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Atti dell’accademia
di scienze morali e politiche
Giannini editore
napoli 2009
Con il contributo della Regione Campania e del Ministero dei Beni Culturali
L’Editorial Board della rivista è composto da tutti i Soci ordinari delle due sezioni
dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche.
ISSN: 1121-9270
ISBN-13: 978-88-7431-475-1
Abstract. In this article, Thomas Mann’s Joseph und seine Briider is described as the contribution
to the foundation of a new kind of humanism: “nocturnal”, so to say, because able to reconcile
the faith in reason and progress with the attention to the dark sides of human life.
Analysing not only the biblical tetralogy, but also the many essays written about it from the
author himself, it seems to be clear that right through the character and story of Joseph (who
is blessed both from earth and sky, from body and spirit) Thomas Mann meant to represent
a possible solution to the crisis of european culture, setting against the theories of modern
fascism a new notion of myth and primitivity.
1
F. Cambi, Mito ed epicità, in T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, tr. it. di B. Arzeni, a cura e
con un saggio di F. Cambi, Mondadori, Milano, 2006, p. XII.
2
T. Mann - C. Kerényi, Dialogo, introduzione di G. Debenedetti, Il Saggiatore, Milano,
1963, p. 35.
3
Ibidem, p. 23.
6 Donatella Nigro
a Ur e il diluvio universale - che molti dei libri di maggior successo degli ultimi
decenni (“Mondo primigenio, saga e umanità di Dacquè, Lingua del Pentateuco
di Yahuda, La realtà degli ebrei di Goldberg, Totem e tabù di Freud, Posizione
dell’uomo nel cosmo di Max Scheler, gli stimolanti saggi di Gottfried Benn rac-
colti sotto il titolo Bilancio delle prospettive”) condividano, pur nella straordi-
naria varietà disciplinare e tematica, proprio il riferimento all’Ur, al problema
dell’origine dell’uomo e dell’originariamente umano.
“La domanda dell’uomo” – aggiunge Mann nel saggio Del libro dei libri e
«Giuseppe» – “donde provenga, dove vada, la domanda su quale sia la sua posi-
zione nell’universo, è diventata per noi tutti in questi decenni sconvolgenti un
pressante interrogativo spirituale e religioso, posto in modo del tutto nuovo, un
problema che può sottrarsi a ogni soluzione e destinato a restare un mistero,
ma a cui il pensatore, l’antropologo, lo studioso dell’antichità, il paleontologo,
il teologo, il filosofo della società, lo scrittore, ognuno alla sua maniera e con i
suoi mezzi si sente spinto a offrire il suo contributo fattivo4”.
Tra gli anni Venti e Trenta, in un’Europa ancora scossa dalla Prima Guerra
Mondiale e prossima alla Seconda, in un’atmosfera spirituale contrassegnata
dal sentimento della fine, dal tramonto dei vecchi valori e della tradizionale
visione del mondo, si impone infatti con forza la necessità di ripensare la cul-
tura occidentale. Non però, come pretende il pensiero irrazionalistico, per af-
fermare il primato dell’anima e della vitalità, bensì per rifondare su nuove basi
i princìpi, ormai ritenuti imprescindibili, di libertà, individualità e ragione. Per
fare ciò - suggerisce Thomas Mann in numerosi scritti di questo periodo, tutti
da leggersi anche nel contesto della tetralogia biblica - occorre rifarsi alla le-
zione di tre grandi “maestri di morale” come Schopenhauer, Nietzsche e Freud,
che osando oltrepassare le certezze convenzionali, hanno svelato, al fondo della
natura umana, le tenebrose sfere della volontà, del dionisiaco e dell’inconscio,
inaugurando, così, un nuovo tipo di umanesimo, “notturno”, poiché capace di
conciliare la luce del moderno razionalismo con la notte dell’anima e del mito.
Il Giuseppe e i suoi fratelli rappresenta, per non pochi aspetti, il contributo
manniano alla fondazione di un tale umanesimo. E non sorprende, dunque, che
proprio il tema dell’Ur costituisca il Grundakkord della Discesa agli inferi, ov-
vero del lungo e assai complesso prologo con cui si apre il primo volume della
tetralogia: Le storie di Giacobbe.
4
T. Mann, Del libro dei libri e “Giuseppe”, in Giuseppe e i suoi fratelli, op. cit., pp.758-759.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 7
In queste pagine, nel corso di una vera e propria riflessione filosofica sulla
natura del tempo e della storia, Thomas Mann ripercorre il passato della tribù
d’Israele: gli eventi mitico-storici del diluvio universale e della torre di Babele; la
vicenda di Abramo (esule, non a caso, dalla città di Ur in Caldea); l’età di Adamo,
il primo uomo, nel giardino dell’Eden; e infine la creazione stessa del mondo ad
opera di Dio che in principio era il Logos. Ma anche questo, si domanda l’auto-
re, “era poi davvero l’inizio dell’inizio, il vero principio?”. L’origine delle cose si
configura infatti come “l’inesplorabile” che “si diverte a farsi gioco della nostra
passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusori, dietro cui, appena
raggiunti, si aprono nuovi tratti del passato, come succede a chi, camminando
lungo le rive del mare, non trova mai termine al suo procedere, perché dietro
ogni sabbiosa quinta di dune, a cui si prefiggeva di arrivare, altre ampie diste-
se lo attraggono più avanti, verso nuovi promontori”. Ciononostante - continua
Mann - “ci sono inizi particolari e circoscritti che formano, concretamente e
fattualmente, la scaturigine prima della tradizione di una determinata comunità
o raggruppamento etnico e religioso, così che la memoria, pur consapevole di
non poter mai scandagliare l’ultima profondità, può presso questa scaturigine
acquietarsi6”, sottraendosi alla vertigine di una discesa senza fondo.
L’inizio provvisorio da lui prescelto è, per l’appunto, l’epoca del patriarca Gia-
cobbe e dei suoi dodici figli: uno stadio primitivo della storia in cui gli uomini non
hanno ancora chiaro il senso della propria individualità né la distinzione tra pas-
5
T. Mann, Le storie di Giacobbe, in Giuseppe e i suoi fratelli, op. cit., p. 5.
6
Ibidem, pp. 5-6.
8 Donatella Nigro
“L’io del vecchio - leggiamo infatti nelle Storie di Giacobbe - non sembrava
nettamente circoscritto ma stava, per così dire, come aperto indietro, verso
il passato, traboccava in un tempo anteriore, posto fuori dai limiti della sua
personalità, e così facendo si appropriava di un materiale di fatti e di espe-
rienze che nella forma della rievocazione e del ricordo, secondo la logica e la
grammatica, avrebbe propriamente richiesto la terza, non la prima persona.
Ma che cosa significa «propriamente» nel nostro caso? Forse l’io umano è
solidamente in sé chiuso, ermeticamente isolato nei suoi limiti temporali e
corporei? Molti elementi che lo costituiscono non appartengono al mondo
prima e fuori di lui e l’affermazione che ciascuno è solo se stesso non è forse
un’ipotesi fatta per comodità e per ordine ma deliberatamente ignara di tutti
i punti intermedi che congiungono la coscienza del singolo con la coscienza
universale? Il concetto di individualità rientra infine nella stessa sfera dei
concetti di unità, totalità e generalità. La distinzione tra spirito universale
e spirito individuale non ebbe sempre, nemmeno approssimativamente, la
stessa influenza e lo stesso valore che ha nel nostro tempo, dal quale ci sia-
mo allontanati per raccontare di un altro ormai remoto, il cui linguaggio
ci offre un’immagine fedele della sua profonda vita spirituale, quando per
l’idea di «personalità» e «individualità» lo vediamo usar parole semplici e
sobrie come «religione» e «fede»9”.
7
T. Mann, Il giovane Giuseppe, in Giuseppe e i suoi fratelli, op. cit., p. 40.
8
T. Mann, Le storie di Giacobbe, op. cit., p. 116.
9
Ibidem, pp. 116-117.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 9
10
T. Mann, Giuseppe in Egitto, in Giuseppe e i suoi fratelli, op. cit., p. 245.
11
Ibidem, pp. 244-245.
12
Ibidem, p. 240.
10 Donatella Nigro
tribunale dopo che avremo emesso l’ultimo respiro, questo non è affatto
importante. Importante è solo la questione dell’eone, e se le idee, in base a
cui viviamo, siano ancora all’ordine del giorno. Solo questo è importante,
dopo la necessità di saziarsi. Ma ora nel mondo è venuto il fatto nuovo che
io presentivo da tempo: il maschile vuole rompere il cordone ombelicale tra
sé e la vacca e porsi sul trono del mondo come signore sopra la materia, il
femminile-materno, per fondare il regno della luce13”.
Con l’evirazione del figlio primogenito, essi avevano dunque inteso propi-
ziarsi il nuovo eone spirituale, destinando Potifar all’avvenire splendido ma
vuoto di camerlengo del sole; e sua moglie, Mut-em-enet, a quello di casta sa-
cerdotessa della luna, costretta a sacrificare la sua natura innata di madre pri-
mordiale.
Come non cogliere in questo brano la presenza di motivi e suggestioni pro-
venienti dal pensiero bachofeniano?
Anche il filosofo di Basilea (come è suggerito in diversi studi recenti che
ne analizzano l’influenza sull’opera manniana14) aveva descritto infatti l’evolu-
zione dell’umanità quale passaggio dal regime matriarcale al predominio del
Padre; come trionfo, cioè, della luce dello spirito sulle oscure forze della vita.
E nel riprendere tale suggestione, Thomas Mann intende contrapporsi ai suoi
seguaci e riscopritori di inizio Novecento (Alfred Baeumler in testa) che, lungi
dal leggere in tale passaggio un progresso e un’evoluzione, indicano proprio
nel riferimento all’anima e agli istinti originari la via d’uscita dalla decadenza
contemporanea.
Già nel Rendiconto parigino del 1925, Mann contesta e smaschera nelle sue pro-
fonde implicazioni politiche l’introduzione baeumleriana alla nuova edizione degli
scritti di Bachofen (vero e proprio “libro nel libro” - come la definisce Paolo Chiari-
ni - che “forniva di quegli scritti una interpretazione ambiguamente seducente per
i suoi risvolti anti-classici e insieme post-romantici e post-nietzscheani15”).
13
Ibidem, p. 247.
14
Particolarmente in E. Galvan, Zur Bachofen-Rezeption in Thomas Manns “Joseph-Ro-
man”, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1997. Ma anche nell’opera a cura di M. Ba-
eumler, H. Brunträger e H. Kurzke: Thomas Mann und Alfred Baeumler. Eine Dokumentation,
Königshausen & Neumann, Würzburg, 1989.
15
P. Chiarini, Intersezioni weimariane: Thomas Mann e Johann Jakob Bachofen, in “Cultura
tedesca”, settembre, 1994, p. 62.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 11
to. Ma che sia una buona azione, cioè un’azione pedagogica, che giovi alla
vita, empir oggi le orecchie ai tedeschi con tutto questo entusiasmo di tipo
notturno, questo complesso «alla Goerres» di terra, popolo, natura, morte e
passato, questo oscurantismo rivoluzionario così acerbamente caratterizza-
to, con la muta insinuazione che tutto ciò è di nuovo all’ordine del giorno,
che siamo di nuovo a quel punto, che non si tratta tanto di storia quanto di
vita, di gioventù, di passato - ecco la domanda che rende inquieti16”.
16
T. Mann, Rendiconto parigino, in Scritti storici e politici, prefazione di A. Andersch, tr.
it. di B. Arzeni, C. Baseggio, M, Battaglia, L. Mazzucchetti, E. Pocar, L. Scalero, Mondadori,
Milano, 1957, p. 200.
17
P. Chiarini, Intersezioni weimariane: Thomas Mann e Johann Jakob Bachofen, op. cit.,
p. 66.
18
H. Koopmann, Der schwierige Deutsche. Studien zum Werk Thomas Manns, Max Nieme-
yer Verlag, Tübingen, 1988.
19
B. Croce, Il Bachofen e la storiografia afilologica, in Varietà di storia letteraria e civile. Serie
I, Bari, 1935, p. 302.
20
B. Croce, La filosofia del Bachofen in Conversazioni critiche. Serie IV, Bari, 1932, p. 66.
21
B. Croce, Il Bachofen e la storiografia afilologica, op. cit., p. 306.
12 Donatella Nigro
22
Ibidem, p. 307.
23
Ibidem, p. 303.
24
B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, 1978, p. 250.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 13
sizioni d’animo strane, certi appelli ad esperienze ineffabili (si pensi al Gemüt
che stringe in unità sentimentale il suolo e la razza, la razza e il sangue) non si
spiegano abbastanza con la storia del secolo XIX, e, in generale, con la storia
della civiltà nostra. Non si spiegano del tutto con tale storia la «bramosia di lon-
tane esperienze ataviche» in un Möser, in un Wagner o in un Bachofen, non si
dichiara completamente, per una mente aperta soltanto a esperienze europee,
la vibrazione d’accento che molti dotti tedeschi conferiscono al prefisso ur”.
Manca infatti un filo per la comprensione dell’ordito della contemporaneità, “e
il filo che manca è per l’appunto quello del cosiddetto mondo primitivo, di quel
mondo che oggi più che mai dà segni di presenza, simile a tradizione quasi ina-
ridita che rinverdisca, simile a linguaggio liturgico quasi obliato che ritorni in
piena evidenza alla memoria25”.
Se da un lato, si richiede dunque una correzione dello storicismo crociano
(che, avendo escluso dai suoi interessi l’indagine della preistoria, si è rivelato
incapace di comprendere la crisi spirituale della contemporaneità), è dall’altro
necessario rifarsi proprio alla lezione del Croce poiché, come leggiamo nell’in-
troduzione al Mondo magico (l’opera Leucesti-miama del 1948), solo un’auten-
tica “pietà storica verso l’arcaico” può costituire una valida “profilassi contro
l’idoleggiamento antistorico degli arcaismi26”.
Thomas Mann, da parte sua, pur se sedotto dalla discesa agli inferi e dalla
ricerca dell’Ur, condivide con Croce e de Martino la ferma opposizione alla “tor-
bida corrente” dei precursori del fascismo, colpevoli di aver abusato delle teorie
bachofeniane (ma anche nietzscheane), piegandole alle esigenze politiche del
momento.
Nel 1934 (due anni prima, Benedetto Croce gli aveva dedicato la sua Storia
d’Europa, scorgendo in lui non più un temibile scrittore della crisi, bensì un
compagno nella difesa della “nobiltà dello spirito”), scrive infatti a Carl Ke-
rényi:
25
Ibidem, pp. 12-13.
26
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Universale Bol-
lati Boringhieri, Torino, 2007, p. 5.
14 Donatella Nigro
E nello stesso anno, annota nel suo originale diario di viaggio Una traversata
con Don Chisciotte:
Cosa sia il mito fascista e quali siano le sue implicazioni politiche, Thomas
Mann lo chiarirà in alcune celebri pagine del suo ultimo grande romanzo, Il
Doctor Faustus: per l’esattezza, nel capitolo XXXIV, dedicato alla descrizione
del salotto monacense di Sixtus Kridwiss.
Siamo negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e il sen-
timento dominante - scrive Mann per bocca di Serenus Zeitblom, l’umanista - è di
trovarsi “al termine di un’epoca la quale non solo comprendeva il secolo decimo nono,
ma risaliva fino allo spirare del medio evo, alla rottura dei legami scolastici, all’eman-
cipazione dell’individuo, alla nascita della libertà, un’epoca che dovevo veramente con-
siderare quella della mia più ampia patria spirituale, l’epoca insomma dell’umanesimo
borghese29”. I valori e gli ideali di questa lunga epoca, considerati un tempo assoluti e
dunque eterni, sono ormai al tramonto, ritenuti sorpassati nel loro facile ottimismo. La
centralità dell’individuo, innanzitutto, messa in discussione a partire dalla prima guer-
ra mondiale (che, in quanto prima esperienza di “mobilitazione totale” - come scrive
Jünger nel suo Operaio - vede imporsi la nuova figura del tipo con la sua visione del
mondo radicalmente antiborghese). In secondo luogo, l’ideale della libertà, criticato
dai convitati del salotto Kridwiss in quanto concetto vuoto e contraddittorio, che per
sussistere ha bisogno di negare se stesso, rendendo gli altri schiavi. E infine la ragione,
27
T. Mann - C. Kerényi, Dialogo, op. cit., pp. 25-26.
28
T. Mann, Una traversata con Don Chisciotte, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di
A. Landolfi, con un saggio di C. Magris, Mondadori, Milano, 1997, pp. 826-827.
29
T. Mann, Doctor Faustus, tr. it. e introduzione di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1980,
pp. 414-420.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 15
30
Ibidem, p. 435.
31
T. Mann - C. Kerényi, Dialogo, op. cit., p. 121.
32
T. Mann, Freud e l’avvenire, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, op. cit., p. 1394.
33
Ibidem, p. 1394.
34
Ibidem, p. 1394.
16 Donatella Nigro
35
Ibidem, p. 1395.
36
T. Mann, Freud e l’avvenire, op. cit., p. 1395.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 17
mitica, retaggio di tutti, anche del carattere più indegno e più misero, ed
è una dignità naturale, perché deriva dall’inconscio37”.
37
Ibidem, pp. 1395-1396.
38
Ibidem, pp. 1393-1394.
39
Ibidem, p. 1397.
40
Ibidem, p. 1396.
41
Ibidem, p. 1397.
18 Donatella Nigro
pronunciate da Cristo sulla croce non sarebbero state, come nota Max Weber,
uno spontaneo urlo di dolore: “Quel suo «Eli, Eli, lamma sabactani?» non fu as-
solutamente, come poteva sembrare, un grido di disperazione e delusione, ma
al contrario la testimonianza della più alta consapevolezza messianica. Queste
parole non sono infatti «originali», non sono un grido spontaneo, ma il prin-
cipio del ventiduesimo salmo, che dall’inizio alla fine è un’annunciazione del
Messia. Gesù citava un passo della Scrittura e con ciò voleva dire: «Sì, io sono
quello!»42”.
Oltre a costituire l’imprescindibile fondamento teorico del Giuseppe e i suoi
fratelli (i cui personaggi - come già accennato - sono uomini ancora incapaci di
distinguere tra io e non-io, presente e passato, azione autentica e ripetizione mi-
tica), la psicoanalisi freudiana ha però un altro e ben più alto merito agli occhi di
Thomas Mann. Essa - leggiamo in Freud e l’avvenire - costituirebbe “quella forma
fenomenica dell’irrazionalismo moderno che si oppone inequivocabilmente a ogni
abuso reazionario43”; vera erede del Romanticismo, si rivela, al contempo, antira-
zionale e rivoluzionaria: da un lato, infatti, il suo interesse va alle sfere oscure della
psiche, a quell’Es che, pur restando in buona parte inconoscibile, ne costituisce la
porzione più vasta e profonda; dall’altro, invece, essa si pone un fine autenticamen-
te illuministico: definita dallo stesso Freud come “un nuovo tratto di terra strappa-
to dalla scienza alla superstizione e al misticismo44”, l’analisi dei sogni e delle ne-
vrosi mira infatti alla vittoria finale dell’intelletto sull’inconscio e alla costituzione,
dunque, di un nuovo “ordine vitale, assicurato dalla consapevolezza, fondato sulla
libertà e sulla verità”, che non si possa però “tacciare di serena superficialità” poi-
ché “passato attraverso troppe cose45”.
Sigmund Freud, che in questo scritto viene definito come “una delle pietre
angolari di quella nuova antropologia che ora si va in vari modi costruendo, e
quindi uno dei fondamenti dell’avvenire, asilo di una umanità più libera e sag-
gia46”, non è stato però il primo a tentare una conciliazione tra intelletto e istin-
ti: Mann lo reputa infatti “un autentico figlio del secolo degli Schopenhauer
[…] al centro del quale è nato47”. Certo, egli non ha letto nulla del filosofo della
volontà, né tanto meno ne ha conosciuto il più illustre discepolo: Nietzsche.
Ma nel pensiero di entrambi risaltano “a ogni passo lampi precorritori delle
42
Ibidem, p. 1398.
43
Ibidem, p. 1368.
44
T. Mann, Freud e l’avvenire, op. cit., p. 1403.
45
T. Mann, La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno, in Nobiltà dello spirito
e altri saggi, op. cit., p. 1375.
46
T. Mann, Freud e l’avvenire, op. cit., p. 1402.
47
Ibidem, p. 1384.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 19
48
Ibidem, p. 1380.
49
Ibidem, p. 1384.
50
T. Mann, Schopenhauer, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, op. cit., p. 1289.
51
Ibidem, p. 1290.
52
Ibidem, p. 1245.
53
T. Mann, Freud e l’avvenire, op. cit., p. 1386.
54
T. Mann, Schopenhauer, op. cit., p. 1248.
55
Ibidem, p. 1251.
20 Donatella Nigro
56
Ibidem, p. 1280.
57
Ibidem, p. 1259.
58
Ibidem, p. 1261.
59
Ibidem, p. 1291.
60
Ibidem, p. 1281.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 21
Nietzsche, a sua volta, “significa un passo avanti nel dolore, nel raffinamen-
to, nella modernità; specie in quel campo che come nessun altro lo rivela allievo
di Schopenhauer, vale a dire la psicologia61”. In lui, “nostro maestro morale62”
(come Mann lo definisce nella prolusione a un concerto in suo onore), la psi-
cologia rappresenta la prima delle passioni, tanto è vero che le sue più grandi
opere, Al di là del bene e del male e La genealogia della morale, si fondano sull’as-
serto psicologistico di Schopenhauer che “non è l’intelletto a creare la volontà,
ma viceversa”. Ciò che lo ha spinto a capovolgere tutti i valori, dimostrando che
quelli buoni derivano dai cattivi, e che i cattivi sono in realtà “nobili e vitali63”,
è proprio la scoperta che la vita (dominata dalla volontà) è superiore alla verità
(che è di pertinenza dell’intelletto e della morale), per cui compito del filosofo
sarebbe la difesa della vita contro coloro che, sia in nome degli ideali ascetici
promossi dalla religione ebraico-cristiana, sia del primato dell’intelletto soste-
nuto in Occidente da Socrate in poi, l’hanno indebolita facendo della storia oc-
cidentale un processo di graduale declino e degenerazione.
Tale interpretazione si spiega, secondo Thomas Mann, “storicamente, come
il prodotto di una situazione filosofica momentanea, come il correttivo di una
saturazione razionalistica64”. Ma essa contiene due valutazioni errate, da cui
sono dipese conseguenze fatali per la Germania e l’Europa intera. Da un lato,
Nietzsche ha ricondotto ad unità l’ascetismo religioso e il razionalismo mo-
derno, vedendo nel primo la culla del secondo; dall’altro, egli ha frainteso il
“rapporto di forza, regnante sulla terra, fra istinto e intelletto”. A differenza di
Schopenhauer e Freud, che descrivono fedelmente il commovente asservimen-
to della ragione alla forza irresistibile della volontà, egli si presenta quale pala-
dino della vita, dando a intendere che sia “necessario difendere la vita contro lo
spirito! Come se esistesse il minimo pericolo che la vita possa diventare troppo
spirituale!65”. Un pericolo del genere sarebbe in realtà auspicabile nell’epoca
contemporanea, in cui realmente la vita si prende ogni rivincita sulla ragione
e le sue superfetazioni; ma Nietzsche, questo, non ha fatto in tempo a vederlo.
Con il suo disgusto verso la democrazia, gli illuminismi, la morale e la religione
cristiana, egli ha posto involontariamente le basi per il sorgere dei fascismi: le
sue dichiarazioni guerrafondaie (secondo cui “rinunciando alla guerra si ri-
61
Ibidem, pp. 1288-1289.
62
T. Mann, Prolusione a un concerto in onore di Nietzsche, in Nobiltà dello spirito e altri
saggi, op. cit., p. 1293.
63
T. Mann, La filosofia di Nietzsche alla luce della nostra esperienza, in Nobiltà dello spirito
e altri saggi, op. cit., p. 1315.
64
Ibidem, p. 1320.
65
Ibidem, pp. 1320-1321.
22 Donatella Nigro
nuncia a vivere con grandezza66”), l’aspirazione alla barbarie (in cui la cultura
ha bisogno talvolta di reimmergersi, per acquistare nuovo vigore), le proposte
di una morale per medici (“che prescrive l’uccisione dei malati e la castrazione
dei minorati67”), le norme di igiene razziale, la necessità della schiavitù… tutto
ciò è stato assunto dalla teoria e dalla prassi fascista che, con il riferimento a
Nietzsche, si è ulteriormente legittimata. “Come ci appare legata al suo tem-
po, dottrinaria, inesperta, oggi, l’esaltazione romantica che Nietzsche fa del
male!” commenta Thomas Mann in La filosofia di Nietzsche alla luce della no-
stra esperienza. “L’abbiamo conosciuto in tutta la sua miseria, il male, e non
siamo più abbastanza esteti da temere di professare apertamente la nostra fede
nel bene e da vergognarci di concetti così banali e di guide così comuni come
verità, libertà, giustizia68”. Ciononostante, Nietzsche continua a costituire “una
delle esperienze fondamentali del nostro spirito, un’esperienza infinitamente
determinante e plasmatrice69”. Anche in lui, come in Schopenhauer, è presente
infatti il nesso di pessimismo e umanesimo: “Egli deve rassegnarsi ad essere
chiamato un umanista, così come deve tollerare che la sua critica della morale
venga intesa come un’ultima forma dell’illuminismo. La religiosità al di sopra
delle confessioni di cui egli parla, non so immaginarmela che legata all’idea
dell’uomo, come un nuovo umanesimo con un fondamento e un accento reli-
gioso che, dopo molte esperienze, dopo essere passato per molte prove, accolga
in sé, nel suo rispetto per il mistero dell’uomo, ogni conoscenza degli elementi
sotterranei e demoniaci. Religione è rispetto”, scrive Mann in calce al saggio
del’47. “Rispetto, prima di tutto, del mistero che è l’uomo70”.
Ed è proprio l’idea di una nuova religiosità, in cui al culto di Dio subentri
quello dell’uomo, ad occupare l’autore nell’ultimo decennio della sua vita, come
testimonia, tra l’altro, il fitto scambio epistolare intrattenuto con Carl Kerényi.
In una lettera del 1945, Mann riflette sul termine “umanista”: esso indica “il
custode e conservatore, premuto dalla necessità (custode e conservatore pure,
in fondo, malgrè lui) di comuni, tradizionali tesori dell’umanità europea, di un
retaggio che si tratta di salvare e trasportare da un mondo vecchio in uno nuo-
vo71”. In un’epoca di rivolgimenti politici e spirituali, anche l’umanesimo cam-
bia di segno e, da movimento tradizionalmente progressista, si fa conservato-
66
Ibidem, p. 1323.
67
Ibidem, p. 1327.
68
Ibidem, p. 1336.
69
T. Mann, Prolusione a un concerto in onore di Nietzsche, in Nobiltà dello spirito e altri
saggi, op. cit., p. 1293.
70
T. Mann, La filosofia di Nietzsche alla luce della nostra esperienza, op. cit., p. 1337.
71
T. Mann - C. Kerényi, Dialogo, op. cit., pp. 133-134.
L’umanesimo notturno del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann 23
72
T. Mann, Una traversata con Don Chisciotte, op. cit., p. 824.
73
T. Mann, Del libro dei libri e “Giuseppe”, op. cit., p. 762.
74
T. Mann, Goethe e Tolstoj, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, op. cit., p. 73.
75
Ibidem, p. 154
24 Donatella Nigro
figli dello spirito. […] L’importante è che nulla sia troppo facile. Dove manchi lo
sforzo, la natura è materialità rozza, lo spirito è inconsistenza e sradicamento.
Dove natura e spirito, l’uno rivolto alla nostalgica ricerca dell’altro, altamente
s’incontrano, là nasce l’uomo76”.
Come già accennato, è proprio col Giuseppe e i suoi fratelli che Thomas Mann
offre il suo contributo alla costituzione dell’umanesimo notturno. Giuseppe, in-
fatti, il doppiamente benedetto, rappresenta la sintesi ideale dei due opposti
principi dell’umano e il modello, quindi, di un’umanità futura che sappia final-
mente conciliare spirito e corpo, elevazione e profondità, passato e futuro. “La
tradizione” - leggiamo in uno dei punti cruciali di Giuseppe il nutritore - “viene
dal profondo, dalle regioni sotterranee, ed è l’elemento che ci vincola. Ma l’io
viene da Dio e appartiene allo spirito, che è libero. Si dà vita improntata a ci-
viltà allorquando nell’elemento modellante che ci vincola e viene dal profondo
si trasfonda la libertà divina dell’io e non vi è civiltà umana senza l’una e senza
l’altra77”.
La tetralogia di Giuseppe e la proposta, in essa avanzata, di un umanesimo
notturno, costituiscono, per certi versi, il culmine ideale nonché la conclusio-
ne di un complesso itinerario, politico e di pensiero. Un itinerario che, partito
dalle ben diverse posizioni delle Considerazioni di un impolitico, sarebbe poi
sfociato, col Doctor Faustus, in una rinnovata ma anche differente riflessione
sulla primitività e il primitivismo, ormai svuotati delle potenzialità soteriologi-
che che pur erano state loro attribuite rispetto alla figura di Giuseppe e al suo
mondo, e condannati infine, in anni molto propizi alle tenebre ma del tutto
impropizi per qualsivoglia umanesimo, a ispirare la colpa senza redenzione di
Adrian Leverkühn, della sua musica e del suo ambiente.
76
Ibidem, p. 118.
77
T. Mann, Giuseppe il nutritore, in Giuseppe e i suoi fratelli, op. cit., p.174.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 25
Abstract. The works of Croce on Francesco De Sanctis, now published by Teodoro Taglia-
ferri and Fulvio Tessitore, give to the scholars not only the opportunity for a new compara-
tive analysis on the Neapolitan historian and the critic from Irpinia, but also a necessary and,
from many points of view, privileged instrument to better understand Croce. By defming,
explaining and upholding De Sanctis’ theory of history, Croce defines, explains and upholds
his own theory of history which, by 1894, the latter regards, like De Sanctis, as a intimate,
moral and spiritual history. In other words, a history of Mankind, that in the course of time,
loses its eminently human character to get a theophanic condition.
* Se queste poche pagine sopportano il peso di una dedica, questa non può se non essere
per Aniello Finizio.
26 Maria Della Volpe
care, attraverso il De Sanctis di Croce, una via indispensabile, e sotto certi riguardi
privilegiata, per comprendere lo stesso Croce.
Nella preziosa e lunga introduzione che si legge nel primo dei due volumi in
cui si articola l’opera, Tessitore, infatti, ricordando la complessità del rapporto
Croce-De Sanctis e precisando che a nessuno dei suoi autori, neanche a Vico
o ad Hegel, Croce dedicò «tante cure» e «tanta costante attenzione», indica,
nonostante i molti contributi che conta la sterminata bibliografia crociana, un
nuovo percorso di ricerca. Che è, come egli scrive, «lo studio del rapporto tra
Croce e De Sanctis nel senso di indicarne l’evolversi, il successivo correggersi e
il non infrequente ritorno delle interpretazioni date da Croce dell’opera di De
Sanctis» (p. XIV). L’analisi ravvicinata e puntuale dei testi del filosofo napoleta-
no, consente allora a Tessitore di mostrare i «motivi originari» del desanctismo
crociano, che egli rintraccia nell’«hegelismo critico» di De Sanctis, che condur-
rebbe Croce a rifiutare l’idea della storiografia come passaggio da concetto a
concetto e a rivendicare il valore dell’individualità. Dopo un itinerario articola-
to e complesso, Tessitore conclude la sua analisi rintracciando in De Sanctis il
tramite attraverso cui Croce poté «avvertire la più rigorosa istanza storicistica
consacrata dalla rivoluzione gnoseologica della filosofia contemporanea» inte-
sa come «logica del concreto e del particolare» (p. XXXVII).
Accanto all’introduzione, sulla quale ancora molto ci sarebbe da dire ma di
cui ci sembra d’aver mostrato il nucleo concettuale fondamentale, nel primo
volume trovano posto una utile nota ai testi ed un ricco apparato critico in cui,
con pazienza, precisione e nota esperienza, Teodoro Tagliaferri assolve il non
facile compito di tracciare le coordinate bio-bibliografiche indispensabili per
comprendere i testi crociani ristampati, ordinati e riproposti nel secondo volu-
me dell’opera, e le modifiche, non di rado numerose, apportate da Croce ai testi
nella loro prima riedizione in volume.
In conclusione, dunque, gli Scritti su Francesco De Sanctis, come hanno au-
torevolmente sostenuto Dante Della Terza e Sergio Zavoli in occasione della
loro presentazione nella Biblioteca del Senato, sono uno strumento indispensa-
bile per indagare i molteplici volti di due classici capaci di vincere il tempo. E
proprio su uno di essi si articolerà l’analisi qui di seguito condotta1.
1
A proposito della genesi del rapporto Croce De Sanctis rimandiamo agli autorevoli studi
di F. Flora, Croce e De Sanctis, in AA.VV., Benedetto Croce, a c. di F. Flora, Milano, Malvasi,
1953, pp. 195-231; G. Contini, Croce e De Sanctis (1953), ora in Altri esercizi (1942-1971), Tori-
no, Einaudi, 1972, pp. 71-75; G. Savarese, Croce e De Sanctis (1967), ora in Primo tempo del De
Sanctis, Bologna, Patron, 1971, pp. 155-190; F. Tessitore, Introduzione a B. Croce, Scritti su
Francesco De Sanctis, a cura di T. Tagliaferri e F. Tessitore, 2 voll., Napoli, Giannini Editore,
2007, pp. XIII-XLV. La maggior parte degli interventi di Tessitore sul critico irpino sono con-
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 27
tenuti nel terzo volume dei Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 1997.
2
B. Croce, La critica letteraria. Questioni teoretiche (1919), in Scritti su Francesco De Sanctis,
cit., pp. 5-100, qui p. 58.
3
B. Croce, Prefazione al Saggio sul Petrarca (1907), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit.,
p. 202.
4
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), a c. di G.
Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 460. In questo caso rimandiamo all’Estetica e non al volume
degli scritti su Francesco De Sanctis in cui pure queste pagine sono raccolte, perché le parole
qui riproposte non vengono riportate nella prima edizione del 1902 ma vengono aggiunte nelle
edizioni successive a quella del 1908.
5
Cfr. B. Croce, Cultura e vita morale (1926), a c. di M. A. Frangipani, Napoli, Bibliopolis,
1993, p. 265.
6
B. Croce, La critica letteraria, cit., p. 58.
7
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis
(1913), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 252-264, qui p. 254.
8
E, di contro al mitologico gigante, Croce, in risposta al discorso inaugurale del Congres-
so di filosofia di Oxford, tenuto dal prof. Smith, scrive: «noi prendiamo le nostre forze non dal-
la terra, ma dal cielo» (B. Croce, Congresso di Filosofia di Oxford. Parole di risposta al discorso
inaugurale del Presidente prof. Smith, in Id., Epistolario I. Scelta di lettere curata dall’autore,
Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1967, pp. 162-163, qui p. 162).
9
B. Croce, L’innocenza e la malizia (1917), in B. Croce, Etica e politica (1931) a cura di G.
Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 166-171, qui p. 166. Sulla connaturalità del male alla na-
tura umana, Benedetto Croce, all’indomani della seconda guerra mondiale, tornerà a parlare
in uno scritto suggestivo ed inquietante del 1946: l’Anticristo che è in noi (B. Croce, Filosofia e
Storiografia (1949), a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 292-298). Pur tutta-
via già nel 1915, in pagine meno drammatiche e più serene di quelle appena ricordate, Croce
scrive: «Quegli individui inferiori sono insieme infelici, condannati alle sofferenze e ai castighi
o almeno alla privazione delle migliori gioie, e non sono essi che si sono fatti così, ma è l’or-
28 Maria Della Volpe
sé un «pover’uomo»10 sicché nessuno può credersi «puro tra gli impuri»11, è pur
vero però, che, come si legge in alcune pagine del 1939, gli uomini si distinguo-
no in «due razze»12, quella degli uomini intenti unicamente al loro particolare,
e quella degli uomini che sottendono la loro vita particolare a quella dell’uni-
versale. Al di là della provocatorietà di queste pagine in cui Croce sembra fare
il verso alle teorie razziali fascistiche, il rimando a due diverse stirpi di uomini
trova il suo fondamento nella distinzione dei due eterni momenti della sfera
pratica, l’«utile» e il «morale», che, sebbene presenti in ogni essere umano, tut-
tavia danno luogo alle diverse formazioni psicologiche che trovano loro com-
piuta espressione tipica nelle due progenie, il cui ruolo, nella storia, sembra
fisso e immutabile, al punto tale che di loro Croce può scrivere:
dine del mondo che così li ha voluti; e, così essendo, lavorano per noi e conferiscono a far noi
quello che noi siamo nei nostri aspetti e momenti migliori. Perciò del loro male siamo anche
noi in certo senso responsabili, noi che ne profittiamo, noi fatti della loro medesima sostanza
[…]. Perciò ciascuno di noi sta innanzi a essi pavido come innanzi all’infermo della malattia
che può colpire anche noi» (B. Croce, Lo spirito sano e lo spirito malato (1915), in B. Croce,
Etica e Politica, cit., pp. 62-71, qui pp. 70-71). Sull’importanza di questo saggio all’interno della
riflessione crociana cfr. D. Conte, Storia universale e patologia dello Spirito. Saggio su Croce, il
Mulino, Bologna, 2005, pp. 142-150.
10
B. Croce, L’ ombra del mistero (1940), in Il carattere della filosofia moderna (1941), a c. di
M. Mastrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 29-40, qui p. 36.
11
B. Croce, Personalità filosofica e personalità morale e identità di questa con l’opera (1947),
in Filosofia e storiografia, cit., p. 293.
12
B. Croce, Le due razze (1936), in Id., Dal libro dei pensieri, a cura di G. Galasso, Milano,
Adelphi, 2002, pp. 94-95, qui p. 94.
13
Ibidem.
14
Ibidem.
15
Il saggio, si ricorderà, è pubblicato nel 1936, così come il volume de La Poesia e quello
delle Vite di avventura di fede e di passione. Il 1936, come è noto, però, è anche l’anno del patto
tra l’Italia fascista e la Germania hitleriana, preceduto nel 1935 dalle leggi razziali di Norim-
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 29
schera d’uomo nelle cui mani le masse sono pronte, trepide o fanatiche, a
giurare obbedienza. Ma non solo. Essa non è neanche un’«anima-sostanza» o
una monade. Il ragionamento crociano, allora, pur seguendo problematiche
diverse, è mosso dall’esigenza di combattere da un lato il rischio dell’anima-
lizzazione e dell’annientamento della personalità, dall’altro il pericolo, insi-
to in concezioni sostanzialistiche della personalità, di sfociare in teorie non
solo irrazionalistiche ma anche trascendenti e misticheggianti della realtà.
Tuttavia, va qui detto, anche se solo brevemente, perché su questo tornere-
mo nel prosieguo del nostro discorso, che per il filosofo napoletano, le due
tipologie umane a cui sopra si è fatto riferimento, sono così create da Dio22.
Per ora, però, ci basti dire che per Croce non esistono le personalità, ma o la
vera «personalità morale» o la «persona vitale». Da un lato dunque, «profe-
ti», «santi», «martiri»23, «eroi della morale» che si innalzano «sul piacere e
sul dolore», che rinunciano «all’ubbia della beatitudine personale», che tro-
vano «appagamento nella gioia austera di partecipare, nella propria piccola
o grande parte, alla continua creazione del mondo»24; dall’altro eudemonisti
ed edonisti che servono la «vita organica» o «fisiologica» e il cui ideale è «il
benessere soggettivo»25.
Sotto questo riguardo allora, la storia si trasforma in gigantesco campo di
battaglia in cui «uomini umani» e «fiere» o «pezzi di macchina», «religiosi» e
«irreligiosi», «aristocrazia umana» e «volgo», l’uno di contro all’altro, si fron-
teggiano senza posa. Alla fine, però, sebbene i secondi siano i più e rappresenti-
no la quantità, mentre i primi sono più rari e rappresentano la qualità, saranno
proprio questi ultimi, avverte Croce, ad avere sempre ragione della quantità e a
piegarla ai propri fini26.
è ormai chiaro allora, il fatto che, quando Croce definisce De Sanctis uno
dei «rari moralisti» che l’Italia possiede27, un «educatore […] morale»28, un «ma-
estro di vita morale»29, così dicendo lo inserisce all’interno dello scontro tra le
22
B. Croce, Le due razze, cit., p. 95.
23
Si veda B. Croce, La Storia del Regno di Napoli (1925), a cura di G. Galasso, Milano,
Adelphi, 20052, p. 229; Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso,
Milano, Adelphi, 1991, p. 186.
24
B. Croce, Le due razze, cit., p. 95.
25
B. Croce, Lo storicismo e l’inconoscibile (1946), in Filosofia e storiografia, cit., p. 134.
26
B. Croce, Le due razze, cit., p. 95.
27
B. Croce, Prefazione al saggio sul Petrarca, cit., p. 201.
28
B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898), in Scritti su Francesco De
Sanctis, cit., pp. 139-171, qui p. 164.
29
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis,
cit., p. 254.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 31
due «razze» di uomini, eterno momento della storia. Che è poi sempre storia
dell’umanità.
30
B. Croce, De Sanctis-Gramsci (1952), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 574-575,
qui p. 576.
31
Ivi, p. 575.
32
B. Croce, Estetica, cit., p. 489.
33
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis,
cit., p. 252.
34
B. Croce, Prefazione ai «Primi Saggi» (1919), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp.
441-445, qui p. 442.
35
Ivi, pp. 442-443.
32 Maria Della Volpe
36
B. Croce, recensione a G. A. Cesareo, Storia della letteratura italiana a uso delle scuole
(1909), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 469-475, qui p. 470.
37
Cfr. B. Croce, Scritti varii, inediti o rari di Francesco De Sanctis. Prefazione (1898), in
Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 125-136, qui p. 128.
38
B. Croce, Per la storia del pensiero di Francesco De Sanctis (1912), in Scritti su Francesco
De Sanctis, cit., pp. 207-222, qui p. 208.
39
B. Croce, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale-scuola democratica. Prefa-
zione (1897), in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 103-122, qui p. 115.
40
Per quanto concerne il complesso problema della storia universale nell’ambito della
riflessione crociana rimandiamo al saggio di F. Tessitore, Croce e la storia universale, in Hu-
manistica. Per Cesare Vasoli, a c. di F. Meroi ed E. Scapparone, Firenze, Olschki, 2003, pp. 369-
388, e al volume di D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, cit. A
proposito della questione della storia universale si veda inoltre F. Tessitore, Il senso della storia
universale. Dalla filosofia della storia alla storia universale: il problema della storia tra tardo Set-
tecento e primo Novecento, Milano, Garzanti, 1987 e D. Conte, Storicismo e storia universale.
Linee di un’interpretazione, Napoli, Liguori, 2000.
41
è importante qui cercare di comprendere, anche se solo brevemente, il perché della insisten-
za con cui il filosofo napoletano definisce De Sanctis non solo grande storico della letteratura, ma
anche e primariamente storico. Per Croce, come è noto, la storia non si divide in «circoli», essa è
sì sempre storia «artistica», «politica», «morale» e «filosofica» ma mai «storia generale», tuttavia,
per lui, pensare un aspetto della storia è «pensarne insieme tutti gli altri», perché ciascuna storia
«ha in sé l’unità dello spirito». Che è poi, quanto Croce, in termini più espliciti, scrive nel 1894 nel
quarto capitolo del volume La critica letteraria. Questioni teoretiche, intitolato «Di alcune questioni
particolari concernenti la storia letteraria». Qui, sin da subito, il discorso sulla possibilità o meno
della storia letteraria viene congiunto con quello sulla possibilità o meno di ogni storia, che, scrive
il filosofo napoletano, «non si può negare». Il significato della storia letteraria così, viene intima-
mente congiunto con quello della storia in generale che, a sua volta, avverte Croce, non va confusa
con le «pure» e «semplici» «fantasticherie» della filosofia della storia. La storia, e dunque con essa
la storia letteraria, infatti, ha in sé stessa «la sua spiegazione e la sua giustificazione». Essa così «si
fa con un sol metodo»: «raccogliendo, vagliando e interpretando i fatti».
42
B. Croce, Di un giudizio intorno all’opera letteraria di Francesco De Sanctis (1894), in
Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 57-69.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 33
«è stato spesso detto che nelle opere del De Sanctis sia deficiente
la “parte storica”: cosa vera soltanto quando si prende la parola storia
in senso affatto materiale ed esteriore; ossia quando si chiami storia la
copia di fatti minuti, di nomi, di titoli, di date, e si confonde, insom-
ma, la storia col repertorio o dizionario storico. Ma con un concetto più
vero e più elevato della storia, il De Sanctis apparirà, quale fu, storico di
prim’ordine»43.
Egli, infatti, continua Croce, coltivò il «concetto più vero e più elevato della
storia»44, interessandosi «alle parti più notevoli di quella che si chiama mate-
ria storica»45. De Sanctis sapeva cioè coglierne i «fatti capitali e dominanti»46, i
«tratti salienti e caratteristici»47. Nella sua Storia della letteratura italiana narrò
così «la storia dei grandi moti ideali e delle grandi personalità»48. Il suo «sguar-
do d’aquila»49 gli permise dunque di liberarsi «da quei convenzionali legami
cronologici che rendono schiavi i deboli»50. Egli inoltre era mosso dalla consa-
pevolezza che la storia non si fa solamente con i «documenti materiali», ma
anche e «principalmente, coi documenti che noi conserviamo nel nostro spirito
e coi quali i primi vengono interpretati e rischiarati»51.
E sono parole queste di non poco conto per l’interprete interessato a seguire il
percorso che dalla teoria desanctisiana della storia porta a quella crociana. Insieme
con esse, inoltre, vanno lette, perché per certi versi loro ideale completamento, le
pagine di poco successive della Memoria del 1898, intitolata «Francesco De Sanctis
e i suoi critici recenti»52, in cui, ad un anno dalla pubblicazione da parte di Croce
del volume postumo desanctisiano sulla Letteratura italiana nel secolo XIX, il filo-
sofo napoletano prende la parola contro le critiche che da più parti gli si levarono
contro. Al Bertana, al de Lollis e al Carducci che accusavano De Sanctis di essere
uno «scarso espositore di fatti»53, di non avere un «saldo fondamento storico»54, di
aver tentato, «con l’applicare alla letteratura i concetti essenzialmente politici di
43
Ibidem.
44
Ibidem.
45
Ivi, p. 63.
46
Ivi, p. 62.
47
Ivi, p. 64.
48
Ivi, p. 62.
49
Ivi, p. 64.
50
Ibidem.
51
Ibidem.
52
B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898), in Scritti su Francesco De
Sanctis, cit., pp. 139-171, qui p. 139.
53
Ivi, p. 143.
54
Ivi, p. 144.
34 Maria Della Volpe
55
Ivi, p. 152.
56
Ibidem.
57
Ivi, p. 163.
58
Ivi, p. 141.
59
Ivi, p. 143.
60
Ivi, p. 164.
61
Ivi, p. 155.
62
Ivi, p. 143.
63
Croce, Di un giudizio intorno all’opera letteraria di Francesco De Sanctis, cit., p. 63.
64
Ivi, p. 62. Cfr. anche B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, cit., p. 142.
65
A proposito del concetto crociano di storia dell’umanità ci sia consentito di rimandare
al nostro saggio intitolato Teofanie e «vera storia dell’umanità» in Benedetto Croce, in «Archivio
di storia della cultura», 2008, pp. 285-339.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 35
«la storia che il De Sanctis aveva data della letteratura italiana»66. Così si legge
nelle primissime pagine del primo paragrafo, intitolato «La storicità di un libro
di storia», della Storia come pensiero e come azione.
è significativo che il libro del 1938, proprio quello dedicato alla storia, il
libro, cioè, in cui Croce chiarisce e, per certi versi, ridefinisce i princìpi della
sua teoria della storia, si apra sotto il segno di De Sanctis, innalzato finanche al
di sopra di Ranke e Burckhardt definiti invece, nel terzo capitolo, storici senza
problema storico67. Qui, come è noto, Croce afferma che un libro di storia non
va giudicato secondo la sua forma letteraria o secondo il numero e l’esattezza
delle notizie che offre, e neanche secondo la sua capacità di scuotere l’imma-
ginazione, di commuovere o di incuriosire68, ma unicamente secondo la sua
«storicità»69. Che è atto di comprensione e di intelligenza e che nasce da un
«bisogno della vita pratica»70. Sicché tutte le storie di tutti i tempi e di tutti i
popoli71 sono nate per gettare luce sulle «nuove oscurità»72 che la vita, di volta
in volta, ha posto.
Un vero libro di storia allora, così come Croce lo intende, riesce ad aprire le
porte della distanza e a tramutare il muto passato in eloquente storia. Definito,
dunque, il criterio a partire dal quale il filosofo napoletano giudica la storicità
di un libro di storia, resta ora da capire perché proprio il libro del De Sanctis
ne assurga a modello.
In più di un cinquantennio, Croce definisce la Storia della letteratura italiana
del De Sanctis come «vera storia intima dell’Italia»73 in cui è narrato «il ‘cammi-
no ideale della storia’»74. De Sanctis, infatti, precisa Croce, non cedendo ad una
«concezione meschina della storia», e non abbandonando «i problemi grandi
ed intimi» in nome dell’«erudizione minuta»75, scrive «la più libera di tutte le
storie», in cui è rappresentato «tutto il dramma della vita italiana»76.
66
B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), a c. di M. Conforti, con una nota
al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 9.
67
I capitoli dedicati a Ranke e Burckhardt rientrano nella sezione de La storia come pen-
siero e come azione intitolata «La storiografia senza problema storico», pp. 59-81.
68
Ivi, p 11.
69
Ibidem.
70
Ibidem.
71
Ivi, p. 12.
72
Ibidem.
73
B. Croce, Di un giudizio intorno all’opera letteraria di Francesco de Sanctis, cit., p. 62.
74
B. Croce, Per la storia del pensiero di Francesco De Sanctis, cit., p. 217.
75
B. Croce, Francesco de Sanctis e i suoi critici recenti, cit., p. 167.
76
B. Croce, Francesco De Sanctis e il pensiero tedesco (1912), in Scritti su Francesco De
Sanctis, cit., pp. 243-248, qui pp. 247-248.
36 Maria Della Volpe
77
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis,
cit., p. 251.
78
Ibidem.
79
Ibidem.
80
Ibidem.
81
Ivi, p. 255.
82
Ivi, p. 260.
83
Ivi, p. 253.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 37
84
Ivi, p. 254.
85
Ivi, p. 256.
86
B. Croce, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale-Scuola democratica. Prefa-
zione (1897), in Scritti su Francesco de Sanctis, cit., pp. 104-122, qui p. 108.
87
Ivi, p. 111.
88
B. Croce, Prefazione a una traduzione inglese della storia letteraria del De Sanctis (1931),
in Scritti su Francesco De Sanctis, cit., pp. 421-423, qui p. 422.
89
B. Croce, Storia della letteratura italiana. Nota bibliografica, in Scritti su Francesco De
Sanctis, pp. 225-239, qui p. 233.
90
B. Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 50.
91
B. Croce, Teoria e storia della storiografia cit., p. 91.
92
B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, cit., p. 320.
93
B. Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 229.
38 Maria Della Volpe
94
B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, cit., p. 168. Il maiuscoletto è di
Croce.
95
F. De Sanctis, La Scuola Democratica, in Id., La letteratura italiana nel secolo XIX, a cura
di F. Catalano, 2 voll., Bari, Laterza, 1953, pp. 325-336.
96
Ivi, p. 333.
97
F. De Sanctis, Opere, a cura di C. Nuscetta, Toino 1979, vol. XVI, pp. 201-203.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 39
98
Ivi, vol. XV, pp. 97-98.
99
F. De Sanctis, La Scienza e la Vita (1872), in Id., Saggi Critici, a cura di L. Russo, 3 voll.,
qui vol. III, Bari, Laterza, 1957, pp. 140-162, qui p. 146.
100
Ivi, p. 145.
101
Ibidem.
102
Ibidem.
103
Ivi, p. 143.
104
Ibidem.
105
Ivi, p. 143.
40 Maria Della Volpe
«La nostra vita» – scrive infatti De Sanctis – «è a pezzi, a ritagli, con mol-
to di nuovo nelle parole, con molto di vecchio nei costumi e nelle opere»108.
106
Ivi, p. 144.
107
Ibidem.
108
Ivi, p. 159.
109
Ivi, p. 161.
110
Ibidem.
111
Ivi, p. 141.
112
Ivi, p. 158.
113
Ivi, p. 161.
114
B. Croce, Rileggendo il discorso del de Sanctis sulla ‘Scienza e la Vita’ (1924), in Saggi su
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 41
poco conto nei confronti del discorso desanctisiano, il pensiero non può essere
disgiunto dalla vita perché lo stesso «sangue circola in tutto l’organismo»115 e
dove c’è pensiero, c’è morale, c’è azione, c’è arte, sana, energica, buona, come
quello stesso pensiero. Precisa, infatti, Croce:
«Ai nostri desideri e sogni non soccorre il nostro pensiero con l’azione
che l’accompagna, ma il nostro stesso desiderare e sognare o, se così pia-
ce, invocare: invocare con quella intensa fede che, picchiando e picchian-
do, si vede alfine aperta la porta, o che talvolta è costretta a rassegnarsi,
perché Dio non vuole che quella porta le s’apra almeno per allora. [so-
vente si fa] Confusione tra la parte che tocca all’uomo e quella che tocca
a Dio, tra quella che è dell’individuo e quella che è del corso delle cose o
della storia, alla quale si collabora ma che non si lascia comandare. […].
Volete una grande Italia. E se la storia la volesse invece piccola? Volete
nuovi poemi pari a quelli di Dante, nuovi drammi pari a quelli dello Sha-
kespeare, nuove pitture pari a quelle di Michelangelo. E se la storia vi
consentisse solo brevi liriche e pagine di prosa e quadretti e miniature?
Che cosa, o piccoli uomini, con la vostra stessa volontà opporreste a que-
ste disposizioni della Provvidenza? Meglio chinare la fronte alla potenza
che ci guida e ci soverchia»117.
Per Croce, dunque, il nesso tra pensiero e azione è inviolabile poiché, se così
non fosse, non solo andrebbero in frantumi i pilastri della terra, ma l’ordine
stesso del cosmo andrebbe perduto. Scienza e vita allora non sono l’una di con-
tro all’altra, sibbene la forza dell’una è quella dell’altra, la sanità della prima va
di pari passo con quella della seconda. Vi sono sì tempi bui, barbarici, di crisi;
tempi finanche demoniaci in cui le furie si abbattono sulla terra, ma il pensiero,
la morale, l’azione, l’arte, serbate nel petto di chi per lei vita rifiuta, continue-
ranno a vivere e a progredire; tempi in cui l’uomo potrà fare solo come chi sta
dinanzi ad una porta chiusa: invano egli si agiterà se il suo moto non asseconda
quello della superiore forza delle cose.
De Sanctis e Croce allora, avvertono la crisi che, in anni diversi e in diver-
si modi, corrompe gli animi, guasta i cuori e, tutti e due, ad essa oppongono,
per contrastarla, una rigenerazione delle forze morali e un rinnovamento dello
spirito religioso. Nondimeno essi sono animati da una fede e dunque da una
religione diversa: mazziniana e risorgimentale quella del primo, goethiana118 e
provvidenzialistica, potremmo dire, quella del secondo.
La religione, nella prospettiva crociana, non è infatti risolvibile nella fami-
glia, nella patria, nell’umanità, nella libertà, nella giustizia, ma è «innalzamento
all’Eterno»119. Essa penetra e compenetra tutta quanta la vita. Senza di lei le
scienze positive languirebbero, inaridirebbero120; le lotte politiche e sociali non
avrebbero impulso né alimento; la «verità», la «bellezza», le opere del «pen-
siero» e della «fantasia» abbandonerebbero la terra121. Essa, infatti, è poesia,
eroismo, coscienza dell’universale122. è accordo di «mente» e di «animo». è
«sanità» e «vigoria». è «cultura»123. è «aristocrazia»124. La religione, dunque,
117
Ibidem.
Croce, facendo sue le parole di Goethe, scrive che: «“Il tema proprio, unico e profondo
118
della storia del mondo e dell’uomo, il tema al quale tutti gli altri sono subordinati, consiste
nel conflitto della fede con la miscredenza”», in B. Croce, Storia economico-politica e storia
etico-politica, cit., p. 328.
119
B. Croce, L’intellettualità (1921), in Etica e politica, cit., pp. 226-229, qui p. 228.
120
Ibidem.
121
Ivi, p. 227.
122
Cfr. B. Croce, Religiosità (1922), in Etica e politica, cit., pp. 243-246, qui p. 246.
123
B. Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 210.
124
B. Croce, Religiosità, cit., p. 244.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 43
«[…] ogni individuo sente che l’opera sua è un’opera a lui commessa,
che la forza sua gli viene prestata; e, nei momenti nei quali par quasi che
la sua vita sia sospesa o inaridita, invoca e aspetta che l’Eterno Padre, il
Tutto, rifluisca in lui, lo rianimi, lo spinga a un segno: e prega, invoca e
aspetta la Grazia»129.
Parrebbe qui, che Benedetto Croce rivolga lo sguardo al Dio Padre che è nei
cieli. Pur tuttavia basta poco per capire che l’atmosfera è di tutt’altro segno.
«Dio», «Grazia», «Provvidenza», scrive Croce, sono solamente metafore che,
solo se non intese rettamente, comportano dualismo e trascendenza130. Non si
tratta, qui, dunque, di forze estranee, ma «dell’eterno respiro»131 di un’unica
forza. Croce non vuole riproporre il vecchio dualismo, ma l’eterna «dialettica
dello spirito nella varietà ed unità delle sue forme»132.
Ma solo di metafore si tratta in realtà? «Dio», «Grazia», «Provvidenza» sono
dunque solo parole, formule, immagini che la filosofia conserva come semplice
«blasone di nobiltà»133? Chi fa la storia? Chi la guida? Chi la orienta?
Alessandro, Cesare, Napoleone furono artefici delle loro imprese? e Plato-
ne, Dante, Michelangelo furono autori delle loro opere sublimi? Né gli uni, né
gli altri lo furono, scrive Croce in un saggio del 1925 intitolato «L’individuo e
125
Ibidem.
126
Ivi, p. 245.
127
B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, cit., p. 330.
128
B. Croce, L’individuo, la Grazia e la Provvidenza, in «La Critica», 1920, pp. 123-127. Per
il prosieguo si citerà da questa edizione. Lo stesso saggio però, è stato riproposto da Croce in
Etica e politica, cit., pp. 132-135.
129
B. Croce, L’individuo, la Grazia e la Provvidenza, cit., p. 124.
130
Ivi, p. 126.
131
Ivi, p. 124.
132
Ivi, p. 126.
133
Ibidem.
44 Maria Della Volpe
VI. Conclusioni
134
B. Croce, L’individuo e l’opera (1925), in Etica e politica, cit., pp. 140-144.
135
Ivi, p. 140.
136
Ivi, p. 141.
137
Ivi, p. 142.
138
B. Croce ad E. Marroni, lettera del 17. 11. 1919, in Epistolario I, cit., p. 38.
139
B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 17.
140
Ivi, p. 42.
141
Ivi, p. 162.
142
B. Croce, Storia economico- politica e storia etico-politica, cit., p. 328.
143
B. Croce, Esperienze storiche attuali (1948), in Filosofia e storiografia, cit., pp. 306-312,
qui p. 309.
144
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis,
cit., p. 253.
In margine alla recente pubblicazione degli scritti di B. Croce su F. De Sanctis 45
del Risorgimento da cui egli, però, non poco ebbe da imparare145. È proprio
pensando a De Sanctis, infatti, come si è cercato di mostrare sopra attraverso
l’analisi del volume crociano sugli scritti di Francesco De Sanctis, che Croce
definisce la storia come storia morale, intima, spirituale, una storia che, dinan-
zi alle nuove istanze, ai nuovi bisogni del vivo presente, prende poi il nome di
storia etico-politica. Che è, come Croce scrive in più di un luogo, la vera storia
dell’umanità. Storia morale, questa, ma anche e soprattutto storia religiosa i cui
protagonisti ed eroi non sono quelli delle altre storie. Gesù di Nazareth e Paolo
di Tarso, Lutero e Mazzini in essa risaltano più di un Augusto e di un Tiberio,
di uno Shakespeare e di un Rosmini.
Per quanto, dunque, programmaticamente aliena da qualsivoglia contami-
nazione con la filosofia della storia e con la storia universale, la crociana storia
dell’umanità – che non è storia particolare, speciale, ma vera storia, storia per
eccellenza - finisce però col fondersi e confondersi con queste. Essa, infatti,
così come Croce la pensa, investe non solo la sfera umana ma il cosmo tutto, al
punto tale che, con l’incalzare degli anni e degli eventi, si configura sempre più
come scontro tra forze cosmiche: bene e male, luce e tenebre. Sicché, rompen-
do ed erompendo dagli argini delle storie nazionali e da quelli stessi dell’uma-
nità, essa si eleva al rango di storia teofanica.
La storia desanctisiana allora, pur essendo storia morale, intima, appare,
dinanzi alla crociana storia dell’umanità, come una microscopica isola.
Alla fine del nostro discorso, però, non possiamo non rilevare che nonostan-
te le critiche e le prese di distanza, De Sanctis resta per Croce l’amato maestro.
Amato con quell’amore di chi sa che «amare è […] conoscere i limiti della cosa
amata»146.
145
B. Croce, Errori ‘di fatto’ ed erroti ‘di concetto’nella critica desanctisiana (1952), in Scritti
su Francesco De Sanctis, cit., pp. 577-580, qui p. 580.
146
B. Croce, La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX: Francesco De Sanctis,
cit., p. 258.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 47
Abstract Reinhard Lauth exposes the ideal connection that ties the philosophical approach of
Descartes, Kant and Fichte in different places of his works and in special way in a monograph
devoted to the French philosopher: Descartes. The conception of the system of the philosophy.
In these pages the author develops the thesis of a continuity of the transcendental philosophy
beginning from Descartes up to Fichte, passing for Kant and Reinhold. It underlines as in the
French philosopher there is not only the origins of that that it then will be the transcendental
philosophy, but that, indeed the transcendental turn, necessary to the “Copernican revolution” of
Kant, mature, knowingly or less, really with Descartes. In these pages I intend to verify the legiti-
macy de iure of a theoretical position that is set de facto to the base of a certain type of historical-
conceptual reconstruction of the thought of the French philosopher.
Reinhard Lauth1 espone il nesso ideale che lega l’approccio filosofico di De-
scartes, Kant e Fichte in diversi luoghi2 delle sue opere e in special modo in una
1
Qualche breve notizia a proposito della figura di R. Lauth, massimo animatore della “Scuola
di Monaco” è sicuramente doverosa nel ricordo, a due anni dalla sua dipartita. R. Lauth nacque
l’11 di agosto del 1919 a Oberhausen, dove realizzò i suoi studi secondari dal 1930 al 1938. Dopo
la seconda guerra mondiale studiò Filosofia, Romanistica e Fisiologia dal 1938 al 1942 simultane-
amente agli studi di Medicina. In questa materia si laureò nel 1944 presso l’Università di Kiel. Nel
1948 ottenne la Cattedra di Filosofia a Monaco. Aveva realizzato allora due lavori: La domanda sul
senso dell’esistenza, pubblicato nel 1950 in Monaco, e La Filosofia di Dostoivewski, anch’esso pub-
blicato a Monaco lo stesso anno. Il suo mentore fu Alois Wenzl. Dall’aprile del 1955 fu professore
universitario di Fondamenti della Filosofia presso l’Università di Monaco, dal 1968 a Tel Aviv ed a
Gerusalemme. Nel 1975-76 ha tenuto corsi all’Università di Parigi, conferenze al Collège di France,
e presso l’Accademia delle Scienze Sociali di Beijing. Da allora ha impartito la sua docenza in mol-
te altre Università. Dal 1961 assunse la direzione dell’edizione critica delle opere di Fichte presso
l’Accademia Bavarese delle Scienze. Ha pubblicato 31 dei volumi di quest’opera storico-critica, ed
è stato il responsabile di importanti incontri scientifici sull’opera di Fichte dal 1977. Nel mondo
filosofico Lauth è universalmente conosciuto come il filosofo trascendentale che assume e svolge
con straordinario rigore gli assunti fondamentali della dottrina di Fichte (quel Fichte del quale è
anche impeccabile editore), e prima ancora di Descartes e di Kant. In tal senso la linea Descartes-
Kant-Fichte offre il retroterra e la concettualità specifica della prospettiva sistematica della filosofia
trascendentale di Lauth.
2
Cfr. R. Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di M. Ivaldo, Trauben, Torino 2004; Id.,
48 Salvatore Principe
Descartes- La concezione del sistema della filosofia, a cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Mi-
lano 2000; Id., Transzendentale Entwicklungslinien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski,
Meiner, Hamburg 1989; Id., Zur Idee der Transzendentalphilosophie, Pustet, München u. Salz-
burg 1965; Id., Vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, Ars Una,
München 1994. Circa l’interpretazione cartesiana di Lauth si veda la puntuale esposizione for-
nitane recentemente in T. Valentini, Sistema di filosofia trascendentale e fondamenti conoscitivi
degli oggetti d’esperienza. Reinhard Lauth interprete di Descartes, in A. Allegra e G. Marchetti (a
cura di), Le forme dell’oggetto. Percorsi della rappresentazione nella filosofia moderna, Morlacchi
Editore, Perugia 2007, pp. 23-61.
3
Si ricorderà in tal proposito la distinzione notevole avanzata da Cassirer tra “Spirito di
sistema” e “Spirito sistematico” (Cfr. E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung). Sia Descar-
tes che Kant ci sembrano orientati verso quest’ultimo, mentre espresso intento di Fichte è
invece quello di costruire un sistema che sia a fondamento della scienza in generale, appunto
la Dottrina della Scienza (Cfr. prima lezione della Dottrina della Scienza seconda esposizione
del 1804).
4
Cfr. M. Gueroult, Descartes selon l’ordre des raisons, 2 voll., Aubier, Paris 1968.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 49
5
Cfr. F. Bader, Die Ursprünge der Transzendentalphilosophie bei Descartes, 3 voll., Bouvier,
Bonn, 1979.
6
Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. a cura di F. Costa, RCS Libri, 1996.
7
R. Lauth, Descartes- La concezione del sistema della filosofia, cit., p. 11.
8
Ivi, p. 189.
50 Salvatore Principe
momenti dello sviluppo aurorale della filosofia trascendentale nell’ottica del le-
game Descartes, Kant, Fichte e che, al contempo, operi in quanto tale una rein-
terpretazione complessiva della filosofia cartesiana; una interpretazione che
non si pone semplicemente come tale ma che tende ad una profonda autolegit-
timazione. E, tuttavia, ciò che mi pare Lauth lasci come assunto in via prelimi-
nare senza alcuna legittimazione di diritto di una pretesa che di fatto si trova
sullo sfondo di tutta la sua trattazione (così come vorrebbe l’approccio stesso
della filosofia trascendentale) è il fatto stesso che si possa dire Descartes filosofo
trascendentale, se non altro perchè mai il filosofo francese ha utilizzato questo
termine nei suoi scritti né per descrivere la sua filosofia né tantomeno in riferi-
mento ad altri9. La tesi su menzionata del fondamento del nesso nell’approccio
trascendentale alla filosofia in generale è, infatti, da Lauth lasciata sullo sfondo
ad ogni mentre della sua interpretazione quasi a criterio di intendimento di un
certo modo di concepire la filosofia come sistema. Varrebbe a dire che il nesso
fra i tre sussisterebbe nella loro idea della filosofia quale sistema sviluppantesi
secondo un tipo di approccio alla filosofia che è da definirsi trascendentale. Il
punto è che in tal caso Lauth avrebbe dovuto chiarire adeguatamente la que-
stione dell’approccio o prospettiva trascendentale in Descartes e di riflesso negli
altri due, con la conseguenza che sarebbe risultato superfluo sottolineare il le-
game fra i tre in base alla loro idea della filosofia come sistema. Questa, invece,
come lo stesso Lauth osserva sul finire del libro, risulta in Descartes solo accen-
nata e non completamente espressa10; affermazione con la quale ad un tempo
sta e cade l’impianto teorico giustificativo che Lauth aveva voluto edificare sin
dall’inizio del libro nella sua ricostruzione della filosofia cartesiana alla luce del
suo presunto legame ideale con “l’idea della filosofia come sistema” in Kant e
Fichte. Ciò che qui è in questione non è la reinterpretazione in un ottica di fi-
losofia trascendentale della filosofia cartesiana quanto la legittimazione di una
tale operazione. Ciò che Lauth attua è la diretta reinterpretazione della filosofia
cartesiana con un significativo risultato di rilevante incremento ermeneutico
che amplia positivamente gli orizzonti concettuali di aspetti fondamentali della
filosofia cartesiana. Il punto è che lo fa senza legittimare preliminarmente que-
sta sua posizione, destinata altrimenti a risultare storiograficamente e interpre-
tativamente poco adeguata e anzi foriera di fraintendimenti; cosa che per altro
l’analisi di Lauth non fa, apportando anzi notevole chiarezza in punti nodali del
9
Ivi, p. 356.
10
Ivi, pp. 379-381; p. 386.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 51
11
Ivi, p. 239 e sgg.
12
Ivi, p. 317 e sgg.
13
Ivi, p. 283 e sgg.
14
I. Kant, Critica della ragione pura, tr. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, La-
terza, Roma-Bari 2000, p. 48.
52 Salvatore Principe
«Per poco che voglia riflettere, ciascuno può rendersi conto e vedere
che assolutamente ogni essere presuppone un pensiero o una coscienza
dell’essere stesso; che, di conseguenza, il semplice essere è sempre sol-
tanto una metà di cui l’altra metà è il pensiero di esso, quindi è il mem-
bro di una disgiunzione originaria e situata più in alto che svanisce sol-
tanto per chi non rifletta o pensi superficialmente. L’unità assoluta può
essere posta altrettanto poco nell’essere quanto nella coscienza che gli si
oppone, altrettanto poco nella cosa quanto nella rappresentazione della
cosa; essa deve essere posta nel principio da noi scoperto dell’assoluta
unità e inseparabilità di entrambi, principio che, come abbiamo visto, è
contemporaneamente il principio della loro disgiunzione; noi vogliamo
dunque chiamarlo sapere puro, sapere in sé, dunque assolutamente non
15
Ivi, p. 80; cfr. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, par. 13, Osservazione III.
16
A tale riguardo il riferimento kantiano è alla tradizione della scolastica tedesca e più in
generale di un certo tipo di aristotelismo medievale che da essa era stato assunto. Si tratta in
generale dei tre trascendentali “Unum” “Verum” “Bonum”, intesi come attributi trascenden-
ti la materia terrena perchè attribuibili come tali alla sola sostanza divina. Cfr. J. De Vries,
Grundbegriffe der Scholastik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1983, pp. 96-97.
Per una trattazione organica del termine trascendentale in Kant si vedano: N. Knoepffler, Der
Begriff „transzendental“ bei Immanuel Kant, Herbert Utz Verlag, München, 2005 (5. Auflage),
(in particolare, riguardo all’eredità della scolastica tedesca, pp. 13-16); R. Eisler, Kant-Lexikon,
Georg Olms Verlag, Hildesheim- Zurich- New York 1984, alla voce „transzendental“.
17
I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Appendice, nota [A204].
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 53
A tal proposito, occupandosi di Fichte, Marco Ivaldo non parla tanto di “fi-
losofia trascendentale” quanto di “visione trascendentale”, quello che io penso si
possa esprimere anche con “prospettiva trascendentale” o anche – come ho detto
prima – come “atteggiamento trascendentale”, impegnato a definire un modus
facendi piuttosto che una struttura predeterminata come edificio o sistema.
18
J. G. Fichte, WS. 1804-II, pp. 10-11, tr. it., Dottrina della scienza, seconda esposizione del
1804, a cura di M. V. d’Alfonso, Guerini e Associati, Milano, 2000, pp. 63-64. Per questo speci-
fico passo mi sono avvalso della traduzione, fornitane da M. Ivaldo (cfr. M. Ivaldo, I principi del
sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli, 1987, p. 41-42), che ho ritenuto
in questo caso stilisticamente più corretta e rispondente all’originale tedesco.
19
M. Ivaldo, I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli,
1987, p. 47.
54 Salvatore Principe
Trascendentale, dunque, in sintesi è ciò che rientra nei limiti della conoscen-
za possibile sintetica a priori, cioè non trascende l’esperienza empirica, ma è
fondamento della sua possibilità. Non è né trascendente né empirico né tanto
meno una banalizzante via di mezzo, ma è il fondamento “formale” di ogni co-
noscenza in generale. Un sapere che sia trascendentale studia non gli oggetti
della conoscenza, siano essi empirici (il questo o il quello fattuale), oppure me-
tafisici (i concetti di sostanza e di accidente), ma quelle modalità o attuazioni
del pensare che ci permettono la conoscenza degli oggetti, cioè le facoltà della
mens e le investiga nel loro articolarsi all’interno del processo conoscitivo che
è insieme teoretico e pratico. Va da sé che un sapere di tipo trascendentale non
ammette al suo interno separazioni tra gnoseologia e ontologia, oppure tra te-
oretica, pratica e estetica, considerato che, pur distinguendo in via del tutto
metodico-funzionale tali ambiti (appunto ambiti “disciplinari”), esso studia le
“facoltà” dell’io sempre nel loro articolarsi. Questo rimane lo stesso benché si
atteggi in modi specifici e diversi a seconda che l’oggetto della conoscenza sia
un oggetto empirico in generale oppure un concetto logico astratto o un dilem-
ma morale o un’opera artistica, (laddove questa distinzione è però sempre di
natura alquanto fittizia e, in definitiva, insussistente).
Trascendentale è, insomma, un sapere circa le “facoltà” dell’uomo, i principi
e le modalità di queste “facoltà”. Un sapere trascendentale o filosofia trascen-
dentale è un sapere né solo teoretico, né solo pratico, né solo estetico, ma tutti
questi insieme e riguarda il loro fondamento, il che ci rimanda al concetto su
menzionato di Dottrina della Scienza.
La domanda di partenza di una filosofia trascendentale è: “Come posso sape-
re ciò che affermo?”. Questa filosofia implica, in maniera concomitante, il ren-
diconto riflessivo delle operazioni che il filosofo realizza; e ciò in maniera tale
da tendere alla coincidenza del suo dire e del suo fare. Perciò quella trascenden-
tale è una filosofia che deve sempre di nuovo diventare consapevole del punto
di vista da cui vengono avanzate le sue affermazioni. In tal senso non possiamo
avere in filosofia conoscenza ontologica (che affermi cioè qualcosa a proposi-
20
Ivi, p. 76.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 55
21
Cfr. H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2004, p. 211.
56 Salvatore Principe
segna insieme nella sua esposizione a colui che apprende come egli deve
procedere se vuole conoscere e realizzare verità»22
22
R. Lauth, Descartes- La concezione del sistema della filosofia, cit., pp. 376-377.
23
Ivi, p. 356.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 57
«[...] i miei consigli sono tanto più ininfluenti, e ogni individuo deve
decidere da sé in che misura prestarvi ascolto e come applicarli»25
In apertura della sua II esposizione della Dottrina della Scienza nel 1804,
Fichte scrive:
«La caratteristica della nostra epoca, secondo me, è che in essa la vita
sia diventata solo storica e simbolica, mentre assai raramente si perven-
ga a una vita reale. Una non insignificante parte costitutiva della vita è il
pensare. Una volta che l’intera vita sia impallidita a storia estranea, anche
al pensiero dovrà accadere proprio lo stesso. Si sarà certo udito e notato
che gli uomini, tra le altre cose, possono anche pensare; e che in effetti ve
ne sono stati parecchi che hanno pensato, che uno ha pensato in un certo
modo, il secondo in un altro, il terzo e il quarto in un altro modo anco-
ra, ciascuno in modo diverso; anche come ciò sia riuscito; – tuttavia alla
24
J. G. Fichte, Privatissimum 1803, Dodici lezioni sulla dottrina della scienza, Edizioni
E.T.S., pp. 83-84.
25
Id., Dottrina della scienza, seconda esposizione del 1804, cit., p. 67.
58 Salvatore Principe
«Ormai, dopo aver inutilmente tentato (se n’è convinti) tutte le vie,
impera sovrano il fastidio ed un totale indifferentismo, padre del caos
e della notte, nelle scienze, ma ad un tempo origine o almeno preludio
di un loro prossimo rinnovamento e rischiaramento, mentre uno zelo
male impiegato le aveva rese oscure, confuse e inservibili. […] Frattanto,
questa indifferenza, che s’incontra proprio in mezzo al fiorire di tutte le
scienze, e che tocca appunto quella, alle cui conoscenze se fosse possibile
averne, meno si vorrebbe rinunziare, è un fenomeno che merita attenzio-
ne e riflessione. Non è per certo effetto di leggerezza, ma del giudizio ma-
turo dell’età moderna, che non vuole più oltre farsi tenere a bada da una
parvenza di sapere, ed è un invito alla ragione di assumersi nuovamente
il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé»27
Queste osservazioni dei due filosofi tedeschi non sono molto dissimili nel
tono e nel contenuto dall’apertura del Discours e dall’articolo 1 dei Principia
Philosophiae. Mantengono intatto il carattere autobiografico della constatazio-
ne storica della vertenza culturale che era generalizzata in un relativismo di po-
sizioni e che di fronte all’avanzare univoco delle scienze matematiche e fisiche
non facevano altro che porre in continuo dubbio la verità portata innanzi dalla
filosofia con tutta la serie dei valori morali e teologici che da essa discendono.
Né si dimentichi che tutti e tre i filosofi qui considerati sentono la spinta a porre
le basi certe della propria scienza delle scienze per salvaguardare un patrimo-
nio valoriale da essi ritenuto moralmente rilevante.
E, ancora, se consideriamo il passo seguente tratto anche esso dall’esposi-
zione 1804 della Dottrina della scienza:
26
Ivi, pp. 55-56.
27
I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 6.
Descartes e la filosofia trascendentale: a proposito di Lauth lettore di Cartesio 59
Qui la mente vola subito alle considerazioni, quasi alle scoperte dirompenti,
della primarietà del cogito e della consustanzialità di essere e pensare che con
esso sono posti alla base di qualsiasi possibile ammissione di realtà e verità.
Essere e pensare sono assolutamente compresenti nel Cogito seppure in modo
puntuale. In ciò il Cogito rappresenta il primo vero per conoscenza, mentre Dio
è il primo vero per essenza. E che Fichte abbia ben considerato il portato car-
tesiano in proposito risulta da quanto l’autore tedesco osserva a proposito del
cogito cartesiano nel Fondamento dell’intera dottrina della scienza, commentan-
do il principio “cogito, sum” come «principio fondamentale del sapere», «che
non deve essere la minore e la conclusione di un sillogismo, la cui premessa
maggiore suona: quodcumque cogitat, est, ma che egli [Descartes] può assai
bene aver considerato come un fatto immediato della coscienza»29. E tutto ciò
ricordando probabilmente quanto proprio Descartes affermava nella risposta
alle seconde obiezioni30.
Fichte nelle sue Eigne Meditationen scrive:
«L’io che si presenta [l’io che si realizza in un atto, non soltanto l’io
rappresentante] viene intuito intellettualmente, ovvero l’intuito è insieme
l’intuizione. Non c’è alcun patire: viene intuita un’azione. […] In quanto
l’io è attivo nel rappresentare, se esso venisse intuito come tale una tale
intuizione sarebbe intellettuale. Soltanto si chiede: una tale intuizione è
possibile, perviene alla coscienza? Oppure viene semplicemente pensata,
perciò inferita? […] L’io sono – perviene alla coscienza? Sì, ma non alla
coscienza empirica, sebbene alla pura: ed è la coscienza pura»31
28
J. G. Fichte, Dottrina della scienza, seconda esposizione del 1804, cit., pp. 72-73.
29
Id., Fondamento dell’intera dottrina della scienza, tr. it. a cura di G. Boffi, Bompiani,
Milano, 2003, p. 157.
30
R. Descartes, Œuvres AT IX-1, p. 110: «Lorsque quelqu’un dit: Je pense, donc je suis, ou
j’existe, il ne conclut pas son existence de sa pensée comme par la force de quelque syllogisme,
mais […] il le voit par une simple inspection de l’esprit»
31
J. G. Fichte, Eigne Meditationen, Fichte Akademie Ausgabe, II, 3, p. 144; cit. in R. Lauth,
60 Salvatore Principe
Commentando questo passo che egli stesso cita, Lauth commenta, che «ciò
corrisponde precisamente all’idea di Descartes!»32. Così come non si può non
notare una certa analogia tra questo passo cartesiano tratto dalla lettera a Mer-
senne del luglio 1641:
E quello kantiano:
Posto dunque il legame dei tre nel generale approccio “trascendentale” alla
filosofia, risulta chiaro che ognuno a suo modo ponendosi all’investigazione dei
principi fondamentali del sapere non possano non richiamarsi vicendevolmen-
te, per cui si intravede un filo rosso tra l’annunciarsi del Cogito, “l’appercezione
trascendentale” e “l’intuizione intellettuale” fichtiana.
Su questa base si possono leggere certo le opere di Descartes come espres-
sioni graduali del darsi aurorale della filosofia trascendentale. In tal senso è
pienamente condivisibile l’osservazione di Lauth che pur ammettendo che in
fondo la filosofia cartesiana non «ha compiuto il sistema del sapere finito»36
guardando la filosofia di Cartesio alla luce di quella prospettiva trascenden-
tale osserva come il Discours sia l’espressione del programma scientifico che
Cartesio ha in animo di compiere; nelle Regulae presenta il metodo di questa
ricerca; nelle Meditationes l’argomento e la prova del che e del come conoscia-
mo davvero l’esistenza; nei Principia la ricapitolazione dell’epistemologia pre-
supposta e la sua applicazione alla fisica; nelle Passioni dell’anima l’analisi del
lato “volontativo”37 della metafisica mediante la fisiologia dell’anima, in stretta
connessione al tema dell’unio di mente e corpo38. Effettivamente, se osserviamo
le opere di Descartes in modo sinottico ci accorgiamo della veridicità dell’ana-
lisi di Lauth. In ogni testo di Descartes che sia cronologicamente successivo o
precedente ad un altro viene ripreso e ampliato un punto che nell’altro era stato
accennato o abbozzato, o esplicitamente posto come anticipazione di un lavoro
successivo. Accade così nel Discours per le Meditationes e viceversa, come nei
riferimenti impliciti che nel Discours Descartes fa alle sue Regulae; chiude il
cerchio la lettera a Picot39 nella quale Descartes mostra le sue opere all’interno
del loro nesso sistematico che mostra come egli non si occupi della verità ma
del modo di conoscere e discernere la verità, il che è appunto “filosofia trascen-
dentale”. Descartes vede insomma in nuce il sistema della filosofia trascenden-
tale così come lo auspicheranno Kant e Fichte, non come sistema dei saperi, ma
come architettonica dei saperi e metodologia propedeutica di essi, ancora una
volta filosofia prima o dottrina della scienza.
36
R. Lauth, Descartes- La concezione del sistema della filosofia, cit., p. 384.
37
Col termine “volontativo” cerco di rimarcare in italiano la differenza tedesca tra Wille e
Willkür, ovvero tra il lato strutturale della volontà intesa come facoltà entro l’articolarsi delle
attività della mens (Wille, lato volontativo), e il lato dell’arbitrato morale (lato volontario, Wil-
lkür).
38
Cfr. R. Lauth, Descartes- La concezione del sistema della filosofia, cit., pp. 384-385.
39
Cfr. R. Descartes, I principi della filosofia, in Opere filosofiche I, a cura di E. Garin, Later-
za, Roma-Bari 2000, pp. 7-20.
62 Salvatore Principe
Abstract. The topic of reine Erfahrung in the first edition of Heinrich Rickert’s Die Grenzen.
Proceeding from an analysis of two paragraphs of Die Grenzen, where Rickert deals with the
problem of the objectivity of historical sciences and with the connection between physical
and psychic, this essay aims at clarifying Rickert’s references to Avenarius’ thought, showing
how the influence and the critical dialogue with the founder of empiriocriticism run through
the pages of the book. Even if they disagree about the role – not the meaning – of subject and
object in the gnoseology, according to Rickert, Avenarius’ positions still represent an example
of radical and coherent empiricism, against the natural-scientific worldview.
1. L’oggettività empirica
1
L’opera venne pubblicata in due momenti successivi: i primi tre capitoli nel 1896, il
quarto e quinto nel 1902. La prima edizione cui facciamo riferimento è quella del 1902: H.
Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in
die historischen Wissenschaften, Tübingen-Leipzig, 1902 (d’ora in poi: Grenzen); tr. it. I limiti
dell’elaborazione concettuale scientifico naturale. Un’introduzione logica alle scienze storiche, a
cura di M. Catarzi, Napoli, 2002.
2
Rickert conosceva Avenarius non solo tramite i suoi scritti, ma anche personalmente; i due si
conobbero a Zurigo nel 1885 ed ebbero modo di frequentarsi. Fu così che Rickert potette entrare
in contatto con l’ambiente filosofico che ruotava attorno alla rivista fondata e diretta da Avenarius,
la «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie». A questa stessa rivista avevano tra l’al-
tro già collaborato figure come Friederich Paulsen, di cui Rickert era stato allievo a Berlino, ma
soprattutto Windelband, che – oltre ad essere il maestro di Rickert – era stato anche collega di
Avenarius a Zurigo. Cfr. M. Catarzi, A ridosso dei limiti. Per un profilo filosofico di Heinrich Rickert
lungo l’elaborazione delle Grenzen, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2006, p. 49.
3
Grenzen, pp. 626-642; tr. it. cit., pp. 333-341.
64 Chiara Russo Krauss
4
“Die metaphysische Objektivität”, in Grenzen, pp. 642-660; tr. it. cit., pp. 341-358. “Die
kritische Objektivität”, in Grenzen, pp. 674-704; tr. it. cit., pp. 358-374.
5
Grenzen, p. 626. Catarzi rende invece il passo tedesco «weil als der voraussetzungloseste
Standpunkt in der Erkenntnistheorie der Standpunkt der reinen Erfahrung zu gelten pflegt»
con «poiché in gnoseologia il punto di vista con meno presupposti è quello dell’esperienza
pura». Cfr. tr. it. cit., p. 333.
6
R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, Hildesheim-Zürich-New York, 2004, vol. I, p. V;
tr. it. parziale, Critica dell’esperienza pura, a cura di A. Verdino, Bari, 1972, p. 3.
7
Ibid., vol. I, p. 11; tr. it. cit., p. 16.
8
Ibid., vol. I, p. 3; tr. it. cit., p. 7.
9
Bisogna distinguere in Avenarius l’esperienza pura dall’“esperienza” indicata fra virgo-
lette. Mentre la prima è data dal piano immanente sul quale si trova tutta la realtà, e costi-
tuisce il «presupposto empiriocritico» da cui si sviluppa tutto il sistema filosofico avenari-
usiano, l’“esperienza” è invece un determinato contenuto di coscienza, presente all’interno
dell’esperienza pura, che l’individuo caratterizza come dipendente da uno o più costituenti
dell’ambiente. L’esperienza pura, in sé, non conosce alcuna contrapposizione tra contenuti di
coscienza e ambiente, né – a maggior ragione – conosce “esperienze”; pertanto queste ultime
costituiscono solo una determinazione che si sviluppa a partire della rottura dell’unità origina-
ria dell’esperienza pura. Cfr. ibid., vol. II, pp. 363-365; tr. it. cit., pp. 115, 116.
Il tema della reine Erfahrung 65
10
Ibid., vol. I, p. 22; tr. it. cit., pp. 27-28. «Valori E» e «valori R» sono i termini con cui Ave-
narius indica rispettivamente i contenuti dell’“esperienza” e i costituenti dell’ambiente; formu-
le coniate appunto per evitare che nel presupposto empiriocritico venga assunto più di quanto
dovuto, assimilando così l’empiriocriticismo a teorie gnoseologiche o scientifiche determinate.
Il progetto avenariusiano di una sorta di metafilosofia in grado di spiegare tutto il comporta-
mento teoretico umano si regge anche sulla creazione di tale metalinguaggio filosofico, che
ha creato non poche difficoltà alla comprensione e trasmissione del suo pensiero persino a
colui che viene solitamente accostato ad Avenarius, tanto da essere etichettato anch’egli come
empiriocriticista, ovvero Ernst Mach. Ne L’analisi delle sensazioni, parlando del suo rapporto
con Avenarius, Mach non manca di criticarne a più riprese il lessico. Ad esempio: «Avenarius
ci presenta un’esposizione schematica molto esauriente, mantenuta però in termini generali,
la cui comprensione è resa difficile da una terminologia estranea, inconsueta»; oppure: «Nel
primo scritto [la Kritik der reinen Erfahrung] la terminologia un po’ ipertrofica mi impedì di
poter godere la gioia di un’adesione piena. È chiedere troppo a un uomo già avanti negli anni
di imparare, oltre alle molte lingue dei popoli, anche la lingua di un singolo» (E. Mach, L’ana-
lisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, Milano 1975, p. 70 e p. 72).
11
R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. I, p. 5; tr. it. cit., p. 10.
12
Grenzen, p. 626. Dove Rickert usa l’espressione «rein», come nel qui presente «rein
tatsächlichen Wahrheiten» o nel successivo «rein empirische Geltung», ho preferito tradurre
con «puramente», invece che con il «semplicemente» proposto da Catarzi, per rendere più
evidente il riferimento alla reine Erfahrung. Cfr. tr. it. cit., p. 333.
66 Chiara Russo Krauss
13
Grenzen. pp. 626-627; tr. it. cit. 333.
14
Grenzen. p. 627; tr. it. cit. 333.
15
R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. I, pp.12-13; tr. it. cit., p. 18.
16
Ibid., vol. I, p. 182; tr. it. cit., p. 67. Il «sistema C» in Avenarius è l’insieme di funzioni che
vengono generalmente implementate dal sistema nervoso umano, tuttavia è possibile vedere
anche un gruppo di individui legati dallo svolgimento di funzioni comuni, in particolar modo
quella «di conservazione», come un «sistema C di ordine superiore». Cfr. ibid., vol. I, p. 158;
tr. it. cit., p. 63.
Il tema della reine Erfahrung 67
generale e immutabile come le leggi che la reggono e gli atomi che la compon-
gono. Pertanto mentre nell’empirismo puro i concetti sono uno strumento con
cui l’uomo elabora l’esperienza e quindi la realtà – posizione anch’essa condi-
visa da Rickert – secondo la visione del mondo scientifico-naturale essi svelano
invece quella che è la vera realtà al di là dell’apparenza dell’esperienza17.
Da ciò si comprende anche perché l’elaborazione concettuale storica sia in-
conciliabile con una visione del mondo scientifico-naturale: per un verso infatti
i valori, la cui esistenza è empiricamente constatata, non costituirebbero un
valido principio di elaborazione concettuale, dal momento che l’esperienza da
cui sono tratti non costituisce la vera realtà; per un altro verso la realtà stessa,
essendo essenzialmente generale, non potrebbe né dovrebbe essere conosciuta
tramite una elaborazione concettuale individualizzante come quella della sto-
ria, e pertanto i punti di vista costituiti dai valori, che reggono tale elaborazio-
ne, sarebbero ad ogni modo inutili. Al contrario, se – come accade per la pro-
spettiva della reine Erfahrung – si ritiene che la realtà coincida con l’esperienza
e sia originariamente individuale, non si può rifiutare il riconoscimento empi-
rico dei valori e l’esigenza di una conoscenza – che di quei valori si serve – volta
a rendere scientificamente conto dell’individualità della realtà.
Rickert prosegue la sua analisi dell’oggettività empirica della storia cercan-
do di affrontare due obiezioni che si frappongono alla sua equiparazione con le
altre scienze, facendo nascere dubbi sulla validità della conoscenza storica ri-
spetto a quella delle scienze naturali. Entrambe queste obiezioni sono legate al
problema di una presunta minore validità delle elaborazioni concettuali stori-
che rispetto a quella delle elaborazioni concettuali scientifico-naturali: la prima
obiezione pone il problema della porzione di realtà in rapporto alla quale i due
tipi di elaborazione concettuale sono validi; la seconda pone invece il problema
del carattere più o meno condiviso dei principi di selezione che orientano i due
tipi di elaborazione concettuale.
Per quel che riguarda la prima questione, Rickert sottolinea come non sia
possibile, sul piano dell’esperienza pura, sostenere che i risultati delle scienze
naturali e storiche abbiano differenti ambiti di validità a partire dal fatto che i
concetti delle prime – fondati sulla astrazione generalizzante – arriverebbero a
valere per l’intera realtà in qualunque luogo e tempo, mentre i concetti delle se-
conde – fondati sul riferimento a valori empiricamente riscontrati all’interno di
17
La prospettiva propria di una visione del mondo scientifico-naturale viene poi analizza-
ta da Rickert nel dettaglio all’interno del paragrafo “Die metaphysische Objektivität”, succes-
sivo a quello dedicato al punto di vista della reine Erfahrung. Cfr. Grenzen, pp. 642-660; tr. it.
cit., pp. 341-358.
68 Chiara Russo Krauss
18
Grenzen, p. 628; tr. it. cit., p. 334.
19
Grenzen, p. 637; tr. it. cit., p. 338.
20
Grenzen, p. 638; tr. it. cit., p. 339.
21
Si veda il capitolo “Die Beziehung der Weltbegriffe zur reinen Erfahrung”, in R. Avena-
rius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. II, pp. 403-416; tr. it. cit., pp. 140-153.
Il tema della reine Erfahrung 69
reno dell’esperienza pura questa affermazione risulta inattuabile», in quanto «sia nella
scienza della natura che nella storia, non è la “cosa stessa” che determina il contenuto
dei concetti, ma è il soggetto conoscente che decide che cosa è essenziale e che cosa
non lo è»22. Essendo infatti insita in ogni singola configurazione della realtà un’infinita
molteplicità intensiva, vi sono innumerevoli punti di vista da cui si possono confronta-
re due oggetti, e pertanto «una comparazione scientifico-naturale puramente empirica
ha comunque bisogno di un punto di vista che la orienti e (…) la scelta di un punto di
vista, per unificare ciò che è comune, rest[a] sempre un atto “arbitrario”»23.
Questo significa che nel momento in cui il punto di vista della reine Er-
fahrung, al contrario di quello scientifico-naturale, non contempla l’esistenza
di una «cosa stessa», ovvero di una “vera realtà” essenzialmente generale che
fornisca il termine di riferimento e la misura – in senso pieno – oggettiva delle
nostre generalizzazioni, allora deve ammettere che la direzione verso cui noi
sviluppiamo i confronti e le classificazioni dei mutevoli e variegati componenti
dell’esperienza è il risultato di nostre scelte arbitrarie. Da ciò consegue che la
validità che viene riconosciuta ai risultati dell’elaborazione concettuale scienti-
fica, nel puro empirismo, non può derivare dalla loro aderenza alla “vera realtà”
ma deve quindi dipendere da una adesione24 (Zustimmung) altrui ai punti di
vista orientanti la ricerca, adesione che non è incondizionatamente accordata
da tutti in ogni tempo e luogo, ma deve essere guadagnata volta per volta, uomo
per uomo, in un orizzonte spazialmente e temporalmente determinato e quindi
empiricamente limitato. Questo comporta che tanto i valori che guidano l’ela-
borazione concettuale storica, tanto i punti di vista che orientano quella scien-
tifico-naturale sono validi soltanto a partire dal riconoscimento effettivamente
– e quindi fattualmente – accordatogli da gruppi di individui, e che ai risultati
dell’una e dell’altra bisogna attribuire lo stesso grado di oggettività empirica.
Anche in questo caso il bersaglio delle considerazioni di Rickert sono i cultori
di un empirismo non sufficientemente radicale, e non Avenarius stesso. Quest’ul-
timo infatti riconosce da un lato che «non si può intraprendere alcun tipo di
analisi senza introdurre un qualsiasi punto di vista da cui la si intraprende»25,
ed è consapevole dall’altro che nell’orizzonte del puro empirismo la validità dei
risultati delle scienze, non potendo dipendere dalla «cosa stessa», da una realtà
esterna che faccia da referente di ogni elaborazione, consiste nell’accordo in-
terpersonale che tali risultati riescono a ottenere. Per Avenarius è il commercio
22
Grenzen, p. 630; tr. it. cit., p. 335.
23
Ibid.
24
Grenzen, p. 631; tr. it. cit., p. 335.
25
R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. I, p. 10; tr. it. cit., p. 14.
70 Chiara Russo Krauss
2. Soggetto e oggetto
Non si può però affrontare il problema della presenza del tema della reine
Erfahrung all’interno delle Grenzen senza toccare una delle sezioni del testo in
26
Cfr. R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. II, p. 140. Per vedere nel dettaglio
come Avenarius analizzi il modo in cui il discorso interindividuale fa sì che le “esperienze”
acquistino i caratteri di “concordanza”, “certezza”, “verità”, etc., si veda il capitolo “Modifika-
tionen im Sinne einer dialektischen Epicharakteristik”), vol. II, pp. 129-151; (Ibid. sintetizzato
dal curatore dell’edizione italiana in R. Avenarius, Critica dell’esperienza pura, cit., pp. 80-81.
27
Grenzen, pp. 630-631; tr. it. cit., p. 335.
28
Cfr. R. Avenarius, Kritik der reinen Erfahrung, cit., vol. II, p. 140.
29
Grenzen, pp. 626-627; tr. it. cit., p. 333.
30
Grenzen, p. 634; tr. it. cit., p. 337.
31
Sui temi rickertiani fin qui trattati cfr. E. Massimilla, Il saggio di Rickert sul “generale”
e la storia come traccia di un itinerario weberiano nelle Grenzen, in «Archivio di storia della
cultura», XX (2007), pp. 39-110, in part. pp. 74-79.
Il tema della reine Erfahrung 71
cui questo argomento, così come l’influsso di Avenarius, sono più vivi: ovvero il
paragrafo intitolato “Physisch und Psychisch”32 del secondo capitolo. Come ab-
biamo detto Rickert condivide con il punto di vista della reine Erfahrung l’iden-
tificazione della realtà con l’esperienza, il che lo porta a confrontarsi con le
opinioni di Avenarius quando si tratta di chiarire, a partire da questa presa di
posizione, in che rapporti si trovino soggetto ed oggetto, nonché – appunto – fi-
sico e psichico. L’affermazione che tutto l’essere si trova sul piano dell’esperien-
za, infatti, conduceva quelli che Rickert chiama «presunti positivisti» e «cultori
dell’esperienza pura» ad una «metafisica spiritualistica» che «vorrebbe bollare
tutto l’essere come psichico»33. In una nota della stessa pagina Rickert, dopo
aver citato come rappresentante di queste posizioni M. Verworn – il quale nella
sua Allgemeine Physiologie sosteneva che «esiste solo la psiche»34 – si dichiara
sorpreso che egli, per supportare tali opinioni, «voglia richiamarsi proprio alla
Kritik der reinen Erfahrung di Avenarius, in cui idee del genere sono decisamen-
te avversate»35.
Tanto per Rickert quanto per Avenarius, infatti, identificare la realtà con
l’esperienza non vuol dire ricondurre la sfera del fisico a quella dello psichi-
co, ma porre come primaria un’esperienza che non conosce alcuna differenza
sostanziale e che precede ogni divisione concettuale tra questi due domini. Da
un lato infatti, come sottolinea Rickert, manca ormai una sostanza “anima”
che faccia da oggetto specifico delle ricerche della psicologia; dall’altro, conse-
guentemente, i termini che solitamente le si attribuivano – come «psychische» o
«seelische» – «non forniscono alcuna indicazione sul contenuto del concetto di
quei processi a cui sono attribuiti»36. In altri termini, in assenza di un referente
sostanziale, i vocaboli della psicologia hanno un significato meramente arbitra-
rio, derivante dal modo in cui si sceglie di sezionare il campo originariamente
unitario dell’esperienza nei due regni del fisico e dello psichico. A conferma di
queste osservazioni Rickert riporta proprio una citazione di Avenarius che reci-
ta: «il termine psichico è perciò puramente convenzionale; dopo l’eliminazione
del concetto di anima, è addirittura divenuto privo di senso»37.
Ciò nonostante, pur sostenendo entrambi che l’identificazione della realtà
32
Grenzen, pp. 151-183; tr. it. cit., pp. 83-100.
33
Grenzen, p. 178; tr. it. cit., p. 97.
34
M. Verworn, Allgemeine Physiologie, Jena, 1895, p. 38; citato in Grenzen, p. 179 in nota;
tr. it. cit., p. 97 in nota.
35
Grenzen, p. 179 in nota; tr. it. cit., p. 97 in nota.
36
Grenzen, p. 152; tr. it. cit., p. 84.
37
R. Avenarius, Bemerkungen zum Begriff des Gegenstandes der Psychologie I, in «Viertel-
jahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie», XVIII (1894), p. 141; citato in Grenzen, p. 152
in nota; tr. it. cit., p. 84 in nota.
72 Chiara Russo Krauss
con l’esperienza non può e non deve condurre ad una sua psichicizzazione per-
ché l’esperienza – proprio essendo tutta la realtà – non è considerabile né fisica
né psichica, Rickert e Avenarius fondano questo loro comune convincimento
su basi differenti, che rimandano al modo in cui essi concepiscono il rapporto
tra soggetto e oggetto.
In Avenarius l’esperienza che non conosce alcuna differenza tra fisico e psi-
chico è l’esperienza pura, la quale è presupposto «unico» e «semplice» anche in
quanto è unità originaria che precede tutte le divisioni e specificazioni classiche
della gnoseologia e delle scienze, come quella già citata tra fisico e psichico, o
quella tra soggetto e oggetto. La reine Erfahrung, infatti, si contraddistingue
perché non è l’esperienza che consegue dall’incontro, dalla sintesi, tra un sog-
getto esperiente ed un oggetto esperito. Essa è “pura” in quanto è esperienza
libera da ogni determinazione e opposizione, ed è tale poiché le precede e le
pone: ogni determinazione e opposizione può infatti essere ricavata solo da
un’analisi dell’esperienza pura stessa, dal taglio che ne facciamo.
In Rickert, invece, l’esperienza che è oltre la differenza tra fisico e psichico non
è l’esperienza pura. Non a caso egli afferma di dissentire da Avenarius riguardo alla
possibilità e alla necessità di fare a meno dell’opposizione tra soggetto e oggetto38, e
si serve proprio di questo binomio per mostrare come l’identificazione della realtà
con l’esperienza non conduca alla sua psichicizzazione e non rischi di tradursi in
una sua concezione tendenzialmente solipsistica; rischio con cui si trova a fare i
conti Avenarius, il quale, dopo aver rigettato soggetto e oggetto fuori dal piano della
reine Erfahrung, è costretto a ricorrere alla sfera linguistico-sociale per superare la
valenza meramente individuale dell’esperienza39.
Dunque, per evitare di essere accostato a concezioni solipsistiche o psichi-
cizzanti della realtà e dell’esperienza, Rickert riprende dalla sua opera prece-
dente – Der Gegenstand der Erkenntnis (1892) – l’analisi di tre coppie di signifi-
cati dei termini “soggetto” e “oggetto”: «In primo luogo viene chiamato soggetto
il corpo animato in opposizione al mondo esterno che lo circonda nello spazio.
Poi, il termine soggetto può designare l’anima in opposizione al proprio corpo
fisico. Infine, soggetto è chiamata anche la coscienza, in opposizione agli oggetti
privi di coscienza»40.
38
Cfr. Grenzen, pp. 163-164 in nota; tr. it. cit., p. 89 in nota.
39
Quando Avenarius parla della «società umana» la definisce appunto come «una mag-
gioranza di individui che vivono in una comunità linguistica, in modo tale che un individuo,
grazie alle denominazioni (Bezeichnungen) comunitarie, può comunicare (mitteilen) ad un
altro uomo un’esperienza (Erlebnis) che questi non condivide (teilen)» (R. Avenarius, Kritik der
reinen Erfahrung, cit., vol. II, p. 84).
40
Grenzen, p. 159; tr. it. cit., p. 87.
Il tema della reine Erfahrung 73
I termini con cui Rickert designa i tre soggetti sono: «soggetto psicofisico»41,
l’io come insieme di corpo e “anima”, e comprendente quindi i legami tra l’atti-
vità degli organi di senso e le sensazioni; «soggetto psicologico»42, i contenuti di
coscienza che costituiscono la vita psichica; e «soggetto gnoseologico»43, la co-
scienza che – contrapposta a tutti i suoi contenuti – non comprende più niente
di determinato. I loro rispettivi oggetti sono: il mondo spazialmente esteso ed
esterno al mio corpo ed alla mia pelle, la realtà fisica, l’interezza dei contenu-
ti di coscienza. Se però consideriamo che Rickert, come Avenarius, identifica
realtà ed esperienza, vediamo che nella seconda coppia non si contrappongo-
no da un lato l’insieme dei contenuti di coscienza e dall’altro una realtà fisica
trascendente, quanto piuttosto da un lato i contenuti di coscienza che – sulla
base di caratterizzazioni sulle quali Rickert dichiara esplicitamente di non vo-
lersi soffermare nelle Grenzen44 – vanno a costituire il regno dello psichico, e
dall’altro lato i contenuti di coscienza che vanno a costituire il mondo fisico. Da
ciò deriva che la caratterizzazione criticamente accorta dell’intera realtà come
l’insieme dei contenuti di coscienza che si danno al soggetto gnoseologico non
comporta alcuna solipsistica psichicizzazione del mondo fisico, poiché il sog-
getto psicologico non può essere identificato con quello gnoseologico, ma solo
con una parte dell’oggettività che ad esso si contrappone.
Dunque a chi ritiene che identificare la realtà con l’esperienza voglia dire ricon-
durre l’oggettività del mondo “esterno” e “fisico” alla soggettività di un’esperien-
za “interna” e “psichica”, Avenarius risponde sostenendo che la reine Erfahrung
– ponendosi al di là di ogni determinazione soggetto/oggetto – non conosce nemme-
no alcuna distinzione tra fisico e psichico. Al contrario Rickert credendo che «in
nessuna teoria della conoscenza può essere del tutto assente il principio secondo
cui ogni oggetto immediatamente dato (…) si deve necessariamente pensare in
riferimento ad un soggetto»45 si trova a dover spiegare all’interno di una dialettica
soggetto/oggetto perchè non avvenga una psichicizzazione della realtà. Ovvero se
Avenarius, piuttosto che sciogliere la tradizionale identificazione della sfera della
soggettività con il regno dello psichico, rifiuta entrambe, Rickert invece procede
proprio a slegare – almeno parzialmente – il soggetto gnoseologico dal riferimento
allo psichico, riconducendo poi tanto l’essere fisico quanto lo psichico alla sfera
dell’oggettività, dei contenuti di coscienza, dell’esperienza.
41
Grenzen, p. 163; tr. it. cit., p. 89.
42
Ibid.
43
Grenzen, p. 168; tr. it. cit., p. 93.
44
Grenzen, p. 153; tr. it. cit., p. 84.
45
Grenzen, p. 167; tr. it. cit., p. 91.
74 Chiara Russo Krauss
46
Ibid.
47
Grenzen, p. 168; tr. it. cit., p. 92.
48
Grenzen, p. 174; tr. it. cit., p. 95.
Il tema della reine Erfahrung 75
Dal punto di vista di Rickert proprio la mancanza della separazione tra sog-
getto e oggetto nella reine Erfahrung condanna la posizione di Avenarius al sog-
gettivismo, perché per liberarsi di esso bisogna trasformare i soggetti psicolo-
gici individuali in oggetti tra gli altri, e rendere indeterminato e impersonale il
soggetto, come è il soggetto gnoseologico.
Alla base dell’identificazione di realtà ed esperienza compiuta da Rickert e
Avenarius è dunque riscontrabile una differente caratterizzazione dei rapporti
tra soggetto e oggetto. Ciò nonostante, proprio nell’analisi rickertiana di questi
rapporti è possibile cogliere l’influenza di Avenarius.
Determinare un’intera serie di coppie di soggetto e oggetto è infatti possibile
perchè siamo noi – con la nostra analisi – a tagliare in maniera diversa l’espe-
rienza e a stabilire quale parte di essa considerare oggetto e quale soggetto. Il
fatto che Rickert consideri la differenza tra soggetto gnoseologico e psicologi-
co una «distinzione concettuale»49 indica che questi termini non vengono visti
come elementi originari che precedono l’esperienza, ma come il risultato di una
nostra elaborazione concettuale che va ad operare sull’esperienza scindendola
in due parti. Così soggetto e oggetto non sono qualcosa di rigidamente definito,
ma concetti il cui significato si sposta all’interno di limiti dati: i limiti propri
dell’esperienza da cui vengono tratti. Infatti non sono determinabili solo tre
coppie di significati, ma tutta una serie in cui da un lato aumenta progressiva-
mente la porzione di esperienza e realtà che ricade nel dominio dell’oggetto e si
restringe quella del soggetto, e dall’altro accade il contrario.
Da questo punto di vista la nozione di esperienza di Rickert riprende la reine
Erfahrung avenariusiana in quanto precede e fonda l’opposizione di soggetto e
oggetto invece di seguire ed essere fondata da essa. Rispetto alla prospettiva di
Avenarius, dunque, ciò che cambia è fondamentalmente soltanto la necessità o
meno di operare tale divisione: se per Avenarius il taglio dell’esperienza pura
in soggetto e oggetto – comunque li si voglia ripartire – è solamente una delle
possibili analisi e determinazioni che si possono portare avanti e rappresenta
quindi un percorso gnoseologico specifico, cioè ristretto ed unilaterale rispetto
alla prospettiva metafilosofica costituita dalla critica dell’esperienza pura, per
Rickert, invece, ogni gnoseologia deve necessariamente mettere in conto una
suddivisione e determinazione della coppia soggetto/oggetto, perché non si può
concepire una teoria della conoscenza fuori da una qualsiasi considerazione di
questi due termini e del loro rapporto.
49
Grenzen, p. 173; tr. it. cit., p. 94.
Fenomenologia delle emozioni 77
*******
1
J-P Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, trad. E. Bonomi, Bompia-
ni, Milano 1962, pag. 54
Fenomenologia delle emozioni 79
*******
Le lacrime e la commozione che invadono chi ricorda una perdita non sono
affatto disordine espressivo, ma una condotta adeguata ad una esistenza che
ancora non vuole ammettere l’irrimediabilità della perdita.
Non potendo sostenere questo vuoto l’esistenza si abbandona ad una con-
dotta compensatoria che riduce la sofferenza di una irrimediabile solitudine.
Nel pianto non c’è calcolo ragionato, ma la soluzione brusca di un conflitto.
L’emozione è un mezzo per eludere una difficoltà che non si è ancora in grado di
reggere ed è dunque un modo per continuare, nonostante tutto, ad essere-nel-mondo.
Il significato dell’emozione non va cercato, come fa la psicanalisi (in questo
concordo con Sartre), nell’inconscio, perché l’emozione non è l’effetto manife-
sto di una causa latente.
Il rapporto di causalità, infatti, se è idoneo a spiegare le relazioni tra le cose,
non lo è per l’ordine delle intenzioni, dei segni e dei significati.
Sartre presuppone che la coscienza non sia mai pienamente abolita, che le
distanze effettive del mondo non siano mai veramente annullate.
Ma è proprio questo che nell’emozione accade: vi è un’alterazione improvvisa
del mondo e la conseguente improvvisa alterazione del mio modo di abitarlo.
A questa alterazione magica la coscienza ricorre per risolvere a suo modo
(ovviamente si tratterà di una pseudo-soluzione) il conflitto che l’attanaglia.
Questa alterazione magica produce un universo analogo a quello del sogno
in cui gli oggetti non sono più percepiti per quel che sono, ma a partire dallo
sfondo di un mondo catturato dall’atmosfera dell’angoscia.
*******
Quello fornitoci da Sartre è solo un abbozzo; le pagine del suo breve saggio sono
costellate di rare ma preziose intuizioni che, completandosi alla luce delle odierne
acquisizioni, consentono una più accurata e completa indagine sull’uomo.
La necessità di uno studio veramente positivo sull’uomo commosso è giusti-
ficata da Sartre con l’esigenza posta da Husserl, e da Heidegger, di far luce sulle
nozioni di uomo, di mondo, di essere-nel-mondo, di situazione.
In un sì ampio approccio all’uomo è impossibile non tener conto dell’emo-
zione, fenomeno trascendentale, forma organizzata dell’esistenza umana che
significa il tutto della coscienza o, ancor meglio, la «stessa realtà umana realiz-
zantesi nella forma ‘emozione’»2.
Sartre si pone in queste pagine lo stesso problema che qualche secolo prima
si era posto Kant: se e come le ricerche psicologiche del suo tempo rispondeva-
no alla domanda che cos’è l’uomo.
Ebbene, il procedimento fenomenologico, diversamente dagli approcci
“classici” della ricerca psicologica, mira all’emozione come significato: il punto
di partenza non è, riduttivamente, il fatto, ma il fenomeno in quanto significa.
Allontanandosi dalla psicologia analitica e polverosa che s’insegnava alla
Sorbona, Sartre si avvicina con molte riserve alla psicanalisi, per la possibilità
che essa offre nella ricerca del significato delle malattie psichiche.
Sartre è perfettamente consapevole che l’interesse maturato nei riguardi
dell’emozione non è accidentale: l’emozione si configura infatti come un modo
di esistere della realtà umana, una modalità con cui la coscienza modifica e
comprende il suo Essere-nel-mondo.
Guardiamo rapidamente ai limiti della psicologia con cui Sartre ebbe a con-
frontarsi e che ritenne opportuno rigettare.
Essa si presentava anzitutto come una disciplina positiva, intenta a ricavare
le proprie risorse esclusivamente dall’esperienza.
La nozione di uomo che era in grado di delineare si limitava all’empirico.
Con ciò pretendeva d’essere una scienza ma invero altro non forniva che
una disordinata accozzaglia di fatti eterocliti la maggior parte dei quali non ha
alcun legame reciproco.
Ma l’esito non poteva essere meno penoso se si rammenta che basarsi sul
fatto significa, per definizione, basarsi sull’isolato, preferire l’accidente all’es-
senziale, il contingente al necessario, il disordine all’ordine.
Allo stesso modo i principi e i metodi dello psicologo, applicati allo stu-
dio delle emozioni, descriveranno l’emozione come mero accidente scan-
2
J-P Sartre, Idee per una teoria delle emozioni, cit., pag. 159.
Fenomenologia delle emozioni 83
3
Ivi, pag. 161.
84 Lucia Corrado
*******
*******
4
Ivi, pag. 201
Fenomenologia delle emozioni 89
5
J-P Sartre, Immagine e coscienza, trad. di E. Bottasso, Einaudi, Torino 1948, pag.228
90 Lucia Corrado
Allo stesso modo il sognatore morboso che immagina più prospettive di vita,
contesti abnormi (essere un re e disporre di un proprio regno), lo fa perché non
è più in grado di vivere.
6
J-P Sartre, Immagine e coscienza, cit., pag. 219
Fenomenologia delle emozioni 91
*******
«Il mondo che ci circonda, il mondo dei nostri desideri, dei nostri
bisogni e dei nostri atti, si presenta solcato da vie strette e rigorose che
conducono a questo o a quel fine determinato, cioè all’apparizione di un
oggetto creato. Naturalmente un po’ ovunque sono disseminati inganni
92 Lucia Corrado
7
J-P Sartre, Immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, cit., pp. 42-43
Fenomenologia delle emozioni 93
Che la rinuncia si consumi poi esclusivamente nella mente del malato è su-
perfluo puntualizzarlo.
*******
Per concludere, quella ricerca che voglia proporsi come approfondita inda-
gine sull’uomo, riguarderà forme e sviluppi psicologici, intendendo per “forme”
quelle strutture psicologiche che appartengono a diversi livelli di organizzazio-
ne, dai più semplici ai più complessi.
Esse comprendono entità psicologiche quali i sentimenti in generale, le
emozioni, le immagini, il linguaggio, il pensiero ecc.
È senz’altro vero che stati fisiologici o emozioni semplici, come la fame, la
sete, la fatica, gli impulsi sessuali, sono forze motivazionali potenti, e tuttavia
per una più matura indagine dell’essere-uomo è necessario andare oltre queste
emozioni primitive per guardare alle importanti forze psicodinamiche determi-
nate dalla vita concettuale.
Ebbene, dal funzionamento di queste forze derivano i vari modi di speri-
mentare il mondo e il Sé.
Freud, per parte sua, non fu in grado di chiarire fino in fondo la funzione
delle emozioni; non a caso è proprio nell’affettività che troviamo gli aspetti più
controversi della sua teoria.
Nei suoi primi lavori Freud attribuì grande importanza ai fattori affettivi
visti come forze dinamiche dirette.
Successivamente collocò queste forze negli istinti o pulsioni, visti come
quantità di energia libidica.
L’emozione finì per avere, per Freud, una funzione di valvola di sicurezza
nello scaricare l’organismo dalla tensione pulsionale eccessiva.
Deduciamo che secondo le teorie di Freud le emozioni sono derivati delle
pulsioni ed hanno prevalentemente una funzione di valvola di sicurezza.
Un organismo che non può svilupparsi oltre il livello del principio di pia-
cere non sperimenta sentimenti più complessi delle protoemozioni, emozioni
elementari la cui componente cognitiva è costituita soltanto dalla percezione di
una serie definita e circoscritta di stimoli.
Le emozioni più complesse – come l’angoscia, la collera, il desiderio, la de-
pressione – si prolungano invece come stati esperenziali.
Sin dal sorgere della scuola psicanalitica l’angoscia è stata l’emozione che ha
94 Lucia Corrado
L’essere umano organizza gli eventi che sperimenta in forma di storie che
si sviluppano nel tempo attraverso l’evolversi più o meno articolato di cambia-
menti in cui si è mossi da desideri, intenzioni, emozioni.
Queste narrazioni non corrispondono direttamente alla realtà ma sono il
frutto creativo dell’attribuzione di senso che il soggetto dà agli eventi attraverso
una personale rielaborazione che ha ammorbidito il duro contatto col reale con
il prezioso supporto dell’emozione-cuscinetto.
Fenomenologia delle emozioni 95
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Abstract Vertical and horizontal Structure of Love: Hannah Arendt’s interpretation of Au-
gustine
This study examines Hannah Arendt’s interpretation of love and Augustine’s philosophy
in her doctoral thesis written in 1928.
The reading reconstructs a relationship between Hannah Arendt’s and Augustine’s phi-
losophy and underlines the Augustinian root in Arendt’s political and moral thought.
Arendt criticizes the possibility of love of neighbour to go beyond the solipsistic phe-
nomenon of self-reflection because of the duality between loneliness of the individual in
God’s presence and his social and common nature.
Nevertheless, according to Arendt Augustine never stopped his quest to understand and in-
terpret world and human existence in philosophical terms. Hence, his thought continues to
provide influential and eloquent arguments for contemporary ethics and politics.
1
Cfr. R. JOLIVET, Augustin et le néoplatonisme chrétien, Les Éditions Denoël et Steele,
Paris 1932.
98 Maria Letizia Pelosi
2
Un quadro sintetico delle discussioni intorno allo sviluppo biografico e speculativo di
Agostino, si trova nell’introduzione di Christine Mohrmann alle Confessioni, in SANT’AGO-
STINO, Le confessioni, intr. di C. Mohrmann, trad. di C. Vitali, BUR, Milano 2006, pp. 23 e ss.
Per una ricognizione storiografica sulla presenza di Agostino nella filosofia del Novecento cfr.
AA. VV., Esistenza e libertà. Agostino nella filosofia del Novecento, 3 vv., a cura di L. Alici, R.
Piccolomini, A. Pieretti, Città Nuova, Roma 2000 e relativa bibliografia.
3
G. CANTILLO, Introduzione a Jaspers, Laterza, Roma-Bari, 20022, p. 152.
4
K. JASPERS, I grandi filosofi, a cura di F. Costa, Longanesi, Milano 1973, p. 408.
5
Ivi, p. 444.
6
Ivi, p. 468.
7
Ivi, p. 407.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 99
stino (discussa nel novembre 1928 e pubblicata nel 1929 per l’editore Springer
di Berlino); studio che fa sentire i suoi effetti attraverso la sua intera esperienza
intellettuale. L’analisi del testo dedicato ad Agostino mira quindi a verificare
quanto di questa esperienza giovanile di pensiero resta come fonte costante di
problematicità teorica.
Si può ricondurre in modo convincente la presenza di Agostino nel pensie-
ro di Hannah Arendt a forti istanze etico-morali,8 il che, del resto, può trovare
conferma nei significativi riferimenti ad Agostino contenuti nelle lezioni tenute
tra il 1965 e 1966 alla New York School for Social Research e raccolte nel testo
intitolato Alcune questioni di filosofia morale9. In esso, partendo da una riflessio-
ne sui concetti di bene e male, Hannah Arendt affronta il problema dell’impos-
sibilità di risalire all’infinito nell’ordine delle cause in un contesto etico-morale:
“già Agostino - sottolinea Arendt - lo aveva segnalato nel De libero arbitrio (3.
17)” 10, dove è scritto:
Non si può dunque regredire senza limite alla ricerca di una causa. Posto
che la volontà deve essere causa di se stessa, si deve affrontare il problema del
perché si voglia il male e non il bene. Per Agostino “la radice di tutti i mali è
l’avidità, ossia volere di più di ciò che basta.”12 La volontà eccessiva sarebbe
allora la causa del peccato, cioè del male, e nessuna causa può venire prima
della volontà, quando si cerchino le ragioni dell’agire etico. Qui Arendt pone le
proprie obiezioni mettendo in evidenza quella che lei stessa chiama “una frat-
tura nel seno della volontà”.13 La volontà infatti è libera di volere e non-volere
allo stesso tempo. Il suo carattere di causa originaria, nota Arendt, perde la
8
Cfr. i saggi di J. Vecchiarelli Scott and J. Chelius Stark, Rediscovering Hannah Arendt, in
H. ARENDT, Love and Saint Augustine, ed. and with an interpretive essay by J. Vecchiarelli
Scott and J. Chelius Stark, The University of Chicago Press, Chicago London, 1996, pp. 125-
134 e di S. MA. Kampowski, Arendt, Augustine, and the New Beginning Hannah Arendt’s Theory
of Action and Moral Thought in the Light of Der Liebesbegriff bei Augustin, Theses ad doctora-
tum in S. Teologia extractum, Pontificia Università Lateranense, Roma 2005.
9
H. ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, in Id., Responsabilità e giudizio, a cura
di J. Kohn, Einaudi, Torino 2004, pp. 110 e ss.
10
Ivi, p. 110.
11
AGOSTINO, Il libero arbitrio, III, 17, 48.
12
Ib.
13
H. ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 111.
100 Maria Letizia Pelosi
sua plausibilità nel momento in cui ci si rende conto che la volontà è sempre
già preceduta da una scelta; in altri termini preceduta da un principio che, a
sua volta, la determina. Ed infatti, sostiene Arendt, già in Agostino “ciò che sta
dietro la volontà […] è il fatto che omnes homines beatus esse volunt”14, il fatto
che ogni uomo vuole essere felice. Bisogna quindi determinare cosa sia o cosa
significhi essere felice, ovvero, che cosa la volontà debba o non debba volere,
per agire bene o male. In questo modo la ricerca di un fondamento per l’agire
morale deve affidarsi ad un principio assoluto, che, secondo l’interpretazione
della Arendt, significa dare ragione della infelicità terrena tramite un’aspettati-
va di felicità eterna e in un mondo a venire.
II
14
Ivi, p. 112.
15
H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, trad. e cura di L. Boella, SE, Milano 2001,
p. 19.
16
Cfr. J. KRISTEVA, Il genio femminile, Tomo 1, Hannah Arendt. La vita, le parole, trad. di
M. Guerra, Donzelli, Roma 2005, p. 45.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 101
17
A. DAL LAGO, La difficile vittoria sul tempo. Pensiero e azione in Hannah Arendt, intr. a
H. ARENDT, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 19.
18
Cfr. H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 76; AGOSTINO, Commento alla
prima lettera di Giovanni, II, 12.
19
H. ARENDT, Quaderni e diari 1950-1973, ed. ted. a cura di U. Ludz e I. Nordmann; ed.
it. a cura di C. Marzia, Neri Pozza, Vicenza 2007.
20
H. ARENDT, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958 (Vita
activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 19974), in part. i §§ 1, 2, 7, 24.
21
H. ARENDT, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz. Prefazione di K. Sontheimer, Edi-
zioni di Comunità, Milano 19972, parte 1, cap. I, frammento 3b.
22
AGOSTINO, La città di Dio, XII, 21.
23
H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, intr. di A. Martinella; con un nuovo saggio di S.
Forti, Ed. di Comunità, Milano 1999, p. 656.
102 Maria Letizia Pelosi
24
J. VECCHIARELLI SCOTT, Mediaeval Sources of the Theme of Free Will in Hannah
Arendt’s The Life of the Mind: Augustine, Aquinas and Scotus, in “Augustinian Studies”, 18,
1987, pp. 107-124.
25
R. BEINER, Il giudizio in Hannah Arendt. Saggio interpretativo, in H. ARENDT, Teoria
del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, con un saggio interpretativo di R.
Beiner, ed. americana a cura di R. Beiner, il melangolo, Genova 2005, p. 203. Beiner ha dedi-
cato al rapporto tra Arent e Agostino anche un saggio, dal titolo Love and Worldliness: Hannah
Arendt’s Reading of Saint Augustine, in L. MAY-J. KOHN (ed.), Hannah Arendt Twenty Years
Later, Mit Press, Cambridge - London 1996, in cui viene evidenziata la sostanziale continuità
di interessi teorici tra quella che viene considerata la prima fase del pensiero arendtiano, ante-
cedente al trauma della seconda guerra mondiale, e la successiva produzione.
26
Cfr. H. ARENDT, Vita activa, cit., p. 18.
27
P. BOYLE, Elusive neighborliness: Hannah Arendt’s Interpretation of Saint Augustine, in
Amor Mundi. Explorations in the Faith and Thought of Hannah Arendt, Martinus Nijhoff Pub-
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 103
vita interiore”31 che sarebbe giunto fino al gusto romantico per il romanzo auto-
biografico, trovando il culmine nell’“idea di autosviluppo autonomo”32 espressa
da Goethe. Come è stato scritto, l’articolo su Agostino e il protestantesimo può
essere considerato, per il percorso intellettuale di Arendt, un “ponte gettato fra
i suoi vecchi studi filosofici e l’attuale lavoro sui romantici”.33 Nel 1930 infatti
Arendt già lavora a quella che diventerà la biografia di Rahel Varnhagen, una
donna ebrea vissuta al tempo del romanticismo, in cui pure viene affrontata, in
termini ovviamente differenti, la dimensione dell’io che si racconta ovvero della
coscienza che si confessa.34
Il tema dell’intreccio tra la “solitudine” del pensiero autoriflessivo, o dell’io
che si pone di fronte a Dio, e la presenza ineludibile della realtà esteriore, chia-
ma in causa il problema della dialettica soggetto/oggetto, in quella forma par-
ticolare del rapporto dove si manifesta un’esteriorità irriducibile del mondo
esterno alla vita interiore del soggetto. La relazione oppositiva tra il soggetto
che pensa o agisce e l’oggetto a cui il pensiero e l’agire si riferiscono può es-
sere considerata, in prima istanza, un atto primordiale dell’esistenza umana,
mediante il quale l’uomo si pone come soggetto costituendo il mondo che gli è
davanti come oggetto. In questo modo l’oggetto che si oppone al soggetto è in
definitiva costruito dal soggetto stesso e partecipa di un’esistenza comune. Vi è
poi un secondo livello del rapporto soggetto/oggetto, in cui i due termini con-
servano una relazione, ma non all’interno di uno stesso piano; essi sono invece
del tutto indipendenti l’uno dall’altro, e l’oggetto esiste al di là e oltre il soggetto
che lo pone. L’esteriorità o alterità dell’oggetto costituisce la sua essenza, esso è
del tutto fuori dal mondo del soggetto. Questo “totalmente altro”,35 come scrive
Arendt, che “rende una vita degna di essere ricordata”,36 è la chiave di accesso
per una comprensione esauriente delle Confessioni: esso “non è – scrive Arendt
– un qualsiasi principio immanente in quella vita stessa”,37 ma è “la grazia di
Dio”,38 qualcosa venuto dal di fuori, esterno al mondo che il soggetto vede e
sente; ma non – ed è qui la grandezza di Agostino – fuori dalla vita interiore
dell’anima. Si tratta dunque di un fatto particolare e individuale, che diventa
esemplare nella sua comunicabilità – è infatti materia di racconto – e che può
31
H. ARENDT, Agostino e il protestantesimo, cit., p. 64.
32
Ivi, p. 66.
33
E. YOUNG-BRUEHL, Hannah Arendt 1906-1975, cit., p. 112.
34
H. ARENDT, Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, a cura di L. Ritter Santini;
postf. di F. Sossi, il Saggiatore, Milano 2004.
35
H. ARENDT, Agostino protestantesimo, cit., p. 65.
36
Ib.
37
Ivi, p. 65.
38
Ib.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 105
39
Ivi, p. 65.
40
Ib.
41
AGOSTINO, Confessioni, I, 2,2 e XIII, 38,53.
106 Maria Letizia Pelosi
III
42
H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 35.
43
H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, trad. e
cura di L. Boella, SE, Milano 2001, p. 19.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 107
44
Ib.
45
Cfr. R. CANNING, The Unity of Love For God and Neighbour, “Augustiniana”, XXXVII,
1987, pp. 38-121.
46
Ivi, p. 73.
108 Maria Letizia Pelosi
47
H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 16.
48
Per la curvatura originale dell’interpretazione arendtiana di Agostino nei confronti di
altre letture, si veda L. BOELLA, Hannah Arendt. Amor mundi, in AA. VV., Esistenza e libertà.
Agostino nella filosofia del Novecento, cit.
49
J. VECCHIARELLI SCOTT - J. CHELIUS STARK, Rediscovering Love and Saint Augus-
tin, in H. ARENDT, Love and Saint Augustine, p. XIII.
50
Cfr. E. YOUNG-BRUEHL, Hannah Arendt 1906-1975, cit. , p. 105.
51
J. HESSEN, Arendt, Hannah, Der Liebesbegriff bei Augustin, “Kant-Studien”, 36, 1931, p. 175.
52
Cfr. J. TERNUS, Der Liebesbegriff bei Augustin, von Hannah Arendt, “Philosophisches
Jahrbuch”, 43, 1930, pp. 407-408.
53
Cfr. H. EGER, Hannah Arendt, Der Liebesbegriff bei Augustin, “Zeitschrift für Kirchenge-
schichte”, XLIX, n. f. XII, 1930, pp. 257-259.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 109
il cui testo viene segnalato da lei come tra le migliori esposizioni dell’evolu-
zione intellettuale di Agostino.54 Alfaric può essere considerato uno dei nomi
principali di quella corrente critica che tendeva a separare il pensiero di Ago-
stino in quanto speculazione razionale autonoma dagli aspetti dogmatici della
fede e della dottrina cristiana. Si possono considerare appartenenti a questa
corrente studiosi come Adolf von Harnack e Wilhelm Thimme, pure presi in
considerazione dalla Arendt nella sua bibliografia. Questa maniera “totalmente
antistorica”55 di interpretare gli scritti di Agostino, alla luce di una distinzione
pretestuosa tra ciò che è cristiano e ciò che non lo è, conduce giocoforza a tra-
scurare quella sintesi tra l’elemento cristiano e quello neoplatonico che, secon-
do altri interpreti56, dev’essere considerato un tratto caratteristico dell’opera di
Agostino.
Alfaric insiste sull’inquietudine di Agostino, che lo porta ad “allargare con-
tinuamente il suo orizzonte”57 e che rende impossibile considerare i suoi scritti
come un’opera unica, in cui le parti si completano logicamente all’interno di
un sistema coerente. I diversi contesti sociali e culturali con i quali Agostino si
misura si intrecciano con la sua vita spirituale, agitata e in continua ricerca. In
questo senso, secondo Alfaric, un elemento tra gli altri fa luce sulla tendenza
critica del pensiero di Agostino, ed è la filosofia neoplatonica, più importante
addirittura della stessa conversione al Vangelo.
Senza entrare, ovviamente, in una ricostruzione della complessa storia dei
rapporti tra Agostino e la tradizione filosofica precedente, si può osservare però
che nelle correnti filosofiche antiche Agostino cerca modelli ed esempi che gli
consentano di esporre il proprio pensiero senza distaccarsi dalla fede cui fa
costante riferimento e che sta a fondamento della sua riflessione. Il che non gli
impedisce, appunto, di ritenere necessario il confronto con i filosofi greci e ro-
mani. Com’egli stesso scrive:
54
Cfr. H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 17.
55
R. HOLTE, Beatitude et sagesse. Saint Augustin et le problème de la fin de l’homme dans la
philosophie ancienne, Études Augustiniennes, Paris 1962, p. 82.
56
Cfr. R. HOLTE, Beatitude et sagesse. Saint Augustin et le problème de la fin de l’homme
dans la philosophie ancienne, cit. e Ch. BOYER, Christianesime et Néo-Platonisme dans la for-
mation de saint Augustin, Paris 1920.
57
P. ALFARIC, L’évolution intellectuelle de Saint Augustin, Émile Nourry éditeur, Paris
1928, p. III.
110 Maria Letizia Pelosi
velato la verità della divina tradizione, il vero filosofo è colui che ama
Dio. Ma il significato in sé, indicato da questo nome, non si trova in tutti
coloro che menano vanto del nome, perché non necessariamente coloro
che si dicono filosofi amano la vera sapienza. Pertanto fra tutti coloro,
di cui è stato possibile conoscere le teorie nella tradizione letteraria, si
devono scegliere quelli con cui si possa trattare convenientemente il pro-
blema in parola. Non ho infatti intenzione di ribattere in questa opera
tutte le errate teorie di tutti i filosofi ma quelle soltanto che sono attinenti
alla teologia, parola greca con cui s’intende indicare il pensiero ossia il
discorso sulla divinità.58
L’ideale della saggezza si realizza, per Agostino, nel cristianesimo. Se, alla
luce del rapporto unificante tra fede e filosofia di cui Agostino si fa testimone
nel passo appena citato, si considera Agostino come un continuatore di una
sintesi già elaborata dal cristianesimo primitivo tra cristianesimo e neo-pla-
tonismo, le distinzioni tra un Agostino teologo e un Agostino filosofo vengono
assorbite all’interno di un’unica grande figura teorica. In questa prospettiva la
separazione di teologia e filosofia in Agostino appare come una distorsione.
Ben diverse erano evidentemente le intenzioni della Arendt ed i suoi pre-
supposti interpretativi. I due argomenti presentati da Alfaric, lo spostamento
continuo in Agostino dei limiti della riflessione e l’influenza della filosofia greca,
vengono assunti da Hannah Arendt per dimostrare che l’interesse originario del
pensiero di Agostino non riflette una vittoria dell’elemento cristiano su quello
platonico o viceversa, ma persiste lungo l’intero arco della sua evoluzione nella
forma dell’interrogazione filosofica. È questa interrogazione che lascia aperta
ad un’interpretazione pre-teologica la questione della rilevanza del prossimo
o, per dirla con Arendt: “come sia possibile che l’uomo, isolato da tutto quanto
è mondano, coram Deo nutra ancora un interesse verso il prossimo”.59 Di qui
l’analisi delle forme dell’amore, in corrispondenza delle direzioni verso le quali
esso si volge. Tali direzioni, determinate dall’oggetto a cui l’amore stesso è indi-
rizzato, generano a loro volta tre diverse forme di amore: l’amore come deside-
rio, l’amore come rapporto fra l’uomo e Dio e l’amore per il prossimo.
Queste tre forme d’amore non sono altro, nella lettura arendtiana, che tre
diversi sistemi concettuali, emergenti proprio dalla coesistenza, in Agostino,
di diverse tradizioni filosofiche e intellettuali, e all’interno dei quali il concetto
58
AGOSTINO, La città di Dio, VIII, 1.
59
H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 19.
Verticalità e orizzontalità dell’amore:Hannah Arendt interprete di Agostino 111
d’amore gioca un ruolo decisivo. Tali sistemi concettuali danno il nome a cia-
scun capitolo del libro: “Amor qua appetitus”, ovvero l’ambito del desiderio o
del futuro, “Creator-creatura”, ovvero l’ambito del passato o dell’origine, e “Vita
socialis”, ovvero il mondo dell’essere insieme e della comunità degli uomini, in
cui il prossimo viene ad assumere un significato differente ma interdipendente
dai due contesti precedenti. Le tre linee di pensiero (futuro, origine, società)
non possono essere giustapposte o messe in relazione sistematicamente o anti-
teticamente. Esse sono tenute insieme soltanto dalla questione concernente la
rilevanza del prossimo, ovvero dalla lex scripta in cordibus nostris,60 che costitu-
isce l’unitarietà delle due domande poste qui di seguito: la legge della coscienza,
ovvero la legge morale “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, prece-
de il comandamento divino “ama il prossimo tuo come te stesso”? Perché, per
il soggetto che riflette su di sé, sul senso della propria esistenza, sulla propria
origine, la legge divina è l’unica strada per pervenire alla propria verità?
Le definizioni che Agostino dà dell’amore vengono interpretate dalla Arendt
in direzione di tre linee concettuali: che cosa significa amare il prossimo in
relazione all’amore come appetitus, in relazione all’amore di Dio come ricerca
della propria origine, e in relazione alla comunità degli uomini. Quest’ultimo
punto costituisce un momento a sé, che guarda all’amore come possibilità del
singolo di accedere ad un’esperienza universale, ed è trattato nella terza parte
della dissertazione, in cui viene sottolineata l’importanza dell’“essere-insieme
degli uomini nella comunità umana”.61 Da esso inoltre Arendt trae il criterio per
far emergere, dalle precedenti trattazioni dell’amore, incongruenze e duplicità
che non solo testimoniano aspetti meno noti dell’opera di Agostino, ma che mo-
strano come, in Agostino stesso, siano presenti, interagiscano e si influenzino
intenzioni differenti, che precedono le interpretazioni teologiche e che chiama-
no in causa la posizione dell’uomo nel mondo. La condizione degli uomini è di
vivere in relazione gli uni con gli altri; e, conclude Hannah Arendt, la rilevanza
del prossimo per la propria esistenza si può comprendere e realizzare solo se
ci si considera appartenenti ad una comunità. Nella comunità ciascun singolo
uomo trova l’accesso alla dimensione dell’universalità. Per poter amare ed es-
sere amati come singoli è necessario essere nella comunità, ma l’amore non è
possibile se non uscendo fuori dalla singolarità di se stessi per andare incontro
agli altri.
60
Cfr. H. ARENDT, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 15 e AGOSTINO, Confessioni,
II, 4, 9.
61
Ivi, p. 131.
112 Maria Letizia Pelosi
62
H. ARENDT, Love and Saint Augustine, ed. and with an interpretive essay by J. Vec-
chiarelli Scott and J. Chelius Stark, The University of Chicago Press, Chicago London, 1996,
p. 43.
Macchine Performative 113
Macchine Performative
La produzione tecnica del performativo in Jacques Derrida
Abstract. The essay brings into focus a set of displacements that the analysis of techni-
cal production as an effect of the inscription of the sense into the mark, elaborated by
Derrida in Signature Evénement Contexte (Sec), causes within the metaphysical tradition
presupposed by the concept of performative utterance and the structure of the event the
performative adheres to more than any other utterance. The effects of Derrida’s analysis
are singled out within the reading of Austin’s work proposed by Derrida in Sec and within
the readings of the Austinian orthodoxy, of Augustine’s and Rousseau’s performatives
and of the style of de Man’s deconstruction deployed in Le ruban de la machine à écrire.
Limited Ink II. Derrida’s analysis of the paradoxical synthesis of singular and general,
articulating the structures of mark and work (oeuvre), is understood to put into relief the
irreducible conditions of the institution of the event in general, which the metaphysical
tradition conjures or removes by a certain determination of technical production.
Ecrire, c’est produire une marque qui constituera une sorte de machine
à son tour productrice, que ma disparation future n’empêchera pas prin-
cipiellement de fonctionner et de donner, de se donner à lire et à réécrire.
Quand je dis « ma disparition future », c’est pour rendre cette proposition
plus immédiatement acceptable. Je dois pouvoir dire ma disparition tout
court, ma non-présence en général, et par exemple la non-présence de mon
vouloir-dire, de mon intention-de-signification, de mon vouloir-communi-
quer-ceci, à l’émission ou à la production de la marque.1
1
J. Derrida, Signature événement contexte in idem, Marges de la Philosophie, Les Editions
de Minuit, Paris 1972 p. 376.
2
Per la dinamica dell’incorporazione del senso si rimanda agli studi su Derrida di Fran-
cesco Vitale. In particolare, sul nesso tra scrittura e produzione tecnica vedi F. Vitale, “Spettri
della singolarità. La vita, la tecnica, l’archiscrittura” in idem, Spettrografie. Jacques Derrida tra
singolarità e scrittura, Il Melangolo, Genova 2008 pp.79-106.
Macchine Performative 115
3
Sec p.376
4
Cfr. Sec, p.377: […] je voudrais démontrer que les traits qu’on peut reconnaître dans le
concept classique et étroitement défini d’écriture sont généralisables. Ils vaudraient non seule-
ment pour tous les ordres des «signes» et pour tous les langages en général, mais même, au-delà
de la communication sémio-linguistique, pour tout le champ de ce que la philosophie appellerait
l’expérience, voire l’expérience de l’être, ladite «présence». Sulla capacità della scrittura di artico-
lare la produzione di senso all’esperienza dell’io singolare e cosciente vedi Vitale, pp.103-4.
116 Mauro Senatore
5
Sec, p.373
6
Cfr. Sec, p.390: La différance, l’absence irréductible de l’intention ou de l’assistance à l’énon-
cé performatif, l’énoncé le plus «événementiel» qui soit, c’est ce qui m’autorise, compte tenu des
prédicats que j’ai rappelés toute à l’heure, à poser la structure graphématique générale de toute
«communication».
7
J. Austin, How to do things with words, Oxford Clarendon Press, London 1962 (Htw) p.5:
Utterances can be found, satisfying these conditions, yet such that: A. they do not ‘describe’ or ‘re-
Macchine Performative 117
It seems clear that to utter the sentence (in, of course, the appropriate
circumstances) is not to describe my doing of what I should be said in so
uttering to be doing or to state that I am doing it: it is to do it. None of the
utterances cited is either true or false: I assert this as obvious and do not
argue it. […] To name the ship is to say (in the appropriate circumstan-
ces) the words ‘I name, &c.’. When I say, before the registrar or altar, &c.,
‘I do’, I am not reporting on a marriage: I am indulging in it8.
port’ or constate anything at all, are not ‘true or false’; and B. the uttering of the sentence is, or is a
part of, the doing of an action, which again would not normally be described as saying something.
Su questo testo, con riferimento alla lettura di de Man, vedi in particolare R. Gasché, “Setzung
and Ubersetzung” in idem, The wild card of reading: on Paul de Man, Harvard University Press,
Cambridge Mass. and London 1998 pp.11-47, in cui l’autore inscrive la teoria degli speech acts
entro la tradizione idealistica del porre (Setzen) rilevando nel concetto di atto performativo la
struttura fichtiana dell’auto-posizione dell’io (Ich).
8
Htw, p.6
9
Htw, p.7: One technical term that comes nearest to what we need is perhaps ‘operative’, as it
is used strictly by layers in referring to that part, i.e. those clauses, of an instrument which serves
to effect the transaction (conveyance or what not) which is the main object, whereas the rest of the
document merely ‘recites’ the circumstances in which the transaction is to be effected.
10
Htw, p.15: Where, as often, the procedure is designed for use by persons having certain
thoughts or feelings, or for the inauguration of certain consequential conduct on the part of any
participant, then a person participating in and so invoking the procedure must in fact have those
thoughts or feelings. And the participants must intend so to conduct themselves, and further must
118 Mauro Senatore
12
Htw, pp.21-2
120 Mauro Senatore
13
Sec, p. 387
14
Sec, p.387
15
Sec, pp.388-9: Un énoncé performatif pourrait-il réussir si sa formulation ne répétait pas
un énoncé codé ou iterable, autrement dit si la formule que je prononce pour ouvrir une séance,
lancer un bateau ou un mariage n’était pas identifiable comme conforme à un modèle iterable, si
donc elle n’était pas identifiable en quelque sorte comme «citation».
Macchine Performative 121
intrecciata con l’elaborazione dello statuto e della logica dell’evento. Derrida invita
a pensare l’evento a partire dall’articolazione paradossale di produzione originale,
instaurazione, istituzione, ecc. e produzione meccanica o tecnica, che costituisce
e, ad un tempo, duplica la struttura esemplare del performativo.
Il faut d’abord s’entendre ici sur ce qu’il en est du «se produire» ou
de l’événementialité d’un événement qui suppose dans son surgissement
prétendument présent et singulier l’intervention d’un énoncé qui en lui-
même ne peut être que de structure répétitive ou citationnelle ou plutôt,
ces deux derniers mots prêtant à confusion, iterable. Je reviens donc à
ce point qui me parait fondamental et qui concerne maintenant le statut
de l’événement en général, de l’événement de parole ou par la parole, de
l’étrange logique qu’il suppose et qui reste souvent inaperçue.16
16
Sec, p.388. Vedi ibidem: Un énoncé performatif serait-il possible si une doublure citation-
nelle ne venait scinder, dissocier d’avec elle-même la singularité pure de l’événement?
17
Sec, p.389
122 Mauro Senatore
18
Sulla struttura della vita tecnica vedi il testo di Derrida citato e la lettura relativa in
Vitale, pp.86-7.
19
Cfr. Sec p.390: Que toutes les difficultés rencontrées par Austin se croisent au point où il est
à la fois question de présence et d’écriture, j’en verrai un indice dans tel passage de la Cinquième
Conférence où surgit l’instance divisée du seing.
Macchine Performative 123
20
Htw, p.60
124 Mauro Senatore
ture (this has to be done because, of course, written utterances are not
tethered to their origin in the way spoken ones are).21
A questo punto è possibile verificare gli effetti che una certa lettura produ-
ce sui concetti elaborati nel testo. La firma consiste, secondo Austin, in una
struttura di rinvio di secondo grado poiché si determina empiricamente in vi-
sta della lettura e dell’utilizzazione a venire, indipendentemente dalla presenza
dell’io singolare responsabile della sua produzione originale. Eppure, come ha
mostrato l’analisi della struttura essenziale del performativo, la firma, quale
marchio o forma virtualmente utilizzabile e, dunque, autoproduttiva, è già con-
nessa alla produzione dell’enunciato orale e costituisce necessariamente la con-
dizione generale di possibilità della produzione singolare e presente.
La lettura della forma della firma proposta da Derrida rimanda ancora alla sce-
na della presentazione del marchio o dell’invenzione della scrittura dinanzi al re
Thamus, che rivendica la distinzione tra l’approvazione della tecnica inventata da
parte dell’autorità e il riconoscimento del suo carattere performante22.
Derrida rileva l’originalità enigmatica della forma della firma nell’articola-
zione irriducibile dei termini dell’evento e del dispositivo autoproduttivo, con-
siderati nella loro purezza, o nel loro determinarsi l’uno a partire dall’opposi-
zione e dall’esclusione dell’altro.
21
Htw, pp.60-1
22
Cfr. Platone, Fedro, (ed.it.) Bur, Milano 2006 274e-275b: O Theut, sommo esperto di tecni-
che, altro è la capacità di concepire una tecnica, altro è giudicare il danno e il vantaggio che essa
arreca a chi la adopererà. Quello che tu, in qualità di padre delle lettere dell’alfabeto, ora dici per
affetto nei loro confronti, è il contrario di quello che esse sono in grado di fare. Sul nesso tra la lo-
gica dell’invenzione tecnicamente legittimata, o della macchina performante, e la pretesa alla
certificazione di legittimità garantita dal giudizio dell’autorità si rinvia all’analisi dei tre testi
sull’invenzione della macchina aritmetica di Pascal elaborata da Geoffrey Bennington nella
prima parte di G. Bennington, “Aberrations: de Man (and) the Machine” in idem, Legislations.
The politics of deconstruction, Verso, London New-York 1994 pp.137-51.
Macchine Performative 125
23
Sec, p.391. Vedi anche ibidem: Les effets de signature sont la chose la plus courante du
monde. Mais la condition de possibilité de ces effets est simultanément, encore une fois, la condi-
tion de leur impossibilité, de l’impossibilité de leur rigoureuse pureté.
24
Sec, p.392 : Pour fonctionner, c’est-à-dire pour être lisible, une signature doit avoir une
forme répétable, iterable, imitable; elle doit pouvoir se détacher de l’intention présente et singulière
de sa production. C’est sa mêmeté qui, altérant son identité et sa singularité, en divise le sceau.
J’ai déjà indique tout à l’heure le principe de cette analyse.
126 Mauro Senatore
Que serait cette aporie ? On peut dire d’une machine qu’elle est pro-
ductive, active, performante. Mais jamais une machine en tant que telle,
si performante soit-elle, ne pourrait, en stricte orthodoxie austinienne des
actes de langage (speech acts) produire un événement de type performa-
tif. La performativité ne se réduira jamais à la performance technique.
La performativité pure implique la présence d’un vivant, et d’un vivant
parlant une seule fois, en son nom, à la première personne. De façon à
la fois spontanée, intentionnelle, libre et irremplaçable. La performati-
vité exclut donc, en principe, dans son moment propre, toute technicité
machinale. Elle est même le nom de cette exclusion intentionnelle. Cette
forclusion de la machine répond à l’intentionnalité même de l’intention.
Elle est l’intentionnalité. L’intentionnalité semble forclore la machine.
Si de la machinalité intervient dans un événement performatif c’est tou-
jours comme un élément accidentel, extrinsèque et parasitaire, en vérité
pathologique, mutilant voire mortel.26
25
Per la storia del testo vedi J. Derrida, “Le ruban de la machine à écrire. Limited Ink II”
in idem, Papier machine, Editions Galilée, Paris 2001 p.33
26
Rme, p.37
Macchine Performative 127
27
Rme, p.38
128 Mauro Senatore
struttura esemplare della firma, è necessario che sia assolutamente sciolta dal-
la propria origine e sia disponibile alla ripetizione indipendentemente dalla
produzione originale e dall’assistenza dell’io singolare che ne è il responsabile.
Dunque la prestazione dell’opera come eredità o traccia virtualmente leggibile
e identificabile dell’evento presuppone un dispositivo macchinico dotato del
potere di generare se stesso. Questa struttura dell’opera è la condizione co-
stitutiva dell’evento come produzione di senso in genere, poiché consente di
scioglierne la traccia dall’ordine della sua occorrenza originale, immediata e
contingente, e di costituirla nell’ordine dell’utilizzabilità virtuale e inesauribile.
Poiché in essa si accordano paradossalmente le logiche contrarie dell’evento e
della macchina, l’opera assume su di sè l’aporia dell’evento prodotto per mezzo
della macchina.
Derrida preleva nell’ultimo paragrafo della seconda Promenade di Rousseau
l’esempio dell’articolazione paradossale di performante e performativo che de-
termina la struttura e la logica dell’opera. Il testo di Rousseau segna il passag-
gio dal modello agostiniano, in cui la confessione rivolta ad un dio onnisciente
serve a chiedere perdono per la colpa confessata, ad un genere di confessione
che assolve allo scopo di giustificare o discolpare e di proclamare l’innocenza
del suo firmatario28.
Derrida rileva nella fede nell’ordine e nella giustizia divina una macchinazio-
ne di Rousseau, cioè l’instaurazione dell’opera della giustificazione, l’invenzione
di una tecnica o di una macchina scusante29. Il testo di Rousseau è ricondotto
alla scena paradigmatica dell’installazione del marchio come produzione sin-
golare e presente di una macchina efficace a generare indefinitamente se stessa.
28
Per il testo di Rousseau, vedi J. J. Rousseau, “Rêveries d’un promeneur solitaire”, in
idem, Ouevres Completes, Balibon, Paris 1826 vol.XIX pp.153-4: Je ne vais si loin que Saint
Augustin qui se fut consolé d’être damné si telle eut été la volonté de Dieu. Ma résignation vient
d’une source moins désintéressée, il est vrai, mais non moins pure et plus digne à mon gré de
l’Etre parfait que j’adore. Dieu est juste ; il veut que je souffre ; et il sait que je suis innocent. Voilà
le motif de ma confiance, mon cœur et ma raison me crient qu’elle ne me trompera pas. Laissons
donc faire les hommes et la destinée ; apprenons à souffrir sans murmure ; tout doit à la fin
rentrer dans l’ordre, et mon tour viendra tôt ou tard. I testi di riferimento per la lettura derri-
diana del performativo delle scuse e delle sue molteplici articolazioni sono J. Austin, “A Plea
for Excuses” in Proceedings of the Aristotelian Society, 1956-7 e P. de Man “Excuses” in idem,
Allegories of reading. Figural language in Rousseau, Nietzsche, Rilke and Proust, Yale University
Press, New Haven and London 1979 (AR). pp.278-301. In particolare, nella prima parte del
testo indicato sopra, Austin sviluppa la distinzione rilevante tra la giustificazione e le scuse
in relazione al concetto di responsabilità: In the one defence, briefly, we accept responsibility
but deny that it was bad; in the other, we admit that it was bad but don’t accept full, or even any,
responsibility.
29
Rme, p.51: Telle serait la grâce mais aussi la machine de Rousseau. La grâce en tant que
machine: mhcanh@, ruse, ingénieuse invention, machination ou contre-machination.
Macchine Performative 129
30
Rme, pp.50-1
130 Mauro Senatore
31
I concetti della grazia e della marionetta, connessi attraverso la lettura del testo di
Rousseau all’instaurazione della macchina scusante, costituiscono i termini chiave del saggio
di de Man sul teatro di marionette di Heinrich von Kleist. In particolare, si veda il testo di
Kleist riportato da de Man in P. de Man, “Aesthetic formalization: Kleist’s Uber das Marionet-
tentheater” in idem, The rhetoric of Romanticism, Columbia University Press, New York 1984
pp.263-90, in cui il grado più puro della grazia è individuato nel corpo che è assolutamente
privo di coscienza o che la possiede all’infinita potenza, nella marionetta o in dio.
Macchine Performative 131
32
Rme, pp.111-2.
132 Mauro Senatore
condizione essenziale già nel modo della possibilità o del progetto, comunque
prima della sua realizzazione tecnica effettiva o mondana.
Elle [toute œuvre survivante] garde la mémoire du présent qui l’a insti-
tuée mais dans ce présent, il y avait déjà sinon le projet, du moins la possibi-
lité essentielle de cette coupure à dessein de sur-vie, de cette coupure en vue
de laisser une trace, de cette coupure qui assure parfois la sur-vie même s’il
n’y a pas dessein de survie. […] Elle marquait, telle une cicatrice, le présent
vivant originaire de cette institution – comme si la machine, la quasi-machi-
ne opérait déjà, avant même d’être techniquement produite dans le monde,
si je puis dire, dans l’expérience vive du présent vivant.33
33
Rme, p.112
Macchine Performative 133
34
Rme, pp.112-3
134 Mauro Senatore
35
Rme, p.113 : Cette neutralisation autodestructrice, suicide et automatique, que produit et qui
produit en même temps la scène du pardon ou la scène apologétique, pourquoi serait elle terrifiante ?
36
Rme, pp.113-4
Macchine Performative 135
The system of relationships that generates the text and that fun-
ctions independently of its referential meaning is its grammar. To the
extent that a text is grammatical, it is a logical code or a machine.
And there can be no agrammatical texts, as the most grammatical of
poets, Mallarmé, was the first to acknowledge. Any nongramatical
text will always be read as a deviation from an assumed grammatical
norm. But just as no text is conceivable without grammar, no gram-
mar is conceivable without the suspension of referential meaning.37
37
P. de Man, “Promises (Social contrat)” in AR, pp.268-9
38
Vedi AR, p.269: Just as no law can ever be written unless one suspends any consideration
of applicability to a particular entity including, of course, oneself, grammatical logic can function
only if its referential consequences are disregarded. On the other hand, no law is a law unless it
also applies to particular individuals. It cannot be left hanging in the air, in the abstraction of its
generality. Only by thus referring it back to particular praxis can the justice of the law be tested,
exactly as the justesse of any statement can only be tested by referential verifiability, or by devia-
tion from this verification?
136 Mauro Senatore
Nel testo di de Man, il furto della parola chacun, che consente di scavalcare
o supplire l’incompatibilità fondamentale, è determinato come appropriazione
di qualcosa a cui non si ha diritto, appropriazione abusiva o indebita della si-
gnificazione o del rinvio alla particolarità, sospesi dall’automatismo gramma-
ticale del testo.
Derrida rileva nella logica del furto l’articolazione paradossale di singolarità
e generalità che costituisce la struttura del pronome personale io. Questa let-
tura del testo di de Man presuppone l’analisi della quinta lezione di How to do
thing with words proposta da Derrida in Sec, in cui si rileva nell’io generale e
trascendentale la condizione essenziale della forma propria del performativo o
dell’enunciato singolare e presente per eccellenza.
39
AR, pp.269-70
Macchine Performative 137
40
Su questa strategia di lettura insiste anche la determinazione del furto come condizione
costitutiva della giustizia. Vedi Rme, p.101: Cette tromperie et ce vol, donc, seraient constitutifs
de la justice (à la fois sans référence et applicable, donc avec référence : sans et avec référence).
138 Mauro Senatore
singolare e vivente, rilevando nello spergiuro, fin dalla sua possibilità essenzia-
le, la struttura necessaria dell’enunciazione stessa.
41
Rme, p.102
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 139
Abstract. In Jaspers’ philosophical work, we can find a theoretic way: from the nihilistic
results of the contemporary age (rule of technique and political totalitarianisms) to a
new humanism. Particularly, Jaspers talks about the conditions of a new humanism in a
lecture of 1949: Über Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus. Jaspers
thinks the traditional ontology reduces the transcendence of the being in an object, and
this process has his greatest expression in modern technique, where the man is only a
functional object in technical machinery. If we want to evade all this, it needs a new
humanism which combines two ways: the assimilation of western humanism and the
struggle for human independence for every future possibility.
1
Così si esprime Jaspers in Von der Wahrheit del ’47 circa l’Umgreifende : «L’essere col
progressivo manifestarsi di tutti i fenomeni che ci vengono incontro, come tale indietreggia.
Questo essere che non è oggetto, che è sempre delimitato, né una totalità che si configuri come
orizzonte, che sempre limita, noi lo chiamiamo Umgreifende. L’Umgreifende si annuncia come
ciò che, comprendendo di volta in volta ogni orizzonte, trascende di continuo tutti gli orizzon-
ti, senza configurarsi esso stesso come orizzonte limitante». (K. Jaspers, Sulla verità, a cura di
U. Galimberti, La Scuola, Brescia 1970, p. 27).
2
Ivi, p. 67.
3
Ivi, pp. 66-79.
4
«È l’ulteriorità dell’essere ciò che Jaspers intende salvaguardare con la sua critica all’on-
tologia: salvaguardare l’ulteriorità dell’essere significa in altre parole rispettarne la trascenden-
za, vigilare contrastando ogni tentativo di farne un oggetto tra gli altri» (F. Miano, Appropria-
zione e dialogo. La storia della filosofia in Karl Jaspers, Ler, Napoli 1999, p. 38).
5
K. Jaspers, Sulla verità, op. cit., p. 77.
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 141
6
U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli,
Milano 2005, p. 242.
7
K. Jaspers, Sulla verità, op. cit., p. 77.
8
Ibidem.
9
K. Jaspers, I grandi filosofi, a cura di F. Costa, Longanesi, Milano 1973, p. 830.
10
Ibidem.
142 Antonello Petrella
11
K. Jaspers, Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità,
Milano 1965, p. 111.
12
K. Jaspers, La mia filosofia, trad.it. R. De Rosa, Einaudi, Torino 1964, p. 112.
13
Cartesio e la filosofia, trad. it. parziale (pp. 43-48) La natura intima di Cartesio in La mia
filosofia, op. cit., e Jaspers: la scienza cartesiana come deriva teologica e come anticipazione
dell’ateismo moderno, in U. Galimberti, Il tramonto dell’ Occidente nella lettura di Heidegger e
Jaspers (pp. 336-343).
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 143
Dio, nel metodo cartesiano, sia servito solo come fondamento della verità del
pensiero umano, fino al raggiungimento di una ragione universale e assoluta,
fiduciosa in se stessa, al punto da ritenere Dio stesso “fin dall’inizio del tutto su-
perfluo.” Pertanto, la trascendenza è eliminata dalla posizione di una coscienza
in generale. È questo l’esito della scienza moderna, per la quale tutti gli enti
sono oggetti per un soggetto e per la sua rappresentazione anticipatrice, e oltre
tale rapporto il nulla.
Abbiamo dunque visto come il metodo cartesiano, per Jaspers, sia alla base
del pensiero scientifico moderno, perché si caratterizza come quel pensiero che
cerca la certezza e la validità assoluta su cui poter poi fondare la conoscenza.
Ma vi è anche un altro aspetto, a ciò connesso, che agisce in Cartesio e nella
scienza moderna, ossia la volontà di potenza: «Nella passione per quella certez-
za che s’impone e si fa valere per sempre e per tutti, si sente come una volontà
di potenza tutta particolare. Questa volontà di potenza, come l’autentica attitu-
dine scientifica che nasce per le cose, non può accontentarsi delle conoscenze
particolari, dei piccoli e minuti risultati dell’indagine, che pure hanno un valore
che non va mai perduto, come si accontenta chi rimane nel campo della scienza
e nell’attitudine dello scienziato che viene determinata dall’amore per le cose.
La volontà di potenza di un pensatore vuole proprio raggiungere la piena totali-
tà delle conoscenze e ciò che ha valore in modo definitivo anche nei riguardi dei
principi che gli servono di base»14. Questa volontà di potenza, insomma, ricer-
ca la totalità delle conoscenze, attraverso principi posti alla base della ricerca
stessa, i quali devono fornire una stabilità che consenta di anticipare gli oggetti
della conoscenza e di effettuarne il pieno controllo incondizionato.
Un tale dominio, che sarebbe implicito nell’uomo occidentale, nella sua “il-
limitata presunzione”, trova il suo compimento massimo nella tecnica moder-
na. È evidente che Jaspers non condanni la scienza moderna in quanto tale,
ma l’esito determinato da quella volontà di potenza che sfocia nella tecnica,
e che sollecita il pensiero come sapere. Eppure, Jaspers dice: «Dominio della
natura, capacità, utilità, “sapere è potere”, ecco le parole d’ordine da Bacone in
poi. Egli e Cartesio abbozzarono le linee essenziali di un futuro tecnico».15Tale
futuro tecnico assume connotati abbastanza inquietanti ed esiti imprevedibili,
perché Jaspers «è convinto che non si tratti soltanto di problemi di competenza
a livello tecnico ma soprattutto del problema che riguarda il destino dell’uomo,
considerato nella sua singolarità»16. Il paragrafo secondo del capitolo Presente e
14
K. Jaspers, La mia filosofia, op. cit., p. 46.
15
K. Jaspers, Origine e senso della storia, op. cit., p. 121.
16
G. Penzo, Il comprendere in Karl Jaspers e il problema dell’ermeneutica, Armando, Roma
144 Antonello Petrella
futuro di Origine e senso della storia, è indicativo in questo senso. In esso, l’era
della tecnica è vista come una svolta, un secondo periodo assiale che però non
ha nulla della spiritualità del primo, anzi, appare, piuttosto, come un’epoca di
discesa verso la povertà di spirito, sebbene di grandezza per quanto concerne la
produzione scientifica e tecnica. Jaspers, tuttavia, si pone il problema di chiarire
questa grandezza, perché se da un lato è comprensibile l’entusiasmo dello sco-
pritore o dell’inventore, dall’altro li si vede entrambi «funzionari nella catena di
un processo creativo fondamentalmente anonimo, in cui un anello si combina
con l’altro e i partecipanti non agiscono come esseri umani, nella grandezza di
un’anima tutto abbracciante. Malgrado l’elevato livello d’ispirazione creativa, il
paziente, tenace lavoro, l’audacia delle ipotesi sperimentali, il quadro d’assieme
ci dà l’impressione che lo spirito stesso sia stato risucchiato nel processo tec-
nologico, che addirittura subordina a sé le scienze».17Qui Jaspers, in maniera
chiara, mostra come sia lo stesso processo tecnico a presentarsi come anonimo,
tale da ridurre ogni individuo a elemento di un’unica catena impersonale.
Un tale procedimento sembra paradossalmente subordinare a sé anche le
scienze e l’elevato livello conoscitivo degli scienziati stessi. Pertanto, si verifica
una “reazione” del procedimento tecnico sull’uomo, il quale mette in atto un
tale processo. Infatti, scrive Jaspers (ed è questo un passaggio essenziale): «La
tecnica è il procedimento con cui l’uomo scientifico domina la natura allo sco-
po di plasmare il suo esserci, liberandosi dal bisogno e dando all’ambiente cir-
costante la forma che più lo attrae».18 Ma, specificato cosa è la tecnica, Jaspers
immediatamente aggiunge: «L’aspetto dato alla natura dalla tecnica umana e la
reazione del procedimento tecnico sull’uomo, cioè la maniera in cui il metodo
e l’organizzazione del lavoro e il modellamento dell’ambiente modificano lui
stesso, costituiscono una delle linee fondamentali della storia».19La reazione
della tecnica sull’uomo è, per Jaspers, dunque, una linea essenziale della storia
dell’umanità.
Ma cosa comporta, concretamente, questa reazione della tecnica? Lo dice
Jaspers sempre nello stesso paragrafo: «La tecnica ha radicalmente trasformato
l’esistenza quotidiana dell’uomo nel suo ambiente; ha costretto modo di lavoro
e società in nuovi binari: la produzione di massa, la metamorfosi dell’intera esi-
stenza in un meccanismo tecnicamente perfetto, la metamorfosi del pianeta in
una sola grande fabbrica. Così è avvenuto e sta avvenendo il distacco dell’uomo
1985, p. 107.
17
K. Jaspers, Origine e senso della storia, op. cit., pp. 129-130.
18
Ivi, p. 130.
19
Ivi, pp. 130-131.
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 145
da ogni radice. Egli diventa abitatore della terra senza patria. Perde la continu-
ità della tradizione. Lo spirito si riduce all’apprendimento di nozioni e all’ad-
destramento a funzioni utili».20Ecco, insomma, come il mondo intero venga
ridotto a fabbrica, dove le uniche categorie che possono effettivamente avere un
senso sono produzione efficiente e utilità. In quest’ambito, allora, è ovvio che
l’uomo, rompendo definitivamente col traditum storico-culturale del passato,
sia reso “senza patria”, chiuso in una realtà empirica che lo vuole recipiente
da riempire con nozioni e addestramenti atti a funzioni che vengono stabilite
come utili. Ma che ne è dell’individuo? Cioè l’uomo che mette in atto questo
processo, nelle singole individualità ne rimane sopraffatto perché lo vive come
qualcosa che, ormai, gli accade come un evento; egli è rassegnato a diventare
elemento funzionale e spersonalizzato della macchina, perde di vista l’oriz-
zonte del suo passato e del suo futuro tutto compresso in un presente angusto,
si sente barattabile e utilizzabile per qualsiasi scopo che gli venga imposto.
Negato come esistenza possibile, quindi nella sua libertà e nella sua storicità,
l’uomo è reso elemento impersonale sostituibile, al punto che la sua unicità si
disperde in quello che Jaspers chiama il dominio della massa che accompagna
il dominio della tecnica.
Attraverso la riduzione dell’uomo a pura funzione di un meccanismo, di
un apparato, l’esserci “viene spogliato della sua particolarità storica”e, quindi,
come osserva Giuseppe Cantillo, «vive in un’alterata coscienza del tempo: con-
tratto nel presente, senza memoria e perciò anche senza prospettiva e progetti
aperti al futuro».21 Insomma, attraverso il dominio della tecnica e della massa
assistiamo a quell’assolutizzazione del progetto scientifico-tecnologico che, po-
sto dall’uomo occidentale a partire dai primordi della scienza moderna, finisce
per inghiottire l’uomo e nullificarlo come esistenza. Ecco, dunque, svelato l’esi-
to nichilistico del pensiero occidentale, il quale, nel momento in cui, attraverso
l’ontologia classica, si è separato da una concezione dell’essere come Umgrei-
fende, che salvava e tutelava sempre la costitutiva Trascendenza dell’essere, si
è trovato dapprima a nullificare l’essere riducendolo ad ente oggettivo e deter-
minato e successivamente ha visto l’uomo stesso, fautore di un tale processo,
ridotto a mero “ingranaggio” di un’epoca in cui, dominando esclusivamente la
funzionalità tecnica, vi è la completa mancanza di senso e significato.
Posta la conoscenza scientifica e tecnica come conoscenza totale: «si rende
possibile una pianificazione totale, in cui l’uomo diventa per l’uomo un mate-
20
Ivi, p. 131
21
G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Bari-Roma 2001, p. 115.
146 Antonello Petrella
22
K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla Rivelazione, a cura di F. Costa, Longanesi,
Milano 1970, p. 17.
23
K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, trad. it. di L. Quattrocchi, Il Saggia-
tore, Milano 1960, p. 14.
24
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, trad. it. R. Celada Ballanti,
in A.a.V.v. Etica e destino, a cura di D. Venturelli, il Melangolo, Genova 1997, p. 13.
25
Ibidem.
26
Ivi, p. 16.
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 147
27
Ivi, p. 17-18.
28
K. Jaspers, La fede filosofica, a cura di U. Galimberti, Raffaello Cortina, Milano 2005,
p. 110.
148 Antonello Petrella
mo (anche l’illustre amica di Jaspers, Hannah Arendt, si esprimeva così: «Il fat-
to che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inat-
teso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile».29). Ma è
imponderabile solo se viene salvaguardato il rapporto costitutivo dell’uomo con
la trascendenza, ossia se viene salvaguardato lo spazio infinito delle sue possi-
bilità. Tra i fattori che oggi determinano l’uomo attuale Jaspers, però, non può
non considerare innanzitutto la tecnica (insieme alla politica e alla decadenza
in Occidente di un vincolo comune) che inevitabilmente un tale spazio riduce.
Nell’età della tecnica, Jaspers vede «un’organizzazione del lavoro innaturale,
se comparata al lavoro artigianale, all’economia agraria o alle antiche profes-
sioni permeate di umanesimo».30 Se mettiamo a confronto questa espressione
con quella successiva della conferenza jaspersiana secondo la quale la cogente
monotonia caratterizzerebbe il lavoro nell’età della tecnica, rendendo l’uomo
mero ingranaggio sempre sostituibile, allora ci rendiamo conto che, in oppo-
sizione a ciò, quel che rende un lavoro impregnato di umanesimo è proprio
l’unicità del singolo lavoro. Si tratta dell’insostituibilità di ciò che l’artigiano è
capace d’imprimere nell’opera finita del suo lavoro. Il lavoro di un artigiano si
caratterizza per l’unicità insostituibile del pezzo creato. Egli non realizza mai
una sedia o un mobile uguale in tutto e per tutto ad altre sedie o mobili da lui
stesso realizzati.
Ogni pezzo è unico, rispetto agli altri, poiché in esso confluisce quel deter-
minato momento di creazione, quel determinato impiego di energie e sforzo,
la riuscita minore o maggiore di una determinata operazione (come l’incisione
del legno, la piallatura..) al punto che se una di tali operazioni viene eseguita
erroneamente si è costretti spesso a utilizzare un nuovo materiale. Oltre all’uni-
cità dell’oggetto creato, vi è l’unicità dell’artigiano che l’ha fabbricato, perché
quella determinata sedia di legno è così e presenta quelle caratteristiche pro-
prio perché è stata fatta da quell’artigiano, in quel momento della sua vita, e
in quanto appartenente a quella specifica famiglia. Non è un caso, infatti, che
durante il ‘400 e in buona parte del ‘500, nelle botteghe degli artigiani il lavoro
veniva trasmesso di padre in figlio al punto che vennero fuori famiglie che si
caratterizzavano per la realizzazione di un particolare tipo di prodotto (cosa
questa ripresa nelle botteghe d’arte, si pensi alla famiglia Della Robbia che si
occupava esclusivamente di terracotte invetriate policrome). Insomma, nell’og-
getto creato era possibile ritrovare un rimando costante non solo all’uomo che
29
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. S. Finzi, Bompiani, Milano 2001,
p. 128.
30
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, op. cit., p.18..
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 149
l’aveva realizzato ma anche alla sua storia, alla sua appartenenza familiare. In
quel momento di realizzazione l’uomo era pienamente in sé al punto da riusci-
re a trasmettere all’oggetto del suo lavoro perfino la sua storia. Nell’età della
tecnica, invece, l’uomo è ridotto a ingranaggio di una macchina, è costretto ad
un oblio di sé e il suo lavoro non influisce minimamente sulle caratteristiche
essenziali dei prodotti generati da una catena seriale di montaggio. In questo
tipo di lavoro l’umanesimo è assente e la dignità dell’uomo viene occultata. Per-
tanto, un nuovo umanesimo che abbia consapevolezza della condizione in cui
si trova l’uomo attuale, non può prescindere, come sua stessa condizione, da un
«infinito affaticarsi intorno all’assimilazione e al controllo della tecnica, campo
illimitato dell’umana lotta»;31 in qualche modo si tratta di riuscire sempre a far
emergere l’uomo nella sua insostituibile irripetibilità, anziché farlo «correre
meccanicamente sui binari delle funzioni».32
Tuttavia l’uomo, per Jaspers, non vive solo le conseguenze del dominio della
tecnica, ma anche la connessione che oggi la tecnica ha con la politica. Come egli
dice nella conferenza del ’49 sull’umanesimo: «terrore, torture, deportazioni, ster-
mini, tutto ciò, certo è esistito sin dagli Assiri e dai Mongoli, ma senza assumere le
dimensioni offerte dalle odierne possibilità tecniche».33 Emblema di ciò fu senz’al-
tro il regime nazista, con il quale furono messe in questione delle acquisizioni che
nel tempo si era pensato di possedere circa i diritti appartenenti all’uomo per natu-
ra.34 Ciò, in particolare, perché coloro che erano stati resi vittime del regime erano
stati anzitutto spogliati del loro «orizzonte di un progetto di vita essendo stati resi
preda di apparati politici, che si presentavano formati da funzionari di una buro-
crazia spietata, per la quale l’uomo coincideva con una carta che, come strumento
d’identificazione, legittimazione, condanna, classificazione, gli consentiva l’eserci-
zio dei suoi diritti, lo limitava, oppure lo annientava […] Se si voleva sapere chi co-
mandava, non si giungeva a nessuna risposta. Sembrava che non vi fosse nessuno a
cui attribuire la responsabilità».35 L’uomo, insomma, spogliato della sua progettua-
lità e quindi del suo rapporto con la Trascendenza, è ridotto a oggetto nelle mani
di un apparato politico all’interno del quale è impossibile riuscire ad attribuire a
31
Ivi, p. 20.
32
Ibidem.
33
Ibidem.
34
«Tutte le mostruosità che l’uomo può commettere, le più grandi follie di persone dotate
d’intelligenza, tutte le possibili infedeltà di cittadini apparentemente perbene, le sbadataggini,
tutta la miope ed egoistica passività della folla: tutto ciò divenne così largamente realtà che fu
necessario modificare le nozioni acquisite sulla natura dell’uomo. Insomma, cose sulle quali
prima non si era nemmeno riflettuto, ora erano non solo possibili, ma reali.» (K. Jaspers, Au-
tobiografia filosofica, trad. it. E. Pocar, Morano, Napoli 1969, p.107-108.)
35
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, op. cit., p. 21.
150 Antonello Petrella
36
G. Sereny, In quelle tenebre, trad. it. A. Bianchi, Adelphi, Milano 1994, p. 271-272.
37
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, op. cit., p. 21..
38
Ibidem.
39
Ibidem.
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 151
40
Ivi, p. 22.
41
Ibidem.
42
Ibidem.
43
K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, trad. it.
A. Pinotti, Cortina, Milano 1996, p. 98.
44
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, op. cit., p. 25.
152 Antonello Petrella
45
M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000, p. 43-44.
46
Ivi, p. 42.
47
Ibidem.
Dall’occultamento della trascendenza ad un nuovo umanesimo 153
48
Ivi, p. 43.
49
Ivi, p. 55-56.
50
K. Jaspers, Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, op. cit., p. 26.
154 Antonello Petrella
51
Ivi, p. 27.
52
Ibidem.
53
Ibidem.
54
Ivi, p. 28.
55
Ivi, p. 30.
56
A.a.V.v. Karl Jaspers 1883-1969. Celebrazioni nel primo centenario della nascita. 1983, a
cura di G. Santinello, Istituto culturale italo-tedesco, Merano 1985, p. 9.
57
Ivi, p. 7.
58
«Ciò che si dissolve come oggetto per la coscienza in generale, assume valore e significato
per l’esistenza, diventa cifra, evocazione della realtà della trascendenza: è questo il movimento del
trascendere che è proprio dell’esistenza» (G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, op. cit., p. 82).
Tra neokantismo e positivismo giuridico 155
Abstract. Carl Schmitt’s juridical thought moved its first steps studying thoroughly the
new-kantian philosophies of law. This paper aims to underline the crucial role of these
studies, from which the young jurist from Plettenberg elicits a critical view of the 800s
juridical positivism as well as a jus-normative construction of the State as the unique
concrete instance of the positive law.
Interesse del presente lavoro è quello di mettere in luce il nesso tra diritto e
Stato che, nella genesi del pensiero del giovane Carl Schmitt, viene a strutturar-
si muovendo dal confronto con le dottrine giuridiche di matrice neokantiana.
Nostro intento è quello di mostrare che è proprio sul terreno lasciato aperto
dalla filosofia del diritto neokantiana e da una sua conoscenza profonda1 che si
snodano e vengono alla luce le problematiche e la specificità della concezione
normativistica schmittiana; detto in altri termini, è da tale confronto che il giu-
rista di Plettenberg trae un suo originale quanto controverso punto di vista sul
ruolo dello Stato e, in particolar modo, del suo rapporto con il diritto.
Ci occuperemo quindi in primo luogo della natura di questo rapporto carat-
1
Leggiamo in proposito un’affermazione di Schmitt rilasciata a F. Lanchester in un’inter-
vista dei primi anni Ottanta: «Questo indirizzo scientifico (scil. il neokantismo) si può dire che
io lo conosca a memoria; nella mia fase formativa l’ho studiato con tanti professori» (F. Lan-
chester (a cura di), Un giurista davanti a se stesso. Intervista a Carl Schmitt, in «Quaderni Co-
stituzionali», III, n. 1, Firenze 1983, pp. 16-17). L’importanza della discussione del rapporto tra
il giovane Schmitt e le dottrine giuridiche neokantiane era stata a suo tempo sottolineata da
L. Waldecker nella sua recensione allo scritto sul valore dello stato (L. Waldecker, Besprechung
der Schrift «Der Wert des Staates un die Bedeutung des Einzelnen» von Carl Schmitt (1916), ora
in C. Schmitt, Tagebücher, Oktober 1912 bis Februar 1915, hrsg. E. Huesmert, Akademie Verlag,
Berlin, 2005, p. 383).
156 Alessio Calabrese
2
Tra le opere di letteratura critica che maggiormente hanno messo in luce l’originalità del
dualismo tra diritto e Stato nella fase giovanile schmittiana segnaliamo in primis il volume
di H. Hofmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt (1964), a cura
di R. Miccú, ESI, Napoli, 1999, cui va il merito di aver riscoperto l’importanza delle prime
opere di Schmitt per la genesi della sua produzione matura. In secundis, il riferimento va a M.
Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia, 1990
nonché a C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno,
Il Mulino, Bologna, 1996. Molto interessante è anche il saggio di O. Beaud, Diritto naturale e
diritto positivo negli scritti giuridici giovanili di Carl Schmitt, in AA. VV., Carl Schmitt e la scien-
za giuridica europea, a cura di A. Carrino, numero speciale della rivista «Diritto e Cultura», V,
1 (1995), pp. 83-114. Infine, vanno menzionati il lavoro di M. Kraft-Fuchs, Prinzipielle Bemer-
kungen zu Carl Schmitts Verfassungslehre, in «Zeitschrift für öffentliches Rechts», Bd. 9, 1930,
pp. 511-541 e le monografie di G. Schwab, Carl Schmitt, la sfida dell’eccezione (1970), a cura
di N. Piro, Laterza, Roma-Bari, 1986 e di H. Rumpf, Carl Schmitt und Thomas Hobbes. Ideelle
Beziehungen und aktuelle Bedeutung mit einer Abhandlung über die Frühschriften Carl Schmitts,
Duncker & Humblot, Berlin, 1972.
3
C. Schmitt, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, Mohr Siebeck, Tübin-
gen, 1914, p. 109. Pur essendo al corrente che nel 2004 è uscita presso la Duncker & Humblot
la Zweite Auflage dello scritto sul valore dello Stato, avvertiamo il lettore che abbiamo fatto
riferimento alla prima edizione del testo dal momento che la più recente riedizione non ha
subito cambiamenti.
4
Ibid., p. 76.
5
Nella sua recensione a Der Wert des Staates, F. Weyr ha sostanzialmente ricondotto la
posizione schmittiana nell’ambito del giusnaturalismo moderno (cfr. F. Weyr, Besprechung der
Schrift „Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen” von Carl Schmitt, in «Öster-
reichische Zeitschrift für öffentliches Recht» (1914), pp. 578-581). Al contrario, H. Hofmann
ha visto in tale locuzione una dipendenza di Schmitt dalla filosofia dei valori di H. Rickert, leg-
gendo nell’intera opera giovanile schmittiana il tentativo di una comprensione giuridica dello
Stato «in termini di ‘razionalità secondo il valore’» (cfr. H. Hofmann, Legittimità contro legalità,
cit., p. 92, nota 101 e p. 107). O. Beaud sostiene invece che Schmitt sia erede dell’agostinismo
giuridico: infatti, dal momento che al diritto positivo viene concessa una relativa autonomia
rispetto a quello originario, quest’ultimo, in quanto diritto naturale, «sembra indispensabile
per unire le due Città e riannodare un legame tra l’ordine divino e l’ordine terrestre. Questa
necessità della mediazione senza sostanzializzazione di una giustizia naturale porta Schmitt a
riassumere il suo programma sotto la forma di uno slogan paradossale» (cfr. O. Beaud, Diritto
naturale e diritto positivo negli scritti giuridici giovanili di Carl Schmitt, cit., p. 113). Molto ap-
propriata è anche la tesi di M. Nicoletti secondo cui la locuzione schmittiana «esprime la crisi
Tra neokantismo e positivismo giuridico 157
del pensiero all’inizio del secolo: il rifiuto del positivismo, la consapevolezza della non percor-
ribilità delle vie della metafisica, la ricerca di una nuova ‘forma’ capace di esprimere la trascen-
denza e al tempo stesso di dare ordine al reale (…); esprime (cioè) la realtà e la coscienza della
secolarizzazione, rivela la struttura del mondo consegnato a se stesso ma non in sé giustificato
e dunque continuamente aperto oltre se stesso» (M. Nicoletti, Trascendenza e potere, cit., p. 51).
Infine, per quanto riguarda la letteratura critica tedesca, va detto che, in generale, la posizione
schmittiana viene ricondotta o all’ambito della dottrina ufficiale cattolica sullo Stato (cfr. H.
Wohlgemuth, Das Wesen des Politischen in der heutigen neoromantischen Staatslehre. Ein me-
thodischer Beitrag zu seiner Begriffsbildung, Emmendingen, 1933, p. 68, nota 58) o, tutt’al più,
questo «diritto naturale senza naturalismo» viene considerato «il punto di riferimento di una
costruzione metafisica» (cfr. H.R. Otten, Der Sinn der Einheit im Recht. Grundpositionen Carl
Schmitts, Gustav Radbruchs, und Hans Kelsens, in AA. VV., Metamorphosen des politischen.
Grundfragen politischer Einheitsbildung seit den 20er Jahren, hrsg. von A. Göbel, D. van Laak,
I. Villinger, Akademie Verlag, Berlin, 1995, p. 34).
6
Schmitt stesso, nell’Introduzione al suo libro sulla Dittatura scritto sette anni dopo Der
Wert des Staates, ritorna sul carattere antagonistico della relazione tra Rechtsnorm e Rechtsver-
wirklichung (cfr. C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta
di classe proletaria (1921), Laterza, Roma-Bari, 1975 pp. 12-13). A tal proposito, non siamo
del tutto concordi con H. Hofmann che vede in questa opposizione un tipo di «antinomia da
dominare dialetticamente» (cfr. Legittimità contro legalità, cit., p. 86); infatti, essa non solo
non viene dominata ma neanche superata dall’azione decisoria dello Stato, rispetto alla quale,
il diritto originario rappresenta più che altro una «polarità dialettica irriducibile» (cfr. M. Ni-
coletti, Trascendenza e potere, cit., p. 51). Quest’ultima tesi è sostenuta anche da C. Galli, per il
quale la discontinuità/continuità tra norma e fatto dimostra che non c’è mediazione né rappor-
to dialettico tra i due corni del dualismo, quanto piuttosto «un movimento di trascendimento
formativo del caso concreto» (cfr. C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 320).
158 Alessio Calabrese
7
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 37.
8
Ibid., p. 59.
9
Ibid., p. 14.
10
H. Hofmann, Legittimità contro legalità, cit., p. 107.
11
J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt (1987), a cura di E. Stimilli,
Quodlibet, Macerata, 1996, p. 79. Questo atteggiamento è presente sin dalla tesi di laurea di
Schmitt dedicata al problema della colpa e dei tipi di colpa, dove per l’appunto leggiamo: «Noi
prendiamo le mosse dal diritto vigente; noi accettiamo il dato di fatto che c’è uno stato che
sotto determinate condizioni punisce» (C. Schmitt, Über Schuld und Schuldarten. Eine termi-
nologische Untersuchung, Schletter’sche, Breslau, 1910, p. 19). In altre parole, come sottoline-
ato da P.P. Portinaro, si tratta di un «atteggiamento di osservazione fenomenologica del diritto
(…) (che muove) dall’osservazione diretta del lavoro giuridico-scientifico e soprattutto della
prassi giuridica (…). Dall’osservazione diretta di tale prassi, e non da assunzioni metafisiche
relative all’essenza del diritto, si perviene all’identificazione dei concetti-chiave del pensiero
giuridico. Soltanto di qui si risale in un secondo tempo alla definizione della natura del dirit-
to» (P.P. Portinaro, La crisi dello jus publicum Europaeum. Saggio su Carl Schmitt, Edizioni di
Comunità, Milano, 1982, p. 44).
12
Secondo le riflessioni di A. Carrino, l’appartenenza del fenomeno giuridico ad un mondo
spirituale superiore alla realtà empirica rappresenta «una continuità sotterranea nel pensie-
ro schmittiano sul diritto, una continuità che non viene di regola messa in rilievo» (cfr. A.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 159
Carrino, L’Europa e il diritto. Carl Schmitt e la scienza giuridica europea, in Id., Sovranità e
costituzione nella crisi dello Stato moderno: figure e momenti della scienza del diritto pubblico
europeo, Giappichelli, Torino, 1998, p. 130). Dello stesso parere è anche la studiosa americana
E. Kennedy, la quale insiste sul fatto che Schmitt concepisce sin dall’inizio del suo percorso
intellettuale «la scienza giuridica come una parte del grande movimento spirituale del nostro
secolo» (E. Kennedy, Politischer Expressionismus: die kulturkritischen und metaphysischen Ur-
sprünge des Begriffs des Politischen von Carl Schmitt, in H. Quaritsch (a cura di), Complexio
Oppositorum. Über Carl Schmitt, Duncker & Humblot, Berlin, 1988, p. 234).
13
Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), trad. it. G. Marini, Laterza,
Roma-Bari, 2001, p. 19.
14
H. Ball, La teologia politica di Carl Schmitt (1923-1924), trad. it. in C. Schmitt, Aurora
boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler (1916), a
cura di S. Nienhaus, ESI, Napoli, 1995, p. 94.
15
Ibid., pp. 96-98.
16
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 20.
160 Alessio Calabrese
17
Ibid., p. 47.
18
Questo discorso, portato alle sue estreme conseguenze nella fase decisionista, spingerà
Schmitt a enfatizzare il ruolo eccezionale costituito dalla decisione sovrana, vero e proprio
punto di rottura nell’ordinamento concreto del diritto in cui «la forza della vita reale rompe
la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione» (Id., Teologia politica. Quattro capitoli
sulla dottrina della sovranità, tr. it. in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera,
Il Mulino, Bologna, 1972, p. 41).
19
Cfr. O. Beaud, Diritto naturale e diritto positivo negli scritti giuridici giovanili di Carl
Schmitt, cit., p. 95.
20
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 17 e ss. A parere del giovane Schmitt una
teoria giuridica che fa del diritto una manifestazione del potere vigente non può distinguere
tra lecito e illecito poiché, in tal modo, il criterio di legittimità di un’azione non riposerebbe
più sul carattere astratto e indipendente della norma giuridica. Cioè a dire: tale teoria non
Tra neokantismo e positivismo giuridico 161
potere per la quale il fondamento di validità della norma positiva riposa sulla
volontà fattuale dello Stato21. In tal modo, nel contrapporsi ad una prospettiva
naturalistica del diritto22, Schmitt afferma che «non il diritto viene spiegato dal
potere, ma il potere a partire dal diritto»23. Per altro verso però, come vedremo
nel paragrafo dedicato al confronto con Hermann Cohen e gli altri esponenti
del neokantismo, Schmitt ritiene impossibile postulare una continuità raziona-
le tra idea e prassi del diritto, facendo emergere la necessità dell’ «atto soggetti-
vo e arrischiato, non garantito, della decisione»24. Insomma, assumendo fino in
fondo l’impossibilità di una risoluzione metodologico-trascendentale dell’idea
normativa nella sua realizzazione positiva, Schmitt ribadisce contro il neokan-
tismo che tra «ogni astratto e concreto vi è un abisso che non può essere colma-
può distinguere sul piano dell’essenza «la forza dell’assassino nei confronti della vittima da
quella dello Stato nei confronti dell’assassino (…) (dal momento che esse) non sono di natura
diversa, ma differiscono solo per dei fenomeni esterni determinati da un’evoluzione storica»
(ibid., p. 16, il corsivo è mio). Inoltre, «diritto» non è neanche sinonimo di «volontà», poiché
le opinioni espresse da un’assemblea di uomini non possono costituire il fondamento di vali-
dità del diritto stesso, quanto piuttosto soltanto «un indizio per un valore» (ibid., p. 20). Ma
non solo: poiché la volontà è «un fenomeno che appartiene all’essere e non al diritto» (ibid.,
p. 35), lo stesso concetto di fine viene espunto dall’essenza del diritto, appartenendo esso alla
soggettività concreta dello Stato.
21
Ibid., p. 22. Già nella dissertazione di dottorato del 1912 intitolata Legge e giudizio,
Schmitt aveva criticato il dogma della «conformità alla legge» che sia il positivismo giuridico
sia il «movimento del diritto libero» (Freierechtsbewegung) ritenevano essere l’unico criterio
valido per ottenere una giusta decisione giudiziaria. Entrambe queste correnti, infatti, iden-
tificando il momento dell’interpretazione con quello della decisione, sostenevano che compito
del giudice fosse soltanto quello di conformare il suo giudizio alla volontà giusta e razionale
del legislatore espressa nella legge positiva. Tuttavia, per Schmitt, giustezza e razionalità non
vanno lette come qualità ontologiche del legislatore, essendo esse soltanto espedienti logici
utili al complesso della scienza giuridica: in questo senso, il legislatore stesso rappresenta una
finzione giuridica del diritto che non può derivare la sua legittimità giuridica né dall’essere
espressione della volontà di una maggioranza né da qualsiasi altra caratteristica empirica rife-
rita allo Stato (Id., Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis (1912),
Beck Juristischer Verlag, München, 1969², pp. 29 e ss.).
22
Leggiamo in proposito quanto scrive Schmitt: «Dall’osservazione della natura, alla qua-
le anche appartiene la vita in comune degli uomini, nella misura in cui tale fenomeno resta
unicamente una spiegazione e una constatazione delle scienze sociali, non si mostra alcun
diritto. Solo la fissazione di una norma fonda la distinzione tra diritto e non diritto (Unrecht),
non però la natura. Il sole brilla su ciò che è giusto e su ciò che è ingiusto» (C. Schmitt, Der
Wert des Staates, cit., p. 31). Quest’affermazione mostra il debito che la concezione giusnor-
mativa schmittiana ha nei confronti del neokantismo di W. Windelband secondo il quale «il
sole della necessità naturale splende ugualmente sul giusto e sull’ingiusto. Ma la necessità
che avvertiamo nella validità delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche, è una necessità
ideale, che non è quella del Mussen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen e del
poter-essere-altrimenti» (W. Windelband, Präludien. Aufsätze und Reden zur Einleitung in die
Philosophie, Tübingen 1911, IV ed., II volume, pp. 69 e ss., il corsivo è mio).
23
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 24.
24
G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica, Mon-
za, 2007, p. 202.
162 Alessio Calabrese
25
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 79.
26
Cfr. C. Galli, Genealogia della politica, cit., pp. 183 e ss.
27
In tutto il secolo XIX il rapporto tra filosofia e diritto riguarda la ricezione dell’idea kan-
tiana di libertà e del soggetto morale nella Begriffsjurisprudenz positivista. La stesura del codi-
ce civile tedesco all’inizio del Novecento rappresenta il risultato più fecondo di quest’incontro
e, nello stesso tempo, può essere preso come esempio compiuto del positivismo giuridico,
ovvero di «un sistema puramente deduttivo che assumeva l’idea kantiana di libertà e trattava
la legittimità del diritto positivo come un problema logico: una questione di sussunzione di
concetti con la logica della legge» (E. Kennedy, Constitutional Failure. Carl Schmitt in Weimar,
Duke University Press, 2004, p. 61).
28
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 30 (corsivi miei).
29
Id., Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor
Däubler, cit., p. 65.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 163
30
Ibid., pp. 54 e 89.
31
Come osserva A. Bento, nel Nordlicht tale «trasfigurazione» (Verklärung) è espressio-
ne di una filosofia della storia «radicalmente antibenjaminiana», che cioè non si fonda sulla
«catastrofe del tempo», ma sulla fede del mito gnostico (cfr. A. Bento, Teologia e Mitologia
política. Um retrato de Carl Schmitt, reperibile sul sito www.bocc.ubi.pt/pag/ bento-antonio-
carl-schmitt-teologia.pdf ).
32
La metodologia schmittiana che «fin dai suoi primi passi si muove con autonomia in
un ambito compreso tra neokantismo e idealismo» trova perciò nel programma dell’intera
speculazione filosofica di Vaihinger il «tentativo di conciliare le esigenze dell’idealismo con i
presupposti teoretici del positivismo, sulla linea di una mediazione resa possibile dalla revi-
sione concettuale del criticismo kantiano» (R. Miccú, Legalità contro legittimità: una lettura
critica della filosofia schmittiana del diritto pubblico, in H. Hofmann, Legittimità contro legalità,
cit., pp. 330 e 332).
33
C. Schmitt, Finzioni giuridiche (1913), trad. it. in «Diritto e cultura», I, n. 1-2 (1991), p. 66.
34
Ibid.
35
Per definire che cosa fosse la finzione, Vaihinger aveva tratto ispirazione dalle idee tra-
scendentali kantiane le quali, pur non avendo carattere oggettivo, funzionavano da criteri
regolativi per la conoscenza, al fine di farla procedere come se la totalità dell’esperienza fosse
possibile. In altre parole, Kant riteneva necessarie queste idee, sia perché altrettanto naturali
quanto le categorie dell’intelletto (poiché connesse con la ragione umana) ma anche perché
potevano stimolare l’uomo ad estendere il più possibile il dominio della propria esperienza,
conferendole il massimo grado di sistema e di unità. Kant ne raccomandava, dunque, un buon
uso, un uso critico che fosse attento a non scambiarle per realtà, altrimenti si sarebbero rive-
164 Alessio Calabrese
È qui evidente il motivo per cui «la vita del diritto deve numerosi progressi
alla finzione»36: se il suo utilizzo nella scienza e nella prassi è giunto ad avere
«una formulazione tecnica perfetta»37, ciò dipende dal modo in cui la realtà
giuridica può imporsi su quella naturale, aprendo un varco all’interno del quale
vada a costituirsi l’ordine dei fenomeni empirici.
In definitiva, il nesso che unisce la finzione giuridica al soggetto della realiz-
zazione del diritto – cioè lo Stato – costituisce per il normativismo schmittiano
il tentativo di una rielaborazione e di un superamento del naturalismo della
ragione trascendentale38 che possa opporsi al positivismo e alla funzionalizza-
zione del diritto39.
late semplici concetti sofistici (dialettici). La trasformazione del significato dell’idea kantiana
nel termine «finzione» vaihingeriano sta ad indicare un duplice spostamento di prospettiva.
Da una parte, Vaihinger estende a tutta la conoscenza il carattere di non realtà, di essere tout
court una «logica dell’apparenza»; dall’altra ogni concetto, ogni ipotesi, ogni puro pensato si
rivela anche falso e contraddittorio, dal momento che i valori intellettuali vengono tutti subor-
dinati alla vita. Influenzato dalla genealogia nietzscheana e dal pragmatismo anglosassone,
Vaihinger giunge a considerare l’utilità della finzione nel processo conoscitivo solo in quanto
questa può essere di aiuto a trovare giovamento nella vita pratica (cfr. H. Vaihinger, Filoso-
fia del ‘come se’. Sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano
(1911), trad. it. parziale a cura di E. Voltaggio, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1967).
36
C. Schmitt, Finzioni giuridiche, cit., p. 66. La finzione giuridica, tuttavia, è stata lasciata
ai margini nella stagione più gloriosa del formalismo e del positivismo giuridico. Lo stesso
Hans Kelsen, infatti, occupandosi solo incidentalmente dell’opera di Vaihinger, riteneva che
l’utilizzo delle finzioni giuridiche doveva essere vietato proprio in conseguenza del fatto che
possono giustificare e rendere comprensibile il fenomeno giuridico in modo non rigoroso in
termini gnoseologico-critici (cfr. H. Kelsen, Sulla teoria delle finzioni giuridiche (1919), in Id.,
Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, a cura di A. Carrino, ESI, Napoli,
1988, p. 256.
37
C. Schmitt, Finzioni giuridiche, cit., p. 65.
38
In uno dei suoi testi fondamentali che segnano il passaggio dalla fase giovanile a quella
del decisionismo giuridico Schmitt affermerà che «la filosofia moderna è dominata da un
dualismo fra pensiero ed essere, concetto e realtà, spirito e natura, soggetto e oggetto, a cui
neppure la filosofia trascendentale kantiana ha potuto fornire un’adeguata soluzione» (Id.,
Romanticismo politico (1919), a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano, 1981, p. 86).
39
Pur polemizzando aspramente con gli esponenti del positivismo giuridico, il giovane
Schmitt cita con ammirazione le ricerche del primo Kelsen cui va il merito di aver estromes-
so il problema del fine dal concetto del diritto e di aver chiarito la distinzione tra metodo
normativo della giurisprudenza e metodo causale-esplicativo delle scienze sociali: «Un libro
apparso da poco (scil. gli Hauptprobleme di Kelsen) ha dato rilievo e con imponente coerenza
alla differenza tra modo di trattare sociologico e giuridico, causale-esplicativo e normativo,
e ha sottolineato che l’impiego di un sostanziale elemento finalistico sia ‘il più grossolano di
tutti gli errori metodologici’» (Id., Gesetz und Urteil, cit., pp. 56-57). Va detto, però, che negli
Hauptprobleme kelseniani sarebbe stato già possibile per Schmitt intravedere quel legame im-
plicito tra la filosofia pura del diritto e il positivismo giuridico, ovvero l’identificazione operata
da Kelsen tra il concetto di Stato e l’ordinamento normativo valido positivamente. Quindi,
all’inizio degli anni ’10, pur sostenendo entrambi una concezione normativa del diritto, pur
ritenendo necessaria una separazione tra Sollen e Sein, le ricerche dei due giuristi danno esiti
profondamente diversi poiché dietro l’uso comune della parola «normativismo» si nasconde
il duplice senso in cui, durante il primo decennio del XX secolo, vengono sottoposti a critica i
principali problemi della filosofia kantiana e neokantiana del diritto. Detto altrimenti, se Kel-
Tra neokantismo e positivismo giuridico 165
È senz’altro noto a tutti come nella prima parte della Metafisica dei costumi,
il criticismo kantiano abbia provveduto a fornire, analogamente a quanto fatto
per la scienza della natura, una distinzione tra la natura a priori e metafisico-
sistematica del diritto e la sua applicazione empirica40. Allo stesso modo tutti
sanno che pur essendo il diritto un concetto puro esso «è tuttavia orientato alla
pratica»41, avendo come oggetto la libertà dell’arbitrio. Attenzione, però: nono-
stante appartenga al mondo etico, al regno della libertà, il diritto necessita pur
sempre di un’immediata applicazione alla realtà empirica. Per questo motivo,
Kant precisa sin dalla prima pagina dello scritto che la Rechtslehre non costi-
tuisce un vero e proprio sistema metafisico, «dal momento che riguardo ai casi
a cui essa si applica, (…) ci si può attendere (…) soltanto un avvicinamento ad
esso»42. In tal modo, il filosofo di Königsberg prevede per i singoli casi empirici
soltanto dei principi metafisici della dottrina del diritto, ovvero non un sistema
tracciato a priori, ma un insieme di esempi il cui significato universale possa
fungere da punto di riferimento per un determinato comportamento43.
Ora, questo strettissimo legame che il diritto mantiene con l’esperienza già
lascia intravedere la differenza formale che esso intrattiene con la morale. In-
fatti, ogni legge etica, essendo a priori e necessaria, non solo non è deducibile
dall’esperienza, ma «comanda ad ognuno senza nessun riguardo alle speciali
inclinazioni»44. L’agire etico viene modulato non sulla base di inclinazioni o di
impulsi sensibili, come il piacere e la gioia, ma sulla sovranità della ragione la
sen negli Hauptprobleme spinge già in direzione di una gnoseologia teoretico-critica del diritto,
nel tentativo di epurare la dottrina kantiana dai suoi elementi giusnaturalistici, con lo scritto
sul valore dello Stato, Schmitt rivolge invece l’attenzione al problema della realizzazione pratica
del diritto (cfr. H. Hofmann, Legittimità contro legalità, cit., pp. 75 e ss.).
40
I. Kant, Metafisica dei costumi (1797), trad. it. di N. Merker, Laterza, Roma-Bari, 1973,
pp. 3-4.
41
Ibid., p. 3.
42
Ibid.
43
Ibid., pp. 3-4.
44
Ibid., p. 17.
166 Alessio Calabrese
quale è l’unica «a comandare come si deve agire, anche in assenza di ogni pre-
cedente esempio in proposito, e inoltre senza nessun riguardo al vantaggio che
si può derivare dall’adempimento del comando»45.
Kant perciò procede nel distinguere le leggi che regolano l’agire morale
da quelle che regolano l’agire giuridico, considerando le prime come «prin-
cipi determinanti delle azioni», legate alla libertà interiore dell’individuo
dotato di ragione, riguardando viceversa le seconde solo le «azioni esterne»,
cioè l’«esercizio esteriore della libertà». Date queste premesse va da sé che
la legislazione morale differisce da quella giuridica, dal momento che quella
«erige un’azione a dovere e questo dovere nello stesso tempo a impulso»46,
mentre questa non necessariamente si fonda sull’unicità dell’idea del dove-
re. Potendosi fondare anche su impulsi di natura diversa derivati dall’ester-
no, essa riguarda esplicitamente l’azione esterna; insomma per il filosofo
tedesco non è importante se ciò che ci induce al rispetto di una legge giuri-
dica sia la paura di una punizione o anche un premio, il raggiungimento di
un risultato che costruisca un interesse: è sufficiente la conformità esteriore.
Per questo motivo, aggiunge Kant, l’idea del dovere giuridico non è «motivo
determinante della volontà dell’agente»47.
Così, a ben guardare, dentro ogni legislazione si trovano due elementi: «in pri-
mo luogo una legge, che rappresenti oggettivamente come necessaria l’azione che
deve essere fatta, cioè che eriga l’azione a dovere; in secondo luogo un impulso, che
unisca soggettivamente con la rappresentazione della legge il motivo che determina
la volontà a questa azione, onde questo secondo elemento si riduce a ciò che la leg-
ge faccia del dovere un impulso»48. In altre parole, ogni legislazione può differire da
un’altra quanto agli impulsi. Da ciò, Kant chiama etica quella legislazione che erige
un’azione a dovere e, a chiudere il cerchio, che innalza questo dovere ad impulso.
La legislazione giuridica, invece, non comprende quest’ultimo caso, non consente
questo movimento di ritorno per cui si erige il dovere ad impulso e, perciò, può am-
mettere anche «un impulso diverso dall’idea del dovere stesso»49. Pertanto, riguar-
do alla legislazione giuridica, «si scorge facilmente (…) che questi impulsi distinti
dall’idea del dovere debbono essere necessariamente tratti dai motivi patologici di
determinazione della volontà che si riferiscono alle inclinazioni e alle avversioni, e
anzi, a preferenza, dai motivi che si riferiscono a queste ultime, perché si tratta di
45
Ibid.
46
Ibid., p. 20.
47
Ibid., p. 21.
48
Ibid, p. 20.
49
Ibid.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 167
50
Ibid.
51
Cfr. ibid., pp. 11 e ss.
52
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 57.
53
Il rifiuto schmittiano di una psicologizzazione del diritto è presente sin dalla dissertazio-
ne di laurea del 1910 dove egli, criticando la posizione del giurista Gustav Radbruch, sostiene
che la «colpa» (Schuld) non può essere un concetto psicologico puro né può dipendere dai suoi
«tipi» (Schuldarten), ovvero da «negligenza» e «intenzione» (Id., Über Schuld und Schuldarten,
cit., pp. 3 e ss.). Dal momento che tutta la costruzione giuridica di Radbruch si fonda su questo
falso presupposto, questi tende a confondere il concetto (la colpa) con il predicato (i tipi di
colpa) e, di conseguenza, a rendere naturalistica (e psicologica) la tensione normativa che ne
definisce il rapporto (ibid., p. 123).
54
I. Kant, Metafisica dei costumi, cit., p. 21. In questo luogo, Kant sostiene che solo all’in-
terno del soggetto che agisce è presente «l’impulso interno all’azione». Infatti, poiché l’idea del
dovere «non riguarda in nessun modo la legislazione esterna, essa non può essere affatto una
legislazione esterna (nemmeno quella di una volontà divina), quantunque invero essa medesi-
ma possa farci un dovere di prendere per impulsi certi doveri che si riferiscono a un’altra legi-
slazione, vale a dire a una legislazione esterna» (ibid.) E ancora: «I doveri che si impone la legi-
168 Alessio Calabrese
Insomma, secondo Schmitt, in Kant non esiste una reale autonomia del di-
ritto, ed è per questo che il filosofo di Königsberg lo lega alla facoltà di costrin-
gere, cioè alla forza. Questione non di poco conto questa poiché l’equivalenza
diritto/coercizione dà risalto alla diversa interpretazione dell’idea di dovere dei
due pensatori: idea che in Kant riguarda l’azione a cui qualcuno è obbligato,
laddove in Schmitt il dovere «come materia dell’obbligazione»55, risulta soltan-
to dall’azione reale dello Stato. Leggiamo in proposito: «Se i doveri giuridici
sono quelli per i quali un impulso differente dalla rappresentazione di un dove-
re non contraddice assolutamente l’idea di un dovere giuridico, e se l’autorità di
un dovere etico consiste nel fatto che esso lega gli uomini a priori ed incondizio-
natamente attraverso un’unica ragione, allora l’autorità di un dovere giuridico
può stare ancora nella loro ragionevolezza (Vernünftigkeit) e l’appendice del-
la coercizione apparire come casuale. Nel caso di Kant la coercizione diventa
qualcosa di essenziale ed egli deduce da ciò che un dovere giuridico può essere
sempre solo un’azione esteriore – così la coercizione deve risultare dall’essen-
za del dovere giuridico, il che significa che un dovere giuridico è un dovere
che, secondo la sua essenza, incita alla costrizione. Poiché la coercizione si
può legare solo a ciò che è esteriore, al mondo empirico, questa sollecitazione,
questa tendenza avrebbe tuttavia una direzione sull’empirico, una conformità
all’esperienza. La coercizione non può emergere che dal contenuto concreto ed
empirico della norma; utilizzare questo contenuto per caratterizzare la stessa
norma giuridica deve essere indicato senza dubbio come il ‘più grosso e il più
dannoso degli errori’»56.
slazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni, perché questa legislazione non esige
che l’idea di questo dovere, la quale è affatto interna, sia per se stessa motivo determinante
della volontà dell’agente; e siccome questa legislazione abbisonga pure di impulsi appropriati
alle sue leggi, essa non può ammettere che impulsi esterni» (ibid., il corsivo è mio).
55
Ibid., p. 25.
56
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 58-59. Perciò, continua Schmitt, la definizione
kantiana della contrapposizione tra etica e diritto «lascia senza risposta il problema più im-
portante, in particolare quello della giustificazione (Berechtigung) dell’obbligazione giuridica
(…) (che) non può essere chiarita attraverso il riferimento all’obbligo, poiché essa così smet-
terebbe di corrispondere a una norma e sarebbe un derivato dei rapporti fattuali» (ibid., pp.
59-60). In altre parole, Schmitt sostiene che Kant, fondando il dovere giuridico su motivazioni
empirico-psicologiche, può distinguere l’illiceità di una banda di ladri solo sulla base della
legalità dell’obbligo statale. Al contrario, per il giurista tedesco si tratta di legittimare l’azione
concreta dello Stato – come istanza giuridica competente – muovendo dal riferimento ad una
norma sovrapositiva indipendente da rapporti fattuali: infatti, il carattere coercitivo della nor-
ma statale dipende dal suo contenuto empirico – contenuto che sta in relazione alla norma
stessa in modo accidentale, essendo esso posto dall’esterno in quanto positivo. Come si vede,
se il carattere essenzialmente costrittivo della legislazione giuridica porta Kant, a parere di
Schmitt, a tradire «il postulato della purezza del diritto» (ibid., p. 59), già nel giovane giurista
di Plettenberg giunge invece a maturazione – sulla scia di questo confronto con la Metafisica
Tra neokantismo e positivismo giuridico 169
dei costumi – il problema della norma indifferente alla fattispecie e, nello stesso tempo, dell’ac-
cidentalità del contenuto della decisione statale rispetto al diritto originario.
57
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 10-11.
58
H. Ball, La teologia politica di Carl Schmitt, cit., p. 99. A Schmitt non interessa rilevare
che anche in sede morale il formalismo kantiano possa rovesciarsi in una concezione materia-
listica dell’agire: per una posizione critica su questo punto si veda G. W. F. Hegel, Sulle maniere
di trattare scientificamente il diritto naturale, sulla posizione di esso nella filosofia pratica e sul
suo rapporto con le scienze giuridiche positive (1802-1803), in Id., Scritti di filosofia del diritto
(1802-1803), a cura di A. Negri, Laterza, Roma-Bari, 1971², pp. 23-160.
59
P. Costa, D. Zolo, E. Santoro, Lo stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano,
2002, p. 102.
170 Alessio Calabrese
60
I. Kant, Metafisica dei costumi, cit., pp. 148 e ss. Non è possibile in questa sede discutere
un tema spinosissimo quale quello che, nella genesi del pensiero giuridico-politico di Kant,
caratterizza il rapporto tra diritto e politica in riferimento alla coazione statale. Ci limitiamo
ad osservare che Schmitt, coerentemente con la sua metodologia normativa, non prende in
considerazione il ruolo «prudenziale» svolto dalla politica nella Pace perpetua (in Id., Scritti
di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 190 e ss.). Qui
– e in generale per il formalismo giuridico kantiano – se l’applicazione del diritto è ciò che
compete alla politica, la coazione invece si riferisce più esplicitamente alla decisione statale.
In altre parole, vi è in Kant un’evidente discontinuità tra applicazione e decisione del diritto,
conformemente alle dottrine giuridiche liberali, mentre in Schmitt, al contrario, proprio il
momento della decisione non può essere eluso né distinto nella prassi del diritto, poiché esso
si trova racchiuso in ogni proposizione giuridica.
61
A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e
nei giuristi kantiani tra il 1789 e il 1802, Cedam, Padova, 1962, p. 81.
62
Scrive in proposito G. Solari: «Lo Stato giuridico di Kant non è solo un’esigenza razio-
nale, ma è anche espressione di potenza, è forza coattiva a servizio della norma di ragione,
anche ciò in armonia con la concezione del diritto che si identificava con la coazione. Alla as-
solutezza della norma corrisponde l’assolutezza della coazione, intesa nei limiti e nella finalità
di quella. Perciò l’antitesi di libertà e coazione, diritto e Stato, che prima di Kant sembrava
non potesse risolversi se non con il sacrificio dell’uno o dell’altro termine, era superata da Kant
nella nozione stessa del diritto, che è sintesi di libertà empirica e di coazione razionale» (G.
Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Guida, Napoli, IV ed., p. 83).
63
A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e
Tra neokantismo e positivismo giuridico 171
67
J.W. Bendersky, Carl Schmitt teorico del Reich (1983), a cura di M. Ghelardi, Il Mulino,
Bologna, 1989, p. 36. Secondo il giuspositivista P. Laband «il diritto è ciò che è la legge» e «la
legge è ciò che è promulgato in modo formalmente adeguato» (P. Laband, Das Staatsrecht des
Deutschen Reiches, Tübingen 1876, vol. I, pp. 87 ss.).
68
Per una discussione approfondita della filosofia del diritto neokantiana si veda C. Mül-
ler, Die Rechtsphilosophie des Marburger Neukantianismus. Naturrecht und Rechtspositivismus
in der Auseinandersetzung zwischen Hermann Cohen, Rudolf Stammler und Paul Natorp, Mohr
Siebeck, Tübingen, 1994.
69
H. Cohen, Etica della volontà pura (1904), trad. it. a cura di G. Gigliotti, ESI, Napoli,
1994, p. 53.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 173
70
È evidente che il nesso stabilito tra gnoseologia e diritto conduce i neokantiani a distor-
cere la posizione che quest’ultimo possiede nella Metafisica dei costumi, e cioè al mondo etico
e della libertà (cfr. E. Kaufmann, Critica della filosofia neokantiana, in E. Kaufmann, W. Sauer,
G. Hohenauer, Neokantismo e diritto nella lotta per Weimar, a cura di R. Miccú, ESI, Napoli,
1992, p. 46). Tuttavia, il merito del neokantismo giuridico – ed in particolar modo quello mar-
burghese – sta nel fatto che «provvide ad una giustificazione alternativa (a quella di Laband)
di concepire il sistema giuridico come sistema unitario. L’unità, veniva così argomentato, era
semplicemente la condizione trascendentale del giudizio giuridico» (G. Balakrishnan, The
Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, Verso, 2002, p. 14).
71
H. Cohen, Etica della volontà pura, cit., pp. 8 e ss.
72
Ibid., p. 50.
174 Alessio Calabrese
73
Ibid., p. 54 e 60.
74
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 12.
75
Ibid.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 175
punto centrale, che avrebbe da sola una rilevanza scientifica, manca ancora»76;
infatti – egli continua – «la determinazione delle categorie giuridiche e di una
teoria della scienza giuridica non può avere successo senza una scienza giuri-
dica perfetta; qualora essa faccia sul serio con la sua ‘purezza’, non può pro-
gettare in alcun punto una discesa verso le questioni particolari della scienza
del diritto positivo, poiché tale passaggio e discesa sarebbe la più mostruosa di
tutte le gradualità»77.
In questa affermazione è riassunto il senso che la critica schmittiana assu-
me nei confronti del neokantismo giuridico. Detto in altri termini: come può
sussumersi sotto una categoria normativa puramente logica un caso concreto?
E ancora: come si può pensare di potere trattare non un fatto giuridico bensì
un’azione giuridica concreta, muovendo dall’universalità della scienza? Come si
può, insomma, verificare un passaggio, un’armonia prestabilita o anche solo un
legame unitario tra una sfera pura ed una sfera concreta se non premettendo
un’Idea giuridica valevole di per sé?78
È qui, a nostro parere, che risiede l’originalità e la forte discontinuità del
discorso schmittiano rispetto al neokantismo giuridico. Non solo l’aver assun-
76
Ibid., p. 13. Su ciò cfr. H. Cohen, Etica della volontà pura, cit., pp. 55 e ss.
77
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 13-14.
78
Questa obiezione schmittiana costituisce il leit motiv di tutta la successiva critica alla
filosofia pura del diritto di Hans Kelsen: «Come può accadere – si chiede Schmitt – che una
quantità di disposizioni positive possa essere ricondotta con il medesimo punto di riferimento
ad un’unità, se si tratta non dell’unità di un sistema di diritto naturale o di una teoria giuridica
generale, ma dell’unità di un ordinamento avente efficacia positiva?» (Id., Teologia politica, cit.,
p. 46). In altre parole: il diritto non perde la sua natura normativa per una puramente autori-
tativa? E l’unità che il sistema persegue non rimane astratta? Certo, Kelsen potrebbe obiettare
che l’azione, l’effettività delle norme è garantita dalla loro stessa dinamicità, dalla tensionalità
del Sollen la cui natura sanzionatoria produce un effetto sul piano pratico dell’essere, neutra-
lizzando la necessità di un’auctoritas intermedia: infatti, «l’azione giuridica è per definizione
originata da una norma e tendenzialmente incanalantesi in una norma» (A. Catania, Manuale
di teoria generale del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 49). Ma un rigore tecnico che per-
manga solo all’interno della scienza giuridica, non costituisce di per sé il fondamento dell’ef-
ficacia pratica del diritto, poiché le norme giuridiche non si applicano da sole e la coerenza
logica non giustifica l’unità concreta dello Stato, alla quale si riferisce pur sempre ogni costru-
zione giuridica che vuole dirsi positiva: «Solo da principi sistematici – continua Schmitt –, nor-
mativamente conseguenti senza riguardo alla vigenza ‘positiva’, cioè giusti in se stessi, in forza
della loro razionalità o giustezza, si può far derivare un’unità o un ordinamento normativo»
(C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), trad. it. A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, p.
23). A tal proposito, come ha osservato G.A. Di Marco, per Schmitt, a rigore, il tipo di pensiero
normativista, si trova ad essere più vicino al giusnaturalismo che al positivismo giuridico (cfr.
G.A. Di Marco, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Guida, Napoli, 1999,
p. 18). Da questo punto di vista, la dottrina giuridica kelseniana appare a Schmitt un contro-
senso proprio perché, secondo il giurista di Plettenberg, «il pensiero normativistico, quanto
più è puro, tanto più conduce ad una frattura sempre più drastica fra norma e realtà, fra dover
essere e essere, fra regola e comportamento» (C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico (1934),
trad. it. in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 256).
176 Alessio Calabrese
to come problema centrale quello del soggetto giuridico concreto richiede una
soluzione giuridico-pratica e non più puramente filosofica, ma tale operazio-
ne risulta possibile soltanto a partire da un metodo normativo che, cosciente
dell’impossibilità di una convergenza tra sfera astratta e sfera effettuale del
diritto, sia capace di legittimare l’azione concreta dello Stato quale unica ese-
cutrice della norma giuridica. «Nella filosofia del diritto l’opposizione tra vita
e scienza è oggi espressa in modo particolarmente chiaro. L’idea che il diritto
non possa essere dedotto dai fatti è molto corrente. Al centro della discussione
si pone al giorno d’oggi il problema del diritto come norma indifferente alla
fattispecie, ma non il problema intorno allo Stato come una realtà (Realität). Al
contrario, l’interesse di questo libro (scil. Der Wert des Staates) verte sul proble-
ma dello Stato, mentre i riferimenti al diritto si limitano agli aspetti che condu-
cono a una giusfilosofica definizione di Stato»79.
È evidente che è nella prassi dello Stato, in quanto forma concreta del dirit-
to, che Schmitt vede riflessa, seppur in maniera obliqua, l’idealità astratta della
norma giuridica. In tal modo, osservare la concretezza giuridica non solo non
significa trattare il caso concreto in modo naturalistico, bensì rintracciare in
esso l’universale unità dell’Idea di diritto. Il teorico, il normativo, l’astratto ven-
gono dunque ricompresi nella fatticità del singolo caso concreto in cui il diritto
s’incarna, mentre la forma concreta del diritto, lo Stato, assume «un valore fon-
dante, una fiducia in sé che evidenzia il punto in cui si toccano teoria e prassi,
dal momento che la teoria della prassi trapassa nella prassi della teoria»80. Così,
muovendo dal dato reale e visibile del diritto, il giurista si fa necessariamente
filosofo e riesce a far giocare teoria e prassi giuridica nell’unità di un sistema
scientifico.
È bene ricordare che le riflessioni schmittiane sul neokantismo giuridico
non si fermano qui, procedendo in direzione di una discussione della Theorie
der Rechtswissenschaft di Rudolf Stammler, alla quale vengono dedicate im-
portanti osservazioni81. È noto, infatti, che anche quest’ultimo, nel tentativo di
elaborare una dottrina pura del diritto nel senso trascendentale, riteneva neces-
sario separarla dal suo legame con l’orizzonte metafisico in cui era stata inse-
rita da Kant e in cui restava ancora nelle analisi di Hermann Cohen. Ponendo
il problema di un concetto giuridico puro e formale contro una sua definizione
empirica e positivista, Stammler si rifà alla Critica della ragion pura, distin-
79
Id., Der Wert des Staates, cit., p. 10.
80
Ibid., p. 9.
81
Di uno studio approfondito della dottrina giuridica di Stammler ne abbiamo traccia
anche nel diario che Schmitt scriveva in quegli anni (Id., Tagebücher, cit., pp. 73-90).
Tra neokantismo e positivismo giuridico 177
82
R. Stammler, Theorie der Rechtswissenschaft, a.d.S., Buchandlung des Waisenhauses,
Halle, 1911, p. 113. Nella prima parte della sua opera, coerentemente all’esigenza critica di
fondare una scienza pura del diritto, l’Idea del diritto – ciò che Stammler chiama «diritto
giusto» o «diritto naturale a contenuto variabile» – viene determinata soltanto negativamente
attraverso la legalità e la coercibilità delle regole esteriori e dell’eteronomia. Nella seconda
parte della sua reine Rechtslehre Stammler tuttavia ritiene di poter «veicolare non solo condi-
zioni e oggetti del pensiero (concetti), ma anche valori e fini assoluti facendo leva su un’idea
che appartiene tanto alla ragion pura quanto alla ragion pratica» (C. Galli, Genealogia della
politica, cit., p. 296).
83
R. Stammler, Theorie der Rechtswissenschaft, cit., p. 109.
178 Alessio Calabrese
84
Ibid.
85
G. Hohenauer, Il neokantismo e i suoi limiti come filosofia sociale e giuridica, in E. Kau-
fmann, W. Sauer, G. Hohenauer, Neokantismo e diritto nella lotta per Weimar, a cura di R.
Miccú, ESI, Napoli, 1992, p. 132.
86
Ibid., p. 135.
87
R. Stammler, Theorie der Rechtswissenschaft, cit., p. 114. E. Kaufmann nota che Stam-
mler «salva sì la validità normativa assoluta dei principi formali, ma fa dipendere la vera de-
cisione di tutti i problemi giuridici dalla pura positività del diritto storico, senza però rendere
comprensibile come questo possa svolgere la funzione destinata alla comunità particolare»
(E. Kaufmann, Critica della filosofia neokantiana, cit., p. 16). Quest’ultima è uno «schema for-
male» che deve fornire una materia concreta ai principi astratti del diritto esatto; ma «tutte
queste forme e norme sono vuote e nessun ponte conduce da loro in basso, verso l’essere»
(ibid., p. 13).
88
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 61; cfr. Stammler, Theorie der Rechtswissen-
schaft, cit., p. 75.
89
R. Stammler, Die Lehre von dem richtigen Rechte, Guttentag, Berlin, 1902, p. 87.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 179
per questo motivo, a dare una giustificazione normativa del diritto sulla base della
sua efficacia pratica. Quest’ultimo punto viene sottolineato da Schmitt quando af-
ferma che per Stammler la differenza tra l’ordine interno della moralità e quello
esteriore del diritto riguarda il fatto che il primo «si riferisce al volere desiderante
(wünschende Wollen) dei singoli individui pensanti, mentre il secondo concerne il
volere effettivo (Wirkende Wollen), legando i fini di uomini diversi nel raggiungi-
mento di un fine comune»90. È per questo motivo che Stammler – e in generale le
correnti neokantiane – non riescono ad andare oltre una definizione meramente
gnoseologica della scienza giuridica: perché la purezza, a rigore, dovrebbe essere
dapprima ricercata nei confronti della morale.
Al contrario, per Schmitt, la normatività e l’indipendenza del fenomeno giu-
ridico non sono da ricercarsi muovendo dall’ambito teoretico: è, invece, sul
piano della ragione pratica che va formalizzata la sua separazione dalla mora-
le, decostruendo il principio kantiano della priorità della norma etica su quella
giuridica. In tal senso, come abbiamo più volte ribadito, per l’autore di Der Wert
des Staates, la condizione necessaria per cui il diritto sia indipendente dai fatti –
cioè, il punto a partire dal quale ci si può opporre al positivismo giuridico – sta
nella discussione del principio kantiano dell’unicità della ragione pratica.
Simile critica Schmitt la rivolge anche alla concezione giuridica di Paul Na-
torp. Se è vero infatti che a quest’ultimo non sfuggono le difficoltà della Teoria
della scienza giuridica di Stammler, e se è vero che anch’egli tiene fermo il punto
secondo cui l’eteronomia delle norme giuridiche deve chiarirsi sull’autonomia
di quelle etiche, altrettanto vero è, a parere di Schmitt, che Natorp traduce la
contrapposizione stammleriana tra interiorità e esteriorità in quella tra autono-
mia e eteronomia, «due diverse direzioni della stessa originaria legislazione»91.
Per il filosofo marburghese, infatti, come in un gioco di specchi, diritto e mo-
rale si rimandano a vicenda: «La moralità tende dall’autonomia all’eteronomia
del diritto come il punto centrale del cerchio alla periferia mentre il diritto,
imboccando il cammino opposto, (tende) dall’eteronomia all’autonomia della
moralità»92.
Senza presupporre un’etica che funga da punto centrale di valore rispetto
alla sfera esterna e periferica del diritto, un simile passaggio graduale prospet-
tato da Natorp appare a Schmitt molto problemtatico. Solo intesa in tal senso
90
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 61-62.
91
Ibid., p. 64. Schmitt rimanda a P. Natorp, Recht und Sittlichkeit, in «Kantstudien», vol.
XVIII, 1913, pp. 1 e ss.
92
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 64.
180 Alessio Calabrese
93
Ibid., p. 65.
94
Ibid.
95
Ibid., p. 11.
96
Ibid., p. 67.
97
H.R. Otten, Der Sinn der Einheit im Recht. Grundpositionen Carl Schmitts, Gustav Rad-
bruchs, und Hans Kelsens, cit., p. 35.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 181
Abbiamo visto che nonostante non si dia alcuna armonia prestabilita tra
Norm e Faktizität, la locuzione schmittiana «diritto naturale senza naturali-
smo» esprime nello stesso tempo sia l’irriducibilità tra l’ordinamento originario
e quello positivo, sia il loro reciproco co-appartenersi all’interno del fenomeno
giuridico. Si è inoltre ribadita più volte l’autonomia del diritto rispetto alla mo-
ralità, in modo da non far risultare, come conseguenza di una loro unione, la
posizione dello Stato identica a quella di un potere cieco. Riguardo a quest’ulti-
ma questione è possibile ritrovare un’assonanza tra la concezione schmittiana
e quella di Kant poiché in quest’ultima, sebbene il rapporto di derivazione della
legge morale rispetto all’individuo si mostra invertito, il singolo resta l’unico de-
98
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 66.
99
Ibid., p. 68.
100
Ibid., p. 68 (il corsivo è mio).
182 Alessio Calabrese
stinatario di tale legge; in ciò la filosofia pratica kantiana si inscrive a pieno tito-
lo nella tradizione liberale dello Stato di diritto, il cui problema principale resta
l’autonomia del singolo di fronte all’abuso di potere della macchina statale.
Tuttavia le assonanze tra i due pensatori tedeschi si fermano qui, come mo-
stra la seguente citazione: «Esiste un’autonomia nel diritto – dice Schmitt – ma
il suo titolare è solo lo Stato in quanto è l’unico soggetto dell’ethos giuridico
(…). L’autonomia significa nel diritto qualcosa di diverso che nell’etica in cui
l’individuo è visto come suo proprietario. Portare quest’ultimo tipo di autono-
mia a paragone con quella del diritto significa iniziare da false antitesi, quella,
cioè, che esiste tra diritto e individuo o quella più originaria tra Stato e indivi-
duo. Più correttamente, invece, l’individuo deve essere tagliato fuori e soltan-
to diritto e Stato devono essere contrapposti. Nessun individuo ha autonomia
nello Stato»101.
Come si vede, diversamente dalla dottrina giuridica di Kant in cui il singolo
è l’unica controparte della legge, il normativismo schmittiano è caratterizzato
dal predominio dell’ordinamento oggettivo, sia originario, sia positivo. «Sog-
getto giuridico» propriamente è solo lo Stato poiché esso è legato direttamente
al diritto; di fronte alla grandezza dello Stato, l’individuo appare come una fat-
tualità empirica che sta in rapporto al diritto solo indirettamente. In tal senso,
l’individuo scorge nell’esistenza dello Stato un ostacolo, una prima contrappo-
sizione che si dà nei termini di un’organizzazione sovrapersonale. Di fronte alla
giuridicità dello Stato, «il singolo individuo concreto scompare (…) poiché lo
Stato o è un servo dell’individuo o un servo del diritto. Dato che solo quest’ul-
tima possibilità corrisponde al vero, lo Stato precede l’individuo come il diritto
è anteriore allo Stato e, come la continuità dello Stato risulta solo dal diritto,
così la continuità dell’individuo che vive nello Stato deriva soltanto dallo Stato
stesso»102.
È evidente che per Schmitt, contrariamente alle concezioni liberali di Sta-
atstheorie, lo Stato non viene inteso come un potere che si legittima in base alla
salvaguardia dei diritti individuali preesistenti; se così fosse, infatti, si tratte-
rebbe di far dipendere la sua dignità da un sostrato empirico, consistente so-
prattutto nella protezione di diritti di proprietà, cioè di interessi inerenti alla
soggettività del singolo quale essere di natura. Dal momento che il diritto, in
101
Ibid., p. 101 (il corsivo è mio). Secondo Schmitt, non è solo la filosofia trascendentale
kantiana che muove da «false antitesi» ma anche la dialettica hegeliana quando ritiene che il
diritto sia l’unità tra la regola impersonale e l’individuo empirico (cfr. ibid., p. 86).
102
Ibid., p. 85.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 183
103
Ibid., p. 99. Contrariamente all’empirismo liberale e facendo suo il razionalismo nor-
mativo kantiano, Schmitt ritiene che l’individuo riceve tutto il suo valore non dalla natura ma
da quello che la legge stabilisce (cfr. ibid., p. 98); su ciò cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica
dei costumi, a cura di P. Chiodi, TEA, Milano, 1997, p. 55.
104
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 99.
105
Ibid., p. 85.
106
Ibid., p. 86.
107
M. Nicoletti, Alle radici della teologia politica di Carl Schmitt. Gli scritti giovanili (1910-
1917), in «ISIG», 10, Trento, 1984, p. 291.
108
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 103. Scissa dal legame con il diritto naturale
originario anche l’individualità del sovrano assoluto «non è al di sopra del diritto più di quanto
lo sia al di sopra della grammatica» (ibid., p. 95); infatti, «la dignità che egli esige e che gli è
attribuita non vale che per la sua funzione e non per l’uomo mortale. Grazie al tipo di somi-
184 Alessio Calabrese
lore – scrive Schmitt – che può essere connesso con il singolo uomo sta nella
dedizione al ritmo sovraindividuale di una legalità»109.
Dunque, il significato del singolo, la sua unità di persona, emerge solo da una
costruzione teorico-normativa e non da una empirico-causale, poiché «il crite-
rio dell’individualità sta in un valore che è dedotto da una norma»110.
Ora, se origine e genesi dello Stato non dipendono dall’individuo empirico
ma, ancora una volta, è lo Stato a fare di ogni singolo uomo una «costruzione»111,
risulta chiaro che a Schmitt non interessa la realtà fattuale dello Stato stesso.
È per questo motivo che egli critica le teorie giuridiche di matrice contrattua-
listica, rinvenendo il loro errore non tanto nella costruzione del patto, quanto
piuttosto nell’accettazione di «individui empirici come parti del patto»112.
In particolare la critica schmittiana si rivolge contro le concezioni giuridiche
scaturite dagli ideali della Rivoluzione: contro quelle concezioni, cioè, che pur rifa-
cendosi al concetto di «volontà generale» di Rousseau, contengono una confusione
tra jus e factum. Per il giurista tedesco, invece, gli individui empirici non sempre
sono capaci di essere soggetti di diritto: essi lo sono solo quando la loro volontà
non risulta viziata ma si conforma ad un ideale razionale e virtuoso. Emblema-
tico, in tal senso, è il comportamento di Robespierre il cui ricorso alla sovranità
popolare intesa come «volontà generale» non venne fatto valere quando si trattò
di decidere della sorte di Luigi XVI; il voto popolare, infatti, non fu ammesso con
la scusante che la repubblica rappresentava il valore e la «virtù» suprema rispetto
alla quale nessuna maggioranza avrebbe potuto esprimersi in modo contrario. È
evidente che per Schmitt a risultare fondamentale per la singolarità resta sempre
il legame ad un mondo di valori che come «ordinamento giuridico» legittima non
glianza divina che il monarca assoluto ha in quanto ‘legge vivente’, egli è sottomesso al diritto,
come il Dio della teologia la cui volontà onnipotente non può volere nulla di male e di non
razionale» (ibid., p. 96). Di natura analoga è anche la sovranità papalina il cui ufficio infalli-
bile, pur trascendendo tutto il diritto positivo, mantiene un esercizio limitato dal fatto che il
vescovo di Roma è solo «il servo dei servi di Dio» (ibid., p. 95, in nota).
109
Ibid., p. 93.
110
Ibid., p. 102.
111
Ibid., p. 93. Da questo punto di vista, questa affermazione ricalca la forte vicinanza tra
la filosofia del diritto hegeliana e la filosofia dello Stato schmittiana. Hegel, infatti, sostiene
che «giacché lo stato è spirito oggettivo, l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità sol-
tanto in quanto è un membro del medesimo» (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
(1821), cit., p. 196, § 258). Per l’appunto, H. Hofmann ha sostenuto che sia stata l’influenza
della filosofia dello Stato hegeliana ad indurre Schmitt a vedere nel soggetto statale «il punto
di concrezione finale del diritto» (H. Hofmann, Legittimità contro legalità, cit., p. 87). Di con-
seguenza, lo stesso Hofmann è incline a ritenere che la concezione giovanile schmittiana sia
più una forma di «decisionismo teorico-giuridico» che di normativismo in senso proprio (cfr.
ibid., p. 57).
112
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 107.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 185
113
Ibid., pp. 105 e ss. .
114
Ibid., p. 39.
115
Ibid., p. 97.
116
Ibid., p. 43.
117
Ibid., p. 54.
118
Ibid., p. 46.
186 Alessio Calabrese
119
C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 319.
120
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 46.
121
Ibid., p. 53 (corsivi miei). L’espressione è tratta da Agostino d’Ippona, De Civitate Dei,
Libro XI, capitolo XXIV.
122
Schmitt riconosce il debito nei confronti della Filosofia del come se di Hans Vaihinger
con queste parole: «Ma ancora un altro risultato del libro di Vaihinger è di valore attuale per i
giuristi. Oggigiorno la volontà della legge viene generalmente considerata come fondamental-
mente misurabile per l’interpretazione di una legge e decisiva per la giustezza di una sentenza.
Tanto per l’interpretazione estensiva, quanto per l’applicazione analogica ci si richiama alla
volontà della legge e si conferma il risultato dell’interpretazione con le parole: questa è la vera
(wirkliche) volontà della legge. Probabilmente non si tratta altro che di indicare come volontà
della legge quella imposta al giurista in immutabile determinatezza (…). Il metodo è questo: si
considera il risultato dell’interpretazione come se fosse la volontà della legge. Ne risulta perciò
la tendenza a considerare come realtà il pensato. Dal momento che si fa un’arbitraria e falsa
ipotesi per valutare la realtà effettiva, ma allo stesso tempo si deve rimanere sempre coscienti
di quest’arbitrarietà, si origina uno ‘scomodo stato di tensione’ dell’animo che si cerca di ri-
muovere attribuendo realtà (Realität) al pensato» (C. Schmitt, Finzioni giuridiche, cit., p. 67).
123
Id., Der Wert des Staates, cit., p. 48.
Tra neokantismo e positivismo giuridico 187
124
Ibid., p. 48 (il corsivo è mio).
125
Cfr. O. Beaud, Diritto naturale e diritto positivo negli scritti giuridici giovanili di Carl
Schmitt, cit., p. 97.
126
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., p. 50.
127
Ibid., pp. 50-51.
128
Ibid., p. 38.
129
Ibid., p. 55.
188 Alessio Calabrese
130
Ibid., p. 56 (il corsivo è mio).
131
Ibid., p. 74 (il corsivo è mio).
Tra neokantismo e positivismo giuridico 189
132
Ibid., p. 80.
133
Ibid., p. 79.
134
Esempio di «tipica purezza» e modello di questo «processo di secolarizzazione» dell’Idea
giuridica è per Schmitt, nuovamente, la Chiesa di Roma (ibid., pp. 81 e ss.).
135
Scrive in proposito G. Duso: «L’agire rappresentativo comporta il rapporto con ciò che
non è empiricamente presente (…). è proprio nella confutazione della possibilità di intendere
il piano fattuale e empirico come effettivamente reale (wirklich), e dunque nella comprensione
della necessaria implicazione dell’idea per poter parlare di realtà, che emerge come indispen-
sabile il concetto di decisione» (G. Duso, La logica del potere, cit., pp. 198-199).
136
H. Ball, La teologia politica di Carl Schmitt, cit., p. 104.
190 Alessio Calabrese
C. Schmitt, Der Wert des Staates, cit., pp. 108-109 (il corsivo è mio).
137
K. Löwith osserva che nello scritto Der Wert des Staates «Schmitt sostiene ancora una
138
Abstract. This paper is devoted to one of the most discussed issues of Karl Marx’s
critical political economy. It deals with the problem of transforming values into produc-
tion prices and with the critical debate on the subject. The work provides an analysis of
the transformation as it is exposed by Marx in the third volume of Capital and presents
the first and most radical criticisms to that approach, raised by Böhm-Bawerk and Bort-
kiewicz. Finally, it discusses two of the most important positions in the contemporary
debate on the issue. The first one is the Temporal Single-System Interpretation, the second
one is the neue Marx-Lektüre, particularly that of Michael Heinrich and his «monetary
theory of value».
1. Introduzione1
1
Nel corso del presente lavoro le opere di Marx saranno citate dalla nuova edizione storico-
critica delle opere complete di Marx ed Engels col consueto acronimo MEGA2 (K. Marx, F. En-
gels, Gesamtausgabe, herausgegeben vom Institut für Marxismus-Leninismus, Berlin/Moskau
1975 sgg.), indicando con la cifra romana la sezione e con le cifre arabe il volume e la pagina.
Faremo inoltre riferimento all’edizione delle opere complete di Marx ed Engels più diffusa e
conosciuta: K. Marx, F. Engels, Werke, herausgegeben vom Institut für Marxismus-Leninismus
beim Zentralkomitee der Sozialistischen Einheitspartei Deutschland, Berlin/Ost 1957 sgg. In
questo caso utilizzeremo l’acronimo MEW, seguito dall’indicazione del volume e della pagina.
Traduzioni ed edizioni italiane saranno indicate di volta in volta. Infine, non compare il riferi-
mento MEGA2 per quei testi che ancora non sono disponibili nella nuova edizione.
192 Antonella Muzzupappa
discorso di Marx sui prezzi di produzione; l’altra che, mettendo al centro del
discorso la «teoria monetaria del valore» di Marx, ritiene che il metodo di deri-
vazione dei prezzi dai valori del nono capitolo costituisca un passo indietro di
Marx rispetto alla sua stessa «rivoluzione teorica».
Marx definisce il valore come uguale alla quantità di tempo di lavoro so-
cialmente necessario a produrre una merce e il prezzo come l’espressione in
denaro di questa quantità di lavoro. Fin dai Grundrisse, però, insiste sul fatto
che valore e prezzo non coincidono mai e che la differenza tra i due termini è
assoluta ed essenziale e non solo nominale o accidentale.
Nell’ambito della critica a Darimon e alla sua riforma delle banche, Marx
chiarisce due questioni fondamentali che riguardano il suo punto di vista sui
prezzi e, in generale, sul denaro. Innanzitutto, il prezzo non è solo un nome
diverso del valore delle merci, e il denaro non è un accidente ma un elemento
necessariamente connesso alla produzione generalizzata di merci. Esso deriva
necessariamente dalla scissione che caratterizza il prodotto del lavoro diventa-
to merce: la scissione tra valore d’uso e valore.
Il denaro è l’esistenza fisicamente separata del valore di scambio delle mer-
ci, è questo valore di scambio incarnato in una merce particolare che lo rap-
presenta per eccellenza, una sorta di valore di scambio puro. Non ricostruiamo
qui, nei particolari, tutto il discorso di Marx a proposito della contraddizione
della merce ma cerchiamo di chiarire brevemente soltanto in che senso il dena-
ro sia una necessità e non un accidente, per poi ritornare al prezzo che in esso
si esprime.
Il denaro è necessario poiché ogni prodotto, nel momento in cui viene pro-
dotto come merce, acquista una doppia esistenza: naturale ed economico-so-
ciale. In quanto valori, quindi nella loro esistenza economico-sociale, le merci
sono tutte tra loro equivalenti e assolutamente intercambiabili; in quanto og-
getti d’uso, invece, cioè nella loro esistenza naturale, esse sono assolutamente
differenti le une dalle altre e non vi è alcun criterio che permetta di stabilire in
quali quantità esse si possano scambiare le une contro le altre. La merce, insom-
ma, è dotata di una doppia esistenza caratterizzata dall’assoluta contraddizio-
ne: il valore di scambio nega decisamente il valore d’uso e viceversa. La qualità
della merce di essere valore di scambio, deve acquistare, per Marx, un’esistenza
materialmente separata da quella della merce in quanto valore d’uso. «Perché?
Perché essendo le merci in quanto valori diverse l’una dall’altra soltanto quan-
194 Antonella Muzzupappa
titativamente, ciascuna merce deve essere qualitativamente diversa dal suo pro-
prio valore.»2 Il valore di scambio, cioè, deve necessariamente acquistare, nel
denaro, un’esistenza fisicamente separata dalla merce. Non si tratta di una sem-
plice possibilità, ma di una necessità essenziale derivante dalla scissione, nella
merce, tra valore d’uso e valore. Il denaro è l’esistenza puramente economica
della merce separata dalla merce stessa, «il valore di scambio della merce, come
esistenza particolare accanto alla merce stessa»3, «una lettera che sta al posto di
un rapporto di produzione»4.
Da questo punto di vista, dunque, il denaro non è un accidente, una circo-
stanza esterna e casuale per il modo di produzione capitalistico, bensì il rappre-
sentante del rapporto essenziale a questo modo di produzione. La stessa idea
si può esprimere in termini più generali riferendosi ai concetti di produzione
e circolazione, come del resto lo stesso Marx fa proprio nelle prime pagine del
«Quaderno I» dei Grundrisse quando discute la proposta di Darimon di riforma
delle banche: «Il problema, si dice, è di natura generale: è possibile rivoluzio-
nare i rapporti di produzione esistenti e i rapporti di distribuzione ad esso cor-
rispondenti mediante una trasformazione dello strumento di circolazione?»5.
Detto in altri termini: si può trasformare la circolazione senza toccare la produ-
zione? Chiaramente, per Marx, questo non è possibile e il tema del rapporto tra
produzione e circolazione resta fondamentale in tutta la critica dell’economia
politica ed è di estrema rilevanza proprio per discutere il nostro problema del
rapporto tra valori e prezzi. Alla fine del Terzo libro del Capitale, in un capitolo
intitolato proprio Rapporti di distribuzione e rapporti di produzione, Marx ritor-
na in modo complessivo su questo tema e ribadisce, questa volta dopo l’analisi
della concorrenza, dei prezzi di produzione e di mercato, della rendita ecc., che
«i cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono […] a forme storicamente
determinate, specificamente sociali, del processo di produzione e dei rapporti
in cui gli uomini entrano nel processo di riproduzione della loro vita e derivano
da queste forme.»6 Le forme della produzione, i rapporti in cui gli uomini entra-
no per produrre ciò di cui hanno bisogno e riprodurre la loro stessa vita, sono
determinanti e fondanti per la circolazione e la distribuzione.
Dunque, il denaro, questo particolare strumento della circolazione capitali-
2
MEGA2, II/1.1, Berlin 1976, p. 76; MEW, Bd. 42, Berlin 1983, p. 76; tr. it. E. Grillo, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-1858, Scandicci 1997, vol. I, p. 76.
3
Ivi, p. 77; ivi, p. 77; tr. it. cit., p. 77.
4
Ivi, p. 76; ivi, p. 76; tr. it. cit., ibidem.
5
Ivi, p. 57; ivi, p. 58; tr. it. cit., p. 52.
6
MEGA2, II/15, Berlin 2004, p. 855; MEW, Bd. 25, Berlin 1971, p. 890; tr.it. M.L., Boggieri,
Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, Roma 1994, p. 1001.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 195
stica delle merci, deriva necessariamente dalla stessa produzione delle merci e
dalla contraddizione tra valore d’uso e valore ed è il rappresentante materiale
di un rapporto di produzione, di un intero rapporto sociale, ossia del rapporto
che si stabilisce tra gli uomini e tra gli uomini e le cose nel particolare modo di
produzione capitalistico.
Il prezzo, poi, è l’espressione monetaria del valore ed è sempre assoluta-
mente differente dal valore in quanto tempo di lavoro. Esso è «la forma mu-
tata nella quale appare il valore di scambio delle merci in seno al processo di
circolazione»7. In quanto forma trasformata del valore, però, pur non coinci-
dendo mai con esso, il prezzo mantiene col valore un rapporto strettissimo. «Il
prezzo – scrive Marx nei Grundrisse – si distingue dunque dal valore non soltan-
to come ciò che è nominale da ciò che è reale […] ma per questo motivo: che il
secondo si presenta come la legge dei movimenti percorsi dal primo»8. I prezzi,
quindi, sono sempre diversi dai valori, ma i valori rappresentano la base a par-
tire dalla quale i prezzi si formano e variano e se «domanda e offerta determi-
nano costantemente i prezzi delle merci […] i costi di produzione da parte loro
determinano le oscillazioni della domanda e dell’offerta».9 Certo, i termini della
questione non sono ancora quelli del Terzo libro del Capitale, ma si può notare
come fosse già presente a Marx il fatto che i valori sono ciò che sta dietro i prez-
zi e che in un qualche modo li determina, e che fattori come domanda e offerta
non vanno trattati come principi a partire dai quali si spieghino le oscillazioni
dei prezzi, in quanto, al contrario, le oscillazioni della domanda e dell’offerta si
spiegano a partire dai costi di produzione.
A proposito dell’analisi del prezzo a questo livello della trattazione mar-
xiana, va fatta ancora una considerazione: nel prezzo, la trasformazione della
merce in oro è soltanto ideale; la merce viene solo rappresentata come dena-
ro ma non è denaro reale. Per divenire denaro reale essa deve essere alienata,
venduta, scambiata, deve cioè avvenire quel passaggio nel quale il lavoro del
singolo indipendente, occorso a produrre quella merce determinata, diventa
lavoro generale astratto. In Per la critica dell’economia politica del 1859 si leg-
ge: «Nell’esistenza del valore di scambio come prezzo […] è contenuta in via
latente la necessità dell’alienazione della merce in cambio di oro sonante, e
la possibilità della sua non-alienazione, in breve è contenuta in modo latente
7
MEGA2, II/2, Berlin 1998, p. 141; MEW, Bd. 13, Berlin 1971, p. 51; tr. it. E. Cantimori
Mezzomonti, Per la critica dell’economia politica, Roma 1969, p. 47.
8
MEGA2, II/1.1, cit., p. 73; MEW, Bd. 42, cit., p. 73; tr. it. cit., p. 72.
9
Ibidem.
196 Antonella Muzzupappa
10
MEGA2, II/2, cit., p. 144; MEW, Bd. 13, cit, p. 54; tr. it. cit., p. 50.
11
MEGA2, II/10, Berlin 1991 p. 61; MEW, Bd. 23, Berlin 1972, p. 75; tr. it. D. Cantimori, Il
capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, Roma 1994, p. 93.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 197
3. La «trasformazione dei valori in prezzi di produzione» nel terzo libro del Capitale
Dopo queste poche battute sulla relazione generale tra valore e prezzo, pas-
siamo adesso a considerare il procedimento della trasformazione descritto da
Marx nel capitolo nono del libro terzo del Capitale (Formazione di un saggio
generale del profitto (saggio del profitto medio) e trasformazione dei valori delle
merci in prezzi di produzione13).
12
Già nel 1847, in Miseria della filosofia, Marx aveva criticato il punto di vista dei socia-
listi utopisti, in particolare di Proudhon, sull’economia politica in generale. Egli aveva già
sottolineato il fatto che il punto d’arrivo di Proudhon fosse sostanzialmente identico a quello
cui erano giunti i socialisti inglesi: una sorta di conclusioni egualitarie desunte dalle teorie di
Ricardo su cui si erano basati i tentativi delle «banche di scambio», già miseramente falliti in
Inghilterra. E già in Miseria Marx critica a Proudhon di non aver compreso che il denaro non
è semplicemente una cosa, ma un rapporto sociale incarnato in una cosa. (Cfr. MEW, Bd. 4,
Berlin 1964, p. 107; tr. it. F. Rodano, Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia della miseria”
di Proudhon, Roma 1998, p. 45).
13
Si tratta di un capitolo molto discusso in quanto la proposta marxiana di trasformazione
dei valori in prezzi di produzione è stata per più di un secolo aspramente criticata soprattutto
dagli economisti. Alle controversie sulla trasformazione si aggiungono, oggi, le discussioni di
carattere filologico suscitate dalla recente pubblicazione dei manoscritti originali di Marx per
il terzo libro del Capitale (Cfr. MEGA2 , II/4.2, Berlin 1992). Nonostante gli interventi di En-
gels, nelle parti del manoscritto che affrontano il problema della trasformazione, siano stati
minimi e limitati a migliorare lo stile e a rendere il testo più scorrevole, molti studiosi sosten-
gono che egli abbia dato al manoscritto di Marx una forma complessivamente altra rispetto
all’originale. In questo modo avrebbe influenzato moltissimo le interpretazioni successive di
molti dei più importanti concetti della critica dell’economia politica e della stessa trasforma-
zione dei valori in prezzi. Sul tema generale dell’edizione di Engels dei manoscritti di Marx
si può vedere: C. E. Vollgraf, J. Jungnickel, “Marx in Marx’ Worten”? Zur Engels’ Edition des
Hauptmanuskripts zum dritten Buch des Kapital, in «MEGA Studien», 1994/2, Berlin 1995,
pp. 3-55; C.E., Vollgraf, Kontroversen zum dritten Buch des Kapital: Folgen von und Herausfor-
derungen für Edition, in «MEGA Studien», 1996/2, Berlin 1997, pp. 86-108; V. Vygodskij, Was
hat Engels in den Jahren 1885 und 1894 eigentlich veröffentlicht?, in «MEGA Studien», 1995/1,
Berlin 1995, pp. 117-20; D. Behrens, Ein Kommentar zum MEGA2-Band II/4.2, in «Beiträ-
ge zur Marx-Engels-Forschung». Neue Folge 1995, Berlin 1995, pp. 5-26; J. Jungnickel, C.E.
Vollgraf, Engels’ Redaktionsunterlagen zu Marx’ Manuskript von 1864/65, das 1894 als Buch
III des Kapital erschien, ivi, pp. 27-48. In particolare sull’influenza che Engels avrebbe avuto
198 Antonella Muzzupappa
per l’interpretazione del rapporto valori-prezzi di produzione si può vedere: H.G. Backhaus,
H. Reichelt, Der politisch-ideologische Grundcharakter der Marx-Engels-Gesamtausgabe: eine
Kritik der Editionsrichtlinien der IMES, in «MEGA Studien», 1994/2 cit., pp. 101-118.
14
La questione viene sintetizzata benissimo dal seguente passaggio di Napoleoni: «Da un lato
la struttura di classe della società borghese suggerisce […] che il valore della merce prodotta dal
lavoro salariato dipende dalla quantità di lavoro complessivamente speso nella sua produzione;
dall’altro lato, il funzionamento del mercato capitalistico, ossia del meccanismo economico pecu-
liare proprio di quella società, mostra invece che le merci non possono scambiarsi in conformità
ai lavori in esse contenuti, se la norma fondamentale dell’uguaglianza tra i saggi del profitto deve
ricevere realizzazione». (C. Napoleoni, Dalla scienza all’utopia, Torino 1992, p. 137.).
15
MEGA2, II/15, cit., p. 151; MEW, Bd. 25, cit., p. 158; tr. it. cit., p. 189.
16
Ibidem; ibidem; tr. it. cit., pp. 188-89.
17
Nel nostro discorso prescindiamo dalla durata della rotazione che, insieme alla compo-
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 199
sizione organica del capitale, è l’altro fattore che influenza il saggio del profitto. Per semplifica-
re i calcoli e il discorso la supponiamo identica per tutti i capitali, visto che ciò non pregiudica
il ragionamento che stiamo facendo.
18
MEGA2, II/15, cit., p. 155; MEW, Bd. 25, cit., p. 162; tr. it. cit., p. 193.
200 Antonella Muzzupappa
dita, pur essendo inferiore al valore, supera il prezzo di costo, si realizza pur
sempre una parte del plusvalore contenuto nella merce, vale a dire si determina
pur sempre un profitto»19.
Il fatto che le merci possano essere vendute con profitto anche quando ven-
gono vendute al di sotto dei loro valori è di enorme importanza, anzi «la stessa
legge fondamentale della concorrenza capitalistica finora incompresa dall’eco-
nomia politica, legge che regola il saggio generale del profitto e i così detti prez-
zi di produzione determinati mercè quel saggio stesso, si fonda […] sulla enun-
ciata differenza fra valore e prezzo di costo delle merci» e, in particolare, pro-
prio su questa possibilità di far profitto pur vendendo al di sotto del valore20.
Veniamo ora al secondo elemento che compone il prezzo di produzione: il
profitto medio. Si è detto precedentemente che, in origine, i saggi del profitto
dei capitali investiti nelle diverse branche della produzione sono tra di loro
differenti secondo le diverse composizioni organiche dei diversi capitali. Ora,
per Marx, la concorrenza tra capitalisti agisce nel senso di comporre questi
diversi saggi del profitto in un saggio generale che rappresenta la loro media.
Se, sempre seguendo l’esempio di Marx, supponiamo di avere a che fare con
cinque capitali investiti in cinque diverse branche della produzione che hanno
diverse composizioni organiche e di conseguenza diversi saggi del profitto, il
saggio generale del profitto sarà dato dalla media dei cinque diversi saggi. Esso
(nell’esempio numerico di Marx ammonta al 22%) si andrà ad aggiungere ai di-
versi prezzi di costo delle merci fornendo i prezzi di produzione. Osservando i
risultati si vede che, nel complesso, le differenze tra valori e prezzi si annullano,
il che significa che ciò che vale al livello della merce singola, cioè il fatto che per
19
Ivi, p. 41; ivi, p. 47; tr. it. cit., p. 63.
20
Secondo Marx, Smith e Ricardo non comprendono la differenza essenziale tra prezzo
di costo e valore. Guardando dallo stesso punto di vista dei capitalisti, essi li identificano con
la conseguenza che il profitto viene spiegato come l’eccedenza del prezzo di vendita sul valore,
piuttosto che come l’eccedenza del valore sul prezzo di costo. Il plusvalore, da questo punto di
vista, avrebbe origine nella circolazione, scaturirebbe dalla vendita della merce, piuttosto che
essere lì solo realizzato. Si tratta anche qui, come altrove, per Marx, della domanda sull’origine
del profitto, che egli ha già posto relativamente ai socialisti utopisti. Anche nel Terzo libro,
infatti, troviamo a questo proposito la critica a Proudhon e alla sua Banca: «La superficiale
concezione che il prezzo di costo delle merci ne costituisca l’effettivo valore, e il plusvalore
derivi invece dalla vendita della merce a un prezzo superiore al valore […] è stata strombaz-
zata da Proudhon, con la sua solita ciarlataneria ammantata di pretese scientifiche, come la
rivelazione di un segreto del socialismo. Tale riduzione del valore delle merci al loro prezzo
di costo costituisce infatti la base della sua Banca popolare.» (Ivi, p. 43; ivi, p. 49; tr. it. cit., p.
66). Se il valore si identifica col prezzo di costo e il profitto scaturisce dalla vendita, bisogna
allora intervenire sul meccanismo della circolazione e sulla posizione privilegiata dell’oro e
dell’argento rispetto alle altre merci, ed allora viene meno proprio l’elemento fondamentale
del meccanismo della produzione capitalistica, che è la produzione del plusvalore ad opera del
lavoro vivo, unica possibile fonte del profitto.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 201
essa valore e prezzo non coincidono, non vale se si guarda al complesso di tutte
le merci: la somma dei valori corrisponde esattamente alla somma dei prezzi.
In sostanza, dal punto di vista del capitale sociale totale, nella circolazione si
è realizzato tanto valore quanto è stato prodotto, esso è stato soltanto ripartito
diversamente nelle singole merci rispetto a come era stato prodotto.
Cosa significa, per Marx, in ultima istanza, che le merci vengono vendute
non ai valori ma ai prezzi di produzione? Significa semplicemente che, tra i
capitalisti, interviene un particolare meccanismo di redistribuzione del plusva-
lore totale prodotto21. Essi, cioè, non ritirano dalla circolazione il plusvalore,
e quindi il profitto, prodotto nella loro particolare sfera di produzione, «ma
soltanto il plusvalore, e quindi il profitto, corrispondente a quella parte di plu-
svalore complessivo o di profitto complessivo […] che, per effetto di una eguale
ripartizione, tocca a ogni aliquota del capitale complessivo»22. I cinque capitali
che abbiamo preso in considerazione nel nostro esempio vanno praticamente
visti, coerentemente col punto di vista che Marx ha sempre espresso, come
cinque parti del capitale sociale totale considerato come un tutto. Da questo
punto di vista, «per quanto riguarda il profitto i vari capitalisti si trovano nelle
condizioni di semplici azionisti di una società per azioni»23 per cui le quote di
profitto a cui ognuno di essi ha diritto differiscono solo in relazione alla quanti-
tà di capitale che ognuno ha investito, «cioè a seconda della loro proporzionale
partecipazione all’impresa, ossia del numero delle loro azioni».24
Dunque, mentre le spese che ogni singolo capitalista ha sostenuto vengono
riprodotte e ritirate interamente, a seconda dei singoli capitali, non così accade
per il profitto. Esso, appunto, non dipende dalla massa di profitto prodotta dal
singolo capitale in una determinata sfera di produzione, ma dalla media che
tocca ad ognuno come rappresentate di un’aliquota del capitale complessivo
sociale. In questo modo i profitti non dipendono dalla composizione organica
del singolo capitale, bensì soltanto dalla grandezza del capitale investito; e so-
prattutto, come abbiamo già detto, dal punto di vista del capitale sociale totale
«la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei
21
Secondo alcuni critici, infatti, la trasformazione dei valori in prezzi di produzione altro
non sarebbe che il meccanismo di redistribuzione del plusvalore totale prodotto tra i capitali-
sti, «nient’altro che la differenza tra valore prodotto e appropriato». (G. Carchedi, Il problema
inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi in parole semplici, in L. Vasapollo (a cura di),
Un vecchio falso problema. La trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di Marx, Castel
Madama 2002, p. 54).
22
MEGA2, II/15, cit., pp. 159-60; MEW, Bd. 25, cit., p. 168; tr. it. cit., p. 199.
23
Ivi, p. 160; ibidem; tr. it. cit., ibidem.
24
Ibidem.
202 Antonella Muzzupappa
valori di esse»25, così come «la somma dei profitti di tutte le diverse sfere di pro-
duzione deve essere uguale alla somma dei plusvalori»26. In questo modo è evi-
dente che, come Marx ha già sottolineato più volte, il lavoro vivo è l’unica fonte
della produzione di valore, e nuovo valore può essere prodotto solo nella sfera
della produzione e realizzato in quella della circolazione. Anche se per quanto
riguarda la singola merce si registra una differenza tra il valore e il prezzo, che
ci indurrebbe a credere che valore e plusvalore non siano dipendenti da lavoro e
pluslavoro, ad una più attenta analisi che non si fermi all’apparenza delle cose,
diviene chiaro che non è così.
Gli agenti della produzione, nonché gli economisti, si ingannano, secondo
Marx, proprio su queste questioni fondamentali perché fanno le loro riflessioni
a partire dalla superficie dei fenomeni senza penetrarli. Ma il modo capitalisti-
co di produzione è tale che, più esso si sviluppa, più i fenomeni superficiali si
allontanano dalla loro vera natura e si produce un’apparenza che è praticamen-
te rovesciata rispetto alla verità27. Del resto, se l’apparenza corrispondesse esat-
tamente alla verità delle cose, non ci sarebbe alcun bisogno della scienza, il cui
compito è, appunto, quello di «ricondurre il movimento apparente, puramente
fenomenico, al movimento reale interno»28.
A livello di saggio medio del profitto e prezzi di produzione, poiché ogni ca-
pitalista ricava solo il profitto medio, e non il profitto relativo alla quantità di
plusvalore effettivamente prodotta nella propria sfera, plusvalore e profitto ap-
paiono come assolutamente indipendenti e la loro differenza reale «nasconde
ora completamente la vera natura e l’origine del profitto non solo al capitalista
[…] ma allo stesso operaio».29 La trasformazione dei valori in prezzi di produ-
zione, cioè, nasconde completamente la base su cui si fonda il valore, la sua
produzione e la sua determinazione. Il concetto di valore, in sostanza, sparisce
completamente30.
25
Ivi, p. 161; ivi, p. 169; tr. it. cit., p. 200.
26
Ivi, p. 173; ivi, p. 182; tr. it. cit., p. 215.
27
Già la categoria del prezzo di costo rappresenta un esempio di questo allontanamento
dei fenomeni superficiali dalla verità. Esso, infatti, pur corrispondendo solo al lavoro pagato
impiegato nella produzione di una merce, viene concepito come il valore della merce, che in-
vece contiene anche il lavoro non pagato speso nella produzione; inoltre, i due elementi che lo
compongono (capitale costante e capitale variabile) vengono messi sullo stesso piano e trattati
come elementi identici, in quanto entrambi rappresentano, per il capitalista, una spesa. Si di-
mentica così che il lavoro vivo ha quella qualità particolare di produrre nuovo valore, qualità
che il lavoro morto invece non ha, e si mistifica l’origine del plusvalore e, quindi, del profitto.
28
MEGA2, II/15, cit., p. 306; MEW, Bd. 25, cit., p. 324; tr. it. cit., p. 375.
29
Ivi, p. 169; ivi, p. 177; tr. it. cit.; p. 209.
30
Il tema del capovolgimento e della mistificazione che si producono alla superficie del
modo di produzione capitalistico e che inducono a errate valutazioni e rappresentazioni di
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 203
La conclusione di tutto il discorso marxiano sui prezzi è che ogni loro va-
riazione è da ricondurre, in ultima istanza, ad una variazione dei valori delle
merci, cioè a variazioni nella produttività del lavoro. Quando, a causa dell’in-
troduzione di un macchinario nuovo, per esempio, la forza produttiva del la-
voro sociale aumenta, il valore delle merci (il tempo di lavoro che occorre a
produrle) diminuisce e tale diminuzione agisce, più o meno direttamente, sui
prezzi di produzione.
Coerentemente con tutto il discorso fatto da Marx fino a questo punto, non
è necessario che diminuisca il prezzo della merce nella cui produzione sia in-
tervenuta una variazione della forza produttiva. Variazioni di valore nel salario
degli operai o nella produzione di materie prime, infatti, possono influenzare i
prezzi di produzione di altre merci nella cui produzione questi fattori vengono
adoperati. In conclusione, quindi, «tutte le variazioni del prezzo di produzio-
ne delle merci si risolvono, in ultima analisi, in una variazione di valore; ma
non tutte le variazioni di valore delle merci si traducono necessariamente in
una variazione del prezzo di produzione, essendo questo determinato non so-
lamente dal valore della merce particolare, ma dal valore complessivo di tutte
le merci»31.
A questo punto, però, ci si chiede: che ruolo ha la concorrenza nella for-
mazione dei prezzi? Fino a questo punto, infatti, Marx non ha fatto cenno alla
domanda e all’offerta e alla loro funzione nel meccanismo di formazione dei
prezzi. Ovviamente ciò non è casuale e dipende semplicemente dal fatto che
egli ritiene che domanda e offerta non possano in alcun modo spiegare la for-
mazione dei prezzi. Esse hanno certamente un ruolo, come abbiamo anche già
visto all’inizio del nostro discorso quando abbiamo citato la pagina dei Grund-
risse relativa proprio al rapporto tra domanda e offerta da un lato, e costi di
produzione dall’altro, ma questo ruolo è del tutto relativo. Proprio a proposito
di quella pagina si è fatto notare come già in quegli anni fosse chiaro a Marx
esso è presente in tutta la critica dell’economia politica marxiana. Esso viene trattato dettaglia-
tamente nel Primo libro del Capitale nel paragrafo sul feticismo della merce. Tale feticismo, poi,
trova il suo compimento ultimo nel momento più sviluppato dall’analisi del capitale, quando
questo diventa capitale produttivo d’interesse. Qui la mistificazione raggiunge il suo massimo
grado poiché, nel movimento D-D’, che caratterizza il capitale produttivo d’interesse, sparisce
ogni mediazione e il capitale appare come direttamente produttivo senza che vi sia bisogno
dell’intervento di altri fattori. Spariscono, a questo livello di sviluppo, tanto il processo di
produzione quanto quello di circolazione e sembra che il denaro sia in grado di produrre
più denaro per virtù intrinseca e in modo automatico. Il capitale produttivo d’interesse è il
«feticcio automatico» nel quale sparisce ogni traccia dell’origine del profitto ed è «il rapporto
sociale perfezionato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa». (Ivi, p. 318; ivi, p.
405; tr. it. cit., p. 464).
31
Ivi, p. 204; ivi, p. 216; tr. it. cit., p. 252.
204 Antonella Muzzupappa
che domanda e offerta non potessero essere un punto di partenza per la spie-
gazione dei prezzi ma che esse stesse, in un qualche modo, dovessero essere
spiegate a partire dai valori.
Nel Terzo libro questo rapporto viene chiarito in modo più puntuale e viene
descritto qual’è l’ambito di influenza della domanda e dell’offerta e quale la re-
lazione della concorrenza coi prezzi di produzione.
Il primo ambito di influenza della concorrenza è quello che riguarda le di-
verse sfere di produzione. Si tratta della concorrenza tra capitalisti per assi-
curarsi i migliori rami di investimento. Essa si traduce essenzialmente in un
movimento continuo dei capitali da una sfera di investimento all’altra, in un
«incessante trasmigrare da un ramo di produzione ad un altro»32, «da una sfera
di produzione dove il saggio del profitto è basso»33 ad una «dove il saggio del
profitto è più elevato»34. Questo movimento continuo dei capitali «crea un rap-
porto tale fra offerta e domanda, per cui il saggio medio del profitto si uguaglia
nei diversi rami di produzione e per conseguenza i valori si trasformano in
prezzi di produzione».35 Il prezzo di produzione, quindi, si basa sull’esistenza
di un saggio medio del profitto e tale saggio medio del profitto è il risultato dei
movimenti determinati dalla concorrenza tra capitali.
Di altra natura è la concorrenza che agisce sul mercato a livello della vendita
delle merci. In questo ambito la domanda e l’offerta possono soltanto regolare
gli scarti quantitativi tra il valore di mercato e il prezzo di mercato, ma non pre-
siedono né preesistono alla trasformazione dei valori in prezzi di produzione.
Per di più, nella stessa misura in cui esse regolano gli scarti tra valori e prezzi
di mercato, vengono, a loro volta, regolate da quegli stessi valori di mercato.
Senza addentrarci troppo nella spiegazione del valore di mercato, della concor-
renza e di tutto ciò che vi è connesso, cerchiamo soltanto dare il senso generale
del discorso di Marx su domanda e offerta, trattandosi di un punto di impor-
tanza cruciale per le critiche che gli saranno mosse a partire dal punto di vista
dell’utilità marginale.
Il nocciolo della questione risiede, a nostro avviso, proprio nel fatto che do-
manda e offerta non sono considerate come principi, bensì come conseguenze.
Esse non possono spiegare fenomeni ma sono, al contrario, fenomeni da spie-
gare. Il bisogno (la domanda), anzi il «bisogno sociale» come Marx lo defini-
sce, dipende innanzitutto dai rapporti di classe che si configurano nella società
32
Ivi, p. 195; ivi, p. 206; tr. it. cit., p. 240.
33
Ibidem; ibidem; tr. it. cit., p. 239.
34
Ibidem; ibidem; tr. it. cit., p. 240.
35
Ibidem.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 205
36
Ivi, p. 181; ivi, p. 190; tr. it. cit., p. 224.
37
Ibidem; ivi, p. 191; ibidem.
38
Su questo punto molte sono le critiche di Marx agli economisti classici. Smith e Ricar-
do, infatti, trattano domanda e offerta come principi che non necessitano di ulteriore spiega-
zione, piuttosto che come conseguenze di determinati rapporti. Ma ancora più importante
è il fatto che, come i socialisti utopisti, anche gli economisti classici non ritengono che le
deviazioni dei prezzi dai valori siano qualcosa di essenziale e necessario al meccanismo della
produzione capitalistica. Partendo anche loro dal presupposto che la regola sia l’identità di
valore e prezzo, interpretano le deviazioni come fenomeni solo accidentali e temporanei, es-
senzialmente dovuti a variazioni nella domanda. Ricardo, per esempio, scrive: « Prendendo il
lavoro come base del valore delle merci […] non si deve supporre che si vogliano ignorare le
deviazioni accidentali e temporanee del prezzo effettivo o di mercato delle merci da ciò che è
il loro prezzo originario e naturale.» (D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and
Taxation, in The Work and Correspondence of David Ricardo, ed. by P. Sraffa, vol. I, Cambridge
1951, p. 88; tr. it. A. Bagiotti, Principi di economia politica e dell’imposta, in Id., Opere, a cura di
P. L. Porta, Volume primo, Torino 2006, p. 242). Del resto, essi partono dal presupposto che il
modo di produzione capitalistico sia caratterizzato dall’equilibrio tra domanda e offerta. Uno
squilibrio tra i due fattori rappresenta, per loro, soltanto un’eccezione che si elimina automa-
ticamente nel giro di poco tempo. Quindi, se è vero che il «[il prezzo di mercato] può essere al
di sopra o al di sotto o esattamente uguale al […] prezzo naturale» (A. Smith, An Inquiry into
the Nature and Causes of the Wealth of Nations, in The Glasgow Edition of the Works and Corre-
spondence of Adam Smith 2, Oxford 1976, p. 73; tr. it. A. Bagiotti e T. Bagiotti, La ricchezza delle
nazioni, Torino 2006, p. 142) in relazione alle proporzioni che si hanno tra domanda e offerta,
è anche vero che «la quantità di ogni merce immessa sul mercato si adegua naturalmente alla
domanda effettiva» (Ivi, p. 75; tr. it. cit., p. 144). Per Marx, al contrario, la regola vigente nel
modo di produzione capitalistico è lo squilibrio tra domanda e offerta: esse «non si equili-
brano mai, o se si equilibrano questo avviene solamente per caso» (MEGA2, II/15, cit. p. 189;
MEW, Bd. 25, cit., p. 199; tr. it. cit., p. 233), in quanto il capitalismo non controlla né regola in
anticipo la produzione, per cui il rapporto tra la produzione e bisogno (tra offerta e domanda)
«è semplicemente un rapporto casuale». (Ivi, p. 186; ivi, p. 196; tr. it. cit., p. 230).
206 Antonella Muzzupappa
39
MEGA2, II/13, Berlin, 2008, p. 21; MEW, Bd. 24, Berlin 1977, p. 26; tr. it. R. Panzieri, Il
capitale. Critica dell’economia politica. Libro secondo, Roma 1994, p. 26.
40
Ivi, p. 9; ivi, p. 13; tr. it. cit., p. 13.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 207
rapporto tra la legge del valore, esposta nel Primo volume, e la vendita delle
merci ai prezzi di produzione, esposta nel Terzo. In un suo scritto precedente41
Böhm-Bawerk aveva già criticato la teoria del valore e del plusvalore contenu-
ta nel Primo libro del Capitale e aveva osservato che lì Marx, consapevole del
fatto che le merci sul mercato capitalistico non si vendono ai loro valori bensì
a prezzi che da essi divergono, prometteva di risolvere più tardi questo pro-
blema42. Già a quel tempo l’autore era convinto che Marx non sarebbe riuscito
a mantenere la sua promessa e il Terzo libro rappresentava per lui la prova
definitiva dell’impossibilità di rendere ragione dei prezzi di produzione sulla
base della legge del valore. Del resto Böhm-Bawerk era il più famoso rappre-
sentante della teoria del valore soggettivo o dell’utilità marginale che in quegli
anni rapidamente si diffondeva in Europa. Possiamo dire, quindi, con Sweezy
che «mentre la reazione originaria del mondo accademico era stata di ignorare
Marx, divenne sempre più difficile conservare un simile atteggiamento […] [e]
la pubblicazione del terzo libro del Capitale offrì […] l’occasione opportuna e fu
del tutto “naturale” che fosse Böhm-Bawerk a guidare il contrattacco»43. Il testo
di Böhm-Bawerk divenne «la risposta ufficiale degli economisti di professione
a Marx ed alla scuola marxista»44, una risposta tanto più incisiva e decisiva in
quanto alla fine dell’800 la teoria del valore soggettivo godeva di grande fama
ed era accettata da molti importanti economisti accademici.
Una delle questioni più importanti che Böhm-Bawerk discute nel suo testo
del 1896 è proprio quella dei prezzi di produzione e della loro relazione con
i valori. Come si è già accennato, il testo è concepito come un’ampia critica
all’impianto complessivo della teoria marxiana e non solo come una critica al
41
Cfr. E. von Böhm-Bawerk, Geschichte und Kritik der Kapitalzins-theorien, Meisenheim/
Glan 1961; tr. it. E. Grillo, Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale, Roma 1986.
42
Che Marx fosse già da sempre consapevole del fatto che i prezzi divergono necessa-
riamente dai valori, lo abbiamo visto seguendo i passaggi dei Lineamenti fondamentali. Nel
Primo volume del Capitale si trovano poi anche un paio di riferimenti più precisi in cui Marx
effettivamente rimanda la soluzione del problema al Terzo libro. Innanzitutto nella nota 31a
del capitolo sette si legge: «Questi calcoli valgono solo come illustrazione. Si è infatti supposto
che i prezzi siano eguali ai valori. Nel terzo libro vedremo che questa identificazione non si
può fare così semplicemente neppure per i prezzi medi». (MEGA2, II/10, cit., p. 198, n.; MEW,
Bd. 23, cit., p. 234, n.; tr. it. cit., p. 253, n.). Ancora, nel capitolo nove, leggiamo: «La legge so-
pra constatata assume quindi questa forma: la masse di valore e plusvalore prodotte da capitali
diversi, a valore dato ed essendo uguale il grado di sfruttamento della forza-lavoro, variano in pro-
porzione diretta al variare delle grandezze delle parti variabili di quei capitali, cioè delle loro parti
convertite in forza-lavoro vivente. Questa legge contraddice evidentemente a ogni esperienza
fondata sull’apparenza. […]. Per risolvere quest’apparente contraddizione, occorrono ancora
molti termini intermedi». (Ivi, p. 276; ivi, pp. 324-25; tr. it. cit., p. 345)
43
P. M. Sweezy, Presentazione, in AA. VV., Economia borghese ed economia marxista, Fi-
renze 1971, p. VIII.
44
Ivi, p. IX.
208 Antonella Muzzupappa
45
Ivi, pp. XIII-XIV.
46
E. von Böhm-Bawerk, Zum Abschluß des Marxschen Systems, in F. Eberle (a cura di),
Aspekte der Marxschen Theorie 1. Zur methodischen Bedeutung des 3. Bandes des „Kapital“,
Frankfurt am Main 1973, p. 45; tr. it. G. Panzieri Saija, La conclusione del sistema marxiano, in
AA. VV., Economia borghese ed economia marxista, cit., p. 26.
47
Ivi, p. 46; tr. it. cit., p. 27.
48
Ivi, p. 47; tr. it. cit. p. 28.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 209
bio tra i beni come esso si presenta nella realtà. Nella realtà, però, si scambiano
soltanto singole merci tra loro e quando si prende in considerazione la totalità
delle merci non ha più senso, per il critico di Marx, parlare di valore. «La “leg-
ge del valore” – allora – viene per ammissione smentita dai fatti, e nell’unica
applicazione in cui non viene smentita, non è più una risposta»49, ma diviene
semplicemente «una mera tautologia»50.
Le cose non migliorano per il fatto che Marx spiega che le leggi generali del-
la produzione capitalistica non si presentano mai pure, ma si affermano solo
come tendenze nella forma di una media di oscillazioni incessanti. Pur ritenen-
do che questa sia una verità elementare che ogni economista conosce e ricono-
sce, per Böhm-Bawerk Marx confonde «una media di oscillazioni e una media
tra grandezze costantemente e fondamentalmente diseguali»51. Nel caso dei prezzi
di produzione, infatti, non si può parlare, per il teorico del valore soggettivo, di
oscillazioni. Le divergenze dei prezzi dai valori sono necessarie e permanenti
e non hanno nulla a che fare con oscillazioni o leggi che si affermano come
tendenze. Infine, conclude Böhm-Bawerk, è sempre possibile fare una media
matematica e dire che le differenze si annullano quando si abbia a che fare con
grandezze diseguali, il punto è che tale media non ha alcun significato teorico
o conoscitivo.
Il secondo argomento che Böhm-Bawerk analizza è quello per cui, secondo
Marx, ogni modifica nel tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci
modifica anche i prezzi di produzione, motivo per cui, come abbiamo visto, si
può concludere che la legge del valore domina il movimento dei prezzi. La con-
testazione di Böhm-Bawerk a questo tipo di argomentazione è particolarmente
importante, perché è la stessa che egli utilizza anche relativamente a questioni
di carattere più generale, come vedremo nel corso della nostra esposizione.
Nessuno vuol mettere in discussione, dice il critico, che se rimangono inva-
riate le altre circostanze, una modifica nel tempo di lavoro necessario a produr-
re una merce modifica anche i prezzi di produzione. Ciò che non è legittimo,
però, è voler concludere che il tempo di lavoro è l’unica determinante dei prez-
zi. I prezzi si modificano, argomenta Böhm-Bawerk, anche in relazione ad altri
fattori che anche Marx riconosce ed allora, il tempo di lavoro è, insieme ad altri
fattori, una delle cause determinanti dei prezzi, ma non l’unica52.
Il terzo argomento preso in considerazione è quello della dominanza della
49
Ivi, p. 51; tr. it. cit., p. 32.
50
Ibidem.
51
Ivi, p. 52; tr. it. cit., p. 33.
52
Cfr. ivi, pp. 54-55; tr. it. cit., 35-36.
210 Antonella Muzzupappa
legge del valore negli stadi primitivi della produzione e della necessità, invece,
di rapporti capitalistici sviluppati per poter parlare di livellamento del saggio
del profitto. Böhm-Bawerk prende innanzitutto in considerazione l’esempio
di Marx nel quale egli suppone che i lavoratori siano proprietari dei mezzi di
produzione e cerca di mostrare che lo scambio delle merci ai loro valori si
realizza solo in stadi della produzione ancora poco sviluppati. Innanzitutto,
per Böhm-Bawerk, «Marx illustra, “suppone”, afferma, ma non fornisce alcuna
dimostrazione»53 e la sua resta un’ipotesi a cui si può credere oppure no e con-
tro la quale «esistono gravissime obiezioni interne ed esterne»54. Se intrinseca-
mente essa è semplicemente improbabile, al confronto con l’esperienza diviene
insostenibile, in quanto non vi è esperienza diretta alcuna di un caso come
quello postulato da Marx. Inoltre, anche volendo seguire l’ipotesi marxiana, la
conclusione più plausibile secondo Böhm-Bawerk sarebbe comunque quella
per cui, anche quando i lavoratori fossero proprietari dei mezzi di produzione
e i rapporti capitalistici non fossero particolarmente sviluppati, i profitti tende-
rebbero ad essere proporzionali ai capitali investiti e non al capitale variabile
utilizzato. La legge del valore, quindi, non esercita la sua supremazia in regime
di capitalismo sviluppato, in quanto lì operano i prezzi di produzione, e non la
esercita neanche in condizioni primitive. Essa, quindi, non ha validità reale e
diretta in nessun luogo e in nessun tempo55.
Nel quarto argomento, infine, Böhm-Bawerk discute se la legge del valore
possa almeno indirettamente e «in ultima istanza» regolare i prezzi di produ-
zione, come vorrebbe Marx.
Egli rileva in relazione al profitto medio ciò che ha già messo in evidenza
rispetto al tempo di lavoro: esso è una determinante dei prezzi di produzione
ma non l’unica. L’altra causa determinante sarebbe la somma dei salari pagati,
causa che Marx tralascia completamente, nella convinzione che variazioni nei
salari non abbiano conseguenze dirette sui prezzi di produzione ma solo sui
profitti. Anche il plusvalore complessivo, poi, che secondo Marx regola il saggio
medio del profitto, si presenta per Böhm-Bawerk solo come una causa determi-
nante ma non come l’unica causa: «mentre come seconda causa determinante,
indipendente da esso e anche dalla legge del valore, opera la grandezza del ca-
pitale esistente nella società»56. Quindi, a prescindere dall’argomento già citato
dal critico e secondo il quale non ha assolutamente senso parlare di «plusvalore
53
Ivi, p. 58; tr. it. cit., p. 39.
54
Ivi, p. 59; tr. it. cit., pp. 39-40.
55
Cfr. ivi, p. 66; tr. it. cit., pp. 46-47.
56
Ivi, p. 72; tr. it. cit., p. 53.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 211
57
Ivi, p. 71; tr. it. cit., p. 52.
58
Ivi, p. 73; tr. it. cit., p. 54.
59
Ivi, p. 74; tr. it. cit., p. 55.
212 Antonella Muzzupappa
60
Ivi, p. 81; tr. it. cit., p. 62.
61
Ivi, p. 83; tr. it. cit., p. 65.
62
Ivi, p. 84; tr. it. cit., ibidem.
63
Ivi, p. 82; tr. it. cit., p. 63.
64
Ivi, p. 92; tr. it. cit., p. 73.
65
Ibidem.
66
Ivi, p. 98; tr. it. cit., p. 79.
67
Ivi, p. 101; tr. it. cit., p. 81.
68
Ivi, p. 102; tr. it. cit., p. 82.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 213
69
Ibidem; tr. it. cit., p. 83.
70
Ibidem.
71
Ivi, p. 107; tr. it. cit., p. 87.
72
Ivi, p. 111; tr. it. cit., p. 91.
73
Ivi, p. 112; tr. it. cit., p. 92.
214 Antonella Muzzupappa
cessive sul procedimento marxiano. Egli dubita che sia possibile che il saggio
medio del profitto abbia quella funzione di mediazione tra il mondo dei valori e
quello dei prezzi di produzione, ossia dubita che sia possibile calcolare il saggio
medio del profitto prima e indipendentemente dai prezzi di produzione.
Al contrario di Böhm-Bawerk, Bortkiewicz riconosce, fin dall’inizio, che
Marx era da sempre stato consapevole della contraddizione esistente tra la ven-
dita delle merci ai loro valori e la realtà del saggio medio di profitto. Ogni criti-
ca che non riconosce tale consapevolezza viene perciò definita da Bortkiewicz
come ingenua. Essa «sottintende, infatti, che Marx non soltanto non aveva una
conoscenza specifica dei fatti economici che erano l’oggetto della sua ricerca, ma
neppure conosceva la letteratura economica»74. Bortkiewicz si riferisce in parti-
colare a Ricardo che già prima di Marx aveva costatato l’esistenza di un saggio
medio del profitto impossibile a formarsi se le merci vengono vendute ai loro
valori. Tuttavia, il fatto che Marx fosse pienamente consapevole della contrad-
dizione e che avesse anche più volte annunciato che essa sarebbe stata risolta
ad un livello superiore dell’esposizione, non significa che il rapporto tra valori
e prezzi di produzione nel sistema di Marx non racchiuda «una contraddizione
non soltanto apparente ma reale e gravissima per l’intero sistema»75. Ciò che c’è
di utile, secondo Bortkiewicz, nel sistema marxiano (e in quello ricardiano) è
la tesi secondo cui «il pluslavoro è l’unica fonte del profitto capitalistico»76. La
particolarità dell’approccio di questo autore, pertanto, sta nel fatto che egli ri-
tiene di poter mantenere, anzi che si debba mantenere, la spiegazione marxiana
dell’origine del profitto pur rifiutando il procedimento della trasformazione dei
valori in prezzi di produzione.
Punto di partenza della sua argomentazione è il fatto che il valore in Marx è
innanzitutto l’«indice di un rapporto di scambio»77 e la sua grandezza «è deter-
minata secondo la legge (marxiana) del valore»78. Il prezzo di produzione, dal
canto suo, è, esattamente come il valore, l’indice di un rapporto di scambio, che
però non si realizza in base alle legge del valore stesso, bensì in base alla legge
dell’uguale saggio del profitto. Valore e prezzo sono entrambi costruzioni teori-
che che rappresentano due diversi gradi di approssimazione alla realtà. Il proce-
dimento con cui Marx trasforma i valori in prezzi di produzione, e che abbiamo
74
L. von Bortkiewicz, Wertrechnung und Preisrechnung im Marxschen System, Lollar/Gie-
ßen 1976, p. 31; tr. it. G. Panzieri Saija, Calcolo del valore e calcolo del prezzo nel sistema mar-
xiano, in Id., La teoria economica di Marx, a cura di L. Meldolesi, Torino 1971, p. 5.
75
Ivi, p. 33; tr. it. cit., p. 7.
76
Ivi, p. 76; tr. it. cit., p. 40.
77
Ivi, p. 78; tr. it. cit., p. 42.
78
Ibidem.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 215
descritto sopra, è per Bortkiewicz «errato, perché con esso non è possibile tene-
re rigorosamente separati i due principi del calcolo del valore e del calcolo del
prezzo»79. L’errore fondamentale di Marx starebbe nel fatto che nel suo proce-
dimento della trasformazione egli esclude i capitali costanti e variabili investiti
nelle diverse sfere di produzione dalla conversione stessa. Il fatto che le differen-
ze tra valori e prezzi si annullano vicendevolmente o la considerazione per cui
le leggi nel modo capitalistico di produzione si affermano solo come tendenze,
non aiuta, secondo Bortkiewicz, a salvare il procedimento marxiano. Per quanto
riguarda il primo punto, è possibile dimostrare che «la proposizione dell’ugua-
glianza tra valore totale e prezzo totale, è in generale errata»80 e, in riferimento al
secondo punto, è possibile dimostrare che le contraddizioni non sono inerenti al
complesso del sistema capitalistico ma «allo schema teorico in quanto tale»81.
La conclusione, quindi, è il rifiuto della derivazione dei prezzi di produzio-
ne dai valori così come Marx l’ha presentata, ma non «l’idea di questo doppio
calcolo»82. Si tratta, quindi, per Bortkiewicz, di cercare di correggere i calcoli
marxiani nella convinzione che «una soluzione corretta del compito teorico che
Marx aveva posto a se stesso permetterebbe […] di esaminare più a fondo im-
portanti relazioni economiche»83 e, soprattutto, di dimostrare che, quand’anche
la trasformazione dei valori in prezzi di produzione sia sbagliata, è possibile
mantenere il più importante assunto di Marx, e cioè che l’origine del profitto
sta nel pluslavoro degli operai.
Bortkiewicz propone due tipi di soluzioni al problema della trasformazione.
La prima, contenuta nel saggio Calcolo del valore e calcolo del prezzo nel sistema
marxiano, segue le equazioni scoperte da Dmitrieff84 ed è definibile come «solu-
zione ricardiana»; la seconda, invece, si mantiene più vicina agli schemi teorici
di Marx in quanto si lega direttamente agli schemi della riproduzione.
Il punto più debole del procedimento marxiano starebbe, come si è accenna-
to, nel fatto che nel suo calcolo Marx tratta il capitale costante e il capitale va-
riabile investiti come valori e su questa base determina il saggio medio del pro-
fitto. «Non si può accettare come valida questa soluzione del problema – scrive
Bortkiewicz – perché qui vengono esclusi dalla conversione dei valori in prezzi
79
Ivi, p. 82; tr. it. cit., p. 45.
80
Ivi, p. 84; tr. it. cit., p. 47.
81
Ivi, p. 88; tr. it. cit., p. 51.
82
Ibidem.
83
Ivi, pp. 88-89; tr. it. cit., ibidem.
84
La soluzione algebrica di Dmitrieff è contenuta nel suo lavoro Studi economici, serie I,
Tentativo di una sintesi organica della teoria del valore del lavoro con la teoria dell’utilità margi-
nale, pubblicato a Mosca nel 1904 (in russo).
216 Antonella Muzzupappa
i capitali costanti e variabili»85. Marx stesso, del resto, aveva osservato: «Questa
asserzione – riferendosi all’uguaglianza delle somme dei valori e dei prezzi –
sembra in contrasto col fatto che nella produzione capitalistica gli elementi del
capitale produttivo sono di regola acquistati sul mercato»86, acquistati, cioè, a
determinati prezzi (e non ai loro valori) e «per conseguenza il prezzo di produ-
zione di un ramo dell’industria insieme col profitto che esso contiene entra nel
prezzo di costo dell’altro»87. Si tratta, però, secondo Marx, solo del fatto che «la
legge generale si afferma come tendenza predominante solo in un modo assai
complicato e approssimativo, sotto forma di una media, che non è mai possibi-
le determinare, di oscillazioni incessanti».88 Marx, cioè, non ritiene che questa
questione possa inficiare il ragionamento complessivo, mentre proprio questo
punto viene messo al centro dai critici della trasformazione e considerato come
difficoltà insormontabile. La stessa cosa si può esprimere anche da un altro
punto di vista, dicendo cioè che la difficoltà della trasformazione dipende dal
circolo vizioso che si crea tra saggio medio del profitto e prezzi di produzione:
non è possibile determinare il saggio medio del profitto senza conoscere i prez-
zi e, viceversa, non è possibile conoscere i prezzi senza avere già determinato
il saggio medio del profitto. Nel Terzo libro del Capitale, del resto, si legge che
i prezzi di produzione «sono basati sul presupposto dell’esistenza di un saggio
generale del profitto»89 e, contemporaneamente, che «è solo la vendita [del-
le merci] a tali prezzi che rende possibile un saggio del profitto uniforme»90.
Marx però, come detto, conclude che tutto questo non inficia il ragionamento
generale e che l’indagine che si sta compiendo «non richiede che ci si addentri
in un esame più particolareggiato di questo punto.»91 Per Bortkiewicz, invece,
la difficoltà della trasformazione dipende proprio da questa interdipendenza
tra prezzi e saggio medio del profitto. Tale difficoltà può risolversi per l’autore
soltanto determinando simultaneamente i due fattori e facendo entrare nella
determinazione del saggio medio del profitto soltanto la produzione dei beni
che direttamente o indirettamente entrano nella produzione dei beni-salario
piuttosto che tutte le attività produttive, come nello schema di Marx. Questo
85
L. von Bortkiewicz, Zur Berechtigung der grundlegenden theoretischen Konstruktion von
Marx im dritten Band des „Kapital“, in Id., Wertrechnung und Preisrechnung im Marxschen
System, cit., p. 158; tr. it. G. Panzieri Saija, Per una rettifica dei fondamenti della costruzione
teorica di Marx nel terzo volume del Capitale, in Id., La teoria economica di Marx, cit., p. 107.
86
MEGA2, II/15, cit., p. 161; MEW, Bd. 25, cit., p. 169; tr. it. cit., p. 200.
87
Ibidem.
88
Ivi, p. 162; ivi, p. 171; tr. it. cit., p. 202.
89
Ivi, p. 158; ivi, p. 167; tr. it. cit., p. 198.
90
Ibidem.
91
Ibidem.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 217
primo schema di Bortkiewicz, però, come osserva Luca Meldolesi, «non è capa-
ce di esprimere una caratteristica del sistema economico che Marx considerava
centrale, vale a dire la sua riproducibilità»92.
Partendo, allora, dall’osservazione di Marx secondo cui, nella produzione
capitalistica, anche i mezzi di produzione e la forza lavoro sono acquistati sul
mercato, cosicché anche i valori dei capitali anticipati devono essere trasfor-
mati in prezzi, Bortkiewicz costruisce un secondo schema: un sistema di tre
equazioni a quattro incognite e, per ottenere la quarta equazione necessaria
alla soluzione, pone il prezzo di una merce uguale a 1. Tale merce viene usata,
quindi, come «merce-misura». A questo punto l’autore dimostra la coerenza in-
terna del modello e la possibilità di giustificare tanto la riproduzione semplice
quanto quella allargata, giustificazione che il modello di Marx non consentireb-
be. Seguendo il modello di Bortkiewicz, però, il saggio del profitto non dipende
più, come in Marx, dal saggio del plusvalore e dalla composizione organica
media del capitale, bensì «soltanto dalle condizioni di produzione del capitale
variabile e costante»93. Con un esempio numerico, l’autore intende dimostrare
che «sono possibili dei casi in cui, dato il saggio del plusvalore, un medesimo
saggio del profitto è conciliabile con una differente composizione organica del
capitale sociale totale»94. Sarebbe troppo lungo e complesso riportare qui nel
dettaglio la dimostrazione di Bortkiewicz, del resto ci interessa semplicemente
osservare che il problema posto dall’autore a la sua soluzione rappresentano
nel dibattito sulla trasformazione un punto di svolta. È su questo tipo di sche-
ma, infatti, che Piero Sraffa95 avrebbe costruito la sua soluzione al problema
dei prezzi. Essa può essere considerata una generalizzazione dello schema di
Bortkiewicz che è valido soltanto in un’economia in cui non si producono più
di tre merci, una per ogni settore. Sraffa, allora, costruisce un sistema che ha
tante equazioni quante sono le merci prodotte e che può essere risolto sempre
ricorrendo all’equazione della merce-misura.
92
L. Meldolesi, Il contributo di Bortkiewicz alla teoria del valore, della distribuzione e dell’ori-
gine del profitto, in L. von Bortkiewicz, La teoria economica di Marx, cit., p. XXXVIII.
93
Ivi, p. XL.
94
L. von Bortkiewicz, Zur Berechtigung der grundlegenden theoretischen Konstruktion von
Marx im dritten Band des „Kapital“, cit., p. 164; tr. it. cit., p. 113.
95
Cfr. P. Sraffa, Production of commodities by means of commodities: prelude to a critique of
economic theory, Cambridge 1960; tr. it., Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa a una
critica della teoria economica, Torino 1991. Bisogna osservare che mentre Bortkiewicz propone
la sua soluzione come esplicita via d’uscita alle difficoltà della trasformazione marxiana, Sraf-
fa non ha mai fatto alcun riferimento diretto a Marx. La sua critica, anzi, era diretta ai sosteni-
tori dell’utilità marginale. Se il suo testo è diventato così famoso nell’ambito del dibattito sulla
trasformazione marxiana, ciò è dovuto all’utilizzo che di esso hanno fatto gli «sraffiani».
218 Antonella Muzzupappa
Ciò che a nostro avviso è determinante di questo approccio rispetto alla so-
luzione marxiana è il fatto che, a questo punto, le quantità di lavoro, che nello
schema di Marx sono determinanti per i valori di scambio, non hanno più nes-
suna funzione e possono essere sostituite dalle quantità fisiche delle merci pro-
dotte. Ritorneremo su questo punto, in quanto è su di esso che si basa la critica
a Marx secondo cui la teoria del valore-lavoro sarebbe ridondante.
Ora, invece, vediamo quali sono le altre conseguenze immediate del calcolo si-
multaneo. Innanzitutto, se si calcolano simultaneamente i prezzi e il saggio medio
del profitto, non si può mantenere la relazione marxiana tra calcolo del valore e
calcolo del prezzo. Il saggio medio del profitto perde la caratteristica di essere l’ele-
mento di mediazione tra i valori e i prezzi, e il plusvalore totale è diverso dal profitto
totale. Sembra, quindi, che il calcolo simultaneo metta in discussione i presupposti
più importanti dell’analisi marxiana, quegli stessi presupposti che, come abbiamo
visto, Bortkiewicz voleva mantenere in quanto parte migliore dell’analisi.
In sostanza, calcolando simultaneamente prezzi e profitto, ci troviamo in un
schema nel quale le merci si producono a mezzo di merci e il capitale produce
profitto grazie a sue «segrete qualità». In uno schema del genere, cioè, sembra
sparire completamente quella differenza, per Marx così importante, tra capitale
variabile e capitale costante: il capitale variabile perde la sua qualità specifica,
quella di essere capace di produrre nuovo valore, «il plusvalore deriva contem-
poraneamente da tutte le parti del capitale impiegato»96 e «si completa la misti-
ficazione del processo di valorizzazione del capitale»97.
Tuttavia, proprio su questo punto la discussione è aperta e vivace, in quanto
non tutti gli studiosi sono concordi nel dire che il calcolo simultaneo sia in-
conciliabile con gli elementi di fondo dell’analisi marxiana. Del resto, lo stesso
Bortkiewicz intendeva correggere l’errore di Marx «senza però sovvertire la sua
impostazione del problema»98.
Ritorneremo su questo punto nelle nostre conclusioni, mentre ora passiamo a
discutere le due posizioni contemporanee sul problema della trasformazione.
96
MEGA2, II/15, cit. pp. 39-40; MEW, Bd. 25, cit., p. 46; tr. it. cit., p. 62.
97
Ivi, p. 38; ivi, p. 44; tr. it. cit., p. 60.
98
L. von Bortkiewicz, Zur Berechtigung der grundlegenden theoretischen Konstruktion von
Marx im dritten Band des „Kapital“, cit., p. 156; tr. it. cit., p. 105.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 219
del Terzo libro del Capitale, hanno discusso il procedimento marxiano metten-
done in discussione, da punti di vista diversi, la validità. Se però Böhm-Bawerk
ha inteso criticare l’approccio complessivo di Marx all’economia, Bortkiewicz,
almeno nelle premesse, riconosce validità alla legge del valore-lavoro e mette
in discussione solo il procedimento della trasformazione, nella convinzione che
sia possibile correggerlo senza inficiare le basi della teoria di Marx.
Come si è accennato all’inizio, a partire da questi autori, si è sviluppato, du-
rante tutto il Novecento e fino ad oggi, un vasto dibattito sul cosiddetto «proble-
ma della trasformazione» senza peraltro che le posizioni in gioco abbiano tro-
vato una sintesi. Anche restringendo il campo al «marxismo», possiamo rileva-
re che gli studiosi non hanno raggiunto una posizione univoca né sul problema
specifico né tantomeno sull’importanza che la questione della trasformazione
ha nel complesso della teoria marxiana.
Non potendo evidentemente ricostruire l’intero dibattito sulla questione, ci
limitiamo qui ad analizzare due posizioni contemporanee a nostro avviso par-
ticolarmente significative.
Con tutti i limiti delle schematizzazioni possiamo dire che la prima posizio-
ne che prendiamo in considerazione è quella dei sostenitori del cosiddetto Tem-
poral Single-System Interpretation (TSSI)99 e la seconda è quella della cosiddetta
neue Marx-Lektüre100.
99
Nel corso del nostro scritto lo citeremo nella traduzione italiana: «Sistema Singolo Tem-
porale» (SST).
100
Con neue Marx-Lektüre intendiamo qui una corrente interpretativa per molti aspetti
diversa dal cosiddetto neomarxismo. Si tratta di un fenomeno soprattutto tedesco che vede
tra i suoi più importanti rappresentanti Hans Georg Backhaus, Helmut Reichelt, Heinz Dieter
Kittsteiner, e Michael Heinrich al quale ci riferiremo in modo particolare nella nostra esposi-
zione. Bisogna precisare, inoltre, che anche l’interpretazione di questi autori non è univoca e
che vi sono, tra di loro, molte differenze. Essi tutti, però, partono da una critica complessiva
alla modalità con cui Engels ha interpretato tanto il cosiddetto materialismo storico quanto
la critica dell’economia politica di Marx. (Si veda, tra l’altro, H.G., Backhaus, Dialektik der
Wertform. Untersuchungen zur Marxschen Ökonomiekritik, Freiburg/Br 1997; E. Reichelt, Zur
logischen Struktur des Kapitalsbegriffs bei Karl Marx, Frankfurt/M 1970, tr. it. F. Coppellotti,
La struttura logica del concetto di capitale in Marx, Bari 1973; H.D. Kittsteiner, „Logisch“ und
„Historisch“. Über die Differenz des Marxschen und Engelsschen Systems der Wissenschaft, in
«Internationale Wissenschaftliche Korrespondenz zur Geschite der deutschen Arbeiterbewe-
gung», 13. Jg., H. 1, Berlin 1977, pp. 1-47). Per ulteriori indicazioni sulla neue Marx-Lektüre,
anche in relazione alle altre interpretazioni e correnti del marxismo, si può vedere, tra l’altro:
I. Elbe, Marx im Westen. Die neue Marx-Lektüre in der Bundesrepublik seit 1965, Berlin 2008.
Una posizione vicina a quella della neue Marx-Lektüre è rappresentata in Italia da Roberto
Fineschi. Si veda, per esempio, R. Fineschi, Ripartire da Marx. Processo storico ed economia
politica nella teoria del «capitale», Napoli 2001. Vicine ad alcune delle posizioni di Michael
Heinrich sono quelle di Riccardo Bellofiore. (Si veda, tra l’altro, R. Bellofiore, Per una teoria
monetaria del valore-lavoro. Problemi aperti nella teoria marxiana, tra radici ricardiane e nuove
vie di ricerca, in Valori e prezzi, a cura di G. Lunghini, Torino 1993, pp. 63-117).
220 Antonella Muzzupappa
101
L. Vasapollo, La teoria del valore in Marx per l’attualità scientifica della critica al capitali-
smo, in Id. (a cura di), Un vecchio falso problema, cit., p. 29.
102
Ibidem.
103
Cfr. G. Carchedi, Il problema inesistente, cit., pp. 56-57.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 221
«Tutti gli errori e tutte le incoerenze – scrive Alan Freeman – non sgorgano
da Marx ma dal tentativo di interpretare Marx come se fosse un economista
dell’equilibrio»104.
Con questa osservazione, siamo ad un punto centrale dell’interpretazione
che questi studiosi danno di Marx e, in generale, ad un punto centrale e molto
discusso nell’ambito del marxismo. La questione «equilibrio» o «squilibrio»,
infatti, può essere espressa come la questione dell’origine delle crisi. Ciò su cui
i sostenitori del Sistema Singolo Temporale insistono è che in Marx, al contrario
che negli economisti e studiosi che lo criticano, la crisi è un fenomeno struttu-
ralmente legato all’economia capitalistica. L’origine e la possibilità della crisi
non stanno fuori del sistema, la crisi non è un fenomeno esterno e accidentale
rispetto al capitale ma è prodotta dal capitale stesso. Ciò viene effettivamente
espresso da Marx in più punti della sua opera e a diversi livelli di esposizione.
Nell’ambito dell’analisi della merce e del denaro, per esempio, ad un livello
molto alto di astrazione, Marx mette in rilievo che nelle contraddizioni inerenti
la merce e il denaro è contenuta già la possibilità della crisi, in quanto la tra-
sformazione della merce in denaro è, nello stesso tempo, necessaria perché il
processo funzioni, ma anche un «salto mortale»105 che potrebbe non avvenire.
Nel descrivere, poi, nel Terzo libro del Capitale, i fenomeni legati alla caduta
tendenziale del saggio del profitto, Marx scrive: «Il vero limite della produzione
capitalistica è il capitale stesso»106. Esso, infatti, per potere valorizzarsi deve
sviluppare enormemente le forze produttive della società ma tale sviluppo trova
ad un certo punto un limite nei rapporti di produzione orientati esclusivamen-
te alla produzione del capitale. «Se il modo di produzione capitalistico – con-
tinua Marx – è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva
materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo
stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di
produzione sociali che gli corrispondono»107. Nei teorici dell’equilibrio, invece,
la crisi viene sempre vista come il risultato di fattori esterni ed estranei alla
dinamica capitalistica che, quindi, possono essere corretti e regolamentati. Il
Sistema Singolo Temporale, al contrario, offrirebbe una spiegazione delle crisi
tutta interna alla logica del sistema marxiano, assumendone cioè i presupposti
fondamentali che, in sostanza, andrebbero assunti anche qualora si volesse cri-
104
A. Freeman, Valore e Marx: perché sono importanti, in L. Vasapollo (a cura di), La teoria
del valore in Marx, cit., p. 65.
105
MEGA2, II/2, cit., p. 159; MEW, Bd. 13, cit., p. 71; tr. it. cit., p. 69.
106
MEGA2, II/15, cit., p. 246; ivi, Bd. 25, cit., p. 260; tr. it. cit., p. 303.
107
Ivi, p. 247; ibidem; tr. it. cit., ibidem.
222 Antonella Muzzupappa
ticare quel sistema. Da un punto di vista generale, questi autori sostengono che
le critiche al procedimento marxiano vengono quasi sempre condotte adottan-
do criteri e concetti estranei al punto di vista di Marx e «se si adotta un insieme
diverso di concetti, si ottiene – necessariamente – una teoria diversa»108. Come
si è accennato, questo tipo di osservazione metterebbe fuori gioco tanto le ar-
gomentazioni di Bortkiewicz quanto la fortunata generalizzazione che di esse
ha fatto Sraffa. Se l’autore di Produzione di merci a mezzo di merci non ha inteso
criticare Marx, i suoi seguaci, al contrario, hanno fatto della critica al Capitale
uno dei loro obiettivi più importanti e hanno articolato tale critica sempre par-
tendo dalla procedura marxiana della trasformazione dei valori in prezzi. Alle
loro critiche, i sostenitori del Sistema Singolo Temporale rispondono, appunto,
rilevando che «impiegando un differente formalismo matematico […] – che
non sia il calcolo simultaneo – tutti i risultati della trasformazione del capitolo
9 del III libro del Capitale si sono rivelati dimostrabili in modo formalmente
rigoroso»109. Anche se questo non significa immediatamente che il procedimen-
to marxiano sia esatto, dimostra però che vi è la possibilità di dimostrare l’in-
terna consistenza della procedura marxiana se si rinuncia al calcolo simulta-
neo. Del resto, dimostrare la coerenza logica interna al discorso marxiano è uno
degli obbiettivi più importanti che questi autori si pongono nella convinzione
che non sia possibile sostenere che nel Capitale vi sono tutte quelle contraddi-
zioni che i critici di Marx trovano. Le contraddizioni non sarebbero in Marx ma
«tra le teorie originarie e certe interpretazioni che non riescono a dare senso a
tali teorie»110. Intanto, sostengono questi autori, si possono scorgere contraddi-
zioni nel sistema marxiano, in quanto vengono a priori rigettati i presupposti
più importanti di tale sistema, primo fra tutti la teoria del valore. Anche la valu-
tazione simultanea, di fatto, si comporta in questo modo. Ciò che essa in prima
istanza nega è proprio la possibilità del cambiamento dei prezzi e dei valori
nel tempo, assunto invece fondamentale del sistema marxiano. «La valutazione
simultanea – scrive Kliman – in effetti impedisce ai cambi nella produttività
di influenzare il prezzo, o valore» con la conseguenza che, di fatto, il profitto è
completamente svincolato dal lavoro non retribuito dei lavoratori111.
108
A. Freeman, Valore e Marx: perché sono importanti, cit., p. 65.
109
P. Giussani, Sulla teoria economica di Piero Sraffa, in L. Vasapollo (a cura di), La teoria
del valore in Marx, cit., p. 82.
110
A. Kliman, Se è corretto non correggetelo, in L. Vasapollo (a cura di), La teoria del valore
in Marx, cit., p. 90.
111
Del resto, Dmitrieff, ai cui calcoli Bortkiewicz si richiama, aveva inteso proprio dimo-
strare che il profitto non richiede per nulla lavoro umano e cercò di immaginare una situazio-
ne nella quale le macchine producessero tutti i beni senza che fosse necessario il lavoro vivo.
In sostanza, egli provò a dimostrare che le macchine, al contrario di quanto sostiene Marx,
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 223
sono capaci di produrre nuovo valore. (Cfr. V.K., Dmitrieff, Saggi economici, tr. it. M. De Cecco,
Torino 1972)
112
A. Ramos, Teoria del valore e bancarotte, in L. Vasapollo (a cura di), Un vecchio falso
problema, cit., p. 110.
113
Ivi, p. 112.
114
Nell’Introduzione del 1857 si legge, ad esempio: «Quando si parla dunque di produzione,
si parla sempre di produzione ad un determinato livello di sviluppo sociale – della produzione
di individui sociali». (MEGA2 II/1.1, cit., p. 22; MEW, Bd. 42, cit., p. 20; tr. it. cit., p. 6). Si può
naturalmente utilizzare la categoria astratta «produzione in generale» ma soltanto «nella misura
in cui mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione»
224 Antonella Muzzupappa
(Ibidem; ivi, pp. 20-21; tr. it. cit., ibidem) e «le determinazioni che valgono per la produzione in ge-
nerale devono essere isolate proprio affinché per l’unità […] non venga poi dimenticata la diversità
essenziale. In questa dimenticanza consiste appunto tutta la saggezza degli economisti moderni
che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti». (Ibidem; ivi, p. 21; tr. it. cit.,
ibidem). Come si vede, Marx critica a Smith e a Ricardo proprio il fatto di rendere naturali e quin-
di eterni ed armonici rapporti che, invece, sono storicamente determinati e perciò suscettibili di
trasformazione.
115
G. Carchedi, L’arte del fare confusione, in L. Vasapollo (a cura di), Un vecchio falso pro-
blema, cit., p. 136.
116
Ivi, p. 121.
117
Ivi, p. 131.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 225
che l’economia ritiene che esso valga nel 2001 e non da quello che i suoi input
valessero nel 2000»118. Il valore a cui l’economia è interessata è il valore attuale
di una determinata merce e non il suo valore storico.
Concludendo, quindi, la trasformazione dei valori in prezzi di produzione
viene definita, in totale accordo con Marx, semplicemente come «una redistri-
buzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso di profitto
vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto e i settori ad alto
tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro tasso alla media»119. A
rigore, quindi, la trasformazione non sarebbe veramente tale, cioè trasforma-
zione di qualcosa in qualcosa di qualitativamente diverso, ma solo una diver-
sa redistribuzione di tutto il valore prodotto. Essa rappresenterebbe semplice-
mente «la differenza tra […] il tempo di lavoro che è stato necessario a produrre
una merce […] e il tempo di lavoro socialmente necessario»120.
Vediamo, ora, come si presenta il punto di vista della neue Marx-Lektüre at-
traverso uno dei suoi più importanti rappresentanti.
Partendo da alcuni spunti metodologici di Althusser121, senza però accettare
l’intero punto di vista del filosofo francese, e partendo da alcune dalle anali-
si di Hans-Georg Backhaus122, Michael Heinrich sviluppa una lettura di Marx
e delle categorie centrali della critica dell’economia politica che insiste molto
sulla «forma» e sull’analisi dei rapporti qualitativi piuttosto che su quelli quan-
titativi. Uno dei punti più importanti della lettura che Heinrich fa della critica
dell’economia politica e che è determinante per l’interpretazione che egli dà
della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, riguarda l’oggettività
del valore (Wertgegenständlichkeit) che, a sua volta, è legata all’interpretazione
della categoria del «lavoro astratto». «Le merci – scrive Heinrich – possiedono
Wertgegenständlichkeit non in quanto oggettivazione di lavoro concreto, ben-
sì in quanto oggettivazione di lavoro astratto. Se però […] [il] lavoro astratto
è un rapporto di valore (Geltungsverhältnis) esistente socialmente solo nello
scambio, allora anche la Wertgegenständlichkeit della merce esiste solo nello
scambio»123. Solo all’interno di una relazione è possibile parlare di Wertgegen-
ständlichkeit, in quanto il valore stesso non è una cosa, bensì un rapporto socia-
118
Ibidem.
119
Id., Il problema inesistente, cit., p. 54.
120
Id., L’arte del fare confusione, cit., p. 125.
121
Cfr. in particolare, L. Althusser, L’objet du «Capital», in AA. VV., Lire le Capital, Paris
1996, pp. 245-418; tr. it. F. Raimondi, L’oggetto del Capitale, in AA. VV., Leggere il Capitale,
Milano 2006, pp. 165-270.
122
Cfr. in particolare, H.G. Backhaus, Dialektik der Wertform, cit.
123
M. Heinrich, Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung, Stuttgart 2005, p. 51.
226 Antonella Muzzupappa
le che si presenta sottoforma di proprietà delle cose e che trova il suo migliore
rappresentante materiale nel denaro. La teoria del valore di Marx, viene allora
definita come una «teoria monetaria del valore» in opposizione a coloro i quali
la considerano come una «teoria sostanzialistica del valore»124.
La tesi di fondo che Heinrich presenta è la seguente: «certamente Marx entra in
un nuovo terreno scientifico […] ma nel suo discorso si ritrova anche il discorso dei
classici»125. Quindi, se da un lato si può parlare rispetto a Marx di una «rivoluzione
scientifica», dall’altro lato non bisogna dimenticare che tale rivoluzione, come ogni
rivoluzione scientifica, non è completa. Nelle categorie e nel discorso marxiano
restano, secondo Heinrich, molti elementi di Smith e Ricardo. Questa constatazio-
ne, tuttavia, non intende mettere in discussione la dirompente novità della critica
dell’economia politica, ma si propone di osservare attentamente le due teorie, quel-
la marxiana e quella classica, «identificare gli elementi di questi due discorsi, per
eliminare le ambivalenze di categorie centrali e per distinguere i veri problemi da
problemi semplicemente apparenti»126.
Per quanto attiene più precisamente il problema della trasformazione dei
valori in prezzi di produzione, Heinrich ritiene innanzitutto che non è possibile
mantenere il presupposto marxiano dell’acquisto dei mezzi di produzione ai
loro valori e basare su questo il procedimento della trasformazione: «i prezzi
di costo non possono essere determinati prima dei prezzi di produzione perché
gli stessi prezzi di costo dipendono dai prezzi di produzione»127. La «critica
della circolarità», quindi, sarebbe fondata e «saggio medio del profitto e prez-
zi di produzione non si lasciano determinare l’uno dopo l’altro ma soltanto
simultaneamente»128. Da questo punto di vista, allora, e poiché, come abbiamo
accennato, si sono prodotti modelli matematici capaci di risolvere il problema
dei prezzi prescindendo completamente dalla legge del valore, anche Heinrich
dovrebbe concludere che essa è ridondante. Tuttavia, la specificità del contribu-
to che i rappresentanti della «teoria monetaria del valore» danno alla questio-
ne che stiamo trattando sta proprio in questo punto. La teoria del valore non
è ridondante in sé, né tantomeno inutile per l’interpretazione e la critica del
modo capitalistico di produzione, tanto che lo stesso Heinrich sostiene che «il
124
«Teoria sostanzialistica del valore» significa per Heinrich appunto una teoria secondo
cui la Wertgegenständlichkeit è una proprietà che le singole cose possiedono a prescindere dalle
loro relazioni sociali.
125
M Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert. Die Marxsche Kritik der politischen Ökonomie
zwischen wissenschaftlicher Revolution und klassischer Tradition, Münster 2006, p. 17.
126
Ibidem.
127
Ivi, p. 270.
128
Ibidem.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 227
Capitale di Marx rimane, ora come allora, l’analisi più profonda e più completa
del modo di produzione capitalistico di cui disponiamo»129. Tuttavia, nelle ar-
gomentazioni che Marx utilizza nel Terzo libro del Capitale e, in particolare, nel
tentativo di dare una vera e propria giustificazione quantitativa del fatto che il
saggio medio del profitto si basa sul lavoro non pagato erogato dagli operai, la
legge del valore diventa di fatto ridondante. L’inutilità del concetto e della legge
del valore, cioè, è legata all’approccio quantitativo al problema della trasforma-
zione. Seguiamo allora il ragionamento di Heinrich e cerchiamo di capire cosa
questo significhi.
Da principio si rileva una questione generale e comune, secondo l’autore,
a tutti i tentativi di risolvere il problema quantitativamente, cioè utilizzando
modelli lineari. Che si tratti di tentativi che vengono da parte neoclassica, per
esempio Sraffa, o di tentativi che vengono dal campo marxista, per esempio Du-
menil, Foley, Lipietz130, tutte le soluzioni quantitative sono costrette ad astrar-
re dalla forma-denaro, che è, invece, un elemento fondamentale dell’economia
capitalistica e dell’interpretazione e critica che Marx ne fa. Ciò conduce imme-
diatamente, che lo si voglia o no, secondo Heinrich, alla rappresentazione di
un’economia in equilibrio, cioè senza crisi. «Il problema centrale per la teoria
del valore di Marx, com’è possibile che prodotti del lavoro si relazionino gli uni
agli altri come merci, non viene tematizzato, e perciò anche il denaro non può
diventare oggetto di queste teorie»131. Trattandosi di un’impossibilità legata al
tentativo di risolvere la questione dal punto di vista quantitativo, questo tipo di
critica vale anche per il tentativo che Marx ha fatto nel Terzo libro del Capitale:
«Tutte queste obiezioni si lasciano senza dubbio sollevare anche nei riguardi
dell’esposizione nel Terzo libro del Capitale»132 e, aggiungiamo noi, anche nei
riguardi dei sostenitori del Sistema Singolo Temporale133.
129
Id., Die teoretische Unvollständigkeit des „Kapital“, manoscritto non pubblicato.
130
Foley, Lieptz e Dumenil sono i rappresentanti più importanti della cosiddetta New In-
terpretation. Negli anni Ottanta hanno proposto una modalità di approccio al problema della
trasformazione che, pur avendo aperto la strada a riflessioni molto interessanti, non sembra
distanziarsi molto, nella sostanza, dalla tradizionale interpretazione criticata da Heinrich. No-
nostante l’introduzione della dimensione monetaria, infatti, anche questo approccio mantiene
l’esistenza di due sistemi di scambio: uno basato sui valori, l’altro basato sui prezzi. (Cfr. D.
Foley, The Value of Money, the Value of Labour-Power, and the Marxian Transformation Problem,
in «Revue of Radical Political Economics», vol. 14, 1980, pp. 37-47; G. Dumenil, De la valeur
aux prix de production, Paris 1980; A, Lipietz, The So-Called «Transformation Problem» Revis-
ited, in «Journal of Economic Theory», vol. 26, 1982).
131
M Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert, cit., p.277.
132
Ivi, p.278.
133
Anche Carchedi e gli altri, infatti, come già detto, affrontano il problema della trasfor-
mazione sul terreno quantitativo e sostengono un particolare modello matematico che, secon-
do loro, porterebbe agli stessi risultati cui era giunto Marx.
228 Antonella Muzzupappa
134
M Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert, cit., p.278.
135
Ivi, p.279.
136
Id., Was ist die Werttheorie noch Wert? Zur neueren Debatte um das Transformationspro-
blem und die Marxsche Werttheorie, in «PROKLA 72», Nr. 3, Münster, 1988, p. 29.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 229
137
Id., Die Wissenschaft vom Wert, cit., p.280.
138
Id., Was ist die Werttheorie noch Wert?, cit., p.29.
139
Id., Die Wissenschaft vom Wert, cit., p 281.
140
Ivi, p. 282.
141
Con questa considerazione viene articolata anche una critica ai neoricardiani che ri-
tengono di poter parlare di «prezzi» e «profitto» come di categorie che non hanno bisogno di
alcuna premessa.
230 Antonella Muzzupappa
6. Conclusioni
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la determinata modalità con cui
si interpreta, almeno in campo marxista, il processo della trasformazione dei
valori in prezzi di produzione è immediatamente legata all’interpretazione che
si dà delle categorie centrali della critica dell’economia politica. Detto in altri
termini, determinante è la lettura che si fa del Primo libro del Capitale e, in par-
ticolare, delle prime categorie esposte da Marx: merce (forma-merce), valore
(forma-valore), lavoro astratto, denaro (forma-denaro).
Carchedi, ad esempio, sostiene: «Il valore è creato durante la produzione
[…] [e] esiste già al livello della produzione» anche se, a questo livello, esso non
è sociale, o meglio «è valore sociale ma solo potenzialmente […] [e] diventa va-
lore sociale realizzato e quindi appare come valore sociale solo quando le merci
[…] sono vendute»144. Nello scambio, quindi, si rivela il carattere specificamen-
te sociale del lavoro astratto, che però esiste già prima dello scambio. A parere
di Carchedi, questa nozione di lavoro astratto è stata molto spesso distorta, e
l’accusa varrebbe certamente anche per Michael Heinrich e i rappresentanti
della neue Marx-Lektüre. Per questi autori, infatti, il lavoro astratto rappresenta
un’«astrazione reale» che si compie, appunto realmente, nello scambio, cioè
nel momento in cui gli uomini realmente entrano in rapporto tra loro. È nello
scambio che concretamente si astrae dai diversi valori d’uso delle merci e dalla
concreta attività che le ha prodotte per cui «[il] lavoro astratto è un rapporto di
valore (Geltungsverhältnis): nello scambio il lavoro concreto erogato vale come
un determinato quanto di lavoro astratto che forma valore e, in questo modo,
anche come parte costitutiva dell’intero lavoro sociale»145. Da questo punto di
142
M Heinrich, Die Wissenschaft vom Wert, cit., p. 283.
143
Ivi, p. 284.
144
G. Caechedi, L’arte del fare confusione, cit., p. 120.
145
M. Heinrich, Kritik der politischen Ökonomie, cit., p. 49.
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 231
vista, il lavoro astratto sarebbe tale solo nello scambio e il valore non sarebbe
«creato» durante la produzione, il che però, a nostro avviso, non significa im-
mediatamente che esso sia «creato» durante la circolazione. Carchedi, inve-
ce, sembra ritenere che se il valore non esiste prima e indipendentemente dai
prezzi, ciò che, appunto, Heinrich ritiene impossibile, bisogna rinunciare alla
spiegazione marxiana dei prezzi di produzione. «Se i prezzi non possono essere
spiegati in termini di una ridistribuzione di valore già esistente e quantificabile
al livello della produzione, la via è aperta all’accettazione di una delle varie teo-
rie dei prezzi alternative a quella marxista»146 e, per la posizione e il ruolo che la
teoria dei prezzi ha nella visione dei sostenitori del Sistema Singolo Temporale,
bisogna in realtà accettare non solo una teoria dei prezzi alternativa a quella
marxiana ma, in generale, un’intera teoria diversa da quella di Marx. La validità
della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, anche nel suo aspetto
quantitativo, infatti, è immediatamente collegata a tutto il complesso dell’im-
pianto marxiano, al contrario di quanto non sia per la neue Marx-Lektüre.
Il disaccordo tra i due punti di vista, può essere riassunto, a nostro avviso,
nella questione della relazione tra descrizione qualitativo-formale dei rapporti
all’interno del modo di produzione capitalistico e loro espressione quantitativa.
Mentre per i rappresentanti della neue Marx-Lektüre i due sistemi sono in
totale contraddizione tra loro, tanto che il calcolo quantitativo nega immedia-
tamente la centralità dell’espressione monetaria del valore e, con essa, la neces-
sità delle crisi, per alcuni dei sostenitori del Sistema Singolo Temporale sembra
non essere così. Luciano Vasapollo, infatti, da un lato ritiene che la scientificità
della teoria economica di Marx dipenda dalla possibilità di spiegarla quanti-
tativamente147; dall’altro lato, in sostanziale accordo con Heinrich, scrive: «La
Critica dell’Economia Politica di Marx […] costituisce […] la formazione di un
nuovo campo teoretico, che modella un nuovo oggetto teoretico di analisi ed un
nuovo “paradigma” di argomentazione. A differenza della teoria del valore di
Ricardo, quella marxiana è una teoria della forma di valore del prodotto-merce
collegata perciò fin dall’inizio alla sua forma di denaro, e poi di prezzo, dunque
alla teoria monetaria. Il valore di una merce […] non può essere determinato in
146
G. Caechedi, L’arte del fare confusione, cit., p. 153.
147
Nella prefazione al testo sui prezzi dai lui curato, si legge: «La risposta […] alla sup-
posta contraddizione nella teoria marxiana è molto importante perché rimette al centro il
meccanismo di creazione del profitto nel modo di produzione capitalistico basato sullo sfrut-
tamento del lavoro salariato, dimostrando nel contempo che la categoria dello sfruttamento
non è valida e vera soltanto per un principio logico ed etico, ma l’intera teoria economica di
Marx regge perché è spiegabile da un punto di vista quantitativo e quindi è nella sua essenza
fortemente scientifica». (L. Vasapollo, La teoria del valore in Marx, cit., p. 30)
232 Antonella Muzzupappa
isolamento ma solo in relazione con tutte le altre merci nel processo di scam-
bio. Tale relazione del valore di scambio si materializza con il denaro»148.
Per quanto riguarda le critiche articolate da Böhm-Bawerk149, vorremo fare
qualche piccola osservazione.
Come ci si ricorderà, all’inizio di questo scritto abbiamo ricostruito il punto
di vista di Marx sui valori e sui prezzi così come esso si presenta nei Lineamenti
fondamentali, prima ancora di discutere il procedimento della trasformazione.
Abbiamo inteso sottolineare che il rapporto tra valori e prezzi è sempre stato in-
teso da Marx come complesso e problematico. In particolare, come dimostrato
anche dal Primo libro del Capitale, pur supponendo che le merci vengano ven-
dute ai loro valori, Marx non ha mai pensato che questo potesse corrispondere
alla realtà del mercato capitalistico. Egli ha chiarito, in vari punti della sua ope-
ra, che si trattava di una supposizione che funzionava relativamente al grado
di astrazione a cui in quel momento si argomentava. In più, Marx ha più volte
attirato l’attenzione del lettore sul fatto che, per rendere ragione della divergen-
za dei prezzi dai valori e spiegarne, nello stesso tempo, la dipendenza, occorre-
vano una serie di mediazioni che si sarebbero avute soltanto ad un livello più
alto dell’esposizione, e cioè nel Terzo libro. Se si considera, inoltre, che i ma-
noscritti per il Terzo libro del Capitale erano già stati completati quando Marx
ha curato la pubblicazione del Primo libro, si può concludere, a nostro avviso,
che la critica di Böhm-Bawerk non coglie nel segno. Anche prescindendo dal-
la correttezza o meno del procedimento della trasformazione, non possiamo
condividere l’affermazione secondo cui Marx argomenterebbe per due interi
libri sulla base di una finzione e poi, improvvisamente, aprirebbe gli occhi di
fronte alla realtà. Riteniamo che la «realtà» a cui Böhm-Bawerk si riferisce, sia
sempre stata presente a Marx e che ciò che Böhm-Bawerk non condivide, è il
metodo che Marx ha utilizzato per rendere ragione di quella realtà e, in partico-
lare, il fatto che la realtà del modo di produzione capitalistico fosse presentata
come storica e transitoria. La scuola del valore soggettivo, infatti, ha al centro
del proprio sistema la relazione individuale tra l’uomo e le cose piuttosto che la
determinatezza storica e sociale dei rapporti di produzione. Ci sembra, perciò,
di poter condividere l’opinione di fondo di Hilferding secondo cui «la scuola
148
Id., Trattato di economia applicata. Analisi critica della mondializzazione capitalistica,
Milano 2007, p. 25.
149
Una discussione articolata del saggio di Böhm-Bawerk fu fatta quasi immediatamente
da Rudolf Hilferding nel suo saggio pubblicato nel 1904. (Cfr. R. Hilferding, Böhm-Bawerks
Marx-Kritik, in F. Eberle (a cura di), Aspekte der Marxschen Theorie 1., cit., pp. 130-192; tr. it. G.
Panzieri Saija, La critica di Böhm-Bawerk a Marx, in AA. VV., Economia borghese ed economia
marxista, cit., pp. 111-175).
Valori, prezzi e «problema della trasformazione» in Karl Marx 233
150
Ivi, p. 192, tr. it. cit., p. 175.
151
Ibidem.
152
L. Meldolesi, Il contributo di Bortkiewicz, cit., p. LI.
153
Molte delle questioni sollevate rispetto alla trasformazione dei valori in prezzi di pro-
duzione, infatti, sono basate su un’interpretazione della teoria del valore di Marx come sostan-
zialmente identica a quella di Ricardo. Lo stesso Böhm-Bawerk, del resto, fonda la sua argo-
mentazione proprio sul presupposto che Marx accetti le tesi di Smith e Ricardo a cui aggiunge
semplicemente il metodo dialettico. (Cfr. E. von Böhm-Bawerk, Zum Abschluβ des Marxschen
Systems, cit., p. 90-92; tr. it. cit., pp. 71-73).
154
R. Fineschi, Ripartire da Marx, cit., pp. 264-65.
155
Ivi, p. 256.
234 Antonella Muzzupappa
156
Cfr. MEGA2, II/4.1, Berlin 1988; MEGA2, II/4.2, cit.
Heidegger interprete di Marx 235
1
G. Petrovic’ , Heidegger e Marx, in Nachdenken über Heidegger. Eine Bestandaufnahme,
Hildesheim, 1980, p. 215.
2
Ibid.
3
Gajo Petrovic’, Praxis und Sein, in «Praxis», 1965, pp. 26-40; Id., Der Spruch des Heidegger,
in Durchblicke. Martin Heidegger zum 80. Geburtstag, Frankfurt, 1970, pp. 412-436, (trad. it.
236 Anna Pia Ruoppo
È sulla base di tale sollecitazione che qui di seguito si vuole tentare di met-
tere Heidegger e Marx in dialogo. In questo caso, però, non si tenterà di basare
il confronto sulla contrapposizione o assimilazione dei due dispositivi di pen-
siero, rispetto al comune tema dell’umanesimo, sulla base della proposta di
Petrovic’. Piuttosto si procederà ad un confronto interno, basato sull’interpreta-
zione del dispositivo di pensiero di Marx all’interno di quello di Heidegger4. Le
domande che fungeranno da filo conduttore della mia analisi possono essere
formulate in questi termini: come interpreta Heidegger il pensiero di Marx? E
quali risposte intende dare ai problemi da esso posti?
Nel pensiero di Heidegger non assistiamo ad una tematizzazione “sistemati-
ca” di Marx, come, per esempio, avviene per Nietzsche5. Tuttavia in un numero
considerevole di testi, Heidegger prende posizione rispetto al suo pensiero e
ne interpreta alcuni momenti fondamentali. Qui di seguito si prenderanno in
considerazione:
«In Marx centouno», n.3, novembre 1985); Id., Heidegger und Marx, in Nachdenken über Hei-
degger. Eine Bestandaufnahme, cit., pp. 217-231; Id., L‘undicesima tesi di Marx su Feuerbach,
in «Paradigmi», 1983, pp. 593-606; Id., Heidegger und die Jugoslawische Praxis-Philosophie,
in Zur philosophischen Aktualität Heidegger, Bd. II, Frankfurt, 1991, pp. 219-239. Per una ri-
costruzione della posizione di Petrovic’ mi permetto di rimandare al mio breve saggio: A. P.
Ruoppo, Gaio Petrovic’ e i filosofi jugoslavi della prassi: proposta di un confronto produttivo fra
il pensiero di Heidegger e quello di Marx, in «Archivio di storia della cultura», anno XVIII, 2005,
pp. 273-277.
4
La possibilità di una dialogo fra Heidegger e Marx è stata affrontata anche nei seguenti
contributi: K. Axelos, Marx e Heidegger, Napoli, 1977; (di questo testo si veda, in particola-
re, l’introduzione di E. Mazzarella, Pensiero e Ideologia. Contributo ad un pensiero (del) futu-
ro: «über» Marx e Heidegger, pp. 5-85); A. Schimdt, Herrschaft des Subjektes. Über Heideggers
Marx-Interpretation, in Martin Heidegger. Fragen an sein Werk. Ein Symposion, Stuttgart, 1977,
pp. 54-65; H. Künkler, «Riflessione è il rilucere della non-latenza». Considerazioni sul problema
dell’«uso» in Marx e Heidegger, in «Metaphorein», 4, 1979, pp. 59-70; J. R. Santander, Trabajo
y praxis en “El ser el tempo” de Martin Heidegger: un ensayo de confrontacion con el marxismo,
Puebla, 1985; T. Buogas, Das Ende der Philosophie bei Marx und Heidegger, in Zur philosophi-
schen Aktualität Heidegger, cit., pp. 100-117; G. Traversa, La questione della tecnica e il dialogo
Marx-Heidegger, in «Il Cannocchiale», 1983, pp. 147-166. Per un inquadramento più genera-
le della questione, si veda: H. Jakob, Krise der Freieheit: Hegel, Marx, Heidegger, Regensburg,
1958; C. Preve, Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso di filosofia contemporanea, Pistoia, 1999; H.
D. Kittsteiner, Mit Marx für Heidegger – mit Heidegger für Marx, München, 2004.
5
Heidegger dedica attenzione al pensiero di Nietzsche già negli anni della sua formazione.
Per una trattazione “sistematica” del suo pensiero bisognerà attendere le lezioni dei semestri
dal 1936 al 1939, poi confluite nei dei volumi del Nietzsche (Stuttgart, 1961). Di recente pub-
blicazione sono anche il volume dei seminari dedicati da Heidegger alla seconda inattuale nel
semestre invernale 1938/39 e i seminari del 1937 e 1944. Si veda: M. Heidegger, Zur Auslegung
von Nietzsches II. Unzeitgemässer Betrachtung “Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das
Leben”(WS 1938/39), in Gesamtasugabe vol. 45, a cura di H.-J. Friedrich, Frankfurt a. M., 2003;
Id., Nietzsche. Seminare 1937 und 1944, in Gesamtausgabe vol. 87, a cura di P. von Rockte-
schell, Frankfurt a. M., 2004.
Heidegger interprete di Marx 237
6
M. Heidegger, Brief über den «Humanismus», Frankfurt a. M. 1947, trad. it. a cura di F.
Volpi, Lettera sull’«Umanismo», Milano 1995. D’ora in poi: Lettera.
7
Id., M. Heidegger, Entwurf zu κοινον. Zur Geschichte des Seins, in Die Geschichte des
Seins (Gesamtasugabe vol. 69), a cura di P. Trawny, Frankfurt a. M., 1998, trad. it. parziale a
cura di D. Thöma, Il comunismo e il destino dell’essere, in «Micromega», …pp. 281-295.
8
M. Heidegger, Einblick in das was ist, in Bremer und Freiburger Vorträger (Gesamtausgabe
vol. 79), a cura di P. Jaeger, Frankfurt a. M. 1994, ed. it. a cura di F. Volpi, Sguardo in ciò che è,
in Conferenze di Brema e di Friburgo, Milano, 2002.
9
Id., Seminari, trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1992.
10
Id., M. Heidegger in Gespräch, a cura di R. Wisser, München, 1968.
11
Per un approfondimento del contesto, soprattutto in vista del confronto con Marx, si
veda anche: J. Beaufret, Dialogue avec Heidegger, Paris, 1973-1985.
12
Per una ricostruzione del clima culturale e delle circostanze in cui avviene la stesura
della Lettera sull’«Umanismo» si veda la nota introduttiva di F. Volpi alla traduzione italiana: F.
Volpi, Nota introduttiva, in M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», trad. it. a cura di F. Volpi,
Milano, 1995, pp. 9-27.
13
J. P. Sartre, L’essere e il Nulla, trad. it. di G. del Bo, rivista da F. Fergnani e M. Lazzari,
Milano 1965.
14
M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, 1927; trad. it. a cura di P. Chiodi, Milano 1976.
238 Anna Pia Ruoppo
che Sartre tenne a Parigi il 29 ottobre del 1945, dal titolo L’esistenzialismo è
un umanesimo15. In essa Sartre risponde alla critica mossagli, da parte marxi-
sta e da parte cristiana, di disimpegno politico, facendo riferimento all’idea di
un umanismo esistenzialista, in grado di assumere su di sé la responsabilità
dell’azione dell’uomo e della sua condotta di vita. Distinguendo il filone dell’esi-
stenzialismo cristiano da quello ateo, egli include, insieme agli esistenzialisti
francesi, esplicitamente, in quest’ultimo, anche Heidegger. In questo modo egli
pone quel complesso insieme di problemi che vede contrapposti il marxismo
e l’esistenzialismo intorno alla questione dell’umanesimo e quella dell’azione.
Tale nucleo problematico rappresenta il terreno sul quale anche Heidegger, in
una prospettiva sua personale, interna alla comprensione della storia del di-
spiegamento dell’essere come storia della metafisica occidentale, affronta la
questione dell’umanesimo e della possibilità dell’azione. La Lettera sull’«Uma-
nismo», però, non si può considerare semplicemente come una sorta di scritto
d’occasione, pensato solo in risposta alle questioni poste da Beaufret e dettato
dal desiderio di reinserirsi nella discussione culturale e intellettuale del tem-
po, dopo la fine della guerra. Esso, infatti, offre ad Heidegger la possibilità di
puntualizzare questioni che gli stanno a cuore, come quella dell’azione e del-
la definizione dell’essenza dell’uomo, traducendole nella propria prospettiva di
pensiero.
La problematica che Heidegger affronta nella Lettera prende spunto dalle
questioni affrontate nella conferenza di Sartre sull’umanesimo. Tuttavia, men-
tre Sartre contrappone una teoria dell’azione esistenzialista basata sull’uma-
nesimo, al marxismo, Heidegger, con un’operazione tipica del suo pensiero,
pone sullo stesso piano Sartre e Marx, sottoponendoli alla medesima critica di
essere espressione di un pensiero di carattere “umanista”, ovverosia metafisico.
Che tuttavia tutta la Lettera debba essere pensata come un tentativo di dialogo
intorno alla questione dell’agire, sia con l’esistenzialismo, corrente della quale
Heidegger non ritiene di fare parte16, sia con il marxismo, diviene evidente se si
tiene conto del suo attacco. Qui Heidegger afferma: «noi non pensiamo ancora
in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire»17. Tale essenza non consiste,
a suo parere, nel “produrre effetti”, ma nel “portare a compimento”. Tuttavia,
poiché “portare a compimento” vuol dire producere, ovverosia dispiegare qual-
cosa nella pienezza della sua essenza, può essere “prodotto” e dispiegato, in
questo senso, solo ciò che già è. Ma ciò che già è, dice Heidegger, è l’essere,
15
J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, 1963.
16
Lettera, p. 54.
17
Ibid., p. 31.
Heidegger interprete di Marx 239
Nella Lettera sull’«Umanismo», Heidegger cita Marx tre volte: nella tematiz-
zazione dell’essenza dell’uomo e nella sua critica all’umanismo20 (in questa cir-
costanza Heidegger afferma che Marx comprende l’essenza dell’uomo in modo
umanistico); nella tematizzazione dell’essenza dell’essere e del suo modo di
darsi metafisico21 (qui Heidegger sottolinea come Marx abbia rovesciato insie-
me a Nietzsche la metafisica assoluta di Hegel); nella tematizzazione della di-
menticanza dell’essere, intesa, con i termini di Hölderlin, come “spaesatezza”22,
(in questo contesto Heidegger individua la possibilità di un dialogo produttivo
con il marxismo nell’alienazione e indica nella questione della tecnica lo sfondo
su cui deve avvenire questo dialogo, concludendo con la tesi secondo la quale il
comunismo non è un partito o una visione del mondo, ma deve essere compre-
so a partire dalla storia della metafisica).
Due sono le tesi fondamentali. In primo luogo, Heidegger ritiene che il pen-
siero di Marx si collochi all’interno della storia della metafisica. In secondo
luogo, egli individua nell’alienazione la dimensione essenziale della storia che
fornisce ad Heidegger un terreno per affrontare un dialogo produttivo con il
marxismo. A sostegno della prima tesi, Heidegger fornisce argomenti differenti.
18
Ibid., p. 31.
19
Ibid.
20
Ibid., pp. 40-43.
21
Ibid.,p. 64.
22
Ibid., pp. 69-70.
240 Anna Pia Ruoppo
Il pensiero di Marx si muove all’interno della storia della metafisica, per il suo
modo umanistico di determinare l’essenza dell’uomo; perchè il suo pensiero
rappresenta un rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel; per la sua
concezione materialistica, in cui si esprime l’essenza della tecnica moderna,
che, in quanto modo del disvelamento, è un momento della storia dell’essere.
Da ciò deriva che, se il comunismo – inteso come umanistico, come rovescia-
mento della metafisica assoluta di Hegel e come espressione dell’essenza della
tecnica - è un momento della storia della metafisica, esso non può essere consi-
derato un partito o una semplice visione del mondo.
Ma procediamo per piccoli passi, analizzando le singole tesi, separatamente
e a partire dai concreti riferimenti testuali. La prima tesi sostenuta da Heideg-
ger riguarda l’appartenenza del pensiero di Marx alla storia dell’essere, intesa
come metafisica. Heidegger colloca Marx all’interno della storia della metafisi-
ca, innanzitutto, per la sua concezione umanista dell’uomo. Umanistica, secon-
do Heidegger, è ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che avviene a par-
tire da un’interpretazione dell’ente nella sua totalità, senza mettere in discus-
sione l’appartenenza dell’essere all’ente. Per questo motivo «ogni umanismo si
fonda o su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica»23.
Heidegger individua il tratto distintivo di ogni umanismo sull’accordo intorno
al fatto che in esso «l’humanitas dell’homo humanus è determinata in riferi-
mento ad un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo,
del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme»24. Anche Marx de-
termina in modo umanistico l’essenza dell’uomo: «Marx pretende che l’”uomo
umano” venga conosciuto e riconosciuto. Egli lo trova nella “società”, per lui
l’uomo “sociale” è l’uomo “naturale”. Nella “società” la “natura” dell’uomo, cioè
la “totalità dei bisogni naturali” (nutrimento vestiario, riproduzione, sussisten-
za economica) è assicurata in modo uniforme»25. A differenza degli altri uma-
nismi quello di Marx non ha bisogno di alcun ritorno all’antico
Marx viene collocato all’interno della storia della metafisica, inoltre, per il
suo rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel. Heidegger afferma:
23
Lettera, pp. 42-43.
24
Ibid.
25
Ibid., p. 40.
Heidegger interprete di Marx 241
26
Ibid., p. 64.
27
Ibid., pp. 70-71.
242 Anna Pia Ruoppo
«In uno scritto giovanile pubblicato postumo, Karl Marx spiega che “tut-
ta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo
mediante il lavoro, nient’altro che il divenire della natura per l’uomo” (Ma-
noscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, 1968,
p. 125). Molti respingeranno questa interpretazione della storia mondiale
e la rappresentazione dell’essenza dell’uomo che ne sta a fondamento, però
nessuno può negare che oggi la tecnica, l’industria e l’economia, in quanto
lavoro dell’autoproduzione dell’uomo, determinino in modo decisivo tutta
la realtà del reale. Sennonché con questa constatazione cadiamo già fuori
dalla dimensione del pensiero in cui si muove l’asserzione di Marx circa la
storia mondiale in quanto “lavoro dell’autoproduzione dell’uomo”. Infatti
la parola “lavoro”, qui non significa la mera attività e operatività. Tale con-
cetto parla nel senso del concetto hegeliano di lavoro, che è pensato come
il tratto fondamentale del processo dialettico mediante il quale il divenire
del reale sviluppa la sua realtà. Il fatto che Marx, in contrasto con Hegel,
veda l’essenza della realtà non nello spirito assoluto che comprende se stes-
so, bensì nell’uomo che produce se stesso e i suoi mezzi di sussistenza, lo
pone senz’altro in estremo contrasto con Hegel, eppure proprio in virtù di
tale contrasto egli rimane all’interno della metafisica del suo antagonista;
infatti la vita e il dominio della realtà sono ovunque il processo lavorativo
inteso come dialettica, cioè come pensiero, sia esso inteso e realizzato come
metafisico-speculativo o come scientifico-tecnico, oppure come miscuglio e
imbarbarimento di entrambi»28.
28
M. Heidegger, Grundsätze des Denkens, in Bremer und Freiburger Vorträger, cit., ed. it.,
pp. 126-127.
Heidegger interprete di Marx 243
29
Lettera, p. 71.
30
M. Heidegger, Entwurf zu koi@non. Zur Geschichte des Seins, in Die Geschichte des Seins (Ge-
samtasugabe vol. 69), a cura di P. Trawny, Frankfurt a. M., 1998, trad. it. parziale a cura di D. Thö-
ma, Il comunismo e il destino dell’essere, in «Micromega», in XIII (1999), n. 4, pp. 281-295.
31
Ibid., p. 286.
32
Ibid., p. 287.
244 Anna Pia Ruoppo
«il comunismo non consiste dal punto di vista del pensiero, nel fatto che tutti
hanno da lavorare, guadagnare, consumare e divertirsi in misura uguale»33. Il
materialismo su cui il comunismo si basa è caratterizzato da un’essenza spi-
rituale. Dalla mancata comprensione della sua essenza deriva il suo pericolo.
Heidegger afferma: «Questo “materialismo” è “spirituale” nel senso più alto,
in modo così deciso che in esso si deve riconoscere il compimento dell’essenza
spirituale metafisica dell’Occidente. […]. E perciò il “pericolo” del comunismo
non consiste nelle conseguenze economiche e sociali, quanto piuttosto nel fatto
che la sua essenza spirituale, la sua essenza in quanto spirito non viene ricono-
sciuta e il confronto reciproco viene posto ad un livello che assicura comple-
tamente il suo predominio e la sua irresistibilità»34. Dalla consapevolezza della
sua essenza spirituale, ovverosia dalla sua appartenenza alla storia dell’essere,
Heidegger deduce che il superamento del comunismo non può avvenire attra-
verso un qualsiasi “impegno” piccolo borghese, ma solo se si tiene conto che «il
comunismo non è una mera forma statale, e neppure solo un tipo di ideologia
politica, bensì la costituzione metafisica nella quale si trova l’umanità moderna
non appena il compimento dell’età moderna inizia la sua ultima fase»35.
Dall’identificazione dell’essenza del materialismo con lo spirito, e dalla di-
slocazione del pensiero di Marx sul piano del dispiegamento dell’essere deriva,
addirittura, la possibilità di sovrapporre il macchinismo, inteso come essenza
della tecnica e la macchina, intesa da Marx come quel dispositivo che, nella fase
suprema del capitalismo determina e regola l’attività dell’operaio. Ma ciò im-
plica che, con l’identificazione di tecnica e materialismo, Heidegger arrivi nel
suo pensiero, ad una sorta di paradosso, secondo il quale il marxismo piuttosto
che essere «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»36 diviene
un momento dello stesso dispositivo di funzionamento della tecnica, ovverosia
un’imposizione e una coercizione, che si impone attraverso il meccanismo di
funzionamento della macchina. Questa tesi è confermata dall’analisi della de-
terminazione dell’essenza della tecnica, intesa come macchina, con la quale
Heidegger, come abbiamo visto, identifica il materialismo.
È nella conferenza del 1949 dal titolo Ge-stell37 che Heidegger esplica la cir-
colarità del processo in cui la tecnica si dispiega attraverso il riferimento alla
33
Ibid.
34
Ibid., pp. 288-89.
35
Ibid., p. 290.
36
K. Marx, L’ideologia tedesca, p. 25.
37
M. Heidegger, Das Ge-stell, in Bremer und Freiburger Vorträger, cit., ed. it., pp. 45-70.
Heidegger interprete di Marx 245
38
Ibid., p. 33.
39
Ibid.
40
Ibid.
41
Ibid, p. 35.
42
Ibid.
246 Anna Pia Ruoppo
43
M. Heidegger, Zähringen 1973, in Id., Seminari, cit., pp. 145-180. D’ora in poi: Zähringen
1973.
44
Zähringen 1973, p. 164.
Heidegger interprete di Marx 247
45
Ibid., p. 165.
46
Ibid., pp. 165-166.
248 Anna Pia Ruoppo
47
Ibid., pp. 170-171.
Heidegger interprete di Marx 249
Tuttavia il carattere metafisico del pensiero di Marx non si limita alla centrali-
tà in esso assegnata alla “questione dell’uomo”, ma dipende dal modo in cui esso
viene compreso in quanto “autoproduzione”. Come abbiamo già visto nell’inter-
pretazione della Lettera sull’«Umanismo», l’uomo, inteso come autoproduzione, è,
secondo Heidegger, alla base del dispiegamento metafisico della tecnica. Per que-
sto, in quanto individua l’essenza dell’uomo nell’autoproduzione, il marxismo cor-
risponde alla situazione in cui regna semplicemente l’autoproduzione dell’uomo
e della società, ovverosia a quella che Heidegger altrove identifica con l’essenza
della tecnica. È a partire da tale essenza che bisogna comprendere il marxismo, in
quanto, come Heidegger afferma, in modo emblematico, in un’intervista televisiva
della fine degli anni ’70, non è «a partire dal marxismo» che «può essere compresa
l’essenza della tecnica»48. È a partire dall’essenza della tecnica che, al contrario,
può essere compresa l’essenza del marxismo.
3. Alienazione e spaesamento
48
M. Heidegger in Gespräch, p. 74.
250 Anna Pia Ruoppo
che vedo fin ora Sartre, riconoscono l’essenzialità della dimensione sto-
rica dell’essere, né la fenomenologia, né l’esistenzialismo pervengono a
quella dimensione in cui soltanto diventa possibile un dialogo produttivo
con il marxismo»49.
49
Lettera, pp. 69-70.
50
M. Heidegger, Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks. Theorie der philoso-
phischen Begriffsbildung (SS 1920), in Gesamtausgabe vol. 59, a cura di C. Strube, Frankfurt
a. M., 1993, p. 29.
51
Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, in Gesamtausgabe vol. 60, a cura di M. Jung-T.
Regehly-C. Strube, Frankfurt a. M., 1995, p. 55.
Heidegger interprete di Marx 251
cui è centrale la tematica del ritorno della filosofia alla vita, Heidegger affer-
ma: «Nella modificazione della vita fattuale, che abbiamo indicato come un
“prender conoscenza” eravamo diretti, in una rimozione radicale, alla determi-
nazione di una connessione, che è completamente staccata dalla connessione
dell’esperienza fattuale. La tendenza della vita e la tendenza del prender co-
noscenza continuano a sussistere, si continua a comprendere la realtà, ma il
senso specifico della realtà dell’esperienza è perduto. I pezzi di significatività
sono derubati dell’intero della significatività; essi sono “socializzati” (soziali-
ziert), o “comunizzati” (kommunisiert) e cioè posti tutti sullo stesso piano»52.
Rotta l’unità delle connessioni significative, la vita è compresa come un ogget-
to, estrapolato dall’intero della significatività, come un pezzo intercambiabile,
messo sullo stesso piano, socializzato, messo in comune. In queste affermazio-
ni è implicita la critica fondamentale che Heidegger muoverà al comunismo,
a partire dalla sua sovrapposizione con l’essenza della tecnica, all’interno della
storia dell’essere intesa come metafisica. La tecnica, infatti, riduce il reale ad un
cumulo di pezzi interscambiabili53.
Sintetizzando, nella critica all’oggettività è possibile scorgere l’opposizione
ad una comprensione della vita, la quale blocca una parte di essa, rendendola
come un pezzo privo di contesto significativo, quindi, scissa dal suo intero. Se
si considera solo la figura formale che poi si ripete con contenuti diversi, la cri-
tica all’oggettività implica il rifiuto di una comprensione di una parte scissa dal
tutto, che non tenga presente l’articolazione fra parte e tutto e il loro rapporto.
Anche nell’analitica esistenziale si può trovare la stessa figura fondamentale
nella dinamica dell’esistenza autentica e inautentica. Il “Si” costituisce il modo
di essere quotidiano e si muove come contraffazione della verità originaria,
resa possibile dalla struttura stessa dell’Esserci. Esso è il velamento della verità
originaria, in quanto apertura e si dà nella presunzione di possedere il tutto.
Tale presunzione lo rende prigioniero di se stesso e della propria inautentici-
tà. La deiezione, infatti, non solo è la contraffazione della verità dell’Esserci
(come intero), ma è anche la dimenticanza stessa di questa contraffazione data
nella presunzione di possedere e raggiungere il tutto. Tale presunzione chiude
l’Esserci sempre più in se stesso, facendolo cadere nel gorgo dell’inautentici-
tà. Il superamento di questa inautenticità è possibile attraverso il recupero del
52
M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie (WS 1919-1920), in Gesamtausgabe
vol 58, a cura di H.-H. Gander, Frankfurt a. M., 1992, p. 223.
53
Attraverso tale riferimento è possibile evidenziare come, per quanto Heidegger abbia as-
sunto alcune linee fondamentali per la tematizzazione dell’essenza della tecnica da Jünger, già
nella sua impostazione di pensiero fossero presenti gli elementi per comprendere la riduzione
tecnica del reale come pezzi di fondo.
Heidegger interprete di Marx 253
54
M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Ausarbeitung für die
Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät, a cura di G. Neumann, trad. it. a cura
di A.P. Ruoppo, con un saggio di G. Figal, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Elabo-
razione per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga, Napoli 2005. D’ora in poi: Natorp-
Bericht.
55
Natorp-Bericht, p. 20; trad. it., p. 24.
254 Anna Pia Ruoppo
56
M. Heidegger, Die Gefahr, in Bremer und Freiburger Vorträger, cit., ed. it., pp. 71-95.
57
Il termine ‘einkeheren’ indica nella lingua corrente il sostare, l’alloggiare, il soggiornare.
Nella sua struttura però esso richiama la direzione ‘ein’ del volgersi ‘kehren’. Nella traduzione
ho è tentato di rispettare entrambe le sfumature di significato, mettendo in particolare eviden-
za il richiamo al soggiorno (Aufentahlt). La svolta infatti è possibile solo nella permanenza, nel
soggiorno nella verità dell’essere.
Heidegger interprete di Marx 255
svolta si nasconde nella stessa essenza del pericolo. Essa avviene nell’istante
in cui «la dimenticanza dell’essenza dell’essere si volta in modo che, con que-
sta svolta (Kehre), la verità dell’essenza dell’essere soggiorna-svolgendosi (ein-
keheren) propriamente nell’ente»58. Pertanto la svolta è il soggiorno nella verità
dell’essere, in cui l’essere si dà come interezza, prima di inviarsi in un altro
destino. Così come suggerisce la duplicità del termine ‘einkehren’ che indica il
soggiornare e lo svoltare, la svolta è possibile solo in quanto l’essere, soggior-
nando nella sua verità, si svolge in un altro invio. Quest’invio è una nuova epoca
dell’essere che va compresa a partire dal suo destinarsi. Esso non rappresenta
una salvezza definitiva, perché l’errare, il nascondimento, il pericolo sono costi-
tutivi dell’essenza dell’essere.
Questa preliminare comprensione della svolta e del superamento interno al
mondo tecnico ci permette di circoscrivere l’ambito di un possibile intervento
dell’uomo. L’epoca della tecnica rappresenta il destino dell’uomo, in quanto è
un invio epocale dell’essere, dal quale l’uomo non può prescindere. Il supera-
mento di tale destino è innanzitutto nelle mani dell’essere. Tale superamento
coincide con l’invio di un altro destino. La tecnica pertanto non si lascia go-
vernare attraverso un semplice fare umano. Ciò nonostante, però, l’essere non
può compiere la svolta senza l’uomo. Il superamento della sua essenza non si
realizza con un mutamento di atteggiamento, il quale, in quanto tale, si muo-
verebbe ancora nell’orizzonte della calcolabilità e della prevedibilità tecnica; né
tanto meno con una semplice presa di posizione che condanni tutto ciò che è
tecnico come inumano, rifiutando qualsiasi approccio ad esso. «La tecnica la
cui essenza è l’essere non si lascia oltrepassare attraverso l’uomo»59. Tuttavia,
allo stesso tempo, il destino dell’uomo non è quello di stare semplicemente a
guardare. L’uomo può preparare la svolta e, contemporaneamente, ha la pos-
sibilità di assumere un contegno appropriato al dominio tecnico. Heidegger
afferma: «Poiché l’essere si è destinato come essenza della tecnica nel Ge-stell, e
all’essenza del Ge-stell appartiene anche l’essenza dell’uomo, nella misura in cui
l’essere ha bisogno dell’uomo per restare salvaguardato in quanto tale secondo
la propria essenza nel mezzo degli enti, ed essere così essenzialmente in quanto
essere, allora l’essenza della tecnica non può essere condotta alla trasformazio-
ne del suo destino senza la collaborazione dell’uomo»60.
Il contributo dell’uomo, però, non può arrivare attraverso un’etica che dia
delle indicazioni sul comportamento e sugli atteggiamenti da assumere. Nel-
58
M. Heidegger, Die Kehre, in Bremer und Freiburger Vorträger, cit., ed. ted., p. 71.
59
Ibid., p. 69.
60
Ibid.
256 Anna Pia Ruoppo
61
Ibid., p. 88.
62
Ibid.
63
Ibid., p. 93.
64
Ibid.
65
Ibid. p. 99.
66
Ibid.
67
Ibid., p. 102.
68
Ibid., p. 103.
69
Ibid.
Heidegger interprete di Marx 257
A tale proposito Heidegger rileva una contraddizione nel pensiero di Marx. L’af-
fermazione secondo la quale il mondo è stato sufficientemente interpretato e che
bisogna passare alla sua trasformazione implica una priorità dell’azione rispetto
alla semplice interpretazione. Ma tale affermazione non può che basarsi che su una
70
M. Heidegger in Gespräch, p. 69.
71
Ibid.
258 Anna Pia Ruoppo
In Marx c’è una determinata nozione teoretica dell’uomo che «conia il concetto
di produzione in quanto produzione dell’uomo mediante se stesso»75. Quest’idea
si basa sulla concezione hegeliana della vita come processo ed è tutta interna alla
storia della metafisica. Essa deriva da uno specifico modo di intendere la teoria in
contrapposizione alla prassi. Heidegger sottolinea come, invece, nell’Etica Nicoma-
chea la teoria fosse «la più elevata prassi umana»76. Al contrario la teoria significa
oggi «porre la natura come calcolabile e dominabile alla maniera di Galileo»77. Tale
teoria si pone in completa opposizione alla prassi.
Tuttavia, come abbiamo già accennato, fin dalla prima formulazione del suo
pensiero, Heidegger intende superare la scissione fra teoria e prassi, opponen-
dosi al predominio del teoretico, e considerando ogni sapere, non come teoria,
72
M. Heidegger, Le Thor 1969, in Id., Seminari, cit., pp. 89-144. D’ora in poi: Le Thor 1969.
73
Ibid., p. 121.
74
Ibid., p. 122.
75
Ibid.
76
Ibid., p. 123.
77
Ibid., p. 124.
Heidegger interprete di Marx 259
78
Natorp-Bericht, pp. 47-67.
79
Ibid., p. 66.
260 Anna Pia Ruoppo
che, nelle primissime fasi del suo pensiero80, per pensare la relazione dell’intui-
zione con la comprensione, prima ancora di orientarsi ad Aristotele, Heidegger
si orienta ad Hegel e alla sua concezione della dialettica81. Nella misura in cui
rinuncia al momento dialettico a favore della phronesis, egli esclude dalla sua
prospettiva di pensiero la possibilità di pensare la trasformazione. Non a caso,
pertanto, quando parla del contegno dell’uomo nell’epoca della tecnica, egli
parla del suo “soggiornare” nell’Aperto o del suo “abbandono”. E non a caso
questo abbandono è descritto come un “insistere” nell’Aperto, che è un sì e un
no alla tecnica, intesa nella prospettiva del dispiegamento dell’essere.
Il dialogo di Heidegger con Marx può essere impostato solo all’interno di
questi confini. E se è certo vero che, considerando il pensiero di Marx un mo-
mento del dispiegamento della storia dell’essere, Heidegger manca esattamente
il proprium del marxismo, ovverosia l’affermazione scientifica della sua capa-
cità rivoluzionaria di sovvertire lo stato di cose presenti, è pur vero che, assu-
mendo il punto di vista di Marx, non si può chiedere ad Heidegger di offrirci
risposte circa la trasformazione politica del mondo. A partire dal suo disposi-
tivo di pensiero, egli non è in grado di darci una risposta in tal senso, se non
ricorrendo alla poesia, al pensiero rammemorante, ma ciò non avviene, certo,
nella prospettiva e nelle intenzioni di Marx.
80
Si pensa in questo momento soprattutto alla lezione del semestre invernale 1919/1920
dal titolo Grundprobleme der Phänomenologie, cit.
81
A proposito dell’orientamento di Heidegger, nella lezione citata, alla dialettica di Hegel
si veda: A. P. Ruoppo, “Si può apprendere più da Hegel che da Zaratustra”. La formulazione hei-
deggeriana di una fenomenologia della vita in dialogo con Heinrich Rickert, in «Archivio di storia
della Cultura», anno XX, 2007, pp. 155-177.
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