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GIANNI VATTIMO

Oggettività o essere-nel-mondo

1. La domanda sulla filosofia

È impossibile cominciare qualunque discorso filosofico


senza implicare anche una domanda iniziale sulla filosofia, su
che cosa essa sia o non sia. E tuttavia, sta di fatto che nessu-
no di noi qui accetterebbe di cominciare definendo la filoso-
fia in termini di genere prossimo e differenza specifica, come
se si trattasse di «scoprire» finalmente quel dato che finora
sarebbe sfuggito ai filosofi. Anche i più accaniti essenzialisti
che conosciamo, i filosofi analitici, imposterebbero il discorso
piuttosto in questi termini: che cosa diciamo quando chiamia-
mo qualcosa filosofia? Con una certa, caratteristica, cecità alle
trasformazioni storiche che il termine e il concetto hanno su-
bìto, finirebbero per identificare l’essenza della filosofia con il
significato del nome nel nostro vocabolario.
Ma questo significato è tutt’altro che un dato stabile: non
basta leggere il vocabolario, bisogna aver presente l’enciclo-
pedia, che registra le trasformazioni storiche dell’uso del
termine, ne sostanzia le ragioni e i collegamenti con il resto
della cultura e con gli eventi della storia «esterna». Più o
meno riassumo così il significato dell’espressione «ontologia
dell’attualità», che riprendo da Foucault caricandola però di
un senso heideggeriano che in lui era assente. La filosofia in-
tesa così è la rimemorazione della storia dell’essere, il quale
non ha altra storia che non sia quella del senso che il ter-
mine ha (assunto via via) nel nostro linguaggio. Il linguaggio
è la casa dell’essere – quella in cui l’essere si dà come aper-
tura di mondi storici; l’essere vi abita e ne è il «titolare»: il
linguaggio non è uno strumento a disposizione di qualcuno,
né di noi che lo parliamo né dell’essere stesso (che così do-

RIVISTA DI FILOSOFIA / vol. CIII, n. 3, dicembre 2012


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vrebbe distinguersene come chi usa, appunto, uno strumen-


to). Questa «identificazione» dell’essere con il linguaggio, che
Heidegger matura nella esperienza della difficoltà di prose-
guire Sein und Zeit1, è la vera via dell’oltrepassamento del-
la metafisica come identificazione dell’essere con l’oggetto. Il
linguaggio che parliamo e che «ci» parla non è un dato, uno
strumento, una struttura: è evento, che ci concerne e coin-
volge in un rapporto di reciproca possibilizzazione. Poiché
all’origine dell’insoddisfazione (o insofferenza) di Heidegger
per l’identificazione metafisica dell’essere con l’oggetto c’era il
bisogno di capire (o vivere) la libertà (si pensi al clima esi-
stenzialistico dell’avanguardia primonovecentesca, a Bloch e
all’espressionismo; nonché all’ispirazione teologica del giovane
Heidegger), pensare l’essere come evento che accade anzitutto
nel linguaggio è il (solo) modo per pensare anche la libertà.
Gli esistenti ci sono e costruiscono storia «da quando siamo
un Gespräch», secondo un verso di Hölderlin che Heidegger
ripete spesso2. Chi parla usa e insieme è usato dal linguaggio-
essere, e ogni atto di linguaggio è ricezione e interpretazione
del messaggio che «ci» parla come parlanti. Ontologia dell’at-
tualità significa ontologia ermeneutica, segnata dal circolo
comprensione-interpretazione che Heidegger tematizza in Sein
und Zeit.

2. L’ontologia dell’attualità come eventualizzazione dell’essere

Idealismo? O addirittura idealismo empirico, à la Berkeley,


come obiettano i critici «realisti» dell’ermeneutica? Quest’ul-
tima rivendica legittimamente, invece, di essere un kantismo
radicalizzato: il mondo fenomenico, il «dato reale», ci divie-
ne accessibile come tale solo se organizzato dagli apriori del-
la ragione. Ma questi, per l’ermeneutica, non sono affatto
strutture eterne, come gli enti matematici, che per l’appunto

1
Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo» (1946), in Id., Segnavia, a
cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 19873, pp. 267-315.
2 «Viel hat erfahren der Mensch / der Himmlischen viele genannt / seit

ein Gespräch wir sind, / und hören können von einander» (F. Hölderlin,
Stuttgarter Ausgabe, vol. II/1, p. 137). Heidegger si riferisce a questo verso
di Hölderlin ad esempio in La poesia di Hölderlin (1936-68), a cura di L.
Amoroso, Milano, Adelphi, 1988, p. 41.
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sono «costruiti» dalla ragione tramite i suoi apriori. Non per


niente uno dei maestri di Heidegger, molto più che Husserl,
è Dilthey; che sentiva l’urgenza di fare del soggetto kantia-
no (nelle cui vene «non scorre vero sangue») un esistente
storico. Non basta, tuttavia, mettere la ragione kantiana con
i piedi per terra, cioè nel Dasein dell’analitica esistenziale3.
La Kehre, la svolta di cui Heidegger parla esplicitamente nel-
lo scritto sull’umanismo, è lo sforzo di prendere sul serio i
risultati dell’analitica esistenziale: se l’Esserci con la sua pre-
comprensione del mondo non è la ragione immutabile kantia-
na, non basta dire che sta «sempre» nella storia (così rispon-
deva Derrida alle mie obiezioni sul problema della storicità
della decostruzione). Bisogna cercare di capire che cosa ne è
dell’essere nella concreta situazione storica in cui siamo get-
tati. Questa esigenza – di prendere sul serio la storicità dil-
theyana – si sente già pienamente nella recensione a Jaspers
del 19194, pubblicata solo nell’ultima edizione di Segnavia, ed
è anche, sfortunatamente, all’origine dello «sviamento» nazista
di Heidegger nel 1933.
Dell’essere-evento non c’è «descrizione» scientifica da fuo-
ri. Nella recensione alla Psychologie der Weltanschauungen di
Jaspers, la critica che viene mossa all’autore, il quale aveva
dichiarato, introducendo l’opera, che voleva studiare le va-
rie visioni del mondo per mettere in discussione la propria,
è di aver appunto dimenticato questo proposito, finendo per
presentare una sorta di panorama puramente «estetico», noi
diremmo contemplativo, senza coinvolgervisi con la propria
concreta storicità. Come appare poi da alcuni cenni nell’ul-
tima parte della recensione, questa critica è rivolta anche, o
addirittura fondamentalmente, alla fenomenologia husserliana
dell’epoca, e ciò spiega probabilmente perché Heidegger la-
sciasse inedito il testo: la rottura con Husserl, proprio moti-
vata da queste stesse ragioni, avverrà solo più tardi, intorno
all’anno di pubblicazione di Sein und Zeit. Naturalmente per
passare dallo scritto su Jaspers alla rottura con Husserl e poi

3 Penso all’impressione di uno Heidegger in fondo neokantiano che si


ricava dalla lettura di un libro come quello di A. De Waelhens, La philoso-
phie de M. Heidegger, Louvain, Nauwelaerts, 1971 (19421).
4 M. Heidegger, Note sulla «Psicologia delle visioni del mondo» di Karl

Jaspers, in Id., Segnavia, cit., pp. 429-71.


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alla scelta nazista del 1933 ci vollero tappe biografiche che


qui non possiamo, né interessa, ricostruire. Ma a me appa-
iono comprensibili lungo la linea della Kehre. Una linea che
soprattutto i critici di sinistra di Heidegger non seppero ve-
dere, abbagliati, direi, dallo scandalo per la sua assunzione
del rettorato nazista a Friburgo, con il famigerato discorso.
Proprio «da sinistra» quella scelta andava non solo giusta-
mente stigmatizzata, ma anche compresa nelle sue motivazio-
ni profonde: si trattava puramente e semplicemente di non
stare alla finestra dell’evento dell’essere, di vivere l’ontologia
ermeneutica come una filosofia della prassi e non come uno
sguardo contemplativo, estetico, sul fluire della storia. Hei-
degger, insomma, come filosofo engagé – alla stessa stregua di
un Lukács o di un Bloch che scelsero di stare dalla parte di
Stalin, o di un Giovanni Gentile che collaborò fino all’ultimo
con Mussolini. Nessuna giustificazione, certo, per quella scelta
heideggeriana; fu un colossale autofraintendimento, condizio-
nato da tutta una tradizione tedesca che – a partire dal tar-
do Settecento almeno (con Hölderlin) e poi con Nietzsche e
la sua idea della cultura tragica presocratica – considerava la
Germania, per la sua stessa arretratezza politico-sociale, come
il vero luogo di un possibile ritorno della cultura pre-metafi-
sica, non infetta dal virus dell’industrialismo e dell’alienazione
capitalistica.
Come ontologia dell’attualità, e cioè (filosofia della) pras-
si, la filosofia deve correre i suoi rischi, senza garanzie di
alcun principio primo che la legittimi e giustifichi anche le
scelte storiche del filosofo. Scelta, e dunque niente descri-
zione oggettiva (delle Weltanschauungen, à la Jaspers; o del-
la condizione umana alienata, persino à la Sartre); presa di
posizione pro o contro. Solo in base a questa scelta – che
qualifica e attiva il nostro orizzonte di comprensione, poi-
ché non siamo ragione pura kantiana – l’ente si scopre an-
che nella sua oggettività; se non è orientato da un interesse
il Dasein semplicemente non vede il mondo. C’è sguardo
«oggettivo» sul mondo in quanto aperto da un orientamen-
to interpretativo; interpretazione è anche quella della visione
quotidiana del man, dell’anonimo «si» che però è in condi-
zione di deiezione finché non si assume e non si progetta
esplicitamente per la propria mortalità, ossia (dico io) sto-
ricità. Tutto questo solo per dire (far dire a Heidegger, o
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semplicemente, comunque, ricavare da lui) che non si può


far filosofia, e cioè ontologia dell’attualità, senza coinvolgersi
nei conflitti della storicità concreta. Nota bene: perché «non
si può»? Stiamo forse parlando di una necessità «logica»,
di un’autocontraddizione performativa che dovremmo evita-
re per non essere incoerenti? No, si tratta solo del fatto già
osservato da Aristotele: se dobbiamo filosofare, filosofiamo;
se non dobbiamo, bisogna comunque dire perché… In quali
conflitti siamo coinvolti?
Scegliere significa anche decidere quale sia per noi il «con-
flitto principale» – come nel caso di Heidegger, che pensa
un’epoca in relazione a qualche parola fondante (ciò che dura
lo fondano i poeti...5). Quale conflitto riconosco come costi-
tutivo della mia condizione attuale? E cioè: come «riassumo»
il mondo verso cui devo (sento di non poter non) prendere
posizione? È questo che rende difficile, o in definitiva impos-
sibile, elaborare una «ontologia dell’attualità».

3. Oggettività o essere-nel-mondo

Costruisco una specie di sociologia «da dilettante» (im-


pressionismo sociologico chiamava Lukács quello di Simmel)?
Cerco di descrivere la «condizione generale del mondo» di
cui parla Hegel in un passo dell’Estetica? Ecco di nuovo il
bisogno «panoramico» che Jaspers voleva soddisfare per po-
ter mettere in discussione la propria Weltanschauung. Come
se ci si ponesse il problema di scegliere una religione sulla
base di un inventario completo delle religioni «disponibili».
L’importanza del caso di «Heidegger nazista» è anche e so-
prattutto questa: insegna che una ontologia dell’attualità si
può ������������������������������������������������������������
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solo sulla base di una esplicita presa di posizio-
ne, inevitabilmente «parziale». Non puoi guardare all’evento
dell’essere come se fosse un panorama dispiegato davanti ai
tuoi occhi, che dovresti prima «esplorare» per poi «orientar-
tici». Ma l’essere-nel-mondo di cui parla Sein und Zeit non è
proprio qualcosa del genere? Sai già, in linea di massima, che
cosa c’è nel mondo, che cosa è il mondo, anche se non lo
conosci analiticamente... Ma per Sein und Zeit, come nel caso

5
Cfr. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 52.
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dell’ontologia dell’attualità, puoi uscire dal mondo del man,


dalla chiacchiera quotidiana, solo assumendoti esplicitamen-
te per quel che sei e decidendoti anche a cambiare te stes-
so. Che cosa ti spinge a deciderti? Mai un generico bisogno
umano, ma una concreta esigenza: le stesse pulsioni, la pulsio-
ne sessuale, anche la fame, sono sempre storicamente e cultu-
ralmente connotate. A maggior ragione l’insoddisfazione per
la posizione nel mondo, per le aspettative di futuro. Forse si
può persino parlare, in termini nietzschiani, di «spirito di ven-
detta»: è quello che viene in mente leggendo un decisivo pas-
so delle Tesi sulla filosofia della storia di Benjamin: i rivolu-
zionari non sono tanto mossi, nella loro azione, dall’immagine
del futuro radioso che vogliono costruire per i loro figli e ni-
poti, quanto dall’indignazione per gli avi oppressi e sfruttati6.
L’uscita dalla metafisica che Heidegger va cercando è an-
che un lasciar essere l’essere come evento: per questo Hei-
degger scrive da qualche parte che la vera emergenza oggi
è la mancanza di emergenza – il fatto che non accada nul-
la (intendiamo: al livello dell’apertura dell’essere: un nuovo
ordine sociale, grandi opere d’arte inaugurali…) è il trionfo
della metafisica oggettivistica, il «come stanno le cose» è il
solo orizzonte possibile. Il Dasein come progetto gettato non
è tale in un mondo dove tutto è calcolato, in maniera sem-
pre più impersonale, e dunque «disinteressata». Incontriamo
qui un vitalismo heideggeriano? Può darsi, anche se si chia-
merebbe più propriamente esistenzialismo. In Heidegger non
c’è una metafisica vitalistica, nel senso per cui l’essere è vita.
Neanche identificare l’essere con l’evento significa attribuirgli
una «essenza». L’essere ci si dà come evento, richiede di es-
sere pensato come evento nella specifica condizione concre-
ta, eventuale, in cui siamo gettati. Che è il culminare della
metafisica nella società dell’organizzazione totale. Non abbia-
mo «scoperto» che l’essere è evento. Come lo Heidegger di
Sein und Zeit non aveva «scoperto» che l’essere non è l’ente.
Faceva esperienza esistenziale dell’impossibilità di pensare il
proprio essere (con passato e futuro, storicità e libertà) con i
concetti oggettivistici, reificati, della metafisica. Anche il dire
che l’essere è evento è un evento dell’essere – una specifica

6 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus novus. Saggi e

frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1981, Tesi 12, p. 82.


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apertura storico-destinale. Non è un enunciato metafisico per-


ché è una interpretazione della nostra specifica ed eventuale
condizione. Cercare di capire i tratti dell’apertura in cui sia-
mo gettati non significa cercare di cogliere, nell’essere-evento
come genere, la specifica condizione del «nostro» evento…
Abbiamo qui a che fare con un doppio genitivo? Anche
l’espressione «ontologia dell’attualità» va intesa nei due sensi:
come alludente all’essere nella nostra specifica condizione, e
al fatto che questa nostra specifica condizione è caratterizzata
dal darsi dell’essere solo come evento. Ontologia dell’attuali-
tà diventa così il rispondere del pensiero al darsi dell’essere
come evento e non (più), poniamo, come actus purus, struttu-
ra eterna, idea platonica ecc. Questa ontologia è una ontolo-
gia nichilistica, nel senso che il suo contenuto non è altro che
la storia nella quale dell’essere come tale alla fine non ne è
più nulla. Es, das Sein, gibt. L’impersona(bi)lità del Sein, che
non è il soggetto che dà, ma che «si dà», avviene, implica
che la Gabe, il donarsi dell’essere, non è mai un «dato», ma
è un accadere, in cui chi riceve il dono entra in gioco come
attivo collaboratore e non come puro destinatario passivo.
Ontologia dell’attualità o tautologia dell’attualità? Dichia-
rare che la nostra attualità è de-finita dal fatto che l’essere
non si dà (più) a noi come struttura, oggettività, idea plato-
nica, ma come evento, comporta qualche contenuto che non
sia pura tautologia? Ma che oggi possiamo fare esperienza
dell’essere (solo) come evento non è puro arbitrio di qualcu-
no; è la storia che Nietzsche racconta come storia del nichi-
lismo, e che Heidegger rilegge e «rimemora» (Denken come
An-denken) come storia della metafisica. Il racconto della
(storia della) metafisica come nichilismo non è certo storia
«oggettiva», è anch’esso interpretazione, non presentazione
di «fatti». Si può argomentare l’esito nichilistico della storia
dell’essere ripercorrendone interpretativamente la storia; e
cioè, chiedendo il consenso degli interlocutori, in nome delle
stesse ragioni dello Heidegger di Sein und Zeit, non sentite
anche voi che la vostra esperienza della libertà è impensabi-
le entro la cornice dell’essere identificato con l’oggetto? Ma
potersi pensare liberi significa solo escogitare dei concetti
che descrivano più adeguatamente la libertà? Come si vede,
questa domanda non ha senso, come non aveva senso, già
per Sein und Zeit, criticare l’idea dell’essere come oggetto in
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nome di una idea che lo descrivesse più «adeguatamente»,


«rispecchiandolo» più «oggettivamente».
A questo punto, potrebbero non aver torto, lo dico para-
dossalmente, coloro che vedono la scelta nazista di Heidegger
nel 1933 come esito «logico» della sua filosofia. Certo era lo-
gico, e quasi inevitabile, che la Kehre, la svolta verso l’evento,
conducesse a un impegno storico-politico, e anche che questo
impegno fosse posto sotto il segno di un rifiuto della disuma-
nizzante civiltà industriale – capitalistica, che Heidegger (ma
non dimentichiamolo, anche Adorno e i francofortesi, allora
e più tardi) identificava con la società degli Stati Uniti. Ai
quali, non senza qualche buona ragione, accostava, in quanto
mossa dalla stessa spinta industrialistica, anche la Russia so-
vietica dell’epoca.
Pur avendolo seguito da Sein und Zeit alla Kehre, noi oggi
non faremmo la sua stessa scelta. Non ci sentiamo però di
giudicarlo come se fossimo a Norimberga – non ci sentiamo
di condannarlo in nome dell’umanità stessa, ponendo quelle
premesse che più tardi avrebbero giustificato i bombardamen-
ti «umanitari» della Nato su vari paesi del mondo in nome
del loro diritto-dovere a diventare «democratici». La doman-
da a cui nel 1933 Heidegger credette di dover rispondere
con il Discorso di Rettorato e la (peraltro temporanea) scel-
ta nazista resta ancora oggi aperta e con gli stessi elementi:
come ricordare l’essere, ossia come uscire dalla metafisica di-
venuta organizzazione totale del mondo, oggi molto più inat-
taccabile di allora perché assai più monolitica e, attraverso la
manipolazione dell’opinione pubblica (il dottor Goebbels era
un dilettante, in confronto), trasformata quasi in una seconda
natura della modernità? Problema extrafilosofico, rischio di
uscire dalla terraferma del nostro rispettabile (finora) mestie-
re? Ma se non questo, che cosa mai sarebbe il filosofare?
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Summary. Objectivity or Being-in-the-World

The alternative between «objectivity» and «being-in-the-world» can


be seen as the alternative between an art of philosophy that claims
to disregard from its historical context, and a art of philosophy that
assumes to be deeply ingrained in it. These different ways of un-
derstanding philosophy have important consequences both on the
ontological level – because in accordance with Heidegger «being» is
meant as «enowning», and ontology not as a science but as a «his-
tory of being» – and on the practical one – as being-in-the-world
entails a positive choice which anticipates any possible description
of what there is.

Keywords: Objectivity, Being-in-the-World, History, Choice, Ontol-


ogy.

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