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Ortopedia - Fratture

Con il termine di frattura si indica l’interruzione della continuità di un osso che si verifica quando una
sollecitazione meccanica ne supera i limiti di deformabilità.

Due variabili entrano in gioco nella determinazione di una frattura: l’entità della forza lesiva (fattore
estrinseco) e la resistenza dell’osso (fattore intrinseco). Un indebolimento del tessuto osseo di qualsiasi
natura rende lo scheletro più suscettibile agli effetti di un trauma.

La maggior parte delle fratture derivano dall’applicazione istantanea di una forza abbastanza potente da
lesionare un osso strutturalmente normale. Tuttavia ciò non si verifica in due tipi di fratture:

- Fratture patologiche: si osservano in regioni scheletriche indebolite da una preesistente patologia e


possono essere causate da sollecitazioni di lieve entità, del tutyo innocue per l’osso normale. Le
condizioni tipicamente responsabili di fratture patologiche sono le lesioni osteolitiche di natura
neoplastica (benigna o maligna, primitiva o secondaria), più raramente malattie con una spiccata
fragilità scheletrica (osteogenesi imperfetta, osteoporosi, ecc.). Le fratture su base osteoporotica non
sono invece classificate come patologiche.

- Fratture da stress da durata: come avviene per altri materiali, anche l’osso può rompersi per
fatica, a seguito di sollecitazioni reiterate, di bassa intensità e diluite nel tempo. Le fratture da stress
si osservano per lo più nell’arto inferiore, in distretti scheletrici sottoposti a elevati carichi di lavoro
da parte di alcuni soggetti, soprattutto atleti: tibia e perone (corsa, danza), ossa metatarsali (marcia,
danza), scafoide tarsale (corsa, salto). I fattori predisponenti sono rappresentati da aumenti
incongrui, per intensità e/o durata, dell’attività, dall’uso di equipaggiamento inadeguati (calzature),
da modificazioni delle superfici su cui si pratica lo sport. La diagnosi di queste fratture può essere
difficile per la sintomatologia sfumata e la scarsa evidenza radiografica.

La diagnosi clinica di una frattura può essere più o meno difficoltosa in relazione alla sede e alle
caratteristiche della lesione. I sintomi e segni da valutare nel sospetto di una frattura includono:

- Il dolore, sempre presenza anche se talvolta di bassa intensità; è accentuato dalla palpazione e dalla
mobilizzazione del segmento interessato;

- L’atteggiamento di difesa antalgico (per esempio, nelle fratture di clavicola, il sostegno dell’arto
superiore e l'inclinazione del capo verso la lesione);

- L’impotenza funzionale, con limitazione anche completa della mobilità;

- La deformità, che può essere causata dallo spostamento dei frammenti (angolazione, rotazione) e/o
dalla tumefazione prodotta dall’emorragia;

- La mobilità preternaturale e la crepitazione, per discontinuità e attrito tra le superfici di frattura.


Sono segni di certezza e devono essere valutati con estrema cautela al fine di evitare un possibile
aggravamento della lesione (scomposizione della frattura, lesioni vascolo - nervose).

La diagnosi di frattura è confermata dall’esame radiologico, che deve essere condotto con tecnica rigorosa
(almeno due proiezioni ortogonali includendo le articolazioni e entrambe le estremità dell’osso
traumatizzato). Alcune fratture possono essere di difficile riconoscimento e si deve ricorrere alla TC per
dirimere il dubbio diagnostico.
CLASSIFICAZIONE

Le fratture possono essere classificate in base a criteri diversi, quali il meccanismo patogenetico, la
localizzazione e le caratteristiche anatomo – patologiche. Seppure non esaustive per ogni singolo distretto,
queste definizioni costituiscono la base per un linguaggio corretto e comune in ambito traumatologico, in
particolare per le fratture delle ossa lunghe.

In base al meccanismo patogenetico si riconoscono i tipi di fratture elencati di seguito.

Fratture per trauma diretto, quando l’osso si frattura nel punto di applicazione della forza lesiva.
Nell’ambito di questo gruppo si possono ulteriormente distinguere:

- Fratture da urto, che si verificano per contatto violento su una piccola area e ci caratterizzano per la
rima trasversa di frattura; nell’avambraccio e nella gamba può essere coinvolto un solo osso;

- Fratture da schiacciamento, che si accompagnano a un danno esteso dei tessuti molli circostanti e
sono per lo più comminute;

- Fratture penetranti, denominate anche fratture da arma da fuoco, che sono prodotte da proiettili a
bassa o alta velocità, questi ultimi assai più lesivi sull’osso e i tessuti molli.

Fratture per trauma indiretto, quando la forza lesiva agisce a distanza dal focolaio di frattura. In questo
secondo gruppo si possono osservare:

- Fratture per flessione: essendo l’osso resistente in compressione che in trazione il tessuto sul
versante convesso cede per primo, generando una rima di frattura trasversa con o senza un terzo
frammento sul versante concavo;

- Fratture per torsione: questo meccanismo produce una rima di frattura spiroide;

- Fratture per compressione: l’effetto più tipico è a livello dell’osso spongioso (per esempio dei corpi
vertebrali), dove si produce una compattazione delle trabecole;

- Fratture per trazione: la sede di inserzione di un muscolo può essere avulsa da una violenta
contrazione, con distacco di porzioni più o meno estese di osso;

- Fratture per azione combinata: flessione, compressione, torsione.

Anche la violenza dell’evento traumatico è correlata alla patogenesi, e in relazione a essa possono essere
differenziate fratture a bassa energia (come quelle risultanti da una caduta accidentale) e fratture ad alta
energia (per esempio a seguito di un incidente stradale).

Localizzazione

Nelle ossa lunghe, in base al livello di lesione, le fratture possono essere:

- Diafisarie: al terzo prossimale, medio o distale;

- Metafisarie: prossimali o distali;

- Epifisarie: prossimali o distali;


- Se estese a più livelli, si distinguono fratture metaepifisarie e metadiafisarie;

- In alcuni casi il livello di lesione è identificato da reperi anatomici specifici: fratture


sottotrocanteriche di femore, fratture sacrocondiloidee di omero e femore, ecc.

Se la rima di frattura si estende alla superficie articolare cartilaginea di un segmento scheletrico, la frattura è
definita articolare, nel trattamento di queste lesioni il ripristino di un piano cartilagineo normale è
auspicabile per prevenire patologie articolari secondarie (artrosi post - traumatica).

Anatomia patologica

L’entità del danno scheletrico consente di differenziare:

- fratture incomplete, denominate anche infrazioni, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è
parziale. Un tipo particolare è rappresentato dalle fratture “a legno verde” dei bambini, dove il
robusto periostio non si interrompe e viene cosi preservato il manicotto connettivale che riveste il
cilindro osseo diafisario;

- fratture complete, a loro volta suddivise in:

a. composte: quando i frammenti di frattura conservano rapporti tali da non modificare la normale
configurazione dell’osso;

b. scomposte: quando la forma del segmento scheletrico appare alterata dallo spostamento o dalla
compenetrazione dei frammenti.

Per la diafisi delle ossa lunghe si descrivono classicamente quattro tipi di scomposizione, spesso combinati
tra loro:

- ad latus, per spostamento trasversale dei frammenti;

- ad longitudinem: con accorciamento dell’osso per sovrapposizione dei frammenti;

- ad axim: per angolazione dei frammenti;

- ad peripheriam, per rotazione di un frammento sul suo asse longitudinale.

In rapporto alla configurazione della rima di frattura le fratture sono denominate:

- trasverse;

- oblique;

- spiroidi;

- pluriframmentarie;

- comminute.
In base al numero di focolai osservabili in un singolo osso lungo si distinguono fratture:

- unifocali: di gran lunga le più frequenti;

- bifocali, osservate soprattutto nel femore e nella tibia;

- trifocali o plurifocali, di riscontro eccezionale.

Un ultimo, ma non per importanza, criterio classificativo riguarda l’integrità del rivestimento cutaneo:

- nelle fratture chiuse la cute non presenta interruzioni nella sua continuità;

- nelle fratture esposte la cute è lesionata e il focolaio di frattura è in comunicazione con l’ambiente
esterno; il danno dei tessuti molli perischeletrici è variabile e sono stati distinti tre gradi di gravità
dell’esposizione per guidare le scelte terapeutiche.

PROCESSI RIPARATIVI DELL’OSSO

Una lesione traumatica che interrompe la continuità di un tessuto o di un organo innesca un processo
riparativo che conduce alla formazione di una cicatrice: la perdita di sostanza viene colmata da tessuto
connettivo che ristabilisce la continuità del tessuto lesionato. Nell’osso la continuità deve essere ripristinata
da tessuto osseo, indispensabile per il mantenimento delle funzioni scheletriche. Quando il processo di
riparazione non va a buon fine, tra i rammenti di frattura si interpone tessuto connettivo cicatriziale,
situazione patologica conosciuta on il termine di pseudoartrosi.

Il processo di riparazione di una frattura è un fenomeno complesso in cui sono coinvolti diversi tipi di cellule
e durante il quale si formano differenti tessuti, dove l’apposizione e il riassorbimento di osso coesistono
(rimodellamento osseo).

Con il termine callo osseo è generalmente indicato l’insieme di tessuti presenti nel focolaio di frattura e nello
spaio circostante durane le varie fasi del processo riparativo. Esso assume aspetti diversi se la frattura
interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario, oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in quanto
sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’attività
di sintesi di tipo osteoblastico.

Numerosi fattori possono influire sull’evoluzione del processo riparativo di una frattura e tra questi hanno
primaria importanza le sollecitazioni meccaniche e la terapia adottata.

Quando una frattura viene trattata con un apparecchio gessato, si verifica una successione di eventi che
caratterizzano il processo di guarigione biologica, ben evidente nella diafisi delle ossa lunghe. È tutavia
necessario premettere che nella situazione reale vi è una considerevole sovrapposizione dei fenomeni
descritti: in particolare l’apposizione e il riassorbimento osseo procedono simultaneamente nello sviluppo del
callo osseo, con prevalenza del primo nelle fasi precoci, del secondo in quelle più avanzate.
GUARIGIONE BIOLOGICA DELLE FRATTURE

Effetti immediati del trauma

La frattura di un osso lungo determina l’interruzione del cilindro diafisario e si accompagna a lesioni del
periostio, dell’endostio e dei fasci muscolari più vicini alla frattura. Se l’energia traumatica è alta, la
dislocazione dei frammenti della frattura può essere tale da lacerare tuto lo strato muscolare, la fascia, il
sottocute e perfino la cute

La lacerazione dei vasi, presenti nell’osso e in tutti gli altri tessuti, ha un duplice effetto: da un lato determina
la formazione di un ematoma nel focolaio di frattura, dall’altro la necrosi dei tessuti irrorati dai vasi lesi. Per
le caratteristiche proprie dell’irrorazione dell’osso corticale, la zona di necrosi è più estesa nella corticale che
nel periostio e nell’endostio: in una frattura centrodiafisaria la zona di necrosi corticale può estendersi su
ciascun frammento per 0.5 – 1 cm. Il distacco di piccoli frammenti di corticale che non mantengono una
connessione con il periostio, determina la necrosi di questi ultimi.

Attivazione del periostio e dell’endostio

Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto con l’osso corticale che
sovrintende in condizioni normali alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodellamento dello stesso.
Entrambi i processi sono caratterizzati dalla deposizione di osso lamellare (osso secondario) in cui le fibre
collagene della matrice presentano un’ordinata disposizione spaziale, evidenziata dall’osservazione in luce
polarizzata delle sezioni i osso corticale della diafisi.
In caso di frattura queste stesse cellule dimostrano un’attività sintetica più tumultuosa, ma con caratteri
diversi: l’osso apposto da queste cellule ha i caratteri dell’osso primario e assume l’aspetto a fibre collagene
intrecciate con lacune osteocitarie più grandi e globose, e densità minerale minore rispetto all’osso
secondario. L’attivazione degli osteoblasti è evidente dopo 24 ore dal trauma e rappresenta la conseguenza di
una catena di reazioni che coinvolge numerosi mediatori biochimici sulla tipologia della risposta
infiammatoria nei tessuti.

Organizzazione dell’ematoma

L’ematoma de focolaio di frattura mostra la classica evoluzione del processo cicatriziale, co invasione di
capillari dal tessuto sano circostante, fibrillogenesi, riassorbimento dell’emosiderina e dei resti del coagulo
da parte dei macrofagi; tuttavia in questo stesso tessuto cellule mesenchimali midollari si differenziano in
osteoblasti, che iniziano a produrre matrice ossea. A differenza degli osteoblasti del periostio, che sono
cellule già differenziate e in stato di riposo, queste sono cellule mesenchimali differenziate, che vengono
orientate verso un’attività di tipo osteogenico da agenti induttori liberatisi nel focolaio di frattura. L’osso
primario prodotto da queste cellule è detto anche callo osseo indotto.

Metaplasia cartilaginea

Un altro tessuto sempre presente nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo,
è la cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica
del callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione
osteoblastica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno
oppure la presenza di movimento a livello della frattura.
Nell’evoluzione successiva le cellule cartilaginee vanno incontro a ipertrofia e sulla matrice intercellulare si
depositano sali di calcio, con una progressiva formazione di tessuto osseo. Quantunque in modo più
disordinato, si riproducono gli aspetti dell’ossificazione encondrale, caratteristici delle cartilagini di
accrescimento.

Consolidazione meccanica della frattura

Quando un osso neoformato, sia esso periostale, endostale o indotto, uno dei capi della frattura si unisce con
quello del lato opposto, si realizza un ponte osseo. A questo punto la rottura è virtualmente consolidata, in
quanto il ponte osseo, rigido, non permette movimenti tra i due capi di frattura. Questo non corrisponde
tuttavia al concetto di guarigione clinica, in quanto non necessariamente il ponte osseo possiede una
resistenza sufficiente a tollerare le sollecitazioni meccaniche funzionali, soprattutto quelle degli arti inferiori.
Nella pratica clinica la guarigione considerata come liberazione dell’arto fratturato da ogni tutela esterna e
libertà di carico, si basa sulla valutazione radiografica della consistenza e dell’estensione del callo osseo.

Rimodellamento osseo

L’osso primario prodotto dalle cellule osteogeniche del callo osseo va incontro a un processo di
rimodellamento (vien cioè riassorbito dagli osteoclasti) per ricostituire i sistemi osteonici della corticale
diafisaria.

Il rimodellamento di una frattura diafisaria richiede tempi lunghi: nei bambini, in cui il processo è più rapido,
non si completa prima di 6 mesi o 1 anno. Il ripristino della normale morfologia scheletrica va valutato
attraverso il monitoraggio radiografico della frattura.

GUARIGIONE DELLE FRATTURE DOPO OSTEOSINTESI

Con il termine di osteosintesi si indica qualsiasi intervento chirurgico volto ad affrontare e/o stabilizzare i
frammenti di una frattura attraverso l’impianto di svariati dispositivi (placche, viti, chiodi, fili, ecc.). alcune
di queste modalità terapeutiche modificano il naturale processo di riparazione delle fratture, cosi come è
stato descritto in precedenza.

Guarigione primaria della frattura con fissazione rigida e compressione interframmentaria

Questo metodo richiede l’esposizione del focolaio di frattura e la riduzione anatomica dei frammenti. I capi
ossei sono fissati con un mezzo di sintesi rigido, una placca avvitata, che neutralizza le sollecitazioni di
taglio, torsione e flessione sul focolaio. Le estremità dei frammenti devono essere perfettamente affrontate e
poste in compressione, in modo che non residui alcuno spazio vuoto tra di esse.

Nelle fratture cosi trattate non si osserva alcuna reazione periostale, ma la consolidazione è affidata alla
formazione di nuovi osteoni a ponte tra i frammenti. Gli osteoclasti, infatti, nella zona di osso vitale scavano
dei tunnel in direzione longitudinale, che attraversano l’osso devitalizzato e penetrano nell’altro frammento
di frattura. Dai vasi che seguono gli osteoclasti si differenziano gli osteoblasti, i quali depongono lamelle
concentriche sulla parete dei tunnel, dando origine a un nuovo osteone. In pratica, la consolidazione della
frattura è affidata al normale processo di rimodellamento osseo.
La guarigione primaria è più lenta rispetto a quella biologica e, all’esame radiografico, l’evidenza di callo
osseo può essere scarsa o assente, rendendo più difficile la valutazione del grado di consolidazione.

Guarigione della frattura diafisaria con inchiodamento endomidollare

I chiodi endomidollari sono distinti in alesati e non alesati a seconda che si proceda prima del loro impianto
all’alesaggio (o alesatura) del canale midollare, ovvero al suo ingrandimento mediante fresatura fino al
diametro necessario per inserire l’infibulo. Questa procedura presenta come inevitabile conseguenza la
distruzione della rete vascolare endomidollare: non si ha perciò la formazione di callo osseo endostale e la
formazione di un ponte osseo è affidata esclusivamente al callo periostale e indotto. Rispetto alle placche, i
chiodi endomidollari realizzano una sintesi più elastica (non neutralizzando del tutto le sollecitazioni
meccaniche a livello el focolaio di frattura) e rispettano maggiormente il processo di guarigione biologica
(non esponendo il focolaio di frattura).

PRINCIPI DI TERAPIA

La terapia delle fratture si propone come obiettivo il recupero funzionale completo del segmento fratturato
senza deformità residue. Questo risultato presuppone la consolidazione della frattura senza alterazioni
significative della morfologia scheletrica e il recupero della funzione articolare e muscolare. La gravità di
alcune lesioni non consente tuttavia di ottenere in tutti i pazienti lo stato clinico – funzionale preesistente
all’evento traumatico.

Per favorire la consolidazione della frattura è necessario stabilizzarla, cioè evitare movimenti tra i capi di
frattura. Questo principio è sempre valido, anche se in tempi recenti è stata valorizzata l’utilità di
sollecitazioni meccaniche controllate sull’evoluzione del processo di riparazione. Il metodo di trattamento
ideale dovrebbe garantire una completa immobilità dei capi di frattura e contemporaneamente permettere la
trasmissione attraverso di essi delle sollecitazioni meccaniche fisiologiche. È ovviamente difficile da
realizzare nella pratica, per cui una condotta prudente consiglia di stabilizzare la frattura nel più breve tempo
possibile e concedere sollecitazioni funzionali in rapporto alla solidità della sintesi e al grado di evoluzione
dei processi riparativi della frattura.

La scelta di una specifica terapia, conservativa oppure chirurgica, è basata sulla valutazione di alcuni fattori:

- età e condizioni del paziente;

- tipo di frattura;

- disponibilità delle tecnologie e organizzazione della struttura sanitaria in cui viene curato il paziente

- disponibilità delle tecnologie e organizzazione della struttura sanitaria in cui viene curato il paziente.

Per alcuni tipi di frattura la scelta è obbligata; per altre è possibile optare tra diversi tipi di trattamento, che
presentano uguali percentuali di risultati favorevoli.
Terapia non chirurgica

Schematicamente il trattamento della frattura può essere suddiviso in tre fasi:

- riduzione;

- contenzione;

- rieducazione.

Questa distinzione è utile a scopo didattico, tuttavia è opportuno sottolineare che, in rapporto alle modalità di
trattamento prescelte, vi può essere sovrapposizione fra le tre fasi.

Riduzione

La riduzione consiste nel correggere la dislocazione dei frammenti di frattura, riportandoli nella posizione
che essi avevano prima della lesione (riduzione anatomica) o comunque nella posizione più favorevole
possibile.

La riduzione è detta manuale quando è ottenuta con una manovra attuata dalle mani dell’operatore,
strumentale se ottenuta con l’ausilio di appositi strumenti, pratica quest’ultima caduta ormai in disuso.

Può essere inoltre estemporanea, se eseguita al momento, oppure progressiva, se ottenuta esercitando una
trazione continua della frattura. Nel primo caso un trattamento anestetico o la necrosi facilitano la manovra
neutralizzando la contrazione muscolare e la reazione di difesa el paziente, che ostacolano sempre la
riduzione. Nel secondo caso la contrazione muscolare viene vinta da una progressiva trazione sul capo
distale, che permette il riallineamento dei frammenti di frattura. La trazione può essere applicata con un
bendaggio adesivo (trazione a cerotto) , che può permettere però di superare persi di 4 – 5 kg, oppure con un
filo transcheletrico, che trasmette la tensione direttamente all’osso: in questo casi si possono raggiungere pei
di 15 – 15 kg.

L’applicazione del filo transcheletrico richiede il rispetto di tute le regole dell’asepsi. Le sedi classiche cono
il calcagno per le fratture della gamba, la tuberosità tibiale o la zona sovracondiloidea del femore per le
fratture, l’olecrano per le fratture dell’omero. Il filo transcheletrico viene mantenuto in tensione da una
staffa, in modo che la tensione sia distribuita su tuta l’area che attraversa e non solo sulle due corticali, come
avverrebbe se non fosse teso. Per le fratture del rachide cervicale si applica una trazione che utilizza delle
punte che attraversano il tavolato esterno e la diploe e si appoggiano sul tavolato interno delle ossa piatte del
cranio, parietale e frontale (Halo traction e trazione di Crutchfield).

Contenzione

La contenzione ha lo scopo di neutralizzare le sollecitazioni meccaniche sul focolaio di frattura e di


mantenere la riduzione. Il grado di neutralizzazione varia in rapporto al tipo di contenzione: è minimo nella
trazione continua, che può essere mantenuta anche dopo aver ottenuto la riduzione, fino alla consolidazione
della frattura; è invece maggiore con l’utilizzo degli apparecchi gessati, che devono essere però eseguiti in
modo corretto e ben aderenti alla cute.
Rieducazione

La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare è successiva alla rimozione
dell’apparecchio gessato nel trattamento conservativo classico, mentre può essere iniziata gi durante la fase
di contenzione se si utilizza la trazione continua.

Terapia chirurgica

Se viene attuata una terapia chirurgica che comporta l’esposizione del focolaio di frattura, la riduzione viene
eseguita a cielo aperto; in altri casi si può praticare la riduzione manuale o la trazione.
Per la contenzione della frattura si possono utilizzare diversi sistemi, distinguibili in due grandi categorie:
fissazione interna e fissazione esterna.

Fissazione Interna

La fissazione interna può essere realizzata con una sintesi rigida, in cui si utilizzano svariati mezzi di
osteosintesi costituiti da fili, viti libere di diverso passo (da osso corticale oppure spongioso), placche e viti.
Le modalità di applicazione di questi dispositivi sono state codificate in modo dettagliato e nell’esecuzione
dell’intervento chirurgico bisogna seguire queste regole.

Un altro tipo di fissazione interna è rappresentato dall’inchiodamento endomidollare. Anche in questo caso
esistono svariati tipi di infibuli endomidollari, con caratteristiche strutturali peculiari (configurazione,
elasticità, ecc.) per adattarsi alle diverse necessità terapeutiche. .

Fissazione esterna

La fissazione sterna è caratterizzata da fili o fides che penetrano nell’osso a distanza dal focolaio di frattura e
sono stabilizzati tra loro da un sistema di connessione esterna. Essendo le fides solidali ai frammenti di
frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza queste ultime, ma anche i frammenti.

Con questi apparati è possibile diastasare, comprimere, traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo sul
sistema esterno, per cui il fissatore può essere utilizzato per la riduzione. Il recente sviluppo e
perfezionamento di questi dispositivi permette oggi al chirurgo ortopedico di disporre di una grande
variabilità di soluzioni tecniche.

La rieducazione per il recupero della funzione articolare e muscolare con la fissazione interna o esterna è
contemporanea alla fase di contenzione.
COMPLICANZE

Il decorso clinico di una frattura può essere complicato da due gruppi principali di eventi avversi:

- disturbi della consolidazione;

- complicanze associate (regionali o sistemiche).

Disturbi della consolidazione

L’obiettivo del trattamento di ogni frattura è la guarigione dei frammenti ossei in una posizione tale da
garantire una completa ripresa funzionale in assenza di dolore.

I disturbi della consolidazione sono complicanze del processo riparativo che quasi sempre si associano ad un
risultato clinico sfavorevole, richiedendo ulteriori terapie per la loro cura.

Ritardo di consolidazione e Pseudoartrosi

il tempo necessario per ottenere la consolidazione di una frattura varia in rapporto alla sede e al tipo di
lesione, all’età del paziente e alla metodica di trattamento. Sulla base dell’esperienza clinica e tenendo conto
dei fattori sopracitati, è possibile prevedere per ogni singola frattura, in un certo gruppo di età e dopo uno
specifico trattamento, un tempo indicativo necessario per la consolidazione. È opportuno sottolineare che
questo periodo è approssimativo e che anche il giudizio sulla consolidazione di una frattura si presta a una
certa discrezionalità.

La consolidazione dovrebbe comportare una strutturazione del callo osseo, valutata in termini di estensione e
mineralizzazione sui radiogrammi, sufficiente a sopportare le normali sollecitazioni funzionali del segmento
osseo interessato. Da una definizione di questo tipo ne consegue che per considerare guarita una frattura
degli arti inferiori è necessario u grado di strutturazione e di resistenza meccanica del callo osseo molto
maggiore rispetto a una frattura dell’arto superiore, dove le sollecitazioni meccaniche sull’osso sono di
minore entità.

Una volta trascorso il tempo di guarigione presunto per una specifica frattura, l’assenza di elementi
comprovanti la riparazione della lesione configura il cosiddetto ritardo di consolidazione. In questa
situazione è possibile che, seppure in un tempo più lungo, si giunga infine alla consolidazione, talvolta
attuando provvedimenti terapeutici incruenti (sollecitazioni funzionali controllate, terapie fisiche) per
raggiungere lo scopo.

I fattori locali che sembrano avere un ruolo determinate nell’inibire il processo di consolidazione sono:

- l’ampia diastasi dei frammenti di frattura;

- il movimento tra i frammenti;

- l’interposizione di tessuti molli;

- la lesione estesa del periostio;

- l’infezione del focolaio.


Se il processo di guarigione della frattura è compromesso in modo completo e irreversibile, si ha la
pseudoartrosi, definita non solo dal fattore temporale, ma anche da aspetti morfologici. Dal punto di vista
anatomo – patologico la pseudoartrosi si caratterizza per l’interposizione di tessuto fibroso e fibro –
cartilagineo tra i frammenti di frattura: questo tessuto può andare incontro a degenerazione fibrinoide e dare
origine a una pseudocavità articolare tra i frammenti.

L’attività osteogenica periostale ed endostale si esaurisce in una neoproduzione ossea che oblitera il canale
midollare, talvolta formando una mensola alla periferia della diafisi. Lo spessore e l’elasticità del tessuto
fibroso influenzano il grado di motilità preternaturale, che differenzia la pseudoartrosi lassa da quella
serrata.

Radiograficamente i frammenti ossei possono apparire ravvicinati e slargati alle loro estremità oppure
distanti e riassorbiti: tali aspetti, che rispecchiano modalità patogenetiche diverse del disturbo di
consolidazione, permettono di distinguere la pseudoartrosi in ipertrofica, atrofica e oligotrofica
(quest’ultima con caratteristiche intermedia rispetto alle precedenti).

La mancata guarigione della frattura comporta la perdita della normale resistenza meccanica del segmento
scheletrico e si traduce in quadri clinici di diversa gravità in base alla sede interessata. La motilità
preternaturale, più o meno accentuata in base alle caratteristiche della pseudoartrosi, si accompagna di solito
a dolore e impotenza funzionale.

La terapia è chirurgica ed è guidata dai seguenti principi:

- rimuovere il tessuto fibroso, fibro – cartilagineo e necrotico interposto fra i frammenti ossei;

- favorire la rivascolarizzazione, ripristinando la pervietà del canale midollare;

- portare a contatto i capi di frattura e realizzare una fissazione stabile degli stessi;

- colmare la perdita di sostanza ossea con materiale biologico a componente cellulare osteogenica
(autotrapianto osseo, cellule mesenchimali) oppure con materiale biologico e sostanze osteoinducenti
(allotrapianto, Bone Morphologenetic protein o BMP);

- se si utilizzano fissatori esterni, stimolare una ripresa dell’attività osteogenica con la


distrazione/compressione meccanica della pseudoartrosi.

Viziosa consolidazione

Questo disturbo della consolidazione si verifica quando i frammenti di frattura guariscono in posizione non
corretta, esitando in deformità con rilevanza clinico – funzionale e/o estetica. Le viziose consolidazioni
possono causare l’angolazione (in valgo, varo, recurvato o procurvato), l’allungamento, l’accorciamento o la
rotazione dell’osso fratturato.

La terapia chirurgica è giustificata dalla presenza di disturbi clinicamente rilevanti e si basa sull’esecuzione
di osteotomie correttive. In questi interventi, volti a ripristinare una normale morfologia scheletrica, si pratica
una frattura chirurgica dell’osso malconsolidato con appositi strumenti, quindi si stabilizzano i frammenti
nella posizione desiderata con mezzi di osteosintesi diversi.
Complicanze associate

Come conseguenza di una frattura si possono osservare diverse lesioni associate, che coinvolgono strutture
adiacenti all’osso fratturato (complicanze regionali) fino a coinvolgere l’organismo in toto (complicanze
sistemiche). Da un punto di vista didattico si distinguono complicanze precoci e tardive.

Complicanze precoci

In questa categoria rientrano tutte quelle condizioni che si presentano al momento del trauma o nei giorni
immediatamente successivi a esso. Comprendono:

- le lesioni locali cutanee, capsulo – legamentose, vascolari e nervose;

- le sindromi compartimentali;

- patologie sistemiche, quali la malattia tromboembolica, l’embolia gassosa, l’insufficienza


respiratoria acuta (ARDS). La disfunzione multiorgano (MODS), lo shock emorragico, il tetano e la
gangrena gassosa.

Complicanze acute locali. Le complicanze acute locali (cutanee, capsulo – legamentose, vascolari e
nervose) vanno sempre ricercate durante la visita iniziale per escludere lesioni iatrogene causate da una non
corretta esecuzione delle manovre di riduzione o delle procedure chirurgiche, e sono specifiche del distretto
corporeo coinvolto. Esempi sono la lesione del nervo radiale in una frattura diafisaria dell’omeo oppure
lesioni dell’arteria poplitea per fratture – lussazioni del ginocchio.

Sindromi compartimentali. Le sindromi compartimentali sono entità cliniche caratterizzate dalla sofferenza
ischemica dei tessuti contenuti in alcuni compartimenti anatomici a pareti inestensibili, per effetto di
un’elevazione della pressione tissutale al loro interno. Tale fenomeno può essere causato da un aumento del
contenuto (emorragia, edema, infiammazione, ecc.) o da una compressione esterna (bendaggi stretti).

La sindrome di Volkmann è la sindrome compartimentale che colpisce le strutture contenute nella loggia
anteriore dell’avambraccio.

La diagnosi di sindrome compartimentale può essere difficile e deve essere tempestiva, al fine di evitare
danni anatomici irreversibili. Il sospetto deve insorgere in tutti i casi di tumefazione, dolore sproporzionato a
tensione cutanea, soprattutto se associati a iperestesie nel territorio di distribuzione dei nervi.

Il trattamento è essenzialmente legato alla decompressione, rimuovendo eventuali compressioni esterne e/o
eseguendo in urgenza una fasciotomia.

Malattia tromboembolica. La tromboembolia è una delle complicanze più frequenti in ambito ortopedico:
soprattutto la trombosi venosa profonda (TVP) prossimale degli arti inferiori espone a un rischio elevato di
embolia polmonare. Questa condizione è legata sia al trauma (lesione endoteliale nella triade di Virchow) sia
all’immobilità (stasi) e può essere favorita da una predisposizione individuale (ipercoagulabilità).

Clinicamente la TVP può essere del tutto silente e deve essere ricercata con il classico segno di Homans
(flessione dorsale el piede ad arto esteso) e valutando la dolorabilità dalla palpazione locale.

L’embolia polmonare si rende evidente con “fase d’aria”, dispnea, tosse, tachipnea, tachicardia, fino ai casi
più eclatanti di collasso cardio – polmonare.
La diagnosi strumentale della TVP si avvale dell’eco – color – Doppler; l’embolia, sospettata in presenza di
alterazioni dell’emogasanalisi (abbassamento di pO2 arteriosa) ed elettrocardiografiche (tachicardia e
inversione delle onde T nelle derivazioni anteriori), può essere identificata con una scintigrafia polmonare
ventilatoria e perfusoria o con un’angio – TC.

Per la specifica terapia, si ricorda la necessità di effettuare sempre la prevenzione con eparine a basso peso
molecolare in alcune fratture (rachide, bacino, arti inferiori), sempre che non vi sia un elevato rischio
emorragico.

Embolia grassosa. L’embolia grassosa (o adiposa) è una complicanza meno frequente, più spesso
conseguente a traumi pelvici, fratture di ossa lunghe (diafisi femorale) e alesaggio endomidollare (procedura
eseguita per l’inserimento di chiodi nel canale diafisario durante l’osteosintesi di fratture). È dovuta al
passaggio in circolo di globuli di grasso che vanno a ostruire arteriole e capillari di polmoni, cervello, reni e
cute.

La sintomatologia varia in base alla sede: spesso si presenta con dispnea, cianosi, confusione, vertigini,
eruzioni petecchiali fino al coma.

Anche in questo caso è fondamentale la prevenzione con trattamento precoce e appropriato della frattura
(riducendo al minimo la mobilità dei frammenti), mantenimento dei liquidi, monitoraggio dell’equilibrio
elettrolitico e ossigenazione sanguigna.

Il trattamento è di competenza rianimatoria, volto al sostegno delle funzioni vitali fino alla risoluzione della
fase acuta.

Complicanze tardive

Le possibili complicanze a comparsa tardiva includono l’artrosi post – traumatica, la necrosi avascolare, le
ossificazioni eterotopiche, l’algodistrofia, l’osteomielite e tutte le possibili complicanze legate al mezzo di
sintesi utilizzato (rottura, mobilizzazione, ecc.) e all’allettamento prolungato (piaghe da decubito, infezioni
polmonari e urinarie, malattia tromboembolica).

Artrosi post – traumatica. È dovuta alle incongruenze post – traumatiche delle superfici articolari, alla
presenza di frammenti liberi intrarticolari e al lungo periodo di immobilizzazione. Per questo motivo le
fratture articolari, quelle in cui la rima si estende fino alla superficie cartilaginea, sono le più difficili da
trattare.

Necrosi avascolare post – traumatica. Va sospettata in tuti quei casi in cui il dolore e l’invalidità si
protraggono più del dovuto durante il periodo di convalescenza, cioè tra le 8 settimane e i 2 anni.

Alcune sedi scheletriche sono predisposte in modo particolare a questa complicanza post – traumatica, per la
presenza di una vascolarizzazione di tipo terminale: testa del femore, testa dell’omero, scafoide carpale e
astragalo.

Se le misure adottate per prevenire la necrosi tissutale risultano inefficaci, l’evoluzione verso l’artrosi post
-traumatica è pressoché inevitabile e il trattamento sarà rivolto alla correzione degli esiti (protesi articolari,
artrodesi, ecc.).

Ossificazioni eterotopiche. Si tratta di formazioni ossee che si vengono a formare nei tessuti posti in
prossimità di fratture, più spesso di gomito, anca e spalla. La loro incidenza è maggiore in caso di riduzione
cruenta e fissazione interna delle fratture. Altre condizioni favorenti sono rappresentate dal ritardo
nell’intervento, da concomitanti lesioni del sistema nervoso centrale (traumi cranici) e dal sesso maschile. Le
misure preventive nelle fratture a rischio includono l’utilizzo di FANS (indometacina) o la terapia radiante a
basse dosi; ossificazioni eterotopiche responsabili di limitazioni funzionali richiedono l’escissione
chirurgica.

Algodistrofia. Rappresenta una sindrome clinica caratterizzata dall’associazione di sintomatologia dolorosa


e impotenza funzionale di una porzione dell’arto con disturbi vasomotori e trofici dei tessuti molli e dello
scheletro.

Il termine atrofia o morbo di Sudek è utilizzato per indicare la localizzazione all’arto inferiore (piede e
gamba). Il processo algodistrofico, oggi denominato sindrome dolora regionale complessa, coinvolge perciò
tutti i tessuti di un determinato segmento e ciò da ragione del suo polimorfismo sia sul piano clinico sia sul
piano radiografico.

Il trattamento è in genere fisioterapico, supportato dalla terapia medica a base di FANS, benzodiazepine e
difosfonati.

Osteomielite. Un processo suppurativo del midollo osseo con coinvolgimento secondario del tessuto
scheletrico rappresenta un’evenienza frequente nelle fratture esposte. La patogenesi dell’infezione è legata
all’inoculazione diretta di microrganismi dall’ambiente esterno. L’osteomielite può anche derivare dalla
contaminazione del campo operatorio al momento dell’intervento di osteosintesi. La presenza di mezzi di
sintesi interni rende particolarmente difficile l’eradicazione dell’infezione scheletrica.

DISTACCHI EPIFISARI

I distacchi epifisari sono fratture la cui rima passa, del tutto o in parte, attraverso la cartilagine di
accrescimento (o fisi). Questa struttura rappresenta un punto di minore resistenza alle sollecitazioni
traumatiche che possono agire sullo scheletro del bambino e dell’adolescente. Il distacco può coinvolgere un
nucleo di accrescimento epifisario (alle estremità delle ossa lunghe) o apofisario (per esempio epitroclea
omerale tuberosità tibiale, ecc.).

Si possono distinguere:

- distacchi puri, ne quali la rima di frattura interessa esclusivamente la fisi;

- distacchi misti, nei quali la soluzione di continuo si estende al tessuto osseo contiguo.

Le sedi scheletriche più frequentemente interessate sono l’epifisi distale del radio (prima in assoluto), quella
prossimale dell’omero, il condilo omerale esterno e l’epifisi distale ella tibia.

Classificazione

La classificazione di Salter – Harris prevede la distinzione dei distacchi epifisari in cinque tipi, in rapporto
al decorso della rima di frattura a livello metaepifisario. Tale classificazione ha importanti risvolti dal punto
di vista terapeutico e prognostico.

- Tipo I. i distacchi epifisari di questo tipo sono lesioni pure della cartilagine di accrescimento, mentre
le componenti ossee epifisarie e metafisarie non sono attraversate dalla rima di frattura.
Tali lesioni possono presentarsi con diversi gradi di scomposizione e vanno ridotte tempestivamente
per evitare il ricorso alla riduzione a cielo aperto; il periodo di contenzione è compreso fra le 3 e le 4
settimane.

La prognosi è di regola favorevole, poiché la rima di frattura tende a non interessare lo strato
proliferativo della fisi, localizzandosi nello strato degenerativo calcifico, e non vi è invasione di vasi
sanguigni al suo interno.

- Tipo II. In questo caso oltre alla lesione della cartilagine, si osserva il distacco di un frammento
osseo metafisario. Rappresenta il tipo più comune di distacco epifisario e, in presenza di grossi
frammenti e ampie superfici coinvolte, è preferibile ricorrere al trattamento chirurgico per evitare
disturbi della crescita in sede di lesione.
Come il tipo I, la prognosi è in genere favorevole.

- Tipo III. Questo tipo di lesione interessa più spesso cartilagini di accrescimento in via di chiusura,
con sede preferenziale a livello della tibia distale. La rima di frattura si porta dalla cartilagine di
accrescimento all’epifisi, raggiungendo il cavo articolare. Pur eseguendo una riduzione ottimale,
indispensabile nelle fratture articolari, la lesione ha una prognosi più sfavorevole rispetto ai tipi
precedenti (in caso di cartilagine ancora fertile) a causa dell’interessamento dello strato cartilagineo
proliferativo, situato sul versante epifisario della fisi, e al possibile attraversamento di vasi
sanguigni.

- Tipo IV. La rima di frattura attraversa la superficie articolare, l’epifisi, la cartilagine di


accrescimento e la metafisi. Le sedi preferenziali sono rappresentate dal condilo laterale dell’omero
(con rischio di sviluppo di deformità in valgismo del gomito se non trattato in modo adeguato) e dal
malleolo tibiale.

- Tipo V. costituisce la lesione meno facilmente identificabile e nello stesso tempo quella con la
prognosi più sfavorevole. Il distacco epifisario di tipo V si verifica per schiacciamento della fisi, con
conseguente danno anatomo – funzionale irreversibile della porzione di cartilagine interessata;
spesso tale lesione viene individuata solo nel momento in cui si manifesta il disturbo della crescita.

Complicanze

La più tipica complicanza dei distacchi epifisari è l’epifisiodesi, ovvero la formazione di un ponte osseo
transfisario che determina la chiusura parziale o totale della cartilagine di accrescimento.

Questo evento sfavorevole si può tradurre in due diversi disturbi della crescita scheletrica:

- Arresto simmetrico, con la ridotta lunghezza dell’arto, in caso di fusione metaepifisaria totale o
centrale;

- Arresto asimmetrico, con deviazione angolare dell’arto, in caso di funzione metaepifisaria periferica
di un osso o in caso di fusione di un singolo osso a livello di avambraccio e gamba.
Terapia

L’esito del trattamento è influenzato da tre fattori:

- Tipo di lesione (prognosi peggiore nei tipi III, IV e V);

- Tempestività della diagnosi;

- Adeguatezza della terapia

Il riconoscimento e l’inquadramento della lesione sono ottenuti con l’esecuzione di uno studio radiografico
preciso, includendo talvolta radiogrammi comparativi dell’arto controlaterale e ricorrendo a metodiche
panesploranti (TC o RM).

Una terapia corretta non può prescindere dalla riduzione anatomica della fisi, che può essere poi contenuta
con apparecchi gessati o stabilizzata con mezzi di intesi poco invasivi (fili di Kirchner) per evitare un danno
iatrogeno della cartilagine di accrescimento.

Tentativi di riduzione ritardata rischiano di peggiorare il quadro anatomo -clinico, in virtù della rapidità con
cui inizia il processo di consolidazione.

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