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BOZZA 1
-1-
Era il 6 luglio 2013, un sabato. So bene che per molti di voi che
probabilmente ancora non erano nati la cosa sarebbe passata inosservata,
ed avrebbe prevalso spontaneamente il buon cuore, la comprensione, il
sentiamoci tutti uguali e solidali. E' naturalmente quello che avrei pensato
anch'io se allora lo avessi potuto vedere, chiuso nella sua piccola auto,
lanciato verso le meritate vacanze, muovere avanti e indietro nella sua
piccola testa i soliti pensieri, gli stessi che avreste trovato uno, due, dieci,
venti anni prima.
Bloccato nel traffico intenso del fine settimana lungo l'autostrada A10
direzione Genova, Carlo sognava.
Il tempo, inesorabile censore, aveva emesso da tempo, appunto, la sua
inesorabile sentenza. A Carlo era stata lasciata libera solo la piazzola dei
sogni.
Gli esami erano finiti il giorno prima e subito era partito. Niente di
speciale; la sua numerosa parentela sparsa tra Genova e La Spezia era
sempre pronta a riaccoglierlo.
Ripensava ai colleghi conosciuti in commissione. Il presidente ormai
vicino alla pensione, brontolone e scostante, il collega di matematica,
corretto e distaccato come un bravo impiegato intento a stilare i sui
rapporti riservati, e soprattutto Viola, la collega di inglese, la sola presenza
amichevole e sorridente in quella riunione di morti viventi, una simpatica
ragazza non molto alta e dalle floride forme giunoniche.
Ci sono storie – si diceva, ripensando a Viola – che partono da sole e storie
che hanno bisogno di una piccola spinta per decollare, anzi di uno slancio
energico capace di farle alzare in volo.
Su quella carreggiata diritta, nella confusione delle auto stracariche e degli
automobilisti inferociti, era come se si aprisse in lui una luminosa galleria
di ricordi da percorrere e ripercorrere con immutato piacere. Era il modo
migliore per riempire le tante ore vuote del lungo viaggio verso Deiva
Marina.
Sarebbe stata un'impresa molto difficile – pensava Carlo nel gioco delle
sue fantasie - far capire a un extraterrestre che cosa erano in Italia gli
Esami di stato. Sarebbe apparso sicuramente come un bizzarro spettacolo,
una specie di rituale o una grandiosa opera buffa in cui erano coinvolti
migliaia di giovani abitanti della penisola italiana. Ed anche quei
volenterosi extraterrestri - sorrideva Carlo – avrebbero provato uno
spontaneo moto di pietà verso gli insegnanti nominati, interni ed esterni,
rassegnati al loro tedioso ed inutile compito, sopportato con stoica apatia.
Come lui, Viola era ancora una docente instabile ed itinerante senza una
sede definitiva. E come lui - lo ripeteva a se stesso per la millesima volta -
viveva sola, tranquillamente single, o almeno così gli aveva detto.
Ripensando a quella intesa speciale, vedeva loro due come abili nuotatori
capaci di emergere insieme, con le loro teste accostate, dal piatto mare
soporifero in cui tutta la commissione d'esame, per giorni e giorni, era
rimasta quotidianamente immersa. E con un rapido montaggio, da questi
piacevoli fotogrammi di potenziale storia futura il pensiero sfrecciava
verso il passato, a una scena che gli capitava spesso di rivivere, quando,
non molti anni prima, era stato davvero ad un passo dal consolidare
un'ottima intesa con Anna, un'amica della sua cara cugina di Chiavari.
C'era stata anche allora – e, nel ricordo, lo sottolineava adesso con ironia -
una spontanea convergenza delle loro anime che avrebbe potuto
trasformarsi quasi senza sforzo in una duratura unione, una lunga vita
insieme, lui ed Anna, della quale era in grado di vedere, come in uno
scorcio rapidissimo, tutti i futuri sviluppi. Con un certo fastidio rispuntava
allora la domanda: che cosa era mancato? La risposta ai suoi occhi
appariva scontata: sempre e soltanto la sua terribile timidezza.
Fece un rapido calcolo. All'epoca di quel promettente incontro finito nel
nulla lui aveva trentasette anni... Dunque erano già passati cinque anni! E
con un clic automatico la sua mente completò: sembra ieri.
Immerso nel caldo afoso di mezzogiorno, nella noia spessa del viaggio
solitario lungo la linea retta dell'autostrada, sempre in direzione di Genova,
nulla era cambiato. Carlo tornava e ritornava a darsi la medesima risposta.
La timidezza, soltanto la timidezza, sgretolava ogni ponte che aveva
provato a lanciare verso le donne che aveva conosciuto. Chissà – si diceva
- forse questa volta, con Viola, sarebbe stato diverso. Valeva comunque la
pena di non rinunciare, come era sempre accaduto. Continuava a ripeterlo
a se stesso. Doveva provare a mettercela tutta, andare fino in fondo. Ma la
buona volontà non bastava, lo sentiva. E con un moto pendolare ripartiva
da capo.
Coniugare i verbi al condizionale passato era la cosa che gli riusciva
meglio: sarei andato, avrei mangiato, avrei incontrato, sarei stato, e così
via. Ne era tranquillamente consapevole, e il professore di italiano che era
dentro di lui aggiungeva e precisava: ancor meglio me la cavo con i verbi
servili: sarei potuto andare, avrei potuto mangiare, avrei voluto incontrare,
avrei potuto eccetera eccetera. Era questo – lo vedeva - lo stile costante
degli infiniti bilanci della propria vita che lui si costringeva a fare. Anche
in quel momento ne era perfettamente consapevole.
Carlo controllava ogni momento l'orologio sul cruscotto. Cullato dal
ronfo regolare del motore manteneva la bassa velocità della sua piccola
utilitaria e continuava a sognare. I suoi pensieri, adesso, si spingevano in
avanti verso le serene giornate che stavano per aprirsi. La costa scoscesa, il
silenzio, la pace. Bagni su bagni, un piacere immenso che avrebbe
consentito un riposante oblio. Già pregustava le tante ore ed ore disteso al
sole, immerso nel dolce far niente. Tra poco avrebbe anche rivisto i vecchi
amici della giovinezza, le amicizie veramente inossidabili.
In quel momento, però, poco oltre Alessandria, non c'era ancora niente di
tutto questo e Deiva Marina, il suo paese natale, era ancora troppo lontana.
Carlo non era abituato a viaggiare da solo. Quel lungo silenzio diveniva
sempre più intollerabile. Con un gesto automatico ripetuto migliaia di
volte, spinse nel lettore delle musicassette – un raro lusso molto vintage
offerto dalla sua vecchia auto immatricolata nel 1993 – un venerato
cimelio musicale degli anni '70 che custodiva gelosamente, uno dei tanti di
cui andava fiero. Dalle casse malconce proruppe un bel pezzo sincopato e
la voce gutturale di Barry White lo ricaricò un poco; ma la noia che aveva
dominato le lunghe giornate degli esami pareva averlo seguito di soppiatto
e ancora stazionava all'intorno come fumo tossico nell'auto di un fumatore
incallito. Troppo soffocante e limacciosa ebbe di nuovo il sopravvento.
Dopo pochi minuti di musica assordante, pigiò con un gesto di fastidio il
pulsante di deiezione, la musica si interruppe e fu sostituita da un
notiziario, la voce concitata di uno speaker. Quel tono allarmato suonò
dentro di lui come un segnale di pericolo e ascoltò con attenzione le prime
parole. Era accaduto qualcosa di importante, non capiva bene dove
esattamente, probabilmente in Africa, sì, in Nigeria, una strage, all'alba un
commando di estremisti islamici aveva fatto irruzione in una scuola, una
quarantina i morti, bruciati vivi, in buona parte studenti. Quelle parole
tremende bloccarono per un secondo il rollio degli innocui pensieri che si
erano mossi dentro di lui fino a quel momento. Come accade spesso in
simili casi, confrontò istintivamente la propria e quella di quei disgraziati,
lui in viaggio verso il mare, di cui pregustava il piacere, e la morte
terribile di quegli innocenti. Ebbe per qualche istante la sensazione di
qualcosa di già vissuto, il senso sfuggente di una piccola vergogna che
non si poteva più cancellare, insieme alla confusa sensazione di una
perdita che era rimasta indietro, in un punto lontano del suo passato ormai
definitivo ed immutabile. Faticava a ricordare quando e dove aveva già
vissuto e pensato tutto questo, molti anni prima. Sentiva che era un ricordo
importante, che gli apparteneva nel profondo, ma in quel momento
l'attenzione ottusa del suo stupido impegno nella guida, lo sguardo fisso
sulla strada, non consentiva una nitida messa a fuoco. Poi ecco,
improvvisamente farsi avanti l'immagine precisa di quel giorno. Era stato
il suo primo viaggio importante, frutto di tanti mesi di risparmi, anno
2001, gli Stati Uniti. L'11 settembre era a New York, i primi giorni di una
splendida vacanza. Lui stava uscendo dalla metropolitana e vedeva quella
massa di gente correre con il volto stravolto, guardandosi alle spalle.
Girato l'angolo, vide anche lui la punta della Torre bruciare. Nella sua
mente era allora scattato un automatismo, si era subito preoccupato
stupidamente, in quella tragedia, della cosa più squallida e
insignificante.«Ma che sfortuna, adesso mi rovino la vacanza.» Subito se
ne era vergognato. Anche ora, nel caldo del piccolo abitacolo, il ricordo
riportava a galla quella vergogna, gliela riconsegnava come se lui fosse
ancora a New York, la vedeva riflessa davanti a sé nella sorte di quei
poveri studenti nigeriani. Ma – si chiedeva – che cosa avrebbe potuto fare
allora e che cosa poteva fare adesso? Saliva dentro di lui uno sconsolato
senso di impotenza, come se la rinuncia a qualsiasi tentativo di risposta gli
apparisse inevitabile.
Soffocato dall'inquietudine, spense la radio, si rifiutò di ascoltare. Lo si
può capire, lo avreste giustificato anche voi. Troppo scure le nubi che
aleggiavano da tempo sul piccolo pianeta terra di fronte a questo piccolo
uomo, impossibile sopportarne la vista. Con un'ampia virata, la sua mente
planò di nuovo con moto deciso sul terreno abituale e rassicurante dei
sogni ad occhi aperti.
A risvegliarlo quasi subito intervenne il suono fastidioso del telefonino.
Inutile dire che Carlo, nel suo amore per un passato che forse non c'era mai
stato – le tante cose logore ed usate di cui si circondava stavano a
dimostrarlo – odiava i telefonini, soprattutto i modelli più recenti pieni di
giochi e funzioni varie. Coerente fino in fondo con i suoi principi - giusti o
demenziali che fossero - si era adattato a portare con sé un vecchio
modello della fine degli anni '90 appartenuto a sua sorella, giusto per le
impellenti necessità imposte dal suo doppio lavoro. Come tanti altri,
infatti, da qualche tempo Carlo aveva abbinato alle entrate ufficiali, ma
non sempre sicure, della sua occupazione di insegnante precario, una
piccola integrazione abbastanza vantaggiosa come consulente e
collaboratore di una piccola casa editrice di Torino, proprietà di un suo
vecchio amico dell'era ormai lontana degli studi universitari. Benché molto
piccola, era abbastanza conosciuta e apprezzata, soprattutto per l'ottima
cura dei testi pubblicati.
Il telefono continuava a suonare. Afferrato con un moto di fastidio
l'apparecchio, in pochi secondi la mente di Carlo entrò in azione. Controllò
il display. Era il numero delle Edizioni Beccalossi. Quella in arrivo era
dunque effettivamente una telefonata di lavoro. Valeva la pena rispondere.
E Carlo, controvoglia, si rassegnò a farlo.
«Pronto...?»
«Che fai vecchio lavativo, sei ancora tutto impegnato a riposarti?».
Riconobbe subito dal tono la voce del suo amico, nonché editore e datore
di lavoro, Renato Beccalossi. Era una sua caratteristica. La sua aria allegra
e scanzonata aveva ingannato spesso più di un interlocutore, che la
scambiava, sbagliando, per una sicura prova di ostentata superficialità.
Sotto quella superficie si nascondeva invece una volontà di ferro, molto
abile nel tessere sinuosamente le vie migliori per il raggiungimento dei
propri obbiettivi.
«Sei ancora impegnato a far finta di lavorare a scuola o ti stai già
riposando in proprio a casa tua? Ma cosa fate voi insegnanti tutta l'estate
mentre gli altri ruscano?»
«Non credere, è dura anche per noi. Con questo caldo a scuola si moriva.
Ho finito gli esami proprio ieri.»
Il tono di Renato, dietro la patina divertita della sua voce, lasciò trapelare
un forte interesse. «E adesso dove sei?»
Un poco seccato, Carlo assunse scherzosamente un timbro didattico:
«Sono in macchina e sto andando a Deiva Marina. Non se ne può più per il
caldo. E il traffico sta aumentando. Tra poco inizierà il tratto tremendo
dell'autostrada verso Genova e non posso rischiare la pelle con questo coso
in mano». L'altro ridacchiava. «Non possiamo riparlarne tra un po'?» buttò
lì Carlo; ma evidentemente Renato non lo aveva nemmeno ascoltato,
perché subito sbottò: «Stai andando a trovare i tuoi al paesino au bord de
la mer? Ma è perfetto!» Carlo restò un poco interdetto.
«Scusa, e perché?»
Renato cambiò immediatamente tono, passando in un attimo dal faceto al
professionale. «Se mi dai tempo un secondo, adesso ti spiego. E fai
attenzione alle curve.»
Fu così che Carlo sentì per la prima volta pronunciare il nome dello
scrittore americano Thomas McWine. Un caso letterario esploso all'inizio
degli anni '50, divenuto poi un' enigma nei decenni successivi.
«Al successo clamoroso del suo primo romanzo – a Hollywood ne hanno
ricavato anche un film abbastanza famoso – non sono seguite altre
pubblicazioni.» spiegò il suo amico Renato. «Proprio per questo motivo,
per un certo tempo la sua figura negli Stati Uniti ha acquisito contorni
leggendari...» Carlo lo interruppe subito, come se volesse far risaltare la
propria competenza: «Un po' come è accaduto per altri famosi scrittori
americani come Salinger o Pynchon?» Questa vicenda incominciava ad
incuriosirlo ed era evidente che Renato se ne era perfettamente accorto.
«Esatto, ma con un'impronta ancora più morbosa alimentata dai giornali
scandalistici. Pynchon è sicuramente un'altra cosa.». Carlo si accorse di
aver aperto un capitolo pericoloso che rischiava di andare per le lunghe.
Non era il caso di lanciarsi in una discussione letteraria nel traffico sempre
più intenso e con una mano sola sul volante. Renato, intanto, aveva
continuato a spiegare come per quasi un trentennio ciclicamente
rispuntasse ogni tanto da qualche parte la ricerca più o meno pretenziosa
delle vere ragioni che avevano spinto il misterioso scrittore ad
abbandonare gli Stati Uniti e a trasferirsi in Italia. «L'interrogativo sempre
uguale,» qui, sicuro dell'effetto ormai raggiunto, Renato sottolineò
abilmente le sue ultime parole con una lunga pausa «la domanda sibillina
che concludeva tutte quelle ricostruzioni più o meno fantasiose, pubblicate
anche su giornali importanti, era all'incirca sempre la stessa... » Ancora
una pausa. «Non vedo l'ora di sentirla...» sussurrò Carlo col tono di chi ne
ha abbastanza. La telefonata si stava protraendo troppo e il peso del
cellulare sembrava aumentare con il passare dei minuti. Un po' risentito
Renato lo bloccò subito.«No, Carlo, bravo insegnante di lettere e
apprezzato collaboratore delle Edizioni Beccalossi, qui non è il caso di
scherzare, perché la cosa si fa seria, soprattutto per noi.» Un tantino
intimidito Carlo tacque e Renato, padrone della scena, concluse
rapidamente. «L'ipotesi solleticante che periodicamente è ricomparsa su
quotidiani, riviste e pubblicazioni titolate, riguardo al destino di quel
grande giovane scrittore scomparso nel nulla, era sempre questa:
probabilmente ha scritto molto altro, ma, per segreti motivi, forse di
protesta, ha scelto di rinunciare a qualunque pubblicazione dei suoi lavori;
la futura riscoperta ci riserverà grandi sorprese. Questo, come ti dicevo,
più o meno fino alla metà degli anni '80.» «Perchè... dopo?» chiese quasi
automaticamente Carlo. E l'amministratore unico delle Edizioni
Beccalossi concluse teatralmente «Poi, come accade di solito, a poco a
poco ci si dimenticò di lui».
Renato – il compagno di tante bevute negli anni dell'università lo ricordava
bene – era un affabulatore abilissimo e l'interesse di Carlo, dopo la
veniale manifestazione di insofferenza, era di nuovo cresciuto. «La
domanda che allora potresti farmi,» marcò infine Renato, come se gli
apparisse scontata la risposta, «è sicuramente questa: noi che cosa
c'entriamo? Qui sta il bello. Cerco di spiegartelo ancora più chiaramente.»
Senza perdere di vista la strada davanti a sé e la lunga fila continua di auto
sfreccianti che superavano la sua utilitaria troppo lenta, Carlo, vincendo la
stanchezza, cercò di mantenere viva la concentrazione.
«Un amico con i contatti giusti» continuò Renato, «mi ha passato una
dritta in esclusiva molto promettente». Carlo non riuscì a frenare un
sorriso. Conosceva già le “dritte” di Renato dal tempo lontano
dell'università. Erano quasi sempre inconsistenti. Veramente – rise Carlo -
erano dritte troppo curve, ripiegate sulla sua presunzione.
L'intraprendente editore torinese riassunse velocemente la
questione.«Questo scrittore, McWine, ha vissuto per tantissimi anni in
Italia, precisamente in un piccolo paese dell'Umbria che si chiama
Monastico. E' morto circa un mese fa. Gli eredi americani, che prima
nessuno aveva mai visto, come era prevedibile si sono fatti subito vivi. E a
provvedere allo sgombero e alla ripulita della casa per la vendita
immediata è stato incaricato un amico del mio amico, un imprenditore
umbro, che gli ha passato un po' casualmente una bella soffiata.» Renato
tacque per un momento, come se volesse caricare le sue parole di
suspense. «Svuotando lo scantinato è saltata fuori una cassa piena di fogli
accatastati confusamente, manoscritti e dattiloscritti. Il mio amico, quando
è venuto a saperlo, conoscendo da un pezzo qual è il mio mestiere mi ha
subito passato questa utile informazione.» . Renato concluse, scandendo
con sicurezza le ultime parole « Pensa, nessuno oltre a noi lo sa.» E poi,
sbrigativamente aggiunse, «o almeno, così sembra». Il futuro editore di
successo tacque, come conquistato dal proprio discorso e dalle ipotesi
luminose che esso dispiegava – un'ascesa clamorosa, internazionale, tutti
ne avrebbero parlato, l'evento letterario dell'anno.
Ma il silenzio si protraeva. Un po' interdetto Renato chiese: «E allora?»
Carlo ancora taceva e infine la semplice osservazione con cui ruppe il suo
lungo silenzio, molto spontanea, raggelò un poco l'esaltazione dell'amico:
«E io che c'entro? Che cosa potrei fare?» Senza dar peso alla nota risentita
che risuonava chiaramente dietro a queste domande superflue, Renato,
riassumendo rapidamente la sua veste neutra e professionale, riprese e
chiarì: «Ecco l'idea che ti passo. Scendi in Umbria, trovi questo paesino e
prelevi la cassetta o baule che sia. Mi hanno assicurato che è facilmente
trasportabile. Poi, con calma, darai un'occhiata a quelle carte e comincerai
a lavorarci sopra. Potrebbe uscirne qualcosa di buono, molto buono.»
Subito, con una domanda molto ragionevole, Carlo seccamente lo
interruppe: «Un momento. Perché dovrebbero dare tutta questa roba
proprio a me?» Con la sicurezza di chi vede raggiunto lo scopo che aveva
programmato, Renato tagliò corto e fornì al suo amico quel chiarimento
definitivo, che – a pensarci – era implicito fin dall'inizio nel suo lungo
discorso.
«Non preoccuparti. E' già tutto organizzato. Ho già lasciato il tuo nome.
Basterà che ti presenti all'albergo che c'è in paese. Troverai una persona
che provvederà a tutto.»
Ecco! Renato si era scoperto. Non gli stava chiedendo se poteva rendersi
disponibile per questo incarico, ma lo stava sottilmente imponendo, dando
per scontata la sua disponibilità. Carlo, troppo stanco, non se la sentiva più
di polemizzare. Era ormai vicino al livello di guardia. E allora, senza
lasciare il tempo di aggiungere altro, si rassegnò.
«Va bene. Ci andrò.»
Appagato, come chi ha raggiunto la meta, Renato chiuse in fretta, gli
augurò buon viaggio e lo salutò.
Nella testa del professore, iniziò a muoversi lo sciabordio di tante ipotesi,
tutte ugualmente possibili. Rifletteva sulla strana vicenda che Renato gli
aveva raccontato. Qualcosa non tornava. I grandi scrittori – rifletteva –
lasciano sempre qualcosa, opere incompiute o abbandonate; ma non è
davvero questa la situazione che mi ha descritto Renato: questo famoso
romanziere americano completamente dimenticato, è stato l'autore di un
unico romanzo dal successo strepitoso.
«La prima domanda che allora gli farei,» si diceva, toccando il sedile
accanto, «se questo scrittore fosse qui in viaggio con me è questa: hai
continuato a scrivere? Possibilissimo, in effetti, che uno scrittore cessi di
scrivere. Seguita dalla domanda numero due: perché, allora, se hai
continuato a scrivere, non hai più pubblicato nulla?»
Naturalmente, per il famoso McWine, la pubblicazione di qualunque cosa
avesse scritto, fosse anche la lista della spesa, sarebbe stata facilissima.
Carlo era particolarmente affascinato dalla terza domanda che
necessariamente seguiva. «Allora, se hai scelto di non pubblicare i tuoi
scritti, questo significa che hai scelto di farti dimenticare?» Ma questo che
cosa poteva significare? Era tutto assurdo, l'esatto contrario di quello che
tutti gli scrittori, a qualunque latitudine, normalmente fanno. Anche quelli
che si mantengono nascosti, che odiano la celebrità, voglio alimentare la
vita delle loro opere, e questo è possibile solo attraverso la circolazione.
Tutti tentano in ogni modo di consolidare la propria fama e, come si dice,
di passare ai posteri; ai posteri l'ardua sentenza... ma perché sentenza ci
sia – osservava Carlo con perspicacia - occorre anzi tutto essere ricordati.
E allora? C'era qualcosa di strano. Iniziava a dubitare del frettoloso
entusiasmo del suo amico (amico?) Renato, quella sicurezza troppo
sbrigativa riguardo allo straordinario ritrovamento di carte inedite. Molto
probabilmente quel viaggio indesiderato che gli era stato subdolamente
imposto si sarebbe rivelato il classico buco nell'acqua. Anzi, pensò
ridendo, un bel buco nel mare, che avrebbe provveduto lui stesso a scavare
l'indomani con qualche splendido tuffo. Non era certo il caso di affrettarsi,
meglio prendersela comoda passando almeno qualche giorno tranquillo al
mare. Renato non aveva indicato nessuna data precisa. Quando doveva
andare in Umbria? Si accorse di aver dimenticato di chiederglielo. Ma che
importava?
Controllò con molta attenzione un cartello stradale che stava superando.
Sì, mancava poco. L'incanto del mare che già da parecchio splendeva tra i
suoi pensieri, lo abbagliava. Il mare più bello, si diceva , è quello della
propria infanzia. Solo questo conta davvero, la dolcezza del ritorno. Poi si
voltò di scatto verso il sedile accanto. Beffardo, immerso tronfiamente nel
sole, il telefonino silenzioso lo stava osservando. «E tu adesso stai zitto!»,
urlò scagliandolo indietro. Poi, come liberato da un grosso peso, trasse un
profondo sospiro di sollievo e finalmente si rilassò al pensiero che presto
sarebbe arrivato.
-2-
La pioggia era stata intensa, per fortuna il temporale era finito velocemente
senza far danni. La luce estiva aveva ritrovato le sue forze, ma con una
nota di dolcezza che si rifletteva nell'aria e dava a quell'ora del tardo
pomeriggio un fascino inafferrabile. Vera sedeva sulla stretta panca vicino
all'ingresso e osservava il gelsomino fiorito carico d'acqua e le gocce lente
che cadevano con ritmo leggero dai suoi rami. L'insegna della piccola
pensione, illuminata fiocamente dal lampione pubblico che si era acceso
poco più avanti, era come il segnale di un avamposto inaspettato. Tutto
attorno, infatti, sul pendio sempre più scosceso che circondava le poche
case del paese, dominavano i boschi.
«Vera, hai controllato che sia tutto a posto, che non manchi nulla nelle
stanze?»
«Sì, mamma, ho fatto tutto.»
Maria, sua madre, doveva sempre accertarsi che ogni cosa nella loro
piccola pensione funzionasse perfettamente. Vera lo sapeva e la
assecondava.
Per Vera, quello era uno dei momenti tranquilli della giornata. I pochi
clienti non erano ancora rientrati – quasi sicuramente buona parte di loro
aveva trascorso l'intera giornata ad Assisi. La preparazione della cena era
da sempre un'incombenza che la madre aveva riservato per sé. Non che
non si fidasse di lasciare Vera in cucina, ma sicuramente la qualità della
tradizione umbra, che un cartello in evidenza all'ingresso sottolineava, era
pienamente garantita da quella donna energica e precisa di 64 anni. Lei e la
madre, a volte, riflettevano su quella scelta forse temeraria che era loro
parsa la più naturale: gestire la piccola pensione interamente da sole. Le
stanze erano poche, si trattava della vecchia casa di famiglia risistemata e
modernizzata.
Vera osservava la strada bagnata e rifletteva. Spesso, le capitava di
pensare, in momenti come questo, alle opportunità che si era lasciata alle
spalle scegliendo di vivere accanto alla madre Maria nel loro vecchio
borgo. Era una piccola evasione che concedeva a se stessa, immaginare
quale vita avrebbe potuto essere la sua se non avesse deciso dieci anni
prima, alla morte improvvisa del padre, di ritornare a Monastico,
immergendosi totalmente nel ritmo quotidiano della gestione della loro
piccola impresa. Il fratello era lontano, in Australia, non se ne curava. A
lei era parso un dovere indiscutibile, garantire alla madre il suo aiuto.
Sapeva bene che era pericoloso lasciarsi andare a simili considerazioni
sulle vite alternative, un esercizio inutile che aveva come unico risultato la
malinconia. Il sole che si intravedeva basso al bordo delle colline e la
leggerezza dell'aria rinfrescata dalla pioggia recente erano come una porta
aperta per i voli dell'immaginazione. Se non fossi qui, adesso...
Scacciò questi pensieri. Aveva imparato con gli anni ad essere molto
severa con se stessa e sapeva come vincere quelle tentazioni di evasione.
Era un ammonimento costante che si rivolgeva, una cautela di fronte a
quello che le sembrava il rischio peggiore: baloccarsi con la vita anziché
viverla. Lo vedeva come un'inaccettabile viltà di fronte a ciò che la vita
offre, bello o brutto che sia. Le promesse vanno mantenute e le scelte che
facciamo vanno rispettate fino in fondo, a qualunque costo. Come?
Bastava obbligarsi a scendere sulla terra, guardarsi intorno, accettarsi.
Appoggiando le mani sul legno della stretta panca usurato dal tempo, le
ritornò alla mente la figura robusta e massiccia del vecchio americano
morto da poco, che tutti in paese avevano sempre chiamato il Professore.
Anche lui, quando scendeva in paese, amava sedere come lei in quel
momento, guardando con tranquillo distacco la piazzetta di fronte,
chiacchierando volentieri con chi capitava. Il suo viso largo contornato da
una corta barba, e la folta zazzera precocemente imbiancata le incutevano,
quando era bambina, un'istintiva soggezione, nonostante la sua grande
cordialità. Un senso di mistero si accendeva nella sua immaginazione
quando, senza farsi scorgere, fissava le rughe profonde che gli scolpivano
lo sguardo come un marinaio consumato dal vento, bloccato sulla terra
ferma. Un involontario sorriso le illuminò il volto al ricordo delle tante
volte in cui la madre partiva in bicicletta, mugugnando tra sé parole
incomprensibili, per portare al Professore il pranzo preparato con cura.
Capitava anche, un po' meno spesso, che fosse lui a fermarsi a mangiare
quel buon cibo che tanto apprezzava nella loro pensione. Fin da piccola –
le venne da pensare – si era abituata alla vista quasi quotidiana di quello
strano signore, così diverso dagli altri che vivevano in paese. Avvertì in
quel momento il senso di una perdita, come se un piccolo vuoto si fosse
aperto nel suo paesaggio quotidiano. Ripensò a lui con affetto, rivivendo le
tante volte in cui si era fermato a giocare e scherzare con lei.
Si accorse solo ora dei due che, discutendo animatamente, si avvicinavano.
Il più piccolo indicava la pensione, l'altro scrollava la testa, poco convinto.
Gli venne da ridere, pensando a scene simili che ogni tanto si ripetevano.
Qualche viaggiatore sprovveduto capitava per caso in paese, girando per
quelle strade apparentemente tutte uguali che si intersecavano dietro il
monte. Non capiva bene dove si trovasse e con un sospiro di sollievo
otteneva informazioni per ritornare verso le zone più familiari e
conosciute.
Vera notò che il più piccolo di quei due stava guardando insistentemente
dalla sua parte. Indossava un vecchio paio di jeans e una giacchetta bianca
che gli stava un po' stretta. L'altro, più disinvolto, camminava e parlava in
continuazione voltandosi indietro. Una cosa che parve a Vera abbastanza
buffa, come certe scene nei film comici quando i protagonisti litigano e
discutono senza cavar nulla dal loro indaffararsi. Notò la faccia simpatica
di quello più alto, dominata da un imponente naso, il suo goffo modo di
agitarsi. L'altro, un uomo di una quarantina d'anni un po' appesantito,
sembrava non curarsi di ciò che gli stava dicendo l'amico e procedeva
titubante ed incerto verso di lei.
Quando furono abbastanza vicini, fu quello alto a parlare con tono gentile
e una voce bella e robusta.
«»Scusi signora, ci sono anche altri alberghi in questo paese?»
A Vera venne quasi da ridere a quella strana idea, ma rispose come se
quella fosse stata la domanda più normale del mondo.
«No, questo è l'unico. Anzi, chiamarlo albergo è un po' esagerato. E' solo
una piccola pensione familiare.»
Trionfante, Elia si rivolse allora all'amico. «Vedi? Non ci si poteva
sbagliare!»
Vera riusciva ancora a trattenere il riso.
«Cercate qualcuno?»
Fu Carlo a rispondere velocemente, imponendosi sulla foga dell'altro.
«Sì, è così. Purtroppo non sappiamo bene chi sia!»
Questa battuta involontaria fece ridere insieme Elia e Vera, anche Carlo si
unì subito a loro, consapevole dell'assurdità apparente di quello che aveva
appena detto.
«No, mi sono spiegato male» aggiunse ridendo. «Noi sappiamo che qui c'è
qualcuno che ci sta aspettando, ma non sappiamo chi esattamente sia.» E
commentò a bassa voce «Sì, la situazione è più o meno questa.»
Vera si offrì gentilmente. «Se mi dite di che cosa si tratta, forse vi potrei
aiutare!»
Elia intervenne subito con la sua solita sicurezza. «Dovremmo ritirare
qualcosa, non sappiamo bene, un baule o una cassa, che è stata messa da
parte per un editore di Torino. Già è stato predisposto tutto.»
Vera rise con ancora più gusto. «Ah, ma allora siete voi?»
«Gli incaricati del ritiro? Si siamo noi. E mi pare di capire che lei forse sa
chi dovremmo incontrare,» disse Carlo. Si sentiva rassicurato. Forse ce
l'avevano fatta.
Vera rise di nuovo. «Ma certo che la conosco, quella persona! Sono io!»
Carlo e Elia si guardarono, sentendosi un po' idioti.
Fu di nuovo Elia a vincere per primo quella spiacevole sensazione
battendo una gran manata sulle spalle dell'amico. «Bingo!»
Anche Carlo sorrise all'idea del facile successo della loro impresa e si
impegnò ad esporre nel modo più chiaro e sintetico possibile il compito
che gli era stato assegnato.
Vera lo ascoltò con attenzione, poi spiegò. «Il signor Volpi mi ha lasciato
detto qualche giorno fa che presto sarebbe passato qualcuno con questo
incarico. Anche lui non aveva saputo dire chi e quando sarebbe passato,
ma sapendo che la pensione è sempre aperta non se ne era fatto un
problema.»
«Che dice? Allora possiamo andare?» Intervenne un po' troppo
sbrigativamente Carlo, che si vedeva sulla strada del ritorno e da tempo
ormai sognava la spiaggia del giorno dopo.
Forse Vera già aveva pensato a questa possibilità. Inutile fare le cose in
fretta. Si era fatto tardi e, soprattutto, due potenziali clienti inaspettati
potevano far comodo alla situazione un po' incerta della pensione
Vallechiara, anche solo per una notte. Con tono tranquillo espose la
situazione. «E' meglio andare domani. La casa dello scrittore, noi lo
chiamavamo il Professore, è un po' lontana e la stradina per arrivarci è
parecchio disagevole, meglio non avventurarci a quest'ora. Perché non vi
fermate qui? Abbiamo una bella stanza libera. Andremo con comodo
domani mattina.»
Elia non lasciò a Carlo il tempo di rispondere. «Benissimo, così ci si riposa
e si riparte tranquilli! Che ne dici Carlo?»
La risposta era naturalmente scontata. Carlo si consolò all'idea dell'ottima
cena che avrebbero potuto mangiare. Già si spandeva nell'aria un
profumino delizioso.
-3-
“Esisto ancora? Non lo so, non so chi sono. Sento che qualcosa ubbidisce
alla mia volontà. Ho un corpo. Sono un corpo? C'è qualcosa intorno,
posso vedere, ho uno sguardo, mi appartiene. Ci sono altri accanto a me.
Altri corpi come il mio. Anche loro immobili, bloccati. Anche loro possono
solo guardare. Vedo che sono stato visto, i nostri sguardi si incontrano,
solo gli occhi si muovono, nessun altro movimento è possibile. Anche loro
osservano spaventati tutto intorno. Siamo vivi. Almeno questo. Mi sforzo,
provo a parlare. Ci riesco.”