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Michele Ballario

UN GIORNO DI QUESTI
-I-

Sei arrivata verso le otto. Tua madre non c'era. Avevi portato con te le chiavi, per fortuna, così sei

entrata. Ti ha accolta l'odore stantio della tua giovinezza.

Hai attraversato il lungo corridoio e ti sei fermata di fronte alla grande fotografia appesa vicino al

soggiorno. La luminosa immagine di tuo padre in alta uniforme, con i baffi neri lucenti ed il suo

duro sguardo spavaldo ti ha osservata.

«Ciao papà – hai bisbigliato – sono tornata». Ti è parso che il suo labbro si ammorbidisse in un

debole sorriso, come se avesse capito più di quanto avresti voluto. Anche tu gli hai sorriso, sei

rimasta ferma per un poco, sei andata indietro con la mente, un'eternità, rivedendolo seduto a tavola,

silenzioso, quando ti attendeva per il pranzo al tuo ritorno da scuola. La consapevolezza è salita

dentro di te. “Non l'ho saputo ascoltare, non l'ho ascoltato abbastanza” hai pensato. Eri stata una

bambina presuntuosa e lui avrebbe saputo spiegarti tante cose che non capivi. «Perché non l'ho

domandato a te?» hai bisbigliato piano. Ti sei sentita per un attimo colpevole, prigioniera della tua

arroganza. “Non ho saputo chiederglielo” hai pensato mentre ti allontanavi verso la tua stanza.

Eri distesa sul tuo letto infiocchettato di ragazza e ti eri addormentata, stanca del lento e noioso

viaggio, quando ti ha risvegliata il rumore della serratura che scattava. Hai sentito il passo rigido di

tua madre, quel ritmo netto e scandito che ti aveva sempre confermato come il suo matrimonio con

il brigadiere Franco Caputo fosse già scritto nelle stelle.

Sei rimasta ancora un poco immobile sul letto con lo sguardo bloccato sul poster    del seducente

attore una volta famoso, ingrigito sul muro di fronte, sospeso là in alto a guardarti da quando eri

adolescente. L'impulso ad andartene al più presto è salito in un istante dentro di te. Il lungo elenco

degli impegni che ti attendevano a Milano è sfilato in fretta nella tua mente. L'affare quasi concluso

con Morandini, quello non poteva attendere. Appena il tempo di sistemare le carte della vendita – ti

sei detta – e poi prendo il primo treno per Milano. Ma, come accadeva spesso, tua madre aveva già
misteriosamente percepito la tua presenza, come una nuvola di elettricità sospesa nell'aria, una

tensione crescente che faceva vibrare i suoi nervi. Hai aspettato di sentire la sua domanda, che

sarebbe arrivata immancabilmente di lì a poco: «Clara, dove sei?».

Prima che tu potessi rispondere tua madre si è affacciata alla porta, i suoi occhi hanno percorso

senza fretta il tuo corpo disteso come se volessero registrare freddamente lo stato di un bene che lei

aveva posseduto e che ora apparteneva ad un altro.

«Sei arrivata da molto?» ha chiesto con il suo solito tono secco e risoluto, senza dilungarsi in inutili

saluti festosi, donandoti soltanto un sorriso tirato.

Tu non le hai risposto subito, hai atteso un poco, e in quella breve pausa hai notato qualcosa che non

c'era, una infinitesima ombra di inquietudine nei suoi occhi, la manifestazione di una invisibile

crepa nella sua intangibile sicurezza. È venuta avanti e, come se fosse qualcosa che già si era

prefissa di fare, ha spostato qualche spazzola sullo stipo vicino alla finestra. Nel tremore delle sue

mani avvertivi il debole segnale di una incertezza fino ad allora sconosciuta. Volgendosi verso di te,

tuttavia, il suo viso si era già ricomposto e il suo tono deciso non era diverso dal solito.

«Ti ringrazio di essere venuta così in fretta, nonostante i tuoi impegni» ha detto. «Ora riposati

ancora un poco. Parleremo di tutto più tardi, durante la cena». Ha richiuso la porta con uno

sfuggente sorriso.

La tavola, il servizio di posate buone e i piatti senza un graffio, la tovaglia stirata in modo

impeccabile, era tutto rimasto come era sempre stato, anche se l'artefice principale del ferreo ordine

che regnava nella casa ora non c'era più. Il brigadiere Caputo, con fatica ed impegno, era divenuto

luogotenente e l'impeccabile rispettabilità della sua abitazione, come lui amava dire, doveva essere

il suo specchio migliore.

Tua madre aveva già disposto sul ripiano un ricco vassoio di scaloppine ai funghi e patate arrosto,

sapeva che le avresti gradite. Ti attendeva seduta in silenzio al suo posto abituale. Quando anche tu
ti sei seduta ha bisbigliato una rapida preghiera e ti ha avvicinato il vassoio perché ti servissi per

prima. La rigidità con cui il suo braccio si è mosso verso la tavola ti ha nuovamente rivelato la

tensione che la attraversava. Hai allora preferito parlare tu per prima.

«Hai avuto notizie da zia Carla? L'operazione è riuscita?».

«Sì, tutto bene».

Il silenzio si è di nuovo allargato come una grande macchia bituminosa tra di voi. Hai pensato con

un po' di disagio a come fosse meglio affrontare subito la questione per cui eri venuta, per riuscire

finalmente a scalfire la sua corazza e capire una volta per tutte quello che pensava riguardo alla

vendita della casa.

«Hai già deciso dove preferirai stabilirti?» hai chiesto con il tuo tono più morbido e noncurante,

cercando di dare alla domanda che già avevi ripetuto mille volte una nuova freschezza innocente.

Tua madre ha guardato per qualche istante il suo piatto, rimestando le patate nel condimento

rimasto sul fondo, poi come una litania ben imparata ha biascicato in fretta : «Da te a Milano no di

sicuro».

Le hai sorriso di nuovo, cercando di rimanere calma e hai risposto accentuando il tuo tono

tranquillo: «Sai benissimo che non te l'ho mai proposto».

Lei ti ha fissato con un lampo di malizia ed ha aggiunto: «E tu sai benissimo che la casa non è

affatto detto che la vendiamo».

Come un abile scacchista, sicura di aver fatto la mossa migliore, ha continuato a fissarti con una

smorfia beffarda attendendo la tua reazione. Ma era un copione che conoscevi benissimo e la

risposta ti è uscita quasi senza pensare: «Piacerebbe anche a me, purtroppo non possiamo fare

diversamente. Troppi debiti».

Stranamente lei non ha dato peso alla tua obiezione, come aveva fatto al telefono una settimana

prima quando le avevi spiegato ogni cosa. Ti è parsa distratta, come se la sua mente fosse ghermita

improvvisamente da altri pensieri. L'hai vista irrigidirsi ancor più sulla sedia, le sue mani incrociate

sulla tavola hanno stretto nervosamente il tovagliolo.


Come a volersi liberare da un grosso peso che la soffocava ha sibilato lentamente senza guardarti:

«A te non importa nulla di me».

Sapeva molto bene che queste parole ti avrebbero ferita. Infatti si è alzata ed è andata verso il

lavandino. Pulendo le grosse prugne mature sotto un forte scroscio d'acqua ti ha voltato le spalle e ti

ha osservata di sottecchi con una luce ironica negli occhi, girando solo un poco la testa senza dir

nulla. Ancora una volta hai    notato il suo strano tremore,    e ti ha fatto un po' pena quella sua inutile

aria da ribelle. Era come se si fosse conservato solamente il ridicolo guscio esteriore di quello che

lei era stata negli anni belli della sua giovinezza. I jeans sdruciti e i capelli lisci,    ormai bianchi e un

po' diradati, con la loro piega antiquata che le dava un'aria da reduce di un passato che ormai non

esisteva più.

“Non debbo entrare nel suo gioco” hai pensato cercando di stirare un poco i lineamenti troppo tesi

del tuo volto. Era quello che ti eri ripetuta infinite volte durante l'interminabile viaggio.

«Se ci fosse ancora qui buonanima di tuo padre tutto questo non accadrebbe» ti ha rinfacciato tua

madre con aria di sfida. Ha aggiunto con una risatina forzata: «Fileresti via con la coda tra le

gambe, come al solito, senza il coraggio di contraddirlo. Sei sempre stata una gran fifona di fronte a

lui».

Tu hai incassato senza dir nulla, cercando di mantenere la calma.

«Tuo padre – ha ripetuto più volte con posa teatrale – che gran uomo».

Non sei riuscita a trattenere uno scatto nervoso. Il    coltello che tenevi ancora in mano è sceso

rumorosamente sul piatto. Con un sottile piacere che ti saliva dentro hai osservato: «Certamente,

peccato che non parlavi così quando lui era in vita».

Ti sei subito pentita di quello che avevi detto, anche se era assolutamente vero. Ricordavi

benissimo, benché ti costasse fatica ripensarci, le loro litigate interminabili, il modo violento di

rinfacciarsi i reciproci fallimenti, il tono sfottente con cui tuo padre le si rivolgeva. Erano state ben

poche le giornate in cui non ci fosse stato qualche motivo di scontro. Ti ritornavano alla mente le

tue corse a rifugiarti nella tua stanza, serrando con le mani la testa per non sentire le urla che
riempivano la casa, ed i lunghi silenzi di tuo padre per intere giornate, come una ingenua ripicca nei

confronti della moglie Liliana, di cui però a lei non importava nulla.

Hai aspettato nervosamente la sua reazione. Percepivi molto chiaramente il suo bisogno di

attaccarti, di dare sfogo anche soltanto per un momento alla sua solitudine. Ti sembrava di riuscire a

leggere sulle sue labbra tese, prima ancora che le dicesse, le parole cattive che stava preparando.

In fretta si è sforzata di dipingere sul suo viso impallidito un'aria decisa. Hai sentito in pieno la nota

stonata che serpeggiava nella sua voce, quando scuotendo lentamente la testa ha di nuovo cercato le

parole migliori per provocare la tua reazione rabbiosa: «Cara Clara, non me la fai sotto il naso, con

la tua aria da santarellina. Non sono ancora completamente scimunita e so benissimo a che cosa

vuoi arrivare».

Con un sorriso leggero hai cercato di mantenere un'aria scherzosa, domandando tranquilla: «A che

cosa voglio arrivare? Dimmelo tu che io non lo so bene».

Calandosi ancor più nella parte che aveva cominciato a recitare, lei non ti ha risposto subito, come

se volesse far crescere il pathos dell'attesa    su una immaginaria scena teatrale. Si è affaccendata

intorno al lavabo prendendo e posando piatti e posate con una posa offesa. Tu hai continuato ad

aspettare senza fretta. Immaginavi benissimo quello che sarebbe successo, quello che lei avrebbe

detto, lo avresti potuto anticipare parola per parola.

Quando le è parso di aver atteso abbastanza, si è voltata di scatto    e ti ha domandato con aria

innocente: «Clara, perché ti sei disturbata a venire, nonostante i tuoi tremendi impegni di manager

di grande successo? Potevi startene a casa, avrei pensato io a ogni cosa, facendoti arrivare per posta

tutta la documentazione necessaria». Aggiungendo poi con un tono secco e marcato, come se

fossero solo quelle le parole che veramente contavano: «Sì, avresti potuto benissimo startene a casa

tua».

Sei scattata: «Allora dimmelo chiaramente che non mi vuoi più vedere!».

Lei con una vocina dolce e accomodante da cui trapelava con sforzo tutta la sua debolezza e buona

volontà ha immediatamente ribattuto: «Ma no, che ti viene da pensare, Clara, come puoi anche solo
immaginarlo?». Concludendo poi con un bisbiglio quasi inudibile: «Io mi accontento, non ho

bisogno di nulla, ti lascio fare...». Ha caricato ciò che stava per dire con una lunga pausa, poi ha

gettato con noncuranza un'ultima osservazione, sapendo bene che ti avrebbe ferita: «... e poi tu

adesso devi pensare a sposarti. Capisco che questo è il tuo solo pensiero».

Sapeva benissimo che la tua storia con Cesare era finita da non molto, dopo due anni di convivenza.

«Mamma, dovresti ricordare che te lo avevo detto, che con Cesare è finita» hai replicato cercando di

mantenere la calma.

«Davvero mi spiace» ha commentato lei marcando di acredine le ultime parole. «Lo vedi? Non

riesci a far durare niente! Guarda un po', anche con Cesare è andata storta, come con altri dieci

prima di lui!».

Tu l'hai guardata con un po' di malinconia. Possibile? Perché tua madre doveva insistere su questo?

Quando lei, come se non fosse ancora completamente paga, ha    aggiunto dopo un poco, con una

voce debole, come se parlasse solo con se stessa: «E pensare che stavate    quasi per sposarvi», non

ce l'hai più fatta.

«Ma che cosa vuoi da me?» hai urlato muovendoti verso la porta. «Con te è inutile parlare!».

Con uno sguardo imbarazzato lei ti ha fermata afferrandoti un braccio. «Ma dove vuoi andare?» ti

ha chiesto con una voce più vera, senza più astio. «Fermati. Parliamo».

Si è avvicinata con il suo passo rigido allo scaffale nell'angolo ed è tornata verso la tavola con una

piccola crostata ricoperta di marmellata fatta in casa.

«Ho preparato anche questa, immaginando che ti avrebbe fatto piacere» ha detto ponendotela di

fronte come se nulla fosse accaduto. «Da piccola ne andavi matta».

Sconcertata dai suoi sbalzi di umore, non sei riuscita a trattenere uno spontaneo sorriso.

«Grazie, mamma».

«Ti ricordi le feste di compleanno, che belle? Cucinavo dolci in quantità per decine di persone» ha

osservato con un velo di commozione negli occhi.

«Certamente, non ho dimenticato nulla» ti sei sentita rispondere con una gioia sincera.
Tua madre ha continuato a guardarsi intorno incerta, come se proprio l'evocazione di quei ricordi

luminosi risvegliasse i    pensieri inquieti che poco prima l'avevano agitata. Hai visto riemergere per

un istante la sua aria smarrita, quella di chi cerca una risposta dentro di sé e non riesce a trovarla.

Borbottando parole incomprensibili, si è di nuovo seduta accanto a te, mangiando lentamente la

fetta di dolce che aveva tagliato.

Concentrata come se quella fosse per lei un'impresa, con lo sguardo fisso sul piatto    ha continuato

per un po' a far crescere intorno a sé un cupo silenzio.

Senza un apparente motivo si è fermata ed è rimasta con la forchetta a mezz'aria, ti ha fissata con i

suoi limpidi occhi azzurri e con uno strano tono rassegnato ha detto lentamente con una voce che

non le avevi mai sentito: «Sai Clara, mi accorgo che è sempre più difficile ricordare. Perché anche i

ricordi non restano sempre uguali,      cambiano poco per volta mano a mano che cambiamo noi».

Ha taciuto, come se cercasse altre parole più precise, e dopo qualche istante il suo viso si è

illuminato come per una improvvisa rivelazione: «Sì, è così allora, ogni rimpianto è un po' una

menzogna».

Tu non hai capito bene perché lo stesse dicendo, ma le hai chiesto affettuosamente: «Mamma, hai

bisogno di qualcosa?».

Con un soprassalto    ha osservato lentamente la stanza,    come se non riconoscesse il luogo in cui si

trovava. Il suo sguardo si è rasserenato poco a poco, poi ha scosso la testa come a voler confermare

qualcosa dentro di sé. Si è voltata dalla tua parte e ti ha chiesto con una improvvisa gentilezza: «Mi

accompagneresti a Roma?».

L'incongruenza di questa domanda ti ha divertita. “La testa degli anziani è un mistero – hai pensato

– chissà, forse un po' di arteriosclerosi che avanza”.

Sorridendo le hai chiesto con il tono di chi non ci crede:    «Per fare che cosa?».

Anche lei ha sorriso.

«Ti spiegherò tutto domani» ti ha risposto con voce calma. Ha sfiorato la tua mano appoggiata sulla

tavola, aggiungendo: «Vai a riposare adesso. Ne parleremo».


- II -

Da tanto tempo non dormivi così bene. Ti ha svegliata il rintocco delle campane attraverso la

finestra aperta, come quando eri bambina.    “È domenica” hai pensato. “A Milano non si sentono

quasi più le campane. Troppi rumori. Qui, invece, suonano forte, senza la paura di disturbare la

gente alle sette del mattino”. Per qualche minuto sei rimasta ancora sotto le coperte, poi ti sei alzata

stiracchiandoti appagata.

«Buon giorno,    mamma, sei già di sotto?» hai urlato verso il corridoio, mentre ti allacciavi il

tailleur estivo comprato da poco, sicura che lei fosse già alzata da un pezzo. Era sempre stato un suo

vanto aver bisogno di pochissime ore di sonno per riposare benissimo.

Non hai sentito risposta.    Hai infilato i tuoi mocassini colorati e ti sei incamminata verso le scale,

ripetendo due o tre volte il tuo saluto, ma    un piccolo seme di stupore, ancora inavvertito, ha

intanto iniziato a crescere dentro di te. C'era qualcosa di strano nella casa, troppo silenzio, quel tipo

inquietante di silenzio che avvertiamo istintivamente quando entrando in una casa non c'è nessuno.

Ti sei affacciata in cucina, continuando a chiamarla. Lei non c'era. Sul divano del soggiorno, una

sagoma immobile accartocciata su se stessa ha attirato la tua attenzione. Liliana, riversa all'indietro

e con la bocca spalancata, non dava segni di vita.

Hai urlato e ti sei precipitata verso di lei; sollevandole la testa ti sei guardata intorno, come se

cercassi lì vicino, da qualche parte, la risposta al quadro assurdo che avevi di fronte.

L'autoambulanza è arrivata rapidamente, poco dopo che l'avevi chiamata, hai sentito la sirena che si

avvicinava lungo la strada e ti sei affacciata.    Gli infermieri sono saliti in fretta e, come se

conoscessero benissimo ciò che andava fatto, hanno preso in mano la situazione. Tutto si è svolto in

un attimo. Mentre spingevano fuori la lettiga uno dei due ti ha urlato: «Ci raggiunga al più presto in

ospedale!». L'ululato si è ripetuto e si è allontanato velocemente.    Tu sei rimasta immobile accanto

alla porta. Solo in quel momento ti sei accorta che non ti avevano chiesto quasi nulla, solo il nome
della donna esanime, come se sapessero perfettamente che tu non avresti potuto esser loro d'aiuto.

Ti sei guardata attorno senza saper bene che cosa fare.

«Ieri sera stava benissimo – hai detto piano con poca convinzione, come se questo bastasse a

rincuorarti – era solamente un poco tesa e nervosa». Schiacciata dall'angoscia per ciò che stava

accadendo, ti sei seduta e ti sei sforzata di riordinare almeno un poco le tue idee, di riprendere il

controllo di te stessa. In un istante hai compreso la situazione.

«Ma che cosa sto aspettando? Debbo andare subito!» hai urlato ad alta voce come se parlassi ad un

altro.

Ti sei precipitata a raccogliere le vecchie cartelle cliniche e i documenti che potevano servire,

muovendoti come una furia tra le stanze silenziose.

Quindici minuti dopo eri di fronte all'ospedale e quasi senza accorgertene ti sei ritrovata davanti ad

un'ampia vetrata. Dall'altra parte, nella luce soffusa della sala di rianimazione, c'era tua madre

distesa in un letto, circondata dagli schermi luminosi e lampeggianti. Era immobile e riuscivi a

scorgere a malapena il profilo del suo viso apparentemente disteso. Hai continuato a fissarla a

lungo, senza accorgerti del tempo che passava. Un passo leggero alle tue spalle ti ha fatta voltare.

Hai visto un giovane in camice bianco che ti si è avvicinato con passo deciso. Hai notato i suoi

capelli biondi e ben curati, la corta barba a punta simile a quella di un moschettiere di Dumas e le

sue occhiaie profonde che accentuavano la    sua espressione affaticata, come di chi non ha dormito.

Ti ha squadrata per qualche istante prima di parlare, come se dovesse metterti a fuoco attraverso la

gerarchia delle sue competenze.

«Lei è una parente della signora Liliana Revelli che abbiamo ricoverato?» ti ha chiesto con una

voce appena sussurrata, quasi che temesse di disturbare chi si trovava immerso tra le

apparecchiature oltre quel vetro.

«Sono la figlia, Clara Caputo. Ho portato con me tutta la documentazione. È accaduto così in fretta

che non ho avuto il tempo di consegnarla agli infermieri    del pronto intervento».

«Non ha importanza» ti ha risposto l'altro con tono sbrigativo afferrando le cartelline con
un'occhiata distratta, aggiungendo subito, un po' bruscamente,    come se volesse arrivare in fretta al

punto essenziale di ciò che era venuto a comunicare: «Abbiamo pochi dubbi. Si è trattato

probabilmente di un tentativo di suicidio».

Ha atteso per qualche istante la tua reazione. Tu non hai detto nulla. Con aria imbarazzata, come

accorgendosi solo in quel momento del proprio tono troppo brusco ha cercato di spiegare: «Tutti i

segni di un avvelenamento. Un cocktail micidiale di sonniferi e antidepressivi, probabilmente». Tu

lo hai fissato con uno sguardo ebete, come se quelle parole ti fossero state dette in una lingua

sconosciuta. Scuotendo la testa dispiaciuto, ha concluso quasi senza guardarti: «Abbiamo già

avvisato la stazione dei Carabinieri. È la prassi».

Si è allontanato senza aggiungere nulla, come se fosse sicuro di aver esaurito il suo compito e ti ha

lasciata lì, bloccata di fronte al vetro attraverso cui intravvedevi    a fatica la sagoma immobile di tua

madre.

A poco è servito rivolgerti a qualche infermiere che passava trafelato lungo il corridoio. Ti hanno

tutti liquidata con poche gentili parole: «Attenda qui. La verranno a chiamare».

L'ansia, come una pianta maligna, è rapidamente cresciuta dentro di te. Ti sei sentita assolutamente

sola, una solitudine che non avevi mai provato così intensamente. Ti sei guardata attorno: altri,

come te, attendevano immobili e con un triste sguardo spento, seduti lungo la parete. Le loro

espressioni stanche ti hanno fatto capire che la calma e la pazienza erano le sole virtù indispensabili

in quel luogo. Ti sei seduta anche tu, stringendo tra le mani la piccola borsa che avevi portato con

te. Con un gesto automatico hai afferrato il tuo cellulare, ma ti sei subito bloccata. Quel semplice

gesto, ripetuto automaticamente,    è bastato a lacerare il velo che da anni ricopriva la vita di te e di

tua madre. Si è fatta palpabile la precisa sensazione della vostra totale solitudine, voi due, così

orgogliosamente isolate, senza legami, senza nessuno a cui telefonare per condividere almeno un

poco il peso e l'angoscia dell'attesa.

È stato come se, attraverso quel gesto banale ripetuto infinite volte, ti fossi vista improvvisamente

dall'esterno, come realmente eri. Ti è sfuggito un debole singulto: la Clara smarrita ed incerta,
seduta in quella grossa stanza semibuia ha osservato con occhi scettici la Clara di Milano, quella dei

successi quasi quotidiani nella prestigiosa multinazionale. A Milano il telefono non taceva mai,

bisognava muoversi velocemente, decidere in un secondo ciò che era meglio fare. Ed ora, invece,

come in uno specchio beffardo, vedevi quella che forse era la tua vera realtà, la tua impotenza.

Negli ospedali il tempo si addensa, quasi si immobilizza, forma una massa opaca in cui il prima e il

dopo si confondono. Poi, sorprendentemente, all'improvviso il tempo accelera, qualcosa accade. Hai

riflettuto a lungo su questo strano paradosso. Tenevi gli occhi bassi, potevi sembrare quasi

addormentata. Le ore sono trascorse lente e inesorabili senza che accadesse nulla. Ogni tanto,

dall'altra parte del vetro, coglievi il movimento trafelato di medici ed infermieri tra i letti distanti.

Nella sala d'attesa entravano ed uscivano persone tutte uguali, tutte con la medesima aria

rassegnata. Ti sentivi estranea, inerte come un minerale, ed I tuoi occhi seguivano    senza pensieri la

geometria di quei movimenti, le nuove entrate e le uscite su quel proscenio vuoto.

Hai chiuso gli occhi, come se fossi assente, per dimenticarti dell'incubo che stavi vivendo. In quella

luce sempre uguale il tempo ha cessato di esistere, è diventato un unico enorme istante di infinita

attesa. Fino a quando    non hai percepito istintivamente che    qualcosa stava per accadere, hai

rialzato di scatto la testa e    di fronte a te c'era lo stesso giovane medico che ti aveva parlato. Hai

guardato automaticamente l'orologio e ti sei stupita che fosse ancora lì, in servizio dopo tante ore.

Ti ha fissata con uno sguardo triste, come se ti stesse osservando già da un pezzo. Ha indicato il

vetro e ha detto in fretta: «Purtroppo, signora Caputo, la situazione di sua madre resta grave,

manterremo ancora la prognosi riservata. Ho pensato giusto venirglielo a dire. La nostra diagnosi

iniziale è stata confermata: avvelenamento da farmaci».

« È cosciente?» hai chiesto senza pensarci, accorgendoti subito dell'assurdità della tua domanda.

«Purtroppo ancora no» ha risposto scuotendo la testa un poco dispiaciuto. Notando la rapida

contrazione ansiosa del tuo viso, ha    subito aggiunto: «Il decorso in questi casi è imprevedibile».

Dopo qualche secondo ha precisato, come se volesse tranquillizzarti almeno un poco: «Non

possiamo sbilanciarci. Potrebbe tornare in sé tra un'ora come tra un anno. Purtroppo non lo
possiamo sapere...».

“O forse mai” hai pensato tu come una logica prosecuzione di ciò che lui aveva detto.

Forse la tua tristezza lo ha colpito, non so, ma con una voce diversa ti ha chiesto: «Se vuole può

restarle accanto per qualche minuto. Non troppo, però».

Ti sei irrigidita per un attimo. Non ti aspettavi che te lo chiedesse. Lui si è incamminato verso una

porta poco distante, tu lo hai seguito come un'automa.

Quando sei arrivata accanto al letto la tua angoscia è cresciuta. «Sembra già morta» ti è sfuggito di

dire a voce abbastanza alta. Il giovane medico ti era ancora accanto, ti ha sentita. Con affetto ha

stretto il tuo braccio, come colpito dal senso di abbandono che traluceva intensamente intorno a te.

Ti sei voltata di scatto, lui ti ha rivolto uno sguardo cordiale.

«Resti ancora un poco. La lascio sola» ti ha bisbigliato ad un orecchio. Mentre si allontanava si è

ancora voltato ed ha aggiunto: «E, mi raccomando, le parli».

Tu allora hai fissato il volto immobile di Liliana, la rigida postura del suo corpo inerte e le parole

terribili che avevi detto poco prima le hai sussurrate di nuovo come un verdetto o uno scongiuro:

«Sembra già morta». Ti sei piegata un poco verso di lei e hai provato a parlarle, ma ti è uscita

solamente una pesante catena di domande senza risposta: «Che cosa dovrei dirti, mamma, che

ancora non ti ho detto? Mi ascolteresti? Perché non siamo mai riuscite a capirci? Che cosa hai

sempre voluto da me? Perché lo hai fatto?».

Si è affacciata dentro di te una assurda fiducia, che si svegliasse proprio in quel preciso momento,

che puntasse contro di te il suo sguardo severo e ti parlasse con il vecchio tono duro e perentorio,

proprio quello che qualche volta te la aveva fatta odiare quando eri piccola. L'illusione di un'ombra

sul suo viso ti ha dato per un istante l'impossibile certezza che stesse per accadere.

Hai preferito tacere e hai continuato a guardarla in silenzio. Non molto tempo dopo    il    giovane

medico è tornato e senza il bisogno di altre parole hai capito che dovevi andartene.

Con un gesto spontaneo, uscendo dalla sala ti sei incamminata verso il posto che avevi occupato,

ma lui, posando lievemente una mano sulla tua spalla,    ti ha indicato l'uscita del reparto.
«Meglio che vada, signora. Si riposi un poco. Restare qui non servirebbe più a nulla. Qualunque

cosa dovesse accadere, la avviseremo». Con uno sbrigativo cenno di saluto si è subito allontanato.

Hai fatto senza pensare ciò che lui ti aveva suggerito. Eri ormai priva di volontà, portata dalla

corrente. Ti sei ritrovata come una sonnambula di nuovo nello spazioso soggiorno di tua madre

dove tutto era iniziato. Era ormai sera e la luce radente del tramonto batteva attraverso la stretta

finestra come un corona dorata sull'impettito ritratto di tuo padre.

Sei rimasta a lungo immobile di fronte al divano e ti è parso che nella deformazione della stoffa si

intravedesse ancora la sagoma di tua madre. Solo in quel momento è emersa nella sua terribile

chiarezza la domanda che avevi sfiorato mille volte senza mai pensarla sino in fondo: perché lo

aveva fatto?.

Hai allora mosso avanti e indietro nella tua memoria le immagini di ciò che era accaduto dopo il tuo

arrivo e hai rivisto infinite volte la vostra aspra discussione, la tua e la sua cattiveria che trapelavano

dalle parole che vi eravate dette. «Possibile?» ti sei domandata con angoscia. «Possibile che siano

state le mie parole dette quasi senza pensare a spingerla a questo gesto senza ritorno?». E allora di

nuovo hai ripetuto come se lei ancora lei ti potesse sentire: «Mamma, perché lo hai fatto? Perché?».

Eri ancora immobile al centro della sala, paralizzata nel gorgo di un angoscioso senso di vuoto,

quando il trillo improvviso del campanello di casa ti ha fatto trasalire.

Hai avuto appena il tempo di chiedere al citofono: «Chi è?». La voce imperiosa di qualcuno poco

abituato ad aspettare ti ha ordinato con tono deciso: «Carabinieri.    La prego di aprire. Le dobbiamo

parlare».

Sono entrati quasi senza salutare. Erano due, piuttosto robusti nella corporatura, hanno subito

iniziato a guardare istintivamente in giro come se il loro accertamento fosse immediatamente

iniziato. Il più anziano ha buttato una rapida occhiata al ritratto di tuo padre e la sua faccia si è

aperta in un largo sorriso.

«Ma quello è Franco, accidenti!» ha esclamato sorpreso e ti ha guardata, forse per la prima volta,

con uno sguardo stupito.


«E lei è Clara, di sicuro» ha detto con tono quasi cordiale.

Il loro atteggiamento sospettoso è rapidamente mutato. Hai notato involontariamente divertita come

la trasformazione si compisse in un istante davanti ai tuoi occhi. Un'aria di amichevole familiarità si

è resa quasi tangibile nella stanza.

«Mi dispiace» ha detto il più anziano. E l'altro con un filo di imbarazzo ha aggiunto: «Ci scusi, ma

quando accadono episodi come questo dobbiamo subito inter...» Si è immediatamente corretto: «...

accertare i fatti insieme con chi ne è stato testimone».

Hai scosso la testa. «Purtroppo posso aiutarvi ben poco. Io in quel momento dormivo». Hai notato

come rapidamente il più giovane dei due ha aperto l'incartamento che aveva in mano e lo ha

appoggiato sulla tavola.   

«È solo una formalità...»    ha aggiunto con tono noncurante mentre scriveva.

«Ed è accaduto qualcosa in precedenza, non so, una lite?» ha chiesto quello che aveva riconosciuto

tuo padre.

Tu hai riflettuto qualche secondo. Era il caso di raccontare per filo e per segno il vostro isterico

diverbio, complicarsi la vita con mille spiegazioni che rischiavano di ingrandire come una

montagna i soliti battibecchi famigliari?

Hai preferito lasciar perdere. «Niente che si possa definire tale, le solite discussioni, non diverse dal

solito».

«Già già, lo so bene, in famiglia è difficile che non si discuta molto. Ne so qualcosa anch'io» ha

commentato il più anziano con un sorriso, marcando ironicamente le sue parole. Si è guardato di

nuovo intorno, quasi che non sapesse bene che cosa fare.

L'altro ha dato un'occhiata all'incartamento che aveva davanti e ha commentato ad alta voce con

attenzione: «Il referto medico riporta come causa del coma profondo l'avvenuto    avvelenamento da

farmaci. Possiamo verificare?». Si è volto verso il collega che un poco imbarazzato ha chiesto: «Mi

perdoni Clara, ma questa è la procedura. Per favore, può indicarci dove vengono tenute le medicine

qui in casa?».
Li hai accompagnati in bagno e, senza esserne ben sicura,    hai indicato l'armadietto appeso in un

angolo. Le numerose scatole, buste e barattoli accatastati disordinatamente sui due piccoli ripiani

hanno attirato la loro attenzione.

«Paroxetina, Fluoxetina, Sertralina, Zaeplon, Lorazepam. La signora Liliana era ben fornita» hai

sentito che diceva quello più anziano rivolgendosi al collega.

«Non si preoccupi, maresciallo, sto annotando tutto» ha risposto l'altro continuando a scrivere.

Hanno aperto qualche scatola a caso. Alcuni dei contenitori erano vuoti.

«Probabilmente questo spiega tutto» ha osservato il Maresciallo con un sospiro come se questo

bastasse a far quadrare il cerchio delle supposizioni.

«Ma davvero lei non aveva notato niente?» ti ha chiesto con un un rapido lampo di sospetto nel suo

sguardo.

«Sono arrivata solo ieri» hai obiettato mantenendo la tua aria tranquilla. «E qui ad Altano torno

soltanto due o tre volte all'anno. Mi spiace, non potrei esservi molto utile».

Lui ha fatto ampi segni di assenso, come se questa sommaria spiegazione bastasse.

«Già già, lei è la figlia che vive a Milano. Ora ricordo che Carlo me ne aveva parlato. Che dice

Appuntato, per adesso potrebbe bastare? Quello che è successo lo abbiamo accertato» ha detto con

tono formale il Maresciallo.

«Per favore, firmi qui». Ti ha indicato con grande gentilezza un punto del foglio. «Noi per ora

abbiamo finito». Quasi che dovesse giustificare la velocità con cui tutto si era svolto, ha aggiunto

con un poco di commozione mentre si avviava verso la porta: «Conoscevo bene suo papà. Un uomo

d'onore.    È morto facendo il suo dovere».

«Le faremo sapere. Probabilmente in seguito ci sarà bisogno che venga da noi, alla tenenza in Via

Giustino. Tanti auguri per sua madre. Buonasera» ha aggiunto    l'Appuntato muovendosi

velocemente verso la porta.

Sono usciti in fretta, accennando ancora un ultimo saluto.


Sprofondata nella vecchia poltrona, hai continuato ad aspettare con il tuo cellulare in mano. Ogni

tanto buttavi un'occhiata ansiosa al display acceso come se questo bastasse a farlo parlare. Il tempo

ha continuato a scorrere lentamente e verso mezzanotte non hai più resistito.

Hai cercato velocemente il numero del pronto soccorso e hai chiesto se c'erano novità. La voce che

ti ha risposto non era quella del medico che avevi conosciuto.    Appena ti sei presentata, hai

percepito istintivamente una nota imbarazzata nel tono freddo e preciso con cui, dopo un breve

silenzio, qualcuno ti ha detto: «Attenda un minuto. Vado a cercare il responsabile».

Il tempo è scivolato via ancora più lentamente, poi un'altra voce ha finalmente risposto: «Pronto?

Lei è la figlia di Liliana Revelli?». Hai sentito che cercava le parole più adatte: «La stavamo proprio

ora per chiamare. Purtroppo debbo darle con rincrescimento una pessima notizia: sua madre è

deceduta inaspettatamente una ventina di minuti fa. Si è trattato di un peggioramento estremamente

rapido e quasi inspiegabile. Non abbiamo potuto fare nulla, mi spiace. Venga, se può appena

possibile. Sentite condoglianze». Ha subito riattaccato.

Hai fissato il telefono come se potesse dirti con una risata: «Tranquilla, Clara, non è successo

niente, ho solo scherzato».   

“La mamma è morta”: ti sei sforzata di mettere a fuoco la consapevolezza di ciò che era accaduto,

come se continuasse a sfuggirti qualcosa nella concatenazione dei passaggi di quella storia insensata

che ti stava soffocando. Hai percepito distintamente dentro di te qualcosa che si rompeva, i

frammenti giganteschi del tuo passato sono precipitati rovinosamente al fondo del tuo essere, laggiù

dove non potevi più arrivare.

Sei crollata sulla poltrona ed hai pianto a lungo. Improvvisamente nel vuoto doloroso della stanza si

è sentito un suono.

«Bip!»

Il familiare segnale dei messaggi in arrivo ha spezzato il silenzio glaciale che ti bloccava e ti ha

fatta trasalire. Hai guardato intorno, cercando di capire da dove proveniva. Sulla piccola libreria in
fondo alla stanza, hai notato, era come se il vecchio cellulare    di tua madre, con la sua assurda

copertina color fucsia, ti stesse chiamando.

Ti sei precipitata in avanti senza pensare e lo hai afferrato con un sospiro affannoso, quasi che ci

fosse al suo interno un talismano da cui avresti potuto finalmente ottenere un aiuto.

Ti è bastata un'occhiata. C'era un messaggio appena arrivato, brevissimo:

Perché non mi hai risposto?

Lo hai continuato a fissare per almeno un minuto, immobile, attendendo che qualche altra parola

venisse aggiunta subito dopo e ti chiarisse tutto. Ma sullo schermo ha continuato a stagliarsi con

aria di sfida quella semplicissima domanda.

Hai subito cercato chi lo avesse inviato. In alto sul display c'era un nome che non conoscevi e che

tua madre non aveva mai pronunciato davanti a te:

Attilio

Hai allora controllato. Le chiamate in arrivo, durante la giornata, erano state molte, tutte provenienti

da lui. Ma che cosa voleva?

Non sei riuscita a trattenere una risata isterica, spezzata. Che cosa avresti dovuto scrivere in

risposta? Che tua madre, mentre lui attendeva tranquillamente la sua telefonata, era impegnata a

morire?

Stavi per scagliare con rabbia il vecchio cellulare contro il muro, ed ecco di nuovo quel segnale di

avviso a richiamare la tua attenzione. È stato come se qualcuno    avesse fermato con forza la tua

mano. Un lampo ha attraversato la tua mente: forse quella poteva essere una strada per capire, per

dare un senso all'incubo che stavi vivendo, valeva la pena di provare a percorrerla. Ti sei bloccata e

hai letto in fretta:

Posso parlarti?

È stato come se lo avessi davanti, lo vedevi, Attilio, quello sconosciuto, era lì di fronte a te e

attendeva la tua risposta.

Hai fissato a lungo nervosamente la nuda parete, senza sapere bene che cosa fare. Ti è venuta
spontanea la soluzione più automatica: provare a telefonare a quel numero da cui il messaggio era

stato inviato, spiegare tutto. Ma spiegare che cosa, adesso che Liliana, colei a cui    Attilio si stava

rivolgendo, non c'era più? Dire semplicemente che la mamma era morta poco prima? E a chi

dopotutto? Chi era Attilio e perché si rivolgeva a tua madre in un tono così confidenziale? Che

incredibile coincidenza!

In un attimo l'intrico di queste considerazioni ha ruotato nella tua mente. Ti sei bloccata mentre già

stavi per premere il tasto della chiamata. Senza più pensarci, senza saper bene che cosa volevi,    hai

scritto tu, come se fossi tua madre, come se fosse lei, come se fossero le sue dita a battere

rapidamente:

Non ora

Non hai dovuto attendere molto, è arrivata quasi subito la sua risposta:

Ma allora ci sei! Sia lodato Dio. Perché non vuoi più parlarmi? Sei ancora arrabbiata?

Per un istante sei stata afferrata dall'incertezza. “Che cosa sto facendo?” ti sei chiesta con uno scatto

ansioso. Ma hai sentito subito che questa era la cosa giusta. Era la sola traccia che avevi, dovevi

seguirla. Era come se avessi afferrato il capo di una fune tesa. Se lo avessi lasciato avresti perso

tutto. Sapevi che dovevi andare avanti, in qualunque modo. Dovevi riuscire a scoprire la verità.

E allora hai scritto:

Tu lo sai

Di nuovo la sua risposta è giunta prestissimo:

Certo, lo so. E so bene di saperlo solo io.

Non importa se non vuoi più parlarmi, ti capisco.

Allora ti scriverò una mail, come facevamo all'inizio.

Forse è meglio così, riuscirò a spiegarti tutto.

A presto.

Poco dopo è arrivato un altro messaggio, l'ultimo:

Un giorno di questi ti vengo a trovare

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