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Università degli studi di Salerno

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di laurea in Filosofia

PROBLEMI ED APORIE ELEATICHE


NEL PENSIERO DI ARISTOTELE
Tesi in Filosofia antica e tardo - antica

RELATORE: CANDIDATO:

Ch.mo Prof. Michele Abbate Enrico Volpe

Matricola: 0322600385

CORRELATORE:

Ch.mo Prof. Franco Ferrari

Anno Accademico 2013-2014


Introduzione

Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di analizzare alcune tra le questioni filosofico-

ontologiche più rilevanti elaborate da Parmenide e dai suoi seguaci Zenone e Melisso, cercando

di comprendere, attraverso un‟esegesi dei passi più significativi delle opere dello Stagirita, in

quale misura tali problematiche siano state recepite da Aristotele.

La difficoltà maggiore che Aristotele riscontra nella fondazione di una scienza dell‟ente in

movimento è quella di dover giustificare teoreticamente il cambiamento e il divenire, e i

pensatori che hanno mostrato il carattere intrinsecamente problematico de concetto stesso di

kinesis sono stati proprio gli Eleati. Il testo aristotelico a cui si è fatto maggiormente riferimento

per una analisi della interpretazione aristotelica del pensiero eleatico è, per le ragioni appena

esposte, la Fisica.

Nel primo capitolo sono stati presi in considerazione alcuni tra quelli che appaiono come i passi

più significativi della Fisica in merito ad un confronto con la filosofia eleatica: i passi di

riferimento sono tratti, soprattutto, dal libro I, in cui Aristotele cita e critica esplicitamente

Parmenide e Melisso (dei paradossi di Zenone lo Stagirita si occuperà altrove, come vedremo).

L‟obiettivo perseguito nel capitolo I è quello di comprendere, attraverso un‟analisi critica,

l‟effettiva validità della critica aristotelica agli Eleati, verificandone le effettive ed eventuali

forzature operate dallo Stagirita. Stando alle parole di Aristotele, l‟errore fondamentale

commesso da Parmenide e Melisso è stato quello di assumere delle premesse false come punto di

partenza della loro argomentazione, da cui sarebbero poi scaturite necessariamente assurdità

conseguenti; inoltre, a livello ontologico, il maggiore errore di Parmenide e Melisso sarebbe

stato quello di concepire l‟essere (to eon) in maniera univoca, ovvero in senso assoluto (l‟essere

è e non può non essere, parafrasando i versi del Poema parmenideo), mentre, secondo Aristotele,

l‟essere si dice in molti modi. Infine, in riferimento a quanto affermato nel De generatione et
corruptione, gli Eleati si rivelerebbero addirittura “folli” agli occhi dello Stagirita, poiché hanno

cercato di indagare la realtà facendo leva unicamente sul pensiero e escludendo completamente

la validità del dato sensibile. Il capitolo I prende dunque spunto dai passi aristotelici per

dimostrare come lo Stagirita tenti di confutare gli Eleati partendo da premesse che non sono però

assolutamente compatibili con il loro pensiero, nel senso che, assumendo come premessa i

molteplici significati dell‟essere, la critica agli Eleati risulta sostanzialmente incompatibile con le

loro premesse filosofiche.

Il secondo capitolo prende spunto da quella che è una mia personale linea interpretativa del

pensiero di Parmenide in merito all‟essere, ma, soprattutto, alle doxai. In base a tale linea

interpretativa viene rivalutata la figura del “Parmenide scienziato”, fondata in buona parte sulle

testimonianze storiche: essa, pur essendo stata in buona misura accantonata dai maggiori studiosi

del Novecento, sta ritornando sempre più in auge negli studi più recenti.. Per quanto riguarda

Parmenide, si è cercato di dimostrare come l‟intero scopo del poema sia quello di mostrare una

sostanziale “compatibilità” tra aletheia e doxa. Parmenide, profondo conoscitore di quelle che

erano le teorie cosmologiche e, in generale, naturalistiche dell‟epoca, ha de facto constatato un

sostanziale carattere di perfettibilità nelle teorie “scientifiche” arcaiche. Sotto questo aspetto

sento di condividere in gran parte la lettura delle doxai proposta da K. R. Popper che coglie un

sostanziale “scetticismo” in Parmenide, il quale avrebbe individuato nelle opinioni dei mortali il

fulcro di un sapere mai definitivo e sempre perfettibile. In virtù di ciò lo sforzo del vero sapiente

sarebbe quello di rileggere la realtà sulla base del puro pensiero (quindi alla luce di un‟ontologia

logocentrica); solo una volta acquisita la conoscenza dell‟essere puro, risulta possibile

comprendere non solo che i mortali si sono ingannati, ma anche quale sia la natura stessa del loro

errore, ovvero quello di aver posto come principi originari due entità opposte, che sono alla base

del molteplice della differenza. Giunto a tale consapevolezza, il filosofo non si lascerà più

ingannare dalle opinioni, in quanto ha ormai raggiunto la conoscenza del vero. In questa
prospettiva, allora, le cosmologie esposte nella seconda parte del poema rappresentano solo le

più attendibili, potremmo dire, teorie per orientarsi nel mondo sensibile. Lo scopo di questa

analisi è stato anche quello di mostrare che, in Parmenide, solo a partire dall‟autentico concetto

di essere è possibile determinare la natura del mondo fenomenico e comprendere la natura

dell‟errore che lo caratterizza.

Aristotele, invece, nella sua fondazione della scienza, prende le mosse da ciò che è primo per

noi, ovvero dall‟evidenza del fenomenico; questo è il presupposto per determinare ciò che è

primo per natura, vale a dire i principi, che non sono immediatamente evidenti. Nel contesto

della Fisica, l‟evidenza è fornita dal movimento, dalla kinesis, che de facto si rivela

immediatamente evidente e, perciò, inconfutabile; mantenendo sullo sfondo il fatto che per

Aristotele nessuna dimostrazione può procedere all‟infinito, ma è necessario presupporre sempre

un elemento dato, ecco che la fondazione dei principi, nella Fisica, parte necessariamente

dall‟evidenza del mondo fenomenico per risalire per gradi ai principi primi. Si è quindi mostrato

come il metodo epistemico-filosofico impiegato da Aristotele risulti agli antipodi rispetto a

quello dell‟Eleatismo. Infine, si è esaminato quello che si delinea come una sorta di parallelismo

tra il principio di identità, che ha in Parmenide un importante precursore, ed il principio di non

contraddizione enunciato nella Metafisica. Benché in Parmenide il principio di identità non sia

formulato esplicitamente, è pur vero che esso è alla base dell‟espressione l‟identità dell‟essere

con sé stesso: esso ha quindi in Parmenide un valore prettamente ontologico e non logico-

formale; ovviamente, la concezione parmenidea dell‟auto-identità dell‟essere non è compatibile

con la realtà in divenire. Per quanto riguarda Aristotele, la questione viene posta, a mio avviso,

in modo assai simile: nel mantenere sullo sfondo la continuità e la perpetuità del divenire, non è

possibile comunque ammettere, nel mondo fenomenico, una identità perfetta, poiché, proprio in

virtù del divenire, una cosa non sarà mai uguale a sé stessa se non formalmente. Da ciò si ricava

che, essendo il principio di non contraddizione una legge del pensiero (ed un corollario del

principio di identità), esso non riesce a giustificarsi e a valere appieno nel divenire; dunque il
problema del rapporto tra pensiero e divenire ritorna a manifestarsi anche in Aristotele, senza che

si possa parlare di un effettivo e sostanziale superamento dell‟intera questione.

Per concludere, il terzo capitolo si propone di confrontare i concetti di tempo, infinito e continuo

quali vengono concepiti rispettivamente dagli Eleati e da Aristotele. Per quanto riguarda la

concezione parmenidea del tempo, particolarmente rilevante è il v. 5 del fr. 8, ove compare

l‟avverbio di tempo λῦλ (ora). L‟interpretazione qui proposta intende mettere in luce come l‟ora

rivelerebbe in Parmenide un‟effettiva determinazione dell‟essere in senso temporale, mentre la

maggior parte degli studiosi intende l‟essere parmenideo come non collocato nel tempo. Proprio

il v. 5, a mio avviso, mostra come l‟essere di Parmenide risulti temporalmente determinato, ma

nella forma di un eterno presente sempre uguale a se stesso non fuori dal tempo, ovvero come un

istante invariato ed invariabile. L'analisi si focalizza poi sul IV libro della Fisica aristotelica, nel

quale viene sviluppato il concetto di tempo: secondo lo Stagirita, l‟istante non è in alcun modo

qualcosa di effettivamente tangibile, in quanto viene visto solo come medio tra passato e futuro,

essendo il tempo per sua natura continuo: è chiaro che la prospettiva dello Stagirita analizza il

tempo sulla base del divenire, ma, in questo modo, la natura dell‟istante non può trovare

collocazione nel divenire: anche in Aristotele, dunque, sembra in parte rimanere ancora aperta la

cosiddetta aporia dell‟istante. Infine, nell‟ultima parte del presente elaborato, viene posta

l‟attenzione sui concetti di infinito e continuo sviluppati da Aristotele nei libri III e VI della

Fisica, parallelamente alla critiche che lo Stagirita muove ai paradossi di Zenone contro il

movimento. Si è cercato di dimostrare come la critica di Aristotele non sia sempre perfettamente

pertinente alle argomentazioni originarie di Zenone, soprattutto per quanto riguarda il paradosso

della dicotomia: il problema inerente il rapporto fra tempo, continuo e movimento viene

affrontato dallo Stagirita alla luce dei concetti di continuo ed infinito da lui elaborati, concetti

che sono del tutto incompatibili con la prospettiva filosofico-argomentativa zenoniana.


CAPITOLO PRIMO:

LA RICEZIONE DELL’ELEATISMO IN ARISTOTELE.

La ricostruzione aristotelica del pensiero eleatico.

Si può affermare che l‟inizio della storia del pensiero occidentale coincida con l‟inizio della

riflessione intorno alla physis1. E‟ ben noto, infatti, che almeno fino all‟avvento della sofistica,

gli sforzi degli autori presocratici furono volti quasi esclusivamente alla ricerca di una ἀρχὴ τῶν

πάντων2, ovvero di un principio di tutte le cose. In poche parole, è possibile ricondurre la

riflessione dei primi presocratici intorno alla natura alla ricerca di un principio (o di più principi,

come si vedrà) che desse conto dell‟intera realtà fenomenica.

La ricerca intorno ai principi del movimento è anche il contenuto della Fisica3 di Aristotele, la

quale occupa, insieme con la filosofia prima e la matematica4, il rango di scienza teoretica5:

compito del fisico, stando a quanto scrive lo Stagirita, è quello di studiare un genere particolare

dell‟essere (e non l‟ “essere in quanto essere”, oggetto della filosofia prima), cioè l‟ente in

movimento, ovvero quelle sostanze intese come forme in quanto non separate dalla materia

(sinoli) e che, infine, possiedono esse stesse il principio del movimento e della quiete:

1
Cfr. Donini – Ferrari, L‟esercizio della ragione nel mondo classico, Einaudi, Torino 2005.
2
Tuttavia, il termine principio (arche), come si vedrà in seguito, (secondo l‟etimologia della parola stessa come
causa di qualcosa e come relazione con ciò che da esso è principiato) è problematica da accogliere all‟interno del
sistema di pensiero degli Eleati, per i quali la nozione stessa di principio risulta inconciliabile nel contesto della loro
Weltanschauung.
3
La Fisica di Aristotele (in otto libri), secondo quanto scrive L. Ruggiu, sarebbe stata pensata come una serie di
lezioni introduttive a trattazioni di natura più specifica quali il De Anima, il De Coelo, i Meteorologica e il De
generatione et corruptione, oltre agli scritti di botanica e di zoologia. L‟intero insieme di questi testi
rappresenterebbe un corpus di lezioni unitario all‟interno del Peripato. Facendo riferimento ad un passo dei
Meteorologica (I, 1, 338 a 20 – 339 a 9), scrive Ruggiu: “Quest‟insieme di libri potrebbe spiegare la presenza di
un‟opera intitolata physike akroasis in 18 libri – quanti sono appunto i libri che compongono l‟insieme di queste
opere -, ricordata in un catalogo delle opere di Aristotele”. Cfr. Luigi Ruggiu, La Fisica come ontologia del divenire,
saggio introduttivo ad Aristotele, Fisica, Mimesis, Milano 2007, pag. XX.
4
Sulla natura della matematica e sul suo rapporto con la scienza fisica, Aristotele si soffermerà sia in Metaph. E, 1,
1026 a 7 – 10 sia in Phy. II, 193 b 22 – 194 a 12.
5
Cfr. Metaph., E, 1; dove si trova la celeberrima distinzione aristotelica delle scienze in teoretiche, pratiche e
poietiche.
ἐπεὶ δὲ ραὶ ἡ θπζθὴ ἐπηζηήκε ηπγράλεη νὖζα πεξὶ γέλνο ηη ηνῦ ὄληνο (πεξὶ γὰξ ηὴλ ηνηαύηελ ἐζηὶλ νὐζίαλ ἐλ ᾖ
ἡἀξρὴ ηῆο θηλήζεσο ραὶ ζηάζεσο ἐλ αὐηῇ), δῆινλ ὅηη νὔηε πξαθηηθή ἐζηηλ νὔηε πνηεηηθή […] ὥζηε εἰ πᾶζα δηάλνηα
ἢ πξαθηηθὴ ἢ πνηεηηθὴ ἢ ζεσξεηηθή, ἡ θπζηθὴ ζεσξεηηθή ηηο ἂλ εἴελ, ἀιιὰ ζεσξεηηθὴ πεξὶ ηνηῦηνλ ὂλ ὅ ἐζηη
δπλαηὸλ θηλεῖζζαη, θαὶ πεξὶ νὐζίαλ ηὴλ θαηὰ ηὸλ ιόγνλ ὡο ἐπὶ ηὸ πνιὺ νὐ ρνξηζηὴλ κόλνλ6.

Nel primo capitolo del libro E della Metafisica, dunque, viene delineato quello che è il quadro

delle scienze secondo Aristotele, in particolare egli si sofferma nel chiarire quale sia l‟oggetto di

ricerca proprio del fisico. Nella Fisica invece, abbiamo la vera e propria esposizione dottrinale di

questo ambito di studio intorno all‟ente in movimento con l‟individuazione e l‟analisi di quelli

che sono i principi primi del divenire in generale.

All‟interno dell‟orizzonte di ricerca tipico di Aristotele, l‟indagine sui principi muove, in senso

critico, da quelle che sono le opinioni dei predecessori in merito al problema che si sta

affrontando: “i primi filosofi vengono chiamati come „testimoni‟; essi debbono testimoniare con

la loro opera che la nostra filosofia imbocca la loro stessa via, riprendendo e proseguendo ciò che

essi hanno incominciato”7; viene da sé allora che la Fisica, in quanto ha come suo oggetto di

indagine l‟essere in divenire, non può fare a meno di confrontarsi con l‟intera tradizione arcaica8

che sulla physis ed i suoi principi fondativi si è a lungo interrogata.

6
Cfr. Metaph. E, 1, 1025 b 18 -21 e 1025 b 25 – 28: “Ora, anche la scienza fisica tratta di un genere particolare
dell‟essere: tratta, precisamente, di quel genere di sostanza che contiene in sé medesima il principio del movimento
e della quiete […]Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, ma conoscenza teoretica
di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente
considerata come non separabile dalla materia.” La traduzione di tutti i passi della Metafisica riportati nel presente
lavoro fanno riferimento all‟edizione curata da G. Reale. Cfr. Aristotele, G. Reale (a cura di), Metafisica, Bompiani,
Milano 2000.
7
Cfr. J. Ritter, Metafisica e politica, Marietti, Genova 1983, pag. 34. L‟idea di partenza di Ritter è che nella
riproposizione delle dottrine precedenti vi sia la ricerca di una strada, di una via (methodos) che conduce alla scienza
che così deve essere fondata (il riferimento è alla ricostruzione dossografica del libro A della Metafisica, ma si può
estendere a tutte le volte che lo Stagirita compie operazioni di recupero delle filosofie arcaiche). “Methodos ha
ancora per Aristotele il senso del tutto concreto di “via”. La filosofia è la via che conduce alla partecipazione alla
verità che essa rende conoscibile e al tipo di vita filosofico che è conforme a questa verità”. Cfr. pag. 33. Il tema
della “via” (hodos) di ricerca è un tema sviluppato precedentemente, tra l‟altro, anche dallo stesso Parmenide nel
proemio al poema “Sulla Natura”: sul tema della “via” in Parmenide rimando a M. Abbate, Parmenide e i
Neoplatonici, ed. Dell‟Orso, Alessandria 2010, (cap. I) ed a L. Ruggiu, L‟altro Parmenide, saggio introduttivo a
Parmenide, Poema sulla Natura, Bompiani, Milano 2003.
8
Secondo quanto sostiene Ritter, Aristotele crede che anche i pensatori arcaici (quelli che lui chiama gli “antichi”),
nello sviluppare le loro dottrine, abbiano preso le mosse da una tradizione a loro precedente e che possiamo
identificare con il sapere magico – sacerdotale di matrice omerica e con il sapere religioso che risentirebbe in parte
anche della cultura egiziana. Per Ritter, così come Aristotele ha fatto riferimento ai predecessori, questi ultimi a loro
volta agivano sullo sfondo di una certa tradizione, che è identificabile con quella poetico – religiosa dell‟età arcaica:
“Ciò significa che la filosofia presuppone e raccoglie da parte sua una tradizione che è più vecchia di lei” (Cfr.
Ritter, Op. cit., pag. 37) […] Il concetto di theoria (che Ritter riconduce all‟originario utilizzo in ambito teologico –
Prima di enunciare la natura e il numero dei principi del movimento9 risulta decisivo, secondo lo

Stagirita, capire in che modo i predecessori abbiano affrontato la questione e quanti e quali siano

i principi che da essi furono individuati: l‟analisi delle opinioni dei predecessori inizia in Phy. I,

prendendo le mosse dalla domanda fondamentale su quali e quanti siano i principi secondo i

primi pensatori:

Ἀλάγθε δ‟ ἤηνη κίαλ εἶλαη ηὴλ ἀξρὴλ ἢ πιείνπο, θαὶ εἰ κίαλ, ἤηνη ἀθίλεηνλ, ὥο θεζη Παξκελίδεο θαὶ Μέιηζζνο, ἢ
θηλνζκέλελ, ὥζπεξ νἱ θπζηθνί, νἱ κὲλ ἀέξα θάζθνληεο εἶλαη νἱ δ‟ ὕδσξ ηὴλ πξώηελ ἀξρήλ· εἰ δὲ πιείνπο, ἢ
πεπεξαζκέλαο ἢ άπείξνπο, θαὶ εἰ πεπεαζκέλαο πιείνπο δὲ κηᾶο, ἢ δύν ἢ ηξεῖο ἢ ηέηηαξαο ἢ ἄιινλ ηηλὰ ἀξηζκόλ, θαὶ
εἰ ἀπείξνπο, ἢ νὕησο ὥζπεξ Δεκόθξηηνο, ηὸ γέλνο ἕλ, ζρήκαηη δὲ <δηαθεξνύζαο>, ἢ εἵδεη δηαθεξνύζαο ἢ θαὶ
ἐλαληίαο. […] ηὸ κὲλ νὖλ εἰ ἓλ θαὶ ἀθίλεηνλ ηὸ ὂλ ζθνπεῖλ νὐ πεξὶ θύζεώο ἐζηη ζθνπεῖλ· ὥζπεξ γὰξ θαὶ ηῷ
γεσκέηξῃ νὐθέηη ιόγνο ἔζηη πξὸο ηὸλ ἀλειόληα ηὰο ἀξράο, ἀιι᾿ ἤηνη ἑηέξαο ἐπηζηήκεο ἢ παζῶλ θνηλῆο, νὕησο νὐδὲ
ηῷ πεξὶ ἀξρῶλ· νὐ γὰξ ἔηη ἀξρὴ ἔζηηλ, εἰ ἓλ κόλνλ θαὶ νὕησο ἓλ ἔζηηλ. ἡ γὰξ ἀξρὴ ηηλὸο ἢ ηηλῶλ.10

La riflessione di Aristotele qui riportata è volta dunque ad analizzare le diverse opinioni dei

filosofi presocratici. In particolare lo Stagirita pone l‟accento sugli esiti dell‟indagine sui principi

svolta da costoro. Nello specifico, i riferimenti sono a coloro che hanno posto più di un principio,

e cioè i Pitagorici ed i Platonici11 (principi di numero finito), oppure un‟infinità di principi

arcaico, come mera contemplazione del divino, escludendo quindi la componente filosofico – razionale, cui fa
derivare il concetto aristotelico di “scienza teoretica”, benché in tutt‟altra accezione rispetto all‟età arcaica), implica
così, in Aristotele, che la filosofia, nel suo volgersi all‟essere, rimane rapportata al divino della tradizione poetica
pre – filosofica. Come tale viene perciò detta anch‟essa “teologia” o „scienza teologica‟ (Metaph. VI 1, 1026 a 19)”.
Cfr. pag. 39. Il rapporto tra filosofia ed il sapere magico sacrale è tema ricorrente anche in numerosi dialoghi
platonici, su tutti il Cratilo, lo Jone, e l‟Eutifrone.
9
In Aristotele il termine kinesis è utilizzato per definire il movimento “spaziale”, accanto a questo termine si trova
anche metabole che assume dei contorni diversi non affrontabili in questa sede. Aristotele individua quattro maniere
secondo cui il divenire si manifesta: secondo il luogo (traslazione), secondo la quantità (aumento e diminuzione),
secondo la qualità (alterazione) ed infine secondo la sostanza (generazione e corruzione).
10
Cfr. Phy.,I 1, 184 b 15 – 22, 184 b 26 - 185 a 1 – 5. La traduzione proposta per tutti i passi della Fisica nel
presente elaborato è quella di L. Ruggiu, op. cit.: “Il principio è necessariamente uno o più di uno; se è uno, è
necessario che esso sia immobile, come dicono tanto Parmenide quanto Melisso, oppure in movimento, come
sostengono i “fisici”. Tra questi, gli uni affermano che il principio primo è l‟aria, mentre altri indicano come
principio l‟acqua. Se invece saranno molti, i principi potranno essere allora o in numero finito o in numero infinito;
se sono in numero finito e comunque più di uno, essi saranno due o tre o quattro o qualunque altro numero. Mentre
se sono di numero infinito, come afferma Democrito, faranno parte di un unico genere, e si differenzieranno fra loro
per disposizione o per forma, oppure saranno differenti per specie e tra loro contrari. […] Ricercare invece se
l‟essere sia uno e immobile non è compito certo dell‟indagine sulla natura. Allo stesso modo non tocca a colui che si
occupa di geometria far valere le sue ragioni contro colui che ne nega i principi: questo è infatti compito o di una
scienza diversa, oppure di una scienza comune a tutte. Giacché non v‟è principio, se questo è solo “uno” e per giunta
un “uno” di questo tipo. Il principio infatti è sempre “principio di” una o più cose”.
11
La “teoria dei principi” di matrice platonica messa sotto accusa dallo Stagirita è quella che si evince dalle
testimonianze (perlopiù, appunto, aristoteliche) sui cosiddetti agrapha dogmata ai quali lo stesso Platone allude, in
maniera più o meno diretta in alcuni dialoghi come il Parmenide, la Repubblica (in particolare i libri VI e VII), il
Filebo e il Sofista ed esposti in maniera orale all‟interno dell‟Accademia. Come è noto, Aristotele fu uditore di
queste lezioni platoniche “Intorno al Bene” durante i quasi due decenni di permanenza nell‟Accademia; per una più
(ovvero gli atomisti Leucippo e Democrito); inoltre l‟analisi verte anche su coloro che hanno

posto un solo principio, inteso come in movimento (gli ionici di Mileto), oppure un principio

unico ed immobile. Questi ultimi, su cui verte la nostra attenzione, sono gli Eleati.

In merito a quanto si evince dall‟ultimo passo citato, che è l‟incipit del secondo capitolo del Θ

libro della Fisica, è importante sottolineare come nella rassegna dei pensatori arcaici che hanno

ricercato i principi del movimento vi sia un esplicito riferimento a Parmenide e Melisso, benché

la loro presenza sembrerebbe, dalle parole dello Stagirita, quasi fuori luogo in quanto la loro

speculazione verte sull‟unicità dell‟essere (questione di cui, secondo la concezione aristotelica si

dovrebbe occupare la filosofia prima); inoltre, come si è accennato poco sopra (cfr. supra n°2), il

concetto di principio non sarebbe propriamente funzionale a descrivere l‟universo secondo la

prospettiva monistica dell‟eleatismo.

Per quanto concerne il problema della ricerca dei principi, sembra chiaro che il rimando ad altra

scienza fatto da Aristotele sia riferito alla filosofia prima, poiché è nel suo ambito che si sviluppa

l‟indagine sull‟unità ed sull‟immobilità dell‟essere12; invece per quanto riguarda il riferimento ad

una scienza comune a tutte le altre, alcuni interpreti, come Ruggiu, hanno intravisto un richiamo

alla dialettica13, tuttavia è probabile che Aristotele si riferisca ancora, alla prote philosophia

esaustiva analisi in merito alla ricezione aristotelica degli agrapha dogmata si veda E. Berti, La filosofia del primo
Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1997.
12
In quanto nell‟indagine fisica sull‟ente in movimento, il divenire è dato come assunto fondamentale di base, come
auto - evidente ed imprescindibile; inoltre la fisica studia le sostanze che sono sinoli di materia e forma e, in quanto
tali, soggette al divenire. L‟indagine sul se esistano sostanze immobili e sulla loro natura è compito della prima
filosofia.
13
Opportunamente, Ruggiu distingue tra “scienza diversa” (metafisica) e “scienza comune a tutte” (dialettica). Il
riferimento è a Top. I 2, 101 b 3 – 4: Questa per altro è l‟attività della propria della dialettica, o comunque, quella
che più le si addice: essendo infatti impiegata nell‟indagine, essa indirizza verso i principi di tutte le scienze. Cfr.
Ruggiu, Op. cit., nota 11. Le peculiarità della dialettica sarebbe quella minare le tesi di coloro che negano i principi
nella loro immediata evidenza (chiaro il riferimento qui agli Eleati che negano l‟evidenza del movimento). Allo
stesso modo di come il principio di non contraddizione si dimostra solo per via confutativa in quanto nessuno
potrebbe intavolare alcun tipo di discorso negando il principio di non contraddizione (Metaph. Γ, 4), ugualmente la
dialettica difende i principi già noti per via di confutazione, di fatti nessun discorso sull‟ente in movimento sarebbe
impossibile mettendo in discussione il divenire stesso come presupposto indimostrabile.
Un‟ulteriore e più dettagliata analisi di questo passo, la si trova sempre in Ruggiu: “L‟affermazione dell‟evidenza e
innegabilità del divenire rende perciò impossibile ogni sua dimostrazione, ma nello stesso tempo ne richiede una sua
difesa mediante confutazione dialettica. (p. 477) […] Quindi, per comprendere il procedimento aristotelico, che
sembra per un verso togliere alla fisica la competenza della discussione sulla tesi eleatica, e per altro verso, a prima
vista inspiegabilmente, procedere alla confutazione di tale proposizione, occorre tener presente che la difesa
dialettica nell‟immediatezza del divenire mette necessariamente in questione un asserto non fisico – la posizione
dell‟essere come uno e immobile -, asserto che tuttavia, per il suo carattere generale e assoluto, coinvolge nella sua
come hanno ipotizzato altri studiosi, come ad esempio G. Giardina14. Quel che è importante

considerare, ai fini della nostra analisi, è che il monismo di Parmenide e Melisso funge da

imprescindibile crocevia dialettico per Aristotele nell‟intento di fondare una scienza fisica.

Benché il loro monismo sembri apparentemente già a priori inesorabilmente un corpo estraneo

all‟indagine sulla natura, esso è comunque funzionale alla ricerca prefissata dallo Stagirita

intorno all‟essere in divenire: in Phy. I, 2, 185 b 17 – 20 si legge infatti: “Ma, sebbene l‟indagine

di costoro [scil. degli Eleati] non abbia per oggetto la natura, tuttavia dal momento che ad essi

capita di suscitare difficoltà che investono problemi di scienza della natura, è opportuno forse

affrontare queste questioni, sia pure in modo sintetico; una tale indagine ha infatti interesse per la

ricerca filosofica.”

L‟analisi del monismo eleatico in Phy. I, 2 prosegue attraverso un primo riferimento a Melisso e

Parmenide15: secondo Aristotele il loro argomentare prenderebbe le mosse da premesse false

negazione la fisica.” (p. 478) Cfr. Ruggiu, Rapporti tra la “Metafisica” e la “Fisica” di Aristotele, in “Rivista di
filosofia Neo – scolastica”, n° 85, 1993, pp. 455 – 512.
14
Secondo Giovanna Giardina, c‟è una duplice interpretazione di questo passo, che essa rimanda alle letture di
Simplicio e di Giovanni Filopono; l‟orientamento della Giardina è però quello di individuare in questa “scienza
comune” a tutte la filosofia prima e non la dialettica, in quanto la prima si occuperebbe propriamente della
dimostrazione, mentre la dialettica porrebbe semplicemente la procedura da seguire: “Questa espressione “scienza
comune a tutte”, è stata comunemente interpretata nel senso che qui Aristotele farebbe riferimento alla dialettica, la
quale costituirebbe il metodo di tutte le scienze. Qualcuno, invece, pensa che con questa espressione Aristotele
alluda alla filosofia prima. E‟ chiaro che qui Aristotele non intende impegnarsi in una posizione esplicita, giacché
sta dicendo che, poiché la scienza fisica non è in grado di dimostrare i suoi primi principi, deve necessariamente fare
ricorso o ad un‟altra scienza, diversa da sé […] oppure a una scienza comune a tutte le scienze che dimostri i
principi di ciascuna scienza.[…] Ma trattandosi di principi, non è possibile attribuire alla dialettica la “fondazione”
di questi principi, perché lo stesso passo di Aristotele dei Topici (cioè I 2, 101 b 3 – 4), a cui fanno legittimamente
riferimento i commentatori, dice semplicemente che la dialettica è una “tecnica” che “apre la strada” (ὄδνλ έρεη) ai
principi di tutte le ricerche, il che non è la stessa cosa che dire che “dimostra” i principi di tutte le ricerche. Lo stesso
rinvio ai Topici che fanno i commentatori esclude, a mio avviso, che sia la dialettica a “fondare” i principi di tutte le
scienze: essa conduce a scoprire tali principi che si trovano fondati nella metafisica, che è quindi da considerarsi più
opportunamente la scienza a cui allude Aristotele quando dice “scienza comune a tutte”. […] Mi pare verosimile,
quindi, che la “scienza comune a tutte” di Phy, I 2, sia non la dialettica ma la metafisica che si avvale della dialettica
come strumento di indagine.”. Cfr. G. Giardina, I fondamenti della Fisica: analisi critica di Aristotele, Phy. I,
SYMBOLON, Catania 2002, pp. 58 – 62. L‟analisi della Giardina sembra essere corroborata anche da quanto scrive
E. Berti: “[...] per Aristotele la dialettica non ha valore conoscitivo, anzi si oppone alla scienza, perché non
argomenta a partire da principi, ma solo a partire da opinioni, cioè dalle opinioni concesse dall‟interlocutore
attraverso le sue risposte alle domande di chi lo interroga.” Cfr. E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e
nei moderni. Zum Grunde hai d‟archai, 1987, L‟Epos, Palermopp. 125 – 126.
15
Zenone, che pure rientra all‟interno della tradizione eleatica (per certi versi anche più di Melisso in quanto,
secondo le testimonianze, fu uditore diretto di Parmenide) viene tralasciato in questa sede da Aristotele in quanto,
come è noto, i suoi paradossi sono volti a confutare dialetticamente l‟esistenza del molteplice e non a fondare
un‟ontologia originale. Tuttavia ciò non toglie che Zenone sarà oggetto di interesse in maniera critica da parte dello
Stagirita più avanti nei libri III e VI della Fisica dove verranno trattati i temi dell‟infinito e del continuo.
dalle quali scaturirebbero conseguenti assurdità16. Perciò, secondo Aristotele, nella ricerca

intorno ai principi del movimento è necessario confutare, tra le altre, anche le tesi degli Eleati

secondo i quali il principio è uno ed immobile, il che implica de facto la negazione dell‟evidenza

del divenire e del movimento.

Questa è, in sintesi, la critica che Aristotele muove al pensiero degli Eleati17 nel primo libro della

Fisica: intorno alla natura essi hanno argomentato secondo un tipo di predicazione dell‟essere

univoca ed assoluta che non tiene conto dei diversi significati che possono essere di volta in

volta attribuiti a ηὸ ὄλ, da ciò consegue che “tutto è uno”, assolutamente immobile e senza alcuna

forma di differenza; sotto questo aspetto, la filosofia eleatica risulta un ostacolo per Aristotele in

quanto, più di tutte le altre, va a minare i fondamenti stessi della scienza fisica, prendendo le

mosse da un‟originaria contraddittorietà del concetto stesso di divenire in relazione all‟Essere.

In definitiva, la lettura che Aristotele propone dell‟Eleatismo, come si vedrà meglio in seguito, è

una lettura che va a contestare le premesse argomentative fondamentali proprie degli Eleati,

partendo dalle quali si perviene al monismo ontologico assoluto, insostenibile nell‟ottica

aristotelica.

Oltre a quelli contenuti nella Fisica, ulteriori significativi spunti critici su Parmenide ed i

pensatori a lui vicini sono reperibili anche in altri testi di Aristotele ove quest'ultimo, attraverso

la sua tipica operazione dialettico - dossografica, fa emergere la sua posizione critica nei

confronti dei predecessori.

16
Il problema delle premesse proprie dagli Eleati verrà analizzato nel terzo capitolo del primo libro della Fisica e
nelle Confutazioni sofistiche .
17
Come già detto, di Zenone Aristotele non parla qui, ma ne parlerà nei libri III e VI criticandone le posizioni
paradossali intorno al movimento e all‟infinito.
L‟Eleatismo nella Metafisica e nel De Generatione et corruptione.

Nella Metafisica, e in particolare nel libro A18 che è, notoriamente, quello dove vengono esposte

le dottrine dei predecessori in merito alla ricerca intorno alle cause, gli Eleati sono presenti;

benché uno degli argomenti centrali del libro A della Metafisica sia la ricerca intorno alle cause

prime, la lettura dello Stagirita riprende, per certi versi, molte critiche già esposte nella Fisica:

εἰζὶ δέ ηηλεο νἳ πεξὶ ηνῦ παληὸο ὡο κηᾶο νὔζεο θύζεσο ἀπεθήλαλην, ηξόπνλ δὲ νὐ ηὸλ αὐηὸλ πάληεο νὔηε ηνῦ θαιῶο
νὔηε ηνῦ θαηὰ ηὴλ θύζηλ. εἰο κὲλ νὖλ ηὴλ λῦλ ζθέςηλ ηῶλ αἰηίσλ νὐδακῶο ζπλαξκόηηεη πεξὶ αὐηῶλ ὁ ιόγνο (νὐ γὰξ
ὥζπεξ ἔληνη ηῶλ θπζηνιόγσλ ἓλ ὑπνζέκελνη ηὸ ὂλ ὅκσο γελλῶζηλ ὡο ἐμ ὕιεο ηνῦ ἑλόο, ἀιι᾿ ἕηεξνλ ηξόπνλ νὗηνη
ιέγνπζηλ· ἐθεῖλνη κὲλ γὰξ πξνζηηζέαζη θίλεζηλ, γελλῶληέο γε ηὸ πᾶλ, νὗηνη δὲ ἀθίλεηνλ εἶλαί θαζηλ)· νὐ κὴλ ἀιιὰ
ηνζνῦηόλ γε νἰθεῖόλ ἐζηη ηῇ λῦλ ζθέςεη19.

In questo passo della Metafisica emergono alcuni aspetti interessanti sulla posizione aristotelica

contro i monisti.

Il fatto che l‟esame che si sta svolgendo sembri non dover tenere conto della di per sé

insostenibile posizione degli Eleati (in virtù del fatto che l‟essere assolutamente uno teorizzato

da questi non può avere alcuna funzione causale in quanto dalla sua assoluta immutabilità viene

escluso ogni tipo di relazione tra causa e causato e dunque ogni forma di differenza e di rapporto

con altro), consente di cogliere (come chiarisce lo stesso Aristotele) in che modo il concetto di

Uno enunciato da Parmenide non ammetta in alcun modo la generazione, né si ponga sotto alcun

aspetto come principio, a differenza di quanto invece fanno i naturalisti che dall‟Uno materiale

fanno scaturire l‟intera realtà fisica20. L‟analisi dell‟eleatismo prosegue, in quanto esso risulta

18
Sulla plausibile datazione del libro A e, in generale, dei singoli libri della Metafisica si rimanda a P. Donini, La
Metafisica di Aristotele, introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2007.
19
Cfr. Metaph. A, 5, 986b 10 – 11; 12 - 18: “Ci sono poi altri filosofi i quali sostennero che l‟universo è una realtà
unica, ma non parlarono tutti allo stesso modo.[…] Una discussione intorno a questi filosofi esula dall‟esame delle
cause che stiamo svolgendo ora: infatti essi non procedono come alcuni filosofi naturalisti, i quali, pur ponendo
l‟essere come uno, fanno derivare le cose dall‟uno come da materia, ma procedono in modo tutto diverso. I
naturalisti, infatti, nello spiegare la generazione dell‟universo, attribuiscono all‟Uno un movimento; questi filosofi,
invece, affermano che l‟Uno è immobile. Cionondimeno, questo che diremo qui di seguito ha attinenza con la
ricerca che stiamo svolgendo”.
20
E‟ evidente il riferimento a Talete ed Anassìmene. Tuttavia, quando Aristotele dice che costoro fanno scaturire
l‟Uno secondo la materia (kata ten hylen) balza ancora una volta agli occhi, attraverso la terminologia, il fatto che lo
Stagirita collochi le filosofie precedenti all‟interno dei suoi schemi concettuali.
avere attinenza con la ricerca che viene svolta in questo punto della Metafisica21, con una critica

complessiva dei suoi esponenti. Scrive Aristotele:

Παξκελίδεο κὲλ γὰξ ἔνηθε ηνῦ θαηὰ ηὸλ ιόγνλ ἑλὸο ἅπηεζζαη, Μέιηζζνο δὲ ηνῦ θαηὰ ηὴλ ὕιελ (δηὸ θαὶ ὁ κὲλ
πεπεξαζκέλνλ ὁ δ' ἄπεηξνλ θεζηλ εἶλαη αὐηό)· Ξελνθάλεο δὲ πξῶηνο ηνύησλ ἐλίζαο (ὁ γὰξ Παξκελίδεο ηνύηνπ
ιέγεηαη γελέζζαη καζεηήο) νὐζὲλ δηεζαθήληζελ, νὐδέ ηὴο θύζεσο ηνύησλ νὐδεηέξαο ἔνηθε ζηγεῖλ, ἀιι' εἰο ηὸλ ὅινλ
νὐξαλόλ απνβιέςαο ηὸ ἓλ εἶλαί θεζη ηὸλ ζεόλ. νὖηνη κὲλ νὖλ, θαζάπεξ εἴπνκελ, ἀθεηένη πξὸο ηὴλ λῦλ δήηεζηλ, νἱ
κὲλ δύν θαὶ πάκπαλ ὡο ὄληεο κηθξὸλ ἀγξνηθόηεξνη, Ξελνθάλεο θαὶ Μέιηζζνο· Παξκελίδεο δὲ κᾶιινλ βιέπσλ ἔνηθέ
πνπ ιέγεηλ22.

Ritorna qui la terminologia aristotelica applicata ai presocratici 23: secondo lo Stagirita,

Parmenide avrebbe considerato l’Essere come “uno” in senso teorico-concettuale (θαηὰ ηὸλ

ιόγνλ), mentre Melisso in senso materiale (θαηὰ ηὴλ ὕιελ); qui probabilmente Aristotele si

riferisce ai due diversi attributi che i due filosofi collegavano all‟Essere: da una lato Parmenide

con la sua concezione (evincibile dal 28 B 8 DK vv. 5 - 6)24, dell‟Essere come “collocato” in un

eterno presente, dall‟altra parte Melisso che, onde superare la limitatezza spazio - temporale

dell‟eon parmenideo, introduce come attributo quello dell‟infinità. Da ciò Aristotele ricava,

tenendo sempre come sfondo il suo lessico e le sue teorie filosofiche, che Melisso avrebbe

concepito l‟Uno θαηὰ ηήλ ὕιελ cioè secondo la materia.

D‟altro canto, però, quest‟affermazione di Aristotele può risultare problematica ai fini di una

corretta esegesi storico - filosofica scevra da “contaminazioni” di stampo peripatetico del

21
Anche se l‟analisi dell‟Eleatismo esula dalla riflessione intorno alle cause (è evidente da quanto detto che il
principio di causalità è estraneo alla ferrea logica eleatica), tuttavia è importante, dice Aristotele, tenere conto del
parere di questi autori in quanto la loro speculazione risulta attinente all‟interno di un contesto di filosofia prima; a
tal proposito sembra prendere forza la tesi secondo cui indagare se l‟essere è uno e immobile è compito di una
“scienza altra” che si è identificata con la filosofia prima. Benché gli Eleati occupino relativamente poco spazio (per
esempio rispetto a Platone) all‟interno della dossografia di Aristotele, ciò nonostante la critica del loro pensiero
risulta funzionale in un contesto di metafisica mentre, come abbiamo visto nella Fisica (Cfr. I 2, 184 a 17 – 20) la
loro presenza in quell‟ambito sembra a primo impatto poco coerente, benché alla fine risulterà anche lì
imprescindibile.
22
“Parmenide sembra avere inteso l‟Uno secondo la forma, Melisso invece secondo la materia (e perciò il primo
sostiene che è limitato, l‟altro invece che è illimitato). Senofane, che ancor prima di questi ha affermato l‟unità del
tutto (si dice, infatti, che Parmenide sia stato suo discepolo), non dà alcun chiarimento e non sembra che abbia colto
la natura né dell‟una né dell‟altra di queste cause, ma, estendendo la sua considerazione dell‟universo intero,
afferma che l‟Uno è Dio. Per quanto riguarda la ricerca che stiamo svolgendo, come già si è detto, due di questi
filosofi ,Senofane e Melisso, si possono lasciare senz‟altro da parte, perché alquanto grossolani; Parmenide sembra
invece ragionare con maggior oculatezza.”(Cfr. Metaph. A, 5, 986b 18 – 28).
23
Costante dell‟intero pensiero di Aristotele è il rivolgersi ai predecessori incasellando le loro opinioni all‟interno di
una terminologia e di schemi concettuali propri della sua scuola.
24
Οὐδέ πνη‟ ἦλ νὐδ‟ ἒζηαη, ἐπεὶ λῦλ ἒζηηλ ὁκνῦ πᾶλ, ἒλ, ζπλερέο· ηίλα γὰξ γέλλαλ δημήζεαη αὐηνῦ: “Né una volta era
né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, / uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso?” Traduzione di
L. Ruggiu, in Parmenide, Op. cit., pag. 99.
concetto di infinito: dalle parole dello Stagirita (e dai frammenti stessi di Melisso) si potrebbe

ricavare un argomento a favore del fatto che il filosofo di Samo, avendo inteso la realtà

dell‟Essere - Uno come infinita, abbia “dotato” l‟Essere di materia non in senso potenziale25, ma

estensivo - spaziale, soprattutto tenendo presente sullo sfondo la possibilità che l‟“innovazione”

melissiana sia scaturita come reazione alla concezione parmenidea dell‟essere determinato

(secondo la nota immagine della sfera)26, che potrebbe essere letta, di fatto, come ammissione

del vuoto quale elemento circostante dell‟Essere27. La questione circa la possibilità che Melisso

abbia attribuito all‟Essere un‟estensione di tipo spaziale ha creato non pochi problemi agli

studiosi, in quanto un ente spazialmente esteso, soprattutto se infinito, deve ammettere in sé delle

parti costitutive28.

Nel passo della Metafisica precedentemente riportato, il secondo autore del filone eleatico che

viene citato da Aristotele, ma sul quale egli non si sofferma a lungo, è Senofane di Colofone29.

25
Mi riferisco qui ad una particolare interpretazione, in riferimento a Melisso, della materia come principio che
incarna il concetto di potenza aristotelico già presente in maniera embrionale nel pensiero del filosofo di Samo. Su
questa questione torneremo nei capitoli successivi.
26
Di fatti, il grande punto di rottura tra Melisso e Parmenide è riconducibile perlopiù al rifiuto da parte del primo di
concepire la similitudine dell‟Essere con la sfera finita e determinata parmenidea, il che presterebbe il fianco ad
un‟intuitiva critica su cosa vi sia “attorno” alla sfera: qualunque cosa infatti risulterebbe altro dall‟Essere
ammettendo de facto il non – essere come differenza. Melisso prova a superare questo problema attribuendo
all‟Essere il carattere dell‟infinità. Per approfondimenti sulla questione della sfericità dell‟essere di Parmenide si
veda R. Mondolfo, L‟infinito nel pensiero dell‟antichità classica, La nuova Italia, Firenze 1956, pp. 363 – 382.
27
Sul problema della distinzione tra “materiale” e “corporeo”, Giovanni Reale fa riferimento all‟interpretazione di
Chiappelli, secondo cui la distinzione yle / soma cioè materiale/ corporeo sarebbe stata già intuita dagli Eleati ben
prima di Aristotele, tuttavia, scrive Reale: “Ora, riconosciamo al Chiappelli un notevole acume, ma dobbiamo
dissentire da lui soprattutto per il fatto che egli tiene troppo presente Aristotele e le categorie aristoteliche per
intendere il frammento 9 (scil. di Melisso). La distinzione yle – soma non può certamente essere presente in Melisso,
poiché il concetto di yle nasce solo con Platone e, anzi, si definisce perfettamente solo con Aristotele, in quanto
suppone la scoperta dell‟eidos, in contrapposizione al quale, soltanto, si calibra il concetto di yle”. Cfr. Reale –
Untersteiner, Eleati,testimonianze e frammenti, libro III, cap. VII, Affermazione della “incorporeità” dell‟Essere in
Melisso e il significato storico di essa, Bompiani, Milano 2011, pag. 879. Inoltre, a mio avviso, la critica di
Aristotele contro Melisso verte su una questione volta ad interpretare l‟attributo di infinità sotto l‟aspetto
quantitativo e non potenziale, questo sarà poi l‟oggetto specifico della critica dello Stagirita la filosofo di Samo in:
Fisica I 3.
28
Per approfondimenti sulla corporeità dell‟Uno in Melisso si rimanda al capitolo III del presente lavoro e,
soprattutto, a G. Reale, Eleati, op. cit. parte III.
29
Su Senofane di Colofone, rapsodo, è stato scritto molto; tuttavia se ci si attiene esclusivamente alla testimonianza
di Aristotele, si rischia di sottovalutare il peso speculativo che è giusto riconoscergli. E‟ opportuno sottolineare
invece il ruolo rivestito da Senofane all‟interno della tradizione occidentale. Come è noto dalla lettura dei suoi
frammenti, sono essenzialmente due le dottrine che possono essere a lui ricondotte: in primo luogo abbiamo la
negazione dell‟antropomorfismo della divinità a vantaggio di una forma primordiale di enoteismo. In poche parole,
il pensiero senofaneo esprime un sostanziale scetticismo nei confronti di una rappresentabilità del divino per
analogia (celebre è l‟esempio del dio dei cavalli che avrebbe sembianze equine in quanto così sarebbe stato
ipoteticamente proiettato dai cavalli). La posizione senofanea muove dal fatto che nessun dio possa avere alcun tipo
di forma riconducibile ad un‟idealizzazione di qualcosa che si trova sulla terra, bensì il carattere proprio del divino
Secondo quanto riporta lo Stagirita egli sarebbe stato precettore di Parmenide e, in un certo

senso, avrebbe ispirato alcuni concetti fondamentali dell‟eleatismo. Tuttavia, come è noto, il

pensiero di Senofane è in gran parte finalizzato all'identificazione dell‟Uno con il divino30,

sarà quello di avere un‟unicità e da questa evincere tutte le caratteristiche conseguenti che sono molto simili
all‟immagine della sfera parmenidea, quasi anticipatrici: si legge infatti nei frammenti di Senofane: “Unico Iddio, tra
gli dèi e tra gli uomini il più grande, /per nulla equiparabile ai mortali, non per figura, non per il pensiero (fr. 23).
Nella sua interezza vede, interamente pensa ed eternamente esiste (fr. 24). Sempre perdura nello stesso luogo non
facendo movimento alcuno /e non s‟addice che vada or qua o là spostandosi” (fr. 26). (Traduzione a cura di A. Lami
in I presocratici, testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, BUR, Milano 1991). In secondo luogo,
Senofane si sarebbe fatto portavoce di un tipo di filosofia molto vicina ad uno scetticismo gnoseologico. La dottrina
di Senofane potrebbe essere riassunta nell‟asserto secondo cui nessun tipo di conoscenza umana può essere mai
definitiva, bensì essa è in continuo mutamento e perfezionamento, dimodoché l‟uomo non potrà mai pervenire ad un
sapere realmente oggettivo della realtà ma il processo conoscitivo non conoscerà mai un punto di arrivo bensì
procederà all‟infinito, nel fr. 34 si legge: “sì, l‟evidente verità, nessun uomo l‟ha vista e la conosce, né mai ci sarà
/che sappia riguardo agli dei e alle cose ch‟io dico, su tutte: ché se ancor gli capitasse di dire verità compiuta in
sommo grado, /pure lui stesso non ha sapere; è parere invece quel che ci si fa su tutto” (Traduzione di A. Lami in I
presocratici, op. cit.). Karl Raimund Popper, filosofo ed epistemologo austriaco del secolo scorso, ha rivisto in
Senofane un precursore del suo “principio di falsificabilità” di una teoria scientifica. In breve, il principio di
falsificabilità di matrice popperiana esprime una radicale sfiducia, che è connaturata all‟uomo, in ambito
epistemologico – gnoseologico. Secondo Popper ogni teoria scientifica, per definirsi propriamente tale, deve
rispondere non al canonico principio di verificabilità (che ha le sue radici nel metodo sperimentale di Galilei e che
viene riproposto dai neopositivisti del wiener Kreis) bensì al principio di falsificabilità (o razionalismo critico).
Secondo questo metodo teorizzato da Popper, è la disponibilità di una teoria scientifica a sottoporsi al vaglio
dell‟esperienza a renderla genuina, non per essere “confermata” da essa, bensì per poter essere confutata; de facto si
dice scientifica quella teoria che “presta il fianco” ad essere effettivamente smentita secondo un processo che non
avrà mai fine. Per Popper la verità assoluta non è mai conoscibile, tutto il sapere scientifico umano si fonda su
paradigmi sempre “provvisori” che sono stati, nella storia, sempre smentiti e quelli attualmente in auge verranno
confutati a loro volta. Popper vede in Senofane un illustre predecessore, in quanto lo considera come un anticipatore
fedele delle sue tesi di stampo scettico, scrive Popper: “Originariamente Senofane condivideva l‟immagine del
mondo e degli dèi descritta da Omero. Inseguito questa descrizione si frantumò, proprio come capitò a me con il
mondo newtoniano. Nel suo caso la causa del crollo coincide con le sue critiche ad Omero: con la sua scoperta che
gli dèi omerici erano antropomorfi; per me la teoria di Newton crollò sotto il peso della scoperta di Einstein di una
teoria alternativa che spiega bene i fenomeni come quella di Newton, e anche meglio. Senofane, come Einstein,
sostituì l‟immagine dell‟universo sottoposta a critica con un‟altra; nel far ciò entrambi erano consapevoli del
carattere congetturale della loro nuova descrizione. L‟aver compreso che Senofane aveva anticipiato di 2500 anni la
mia teoria della conoscenza mi ha insegnato ad essere modesto. […]” Cfr. Karl R. Popper, Senofane lo sconosciuto:
un tentativo di dimostrare la sua grandezza, in Il mondo di Parmenide, alla scoperta della filosofia presocratica,
PIEMME, Casale Monferrato 1998, pag. 84. Dunque Popper paragona la “rivoluzione” senofanea in campo
teologico a quella di Einstein nei confronti della fisica newtoniana, sottolineando appunto come Senofane abbia
elaborato le sue teorie ponendosi come anticipatore del suo razionalismo critico. In tal senso, il pensiero del filosofo
di Colofone svolgerebbe la propria attività ponendosi prima come critico nei confronti del paradigma precedente,
per poi ammettere la “provvisorietà” di qualsiasi forma di conoscenza umana, manifestando così uno scetticismo
gnoseologico, idea che sarà ripresa in maniera più articolata in ambito epistemologico dallo stesso Popper diversi
secoli. Sarebbe lecito porre il problema della possibilità di una “pacifica” convivenza tra scetticismo e teologia in
Senofane, ma non è il caso di dilungarsi ulteriormente in questa sede.
30
Il pensiero di Senofane è critico nei confronti del sapere arcaico dell‟epoca, fondato sotto tutti gli aspetti sui
poemi di Omero e sul sapere oracolare. Il pensiero senofaneo muove dunque da una non accettazione “passiva” e
dogmatica della cultura dell‟epoca, proponendo un approccio conoscitivo di tipo razionale, che però non ha mai
valore veritativo assoluto in quanto sugli dei, non può esserci conoscenza certa alcuna; tuttavia la priorità del
filosofo di Colofone è superare la cultura teologica antropomorfa tradizionale a favore di una forma di razionalismo.
Sull‟aspetto teologico del pensiero senofaneo Cfr. W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La nuova Italia,
Firenze 1982: “La divinità dev‟essere pura di debolezze morali che sono riprovevoli persino fra gli uomini (p. 78)
[…] Questo sentimento religioso è la fonte della negazione di ogni limite e di tutti i difetti che la religione
tradizionale addossa ai suoi dei (pp. 80 – 81) […] Tutte queste qualità umane non sono “convenevoli” alla natura di
Dio . Le ignominie degli dei omerici ed esiodei non si adattano alla sublime moralità del divino. Non gli si adattano
nemmeno le vesti, la lingua, la forma, la nascita.” (ivi)
dottrina che prende le mosse da una critica all‟antropomorfismo tipico della religione greco -

arcaica. È plausibile che l‟identificazione dell‟Uno con la divinità31 (che ha raggiunto il culmine

della sua “fortuna” nel pensiero giudaico cristiano, benché con enormi differenze) 32 ed il

presunto scetticismo gnoseologico di Senofane non risultassero chiari allo Stagirita: Senofane, al

pari di Melisso, viene considerato “alquanto grossolano”. Aristotele infatti procede subito oltre

nella ricapitolazione del pensiero degli eleati prendendo in esame, a questo punto, Parmenide.

Ancora nella Metafisica si legge:

παξὰ γὰξ ηὸ ὂλ ηὸ κὴ ὂλ νὐζὲλ ἀμηῶλ εἶλαη, ἐμ ἀλάγθεο ἓλ νἴεηαη εἶλαη, ηὸ ὄλ, θαὶ ἄιιν νὐζέλ (πεξὶ νὖ ζαθέζηεξνλ
ἐλ ηνῖο πεξὶ θύζεσο εἰξήθακελ), ἀλαγθαδόκελνο δ‟ἀθνινπζεῖλ ηνῖζ θαηλνκέλνηο, θαὶ ηὸ ἓλ κὲλ θαηὰ ηὸλ ιόγνλ
πιείσ δὲ θαηὰ ηὴλ αἴζζεζηλ ὑπν ιακβάλσλ εἶλαη, δύν ηὰο αἰηίαο θαὶ δύν ηὰο ἀξρὰο πάιηλ ηίζεζη, ζεξκὸλ θαὶ
ςπρξόλ, νἶνλ πῦξ θαὶ γῆλ ιέγσλ· ηνύησλ δὲ θαηὰ κὲλ ηὸ ὂλ ηὸ ζεξκὸλ ηάηηεη ζάηεξνλ δὲ θαηὰ ηὸ κὴ ὄλ33.

Nella conclusione di questo passo del libro Α, dedicato principalmente alla ricostruzione delle

opinioni dei predecessori, l‟attenzione di Aristotele si focalizza su Parmenide. Come già detto, su

Melisso e Senofane egli è molto più sintetico, poiché non ritiene la loro speculazione degna di

particolare attenzione; qui dunque, sempre nel contesto dell‟analisi di quante e quali cause gli

“antichi” abbiano individuato come archai della realtà, Parmenide viene considerato come il

pensatore che ha negato la realtà del non-essere in tutte le sue forme; evidentemente, tenendo

anche in considerazione quanto lo Stagirita ci dice nel I libro della Fisica, la speculazione

parmenidea risulta più consistente di quella melissiana in quanto le caratteristiche dell‟essere

vengono dedotte sulla base della nozione pura di essere: in Melisso non sembra così, poiché il

31
Non è di facile interpretazione la questione secondo la quale è possibile attribuire a Senofane una sorta di
monoteismo primordiale o meno: “Così, per quel che concerne il fr. 23, il fatto che teos vi si presenti da un lato
come “uno” e dall‟altro come “massimo tra gli dei e tra gli uomini” ha fatto chiedere ai critici se Senofane sia stato
propriamente monoteista (la seconda formula persistendo solo per reminiscenza popolare letteraria), o se abbia
invece soltanto voluto organizzar meglio il politeismo interno a una divinità centrale e dominante”. Cfr. G.
Calogero, Senofane, Eschilo e la prima definizione dell‟onnipotenza di Dio,Studi di filosofia greca, Bari 1950, pp.
33 – 55.
32
“Il concetto della creazione del mondo è ancora lontano da Senofane, ma è chiaro che la teologia filosofica dei
greci, per molti aspetti, fu quella che più contribuì a spianare la via al monoteismo giudaico – cristiano.” Cfr. W.
Jaeger, Ibidem, pag. 82.
33
Cfr. Metaph. A, 5, 986b 28 – 987a 2: “Poiché egli [scil. Parmenide] ritiene che accanto all‟essere non ci sia affatto
il non – essere, necessariamente deve credere che l‟essere sia uno e null‟altro (di questo abbiamo discorso in modo
più approfondito nella Fisica); costretto, peraltro,a tener conto dei fenomeni, e supponendo che l‟uno sia secondo la
ragione mentre il molteplice secondo il senso, egli pure pone due cause e due principi: il caldo e il freddo, vale a dire
il fuoco e la terra; e assegna al caldo il rango dell‟essere e al freddo il rango del non-essere.”
carattere dell‟infinità dell‟essere è una deduzione di natura estensivo - spaziale che non emerge

in maniera evidente dal concetto puro di essere enunciato da Parmenide.

Tuttavia, tenendo sempre come punto di riferimento questo passo della Metafisica, nella visione

aristotelica Parmenide sembrerebbe non avere fatto a meno dei fenomeni34 ponendo due ulteriori

principi. Secondo Aristotele, da un punto di vista concettuale, il non - essere non è una nozione

che può essere presa in considerazione in quanto risulta assolutamente incompatibile con l‟essere

considerato in senso assoluto; d‟altra parte, se ciò vale dal punto di vista teorico-concettuale

(θαηὰ ηὸλ ιόγνλ), del non-essere non si può affermare la stessa cosa se tale stessa nozione viene

considerata sulla base del dato sensibile (θαηὰ ηὴλ αἴζζεζηλ), in quanto è proprio all‟interno del

mondo fenomenico che si manifesta la molteplicità e la differenza.35 Sempre attenendoci

all‟ultimo passo citato, Aristotele afferma che Parmenide avrebbe così posto due principi

originari per rendere conto del divenire: il fuoco e la terra.36

Questo rimando alla opposizione fuoco e terra (che a sua volta rimanda probabilmente a quella

Luce-Tenebra) posta dai mortali, costituisce il rinvio ad una sorta di teoria di natura dualistica

dei principi (forse di estrazione eraclitea) che, almeno in questo passo, non sembra essere

considerata come un controsenso rispetto al monismo.37 L‟ammissione dei principi Luce - Notte

in Parmenide sembra essere ricondotta all‟interno di una Weltanschauung propria dei mortali

che, di fatto, non ha alcun fondamento di verità, ma solo di plausibilità e verosimiglianza

34
Sul rapporto di Parmenide con i fenomeni e il mondo naturale si veda Ruggiu, L‟altro Parmenide, saggio
introduttivo a Parmenide, Poema sulla natura, Bompiani, Milano 2010.
35
Il nocciolo dell‟intera struttura di pensiero parmenidea è l‟impossibilità assoluta di ammettere il non-essere e, di
conseguenza, della intrinseca contraddittorietà della nozione di molteplicità in relazione all‟essere, come spiega M.
Abbate in Parmenide e i Neoplatonici, ed. Dell‟Orso, Alessandria 2010, cap. I – IV.
36
Questo riferimento è strettamente connesso a quanto Aristotele dice in De gen. et corrupt. A, III, 318 b 6 e B, III,
330 b 14.
37
Sulla possibilità di ammettere una teoria dei principi originaria in Parmenide, scrive G. Casertano: “Le differenze
qualitative fra i singoli fenomeni della realtà dipendono appunto dalle diverse proporzioni e mescolanze di questi
elementi fondamentali [scil. Luce e Tenebra], ed in base a queste diverse proporzioni e mescolanze indagate ed
individuate con la ragione (krinein logoi), cioè con un metodo razionale e corretto – l‟uomo è in grado di distinguere
le esperienze e di nominarle. […] Il metodo da rigettare consiste invece, da un lato, nel considerare i due elementi
fondamentali contrapposti l‟uno all‟altro, separati l‟uno all‟altro.” Cfr. G. Casertano, Astrazione ed esperienza in
Parmenide e Protagora, in “La parola del passato”, XLIII (1988), pp. 61 -88, cit. pag. 74.
meramente apparenti in quanto non risulta chiaramente compatibile con l‟assoluta auto - identità

dell‟essere.38

All‟interno della Metafisica, il libro A è quello più ricco di riferimenti diretti agli Eleati in

quanto, come si è detto, in esso è contenuto l‟excursus dossografico dello Stagirita. Nello stesso

testo, un altro importante riferimento alla dottrina parmenidea lo si trova nel III libro della

Metafisica (B), il cosiddetto “libro delle aporie”.39 All‟interno della discussione intorno

all‟undicesima aporia, lo Stagirita si chiede se i concetti di Essere e Uno debbano essere

considerati come sostanze, secondo quanto dice Platone, oppure predicati di un sostrato, la

questione verte dunque sul modo in cui debbano essere considerati i concetti di essere e di uno,

se come sostanze separate oppure no.40 Il problema mette in campo delle difficoltà che verranno

risolte dallo Stagirita nei libri successivi (soprattutto il libro iota). Spiega infatti Aristotele che la

questione può essere affrontata in due maniere: da una parte, se l‟essere e l‟uno non venissero

concepiti come sostanze ma come generi, essendo essi i concetti più universali in assoluto,

risulterà che non si potrà dire nemmeno che gli altri universali siano sostanze41, neppure i

38
Cfr. M. Abbate, op. cit., cap. I
39
Il libro B è considerato dagli esperti, quasi unanimemente, uno dei primi libri stilati da Aristotele per il suo
carattere interrogativo ed introduttivo. Per quanto concerne invece l‟undicesima aporia, una risposta Aristotele
cercherà di proporla nel libro Θ che è dedicato proprio ai concetti di Essere ed Uno presentati come in strettissima
connessione con il concetto di sostanza; si vedano inoltre i capitoli 6 e 7 del libro Δ della Metafisica.
40
Il porre l‟Essere e l‟Uno come sostanze separate è una dottrina di matrice accademica, criticata da Aristotele in
ambito metafisico in quanto pone diversi problemi di natura eziologica; come già accennato sopra, sono diversi i
dialoghi platonici nei quali si fa riferimento all‟Uno e all‟Essere come enti separati e cause.
41
Questa ipotesi (che gli universali non siano sostanze) vagliata del libro B viene smentita da Aristotele nel libro Z
attraverso un‟analisi del concetto di sostanza che ha creato molte difficoltà agli interpreti. Nell‟incipit del capitolo 3
del libro Z, Aristotele analizza quelli che sono i possibili “candidati” al titolo di sostanza (l‟essenza, l‟universale, il
genere ed il sostrato) e, sebbene tutti e quattro siano sostanza a pieno titolo, è evidente anche dai capitoli successivi
che esiste una gerarchia tra questi quattro modi di intendere la sostanza (il cui primato spetterà all‟essenza in quanto
è pura forma scevra da materia ed è propria delle sostanze immobili, oggetto di studio della prima filosofia). Per
quanto riguarda la legittimazione dell‟universale come sostanza, nel libro Z non viene trattato analiticamente, ma
una risposta può essere individuata all‟interno delle Categorie. Nel capitolo V delle Categorie, Aristotele pone la
distinzione tra sostanze prime e sostanze seconde. Qui, come è lecito aspettarsi, lo Stagirita fornisce una spiegazione
di natura logica alla questione dell‟ ousia. Sostanza a pieno titolo risulta essere il soggetto ovvero ciò di cui si
predicano le categorie; ma sostanza in senso pieno è il singolare ovvero un individuo determinato, come “Socrate”
che a sua volta non si predica di nessun‟altra sostanza. Tuttavia lo Stagirita distingue tra sostanze prime
(l‟individuo), le quali sono predicate ma non si predicano, e sostanze seconde (le specie), le quali sono predicate e si
predicano a loro volta, come ad esempio uomo, cane o cavallo. Dunque l‟universale è sostanza in quanto viene
predicato, ma non è sostanza in senso pieno poiché a sua volta si predica di un sostrato. Cfr. Categorie, V. E‟
dunque spiegato come l‟universale sia sostanza ma, a loro volta, l‟uno e l‟essere non sono sostanze.
numeri, in quanto ogni numero è composto da unità nelle sue parti minime; soprattutto però,

essendo l‟uno e l‟essere i generi più universali di tutti:

essi si predicano anche delle differenze di ciascun genere – è necessario, infatti, che ciascuna di tali differenze sia e
sia una – mentre è impossibile che un genere si predichi delle sue differenze. Ne consegue – conclude Aristotele –
che, se l‟Essere e l‟Uno fossero generi, come pretendeva Platone, nessuna differenza potrà essere né essere una, cioè
si distruggeranno le differenze e tutte le cose si ridurranno ad una. […] Che un genere non possa predicarsi delle
proprie differenze, significa infatti che ciò che accomuna, non può al tempo stesso anche diversificare, mentre
l‟essere e l‟uno hanno la singolare capacità di accomunare e di diversificare ad un tempo tutte le cose.42

Questa prima alternativa risulta inaccettabile ad Aristotele, dunque egli passa a pensare alle

conseguenze del concepire l‟Essere e l‟Uno come sostanze separate, alla maniera dei platonici:

εἰ δ‟ἔζηη ηη αὐηὸ ἓλ θαὶ ὄλ, ἀλαγθαῖνλ νὐζίαλ αὐηῶλ εἶλαη ηὸ ἓλ, θαὶ ηὸ ὄλ· νὐ γὰξ ἕηεξόλ ηη θαζόινπ θαηεγνξεῖηαη
ἀιιὰ ηαῦηα αὐηά43.

Questa prospettiva si rivela altrettanto problematica alla luce delle conseguenze che da essa

scaturiscono: si è appena visto che considerare l‟Essere e l‟Uno come generi esclude la loro

separabilità e mette in crisi anche i concetti di numero e di universale, ma il libro B è un libro

aporetico quindi anche l‟opzione opposta non fornisce una soluzione al problema e la soluzione

che consiste nel concepire l‟Uno e l‟Essere come sostanze, sfocia nel monismo ontologico

parmenideo:

ἁιιὰ κὴλ εἴ γ’ ἔζηαη ηη αὐηὸ ὂλ θαὶ αὐηὸ ἕλ, πνιιὴ ἀπνξία πῶο ἔζηαη ηη παξὰ ηαῦηα ἕηεξνλ, ιέγσ δὲ πῶο ἔζηαη πιείσ
ἑλὸο ηὰ ὄληα. ηὸ γὰξ ἕηεξνλ ηνῦ ὄληνο νὐθ ἔζηηλ, ὥζηε θαηὰ ηὸλ Παξκελίδνπ ζπκβαίλεηλ ἀλάγθε ιόγνλ ἓλ ἅπαληα
εἶλαη ηὰ ὄληα θαὶ ηνῦην εἶλαη ηὸ ὄλ. ἀκθνηέξσο δὲ δύζθνινλ. […] ἑὰλ κὲλ νὖλ κὴ ᾖ, εἴξεηαη πξόηεξνλ δη’ ὅ. ἐὰλ δὲ
ᾖ, ἡ αὑηὴ ἀπνξία θαὶ πεξὶ ηνῦ ὄληνο. ἐθ ηίλνο γὰξ παξὰ ηὸ ἓλ ἔζηαη αὐηὸ ἄιιν ἕλ; ἀλάγθε γὰξ κὴ ἓλ εἶλαη· ἅπαληα
δὲ ηὰ ὄληα ἢ ἓλ ἢ πνιιὰ ὧλ ἓλ ἕθαζηνλ 44.

Dunque, nell‟ipotesi che l‟Uno e l‟Essere in sé siano considerati come sostanze separate, si avrà

un esito paradossale, e cioè che tutte le cose si ridurranno o all‟Essere o all‟Uno e così, le

42
Cfr. E. Berti, L‟Uno e i molti nella Metafisica di Aristotele, in: Autori vari, L‟Uno e i molti, a cura di Virgilio
Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 155 – 180, cit. pagg.159 e 160.
43
Ma se esistono l‟Uno in sé e l‟Essere in sé, è necessario che la loro sostanza sia l‟uno e l‟essere: infatti, ciò di cui
essi si predicano non è altro da essi, ma è lo stesso uno e lo stesso essere. (Metaph. B, 4, 1001 a 27 – 29)
44
Cfr. Metaph., B, 4, 1001 a 29 – 1001 b 1; 1001 b 3 – 6: “D’altra parte, se esiste qualcosa che è Essere in sé e Uno
in sé, sarà molto difficile comprendere come possa esistere qualcos’altro oltre i medesimi, cioè come gli esseri
possano essere più di uno. Infatti ciò che è altro dall’essere non è: di conseguenza, si verrà necessariamente a cadere
nella dottrina di Parmenide, per cui tutti quanti gli esseri costituiscono una unità e questa è l’essere. Ma e l’una e
l’altra posizione presentano difficoltà. […] L’ipotesi che l’Uno non sia sostanza, s’è già detto per quale ragione è
impossibile; se, invece, è sostanza, sorgerà la stessa difficoltà che si è già veduta a proposito dell’Essere. Come si
potrà mai avere, al di fuori dell’Uno in sé, qualche altra cosa che sia Uno? Infatti, quest’altra cosa dovrebbe essere
non-uno; ma tutti gli esseri o sono uno o sono molti e ciascuno di essi è uno.”
differenze non saranno più ammesse, in quanto tutto sarà essere, oppure si eliminerà la

molteplicità (dato che nulla potrebbe venire ammesso al di fuori di tali principi originari: se

infatti l‟essere o l‟uno fungessero da sostanze, nulla potrebbe essere predicato di essi, poiché

l‟essere appartiene solamente ad essi in quanto sostanze e nulla potrebbe darsi come Essere al di

fuori di esse). L‟esito di tale concezione, dunque, è che si finirebbe col dare ragione a

Parmenide. L‟assunto aristotelico qui nega che l‟Essere e l‟Uno in quanto tali possano fungere da

sostanze separate, in quanto la loro semplice sussistenza li porterebbe a negare il molteplice ed il

divenire.45 In parole povere, se l‟ Essere, ed allo stesso modo l‟Uno, si dessero come generi, essi

si predicherebbero delle loro differenze; nel caso fossero sostanze separate, l‟essere e l'uno non si

potrebbero predicare di null‟altro al di fuori delle sostanze medesime.

La descrizione che qui Aristotele fa della dottrina di Parmenide risulta del tutto coerente con

quanto si ritrova anche nella sua critica all‟eleatismo in Phy I, 2, dove lo Stagirita si impegna in

una confutazione sistematica della dottrina parmenidea, come vedremo in seguito. Questa analisi

del passo dell‟undicesima aporia all‟interno del libro B fornisce un ulteriore tassello per

comprendere il senso della critica che Aristotele muove alle dottrine eleatiche. È opportuno

ribadire che la descrizione che Aristotele fa delle filosodfie precedenti è sempre in qualche modo

“viziata” dalla sua Weltanschauung, nel senso che anche nella terminologia lo Stagirita,

intenzionalmente, rilegge le dottrine dei predecessori inserendole all‟interno del suo lessico

filosofico.

Un ultimo testo che occorre prendere in considerazione per completare il quadro dell‟opinione di

Aristotele sugli Eleati è un passo del De generatione et corruptione. In quest‟opera, come si è

visto, sono presenti due passi che rimanderebbero a un presunto dualismo più o meno esplicito

all‟interno del poema di Parmenide; tuttavia, analizzando il passo del De generatione et

45
“Ora, se l‟Essere e l‟Uno fossero sostanze, e quindi generi, essi non si predicherebbero delle differenze, perciò
queste non sarebbero né essere, né uno, e dunque gli enti diversi dall‟Essere e dall‟Uno non potrebbero esistere.”
Cfr, Berti, L‟Uno e i molti nella Metafisica di Aristotele, Op. cit., pag. 162.
corruptione, risulta decisivo un brano in cui lo Stagirita si scaglia in maniera più severa (rispetto

ai passi già analizzati) contro gli Eleati:

἖θ κέλ νὖλ ηνύησλ ηῶλ ιόγσλ ὑπεξβάληεο ηὴλ αἴζζεζηλ θαὶ παξηδόληεο αὐηὴλ ὡο ηῷ ιόγῳ δένλ ἀθνινπζεῖλ ἓλ θαὶ
ἀθίλεηνλ ηὸ πᾶλ εῖλαη θαζη θαὶ ἄπεηξνλ ἔληνη· ηὸ γὰξ πέξαο πεξαίλεηλ ἂλ πξὸο ηὸ θελόλ. Οἱ κὲλ νὖλ νὕησο θαὶ δηὰ
ηαύηαο ηὰο αἰηίαο ἀπεθήλαλην πεξὶ ηῆο ἀιεζέηαο· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ κὲλ ηῶλ ιόγνλ δνθεῖ ηαῦηα ζπκβαίλεηλ, ἐπὶ δὲ ηῶλ
πξαγκάησλ καλία παξαπιήζηνλ εἶλαη ηὸ δνμἀδεηλ νὕησο· νὐδέλα γὰξ ηῶλ καηλνκέλσλ ἐμεζηάλαη ηνζνῦηνλ ὥζηε ηὸ
πῦξ ἓλ εἶλαη δνθεῖλ θαὶ ηὸλ θξύζηαιινλ, ἀιιὰ κόλνλ ηὰ θαιὰ θαὶ ηὰ θαηλόκελα δηὰ ζπλήζεηαλ, ηαῦη‟ ἐλίνηο δηὰ ηὴλ
καλίαλ νὐζὲλ δνθεῖ δηαθέξεηλ46.

In questo passo è rilevabile una critica serrata da parte dello Stagirita ai monisti. Secondo

Aristotele la maniera di procedere degli Eleati è del tutto priva di fondamento, in quanto la loro

prospettiva implicherebbe il dovere ammettere come conseguenza, ad esempio, che fuoco e

ghiaccio sono la stessa unica realtà47, cosa che di fatto suona come un‟affermazione folle, nel

senso che contraddice il dato empirico nella sua ineludibile evidenza.

Abbiamo visto come in Phy. I Aristotele critichi la concezione eleatica, mostrando come la loro

speculazione sia in qualche modo “viziata” dall‟assunzione di premesse false (addirittura

assurde) dalle quali scaturiscono, a suo giudizio, conseguenze altrettanto insostenibili.

A questo punto è possibile giungere ad alcune considerazioni di carattere preliminare. Gli Eleati

non sono certamente gli unici autori oggetto di critica da parte di Aristotele e, come si è detto,

all‟interno del testo aristotelico la loro confutazione non è nemmeno quella più vasta; occorre

però osservare che, nell'ottica aristotelica, il pensiero di Parmenide e della sua scuola risulta

essere quello più radicale tra tutti gli autori precedenti; infatti l‟estremo razionalismo portato

avanti dagli Eleati pervade non solo l‟ambito della riflessione metafisica (all'interno della quale

46
“[…] Partendo dunque da questi ragionamenti, sorpassando e ignorando la sensazione, in quanto occorrerebbe
seguire solo la ragione, alcuni dicono che il tutto è uno, immobile e infinito (altrimenti infatti il limite coinciderebbe
con il vuoto), cioè Melisso (corsivo mio). Costoro, dunque, in questo modo e per questi motivi hanno manifestato le
loro opinioni sulla verità; ora, se si seguono i ragionamenti, sembra che accada così; se invece si considerano i fatti,
sembra quasi una follia: non c‟è infatti nessuno che sia così folle da credere che il fuoco e il ghiaccio siano una sola
realtà, ma solo alcuni, per la loro stoltezza, non vedono nessuna differenza tra le cose belle e le cose che appaiono
tali per abitudine.”(Cfr. De generatione et corruptione, A, 325a 13 - 23). Traduzione di Maurizio Migliori,
Bompiani, Milano 2013.
47
Questa affermazione esemplificativa resta comunque una lettura aristotelica in quanto dai frammenti del poema di
Parmenide non si può evincere in maniera esplicita una simile concezione di reductio ad unum in senso qualitativo
da parte dell‟Eleate. La stessa critica sarà approfondita dallo Stagirita nel primo libro della Fisica come argomento
decisivo contro Parmenide.
Aristotele si interrogò circa le problematiche inerenti l‟Essere in quanto tale, l‟Uno e la loro

sussistenza ontologica), ma anche l‟ambito della scienza fisica che, come lo stesso Aristotele

ricorda, sembrerebbe non dover tener conto di chi afferma che l‟essere e uno e immobile.

Tuttavia sulla base di quanto si è detto si comprende come la negazione del divenire in tutte le

sue forme da parte dell‟eleatismo sia invece la più complessa problematica inerente la fisica,

poiché la “battaglia” tra Aristotele e gli Eleati si gioca tutta attraverso l‟originaria ammissione

del movimento da un lato, e del concetto puro di essere dall‟altro. C‟è da dire però, che la critica

dello Stagirita resta comunque, tutto sommato, un‟interpretazione in base alla quale nella

dottrina parmenidea viene negato un qualsiasi riferimento al mondo dei fenomeni. Ripercorrendo

in generale la lettura aristotelica del pensiero eleatico, emerge come la tesi fondamentale di

Parmenide e della sua scuola si muova tutta in direzione della concezione di un universo, o

meglio di una realtà, che esclude in maniera perentoria l‟ambito fenomenico - naturale a

vantaggio di una concezione ontologica completamente estranea al divenire attraverso

l‟introduzione del concetto puro di on, cosicché gli Eleati divengono giocoforza i primi autori

che il fisico si troverà a dover confutare per procedere nella sua speculazione; ed è per questo

che, sebbene la critica agli Eleati sia presente in tutti i passi dossografici di Aristotele, nella

Fisica la loro analisi e confutazione risulta essere più vasta che in tutti gli altri testi: non più solo

necessaria, ma addirittura prioritaria.

La critica di Aristotele nel primo libro della Fisica.

L‟analisi più vasta e sistematica del pensiero eleatico nei testi di Aristotele è quella che si trova

nel primo libro della Fisica.

Come abbiamo ricordato sopra, per Aristotele la critica della filosofia eleatica, all‟interno del

filone presocratico, risulta essenziale per giungere alla fondazione di una scienza fisica a partire

dall‟immediata evidenza del mutamento che gli Eleati hanno negato.


In Phy. I, 2, dopo aver esposto in quanti e quali modi i predecessori si sono espressi sulla

questione del principio di tutte le cose, lo Stagirita parte immediatamente con l‟analisi e la critica

di Parmenide e Melisso:48

[…] ἢ ιύεηλ ιόγνλ ἐξηζηηθόλ, ὅπεξ ἀ,θόηεξνη κὲλ ἔρνζζηλ νἱ ιόγνη, θαὶ ὁ Μειίζζνπ θαὶ ὁ Παξκελίδνπ· θαὶ γὰξ
ςεπδῆ ιακβάλνπζη θαὶ ἀζπιιόγηζηνί εἰζηλ· κᾶιινλ δ‟ ὁ Μειίζζνπ θνξηηθὸο θαὶ νὺθ ἔρσλ ἀπνξίαλ, ἀιι‟ἐλὸο
ἀηόπνπ δνζέληνο ηὰ ἄιια ζπκβαίλεη·49

Dopo la presentazione delle dottrine dei predecessori (I, 1) e la discussione sul numero e la

natura dei principi, Aristotele inizia qui a trattare singolarmente i vari autori che hanno affrontato

prima di lui i medesimi problemi. Per quanto concerne il pensiero di Melisso, esso non

meriterebbe, secondo lo Stagirita, un‟analisi critica particolarmente articolata, poiché la sua

dottrina prende le mosse da premesse che de facto, nella prospettiva aristotelica, risultano fallaci

ed assurde a tal punto da risultare una tesi di natura eristica.

A partire da questo punto, incomincia l‟analisi teoretica dello Stagirita volta a confutare

l‟eleatismo, volta cioè a confutare quei predecessori che, nella maniera più radicale,

rappresentano un ostacolo nella costituzione di una scienza fisica:

ἀξρὴ δὲ νἰθεηνηάηε παζῶλ, ἐπεηδὴ πνιιαρῶο ιέγεηαη ηὸ ὄλ, πῶο ιέγνπζηλ νἱ ιέγνληεο εἶλαη ἓλ ηὰ πάληα, πόηεξνλ
νὐζηαλ ηὰ πάληα ἢ πνζὰ ἢ πνηά θαὶ πάιηλ πόηεξνλ νὐζίαλ ηὰ πάληα, νἶνλ ἄλζξσπνλ ἕλα ἢ ἵππνλ ἕλα ἢ ςπρὴλ κίαλ, ἢ
πνηὸλ ἓλ δὲ ηνῦην, νἷνλ ιεπθὸλ ἢ ζεξκὸλ ἢ ηῶλ ἄιισλ ηη ηῶλ ηνηνύησλ. ηαῦηα γὰξ πἀληα δηαθέξεη ηε πνιὺ θαὶ
ἀδύλαηα ιέγεηλ. […] ἔηη ἐπεὶ θαὶ αὐηὸ ηὸ ἓλ πνιιαρῶο ιέγεηαη ὥζπεξ θαὶ ηὸ ὄλ, ζθεπηένλ ηίλα ηξόπνλ ιέγνπζηλ
εἶλαη ἓλ ηὸ πᾶλ. ιέγεηαη δ‟ ἓλ ἢ ηὸ ζπλερέο ἢ ηὸ ἀδηαίξεηνλ ἢ ὧλ ὁ ιόγνο ὁ αὐηὸο θαὶ εἷο ὁ ηνῦ ηί ἦλ εἶλαη, ὥζπεξ
κέζπ θαὶ νἶλνο. εἰ κὲλ ηνίλπλ ζπλερέο, πνιιὰ ηὸ ἕλ· εἰο ἄπεηξνλ γὰξ δηαηξεηὸλ ηὸ ζπλερέο.50

48
A mio parere, la scelta di parlare di Parmenide e Melisso prima degli altri autori non è affatto casuale in un
contesto di scienza fisica. Difatti, sotto quest‟aspetto, il punto maggiormente critico della filosofia eleatica è la
negazione del divenire in quanto tale. Come è noto, invece, esso è, secondo Aristotele, il fondamento stesso della
Fisica. Pertanto risulta chiaro che i primi autori che Aristotele si trova necessariamente a dover confutare sono
proprio quelli che negano in maniera radicale l‟evidenza del mutamento nel mondo.
49
Cfr. Phy, I, 2, 185a 7 – 12: “[…] In caso contrario [scil. rispetto ad Eraclito], si tratta di affrontare una discussione
di tipo eristico, come avviene appunto a proposito di entrambi i ragionamenti, sia di quello di Melisso, come di
quello di Parmenide. Infatti ambedue assumono premesse false e procedono inoltre scorrettamente nella loro
argomentazione dimostrativa. Il ragionamento di Melisso è più grossolano e non costituisce un vero problema:
infatti, una volta introdotta un‟assurdità, tutte le altre ne scaturiscono di conseguenza.”
50
“Il punto di partenza più appropriato, dal momento che “ciò che è” si dice in molti modi , è di domandare in che
modo essi intendono la loro affermazione “tutte le cose sono uno”. Quest‟uno, infatti, al quale le cose si riducono, è
sostanza , o quantità oppure qualità? E ancora: tutte le cose sono una sostanza unica?, come ad esempio “un uomo”,
o “un cavallo” oppure “un anima”? Oppure “l‟uno” del quale parlano, è da intendere nel senso di “una sola qualità”,
e questa vale, ad esempio, come “bianco” o “caldo” o un‟altra cosa di questo genere? (Cfr. Phy., I, 2, 185 a 20 – 27)
[…]Inoltre dal momento che “uno” si dice in molti modi al pari di “essere”, allora dobbiamo fare oggetto di esame
Questo passo dalla Fisica costituisce l‟inizio della critica specifica alla concezione eleatica.

Dapprima lo Stagirita, ancora una volta, dà per presupposto che “l‟essere si dice in molti modi”

e, contrariamente a questa evidenza, invece Parmenide e Melisso dicono invece che “tutto è

uno”. Come si vede, allora, la violazione originaria fatta dagli Eleati è quella di avere inteso

l‟essere attraverso uno solo dei suoi possibili sensi, ovvero quello assoluto che si evince dalla sua

auto - predicazione, ovvero “l‟essere è”.51 Aristotele quindi, avendo premesso che l‟essere si

predica in molte maniere, prosegue nel sezionare i concetti del monismo. L‟attacco agli Eleati si

muove sempre sui binari di un lessico logico di derivazione esclusivamente aristotelica, come

appare chiaro.

Lo Stagirita prosegue analizzando in quali possibili modi potrebbe risultare plausibile

l‟affermazione secondo cui “tutto è uno”: secondo la sostanza, la quantità o la qualità. Gli ultimi

due sarebbero stati, appunto, i modi in cui avrebbero inteso l‟essere rispettivamente Parmenide e

Melisso. In tutti e tre i casi, il monismo non potrebbe comunque in alcun modo essere

giustificato poiché si ammetterebbe comunque una molteplicità o si giungerebbe ad un esito

aporetico.52

in che modo essi dicono che “tutto è uno”. “Uno” infatti si dice o ciò che è continuo o ciò che è indivisibile, o ciò
che ha lo stesso concetto e la stessa essenza come quando diciamo “bevanda inebriante” e “vino”. Se l‟ “uno” è
perciò il continuo, allora l‟ “uno” è molteplice, giacché il continuo è divisibile all‟infinito.” (Cfr. Phy. I, 3, 185b 5 –
11)
51
Su questo punto è opportuno soffermarsi. Come osserva G. Giardina (Cfr. op. cit. pp. 74 – 75): “[…] Aristotele
non ha alcun diritto di affermare, così come fa qualche riga dopo, che Parmenide sbaglia nel considerare che l‟essere
sia απιῶο, cioè ha un solo significato, mentre invece si dice πνιιαθῶο, ha cioè molti significati, perché questo è un
argomento che semplicemente oppone la propria posizione a quella di Parmenide […].” L‟analisi della Giardina è
chiara: risulta evidente, come evidenziato già più volte, come Aristotele stia un po‟ tirando l‟acqua al suo mulino;
come si comprenderà meglio dal commento alle righe successive, lo Stagirita non sta facendo altro che sostituire alle
premesse degli Eleati le proprie, tuttavia all‟interno del processo dimostrativo non è affatto detto che le premesse
dello Stagirita siano “più vere” di quelle di Parmenide, infatti l‟impossibilità di dare una giustificazione del
molteplice prende le mosse dal concetto puro di Essere che, è quello originariamente più autentico e logicamente
non contraddittorio in senso pieno ed originario; pertanto, d‟accordo con quanto scrive G. Giardina, la
puntualizzazione di Aristotele risulta, in questo caso, quantomeno problematica. Tuttavia si vedrà come è a partire
da questa premessa di fondo di Aristotele che l‟intero sistema eleatico si rivelerà assolutamente privo di
fondamento.
52
Questa conclusione è legittimata da un altro dei capisaldi del sistema di pensiero di Aristotele che è la dottrina
delle categorie che si trova espressa nell‟omonimo scritto facente parte dell‟Organon aristotelico. Secondo lo
Stagirita, soltanto la sostanza è soggetto di predicazione in quanto soggetto che non si predica di altro (in particolar
modo le sostanze prime, cioè l‟individuo singolo, hanno queste proprietà). Quantità e qualità sono due delle
categorie aristoteliche e, in quanto tali non potrebbero esistere senza la sostanza che funge da sostrato. Ammesso ciò
Secondo Aristotele, inoltre, essere ed uno si predicano alla stessa maniera53, pertanto il dire che

tutto è uno potrà significare o che la realtà è un continuum, in tal caso però (sempre per la

definizione Aristotelica di continuo come “ciò che è divisibile all‟infinito”54) vi sarà un‟infinita

divisibilità del tutto e, di conseguenza, una molteplicità.

L‟intera critica dello Stagirita, però, sembra essere in qualche modo contaminata da una

forzatura di fondo. Nella Fisica gli Eleati sono chiamati in causa al fine di verificare l‟effettiva

plausibilità della loro descrizione della realtà fenomenica. In realtà però sia in Melisso sia in

Parmenide55 non vi è alcun tentativo di ridurre, come dice Aristotele, tutto ad unità e ad

affermare che “tutto è Uno”. La tesi fondamentale dell‟Eleate (di cui quella di Melisso è una

rielaborazione) è quella dell‟assoluta identità dell‟essere con se stesso, identità che scaturisce dal

concetto puro di essere, che è la forma più originaria di identità. Nel passo seguente, la critica

entra nel vivo e si rivolge specificamente contro Melisso ed alla sua concezione dell‟infinito

come attributo essenziale dell‟essere.56

ὅηη κὲλ νὖλ παξαινγίδεηαη Μέιηζζνο, δῆινλ· νἴεηαη γὰξ εἰιεθέλαη, εἰ ηὸ γελόκελνλ ἔρεη ἀξρὴλ ἅπαλ, ὅηη θαὶ ηὸ κὴ
γελόκελνλ νὐθ ἔρεη. εἶηα θαὶ ηνῦην ἄηνπνλ, ηὸ παληὸο εἶλαη ἀξρήλ – ηνῦ πξάγκαηνο θαὶ κὴ ηνῦ ρξόλνπ, θαὶ
γελέζεσο κὴ ηῆο ἁπιῆο ἀιιὰ θαὶ ἀιινηώζεσο, ὥζπεξ νὐθ ἀζξόαο γηγλνκέλεο κεηαβνιῆο. ἔπεηηα δηὰ ηί αθίλεηνλ, εἰ
ἕλ; ὥζπεξ γὰξ θαὶ ηὸ κέξνο ἓλ ὄλ, ηνδὶ ηὸ ὕδσξ, θηλεῖηαη ἐλ ἑαπηῷ, δηὰ ηί νὐ θαὶ ηὸ πᾶλ; (Cfr. I, 3, 186 a 10 – 18)
[…] Μέιηζζνο δὲ ηὸ ὂλ ἄπεηξνλ εἶλαί θεζηλ. πνζὸλ ἄξα ηη ηὸ ὄλ· ηὸ γὰξ ἄπεηξνλ ἐλ ηῷ πνζῷ, νὐζίαλ δὲ ἄπεηξνλ
εἶλαη ἢ πνηόηεηα ἢ πάζνο [185 b] νὐθ ἐλδέρεηαη εἰ κὴ θαηὰ ζζκβεβεθόο, εἰ ἅκα θαὶ πνζὰ ἄηηα εἶελ· ὀ γὰξ ηνῦ
ἀπείξνπ ιόγνο ηῷ πνζῷ πξνζρξῆηαη, ἀιι‟ νὐθ νὐζίᾳ νὐδὲ ηῷ πνηῷ. εἰ κὲλ ηνίλπλ θαὶ νὐζία ἔζηη θαὶ πνζόλ, δύν θαὶ
νὐρ ἓλ ηὸ ὄλ· εἰ δ‟νὐζία κόλνλ, νὐθ ἄπεηξνλ, νὐδὲ κέγεζνο ἕμεη νὐδέλ57. (Cfr. I, 185 a 32 – 34; 185 b 1 – 5)

è evidente che in qualsiasi modo venga recepita l‟affermazione “tutto è uno”, essa ammetterà sempre almeno una
duplicità tra soggetto e predicato e, in questa prospettiva, il monismo si rivelerebbe confutato.
53
Dire che essere ed uno si predicano alla stessa maniera è da intendersi nel senso che sono coestensivi, ciò significa
che, per esempio: dire “Socrate è uomo” e dire “Socrate è un uomo” non altera il significato dell‟enunciato. Tuttavia
essi non sono completamente convertibili l‟uno nell‟altro, “La ragione per cui non si può parlare di identità
intensionale è che l‟essere e l‟uno, pur essendo, come dice Aristotele, “un identica cosa ed una sola natura, per il
fatto che non sono implicati (akoloutein) l‟uno nell‟altro” (Metaph. IV 2, 1003 b 32 – 33), “non sono resi manifesti
da un solo discorso” (Ibidem, b 22 – 25), cioè non hanno la stessa essenza in quanto, come già sappiamo, l‟essenza
dell‟uno è di essere unità di misura, e sotto quest‟aspetto l‟uno, pur dicendosi in tanti sensi in quanti si dice l‟essere,
non è convertibile con questo. Cfr. E. Berti, L‟Uno e i molti nella Metafisica di Aristotele, pag. 175.
54
Cfr. Phy. III, 200 b 20: ηὸ εἰο ἄπεηξνλ δηαηξεηὸλ ζπλερὲο ὄλ.
55
Se si esclude la seconda parte del poema dedicata ad alcune nozioni parmenidee di stampo naturalistico.
56
Il pensiero di Melisso prende spunto ovviamente dalla speculazione parmenidea sull‟essere. Tuttavia egli
attribuisce ai caratteri dell‟essere puro (espressi da Parmenide nel fr.8) anche quello dell‟infinito estensivo –
spaziale, in quanto se l‟essere non fosse infinito dovrebbe necessariamente ammettere un limite e, pertanto,
ammettere una certa forma di non – essere.
57
“Che Melisso ragioni in modo errato, è del tutto evidente. Egli infatti ritiene di poter concludere che, se “tutto ciò
che si genera ha un principio”, allora “ciò che non si genera, non ha un principio.” Inoltre va incontro anche a questa
assurdità, di ritenere che per ogni cosa vi sia un principio, ma non del tempo; e questo non solo in riferimento alla
generazione in senso assoluto, ma anche in rapporto all‟alterazione, come se il cambiamento non possa effettuarsi in
Prima di concentrarsi sulla confutazione del pensiero parmenideo, Aristotele passa in rassegna

quelle che sono i punti di partenza argomentativi di Melisso58; il filosofo di Samo assume alcune

premesse che risultano essere fallaci agli occhi di Aristotele ma, soprattutto, Melisso (come

Parmenide) non ammette alcun tipo di movimento per il suo essere, al fine negare ogni

possibilità di alterazione della sua essenza. Lo Stagirita contesta qui la negazione di qualsiasi

tipo di movimento all‟essere - tutto; la sua critica è rivolta al concetto di immobilità: se è pur

vero che qualcosa può essere localmente immobile, non si può negare che ammetta comunque un

certo tipo di mutamento intrinsecamente rispetto a sé, pertanto se è vero che l‟essere è immobile,

è altrettanto vero che non è inalterabile in senso assoluto.59

Melisso in aggiunta giunge alla conclusione secondo cui l‟essere deve avere il carattere, oltre che

dell‟immobilità e dell‟eternità60, anche dell‟infinità; l‟immagine della sfera parmenidea61 non

viene accolta dal filosofo di Samo, poiché si dovrebbe ammettere una differenza tra la sfera, il

suo limite e lo spazio in cui essa è inclusa. Questa idea di un essere come infinito ha reso la

un solo blocco. Inoltre perché argomentare che, se l‟essere è uno, esso è anche immobile? Infatti, posto che la parte
sia una, ad esempio la parte di quest‟acqua, essa può tuttavia muoversi in sé stessa. Perché questo stesso non
potrebbe avvenire per il tutto?” (Cfr. Phy I, 3, 186 a 10 – 18) “[…] Inoltre (corsivo mio) Melisso sostiene invece che
l‟essere è infinito. Ma se è così, l‟essere sarà allora quantità, dal momento che l‟infinito fa parte della quantità. Non
è invece possibile che la sostanza, o la qualità o l‟affezione siano infinite, se non in modo del tutto accidentale, e
cioè nel caso che tutte queste siano contemporaneamente da considerare come quantità. L‟infinito, infatti, fa parte
della quantità, mentre non è possibile che esso abbia a che fare né con la sostanza, né con la qualità. Nel caso invece
che ciò che è infinito sia ad un tempo sostanza e quantità, allora “ciò che è” sarà duplice, e non uno; se invece esiste
soltanto la sostanza, allora “ciò che è” non sarà infinito, né avrà alcuna grandezza: giacché in tal caso esso avrà una
quantità.” (Phy. I, 185 a 32 – 34; 185 b 1 – 5)
58
Secondo Aristotele, alcune delle quali assunte già da Parmenide, Cfr. Phy. I, 3, 186 a 22 – 23.
59
Questa critica di Aristotele sembra abbastanza fragile in relazione al monismo eleatico. Se l‟essere ha le
caratteristiche dell‟immobilità, è evidente che devono essere estese a qualsiasi tipo di mutamento, l‟immobilità a cui
fa riferimento Melisso è, evidentemente, un‟immobilità di tipo assoluto, non di tipo locale, pertanto non sarebbe
ammissibile il movimento nemmeno delle sue parti (benché parlare di parti è inappropriato nel sistema eleatico), ma
è escluso in tutte le sue forme.
60
Per approfondimenti su Melisso e la sua dottrina Cfr. Untersteiner – Reale, Eleati, Bompiani, Milano 2011. In
particolare pp. 661 – 1079. In sostanza Melisso evince l‟infinità dell‟Essere dalla sua assoluta inalterabilità, in
quanto un‟eventuale generazione di esso proverrebbe dall‟essere o dal non – essere, pertanto ad esso apparterranno i
caratteri dell‟eternità e dell‟infinità. Visione diversa è quella di Parmenide, secondo il quale dall‟assoluta
“imperturbabilità” dell‟Essere scaturisce una sua totale immobilità anche rispetto al tempo, per cui esso “vivrebbe”
un eterno presente.
61
Secondo Stelio Zeppi, prendendo spunto da un verso del frammento 8, l‟immagine della sfera parmenidea non
condurrebbe all‟aporia (vera o presunta) del confine col non – essere, superata da Melisso, ma “l‟ente parmenideo è
limitato, bensì, ma non per questo confina col non – ente: esso è circondato e delimitato dalla Dike – Ananke –
Moria”. Cfr. S. Zeppi, La concezione parmenidea della limitatezza spaziale dell‟ente e la teologia parmenidea, in
Studi sulla filosofia presocratica, La nuova Italia, Firenze 1962. Zeppi quindi interpreta la forma sferica dell‟essere
come una determinazione che è accolta in qualche modo, dalle divinità presenti nel poema.
posizione di Melisso in qualche modo “più vulnerabile” nel senso che nel concetto di infinito è

implicita l‟ammissione di un pluralità di parti che di fatto snaturerebbe il concetto puro di essere.

La critica aristotelica però non è solo rivolta al concetto di infinito come possibilità di una realtà

che, in quanto infinita, consterebbe di parti e quindi implicherebbe di conseguenza il molteplice;

lo Stagirita intende l‟infinito melissiano come un predicato quantitativo di un soggetto (quindi in

senso estensivo - spaziale). In parole povere se v‟è l‟infinto, esso deve necessariamente

appartenere ad un soggetto, cioè deve esserci qualcosa che sia infinita, qualcosa che “accolga” il

predicato dell‟infinità. Questa analisi viene elaborata sulla base della dottrina aristotelica delle

categorie62: essendo l‟infinito un predicato (e il predicato è sempre predicato di un soggetto),

deve predicarsi necessariamente di un sostrato. Tutto ciò conduce a cogliere una scissione tra

l‟essere e l‟infinito che si predica dell'essere e perciò, con l‟ammissione di questa differenza

originaria, non sarà corretto dire che l‟essere è infinito come fa Melisso63.

Conclusa la confutazione (non molto prolissa) del filosofo di Samo, Aristotele passa ad

analizzare la posizione parmenidea, che risulta essere la più problematica tra le tesi dei monisti e

molto più pregnante di quella di Melisso. Scrive lo Stagirita a proposito di Parmenide:

ςεπδὴο κὲλ ᾗ ἁπιῶο ιακβάλεη ηὸ ὂλ ιέγεζζαη, ιεγνκέλνπ πνιιαρῶο, ἀζπκπέξαληνο δὲ ὅηη, εἰ κόλα ηὰ ιεπθὰ
ιεθζείε, ζεκαίλνληνο ἓλ ηνῦ ιεθνῦ, νὐζὲλ ἧηηνλ πνιιὰ ηὰ ιεπθὰ θαὶ νὐρ ἕλ· νὔηε γὰξ ηῇ ζπλερείᾳ, ἓλ ἔζηαη ηὸ
ιεπθὸλ νὔηε ηῷ ιόγῳ. ἄιιν γὰξ ἔζηαη ηὸ εἶλαη ιεπθῷ θαὶ ηῷ δεδεγκέλῳ. θαὶ νὐθ ἔζηαη παξὰ ηὸ ιεπθὸλ νὐζὲλ
ρσξηζηόλ· νὐ γὰξ ᾗ ρσξηζηὸλ ἀιιὰ ηῷ εἶλαη ἕηεξνλ ηὸ ιεπθὸλ θαὶ ᾧ ὑπάξρεη. ἀιιὰ ηνῦην Παξκελίδεο νὕπσ
ζπλεώξα.64

62
Sulla categoria della quantità Aristotele si sofferma soprattutto nel capitolo 6 delle Categorie.
63
Con l‟aiuto di una terminologia tipicamente aristotelica, si potrebbe dire che in Melisso l‟infinito è in atto,
ribaltando completamente la concezione aristotelica; l‟infinito melissiano è eterno e perenne, senza possibilità di
alterazione, poiché sarebbe la caratteristica più esplicativa del concetto puro di essere. In Aristotele il concetto di
infinito è capovolto, in quanto esso sussiste soltanto in potenza, come ciò che non giunge mai a compimento.
64
“La premessa [scil. di Parmenide] di fondo è falsa, in quanto egli assume che “essere” si dice in senso assoluto,
mentre esso si dice in molti modi. Ma anche la conclusione del ragionamento non è corretta, perché, anche se si
concede che esistono solamente cose bianche e che “essere” significa “bianco”, nondimeno le cose bianche saranno
molteplici e non uno. Infatti “ciò che è bianco” non sarà “uno” né secondo il continuo né secondo la definizione.
L‟essenza di ciò che è bianco, infatti, sarà diversa dal suo sostrato e non vi sarà nulla che possa esistere come realtà
separata al di fuori di ciò che è bianco. In effetti “il bianco” differisce non in quanto realtà che ha un‟esistenza
separata, ma perché la sua essenza è altra dalla “cosa bianca”. Ma Parmenide questa differenza non l‟aveva ancora
intravista.” (Cfr. Phy., I, 186 a 24 – 32)
La lettura qui proposta da Aristotele parte dal presupposto che la tesi di fondo della dottrina

parmenidea (per noi desumibile in effetti da DK B 28. 2) pone come assunto fondamentale il

fatto che l‟essere si dice in senso assoluto, ovvero “l‟essere è”, mentre, secondo lo Stagirita, esso

si predica in molti modi. Da ciò si evince che, date delle premesse evidentemente non corrette,

anche le conclusioni a cui perviene Parmenide saranno “figlie” di quell‟assioma originario sulla

natura meramente auto - predicativa dell‟essere.

Se infatti si sostituisse, per analogia, il predicato “bianco” all‟ “essere”, questo assunto non

potrebbe in alcun modo negare l‟esistenza di una molteplicità di cose bianche, poiché dire che

tutte le cose sono bianche non elimina, anzi allude ad una molteplicità, cosicché si dovrebbe

ammettere una molteplicità all‟interno dell‟intero indivisibile.65 Oltre a ciò, Aristotele ha

premura di corroborare questo argomento attraverso un‟ulteriore prova: lo Stagirita distingue

infatti il “bianco”, in quanto predicato secondo la qualità, da “ciò che è bianco” come soggetto di

predicazione, sostrato. Posto che l‟essere si dice “in molti modi”, negli ultimi due casi si pone la

differenza tra essere come accidente (ad esempio: “l‟uomo è bianco”) dall‟essere in senso

esistenziale (“l‟uomo bianco è”).66 Gli Eleati però, ci dice Aristotele, hanno posto come

premessa che l‟essere si dice in un solo modo ed in senso assoluto; da questa premessa fallace,

nella prospettiva filosofica dello Stagirita, consegue necessariamente che:

ἀλάγθε δὴ ιαβεῖλ κὴ κόλνλ ἓλ ζεκαίλεηλ ηὸ ὄλ, θαζ‟νὗ ἂλ θαηεγνξεζῇ, ἀιιὰ θαὶ ὅπεξ ὂλ θαὶ ὅπεξ ἕλ67.

65
Come si vede, questa argomentazione segue di pari passo quella rivolta già a Melisso, trasponendo qui la critica
sul piano del predicato della qualità anziché della qualità.
66
Questa è l‟interpretazione,a mio avviso, più condivisibile di questo passo ed è la stessa proposta da F. Pazzelli: “Il
bianco è una qualità di sostanze, non una sostanza esso stesso. E differisce dalla sostanza non in quanto 'realtà
separata', giacché non può esistere il bianco senza una cosa che sia bianca, ma perché la sua essenza è altra dalla
cosa bianca: sono due diversi modi d‟essere, l‟essere bianco di una cosa che è bianca, e l‟essere di una cosa che è
bianca. Parmenide non aveva intravisto questa differenza, vale a dire la differenza tra diversi livelli di essere,
l‟essere di un accidente (bianco) e l‟essere di una sostanza (la cosa bianca, ovvero la cosa di cui il bianco si
predica)”. Cfr. F. Pazzelli, Il confronto di Aristotele con l‟eleatismo in Phys. I, 2-3, in «Syzetesis», 2011. D‟altra
parte il fraintendimento di Parmenide potrebbe essere stato letto, da Aristotele, anche sotto la possibile non
distinzione tra soggetto e predicato (nella predicazione di ην ενλ in senso assoluto viene meno la distinzione tra
l‟essere e ciò che è, in quanto formano un tutt‟uno). Tuttavia, come si è sottolineato, la questione qui sembrerebbe
procedere nell‟ambito dei “modi” secondo i quali l‟essere si dice e quindi, a mio modo di vedere, è giusto ammettere
che la critica di Aristotele sia stata formulata sulla base di un fraintendimento degli Eleati sui polivocità dei sensi
dell‟essere.
67
[…] egli [scil. Parmenide] deve assumere di conseguenza non solo che “essere” significa una stessa cosa in
riferimento a qualunque realtà della quale esso si predica, ma anche che è “propriamente essere” e “propriamente
uno”. Cfr. Phy, I 3,186a 32 e sgg.
Dunque dalla premessa che l‟essere di dice solo in senso assoluto, gli Eleati non porrebbero

distinzioni tra i differenti modi in cui l‟essere si dice, poiché si predicherebbe soltanto in senso

assoluto, da queste erronee considerazioni iniziali consegue necessariamente che l‟essere risulta

essere uno. Tuttavia il pensiero di Parmenide, per stessa ammissione dello Stagirita, presenta

maggiori difficoltà di quello di Melisso, pertanto la sua confutazione è più estesa e prosegue

anche nelle righe successive:

ηὸ γὰξ ζπκβέβεθὸο θαζ‟ὑπνθεηκέλνλ ηηλὸο ιέγεηαη, ὥζηε ᾦ ζπκβέβεθε ηὸ ὄλ, νὐθ ἔζηαη (ἕηεξνλ γὰξ [186b] ηνῦ
ὄληνο)· ἔζηαη ηη ἄξα νὐθ ὄλ. νὐ δὴ ἔζηαη ἄιιῳ ὑπάξρνλ ηὸ ὅπεξ ὄλ. νὐ γὰξ ἔζηαη ὄλ ηη αὐηὸ εἶλαη, εἰ κὴ πνιιὰ ηὸ ὂλ
ζεκαίλεη νὕησο ὥζηε εἶλαί ηη ἕθαζηνλ. ἀιι‟ ὑπόθεηηαη ηὸ ὂλ ζεκαίλεηλ ἕλ. 68

L‟assunto dell‟identità di “essere” ed “uno” viene qui posto da Aristotele come premessa della

filosofia eleatica, per evidenziarne le assurdità a cui essa conduce: se ogni predicato si predica di

qualche sostrato, nessun sostrato sarà (cioè avrà determinazione alcuna), poiché non esisterà

nulla al di fuori dell‟essere; inoltre se, al contrario, il sostrato sarà l‟essere, esso si dirà in molti

modi (in quanto essendo un sostrato deve essere in qualche maniera determinato e, pertanto, si

dirà in molti modi). Così entrambe le possibilità poste da Parmenide risulteranno confutate.

Aristotele infine, come ultima argomentazione contro gli Eleati, riporta l‟infondatezza della loro

argomentazione: se si ammettesse l‟ “essere” come “uno” allora si dovrebbe anche ammettere

l‟identità dell‟essere con il nulla in quanto:

εἰ γὰξ ἔζηαη ηὸ ὅπεξ ὂλ [ηαὐηὸ] θαὶ ιεπθόλ, ηὸ ιεπθῷ δ‟εἶλαη κὴ ἔζηηλ ὅπεξ ὄλ (νὐδὲ γὰξ ζπκβεβεθέλαη αὐηῷ νἶόλ
ηε ηὸ ὄλ· νὐδὲλ γὰξ ὂλ ὃ νὐρ ὅπεξ ὄλ), νὐθ ἄξα ὂλ ηὸ ιεπθόλ· νὐρ νὕησ δὲ ὥζπεξ ηη κὴ ὄλ, ἀιι‟ ὅισο κὴ ὄλ. ηὸ ἄξα
ὅπεξ ὂλ νὐθ ὄλ· ἀιεζὲο γὰξ εἰπεῖλ ὅηη ιεπθόλ, ηνῦην δὲ νὐθ ὂλ ἐζήκαηλελ. ὥζηε θαὶ ηὸ ιεπθὸλ ζεκαίλεη ὅπεξ ὄλ69.

68
“Infatti, ogni predicato viene detto di qualche sostrato. Sicché ciò di cui esso si predica non sarà, dal momento che
è diverso da “essere”. Pertanto sarà qualcosa di non-esistente. Dunque, “ciò che propriamente è essere” non è
predicato di altro. Infatti il sostrato non sarà “essere”, a meno che “essere” sia significante in molti modi, così che
ciascuno di questi modi sia qualcosa che è. Si è posto, al contrario, come premessa, che “essere” significa
“uno”,(Cfr. Phy. I 3, 186 a 34 – 186b 6).
69
“Ma se “ciò che propriamente è essere” non è predicato di qualcosa, ma è di esso che i predicati si dicono, allora
perché ciò che è “propriamente essere” significa “essere” piuttosto che “nulla”? Se supponiamo infatti che “ciò che
propriamente è essere” e “ciò che è bianco” siano identici, e che l‟essenza di ciò che è bianco e l‟essenza dell‟
“essere che propriamente è” invece non lo siano – “essere” infatti non può venir predicato di ciò che è bianco -, dal
momento che non v‟è niente che sia differente da “ciò che propriamente è essere”, ne consegue che ciò che è bianco
non è; e questo non nel senso che è un certo non – essere, ma nel senso che è non – essere in senso assoluto. Dunque
“ciò che propriamente è essere”, è non – essere. Infatti è vero dire che esso è bianco, e che bianco significa non –
Questo argomento “per analogia” è quello definitivo usato dallo Stagirita per confutare

l‟eleatismo. Egli pone, in maniera esemplificativa, l‟identità tra “ciò che propriamente è essere”

e “ciò che è bianco”; tuttavia l‟essenza del primo e l‟essenza del secondo non coincidono, in

quanto il bianco ha bisogno del predicato dell‟essere per determinarsi, ma, poiché al di fuori

dell‟essere non è dato nulla, “ciò che è bianco” non può determinarsi come tale e, di

conseguenza, non essendo determinato (e determinabile) risulterà nulla; così, poste queste

argomentazioni, dire essere e dire nulla saranno due maniere di discorrere equivalenti.

Questo procedimento dello Stagirita procede per assurdo, assumendo per ipotesi che l‟essere sia

uno, proprio come fanno gli Eleati; come si è visto, Aristotele, per argomentare, assume le

premesse dei monisti per dimostrarne le assurdità intrinseche ai loro stessi presupposti. Nel suo

tentativo di confutazione dell‟eleatismo, lo Stagirita analizza il pensiero degli Eleati all‟interno

dei propri schemi categoriali, non tenendo conto dell‟esatta concezione parmenidea di to eon70.

Parmenide, infatti, aveva espresso, la necessità che solo l‟essere sia e l‟impossibilità di dire e

pensare il nulla71. Nell‟espressione parmenidea “L‟essere è e non può non essere” il concetto

puro di essere esprime per sé stesso la necessità della sua (auto) determinazione: “si giunge alla

conclusione che solo l‟Essere è autenticamente, poiché solo all‟essere può riferirsi in senso vero

l‟auto-predicazione dell‟è”72, nel concetto puro di essere “sono originariamente compresenti il

senso ontologico-esistenziale e quello (auto-) predicativo”73. Mentre per Aristotele è necessario

porre un sostrato e un predicato che lo determini in quanto tale, nella prospettiva del monismo

parmenideo la determinazione dell‟essere prende le mosse dal concetto puro di to eon che

implica in se stesso la propria esistenza.

essere; sicché, se anche ciò che è bianco significa “ciò che propriamente è essere”, allora “essere” ha molti
significati.” (Cfr. Phy, I 3, 186 b 6 - 12)
70
Il termine greco per indicare l‟essere è τὸ ὄν, nel poema di Parmenide, invece, si trova il sostantivo ηὸ ἐόλ;
l‟aggiunta della ε è una variazione linguistica della colonia di Elea.
71
Cfr. 28 B 2 DK.
72
Cfr. M. Abbate, Op. cit., pag. 5
73
Ivi.
Il presupposto aristotelico è l‟impossibilità di ammettere l‟esistenza di un sostrato privo di alcun

predicato (come potrebbe una sostanza esistere, senza le sue determinazioni?); nel caso che il

sostrato sia l‟essere, come ammettono gli Eleati, ciò condurrebbe necessariamente ad un‟aporia

insolubile in quanto il fatto stesso di affermare che l‟ “essere è” porrebbe, secondo lo Stagirita,

una determinazione di tipo esistenziale, e perciò un dualismo, una molteplicità.

Perché nella prospettiva parmenidea, invece, non si può propriamente parlare di dualismo

originario? L‟auto-predicazione dell‟essere non pone una contraddizione all‟interno della sua

essenza74: dire “l‟essere è” è il modo attraverso il quale Parmenide ha espresso il concetto puro

di Essere in senso assoluto; la polivocità dell‟essere aristotelico pone una intrinseca

differenziazione dei suoi modi di predicazione, implicando con ciò stesso, nella prospettiva

parmenidea, una sorta di non-essere (sotto forma di differenza) all‟interno della nozione stessa di

essere; per Parmenide la verità originaria del concetto puro di essere si esprime attraverso l‟auto-

predicazione che non sfocia né in un dualismo né in una tautologia: queste infatti saranno

solamente apparenti, poiché nella formula parmenidea “l‟essere è” è espresso il concetto astratto

assoluto di essere in cui il predicato è il soggetto stesso: quindi si ha un‟identificazione primaria

che non può essere in alcun modo scissa in un dualismo contraddittorio.

Se la critica aristotelica prende le mosse dalla dottrina delle categorie per mostrare come, per

determinarsi in quanto tale, anche il concetto di essere finirebbe per manifestare un‟aporetica

intrinseca pluralità (soggetto, predicato e copula), dal punto di vista dell‟Eleate, invece, il

concetto puro di essere ha in se stesso un‟intrinseca coerenza che si manifesta nella propria auto-

predicazione, che non implica in alcun modo pluralità, bensì l‟auto-identità assoluta dell‟essere

in cui si manifesta la sua stessa essenza.

74
Secondo l‟interpretazione di M. Abbate, sarebbe l‟assoluta ed originaria auto – identità dell‟essere con sé stesso ad
eliminarne le contraddizioni e ad assicurare il suo valore di verità intrinseco. Da questa apparente tautologia si
ricaverebbe l‟originaria e più autentica enunciazione del principio di identità. Se qualsiasi identità ha bisogno
sempre del concetto di essere per determinarsi, l‟essere non ha invece bisogno d‟altro che di sé stesso per
determinarsi in quanto essere, quindi con Parmenide avviene l‟originaria e più intrinsecamente coerente
affermazione di un‟identità originaria. Scrive Abbate: “la proposizione l‟essere è non solo delinea la realtà
dell‟essere, in quanto nel concetto di ην εόλ essere e realtà sono di fatto la stessa identica cosa, ma sulla base del
principio di identità in tale proposizione viene stabilita la natura stessa della verità, che si identifica a sua volta con
ciò che è appunto l‟ ενλ”. Cfr. Ibidem, pag. 8.
La critica aristotelica e la concezione parmenidea

Si è visto come sia nella Metafisica sia nella Fisica vi sia un rimando critico più o meno

analitico al pensiero degli Eleati; in particolar modo la critica dello Stagirita viene sviluppata nel

primo libro della Fisica in cui, come si è visto, Aristotele ha voluto immediatamente confutare la

filosofia monistica, la quale nega all'interno dell‟essere qualsiasi tipo di molteplicità e divenire,

sia in senso assoluto sia in senso relativo. In tale contesto risulta evidente come la priorità dello

Stagirita sia mostrare l‟assoluta infondatezza delle argomentazioni di coloro che in maniera

radicale asseriscono l‟impossibilità del mutamento: Aristotele ha mostrato come la filosofia

eleatica sia il prodotto di alcune “assurdità” introdotte nel contesto argomentativo come

premesse, il cui esito è necessariamente assurdo. Infine, sono state analizzate le critiche

specifiche fatte da Aristotele, mostrando come esse siano tutte fondate sulla sua concezione delle

categorie.

La critica aristotelica intende mostrare la fallacia delle tesi monistiche attraverso i concetti di

predicazione e di sostanza.

In realtà al pensiero parmenideo, proprio in considerazione della sua natura, non sono in alcun

modo applicabili, da un punto di vista teoretico, i presupposti concettuali e l‟impianto filosofico -

argomentativo elaborati da Aristotele. Esso sembra piuttosto prendere forma a partire dalla

concezione dell‟originaria identità dell‟essere con sé stesso75. La verità esposta da Parmenide,

dunque, non si pone il problema del soggetto e del predicato, ma ingloba nell‟essere la

determinazione assoluta e incontrovertibile dell‟identità originaria desunta dal concetto puro di

essere.

Rimane comunque aperta, come vedremo più dettagliatamente in seguito, la complessa questione

circa una plausibile ammissione di più livelli di sapere all‟interno della prospettiva parmenidea;

75
Quantomeno questo è uno tra gli aspetti. Le interpretazioni intorno all‟Essere parmenideo spaziano in maniera
vasta dalla logica alla cosmologia e quella della formulazione di una mera identità logico – astratta non è che una
delle molteplici interpretazioni proposte. Resta comunque confermato il fatto che la critica di Aristotele prende le
mosse dalle sue categorie filosofiche alterando, almeno in parte, il significato del messaggio parmenideo.
entro tale prospettiva può essere letta la seconda parte del poema “Sulla natura”, dedicata

all‟esposizione delle “opinioni dei mortali”.

Resta da comprendere quindi se Parmenide abbia fatto a meno dell‟aspetto fenomenico e

sensibile della realtà, relegando le “opinioni dei mortali” a mere illusioni prive di fondamento,

oppure se la riflessione sulla dimensione fenomenica sia stata da lui inglobato nella prima “via”

come parte di un metodo di ricerca positivo.


CAPITOLO SECONDO:

IL MONDO FENOMENICO E IL TENTATIVO DI UNA SUA


FONDAZIONE RAZIONALE.

La verità dell’essere parmenideo come principio razionale di opposizione alle


opinioni dei mortali: struttura ed elementi portanti del poema “Sulla natura.”

Parmenide di Elea76 è stato il pensatore, tra i presocratici, che più di tutti ha elaborato una

dottrina filosofica radicale di stampo fortemente razionalista, “the most metaphysical concept in

Presocratic thought”, per utlizzare un‟espressione di C. Kahn 77, e che ha avuto un‟influenza

condizionante sui filosofi immediatamente successivi78 fino a Platone79. A lui viene fatta

generalmente risalire l‟origine della “Scuola eleatica”80 e dell‟ontologia occidentale; come si è

visto, prima di Parmenide la riflessione filosofica è stata incentrata prettamente sulla ricerca di

un principio di tutte le cose; solo con Parmenide si ha una svolta in senso razionalistico ed

ontologico: mai prima dell‟Eleate era stato affrontato il problema del concetto di essere in senso

76
Ancora oggi, nell‟odierna Ascea, la figura di Parmenide viene ricordata come quella di un sapiente a 360°; dal
punto di vista prettamente filosofico l‟interesse degli studiosi è focalizzato sul poema “Sulla natura.” C‟è comunque
da dire che, storicamente, la figura dell‟Eleate è associata anche a quella del medico e di legislatore dell‟allora
colonia focea di Elea. Per un profilo più dettagliato delle figure storiche di Parmenide e Zenone rimando a L.
Rossetti, I sophoi di Elea: Parmenide e Zenone, Levante, 2009. Sulla tradizione medica arcaica, in cui rientra lo
stesso Parmenide, si veda G. Calogero, Filosofia e medicina in Parmenide, in Scritti minori di filosofia antica,
Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 69 – 71, e Francesca Gambetti, Il Parmenide medico negli studi del Novecento in N. L.
Cordero et al., Parmenide scienziato?, in Eleatica 2006, pp. 91 – 102 e relativa replica del prof. Cordero (pp. 153 –
154), Academia, Sankt Augustin 2008 e V. Nutton, The medical school of Velia,
77
Cfr. C. Kahn, The greek verb „to be‟ and the concept of being, in “Foundation of language”, n°2, 1966, pp. 245 –
265.
78
Il “dogma” parmenideo che attribuisce all‟essere caratteri di assoluta inalterabilità ha condizionato il pensiero dei
successivi autori presocratici, a cominciare dagli atomisti, fino ad arrivare alla reazione di Gorgia ed alla tradizione
sofistica in generale, secondo cui non è possibile realizzare o ammettere alcun discorso falso, in quanto il negativo,
de facto, non può sussistere (mantenendo appunto sullo sfondo la scissione tra essere e non – essere espressa
dall‟Eleate). Questo presupposto è alla base del relativismo sofistico contro cui si scaglia anche Platone soprattutto
nel Sofista e nel Teeteto.
79
Per Platone, Parmenide costituisce una figura particolarmente imponente, come personalità di confronto nella
costituzione del suo sistema filosofico. I cosiddetti dialoghi dialettici della maturità (quelli dove trova maturazione
la teoria delle idee nella maniera in assoluto più problematica all‟interno del corpus platonico) sono le opere dove la
presenza speculativa del filosofo di Elea si manifesta in tutta la sua importanza.
80
Non si può parlare di una vera e propria scuola (alla maniera dell‟Accademia o del Peripato) per quanto riguarda
gli Eleati, sebbene il termine “Scuola eleatica” venga spesso utilizzato dagli studiosi, esso è volto principalmente ad
indicare un preciso filone filosofico che prende le mosse dal pensiero di Parmenide (secondo alcuni da Senofane)
intorno all‟essere e agli sviluppi nelle filosofie degli adepti Melisso e Zenone.
stretto81. Il poema di Parmenide – sono circa 150 i versi dei frammenti giunti sino a noi –

rappresenta l‟unico scritto pervenutoci del filosofo eleatico: esso contiene la dottrina dell‟essere

e la critica alle opinioni dei mortali82. L‟intero impianto di pensiero è fondato su una netta e

rigorosa distinzione tra verità ed opinione, aletheia e doxa83: se nella prima parte viene esposta la

81
Per una panoramica generale sul pensiero presocratico e presofistico, oltre a Donini – Ferrari, Op. cit., si veda
anche G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. I: Orfismo e presocratici naturalisti, Bompiani, Milano
2004.
82
Un tipo di interpretazione decisamente sui generis del poema di Parmenide è quella proposta da Antonio Capizzi,
divenuta ormai una delle più celebri: secondo lo studioso, il poema di Parmenide, pur presentandosi come una
trattazione mitico – allegorica a sfondo ontologico, in realtà nasconderebbe contenuti prettamente politici inerenti
alla situazione storica contemporanea della colonia eleatica: “Si tratta di mettere la parola ˂˂fine˃˃ al pensiero
disincarnato, alle idee asettiche, alle trasmissioni telepatiche. Si tratta di rileggere, tutti insieme, il proemio e l‟intera
opera alla luce del Parmenide storico, del Parmenide in carne ed ossa che abitava una città fatta di case, muri e
strade.” Cfr. Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Edizioni dell‟Ateneo, Roma 1975, pag. 27. Una sintesi con
commento del lavoro di Capizzi si trova in G. Casertano, Discutendo di Parmenide, in “Il pensiero”, XX, 1975, pp.
189 – 200. Scrive Casertano, in evidente disaccordo: “Non comprendiamo bene perché un buon legislatore, per la
concordia della sua città, debba sopportare teorie astronomiche e mediche nelle quali non nutre alcuna fiducia.
Come può una descrizione, per quanto errata, della volta celeste, della terra del sole della luna della via lattea, delle
“corone” celesti, del modo in cui uomini e donne si accoppiano e danno luogo alla nascita di altri maschi e femmine,
turbare la concordia politica di una città?” (p.199) Casertano si appella alla presenza delle dottrine doxastiche
presenti nel poema, che da Capizzi sono minimizzate come testimonianze di cultura storica dell‟epoca. A ciò mi
sento di aggiungere che non concordo con una lettura storico – politica del poema, poiché ciò significherebbe
astrarre completamente Parmenide dalla cultura filosofica del suo tempo che, come si è visto, ha per oggetto la
ricerca dell‟ ὰξρή.
83
La “canonica” differenza tra aletheia e doxa inaugurata da Parmenide, viene riformulata da Platone all‟interno dei
suoi dialoghi. La distinzione platonica è tra doxa ed episteme; il non – essere, cioè il nulla, non può essere
determinato. Ciò che rende l‟opinione tale, nella prospettiva platonica, è la commistione di essere e non – essere (un
non – essere inteso come differenza, concetto che maturerà nel Sofista) che si pone come intermedio tra la verità e
l‟opinione. A mio avviso questa chiave di lettura “platonizzante” è ciò che inficia anche la corretta interpretazione
dei due principi parmenidei di “Luce” e “Notte” quali corrispondenti a essere e non – essere. In virtù di ciò, si legge
nel V libro della Repubblica: Ἆξ‟ νὖλ ηὸ κὴ ὂλ δνμάδεη; ἢ ἀδύλαηνλ θαὶ δνμάζαη ηό γε κὴ ὄλ; ἐλλόεη δέ. νὐρ ὁ
δνμάδνσλ ἐπί ηη θέξεη ηὴλ δόμαλ; ἢ νἶόλ ηε αὖ δνμάδεηλ κέλ, δνμάδεηλ δὲ κεδέλ; - Ἀδύλαηνλ. - Ἀιι‟ ἕλ γέ ηη δνμάδεη
ὁ δνμάδσλ; - Ναί - Ἀιιὰ κὴλ κὴ ὄλ γε νὐρ ἕλ ηη ἀιιὰ κεδὲλ ὀξζόηαη‟ ἂλ πξνζαγνξεύηην; - Πάλπ γε. – Μὴ ὄληη κὴλ
ἄγλνηαλ ἐμ ἀλάγθεο ἀπέδνκελ, ὄληη δὲ γλῶζηλ; - ὆ξζῶο, ἔθε. – Οὐθ ἄξα ὂλ νὐδὲ κὴ ὂλ δνμάδεη; - Οὐ γάξ. – Οὔηε
ἄξα ἄγλνηα νὔηε γλῶζηο δόμα ἂλ εἴλ; - Οὐθ ἔνηθελ. - Ἆξ‟νὖλ ἐθηὸζ ηνύησλ ἐζηίλ, ὑπεξβαίλνπζα ἢ γλῶζηλ ζαθελείᾳ
ἢ ἄγλνηαλ ἀζαθείᾳ; - Οὐδέηεξα. - Ἀιι‟ἆξα, ἦλ δ‟ἐγώ, γλώζεσο κέλ ζνη θαίλεηαη δόμα ζθνησδέζηεξνλ, ἀγλνίαο δὲ
θαλόηεξνλ; - Καὶ πνιύ γε, ἔθε. - ἖σηὸο δ‟ἀκθνῖλ θεῖηαη; - Ναί. – Μεηαμὺ ἄξα ἂλ εἴλ ηνύηνηλ δόμα. – Κνκηδῇ κὲλ
νὖλ. Così traduce Vegetti: “ - „E‟impossibile‟ disse, „stando a quanto si è convenuto: se facoltà diverse sono per loro
natura correlate ad oggetti diversi, posto che entrambe siano facoltà, l‟opinione e la scienza, e reciprocamente
diverse, come abbiamo affermato, da queste premesse non può conseguire che l‟opinabile e il conoscibile siano la
stessa cosa.” – “Se dunque conoscibile è ciò che è , opinabile sarà qualcosa di diverso da ciò che è?” – “Diverso.” –
“Verte allora l‟opinione su ciò che non è? Oppure è impossibile perfino formulare opinioni su ciò che non è?
Rifletti. Chi opina non riferisce forse la sua opinione a qualcosa? oppure è bensì possibile opinare, pur vertendo
l‟opinione su nulla?” – “Impossibile.” – “Allora l‟opinione di chi opina verterà comunque su qualche cosa?” – “Sì.”
– “Ma ciò che non è, non è certo qualche cosa, bensì con la massima correttezza potrebbe essere chiamato un nulla.”
– “ Senz‟altro.” – “A ciò che non è abbiamo necessariamente attribuito l‟ignoranza, a ciò che è invece la
conoscenza?” – “Esatto” disse. – “L‟opinione non si riferisce dunque né a ciò che è né a ciò che non è?” – “No
davvero.” – “L‟opinione non sarebbe quindi né ignoranza né conoscenza?” – “Sembra di no.” – “Sta perciò al di
fuori di entrambe, superando la conoscenza per certezza o l‟ignoranza per incertezza?” – “Né questa né quella.” –
“Ma allora” dissi io “ti appare forse l‟opinione più oscura della conoscenza, più chiara invece dell‟ignoranza?” – “E
di molto” disse. – “E si colloca fra l‟una e l‟altra?” – “Sì.” – “L‟opinione sarebbe dunque intermedia fra queste.” –
“Senza dubbio.” Cfr. Resp. V, 478 b 5 – d 4. Trad. di M. Vegetti, BUR, Milano, 2010. A tal riguardo riporto le
parole di Vegetti: “ La produzione dei metaxy ha invece esplicitamente luogo a partire dal vertice epistemologico.
Se esiste una forma di conoscenza intermedia fra episteme e agnoia, l‟oggetto cui essa si riferisce dovrà avere uno
statuto parimenti intermedio fra essere e non – essere (477 a – b). Ma tale forma esiste: si tratta della capacità di
dottrina parmenidea intorno all‟essere (ηὸ ἐόλ), che è unanimemente riconosciuta come

l‟esposizione dell‟autentica ontologia eleatica, la seconda parte, la doxa (che viene fatta

solitamente iniziare dai più a partire da DK 28 B 8, vv. 51 e ss.) è quella che dal punto di vista di

una visione di insieme risulta più difficilmente collocabile all‟interno del nucleo speculativo

complessivo dell‟intero poema; de facto, la parte concernente la doxa presenta, seppur in

maniera frammentaria, una molteplicità di nozioni di natura fisico-cosmologica che rispecchiano

la cultura del tempo in materia.

Come è noto, il poema inizia con un proemio dove Parmenide è autore e protagonista della

vicenda, condotto lungo la strada (ὁδόο) propria dell‟uomo che sa84: l‟Eleate, condotto dalle

immortali figlie del Sole, si ritrova al cospetto dapprima della Dea Dike85 che funge da guardiana

della porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno86, finché non viene finalmente accolto

dalla Dea87 (“The prologue is frequently explained as an interesting example of archaic

imagination intruding into a philosophical work, while the last part has been interpreted in a

variety of ways”88) che rivelerà a Parmenide ciò che dovrà conoscere per comprendere la verità

autentica.

formulare opinioni (doxa), che non possiedono la stabilità e la verità della scienza ma hanno tuttavia, a differenza di
agnoia, un contenuto conoscitivo positivo e definibile (477 b).” Cfr. Vegetti, Introduzione a Platone, Repubblica, op.
cit., pp. 7 -232, cit. pag. 147. Questa distinzione tra i piani ontologici sarà alla base della metafora della “linea”
(Cfr. VI, 509 d 6 – 513 e 7) e del “Mito della caverna” (Cfr. VII 514 a 1 – 517 c 6).
84
In greco Εἰδόηα θῶηα indica, propriamente, l‟iniziato.
85
La Dea Dike, non è da intendersi nel senso moderno del termine come personificazione della giustizia morale o
normativa, ma in un senso molto più ampio: qui “Giustizia che molto punisce” rappresenta l‟ordine cosmico
universale. Per approfondimenti sulla figura di Dike nella tradizione arcaica rimando a A. Jellamo, Il cammino di
Dike, l‟idea di Giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli 2005.
86
Probabilmente la porta a cui Parmenide allude è la porta dell‟Ade. Tuttavia nel complesso archeologico di Ascea
– Velia è tutt‟oggi presente la cosiddetta “Porta Rosa” alla quale l‟Eleate si sarebbe ispirato per l‟ “ambientazione”
suo viaggio intellettuale.
87
La Dea che accoglie Parmenide al di là della porta è evidentemente un‟altra figura rispetto a quella iniziale di
Dike che funge da guardiana della porta. Non è semplice identificare di quale dea si parli in quanto molteplici e
differenti sono i riferimenti nell‟intero poema. La Dea che accoglie il filosofo è colei che parla con discorso diretto
in tutto il poema e, nell‟ambito dell‟esposizione delle peculiarità dell‟essere, Essa fa riferimenti molteplici ad altre
divinità: Moira (fr. 1 v. 26, fr. 8 v.37), Thémis (fr. 1, v. 28), Dìke (fr. 1, vv. 14 e 28 e fr.8 v. 14), è evidente che Essa
non si identifica con nessuna di queste. Probabilmente la Dea interlocutrice di Parmenide è, seguendo la cultura
dell‟epoca, Parsefone, dea dell‟Ade: “[…] in realtà ascoltatori e lettori non avrebbero potuto fare a meno di pensare
alla Dea signora dell‟Ade, cioè a Persefone, la cui casa si trova secondo Esiodo poco oltre la Porta del Giorno e
della Notte”. Cfr. G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, Fabbri editori, Milano 1999, pagg. 107 – 108. Si veda
anche Ruggiu, Parmenide, op. cit., pagg. 182 – 191.
88
Cfr. W. R. Chalmers, Parmenides and the belief of mortals, Phronesis, V, 1960, pp. 5 – 22.
La struttura epica del proemio è tutta volta a sottolineare la natura particolarmente esclusiva e

sacra del messaggio della Dea a Parmenide; benché il sapere comunicato al filosofo non consti di

contenuti propriamente inattingibili in sé su base razionale, in quanto di natura logico-ontologica

e non mistica, la scelta di rivestire l‟assimilazione del sapere di un‟enfasi di tipo iniziatico è

dovuta al fatto che, secondo la tradizione arcaica, nessuna forma di autentico sapere era

propriamente acquisibile dagli uomini su base razionale. Con ogni probabilità Parmenide scelse

di rivestire i contenuti del suo poema di autorità divina poiché per la prima volta nella storia del

pensiero occidentale, l‟essere umano, l‟uomo, il mortale, appare in grado di attingere ad un

sapere vero89 e perlopiù in maniera autonoma90 ed elevarsi ad esso; è così perfettamente

plausibile ammettere che l‟Eleate abbia avuto necessità di scrivere in versi per dare enfasi al

messaggio filosofico contenuto nel suo scritto: “Per tutto l‟alto arcaismo, diciamo fino al VII

secolo a.C. incluso, la poesia era stata l‟unica forma di espressione di qualsiasi pensiero aspirasse

a porsi a un livello superiore, rispetto alla pure e semplice comunicazione ordinaria” 91, risulta

così più semplice comprendere perché Parmenide abbia scelto la forma in versi per dare voce al

suo pensiero.

La narrazione mitico - allegorica del poema parmenideo, dunque, presenta una struttura in versi

in cui la Dea (presumibilmente Persefone, come si è visto) accoglie benignamente l‟iniziato

Parmenide per svelargli il contenuto di un sapere che, evidentemente, non è alla portata degli

89
Su questo tema, importante è quanto scrive P. Curd: “Parmenides removes the power of knowing from the divine
and places it in the human capacity for thought. One might argue that this interpretation indeed makes humans think
like gods. But note that the power of reason has to be independent of divinity as well. […] Logical necessity is
independent of divine whim or will.” La Curd analizza quindi qui il rapporto tra conoscenza umana e conoscenza
divina, ponendo l‟accento sul fatto che con Parmenide il rapporto tra uomo e divino viene si differenzia
notevolmente dalla tradizione precedente in quanto il pensiero libera, per certi versi, l‟uomo e gli permette di
afferrare da sé un sapere di fattura, evidentemente divino o, in qualche modo, comunque superiore. Cfr. P. Curd,
Divinity and intelligibility in Parmenides, in Ontologia, Scienza, Mito, op. cit., pp. 117 – 131, cit. pag. 127.
90
Come si è già specificato, la presenza delle dee risulta essenziale al fine di ricoprire il messaggio del poema di
un‟enfasi divina. Per la prima volta nella storia del sapere umano risulta “Essenziale e, in un certo modo, decisivo
come avvio della speculazione di Parmenide e al tono che questa manifesta in tutto il suo sviluppo, può considerarsi
il motivo della „collaborazione dell‟uomo con dio‟”. “[…] il rapporto di Parmenide con la dea, pertanto, non può
essere quello di „devozione e umiliazione‟, ma, appunto di „cooperazione.‟” (Cfr. M. Untersteiner, Introduzione a
Parmenide, in Eleati, op. cit., pag. 66)
91
Cfr., Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, Op. cit., pag. 85.
uomini comuni92 (ἦ γὰξ ἀπ‟ ἀλζξώπσλ ἐθηὸο πάληνπ ἐζηίλ)93, quindi di natura sacra, potremmo

dire, poiché si pone al di fuori dal sapere comune dei mortali in quanto ad esso superiore.

Come è noto, a partire dal frammento 1, il poema si sviluppa come un monologo della Dea che

espone al filosofo94 la verità circa l‟Essere, e le opinioni dei mortali in cui non è insito un sapere

reale ed un‟autentica verità 95. Punto fermo di questo proclama della divinità è che la conoscenza

della Verità passa necessariamente attraverso l‟altrettanto consapevole conoscenza delle opinioni

di coloro che, evidentemente, non hanno attinto alla verità; non è sufficiente acquisire un sapere

“positivo” in quanto la conoscenza piena passa necessariamente anche dalla coscienza degli

errori degli altri pensatori. Dopo aver esposto in maniera completa, seppur problematica,

un‟ontologia che potremmo definire, dell‟identità (28 B 1 – 8, 1 – 49) Parmenide, per bocca della

dea, passa ad elencare una serie di concezioni proprie dell‟epoca arcaica (di cui alcune

plausibilmente da lui stesso sviluppate o verificate) che rientrano, rifacendoci alla struttura del

poema, all‟interno delle opinioni dei mortali che sembra debbano essere apprese solo per

prendere coscienza della loro complessiva fallacia96. Il ruolo e la valenza all‟interno del pensiero

92
Il riferimento agli uomini comuni, che verranno successivamente definiti “mortali a due teste” è, a mio avviso, un
richiamo 1) alla natura immortale del sapere e dell‟essere che verrà di li a poco esposto e 2) alla qualità divina del
contenuto della “rivelazione” della dea che rende il sapiente simile al dio.
93
“essa è infatti lontana dal tragitto degli umani”, così traduce A. Tonelli in Le parole dei sapienti, Feltrinelli,
Milano 2010.
94
Il termine e il concetto di filosofo non era ancora stato sviluppato nel VI secolo a.C; esso viene sviluppato appieno
da Platone in alcuni dialoghi come il Sofista e il Politico. Secondo alcuni studiosi questo binomio avrebbe previsto
inizialmente, nel progetto platonico, un terzo dialogo per completare un ipotetico trittico dal nome, presumibilmente
di Filosofo. Importanti elementi sulla figura del filosofo si trovano, oltre che nei suddetti dialoghi, nella Repubblica
in particolare nel mito della caverna (VII). Come monografia in merito alla figura del sapiente nella civiltà greca
rimando a G. Cambiano, I filosofi in Grecia e a Roma, Il Mulino, Bologna, 2013, e relativa bibliografia. All‟interno
del poema parmenideo, il termine “filosofo” non è quindi presente, tuttavia viene utilizzato, come in questo caso,
per indicare il sapiente, le cui conoscenze si distinguono da quelle dei mortali.
95
Χξεὼ δέ ζε πάληα ππζέζζαη ἠκὲλ ‟Αιεζείεο εὐθζθιένο ἀηξεκὲο ἦηνξ ἠδὲ βξῶηνλ δόμαο, ηαῖο νὐθ ἔλη πίζηηο
ἀιεζήο: “E tu devi apprendere ogni cosa, sia il cuore che non trema della ben rotonda Verità che le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza.” Trad. it. Di A. Tonelli, Op. cit.
96
Quella di ricostruire la figura di un “Parmenide scienziato” è un‟idea plausibile anche secondo F. Gambetti, che
nel suo recente articolo ha affrontato tutti i pro ed i contro di una attribuzione del ruolo di naturalista all‟Eleate; la
tesi della Gambetti verte sulla effettiva possibilità di ammettere che le opinioni dei mortali rechino in sé un
contenuto de facto autonomo, che rispecchiano un coerente ordine cosmologico: “Sulla base dei diversi fattori
richiamati possiamo allora provare a trarre alcune conclusioni. Il sistema cosmologico di Parmenide ricostruibile
benché non in maniera letterale, doveva rappresentare una parte importante, forse addirittura centrale, della
cosiddetta dottrina della Verità. Non si trattava pertanto di una spiegazione verosimile dell‟universo, ma di quella
che Parmenide riteneva la vera spiegazione, perché fondata sulla corretta metodologia logico-deduttiva”, la tesi della
Gambetti ricalca il fatto che Parmenide prende le distanze da coloro che hanno esposto una cosmologia di tipo
mitico allegorica; qui l‟allegoria è solo uno strumento, mentre l‟argomentazione procede in maniera logico-
deduttiva: “L‟annuncio della Dea […] segna da un lato la fine della mentalità arcaica, e apre dall‟altro la questione
parmenideo delle doxai arcaiche in relazione al concetto puro di essere è ciò che si cercherà di

analizzare nelle pagine seguenti.

L‟ipotesi sul “Parmenide scienziato” e il ruolo delle doxai.97.

Si può far coincidere l‟inizio della seconda parte del poema a partire dai vv. 50 ss. del fr. 8:

ἐλ ηῶη ζνη παύσ πηζηὸλ ιόγνλ ἠδὲ λόεκα

ἀκθὶο ἀιεζείεο· δόμαο δ‟ ἀπὸ ηνῦδε βξνηείαο

κάλζαλε θόζκνλ έκῶλ ἐπέσλ ἀπαηειὸλ ἀθνύσλ98.

Stando a quanto afferma la Dea, con questi versi si inaugura una seconda sezione del poema in

cui verranno esposte le opinioni dei mortali, ovvero quella serie di nozioni vere solo in

apparenza e che dovranno essere necessariamente conosciute dal sapiente per non ingannarsi. Il

contenuto delle “opinioni dei mortali” viene esposto dal v. 50 dell‟ottavo frammento e si protrae

fino alla conclusione del poema stesso.

L‟esposizione della dottrina doxastica nel poema viene annunciata con la descrizione, da parte

della Dea, della natura dell‟errore che ha condizionato i mortali allontanandoli dalla verità, che è,

evidentemente, quella inerente l‟essere99:

mai chiusa del rapporto dell‟uomo con la realtà.” Cfr. F. Gambetti, Si può parlare di un kosmos in Parmenide?, in
“Chaos/ Kosmos”, 13 (2013), pp. 53 – 67, cit. pp.65, 67.
97
Nella sezione su Parmenide della sua Geschichte der Philosophie im Überblick, Franz Schupp pone
immediatamente l‟accento sulla divisione tra verità ed opinione. “Das größte Interpretationsproblem hängt mit der
zentralen Frage des Verhältnisses von Wissen und Meinung zusammen. Das Lehrgedicht des Parmenides enthält
zwei Zeile, der erste ist dem Wissen, der zweite der Meinung gewidmet.“ Cfr. F. Schupp, Geschichte der
Philosophie im Überblick, Felix Meiner, Band 1: Die Antike, Hamburg 2003, pag. 92. Secondo Schupp, inoltre, la
δόμα avrebbe un vero e proprio valore conoscitivo in sé.
98
“Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero/ intorno alla Verità; da questo punto le
opinioni dei mortali/ devi apprendere, ascoltando l‟ordine seducente delle mie parole” (DK B 28 8, 50 – 52). Cfr.
Parmenide, Poema sulla natura, trad. it. di L. Ruggiu, Bompiani, Milano 2003. Tutte le traduzioni dei frammenti di
Parmenide sono riportate da questa edizione.
99
Come vedremo più avanti con maggiore precisione, è la mancanza di conoscenza della verità ontologica che
fuorvia i mortali, portandoli a sbagliare, nella prospettiva parmenidea, chi conosce la verità dell‟essere è in grado di
cogliere anche la natura fallace delle opinioni dei mortali. La rivelazione delle opinioni a Parmenide viene fatta in
relazione critica a quello che è il concetto di essere già spiegato nei versi precedenti all‟autore – personaggio.
κνξθὰο γὰξ θαηέζελην δύν γλώκαο ὀλνκάδεηλ·

ηῶλ κίαλ νὐ ρξεώλ ἐζηηλ - ἐλ ᾧη πεπιαλεκέλνη εἰζίλ –

ηἀληία δ‟ἐθξίλαλην δέκαο θαὶ ζήκαη‟ ἔζελην

ρσξὶο ἀπ‟ἀιιήισλ, ηῆη κὲλ θινγὸο αἰζέξηνλ πῦξ,

ἤπηνλ ὄλ, κέγ‟[ἀξαηὸλ] ἐιαθξόλ, ἑσπηῶη πάληνζε ησὐηόλ,

ηῶη δ‟ἑηέξση κὴ ησὐηόλ· ἀηὰξ θἀθεῖλν θαη‟ αὐηό

ηἀληία λύθη‟ ἀδαῆ, ππθηλὸλ δέκαο ἐκβξηζέο ηε.

Τόλ ζνη ἐγὼ δηάθνζκνλ ἐνηθόηα πάληα θαηίδσ,

ὡο νὐ κή πνηέ ηίο ζε βξνηῶλ γλώκε παξειάζζεη.100

Il passo appena citato è la continuazione e la conclusione dell‟ottavo frammento.

Precedentemente (vv. 1 – 49), la Dea aveva esposto i cosiddetti semata dell‟essere, ovvero le

caratteristiche dell‟essere che si evincono dalla sua stessa essenza, cioè dal suo concetto puro: i

segni dell‟essere rivelerebbero la sua ineludibile coerenza logico- ontologica.

Qui invece la dea espone propriamente il nucleo concettuale delle opinioni fallaci (nei frammenti

successivi verranno elencate teorie cosmologiche e psicologiche arcaiche), la natura dell‟errore

che ha caratterizzato le convinzioni dei mortali: essi avrebbero posto sullo stesso piano due

principi, una coppia di contrari ovvero “Luce” e “Tenebra”.101 È evidente che si sta parlando di

100
DK 28 B 8, 53 – 61: “Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme/l‟unità delle quali per loro non è
necessaria: in questo essi si sono ingannati./ Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che li
distinguono,/separatamente gli uni dagli altri: da un lato, posero l‟etereo fuoco della fiamma,/che è benigno, molto
leggero, a sé medesimo da ogni parte identico,/e rispetto all‟altro, invece, non identico; dall‟altro lato, posero anche
l‟altro per sé stesso,/come opposto, notte oscura di struttura densa e pensante./ Questo ordinamento del mondo,
veritiero in tutto, compiutamente ti espongo, così che nessuna convinzione dei mortali potrà fuorviarti.”
101
Popper introduce una sua personale ed originale interpretazione del dualismo ontologico attribuito, nel poema, ai
mortali. Facendo riferimento ad alcune scoperte astronomiche che l‟epistemologo austriaco attribuisce all‟Eleate,
pone il principio “positivo” nella “Tenebra” e non nella “Luce”. Così Popper: “Secondo questa teoria [scil. quella
allora vigente, attribuita ad Eraclito per cui le fasi lunari sarebbero la manifestazioni di movimenti interni alla Luna
stessa] la Luna non crescerebbe o calerebbe, ma le sue fasi sarebbero invece il risultato di un effettivo movimento
all‟interno della Luna stessa. Ma, secondo la nuova scoperta di Parmenide, le fasi lunari non erano nulla di tutto ciò.
Esse non implicavano alcun reale cambiamento e neppure un movimento della Luna. Semmai erano un‟illusione –
l‟ingannevole risultato di un gioco di luce e di ombra. […] Ma che cos‟è la luce? […] E‟ solo pura apparenza,
unicamente un‟impressione dei nostri sensi, dei nostri occhi. Non possiede né alcuna realtà né un‟esistenza reale.”
Per Popper dunque, nelle intenzioni di Parmenide era implicito attribuire, all‟interno della dicotomia tra i due
principi, valore “negativo” alla luce e non alla notte – tenebra, poiché la prima sarebbe causa dell‟inganno alla vista
delle fasi lunari, mentre la realtà effettiva è riconducibile alla materia fredda e oscura della Luna.” Questa
interpretazione, per quanto suggestiva, non ha trovato riscontro effettivo in alcun frammento, né ha avuto molto
seguito. Cfr. K. R. Popper, Come la Luna potrebbe fare un po‟ di luce sulle due vie di Parmenide, in Op. cit.
pag.108.
un dualismo originario e che, pertanto, uno dei due principi ammessi risulta in qualche modo

superfluo (rispetto all‟essere che non ammette alterità) addirittura creando una problematica

“eccedenza”: da questa giustapposizione di essere e non-essere scaturirebbe, infatti, il molteplice

e la differenza. Per il sapiente, che coglie la verità dell‟essere, l‟aggiunta di un secondo principio

è un‟erronea concezione introdotta dai mortali “errabondi”, nella loro riflessione priva di

metodo. Come osserva Zeller: “La visione corretta fa conoscere nel tutto solo quella dell‟uno,

l‟essere, l‟opinione comune affianca inoltre il non-essere, di conseguenza pone le cose formate

da parti contrapposte, delle quali in verità naturalmente solo di uno si attesta la realtà, ed appunto

per questo ad essa l‟uno appare come molteplicità e l‟immutabile come mutevole e in divenire.

Se ci collochiamo quindi dal suo punto di vista (dell‟opinione comune), assumeremo due

elementi, di questi l‟uno corrisponde all‟essere, l‟altro al non-essere. Parmenide nomina il primo

Luce o Fuoco, l‟altro Notte; egli descrive, nei frammenti pervenutici, il primo come Sottile,

l‟altro come il denso o il pesante […] egli considera l‟uno come essere, l‟altro come non-essere

ed aggiunge pertanto attribuisce all‟elemento igneo la stessa caratteristica, come all‟essere,

quando qualifica questo come l‟assolutamente omogeneo”.102 Quella appena riportata è la nota

interpretazione sostenuta da Edmund Zeller, secondo il quale all‟essere enunciato nella prima

parte viene giustapposto il non-essere come non esistente, come nulla, e le opinioni come

prodotto di una congettura errata degli insipienti. Tuttavia molti studi più recenti hanno proposto

una radicale reinterpretazione sia della figura che del pensiero di Parmenide, ribadendo con forza

il ruolo decisivo della scienza empirica all‟interno della sua dottrina.

102
„Die richtige Ansicht läßt uns in allem nur Eines, das Seiende, erkennen, die gemeine Meinung fügt dazu das
Nicht-seiende, sie hält demnach die Dinge für zusammengesetzt aus entgegengesetzten Bestandteilen, von denen in
Wahrheit freilich nur dem einen Wirklichkeit zukommt, und eben deshalb erscheint ihr das Eine als ein vieles, das
Unwandelbare als ein werdendes und veränderliches. Stellen wir uns daher auf ihren Standpunkt, so werden zwei
Elemente anzunehmen sein, von welchen das eine dem Seienden, das andere dem Nichtseiende entspricht.
Parmenides nennt jenes das Licht oder das Feuer, dieses die Nacht; jenes beschreibt er in den uns erhaltenen
Bruchstücken als das Dünne, dieses als das Dichte und Schwere. […] er betrachtet mithin das eine als seiend, das
andere als nichtseiend, und er legt aus diesem Grunde dem feurigen Elemente die gleichen Merkmale bei, wie dem
Seienden, wenn er es als durchaus gleichartig bezeichnet. Cfr. E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer
geschichtlichen Entwicklung“, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1963. Pagg. 701 – 3 – 4. Traduzione
dal tedesco mia.
Il punto di partenza decisivo per una rilettura in chiave naturalistica del pensiero parmenideo

nasce da una revisione del ruolo storico che il filosofo di Elea ha avuto in seno alla città 103 e

soprattutto riguardo al fatto che, in quanto uomo di cultura, non poteva certamente essere a

digiuno delle conoscenze in ambito filosofico e fisico-cosmologico contemporanee104.

“Che Parmenide fosse un physiolοgos, cioè uno studioso della natura, era una acquisizione

pacifica per tutta l‟antichità. […] Eppure, di Parmenide è stata tramandata nella storiografia

moderna, e ancora oggi viene affermata da molti, l‟immagine di un filosofo dell‟essere,

pensatore metafisico per eccellenza, anzi “padre della metafisica occidentale”, svalutatore

dell‟esperienza e delle opinioni degli uomini rispetto al “puro pensiero” che costruirebbe solo

verità logiche e metafisiche”.105 L‟affermazione di Casertano qui riportata, riferisce di un

Parmenide annoverato storicamente tra i fisici; pertanto il suo pensiero prenderebbe le mosse non

da congetture metafisiche astratte, bensì da un approccio fondamentalmente empirico.

La determinazione delle vie di ricerca.

L‟asse portante dell‟intero poema parmenideo è l‟allegoria della rivelazione della Dea al

sapiente, il quale dovrà conoscere sia il contenuto veritativo autentico espresso dal concetto puro

di essere, quanto le opinioni fallaci degli insipienti le quali, in quanto verosimili, non hanno

pretesa di verità indubitabile, bensì solamente apparente: da qui la canonica distinzione tra

aletheia e doxa. Il nocciolo della questione è esattamente questo: quale livello di plausibilità

possano avere all‟interno dell‟ontologia parmenidea le opinioni, e se ed in che modo sia possibile

fondare il concetto puro di essere a partire dalla apparente veridicità del dato sensibile.

103
Cfr. L. Rossetti, op. cit.
104
Secondo quanto afferma Diogene Laerzio, fu uditore del pitagorico Aminia (DK 28 A11) e probabilmente
maestro di Anassimene (DK 28 A 3); inoltre a lui vengono attribuite notevoli scoperte scientifiche quali l‟identità di
Espero e Lucifero e la sfericità della terra oltre ad essere legislatore di Elea (DK 28 A 1). Queste testimonianze
riferiscono, come già accennato sopra, di un Parmenide impegnato in ogni ambito del sapere.
105
Cfr. G. Casertano, I presocratici, Carocci, Roma 2009. Su questa linea anche Chalmers, art. cit.: “Moreover some
of the astronomical details given in the last part of the poem were looked on in antiquity as being Parmenides‟ own
ideas (Cfr. Pag. 11).
Come già detto più volte sopra, il poema parmenideo, dal fr. 1, 24 in poi, si sviluppa secondo un

monologo della Dea al suo uditore Parmenide al quale essa espone il sapere intorno all‟essere ed

i suoi “segni” indicatori (ovvero i semata, i suoi attributi) e i modi in cui i mortali si sono

ingannati106.

Il punto di partenza essenziale per comprendere il ruolo della doxa in Parmenide è verificare

l‟effettiva necessità di affiancare alla dottrina della verità intorno al concetto puro di essere una

vasta esposizione di teorie cosmo - antropologiche e naturalistiche, che fungerebbe da raccolta di

saperi assolutamente privi di verità in sé107, ma sarebbe tuttavia funzionale alla ricerca della

verità come sorta di via negationis metodologica. Per comprendere appieno il ruolo delle

opinioni dei mortali all‟interno della dottrina di Parmenide è fondamentale prendere in

considerazione il testo del poema:

εἰ δ‟ ἄγ‟ ἐγὼλ ἐξέσ, θόκηζαη δὲ ζὺ κῦζνλ ἀθνύζαο,

αἵπεξ ὁδνὶ κνῦλαη δηδήζηόο εἰζη λνῆζαη·

ἡ κὲλ ὅπσο ἔζηηλ ηε θαὶ ὡο νὐθ ἔζηη κὴ εἶλαη,

Πεηζνῦο ἐζηη θέιεπζνο (‟Αιεζείεη γὰξ ὀπεδεῖ),

ἡ δ‟ ὡο νὐθ ἔζηηλ ηε θαὶ ὡο θξεώλ ἐζηη κὴ εἶλαη,

ηὴλ δή ηνη θξάδσ παλαπεπζέα ἔκκελ ἀηαπξόλ·

νὔηε γὰξ ἂλ γλνίεο ηό γε κὴ ἐὸλ (νὐ γὰξ ἀλπζηόλ)

106
Interessante a tal proposito quanto scrive Casertano: “Questi ultimi versi del frammento 1 [scil. DK 28 B 1, 28 –
32] dimostrano come il programma del sapere abbracci, per la dea, tutto il campo dello scibile umano, sia quello che
la dea chiama della verità, sia quello delle esperienze. Il fatto che delle esperienze non ci possa essere una pìstis
alethés , cioè una credenza, una certezza vera, non significa che esse non abbiano alcun valore, ma solo che esse
hanno un valore diverso dalle prime, come vedremo.” Cfr. Casertano, Ibidem, pag. 85, corsivo dell‟autore.
Casertano dunque interpreta la rivelazione divina a Parmenide come un‟intera esposizione della verità, di fatti una
dea portatrice di un sapere superiore e quindi, potremmo dire, perfetto, non può affermare alcunché di falso, pertanto
anche le opinioni dei mortali avrebbero in seno una dose di verità. Tuttavia nell‟interpretazione di Casertano la
distinzione che Parmenide effettivamente fa tra due piani conoscitivi si pone su base metodologica, ovvero l‟Eleate
avrebbe espresso due maniere diverse, ma equivalenti, di approccio alla verità.
107
Quando si parla di dòxai in riferimento alla scuola eleatica si parla esclusivamente di Parmenide. Nei frammenti
di Melisso e Zenone quanto di Senofane, non troviamo alcun riferimento ad un sapere differente da quello esposto
dalla loro dottrina. In merito a ciò scrive L. Rossetti: “[…] perché Parmenide non rinunciò alla seconda sezione del
poema mentre invece i suoi allievi diretti lo fecero? […] Il motivo – oso presumerlo – furono i colleghi, l‟orizzonte
di attesa del pubblico, il desiderio di sottolineare la provvisorietà del sapere prodotto dai physiologoi ma di
continuare ugualmente a coltivarlo […] e contrapporgli – un sapere di ben altro livello, con ben altra pretesa di
solidità e stabilità” Cfr. L. Rossetti, Perché Parmenide non rinunciò alla seconda sezione del poema, mentre i suoi
allievi diretti lo fecero? , in N. L. Cordero, Parmenide scienziato?, in Eleatica 2006, Op. cit., pp. 133 -141.
νὔηε θξάζαηο108.

Il frammento 2, qui riportato per intero, rappresenta il cuore dell‟intero monismo parmenideo.

Qui la dea, dopo aver accolto il giovane Parmenide, lo introduce alla dottrina ontologica dell‟

eon ed accenna all‟esistenza di due vie di ricerca, l‟una che dice che esso “è”, l‟altra che “non è”

ed è necessario che non sia109. Balza immediatamente agli occhi come la dea ponga Parmenide di

fronte a un bivio: nell‟esposizione del sapere, essa informa il giovane che solo due sono i

possibili cammini di ricerca, l‟uno solo vero, che esprime la verità dell‟essere, ed infatti risulta

“tener dietro alla Verità”, potremmo dire che è tutt‟uno con essa: in questa viene espressa la

verità autentica del concetto puro di essere. Risulta più problematico comprendere il contenuto

dell‟altra via dalla quale la dea mette in guardia il suo ascoltatore: infatti la seconda hodos viene

annunciata come via che “non è e che è necessario che non sia” in quanto non si apprende nulla,

non è esprimibile, né tantomeno anche solo dicibile. In effetti, se si ammettesse che essa è la via

dell‟assoluto non-essere110, bisognerebbe accogliere la possibilità che Parmenide abbia pensato

ad una terza via nella quale coesisterebbero, erroneamente, essere e nulla come opposti 111 (e in

ciò consisterebbe l‟errore concettuale dei mortali); nel caso in cui invece, come sostiene

Cordero112, la via dell‟essere si opponga a quella del molteplice, avremo allora due soli cammini:

108
“Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola/ quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:/
l‟una che “è” e che non è possibile che non sia/ è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità/l‟altra
che “non è” e che è necessario che non sia./ E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla s‟apprende./ Infatti, non
potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, / né potresti esprimerlo.” Trad. it. di L. Ruggiu, Op. cit.
109
Complessa è l‟interpretazione di questa tematica dell‟individuazione del soggetto delle due “vie”. Per
approfondimenti in merito rimando a Ruggiu, Ibidem, pp. 210 -236 e Zeller – Mondolfo – Reale, La filosofia dei
greci nel suo sviluppo storico, pp. 184 – 190.
110
Ritengo, con Cordero, che non si può associare il non – essere al contenuto di una via di ricerca, poiché ciò
darebbe sussistenza a qualcosa che non ha alcun attributo, perciò non esiste. Pertanto la mia interpretazione si
svilupperà tenendo conto di due vie di ricerca come effettive: quella dell‟essere e quella delle opinioni.
111
Ciò è quanto sostiene Berti in Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, op. cit.: “Ma Parmenide
non ignora l‟esistenza di una terza via, diversa da quella della pura identità dell‟essere con se stesso che da quella
dell‟altrettanto pura identità dell‟essere col non – essere, cioè della pura contraddizione, o contradictio in adjecto: la
via cioè della non identità, della distinzione, della predicazione non tautologica, sia affermativa che negativa; non la
ignorava perché la trovava nel linguaggio comune, nel modo di pensare degli uomini, sia filosofi che non filosofi,
anche se poi conseguentemente con la sua premessa, la condannava, cioè la confutava.” Secondo Berti, allora,
Parmenide avrebbe ammesso tre vie di ricerca: 1) Identità dell‟essere con se stesso, 2) identità di essere e non –
essere, 3) essere e non – essere come opposti (la via della doxa).
112
Cfr. Op. cit.
1) la via che dice che l‟essere è e il nulla non è (insieme); 2) la seconda che è inesprimibile ed

inconoscibile, cioè le opinioni dei mortali.

Alla luce di un corretto e globale tentativo di comprensione del messaggio della dea, è opportuno

rifarsi anche al fr. 6:

ρξὴ ηὸ ιέγεηλ ηε λνεῖλ η‟ ἐόλ ἔκκελαη· ἔζηη γὰξ εἶλαη,

κεδὲλ νὐθ ἔζηηλ· ηά ζ‟ ἐγὼ θξάδεζζαη ἄλσγα.

Πξώηεο γάξ ζ‟ ἀθ‟ ὁδνῦ ηαύηεο δηδήζηνο <εἴξγσ>,

αὐηὰξ ἔπεηη‟ ἀπὸ ηῆο, ἣλ δὴ βξνηνὶ εἰδόηεο νὐδὲλ

πιάηηνληαη, δίθξαλνη· ἀκεραλίε γὰξ ἐλ αὐηῶλ

ζηήζεζηλ ἰζύλεη πιαθηὸλ λόνλ· νἱ δὲ θνξνῦληαη

θσθνὶ ὁκῶο ηπθινί ηε, ηεζεπόηεο, ἄθξηηα θῦια,

νἷο ηὸ πέιεηλ ηε θαὶ νὐθ εἶλαη ηαὐηὸλ λελόκηζηαη

θνπ‟ ηαὐηόλ, πάλησλ δὲ παιίληξνπόο ἐζηη θέιεπζνο113.

La prima via di ricerca sembra allora essere quella che dice semplicemente che l‟essere è (prima

immediata deduzione del concetto puro di essere) e che a sua volta esprime contestualmente

l‟automatica ed intrinseca esclusione del non - essere come esistente: in poche parole, dal

concetto puro di essere scaturisce necessariamente anche l‟esclusione del non - essere, che de

facto non ha alcuna sussistenza ontologica in quanto negazione radicale e assoluta114; pertanto si

113
Cfr. DK 28 B 6: “E‟ necessario il dire e il pensare che l‟essere sia:/ il nulla non è: queste cose ti esorto a
considerare./ E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,/ ma, poi, anche da quella su cui i mortali che
nulla sanno/ vanno errando, uomini a due teste: infatti è l‟incertezza/ che nei loro petti guida una dissennata mente.
Costoro sono trascinati,/ sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio,/ dai quali essere e
non – essere sono considerati la medesima cosa/ e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose c‟è un cammino
che è reversibile.”
114
Si è tentato più volte di “recuperare” in qualche modo la nozione di non – essere, sia individuandolo come
opposto all‟essere nell‟accezione dei mortali, sia tentando di individuare in esso una certa sussistenza ontologica.
Tra coloro che negano qualsiasi possibilità di ammettere o di esprimere qualcosa sul non – essere attraverso
l‟ontologia Parmenidea, c‟è A Hermann: “[…] but the semata of Being – „ungenerated,‟ „whole,‟ „of one kind,‟
„immovable,‟ „complete,‟ and so on – have no counterparts in Not Being. Of the latter, we cannot say that it is
„generated‟, or „partial‟, or „of many kinds‟, or „incomplete‟. Indeed, such distinctions belong to the Doxa and its
objects, derived from the competing characteristics of Light and Nigh. In comparison, nothing can be said of Not
Being; nothing can be known; nothing is avaible for naming. Accordingly, if the semata of Being have no matching
opposites in Not Being – as Not Being as a Way as no goal, objects or signs.” Cfr. A. Hermann, What are the semata
of “What Is not” in Parmenides‟ Poem?, in Ontologia, scienza, mito, Mimesis, pp. 135 – 169; cit. pagg. 139 – 140.
può concepire unicamente come mera negazione dell‟essere, cosicché l‟essere, che in quanto tale

afferma se stesso ed esclude il non-essere, è il contenuto della prima via di ricerca. Vien da sé

allora, che la seconda ὁδόο annunciata dalla Dea è quella che reca in sé un contenuto, seppur

fallace, il cui contenuto discuteremo più avanti. Si ribadisce allora come non possa essere il non-

essere a dare forma alla seconda via.

La questione di massima importanza, quindi, per determinare l‟eventuale effettiva plausibilità

delle opinioni dei mortali all‟interno dell‟ontologia parmenidea sta nel determinare il posto che

esse occupano nel sistema parmenideo: stabilire cioè se esse rientrano all‟interno della via della

verità (seppur una verità diversa da quella dell‟essere) oppure se la loro sussistenza è

assolutamente non compatibile con il concetto puro di essere. Una risposta la si può già dare: la

doxa comprende in sé le fallaci credenze dei mortali, che sono considerate dalla Dea come

verosimili; tuttavia vedremo come sia proprio a partire dal concetto puro di essere che si potrà

determinare l‟effettiva verosimiglianza delle opinioni opponentesi all‟ἐόλ: è solo dall‟essere

infatti che si può determinare cosa sia vero e cosa non possa esserlo.

Il mondo empirico tra verosimiglianza e falsità.

Il monologo della Dea comprende in sé l‟intera esposizione dottrinale tanto della verità

indubitabile intorno all‟essere (cosa che esclude da sé il non - essere) quanto delle opinioni dei

“mortali a due teste” che si sono ingannati; preso atto di ciò, la domanda da porsi, a parere di chi

scrive, è la seguente: qual è il ruolo delle opinioni dei mortali all‟interno della ricerca della verità

in Parmenide, tenendo comunque presente che la Dea ha esposto dapprima la verità intorno

all‟essere?

Per cercare di rispondere adeguatamente a questa questione è opportuno ribadire che Parmenide

ebbe notevoli intuizioni in materia scientifico - cosmologica, come riportano le fonti e le

testimonianze (documentata è la sua formazione pitagorica) quali l‟identità di Espero e Lucifero

e la sfericità della terra. Da questo punto di vista non si può certamente asserire che le sue
scoperte siano false o in qualche modo non fondate, si tratta anzi di una vera e propria

conoscenza tout court:

ρξεὼ δέ ζε πάληα πζπέζζαη

ἠκὲλ Ἀιεπείεο εὐρπριένο ἀηξεκὲζ ἧηνξ

ἠδὲ βξνηῶλ δόμαο, ηαῖο νὐθ ἔλη πίζηηο ἀιεζήο 115.

La perentoria ed efficace presentazione del “piano” di ricerca da parte della dea, perfettamente

sintetizzato in queste due righe del primo frammento, comporta un aspetto assai rilevante: la

conoscenza per il sapiente, quindi per colui che in maniera privilegiata ha accesso ad un sapere

che normalmente appartiene solo alle divinità, implica sia l‟esposizione di un sapere “positivo”

riguardante l‟essere, sia per la considerazione delle opinioni fallaci 116. A questo punto occorre

soffermarsi sul fatto che la Dea parla inequivocabilmente di “vie” di ricerca, l‟una vera e l‟altra

falsa: soffermandoci sulla “seconda via” (benché Parmenide non le numeri mai, e questo è uno

dei punti cardine sui quali gli studiosi si sono dati battaglia) 117, occorre analizzare

dettagliatamente le sue parole, tenendo costantemente presente quanto si dice nei frammenti 2 e

6, ed aggiungere quanto contenuto nell‟incipit del frammento ottavo:

κόλνο ἔηη κῦζνο ὁδνῖν

ιείπεηαη ὡο ἔζηηλ· ηαύηεη δ‟ ἐπὶ ζήκαη‟ ἔαζη

πνιιὰ κάι‟ […]118

115
Cfr. DK 28 B 1 28 – 30: “Bisogna che tutto tu apprenda:/ e il solido cuore della Verità ben rotonda/ e le opinioni
dei mortali, nelle quali non c‟è una vera certezza.” Trad. it. L. Ruggiu, Op. cit.
116
Acutamente osserva Cordero: se dire che „l‟essere è‟ è un‟indubitabile verità, sullo stesso piano dobbiamo
ammettere la veridicità dell‟affermazione per cui il non – essere non è. Entrambi gli enunciati attestano indiscutibili
verità che procedono dal concetto di essere in quanto tale, perciò la via dell‟errore dovrà essere necessariamente
quella portata avanti dalle opinioni dei mortali. Cfr. Op. cit.
117
Cfr. G. Giannantoni, Le due vie di Parmenide, in “La parola del passato”, 43 (1988), pp. 207 – 221.
118
“Resta solo un discorso della via:/ che “è”. Su questa ci sono segni indicatori assai numerosi.” (Cfr. DK 28 B 8, 1
– 2).
La via della verità ha in seno a sé il sapere intorno all‟essere, sul quale ci sono segni indicatori

(semata) che ne esprimono l‟essenza. L‟altra via, che, come si è detto, non può identificarsi con

quella del non - essere, di cui non si può dire nulla in quanto è in senso assoluto non

predicabile119, è quella che si identifica con le opinioni fallaci dei mortali. Le due uniche “vie”

possibili di ricerca, dunque, sono quella della verità assoluta, indubitabile e che addirittura trova

la sua verità in se stessa, e quella che rappresenta un sentiero in parte fallace, percorso solo dai

mortali. Da dove nasce tuttavia l‟errore dei mortali? A questa domanda si intende cercare di

rispondere nelle pagine successive.

L‟impossibilità di comprendere la natura dell‟errore dei mortali senza il concetto

di essere.

Si è visto come per Parmenide la verità in senso assoluto sia appannaggio unicamente della sfera

dell‟essere; resta da capire se la comprensione delle opinioni da parte del sapiente sia un aspetto

meramente metodologico oppure se in qualche modo, nonostante il veto della dea ad affidarsi a

un simile rango di conoscenze, esso abbia in sé un certo livello di veridicità. In effetti, tenendo

sempre presenti le testimonianze in merito a quella che è stata la figura del “Parmenide

scienziato”, la questione della reale portata della doxa risulta problematica: quando parla di essa,

la dea espone un insieme di dottrine di carattere fisico-cosmologico che probabilmente

rappresentavano i primi passi dei greci nel contesto di una embrionale scienza dimostrativa. Alla

luce di alcune interpretazioni, che vedono il sapere concernente l‟eon come l‟assolutamente

indubitabile ed estraneo al divenire, la domanda centrale è dunque: come mai è necessario

119
A ragione osserva Berti (Cfr. Verità e necessità in Parmenide, in Ontologia, scienza, mito, op. cit., pp. 105 –
115): “La proposizione contraddittoria rispetto a „è necessario che sia‟, infatti, non è „è necessario che non sia‟,
bensì „non è necessario che sia‟, cioè „è possibile che non sia‟. Alla necessità, infatti, non è contraddittoria la
necessità dell‟opposto, cioè l‟impossibilità, ma la possibilità, cioè la non necessità dell‟opposto (pag. 111).” Questa
citazione di Berti identifica la seconda via con quella dell‟opinione e non con il non – essere; tuttavia la negazione
autoreferenziale del non – essere non implica necessariamente la verità dell‟ἐόλ: “Pertanto l‟impossibilità della
seconda via non è la prova della verità della prima, perché le due potrebbero essere entrambe false, come accade ai
contrari, nel qual caso sarebbe vera la negazione di entrambe, ossia una via che dice „è, ma può non essere‟, e „non
è, ma può essere.‟ ” (Cfr. Ibidem, pag. 112). Berti qui si riferisce a proposizioni contrarie (essere/ non – essere).
prendere coscienza delle doxai se il loro sapere è falso o, quantomeno, non vero assolutamente,

ma solo verisimile?

Un‟interessante interpretazione (ma, come vedremo, non convincente fino in fondo), a mio

avviso, è quella di G. Cerri, che prende spunto da testimonianze su quelle che sono state le

scoperte in ambito naturalistico dell‟Eleate, attraverso l‟identificazione di Espero e Lucifero e

dell‟identità di luce solare e luce lunare (tutte scoperte attribuite a Parmenide): questo

procedimento di reductio ad unum del processo della conoscenza conduce al sapere intorno

all‟essere come esito necessario. Per meglio dire, a parere di Cerri, il caotico mondo delle

opinioni avrebbe la sua intrinseca coerenza nel momento in cui tutti i vari aspetti del reale

fenomenico vengono sintetizzati in una dottrina volta per volta sempre più semplice, fino a

pervenire ad una legge unica universale (come esempio, Cerri cita la legge di gravitazione

universale di Newton), alla concezione secondo cui la realtà è una cosa unica, un intero

immodificabile, un assoluto essere120.

La prospettiva interpretativa di Cerri è una delle più suggestive: essa tende a dare un significato

decisivo ed assai rilevante alla doxa; secondo tale interpretazione, le opinioni non sono false in

sé, bensì risultano tali alla luce di una loro errata considerazione, ovvero nel vedere la differenza

laddove differenza non c‟è; secondo questa interessante lettura di Cerri, Parmenide avrebbe

individuato nella dottrina dell‟essere l‟essenza piena della totalità del reale, che le opinioni

esprimerebbero soltanto in maniera diversa, ma non falsa.

120
Cfr. G. Cerri, La fisica di Parmenide, in Ontologia, scienza, mito, Mimesis 2010; l‟interpretazione di Cerri si
fonda sull‟eguaglianza tra la copula “è” e il simbolo di uguaglianza usato oggi in matematica: “E‟ opportuno a
questo proposito tenere ben presente che, in greco, l‟eguaglianza e l‟equivalenza geometrico – matematiche sono
espresse appunto dalla copula “è” (ἐζηη) ovvero dal predicato nominale “è uguale” (ἐζηηλ ἴζνλ), che corrispondono
esattamente al segno di uguale (=), usato da noi nell‟esposizione per iscritto delle espressioni aritmetiche o
algebriche e dei teoremi geometrici. La formula “è uguale” (ἐζηηλ ἴζνλ) è quella che troviamo costantemente
adoperata da Euclide nei suoi Elementi.”(pag. 59) Il sapere è eliminazione della diversità, nelle loro cosmologie, i
mortali hanno posto in essere delle differenza che la visione del sapere vero unitario non ammette; il sapere è quindi
il superamenti della diversità: “Se la conoscenza è per sua natura unificazione di diversi; se il progresso della
scienza riduce gradualmente, ma inesorabilmente, il numero degli enti (ἐόληα ν ὄληα) in campo; se non è possibile
immaginare che alla fine del processo unificatorio restino più enti, o anche due soltanto, irriducibili l‟uno all‟altro,
perché si porrebbero, l‟uno nei confronti dell‟altro, in termini di nascita dal nulla; non si può allora fare a meno di
pensare tutta la realtà come unità assoluta. L‟Essere è uno.” (Ibidem, pag. 64)
Altra interessante interpretazione è quella proposta da L. Ruggiu, il quale, seguendo

un‟impostazione ermeneutica tendente ad interpretare il poema alla luce di un rapporto di stretta

connessione tra doxa ed aletheia, non intravede nelle opinioni dei mortali alcuna falsità

intrinseca, bensì manifestazioni in ambito fenomenico dell‟essere in senso pieno: secondo

Ruggiu, l‟intento parmenideo è propriamente quello di “salvare i fenomeni”, in virtù di ciò la

doxa si configura come “momento” della aletheia121. Viste queste diverse e contrastanti esegesi

del poema di Parmenide, è possibile fare una valutazione complessiva del ruolo della doxa nel

pensiero dell‟Eleate. Alla conoscenza dell‟essere è dunque necessario giustapporre quella

inerente le opinioni comuni – vere e proprie teorie scientifiche per l‟epoca. A detta della Dea, ciò

è necessario per non lasciare che il sapiente si lasci fuorviare, sedotto e fuorviato

dall‟ingannevole contenuto di esse. Se il sapere vero ed indubitabile appartiene all‟essere, ed

esso è completo ed onnicomprensivo, che posto v‟è per le opinioni?

A mio modo di vedere, benché la dea puntualizzi numerose volte come quello doxastico sia un

sapere a cui non prestare ascolto, è tuttavia altrettanto evidente come esso risulti fondamentale

per il sapiente al fine di avere una visione corretta della realtà. La dea prende le mosse

dall‟esposizione della natura del concetto di essere; tuttavia il concetto puro di ἐόλ, che di fatto si

rivela soltanto nella dimensione noetica122 (decisivi a tal proposito sono il frammento 3 e il v. 34

del fr. 8, su cui si ritornerà in seguito), non può essere correttamente compreso se Parmenide non

viene adeguatamente informato anche del sapere cosmologico fondato dai mortali. Le doxai

121
Cfr. L. Ruggiu, Unità e molteplicità in Parmenide, in “La parola del passato”, XLIII, 1988, pp. 347 – 372: “[…]
ciò che Parmenide condanna [scil. nei mortali] è la separazione dell‟apparire e dei suoi contenuti dalla verità
dell‟essere, verità che sola rivela l‟autentico senso dell‟esperienza. Senza il radicamento dell‟esperienza nell‟essere,
l‟esperienza viene ad occupare tutto l‟orizzonte del reale e con ciò dell‟apparire” (pp. 357 - 358), la lettura che
Ruggiu porta avanti è quella dell‟essere come intero (oὖινλ) di cui aletheia e doxa sono due momenti diversi del
medesimo aspetto: “[…] il molteplice è affermato sia all‟interno della ἀιήζεηα come nella δόρα in quanto entrambe
costituiscono l‟essere come oὖινλ (Ibidem, pag. 363) […] l‟essere è uno, non nel senso che esso si contrappone e
annulla il molteplice, ma nel senso che le prerogative e i predicati dell‟essere sono propri di ogni essere,
indipendentemente dal fatto che esso sia presente o assente, vicino o lontano (ivi).”
122
Non è di questo avviso P. Curd, secondo cui “For Parmenides noos is not itself an infallible capacity; it can stray
into error and must be controlled.” Riferendosi qui alla via della verità che richiede necessariamente la conoscenza
anche delle opinioni, ancora la Curd: “For Parmenides, on the other hand, noos is a capacity for or a way of
thinking: one can use noos well or badly and so think well or badly.” Seguendo la Curd, anche la doxa sarebbe
prodotto del pensiero, seppur un prodotto errato. Cfr. P. Curd, art. cit. pag. 122. Si è visto invece come le opinioni
non siano mai il prodotto puro del pensiero, ma dei sensi fuorvianti, poiché il concetto di essere, al pensiero, risulta
evidente.
hanno quindi un valore di verità autonomo in sé, non vincolato a quello dell‟essere? La risposta,

a mio avviso, può essere “sì”, ma solo in parte. Nonostante in Parmenide venga a determinarsi

una netta scissione tra le due dimensioni, si può leggere la seconda parte del poema come

l‟esposizione delle teorie in assoluto più attendibili all‟interno dell‟universo in divenire. La prova

più concreta della fondazione del sapere su un ferreo razionalismo che esclude i sensi è fornita

dalle righe del fr. 7:

νὐ γὰξ κήπνηε ηνῦην δακῆη εἶλαη κὴ ἐόληα·

ἀιιὰ ζὺ ηῆζδ‟ ἀθ‟ ὁδνῦ δηδήζηνο εἶξγε λόεκα

κεδέ ζ‟ ἔζνο πνιύπεηξνλ όδὸλ θαηὰ ηήλδε βηάζζσ,

λσκᾶλ ἄζθνπνλ ὄκκα θαὶ ἠρήεζζαλ ἀθνπήλ

θαὶ γιῶζζαλ, θξῖλαη δὲ ιόγση πνιύδεξηλ ἔιεγρνλ

ἐμ ἐκέζελ ῤεζέληα123.

L‟uomo che sa deve necessariamente tenere lontano il pensiero dal mondo delle opinioni, in

quanto formulate attraverso i sensi (l‟occhio “che non vede” e l‟orecchio “che rimbomba”);

peculiarità del mondo sensibile è, ovviamente, il divenire o, magari meglio, gli enti in

movimento. Ora, il mondo sensibile viene concepito come estraneo al puro pensiero, quindi dalla

coerenza del concetto puro di essere124, in quanto la sua peculiarità è quella di essere

perennemente in divenire; ad esso non appartiene la fissità e la coerenza dell‟ἐόλ ma il continuo

mutare.

Risulta necessario, a questo punto, cercare di comprendere quale sia il valore gnoseologico delle

opinioni dei mortali, capire se esse siano opinioni meramente false, o se abbiano in sé una

qualche forma di probabilità o verosimiglianza; per meglio dire: la doxa ha in se stessa una certa
123
“Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!/Ma tu da questa via di ricerca allontana il
pensiero,/ né l‟abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi/ a muovere l‟occhio che non vede,
l‟orecchio che rimbomba/ e la lingua, ma con ragione giudica la prova molto discussa/ che da me ti è stata fornita.”
Cfr. DK 28 B 7. In corsivo ho evidenziato “con ragione”, poiché è attraverso il pensiero che vedremo, verrà
giudicata fallace la dimensione doxastica.
124
Decisivi a tal proposito sono DK 28 B 3 e B 8, 34; nei quali viene espresso, seppur in maniera problematica, il
rapporto tra essere e pensiero.
autonomia? È possibile rintracciare in essa determinate leggi regolative? Sicuramente non si può

trarre una conclusione del genere direttamente dai versi del poema; è pur vero però che, partendo

dal ruolo storico ricoperto dall‟Eleate nella tradizione presocratica, non si può escludere che egli

desse, in qualche modo, dignità al mondo fenomenico.

Essendo il mondo delle doxai caratterizzato da un incessante processo di divenire, anche la sua

struttura concettuale non può rasentare in alcun modo una verità stabile ed imperitura come

quella del concetto puro di essere, bensì una conoscenza in continuo progresso; le scoperte

attribuite a Parmenide non possono essere, a mio avviso, dissociate da quello che è il suo

impianto di pensiero (non avrebbe allora senso esporre le sue teorie scientifiche in maniera

sistematica nella seconda parte del poema, che quasi certamente era la più voluminosa nella

versione integrale). In virtù di ciò, Parmenide si sarebbe reso conto della continua perfettibilità e

del continuo progredire del sapere intorno alla natura125; perciò non poté riscontrare in esso

alcuna “affidabilità”, in quanto tale dimensione risulta caratterizzata dal perpetuo cambiamento;

ad ogni modo, è tuttavia plausibile che l‟Eleate abbia ricercato e rintracciato il sapere vero al di

fuori della portata dei sensi126: Parmenide sarebbe stato il precursore del più ferreo razionalismo,

ricercando un sapere autentico che non fosse contaminato dai sensi (da cui la determinatezza e

l‟eterna attualità del concetto di essere). Perciò i due piani dell‟aletheia e della doxa risultano

caratterizzati da due livelli di verità differenti: “Troviamo così in Parmenide anche la famosa

distinzione tra il mondo della vera conoscenza, nel quale non vi è un venire all‟essere e un perire

ma solo un essere eterno e onnipresente, in sé conchiuso e per così dire totalmente pieno, e il

mondo della doxa, dell‟opinione; nonostante sia solo un mondo delle apparenze o delle parvenze,

quest‟ultimo può essere per buona parte costruito in base alle sue proprie leggi, al punto che

anche in questo mondo delle apparenze si può distinguere quanto in esso è giusto e vero e quanto
125
Idea che condivido con Popper (op. cit.), il quale, a mio avviso, fraintende il messaggio parmenideo su altre
questioni che abbiamo esposto precedentemente, mentre per quanto concerne un approccio parzialmente scettico di
Parmenide intorno alle questioni “scientifiche” sento di poter condividere molte idee con il filosofo austriaco.
126
Con ciò intendo dire, ovviamente, che l‟ontologia parmenidea ha una natura diversa da quella dei mortali, cosa
che può apparire scontata di primo acchito, ma che mette in luce il fatto che è dall‟essere che si comprendere la doxa
e mai il contrario. L‟ontologia parmenidea viene qui vista come una sorta di “via di fuga” dal mondo fenomenico in
continuo e perpetuo fluire.
non lo è, distinguere cioè tra una sorta di verità di secondo grado e ciò che da questa verità si

discosta”.127

In virtù di quanto finora detto, e tenendo conto dell‟apporto notevole che Parmenide ha dato sia

nel campo naturalistico (e filosofico), si è ipotizzato che l‟Eleate abbia colto la caducità e la

provvisorietà del sapere “scientifico”128 pur non riuscendo a tematizzare la natura originaria

dell‟errore dei mortali. L‟ontologia parmenidea, sulla base di quanto fin qui detto, si delinea

come il frutto di un‟elaborazione concettuale che mira a mostrare non solo che il sapere dei

mortali è imperfetto, ma di quale natura sia l‟errore che essi compiono. È solo ed esclusivamente

alla luce della comprensione del concetto puro di essere che si è in grado di comprendere il reale

senso in cui i mortali si sono ingannati; non solo, una volta compreso che essi si muovono su

basi concettuali di per sé vere solo in apparenza sarà necessario che l‟uomo che sa le tenga a

mente per non lasciarsi, ancora una volta, fuorviare. In conclusione, se quella dell‟essere è la

verità, essa non può essere ricavata a partire da quelle che sono le opinioni dei mortali129, bensì è

solo dopo aver compreso la reale natura della verità, coincidente col concetto puro di essere, che

si può comprendere la vera essenza del mondo fenomenico, con tutto ciò che ne consegue. È

dall‟ἐόλ che si comprende la doxa, mentre questa non può in alcun modo fondare la realtà in sé.

Abbiamo dunque risposto ad una delle domande poste sopra: le opinioni rappresentano un certo

tipo di sapere (che, come vedremo, sarà fondato su un dualismo); questo non è un sapere del

tutto fallace, bensì è il miglior modo di conoscere il mondo fenomenico attraverso una

commistione con i sensi; tuttavia questo sapere, all‟uomo che sa, si rivela imperfetto in quanto

perfettibile. Un sapere che reca in se stesso la possibilità di essere sempre migliorato (è questo il

senso di una primordiale “evoluzione scientifica”) non può essere quello autentico: è necessario

dunque che la vera conoscenza sia quella immutabile e imperitura, e questa non può che risiedere

127
Cfr. K. v. Fritz, Le origini della scienza in Grecia, Il Mulino, Trento 2000, pp. 47 – 48.
128
Preferisco virgolettare la parola “scientifico” in quanto il concetto di επηζηήκε greco non è associabile alla
scienza sperimentale a cui siamo abituati noi moderni. Tuttavia mi riferisco a quelle che sono le ricerche dell‟epoca
arcaica in ambito fisico – cosmologico.
129
Su ciò si tenga presente l‟interpretazione di G. Cerri.
nel pensiero che comprende da sé l‟unica verità che può essere tale, e cioè il concetto puro di

essere. Tuttavia, non è mai a partire dal fenomenico che si ha conoscenza dell‟essere e della sua

natura, ma, al contrario, è a partire da questa che il sapiente potrà conoscere la reale natura

dell‟errore dei mortali (il dualismo e i motivi della sua inconsistenza) e, giunto a tale conoscenza,

egli non si lascerà più fuorviare.

Il processo conoscitivo in Parmenide: conoscenza della natura dell‟errore

attraverso la comprensione del concetto puro di eon.

Seguendo la linea interpretativa qui proposta, si comprende come nell‟ottica parmenidea la reale

comprensione dell‟errore originario dei mortali passi necessariamente attraverso la ferma

acquisizione della verità dell‟ ἐόλ. È vero che l‟Eleate presenta tutto il suo sistema filosofico

come una rivelazione della dea, per i motivi di allegoria che nelle pagine precedenti abbiamo

sottolineato. È comunque solo attraverso la comprensione del concetto puro di essere che risulta

in qualche modo possibile fondare la vera essenza del mondo fenomenico. Si è dimostrato infatti

come non si possa risalire, nella prospettiva parmenidea, dalla mancanza di certezza del mondo

fenomenico alla verità dell‟essere; tale mancanza di certezza del mondo fenomenico, tuttavia,

non risiede in una sua illusorietà o totale irrealtà, bensì nella suo essere continuamente mutevole.

Ciò su cui si è cercato di porre l‟accento è il fatto che per il “Parmenide scienziato” non è

possibile acquisire un sapere certo se, nella ricerca della verità, hanno posto anche le mere

esperienze sensoriali: è solo attraverso il pensiero, infatti, che è possibile comprendere la natura

del reale e ciò che ha fuorviato coloro che restano, in ogni caso, vincolati ai sensi. Per

comprendere al meglio la natura dell‟errore dei mortali, che altro non è se non la

giustapposizione di due principi originari, “Luce” – “Tenebra”, è opportuno comprendere i

lineamenti essenziali dell‟ontologia parmenidea, alcuni già accennati nelle pagine precedenti.
Nel primo frammento la Dea espone immediatamente al suo interlocutore quello che sarà il

contenuto del vero sapere: da un lato la verità “ben rotonda”, e, contestualmente, le opinioni dei

mortali (su cui torneremo)130. Importante qui è tener presente come sia il sapere puro, il vero, sia

il verisimile contingente siano entrambi necessari per approdare all‟assoluta certezza.

L‟ontologia parmenidea, del resto, si sviluppa appieno nel secondo frammento, che abbiamo già

analizzato, e che contiene l‟esposizione, come si è visto, delle due vie di ricerca quella

dell‟essere e quella delle opinioni.

Si è visto come l‟imprescindibile necessità di assimilare anche il sapere intorno alle opinioni dei

mortali faccia parte della totalità del sapere che “l‟uomo che sa” deve acquisire per cogliere il

vero in quanto tale. Ma quale sia la natura dell‟errore dei mortali viene illustrato da Parmenide

per bocca della Divinità a partire dal v. 51 del fr. 8: perché essi si sono ingannati e in che modo;

nella prospettiva dell‟Eleate è possibile comprendere ciò soltanto alla luce della già acquisita

conoscenza del concetto puro di essere nella prima parte dell‟opera. I vv. 51-60 già citati in

precedenza costituiscono l‟inizio della seconda parte del poema, che comprende, oltre ai versi

sopracitati, i frammenti dal 9 al 19:.essa è strutturata come l‟esposizione di una serie di teorie di

matrice naturalistica intorno al cosmo e agli enti naturali. Nei vv. 51-60 del fr. 8 Parmenide

descrive in maniera sistematica in che cosa consiste concettualmente l‟errore dei mortali. Appare

chiaro, dai versi del Poema, alla luce di quanto finora detto sull‟assoluta identità dell‟essere con

se stesso e sulla sua immutabilità, che l‟errore dei mortali deve risultare necessariamente come

qualcosa di incompatibile con il concetto puro di essere. Parmenide, come si è visto, parla in

questi versi di due forme originarie poste dai mortali. Secondo quanto scrive Ruggiu,

l‟interpretazione più corretta deve mettere in luce il fatto che l‟errore dei mortali non

130
ρξεὼ δἐ ζε πάληα ππζέζζαη/ ἠκὲλ Ἀιεζείεο εὐθπθιἐνο ἀηξεκὲο ἦηνξ/ ἡδὲ βξνηῶλ δὀμαο, ηαῖο νὐθ ἔλη πίζηηο
ἀιεζἠο: “Bisogna che tutto tu apprenda:/ e il solido cuore della verità ben rotonda/ e le opinioni dei mortali, nelle
quali non c‟è una vera certezza.” A tal proposito scrive Ruggiu: “Sono questi i versi – chiave, che tracciano il
programma del poema in maniera veramente paradigmatica. Parmenide parla di tre cose ben distinte: 1) la verità (v.
29), 2) le fallaci opinioni dei mortali (v.30), 3) il modo corretto in cui vanno intese le cose che appaiono, le
apparenze e le opinioni (vv. 31 – 32). Come abbiamo già detto sopra, la terza via è, in effetti, il recupero delle
opinioni nell‟ottica della verità.” Cfr. Ruggiu, Parmenide, op. cit., pag. 89 (nota n°8). Ruggiu qui riprende il tema
delle tre vie che si trova già nel suo Unità e molteplicità in Parmenide, art. cit. Le vie, secondo l‟interpretazione che
si è fin qui proposta sono due e non tre.
consisterebbe nel porre due principi originari in sé, bensì nel non pensarli come unitari, ma come

opposti: “Quest‟ultima interpretazione [scil. quella secondo cui l‟unità degli opposti essi non

hanno capito che è necessaria] è la più plausibile”. Si noti che Parmenide non critica la

distinzione di luce e notte in quanto tale, ma l‟assoluta posizione della separazione e quindi

l‟assoluta differenziazione ed opposizione dell‟una rispetto all‟altra. Il superamento dell‟errore

dei mortali consiste in questo: la luce „è‟, la notte „è‟, quindi l‟una e l‟altra „sono‟, e appunto in

questo sta l‟unità che le ingloba. Le due forme dai nomi diversi vanno quindi superate nell‟unica

forma dell‟essere […]131”. Questa interpretazione di Ruggiu è a mio avviso poco convincente,

poiché pur ammettendo un‟unità all‟interno dell‟essere, in quest‟ottica il concetto di ἐόλ subisce

una differenziazione intrinseca tra “Luce” e “Notte”132; pur salvaguardandone l‟unità, la purezza

del concetto di essere viene così perduta. A tal proposito, ritengo opportuno riportare insieme ai

versi dell‟ottavo frammento l‟intero fr. 9:

αὐηὰξ ἐπεηδὴ πάληα θάνο θαὶ λὺμ ὀλόκαζηαη

θαὶ ηὰ θαηὰ ζθεηέξαο δπλάκεηο ἐπὶ ηνῖζί ηε θαὶ ηνὶο,

πᾶλ πιένλ ἐζηὶλ ὁκνῦ θάενο θαὶ λπθηὸο ἀθάληνπ

ἴζσλ ἀκθνηέξνσλ, ἐπεὶ νὐδεηέξση κέηα κεδέλ133.

131
Cfr. Ruggiu, Parmenide, op. cit., pag. 109, n° 38.
132
Sulla opposizione dei concetti presenti nella doxa, riporto le parole di A. Hermann, art. cit.: “Are the semata of
Light „opposites‟ of the semata of Night, or is their function better understood as „contradictory‟, „antithetical‟, or
simply as „contraries‟ of each other? If we take the doxastic semata as enumerations of proprierties or
characteristics, then by labeling them „opposites‟, we deem them symmetrically opposed in character: „fiery bright‟
vs. „darkest night‟, „light in weight‟ vs. „haevy‟, „hot‟ vs. „cold‟ and so on. In other words, the proprierties are set
against each other for contrasting purposes, not necessary to suggest conflict. […] On the other hand, to suggest that
the semata are „contradictory‟ implies that the opposing properties are mutually exclusive. If one „is‟, the other „is
not‟ or if one is „true‟, the other must be „false‟. This is not the case of the things of Doxa, as much the evidence
shows: the moon, which is essentially dark, or lightless, „shines in the night with a light not of its own‟ (B 14); the
sun‟s rays – belonging essentially to „gentle‟ light can nonetheless exhibit destructive effects (B 10); the „female‟
can unite with the „male‟, without becoming male, and vice versa (B 12).” (Cfr. pp. 157 – 58) Anche secondo
Hermann, quindi, si può parlare di unità degli opposti nella doxa parmenidea, la quale rasenterebbe il vero, di contro
alla scissione operata dai mortali. Analogamente per quanto detto circa l‟interpretazione di Ruggiu, non si condivide
questa chiave di lettura.
133
“E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte,/ e le cose che corrispondono alla loro forza sono
attribuite a queste cose o a quelle,/ tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con
nessuna delle due c‟è il nulla.” Cfr. DK 28 B 9.
Complessa è l‟esegesi di questi versi che, però, sono decisivi per la comprensione del pensiero

parmenideo sulla doxa. Il fr. 9 conferma ancora un volta come la “via” che rappresenta le

opinioni dei mortali non solo non sia identificabile con il vuoto non-essere, ma che essa abbia in

sé una sussistenza autonoma, potremmo dire. Si è già osservato come le opinioni dei mortali

siano in se stesse non propriamente vere; ora alla luce del concetto puro di l‟essere si comprende

il reale senso della loro fallacia. Dai versi del fr. 9 si comprende come i due principi originari

non siano identificabili l‟uno con l‟essere e l‟altro con il non-essere, poiché quest‟ultimo non ha

determinazione alcuna; in virtù di ciò, “Luce” e “Tenebra” si determinano in quanto tali, come

opposti, escludentesi poiché non sono sintetizzabili l‟uno nell‟altro; così ecco che il senso di B 8,

54 risulta più comprensibile: per i mortali bicefali l‟unità dei due principi (il che presupporrebbe

una reductio ad unum) non è necessaria, nel senso che il loro orientamento nel mondo

presuppone un dualismo originario che de facto individua due principi primissimi.

In virtù di tutto quanto detto fin qui, è possibile giungere ad alcune conclusioni. Il modus

cogitandi proprio dei mortali, è una sorta di sapere che, prima della comprensione del concetto

puro di essere, si manifesta come una forma di conoscenza134 che de facto si mostra, a colui che

sa135, come sempre perfettibile, un sapere instabile, mai “afferrabile” del tutto. A tal proposito è

attraverso la comprensione dell‟essere e dei suoi “segni”, su cui ci siamo sufficientemente

soffermati, che risulta possibile comprendere la natura dell‟errore dei mortali136: esso si

134
In riferimento a quanto detto finora, non mi sento assolutamente di poter bollare le “opinioni dei mortali” come
qualcosa di assolutamente falso, poiché, lo si è visto, il loro è un contenuto in ogni caso “positivo”, benché
verosimile. La sua non totale affinità con il concetto puro di essere non relega la doxa nell‟ambito né
dell‟assolutamente inesprimibile non – essere, né nell‟essere vero. Il suo contenuto è quello più plausibile fondato
però, su un errato dualismo originario.
135
Riprendo qui l‟espressione del fr. 1 (εἰδόηα θῶηα) in quanto già lì il riferimento a colui che sa investe il
personaggio (Parmenide) non ancora in possesso del sapere intorno all‟essere. E‟ dunque plausibile che l‟uomo che
sa, il sapiente in generale, sta qui a indicare colui che, nell‟antichità, aveva interessi e conoscenze in ogni ambito
dello scibile umano.
136
Questa maniera di procedere sarebbe l‟asse portante dell‟assiomatica che, secondo F. Marcacci, è un tipo di
argomentazione introdotta proprio dagli Eleati; secondo l‟autrice, Parmenide procede, per bocca della Dea,
prendendo le mosse dal concetto di essere, e sviluppando l‟argomentazione seguendo, punto per punto, i vari
sviluppi del ragionamento della Dea, scrive l‟autrice: “Parmenide, per bocca della Dea, mira ad esibire un
ragionamento inequivocabile […] La forza persuasiva del discorso della Dea si basa sull‟evidenza del ragionamento.
[…] Inutile dire che tutto ciò sembri anticipare le idee dell‟assiomatica: porre premesse, svolgere l‟argomento in
demonstrandum e conseguire la certezza del provato. Con Parmenide le distanze verso un sapere ben costituito, ben
fatto, giustificato nelle sue parti sembrano raccorciarsi rapidamente.” Cfr. F. Marcacci, Alle origini dell‟assiomatica:
manifesta come l‟aver erroneamente posto, da parte dei mortali, due principi originari: ciò

avrebbe dato origine al molteplice ed alla differenza, insomma ad una visione del mondo che non

riproduce la totale immutabilità dell‟essere, bensì si manifesta come articolato e frammentario.

Però colui che conosce la verità ontologica non può fare a meno di acquisire anche le

conoscenze intorno alla natura delle opinioni comuni; ciò, a parere di chi scrive, le rende

anch‟esse razionali, ma la loro razionalità è il prodotto di una commistione con i sensi. Pertanto

le “opinioni dei mortali” si connotano, nell‟elenco minuzioso che ne propone la dea, come le

opinioni più plausibili alla luce dell‟esperienza dei sensi.

In definitiva, nella prospettiva monistica eleatica, non è possibile, attraverso un‟astrazione dai

sensi, comprendere la natura del reale (ovvero dell‟essere), ma è la conoscenza del concetto di

essere a precedere necessariamente la comprensione della fondatezza del dato sensibile. È

l‟assoluta preminenza del pensiero a comprendere che il sapere costituito sulla base

dell‟esperienza dei sensi non può avere in se stesso pretesa di verità assoluta, in quanto si fonda

sul divenire e sulla differenza che, non solo sono concettualmente in contrasto col concetto di

essere, ma si pongono come sapere mai definitivo. Per questo motivo, essendo la conoscenza

ontologica anche una sorta di veicolo per comprendere il valore dell‟esperienza sensibile, è solo

una volta conosciuta la verità ontologica che sarà poi possibile giungere anche a quella sensibile

evitando così di cadere nell‟errore dei mortali.

gli Eleati, Aristotele, Euclide, Aracne, Roma 2008. A mio avviso, ciò che scrive la Marcacci è vero solo in parte, nel
senso che è vero che l‟argomento della Dea si sviluppa attraverso un ragionamento coerente, tuttavia all‟interno
dell‟ontologia parmenidea non so fino a che punto si possa parlare di progresso. L‟impianto argomentativo
dell‟autrice sembra suggerire una certa vena dimostrativa modernizzante nell‟ontologia eleatica. A mio avviso,
invece, la Dea non fa altro che esprimere il concetto puro di essere non come premessa, ma come realtà autentica da
cui scaturisce solo la verità dell‟essere e l‟impossibilità di sostenere il dualismo dei mortali, come vedremo.
La ricerca dei principi del mutamento a partire da ciò che è “primo

per noi” in Aristotele.

La dottrina parmenidea come reale ostacolo nella fondazione di una fisica.

“Come è stato scritto […] proprio presso i presocratici lo stesso concetto di natura era entrato in

crisi, nel momento in cui Parmenide aveva contestato la realtà del divenire, ossia ciò che

costituisce il carattere essenziale della natura, e quindi, a maggior ragione, era entrata in crisi la

loro “fisica”, come è evidente nella sofistica. […] In Platone la possibilità di costruire una

scienza della natura non incontra una sorte migliore, perché proprio la scoperta di una realtà

superiore alla natura, cioè il mondo delle idee, toglie alla natura il carattere di realtà vera e

propria, confermando in tal modo il giudizio negativo che del divenire aveva dato Parmenide”137.

Con queste parole Berti presenta, per linee generalissime, la fisica aristotelica. La ricerca dello

Stagirita intorno agli enti in movimento matura in un contesto preciso, come appena sottolineato

dal testo dello studioso. Aristotele, in base alla prospettiva concettuale che caratterizza il suo

pensiero, ha come scopo quello di giustificare il divenire e la sua natura.138 La fisica nel suo

complesso si pone il compito della ricerca dei principi del movimento; da qui dunque risulta

evidente come il divenire, presupponendo dei principi, abbia in se stesso realtà effettiva.

Le parole di Berti, sopra riportate, evidenziano in maniera corretta, a mio modo di vedere, il

reale obiettivo della fisica aristotelica. Per quanto ciò assai raramente sia stato posto in evidenza

dagli studiosi, la difficoltà che sta alla base della Fisica aristotelica è la difficoltà di giustificare il

movimento, quindi di giustificare razionalmente il divenire messo in crisi dall‟ontologia


137
Cfr. E. Berti, Nuovi studi aristotelici, Vol. II, cap. IV, La nascita della “Fisica” in Aristotele, pp. 69 – 80, cit.
pag. 69.
138
Si legga quanto scrive I. Düring a proposito: “La Fisica di Aristotele non è un‟esposizione d‟insieme, e non
forma un‟unità sistematica. Suo oggetto sono i processi della natura, le cose naturali e ciò che a esse accade, la
generazione, il mutamento, il movimento. I principi che Aristotele stabilisce non sono fine a se stessi. Diversamente
da Platone, egli non considera i principi come l‟essere, ma semplicemente come mezzi per la spiegazione del
processo della natura. […] Cerca gli aitia e gli archai soltanto nella misura in cui lo aiutano a intendere il mondo
dell‟esperienza naturale”. Cfr. I. Düring, Aristotele, cap. V: Movimento e cambiamento, i fenomeni fondamentali
della natura, Mursia, Milano 1986, pp. 335 – 394, cit. pag 342.
parmenidea e solo in parte riabilitato da Platone attraverso una sostanziale ripresa solo parziale

delle dottrine eleatiche. Parmenide allora, ancor prima di Platone 139, è l‟interlocutore critico di

riferimento dello Stagirita nel tentativo di una fondazione di una scienza fisica140.

Il concetto di movimento e di cambiamento, in generale, è il perno intorno a cui ruota tutta la

Fisica141; lo studio della sostanza, il sinolo di materia e forma142, come si legge nel libro E della

Metafisica, fa sì che la fisica aristotelica, nel complesso di tutti i suoi scritti, si possa

effettivamente determinare come un‟ontologia del divenire, per usare un‟espressione di L.

Ruggiu. Questa definizione dello studioso appare, a mio avviso, particolarmente in armonia con

quanto detto finora, soprattutto a proposito di Parmenide e di Platone. Sebbene sia proposta qui

un‟interpretazione dell‟Eleatismo che attribuisce, in una certa misura, un valore specifico e

rilevante al mondo sensibile, è comunque vero che le teorie naturalistiche della doxa parmenidea

non hanno certamente il carattere greco di episteme: il vero sapere appartiene soltanto all‟essere:

questo vale, anche se con le dovute differenze, sia in Parmenide che in Platone,.

A questa impostazione (che Aristotele definisce in più punti “arcaica”), lo Stagirita reagisce con

la fondazione e l‟elaborazione di una scienza dell‟ente in divenire, un obiettivo che quindi non è

compatibile con l‟ontologia dei predecessori; e il punto di partenza per riabilitare, potremmo

dire, il divenire sotto una lente scientifica è la sua immediata evidenza, la sua indubitabile

certezza attraverso il suo manifestarsi all‟esperienza sensibile. Vedremo come questo modo di

139
Su questa linea, Ruggiu: “Il ruolo della fisica, in Platone, infatti, non solamente è privo di consistenza e di
autonomia, ma soprattutto viene collocato al di fuori della possibilità di una indagine scientifica. Del divenire non si
dà scienza. La scienza ha per oggetto l‟immutabile e il permanente, cioè l‟essere. Dunque il divenire non può essere
detto „essere‟ in senso proprio”. Cfr. L. Ruggiu, La Fisica come ontologia del divenire, op. cit. pag. XXV.
140
Per approfondimenti sulla Fisica aristotelica, si vedano i volumi di Jori A., Aristotele, Mondadori, Milano, 2003
e G. Lucchetta, Una fisica senza matematica, Trento, Verifiche, 1978.
141
“Große Teile der aristotelischen Physik handeln von den Bewegungs und Veränderungsprozessen in der Natur, in
mehrfachen Wiederholungen und in Abgrenzung gegen andere Begriffe.” (“Grandi sezioni della Fisica aristotelica
trattano dei processi del movimento e del mutamento in natura, con molteplici riprese e la delimitazione di altri
concetti.”). Cfr. H. Flashar, Aristoteles, Lehrer des Abendlandes, Verlag C.H. Beck OHG, München, 2013.
Traduzione dal tedesco mia.
142
Abbiamo più volte ricordato che lo studio delle sostanze corruttibili è l‟oggetto della Fisica, ciò però non pone
tale scienza su un piano secondario, come afferma Berti (Cfr. Le ragioni di Aristotele, Laterza, Bari, 1989) nel
capitolo riguardante la scienza della natura: secondo lo studioso, la Fisica avrebbe un primato anche sulla Metafisica
nel senso che sarebbe proprio nelle lezioni di scienza della natura che viene introdotta la dottrina delle quattro cause,
a parere di Berti il maggior contributo di Aristotele alla storia del pensiero, inoltre, dice ancora lo studioso, la
Metafisica risulterebbe la naturale evoluzione di quelle dottrine che hanno il loro fondamento principale proprio
negli scritti di fisica.
approcciarsi sia figlio, per utilizzare un‟espressione metaforica, della polivocità dell‟essere già

presupposta da Aristotele e rappresenti ciò che più lo allontana dal pensiero eleatico.

L‟evidenza della κίνησις come punto di partenza della ricerca aristotelica.

Si è appena introdotto il problema del nodo teoretico che differenzia Aristotele dai predecessori

nell‟ambito della fondazione di una scienza del divenire. L‟obiettivo delle pagine seguenti è

quello di stabilire se la riflessione aristotelica rappresenti un effettivo superamento dell‟ontologia

Parmenidea, e in questo senso anche una sua naturale evoluzione in termini diversi, oppure se si

tratti di due piani assolutamente inconciliabili tra loro.

Seguendo l‟interpretazione proposta in queste pagine, l‟ambito della verità, in Parmenide, viene

a coincidere con il pensiero stesso e con il concetto puro di essere e solo a partire da tale

prospettiva si determina la struttura, che non corrisponde comunque all‟autentica verità

dell‟essere, del divenire del mondo fenomenico. Aristotele, invece, si pose come obiettivo quello

di “salvare i fenomeni” attraverso l‟evidenza del mutamento; per questo la “Fisica” si connota

come una vera e propria reazione a quelli che sono i problemi dell‟eleatismo e di Platone143:

Come scrive Ruggiu, “Questo carattere di auto -manifestatività della necessità del proprio essere

da parte del divenire, viene richiamato con forza, contro lo stesso Parmenide. Il divenire non solo

è, ma ad esso compete quello stesso carattere di innegabilità che Parmenide assume per il proprio

essere, in quanto esso «è e non è possibile che non sia”144. Per quanto riguarda il processo

dimostrativo, lo Stagirita prendere le mosse da quella che è l‟innegabile verità del divenire in

quanto noto per sé:

143
È pur vero che a partire da Phy. I, 1 la ricerca dei principi non investe soltanto l‟eleatismo e Platone. Come solito
fare, lo Stagirita prende in esame tutte le dottrine sui predecessori intorno al numero dei principi. Tuttavia,
Parmenide ed i suoi discepoli vengono trattati con maggiore attenzione, in quanto i pensatori che più di tutti minano
la realtà stessa dell‟oggetto della “Fisica”.
144
Cfr. L. Ruggiu, Rapporti fra la “Metafisica” e la “Fisica” di Aristotele, in “Rivista di filosofia neo- scolastica”,
85, 1993, pagg. 455 – 511, cit. pag. 469. Le parole di Ruggiu non fanno che confermare che Parmenide è un autore
tutt‟altro che secondario nel pensiero aristotelico.
ἠκῖλ δ‟ ὑπνθείζζσ ηὰ θύζεη ἢ πάληα ἢ ἔληα θηλνύκελα εἶλαη· δῆινλ δ‟ ἐθ ηῆο ἐπαγσγῆο145.

Il modo di procedere di Aristotele risulta decisivo per il costituirsi dell‟intero impianto del

sapere. La coincidenza del valore di verità del divenire con la sua stessa manifestazione sembra

un concezione assolutamente lontana dalla prospettiva dell‟Eleatismo; tuttavia è bene analizzare

il modo di procedere dello Stagirita per comprende la sua metodologia di ricerca: l‟analisi qui

verte sulla differenza tra ciò che è primo per noi e ciò che è primo per natura146.

Dicendo: anteriori e più noti rispetto a noi, intendo riferirmi agli oggetti più vicini alla sensazione; dicendo invece:
anteriori e più noti assolutamente, intendo riferirmi agli oggetti più lontani dalla sensazione. I più lontani di tutti
dalla sensazione sono così gli oggetti massimamente universali, mentre i più vicini di tutti sono gli oggetti singoli. 147

Questo passo fa luce su quella che è l‟idea dello Stagirita in merito al procedere del sapere

scientifico. Qui la suddivisione è tra due ambiti, da un lato ciò che è più noto per noi (tra cui vi

sono le sostanze singole), mentre nel secondo senso rientrano quelli che sono detti principi,

ovvero ciò che è primo per natura, nel senso di non evidente ai sensi, ma comunque acquisibile

dalla conoscenza umana, ovvero i principi primi148. Ora, la modalità di acquisizione della

conoscenza dei principi è frutto di un processo e non di un‟acquisizione149. Senza perdere di

vista il fatto che l‟analisi aristotelica verte, in questo contesto, sugli enti in movimento, ecco che

allora il dato immediato, il primo per noi nell‟ambito della scienza fisica risulta essere il divenire

in quanto tale: per meglio dire, nell‟ambito della fondazione della fisica, come di tutte le altre

145
Cfr. Phy., I, 2, 185 a 12 – 14. “Per quanto ci riguarda, invece, noi poniamo come assunto di base della nostra
indagine che le cose che esistono per natura, o tutte o alcune, sono in movimento: questo è attestato
dall‟esperienza.”
146
Si noti come nonostante la terminologia completamente diversa, la linea di continuità tra l‟arcaismo eleatico e il
pensiero aristotelico viaggi su binari quanto mai simili: la distinzione tra ciò che è “primo per noi” e “primo per
natura” è già individuabile nel pensiero eleatico, sebbene non in maniera dichiarata ed esplicita come in Aristotele.
147
Cfr. Aristotele, Anal. II, I, 2 72 a 1 – 5 ( νὐδὲ γλσξηκώηεξνλ θαὶ ἡκῖλ γλσξηκώηεξνλ. ιέγσ δὲ πξὸο ἡκᾶο κὲλ
πξόηεξα θαὶ γλσξηκώηεξα ηὰ ἐγγύηεξνλ ηῆο αἰζζήζεσο, ἁπιῶο δὲ πξόηεξα θαὶ γλσξηκώηεξα ηὰ πνξξώηεξνλ. ἔζηη δὲ
πνξξσηάησ κὲλ ηὰ θαζόινπ κάιηζηα, ἐγγπηάησ δὲ ηὰ θαζ' ἕθαζηα·).
148
Ciò si sposa perfettamente con quanto viene affermaην anche nell‟incipit del libro α: Ἡ πεξὶ ηῆο ἀιεζείαο ζεσξία
ηῇ κὲλ ραιεπὴ ηῇ δὲ ῤᾳδία. Σεκεῖνλ δὲ ηὸ κήη‟ἀμίσο κεδέλα δύλαζζαη ζηγεῖλ αὐηῆο κήηε πάλησο ἀπνηπγράλεηλ (“La
ricerca della verità sotto un certo aspetto è difficile. Mentre sotto un altro è facile. Una prova di ciò sta nel fatto che
è impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto impossibile non coglierla del
tutto.”). Cfr. Metaph. α, 993 a 30 - b 1.
149
Su questo aspetto ritorneremo anche nel capitolo successivo in merito al pensiero platonico ed alla natura del
sapere acquisito secondo intuizione.
scienze, come vedremo, è necessario prendere le mosse da ciò che è primo per noi150 (che non

significa necessariamente induzione), partendo dal presupposto che questo sia qualcosa di già

dato, di noto per sé:

Da un lato, alcuni ritengono che non sussista scienza, in quanto bisogna conoscere gli elementi primi, e d‟altro lato,
alcuni pensano che la scienza sussista, ma che di tutti gli oggetti possa esservi dimostrazione. Nessuna delle due
opinioni è vera, e nessuna delle due impostazioni è necessaria. In realtà, coloro che suppongono non essere
assolutamente possibile la conoscenza, sostengono di venir ricondotti all‟infinito, in quanto non si possono
conoscere gli oggetti posteriori in virtù di oggetti anteriori, che non derivino da elementi primi 151.

Questo passo degli Analitici posteriori è assai significativo per capire quale sia la concezione

aristotelica circa la fondazione della scienza152. Come già sopra anticipato, il punto di partenza

nella costituzione dell‟episteme consiste, necessariamente, nell‟individuazione di un

presupposto. Seguendo le parole del testo appena citato, lo Stagirita critica coloro i quali

affermano che di ogni elemento possa esservi dimostrazione. La contestazione a questa posizione

non è complessa: non è possibile proseguire all‟infinito nel procedere dimostrativo, ragion per

cui si deve necessariamente ammettere che nella ricerca dei principi primi deve darsi un

elemento presupposto, che non può essere dimostrato. Inoltre Aristotele critica la posizione di

chi non ammette la previa conoscibilità di elementi primi in quanto evidenti e, perciò, non

potrebbe conoscere ciò che è ontologicamente primo: vedremo come anche tale prospettiva

risulta insostenibile nell‟ottica di Aristotele.

Nell‟ambito di questa generica esposizione del metodo seguito dallo Stagirita è evidente che,

volendo applicare tal concetti alla fisica, ciò da cui si deve necessariamente partire in quanto

150
Ciò si incasella perfettamente con la celebre identificazione del libro A della “Metafisica” della conoscenza vera
come conoscenza di cause.
151
Cfr. Anal. II, 3 Ibidem, 72 b 5 – 10.
152
Non è possibile parlare di una scienza del tutto né di un metodo univoco per fondare tutte le scienze, si ricordi
che (Cfr. Metaph. E 1) Aristotele parla di una scienza superiore, ma mai di una scienza univoca. Per quel che
concerne l‟Organon, invece, si parla dei metodi di argomentazione che sono comuni a tutte le scienze e, in questo
senso ne sono principi, tuttavia non si può parlare per quanto concerne la logica, di principi “fondativi”, potremmo
dire. Si veda, circa quanto detto, Metaph. A 9 992 b 24 – 31. Inoltre, anche W. Wiland si sofferma su questo punto:
“Non può perciò esistere – e questo è detto contro i platonici – nessuna scienza del tutto, in quanto non sarebbe
possibile apprenderla. Ma una scienza che possa essere appresa non è per questo stesso motivo, universale. Ciò vale
per ogni sapere metodico: i metodi possono essere applicati soltanto quando già si presuppone qualcosa che non sia
oggetto di domande.” Cfr. W. Wieland, La Fisica di Aristotele,Studi sulla fondazione della scienza della natura e
sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele, ed. it. Il Mulino, Bologna, 1993, cit. pag. 66. Ed.
origin., W. Wieland, Die aristoteliche Physik, Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und
die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, 2. durchgesehene Auflage mit einem
Nachwort, Göttingen, Vandenhoeck & Rupert, 1970.
primo per noi ed indimostrabile è, allora, il divenire in quanto tale. Del divenire, infatti, non può

esserci dimostrazione153, deve essere acquisito come elemento positivo di base che de facto non è

passibile di essere ulteriormente verificato; semmai è a partire dal divenire che potranno essere

compresi i principi fondativi che ne determinano la natura: così la ricerca scientifica risulta

prendere le mosse dall‟evidenza, un‟evidenza che non può essere in alcun modo messa in

discussione.

Il metodo aristotelico nella ricerca dei principi.

Νelle pagine precedenti si è accennato al metodo aristotelico nella ricerca dei principi,

mostrando come lo Stagirita proceda da ciò che è primo per noi a ciò che è primo per natura,

vale a dire attraverso il passaggio da ciò che è evidente, presupposto, immediato154, a ciò che è

primo per la ragione, ovvero ai principi155. Il percorso seguito da Aristotele non è di semplice

comprensione: si è visto come non sia possibile ammettere l‟esistenza di una scienza universale,

in quanto è necessario ammettere sempre una conoscenza presupposta che, nel campo della

fisica, è data dall‟evidenza del divenire. Su questo scrive W. Wieland:

La via per conoscere i principi dev‟essere dunque diversa da quella che parte dalla conoscenza di ciò di cui essi sono
principi. Ma in quale modo si giunge ai principi? (p.75) […] Che non tutto possa essere dimostrato, è dunque una
condizione di possibilità della dimostrazione stessa. (p.76) […] Se però i principi fossero immediatamente
comprensibili, allora proprio una ricerca di essi, ch si serve della dialettica come strumento, sarebbe superflua. Già
soltanto il fatto, quindi, che anche la ricerca dei principi abbia ancora bisogno di uno strumento, dimostra che la
conoscenza di questi ultimi non può essere immediatamente intuitiva. (p. 77)156

153
Così il divenire, l‟immediato, non è effettivamente conoscenza in senso stretto, poiché “Inoltre, noi riteniamo che
nessuna delle sensazioni sia sapienza: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di
conoscenza dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo,
ma solamente segnalano che esso è caldo.” (ἔηη δὲ ηῶλ αἰζζήζεσλ νὐδεκίαλ ἡγνύκεζα εἶλαη ζνθίαλ· θαίηνη
ρπξηώηαηαί γ‟εἰζὶλ αὖηαη ηῶλ θαζ‟ἕθαζηα γλώζεηο· ἀιι‟ νὐ ιέγνπζη ηὸ δηὰ ηί πεξὶ νὐδελόο, νἶνλ δηὰ ηί ζεξκὸλ ηὸ
πῦξ, ἀιιὰ κόλνλ ὅηη ζεξκόλ.) Cfr. Metaph. A, I, 981 b 10 – 13.
154
“Il cominciamento del sapere, perciò, deve assumere “necessariamente” come punto di partenza ciò che è più
distante dal primo in sé e che tuttavia si mostra come ciò che è immediatamente accessibile per noi, e che pertanto
assume, per noi, il primato nell‟ordine della conoscenza, in quanto è soltanto a partire da questo che prende avvio la
ricerca del principio.” Cfr. L. Ruggiu, Rapporti tra la “Metafisica” e la “Fisica” di Aristotele, art. cit., pag 481.
155
Si intravede già qui come la verità acquisita mediante ragione, non sia il primo momento della conoscenza per
Aristotele, a differenza che nell‟Eleatismo.
156
Cfr. W. Wieland, op. cit. Corsivo dell‟autore.
Le parole di Wieland illustrano in maniera chiara quello che è il procedimento seguito dallo

Stagirita: la conoscenza dei principi è possibile, ma solo a partire da elementi di per sé noti, nel

senso che la mente umana non è una tabula rasa: ogni nostra ricerca dell‟universale deve

necessariamente avere, quale punto di partenza, ciò che è primo per noi, concetto che si trova

ribadito nel libro Z della Metafisica:

ἡ γὰξ κάζεζηο αὕησ γίγλεηαη πᾶζη δηὰ ηῶλ ἦηηνλ γλσξίκσλ θύζεη εἰο ηὰ γλώξηκα κᾶιινλ·157

“I principi non sono nulla in sé. – scrive ancora Wieland – Parlare di essi ha senso sempre e

soltanto in relazione alla loro funzione fondativa” 158.

Anche nella Fisica, l‟indagine intorno ai principi prende spunto dalle opinioni dei predecessori

in merito alla questione; così si apre il libro I:

἖πεηδὴ ηὸ εἰδέλαη θαὶ ηὸ ἐπίζηαζζαη ζπκβαίλεη πεξὶ πάζαο ηὰο κεζόδνπο, ὧλ εἰζὶλ ἀξραὶ ἢ αἴηηα ἢ ζηνηρεῖα, ἐθ ηνῦ
ηαῦηα γλσξίδεηλ (ηόηε γὰξ νἰόκεζα γηγλώζθεηλ ἕθαζηνλ, ὅηαλ ηὰ αἴηηα γλσξίζσκελ ηὰ πξῶηα θαὶ ηὰο ἀξρὰο ηὰο
πξώηαο θαὶ κέρξη ηῶλ ζηνηρείσλ), δῆινλ ὅηη θαὶ ηῆο πεξὶ θύζεσο ἐπηζηήκεο πεηξαηένλ δηνξίζαζζαη πξῶηνλ ηὰ πεξὶ
ηὰο ἀξράο159.

In questo passo, Aristotele espone alcuni concetti fondamentali della sua filosofia: se la fisica

(come si è visto dal libro E della Metafisica) studia gli enti in movimento, da questo passo si

comprende come degli enti in movimento sia effettiva conoscenza epistemica, e la conoscenza

epistemica, seguendo un comune denominatore dell‟intero pensiero filosofico aristotelico, è la

conoscenza di cause e, quindi, di principi; ragion per cui è possibile determinare i principi che

ineriscono alle sostanze che sono sinolo di materia e forma: in altre parole, è possibile

157
Cfr. Metaph., Z 3, 1029 b 4 – 5. “In effetti, tutti acquistiamo il sapere in questo modo: procedendo attraverso le
cose che sono meno conoscibili per natura verso quelle che sono più conoscibili per natura.”
158
Ibidem, pag. 78.
159
Cfr. Phy. I, 1, 184 a 10 – 16: “Poiché in ogni ricerca vi sono principi, cause o elementi, e il conoscere e il sapere
consistono nella conoscenza di questi – noi diciamo infatti di conoscere una cosa, solo allorché possediamo la
conoscenza delle cause prime e dei principi primi, fino agli elementi semplici -, è allora evidente che, anche in
relazione alla scienza che ha per oggetto la natura, si deve innanzitutto cercare di determinare quanto ha riferimento
con i principi.”
determinare i principi del movimento. Questo è una differenza fondamentale rispetto al pensiero

parmenideo: se è vero che nella prospettiva eleatica il movimento era comunque causato,

potremmo dire, da due principi originari, è pur vero che il dualismo a cui si allude nel Poema è

in netta contrapposizione con la verità assoluta dell‟essere: in virtù di ciò, seppur vi è un

tentativo di giustificare teoreticamente il dualismo che condiziona il pensiero dei mortali, è

comunque da tener presente che in Parmenide tale prospettiva non costituisce la verità propria

del pensiero.

Il modus operandi adottato dallo Stagirita si muove dunque su una prospettiva radicalmente

diversa da quella di Parmenide. La ricerca dei principi in Aristotele muove a partire

dall‟evidenza, da ciò che è primo per noi, per poi determinare quelli che sono i principi primi del

movimento; in Parmenide invece non è possibile alcuna verità al di fuori dell‟eon, attraverso il

quale è possibile comprendere l‟errore dei mortali. Secondo Aristotele è possibile determinare il

vero partendo da una conoscenza presupposta, ovvero, nel caso della fisica, dall‟evidenza del

movimento, senza la quale non è possibile risalire ai principi primi del movimento. Il processo di

comprensione del reale muove quindi da due basi completamente differenti: se la verità dei

principi aristotelici non è immediatamente manifesta, è pur vero che ciò che è principiato è pur

sempre, comunque, vero; secondo Parmenide, invece, la verità dell‟essere si fonda sul puro

pensiero e qualunque cosa che non fosse compreso all‟interno della dimensione noetica risulta de

facto altro dal vero; tuttavia, il vero dell‟essere permette anche di comprendere quella che è la

vera effettiva natura dell‟errore dei mortali: in altre parole, permette di avere conoscenza della

natura erronea e contraddittoria del dualismo e del movimento.

In sostanza, la metodologia epistemico - filosofica adottata da Aristotele appare in totale

opposizione rispetto a quella eleatica: nel pensiero eleatico, il divenire viene confutato sulla base

della conoscenza dell‟essere, solo attraverso la quale è possibile comprendere che il mondo in

cui operano i mortali è fondato su un dualismo fallace originario. Per Aristotele, invece, il

procedere epistemico prende le mosse dall‟evidenza dei sensi, sviluppandosi nel modo cui
abbiamo accennato nelle pagine precedenti; tuttavia lo scarto fondamentale è reperibile

nell‟approccio che nel I capitolo abbiamo individuato nel De generatione et corruptione: la

“follia” degli eleati sta nell‟approccio esclusivamente noetico al reale; ciò rende impossibile la

fondazione di una scienza del sensibile. È allora necessario concludere che il divenire non può

essere in alcun modo giustificato se non a partire dall‟evidenza dei sensi.

Dal principio di identità in Parmenide al principio di non contraddizione in

Aristotele.

Nelle pagine precedenti, abbiamo visto come l‟essere parmenideo riveli la sua auto- identità sulla

base della sua stessa essenza e dal concetto puro di ἐόλ alla cui luce l‟essere non può che

risultare uguale a se stesso; tuttavia, Parmenide non parla mai esplicitamente di auto-identità

dell‟essere; tuttavia tale caratteristica la si può evincere dalla sua complessiva riflessione

ontologica. Si deve tener presente che l‟identità ontologica di cui qui si sta parlando non è quella

della canonica formula A = A, la quale esprime un‟identità che può essere analizzata secondo i

tre termini del rapporto. A parere di chi scrive, risulta poco probabile che Parmenide abbia

pensato ad un‟identità come siamo abituati a pensarla noi, ovvero sotto forma di equazione, che

prevede comunque l‟acquisizione di tre termini: “A” “=” ed ancora “A”; benché questa forma sia

finalizzata ad esprimere un rapporto di stretta corrispondenza tra un termine e se stesso, è pur

vero che tale formula risulta altamente problematica160 dal punto di vista filosofico. Dunque, il

pensiero parmenideo non formalizza il principio di identità, ma, in base a quanto si evince dai

frammenti della prima parte, l‟auto-identità dell‟essere con se stesso è intrinsecamente evincibile

dalla sua stessa natura161.

160
Si può però senz‟altro affermare che da Parmenide in poi il concetto di identità permeerà tutta la storia della
logica e della filosofia occidentale: il problema è stato affrontato oltre che da Platone e Aristotele soprattutto da
Leibniz (teoria degli indiscernibili), Fichte, Russell ed Heidegger.
161
Non di questo avviso P. Curd che nel suo noto libro “The legacy of Parmenides” porta avanti un‟interpretazione
originale di quello che è il monismo parmenideo; secondo la Curd il monismo eleatico andrebbe considerato
unicamente come monismo predicazionale, secondo la Curd, l‟essere parmenideo non andrebbe inteso come “uno”
numericamente, bensì come predicazione, nel senso che se, ad esempio, si parla del soggetto “A”, esso non può che
esprimere la sua essenza nell‟essere “A” e null‟altro, lo stesso dicasi per “B”, “C” e così via. L‟interpretazione della
Per quanto concerne Aristotele, invece, il principio di identità, per così dire, si articola e traduce

nel principio di non contraddizione che viene esplicitamente formalizzato nel libro Γ della

Metafisica e presentato come “il principio in assoluto più saldo” (βεβαηνηὰηε ἀξρή). Secondo

Aristotele, chi si occupa della filosofia prima deve necessariamente argomentare intorno a quelli

che sono i principi comuni a tutte le scienze, vale a dire i principi primissimi e saldi dell‟essere,

poiché, sempre seguendo l‟argomentazione di Γ, la metafisica è la scienza dell‟essere in quanto

essere e perciò anche dei principi di quest‟ultimo.

Per la sua natura assiomatica, il principio di non contraddizione162 è di fatto impossibile da

dimostrare secondo lo Stagirita163; il principio di non contraddizione164 risulta infatti

immediatamente intuitivo: chi volesse negare il PNC si troverebbe nell‟assurda situazione di non

poter dire alcunché: la conditio sine qua non per rendere valido il PNC è, appunto,

semplicemente quella di dire qualcosa; il PNC è in sostanza posto a fondamento di ogni tipo di

argomentazione. In base alla delineazione aristotelica il PNC può essere considerato come a sua

volta fondato sul principio di identità: se quest‟ultimo definisce l‟identità di un soggetto con se

stesso, il PNC asserisce che la stessa cosa, non può avere proprietà tra loro contrarie sotto il

medesimo aspetto e nel stesso tempo.

In Aristotele il PNC, che abbiamo visto essere una sorta di corollario del principio di identità165,

rappresenta una delle leggi fondamentali del pensiero. Tale principio, così come formulato dallo

Stagirita, resta valido solo come principio dell‟argomentazione formale, nel senso che non può

essere in alcun modo calato, potremmo dire, all‟interno dell‟universo fenomenico, allo stesso

modo di quanto accade in Parmenide. Come scrive Ruggiu, “il principio di non contraddizione

Curd, per quanto molto originale, perde di vista a mio avviso quello che è il senso originale dell‟ontologia
parmenidea e che è testimoniato, lo si è visto, anche da Platone ed Aristotele. La lettura della Curd presta il fianco
ad una sorta di molteplicità che non è secondo me riscontrabile in Parmenide, se non con alcune, non sempre
ammissibili, forzature teoretiche. Per approfondimenti Cfr. P. Curd, The legacy of Parmenides, Priceton, 1998.
162
La formulazione aristotelica è la seguente: ηὸ γὰξ αὐηὸ ἅκα ὑπάξρεηλ ηε θαὶ κὴ ὑπάξρεηλ ἀδύλαηνλ ηῷ αὐηῷ θαὶ
θαηὰ ηὸ αὐηὀ (Cfr. Metaph. Γ 3, 1005 b 19 – 20: “E‟ impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non
appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto.”).
163
Alla stessa stregua del divenire: si tenga presente sempre che nella prospettiva aristotelica, un regresso all‟infinito
nella dimostrazione è una condizione che non può essere accettata.
164
D‟ora in poi PNC.
165
Così come il principio “del terzo escluso”.
nella formulazione aristotelica non ha valore assoluto, nel senso che esso non vale allo stesso

modo in riferimento ai diversi generi dell‟essere”166. In qualche modo anche nel PNC

aristotelico l‟eredità dell‟eleatismo è dunque presente167. Il PNC è assolutamente imprescindibile

per fondare un qualsiasi tipo di argomentazione: esso dunque si delinea come una legge del

pensiero e come tale non sembra trovare un perfetto e diretto riscontro nella realtà in divenire168.

166
Cfr. L. Ruggiu, Rapporti fra la “Metafisica” e la “Fisica” di Aristotele, art. cit., pag. 510.
167
Così Berti: “La formulazione aristotelica del p.d.n.c., mentre riprende ed esprime rigorosamente i vari accenni ad
essa contenuti già in Platone, differisce profondamente da quella di Parmenide, che non è propriamente una
formulazione del PNC ma solo dell‟impossibilità del non essere e , quindi, della negazione […] essa dice soltanto
che è impossibile che ciò accada contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto per cui, invece, la stessa cosa
appartiene e non appartiene alla stessa cosa, cioè quest‟ultima è in un certo modo o esiste in assoluto. Mentre,
infatti, per Parmenide l‟affermazione, cioè il dire “che [una qualsiasi cosa] è [in un certo modo, o anche in
assoluto]” è un‟affermazione necessaria, tant‟è vero che “non è possibile che non sia”, […] ciò che distingue la
formulazione aristotelica da quella parmenidea è, come abbiamo detto più volte, la multivocità della nozione
aristotelica di essere, che si oppone all‟univocità.” Cfr. E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei
moderni, op. cit. pagg. 105 – 106. Quanto scrive Berti è sicuramente corretto (si tengano presenti anche le righe di
Ruggiu in merito), tuttavia, con il PNC, Aristotele riesce, anche attraverso il concetto di potenza, a calare la
polivocità dell‟essere nel reale, tuttavia la questione che qui si è sottoposta è leggermente differente: non solo
abbiamo parlato di identità originaria in Parmenide, ma dobbiamo
168
Secondo Ruggiu, attraverso i concetti di atto e potenza, Aristotele riesce a far combaciare il PNC con la realtà in
divenire, ammettendo l‟unità dei contrari nella potenza (ma non nell‟atto). A mio avviso questa non può essere
considerata una soluzione o un superamento del problema posto in essere da Parmenide. (Cfr. art. cit., pagg. 503 –
511).
CAPITOLO TERZO

ANALISI DEI CONCETTI DI “TEMPO”, “INFINITO” E


“CONTINUO” NELL’ELEATISMO ED IN ARISTOTELE.

L‟ „ora‟ (τὸ νῦν) come attributo dell‟essere in Parmenide.

Alla luce della struttura complessiva dell‟intero poema parmenideo, il frammento 8, 1 - 50 viene

a delinearsi come l‟esposizione degli attributi dell‟eon che scaturiscono dal concetto puro di

essere e che lo determinano in quanto tale. I caratteri generali dell‟essere in Parmenide

rappresentano la logica deduzione delle sue caratteristiche, che derivano dalla definizione stessa

di essere che si trova nel fr. 2 (“l‟una [scil. via] che „è‟ e che non è possibile che non sia/è il

sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità/l‟altra che non è e che è necessario che

non sia”)169: solo l‟essere è autenticamente e, di conseguenza, il nulla non può esistere, né in

senso assoluto, né tantomeno in senso relativo. Da questo assunto iniziale di totale esclusione del

non-essere vengono dedotti i vari semata dell‟eon, che conseguono necessariamente dal concetto

astratto di essere. In virtù di ciò, il concetto di essere risulta stabile in se stesso e non soggetto al

divenire, dimensione che è invece propria dell‟universo dei mortali.

È ben evidente come all‟interno della prospettiva parmenidea qualsiasi tipo di differenza non sia

in alcun modo ammissibile, in quanto a partire dal concetto di essere assoluto, il molteplice è

negato a tutti i livelli. Da ciò scaturisce necessariamente che l‟essere deve per forza di cose avere

quegli attributi che negano la realtà del non-essere e, da ciò, qualsiasi tipo di mutamento o

differenza. Da questa impossibilità di concepire altro al di fuori dell‟essere puramente inteso si

169
ἡ κὲλ ὄπσο ἔζηηλ ηε θαὶ ὡο νὐθ ἔζηη κὴ εἶλαη/Πεηζνῦο ἐζηη θέιεπζνο (‟Αιεζείλη γὰξ ὀπεδεῖ),/ ἡ δ‟ὡο νὐθ ἔζηηλ ηε
θαὶ ὡο ρξεώλ ἐζηη κὴ εἶλαη. Il soggetto va qui inteso come “l‟Essere”. Pertanto questi versi esprimono il concetto
fondamentale dell‟ontologia parmenidea: la necessità che l‟essere sia e l‟impossibilità di concepire il non – essere.
Cfr. DK 28 B 2, 3 -5. La questione del soggetto di questi versi è tutt‟ora problematica: in questo caso si è reso “via”
come soggetto sottinteso, seguendo la linea interpretativa delle pagine precedenti; rimando comunque a
Giannantoni, art. cit. e Ruggiu, L‟altro Parmenide, op, cit. , ed infine a Cordero, Parmenide scienziato?, op. cit. per
ulteriori spunti di riflessione.
evince come non sia possibile ammettere né una mobilità spaziale né una generazione per tale

ἐόλ; tra le altre, viene meno proprio la possibilità di concepire un divenire temporale dell‟essere;

il fr. 8 nel suo incipit recita:

κόλνο ἔηη κῦζνο ὁδνῖν

ιείπεηαη ὡο ἔζηηλ· ηαύηεη δ‟ ἐπὶ ζήκαη‟ἔαζη

πνιιὰ κάι‟, ὡο ἀγέλεηνλ ἐὸλ θαὶ ἀλώιεζξνλ ἐζηηλ,

ἐζηη γὰξ νὐινκειέο ηε θαὶ ἀηξεκὲζ ἠδ‟ ἀηέιεζηνλ·

νὐδέ πνη‟ ἦλ νὐδ‟ἔζηαη, ἐπεὶ λῦλ ἔζηηλ ὁκνῦ πᾶλ,

ἔλ, ζπλερέο· ηίλα γὰξ γέλλαλ δηδήζεαη αὐηνῦ 170;

Si tratta dei versi iniziali del frammento 8, nei quali la dea si rivolge a Parmenide mostrando i

“segni” dell‟essere, ovvero i suoi attributi ontologici che scaturiscono dal concetto stesso di ἐόλ:

ritorna il tema della hodos, della via dell‟essere, l‟unica realmente vera in quanto fondata sul

pensiero e pertanto non fuorviante come quella (la seconda) sulla quale errano i mortali e che

rappresenta, lo si è visto, un sapere fallace e instabile in quanto fondato su di un originario

dualismo; l‟essere invece è identificato con il pensiero; quindi la via che ad esso conduce è

autentica ed indubitabile: da qui assai numerosi risultano i segni che rivelano la sua autentica

natura. In particolare, per l‟analisi che in questa sede si vuol svolgere sul concetto di tempo

nell‟ontologia parmenidea, risulta decisivo il verso 5: “Né una volta era, né sarà, perché è ora

insieme tutto quanto, uno, continuo. Quale origine infatti cercherai di esso?” (28 B 8, 5)

Questo è, come vedremo, uno dei versi più controversi per l‟esegeta del testo parmenideo al fine

di comprendere la relazione dell‟essere con la temporalità. Se si prende in esame il senso

complessivo del poema parmenideo, è evidente come secondo l‟ontologia parmenidea non possa

esserci alcuna possibilità nell‟essere di ammettere la differenza; il concetto di essere, così, sulla

170
Cfr. DK 28 B 8, 1 -6. “Resta solo un discorso della via:/ che „è‟. Su questa ci sono segni indicatori/ assai
numerosi: che l‟essere è ingenerato e imperituro,/ infatti è un intero nel suo insieme, immobile e sena fine./ Né una
volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto,/ uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso?”
base dei semata risulta scevro della molteplicità ed al contempo il suo rapporto con la

temporalità si presenta come problematico.

Determinazione temporale dell‟essere di Parmenide.

La questione che si affronterà, e della quale si cercherà di fornire un‟interpretazione, è quella del

rapporto tra l‟essere, ontologicamente inteso nel suo senso originario ed astratto, e il tempo. Per

l‟Eleate, secondo tutti gli attributi dell‟essere che verranno successivamente elencati dalla dea,

ogni forma di divenire, assoluto o relativo si rivela impossibile in quanto dovrebbe tener conto

del non-essere. In virtù di ciò, la dea dice a Parmenide che l‟essere “non era né sarà, perché è,

ora, tutto insieme, uno, continuo” (B 8, 5 – 6), questo punto del poema risulta decisivo ai fini di

una comprensione del discorso intrapreso.

Prendendo in esame, inizialmente, il senso generale dell‟ontologia parmenidea, è chiaro come il

concetto di temporalità non sembri in alcun modo ammissibile in base al monismo ontologico

assoluto dell‟Eleate, in quanto un divenire dell‟essere comporterebbe una sua commistione con il

non-essere ed una conseguente ricaduta nel dualismo e, nel caso specifico, nella temporalità. A

tal proposito, la questione che resta da decifrare è: premesso che la fissità dell‟ἐόλ risulta

ontologicamente necessaria, questo tipo di rapporto tempo/essere quale natura ha secondo la

prospettiva parmenidea? Vi è in Parmenide una negazione radicale del tempo in tutte le sue

dimensioni oppure è possibile attribuire all‟ ἐόλ un determinatezza che si sviluppa in un eterno

presente? “Nella storia delle interpretazioni del pensiero parmenideo, l‟idea del tempo

rappresenta uno dei motivi principali e ricorrenti.”171

Dunque, da quanto si evince da B 8, 5, l‟essere non era, né sarà perché la sua condizione è quella

di essere ora (nyn). Questo unico verso si pone in sé come decisamente problematico. Parmenide

elimina qui passato e futuro dalla dimensione dell‟essere e ciò, tenendo presenti sullo sfondo le

caratteristiche proprie del concetto puro di ἐόλ, risulta necessariamente conseguente; il problema

171
Cfr. M. Pulpito, Parmenide e la negazione del tempo, LED edizioni universitarie Milano 2005, pag. 31.
è però sollevato dall‟avverbio nyn il quale esprime un‟attualità, quindi in qualche modo una

presenza dell‟essere, cosa che de facto ne esclude l‟atemporalità, e lo introduce nel tempo come

presente. Il verso, infatti, esclude passato e futuro a vantaggio del presente, ponendo in essere la

realtà di quest‟ultimo.

A proposito della possibilità di ammettere una temporalità all‟interno dell‟ontologia parmenidea

è opportuno fare riferimento a quanto scrive L. Taràn in merito: “According to those who assert

that fr. VIII.5 contains the notion of atemportal eternity, Parmenides in this clause asserts that

neither past nor future can be predicated of Being, because Being is now, i.e. it is an eternal

present, and this amounts to a denial of time. Some critics assert that in enunciating such a

doctrine Parmenides is attacking Heraclitus who used the formula ἀεὶ ἦλ θαὶ ἔζηηλ θαὶ ἔζηαη to

assert the eternal duration of process.172” In queste righe, Taràn espone l‟interpretazione

“classica” di DK 8, 5, quella che vede nell‟ “ora” enunciato da Parmenide una negazione del

tempo, ponendo l‟ ἐόλ in una dimensione atemporale; Taràn173 richiama, a tal proposito, un passo

del Timeo platonico in cui sembra trovarsi una concezione analoga a quella parmenidea in

relazione al mondo delle Idee; il passo in questione si trova nel contesto dell‟esposizione da parte

di Timeo circa la natura del mondo fenomenico come plasmato sul modello della realtà

intelligibile:

ἡκέξαο γὰξ θαὶ λύθηαο θαὶ κῆλαο θαὶ ἑληαπηνύο, νὐθ ὄληαο πξὶλ νὐξαλὸλ γελέζζαη, ηόηε ἅκα ἐθείλῳ ζπληζηακέλῳ
ηὴλ γέλεζηλ αὐηῶλ κεραλᾶηαη· ηαῦηα δὲ πάληα κέξε ρξόλνπ, θαὶ ηό η‟ἦλ ηό η‟ἔζηαη ρξόλνλ γεγλόηα εἴδε, ἃδὴ

172
Cfr L. Taran, Parmenides, Priceton University press, New Jersey, 1965, cit. pag. 176. Per il frammento di
Eraclito riportato da Taràn cfr. DK B 30.
173
Secondo coloro che professano l‟atemporalità del tempo in Parmenide, scrive Taràn, l‟accezione di Platone nel
Timeo subisce degli influssi dalla concezione ontologica e cronologica professata da Parmenide: “Finally, Plato in
the Timaeus (37 E – 38 A) would have adopted Parmenides‟ notion of atemporal eternity, asserting that neither past
nor future can be properly predicated of unchangeable Being (the ideas), because past and future are a measure of
process” (Cfr. Ibidem, pp. 176 – 177). L'interpretazione di Taràn (a mio avviso la più convincente), tuttavia, non
condivide una lettura del λῦλ in senso di presente atemporale, poiché la presenza dell‟avverbio di tempo determina
difatti l‟essere nel tempo, pur non ammettendo il movimento, così il testo di Taràn: “After enunciating this, that
Being is and is now, Parmenides goes on to prove that γέλεζηο and ὄιεζνο are impossible. He is not saying here that
only‟is‟ can be said of Being. He says that Being is now, by which he means the present tense of the verbe to be.
The present, however, is in time; this shows that Parmenides did not intend here to assert the atemporality of Being,
for, had this been his intention, he could not have failed to know that present is part of time.” (Cfr. Ibidem, pag. 179)
Conclude Taràn: “It is irrelevant to say that Parmenides would deny past and future and would consider that only
present is real; but, even if had done so, this does not imply that he grasped the notion of atemporality eternity.”
(Cfr. Ivi)
θέξνληεο ιαλζάλνκελ ἐπὶ ηὴλ ἀίδηνλ νὐζίαλ νὐθ ὀξζῶο. ιέγνκελ γὰξ δὴ ὡο ἦλ ἔζηηλ ηε θαὶ ἔζηαη, ηῇ δὲ ηὸ ἔζηηλ
κόλνλ θαηὰ ηὸλ ἀιεζῆ ιόγνλ πξνζήθεη, ηὸ δὲ ἦλ ηό η‟ἔζηαη πεξὶ ηὴλ ὲλ ρξόλῳ γέλεζηλ ἰνῦζαλ πξέπεη ιέγεζζαη –
θηλήζεηο γάξ ἐζηνλ, ηὸ δὲ ἀεὶ θαηὰ ηαὐηὰ ἔρνλ ἀθηλήησο νὔηε πξεζβύηεξνλ νὔηε λεώηεξνλ πξνζήθεη γίγλεζζαη δηὰ
ρξόλνπ νὐδὲ γελέζζαη πνηὲ νὐδὲ γεγνλέλαη λῦλ νὐδ᾿εἰο αὖζηο ἔζεζζαη ηὸ παξάπαλ ηε νὐδὲλ ὅζα γέλεζηο ηνῖο ἐλ
αἰζζήζεη θεξνκέλνηο πξνζῆςελ, άιιὰ ρξόλνπ ηαῦηα αἰῶλα κηκνπκέλνπ θαὶ θαη‟ἀξηζκὸλ θπθινπκέλνπ γέγνλελ
εἴδε174.

Il passo qui riportato ricalca in maniera abbastanza fedele (seppur con i dovuti adeguamenti

platonici) l‟idea del rapporto tra tempo e pensiero175 già presente in Parmenide e che qui sembra

essere ripresentata in ottica prettamente platonica. Il filo conduttore che legherebbe, in questo

specifico contesto, Parmenide e Platone si trova nell‟assunto che nella perfezione dell‟essere e

delle idee non è ammesso il divenire; le articolazioni temporali, secondo il testo Platonico,

scaturiscono solo nel momento in cui il Demiurgo plasma e determina il mondo fenomenico ad

imitazione di quello intelligibile176.

È chiaro a questo punto l‟influsso di Parmenide anche in questo passo platonico; de facto

nell‟analisi di questo passo il tempo viene evidentemente a determinarsi solamente con l‟erronea

attività teoretica degli uomini, che non si rivolgono al vero essere. La questione è ancora irrisolta

in quanto resta da determinare se l‟attribuzione dell‟ “è”, che esclude passato e futuro sia all‟ἐόλ

parmenideo sia al mondo ideale platonico177, vada interpretata come un‟assenza totale di

174
Cfr. Platone, Timeo 37 e 1 – 38 a 8. La traduzione che riportiamo è quella a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano
2011,: “Infatti, i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non esistevano prima che il cielo fosse generato, proprio
allora egli [scil. il Demiurgo] li fece nascere, nel momento stesso in cui costruì il cielo; e tutte queste sono parti del
tempo, e l‟ “era” e il “sarà” sono forme di tempo che hanno avuto nascita e che noi attribuiamo erroneamente, senza
avvedercene, all‟essere eterno. Giacché noi diciamo, appunto, che esso “era”, “è” e “sarà”, ma, se ci si attiene alla
verità, solo l‟ ”è” gli si addice, mentre l‟ ”era” e il “sarà” occorre dirli della generazione che procede nel tempo,
poiché sono due movimenti; laddove ciò che rimane sempre identico a se stesso, senza muoversi, non è il caso che
divenga più vecchio o più giovane al trascorrere del tempo, né che “divenne” un tempo, né che “sia divenuto”
adesso, né che “diverrà” un giorno – nulla, in ultima analisi, di quanto la generazione ha attribuito alle cose sensibili
in movimento, perché queste sono forme del tempo che imita l‟eternità e che procede circolarmente secondo il
numero.” (Trad. F. Fronterotta)
175
Credo non sia scorretto parlare di rapporto tra tempo e pensiero. A prescindere dalla problematica identificazione
tra essere e pensiero del fr.3, comunque la concezione del tempo parmenidea è fondata sulla base di un razionalismo
assoluto. Sicuramente la concezione temporale parmenidea e quella platonica del Timeo che si riferisce alle idee non
può essere comprensibile se non su base razionale, associando l‟assenza di tempo alla perfezione delle idee e
dell‟ἐόλ.
176
Quella del passaggio dalla imperturbabile perfezione del mondo delle idee al divenire proprio del mondo
fenomenico è una delle problematiche più rilevanti nel Timeo e, in generale, di tutto il pensiero platonico (il
Parmenide ne è un esempio). In particolare il passo 37 c – 38 b viene analizzato da Fronterotta nella sua
introduzione al Timeo, a cui rimando per ulteriori approfondimenti che qui non sono affrontabili in maniera
esaustiva (Cfr. Fronterotta, op. cit. pp. 9 – 90; sulla problematica del tempo Cfr. §4).
177
Secondo quanto scrive P. Albertelli nel suo commento ai frammenti degli Eleati, la sovrapposizione tra
l‟ontologia parmenidea e questo passo del Timeo è una inferenza che affonda le sue radici in un‟interpretazione (di
fatto non sostenibile secondo l‟autore) già presente nell‟antichità e che pertanto i due scritti non possono essere
temporalità, oppure come un eterno essere presente che si determina comunque come scevro di

differenze178.

A tal proposito è necessario ritornare al fr. 8, dal quale emerge un‟idea di essere che, pur

rimanendo in sé indifferenziato ed inalterabile, si esplica in un‟estensione temporale, in una

durata; si legge nei già citati versi del fr. 8:

νὐδέ πνη‟ ἦλ νὐδ‟ἔζηαη, ἐπεὶ λῦλ ἔζηηλ ὁκνῦ πᾶλ,

ἔλ, ζπλερέο· ηίλα γὰξ γέλλαλ δηδήζεαη αὐηνῦ (B 8, 5 - 6)

L‟ eon sembra avere come sua intrinseca proprietà quella di escludere, certamente, passato e

futuro in quanto caratteristiche che appartengono propriamente alla realtà in divenire, ma

soprattutto di esplicare la propria essenza attraverso una permanente identità con se stesso in un

inalterabile presente; si legge, a sostegno di questa tesi in DK 28 B 8, 29 – 30a: ηαὐηόλ η‟ἐλ

ηαὐηῶη ηε κέλνλ θαζ‟ἑαπηό ηε θεῖηαη ρνὔησο ἔκπεδνλ αὖζη κέλεη·179 Da ciò la negazione del

tempo sostenuta da molti, a mio avviso, non si evince, in quanto l‟essere ha la peculiarità di

permanere nella sua identità, da cui non consegue, a mio avviso, una dimensione metatemporale;

tuttavia questo suo permanere risulta non poco problematico, in quanto se così fosse, l‟essere

manifesterebbe in sé una sorta di continuità.180 La questione, tuttavia, rimane comunque aperta

associati. Cfr. P. Albertelli, Gli Eleati., Laterza, Bari 1939, pag. 143, nota n°11. A parere di chi scrive, invece,
sebbene il pensiero platonico rappresenti un effettivo superamento dell‟ontologia parmenidea, non si può escludere
come, anche in questo passo del Timeo, Platone lasci trasparire, in maniera nemmeno troppo velata, il suo risentire
dell‟influsso eleatico. Benché non è possibile qui affrontare nel dettaglio il rapporto tra le idee e la realtà in divenire
nell‟ottica platonica, sento di dover dissentire con Albertelli e dire che in questo passo del Timeo, Platone attinga a
piene mani da Parmenide, seppur poi discostandosene radicalmente.
178
Concezione incompatibile con la tradizione aristotelica, che nega la generazione del tempo, dimostrandone
l‟insostenibilità.
179
“E rimanendo identico nell‟identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo.” In greco il verbo
κέλσ indica propriamente il permanere immutabile, l‟immobilità. Questi versi sono quelli decisivi per affermare la
temporalità dell‟essere, secondo H. Fränkel.
180
In merito a ciò rimando a quanto scrive Abbate (Cfr. Op. cit., pagg. 18 – 20): “Infatti, poiché l‟essere è ed è solo
ἐόλ, esso non può venir in alcun modo delimitato nel e dal tempo: l‟essere ˂non era né sarà˃, afferma la Dea, ma –
si potrebbe aggiungere – solamente è. Dunque non vi può essere nell‟ἐόλ alcun tipo di differenziazione di natura
temporale, e ciò perché quest‟ultima implicherebbe un venir mene dell‟ auto – identità dell‟essere che si evince dal
concetto puro di ηὸ ἐόλ; di conseguenza l‟essere non può in alcun modo risultare soggetto al divenire, in quanto il
divenire, implicando il non – ancora ed il non – più, rappresenta la negazione dell‟essere inteso come ξὸ ἐόλ, vale a
dire ciò che è.” (Corsivo dell‟autore).
poiché, come si è più volte sottolineato, in DK 28 B 8,5 il termine nyn assume una valenza

decisiva, in quanto esprime certo una radicale estraneità dell‟essere rispetto al prima ed al poi,

ma nyn sta a indicare l‟ “ora”, l‟atto, quindi una qualificazione di tipo temporale: l‟essere è ora,

adesso, determinato nella sua ferma presenza.

Affiancando B 8, 5 con il permanere identico a se stesso dell‟essere che si evince dai versi

successivi181, è possibile determinare la natura dell‟eon parmenideo: ribadendo che l‟essere non

può ammettere a nessun livello ontologico dimensioni temporali differenti dal presente: il suo

rimanere identico dei vv. 29 – 30 lo qualifica come presente, come ora (nyn, appunto)182. Questa

lettura, tuttavia, è a mio avviso più vicina alla filosofia di Melisso che a quella di Parmenide (in

quanto, come vedremo, l‟essere melissiano si estende nell‟infinità spazio-temporale). Resta

strettamente connessa a questa problematica l‟impossibilità – una volta che si sono esclusi

181
Mi riferisco qui ai versi 29 – 30 del fr. 8, che sono quelli decisivi, secondo Fränkel, per determinare la
temporalità nell‟eterno presente dell‟ἐόλ parmenideo, come scrive Pulpito, op. Cit. Pag. 33. L‟analisi di Fränkel
muove dunque da 8, 29 -30, questi versi fornirebbero la prova che l‟ἐόλ non è fuori del tempo: ηαὐηόλ η‟ἐλ ηαὐηῶη
ηε κέλνλ θαζ‟ἑαζηό ηε θεῖηαη ρνὔησο ἔκπεδνλ αὖζη κέλεη. „Da in der griechischen Philosophie der Begriff der
„Bewegung‟ alle Veränderung einschließt, so schißt der Begriff der „Bewegunglosigkeit‟ oder des „Verharrens an
gleicher Stelle‟ das Fehlen jeglichen Geschehens ein. Gegen den Gebrauch des Futurums (κελεῖ) läßt sich nichts
einwenden. Denn in einer Welt ohne Geschehen wird der Zeitbegriff zwar leer aber noch nicht notwendig falsch,
zumal dann nicht, wenn gesagt wird daß es in der Zukunft ebenso sein wird wie es in Gegenwart ist. Es bestehet
auch kein Widerspruch zu Fgt. 8.5, das von vielen (auch von mir, Dichtig. U. Philos. S. 460) dahin mißverstanden
worden ist, daß Parmenides für das Sein Vergangenheit und Zukunft geleugnet und nur ein allumfassendes Jetzt
anerkannt hätte. Parmenides sagt dort nicht νὐδ‟ἦλ νὐδ‟ἔζηαη, sondern setzt πνηὲ hinzu, das offenbar für beides gilt;
er spricht demnach nicht von der, sondern von einer Vergangenheit und Zukunft, nicht von der ganzen sondern von
einer gewissen Zeitstrecke. Also 8.5: „und es gibt nicht ein Sein das nur während irgend einer vergangenen Zeit
bestand oder erst in irgendeiner zukünftigen bestehen wird, weil jetzt alles Sein insgesamt bestehet als ein einziges
Kontinuum“. Parmenides ist also nicht so weit gegangen, die Realität der fließenden Zeit zu leugnen. Hätte er das
getan hätte er das Verbum κέλεηλ, „verbleiben, dauern‟ überhaupt nicht gebrauchen dürfen, auch im Präsens nicht,
und hätte statt dessen ἔζηη sagen müssen. Cfr. H. Fränkel, Parmenidestudien, in Wege und Formen der
frühgrechischen Denkens, C.H. BECK‟SCHE VERLAGSBUCHANDLUNG, MÜNCHEN 1968, nota 1, pag. 191:
“Poiché il concetto di „movimento‟ nella filosofia greca comprende ogni genere di cambiamento, allora tale concetto
comprende in sé anche l‟ „assenza di movimento‟ oppure „il rimanere fermo nello stesso punto‟, l‟assenza di ogni
accadimento. Contro l‟uso del futuro (κελεῖ) non si obietta nulla. Poiché in un mondo senza cambiamenti il concetto
di tempo diventa difatti incompatibile (lett. vuoto) seppur non necessariamente del tutto falso, soprattutto non
ancora, se viene detto che esso sarà nel futuro così come è nel presente. Non c‟è invero contraddizione con il
frammento 8, 5, che da molti (anche da me, Cfr. Dichtg. U. Philos., pag. 460) è stato equivocato, per cui Parmenide
avrebbe negato per l‟essere passato e futuro e solo riconosciuto un solo istante onnicomprensivo. Parmenide lì non
dice νὐδ‟ἦλ νὐδ‟ἔζηαη, ma inserisce inoltre πνηὲ, che è evidente per entrambi; di conseguenza non parla di ciò, ma
di un passato e un futuro, non di un intero, bensì di un certo lasso di tempo. Dunque in 8.5 (Fränkel cita il passo in
traduzione tedesca). Parmenide non è andato quindi molto lontano, dal negare la realtà del tempo in divenire. Egli
avrebbe fatto questo, non avrebbe cioè potuto utilizzare il verbo κέλεηλ (rimanere, durare), nemmeno al presente, ed
avrebbe, di contro, dovuto dire ἔζηη .” Traduzione dal tedesco mia.
182
Di questo avviso è, ad esempio, Taràn, il quale insiste molto sull‟avverbio temporale λῦλ del fr. 8, 5: “The
present, however, is in time; this shows that Parmenides did not intend here toassert the atemporality of Being, for,
had this been his intention, he could not have failed to know that the presenti s real; but, even if had done so, this
does not imply that he rasped the notion of atemporality eternity.” (Cfr. Op. cit. pag. 179)
passato e futuro, ovvero una volta che si è escluso il divenire – di poter argomentare circa la

temporalità; si è visto come la negazione del tempo, associata alla negazione del non-essere e,

quindi, del divenire sfoci nella totale inammissibilità di passato e futuro: a tal proposito, resta da

capire cosa rimanga eliminando queste due dimensioni.183

L‟eon di Parmenide, alla luce dell‟intero insieme di attributi che si evincono dalla nozione pura

di tale concetto, recide ogni rapporto con il divenire ma non con la temporalità. L‟aspetto della

mutevolezza inerisce soltanto al mondo della doxa la quale, attraverso l‟introduzione di una

coppia di principi originari si manifesta come dimensione del dualismo e, più in generale, della

differenza, concetti che non sono accostabili all‟ontologia parmenidea. A questo punto, si può

cercare di rispondere alla domanda circa la natura dell‟eon e il suo rapporto con il tempo nella

filosofia dell‟Eleate.

La Necessità costringe l‟essere ad essere tutt‟uno con se stesso, per non sfociare nell‟assurda

ammissione del non-essere; in virtù di ciò, al contempo, è necessario escludere da esso qualsiasi

forma di temporalità. Come scrive Pulpito, “la formula dell‟eternità nel senso dell‟infinita durata,

183
Questo tema investe, seppur partendo da presupposti diversi, il Parmenide di Platone, nella nota sezione dedicata
ad una tra le più note aporie presenti nel dialogo e che, di fatto, si erge in contrapposizione a quella che è la natura
del divenire o, per meglio dire, come aporetica nei confronti della seconda ipotesi della seconda parte del
Parmenide, ovvero alla domanda se si debba ammettere che, in qualche modo l‟Uno sia; la quaestio verte su ciò: nel
contesto del divenire, una cosa può essere e non – essere in tempi diversi, su questo, Ferrari afferma giustamente:
“E‟ chiaro che il possesso di predicati opposti è possibile unicamente in tempi diversi, solo in questo modo la
medesima cosa può essere tanto F che non – F. In questa precisazione di Parmenide si è voluto vedere una sorta di
prefigurazione del principio di non contraddizione formulato in maniera compiuta da Aristotele […]. Cfr. F. Ferrari,
L‟enigma del “Parmenide” introduz. a Platone, Parmenide, BUR, Milano 2007, § 16.2 pag. 152). Il dubbio
sollevato da Platone per bocca del personaggio di Parmenide investe decisamente problematiche parzialmente
riconducibili alla natura dell‟essere già prefigurate dall‟Eleate: nel caso di Parmenide si ha la negazione del passato
e del futuro: anche nel divenire, infatti, l‟ammissione della realtà del tempo comporterebbe un impasse logico, una
contraddizione che il concetto puro di essere non può in sé ammettere; tuttavia, come si evince, anche in Platone il
divenire dell‟essere (si ricordi che siamo all‟interno della seconda ipotesi dibattuta da Parmenide e da Aristotele, “se
l‟Uno è”) comporta l‟ammissione di una contraddizione della sua stessa natura: qui infatti il passaggio di stato da un
prima a un poi, da un essere X a un essere Y implica necessariamente il mutamento che di fatti, non è sostenibile
logicamente. In sintesi la nozione stessa di divenire in relazione all‟essere puro, o all‟ Uno che è, nella prospettiva
platonica, si pone come problematica ed aporetica: mentre in Parmenide dall‟ammissione del divenire scaturisce una
discontinuità rispetto all‟essere, nella gymnasia del Parmenide il mutamento non permette una determinazione
dell‟essere poiché la sua realtà si dimostra come “altra”. La realtà e la concepibilità dell‟essere risiedono unicamente
nella sua assoluta immutabilità ed imperturbabilità metafisica. Inoltre, aggiungo, la determinazione del divenire, in
ottica platonica, ponendo almeno due termini in questione, ovvero X ed Y (siano da esempio) ogni cosa finirebbe
con l‟essere identica a sé e diversa dall‟altro, riproponendo l‟aporia che Socrate e Zenone volevano superare nei
primi passi del Parmenide. Tuttavia, quella dell‟istante resta un‟aporia che si manifesta all‟interno della gymnasia
propria del dialogo.
nel modo in cui sarebbe espressa nel verso secondo alcuni studiosi, non è convincente”184,

eppure una risposta al quesito del tempo può essere scovata nel quarto frammento, che recita:

ιεῦζζε δ‟ὄκσο ἀπεόληα λόση παξεόληα βεβαίνο·

νὐ γὰξ ἀπνηκήμεη ηὸ ἐὸλ ηνῦ ἐόληνο ἔρεζζαη

νὔηε ζθηδλάκελνλ πάληεη πάλησο θαηὰ θόζκνλ

νὔηε ζπληζηάκελνλ185

Possiamo lecitamente sostenere come attraverso il pensiero186 la verità dell‟essere abbia la

caratteristica di mostrarsi187 come saldamente presente. Questo essere presente dell‟essere e del

pensiero connotano ancora una volta una dimensione di sola apparente atemporalità in ambito

ontologico, in quanto il pensiero che pone l‟essere come presente, di fatto lo determina come

perennemente in atto, la realtà e la veridicità dell‟essere si manifestano in una intrinseca e

perenne presenza. La natura dell‟eon si rivela dunque come un presente temporale, è atto del

pensiero in quanto tale, è perennemente se stesso identico nell‟identico188, essendo la sua natura

quella di essere, e l‟essere come atto è nel presente: ecco che allora viene a determinarsi come

presenza in quanto tale. A questo punto, collocando l‟essere in una temporalità che non ammette

il cambiamento, la sua natura è quella di essere evidente al pensiero sempre come istante (come

vedremo, il problema dell‟istante viene trattato da Aristotele nella Fisica e, come si è già notato,

ha una certa rilevanza anche nel Parmenide platonico).

184
Cfr. M. Pulpito, Op. cit., pag. 149
185
“Considera come le cose che pur sono assenti, alla mente siano saldamente presenti;/ infatti non potrai recidere
l‟essere dal suo essere congiunto con l‟essere,/ né come disperso dappertutto in ogni senso del cosmo, né come
raccolto insieme.” Cfr. DK 28 b 4.
186
Il fr. 4 segue immediatamente alla celebre e problematica affermazione dell‟identità di essere e pensiero
precedentemente sostenuta dall‟Eleate. (Dk 28 B 3)
187
“Mostrarsi” indica appunto un processo di nascondimento e di manifestazione successiva. Il termine tuttavia è
qui utilizzato nel senso che la verità si mostra nell‟essere, ovvero nell‟identità e nella coincidenza dei due momenti.
188
A sostegno del fatto che il versi 29 – 30 del fr. 8 non rimandano ad un‟idea dell‟essere in senso durativo si trova
nel concetto stesso di essere che fin qui si è espresso nel poema parmenideo. L‟identità originaria dell‟essere con sé
stesso non potrebbe mai concepire una durata nella sua essenza.
Il termine istante (exaiphnes)189, invero, non compare mai nel poema parmenideo, ma viene

esaminato in modo dettagliato da Platone190. Tuttavia non sembra fuori luogo, all‟interno della

ricerca di un rapporto tra tempo ed essere, provare a fornire una lettura dell‟ἐόλ connessa con la

nozione di istante: mentre in Platone ed Aristotele la collocazione dell‟istante è problematica

all‟interno di una molteplicità191, nella prospettiva dell‟auto - identità dell‟essere con se stesso,

emerge nel pensiero parmenideo la natura originaria dell‟essere che si determina come ora che è

presente in quanto determinato ed ha natura di perennità, poiché non è ammissibile in esso

alcuna forma di differenza: così ecco che l‟identità di essere e pensiero ed il concetto puro di

essere sono passibili di una determinazione di tipo cronologico, seppur in senso propriamente

metafisico: l‟eon parmenideo è allora colto dal pensiero come perennemente in atto, in quanto è

determinato e la sua determinatezza è il perenne essere presente, ovvero di connotarsi sempre

come attuale. L‟essere nel tempo di Parmenide non è l‟ “ora” della certezza sensibile della

Fenomenologia dello spirito, che sempre si rinnova e sempre è diverso, né tantomeno è

un‟eternità dilazionata in tre dimensioni come la concepisce Melisso, bensì esso si connota come

un eterno presente, quindi è nel tempo, ma solo nel presente, e rimanendo identico nell‟identico

riesce a determinarsi cronologicamente ed a salvaguardare la sua perfezione ontologica,

189
Il italiano, la traduzione migliore di ἐμαίθλεο è “all‟improvviso”.
190
Il termine greco ἐμαίθλεο è tema ricorrente in molti dialoghi Platonici; non solo nel Parmenide, dove la questione
viene affrontata da un punto di vista strettamente metafisico, ma anche in altre opere, tra cui il Cratilo, esso si
connota come un momento che è avulso dallo sviluppo dialettico della filosofia. Per esempio nel Cratilo, dove
Socrate si rivolge ad Ermogene per quasi tutto il dialogo fingendo di aderire alla prospettiva arcaica
dell‟acquisizione della conoscenza autentica mediante un‟intuizione di natura istantanea ed immediata (il cosiddetto
sciame di sapienza:‟Ωγαζέ, ἐλλελόλθά ηη ζκῆλνο ζνθίαο; Cfr. 401 e 6) del vero; inoltre una simile accezione
negativa del termine ἐμαίθλεο nell‟ottica platonica è riscontrabile nel mito della caverna: ὀπόηε ηηο ιπζείε θαὶ
ἀλαγθάδνηην ἐμαίθλεο άληζηαζζαί ηε θαὶ πεξηάγεηλ […] (Quando uno fosse sciolto e improvvisamente costretto ad
alzarsi, a girare il collo […]” Cfr. Repubblica, trad. it. Mario Vegetti, BUR, Milano, 2007), quando Socrate descrive
la condizione dello schiavo che, nell‟eventualità fosse costretto ad osservare il sole – Bene senza adeguarsi alla luce
gradualmente, per inciso senza un progressivo percorso dialettico, egli verrebbe di fatto abbagliato dalla luce senza
possibilità di poter acquisire la vera conoscenza. Pertanto, come scrive M. Abbate, “Sulla base dei testi platonici qui
esaminati, ove viene presa in considerazione la possibilità di una conoscenza immediata ed intuitiva, pare necessario
concludere che nell‟ottica platonica non è possibile giungere ad una conoscenza vera ed autentica solo attraverso
l‟intuizione o una qualche forma di ispirazione soprarazionale […] Tuttavia l‟atto intuitivo, l‟intuizione noetica non
esprimibile in termini proposizionali e discorsivi, non potrebbe avvenire improvvisamente senza una graduale e
sistematica analisi e ricerca filosofiche. Cfr. M. Abbate, Il segnale di un sapere privo di fondamento: il termine
EXAIPHNES nel Cratilo e nel mito della caverna, in S. Lavecchia (a cura di), Istante, l‟esperienza
dell‟illocalizzabile nella filosofia di Platone, Mimesis, Milano 2012. Pagg. 156 – 157.
191
Anche nella prospettiva platonica si è visto come l‟aporia dell‟istante maturi all‟interno di un contesto che
prevede il mutamento seppur ad un livello ontologico metafisico; in Aristotele sarà affrontato come intermezzo tra
passato e futuro all‟interno del continuum cronologico, quindi da un punto di vista strettamente fisico.
permanendo uguale in essenza ed esistenza. In definitiva, l‟essere parmenideo esprime da sé ed

in sé la sua determinazione nel tempo come istante, poiché la sua natura “partecipa” 192 solo del

presente.

La natura del tempo in relazione all‟infinità dell‟essere in Melisso.

Melisso193 è stato il principale prosecutore dell‟ontologia parmenidea194, benché, come vedremo,

il suo pensiero si presenti come un monismo non realmente compatibile con quello del maestro,

e ne rappresenti, in qualche modo, un tentativo di superamento, peraltro poco convincente. In

relazione alla tematica del tempo e al monismo eleatico, il pensiero di Melisso non risulta

pienamente conforme all‟ontologia parmenidea: l‟eon teorizzato dal filosofo di Samo reca i

caratteri dell‟infinità spazio-temporale che, de facto vanno ad intaccare la natura dell‟essere e il

rapporto di questi con la temporalità. Il frammento decisivo in quest‟ottica è il primo:

ἀεὶ ἦλ ὄ ηη ἦλ θαὶ ἀεὶ ἔζηαη. εἰ γὰξ ἐγέλεην, ἀλαγ -

θαῖόλ ἐζηη πξὶλ γελέζζαη εἶλαη κεδέλ· εἰ ηνίλπλ κλ γεδὲλ ἦλ,

νὐδακὰ ἂλ γέλνηην νὐδὲλ ἐθ κεδελόο.195

Il frammento 1, quindi, esprime la natura dell‟ἐόλ in relazione alla temporalità: da notare subito,

in riferimento a quanto detto finora a proposito del fr. 8 di Parmenide (in particolare v. 5), che

qui l‟avverbio nyn (ora) non compare; è evidente dunque come la visione melissiana dell‟essere

infinito infici anche la natura temporale dell‟essere. A differenza di Parmenide, per il quale

192
Ho virgolettato la parola “partecipa” in quanto rende meglio il senso del discorso che si è portato avanti fin qui.
Va da sé che il concetto di partecipazione è un elaborazione platonica e che, nella prospettiva parmenidea non si può
parlare in alcun modo di partecipazione dell‟essere o all‟essere.
193
Melisso fu allievo di Parmenide e uditore delle dottrine eraclitee (Cfr. DK 30 A 1).
194
Per quanto riguarda Zenone, fu anch‟egli allievo di Parmenide (Cfr. DK 29 A 1), tuttavia la sua opera è
tradizionalmente accolta come un tentativo apologetico nei confronti del pensiero del maestro Parmenide, addirittura
nel Parmenide (Cfr. 126 b e sgg.), lo scritto zenoniano si presenta come un soccorso all‟assunto di Parmenide
(βνέηεηά ηᾦ Παξκελίδνπ ιόγῳ; Cfr. 128 c 6 -7).
195
Cfr. DK 30 B 1: “Sempre era ciò che era e sempre sarà. Se, infatti, fu generato, è necessario che, prima che fosse
generato, non fosse nulla: e se, prima, non era nulla, dal nulla non si sarebbe potuto generare assolutamente nulla.”
(Trad. it. di G. Reale in Eleati, op. cit., pag. 702)
l‟essere si esprime nell‟atto di un istante, che si determina in quanto tale, nel pensiero di Melisso

l‟essere assume la forma di un‟estensione nel tempo che tiene conto oltre che del presente anche

del passato e del futuro: la critica melissiana a Parmenide muove dall‟assunto fondamentale che

l‟essere, concepito dall‟Eleate come totalmente scevro da rapporti con il passato ed il futuro, non

rispecchia la natura propria dell‟eon, la quale è tale, secondo Melisso, proprio nella sua infinità,

poiché un essere che è perennemente atto, presente irrelato, come quello parmenideo, presta il

fianco alla introduzione del non - essere. L‟importante novità introdotta da Melisso, rispetto al

maestro, sta nell‟attribuire all‟essere un carattere di essenziale infinità, benché il principio di

fondo dell‟ingenerabilità dell‟essere dal nulla quanto dal non - essere196 sia una costante

all‟interno della tradizione eleatica sin dalla formulazione del fr. 8 parmenideo.

Ritornando in maniera specifica al concetto di tempo elaborato dal filosofo di Samo in relazione

alla natura propria dell‟ἐόλ, importanti risultano le parole di Mondolfo sulla novità introdotta da

Melisso: “Nella concezione dell‟infinità temporale in Melisso tre punti di particolare importanza

van messi in rilievo: 1)che l‟eterno permanere (κέλεηλ) di Parmenide si traduce nell‟infinito

durare sempre identico attraverso la estensione infinita del tempo, senza limiti né verso il passato

né verso il futuro; per ciò alla negazione parmenidea dell‟è e del sarà si sostituisce, con la

riproduzione di una formula eraclitea, l‟affermazione che „sempre è stato ciò che è stato e

sempre sarà‟ e che „in quanto non ebbe mai nascimento è e sempre è stato è stato e sempre sarà‟.

L‟uni-totalità dell‟essere parmenideo (ὁκνῦ πᾶλ, ovvero πάκπαλ πειέλαη), significando l‟aver

tutto in sé ed essere solo esistente, si traduceva già in Parmenide nella mancanza di ogni limite,

per la negazione di qualsiasi altro essere – sia coesistente, sia antecedente e successivo – e si

convertiva quindi nell‟infinità dell‟ ἀγέληνλ θαὶ ἀλώιεζνλ, che appunto nella sua totalità (νὖινλ)

era dichiarato ἀηέιεηνλ con un‟espressione di significato equivoco fra la temporalità e la

spazialità, precisamente perché includeva entrambe insieme. Con Melisso queste concezioni,

196
Ovvero il principio dell‟ ex nihilo nihil, che sarà una costante dell‟intero pensiero occidentale, qui trova la sua
prima originale formulazione in Parmenide (B 8, 5 – 10) e ripresa in toto da Melisso, come osserva Reale, Cfr.
ibidem, pag. 705 e sgg.
appena abbozzate o ancora implicite in Parmenide, si fanno esplicite ed espressamente

dichiarate; e la mancanza di ogni limite, ossia l‟infinita estensione, tanto temporale quanto

spaziale, viene nettamente affermata.”197

Secondo Mondolfo, dunque, il pensiero melissiano viene ad imporsi come la naturale

maturazione di quello dell‟Eleate in quanto in esso si evincono alcune peculiarità ontologiche

che in Parmenide sono solo accennate e non perfettamente sviluppate. Tuttavia questa lettura non

mi sembra convincente in quanto il pensiero parmenideo, almeno per quanto concerne la parte

sull‟aletheia risulta affatto equivoco: in particolare nel fr. 8 con l‟elenco dei semata, la natura

dell‟essere come determinato, sferico e presente è chiara e non presenta allusioni ad una più o

meno presunta infinità dell‟eon, che invece si trova in Melisso, a parere di chi scrive, non in

quanto completamento, ma come fraintendimento ed alterazione rispetto a Parmenide.

Alla luce di queste precisazioni occorre dunque ritornare alla problematica melissiana inerente il

tempo. Mantenendo sullo sfondo il fr.1 sopra riportato, la struttura del pensiero del filosofo di

Samo si pone su una prospettiva solo minimamente compatibile con quella di Parmenide:

l‟Eleate concepisce, infatti, per il suo essere la possibilità di determinarsi solamente all‟interno

del presente, come un istante perenne.

Da questo punto di vista, l‟originalità di Melisso sta nell‟aver esteso la temporalità (e lo spazio)

dell‟essere nell‟eternità, ovvero, se in Parmenide l‟essere si connota come posto unicamente nel

presente, invece secondo il filosofo di Samo la sua realtà è immutabile nel passato, nel presente e

nel futuro, “Perciò da Parmenide Melisso si differenzia non, come quasi tutti sembrano credere,

per aver concepito il suo essere come temporale (sia pure come infinito temporale) di contro alla

concezione atemporale dell‟essere propria del Maestro, ma si impone per aver diversamente

concepito e determinato l‟eternità dell‟essere, che Parmenide racchiudeva nel λῦλ e collocava in

una visuale in cui predominava il concetto di finitudine dell‟essere, mentre egli, più

197
Cfr. R. Monfolfo, L‟infinito nel pensiero dell‟antichità classica, Bompiani, Milano 2012, pagg. 95 – 96.
coerentemente (e anzi svolgendo motivi impliciti nello stesso Parmenide), dilata nell‟infinito e

colloca in una visuale in cui predomina come tutto e per tutto ancora l‟infinito.”198

Come si pone dunque, a questo punto, il tempo nel pensiero di Melisso rispetto all‟eon

parmenideo? È vero che si tratta pur sempre di una dimensione dell‟essere che non ammette il

mutamento, tuttavia la soluzione di Melisso, nel tentativo di superare quella che è una presunta

aporia all‟interno dell‟ontologia parmenidea, rende di fatto il sistema del filosofo di Samo più

debole e facilmente passibile di critica. La concezione dell‟essere portata avanti da Melisso è, de

facto, volta a superare la questione parmenidea dell‟essere come sphaires enaliekion onkoi199.

Non è il caso qui di dilungarsi troppo sull‟ontologia dell‟infinito melissiana per quanto riguarda

l‟estensione spaziale dell‟essere, tuttavia la critica principale, nei confronti dell‟Eleate da parte di

Melisso, nella evoluzione del pensiero eleatico, muove dal fatto che l‟essere parmenideo è

determinato sia temporalmente (nyn) che spazialmente (sphaire): questa dimensione ontologica è

il bersaglio critico principale del filosofo di Samo, poiché in questa accezione si manifesterebbe

necessariamente il problema su cosa ci sia “intorno” all‟essere e cosa prima e dopo di esso

temporalmente. L‟aggiramento del problema propugnato da Melisso sta nell‟estensione del

carattere spaziale e temporale dell‟essere: solo così, infatti, non è più possibile ammettere il

vuoto, poiché nell‟ontologia melissiana dominano l‟infinito e la pienezza. Dopo aver introdotto

brevemente quali siano i punti fermi della critica di Melisso, è necessario analizzare la quaestio

inerente il tempo: se l‟essere è necessariamente uno, esso dovrà essere necessariamente presente

nell‟istante, ora, direbbe Parmenide; Melisso prova a fare un passo avanti ed attribuisce

all‟essere una durata in senso estensivo: se l‟essere è tale deve essere immutabile, e pertanto,

com‟era, così è ed allo stesso modo sarà.

198
Cfr. Untersteiner – Reale, Eleati, op. cit., pp. 726–727; a mio avviso però, l‟interpretazione di Reale, secondo cui
le tesi di Melisso fungerebbero da chiarimento di quanto Parmenide aveva già precedentemente affermato, sebbene
in maniera più criptica, è poco condivisibile. Il pensiero melissiano si pone infatti in parte in antitesi con quello del
maestro, onde superare l‟aporia della determinatezza spazio-temporale di Parmenide, che presterebbe il fianco,
secondo alcuni studiosi, ad una argomentazione a favore del vacuum. L‟unico filo conduttore che può allacciare il
pensiero dei due pensatori in questione è, come già detto, il principio fondamentale dell‟ ex nihilo nihil. A sostegno,
secondo Reale, l‟attribuzione dell‟eternità all‟essere melissiano sarebbe alla base della visione cristiana di Dio, data
la sua maggior plausibilità. (Cfr. Ibidem, nota).
199
“Simile a massa di ben rotonda sfera.” (Cfr. Ruggiu, op. cit. pag. 105)
Questa accezione però, è fortemente limitante per l‟ontologia melissiana: se la coerenza

dell‟essere parmenideo ha condotto a negare in senso assoluto passato e futuro, ecco che le due

dimensioni temporali rientrano in gioco con Melisso200; il tentativo di aggirare l‟ontologia

parmenidea, di fatto, distrugge dall‟interno, si potrebbe dire, l‟intero sistema del filosofo di

Samo, poiché dire che l‟essere era, è e sarà, benché egli tenti di preservare la sua immutabilità,

di fatto giustifica un‟alterabilità dell‟eon sotto forma di una processualità. È evidente che,

nell‟ontologia melissiana, non è errato ammettere un passato un presente ed un futuro all‟essere,

attraverso i quali però egli risulta comunque non soggetto a mutamento. In questi termini è

plausibile supporre che l‟eon, secondo il Samio, non sia del tutto scevro da implicazioni

temporali di tipo estensivo; nonostante Reale affermi che “tanto Parmenide quanto Melisso

concepiscono atemporalmente il loro essere”201, (pertanto la differenza tra i due pensatori

risiederebbe solamente in due diverse concezioni dell‟atemporalità), tuttavia, come già anticipato

sopra, a mio avviso Melisso, nonostante il tentativo di “salvare” l‟immutabilità dell‟essere, con

la sua filosofia si discosta e rende più debole il monismo ontologico assoluto: nel tentativo di

eliminare una presunta ammissione implicita del vuoto in Parmenide (tuttavia non evincibile

nella prospettiva dell‟Eleate), egli finisce con lo “snaturare” il concetto puro di essere,

attribuendo all‟ἐόλ determinate caratteristiche. Melisso, dunque, finisce col prestare il fianco ad

200
Questa peculiarità è ben evidenziata da G. Calogero, secondo cui, in Melisso si ha già un passo avanti rispetto a
Parmenide. Il filosofo di Samo manterrebbe i presupposti di base dell‟ontologia parmenidea onde attuare un
superamento teoretico che ne è la necessaria conseguenza: “Se Melisso non urta contro la θξίζηο dell‟ „è‟ e del „non
– è‟, è perché non la sente più nella sua immediatezza: perché non parte più dal punto onde è mosso Parmenide, ma
solo da quello a cui questi è giunto.” Cfr. G. Calogero, La logica del secondo eleatismo, in “Atene e Roma”, XIV,
1936, pp. 141 – 170, cit. pag. 155. L‟analisi di Calogero continua investendo anche la concezione del tempo
elaborata da Melisso e che qui ci interessa: secondo lo studioso italiano l‟ontologia melissiana è tutta permeata dalla
necessità di negare l‟origine dell‟essere in senso stretto e la nascita di qualcosa quanto dal nulla quanto da un altro
essere (ex nihilo nihil): “Ma questo individua ormai nettamente la posizione di Melisso rispetto a Parmenide. S‟è
detto che la sua concezione dell‟ente manifesta un senso dell‟eterno tale da capovolgere l‟esclusione parmenidea del
passato e del futuro in una infinita estensione temporale (Ibidem, pag. 157) […] Per Melisso, insomma, punto di
partenza non è più l‟ἔζηηλ ἢ νὐθ ἔζηηλ, ma l‟νὐδὲλ ἐθ κεδελόο a cui quel criterio parmenideo si è ridotto sul piano
contemplato del tempo”. (Ivi)
201
Cfr. Untersteiner – Reale, Eleati, op. cit. pag. 724. Corsivo dell‟autore.
una visione dell‟essere che include in qualche modo in sé, seppur non esplicitamente, attraverso

la durata, la molteplicità202.

202
“Egli [scil. Melisso] si distingue sì dal maestro in quanto questi serra il reale nel presente dell‟ „è‟ ed egli è
portato a contemplarlo nella durata eterna, e perciò a partire da formule in cui gli originari motivi logici del Maestro
risultano trasformati in conformità del nuovo punto di vista.” Cfr. G. Calogero, art. cit., pag. 162.
Rapporto tra tempo e movimento nel pensiero aristotelico.

Nel paragrafo precedente si è presa in esame la natura del tempo in relazione all‟essere nel

pensiero eleatico e si è sottolineato come sia nell‟ontologia di Parmenide sia in quella di Melisso

la natura del tempo assuma dei caratteri atipici. Al contempo si è cercato di dare una lettura del

monismo eleatico che va contro la maggior parte dei commentatori che leggono il fr. 8, 5 di

Parmenide come un‟attestazione della impossibilità di ammettere il tempo nella prospettiva

ontologica eleatica. Ancora, si è cercato di dimostrare come l‟intuizione dell‟essere di Parmenide

sia in realtà una affermazione della natura istantanea del concetto puro di ἐόλ, argomentazione

fondata in parte sulla presenza dell‟avverbio di tempo “ora” (nyn) presente nel testo parmenideo

e, inoltre, su una riflessione circa la necessità di determinare l‟essere parmenideo non in

un‟atemporalità, ma come un presente sempre attuale in un istante perennemente inteso come

tale. Per quanto concerne Melisso, si è evinto come la sua argomentazione risulti de facto meno

solida di quella parmenidea, ponendo l‟accento sul fatto che, nel tentativo di eliminare la

presunta aporia di una certa presenza del non-essere in Parmenide (sotto l‟aspetto del vacuum),

di fatto Melisso lo “estende” spazialmente e temporalmente e, così facendo, introduce in un certo

qual modo la possibilità di un‟estensione dell‟essere.

Si è inoltre avuto modo di vedere brevemente come anche per Platone la questione dell‟istante

sia risultata problematica a livello ontologico; questo problema si presenta come un‟aporia

all‟interno della seconda ipotesi della seconda parte del Parmenide: Platone rende noto come,

nell‟ipotesi del divenire, l‟istante risulti determinabile solamente al di fuori del tempo; infine, si

è analizzato sinteticamente un passo del Timeo nel quale viene discussa la natura del tempo in

relazione all‟attività plasmatrice del demiurgo del mondo fenomenico.

Con Aristotele il problema del tempo subisce una notevole evoluzione in virtù del fatto che lo

Stagirita discute e riflette nella Fisica sulla natura propria del tempo, elaborando la riflessione

sul tempo in rapporto al divenire. Come è noto sia sulla base di noti studi, sia da quanto scritto
nelle pagine precedenti, il divenire non è compatibile con l‟ontologia parmenidea, pertanto la

speculazione aristotelica può sembrare del tutto fuori luogo e non pertinente in relazione ad un

confronto con l‟eleatismo. Tuttavia nella Fisica il problema del tempo in relazione al divenire,

ripropone un‟ulteriore difficoltà nella filosofia aristotelica che, alla luce di quanto finora scritto,

trova dei precedenti in alcuni pensatori passati, tra cui gli Eleati.

La trattazione aristotelica in merito alla natura dell‟istante prende le mosse da alcune

testimonianze in merito all‟esistenza del tempo e alla sua natura aporetica; l‟argomentazione

portata avanti dallo Stagirita lascia trasparire come il problema del tempo sia stato già preso in

considerazione203 in altre opere. La questione dell‟istante risulta, in quest‟ottica, decisiva, poiché

è attraverso l‟analisi del nyn che lo Stagirita introduce l‟argomento del tempo: l‟istante infatti

non sembra avere alcuna sussistenza ontologica in quanto il tempo, che vedremo essere un

continuum: sarebbe così un qualcosa che esiste come composto di parti minime (gli istanti), pur

non potendosi definire come semplice sommatoria di questi:

ἐθ δὲ ηνύησλ θαὶ ὁ ἅπεηξνο θαὶ ὁ ἀεὶ ιακβαλίκελνο ρξόλνο ζύλθεηηαη. ηὸ δ‟ἐθ κὴ ὅλησλ ζπγθείκελνλ ἀδύλαηνλ ἂλ
εἶλαη δόμεηε κεηέρεηλ νὐζίαο. πξὸο δὲ ηνύηνηο παληὸο κεξηζηνῦ, ἄλπεξ ῇ, ἀλάγθε, ὅηε ἔζηηλ, ἤηνη πάληα ηὰ κέξε εἶλαη
ἢ ἔληα· ηνῦ δὲ ρξόλνπ ηὰ κὲλ γέγνλε ηὰ δὲ κέιιεη, ἔζηη δ‟νὐδέλ, ὄληνο κεξηζηνῦ204 .

Questo passo della Fisica funge da introduzione all‟intera questione aristotelica circa la natura

del tempo; ovviamente urge qui allo Stagirita affermare immediatamente l‟esistenza del tempo

contro coloro che hanno negato quest‟ultima fondando la loro argomentazione sull‟aporia
203
Il riferimento, in questo caso, è agli ἐμσηεξηθνὶ ιόγνη (ragionamenti essoterici). Questo rimando si trova all‟inizio
della trattazione sul tempo contenuta nei 5 capitoli (10 – 14) del IV libro della Fisica; la questione intorno al tempo
comincia attraverso il richiamo, fatto dallo stesso Aristotele, a tali discorsi essoterici. Non è chiaro a cosa alludesse
lo Stagirita con questa espressione; l‟interpretazione più convincente è quella fornita da E. Cavagnaro (a cui rinvio
anche per la corposa bibliografia sul tema) nella sua ricca e completa monografia sulla questione del tempo in
Aristotele; secondo l‟autrice il rimando sarebbe alle opere aristoteliche ad oggi non pervenuteci, pertanto il fatto che
Aristotele chiami in causa gli ἐμσηεξηθνί ιόγνη sarebbe un indizio a favore della scientificità delle opere
acroamatiche perdute. Tutto ciò volto a dimostrare come l‟aggettivo essoterico non si riferisca ad un metodo di
indagine secondo il senso comune, bensì il riferimento andrebbe alle opere divulgative e che quindi, con ogni
probabilità, avrebbero ripreso il tema del tempo. Per approfondimenti Cfr. E. Cavagnaro, Aristotele e il tempo, Il
Mulino, IISS, Napoli, 2002, pp. 2 – 10.
204
Cfr. Phy. III 10, 218 a 1 – 6: “E il tempo, sia quello infinito sia ogni parte di esso che possiamo prendere sempre
di nuovo, sono composti di queste cose. Ma sembra impossibile che possa esistere una realtà composta di non-enti.
Inoltre, è necessario, se esso esiste in senso proprio, che sia divisibile totalmente e che, o tutte o alcune delle sue
parti, esistano. Le parti del tempo, invece, le une sono state, le altre stanno per essere: nessuna di esse esiste ora, e
tuttavia il tempo è divisibile.”
dell‟istante. Appurato che il tempo esiste, resta da determinare quale sia la natura dell‟istante205

(tuttavia, per esigenze argomentative, rimando l‟analisi della problematica del λῦλ alla pagine

successive, concentrandomi per prima cosa sulla natura del tempo in relazione al movimento).

Secondo Aristotele, tempo e movimento non sono la stessa cosa, ma uno non può essere senza

l‟altro, poiché attraverso l‟uno misuriamo l‟altro (νὐ κόλνλ δὲ ηὴλ θίλεζηλ ηῷ ρξόλῳ κεηξνῦκελ,

ἀιιὰ θαὶ ηῇ θηλήζεη ηὸλ ρξόλνλ δηὰ ηὸ ὁξίδεζζαη ὑπ‟ἀιιήισλ·)206

Da questa importante definizione aristotelica si può evincere, di conseguenza, come tempo e

movimento siano in relazione tra loro, pur non essendo, in senso identitario, sovrapponibili. È

evidente allora che, in quest‟ottica, essi debbano in parte differire per alcuni aspetti e coincidere

per altri. Il presupposto da cui muove lo Stagirita è di natura, inizialmente, di tipo spaziale e

l‟analisi procede in questo senso: il movimento presuppone, necessariamente, lo spazio

attraverso il quale si determinano i processi e le differenze tra il prima ed il poi; da ciò deriva per

forza di cose che la grandezza spaziale è continua e così, a sua volta, lo è anche il movimento; e

poiché noi definiamo il tempo sulla base del movimento, ecco che allora il tempo si definisce in

relazione al divenire, ma non è possibile identificare i due concetti in questione.

Il tempo quindi, per essere associato e non identificato col la kinesis, deve avere necessariamente

alcuni elementi in comune con essa. Siccome ogni movimento è movimento di qualcosa

(riprendendo le parole dello Stagirita), e poiché “del tempo non si possono predicare gli stessi

attributi del movimento”207, necessariamente essi devono distinguersi in qualcosa: pertanto se il

205
Questa connotazione del λῦλ come elemento de facto esistente, ma che non è possibile interpretare come “parte”
del tempo ha, secondo E. Cavagnaro, un possibile rimando ad una concezione del tempo di ispirazione eleatica (“Si
può riconoscere alle due aporie che qui in Phy. IV 10 217 b 32 – 218 a 8, Aristotele enuncia un carattere eleatico?”
Cfr. Cavagnaro, op. cit. pag. 13, corsivo mio), secondo la Cavagnaro è possibile condurre questo parallelo sulla base
del fatto che l‟istante, in Aristotele, non è una parte del tempo (in quanto il tempo non ha divisibilità in parti).
Tuttavia, nota bene l‟autrice come la concezione dell‟istante come elemento che non è parte del tempo non possa
essere ricondotto a Parmenide, in quanto nella prospettiva eleatica il tempo si pone come elemento che non ha
rapporti col divenire, in quanto passato e futuro sono incompatibili col concetto puro di essere, Aristotele, invece
“sembra quasi voler permetterci di pensare, più dolcemente, che se il passato non è più ovvero non è più adesso, è,
però in un certo qual modo, cioè come passato.”; Cfr. Ibidem, pag. 15.
206
Cfr. Phy. IV 12, 220 b 14 -16. “Non solo misuriamo il movimento mediante il tempo, ma anche „con‟ il
movimento il tempo, in quanto essi si determinano reciprocamente. ”
207
Cfr. Cavagnaro, op. cit., pag. 58.
tempo non è il movimento, allora esso è qualcosa del movimento; noi percepiamo l‟uno per

mezzo dell‟altro 208:

ἅκα γὰξ θηλήζεσο αἰζζαλόκεζα θαὶ ρξόλνπ· θαὶ γὰξ ἐὰλ ᾖ ζθόηνο θαὶ κεδὲλ δηὰ ηνῦ ζώκαηνο πάζρσκελ, θίλεζηο δέ
ηηο ἐλ ηῇ ςπρῇ ἐλῇ, εὐζὺο ἅκα δνθεῖ ηηο γεγνλέλαη θαὶ ρξόλνο. ἀιιὰ κὴλ θαὶ ὅηαλ γε ρξόλνο δνθῇ γεγνλέλαη ηηο, ἅκα
θαὶ θίλεζίο ηηο δνθεῖ γεγνλέλαη. ὥζηε ἤηνη θίλεζηο ἢ ηῆο θηλήζεώο ηί ἐζηηλ ὁ ρξόλνο. ἐπεὶ νὖλ νὐ θίλεζηο, ἀλάγθε ηῆο
θηλήζεώο ηη εἶλαη αὐηόλ209.

Preso atto di ciò, e prima di passare all‟analisi dell‟istante, bisogna comprendere meglio cosa sia

il movimento per Aristotele. Essendo il movimento continuo, continuo sarà anche il tempo 210 e,

come già osservato, mentre il movimento è sempre movimento di qualcosa, il tempo sarà invece

sempre uguale nella sua struttura211: il tempo, dunque, nell‟ottica aristotelica si connota, come

“la misura del movimento secondo il „prima‟ e il „poi‟”212. Questa affermazione di Aristotele

lascia trasparire come il tempo sia un mezzo per misurare il movimento. Stabilito quindi che

tempo e mutamento viaggiano di pari passo, sono coestensivi e funzionali l‟uno all‟altro, eterni,

infiniti e continui in sé, è possibile ora addentrarsi su quella che è la concezione del λῦλ

nell‟ottica aristotelica.

208
Aristotele qui riporta l‟esempio degli uomini che in Sardegna, addormentatisi presso gli eroi, non hanno la
percezione di aver dormito per 10000 anni. In pratica non avendo esperito il movimento hanno eliminato anche il
tempo, cosicché risulta giustificata la tesi aristotelica per cui percepiamo il tempo attraverso il movimento e
viceversa.
209
“Ma dal momento che oggetto della nostra ricerca è che cos‟è il tempo, occorre esaminare, prendendo le mosse di
là, che cosa esso è del movimento. Noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo. Se siamo infatti
nell‟oscurità e non subiamo affezioni per il tramite del corpo, e tuttavia un qualche movimento è presente nella
nostra coscienza, immediatamente e simultaneamente a noi sembra che anche un certo tempo sia trascorso. Ma
anche, quando noi crediamo che un certo tempo sia trascorso, ci sembra che un certo movimento si sia prodotto
simultaneamente. Se ne deve concludere che il tempo o è movimento, oppure è qualcosa del movimento. E giacché
esso non è movimento, necessariamente allora è qualcosa del movimento.” (Cfr. Phy. IV 11, 219 a 3 - 10).
210
La questione del rapporto tra tempo e movimento è, ovviamente, molto più complessa, ma si è preferito qui
sintetizzare per concentrarsi maggiormente sulla problematica dell‟istante e del tempo. Il movimento, così come si
evince dalla Fisica è un continuum ed è composto da elementi funzionali: il motore, ciò mediante cui una cosa è
mossa (e che è a sua volta, motrice) e la cosa mossa. Tuttavia entra in gioco anche il motore immobile come
elemento primario che innesca il movimento. Il motore immobile, così come descritto nella Fisica, consta di parti ed
è motore pur non essendo mosso, c‟è da dire però che notevoli sono le differenze tra l‟idea di primo motore della
Fisica e quello della Metafisica. Questione che però non pertiene a questo elaborato, rimando tuttavia a Berti, Nuovi
studi aristotelici, op. cit.
211
Il movimento presuppone sempre qualcosa che si muove, quindi gli enti che partecipano del movimento
(evidentemente tutti al di fuori dei motori immobili) fungono da “contenuti” del movimento. Per meglio dire, ogni
movimento è movimento di qualcosa, quindi è sempre diverso, poiché sempre differente è ciò che prende parte al
movimento (i tipi di movimento, si ricordi, sono quattro). Il tempo invece, in quanto “numero del movimento” resta
sempre strutturalmente identico, associando il prima e il poi come distaccati attraverso la funzione dell‟istante.
212
È una delle più celebri definizioni del corpus aristotelico: ἀξηζκὸο θηλήζεσο θαηὰ ηὸ πξόηεξνλ θαὶ ὔζηεξνλ. Cfr.
Phy. IV 11, 219 b 2.
La posizione di Aristotele in merito all‟aporia dell‟istante.

Dopo aver affrontato in maniera sintetica il rapporto che intercorre tra movimento e tempo nella

Fisica aristotelica è necessario analizzare la questione dell‟istante così come è stata elaborata

dallo Stagirita. Come già detto, Aristotele interviene sulla questione del tempo in cinque

paragrafi del IV libro della Fisica nei quali, appunto, trova posto la questione del λῦλ213 che, si

ricorderà, era già presente in Parmenide.

Quella della temporalità è una tematica già presente nell‟ontologia parmenidea, per il quale il

concetto di tempo è stato reso in maniera non durativa, prendendo le mosse dal concetto puro di

essere, e in Platone, che nel Parmenide ha mostrato l‟impossibilità di collocare l‟istante nel

tempo perché, all‟interno di una ipotesi che ha in sé stessa la possibilità che l‟essere possa

mutare, difatti non è possibile ammettere la realtà dell‟ nyn senza cadere in contraddizione; la

dimensione dell‟eternità appartiene al mondo eidetico, mentre al fenomenico concerne il divenire

temporale comunemente inteso. Aristotele vuole superare questo tipo di concezione 214 ma

soprattutto, comprende che il tema dell‟istante è quello che, su tutti, rende problematica

l‟accettazione dell‟esistenza del tempo in quanto tale. La difficoltà maggiore risiede nel

concepire il tempo come composto infinitamente divisibile benché la costituzione delle sue parti

minime risulti problematica215. Sulla base di questa definizione si è data realtà al tempo e si è

individuata la presenza reale dell‟istante, la cui collocazione nel flusso temporale desta

comunque l‟attenzione dello Stagirita, il quale enuncia immediatamente l‟aporia del caso:

213
Il termine greco λῦλ è qui reso con “ora”, benché alcuni, come E. Cavagnaro, preferiscono la traduzione
“adesso”, poiché l‟avverbio “ora” potrebbe indicare un lasso di tempo continuativo (ad. es.: “ora siamo in piena
campagna elettorale”). Comunque il termine indica propriamente l‟istante, traducendo l‟inglese now ed il tedesco
jetzt.
214
Tra l‟altro nel Timeo, Platone è costretto ad ammettere la necessità che il tempo venga dall‟opera del Demiurgo e
che esso si produce contestualmente all‟opera dell‟artigiano del mondo. Una siffatta idea non è affatto compatibile
con il pensiero di Aristotele, poiché il tempo è da sempre e non ha avuto origine né avrà fine.
215
La concezione del tempo aristotelica è quella di un tempo continuo e che pertanto, in riferimento alla definizione
di continuum dello stesso Aristotele, è infinitamente divisibile.
ἔηη δὲ ηὸ λῦλ, ὃ θαίλεηαη δηνξίδεηλ ηὸ παξειζὸλ θαὶ ηὸ κέιινλ, πόηεξνλ ἓλ θαὶ ηαὐηὸλ ἀεὶ δηακέλεη ἢ ἄιιν θαὶ ἄιιν,
νὐ ῥᾴδηνλ ἰδεῖλ. εἰ κὲλ γὰξ αἰεὶ ἕηεξνλ θαὶ ἕηεξνλ, κεδὲλ δ᾿ ἐζηὶ ηῶλ ἐλ ηῷ ρξόλῳ ἄιιν θαὶ ἄιιν κέξνο ἅκα (ὃ κὴ
πεξηέρεη, ηὸ δὲ πεξηέρεηαη, ὥζπεξ ὁ ἐιάηησλ ρξόλνο ὑπὸ ηνῦ πιείνλνο), ηὸ δὲ λῦλ κὴ ὂλ πξόηεξνλ δὲ ὂλ ἀλάγθε
ἐθζάξζαη πνηέ, θαὶ ηὰ λῦλ ἅκα κὲλ ἀιιήινηο νὐθ ἔζηαη, ἐθζάξζαη δὲ ἀλάγθε ἀεὶ ηὸ πξόηεξνλ. ἐλ αὑηῷ κὲλ νὖλ
ἐθζάξζαη νὐρ νἷόλ ηε δηὰ ηὸ εἶλαη ηόηε, ἐλ ἄιιῳ δὲ λῦλ ἐθζάξζαη ηὸ πξόηεξνλ λῦλ νὐθ ἐλδέρεηαη. ἔζησ γὰξ
ἀδύλαηνλ ἐρόκελα εἶλαη ἀιιήισλ ηὰ λῦλ, ὥζπεξ ζηηγκὴλ ζηηγκῆο. εἴπεξ νὖλ ἐλ ηῷ ἐθεμῆο νὐθ ἔθζαξηαη ἀιι᾿ ἐλ
ἄιιῳ, ἐλ ηνῖο κεηαμὺ [ηνῖο] λῦλ ἀπείξνηο νὖζηλ ἅκα ἂλ εἴε· ηνῦην δὲ ἀδύλαηνλ. ἀιιὰ κὴλ νὐδ᾿ αἰεὶ ηὸ αὐηὸ δηακέλεηλ
δπλαηόλ· νὐδελὸο γὰξ δηαηξεηνῦ πεπεξαζκέλνπ ἓλ πέξαο ἔζηηλ, νὔηε ἂλ ἐθ᾿ ἓλ ᾖ ζπλερὲο νὔηε ἂλ ἐπὶ πιείσ· ηὸ δὲ
λῦλ πέξαο ἐζηίλ, θαὶ ρξόλνλ ἔζηη ιαβεῖλ πεπεξαζκέλνλ. ἔηη εἰ ηὸ ἅκα εἶλαη θαηὰ ρξόλνλ θαὶ κήηε πξόηεξνλ κήηε
ὕζηεξνλ ηὸ ἐλ ηῷ αὐηῷ εἶλαη θαὶ ἑλὶ [ηῷ] λῦλ ἐζηηλ, εἰ ηά ηε πξόηεξνλ θαὶ ηὰ ὕζηεξνλ ἐλ ηῷ λῦλ ηῳδί ἐζηηλ, ἅκα ἂλ
εἴε ηὰ ἔηνο γελόκελα κπξηνζηὸλ ηνῖο γελνκέλνηο ηήκεξνλ, θαὶ νὔηε πξόηεξνλ νὔηε ὕζηεξνλ νὐδὲλ ἄιιν ἄιινπ216.

In questo brano viene riportata tutta l‟impostazione dell‟intero problema dell‟istante nel IV libro

della Fisica. Dopo aver appurato l‟effettiva esistenza dell‟istante, resta da determinarne la natura

e, in questo senso, l‟incipit della trattazione aristotelica sembra dover necessariamente sfociare in

un esito aporetico poiché l‟istante: 1) da un lato sembra dover essere sempre diverso; ma se così

fosse non si comprenderebbe in che modo avvenga il cambiamento, poiché se avvenisse da sé,

ciò sarebbe assurdo; 2) del resto però nemmeno può essere nel tempo sempre identico a se

stesso217 poiché si finirebbe per ricadere in una concezione praticamente identica a quella di

Melisso, per il quale l‟essere “sempre era ed è e sempre sarà”, se così fosse “gli avvenimenti

accaduti diecimila anni fa sarebbero simultanei a quelli odierni, e nulla sarebbe prima o dopo di

qualunque altra cosa.”218 Pertanto l‟istante non può connotarsi né come totalmente diverso né

come totalmente identico, bensì esso viene a manifestarsi al contempo sia come identico sia
216
“Ma l‟ „ora‟ non è parte. Infatti, la parte misura e il tutto deve essere composto di parti. Mentre invece il tempo
non sembra essere composto di istanti. E ancora, a proposito dell‟ „ora‟ che appare essere ciò che divide passato e
futuro, non sembra facile sapere se esso rimane sempre uno e identico, oppure se è sempre diverso. Se infatti esso
fosse sempre diverso, dal momento che non possono essere simultanee quelle parti che nel tempo sono sempre
diverse, - a meno che non si abbia a che fare con parti che sono le une contenenti, le altre contenute, come nel caso
di un tempo minore contenuto in un tempo maggiore – e se l‟ „ora‟, che ora non è, e che prima era, necessariamente
deve essersi distrutto in un certo momento, anche gli ora non potranno esistere simultaneamente l‟uno all‟altro, ma è
necessario che l‟ „ora‟ precedente debba sempre aver cessato di esistere. Ma non è possibile che esso si sia distrutto
in se stesso, in quanto allora esisteva; e neppure può essersi distrutto in un altro „ora‟. E‟ infatti impossibile che gli
istanti siano in contatto fra di loro, come avviene nel caso dell‟esistenza di un punto in rapporto ad un altro. E se
dunque l‟ „ora‟ non si è distrutto nell‟ „ora‟ successivo, ma in un altro, allora esso dovrebbe esistere
simultaneamente cin gli infiniti istanti intermedi. Ma questo è impossibile. Ma neppure è possibile che l‟ „ora‟
rimanda sempre identico. Infatti, di ogni cosa divisibile e limitata, non v‟è che un unico limite, sia esso continuo in
una sola direzione o più. Mentre l‟ „ora‟ limite. Ed è possibile prendere un tempo limitato. Inoltre, se essere
„simultaneamente nel tempo‟ significa „essere nello stesso‟, e cioè „essere nello stesso‟, e cioè „nello stesso istante‟,
e né prima né dopo, allora, se le cose che sono prima e quelle che sono dopo sono nello stesso istante, gli
avvenimenti accaduti diecimila anni fa sono simultanei a quelli odierni, e nulla sarebbe prima o dopo di qualunque
altra cosa.” (Cfr. Phy. IV 11, 218 a 8 - 30)
217
Ritengo opportuno qui precisare che il rimanere identico non è utilizzato nello stesso senso di 28 B 8, 29 – 30
poiché qui si intende un permanere identico nel tempo, mentre, nella prospettiva parmenidea, si è data una lettura di
tali versi come di un rimanere identico, da parte dell‟essere, solamente nel presente.
218
Cfr. Phy. IV 10, 218 a 29 – 30: ἅκα ἂλ εἴε ηὰ ἔηνο γελόκελα κπξηνζηὸλ ηνῖο γελνκέλνηο ηήκεξνλ, θαὶ νὔηε θαὶ
ὄπηε ὔζηεξνλ νὐδελ ἄιιν ἄιινπ.
come diverso219, cosa che preciserà lo stesso Aristotele successivamente220. Dunque la priorità di

Aristotele qui è sciogliere il nodo teoretico relativo al nyn ed il suo rapporto in relazione al

tempo inteso come “numero del movimento secondo il „prima‟ e il „poi‟”; lo Stagirita prosegue

nell‟argomentazione ed analizza il rapporto tra il tempo e l‟istante: come il tempo ed il

movimento si co-implicano, così anche tempo ed istante risultano avere, secondo la riflessione

dello Stagirita, un rapporto di reciprocità, ovvero “il tempo e l‟adesso non esistono

autonomamente, l‟uno non esiste senza l‟altro”221 (Φαλεξὸλ δὲ θαὶ ὄηη εἴηε ρξόλνο κὴ εἴε, ηὸ λῦλ

νὐθ ἂλ εἴε, εἴηε ηὸ λῦλ κὴ εἴε, ρξόλνο νὐθ ἂλ εἴε; Cfr. IV 11, 219 b 34 – 220 a 1). In che modo,

dunque, l‟ora sussiste ontologicamente? La risposta di Aristotele è che esso ha la funzione di

limite, ovvero all‟interno della struttura del divenire e del tempo, che è numero secondo il

„prima‟ e il „poi‟, quindi secondo passato e futuro, l‟istante si “incasella” come attimo che divide

queste due dimensioni temporali, esattamente come il punto per il continuum222. Tuttavia la sua

esistenza è data solamente in relazione all‟esistenza del tempo: non si ammette infatti (e ciò lo si

vedrà meglio quando si parlerà del continuum) l‟esistenza del punto o dell‟istante in sé, i quali

sono elementi che permettono la divisione della grandezza continua; tuttavia, nonostante

Aristotele collochi l‟istante all‟interno del tempo (a differenza del Maestro), la sua connotazione

essenziale è quella di essere sempre identico (per definizione) e sempre diverso (per essenza) al

contempo. A differenza degli Eleati, in particolare di Parmenide, la posizione dell‟istante

aristotelico nel presente, che funge da intermezzo tra passato e futuro, non sembra passibile di

ulteriori determinazioni.

219
Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, nel descrivere il percorso della coscienza alla consapevolezza di sé
come Assoluto, prende le mosse inizialmente da quella che è la conoscenza immediata dell‟universale astratto, e
cioè il questo e l‟ora della certezza sensibile, l‟universale astratto che appare alla coscienza ingenua il sapere più
gravido e che permane identico e diverso nello sviluppo del concetto; di questo avviso anche Berti, Cfr. Nuovi studi
aristotelici, pag. 87.
220
La questione dell‟aporia su identità e diversità dell‟istante è sciolta da Aristotele prendendo in esame due aspetti
differenti del λῦλ, infatti esso è “identico in quanto ciò che già era sempre essente, mentre è differente per
l‟essenza”. (ηὸ γὰξ λῦλ ηὸ αὐηὸ ὅ πνη‟ἦλ δ‟εἶλαη αὐηῷ ἕηεξνλ). Cfr. IV 11 219 b 10 -11.
221
Cfr. Cavagnaro, op. cit., pag. 135, corsivo mio.
222
In virtù di ciò, l‟istante funge anche da numero, nel senso che è l‟unità minima che misura il tempo (riprendendo
anche quanto lo Stagirita dice a proposito dell‟Uno come unità di misura nel libo I della Metafisica), pertanto “per
Aristotele il tempo si compone di adesso allo stesso modo di cui il numero si compone di unità ripetute all‟infinito”.
Cfr. Ibidem, pag. 136.
Considerazioni conclusive.

In conclusione, dopo aver proposto un‟interpretazione dell‟ontologia parmenidea che non nega

in maniera assoluta una certa forma di temporalità dell‟ἐόλ, cioè non pone l‟essere al di là del

tempo223, è apparso chiaro come anche in Aristotele, sebbene sotto una prospettiva radicalmente

differente, l‟istante risulti reale in quanto esiste il tempo, e viceversa. Se però secondo lo

Stagirita l‟istante si pone come intermezzo tra passato e futuro, poiché in qualche modo la sua

essenza è funzionale alla struttura del tempo, allo stesso modo l‟istante senza il tempo non ha

ragion d‟essere. Tuttavia anche per Parmenide si può fare un ragionamento simile: nel momento

in cui in B 28. 8, 5 l‟Eleate attribuisce l‟essere „ora‟ all‟eon, ecco che la sua determinazione non

può risultare al di fuori della temporalità, seppur una temporalità che non si sviluppa nella

durata; Parmenide ha determinato l‟essere nell‟ora, nell‟adesso, nell‟istante e perciò la sua natura

non può che essere quella dell‟istante che si determina in un effettivo presente che non è

passibile di modificazione; per dirlo in termini aristotelici, l‟essere parmenideo è un istante che è

uguale per sé e per essenza e che pertanto si determina in maniera assoluta in atto; per Aristotele

invece esso funge da “collante” tra passato e futuro, risultando a sua volta identico e diverso. In

conclusione, sia per Parmenide che per Aristotele, l‟ammissione dell‟esistenza dell‟istante passa

necessariamente attraverso l‟ammissione del tempo e viceversa; la differenza sostanziale sta nel

fatto che l‟Eleate ha individuato il nyn come realtà autentica dell‟eon nella misura della

temporalità, attribuendogli realtà senza relazione con passato e futuro, mentre per lo Stagirita la

relazione tra istante e tempo è sì ineludibile, ma in questo caso il λῦλ non ha una realtà

determinabile in sé, poiché essendo l‟elemento minimo di un continuum, esso non è esistente in

223
Questa tesi è sostenuta anche da R. Sorabij nella sua monografia “Time, creation & continuum”, nel capitolo su
Parmenide, infatti, elencando quelle che sono le interpretazioni più diffuse dei versi parmenidei sul tempo, difende
quella secondo cui la determinazione dell‟essere puramente inteso non lo pone al di là del tempo stesso: “But if i say
that the „now is‟ is not to be construed temporally, how is it to be construed? […] Parmenides is trying to express
the idea that his subject exists not stage after stage, but all together. On his interpretation the function of „now is‟ is
not to keep a last toe – hold on the idea of time, buto express the idea of not be extended. And the alternative to
being extended is not, of course, occupying a point.” Cfr. pag. 101.
atto. Così, con il ricorso al concetto di essere, Parmenide è riuscito a “fotografare” l‟istante nella

sua realtà, conciliando in esso essenza ed esistenza; Aristotele, invece, per giustificare il

movimento, calando l‟istante nel continuum cronologico, ne ammette l‟esistenza, pur non

riuscendo a determinarlo senza ricorrere a passato e futuro. Parmenide ha infatti co-implicato

essere e temporalità, determinando l‟eon in un‟istantaneità metafisica, rinunciando, in quanto

incompatibili con quello dell‟ essere, ai concetti di passato e futuro.


I paradossi di Zenone, le confutazioni di Aristotele e lo sviluppo dei
concetti di infinito e continuo.

Zenone l‟Eleate224, come già accennato nelle pagine precedenti, fu allievo diretto di Parmenide

ma, secondo importanti testimonianze, le sue tesi contro le aporie del movimento e del

molteplice in generale non hanno lo scopo di rappresentare una filosofia originale (a differenza

di Melisso, il cui intento era con ogni probabilità quello di superare quella che secondo lui, nella

filosofia parmenidea, appariva come un‟aporia sulla limitazione spaziale dell‟essere). È infatti

noto come il suo argomentare fosse finalizzato alla difesa delle tesi moniste di Parmenide.

Questa immagine di Zenone come apologeta del pensiero parmenideo ci viene presentata da

Platone nel Parmenide: il giovane Socrate sembra non comprendere la natura dello scritto del

224
È noto, oltre che per i famosi paradossi, per essere stato considerato dai pensatori successivi l‟inventore della
dialettica (giudizio che viene formulato da Aristotele in un passo del suo dialogo giovanile Sofista e fondata sulla
base del processo argomentativo tipico del filosofo di Elea). Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia,
parla di Zenone come dell'inventore della dialettica antica (ovviamente il termine dialettica in questo contesto non
ha i caratteri propri della filosofia hegeliana, nel senso di logica dell‟Assoluto) la quale “[…] consiste nella
considerazione immanente dell‟oggetto, invece che nella considerazione effettuata secondo relazioni, regole,
ragioni, eccetera, di carattere estrinseco; si tratta d‟esaminare le determinazioni operanti all‟interno dell‟oggetto
stesso, mettendole in risalto, cosicché esso riceva determinazioni opposte e dunque sopprima se medesimo. […] La
dialettica di Zenone guarda principalmente al movimento.” (Cfr. G. W. F. Hegel, op. cit., pag. 142).
L‟argomentazione di Zenone prende le mosse dalla natura dell‟oggetto in questione cercando di rendere manifesta la
contraddittorietà delle tesi che sostengono l‟opposto. Questa era già l‟idea di dialettica presente nelle opere di
Aristotele, “da tutto ciò sembra di poter concludere che la dialettica, di cui Aristotele attribuisce l‟invenzione a
Zenone, è l‟arte di argomentare, per mezzo di domande e risposte anziché attraverso un discorso continuato, a favore
o contro una determinata tesi, cercando di confutare, ossia di ridurre a contraddizione il proprio interlocutore” (Cfr.
E. Berti, Zenone di Elea inventore della dialettica?, in “La parola del passato”, XLIII, 1988, pp. 19 – 41, cit. pag.
24. Secondo Berti, inoltre, il procedimento dialettico zenoniano, così inteso, sarebbe stato assorbito anche da Platone
che ne farebbe uso analogo trasportando la dialettica dell‟Eleate dal piano logico – argomentativo a quello
metafisico: “Nella Repubblica Platone aveva definito la „dialettica‟ come „il percorso‟ (κέζνδνο) che solo procede in
questo modo, cioè distruggendo le ipotesi (ηὰο „ζπνζέζηο ἀλαηξνῦζα), verso il principio stesso, fino a fermarsi
stabilmente‟ e il „dialettico‟ come colui che riesce a determinare col ragionamento l‟Idea del bene, strappandola via
da tutte le altre cose (ἀπὸ ηῶλ ἄιισλ πάλησλ ἀθειώλ) e passando in battaglia attraverso le confutazioni (δηὰ πἀλησλ
ἐιέλρσλ δηεμηώλ)‟. Con queste parole viene descritto quello che nel Parmenide viene fatto, cioè la confutazione di
tutte le ipotesi che non siano l‟unica valida (il „principio‟, l‟ „idea del bene‟), al fine di far risultare la verità di questa
per via di eliminazione („strappandola via da tutte le altre cose‟). Questo procedimento, afferma Platone, risale a
Zenone, cioè è il risultato di uno spostamento del procedimento zenoniano dal piano sensibile a quello intellegibile,
o concettuale, e della sua integrazione con l‟esame dell‟ipotesi opposta a quella considerata. Poiché dunque il suo
nucleo originario, cioè l‟assunzione di una tesi opposta alla dottrina che si intende difendere e la deduzione da essa
di conseguenze tra loro contraddittorie al fine di mostrarne l‟impossibilità, è precisamente quello scoperto da
Zenone, si può concludere che per il Platone del Parmenide Zenone fu l‟inventore della dialettica intesa nel senso
platonico del termine (Cfr. Ibidem, pagg.29 – 30, i passi della Repubblica citati da Berti sono VII 533 C – D e 534 B
– C). Non mi sento di condividere pienamente la tesi qui esposta da Berti, poiché all‟interno dell‟intera metafisica
platonica la dialettica è lo strumento con cui il filosofo comprende sì la natura delle idee e del megiston mathema,
ma ciò non avviene, a mio avviso, attraverso un processo confutativo di tipo logico – argomentativo come nei
paradossi zenoniani, i quali hanno certamente un loro ruolo all‟interno del pensiero platonico (ad esempio, è
possibile, d‟accordo con Berti, ipotizzare che nel Parmenide l‟argomentazione proceda in quel modo), ma non ne
costituiscono l‟asse portante della sua metafisica in senso stretto.
giovane Eleate, poiché mentre da un lato il discorso parmenideo muove dalla constatazione che

l‟essere „è‟ ed è uno, di converso quello di Zenone parte invece dalla confutazione delle opinioni

contrarie, cioè è volto a smentire l‟esistenza del molteplice e del movimento: agli occhi del

giovane ateniese il discorso dei due Eleati sembra avere, di fatto, il medesimo significato, per

quanto ingannevolmente sembri trattarsi di due questioni diverse e distinte.. Zenone allora

replica:

ἀιιὰ ζὺ κὲλ εἶπεο ηῶλ ζπκβεβεθόησλ ηη, δὲ ηό γε ἀιεζὲο βνήζεηά ηηο ηαῦηα [ηὰ γξάκκαηα] ηῷ Παξκελίδνπ ιόγῳ
πξὸο ἐπηρεηξνῦληαο αὐηὸλ θσκῳδεῖλ ὡο εἰ ἕλ ἐζηη, πνιιὰ θαὶ γεινῖα ζπκβαίλεη πάζρεηλ ηῷ ιόγῳ θαὶ ἐλαληία
αὐηῷ.225

Questa testimonianza, benché inserita nella finzione drammatica del dialogo platonico226,

sintetizza uno degli assi portanti della riflessione zenoniana, ovvero il fatto che la sua opera 227 va

considerata come una vera e propria apologia del monismo parmenideo: è la chiave di lettura che

rende possibile considerare Zenone come il πξῶηνο εὐξεηήο della dialettica. Il punto che occorre

prendere dettagliatamente in esa,e è come il pensiero zenoniano, benché non abbia avuto come

fine quello di proporre un pensiero originale rispetto a quello del maestro, si connoti spesso

come carico di argomenti che non sono evincibili direttamente dall‟ontologia eleatica, ma si

sviluppano su un terreno che, come vedremo, mette in gioco numerosi aspetti diversi, i quali

hanno avuto ripercussioni sia nella riflessione filosofica sia anche nell‟ambito di quella

matematica228. I contenuti dei paradossi di Zenone sono volti, notoriamente, a confutare

225
Cfr. Parmenide, 128 c 6 – d 3: “Tu [scil. Socrate] poni, invece, l‟accento su un aspetto accidentale, mentre la
verità è che il contenuto del mio scritto rappresenta un soccorso (βνήζεηά) all‟assunto di Parmenide, ed è stato
concepito per opporsi a coloro che cercano di deridere Parmenide sulla base dell‟argomento che, se il tutto è uno, ne
derivano molte conseguenze ridicole, in contrasto con l‟assunto stesso.” Trad. it. di F. Ferrari. Sul concetto di
βνήζεηά rimando alla relativa nota di commento (25) ed alla bibliografia ivi citata. Sul concetto di βνήζεηά ηηο vedasi
anche Untersteiner, Eleati, op. cit., pagg.427 – 438.
226
L‟ambientazione drammatica ed il ruolo dei personaggi del dialogo non sembrano poter essere assunti come
testimonianza storica tout cout, su questo si veda Ferrari, L‟enigma del Parmenide, op. cit., pagg. 18 – 27 e, in
particolare, pag. 25. Resta difficilissimo stabilire se l‟incontro tra il giovane Socrate e i due eleati sia effettivamente
avvenuto o se si tratti di una suggestiva invenzione di Platone.
227
In gran parte perduta, ci restano soltanto alcuni dei frammenti zenoniani.
228
Su tutte, le teorie di meccanica quantistica (soprattutto in merito al principio di indeterminatezza di Heisenberg)
che sono ispirate agli argomenti contro il movimento dell‟Eleate sulle quali però non stiamo qui a soffermarci
poiché non oggetto del presente tema.
l‟esistenza del movimento e del molteplice in generale; se da un lato questo modus operandi

zenoniano è riportato da Platone solo nel Parmenide ed in un passo del Fedro229, (in quanto il

pensatore più problematico per il filosofo ateniese resta, per lo più, Parmenide)230, nell‟ottica

della fisica aristotelica, invece, le aporie di Zenone sono decisive, poiché attraverso la

confutazione di queste ultime è possibile giustificare per Aristotele i concetti di continuo ed

infinito e, più in generale, dimostrare che il movimento non solo esiste, ma non è nient‟affatto

illusorio o logicamente contraddittorio, come vorrebbero i monisti. Qui di seguito cercheremo di

analizzare, in maniera critica, le confutazioni che Aristotele elabora nei confronti delle aporie

zenoniane.

L‟infinito nella Fisica aristotelica231.

Già nel paragrafo precedente, discutendo del problema del tempo, si è avuto modo di introdurre

il concetto di continuum (synexches) secondo la concezione aristotelica, mostrando come il

tempo sia continuo in sé attraverso le sue strutture determinanti (gli istanti, che ricordiamo, non

sono parti del tempo, pur essendo insiste in esso); inoltre, il tempo, come anche il movimento, ha

229
Dove c‟è la celebre definizione di Zenone quale “Palamede eleatico”: Τὸλ νὖλ ἖ιεαηηθὸλ Παιακήδελ ιέγνληα
νὐθ ἴζκελ ηέθλῃ, ὥζηε θαίλεζζαη ηνῖο ἀθνύνπζη ηὰ αὐηὰ ὅκνηα θαὶ ἀλόηα, θαὶ ἒλ θαὶ πνιιά, κέλνληά ηε αὖ θαὶ
θεξόκελα; (“Non sappiamo dunque che il Palamede di Elea, parlando in base a una tecnica, fa in modo che le stesse
cose appaiano agli ascoltatori simili e dissimili, singole e molteplici, ferme e in movimento?”). Cfr. Platone, Fedro,
261 D 6 – 8, cura e traduzione di R. Velardi, BUR, Milano, 2006.
230
Almeno per quanto riguarda i cosiddetti dialoghi “metafisici” della maturità. Nel Teeteto l‟attenzione di Platone è
focalizzata nel cercare di stabilire cosa sia, propriamente, la conoscenza attraverso principalmente una confutazione
del mobilismo universale di matrice protagorea ed eraclitea (questo nella prima parte). E‟ qui tuttavia che si trova la
celeberrima definizione di Parmenide come “venerando e terribile” e che rimanda al dialogo successivo, nella
finzione drammatica, che è il Sofista. Qui, il peso dell‟ontologia parmenidea si fa più evidente, sia nella forma
narrativa (viene infatti introdotta la figura dello Straniero di Elea, non identificabile storicamente, ma comunque non
casuale), sia nella filosofia stessa di Platone: è nel Sofista infatti che la metafisica platonica approda alla definizione
dei generi sommi, superando de facto l‟ontologia parmenidea compiendo il decisivo ed inevitabile quanto sofferto
“parricidio”. Infine, lo stesso Parmenide, dialogo interamente dedicato alla figura del grande Eleate e nel quale
vengono affrontati direttamente, attraverso la lente del pensiero platonico, i grandi temi ontologici relativi alle idee
(I parte) e dell‟eleatismo in senso stretto (II parte).
231
Gli argomenti del continuo e dell‟infinito aristotelici richiederebbero un‟ampia trattazione specifica in merito,
tuttavia in questo lavoro verranno trattati in maniera sintetica, funzionalmente al tema del confronto con Zenone e
della critica a lui rivolta.
la proprietà di essere infinito: risulta allora evidente come questi concetti abbiano uno stretto

legame gli uni con gli altri.

Per quanto riguarda il problema dell‟infinito, lo Stagirita lo introduce in Phy. III 4 con la

consueta presentazione di quelle che sono le dottrine dei predecessori232, ponendo l‟accento su

come il concetto di infinito sia già stato precedentemente affrontato con esiti diversi.

L‟argomentazione aristotelica procede in questa maniera: l‟esistenza dell‟infinito, anche se

problematica, va ammessa poiché è fornita da cinque probanti evidenze:

ηνῦ δ᾿ εἶλαί ηη ἄπεηξνλ ἡ πίζηηο ἐθ πέληε κάιηζη᾿ ἂλ ζπκβαίλνη ζθνπνῦζηλ, ἔθ ηε ηνῦ ρξόλνπ (νὗηνο γὰξ ἄπεηξνο) θαὶ
ἐθ ηῆο ἐλ ηνῖο κεγέζεζη δηαηξέζεσο (ρξῶληαη γὰξ θαὶ νἱ καζεκαηηθνὶ ηῷ ἀπείξῳ)· ἔηη ηῷ νὕησο ἂλ κόλσο κὴ
ὑπνιείπεηλ γέλεζηλ θαὶ θζνξάλ, εἰ ἄπεηξνλ εἴε ὅζελ ἀθαηξεῖηαη ηὸ γηγλόκελνλ· ἔηη ηῷ ηὸ πεπεξαζκέλνλ ἀεὶ πξόο ηη
πεξαίλεηλ, ὥζηε ἀλάγθε κεδὲλ εἶλαη πέξαζ, εἰ ἀεὶ πεξαίλεηλ ἀλάγθε ἕηεξνλ πξὸο ἕηεξνλ. κάιηζηα δὲ θαὶ θπξηώηαηνλ,
ὃ ηὴλ θνηλὴλ πνηεῖ ἀπνξίαλ πᾶζη· δηὰ γὰξ ηὸ ἐλ ηῇ λνήζεη κὴ ὑπνιείπεηλ θαὶ ὁ ἀξηζκὸο δνθεῖ ἄπεηξνο εἶλαη θαὶ ηὰ
καζεκαηηθὰ κεγέζε θαὶ ηὸ ἔμσ ηνῦ νὐξαλνῦ. ἀπείξνπ δ᾿ ὄληνο ηνῦ ἔμσ, θαὶ ζῶκα ἄπεηξνλ εἶλαη δνθεῖ θαὶ θόζκνη.233

In questo passo, che non rappresenta ancora il cuore dell‟argomentazione aristotelica intorno alla

natura dell‟infinito, si introduce il problema della sua esistenza: lo Stagirita mostra come

l‟esistenza dell‟infinito sia resa manifesta dall‟evidenza stessa (in quanto la negazione

dell‟infinito condurrebbe a conclusioni assurde, quali ad esempio la cessazione del tempo), in

quanto il richiamo è alla struttura del tempo e del movimento stesso. Posta la sua esistenza,

Aristotele analizza, come di consueto, le aporie inerenti l‟esistenza dell‟infinito.

232
Aristotele non approfondisce qui il riferimento critico che ha in mente, riprendendolo più avanti nel dettaglio,
tuttavia cita immediatamente i Pitagorici e Platone: questi considerano l‟infinito come esistente in sé stesso e non
come attributo (che l‟infinito sia attributo secondo la quantità è già stato reso manifesto attraverso le serrate critiche
a Melisso). Tuttavia la critica vera e propria viene ripresa in III 8, pur non citando espressamente Platone, la critica è
a coloro che pongono l‟infinito in atto e come realtà separata allo stesso tempo, riprendendo quanto già dimostrato
sui principi del divenire, Aristotele si impegna qui a confutare le tesi di questi pensatori, su cui non ci dilunghiamo.
Cfr. III 4; 8.
233
Cfr. Phy. III 4, 203 b 15 – 26: “La convinzione che l‟infinito esiste, la si ricava soprattutto da cinque ragioni: dal
tempo (questo è infatti infinito); dalla divisione delle grandezze (in effetti i matematici si avvalgono, per far questo,
dell‟infinito); inoltre, dal fatto che la generazione e la corruzione non hanno mai fine, e questo è possibile solo se
l‟infinito è ciò da cui scaturisce tutto ciò che si genera. Inoltre, in quanto ciò che è limitato è tale sempre in relazione
a qualcosa che lo limita, sicché, necessariamente, non v‟è nessun limite, se ogni cosa viene ad essere delimitata da
qualcosa di sempre differente. Ma soprattutto e principalmente è questo che rende la difficoltà generalizzabile a
tutti: dal momento, infatti, che non ha mai termine l‟attività propria del pensare, per questo motivo non solo il
numero sembra essere infinito, ma anche la grandezza matematica e ciò che è al di fuori del cielo. E poiché ciò che è
al di fuori del cielo è infinito, anche il corpo sembra essere infinito, e sembra che vi sia un infinito numero di
mondi”
Si può già anticipare, prima di riportare il passo aristotelico, come la priorità dello Stagirita sia

quella di dimostrare l‟insostenibilità della tesi di un infinito che sia in atto, quindi compiuto, o

che sia separato (in quanto non si darebbe nel fenomenico alcun infinito). Il riferimento è senza

dubbio ai platonici: ρσξηζηὸλ κὲλ νὖλ εἶλαη ηὸ ἄπεηξνλ ηῶλ αἰζζεηῶλ, αὐηὸ ηη ὂλ ἄπεηξνλ, νὐρ

νἷόλ ηε234. Senza addentrarci in maniera dettagliata nella critica agli accademici, vediamo come

Aristotele introduca il problema delle aporie dell‟infinito: non è possibile ammettere un infinito

in atto, poiché esso è sempre divisibile e incompiuto, né tantomeno può essere sostanza (come

vorrebbero i platonici), poiché in questo caso esso risulterebbe indivisibile e l‟infinito non è

indivisibile, bensì infinitamente riducibile in parti. Da queste poche righe si comprende come il

pensiero dello Stagirita in merito all‟infinito venga concepito come qualcosa di non esistente in

atto, e che non è in se stesso compiuto: “la strategia argomentativa aristotelica consiste

nell‟ammettere l‟infinito, di fatti si è visto come la sua esistenza fosse stata presupposta come

evidente in riferimento a tempo, movimento e continuo, ma nello stesso tempo nel ricondurne la

sua natura alla potenza, e quindi nell‟escludere che esista un infinito in atto.”235 Ruggiu, qui,

pone l‟accento sul fatto che Aristotele dapprima rifiuta la possibilità che l‟infinito sia in atto 236 e,

successivamente, passa ad esporre la sua idea in merito.

L‟infinito è, per Aristotele, una realtà che esiste solamente in potenza; in quanto come atto non

può assolutamente darsi. Con questo, lo Stagirita si pone su un piano teoretico essenzialmente

diverso rispetto a quello dei predecessori. La prova più salda che lo Stagirita mette in campo

contro l‟inesistenza dell‟infinito è tratta dalle conseguenze che ciò comporterebbe: la negazione

del tempo, la finitezza dei numeri e l‟indivisibilità delle grandezze, cioè tutte conseguenze

assurde237; posto ciò, l‟infinito dovrà necessariamente esistere, benché non in atto; dunque “è

234
Cfr. III 5, 204 a 8 – 9. “Non è possibile, dunque, che l‟infinito sia separabile dalle cose sensibili, dal momento
che esso stesso è cosa infinita.”
235
Cfr. Ruggiu, La Fisica come ontologia del divenire, op. cit., pag. XLV. Corsivo mio.
236
Di questo lo Stagirita si occupa nel prosieguo del capitolo 5 del terzo libro, mostrando l‟impossibilità
dell‟esistenza dell‟infinito in atto e soprattutto negli enti sensibili, che è l‟oggetto di indagine dell‟intera Fisica.
237
Cfr. III 6, 206 a 9 – 12.
chiaro che l‟infinito in certo modo è, cioè in potenza, in certo modo non è, vale a dire in atto.238”

L‟infinito dunque esiste, ma non in atto, difatti “l‟infinito ha un‟esistenza potenziale”239 ed

Aristotele precisa subito in che senso ciò vada inteso:

νὐ δεῖ δὲ ηὸ δπλάκεη ὂλ ιακβάλεηλ, ὥζπεξ εἰ δπλαηὸλ ηνῦη‟ ἀλδξηάληα εἶλαη, ὡο θαὶ ἔζηαη ηνῦη‟ ἄλδξηάο, νὕησ θαὶ
ἄπεηξνλ ὃ ἔζηαη ἐλεξγείᾳ· ἀιι‟ἐπεὶ πνιιαρῶο ηὸ εἶλαη, ὥζπεξ ἡ ἡκέξα ἔζηη θαὶ ὁ ἀγὼλ ηῷ ἀεὶ ἄιιν θαὶ ἄιιν
γίγλεζζαη, νὕησ θαὶ ηὸ ἄπεηξνλ240

Dunque l‟infinito viene a connotarsi, secondo lo Stagirita, come potenza, portando l‟esempio

della giornata o di una lotta, le quali, pur ripresentandosi strutturalmente identiche sempre,

vengono tuttavia a differenziarsi poiché non sono mai uguali in sε stesse: “ogni suo momento è

finito, ma sempre diverso”241. Nella sua esistenza potenziale, l‟infinito viene concepito in due

modi: per addizione e per divisione242. In entrambe queste modalità, l‟infinito si dà come

strutturalmente esistente soltanto in potenza: si possono aggiungere infiniti numeri alle serie

numeriche e dividere una grandezza spaziale all‟infinito (queste idee verranno riprese nell‟analisi

del continuum), per cui si perviene così alla definizione decisiva di infinito (Cfr. III 6, 207 a 1 –

2): νὐ γὰξ νὗ κεδὲλ ἔμσ, ἀιι᾿ νὗ ἀεί ηη ἔμσ ἐζηί, ηνῦην ἄπεηξόλ ἐζηηλ, ovvero “l‟infinito, infatti,

non è ciò al di fuori del quale non esiste nulla243, ma è ciò al di fuori del quale esiste sempre

qualcosa di diverso.”

Questa definizione è dunque decisiva per comprendere il senso dell‟argomentazione dello

Stagirita; la sequenza argomentativa finora seguita è la seguente: l‟infinito esiste, poiché una sua

238
Cfr. Ibidem, 206 a 13 – 14. Corsivi miei.
239
Cfr. Ibidem, 206 a 18: ιείπεηαη νῡλ δπλάκεη εἶλαη ηὸ ἄπεηξνλ.
240
Cfr. Ibidem, 206 a 18 – 23: “Ma non si deve assumere l‟esistenza potenziale come equivalente alla espressione
„questo è in potenza statua‟, nel senso che sarà in seguito una statua; sicché analogamente, l‟infinito è qualcosa in
potenza che, in seguito, potrà essere in atto. Ma poiché l‟essere si dice in molti modi, l‟infinito esiste al modo in cui
diciamo che esiste una giornata o una lotta, per il loro generarsi in realtà sempre diverse.”
241
Cfr. Ibidem, 206 a 33: ἀιι‟ ἀεη γε ἕηεξνλ θαὶ ἕηεξνλ·
242
“La fondamentale distinzione preliminare che Aristotele stabilisce qui è quella fra 1) l‟infinito rispetto
all‟addizione, cioè quello che non può essere esaurito aggiungendo parte a parte, e 2) l‟infinito rispetto alla
divisione, cioè quello che è divisibile ad infinitum. In breve, la concezione di Aristotele è che il numero è infinito
nel primo senso, lo spazio nel secondo, il tempo in ambedue. […] Il risultato della teoria di Aristotele è che nessuna
forma di infinito esiste come un tutto dato simultaneamente. Nessuna estensione è „infinita rispetto all‟addizione‟,
incapace di essere costruita mediante un numero finito qualsiasi di parti eguali finite.” Cfr. W. D. Ross, Aristotele,
Laterza, Bari, 1946, pagg.123 – 125.
243
Questa è, propriamente, la definizione che è più vicina all‟idea di Melisso, di contro alla limitatezza (per Melisso
negativa) e determinatezza dell‟ἐόλ parmenideo.
eventuale non esistenza comporterebbe una serie di conseguenze che, de facto, risulterebbero

insostenibili: l‟esistenza dell‟infinito, tuttavia, non lo determina come esistente in atto, e lo

Stagirita, di contro, si preoccupa di confutare in particolar modo pitagorici ed accademici per la

loro concezione dell‟infinito fuori delle cose; infine, la teoria aristotelica conduce ad ammettere

la presenza dell‟infinito, ma solamente come realtà esistente in potenza, in quanto esso, secondo

la citazione qui riportata, esiste ammettendo la possibilità che in esso vi sia sempre qualcosa di

diverso.

In definitiva, l‟infinito aristotelico si pone come realtà solamente in potenza escludendo da sé la

possibilità di passare all‟atto, poiché, se così fosse, si cadrebbe nelle concezioni che lo Stagirita

intende confutare.

Il continuum:

Il continuum è uno dei concetti fondamentali di tutto il trattato aristotelico, in quanto non solo

riguarda anche la struttura del tempo, come si è avuto modo di vedere, ma permette allo Stagirita

di affrontare e di aggirare le paradossali conclusioni di Zenone contro la molteplicità ed il

movimento.La definizione di continuo viene data da Aristotele già nel I libro come “ciò che è

divisibile all‟infinito”244, ma è solo nei libri successivi (soprattutto il V e il VI) che esso viene

sviluppato in maniera sistematica. Il concetto di continuum viene esaminato a partire da quello di

“contiguo” (Aristotele definisce il contiguo come ciò che è in contatto, oltre ad essere già di per

sé continuo)245, pertanto la definizione di continuo, oltre a quella già data, si arricchisce di un

altro elemento:

ηὸ δὲ ζπλερὲο ἔζηη κὲλ ὅπεξ ἐρόκελόλ ηη, ιέγσ δ‟ εἶλαη ζπλερὲο ὅηαλ ηαὐηὸ γέλεηαη θαὶ ἓλ ηὸ ἐθαηέξνπ πέξαο νἶο
ἅπηνληαη, θαὶ ὥζπεξ ζεκαίλεη ηνὕλνκα, ζπλέρεηαη.246

244
Cfr. I 2, 185 b 10: εἰο ἄπεηξνλ γὰξ δηαηξεηὸλ ηὸ ζπλερέο. Definizione ripresa in III 1, 200 b 20.
245
ἐρόκελνλ δὲ ὃ ἂλ ἐθεμῆο ὂλ ἅπηεηαη: cfr. V 3 227 a 6.
246
Cfr. Ivi, V 3, 227 a 10 – 12: “Il „continuo‟ rientra fra ciò che è contiguo: dico „continua‟ una cosa, quando il
limite che esiste fra due cose, ciò per cui esse sono in contatto, è lo stesso e unico termie e, come dice il nome, „essi
stanno assieme‟.
Ecco che allora il continuo è, tenendo conto delle varie definizioni che Aristotele ha finora

fornito, ciò che è infinitamente divisibile e che, in virtù di ciò, consta sempre di parti che sono a

loro volta sempre ulteriormente divisibili247; se così non fosse, infatti, il continuo non si

connoterebbe come tale, poiché la sua parte minima (o una delle sue parti minime) avrebbe un

limite rispetto a quella successiva: così verrebbe meno la continuità248.

La natura del continuo, alla luce di quelle che sono le definizioni degli altri principi del

movimento, viene delineata dallo Stagirita con poche e lapidarie definizioni: lo sviluppo del

concetto di continuum viene articolato attraverso la critica di quelli che sono i paradossi di

Zenone. Ciò dimostra quanto il pensiero eleatico risulti importante e problematico nel pensiero

aristotelico per la fondazione di una scienza dei principi del divenire contro quei pensatori che lo

hanno radicalmente negato. In virtù di quanto abbiamo detto nei paragrafi e nei capitoli

precedenti, anche il tempo ha i caratteri della continuità in senso aristotelico, in quanto esso si

struttura parallelamente al movimento e, pertanto, ne ha la sua stessa struttura fondata, appunto,

sulla continuità.

I paradossi di Zenone ed il tentativo di confutazione di Aristotele.

Il nono capitolo del VI libro della Fisica è tutto dedicato alla confutazione dei paradossi di

Zenone; come si evince da quanto detto finora, la confutazione di Parmenide e di Zenone riveste

un‟ importanza fondamentale per lo Stagirita nell‟ambito della scienza fisica.

Il primo249 dei paradossi di Zenone che occorre analizzare in questa sede è il cosiddetto

paradosso della dicotomia: l‟assunto di base è che un corpo C si può muovere da un punto a ad

un punto b, quindi in un intervallo di spazio determinato. La ben nota tesi zenoniana è che il

corpo C, per arrivare a destinazione, dovrà percorrere dapprima la metà del percorso, ma prima

247
Problematica che viene approfondita nel libro VI (Cfr. 234 a 8 ss.).
248
Si veda, a tal proposito il saggio di D. Bostock, Aristotle on Continuity in Physics VI, in Space, Time, Matter,
Form: Essays on Aristotle‟s Physics, Oxford University Press 2006, pp. 158 - 188
249
Le argomentazioni zenoniane verranno analizzate seguendo l‟ordine in cui vengono citate nella Fisica. (Cfr. VI
9).
ancora dovrà percorrere 1/4 del tragitto, non prima di averne percorso però 1/8, ma prima ancora

1/16 e così via all‟infinito: il risultato è che, attraverso questo progressivo processo di divisione

dello spazio, il corpo C non potrà de facto muoversi. L‟argomento di Zenone prende in

considerazione una porzione di spazio determinata e, attraverso la sommatoria di intervalli

spaziali, conclude che da una somma infinita di elementi il risultato non può che essere infinito;

pertanto il movimento è razionalmente contraddittorio, in quanto l‟infinita divisione del

segmento di spazio comporta l‟immobilità del corpo C. Prendiamo ora in considerazione la

riformulazione aristotelica del paradosso e il suo relativo tentativo di confutazione:

δηὸ θαὶ Ζήλσλνο ιόγνο ςεῦδνο ιακβάλεη ηὸ κὴ ἐλδέρεζζαη ηὰ ἄπεηξα δηειζεῖλ ἤ ἅςαζζαη ηῶλ ἀπείξσλ θαζ‟ ἕθαζηνλ
ἐλ πεπεξαζκέλῳ ρξόλῳ. δηρῶο γὰξ ιέγεηαη θαὶ ηὸ κῆθνο θαὶ ὁ ρξόλνο ἄπεηξνλ, θαὶ ὅισο πᾶλ ηὸ ζπλερέο, ἤηνη θαηὰ
δηαίξεζηλ ἢ ηνῖο ἐζράηνηο. ηῶλ κὲλ νὖλ θαηὰ ηὸ πνζὸλ ἀπείξσλ νὐθ ἐλδέρεηαη ἅςαζζαη ἐλ πεπεξαζκέλῳ ρξόλῳ, ηῶλ
δὲ θαηὰ δηαίξεζηλ ἐλδέρεηαη· θαὶ γὰξ αὐηὸο ὁ ρξόλνο νὕησο ἄπεηξνο. ὥζηε ἐλ ηῷ ἀπείξῳ θαὶ νὐθ ἐλ ηῷ πεπεξαζκέλῳ
ζπκβαίλεη δηηέλαη ηὸ ἄπεηξνλ, θαὶ ἅπηεζζαη ηῶλ ἀπείξσλ ηνῖο ἀπείξνηο, νὐ ηνῖο πεπεξαζκέλνηο. νὔηε δὴ ηὸ ἄπεηξνλ
νἶόλ ηε ἐλ πεπεξαζκέλῳ ρξόλῳ δηειζεῖλ, νὔη‟ἐλ ἀπείξῳ ηὸ πεπεξαζκέλνλ· ἀιι‟ἐάλ ηε ὁ ρξόλνο ἄπεξνο ᾖ, θαὶ ηὸ
κέγεζνο ἔζηαη ἄπεηξνλ, ἐάλ ηε ηὸ κέγεζνο, θαὶ ὁ ρξόλνο250 .

Il passo aristotelico, all‟interno dell‟argomentazione del VI libro sul continuo, prende di mira

proprio il paradosso di Zenone della dicotomia per cui non è razionalmente possibile il

movimento per i motivi sopra esposti. Dapprima, lo Stagirita esamina due maniere di considerare

il continuum: o secondo gli estremi (ad esempio una serie numerica) oppure secondo la divisione

(si veda la definizione di continuo sopra riportata); nel secondo caso si parla di infinita

divisibilità di una quantità e ciò determina, nella prospettiva aristotelica, la logica conseguenza

che anche il tempo sia, a sua volta, continuo e quindi infinitamente divisibile. Alla luce di queste

osservazioni, la natura della confutazione aristotelica risulta chiara: l‟errore di Zenone si fonda

sull‟aver preso in esame una porzione determinata di spazio ed averlo pensato come suddivisibile

250
Cfr. VI 2, 233 a 21 – 34: “Sicché il ragionamento di Zenone assume falsamente che non è possibile percorrere
l‟infinito o che cose infinite non possano essere raggiunte in un tempo finito, dal momento che grandezza, tempo e,
in generale, ogni „continuo‟ si dice tale in duplice modo: o secondo la divisione o secondo gli estremi. Pertanto, per
le cose che sono infinito secondo la quantità, non è possibile che esse possano venire in contatto in un tempo finito;
mentre, per le cose che si dicono infinite secondo la divisione, questo è possibile, giacché, in tal caso, anche il tempo
risulta infinito allo stesso modo. Sicché è in un tempo infinito, e non in uno finito, che accade di percorrere l‟infinito
e di venire in contatto termini infiniti con realtà infinite, e non con realtà finite. Pertanto, non è possibile percorrere
l‟infinito né in un tempo finito, né è possibile percorrere il finito in un tempo infinito. Ma qualora il tempo sia
infinito, anche la grandezza sarà infinita; e se lo è la grandezza, anche il tempo lo sarà.”
all‟infinito in parti minime da percorrere in un tempo finito; pertanto la divisione all‟infinito

dello spazio zenoniano fa sì che il movimento risulti impossibile a concepirsi.

La risposta di Aristotele, dunque, è volta a negare la realtà dell‟infinito in atto, che rappresenta il

cuore del fraintendimento eleatico della questione. Questa tesi si ritrova in un‟ulteriore passo che

lo Stagirita dedica ai paradossi zenoniani: si ricordi che Aristotele non considera come assurda la

possibilità di percorrere una distanza infinita in un tempo infinito, tuttavia lo Stagirita tende a

precisare la natura della veridicità del proprio assunto e dimostrare l‟infondatezza della tesi

dell‟Eleate che prende in considerazione uno spazio infinito (infinitamente divisibile) da

percorrere in un tempo finito251; la confutazione aristotelica si snoda sulla base dei concetti di

atto e potenza:

πνηεῖ γὰξ αὐηὸ ἀξρὴλ θαὶ ηειεπηήλ. νὕησ δὲ πνηεῖ ὅ ηε ἀξηζκῶλ θαὶ ὁ εἰο ηὰ ἡκίζε δηαηξῶλ. νὕησ δὲ δηαηξνῦληνο νὐθ
ἔζηαη ζπλερὴο νὔζ‟ ἡ γξακκὴ νὔζ‟ ἡ θίλεζηο· ἡ γὰξ ζπλερὴο θίλεζηο ζπλερνῦο ἐζηηλ, ἐλ δὲ ηῷ ζπλερεῖ ἔλεζηη κὲλ
ἄπεηξα ἡκίζε, ἀιι‟ νὐθ ἐληειερείᾳ ἀιιὰ δπλἀκεη. ἂλ δὲ πνηῇ ἐληειερείᾳ, νὐ πνηήζεη ζπλερῆ, ἀιιὰ ζηήζεη, ὅπεξ ἐπὶ
ηνῦ ἀξηζκνῦληνο ηὰ ἡκίζεα θαλεξόλ ἐζηηλ ὅηη ζπκβαίλεη· ηὸ γὰξ ἓλ ζεκεῖνλ ἀλάγθε αὐηῷ ἀξηζκεῖλ δύν· ηνῦ κὲλ
γὰξ ἑηέξνπ ηειεπηὴ ἡκίζενο ηνῦ δ‟ ἑηέξνπ ἀξρὴ ἔζηαη, ἂλ κὴ κίαλ ἀξηζκῇ ηὴλ ζπλερῆ, ἀιιὰ δύν ἡκηζείαο. ὥζηε
ιεθηένλ πξὸο ηὸλ ἐξσηῶληα εἰ ἐλδέρεηαη ἄπεηξα δηεμειζεῖλ ἢ ἐλ ρξόλῳ ἢ ἐλ κήθεη, ὅηη ἔζηηλ ὡο, ἔζηηλ δ‟ ὡο νὔ.
ἐληειερείᾳ κὲλ γὰξ ὄληα νὐθ ἐλδέρεηαη, δπλάκεη δὲ ἐλδέρεηαη· ὁ γὰξ ζπλερῶο θηλνύκελνο θαηὰ ζπκβεβεθὸο ἄπεηξα
δηαιήιπζελ, ἁπιῶο δ‟νὔ· ζπκβέβεθε γὰξ ηῇ γξακκῇ ἄπεηξα ἡκίζεα εἶλαη, ἡ δ‟νὐζία ἐζηὶλ ἑηέξα θαὶ ηὸ εἶλαη252.

In questo passo dell‟VIII libro della Fisica, Aristotele ritorna sulle aporie concernenti

movimento esposte da Zenone; tuttavia questo passo si rivela decisivo, in quanto aggiunge un

nuovo e fondamentale tassello nella riflessione aristotelica in merito alla questione sull‟infinito e

sul continuum. Come si è già più volte ribadito nelle pagine precedenti, l‟infinito secondo lo

251
Cfr. J. Barnes et alii, Zenone e l‟infinito, Academia, Sankt Augustin, 2011, pag. 63.
252
VIII 8, 263 a 24 – b 9. “Se si dividesse infatti il continuo in due metà, si utilizzerebbe un solo punto come
duplice, in quanto lo stesso punto sarà principio e fine; questo è quanto fa colui che numera e che divide in metà.
Dopo aver diviso in tal modo, né la distanza né il movimento saranno continui; infatti il movimento continuo
appartiene ad un continuo; nel continuo vi sono infinite metà, ma non in atto, bensì in potenza. Se invece le si
ponesse in atto, allora non vi sarà un movimento continuo, ma vi sarà una sosta. E questo capita evidentemente a
colui che numera le metà: è infatti necessario numerare il punto, che è uno, come duplice, giacché tale punto sarà
per un verso la fine di una metà e per altro verso l‟inizio dell‟altra, qualora non venga numerata una unica linea
continua, ma le due metà. Cosicché in rapporto alla domanda „se è possibile percorrere l‟infinito o nel tempo o nella
lunghezza‟, bisogna dire che in un senso è possibile, in altro no. Se le unità sono in atto non è possibile, mentre lo è,
se le unità sono in potenza. Ciò che è infatti in un movimento continuo, per accidente ha percorso infinite unità,
mentre in senso assoluto questo non è vero. Accade infatti alla linea di avere infinite metà per accidente, mentre la
sostanza e la sua essenza sono diverse.”
Stagirita sussiste soltanto in potenza e mai in atto253 ed il continuo, considerato secondo la

divisione, risulta infinitamente divisibile: ciò significa che i due principi sono strettamente

correlati tra loro. Tenendo fede a quest‟ultimo concetto, Aristotele prova ad analizzare quella che

potrebbe essere la realtà della parte minima nel continuo. Se infatti, si provasse a dividere il

continuo secondo un qualsiasi punto che segni de facto una sua interruzione, la sua natura non

sarebbe più quella di avere in sé la continuità. “A questo punto (Cfr. VIII 8, 263 a 24 – b 9.) egli

[scil. Aristotele] nota un ulteriore aspetto dell‟argomento di Zenone, che non è riconducibile al

fatto che per percorrere un insieme infinito di spazi infiniti occorrerebbe un tempo infinito, ma

che in generale non sia possibile percorrere un insieme infinito di atti, per il semplice fatto che

l‟infinito non ha un ultimo termine. In altre parole non sarebbe possibile che il corpo C andasse

da a a b, perché dovrebbe compiere un‟infinità di attraversamenti e un‟infinità non ha termine

finale, per cui non può arrivare in b. Questo varrebbe indipendentemente dalla lunghezza degli

intervalli.”254

Il passo della Fisica sopracitato ha dunque particolare importanza nel quadro di insieme della

critica aristotelica: attraverso la confutazione dei paradossi zenoniani, lo Stagirita ribadisce

ancora una volta il concetto di potenzialità dell‟infinito; nella prospettiva aristotelica non è

possibile percorre (quindi portare a termine) una serie infinita come sommatoria di elementi

minimi, poiché l‟infinito, per sua stessa natura, non ha un termine. La critica al paradosso da

parte di Aristotele mette in luce tutte le caratteristiche e proprietà dell‟infinito e del continuo

stabilite dallo Stagirita nel trattato: l‟infinito è solo in potenza, mentre lo spazio è divisibile

253
Un problema che balza subito agli occhi in questo contesto è quello dell‟eterna potenzialità dell‟infinito, e viene
analizzato acutamente da D. Bostock: “Normally, to say that something is potentially θ is to imply that is possible
that it should be actually θ, and it might seem that Aristotle is intending to deny this implication in the case of
infinity. If this were so, he would clearly be using the word „potentially‟ in an unusual sense.” Cfr. D. Bostock,
Aristotle, Zeno and the potential infinite, in “Proceedings of the aristotelian society” n° 80, pagg. 37 – 51, cit.
pag.38. Bostock si rifà alla concezione della potenza e dell‟atto aristotelica (Cfr. Metafisica e, in particolare, i libri
Γ, Η, Ξ, Ε) e della priorità ontologica di quest‟ultimo. Ogni cosa, ogni sostanza (eccezion fatta per il motore
immobile, Cfr. Metaph. Λ; Phy. VIII), è composta di materia e forma, quindi è atto e potenza al tempo stesso.
Tuttavia nel caso dell‟infinito le cose non stanno propriamente così, in quanto è inconcepibile pensare ad un suo
essere in atto per i motivi già esposti. C‟è da dire però che l‟infinito non è una sostanza (bensì esso si predica di una
sostanza), ma un principio del divenire, pertanto la sua natura, nell‟ottica aristotelica, ammette in sé l‟incompiutezza
e la mera potenzialità.
254
Cfr. V. Fano, I paradossi di Zenone, Carocci, Roma, 2012, pagg. 25 -26.
all‟infinito così come pure il tempo; pertanto, assunte queste premesse, l‟idea di Zenone risulta

inevitabilmente errata. Occorre però sottolineare che Zenone non parla mai di tempo nel

paradosso della dicotomia; pertanto la critica di Aristotele sembra lasciar trasparire alcune

forzature arogomentativo-teoretiche che analizzeremo meglio più avanti.

La confutazione dei paradossi di Zenone sulla base della critica all‟argomento

della dicotomia.

Il tentativo di confutazione dell‟argomento zenoniano sull‟aporia del movimento conduce anche

alla confutazione degli altri paradossi dell‟Eleate. Dapprima, Aristotele riporta il celeberrimo

paradosso di “Achille e la tartaruga”:

δεύηεξνο δ‟ ὁ θαινύκελνο Ἀρηιιεύο· ἔζηη δ‟ νὗηνο, ὅηη ηὸ βξαδύηαηνλ νὐδέπνηε θαηαιεθζήζεηαη ζένλ ὑπὸ ηνῦ
ηαρίζηνπ· ἔκπξνζζελ γὰξ ἀλαγθαῖνλ ἐιζεῖλ ηὸ δηῶθνλ ὅζεξ ὥξκεζελ ηὸ θεῦγνλ, ὥζηε ἀεί ηη πξνέρεηλ ἀλαγθαῖνλ ηὸ
βξαδύηεξνλ. ἔζηηλ δὲ θαὶ νὗηνο ὁ αὐηὸο ιόγνο ηῷ δηρνηνκεῖλ, δηαθέξεη δ‟ ἐλ ηῷ δηαηξεῖλ κὴ δίρα ηὸ
πξνζιακβαλόκελνλ κέγεζνο. ηὸ κὲλ νὖλ κὴ θαηαιακβαλέζζαη ηὸ βξαδύηεξνλ ζπκβέβεθελ ἐθ ηνῦ ιόγνπ, γίγλεηαη δὲ
παξὰ ηαὐηὸ δηρνηνκίᾳ (ἐλ ἀκθνηέξνηο γὰξ ζπκβαίλεη κὴ ἀθηθλεῖζζαη πξὸο ηὸ πέξαο δηαηξνπκέλνπ πσο ηνῦ κεγέζνπο·
ἀιιὰ πξόζθεηηαη ἐλ ηνύηῳ ὅηη νὐδὲ ηὸ ηάρηζηνλ ηεηξαγῳδεκέλνλ ἐλ ηῷ δηώθεηλ ηὸ βξαδύηαηνλ), ὥζη‟ἀλάγθε θαὶ
ηὴλ ιύζηλ εἶλαη ηὴλ αὐηήλ. ηὸ δ‟ ἀμηνῦλ ὅηη ηὸ πξνέρνλ νὐ θαηαιακβάλεηαη, ςεῦδνο· ὅηε γὰξ πξνέρεη, νὐ
θαηαιακβάλεηαη· ἀιι‟ ὅκσο θαηαιακβάλεηαη, εἴπεξ δώζεη δηεμηέλαη ηὴλ πεπεξαζκέλελ. Οὗηνη κὲλ νὖλ νἱ δύν
ιόγνη255.

La confutazione aristotelica del paradosso si fonda sulla soluzione che lo Stagirita ha fornito al

problema precedente sulla dicotomia: la questione si gioca tutta sul fatto che una grandezza, per

Zenone, è divisibile secondo parti minime che dovrebbero avere in sé una effettiva sussistenza.

Mentre per Aristotele il punto (o l‟istante, per quanto concerne il tempo) è considerato come

255
Cfr. Phy. VI 9 239 b 14 – 30. “Il secondo argomento è quello chiamato „Achille‟. Consiste in questo: che il più
lento non sarà mai raggiunto nella corda dal più veloce; questo perché è necessario che l‟inseguitore, prima
raggiunga il punto dal quale colui che è inseguito è partito; sicché il più lento necessariamente avrà un qualche
vantaggio sull‟inseguitore. Lo stesso argomento vale per la dicotomia: se ne differenzia nel fatto che, nella divisione
della grandezza, non viene divisa in due anche la grandezza aggiunta successivamente. Pertanto, il più lento, stando
alle conclusioni del ragionamento, non sarà raggiunto dal più veloce; e questo risultato si produce seguendo le stesse
argomentazioni del ragionamento sulla dicotomia. (In entrambi i casi, infatti, il limite non può essere raggiunto,
poiché la grandezza è divisa in certo modo; ma in questo argomento si aggiunge che neppure chi è reputato il più
veloce può raggiungere, nell‟inseguimento, quello che è più lento). Cosicché anche la soluzione del problema sarà la
stessa. Ma è falso ritenere che colui che sta avanti non possa essere raggiunto; infatti, quando esso sta avanti, non è
raggiunto, mentre sarà raggiunto, purché si sia d‟accordo che quella da percorrere è una linea finita. Questi sono i
primi due argomenti”.
elemento limite, che però non ha in sé un‟estensione in quanto tale; al contrario Zenone pensa

l‟infinito come sommatoria senza fine di parti minime256, ma quest‟argomentazione non è

sostenibile secondo lo Stagirita. In virtù di ciò ecco allora che anche la fondatezza del paradosso

di Achille viene meno257, poiché la sua sussistenza problematica è data dall‟assunto iniziale che

lo spazio e il tempo siano suddivisi in parti semplici, come si evince dall‟esposizione dei

paradossi seguenti258:

ηξίηνο δ‟ ὁ λῦλ ῥεζείο, ὅηη ἡ ντζηὸο θεξνκέλε ἕζηεεθλ ζπκβαίλεη δὲ παξὰ ηὸ ιακβάλεηλ ηὸλ ρξόλνλ ζπγθεῖζζαη ἐθ
ηῶλ λῦλ· κὴ δηδνκέλνπ γὰξ ηνύηνπ νὐθ ἔζηαη ὁ ζπιινγηζκόο259.

Dunque un altro degli errori di Zenone deriva dall‟aver concepito la continuità e l‟infinito come

somma di punti che fungono da elementi più semplici di un‟intera serie. La soluzione di

Aristotele è solida: non è possibile che l‟infinito e il continuum (che presuppone il primo, almeno

per quanto riguarda la divisione) siano mera somma di elementi semplici, poiché in tal caso due

punti verrebbero ad essere giustapposti e il concetto di continuità verrebbe meno.

L‟argomento di Zenone sulle grandezze quale fondamento e conseguenza del

paradosso della dicotomia.

Resta da analizzare, ai fini del presente studio, un ultimo argomento di Zenone, riportato da

Simplicio nel suo “Commentario alla Fisica”: secondo la tesi dell‟Eleate qualcosa che non ha

grandezza, che non ha estensione, de facto non esiste affatto260:

256
Come si vedrà meglio dopo, anche Zenone ha argomentato prendendo in considerazione l‟infinito sia sotto
l‟aspetto della divisione (come nel paradosso della dicotomia) e sotto l‟aspetto addizionale (come nel caso
dell‟Achille). Aristotele, lo si è visto, pensa anch‟egli l‟infinito sotto questo duplice aspetto, ma con esisti diversi.
257
Sia Achille che la tartaruga occupano uno spazio o, per meglio dire, sono collocati nella porzione di spazio
analizzata, pertanto danno effettiva sussistenza ad una parte della grandezza continua, occupano un punto.
258
Non riporto qui l‟esposizione aristotelica del paradosso delle masse nello stadio (Phy. VI 9, 239 b 34 – 240 a 18)
in quanto qui lo Stagirita non va oltre la descrizione del paradosso zenoniano senza l‟aggiunta di ulteriori elementi
critici, rimandando la confutazione alle conclusione appena riportate.
259
Cfr. VI 9 239 b 30 – 33. “Il terzo, citato prima, afferma che la freccia scagliata è immobile; ma questo risultato è
conseguenza della tesi che il tempo è composto da istanti; se non si concede questa premessa, l‟argomentazione non
sta in piedi.”
γὰξ ἄιιῳ πξνζγέλνηην, νὐδὲλ ἂλ κεῖδνο πνηήζεηελ· κεγέζνπο γὰξ κεδελὸο ὄληνο πξνζγελνκέλνπ δὲ νὐδὲλ εἴε· εἰ δὲ
ἀπνγηλνκέλνπ ηὸ ἕηεξνλ κεδὲλ ἔιαηηόλ ἐζηη, κεδὲ αὖ πξνζγηλνκέλνπ αὐμήζεηαη, δῆινλ ὅηη ηὸ πξνζγελόκελνλ νὐδὲλ
ἦλ νὐδὲ ηὸ ἀπνγελόκελνλ261.

La continuazione dell‟argomento è, invece, solo parafrasata da Simplicio:

θαὶ ηαῦηα νὐθὶ ηὸ ἓλ ἀλαηξῶλ ὁ Ζήλσλ ιέγεη, ἀιι‟ὅηη κέγεζνο ἔρεη ἕθαζηνλ ηῶλ πνιιῶλ θαὶ ἄπεηξνλ ηῷ πξὸ ηνῦ
ιακβαλνκέλνπ ἀεί ηη εἶλαη δηὰ ηὴλ ἐπ‟ ἄπεηξνλ ηνκήλ· ὃ δείθλπζη πξνθείμαο ὅηη νὐδὲλ ἔρεη κέγεζνο ἕθαζηνλ ηῶλ
πνιιῶλ ἐθ ηνῦ ἑαπηῷ ηαὐηὸλ εἶλαη θαὶ ἕλ. (Simplicio, In Phy., 139 15 – 19 = DK 29 B 1; 2)262

Il passo di Simplicio263 propone un‟ulteriore aporia intorno al movimento: secondo quanto

riportato, l‟Eleate qui afferma che, se un ente esiste, esso deve avere grandezza264 e, di

conseguenza, esso sarà infinito oppure non esisterà affatto, nel caso in cui non ne siano

ammettesse la grandezza e l‟estensione. Ciò viene argomentato da Zenone in questo modo: se un

ente non ha estensione, allora se lo si aggiunge ad un‟altra quantità di enti dello stesso genere,

non ne aumenterà il numero; se, allo stesso modo, viene sottratto da una grandezza, non ne

diminuirà la quantità. Ecco allora che chi ammette il molteplice come esistente deve sostenere

che le cose sono tanto piccole da non esistere, oppure, se hanno grandezza, estensione, sono

tanto grandi da risultare sempre necessariamente, infinite. Il passo:

260
Non conosciamo, infatti, l‟eventuale effettivo ordine logico degli argomenti di Zenone, poiché riportatici da
testimonianze indirette.
261
“Infatti, se fosse aggiunto ad un‟altra cosa esistente, non la renderebbe più grande. Infatti, non avendo grandezza,
quando è aggiunta, non produce nessun aumento di grandezza. E così, ciò che è aggiunto in realtà non sarebbe
niente. Ma se, quando venga sottratto, la cosa da cui è sottratto non diminuisce, così come non aumenta quando le si
aggiunge, allora è evidente che ciò che si è aggiunto e ciò che si è sottratto non è niente.” (Cfr. Simplicio, In Phy.
139. 10 – 15 = DK 29 B 1) Il passo di Simplicio è estratto di quanto riportato da J. Barmes in J. Barnes et alii, op.
cit., pag. 58. Di Johnatan Bartes è anche la relativa traduzione.
262
“Zenone afferma queste cose non al fine di negare l‟Uno, ma per dimostrare che ciascuna delle cose molteplici ha
in realtà grandezza infinita, poiché a causa della divisione infinita, davanti a ogni parte che si prende in
considerazione ce n‟è sempre un‟altra. Questo lo dimostra, dopo aver mostrato che ognuna delle cose molteplici non
ha grandezza, in quanto è identica a se stessa ed è una.” Cfr. Ivi.
263
Invero, già presente ad Aristotele (Cfr. Metaph., 1001 b 7 -11).
264
La critica a questa premessa è che non tutti i corpi sono estesi. Zenone tuttavia non è così ingenuo (basti pensare
all‟essere parmenideo per escludere la corporeità). L‟argomento di Zenone muove dal presupposto che l‟ammissione
della molteplicità implica necessariamente le parti, e le parti non possono essere inestese e, se lo sono, non esistono.
Non basterà, tuttavia, porre la difficoltà dell‟estensione o nullità dell‟essere parmenideo, poiché, come si è cercato di
dimostrare, le argomentazioni zenoniane muovono dalla confutazione di tesi de facto contrarie all‟ontologia eleatica.
L‟unità dell‟essere, infatti, esclude sia la sua intrinseca molteplicità quanto la sua inesistenza.
εἰ δὲ ἔζηηλ, ἀλάλγε ἕθαζηνλ, κέγεζόο ηη ἕρεηλ θαὶ πάρνο θαὶ ἀπέρεηλ αὐηνῦ ηὸ ἕηεξνλ ἀπὸ ηνῦ ἑηέξνπ. Καὶ πεξὶ ηνῦ
πξνύρνληνο ὁ αὐηὸο ιόγνο. θαὶ γὰξ ἐθεῖλν ἕμεη κέγεζνο θαὶ πξνέμεη αὐηνῦ ηη. ὅκνηνλ δὴ ηνῦην ἅπαμ ηε εἰπεῖλ θαὶ ἀεὶ
ιέγεηλ· νὐδὲλ γὰξ αὐηνῦ ηνηνῦηνλ ἔζραηνλ ἕζηαη ὥζηε ἕηεξνλ πξὸ ἑηέξνπ νὐθ ἔζηαη. νὕησο εἰ πνιιά ἐζηηλ, ἀλάγθε
αὐηὰ κηθξά ηε εἶλαη θαὶ κεγάια, κηθξὰ κὲλ ὥζηε κὴ ἔρεηλ κέγεζνο, κεγάια δὲ ὥζηε ἄπεηξα εἶλαη. (In Phy. 141. 1 –
8)265.

Se allora un corpo esiste, esso sarà divisibile in quanto corpo: se è così, le sue parti esistono a

loro volta come corpi e così il processo di partizione procede all‟infinito sulla base degli

argomenti precedenti266.

A tal proposito è possibile riallacciarsi all‟argomento della dicotomia riportato da Aristotele e da

cui conseguono quello di Achille e della freccia. La posizione di Zenone risulta adesso ancora

più chiara: non è possibile affermare che una grandezza (o un corpo) non sia sempre

ulteriormente partibile, per i suddetti motivi; allora si deve necessariamente affermare, ponendo

come ipotesi l‟esistenza del molteplice, che ogni grandezza è infinitamente scomponibile in

parti, poiché il processo di divisione delle grandezze non è passibile di subire un arresto;

“Zenone, poi, afferma che „la stessa cosa, cioè l‟essere a sua volta divisibile, vale per la parte che

sopravanza; infatti, anch‟essa avrà una certa grandezza, e una sua parte sopravanzerà‟.

Supponiamo di prendere un corpo o qualcos‟altro – un cilindro, diciamo, oppure ancora una

salsiccia – […] Zenone suppone che le parti di una salsiccia siano, al pari della salsiccia stessa,

dei corpi. […] Ogni corpo ha almeno due parti distinte, ognuna delle quali è essa stessa un

corpo.267”

Da queste riflessioni si conclude che la tesi zenoniana, è volta ad affermare l‟assurdità della

molteplicità degli enti: la loro esistenza presuppone la loro corporeità, da cui allora l‟infinita

265
“Se esse però esistono, allora è necessario che ognuna di esse abbia una certa grandezza ed un certo spessore e
che in esse una parte sia distante dall‟altra. E lo stesso ragionamento vale per la parte che sopravanza; infatti
anch‟essa avrà una grandezza, e una sua parte sopravanzerà. E‟ lo stesso dire questa cosa una volta, e dirla sempre,
perché nessuna parte è l‟ultima in modo tale che non vi sia una parte di fronte all‟altra. Così, se esistono molte cose,
è necessario che esse siano al tempo stesso piccole e grandi: tanto piccole da non avere grandezza, tanto grandi da
essere infinite.” Come per i passi precedenti, le citazioni di Simplicio sono riprese, in greco e in traduzione da
Barnes, op. cit.
266
Secondo Barnes, questo è il limite dell‟argomento zenoniano secondo gli atomisti: infatti un partizionamento del
genere sarebbe matematicamente ammissibile, ma non fisicamente, poiché si giungerebbe, nell‟ambito della
divisione, ad un elementi minimo non ulteriormente semplificabile (a-tomos, non divisibile, appunto). Cfr. Barnes,
op. cit., pp. 65 – 76.
267
Cfr. J. Barnes, op. cit., pag. 69, corsivi miei.
divisibilità delle grandezze da un lato e, sullo stesso piano, la loro inesistenza. Così Zenone

pensa di negare la molteplicità mostrandone l‟assurdità.

Alla luce di ciò, le argomentazioni di Aristotele procedono su un piano diametralmente opposto:

ciò appare funzionale alla confutazione di Zenone: il processo di divisione, non può essere

portato a termine, poiché l‟infinito è solamente in potenza, per la sua stessa definizione. La

confutazione di Aristotele, tuttavia, non sembra compatibile con l‟argomento zenoniano. Zenone

(attraverso gli argomenti dello stadio e della dicotomia e in base ai brani riportati da Simplicio,

dove l‟Eleate accusa coloro che ammettono la molteplicità degli enti di sostenere tesi in sé

contraddittorie) quando parla di infinità delle grandezze, si riferisce anche alla impossibilità per

un corpo C di arrivare da a a b, poiché la distanza da coprire sarebbe infinita. Aristotele,

parlando del continuum come ciò che è divisibile all‟infinito, sembra dire una cosa analoga. Il

discrimine sta nell‟introduzione, da parte dello Stagirita, del concetto di tempo nella sua critica al

paradosso zenoniano. Si ricorderà, infatti, che la critica di Aristotele ai paradossi dell‟Eleate

verte sul fatto che l‟infinito non è percorribile in un tempo limitato268, in un tempo finito269.

L‟argomento di Zenone però, non sembra portare avanti una simile tesi: per meglio dire, l‟Eleate

non introduce il fattore tempo nel paradosso della dicotomia.

Appare opportuno a questo punto ritornare sull‟argomento che viene attribuito a Zenone da

Simplicio: una grandezza è, per chi ammette il molteplice, allo stesso tempo nulla ed infinita,

poiché qualsiasi corpo esteso è divisibile all‟infinito. In Aristotele questa conclusione si rivela

assurda ed insostenibile: l‟infinita divisibilità, infatti, appartiene al continuum ed al concetto di

infinito secondo la divisione. Infiniti sono inoltre il processo di generazione e corruzione, il

tempo ed il mutamento. Se si tenesse fede all‟argomento di Zenone, verrebbe meno l‟intero

sistema di pensiero aristotelico. L‟infinita divisibilità allora appartiene alle grandezze continue,

mentre non può essere sostenuta per le sostanze semplici; si è visto in effetti come l‟infinità sia

268
Il compiere un numero infinito di azioni in un tempo limitato è anche detto argomento dei supercompiti. Cfr.
Fano, op. cit. pag. 25.
269
Su questo concordo con Barnes, Ibidem, pag. 63.
un principio del mutamento che si dà soltanto in potenza, mentre, seguendo il discorso di

Zenone, ogni corpo, ogni grandezza avrebbe la peculiarità di essere in sé infinita. Una sostanza,

per Aristotele non può mai essere in sé stessa infinita, poiché essa è sempre un alcunché di

determinato270, nel senso che è determinata in atto, diversamente dall‟infinito.

La critica ai paradossi zenoniani, consente ad Aristotele di chiarire alcuni aspetti imprescindibili

della sua indagine fisica: il movimento non è affatto logicamente paradossale, esso si fonda

sull‟evidenza del divenire e degli enti in movimento; chi, come Zenone o Parmenide, vorrebbe

negare tali presupposti, cade in errore. Si è però constatato che molto spesso le tesi aristoteliche

sono “viziate” da alcune forzature teoretiche che di fatto sembrano aggirare il problema più che

affrontarlo per quello che ha significato per i suoi predecessori.

270
Ed è questo il motivo che non rende la materia passibile di essere sostanza in senso stretto, poiché essa non è un
alcunché di determinato: ιέγσ δ‟ ὕιελ ἣ θαζ‟ αὑηὴλ κήηε ηὶ κήηε πνζὸλ κήηε ἄιιν κεδὲλ ιέγεηαη νἶο ὥξηζηαη ηὸ ὄλ.
(“Chiamo materia ciò che, di per sé, non è né alcunché di determinato, né una certa quantità né alcun‟altra delle
determinazioni dell‟essere”). Cfr. Metaph. Z, 1029 a 20 – 21. Inoltre questo è il terreno dello scontro con i platonici
già segnalato nelle pagine precedenti. Una sostanza infinita non sarebbe divisibile in parti, il che è assurdo.
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