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I QUADERNI DELLO SCARTO

-1-
Era il 6 luglio 2013, un sabato. So bene che per molti di voi la cosa
sarebbe passata inosservata, ed avrebbe prevalso spontaneamente il buon
cuore, la comprensione, il sentiamoci tutti uguali e solidali. E'
naturalmente quello che avrei pensato anch'io se allora lo avessi potuto
vedere, chiuso nella sua piccola auto, lanciato verso le meritate vacanze,
muovere avanti e indietro nella sua piccola testa i soliti pensieri, gli stessi
che avreste trovato uno, due, dieci, venti anni prima.
Bloccato nel traffico intenso del fine settimana lungo l'autostrada A10
direzione Genova, Carlo sognava.
Il tempo, inesorabile censore, aveva emesso da tempo, appunto, la sua
inesorabile sentenza. A Carlo era stata lasciata libera solo la piazzola dei
sogni.
Gli esami erano finiti il giorno prima e subito era partito.
Ripensava ai colleghi conosciuti in commissione. Il presidente ormai
vicino alla pensione, brontolone e scostante, il collega di matematica,
corretto e distaccato come un bravo impiegato intento a stilare i sui
rapporti riservati, e soprattutto Viola, la collega di inglese, la sola presenza
amichevole e sorridente in quella riunione di morti viventi, una simpatica
ragazza non molto alta e dalle floride forme giunoniche.
Ci sono storie – si diceva, ripensando a Viola – che partono da sole e storie
che hanno bisogno di una piccola spinta per decollare, anzi di uno slancio
energico capace di farle alzare in volo.
Su quella carreggiata diritta, nella confusione delle auto stracariche e degli
automobilisti inferociti, era come se si aprisse in lui una luminosa galleria
di ricordi da percorrere e ripercorrere con immutato piacere. Era il modo
migliore per riempire le tante ore vuote del lungo viaggio verso Deiva
Marina.
Sarebbe stata un'impresa molto difficile – pensava Carlo nel gioco delle
sue fantasie - far capire a un extraterrestre che cosa erano in Italia gli
Esami di stato. Sarebbe apparso sicuramente come un bizzarro spettacolo,
una specie di rituale o una grandiosa opera buffa in cui erano coinvolti
migliaia di giovani abitanti della penisola italiana. Ed anche quei
volenterosi extraterrestri - sorrideva Carlo – avrebbero provato uno
spontaneo moto di pietà verso gli insegnanti nominati, interni ed esterni,
rassegnati al loro tedioso ed inutile compito, sopportato con stoica apatia.
Come lui, Viola era ancora una docente instabile ed itinerante, senza una
sede definitiva. E come lui - lo ripeteva a se stesso per la millesima volta -
viveva sola, tranquillamente single, o almeno così gli aveva detto.
Ripensando a quella intesa speciale, vedeva loro due come abili nuotatori
capaci di emergere insieme, con le loro teste accostate, dal piatto mare
soporifero in cui tutta la commissione d'esame, per giorni e giorni, era
rimasta quotidianamente immersa. E con un rapido montaggio, da questi
piacevoli fotogrammi di potenziale storia futura il pensiero sfrecciava
verso il passato, a una scena che gli capitava spesso di rivivere, quando,
non molti anni prima, era stato davvero ad un passo dal consolidare
un'ottima intesa con Anna, un'amica della sua cara cugina di Chiavari.
C'era stata anche allora – e, nel ricordo, lo sottolineava adesso con ironia -
una spontanea convergenza delle loro anime che avrebbe potuto
trasformarsi quasi senza sforzo in una duratura unione, una lunga vita
insieme, lui ed Anna, della quale era in grado di vedere, come in uno
scorcio rapidissimo, tutti i futuri sviluppi. Con un certo fastidio rispuntava
allora la domanda: che cosa era mancato? La risposta ai suoi occhi
appariva scontata: sempre e soltanto la sua terribile timidezza.
Fece un rapido calcolo. All'epoca di quel promettente incontro finito nel
nulla lui aveva trentasette anni... Dunque erano già passati cinque anni! E
con un clic automatico la sua mente completò: sembra ieri.
Immerso nel caldo afoso di mezzogiorno, nella noia spessa del viaggio
solitario lungo la linea retta dell'autostrada, sempre in direzione di Genova,
nulla era cambiato. Carlo tornava e ritornava a darsi la medesima risposta.
La timidezza, soltanto la timidezza, sgretolava ogni ponte che aveva
provato a lanciare verso le donne che aveva conosciuto. Chissà – si diceva
- forse questa volta, con Viola, sarebbe stato diverso. Valeva comunque la
pena di non rinunciare, come era sempre accaduto. Continuava a ripeterlo
a se stesso. Doveva provare a mettercela tutta, andare fino in fondo. Ma la
buona volontà non bastava, lo sentiva. E con un moto pendolare ripartiva
da capo.
Coniugare i verbi al condizionale passato era la cosa che gli riusciva
meglio: sarei andato, avrei mangiato, avrei incontrato, sarei stato, e così
via. Ne era tranquillamente consapevole, e il professore di italiano che era
dentro di lui aggiungeva e precisava: ancor meglio me la cavo con i verbi
servili: sarei potuto andare, avrei potuto mangiare, avrei voluto incontrare,
avrei potuto eccetera eccetera. Era questo – lo vedeva - lo stile costante
degli infiniti bilanci della propria vita che lui si costringeva a fare.
Carlo controllava ogni momento l'orologio sul cruscotto. Cullato dal
ronfo regolare del motore manteneva la bassa velocità della sua piccola
utilitaria e continuava a sognare. I suoi pensieri, adesso, si spingevano in
avanti verso le serene giornate che stavano per aprirsi. La costa scoscesa, il
silenzio, la pace. Bagni su bagni, un piacere immenso che avrebbe
consentito un riposante oblio. Già pregustava le tante ore ed ore disteso al
sole, immerso nel dolce far niente. Tra poco avrebbe anche rivisto i vecchi
amici della giovinezza, le amicizie veramente inossidabili.
In quel momento, però, poco oltre Alessandria, non c'era ancora niente di
tutto questo e Deiva Marina, il suo paese natale, era ancora troppo lontana.
Carlo non era abituato a viaggiare da solo. Quel lungo silenzio diveniva
sempre più intollerabile. Con un gesto automatico ripetuto migliaia di
volte, spinse nel lettore delle musicassette – un raro lusso molto vintage
offerto dalla sua vecchia auto immatricolata nel 1993 – un venerato
cimelio musicale degli anni '70 che custodiva gelosamente, uno dei tanti di
cui andava fiero. Dalle casse malconce proruppe un bel pezzo sincopato e
la voce gutturale di Barry White lo ricaricò un poco; ma la noia che aveva
dominato le lunghe giornate degli esami pareva averlo seguito di soppiatto
e ancora stazionava all'intorno come fumo tossico nell'auto di un fumatore
incallito. Troppo soffocante e limacciosa ebbe di nuovo il sopravvento.
Dopo pochi minuti di musica assordante, pigiò con un gesto di fastidio il
pulsante di deiezione, la musica si interruppe e fu sostituita da un
notiziario, la voce concitata di uno speaker. Quel tono allarmato suonò
dentro di lui come un segnale di pericolo e ascoltò con attenzione le prime
parole. Era accaduto qualcosa di importante, non capiva bene dove
esattamente, probabilmente in Africa, sì, in Nigeria, una strage, all'alba un
commando di estremisti islamici aveva fatto irruzione in una scuola, una
quarantina i morti, bruciati vivi, in buona parte studenti. Quelle parole
tremende bloccarono per un secondo il rollio degli innocui pensieri che si
erano mossi dentro di lui fino a quel momento. Come accade spesso in
simili casi, confrontò istintivamente la propria vita e quella di quei
disgraziati, lui in viaggio verso il mare e la morte terribile di quegli
innocenti. Ebbe per qualche istante la sensazione di qualcosa di già
vissuto, il senso sfuggente di una piccola vergogna che non si poteva più
cancellare, insieme alla confusa sensazione di una perdita che era rimasta
indietro, in un punto lontano del suo passato ormai definitivo ed
immutabile. Faticava a ricordare quando e dove aveva già vissuto e
pensato tutto questo, molti anni prima. Sentiva che era un ricordo
importante, che gli apparteneva nel profondo, ma in quel momento
l'attenzione ottusa del suo stupido impegno nella guida, lo sguardo fisso
sulla strada, non consentiva una nitida messa a fuoco. Poi ecco,
improvvisamente farsi avanti l'immagine precisa di quel giorno. Era stato
il suo primo viaggio importante, frutto di tanti mesi di risparmi, anno
2001, gli Stati Uniti. L'11 settembre era a New York, i primi giorni di una
splendida vacanza. Lui stava uscendo dalla metropolitana e vedeva quella
massa di gente correre con il volto stravolto, guardandosi alle spalle.
Girato l'angolo, vide anche lui la punta della Torre bruciare. Nella sua
mente era allora scattato un automatismo, si era subito preoccupato
stupidamente, in quella tragedia, della cosa più squallida e
insignificante.«Ma che sfortuna, adesso mi rovino la vacanza.» Subito se
ne era vergognato. Anche ora, nel caldo del piccolo abitacolo, il ricordo
riportava a galla quella vergogna, gliela riconsegnava come se lui fosse
ancora a New York, la vedeva riflessa davanti a sé nella sorte di quei
poveri studenti nigeriani. Ma – si chiedeva – che cosa avrebbe potuto fare
allora e che cosa poteva fare adesso? Saliva dentro di lui uno sconsolato
senso di impotenza, come se la rinuncia a qualsiasi tentativo di risposta gli
apparisse inevitabile.
Soffocato dall'inquietudine, spense la radio, si rifiutò di ascoltare. Lo si
può capire, lo avreste giustificato anche voi. Con un'ampia virata, la sua
mente planò di nuovo con moto deciso sul terreno abituale e rassicurante
dei sogni ad occhi aperti.
A risvegliarlo quasi subito intervenne il suono fastidioso del telefonino.
Inutile dire che Carlo, nel suo amore per un passato che forse non c'era mai
stato – le tante cose logore ed usate di cui si circondava stavano a
dimostrarlo – odiava i telefonini, soprattutto i modelli più recenti pieni di
giochi e funzioni varie. Coerente fino in fondo con i suoi principi - giusti o
demenziali che fossero - si era adattato a portare con sé un vecchio
modello della fine degli anni '90 appartenuto a sua sorella, giusto per le
impellenti necessità imposte dal suo doppio lavoro. Come tanti altri,
infatti, da qualche tempo Carlo aveva abbinato alle entrate ufficiali, ma
non sempre sicure, della sua occupazione di insegnante precario, una
piccola integrazione abbastanza vantaggiosa come consulente e
collaboratore di una piccola casa editrice di Torino, proprietà di un suo
vecchio amico dell'era ormai lontana degli studi universitari. Benché molto
piccola, era abbastanza conosciuta e apprezzata, soprattutto per l'ottima
cura dei testi pubblicati.
Il telefono continuava a suonare. Afferrato con un moto di fastidio
l'apparecchio, in pochi secondi la mente di Carlo entrò in azione. Controllò
il display. Era il numero delle Edizioni Beccalossi. Quella in arrivo era
dunque effettivamente una telefonata di lavoro. Valeva la pena rispondere.
E Carlo, controvoglia, si rassegnò a farlo.
«Pronto...?»
«Che fai vecchio lavativo, sei ancora tutto impegnato a riposarti?».
Riconobbe subito dal tono la voce del suo amico, nonché editore e datore
di lavoro, Renato Beccalossi. Era una sua caratteristica. La sua aria allegra
e scanzonata aveva ingannato spesso più di un interlocutore, che la
scambiava, sbagliando, per una sicura prova di ostentata superficialità.
Sotto quella superficie si nascondeva invece una volontà di ferro, molto
abile nel tessere sinuosamente le vie migliori per il raggiungimento dei
propri obbiettivi.
«Sei ancora a scuola a far finta di lavorare o ti stai già riposando in
proprio a casa tua? Ma cosa fate voi insegnanti tutta l'estate mentre gli
altri ruscano?»
«Non credere, è dura anche per noi. Con questo caldo a scuola si moriva.
Ho finito gli esami proprio ieri.»
Il tono di Renato, dietro la patina divertita della sua voce, lasciò trapelare
un forte interesse. «E adesso dove sei?»
Un poco seccato, Carlo assunse scherzosamente un timbro didattico:
«Sono in macchina e sto andando a Deiva Marina. Non se ne può più per il
caldo. E il traffico sta aumentando. Tra poco inizierà il tratto tremendo
dell'autostrada verso Genova e non posso rischiare la pelle con questo coso
in mano». L'altro ridacchiava. «Non possiamo riparlarne tra un po'?» buttò
lì Carlo; ma evidentemente Renato non lo aveva nemmeno ascoltato,
perché subito sbottò: «Stai andando a trovare i tuoi al paesino au bord de
la mer? Ma è perfetto!»
Carlo restò un poco interdetto.
«Scusa, e perché?»
Renato cambiò immediatamente tono, passando in un attimo dal faceto al
professionale. «Se mi dai tempo un secondo, adesso ti spiego. E fai
attenzione alle curve.»
Fu così che Carlo sentì per la prima volta pronunciare il nome dello
scrittore americano Thomas McWine. Un caso letterario esploso all'inizio
degli anni '50, divenuto poi un' enigma nei decenni successivi.
«Al successo clamoroso del suo primo romanzo – a Hollywood ne hanno
ricavato anche un film abbastanza famoso – non sono seguite altre
pubblicazioni.» spiegò il suo amico Renato. «Proprio per questo motivo,
per un certo tempo la sua figura negli Stati Uniti ha acquisito contorni
leggendari...»
Carlo lo interruppe subito, come se volesse far risaltare la propria
competenza: «Un po' come è accaduto per altri famosi scrittori americani
come Salinger o Pynchon?» Questa vicenda incominciava ad incuriosirlo
ed era evidente che Renato se ne era perfettamente accorto.
«Esatto, ma con un'impronta ancora più morbosa alimentata dai giornali
scandalistici. Pynchon è sicuramente un'altra cosa.».
Carlo si accorse di aver aperto un capitolo pericoloso che rischiava di
andare per le lunghe. Non era il caso di lanciarsi in una discussione
letteraria nel traffico sempre più intenso e con una mano sola sul volante.
Renato, intanto, aveva continuato a spiegare come per quasi un trentennio
ciclicamente rispuntasse ogni tanto da qualche parte la ricerca più o meno
pretenziosa delle vere ragioni che avevano spinto il misterioso scrittore ad
abbandonare gli Stati Uniti e a trasferirsi in Italia.
«L'interrogativo sempre uguale – qui, sicuro dell'effetto ormai raggiunto,
Renato sottolineò abilmente le sue ultime parole con una lunga pausa – la
domanda sibillina che concludeva tutte quelle ricostruzioni più o meno
fantasiose, pubblicate anche su giornali importanti, era all'incirca sempre
la stessa... » Ancora una pausa. «Non vedo l'ora di sentirla...» sussurrò
Carlo col tono di chi ne ha abbastanza. La telefonata si stava protraendo
troppo e il peso del cellulare sembrava aumentare con il passare dei
minuti. Un po' risentito Renato lo bloccò subito.«No, Carlo, bravo
insegnante di lettere e apprezzato collaboratore delle Edizioni Beccalossi,
qui non è il caso di scherzare, perché la cosa si fa seria, soprattutto per
noi.» Un tantino intimidito Carlo tacque e Renato, padrone della scena,
concluse rapidamente.
«L'ipotesi solleticante che periodicamente è ricomparsa su quotidiani,
riviste e pubblicazioni titolate, riguardo al destino di quel grande giovane
scrittore scomparso nel nulla, era sempre questa: probabilmente ha scritto
molto altro, ma, per segreti motivi, forse di protesta, ha scelto di rinunciare
a qualsiasi pubblicazione dei suoi lavori; la futura riscoperta ci riserverà
grandi sorprese. Questo, come ti dicevo, più o meno fino alla metà degli
anni '80.»
«Perchè... dopo?» chiese quasi automaticamente Carlo. E l'amministratore
unico delle Edizioni Beccalossi concluse teatralmente «Poi, come accade
di solito, a poco a poco ci si dimenticò di lui».
Renato – il compagno di tante bevute negli anni dell'università lo ricordava
bene – era un affabulatore abilissimo e l'interesse di Carlo, dopo la
veniale manifestazione di insofferenza, era di nuovo cresciuto.
«La domanda che allora potresti farmi – marcò infine Renato, come se gli
apparisse scontata la risposta – è sicuramente questa: noi che cosa
c'entriamo? Qui sta il bello. Cerco di spiegartelo ancora più chiaramente.»
Senza perdere di vista la strada davanti a sé e la lunga fila continua di auto
sfreccianti che superavano la sua utilitaria troppo lenta, Carlo, vincendo la
stanchezza, cercò di mantenere viva la concentrazione.
«Un amico con i contatti giusti» continuò Renato, «mi ha passato una
dritta in esclusiva molto promettente». Carlo non riuscì a frenare un
sorriso. Conosceva già le “dritte” di Renato dal tempo lontano
dell'università. Erano quasi sempre inconsistenti. Veramente – rise Carlo -
erano dritte troppo curve, ripiegate sulla sua presunzione.
L'intraprendente editore torinese riassunse velocemente la questione.
«Questo scrittore, McWine, ha vissuto per tantissimi anni in Italia,
precisamente in un piccolo paese dell'Umbria che si chiama Monastico. E'
morto circa un mese fa. Gli eredi americani, che prima nessuno aveva mai
visto, come era prevedibile si sono fatti subito vivi. E a provvedere allo
sgombero e alla ripulita della casa per la vendita immediata è stato
incaricato un amico del mio amico, un imprenditore umbro, che mi ha fatto
un po' casualmente una bella soffiata.» Renato tacque per un momento,
come se volesse caricare le sue parole di suspense. «Svuotando lo
scantinato è saltata fuori una cassa piena di fogli accatastati confusamente,
manoscritti e dattiloscritti. Il mio amico, quando è venuto a saperlo,
conoscendo da un pezzo qual è il mio mestiere mi ha subito passato questa
utile informazione.» Renato concluse, scandendo con sicurezza le ultime
parole. «Pensa, nessuno oltre a noi lo sa.» E poi, sbrigativamente aggiunse:
«Almeno per quanto ne so io». Il futuro editore di successo tacque, come
conquistato dal proprio discorso e dalle ipotesi luminose che si
dispiegavano ai suoi occhi: un'ascesa clamorosa, internazionale, di cui
tutti avrebbero parlato, l'evento letterario dell'anno.
Ma il silenzio si protraeva. Un po' interdetto Renato chiese: «E allora?»
Carlo ancora taceva e infine la semplice osservazione con cui ruppe il suo
lungo silenzio, molto spontanea, raggelò un poco l'esaltazione dell'amico:
«E io che c'entro? Che cosa potrei fare?» Senza dar peso alla nota risentita
che risuonava chiaramente dietro a queste domande superflue, Renato,
riassumendo rapidamente la sua veste neutra e professionale, riprese e
chiarì: «Ecco l'idea che ti passo. Scendi in Umbria, trovi questo paesino e
prelevi la cassetta o baule che sia. Mi hanno assicurato che è facilmente
trasportabile. Poi, con calma, darai un'occhiata a quelle carte e comincerai
a lavorarci sopra. Tu sei quello che, nella nostra squadra, conosce meglio
l'inglese. Ricordiamo tutti le tue ottime traduzioni. Anche questa volta
potrebbe uscirne qualcosa di buono, molto buono.»
Subito, con una domanda molto ragionevole, Carlo seccamente lo
interruppe di nuovo: «Un momento. Perché dovrebbero dare tutta quella
roba proprio a me?» Con la sicurezza di chi vede raggiunto lo scopo che
aveva programmato, Renato tagliò corto e fornì al suo amico quel
chiarimento definitivo, che – a pensarci – era implicito fin dall'inizio nel
suo lungo discorso.
«Non preoccuparti. E' già tutto organizzato. Ho già lasciato il tuo nome.
Basterà che ti presenti all'albergo che c'è in paese. Troverai una persona
che provvederà a tutto.»
Ecco! Renato si era scoperto. Non gli stava chiedendo se poteva rendersi
disponibile per questo incarico, ma lo stava sottilmente imponendo, dando
per scontata la sua disponibilità. Carlo, troppo stanco, non se la sentiva più
di polemizzare. Era ormai vicino al livello di guardia. E allora, senza
lasciare il tempo di aggiungere altro, si rassegnò.
«Va bene. Ci andrò.»
Appagato, come chi ha raggiunto la meta, Renato chiuse in fretta, gli
augurò buon viaggio e lo salutò.
Nella testa del professore, iniziò a muoversi lo sciabordio di tante ipotesi,
tutte ugualmente possibili. Rifletteva sulla strana vicenda che Renato gli
aveva raccontato. Qualcosa non tornava. “I grandi scrittori – rifletteva –
lasciano sempre qualcosa, opere incompiute o abbandonate; ma non è
davvero questa la situazione che mi ha descritto Renato: questo famoso
romanziere americano completamente dimenticato, è stato l'autore di un
unico romanzo dal successo strepitoso.”
«La prima domanda che allora gli farei – disse ad alta voce toccando il
sedile accanto – se questo scrittore fosse qui in viaggio con me, è questa:
hai continuato a scrivere? Possibilissimo, in effetti, che uno scrittore cessi
di scrivere. E poi subito la domanda numero due: perché, allora, se hai
continuato a scrivere, non hai più pubblicato nulla?»
Naturalmente, per il famoso McWine, la pubblicazione di qualunque cosa
avesse scritto, fosse anche la lista della spesa, sarebbe stata facilissima.
Carlo era particolarmente affascinato dalla terza domanda che allora
necessariamente seguiva.
«Ma, se hai scelto di non pubblicare i tuoi scritti, questo significa che hai
scelto di farti dimenticare?»
Carlo scuoteva la testa, contrariato. Era tutto assurdo, l'esatto contrario di
quello che tutti gli scrittori avrebbero fatto, a qualunque latitudine.
Carlo continuava a borbottare tra sé: «Anche quelli che si mantengono
nascosti, che odiano la celebrità, voglio alimentare la vita delle loro opere,
e questo è possibile solo facendole circolare. Tutti tentano in ogni modo
di consolidare la propria fama e, come si dice, di passare ai posteri; ai
posteri l'ardua sentenza... ma perché sentenza ci sia – osservava con
perspicacia - occorre anzi tutto essere ricordati. E allora?»
C'era qualcosa di assurdo in tutta la faccenda. Iniziava a dubitare del
frettoloso entusiasmo del suo amico, quella sicurezza troppo sbrigativa
riguardo allo straordinario ritrovamento di carte inedite.
Molto probabilmente quel viaggio indesiderato che gli era stato
subdolamente imposto si sarebbe rivelato il classico buco nell'acqua.
Anzi, pensò ridendo, un bel buco nel mare, che avrebbe provveduto lui
stesso a scavare l'indomani con qualche splendido tuffo. Non era certo il
caso di affrettarsi, meglio prendersela comoda passando almeno qualche
giorno tranquillo. Renato non aveva indicato nessuna data precisa. Quando
doveva andare in Umbria? Si accorse di aver dimenticato di chiederglielo.
Ma che importava?
Controllò con molta attenzione un cartello stradale che stava superando.
Sì, mancava poco. L'incanto del mare che già da parecchio splendeva tra i
suoi pensieri, lo abbagliava.
Si voltò di scatto verso il sedile accanto. Beffardo, immerso tronfiamente
nel sole, il telefonino silenzioso lo stava osservando. «E tu adesso stai
zitto!», urlò scagliandolo indietro. Poi, come liberato da un grosso peso,
trasse un profondo sospiro di sollievo e finalmente si rilassò al pensiero
che presto sarebbe arrivato.

Superato il toboga di Genova e l'inquietante lungo ponte sospeso stile


Brooklyn, Carlo sentiva aria di casa. L'autostrada contornata di fiori
aveva indossato definitivamente il suo bellissimo abito estivo e correva
sinuosa tra le alte colline lasciando intravedere ogni tanto uno spicchio di
mare.
In un baleno si trovò all'indicazione che stava aspettando da un pezzo:
Deiva Marina. Era quasi arrivato. L'auto rallentò, imboccando la corsia di
uscita e il ticchettio della freccia a destra era come il ritmo allegro della
festa che si annunciava.
La strada scendeva dolcemente con larghi tornanti, come se non volesse
affrettarsi verso il mare. Indugiava tra gli uliveti e i piccoli gruppi di case
sparsi lungo la collina scoscesa. L'aria salmastra penetrava attraverso i
finestrini aperti e Carlo, con un sorriso beato, si godeva la tranquilla
discesa, senza fretta, già perfettamente appagato, come se quell'azzurro in
alto e il suo contrappunto di sotto, che si faceva sempre più vicino,
risvegliassero dentro di lui, senza bisogno di altro, la felicità del se stesso
bambino che in quei luoghi aveva vissuto i suoi anni più belli.
Per Carlo, quel tratto di strada era speciale. Era come l'aprirsi di una scena
teatrale sempre più luminosa e dagli intensi colori. La lastra di cobalto si
allargava a poco a poco, simile ad un grande schermo. Carlo, interamente
preso dal suo sogno, si lasciava andare con un sorriso al piacere di questa
similitudine, senza temere la sua sdolcinata banalità. Su questo schermo,
screziato dalle linee leggere delle onde, si proiettavano i suoi ricordi, come
se venissero liberati tutti insieme. Simili a colombe, dapprima titubanti sul
bordo della gabbia aperta e poi libere in volo, tutte queste immagini nitide
e confuse del suo passato si sfrenavano in un folle inseguimento giocando
tra di loro.
Senza temere gli eccessi del sentimentalismo, Carlo si lasciava andare e
godeva quella piccola magia che lo portava indietro nel tempo, replicata
ormai tante volte in quella che lui aveva definito, ridendo, “la fase
nomade della mia vita”. Si era rassegnato a questa condizione raminga
come se fosse un destino. Probabilmente, se avesse insistito con più
tenacia, avrebbe potuto sicuramente garantirsi da molto tempo una più
sicura stabilità. Conosceva a memoria il reticolo di strade e città disteso tra
Piemonte e Lombardia e come una pedina che è mossa in un gioco che non
potrebbe capire, cambiava scuola quasi ogni anno. Cambiavano anche i
colleghi e per ogni trasferimento si replicava lo sforzo di creare nuovi
legami, nuove amicizie. La sua spontanea cordialità lo facilitava in questo
impegno, ma inevitabilmente c'era sempre una sorta di barriera che
rendeva difficile essere accettati. Era abituato ai lunghi periodi di
solitudine, li accettava, come inevitabile parte del gioco.
Ciò che avvertiva dentro di sé in quei momenti di tristezza lo trovava ben
espresso nella parola nostalgia. Nòstos, algos, il dolore della lontananza, il
bisogno del ritorno. Questo erano, per lui, Deiva e il suo mare.
Un vago senso di malinconia ritornò a farsi sentire, la percezione confusa
di una perdita a cui non avrebbe saputo dare un nome, si insinuava al
fondo dei suoi pensieri e lacerava il fragile velo della serenità.
La stanchezza gli giocava brutti scherzi, troppe ore di guida solitaria.
Cercò di calmarsi e di nuovo si rivolse a se stesso cercando di non essere
consumato da quel tarlo pessimista che sentiva muoversi nella sua mente.
Osservò con più tranquillità, «Carlo, sei qui per divertirti, è questo che
conta adesso.» Con un sorrisetto sarcastico pensò: «Poi mi toccherà anche
star dietro ai sogni di Renato, alla ricerca del suo mitico tesoro nella terra
di San Francesco.» Alzò gli occhi al cielo, rassegnato. «Bah! Ci mancava
anche questa!»
Era intanto arrivato.

Finita la discesa, i gruppi di case si addensavano. Il suo vecchio nido, o


meglio quella che adesso era unicamente l'abitazione dei suoi genitori, si
trovava sul lato estremo del paese verso la parte più orientale, dove il
fianco della montagna precipita verso il mare e si interrompe
all'improvviso con un bordo netto, come sezionato verticalmente da una
gigantesca lama. Girando al primo bivio verso la strada più esterna Carlo
sarebbe potuto arrivare in un baleno. Ma perché affrettarsi? Da qualche
tempo aveva creato per se stesso un piccolo gioco, una specie di rito
propiziatorio personale, che svolgeva puntualmente un po' per scherzo e un
po' come gesto scaramantico, ogni volta che arrivava. Proseguendo lungo
la strada principale, scendeva fino alla piazzetta. Parcheggiata l'auto
ancora carica nel primo posto disponibile – non sempre facile da trovare –
proseguiva a piedi, percorrendo lentamente la strada centrale, animata da
tanti negozi e locali. Quasi senza preavviso, la strada sbucava, dopo
un'ultima svolta, sullo splendido bordo della spiaggia. A questo punto,
qualunque fosse la stagione, dimenticato ogni suo ruolo, si rimboccava i
pantaloni alla caviglia e si incamminava a piedi nudi verso il mare. Giunto
alle prime onde sul bordo della battigia, bagnava una mano nell'acqua
salmastra e con un tono fintamente solenne salutava il mare. Questo
gesto, dentro di lui, segnava l'atto di inizio di un beato periodo di
sospensione – Carlo usava dottamente la parola greca epochè – durante il
quale imponeva a se stesso l'obbligo di cancellare tutti i pensieri negativi e
di godere di quell'istante.
Era pomeriggio inoltrato e il caldo iniziava ad attenuarsi. Il sole stava già
nascondendosi alle spalle delle colline e, passando tra i numerosi bagnanti
ancora stesi al sole, Carlo si diresse verso la battigia.
Compiaciuto, notò lo sguardo di perplessità con cui veniva seguita
questa sua impresa. Ancora perfettamente vestito con gli abiti da città, cioè
un paio di jeans sformati e una giacca leggera di lino bianco, Carlo si
avvicinò all'acqua. Anche chi si trovava in quel momento a qualche metro
dalla spiaggia, intento a nuotare, si sforzava di vedere ciò che stava
accadendo. Carlo procedette al suo rito, concluso il quale, con un ampio
sorriso rivolto a coloro che si erano fatti intorno per assistere meglio a
questa strana scena, ritornò tranquillo sui suoi passi, come se ciò che aveva
appena fatto fosse la cosa più normale del mondo, ripetuta abitualmente da
tutti.
Si trattava per lui, a questo punto, di prepararsi mentalmente all'incontro
con i suoi genitori. Per Carlo, questa era sempre stata una cosa non facile.
Non perché ci fossero motivi di astio reciproco o di indifferenza, ma tutto
all'opposto, perché era tale il loro coinvolgimento nelle sue faccende
personali che era difficile districarsene. L'incontro periodico con i suoi, le
persone – quasi inutile dirlo – a cui teneva di più, gli lasciava spesso un
senso di delusione, come una festa attesa e continuamente rimandata senza
una precisa ragione, solo perché chi l'aveva organizzata era troppo
impegnato a far altro.
Il padre, Nicola, uomo dalla forte tempra di origini abruzzesi, ex-
ferroviere, impersonava perfettamente il cliché tradizionale del pensionato
tutto dedito ai suoi piccoli lavori quotidiani. Accudiva con totale
dedizione, che a qualcuno avrebbe anche potuto sembrare un poco
maniacale, il piccolo orto dietro casa. Lo splendore dei suoi prodotti e
l'ordine perfetto delle lineari coltivazioni di melanzane, fagiolini, peperoni,
pomodori e qualche zucca dalla quale ricavare i gustosissimi fiori, a
seconda delle stagioni, erano il suo orgoglio, e non c'era conversazione in
cui non citasse il suo orto come un ottimo esempio del modo in cui tutti
avrebbero dovuto lavorare.
Al suo arrivo Carlo lo aveva incontrato vicino al grande fico, l'unico albero
cresciuto smisuratamente davanti alla casa. Stava raccogliendo le primizie
della sua ricca produzione, quei grossi frutti simili a sacchetti scuri, e
Carlo si era subito fatto avanti ad aiutarlo, sicuro che questo fosse il modo
più tranquillo per riprendere contatto. In realtà suo padre lo aveva già visto
da lontano e lo accolse allegramente. «Ciao, Carlo. Arrivi proprio al
momento giusto. Sembra che mi hai letto nel pensiero. C'è bisogno di una
mano per togliere in fretta tutto questo ben di Dio dalle grinfie di quegli
stronzi di uccelli che non vedono l'ora di papparselo.»
«E io sono qui proprio per questo!» rise Carlo stando al gioco.«Mi metto
subito al lavoro!»
«Così come sei?»
«E che importa! Tanto avrei dovuto comunque cambiarmi!»
Carlo era sicuro di aver guadagnato punti. Nella scala di giudizio del padre
darsi da fare, muovere in fretta le mani, veniva al primo posto.
Quell'albero aveva una storia curiosa, che era stata per Carlo addirittura
drammatica, ma che ora ricordava volentieri con un sorriso.
Rivedeva quella giornata di tanti anni prima, lui aveva circa quattro anni,
forse cinque. Era uno dei suoi primi ricordi, che conservava perfettamente,
quando il padre aveva deciso di piantare quell'alberello fatto di due rami
contorti e quasi senza foglie. Sua madre si era opposta duramente. «Che ce
ne facciamo di un grande albero davanti a casa, che ci toglie la luce e ci
riempie di punteruoli neri e di cocciniglie!». Grande albero? Il piccolo
Carlo guardava il piccolo albero striminzito e non riusciva a capire tanta
agitazione. La mamma dove aveva imparato tutte quelle cose? E perché
papà non la stava neanche a sentire, non la prendeva sul serio? Lì, fermo
davanti a loro, ancora con la sua automobilina nuova in mano – ora
ricordava anche quello – Carlo se lo domandava e capiva che c'era
qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava. Molto presto, i suoi
genitori, di solito così pacifici ed affettuosi l'uno con l'altro, avevano
acceso una lite furibonda, rinfacciandosi cose incredibili che lui neanche
capiva. Era la prima volta che Carlo li vedeva litigare così violentemente.
Quello spettacolo lo aveva angosciato, come se fosse un torto nei suoi
confronti, e per questo, negli anni, agli occhi di Carlo il fico era rimasto
per sempre associato alla enorme tristezza che aveva provato allora.
Ora, ripensando a tutto questo mentre aiutava il padre nella raccolta, lui
quarantaduenne non tanto diverso dal padre come era in quegli anni,
riconosceva con uno sguardo pieno di divertito distacco che la mamma
aveva avuto assolutamente ragione. Quell'albero era davvero troppo
grande. E Nicola era un gran cocciuto.
Maria, sua madre, nel frattempo, tutta intenta ai fornelli, ancora non era
uscita a salutarlo. Faceva sempre così. Aspettava che fosse lui a fare il
primo passo.
Entrato in casa, si diresse immediatamente verso la cucina, sicuro di
trovarla. Maria era una donna ancora diritta e slanciata per l'età, la sua aria
giovanile lasciava intravedere la bellezza che aveva sicuramente avuta
nella sua giovinezza. Ciò che più colpiva nel suo modo di fare era la
signorile compostezza, che poteva anche dare l'erronea impressione di un
carattere chiuso e un poco altezzoso. Ma era solo apparenza, in realtà era
una donna mite e comprensiva, forse solo eccessivamente riservata. Se
davvero i caratteri vengono ereditati, la timidezza di Carlo si poteva
immaginare da dove veniva.
«Ciao, mamma. Io sono già arrivato da un pezzo. Stavo fuori ad aiutare
papà.»
«Lo so, lo so, ti ho sentito.»
Gli abbracci che seguirono furono, come ogni altra volta, carichi di affetto.
Ma questa – Carlo lo sapeva in anticipo – era solo l'ouverture, tra poco
sarebbe seguita, per così dire, la melodia principale. Era in grado di
anticipare parola per parola quello che la madre avrebbe detto. Doveva
prepararsi a quel lungo assolo, cercando di rimanere calmo. Infatti, eccolo
in arrivo, puntualmente. Da dieci minuti stavano chiacchierando del più e
del meno quando sua madre di punto in bianco aveva iniziato la lunga
litania delle cose che Carlo avrebbe potuto fare e non aveva fatto, le cose
che Carlo doveva fare e non faceva, e monotonamente sottolineava ad ogni
verso la sua indolenza, confrontandola con la vita tutta diversa della
sorella. «Guarda tua sorella, che è più piccola di te. E' impiegata in banca a
Genova, è felicemente sposata, e ha due bei bambini, la gioia della loro
nonna!» Lo ripeteva come un ritornello, che Carlo neanche più ascoltava.
Puntualmente, però, il punto critico, nonostante tutta la sua buona volontà,
era stata la cena. Dopo aver sentito in silenzio o quasi la ripetizione infinita
della medesima canzone, a quanto pare l'unica che sua madre conoscesse,
con il contrappunto degli episodici interventi di suo padre che, con gli
occhietti maliziosi, gli chiedeva per l'ennesima volta se c'era qualche
nuova fiamma in giro, non ce l'aveva fatta più. Il fiume di parole scorreva
sempre uguale, e il mite Carlo sapeva quanto era importante per i suoi
vecchi genitori che lui li ascoltasse. Far finta di ascoltare era un'altra delle
sue specialità. Accadeva così, purtroppo, quasi ogni volta. Riuscì a
resistere ancora una mezz'oretta, poi, allargando le braccia verso i due lati
del tavolo dove loro sedevano, sfiorò leggermente le loro mani e li salutò
con un sorriso. «Vi voglio bene«». Lo disse mentre era già quasi sulla
porta e uscì.
Il piccolo bar, in alto all'ingresso del paese, era ritornato miracolosamente
al suo aspetto degli anni '70 e sfoggiava ora la sua aria molto vintage
sorprendentemente alla moda. Il nuovo gestore aveva saputo ritrovare in
vari magazzini sparsi nel borgo molti dei vecchi arredi, gettati alla rinfusa
e semi-abbandonati. Il locale principale, a cui si accedeva attraverso un
piccolo ingresso poco appariscente, appariva immutato, gli stessi tavoli
rotondi di formica e le sedie con gli schienali di plastica intrecciata, di
fronte al bancone massiccio perfettamente attrezzato. Ancora c'era in un
angolo un po' appartato il vecchio bersaglio delle freccette. Quante sfide
con gli amici su quel cerchio colorato! Quello era il tradizionale punto di
ritrovo, subito accanto ai tavoli verdi dei giocatori di carte. Anche ora,
l'altro lato della stanza era il posto del televisore, un nuovo modello con
grande schermo. Ma Carlo ricordava quando, con tanti altri ragazzini,
assisteva sul tubo catodico del piccolo televisore in bianco e nero (c'era già
il colore? Non riusciva a ricordare) alle partite dei mondiali di calcio.
Italia-Germania 3-1, campioni del mondo! Era il 1982.
Carlo si godeva la brezza fresca che arrivava dal mare, contemplava felice
la magnifica luna piena. Quella sera di luglio pareva fare di tutto per
garantire una splendida scena. Già pregustava l'incontro con tutti loro.
Stava per rivederli, si sarebbero finalmente seduti senza fretta allo stesso
tavolo, come avevano fatto infinite volte.
Gli sembrava assurdo, ma una cosa così semplice era diventata quasi
impossibile, non accadeva ormai da parecchio tempo. Del resto – pensava
– non è quello che succede un po' a tutti? Ci si allontana, chi per lavoro,
chi per altri motivi, ci si perde di vista, come se le distanze si dilatassero
nello scorrere degli anni.
Era accaduto anche a loro. Il quartetto inseparabile – Carlo, Sandro, Elia,
Giovanni - si era disperso nel vasto mondo. Ci si sentiva qualche volta al
telefono, qualche contatto in chat – cosa che Carlo naturalmente odiava -
capitava, con qualcuno, ogni tanto, di riuscire ad organizzare una pizza
veloce, qualche ora di chiacchiere e bevute.
C'era, in più, per Carlo – ci stava pensando da un pezzo – una ragione
particolare a rendere speciale quell'incontro. La possibilità, finalmente di
chiarire tutto, fino in fondo, tanti stupidi malintesi, con l'amico a cui era
più legato fin da quando erano ragazzi e passavano insieme l'intera estate.
Da sempre Sandro era stato il suo amico del cuore. C'era un fondo di
derisione, quando gli altri li chiamavano così, sfottendoli un poco.
Avevano fatto tante cose insieme, viaggi, corteggiamenti, zingarate in giro
per l'Italia. I loro caratteri erano completamente diversi, ma proprio per
questo motivo, molto probabilmente, si era creata tra loro una sintonia
spontanea, intensa e immediata. Le loro strade nella vita correvano su due
percorsi completamente diversi. Sandro aveva scalato – per così dire – le
montagne, Carlo invece si era accontentato della tranquilla pianura.
Proprio per questo non c'era mai stato motivo di invidia. Carlo
riconosceva senza difficoltà la superiorità dell'amico. La creatività, l'estro
inventivo si erano disposti interamente dalla sua parte. Un gradino al di
sopra di tutti gli altri amici ed un gradino molto alto.
Diciottenne, il timido Carlo assisteva incredulo alle performance
dell'amico nelle sgangherate feste scolastiche. La musica era sempre stata
la sua vita. Aveva iniziato a cantare come tanti, in una piccola band della
zona, nei localini che d'estate mettevano fuori tavoli e sedie e invitavano
questi gruppi semi-dilettanteschi ad intrattenere la clientela.
Poi la sua attività musicale si era allargata. La sua grande energia sulla
scena, senza risparmio e molto contagiosa, e la potente voce gutturale che
sprigionava in modo esplosivo come un fiume in piena, gli avevano aperto
la strada verso un crescente successo.
In quel magico periodo, Carlo aveva vissuto in prima persona le imprese
dell'amico. Segnava su un apposito quadernetto le date dei concerti, le
uscite dei nuovi dischi, i passaggi radiofonici e televisivi. Era come se
fosse lui stesso sul palco sotto le luci intense e pulsanti, immerso nel fumo
che saliva intorno, lui stesso protagonista di fronte al pubblico scatenato e
entusiasta.
Sfortunatamente – ma chissà se la fortuna esiste? Carlo non ci credeva per
niente - il tramonto era stato altrettanto rapido. Troppo pigro e scostante,
Sandro non aveva saputo sfruttare le occasioni che gli si erano presentate.
Ultimamente lo si vedeva ancora, non molto spesso, in piccoli locali
alternativi, qua e là per l'Italia.
Salendo lungo la stretta strada verso il locale luminoso in cui dovevano
incontrarsi, Carlo pensava con inquietudine a come tutto si consumi e solo
la vera amicizia sappia resistere all'usura del tempo. E' una banalità – si
diceva – ma è assolutamente vero che quando si rivede dopo tanto tempo
un amico è come averlo lasciato il giorno prima.
Bisognava allora trovare l'occasione per rivedersi tutti insieme ancora
tante volte, dar valore a quel bene prezioso. Giravano dentro di lui,
confusamente immagini incerte di quello che sarebbe accaduto tra poco,
quando avrebbe rivisto Sandro. Un'occasione – continuava a ripetersi -
molto impegnativa. Lui e Sandro, con gesti volgari e cattive parole si erano
lasciati piuttosto bruscamente. Ripercorse nella sua mente, in una rapida
sequenza, ciò che era accaduto, sperando di riuscire ad afferrare, almeno
questa volta, di chi era stata davvero la colpa.
Era stato anche allora in un fine settimana. Faceva freddo e la serata
umida era come un invito alla tranquillità.
Senza che nessuno lo volesse, la piacevole chiacchierata nel piccolo bar
centrale del paese, dove lui e Sandro si erano incrociati un po' per caso, era
degenerata in uno scontro assurdo, come se anni ed anni di amicizia
fossero serviti unicamente a preparare la finale resa dei conti. Era nato
tutto da da un piccolo gioco innocuo che facevano quasi sempre quando si
incontravano, una passione che avevano entrambe. Con una battuta
rapidissima uno ricordava qualcosa e l'altro, senza attendere, doveva
rilanciare con qualcosa di simile. Chissà per quale motivo quella volta,
cinque mesi prima, si erano lanciati in un'assurda competizione,
moltiplicando gli sforzi per riportare alla luce i ricordi più sgradevoli,
come se le piccole invidie e le banali frustrazioni della vita potessero
trovare uno sbocco in quel modo squallido, ammantandosi di scherzose
parole. Tutto era degenerato, come su una china sdrucciolevole. Con
violenza avevano iniziato a rinfacciarsi i reciproci fallimenti, le mediocri
viltà che costellavano abbondantemente la vita di entrambe. Carlo
ricordava quei terribili momenti con un misto di fastidio e dolore. Gli
sembrava un gigantesco crollo, un'amicizia di anni distrutta in pochi
minuti.
Sapeva benissimo che sarebbe stato difficile, faticoso, forse anche
umiliante rappacificarsi, ma l'amicizia con Sandro era la cosa più
importante e al diavolo l'amor proprio.
Il piccolo locale era già affollatissimo, benché non fossero ancora suonate
le nove al campanile della chiesa parrocchiale. Guardandosi intorno con
aria un po' spaesata, Carlo notò che c'erano soprattutto tanti giovani vestiti
in modo informale con calzoncini alla moda e magliette colorate.
Sorseggiavano bibite varie, conversando tranquillamente, la maggior parte
in piedi ed alcuni seduti tra i tavolini esterni.
L'appuntamento concordato era per le nove e trenta e Carlo si accorse solo
in quel momento di essere molto in anticipo. Era uscito da casa come se
stesse scappando.
Cercando di individuare tra quella folla qualche volto conosciuto, notò un
braccio che si alzava per richiamare la sua attenzione. Guardò meglio tra il
mare di teste che si muovevano. Vide, in fondo alla sala interna, un
capannello di ragazzi intorno un uomo un po' sovrappeso, sembravano
molto interessati a quello che stava dicendo, come discepoli intorno al loro
venerato maestro. Riconobbe il profilo aquilino di Sandro, la sua chioma
fluente, da tempo un poco rada e ingrigita.
Anche in quel momento il suo stile disinvolto che tante volte gli amici
avevano preso in giro era inconfondibile. Ogni suo gesto sembrava
calcolato millimetricamente per produrre il minimo dispendio di energia.
Carlo ricordava alcune situazioni spassosissime ed assurde che erano
derivate da quel suo spontaneo comportamento, come i suoi proverbiali
arrivi all'ultimo secondo in vari aeroporti. Si diresse verso quel tavolo. I
ragazzi scansandosi educatamente lo guardavano come un marziano.
Carlo non sapeva come rompere il ghiaccio, era stampata sulla sua faccia
la solita aria impacciata che, come un segnale ben esposto, evidenziava le
sue enormi incertezze.
Fu Sandro a parlare per primo.
«La tua faccia somiglia a quella di uno che vale 2000 dollari» scandì con
le dita puntate verso di lui come una pistola. Il sorriso aperto che
immediatamente seguì queste enigmatiche parole liberò Carlo di tutte le
paure.
«Già ma... tu non somigli a quello che li incassa» rispose rilassato. «Il
buono, il brutto e il cattivo. Millenovecentossessantasei.»
Si abbracciarono, ridendo. Fu Carlo a parlare.«Sei anche tu in anticipo!» E
aggiunse, battendogli una pacca sulle spalle: «Non vedevo l'ora!
Finalmente! Ah, anzitutto: scusa per quello che è capitato l'altra volta, non
capisco come può essere successo»
Ma Sandro alzando il palmo della mano lo fermò subito. «Non parliamone
più. Che importanza ha?»
Carlo capì solo in quel momento che qualcosa nella voce dell'amico
ritrovato era fuori posto. Era diversa dal solito.
Vedendo la sua faccia sorpresa e sbigottita, Sandro con una lentezza che
non era solamente l'effetto della sua proverbiale calma, nuovamente scandì
le parole. «Beh, come vedi, niente è più come prima. Un mesetto fa c'è
stato un bel giro di boa.» Quella voce che Carlo conosceva benissimo, che
aveva sentito cantare tante canzoni stupende e improvvisare assoli
stravolti, ora non c'era più.
«Ma, che ti è successo?»
Non se l'aspettava quella sorpresa, non sapeva che dire. Buttò lì
l'osservazione più scema. «Forse grossi problemi alla gola? A voi cantanti
capita facilmente.» Sandro riuscì comunque a sorridere e a spezzare con il
suo inconfondibile stile la tensione crescente. «Veramente, qualcosina di
più». Si capivano le parole, ma la voce era ridotta a un bisbiglio roco.
Fu in quel momento che arrivarono gli altri due.
«E' qui la festa? Madonna, quanta gente c'è stasera!» Urlò dall'alto del suo
metro e novantacinque Elia indicando con il braccio tutto intorno. Poi, si
rivolse direttamente a Carlo con un dito puntato, accelerando buffamente
le parole come un cantante rap. «Carlo, lontano da tutti, cancella coi rutti,
la lunga astinenza, non ha più pazienza, e vuole scooopare...Subito!!!»
Carlo gli regalò un sorriso un po' forzato. Con quelle parole, come
succedeva sempre, Elia si era presentato. Per lui era normale, come per gli
altri il solito «Ciao Carlo, come stai?» Era anche il suo maggior difetto,
non riusciva proprio a controllarsi. Qualche volta in passato aveva provato
diligentemente a tenere a freno un po' meglio se stesso, ma era stato
sempre un disastro. Inevitabilmente, le parole gli scappavano di bocca
senza che neanche se ne accorgesse.
Giovanni, nel suo abito impeccabile, come se fosse uscito in quel
momento dall'ufficio di consulenza al pubblico in cui lavorava, finse di
arrabbiarsi.
«Elia, bisognerebbe metterti la museruola».
«Per forza, i fighetti come te hanno bisogno di tranquillità e silenzio.
Devono riposarsi dopo le lunghe giornate di noia pura.»
Carlo li osservava. L'alto smilzo e il piccolino rotondetto, il compassato
conformista e il casinista ribelle. Il caso sembrava aver giocato con loro
come nel più classico miscuglio degli opposti, quello che Goethe chiamava
“le affinità elettive” – ma con un senso un tantino diverso. Provava a
ricordare. Da quanto tempo li conosceva? Giovanni era l'ultimo arrivato, si
era unito a lui, Sandro e Elia, quando era venuto in paese con un incarico
temporaneo e poi, chissà come, si era fermato. Già, un po' come nel
Deserto dei tartari, – si diceva Carlo – solo che per quei suoi due amici la
fortezza Bastiani si trasformava in una specie di circo e senza dubbio Elia
e Giovanni avrebbero ottenuto, insieme, un posto sicuro come la coppia di
clown più acclamati. Era automatico, per chi li incontrava la prima volta,
pensare a qualche film comico, Ciccio e Franco, Totò e Peppino.
Naturalmente loro non lo avrebbero mai ammesso. Anzi, fingevano spesso
una sorta di indifferenza reciproca, addirittura a volte una aperta ostilità,
che non riusciva però a nascondere la loro intensa amicizia.
Nel frattempo, era già stato ordinato, non si capiva da chi, il primo giro di
birre. Notando l'aria remissiva e taciturna di Sandro, che sembrava poco
coinvolto nella festa che si annunciava, Carlo si ricordò della cosa che più
lo aveva colpito fino a quel momento e che nessuno ancora gli aveva
spiegato.
«Ancora nessuno mi ha detto chi gli ha rubato la sua bella voce.» chiese
Carlo, indicando Sandro e cercando di dare alla sua richiesta il tono più
distaccato.
«Scherzi della vita. Capita.» bisbigliò con un po' di fatica l'amico.
«Sì, ma scherzi da prete,» commentò energicamente Elia, «e di un prete
molto stronzo che ti vuole un sacco di male.»
Risero insieme, ma si sentiva che circolava tra loro un certo imbarazzo,
come se si faticasse a parlare di quella brutta beffa del destino.
«No, non sono per niente degli scherzi questi, ma Sandro si sta curando
molto bene» spiegò Giovanni.
«Ma che cosa è successo?».
La domanda sboccò direttamente dal cuore, quasi urlata. Molti ai tavoli
vicini si voltarono. C'era in essa tutta l'angoscia di Carlo, come se questa
inaspettata e maligna rivelazione rappresentasse una specie di punto finale
di quella strana giornata. Ma come è possibile – si domandava – che
dall'oggi al domani cambi tutto in questo modo, una giravolta assurda che
mette in luce quanto poco vale ciò che facciamo, anche le cose più belle!
E' come se Dio giocasse a rimpiattino con noi e ci fregasse all'ultimo
angolo.
«Purtroppo capita spesso» spiegò di nuovo Giovanni. «Un tumore alla
tiroide, durante l'intervento è rimasta lesionata una corda vocale.»
Sandro lo interruppe bruscamente. «Basta così. Non siamo all'ospedale.»
Tutti tacquero. Era sceso su di loro, nonostante la bella serata estiva, un
senso di gelo. Uno stesso pensiero silenzioso percorreva le loro menti,
come se in quel momento, insieme, venisse toccata nel modo più diretto e
brutale la scorza dura della realtà.
Carlo provò a spezzare quell'onda di malinconia con una nota più leggera e
con tono divertito e scherzoso iniziò a raccontare le sue disavventure.
«Voi non ci crederete nemmeno, ma c'è qualcuno che mi vuole rovinare
le vacanze. Addio sole, tuffi e mare.»
Elia si fiondò subito, come un pesce che non vede l'ora di abboccare
all'amo, su questa opportunità di leggerezza offerta dal racconto di Carlo.
«Nei secoli dei secoli, amen. La sfigarella del Carlino, attenti è qui
vicino! Vade retro che ci contamini!» urlò balzando in piedi.
«Ma non hai già finito gli esami?» chiese Giovanni senza badare alle urla
dell'amico.
«Quelli sono ormai in archivio. E' l'altro lavoro che mi frega. L'editore.»
I suoi amici conoscevano vagamente le occupazioni extra-scolastiche
attraverso le quali Carlo faceva quadrare i conti. La cosa li incuriosì.
«Quale editore?» domandò Giovanni. Carlo cercò di spiegare in poche
parole la situazione, secondo lui assurda, in cui lo aveva cacciato
l'ambizioso Renato Beccalossi.
«Morale della favola, le mie vacanze si riducono, come una bistecca
estrogenata. Massimo una settimana.»
«Ma che te fregaaa, ma che te emportaaa» si mise a cantare Elia a voce
alta. «Chi te lo fa fare? Ti ha puntato contro una pistola? No? E allora
lascia perdere e goditela!»
Nonostante quel tono casinaro e volutamente disimpegnato le parole
dell'amico furono per Carlo come un lampo. Pensandoci per non più di un
secondo, si accorse che effettivamente Elia non si sbagliava e la questione
era esattamente quella. In effetti, chi glielo faceva fare di affrettarsi tanto?
Poteva tranquillamente fermarsi una decina di giorni, forse addirittura una
quindicina, che differenza faceva?
Si rivolse verso Sandro, con aria fintamente risoluta. «Vedi un po' quali
belle tentazioni mi fa passare sotto il naso Elia!» E aggiunse ridendo.
«Caro Elia, nonostante la tua aria da scemo, credo proprio che hai
ragione!»
Ma i giochi del caso ancora non erano finiti e, come una coincidenza
beffarda, in quello stesso momento Carlo sentì nuovamente quel cicalino
fastidioso che tanto odiava e qualcosa che gli vibrava in tasca. Imprecò tra
sé e sé. Di nuovo una telefonata. Sperò che quel suono odiato presto si
interrompesse, ma il trillo continuava e si ripeteva come a ricordargli la
sua indiscutibile autorità. Alzandosi, si scusò con gli amici. «Solo un
attimo.» Si allontanò un poco per rispondere.
Bastò un'occhiata. Era sempre lui. Ma che cosa voleva a quell'ora? Carlo
cominciava ad arrabbiarsi. Erano quasi le undici. Chi si credeva di essere
quel mega-direttore fantozziano per rompergli le scatole a quell'ora?
Rispose con il tono di chi non ha né voglia né tempo di andare per le
lunghe.
«Che c'è, Renato?»
«Sei arrivato?» Anche il tono dell'amico era molto spiccio.
Era la cosa che meno si aspettava. Rimase per un attimo interdetto. Gli
venne spontanea la domanda più scema.
«Dove?»
«In Umbria, accidenti! E dove se no? Erano più o meno le quattro quando
ci siamo sentiti. Dovresti ormai essere arrivato da un pezzo.»
Carlo si guardò i piedi, perplesso. Tutta la sua sicurezza era sparita.
«Scusa Renato, ma non mi pare di averti detto che ci sarei andato subito.
Adesso.»
Brusco, Renato lo interruppe subito.
«Ma no, scusa tanto tu, mi pare che fosse abbastanza evidente, no? Io lo
davo per scontato. Pensavo che avessi capito. E adesso dove sei, allora?»
La voce di Carlo si riduceva sempre più mano a mano che cresceva il suo
imbarazzo.
«A Deiva, a casa.»
«No, allora veramente hai capito un cazzo» lo interruppe di nuovo Renato.
«Il problema è molto serio. Ci sono editori importanti che già si stanno
muovendo e cercano di portarcelo via.» Portarcelo? notò Carlo. Non
capiva per niente quel plurale e che cosa c'entrasse lui in questo grande
affare.
L'imbarazzo stava ancora crescendo. Sentiva lontano il brusio discreto del
mare e tutto intorno la brezza calda e leggera di quella bella serata estiva.
«E allora?» La voce di Renato si era fatta improvvisamente imperiosa.
«Dimmelo pure chiaramente, se la cosa non ti interessa la passo
immediatamente a un altro.»
«Ma no, certo che mi interessa, te l'ho già detto.» Era la sua resa totale, la
replica moltiplicata di quanto era già avvenuto nella telefonata precedente.
«E allora datti da fare, diamine! In fretta!» Renato non lo salutò neppure e
Carlo sapeva benissimo che il giorno dopo sarebbe stato molto diverso da
quello che aveva immaginato.

- II -

E' il 24 maggio 1970, una domenica. Puntualissimo alle ore 7.30 il volo
Pan Am proveniente da New York atterra a Roma. E' una splendida
giornata di sole che già preannuncia l'estate. Attraverso le grandi vetrate
l'uomo aitante di una cinquantina d'anni, ma molto ben portati,
perfettamente visibile nel suo sgargiante vestito azzurro, ha seguito il lento
avvicinamento dell'aereo, la dolce discesa, il leggero contatto con il suolo,
l'arresto. Ora attende nell'ampio atrio degli arrivi la comparsa del suo
vecchio amico Thomas McWine. Non lo rivede da parecchio, pregusta il
piacere dell'incontro, si domanda curioso, sfregando inconsapevolmente la
pancia con una mano, se lo troverà un po' ingrassato, come purtroppo sta
accadendo a lui.
La folla si addensa, sono in molti ad attendere i viaggiatori provenienti da
New York. Colleghi, amici, parenti, qualche tonaca, incaricati delle
agenzie turistiche con vistosi cartelli in mano. Tutti si assiepano verso il
varco che si aprirà tra poco. Anche Philip, l'uomo elegante amico di
McWine, si fa avanti e cerca di mantenersi bene in vista. Ecco i primi, i
più frettolosi, poi tutti gli altri. Ed infine i più lenti che escono alla
spicciolata, senza fretta. Tra questi Philip riconosce subito l'inconfondibile
profilo dell'amico. Il caso ha deciso che, senza saper nulla l'uno dell'altro,
indossino vestiti quasi identici, un elegante completo estivo, solo il colore
è diverso. Quello di McWine è bianco. Si vedono e si sorridono da
lontano. Philip agita la mano, cerca di richiamare l'attenzione con ampi
gesti, anche se non sarebbe necessario. Si capisce, dal modo in cui si
muovono e sorridono, che sono entrambi molto felici.
«Welcome in Rome!» urla Philip accentuando comicamente il suo accento
del Tennessee, non appena Thomas è più vicino. Si abbracciano con forza.
Hanno pochi anni di differenza, ma Thomas sembra più giovane, forse per
la corta barba bionda e i capelli più lunghi che gli coprono le orecchie, o
forse anche per il suo fisico più esile.
E' Philip a guardarsi intorno e a richiamare l'attenzione del fattorino
affinché trasporti la pesante valigia. E' solo il bagaglio essenziale, le cose
che servono immediatamente. Tutto il resto arriverà con comodo via mare.
Infatti Thomas McWine non è un turista come tanti che si affollano intorno
a loro, anche se il suo aspetto potrebbe ingannare. Vacanze romane, la
dolce vita, non sono questi i suoi progetti. E' una intenzione maturata da
tempo, vuole vivere in Italia. Perché? Probabilmente in quel momento
neanche lui saprebbe dirlo. Per tutto il viaggio quella è stata la domanda
che gli ha girato a lungo in testa e ha riempito i suoi sogni confusi nel
sonno spezzato, sullo scomodo sedile. Sto facendo una cosa assurda, si è
detto. Ma so che è esattamente quello che devo fare. Infatti, le ragioni per
questo passo drastico sono tante, ma in quel momento, nella gioia
dell'incontro, preferisce non pensarci, restano nascoste al fondo della sua
mente.
Philip tiene un braccio sulle spalle dell'amico, lo guida verso l'uscita. Si
vede che è a suo agio e conosce perfettamente la strada. Vive a Roma
ormai da molti anni, come addetto alle pubbliche relazioni nell'ambasciata
statunitense. In realtà, i suoi incarichi sono anche altri, non tutti alla luce
del sole. Ha capelli molto corti, biondi e imbrillantinati, una lunga cicatrice
gli segna la guancia sinistra, un souvenir dalla guerra di Corea.
Scendono lungo le scale mobili, escono sull'ampio piazzale.
«Quali novità mi porti dall'America? Qualcosa sta cambiando. Nixon si è
dato da fare, ci ha portati sulla luna, speriamo che ci porti fuori dal
Vietnam. Laggiù siamo nella merda fino al collo.» Philip è ossessionato
dalla politica, coinvolto in prima persona.
Un sorriso ironico passa per un istante sul volto di Thomas, conosce
abbastanza bene la brutalità dell'amico. Solo apparenza. Si ferma sul
marciapiede assolato, lo trattiene per un secondo.
«Lasciamo perdere tutto questo, non roviniamoci la giornata. Piuttosto
cosa mi racconti sulla tua ricerca della mia futura sistemazione? Sei stato
bravissimo, ti ringrazio.»
L'altro lo guarda, allargando le braccia. «E gli amici che ci stanno a fare?
A dirti la verità, la cosa mi ha anche divertito. Tante telefonate e un bel po'
di viaggetti verso quelle terre selvagge. In realtà la distanza da Roma non è
molta. E – a proposito – laggiù si mangia benissimo.»
Ridono tutti e due incamminandosi verso i parcheggi. Quasi al centro
spicca il rosso di una spider decappottabile. Quando le sono accanto
Philip, con evidente compiacimento, estrae dalla tasca il mazzo di chiavi.
Thomas lo guarda stupito.
«Non farti strane idee sul mio conto in banca» dice Philip ridendo. «E' una
gentile concessione dell'ambasciata. Mi serve.»
Salgono. Philip fa rombare con gusto il potente motore, volgendosi verso
l'amico, silenziosamente invitandolo con lo sguardo ad apprezzare il suono
ruggente. «Saremo laggiù in un attimo.».
In pochi minuti sono già su una strada poco trafficata scandita da un filare
continuo di pini marittimi. Philip guida sicuro.
Thomas si gode il piccolo viaggio. Si guarda attorno, lo colpisce il colore
della luce, la luce italiana, diversa da tutti i posti in cui è stato in
precedenza. Quello che sto facendo – pensa – è un po' un ritorno alle
origini. Da queste terre proveniva mia madre, la sua famiglia.
In un lampo doloroso si accende nella sua mente il ricordo della madre.
Come un'onda che trascina via dalla riva, sente tutto il peso della sua
perdita. E' morta da poco, senza soffrire. Anche questa è una delle ragioni
per cui ha deciso di partire. Chiudere con gli Stati Uniti, dove è nato, è
cresciuto, ha incontrato un enorme e imprevedibile successo con il suo
primo libro. Dove gli anni, poi, sono volati stancamente tutti uguali,
concludendo ben poco dei tanti progetti che aveva in testa. Ecco la svolta,
l'Italia, ripartirà da capo, senza fretta. Guarda l'amico che, tranquillo,
continua a guidare silenzioso.
«Dove si trova il bel posto che mi hai trovato, dove vivrò i miei prossimi
anni?» chiede.
Philip si volta ridendo. «E pensare che io, all'inizio pensavo scherzassi.
Quando mi hai raccontato come, con un impulso improvviso, avevi fatto
un cerchio sulla carta geografica che avevi di fronte – la stavi consultando
per preparare il tuo nuovo romanzo, mi hai detto – e avevi pensato “Ecco
andrò a vivere più o meno qui”, come se fosse la cosa più normale del
mondo decidere di tagliare tutti i ponti e iniziare una vita completamente
nuova in un posto che nemmeno si conosce. Thomas, sei proprio tu!»
Philip continua a ridacchiare batte una mano sulla coscia dell'amico e
ripete divertito: «Più o meno, davvero, più o meno...»
Thomas cerca di spiegarsi, avverte il bisogno di chiarirsi anzi tutto con se
stesso. Pensa al modo incredibile in cui è arrivato a ciò che ora sta
vivendo, come l'inclinazione casuale di poche pietre che produce la caduta
di un' intera parete.
«Vedi, Phil, questi posti hanno sempre avuto un significato per la mia
famiglia, qui mia madre era vissuta da bambina e spesso mi raccontava
qualcosa. Era come un'immagine mitica, abbastanza confusa se le
chiedevo qualche dettaglio. Ricordava qualche nome. Assisi – la città del
santo poverello, diceva – Spoleto, Norcia. Ma se le chiedevo quale fosse il
nome del suo paese non lo ricordava, gliene uscivano diversi,
probabilmente tutti storpiati.
Avevo solo capito che era un piccolo borgo, poche case, in una zona molto
boscosa. Lei non ci era più tornata.»
Philip lo interrompe. «Piccolo borgo, poche case, in mezzo ai boschi. Caro
Tom è quello che ti abbiamo trovato!».
Con un ampio gesto della mano indica tutto intorno. «Certo non possiamo
garantirti che sia proprio quello il posto esatto, al cento per cento. Diciamo
un dieci, un cinque per cento. Vabbè non esageriamo. Come dicono qui in
Italia, è come cercare un ago in un pagliaio.» Thomas lo ferma. «Non ha
importanza. E' un colpo di dadi, l'inizio di una nuova partita. Per me è
importante quello che significa.»
Philip guarda l'amico con aria fintamente sconsolata. «Dovevi proprio
essere mal messo per arrivare a simili decisioni.» Thomas non risponde.
Da un po' di tempo si sono inoltrati in una valle stretta e ombrosa, molto
suggestiva. La piccola strada tortuosa costeggia un torrente tra due alte
pareti di roccia. Si percepisce, qui, il dominio della natura.
Infine, quando la gola si apre, ecco una città turrita, in alto. Spoleto, legge
Thomas con piacere sul cartello stradale, ad alta voce.
Philip lo guarda soddisfatto. «Siamo quasi arrivati. Si trova qui vicino,
dietro la montagna.»
«E come si chiama?» chiede Thomas.
«Monastico.»
Thomas riflette un poco. Poi dice, come tra sé e sé: «Monastico... mi piace
questo nome. Fa pensare a un luogo solitario, appartato. Monos, monaco.
Sì, è proprio quello che voglio.»
«Ed è esattamente quello che stai per avere. Lo scoprirai tra poco.»
«Immagino che per te è stato un grosso impegno trovarlo.»
«Ma no, per nulla, anzi è stato divertente, e si sono divertiti anche gli
uomini che avevo incaricato della ricerca. Ho dei contatti in queste zone, e
sono stati ben felici di fare questa esplorazione per me.» Philip è
compiaciuto delle sue parole, lo si vede bene. Aggiunge. «Qui le case
costano molto poco. Te le tirano dietro per pochi dollari.»
«Ti ringrazio. Non vedo l'ora di vedere tutto questo con i miei occhi.»
La spider rossa fila via veloce. McWine nota che da parecchio tempo non
hanno quasi incontrato altre auto. Indicando davanti a sé, dice: «Sembra
davvero di essere a Manhattan.» L'altro ride. «La tranquillità non ti
mancherà mai da queste parti!». La strada ora è più larga e procede diritta
sotto il fianco della montagna. Si intravedono, al lato opposto della stretta
pianura, linee ondulate di verdi colline uscite direttamente da certi quadri
del Rinascimento italiano che McWine ricorda di aver visto al
Metropolitan Museum. Sempre più vicina si delinea sul fianco della
montagna una splendida città circondata da mura e ricca di campanili.
«Quella è Assisi» indica Philip con la mano.
«E questo, dall'altro lato, cos'è?» C'è una distesa di croci e una piccola
cappella poco lontano. «Un cimitero di guerra, degli Alleati. Qui gli
scontri con i tedeschi sono stati molto duri.»
Queste ultime parole dell'amico sono come una piccola fiammella che
accende nuovi ricordi. Nella mente di Thomas ricompare sua madre. Lei
aveva vissuto vicino a quei luoghi durante la guerra, gliene aveva parlato
quando lui era bambino, come se gli raccontasse una favola. I buoni e i
cattivi in lotta tra loro e la libertà che era stata conquistata. Gli aveva
descritto le difficoltà e le sofferenze patite in quegli anni difficili,
paragonando tutto questo alla tranquillità e al benessere della loro vita in
America. Si insinua nella sua mente una nota malinconica. Ora lei non c'è
più, pensa. Ma qui intorno è ancora presente, questi sono i suoi luoghi. Le
labbra di McWine si muovono senza suono, bisbigliano silenziosamente il
suo nome, con un sorriso appena accennato. Adanella Ciancaleoni. Non
era mai riuscito a pronunciarlo bene, troppo complicato per un americano
come lui. E lei si divertiva – gli ritorna in mente con affetto - glielo faceva
ripetere in una specie di gara, mentre lui si confondeva sempre di più,
sbagliando gli accenti e masticando la catena delle sillabe. Sua madre
allora rideva e, alla fine, accentuando comicamente un sospiro, concludeva
sempre allo stesso modo: «Wonderful Italy!» con una lieve sfumatura di
nostalgia. Lei era arrivata a New York subito dopo la prima guerra
mondiale, ancora bambina. E l'immagine dell'Italia che conservava
gelosamente dentro di sé assumeva i contorni leggendari della lontananza,
come il luogo privilegiato della sua infanzia. Quanto era diverso, in questo,
suo padre! Nella mente di McWine la sua figura si è fatta meno netta, la
sua morte è ormai un evento lontano.
E' così, si dice. E sente ancora più forte una tranquilla sicurezza per ciò che
sta realizzando, la scelta più giusta.
Proprio in quel momento Philip interrompe il lungo silenzio.
«Tom, se ricordo bene, tu hai studiato in Italia, vero?
«Sì, praticamente ho passato qui quattro anni bellissimi nella mia
adolescenza. Un'idea di mia madre con la complicità dei suoi parenti
italiani. Mio padre non voleva, ma lei ha insistito. Diceva, «Devi far
crescere bene anche la tua parte italiana. Sei già stato in America sin
troppo tempo. Vedrai l'Italia ti piacerà. Così ho fatto le high school in
Italia, in un college del nord. Ricordo le montagne, innevate buona parte
dell'anno.
«Ma allora l'avrai girata parecchio l'Italia, immagino?»
«Per niente, questa è la prima volta.»
Philip ride e lo guarda sorpreso. «Eppure, dal modo in cui descrivi certi
piccoli paesi dell'Italia centrale, tra la costa e le montagne, avrei detto il
contrario. Sai, mi capita a volte, vedendo qualcuno di quei borghi, di
ricordare quelle tue descrizioni così vivide e partecipi nel tuo famoso
romanzo, Miserere.»
Thomas si volta di scatto. La nota beffarda avvertibile nelle ultime parole
dell'amico lo ha ferito. Fa finta di niente.
«Tutto merito dei miei genitori. La famiglia di mia madre Adanella era
originaria di queste parti. E mio padre Ethan era stato in Italia durante la
guerra, come giornalista al seguito della IV armata. Me ne ha parlato tante
volte, racconti anche raccapriccianti sulle dure condizioni della
popolazione durante l'occupazione tedesca. Lui ha visto realmente quello
che io poi ho raccontato nel mio romanzo: un piccolo paese appena
abbandonato dai tedeschi, i morti per le strade, la disperazione dei
parenti.» Thomas riflette un attimo e poi aggiunge: «E' un po' come se io
ci fossi stato insieme a lui. Quando ho scritto il libro, mi è bastato
ricordare. E' un po' come se Miserere l'avesse scritto lui.»
«A proposito, non mi hai ancora detto niente su quello che stai facendo.
Che cosa hai in serbo?»
La strada inizia a salire lungo i dolci tornanti verso Assisi. Philip ha
buttato lì questa domanda con un tono casuale e disinteressato, ma è da
parecchio che gli gira ossessivamente in testa. Vuole capire che cosa si
nasconda – perché c'è sempre qualcosa che si nasconde, Philip ne è
convinto – dietro la vita enigmatica dell'amico.
Thomas tace, guarda in alto e si sfrega nervosamente le mani. Con una
smorfia amara, liquida il discorso con una battuta. «Questa è davvero la
domanda da un milione di dollari! Se me la proponessero a un quiz
televisivo credo che sarei subito eliminato!» Cerca di ridere, ma è chiaro il
suo imbarazzo. Philip se ne accorge e cerca di venirgli in aiuto. Dice
ridendo: «E' quello che succede a tutti!» Ma, se Thomas lo osservasse in
quel momento, abbassando lo sguardo, vedrebbe chiara sul suo volto
l'insoddisfazione per la sua risposta.
L'amico precocemente famoso è sempre stato per Philip un oggetto
misterioso, come l'imprevedibile traiettoria di un proiettile invisibile.
Pensa a loro due ventenni: lui metodico, impegnato negli studi e l'altro
distratto da mille cose, inquieto e ribelle. Poi, incredibilmente, senza che
nessuno nella cerchia del college ne sapesse nulla, sbuca fuori
all'improvviso quel romanzo che tutti vogliono leggere. L'irrequieto e
inconcludente Thomas McWine diviene l'argomento del giorno di cui tutti
parlano. I giornali lo celebrano come il “giovane promettente scrittore per
un'epoca nuova”. Chi ha mai avuto – riflette Philip – una strada così
aperta e libera, la gloria al primo colpo? Eppure Thomas non ne fa nulla o
quasi. Philip, anche adesso, mentre viaggia con lui seduto accanto, non lo
sopporta. Non riesce ad accettare che non ci sia una spiegazione
ragionevole. Non è abituato a fermarsi davanti ai misteri inspiegabili.
Scava scava e troverai la strada: è sempre stato il suo motto.
Hanno abbandonato da un po' di tempo la strada principale e si stanno
addentrando tra i fitti boschi dietro la montagna.
«Accidenti, queste strade sembrano tutte uguali, come fai a ricordartene
così bene?» domanda Thomas, indicando lo stretto percorso che si apre
davanti a loro. E' palese a tutti e due il suo desiderio di cambiare discorso.
Philip si volge verso di lui e sorride con sicurezza.
«Segreti del mestiere! Se passo in un posto lo ricordo per sempre.»
«Non so se saprei fare altrettanto» constata Thomas, fingendo una grande
ammirazione per la preziosa dote dell'amico.
Philips accelera su un corto rettilineo finalmente in piano.«Siamo quasi
arrivati.».
Infatti già si intravede di fronte, sulla piccola collina verso cui è diretta la
strada, quasi nascosto tra la fitta cortina dei lecci, il profilo arroccato di un
paese, con un tozzo campanile al centro. In pochi minuti l'auto si ferma
sulla piazzetta che si apre di fronte alla chiesa.
Phillip, volgendosi con un' aria fintamente supponente formula ad alta
voce una domanda. «Tu sai, caro Tom, che ci troviamo in una nazione
profondamente cattolica. E quale sarà mai, secondo te, la massima autorità
che potremo trovare in questo luogo?»
Ridendo, subito si dà da solo la risposta. «Il parroco!» Thomas lo guarda
divertito e aggiunge: «Caro Phil, io so qualcosa di più. Dove ci troviamo in
questo momento?» Philip riflette, un po' disorientato. «In Umbria?»
Thomas agitando un dito in segno di riprovazione, precisa: «Risposta
insufficiente! Noi siamo nell'antico stato della Chiesa, il regno del papa!»
E scoppia anche lui in una fragorosa risata. «Scusa Phil, a parte gli scherzi,
perché me lo hai chiesto?»
Philip subito chiarisce. «Sarà da lui che dovremo recarci per avere le
chiavi del tuo regno. Della tua casa tra i boschi!». E aggiunge. «Gli sono
state lasciate dai vecchi proprietari, una garanzia di fiducia.»
E' questione di pochi minuti, già erano attesi, Don Mario li accoglie con
grande cordialità. «Se volete, posso accompagnarvi io alla casa. Si trova
un po' fuori del paese.» Il vecchio parroco ha parlato in italiano. Senza
lasciare all'amico il tempo di intervenire, Thomas risponde con ottima
padronanza: «La ringrazio, ci è davvero utile e ci fa molto piacere.»
Thomas lo dice con un sorriso sulle labbra. E' chiaro la soddisfazione che
sta provando nell'usare dopo anni questa lingua che ha amato, la lingua che
era stata di sua madre e dei suoi avi, quella che lei gli aveva insegnato in
tante fredde serate invernali, per mantenere un piccolo legame – diceva –
con la sua terra. «Sai davvero parlare molto bene l'italiano!» esclama
Philips. «Me la cavo abbastanza.» si schernisce Thomas con un sorriso.
La spider rossa, più adatta ai rettilinei autostradali che a quella dissestata
stradina in terra battuta, procede lentamente. La nuova casa di Thomas è
meno lontana dal paese di quanto lui si aspettasse. Meglio – si dice –
potrò spostarmi a piedi senza problemi. Thomas la vede da lontano sul
ripido crinale; una lunga fila di cipressi accompagna la strada sulla salita.
E' una piccola casa colonica, come se ne vedono tante tra Umbria e
Toscana, quasi in cima ad una collina circondata dai boschi. Una fitta
macchia di alberi proietta la sua ombra su un fianco. La solitudine sembra
che aleggi nell'aria. E questo a Thomas piace, è ciò che voleva.
Il tempo di scaricare i bagagli e Philip è già in macchina. Thomas lo
guarda sorpreso. «Non ti fermi un poco?» Philip avvia il motore. «Ma no,
non è il caso. Debbo riportare don Mario alla sua chiesa e non posso
proprio fermarmi di più. Mi aspettano a Roma. Ti lascio le chiavi, dentro è
tutto a posto. Abbiamo acquistato la casa con tutti i mobili che già vi si
trovavano. Ho provveduto, qualche giorno fa a farla sistemare. Ormai, qui,
non servirei più a molto.» Thomas sta ancora ringraziando, quando la
spider rossa si allontana, Philip lo saluta con un ampio gesto del braccio e
si avvia verso la stretta discesa. Ancora agita la mano quando è a una
settantina di metri.
Thomas si guarda intorno, improvvisamente solo sul piccolo spiazzo
erboso di fronte alla casa. La guarda con una nuova curiosità, come se
appena in quel momento si facesse concreta. Ancora non la conosce, ma la
sente come una presenza amichevole, tutta da scoprire.
Qui starò bene – si dice avvicinandosi verso l'ingresso. E' certo che questa
solitudine benigna lo accompagnerà negli anni a venire.

Maria, con la sua borsa capiente, è intenta da più di un'ora alla raccolta
delle erbe. Gli serviranno per il pranzo di domani. Lungo le siepi, vicino
al ruscello, ha trovato i luppoli, ed ora il declivio del prato poco distante da
casa gli ha offerto ciò che più gli serviva: cicoria e finocchi selvatici.
Serviranno per condire i succulenti piatti umbri che sa preparare sin da
quando era bambina. Come gli accade spesso, muovendosi lentamente
lungo il prato, riflette su se stessa, sul piccolo mondo in cui è sempre
vissuta, come se la luce ormai bassa del tramonto spargesse su di lei
questi pensieri più lenti e tranquilli. I tanti impegni della piccola locanda
la costringono a fare tutto in fretta, senza respiro. Maria indugia nella
raccolta, è uno dei momenti belli della giornata. Sa bene che non può
tardare. Ormai ha imparato che chi si siede a tavola pretende di essere
subito servito. Purtroppo i clienti sono ancora pochi, meno degli anni
passati. Ma siamo soltanto all'inizio della bella stagione, si dice. La
Madonna ci aiuterà.
Primo, suo marito, che ha una volontà di ferro, ha voluto lanciarsi in
questa impresa: la loro bella pensioncina completa di un ottima trattoria
molto apprezzata nei dintorni. Il nome l'ha scelto lui: Vallechiara. A
Maria piace. Chiara è anche il nome della santa che Maria ama di più. E'
vissuta ad Assisi, subito dietro il monte. Basta rivolgersi a lei con le
preghiere, guardando la cima più alta di fronte a Monastico per averla
vicina, in aiuto. Maria ne è profondamente convinta ed è stata favorevole
fin dall'inizio a ciò che il marito le ha proposto di creare dal niente, la
pensione Vallechiara. Uno sforzo molto impegnativo in questo piccolo
borgo lontano da Assisi e dalle principali città. I clienti sono ancora pochi
– si ripete di nuovo – ma sicuramente aumenteranno. Bisogna pazientare,
non avere fretta, confidare nella Provvidenza. Non bisogna lasciarsi
trascinare dalle preoccupazioni. Lo ripete di nuovo con forza a se stessa,
quasi volesse fissare in questo modo una sicurezza che le sta sfuggendo.
Intanto, quasi senza accorgersi, tutta presa dai suoi pensieri, si è avvicinata
alla strada che, un poco più in alto, con un'ampia curva porta verso il
paese. Con il piccolo falcetto sta tagliando sul bordo un bel mazzo di
strigoli. Serviranno per le torte salate, riempite di prosciutto crudo e
scaldate sotto la cenere.
Alzando gli occhi incontra quelli di un uomo che non conosce,
sicuramente un forestiero. E' fermo, in alto, dinanzi a lei, sul bordo della
strada. Indossa un elegante vestito bianco, certo poco adatto per la
campagna che c'è intorno, dove è così facile sporcarsi. Maria è colpita dai
suoi capelli biondi e piuttosto lunghi. Gli ricorda un attore che ha visto
spesso in televisione. Ma quell'aspetto, il bianco del vestito soprattutto,
evoca nella sua mente anche l'immagine di un angelo, come lo
immaginava da bambina. Fermo sul ciglio l'uomo la sta osservando,
probabilmente già da un poco. Maria prova un istintivo moto di paura, si
ritrae e allontana il suo sguardo. Sente però una voce gentile e sicura,
l'uomo allarga le braccia in un gesto di discolpa. «Scusi signora, mi spiace
averla spaventata. Mi serve un'informazione, per favore.». L'uomo ha
pronunciato queste parole molto lentamente, si capisce che non è italiano.
Maria si sposta, sale a sua volta sul bordo della strada. «Mi dica, se posso
esserle utile...»
L'uomo indica dietro di sé. «La mia nuova casa è laggiù a circa un
chilometro. Sono arrivato da poco. Mi servirebbe qualcosa da mangiare.
Può dirmi dove posso trovare un negozio?»
A Maria quel modo di parlare così strascicato le appare insolito. Non ha
mai sentito niente di simile. Questo la diverte. Risponde allora con
sicurezza. «Non si preoccupi, qui troverà tutto. E' un piccolo posto isolato,
ma non ci manca niente.» L'uomo sorride, ha colto una nota di fierezza
nelle ultime parole di Maria.
«Sono sicuro che qui starò molto bene. Grazie.»
Sta per incamminarsi verso il paese quando Maria aggiunge
frettolosamente: «E c'è anche un'ottima trattoria dove potrà assaggiare
tante cose buone. E' il benvenuto.»
L'uomo ride, trova quella donna davvero simpatica.
«Ci andrò sicuramente.» La saluta con la mano.

-3-

Era il 7 luglio 2013, una domenica. Carlo stringeva il volante e non si dava
pace. In quel momento avrebbe potuto essere sulla scogliera, disteso al
sole e pronto per il primo bagno della stagione. E invece... Ho ceduto
troppo in fretta, si diceva. Il solito Carlino remissivo, Carlino timidino.
Signorsì signor capitano, comandi! Da più di un'ora un loop lamentoso si
riavvolgeva senza fine nella sua mente.
Per fortuna in questo viaggio che gli appariva sempre più demenziale non
era più solo. Seduto accanto a lui, gasato come se andasse a una festa, Elia
guardava fuori e commentava. «Sembra di essere in un film! Una
telefonata nella notte e... Tac! Scatta una storia. E' pazzesco quello che ci
hai raccontato ieri sera. Mi piace l'idea di essere in prima fila! Mancano
solo Coca-Cola e pop-corn.» Troppo alto per quella piccola utilitaria, stava
tutto rattrappito sul sedile, con le ginocchia bloccate e la testa a un
centimetro dal tettuccio. Era la scomodità fatta persona, ma si vedeva che
era contento.
«Ma tu questo strano scrittore che andiamo a scovare, lo hai conosciuto?»
«Non sapevo nemmeno che esistesse. Ho conosciuto anch'io tutta la
faccenda soltanto ieri, molto all'ingrosso; Renato non si è sprecato nel
darmi tutte le informazioni. Renato...»
«Fammi capire,» chiese Elia con tono fintamente riflessivo, come se si
interrogasse su questioni profondissime, «andiamo in un paesino
dell'Umbria che non sai nemmeno dove sia e lì dovremmo – forse, chissà,
in qualche modo, se tutto va bene – incontrarci con una persona che tu
nemmeno conosci, per prendere una scatola che non si sa bene che cosa
contenga.» E guardandolo di sottecchi aggiunse. «Carlo, dimmi la verità.
Ma sei sicuro che tutta questa impresa non sia soltanto un bello scherzo
che ti ha preparato il tuo amico editore?»
Carlo si irrigidì immediatamente. «Ti prego caro Elia di non chiamarlo più
mio amico. Grazie.» Più calmo aggiunse. «Per quanto riguarda quello che
tu chiami “lo scherzo”, non credo proprio. Dovevi sentirlo, come era
deciso. Fanatico.». Elia si mise a ridere, vedendo sul volto dell'amico una
stizza che non gli era abituale. «Carlo, hai presente quel vecchio film che
ci era piaciuto tanto? Amici miei?» Carlo lo guardò divertito. «Bene –
continuò Elia – c'era un personaggio interpretato da Tognazzi, mi pare si
chiamasse conte Mascetti, se ricordo bene. Prendeva in giro chiunque lo
ascoltasse, ad esempio un vigile, e lo rintronava con una sequenza
rapidissima di parole senza senso. Solo per dirti, a me pare che il tuo
editore sia un parente stretto del conte Mascetti.»
Carlo restò un attimo zitto e finse di riflettere con un dito che ticchettava
sul labbro; poi, come se avesse ponderato abbastanza le diverse possibilità
rispose: «A dire il vero ho pensato anch'io la stessa cosa, all'inizio. Non
proprio la supercazzola di Tognazzi, perché le parole di Renato – almeno
questo – avevano un senso, ma mi è subito sembrata una richiesta assurda,
fatta giusto per vedere come reagivo. Ho capito abbastanza in fretta, ieri
sera, che non era così. Quello ci crede. Ci crede e basta. E' convinto di aver
trovato la scala giusta per il successo.»
Battendo le mani, Elia scoppiò in una sonora risata. «Allora cerchiamo
almeno di divertirci noi!»
Carlo si voltò verso di lui con tutta la serietà del professore e scandì:
«Sicuramente non mancherà la materia prima.» Risero insieme. Era
davvero una bella fortuna averlo come compagno di viaggio in quella
avventura insensata, almeno l'atmosfera adesso era allegra. Andava
riconosciuto onestamente il merito di Elia in tutto questo.
«Ti debbo ringraziare, Elia. La tua compagnia mi dà un gran piacere!»
Se questo era vero in quel momento, non sempre però era stato così. Tante
volte – Carlo lo aveva detto anche agli altri amici– la compagnia di Elia lo
imbarazzava, soprattutto quel suo modo di fare frenetico e disordinato,
come se qualcuno lanciasse a casaccio tutti gli oggetti sottomano, senza
alcuna attenzione al pericolo di chi sta intorno.
Gli venne da pensare alle tante occasioni in cui l'amico aveva dato prova
del suo carattere poco affidabile. Elia, figlio unico, aveva qualche anno in
meno di lui. Come succede spesso, con il passare degli anni la differenza d'
età era divenuta irrilevante. Ma Carlo ricordava bene quando, giovane
universitario ormai aperto alla cultura e al mondo –andava a Genova ogni
due o tre giorni! – vedeva quel ragazzino iperattivo girare per Deiva,
apparentemente senza scopo. Anche Elia aveva poi iniziato l'università,
con buoni risultati – la facoltà di matematica, se ricordava bene – ma,
guarda caso, non li aveva mai terminati. La piccola azienda familiare nel
settore oleario era stata la sua oasi di salvezza. Il padre, uomo dal carattere
duro e deciso, sapeva come tenerlo a freno, e Elia si era adattato a questo
ruolo, un figlio perennemente sotto tutela. Cinque anni prima – Carlo lo
ricordava molto bene, perché era stato coinvolto in prima persona – Elia
aveva attraversato una fase difficile, fatta di scontri e tensioni continue con
la sua famiglia, e soprattutto con il padre. Se n'era andato di casa, aveva
combinato ben poco ed era infine ritornato come il figliol prodigo alla casa
dei suoi.
Carlo guardò di nuovo l'amico seduto accanto. La corta barbetta ed i
capelli ricciuti disegnavano una sorta di profilo greco.
«Ma, Elia, venir via così all'improvviso, non ti crea problemi? Sai, il
lavoro, la sorpresa per i tuoi.»
Elia, appoggiandogli una mano sulla spalla, spiegò. «Caro il mio Carlino,
è vero che qualche volta, anzi abbastanza spesso, mi sembri un gran
coglione e ti prendo in giro. Ma ti voglio un gran bene, non potevo lasciarti
andar via così, in questo stato, tutto solo.» E aggiunse, per tranquillizzarlo
del tutto: «Non preoccuparti per il mio lavoro. La nostra è una piccola
azienda familiare. Sai, me lo dice spesso anche mio padre: “Elia Elia
lavoreremmo bene anche senza di te.” Non ha una grande opinione dei
miei contributi alla gestione.» E scoppiò in una sonora risata .
Tacquero per un poco e Carlo ripensò a quanto le opinioni, anzi – si
disse – i pregiudizi che ci fabbrichiamo sugli altri siano campati in aria. Le
nostre vite si sfiorano, si lanciano piccoli segnali, poi ognuno gira e rigira,
come una specie di impasto artigianale, quello che gli è arrivato e si
fabbrica così un'immagine che gli appare presuntuosamente vera. Ma, alla
resa dei conti, che cosa sappiamo veramente gli uni degli altri?
E in questo modo, anche il comportamento di Elia era stato incasellato,
catalogato, giudicato. Ne aveva una prova proprio in quel momento. Dietro
la scorza appariscente della frenesia dell'amico c'era un cuore gigantesco.
Questa era la cosa che veramente contava.
A vincere gli eccessi del sentimentalismo che stava crescendo gli bastò
tuttavia uno sguardo verso il sedile accanto.
«Cosa stai facendo con le mie cassette?». Scattò in Carlo il solito
automatismo: la difesa di ciò che per lui era un bene prezioso, e che per gli
altri probabilmente non valeva nulla.
«Rimetti subito tutto al suo posto!» urlò verso il vicino. Elia lo guardò
allibito. A lui tutta quella foga per delle vecchie audiocassette rovinate era
assolutamente incomprensibile, gli sembrava un'esagerazione. Anche
Carlo si era accorto di aver esagerato. Ammonì silenziosamente se stesso:
“OK, stai calmo, e vediamo di non litigare subito. Ricordati che cosa è
successo con Sandro. Per fortuna è tutto risistemato. Non deve più
succedere.”
Già, Sandro. L'associazione fu spontanea, gli ritornò alla mente il dramma
che stava vivendo. Si voltò per farsi dire qualcosa di più, qualche notizia
più precisa, ma sicuramente Elia in quel momento aveva tutt'altro per la
testa.
«Ehi, perché non ci fermiamo al prossimo autogrill?»
«Così presto?»
«Giusto per un caffeuccio. Non lo dici sempre anche tu? Non bisogna aver
fretta.»
Carlo lo guardò e sorrise. «Al prossimo, allora.»
Avevano ormai alle spalle la lunga sequenza di gallerie, e stavano
avvicinandosi a Carrara lungo l'autostrada diritta e poco trafficata. Carlo
guidava rilassato, si erano diradate le tensioni e le inquietudini del giorno
prima, e gli sprazzi di divertimento offerti dalla conversazione con Elia gli
avevano fatto dimenticare la rabbia che lo accompagnava nei primi
chilometri. Era una bella domenica estiva, una giornata di sole non ancora
cocente ed afoso, come spesso ne offre il mese di luglio. Buttando
un'occhiata all'interno delle auto che lo superavano, Carlo guardava con
invidia quella gente che, dall'aspetto già balneare, rivelava la sua
indiscutibile direzione, sicuramente verso le belle spiagge della Versilia. E
invece lui... ma scacciò subito i pensieri tristi e ossessivi che si stavano di
nuovo insinuando nella sua mente. «Che importa! Tra poco sulle spiagge
ci sarò anch'io!» Lo disse ad alta voce con una buffa aria di sfida, che fece
di nuovo ridere l'amico.
«Di sicuro, nessuno te lo toglie un bel bagnetto. Ma per restare alle
questioni più attuali, Allora, questo caffè, manca tanto?»
Per fortuna c'era Elia.

Erano all'incirca le quattro quando, all'uscita di una breve galleria


comparvero in alto, sulla sinistra, le torri e i campanili di Perugia.
«Ormai siamo vicini! Urlò Elia, mentre con un dito seguiva il loro
itinerario su una carta stradale trovata nel cruscotto. La guardava con
attenzione, appoggiata sulle ginocchia. Non appena avevano lasciato
l'autostrada, già parecchi chilometri prima, si era calato in pieno nel
compito che Carlo gli aveva assegnato solo per distrarlo un poco. Si capiva
che era un piacere per lui, in quel momento, rendersi utile. Con voce
tranquilla, confermava ad ogni bivio che stavano andando nella direzione
giusta. Inutilmente Carlo, più volte, aveva cercato di rassicurarlo,
dicendogli che conosceva abbastanza bene la strada fino ad Assisi e che
l'aveva percorsa più di una volta.
«Elia, tu c'eri già stato stato da queste parti?» chiese.
Elia ci pensò un attimo. «Tanti anni fa, mi pare, ero venuto ad Assisi con
gli scout. Ci eravamo divertiti.»
Carlo lo guardò di nuovo. In quel momento, l' ingenuità di Elia gli
appariva commovente. Come se il tempo avesse voluto conservarlo intatto,
senza cambiarlo mai. Gli venne spontanea una domanda. «Hai fatto ogni
tanto qualche bel viaggio in Italia, nel mondo?»
Carlo vide nei suoi occhi accendersi un lampo di malinconia. «Ti
sembrerà strano, ma è da un pezzo che non faccio vacanze, viaggi, giri
intorno.», disse. Poi, come a voler scacciare ogni tristezza, ritmò sul
cruscotto con una mano: « Deiva, Deiva, Deiva! Mi sono imbucato nel tuo
paradiso, e lì resto!», battendo con l'altra l'ennesima manata sulle spalle
dell'amico.
Probabilmente erano ormai vicini. L'auto continuava a mantenere, senza
fretta, una tranquilla velocità di crociera. Intanto, Carlo rifletteva. Come
procedere nell'ultima parte del viaggio e raggiungere finalmente la meta?
Fino ad Assisi sapeva come arrivarci. Ma poi? Ticchettò con un dito
sulla carta. «Occhio Elia, da qui inizia la caccia al tesoro. Chissà dove si
trova quel benedetto paese, Monastico.»
«Vai tranquillo fino ad Assisi, che poi è tutto indicato.»
«Sei sicuro?» A Carlo, memore di tanti precedenti, quella sicurezza
sembrava un po' sospetta.
Elia lo guardò come se fosse una bestemmia sfidare la sua competenza.
«Tu vai, che poi ti dico io!»
Uno splendido cielo azzurro era stato la costante di tutto il viaggio. Ma da
qualche chilometro, all'altezza del lago Trasimeno, il tempo aveva iniziato
a peggiorare. Nubi nere e minacciose si addensavano all'orizzonte.
Lasciando il sacro convento e le mura di Assisi in alto alla loro destra, si
erano ormai incamminati su una piccola strada, incontrando sempre meno
auto mano a mano che si inoltravano dietro la montagna.
«Accidenti, ci mancava la pioggia!» Imprecò Carlo alle prime gocce,
azionando i tergicristalli.
Elia lo rassicurò energicamente. «Che vuoi che sia in questa stagione? Sarà
un temporale.»
I tergicristalli faticavano a liberare il vetro dall'acqua scrosciante. Carlo
procedeva lentissimo, sforzandosi di vedere le segnalazioni. Proprio
quando aveva lasciato la strada principale per avventurarsi nel dedalo delle
stradine interne, la pioggia aveva cominciato a cadere più intensa,
accompagnata dal rombo costante dei tuoni sempre più vicini, e la luce
ormai scarsa, anticipando la sera, rendeva molto difficile individuare la
direzione. Da parecchio avevano lasciato alle loro spalle le ultime case e
con una serpentina continua la piccola strada procedeva attraverso una
vegetazione sempre più fitta.
«Elia, che dici, stiamo andando bene?»
«Non ti preoccupare. It's all under control.» La tranquillità sfoggiata
dall'amico appariva rassicurante. Continuava a fornire le sue preziose
indicazioni, sicuro di sé, ma Carlo non se la sentiva più di procedere in
quel modo. La strada si faceva sempre più stretta, addentrandosi in mezzo
alla boscaglia. Poco prima di una ripida salita che si inerpicava con stretti
tornanti, inondata dall'acqua che scorreva ormai abbondante, Carlo decise
di fermarsi. Inutile andare oltre, rischiavano di perdersi davvero. Elia lo
guardò stupito.
«Perché ci fermiamo? Non siamo ancora arrivati!»
«Per favore, puoi passarmi un attimo la carta?», chiese gentilmente, con la
massima calma.
«Ma certo! E' tutta tua!». Con sguardo beffardo, Elia gliela porse
immediatamente.
Bastò un'occhiata a Carlo per individuare il punto in cui avevano sbagliato.
Erano strade tutte uguali, facile confondersi. Guardò Elia con un sorriso.
«Niente di grave, solo una piccola escursione extra in questi bei posti.»
L'amico rise. «Vuoi mettere? Con la colonna sonora di pioggia e tuoni,
poi, è il massimo!»

La pioggia era stata intensa, per fortuna il temporale era finito velocemente
senza far danni. La luce estiva aveva ritrovato le sue forze, ma con una
nota di dolcezza che si rifletteva nell'aria e dava a quell'ora del tardo
pomeriggio un fascino inafferrabile. Vera sedeva sulla stretta panca vicino
all'ingresso e osservava il gelsomino fiorito carico d'acqua e le gocce lente
che cadevano con ritmo leggero dai suoi rami. L'insegna della piccola
pensione, illuminata fiocamente dal lampione pubblico che si era acceso
poco più avanti, era come il segnale di un avamposto inaspettato. Tutto
attorno, infatti, sul pendio sempre più scosceso che circondava le poche
case del paese, dominavano i boschi.
«Vera, hai controllato che sia tutto a posto, che non manchi nulla nelle
stanze?»
«Sì, mamma, ho fatto tutto.»
Maria, sua madre, doveva sempre accertarsi che ogni cosa nella loro
piccola pensione funzionasse perfettamente. Vera lo sapeva e la
assecondava.
Per Vera, quello era uno dei momenti tranquilli della giornata. I pochi
clienti non erano ancora rientrati – quasi sicuramente buona parte di loro
aveva trascorso l'intera giornata ad Assisi. La preparazione della cena era
da sempre un'incombenza che la madre aveva riservato per sé. Non che
non si fidasse di lasciare Vera in cucina, ma sicuramente la qualità della
tradizione umbra, che un cartello in evidenza all'ingresso sottolineava, era
pienamente garantita da quella donna energica e precisa di 64 anni. Lei e la
madre, a volte, riflettevano su quella scelta forse temeraria che era loro
parsa la più naturale: gestire la piccola pensione interamente da sole. Le
stanze erano poche, si trattava della vecchia casa di famiglia risistemata e
modernizzata.
Vera osservava la strada bagnata e rifletteva. Spesso, le capitava di
pensare, in momenti come questo, alle opportunità che si era lasciata alle
spalle scegliendo di vivere accanto alla madre Maria nel loro vecchio
borgo. Era una piccola evasione che concedeva a se stessa, immaginare
quale vita avrebbe potuto essere la sua se non avesse deciso cinque anni
prima, alla morte improvvisa del padre, di ritornare a Monastico,
immergendosi totalmente nel ritmo quotidiano della gestione della loro
piccola impresa. Il fratello era lontano, in Australia, non se ne curava. A
lei era parso un dovere indiscutibile, garantire alla madre il suo aiuto.
Sapeva bene che era pericoloso lasciarsi andare a simili considerazioni
sulle vite alternative, un esercizio inutile che aveva come unico risultato la
malinconia. Il sole che si intravedeva basso al bordo delle colline e la
leggerezza dell'aria rinfrescata dalla pioggia recente erano come una porta
aperta per i voli dell'immaginazione. Se non fossi qui, adesso...
Scacciò questi pensieri. Aveva imparato con gli anni ad essere molto
severa con se stessa e sapeva come vincere quelle tentazioni di evasione.
Era un ammonimento costante che si rivolgeva, una cautela di fronte a
quello che le sembrava il rischio peggiore: baloccarsi con la vita anziché
viverla. Lo vedeva come un'inaccettabile viltà di fronte a ciò che la vita
offre, bello o brutto che sia. Le promesse vanno mantenute e le scelte che
facciamo vanno rispettate fino in fondo, a qualunque costo. Come?
Bastava obbligarsi a scendere sulla terra, guardarsi intorno, accettarsi.
Appoggiando le mani sul legno della stretta panca usurato dal tempo, le
ritornò alla mente la figura esile e sottile del vecchio americano morto da
poco, che tutti in paese avevano sempre chiamato il Professore. Anche lui,
quando scendeva in paese, amava sedere come lei in quel momento,
guardando con tranquillo distacco la piazzetta di fronte, chiacchierando
volentieri con chi capitava. Il suo viso magro e la folta zazzera
precocemente imbiancata le incutevano, quando era bambina, un'istintiva
soggezione, nonostante la sua grande cordialità. Un senso di mistero si
accendeva nella sua immaginazione quando, senza farsi scorgere, fissava
le rughe profonde che gli scolpivano lo sguardo come un marinaio
consumato dal vento, bloccato sulla terra ferma. Un involontario sorriso le
illuminò il volto al ricordo delle tante volte in cui la madre partiva in
bicicletta, mugugnando tra sé parole incomprensibili, per portare al
Professore il pranzo preparato con cura. Capitava anche, un po' meno
spesso, che fosse lui a fermarsi a mangiare quel buon cibo che tanto
apprezzava nella loro pensione. Fin da piccola – le venne da pensare – si
era abituata alla vista quasi quotidiana di quello strano signore, così
diverso dagli altri che vivevano in paese. Avvertì in quel momento il senso
di una perdita, come se un piccolo vuoto si fosse aperto nel suo paesaggio
quotidiano. Ripensò a lui con affetto, rivivendo le tante volte in cui si era
fermato a giocare e scherzare con lei.
Si accorse solo ora dei due che, discutendo animatamente, si avvicinavano.
Il più piccolo indicava la pensione, l'altro scrollava la testa, poco convinto.
Gli venne da ridere, pensando a scene simili che ogni tanto si ripetevano.
Qualche viaggiatore sprovveduto capitava per caso in paese, girando per
quelle strade apparentemente tutte uguali che si intersecavano dietro il
monte. Non capiva bene dove si trovasse e con un sospiro di sollievo
otteneva informazioni per ritornare verso le zone più familiari e
conosciute.
Vera notò che il più piccolo di quei due stava guardando insistentemente
dalla sua parte. Indossava un vecchio paio di jeans e una giacchetta bianca
che gli stava un po' stretta. L'altro, più disinvolto, camminava e parlava in
continuazione voltandosi indietro. Una cosa che parve a Vera abbastanza
buffa, come certe scene nei film comici quando i protagonisti litigano e
discutono senza cavar nulla dal loro indaffararsi. Notò la faccia simpatica
di quello più alto, dominata da un imponente naso, il suo goffo modo di
agitarsi. L'altro, un uomo di una quarantina d'anni un po' appesantito,
sembrava non curarsi di ciò che gli stava dicendo l'amico e procedeva
titubante ed incerto verso di lei.
Quando furono abbastanza vicini, fu quello alto a parlare con tono gentile
e una voce bella e robusta.
«»Scusi signora, ci sono anche altri alberghi in questo paese?»
A Vera venne quasi da ridere a quella strana idea, ma rispose come se
quella fosse stata la domanda più normale del mondo.
«No, questo è l'unico. Anzi, chiamarlo albergo è un po' esagerato. E' solo
una piccola pensione familiare.»
Trionfante, Elia si rivolse allora all'amico. «Vedi? Non ci si poteva
sbagliare!»
Vera riusciva ancora a trattenere il riso.
«Cercate qualcuno?»
Fu Carlo a rispondere velocemente, imponendosi sulla foga dell'altro.
«Sì, è così. Purtroppo non sappiamo bene chi sia!»
Questa battuta involontaria fece ridere insieme Elia e Vera, anche Carlo si
unì subito a loro, consapevole dell'assurdità apparente di quello che aveva
appena detto.
«No, mi sono spiegato male» aggiunse ridendo. «Noi sappiamo che qui c'è
qualcuno che ci sta aspettando, ma non sappiamo chi esattamente sia.» E
commentò a bassa voce «Sì, la situazione è più o meno questa.»
Vera si offrì gentilmente. «Se mi dite di che cosa si tratta, forse vi potrei
aiutare!»
Elia intervenne subito con la sua solita sicurezza. «Dovremmo ritirare
qualcosa, non sappiamo bene, un baule o una cassa, che è stata messa da
parte per un editore di Torino. Già è stato predisposto tutto.»
Vera rise con ancora più gusto. «Ah, ma allora siete voi?»
«Gli incaricati del ritiro? Si siamo noi. E mi pare di capire che lei forse sa
chi dovremmo incontrare,» disse Carlo. Si sentiva rassicurato. Forse ce
l'avevano fatta.
Vera rise di nuovo. «Ma certo che la conosco, quella persona! Sono io!»
Carlo e Elia si guardarono, sentendosi un po' idioti.
Fu di nuovo Elia a vincere per primo quella spiacevole sensazione
battendo una gran manata sulle spalle dell'amico. «Bingo!»
Anche Carlo sorrise all'idea del facile successo della loro impresa e si
impegnò ad esporre nel modo più chiaro e sintetico possibile il compito
che gli era stato assegnato.
Vera lo ascoltò con attenzione, poi spiegò. «Il signor Volpi mi ha lasciato
detto qualche giorno fa che presto sarebbe passato qualcuno con questo
incarico. Anche lui non aveva saputo dire chi e quando sarebbe passato,
ma sapendo che la pensione è sempre aperta non se ne era fatto un
problema.»
«Che dice? Allora possiamo andare?» Intervenne un po' troppo
sbrigativamente Carlo, che si vedeva sulla strada del ritorno e da tempo
ormai sognava la spiaggia del giorno dopo.
Forse Vera già aveva pensato a questa possibilità. Inutile fare le cose in
fretta. Si era fatto tardi e, soprattutto, due potenziali clienti inaspettati
potevano far comodo alla situazione un po' incerta della pensione
Vallechiara, anche solo per una notte. Con tono tranquillo espose la
situazione. «E' meglio andare domani. La casa dello scrittore, noi lo
chiamavamo il Professore, è un po' lontana e la stradina per arrivarci è
parecchio disagevole, meglio non avventurarci a quest'ora. Perché non vi
fermate qui? Abbiamo una bella stanza libera. Andremo con comodo
domani mattina.»
Elia non lasciò a Carlo il tempo di rispondere. «Benissimo, così ci si riposa
e si riparte tranquilli! Che ne dici Carlo?»
La risposta era naturalmente scontata. Carlo si consolò all'idea dell'ottima
cena che avrebbero potuto mangiare. Già si spandeva nell'aria un
profumino delizioso.

- IV -

E' il 24 maggio 1971, un lunedì. E' passato un anno dal suo arrivo. Seduto
sul piccolo patio erboso di fronte alla casa, lui vede Maria sulla sua
vecchia bicicletta avvicinarsi sulla breve salita. Forse non oserebbe
ammetterlo con se stesso, ma da quasi un'ora sta lì seduto sulla comoda
poltrona di vimini, con la splendida vista delle colline verdeggianti tutto
intorno, in paziente attesa dell'arrivo di lei, pregustando il piacere del loro
veloce incontro come uno dei momenti più belli della giornata.
Lei alza gli occhi e lo vede, lassù in cima, tutta impegnata sui pedali,
arrancando a zig-zag sulla strada dissestata; ancora non è vicina, ma già gli
sorride. Anche lei forse non lo ammetterebbe mai, nemmeno con se stessa,
ma desidera incontrarlo, stare un poco con lui, parlargli e ascoltarlo, così
diverso da suo marito e da tutti gli altri, così solo.
Nella luce tersa di mezzogiorno, sotto un cielo azzurro e un sole già caldo
che preannuncia l'estate, lei ha abbandonato il viottolo più ampio che con
poca strada porterebbe al castelletto medievale mezzo diroccato in mezzo
al bosco, e prosegue su quello più piccolo e stretto che sale direttamente
verso la casa dello scrittore. Affrontando l'ampia curva del tornante finale,
fa un cenno con la mano quando è ormai vicina. Anche lui la saluta con il
braccio levato e la attende in piedi sorridendo.
«Buon anniversario!» lei grida con la sua bella voce, quasi cantando,
quando è ormai vicina. Lui resta interdetto per pochi attimi, poi ricorda.
Gli ritorna in mente quel giorno, terso e pieno di sole come oggi, la sua
inquietudine per la brusca giravolta che aveva impresso alla vita, i discorsi
di Philip pieni di sottintesi e anche lo spaesamento che aveva provato nel
ritrovarsi solo in quel luogo sconosciuto. Poi, il caso aveva posto sul suo
cammino Maria e con lei tutto era cambiato. Il tempo aveva iniziato a
volare.
«Ecco qui, ancora caldo, il tuo buon pranzetto! Ti ho portato qualcosa da
leccarti i baffi, anzi la barba!» Maria lo guarda ridendo. Il suo sorriso è
radioso, una luce gioiosa attraversa i suoi occhi.
«Alle tue cose buone mi dedicherò dopo con la giusta attenzione! Ma
adesso stiamo un po' insieme. Mi sei mancata.»
«Da ieri?» Lei ride ancora, come in un gioco scherzoso divenuto abituale
tra loro.
«Sempre!» Lui risponde con una posa fintamente altera e le cinge le spalle
con un braccio, incurante degli occhi indiscreti che potrebbero esserci
attorno. Lei è abituata da tempo a quel gesto affettuoso.

Nei mesi precedenti Thomas si è accordato con Primo, suo marito. Maria
provvede a portargli un buon pranzo cinque volte la settimana. Thomas –
sempre intento a fare mille cose, come Robinson sulla sua isola – non ama
cucinare e si accontenta delle poche pietanze fredde e frugali che conserva
a volte per giorni nel suo frigorifero perennemente vuoto. Gli piace
quell'aria quasi eremitica che ha improntato la sua vita in Umbria sin
dall'inizio.
«Ma come farai a vivere solitario in quel posto?» Glielo hanno chiesto
quasi tutti gli amici americani nelle costose telefonate transcontinentali,
immaginando luoghi sperduti e impervi. Ed ogni volta lui li ha rassicurati:
«Tranquilli, non sono un anacoreta in mezzo al deserto!» In realtà, la vita
solitaria lo affascina da sempre. Già da ragazzo leggeva avidamente il
racconto di Thoreau al lago di Walden. Era per lui un personaggio
esemplare, con il quale immedesimarsi, l'espressione più tangibile di
un'enorme forza d'animo. Chi vive completamente solo non deve rendere
conto a nessuno di se stesso, se non a Dio, ama ripetere. E questo, secondo
Thomas McWine, è il segno più chiaro della vera libertà, esattamente la
cosa che più aveva desiderato e che più gli era mancata.
Thomas conosce bene le leggende che per anni hanno circolato sul suo
conto, le domande curiose sulla sua vita alimentate dai giornali.
Si era divertito qualche volta a seguire ed annotare le illazioni più
strampalate e ogni tanto gli era passata per la testa la tentazione di
costruirne lui stesso di ancora più fantasiose.
Meglio questa vita, questo luogo, questa gente – pensa ora afferrando la
borsa che Maria gli sta porgendo.
Maria lo guarda perplessa, vede come una nube scura nei suoi occhi, lo
sguardo farsi improvvisamente severo. Teme che sia rivolto a lei, come se
qualcosa non lo soddisfacesse. «Va tutto bene?», chiede. Lui ripete, e
questa volta con un sorriso: «Sempre». Come vinto da un impulso
irrefrenabile la bacia. Lei lo segue in casa.
– 5-

Era il 24 agosto 2013, un sabato. Carlo se ne stava disteso sulla spiaggia di


Deiva con i suoi amici Elia e Giovanni, nella parte più estrema vicino agli
scogli, dove le ombre si erano allungate a poco a poco con il passare delle
ore. Era quasi sera e la giornata un poco velata era stata piacevolmente
mite. I recenti temporali avevano rinfrescato l'aria.
Carlo era ritornato a Deiva subito dopo aver portato a termine la sua
missione, con la coscienza tranquilla di chi ha compiuto il proprio dovere ,
e aveva lasciato scorrere le sue ore senza mai temere il mare di pigrizia
che lo stava sommergendo. Come un abile equilibrista sospeso sul vuoto,
sapeva destreggiarsi allegramente tra quelle giornate tutte uguali.
Carlo si accontentava di poco. L'unico desiderio che avreste trovato nella
sua testa in quell'ora vespertina era di rimanere ad occhi chiusi e, con un
sorriso sulle labbra, godersi il profumo del mare. Il suo odorato - il senso
più trascurato – era come se si accendesse di una forza nuova; gli pareva
che il mare di Deiva avesse un suo profumo inconfondibile, pieno di
sfumature, mutevole a seconda delle ore. In quel momento tutte le piccole
differenze gli arrivavano nette e sottili e, con grande piacere, mantenendo
le palpebre chiuse, si concentrava nello sforzo di riconoscerle.
Le vacanze stavano finendo, ma il ricordo della scuola che presto sarebbe
ricominciata era ancora lontano. Aveva saputo pochi giorni prima, con il
sollievo di chi volge la prua verso terre conosciute, che per quell'anno
scolastico non sarebbe stato costretto a cambiare scuola. Era felice di
rivedere i colleghi che conosceva bene e di lavorare nuovamente con loro.
Si era anche affezionato, ormai, a quella cittadina piemontese, che
purtroppo aveva il solo difetto di essere spesso immersa nelle nebbie
umide della Pianura Padana. Una simile stabilità era per lui piuttosto rara
e gli evitava i fastidi del solito trasloco annuale a cui si era purtroppo
abituato. Quando la collega Silvia, che amichevolmente aveva accettato di
svolgere per lui le noiose incombenze burocratiche, gli aveva telefonato
appositamente per comunicargli la bella notizia, aveva tirato un gran
sospiro. Carlo – lo si sarà ormai capito – non aveva mai amato i
cambiamenti.
«Che fai, dormi?» Elia, come al solito, non sopportava che il silenzio
durasse più di dieci minuti.
«Lascialo stare, non vedi che sta meditando! Con quel sorrisino sembra
proprio un piccolo Buddha, ma a pancia in su» osservò flemmatico
Giovanni, seduto dietro una roccia con il suo immancabile giornale in
mano. Il sorriso di Carlo si accentuò ancora di più. «Guardalo bene, Elia.
E' il chiaro segno della beatitudine. Ha raggiunto il nirvana, niente può più
toccarlo.»
«Ahia!» esclamò Carlo fregandosi il fianco, mentre Elia ridacchiava.
«Giovanni, mi sa che la tua teoria non funziona... questo qua sente ancora
tutto, anche un bel pizzicotto. Altro che nirvana!»
Anche Carlo non riuscì a trattenere una bella risata. «Elia, i tuoi
esperimenti, per favore, falli su qualcun altro!» Intanto, stiracchiandosi, si
era alzato. «Ragazzi, tra poco dobbiamo andare. Non c'è quasi più
nessuno.»
Proprio in quel momento – curiosa coincidenza – qualcosa gracchiò nella
sua borsa colorata. Il suono era inconfondibile. «Le coincidenze non
esistono, non c'è che il gioco del nudo caso» scandì truce a bassa voce
vedendo lo sguardo interdetto dei suoi amici. «E' di nuovo lui.»
Forse stava per ripetersi l' umiliante scena di un mese prima? Lo pensò per
un secondo, poi si decise a rispondere. Pasticciando nella borsa raggiunse
con la mano il cellulare che continuava a suonare.
«Allora, Carlo, tutto bene?»
«S', Renato, sono qui a Deiva, gli ultimi giorni di vacanza.»
«Benissimo! Gli ultimi bagni sono sempre i migliori! A proposito, scusa
per l'ultima volta; ero un po' alterato, non farci caso. Sempre amici. Anzi,
ti ringrazio per la velocità con cui ti sei fiondato a recuperare il malloppo!
Adesso ce l'abbiamo noi!» Renato accompagnò le ultime parole con una
sonora risata.
«Proprio così. Ho tutto qui con me.» Carlo cercò di mantenere un tono
calmo e distaccato, sicuro che tra un attimo sarebbero arrivate nuove
richieste.
«Hai già iniziato a darci un'occhiata?» chiese Renato con un tono
altrettanto calmo e distaccato. Carlo sorrise. Ecco che si avverava ciò che
aveva appena predetto. Questa volta però cercò di condurre lui il gioco e di
non farsi cogliere impreparato.
«Certo, Renato!» Mentì. «Però, niente baule o cassa, come pensavi. E' un
comunissimo scatolone.» Carlo iniziava a prenderci gusto, laggiù
tranquillo sulla spiaggia, a raccontare cose vere e false a piacere a
quell'altro bloccato nella città accaldata.
«Anzi, per essere più precisi, si tratta di un bell'accumulo di polvere e
robaccia, più simile a un contenitore destinato al pattume che a una
raccolta ben conservata di interessanti materiali letterari destinati alla
pubblicazione. Caro Re-na-to, mi sa che questa volta abbiamo top-pa-to.»
Concluse le ultime parole scandendole, compiaciuto della rima puerile.
«Ok ok, ma tu hai iniziato a leggere quello che c'è dentro?»
Carlo tacque, con un lungo momento di silenziosa incertezza che bastò a
smascherare preventivamente qualunque bugia avesse voluto ancora
aggiungere.
«Ma dai, Carlo, non preoccuparti. Se finora non hai cominciato, non fa
niente. Goditi ancora un po' di vacanza, poi ne riparliamo. A presto!» E
Renato chiuse amichevolmente la sua chiamata, lasciando Carlo un po'
incerto nell'interpretare quel fiume mieloso che ora scorreva tra lui e
l'editore torinese.
Elia e Giovanni continuavano a fissarlo incerti. «Tutto bene» disse
rivolgendosi verso di loro. «Per questa volta nessun ordine perentorio.
Merci mon commandant!» E portò la mano a un'immaginaria visiera come
in un comico saluto militare. Risero tutti insieme e lasciarono la spiaggia
allegramente.

A mezzanotte circa Carlo rientrò a casa. Percorrendo le strette stradine


deserte sotto uno splendido manto di stelle, sempre più luminoso mano a
mano che saliva, i suoi pensieri ritornavano ciclicamente alla telefonata
dell'amico editore. Abituato a resistere con mille sotterfugi agli attacchi e
alle pressioni di altri più forti ed abili di lui, Carlo vedeva bene in quel
momento che la sua situazione poteva essere paragonata a chi, puntando i
piedi si sforza di resistere in un logorante tiro alla fune che gli costa
un'enorme fatica, e all'improvviso si vede porgere senza apparente motivo
tutta intera la corda, con un sorriso e una pacca sulle spalle: «Prego, ne
faccia pure quello che vuole.». Rifletteva sulla strana situazione in cui
Renato lo aveva cacciato. Già, lo scatolone ce l'ho io, adesso – pensava –
ma che ne faccio?» Si accorgeva così che non era più rinviabile una
disincantata resa dei conti con se stesso. Quelli erano momenti per lui
preziosi, squarci di consapevolezza che interrompevano il suo tranquillo
galleggiare sul mare della vita, simili a raggi di luce attraverso una densa
coltre di nubi. In circostanze analoghe aveva saputo, con un po' di fatica,
trovare una soluzione, ma ora? Sarebbe stato all'altezza dell'impegno che
Renato pretendeva da lui?
Arrivò alla porta della silenziosa casa dei genitori che dormivano ormai da
un pezzo. Subito pensò alla sgabuzzino e allo scatolone che vi giaceva
dimenticato da giorni.
Prelevandolo dal ripostiglio in cui era stato conservato nella casa dello
scrittore, confuso con tanti altri oggetti dimenticati, lui ed Elia si erano
accorti subito del notevole peso. Lo avevano trasportato con una certa
fatica fino al bagagliaio della piccola auto, dove era entrato a malapena.
Ora Carlo era solo e si accontentò di trascinare la pesante scatola nel
corridoio, anche se la luce della piccola lampada a muro era piuttosto
fioca. Avvicinò una sedia, aprì i bordi ripiegati ed iniziò a prelevare ciò
che conteneva, impilandolo contro la parete. Gli venne da ridere,
immaginando come sarebbe apparso quel suo modo di procedere se si
fosse trovato in un dipartimento universitario. «Centi, ordini e classifichi
ogni cosa!» si disse imitando la voce del suo vecchio professore di
biblioteconomia e ridacchiò tra sé e sé. Ne conservava un buon ricordo, le
sue lezioni erano state preziose e potevano essere d'aiuto anche in questa
occasione. Per classificare bisogna saper leggere, non basta guardare!
Questa saggia massima che il professor Vicari ripeteva continuamente gli
ritornò in mente in quel momento. Osservò allora con più attenzione la
scatola. Era in buon stato, asciutta, solo leggermente deteriorata su un
fianco e un po' scurita dal tempo.
Mano a mano che estraeva da quella massa confusa i tanti fogli, giornali,
plichi, mischiati con altri piccoli oggetti non facilmente riconoscibili, gli
diveniva sempre più chiaro che un esame completo avrebbe richiesto
molto tempo. Lo avrebbe trovato? Questo dubbio lo agitava un poco.
L'acre sentore del tempo che intanto si sprigionava da quelle carte
umidicce aveva ormai impregnato l'aria dello stretto corridoio. Carlo iniziò
a buttare un'occhiata un po' a caso sulle carte che stava estraendo. Sotto il
suo sguardo quelle parole sigillate ed immobili da tanti anni stavano
riprendendo vita. Nella sua fantasia, gli pareva di essere come un
esploratore di antiche tombe etrusche e provava un'emozione simile a
quella di chi per primo era riuscito a penetrarvi.
Scuotendo bruscamente la testa si risvegliò da questo sogno ad occhi
aperti. «Vola basso! Non esaltarti troppo!» ripeté a se stesso. La parte più
concreta del suo animo si faceva di nuovo sentire e lo riportava con i piedi
per terra. «Guarda meglio, senza farti trasportare dai sogni!»
Guardò di nuovo più pacatamente il contenuto della scatola e, con un
sorrisetto sarcastico, gli venne da pensare a Renato, a ciò che lui gli aveva
detto, sfottendolo, nella sua recente telefonata, parole davvero profetiche.
Se Renato si fosse trovato in quel momento accanto a lui, avrebbe
sicuramente riconosciuto che quanto Carlo aveva raccontato
corrispondeva perfettamente alla realtà di ciò che in quel momento aveva
di fronte. L'impressione era effettivamente quella di un carico destinato al
macero. Malconce copie di giornali e riviste, bollette della luce e del
telefono, documentazioni bancarie, insieme con tanti altri fogli scritti a
mano e dattiloscritti. Tutto mischiato e accatastato disordinatamente.
Afferrò alcuni fogli per farsi un'idea più precisa e fu colpito da un fatto che
non si sarebbe aspettato. Ve ne erano molti scritti in italiano, ma con una
grafia un po' diversa dagli altri scritti in inglese, meno sicura. Carlo
confrontò allora con attenzione la forma dei caratteri: sì, nonostante
qualche piccola differenza, era sicuramente la stessa mano, una scrittura
chiara e regolare con una curiosa inclinazione delle lettere un po' antiquata.
Gli venne da pensare ai tanti anni trascorsi dallo scrittore in Italia, alle
radici italiane di sua madre – Carlo ricordava di averlo letto da qualche
parte – al suo sforzo di ricrearsi una nuova vita. Era facile capire che, dopo
pochi anni, le due lingue erano diventate sempre più interscambiabili.
Carlo aveva ormai quasi svuotato lo scatolone, sempre più confermando
l'impressione che quello che aveva di fronte era soltanto un miscuglio di
scarti racimolato dal caso, una materia informe e raccogliticcia. La
maggior parte erano singoli fogli riempiti in genere di poche frasi, spesso
cancellate con forza lasciando un segno profondo sulla carta, un gesto
violento e carico di rabbia, come se l'ansia che saliva, di fronte a ciò che
era appena stato scritto volesse in qualche modo trovare uno sfogo.
Il suo sguardo attento cadde su un titolo ben evidenziato che riempiva
quasi completamente una pagina: The New Olders. Gli venne da ridere:
sembrava il nome di un gruppo musicale anni '70. Poco sotto era annotata
in italiano una frase enigmatica “Dire tutto a Serse” Ma subito sotto un
gigantesco “No!” tagliava corto a qualsiasi possibile sviluppo. Era
evidente – notò Carlo – il senso di profonda insoddisfazione che trapelava
attraverso quel caos.
Lo incuriosì un quadernetto scolastico con l'immagine di Paperino sulla
copertina. Carlo sorrise. Probabilmente, pensò, era stata una scelta carica
di autoironia scegliere quel personaggio sfortunato e pasticcione. Sul
frontespizio un titolo in inglese scritto in caratteri molto grandi: On the
Giants' Steps. Gli parve un titolo suggestivo, capace di catturare
l'attenzione. Voltò pagina ed iniziò subito a leggere ad alta voce le prime
righe del testo, cercando con attenzione di coglierne il significato
attraverso una veloce traduzione:
“ Stelle e strisce sono impregnate di sangue. L'America affonda e io sento
da lontano il suo rantolo. Le città bruciano, non c'è più pace per le strade.
I Cavalieri dell'Apocalisse sono giunti da un pezzo – already, sì andava
bene anche già arrivati – su comodi DC-9, ma nessuno se ne è accorto,
tutti continuano la loro vita tranquilla e indifferente.”
Gli sembrò un buon inizio. Voltata la pagina proseguì la lettura con
crescente interesse, ma a poco a poco il testo si faceva confuso, la scrittura
concitata, come carica di ansia, quasi che Thomas McWine fosse
naufragato miseramente nel mare di parole che lui stesso aveva creato. Il
testo si interrompeva bruscamente, le pagine successive probabilmente
erano state strappate e quelle rimanenti non contenevano altro che colonne
di numeri, probabilmente conti di casa, calcoli delle entrate e delle uscite.
Già – gli venne da pensare – questo era un ulteriore mistero: come
campava l'americano solitario nel suo eremo di Monastico? Forse gli erano
stati sufficienti i guadagni ottenuti con il suo primo ed unico libro e la
produzione cinematografica che ne era seguita? Sicuramente – rifletteva –
le esigenze erano davvero poche nella vita frugale che McWine aveva
condotto in quel piccolo borgo.
Intanto, mentre si moltiplicavano le domande nella sua mente, aveva
continuato a svuotare la scatola. Ormai le colonne di carta, ordinate come
un piccolo esercito pronto alla battaglia, si erano notevolmente alzate.
Verso il fondo, gli occhi caddero su una corposa cartellina rossa e lucida
con un grosso elastico che la chiudeva, di quelle comunemente utilizzate
negli uffici e che lui stesso aveva spesso adoperato per riporre compiti ed
appunti. Lo colpì il titolo posto sul margine in alto: The Notebooks of
Waste; e poco sotto il titolo la piccola immagine che vi era stata incollata.
Carlo la riconobbe subito con un moto di stupore, come se una scossa gli
arrivasse in quel momento da anni lontani. Era una riproduzione di buona
qualità della celebre incisione del pittore rinascimentale Albert Dürer
intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo. Il giovane cavaliere avanza
altero e sicuro, chiuso nella sua forte armatura, con lo sguardo fermo
innanzi, la morte cavalca accanto a lui, sporgendo beffarda una clessidra; il
diavolo, un po' discosto alle loro spalle, è un essere semi-bestiale, non
diverso da tante rappresentazioni tradizionali. Il cavaliere non si cura dei
suoi compagni di viaggio, né delle loro minacce, guarda avanti e procede
tranquillo.
Ricordava bene l'impressione che ne aveva avuto quando l'aveva vista per
la prima volta; aveva circa quindici anni ed era stato catturato dal gioco di
simboli che conteneva, come se attraverso lo sforzo della loro
comprensione si rendesse possibile penetrare il significato stesso
dell'esistenza. Quest'opera di Dürer, come le sue altrettanto famose
incisioni sull'Apocalisse, lo aveva sempre inquietato. Era solo una
coincidenza – il caso gioca sempre la sua parte, Carlo lo ripeteva spesso –
ma aver trovato imprevedibilmente quell'immagine su quel vecchio plico
lo turbava un poco.
Nell'aprire la cartellina, cadde un foglietto. Su di esso una sola parola
scritta in stampatello: Grazie. Carlo rimase interdetto. Grazie da chi? E
per cosa? Carlo immaginò che forse McWine aveva dato in lettura il suo
lavoro a qualcuno che soddisfatto di quel che aveva letto, lo ringraziava
per la fiducia che gli era stata concessa. Dunque, pensò, questo testo era
già stato letto ed apprezzato. Chissà quando. Ormai ne era catturato. Iniziò
a leggere e tradurre le prime righe di quei fogli dattilografati, scritti in un
inglese chiaro ma particolare, con una coloritura desueta, sicuramente
molto inventiva. La sua lingua letteraria su cui stava sperimentando,
pensò. Un po' come Joyce e Beckett. Tutto era ordinato con cura.

“Esisto ancora? Non lo so, non so chi sono. Sento che qualcosa ubbidisce
alla mia volontà. Ho un corpo. Sono un corpo? C'è qualcosa intorno,
posso vedere, ho uno sguardo, mi appartiene. Ci sono altri accanto a me.
Altri corpi come il mio. Anche loro immobili, bloccati. Anche loro possono
solo guardare. Vedo che sono stato visto, i nostri sguardi si incontrano,
solo gli occhi si muovono, nessun altro movimento è possibile. Anche loro
osservano spaventati tutto intorno. Siamo vivi. Almeno questo. Mi sforzo,
provo a parlare. Ci riesco.”

Lo colpì la suggestione delle immagini evocate. Sentì istintivamente


l'eccitazione della scoperta. Un sorriso si disegnò per un attimo sul suo
volto. “E adesso stai a vedere che il presuntuoso editore torinese aveva
ragione” pensò, sfogliando rapidamente con la mano i molti fogli
perfettamente conservati. Forse il tesoro c'era davvero e lo aveva trovato.
Qualcosa di interessante iniziava ad emergere dalle sabbie, occorreva saper
scavare, evitare passi falsi.
Si ripromise di leggere tutto con attenzione; ormai si era fatto tardi e le
prime luci dell'alba si intravedevano dalla finestra del soggiorno.
- VI -

E' l' 11 marzo 1972, un sabato. E' una giornata fredda e ventosa, con
intermittenti scrosci di pioggia, un tempo adatto a restare in casa al caldo
della stufa. Lo pensa McWine raccogliendo a manciate dagli scaffali i
tantissimi fogli di appunti che sparge disordinatamente sulla tavola. E' ciò
che da tempo aveva intenzione di fare ed ha colto l'invito di quella grigia
giornata per procedere in questo compito che un poco lo angoscia. E'
sempre difficile vedere se stessi rispecchiati nei propri fallimenti. Come
aveva letto da qualche parte, un dente marcio lo si può estrarre e tutto
finisce lì. Ma con le illusioni è diverso, perché anche da morte continuano
a marcire e puzzare dentro di noi. Impossibile sfuggirne il lezzo e il
sapore. E' esattamente ciò che avverte in quel momento, di fronte a quel
vecchio scaffale. Quei fogli sono i testimoni silenziosi del suo passato, di
tanti errori che ora vorrebbe dimenticare. Perché li ho portati con me? Si
chiede. E mormora con un sorriso rassegnato: «Già, è il mio cimitero degli
elefanti. I loro fantasmi mi seguiranno ovunque vada.» Il suo sguardo è
perso tra i ricordi, come preso in un incantesimo che immobilizza lo
scorrere del tempo.
Qualcuno batte alla porta, poi una voce affannata, che McWine conosce
bene, dice: «Sono io.» . McWine, come se si risvegliasse in quel momento,
è sorpreso, incerto, non prevedeva la sua visita.
Maria è stremata, deve aver salito tutta la strada quasi di corsa. «Calmati
un poco. Poi mi dirai cosa ti ha spinto a venire qui all'improvviso»
Maria tronca le sue ultime futili parole con un'unica frase:«Thomas,
aspetto un figlio. Ne sono sicura.». Lui la guarda perplesso, incerto, come
se non avesse capito, come se il fiume su cui stava tranquillamente
navigando si fosse avvicinato senza preavviso ad una cascata impetuosa.
Maria resta in silenzio, aspetta che lui dica qualcosa.
Thomas appare confuso, come se fosse costretto a vestire un abito che non
gli si addice, che lo imbarazza, obbligandolo a recitare un ruolo
imprevedibile che mai prima di allora aveva vissuto.
«E allora?» Le sue parole quasi non si sentono.
Maria lo guarda esterefatta.
«Solo questo sai dirmi?»
Con un brusco gesto della mano Thomas si stropiccia gli occhi, come se
cercasse disperatamente di svegliarsi.
«Perdona la mia stupidità. E' la sorpresa. Volevo dirti... che cosa
potremmo fare?»
Un lampo beffardo attraversa gli occhi di lei. La sua voce si incrina.
«Potremmo?»
Nel mentre si è fatta avanti, gli è ormai vicina.
«Riguarda solo me. Non sono venuta per chiederti qualcosa, ma solo per
dirtelo, farlo sapere a te per primo.»
Thomas nota lo sforzo con cui lei sta cercando di essere chiara, tranquilla,
anche se le parole le escono con fatica. Prova un istintivo moto di
protezione. Protende il braccio per cingerle le spalle, ma lei lo ferma.
«No, tu non c'entri.»
Si siede, con lo sguardo fisso a terra, le sue parole sono appena mormorate.
«Ci sono i giorni ordinari e i giorni di festa. Tu sei stato la mia festa, che
tengo stretta dentro di me, solo per me stessa.» Lo guarda teneramente,
riflette, poi lentamente continua.
«Ma in qualunque giorno nasca un bambino, è sempre lui, non importa da
dove venga. E' della madre, è lei che lo mette al mondo con la sua carne.
Per questo non provo sensi di colpa.»
Maria ora è serena, contenta di quello che ha saputo afferrare con le sue
parole nel mare confuso che si agita dentro di lei. I suoi occhi ritornano
luminosi. Continua con dolcezza.
«Sì, non provo sensi di colpa. Non so se il bimbo che sta arrivando sia tuo
o di Primo. Il caso ha deciso, o la Provvidenza, non so. Primo ci tiene
tanto, già temeva che non avremmo avuto figli, perché il tempo passava.
Voglio un erede, diceva, maschio o femmina che sia è lo stesso. Sarà
contento, adesso, quando glielo dirò.»
McWine l'ha ascoltata in silenzio, come se la voce del destino avesse
annunciato attraverso quelle parole la sua sentenza. Che cosa farà, ora?
Continua a chiederselo e non sa rispondere.
Impacciato, le ha afferrato le mani che ora stringe in una stretta quasi
dolorosa. Poi con fatica la sua voce finalmente riesce a dire ciò che sta
pensando dal primo momento in cui lei ha parlato.
«Potrò vederlo?»
Maria lo guarda sorridendo. «Certo, quando vorrai. Lui crescerà in questi
luoghi, tra queste persone. E se tu ci sarai ancora...»
Thomas la interrompe con foga.
«Naturalmente! Resterò qui. Ora ho una ragione in più per non andarmene
mai.»
Si abbracciano come due naufraghi appena giunti sulla riva.
E' quasi sera. Dal momento in cui Maria lo ha salutato, molte ore prima,
Thomas McWine non è più riuscito a far nulla.
I fogli che appartengono al suo passato, che con diligenza al mattino
aveva iniziato a risistemare, giacciono ancora disordinatamente sulla
tavola dove erano stati abbandonati. Thomas non ha pranzato. Grosse nubi
grigie si muovono veloci nel vento di tramontana ancora teso e nella sua
mente. Con il suo vecchio giaccone addosso, Thomas si è seduto sulla
poltrona di vimini ormai logora, fuori sull'erba ancora bagnata, e ha
passato il tempo a riflettere.
Con calma ha esaminato la situazione, le alternative possibili, le scelte più
ragionevoli, ha elaborato piani e proposte. Tutto questo gli ha portato
perlomeno un po' di tranquillità, ciò di cui più sentiva il bisogno, ma non
gli ha dato l'unica risposta che servirebbe in quel momento: che cosa fare?
Il sole è ormai tramontato da un pezzo, l'aria si fa gelida, ma è come se
Thomas non avvertisse tutto questo. E' come se anche i suoi pensieri
fossero raggelati e si insinuasse inavvertitamente in lui il soffio
agghiacciato proveniente da anni lontani. Rivede in un lampo se stesso,
giovane, sicuro di sé, e poi quello che invece è stato. «Sì, io sono l'uomo
della rinuncia, la mia vita ne è tappezzata.» La voce, nello scandire queste
parole gli si incrina. «Non ho mai saputo decidere, sono sempre fuggito.»
Ride beffardo. Si afferra il volto, sconvolto. La solitudine ora lo opprime.
Si alza, chiude la porta di casa e si avvia verso il paese.
Scende lungo il ripido viottolo illuminando la strada con la sua piccola
lampada che disegna un cerchio nelle tenebre fitte e senza luna. In alto le
stelle brillano terse nel cielo di nuovo sereno.
Alla fioca luce dei pochi lampioni vede sulla porta della chiesa ancora
aperta il vecchio parroco sempre più curvo. Era stata la prima persona che
aveva incontrato, ricorda. Lo saluta da lontano.
Come seguendo una traccia invisibile, giunge di fronte al solo luogo in cui
desidera trovarsi in quel momento. Voci concitate ed allegre giungono
attutite attraverso la porta. C'è un'aria di festa diffusa nella sala calda ed
accogliente. Ai tavoli i numerosi avventori ridono di gusto. Bottiglie di
vino circolano tra di loro.
«Buona sera, professore! Che cosa posso portarle? Un bel rosso
dell'Umbria? Oggi si festeggia, offre la casa!»
Primo è quasi irriconoscibile, non sta in sé dalla gioia. E' un uomo non
molto alto, con grossi baffi neri che quasi nascondono la bocca, in genere
piuttosto taciturno, come tanti altri in paese. Ora, invece, si muove
frenetico, spostandosi tra i tavoli, senza mai smettere di parlare. E' quasi
palpabile la schietta cordialità che cerca con piacere di comunicare a tutta
la sala. Qualcuno urla: «Alla salute del neo-papà!» E un'altra voce gli
risponde: «Attenzione, che lui manco ci crede ancora!» seguita dalla
rombante risata di tutti, che alzano i bicchieri brindando insieme.
McWine gira lo sguardo intorno. Maria non c'è.
Maria si è isolata in cucina con il pretesto del notevole impegno di quella
serata speciale. Ascolta, attutite, le risate e le grida incomprensibili. Gira
con foga la pietanza che sta preparando, il suo sguardo è fisso, incerto,
perduto tra i tanti pensieri preoccupati che si muovono dentro di lei. Sul
suo viso cereo tutto questo si disegna nella fitta rete di rughe che increspa
la sua fronte. Per questo ha preferito rimanere sola, non vuole testimoni in
quell'ora difficile.
Sente Primo nella sala che incita gli altri a bere con lui. Riconosce
improvvisamente una voce per lei inconfondibile. Si accosta alla porta per
ascoltare meglio e sente Thomas complimentarsi con il marito. «Grazie
Primo, un ottimo vino. Alla sua salute, sono contento per lei.»
Non le sembra possibile: perché è venuto? L'ansia incomincia a salirle
dentro. Con una zuppiera calda in mano – un utile pretesto – esce in sala
e lentamente si avvicina alle spalle dell'uomo biondo che è entrato nel suo
cuore.
«Ecco la minestra di verdure che aveva chiesto, l'ho fatta come piace a
lei.»
E bisbigliando, senza attendere oltre, aggiunge: «Perché sei venuto?»
La risposta di lui è già nel sorriso con cui la guarda. Primo si è fermato e li
sta osservando. Thomas mantiene la calma e riesce a rispondere a voce alta
nel modo più scontato. «Grazie signora, davvero gentile. Le sue minestre
sono sempre buonissime. Me la gusterò fino in fondo.» Ma in un soffio
bisbiglia la sua vera risposta: «Non sono riuscito a fare a meno di
rivederti.» Maria resta un attimo incerta, come sospesa nel vuoto, il viso
mostra solo a lui un subitaneo turbamento nei suoi occhi. Ma sono pochi
attimi, subito si ricompone.
«La ringrazio, professore, il piacere è tutto mio nel vederla contento. Buon
appetito.»
Thomas la segue con lo sguardo mentre si allontana. Primo è di nuovo
indaffarato. E' bastata questa piccola scena conclusa senza drammi a far
capire a Thomas la reale situazione in cui si trovano. Il cuore semplice di
Maria non vuole inutili sconvolgimenti, lacerazioni romantiche fatte in
nome di un amore folle. La sua vita è questa, – lui pensa – e vuole
conservarla.
Bene – si dice – saprò adattarmi anche a questo. Almeno per una volta
non fuggirò. Alza il bicchiere ancora colmo e brinda con tutti gli altri.

-7-

Era il 2 settembre 2013, un lunedì. A Benceglio, nella piana inaridita dalla


lunga estate si annunciava una giornata afosa. Un sole ancora molto forte
scaldava attraverso le grandi vetrate dell'ampio atrio i piccoli gruppi di
insegnanti che chiacchieravano in attesa dell'inizio della prima riunione del
nuovo anno scolastico.
Mentre saliva gli ultimi scalini verso l'ampio ingresso, Carlo si accorse che
la cartellina rossa – i Quaderni, come aveva iniziato a chiamarla – era
rimasta a casa sulla scrivania. Imprecò silenziosamente, contrariato.
Avrebbe voluto portarla con sé per farla vedere a Silvia, la collega di cui
più si fidava, durante le molte ore noiose del collegio docenti. Pazienza –
pensò – gliene avrebbe comunque parlato, sicuro di accendere la sua
curiosità.
Si sentiva nell'aria l'eccitazione del nuovo inizio. “E' una delle cose più
belle del nostro lavoro – pensò Carlo – questo ritrovarsi ai blocchi di
partenza, riprendere da capo ma mai allo stesso modo. Cambiano i ragazzi,
cambiano le situazioni.”
L'aria rassegnata di tanti intorno a lui smentiva queste sue considerazioni.
Vide che parecchi già si incamminavano lentamente verso l'aula magna.
Anche Carlo vi si diresse. Era un locale privo di finestre posto nel
seminterrato dell'istituto, tutto foderato di velluti violacei e con comode
poltroncine rosse imbottite.
«Poveri noi, moriremo di caldo!» disse ad alcuni colleghi delle sue classi
che lo accompagnavano.
«Caro Carlo, dobbiamo soffrire, ce lo dicono in tanti.» gli rispose uno
ridendo.
«Centi, lei dunque è ancora qui?» Riconobbe subito il tono sfottente della
voce alle sue spalle. Era l'unico collega che, per tutto l'anno precedente, in
qualunque occasione, gli aveva continuato a dare del lei, come a voler
rimarcare una distanza incolmabile. E anche Carlo, con evidente ironia,
aveva continuato a fare altrettanto.
«Professor Vendramini, ben ritrovato! Spero che la nomina che sono
riuscito ad ottenere anche quest'anno non la contrari troppo!» disse
girandosi con ostentata cordialità.
Vendramini era uno degli insegnanti più anziani. Insegnava anche lui
italiano come Carlo e vestiva, pieno di sé, con aria compiaciuta, costosi
completi inglesi adatti alla stagione. Adesso si trattava di un morbido lino
di un brillante colore azzurro.
Carlo non riusciva a capirne la ragione, ma Vendramini aveva iniziato ad
odiarlo dal primo momento del suo arrivo. L'antipatia, a dire il vero, era
stata immediatamente reciproca.
Uno spunto costante per le battute velenose del collega era il suo secondo
lavoro, la sporadica collaborazione con il piccolo editore torinese. Chissà
come, Vendramini ne era venuto a conoscenza e non perdeva occasione
per vantare i suoi contatti importanti in prestigiose case editrici, a
differenza – rimarcava lui con un'occhiata carica di derisione – di certi
pretesi editori senza mezzi capaci tutt'al più di stampare album di figurine
per bambini.
Entrando nell'ampia sala delle riunioni Carlo si guardò intorno cercando
l'unica persona, in tutta la scuola, a cui teneva veramente. Vide Silvia
seduta in un posto appartato tra le ultime file, concentrata nella lettura di
un piccolo libro tascabile dalla copertina usurata.
«Che leggi di bello?» le chiese sedendosi accanto a lei.
Silvia alzò gli occhi ancora carichi di una patina di lontananza e gli sorrise.
«La mia amatissima Silvia Plath. Giusto una poesia, per darmi forza prima
che inizi la lunga mattinata di noia.» disse richiudendo il libro.
Carlo rise e indicando con la mano tutto intorno osservò ridendo:
«Davvero il posto adatto per leggere poesie.»
«Non c'è luogo che non sia adatto, la poesia cambia tutto.» gli rispose
l'altra stando al gioco.
Agli occhi degli altri colleghi che sedevano tutto intorno era perfettamente
visibile la corrente di simpatia che scorreva tra quei due sempre un po'
isolati dagli altri.
Silvia era una donna dalle forme procaci ormai avanti con gli anni.
I lunghi capelli castani pettinati lisci, con leggere striature di bianco, e
l'abbigliamento un po' eccentrico e colorato ponevano in luce un forte
legame con la propria giovinezza, gli anni belli dei suoi studi a Roma
all'inizio degli anni '70. Ciò che immediatamente colpiva nel suo modo di
fare era l'atteggiamento energico e schietto che rifuggiva fronzoli e
formalità. Dietro gli occhiali circolari leggermente affumicati i suoi occhi
scuri scrutavano chi aveva intorno con una fissità quasi imbarazzante, e
questo aveva contribuito al diffondersi tra i colleghi dell'idea che si
trattasse di una donna sfuggente e un po' difficile.
La sua intesa con Carlo, invece, era stata immediata fin dall'inizio
dell'anno precedente, quando Carlo era appena arrivato e lei, nei primi
giorni di lezione, lo aveva casualmente incrociato, solo e spaesato, nei
corridoi della scuola. Il suo sguardo perso, come se fosse giunto
improvvisamente sulla luna, lo aveva intenerito. Gli si era avvicinata e
avevano iniziato a chiacchierare del più e del meno. Era un po' come se lei
vedesse nella figura impacciata di quel collega quarantenne una qualche
somiglianza con i suoi due figli ormai adulti. Era scattato qualcosa dentro
di lei, il desiderio di proteggerlo ed aiutarlo.
Intanto, dal palco quasi teatrale su cui troneggiava una lunga scrivania, con
ripetuti colpetti sul microfono la dirigente richiamò l'attenzione.
«Cari colleghi, si fa tardi. Vogliamo incominciare?» disse con voce decisa.
Il brusio della sala si attenuò di colpo, qualche voce isolata si spense subito
dopo.
«Ci sono cose importanti all'ordine del giorno. Soprattutto l'avvio, da
quest'anno e in via sperimentale, del registro elettronico.» Rimarcò,
aggiungendo compiaciuta: «Siamo tra i primi in Italia.»
Carlo vide numerose teste che assentivano e sentì tutto intorno un vago
mormorio di approvazione. Senza dir nulla, scambiò con Silvia una lunga
occhiata carica di scetticismo.
«Basta così poco a far contente certe persone...» disse Silvia con aria truce.
E subito si domandò, guardandosi intorno: «E chissà se ci credono
veramente.»
Carlo la fissò con un sorrisino: «Che credano veramente o facciano solo
finta di credere, fa differenza?»
I collaboratori della preside avevano iniziato a spiegare ogni dettaglio.
Dalla sala si susseguivano gli interventi e le precisazioni. Erano parecchi –
notò Carlo – quelli che ostentavano le proprie competenze didattiche.
Carlo, come sempre, faticava molto a seguire certe elucubrazioni fatte in
una sorta di gergo per iniziati, che lui, facendo ridere i colleghi, aveva
chiamato una volta “didattichese”. Un po' come il politichese dei politici
italiani, un modo di esprimersi volutamente quasi incomprensibile.
Carlo amava insegnare, gli piaceva il rapporto in classe con i ragazzi, lo
sforzo di mettersi quotidianamente in gioco come un attore di fronte a una
platea spesso mal disposta. Proprio per questa ragione, gli sembrava che le
liturgie dell'anno scolastico a cui erano obbligati a partecipare avessero
purtroppo poco a che fare con l'esperienza concreta, quando, chiusa la
porta dell'aula, si è soli di fronte alla classe: per fare che cosa? E a che
scopo? Queste erano – pensava Carlo in quel momento – le domande
decisive che raramente venivano affrontate.
Iniziò una lunga serie di votazioni per alzata di mano. Carlo cercava di
afferrare almeno qualcosa delle lente presentazioni dei vari progetti che a
turno diversi colleghi andavano a illustrare sul palco, proiettando
complicati schemi sul grande schermo dietro il tavolo della dirigente.
«Venghino signori, venghino che c'è posto...» sentì Silvia bofonchiare
accanto a lui. Carlo non riuscì a trattenere un attacco di ridarella, che cercò
subito di nascondere con una mano. Vide qualche sguardo contrariato che
si volgeva verso di lui dalle prime file.
«Io ho intenzione di portare le mie classi in visita alla Biblioteca centrale
di Torino. Che questi somari della seconda vedano almeno un prezioso
forziere della nostra cultura, anche se poi non leggeranno un libro.»
Carlo riconobbe alle proprie spalle l'inconfondibile tono saccente del
professor Vendramini.
«Ma si annoieranno parecchio...» sentì qualcuno obiettargli accanto.
«E chi se ne frega, con quella manica di ignoranti che pascoliamo nelle
nostre classi. Ci mancherebbe!» sbuffò Vendramini rumorosamente.
Sulla sua sinistra Carlo sentiva il respiro dell'anziana collega farsi pesante.
Si voltò verso di lei. “Silvia si sta di nuovo appisolando” pensò divertito.
Una volta glielo aveva spiegato lei stessa che era una cosa che le capitava
da qualche anno, quando si annoiava.
Temendo che qualcuno dall'alto della tribuna potesse notarla, sfiorandole il
braccio le chiese: «Non mi hai ancora detto nulla del tuo trekking in Perù il
mese scorso. Molto faticoso?»
Silvia si riscosse e lo squadrò un po' straniata.
«Che cosa hai detto?»
«Il tuo viaggio in Perù. Come è andata?»
Uno splendido sorriso illuminò il suo volto pesantemente truccato.
«Fantastico! E' un altro mondo!» bisbigliò all'orecchio di Carlo. E
aggiunse acre: «E' come se io fossi due persone: quella che qualche
settimana fa camminava in alta quota sulle Ande, e l'altra che sta qui
seduta cercando di far passare queste ore infinite.»
«Hai ragione» bisbigliò a sua volta Carlo. «Doctor Jeckyll e Mister Hyde.
Non è difficile capire chi dei due siamo in questo momento.»
Silvia trattenne una risatina, poi chiese a bassa voce: «E tu? Che cosa hai
fatto di bello?»
Si stupì dell'espressione infastidita che era balenata per un attimo sul viso
del collega. Incuriosita, suggerì: «Forse non è stato un granché bello?
Immagino che dopo gli interminabili esami fossi molto stanco.» E con una
leggera gomitata aggiunse ironica: «Sei stato per tutto il tempo al tuo
paesino ligure, confessalo»
«E già, mi conosci bene. Quella era effettivamente la mia prima
intenzione. Poi sono successe tante cose...»
La curiosità di Silvia cresceva.
«Dai, racconta!»
«E' una storia un po' lunga. Un po' complicata...»
«Eddai! Il tempo non ci manca!» esclamò a voce troppo alta.
«Se i colleghi laggiù in fondo vogliono per cortesia fare più attenzione...»
si sentì scandire dagli altoparlanti appesi alle pareti.
«Sì, buona notte!» Silvia alzò gli occhi e sbuffò. Poi si accostò un po' di
più all'amico. «Parla piano e dimmi tutto.»
Anche Carlo si fece più accosto cercando di mimetizzarsi dietro le teste dei
colleghi della fila davanti.
«Bé, per dirla in breve...» bisbigliò «Mi è arrivato per le mani qualcosa di
grosso!»
«Grosso quanto?» chiese Silvia ridendo divertita.
«No, guarda, non è uno scherzo. Si tratta di un libro importante che può
valere una fortuna!»
«Accidenti! E di chi sarebbe questo tesoro?» esclamò Silvia sorpresa.
«Adesso ti spiego velocemente.» concluse Carlo compiaciuto
Vendramini aveva orecchiato qualcosa delle ultime parole. Un libro
importante, un tesoro. Sporgendosi un poco cercò di carpire ciò che Carlo
stava dicendo.
Dimenticandosi del luogo in cui si trovava e di quanto stava facendo, a
voce bassa Carlo riassunse rapidamente la vicenda in cui Renato lo aveva
coinvolto, a partire da quella prima telefonata mentre era in viaggio verso
Deiva. Gli occhi attenti di Sivia continuavano a fissarlo con grande
interesse dietro le lenti affumicate.
«E adesso? Dove si trova tutto quel bendidìo?» chiese Silvia eccitata.
«Qui a casa, mi sono portato tutto a Benceglio. Ho iniziato a lavorarci
sopra» spiegò con calma buttando l'occhio verso il palco. «E sono sempre
più convinto che c'è qualcosa di buono; debbo ammettere che Renato, il
mio amico editore, aveva visto giusto...»
«Però, che avventura!» sibilò Silvia tra i denti con uno sguardo pieno di
ammirazione.
Carlo alzò le spalle e con un gesto noncurante minimizzò l'importanza
della sua impresa. «Adesso non esageriamo, è ancora tutto da verificare.
Debbo dire però che le premesse ci sono. Mi piacerebbe avere un tuo
parere.»
«Questo è sicuro! Anch'io voglio essere della partita.»
Come a volersi scusare Carlo bisbigliò rammaricato: «Avrei voluto portarti
già oggi lo scritto che più ha attirato la mia attenzione.» La guardò con aria
imbarazzata. «La mia solita sbadataggine. L'ho lasciato a casa.»
Silvia sorrise. «Dai, non prendertela, non ha importanza, me lo passerai
una prossima volta. Ma di cosa si tratta?»
«Ho letto ancora poco. E' una vicenda strana, in una specie di mondo
postatomico, non mi è ancora molto chiaro che cosa sta accadendo. In tutto
sono un centinaio di fogli in una cartellina come quelle che si usano anche
a scuola, naturalmente scritti in inglese. Mi ha colpito il titolo che compare
sulla copertina: The Notebooks of Waste. Tu come lo tradurresti?»
Sentendosi chiamata in causa come insegnante della lingua di Albione
Silvia iniziò a ragionarci sopra: «Bé le possibilità sono più di una. Il
termine Waste è molto ricco di sfumature. Opterei per la traduzione più
comune, qualcosa come I quaderni del rifiuto o I quaderni dello scarto.
Oppure anche dello spreco, forse. Ma se pensiamo a The Waste Land di
Eliot, potrebbe pure starci qualcosa come I quaderni della desolazione.
Francamente non riesco a capire che cosa potrebbe significare. E' un bel
titolo, ma – come dire? - sfuggente e incomprensibile»
«Guarda un po'! E' la prima cosa che ho pensato anch'io quando ho notato
la cartellina nella scatola!» commentò Carlo battendosi una mano sulla
gamba. «Ma è anche il motivo per cui quella cartellina rossa ha subito
attirato la mia attenzione, come se mi avesse catturato. Ti parrà strano ma
ho provato viva l'impressione che mi stesse aspettando. Non so bene
spiegartelo, una cosa un po' da pazzi...»
Gli occhi di Silvia si illuminarono.
«Adoro i misteri!» esclamò energicamente attirando di nuovo l'attenzione
dei vicini.
«Allora hai trovato la migliore occasione, se ti dico l'altra cosa che
decorava quella copertina. Un'immagine che mi ha sempre inquietato...»
Silvia pendeva dalle sue labbra.
«Un'incisione del pittore tedesco Albert Dürer che sicuramente conosci
intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo.
«Accidenti!» sbottò Silvia sommersa dallo stupore.
«Sì, è tutto abbastanza incredibile» osservò Carlo. «Chissà che cosa voleva
comunicare lo scrittore americano scegliendo quell'immagine.»
Continuava a parlare tranquillo a bassa voce, ma era visibilmente eccitato,
come se finalmente l'aver discusso di tutto questo con l'amica fidata
rendesse più chiaro nella sua mente l'impegno che lo attendeva.
«Questa sera inizierò a lavorarci sopra più seriamente» aggiunse. «Tra
esami di riparazione e scartoffie varie di inizio anno, finora ho potuto fare
ben poco.»
«Non me la dai a bere. Nel mese di agosto te la sei anche spassata, dì la
verità. Altro che studi approfonditi sull'opera ritrovata! Ti conosco troppo
bene» disse Silvia sfottendolo.
Carlo chinò la testa e rise un po' imbarazzato. Le colleghe che sedevano
alla sua destra si voltarono contemporaneamente verso di lui. «Per favore,
vogliamo finirla una buona volta? Non si capisce niente!» disse stizzita
una delle due.
Carlo con una smorfia ironica si volse verso Silvia ponendosi un dito sulle
labbra. «Sarà meglio che stiamo zitti adesso. Ti farò sapere.»
Silvia continuava a guardarlo ammirata. «Vai così che sei sulla strada
giusta!» rispose dandogli una amichevole spintarella con il gomito.
In quel momento ci fu alle loro spalle uno strano tramestio e Carlo
avvertì distintamente la sensazione sgradevole di uno sguardo tagliente
puntato sulla sua nuca. Si girò di scatto. Il professor Vendramini
ridicolmente proteso in avanti sorrise goffamente. Con finta noncuranza e
con il mento appoggiato su una mano fingeva una grande concentrazione,
mentre continuava a fissare Carlo, quasi a voler sottolineare in questo
modo l'assoluta normalità di quello che stava facendo. Poi le sue labbra si
piegarono in un ghigno forzatamente cordiale, come a voler suggellare una
tacita intesa futura.
Anche Silvia, nel frattempo si era girata e fissava a sua volta Vendramini
con uno sguardo infuocato.
«Ti vedo tanto curioso per gli affari degli altri.» gli sibilò tra le labbra con
una voce carica di disprezzo. «Mi raccomando, hai registrato tutto?»
Carlo cercò di tranquillizzarla. «Lascia perdere. Che cosa vuoi che
faccia?»
Silvia sbuffò rumorosamente.
La voce flautata della dirigente interruppe il contrasto che stava nascendo.
«Cari colleghi, oggi vi vedo un po' distratti e la mattinata sarà ancora
lunga. Concediamoci un piccolo break.»
Si fiondarono tutti rapidamente verso le macchinette del caffè.
Seduto di fronte alla tavola stretta della cucina nel suo piccolo
appartamento, sotto la luce intensa della lampada, Carlo si concentrava
sulla pagina che aveva davanti. Aveva accanto un altro foglio mezzo pieno
di frasi scritte e cancellate sul quale era riportata la sua traduzione ancora
un po' insicura del primo capitolo. Deciso a non mollare e a procedere
caparbiamente fino in fondo, superando qualunque difficoltà, Carlo
continuava il suo accanito corpo a corpo, nonostante fosse ormai passata la
mezzanotte. Si sentiva un po' in colpa. Il mese di agosto, come aveva ben
capito Silvia, era stato dedicato a tutt'altri impegni.
“Non esageriamo – si disse per consolarsi – qualcosa l'ho già fatto.” Nelle
poche serate trascorse in casa con i genitori, quando non organizzava nulla
con gli amici, aveva diligentemente completato l'esame e la classificazione
del materiale contenuto nella scatola, ma The Notebooks of the Waste lo
aveva catturato fin dal primo momento. Aveva letto tutto frettolosamente,
capendoci poco. In effetti – aveva notato ben presto – la trama molto
semplice era appena abbozzata, anzi non c'era un vero e proprio racconto
come ci si aspetterebbe in un romanzo. Era soprattutto un ostinato
rincorrersi di riflessioni e contrapposizioni nel dialogo serrato tra alcuni
personaggi irrigiditi in una inspiegabile immobilità, forse l'effetto terribile
di qualcosa che era loro accaduto. Ed era proprio questo ciò che lo aveva
colpito: l'asciuttezza di questo amaro confronto finale con il senso della
perdita. Lo scarto, appunto, come diceva già il titolo.
Ritornò indietro alla prima pagina e rilesse ancora una volta quell'inizio
che era diventato per lui una specie di mantra: “Esisto ancora? Non lo so,
non so chi sono...”
Avvertiva in queste parole l'eco di qualcosa che gli apparteneva, come
una sorta di suono cavernoso proveniente dalle profondità più insondabili
della condizione umana.
Dopo una veloce occhiata alla pagina iniziale che ormai conosceva quasi a
memoria, proseguì nella lettura della pagina successiva, cercando di
afferrare bene il senso di ogni frase. Sillabò mentalmente una possibile
traduzione:
“...mi sforzo, tento di parlare. Ci riesco. – Fratelli! – grido.”
Anzi, pensò, forse è meglio: “ce la faccio”, sì, così va bene. Continuò
lentamente:

“Riesco a muovere la testa, mi giro da una parte e poi dall'altra. Ci sono


altri intorno a me. Vicini. Distesi a terra. Immobili come me. Vedo le loro
bocche che si aprono sotto grandi occhi dilatati dal terrore, tentano anche
loro di parlare, ma non esce suono. Mi guardano come invocando aiuto.
Mi sentono. Impotenti.
Sento una voce forte e sicura, lontana alla mia destra. Invoca aiuto.
Guardo ma non riesco a vedere chi ha parlato. Urlo ancora più forte.
– Fratello! – ma non c'è risposta.
Ecco che un altro parla alla mia sinistra. E' più vicino, ma non lo vedo. Il
suo pianto rende difficile capire ciò che sta dicendo.
Domanda disperato: – Che cosa è accaduto?
– Non lo so – urlo – non ricordo nulla.
L'altro parla con fatica, frenando i continui singhiozzi:
– Anch'io non ricordo più nulla di me stesso, anche se ricordo ogni altra
cosa. Come se la mia vita mi fosse stata rubata.
Il tempo scorre lento. Improvviso un grido di giubilo mi scuote. Qualcosa
ritorna, un piccolo lembo di ciò che sono.
Ricordo finalmente il mio nome.
Lo urlo: – Io sono Sal! – So solo questo.
Un urlo giunge poco dopo da destra: – Anch'io adesso ricordo! Io sono
Sim!
E alla sinistra la voce piangente si è rinfrancata. Dice: – E' così anche per
me. Finalmente ricordo. Io sono Sag!.
Sim, Sal, Sag! – dico – Siamo vivi, ma cosa è accaduto?
– Un sibilo fortissimo – dice Sim.
– E una vibrazione dolorosa – dice Sag.
– Ma che cosa ci ha ridotti in questa condizione? – torno a ripetere.
Sag, alla destra, ride: – E' una beffa mostruosa. Siamo vivi, ma non
possiamo più muoverci. Pensiamo e parliamo, ma non riusciamo più a
ricordare noi stessi.
E Sim aggiunge: – Possiamo solo attendere. Qualcosa accadrà. Giungerà
qualcuno a salvarci.
Sal gli risponde: – Sia beato chi ci crede. Il nostro destino è segnato. Non
c'è più tempo.”

Carlo alzò il capo e si guardo attorno. Con un po' di fatica era riuscito a
tradurre l'intera pagina. Con qualche piccola licenza, ammetteva ora con se
stesso.
Corrugando la fronte, contemplò con aria perplessa il risultato dei suoi
sforzi. Aveva l'impressione che quello che aveva davanti non potesse
essere l'opera di uno scrittore affermato. Gli sembrava piuttosto un
tentativo approssimativo di costruire una storia sulla falsariga di tanti
romanzi fantascientifici ed apocalittici che circolavano in giro.
Pensò ai tre personaggi con quei buffi nomi. Dietro l'indubbia tensione
drammatica del loro dialogo, gli parevano delineati in modo sbrigativo e
poco credibile. “Forse McWine era un po' fuori allenamento.” pensò con
un sorriso. I suoi occhi caddero su qualcosa al fondo del foglio, alcune
parole un tantino sbiadite scritte a matita. Well, but no tears! Riconobbe
con assoluta certezza la tipica inclinazione della grafia di Thomas McWine
che aveva già visto su tanti altri fogli contenuti nella scatola. Battendo il
pugno sul tavolo esclamò con un moto di gioia: «Ecco la prova!» Quelle
poche parole ridavano forza alla sua traballante sicurezza. Ora tutto gli
sembrava chiaro. Thomas McWine aveva probabilmente scritto The
Notebooks of Waste in tempi diversi, ritornandoci sopra con quelle
annotazioni in vista di una futura pubblicazione.
In quel momento lo sgradevole suono del cellulare interruppe le sue
riflessioni. Stizzito, Carlo controllò sul display chi mai lo stesse
chiamando a quell'ora impossibile. Era Silvia.
«Scusa, ti ho svegliato?» esordì senza preamboli con i suoi soliti modi
spicci.
Contento di sentire quella voce amica che spezzava la sua notturna
solitudine, rispose scherzoso con tono assonnato: «Sì, come tutti i giorni
ero già a letto dalle nove.»
«Accidenti! Scusa.» bisbigliò l'altra con voce titubante.
Carlo rise di gusto e subito chiarì con la sua voce normale: «Ma no, è solo
uno scherzo scemo che faccio ogni tanto. Stavo ancora lavorando sul
dattiloscritto dello scrittore americano cercando di capirci qualcosa.
Dimmi tutto.»
«E' che non ho resistito...» disse rapidamente Silvia eccitata, subito
interrompendosi per parecchi secondi.
Carlo guardò il suo cellulare. «Pronto? Ci sei ancora?»
«Ma sì, sto cercando di mettere in ordine le cose che volevo subito dirti»
rispose sbrigativamente. «Andiamo subito al sodo. Tu navighi sul Web?»
«No, non molto spesso. Uso il mio portatile prevalentemente per lavoro.»
«E quindi suppongo che non sai niente?»
«Di cosa?»
«Ecco, se tu lo usassi come tutti un po' più spesso ti saresti di certo
preoccupato di fare una banale ricerca su Google e sui social networks
inserendo il nome dello scrittore. E' quello che molto semplicemente ho
fatto io...»
«E che cosa hai trovato di tanto sconvolgente?» scandì Carlo con un filo di
scetticismo.
«E' esplosa una vera e propria mania. In America se ne parla tantissimo.
Lo chiamano in genere “Il mistero McWine”. Non ti dico la quantità di
supposizioni che sono state fatte riguardo alla sua “fuga in Italia”, come
viene chiamata.»
Carlo si bloccò interdetto. Ricordava di aver dato un'occhiata alla scheda
biografica dello scrittore su Wikipedia, giusto per rendersi conto di chi
fosse stato. Era quindi a conoscenza dell'essenziale: l'unico libro
pubblicato da McWine, la sua presenza pubblica negli anni '60 e poi
l'improvviso trasferimento in Italia. Fine. Più o meno le cose che gli aveva
detto Renato a luglio nella sua demenziale telefonata.
Sì diede involontariamente dell'idiota.
Sì, la cosa che aveva fatto Silvia era la più ovvia nell'era di Internet. E lui
non ci aveva neppure pensato. Un pensiero gli balenò in mente. Guardò
con occhi nuovi il dattiloscritto che aveva davanti come se fosse una
bomba pronta ad esplodere. “Chissà se Renato se lo aspettava!” pensò.
Avevano estratto il jolly e la partita era tutta nello loro mani.
«Caspita. Vuol dire che quello che che ho qui davanti a me è ancora più
grosso di quanto pensassi!» esclamò sottolineando volutamente con ironia
le ultime parole.
«Bé, direi proprio di sì.» osservò Silvia senza dar peso alla battuta ormai
stantia.
«Mi raccomando, Carlo, vedi di fare tutto per bene.» Silvia non
dimenticava mai di elargire i suoi consigli.
«E soprattutto non parlarne troppo in giro.» Senza nominarlo, entrambe
pensarono all'antipatico collega e alla loro superficialità nel parlare delle
imprese estive di Carlo durante il collegio docenti.
«Ciao. Ci vediamo domani a scuola. Ne riparliamo» chiuse in fretta Silvia.
«Buona notte...» rispose Carlo con uno sbadiglio.

- VIII -

E' il giorno di Natale del 1972. E' un lunedì nuvoloso che minaccia altra
neve. Gelida soffia la tramontana. L'inverno è stato precoce; già dalla fine
di ottobre un manto bianco ha avvolto le colline. Monastico è in festa.
Uomini, donne e bambini, come ogni Natale, sono in fermento per
preparare la tradizionale processione di angeli e pastori. L'intero paese è
mobilitato da giorni nei preparativi. Tutti vi partecipano con impegno ed
allegria, chi come comparsa e chi, con ruoli ambitissimi, come
personaggio principale. Le vie sono gremite di gente. Negli ultimi anni, la
fama si è diffusa e i turisti non mancano.
E' quasi mezzogiorno, la messa solenne è terminata da poco e la campana
suona a festa per annunciare l'inizio della sacra rappresentazione. La folla
si assiepa lungo la strada che verrà percorsa, attende con curiosità il
passaggio del corteo. Angeli e pastori avanzano compatti verso la
capanna costruita al margine del paese. Intonano canti accompagnati da
trombe e tamburi. Qualcuno, di soppiatto, saluta amici e parenti.
Il lungo corteo procede lentamente; in testa c'è il vecchio parroco un po'
claudicante, che avanza solennemente. Su un cuscino rosso che porta tra
le mani è posta una piccola veste bianca ricamata d'oro. Accanto a lui,
piccoli angeli impersonati dai bambini della scuola elementare spargono
tutto intorno petali di fiori secchi.
Thomas McWine si è già avvicinato al punto d'arrivo e attende. Canti e
suoni giungono attutiti e lontani. La Sacra famiglia non ha ancora preso
posto nel piccolo locale, accanto al bue e all'asinello.
Thomas, in piedi poco distante dalla capanna, si guarda intorno. Ha sempre
assistito volentieri a questa rappresentazione, sin da quando era giunto in
paese tre anni prima.
Il cattolicesimo – riflette sedendosi più comodamente – non è stato solo
culto dell'autorità e superstizione; c'è anche questo, ed è bello: la capacità
di rendere tangibile il mistero, ciò che più è venuto a mancare nell'America
calvinista figlia dei Padri Pellegrini. Abbiamo perso il calore della vita –
pensa – la capacità di trasformare gli astratti concetti della dottrina in
immagini che arrivano al cuore.
La processione si sta lentamente approssimando, cresce il fermento intorno
alla piccola costruzione. Rapidamente alcuni si avvicinano alla mangiatoia
fatta di poche assi e vi sistemano stoffe spesse e calde. Una donna che ha
atteso poco discosta si avvicina con un bambino. Thomas, con
commozione, riconosce immediatamente Maria con suo figlio nato ad
ottobre. L'ansia si impadronisce di lui, lo rende inquieto. Le sue mani si
contraggono. Quel bambino forse è mio figlio, – pensa – Maria non
dovrebbe portarlo in giro con questo gelo.
Maria culla il bambino tra le braccia, rimboccandogli uno scialle di lana
intorno al viso, gli bisbiglia qualcosa. Thomas continua ad osservarla con
attenzione. Immersa nella contemplazione del minuscolo viso Maria non si
è ancora accorta della sua presenza. Thomas nota una donna dai capelli
rossi che ha visto qualche volta in giro per il paese avvicinarsi rapidamente
a Maria. Sembra adirata con lei, le parla con foga nel dialetto locale
agitando le mani., forse gli rinfaccia qualcosa. Thomas non la capisce, ma
vede Maria farsi pallida. Sorpresa ed incerta sfugge lo sguardo aggressivo
dell'altra, poi in pochi istanti si tranquillizza e di nuovo sicura di sé le
domanda: «Perchè mi dice questo?» La donna non risponde, fissa Maria
un'ultima volta, poi si allontana.
Istintivamente Thomas prova la tentazione di intervenire. Ma con quale
diritto potrebbe intromettersi, chiedere conto di ciò che è accaduto?
Qualcuno discute la scena con i vicini.
«Quella donna ha ragione! Probabilmente si è lamentata per il modo in cui
quella madre sta esponendo il suo bambino a questo freddo tremendo!»
Thomas sente altri che assentono.
«Dovrebbero togliere il figlio a chi si comporta così!»
Qualcuno lo dice con forza proprio accanto a lui con tono sarcastico e
sprezzante.
Thomas si volta di scatto. Vede un quarantenne con una macchina
fotografica al collo , piccolo e tarchiato; tiene in mano un taccuino su cui
ha annotato qualcosa. Nella foga del momento Thomas non riesce ad
esprimersi come vorrebbe. Scandisce le parole.
«Non è un' idiota! Io la conosco bene!»
L'uomo che ha parlato lo guarda ironico. «Non ho detto questo, scusi se
le ho mancato di rispetto. Ma ha visto anche lei che cosa è successo»
Thomas capisce di avere esagerato. Effettivamente la stessa idea circolava
nella sua mente appena un attimo prima. Il vicino continua a guardarlo con
uno sguardo bonario e comprensivo. Quasi sicuramente è un italiano del
sud, pensa Thomas. Con il volto sorridente e additando se stesso risponde:
«Nessun problema. Avevo pensato anch'io la stessa cosa.» Ridono
insieme.
«Lei è americano, vero? Ho orecchio per le lingue.»
«Certo, ma continui pure a parlarmi in italiano. Mia madre era italiana,
questa è un po' la mia seconda patria.»
«Complimenti, Parla bene l'italiano!»
Thomas continua a sorridere e indicando il taccuino chiede: «E' un
giornalista?»
L'altro ride di nuovo. «Più o meno!»
Thomas lo guarda divertito. Il caso gli ha fatto incontrare una persona
simpatica. «In che senso più o meno?»
Lo sconosciuto finge di riflettere. «Vede, c'è effettivamente qualcosa in
comune tra quello che faccio io e un giornalista: tutti e due diciamo di
amare tanto la verità e vogliamo solo i fatti, però non resistiamo alla
tentazione di romanzare un poco la realtà.» Ridono di nuovo.
«Di che cosa si occupa allora?»
«Sono un antropologo, insegno all'Università di Napoli, quando non sono
in giro per il mondo a studiare le bizzarrie delle società umane. Cerco di
capire gli usi e i costumi dei popoli, soprattutto la loro mentalità. Scusi,
non mi sono ancora presentato. Alfonso Di Giacomo.»
«Onorato, mi chiamo Thomas McWine. E, mi dica, crede di esserci
riuscito, a capire tutte quelle cose difficili che ha elencato?».
Alfonso assume scherzosamente la posa del professore, e dopo un attimo
di sospensione sentenzia ridendo: «Mi pare proprio di no!»
Thomas continua a guardarlo interessato come se si aspettasse qualcosa
di più di una semplice battuta. L'altro nota questo e continua: «Vede,
secondo me non è ancora nato l'uomo capace di capire veramente se stesso
e gli altri. Gli uomini – non so se lei è d'accordo – sono troppo strani.
Credono facilmente cose assurde, superstiziose. Ma soprattutto gli uomini
hanno tanta, tantissima paura. La paura è la regina delle nostre società .»
Alfonso dice queste ultime parole con aria rassegnata come se rivivesse
dentro di sé preoccupazioni e dolori del passato. Non sta più scherzando.
Thomas percepisce questo velo di amarezza e ne è catturato. Sono
riflessioni che fa spesso anche lui, che lo hanno sempre affascinato.
Non segue più con lo sguardo il corteo sempre più vicino, si è anche
dimenticato per qualche istante di Maria, che poco prima ha deposto il suo
piccolo nella mangiatoia. Intorno crescono la concitazione e il rumore.
Una chiacchierata casuale iniziata per passare il tempo dell'attesa si sta
trasformando in una vera discussione. Entrambi avvertono istintivamente
la loro intesa. Ognuno dei due percepisce nell'altro la capacità di capirlo.
Thomas ne gioisce, come se ritrovasse in quel momento un cibo che gli era
molto mancato. La vita tranquilla e solitaria nel piccolo borgo non offre
spesso simili occasioni.
«Vede – riprende lo studioso, indicando Maria – quella donna laggiù si
guarderebbe bene nella sua vita quotidiana dal fare quello che sta facendo.
Ma nella dimensione del sacro tutto cambia, siamo inconsapevolmente
soggiogati. Ho visto in Nuova Guinea rituali orrendi fatti da persone che
un attimo dopo salivano in macchina o fumavano una sigaretta come se
niente fosse.»
Thomas lo ferma, ha lui in mente la conclusione giusta. La chiave di tutto
è in quella parola.
«Inconsapevolmente lei ha detto. E forse siamo anche inconsapevoli di
essere inconsapevoli!» L'antropologo fa un segno d'assenso con la testa e
lo continua a guardare con il suo sguardo ammiccante. Poi domanda, con
finta ingenuità: «Ma inconsapevoli di che cosa?»
«Della molla segreta che ci spinge a fare, pensare, volere, credere. E in
tutti scatta allo stesso modo.»
Alfonso lo interrompe. «Anche in questo momento, in questo piccolo
paese, accade esattamente quello che lei ha detto.» Guarda Maria che è
sempre vicina alla capanna, poi gira gli occhi tutto intorno.«E' come se li
vedessi all'opera nelle menti di queste persone, i miti della nascita e della
morte, le credenze ancestrali tramandate da generazioni.»
Notando lo sguardo perplesso di Thomas, si interrompe per un attimo, poi
chiede: «La sto annoiando? Mi scusi, faccio troppo il professore. Lo studio
dei miti è il mio pane quotidiano. Lei se ne è mai interessato?»
Thomas riflette un attimo. E' un discorso impegnativo, non è nemmeno
sicuro di aver capito bene quello che l'altro ha detto. Ma sente che è un
problema che lo coinvolge direttamente, qualcosa che tocca da vicino il
centro profondo della sua vita. Il frastuono intorno a loro continua a
crescere. Autenticamente interessato, Alfonso attende pazientemente una
risposta. Thomas cerca allora di spiegare ciò che ha in mente
«Io amo le storie. Ho sempre amato sentirle e raccontarle.»
Si interrompe per un secondo, gli occhi gli si contraggono, come se stesse
cercando di fissare meglio dentro di sé il senso di quest'ultima
osservazione. Con un lampo ironico nello sguardo riprende, alzando la
voce nello sforzo di farsi sentire.
« Cosa sono i miti? Sono storie bellissime! Non possiamo farne a meno.
Circolano ancora adesso e non ce ne accorgiamo. Come se fossero parte
dell'aria che respiriamo. Eppure sicuramente ci sono stati alcuni
tantissimo tempo fa che hanno raccontato per primi ognuna di queste
storie. Ma è importante il loro nome, la fama ? Non basta la potenza di
quello che hanno creato? »
«Bella domanda!» risponde Alfonso alzando anche lui la voce. «Lei che ne
pensa?» Il suo tono oscilla quasi inavvertitamente tra la serietà e lo
scherzo.
Anche Thomas ci prende gusto, sta al gioco. «Succede che gli uomini non
capiscono qualcosa. Bene, allora cosa fanno? E' semplice: si mettono a
raccontare. Per questo, in qualunque posto e in qualunque tempo andiamo
– diecimila, mille cento, dieci, due anni fa, è lo stesso – c'è sempre
qualcuno che racconta. Non è importante il suo nome! E' indispensabile
che ci sia sempre qualcuno che sappia raccontare! Per questo i narratori
sono indispensabili!»
La voce di Thomas quasi non si sente più, ma l'altro ha capito. La sua
grossa testa si muove con un rapido segno di assenso.
Alfonso guarda l'orologio. C'è qualche impegno che lo attende, dovrà
affrettarsi. Ma la persona con cui sta conversando ormai da parecchio
tempo lo incuriosisce. Gli viene spontanea un'ultima domanda.
«Mi pare di capire che pure lei allora è un narratore. Uno scrittore?»
Thomas ha avvicinato l'orecchio per sentire meglio. Con un moto di
sorpresa si drizza in piedi di fronte ad Alfonso ed esclama: «Come si dice
in Italia, questo è un bel punto interrogativo! Lo sono stato, questa è
l'unica cosa sicura. Adesso: chissà! Da parecchio tempo la fonte
dell'ispirazione, come si dice, si è asciugata.» Ride e con un tono
fintamente esagerato aggiunge: «Cerco un'altra fonte in mezzo al deserto!»
«E' la cosa più difficile. Non creda, capita spesso anche a noi studiosi. Non
siamo poi così diversi.» Alfonso è ormai vicinissimo e accompagna le sue
ultime parole con una bonaria manata sulle spalle. «Bisogna crederci, mai
rinunciare!»
La riconoscenza accende lo sguardo di Thomas. «Sì, forse qualcosa si sta
muovendo. Faccio tesoro delle mie esperienze difficili e provo a
trasformarle in un racconto. Ci sto provando.»
«Allora, tra poco la vedremo nelle vetrine delle librerie!» commenta
Alfonso scherzosamente.
«No, non credo proprio. Sono esperienze che ancora si muovono, non è
facile fissarle su una pagina.»
«Auguri!»
Offre la sua mano a McWine che la stringe con calore.
La festa è ormai al culmine. Il parroco lentamente si sta avvicinando alla
capanna.
Alfonso con un espressione buffa finge di guardarsi intorno e dice: «Ma
che cosa diavolo stiamo facendo? Ci mettiamo a filosofeggiare qui al
freddo, dimenticandoci del motivo per cui siamo venuti?» . Thomas gli
stringe di nuovo la mano.«E' stato davvero un piacere parlare con lei.»
L'altro si allontana verso la parte più alta del paese.
In quel momento anche la folla che seguiva gli angeli e i pastori sta
arrivando sul piccolo spiazzo di fronte alla capanna. Le musiche si
fermano, continua salmodiante la preghiera. Poco prima il bimbo è stato
circondato da un velo dorato e immerso tra coperte e tessuti sgargianti.
Agita le braccia paffute e si guarda tutto intorno. Il parroco gli si avvicina
lentamente, depone su di lui la ricca veste e bacia i suoi piccoli piedi.
Subito le trombe suonano di nuovo all'unisono sempre più forte, rulli di
tamburo accompagnano il corteo che si allontana. Anche la folla a poco a
poco si dirada. Thomas, come preso dai suoi pensieri, si è seduto all'angolo
della via e senza avvedersene ha abbassato gli occhi a terra. Si tormenta la
barba con la mano, riflette a lungo.
Maria ha ripreso tra le sue braccia il figlio, lo vezzeggia bisbigliandogli
qualcosa, poi lo depone nella carrozzina già pronta lì accanto, cerca di
addormentare il piccolo ormai stanco ed attende l'arrivo del marito.
Vorticano ancora nella sua mente le parole aggressive con cui la donna dai
capelli rossi l'ha aggredita poco prima. La conosce bene, hanno quasi la
stessa età. E' un'antica fiamma di Primo, sono stati fidanzati per diversi
anni, poi lui l'ha lasciata e lei non se ne è mai data pace. Le ha urlato in
modo quasi incomprensibile una storia che ripete da parecchio. Che è
stata Maria a sedurre Primo, che lui non avrebbe mai scelto di lasciarla.
Ma perché tanta violenza? Mi ha trattata come una stupida, pensa.
Muovendo dolcemente la carrozzina, riflette serenamente su se stessa,
riconosce i propri limiti, Si accetta per quello che è, non ha pretese e
proprio per questo è serena, priva di doppiezza. Non ho fatto nulla di cui
debba pentirmi, dice a se stessa. So quello che faccio.
Alza gli occhi e tra i pochi rimasti lungo la strada vede Thomas che la
osserva fissamente. Lo saluta con un cenno e gli sorride. Lui non le
risponde. E' intimidito, sorpreso, incerto, come se si risvegliasse in quel
momento da un lungo sogno. Lei continua a guardarlo e il sorriso che
rimane sul suo volto è come un invito a raggiungerla, a parlarle.
Sente Primo quando è quasi vicino e la chiama. «Maria, è andato tutto
bene, vero?» Il suo sguardo bonario come sempre la tranquillizza. Lo
guarda anche lei con tenerezza, pensando alla sicurezza che quest'uomo ha
saputo darle. E' come il fuoco tranquillo del camino – riflette – dove è
bello stare nelle sere fredde, quando fuori c'è vento e neve.
Thomas segue con attenzione ciò che sta accadendo: l'arrivo di Primo, i
suoi gesti affettuosi verso la moglie e il figlio. Una bella famiglia, pensa.
Va bene così. Questa immagine lo rasserena. Si alza per ritornare.
Ma ecco che lei, sorridente, lo guarda di nuovo, come se lo invitasse con i
suoi occhi ad avvicinarsi. Thomas fa un cenno di saluto con la mano.
Anche Primo si è accorto di lui, lo chiama.
«Professore, ha visto che bella festa? E nostro figlio è stato il
protagonista! Quando glielo racconterò da grande quasi non ci crederà!»
Thomas gli risponde con cordialità. E' percepibile la simpatia reciproca tra
i due uomini. «Davvero! Ha avuto la parte più importante, in prima fila. E
come l'ha recitata bene!»
Ridono tutti e due. Primo non se ne avvede, tutto preso dalla
soddisfazione per ciò che ha appena detto, ma lo sguardo di Thomas
continua a muoversi come incantato tra il volto di Maria e la carrozzina
che lei scuote dolcemente. Maria lo guarda con tenerezza, è colpita dal
velo di malinconia nel suo sguardo. Come se riuscisse a leggere ciò che è
nascosto dentro di lui, vede il dubbio che lo attraversa e un solo pensiero:
questo forse è mio figlio. Lei ne è commossa. Allora si rivolge a lui,
cercando di liberare il suo sguardo da quelle ombre tristi.
«Professore, vuole vederlo da vicino? Mi pare che non ce ne sia ancora
stata l'occasione.» Maria si china verso l'interno della carrozzina e
vezzeggia il piccolo, poi con una buffa vocina dice: «Piacere signor
McWine. Io sono Serse.»
Thomas sta al gioco. «Piacere Serse, hai davvero un bel nome, era quello
di un grande condottiero.»
«Era il nome di mio nonno.» interviene Primo come a voler fornire un'utile
precisazione.
Thomas lo guarda a lungo, poi dice: «I nomi sono importanti, ci
accompagnano tutta la vita. Questo piccolino con questo nome importante,
chissà, potrebbe diventare un grande uomo.» Il tono diventa scherzoso.
«Serse è stato addirittura un imperatore. E' un buon augurio!»
«Mamma mia, ma è un po' troppo!» esclama Primo.
Nel frattempo Maria ha alzato il bambino, lo tiene tra le braccia e si
avvicina a McWine. «Questo è il nostro piccolo imperatore!» dice.
McWine frena la sua emozione, con la mano sfiora dolcemente la guancia
rosea, gioia e dolore in quel momento si contendono il suo cuore. Cerca di
dissimulare il proprio turbamento. «A proposito, Maria, che cosa le ha
detto quella donna? Ho visto che si è avvicinata a lei con aria piuttosto
decisa.»
«Cose brutte. Meglio dimenticarle.» Guarda Thomas intensamente quasi
volesse così renderlo partecipe del male che quelle parole le hanno fatto.
Dicerie, sospetti, calunnie meschine che, secondo quella donna cattiva,
circolano in paese. Lui resta perplesso, riconosce nel suo sguardo una
richiesta di aiuto.
Guarda Maria e con voce calma e distaccata gli offre la scialuppa che lei
attendeva. «Cara signora, quando vorrà potrà tornare ad aiutarmi nelle
piccole faccende quotidiane, come aveva fatto prima della gravidanza. »
Poi rivolgendosi verso Primo aggiunge ridendo: «Il suo aiuto mi è sempre
stato prezioso. Io sono un grande pasticcione!»
Primo, con spontanea cordialità tocca il braccio di McWine e lo invita: «A
proposito, professore, abbiamo sempre tante cose buone in cucina, e lei
manca da parecchio dal nostro ristorantino. Venga quando vuole, è sempre
il benvenuto! E la Maria, anche con il figlio cucina ancora benissimo!»
Thomas ricambia il gesto cordiale. «La prendo in parola. Mangiando
sempre da solo in casa rischio di dimenticare il piacere della buona tavola.
Questa sera sarò da voi, promesso.»

-9-

Era il 3 ottobre 2013, un giovedì. Incolonnato nella lunga fila continua


delle auto di genitori, colleghi e studenti sul diritto viale alberato di fronte
alla scuola, sotto una pioggia battente, Carlo procedeva tranquillo verso la
sua mattinata di lavoro. I suoi pensieri altalenavano tra alcuni difficili
passaggi della poesia “Dei sepolcri” di Ugo Foscolo, che avrebbe spiegato
di lì a poco nella negligente classe quinta, tutt'altro che interessata, e una
frase dei Quaderni dello scarto – come aveva infine scelto di chiamare in
italiano The Notebooks of Waste – su cui si era fermato a riflettere molto a
lungo la sera precedente, avanzando nella traduzione: The alternative
we've left is sad: we reject or are rejected.
Una parte di lui la sentiva profondamente vera, ma un'altra ne avvertiva
tutta l'intollerabile durezza. “Già – gli venne da pensare con una smorfia
ironica – sto facendo esattamente quello che la frase sostiene: la sto
rifiutando.” Un moto di ammirazione verso Thomas McWine passò
rapidamente nella sua mente.
“Ne parlerò con Silvia”, pensò. Anche lei stava procedendo spedita nella
lettura delle fotocopie che le aveva procurato da poco. Ormai, si può dire,
lavoravano in coppia. Carlo ne era rassicurato. Averla come compagna nel
viaggio attraverso quel testo strano e sfuggente era per lui un'enorme fonte
di sicurezza. Procedevano entrambi in modo autonomo, scambiandosi ogni
tanto qualche impressione.
L'avanzata si era rivelata più difficile del previsto, ma per fortuna avevano
trovato costantemente lungo le pagine dei Quaderni le provvidenziali
annotazioni lasciate da Thomas McWine con la sua chiara calligrafia.
Carlo riconosceva onestamente che quelle brevi riflessioni e quei sintetici
giudizi scritti probabilmente da McWine durante la sua revisione del testo
rappresentavano un prezioso aiuto di cui non avrebbe potuto fare a meno,
un po' come i sassolini di Hansel e Gretel attraverso il bosco.
Sentì in lontananza il suono della prima campanella mentre fermava la sua
piccola auto nell'ampio parcheggio della scuola.
Allungò inutilmente una mano sotto il sedile alla ricerca dell'ombrello che
portava sempre con sé. Imprecando contro la propria distrazione uscì
velocemente e, con le spalle ingobbite e il bavero della giacca rialzato
nell'illusorio tentativo di ripararsi almeno un poco, si avviò con passo
spedito verso l'ingresso laterale. Sentì uno scalpiccio alle proprie spalle e
riconobbe la detestata voce di Vendramini che gli si rivolgeva. Prima
ancora di comprendere ciò che gli stava dicendo, avvertì distintamente un
tono diverso dal solito, addirittura amichevole.
«Ciao Carlo. Dai vieni sotto che ti do un passaggio...»
Carlo, colto di sorpresa, si bloccò sconcertato e lo fissò senza dir nulla,
come incapace di reagire a quella imprevedibile aria zuccherosa.
Vendramini, intanto, lo aveva affiancato con un largo ombrello giallo da
golfista sorridendogli affabilmente e spalla contro spalla avanzarono
insieme. Naturalmente non bastava questa dedizione inspiegabile a
cancellare il ricordo delle tante battute umilianti e velenose. Guardando il
collega di sbieco Carlo ritrovò la parola.
«A che dobbiamo questa imprevedibile dolcezza? Non mi dica che lei è il
fratello gemello del professor Vendramini... Gli somiglia davvero tanto!»
sottolineò con acida ironia.
«Ah, ah, sei il solito burlone, non ti manca mai la battuta.» Vendramini
pareva autenticamente divertito. Sempre più confuso Carlo osservò: «Mi
scusi, ma non sono abituato a tanta dolcezza.» Continuava a guardarlo
attento cercando di decifrare qualcosa sul suo volto.
«E come mai all'improvviso mi dà del tu e non mi tiene a distanza come un
appestato?» osservò Carlo, rimarcando l'uso della terza persona singolare
che ancora continuava a mantenere.
«Si scherzava, si scherzava...» rispose l'altro con il tono di chi non vuole
dar peso a una cosa fin troppo ovvia. «Ma diamoci del tu d'ora in poi, è la
cosa migliore. Potremo intenderci più facilmente.»
“Ma dove vuole andare a parare?” La domanda scattò automatica nella
mente di Carlo. Cercò di mantenersi calmo, assecondando il nuovo corso
dei loro rapporti nato imprevedibilmente in quel momento.
«Per me va benissimo, Vendramini, aria nuova vita nuova. A proposito,
posso chiamarti Giuliano?» chiese maliziosamente.
Per un attimo brevissimo – Carlo riuscì a notarlo – la mascella del
professor Giuliano Vendramini si irrigidì tremendamente, come per la
tensione di uno sforzo insostenibile, ma il sorriso si allargò di nuovo
velocemente sul suo volto.
«Ma certo, ci mancherebbe!» rispose ridendo. «Possiamo diventare...» E
qui di nuovo dovette fermarsi per una frazione di secondo «...amici!»
Aggiunse poi con tono suadente: «In fondo ci somigliamo! Insegniamo la
stessa materia, amiamo la letteratura, l'arte!»
Carlo, mantenendo immobile sulle sue labbra un sorriso stereotipato,
pareva assecondarlo. Ci stava prendendo gusto. Una scena simile non se la
sarebbe mai immaginata.
Avevano intanto attraversato l'ampio atrio e, quasi a sottolineare la loro
intesa ormai indiscutibile, Vendramini aggiunse:
«Ne possiamo parlare con calma. Ci vediamo caso mai durante l'intervallo
vicino alla macchinetta del caffè?»
«Ma certo!» rispose Carlo mentre appoggiava una mano sulla spalla del
collega e lo invitava con un gesto ad entrare per primo nella sala
insegnanti.
«E' proprio quello che ci vuole per suggellare questa amicizia appena nata,
un bel caffè insieme!» Finse di stare un poco sovrappensiero. «Forse è
meglio di no, se dobbiamo discutere con calma ci sarà troppa
confusione...»
L'altro non lo lasciò finire e con una leggera nota ansiosa nella voce si
corresse sbrigativamente:«Non importa, allora ti telefono questa sera.»
«Ma hai il mio numero?»
«Oh, sì, non c'è problema.»
Carlo lo guardò con aria ammiccante. «Già già, il segretario, immagino...
siete amicissimi...»
Con un sorrisino sempre più forzato Vendramini prelevò il suo registro dal
cassetto personale e si diresse verso la porta, salutando Carlo con un
amabile cenno del capo.
Silvia dall'altro lato della stanza aveva seguito la loro conversazione. Si
avvicinò a Carlo e con uno sguardo perplesso commentò a bassa voce:
«Ma che succede, te la fai con lui, adesso?» Poi, senza dargli il tempo di
rispondere, chiese ironicamente: «Avete fumato il calumet della pace ed e'
fiorita l'intesa tutta d'un colpo? Non siamo in primavera...» Carlo taceva e
continuava a guardarla con aria divertita.
«E allora?» chiese Silvia stizzita.
Carlo si avvicinò al suo orecchiò e bisbigliò con tono cospiratorio: «Ha
fatto tutto lui da solo. Siamo arrivati alle comiche finali. Poi ti spiego ogni
cosa con calma. Vediamoci alla macchinetta del caffè nell'intervallo.»
Soggiunse poi ridendo, di fronte all'espressione interrogativa dell'altra: «E
chissà che non ci sia anche lui!»
Silvia, anziché condividere l'ilarità del collega, lo fissò seccata.
«Ma, insomma, Carlo, non prendermi in giro! Che cosa è successo?»
Carlo la guardò tranquillo. «Basta fare due più due ed è tutto chiaro. Ho
impiegato poco a capirlo, il tempo di arrivare qui dal parcheggio. E' molto
semplice: lui ci ha sentiti al collegio mentre parlavamo tra noi della mia
scoperta, ha capito che c'era di mezzo qualcosa di importante, senza però
aver chiaro che cosa. E adesso pretenderà di metterci il naso. Potrei
appoggiare la mano sul fuoco che finirà così.»
«Hai ragione, siamo davvero alle comiche,» osservò Silvia divertita. «Ne
parliamo poi. Adesso dobbiamo andare.»
Prelevarono i registri e si incamminarono verso le loro classi con un ultimo
cenno d'intesa.
Carlo per tre ore si immerse interamente nel flusso della storia letteraria
italiana: nella prima ora introdusse la poesia del dolce stil novo di fronte
agli studenti del terzo, l'ora successiva si impegnò in un lavoro a gruppi sul
Foscolo con quelli del quinto e nella terza ora si catapultò
concentratissimo sul pensiero politico di Machiavelli e Guicciardini con il
quarto, prima che suonasse la campanella dell'intervallo a concedere un po'
di riposo alla sua voce.
Si diresse velocemente al secondo piano, muovendosi con un po' di fatica
tra i ragazzi che riempivano i corridoi, ed arrivò finalmente alla macchina
del caffè, quasi invisibile in mezzo alla ressa di studenti ed insegnanti in
fila. Silvia già lo stava aspettando.
«Allora, come procedono i lavori?» gli chiese a bruciapelo buttando
un'occhiata attorno per non essere superata dai soliti furbastri.
«Bene, bene, sono già abbastanza avanti. Naturalmente dovrà essere tutto
rivisto a puntino. A volte la lettura dei dattiloscritto di McWine è
snervante, le frasi sono semplici ed apparentemente chiare, ma è come se
mi sfuggisse il senso di ciò che accade. All'inizio ho pensato addirittura ad
un lavoro di altri, ma poi tanti dettagli mi hanno convinto che è stato
Thomas McWine ad aver scelto quello stile particolare. Tu cosa ne pensi
ad esempio dei commenti a matita? Utili, no?»
Ormai Silvia era vicina alla macchinetta.
«Caffè o cappuccino?» domandò col suo fare spiccio.
«Il caffè va bene, grazie.»
«Per correttezza dovrebbero scrivere questi nomi tra virgolette, al vero
caffè somiglia appena» commentò acida inserendo le monetine.
«A quanto pare, il prossimo anno apriranno un vero bar, con servizio e
tutto.»
«Benissimo, così nell'intervallo potremo farci un cicchetto...»
Risero insieme mentre si allontanavano con le tazze di plastica in mano
verso un angolo più tranquillo.
Come se le fosse rimasta bene in mente la domanda che Carlo le aveva
fatto poco prima, Silvia riprese: «Utilissime quelle annotazioni, a volte
senza di loro la pagina sarebbe quasi indecifrabile. Ma, a pensarci bene,
credo che quello scrittore fosse lui stesso un tipo abbastanza indecifrabile.
Che vita strana...» Si fermò un attimo, meditabonda, come se scrutasse
dentro di sé un'immagine sfocata di Thomas McWine.
«...ma anche affascinante!» concluse con tono acceso. «Sta diventando una
storia che mi piace da morire!»
Intorno la confusione cresceva, chiusa nel suo angolo di corridoio, Silvia si
avvicinò all'amico per riuscire a farsi sentire.
«Non ti dico quello che sta succedendo sul web!» gli urlò all'orecchio. «E'
diventata ormai una febbre virale. Se ne parla un po' dappertutto, in
America. Il mistero li stuzzica.»
Carlo la ascoltava interessato. Anche lui, vincendo la propria insofferenza,
aveva trascorso qualche ora chino sul suo portatile, navigando in giro su
Internet.
«E' un po' demenziale, se ci pensi.» commentò. «Si sa poco o nulla di ciò
che realmente è accaduto, ma proprio per questo sono sempre di più quelli
che pretendono di sapere tutto ed alimentano le chiacchiere.».
Silvia ridacchiò. «E pensare che in un modesto appartamento di un
modesto professore italiano si trova in questo momento, appoggiata da
qualche parte, la chiave di tutto il mistero. Quella cartellina rossa scotta!»
Carlo alzò una mano, come a voler fermare la foga entusiasta della collega.
«Calma e gesso, come si dice. Sì, forse ho io il bandolo della matassa, ma
non vorrei rimanerci poi soffocato in mezzo, alla matassa, visto che è
sempre più aggrovigliata.»
Silvia assentì con ampi movimenti del capo. «Giusto, giusto. Calma e
gesso.» Lo guardò ammiccante. «E soprattutto occhio a non parlare troppo
in giro. Soprattutto con tipi come Vendramini.»
«Già. Pensi che lui sappia?»
Sivia gettò il suo bicchiere nel cestino.«Sicuro. Probabilmente al collegio
docenti è riuscito ad afferrare il nome dello scrittore. Non avevamo fatto
caso che era proprio dietro di noi.»
Si guardò intorno con un gesto automatico quasi volesse accertarsi se la
persona di cui stavano parlando fosse lì intorno. «Non è uno sprovveduto,
avrà sicuramente dato pure lui un'occhiata su internet alla ricerca di
notizie, probabilmente ha trovato quello che ho trovato anch'io e ha
inquadrato perfettamente la situazione. Ma non sa che cosa abbiamo
effettivamente per le mani, e questo è il nostro piccolo vantaggio.»
«Scherzi? Non è tanto piccolo. Noi abbiamo i Quaderni...»
Silvia lo interruppe. «Già, ma bisognerebbe scoprire qualcosa di più sullo
scrittore. Ad esempio, tu il suo primo romanzo lo hai letto?»
«E' introvabile. Forse si potrebbe vedere alla Biblioteca nazionale di
Torino...»
Silvia lo interruppe di nuovo. «Vedi? Ecco una cosa che possiamo fare!
Dobbiamo svegliarci!»
Dopo un attimo aggiunse: «E il dattiloscritto... bisogna metterlo meglio a
fuoco. E' davvero suo?»
«Ne sono quasi sicuro» la rassicurò Carlo.
«Già, quasi...»
Silvia restò per qualche secondo sovrappensiero, come se un'idea
improvvisa si fosse affacciata in quel momento alla sua mente. Il suo
sguardo si illuminò.
«Sai che cosa ti consiglio? Ci sarà un bel ponte di vacanze a fine mese, con
il 1 novembre, approfittane.»
Lo fissò decisa, sicura che lui avesse capito.
«Per fare che cosa?» chiese Carlo timidamente.
«Be', la cosa più ovvia, no?» marcò acre lei, un po' scocciata.
«Approfittane per fare un salto al paese in cui viveva lo scrittore. Adesso
sai meglio che cosa cercare, chiedi in giro, sicuramente troverai qualcuno
che si ricorda di lui.»
Carlo la guardò ammirata. «Una buonissima idea!»
«Sento che la risposta è in quel paesino dell'Umbria. Tu sei passato
velocemente, non credo che hai potuto parlare con molta gente in giro.»
Silvia sembrava lanciata, sicura del fatto suo.
Passò con passo rapido il collega di matematica, ansioso di rientrare in
classe, lei rispose al suo saluto con un cenno distratto.
In quel momento era come se Carlo rivivesse nella sua mente quella
giornata di luglio in cui, insieme ad Elia, era arrivato verso sera a
Monastico. Si riaccendeva dentro di lui quella luce tersa nell'aria ripulita
dal violento temporale, rivedeva il dolce profilo del monte che sovrastava
il paese, quasi una gigantesca mammella rivolta verso il cielo, ed avvertiva
nell'aria il profumo inconfondibile della macchia mediterranea.
Ridiscese rapidamente nell'aria stantia del corridoio in cui si trovava.
Silvia lo stava osservando con un sorriso sulle labbra.
«Per trenta secondi mi sei sembrato in estasi» rimarcò affettuosamente. «Il
solito sognatore.»
«Pensavo a quel piccolo paese dell'Umbria. Ci sono stato pochissimo, ma
mi è rimasto dentro. E' un gruppo sparuto di case ai piedi di un monte e
tutto intorno solo boschi. Mi ha colpito la sua tranquillità, il senso di pace,
un po' fuori dal mondo.»
Silvia rise. «Da come lo descrivi viene voglia di andarci in vacanza. Ma,
per adesso, vedi di trovare tu il tempo per farci un salto.» Era ritornata in
fretta ai suoi modi spicci.
La ringraziò, ma nella sua testa girava già un'altra immagine, quella di
Vera, la simpatica ragazza di Monastico incontrata a luglio. Era un buon
motivo per visitare di nuovo quel piccolo borgo isolato, l'avrebbe rivista
volentieri.
Silvia si scusò. «Verrei anch'io, ma avrò a casa tutti e due i figli,
un'occasione per noi rara...»
«Non preoccuparti, so con chi andare.» Carlo pensò a Elia e Giovanni.
Perché no? Probabilmente lo avrebbero accompagnato volentieri. Bastava
una telefonata.
Suonò di nuovo la campanella. La ricreazione era finita. Il corridoio iniziò
a svuotarsi e gli studenti rientrarono lentamente nelle classi.
«Adesso dobbiamo andare. Fammi poi sapere se Vendramini ti contatta di
nuovo. E soprattutto non sbottonarti troppo.» Silvia rimarcò con fare
deciso le ultime parole.
Carlo sorridendo si chiuse un'immaginaria cerniera sulla sua bocca.

Era quasi sera. Ancora un fioco barlume di luce arrivava da fuori a


illuminare la piccola tavola su cui erano ordinatamente suddivisi i plichi
delle verifiche scritte che Carlo stava correggendo. Sollevò lo sguardo un
po' stranito dal foglio che aveva di fronte, annotò qualcosa sull'ultima
pagina e lo allontanò con un sospiro. Chiunque fosse stato presente
accanto a lui avrebbe sicuramente percepito, come noi, la sua grande
stanchezza e lo avrebbe invitato a riposare.
«Per oggi basta così» si disse. Impilò tutti i compiti e li spinse da parte.
«E adesso prepariamo la cena.»
Pensò tristemente alle poche alternative che gli si presentavano. No,
almeno per quella sera avrebbe tralasciato il solito uovo fritto con patatine
surgelate. Erano ormai molti anni che viveva da solo, ma la sua capacità in
cucina non aveva mai brillato per fantasia. Quella sera, in particolare,
l'idea di mettersi ai fornelli proprio non gli andava, gli sembrava tempo
sprecato. Inevitabilmente, come accadeva ormai da giorni, il suo sguardo
puntò il rosso che sporgeva tra i fogli bianchi e che occhieggiava verso di
lui con un tacito invito. Allungò la mano verso la cartellina e la aprì.
“Traduco un pezzetto e poi esco a farmi una pizza.” pensò pacificato con
se stesso – un equo scambio tra dovere e piacere.
Contò rapidamente le pagine del dattiloscritto già tradotte e si accorse che
erano circa una quarantina. Il mucchietto delle altre che aspettavano lì
accanto rimaneva ancora molto corposo. Osservò perplesso per qualche
attimo quei fogli ingialliti. “Accidenti, credevo di essere più avanti.”
pensò un poco deluso.
Gli ritornò in mente Renato che sicuramente era in attesa di una consegna
velocissima. Finora Carlo non lo aveva ancora avvisato che il lavoro si era
rivelato più difficile del previsto. Non voleva dargli l'impressione di non
essere all'altezza del compito che gli aveva affidato. Ma prima o poi gli
avrebbe consegnato tutto.
Nella sua fantasia già si vedeva a Torino, nella palazzina di periferia dove
avevano sede le Edizioni Beccalossi, accolto come un trionfatore.
Soprattutto, immaginava la grande sorpresa di Renato di fronte a quel testo
incredibile che lui non avrebbe saputo definire. Un romanzo? Un testo
teatrale? Un poema in prosa? “Ma che importa la classificazione”,si disse.
Era bello, intrigante, nuovo, e questo bastava. Aveva dimenticato la
propria stanchezza. Incominciò a leggere lentamente.

“... triste l'alternativa che ci è lasciata: o scartiamo o veniamo scartati .


Rifletto su quello che ha urlato Sag pieno di rabbia.
Ho idee confuse, cerco di fermarle. Grido per farmi sentire da tutti: – La
nostra volontà ora è impotente. Ma sforziamoci di volere, di volere la
nostra salvezza, non abbandoniamoci al nulla.
Sento una risata rauca venire da sinistra. E' Sav che mi risponde beffardo:
– Le nostre chiacchiere possono fare ben poco. Il nulla non parla, ma ha
sempre l'ultima parola.
Sim piange e ripete: – Vorrei adesso capire che cosa sta succedendo.
Perché siamo qui?
Sag lo deride. – Eri tu il più ottimista. E adesso?
Tutto cambia. Imprevedibilmente. Continuo a riflettere. Cerco di rimanere
calmo.
Sim piange ancora, ripete come una cantilena: – Siamo impotenti, questa
è l'unica certezza che abbiamo.
L'urlo di Sag rimbomba potente come una ribellione feroce.
– Caro fratello, noi siamo gli ultimi scarti che presto saranno spazzati
via. Poi resterà solo silenzio.
Il silenzio cala tra di noi, anticipa la sua presenza...”

Carlo si sfregò la fronte, con espressione perplessa e fissò il foglio. “Ma


che cosa vuol dire?” Un piccolo dubbio sulle proprie capacità di traduttore
si stava insinuando dentro di lui. Cercò di rincuorarsi: “Vediamo dove va a
parare” si disse versandosi un bicchiere d'acqua dalla bottiglia sulla tavola.
Riprese titubante, seguendo con l'indice le frasi che si dipanavano senza
fine sotto i suoi occhi stanchi.

“... un suono cupo rimbomba lontano, il cielo si oscura.


Sento la voce di Sim che risponde ad una domanda che la mia distrazione
ha perso.
– Ma almeno parliamo, siamo ancora in grado di farlo, questo non ci è
stato sottratto. Ci sono altri intorno che vorrebbero parlare ma non ci
riescono.
– E' davvero una bella possibilità, quella che abbiamo! – urla Sag – Che
importa parlare! Chi ha voluto farsi beffe di noi?
Io penso e mi dico: no, non voglio perdermi. Non so più nulla di quello
che sono stato, ma che cosa sono adesso? Si illumina dentro di me una
nuova consapevolezza: ecco, forse sono... Cerco di dirlo.
– Io sono una voce – mi dico ad alta voce – una voce che pensa. Questa è
la mia voce, che dice io, tu, noi, e sa parlare a se stessa. All'inizio, prima
che ci fossero tutte le cose, c'era la già una voce che parlava a se stessa
e quella Voce era Dio. Io sono una piccola cosa, quasi nulla ormai, la mi
voce è debole, ma la mia voce dice se stessa, chiama se stessa, come la
Voce di Dio.
Tutto troppo facile, così. – urla Sag che mi ha sentito – sono solo gli
uomini a parlare a se stessi e agli altri, sono gli uomini che dicono “Dio”.
Urlo ancora più forte. – Pensiamo allora a come siamo adesso. Siamo
immobili, impotenti, come se il nostro corpo non ci appartenesse, ma le
nostre voci si intrecciano e ci consentono di stare insieme. Dio è presente
anche in queste nostre voci sempre più indebolite, lo sento correre tra le
nostre bocche, come il soffio che ci tiene in vita.
Sag mi risponde con ira. Ancora più feroce. – Bello il Dio che tu
immagini. Ma guardalo bene in volto e vedi chi lui sia. E' l'artefice di
questa grande messa in scena, è lui che ha avviato il nostro gioco e nel
nostro gioco lo scarto è la regola. E allora io lo chiamo “il grande
Scartatore di Tutto” perché tutto nel gioco che ha allestito prima o poi
viene scartato. Noi tra poco saremo soltanto uno scarto. Lo ripeto: triste è
l'alternativa che ci è lasciata, o scartiamo o veniamo scartati .”

Carlo si fermò interdetto. “Eccola di nuovo, quella frase” notò


sottolineandola. The alternative we've left is sad: we reject or are rejected.
Ma l'ho tradotta bene? Che cosa vuol dire?” Purtroppo su quella pagina
non c'erano altre annotazioni a venirgli in soccorso.
Gli occhi quasi gli si chiudevano, ma caparbiamente riprese.

“ – Continuate a parlare, fratelli, sentirvi mi consola in questa attesa


senza fine. Mi sento meno solo in compagnia delle vostre voci – dice Sim –
Solo questo ci è rimasto, le nostre voci, che possiamo sentire, che ci fanno
stare insieme anche se non possiamo vederci.
– E ci sono rimasti i nostri pensieri, che possiamo dire agli altri.
– Ecco chi è l'uomo: una voce che pensa e che, pensando, si consola. Una
voce che almeno ha un nome. Urlo: – Io sono Sal!
Mi risponde Sag. – Bravo, ma chi è che parla, che dice sicuro “Io sono
Sal”? Noi non sappiamo più chi siamo.
La voce di Sim è carica di tristezza. – Sappiamo di aver vissuto, di essere
stati qualcuno, ma non abbiamo più passato.
Carissimi, questo siamo – urlo io – siamo le ultime briciole rimaste sulla
tavola dopo la fine del banchetto, resti irrilevanti che nulla potrebbero
pretendere per se stessi.
– Ma briciole che non sono sole. Allora continuiamo a parlare, fino alla
fine, fino allo spegnersi delle nostre voci.
– Il tacere definitivo che ci aspetta ed è sicuro – ride Sag.
– E poi sarà solo silenzio.

“Le ultime briciole rimaste sulla tavola.” Carlo alzò gli occhi accesi da un
lampo. «Formidabile!» esclamò, come in uno slancio spontaneo del cuore.
«Non ho mai letto niente di simile.»
In quel momento il suono insistente del telefono, che già suonava da
parecchio, lo richiamò alla realtà.
«Ciao Carlo, tutto bene?» la voce di Vendramini era sempre più dolce.
«Benissimo Giuliano, purtroppo si lavora.»
«Ma no, riposati, riposati, non bisogna esagerare con l'impegno per la
scuola...»
Carlo lo interruppe. «Infatti stavo per uscire.»
«Scusa allora, ti rubo soltanto qualche minuto per parlare di una cosa che ti
riguarda, anzi che potrebbe riguardare noi due.»
«Sono tutt'orecchi!» rispose Carlo apparentemente entusiasta con un
sorrisino ironico che l'altro non poteva vedere.
Ci fu una lunga pausa, come se Vendramini stesse disponendo le sue carte
per tentare una buona giocata. Carlo attendeva senza fretta.
«Bene, si tratta di un piccolo aiuto che mi piacerebbe darti.»
Carlo avvertiva come Vendramini, con il suo tono,si sforzasse di dare una
veste professionale e distaccata a quello che stava per dire. Era divertente
immaginare ciò che, al contrario, probabilmente ribolliva dentro di lui in
quel momento, i veloci calcoli pieni di opportunismo che la sua mente
sicuramente stava facendo.
«Collabori ancora con quell'editore di Torino? Non ricordo il nome...»
Vendramini la stava prendendo molto alla larga, ma Carlo capiva
benissimo dove voleva arrivare.
«Certo, ogni tanto. Sai, è un mio vecchio amico.»
« Benissimo, ma non è questo che conta. Tu potresti mirare più in alto...»
Mirare più in alto! Che espressione da trombone, pensò Carlo. Come se la
cultura non fosse diversa da una partita di caccia.
Vendramini continuava mellifuo.
«Sai, lo dico per i tuo bene, in giro si parla piuttosto male di lui. Si dice
che non è un granché.»
«Te l'ho detto – rispose Carlo con aria innocente – per me è soprattutto un
amico.»
La voce di Vendramini salì di tono e si fece più aspra come se fosse
intollerabilmente stupido ciò che Carlo aveva appena detto.
«Ma non scherziamo! Non è di questo che si tratta! Il tuo editore di Torino
è un perdente... Questo mi premeva dirti.»
«Si?» rispose Carlo serafico.
«Tu puoi avere molto meglio.» Ecco che finalmente Vendramini era
arrivato al punto che più gli premeva. «Io ho i contatti giusti, nell'editoria
milanese. Tu puoi passare a me quello che hai per le mani e io penserò a
tutto.»
«Quello che ho per le mani?»
«Ma sì, non fare lo gnorri, lo sai benissimo di cosa parlo...» rispose
Vendramini stizzito.
«Effettivamente sto lavorando ad una piccola traduzione che mi sta
costando molta fatica.»
«Ecco, appunto, io intendo proprio quella!» Vendramini era ormai al
limite. Carlo se lo immaginò cianotico con il telefono che gli tremava nella
mano.
«E tu che cosa faresti se te la passo?»
«Te l'ho già detto, si può discutere di tutto...» Il “tutto” divenne grande
come una casa.
Carlo cercò di tergiversare. «Non so, ci debbo pensare...»
«Ok, poi fammi sapere. Al più presto. Tanto ci vediamo spesso, le
occasioni non mancano.» Solo Vendramini rise del suo goffo umorismo.
«Bene. Allora ci vediamo a scuola.» rispose Carlo ostentando un grande
sbadiglio. «Buonanotte.»
«Buonanotte, Carlo.» Vendramini riattaccò senza aggiungere altro.

-X -

E' il 14 ottobre 1980, un martedì. Un' Autobianchi A112 targata Roma sta
affrontando l'ultimo tratto della stretta stradina verso Monastico. Il piccolo
abitacolo è abbondantemente occupato dalla corporatura ampia e molle di
un uomo quasi calvo che, nonostante la mite temperatura della mattinata,
si deterge continuamente il sudore dalla fronte. Philip guida lentamente,
guardando con piacere le dolci colline screziate di giallo.
“Qui in alto l'autunno è già arrivato – pensa – è davvero un bel posto.”
L'altra volta, nella fretta non ci aveva fatto caso. Ricorda però
perfettamente ogni dettaglio del tragitto percorso otto anni prima. Nella
mente di Philip il tempo si fa avanti, mostra questo piccolo numero in
tutta la sua imponenza, la lunga ombra proiettata sulla sua vita. Otto anni,
accidenti! Un sacco di tempo!
“Chissà se anche Thomas è cambiato come me!” Sorride, ricorda di essersi
posto la stessa domanda quando lo aveva incontrato otto anni prima
all'aeroporto di Roma e, come allora, si sfiora la pancia, divenuta ormai un
ampio emisfero che emerge sopra la cintura.
“Sì, è un mucchio di tempo, non l'ho più incontrato da allora.” Solo una
letterina annuale con gli auguri di Natale ha mantenuto tra loro un esile
contatto.
E' ormai sulla salita finale dove la strada si stringe ancora di più. “Queste
non c'erano.” pensa osservando le nuove costruzioni che si addossano alla
strada. Attraversa il centro del paese, la vista della chiesa gli riporta alla
mente il vecchio prete che lo aveva accompagnato alla casa di Thomas.
“Chissà se è ancora vivo,” si domanda. Fuori dall'abitato, la strada si
impenna, si immerge nel bosco, si fa sempre più tortuosa. Philip guida di
gusto lungo quest'ultimo tratto, la piccola utilitaria fatica un poco.
Miracolosamente il paesaggio da questa parte è intatto, come se il tempo
non fosse passato.
McWine ha saputo della visita dell'amico circa quindici giorni prima. Una
lettera che il postino gli ha recapitato in una mattinata piovosa, imprecando
contro quel viottolo trasformato in una scia di pantano. «Lei vive fuori dal
mondo!» gli ha detto consegnandogliela. Con un tranquillo segno di
assenso, lui come sempre ha sorriso.
La lettera di Philip lo ha divertito. Con il suo solito tono spiccio lo
avvertiva di una sua prossima visita.
“Dannazione, – scriveva – come fai a vivere in quel posto sperduto senza
telefono? Forse questa lettera ti arriverà con un piccione viaggiatore. Posso
venire a trovarti verso la metà di ottobre? Sono in Italia e mi piacerebbe
scambiare due chiacchiere con te su qualche bel progetto che bolle in
pentola. Ho scaldato la tua curiosità? Bene. Spero che ci sia almeno un
telefono dalle tue parti, allora chiamami tu per darmi una conferma. Il
numero è sempre lo stesso, all'ambasciata. A presto (io spero). Philip.”
McWine sapeva che da qualche anno l'amico aveva abbandonato Roma ed
era tornato in America.
“Ma che cosa fa precisamente a Washington?” Questa domanda circola
ora insistente nella sua testa mentre trasporta le vecchie sedie fuori dalla
rimessa. Rammenta l'impressione che ha sempre avuto stando con lui, di
un'abile copertura dei suoi veri traffici.
“Bene, – si ripromette, mentre risistema il tavolino e le sedie sul piccolo
prato antistante – questa è l'occasione giusta per chiederglielo.” Ride tra
sé, si guarda attorno. “E' una bella giornata, potremo godercela bevendo
qualcosa qui fuori”.
Thomas sente in lontananza il rumore di un motore, si avvicina al bordo
del viottolo inghiaiato e fissa il punto più in basso dove tra poco comparirà
l'auto che sta salendo. Dopo qualche minuto, vede una piccola utilitaria
bianca arrampicarsi lentamente sull'ultimo tratto. Avvicinandosi l'amico lo
saluta dal finestrino. La sua felicità è autentica. “E' davvero un americano
standard” pensa istintivamente Thomas notando già da lontano le sue
notevoli dimensioni. “Un bel formato oversize”.
Si abbracciano stretti, si guardano e con robuste pacche sulle spalle Philip
urla: «Vedi? I veri amici non si dimenticano!» Anche Thomas manifesta
intensamente la gioia di ritrovarsi insieme dopo tanto tempo, ma anche in
quel momento si chiede: perché è venuto? Philip non ha mai fatto niente
per niente. Con un braccio intorno alle sue spalle lo accompagna verso le
sedie.
«Allora, cosa mi racconti, quali novità bollono in pentola a Washington?
Jimmy Carter sta finendo i suoi primi quattro anni...»
«...che saranno anche gli ultimi!» lo interrompe Philip con aria sicura.
«Perchè dici questo? Ricordo che a vent'anni votavi per i democratici e
adesso...»
Philip lo interrompe di nuovo, come se avesse fretta di arrivare al punto
che veramente gli interessa. «Non solo, lavoro per loro in questa
amministrazione.» Poi aggiunge compiaciuto: «Ho un posto importante al
dipartimento di stato. Per questo vengo spesso in Italia. Hai saputo cosa è
accaduto da queste parti con il terrorismo rosso? L'importante uomo
politico assassinato e tutto il resto? Questo è un paese di confine, i
comunisti sono a un passo, Jugoslavia, tutto l'Est. E che cosa ha combinato
quel cagasotto di Carter in Iran, la questione degli ostaggi all'ambasciata?
Non ti racconto i particolari, c'è da rimanere secchi. Che vergogna per
l'America...»
Ecco, pensa Thomas, questo è il punto a cui voleva arrivare al più presto.
Adesso ci siamo.
«Sai che non seguo molto la politica.»
«Già, troppo comodo. L'America ha bisogno della riscossa. Deve tornare
grande!»
Philip fa una lunga pausa, come se volesse preparare l'amico alla notizia
che sta per dargli. Thomas sorseggia tranquillamente la limonata che è
sulla tavola.
«Ho deciso di cambiare casacca. Sono passato con gli altri, di loro mi
fido.»
«Ma tu stai ancora lavorando per i democratici, come è possibile?»
«Le elezioni saranno tra venti giorni. Reagan vince a mani basse, è
sicuro.»
«Reagan? E perché non John Wayne, che ha più grinta? Un cowboy vale
l'altro. L'America, Phil, non è un western, la politica non si fa a
Hollywood. Quando sono partito, nel '70, l'America era ancora
impantanata in Vietnam. Poi, da allora, è stato un disastro. Un po' l'ho
seguito. I giornali arrivano anche qui, sai? Adesso volete la rivincita con i
russi e i cinesi. E' un gioco senza fine. Preferisco davvero starne fuori.»
«Vedrai, Reagan farà grandi cose. E tu puoi servirci, abbiamo bisogno di
gente come te, non compromessa.»
Il tempo è improvvisamente cambiato, le nubi hanno velato il sole, inizia
a soffiare un fastidioso vento di tramontana.
«Forse è meglio che andiamo dentro,» propone Thomas.
Mentre stanno dirigendosi verso l'ingresso, vedono salire sul viottolo una
donna trentenne in bicicletta. Appesi al manubrio porta dei grossi pacchi.
Arranca faticosamente sull'ultimo tratto, poi appoggia la bicicletta alla
rimessa e si avvicina. «Posso iniziare?», chiede. «Certo, Maria, non c'è
problema.» le risponde McWine.
Passando loro davanti squadra a lungo Philip che, quando lei è ormai
entrata, domanda incuriosito: «E quella chi è?» Indica la porta d'ingresso
con un espressione buffa simile a un bonzo cinese.
«Una donna del paese. Viene spesso a darmi una mano.»
«Solo una mano?» chiede Philip ammiccando con uno sguardo da triglia.
Compiaciuto della propria battuta ridacchia a lungo.
McWine si irrigidisce, resta in silenzio un attimo, poi risponde con uno
sguardo paziente: «Sei sempre lo stesso, non resisti.»
Attraversano l'ampio ingresso. Thomas fa strada, indica una porta in fondo
al corridoio. «Possiamo stare in biblioteca.»
Entrando, Philip ha un moto di stupore. «Accidenti, quanti libri!»
Thomas scuote la testa con un sorriso. «Mi raccomando, non farmi la solita
domanda se li ho letti tutti. Ti rispondo subito di no.»
«Che c'entra?» Ride anche Philip. «Si vede che questo è il tuo nido.»
Philip gira attorno nella stanza. «Ma è fantastico!»
McWine lo segue con uno sguardo svagato, poi con tono ironico nota: «E
pensare che l'hai comprata tu!»
Philip lo guarda stupito. «Che cosa? Cosa hai detto?»
«Non ricordi? I proprietari precedenti avevano fretta di vendere la casa e
noi – anzi tu, io ero lontano, potevo fare ben poco – l'avevamo acquistata a
un buon prezzo con tutto quello che c'era dentro.»
Con un risolino indica tutto intorno. «E dentro c'era questa.» Philip si batte
la fronte e soffia rumorosamente. «Perdinci, che sberla!»
Thomas ride. «Anche per me, quando sono entrato la prima volta è stata
una grossa sorpresa.»
Philip si muove lungo gli scaffali, osserva qualche titolo. Questo lo
conosco anch'io, I promessi sposi. The Betrothed! E quanta filosofia! Ma
sono tutti in italiano! Che te ne fai?»
Thomas ride di nuovo. «Ovviamente! Siamo in Italia. Ma molti riesco a
leggerli anch'io. Stando qui il mio italiano è migliorato.»
«Scherzi? Già eri bravo quando siamo arrivati! Me lo ricordo.»
McWine ripensa a quel momento, allo sconcerto che aveva provato
vedendo l'amico partire immediatamente, lasciandolo solo davanti a quella
casa che non conosceva.
«Phil, ricordi? Tu non eri nemmeno entrato», osserva con un tono un poco
risentito. «Avevi dovuto partire subito, impegni importanti ti
aspettavano.»
Philip ci pensa, come se rivedesse quella scena. «Già, allora avevo sempre
fretta...» Dopo un istante aggiunge con un sorriso di intesa: «Adesso non
più! Anzi, sai che ti dico? E' quasi mezzogiorno, perché non ce ne andiamo
a mangiare un boccone giù in paese?. Scommetto dieci contro uno che c'è
di sicuro un ottimo posto. In Italia è sempre così!»
«Non ti sbagli, c'è un ristorantino molto buono.»
Philip si sfrega involontariamente la pancia. «Non vedo l'ora! Parleremo
meglio a tavola davanti a un bel piatto di strangozzi al tartufo. Non ti ho
ancora spiegato niente.»
Quando sono vicini alla porta e stanno per uscire McWine si volta. «Maria,
per favore, chiuda pure lei tutto!» Sentono una voce dal fondo di una
stanza che risponde. «Non si preoccupi, ci penso io!»
Philip sogghigna ammiccante accennando con la testa in direzione della
voce. McWine lo precede e si incammina verso la discesa. Philip si arresta
interdetto: «Dove stai andando?» Girandosi indietro McWine studia
l'amico in tutta la sua mole. «Il tempo è migliorato, scendiamo a piedi, il
paese non è distante.»
«Scherzi!» Urla Philip con aria patetica. «Vuoi vedermi morto?»
I singulti della sua risata singhiozzante quasi lo soffocano davvero. Intanto
si accosta alla propria auto.
Thomas, ancora fermo, assiste imperturbabile alla scena, poi gli urla con
tono fintamente severo come se intendesse chiedere una spiegazione: «Che
fine ha fatto la spider rossa?» Thomas si volta simulando una grande
paura, con un gesto di difesa.
«Regola numero uno, non dare nell'occhio!», scandisce a voce bassa.
L'altro ride. Philip aggiunge: «Alla fine l'ho capito anch'io.»

Il piccolo ristorante di Primo che McWine frequenta abbastanza spesso, è


già pieno di gente, anche se la stagione turistica è finita da un pezzo. La
fama del locale si è allargata, merito di Maria e della sua buona cucina. I
buongustai, se possono, vi fanno tappa molto volentieri, preferendo il
pranzo alla cena: troppo faticoso tornare con il buio lungo la piccola strada
curvosa.
«Professore, come va?» Primo è contento di rivederlo e si dà da fare per
trovare un posticino nella sala affollata.
Philip, che già annusa i profumini che si spandono nell'aria, si impegna
nella lettura del menù. Dopo pochi istanti, alza la testa soddisfatto.
«Perfetto, c'è proprio quello che pensavo. Per me, allora, un bel piatto
abbondante di strangozzi al tartufo.»
«Allora anche per me.» Thomas si aggiunge alla richiesta dell'amico,
divertito dal suo intenso coinvolgimento.
Primo segna la scelta sul taccuino e spiega, come per scusarsi: «Purtroppo
in questa parte dell'anno non ci sono i tartufi neri, secondo la ricetta
originale di Norcia. Ma abbiamo dei tartufi bianchi ancora più buoni. Me li
hanno portati freschi stamattina!»
«E vada per i bianchi, allora! Ci fidiamo di lei.» conferma Philip ansioso
di gustare il piatto prelibato. «Ci vorrà molto?»
«Pochi minuti, appena il tempo di cucinare tutto per bene. E da bere?»
«Il vino della casa, naturalmente – interviene Thomas – Meglio un rosso.
Grazie.»
«Ve lo faccio portare subito. Buon appetito!»
Mentre Primo si allontana verso la cucina, Philip tocca il braccio
dell'amico, richiama la sua attenzione.
«Tom, visto che ci sarà un poco da aspettare, ne approfitto per concludere
il discorso che avevamo appena iniziato. Ho una proposta da farti.»
Thomas lo guarda attento.
Philip ora parla lentamente in modo quasi solenne. «Vedi, Thomas, tutto
sta cambiando in America, nel mondo. La storia sta girando.» Riflette
alcuni secondi come per dare più forza a ciò che sta per dire. «Vogliamo
che tu lavori per noi, nella squadra che Reagan sta mettendo in piedi. Mi
pare che qualcosa del genere l'hai già fatto parecchio tempo fa per il
governatore Robertson in Virginia.»
Ridendo McWine alza un braccio, interrompe il discorso tirato dell'amico.
«Un momento, Phil, non scherziamo. Ti ricordi ancora dell'aiuto
praticamente irrilevante che avevo dato alla sua campagna elettorale,
scrivendo qualche discorso e qualche opuscoletto che nessuno leggeva? Il
fatto che Robertson abbia vinto davvero quelle elezioni, non significa per
niente che il mio contributo sia stato rilevante per la sua vittoria. Avevo
bisogno di tirar su un po' di grana. Il romanzo era stato appena pubblicato
e il suo successo cosmico, galattico, non si intravedeva nemmeno
all'orizzonte. Se è per questo, a quell'epoca avevo anche racimolato un po'
di denaro scrivendo scadentissimi romanzetti rosa di cui mi sarei
vergognato se non avessi prudentemente usato ogni tipo di pseudonimo.
Philip lo ha lasciato parlare, subito riprende a battere sullo stesso punto,
con calma. «Ma adesso è diverso. Hai l'occasione di entrare sul serio nelle
stanze del potere dalla porta principale. Tu vali molto, Tom, non devi
sminuirti!»
Philip batte con forza sul piccolo tavolo facendo tremare il vino nella
bottiglia che è appena arrivata. Qualcuno lì vicino lo osserva con curiosità.
«Mi spiace, Phil, è una bella tentazione, ma non posso dirti di sì.»
«Accidenti, Tom! Tu devi essere dei nostri!» Philip ha alzato la voce, si
irrigidisce. Altri ai tavoli vicini si girano verso di loro.
«Hai ancora un nome! Il tuo libro è letto ed apprezzato anche oggi. Per
diversi anni sei stato un intellettuale influente, potenzialmente un leader...»
Thomas continua a guardarlo tranquillamente, senza apparenti reazioni a
quella catena di lodi. Philip guarda il soffitto, riflette di nuovo un poco.
Poi riprende.
«Sul Vietnam, ad esempio, ti ricordi? I tuoi articoli sul New York Times
nel 1973, sfortunatamente pochi e brevi. Ho ancora in mente l'inizio di un
tuo pezzo formidabile: “Stelle e strisce sono impregnate di sangue.
L'America affonda e io sento da lontano il suo rantolo.” Fantastico. Eri già
qui in Italia, ricordi? Ma da lontano avevi visto giusto, in anticipo su tutti,
che sarebbe finita male, che sarebbe stata una catastrofe. Adesso siamo di
nuovo in un momento difficile, abbiamo bisogno di gente pulita,
intelligente. L'America sta cambiando. Sta cambiando, Tom. Con Reagan
usciamo dal tunnel buio, saremo di nuovo grandi...»
«Ti ho già detto, mi pare, che i film di Ronald Reagan non mi sono mai
piaciuti...» lo interrompe Thomas sogghignando.
«Tom, non scherzare, è importante...» La voce di Philip si è fatta accorata.
«Vedi, Phil, conosco poco la situazione. Ma io vivo fuori dal mondo, sto
bene così. Non ho auto, TV, telefono. Qualche volta ascolto la radio o
leggo un giornale...»
«Ma cosa accidenti vuoi che me ne importi!» Philip sbraita, incurante dei
numerosi sguardi preoccupati che arrivano dagli altri tavoli.
«Sei diventato un monaco, praticamente! Ma dove è finito il vecchio Tom,
quello combattivo, coraggioso... Ma che cosa diavolo combini tutto il
giorno chiuso nel tuo piccolo eremo? Io impazzirei!»
«Phil, è tutto vero quello che dici. Ma sono fatto così. Non saprei
spiegartelo, ma è tutto chiaro dentro di me.»
«Dimmi almeno che ci ripenserai.»
«Te lo prometto. Ti farò sapere.»
«E mi scaricherai come al solito.» Philip ha un'aria rassegnata, estenuato
da questo lungo confronto che immaginava diverso. Si rincuora un poco
vedendo Primo arrivare con i piatti fumanti.
Gustano tutto con grande piacere. Dopo gli strangozzi un piatto di carne
stufata con accompagnamento di funghi.
Mentre stanno sorseggiando con calma un caffè espresso, la porta
principale si apre, Maria entra, ha l'aria stanca ed accaldata. Vede subito la
coppia di amici seduti al tavolo più lontano. Non si cura di loro, procede
verso la cucina.
«Questo non me lo avevi detto!» esclama Philip seguendola con lo
sguardo. Thomas non risponde, si guarda anche lui attorno, indifferente.
La curiosità di Philip cresce quando Maria, ritornata nella sala, si avvicina
al marito. Primo la ascolta, guarda verso di loro, poi si avvicina con una
bottiglia in mano. «Ho saputo che c'è qui un ospite importante che arriva
dall'America. Posso offrirvi un goccino di amaro fatto in casa? E' un buon
digestivo.» Philip ride e accetta volentieri. «Grazie! Ma spero non mi
ubriachi ancora di più!»
Maria li guarda da lontano, mentre ridono insieme alla battuta di Philip.
Osserva pensierosa Primo e Thomas. “Chi dei due? Di quale dei due è
figlio?” Una sottile sofferenza anima questa domanda dentro di lei, ma
senza angoscia, come chi, immobile, cerca di capire da quale direzione il
vento spiri.
Mentre Primo si sta allontanando soddisfatto del suo gesto cortese, Philip
accenna verso di lui con la testa, domanda: «E' il marito, vero?»
«Sì, risponde Thomas con noncuranza, «si chiama Primo. Un nome poco
consueto in Italia, come se un americano si chiamasse First; sarebbe
strano.»
Dalla porta della cucina entrano un bambino magro e vivace, con una folta
zazzera di capelli chiari, e una piccola bambina intimidita di circa tre anni.
Maria sta portando un piatto di pietanze verso un tavolo. I due piccoli
attendono che ritorni verso di loro. Le si avvicinano. Maria gli bisbiglia
qualcosa, si capisce che sta invitandoli a non disturbare. Primo lì ha visti e
velocemente li raggiunge. Parla con Maria, indica il tavolo più lontano. Si
avviano tutti insieme verso Philip e Thomas.
«Posso presentarvi mia moglie e i miei due piccoli diavoletti?» chiede
rivolgendosi ora all'uno e ora all'altro.
«Ho già avuto l'onore di conoscere la signora alla casa del mio amico
McWine. Ma non abbiamo avuto il tempo di presentarci. Piacere Philip
Rogers.
«Il signor McWine lo conosciamo bene – dice Primo guardando Philip – è
spesso ospite gradito qui da noi.»
Maria intanto è rivolta verso Thomas, come se cercasse un segno di
assenso. Un lieve cenno del capo glielo offre. Anche lei si volge verso
Philip e indicando i bambini dice: « Lui è Serse e lei è Vera.»
Philip si allunga verso la bambina, con una voce infantile le chiede: «Ciao,
Vera, quanti anni hai?
«Lei ne ha tre, anzi tre e mezzo ormai.» risponde prontamente Primo. «E' il
ritratto di mia madre. Me lo hanno già ripetuto in tanti. Le stesse ciglia
folte, nere nere, e gli occhi chiarissimi. Davvero un bel contrasto! Quando
era giovane, si dice, mia madre faceva furore con il suo sguardo!»
La piccola Vera li guarda a bocca aperta.
«Allora, un brindisi alla madre di Primo e alla piccola Vera!» dice Philips
alzando il bicchierino ancora colmo.
«E questo è Serse, ha otto anni.» interviene cautamente Maria, spingendo
il bambino verso la tavola. Lui resiste, si agita come se volesse correre via,
lei lo trattiene per la mano.
«Questo mese Serse ha iniziato la terza elementare.» spiega Maria,
guardando come di sfuggita verso Thomas.
«Accidenti! Allora sei grande se vai già in terza!» commenta Philips. Tutti
ridono. Thomas accarezza velocemente una guancia del bambino.
Primo guarda McWine con deferenza, come intimidito. «A proposito,
Professore, grazie per il bel regalo che ha voluto fare a Serse. Gli sarà
molto utile quest'anno a scuola.» Queste parole rimangono come sospese
in un lungo istante di silenzio contornato dai rumori della sala.
Philip, da acuto osservatore qual è, ha notato qualcosa, come se una specie
di onda anomala passasse per un attimo lungo un porto tranquillo, quasi
inavvertita. “Non può essere stato solo il caso – pensa – ad aver ordito il
gioco di specchi dei loro sguardi in questo strano modo. Mentre il marito
parlava, Maria e Thomas si sono guardati – nota – in quel modo rapido ed
intenso che possiedono solo coloro che hanno molto in comune. Primo,
parlandomi, era come se evitasse volutamente di intrecciare lo sguardo con
loro. Poi Thomas, con uguale intensità ha guardato Serse che continuava il
suo tentativo di fuga. E in quel medesimo momento è stato Primo a
rivolgere gli occhi verso Maria, che ha distolto lo sguardo.”
Un'immagine precisa si è formata in un lampo nella mente di Philip. “E'
così allora...” ha pensato, come lo spettatore che a teatro intuisce il
significato della vicenda ben celato dall'autore.
Con grande cordialità Primo stringe la mano a Philip. «Sono felice di
averla conosciuta. E' stato un piacere.» dice chinando il capo. E poi rivolto
a McWine: «Professore, lei è sempre il nostro ospite gradito, spero che
ritornerà presto. E ancora grazie per il regalo.»
La famiglia si disperde nella sala. Primo si affaccenda tra i tavoli.
« Ma cosa gli hai regalato, al bambino?» Chiede Philips con uno sguardo
scrutatore.
«Niente di importante. Un semplice astuccio di colori. Hai sentito, va a
scuola.» Philip continua a fissarlo a lungo in silenzio.
Pochi minuti dopo escono, vanno verso la macchina parcheggiata poco
distante. Philip è un po' brillo e continua a decantare la bontà di quello che
hanno mangiato. «Non succede spesso, di mangiare cose così buone!» Lo
ribadisce più volte con la certezza di un professore nell'aula.
Thomas lo accompagna in silenzio e, quando sono a pochi metri dall'auto,
lo ferma toccandogli un braccio: «Non è il caso che ti disturbi a riportarmi
a casa. Torno volentieri a piedi. Un po' di moto mi farà bene.»
Philip resta un attimo interdetto, come se la richiesta dell'amico gli
arrivasse inaspettata. Poi, con sguardo divertito picchietta con le nocche la
pancia piatta di Thomas che è fermo accanto a lui e cantilena un verso.
«You're like a stick with a blonde wig. Sì, biondo e magro lo sei davvero!
Ti ricordi quella che te lo ripeteva in continuazione? Dovresti vederla
adesso!»
Ridono insieme, ripensando a quegli anni lontani. Si abbracciano. Philip è
imbarazzato, tergiversa un poco, poi dice velocemente: «Scusa per poco
fa, sono stato troppo brusco. Sono fatto così, mi accendo subito.» Si ferma
un attimo e battendogli la mano sulla spalla aggiunge: «Credo di aver
capito.» Guarda Philip negli occhi, piega il braccio tendendo il bicipite e ,
come a volergli trasmettere ciò che ha dentro gli urla: «Sempre forte, Tom!
Noi eravamo i migliori!» L'altro lo guarda con un sorriso malinconico.
Poi la piccola utilitaria con il grosso uomo al volante ridiscende da dove
era venuta.

- 11 -

Era il 1 novembre 2013, un venerdì. Un cartello arrugginito quasi nascosto


dalle foglie di un grande leccio indicava la direzione verso Monastico.
Imboccando la piccola strada piena di buche Carlo ripensava con un
sorriso al mese di luglio e risorgevano nella sua memoria, come in un film
emozionante, le immagini di quei momenti, ammantate da un velo
fantastico. Guardò l'orologio sul cruscotto. Stavano arrivando a
destinazione molto prima del previsto. Con la compagnia degli amici, il
viaggio era stato velocissimo.
Gli ritornò in mente quando, poco prima di quel bivio, avevano sbagliato
strada sotto la pioggia battente e le nubi basse quasi nascondevano i
contorni di ciò che stava intorno. Ora, invece, era una giornata bellissima. I
raggi del sole ancora alto doravano le cime degli alberi ingialliti ed una
mite brezza rendeva piacevole viaggiare con i finestrini un po' aperti.
Anche Elia, seduto accanto a lui, si stava godendo quel paesaggio
splendente, come se riconoscesse con grande piacere il ripido pendio che
stavano percorrendo.
Giovanni non era mai stato prima di allora in quei paraggi e, seduto sul
sedile di dietro, taceva da un po' di tempo, immerso nei suoi pensieri,
fissando la salita.
«Be', come si dice? Stiamo arrivando a casa del diavolo. Non me lo
aspettavo così isolato il posto dove andiamo.» C'era nella voce di Giovanni
un tono un po' perplesso che Carlo notò subito.
Con l'aria di chi sa benissimo ciò che si sta facendo, Elia si voltò ridendo.
«Tranquillo, proprio dall'altra parte di questa montagna c'è San Francesco
che ci protegge.» Sghignazzò e aggiunse sicuro: «Questo è niente, non hai
idea del tempo che abbiamo trovato l'altra volta. Ed era luglio!»
«Certo, certo, non ci sono più le stagioni di una volta.» bofonchiò
Giovanni tra l'ironico e il sarcastico.
Carlo si girò un attimo per guardarlo. Capiva che, come aveva già
immaginato, era stato sicuramente Elia a trascinare l'amico riluttante in
quel viaggio breve ed improvvisato. Ripensò alle esclamazioni festose di
Elia quando gli aveva telefonato qualche giorno prima: «Cavolo, ci torno
al volo laggiù! Quel viaggio demenziale che abbiamo fatto a luglio mi è
piaciuto un sacco! Lo dico anche a Giovanni.» E così eccoli ora riuniti
come ai vecchi tempi. Mancava solo Sandro, ma ormai lui si muoveva
malvolentieri e preferiva star solo.
Carlo continuava ad osservare nello specchietto il volto un po' imbronciato
di Giovanni. Evidentemente non era ancora pienamente convinto di aver
fatto la cosa giusta. C'era sempre stato in lui un gran bisogno di chiarezza
razionale e probabilmente l'apparente assurdità di ciò che stavano facendo
lo rendeva inquieto.
«Carlo, che cosa andiamo a fare esattamente? Elia me lo ha spiegato alla
sua solita maniera e non ho capito un granché.»
Come punto nel vivo, Elia si girò di scatto.
«Io ho cercato di spiegartelo, ma se tu non capisci...»
Rimarcò le sue parole come se parlasse a un idiota. Una nube di
inquietudine passò sul volto di Carlo. “Ecco che si rischia di nuovo di
litigare,” pensò.
Urgeva pacificare gli animi con un veloce chiarimento.
«E' un'idea che mi ha suggerito una mia collega. Provare a chiedere in giro
informazioni sullo scrittore americano nel paese in cui è vissuto per tanti
anni. Sicuramente ci saranno molti che lo hanno conosciuto bene.» L'altro
lo ascoltava attento.
Sorridendo Carlo si voltò per una frazione di secondo senza perdere di
vista la strada e con grande spontaneità aggiunse: «Ma per me è soprattutto
una bella occasione per stare un poco insieme a voi. Anche il tempo ci
assiste: è una giornata splendida.»
Giovanni non appariva ancora pienamente convinto.
«E sai dove ci sistemiamo?» chiese con un po' di scetticismo.
«C'è un posticino laggiù dove si mangia da dio. L'altra volta ci abbiamo
anche dormito...». Per Elia questo era l'argomento migliore per vincere
tutti i dubbi dell'amico.
«Sì, è tutto a posto» si intromise subito Carlo. « Staremo alla pensione
Vallechiara. Ho prenotato due stanze.»
«Due stanze?» esclamò Giovanni interdetto, come se avesse appena sentito
qualcosa di inimmaginabile.
«Sì, purtroppo solo quelle c'erano. E' un periodo di vacanze. La signora
alla reception è stata molto gentile e ha fatto i salti mortali per
assicurarcele.»
Carlo buttò per l'ennesima volta un' occhiata verso lo specchietto dove il
volto serio dell'amico appariva sempre più corrucciato. Cercò
immediatamente di rassicurarlo.
«Sono una singola e una doppia. Nella doppia possiamo dormire io e Elia,
tu Giovanni puoi stare nella singola.»
Finalmente il volto paffuto dell'amico si allargò in un sorriso.
«Ma no, figurati. Non c'è problema, Carlo. Siamo stati tante volte in giro
insieme nelle situazioni più strane. Perché adesso dovremmo fare tante
storie? Perché diventiamo vecchi, forse?»
Elia, agitandosi tutto, si voltò di nuovo.
«Giovanni, ti ricordi quella volta a Montecarlo?»
Giovanni sbuffò. accentuando comicamente un' espressione imbarazzata.
«Non farmici pensare...»
Risero allegramente come se quel lontano ricordo di un' altra epoca della
loro vita avesse riacceso con forza il loro legame.
Improvvisamente, dopo una stretta curva, intravidero dietro il profilo
verdeggiante di una collina le prime case del paese.
«Giovanni, vedi quelle case laggiù? E' lì che andiamo!» esclamò Elia
concitato, indicando con la mano. Guardò Carlo con complicità. «Bingo!»
Carlo sorrise, ricordando che quella era stata l'esclamazione fatta a luglio
dall'amico quando erano finalmente arrivati.
«Eccoci!» esclamò a sua volta. Era felice.
L'ultimo tratto di strada saliva dolcemente e terminava sulla piccola piazza
del paese. Carlo si guardò intorno e individuò subito il cartello rotondo
sull'angolo opposto della piazza che indicava con discrezione la Pensione
Vallechiara. Con cucina tradizionale umbra: questa scritta era ben
evidenziata con caratteri più grandi.
Imboccò il vicoletto accanto alla chiesa, fermando poi l'auto nella piazzola
vicino all'ingresso. A differenza della volta precedente, non videro
nessuno.
«Elia, ti ricordi?» chiese Carlo con uno sguardo di intesa. L'altro scoppiò
in una sonora risata e rivolto verso il volto interrogativo di Giovanni che lo
fissava interdetto, spiegò: «Abbiamo fatto una figura da scemi chiedendo
informazioni ad una ragazza incontrata qui, vicino alla pensione. La
persona che cercavamo era proprio lei! Cioè – precisò – era lei che ci
doveva consegnare la scatola.»
Come se le scherzose parole di Elia lo avessero richiamato, comparve nella
mente di Carlo il limpido sguardo di Vera. Era contento di poterla
rivedere.
Giovanni li osservò con ironica perplessità. «Mi immagino perfettamente
la scena... è proprio nel vostro stile.» Risero insieme ed Elia, sceso
velocemente dall'auto, si fiondò a scaricare rapidamente i bagagli.

Vera già li stava attendendo nella piccola sala d'ingresso. Ricordava


benissimo i due clienti simpatici che aveva accompagnato alla casa dello
scrittore per prelevare quello scatolone impolverato ed ancora,
ripensandoci, sorrideva al ricordo della loro curiosa goffaggine che le era
parsa quasi recitata, tanto i loro movimenti sembravano sincronizzati per
far ridere un'ampia platea applaudente. Guardò l'orologio, sperando nella
loro puntualità. Tra poco, avrebbe dovuto scendere in cucina ad aiutare la
madre garantendo, come ogni giorno, l'ottima fama della loro cucina.
Uscita sull'uscio, con un sospiro di sollievo li vide salire lo stretto vicolo
trascinando le loro valige. Le venne da ridere. “E' come l'altra volta –
pensò – pare che non smettano mai di discutere animatamente tra loro.”
Li accolse con un sorriso.
«Buonasera, signora. Forse si ricorda ancora di noi. Siamo stati qui di
passaggio tre mesi fa. Le ho telefonato nei giorni scorsi per prenotare due
stanze...»
Elia lo interruppe subito con il suo solito tono sbrigativo. «Carlo, taglia un
poco, non c'è bisogno di fare tanti giri di parole. Non vedi che la signora ci
ha già riconosciuto?» Si piegò dall'alto dei suoi quasi due metri con un
comico inchino che strappò a Vera una breve risata argentina.
«Certo, vi ricordo benissimo, sono contenta di ospitarvi di nuovo. Le
stanze sono già preparate.»
«Con i servizi in camera?» sentì chiedere da quello che la volta precedente
non c'era.
Senza lasciarle il tempo di rispondere intervenne di nuovo quello alto:
«No, Giovanni, dovrai andare giù nel cortile.»
Giovanni lo squadrò con aria annoiata. «Elia, lascia perdere il tuo
umorismo da due soldi, tanto non fai più ridere.» Vera continuava a
osservarli divertita. Con un gesto di fastidio, quello che le aveva telefonato
si intromise bloccando subito gli altri due. «Adesso andiamo in stanza,
come già avevamo stabilito, ci sistemiamo e riposiamo un pochino e poi
usciamo a fare un giro prima di cena. Ok?»
Come per magia, bastarono queste parole ad accendere negli occhi di Elia
uno sguardo carico di desiderio. «Signora, non vedo l'ora! E' tutto troppo
buono!» esclamò con un tono così spontaneo che Vera non riuscì a non
ridere di nuovo.
«Siete ritornati per lo scrittore?» chiese interessata.
«Sì, almeno questa è l'intenzione. Vorremmo cercare qualche notizia su di
lui qui nel paese dove è vissuto.»
Elia lo fermò con un gesto della mano.
«No, Carlo, parla al singolare. Vorresti cercare qualche notizia. Io per me
sono qui per passare due bei giorni di vacanza.»
Vera intanto li scrutava con uno sguardo inspiegabilmente intenerito.
«Purtroppo non siete i primi. Quindici giorni fa c'è stata qui la troupe di
una televisione americana. Hanno riempito tutte le stanze dell'albergo ed
importunato i miei compaesani per giorni con le loro interviste. Ne
eravamo tutti stufi.»
I tre si guardarono sorpresi ed allibiti. Carlo ripensò alle parole di Silvia e
alle sue scoperte sul web. Si riaccese con forza dentro di lui la domanda
attorno alla quale la sua mente girava ormai da mesi, come un'inutile danza
intorno a un monolite misterioso: chi era stato davvero Thomas McWine?

«Che mi consigli, Carlo, la pasta alla norcina o gli umbricelli al


pomodoro?» Elia alzò gli occhi dal ricco menù che stava leggendo con
grande attenzione.
Erano rientrati da poco in albergo dopo aver percorso in lungo e in largo il
piccolo borgo. Carlo avrebbe desiderato proseguire sulla piccola strada in
salita verso la casa di Thomas McWine che aveva visitato molto
velocemente la volta precedente, quando aveva prelevato il “malloppo”,
come lo chiamava Renato. Allora non aveva quasi fatto caso al posto in cui
si trovava, in testa gli girava unicamente il desiderio di tornare a casa al
più presto. Ma ora era diverso. Avvertiva oscuramente il valore di una
impalpabile possibilità che lo avrebbe aiutato a capire meglio quello che
stava facendo: doveva rivedere con calma il luogo in cui lo scrittore era
vissuto, guardarsi attorno ed ammirare tranquillamente il paesaggio che
anche lui aveva visto ogni giorno.
Ricordava perfettamente la strada per arrivarci, subito fuori del paese.
“Inutile andarci adesso – si era detto – è quasi buio, faremo tutto senza
fretta domani.” Aveva contemplato lo splendido profilo della montagna
soffuso di luce rosata nel cielo che stava già scurendosi e, immobile di
fronte a quella radiosa bellezza, si era sentito appagato, sicuro di aver
finalmente afferrato qualcosa di concreto che bastava da solo a dare un
senso al loro viaggio.
Seduti ora al piccolo tavolo vicino al caminetto acceso, in attesa della
cena, i loro discorsi giravano già da parecchio intorno alla notizia che
avevano ricevuto al loro arrivo e tornava a riproporsi senza fine una
medesima domanda: che cosa cercavano gli americani a Monastico e,
soprattutto, che cosa avevano scoperto? Si leggeva negli occhi di Elia
l'eccitazione per il mistero che si infittiva, ma anche Giovanni si era
risvegliato dalla sua apatia ed era diventato, tra i tre, il più solerte nel
tentare nuove ipotesi e spiegazioni.
«Avete già deciso?» chiese Vera con la sua abituale cortesia avvicinandosi
al loro tavolo.
Elia rispose per tutti, con uno sguardo di intesa rivolto agli amici: «La
pasta alla norcina. Giusto?»
«E per secondo?»
Elia si chinò di nuovo sul menù con aria perplessa come se dovesse
studiarlo ancora più a fondo. «Decidiamo dopo. Va bene?»
Vera fece un cenno di assenso. Stava già allontanandosi, quando Giovanni,
come se stesse seguendo un pensiero che rimuginava da parecchio, le
chiese in modo un poco brusco, che corresse quasi subito: «Scusi,
signora... o signorina... – precisò arrossendo un poco – mi ha incuriosito
molto quello che ci ha detto al nostro arrivo, ne stavamo parlando anche
adesso tra noi. Quegli americani, che cosa hanno fatto esattamente?»
Rispuntava nel tono della domanda il suo solito bisogno di assoluta
chiarezza.
Vera lo guardò con un sorriso indulgente, come se avesse capito molto
bene l'atteggiamento dell'altro. Guardandosi attorno per verificare se era
sollecitata da qualche tavolo vicino, cercò pazientemente di rispondere.
«Ecco, l'impressione che ho avuto è che non fosse una semplice inchiesta
giornalistica, come fanno nei notiziari, ma una specie di film. Avevano
infatti un'attrezzatura cinematografica e c'erano anche attori che
impersonavano scene non molto comprensibili. Dopo i primi giorni, la
gente del paese, che era stata molto lusingata all'inizio per tutto questo
interesse verso Monastico, si è stancata e non vedeva l'ora che se ne
andassero.»
«In pratica il paese è stato trasformato in un vero e proprio set» osservò
con tono competente Giovanni.
«Sì, qualcosa del genere.»
«Giovanni, non ti confondere, non è il genere di film che guardi di solito
tu!» disse a bassa voce Elia ammiccando.
Giovanni incenerì l'amico con un'occhiataccia e rivolgendosi con grande
garbo verso Vera continuò a domandare : «Ma, che lei sappia, quando lo
scrittore viveva da solo qui a Monastico è successo qualcosa di
particolare?»
Vera, di fronte a quello sguardo meditabondo, non riuscì a trattenere un
sorriso. «Eh, di cose ne sono successe tante, naturalmente, non basterebbe
il tempo per raccontarle... ma sono passati tanti anni...»
«... ed è tanto meglio evitare i pettegolezzi!» Vera sentì la voce imperiosa
della madre alle sue spalle. Stava servendo da un grosso paiolo ricche
porzioni di carne di cinghiale stufata nei piatti del tavolo vicino ed aveva
sentito quello che lei stava dicendo.
«E sarebbe ancora meglio se si lasciasse quel buon uomo riposare in
pace!» scandì con asprezza. Fissò la figlia con uno sguardo severo. «Vera,
bada anche agli altri tavoli!» Il suo tono duro e contrariato non ammetteva
repliche.
«Scusa, mamma.»
Ad occhi bassi e dopo uno sbrigativo cenno di saluto, la si allontanò
rapidamente verso la cucina. La scena si era svolta in pochi secondi, ma
Carlo aveva potuto leggere sul volto della madre non solo evidenti segni
di fastidio, ma anche un dolore sincero. Gli altri due si fissavano
sconcertati.
«Accidenti, che scena drammatica, è come essere a teatro!» commentò
Elia strizzando il suo tovagliolo. Anche Giovanni, con aria perplessa,
rifletteva in silenzio a testa china.
Carlo si guardava intorno imbarazzato. Si avvertiva tra loro un senso di
disagio. Dopo un lungo in silenzio, con un gesto di insofferenza, constatò
poco convinto: «Non ci capisco niente. Perché quel tono duro? Mi sembra
esagerato... come se la madre si fosse offesa per quello che la figlia ci
stava dicendo.» Era probabilmente ciò che in quel momento girava anche
nella testa degli altri.
«La stanchezza gioca brutti scherzi.» Giovanni, con il suo buon senso,
aveva forse trovato la spiegazione più semplice e ragionevole.
«Hai ragione, Giovanni, probabilmente è così, inutile imbastire romanzi su
un fatto tanto insignificante.»
«Parole sante!» concluse Giovanni con un sospiro, riprendendo
immediatamente l'esame puntiglioso del menù rimasto sulla tavola.
Elia, con i suoi soliti modi spicci, riaccese immediatamente la discussione:
«Sarà come dite, ma avete notato la reazione della figlia, quando Giovanni
ha fatto la sua innocua domanda? Come se volesse evitare di rispondere...»
Giovanni sbuffò con visibile impazienza. «Elia, le tue solite esagerazioni.
Non costruiamo romanzi, come ha appena detto Carlo.»
Elia lo guardò con aria sfottente. «Scusa, Giovanni, e perché no? Dopo
tutto la realtà supera spesso la fantasia.»
Giovanni non ebbe il tempo di replicare. Vera stava ritornando con i piatti
fumanti.

Una piacevole brezza fresca e leggera la mattina successiva accompagnava


la loro passeggiata verso la casa dello scrittore americano.
La fantasia di Carlo, mentre ora si incamminava nella luce mite di inizio
novembre, si era sbrigliata e il luogo solitario verso cui stavano salendo gli
appariva ora come una specie di regno misterioso e segreto. Che
differenza, da luglio! – pensava. Allora aveva buttato un'occhiata distratta
alla casa e ai boschi che la circondavano, senza dar loro importanza. “Sì, è
sicuramente la traduzione dei Quaderni a fare differenza – pensò – ora
posso vedere questi posti con occhi diversi.” La figura dello scrittore
Thomas McWine giganteggiava in quel momento nella sua mente.
«Non la ricordavo così ripida!» esclamò Elia, accentuando comicamente i
segni della sua stanchezza. Si tolse enfaticamente il maglione e lo gettò
sulle spalle.
Con una risatina sarcastica Giovanni non perse l'occasione per una delle
solite frecciatine. «Forza Elia, è tutta questione di allenamento!» Lui,
infatti, procedeva tranquillo ad ampie falcate, senza neanche una goccia di
sudore sulla sua testa pelata.
«L'altra volta siamo saliti in macchina, per questo non ci siamo stancati.»
Elia e Giovani si fermarono un momento, incerti su come interpretare
l'assoluta stupidità di ciò che Carlo aveva appena detto e si guardarono con
un gesto interrogativo. Carlo proseguiva tranquillo, ridacchiando tra sé e
sé, compiaciuto per il proprio sottile umorismo.

Era ormai sera e Carlo, seduto nella piccola hall, sfogliava deluso il magro
bottino della giornata. Alzando gli occhi si accorse che da dietro il
bancone della reception Vera lo stava osservando probabilmente da
parecchio con un sottile sorriso sulle sue belle labbra.
«Come è andata?» chiese.
Durante il pranzo, tra una portata e l'altra, le avevano spiegato in modo più
completo il motivo del loro viaggio.
«Così così.» rispose Carlo. Bastava l'espressione con cui lo disse a far
capire che avevano ottenuto poco o nulla. Intenerita da quell'aria indifesa,
abbandonò i fogli su cui stava lavorando e gli si avvicinò.
«Purtroppo era prevedibile. Vi avevo avvisati. Siamo in un piccolo paese
sotto la montagna e le persone sono piuttosto diffidenti verso gli estranei.
Non parlano volentieri. Dopo l'invasione dei giorni scorsi poi...»
«Purtroppo ce ne siamo accorti.» commentò cupamente Carlo
accartocciando i fogli che aveva in mano. «Sembra quasi che lo scrittore
Thomas McWine qui non ci sia mai stato.» Con una risatina forzata
aggiunse: «O forse solo come turista, come noi...»
Il carattere di Vera era totalmente allergico alla tristezza degli altri,
cercava immediatamente di vincerla come se fosse una specie di sfida
personale. Avvicinò una sedia e si sedette accanto a lui. Carlo si irrigidì un
poco e la guardò sorpreso, incerto su come interpretare quell'atteggiamento
confidenziale. Guardandolo con un po' di ironia lei indicò se stessa e
chiese con tono divertito: «Scusi, ma si è accorto di una cosa?
Un'intervista per bene ancora non me l'ha fatta! Anch'io sono sempre
rimasta a Monastico e le assicuro che Thomas McWine è vissuto qui
realmente, con anima e corpo! Mi faccia pure qualche domanda, ho ancora
un attimo di tempo prima della cena.»
Carlo la guardò imbarazzato. Le chiacchiere senza capo ne' coda che
avevano scambiato casualmente, con Elia che come sempre dava il suo
contributo per confondere ogni cosa con le sue battute idiote, gli avevano
fatto tralasciare proprio la cosa più evidente.
La fissò rincuorato. «Bene, mi dica pure lei quello che sa.»
Carlo notò l'attimo di sospensione con cui l'altra, fissando gli occhi a terra,
si preparò a rispondere, come se stesse selezionando quello che poteva
dire. Scacciò questo pensiero. “Sei il solito paranoico, calma.”
Vera iniziò a raccontare in fretta alcuni episodi del passato, agitando un
poco le mani mentre parlava come succede a chi è molto partecipe di ciò
che sta dicendo. In effetti, Carlo capiva che era un piacere anche per lei
ripercorrere quei ricordi.
Gli raccontò dell'arrivo di McWine, o meglio ciò che aveva sentito a sua
volta raccontare dalla madre, sottolineò la sua grande riservatezza e la
calma con cui affrontava qualunque evento, fosse anche, come era
accaduto, il terribile terremoto del 1997.
«Secondo me, è stato un grande uomo, ma circondato da un alone di
mistero. Questa, però, era anche la ragione del suo fascino». Sottolineò le
ultime parole con un tono comicamente perentorio.
Dopo aver riflettuto per qualche istante, aggiunse: «Qui era di casa.
Veniva spesso da noi, amava la nostra cucina. La sua “ricca semplicità”,
diceva. Mia madre per un certo periodo lo ha anche aiutato nelle faccende
domestiche...»
«Potrei anche parlare con sua madre?» chiese Carlo.
«Mi scusi, ma preferirei di no. Ha i nervi molto fragili.» Un velo di
inquietudine calò per un istante sul bel viso di Vera.
«E suo padre?»
«Purtroppo è morto da alcuni anni. Era stato, per tanti anni, in ottimi
rapporti con lo scrittore. La loro stima era reciproca. A volte lo chiamava
“il professore”, con una punta di bonaria ironia.» Si fermò un attimo
pensierosa e aggiunse poi con tristezza: «Purtroppo è tutto un mondo che
non c'è più.»
Sentirono scendere qualcuno dalle scale e dopo poco comparve Giovanni
con il suo viso imbronciato. Con un po' di imbarazzo si avvicinò a Carlo,
senza badare alla persona con cui lui stava conversando.
«Senti, Carlo, debbo chiederti per forza un piccolo piacere. Potremmo
partire non troppo tardi domani?» Non stette a spiegarne il motivo, ma
Carlo lo aveva capito benissimo.
Carlo lo guardò con affetto. «Beh, avrei voluto sfruttare la mattinata di
domani per fare... – le parole di Carlo si persero in una sonora risata.
«...non so più bene che cosa.» E sempre ridendo aggiunse: «Non c'è
problema Giovanni, faremo come è meglio per te. Tanto mi sa che la pesca
l'abbiamo finita ed il paniere è praticamente vuoto.»
Rassicurato, Giovanni risalì verso la propria stanza. «Grazie, Carlo, ci
vediamo a cena più tardi.»
Vera notò subito il repentino cambiamento di umore dopo che l'amico si
era allontanato. L'enfasi allegra con cui gli aveva parlato sfumò in fretta
lasciando il posto a un senso di smarrimento, quella sua tipica espressione
che tanto colpiva Silvia quando lo incontrava a scuola.
Sentì, allora, più forte il bisogno di aiutarlo.
«Mi è venuta in mente un'idea che potrebbe esserle utile.»
Gli occhi di Carlo scattarono verso di lei.
«Si tratta di mio fratello. Ora vive lontano, in Australia, insegna all'
università di Brisbane. Fin da piccolo è stato un grande amico di Thomas
McWine, si vedevano quasi ogni giorno. Lui, probabilmente, potrebbe
dirle qualcosa di più interessante delle poche cose che so io.»
Carlo continuava a fissarla, rimanendo in fervida attesa. Era come se una
insperata scialuppa di salvataggio si muovesse verso di lui.
«Potrebbe contattarlo. Da qualche parte conservo il suo indirizzo e-mail,
me lo ricordi prima di partire.»
«Grazie!» Carlo continuava ancora a guardarla ammirato, ma nel suo
sguardo c'era qualcosa di più di una semplice riconoscenza.

- XII -

E' il 13 maggio 1984, una domenica. Un ragazzo di circa dodici anni,


magro e molto alto per la sua età, con i capelli chiari e molto lunghi che si
arruffano in un grande ciuffo sulla fronte, corre sul piccolo prato verde con
le braccia allargate. Emettendo un lungo sibilo si inclina in direzione del
bosco. In quel momento, nella sua mente, sta sorvolando la foresta
amazzonica. Dopo poco, inclinandosi sempre di più vira in basso e si butta
a terra. Con gli occhi spalancati guarda l'azzurro intenso del cielo e
immagina. «Un giorno ci andrò davvero.». Ha visto un documentario in
TV la sera precedente. C'era un piccolo aereo che senza paura si
avvicinava ad un getto altissimo di acqua che cadeva da una verde
montagna piatta allargandosi in una pioggia di piccole gocce. Il salto
Angel in Venezuela, diceva la voce del commentatore, la cascata più alta
del mondo. Serse ha fissato affascinato quelle immagini, si è ripromesso di
vederlo.
Ora si guarda attorno. Tutto il mondo lo affascina. Vuole vedere tutto,
girare, conoscere le cose bellissime che si trovano lontano da Monastico,
molto lontano. Viaggia con la fantasia e pensa: «Farò l'esploratore.»
Volta la testa verso il bosco. Vede qualcosa di nero spuntare. Due occhi
scuri lo fissano.
McWine è seduto sulla poltrona bianca di fronte a casa. Scrive con un
sorriso sulle labbra. Si ferma un poco, riflette, forse ricorda, poi aggiunge
qualcosa. La sua preziosa stilografica si muove veloce sul foglio, altri fogli
sono per terra accanto.
A chi lo vedesse da lontano potrebbe sembrare un pittore intento ad
abbozzare i suoi schizzi dal vero, in muta contemplazione delle colline
cariche di luce che lo circondano tutto intorno.
Ha ancora capelli molto lunghi, ormai un po' ingrigiti e radi, che continua
ad allontanare dalla fronte ad ogni movimento della testa.
Dietro gli occhiali che ora è costretto a portare, lo sguardo non è cambiato,
sempre attento e sicuro. Il suo viso disteso è lo specchio della serenità che
ha dentro, il segno visibile di una pacificazione con se stesso finalmente
trovata.
Thomas si interrompe spesso, segue con lo sguardo la corsa del piccolo
Serse più in basso. Sorride, capendo benissimo dai suoi movimenti ciò che
avviene in quel momento nella sua testa. Tanti sogni, immagini incantate
– riflette – come accadeva anche a me quando ero bambino. E soprattutto
il gusto di raccontare a noi stessi storie capaci di sorprenderci. Poi, quasi
inavvertitamente, si ripete dentro di lui un gioco a cui si abbandona spesso.
Serse corre, muove le braccia, agita i suoi lunghi capelli. E Thomas legge,
come in un libro, la sua postura, i suoi gesti, il suo modo di muoversi.
Cerca di decifrare nel suo comportamento uguale a quello di tanti altri
bambini, piccoli segnali rivelatori che dissolvano almeno un poco i dubbi
da tanto tempo insediati nel suo cuore.
Thomas alza gli occhi e vede Serse disteso sul margine più lontano del
prato, perso nei suoi pensieri. Poi, improvvisamente, Serse si alza, si
avvicina al bosco. Anche Thomas si alza, segue con attenzione i suoi
movimenti, timoroso di ciò che potrebbe accadergli.
Maria gli ha affidato il figlio all'inizio della mattinata, come succede
ormai da tempo, e come sempre con un tono apparentemente scherzoso ha
ripetuto il lungo elenco delle raccomandazioni.
Dal bosco è uscito qualcosa. Un grande cane nero che ora fissa il bambino.
Thomas è troppo lontano, non sarebbe in grado di intervenire velocemente
e ogni suo urlo o gesto violento potrebbe soltanto peggiorare la situazione.
Non può che essere spettatore di ciò che sta accadendo.
Il cane si è avvicinato al bambino, ora è più visibile e McWine ne
individua la razza. Ne ha visto le immagini da qualche parte e lo riconosce:
un cane Corso, un ottimo cane da guardia. Ma da dove accidenti è
sbucato? McWine pensa subito al castelletto poco più in alto. La strada
principale per raggiungerlo sale ancora parecchi tornanti, ma attraverso il
bosco la distanza è poca. Con un impegnativo lavoro durato alcuni mesi, il
vecchio rudere è stato trasformato in una residenza di lusso abitata da
persone molto facoltose e molto riservate. “Sì – pensa in pochi istanti
McWine con fastidio – quel grosso cane è sicuramente loro. Solo degli
imbecilli lascerebbero andare libero in giro un cane così.”
In quel momento accade una cosa inaspettata. Serse parla al cane, allunga
una mano e lo accarezza, il cane si accuccia ai suoi piedi e scodinzola. Poi
Serse scatta, cerca intorno, finché non trova il ramo adatto. Lo spezza e lo
lancia. Il cane corre uggiolando a raccoglierlo. Inizia così un gioco
frenetico, come se il cane e il bambino si conoscessero da sempre.
Thomas è rimasto pietrificato al suo posto, quasi attendendosi il peggio.
Vedendo i due che giocano felici si rilassa, ride. Poi pensa alla strana dote
che Serse ha rivelato. “Un'intesa incredibile”, si dice. Riflette su quanto
poco ancora conosce quel bambino che forse è suo figlio.
In quel momento, Thomas sente il rombo di un auto che arriva a grande
velocità lungo la salita dissestata, i freni che stridono. Sullo spiazzo di
fronte alla casa sbuca una grossa jeep militare. Al volante c'è una donna
che scende correndo. E' molto alta, con un corpo splendido, e porta capelli
biondi cortissimi.
Chiede decisa in modo spiccio quando è di fronte a McWine: «Avete visto
passare da queste parti un grosso cane nero?»
Lui non ha il tempo di rispondere. Lei ha già notato il bambino e il cane
che giocano sul prato. «Ecco dove si era cacciato!» grida, muovendosi
decisa verso di loro.
«Calmati, Deborah, non è successo niente.»
E' la voce di un uomo che sta scendendo dall'auto e si avvicina con passo
tranquillo a McWine. E' piuttosto piccolo e si muove con un'andatura
traballante. Ha in testa un grande cappello estivo che quasi gli nasconde il
viso, occupato in buona parte da un grosso paio di occhiali scuri e
circondato da una corta barba bianca.
«Devi essere gentile con i signori, – dice – hanno trattenuto Fonzie prima
che scappasse chissà dove.» Si volge verso la macchina da cui intanto è
uscita un'altra ragazza dai capelli neri e lisci, con tratti tipicamente asiatici.
«Orathai, per favore, vai tu a recuperarlo?»
La ragazza non dice nulla e si incammina anche lei verso Serse che si è
fermato e li squadra. Fonzie gli è accanto, anche lui immobile. Ha notato
che qualcosa sta accadendo e non gli piace. Mostra i denti ed inizia a
ringhiare.
Deborah gli è vicina per prima. «Fonzie, vieni subito qui!» Lo chiama con
un gesto deciso della mano. Lui arretra, continua a ringhiare. Serse scatta.
«Andiamo Fonzie, mettiamoci in salvo!» urla indirizzandosi verso il lato
opposto del prato. Il cane lo segue. A un certo punto Serse incrocia le
gambe, finge di cadere come qualcuno che stia fuggendo ed è colpito alle
spalle. Fonzie gli è addosso, uggiola, lo lecca. Serse ride. «Basta, basta! Mi
anneghi!»
L'uomo con gli occhiali scuri ha seguito tutta la scena. Ride di gusto.
«Ma guarda un po', Fonzie ha adottato il ragazzino!», dice divertito
voltandosi verso Thomas.
Dopo un primo momento di paura, anche McWine si sta divertendo.
«Appena si sono visti, poco fa, si sono subito capiti.» commenta.
Osservano per un poco in silenzio le corse frenetiche sul prato.
L'altro si volta con un sorriso verso Thomas. «Però! Ci sa fare il ragazzino!
E' suo figlio?»
McWine si blocca per un attimo, incerto sulla risposta da dare.
«No, ma viene spesso da me a giocare. Vive giù in paese.»
«Perdoni, non mi sono ancora presentato. Patrizio Tumiana, piacere.»
«Thomas McWine»
Si stringono la mano, poi con un cenno Thomas invita l'altro a sedersi.
In quel momento Deborah si avvicina a loro con aria contrariata. Parla in
modo deciso a Patrizio; lui intanto si è tolto il cappello e si asciuga la
fronte.
«Patrizio, scusa, ma dobbiamo andare. Il coproducer ci sta aspettando...»
«Che fretta c'è? Lascia che aspetti.» Risponde Patrizio con calma.
L'altra si allontana sbuffando. Patrizio, indicandola, chiarisce: «Non ci
faccia caso, è la mia assistente. E' lei che tiene l'agenda degli impegni.»
Thomas indicando il tavolino all'ombra chiede: «Posso offrirle qualcosa di
fresco?»
«Grazie, bevo volentieri un bicchiere; è una giornata molto calda per
essere soltanto alla metà di maggio!»
Thomas si allontana per qualche minuto verso la casa. Patrizio, molto
rilassato, osserva ciò che accade poco più sotto sul prato. Orathai ha
raggiunto Serse. Fonzie corre eccitato dall'uno all'altra. Salta e cerca di
addentare ciò che hanno in mano.
Thomas ritorna con in mano una brocca e alcuni bicchieri.
«Ho solo questo. Una limonata fatta in casa, credo che le possa piacere.
Me la procura la mamma del ragazzino. Hanno un piccolo ristorante giù in
paese. Glielo consiglio!»
«Ci sono già stato! Si mangia divinamente!»
Patrizio si è tolto gli occhiali, li appoggia sul tavolino rotondo, sorseggia il
bicchiere colmo di limonata fresca e dopo un poco domanda a bassa voce,
come se non volesse essere indiscreto.
«Scusi la mia curiosità. Posso farle una domanda? Ma lei che cosa fa qui?»
McWine scoppia a ridere. Poi, coprendosi la bocca, come timoroso di aver
offeso il suo interlocutore, chiarisce: «Mi scusi, ma rido per il ciclico
ritorno di questa domanda. Prima o poi me la fanno tutti. Ufficialmente
sono uno scrittore.»
«E non ufficialmente?» chiede Patrizio con sguardo divertito.
«Come dite voi in Italia? Probabilmente questa parola: un perditempo.
Time Waster.»
«Ah, un mestiere che anche io prediligo!» risponde l'altro ridendo.
Thomas riflette qualche istante. Scandisce lentamente, come tra sé e sè:
«Per-di-tem-po. E' una bella parola. In effetti non possiamo che perderlo il
tempo, mi pare. Nessuno lo mette in banca!»
I loro sguardi si incontrano, ridono insieme. “Niente più di una risata
condivisa facilita l'intesa,” pensa McWine. C'è tra loro uno spontaneo
moto di simpatia reciproca.
«E lei di che cosa si occupa?» chiede Thomas.
«Cinema. Uno dei modi migliori per fare un mucchio di soldi... Anzi, altri
li fanno per me!»
Tumiana squadra la figura snella di McWine, la camicia a grandi quadri e
i jeans usurati che indossa, si guarda attorno, come se volesse confrontare
Thomas e il suo piccolo casale con la propria condizione privilegiata.
Thomas non si offende, comprende che l'altro è il tipo d'uomo che ama
molto vantare la propria splendente superiorità, di cui pare fermamente
convinto.
Serse ha interrotto le sue corse, risale la china con il grosso cane che lo
segue. Quando è di fronte a Patrizio chiede: «Scusi, signore, potrei tenerlo
ancora un poco?»
Patrizio sorride. «Avete fatto amicizia in fretta.»
Serse lo guarda fisso in attesa. Aggiunge a bassa voce: «Io e lui ci
capiamo, anche se io sono un umano e lui è un cane. Ha bisogno di
qualcuno che lo ami.»
Tumiana si muove sulla sedia, imbarazzato.
Deborah, che ha sentito le ultime parole del ragazzo, scoppia in una risata
rumorosa.
«Ha bisogno di qualcuno che lo ami!» ripete con una vocina in falsetto.
«Hai sentito, Patrizio? Tu non lo ami abbastanza!»
Patrizio la ignora. Torna a rivolgersi a McWine.
«Per me non c'è problema – dice – potete tenerlo ancora un poco. Me lo
riporterete più tardi. Io sono su al piccolo castello. Al bodyguard se vi
chiede dite che vi ho chiamati io.»
Poi si incammina con passo lento verso la jeep. Si rivolge a Deborah
seccamente: «Allora, andiamo?»
Le due donne lo seguono. Lui si volta di nuovo, saluta Thomas e Serse con
un cenno. «Arrivederci. A più tardi.»
Sono quasi le sei di sera. Sopra il monte il sole è già basso, il cielo sfuma i
suoi colori screziandosi di rosa, l'aria inizia a rinfrescarsi. Serse, disteso
sull'amaca tesa tra i due alberi accanto alla casa, è completamente
assorbito nella lettura di un libro, Fonzie sonnecchia ai suoi piedi.
Seduto sulla poltrona di vimini sulla quale ha trascorso buona parte della
giornata, McWine non ha più voglia di scrivere. Guarda la discesa di
fronte a lui. Sa che Primo tra poco verrà a riprendere il bambino.
L'amicizia con Primo si è consolidata con il passare degli anni e per
McWine è sempre un piacere incontrarlo, scambiare quattro chiacchiere
insieme.
Resta in silenzio, appagato da quel momento di pace che si allarga tutto
intorno, come accade quasi ogni sera. Il rumore intenso di un vecchio
motore anticipa l'imminente arrivo. Il furgone azzurro sbuca dall'ultima
curva.
Anche Serse lo ha sentito, si riscuote, si guarda attorno. «Accidenti, è già
qui!» esclama contrariato guardando Fonzie. Il cane ha alzato la testa, lo
osserva con sguardo assonnato, come se fosse in attesa di una sua
decisione.
«Tranquillo, Serse, gli parlo io. Dirà sicuramente di sì.»
Thomas si alza, quando il furgone si arresta gli va incontro.
«Ciao, Primo, come va?»
«Tutto a posto. Ma erano in parecchi a pranzo. Non si finiva più.»
Thomas lo guarda sorridendo, preparando nella propria mente le parole più
adatte per la sua richiesta.
«Se posso, ti vorrei chiedere un favore. Anzi più che per me, è per Serse. I
nuovi residenti del castelletto, forse li hai già visti, ci hanno lasciato quel
bel cane per qualche ora. Non sto a raccontarti tutto. Adesso dovremmo
salire a riportarglielo.»
Thomas osserva la reazione dell'altro. Primo, un po' contrariato, protesta
con la sua solita aria bonaria: «Caspita, Professore! Se ti decidessi a
mettere una buona volta il telefono, mi avresti risparmiato questa corsa
inutile!» Ride lui stesso alle sue parole, cancellando qualunque apparenza
di rimprovero.
«Già già il telefono, ancora non mi sono deciso...» borbotta Thomas.
E' sempre stato un suo costante puntiglio non volerlo, come se questa
fosse la dimostrazione tangibile della propria indipendenza. Il momento in
cui, di lì a qualche anno, la scelta diverrà inevitabile è ancora lontano.
Primo si rivolge verso Serse. «Ma si vai pure, non c'è problema.
Ritornerai a casa più tardi con il Professore.»
Serse agita le braccia in un gesto di gioia. «Grazie papà!»
McWine, accanto a lui, ha un attimo di incertezza, come se sentisse il
proprio nome indirizzato ad un altro. Gli pare di percepire nel viso
compiaciuto di Primo, che ancora lo guarda, un veloce lampo, come la
sicurezza di una sfida vinta. E' solo un attimo, Primo si volta, ritorna verso
il furgone. Riparte da solo in una nuvola di polvere.
Thomas recupera in casa la piccola lampada che potrebbe servire al
ritorno.
«Che dici, andiamo?» Si capisce che Serse è restio a partire, la sua
immaginazione anticipa una infinità di cose che potrebbe ancora fare
insieme con il grosso amico che gli dormicchia accanto. Si alza di
malavoglia, ostenta la sua contrarietà sbuffando rumorosamente.
Thomas lo osserva comprensivo, senza fretta. Lo rincuora: «Dai Serse,
chiederemo a quei signori di lasciarlo anche in futuro un poco con noi.»
Serse resta in silenzio, lo guarda. «Thomas, a te come sono sembrati?»
chiede con finta ingenuità. Thomas ha colto un lampo di allegra malizia
nei suoi occhi. Finge di non capire.
«Chi?»
«I signori che sono venuti a riprendere il cane.» Nel tono di Serse c'è una
sfumatura di sfida.
Thomas lo studia flemmatico per un attimo, poi osserva con noncuranza:
«Mi era sembrato che tu fossi tutto preso a giocare con il tuo nuovo amico,
senza far caso a noi.»
«No, vi guardavo da lontano. Allora?»
«Beh, certo siamo molto diversi, ma il signor Tumiana mi è piaciuto, l'ho
trovato simpatico...»
«Simpatico?» Serse ostenta incredulità.
«Sì, una persona con cui si parla volentieri. In questo senso dico
simpatico...»
Thomas percepisce che in quel momento Serse, per qualche suo motivo, lo
sta mettendo alla prova.
«E' pieno di soldi, lo sai?» Serse rimarca queste parole a voce più alta.
Thomas continua a studiarlo. «Già, lo ha fatto capire anche a me. Ho
l'impressione che gli piaccia molto mettersi in mostra.»
Fissa deciso Serse che intanto si è avvicinato e con un sorriso gli domanda:
«E a te come sono sembrati?»
Serse guarda nel vuoto, ci pensa per parecchio, poi butta lì con
noncuranza: «Mi sembravano finti, come se recitassero in un film. Anche
la ragazza che giocava con me.»
McWine lo guarda stupito. Sta scoprendo qualcosa di nuovo nel ragazzino
che ha di fronte, un aspetto della sua personalità che ancora non
conosceva. Serse, quasi a voler togliere importanza alle sue parole, si è
avvicinato di nuovo a Fonzie, gioca con lui accanto al tavolo.
Per una frazione di secondo nella mente di McWine passa un rapido
pensiero che subito scaccia. “Proprio come ero io.”
Fissa Serse con ironia e la domanda decisiva gli esce spontanea.
«E io come ti sembro?»
C'è un momento di imbarazzo, come se Serse volesse sfuggire ad una
richiesta per lui troppo difficile. Afferra il dischetto rosso di gomma, lo
lancia nel prato, Fonzie corre felice a riprenderlo. Poi, come se
improvvisamente la parola più giusta fosse emersa chiaramente dentro di
lui, si volta verso il viso teso di McWine, rimasto silenziosamente in
attesa, e con un sorriso gli dice a bassa voce: «Tu sei speciale!»
La risonanza profonda di queste parole illumina lo sguardo di Serse, come
se volesse dare maggior forza a quello che ha appena detto. E' come una
squarcio di luce che dirada la nebbia malinconica accumulata nel cuore di
McWine.
Si incamminano insieme verso la discesa, ad un cenno di Serse il cane li
segue obbediente.
Thomas ripensa alla figura piccola e piena di sé di Patrizio, a
quell'osservazione acre della sua assistente. «Tu non lo ami abbastanza!»
che lasciava trapelare un forte risentimento. Ma per quale ragione? si
domanda. Eppure deve ammettere con se stesso che, nel breve incontro, ha
provato davvero simpatia per quel piccolo uomo pieno di sé, per quella sua
ridicola aria sbruffona ed ostentata. “Chissà la sua casa, lassù al castelletto
– pensa – come splenderà di ricchezza.” La domanda lo stuzzica.
Al bivio sulla strada principale svoltano verso l'alto, in mezz'ora di
cammino sono in cima, dove la strada finisce. Le mura in rovina sono state
consolidate con nuovi materiali e lasciano intravedere una serie di piccoli
edifici collegati tra loro.
All'ingresso sono già attesi. Una graziosa ragazza di colore con un attillato
tailleur viola li accompagna verso alcuni tavoli posti al centro della corte.
Patrizio allargando le braccia li accoglie con grande cordialità.
«Benissimo, vi stavamo aspettando!» Volgendosi verso le persone
eleganti che sono vicino a lui, indica Fonzi che scodinzolando gli si è
avvicinato: «Dovevate vederlo alla casa di sotto! Lui e il ragazzino in
pochi minuti sono diventati amici fraterni!» Con voce suadente si rivolge
a Serse che si sta guardando attorno un po' intimidito. «Sembra quasi che
tu abbia una dote speciale.» Gli sguardi incuriositi si incrociano, qualcuno
commenta a bassa voce con i vicini.
Patrizio si guarda attorno. Vede ferma accanto a un tavolo Orathai, la
chiama: «»Orathai, per favore occupati tu del ragazzino. Portalo a
mangiare qualcosa di buono.»
Solo in quel momento la ragazza tailandese, girandosi, vede Serse che la
sta salutando amichevolmente, contento di trovare finalmente una persona
che conosce. Lei gli si avvicina e lo prende per mano. «Sei venuto a
trovarmi?» gli domanda con uno splendido sorriso. «Vieni, ti faccio vedere
la casetta di Fonzie.» Mentre si muovono si volta verso Patrizio che con un
lieve cenno del capo acconsente.
Patrizio indossa un elegante vestito di lino che lo fa sembrare un poco a
un possidente coloniale di fine '800. Senza gli occhiali scuri – nota
McWine – è come se il suo sguardo non trovasse mai un punto saldo su cui
fermarsi e si rendesse visibile una perplessità inappagata che la voce
decisa non lascerebbe supporre. “E' questa forse la ragione per cui
quest'uomo vive di apparenze. Chissà se è felice.” si chiede.
Indicando le tavole imbandite Patrizio invita McWine: «Prego, si serva
pure!» Fa un cenno rapido a un cameriere che si avvicina con un vassoio.
McWine ringraziando afferra un calice di champagne, si volta verso
Tumiana e brinda con lui. E' rilassato, come se partecipasse a un gioco. Lo
diverte pensare al proprio abbigliamento dimesso in mezzo a quella
cerchia di gente elegante, come se – pensa – si evidenziasse così la mia
distanza da loro.
«Festeggiate qualcuno?» chiede.
«Più o meno è sempre così,» risponde Patrizio con aria compiaciuta. «Ma
oggi c'è un motivo in più per brindare insieme. Abbiamo finito le riprese.
Le ultime scene sono state girate proprio qui.» Indica con una mano la
torre cadente rimessa a nuovo.
Notando che l'altro mantiene un'aria quasi indifferente, continua con aria
provocatoria come se volesse ad ogni costo far colpo. «Il film uscirà a
Natale, come al solito. Una commedia idiota con parecchio sesso e tante
battutacce volgari. Insomma, quello che la gente vuole.»
Thomas lo guarda attentamente con un sorriso appena accennato. Gli pare
ridicola una simile ostentazione di cattivo gusto. E' come se in quel
momento vedesse il personaggio che ha davanti, il ricco produttore,
acquistare i suoi più veri contorni. Osserva, dopo un lungo silenzio:
«Da come lo ha detto, non mi pare che lei sia molto contento...»
«Al contrario, sono felicissimo!» lo interrompe subito l'altro. «Sono tanti
bei soldini assicurati. Denaro sonante, come diciamo in Italia.»
McWine lo guarda perplesso. «Ma lei ama il cinema? Da quel che dice mi
sembra...»
Tumiana lo interrompe di nuovo con veemenza, come se volesse, davanti a
questo misterioso americano solitario, giustificare ciò che fa, ciò che lo
rende ricco.
«Lei è uno scrittore, scrive per l'arte...»
Questa volta è McWine a interromperlo ridendo. «Ma no, mi creda, non
così puro. Ho scritto anch'io per i soldi, in passato.» Con uno scherzoso
tono di ostentata rassegnazione aggiunge dopo poco: «Bisogna pure
mangiare!» Tumiana ridacchia rumorosamente, è come se vedesse in quel
momento scendere l'artista dal piedistallo su cui l'aveva innalzato e farsi
più simile a lui. Si avvicina e mettendogli una mano sulla spalla con tono
confidenziale gli dice: «Ci conosciamo ancora poco, mister McWine, ma
lei mi piace. Le faccio una piccola proposta: vuole entrare nella nostra
squadra? Avrebbe l'incarico di scrivere i soggetti, i dialoghi, le scene dei
nostri film. Abbiamo sempre bisogno di belle storie, di qualcuno che
sappia proporre qualcosa di nuovo. Se sarà bravo potrà guadagnare
parecchio.» E aggiunge con un gesto di intesa: «Mi creda, i soldi non
mancano.»
McWine non risponde, ma il sorriso ammiccante che continua a mantenere
pare a Tumiana come il segnale silenzioso della buona accoglienza della
sua proposta. Allora si lascia andare, come se volesse giustificare ancor
meglio il suo lavoro. Si abbandona ai ricordi: «Lei mi chiedeva se amo il
cinema. Anch'io da giovane ho avuto le mie velleità artistiche. Ho
frequentato la scuola nazionale di cinematografia a Roma, ho imparato il
mestiere. Mi immaginavo già autore di film straordinari, regista famoso.
Solo sogni. Ho fatto qualche film interessante, all'inizio, la critica ne ha
parlato bene. Presto, però, non ci ho più creduto. A che serve inseguire la
gloria?»
McWine ora lo sta ascoltando con interesse, un po' si riconosce in quelle
parole. “Già – pensa – la gloria. A che serve tanto impegno?”
«Ma cosa conta davvero?» chiede pur sapendo già la risposta.
«Gli incassi! Ho scelto deliberatamente di mettermi da parte, di non essere
famoso. Girare i film, litigare con gli attori, con i loro capricci, restare al
caldo e al freddo per giorni interi. E perché poi? Tutto questo lavoro lo
lascio alla manovalanza. Ho ottimi registi, operatori, tutto quello che serve.
Io mi limito a produrre. E a guadagnare.»
Fissa a lungo McWine, sicuro dell'effetto delle sue parole.
In quel momento un uomo corpulento, con una folta capigliatura bianca
imbrillantinata e gli occhi di un azzurro slavato si avvicina a loro. Senza
curarsi di Patrizio, parla in inglese rivolgendosi direttamente a McWine:
«Io la conosco. Mi sono ricordato di lei.»
Thomas lo squadra, si domanda dove mai lo ha incontrato. Resta
sorridente in attesa di un chiarimento. Riconosce nella parlata dell'altro, la
stessa cadenza di Philip. “Guarda un po' che combinazione...” nota
divertito. Il suo pensiero corre per un secondo all'amico lontano. Ormai ne
ha perse le tracce. Lettere sempre più rade, poi più nulla. Guarda il grosso
uomo che gli sta davanti con un atteggiamento cordiale. Lo punta con
l'indice di una mano e domanda: «Viene dal Tennessee?»
L'altro è sorpreso. «Accidenti, come ha fatto a indovinare?»
Un sottile sorriso increspa il volto barbuto di Thomas.
«Laggiù siete inconfondibili!»
L'altro ride, continua con la sua parlata strascicata.
«Il suo libro, lo ricordo bene. Era l'inizio degli anni '60, giusto? Tutti ne
parlavano a Nashville. Lo lessi anch'io. Mi è piaciuto, sprigionava energia,
qualcosa di nuovo.»
«Cose ormai vecchie,» commenta Thomas «è passato tanto tempo...»
L'altro fa un gesto deciso con la mano, con forza controbatte: «Ma le cose
buone rimangono.» Il sorriso sottile di Thomas si inclina malinconico.
Sono esperienze che preferisce non ricordare, non in quel momento
almeno. Parliamo d'altro, pensa.
Accenna con la testa verso Patrizio e domanda: «Lei è un amico del signor
Tumiana?»
L'altro si illumina, è una domanda che gli piace.
«Lavoro per Mister Tumiana. Scrivo qualcosa.» Osserva la reazione di
McWine, che ha inarcato leggermente le sopracciglia e sembra perplesso.
Allora precisa con modestia. «Niente di importante come i suoi libri, si
figuri. Soltanto qualche testo per i film. Non è male come guadagno...»
Si ferma, non capisce la reazione di McWine, l'inquietudine che trapela
dalla sua fissità. Thomas coglie in quel momento, riflesso nello sguardo
vacuo e soddisfatto dell'altro, il proprio possibile futuro. Non è così che
vede se stesso, è una strada che non gli piace.
L'uomo di Nashville si sfrega le mani, è imbarazzato. Lo saluta
frettolosamente, si allontana verso il cameriere che sta portando altri
bicchieri di champagne.
McWine si volta verso Tumiana, che è rimasto in piedi poco distante. Sta
parlando concitatamente con Deborah che gli è accanto. Lei gli indica
qualcosa in una cartellina, battendo decisa con un dito. La risposta
bisbigliata da Tumiana non le basta. Guarda duramente il suo principale e
con passo deciso rientra in casa.
Patrizio è visibilmente turbato come se fosse costretto improvvisamente a
fare i conti con una situazione inaspettata.
Vede McWine che lo sta osservando. Dopo un attimo di sorpresa, come se
rientrasse nella parte che aveva momentaneamente dimenticato, si
riavvicina a lui sorridendo.
«Avevamo lasciato a metà la nostra conversazione, mi scusi. Non c'è
affatto bisogno che lei decida subito. Mi faccia sapere se quello che le ho
proposto potrebbe interessarla.» Squadra McWine, poi indica l'ampio
ingresso in pietra della sua tenuta e girando intorno con la mano aggiunge
ridendo: «Siamo vicini di casa!»
Thomas sente la voce di Serse che si avvicina. Lo vede passare tra i tavoli,
Orathai lo tiene per mano, gli dice qualcosa che lo fa ridere.
Quando sono a pochi metri Serse grida eccitato. «C'è una piscina pazzesca
là dietro. Come se fossimo nell'antica Roma!»
Thomas si gira verso Tumiana. «Si è fatto tardi, è meglio che andiamo.»
Congedandosi domanda: «A proposito, dimenticavo di chiederle una cosa,
per il ragazzino. Sarebbe molto contento di poter stare ancora con il suo
bel cane. Ci terrebbe molto.»
Tumiana lo guarda con aria condiscendente e con la solita ostentazione
scandisce: «Va benissimo. Può venire quando vuole. E' sempre il
benvenuto.»
Scendono nella semioscurità del bosco. Il fiotto di luce della lampada
anticipa i loro passi sulla piccola strada.
Serse interrompe il lungo silenzio. «Ha detto che potrò rivederlo, vero?».
La domanda gli girava in testa da un poco.
«Certo, potrai andarci quando vorrai.»
Thomas sente la piccola mano di Serse che cerca la sua. La stringe.
-13 -

Il lunedì mattina una pioggerella continua e fastidiosa continuava a cadere


fitta su Benceglio. Erano le dieci quando Carlo, chiudendo il suo
ombrellino arcobaleno, fece il suo ingresso nell'ampio atrio della scuola.
Immalinconito da quel tempo grigio, ripensò alle belle giornate trascorse
in Umbria. Gli bastò ricordare il volto di Vera e ripensare ai suoi saluti
allegri al momento della partenza per ritrovare il sorriso. “Ci debbo tornare
al più presto” pensò. Come in un caleidoscopio vorticarono per qualche
istante le immagini di ciò che avrebbe potuto accadere e, come gli
accadeva spesso, si immerse per qualche istante nei suoi sogni.
Bastò il tempo di arrivare alla porta della sala insegnanti a riportarlo alle
elucubrazioni che continuavano a vorticare fastidiosamente nella sua testa
da quando si era alzato. Meditò tetramente sulle ragioni del fallimento di
quello che, solo pochi giorni prima aveva considerato come la mossa
vincente nel suo scontro quotidiano con lo sfuggente romanzo di Thomas
McWine. Ripensò a quel titolo: The Notebooks of Waste e gli venne da
ridere mestamente pensando al suo significato. Niente di più indicato per
definire il senso della sua inutile spedizione. Waste, appunto, solo rifiuti da
scartare. Questo, infatti, era quello che aveva ottenuto: poche e confuse
informazioni senza valore. Il bilancio che si stagliava in quel momento
dentro di lui era assolutamente fallimentare e metteva a nudo le illusioni
puerili con cui era partito. “Ecco che cosa ne ho ricavato – si disse – pochi
fogli di appunti che probabilmente non serviranno a niente” e lo assalì la
forte tentazione di estrarli immediatamente dalla borsa, stracciarli e gettarli
via. Come se volesse a ogni costo sfuggire a queste immagini deprimenti,
ripensò di nuovo a Vera, ma anche la sua figura gli appariva ora meno
ingenuamente luminosa. Avvertiva la grande distanza che vi era tra di loro,
come se le loro vite appartenessero a due mondi lontani. Questo pensiero
gli riportò alla mente l'indirizzo di posta elettronica del fratello che Vera
gli aveva passato al momento dei saluti. “Ma che cosa ne posso ricavare?”
si chiese con scetticismo. Era molto dubbioso sul suo utilizzo, forse anche
perché quel modo di comunicare ormai affermato nel mondo a lui era del
tutto estraneo, e gli appariva inimmaginabile contattare in modo
improvvisato un docente universitario sull'altro lato della terra inviando
una insignificante e-mail con il suo vecchio portatile; inviarla oltretutto –
pensò – a una persona che non aveva mai conosciuto o incontrato. “Per
riuscire a sapere che cosa poi da lui? Sì, figurarsi”. Tanto valeva lasciar
perdere.
Un'ora dopo, non appena suonò la campanella della ricreazione, Carlo si
fiondò verso la porta. «Scusate la fretta, i voti ve li farò sapere la
prossima volta.» biascicò trafelato quando già era vicino alla porta
volgendosi verso gli studenti ancora fermi accanto alla cattedra dopo
l'interrogazione. Abituati alla sua lenta compassatezza lo guardarono
increduli mentre quasi di corsa si dirigeva verso le scale.
Salì veloce le due rampe, sicuro di incontrarla. Effettivamente Silvia era
già appostata, forse da qualche minuto, come una sentinella a guardia della
macchinetta del caffè.
«Che cosa prendi?» gli chiese come sempre mentre infilava le monetine
nell'apparecchio.
«Il solito caffè, grazie.» rispose Carlo con la voce un po' affannata.
Silvia lo guardò interdetta. «Si direbbe che hai corso.» osservò con un
risolino.
«Volevo parlarti ed il tempo è poco...»
Come se non riuscisse a trattenersi lei domandò subito con uno sguardo
carico di attesa: «Che cosa hai trovato?»
A differenza di ciò che accadeva di solito Carlo neppure le sorrise.
Intenerita, Silvia capì subito che il viaggio era stato un buco nell'acqua.
Carlo sorseggiò a lungo il suo caffè, poi rispose con tono flemmatico e
distaccato, come se non volesse dare peso alle sue parole: «Poco o niente».
«Come poco o niente?» ripeté lei stupita.
«Esattamente questo» sottolineò Carlo seccamente e un po' stizzito. «Anzi
– notò con tono sarcastico – più niente che poco.»
Silvia lo ascoltava sorpresa. «Possibile?»
Fingendo un'improvvisa sicurezza Carlo aggiunse cupamente: «Anzi, no,
un'informazione me l'hanno passata. Una quindicina di giorni fa una
televisione americana ha scorrazzato in lungo e in largo per il borgo
girando una specie di inchiesta sulla vita del grande scrittore.»
Silvia lo squadrò con gli occhi sgranati e, quasi a volerla tranquillizzare,
Carlo commentò divertito: «Penso che abbiano trovato le stesse cose che
ho trovato io.»
Silvia stette a riflettere per un attimo iniziando a muoversi verso le scale.
«E' come se lo scrittore non fosse vissuto per tanti anni in quel piccolo
paese» osservò con aria dubbiosa.
«Appunto! E' la stessa cosa che ho pensato anch'io.» esclamò Carlo
ripensando a quelli con cui inutilmente aveva cercato di conversare in quel
paese solitario.»
«Ma tu sei sicuro che ci sia veramente stato, vero? Buttò lì Silvia tra il
serio e lo scherzoso.
«Quanto meno è quello che mi è stato detto...» rispose Carlo stando al
gioco. «Be', effettivamente io non l'ho mai potuto constatare di persona!»
sottolineò con foga, ridendo amaramente.
L'altra intanto, lo stava trascinando verso un angolo più tranquillo.
«Almeno qui possiamo sentirci.»
Come se solo in quel momento se ne fosse ricordato, Carlo si voltò verso
di lei e aggiunse in modo sbrigativo: «C'è un'altra cosa che dimenticavo di
dirti una piccola traccia che mi è stata lasciata e che forse meriterebbe
controllare: un indirizzo di mail. Me lo ha passato la giovane signora che
gestisce la pensione in cui abbiamo soggiornato.»
«Ma cosa c'entra? Attenzione, Carlo, non iniziamo a inseguire tutte le
possibili fantasie sul nostro personaggio misterioso, perché non andremmo
da nessuna parte.» L'aria spazientita di Silvia era ancora più eloquente
delle sue parole. Si vedeva bene che iniziava ad essere stufa di tutta la
faccenda. Carlò capì che doveva riaccendere urgentemente il suo interesse
se non voleva perdere quell'aiuto divenutogli indispensabile.
«E' il recapito di un suo fratello che vive addirittura in Australia, figurati.
Era molto amico di Thomas McWine, mi ha detto.»
Silvia lo ascoltava appena. Guardò l'orologio ed iniziò a muoversi verso la
propria aula. In fretta Carlo aggiunse con tono quasi rassegnato: «Tentar
non nuoce.»
«Bene, bene, è comunque meglio di niente.» commentò lei distrattamente,
come se pensasse ad altro: Nel modo in cui lo disse trapelava un'enorme
delusione. Poi, come se volesse lei stessa evitare di andarsene con una nota
così triste, aggiunse: «Io comunque ho continuato a leggere. Debbo dire
che mi piace, anche se non capisco tutto.»
«Hai ragione, Silvia, spesso è quasi incomprensibile e questa è la cosa che
mi fa più rabbia: a volte sembra un'opera geniale, ma in altri punti pare
quasi una presa in giro. Chissà...»
Silvia guardò con un sorriso la buffa faccia che Carlo aveva indossato in
quel momento sotto il peso del suo dubbio amletico e, battendogli la mano
sulla spalla, imitando l'espressione dell'altro, concluse con voce decisa:
«Forza e coraggio. Chi vivrà vedrà.» Si salutarono allegri.

Incorniciate nel telaio buio della finestra, Carlo contemplava assorto le luci
giallastre della strada, diafane come lumi sepolcrali nel mare opaco della
nebbia. La cupezza di quella serata grigia si rispecchiava nei suoi pensieri.
Rifletteva su se stesso e su quello che stava facendo, domandandosi quale
senso potesse avere E come in un contrappunto grottesco sentiva dentro di
sé la voce entusiasta di Renato a fine ottobre, piena di sicurezza, e il tono
deluso di Silvia simile a quello di un bambino senza regali sotto l'albero di
Natale. Cercò di rincuorarsi. “Non essere troppo pessimista” si disse. In
effetti, tutto era ancora possibile. “Dalle stelle alle stalle – pensò ironico –
e io forse appeso in mezzo come un bell'esempio di stupidità.”
Eppure, nonostante la propria fiducia traballante, sentiva che il lavoro
andava terminato, non doveva cedere alle tentazioni della propria abituale
indolenza. Si avvicinò deciso alla scrivania, dove, come sempre, i
Quaderni lo stavano attendendo.
Senza un motivo preciso, gli venne da notare il profilo incerto di alcune
lettere nella pagina dattiloscritta che aveva davanti, come se fosse venuto a
mancare l'inchiostro nella macchina da scrivere. Continuò ancora per un
poco ad attardarsi svogliatamente nei preparativi, sistemando e
risistemando la mazzetta dei fogli, come se cercasse in tutti i modi di
rinviare quella che era ormai diventata una lotta quasi quotidiana. Gli
venne da notare un'altra cosa a cui non aveva finora badato. Perché
scegliere proprio quei nomi dei personaggi, così particolari? “Ecco un'altra
stranezza che non so spiegarmi” pensò irritato. “Ma che importanza ha?”
Si accorse di quanto stava perdendo tempo e finalmente riprese la lettura
dal punto a cui era arrivato, annotando caparbiamente ogni possibile
alternativa di traduzione.

La voce sofferente di Sim invoca. “Verrà finalmente qualcuno a salvarci,


giungerà in nostro aiuto. Dobbiamo attendere fiduciosi.”
La voce di Sag ragiona. “Chi può salvarci? Siamo rimasti solo noi,
completamente soli. Come qualcuno ha detto, possiamo affidarci a Dio.
La voce di Sim ora è diventata una triste filastrocca che ripete la stessa
frase. “Ho fame, ho fame, voglio finire, qualcuno mi aiuti. Perché tutto
questo? Adesso?”
Sag continua, incurante. “Sempre la potenza genera scarti. Perché questa
è la sua sola legge: ciò che non è utile deve essere gettato. Questo è il
destino di ciò che giunge nel mondo. La potenza di Dio difficilmente verrà
in aiuto di noi, poveri scarti che saranno presto dimenticati da tutti.”
Non posso accettarlo. Urlo: “Ma i cieli, i mari, le montagne, i fiumi? Dio
vuole il bene di ogni cosa.”
Sag mi risponde ridendo: “No, ti sbagli, tutto esiste a maggior gloria
dell'uomo, che di tutto dispone. L'uomo è il piccolo scartatore, fatto a
immagine e somiglianza del Signore, il Grande Scartatore. L'uomo
incessantemente scarta. Vive scartando. Forse l'umanità scarterà anche se
stessa, distruggendosi prima o poi.”
Il tempo scorre. Cerco di rimanere calmo,penso alla situazione in cui mi
trovo. Ho ancora tanti ricordi di ciò che ho imparato, della lingua che sto
usando, la parlo senza difficoltà. Mi sussurro piano: “Il quadrato
costruito sull'ipotenusa è pari alla somma dei quadrati costruiti sui
cateti.” Lo so ancora, come prima. Ma dove è fuggito il mio passato? No,
nessuno può fuggire dal proprio passato, ma che cosa accade se è il
passato a volatilizzarsi, a fuggire da noi?
Anche la voce di Sag adesso è carica di sofferenza, ma continua ancora:
“Fratelli, noi ci domandiamo chi siamo, ci domandiamo che cosa è
rimasto di noi. Ma c'è un' altra domanda, la sola che conta. E non
osiamo più pronunciarla: che cosa possiamo fare? C'è una sola risposta:
nulla. Questa parola ci spaventa, la taciamo.”
La voce straziata di Sim urla: “Io non accetto tutto questo. Non accetto di
essere nulla. Fratelli, che cosa faremo allora di noi stessi se con le ultime
forze che ci restano non riusciamo neppure a cancellare quell'oscena
parola che non voglio più pronunciare?”
Sag gli risponde. “Perché non pronunciarla? E' sospesa su di noi,
guardatela, ci attende senza fretta. Nulla! Nulla! Nulla! Questa è l'ultima
parola che ci è lasciata, che sparirà dai nostri occhi solo nell'ultimo
istante. Guardatevi! Non potete neppure farla finita, decidere voi la vostra
fine. Questa è la beffa più atroce, il nulla non ha fretta”
“Non possiamo che attendere.” Sim lo ripete come una nenia che forse lo
culla.
“La morte? Solo questo possiamo attendere.” urla con uno sforzo Sag.
“Se non c'è più dentro di noi nemmeno un brandello delle nostre vite
passate e tutto è stato cancellato, ci sarà lasciata almeno la nostra
morte?” E' fioca la voce di Sim quando lo dice, ma gli altri hanno sentito.
Sag ride. “La nostra morte!” scandisce irridente. “E' mai possibile che la
morte possa appartenere a qualcuno?”
Cerco di farmi sentire anche se la mia voce è diventata debole.“Non sono
più quello che ero stato, ma so che la mia morte mi è stata lasciata, la
vedo correre ed avvicinarsi. Che cosa ne sarà di me dopo che mi avrà
raggiunto? Non lo so.”
Sento la voce di Sim carica di paura. “Perché questa lunga attesa, perché
la fine non giunge più in fretta? A che cosa serve farci soffrire?”
Subito Sag risponde. Anche la sua voce è meno sicura. E' indecisa,
rassegnata. “Questo è il nostro destino, fratelli, essere finalmente spazzati
via, ma non sappiamo quando accadrà.”
Io non mi rassegno. Cerco di ragionare ancora con loro vincendo il
torpore e la stanchezza che mi penetra nelle ossa. Ripeto ciò che Sim ha
già detto: “Forse davvero, come un baleno inaspettato, un Dio verrà
infine a salvarci e ci risolleverà.” Lo dico e mi sforzo di crederci.

Carlo rimase senza fiato come se l'angoscia che sgorgava dalla pagina che
aveva dinanzi lo avesse sopraffatto. Sentiva che quelle parole terribili
erano nate da un'esperienza autentica. Chi le aveva scritte aveva provato
ciò che diceva. “Un'esperienza alle prese col nulla – si disse – davvero la
parola più spaventosa che tutti temiamo e da cui allontaniamo lo sguardo,
fingendo che non ci sia una voragine tutto intorno a noi.”. Sentì il bisogno
di alzarsi, bere un bicchiere d'acqua dal lavabo, fare qualcosa. Una
domanda gli girava in testa: in quale situazione si trovava McWine quando
aveva scritto tutto questo?
Ritornò a sedersi, come se quei fogli lo chiamassero ancora. Interamente
catturato dalla lettura, non aveva badato alle piccole annotazioni scritte sul
bordo. Una piuttosto lunga attirò la sua attenzione. Si leggeva a fatica, ma
lentamente, con pazienza, la trascrisse.

Nelle nostre piccole teste pretendiamo di contenere il mondo, dai nostri


sei piedi di altezza ci protendiamo per raggiungere le stelle, con i nostri
minuscoli orologi da polso vogliamo misurare il tempo e presumiamo di
poter soffiare nelle trombe dell'Eternità. Serse lo ha provato attendendo
nell'oscurità.

“Waiting in the darkness”. Carlo rilesse più volte le ultime parole senza
riuscire ad afferrarne il senso, come se quei tre improbabili personaggi –
Sim, Sag e Sal – lo osservassero strafottenti con uno sguardo di sfida.
“Sembra quasi un indovinello” pensò. Rigirandosi i fogli tra le mani,
cercò di fissare nella sua mente quel nome. Lo aveva già trovato, ma dove?
Ricordò di averlo visto da qualche parte nella scatola, tra quelle decine di
fogli laceri ed impolverati. Sì, adesso ricordava. Era in quel breve abbozzo
di romanzo con un titolo che lo aveva fatto ridere: The New Olders.
Annotata in fondo alla prima pagina, c'era quella frase: “dire tutto a Serse”
con un grande “No” che quasi la cancellava. Eppure Carlo non era ancora
appagato da quanto gli aveva restituito la sua buona memoria, era sicuro di
dimenticare qualcosa di importante. Restò a lungo immobile, riflettendo.
Era solo a un passo dal capire, lo sentiva. Continuò a spulciare
mentalmente i tanti fogli che aveva letto e controllato, ma, quasi che quel
nome volesse nascondersi, non riusciva a ricordare dove lo aveva
incontrato. Poi, come accade quando imprevedibilmente si scopre che ciò
che stavamo cercando è già da un pezzo davanti ai nostri occhi, Carlo rise.
“Ma certo! Che stupido a non essermene subito accorto!”. La soluzione era
nel foglietto che gli aveva consegnato la signora della pensione pochi
giorni prima con l'indirizzo di suo fratello scritto in bella calligrafia su un
pezzetto di carta, e in alto il suo nome: Serse Funari. Gli venne in mente di
aver lasciato il biglietto nella tasca della giacca che indossava la mattina
della partenza. Si precipitò subito verso l'armadio. Per fortuna, con la sua
solita sbadataggine, non lo aveva gettato via insieme ad altre cartacce.
Eccolo: Serse Funari - Brisbane, University of Queensland. Cercò al fondo
dello scaffale il vecchio computer, lo accese in fretta. Dopo aver
pasticciato un po' con il router, riuscì a connettersi e aperse il programma
della posta. Mentre iniziava a inserire l'indirizzo, si bloccò. Gli ritornarono
alla mente quelle parole: Serse lo ha provato attendendo nell'oscurità. Il
mistero, ora, aveva un nome e cognome, ma non era stato per niente
svelato. “Mica posso chiedere a un perfetto estraneo come se fosse
un'informazione qualsiasi: scusi è lei che lo ha provato (che cosa?)
attendendo nell'oscurità?” pensò con un risolino. Non doveva rendersi
ridicolo. Con calma, iniziò a riflettere su quale potesse essere il tono giusto
per quel primo contatto. “Sì, meglio stare sulle generali e non sbottonarsi
troppo” si disse. Iniziò lentamente a scrivere, cancellando tutto diverse
volte e riprendendo da capo.

Egregio professore,
ho avuto sue notizie a Monastico. Sua sorella, la gentile signora che
gestisce la pensione Vallechiara, mi ha lasciato questo indirizzo e-mail
per contattarla. Mi scusi il disturbo, cerco di spiegarle in poche parole il
motivo della mia lettera.
Mi occupo da qualche tempo di uno scrittore americano che lei ha
personalmente conosciuto, Thomas McWine. Sto cercando di ricostruire
la sua vita e di capire chi sia stato. Per questo motivo ho soggiornato per
qualche giorno a Monastico, il paese dove ha vissuto, senza però
raggiungere grandi risultati. Ormai pochi si ricordano di lui. Sua sorella,
gentilmente, mi ha suggerito di provare a contattarla. Forse lei potrebbe
fornirmi qualche utile informazione e soprattutto consentirmi di capire
meglio la personalità di quell'uomo, davvero complessa. Sono un
insegnante di italiano nelle scuole superiori italiane e mi diletto, nel
tempo libero, di queste ricerche. La prego, se le è possibile, di aiutarmi.
I più cordiali saluti.
Carlo Centi

Soddisfatto, verso mezzanotte cliccò sul pulsante dell'invio. Guardò fuori.


La notte nebbiosa non gli appariva più così inesorabilmente cupa. “Chissà
se risponderà” si chiese con un grande sospiro, stirandosi sulla sedia. Era
sicuro di aver fatto la cosa giusta.
Faticò a prendere sonno, agitandosi nel letto, incalzato da ipotesi,
supposizioni, previsioni incerte e deludenti. Dormì male, svegliandosi
spesso. Verso le cinque non riuscì a resistere. Sbuffando si alzò e si diresse
velocemente verso la scrivania nell'altra stanza. “Vedi un po' di calmarti, è
inutile che giri e rigiri all'infinito gli stessi pensieri” si disse.
Ancora intorpidito, accese il portatile, continuando a fissare come
imbambolato lo schermo, poi con un gesto automatico cliccò sulla posta in
arrivo.
Sorpreso, notò una mail arrivata da poco. C'era il nome che stava
attendendo e notò che la risposta era partita poco dopo l invio della sua
lettera, ore 11 di Brisbane. Carico di ansia, iniziò a leggere.

Gentile signore,
sinceramente non mi aspettavo una richiesta come la sua. Sono ormai
molti anni che Thomas McWine è stato quasi completamente dimenticato.
E' bello che la sua opera venga riscoperta oggi.
Sono lieto dell'occasione che mi offre di rinsaldare i legami con la mia
terra d'origine e con un uomo che ho sempre ammirato. Resto a sua
disposizione, mi faccia sapere.
Cordialmente.
Serse Funari

Gli uscì spontaneo un urlo di giubilo. Finalmente qualcosa si muoveva.


-XIV-

E' il 3 agosto 1991, un sabato . Sono le sei e mezza di mattina, il sole si è


levato da poco e fa già molto caldo. Thomas McWine è sulla porta di casa
e guarda perplesso il mucchio accatastato disordinatamente sullo spiazzo
poco più avanti. Si domanda se è stata una buona idea acquistare così
presto la legna per l'inverno. Guarda il sole, poi il mucchio e non trattiene
una risata. Forse sono matto, pensa. E' stato Primo a spingerlo all'acquisto.
«Un prezzo così conveniente non lo trovi da nessuna parte. Meglio
sbrigarsi.» E lui l'ha fatto, senza immaginare che chi l'ha trasportata due
giorni dopo, non avrebbe anche provveduto alla sua sistemazione nella
vecchia baracca degli attrezzi.
Rassegnato si incammina lentamente verso la piccola carriola ed inizia il
lavoro. “Dovrò sbrigarmela da solo” dice tra sé e sé, “come sempre.” Ma
scaccia immediatamente questo pensiero. Non gli piace il vittimismo,
l'autocommiserazione. Preferisce, invece, considerare la sua vita come un
solido edificio costruito interamente da lui. E' un po' il suo maggiore
orgoglio confermato nei tanti anni solitari trascorsi nella sua casa tra i
boschi. Similmente alle poche nubi bianche che vede ora intorno al monte
di fronte a lui, si soffermano pigre nella sua mente queste riflessioni sul
senso della propria vita e lui le scruta con grande tranquillità, come se
appartenessero a un altro, a un giovane Thomas McWine ormai distante
anni luce da ciò che è ora.
Senza fretta si muove tra il mucchio e il piccolo capanno. Il sudore bagna
la sua schiena nuda. Si ferma, si asciuga la fronte guardandosi intorno.
Sente un rumore lontano, un auto che sta salendo dal paese. “Ne passavano
tante, qualche anno fa – ricorda – fino a quando c'è stato Patrizio su al
castelletto. Tutto è finito in fretta. Così tramonta la gloria del mondo.”
Pensa questo con un po' di nostalgia. Era piacevole incontrare quell'uomo
di mondo sicuro di sé e scambiare quattro chiacchiere insieme. “Ora i suoi
guai lo hanno rinchiuso in spazi molto più stretti.” pensa con un po' di
malizia.
Riconosce l'inconfondibile color amaranto del nuovo fuoristrada di Primo.
Ne è sorpreso, non riesce ad immaginare quale motivo possa averlo spinto
a questa visita mattiniera. Resta fermo in attesa. L'auto sale a velocità
sostenuta, quasi nascosta dalla nube di povere che la circonda. In un attimo
è sullo spiazzo.
Primo scende trafelato, si legge immediatamente sul suo volto una grande
preoccupazione. Non lascia a Thomas il tempo di fiatare. Chiede concitato:
«Hai visto Serse?»
Thomas lo squadra. Il suo corpo obeso si strizza a malapena in una maglia
troppo piccola, ha sandali vecchi ai piedi, si capisce che è uscito in fretta.
Il suo sguardo sopra i grandi baffi bianchi che lo rendono simile a un
pistolero del West, è angosciato e carico di incertezza.
«Ti vedo molto agitato. Che cosa è successo?» chiede interessato.
«Le solite discussioni con Serse. Ieri sera è uscito da casa e non è più
tornato.»
McWine ripensa a quando, tante volte, Serse si è confidato con lui. I suoi
rapporti con il padre sono sempre stati difficili. Troppo diverso il loro
carattere. Primo fatica a seguire il figlio nei suoi voli. Le sue aspettative
anche ora sono concrete, legate all'ambiente che ha intorno. Si aspetta da
Serse una scontata identificazione con le sue vedute, le stesse che erano
già di suo padre e del padre di suo padre, strette come quell'angolo di
mondo in cui il destino lo ha fatto vivere.
«E' già da un po' di tempo che non lo vedo. Se so qualcosa ti avviso
subito.»
Dietro il tono distaccato di queste parole trapela un poco di
preoccupazione. McWine non ha mai potuto garantirsi la certezza di ciò
che istintivamente sente, ma Serse per lui è sempre stato come un figlio.
Primo non sta ad ascoltare, in fretta, contrariato, riparte con uno sbrigativo
saluto.
Thomas resta fermo ancora un istante, poi lentamente riprende il suo
lavoro. Difficilmente riuscirà a completarlo, pensa. L'aria è immobile, la
giornata molto afosa.
Il sole è ormai a picco quando, alzando gli occhi, con la schiena
indolenzita che invoca riposo, lo vede in basso, al fondo del prato
ingiallito. E' uscito dal bosco e guarda il terreno come se dovesse cercare
qualcosa che ha perduto, intanto si avvicina con passo titubante alla casa.
Quando è ormai vicino alza gli occhi e per un attimo incrocia quelli di
Thomas, che ridendo gli urla in inglese: «Benvenuto! Qual buon vento ti
porta?» Serse non risponde. Sempre ad occhi bassi continua a salire. Sul
suo petto nudo si apre la vecchia camicia a grandi quadri che McWine gli
ha regalato e il solito paio di jeans sdruciti. Lo sguardo è assonnato.
“Chissà dove ha dormito”, si chiede Thomas. Serse arriva allo spiazzo di
fronte alla casa, continua sempre a tacere. Impacciato, si guarda attorno.
Ma Thomas, a braccia conserte, aspetta che sia l'altro a parlare per primo.
Gli pare di intravedere qualche lacrima sul bordo degli occhi, in effetti
quando finalmente Serse si decide a dire qualcosa la sua voce è incrinata.
«Ho litigato con mio padre.» dice con fastidio sottolineando con tono duro
l'ultima parola.
E' difficile per Thomas, in quel momento decidere l'atteggiamento da
tenere. “Posso chiedergli conto di ciò che ha fatto? Qual è davvero il mio
ruolo? Chi sono io per lui?” Thomas, come tante altre volte, fatica a
trovare una risposta. Sceglie la via più facile.
«E dove hai dormito questa notte?»
Serse accenna indietro verso il bosco. «Su al castelletto.»
«Ma è chiuso da un pezzo! Come hai fatto?» Involontariamente Thomas
ha alzato il tono della voce.
Serse fa un gesto noncurante con la mano, fissa Thomas con sguardo
provocatorio.
«So come entrarci. Non è difficile.»
Thomas sorride, ponendogli una mano sulla spalla.
«Certo lo conosci bene quel posto! Ci sei stato così tante volte. Ti ricordi
di Orathai? »
A quel nome anche Serse sorride. Chiede: «E di Fonzie, ti ricordi? Era
forte quel cane!» Si rasserena un poco, abbandona la sua aria di sfida.
«Ho dormito accanto alla piscina asciutta, ci sono ancora le vecchie sdraio.
E' tutto in rovina.»
Thomas capisce che può ora proporre la domanda più importante.
«Ma che cosa è successo ieri sera con tuo padre? »
«La solita discussione. Pretende di essere lui a stabilire il mio futuro.»
Thomas lo ascolta attento. “Sì, il nostro futuro – pensa tra sé – a chi
appartiene veramente?” Serse tace, come se attendesse una valutazione di
ciò che ha detto dalla persona con la quale tante volte si è confidato.
Ma Thomas di nuovo domanda: «E tu cosa gli hai detto?»
«Che ha già deciso troppe volte per me!» Continua con tono concitato: «
Quando ero più piccolo volevo vedere il mondo, non ho mai visto un bel
niente, chiuso in questo buco! Giusto le gite scolastiche, una volta all'anno,
te le raccomando! E anche la scuola che ho appena finito, chi l'ha scelta?
Oh lui direbbe di no, che non è vero, ma mi ha fatto il lavaggio del
cervello. “Serse Serse, pensaci bene, devi fare qualcosa di utile, che ti
consenta di lavorare.” E così addio liceo classico, che avrei tanto
preferito.» Serse si interrompe di scatto, si muove intorno inquieto.
Thomas lo ha lasciato parlare. “E' uno sfogo che gli fa bene”, pensa.
Capisce che è venuto il suo turno. Non deve avere paura, tirarsi indietro
come sempre. Deve aiutare quel ragazzo ribelle che è venuto a cercarlo,
deve trovare le parole giuste. Con calma, con un gesto della mano lo invita
a sedere.
«Serse, non devi rinunciare a scegliere.»
Serse lo guarda sorpreso a bocca aperta. Non era questo che si aspettava.
Era già pronto a parare il colpo, come una corda tesa pronta a scattare.
Quello che McWine ha appena detto lo coglie impreparato. Cerca di
mantenere la posa sicura e scontrosa che ha esibito sin dall'inizio, prende
tempo.
«Che cosa vuoi dire con questo?» chiede con tono brusco.
McWine sorride.
«E' molto semplice. Non c'è che una sola alternativa: o si sceglie o si viene
scelti...» Dà un tono scherzoso alle sue parole. «...questa è la prima scelta!
Non si scappa!» Lo guarda fisso e con tono deciso conclude: «Per questo
non devi rinunciare a scegliere.»
Serse lo sta guardando con attenzione. Si vede che queste riflessioni lo
coinvolgono profondamente.
Thomas continua. «Non bisogna però far finta.» Osserva la reazione
dell'altro. Si vede che Serse è disorientato, la sua posa polemica è ormai un
fucile scarico. Prende di nuovo tempo, assume un'aria provocatoria e
strafottente.
«Fingere che cosa? Adesso non ti capisco!»
Thomas non si scompone, procede con pazienza, non dà peso all'irritazione
dell'altro.
«Fingere di scegliere. E' la cosa più facile. E' quello che fanno tanti.»
Serse ora pare esasperato, si agita sulla poltrona di vimini. «Scusa, e quale
sarebbe questa straordinaria differenza?»
Thomas sorride di nuovo. «Facciamo finta noi, adesso, di essere più o
meno nel 1979 e tu hai sette anni. Ti voglio raccontare una favoletta. C'era
un asinello e un topolino.»
Serse ha l'aria di chiedersi dove vuole andare a parare. Lo ascolta
incuriosito.
«La storia è questa. C'è un asinello che ha fame, trova un granaio pieno
zeppo e riesce a entrarci attraverso uno stretto varco nel muro.
Ovviamente, tanto è affamato che si abbuffa senza limite di tutto quello
che riesce ad addentare.»
Thomas si interrompe un attimo. Serse lo guarda concentrato, come
quando era piccolo ed ascoltava le storie raccontate vicino al camino.
«E poi?»
«Poi succede che è ormai tardi, l'asinello ha mangiato tutto il giorno, prova
ad uscire da dove era entrato e non ci riesce. Si è ingrossato troppo. E'
allora che compare un topolino che gli dice: “Devi vomitare quello che hai
mangiato, per restringerti abbastanza da poter passare.” Ecco, questa è la
favola. L'ho letta in uno dei libri della mia biblioteca piena di sorprese. E'
un autore italiano, non ricordo il nome. Ma il messaggio è chiaro.»
«E cosa cavolo c'entra con quello che stavamo dicendo?»
«Che se vuoi essere libero c'è sempre un prezzo: devi rinunciare a
qualcosa.»
Serse appare colpito. Le parole di McWine arrivano fino al fondo del suo
cuore.
«Ogni scelta porta con sé una rinuncia. Ma proprio per questo non devi
rinunciare a scegliere. Devi assumerti però la responsabilità della tua
scelta, perciò devi essere capace, devi allenarti ad accettare la rinuncia,
devi imparare a rinunciare.» Si interrompe un attimo e rimarca le sue
ultime parole con tono deciso: «E non si torna indietro! Se vuoi essere
libero devi anche sapere che c'è sempre un prezzo da pagare, devi sempre
rinunciare a qualcosa!»
E' come se in quel momento McWine rivolgesse queste parole anche a se
stesso.
Serse nota nel suo sguardo severo come una luce che sale direttamente
dalle profondità più nascoste della sua vita. Coglie lo sforzo di autenticità
che lo anima. Ne è affascinato.
«Io non voglio rinunciare a ciò che mi appassiona. Non sarò mai un
ingegnere o un commercialista come vorrebbe mio padre! O un agronomo!
Questa è la sua ultima idea!» Sottolinea con tono acceso queste parole
«E che cosa ti appassiona?»
Lo sguardo di Serse si illumina. «La filosofia! Il pensiero umano!»
Poi aggiunge. «E girare il mondo, conoscere popoli diversi da noi.»
Guarda McWine e con una strizzatina d'occhio aggiunge ridendo: «Ma
questo lo farò da grande!» McWine ride con lui. E' contento nel vederlo
più sereno. Allora si decide a buttare con noncuranza la proposta a cui già
stava pensando: «Senti, se vuoi, fai un po' di colazione, poi possiamo
andare insieme a casa tua e parliamo con tuo padre e tua madre. Un bel
dibattito aperto! E' la cosa migliore!»
«Volentieri!» grida Serse. La gioia si accende nei suoi occhi.
«Buon giorno Professore! Ciao Serse!» Qualcuno li saluta dai campi
mentre passano, interrompendo per un attimo il lavoro. Il sole picchia
feroce e luccica nelle gocce di sudore che imperlano la fronte di quegli
uomini chini sulla terra. La giornata è molto afosa.
Serse gli cammina accanto, silenzioso, tutto preso dalle tante cose che ha
dentro. McWine con la coda dell'occhio lo osserva. Guarda le loro due
ombre ballonzolanti che si proiettano sulla strada polverosa, come se
riuscisse a riconoscere in quella che procede dinoccolata accanto alla sua
il contorno sfocato di se stesso: il giovane Thomas McWine ormai
lontanissimo nel tempo.
Ripensa agli uomini al lavoro poche centinaia di metri più sopra e alla
propria condizione privilegiata. “Vivo in pace nel luogo che ho scelto e ho
tutto ciò che mi occorre grazie ai guadagni di quel giovane che
quarant'anni fa scrisse un libro.” E' un pensiero triste, come la
consapevolezza di un tradimento. Subito lo scaccia. Si ammonisce: “Non
essere patetico con le tue fantasie egocentriche”. Butta un'altra occhiata
verso Serse che intanto ha iniziato a fischiettare.
Serse si volta, gli sorride. E' contento. Il suo sguardo è carico di
ottimistiche aspettative. La figura alta e diritta che cammina accanto a lui
lo rassicura. Anche Serse in quel momento pensa al passato, ma sono
ricordi sereni. Passano velocemente nella sua mente immagini lontane
delle tante ore trascorse insieme e ripensa con piacere alle montagne di
libri che Thomas ha offerto alla sua passione inesauribile, alle discussioni
lunghe e accese sugli scrittori preferiti. Lo ha sempre affascinato l'alone di
mistero che lo circonda, quando era più piccolo ci fantasticava sopra
inventando storie avventurose e improbabili sulla sua vita precedente: un
agente segreto costretto a vivere nascosto, un ricco banchiere andato in
rovina, un traditore inseguito dalla mafia. Ora che ha quasi diciannove
anni e si sente grande se lo domanda spesso: chi è veramente quell'uomo
che da tanti anni vive da solo al limitare dei boschi? “Ecco un'occasione
buona per chiederglielo”, pensa guardandolo ancora una volta.
«Thomas, anche tu alla mia età volevi girare il mondo?»
L'altro riflette un attimo. «Non solo questo mondo, anche tutti gli altri,
visibili ed invisibili» Guarda Serse con aria ammiccante.
«Che cosa vuoi dire?»
Ora Thomas è più serio, non è solo una battuta di spirito quello che vuole
dire.
«Niente di strano, non ti sto prendendo in giro. Dico semplicemente che,
secondo me, oltre alla terra su cui anche adesso stiamo camminando ci
sono altri luoghi ancora più vasti e inesplorati nelle teste di tutti noi. E' in
quelle terre che ho tentato di avventurarmi quando avevo più o meno la tua
età...»
«E poi?» lo interrompe Serse incuriosito.
«E poi...» Thomas ci pensa a lungo. «E poi mi sono fermato. Tutto qui.»
«Vuoi dire che ti sei fermato a Monastico?» dice Serse ridendo.
Thomas ride insieme a lui. «Certo, anche quello!»
Serse butta con noncuranza la domanda a cui stava pensando.
«Ma tu sei uno scrittore, vero?»
«Sì, ho scritto qualcosa.»
«E adesso non più?»
Thomas è pensieroso, tace a lungo. Non era questo che si aspettava
durante questa breve passeggiata insieme. Ma è una domanda giusta, lo
riconosce.
«Sto cercando di nuovo, con più convinzione che in passato. Non so cosa
ne saprò ricavare.»
«Vorrei saperlo fare anch'io.» mormora Serse.
Thomas lo guarda con un brivido lungo la schiena. Le parole che gli
escono spontanee sono anche un'altra resa dei conti con se stesso:
«Scopri la tua strada e seguila. Non fermarti mai.»
Intanto hanno raggiunto le prime case del paese. Molte delle vecchie
abitazioni sono state ristrutturate come case di vacanza, si nota la grande
cura dei dettagli, l'eleganza delle rifiniture delle facciate, i tanti fiori che le
abbelliscono. E' agosto, tanti sono in ferie. In giro c'è gente diversa dai
soliti volti ben conosciuti che si incontrano tutto l'anno.
Le ultime parole di McWine prolungano ancora la loro eco nel cuore di
Serse, gli trasmettono un nuovo senso di sicurezza. Chiede con tono
tranquillo: «Dimmi una cosa, Thomas, ma tu che pensi di dire a mio padre
e a mia madre?»
Thomas si arresta, come se solo in quel momento la domanda sin troppo
chiara e netta rendesse pienamente visibile il ruolo incerto che il destino
gli ha assegnato. “Rischio di essere ridicolo”, pensa. Ancora una volta si
affaccia nella sua mente la sfida che già tante volte lo ha messo alla prova.
“Già, chi mi dà il diritto di parlare? Posso offrire i miei consigli, ma
quanto possono valere per Primo? Meno di nulla.” Capisce in quel
momento che dovrà affidarsi interamente alla forza delle proprie parole.
«Sicuramente non farò il tuo avvocato!» dice con una strizzatina d'occhi.
«Cerchiamo di discutere un po' insieme. Probabilmente il tuo papà non è
così contrario a valutare altre scelte... certo, se tu inizi la guerra con lui e te
ne scappi...» Serse lo sta ascoltando con attenzione. Thomas si ferma e
conclude deciso: «A proposito, la prima cosa che devi fare quando
arriviamo è chiedergli scusa per la paura e il disagio che gli hai procurato.
Partiamo con il piede giusto., come si dice in Italia.»
Con aria scherzosa, Serse piega la testa, si inchina più volte, accentuando i
gesti di una totale sottomissione. Anche Thomas ride.
«Sì, signore, farò come tu mi chiedi» scandisce a voce alta.
Una luce ironica si accende nei suoi occhi.
«Scusa la domanda impertinente, ma tu perché lo stai facendo?» esclama
allargando le braccia. «Chissà che non si riduca tutto a un gran fastidio e a
una inutile arrabbiatura. Chi te lo fa fa'!» Resta fermo, il suo sguardo,
dietro quel finto tono sfottente è un invito a non nascondere la verità.
Anche Thomas si è fermato, risponde con uno sguardo affettuoso.
«Perché ti conosco praticamente da quando sei nato, perché ti voglio
bene.»
Serse appoggia una mano sulla spalla di McWine, è la prima volta che lo
fa. «Anch'io ti voglio bene» dice sorridendo. Thomas lo guarda assorto per
qualche secondo. Riparte con passo scattante verso la pensione
Vallechiara, ormai vicina.
E' quasi l'ora del pranzo, tutti nel piccolo ristorante di Primo sono
indaffarati. Anche lui sta sistemando le tovaglie sui tavoli posti sullo
spiazzo esterno. Li vede arrivare. I suoi occhi seguono fissi l'avvicinarsi di
Serse che si guarda intorno svagato cercando di dare a vedere una grande
sicurezza. Quando sono a pochi metri, distogliendo lo sguardo Primo urla
verso l'interno: «Vera, c'è il Professore, fallo accomodare!» Finge di non
aver visto il figlio che quasi gli è accanto. Vera è già sulla porta, piccola ed
esile, ha una bella camicetta a fiori e una corta gonna bianca, i capelli neri
sono lisci, con una simpatica frangetta che quasi le scende sugli occhi. Si
volta verso il fratello e gli sorride. Serse borbotta un quasi impercettibile
saluto.
McWine va verso Primo con aria cordiale e, indicando Serse, con tono
scherzoso gli dice: «Ti ho riportato il figliol prodigo. Non so se è il caso di
uccidere il vitello più grasso come nel vangelo, visto il profumo di tante
cose buone che c'è già qui intorno.»
Primo si liscia i lunghi baffi bianchi, guarda Serse con occhi accesi,
pronto allo scontro. La rabbia accumulata, non aspetta che un pretesto per
esplodere.
Serse gli si avvicina, lo abbraccia stretto e bisbiglia con qualche lacrima:
«Perdonami papà, sono stato troppo impulsivo...»
Primo è sorpreso, incerto, si vede bene che quella che sta vivendo non è la
scena che aveva immaginato nelle lunghe ore piene di ansia. Non sa cosa
fare. Borbotta rapidamente con tono brusco qualche parola di circostanza.
«Certo certo. Ma non hai pensato alla preoccupazione che hai dato a me e
a tua madre? Non ha quasi dormito questa notte. »
Proprio in quel momento Maria si affaccia sull'uscio. Ha i capelli un po'
ingrigiti che si raccolgono dietro le spalle in una piccola coda. Pare che il
tempo l'abbia soltanto sfiorata. Solo lo sguardo, sempre limpido e
innocente, ha acquisito negli anni una nuova profondità. Dalla cucina ha
riconosciuto la voce tranquilla di McWine, ha sentito quello che ha detto.
Il cuore le si è quasi fermato. Si è rasserenata pensando: “Sicuro, non
poteva che essere così.” Si è trattenuta dall'impulso di correre subito ad
abbracciarli. Ha preferito attendere un poco e lasciare al marito il ruolo
che gli spetta.
Quando esce intravvede per un attimo le braccia di Serse allacciate intorno
al corpo massiccio del padre. “Non è mai successo,” pensa “qualcosa forse
sta cambiando.” Si avvicina. Rivolgendosi a McWine lo ringrazia. «Ce lo
ha riportato sano e salvo.»
Con un gesto di diniego, Thomas ride. «Grazie, ma io ho fatto molto poco.
Non ho alcun merito.»
Lei si rivolge senza rimproveri al figlio, non gli rinfaccia la notte insonne
ma chiede: «Forse avrai fame? Vuoi mangiare qualcosa?»
«No, grazie, non ne ho bisogno.» Di nuovo sicuro di sé, indica McWine
con la mano. «Ci ha pensato Thomas a passarmi una buona colazione...»
Maria si volta verso Thomas. I suoi occhi ridenti lo ringraziano più di tante
parole.
Primo, un po' affaticato, si è seduto all'ombra. Sentendo quel che Serse sta
dicendo ha uno scatto stizzito. «Come sarebbe... una buona colazione!»
Fissa McWine, quasi a chiedergli conto di ciò che effettivamente è
accaduto.
Thomas con calma lo tranquillizza.
«Ha dormito da solo su al castelletto e questa mattina presto è comparso a
casa mia.»
Primo lo guarda spaventato. I suoi occhi si spostano sul figlio.
«Come è possibile? Ma chi credi di essere? Tutti quei libri ti hanno bevuto
il cervello?» urla arrossendo in volto.
Serse si volge verso McWine, i suoi occhi sono una richiesta di aiuto.
Maria si è avvicinata, si rivolge pacatamente al marito e nel mentre con
una mano fa segno agli altri di non intervenire. Circonda alla vita Primo,
che ancora agita la testa inquieto e gli dice a bassa voce: «Primo, non
arrabbiarti di nuovo, ragioniamo tutti insieme. In fondo non è successo
niente, non ha fatto del male a nessuno. Sentiamo anche Serse una buona
volta, con calma.»
Primo si è immediatamente tranquillizzato, come se le parole di Maria
agissero magicamente sul suo cuore. Lei lo conosce più di ogni altro.
«Va bene, allora sentiamo. Che cosa hai da dire?»
Serse è colto impreparato. Abituato a contrastare il padre, ora non sa bene
come rispondere. McWine lo incoraggia con uno sguardo.
«Vedi papà, io non voglio disubbidire. Ma cosa diresti se qualcuno
prendesse un cane da tartufi, del tipo che ci sono qua vicino, e lo mettesse
legato a una catena a far la guardia a un casale? Sarebbe un uso sbagliato
viste le cose in cui riesce meglio, giusto? E' questo che diresti, penso.
Ecco, appunto. Io sono un cane da tartufi!»
Serse muove lo sguardo dal padre agli altri, compiaciuto della similitudine
bislacca che gli è spuntata in testa, adatta a farsi capire da uno come
Primo.
Tutti ridono, anche Primo sorride. Si volta verso la moglie e con le braccia
allargate e una finta aria rassegnata dice:
«E allora cerca i tuoi tartufi! Ma devi essere bravo!»

-15-

Era il 28 novembre 2013, un giovedì. Seduto nella confortevole sala del


bar Corso, Carlo leggeva il quotidiano trovato sul tavolino ed attendeva
senza fretta il losco Vendramini. Gli era venuto spontaneo chiamarlo così
quando, durante l'intervallo, lo aveva sfiorato nel corridoio e con il suo
sorriso affabile che era ormai costante ogni volta che si incontravano,
aveva bisbigliato: «Ho assoluto bisogno di vederti. Mi trovi alla fine delle
lezioni al bar in fondo alla strada.» Quando Carlo aveva tentato di chiedere
chiarimenti, l'altro era già sparito.
Chi lo avesse visto una quindicina di giorni prima, quando predisponeva
pieno di ansia la sua spedizione in Umbria, avrebbe faticato a spiegarsi l'
aria tranquilla e rilassata che Carlo sfoggiava in quel momento
comodamente seduto al bar. Il telegrafico scambio epistolare con il
professor Funari, che insegnava non sapeva bene cosa sul lato opposto
della terra, era stato per Carlo il segnale di una svolta, anche se
concretamente ancora nulla era cambiato dalla situazione deprimente di
prima. Carlo aveva cessato, perlomeno, di concentrarsi ossessivamente
sulla traduzione che stava facendo come se fosse una questione di vita o di
morte. E soprattutto non intendeva più affrettarsi con l'acqua alla gola, che
Renato pensasse pure quello che voleva.
Riemergeva pericolosamente dentro di lui la vecchia tendenza a
prendersela comoda. Tutti i motivi d'ansia erano scacciati dalla sicurezza
inamovibile di aver avviato un buon contatto con Serse – quel nome
misterioso comparso nei Quaderni – e Carlo non aveva dubbi sul fatto che
avesse frequentato per molti anni lo scrittore americano. “Potrà fornirmi
un'immagine concreta della sua vita, di quello che faceva e di quello che
pensava, forse addirittura qualche chiarimento su ciò che sicuramente
McWine aveva scritto in quei tanti anni” si diceva. Ma – pensava anche
tranquillo – non era affatto necessario fare tutto in fretta, meglio ponderare
nel modo migliore ciò che intendeva chiedergli. E così, di rinvio in rinvio,
erano trascorsi molti giorni.
Era all'incirca l'una e trenta quando, alzando gli occhi dalle pagine
sportive, intravide dietro la vetrata la sagoma inconfondibile del collega.
Con il suo viso burbero e l'andatura disinvolta dava l'impressione di un
felino pronto al balzo, sicuro della propria forza.
Entrando nel locale Giuliano Vendramini, mentre si toglieva il pesante
loden cammellato, individuò nell'angolo in fondo Carlo che lo fissava
immobile e silenzioso. Stampandosi velocemente sul volto un ampio
sorriso si mosse verso di lui.
«Eilà, Carlo, mi hai anticipato!» esclamò come se non vedesse l'ora di
quell'incontro.
«Ciao, Giuliano. Sono qui da non molto.» Anche Carlo metteva in mostra
un amichevole sorriso.
«Benissimo! Hai già ordinato?» Senza attendere risposta, Vendramini si
volse deciso verso il cameriere che stava passando lungo il corridoio.
Ostentando una amabile familiarità, richiamò la sua attenzione.
«Sergio, per favore, ci porti due aperitivi? Carlo tu cosa prendi?»
«Un'acqua tonica, grazie.»
«Per me il solito, con qualche stuzzichino insieme.» Vendramini si volse
con sguardo ammiccante verso Carlo e con tono confidenziale bisbigliò:
«Caro Carlo, forse avrei dovuto chiedere due coppe di champagne. Oggi si
festeggia!»
Carlo intuì subito il gioco che l'altro stava avviando, ma finse un'aria
stupita. «Per che cosa, Giuliano? Forse è il tuo compleanno?»
Vendramini lo fissò con sguardo divertito, come se l'osservazione di Carlo
fosse solo una battuta scherzosa, si protese verso di lui e buttò lì con voce
sicura quasi a voler sottolineare l'ovvietà di ciò che stava per dire: «Si
stanno preparando cose importanti per te!» Tacque qualche istante, come
attendendo la reazione entusiastica dell'altro, ma, vedendo la sua
espressione aggrottata ed incerta rise di nuovo.
«Carlo, so tutto! Basta mettersi d'accordo!» commentò con un gesto
noncurante della mano, come se non ci fosse nemmeno bisogno di
nominare esplicitamente a che cosa si riferissero le sue parole.
«Sì, lo scrittore americano morto in Italia e quello che ha fatto – proseguì
con tono ispirato, come se fosse davvero preso dal suo discorso – e il suo
unico libro, molto bello. Sono riuscito a procurarmelo, se vuoi te lo
impresto.» Carlo continuava a fissarlo e intanto pensava a se stesso e a
Silvia. Dilettanti allo sbaraglio! Gli venne quasi da ridere. E come invece
pareva sicuro di sé il collega Vendramini che continuava a parlare, tutto
preso dal suo discorso, con i suoi cappelli impomatati e una smorfia di
compiacimento che gli deformava comicamente le guance,.
«La grande tradizione narrativa americana! Steinbeck, Hemingway, Dos
Passos, ma anche autori più recenti. Thomas McWine non sfigura davvero
in mezzo a loro.» Bastò quel nome a confermare a Carlo che
effettivamente Vendramini conosceva bene quello che lui stava facendo.
Vendramini si chinò ancor più verso di lui come se volesse confidargli un
segreto: «E pensa un po' a quello che sta accadendo da qualche mese in
America! Scherzi! Il tuo autore è di nuovo al centro dell'attenzione. Sai
che bomba quando pubblicheremo a sorpresa il suo ultimo libro!»
«Pubblicheremo?» Carlo era veramente sorpreso.
Giuliano gli strizzò l'occhio. «Ma si, dai, quello che tu adesso hai per le
mani...» Poi, fingendo di correggersi aggiunse subito: «Ma no, hai ragione,
non pubblicheremo un bel niente. Che cosa potremmo fare con le nostre
stampantine.» Rise, compiaciuto della propria battuta. «Saranno altri a
farlo, nomi grossi in America. Io ho i contatti giusti. E' stato facile. E'
bastato attivare i miei amici a Milano e loro, con gli amici degli amici...
non sto ad annoiarti, gli editori americani hanno subito drizzato le antenne.
Basta un tuo sì e la cosa parte.»
L'aria manageriale e disinvolta di Vendramini lo illuminava di una luce
nuova, quella di un successo mondiale. Erano quasi visibili ad occhio nudo
le idee che freneticamente si agitavano nella sua testa. Forse era stata una
astuta scelta tattica quella di parlare a Carlo dando tutto per scontato, ma
almeno in quel momento una sottile forza seduttiva si stava insinuando
dentro di lui.
Carlo taceva, come schiacciato dall'enormità della proposta che l'altro gli
stava facendo. Non era preparato a ricevere un' offerta diretta di simili
dimensioni. Una parte di lui continuava a chiedersi: sarà vero? Ma un'altra
sempre più agguerrita cominciava ad essere attratta dalla concretezza di
quella possibilità. “Basta un tuo sì”, gli aveva detto. Era così. E che cosa
gli impediva di pronunciarlo?
Come a voler vincere questa tentazione buttò lì con aria sgomenta: «Ma
Renato?»
Di fronte allo sguardo interrogativo di Vendramini aggiunse subito: «Il
mio amico editore. Il progetto è suo. Io sto lavorando per lui.»
Con un sorrisino sarcastico Vendramini lo bloccò subito. «Ma che importa,
non conta niente! Che cosa potrebbe pretendere da te? Quello che tu hai
“prelevato”?» Accompagnò queste ultime parole con una risata ancora più
forte. Continuava a squadrarlo con lo sguardo sicuro di chi si sente vicino
alla meta, aspettando senza fretta un cenno di consenso.
Come se parlasse soltanto a se stesso Carlo bisbigliò pianissimo: «Credo
che non lo farò. Non è giusto.»
«Che cosa?» In pochi istanti l'aria sicura si era liquefatta e Vendramini lo
fissava sbigottito. Carlo rimaneva in silenzio con lo sguardo abbassato
sulle proprie mani che tremavano un poco.
«No, Carlo, dimmi che non ho capito. Sarebbero un mucchio di soldi.
Novemila euro sull'unghia, subito, e poi chissà...»
«No, potrebbero anche esserci soldi a palate, ma non farò mai una cosa del
genere. L'amicizia è più importante.» Carlo intanto si era alzato, dando ad
intendere che non c'era altro da aggiungere. L'altro rimaneva seduto, con
un debole sorriso simile ad una traccia semi-cancellata nella neve.
«Dai Carlo, pensaci ancora, non essere precipitoso.»
«No.»
Carlo, senza neppure salutare, raccolse da terra la sua borsa e si avviò
verso l'uscita. Sentì ancora alle proprie spalle, come un sibilo, la voce roca
del collega: «State giocando col fuoco. Attenti.» Gli occhi di Vendramini
continuarono a seguirlo attraverso la vetrata, fino a quando con passo lento
scomparve.

Non era molto tardi, ma il viale alberato che affiancava il piccolo fiume
lungo l'intero tratto cittadino in quel momento era quasi deserto. Una
nebbia leggera sfocava i contorni e immergeva ogni cosa in un'oscurità
precoce. Carlo camminava da solo e rifletteva a testa bassa, con le mani
intrecciate dietro la schiena, immerso anche lui nella luce incerta dei suoi
pensieri.
Non sapeva che fare. Da circa un'ora continuava a ripercorrere lo stesso
tratto, avanti e indietro, quasi senza accorgersi di dove andava. La sua testa
era altrove. Ripensava alla proposta di Vendramini e al modo deciso,
addirittura ammirevole, con cui l'aveva rifiutata. Ora non era più così
sicuro. Era stata una reazione spontanea – pensava adesso – effetto
probabilmente della costante antipatia che provava per quell'uomo.
Percepiva ora perfettamente il modo istintivo, quasi automatico, con cui
era scattata la sua risposta. In realtà – ammetteva con se stesso – non
aveva dedicato la minima attenzione a ciò che Vendramini gli stava
proponendo, non aveva riflettuto abbastanza. Si rimproverava: “Non
bisognerebbe mai scegliere senza pensare. Su questo ho sicuramente
sbagliato.” C'era in quel momento come un grosso peso sulle sue spalle
che lo bloccava e gli rendeva faticoso il tentativo di tornare a casa e
trascorrere una serata tranquilla in compagnia di se stesso, era la
consapevolezza che niente gli impediva di ritornare sui suoi passi ed
accettare l'offerta tentatrice che l'altro gli aveva fatto balenare davanti. La
leggerezza della scelta. “E Renato? Che mi importa, non lo saprà mai.” E
quasi a volersi assolvere in anticipo riportava alla mente le occasioni in cui
Renato, cioè il suo datore di lavoro, era stato duro e insensibile nei suoi
confronti. Ripensava a come lo aveva praticamente costretto a partire
immediatamente per l'Umbria, senza curarsi di ciò che lui avrebbe voluto
fare. “Ma uno così è veramente un amico?” si domandava astioso.
Il giro inconcludente di questi pensieri, come una giostra impazzita, si era
ormai ripetuto molte volte quando la vibrazione e il trillo acuto nella tasca
sinistra del giubbotto lo colsero impreparato. Non ricordava di averlo con
sé. Pasticciando un poco sulla cerniera la mano inguantata raggiunse
l'apparecchio. Guardò velocemente lo schermo. Per fortuna era Silvia. Una
telefonata provvidenziale. Benedisse la possibilità di sentire
insperabilmente una voce amica che forse avrebbe saputo aiutarlo.
Non le lasciò quasi il tempo di parlare.
«Ciao Silvia. Che fortuna sentirti. Ti avrei chiamato io. Pensa un po', oggi
pomeriggio ho incontrato Giuliano Vendramini, il nostro caro collega, per
un piccolo rendez-vous al bar vicino alla scuola...»
«A sì? E allora?» Il tono piatto dell'amica gli fece capire subito il suo
scarso interesse per ciò che stava per raccontarle.
«Mi ha fatto una proposta pazzesca. Novemila euro subito per lo scritto su
cui sto lavorando. Forse, poi, tanti di più, si vedrà. Potrebbero essere
parecchi soldi...»
«No, scusa, e da dove li prenderebbe?» commentò Silvia con tono
sarcastico.
«Gli americani...»
Silvia lo bloccò subito. «Gli americani? E perché non i marziani? Figurati!
Ti sei dimenticato di chi sia Giuliano? Un conta-balle che millanta le sue
conoscenze importantissime a destra e a manca. Potrebbe dirti che lui è
andato sulla luna e tu ci crederesti.» Carlo lo sapeva benissimo, erano tutte
cose che avevano ripetuto tra loro altre mille volte.
«Ma questa volta potrebbe essere diverso» provò ad osservare titubante.
«Contento tu...» Silvia liquidò quest'ipotesi con una risatina carica di
scetticismo.
«Ma io gli ho detto di no.»
«Bravo, hai fatto la cosa giusta.»
«Però proprio un attimo fa ci stavo ripensando. Forse mi hai letto nel
pensiero e mi hai chiamato...»
Come se non reggesse più la pantomima in cui l'amico la stava
trascinando, Silvia urlò con la voce incrinata dal fastidio: «No, Carlo, non
sognare. Tu vuoi semplicemente che io ti dica che tutto è a posto, che
l'accordo con quel verme di Vendramini sarebbe una gran cosa! Ma con
chi sto parlando? Non ti riconosco più! Sei ancora il vecchio Carlo Centi
un po' imbranato ma con un cuore d'oro o sto parlando con un nuovo
modello aggiornato imbottito di presunzione ed avidità?»
Come una fredda secchiata d'acqua la durezza di queste parole lo risvegliò
dai suoi sogni. Provò vergogna per quello che poco prima aveva pensato
possibile.
«Scusa, ho detto una cazzata.» Il tono mesto della voce sconfortata di
Carlo bastò a tranquillizzarla.
«Ma no, scusa tu, ho esagerato un pochino.» disse lei con dolcezza. Ci fu
un attimo di silenzio, come se tutti e due stessero riflettendo su ciò che era
appena successo.
Silvia parlò per prima con la lentezza che le era tipica quando voleva farsi
ben capire e non ne era sicura. «Lasciamo perdere. E' tutt'altro il motivo
per cui ti ho chiamato. C'è un problema. Spero che sia stata solo una tua
svista nel fotocopiarmi il dattiloscritto, ma ne dubito. Manca una pagina...»
«Una pagina?» Carlo restò di sasso.
Era sicuro anche lui che non poteva trattarsi di un suo errore. La pagina
sicuramente mancava davvero.
«Sì, una pagina verso la fine, mi pare la novantaquattro, se ricordo bene.
Tu hai già letto tutto, immagino. Come hai fatto a non accorgertene?»
Carlo prese tempo, ma la sua voce carica di imbarazzo rendeva
perfettamente chiara la situazione.
«Veramente non ci sono ancora arrivato. Sto traducendo un po'
lentamente.»
«Veramente te la stai prendendo comoda!» sottolineò lei in modo spiccio.
Come a voler dirottare il discorso Carlo cercò di dimostrarsi preparato ad
ogni evenienza e con tono sicuro la rassicurò.
«Ora sono per la strada, ma appena rientro controllerò subito l'originale.»
Ostentò la propria competenza. «Comunque non c'è problema.
Eventualmente metteremo una bella nota a fondo pagina spiegando le
ragioni di questa mancanza. Lo fanno spesso nelle edizioni critiche.»
«Sì, bravo, e quali sarebbero queste ragioni?» chiese Silvia con sincero
interesse.
«Ora non ne ho proprio idea, ma qualcosa troveremo.»
«Siamo a posto.» commentò lei. «E adesso?»
Carlo sentì distintamente il lungo sospiro dell'altra ed il colpo secco che
aveva battuto sul tavolo che le stava davanti. Immaginò che Silvia
rimpiangesse il momento in cui si era lasciata trascinare in un'impresa così
demenziale.
«No, Carlo, non è così semplice, si tratta probabilmente di un punto
essenziale per capire il senso di ciò che sta accadendo ai tre personaggi. Ti
leggo alcune righe che vengono subito prima. Te le leggo direttamente in
inglese. Carlo ascoltò con grande attenzione la voce lenta di Silvia
cercando di afferrare immediatamente il senso di quelle poche frasi che
come una lunga ombra potevano forse suggerire il senso di ciò che
mancava.

«Non so più rispondere, dico parole inconsistenti che galleggiano sempre


più sole nella mia testa. Padre: questa parola mi angoscia atrocemente.
So chi è un padre, so che cosa significa. Ma ora io sono un figlio senza
padre. Non ricordo nulla di chi mi ha messo al mondo. E sono anche io un
padre? Chi sono i miei figli? Sento che è così. Sono padre, forse. Questa è
l'angoscia più atroce che mi divora. Ne ho avuti, forse? Non so, non so
più nulla. Morirò così, orfano del mio padre e forse padre io stesso senza
più figli. Chissà forse alla fine verrà...»
«E qui si interrompe. L'argomento si intuisce, ha a che fare con la famiglia,
con i ricordi perduti dei propri cari, qualcosa del genere. Ma la pagina
dopo non c'è. Capisci perché è un passaggio decisivo?»
Carlo non sapeva che dire.
«Chissà, forse...» buttò lì poco convinto.
«Forse cosa? Carlo, sveglia! Senza quella pagina non possiamo fare niente.
Solo tempo buttato.»
Gli venne spontanea una proposta a cui in realtà fino a quel momento non
aveva pensato.
«Ma no, Silvia, volevo dire appunto... forse quell'amico di McWine che
ora sta in Australia, Serse Funari, potrebbe dirci qualcosa. Proviamo.»
«Tu credi?» Anche Silvia aveva perso la sua abituale sicurezza e pareva
ormai poco convinta circa il buon esito della loro impresa.
«Ma tu gli hai scritto?» chiese.
«Ancora no» ammise Carlo imbarazzato.
«Ma che cosa aspetti? Vedi di darti una mossa una volta tanto!» Il tono
stizzito con cui lo liquidò fece capire a Carlo che era davvero arrabbiata
con lui.
«Certo, certo, ci vediamo a scuola. Ciao.»
Silvia staccò la comunicazione senza aggiungere altro. Carlo si guardò
attorno mortificato. Per la millesima volta ripeté a se stesso che doveva
cambiare.

Nel lungo tratto di strada verso casa Carlo aveva continuato a pensare a
Renato. La sua mano infilata nella tasca del giubbotto stringeva
freneticamente il cellulare silenzioso ed a ogni passo si ripeteva nella sua
mente lo stesso proposito: “Adesso lo chiamo.” Non ne capiva bene la
ragione, ma la scomparsa di quella pagina dei Quaderni lo inquietava come
una prima crepa nel muro, un segnale del crollo imminente.
Entrando in casa, ancora sulla porta gettò un'occhiata ansiosa verso la
scrivania che si intravedeva nella stanza accanto. Ben ordinate sul ripiano
le pagine ingiallite del dattiloscritto lo stavano attendendo tranquille come
sempre. Senza togliersi la giacca pesante si sedette e iniziò a sfogliarle.
Voleva sincerarsi subito della mancanza, con l'ultima flebile speranza che
Silvia si fosse sbagliata. La piccola cifra in fondo a sinistra della pagina 93
lo fissò irridente. La pagina 94 non c'era. Sfogliò velocemente i fogli quasi
con rabbia, ormai sicuro che non l'avrebbe trovata, poi con sguardo inerte
ritornò lentamente alla pagina successiva.
Apparentemente mancava qualunque nesso con la parte finale di quella
precedente. Purtroppo Silvia aveva visto giusto, dovette ammettere con se
stesso, la pagina mancante era probabilmente fondamentale per il senso
complessivo.
Continuava a fissare le parole con cui iniziava la pagina 95:
“ ... a salvarmi. E tutto sarà così finalmente deciso. Tutti i figli
ritroveranno i loro padri e tutti i padri ritroveranno i loro figli e resteranno
uniti per sempre.”
Cosa significavano quelle parole? Impossibile dirlo. Quasi casualmente lo
sguardo si spostò sul retro della pagina precedente. C'era una piccola
annotazione a matita nella grafia minuta di Thomas McWine che l'affanno
ansioso con cui si era fiondato a controllare tutto il testo non gli aveva
fatto notare. “Già – pensò – il retro bianco del foglio precedente! Ecco
perché Silvia non ha potuto vederla!”
Si rincuorò un poco ed iniziò a decifrare con fatica i caratteri incerti
sbiaditi dal tempo.
“From here try to start a new story that will complete the one I wrote for
him. Tell Xerses”
Dillo a Serse. Ecco che come un'ombra ricorrente ricompariva di nuovo
quel nome. Se ne ricordò subito. Erano le stesse parole del biglietto
stracciato che aveva trovato nella scatola. Ma ora – pensò con gioia –
sapeva finalmente ciò che McWine aveva intenzione di dire. Fissò
compiaciuto il breve testo accanto alla pagina mancante. Già, quella
pagina. L'incertezza allargò di nuovo un'ampia via dentro di lui. Un dubbio
attraversò rapidamente la sua testa.
“Chissà, forse l'ha staccata lui stesso? Ma per fare che cosa? Ecco un altro
mistero.” rifletté sconsolato.
Il vecchio dattiloscritto che aveva davanti continuava a farsi beffe di lui.
Decise in un attimo di scrivere subito. In fondo, che cosa aveva chiesto a
Serse Funari, professore in Australia? Praticamente nulla. Bisognava darsi
una mossa, come aveva gridato Silvia. Inutile aspettare, accese il computer
e iniziò con fatica a scrivere una nuova mail.

Egregio Professore,
forse ricorda che qualche giorno fa l'ho contattata riguardo allo scrittore
americano Thomas McWine. Mi scusi se continuo a disturbarla, ma il suo
aiuto sarebbe per me molto importante. Come lei sa bene, McWine
pubblicò in vita un solo romanzo. Francamente io non ne avevo mai
sentito parlare. Un lavoro su alcune sue carte recuperate fortunosamente
mi è stato proposto da un editore mio amico, ma sto incontrando grosse
difficoltà. Mi permetto allora di indicarle alcune questioni su cui lei,
avendolo direttamente conosciuto, potrebbe sicuramente aiutarmi:
Che lei sappia, Thomas McWine ha ancora scritto negli anni in cui è
rimasto in Umbria? Abbastanza spesso o solo occasionalmente? Come
concepiva il lavoro dello scrittore?
Che cosa si pensava di lui in paese? Era in buoni rapporti con tutti?
Perché, secondo lei, non ha più pubblicato? Ne parlava?
Mi sono permesso di formulare le mie domande in una forma così
schematica per rendere più chiaro ciò che sto cercando di comprendere.
La sua è una personalità affascinante e, secondo me, qualunque
contributo possa ancora emergere per la sua migliore conoscenza è
assolutamente meritevole di attenzione. Forse anche lei ha saputo del
grande interesse che si è da poco riacceso negli Stati Uniti intorno alla
sua figura misteriosa.
Le ripeto, il suo aiuto potrebbe essermi prezioso.. Confido nella sua
pazienza e disponibilità.
La ringrazio molto.
Carlo Centi

A metà mattinata, il giorno dopo, nella sala insegnanti della sua scuola,
Carlo attendeva nell'ora di ricevimento i genitori dei propri alunni.
I due computer a disposizione di tutti gli insegnanti posti su un piccolo
ripiano accanto al tavolo centrale erano ad un passo da lui. Sorridendo alla
madre sorridente che stava entrando intimidita in quel momento, aprì
velocemente la propria posta. Notò subito il nome che aspettava. Per
fortuna il professor Serse Funari gli aveva di nuovo risposto. Invitò con un
gesto cordiale la signora bionda che si era fermata davanti a lui a sedersi.
Innanzitutto il lavoro – si disse – la mail poteva attendere senza fretta.
Lesse tutto con calma quella sera dopo una buona cena.

Gentile signor Centi,


forse la deludo, ma posso garantirle che intorno alla figura di Thomas
McWine non c'è mai stato alcun reale mistero, ma solo tante leggende che
si sono alimentate da sole, e cioè ogni illazione propagata
inesauribilmente da giornalisti e critici letterari (o sedicenti tali) è pura
fantasia.
Io l'ho conosciuto bene. Abbiamo trascorso insieme intere giornate fin da
quando ero bambino. E' stato lui ad aprire la mia mente al pensiero, alla
cultura, all'arte. Era un uomo dolce e comprensivo, profondo nelle sue
riflessioni e nei suoi discorsi. Purtroppo aveva un difetto mortale
nell'ambiente che dopo il grande successo del suo romanzo era stato
costretto a frequentare: amava più di ogni altra cosa l'autenticità. E' per
sfuggire ad una vita fasulla che se ne è andato improvvisamente
dall'America. E forse nel piccolo paese da cui provengo, dove lui ha
vissuto per più di trent'anni, almeno un poco dell'autenticità che cercava è
riuscito a trovarla.
Avrei tanto altro da raccontarle, da scriversi un libro molto spesso, ma in
questo momento sono letteralmente sommerso dagli impegni per gli esami
di fine sessione. Tra non molto, per fortuna, inizieranno le vacanze estive
e sarò molto più libero e riposato. Mi contatti di nuovo verso l'inizio di
gennaio. Sarò felice di ricordare con affetto il mio grande amico e di
difenderne la memoria.
Cordialmente.
Serse Funari

Carlo, interdetto, rilesse più volte la mail. C'era qualcosa che non lo
convinceva, come una strana reticenza. Perché non aveva risposto almeno
in parte alle domande che gli aveva fatto? Scacciò con fastidio questi
pensieri. Non faceva fatica ad immaginare il carico di lavoro alla fine
dell'anno accademico. “Come da noi a giugno, la fatica si accumula” notò
saggiamente. Riprese tranquillo la quotidiana correzione di pile di compiti.

-XVI-

E' il 30 novembre 1995, un giovedì. Il vento di tramontana muove poche


nuvole bianche in un cielo terso. E' quasi mezzogiorno quando Maria
arranca sul tratto finale della salita asfaltata da poco. Pigia sui pedali con
impegno come in una sfida contro gli anni che passano, la borsa appesa al
manubrio appesantisce i suoi movimenti, si ferma, percorre gli ultimi metri
a piedi.
Apre la porta e subito sente i colpi violenti della tosse. Lo trova che
cammina ansioso nella piccola cucina, stringendo le braccia al petto,
scosso dai brividi.
Maria lo guarda con dolcezza. «Dovresti essere a letto,» gli sussurra.
«Non ce la faccio per niente!» Con un gesto di insofferenza Thomas
continua a camminare intorno alla tavola ancora apparecchiata dal giorno
precedente, alza gli occhi scintillanti.
«Bella sfortuna! Proprio oggi – this fucking fever!»
Il suo volto smagrito è segnato dalla rabbia.
Maria gli si avvicina, cerca di consolarlo. «Dai, verrà lui a salutarti più
tardi.»
Queste parole bastano a calmarlo. Un lieve sorriso si fa strada nei suoi
lineamenti induriti, pensa a Serse e a quanto ha saputo realizzare. Il sorriso
si allarga ancor più quando ricorda quell'espressione: “il nostro cane da
tartufi” usata scherzosamente da Primo, tutto compiaciuto.
In serata ci saranno i festeggiamenti per la laurea di Serse. «A pieni voti!»
ha scandito Primo con evidente piacere quando si è recato apposta da
McWine per comunicarglielo.
Serse si è laureato pochi giorni prima. Ma Torino, dove lui ha trascorso
quattro intensi anni alternando lo studio e il lavoro, per Primo e Maria era
troppo lontana. Al padre che titubante gli aveva telefonato dicendo “Non
so se ce la facciamo ad esserci alla tua laurea, gli impegni a Villachiara
sono tanti...” Serse aveva risposto ridendo: “Non ha importanza,
festeggeremo insieme a Monastico quando tornerò presto.” Aggiungendo
poi, con una voce grintosa e divertita: “E non mi spiace per niente l'idea di
vedermela da solo contro tutti! Da solo nella fossa dei leoni!”
McWine pensa ora a quei momenti, vissuti da Serse quasi in apnea, che
non dimenticherà mai. Si consola al pensiero che presto potrà parlarne con
lui. Serse gli racconterà tutto con grande precisione, come gli è sempre
piaciuto fare.
Il pensiero di non poter essere presente al ristorantino di Primo, insieme
con tanti altri del paese, ritorna con forza a contrariarlo. Anche Primo ne
sarà dispiaciuto. Ricorda quando lo aveva fermato per la strada e con una
vigorosa pacca sulle spalle lo aveva invitato: «Professore, mi raccomando,
non puoi mancare. Questo risultato è anche merito tuo. Quanto tempo gli
hai dedicato! Ti ringrazio.»
Maria ripulisce la tavola in silenzio, recupera nel ripostiglio la scopa e dà
una spazzata tutto intorno. McWine la segue con gli occhi. E' come se
questa immagine si sovrapponesse spontaneamente alle cose che ha
appena pensato: questa donna semplice che si muove tranquilla nella
stanza, vissuta sempre nel piccolo borgo isolato, e suo figlio laureato in
filosofia a Torino. “Chissà a cosa sta pensando?” si chiede. La guarda con
affetto.
«Maria, sarai contenta per quello che Serse è riuscito a fare?» Un nuovo
attacco di tosse lo piega.
Lei si volta, interdetta, lo fissa a lungo come se volesse leggere sul suo
viso il senso della domanda. Coglie nei suoi occhi i segni di un profondo
coinvolgimento. Anche in lei, in quel momento, l'immagine del figlio si
sovrappone semplicemente a quella dell'uomo che le è vicino, che tanto gli
somiglia, che è stato per lui come un padre. “Come è strana la vita.” pensa
illuminando il suo sguardo di tenerezza.
«Spero che il Signore lo aiuti e che possa trovare la sua strada. E' un bravo
ragazzo e si è impegnato tanto.» Riflette per qualche istante, sfiora il
braccio di Thomas. «E' anche grazie a te che ci è riuscito.»
Thomas fa un segno noncurante con la mano e borbotta sbrigativamente:
«Sarebbe stato un gran peccato non dargli l'opportunità di realizzare i suoi
sogni.»
Non gli sono mai piaciute le scene cariche di pathos, le pose troppo
teatrali. Quasi a voler alleggerire la commozione che è nell'aria osserva
divertito: «Ti ricordi, Maria, il primo Natale che è tornato da Torino?
L'entusiasmo che aveva galleggiava su un mare di incertezza. “Ma saprò
farcela?” mi aveva chiesto appena ci eravamo visti, come se non si fidasse
molto di se stesso.»
Maria ride. Ricorda molto bene quei momenti, gli scatti nervosi di Serse,
la sua insofferenza per il piccolo mondo sempre uguale sospeso tra i
boschi.
Thomas è felice di vederla ridere, si rispecchia in quell'allegria che
ringiovanisce il suo bel volto. Cerca con le sue parole di mantenere viva la
gioia di quell'istante condiviso, di conservarla il più a lungo possibile.
Impetuoso aggiunge: « E ti ricordi quando era più piccolo, i discorsi che
già allora faceva. Veniva a trovarmi quasi ogni giorno. Le nostre
chiacchierate erano interminabili, mi parlava dei suoi progetti, delle idee
che aveva avuto, dei viaggi che avrebbe fatto. Questa era già allora la cosa
che più desiderava: voleva vedere il mondo, “oltre quell'orizzonte” mi
diceva indicando la linea delle colline lontane.«»
Maria lo interrompe e a voce bassa rimarca: «E tu sei rimasto qui con lui.»
Una luce di gratitudine illumina il suo sguardo. Poi per un attimo si fa
pensierosa e quasi bisbigliando chiede: «Ma perché lo hai fatto?»
Thomas si siede, prende tempo qualche secondo e poi, guardando
allegramente verso l'alto, con aria disinvolta spiega:
«Tanti anni fa una domanda molto simile me la fece Serse. E, se ricordo
bene, io, colto un po' di sorpresa, gli diedi la risposta più semplice: “perché
ti voglio bene.”» Si ferma e la guarda. «Ecco, è la stessa risposta che posso
dare anche a sua madre, adesso: è perché vi voglio bene.» Cammina un
poco nella stanza e poi, con un veloce cenno della mano, conclude quasi
tra sé: «E non ho bisogno d'altro.»
I segni della stanchezza si fanno di nuovo ben visibili sul suo volto,
rabbrividisce a lungo. Rassegnato, osserva: «Hai ragione, devo mettermi a
letto.»
«Ti preparo qualcosa di caldo» dice Maria aggiustandogli la coperta sulle
spalle.
A testa bassa Thomas va verso la porta. Si ferma, come se un pensiero
improvviso lo riportasse a quanto è stato detto. Le stringe le mani e
guardandola con un sorriso le chiede: «Ma che cosa conta davvero?»
Tranquillo si incammina nell'altra stanza. Maria sente ancora la sua voce
affaticata, che le si rivolge da lontano: «A volte mi chiedo – dice
lentamente – che cosa sarebbe stata la mia vita se al mio arrivo non ti
avessi incontrata.»
Il cuore di Maria sobbalza, resta in ascolto, attende una conclusione che
non arriva. Thomas tace, sicuro di aver detto ormai tutto ciò che importa
davvero.

Dalla finestra della stanza da letto filtra ormai bassa una lama di luce, le
ombre si addensano intorno al piccolo letto accostato alla parete di fronte.
McWine è ancora disteso, con gli occhi fissi in alto, la febbre gli annebbia
i riflessi. Avverte come un cerchio pesante stretto intorno alla fronte. Si
libera con fastidio della pesante coperta, come se volesse in questo modo
lacerare il velo confuso che ancora si addensa nella sua mente, si guarda
intorno spaesato. Sente un rumore di passi nella stanza accanto, il
gorgoglio inconfondibile della caffettiera sul fuoco. C'è nell'aria un
piacevole profumo che accende il suo desiderio. McWine sorride, pensa
con affetto a chi in quel momento sta preparandogli un buon caffè. “Niente
di meglio – pensa – per rimettersi in forma.”
«Maria?»
Dalla stanza vicina gli risponde una grossa risata. «Fuochino, fuocherello.
Hai quasi azzeccato...»
E' l'inconfondibile voce spavalda e divertita di Serse.
McWine è colto di sorpresa. Nel suo sonno agitato non aveva sentito nulla.
«E' da molto che sei arrivato? Scusami tanto, davvero una bella
accoglienza ti ho fatto!»
Serse è già sulla porta. Lo guarda sempre ridendo e lo rassicura. «Non c'è
problema. La mamma me lo ha detto che sei un tantino acciaccato.»
E avvicinandosi al letto esclama con una strizzatina d'occhio: «Anche
l'indomito Thomas McWine qualche volta è costretto ad abbassare la
cresta!»
Thomas è felice di averlo accanto. Afferra la mano che l'altro gli offre e la
stringe calorosamente. «Sono felice di averti un poco qui con me!»
«Al diavolo i sentimentalismi, come mi ripetevi spesso quando ero
piccolo!»
Serse dice queste parole con noncuranza, quasi a voler nascondere la forte
emozione che sta provando, ben visibile sul suo viso.
Alla sua figura alta e sottile si è aggiunto un aspetto sano e vigoroso, frutto
degli impegni sportivi a cui si dedica con grande passione. Veste con la
consueta casualità una camicia a fiori sotto la giacca di velluto scuro e i
soliti jeans sdruciti. I capelli, sempre lunghi e scompigliati, si sono
leggermente scuriti, ma l'azzurro dei suoi occhi si è fatto più profondo.
Thomas li fissa a lungo, registra nella loro luce viva come un fugace lampo
di ironico distacco. “C'è una mente all'opera dietro questo sguardo,” pensa
con grande piacere.
Mentre lentamente si sta alzando un forte colpo di tosse lo blocca.
«Maledizione!» esclama con stizza. «Davvero non ci voleva!»
Serse lo sorregge e lo aiuta, ammonendolo: «Non fare l'eroe! Devi
riposarti.»
Thomas si ferma, lo guarda divertito: «Per niente! So io quello che devo
fare. Devo chiacchierare un po' con te, dopo tanto tempo che non ci
vediamo. Al diavolo quel letto!»
Serse ride, lo accompagna lungo il corridoio verso la biblioteca. Thomas si
abbandona sulla poltrona imbottita con un gran sospiro. Chiude per un
attimo gli occhi come se volesse recuperare la sua sicurezza abituale, ma
nonostante le tante ore di riposo è ancora ben visibile la sua aria affaticata.
Serse si siede accanto a lui. Tacciono. Il silenzio prolungato non pesa,
basta l'essersi ritrovati insieme, stare l'uno accanto all'altro almeno per un
poco.
E' Serse il primo a parlare. Si alza e si avvicina alla grande libreria e
indicandola dice con un tono comicamente declamato: «Caro Thomas,
questa è stata la mia fortuna. Quante belle ore ho trascorso con questi
libri!»
Si appoggia con la mano ad un ripiano, lo sfiora con una affettuosa
carezza. «Ognuno di questi scaffali è come un grande arcipelago di
pensieri, immagini e emozioni. Ho amato sin da ragazzo esplorarli come
mondi misteriosi e sconosciuti.»
Poi, con un tono di nuovo divertito aggiunge: «Da filosofo, come mi hanno
ufficialmente proclamato su carta bollata, posso assicurarti che il mondo
delle idee di cui parla Platone sicuramente esiste: si trova in qualunque
biblioteca.»
Thomas lo ha ascoltato con grande piacere. E' una scena che, negli anni, si
è ripetuta tante volte. “Ecco – pensa – è un po' come vedere il pensiero
vivo che nasce e si forma, come una realtà quasi tangibile presente qui, tra
noi due.”
In quel momento, il piacere della conversazione lo alleggerisce, gli fa
dimenticare gli acciacchi che si porta addosso.
Guarda Serse che intanto si sta di nuovo sedendo, riflette ad alta voce:
«Bella immagine quella: l'arcipelago e il piacere di esplorarlo.»
Lo fissa con un sorriso e aggiunge: «Ma i libri sono una realtà viva, non
sono solo oggetti di carta piazzati su questi scaffali. Stanno lì fermi in
attesa dei loro lettori.»
Con un unico movimento, indica la libreria e poi Serse. «Per questi, sono
sicuro, io ho contato ben poco. Era te che aspettavano.»
Serse accenna con la testa ripetuti segni di approvazione, con un ampio
gesto del braccio dice ridendo: «Allora, se tutto va bene, presto potrò dare
loro una nuova compagnia. Sono a buon punto nelle trattative con un
editore milanese per la pubblicazione della mia tesi di laurea,
opportunamente riveduta ed ampliata.»
«Accidenti, che colpo!» commenta Thomas «Questa è davvero una bella
sorpresa.»
«Naturalmente non è solo merito mio, ci mancherebbe. Una grossa mano
me l'ha data un mio professore che cura la collana di filosofia presso
quell'editore. Il mio lavoro gli è piaciuto molto.»
«E qual è l'argomento che hai trattato?»
«Apparentemente si tratta di una cosa molto specialistica. Il titolo della tesi
è questo: Geworfenheit e Verfallen nella filosofia di Heidegger. Che
tradotto alla buona significa: Gettatezza e dejezione nella filosofia di
Heidegger. Ammetto che anche tradotte le due parole tedesche, molto
specifiche, non diventano molto più chiare. Naturalmente con l'editor ne
troverò uno più accattivante, se non si vogliono spaventare i potenziali
lettori.»
«Già, sembra un rebus. Sai il tedesco?»
«Un poco. Riesco a leggerlo, almeno quello dei libri di filosofia.»
Sul viso di Thomas si allarga un sorriso luminoso. «Ne ha fatta di strada
quel ragazzino che giocava a fare l'aeroplano sul prato qui fuori!» dice con
grande piacere.
Anche Serse sorride. «Non credere. In realtà sono sempre lo stesso.»
«Non mi hai ancora detto di che cosa ti sei occupato nel tuo testo. Quei
paroloni tedeschi mi dicono molto poco.»
Serse riflette per qualche istante, poi con tono sbrigativo, come a voler
minimizzare ciò che ha fatto, chiarisce.
«E' meno complicato di quel che può sembrare. Si tratta dell'esperienza
più ordinaria ed abituale in cui siamo coinvolti quotidianamente da quando
veniamo al mondo: ci impossessiamo delle cose e le gettiamo via in
continuazione. Ma anche noi siamo gettati, abbiamo per così dire una data
di scadenza, è la morte. Heidegger, filosofo tedesco, ha detto cose nuove
ed importanti su questo.
McWine ha ascoltato con grande attenzione e lo guarda interessato.
«Questo è un tema che mi affascina e proprio recentemente ci ho riflettuto
molto.»
Accompagna le sue parole con un noncurante gesto della mano.
«Senza pretendere di essere un filosofo, sicuro. Ma mi sorprende il modo
superficiale con cui abitualmente viviamo il nostro rapporto con le cose.
Eppure buona parte della nostra attenzione è dedicata a loro: fare,
produrre, acquisire, distruggere qualcosa. Buona parte della vita degli
uomini trascorre in questo modo, dominata dall'attaccamento.»
«Per questo tu mi sei sempre sembrato diverso – nota Serse con dolcezza –
nella tua vita non domina l'attaccamento.»
Quasi imbarazzato da questo riconoscimento, Thomas abbassa lo sguardo.
Con gli occhi rivolti verso il tappeto colorato che è ai loro piedi sussurra
lentamente: «Ti posso assicurare che questa è la cosa che mi ha colpito
maggiormente quando, troppo presto, mi sono piovuti addosso tanti soldi.
E' il modello di vita americano diffuso in tutto il mondo dopo la guerra:
produrre e consumare, consumare e produrre ancora di più. Poi restano gli
scarti e anche, purtroppo lo scarto di vite umane.»
Si arresta un poco in silenzio e con un gesto brusco della mano dice con
voce rauca: «E a un certo punto non ce l'ho più fatta!»
Serse si guarda intorno disorientato, è percepibile il suo disagio di fronte al
tono drammatico delle ultime parole. Non vuole dar peso all'angoscia che
vi trapela. Si avvicina alla finestra, la apre, quasi a voler cacciare le ombre
che si sono accumulate nella stanza. Entra una fresca ventata di aria pulita.
Lui torna rinfrancato a parlare di se stesso, dei propri progetti, lusingato
dagli apprezzamenti che poco prima Thomas gli ha tributato.
«Questa pubblicazione dovrebbe essere solo il punto di partenza. Ho in
mente degli sviluppi molto interessanti.»
Thomas si risolleva, lo guarda ammirato. «Vedo che ti stai dando da fare!
Bravo!» dice con voce di nuovo sicura.
Serse, senza dar peso a questo ulteriore complimento, commenta: «Niente
di speciale, non esageriamo. Non bisogna essere presuntuosi. Intanto
quello che sto facendo mi piace, mi appassiona.» Con sguardo ammiccante
conclude divertito: «Questi sono i miei tartufi!»
Ridono tutti e due. «Ti ricordi ancora quella volta?» dice Thomas.
La malinconia vela il suo sguardo. Inevitabilmente ripensa per qualche
istante al proprio passato, a se stesso e a ciò che ha lasciato. Nella sua
coscienza, in quel momento, riecheggia la voce imperiosa che lo
ammonisce: “Inutile rimpiangere, pensare al passato che non si può
cambiare. Non si fanno bilanci!”
Serse, intanto, continua ad illustrare con foga i suoi progetti futuri.
«Poi, chissà, forse si apriranno anche altre prospettive fuori d'Italia. Ho già
provato a fare io stesso una traduzione in inglese.»
Il viso di Thomas si distende.
«L'inglese lo parli molto bene,» osserva soddisfatto. «Ti sei allenato fin da
piccolo.»
Serse sorride di nuovo. «Anche questo è merito tuo.»
Thomas ripensa a quando Serse aveva pochi anni e aveva iniziato a
parlargli spesso in inglese, come se fosse un gioco.
Gli torna in mente la domanda più importante che si riprometteva di
rivolgergli.
«E adesso che cosa farai?»
Thomas risponde con sicurezza, come se la questione fosse quasi scontata.
«Rimango a Torino, collaboro con la facoltà. Come si dice? Resto nel giro,
sperando di avere qualche buona occasione...»
«Gioca bene la tua partita. Sei bravo e devi avere fiducia in te stesso.»
«Lo so, lo so,» lo interrompe Serse ridendo. «Me lo hai sempre detto.»
Conclude con finta rassegnazione, allargando le braccia: «Non mi fare il
solito predicozzo.»
Dice l'ultima parola con un plateale sospiro.
Lo sguardo affettuoso di Thomas è fisso su di lui. Restano di nuovo in
silenzio, entrambi appagati.
La stanchezza ha di nuovo il sopravvento. Thomas si rinserra tra le braccia
la coperta che ha portato con sé, scosso dai brividi.
Serse lo guarda perplesso. «E' meglio che ti rimetti subito a letto! Non fare
l'eroe. Adesso ti lascio riposare.»
Lo abbraccia velocemente, va verso l'entrata e quando la sua mano è già
appoggiata alla maniglia si volta con aria rattristata come colpito da un
ultimo pensiero.
«Questa sera ci sarà la festa. Mio padre ci tiene tanto. Peccato che tu non
potrai esserci.»
Fa per uscire poi, con un bagliore luminoso negli occhi che lo rende tanto
simile in quel momento a sua madre, aggiunge con un sorriso: «Penserò a
te.»

-17-

-XVIII-

E' il 26 settembre 1997, un venerdì . E' una bella giornata di sole, l'aria è
calda, ancora estiva. Maria è arrivata da poco alla casa di McWine. Solo
per pochi minuti si è indaffarata con aria distratta a spazzare e spolverare
in giro, come presa da altri pensieri. Ora, come calamitati da un bisogno
comune, sono seduti insieme accanto al tavolo e parlano di ciò che è
accaduto nella notte.
« Primo dice che non dobbiamo preoccuparci,» sussurra Maria a bassa
voce. «Niente di diverso dal terremoto del 1979. Ci siamo abituati, dice.»
Queste parole sfiorano appena Thomas, che si è seduto davanti a lei.
Osserva il suo volto teso e le dita serrate sul ripiano che dicono qualcosa
di molto diverso dalla tranquillità del marito.
Anche Thomas ha paura.
Il tremolio violento dei vetri delle finestre lo ha svegliato nella notte. Gli
è bastato osservare le ampie oscillazioni del piccolo lampadario della
stanza da letto per capire subito la situazione. Anche lui ha cercato, come
Primo, di rimanere calmo. “Tra queste montagne succede spesso,” si è
detto. Ma un velo di inquietudine si è mantenuto dentro di lui per tutta la
mattinata.
Inevitabilmente subentra il fatalismo.
«Che cosa potremmo fare?»
Thomas fa questa domanda più a se stesso che a Maria. Uno sguardo
rassegnato corre tra loro due.
«Mi do da solo la risposta: niente di niente. Nothing at all. Questa è la
situazione, c'è poco altro da aggiungere.»
Maria gli sorride mestamente. «In casi come questo i nostri vecchi
avrebbero detto una sola cosa: bisogna affidarsi alla Provvidenza.»
Contrariato, Thomas osserva ironicamente: «Niente di diverso dal dire:
bisogna affidarsi al caso. La nostra impotenza è identica.»
Maria lo guarda comprensiva. «Ma noi preferiamo ancora l'altra maniera,
anche se forse è un'illusione.»
Aggiunge dopo un istante con un largo sorriso, arrossendo un poco: «Non
è mai bello avere la sensazione di essere nudi.»
Thomas resta sorpreso, la guarda ammirato. “Lo spirito di Maria – pensa –
è simile a una polla d'acqua che ricompare quando uno meno se lo aspetta.
Vale più questa piccola frase di tante dispute teologiche.”
Maria guarda l'orologio. Si alza.
« E' quasi mezzogiorno. Tra poco dovrò andare. Primo mi aspetta per il
pranzo.»
Thomas stira le braccia, si rilassa. La vicinanza di Maria, come sempre, è
per lui una fonte di energia che spezza la sua quotidiana solitudine.
Si avvicina alla porta. Guarda fuori. Il prato assolato, il bosco più in là,
appena mosso dal vento. Il silenzio.
«E' tutto tranquillo per adesso.»
Dice queste parole e già un suono cupo si alza dal basso. Le pareti
tremano, i vetri delle finestre vanno in frantumi, l'alto e il basso si
confondono. Thomas sente nella stanza accanto i libri che cadono e poi il
tonfo sordo della libreria.
Maria grida, si agita presa dal panico. In un attimo, Thomas la stringe a sé.
Insieme si lanciano fuori.
E' passato appena un minuto e ogni cosa è di nuovo immobile. Solo la
brezza leggera smuove le foglie degli alberi accanto al casale. Niente
sembra mutato.
Stanno fermi sullo spiazzo, confusi, incerti su cosa fare. Thomas guarda la
casa: apparentemente non c'è danno. “E' come una donna di campagna,
piccola e tozza, ma piena di forza,” pensa tra sé. Gli sembra quasi che sia
lei a guardarlo tranquillamente, con la sua aria vecchia e scolorita, come a
dire: eccomi ancora in piedi, sono abituata a ben altro.
Maria è molto pallida, trema, il respiro è affannato. La sua voce fievole
quasi non si sente. Continua a ripetere come incantata la stessa frase:
«Serse, Primo, la casa. Che cosa ne sarà stato?»
Thomas l'abbraccia, cerca di calmarla. Improvvisamente lei si riscuote. Lo
guarda sbigottita quasi che non lo riconoscesse. Si allontana con foga da
lui. Grida con voce stridula: «Ma cosa faccio ancora qui? Debbo andare,
debbo andare!»
Thomas, afferrandole le mani, cerca di tranquillizzarla.
«Hai ragione, andiamo, vengo con te.»
Maria lo fissa, legge nei suoi occhi quella sicurezza serena che già le ha
scaldato il cuore tante volte. Si affida a lui.
«Accompagnami. Solo rivedendoli sarò tranquilla.»
Thomas le sorride, le sfiora il volto con una carezza. Anche lei cerca di
sorridere, ma una impalpabile inquietudine ristagna al fondo dei suoi
pensieri.
Scendono in silenzio. Il loro passo si fa più veloce quando sono in vista
delle prime case, come spinti dall'angoscia che si portano dentro.
Vedono subito le grandi crepe che sfregiano la facciata delle belle
costruzioni sorte in anni recenti, i cornicioni crollati, le macerie dei tetti. In
tanti si affollano per le strade, muti, sorpresi, come se non riuscissero
ancora a capacitarsi di ciò che è accaduto.
Lo sguardo di Maria si carica di paura, inizia a correre verso casa. Thomas
si è fermato, fissa le scene di distruzione che sono tutto intorno, ne è
sconvolto. Sente urla disperate provenire dalla piazza che ancora non vede.
All'improvviso Primo compare davanti a lui. Maria gli è accanto.
Gli occhi di Primo lampeggiano dietro le spesse lenti come una disperata
richiesta di aiuto. Con voce incrinata, chiede in fretta: «Hai visto Serse?»
Thomas lo guarda interdetto. «E' ancora a Monastico? Credevo fosse
rientrato a Torino già da due giorni.»
«Avrebbe dovuto partire, poi ha deciso di fermarsi ancora un poco. Un
ultimo pezzetto di vacanza. E' stato con me fino a metà mattina. Mi ha
aiutato a spillare il vino.» La mano di Primo traccia un brusco gesto di
insofferenza, come a voler allontanare questo fatto ormai insignificante.
«E adesso dov'è?» domanda di nuovo muovendo lo sguardo tra Thomas e
la moglie.
Maria si accosta al marito. A bassa voce gli spiega: «Sì, lo ha detto a me
dove voleva andare...»
Si interrompe. Qualcuno passa trafelato accanto a loro, grida con voce
concitata ai vicini: «La casa del parroco! E' caduta! Forse lui è rimasto
sotto!»
Maria si volta di scatto verso quello che ha parlato, come paralizzata, la
sua voce si fa incerta, con lunghe pause biascica una frase sconnessa:
«...voleva andare a trovarlo. Il nuovo parroco. Per conoscerlo. Discutere un
poco con lui.»
Si guardano spaventati, senza parlare. Ognuno pensa la stessa cosa.
E' Maria la prima a muoversi. Con un grido corre di nuovo verso la piazza.
Thomas e Primo la raggiungono poco dopo. Osservano sbigottiti il
campanile della chiesa privo della punta e, accanto, la vecchia casa
canonica accartocciata su se stessa. Alcune pareti sono ancora in piedi,
come a reggersi l'un l'altra, ma grossi frammenti di muro si addossano
confusamente nella parte più interna, come un edificio bombardato.
Dal bordo della piazza i tre guardano. Possono fare solo questo. Maria è
scossa da forti singhiozzi, si copre il volto con le mani, ripete come una
nenia: «Là sotto c'è Serse! Là sotto c'è Serse!»
«Speriamo che sia vivo,» commenta Primo con voce incrinata. Thomas si
avvicina agli uomini che in quel momento stanno studiando la disposizione
delle macerie. Con ampi gesti del braccio si indicano l'un l'altro punti
particolari, commentano con aria competente e annotano qualcosa su
piccoli quaderni.
Primo e Maria lo sentono che si rivolge a loro con tono deciso. Anche lui
indica con la mano la costruzione semidistrutta, li ascolta con profonda
attenzione, infine allarga le braccia in un gesto remissivo. Ritorna verso i
due che lo continuano a guardare.
«Ho spiegato agli addetti quello che Maria ci ha detto, che là sotto molto
probabilmente c'è anche Serse.»
Maria gli stringe forte un braccio. Thomas la guarda con affetto, vede nei
suoi occhi il pendolo che oscilla tra paura e speranza. Anche lui prova le
stesse emozioni.
Qualcuno discute lì accanto, in un capannello di persone che contemplano
il disastro. «Da un pezzo quella casa andava messa a posto, lo dicevamo in
tanti,» dice uno. E un altro in abiti da lavoro lo corregge: «No, come
sempre è stato un problema di soldi. A poco è servito il parere della
sovrintendenza.» Una anziana donna si è fermata, li ascolta, poi commenta
con un tono sconsolato e definitivo: «E' proprio vero, è sempre così. Sarà
un caso, ma è l'unica casa del paese che è caduta.»
Queste voci sono, nelle orecchie dei tre rimasti immobili e senza parole,
come un brusio indistinto non diverso dal ronzare di un alveare. Come
paralizzati, non fanno più nulla, aspettano, fermi, dimentichi di tutto.
Sul lato opposto della piazza, vicino alla grande fontana Vera discute
concitatamente con le amiche, si sporge con foga verso la casa
semidistrutta, cerca di avvicinarsi per vedere meglio, ma viene fermata,
costretta a recedere. Solo in quel momento nota la madre e il padre,
lontani, fermi accanto al signor McWine. Le sembrano spaesati, incerti,
quasi che si trovassero in un luogo sconosciuto. Si incammina verso di
loro. Lo scialle rosso che le copre le spalle è come un segnale. Primo la
vede, poi anche Maria, che alza debolmente il braccio per richiamare la
sua attenzione.
I lunghi capelli di Vera si agitano nel vento, ancor più quando, scuotendo
energicamente la testa impreca più volte e con voce concitata esclama:
«Siamo proprio in Italia! Non c'è mai stata attenzione verso il rischio
geologico, non c'è prevenzione! E poi piangiamo...»
Primo la interrompe: «Là sotto purtroppo c'è tuo fratello. Ne siamo quasi
certi.»
Vera si blocca, impallidisce come se avesse sentito una notizia incongrua,
assurda, immotivata. Lei stava, come tanti giovani presenti nella piazza,
soppesando genericamente le responsabilità politiche di simili tragedie, e
improvvisamente si sente afferrata in un abisso.
Guarda la madre, cerca nei suoi occhi una impossibile smentita. Scoppia in
un pianto disperato.
Intanto, intorno a loro si organizzano i soccorsi. Giungono i mezzi della
protezione civile. Una nutrita squadra di volontari inizia con cautela a
rimuovere le macerie. Tutto è perfettamente organizzato.
Thomas, sempre più inquieto, trova conforto per un istante notando la
prontezza ammirevole dell'intervento di soccorso, ma subito lo sfiora
un'amara constatazione: “Anche in questa situazione tragica, come se
fossimo in una qualunque fabbrica, in una banca o in un esercito, ognuno
sa cosa fare. Ecco che ora domina l'efficienza, l'ordine vince sul caos. Ma
ci si dimentica troppo facilmente che è il caos che impone le regole del
gioco che siamo costretti a giocare. Caos, caso: è quasi la stessa parola.”
Passano le ore e il sole percorre il suo arco. I quattro restano fermi nel
medesimo angolo della piazza, dimentichi della fatica e dell'estenuante
attesa. Maria, accasciata, prega a bassa voce, stringendosi le mani al petto.
Thomas la osserva più volte, legge nei suoi occhi dilatati uno strazio
intollerabile. Lo sente identico dentro di sé. Come chi su una parete liscia
cerchi disperatamente un appiglio per non precipitare, McWine cerca di
dare un senso a ciò che stanno vivendo. Non ci riesce. La brillantezza
letteraria e il piglio sicuro delle sue argomentazioni sono ormai fuori uso,
totalmente inadeguati di fronte alla nuda realtà. Nella mente gli balena da
un tempo infinito un unico pensiero:“Non occorrono tanti ragionamenti
quando si lacera la carne viva.”
Vede qualcosa adombrarsi nel viso di lei, come un ombra scura che lo
attraversa. Maria non ha più lacrime. Pallida, fissa Thomas, ripete più
volte a bassa voce, sfinita: «Non ce la faccio! Non ce la faccio!» Tocca il
braccio dei due uomini che le stanno accanto come in un tacito saluto, si
appoggia alla figlia. Si allontana lentamente con lei verso casa.

E' ormai sera. Rimane un vago barlume di luce sul filo delle colline che
contorna il profilo spezzettato dei boschi, testimoni muti e indifferenti di
ciò che è accaduto in questo luogo.
Sulla piazza, intorno alla casa canonica, le squadre continuano
pazientemente il loro lavoro. Ma non c'è voce, richiamo o appello che
fuoriesca da quella rovina inerte.
Cala la notte senza luna. Le luci fotoelettriche falciano le ombre spettrali
dell'edificio sventrato, illuminano le figure minuscole dei tecnici che
girano con sicurezza tra le macerie, scavano rapidamente i piccoli detriti e,
manovrando i mezzi cingolati, rimuovono con cautela i resti della casa.
Per tutto il pomeriggio Thomas e Primo non hanno quasi parlato. Ora si
guardano per un attimo, sperando entrambe di trovare nella figura
conosciuta dell'altro un inaspettato aiuto che alimenti almeno un poco la
loro fievole speranza.
«Che facciamo?» domanda Primo.
«Non lo so. Non so più nulla” gli risponde Thomas con un sorriso triste.
Gli viene un gesto spontaneo. Con un braccio cinge le spalle di Primo, lo
accosta a sé. Immobili, così uniti, attendono insieme.
19-

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