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BOZZA 1
-1-
Era il 6 luglio 2013, un sabato. So bene che per molti di voi la cosa
sarebbe passata inosservata, ed avrebbe prevalso spontaneamente il buon
cuore, la comprensione, il sentiamoci tutti uguali e solidali. E'
naturalmente quello che avrei pensato anch'io se allora lo avessi potuto
vedere, chiuso nella sua piccola auto, lanciato verso le meritate vacanze,
muovere avanti e indietro nella sua piccola testa i soliti pensieri, gli stessi
che avreste trovato uno, due, dieci, venti anni prima.
Bloccato nel traffico intenso del fine settimana lungo l'autostrada A10
direzione Genova, Carlo sognava.
Il tempo, inesorabile censore, aveva emesso da tempo, appunto, la sua
inesorabile sentenza. A Carlo era stata lasciata libera solo la piazzola dei
sogni.
Gli esami erano finiti il giorno prima e subito era partito.
Ripensava ai colleghi conosciuti in commissione. Il presidente ormai
vicino alla pensione, brontolone e scostante, il collega di matematica,
corretto e distaccato come un bravo impiegato intento a stilare i sui
rapporti riservati, e soprattutto Viola, la collega di inglese, la sola presenza
amichevole e sorridente in quella riunione di morti viventi, una simpatica
ragazza non molto alta e dalle floride forme giunoniche.
Ci sono storie – si diceva, ripensando a Viola – che partono da sole e storie
che hanno bisogno di una piccola spinta per decollare, anzi di uno slancio
energico capace di farle alzare in volo.
Su quella carreggiata diritta, nella confusione delle auto stracariche e degli
automobilisti inferociti, era come se si aprisse in lui una luminosa galleria
di ricordi da percorrere e ripercorrere con immutato piacere. Era il modo
migliore per riempire le tante ore vuote del lungo viaggio verso Deiva
Marina.
Sarebbe stata un'impresa molto difficile – pensava Carlo nel gioco delle
sue fantasie - far capire a un extraterrestre che cosa erano in Italia gli
Esami di stato. Sarebbe apparso sicuramente come un bizzarro spettacolo,
una specie di rituale o una grandiosa opera buffa in cui erano coinvolti
migliaia di giovani abitanti della penisola italiana. Ed anche quei
volenterosi extraterrestri - sorrideva Carlo – avrebbero provato uno
spontaneo moto di pietà verso gli insegnanti nominati, interni ed esterni,
rassegnati al loro tedioso ed inutile compito, sopportato con stoica apatia.
Come lui, Viola era ancora una docente instabile ed itinerante, senza una
sede definitiva. E come lui - lo ripeteva a se stesso per la millesima volta -
viveva sola, tranquillamente single, o almeno così gli aveva detto.
Ripensando a quella intesa speciale, vedeva loro due come abili nuotatori
capaci di emergere insieme, con le loro teste accostate, dal piatto mare
soporifero in cui tutta la commissione d'esame, per giorni e giorni, era
rimasta quotidianamente immersa. E con un rapido montaggio, da questi
piacevoli fotogrammi di potenziale storia futura il pensiero sfrecciava
verso il passato, a una scena che gli capitava spesso di rivivere, quando,
non molti anni prima, era stato davvero ad un passo dal consolidare
un'ottima intesa con Anna, un'amica della sua cara cugina di Chiavari.
C'era stata anche allora – e, nel ricordo, lo sottolineava adesso con ironia -
una spontanea convergenza delle loro anime che avrebbe potuto
trasformarsi quasi senza sforzo in una duratura unione, una lunga vita
insieme, lui ed Anna, della quale era in grado di vedere, come in uno
scorcio rapidissimo, tutti i futuri sviluppi. Con un certo fastidio rispuntava
allora la domanda: che cosa era mancato? La risposta ai suoi occhi
appariva scontata: sempre e soltanto la sua terribile timidezza.
Fece un rapido calcolo. All'epoca di quel promettente incontro finito nel
nulla lui aveva trentasette anni... Dunque erano già passati cinque anni! E
con un clic automatico la sua mente completò: sembra ieri.
Immerso nel caldo afoso di mezzogiorno, nella noia spessa del viaggio
solitario lungo la linea retta dell'autostrada, sempre in direzione di Genova,
nulla era cambiato. Carlo tornava e ritornava a darsi la medesima risposta.
La timidezza, soltanto la timidezza, sgretolava ogni ponte che aveva
provato a lanciare verso le donne che aveva conosciuto. Chissà – si diceva
- forse questa volta, con Viola, sarebbe stato diverso. Valeva comunque la
pena di non rinunciare, come era sempre accaduto. Continuava a ripeterlo
a se stesso. Doveva provare a mettercela tutta, andare fino in fondo. Ma la
buona volontà non bastava, lo sentiva. E con un moto pendolare ripartiva
da capo.
Coniugare i verbi al condizionale passato era la cosa che gli riusciva
meglio: sarei andato, avrei mangiato, avrei incontrato, sarei stato, e così
via. Ne era tranquillamente consapevole, e il professore di italiano che era
dentro di lui aggiungeva e precisava: ancor meglio me la cavo con i verbi
servili: sarei potuto andare, avrei potuto mangiare, avrei voluto incontrare,
avrei potuto eccetera eccetera. Era questo – lo vedeva - lo stile costante
degli infiniti bilanci della propria vita che lui si costringeva a fare.
Carlo controllava ogni momento l'orologio sul cruscotto. Cullato dal
ronfo regolare del motore manteneva la bassa velocità della sua piccola
utilitaria e continuava a sognare. I suoi pensieri, adesso, si spingevano in
avanti verso le serene giornate che stavano per aprirsi. La costa scoscesa, il
silenzio, la pace. Bagni su bagni, un piacere immenso che avrebbe
consentito un riposante oblio. Già pregustava le tante ore ed ore disteso al
sole, immerso nel dolce far niente. Tra poco avrebbe anche rivisto i vecchi
amici della giovinezza, le amicizie veramente inossidabili.
In quel momento, però, poco oltre Alessandria, non c'era ancora niente di
tutto questo e Deiva Marina, il suo paese natale, era ancora troppo lontana.
Carlo non era abituato a viaggiare da solo. Quel lungo silenzio diveniva
sempre più intollerabile. Con un gesto automatico ripetuto migliaia di
volte, spinse nel lettore delle musicassette – un raro lusso molto vintage
offerto dalla sua vecchia auto immatricolata nel 1993 – un venerato
cimelio musicale degli anni '70 che custodiva gelosamente, uno dei tanti di
cui andava fiero. Dalle casse malconce proruppe un bel pezzo sincopato e
la voce gutturale di Barry White lo ricaricò un poco; ma la noia che aveva
dominato le lunghe giornate degli esami pareva averlo seguito di soppiatto
e ancora stazionava all'intorno come fumo tossico nell'auto di un fumatore
incallito. Troppo soffocante e limacciosa ebbe di nuovo il sopravvento.
Dopo pochi minuti di musica assordante, pigiò con un gesto di fastidio il
pulsante di deiezione, la musica si interruppe e fu sostituita da un
notiziario, la voce concitata di uno speaker. Quel tono allarmato suonò
dentro di lui come un segnale di pericolo e ascoltò con attenzione le prime
parole. Era accaduto qualcosa di importante, non capiva bene dove
esattamente, probabilmente in Africa, sì, in Nigeria, una strage, all'alba un
commando di estremisti islamici aveva fatto irruzione in una scuola, una
quarantina i morti, bruciati vivi, in buona parte studenti. Quelle parole
tremende bloccarono per un secondo il rollio degli innocui pensieri che si
erano mossi dentro di lui fino a quel momento. Come accade spesso in
simili casi, confrontò istintivamente la propria vita e quella di quei
disgraziati, lui in viaggio verso il mare e la morte terribile di quegli
innocenti. Ebbe per qualche istante la sensazione di qualcosa di già
vissuto, il senso sfuggente di una piccola vergogna che non si poteva più
cancellare, insieme alla confusa sensazione di una perdita che era rimasta
indietro, in un punto lontano del suo passato ormai definitivo ed
immutabile. Faticava a ricordare quando e dove aveva già vissuto e
pensato tutto questo, molti anni prima. Sentiva che era un ricordo
importante, che gli apparteneva nel profondo, ma in quel momento
l'attenzione ottusa del suo stupido impegno nella guida, lo sguardo fisso
sulla strada, non consentiva una nitida messa a fuoco. Poi ecco,
improvvisamente farsi avanti l'immagine precisa di quel giorno. Era stato
il suo primo viaggio importante, frutto di tanti mesi di risparmi, anno
2001, gli Stati Uniti. L'11 settembre era a New York, i primi giorni di una
splendida vacanza. Lui stava uscendo dalla metropolitana e vedeva quella
massa di gente correre con il volto stravolto, guardandosi alle spalle.
Girato l'angolo, vide anche lui la punta della Torre bruciare. Nella sua
mente era allora scattato un automatismo, si era subito preoccupato
stupidamente, in quella tragedia, della cosa più squallida e
insignificante.«Ma che sfortuna, adesso mi rovino la vacanza.» Subito se
ne era vergognato. Anche ora, nel caldo del piccolo abitacolo, il ricordo
riportava a galla quella vergogna, gliela riconsegnava come se lui fosse
ancora a New York, la vedeva riflessa davanti a sé nella sorte di quei
poveri studenti nigeriani. Ma – si chiedeva – che cosa avrebbe potuto fare
allora e che cosa poteva fare adesso? Saliva dentro di lui uno sconsolato
senso di impotenza, come se la rinuncia a qualsiasi tentativo di risposta gli
apparisse inevitabile.
Soffocato dall'inquietudine, spense la radio, si rifiutò di ascoltare. Lo si
può capire, lo avreste giustificato anche voi. Con un'ampia virata, la sua
mente planò di nuovo con moto deciso sul terreno abituale e rassicurante
dei sogni ad occhi aperti.
A risvegliarlo quasi subito intervenne il suono fastidioso del telefonino.
Inutile dire che Carlo, nel suo amore per un passato che forse non c'era mai
stato – le tante cose logore ed usate di cui si circondava stavano a
dimostrarlo – odiava i telefonini, soprattutto i modelli più recenti pieni di
giochi e funzioni varie. Coerente fino in fondo con i suoi principi - giusti o
demenziali che fossero - si era adattato a portare con sé un vecchio
modello della fine degli anni '90 appartenuto a sua sorella, giusto per le
impellenti necessità imposte dal suo doppio lavoro. Come tanti altri,
infatti, da qualche tempo Carlo aveva abbinato alle entrate ufficiali, ma
non sempre sicure, della sua occupazione di insegnante precario, una
piccola integrazione abbastanza vantaggiosa come consulente e
collaboratore di una piccola casa editrice di Torino, proprietà di un suo
vecchio amico dell'era ormai lontana degli studi universitari. Benché molto
piccola, era abbastanza conosciuta e apprezzata, soprattutto per l'ottima
cura dei testi pubblicati.
Il telefono continuava a suonare. Afferrato con un moto di fastidio
l'apparecchio, in pochi secondi la mente di Carlo entrò in azione. Controllò
il display. Era il numero delle Edizioni Beccalossi. Quella in arrivo era
dunque effettivamente una telefonata di lavoro. Valeva la pena rispondere.
E Carlo, controvoglia, si rassegnò a farlo.
«Pronto...?»
«Che fai vecchio lavativo, sei ancora tutto impegnato a riposarti?».
Riconobbe subito dal tono la voce del suo amico, nonché editore e datore
di lavoro, Renato Beccalossi. Era una sua caratteristica. La sua aria allegra
e scanzonata aveva ingannato spesso più di un interlocutore, che la
scambiava, sbagliando, per una sicura prova di ostentata superficialità.
Sotto quella superficie si nascondeva invece una volontà di ferro, molto
abile nel tessere sinuosamente le vie migliori per il raggiungimento dei
propri obbiettivi.
«Sei ancora a scuola a far finta di lavorare o ti stai già riposando in
proprio a casa tua? Ma cosa fate voi insegnanti tutta l'estate mentre gli
altri ruscano?»
«Non credere, è dura anche per noi. Con questo caldo a scuola si moriva.
Ho finito gli esami proprio ieri.»
Il tono di Renato, dietro la patina divertita della sua voce, lasciò trapelare
un forte interesse. «E adesso dove sei?»
Un poco seccato, Carlo assunse scherzosamente un timbro didattico:
«Sono in macchina e sto andando a Deiva Marina. Non se ne può più per il
caldo. E il traffico sta aumentando. Tra poco inizierà il tratto tremendo
dell'autostrada verso Genova e non posso rischiare la pelle con questo coso
in mano». L'altro ridacchiava. «Non possiamo riparlarne tra un po'?» buttò
lì Carlo; ma evidentemente Renato non lo aveva nemmeno ascoltato,
perché subito sbottò: «Stai andando a trovare i tuoi al paesino au bord de
la mer? Ma è perfetto!»
Carlo restò un poco interdetto.
«Scusa, e perché?»
Renato cambiò immediatamente tono, passando in un attimo dal faceto al
professionale. «Se mi dai tempo un secondo, adesso ti spiego. E fai
attenzione alle curve.»
Fu così che Carlo sentì per la prima volta pronunciare il nome dello
scrittore americano Thomas McWine. Un caso letterario esploso all'inizio
degli anni '50, divenuto poi un' enigma nei decenni successivi.
«Al successo clamoroso del suo primo romanzo – a Hollywood ne hanno
ricavato anche un film abbastanza famoso – non sono seguite altre
pubblicazioni.» spiegò il suo amico Renato. «Proprio per questo motivo,
per un certo tempo la sua figura negli Stati Uniti ha acquisito contorni
leggendari...»
Carlo lo interruppe subito, come se volesse far risaltare la propria
competenza: «Un po' come è accaduto per altri famosi scrittori americani
come Salinger o Pynchon?» Questa vicenda incominciava ad incuriosirlo
ed era evidente che Renato se ne era perfettamente accorto.
«Esatto, ma con un'impronta ancora più morbosa alimentata dai giornali
scandalistici. Pynchon è sicuramente un'altra cosa.».
Carlo si accorse di aver aperto un capitolo pericoloso che rischiava di
andare per le lunghe. Non era il caso di lanciarsi in una discussione
letteraria nel traffico sempre più intenso e con una mano sola sul volante.
Renato, intanto, aveva continuato a spiegare come per quasi un trentennio
ciclicamente rispuntasse ogni tanto da qualche parte la ricerca più o meno
pretenziosa delle vere ragioni che avevano spinto il misterioso scrittore ad
abbandonare gli Stati Uniti e a trasferirsi in Italia.
«L'interrogativo sempre uguale – qui, sicuro dell'effetto ormai raggiunto,
Renato sottolineò abilmente le sue ultime parole con una lunga pausa – la
domanda sibillina che concludeva tutte quelle ricostruzioni più o meno
fantasiose, pubblicate anche su giornali importanti, era all'incirca sempre
la stessa... » Ancora una pausa. «Non vedo l'ora di sentirla...» sussurrò
Carlo col tono di chi ne ha abbastanza. La telefonata si stava protraendo
troppo e il peso del cellulare sembrava aumentare con il passare dei
minuti. Un po' risentito Renato lo bloccò subito.«No, Carlo, bravo
insegnante di lettere e apprezzato collaboratore delle Edizioni Beccalossi,
qui non è il caso di scherzare, perché la cosa si fa seria, soprattutto per
noi.» Un tantino intimidito Carlo tacque e Renato, padrone della scena,
concluse rapidamente.
«L'ipotesi solleticante che periodicamente è ricomparsa su quotidiani,
riviste e pubblicazioni titolate, riguardo al destino di quel grande giovane
scrittore scomparso nel nulla, era sempre questa: probabilmente ha scritto
molto altro, ma, per segreti motivi, forse di protesta, ha scelto di rinunciare
a qualsiasi pubblicazione dei suoi lavori; la futura riscoperta ci riserverà
grandi sorprese. Questo, come ti dicevo, più o meno fino alla metà degli
anni '80.»
«Perchè... dopo?» chiese quasi automaticamente Carlo. E l'amministratore
unico delle Edizioni Beccalossi concluse teatralmente «Poi, come accade
di solito, a poco a poco ci si dimenticò di lui».
Renato – il compagno di tante bevute negli anni dell'università lo ricordava
bene – era un affabulatore abilissimo e l'interesse di Carlo, dopo la
veniale manifestazione di insofferenza, era di nuovo cresciuto.
«La domanda che allora potresti farmi – marcò infine Renato, come se gli
apparisse scontata la risposta – è sicuramente questa: noi che cosa
c'entriamo? Qui sta il bello. Cerco di spiegartelo ancora più chiaramente.»
Senza perdere di vista la strada davanti a sé e la lunga fila continua di auto
sfreccianti che superavano la sua utilitaria troppo lenta, Carlo, vincendo la
stanchezza, cercò di mantenere viva la concentrazione.
«Un amico con i contatti giusti» continuò Renato, «mi ha passato una
dritta in esclusiva molto promettente». Carlo non riuscì a frenare un
sorriso. Conosceva già le “dritte” di Renato dal tempo lontano
dell'università. Erano quasi sempre inconsistenti. Veramente – rise Carlo -
erano dritte troppo curve, ripiegate sulla sua presunzione.
L'intraprendente editore torinese riassunse velocemente la questione.
«Questo scrittore, McWine, ha vissuto per tantissimi anni in Italia,
precisamente in un piccolo paese dell'Umbria che si chiama Monastico. E'
morto circa un mese fa. Gli eredi americani, che prima nessuno aveva mai
visto, come era prevedibile si sono fatti subito vivi. E a provvedere allo
sgombero e alla ripulita della casa per la vendita immediata è stato
incaricato un amico del mio amico, un imprenditore umbro, che mi ha fatto
un po' casualmente una bella soffiata.» Renato tacque per un momento,
come se volesse caricare le sue parole di suspense. «Svuotando lo
scantinato è saltata fuori una cassa piena di fogli accatastati confusamente,
manoscritti e dattiloscritti. Il mio amico, quando è venuto a saperlo,
conoscendo da un pezzo qual è il mio mestiere mi ha subito passato questa
utile informazione.» Renato concluse, scandendo con sicurezza le ultime
parole. «Pensa, nessuno oltre a noi lo sa.» E poi, sbrigativamente aggiunse:
«Almeno per quanto ne so io». Il futuro editore di successo tacque, come
conquistato dal proprio discorso e dalle ipotesi luminose che si
dispiegavano ai suoi occhi: un'ascesa clamorosa, internazionale, di cui
tutti avrebbero parlato, l'evento letterario dell'anno.
Ma il silenzio si protraeva. Un po' interdetto Renato chiese: «E allora?»
Carlo ancora taceva e infine la semplice osservazione con cui ruppe il suo
lungo silenzio, molto spontanea, raggelò un poco l'esaltazione dell'amico:
«E io che c'entro? Che cosa potrei fare?» Senza dar peso alla nota risentita
che risuonava chiaramente dietro a queste domande superflue, Renato,
riassumendo rapidamente la sua veste neutra e professionale, riprese e
chiarì: «Ecco l'idea che ti passo. Scendi in Umbria, trovi questo paesino e
prelevi la cassetta o baule che sia. Mi hanno assicurato che è facilmente
trasportabile. Poi, con calma, darai un'occhiata a quelle carte e comincerai
a lavorarci sopra. Tu sei quello che, nella nostra squadra, conosce meglio
l'inglese. Ricordiamo tutti le tue ottime traduzioni. Anche questa volta
potrebbe uscirne qualcosa di buono, molto buono.»
Subito, con una domanda molto ragionevole, Carlo seccamente lo
interruppe di nuovo: «Un momento. Perché dovrebbero dare tutta quella
roba proprio a me?» Con la sicurezza di chi vede raggiunto lo scopo che
aveva programmato, Renato tagliò corto e fornì al suo amico quel
chiarimento definitivo, che – a pensarci – era implicito fin dall'inizio nel
suo lungo discorso.
«Non preoccuparti. E' già tutto organizzato. Ho già lasciato il tuo nome.
Basterà che ti presenti all'albergo che c'è in paese. Troverai una persona
che provvederà a tutto.»
Ecco! Renato si era scoperto. Non gli stava chiedendo se poteva rendersi
disponibile per questo incarico, ma lo stava sottilmente imponendo, dando
per scontata la sua disponibilità. Carlo, troppo stanco, non se la sentiva più
di polemizzare. Era ormai vicino al livello di guardia. E allora, senza
lasciare il tempo di aggiungere altro, si rassegnò.
«Va bene. Ci andrò.»
Appagato, come chi ha raggiunto la meta, Renato chiuse in fretta, gli
augurò buon viaggio e lo salutò.
Nella testa del professore, iniziò a muoversi lo sciabordio di tante ipotesi,
tutte ugualmente possibili. Rifletteva sulla strana vicenda che Renato gli
aveva raccontato. Qualcosa non tornava. “I grandi scrittori – rifletteva –
lasciano sempre qualcosa, opere incompiute o abbandonate; ma non è
davvero questa la situazione che mi ha descritto Renato: questo famoso
romanziere americano completamente dimenticato, è stato l'autore di un
unico romanzo dal successo strepitoso.”
«La prima domanda che allora gli farei – disse ad alta voce toccando il
sedile accanto – se questo scrittore fosse qui in viaggio con me, è questa:
hai continuato a scrivere? Possibilissimo, in effetti, che uno scrittore cessi
di scrivere. E poi subito la domanda numero due: perché, allora, se hai
continuato a scrivere, non hai più pubblicato nulla?»
Naturalmente, per il famoso McWine, la pubblicazione di qualunque cosa
avesse scritto, fosse anche la lista della spesa, sarebbe stata facilissima.
Carlo era particolarmente affascinato dalla terza domanda che allora
necessariamente seguiva.
«Ma, se hai scelto di non pubblicare i tuoi scritti, questo significa che hai
scelto di farti dimenticare?»
Carlo scuoteva la testa, contrariato. Era tutto assurdo, l'esatto contrario di
quello che tutti gli scrittori avrebbero fatto, a qualunque latitudine.
Carlo continuava a borbottare tra sé: «Anche quelli che si mantengono
nascosti, che odiano la celebrità, voglio alimentare la vita delle loro opere,
e questo è possibile solo facendole circolare. Tutti tentano in ogni modo
di consolidare la propria fama e, come si dice, di passare ai posteri; ai
posteri l'ardua sentenza... ma perché sentenza ci sia – osservava con
perspicacia - occorre anzi tutto essere ricordati. E allora?»
C'era qualcosa di assurdo in tutta la faccenda. Iniziava a dubitare del
frettoloso entusiasmo del suo amico, quella sicurezza troppo sbrigativa
riguardo allo straordinario ritrovamento di carte inedite.
Molto probabilmente quel viaggio indesiderato che gli era stato
subdolamente imposto si sarebbe rivelato il classico buco nell'acqua.
Anzi, pensò ridendo, un bel buco nel mare, che avrebbe provveduto lui
stesso a scavare l'indomani con qualche splendido tuffo. Non era certo il
caso di affrettarsi, meglio prendersela comoda passando almeno qualche
giorno tranquillo. Renato non aveva indicato nessuna data precisa. Quando
doveva andare in Umbria? Si accorse di aver dimenticato di chiederglielo.
Ma che importava?
Controllò con molta attenzione un cartello stradale che stava superando.
Sì, mancava poco. L'incanto del mare che già da parecchio splendeva tra i
suoi pensieri, lo abbagliava.
Si voltò di scatto verso il sedile accanto. Beffardo, immerso tronfiamente
nel sole, il telefonino silenzioso lo stava osservando. «E tu adesso stai
zitto!», urlò scagliandolo indietro. Poi, come liberato da un grosso peso,
trasse un profondo sospiro di sollievo e finalmente si rilassò al pensiero
che presto sarebbe arrivato.
-2-
Era il 7 luglio 2013, una domenica. Carlo stringeva il volante e non si dava
pace. In quel momento avrebbe potuto essere sulla scogliera, disteso al
sole e pronto per il primo bagno della stagione. E invece... Ho ceduto
troppo in fretta, si diceva. Il solito Carlino remissivo, Carlino timidino.
Signorsì signor capitano, comandi! Da più di un'ora un loop lamentoso si
riavvolgeva senza fine nella sua mente.
Per fortuna in questo viaggio che gli appariva sempre più demenziale non
era più solo. Seduto accanto a lui, gasato come se andasse a una festa, Elia
guardava fuori e commentava. «Sembra di essere in un film! Una
telefonata nella notte e... Tac! Scatta una storia. E' pazzesco quello che ci
hai raccontato ieri sera. Mi piace l'idea di essere in prima fila! Mancano
solo Coca-Cola e pop-corn.» Troppo alto per quella piccola utilitaria, stava
tutto rattrappito sul sedile, con le ginocchia bloccate e la testa a un
centimetro dal tettuccio. Era la scomodità fatta persona, ma si vedeva che
era contento.
«Ma tu questo strano scrittore che andiamo a scovare, lo hai conosciuto?»
«Non sapevo nemmeno che esistesse. Ho conosciuto anch'io tutta la
faccenda soltanto ieri, molto all'ingrosso; Renato non si è sprecato nel
darmi tutte le informazioni. Renato...»
«Fammi capire,» chiese Elia con tono fintamente riflessivo, come se si
interrogasse su questioni profondissime, «andiamo in un paesino
dell'Umbria che non sai nemmeno dove sia e lì dovremmo – forse, chissà,
in qualche modo, se tutto va bene – incontrarci con una persona che tu
nemmeno conosci, per prendere una scatola che non si sa bene che cosa
contenga.» E guardandolo di sottecchi aggiunse. «Carlo, dimmi la verità.
Ma sei sicuro che tutta questa impresa non sia soltanto un bello scherzo
che ti ha preparato il tuo amico editore?»
Carlo si irrigidì immediatamente. «Ti prego caro Elia di non chiamarlo più
mio amico. Grazie.» Più calmo aggiunse. «Per quanto riguarda quello che
tu chiami “lo scherzo”, non credo proprio. Dovevi sentirlo, come era
deciso. Fanatico.». Elia si mise a ridere, vedendo sul volto dell'amico una
stizza che non gli era abituale. «Carlo, hai presente quel vecchio film che
ci era piaciuto tanto? Amici miei?» Carlo lo guardò divertito. «Bene –
continuò Elia – c'era un personaggio interpretato da Tognazzi, mi pare si
chiamasse conte Mascetti, se ricordo bene. Prendeva in giro chiunque lo
ascoltasse, ad esempio un vigile, e lo rintronava con una sequenza
rapidissima di parole senza senso. Solo per dirti, a me pare che il tuo
editore sia un parente stretto del conte Mascetti.»
Carlo restò un attimo zitto e finse di riflettere con un dito che ticchettava
sul labbro; poi, come se avesse ponderato abbastanza le diverse possibilità
rispose: «A dire il vero ho pensato anch'io la stessa cosa, all'inizio. Non
proprio la supercazzola di Tognazzi, perché le parole di Renato – almeno
questo – avevano un senso, ma mi è subito sembrata una richiesta assurda,
fatta giusto per vedere come reagivo. Ho capito abbastanza in fretta, ieri
sera, che non era così. Quello ci crede. Ci crede e basta. E' convinto di aver
trovato la scala giusta per il successo.»
Battendo le mani, Elia scoppiò in una sonora risata. «Allora cerchiamo
almeno di divertirci noi!»
Carlo si voltò verso di lui con tutta la serietà del professore e scandì:
«Sicuramente non mancherà la materia prima.» Risero insieme. Era
davvero una bella fortuna averlo come compagno di viaggio in quella
avventura insensata, almeno l'atmosfera adesso era allegra. Andava
riconosciuto onestamente il merito di Elia in tutto questo.
«Ti debbo ringraziare, Elia. La tua compagnia mi dà un gran piacere!»
Se questo era vero in quel momento, non sempre però era stato così. Tante
volte – Carlo lo aveva detto anche agli altri amici– la compagnia di Elia lo
imbarazzava, soprattutto quel suo modo di fare frenetico e disordinato,
come se qualcuno lanciasse a casaccio tutti gli oggetti sottomano, senza
alcuna attenzione al pericolo di chi sta intorno.
Gli venne da pensare alle tante occasioni in cui l'amico aveva dato prova
del suo carattere poco affidabile. Elia, figlio unico, aveva qualche anno in
meno di lui. Come succede spesso, con il passare degli anni la differenza d'
età era divenuta irrilevante. Ma Carlo ricordava bene quando, giovane
universitario ormai aperto alla cultura e al mondo –andava a Genova ogni
due o tre giorni! – vedeva quel ragazzino iperattivo girare per Deiva,
apparentemente senza scopo. Anche Elia aveva poi iniziato l'università,
con buoni risultati – la facoltà di matematica, se ricordava bene – ma,
guarda caso, non li aveva mai terminati. La piccola azienda familiare nel
settore oleario era stata la sua oasi di salvezza. Il padre, uomo dal carattere
duro e deciso, sapeva come tenerlo a freno, e Elia si era adattato a questo
ruolo, un figlio perennemente sotto tutela. Cinque anni prima – Carlo lo
ricordava molto bene, perché era stato coinvolto in prima persona – Elia
aveva attraversato una fase difficile, fatta di scontri e tensioni continue con
la sua famiglia, e soprattutto con il padre. Se n'era andato di casa, aveva
combinato ben poco ed era infine ritornato come il figliol prodigo alla casa
dei suoi.
Carlo guardò di nuovo l'amico seduto accanto. La corta barbetta ed i
capelli ricciuti disegnavano una sorta di profilo greco.
«Ma, Elia, venir via così all'improvviso, non ti crea problemi? Sai, il
lavoro, la sorpresa per i tuoi.»
Elia, appoggiandogli una mano sulla spalla, spiegò. «Caro il mio Carlino,
è vero che qualche volta, anzi abbastanza spesso, mi sembri un gran
coglione e ti prendo in giro. Ma ti voglio un gran bene, non potevo lasciarti
andar via così, in questo stato, tutto solo.» E aggiunse, per tranquillizzarlo
del tutto: «Non preoccuparti per il mio lavoro. La nostra è una piccola
azienda familiare. Sai, me lo dice spesso anche mio padre: “Elia Elia
lavoreremmo bene anche senza di te.” Non ha una grande opinione dei
miei contributi alla gestione.» E scoppiò in una sonora risata .
Tacquero per un poco e Carlo ripensò a quanto le opinioni, anzi – si
disse – i pregiudizi che ci fabbrichiamo sugli altri siano campati in aria. Le
nostre vite si sfiorano, si lanciano piccoli segnali, poi ognuno gira e rigira,
come una specie di impasto artigianale, quello che gli è arrivato e si
fabbrica così un'immagine che gli appare presuntuosamente vera. Ma, alla
resa dei conti, che cosa sappiamo veramente gli uni degli altri?
E in questo modo, anche il comportamento di Elia era stato incasellato,
catalogato, giudicato. Ne aveva una prova proprio in quel momento. Dietro
la scorza appariscente della frenesia dell'amico c'era un cuore gigantesco.
Questa era la cosa che veramente contava.
A vincere gli eccessi del sentimentalismo che stava crescendo gli bastò
tuttavia uno sguardo verso il sedile accanto.
«Cosa stai facendo con le mie cassette?». Scattò in Carlo il solito
automatismo: la difesa di ciò che per lui era un bene prezioso, e che per gli
altri probabilmente non valeva nulla.
«Rimetti subito tutto al suo posto!» urlò verso il vicino. Elia lo guardò
allibito. A lui tutta quella foga per delle vecchie audiocassette rovinate era
assolutamente incomprensibile, gli sembrava un'esagerazione. Anche
Carlo si era accorto di aver esagerato. Ammonì silenziosamente se stesso:
“OK, stai calmo, e vediamo di non litigare subito. Ricordati che cosa è
successo con Sandro. Per fortuna è tutto risistemato. Non deve più
succedere.”
Già, Sandro. L'associazione fu spontanea, gli ritornò alla mente il dramma
che stava vivendo. Si voltò per farsi dire qualcosa di più, qualche notizia
più precisa, ma sicuramente Elia in quel momento aveva tutt'altro per la
testa.
«Ehi, perché non ci fermiamo al prossimo autogrill?»
«Così presto?»
«Giusto per un caffeuccio. Non lo dici sempre anche tu? Non bisogna aver
fretta.»
Carlo lo guardò e sorrise. «Al prossimo, allora.»
Avevano ormai alle spalle la lunga sequenza di gallerie, e stavano
avvicinandosi a Carrara lungo l'autostrada diritta e poco trafficata. Carlo
guidava rilassato, si erano diradate le tensioni e le inquietudini del giorno
prima, e gli sprazzi di divertimento offerti dalla conversazione con Elia gli
avevano fatto dimenticare la rabbia che lo accompagnava nei primi
chilometri. Era una bella domenica estiva, una giornata di sole non ancora
cocente ed afoso, come spesso ne offre il mese di luglio. Buttando
un'occhiata all'interno delle auto che lo superavano, Carlo guardava con
invidia quella gente che, dall'aspetto già balneare, rivelava la sua
indiscutibile direzione, sicuramente verso le belle spiagge della Versilia. E
invece lui... ma scacciò subito i pensieri tristi e ossessivi che si stavano di
nuovo insinuando nella sua mente. «Che importa! Tra poco sulle spiagge
ci sarò anch'io!» Lo disse ad alta voce con una buffa aria di sfida, che fece
di nuovo ridere l'amico.
«Di sicuro, nessuno te lo toglie un bel bagnetto. Ma per restare alle
questioni più attuali, Allora, questo caffè, manca tanto?»
Per fortuna c'era Elia.
La pioggia era stata intensa, per fortuna il temporale era finito velocemente
senza far danni. La luce estiva aveva ritrovato le sue forze, ma con una
nota di dolcezza che si rifletteva nell'aria e dava a quell'ora del tardo
pomeriggio un fascino inafferrabile. Vera sedeva sulla stretta panca vicino
all'ingresso e osservava il gelsomino fiorito carico d'acqua e le gocce lente
che cadevano con ritmo leggero dai suoi rami. L'insegna della piccola
pensione, illuminata fiocamente dal lampione pubblico che si era acceso
poco più avanti, era come il segnale di un avamposto inaspettato. Tutto
attorno, infatti, sul pendio sempre più scosceso che circondava le poche
case del paese, dominavano i boschi.
«Vera, hai controllato che sia tutto a posto, che non manchi nulla nelle
stanze?»
«Sì, mamma, ho fatto tutto.»
Maria, sua madre, doveva sempre accertarsi che ogni cosa nella loro
piccola pensione funzionasse perfettamente. Vera lo sapeva e la
assecondava.
Per Vera, quello era uno dei momenti tranquilli della giornata. I pochi
clienti non erano ancora rientrati – quasi sicuramente buona parte di loro
aveva trascorso l'intera giornata ad Assisi. La preparazione della cena era
da sempre un'incombenza che la madre aveva riservato per sé. Non che
non si fidasse di lasciare Vera in cucina, ma sicuramente la qualità della
tradizione umbra, che un cartello in evidenza all'ingresso sottolineava, era
pienamente garantita da quella donna energica e precisa di 64 anni. Lei e la
madre, a volte, riflettevano su quella scelta forse temeraria che era loro
parsa la più naturale: gestire la piccola pensione interamente da sole. Le
stanze erano poche, si trattava della vecchia casa di famiglia risistemata e
modernizzata.
Vera osservava la strada bagnata e rifletteva. Spesso, le capitava di
pensare, in momenti come questo, alle opportunità che si era lasciata alle
spalle scegliendo di vivere accanto alla madre Maria nel loro vecchio
borgo. Era una piccola evasione che concedeva a se stessa, immaginare
quale vita avrebbe potuto essere la sua se non avesse deciso cinque anni
prima, alla morte improvvisa del padre, di ritornare a Monastico,
immergendosi totalmente nel ritmo quotidiano della gestione della loro
piccola impresa. Il fratello era lontano, in Australia, non se ne curava. A
lei era parso un dovere indiscutibile, garantire alla madre il suo aiuto.
Sapeva bene che era pericoloso lasciarsi andare a simili considerazioni
sulle vite alternative, un esercizio inutile che aveva come unico risultato la
malinconia. Il sole che si intravedeva basso al bordo delle colline e la
leggerezza dell'aria rinfrescata dalla pioggia recente erano come una porta
aperta per i voli dell'immaginazione. Se non fossi qui, adesso...
Scacciò questi pensieri. Aveva imparato con gli anni ad essere molto
severa con se stessa e sapeva come vincere quelle tentazioni di evasione.
Era un ammonimento costante che si rivolgeva, una cautela di fronte a
quello che le sembrava il rischio peggiore: baloccarsi con la vita anziché
viverla. Lo vedeva come un'inaccettabile viltà di fronte a ciò che la vita
offre, bello o brutto che sia. Le promesse vanno mantenute e le scelte che
facciamo vanno rispettate fino in fondo, a qualunque costo. Come?
Bastava obbligarsi a scendere sulla terra, guardarsi intorno, accettarsi.
Appoggiando le mani sul legno della stretta panca usurato dal tempo, le
ritornò alla mente la figura esile e sottile del vecchio americano morto da
poco, che tutti in paese avevano sempre chiamato il Professore. Anche lui,
quando scendeva in paese, amava sedere come lei in quel momento,
guardando con tranquillo distacco la piazzetta di fronte, chiacchierando
volentieri con chi capitava. Il suo viso magro e la folta zazzera
precocemente imbiancata le incutevano, quando era bambina, un'istintiva
soggezione, nonostante la sua grande cordialità. Un senso di mistero si
accendeva nella sua immaginazione quando, senza farsi scorgere, fissava
le rughe profonde che gli scolpivano lo sguardo come un marinaio
consumato dal vento, bloccato sulla terra ferma. Un involontario sorriso le
illuminò il volto al ricordo delle tante volte in cui la madre partiva in
bicicletta, mugugnando tra sé parole incomprensibili, per portare al
Professore il pranzo preparato con cura. Capitava anche, un po' meno
spesso, che fosse lui a fermarsi a mangiare quel buon cibo che tanto
apprezzava nella loro pensione. Fin da piccola – le venne da pensare – si
era abituata alla vista quasi quotidiana di quello strano signore, così
diverso dagli altri che vivevano in paese. Avvertì in quel momento il senso
di una perdita, come se un piccolo vuoto si fosse aperto nel suo paesaggio
quotidiano. Ripensò a lui con affetto, rivivendo le tante volte in cui si era
fermato a giocare e scherzare con lei.
Si accorse solo ora dei due che, discutendo animatamente, si avvicinavano.
Il più piccolo indicava la pensione, l'altro scrollava la testa, poco convinto.
Gli venne da ridere, pensando a scene simili che ogni tanto si ripetevano.
Qualche viaggiatore sprovveduto capitava per caso in paese, girando per
quelle strade apparentemente tutte uguali che si intersecavano dietro il
monte. Non capiva bene dove si trovasse e con un sospiro di sollievo
otteneva informazioni per ritornare verso le zone più familiari e
conosciute.
Vera notò che il più piccolo di quei due stava guardando insistentemente
dalla sua parte. Indossava un vecchio paio di jeans e una giacchetta bianca
che gli stava un po' stretta. L'altro, più disinvolto, camminava e parlava in
continuazione voltandosi indietro. Una cosa che parve a Vera abbastanza
buffa, come certe scene nei film comici quando i protagonisti litigano e
discutono senza cavar nulla dal loro indaffararsi. Notò la faccia simpatica
di quello più alto, dominata da un imponente naso, il suo goffo modo di
agitarsi. L'altro, un uomo di una quarantina d'anni un po' appesantito,
sembrava non curarsi di ciò che gli stava dicendo l'amico e procedeva
titubante ed incerto verso di lei.
Quando furono abbastanza vicini, fu quello alto a parlare con tono gentile
e una voce bella e robusta.
«»Scusi signora, ci sono anche altri alberghi in questo paese?»
A Vera venne quasi da ridere a quella strana idea, ma rispose come se
quella fosse stata la domanda più normale del mondo.
«No, questo è l'unico. Anzi, chiamarlo albergo è un po' esagerato. E' solo
una piccola pensione familiare.»
Trionfante, Elia si rivolse allora all'amico. «Vedi? Non ci si poteva
sbagliare!»
Vera riusciva ancora a trattenere il riso.
«Cercate qualcuno?»
Fu Carlo a rispondere velocemente, imponendosi sulla foga dell'altro.
«Sì, è così. Purtroppo non sappiamo bene chi sia!»
Questa battuta involontaria fece ridere insieme Elia e Vera, anche Carlo si
unì subito a loro, consapevole dell'assurdità apparente di quello che aveva
appena detto.
«No, mi sono spiegato male» aggiunse ridendo. «Noi sappiamo che qui c'è
qualcuno che ci sta aspettando, ma non sappiamo chi esattamente sia.» E
commentò a bassa voce «Sì, la situazione è più o meno questa.»
Vera si offrì gentilmente. «Se mi dite di che cosa si tratta, forse vi potrei
aiutare!»
Elia intervenne subito con la sua solita sicurezza. «Dovremmo ritirare
qualcosa, non sappiamo bene, un baule o una cassa, che è stata messa da
parte per un editore di Torino. Già è stato predisposto tutto.»
Vera rise con ancora più gusto. «Ah, ma allora siete voi?»
«Gli incaricati del ritiro? Si siamo noi. E mi pare di capire che lei forse sa
chi dovremmo incontrare,» disse Carlo. Si sentiva rassicurato. Forse ce
l'avevano fatta.
Vera rise di nuovo. «Ma certo che la conosco, quella persona! Sono io!»
Carlo e Elia si guardarono, sentendosi un po' idioti.
Fu di nuovo Elia a vincere per primo quella spiacevole sensazione
battendo una gran manata sulle spalle dell'amico. «Bingo!»
Anche Carlo sorrise all'idea del facile successo della loro impresa e si
impegnò ad esporre nel modo più chiaro e sintetico possibile il compito
che gli era stato assegnato.
Vera lo ascoltò con attenzione, poi spiegò. «Il signor Volpi mi ha lasciato
detto qualche giorno fa che presto sarebbe passato qualcuno con questo
incarico. Anche lui non aveva saputo dire chi e quando sarebbe passato,
ma sapendo che la pensione è sempre aperta non se ne era fatto un
problema.»
«Che dice? Allora possiamo andare?» Intervenne un po' troppo
sbrigativamente Carlo, che si vedeva sulla strada del ritorno e da tempo
ormai sognava la spiaggia del giorno dopo.
Forse Vera già aveva pensato a questa possibilità. Inutile fare le cose in
fretta. Si era fatto tardi e, soprattutto, due potenziali clienti inaspettati
potevano far comodo alla situazione un po' incerta della pensione
Vallechiara, anche solo per una notte. Con tono tranquillo espose la
situazione. «E' meglio andare domani. La casa dello scrittore, noi lo
chiamavamo il Professore, è un po' lontana e la stradina per arrivarci è
parecchio disagevole, meglio non avventurarci a quest'ora. Perché non vi
fermate qui? Abbiamo una bella stanza libera. Andremo con comodo
domani mattina.»
Elia non lasciò a Carlo il tempo di rispondere. «Benissimo, così ci si riposa
e si riparte tranquilli! Che ne dici Carlo?»
La risposta era naturalmente scontata. Carlo si consolò all'idea dell'ottima
cena che avrebbero potuto mangiare. Già si spandeva nell'aria un
profumino delizioso.
-3-
“Esisto ancora? Non lo so, non so chi sono. Sento che qualcosa ubbidisce
alla mia volontà. Ho un corpo. Sono un corpo? C'è qualcosa intorno,
posso vedere, ho uno sguardo, mi appartiene. Ci sono altri accanto a me.
Altri corpi come il mio. Anche loro immobili, bloccati. Anche loro possono
solo guardare. Vedo che sono stato visto, i nostri sguardi si incontrano,
solo gli occhi si muovono, nessun altro movimento è possibile. Anche loro
osservano spaventati tutto intorno. Siamo vivi. Almeno questo. Mi sforzo,
provo a parlare. Ci riesco.”
-4-
Seduto di fronte alla tavola stretta della cucina nel suo piccolo
appartamento, sotto la luce intensa della lampada, Carlo si concentrava
sulla pagina che aveva davanti. Aveva accanto un altro foglio mezzo pieno
di frasi scritte e cancellate sul quale era riportata la sua traduzione ancora
un po' insicura del primo capitolo. Deciso a non mollare e a procedere
caparbiamente fino in fondo, superando qualunque difficoltà, Carlo
continuava il suo accanito corpo a corpo, nonostante fosse ormai passata la
mezzanotte. Si sentiva un po' in colpa. Il mese di agosto, come aveva ben
capito Silvia, era stato dedicato a tutt'altri impegni.
“Non esageriamo – si disse per consolarsi – qualcosa l'ho già fatto.” Nelle
poche serate trascorse in casa con i genitori, quando non organizzava nulla
con gli amici, aveva diligentemente completato l'esame e la classificazione
del materiale contenuto nella scatola, ma The Notebooks of the Waste lo
aveva catturato fin dal primo momento. Aveva letto tutto frettolosamente,
capendoci poco. In effetti – aveva notato ben presto – la trama molto
semplice era appena abbozzata, anzi non c'era un vero e proprio racconto
come ci si aspetterebbe in un romanzo. Era soprattutto un ostinato
rincorrersi di riflessioni e contrapposizioni nel dialogo serrato tra alcuni
personaggi irrigiditi in una inspiegabile immobilità, forse l'effetto terribile
di qualcosa che era loro accaduto. Ed era proprio questo ciò che lo aveva
colpito: l'asciuttezza di questo amaro confronto finale con il senso della
perdita. Lo scarto, appunto, come diceva già il titolo.
Ritornò indietro alla prima pagina e rilesse ancora una volta quell'inizio
che era diventato per lui una specie di mantra: “Esisto ancora? Non lo so,
non so chi sono...”
Avvertiva in queste parole l'eco di qualcosa che gli apparteneva, come
una sorta di suono cavernoso proveniente dalle profondità più insondabili
della condizione umana.
Dopo una veloce occhiata alla pagina iniziale che ormai conosceva quasi a
memoria, proseguì nella lettura della pagina successiva, cercando di
afferrare bene il senso di ogni frase. Sillabò mentalmente una possibile
traduzione:
“...mi sforzo, tento di parlare. Ci riesco. – Fratelli! – grido.”
Anzi, pensò, forse è meglio: “ce la faccio” sì, così va bene. Continuò
lentamente:
Carlo alzò il capo e si guardo attorno. Con un po' di fatica era riuscito a
tradurre l'intera pagina. Con qualche piccola licenza, ammetteva ora con se
stesso.
Corrugando la fronte, contemplò con aria perplessa il risultato dei suoi
sforzi. Aveva l'impressione che quello che aveva davanti non potesse
essere l'opera di uno scrittore affermato. Gli sembrava piuttosto un
tentativo approssimativo di costruire una storia sulla falsariga di tanti
romanzi fantascientifici ed apocalittici che circolavano in giro.
Pensò ai tre personaggi con quei buffi nomi. Dietro l'indubbia tensione
drammatica del loro dialogo, gli parevano delineati in modo sbrigativo e
poco credibile. “Forse McWine era un po' fuori allenamento.” pensò con
un sorriso. I suoi occhi caddero su qualcosa al fondo del foglio, alcune
parole un tantino sbiadite scritte a matita. Well, but no tears! Riconobbe
con assoluta certezza la tipica inclinazione della grafia di Thomas McWine
che aveva già visto su tanti altri fogli contenuti nella scatola. Battendo il
pugno sul tavolo esclamò con un moto di gioia: «Ecco la prova!» Quelle
poche parole ridavano forza alla sua traballante sicurezza. Ora tutto gli
sembrava chiaro. Thomas McWine aveva probabilmente scritto The
Notebooks of Waste in tempi diversi, ritornandoci sopra con quelle
annotazioni in vista di una futura pubblicazione.
In quel momento lo sgradevole suono del cellulare interruppe le sue
riflessioni. Stizzito, Carlo controllò sul display chi mai lo stesse
chiamando a quell'ora impossibile. Era Silvia.
«Scusa, ti ho svegliato?» esordì senza preamboli con i suoi soliti modi
spicci.
Contento di sentire quella voce amica che spezzava la sua notturna
solitudine, rispose scherzoso con tono assonnato: «Sì, come tutti i giorni
ero già a letto dalle nove.»
«Accidenti! Scusa.» bisbigliò l'altra con voce titubante.
Carlo rise di gusto e subito chiarì con la sua voce normale: «Ma no, è solo
uno scherzo scemo che faccio ogni tanto. Stavo ancora lavorando sul
dattiloscritto dello scrittore americano cercando di capirci qualcosa.
Dimmi tutto.»
«E' che non ho resistito...» disse rapidamente Silvia eccitata, subito
interrompendosi per parecchi secondi.
Carlo guardò il suo cellulare. «Pronto? Ci sei ancora?»
«Ma sì, sto cercando di mettere in ordine le cose che volevo subito dirti»
rispose sbrigativamente. «Andiamo subito al sodo. Tu navighi sul Web?»
«No, non molto spesso. Uso il mio portatile prevalentemente per lavoro.»
«E quindi suppongo che non sai niente?»
«Di cosa?»
«Ecco, se tu lo usassi come tutti un po' più spesso ti saresti di certo
preoccupato di fare una banale ricerca su Google e sui social networks
inserendo il nome dello scrittore. E' quello che molto semplicemente ho
fatto io...»
«E che cosa hai trovato di tanto sconvolgente?» scandì Carlo con un filo di
scetticismo.
«E' esplosa una vera e propria mania. In America se ne parla tantissimo.
Lo chiamano in genere “Il mistero McWine”. Non ti dico la quantità di
supposizioni che sono state fatte riguardo alla sua “fuga in Italia”, come
viene chiamata.»
Carlo si bloccò interdetto. Ricordava di aver dato un'occhiata alla scheda
biografica dello scrittore su Wikipedia, giusto per rendersi conto di chi
fosse stato. Era quindi a conoscenza dell'essenziale: l'unico libro
pubblicato da McWine, la sua presenza pubblica negli anni '60 e poi
l'improvviso trasferimento in Italia. Fine. Più o meno le cose che gli aveva
detto Renato a luglio nella sua demenziale telefonata.
Sì diede involontariamente dell'idiota.
Sì, la cosa che aveva fatto Silvia era la più ovvia nell'era di Internet. E lui
non ci aveva neppure pensato. Un pensiero gli balenò in mente. Guardò
con occhi nuovi il dattiloscritto che aveva davanti come se fosse una
bomba pronta ad esplodere. “Chissà se Renato se lo aspettava!” pensò.
Avevano estratto il jolly e la partita era tutta nello loro mani.
«Caspita. Vuol dire che quello che che ho qui davanti a me è ancora più
grosso di quanto pensassi!» esclamò sottolineando volutamente con ironia
le ultime parole.
«Bé, direi proprio di sì.» osservò Silvia senza dar peso alla battuta ormai
stantia.
«Mi raccomando, Carlo, vedi di fare tutto per bene.» Silvia non
dimenticava mai di elargire i suoi consigli.
«E soprattutto non parlarne troppo in giro.» Senza nominarlo, entrambe
pensarono all'antipatico collega e alla loro superficialità nel parlare delle
imprese estive di Carlo durante il collegio docenti.
«Ciao. Ci vediamo domani a scuola. Ne riparliamo» chiuse in fretta Silvia.
«Buona notte...» rispose Carlo con uno sbadiglio.
5-