»
«E' la cosa più difficile. Non creda, capita spesso anche a noi studiosi. Non
siamo poi così diversi.» Alfonso è ormai vicinissimo e accompagna le sue
ultime parole con una bonaria manata sulle spalle. «Bisogna crederci, mai
rinunciare!»
La riconoscenza accende lo sguardo di Thomas. «Sì, forse qualcosa si sta
muovendo. Faccio tesoro delle mie esperienze difficili e provo a
trasformarle in un racconto. Ci sto provando.»
«Allora, tra poco la vedremo nelle vetrine delle librerie!» commenta
Alfonso scherzosamente.
«No, non credo proprio. Sono esperienze che ancora si muovono, non è
facile fissarle su una pagina.»
«Auguri!»
Offre la sua mano a McWine che la stringe con calore.
La festa è ormai al culmine. Il parroco lentamente si sta avvicinando alla
capanna.
Alfonso con un espressione buffa finge di guardarsi intorno e dice: «Ma
che cosa diavolo stiamo facendo? Ci mettiamo a filosofeggiare qui al
freddo, dimenticandoci del motivo per cui siamo venuti?» . Thomas gli
stringe di nuovo la mano.«E' stato davvero un piacere parlare con lei.»
L'altro si allontana verso la parte più alta del paese.
In quel momento anche la folla che seguiva gli angeli e i pastori sta
arrivando sul piccolo spiazzo di fronte alla capanna. Le musiche si
fermano, continua salmodiante la preghiera. Poco prima il bimbo è stato
circondato da un velo dorato e immerso tra coperte e tessuti sgargianti.
Agita le braccia paffute e si guarda tutto intorno. Il parroco gli si avvicina
lentamente, depone su di lui la ricca veste e bacia i suoi piccoli piedi.
Subito le trombe suonano di nuovo all'unisono sempre più forte, rulli di
tamburo accompagnano il corteo che si allontana. Anche la folla a poco a
poco si dirada. Thomas, come preso dai suoi pensieri, si è seduto all'angolo
della via e senza avvedersene ha abbassato gli occhi a terra. Si tormenta la
barba con la mano, riflette a lungo.
Maria ha ripreso tra le sue braccia il figlio, lo vezzeggia bisbigliandogli
qualcosa, poi lo depone nella carrozzina già pronta lì accanto, cerca di
addormentare il piccolo ormai stanco ed attende l'arrivo del marito.
Vorticano ancora nella sua mente le parole aggressive con cui la donna dai
capelli rossi l'ha aggredita poco prima. La conosce bene, hanno quasi la
stessa età. E' un'antica fiamma di Primo, sono stati fidanzati per diversi
anni, poi lui l'ha lasciata e lei non se ne è mai data pace. Le ha urlato in
modo quasi incomprensibile una storia che ripete da parecchio. Che è
stata Maria a sedurre Primo, che lui non avrebbe mai scelto di lasciarla.
Ma perché tanta violenza? Mi ha trattata come una stupida, pensa.
Muovendo dolcemente la carrozzina, riflette serenamente su se stessa,
riconosce i propri limiti, Si accetta per quello che è, non ha pretese e
proprio per questo è serena, priva di doppiezza. Non ho fatto nulla di cui
debba pentirmi, dice a se stessa. So quello che faccio.
Alza gli occhi e tra i pochi rimasti lungo la strada vede Thomas che la
osserva fissamente. Lo saluta con un cenno e gli sorride. Lui non le
risponde. E' intimidito, sorpreso, incerto, come se si risvegliasse in quel
momento da un lungo sogno. Lei continua a guardarlo e il sorriso che
rimane sul suo volto è come un invito a raggiungerla, a parlarle.
Sente Primo quando è quasi vicino e la chiama. «Maria, è andato tutto
bene, vero?» Il suo sguardo bonario come sempre la tranquillizza. Lo
guarda anche lei con tenerezza, pensando alla sicurezza che quest'uomo ha
saputo darle. E' come il fuoco tranquillo del camino – riflette – dove è
bello stare nelle sere fredde, quando fuori c'è vento e neve.
Thomas segue con attenzione ciò che sta accadendo: l'arrivo di Primo, i
suoi gesti affettuosi verso la moglie e il figlio. Una bella famiglia, pensa.
Va bene così. Questa immagine lo rasserena. Si alza per ritornare.
Ma ecco che lei, sorridente, lo guarda di nuovo, come se lo invitasse con i
suoi occhi ad avvicinarsi. Thomas fa un cenno di saluto con la mano.
Anche Primo si è accorto di lui, lo chiama.
«Professore, ha visto che bella festa? E nostro figlio è stato il
protagonista! Quando glielo racconterò da grande quasi non ci crederà!»
Thomas gli risponde con cordialità. E' percepibile la simpatia reciproca tra
i due uomini. «Davvero! Ha avuto la parte più importante, in prima fila. E
come l'ha recitata bene!»
Ridono tutti e due. Primo non se ne avvede, tutto preso dalla
soddisfazione per ciò che ha appena detto, ma lo sguardo di Thomas
continua a muoversi come incantato tra il volto di Maria e la carrozzina
che lei scuote dolcemente. Maria lo guarda con tenerezza, è colpita dal
velo di malinconia nel suo sguardo. Come se riuscisse a leggere ciò che è
nascosto dentro di lui, vede il dubbio che lo attraversa e un solo pensiero:
questo forse è mio figlio. Lei ne è commossa. Allora si rivolge a lui,
cercando di liberare il suo sguardo da quelle ombre tristi.
«Professore, vuole vederlo da vicino? Mi pare che non ce ne sia ancora
stata l'occasione.» Maria si china verso l'interno della carrozzina e
vezzeggia il piccolo, poi con una buffa vocina dice: «Piacere signor
McWine. Io sono Serse.»
Thomas sta al gioco. «Piacere Serse, hai davvero un bel nome, era quello
di un grande condottiero.»
«Era il nome di mio nonno.» interviene Primo come a voler fornire un'utile
precisazione.
Thomas lo guarda a lungo, poi dice: «I nomi sono importanti, ci
accompagnano tutta la vita. Questo piccolino con questo nome importante,
chissà, potrebbe diventare un grande uomo.» Il tono diventa scherzoso.
«Serse è stato addirittura un imperatore. E' un buon augurio!»
«Mamma mia, ma è un po' troppo!» esclama Primo.
Nel frattempo Maria ha alzato il bambino, lo tiene tra le braccia e si
avvicina a McWine. «Questo è il nostro piccolo imperatore!» dice.
McWine frena la sua emozione, con la mano sfiora dolcemente la guancia
rosea, gioia e dolore in quel momento si contendono il suo cuore. Cerca di
dissimulare il proprio turbamento. «A proposito, Maria, che cosa le ha
detto quella donna? Ho visto che si è avvicinata a lei con aria piuttosto
decisa.»
«Cose brutte. Meglio dimenticarle.» Guarda Thomas intensamente quasi
volesse così renderlo partecipe del male che quelle parole le hanno fatto.
Dicerie, sospetti, calunnie meschine che, secondo quella donna cattiva,
circolano in paese. Lui resta perplesso, riconosce nel suo sguardo una
richiesta di aiuto.
Guarda Maria e con voce calma e distaccata gli offre la scialuppa che lei
attendeva. «Cara signora, quando vorrà potrà tornare ad aiutarmi nelle
piccole faccende quotidiane, come aveva fatto prima della gravidanza. »
Poi rivolgendosi verso Primo aggiunge ridendo: «Il suo aiuto mi è sempre
stato prezioso. Io sono un grande pasticcione!»
Primo, con spontanea cordialità tocca il braccio di McWine e lo invita: «A
proposito, professore, abbiamo sempre tante cose buone in cucina, e lei
manca da parecchio dal nostro ristorantino. Venga quando vuole, è sempre
il benvenuto! E la Maria, anche con il figlio cucina ancora benissimo!»
Thomas ricambia il gesto cordiale. «La prendo in parola. Mangiando
sempre da solo in casa rischio di dimenticare il piacere della buona tavola.
Questa sera sarò da voi, promesso.»
-9-
“Le ultime briciole rimaste sulla tavola.” Carlo alzò gli occhi accesi da un
lampo. «Formidabile!» esclamò, come in uno slancio spontaneo del cuore.
«Non ho mai letto niente di simile.»
In quel momento il suono insistente del telefono, che già suonava da
parecchio, lo richiamò alla realtà.
«Ciao Carlo, tutto bene?» la voce di Vendramini era sempre più dolce.
«Benissimo Giuliano, purtroppo si lavora.»
«Ma no, riposati, riposati, non bisogna esagerare con l'impegno per la
scuola...»
Carlo lo interruppe. «Infatti stavo per uscire.»
«Scusa allora, ti rubo soltanto qualche minuto per parlare di una cosa che ti
riguarda, anzi che potrebbe riguardare noi due.»
«Sono tutt'orecchi!» rispose Carlo apparentemente entusiasta con un
sorrisino ironico che l'altro non poteva vedere.
Ci fu una lunga pausa, come se Vendramini stesse disponendo le sue carte
per tentare una buona giocata. Carlo attendeva senza fretta.
«Bene, si tratta di un piccolo aiuto che mi piacerebbe darti.»
Carlo avvertiva come Vendramini, con il suo tono,si sforzasse di dare una
veste professionale e distaccata a quello che stava per dire. Era divertente
immaginare ciò che, al contrario, probabilmente ribolliva dentro di lui in
quel momento, i veloci calcoli pieni di opportunismo che la sua mente
sicuramente stava facendo.
«Collabori ancora con quell'editore di Torino? Non ricordo il nome...»
Vendramini la stava prendendo molto alla larga, ma Carlo capiva
benissimo dove voleva arrivare.
«Certo, ogni tanto. Sai, è un mio vecchio amico.»
« Benissimo, ma non è questo che conta. Tu potresti mirare più in alto...»
Mirare più in alto! Che espressione da trombone, pensò Carlo. Come se la
cultura non fosse diversa da una partita di caccia.
Vendramini continuava mellifuo.
«Sai, lo dico per i tuo bene, in giro si parla piuttosto male di lui. Si dice
che non è un granché.»
«Te l'ho detto – rispose Carlo con aria innocente – per me è soprattutto un
amico.»
La voce di Vendramini salì di tono e si fece più aspra come se fosse
intollerabilmente stupido ciò che Carlo aveva appena detto.
«Ma non scherziamo! Non è di questo che si tratta! Il tuo editore di Torino
è un perdente... Questo mi premeva dirti.»
«Si?» rispose Carlo serafico.
«Tu puoi avere molto meglio.» Ecco che finalmente Vendramini era
arrivato al punto che più gli premeva. «Io ho i contatti giusti, nell'editoria
milanese. Tu puoi passare a me quello che hai per le mani e io penserò a
tutto.»
«Quello che ho per le mani?»
«Ma sì, non fare lo gnorri, lo sai benissimo di cosa parlo...» rispose
Vendramini stizzito.
«Effettivamente sto lavorando ad una piccola traduzione che mi sta
costando molta fatica.»
«Ecco, appunto, io intendo proprio quella!» Vendramini era ormai al
limite. Carlo se lo immaginò cianotico con il telefono che gli tremava nella
mano.
«E tu che cosa faresti se te la passo?»
«Te l'ho già detto, si può discutere di tutto...» Il “tutto” divenne grande
come una casa.
Carlo cercò di tergiversare. «Non so, ci debbo pensare...»
«Ok, poi fammi sapere. Al più presto. Tanto ci vediamo spesso, le
occasioni non mancano.» Solo Vendramini rise del suo goffo umorismo.
«Bene. Allora ci vediamo a scuola.» rispose Carlo ostentando un grande
sbadiglio. «Buonanotte.»
«Buonanotte, Carlo.» Vendramini riattaccò senza aggiungere altro.
-X -
E' il 14 ottobre 1980, un martedì. Un' Autobianchi A112 targata Roma sta
affrontando l'ultimo tratto della stretta stradina verso Monastico. Il piccolo
abitacolo è abbondantemente occupato dalla corporatura ampia e molle di
un uomo quasi calvo che, nonostante la mite temperatura della mattinata,
si deterge continuamente il sudore dalla fronte. Philip guida lentamente,
guardando con piacere le dolci colline screziate di giallo.
“Qui in alto l'autunno è già arrivato – pensa – è davvero un bel posto.”
L'altra volta, nella fretta non ci aveva fatto caso. Ricorda però
perfettamente ogni dettaglio del tragitto percorso otto anni prima. Nella
mente di Philip il tempo si fa avanti, mostra questo piccolo numero in
tutta la sua imponenza, la lunga ombra proiettata sulla sua vita. Otto anni,
accidenti! Un sacco di tempo!
“Chissà se anche Thomas è cambiato come me!” Sorride, ricorda di essersi
posto la stessa domanda quando lo aveva incontrato otto anni prima
all'aeroporto di Roma e, come allora, si sfiora la pancia, divenuta ormai un
ampio emisfero che emerge sopra la cintura.
“Sì, è un mucchio di tempo, non l'ho più incontrato da allora.” Solo una
letterina annuale con gli auguri di Natale ha mantenuto tra loro un esile
contatto.
E' ormai sulla salita finale dove la strada si stringe ancora di più. “Queste
non c'erano.” pensa osservando le nuove costruzioni che si addossano alla
strada. Attraversa il centro del paese, la vista della chiesa gli riporta alla
mente il vecchio prete che lo aveva accompagnato alla casa di Thomas.
“Chissà se è ancora vivo,” si domanda. Fuori dall'abitato, la strada si
impenna, si immerge nel bosco, si fa sempre più tortuosa. Philip guida di
gusto lungo quest'ultimo tratto, la piccola utilitaria fatica un poco.
Miracolosamente il paesaggio da questa parte è intatto, come se il tempo
non fosse passato.
McWine ha saputo della visita dell'amico circa quindici giorni prima. Una
lettera che il postino gli ha recapitato in una mattinata piovosa, imprecando
contro quel viottolo trasformato in una scia di pantano. «Lei vive fuori dal
mondo!» gli ha detto consegnandogliela. Con un tranquillo segno di
assenso, lui come sempre ha sorriso.
La lettera di Philip lo ha divertito. Con il suo solito tono spiccio lo
avvertiva di una sua prossima visita.
“Dannazione, – scriveva – come fai a vivere in quel posto sperduto senza
telefono? Forse questa lettera ti arriverà con un piccione viaggiatore. Posso
venire a trovarti verso la metà di ottobre? Sono in Italia e mi piacerebbe
scambiare due chiacchiere con te su qualche bel progetto che bolle in
pentola. Ho scaldato la tua curiosità? Bene. Spero che ci sia almeno un
telefono dalle tue parti, allora chiamami tu per darmi una conferma. Il
numero è sempre lo stesso, all'ambasciata. A presto (io spero). Philip.”
McWine sapeva che da qualche anno l'amico aveva abbandonato Roma ed
era tornato in America.
“Ma che cosa fa precisamente a Washington?” Questa domanda circola
ora insistente nella sua testa mentre trasporta le vecchie sedie fuori dalla
rimessa. Rammenta l'impressione che ha sempre avuto stando con lui, di
un'abile copertura dei suoi veri traffici.
“Bene, – si ripromette, mentre risistema il tavolino e le sedie sul piccolo
prato antistante – questa è l'occasione giusta per chiederglielo.” Ride tra
sé, si guarda attorno. “E' una bella giornata, potremo godercela bevendo
qualcosa qui fuori”.
Thomas sente in lontananza il rumore di un motore, si avvicina al bordo
del viottolo inghiaiato e fissa il punto più in basso dove tra poco comparirà
l'auto che sta salendo. Dopo qualche minuto, vede una piccola utilitaria
bianca arrampicarsi lentamente sull'ultimo tratto. Avvicinandosi l'amico lo
saluta dal finestrino. La sua felicità è autentica. “E' davvero un americano
standard” pensa istintivamente Thomas notando già da lontano le sue
notevoli dimensioni. “Un bel formato oversize”.
Si abbracciano stretti, si guardano e con robuste pacche sulle spalle Philip
urla: «Vedi? I veri amici non si dimenticano!» Anche Thomas manifesta
intensamente la gioia di ritrovarsi insieme dopo tanto tempo, ma anche in
quel momento si chiede: perché è venuto? Philip non ha mai fatto niente
per niente. Con un braccio intorno alle sue spalle lo accompagna verso le
sedie.
«Allora, cosa mi racconti, quali novità bollono in pentola a Washington?
Jimmy Carter sta finendo i suoi primi quattro anni...»
«...che saranno anche gli ultimi!» lo interrompe Philip con aria sicura.
«Perchè dici questo? Ricordo che a vent'anni votavi per i democratici e
adesso...»
Philip lo interrompe di nuovo, come se avesse fretta di arrivare al punto
che veramente gli interessa. «Non solo, lavoro per loro in questa
amministrazione.» Poi aggiunge compiaciuto: «Ho un posto importante al
dipartimento di stato. Per questo vengo spesso in Italia. Hai saputo cosa è
accaduto da queste parti con il terrorismo rosso? L'importante uomo
politico assassinato e tutto il resto? Questo è un paese di confine, i
comunisti sono a un passo, Jugoslavia, tutto l'Est. E che cosa ha combinato
quel cagasotto di Carter in Iran, la questione degli ostaggi all'ambasciata?
Non ti racconto i particolari, c'è da rimanere secchi. Che vergogna per
l'America...»
Ecco, pensa Thomas, questo è il punto a cui voleva arrivare al più presto.
Adesso ci siamo.
«Sai che non seguo molto la politica.»
«Già, troppo comodo. L'America ha bisogno della riscossa. Deve tornare
grande!»
Philip fa una lunga pausa, come se volesse preparare l'amico alla notizia
che sta per dargli. Thomas sorseggia tranquillamente la limonata che è
sulla tavola.
«Ho deciso di cambiare casacca. Sono passato con gli altri, di loro mi
fido.»
«Ma tu stai ancora lavorando per i democratici, come è possibile?»
«Le elezioni saranno tra venti giorni. Reagan vince a mani basse, è
sicuro.»
«Reagan? E perché non John Wayne, che ha più grinta? Un cowboy vale
l'altro. L'America, Phil, non è un western, la politica non si fa a
Hollywood. Quando sono partito, nel '70, l'America era ancora
impantanata in Vietnam. Poi, da allora, è stato un disastro. Un po' l'ho
seguito. I giornali arrivano anche qui, sai? Adesso volete la rivincita con i
russi e i cinesi. E' un gioco senza fine. Preferisco davvero starne fuori.»
«Vedrai, Reagan farà grandi cose. E tu puoi servirci, abbiamo bisogno di
gente come te, non compromessa.»
Il tempo è improvvisamente cambiato, le nubi hanno velato il sole, inizia
a soffiare un fastidioso vento di tramontana.
«Forse è meglio che andiamo dentro,» propone Thomas.
Mentre stanno dirigendosi verso l'ingresso, vedono salire sul viottolo una
donna trentenne in bicicletta. Appesi al manubrio porta dei grossi pacchi.
Arranca faticosamente sull'ultimo tratto, poi appoggia la bicicletta alla
rimessa e si avvicina. «Posso iniziare?», chiede. «Certo, Maria, non c'è
problema.» le risponde McWine.
Passando loro davanti squadra a lungo Philip che, quando lei è ormai
entrata, domanda incuriosito: «E quella chi è?» Indica la porta d'ingresso
con un espressione buffa simile a un bonzo cinese.
«Una donna del paese. Viene spesso a darmi una mano.»
«Solo una mano?» chiede Philip ammiccando con uno sguardo da triglia.
Compiaciuto della propria battuta ridacchia a lungo.
McWine si irrigidisce, resta in silenzio un attimo, poi risponde con uno
sguardo paziente: «Sei sempre lo stesso, non resisti.»
Attraversano l'ampio ingresso. Thomas fa strada, indica una porta in fondo
al corridoio. «Possiamo stare in biblioteca.»
Entrando, Philip ha un moto di stupore. «Accidenti, quanti libri!»
Thomas scuote la testa con un sorriso. «Mi raccomando, non farmi la solita
domanda se li ho letti tutti. Ti rispondo subito di no.»
«Che c'entra?» Ride anche Philip. «Si vede che questo è il tuo nido.»
Philip gira attorno nella stanza. «Ma è fantastico!»
McWine lo segue con uno sguardo svagato, poi con tono ironico nota: «E
pensare che l'hai comprata tu!»
Philip lo guarda stupito. «Che cosa? Cosa hai detto?»
«Non ricordi? I proprietari precedenti avevano fretta di vendere la casa e
noi – anzi tu, io ero lontano, potevo fare ben poco – l'avevamo acquistata a
un buon prezzo con tutto quello che c'era dentro.»
Con un risolino indica tutto intorno. «E dentro c'era questa.» Philip si batte
la fronte e soffia rumorosamente. «Perdinci, che sberla!»
Thomas ride. «Anche per me, quando sono entrato la prima volta è stata
una grossa sorpresa.»
Philip si muove lungo gli scaffali, osserva qualche titolo. Questo lo
conosco anch'io, I promessi sposi. The Betrothed! E quanta filosofia! Ma
sono tutti in italiano! Che te ne fai?»
Thomas ride di nuovo. «Ovviamente! Siamo in Italia. Ma molti riesco a
leggerli anch'io. Stando qui il mio italiano è migliorato.»
«Scherzi? Già eri bravo quando siamo arrivati! Me lo ricordo.»
McWine ripensa a quel momento, allo sconcerto che aveva provato
vedendo l'amico partire immediatamente, lasciandolo solo davanti a quella
casa che non conosceva.
«Phil, ricordi? Tu non eri nemmeno entrato», osserva con un tono un poco
risentito. «Avevi dovuto partire subito, impegni importanti ti
aspettavano.»
Philip ci pensa, come se rivedesse quella scena. «Già, allora avevo sempre
fretta...» Dopo un istante aggiunge con un sorriso di intesa: «Adesso non
più! Anzi, sai che ti dico? E' quasi mezzogiorno, perché non ce ne andiamo
a mangiare un boccone giù in paese?. Scommetto dieci contro uno che c'è
di sicuro un ottimo posto. In Italia è sempre così!»
«Non ti sbagli, c'è un ristorantino molto buono.»
Philip si sfrega involontariamente la pancia. «Non vedo l'ora! Parleremo
meglio a tavola davanti a un bel piatto di strangozzi al tartufo. Non ti ho
ancora spiegato niente.»
Quando sono vicini alla porta e stanno per uscire McWine si volta. «Maria,
per favore, chiuda pure lei tutto!» Sentono una voce dal fondo di una
stanza che risponde. «Non si preoccupi, ci penso io!»
Philip sogghigna ammiccante accennando con la testa in direzione della
voce. McWine lo precede e si incammina verso la discesa. Philip si arresta
interdetto: «Dove stai andando?» Girandosi indietro McWine studia
l'amico in tutta la sua mole. «Il tempo è migliorato, scendiamo a piedi, il
paese non è distante.»
«Scherzi!» Urla Philip con aria patetica. «Vuoi vedermi morto?»
I singulti della sua risata singhiozzante quasi lo soffocano davvero. Intanto
si accosta alla propria auto.
Thomas, ancora fermo, assiste imperturbabile alla scena, poi gli urla con
tono fintamente severo come se intendesse chiedere una spiegazione: «Che
fine ha fatto la spider rossa?» Thomas si volta simulando una grande
paura, con un gesto di difesa.
«Regola numero uno, non dare nell'occhio!», scandisce a voce bassa.
L'altro ride. Philip aggiunge: «Alla fine l'ho capito anch'io.»
- 11 -
Era ormai sera e Carlo, seduto nella piccola hall, sfogliava deluso il magro
bottino della giornata. Alzando gli occhi si accorse che da dietro il
bancone della reception Vera lo stava osservando probabilmente da
parecchio con un sottile sorriso sulle sue belle labbra.
«Come è andata?» chiese.
Durante il pranzo, tra una portata e l'altra, le avevano spiegato in modo più
completo il motivo del loro viaggio.
«Così così.» rispose Carlo. Bastava l'espressione con cui lo disse a far
capire che avevano ottenuto poco o nulla. Intenerita da quell'aria indifesa,
abbandonò i fogli su cui stava lavorando e gli si avvicinò.
«Purtroppo era prevedibile. Vi avevo avvisati. Siamo in un piccolo paese
sotto la montagna e le persone sono piuttosto diffidenti verso gli estranei.
Non parlano volentieri. Dopo l'invasione dei giorni scorsi poi...»
«Purtroppo ce ne siamo accorti.» commentò cupamente Carlo
accartocciando i fogli che aveva in mano. «Sembra quasi che lo scrittore
Thomas McWine qui non ci sia mai stato.» Con una risatina forzata
aggiunse: «O forse solo come turista, come noi...»
Il carattere di Vera era totalmente allergico alla tristezza degli altri,
cercava immediatamente di vincerla come se fosse una specie di sfida
personale. Avvicinò una sedia e si sedette accanto a lui. Carlo si irrigidì un
poco e la guardò sorpreso, incerto su come interpretare quell'atteggiamento
confidenziale. Guardandolo con un po' di ironia lei indicò se stessa e
chiese con tono divertito: «Scusi, ma si è accorto di una cosa?
Un'intervista per bene ancora non me l'ha fatta! Anch'io sono sempre
rimasta a Monastico e le assicuro che Thomas McWine è vissuto qui
realmente, con anima e corpo! Mi faccia pure qualche domanda, ho ancora
un attimo di tempo prima della cena.»
Carlo la guardò imbarazzato. Le chiacchiere senza capo ne' coda che
avevano scambiato casualmente, con Elia che come sempre dava il suo
contributo per confondere ogni cosa con le sue battute idiote, gli avevano
fatto tralasciare proprio la cosa più evidente.
La fissò rincuorato. «Bene, mi dica pure lei quello che sa.»
Carlo notò l'attimo di sospensione con cui l'altra, fissando gli occhi a terra,
si preparò a rispondere, come se stesse selezionando quello che poteva
dire. Scacciò questo pensiero. “Sei il solito paranoico, calma.”
Vera iniziò a raccontare in fretta alcuni episodi del passato, agitando un
poco le mani mentre parlava come succede a chi è molto partecipe di ciò
che sta dicendo. In effetti, Carlo capiva che era un piacere anche per lei
ripercorrere quei ricordi.
Gli raccontò dell'arrivo di McWine, o meglio ciò che aveva sentito a sua
volta raccontare dalla madre, sottolineò la sua grande riservatezza e la
calma con cui affrontava qualunque evento, fosse anche, come era
accaduto, il terribile terremoto del 1997.
«Secondo me, è stato un grande uomo, ma circondato da un alone di
mistero. Questa, però, era anche la ragione del suo fascino». Sottolineò le
ultime parole con un tono comicamente perentorio.
Dopo aver riflettuto per qualche istante, aggiunse: «Qui era di casa.
Veniva spesso da noi, amava la nostra cucina. La sua “ricca semplicità”,
diceva. Mia madre per un certo periodo lo ha anche aiutato nelle faccende
domestiche...»
«Potrei anche parlare con sua madre?» chiese Carlo.
«Mi scusi, ma preferirei di no. Ha i nervi molto fragili.» Un velo di
inquietudine calò per un istante sul bel viso di Vera.
«E suo padre?»
«Purtroppo è morto da alcuni anni. Era stato, per tanti anni, in ottimi
rapporti con lo scrittore. La loro stima era reciproca. A volte lo chiamava
“il professore”, con una punta di bonaria ironia.» Si fermò un attimo
pensierosa e aggiunse poi con tristezza: «Purtroppo è tutto un mondo che
non c'è più.»
Sentirono scendere qualcuno dalle scale e dopo poco comparve Giovanni
con il suo viso imbronciato. Con un po' di imbarazzo si avvicinò a Carlo,
senza badare alla persona con cui lui stava conversando.
«Senti, Carlo, debbo chiederti per forza un piccolo piacere. Potremmo
partire non troppo tardi domani?» Non stette a spiegarne il motivo, ma
Carlo lo aveva capito benissimo.
Carlo lo guardò con affetto. «Beh, avrei voluto sfruttare la mattinata di
domani per fare... – le parole di Carlo si persero in una sonora risata.
«...non so più bene che cosa.» E sempre ridendo aggiunse: «Non c'è
problema Giovanni, faremo come è meglio per te. Tanto mi sa che la pesca
l'abbiamo finita ed il paniere è praticamente vuoto.»
Rassicurato, Giovanni risalì verso la propria stanza. «Grazie, Carlo, ci
vediamo a cena più tardi.»
Vera notò subito il repentino cambiamento di umore dopo che l'amico si
era allontanato. L'enfasi allegra con cui gli aveva parlato sfumò in fretta
lasciando il posto a un senso di smarrimento, quella sua tipica espressione
che tanto colpiva Silvia quando lo incontrava a scuola.
Sentì, allora, più forte il bisogno di aiutarlo.
«Mi è venuta in mente un'idea che potrebbe esserle utile.»
Gli occhi di Carlo scattarono verso di lei.
«Si tratta di mio fratello. Ora vive lontano, in Australia, insegna all'
università di Brisbane. Fin da piccolo è stato un grande amico di Thomas
McWine, si vedevano quasi ogni giorno. Lui, probabilmente, potrebbe
dirle qualcosa di più interessante delle poche cose che so io.»
Carlo continuava a fissarla, rimanendo in fervida attesa. Era come se una
insperata scialuppa di salvataggio si muovesse verso di lui.
«Potrebbe contattarlo. Da qualche parte conservo il suo indirizzo e-mail,
me lo ricordi prima di partire.»
«Grazie!» Carlo continuava ancora a guardarla ammirato, ma nel suo
sguardo c'era qualcosa di più di una semplice riconoscenza.
- XII -
Incorniciate nel telaio buio della finestra, Carlo contemplava assorto le luci
giallastre della strada, diafane come lumi sepolcrali nel mare opaco della
nebbia. La cupezza di quella serata grigia si rispecchiava nei suoi pensieri.
Rifletteva su se stesso e su quello che stava facendo, domandandosi quale
senso potesse avere E come in un contrappunto grottesco sentiva dentro di
sé la voce entusiasta di Renato a fine ottobre, piena di sicurezza, e il tono
deluso di Silvia simile a quello di un bambino senza regali sotto l'albero di
Natale. Cercò di rincuorarsi. “Non essere troppo pessimista” si disse. In
effetti, tutto era ancora possibile. “Dalle stelle alle stalle – pensò ironico –
e io forse appeso in mezzo come un bell'esempio di stupidità.”
Eppure, nonostante la propria fiducia traballante, sentiva che il lavoro
andava terminato, non doveva cedere alle tentazioni della propria abituale
indolenza. Si avvicinò deciso alla scrivania, dove, come sempre, i
Quaderni lo stavano attendendo.
Senza un motivo preciso, gli venne da notare il profilo incerto di alcune
lettere nella pagina dattiloscritta che aveva davanti, come se fosse venuto a
mancare l'inchiostro nella macchina da scrivere. Continuò ancora per un
poco ad attardarsi svogliatamente nei preparativi, sistemando e
risistemando la mazzetta dei fogli, come se cercasse in tutti i modi di
rinviare quella che era ormai diventata una lotta quasi quotidiana. Gli
venne da notare un'altra cosa a cui non aveva finora badato. Perché
scegliere proprio quei nomi dei personaggi, così particolari? “Ecco un'altra
stranezza che non so spiegarmi” pensò irritato. “Ma che importanza ha?”
Si accorse di quanto stava perdendo tempo e finalmente riprese la lettura
dal punto a cui era arrivato, annotando caparbiamente ogni possibile
alternativa di traduzione.
Carlo rimase senza fiato come se l'angoscia che sgorgava dalla pagina che
aveva dinanzi lo avesse sopraffatto. Sentiva che quelle parole terribili
erano nate da un'esperienza autentica. Chi le aveva scritte aveva provato
ciò che diceva. “Un'esperienza alle prese col nulla – si disse – davvero la
parola più spaventosa che tutti temiamo e da cui allontaniamo lo sguardo,
fingendo che non ci sia una voragine tutto intorno a noi.”. Sentì il bisogno
di alzarsi, bere un bicchiere d'acqua dal lavabo, fare qualcosa. Una
domanda gli girava in testa: in quale situazione si trovava McWine quando
aveva scritto tutto questo?
Ritornò a sedersi, come se quei fogli lo chiamassero ancora. Interamente
catturato dalla lettura, non aveva badato alle piccole annotazioni scritte sul
bordo. Una piuttosto lunga attirò la sua attenzione. Si leggeva a fatica, ma
lentamente, con pazienza, la trascrisse.
“Waiting in the darkness”. Carlo rilesse più volte le ultime parole senza
riuscire ad afferrarne il senso, come se quei tre improbabili personaggi –
Sim, Sag e Sal – lo osservassero strafottenti con uno sguardo di sfida.
“Sembra quasi un indovinello” pensò. Rigirandosi i fogli tra le mani,
cercò di fissare nella sua mente quel nome. Lo aveva già trovato, ma dove?
Ricordò di averlo visto da qualche parte nella scatola, tra quelle decine di
fogli laceri ed impolverati. Sì, adesso ricordava. Era in quel breve abbozzo
di romanzo con un titolo che lo aveva fatto ridere: The New Olders.
Annotata in fondo alla prima pagina, c'era quella frase: “dire tutto a Serse”
con un grande “No” che quasi la cancellava. Eppure Carlo non era ancora
appagato da quanto gli aveva restituito la sua buona memoria, era sicuro di
dimenticare qualcosa di importante. Restò a lungo immobile, riflettendo.
Era solo a un passo dal capire, lo sentiva. Continuò a spulciare
mentalmente i tanti fogli che aveva letto e controllato, ma, quasi che quel
nome volesse nascondersi, non riusciva a ricordare dove lo aveva
incontrato. Poi, come accade quando imprevedibilmente si scopre che ciò
che stavamo cercando è già da un pezzo davanti ai nostri occhi, Carlo rise.
“Ma certo! Che stupido a non essermene subito accorto!”. La soluzione era
nel foglietto che gli aveva consegnato la signora della pensione pochi
giorni prima con l'indirizzo di suo fratello scritto in bella calligrafia su un
pezzetto di carta, e in alto il suo nome: Serse Funari. Gli venne in mente di
aver lasciato il biglietto nella tasca della giacca che indossava la mattina
della partenza. Si precipitò subito verso l'armadio. Per fortuna, con la sua
solita sbadataggine, non lo aveva gettato via insieme ad altre cartacce.
Eccolo: Serse Funari - Brisbane, University of Queensland. Cercò al fondo
dello scaffale il vecchio computer, lo accese in fretta. Dopo aver
pasticciato un po' con il router, riuscì a connettersi e aperse il programma
della posta. Mentre iniziava a inserire l'indirizzo, si bloccò. Gli ritornarono
alla mente quelle parole: Serse lo ha provato attendendo nell'oscurità. Il
mistero, ora, aveva un nome e cognome, ma non era stato per niente
svelato. “Mica posso chiedere a un perfetto estraneo come se fosse
un'informazione qualsiasi: scusi è lei che lo ha provato (che cosa?)
attendendo nell'oscurità?” pensò con un risolino. Non doveva rendersi
ridicolo. Con calma, iniziò a riflettere su quale potesse essere il tono giusto
per quel primo contatto. “Sì, meglio stare sulle generali e non sbottonarsi
troppo” si disse. Iniziò lentamente a scrivere, cancellando tutto diverse
volte e riprendendo da capo.
Egregio professore,
ho avuto sue notizie a Monastico. Sua sorella, la gentile signora che
gestisce la pensione Vallechiara, mi ha lasciato questo indirizzo e-mail
per contattarla. Mi scusi il disturbo, cerco di spiegarle in poche parole il
motivo della mia lettera.
Mi occupo da qualche tempo di uno scrittore americano che lei ha
personalmente conosciuto, Thomas McWine. Sto cercando di ricostruire
la sua vita e di capire chi sia stato. Per questo motivo ho soggiornato per
qualche giorno a Monastico, il paese dove ha vissuto, senza però
raggiungere grandi risultati. Ormai pochi si ricordano di lui. Sua sorella,
gentilmente, mi ha suggerito di provare a contattarla. Forse lei potrebbe
fornirmi qualche utile informazione e soprattutto consentirmi di capire
meglio la personalità di quell'uomo, davvero complessa. Sono un
insegnante di italiano nelle scuole superiori italiane e mi diletto, nel
tempo libero, di queste ricerche. La prego, se le è possibile, di aiutarmi.
I più cordiali saluti.
Carlo Centi
Gentile signore,
sinceramente non mi aspettavo una richiesta come la sua. Sono ormai
molti anni che Thomas McWine è stato quasi completamente dimenticato.
E' bello che la sua opera venga riscoperta oggi.
Sono lieto dell'occasione che mi offre di rinsaldare i legami con la mia
terra d'origine e con un uomo che ho sempre ammirato. Resto a sua
disposizione, mi faccia sapere.
Cordialmente.
Serse Funari
-15-
Non era molto tardi, ma il viale alberato che affiancava il piccolo fiume
lungo l'intero tratto cittadino in quel momento era quasi deserto. Una
nebbia leggera sfocava i contorni e immergeva ogni cosa in un'oscurità
precoce. Carlo camminava da solo e rifletteva a testa bassa, con le mani
intrecciate dietro la schiena, immerso anche lui nella luce incerta dei suoi
pensieri.
Non sapeva che fare. Da circa un'ora continuava a ripercorrere lo stesso
tratto, avanti e indietro, quasi senza accorgersi di dove andava. La sua testa
era altrove. Ripensava alla proposta di Vendramini e al modo deciso,
addirittura ammirevole, con cui l'aveva rifiutata. Ora non era più così
sicuro. Era stata una reazione spontanea – pensava adesso – effetto
probabilmente della costante antipatia che provava per quell'uomo.
Percepiva ora perfettamente il modo istintivo, quasi automatico, con cui
era scattata la sua risposta. In realtà – ammetteva con se stesso – non
aveva dedicato la minima attenzione a ciò che Vendramini gli stava
proponendo, non aveva riflettuto abbastanza. Si rimproverava: “Non
bisognerebbe mai scegliere senza pensare. Su questo ho sicuramente
sbagliato.” C'era in quel momento come un grosso peso sulle sue spalle
che lo bloccava e gli rendeva faticoso il tentativo di tornare a casa e
trascorrere una serata tranquilla in compagnia di se stesso, era la
consapevolezza che niente gli impediva di ritornare sui suoi passi ed
accettare l'offerta tentatrice che l'altro gli aveva fatto balenare davanti. La
leggerezza della scelta. “E Renato? Che mi importa, non lo saprà mai.” E
quasi a volersi assolvere in anticipo riportava alla mente le occasioni in cui
Renato, cioè il suo datore di lavoro, era stato duro e insensibile nei suoi
confronti. Ripensava a come lo aveva praticamente costretto a partire
immediatamente per l'Umbria, senza curarsi di ciò che lui avrebbe voluto
fare. “Ma uno così è veramente un amico?” si domandava astioso.
Il giro inconcludente di questi pensieri, come una giostra impazzita, si era
ormai ripetuto molte volte quando la vibrazione e il trillo acuto nella tasca
sinistra del giubbotto lo colsero impreparato. Non ricordava di averlo con
sé. Pasticciando un poco sulla cerniera la mano inguantata raggiunse
l'apparecchio. Guardò velocemente lo schermo. Per fortuna era Silvia. Una
telefonata provvidenziale. Benedisse la possibilità di sentire
insperabilmente una voce amica che forse avrebbe saputo aiutarlo.
Non le lasciò quasi il tempo di parlare.
«Ciao Silvia. Che fortuna sentirti. Ti avrei chiamato io. Pensa un po', oggi
pomeriggio ho incontrato Giuliano Vendramini, il nostro caro collega, per
un piccolo rendez-vous al bar vicino alla scuola...»
«A sì? E allora?» Il tono piatto dell'amica gli fece capire subito il suo
scarso interesse per ciò che stava per raccontarle.
«Mi ha fatto una proposta pazzesca. Novemila euro subito per lo scritto su
cui sto lavorando. Forse, poi, tanti di più, si vedrà. Potrebbero essere
parecchi soldi...»
«No, scusa, e da dove li prenderebbe?» commentò Silvia con tono
sarcastico.
«Gli americani...»
Silvia lo bloccò subito. «Gli americani? E perché non i marziani? Figurati!
Ti sei dimenticato di chi sia Giuliano? Un conta-balle che millanta le sue
conoscenze importantissime a destra e a manca. Potrebbe dirti che lui è
andato sulla luna e tu ci crederesti.» Carlo lo sapeva benissimo, erano tutte
cose che avevano ripetuto tra loro altre mille volte.
«Ma questa volta potrebbe essere diverso» provò ad osservare titubante.
«Contento tu...» Silvia liquidò quest'ipotesi con una risatina carica di
scetticismo.
«Ma io gli ho detto di no.»
«Bravo, hai fatto la cosa giusta.»
«Però proprio un attimo fa ci stavo ripensando. Forse mi hai letto nel
pensiero e mi hai chiamato...»
Come se non reggesse più la pantomima in cui l'amico la stava
trascinando, Silvia urlò con la voce incrinata dal fastidio: «No, Carlo, non
sognare. Tu vuoi semplicemente che io ti dica che tutto è a posto, che
l'accordo con quel verme di Vendramini sarebbe una gran cosa! Ma con
chi sto parlando? Non ti riconosco più! Sei ancora il vecchio Carlo Centi
un po' imbranato ma con un cuore d'oro o sto parlando con un nuovo
modello aggiornato imbottito di presunzione ed avidità?»
Come una fredda secchiata d'acqua la durezza di queste parole lo risvegliò
dai suoi sogni. Provò vergogna per quello che poco prima aveva pensato
possibile.
«Scusa, ho detto una cazzata.» Il tono mesto della voce sconfortata di
Carlo bastò a tranquillizzarla.
«Ma no, scusa tu, ho esagerato un pochino.» disse lei con dolcezza. Ci fu
un attimo di silenzio, come se tutti e due stessero riflettendo su ciò che era
appena successo.
Silvia parlò per prima con la lentezza che le era tipica quando voleva farsi
ben capire e non ne era sicura. «Lasciamo perdere. E' tutt'altro il motivo
per cui ti ho chiamato. C'è un problema. Spero che sia stata solo una tua
svista nel fotocopiarmi il dattiloscritto, ma ne dubito. Manca una pagina...»
«Una pagina?» Carlo restò di sasso.
Era sicuro anche lui che non poteva trattarsi di un suo errore. La pagina
sicuramente mancava davvero.
«Sì, una pagina verso la fine, mi pare la novantaquattro, se ricordo bene.
Tu hai già letto tutto, immagino. Come hai fatto a non accorgertene?»
Carlo prese tempo, ma la sua voce carica di imbarazzo rendeva
perfettamente chiara la situazione.
«Veramente non ci sono ancora arrivato. Sto traducendo un po'
lentamente.»
«Veramente te la stai prendendo comoda!» sottolineò lei in modo spiccio.
Come a voler dirottare il discorso Carlo cercò di dimostrarsi preparato ad
ogni evenienza e con tono sicuro la rassicurò.
«Ora sono per la strada, ma appena rientro controllerò subito l'originale.»
Ostentò la propria competenza. «Comunque non c'è problema.
Eventualmente metteremo una bella nota a fondo pagina spiegando le
ragioni di questa mancanza. Lo fanno spesso nelle edizioni critiche.»
«Sì, bravo, e quali sarebbero queste ragioni?» chiese Silvia con sincero
interesse.
«Ora non ne ho proprio idea, ma qualcosa troveremo.»
«Siamo a posto.» commentò lei. «E adesso?»
Carlo sentì distintamente il lungo sospiro dell'altra ed il colpo secco che
aveva battuto sul tavolo che le stava davanti. Immaginò che Silvia
rimpiangesse il momento in cui si era lasciata trascinare in un'impresa così
demenziale.
«No, Carlo, non è così semplice, si tratta probabilmente di un punto
essenziale per capire il senso di ciò che sta accadendo ai tre personaggi. Ti
leggo alcune righe che vengono subito prima. Te le leggo direttamente in
inglese. Carlo ascoltò con grande attenzione la voce lenta di Silvia
cercando di afferrare immediatamente il senso di quelle poche frasi che
come una lunga ombra potevano forse suggerire il senso di ciò che
mancava.
Nel lungo tratto di strada verso casa Carlo aveva continuato a pensare a
Renato. La sua mano infilata nella tasca del giubbotto stringeva
freneticamente il cellulare silenzioso ed a ogni passo si ripeteva nella sua
mente lo stesso proposito: “Adesso lo chiamo.” Non ne capiva bene la
ragione, ma la scomparsa di quella pagina dei Quaderni lo inquietava come
una prima crepa nel muro, un segnale del crollo imminente.
Entrando in casa, ancora sulla porta gettò un'occhiata ansiosa verso la
scrivania che si intravedeva nella stanza accanto. Ben ordinate sul ripiano
le pagine ingiallite del dattiloscritto lo stavano attendendo tranquille come
sempre. Senza togliersi la giacca pesante si sedette e iniziò a sfogliarle.
Voleva sincerarsi subito della mancanza, con l'ultima flebile speranza che
Silvia si fosse sbagliata. La piccola cifra in fondo a sinistra della pagina 93
lo fissò irridente. La pagina 94 non c'era. Sfogliò velocemente i fogli quasi
con rabbia, ormai sicuro che non l'avrebbe trovata, poi con sguardo inerte
ritornò lentamente alla pagina successiva.
Apparentemente mancava qualunque nesso con la parte finale di quella
precedente. Purtroppo Silvia aveva visto giusto, dovette ammettere con se
stesso, la pagina mancante era probabilmente fondamentale per il senso
complessivo.
Continuava a fissare le parole con cui iniziava la pagina 95:
“ ... a salvarmi. E tutto sarà così finalmente deciso. Tutti i figli
ritroveranno i loro padri e tutti i padri ritroveranno i loro figli e resteranno
uniti per sempre.”
Cosa significavano quelle parole? Impossibile dirlo. Quasi casualmente lo
sguardo si spostò sul retro della pagina precedente. C'era una piccola
annotazione a matita nella grafia minuta di Thomas McWine che l'affanno
ansioso con cui si era fiondato a controllare tutto il testo non gli aveva
fatto notare. “Già – pensò – il retro bianco del foglio precedente! Ecco
perché Silvia non ha potuto vederla!”
Si rincuorò un poco ed iniziò a decifrare con fatica i caratteri incerti
sbiaditi dal tempo.
“From here try to start a new story that will complete the one I wrote for
him. Tell Xerses”
Dillo a Serse. Ecco che come un'ombra ricorrente ricompariva di nuovo
quel nome. Se ne ricordò subito. Erano le stesse parole del biglietto
stracciato che aveva trovato nella scatola. Ma ora – pensò con gioia –
sapeva finalmente ciò che McWine aveva intenzione di dire. Fissò
compiaciuto il breve testo accanto alla pagina mancante. Già, quella
pagina. L'incertezza allargò di nuovo un'ampia via dentro di lui. Un dubbio
attraversò rapidamente la sua testa.
“Chissà, forse l'ha staccata lui stesso? Ma per fare che cosa? Ecco un altro
mistero.” rifletté sconsolato.
Il vecchio dattiloscritto che aveva davanti continuava a farsi beffe di lui.
Decise in un attimo di scrivere subito. In fondo, che cosa aveva chiesto a
Serse Funari, professore in Australia? Praticamente nulla. Bisognava darsi
una mossa, come aveva gridato Silvia. Inutile aspettare, accese il computer
e iniziò con fatica a scrivere una nuova mail.
Egregio Professore,
forse ricorda che qualche giorno fa l'ho contattata riguardo allo scrittore
americano Thomas McWine. Mi scusi se continuo a disturbarla, ma il suo
aiuto sarebbe per me molto importante. Come lei sa bene, McWine
pubblicò in vita un solo romanzo. Francamente io non ne avevo mai
sentito parlare. Un lavoro su alcune sue carte recuperate fortunosamente
mi è stato proposto da un editore mio amico, ma sto incontrando grosse
difficoltà. Mi permetto allora di indicarle alcune questioni su cui lei,
avendolo direttamente conosciuto, potrebbe sicuramente aiutarmi:
Che lei sappia, Thomas McWine ha ancora scritto negli anni in cui è
rimasto in Umbria? Abbastanza spesso o solo occasionalmente? Come
concepiva il lavoro dello scrittore?
Che cosa si pensava di lui in paese? Era in buoni rapporti con tutti?
Perché, secondo lei, non ha più pubblicato? Ne parlava?
Mi sono permesso di formulare le mie domande in una forma così
schematica per rendere più chiaro ciò che sto cercando di comprendere.
La sua è una personalità affascinante e, secondo me, qualunque
contributo possa ancora emergere per la sua migliore conoscenza è
assolutamente meritevole di attenzione. Forse anche lei ha saputo del
grande interesse che si è da poco riacceso negli Stati Uniti intorno alla
sua figura misteriosa.
Le ripeto, il suo aiuto potrebbe essermi prezioso.. Confido nella sua
pazienza e disponibilità.
La ringrazio molto.
Carlo Centi
A metà mattinata, il giorno dopo, nella sala insegnanti della sua scuola,
Carlo attendeva nell'ora di ricevimento i genitori dei propri alunni.
I due computer a disposizione di tutti gli insegnanti posti su un piccolo
ripiano accanto al tavolo centrale erano ad un passo da lui. Sorridendo alla
madre sorridente che stava entrando intimidita in quel momento, aprì
velocemente la propria posta. Notò subito il nome che aspettava. Per
fortuna il professor Serse Funari gli aveva di nuovo risposto. Invitò con un
gesto cordiale la signora bionda che si era fermata davanti a lui a sedersi.
Innanzitutto il lavoro – si disse – la mail poteva attendere senza fretta.
Lesse tutto con calma quella sera dopo una buona cena.
Carlo, interdetto, rilesse più volte la mail. C'era qualcosa che non lo
convinceva, come una strana reticenza. Perché non aveva risposto almeno
in parte alle domande che gli aveva fatto? Scacciò con fastidio questi
pensieri. Non faceva fatica ad immaginare il carico di lavoro alla fine
dell'anno accademico. “Come da noi a giugno, la fatica si accumula” notò
saggiamente. Riprese tranquillo la quotidiana correzione di pile di compiti.
-XVI-
Dalla finestra della stanza da letto filtra ormai bassa una lama di luce, le
ombre si addensano intorno al piccolo letto accostato alla parete di fronte.
McWine è ancora disteso, con gli occhi fissi in alto, la febbre gli annebbia
i riflessi. Avverte come un cerchio pesante stretto intorno alla fronte. Si
libera con fastidio della pesante coperta, come se volesse in questo modo
lacerare il velo confuso che ancora si addensa nella sua mente, si guarda
intorno spaesato. Sente un rumore di passi nella stanza accanto, il
gorgoglio inconfondibile della caffettiera sul fuoco. C'è nell'aria un
piacevole profumo che accende il suo desiderio. McWine sorride, pensa
con affetto a chi in quel momento sta preparandogli un buon caffè. “Niente
di meglio – pensa – per rimettersi in forma.”
«Maria?»
Dalla stanza vicina gli risponde una grossa risata. «Fuochino, fuocherello.
Hai quasi azzeccato...»
E' l'inconfondibile voce spavalda e divertita di Serse.
McWine è colto di sorpresa. Nel suo sonno agitato non aveva sentito nulla.
«E' da molto che sei arrivato? Scusami tanto, davvero una bella
accoglienza ti ho fatto!»
Serse è già sulla porta. Lo guarda sempre ridendo e lo rassicura. «Non c'è
problema. La mamma me lo ha detto che sei un tantino acciaccato.»
E avvicinandosi al letto esclama con una strizzatina d'occhio: «Anche
l'indomito Thomas McWine qualche volta è costretto ad abbassare la
cresta!»
Thomas è felice di averlo accanto. Afferra la mano che l'altro gli offre e la
stringe calorosamente. «Sono felice di averti un poco qui con me!»
«Al diavolo i sentimentalismi, come mi ripetevi spesso quando ero
piccolo!»
Serse dice queste parole con noncuranza, quasi a voler nascondere la forte
emozione che sta provando, ben visibile sul suo viso.
Alla sua figura alta e sottile si è aggiunto un aspetto sano e vigoroso, frutto
degli impegni sportivi a cui si dedica con grande passione. Veste con la
consueta casualità una camicia a fiori sotto la giacca di velluto scuro e i
soliti jeans sdruciti. I capelli, sempre lunghi e scompigliati, si sono
leggermente scuriti, ma l'azzurro dei suoi occhi si è fatto più profondo.
Thomas li fissa a lungo, registra nella loro luce viva come un fugace lampo
di ironico distacco. “C'è una mente all'opera dietro questo sguardo,” pensa
con grande piacere.
Mentre lentamente si sta alzando un forte colpo di tosse lo blocca.
«Maledizione!» esclama con stizza. «Davvero non ci voleva!»
Serse lo sorregge e lo aiuta, ammonendolo: «Non fare l'eroe! Devi
riposarti.»
Thomas si ferma, lo guarda divertito: «Per niente! So io quello che devo
fare. Devo chiacchierare un po' con te, dopo tanto tempo che non ci
vediamo. Al diavolo quel letto!»
Serse ride, lo accompagna lungo il corridoio verso la biblioteca. Thomas si
abbandona sulla poltrona imbottita con un gran sospiro. Chiude per un
attimo gli occhi come se volesse recuperare la sua sicurezza abituale, ma
nonostante le tante ore di riposo è ancora ben visibile la sua aria affaticata.
Serse si siede accanto a lui. Tacciono. Il silenzio prolungato non pesa,
basta l'essersi ritrovati insieme, stare l'uno accanto all'altro almeno per un
poco.
E' Serse il primo a parlare. Si alza e si avvicina alla grande libreria e
indicandola dice con un tono comicamente declamato: «Caro Thomas,
questa è stata la mia fortuna. Quante belle ore ho trascorso con questi
libri!»
Si appoggia con la mano ad un ripiano, lo sfiora con una affettuosa
carezza. «Ognuno di questi scaffali è come un grande arcipelago di
pensieri, immagini e emozioni. Ho amato sin da ragazzo esplorarli come
mondi misteriosi e sconosciuti.»
Poi, con un tono di nuovo divertito aggiunge: «Da filosofo, come mi hanno
ufficialmente proclamato su carta bollata, posso assicurarti che il mondo
delle idee di cui parla Platone sicuramente esiste: si trova in qualunque
biblioteca.»
Thomas lo ha ascoltato con grande piacere. E' una scena che, negli anni, si
è ripetuta tante volte. “Ecco – pensa – è un po' come vedere il pensiero
vivo che nasce e si forma, come una realtà quasi tangibile presente qui, tra
noi due.”
In quel momento, il piacere della conversazione lo alleggerisce, gli fa
dimenticare gli acciacchi che si porta addosso.
Guarda Serse che intanto si sta di nuovo sedendo, riflette ad alta voce:
«Bella immagine quella: l'arcipelago e il piacere di esplorarlo.»
Lo fissa con un sorriso e aggiunge: «Ma i libri sono una realtà viva, non
sono solo oggetti di carta piazzati su questi scaffali. Stanno lì fermi in
attesa dei loro lettori.»
Con un unico movimento, indica la libreria e poi Serse. «Per questi, sono
sicuro, io ho contato ben poco. Era te che aspettavano.»
Serse accenna con la testa ripetuti segni di approvazione, con un ampio
gesto del braccio dice ridendo: «Allora, se tutto va bene, presto potrò dare
loro una nuova compagnia. Sono a buon punto nelle trattative con un
editore milanese per la pubblicazione della mia tesi di laurea,
opportunamente riveduta ed ampliata.»
«Accidenti, che colpo!» commenta Thomas «Questa è davvero una bella
sorpresa.»
«Naturalmente non è solo merito mio, ci mancherebbe. Una grossa mano
me l'ha data un mio professore che cura la collana di filosofia presso
quell'editore. Il mio lavoro gli è piaciuto molto.»
«E qual è l'argomento che hai trattato?»
«Apparentemente si tratta di una cosa molto specialistica. Il titolo della tesi
è questo: Geworfenheit e Verfallen nella filosofia di Heidegger. Che
tradotto alla buona significa: Gettatezza e dejezione nella filosofia di
Heidegger. Ammetto che anche tradotte le due parole tedesche, molto
specifiche, non diventano molto più chiare. Naturalmente con l'editor ne
troverò uno più accattivante, se non si vogliono spaventare i potenziali
lettori.»
«Già, sembra un rebus. Sai il tedesco?»
«Un poco. Riesco a leggerlo, almeno quello dei libri di filosofia.»
Sul viso di Thomas si allarga un sorriso luminoso. «Ne ha fatta di strada
quel ragazzino che giocava a fare l'aeroplano sul prato qui fuori!» dice con
grande piacere.
Anche Serse sorride. «Non credere. In realtà sono sempre lo stesso.»
«Non mi hai ancora detto di che cosa ti sei occupato nel tuo testo. Quei
paroloni tedeschi mi dicono molto poco.»
Serse riflette per qualche istante, poi con tono sbrigativo, come a voler
minimizzare ciò che ha fatto, chiarisce.
«E' meno complicato di quel che può sembrare. Si tratta dell'esperienza
più ordinaria ed abituale in cui siamo coinvolti quotidianamente da quando
veniamo al mondo: ci impossessiamo delle cose e le gettiamo via in
continuazione. Ma anche noi siamo gettati, abbiamo per così dire una data
di scadenza, è la morte. Heidegger, filosofo tedesco, ha detto cose nuove
ed importanti su questo.
McWine ha ascoltato con grande attenzione e lo guarda interessato.
«Questo è un tema che mi affascina e proprio recentemente ci ho riflettuto
molto.»
Accompagna le sue parole con un noncurante gesto della mano.
«Senza pretendere di essere un filosofo, sicuro. Ma mi sorprende il modo
superficiale con cui abitualmente viviamo il nostro rapporto con le cose.
Eppure buona parte della nostra attenzione è dedicata a loro: fare,
produrre, acquisire, distruggere qualcosa. Buona parte della vita degli
uomini trascorre in questo modo, dominata dall'attaccamento.»
«Per questo tu mi sei sempre sembrato diverso – nota Serse con dolcezza –
nella tua vita non domina l'attaccamento.»
Quasi imbarazzato da questo riconoscimento, Thomas abbassa lo sguardo.
Con gli occhi rivolti verso il tappeto colorato che è ai loro piedi sussurra
lentamente: «Ti posso assicurare che questa è la cosa che mi ha colpito
maggiormente quando, troppo presto, mi sono piovuti addosso tanti soldi.
E' il modello di vita americano diffuso in tutto il mondo dopo la guerra:
produrre e consumare, consumare e produrre ancora di più. Poi restano gli
scarti e anche, purtroppo lo scarto di vite umane.»
Si arresta un poco in silenzio e con un gesto brusco della mano dice con
voce rauca: «E a un certo punto non ce l'ho più fatta!»
Serse si guarda intorno disorientato, è percepibile il suo disagio di fronte al
tono drammatico delle ultime parole. Non vuole dar peso all'angoscia che
vi trapela. Si avvicina alla finestra, la apre, quasi a voler cacciare le ombre
che si sono accumulate nella stanza. Entra una fresca ventata di aria pulita.
Lui torna rinfrancato a parlare di se stesso, dei propri progetti, lusingato
dagli apprezzamenti che poco prima Thomas gli ha tributato.
«Questa pubblicazione dovrebbe essere solo il punto di partenza. Ho in
mente degli sviluppi molto interessanti.»
Thomas si risolleva, lo guarda ammirato. «Vedo che ti stai dando da fare!
Bravo!» dice con voce di nuovo sicura.
Serse, senza dar peso a questo ulteriore complimento, commenta: «Niente
di speciale, non esageriamo. Non bisogna essere presuntuosi. Intanto
quello che sto facendo mi piace, mi appassiona.» Con sguardo ammiccante
conclude divertito: «Questi sono i miei tartufi!»
Ridono tutti e due. «Ti ricordi ancora quella volta?» dice Thomas.
La malinconia vela il suo sguardo. Inevitabilmente ripensa per qualche
istante al proprio passato, a se stesso e a ciò che ha lasciato. Nella sua
coscienza, in quel momento, riecheggia la voce imperiosa che lo
ammonisce: “Inutile rimpiangere, pensare al passato che non si può
cambiare. Non si fanno bilanci!”
Serse, intanto, continua ad illustrare con foga i suoi progetti futuri.
«Poi, chissà, forse si apriranno anche altre prospettive fuori d'Italia. Ho già
provato a fare io stesso una traduzione in inglese.»
Il viso di Thomas si distende.
«L'inglese lo parli molto bene,» osserva soddisfatto. «Ti sei allenato fin da
piccolo.»
Serse sorride di nuovo. «Anche questo è merito tuo.»
Thomas ripensa a quando Serse aveva pochi anni e aveva iniziato a
parlargli spesso in inglese, come se fosse un gioco.
Gli torna in mente la domanda più importante che si riprometteva di
rivolgergli.
«E adesso che cosa farai?»
Thomas risponde con sicurezza, come se la questione fosse quasi scontata.
«Rimango a Torino, collaboro con la facoltà. Come si dice? Resto nel giro,
sperando di avere qualche buona occasione...»
«Gioca bene la tua partita. Sei bravo e devi avere fiducia in te stesso.»
«Lo so, lo so,» lo interrompe Serse ridendo. «Me lo hai sempre detto.»
Conclude con finta rassegnazione, allargando le braccia: «Non mi fare il
solito predicozzo.»
Dice l'ultima parola con un plateale sospiro.
Lo sguardo affettuoso di Thomas è fisso su di lui. Restano di nuovo in
silenzio, entrambi appagati.
La stanchezza ha di nuovo il sopravvento. Thomas si rinserra tra le braccia
la coperta che ha portato con sé, scosso dai brividi.
Serse lo guarda perplesso. «E' meglio che ti rimetti subito a letto! Non fare
l'eroe. Adesso ti lascio riposare.»
Lo abbraccia velocemente, va verso l'entrata e quando la sua mano è già
appoggiata alla maniglia si volta con aria rattristata come colpito da un
ultimo pensiero.
«Questa sera ci sarà la festa. Mio padre ci tiene tanto. Peccato che tu non
potrai esserci.»
Fa per uscire poi, con un bagliore luminoso negli occhi che lo rende tanto
simile in quel momento a sua madre, aggiunge con un sorriso: «Penserò a
te.»
-17-
-XVIII-
E' il 26 settembre 1997, un venerdì . E' una bella giornata di sole, l'aria è
calda, ancora estiva. Maria è arrivata da poco alla casa di McWine. Solo
per pochi minuti si è indaffarata con aria distratta a spazzare e spolverare
in giro, come presa da altri pensieri. Ora, come calamitati da un bisogno
comune, sono seduti insieme accanto al tavolo e parlano di ciò che è
accaduto nella notte.
« Primo dice che non dobbiamo preoccuparci,» sussurra Maria a bassa
voce. «Niente di diverso dal terremoto del 1979. Ci siamo abituati, dice.»
Queste parole sfiorano appena Thomas, che si è seduto davanti a lei.
Osserva il suo volto teso e le dita serrate sul ripiano che dicono qualcosa
di molto diverso dalla tranquillità del marito.
Anche Thomas ha paura.
Il tremolio violento dei vetri delle finestre lo ha svegliato nella notte. Gli
è bastato osservare le ampie oscillazioni del piccolo lampadario della
stanza da letto per capire subito la situazione. Anche lui ha cercato, come
Primo, di rimanere calmo. “Tra queste montagne succede spesso,” si è
detto. Ma un velo di inquietudine si è mantenuto dentro di lui per tutta la
mattinata.
Inevitabilmente subentra il fatalismo.
«Che cosa potremmo fare?»
Thomas fa questa domanda più a se stesso che a Maria. Uno sguardo
rassegnato corre tra loro due.
«Mi do da solo la risposta: niente di niente. Nothing at all. Questa è la
situazione, c'è poco altro da aggiungere.»
Maria gli sorride mestamente. «In casi come questo i nostri vecchi
avrebbero detto una sola cosa: bisogna affidarsi alla Provvidenza.»
Contrariato, Thomas osserva ironicamente: «Niente di diverso dal dire:
bisogna affidarsi al caso. La nostra impotenza è identica.»
Maria lo guarda comprensiva. «Ma noi preferiamo ancora l'altra maniera,
anche se forse è un'illusione.»
Aggiunge dopo un istante con un largo sorriso, arrossendo un poco: «Non
è mai bello avere la sensazione di essere nudi.»
Thomas resta sorpreso, la guarda ammirato. “Lo spirito di Maria – pensa –
è simile a una polla d'acqua che ricompare quando uno meno se lo aspetta.
Vale più questa piccola frase di tante dispute teologiche.”
Maria guarda l'orologio. Si alza.
« E' quasi mezzogiorno. Tra poco dovrò andare. Primo mi aspetta per il
pranzo.»
Thomas stira le braccia, si rilassa. La vicinanza di Maria, come sempre, è
per lui una fonte di energia che spezza la sua quotidiana solitudine.
Si avvicina alla porta. Guarda fuori. Il prato assolato, il bosco più in là,
appena mosso dal vento. Il silenzio.
«E' tutto tranquillo per adesso.»
Dice queste parole e già un suono cupo si alza dal basso. Le pareti
tremano, i vetri delle finestre vanno in frantumi, l'alto e il basso si
confondono. Thomas sente nella stanza accanto i libri che cadono e poi il
tonfo sordo della libreria.
Maria grida, si agita presa dal panico. In un attimo, Thomas la stringe a sé.
Insieme si lanciano fuori.
E' passato appena un minuto e ogni cosa è di nuovo immobile. Solo la
brezza leggera smuove le foglie degli alberi accanto al casale. Niente
sembra mutato.
Stanno fermi sullo spiazzo, confusi, incerti su cosa fare. Thomas guarda la
casa: apparentemente non c'è danno. “E' come una donna di campagna,
piccola e tozza, ma piena di forza,” pensa tra sé. Gli sembra quasi che sia
lei a guardarlo tranquillamente, con la sua aria vecchia e scolorita, come a
dire: eccomi ancora in piedi, sono abituata a ben altro.
Maria è molto pallida, trema, il respiro è affannato. La sua voce fievole
quasi non si sente. Continua a ripetere come incantata la stessa frase:
«Serse, Primo, la casa. Che cosa ne sarà stato?»
Thomas l'abbraccia, cerca di calmarla. Improvvisamente lei si riscuote. Lo
guarda sbigottita quasi che non lo riconoscesse. Si allontana con foga da
lui. Grida con voce stridula: «Ma cosa faccio ancora qui? Debbo andare,
debbo andare!»
Thomas, afferrandole le mani, cerca di tranquillizzarla.
«Hai ragione, andiamo, vengo con te.»
Maria lo fissa, legge nei suoi occhi quella sicurezza serena che già le ha
scaldato il cuore tante volte. Si affida a lui.
«Accompagnami. Solo rivedendoli sarò tranquilla.»
Thomas le sorride, le sfiora il volto con una carezza. Anche lei cerca di
sorridere, ma una impalpabile inquietudine ristagna al fondo dei suoi
pensieri.
Scendono in silenzio. Il loro passo si fa più veloce quando sono in vista
delle prime case, come spinti dall'angoscia che si portano dentro.
Vedono subito le grandi crepe che sfregiano la facciata delle belle
costruzioni sorte in anni recenti, i cornicioni crollati, le macerie dei tetti. In
tanti si affollano per le strade, muti, sorpresi, come se non riuscissero
ancora a capacitarsi di ciò che è accaduto.
Lo sguardo di Maria si carica di paura, inizia a correre verso casa. Thomas
si è fermato, fissa le scene di distruzione che sono tutto intorno, ne è
sconvolto. Sente urla disperate provenire dalla piazza che ancora non vede.
All'improvviso Primo compare davanti a lui. Maria gli è accanto.
Gli occhi di Primo lampeggiano dietro le spesse lenti come una disperata
richiesta di aiuto. Con voce incrinata, chiede in fretta: «Hai visto Serse?»
Thomas lo guarda interdetto. «E' ancora a Monastico? Credevo fosse
rientrato a Torino già da due giorni.»
«Avrebbe dovuto partire, poi ha deciso di fermarsi ancora un poco. Un
ultimo pezzetto di vacanza. E' stato con me fino a metà mattina. Mi ha
aiutato a spillare il vino.» La mano di Primo traccia un brusco gesto di
insofferenza, come a voler allontanare questo fatto ormai insignificante.
«E adesso dov'è?» domanda di nuovo muovendo lo sguardo tra Thomas e
la moglie.
Maria si accosta al marito. A bassa voce gli spiega: «Sì, lo ha detto a me
dove voleva andare...»
Si interrompe. Qualcuno passa trafelato accanto a loro, grida con voce
concitata ai vicini: «La casa del parroco! E' caduta! Forse lui è rimasto
sotto!»
Maria si volta di scatto verso quello che ha parlato, come paralizzata, la
sua voce si fa incerta, con lunghe pause biascica una frase sconnessa:
«...voleva andare a trovarlo. Il nuovo parroco. Per conoscerlo. Discutere un
poco con lui.»
Si guardano spaventati, senza parlare. Ognuno pensa la stessa cosa.
E' Maria la prima a muoversi. Con un grido corre di nuovo verso la piazza.
Thomas e Primo la raggiungono poco dopo. Osservano sbigottiti il
campanile della chiesa privo della punta e, accanto, la vecchia casa
canonica accartocciata su se stessa. Alcune pareti sono ancora in piedi,
come a reggersi l'un l'altra, ma grossi frammenti di muro si addossano
confusamente nella parte più interna, come un edificio bombardato.
Dal bordo della piazza i tre guardano. Possono fare solo questo. Maria è
scossa da forti singhiozzi, si copre il volto con le mani, ripete come una
nenia: «Là sotto c'è Serse! Là sotto c'è Serse!»
«Speriamo che sia vivo,» commenta Primo con voce incrinata. Thomas si
avvicina agli uomini che in quel momento stanno studiando la disposizione
delle macerie. Con ampi gesti del braccio si indicano l'un l'altro punti
particolari, commentano con aria competente e annotano qualcosa su
piccoli quaderni.
Primo e Maria lo sentono che si rivolge a loro con tono deciso. Anche lui
indica con la mano la costruzione semidistrutta, li ascolta con profonda
attenzione, infine allarga le braccia in un gesto remissivo. Ritorna verso i
due che lo continuano a guardare.
«Ho spiegato agli addetti quello che Maria ci ha detto, che là sotto molto
probabilmente c'è anche Serse.»
Maria gli stringe forte un braccio. Thomas la guarda con affetto, vede nei
suoi occhi il pendolo che oscilla tra paura e speranza. Anche lui prova le
stesse emozioni.
Qualcuno discute lì accanto, in un capannello di persone che contemplano
il disastro. «Da un pezzo quella casa andava messa a posto, lo dicevamo in
tanti,» dice uno. E un altro in abiti da lavoro lo corregge: «No, come
sempre è stato un problema di soldi. A poco è servito il parere della
sovrintendenza.» Una anziana donna si è fermata, li ascolta, poi commenta
con un tono sconsolato e definitivo: «E' proprio vero, è sempre così. Sarà
un caso, ma è l'unica casa del paese che è caduta.»
Queste voci sono, nelle orecchie dei tre rimasti immobili e senza parole,
come un brusio indistinto non diverso dal ronzare di un alveare. Come
paralizzati, non fanno più nulla, aspettano, fermi, dimentichi di tutto.
Sul lato opposto della piazza, vicino alla grande fontana Vera discute
concitatamente con le amiche, si sporge con foga verso la casa
semidistrutta, cerca di avvicinarsi per vedere meglio, ma viene fermata,
costretta a recedere. Solo in quel momento nota la madre e il padre,
lontani, fermi accanto al signor McWine. Le sembrano spaesati, incerti,
quasi che si trovassero in un luogo sconosciuto. Si incammina verso di
loro. Lo scialle rosso che le copre le spalle è come un segnale. Primo la
vede, poi anche Maria, che alza debolmente il braccio per richiamare la
sua attenzione.
I lunghi capelli di Vera si agitano nel vento, ancor più quando, scuotendo
energicamente la testa impreca più volte e con voce concitata esclama:
«Siamo proprio in Italia! Non c'è mai stata attenzione verso il rischio
geologico, non c'è prevenzione! E poi piangiamo...»
Primo la interrompe: «Là sotto purtroppo c'è tuo fratello. Ne siamo quasi
certi.»
Vera si blocca, impallidisce come se avesse sentito una notizia incongrua,
assurda, immotivata. Lei stava, come tanti giovani presenti nella piazza,
soppesando genericamente le responsabilità politiche di simili tragedie, e
improvvisamente si sente afferrata in un abisso.
Guarda la madre, cerca nei suoi occhi una impossibile smentita. Scoppia in
un pianto disperato.
Intanto, intorno a loro si organizzano i soccorsi. Giungono i mezzi della
protezione civile. Una nutrita squadra di volontari inizia con cautela a
rimuovere le macerie. Tutto è perfettamente organizzato.
Thomas, sempre più inquieto, trova conforto per un istante notando la
prontezza ammirevole dell'intervento di soccorso, ma subito lo sfiora
un'amara constatazione: “Anche in questa situazione tragica, come se
fossimo in una qualunque fabbrica, in una banca o in un esercito, ognuno
sa cosa fare. Ecco che ora domina l'efficienza, l'ordine vince sul caos. Ma
ci si dimentica troppo facilmente che è il caos che impone le regole del
gioco che siamo costretti a giocare. Caos, caso: è quasi la stessa parola.”
Passano le ore e il sole percorre il suo arco. I quattro restano fermi nel
medesimo angolo della piazza, dimentichi della fatica e dell'estenuante
attesa. Maria, accasciata, prega a bassa voce, stringendosi le mani al petto.
Thomas la osserva più volte, legge nei suoi occhi dilatati uno strazio
intollerabile. Lo sente identico dentro di sé. Come chi su una parete liscia
cerchi disperatamente un appiglio per non precipitare, McWine cerca di
dare un senso a ciò che stanno vivendo. Non ci riesce. La brillantezza
letteraria e il piglio sicuro delle sue argomentazioni sono ormai fuori uso,
totalmente inadeguati di fronte alla nuda realtà. Nella mente gli balena da
un tempo infinito un unico pensiero:“Non occorrono tanti ragionamenti
quando si lacera la carne viva.”
Vede qualcosa adombrarsi nel viso di lei, come un ombra scura che lo
attraversa. Maria non ha più lacrime. Pallida, fissa Thomas, ripete più
volte a bassa voce, sfinita: «Non ce la faccio! Non ce la faccio!» Tocca il
braccio dei due uomini che le stanno accanto come in un tacito saluto, si
appoggia alla figlia. Si allontana lentamente con lei verso casa.
E' ormai sera. Rimane un vago barlume di luce sul filo delle colline che
contorna il profilo spezzettato dei boschi, testimoni muti e indifferenti di
ciò che è accaduto in questo luogo.
Sulla piazza, intorno alla casa canonica, le squadre continuano
pazientemente il loro lavoro. Ma non c'è voce, richiamo o appello che
fuoriesca da quella rovina inerte.
Cala la notte senza luna. Le luci fotoelettriche falciano le ombre spettrali
dell'edificio sventrato, illuminano le figure minuscole dei tecnici che
girano con sicurezza tra le macerie, scavano rapidamente i piccoli detriti e,
manovrando i mezzi cingolati, rimuovono con cautela i resti della casa.
Per tutto il pomeriggio Thomas e Primo non hanno quasi parlato. Ora si
guardano per un attimo, sperando entrambe di trovare nella figura
conosciuta dell'altro un inaspettato aiuto che alimenti almeno un poco la
loro fievole speranza.
«Che facciamo?» domanda Primo.
«Non lo so. Non so più nulla” gli risponde Thomas con un sorriso triste.
Gli viene un gesto spontaneo. Con un braccio cinge le spalle di Primo, lo
accosta a sé. Immobili, così uniti, attendono insieme.
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