Sei sulla pagina 1di 56

I QUADERNI DELLO SCARTO

BOZZA 1

-1-
Era il 6 luglio 2013, un sabato. So bene che per molti di voi la cosa
sarebbe passata inosservata, ed avrebbe prevalso spontaneamente il buon
cuore, la comprensione, il sentiamoci tutti uguali e solidali. E'
naturalmente quello che avrei pensato anch'io se allora lo avessi potuto
vedere, chiuso nella sua piccola auto, lanciato verso le meritate vacanze,
muovere avanti e indietro nella sua piccola testa i soliti pensieri, gli stessi
che avreste trovato uno, due, dieci, venti anni prima.
Bloccato nel traffico intenso del fine settimana lungo l'autostrada A10
direzione Genova, Carlo sognava.
Il tempo, inesorabile censore, aveva emesso da tempo, appunto, la sua
inesorabile sentenza. A Carlo era stata lasciata libera solo la piazzola dei
sogni.
Gli esami erano finiti il giorno prima e subito era partito.
Ripensava ai colleghi conosciuti in commissione. Il presidente ormai
vicino alla pensione, brontolone e scostante, il collega di matematica,
corretto e distaccato come un bravo impiegato intento a stilare i sui
rapporti riservati, e soprattutto Viola, la collega di inglese, la sola presenza
amichevole e sorridente in quella riunione di morti viventi, una simpatica
ragazza non molto alta e dalle floride forme giunoniche.
Ci sono storie – si diceva, ripensando a Viola – che partono da sole e storie
che hanno bisogno di una piccola spinta per decollare, anzi di uno slancio
energico capace di farle alzare in volo.
Su quella carreggiata diritta, nella confusione delle auto stracariche e degli
automobilisti inferociti, era come se si aprisse in lui una luminosa galleria
di ricordi da percorrere e ripercorrere con immutato piacere. Era il modo
migliore per riempire le tante ore vuote del lungo viaggio verso Deiva
Marina.
Sarebbe stata un'impresa molto difficile – pensava Carlo nel gioco delle
sue fantasie - far capire a un extraterrestre che cosa erano in Italia gli
Esami di stato. Sarebbe apparso sicuramente come un bizzarro spettacolo,
una specie di rituale o una grandiosa opera buffa in cui erano coinvolti
migliaia di giovani abitanti della penisola italiana. Ed anche quei
volenterosi extraterrestri - sorrideva Carlo – avrebbero provato uno
spontaneo moto di pietà verso gli insegnanti nominati, interni ed esterni,
rassegnati al loro tedioso ed inutile compito, sopportato con stoica apatia.
Come lui, Viola era ancora una docente instabile ed itinerante, senza una
sede definitiva. E come lui - lo ripeteva a se stesso per la millesima volta -
viveva sola, tranquillamente single, o almeno così gli aveva detto.
Ripensando a quella intesa speciale, vedeva loro due come abili nuotatori
capaci di emergere insieme, con le loro teste accostate, dal piatto mare
soporifero in cui tutta la commissione d'esame, per giorni e giorni, era
rimasta quotidianamente immersa. E con un rapido montaggio, da questi
piacevoli fotogrammi di potenziale storia futura il pensiero sfrecciava
verso il passato, a una scena che gli capitava spesso di rivivere, quando,
non molti anni prima, era stato davvero ad un passo dal consolidare
un'ottima intesa con Anna, un'amica della sua cara cugina di Chiavari.
C'era stata anche allora – e, nel ricordo, lo sottolineava adesso con ironia -
una spontanea convergenza delle loro anime che avrebbe potuto
trasformarsi quasi senza sforzo in una duratura unione, una lunga vita
insieme, lui ed Anna, della quale era in grado di vedere, come in uno
scorcio rapidissimo, tutti i futuri sviluppi. Con un certo fastidio rispuntava
allora la domanda: che cosa era mancato? La risposta ai suoi occhi
appariva scontata: sempre e soltanto la sua terribile timidezza.
Fece un rapido calcolo. All'epoca di quel promettente incontro finito nel
nulla lui aveva trentasette anni... Dunque erano già passati cinque anni! E
con un clic automatico la sua mente completò: sembra ieri.
Immerso nel caldo afoso di mezzogiorno, nella noia spessa del viaggio
solitario lungo la linea retta dell'autostrada, sempre in direzione di Genova,
nulla era cambiato. Carlo tornava e ritornava a darsi la medesima risposta.
La timidezza, soltanto la timidezza, sgretolava ogni ponte che aveva
provato a lanciare verso le donne che aveva conosciuto. Chissà – si diceva
- forse questa volta, con Viola, sarebbe stato diverso. Valeva comunque la
pena di non rinunciare, come era sempre accaduto. Continuava a ripeterlo
a se stesso. Doveva provare a mettercela tutta, andare fino in fondo. Ma la
buona volontà non bastava, lo sentiva. E con un moto pendolare ripartiva
da capo.
Coniugare i verbi al condizionale passato era la cosa che gli riusciva
meglio: sarei andato, avrei mangiato, avrei incontrato, sarei stato, e così
via. Ne era tranquillamente consapevole, e il professore di italiano che era
dentro di lui aggiungeva e precisava: ancor meglio me la cavo con i verbi
servili: sarei potuto andare, avrei potuto mangiare, avrei voluto incontrare,
avrei potuto eccetera eccetera. Era questo – lo vedeva - lo stile costante
degli infiniti bilanci della propria vita che lui si costringeva a fare.
Carlo controllava ogni momento l'orologio sul cruscotto. Cullato dal
ronfo regolare del motore manteneva la bassa velocità della sua piccola
utilitaria e continuava a sognare. I suoi pensieri, adesso, si spingevano in
avanti verso le serene giornate che stavano per aprirsi. La costa scoscesa, il
silenzio, la pace. Bagni su bagni, un piacere immenso che avrebbe
consentito un riposante oblio. Già pregustava le tante ore ed ore disteso al
sole, immerso nel dolce far niente. Tra poco avrebbe anche rivisto i vecchi
amici della giovinezza, le amicizie veramente inossidabili.
In quel momento, però, poco oltre Alessandria, non c'era ancora niente di
tutto questo e Deiva Marina, il suo paese natale, era ancora troppo lontana.
Carlo non era abituato a viaggiare da solo. Quel lungo silenzio diveniva
sempre più intollerabile. Con un gesto automatico ripetuto migliaia di
volte, spinse nel lettore delle musicassette – un raro lusso molto vintage
offerto dalla sua vecchia auto immatricolata nel 1993 – un venerato
cimelio musicale degli anni '70 che custodiva gelosamente, uno dei tanti di
cui andava fiero. Dalle casse malconce proruppe un bel pezzo sincopato e
la voce gutturale di Barry White lo ricaricò un poco; ma la noia che aveva
dominato le lunghe giornate degli esami pareva averlo seguito di soppiatto
e ancora stazionava all'intorno come fumo tossico nell'auto di un fumatore
incallito. Troppo soffocante e limacciosa ebbe di nuovo il sopravvento.
Dopo pochi minuti di musica assordante, pigiò con un gesto di fastidio il
pulsante di deiezione, la musica si interruppe e fu sostituita da un
notiziario, la voce concitata di uno speaker. Quel tono allarmato suonò
dentro di lui come un segnale di pericolo e ascoltò con attenzione le prime
parole. Era accaduto qualcosa di importante, non capiva bene dove
esattamente, probabilmente in Africa, sì, in Nigeria, una strage, all'alba un
commando di estremisti islamici aveva fatto irruzione in una scuola, una
quarantina i morti, bruciati vivi, in buona parte studenti. Quelle parole
tremende bloccarono per un secondo il rollio degli innocui pensieri che si
erano mossi dentro di lui fino a quel momento. Come accade spesso in
simili casi, confrontò istintivamente la propria vita e quella di quei
disgraziati, lui in viaggio verso il mare e la morte terribile di quegli
innocenti. Ebbe per qualche istante la sensazione di qualcosa di già
vissuto, il senso sfuggente di una piccola vergogna che non si poteva più
cancellare, insieme alla confusa sensazione di una perdita che era rimasta
indietro, in un punto lontano del suo passato ormai definitivo ed
immutabile. Faticava a ricordare quando e dove aveva già vissuto e
pensato tutto questo, molti anni prima. Sentiva che era un ricordo
importante, che gli apparteneva nel profondo, ma in quel momento
l'attenzione ottusa del suo stupido impegno nella guida, lo sguardo fisso
sulla strada, non consentiva una nitida messa a fuoco. Poi ecco,
improvvisamente farsi avanti l'immagine precisa di quel giorno. Era stato
il suo primo viaggio importante, frutto di tanti mesi di risparmi, anno
2001, gli Stati Uniti. L'11 settembre era a New York, i primi giorni di una
splendida vacanza. Lui stava uscendo dalla metropolitana e vedeva quella
massa di gente correre con il volto stravolto, guardandosi alle spalle.
Girato l'angolo, vide anche lui la punta della Torre bruciare. Nella sua
mente era allora scattato un automatismo, si era subito preoccupato
stupidamente, in quella tragedia, della cosa più squallida e
insignificante.«Ma che sfortuna, adesso mi rovino la vacanza.» Subito se
ne era vergognato. Anche ora, nel caldo del piccolo abitacolo, il ricordo
riportava a galla quella vergogna, gliela riconsegnava come se lui fosse
ancora a New York, la vedeva riflessa davanti a sé nella sorte di quei
poveri studenti nigeriani. Ma – si chiedeva – che cosa avrebbe potuto fare
allora e che cosa poteva fare adesso? Saliva dentro di lui uno sconsolato
senso di impotenza, come se la rinuncia a qualsiasi tentativo di risposta gli
apparisse inevitabile.
Soffocato dall'inquietudine, spense la radio, si rifiutò di ascoltare. Lo si
può capire, lo avreste giustificato anche voi. Con un'ampia virata, la sua
mente planò di nuovo con moto deciso sul terreno abituale e rassicurante
dei sogni ad occhi aperti.
A risvegliarlo quasi subito intervenne il suono fastidioso del telefonino.
Inutile dire che Carlo, nel suo amore per un passato che forse non c'era mai
stato – le tante cose logore ed usate di cui si circondava stavano a
dimostrarlo – odiava i telefonini, soprattutto i modelli più recenti pieni di
giochi e funzioni varie. Coerente fino in fondo con i suoi principi - giusti o
demenziali che fossero - si era adattato a portare con sé un vecchio
modello della fine degli anni '90 appartenuto a sua sorella, giusto per le
impellenti necessità imposte dal suo doppio lavoro. Come tanti altri,
infatti, da qualche tempo Carlo aveva abbinato alle entrate ufficiali, ma
non sempre sicure, della sua occupazione di insegnante precario, una
piccola integrazione abbastanza vantaggiosa come consulente e
collaboratore di una piccola casa editrice di Torino, proprietà di un suo
vecchio amico dell'era ormai lontana degli studi universitari. Benché molto
piccola, era abbastanza conosciuta e apprezzata, soprattutto per l'ottima
cura dei testi pubblicati.
Il telefono continuava a suonare. Afferrato con un moto di fastidio
l'apparecchio, in pochi secondi la mente di Carlo entrò in azione. Controllò
il display. Era il numero delle Edizioni Beccalossi. Quella in arrivo era
dunque effettivamente una telefonata di lavoro. Valeva la pena rispondere.
E Carlo, controvoglia, si rassegnò a farlo.
«Pronto...?»
«Che fai vecchio lavativo, sei ancora tutto impegnato a riposarti?».
Riconobbe subito dal tono la voce del suo amico, nonché editore e datore
di lavoro, Renato Beccalossi. Era una sua caratteristica. La sua aria allegra
e scanzonata aveva ingannato spesso più di un interlocutore, che la
scambiava, sbagliando, per una sicura prova di ostentata superficialità.
Sotto quella superficie si nascondeva invece una volontà di ferro, molto
abile nel tessere sinuosamente le vie migliori per il raggiungimento dei
propri obbiettivi.
«Sei ancora a scuola a far finta di lavorare o ti stai già riposando in
proprio a casa tua? Ma cosa fate voi insegnanti tutta l'estate mentre gli
altri ruscano?»
«Non credere, è dura anche per noi. Con questo caldo a scuola si moriva.
Ho finito gli esami proprio ieri.»
Il tono di Renato, dietro la patina divertita della sua voce, lasciò trapelare
un forte interesse. «E adesso dove sei?»
Un poco seccato, Carlo assunse scherzosamente un timbro didattico:
«Sono in macchina e sto andando a Deiva Marina. Non se ne può più per il
caldo. E il traffico sta aumentando. Tra poco inizierà il tratto tremendo
dell'autostrada verso Genova e non posso rischiare la pelle con questo coso
in mano». L'altro ridacchiava. «Non possiamo riparlarne tra un po'?» buttò
lì Carlo; ma evidentemente Renato non lo aveva nemmeno ascoltato,
perché subito sbottò: «Stai andando a trovare i tuoi al paesino au bord de
la mer? Ma è perfetto!»
Carlo restò un poco interdetto.
«Scusa, e perché?»
Renato cambiò immediatamente tono, passando in un attimo dal faceto al
professionale. «Se mi dai tempo un secondo, adesso ti spiego. E fai
attenzione alle curve.»
Fu così che Carlo sentì per la prima volta pronunciare il nome dello
scrittore americano Thomas McWine. Un caso letterario esploso all'inizio
degli anni '50, divenuto poi un' enigma nei decenni successivi.
«Al successo clamoroso del suo primo romanzo – a Hollywood ne hanno
ricavato anche un film abbastanza famoso – non sono seguite altre
pubblicazioni.» spiegò il suo amico Renato. «Proprio per questo motivo,
per un certo tempo la sua figura negli Stati Uniti ha acquisito contorni
leggendari...»
Carlo lo interruppe subito, come se volesse far risaltare la propria
competenza: «Un po' come è accaduto per altri famosi scrittori americani
come Salinger o Pynchon?» Questa vicenda incominciava ad incuriosirlo
ed era evidente che Renato se ne era perfettamente accorto.
«Esatto, ma con un'impronta ancora più morbosa alimentata dai giornali
scandalistici. Pynchon è sicuramente un'altra cosa.».
Carlo si accorse di aver aperto un capitolo pericoloso che rischiava di
andare per le lunghe. Non era il caso di lanciarsi in una discussione
letteraria nel traffico sempre più intenso e con una mano sola sul volante.
Renato, intanto, aveva continuato a spiegare come per quasi un trentennio
ciclicamente rispuntasse ogni tanto da qualche parte la ricerca più o meno
pretenziosa delle vere ragioni che avevano spinto il misterioso scrittore ad
abbandonare gli Stati Uniti e a trasferirsi in Italia.
«L'interrogativo sempre uguale – qui, sicuro dell'effetto ormai raggiunto,
Renato sottolineò abilmente le sue ultime parole con una lunga pausa – la
domanda sibillina che concludeva tutte quelle ricostruzioni più o meno
fantasiose, pubblicate anche su giornali importanti, era all'incirca sempre
la stessa... » Ancora una pausa. «Non vedo l'ora di sentirla...» sussurrò
Carlo col tono di chi ne ha abbastanza. La telefonata si stava protraendo
troppo e il peso del cellulare sembrava aumentare con il passare dei
minuti. Un po' risentito Renato lo bloccò subito.«No, Carlo, bravo
insegnante di lettere e apprezzato collaboratore delle Edizioni Beccalossi,
qui non è il caso di scherzare, perché la cosa si fa seria, soprattutto per
noi.» Un tantino intimidito Carlo tacque e Renato, padrone della scena,
concluse rapidamente.
«L'ipotesi solleticante che periodicamente è ricomparsa su quotidiani,
riviste e pubblicazioni titolate, riguardo al destino di quel grande giovane
scrittore scomparso nel nulla, era sempre questa: probabilmente ha scritto
molto altro, ma, per segreti motivi, forse di protesta, ha scelto di rinunciare
a qualsiasi pubblicazione dei suoi lavori; la futura riscoperta ci riserverà
grandi sorprese. Questo, come ti dicevo, più o meno fino alla metà degli
anni '80.»
«Perchè... dopo?» chiese quasi automaticamente Carlo. E l'amministratore
unico delle Edizioni Beccalossi concluse teatralmente «Poi, come accade
di solito, a poco a poco ci si dimenticò di lui».
Renato – il compagno di tante bevute negli anni dell'università lo ricordava
bene – era un affabulatore abilissimo e l'interesse di Carlo, dopo la
veniale manifestazione di insofferenza, era di nuovo cresciuto.
«La domanda che allora potresti farmi – marcò infine Renato, come se gli
apparisse scontata la risposta – è sicuramente questa: noi che cosa
c'entriamo? Qui sta il bello. Cerco di spiegartelo ancora più chiaramente.»
Senza perdere di vista la strada davanti a sé e la lunga fila continua di auto
sfreccianti che superavano la sua utilitaria troppo lenta, Carlo, vincendo la
stanchezza, cercò di mantenere viva la concentrazione.
«Un amico con i contatti giusti» continuò Renato, «mi ha passato una
dritta in esclusiva molto promettente». Carlo non riuscì a frenare un
sorriso. Conosceva già le “dritte” di Renato dal tempo lontano
dell'università. Erano quasi sempre inconsistenti. Veramente – rise Carlo -
erano dritte troppo curve, ripiegate sulla sua presunzione.
L'intraprendente editore torinese riassunse velocemente la questione.
«Questo scrittore, McWine, ha vissuto per tantissimi anni in Italia,
precisamente in un piccolo paese dell'Umbria che si chiama Monastico. E'
morto circa un mese fa. Gli eredi americani, che prima nessuno aveva mai
visto, come era prevedibile si sono fatti subito vivi. E a provvedere allo
sgombero e alla ripulita della casa per la vendita immediata è stato
incaricato un amico del mio amico, un imprenditore umbro, che mi ha fatto
un po' casualmente una bella soffiata.» Renato tacque per un momento,
come se volesse caricare le sue parole di suspense. «Svuotando lo
scantinato è saltata fuori una cassa piena di fogli accatastati confusamente,
manoscritti e dattiloscritti. Il mio amico, quando è venuto a saperlo,
conoscendo da un pezzo qual è il mio mestiere mi ha subito passato questa
utile informazione.» Renato concluse, scandendo con sicurezza le ultime
parole. «Pensa, nessuno oltre a noi lo sa.» E poi, sbrigativamente aggiunse:
«Almeno per quanto ne so io». Il futuro editore di successo tacque, come
conquistato dal proprio discorso e dalle ipotesi luminose che si
dispiegavano ai suoi occhi: un'ascesa clamorosa, internazionale, di cui
tutti avrebbero parlato, l'evento letterario dell'anno.
Ma il silenzio si protraeva. Un po' interdetto Renato chiese: «E allora?»
Carlo ancora taceva e infine la semplice osservazione con cui ruppe il suo
lungo silenzio, molto spontanea, raggelò un poco l'esaltazione dell'amico:
«E io che c'entro? Che cosa potrei fare?» Senza dar peso alla nota risentita
che risuonava chiaramente dietro a queste domande superflue, Renato,
riassumendo rapidamente la sua veste neutra e professionale, riprese e
chiarì: «Ecco l'idea che ti passo. Scendi in Umbria, trovi questo paesino e
prelevi la cassetta o baule che sia. Mi hanno assicurato che è facilmente
trasportabile. Poi, con calma, darai un'occhiata a quelle carte e comincerai
a lavorarci sopra. Tu sei quello che, nella nostra squadra, conosce meglio
l'inglese. Ricordiamo tutti le tue ottime traduzioni. Anche questa volta
potrebbe uscirne qualcosa di buono, molto buono.»
Subito, con una domanda molto ragionevole, Carlo seccamente lo
interruppe di nuovo: «Un momento. Perché dovrebbero dare tutta quella
roba proprio a me?» Con la sicurezza di chi vede raggiunto lo scopo che
aveva programmato, Renato tagliò corto e fornì al suo amico quel
chiarimento definitivo, che – a pensarci – era implicito fin dall'inizio nel
suo lungo discorso.
«Non preoccuparti. E' già tutto organizzato. Ho già lasciato il tuo nome.
Basterà che ti presenti all'albergo che c'è in paese. Troverai una persona
che provvederà a tutto.»
Ecco! Renato si era scoperto. Non gli stava chiedendo se poteva rendersi
disponibile per questo incarico, ma lo stava sottilmente imponendo, dando
per scontata la sua disponibilità. Carlo, troppo stanco, non se la sentiva più
di polemizzare. Era ormai vicino al livello di guardia. E allora, senza
lasciare il tempo di aggiungere altro, si rassegnò.
«Va bene. Ci andrò.»
Appagato, come chi ha raggiunto la meta, Renato chiuse in fretta, gli
augurò buon viaggio e lo salutò.
Nella testa del professore, iniziò a muoversi lo sciabordio di tante ipotesi,
tutte ugualmente possibili. Rifletteva sulla strana vicenda che Renato gli
aveva raccontato. Qualcosa non tornava. “I grandi scrittori – rifletteva –
lasciano sempre qualcosa, opere incompiute o abbandonate; ma non è
davvero questa la situazione che mi ha descritto Renato: questo famoso
romanziere americano completamente dimenticato, è stato l'autore di un
unico romanzo dal successo strepitoso.”
«La prima domanda che allora gli farei – disse ad alta voce toccando il
sedile accanto – se questo scrittore fosse qui in viaggio con me, è questa:
hai continuato a scrivere? Possibilissimo, in effetti, che uno scrittore cessi
di scrivere. E poi subito la domanda numero due: perché, allora, se hai
continuato a scrivere, non hai più pubblicato nulla?»
Naturalmente, per il famoso McWine, la pubblicazione di qualunque cosa
avesse scritto, fosse anche la lista della spesa, sarebbe stata facilissima.
Carlo era particolarmente affascinato dalla terza domanda che allora
necessariamente seguiva.
«Ma, se hai scelto di non pubblicare i tuoi scritti, questo significa che hai
scelto di farti dimenticare?»
Carlo scuoteva la testa, contrariato. Era tutto assurdo, l'esatto contrario di
quello che tutti gli scrittori avrebbero fatto, a qualunque latitudine.
Carlo continuava a borbottare tra sé: «Anche quelli che si mantengono
nascosti, che odiano la celebrità, voglio alimentare la vita delle loro opere,
e questo è possibile solo facendole circolare. Tutti tentano in ogni modo
di consolidare la propria fama e, come si dice, di passare ai posteri; ai
posteri l'ardua sentenza... ma perché sentenza ci sia – osservava con
perspicacia - occorre anzi tutto essere ricordati. E allora?»
C'era qualcosa di assurdo in tutta la faccenda. Iniziava a dubitare del
frettoloso entusiasmo del suo amico, quella sicurezza troppo sbrigativa
riguardo allo straordinario ritrovamento di carte inedite.
Molto probabilmente quel viaggio indesiderato che gli era stato
subdolamente imposto si sarebbe rivelato il classico buco nell'acqua.
Anzi, pensò ridendo, un bel buco nel mare, che avrebbe provveduto lui
stesso a scavare l'indomani con qualche splendido tuffo. Non era certo il
caso di affrettarsi, meglio prendersela comoda passando almeno qualche
giorno tranquillo. Renato non aveva indicato nessuna data precisa. Quando
doveva andare in Umbria? Si accorse di aver dimenticato di chiederglielo.
Ma che importava?
Controllò con molta attenzione un cartello stradale che stava superando.
Sì, mancava poco. L'incanto del mare che già da parecchio splendeva tra i
suoi pensieri, lo abbagliava.
Si voltò di scatto verso il sedile accanto. Beffardo, immerso tronfiamente
nel sole, il telefonino silenzioso lo stava osservando. «E tu adesso stai
zitto!», urlò scagliandolo indietro. Poi, come liberato da un grosso peso,
trasse un profondo sospiro di sollievo e finalmente si rilassò al pensiero
che presto sarebbe arrivato.

Superato il toboga di Genova e l'inquietante lungo ponte sospeso stile


Brooklyn, Carlo sentiva aria di casa. L'autostrada contornata di fiori
aveva indossato definitivamente il suo bellissimo abito estivo e correva
sinuosa tra le alte colline lasciando intravedere ogni tanto uno spicchio di
mare.
In un baleno si trovò all'indicazione che stava aspettando da un pezzo:
Deiva Marina. Era quasi arrivato. L'auto rallentò, imboccando la corsia di
uscita e il ticchettio della freccia a destra era come il ritmo allegro della
festa che si annunciava.
La strada scendeva dolcemente con larghi tornanti, come se non volesse
affrettarsi verso il mare. Indugiava tra gli uliveti e i piccoli gruppi di case
sparsi lungo la collina scoscesa. L'aria salmastra penetrava attraverso i
finestrini aperti e Carlo, con un sorriso beato, si godeva la tranquilla
discesa, senza fretta, già perfettamente appagato, come se quell'azzurro in
alto e il suo contrappunto di sotto, che si faceva sempre più vicino,
risvegliassero dentro di lui, senza bisogno di altro, la felicità del se stesso
bambino che in quei luoghi aveva vissuto i suoi anni più belli.
Per Carlo, quel tratto di strada era speciale. Era come l'aprirsi di una scena
teatrale sempre più luminosa e dagli intensi colori. La lastra di cobalto si
allargava a poco a poco, simile ad un grande schermo. Carlo, interamente
preso dal suo sogno, si lasciava andare con un sorriso al piacere di questa
similitudine, senza temere la sua sdolcinata banalità. Su questo schermo,
screziato dalle linee leggere delle onde, si proiettavano i suoi ricordi, come
se venissero liberati tutti insieme. Simili a colombe, dapprima titubanti sul
bordo della gabbia aperta e poi libere in volo, tutte queste immagini nitide
e confuse del suo passato si sfrenavano in un folle inseguimento giocando
tra di loro.
Senza temere gli eccessi del sentimentalismo, Carlo si lasciava andare e
godeva quella piccola magia che lo portava indietro nel tempo, replicata
ormai tante volte in quella che lui aveva definito, ridendo, “la fase
nomade della mia vita”. Si era rassegnato a questa condizione raminga
come se fosse un destino. Probabilmente, se avesse insistito con più
tenacia, avrebbe potuto sicuramente garantirsi da molto tempo una più
sicura stabilità. Conosceva a memoria il reticolo di strade e città disteso tra
Piemonte e Lombardia e come una pedina che è mossa in un gioco che non
potrebbe capire, cambiava scuola quasi ogni anno. Cambiavano anche i
colleghi e per ogni trasferimento si replicava lo sforzo di creare nuovi
legami, nuove amicizie. La sua spontanea cordialità lo facilitava in questo
impegno, ma inevitabilmente c'era sempre una sorta di barriera che
rendeva difficile essere accettati. Era abituato ai lunghi periodi di
solitudine, li accettava, come inevitabile parte del gioco.
Ciò che avvertiva dentro di sé in quei momenti di tristezza lo trovava ben
espresso nella parola nostalgia. Nòstos, algos, il dolore della lontananza, il
bisogno del ritorno. Questo erano, per lui, Deiva e il suo mare.
Un vago senso di malinconia ritornò a farsi sentire, la percezione confusa
di una perdita a cui non avrebbe saputo dare un nome, si insinuava al
fondo dei suoi pensieri e lacerava il fragile velo della serenità.
La stanchezza gli giocava brutti scherzi, troppe ore di guida solitaria.
Cercò di calmarsi e di nuovo si rivolse a se stesso cercando di non essere
consumato da quel tarlo pessimista che sentiva muoversi nella sua mente.
Osservò con più tranquillità, «Carlo, sei qui per divertirti, è questo che
conta adesso.» Con un sorrisetto sarcastico pensò: «Poi mi toccherà anche
star dietro ai sogni di Renato, alla ricerca del suo mitico tesoro nella terra
di San Francesco.» Alzò gli occhi al cielo, rassegnato. «Bah! Ci mancava
anche questa!»
Era intanto arrivato.

Finita la discesa, i gruppi di case si addensavano. Il suo vecchio nido, o


meglio quella che adesso era unicamente l'abitazione dei suoi genitori, si
trovava sul lato estremo del paese verso la parte più orientale, dove il
fianco della montagna precipita verso il mare e si interrompe
all'improvviso con un bordo netto, come sezionato verticalmente da una
gigantesca lama. Girando al primo bivio verso la strada più esterna Carlo
sarebbe potuto arrivare in un baleno. Ma perché affrettarsi? Da qualche
tempo aveva creato per se stesso un piccolo gioco, una specie di rito
propiziatorio personale, che svolgeva puntualmente un po' per scherzo e un
po' come gesto scaramantico, ogni volta che arrivava. Proseguendo lungo
la strada principale, scendeva fino alla piazzetta. Parcheggiata l'auto
ancora carica nel primo posto disponibile – non sempre facile da trovare –
proseguiva a piedi, percorrendo lentamente la strada centrale, animata da
tanti negozi e locali. Quasi senza preavviso, la strada sbucava, dopo
un'ultima svolta, sullo splendido bordo della spiaggia. A questo punto,
qualunque fosse la stagione, dimenticato ogni suo ruolo, si rimboccava i
pantaloni alla caviglia e si incamminava a piedi nudi verso il mare. Giunto
alle prime onde sul bordo della battigia, bagnava una mano nell'acqua
salmastra e con un tono fintamente solenne salutava il mare. Questo
gesto, dentro di lui, segnava l'atto di inizio di un beato periodo di
sospensione – Carlo usava dottamente la parola greca epochè – durante il
quale imponeva a se stesso l'obbligo di cancellare tutti i pensieri negativi e
di godere di quell'istante.
Era pomeriggio inoltrato e il caldo iniziava ad attenuarsi. Il sole stava già
nascondendosi alle spalle delle colline e, passando tra i numerosi bagnanti
ancora stesi al sole, Carlo si diresse verso la battigia.
Compiaciuto, notò lo sguardo di perplessità con cui veniva seguita
questa sua impresa. Ancora perfettamente vestito con gli abiti da città, cioè
un paio di jeans sformati e una giacca leggera di lino bianco, Carlo si
avvicinò all'acqua. Anche chi si trovava in quel momento a qualche metro
dalla spiaggia, intento a nuotare, si sforzava di vedere ciò che stava
accadendo. Carlo procedette al suo rito, concluso il quale, con un ampio
sorriso rivolto a coloro che si erano fatti intorno per assistere meglio a
questa strana scena, ritornò tranquillo sui suoi passi, come se ciò che aveva
appena fatto fosse la cosa più normale del mondo, ripetuta abitualmente da
tutti.
Si trattava per lui, a questo punto, di prepararsi mentalmente all'incontro
con i suoi genitori. Per Carlo, questa era sempre stata una cosa non facile.
Non perché ci fossero motivi di astio reciproco o di indifferenza, ma tutto
all'opposto, perché era tale il loro coinvolgimento nelle sue faccende
personali che era difficile districarsene. L'incontro periodico con i suoi, le
persone – quasi inutile dirlo – a cui teneva di più, gli lasciava spesso un
senso di delusione, come una festa attesa e continuamente rimandata senza
una precisa ragione, solo perché chi l'aveva organizzata era troppo
impegnato a far altro.
Il padre, Nicola, uomo dalla forte tempra di origini abruzzesi, ex-
ferroviere, impersonava perfettamente il cliché tradizionale del pensionato
tutto dedito ai suoi piccoli lavori quotidiani. Accudiva con totale
dedizione, che a qualcuno avrebbe anche potuto sembrare un poco
maniacale, il piccolo orto dietro casa. Lo splendore dei suoi prodotti e
l'ordine perfetto delle lineari coltivazioni di melanzane, fagiolini, peperoni,
pomodori e qualche zucca dalla quale ricavare i gustosissimi fiori, a
seconda delle stagioni, erano il suo orgoglio, e non c'era conversazione in
cui non citasse il suo orto come un ottimo esempio del modo in cui tutti
avrebbero dovuto lavorare.
Al suo arrivo Carlo lo aveva incontrato vicino al grande fico, l'unico albero
cresciuto smisuratamente davanti alla casa. Stava raccogliendo le primizie
della sua ricca produzione, quei grossi frutti simili a sacchetti scuri, e
Carlo si era subito fatto avanti ad aiutarlo, sicuro che questo fosse il modo
più tranquillo per riprendere contatto. In realtà suo padre lo aveva già visto
da lontano e lo accolse allegramente. «Ciao, Carlo. Arrivi proprio al
momento giusto. Sembra che mi hai letto nel pensiero. C'è bisogno di una
mano per togliere in fretta tutto questo ben di Dio dalle grinfie di quegli
stronzi di uccelli che non vedono l'ora di papparselo.»
«E io sono qui proprio per questo!» rise Carlo stando al gioco.«Mi metto
subito al lavoro!»
«Così come sei?»
«E che importa! Tanto avrei dovuto comunque cambiarmi!»
Carlo era sicuro di aver guadagnato punti. Nella scala di giudizio del padre
darsi da fare, muovere in fretta le mani, veniva al primo posto.
Quell'albero aveva una storia curiosa, che era stata per Carlo addirittura
drammatica, ma che ora ricordava volentieri con un sorriso.
Rivedeva quella giornata di tanti anni prima, lui aveva circa quattro anni,
forse cinque. Era uno dei suoi primi ricordi, che conservava perfettamente,
quando il padre aveva deciso di piantare quell'alberello fatto di due rami
contorti e quasi senza foglie. Sua madre si era opposta duramente. «Che ce
ne facciamo di un grande albero davanti a casa, che ci toglie la luce e ci
riempie di punteruoli neri e di cocciniglie!». Grande albero? Il piccolo
Carlo guardava il piccolo albero striminzito e non riusciva a capire tanta
agitazione. La mamma dove aveva imparato tutte quelle cose? E perché
papà non la stava neanche a sentire, non la prendeva sul serio? Lì, fermo
davanti a loro, ancora con la sua automobilina nuova in mano – ora
ricordava anche quello – Carlo se lo domandava e capiva che c'era
qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava. Molto presto, i suoi
genitori, di solito così pacifici ed affettuosi l'uno con l'altro, avevano
acceso una lite furibonda, rinfacciandosi cose incredibili che lui neanche
capiva. Era la prima volta che Carlo li vedeva litigare così violentemente.
Quello spettacolo lo aveva angosciato, come se fosse un torto nei suoi
confronti, e per questo, negli anni, agli occhi di Carlo il fico era rimasto
per sempre associato alla enorme tristezza che aveva provato allora.
Ora, ripensando a tutto questo mentre aiutava il padre nella raccolta, lui
quarantaduenne non tanto diverso dal padre come era in quegli anni,
riconosceva con uno sguardo pieno di divertito distacco che la mamma
aveva avuto assolutamente ragione. Quell'albero era davvero troppo
grande. E Nicola era un gran cocciuto.
Maria, sua madre, nel frattempo, tutta intenta ai fornelli, ancora non era
uscita a salutarlo. Faceva sempre così. Aspettava che fosse lui a fare il
primo passo.
Entrato in casa, si diresse immediatamente verso la cucina, sicuro di
trovarla. Maria era una donna ancora diritta e slanciata per l'età, la sua aria
giovanile lasciava intravedere la bellezza che aveva sicuramente avuta
nella sua giovinezza. Ciò che più colpiva nel suo modo di fare era la
signorile compostezza, che poteva anche dare l'erronea impressione di un
carattere chiuso e un poco altezzoso. Ma era solo apparenza, in realtà era
una donna mite e comprensiva, forse solo eccessivamente riservata. Se
davvero i caratteri vengono ereditati, la timidezza di Carlo si poteva
immaginare da dove veniva.
«Ciao, mamma. Io sono già arrivato da un pezzo. Stavo fuori ad aiutare
papà.»
«Lo so, lo so, ti ho sentito.»
Gli abbracci che seguirono furono, come ogni altra volta, carichi di affetto.
Ma questa – Carlo lo sapeva in anticipo – era solo l'ouverture, tra poco
sarebbe seguita, per così dire, la melodia principale. Era in grado di
anticipare parola per parola quello che la madre avrebbe detto. Doveva
prepararsi a quel lungo assolo, cercando di rimanere calmo. Infatti, eccolo
in arrivo, puntualmente. Da dieci minuti stavano chiacchierando del più e
del meno quando sua madre di punto in bianco aveva iniziato la lunga
litania delle cose che Carlo avrebbe potuto fare e non aveva fatto, le cose
che Carlo doveva fare e non faceva, e monotonamente sottolineava ad ogni
verso la sua indolenza, confrontandola con la vita tutta diversa della
sorella. «Guarda tua sorella, che è più piccola di te. E' impiegata in banca a
Genova, è felicemente sposata, e ha due bei bambini, la gioia della loro
nonna!» Lo ripeteva come un ritornello, che Carlo neanche più ascoltava.
Puntualmente, però, il punto critico, nonostante tutta la sua buona volontà,
era stata la cena. Dopo aver sentito in silenzio o quasi la ripetizione infinita
della medesima canzone, a quanto pare l'unica che sua madre conoscesse,
con il contrappunto degli episodici interventi di suo padre che, con gli
occhietti maliziosi, gli chiedeva per l'ennesima volta se c'era qualche
nuova fiamma in giro, non ce l'aveva fatta più. Il fiume di parole scorreva
sempre uguale, e il mite Carlo sapeva quanto era importante per i suoi
vecchi genitori che lui li ascoltasse. Far finta di ascoltare era un'altra delle
sue specialità. Accadeva così, purtroppo, quasi ogni volta. Riuscì a
resistere ancora una mezz'oretta, poi, allargando le braccia verso i due lati
del tavolo dove loro sedevano, sfiorò leggermente le loro mani e li salutò
con un sorriso. «Vi voglio bene«». Lo disse mentre era già quasi sulla
porta e uscì.
Il piccolo bar, in alto all'ingresso del paese, era ritornato miracolosamente
al suo aspetto degli anni '70 e sfoggiava ora la sua aria molto vintage
sorprendentemente alla moda. Il nuovo gestore aveva saputo ritrovare in
vari magazzini sparsi nel borgo molti dei vecchi arredi, gettati alla rinfusa
e semi-abbandonati. Il locale principale, a cui si accedeva attraverso un
piccolo ingresso poco appariscente, appariva immutato, gli stessi tavoli
rotondi di formica e le sedie con gli schienali di plastica intrecciata, di
fronte al bancone massiccio perfettamente attrezzato. Ancora c'era in un
angolo un po' appartato il vecchio bersaglio delle freccette. Quante sfide
con gli amici su quel cerchio colorato! Quello era il tradizionale punto di
ritrovo, subito accanto ai tavoli verdi dei giocatori di carte. Anche ora,
l'altro lato della stanza era il posto del televisore, un nuovo modello con
grande schermo. Ma Carlo ricordava quando, con tanti altri ragazzini,
assisteva sul tubo catodico del piccolo televisore in bianco e nero (c'era già
il colore? Non riusciva a ricordare) alle partite dei mondiali di calcio.
Italia-Germania 3-1, campioni del mondo! Era il 1982.
Carlo si godeva la brezza fresca che arrivava dal mare, contemplava felice
la magnifica luna piena. Quella sera di luglio pareva fare di tutto per
garantire una splendida scena. Già pregustava l'incontro con tutti loro.
Stava per rivederli, si sarebbero finalmente seduti senza fretta allo stesso
tavolo, come avevano fatto infinite volte.
Gli sembrava assurdo, ma una cosa così semplice era diventata quasi
impossibile, non accadeva ormai da parecchio tempo. Del resto – pensava
– non è quello che succede un po' a tutti? Ci si allontana, chi per lavoro,
chi per altri motivi, ci si perde di vista, come se le distanze si dilatassero
nello scorrere degli anni.
Era accaduto anche a loro. Il quartetto inseparabile – Carlo, Sandro, Elia,
Giovanni - si era disperso nel vasto mondo. Ci si sentiva qualche volta al
telefono, qualche contatto in chat – cosa che Carlo naturalmente odiava -
capitava, con qualcuno, ogni tanto, di riuscire ad organizzare una pizza
veloce, qualche ora di chiacchiere e bevute.
C'era, in più, per Carlo – ci stava pensando da un pezzo – una ragione
particolare a rendere speciale quell'incontro. La possibilità, finalmente di
chiarire tutto, fino in fondo, tanti stupidi malintesi, con l'amico a cui era
più legato fin da quando erano ragazzi e passavano insieme l'intera estate.
Da sempre Sandro era stato il suo amico del cuore. C'era un fondo di
derisione, quando gli altri li chiamavano così, sfottendoli un poco.
Avevano fatto tante cose insieme, viaggi, corteggiamenti, zingarate in giro
per l'Italia. I loro caratteri erano completamente diversi, ma proprio per
questo motivo, molto probabilmente, si era creata tra loro una sintonia
spontanea, intensa e immediata. Le loro strade nella vita correvano su due
percorsi completamente diversi. Sandro aveva scalato – per così dire – le
montagne, Carlo invece si era accontentato della tranquilla pianura.
Proprio per questo non c'era mai stato motivo di invidia. Carlo
riconosceva senza difficoltà la superiorità dell'amico. La creatività, l'estro
inventivo si erano disposti interamente dalla sua parte. Un gradino al di
sopra di tutti gli altri amici ed un gradino molto alto.
Diciottenne, il timido Carlo assisteva incredulo alle performance
dell'amico nelle sgangherate feste scolastiche. La musica era sempre stata
la sua vita. Aveva iniziato a cantare come tanti, in una piccola band della
zona, nei localini che d'estate mettevano fuori tavoli e sedie e invitavano
questi gruppi semi-dilettanteschi ad intrattenere la clientela.
Poi la sua attività musicale si era allargata. La sua grande energia sulla
scena, senza risparmio e molto contagiosa, e la potente voce gutturale che
sprigionava in modo esplosivo come un fiume in piena, gli avevano aperto
la strada verso un crescente successo.
In quel magico periodo, Carlo aveva vissuto in prima persona le imprese
dell'amico. Segnava su un apposito quadernetto le date dei concerti, le
uscite dei nuovi dischi, i passaggi radiofonici e televisivi. Era come se
fosse lui stesso sul palco sotto le luci intense e pulsanti, immerso nel fumo
che saliva intorno, lui stesso protagonista di fronte al pubblico scatenato e
entusiasta.
Sfortunatamente – ma chissà se la fortuna esiste? Carlo non ci credeva per
niente - il tramonto era stato altrettanto rapido. Troppo pigro e scostante,
Sandro non aveva saputo sfruttare le occasioni che gli si erano presentate.
Ultimamente lo si vedeva ancora, non molto spesso, in piccoli locali
alternativi, qua e là per l'Italia.
Salendo lungo la stretta strada verso il locale luminoso in cui dovevano
incontrarsi, Carlo pensava con inquietudine a come tutto si consumi e solo
la vera amicizia sappia resistere all'usura del tempo. E' una banalità – si
diceva – ma è assolutamente vero che quando si rivede dopo tanto tempo
un amico è come averlo lasciato il giorno prima.
Bisognava allora trovare l'occasione per rivedersi tutti insieme ancora
tante volte, dar valore a quel bene prezioso. Giravano dentro di lui,
confusamente immagini incerte di quello che sarebbe accaduto tra poco,
quando avrebbe rivisto Sandro. Un'occasione – continuava a ripetersi -
molto impegnativa. Lui e Sandro, con gesti volgari e cattive parole si erano
lasciati piuttosto bruscamente. Ripercorse nella sua mente, in una rapida
sequenza, ciò che era accaduto, sperando di riuscire ad afferrare, almeno
questa volta, di chi era stata davvero la colpa.
Era stato anche allora in un fine settimana. Faceva freddo e la serata
umida era come un invito alla tranquillità.
Senza che nessuno lo volesse, la piacevole chiacchierata nel piccolo bar
centrale del paese, dove lui e Sandro si erano incrociati un po' per caso, era
degenerata in uno scontro assurdo, come se anni ed anni di amicizia
fossero serviti unicamente a preparare la finale resa dei conti. Era nato
tutto da da un piccolo gioco innocuo che facevano quasi sempre quando si
incontravano, una passione che avevano entrambe. Con una battuta
rapidissima uno ricordava qualcosa e l'altro, senza attendere, doveva
rilanciare con qualcosa di simile. Chissà per quale motivo quella volta,
cinque mesi prima, si erano lanciati in un'assurda competizione,
moltiplicando gli sforzi per riportare alla luce i ricordi più sgradevoli,
come se le piccole invidie e le banali frustrazioni della vita potessero
trovare uno sbocco in quel modo squallido, ammantandosi di scherzose
parole. Tutto era degenerato, come su una china sdrucciolevole. Con
violenza avevano iniziato a rinfacciarsi i reciproci fallimenti, le mediocri
viltà che costellavano abbondantemente la vita di entrambe. Carlo
ricordava quei terribili momenti con un misto di fastidio e dolore. Gli
sembrava un gigantesco crollo, un'amicizia di anni distrutta in pochi
minuti.
Sapeva benissimo che sarebbe stato difficile, faticoso, forse anche
umiliante rappacificarsi, ma l'amicizia con Sandro era la cosa più
importante e al diavolo l'amor proprio.
Il piccolo locale era già affollatissimo, benché non fossero ancora suonate
le nove al campanile della chiesa parrocchiale. Guardandosi intorno con
aria un po' spaesata, Carlo notò che c'erano soprattutto tanti giovani vestiti
in modo informale con calzoncini alla moda e magliette colorate.
Sorseggiavano bibite varie, conversando tranquillamente, la maggior parte
in piedi ed alcuni seduti tra i tavolini esterni.
L'appuntamento concordato era per le nove e trenta e Carlo si accorse solo
in quel momento di essere molto in anticipo. Era uscito da casa come se
stesse scappando.
Cercando di individuare tra quella folla qualche volto conosciuto, notò un
braccio che si alzava per richiamare la sua attenzione. Guardò meglio tra il
mare di teste che si muovevano. Vide, in fondo alla sala interna, un
capannello di ragazzi intorno un uomo un po' sovrappeso, sembravano
molto interessati a quello che stava dicendo, come discepoli intorno al loro
venerato maestro. Riconobbe il profilo aquilino di Sandro, la sua chioma
fluente, da tempo un poco rada e ingrigita.
Anche in quel momento il suo stile disinvolto che tante volte gli amici
avevano preso in giro era inconfondibile. Ogni suo gesto sembrava
calcolato millimetricamente per produrre il minimo dispendio di energia.
Carlo ricordava alcune situazioni spassosissime ed assurde che erano
derivate da quel suo spontaneo comportamento, come i suoi proverbiali
arrivi all'ultimo secondo in vari aeroporti. Si diresse verso quel tavolo. I
ragazzi scansandosi educatamente lo guardavano come un marziano.
Carlo non sapeva come rompere il ghiaccio, era stampata sulla sua faccia
la solita aria impacciata che, come un segnale ben esposto, evidenziava le
sue enormi incertezze.
Fu Sandro a parlare per primo.
«La tua faccia somiglia a quella di uno che vale 2000 dollari» scandì con
le dita puntate verso di lui come una pistola. Il sorriso aperto che
immediatamente seguì queste enigmatiche parole liberò Carlo di tutte le
paure.
«Già ma... tu non somigli a quello che li incassa» rispose rilassato. «Il
buono, il brutto e il cattivo. Millenovecentossessantasei.»
Si abbracciarono, ridendo. Fu Carlo a parlare.«Sei anche tu in anticipo!» E
aggiunse, battendogli una pacca sulle spalle: «Non vedevo l'ora!
Finalmente! Ah, anzitutto: scusa per quello che è capitato l'altra volta, non
capisco come può essere successo»
Ma Sandro alzando il palmo della mano lo fermò subito. «Non parliamone
più. Che importanza ha?»
Carlo capì solo in quel momento che qualcosa nella voce dell'amico
ritrovato era fuori posto. Era diversa dal solito.
Vedendo la sua faccia sorpresa e sbigottita, Sandro con una lentezza che
non era solamente l'effetto della sua proverbiale calma, nuovamente scandì
le parole. «Beh, come vedi, niente è più come prima. Un mesetto fa c'è
stato un bel giro di boa.» Quella voce che Carlo conosceva benissimo, che
aveva sentito cantare tante canzoni stupende e improvvisare assoli
stravolti, ora non c'era più.
«Ma, che ti è successo?»
Non se l'aspettava quella sorpresa, non sapeva che dire. Buttò lì
l'osservazione più scema. «Forse grossi problemi alla gola? A voi cantanti
capita facilmente.» Sandro riuscì comunque a sorridere e a spezzare con il
suo inconfondibile stile la tensione crescente. «Veramente, qualcosina di
più». Si capivano le parole, ma la voce era ridotta a un bisbiglio roco.
Fu in quel momento che arrivarono gli altri due.
«E' qui la festa? Madonna, quanta gente c'è stasera!» Urlò dall'alto del suo
metro e novantacinque Elia indicando con il braccio tutto intorno. Poi, si
rivolse direttamente a Carlo con un dito puntato, accelerando buffamente
le parole come un cantante rap. «Carlo, lontano da tutti, cancella coi rutti,
la lunga astinenza, non ha più pazienza, e vuole scooopare...Subito!!!»
Carlo gli regalò un sorriso un po' forzato. Con quelle parole, come
succedeva sempre, Elia si era presentato. Per lui era normale, come per gli
altri il solito «Ciao Carlo, come stai?» Era anche il suo maggior difetto,
non riusciva proprio a controllarsi. Qualche volta in passato aveva provato
diligentemente a tenere a freno un po' meglio se stesso, ma era stato
sempre un disastro. Inevitabilmente, le parole gli scappavano di bocca
senza che neanche se ne accorgesse.
Giovanni, nel suo abito impeccabile, come se fosse uscito in quel
momento dall'ufficio di consulenza al pubblico in cui lavorava, finse di
arrabbiarsi.
«Elia, bisognerebbe metterti la museruola».
«Per forza, i fighetti come te hanno bisogno di tranquillità e silenzio.
Devono riposarsi dopo le lunghe giornate di noia pura.»
Carlo li osservava. L'alto smilzo e il piccolino rotondetto, il compassato
conformista e il casinista ribelle. Il caso sembrava aver giocato con loro
come nel più classico miscuglio degli opposti, quello che Goethe chiamava
“le affinità elettive” – ma con un senso un tantino diverso. Provava a
ricordare. Da quanto tempo li conosceva? Giovanni era l'ultimo arrivato, si
era unito a lui, Sandro e Elia, quando era venuto in paese con un incarico
temporaneo e poi, chissà come, si era fermato. Già, un po' come nel
Deserto dei tartari, – si diceva Carlo – solo che per quei suoi due amici la
fortezza Bastiani si trasformava in una specie di circo e senza dubbio Elia
e Giovanni avrebbero ottenuto, insieme, un posto sicuro come la coppia di
clown più acclamati. Era automatico, per chi li incontrava la prima volta,
pensare a qualche film comico, Ciccio e Franco, Totò e Peppino.
Naturalmente loro non lo avrebbero mai ammesso. Anzi, fingevano spesso
una sorta di indifferenza reciproca, addirittura a volte una aperta ostilità,
che non riusciva però a nascondere la loro intensa amicizia.
Nel frattempo, era già stato ordinato, non si capiva da chi, il primo giro di
birre. Notando l'aria remissiva e taciturna di Sandro, che sembrava poco
coinvolto nella festa che si annunciava, Carlo si ricordò della cosa che più
lo aveva colpito fino a quel momento e che nessuno ancora gli aveva
spiegato.
«Ancora nessuno mi ha detto chi gli ha rubato la sua bella voce.» chiese
Carlo, indicando Sandro e cercando di dare alla sua richiesta il tono più
distaccato.
«Scherzi della vita. Capita.» bisbigliò con un po' di fatica l'amico.
«Sì, ma scherzi da prete,» commentò energicamente Elia, «e di un prete
molto stronzo che ti vuole un sacco di male.»
Risero insieme, ma si sentiva che circolava tra loro un certo imbarazzo,
come se si faticasse a parlare di quella brutta beffa del destino.
«No, non sono per niente degli scherzi questi, ma Sandro si sta curando
molto bene» spiegò Giovanni.
«Ma che cosa è successo?».
La domanda sboccò direttamente dal cuore, quasi urlata. Molti ai tavoli
vicini si voltarono. C'era in essa tutta l'angoscia di Carlo, come se questa
inaspettata e maligna rivelazione rappresentasse una specie di punto finale
di quella strana giornata. Ma come è possibile – si domandava – che
dall'oggi al domani cambi tutto in questo modo, una giravolta assurda che
mette in luce quanto poco vale ciò che facciamo, anche le cose più belle!
E' come se Dio giocasse a rimpiattino con noi e ci fregasse all'ultimo
angolo.
«Purtroppo capita spesso» spiegò di nuovo Giovanni. «Un tumore alla
tiroide, durante l'intervento è rimasta lesionata una corda vocale.»
Sandro lo interruppe bruscamente. «Basta così. Non siamo all'ospedale.»
Tutti tacquero. Era sceso su di loro, nonostante la bella serata estiva, un
senso di gelo. Uno stesso pensiero silenzioso percorreva le loro menti,
come se in quel momento, insieme, venisse toccata nel modo più diretto e
brutale la scorza dura della realtà.
Carlo provò a spezzare quell'onda di malinconia con una nota più leggera e
con tono divertito e scherzoso iniziò a raccontare le sue disavventure.
«Voi non ci crederete nemmeno, ma c'è qualcuno che mi vuole rovinare
le vacanze. Addio sole, tuffi e mare.»
Elia si fiondò subito, come un pesce che non vede l'ora di abboccare
all'amo, su questa opportunità di leggerezza offerta dal racconto di Carlo.
«Nei secoli dei secoli, amen. La sfigarella del Carlino, attenti è qui
vicino! Vade retro che ci contamini!» urlò balzando in piedi.
«Ma non hai già finito gli esami?» chiese Giovanni senza badare alle urla
dell'amico.
«Quelli sono ormai in archivio. E' l'altro lavoro che mi frega. L'editore.»
I suoi amici conoscevano vagamente le occupazioni extra-scolastiche
attraverso le quali Carlo faceva quadrare i conti. La cosa li incuriosì.
«Quale editore?» domandò Giovanni. Carlo cercò di spiegare in poche
parole la situazione, secondo lui assurda, in cui lo aveva cacciato
l'ambizioso Renato Beccalossi.
«Morale della favola, le mie vacanze si riducono, come una bistecca
estrogenata. Massimo una settimana.»
«Ma che te fregaaa, ma che te emportaaa» si mise a cantare Elia a voce
alta. «Chi te lo fa fare? Ti ha puntato contro una pistola? No? E allora
lascia perdere e goditela!»
Nonostante quel tono casinaro e volutamente disimpegnato le parole
dell'amico furono per Carlo come un lampo. Pensandoci per non più di un
secondo, si accorse che effettivamente Elia non si sbagliava e la questione
era esattamente quella. In effetti, chi glielo faceva fare di affrettarsi tanto?
Poteva tranquillamente fermarsi una decina di giorni, forse addirittura una
quindicina, che differenza faceva?
Si rivolse verso Sandro, con aria fintamente risoluta. «Vedi un po' quali
belle tentazioni mi fa passare sotto il naso Elia!» E aggiunse ridendo.
«Caro Elia, nonostante la tua aria da scemo, credo proprio che hai
ragione!»
Ma i giochi del caso ancora non erano finiti e, come una coincidenza
beffarda, in quello stesso momento Carlo sentì nuovamente quel cicalino
fastidioso che tanto odiava e qualcosa che gli vibrava in tasca. Imprecò tra
sé e sé. Di nuovo una telefonata. Sperò che quel suono odiato presto si
interrompesse, ma il trillo continuava e si ripeteva come a ricordargli la
sua indiscutibile autorità. Alzandosi, si scusò con gli amici. «Solo un
attimo.» Si allontanò un poco per rispondere.
Bastò un'occhiata. Era sempre lui. Ma che cosa voleva a quell'ora? Carlo
cominciava ad arrabbiarsi. Erano quasi le undici. Chi si credeva di essere
quel mega-direttore fantozziano per rompergli le scatole a quell'ora?
Rispose con il tono di chi non ha né voglia né tempo di andare per le
lunghe.
«Che c'è, Renato?»
«Sei arrivato?» Anche il tono dell'amico era molto spiccio.
Era la cosa che meno si aspettava. Rimase per un attimo interdetto. Gli
venne spontanea la domanda più scema.
«Dove?»
«In Umbria, accidenti! E dove se no? Erano più o meno le quattro quando
ci siamo sentiti. Dovresti ormai essere arrivato da un pezzo.»
Carlo si guardò i piedi, perplesso. Tutta la sua sicurezza era sparita.
«Scusa Renato, ma non mi pare di averti detto che ci sarei andato subito.
Adesso.»
Brusco, Renato lo interruppe subito.
«Ma no, scusa tanto tu, mi pare che fosse abbastanza evidente, no? Io lo
davo per scontato. Pensavo che avessi capito. E adesso dove sei, allora?»
La voce di Carlo si riduceva sempre più mano a mano che cresceva il suo
imbarazzo.
«A Deiva, a casa.»
«No, allora veramente hai capito un cazzo» lo interruppe di nuovo Renato.
«Il problema è molto serio. Ci sono editori importanti che già si stanno
muovendo e cercano di portarcelo via.» Portarcelo? notò Carlo. Non
capiva per niente quel plurale e che cosa c'entrasse lui in questo grande
affare.
L'imbarazzo stava ancora crescendo. Sentiva lontano il brusio discreto del
mare e tutto intorno la brezza calda e leggera di quella bella serata estiva.
«E allora?» La voce di Renato si era fatta improvvisamente imperiosa.
«Dimmelo pure chiaramente, se la cosa non ti interessa la passo
immediatamente a un altro.»
«Ma no, certo che mi interessa, te l'ho già detto.» Era la sua resa totale, la
replica moltiplicata di quanto era già avvenuto nella telefonata precedente.
«E allora datti da fare, diamine! In fretta!» Renato non lo salutò neppure e
Carlo sapeva benissimo che il giorno dopo sarebbe stato molto diverso da
quello che aveva immaginato.

-2-

Era il 7 luglio 2013, una domenica. Carlo stringeva il volante e non si dava
pace. In quel momento avrebbe potuto essere sulla scogliera, disteso al
sole e pronto per il primo bagno della stagione. E invece... Ho ceduto
troppo in fretta, si diceva. Il solito Carlino remissivo, Carlino timidino.
Signorsì signor capitano, comandi! Da più di un'ora un loop lamentoso si
riavvolgeva senza fine nella sua mente.
Per fortuna in questo viaggio che gli appariva sempre più demenziale non
era più solo. Seduto accanto a lui, gasato come se andasse a una festa, Elia
guardava fuori e commentava. «Sembra di essere in un film! Una
telefonata nella notte e... Tac! Scatta una storia. E' pazzesco quello che ci
hai raccontato ieri sera. Mi piace l'idea di essere in prima fila! Mancano
solo Coca-Cola e pop-corn.» Troppo alto per quella piccola utilitaria, stava
tutto rattrappito sul sedile, con le ginocchia bloccate e la testa a un
centimetro dal tettuccio. Era la scomodità fatta persona, ma si vedeva che
era contento.
«Ma tu questo strano scrittore che andiamo a scovare, lo hai conosciuto?»
«Non sapevo nemmeno che esistesse. Ho conosciuto anch'io tutta la
faccenda soltanto ieri, molto all'ingrosso; Renato non si è sprecato nel
darmi tutte le informazioni. Renato...»
«Fammi capire,» chiese Elia con tono fintamente riflessivo, come se si
interrogasse su questioni profondissime, «andiamo in un paesino
dell'Umbria che non sai nemmeno dove sia e lì dovremmo – forse, chissà,
in qualche modo, se tutto va bene – incontrarci con una persona che tu
nemmeno conosci, per prendere una scatola che non si sa bene che cosa
contenga.» E guardandolo di sottecchi aggiunse. «Carlo, dimmi la verità.
Ma sei sicuro che tutta questa impresa non sia soltanto un bello scherzo
che ti ha preparato il tuo amico editore?»
Carlo si irrigidì immediatamente. «Ti prego caro Elia di non chiamarlo più
mio amico. Grazie.» Più calmo aggiunse. «Per quanto riguarda quello che
tu chiami “lo scherzo”, non credo proprio. Dovevi sentirlo, come era
deciso. Fanatico.». Elia si mise a ridere, vedendo sul volto dell'amico una
stizza che non gli era abituale. «Carlo, hai presente quel vecchio film che
ci era piaciuto tanto? Amici miei?» Carlo lo guardò divertito. «Bene –
continuò Elia – c'era un personaggio interpretato da Tognazzi, mi pare si
chiamasse conte Mascetti, se ricordo bene. Prendeva in giro chiunque lo
ascoltasse, ad esempio un vigile, e lo rintronava con una sequenza
rapidissima di parole senza senso. Solo per dirti, a me pare che il tuo
editore sia un parente stretto del conte Mascetti.»
Carlo restò un attimo zitto e finse di riflettere con un dito che ticchettava
sul labbro; poi, come se avesse ponderato abbastanza le diverse possibilità
rispose: «A dire il vero ho pensato anch'io la stessa cosa, all'inizio. Non
proprio la supercazzola di Tognazzi, perché le parole di Renato – almeno
questo – avevano un senso, ma mi è subito sembrata una richiesta assurda,
fatta giusto per vedere come reagivo. Ho capito abbastanza in fretta, ieri
sera, che non era così. Quello ci crede. Ci crede e basta. E' convinto di aver
trovato la scala giusta per il successo.»
Battendo le mani, Elia scoppiò in una sonora risata. «Allora cerchiamo
almeno di divertirci noi!»
Carlo si voltò verso di lui con tutta la serietà del professore e scandì:
«Sicuramente non mancherà la materia prima.» Risero insieme. Era
davvero una bella fortuna averlo come compagno di viaggio in quella
avventura insensata, almeno l'atmosfera adesso era allegra. Andava
riconosciuto onestamente il merito di Elia in tutto questo.
«Ti debbo ringraziare, Elia. La tua compagnia mi dà un gran piacere!»
Se questo era vero in quel momento, non sempre però era stato così. Tante
volte – Carlo lo aveva detto anche agli altri amici– la compagnia di Elia lo
imbarazzava, soprattutto quel suo modo di fare frenetico e disordinato,
come se qualcuno lanciasse a casaccio tutti gli oggetti sottomano, senza
alcuna attenzione al pericolo di chi sta intorno.
Gli venne da pensare alle tante occasioni in cui l'amico aveva dato prova
del suo carattere poco affidabile. Elia, figlio unico, aveva qualche anno in
meno di lui. Come succede spesso, con il passare degli anni la differenza d'
età era divenuta irrilevante. Ma Carlo ricordava bene quando, giovane
universitario ormai aperto alla cultura e al mondo –andava a Genova ogni
due o tre giorni! – vedeva quel ragazzino iperattivo girare per Deiva,
apparentemente senza scopo. Anche Elia aveva poi iniziato l'università,
con buoni risultati – la facoltà di matematica, se ricordava bene – ma,
guarda caso, non li aveva mai terminati. La piccola azienda familiare nel
settore oleario era stata la sua oasi di salvezza. Il padre, uomo dal carattere
duro e deciso, sapeva come tenerlo a freno, e Elia si era adattato a questo
ruolo, un figlio perennemente sotto tutela. Cinque anni prima – Carlo lo
ricordava molto bene, perché era stato coinvolto in prima persona – Elia
aveva attraversato una fase difficile, fatta di scontri e tensioni continue con
la sua famiglia, e soprattutto con il padre. Se n'era andato di casa, aveva
combinato ben poco ed era infine ritornato come il figliol prodigo alla casa
dei suoi.
Carlo guardò di nuovo l'amico seduto accanto. La corta barbetta ed i
capelli ricciuti disegnavano una sorta di profilo greco.
«Ma, Elia, venir via così all'improvviso, non ti crea problemi? Sai, il
lavoro, la sorpresa per i tuoi.»
Elia, appoggiandogli una mano sulla spalla, spiegò. «Caro il mio Carlino,
è vero che qualche volta, anzi abbastanza spesso, mi sembri un gran
coglione e ti prendo in giro. Ma ti voglio un gran bene, non potevo lasciarti
andar via così, in questo stato, tutto solo.» E aggiunse, per tranquillizzarlo
del tutto: «Non preoccuparti per il mio lavoro. La nostra è una piccola
azienda familiare. Sai, me lo dice spesso anche mio padre: “Elia Elia
lavoreremmo bene anche senza di te.” Non ha una grande opinione dei
miei contributi alla gestione.» E scoppiò in una sonora risata .
Tacquero per un poco e Carlo ripensò a quanto le opinioni, anzi – si
disse – i pregiudizi che ci fabbrichiamo sugli altri siano campati in aria. Le
nostre vite si sfiorano, si lanciano piccoli segnali, poi ognuno gira e rigira,
come una specie di impasto artigianale, quello che gli è arrivato e si
fabbrica così un'immagine che gli appare presuntuosamente vera. Ma, alla
resa dei conti, che cosa sappiamo veramente gli uni degli altri?
E in questo modo, anche il comportamento di Elia era stato incasellato,
catalogato, giudicato. Ne aveva una prova proprio in quel momento. Dietro
la scorza appariscente della frenesia dell'amico c'era un cuore gigantesco.
Questa era la cosa che veramente contava.
A vincere gli eccessi del sentimentalismo che stava crescendo gli bastò
tuttavia uno sguardo verso il sedile accanto.
«Cosa stai facendo con le mie cassette?». Scattò in Carlo il solito
automatismo: la difesa di ciò che per lui era un bene prezioso, e che per gli
altri probabilmente non valeva nulla.
«Rimetti subito tutto al suo posto!» urlò verso il vicino. Elia lo guardò
allibito. A lui tutta quella foga per delle vecchie audiocassette rovinate era
assolutamente incomprensibile, gli sembrava un'esagerazione. Anche
Carlo si era accorto di aver esagerato. Ammonì silenziosamente se stesso:
“OK, stai calmo, e vediamo di non litigare subito. Ricordati che cosa è
successo con Sandro. Per fortuna è tutto risistemato. Non deve più
succedere.”
Già, Sandro. L'associazione fu spontanea, gli ritornò alla mente il dramma
che stava vivendo. Si voltò per farsi dire qualcosa di più, qualche notizia
più precisa, ma sicuramente Elia in quel momento aveva tutt'altro per la
testa.
«Ehi, perché non ci fermiamo al prossimo autogrill?»
«Così presto?»
«Giusto per un caffeuccio. Non lo dici sempre anche tu? Non bisogna aver
fretta.»
Carlo lo guardò e sorrise. «Al prossimo, allora.»
Avevano ormai alle spalle la lunga sequenza di gallerie, e stavano
avvicinandosi a Carrara lungo l'autostrada diritta e poco trafficata. Carlo
guidava rilassato, si erano diradate le tensioni e le inquietudini del giorno
prima, e gli sprazzi di divertimento offerti dalla conversazione con Elia gli
avevano fatto dimenticare la rabbia che lo accompagnava nei primi
chilometri. Era una bella domenica estiva, una giornata di sole non ancora
cocente ed afoso, come spesso ne offre il mese di luglio. Buttando
un'occhiata all'interno delle auto che lo superavano, Carlo guardava con
invidia quella gente che, dall'aspetto già balneare, rivelava la sua
indiscutibile direzione, sicuramente verso le belle spiagge della Versilia. E
invece lui... ma scacciò subito i pensieri tristi e ossessivi che si stavano di
nuovo insinuando nella sua mente. «Che importa! Tra poco sulle spiagge
ci sarò anch'io!» Lo disse ad alta voce con una buffa aria di sfida, che fece
di nuovo ridere l'amico.
«Di sicuro, nessuno te lo toglie un bel bagnetto. Ma per restare alle
questioni più attuali, Allora, questo caffè, manca tanto?»
Per fortuna c'era Elia.

Erano all'incirca le quattro quando, all'uscita di una breve galleria


comparvero in alto, sulla sinistra, le torri e i campanili di Perugia.
«Ormai siamo vicini! Urlò Elia, mentre con un dito seguiva il loro
itinerario su una carta stradale trovata nel cruscotto. La guardava con
attenzione, appoggiata sulle ginocchia. Non appena avevano lasciato
l'autostrada, già parecchi chilometri prima, si era calato in pieno nel
compito che Carlo gli aveva assegnato solo per distrarlo un poco. Si capiva
che era un piacere per lui, in quel momento, rendersi utile. Con voce
tranquilla, confermava ad ogni bivio che stavano andando nella direzione
giusta. Inutilmente Carlo, più volte, aveva cercato di rassicurarlo,
dicendogli che conosceva abbastanza bene la strada fino ad Assisi e che
l'aveva percorsa più di una volta.
«Elia, tu c'eri già stato stato da queste parti?» chiese.
Elia ci pensò un attimo. «Tanti anni fa, mi pare, ero venuto ad Assisi con
gli scout. Ci eravamo divertiti.»
Carlo lo guardò di nuovo. In quel momento, l' ingenuità di Elia gli
appariva commovente. Come se il tempo avesse voluto conservarlo intatto,
senza cambiarlo mai. Gli venne spontanea una domanda. «Hai fatto ogni
tanto qualche bel viaggio in Italia, nel mondo?»
Carlo vide nei suoi occhi accendersi un lampo di malinconia. «Ti
sembrerà strano, ma è da un pezzo che non faccio vacanze, viaggi, giri
intorno.», disse. Poi, come a voler scacciare ogni tristezza, ritmò sul
cruscotto con una mano: « Deiva, Deiva, Deiva! Mi sono imbucato nel tuo
paradiso, e lì resto!», battendo con l'altra l'ennesima manata sulle spalle
dell'amico.
Probabilmente erano ormai vicini. L'auto continuava a mantenere, senza
fretta, una tranquilla velocità di crociera. Intanto, Carlo rifletteva. Come
procedere nell'ultima parte del viaggio e raggiungere finalmente la meta?
Fino ad Assisi sapeva come arrivarci. Ma poi? Ticchettò con un dito
sulla carta. «Occhio Elia, da qui inizia la caccia al tesoro. Chissà dove si
trova quel benedetto paese, Monastico.»
«Vai tranquillo fino ad Assisi, che poi è tutto indicato.»
«Sei sicuro?» A Carlo, memore di tanti precedenti, quella sicurezza
sembrava un po' sospetta.
Elia lo guardò come se fosse una bestemmia sfidare la sua competenza.
«Tu vai, che poi ti dico io!»
Uno splendido cielo azzurro era stato la costante di tutto il viaggio. Ma da
qualche chilometro, all'altezza del lago Trasimeno, il tempo aveva iniziato
a peggiorare. Nubi nere e minacciose si addensavano all'orizzonte.
Lasciando il sacro convento e le mura di Assisi in alto alla loro destra, si
erano ormai incamminati su una piccola strada, incontrando sempre meno
auto mano a mano che si inoltravano dietro la montagna.
«Accidenti, ci mancava la pioggia!» Imprecò Carlo alle prime gocce,
azionando i tergicristalli.
Elia lo rassicurò energicamente. «Che vuoi che sia in questa stagione? Sarà
un temporale.»
I tergicristalli faticavano a liberare il vetro dall'acqua scrosciante. Carlo
procedeva lentissimo, sforzandosi di vedere le segnalazioni. Proprio
quando aveva lasciato la strada principale per avventurarsi nel dedalo delle
stradine interne, la pioggia aveva cominciato a cadere più intensa,
accompagnata dal rombo costante dei tuoni sempre più vicini, e la luce
ormai scarsa, anticipando la sera, rendeva molto difficile individuare la
direzione. Da parecchio avevano lasciato alle loro spalle le ultime case e
con una serpentina continua la piccola strada procedeva attraverso una
vegetazione sempre più fitta.
«Elia, che dici, stiamo andando bene?»
«Non ti preoccupare. It's all under control.» La tranquillità sfoggiata
dall'amico appariva rassicurante. Continuava a fornire le sue preziose
indicazioni, sicuro di sé, ma Carlo non se la sentiva più di procedere in
quel modo. La strada si faceva sempre più stretta, addentrandosi in mezzo
alla boscaglia. Poco prima di una ripida salita che si inerpicava con stretti
tornanti, inondata dall'acqua che scorreva ormai abbondante, Carlo decise
di fermarsi. Inutile andare oltre, rischiavano di perdersi davvero. Elia lo
guardò stupito.
«Perché ci fermiamo? Non siamo ancora arrivati!»
«Per favore, puoi passarmi un attimo la carta?», chiese gentilmente, con la
massima calma.
«Ma certo! E' tutta tua!». Con sguardo beffardo, Elia gliela porse
immediatamente.
Bastò un'occhiata a Carlo per individuare il punto in cui avevano sbagliato.
Erano strade tutte uguali, facile confondersi. Guardò Elia con un sorriso.
«Niente di grave, solo una piccola escursione extra in questi bei posti.»
L'amico rise. «Vuoi mettere? Con la colonna sonora di pioggia e tuoni,
poi, è il massimo!»

La pioggia era stata intensa, per fortuna il temporale era finito velocemente
senza far danni. La luce estiva aveva ritrovato le sue forze, ma con una
nota di dolcezza che si rifletteva nell'aria e dava a quell'ora del tardo
pomeriggio un fascino inafferrabile. Vera sedeva sulla stretta panca vicino
all'ingresso e osservava il gelsomino fiorito carico d'acqua e le gocce lente
che cadevano con ritmo leggero dai suoi rami. L'insegna della piccola
pensione, illuminata fiocamente dal lampione pubblico che si era acceso
poco più avanti, era come il segnale di un avamposto inaspettato. Tutto
attorno, infatti, sul pendio sempre più scosceso che circondava le poche
case del paese, dominavano i boschi.
«Vera, hai controllato che sia tutto a posto, che non manchi nulla nelle
stanze?»
«Sì, mamma, ho fatto tutto.»
Maria, sua madre, doveva sempre accertarsi che ogni cosa nella loro
piccola pensione funzionasse perfettamente. Vera lo sapeva e la
assecondava.
Per Vera, quello era uno dei momenti tranquilli della giornata. I pochi
clienti non erano ancora rientrati – quasi sicuramente buona parte di loro
aveva trascorso l'intera giornata ad Assisi. La preparazione della cena era
da sempre un'incombenza che la madre aveva riservato per sé. Non che
non si fidasse di lasciare Vera in cucina, ma sicuramente la qualità della
tradizione umbra, che un cartello in evidenza all'ingresso sottolineava, era
pienamente garantita da quella donna energica e precisa di 64 anni. Lei e la
madre, a volte, riflettevano su quella scelta forse temeraria che era loro
parsa la più naturale: gestire la piccola pensione interamente da sole. Le
stanze erano poche, si trattava della vecchia casa di famiglia risistemata e
modernizzata.
Vera osservava la strada bagnata e rifletteva. Spesso, le capitava di
pensare, in momenti come questo, alle opportunità che si era lasciata alle
spalle scegliendo di vivere accanto alla madre Maria nel loro vecchio
borgo. Era una piccola evasione che concedeva a se stessa, immaginare
quale vita avrebbe potuto essere la sua se non avesse deciso cinque anni
prima, alla morte improvvisa del padre, di ritornare a Monastico,
immergendosi totalmente nel ritmo quotidiano della gestione della loro
piccola impresa. Il fratello era lontano, in Australia, non se ne curava. A
lei era parso un dovere indiscutibile, garantire alla madre il suo aiuto.
Sapeva bene che era pericoloso lasciarsi andare a simili considerazioni
sulle vite alternative, un esercizio inutile che aveva come unico risultato la
malinconia. Il sole che si intravedeva basso al bordo delle colline e la
leggerezza dell'aria rinfrescata dalla pioggia recente erano come una porta
aperta per i voli dell'immaginazione. Se non fossi qui, adesso...
Scacciò questi pensieri. Aveva imparato con gli anni ad essere molto
severa con se stessa e sapeva come vincere quelle tentazioni di evasione.
Era un ammonimento costante che si rivolgeva, una cautela di fronte a
quello che le sembrava il rischio peggiore: baloccarsi con la vita anziché
viverla. Lo vedeva come un'inaccettabile viltà di fronte a ciò che la vita
offre, bello o brutto che sia. Le promesse vanno mantenute e le scelte che
facciamo vanno rispettate fino in fondo, a qualunque costo. Come?
Bastava obbligarsi a scendere sulla terra, guardarsi intorno, accettarsi.
Appoggiando le mani sul legno della stretta panca usurato dal tempo, le
ritornò alla mente la figura esile e sottile del vecchio americano morto da
poco, che tutti in paese avevano sempre chiamato il Professore. Anche lui,
quando scendeva in paese, amava sedere come lei in quel momento,
guardando con tranquillo distacco la piazzetta di fronte, chiacchierando
volentieri con chi capitava. Il suo viso magro e la folta zazzera
precocemente imbiancata le incutevano, quando era bambina, un'istintiva
soggezione, nonostante la sua grande cordialità. Un senso di mistero si
accendeva nella sua immaginazione quando, senza farsi scorgere, fissava
le rughe profonde che gli scolpivano lo sguardo come un marinaio
consumato dal vento, bloccato sulla terra ferma. Un involontario sorriso le
illuminò il volto al ricordo delle tante volte in cui la madre partiva in
bicicletta, mugugnando tra sé parole incomprensibili, per portare al
Professore il pranzo preparato con cura. Capitava anche, un po' meno
spesso, che fosse lui a fermarsi a mangiare quel buon cibo che tanto
apprezzava nella loro pensione. Fin da piccola – le venne da pensare – si
era abituata alla vista quasi quotidiana di quello strano signore, così
diverso dagli altri che vivevano in paese. Avvertì in quel momento il senso
di una perdita, come se un piccolo vuoto si fosse aperto nel suo paesaggio
quotidiano. Ripensò a lui con affetto, rivivendo le tante volte in cui si era
fermato a giocare e scherzare con lei.
Si accorse solo ora dei due che, discutendo animatamente, si avvicinavano.
Il più piccolo indicava la pensione, l'altro scrollava la testa, poco convinto.
Gli venne da ridere, pensando a scene simili che ogni tanto si ripetevano.
Qualche viaggiatore sprovveduto capitava per caso in paese, girando per
quelle strade apparentemente tutte uguali che si intersecavano dietro il
monte. Non capiva bene dove si trovasse e con un sospiro di sollievo
otteneva informazioni per ritornare verso le zone più familiari e
conosciute.
Vera notò che il più piccolo di quei due stava guardando insistentemente
dalla sua parte. Indossava un vecchio paio di jeans e una giacchetta bianca
che gli stava un po' stretta. L'altro, più disinvolto, camminava e parlava in
continuazione voltandosi indietro. Una cosa che parve a Vera abbastanza
buffa, come certe scene nei film comici quando i protagonisti litigano e
discutono senza cavar nulla dal loro indaffararsi. Notò la faccia simpatica
di quello più alto, dominata da un imponente naso, il suo goffo modo di
agitarsi. L'altro, un uomo di una quarantina d'anni un po' appesantito,
sembrava non curarsi di ciò che gli stava dicendo l'amico e procedeva
titubante ed incerto verso di lei.
Quando furono abbastanza vicini, fu quello alto a parlare con tono gentile
e una voce bella e robusta.
«»Scusi signora, ci sono anche altri alberghi in questo paese?»
A Vera venne quasi da ridere a quella strana idea, ma rispose come se
quella fosse stata la domanda più normale del mondo.
«No, questo è l'unico. Anzi, chiamarlo albergo è un po' esagerato. E' solo
una piccola pensione familiare.»
Trionfante, Elia si rivolse allora all'amico. «Vedi? Non ci si poteva
sbagliare!»
Vera riusciva ancora a trattenere il riso.
«Cercate qualcuno?»
Fu Carlo a rispondere velocemente, imponendosi sulla foga dell'altro.
«Sì, è così. Purtroppo non sappiamo bene chi sia!»
Questa battuta involontaria fece ridere insieme Elia e Vera, anche Carlo si
unì subito a loro, consapevole dell'assurdità apparente di quello che aveva
appena detto.
«No, mi sono spiegato male» aggiunse ridendo. «Noi sappiamo che qui c'è
qualcuno che ci sta aspettando, ma non sappiamo chi esattamente sia.» E
commentò a bassa voce «Sì, la situazione è più o meno questa.»
Vera si offrì gentilmente. «Se mi dite di che cosa si tratta, forse vi potrei
aiutare!»
Elia intervenne subito con la sua solita sicurezza. «Dovremmo ritirare
qualcosa, non sappiamo bene, un baule o una cassa, che è stata messa da
parte per un editore di Torino. Già è stato predisposto tutto.»
Vera rise con ancora più gusto. «Ah, ma allora siete voi?»
«Gli incaricati del ritiro? Si siamo noi. E mi pare di capire che lei forse sa
chi dovremmo incontrare,» disse Carlo. Si sentiva rassicurato. Forse ce
l'avevano fatta.
Vera rise di nuovo. «Ma certo che la conosco, quella persona! Sono io!»
Carlo e Elia si guardarono, sentendosi un po' idioti.
Fu di nuovo Elia a vincere per primo quella spiacevole sensazione
battendo una gran manata sulle spalle dell'amico. «Bingo!»
Anche Carlo sorrise all'idea del facile successo della loro impresa e si
impegnò ad esporre nel modo più chiaro e sintetico possibile il compito
che gli era stato assegnato.
Vera lo ascoltò con attenzione, poi spiegò. «Il signor Volpi mi ha lasciato
detto qualche giorno fa che presto sarebbe passato qualcuno con questo
incarico. Anche lui non aveva saputo dire chi e quando sarebbe passato,
ma sapendo che la pensione è sempre aperta non se ne era fatto un
problema.»
«Che dice? Allora possiamo andare?» Intervenne un po' troppo
sbrigativamente Carlo, che si vedeva sulla strada del ritorno e da tempo
ormai sognava la spiaggia del giorno dopo.
Forse Vera già aveva pensato a questa possibilità. Inutile fare le cose in
fretta. Si era fatto tardi e, soprattutto, due potenziali clienti inaspettati
potevano far comodo alla situazione un po' incerta della pensione
Vallechiara, anche solo per una notte. Con tono tranquillo espose la
situazione. «E' meglio andare domani. La casa dello scrittore, noi lo
chiamavamo il Professore, è un po' lontana e la stradina per arrivarci è
parecchio disagevole, meglio non avventurarci a quest'ora. Perché non vi
fermate qui? Abbiamo una bella stanza libera. Andremo con comodo
domani mattina.»
Elia non lasciò a Carlo il tempo di rispondere. «Benissimo, così ci si riposa
e si riparte tranquilli! Che ne dici Carlo?»
La risposta era naturalmente scontata. Carlo si consolò all'idea dell'ottima
cena che avrebbero potuto mangiare. Già si spandeva nell'aria un
profumino delizioso.

-3-

Era il 24 agosto 2013, un sabato. Carlo se ne stava disteso sulla spiaggia di


Deiva con i suoi amici Elia e Giovanni, nella parte più estrema vicino agli
scogli, dove le ombre si erano allungate a poco a poco con il passare delle
ore. Era quasi sera e la giornata un poco velata era stata piacevolmente
mite. I recenti temporali avevano rinfrescato l'aria.
Carlo era ritornato a Deiva subito dopo aver portato a termine la sua
missione, con la coscienza tranquilla di chi ha compiuto il proprio dovere ,
e aveva lasciato scorrere le sue ore senza mai temere il mare di pigrizia
che lo stava sommergendo. Come un abile equilibrista sospeso sul vuoto,
sapeva destreggiarsi allegramente tra quelle giornate tutte uguali.
Carlo si accontentava di poco. L'unico desiderio che avreste trovato nella
sua testa in quell'ora vespertina era di rimanere ad occhi chiusi e, con un
sorriso sulle labbra, godersi il profumo del mare. Il suo odorato - il senso
più trascurato – era come se si accendesse di una forza nuova; gli pareva
che il mare di Deiva avesse un suo profumo inconfondibile, pieno di
sfumature, mutevole a seconda delle ore. In quel momento tutte le piccole
differenze gli arrivavano nette e sottili e, con grande piacere, mantenendo
le palpebre chiuse, si concentrava nello sforzo di riconoscerle.
Le vacanze stavano finendo, ma il ricordo della scuola che presto sarebbe
ricominciata era ancora lontano. Aveva saputo pochi giorni prima, con il
sollievo di chi volge la prua verso terre conosciute, che per quell'anno
scolastico non sarebbe stato costretto a cambiare scuola. Era felice di
rivedere i colleghi che conosceva bene e di lavorare nuovamente con loro.
Si era anche affezionato, ormai, a quella cittadina piemontese, che
purtroppo aveva il solo difetto di essere spesso immersa nelle nebbie
umide della Pianura Padana. Una simile stabilità era per lui piuttosto rara
e gli evitava i fastidi del solito trasloco annuale a cui si era purtroppo
abituato. Quando la collega Silvia, che amichevolmente aveva accettato di
svolgere per lui le noiose incombenze burocratiche, gli aveva telefonato
appositamente per comunicargli la bella notizia, aveva tirato un gran
sospiro. Carlo – lo si sarà ormai capito – non aveva mai amato i
cambiamenti.
«Che fai, dormi?» Elia, come al solito, non sopportava che il silenzio
durasse più di dieci minuti.
«Lascialo stare, non vedi che sta meditando! Con quel sorrisino sembra
proprio un piccolo Buddha, ma a pancia in su» osservò flemmatico
Giovanni, seduto dietro una roccia con il suo immancabile giornale in
mano. Il sorriso di Carlo si accentuò ancora di più. «Guardalo bene, Elia.
E' il chiaro segno della beatitudine. Ha raggiunto il nirvana, niente può più
toccarlo.»
«Ahia!» esclamò Carlo fregandosi il fianco, mentre Elia ridacchiava.
«Giovanni, mi sa che la tua teoria non funziona... questo qua sente ancora
tutto, anche un bel pizzicotto. Altro che nirvana!»
Anche Carlo non riuscì a trattenere una bella risata. «Elia, i tuoi
esperimenti, per favore, falli su qualcun altro!» Intanto, stiracchiandosi, si
era alzato. «Ragazzi, tra poco dobbiamo andare. Non c'è quasi più
nessuno.»
Proprio in quel momento – curiosa coincidenza – qualcosa gracchiò nella
sua borsa colorata. Il suono era inconfondibile. «Le coincidenze non
esistono, non c'è che il gioco del nudo caso» scandì truce a bassa voce
vedendo lo sguardo interdetto dei suoi amici. «E' di nuovo lui.»
Forse stava per ripetersi l' umiliante scena di un mese prima? Lo pensò per
un secondo, poi si decise a rispondere. Pasticciando nella borsa raggiunse
con la mano il cellulare che continuava a suonare.
«Allora, Carlo, tutto bene?»
«S', Renato, sono qui a Deiva, gli ultimi giorni di vacanza.»
«Benissimo! Gli ultimi bagni sono sempre i migliori! A proposito, scusa
per l'ultima volta; ero un po' alterato, non farci caso. Sempre amici. Anzi,
ti ringrazio per la velocità con cui ti sei fiondato a recuperare il malloppo!
Adesso ce l'abbiamo noi!» Renato accompagnò le ultime parole con una
sonora risata.
«Proprio così. Ho tutto qui con me.» Carlo cercò di mantenere un tono
calmo e distaccato, sicuro che tra un attimo sarebbero arrivate nuove
richieste.
«Hai già iniziato a darci un'occhiata?» chiese Renato con un tono
altrettanto calmo e distaccato. Carlo sorrise. Ecco che si avverava ciò che
aveva appena predetto. Questa volta però cercò di condurre lui il gioco e di
non farsi cogliere impreparato.
«Certo, Renato!» Mentì. «Però, niente baule o cassa, come pensavi. E' un
comunissimo scatolone.» Carlo iniziava a prenderci gusto, laggiù
tranquillo sulla spiaggia, a raccontare cose vere e false a piacere a
quell'altro bloccato nella città accaldata.
«Anzi, per essere più precisi, si tratta di un bell'accumulo di polvere e
robaccia, più simile a un contenitore destinato al pattume che a una
raccolta ben conservata di interessanti materiali letterari destinati alla
pubblicazione. Caro Re-na-to, mi sa che questa volta abbiamo top-pa-to.»
Concluse le ultime parole scandendole, compiaciuto della rima puerile.
«Ok ok, ma tu hai iniziato a leggere quello che c'è dentro?»
Carlo tacque, con un lungo momento di silenziosa incertezza che bastò a
smascherare preventivamente qualunque bugia avesse voluto ancora
aggiungere.
«Ma dai, Carlo, non preoccuparti. Se finora non hai cominciato, non fa
niente. Goditi ancora un po' di vacanza, poi ne riparliamo. A presto!» E
Renato chiuse amichevolmente la sua chiamata, lasciando Carlo un po'
incerto nell'interpretare quel fiume mieloso che ora scorreva tra lui e
l'editore torinese.
Elia e Giovanni continuavano a fissarlo incerti. «Tutto bene» disse
rivolgendosi verso di loro. «Per questa volta nessun ordine perentorio.
Merci mon commandant!» E portò la mano a un'immaginaria visiera come
in un comico saluto militare. Risero tutti insieme e lasciarono la spiaggia
allegramente.

A mezzanotte circa Carlo rientrò a casa. Percorrendo le strette stradine


deserte sotto uno splendido manto di stelle, sempre più luminoso mano a
mano che saliva, i suoi pensieri ritornavano ciclicamente alla telefonata
dell'amico editore. Abituato a resistere con mille sotterfugi agli attacchi e
alle pressioni di altri più forti ed abili di lui, Carlo vedeva bene in quel
momento che la sua situazione poteva essere paragonata a chi, puntando i
piedi si sforza di resistere in un logorante tiro alla fune che gli costa
un'enorme fatica, e all'improvviso si vede porgere senza apparente motivo
tutta intera la corda, con un sorriso e una pacca sulle spalle: «Prego, ne
faccia pure quello che vuole.». Rifletteva sulla strana situazione in cui
Renato lo aveva cacciato. Già, lo scatolone ce l'ho io, adesso – pensava –
ma che ne faccio?» Si accorgeva così che non era più rinviabile una
disincantata resa dei conti con se stesso. Quelli erano momenti per lui
preziosi, squarci di consapevolezza che interrompevano il suo tranquillo
galleggiare sul mare della vita, simili a raggi di luce attraverso una densa
coltre di nubi. In circostanze analoghe aveva saputo, con un po' di fatica,
trovare una soluzione, ma ora? Sarebbe stato all'altezza dell'impegno che
Renato pretendeva da lui?
Arrivò alla porta della silenziosa casa dei genitori che dormivano ormai da
un pezzo. Subito pensò alla sgabuzzino e allo scatolone che vi giaceva
dimenticato da giorni.
Prelevandolo dal ripostiglio in cui era stato conservato nella casa dello
scrittore, confuso con tanti altri oggetti dimenticati, lui ed Elia si erano
accorti subito del notevole peso. Lo avevano trasportato con una certa
fatica fino al bagagliaio della piccola auto, dove era entrato a malapena.
Ora Carlo era solo e si accontentò di trascinare la pesante scatola nel
corridoio, anche se la luce della piccola lampada a muro era piuttosto
fioca. Avvicinò una sedia, aprì i bordi ripiegati ed iniziò a prelevare ciò
che conteneva, impilandolo contro la parete. Gli venne da ridere,
immaginando come sarebbe apparso quel suo modo di procedere se si
fosse trovato in un dipartimento universitario. «Centi, ordini e classifichi
ogni cosa!» si disse imitando la voce del suo vecchio professore di
biblioteconomia e ridacchiò tra sé e sé. Ne conservava un buon ricordo, le
sue lezioni erano state preziose e potevano essere d'aiuto anche in questa
occasione. Per classificare bisogna saper leggere, non basta guardare!
Questa saggia massima che il professor Vicari ripeteva continuamente gli
ritornò in mente in quel momento. Osservò allora con più attenzione la
scatola. Era in buon stato, asciutta, solo leggermente deteriorata su un
fianco e un po' scurita dal tempo.
Mano a mano che estraeva da quella massa confusa i tanti fogli, giornali,
plichi, mischiati con altri piccoli oggetti non facilmente riconoscibili, gli
diveniva sempre più chiaro che un esame completo avrebbe richiesto
molto tempo. Lo avrebbe trovato? Questo dubbio lo agitava un poco.
L'acre sentore del tempo che intanto si sprigionava da quelle carte
umidicce aveva ormai impregnato l'aria dello stretto corridoio. Carlo iniziò
a buttare un'occhiata un po' a caso sulle carte che stava estraendo. Sotto il
suo sguardo quelle parole sigillate ed immobili da tanti anni stavano
riprendendo vita. Nella sua fantasia, gli pareva di essere come un
esploratore di antiche tombe etrusche e provava un'emozione simile a
quella di chi per primo era riuscito a penetrarvi.
Scuotendo bruscamente la testa si risvegliò da questo sogno ad occhi
aperti. «Vola basso! Non esaltarti troppo!» ripeté a se stesso. La parte più
concreta del suo animo si faceva di nuovo sentire e lo riportava con i piedi
per terra. «Guarda meglio, senza farti trasportare dai sogni!»
Guardò di nuovo più pacatamente il contenuto della scatola e, con un
sorrisetto sarcastico, gli venne da pensare a Renato, a ciò che lui gli aveva
detto, sfottendolo, nella sua recente telefonata, parole davvero profetiche.
Se Renato si fosse trovato in quel momento accanto a lui, avrebbe
sicuramente riconosciuto che quanto Carlo aveva raccontato
corrispondeva perfettamente alla realtà di ciò che in quel momento aveva
di fronte. L'impressione era effettivamente quella di un carico destinato al
macero. Malconce copie di giornali e riviste, bollette della luce e del
telefono, documentazioni bancarie, insieme con tanti altri fogli scritti a
mano e dattiloscritti. Tutto mischiato e accatastato disordinatamente.
Afferrò alcuni fogli per farsi un'idea più precisa e fu colpito da un fatto che
non si sarebbe aspettato. Ve ne erano molti scritti in italiano, ma con una
grafia un po' diversa dagli altri scritti in inglese, meno sicura. Carlo
confrontò allora con attenzione la forma dei caratteri: sì, nonostante
qualche piccola differenza, era sicuramente la stessa mano, una scrittura
chiara e regolare con una curiosa inclinazione delle lettere un po' antiquata.
Gli venne da pensare ai tanti anni trascorsi dallo scrittore in Italia, alle
radici italiane di sua madre – Carlo ricordava di averlo letto da qualche
parte – al suo sforzo di ricrearsi una nuova vita. Era facile capire che, dopo
pochi anni, le due lingue erano diventate sempre più interscambiabili.
Carlo aveva ormai quasi svuotato lo scatolone, sempre più confermando
l'impressione che quello che aveva di fronte era soltanto un miscuglio di
scarti racimolato dal caso, una materia informe e raccogliticcia. La
maggior parte erano singoli fogli riempiti in genere di poche frasi, spesso
cancellate con forza lasciando un segno profondo sulla carta, un gesto
violento e carico di rabbia, come se l'ansia che saliva, di fronte a ciò che
era appena stato scritto volesse in qualche modo trovare uno sfogo.
Il suo sguardo attento cadde su un titolo ben evidenziato che riempiva
quasi completamente una pagina: The New Olders. Gli venne da ridere:
sembrava il nome di un gruppo musicale anni '70. Poco sotto era annotata
in italiano una frase enigmatica “Dire tutto a Serse” Ma subito sotto un
gigantesco “No!” tagliava corto a qualsiasi possibile sviluppo. Era
evidente – notò Carlo – il senso di profonda insoddisfazione che trapelava
attraverso quel caos.
Lo incuriosì un quadernetto scolastico con l'immagine di Paperino sulla
copertina. Carlo sorrise. Probabilmente, pensò, era stata una scelta carica
di autoironia scegliere quel personaggio sfortunato e pasticcione. Sul
frontespizio un titolo in inglese scritto in caratteri molto grandi: On the
Giants' Steps. Gli parve un titolo suggestivo, capace di catturare
l'attenzione. Voltò pagina ed iniziò subito a leggere ad alta voce le prime
righe del testo, cercando con attenzione di coglierne il significato
attraverso una veloce traduzione:
“ Stelle e strisce sono impregnate di sangue. L'America affonda e io sento
da lontano il suo rantolo. Le città bruciano, non c'è più pace per le strade.
I Cavalieri dell'Apocalisse sono giunti da un pezzo – already, sì andava
bene anche già arrivati – su comodi DC-9, ma nessuno se ne è accorto,
tutti continuano la loro vita tranquilla e indifferente.”
Gli sembrò un buon inizio. Voltata la pagina proseguì la lettura con
crescente interesse, ma a poco a poco il testo si faceva confuso, la scrittura
concitata, come carica di ansia, quasi che Thomas McWine fosse
naufragato miseramente nel mare di parole che lui stesso aveva creato. Il
testo si interrompeva bruscamente, le pagine successive probabilmente
erano state strappate e quelle rimanenti non contenevano altro che colonne
di numeri, probabilmente conti di casa, calcoli delle entrate e delle uscite.
Già – gli venne da pensare – questo era un ulteriore mistero: come
campava l'americano solitario nel suo eremo di Monastico? Forse gli erano
stati sufficienti i guadagni ottenuti con il suo primo ed unico libro e la
produzione cinematografica che ne era seguita? Sicuramente – rifletteva –
le esigenze erano davvero poche nella vita frugale che McWine aveva
condotto in quel piccolo borgo.
Intanto, mentre si moltiplicavano le domande nella sua mente, aveva
continuato a svuotare la scatola. Ormai le colonne di carta, ordinate come
un piccolo esercito pronto alla battaglia, si erano notevolmente alzate.
Verso il fondo, gli occhi caddero su una corposa cartellina rossa e lucida
con un grosso elastico che la chiudeva, di quelle comunemente utilizzate
negli uffici e che lui stesso aveva spesso adoperato per riporre compiti ed
appunti. Lo colpì il titolo posto sul margine in alto: The Notebooks of
Waste; e poco sotto il titolo la piccola immagine che vi era stata incollata.
Carlo la riconobbe subito con un moto di stupore, come se una scossa gli
arrivasse in quel momento da anni lontani. Era una riproduzione di buona
qualità della celebre incisione del pittore rinascimentale Albert Dürer
intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo. Il giovane cavaliere avanza
altero e sicuro, chiuso nella sua forte armatura, con lo sguardo fermo
innanzi, la morte cavalca accanto a lui, sporgendo beffarda una clessidra; il
diavolo, un po' discosto alle loro spalle, è un essere semi-bestiale, non
diverso da tante rappresentazioni tradizionali. Il cavaliere non si cura dei
suoi compagni di viaggio, né delle loro minacce, guarda avanti e procede
tranquillo.
Ricordava bene l'impressione che ne aveva avuto quando l'aveva vista per
la prima volta; aveva circa quindici anni ed era stato catturato dal gioco di
simboli che conteneva, come se attraverso lo sforzo della loro
comprensione si rendesse possibile penetrare il significato stesso
dell'esistenza. Quest'opera di Dürer, come le sue altrettanto famose
incisioni sull'Apocalisse, lo aveva sempre inquietato. Era solo una
coincidenza – il caso gioca sempre la sua parte, Carlo lo ripeteva spesso –
ma aver trovato imprevedibilmente quell'immagine su quel vecchio plico
lo turbava un poco.
Nell'aprire la cartellina, cadde un foglietto. Su di esso una sola parola
scritta in stampatello: Grazie. Carlo rimase interdetto. Grazie da chi? E
per cosa? Carlo immaginò che forse McWine aveva dato in lettura il suo
lavoro a qualcuno che soddisfatto di quel che aveva letto, lo ringraziava
per la fiducia che gli era stata concessa. Dunque, pensò, questo testo era
già stato letto ed apprezzato. Chissà quando. Ormai ne era catturato. Iniziò
a leggere e tradurre le prime righe di quei fogli dattilografati, scritti in un
inglese chiaro ma particolare, con una coloritura desueta, sicuramente
molto inventiva. La sua lingua letteraria su cui stava sperimentando,
pensò. Un po' come Joyce e Beckett. Tutto era ordinato con cura.

“Esisto ancora? Non lo so, non so chi sono. Sento che qualcosa ubbidisce
alla mia volontà. Ho un corpo. Sono un corpo? C'è qualcosa intorno,
posso vedere, ho uno sguardo, mi appartiene. Ci sono altri accanto a me.
Altri corpi come il mio. Anche loro immobili, bloccati. Anche loro possono
solo guardare. Vedo che sono stato visto, i nostri sguardi si incontrano,
solo gli occhi si muovono, nessun altro movimento è possibile. Anche loro
osservano spaventati tutto intorno. Siamo vivi. Almeno questo. Mi sforzo,
provo a parlare. Ci riesco.”

Lo colpì la suggestione delle immagini evocate. Sentì istintivamente


l'eccitazione della scoperta. Un sorriso si disegnò per un attimo sul suo
volto. “E adesso stai a vedere che il presuntuoso editore torinese aveva
ragione” pensò, sfogliando rapidamente con la mano i molti fogli
perfettamente conservati. Forse il tesoro c'era davvero e lo aveva trovato.
Qualcosa di interessante iniziava ad emergere dalle sabbie, occorreva saper
scavare, evitare passi falsi.
Si ripromise di leggere tutto con attenzione; ormai si era fatto tardi e le
prime luci dell'alba si intravedevano dalla finestra del soggiorno.

-4-

Era il 2 settembre 2013, un lunedì. A Benceglio, nella piana inaridita dalla


lunga estate si annunciava una giornata afosa. Un sole ancora molto forte
scaldava attraverso le grandi vetrate dell'ampio atrio i piccoli gruppi di
insegnanti che chiacchieravano in attesa dell'inizio della prima riunione del
nuovo anno scolastico.
Mentre saliva gli ultimi scalini verso l'ampio ingresso, Carlo si accorse che
la cartellina rossa – i Quaderni, come aveva iniziato a chiamarla – era
rimasta a casa sulla scrivania. Imprecò silenziosamente, contrariato.
Avrebbe voluto portarla con sé per farla vedere a Silvia, la collega di cui
più si fidava, durante le molte ore noiose del collegio docenti. Pazienza –
pensò – gliene avrebbe comunque parlato, sicuro di accendere la sua
curiosità.
Si sentiva nell'aria l'eccitazione del nuovo inizio. “E' una delle cose più
belle del nostro lavoro – pensò Carlo – questo ritrovarsi ai blocchi di
partenza, riprendere da capo ma mai allo stesso modo. Cambiano i ragazzi,
cambiano le situazioni.”
L'aria rassegnata di tanti intorno a lui smentiva queste sue considerazioni.
Vide che parecchi già si incamminavano lentamente verso l'aula magna.
Anche Carlo vi si diresse. Era un locale privo di finestre posto nel
seminterrato dell'istituto, tutto foderato di velluti violacei e con comode
poltroncine rosse imbottite.
«Poveri noi, moriremo di caldo!» disse ad alcuni colleghi delle sue classi
che lo accompagnavano.
«Caro Carlo, dobbiamo soffrire, ce lo dicono in tanti.» gli rispose uno
ridendo.
«Centi, lei dunque è ancora qui?» Riconobbe subito il tono sfottente della
voce alle sue spalle. Era l'unico collega che, per tutto l'anno precedente, in
qualunque occasione, gli aveva continuato a dare del lei, come a voler
rimarcare una distanza incolmabile. E anche Carlo, con evidente ironia,
aveva continuato a fare altrettanto.
«Professor Vendramini, ben ritrovato! Spero che la nomina che sono
riuscito ad ottenere anche quest'anno non la contrari troppo!» disse
girandosi con ostentata cordialità.
Vendramini era uno degli insegnanti più anziani. Insegnava anche lui
italiano come Carlo e vestiva, pieno di sé, con aria compiaciuta, costosi
completi inglesi adatti alla stagione. Adesso si trattava di un morbido lino
di un brillante colore azzurro.
Carlo non riusciva a capirne la ragione, ma Vendramini aveva iniziato ad
odiarlo dal primo momento del suo arrivo. L'antipatia, a dire il vero, era
stata immediatamente reciproca.
Uno spunto costante per le battute velenose del collega era il suo secondo
lavoro, la sporadica collaborazione con il piccolo editore torinese. Chissà
come, Vendramini ne era venuto a conoscenza e non perdeva occasione
per vantare i suoi contatti importanti in prestigiose case editrici, a
differenza – rimarcava lui con un'occhiata carica di derisione – di certi
pretesi editori senza mezzi capaci tutt'al più di stampare album di figurine
per bambini.
Entrando nell'ampia sala delle riunioni Carlo si guardò intorno cercando
l'unica persona, in tutta la scuola, a cui teneva veramente. Vide Silvia
seduta in un posto appartato tra le ultime file, concentrata nella lettura di
un piccolo libro tascabile dalla copertina usurata.
«Che leggi di bello?» le chiese sedendosi accanto a lei.
Silvia alzò gli occhi ancora carichi di una patina di lontananza e gli sorrise.
«La mia amatissima Silvia Plath. Giusto una poesia, per darmi forza prima
che inizi la lunga mattinata di noia.» disse richiudendo il libro.
Carlo rise e indicando con la mano tutto intorno osservò ridendo:
«Davvero il posto adatto per leggere poesie.»
«Non c'è luogo che non sia adatto, la poesia cambia tutto.» gli rispose
l'altra stando al gioco.
Agli occhi degli altri colleghi che sedevano tutto intorno era perfettamente
visibile la corrente di simpatia che scorreva tra quei due sempre un po'
isolati dagli altri.
Silvia era una donna dalle forme procaci ormai avanti con gli anni.
I lunghi capelli castani pettinati lisci, con leggere striature di bianco, e
l'abbigliamento un po' eccentrico e colorato ponevano in luce un forte
legame con la propria giovinezza, gli anni belli dei suoi studi a Roma
all'inizio degli anni '70. Ciò che immediatamente colpiva nel suo modo di
fare era l'atteggiamento energico e schietto che rifuggiva fronzoli e
formalità. Dietro gli occhiali circolari leggermente affumicati i suoi occhi
scuri scrutavano chi aveva intorno con una fissità quasi imbarazzante, e
questo aveva contribuito al diffondersi tra i colleghi dell'idea che si
trattasse di una donna sfuggente e un po' difficile.
La sua intesa con Carlo, invece, era stata immediata fin dall'inizio
dell'anno precedente, quando Carlo era appena arrivato e lei, nei primi
giorni di lezione, lo aveva casualmente incrociato, solo e spaesato, nei
corridoi della scuola. Il suo sguardo perso, come se fosse giunto
improvvisamente sulla luna, lo aveva intenerito. Gli si era avvicinata e
avevano iniziato a chiacchierare del più e del meno. Era un po' come se lei
vedesse nella figura impacciata di quel collega quarantenne una qualche
somiglianza con i suoi due figli ormai adulti. Era scattato qualcosa dentro
di lei, il desiderio di proteggerlo ed aiutarlo.
Intanto, dal palco quasi teatrale su cui troneggiava una lunga scrivania, con
ripetuti colpetti sul microfono la dirigente richiamò l'attenzione.
«Cari colleghi, si fa tardi. Vogliamo incominciare?» disse con voce decisa.
Il brusio della sala si attenuò di colpo, qualche voce isolata si spense subito
dopo.
«Ci sono cose importanti all'ordine del giorno. Soprattutto l'avvio, da
quest'anno e in via sperimentale, del registro elettronico.» Rimarcò,
aggiungendo compiaciuta: «Siamo tra i primi in Italia.»
Carlo vide numerose teste che assentivano e sentì tutto intorno un vago
mormorio di approvazione. Senza dir nulla, scambiò con Silvia una lunga
occhiata carica di scetticismo.
«Basta così poco a far contente certe persone...» disse Silvia con aria truce.
E subito si domandò, guardandosi intorno: «E chissà se ci credono
veramente.»
Carlo la fissò con un sorrisino: «Che credano veramente o facciano solo
finta di credere, fa differenza?»
I collaboratori della preside avevano iniziato a spiegare ogni dettaglio.
Dalla sala si susseguivano gli interventi e le precisazioni. Erano parecchi –
notò Carlo – quelli che ostentavano le proprie competenze didattiche.
Carlo, come sempre, faticava molto a seguire certe elucubrazioni fatte in
una sorta di gergo per iniziati, che lui, facendo ridere i colleghi, aveva
chiamato una volta “didattichese”. Un po' come il politichese dei politici
italiani, un modo di esprimersi volutamente quasi incomprensibile.
Carlo amava insegnare, gli piaceva il rapporto in classe con i ragazzi, lo
sforzo di mettersi quotidianamente in gioco come un attore di fronte a una
platea spesso mal disposta. Proprio per questa ragione, gli sembrava che le
liturgie dell'anno scolastico a cui erano obbligati a partecipare avessero
purtroppo poco a che fare con l'esperienza concreta, quando, chiusa la
porta dell'aula, si è soli di fronte alla classe: per fare che cosa? E a che
scopo? Queste erano – pensava Carlo in quel momento – le domande
decisive che raramente venivano affrontate.
Iniziò una lunga serie di votazioni per alzata di mano. Carlo cercava di
afferrare almeno qualcosa delle lente presentazioni dei vari progetti che a
turno diversi colleghi andavano a illustrare sul palco, proiettando
complicati schemi sul grande schermo dietro il tavolo della dirigente.
«Venghino signori, venghino che c'è posto...» sentì Silvia bofonchiare
accanto a lui. Carlo non riuscì a trattenere un attacco di ridarella, che cercò
subito di nascondere con una mano. Vide qualche sguardo contrariato che
si volgeva verso di lui dalle prime file.
«Io ho intenzione di portare le mie classi in visita alla Biblioteca centrale
di Torino. Che questi somari della seconda vedano almeno un prezioso
forziere della nostra cultura, anche se poi non leggeranno un libro.»
Carlo riconobbe alle proprie spalle l'inconfondibile tono saccente del
professor Vendramini.
«Ma si annoieranno parecchio...» sentì qualcuno obiettargli accanto.
Vendramini sbuffò rumorosamente. «E chi se ne frega, con quella manica
di ignoranti che pascoliamo nelle nostre classi. Ci mancherebbe!».
Sulla sua sinistra Carlo sentiva il respiro dell'anziana collega farsi pesante.
Si voltò verso di lei. “Silvia si sta di nuovo appisolando” pensò divertito.
Una volta glielo aveva spiegato lei stessa che era una cosa che le capitava
da qualche anno, quando si annoiava.
Temendo che qualcuno dall'alto della tribuna potesse notarla, sfiorandole il
braccio le chiese: «Non mi hai ancora detto nulla del tuo trekking in Perù il
mese scorso. Molto faticoso?»
Silvia si riscosse e lo squadrò un po' straniata.
«Che cosa hai detto?»
«Il tuo viaggio in Perù. Come è andata?»
Uno splendido sorriso illuminò il suo volto pesantemente truccato.
«Fantastico! E' un altro mondo!» bisbigliò all'orecchio di Carlo. E
aggiunse acre: «E' come se io fossi due persone: quella che qualche
settimana fa camminava in alta quota sulle Ande, e l'altra che sta qui
seduta cercando di far passare queste ore infinite.»
«Hai ragione» bisbigliò a sua volta Carlo. «Doctor Jeckyll e Mister Hyde.
Non è difficile capire chi dei due siamo in questo momento.»
Silvia trattenne una risatina, poi chiese a bassa voce: «E tu? Che cosa hai
fatto di bello?»
Si stupì dell'espressione infastidita che era balenata per un attimo sul viso
del collega. Incuriosita, suggerì: «Forse non è stato un granché bello?
Immagino che dopo gli interminabili esami fossi molto stanco.» E con una
leggera gomitata aggiunse ironica: «Sei stato per tutto il tempo al tuo
paesino ligure, confessalo»
«E già, mi conosci bene. Quella era effettivamente la mia prima
intenzione. Poi sono successe tante cose...»
La curiosità di Silvia cresceva.
«Dai, racconta!»
«E' una storia un po' lunga. Un po' complicata...»
«Eddai! Il tempo non ci manca!» esclamò a voce troppo alta.
«Se i colleghi laggiù in fondo vogliono per cortesia fare più attenzione...»
si sentì scandire dagli altoparlanti appesi alle pareti.
«Sì, buona notte!» Silvia alzò gli occhi e sbuffò. Poi si accostò un po' di
più all'amico. «Parla piano e dimmi tutto.»
Anche Carlo si fece più accosto cercando di mimetizzarsi dietro le teste dei
colleghi della fila davanti.
«Bé, per dirla in breve...» bisbigliò «Mi è arrivato per le mani qualcosa di
grosso!»
«Grosso quanto?» chiese Silvia ridendo divertita.
«No, guarda, non è uno scherzo. Si tratta di un libro importante che può
valere una fortuna!»
«Accidenti! E di chi sarebbe questo tesoro?» esclamò Silvia sorpresa.
«Adesso ti spiego velocemente.» concluse Carlo compiaciuto
Alle sue spalle Vendramini aveva orecchiato qualcosa delle ultime parole.
Un libro importante, un tesoro. Sporgendosi un poco cercò di carpire ciò
che Carlo stava dicendo.
Dimenticandosi del luogo in cui si trovava e di quanto stava facendo, a
voce bassa Carlo riassunse rapidamente la vicenda in cui Renato lo aveva
coinvolto, a partire da quella prima telefonata mentre era in viaggio verso
Deiva. Gli occhi attenti di Sivia continuavano a fissarlo con grande
interesse dietro le lenti affumicate.
«E adesso? Dove si trova tutto quel bendidìo?» chiese tutta eccitata.
«Qui a casa, mi sono portato tutto a Benceglio. Ho iniziato a lavorarci
sopra» spiegò con calma buttando l'occhio verso il palco. «E sono sempre
più convinto che c'è qualcosa di buono; debbo ammettere che Renato, il
mio amico editore, aveva visto giusto...»
«Però, che avventura!» sibilò Silvia tra i denti con uno sguardo pieno di
ammirazione.
Carlo alzò le spalle e con un gesto noncurante minimizzò l'importanza
della sua impresa. «Adesso non esageriamo, è ancora tutto da verificare.
Debbo dire però che le premesse ci sono. Mi piacerebbe avere un tuo
parere.»
«Questo è sicuro! Anch'io voglio essere della partita.»
Come a volersi scusare Carlo bisbigliò rammaricato: «Avrei voluto portarti
già oggi lo scritto che più ha attirato la mia attenzione.» La guardò con aria
imbarazzata. «La mia solita sbadataggine. L'ho lasciato a casa.»
Silvia sorrise. «Dai, non prendertela, non ha importanza, me lo passerai
una prossima volta. Ma di cosa si tratta?»
«Ho letto ancora poco. E' una vicenda strana, in una specie di mondo
postatomico, non mi è ancora molto chiaro che cosa sta accadendo. In tutto
sono un centinaio di fogli in una cartellina come quelle che si usano anche
a scuola, naturalmente scritti in inglese. Mi ha colpito il titolo che compare
sulla copertina: The Notebooks of Waste. Tu come lo tradurresti?»
Sentendosi chiamata in causa come insegnante della lingua di Albione
Silvia iniziò a ragionarci sopra: «Bé le possibilità sono più di una. Il
termine Waste è molto ricco di sfumature. Opterei per la traduzione più
comune, qualcosa come I quaderni del rifiuto o I quaderni dello scarto.
Oppure anche dello spreco, forse. Ma se pensiamo a The Waste Land di
Eliot, potrebbe pure starci qualcosa come I quaderni della desolazione.
Francamente non riesco a capire che cosa potrebbe significare. E' un bel
titolo, ma – come dire? - sfuggente e incomprensibile»
«Guarda un po'! E' la prima cosa che ho pensato anch'io quando ho notato
la cartellina nella scatola!» commentò Carlo battendosi una mano sulla
gamba. «Ma è anche il motivo per cui quella cartellina rossa ha subito
attirato la mia attenzione, come se mi avesse catturato. Ti parrà strano ma
ho provato viva l'impressione che mi stesse aspettando. Non so bene
spiegartelo, una cosa un po' da pazzi...»
Gli occhi di Silvia si illuminarono.
«Adoro i misteri!» esclamò energicamente attirando di nuovo l'attenzione
dei vicini.
«Allora hai trovato la migliore occasione, se ti dico l'altra cosa che
decorava quella copertina. Un'immagine che mi ha sempre inquietato...»
Silvia pendeva dalle sue labbra.
«Un'incisione del pittore tedesco Albert Dürer che sicuramente conosci
intitolata Il cavaliere, la morte e il diavolo.
«Accidenti!» sbottò Silvia sommersa dallo stupore.
«Sì, è tutto abbastanza incredibile» osservò Carlo. «Chissà che cosa voleva
comunicare lo scrittore americano scegliendo quell'immagine.»
Continuava a parlare tranquillo a bassa voce, ma era visibilmente eccitato,
come se finalmente l'aver discusso di tutto questo con l'amica fidata
rendesse più chiaro nella sua mente l'impegno che lo attendeva.
«Questa sera inizierò a lavorarci sopra più seriamente» aggiunse. «Tra
esami di riparazione e scartoffie varie di inizio anno, finora ho potuto fare
ben poco.»
«Non me la dai a bere. Nel mese di agosto te la sei anche spassata, dì la
verità. Altro che studi approfonditi sull'opera ritrovata! Ti conosco troppo
bene» disse Silvia sfottendolo.
Carlo chinò la testa e rise un po' imbarazzato. Le colleghe che sedevano
alla sua destra si voltarono contemporaneamente verso di lui. «Per favore,
vogliamo finirla una buona volta? Non si capisce niente!» disse stizzita
una delle due.
Carlo con una smorfia ironica si volse verso Silvia ponendosi un dito sulle
labbra. «Sarà meglio che stiamo zitti adesso. Ti farò sapere.»
Silvia continuava a guardarlo ammirata. «Vai così che sei sulla strada
giusta!» rispose dandogli una amichevole spintarella con il gomito.
In quel momento ci fu alle loro spalle uno strano tramestio e Carlo
avvertì distintamente la sensazione sgradevole di uno sguardo tagliente
puntato sulla sua nuca. Si girò di scatto. Il professor Vendramini
ridicolmente proteso in avanti sorrise goffamente. Con noncuranza teneva
il mento appoggiato su una mano e fingeva una grande concentrazione,
mentre continuava a fissare Carlo, quasi a voler sottolineare in questo
modo l'assoluta normalità di quello che stava facendo. Poi le sue labbra si
piegarono in un ghigno forzatamente cordiale, come a voler suggellare una
tacita intesa futura.
Anche Silvia, nel frattempo si era girata e fissava a sua volta Vendramini
con uno sguardo infuocato.
«Ti vedo tanto curioso per gli affari degli altri.» gli sibilò tra le labbra con
una voce carica di disprezzo. «Mi raccomando, hai registrato tutto?»
Carlo cercò di tranquillizzarla. «Lascia perdere. Che cosa vuoi che
faccia?»
Silvia sbuffò rumorosamente.
La voce flautata della dirigente interruppe il contrasto che stava nascendo.
«Cari colleghi, oggi vi vedo un po' distratti e la mattinata sarà ancora
lunga. Concediamoci un piccolo break.»
Si fiondarono tutti rapidamente verso le macchinette del caffè.

Seduto di fronte alla tavola stretta della cucina nel suo piccolo
appartamento, sotto la luce intensa della lampada, Carlo si concentrava
sulla pagina che aveva davanti. Aveva accanto un altro foglio mezzo pieno
di frasi scritte e cancellate sul quale era riportata la sua traduzione ancora
un po' insicura del primo capitolo. Deciso a non mollare e a procedere
caparbiamente fino in fondo, superando qualunque difficoltà, Carlo
continuava il suo accanito corpo a corpo, nonostante fosse ormai passata la
mezzanotte. Si sentiva un po' in colpa. Il mese di agosto, come aveva ben
capito Silvia, era stato dedicato a tutt'altri impegni.
“Non esageriamo – si disse per consolarsi – qualcosa l'ho già fatto.” Nelle
poche serate trascorse in casa con i genitori, quando non organizzava nulla
con gli amici, aveva diligentemente completato l'esame e la classificazione
del materiale contenuto nella scatola, ma The Notebooks of the Waste lo
aveva catturato fin dal primo momento. Aveva letto tutto frettolosamente,
capendoci poco. In effetti – aveva notato ben presto – la trama molto
semplice era appena abbozzata, anzi non c'era un vero e proprio racconto
come ci si aspetterebbe in un romanzo. Era soprattutto un ostinato
rincorrersi di riflessioni e contrapposizioni nel dialogo serrato tra alcuni
personaggi irrigiditi in una inspiegabile immobilità, forse l'effetto terribile
di qualcosa che era loro accaduto. Ed era proprio questo ciò che lo aveva
colpito: l'asciuttezza di questo amaro confronto finale con il senso della
perdita. Lo scarto, appunto, come diceva già il titolo.
Ritornò indietro alla prima pagina e rilesse ancora una volta quell'inizio
che era diventato per lui una specie di mantra: “Esisto ancora? Non lo so,
non so chi sono...”
Avvertiva in queste parole l'eco di qualcosa che gli apparteneva, come
una sorta di suono cavernoso proveniente dalle profondità più insondabili
della condizione umana.
Dopo una veloce occhiata alla pagina iniziale che ormai conosceva quasi a
memoria, proseguì nella lettura della pagina successiva, cercando di
afferrare bene il senso di ogni frase. Sillabò mentalmente una possibile
traduzione:
“...mi sforzo, tento di parlare. Ci riesco. – Fratelli! – grido.”
Anzi, pensò, forse è meglio: “ce la faccio” sì, così va bene. Continuò
lentamente:

“Riesco a muovere la testa, mi giro da una parte e poi dall'altra. Ci sono


altri intorno a me. Vicini. Distesi a terra. Immobili come me. Vedo le loro
bocche che si aprono sotto grandi occhi dilatati dal terrore, tentano anche
loro di parlare, ma non esce suono. Mi guardano come invocando aiuto.
Mi sentono. Impotenti.
Sento una voce forte e sicura, lontana alla mia destra. Invoca aiuto.
Guardo ma non riesco a vedere chi ha parlato. Urlo ancora più forte.
– Fratello! – ma non c'è risposta.
Ecco che un altro parla alla mia sinistra. E' più vicino, ma non lo vedo. Il
suo pianto rende difficile capire ciò che sta dicendo.
Domanda disperato: – Che cosa è accaduto?
– Non lo so – urlo – non ricordo nulla.
L'altro parla con fatica, frenando i continui singhiozzi:
– Anch'io non ricordo più nulla di me stesso, anche se ricordo ogni altra
cosa. Come se la mia vita mi fosse stata rubata.
Il tempo scorre lento. Improvviso un grido di giubilo mi scuote. Qualcosa
ritorna, un piccolo lembo di ciò che sono.
Ricordo finalmente il mio nome.
Lo urlo: – Io sono Sal! – So solo questo.
Un urlo giunge poco dopo da destra: – Anch'io adesso ricordo! Io sono
Sim!
E alla sinistra la voce piangente si è rinfrancata. Dice: – E' così anche per
me. Finalmente ricordo. Io sono Sag!.
Sim, Sal, Sag! – dico – Siamo vivi, ma cosa è accaduto?
– Un sibilo fortissimo – dice Sim.
– E una vibrazione dolorosa – dice Sag.
– Ma che cosa ci ha ridotti in questa condizione? – torno a ripetere.
Sag, alla destra, ride: – E' una beffa mostruosa. Siamo vivi, ma non
possiamo più muoverci. Pensiamo e parliamo, ma non riusciamo più a
ricordare noi stessi.
E Sim aggiunge: – Possiamo solo attendere. Qualcosa accadrà. Giungerà
qualcuno a salvarci.
Sal gli risponde: – Sia beato chi ci crede. Il nostro destino è segnato. Non
c'è più tempo.”

Carlo alzò il capo e si guardo attorno. Con un po' di fatica era riuscito a
tradurre l'intera pagina. Con qualche piccola licenza, ammetteva ora con se
stesso.
Corrugando la fronte, contemplò con aria perplessa il risultato dei suoi
sforzi. Aveva l'impressione che quello che aveva davanti non potesse
essere l'opera di uno scrittore affermato. Gli sembrava piuttosto un
tentativo approssimativo di costruire una storia sulla falsariga di tanti
romanzi fantascientifici ed apocalittici che circolavano in giro.
Pensò ai tre personaggi con quei buffi nomi. Dietro l'indubbia tensione
drammatica del loro dialogo, gli parevano delineati in modo sbrigativo e
poco credibile. “Forse McWine era un po' fuori allenamento.” pensò con
un sorriso. I suoi occhi caddero su qualcosa al fondo del foglio, alcune
parole un tantino sbiadite scritte a matita. Well, but no tears! Riconobbe
con assoluta certezza la tipica inclinazione della grafia di Thomas McWine
che aveva già visto su tanti altri fogli contenuti nella scatola. Battendo il
pugno sul tavolo esclamò con un moto di gioia: «Ecco la prova!» Quelle
poche parole ridavano forza alla sua traballante sicurezza. Ora tutto gli
sembrava chiaro. Thomas McWine aveva probabilmente scritto The
Notebooks of Waste in tempi diversi, ritornandoci sopra con quelle
annotazioni in vista di una futura pubblicazione.
In quel momento lo sgradevole suono del cellulare interruppe le sue
riflessioni. Stizzito, Carlo controllò sul display chi mai lo stesse
chiamando a quell'ora impossibile. Era Silvia.
«Scusa, ti ho svegliato?» esordì senza preamboli con i suoi soliti modi
spicci.
Contento di sentire quella voce amica che spezzava la sua notturna
solitudine, rispose scherzoso con tono assonnato: «Sì, come tutti i giorni
ero già a letto dalle nove.»
«Accidenti! Scusa.» bisbigliò l'altra con voce titubante.
Carlo rise di gusto e subito chiarì con la sua voce normale: «Ma no, è solo
uno scherzo scemo che faccio ogni tanto. Stavo ancora lavorando sul
dattiloscritto dello scrittore americano cercando di capirci qualcosa.
Dimmi tutto.»
«E' che non ho resistito...» disse rapidamente Silvia eccitata, subito
interrompendosi per parecchi secondi.
Carlo guardò il suo cellulare. «Pronto? Ci sei ancora?»
«Ma sì, sto cercando di mettere in ordine le cose che volevo subito dirti»
rispose sbrigativamente. «Andiamo subito al sodo. Tu navighi sul Web?»
«No, non molto spesso. Uso il mio portatile prevalentemente per lavoro.»
«E quindi suppongo che non sai niente?»
«Di cosa?»
«Ecco, se tu lo usassi come tutti un po' più spesso ti saresti di certo
preoccupato di fare una banale ricerca su Google e sui social networks
inserendo il nome dello scrittore. E' quello che molto semplicemente ho
fatto io...»
«E che cosa hai trovato di tanto sconvolgente?» scandì Carlo con un filo di
scetticismo.
«E' esplosa una vera e propria mania. In America se ne parla tantissimo.
Lo chiamano in genere “Il mistero McWine”. Non ti dico la quantità di
supposizioni che sono state fatte riguardo alla sua “fuga in Italia”, come
viene chiamata.»
Carlo si bloccò interdetto. Ricordava di aver dato un'occhiata alla scheda
biografica dello scrittore su Wikipedia, giusto per rendersi conto di chi
fosse stato. Era quindi a conoscenza dell'essenziale: l'unico libro
pubblicato da McWine, la sua presenza pubblica negli anni '60 e poi
l'improvviso trasferimento in Italia. Fine. Più o meno le cose che gli aveva
detto Renato a luglio nella sua demenziale telefonata.
Sì diede involontariamente dell'idiota.
Sì, la cosa che aveva fatto Silvia era la più ovvia nell'era di Internet. E lui
non ci aveva neppure pensato. Un pensiero gli balenò in mente. Guardò
con occhi nuovi il dattiloscritto che aveva davanti come se fosse una
bomba pronta ad esplodere. “Chissà se Renato se lo aspettava!” pensò.
Avevano estratto il jolly e la partita era tutta nello loro mani.
«Caspita. Vuol dire che quello che che ho qui davanti a me è ancora più
grosso di quanto pensassi!» esclamò sottolineando volutamente con ironia
le ultime parole.
«Bé, direi proprio di sì.» osservò Silvia senza dar peso alla battuta ormai
stantia.
«Mi raccomando, Carlo, vedi di fare tutto per bene.» Silvia non
dimenticava mai di elargire i suoi consigli.
«E soprattutto non parlarne troppo in giro.» Senza nominarlo, entrambe
pensarono all'antipatico collega e alla loro superficialità nel parlare delle
imprese estive di Carlo durante il collegio docenti.
«Ciao. Ci vediamo domani a scuola. Ne riparliamo» chiuse in fretta Silvia.
«Buona notte...» rispose Carlo con uno sbadiglio.

5-

Era il 3 ottobre 2013, un giovedì. Incolonnato nella lunga fila continua


delle auto di genitori, colleghi e studenti sul diritto viale alberato di fronte
alla scuola, sotto una pioggia battente, Carlo procedeva tranquillo verso la
sua mattinata di lavoro. I suoi pensieri altalenavano tra alcuni difficili
passaggi della poesia “Dei sepolcri” di Ugo Foscolo, che avrebbe spiegato
di lì a poco nella negligente classe quinta, tutt'altro che interessata, e una
frase dei Quaderni su cui si era fermato a riflettere molto a lungo la sera
precedente, avanzando nella traduzione: The alternative we've left is sad:
we reject or are rejected.
Una parte di lui la sentiva profondamente vera, ma un'altra ne avvertiva
tutta l'intollerabile durezza. “Già – gli venne da pensare con una smorfia
ironica – sto facendo esattamente quello che la frase sostiene: la sto
rifiutando.” Un moto di ammirazione verso Thomas McWine passò
rapidamente nella sua mente.
“Ne parlerò con Silvia”, pensò. Anche lei stava procedendo spedita nella
lettura delle fotocopie che le aveva procurato da poco. Ormai, si può dire,
lavoravano in coppia. Carlo ne era rassicurato. Averla come compagna nel
viaggio attraverso quel testo strano e sfuggente era per lui un'enorme fonte
di sicurezza. Procedevano entrambi in modo autonomo, scambiandosi ogni
tanto qualche impressione.
L'avanzata si era rivelata più difficile del previsto, ma per fortuna avevano
trovato costantemente lungo le pagine dei Quaderni le provvidenziali
annotazioni lasciate da Thomas McWine con la sua chiara calligrafia.
Carlo riconosceva onestamente che quelle brevi riflessioni e quei sintetici
giudizi scritti probabilmente da McWine durante la sua revisione del testo
rappresentavano un prezioso aiuto di cui non avrebbe potuto fare a meno,
un po' come i sassolini di Hansel e Gretel attraverso il bosco.
Sentì in lontananza il suono della prima campanella mentre fermava la sua
piccola auto nell'ampio parcheggio della scuola.
Allungò inutilmente una mano sotto il sedile alla ricerca dell'ombrello che
portava sempre con sé. Imprecando contro la propria distrazione uscì
velocemente e, con le spalle ingobbite e il bavero della giacca rialzato
nell'illusorio tentativo di ripararsi almeno un poco, si avviò con passo
spedito verso l'ingresso laterale. Sentì uno scalpiccio alle proprie spalle e
riconobbe la detestata voce di Vendramini che gli si rivolgeva. Prima
ancora di comprendere ciò che gli stava dicendo, avvertì distintamente un
tono diverso dal solito, addirittura amichevole.
«Ciao Carlo. Dai vieni sotto che ti do un passaggio...»
Carlo, colto di sorpresa, si bloccò sconcertato e lo fissò senza dir nulla,
come incapace di reagire a quella imprevedibile aria zuccherosa.
Vendramini, intanto, lo aveva affiancato con un largo ombrello giallo da
golfista sorridendogli affabilmente e spalla contro spalla avanzarono
insieme. Naturalmente non bastava questa dedizione inspiegabile a
cancellare il ricordo delle tante battute umilianti e velenose. Guardando il
collega di sbieco Carlo ritrovò la parola.
«A che dobbiamo questa imprevedibile dolcezza? Non mi dica che lei è il
fratello gemello del professor Vendramini... Gli somiglia davvero tanto!»
sottolineò con acida ironia.
«Ah, ah, sei il solito burlone, non ti manca mai la battuta.» Vendramini
pareva autenticamente divertito. Sempre più confuso Carlo osservò: «Mi
scusi, ma non sono abituato a tanta dolcezza.» Continuava a guardarlo
attento cercando di decifrare qualcosa sul suo volto.
«E come mai all'improvviso mi dà del tu e non mi tiene a distanza come un
appestato?» osservò Carlo, rimarcando l'uso della terza persona singolare
che ancora continuava a mantenere.
«Si scherzava, si scherzava...» rispose l'altro con il tono di chi non vuole
dar peso a una cosa fin troppo ovvia. «Ma diamoci del tu d'ora in poi, è la
cosa migliore. Potremo intenderci più facilmente.»
“Ma dove vuole andare a parare?” La domanda scattò automatica nella
mente di Carlo. Cercò di mantenersi calmo, assecondando il nuovo corso
dei loro rapporti, nato imprevedibilmente in quel momento e aspettando
che il collega si sbottonasse di più sulle sue effettive intenzioni.
«Per me va benissimo, Vendramini, aria nuova vita nuova. A proposito,
posso chiamarti Giuliano?» chiese maliziosamente.
Per un attimo brevissimo – Carlo riuscì a notarlo – la mascella del
professor Giuliano Vendramini si irrigidì tremendamente, come per la
tensione di uno sforzo insostenibile, ma il sorriso si allargò di nuovo
velocemente sul suo volto.
«Ma certo, ci mancherebbe!» rispose ridendo. «Possiamo diventare...» E
qui di nuovo dovette fermarsi per una frazione di secondo «...amici!»
Aggiunse poi con tono suadente: «In fondo ci somigliamo! Insegniamo la
stessa materia, amiamo la letteratura, l'arte!»
Carlo, mantenendo immobile sulle sue labbra un sorriso stereotipato,
pareva assecondarlo. Ci stava prendendo gusto. Una scena simile non se la
sarebbe mai immaginata.
Avevano intanto attraversato l'ampio atrio e, quasi a sottolineare la loro
intesa ormai indiscutibile, Vendramini aggiunse:
«Ne possiamo parlare con calma. Ci vediamo caso mai durante l'intervallo
vicino alla macchinetta del caffè.»
«Ma certo!» rispose Carlo mentre appogiava una mano sulla spalla del
collega e lo invitava con un gesto ad entrare per primo nella sala
insegnanti.
«E' proprio quello che ci vuole per suggellare questa amicizia appena nata,
un bel caffè insieme!» Finse di stare un poco sovrappensiero. «Forse è
meglio di no, se dobbiamo discutere con calma ci sarà troppa
confusione...»
L'altro non lo lasciò finire e con una leggera nota ansiosa nella voce si
corresse sbrigativamente:«Non importa, allora ti telefono questa sera.»
«Ma hai il mio numero?»
«Oh, sì, non c'è problema.»
Carlo lo guardò con aria ammiccante. «Già già, il segretario, immagino...
siete amicissimi...»
Con un sorrisino sempre più forzato Vendramini prelevò il suo registro dal
cassetto personale e si diresse verso la porta, salutando Carlo con un
amabile cenno del capo.
Silvia dall'altro lato della stanza aveva seguito la loro conversazione. Si
avvicinò a Carlo e con uno sguardo perplesso commentò a bassa voce:
«Ma che succede, te la fai con lui, adesso?» Poi, senza dargli il tempo di
rispondere, chiese ironicamente: «Avete fumato il calumet della pace ed e'
fiorita l'intesa tutta d'un colpo? Non siamo in primavera...» Carlo taceva e
continuava a guardarla con aria divertita.
«E allora?» chiese Silvia con aria stizzita.
Carlo si avvicinò al suo orecchiò e bisbigliò con tono cospiratorio: «Ha
fatto tutto lui da solo. Siamo arrivati alle comiche finali. Poi ti spiego ogni
cosa con calma. Vediamoci alla macchinetta del caffè nell'intervallo.»
Soggiunse poi ridendo, di fronte all'espressione interrogativa dell'altra: «E
chissà che non ci sia anche lui!»
Silvia, anziché condividere l'ilarità del collega, lo fissò seccata.
«Ma, insomma, Carlo, non prendermi in giro! Che cosa è successo?»
Carlo la guardò tranquillo. «Basta fare due più due ed è tutto chiaro. Ho
impiegato poco a capirlo, il tempo di arrivare qui dal parcheggio. E' molto
semplice: lui ci ha sentiti al collegio mentre parlavamo tra noi della mia
scoperta, ha capito che c'era di mezzo qualcosa di importante, senza però
aver chiaro che cosa. E adesso pretenderà di metterci il naso. Potrei
appoggiare la mano sul fuoco che finirà così.»
«Hai ragione, siamo davvero alle comiche,» osservò Silvia divertita. «Ne
parliamo poi. Adesso dobbiamo andare.»
Prelevarono i registri e si incamminarono verso le loro classi con un ultimo
cenno d'intesa.
Carlo per tre ore si immerse interamente nel flusso della storia letteraria
italiana: nella prima ora introdusse la poesia del dolce stil novo di fronte
agli studenti del terzo, l'ora successiva si impegnò in un lavoro a gruppi sul
Foscolo con quelli del quinto e nella terza ora si catapultò
concentratissimo sul pensiero politico di Machiavelli e Guicciardini con il
quarto, prima che suonasse la campanella dell'intervallo a concedere un po'
di riposo alla sua voce.
Si diresse velocemente al secondo piano, muovendosi con un po' di fatica
tra i ragazzi che riempivano i corridoi, ed arrivò finalmente alla macchina
del caffè, quasi invisibile in mezzo alla ressa di studenti ed insegnanti in
fila. Silvia già lo stava aspettando.
«Allora, come procedono i lavori?» gli chiese a bruciapelo buttando
un'occhiata attorno per non essere superata dai soliti furbastri.
«Bene, bene, sono già quasi a metà. Naturalmente dovrà essere tutto rivisto
a puntino. A volte la lettura dei dattiloscritto di McWine è snervante, le
frasi sono semplici ed apparentemente chiare, ma è come se mi sfuggisse il
senso di ciò che accade. All'inizio ho pensato addirittura ad un lavoro di
altri, ma poi tanti dettagli mi hanno convinto che è stato Thomas McWine
ad aver scelto quello stile particolare. Tu cosa ne pensi ad esempio dei
commenti a matita? Utili, no?»
Ormai Silvia era vicina alla macchinetta.
«Caffè o cappuccino?» chiese col suo fare spiccio.
«Il caffè va bene, grazie.»
«Per correttezza dovrebbero scrivere questi nomi tra virgolette, al vero
caffè somiglia appena» commentò acida inserendo le monetine.
«A quanto pare, il prossimo anno apriranno un vero bar, con servizio e
tutto.»
«Benissimo, così nell'intervallo potremo farci un cicchetto...»
Risero insieme mentre si allontanavano con le tazze di plastica in mano
verso un angolo più tranquillo.
Come se le fosse rimasta bene in mente la domanda che Carlo le aveva
fatto poco prima, Silvia riprese: «Utilissime quelle annotazioni, a volte
senza di loro la pagina sarebbe quasi indecifrabile. Ma, a pensarci bene,
credo che quello scrittore fosse lui stesso un tipo abbastanza indecifrabile.
Che vita strana...» Si fermò un attimo, meditabonda, come se scrutasse
dentro di sé un'immagine sfocata di Thomas McWine.
«...ma anche affascinante!» concluse con tono acceso. «Sta diventando una
storia che mi piace da morire!»
Intorno la confusione cresceva, chiusa nel suo angolo di corridoio, Silvia si
avvicinò all'amico per riuscire a farsi sentire.
«Non ti dico quello che sta succedendo sul web!» gli urlò all'orecchio. «E'
diventata ormai una febbre virale. Se ne parla un po' dappertutto, in
America. Il mistero li stuzzica.»
Carlo la ascoltava interessato. Anche lui, vincendo la propria insofferenza,
aveva trascorso qualche ora chino sul suo portatile, navigando in giro su
Internet.
«E' un po' demenziale, se ci pensi.» commentò. «Si sa poco o nulla di ciò
che realmente è accaduto, ma proprio per questo sono sempre di più quelli
che pretendono di sapere tutto ed alimentano le chiacchiere.».
Silvia ridacchiò. «E pensare che in un modesto appartamento di un
modesto professore italiano si trova in questo momento, appoggiata da
qualche parte, la chiave di tutto il mistero. Quella cartellina rossa scotta!»
Serse alzò una mano, come a voler fermare la foga entusiasta della collega.
«Calma e gesso, come si dice. Sì, forse ho io il bandolo della matassa, ma
non vorrei rimanerci poi soffocato in mezzo, alla matassa, visto che è
sempre più aggrovigliata.»
Silvia assentì con ampi movimenti del capo. «Giusto, giusto. Calma e
gesso.» Lo guardò ammiccante. «E soprattutto occhio a non parlare troppo
in giro. Soprattutto con tipi come Vendramini.»
«Già. Pensi che lui sappia?»
Sivia gettò il suo bicchiere nel cestino.«Sicuro. Se al collegio è riuscito ad
afferrare il nome dello scrittore.»
Si guardò intorno con un gesto automatico quasi volesse accertarsi se la
persona di cui stavano parlando fosse lì intorno. «Non è uno sprovveduto,
avrà sicuramente dato pure lui un'occhiata su internet alla ricerca di
notizie, probabilmente ha trovato quello che ho trovato anch'io e ha
inquadrato perfettamente la situazione. Ma non sa che cosa abbiamo
effettivamente per le mani, e questo è il nostro piccolo vantaggio.»
«Scherzi? Non è tanto piccolo. Noi abbiamo i Quaderni...»
Silvia lo interruppe. «Già, ma bisognerebbe scoprire qualcosa di più sullo
scrittore. Ad esempio, tu il suo primo romanzo lo hai letto?»
«E introvabile. Forse si potrebbe vedere alla Biblioteca nazionale di
Torino...»
Silvia lo interruppe di nuovo. «Vedi? Ecco una cosa che possiamo fare!
Dobbiamo svegliarci!»
Dopo un attimo aggiunse: «E il dattiloscritto... bisogna metterlo meglio a
fuoco. E' davvero suo?»
«Ne sono quasi sicuro» la rassicurò Carlo.
«Già, quasi...»
Silvia restò per qualche secondo sovrappensiero, come se un'idea
improvvisa si fosse affacciata in quel momento alla sua mente. Il suo
sguardo si illuminò.
«Sai che cosa ti consiglio? Ci sarà un bel ponte di vacanze a fine mese, con
il 1 novembre, approfittane.»
Lo fissò decisa, sicura che lui avesse capito.
«Per fare che cosa?» chiese Carlo timidamente.
«Be', la cosa più ovvia, no?» marcò acre lei un po' scocciata. «Approfittane
per fare un salto al paese in cui viveva lo scrittore, dove tu sei già stato.
Adesso sai meglio che cosa cercare, chiedi in giro, sicuramente troverai
qualcuno che si ricorda di lui.»
Carlo la guardò ammirata. «Una buonissima idea!»
La ringraziò, ma nella sua testa girò per un attimo l'immagine di Vera, la
simpatica ragazza di Monastico incontrata a luglio. Era già un buon
motivo per visitare di nuovo quel piccolo borgo isolato, l'avrebbe rivista
volentieri.
Silvia si scusò. «Verrei anch'io, ma avrò a casa tutti e due i figli,
un'occasione per noi rara...»
«Non preoccuparti, so con chi andare.» E pensò a Elia e Giovanni. Perché
no? Probabilmente lo avrebbero accompagnato volentieri. Bastava una
telefonata.
Suonò di nuovo la campanella. La ricreazione era finita. Il corridoio iniziò
a svuotarsi e gli studenti rientrarono lentamente nelle classi.
«Adesso dobbiamo andare. Fammi poi sapere se Vendramini ti contatta di
nuovo. E soprattutto non sbottonarti troppo.» Silvia rimarcò con fare
deciso le ultime parole.
Carlo sorridendo si chiuse un'immaginaria cerniera sulla sua bocca.

Era quasi sera. Ancora un fioco barlume di luce arrivava da fuori a


illuminare la piccola tavola su cui erano ordinatamente suddivisi i plichi
delle verifiche scritte che Carlo stava correggendo. Sollevò lo sguardo un
po' stranito dal foglio che aveva di fronte, annotò qualcosa sull'ultima
pagina e lo allontanò con un sospiro. Chiunque fosse stato presente
accanto a lui avrebbe sicuramente percepito, come noi, la sua grande
stanchezza e lo avrebbe invitato a riposare.
«Per oggi basta così» si disse. Impilò tutti i compiti e li spinse da parte.
«E' ora di preparare la cena.» Pensò tristemente alle poche alternative che
gli si presentavano. No, almeno per quella sera, avrebbe tralasciato il solito
uovo fritto con patatine surgelate. Erano ormai molti anni che viveva da
solo, ma la sua capacità in cucina non aveva mai brillato per fantasia.
Quella sera, in particolare, l'idea di mettersi ai fornelli proprio non gli
andava, gli sembrava tempo perso. Inevitabilmente, come accadeva ormai
da giorni, il suo sguardo puntò il rosso che sporgeva tra i fogli bianchi e
che occhieggiava verso di lui con un tacito invito. Allungò la mano verso
la cartellina e la aprì.
“Traduco un pezzetto e poi esco a farmi una pizza.” pensò pacificato con
se stesso: un equo scambio tra dovere e piacere.
Separando sulla tavola le pagine del dattiloscritto già tradotte, si accorse
di essere arrivato poco meno che a metà dell'opera. Osservò per qualche
attimo l'insieme di quei fogli ingialliti. “Accidenti, credevo di essere più
avanti.” Pensò a Renato. Prima o poi sarebbe riuscito a consegnargli tutto.
Nella sua fantasia già si vedeva a Torino, nella palazzina in periferia dove
avevano sede le Edizioni Beccalossi, con il suo sudato lavoro sotto il
braccio, accolto come un trionfatore. E, soprattutto, la grande sorpresa di
Renato di fronte a quel testo incredibile che Carlo non avrebbe saputo
definire. Un romanzo? Un testo teatrale? Un poema in prosa? Ma che
importa la classificazione,si disse. Era bello, intrigante , nuovo, e questo
bastava. Incominciò a leggere lentamente.

Potrebbero piacerti anche